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DAVID H. GOWER IL CANTO DI ORFEO (The Orpheus Process, 1992) A July, che mi ha permesso di estrarle il cervello e mi ha fatto dono del suo cranio. Un grazie speciale a Shana Jo Free per avermi fornito alcuni dettagli raccapriccianti, a DarkStar per alcuni saggi consigli, e a Jeanne Cavelos per una lettura molto perspicace di queste rune. Quando la donna, travolta, un istante la spaventa, Con l'amore, il richiamo della vita e il canto di Orfeo, Allora l'amore e la Giustizia ardente, giungono A straziarlo con le loro sacre ossessioni. Ah! Incessantemente assetato di splendore, di calma, Abbandonato dalle due Sorelle implacabili, gemendo teneramente Verso la scienza dalle braccia immortali, Offre alla natura splendente la sua fronte di sangue macchiata. Ma la nera alchimia e le scienze occulte Ripugnano al ferito, cupo seguace dell'orgoglio; E una feroce solitudine rovina su di lui. Allora, sempre bello, sprezzante della tomba, Che creda ai grandi fini, Sogni o Vagabondaggi Immensi, attraverso le notti della Verità, E che la sua anima e il suo corpo malato ti invochino, O sorella della Carità, o mistero, o Morte! Arthur Rimbaud Les Soeurs de Charité PRIMA PARTE CREATURE VIVENTI
DISTANTE Nelle ore tranquille del mattino che precedevano l'uragano che la sua famiglia avrebbe scatenato in cucina a colazione, Orville Leonard Helmond sedeva a tavola sorseggiando del tè, mangiando focaccine e leggendo Scientific American. Era passato molto tempo da quando aveva dovuto imparare a svegliarsi un'ora prima degli altri per rubare quei momenti di intimità allo spuntar del giorno, ma in definitiva aveva parecchi motivi per farlo: sua moglie, Janice, non gli avrebbe permesso di leggere nulla durante i pasti, i tre figli facevano un baccano tale da rendere precaria ogni possibile concentrazione mentale, ed era l'unico momento in cui Teddy Bear, il gatto di casa, gli avrebbe prestato un po' di attenzione. Helmond sapeva che il grosso felino dal pelo fulvo gli faceva le fusa soltanto per farsi riempire la scodella, ma ciò non gli impediva di apprezzare ugualmente quelle manifestazioni d'affetto. Verso le otto e un quarto scoccò l'ora del caos nella casa degli Helmond. La prima a scendere giù fu Eunice, di sette anni, la quale si precipitò a rotta di collo in cucina, attraverso la sala da pranzo e il salotto dritta per abbracciare il suo paparino e stampargli un sonoro bacio umidiccio sulla guancia sinistra. Era un rituale che apprezzavano entrambi, un momento magico che serviva a far iniziare bene la giornata. «'Giorno, focaccina,» la salutò il padre quando si staccarono. La bimba corse al televisore sul ripiano della cucina e lo accese. «Non sono una focaccina. Io le focaccine le mangio.» «Non sei abbastanza appetitosa da mangiare?» Quando si voltò, Eunice aveva sul volto un'espressione di finta serietà. «Non puoi mangiarmi. Questo è cabalismo.» Il padre rise per la precocità della risposta e per l'equivoco sul significato della parola. «Vuoi dire cannibalismo. Dove ne hai sentito parlare?» In televisione, era la risposta che si aspettava. «A scuola. Ralphy Morrison ha raccontato la storia di quelle persone che sono precipitate con l'aereoplano su certe montagne.» La bambina si chinò ad accarezzare Teddy Bear, mentre quest'ultimo mangiava il suo pollo con fegato Novevite. Il gatto non la badò affatto. «Non avevano cibo e non potevano scendere da lì, ed erano così affamati che hanno cominciato a mangiarsi tra loro.» Ma guarda un po' di cosa parlano i ragazzini, si stupì Helmond. Poi ripensò al disastro aereo delle Ande a cui aveva alluso la bambina, e rifletté
su quanto fosse crudelmente ironico che un simile evento fosse accaduto in una terra i cui antichi abitanti, durante le cerimonie religiose si diceva avessero praticato l'antropofagia. Le sue fantasticherie furono interrotte dall'arrivo di Janice, che spingeva avanti a sé Andy, di cinque anni. Per ulteriore sincronismo con i pensieri di Helmond, il bambino aveva in mano un aereoplano di linea in plastica con cui tracciava in aria delle figure a forma di otto, producendo con la bocca e la saliva un appropriato rumore di motori. «Len, tua figlia mi ha risposto male. Se non si sbriga, perderà l'autobus e io non ho nessuna intenzione di accompagnarla di nuovo a scuola in macchina,» furono le prime parole della giornata che Janice rivolse a suo marito. Il fatto che Janice chiamasse Ally "tua figlia" lo irritava sempre - Ally l'aveva avuta dalla prima moglie, Marma - e lui credeva che fosse indice di un risentimento inconscio da parte di Janice nei confronti della ragazza. Non che sua moglie trattasse Ally con meno affetto e cura dei due bambini che avevano avuto insieme, ma avere un costante ricordo del matrimonio precedente avrebbe potuto pesarle, aggiungendo un ulteriore motivo di attrito al già difficile compito di tirar su un adolescente. «Buongiorno anche a te, amore.» Janice si chinò e lo baciò sulle labbra. «Scusa. Stamattina non avevo intenzione di mettermi subito a brontolare, ma Ally è in un'età molto difficile.» «Come te.» Helmond le diede una pacca sul sedere e si alzò da tavola. Eunice ed Andy stavano litigando su quale cartone animato avrebbero dovuto guardare, mentre lui lasciava la cucina e si fermava ai piedi delle scale. «Andiamo, principessa,» urlò a sua figlia. «Qual è il problema e perché devo sentire brutte cose su di te?» «Sto facendo più in fretta che posso, papà, e non ho risposto male a Janice. E poi, ha cominciato lei.» Ally si affacciò per un attimo dall'angolo del pianerottolo, infilandosi l'orecchino sinistro, poi sparì. «Non m'importa chi è stato a cominciare. Consideriamo chiusa la questione. Ora scendi e onoraci della tua presenza a colazione.» Helmond ritornò in cucina, dove Janice teneva tutto sotto controllo. Andy stava attaccando con soddisfazione i suoi fiocchi d'avena al cacao e Eunice masticava energicamente una focaccina spalmata di gelatina di fragole. «Vuoi un uovo, amore?» gli chiese la moglie. «Non ho tempo,» rispose Helmond, sedendosi di nuovo a tavola. «Oggi voglio arrivare prima in laboratorio.» Prese la sua rivista, ma Janice gliela
strappò di mano e la gettò sul ripiano della cucina. Eunice guardò il padre per un momento, poi fissò il suo piatto con aria pensierosa. «Cosa fai lì in laboratorio, papà?» Janice, che era accanto al lavandino, si voltò, lanciando al marito uno sguardo tagliente. Uno sguardo fin troppo eloquente: comunicava a Helmond che lei non approvava, dal punto di vista sia morale che religioso, il suo lavoro, che la natura di quel lavoro la impauriva, e che per niente al mondo gli avrebbe permesso di spaventare a morte i suoi bambini con storie di animali morti in laboratorio e poi fatti resuscitare. Lo stesso Helmond era piuttosto perplesso dall'atteggiamento della moglie; lui si riteneva un materialista dalla mentalità rigorosamente scientifica; aveva ormai da tempo rifiutato l'idea che esistesse una divinità o che ci fossero aspetti dell'esistenza proibiti, la sindrome del "ci sono sono cose in cui l'uomo farebbe meglio a non interferire". Per lui la morte era solo un dato di fatto, un fenomeno del mondo che doveva essere accettato, affrontato, e sottoposto a un'indagine scientifica e chiarificatrice, e desiderava che i suoi figli nutrissero la sua stessa opinione. Ma, evidentemente, sua moglie non la pensava alla stessa maniera. «Eseguo esperimenti sugli animali per aiutarli a vivere più a lungo,» spiegò Helmond alla figlia, dicendole una mezza bugia. Eunice ingoiò un boccone di focaccina; uno sbaffo di gelatina le si stava seccando sulla sua guancia sinistra. «E fai loro del male?» «No, patatina. A esperimento concluso, stanno benissimo.» Ma quella non era una menzogna? Si poteva uccidere un essere vivente, per poi farlo resuscitare integro e guarito, e affermare tuttavia che non gli era stato fatto del male? Di sicuro quell'aspetto del suo lavoro, rubare la vita di piccole creaturine inermi ed innocenti, non gli piaceva, ma allora cosa ricavava dai suoi esperimenti? La soddisfazione di resuscitarli e di sapere che possedeva la capacità di ridare la vita a qualunque essere vivente cui fosse stata tolta. Ally entrò in cucina con passo bellicoso: un'adolescente la cui bellezza era sul punto di sbocciare al termine di quel quattordicesimo anno tanto pericoloso, almeno a parere di Helmond. Era una sinfonia discordante di colori: una camicetta in pizzo nero indossata su di una minigonna di jeans sbiadita, una giacca di pelle nera, capelli corti a ciocche appuntite e striate di rosa, calze a rete, scarpe di pelle di serpente, un trucco pesante e variopinto, guanti senza dita e una quantità tale di catenelle e braccialetti di metallo da farla sembrare coperta da un'armatura. Ogni giorno il suo abbi-
gliamento diventava sempre più bizzarro, ma Helmond e Janice avevano concordato di non reagire in alcun modo e di non fare alcun commento. La ribellione aumenta proporzionalmente alla coercizione esercitata; la ragazza stava solo attraversando una fase della sua vita; quella era l'uniforme che portavano tutti i suoi coetanei; e in confronto al genere di cose che le altre ragazze della sua età indossavano (o non indossavano), loro due si consideravano fortunati. La ragazza si sedette, facendo le bolle col chewing-gum e limandosi le unghie argentate. Come si fa a masticare una gomma di primo mattino? si domandò Helmond. «C'è del caffè?» chiese la figlia. «È pronto,» replicò Janice con tono un po' freddo. «Posso averne una tazza?» «Non mi pare che tu abbia le gambe ingessate.» Helmond sorseggiò il tè tiepido e decise di non lasciarsi coinvolgere nel battibecco. Andy ed Eunice sembravano leggermente a disagio. Ally lo guardò. «Hai visto che tono usa con me, papà? Mi provoca di continuo.» Janice si allontanò dai fornelli e si fermò di fronte alla ragazza, che però non si voltò a guardarla. «Non hai alcun bisogno di essere provocata. Sei tu che hai sempre voglia di litigare e che vai in escandescenze per un nonnulla. Ti basta un semplice "buongiorno" per scatenare una discussione infernale.» Sua moglie era stata sempre così banale, si chiese Helmond, oppure era lui che non lo aveva mai notato prima? «Janice, Ally ti ha chiesto soltanto di darle una tazza di caffè.» Janice strinse leggermente gli occhi. «Sì? Be', non sono la serva di famiglia. Non sono mica ai vostri ordini.» «Non ti ha chiesto di leccarle gli stivali, per l'amor di Dio. Ti ha rivolto un semplice invito, educatamente. Se fossi stato io a chiederti la stessa cosa, non ci avresti pensato su due volte.» Helmond cominciava ad inquietarsi. Ovviamente quell'alterco andava ben al di là di una semplice tazza di caffè. Cosa aveva detto Ally a Janice poco prima? Avrebbe dovuto chiederlo, oppure questo avrebbe contribuito a peggiorare la situazione? «Perché prendi le sue parti?» gli urlò sua moglie. Helmond notò il ghigno compiaciuto stampato sul viso di Ally e per un istante provò il desiderio di cancellarlo con uno schiaffo. «Senti, non sto prendendo le parti di nessuno. Non c'è nessuno da difendere.» Si alzò da tavola. «Non so cosa stia succedendo tra voi due, ma non ho intenzione di
esserne coinvolto. Sbrigatevela da sole. Nel frattempo, Ally, bevi il tuo dannatissimo caffè e tu, Janice, smettila di essere così permalosa.» «Permalosa!» urlò Janice, con il bel viso alterato dall'ira. «Oh, sicuro. La tua piccola principessina non può sbagliare. Ha sempre ragione, la signorina perfezione, la santità in persona. Be', in realtà si veste come un pagliaccio e ha i modi di una scimmia.» Ally balzò in piedi e si girò rabbiosamente verso Janice. «E tu hai il cervello di un uomo di Neanderthal, vecchia strega rinsecchita! Non mi parleresti così se fossi tua figlia, come questi due preziosi mostriciattoli.» Andy ed Eunice sembravano ascoltare attentamente l'accesa discussione, pur non sembrando troppo preoccupati. Il primo pensiero di Helmond fu che non aveva tempo da dedicare a quella faccenda, ma poi si chiese perché tutto questo stava venendo alla luce dopo otto anni di matrimonio. All'inizio della sua relazione con Janice, lei e Ally si erano comportate come grandi amiche e a volte erano state addirittura inseparabili. I rapporti tra loro erano andati progressivamente raffreddandosi con l'arrivo degli altri due bambini, ma non si sarebbe mai aspettato che le cose peggiorassero a tal punto. «Alexandra, non ti permetto di parlare in questo modo a tua madre o ai tuoi fratelli. Ora vai ad aspettare il tuo autobus.» Helmond era riuscito a mantenere un tono di voce fermo e controllato, ma nello stesso tempo imperioso. «Ma arriverà tra un quarto d'ora. Non ho...» «Niente recriminazioni. Vai e basta.» Ally obbedì con aria di sfida, facendo tintinnare le catene e i braccialetti che indossava. Stava forse piangendo? Non preoccuparti, si disse Helmond. Le ragazzine piangono molto; sono fin troppo emotive. Fissò lo sguardo sulla moglie. «Per quanto riguarda il tuo comportamento, Janice: non dovresti sentirti così minacciata da lei. Che ti succede? Sei diventata paranoica, soffii del complesso di Elettra o cosa? È una ragazzina insicura e confusa, non ha bisogno che la rimproveri aspramente in questo modo, capisci? Cerca di essere un po' più matura di lei, eh?» Janice lo guardò furiosa dall'altra parte del tavolo. «Risparmiami la tua psicologia da manuale, Len. Tu te ne stai tutto il tempo in laboratorio; non sai nulla su cosa succede qui in casa.» Quell'ultima frase lo ferì; Marma gli aveva spesso lanciato accuse del genere. Calma, si disse. Non la prendere come una cosa personale. Forse
ha il ciclo o c'è qualcos'altro. Però era irritato. «Non sei razionale e io devo andare al lavoro. Però non iniziare la terza guerra mondiale fin quando non sono a casa, va bene?» «Non è colpa mia. È lei. Crede di essere la padrona, non pensa che a se stessa.» «Un comportamento perfettamente normale per una ragazza di quattordici anni, ma poco lusinghiero per una donna della tua età.» Helmond le si avvicinò con disinvoltura caricaturale. «Dammi un bacio, in modo che possa andarmene di qui.» La moglie gli diede un pugno sul petto, ma non troppo forte. «Non lo farò. Mi hai insultata.» «Niente di personale, bellezza.» Le cinse la vita con le braccia intorno alla vita e spinse il corpo di lei contro il suo. «Sei un vero diavolo.» Il bacio che gli diede fu breve, teso. «Non so perché ti permetto sempre di calmarmi con le tue chiacchere, quando sono veramente arrabbiata. Dopo tutto, credo di essere io la permalosa.» Lui la baciò di nuovo, più a lungo questa volta, poi si staccò da lei e diede un bacio a ciascuno dei bambini. «Fate i bravi, piccoli. Amore, stasera non dovrei fare tardi.» Poi uscì e vide Ally alla fine del vialetto, appoggiata con aria sconsolata al grande albero di quercia, le braccia conserte e il piede destro che prendeva a calci il terreno. Helmond sorrise, si decise e salì in macchina. «Ehi, principessa,» le disse mentre le si affiancava e abbassava il finestrino elettrico. «Vuoi un passaggio fino a scuola?» Il volto della figlia, tanto carico di trucco da sembrare una maschera da guerra indiana, si illuminò. «Certo!» Proseguirono in silenzio per qualche istante, poi fu Ally a parlare. «Odio andare a scuola in autobus. Quelli vanno bene per le racchie. Tutte le ragazze della mia classe cercano di fidanzarsi con ragazzi che abbiano sedici anni e la patente di guida, così possono essere accompagnate a scuola in macchina.» «Davvero? E com'è che tu non hai un fidanzato, o ne hai uno di cui non ho mai sentito parlare?» Deve tenerli lontani con un bastone, pensò mentre guardava le lunghe gambe ben tornite della figlia, messe in mostra dalla minigonna. «Non ne ho trovato ancora uno sincero, intelligente e bello come il mio papà.» Sa bene come prendermi per il verso giusto, pensò Helmond. «Sai, do-
vresti davvero provare ad andare più d'accordo con tua madre.» «Ci provo! Credo sia gelosa di me o qualcosa del genere.» Ally smise di parlare e guardò fuori dal finestrino. «Ti ricordi l'anno seguente alla rottura tra te e la mamma, mamma Martha, quando eravamo rimasti tu ed io, da soli?» Helmond lo ricordava molto bene. Era stato un anno febbrile, duro, confusionario e divertente, pieno di prove e di emozioni. Col tempo avevano iniziato a conoscersi bene, per la prima volta veramente, e Ally sembrava aver reagito al divorzio senza soffrirne. Martha non era stata una buona madre. «Certo, principessa. È stato uno dei migliori anni della mia vita.» La figlia si voltò a guardarlo. «Anche per me. Ti avevo tutto per me allora. A volte mi mancano quei giorni.» E così c'era davvero una certa tensione freudiana in quella situazione. «Be', un giorno troverai un ragazzo a cui vorrai bene, e allora non potrò più averti tutta per me. Non è che ne veda l'ora, mi mancherai, ma questa è la vita, Ally.» «Lo so.» La figlia osservò di nuovo il paesaggio per un istante. «Perché tu e mamma, mamma Martha, avete divorziato?» Helmond sospirò. «Be', credo tu sia abbastanza grande per saperlo. Fu per un sacco di motivi, sai. Ci sposammo molto giovani. Nessuno dei due era ancora maturo, ma io lo ero più di tua madre, almeno credo. Lei perse completamente ogni entusiasmo per la vita domestica subito dopo la tua nascita. Giuro che con il suo broncio, le lamentele e le recriminazioni è stata lei a spingermi a stare il più a lungo possibile fuori casa. Non sapeva mai cosa volesse veramente e non facevamo mai l'amore. Io, da parte mia, credo di non aver migliorato le cose; lavoravo fin troppo, anche allora ero affascinato dal mio lavoro alla Corwell Biochemical, fin quando a causa delle mutate politiche di gestione del laboratorio non iniziai ad essere ostacolato, ed ebbi delle storie con altre donne. Quando tua madre lo scoprì, disse che potevo tenermi la casa, l'auto e te; lei non aveva alcuna intenzione di rimanere. Si procurò un avvocato ed ottenne il divorzio. Ora probabilmente fa la ballerina a Las Vegas, per quel che ne so.» «Non hai avuto più notizie di lei?» «No. Le nostre vite si sono divise, ed è meglio così. Spero che la nostra separazione non sia stata troppo dura per te, principessa.» Ally scrollò le spalle. «Mi sono adattata. Non penso più tanto a lei.» Helmond aveva un mucchio di cose a dirle - «Janice è una madre migliore di quanto avrebbe mai potuto essere Martha, non credi?» oppure
«Non sei contenta di avere una madre sollecita e comprensiva come Janice?» - ma decise di lasciar perdere per il momento. Sperava che Ally comprendesse queste cose da sola. Arrivarono alla Berkshire High School. Ally lo baciò, poi scese dalla macchina, per raggiungere gli amici che stavano entrando nell'edificio. Dio, quanto sono liberi e spensierati, pensò. Oh, essere di nuovo giovane, far parte della folla, avere tutta la vita davanti a sé. Si chiese se sentiva la mancanza di qualcosa, se si sentiva privato di qualcosa; a volte si sentiva distante da tutto. Si era sempre considerato come un uomo non troppo abile nelle relazioni sociali; sapeva di essere un eccellente scienziato, molto portato alla speculazione. Erano gli esseri viventi che gli causavano dei problemi. Eppure era riuscito a conquistare molte belle donne, e riteneva di tenere unita la sua famiglia con una certa dose di finezza e abilità. Magari era stato soltanto fortunato, immaginò. Continuò a guidare verso il campus della Manchester University. DI ORIGINE SCONOSCIUTA «Buongiorno, Dr. Frankenstein.» Helmond sollevò lo sguardo dai suoi appunti, sorrise e rivolse un gesto di saluto alla sua assistente di laboratorio, che era appena entrata. Sharon Bishop era vicina all'essere carina, stando alla probabile descrizione di Helmond "confinante"; forse il viso era un po' troppo pieno e immaturo, ma aveva un personale eccellente, perfino migliore di quello di Janice. Helmond non aveva alcun motivo per notare quel particolare proprio quella mattina, anzi il notare caratteristiche simili (unito alle sue tendenze stakanoviste) gli era costato il suo primo matrimonio. «Ciao, Shar. Pronta per il grande giorno?» Incrociando le braccia, la ragazza si appoggiò alla parete, sotto un poster su cui si poteva leggere SE LA MORTE FOSSE UNA FORMA DI VITA, UN HINDU LA UCCIDEREBBE? «Vuoi sapere la verità? La notte scorsa ho avuto degli incubi, di quelli brutti. Quello che stiamo facendo non ti fa mai accapponare la pelle, Lenny?» Helmond gettò la matita sulla scrivania, si appoggiò contro lo schienale della poltrona, e piegò le braccia dietro la testa. «Oh, andiamo. Sei una donna cresciuta ormai. Tutto quello che stiamo facendo è bombardare organismi il cui ciclo di vita è da poco terminato con radiazioni elettromagnetiche, con la lunghezza d'onda è quella dell'energia vivente, usando
come medium una proteina liquida. Cosa ci sarebbe di così spaventoso in questo?» «Stiamo riportando i morti in vita,» replicò lei con divertita disapprovazione, facendo qualche passo nel laboratorio. «Già è stato abbastanza brutto con i topi, le cavie, i gatti e i cani, ma Laz è quasi un essere umano.» Si fermò davanti ad una gabbia occupata da una scimmia rhesus, un maschio. Il nome LAZARUS era stato tracciato a grandi lettere con l'evidenziatore su del nastro adesivo incollato alla porta della gabbia. Helmond si alzò e raggiunse l'assistente. «È questa l'idea, Shar. Se il procedimento funziona su Laz, dovrebbe funzionare anche su esemplari di homo sapiens.» «Per ora, preferirei non pensare a quest'eventualità.» Helmond la fissò accigliato. «Non capisco questo tuo atteggiamento.» Con un movimento ad arco della mano sinistra Helmond indicò i venti ratti, i dodici porcellini d'India, gli otto gatti e i cinque cani ospitati nel laboratorio e tutti rianimati. «Noti qualcosa di strano in loro? Sono perfettamente normali, perfettamente sani; di sicuro non sono diventati ghoul vendicativi in forma animale. La tua mente è stata contaminata dalla religione e dalle storie di fantasmi. Non esistono l'anima o gli ectoplasmi. La vita è soltanto un pro...» «...un processo elettrochimico, lo so, lo so. Me lo ripeti di continuo. È solo che quello che stiamo facendo è così estremo. Cioè, la natura ha inventato la morte per una ragione, perché il vecchio lasci il posto al nuovo o qualcosa del genere, e noi stiamo andando contro tutto questo, contro milioni di anni di evoluzione.» «Mio Dio. Ho una luddita nel mio laboratorio. Sharon, solo perché la natura ha operato in un determinato modo per eoni non vuol dire che debba essere sempre così. La durata della vita umana è di trent'anni più lunga di quanto fosse un tempo. Vorresti sottovalutare questo particolare? Be', ciò che stiamo facendo è soltanto un'estensione di questo processo. Inoltre, la tua argomentazione è rivolta contro l'immortalità, non contro la rianimazione. Non stiamo abolendo la morte. Stiamo soltando dando a singole forme di vita una seconda, una terza o una quarta possibilità. Non conosciamo ancora i limiti del processo, ma dubito che la rianimazione possa essere effettuata un numero illimitato di volte. I sistemi corporei inevitabilmente si logoreranno al punto da renderla impossibile.» Sharon sospirò. «Hai completamente travisato ciò che ho detto, Lenny. Intendevo solamente dire che la morte è qualcosa di fondamentale, qualco-
sa di profondamente radicato nei bioti di questo pianeta. Questo procedimento potrebbe implicare degli effetti collaterali inaspettati.» «Non ne abbiamo ancora rilevato alcuno, e nel caso si manifestino li affronteremo a tempo debito. Ora, prepara Laz mentre io riempio il serbatoio e accendo i proiettori.» Helmond entrò nella camera di rianimazione, un locale di circa tre metri quadrati situato a un'estremità del laboratorio e totalmente isolato dal resto dell'ambiente di lavoro. Tirò i pesanti chiavistelli d'acciaio e aprì la spessa porta blindata. Accese le luci fluorescenti, controllò gli indicatori dei livelli di umidità e della temperatura, poi esaminò il serbatoio, una capsula verticale di vetro, alta circa un metro e mezzo e larga uno. Aveva utilizzato due versioni più piccole della capsula, ma quella attuale era stata costruita da Helmond quando aveva iniziato a fare esperimenti sui cani, con la prospettiva di utilizzare un giorno esemplari di scimpanzé. Svitò e rimosse l'estremità superiore, fece scendere un tubo flessibile dal soffitto e lo inserì nella capsula. Tornato in laboratorio, aprì una valvola che permise alla capsula di riempirsi di una soluzione colloidale miscelata in precedenza quella mattina. Brodo primordiale, così la chiamava Sharon. La sua definizione non era lontana dalla realtà, poiché la soluzione consisteva in buona parte di proteine ed aminoacidi, le componenti fondamentali della vita. Acqua salsa altamente ossigenata, enzimi, complessi vitaminici, collagene e plasma sanguigno erano alcuni degli altri componenti della miscela. Verificò che la soluzione stesse colando in modo corretto nella capsula, poi si concentrò su una fila di pulsanti sulla parete vicina alla camera, premendone otto uno dopo l'altro e leggendo i valori degli indicatori. Raggiunse Sharon accanto ad un piccolo tavolo operatorio. La scimmia era stata legata sulla lucida superficie metallica; i monitor per il controllo del battito cardiaco e delle onde celebrali erano collegati al suo corpo con elettrodi circolari. Sembra una vittima sull'altare sacrificale, pensò Helmond per un istante. Lazarus era una scimmia tipica della sua specie, un primate di costituzione robusta, alto circa sessanta centimetri e con una coda lunga venti. La pelle cascava a pieghe intorno al collo, al petto e all'addome. Il pelo liscio come seta era di colore bruno giallastro e le zone del corpo prive di pelo erano di colore ramato; le grosse callosità posteriori erano invece di un rosso vivo. Assai ghiotta di frutta, la sua specie proveniva dall'India, dove era considerate sacra e viveva insieme agli esseri umani. I suoi membri avevano servito a lungo gli uomini, dapprima come
richiamo per i suonatori di organetto, poi come cavie mediche e animali per esperimenti aereospaziali. Tessuto renale di rhesus era stato utilizzato come cultura da Jones Salk per lo sviluppo del suo vaccino antipolio, ed il fattore Rh del sangue aveva preso il nome proprio da quelle scimmie. A causa della loro sfortunata somiglianza con gli umani, il loro numero era andato via via diminuendo a causa dei sempre maggiori esperimenti in cui venivano utilizzati come cavie. Con un pizzico di rimorso, il biochimico rifletté che ancora una volta veniva chiesto a un altro di questi animali di sacrificarsi per il bene della razza umana. «Che genere di ferite intendi procurargli?» Il tono di Sharon era quasi neutro, solo leggermente teso. «Voglio trapassagli il cuore con il bisturi. Poi, come nella nostra precedente serie di esemplari, aumenterò i danni fisici man mano che procediamo con l'esperimento.» Si disinfettò le mani in un lavandino vicino al tavolo e Sharon lo aiutò a infilarsi i guanti di gomma. Poi si avvicinarono alla creatura, che era ancora cosciente, ma ignara del suo destino. «Bisturi, prego.» Sharon esitò, poi porse lo strumento ad Helmond. Il pugnale sacrificale, sussurrò la sua mente. Sollevò il bisturi e lo calò verso il basso con una traiettoria angolata, lo inserì sotto lo sterno, penetrò nel tessuto cardiaco, facendo ruotare leggermente la lama. Lazarus lanciò un grido, si dibatté per alcuni secondi, poi rimase immobile. Del sangue iniziò a scorrere sul tavolo e a confluire nei canaletti di scolo lungo i lati. Il monitor collegato al cuore mostrò immediatamente una linea piatta, quello collegato al cervello fece altrettanto subito dopo. Helmond restituì il bisturi a Sharon e si sfilò i guanti. «Lava il cadavere, poi portalo nella camera di rianimazione.» Estrasse il tubo flessibile dalla capsula e verificò la temperatura della soluzione. Sharon portò la scimmia morta, avvolta come una mummia in un'asciugamano bianco, e la diede ad Helmond. Lo scienziato prese il cadavere, gli tolse l'asciugamano che fungeva da sudario e lo dispose in un'imbracatura che agganciò al coperchio della capsula. Quell'insieme di cadavere e coperchio furono fatti scivolare da Helmond rispettivamente dentro e sulla capsula, riavvitando strettamente il coperchio. Poi si dedicò alla lucida struttura verticale d'acciaio rilucente alta quanto lui, su cui erano fissati, simili a semafori, dei proiettori della grandezza di un barattolo di caffè. La fece scorrere sulle rotelle di cui era dotato per avvicinarlo alla cap-
sula. Tre proiettori furono così indirizzati verso il lato destro e uno posizionato sotto la capsula, pronto a irrorare dal basso il soggetto. Poi lasciò la camera e chiuse ermeticamente la porta, isolando il resto del laboratorio da eventuali emanazioni radioattive. Helmond fece scattare gli interruttori che attivavano i proiettori. Per la prima volta era in preda all'eccitazione, un fremito simile a quello che aveva provato quel giorno di un anno e mezzo prima quando era riuscito a rianimare con successo il topolino bianco che aveva chiamato Mithras. Mithras era sopravvissuto tre settimane, poi era morto ancora una volta, probabilmente per un'infezione contratta durante la sua "terminazione". Nella fretta, Helmond aveva dimenticato di sterilizzare con cura i suoi utensili. Eppure la resurrezione di quel roditore, una prova inconfutabile di morte presentata insieme alla prova irrefutabile della possibilità di vita dopo la morte, gli era valsa una borsa di studio alla Manchester University. Stava lavorando per la Corwell Biochemical e poiché odiava il noioso lavoro in laboratorio, la sua infima posizione nell'organigramma dell'industria, la misera paga, si era costruito un piccolo laboratorio nella cantina di casa, tra le lamentele di sua moglie, la quale temeva che l'abitazione potesse esplodere per colpa sua. Aveva lavorato a lungo al progetto di stimolare la rigenerazione istantanea di tessuti danneggiati, sperimentando innumerevoli metodi prima di scoprire quello giusto. L'esperimento gli era costato un bel po', costringendolo ad indebitarsi (e provocando ulteriori, forti lamentele da parte di Janice), e così, quando Mithras era morto, non aveva avuto a disposizione le risorse necessarie per rianimare ancora una volta la creatura. Janice aveva gettato il cadaverino nella spazzatura, dopo averlo trovato nel congelatore in un sacchetto per alimenti a chiusura ermetica. Allora Helmond aveva lasciato il lavoro alla Corwell, aveva presentato la relazione scientifica sull'esperimento (che tra l'altro era stata molto ben accolta) e aveva fatto richiesta a varie istituzioni per ottenere fondi e un laboratorio. Erano trascorsi un anno e quattro mesi fino al momento in cui era riuscito a ripetere l'esperimento, questa volta su un topo che aveva battezzato Valdemar e che era ancora in vita. Sharon ed Helmond rimasero fuori la porta della camera, a osservare l'esperimento attraverso una finestrella nella porta. Lazarus fluttuava nella placenta postmortem, come un homunculus in un crogiolo. Sto compiendo un'operazione alchemica? si chiese Helmond. La capsula è un uovo filosofale incubato dalla luce stellare? No, stava semplicemente utilizzando i principi base dei processi vitali, aumentando la propensione naturale dei
tessuti viventi a crescere e a guarire. Un debole bagliore violetto circondava il cadavere, come l'aura bioplasmica di cui parlavano i fisici. Si chiese se ci fosse qualche collegamento. Lazarus sobbalzò. Era quello che stavano aspettando; la vita stava ritornando nell'animale. Sharon riaprì la porta mentre Helmond spegneva i proiettori, e insieme si precipitarono nella camera. Helmond aprì la capsula, sollevò il rhesus, lo staccò dall'imbracatura, poi lasciò che Sharon lo prendesse. L'assistente riavvolse la scimmia nell'asciugamano e lo riportò al tavolo operatorio, dove gli ripulì la gola e i seni nasali dai residui della soluzione utilizzando un tubo aspirante, infine lo ricollegò ai monitor per l'elettroencefalogramma e l'elettrocardiogramma. Helmond avvicinò in fretta un'apparecchio al tavolo, mentre Sharon spalmava un unguento sul petto dell'animale nel punto in cui, al posto di una vasta ferita dai bordi irregolari, era rimasta soltanto una cicatrice liscia. «Ora!» ordinò Helmond. La voce di Sharon tremava. «Ora.» La scossa elettrica attraversò il cuore della scimmia, il corpo ebbe uno spasmo e i monitor ritornarono a pulsare e a registrare un battito cardiaco regolare e un flusso di onde celebrali. Lazarus era resuscitato dalla morte. Lamentandosi con suoni gutturali la scimmia ritornò cosciente, con una smorfia smarrita impressa sulla faccia pelosa. Sharon respirò di nuovo, rendendosi conto di aver trattenuto il fiato, a metà tra una risata e un sospiro. Aveva le lacrime agli occhi. «Se non avesse funzionato, credo che ti avrei ucciso,» disse a Helmond dandogli un pugno scherzoso, quindi si asciugò gli occhi con il dorso della mano. Helmond le sorrise e tornò a guardare la prova vivente del suo successo. Si sentiva enormemente sollevato, ma anche in estasi, posseduto da un trasporto che non aveva mai provato prima. L'orgoglio, la gioia del successo, la simmetria perfetta dell'aver realizzato un sogno; stava cominciando a sentirsi come Dio? Aveva sconfitto una legge della natura. Aveva messo nel sacco la morte. Aveva compiuto un miracolo. Perché allora non doveva sentirsi come Dio? La risposta era che coloro che vengono distrutti dagli dei, per prima vengono fatti impazzire con il potere. Ma lui si era arrischiato a sfidarli, aveva voluto esercitare la sua vendetta contro il mondo. Da bambino aveva avuto un cane chiamato Argo, un bastardino che aveva molto del cane da caccia, e, quando Helmond aveva dieci anni, Argo aveva subito il fato di molti animali domestici. Il cane, ormai decrepito, aveva
trovato la morte sotto le ruote di una Buick azzurra. Non era stata colpa del guidatore, anzi l'anziana donna si era fermata, sinceramente dispiaciuta e piena di rimorso. Aveva anche seguito Helmond e la madre mentre portavano Argo all'ospedale, ma non si era potuto fare nulla per il cane. La donna aveva anche pianto alla notizia della morte dell'animale. Helmond era rimasto pieno di rabbia e frustrazione più di quanto potesse sopportare. Oltre a rafforzare il suo ateismo in erba, l'incidente lo aveva spinto con determinazione a desiderare di essere l'artefice, un giorno, di un mondo dove la carne mortale non fosse soggetta ai colpi fatali delle pallottole, dei coltelli, degli attacchi di cuore, dei tumori, delle cadute sulle piastrelle scivolose del bagno, agli incendi di origine sconosciuta e alle Buick azzurre. La scimmia resuscitata che gli stava davanti era Argo e tutti quegli animali domestici che erano vissuti e avevano incontrato la morte tra l'asfalto e un motore a combustione interna. Era la speranza che gli era venuta a mancare quando aveva visto morire prima sua madre e poi suo padre; la madre di cancro e il padre per una malattia di cuore, un cuore dai tessuti malati, che si struggeva per la perdita dell'amata. Come Lazzaro uscito dalla tomba, come Yeshua resuscitato apparso ai suoi discepoli, il primate era la promessa di una lunga vita non più troncata dalla falce della Triste Mietitrice. «Sharon, potresti lavare il rianimato, per piacere?» Helmond si sfilò i guanti e li gettò in un cestino per la spazzatura. «Sarà fatto.» La ragazza sollevò la scimmietta, sorreggendola come un bambino. Laz, in risposta, emise dei dolci suoni modulati. Helmond versò il contenuto della capsula in un bidone di ferro per rifiuti chimici, la riempì di soluzione sterilizzante, poi la svuotò di nuovo. Spense i generatori dei proiettori, le luci nella camera di sperimentazione, chiuse ermeticamente la porta e si avviò verso la scrivania per completare i suoi appunti. Terminato il rapporto giornaliero, chiuse il registro a copertina rigida e lo fissò: il Diario Magico di Helmond il Negromante. All'inizio, la sua ricerca di un antidoto alla morte era stata un lavoro del tutto personale, ma più tardi aveva cominciato ad avere l'intuizione di quanto enorme fosse la sua scoperta. A volte sembrava soltanto un normale progetto scientifico, altre volte appariva come un esperimento di stregoneria medievale appena camuffato da tecnologia moderna, e altre volte ancora, alle prime ore del mattino, quando se ne stava sveglio a letto, gli sembrava di star scuotendo le fondamenta stesse dell'universo, di star rivoluzionando il cosmo conosciuto, e che il suo nome sarebbe stato esaltato nei libri di storia al di sopra
di quelli di tutti gli altri scienziati. Lui e soltanto lui aveva realizzato il sogno della razza umana: rendere obsoleta la morte, e lo aveva reso realtà. Chi poteva mai reclamare un risultato che vi si potesse anche solo avvicinare? Sharon condusse Laz dove Helmond sedeva e lo mise sulla scrivania, lasciandogli mangiare da una ciotola delle noccioline e dei pezzetti di banana. Lo scienziato grattò gentilmente la scimmia dietro l'orecchio destro. «Hai notato degli effetti collaterali?» «Nessuno. Sembra che sia più in salute adesso che prima dell'esperimento. Pensi che il processo abbia degli effetti ringiovanenti?» Helmond scosse la testa. «Non proprio. Forse, ma appena percettibili. E dubito che la gente sarebbe disposta a sottoporsi al trauma della morte e alla rianimazione per recuperare pochi anni di vita.» Sharon guardò verso la porta della camera dall'altra parte del laboratorio. «Be', cosa accadrebbe se si sottoponesse un essere vivente al processo?» Helmond la fissò meravigliato, sbattendo le palpebre. «Annegherebbe nella soluzione.» La donna puntò due dita alle narici. «Usando dei tappi, stupido.» «La radiazione è fatale per gli organismi viventi,» rispose lui voltandosi. «Ci ho provato una volta, con una rana.» Gli occhi dell'assistente lo fulminarono con lo sguardo. «Non me l'hai mai detto.» «È stato prima che diventassi la mia assistente, subito dopo che riuscii a riportare in vita Valdemar. La stessa domanda che mi hai appena rivolto, io me l'ero già posta allora. Pensavo che una rana fosse un soggetto perfetto, poiché non sarebbe immediatamente annegata nella soluzione.» Quando si accorse che Helmond non riusciva a continuare, Sharon incrociò le braccia, spazientita. «Allora, cosa è accaduto? Perché non me l'hai detto?» Helmond si alzò e fece alcuni passi, dandole quasi le spalle. «Non fu un bello spettacolo. Le radiazioni sovraccaricano il sistema nervoso. La rana fu sottoposta a spasmi muscolari e convulsioni che la squarciarono letteralmente in due. Si ridusse ad una poltiglia sanguinolenta di carne e ossa che galleggiando nella capsula si contorceva ancora per i residui di energia nervosa. Mi hai parlato di incubi... quell'esperimento me ne procurò per settimane.» Sharon rimase a lungo silenziosa. «Oh» fu tutto quello che riuscì a dire, e giurò di non toccare più l'argomento.
UN ATTACCO DI NERVI Quando quella sera ritornò a casa, Helmond aveva con sé una grossa scatola in cui aveva praticato dei buchi per lasciar passare l'aria. Nessuno venne ad accoglierlo alla porta (era raro che avvenisse), e così entrò nel salotto buio, dove l'attenzione di tutti era concentrata sul tubo catodico, e sistemò la scatola sul tavolino da caffè. «Ciao papà,» lo salutò Ally. «Ciao papà,» le fece eco Eunice. «Papà!» esclamò Andy. «Ciao tesoro,» disse Janice. E così, per il momento regnava la pace, pensò Helmond, ma nessuno aveva ancora notato la scatola. Dall'interno provenne un tramestio, e finalmente tutte le teste si girarono a guardare il regalo. «Cos'è?» chiese Ally, ancora equipaggiata da guerriglia punk. Helmond aprì la scatola e ne estrasse il rhesus, posandoselo sulla spalla. «Questo è Lazarus. Oggi è stato sottoposto ad un difficile esperimento e se l'è cavata molto bene, e così ho pensato di premiarlo con alcuni giorni di libertà.» I bambini erano incantati, Eunice più di tutti. «Posso tenerlo, ti prego, ti prego?» Helmond passò la scimmia alla figlia. Janice accese una lampada e lui incontrò lo sguardo della moglie. Sul volto di Janice erano dipinti sospetto e paura. La sua espressione rispose con «Sì, mia cara, stamattina questa creatura era morta, e io l'ho richiamata dalla tomba, ma non preoccuparti, non è un demone o un vampiro, è soltanto una scimmietta che sarà un ottimo compagno per i ragazzi.» L'espressione di risposta della moglie mostrò eloquentemente che non aveva creduto a quelle rassicurazioni inespresse. «Quanto tempo pensi di tenere qui quella cosa?» chiese Janice. «Circa una settimana. Mi sento colpevole per la condizioni in cui vivono gli animali in laboratorio. Per le forme di vita inferiori non sono poi troppo malvagie, ma Laz è quasi un essere umano. Ha bisogno di spazio e compagnia.» I ragazzi misero il primate sul pavimento, in mezzo a loro, facendogli il solletico e stuzzicandolo. Laz era decisamente compiaciuto di tutta quell'attenzione. Gli piaceva tirare i capelli e afferrare le dita. «Len, possiamo andare in cucina? Devo parlarti.»
Ci siamo. Inizia la sommossa. «Certo, amore.» Helmond la seguì attraversando la sala da pranzo, poi raccolse le forze per affrontare l'assalto verbale, appoggiandosi alla lavastoviglie. «Quello è uno dei tuoi zombi?» Gli occhi di Janice, spalancati, ardevano di rabbia, la voce le tremava per la tensione. La scelta delle parole gli fece rizzare i capelli. «Abbassa il tono della voce, Janice.» «Non lo farò! Non voglio una cosa morta in casa mia.» «Lazarus è vivo quanto te e me.» «Lo hai sottoposto a quel tuo processo, quella infusione REM o come diavolo si chiama?» In quel momento, Helmond desiderò non avergliene mai parlato, ma era il suo sogno, il lavoro della sua vita, il suo obiettivo supremo. Se non poteva condividere questo con lei, allora cos'altro? «Sì, Laz è un rianimato, è stato sottoposto al processo questa mattina, ma ti assicuro che è perfettamente normale. E sicuramente ti sarai accorta di quanto piaccia ai bambini.» Lei gli puntò contro un dito, minacciosa. «Non usare questa tattica con me, Orville Leonard Helmond. Tu hai portato a casa un demone come animale domestico per la tua famiglia e lo trovi divertente.» «Dannazione, donna, smettila di parlare di Laz come se fosse una specie di mostruosità. Io stesso l'ho sottoposto ad un esame medico completo. È la stessa dannata scimmia di prima che lo rianimassi. Non ti fidi? Non mi credi? Come puoi pensare, anche per un solo istante, che farei qualcosa che potrebbe danneggiare te e i bambini?» Janice si calmò un pochino. «No, non lo penso, ma non mi piace neanche l'idea di avere una delle tue cavie tra i piedi. Non mi piace quello che fai in laboratorio, e non voglio che ne porti i risultati a casa.» «Non ti piace, non ti piace. Solo questa mattina ti stavi lamentando che una certa persona pensa solo a se stessa. Ora chi è che si sta rendendo colpevole dello stesso crimine? Le tue paure sono irragionevoli, Janice. Un adulto impara a controllare i suoi timori infondati. E rifletti: con un animale intorno da curare e a cui pensare, soprattutto un animale così simile all'uomo come Laz, forse Ally diventerà meno egoista e un po' più altruista. Teddy Bear non è adatto a svolgere questo compito perché è dannatamente poco socievole. Allora, che ne dici? Mi ha seguito fin a casa, mammina. Posso tenerlo?» Janice rise. «Sei veramente uno stupido. Va bene. Tollererò la presenza
di quell'animale per una settimana, non di più.» Ma alla fine di quella settimana fu Janice che si lamentò, «Ehi, ma devi proprio riportarlo in laboratorio?» Laz era riuscito ad affascinare tutta la famiglia, anzi ne era divenuto parte integrante. Consumava i pasti con loro, guardava la televisione con loro, e dormiva a turno con ognuno di loro. L'intelligente primate era divenuto addirittura il migliore amico di Janice, che aveva dimenticato la sua provenienza, dopo che con il passare del tempo per i bambini la novità della sua presenza si era attenuata. Eunice sembrava essere la più legata all'animale e fu il suo confondere "rhesus" con "Reese" che portò all'ossessione di Laz per i Reese's Pieces e al successivo nomignolo di E.T.. Naturalmente quella coincidenza non passò inosservata, poiché Helmond ricordava bene come anche l'alieno di Spielberg avesse sperimentato una resurrezione effettuata mediante tecnologia avanzata. Helmond continuò i suoi esperimenti sui primati, rianimandone altri sei in altrettante settimane, sebbene continuasse a tenere d'occhio Laz-E.T., nel caso desse qualche segno di anormalità, ma non portò a casa nessun'altra scimmia. I cicloni emotivi si erano andati calmando, trasformandosi in brevi temporali; le sue ricerche stavano procedendo per il meglio, e in linea generale ogni cosa nella sua vita andava bene. Poi, un lunedì mattina, mentre si recava al lavoro, incontrò un gruppo di attivisti per i diritti degli animali che protestavano fuori al laboratorio. «C'è una sorpresa per lei stamattina, Dr. Helmond,» lo informò l'agente di sicurezza Joe Garritty, che pattugliava il complesso dei laboratori dell'università, quando lo incontrò al parcheggio. «Una dozzina di quegli animali sono saliti nel suo laboratorio.» Immagini de L'isola del Dr. Moreau balenarono nella mente di Helmond. «Animali?» «Sì, dei tipi piuttosto eccitabili che non vogliono che lei usi le cavie come cavie.» Un leggero panico si impadronì del biochimico. «Joe, non li si deve lasciare entrare in laboratorio in nessun caso. Se riuscissero a fare irruzione e a liberare alcuni animali, potrebbe esserci un grave pericolo.» L'anziana guardia assunse un fare militaresco. «Capisco, signore. Comunque ho incaricato alcuni dei miei uomini di tenerli d'occhio.» «Grazie, Joe.» Helmond afferrò la valigetta e uscì dall'auto, poi risalì il vialetto, attraversò il piazzale e si preparò ad affrontare i suoi detrattori. Non essendo un tipo dogmatico, provava una certa curiosità nei riguardi di
quegli individui e voleva sapere da dove venissero, e dunque intendeva fermarsi a parlare con loro. Per la maggior parte erano giovani - senza dubbio studenti - e con un po' d'immaginazione potevano essere paragonati agli hippy di vent'anni prima, che protestavano contro la guerra in Vietnam. Avevano molto in comune con quei vecchi dissidenti, ma non essendoci una guerra contro cui manifestare, avevano trovato un'altra causa per cui impegnarsi. I loro cartelli non erano molto originali: foto di cani e gatti mutilati, frasi quali OGNI VITA È SACRA, LA TORTURA NON È SCIENZA, HELMOND È UN ASSASSINO, etc. Sharon avrebbe già dovuto trovarsi al laboratorio per fare un inventario; Helmond si chiese cosa ne pensasse lei della manifestazione. Alcuni membri della folla lo riconobbero mentre si avvicinava, e gli attivisti iniziarono a convergere tutti nella sua direzione, il che lo allarmò leggermente. Fece ancora qualche passo, poi si fermò. «Cosa posso fare per voi, gente?» chiese con voce calma. «Vogliamo sapere perché tormenta delle creature viventi,» replicò una graziosa biondina in top rosso e jeans. L'unico pensiero di Helmond fu che faceva piuttosto freddo, si era a metà dell'autunno, perché chiunque decidesse di indossare un top. «Sì,» intervenne un giovane dall'aria minacciosa, con i capelli ricci e neri. «Ciò che fa loro le dà una sensazione di potere o cosa? Soddisfa forse l'istinto sadico che è in lei?» Helmond fece una pausa per conferire maggiore effetto a quel che stava per dire. «Innanzitutto, qualcuno di voi ha idea del genere di esperimenti nel quale sono impegnato?» Fu l'orsa polare bionda a parlare per prima. «La sua assistente ha detto che siete impegnati nel tentativo di prolungare la vita. Mi piacerebbe sottolineare, Dr. Helmond, che abbreviare la vita delle sue cavie non allungerà la vita di nessuno.» E così Sharon si era imbattuta in quei fanatici. «Voglio che lei sappia che le mie ricerche non hanno provocato nemmeno un cadavere, salvo quello di una rana, un po' di tempo fa. Ho grande cura dei miei soggetti. In effetti, ne ho portato uno a casa, una scimmia rhesus, che ora è diventato uno degli animali di famiglia. O forse lei è contraria anche agli animali domestici?» «Ma lei li fa soffrire,» obiettò il ragazzo dall'aspetto poco amichevole. Questi due devono essere i capi, rifletté Helmond. «Lei tratta gli esseri viventi come se fossero cose, come se ne avesse il diritto, come se fosse
Dio.» Ottima obiezione, pensò tra sé Helmond. Ma in tutti i casi, non stava giocando a essere Dio. Sembrava che Dio avesse trascurato un po' il lavoro, permettendo che dappertutto si soffrisse e si morisse inutilmente, e visto che non si curava di correggere i difetti presenti nei fragili corpi che aveva Lui stesso creato, Helmond stava semplicemente lavorando al Suo posto. Ma il ragazzo certamente non intendeva dire questo. «Non tratto i miei animali come cose. Penso a loro come a organismi viventi individuali, respiranti, sensibili, che si sacrificano per il bene della razza umana. Cerco di ridurre al minimo le loro sensazioni negative. Comunque, ammetto di credere che l'umanità sia la specie dominante del pianeta. Questo è un fatto innegabile. Nessun'altra creatura è riuscita ad alterare così tanto l'ambiente, a condurre così tante altre specie all'estinzione e a possedere la capacità di distruggere l'ecosistema stesso. Ora, di questo potere gli uomini possono farne buono o cattivo uso. Noi siamo gli amministratori, i guardiani e i coltivatori di questo mondo. Se un asteroide fosse in rotta di collisione con noi e dovessimo farlo esplodere nello spazio, saremmo i salvatori di questo pianeta. Nessun'altra specie, nemmeno le balene o i delfini con tutta la loro intelligenza trascendente, potrebbe compiere un atto così cruciale, così pieno di potenza.» «Quando è stata l'ultima volta che siamo stati minacciati da un asteroide?» replicò il ragazzo. Alcuni attivisti risero. Helmond scrollò le spalle. «Non lo so. Lo chieda ai dinosauri.» Questa volta nessuno rise. «Il punto è che avete tutta la mia comprensione. L'uso di cavie viventi è primitivo e barbaro. Mangiare creature viventi è ugualmente selvaggio, ma noi umani siamo ancora dei primitivi, siamo ancora semi-selvaggi. Concordo che modelli computerizzati dovrebbero essere usati il più possibile al posto degli animali di laboratorio e che tutte le ricerche condotte sugli animali devono essere assolutamente di vitale importanza. Vi assicuro che quello che sto facendo è vitale.» Notò alcune espressioni favorevoli tra la folla; stava realmente riuscendo a comunicare con loro? Con l'ego ringalluzzito da quella reazione, Helmond continuò a parlare: «Gente, non so come la pensiate voi sull'ingegneria genetica, ma io la considero una possibile risposta a questo problema. Invece di sperimentare su animali veri propri, sottoponendoli a sofferenze, si potrebbe semplicemente generare il particolare organo o sistema su cui si vuole lavorare. Per esempio, se si vuole utilizzare il sistema nervoso di un gatto, invece di utilizzare il gatto intero, si potrebbe ricostruire soltanto
il suo sistema nervoso, senza il resto.» Qualcuno tra la folla rise, alcune ragazze esclamarono «Ooooh, questa è bella!». Era esattamente la reazione che si era aspettato di suscitare. «Naturalmente, questo sistema potrebbe non soddisfare qualcuno. Potrebbe sorgere un nuovo movimento di attivisti. 'Uguali diritti per le componenti biogenerate!' Ma questa è tutt'altra questione. Comunque, voglio dirvi che io vi appoggio. Potrei anche partecipare ai vostri picchetti, alcune volte. Ho sentito delle voci sul laboratorio di Heller che mi inquietano. Ma venendo qui avete scelto la persona sbagliata. Tutti i miei soggetti sono perfettamente sani e integri dopo gli esperimenti, ve lo giuro. Spero di abbandonare il più presto possibile la ricerca sugli animali e di dedicarmi a quella su esemplari umani. Okay?» La ragazza bionda, la cui combattività si era decisamente ridotta, chiese, «Be', allora cosa fa esattamente ai suoi soggetti animali?» Helmond sogghignò. «Li uccido e li riporto in vita.» Questa volta risero tutti e cominciarono ad allontanarsi, abbassando i loro cartelli. Nessuno sospettò che in quel momento Helmond fosse stato assolutamente serio. Helmond si era preso gioco di quella folla con maestria, se li era lavorati come un vecchio professionista. Era enormemente fiero di se stesso. «Ben fatto, maestro,» commentò con approvazione Sharon quando Helmond entrò in laboratorio. Era in piedi davanti alla finestra con la cartellina in mano e fumava. «Non sapevo come comportarmi con quel mucchio di regrediti all'Età della Pietra. Come hai fatto a convincerli?» «Non dovresti essere così dura con loro. Penso che mitrano un sincero interesse per i nostri amici con la pelliccia. Tutto quel che ho fatto è stato di propinargli il mio solito discorsetto, che tu hai sentito già una dozzina di volte, sulla supremazia benevola dell'umanità e sull'uso dell'ingegneria genetica per creare campioni sperimentali selezionati.» «Ugh. Deve essere stato spaventoso.» Helmond sogghignò. «Proprio così. A proposito degli animali del laboratorio, come vanno i nostri?» «Be', i topi stranamente sono un po' irrequieti. Sembrano essere in preda ad un attacco di nervi o qualcosa del genere.» Lo scienziato esclamò, con un suono a metà tra la risata e il lamento: «Che immagine catastrofica, donna.» Sharon lo guardò sorpresa. «Cosa ho detto?» Helmond sollevò la valigetta. «Pensaci. Se un giorno potremo con la
bioingegneria produrre sistemi nervosi senza il resto dell'organismo, invece di un mucchio di fogli potrei portarmi al lavoro una valigia di nervi scossi.» Sharon si coprì il viso con una mano e scosse la testa. «Lenny, sei disgustoso. Vai a vedere i tuoi topi.» Helmond posò la valigetta su un banco da lavoro e raggiunse le gabbie dei roditori. Lì erano ospitati i primi rianimati dopo la morte di Mithras, incluso quello che era fino ad allora il più grande successo, l'albino Valdemar, il più longevo essere ritornato dalla morte che il mondo avesse mai conosciuto. In effetti, le creature parevano leggermente agitate, sebbene le gabbie fossero larghe (ognuna ospitava quattro cavie) e fossero fornite di numerosi accessori per tenerli occupati: ruote, rampe, gallerie, labirinti, etc. Valdemar divideva la sua gabbia con Salomé, Renfield e Willard in completo accordo. Ma erano quei quattro che mostravano una maggiore tensione, il che preoccupò un tantino Helmond. «Forse hanno percepito la presenza dei loro liberatori là fuori,» ironizzò Sharon che l'aveva raggiunto. «Si stavano preparando ad effettuare un'evasione.» Lo scienziato rise allegramente. «Hai dei suggerimenti più realistici?» L'assistente scrollò le spalle, mordicchiando la penna. «Qualche terremoto in arrivo? Delle vibrazioni subsoniche che provengono da qualche fonte sconosciuta? Piccole quantità di gas tossico che circolano attraverso il sistema di ventilazione?» Helmond assentì, pensieroso. «Potrebbe essere una qualsiasi di queste cose. Ma probabilmente non è nulla. Comunque, per ogni eventualità, mi faresti il favore di prelevare un campione di sangue da Valdemar?» «Per l'amor di Dio, Lenny, abbiamo esaminato e sondato quel povero esserino tante di quelle volte che mi sorprende ne sia rimasto ancora qualcosa. Perché non lo lasci un po' in pace?» Helmond ripensò ai manifestanti, provò una sensazione di colpevolezza e decise che Sharon aveva ragione. «Okay. Farò un giro negli altri laboratori per accertarmi se i loro bisonti manifestino tendenze paranoiche.» «Dubito che qualcuno ti lascerà entrare. Hanno paura che tu gli rubi le idee.» Sharon si interruppe e gli si avvicinò lentamente, tenendo stretta contro i seni la cartellina. «A proposito, Lenny, quando renderai noto questi esperimenti? Hai il brevetto del procedimento. Diventerai ricco all'istante, non appena si saprà ufficialmente che il giorno della resurrezione in questo millennio arriverà un po' prima.»
Lui la fissò per un attimo. «Non voglio sostenere di non essere interessato a fare soldi, Shar, ma non ho intenzione di vendere il procedimento a nessuno. Non che soffra di delirio di onnipotenza, ma è una responsabilità troppo grande per permettere che mi sfugga di mano. Inoltre, non siamo ancora pronti per mirare davvero in alto. Questo genere di cose dev'essere fatto per bene.» Sharon evitò il suo sguardo. «Mi sembra che tu abbia paura di qualcosa. C'è un aspetto di questa faccenda che non abbiamo ancora esaminato, anche se sono certa che anche tu ci hai pensato un po' su.» «E quale sarebbe?» Sharon indicò col pollice in direzione della camera di rianimazione. «Da quanto dev'essere morto un corpo, per non poter essere rianimato da quella macchina? Non sto parlando di danni fisici prodotti di recente. Abbiamo praticamente rotto tutte le ossa e gli organi del povero Gandalf, e lui è risorto senza problemi. No, sto parlando di decomposizione. Puoi far resuscitare gli ospiti del cimitero locale con quella roba? Se qualcuno riuscisse a disseppellire da qualche parte i resti di Hitler, potrebbe tornare a vivere tra noi?» Stranamente, Helmond non aveva preso in considerazione nessuna di quelle idee. «Stai suggerendo che dovremmo profanare qualche tomba per scoprirlo?» Sharon ridacchiò. «Ti sto soltando facendo una domanda, Lenny.» L'uomo si grattò il mento. «Be', onestamente non lo so. Il processo può risanare i tessuti celebrali, ma certamente la memoria e l'identità andrebbero perdute. Qualcuno che fosse morto da ore si risveglierebbe trasformato in un minorato mentale, probabilmente immerso in uno stato catatonico. Per quanto concerne poi il tentativo di rianimare della carne in putrefazione per mesi o anni, dubito che il trattamento funzionerebbe. E non ho nessuna voglia di scoprirlo.» «Ma dobbiamo considerare la cosa, penso. Cioè, supponiamo che una persona folle o senza scrupoli un giorno si impossessi della formula. Dobbiamo sapere cosa potrebbe accadere in una circostanza simile.» Helmond studiò i topi in preda al nervosismo. «Hai visto troppi film tipo la Notte dei morti viventi, Shar. Il procedimento non può essere utilizzato per creare armate di zombi o per riportare in vita i maggiori criminali della storia. È una nuova procedura medica e nient'altro.» Sharon chinò il capo con aria infantile. «Era soltanto un'idea.» «Be', continua a pensare. È un ottimo esercizio. Ci vediamo dopo.»
Helmond trascorse la maggior parte del resto della giornata a girare per gli altri laboratori e fu sorpreso di ricevere in tutti una buona accoglienza. All'inizio, ritenne che l'ospitalità fosse dovuta al modo in cui aveva affrontato gli attivisti per i diritti degli animali quella mattina, e in parte era così, ma ben presto si rese conto che gli altri scienziati erano tanto desiderosi di condividere con lui il loro lavoro poiché erano enormemente curiosi di sapere qualcosa sulle sue ricerche. Molti avevano letto il suo articolo su Mithras - "La stimolazione di reazioni animate in organismi non viventi attraverso un'infusione di radiazioni elettromagnetiche in un medium salino saturato di proteine" - e tratto le loro conclusioni. Evitò di rivelare loro alcunché, scoprì che i suoi topi erano gli unici a soffrire di nervosismo, bevve molto caffè e apprezzò le conversazioni intellettuali dei suoi colleghi. Quando fece ritorno al laboratorio, erano quasi le cinque. «Ho finito l'inventario,» annunciò Sharon. «Abbiamo abbastanza materiale per altre due rianimazioni. A chi toccherà questa volta? Ad una scimmia, uno scimpanzé, o ad un essere umano?» «Propendo per uno scimpanzé.» «Interessante scelta di parole. Sai, quando ho cominciato a studiare biochimica, non mi sarei mai sognata che avrei finito per partecipare a sacrifici umani.» Helmond non trovò divertente quella battuta. Era preoccupato per i topi. «Vado a casa, Shar. Ci vediamo domani. Chiudi tu, ti dispiace?» Mentre si dirigeva verso il parcheggio, desiderò che Sharon non avesse mai parlato di quelle cose. L'assistente possedeva una immaginazione perversa, una percezione acuta di ciò che spaventava e inquietava le persone. Lui sospettava che si trattasse di un metodo per attirare l'attenzione, il che di solito rivelava un profondo complesso di inferiorità. Eppure si era dimostrata una persona sicura e affidabile, e di conseguenza la propria analisi poteva anche dimostrarsi completamente infondata. In ogni caso, era arrabbiato con lei perché aveva fatto sembrare il suo lavoro mostruoso e pericoloso; sospettò che il modo in cui Shar a volte esagerava con il suo senso dell'umorismo nascondesse un aspetto non del tutto sano della sua personalità. Per la prima volta da quando aveva iniziato quella ricerca, nutrì dei dubbi sul suo lavoro. Sharon si trattenne in laboratorio un altro quarto d'ora a fumare una sigaretta e a ripensare alla sua conversazione con Helmond. Aveva fatto grandi progetti su di lui, fin da quando si erano incontrati per la prima volta, quat-
tro mesi prima, perché credeva di essere innamorata di lui. Era una persona affascinante, brillante, di bell'aspetto, un buon parlatore, creativa e rassicurante - tutto quello che lei non era. In parte era intimorita da lui e in parte lo adorava, ma aveva percepito di non piacergli molto, e di conseguenza non gli aveva rivelato i propri sentimenti. Non che avesse qualche scrupolo nel lasciarsi coinvolgere sentimentalmente in una storia con un uomo sposato, ma pensava di non avere alcuna possibilità con lui. Era stata una bambina grassottella e goffa, mantenendo quelle caratteristiche fino all'adolescenza inoltrata, con l'aggiunta di un'orribile acne oltre agli altri problemi fisici. Neppure la sua precocità intellettuale l'aveva aiutata a diventare popolare, e così si era rifugiata in un mondo di fantasia in cui aveva nutrito il suo intelletto, sperando irrazionalmente di trasformarsi un giorno da brutto anatroccolo in un bellissimo cigno. Al college molti dei suoi sogni si erano avverati, ma la sua stima di se stessa era talmente ridotta e le sue capacità di socializzazione così stentate che non sapeva cosa fare. Una serie di giovani uomini presuntuosi che prima l'avevano usata e poi gettata via l'aveva costretta a sviluppare una dura scorza esterna e una spiccata attitudine all'autodifesa. Sapeva di non essere di una bellezza folgorante, ma era in parte consapevole del suo fisico formoso. Col tempo, avrebbe tentato di utilizzarlo per far colpo sul Dr. Helmond. Schiacciò la sigaretta nel posacenere e si alzò per uscire. Ma nel laboratorio si udì un urlo. I suoi occhi corsero fulmineamente verso le gabbie degli animali, ma non riuscì ad identificare la fonte di quell'orribile gemito di agonia. In effetti, si chiese subito se non avesse soltanto immaginato di sentire quel suono, perché era un qualcosa che non aveva mai udito prima, un urlo tanto pieno di sofferenza e orrore - non solamente inumano ma quasi inorganico - che non poteva essere reale. Pensò di andare a controllare le gabbie dei topi, ma non ebbe la forza di farlo. Improvvisamente ebbe la sensazione che gli occhi dei rianimati fossero puntati su di lei, malefici, colmi di odio e famelici, e non riuscì a rimanere nella stanza un attimo di più. Tremava quando spense le luci, e a stento si ricordò di chiudere a chiave la porta. SOGNI DI SANGUE Helmond imboccò il vialetto di casa sua e parcheggiò dietro il "bolide" di Janice, una Camaro del 1968 in perfette condizioni. La moglie doveva
averla tirata fuori dal garage per darle una pulita, infradiciandosi in un giorno freddo come quello, tutto per amore di una macchina. La possedeva fin da quando era adolescente, e ne sapeva di automobili più della maggior parte degli uomini. A volte stentava lui stesso a credere di aver sposato una donna così appassionata di motori. Entrò in casa, si preparò un abbondante scotch con soda, poi sprofondò nella sua comoda poltrona di pelle a leggere il giornale. Non c'era niente di cui preoccuparsi, avrebbe eseguito alcuni test e... «Guarda, papà!» Eunice entrò nella stanza a passo di danza, con il dolce visino raggiante, assolutamente spensierata. «Mammina mi ha comprato un vestito nuovo! Non è bello?» Il vestito era di colore celeste con merlettini bianchi. Helmond odiava il celeste da quando era morto il suo cane. «È molto grazioso, zucchetta.» «Il celeste è il mio colore preferito.» Janice entrò nella stanza sorridendo, con Laz-E.T. sulla schiena. «Oggi non è andata a scuola, c'era una specie di riunione dei docenti o qualcosa del genere, e così ho pensato di portarla a fare spese. Continua a crescere troppo in fretta per i suoi poveri vestiti.» Helmond sogghignò alla vista della moglie con il nuovo animale di famiglia. «Donna, sei una drogata. Non avrei mai pensato, quando ti ho sposata, che avresti avuto una scimmia sulla schiena.» Janice rise. «Sai, è un animale così intelligente; so che si presume che le scimmie siano nostri parenti, ma se Laz fosse soltanto un po' più sveglio, di sicuro gli insegnerei a svolgere le faccende domestiche.» Helmond tese le mani per prendere Laz che la moglie gli porgeva. «Cerchi sempre di sbolognare un po' di onesto lavoro. E allora, come sta oggi il nostro bambino più piccolo e più peloso?» «Le scimmie sognano?» gli chiese Eunice. Lui la guardò, grattando la pancia della scimmia mentre gli giaceva in grembo, ritto sulla schiena. «Certo che sognano, perché?» «Be', penso che E.T. abbia degli incubi, Ha dormito con me ieri e si è svegliato in piena notte facendo dei versi orribili. Era anche molto agitato.» «È colpa di tutte quelle caramelle che mangia,» disse Janice. «È una scimmia golosa di schifezze.» Helmond esaminò il primate senza che gli altri se ne accorgessero, cercando i segni di qualcosa che nemmeno lui conosceva bene. La scimmia si girò a guardarlo con occhi dalle arcate sopraccigliari sporgenti e corrugò la
faccina pelosa. Sembrava ancora perfettamente sano. Helmond si ricordò del nervosismo manifestato dai topi. Avrebbe dovuto riportare l'animale in laboratorio e tenerlo sotto osservazione fino a quando non si fosse accertato con sicurezza che tutto procedeva per il meglio? Di sicuro, se il processo comportava delle reazioni ritardate, queste avrebbero dovuto manifestarsi molto tempo prima. E poi, portare via Laz in quel momento avrebbe significato spezzare il cuore alla famiglia. Teddy Bear fece per entrare nella stanza con passo felpato, vide e percepì la presenza della scimmia e cambiò idea. Laz e il gatto fondamentalmente si ignoravano, anche se il primo a volte stuzzicava il secondo, tanto da costringere quest'ultimo a reagire con violenti soffi e fulminee zampate. Tuttavia, non era mai successo niente di grave. Be', ecco un membro della famiglia che non sarebbe dispiaciuto della partenza di Lazarus, pensò Helmond. «Tesoro,» disse Janice a Eunice, «vai a toglierti il vestito prima che si sporchi. Papà l'ha visto, ora va'.» «Okay,» obbedì la ragazzina con disappunto, poi si diresse saltellando verso le scale, seguita da Laz. Visto che il marito ora aveva le mani libere, tranne che per il giornale, Janice vi si lasciò cadere e gettò le braccia intorno al collo del marito. «Come sta lo scienziato pazzo, oggi?» «Pazzamente innamorato di te. Cosa c'è per cena?» La donna si scostò, rimanendo a bocca aperta. «Ehi, consideri queste due frasi ugualmente romantiche?» «Certo. Se non amassi la tua cucina, mangerei altrove.» «Se non stai ben attento a quello che dici, dormirai altrove. Sii romantico. Dimmi quanto sono bella, quanto ti manco in ogni momento della giornata, come farai l'amore con me appassionatamente più tardi.» Helmond la strinse a sé e la baciò. «Preferirei piuttosto discutere con te dello status socioeconomico degli affari geopolitici.» Janice gli piantò il pugno destro nel petto. «Ti piacerebbe piuttosto parlare di divorzio? Eri romantico, un tempo.» «Ora sono solo negromantico.» Quella battuta la fece imbronciare. Helmond rise, sentendosi in parte colpevole, e la abbracciò. «Ti chiedo scusa, tesoro. Per stasera, credo di aver esaurito le mie doti di incantatore. Stamattina ho dovuto discutere con un gruppo di animalisti.» La donna si irrigidì e lo guardò fisso. «E sei riuscito ad ammansirli?»
«Sì, è stato abbastanza divertente.» Di nuovo rilassata, Janice si rannicchiò contro di lui. «Riusciresti perfino ad addomesticare un leopardo. Di certo mi hai completamente ammaliata, la prima volta che ci siamo incontrati.» «Dovevo farlo. Come poteva un vecchio come me competere con tutti quei fusti che ti stavano attorno?» «Tu non sei vecchio. Inoltre, io preferivo un uomo distinto e più vecchio a quei ragazzini, anche se è tanto furbo che per fare un test d'intelligenza deve andare da un proctologo». Risero entrambi, Helmond fece finta di aggredirla, e finirono col rotolarsi sul pavimento, lottando. Quando si fermarono, ansimando e riposandosi, Janice ridivenne seria. «C'è qualcosa di cui dobbiamo discutere, Len.» Lui scivolò scivolò via dal corpo di Janice e le giacque accanto. «Conta su di me, pupa.» «Si tratta di Ally.» Sospirando, Helmond commentò, «Naturalmente.» «Credo che sia il momento di fare la seconda seria discussione genitorifigli.» Helmond si accigliò, assumendo un'espressione ironicamente pensierosa. «Be', le abbiamo già spiegato tutto sugli uccelli e le api. Rimane soltanto la droga.» Janice annuì. «So che hai detto che non possiamo essere ipocriti in merito. Tu hai avuto i tuoi giorni folli a Berkeley e io i miei anni selvaggi al college, ma non eravamo giovani quanto lei. Ad ogni modo, ero nella sua stanza a raccogliere la biancheria sporca, quando ho notato un sacchetto di plastica che spuntava da uno dei suoi cassetti della scrivania.» «E tu hai dovuto semplicemente guardarci dentro. Cristo, Janice. Se non la rispettiamo come persona, è dannatamente certo che lei non ci rispetterà. La fiducia richiede fiducia, e lei deve essere convinta che la sua vita privata è inviolabile, sacra.» Janice si sedette incrociando le gambe. «Lo so, lo so. Non ho potuto farci niente. Sono molto preoccupata per lei.» Dopo alcuni secondi di pensoso silenzio, Helmond parlò. «Be', allora cosa hai scoperto?» «Di tutto. Erba, anfetamine e tranquillanti. Per lo più anfetamine ed erba. Niente acido, non credo. Né cocaina o eroina.» Helmond piegò le braccia dietro la testa. «E cosa ti aspetti che faccia a
riguardo? L'abbiamo educata ad essere intelligente e responsabile, affinché badi a se stessa e prenda da sola le proprie decisioni. Noi beviamo, organizziamo le nostre feste. Cosa posso dirle che non suoni un'emerita stronzata?» Guardandolo, Janice replicò, «Assicurati semplicemente che sappia cosa sta facendo. Non voglio che muoia di overdose o che vada in auto quando il guidatore è ubriaco o fatto, e non voglio che vada in orbita a una festa dove può essere molestata. Dille che non siamo dei bacchettoni e che può rivolgersi a noi per questo, o per qualsiasi altro problema.» «Be', posso provarci, ma noi costituiamo una minima parte del suo mondo, in questo momento. Ora per lei il mondo è fatto di vestiti, musica, ragazzi, chiacchiere, amici, trucco, essere "giusti" e bighellonare nei centri commerciali.» Janice gli posò un braccio sul petto. «Sai che questo è vero solo a metà. Con te parlerà di tutto. È me che ritiene una bacchettona. Credo che questa sia la cosa che mi infastidisce di più. Non mi ha mai chiesto consigli. Quando voleva sapere qualcosa riguardo al sesso, è da te che è venuta, non da me. Non viene mai da me.» Helmond si mise a sedere, forse un po' troppo bruscamente. «Magari è convinta che non la staresti a sentire sul serio. Magari immagina che tu proietti una specie di barriera.» «Una specie di barriera?» Janice lo fissò a bocca aperta. «Come posso mostrarle di essere più disponibile? È lei che fa la lista della spesa, visto che ci sono circa un migliaio di cibi che non desidera mangiare. Quando è a casa, il che non capita spesso, è lei che decide cosa dobbiamo vedere in tv e letteralmente controlla il telefono. Riceve un mensile con cui un individuo medio potrebbe vivere comodamente. Eppure nella sua mente è convinta di essere la persona più trascurata, maltrattata, incompresa, sottovalutata del mondo intero.» Helmond sogghignò. «Questa è la migliore definizione di "teenager" che abbia mai sentito. Io la vedo così, Janice, tu la contraddici quando non dovresti e non lo fai quando dovresti. Ti mette alla prova, trova il tuo punto debole e lo sfrutta, poi ti sottovaluta e rimane sorpresa quando reagisci energicamente.» Janice finse di strapparsi i capelli. «E come faccio a sapere quando dovrei reagire e quando non dovrei?» «Non lo so, ma sarebbe meglio che lo scoprissi, perché ben presto dovrai affrontare altri due di questi strani esseri.»
«Se sopravvivo al primo.» «Sopravviverai.» Helmond si alzò e le porse la mano per aiutarla a rialzarsi. «Allora, cosa c'è per cena?» Janice aveva cucinato delle bistecche, uno dei piatti preferiti di Helmond. Quella sera, però, mentre tagliava la carne ai ferri con un coltello seghettato, strani pensieri gli attraversarono per la mente. Da una parte, c'era lui che col suo lavoro sconfiggeva la morte, dall'altra eccolo là, seduto a tavola mentre si nutriva di un animale morto, sopravvivendo grazie alla morte altrui. Nel migliore dei casi era una contraddizione. Nel peggiore, ipocrisia. Ma come si era detto quel mattino: visto lo sviluppo del genere umano, gli uomini non potevano essere altro che contraddizioni viventi. Bramavano la pace e glorificavano la guerra. Invecchiavano, ma adoravano la giovinezza. Allevavano animali domestici come fossero persone, addirittura di sangue nobile, ma arpionavano le balene e fracassavano i crani dei cuccioli di foca con bastoni appuntiti. Normalmente mangiava la bistecca a cottura media, con uno spesso strato roseo che orlava il centro del pezzo di carne. Quella sera, lo strato di carne poco cotto lo nauseò leggermente. Smise di mangiare e studiò i volti dei suoi familiari. I tratti del viso di Ally erano seri, un po' severi. Era immersa in se stessa, meditava, preoccupata di un problema che senza dubbio per lei rivestiva un'importanza monumentale, ma che sarebbe sembrato assolutamente trascurabile a un qualsiasi osservatore esterno. Di cosa poteva trattarsi? si chiese Helmond. Una cotta per un ragazzo? Un esame difficile che l'aspettava l'indomani? Un foruncolo appena comparso? Solo Dio lo sapeva, o forse un dio in grado di contare ogni passero caduto era invece incapace di tener conto della miriade di idiosincrasie degli adolescenti umani? Come un'incarnazione hindu in miniatura di quel Dio, Lazarus era appollaiato su un alto sgabello accanto a lei, completamente ignorato dalla ragazza, e studiava con curiosità il profilo di Ally sgranocchiando pezzi di frutta e noccioline. Con la lunga coda che si attorcigliava continuamente, sedeva come un idolo alto neppure un metro intento a contemplare i misteri della mente di Ally. Sembrava che capisse cosa stava avvenendo lì dentro. Helmond desiderò di poter condividere quella conoscenza con la scimmia rhesus. Janice chiacchierava scherzosamente con Andy, ma sul suo volto si notava un'espressione preoccupata, un'infelicità nascosta. Quella notte avrebbe avuto bisogno di molto amore, comprese il marito, e decise di conce-
derglielo. Rimpianse alcuni stupidi commenti fatti quella sera. Perché doveva sempre essere così sarcastico? Perché si sentiva obbligato a erigere quella barriera di umorismo tra sé e il mondo? Perché rendeva le cose meno penose, proteggeva dai colpi di fionda e dalle frecce dell'avversa fortuna, fu l'ovvia risposta. Ma forse era soltanto uno stronzo arrogante a cui piaceva torturare gli altri facendoli soffrire emotivamente. In entrambi i casi, la gente lo amava, e in particolare lo amava quella donna deliziosa. Andy stava sorridendo, sinceramente felice, in adorazione della madre come fosse una divinità, una dea moderna che evocava un'inesauribile manna di latte, biscotti al cioccolato e torte di mele, che provvedeva agli impermeabili, agli stivali e ai guanti o a qualsiasi altro indumento il tempo richiedesse per uscire, tempo che lei prediceva infallibilmente nella sua materna onniscienza. Per Andy, Janice era una brillante, calda, profumata dolce divinità il cui tempio era la cucina, il cui sacramento erano i baci che, applicati a scorticature, tagli e lividi, avevano un effetto curativo e anestetico miracoloso, i cui eterni misteri dei seni, delle labbra simili a boccioli e di un sesso non rigonfio, l'avrebbero un giorno condotto nell'universo estatico delle giovani donne nubili, con ulteriori misteri da risolvere, che in fin dei conti si sarebbero rivelati irrimediabilmente irrisolvibili, come era sempre stato per ogni maschio della specie. Infine, Helmond si voltò a guardare Eunice, che, come Ally, sembrava ripiegata su se stessa; ma a differenza del tumultuoso cosmo interno che stava contemplando la sorellastra, la bambina sembrava immersa in un reame euforico, un qualche mondo privato di fantasia certamente meraviglioso. Che genere di bestie vivevano lì? Unicorni, cavalli alati, pesci parlanti, draghi buoni? Helmond desiderò vedere quel che lei vedeva, provare quel sentimento di innocente meraviglia. Era sicuro che la propria innocenza fosse scomparsa, e probabilmente lo era, dal giorno in cui Argo era stato ucciso. «Sentiamo, ragazzi,» disse loro. «Cosa farete per Halloween? Credo che ormai sia imminente.» «Non uscirò più per Halloween, papà,» rispose Ally. «Sono troppo grande per questo genere di cose.» Helmond fu un po' dispiaciuto di sentirglielo dire. «Davvero? Pensavo che avresti continuato a farlo ancora. Ti è sempre piaciuto. Non vuoi guadagnarti tutti quei dolci?» «La cioccolata mi riempie di brufoli.» «Questo è un mito Ally. Il cioccolato non ha niente a che fare con la tua
acne.» La figlia lo fissò per un istante, con espressione quasi accusatrice. «Be', non puoi negare che faccia ingrassare e io non voglio ingrassare ancora.» Era questo che la preoccupava? Dio, spero non diventi anoressica, pensò Helmond. Non avrebbe saputo come cavarsela nell'affrontare quel problema. Guardando Eunice disse, «So che tu non temi il grasso o i brufoli o il comportarti come una che ha meno della tua età. Come ti vestirai per Halloween?» La figlia ridacchiò. «Mi vestirò da scheletro. Sarò il più spaventoso scheletro mai esistito.» Così va bene, pensò Helmond. È una bambina normale «E tu, Andy, ragazzo mio? Con quale apparizione infesterai la notte delle streghe?» Il ragazzo guardò per un momento il padre, come se non avesse capito. «Un diavolo o forse una mummia. Non lo so ancora.» «Molto bene. C'è tanto tempo per decidere. Anche tu sarai uno spendido diavolo o una magnifica mummia, figliolo.» Quella notte Helmond fece sul serio l'amore con Janice; fu un amplesso selvaggio e appassionato. Fece appello a tutta la sua abilità nelle arti erotiche per soddisfarla, dilungandosi nei preliminari, penetrandola lentamente, portandola all'acme del godimento prima di lasciarsi andare; poi, dopo, quando tutto fu finito, chiacchierò con lei carezzandola gentilmente. Ogni tensione abbandonò il corpo della moglie, che scivolò nel sonno come se fosse stata lievemente narcotizzata. Helmond si addormentò poco dopo, ma il suo sonno fu tormentato da un incubo. Fu il sogno più vivido di tutta la sua vita e ne ricordò ogni dettaglio. Era nudo nel corridoio all'esterno del laboratorio e la luce era strana, come se provenisse da un sole grigio. La nebbia turbinava nel corridoio per poi diradarsi, rivelando una figura bassa, vestita di nero a qualche metro di distanza. La triste mietitrice è una nana, fu il suo folle pensiero. La figura gli stava facendo segno con una manina scheletrica e Helmond obbedì, camminando sul pavimento piastrellato come se le gambe non fossero le sue. Non voleva avvicinarsi a quella cosa, a quel minuscolo essere terrorizzante, ma non poteva fare nulla per impedirlo. Il fantasma lo condusse nel laboratorio. Anche qui aleggiava la nebbia e una luce strana. Helmond colse immagini fuggevoli degli animali nelle gabbie; erano simili a raggi X viventi, gli organi e le ossa erano visibili in bianco e nero sotto la pelle di un colore tenue. Evitò di guardarli da vicino. Ciò che voleva vedere era il volto dell'essere coperto dal mantello, poiché
gli sembrava in qualche modo estremamente importante, ma non ne ebbe mai l'occasione. La triste mietitrice continuò a tenere la testa girata, e comunque sembrava ci fosse solo tenebra nel cappuccio, come se fosse dotata di sostanza. Fluttuando a circa due centimetri da terra, invece di camminare, lo spettro lo condusse alla porta della camera di rianimazione. Naturalmente, commentò tra sé Helmond. Sulla porta metallica vi erano dipinti, con della pittura di un bianco lucente, un grosso teschio e delle ossa incrociate. Benissimo, messaggio ricevuto, pensò Helmond. Ma adesso mi piacerebbe uscire da questo sogno, per favore. Tentò di svegliarsi, ma non ci riuscì. Quando si arriva al punto di sapere che si sta sognando, si è già quasi svegli. Eppure quel sogno gli sembrava profondo e completo sul piano sensoriale come nessun altro tra quelli che aveva fatto. Anzi, il suo grado di realismo era perfino maggiore. Con un gesto dell'ampia manica destra, lo gnomo ossuto per magia aprì la porta della camera. All'interno, niente era più lo stesso. Al posto della capsula sorgeva un grosso calderone di ferro, che ribolliva di un filtro stregonesco dai colori vividi: verde, giallo, arancio, con ogni tipo di orrori organici che vi galleggiavano dentro. Occhi, dita tagliate, teste di pipistrello, e una rana morta il cui corpo ea stato letteralmente rivoltato dall'interno all'esterno. Helmond evitò di guardare quella scena. Dalla parte opposta, la parete di fondo della camera sembrava estendersi all'infinito: un istante pareva avere un'altezza definita, quello successivo sembrava perdersi in un'indistinta lontananza. Helmond non riusciva assolutamente a capire di cosa fosse fatta - un qualche materiale venato di grigio che sembrava trasudare e respirare. La triste mietitrice allungò l'indice destro di ossa metacarpiche esposte e lo infilò nella sostanza viva del muro. Il sangue fluì intorno alla ferita, macchiando l'osso e colando lungo la parete di carne putrefatta. Sebbene non riuscisse a distinguere alcun volto, Helmond ebbe la netta impressione che lo spettro stesse sogghignando, forse ridendo, quando ritrasse il dito dal muro, come il ragazzino olandese della fiaba che aveva sfilato il dito dalla diga, e un piccolo rivolo di sangue scorse dal buco lasciato dal dito. Il rivolo si allargò sempre più, dapprima un ruscelletto, poi un torrente. Con terribile shock l'uomo si rese conto che l'inondazione scarlatta era piena di migliaia di minuscoli scheletri umani, le anime di tutti quelli che erano vissuti, perfette miniature di scheletri travolti dalle correnti del sangue del tempo, il sangue dei sogni, il sangue del fiume della morte. La breccia nel muro si allargò a tal punto che ormai era chiaro che in breve l'intero muro sarebbe crollato, non lasciando più nulla
a frenare quell'orrida invasione di fantasmagoria proveniente dall'altro lato della parete. Il livello del sangue si alzò sempre più, fin quando Helmond e la triste mietitrice non ne furono sommersi. Delicate strutture di materiale osseo galleggiarono davanti agli occhi di Helmond mentre veniva sommerso; il fantasma invece respirava con disinvoltura in quell'orribile mare letale. Si trovava nel suo elemento, ma Helmond, che era vivo, stava morendo in quel rosso diluvio infernale... Si svegliò soffocando, tentando di urlare. Era una delle peggiori sensazioni che avesse mai provato, ma non riuscì a gridare o a svegliare sua moglie in modo che potesse aiutarlo a respirare. Quando pensò che non sarebbe mai più riuscito a respirare e che sarebbe piombato di nuovo in quelle profondità di buia oppressione subconscia, riuscì a inalare dell'ossigeno nei polmoni. A quel punto, fu felice di non aver svegliato Janice. Gli avrebbe dato fastidio spiegarle il sogno, e lei avrebbe insistito. Con la difficoltà di movimenti di chi è mezzo soffocato, si trascinò al bagno, si spruzzò dell'acqua fredda in volto e ingurgitò un bicchiere d'acqua tanto in fretta che gli fece male la gola. Lentamente sollevò la testa e fissò i suoi occhi, riflessi nello specchio sopra il lavandino. Mostravano chiaramente le tracce di un trauma subito, un'autentica paura. Il sogno era penetrato in profondità nel suo cervello. Un'insicurezza che non aveva provato fin da quando era bambino, un timore del buio, dell'uomo nero e di maniaci invulnerabili, privi di volto e armati di asce, di serpenti nascosti sotto il letto, una fobia multiforme di cose irrazionali, esplose nella sua coscienza. Si sentì come un bambino che affrontava un mondo enorme, spaventevole, sconosciuto, pieno di pericoli e di cose incomprensibili, incontrollabili. Riprenditi, Helmond. Sei un adulto, uno scienziato, un uomo razionale. Un sogno è un sogno. Dimenticalo. Non appena si distese e smise di tremare, il telefono suonò, facendolo sussultare e dandogli nuovamente i brividi. Sollevò il ricevitore e si sorprese nel sentire quanto apparisse strozzata la sua voce mentre parlava a telefono. «Sì, ehm, pronto?» «Signor Helmond?» disse una voce sconosciuta, in tono ufficiale, un po' ansioso. «Sì?» «Lei ha una figlia di nome Alexandra?» Helmond sentì Janice muoversi al suo fianco. Si voltò a guardarla, vide che si era poggiata su di un gomito e che stava scacciando la coltre di son-
no dagli occhi con la mano libera. Un nuovo timore stava eclissando il terrore dell'incubo che aveva appena cominciato a superare. «Sì, è così.» «Lei sa dove si trova sua figlia stanotte, signore?» La confusione vorticò nella mente di Helmond. Che diavolo poteva essere successo? «Certo che lo so. È a letto che dorme. Chi è lei?» «Mi scusi, signor Helmond. Avrei dovuto dirglielo subito. Sono l'agente Brigsby, del dipartimento di polizia della contea di Berkshire. Temo che sua figlia non sia dove lei crede, signore. Una ragazza chiamata Alexandra Helmond è con me ora. Sta bene, ma siamo all'ospedale. È stata coinvolta in un incidente stradale.» Helmond lasciò cadere la cornetta del telefono, balzò fuori dal letto e corse sul pianerottolo verso la porta della camera di Ally e l'aprì di scatto. Il letto era vuoto: in un attimo si sentì invecchiare di tre anni. «Len, cosa sta succedendo?» gli chiese Janice confusa e preoccupata, mentre lui ritornava di corsa al telefono. La moglie aveva acceso un abatjour. «Agente Brigsby?» «Sì, signore?» «Mi racconti cosa è accaduto,» ansimò Helmond nella cornetta. «Le ho telefonato perché lei andasse a controllare se sua figlia era in casa.» «Non lo è. È Alexandra quella che è con lei, ne sono certo.» «Sua figlia era con un ragazzo, signor Helmond, un certo Tommy Giraud. Lo conosce?» «No. Non lo conosco.» Il tono di voce di Brigsby rivelava che il poliziotto non si stava assolutamente divertendo. «Be', signore, apparentemente avevano bevuto e fumato erba. Il ragazzo stava guidando e doveva andare forte. Ha mancato una curva sulla Cascade Road e ha sbattuto contro l'argine della strada. Sua figlia ha soltanto alcune escoriazioni e contusioni, ma il ragazzo è in condizioni critiche.» «Quale ospedale?» Quando udì quelle parole Janice cominciò a farsi prendere dal panico e Helmond a stento udì la risposta di Bigsby. «Berkshire Memorial.» «Sarò lì tra un istante.» Helmond riattaccò, tirò un sospiro, e si massaggiò le tempie. Janice gli stava praticamente urlando che voleva spiegazioni su quel che stava succedendo. «Sembra che Ally stanotte se la sia svignata. Sta bene, ma è con la polizia. È stata coinvolta in un incidente stradale. È
tutto quel che so.» Janise era in ginocchio sul letto. Si accovacciò e portò le mani alla bocca, spalancando gli occhi. «Si è fatta male?» «No.» Helmond si alzò e cominciò a cercare i suoi vestiti. «Perché l'ha fatto? Non ha mai fatto niente del genere prima d'ora.» «Non lo so. Perché non andiamo a chiederglielo?» Janice ci pensò su per un istante. «Perché la polizia non la riporta semplicemente a casa?» Helmond indossò una maglietta del giorno prima e la guardò. «Era un ragazzo che guidava la macchina, Janice. È ferito gravemente. Forse Ally gli vuole bene e vuole restare per assicurarsi che stia bene. Inoltre, i poliziotti probabilmente non hanno ancora finito di interrogarla. Senza dubbio vorranno sapere perché abbiamo permesso a una ragazzina di andarsene in giro nel bel mezzo della notte.» L'espressione di Janice lasciava pensare che non riusciva proprio a mandare giù quella spiegazione, come fosse del cibo amaro o avariato. «Non ci ha mai parlato di un ragazzo. Perché non ha voluto parlarcene, Len?» «Non lo so, Janice. Andiamo a scoprirlo.» Helmond sapeva che avrebbe dovuto confortarla, abbracciarla, ma dopo il mostruoso sogno che aveva fatto aveva paura di toccare chiunque, come se la carne di quella persona avesse potuto decomporsi al solo contatto, o il volto diventare un teschio, se lo guardava troppo da vicino. Lì per lì, pensò che quella era la peggiore notte della sua vita. Mentre si recavano all'ospedale, Helmond convinse con difficoltà Janice a risparmiare rimproveri e ammonimenti fino a quando non avessero scoperto esattamente quali erano i fatti. La moglie accettò con riluttanza, ma era chiaro che era pronta a esplodere in lacrime oppure in un accesso di rabbia. Non si era nemmeno preoccupato di chiederle se avrebbe preferito restare a casa; avrebbe certamente insistito per andare con lui, temendo le conclusioni a cui poteva giungere Ally se la sua matrigna non si fosse fatta viva nel momento del bisogno e dello sconforto. Così chiamarono la vicina, una vecchia vedova di nome Paulson che aveva spesso fatto da babysitter, e le chiesero di dare un'occhiata ai piccoli. Brigsby e Ally sedevano insieme in una sala d'attesa vicino alla sala operatoria, nonostante il loro rapporto non sembrasse amichevole. Il poliziotto pareva preoccupato e a disagio, come se avesse preferito essere altrove, e la ragazza sembrava tesa, ansiosa, e stanca. Entrambi si alzarono quando Helmond e Janice si avvicinarono.
L'agente fece per rivolgesi a Helmond, ma Ally lo superò, afferrò i risvolti dell'impermeabile del padre, lo guardò implorante, e cominciò un discorso alla cui preparazione aveva dedicato ovviamente un bel po' di tempo. «Mi dispiace, papà. Lo so che non ci sono scuse per quel che ho fatto, ma Tommy era a terra, dovevo vederlo, non ho parlato di lui a te e a mamma perché ha avuto un sacco di guai e credevo che non vi sarebbe piaciuto e non mi avreste permesso di vederlo o mi avreste giudicata male, ma sta cercando di cambiare, davvero. Lui mi ama tantissimo, anch'io gli voglio bene, accetterò qualunque punizione mi meriti perché so di aver sbagliato a svignarmela da casa stanotte e...» «Va bene, cara, va tutto bene,» la interruppe Helmond, prendendo le mani di Ally tra le sue. «Tutto andrà per il meglio. Allora, come sta il ragazzo?» «Non si sa ancora nulla,» replicò Brigsby. Stando dietro ad Ally, il poliziotto chiuse gli occhi e scosse la testa, un gesto significativo per Helmond, che assentì tristemente. «Sua figlia è stata letteralmente scagliata fuori dall'auto prima dell'impatto.» Sarebbe stata una lunga notte, pensò il biochimico. Sembrava che fosse già durata anni. «Capisco.» Guardò Ally. «Così, per una volta, il tuo testardo rifiuto di indossare la cintura di sicurezza si è rivelato un bene.» «Sì, credo sia così.» Soltanto allora la ragazza si accorse di Janice e tese la mano sinistra verso la donna. «Grazie di essere venuta, mamma. La telefonata probabilmente è stata un vero shock, eh? Sono davvero spiacente. Non avevo intenzione di farti preoccupare.» Janice, a labbra serrate, studiò la mano che le veniva offerta come se si fosse trattato di un serpente velenoso. Quello era un momento cruciale per la loro relazione, oppure un disperato tentativo da parte di Ally di imbrogliarla. Helmond non era sicuro di quale delle due ipotesi fosse quella giusta, specialmente dopo gli eventi di quella notte. Non aveva mai pensato che sua figlia fosse capace di quel genere di azioni. Tuttavia, silenziosamente, esortò la moglie a stringere quella mano, a correre quel rischio. «Ne parleremo dopo, Ally,» disse Janice, stringendo brevemente la mano di Ally e poi lasciandola andare. Un uomo ed una donna apparvero dall'altra parte del corridoio e si avviarono verso di loro. Helmond capì subito che erano i genitori del ragazzo, i Giraud. Lui era un uomo dall'aspetto trasandato, sovrappeso. Lei una donna dall'aspetto estremamente severo, ossuta, sottile. Erano l'inverso dei
tanto celebrati Spratt. Se Brigsby sapeva quel che diceva, Helmond realizzò che quei due avrebbero ricevuto la notizia della morte del figlio prima dell'alba. Improvvisamente comprese che non voleva assistere al loro trauma, al loro dolore, e allora lanciò uno sguardo alla figlia. Anche lei stava per essere colpita dallo shock, e Helmond desiderò di non dover essere testimone delll'inevitabile angoscia di Ally. Quello era un altro brutto sogno, da cui non riusciva a svegliarsi. Brigsby andò incontro ai Giraud e parlò loro velocemente e con tono contrito. La coppia continuò a guardare in cagnesco Ally, poi Janice e Helmond e poi ancora Ally, mentre il poliziotto continuava a parlare. Durante la spiegazione, il biochimico ebbe il tempo di guardarsi intorno. Un ospedale: la linea del fronte dove veniva costantemente mossa guerra contro l'ossuta figura con una falce e una clessidra, una guerra che alla fine era sempre inevitabilmente perduta. Helmond odiava gli ospedali; percepiva uno spettrale miasma che permeava i muri teoricamente sterili dei corridoi, un'aura residua di sofferenza e orrore nel materiale stesso con cui era stato costruito l'edificio. Improvvisamente desiderò con tutte le sue forze di uscire da quel posto. Giraud stava puntando un dito tremante contro Ally, scagliandole una serie di spiacevoli accuse. La ragazza lo fissava con pura diffidenza, gli angoli della bocca piegati verso il basso in segno di tensione, le braccia incrociate sulla difensiva. «È colpa tua, signorina. Gli hai fatto girare la testa. Gli hai fatto fare cose che non avrebbe mai fatto spontaneamente. Tommy non è mai stato uno svitato, fin quando non ha incontrato te.» Helmond decise che era arrivato il momento di moderare abilmente la situazione, anche se non si sentiva troppo in vena di diplomazie, dopo la tensione e la paranoia provocate dal sogno. Comunque, non ebbe l'occasione di scoprire se sarebbe riuscito a trattenere l'ira, perché in quel momento il dottore uscì dalla sala operatoria, togliendosi stancamente la mascherina mentre si avvicinava a loro con passo lento. «Chi sono i genitori del ragazzo?» chiese, dolorosamente consapevole che ognuno lo stava guardando con palese e assoluto terrore. Sopraffatto dall'ansia, mostrava un leggero tic all'occhio. «Siamo i Giraud,» annunciò la signora Giraud con voce profonda. «Come sta il mio ragazzo?» L'espressione degli occhi del dottore diceva tutto; non aveva bisogno di comunicare il suo messaggio anche con le parole. «Mi dispiace. Si sono
verificati gravi danni celebrali. Non ce l'ha fatta. Vostro figlio è morto.» Il signor Giraud sembrò a un soffio dalla morte (Helmond non avrebbe mai creduto che il volto di un essere umano potesse diventare così pallido) e la signora Giraud si lasciò andare a un gemito acuto di pura agonia. Ally si allontanò dal gruppo, scivolando lungo il muro fino all'angolo del corridoio, con la schiena rivolta a Helmond, in modo che non potesse vederla in volto. Lui la seguì, terrorizzato dalla reazione a scoppio ritardato che stava per arrivare. «Tesoro, stai bene?» Le toccò gentilmente la spalla. Ally si voltò a metà verso di lui; i tratti del suo volto sembravano confusi, più che tristi. «Mi dispiace tanto che sia morto,» disse, con voce lievemente distaccata, «ma sono felice che sia successo a lui, invece che a me.» Helmond quasi scoppiò a ridere per il sollievo e se ne vergognò profondamente. FIGLIO DI SAMAIN Le conseguenze di quella notte furono inaspettatamente miti. Quando Ally interrogò Helmond, quasi per caso, su quale punizione avrebbe ricevuto, il padre la informò (ma con un tono di voce non troppo severo) che sarebbe rimasta "chiusa in casa fino a nuovo ordine", risposta che Ally accettò con un fatalistico cenno d'assenso. Sembrava non essere troppo sconvolta dalla morte del ragazzo, sebbene il padre la osservasse attentamente nel caso manifestasse segni di aberrazione mentale, così come osservava Lazarus per scoprire eventuali anomalie fisiche. E aveva completamente dimenticato il sogno. Tre giorni dopo parteciparono al funerale, e la sola reazione di Ally parve essere di sollievo per essere finalmente uscita di casa. Helmond non era troppo preoccupato per la mancanza di cordoglio della figlia, poiché Ally era giovane, inesperta della vita, non ancora completamente conscia del mondo reale. Anzi, pensò Helmond, magari lei vedeva le cose più realisticamente degli altri; chi poteva infatti sostenere che fosse naturale e normale addolorarsi per un morto? Dove era stato scritto? Forse Ally era soltanto una di quelle persone che riuscivano a accettare con tranquillità il trapasso delle persone care. Helmond rifletté su quell'eufemismo mentre sedeva nella camera ardente, con Ally ed Eunice sedute da un lato e Janice ed Andy dall'altro, e ascoltava l'elogio funebre pronunciato dal pastore. Trapassare, spirare, la-
sciare questo mondo, andare in cielo, addormentarsi - tutte frasi edulcorate per indicare semplicemente una cosa: la distruzione del corpo fisico. Ne aveva appena utilizzata una lui stesso, il che lo fece riflettere su come anche lui reagisse di fronte alla morte. La dipartita di Tommy Giraud lo aveva enormemente sconvolto perché aveva visto i genitori del ragazzo ricevere la notizia, e questo lo aveva fatto pensare a quale sarebbe stata la propria reazione nelle stesse circostanze. Aveva sempre pensato di avere accettato bene la morte dei suoi genitori, anche se l'aver dedicato la vita a cercare una cura contro la morte non poteva essere una pura coincidenza. L'autoanalisi non era il suo forte, ma gli vennero in mente termini quali "sublimazione" e "transfert". Scuotendosi da quelle fantasticherie, prestò attenzione al sermone del pastore: «La Bibbia ci dice che "nel mezzo della vita siamo nella morte", ma ci insegna anche che la promessa della resurrezione, la vita eterna, sono sempre con noi. Il nostro Dio è il Signore della Vita, e la perdita del nostro corpo terreno non è altro che una breve ombra per l'anima nel suo viaggio verso l'aldilà. Noi possiamo trarre conforto dalla nostra immortalità dello spirito, senza lasciare che il nostro infinito dolore eclissi la gioia dell'alito divino che risiede in noi.» Helmond sospirò e si girò i pollici. Non aveva alcuna voglia di essere lì, ma gli era sembrata la cosa giusta da fare. I Giraud avevano evitato gli Helmond meticolosamente; mostravano di soffrire molto, ma comunque quello non era il motivo della presenza di Helmond e della sua famiglia. E allora qual era il vero motivo? Onorare il morto, mostrargli rispetto. Qualcuno che non conoscevamo neppure! La morte forse rende gli estranei importanti? No, era stata la relazione di Ally con il deceduto che lo aveva improvvisamente reso pertinente per le loro vite. Oltre questo, il rituale era semplicemente la consapevolezza che essere vivi era qualcosa di prezioso, che la vita umana aveva un valore e che la sua fine doveva essere messa in evidenza, sottolineata. Di solito, lui approvava la tradizione, credeva che essa accrescesse l'amore per la vita, ma in quel momento non ne era più così sicuro. Forse il successo dei suoi esperimenti gli stava fornendo una nuova prospettiva di vedere le cose. Guardò la bara chiusa. Non aveva mai visto Tommy Giraud e non aveva idea di quale aspetto avesse avuto il ragazzo. Per quanto ne sapeva lui, la bara avrebbe anche potuto essere vuota. Eppure sapeva con certezza che vi era un corpo all'interno. Una salma, un cadavere, una carcassa. E lui aveva il potere di riportare quel corpo alla vita. Vuole la resurrezione, padre?
Basta portare il ragazzo nel laboratorio; mi occuperò io di rimetterlo in piedi. Dopo tutto quel tempo e in seguito ai gravi danni cerebrali, naturalmente Tommy sarebbe risorto in condizioni peggiori del minorato mentale più debole mai vissuto, ammesso che il significato di quella parola riuscisse a descrivere lo stato in cui si sarebbe ritrovato il ragazzo, dunque era assolutamente inutile provare. Helmond non aveva il coraggio di condurre quel genere di esperimenti, ma si chiese cosa avrebbero pensato di lui i Giraud, cosa gli avrebbero chiesto, se avessero saputo che poteva far resuscitare dalla tomba il figlio. E tutta la faccenda dell'aldilà? Helmond non ci aveva mai pensato prima, soprattutto perché non riusciva a prenderla sul serio. Dov'era Tommy Giraud? Secondo il pastore era in cieli fulgidi e pieni di nuvolette, ed elevava lodi al Signore insieme ad angeli dalle ali sottili come velo. Oppure si trovava in quel contenitore oblungo di legno lucido? O forse era completamente svanito? Se ci si sforzava per un istante di tener conto della metafisica, allora era doveroso chiedersi cosa accadeva durante la rianimazione. Se lo spirito si involava nello spazio al momento della morte, lui lo richiamava nel corpo quando riportava quest'ultimo in vita? Decise che avrebbe dovuto attendere di rivolgere quelle domande al suo primo soggetto umano - magari formulando un questionario: 1) Dove pensava di essere, durante l'intervallo di separazione corporea? a) Paradiso b) Inferno c) Limbo d) Purgatorio e) Altro (specificare) No, non funzionava. Chi avrebbe mai ammesso di essere andato all'Inferno? Aveva letto i resoconti di pazienti in sala di rianimazione, oppure reduci da operazioni chirurgiche, che asserivano di avere avuto esperienze di vita oltre la morte mentre erano ritenuti clinicamente morti, ma lui considerava esperienze del genere come nient'altro che allucinazioni. Certo, il cuore aveva cessato di battere, ma ciò non significava che il cervello fosse inattivo. No, Helmond sapeva dove si trovava Tommy Giraud: nella bara, dove si stava disintegrando, e le scariche di energia che balzavano da sinapsi a sinapsi erano scomparse, le miriadi di interscambi neurali che avevano olograficamente immagazzinato la memoria e formato la sua perso-
nalità ora stavano decomponendosi in silenzio. Tutto quel che il ragazzo era stato stava riducendosi in polvere, e presto sarebbe entrato nella macchina infernale della terra per essere divorato dal tempo. La mente, la forza vitale, venivano generate dal corpo, che funzionava come una batteria. Senza il generatore, la mente e la vita cessavano di esistere, come una batteria rotta o esaurita. Era tutto così semplice. La cerimonia presso la tomba al cimitero di Grange Hill fu un anticlimax. La signora Giraud piangeva. Andy si lamentava di aver fame. Ally, vestita di nero non per questioni di lutto ma di scelta, appariva annoiata. Mentre la bara veniva calata nel fosso rettangolare, Helmond si guardò intorno. Il cimitero era tranquillo, un luogo di equilibrio e di ordine, in pieno contrasto con l'atmosfera dell'ospedale. Le persone sepolte lì avevano accettato la loro condizione, si erano sottomesse all'abbraccio amoroso della Mietitrice. Al contrario dei pazienti dell'ospedale, che si lasciavano sottoporre a tormenti peggiori della morte per pochi giorni o minuti di vita in più. Dio, sto diventando morboso, pensò. «Svignamocela,» suggerì a Janice. «Non credo che sentiranno la nostra mancanza.» «Amen,» replicò lei. Quando entrarono in casa il telefono stava suonando. Helmond rispose senza entusiasmo, anzi con lieve apprensione, a causa di quella telefonata notturna ricevuta pochi giorni prima. «Pronto?» «Helmond? Sono Gregorson.» «Chi?» Si udì un sospiro di rassegnazione dall'altra parte del filo. «Cy Gregorson. Dello smistamento animali. Ho trovato il suo Pan troglodita.» Helmond ritrovò improvvisamente l'entusiasmo perduto. «Davvero? Chi è?» «Un maschio di dodici anni chiamato Osiris. In perfette condizioni fisiche. Era quel che voleva, no?» «Esatto, esatto! Quando me lo può spedire?» «E la prima cosa che farò domani mattina, va bene?» «Perfetto. Grazie, Cy.» Gregorson rise. «Ora si ricorda di me. Ci vediamo domani, Doc.» Helmond riagganciò, sperando che l'indomani non ci sarebbe stato alcun animalista a gironzolare intorno al laboratorio.
Sharon si innamorò dello scimpanzé e Helmond dovette ammettere che era un bell'esemplare: intelligente e ben addestrato. Avevano ordinato una gabbia abbastanza grande per accoglierlo, ma Osiris si comportava così bene che gli permisero di girare liberamente nel laboratorio. «Ne sai molto di scimpanzé, Shar?» Sharon non gli aveva raccontato la sgradevole esperienza che aveva vissuto quando era rimasta sola in laboratorio alcune sere prima - aveva attribuito l'episodio alle sue nevrosi. Era riuscita a convincersi che non fosse realmente accaduto. «Dal punto di vista biologico, sono i nostri cugini più prossimi,» rispose, carezzando la schiena pelosa di Osiris mentre la scimmia giocava con un cubo di Rubile. «La chimica del loro sangue è così simile alla nostra che addirittura sarebbe quasi possibile effettuare trasfusioni tra le due specie. Un biologo burlone una volta ha affermato che il loro DNA era tanto simile al nostro, che cominciava a sospettare che l'unica differenza tra scimpanzé ed esseri umani fosse culturale.» Helmond aprì un cassetto metallico in un banco da lavoro. «Giustissimo. Dopo questa serie di esperimenti saremo pronti a realizzare un miracolo che da duemila anni non viene documentato con certezza su questo pianeta.» Impugnò una pistola calibro 22 dotata di silenziatore. «Per piacere, Shar, prepara il soggetto.» Lei lo guardò e trovò orribile quell'immagine: un uomo in camice bianco da laboratorio che impugnava un'arma da fuoco con silenziatore, come un super criminale in un romanzo di spie, anche se l'espressione era serena e amichevole. Quell'incongruità rendeva la cosa ancor più insopportabile, anche perché il silenziatore era illegale e lui lo sapeva. «Lenny, io...non voglio farlo. Cioè, sei sicuro che siamo pronti?» Il volto di Helmond perse un po' della sua serenità. «Sharon, per favore, sistema la cavia sul tavolo operatorio.» Con movimenti riluttanti, la ragazza prese Osiris come un bambino e lo portò al tavolo di metallo, legandogli gambe e braccia, ma non tanto strettamente da impedirgli di rizzarsi a sedere. Lo scimpanzé protestò debolmente, solo leggermentp spaventato. Sharon si era già guadagnata la sua fiducia perché ci sapeva fare con gli animali, una delle ragioni per cui Helmond l'aveva scelta come assistente. Una volta posizionati i sensori degli apparecchi per l'elettrocardiogramma e l'encefalogramma, Sharon si fece da parte, tremando e stringendosi le braccia al petto, e rimase in attesa, cosciente e spaventata.
Il biochimico mirò leggermente più a sinistra del centro del petto della scimmia. «Scusami, amico. È per una buona causa.» Fece fuoco, e Osiris lanciò un grido, brevissimo, quando l'impatto del proiettile lo scagliò violentemente all'indietro. Le linee sui due monitor divennero piatte. Helmond si era allenato per settimane in un poligono di tiro. «Vedi, tesoro» disse a Sharon. «Non ha sentito nulla.» Si lavò le mani, poi Sharon lo aiutò a infilarsi i guanti e si trasformò in una zelante infermiera, mentre Helmond apriva il cadavere di Osiride per asportare la pallottola. Il proiettile fu localizzato con facilità: era conficcato profondamente nel tessuto cardiaco. Lo estrasse senza nessun problema, lasciando aperta la profonda incisione. Sharon pulì il cadavere, insieme spinsero il tavolo nella camera di sperimentazione, e inserirono Osiris nella capsula, una serie di gesti che ormai si erano trasformati in routine. Usciti dalla sala, mentre i raggi elettromagnetici investivano la carne morta, osservarono la bestia fluttuare nell'ovoide di vetro. Sharon vedeva il corpo nero muscoloso e peloso come se si fosse trattato di un nobile essere racchiuso in un sarcofago trasparente, per rimanervi secoli, forse millenni. La sua speranza più ardente era che la rianimazione riuscisse, ma parte di lei riteneva giusto che la povera creatura dovesse rimanere morta, per non dover ricordare la sofferenza e il terrore della morte, per essere onorata dalla dignità della tomba, che in quel momento era rappresentata dalla sala. Per Helmond la scena aveva un significato completamente diverso. Osiris gli appariva come una larva in una crisalide cristallina; essa subiva la metamorfosi finale, ed era sul punto di liberarsi dal bozzolo e di trasformarsi in una nuova e meravigliosa forma di vita. L'aura violetta comparve intorno allo scimpanzé e il corpo ebbe uno spasmo nel fluido amniotico. Sul tavolo operatorio le funzioni autonomiche di Osiris si riattivarono perfettamente, ma lo scimpanzé non riprese immediatamente conoscenza. «Cosa c'è che non va, Lenny?» C'era una nota di panico nella voce di Sharon. Helmond si grattò pensosamente il naso con un dito. «Le forme di vita superiore potrebbero sperimentare durante il processo uno shock psicologico. Diamogli un po' di tempo per ritornare ih sé. In caso contrario, gli somministreremo uno stim...» «Dio! Guarda il suo elettroencefalogramma!» Le onde cerebrali della scimmia erano un caos totale, simili a quelle che si registrano durante un attacco epilettico, ma ancora più violente. Hel-
mond non aveva mai visto niente di simile. Anche il tracciato dell'elettrocardiogramma era incredibilmente anomalo. Helmond non aveva la minima idea di cosa fare. La paura gli aveva svuotato la mente. Osiris si svegliò, urlando con quanto fiato aveva nei polmoni, agitandosi e dimenandosi come se fosse davvero in preda ad un attacco d'epilessia. Si liberò dai legacci, facendo roteare gambe e braccia, e balzò giù dal tavolo, atterrando su una panca da lavoro. Becchi Bunsen, storte, provette, tubicini di vetro, bottiglie, furono proiettati in aria e andarono in pezzi, una volta caduti sul pavimento. Lo scimpanzé era completamente fuori controllo, una massa di muscoli che si contraevano a caso facendolo roteare da una parte all'altra della stanza. Stranamente, a Helmond ricordò il Diavolo della Tasmania nei cartoni animati di Bugs Bunny. Cercò di liberarsi da quell'idea, cercò di negare quella che sapeva essere la verità. Si era riprodotto il fenomeno della rana, solo che questa volta era mille volte peggio. L'animale urlava in preda al dolore, al terrore, alla confusione, ora piagnucolando ora strillando. Gli occhi erano sbarrati, e rivelavano che la semplice mente del primate era prossima alla pazzia. Nonostante il sangue cominciasse a colare dai tagli provocati dai vetri rotti penetrati nella carne, il rianimato impazzito continuò la sua distruzione del laboratorio. Sharon ed Helmond erano fermi da un lato; l'uomo si era frapposto tra l'assistente e la propria folle creazione e cercava di raggiungere la pistola che era rimasta sul bordo di un bancone. Si fermò, tuttavia, quando il parossismo dello scimpanzé sembrò cessare davanti a loro. Osiris, ancora tremante, li fissò con sguardo implorante dal pavimento su cui giaceva. Speranzoso, Helmond pensò che l'attacco potesse essere temporaneo, un semplice sovraccarico del sistema nervoso della scimmia, e che adesso l'animale ne sarebbe uscito. Con un acuto strillo finale, tuttavia, lo scimpanzé si afferrò la testa con le mani dalle lunghe dita e, con una spinta possente, provocò un'incredibile autodecapitazione. Separata dal corpo, la testa si spaccò, esplose in migliaia di frammenti sanguinolenti, come se al suo interno fosse scoppiata una bomba. Poi il corpo stesso, con una contorsione orribile si trasformò in in un ammasso sanguinante di frammenti di carne e d'ossa proprio di fronte ai due scienziati. Sharon nascose il volto contro il petto di Helmond, singhiozzando tra le lacrime. Lui si limitò a fissare la carcassa con attonita incredulità, cercando di confortare Sharon con carezze gentili e assenti. Tutto il suo mondo era crollato in quell'istante, perché era stato così attento nei calcoli, così coscienzioso, che non avrebbe mai potuto neppure immaginare cosa fosse
andato storto. Era come se un giorno si fosse svegliato e il sole non fosse sorto. Si chiese se sarebbe mai stato ancora sicuro di qualcosa. Un paio d'ore dopo la cena, durante la quale non aveva mangiato nulla, Helmond se ne stava seduto da solo a tavola, bevendo caffè e desiderando che fosse gin. Lottò contro il desiderio di perdersi nella nebbia della completa ubriachezza, determinato a rimanere lucido per poter capire quale fosse il problema. La colpevolezza e il dolore che provava per la sorte di Osiris erano indicibili, poiché amava davvero gli esseri viventi ed esitava perfino ad uccidere mosche e ragni. Eppure aveva sottoposto una creatura quasi umana a un tormento grottesco e a una morte orribile. Forse, dopo tutto, gli attivisti per i diritti degli animali avevano ragione, quando sostenevano che la sterile ricerca scientifica era troppo fredda e crudele per consentirle di servirsi di esseri ancora in vita. Eunice entrò nella stanza saltellando allegramente e portando con sé un orsacchiotto. Si fermò e studiò attentamente il padre, quando si accorse quanto fosse abbattuto. «Ciao, zucchetta,» la salutò lui. «Non è già ora di andare a letto?» La bambina camminò lentamente verso di lui. «Sono venuta soltanto per avere un bacio della buona notte. Cosa c'è che non va, papà?» Il primo impulso di Helmond fu quello di raccontarle la verità in termini il più possibile autocritici. Oggi tuo padre ha ucciso un povero animale che non aveva fatto male a nessuno, solo perché è un megalomane con la fissazione di passare alla storia. Era una gran bella scimmia, una versione più grande di Laz-E. T. e ha fatto a pezzi se stesso proprio davanti ai miei occhi, si è strappato la testa. Tuo padre è un killer, Eunice, un assassino a sangue freddo. «Qualcosa è andato storto in laboratorio oggi,» spiegò, poi bevve un sorso di caffè. «Un esperimento è fallito e io non so perché. Un animale si è ferito. In effetti è morto.» Eunice posò l'orsacchiotto su una sedia e si sedette su di un'altra. «Perché le cose devono morire?» Helmond emise un sospiro lungo e grave. «Nessuno lo sa, piccola. I nostri organi interni si logorano, le cellule si guastano, i veleni si accumulano nel corpo. È come se la morte fosse programmata nei nostri corpi, come se cominciassimo ad autodistruggerci dopo un certo numero di anni. Siamo fragili, vulnerabili di fronte a innumerevoli tipi di distruzione fisica.» La bambina si fece pensierosa. «Perché Dio non ci ha dato dei corpi che
non si consumano o si guastano così facilmente?» Helmond rise. «Temo che Lui sia il solo a conoscere la risposta. Forse ha pensato che noi non avremmo apprezzato la vita, a meno che non avessimo la morte a cui pensare. Forse la morte esiste per evitare che ci annoiamo o che diventiamo decadenti.» Eunice lo fissò accigliata. «Cosa significa "decadente"?» Helmond la guardò e desiderò di non aver usato quella parola. «Uh, significa essere troppo indulgenti. Significa che si fanno solo le cose che sono divertenti: dormire troppo, mangiare troppo gelato, guardare troppo la TV, al punto che si dimenticano le cose importanti della vita, come la scuola, le faccende domestiche, la responsabilità nei confronti delle altre persone.» Eunice rifletté sulla cosa. «Non capisco. Cioè, se sai di morire, non ti piacerebbe divertirti il più possibile, invece di perdere tempo con cose noiose come riordinare la stanza o fare i compiti? E se sapessi che non morirai mai, allora ti piacerebbe passare il tempo a fare cose da grandi. Giusto?» Helmond si scoprì a sorridere, piacevolmente stupito da quella lucida prova di ragionamento filosofico. Be', non avrebbe dovuto sorprendersi troppo; Eunice era una bambina davvero precoce. «Credo che questo sia uno dei modi di considerare la faccenda, ma gli adulti hanno la tendenza a prendere più sul serio queste cose. La morte è il lato oscuro della vita, e la sua prospettiva fa in modo di farci prendere sul serio la vita.» Eunice parve comprendere quelle parole. «Esistono il Paradiso e l'Inferno, papà?» Formulando attentamente la sua risposta, Helmond si alzò e si riempì la tazza alla caffettiera automatica. «Alcuni credono che esistano, ma poiché fino ad adesso nessuno è ritornato dalla morte per confermarlo, non lo sappiamo con certezza. Pare si tratti soltanto di favole per far sì che la gente affronti più facilmente l'idea della morte.» Svuotò la tazza mezza piena nel lavandino e spense la macchina del caffè. «Ora vediamo di farti andare a letto, tesoro.» La bambina lo precedette verso la cameretta, che era abitata da un fantastico bestiario di animali di pezza e di accessori per orsacchiotti e bambole. Helmond le rimboccò le coperte e si sedette sulla sponda del letto, provando un caldo e profondo senso d'affetto mentre la guardava. Eunice era la rassicurazione vivente che lui poteva creare con successo, in netto contrasto con l'infernale esperimento che aveva compiuto quella mattina. Era ciò
di cui aveva bisogno. In quel momento sentiva di volerle così tanto bene che l'intensità di quell'emozione era addirittura dolorosa. «Papà, tu morirai prima di me?» Helmond si chinò su di lei e le baciò la guancia. «Non parliamo più della morte per stanotte, amore mio. Dormi e fai sogni d'oro.» «Okay.» Helmond andò in soggiorno, accese il televisore, si accomodò su un divano, a malapena conscio delle immagini che scorrevano sullo schermo. Quando il dolore per la morte di Osiris cominciò a passare, fu sostituito gradualmente dalla rabbia per il fallimento. Rifiutava di accettare che ci fosse una sorta di limite o di barriera al suo lavoro, un punto di passaggio tra primati inferiori e superiori che lui non poteva superare. Era ovvio che si era verificato un sovraccarico elettrico nei neuroni dello scimpanzé, ma che, diversamente dalla rana, i risultati non si erano manifestati immediatamente. Il lasso di tempo poteva indicare un processo interno, forse un accumulo, un effetto di amplificazione. L'infusione REM poteva aver scatenato una reazione a catena nelle cellule nervose della scimmia, un'esplosione spontanea di energia biochimica che impiegava alcuni minuti per raggiungere un livello critico, come la luce in un cristallo laser - Helmond credeva di essere sulla buona strada. Prese una matita dal tavolino e cominciò a fare calcoli sul giornale. Janice uscì dalla biblioteca dove era rimasta distesa sul divano a leggere. Sapeva bene che, quando suo marito era irritato per qualcosa che riguardava il lavoro, era meglio lasciarlo solo per un po' a tentare di risolvere il problema. Ma aveva deciso di avergli concesso abbastanza tempo. «Ciao, genio,» disse, sedendosi sullo schienale del divano, dietro di lui. «Sei pronto a parlare, adesso?» Lui le strinse in maniera assente la mano destra con la sinistra, continuando a scrivere equazioni sul Berkshire Beacon. «Non di quello che è successo oggi.» «Va bene. Parliamo di domani notte. Dovrò andare da mamma e dormire lì. Non si sente molto bene.» «Tua madre è un'ipocondriaca cronica.» Janice scivolò sui cuscini accanto a lui. «Non mi dici nulla di nuovo. Comunque, domani è la Notte delle Streghe, Halloween, lo sai? Andy è troppo malato per andarsene in giro a fare "scherzetto o dolcetto". Ha preso un brutto raffreddore, e così verrà con me. Il che significa che sarai tu a dover portare in giro Eunice a raccogliere un mucchio di carie dai nostri
vicini. Va bene?». Finalmente Helmond sollevò lo sguardo dalle formule. «Sì, certo. E Ally?» Janice sospirò. «Anche lei verrà con me, se glielo suggerisci in termini abbastanza forti. Si comporta tanto bene, dalla notte dell'incidente, o del suo "arresto" come lo chiama lei, che mi rende nervosa.» Helmond posò la matita e si appoggiò contro lo schienale del divano. «Sa quando l'ha combinata grossa. Il suo pentimento non durerà a lungo, te lo prometto.» La moglie iniziò a carezzargli la gamba. «Benone. Comunque, l'atmosfera di casa mi sembrava più normale quando Ally scatenava l'inferno.» La mano si avvicinò molto all'inguine di Helmond, suscitando una reazione. Lui inarcò le sopracciglia. «Stai iniziando qualcosa che non puoi terminare?» La mossa successiva da parte di Janice fu priva di ambiguità. «Posso terminare tutto quel che inizio. Che ne dici di un bel servizietto, cervellone?» Vi fu un tono di piacevole sorpresa nella voce e nell'espressione di Helmond. «Qui? Adesso? E se uno dei ragazzi entra?» La moglie abbassò la testa. «Be', un giorno dovranno pur imparare i fatti della vita.» Per i successivi estatici minuti, e anche in seguito, Helmond dimenticò tutto quel che riguardava la sua testarda figlia, un ragazzo deceduto in un incidente d'auto e uno scimpanzé morto di nome Osiris. Di sicuro la donna che amava sapeva come aiutarlo a superare i suoi problemi. Il piccolo scheletro corse felice lungo il vialetto immerso nella luce del crepuscolo, ed Helmond le sorrise dal marciapiede dove si trovava, con le mani infilate nelle tasche dei jeans. Eunice si stava divertendo un mondo; la sua borsa a forma di zucca era piena di dolciumi e la bambina era inebriata di mistero e eccitazione. Suonò alla porta della casa bianca, gridò un caloroso «Scherzetto o dolcetto!» e quando la porta si aprì ricevette la dolce ricompensa estorta d una massiccia e sorridente signora dai capelli ricci in abito blu, poi salutò suo padre mentre correva lungo il vialetto della casa successiva. Helmond era felice. Quell'adorabile creatura piena di vita gli voleva bene, e ciò lo faceva sentire lieto di essere vivo, rendeva perfetto tutto quello
che aveva fatto. Non voleva fare preferenze, ma non poteva negare di nutrire un affetto speciale per Eunice, sebbene odiasse ammetterlo e non sapesse spiegarsene il motivo. Forse era a causa del suo amore per la bellezza, una delle sue ben note debolezze, il suo disagio nei confronti di persone mutilate o deformi, la sua confusa pietà e ripugnanza per le persone brutte ed obese. Non era riuscito a guardare fino alla fine il film The Elephant Man per l'orrendo realismo del trucco di John Hurt, e da ragazzo aveva ricoperto i muri della sua cameretta con le ragazze dei paginoni centrali di Playboy perché ne era incantato: adorava letteralmente il loro splendore fisico (oltre a farlo per i motivi comuni ai maschi adolescenti). Ally era una bella ragazza, Andy era delizioso, ma Helmond sentiva che Eunice possedeva una rara perfezione. Da grande avrebbe spezzato il cuore a legioni di uomini. Le donne gli avevano sempre detto che era un uomo attraente, ma non aveva ancora smesso di stupirsi di come i suoi geni avessero contribuito a creare una tale opera d'arte vivente. Naturalmente, buona parte della bellezza di Eunice poteva essere attribuita alla sua affascinante madre, ma la bambina certamente superava in splendore i suoi genitori, probabilmente sia nella mente che nel corpo. Forse la propria repulsione per i difetti fisici spiegava anche in parte la vocazione di sconfiggere la Morte da lui scelta, rifletté Helmond. La morte e la vecchiaia erano le nemiche della bellezza, le distruttrici della giovinezza, annientavano l'avvenenza. Non era il giusto atteggiamento da avere, e Helmond lo sapeva, ma non poteva farci niente. Quei pensieri lo riportarono all'idea del lavoro, al laboratorio distrutto, agli orribili resti dello scimpanzé conservati nel congelatore per una successiva autopsia. Avrebbe mai avuto il coraggio di sottoporre un altro essere vivente al processo? Era sicurissimo di aver completamente risolto il problema, ma i nervi non si erano ancora rimessi. C'era sempre la possibilità che... «Papà!» Si rese conto che Eunice da un po' di tempo stava cercando di attirare la sua attenzione. «Scusa, tesoro. Ero immerso nei miei pensieri.» «Pensavi al lavoro, vero? Mammina dice che è quello che fai sempre. Credo sia parte del tuo costume di Halloween.» Si voltò con un risolino e iniziò a ripercorrere la strada, avendo finito il giro dall'altro lato. Helmond la guardò accigliato. «Quale costume di Halloween? Non indosso nessun costume.» «Certo che sì,» ridacchiò. «Sei il Professor Distratto.» Sì, credo abbia ragione, pensò lui.
La ragazzina si voltò a metà, saltellando davanti a lui, con le ossa bianche e sottili che splendevano sul costume nero e attillato. «Cos'è Halloween? Perché lo celebriamo?» Helmond si era aspettato una domanda del genere per tutta la sera. «Molto tempo fa, vivevano in Manda streghe e maghi chiamati Druidi, e il trentuno ottobre era una delle loro feste magiche. In quella notte facevano offerte ai morti, così che questi non potessero far loro del male o perseguitarli. Il che significa che sei perfettamente abbigliata per l'occasione.» Eunice ridacchiò di nuovo. «Ecco perché si dice "scherzetto o dolcetto", giusto? Se non dai ai morti una ricompensa, essi ritorneranno e si vendicheranno.» «Esatto. I Druidi vivevano in Inghilterra, e dal momento che i nostri antenati venivano da lì, hanno portato con sé questa festività.» Eunice si fermò e lo fissò, la maschera col teschio momentaneamente sollevata, con un'espressione indecifrabile stampata sul suo vero volto. Era curiosità o paura? Sembrava solenne, ma pareva anche sottindendere un'ironia nascosta. «Papà, i morti possono ritornare?» Quelle parole gelarono Helmond. Come doveva rispondere? Decise di interpretare la domanda come «Sono mai tornate delle persone morte?» e rispose: «No.» La figlia lo guardò un po' delusa, e Helmond concluse che aveva soltanto provato a impaurire se stessa. Era certamente la notte giusta per farlo. Un goblin, un demone e un fantasma si affrettavano insieme, portando sacchi di tossine diabetiche. Dall'altra parte della strada, una streghina ghignante camminava con un diavolo vestito di rosso che agitava un tridente di plastica. Una tetra, gelida fantasia era nell'aria, un accenno della sua fanciullezza dimenticata da tempo, che rendevano quel momento decisamente priva di senso la scienza, troppo fredda e razionale. Helmond assorbì quell'atmosfera sognante come se stesse respirando ossigeno. Guardando l'orologio si accorse che il tempo della scherzosa questua era finito, il che era un bene, visto che l'aggiunta di altre leccornie avrebbe probabilmente povocato la rottura delle cuciture della borsa di Eunice. Eppure Helmond non voleva che quella serata finisse; andare a casa significava bagno e letto per Eunice, e lui desiderava trascorrere altro tempo con lei in quell'atmosfera incantata. Non sarebbe rimasta una ragazzina per sempre; ben presto sarebbe diventata una giovane donna come Ally. Un giorno c'erano bambole e code di cavallo, e improvvisamente comparivano mascara e calze di nylon. Pensò di sfruttare il più possibile quell'opportuni-
tà. «Ascolta, piccola,» disse quando la bambina fece ritorno dall'ultima casa della strada. «Ti piacerebbe andare al Cream King per mangiare un cono gelato o qualcos'altro?» Gli occhi azzurro chiaro di Eunice si illuminarono nelle orbite della maschera da teschio che indossava. «Sì!» esclamò, con voce leggermente attutita dalla maschera. «Okay. Andiamo a prendere la macchina. È troppo lontano a piedi.» Padre e figlia si avviarono mano nella mano nell'oscurità incombente, mentre anche per quell'anno la festa di Halloween terminava. Cully Detwiller sapeva tutto su Halloween. Non erano cognizioni accademiche, né il risultato di anni di studi scolastici, ma un'erudizione viscerale, dati che fiammeggiavano direttamente nelle cellule malate del suo cervello, informazioni inscritte nella sua anima distorta. Tutto si basava su istinto e intuizione, se non addirittura sul genio, un cupa competenza in materia di morte e tenebre. Aveva ricevuto quelle terribili rivelazioni dal Lupo. Il Lupo; così Cully Detwiler chiamava la voce nella sua testa. Non si trattava di una vera e propria voce, era più che altro una presenza febbrile e furiosa che introduceva pensieri, sentimenti ed impulsi nella sua mente. Sembrava che avesse la ferocia e la crudeltà di un lupo e nei suoi peggiori momenti di scarsa lucidità Cully credeva fosse lo spirito disincarnato del lupo che lo aveva terribilmente spaventato quando da bambino era andato a caccia con suo padre nella foresta canadese; un lupo che ora era morto e che era ritornato per tormentarlo. Era peloso e simile ad un'ombra, con lunghe zanne e occhi rossi e ardenti, o almeno così gli era apparso nei suoi incubi, quando riusciva a chiudere occhio. Il Lupo aveva detto che lui, Cully, era il Portatore di Morte, il Triste Mietitore, il Dio della Guerra, che i poveri civili che doveva sopportare ogni giorno esistevano solo per essere uccisi, erano soltanto animali da macello, nient'altro che carne ambulante, e che i suoi atroci mal di testa sarebbero continuati fin quando non avrebbe liberato la terra da quei vermi umanoidi. A Cully non piaceva il Lupo, così beveva per soffocare la voce insistente e ringhiante della bestia, si ubriacava tutte le sere mentre puliva e oliava i fucili o guardava film di guerra e polizeschi alla televisione. Come risultato del suo disperato rifugiarsi nella bottiglia, aveva perduto sua moglie Betty, tutti gli amici e, proprio quel giorno, il lavoro come scaricatore alla
fabbrica d'alluminio, ma il Lupo continuava a parlargli. 'Fanculo tutti, gli sussurrava. Non hai bisogno di loro. Tutto quello di cui hai bisogno sono le tue armi. Le tue armi sono i tuoi amici, vero, Cully? Non ti hanno mantenuto in vita nella giungla del Vietnam? Ti hanno mai tradito? Non sono le uniche cose della tua vita su cui puoi contare? Ormai la solita vecchia litania si ripeteva ogni notte. Il Lupo sussurrava: Guarda come questi soldati che ritornano vittoriosi dal Golfo Persico vengono acclamati, festeggiati con parate e salutati come eroi conquistatori. Ma come hanno salutato te, Cully? Con sberleffi, sputi e insulti, urla di "criminale fascista", "guerrafondaio", e... "assassino di bambini". Ti hanno chiamato "assassino di bambini". Tollererai un simile insulto, Cully? Fidati delle tue armi, amico. Usale. Sii di nuovo un guerriero. Quel giorno Cully non si era ubriacato, il che era un brutto segno, anche se, in ogni caso, non riusciva più a sentirsi del tutto sobrio. Trascorse la giornata facendo progetti per la sera. Pensò alla guerra, alla peggiore settimana della sua vita, che, molto tempo prima, era stata proprio nel mese d'ottobre. Il suo plotone si era trovato in marcia nella giungla, tormentato e attaccato per giorni dai Vietcong, e i nervi di Cully erano arrivati al punto di rottura. Quando una pattuglia inviata in avanscoperta aveva riferito la presenza di un villaggio più avanti, il loro comandante, un pivellino appena arrivato da West Point, anch'egli con i nervi logorati dal terrore che non gli dava tregua, aveva ordinato un attacco d'artiglieria, non volendo correre alcun rischio. Quando il plotone aveva raggiunto l'obiettivo del bombardamento, non era rimasto quasi nulla, soltanto capanne carbonizzate e brandelli di cadaveri. Cully si era imbattuto in un corpicino, una ragazzina di circa sette anni, che giaceva tra le macerie, con il busto aperto a metà dai frammenti di una granata, simile ad un arrosto di maiale crudo. Era caduto in ginocchio davanti al cadavere crudelmente violato, la mente incapace di accettare quello che stava vedendo, tanto svuotato dal punto di vista emotivo dalla paura che aveva sperimentato tutta la settimana, che il cervello sovraccarico non sapeva come reagire. Ma alla fine, c'era stata una reazione. Impossibilitato a controllarsi, aveva eiaculato nei pantaloni kaki, con il volto deformato da una smorfia, e aveva fissato la piccola effigie sanguinolenta, adorando l'idolo mutilato. Da allora in poi, non era più stato del tutto sano di mente, sebbene anche in precedenza lo fosse stato raramente. Nel Vietnam i musi gialli avevano reso la sua vita un inferno, avevano tentato di ucciderlo. Di ritorno negli Stati Uniti, le donne, i parenti, i com-
messi, i venditori d'auto, gli impiegati di banca e gli avvocati avevano fatto lo stesso, avevano desiderato che morisse. E adesso gli dicevano che valeva meno delle truppe della missione "Tempesta nel Deserto". Il nemico era dovunque. Chiunque era un muso giallo. Quella sera avrebbe dato ascolto al Lupo, avrebbe fatto quello che il Lupo gli diceva. Quella sera avrebbe fatto offerte di sangue a Samain, il dio druida della morte, a cui quel giorno era dedicato, come Cully aveva letto tempo prima in un libro, e probabilmente che era l'unica divinità con cui potesse sentirsi in comunione. Vestito della sua tuta mimetica e con l'M-16 avvolto in un telo, uscì dalla casa malridotta per entrare nella zona di guerra: Berkshire, Illinois. Si diressero ad andatura moderata verso il negozio di gelati, indicandosi a vicenda le impressionanti zucche a forma di volto con fiammelle di candela al posto dei cervelli che la gente aveva esposto nei porticati, i fantasmi di ectoplasmi in lino bianco che svolazzavano nella brezza da alberi e pali del telefono, gli spaventapasseri dalle camicie di flanella e con budella di foglie secche che odoravano di muffa sistemati sui mobili da giardino nei prati delle case. La luna fluttuava alta ed era tanto piena che minacciava di scoppiare, di un color arancione simile a quello di una zucca. Helmond si aspettava continuamente di vedere una vecchiaccia con un cappello a punta volargli davanti a cavallo di una scopa antiquata. Non si sarebbe sorpreso neanche un po' se fosse accaduto. «Ho un indovinello per te, papà,» disse Eunice con un risolino a stento controllato. «Okay, sentiamolo.» «Cosa si ottiene se si getta dell'acqua bollente in una tana di conigli?» Dove l'aveva già sentito? «Mi arrendo. Cosa si ottiene?» «Dei conigli cotti e molto arrabbiati.» Risero insieme di gioia sincera, più per il piacere della loro reciproca compagnia che per l'indovinello. «Va bene. Ne ho uno io per te. Come chiami un canarino che vola in un ventilatore?» «Cinguettio a brandelli,» rispose con grande condiscendenza Eunice. «È vecchia. Che ne dici di questa? Dì "Toc toc."» Lui sorrise. «La so. Io dico "Toc toc", poi tu dici "Chi è?" e mi prendi in giro.» La bambina ebbe un breve scoppio di risa. «Okay, ne ho uno buono, ma farò io tutte le parti: toc toc. Chi è? La morte. La morte di...» Eunice pronunciò l'ultima parola con voce strozzata in una drammatica imitazione di
un improvviso e fatale malessere, e si afflosciò sul sedile. Helmond ridacchiò nervosamente a quello scherzo. Dio, ormai i bambini avevano un senso dell'umorismo davvero macabro, ma perché sorprendersi? In una cultura saturata dai media, fin dalla tenera età erano divenute loro familiari perfino le più tetre realtà della vita. Fu contento quando furono nei dintorni, normali e ben illuminati, del Cream King. Entrarono e si fermarono all'estremità più corta del bancone. «Dove ti piacerebbe sederti, zucchetta, a un tavolo o in auto?» Eunice si guardò intorno nella piccola sala. «Sembra troppo affollato qui dentro. Mangiamo in macchina.» «Okay. Cosa vuoi allora?» «Ehm, un hamburger con formaggio, patatine fritte e una coca cola.» Helmond sospirò. Sua figlia sapeva davvero cosa ordinare in un posto come quello. «Sei sicura di non volere una coppa di gelato, un cono o magari qualcos'altro? Insomma, hai già cenato.» Eunice fece spallucce in modo irresistibile. «Sì, ma ho voglia di un hamburger al formaggio.» «Va bene.» Si stava facendo tardi e mangiare qualcosa di tanto pesante quasi all'ora di andare a letto le avrebbe procurato certamente degli incubi, ma era sabato, e le avrebbe permesso di andare a dormire un po' più tardi del solito. Naturalmente, se Janice l'avesse scoperto, lo avrebbe ucciso. Ordinò quello che voleva la bambina, insieme a un gelato alla fragola per lui; fu tutto pronto in un baleno, e se ne tornarono alla macchina, senza notare la malridotta Land Rover scura che si fermava sull'altro lato dell'edificio. Si erano appena sistemati in auto, quando Eunice notò che mancava qualcosa. «Voglio del ketchup per le patatine, papà. Posso andare a prenderne un po'?» «Okay,» rispose Helmond con la bocca piena di frutta e panna montata. Prima di uscire, Eunice indossò la maschera da scheletro e i due scherzarono insieme, poi la bimba cominciò ad attraversare il piazzale del parcheggio. Con movenze estremamente sicure, una sicurezza nata dal distacco completo dalla realtà, Cully Detwiler svolse dal panno il suo fucile semiautomatico, balzò fuori agilmente dalla Land Rover e fece irruzione nell'affollato Cream King. «Sono Samain, Dio della Morte,» annunciò a voce alta, ma senza urlare. Poi iniziò a fare fuoco.
La prima raffica uccise una coppia di anziani, Emily e Stan Lovis, che abitavano al 606 di Laker Street, squarciando la gola di lei mentre stava per deglutire e fracassando il cranio di lui con le schegge conficcate nel cervello. Entro tre ore sarebbero arrivati cadavere al Berkshire Memorial Hospital. La terza vittima fu un ragazzo obeso chiamato Arnold Taft, che si stava concentrando sul suo secondo gelato quando gli occhi gli vennero strappati da una pallottola arroventata sparata ad alta velocità: frammenti di proiettile penetrarono a fondo nella corteccia celebrale. Non avrebbe mai saputo come sarebbe stato fare l'amore con un membro dell'altro sesso. Cully pensò che stava dedicando troppa attenzione alla gente seduta ai tavoli, così si voltò e colpì quelli in fila al bancone. Adesso si stava scatenando il panico; i clienti cominciavano a scappare, a gettarsi sul pavimento, a cercare riparo, e così riuscì ad abbattere soltanto altre due vittime con quella raffica: Annette Colsterman e George Aldicott, due fidanzati che avevano appena varcato la soglia. Avevano assistito all'inizio della strage con curiosa incredulità, pensando che si trattasse di uno scherzo di Halloween, come gli alberi addobbati con la carta igienica o le finestre strofinate col sapone, ma quando le pallottole entrarono nella loro carne seppero che era tutto vero. I grossi seni di Annette esplosero in frammenti di carne, mentre lo sterno veniva ridotto a pezzi insieme al cuore dall'attacco balistico. I proiettili che colpirono George gli fecero esplodere lo stomaco come un palloncino e provocarono un'apertura triangolare nell'addome, attraverso la quale gli intestini vermiformi tentarono di fuoriuscire. I due innamorati piombarono sul pavimento in un orrendo ammasso di giovane carne umana. Si erano donati la loro verginità nel sedile posteriore di una Buick Skylark soltanto trenta minuti prima. Mentre si voltava per scaricare una nuova raffica sui clienti seduti, Cully guardò fuori dalla vetrina e vide l'essere che attraversava il parcheggio, dirigendosi verso di lui. Comprese all'istante chi fosse. Era il fantasma dell'innocente bambina vietnamita, venuto per prendere la sua anima, per vendicarsi del suo orribile, ingiusto delitto, per mangiarselo vivo con fauci ossute e condannarlo alla dannazione eterna. Be', doveva soltanto ucciderla di nuovo, e continuare ad ucciderla per il resto della sua vita, finché un giorno avrebbe finito le munizioni, e lei lo avrebbe preso. Dopo tutto, era anche giusto. Sollevò il fucile e fece esplodere una lunga raffica, riducendo il vetro in piccoli scintillanti frantumi, e squarciando il torso del piccolo scheletro.
Il violento attacco del pazzo si era sviluppato tanto velocemente e inaspettatamente che Helmond aveva avuto a stento tempo di reagire. Era appena uscito dall'auto, quando vide Eunice barcollare in avanti e cadere sull'asfalto; la scena gli fece penetrare un artiglio d'acciaio temprato giù per la gola, che gli afferrò tutto quello che aveva dentro e glielo strappò via con un unico, violento colpo. Ebbe la sensazione che del liquido nero gli colasse sugli occhi, ma la volontà istintiva di salvare sua figlia gli impedì di svenire. Dimentico del pericolo, poiché il fucile del pazzo stava ancora tuonando nell'edificio, corse intorno alla macchina, verso la forma immobile riversa nella larga pozzanghera di fluido vermiglio, che gli richiamò alla mente il succo di fragola del gelato che aveva appena cominciato a mangiare. Quel pensiero gli provocò immediatamente dei conati di vomito: rigettò il gelato, la frutta e tutto ciò che aveva mangiato quel giorno. Sforzandosi di riprendersi il più in fretta possibile, esaminò la figlia e capì che era morta. Gli organi interni sporgevano fuori dalla profonda ferita, frastagliata, le costole vere erano visibili al di sotto delle costole disegnate sul costume. Scostò la maschera col teschio, ora insopportabilmente oscena per lui, e fissò le fattezze inanimate, angeliche, gli occhi e la bocca spalancati per la sorpresa mortale. Perché non siamo ritornati a casa? Che io sia dannato, perché l'ho portata qui? Per un istante fuggevole pensò di alzarsi e correre nel locale per affrontare il folle che aveva compiuto quella strage, non per eroismo, ma perché voleva che il vuoto della morte cancellasse l'agonia straziante che provava. La personalità tipica di Lenny Helmond lo stava abbandonando, sembrava un'immagine televisiva disturbata, rifugiandosi nei luoghi più reconditi e oscuri della psiche. Se solo non fossero andati lì, se solo fossero ritornati dritti a casa, se solo, se solo, se solo... l'eco di quella litania eclissò ogni altro pensiero, gli scosse ogni nervo. Implorò di potersi destare da quell'orribile sogno; implorò che il tempo ritornasse indietro, in modo da poter evitare quel momento che mai avrebbe potuto accettare in cui Eunice era diventata un pezzo di carne immobile che si andava raffreddando; implorò che Dio gli restituisse sana e salva la figlia e che lo liberasse da quell'orrore... La comprensione gli procurò un tale shock da provocargli quasi un arresto cardiaco. Dio non poteva o non voleva farlo ma lui sì. Era nelle sue capacità. Balzò in piedi, armeggiò con le chiavi per aprire il bagagliaio della Crown Victoria e sistemò il corpicino orribilmente floscio nello spazio attiguo alla ruota di scorta, facendo attenzione a non macchiarsi di sangue.
Non doveva far insospettire il guardiano del campus. Sbatté il cofano del bagagliaio, provando un certo sollievo adesso che il cadavere di sua figlia era nascosto alla vista di tutti. Nessuno doveva sapere. Nessuno doveva vedere il corpicino mutilato, spezzato della figlia. Non avrebbe permesso a nessuno di fargli delle domande e di fissare con aria nauseata il cadaverino sanguinante. E soprattutto, Janice non doveva mai intuire a quale atrocità era stata sottoposta la sua bambina. E se fosse riuscito a tenerla lontana dagli occhi per pochi minuti, ad allontanarla per una frazione di secondo dalla mente, avrebbe evitato di rimanere paralizzato dalla morsa gelida che avvolgeva la sua volontà, avrebbe evitato di restare accecato dall'oscurità che minacciava di inghiottire la sua consapevolezza, e di conseguenza avrebbe potuto controllarsi abbastanza da salvarla. Entrò in auto e mise in moto; ora la sua mente funzionava meglio, in qualche modo: aveva uno scopo, un piano, una soluzione al problema. Nonostante superasse il limite di velocità nella corsa verso l'università, nessuno lo fermò. Le forze di polizia di Berkshire erano troppo occupate a rispondere a un'emergenza codice 52, per preoccuparsi di una semplice trasgressione al codice della strada compiuta in quella notte di Halloween. IL SONNO DELLA RAGIONE Cully Detwiler adesso impersonava il proprio ruolo, quello di guerriero supremo, di sommo soldato, sebbene in quel momento non stesse pensando a se stesso in termini tanto coerenti. In effetti, non pensava a nulla. La sua capacità di raziocinio era andata declinando per tutto il giorno, e infine era completamente scomparsa quando aveva visto il piccolo spettro nel parcheggio. Ora sguazzava in una pura ferocia animale, e provava brividi sessuali ad ogni goccia di rossa vitale essenza che usciva dalla sue prede, ad ogni impatto delle sue raffiche contro scheletri che andavano in frantumi, ad ogni rinculo del suo fallo che eiaculava metallo. Era un massa di furia irrazionale diretta contro ogni forma di vita, un'efficiente macchina di morte in carne ed ossa. Aveva pensato di aspettare in casa che comparissero alla sua porta fantasmini e diavoletti, così avrebbe potuto piantare loro una pallottola in corpo a uno a uno, ma aveva una tale reputazione di stranezza e cattivo carattere tra i vicini che di solito non si faceva vivo nessuno. Così aveva deciso di andare a caccia di bambini per strada, ma quando era uscito, la questua era già finita. Nessun problema. Aveva continuato a girovagare in macchina,
fin quando non aveva individuato un luogo in cui poter attaccare i musi gialli. Quando aveva visto il Cream King, gli era subito sembrato il posto adatto. E così eccolo lasciarsi andare a un'orgia nichilistica di cieca barbarie: era ritornato nel caldo, verde grembo della giungla a cui apparteneva. Il Lupo ululava di gioia. Muori, carne. Crepate, vermi. Adesso li aveva in pugno, li stava falciando come fasci di grano, e lui era la falce, li faceva pagare per tutto quello che gli avevano fatto con i buchi delle sue pallottole. La squadra SWAT arrivò in un camioncino, ma lui non la vide. Tutto quel che vedeva era un meraviglioso mondo primitivo di subumani che perivano a causa della sua indomita volontà. Quando notò gli uomini armati con i giubbotti antiproiettili, si preparò subito al combattimento; l'addestramento militare era ancora profondamente radicato nella sua mente sconvolta. Per un po' riuscì a resistere - era sempre stato un osso duro - ma alla fine lo centrarono, facendogli scoppiare la testa, e disperdendo tutt'intorno buona parte del cervello impazzito che guidava la macchina assassina del suo corpo. Nove persone erano morte e altre sette erano state gravemente ferite dal reduce impazzito. Ma la vita di una delle vittime decedute era ancora appesa ad un filo. Al volante dell'ambulanza-carro funebre che era divenuta la sua auto, Helmond singhiozzava, piagnucolava, tremava, eseguendo mentalmente calcoli frenetici e controllando ogni secondo l'orologio. Stimava che fossero trascorsi quattro minuti da quando Eunice era stata colpita, quindi tra circa due minuti il suo cervello avrebbe cominciato a deteriorarsi per mancanza di ossigeno. Il processo di rianimazione rigenerava i neuroni, ma se quelle particolari cellule che contenevano la memoria e l'identità della figlia fossero state distrutte, non sarebbe stata più la stessa, una volta tornata a vivere. Se fosse andata persa una quantità sufficiente di tessuto cerebrale, Eunice sarebbe diventata un'idiota completa, totalmente dimentica di sette anni di apprendimento altamente attivo. Avrebbe già bevuto alle acque del fiume Lete. Cercò di scacciar via quei pensieri e di concentrarsi sulla guida, che, nel migliore dei casi, era estremamente irregolare. Due auto della polizia lo incrociarono, ruggendo dalla corsia opposta, con sirene assordanti e lampi di luce accecanti, dirette verso il luogo in cui la belva umana impazzita aveva seminato la morte. Siete in ritardo, rinfacciò loro con furia la sua mente. Il mio angelo è morto, e né voi né io ab-
biamo potuto proteggerla. Né voi, né io, né Dio, quel Dio che ha posto un tumore celebrale, uno squilibrio chimico, un trauma infantile o cosa altro fosse responsabile della strage, nella testa di quel maniaco assassino. Dovette fermarsi ad un semaforo rosso, e l'impazienza quasi lo condusse alla disperazione. Il tempo stava trascorrendo troppo in fretta; adesso erano passati cinque minuti. Helmond sapeva che il limite di sei minuti non era fisso, che variava a seconda degli individui, che alcune vittime di affogamento, rianimate dopo venti minuti o più di permanenza sott'acqua, avevano sofferto pochi o nessun danno celebrale, ma non voleva correre quel rischio. Voleva riavere la stessa Eunice di quei momenti trascorsi prima che le pallottole le squarciassero il corpo. Con un misto di colpevolezza e timore, comprese che non avrebbe mai voluto che Janice si accorgesse di qualche differenza nella sua bambina. Non voleva che sua moglie sospettasse neppure ciò che era avvenuto in quella terribile notte. Quando raggiunse il campus, erano ormai passati sei minuti. A quel punto, Helmond doveva aggrapparsi ad un'altro concetto per nutrire ancora qualche speranza, quello della ridondanza corticale, la capacità del cervello di immagazzinare la stessa massa di dati in differenti parti di se stesso. In sostanza, ogni informazione nel cerebrum veniva copiata, cosicché anche se moriva un neurone la conoscenza immagazzinata in esso era conservata in un altro. Pregò che grazie a quel fenomeno nessun elemento vitale nella personalità della figlia fosse stato cancellato dalla morte progressiva del cervello. Proprio mentre stava parcheggiando l'auto accanto al laboratorio e pensava che nessuno l'avesse visto, vide avvicinarsi la luce ondeggiante della torcia di uno degli uomini della sicurezza. Un'altra perdita di tempo. Si accorse subito che si trattava di Garritty. «Buonasera, Dr. Helmond,» gli augurò la guardia, mostrandosi un po' meravigliata della presenza dello scienziato. «Ha dello straordinario da fare stanotte?» Helmond si sforzò di ricomporsi. «Oh, certo, Joe. Sto facendo dei test, e non sono riuscito ad attendere fino a lunedì mattina per controllarne i risultati.» Una quantità di sirene ulularono in lontananza, ambulanze e altre macchine della polizia, e gli ricordarono l'urgenza della sua missione. Garritty sorrise, abituato alle eccentricità dei ricercatori dell'università. «Capisco.» Sollevò la testa e guardò nella direzione da cui proveniva il suono delle sirene. «Sembra che si sia scatenato l'inferno, vero? Lei sa cosa sta succedendo, Dr. Helmond?»
Il biochimico si sforzò di sorridere. «No. non ne ho alcuna idea.» Vattene, vecchio stupido, dannazione, vattene! «Be', questo di solito non è il mio turno, ma stanotte ho pensato di venire, nel caso che a qualche burlone vengano brillanti idee. Qualche volta capita, ad Halloween, rubano organi e cavie morte e attrezzi di laboratorio per i loro scherzi. Poi ci sono quegli attivisti per i diritti animali, che potrebbero aver deciso che questa è la notte buona per un drammatico atto di protesta. Così ho pensato che la presenza di personale extra sarebbe stata una buona idea.» Helmond assentì e cercò di dare l'impressione di prestare attenzione alle parole di Gerritty, ma era tutto quello che riusciva a fare per impedirsi di saltar fuori dall'auto, soffocare la guardia facendola svenire, e dedicarsi a salvare la figlia. Alla fine, l'altro diede segno di volersi accomiatare. «Be', credo sia meglio che la lasci lavorare. Io continuerò il mio giro. Buona notte, dottore.» «Anche a lei, Joe.» Helmond guardò l'orologio. Erano passati otto minuti. Rovistando tra le chiavi, corse verso il lato dell'edificio dove c'era l'entrata esterna al suo laboratorio, una porta che scivolava verso l'alto, attraverso la quale veniva fatto passare l'equipaggiamento più voluminoso. Infilò la chiave e aprì la porta. Accese le luci, corse verso la camera di rianimazione, spalancò di scatto la porta, cominciò a immettere la soluzione nella capsula, poi attivò i proiettori. Quando ritornò verso la porta che dava sull'esterno, guardando la sua auto, l'unica nel parcheggio, fu preso dall'esitazione. Avrebbe dovuto ancora una volta portare il cadavere della sua piccola bambina tra le braccia, quell'esile corpo un tempo perfetto ed ora blasfemamente fatto a pezzi e devastato. Dopo un attimo in cui rabbrividì, afferrò un camice del laboratorio e si avvicinò con decisione alla vettura. Quando aprì il cofano, la bimba sembrava ancora più morta di prima, una figura incredibilmente inerte che sembrava impossibilitata a muoversi ancora spontaneamente. Cominciò a dubitare della sua capacità di riportarla in vita mentre l'avvolgeva nel camice, la portava dentro e chiudeva la porta. Il silenzio era totale, tranne per il debole ronzio dei proiettori accesi. Luminosità, sterilità, geometria esatta - fu questo che salutò il suo sguardo acquoso. La sola cosa che disturbava la perfezione matematica della scena era il caos che Osiris aveva provocato negli spasmi che avevano accompagnato la sua morte bizzarra, i detriti di vetro sparsi sul pavimento e il banco da lavoro. Helmond sistemò Eunice sul tavolo, conscio di quanto appa-
risse incongruo il costume della figlia in quell'ambiente ad alta tecnologia. Lì non c'era posto per la magia o la fantasia; quello era un Tempio della Scienza, anche se non potevano esistere templi elevati ad essa. Stonehenge, Angkor Vat, Machu Picchu, la Cappella Sistina, quelli erano luoghi in cui dedicarsi al culto, in cui indulgere agli impulsi primordiali della superstizione, non quel laboratorio, la culla della ragione, il covo della ricerca. Eppure sentiva che ciò che si accingeva a fare quella notte era qualcosa che esulava dalla scienza, che andava oltre, che la trascendeva, un atto di dimensione cosmica. Afferrando un bisturi, cominciò a tagliare l'aderente costume da scheletro intriso di sangue. Eunice aveva evacuato intestini e vescica al momento della morte, il che era naturale. La spogliò nuda, poi cominciò ad asportare i frammenti di proiettile, senza preoccuparsi di essere troppo preciso. Qualunque danno avesse provocato sarebbe stato riparato durante il processo. Mentre incideva profondamente il tessuto, si chiese cosa avrebbe pensato Janice se avesse assistito a quello spettacolo: suo marito che mutilava le viscere della loro bambina, che scavava e sfregiava gli organi interni, martoriando la carne già squarciata. Quella visione l'avrebbe condotta sicuramente alla pazzia, ne era certo, e sapeva che anche la propria sanità mentale era più vicina al limite di quanto volesse. Quando fu sicuro di aver estratto tutte le schegge di proiettile più grandi, ripulì rapidamente il corpo di Eunice dal sangue e dagli escrementi, poi l'immerse delicatamente nella capsula. Uscito dalla camera, ne sigillò la porta, si fermò davanti ai banchi di interruttori dei proiettori REM, esitando ancora. Quello era il momento cruciale: era qui che aveva sbagliato con Osiris. Si trattava di un'equazione che coinvolgeva la massa e la densità neurale del soggetto, l'intensità del bombardamento della radiazione e la durata dell'infusione. Per lo scimpanzé l'intensità era stata troppo elevata e la durata troppo lunga. Valori minori avrebbero risolto l'inconveniente, ma Helmond, improvvisamente, era divenuto incerto. La scimmia era più grossa di Eunice, ma il sistema nervoso della bimba era più complesso. Non riuscì ad aspettare più a lungo, così regolò i quadranti secondo i parametri che aveva formulato e su cui aveva riflettuto dozzine di volte, anche se non era ancora pronto a fidarsi, e alla fine azionò l'interruttore principale. Guardando nella sala, verso la sua bambina immersa nella soluzione, con i capelli scuri e lunghi fino alle spalle che le fluttuavano in volute serpentine sul volto, si sentì morire. Cosa avrebbe fatto se non avesse funzio-
nato? Cosa avrebbe fatto se lei avesse reagito allo stesso modo di Osiris? Con la morte di Eunice, aveva compreso quanto insignificante fosse il lavoro in confronto a ciò che la figlia significava per lui, eppure aveva sempre pensato che il lavoro fosse tutto. Allora, Dio, questa è la mia punizione per essermi immischiato in cose che esulano dal dominio delle scienze dell'uomo? Molto bene. Così sia. Giuro che non mi interesserò più ai segreti dell'esistenza, delle scoperte che la scienza farà. Giuro che non rianimerò nessun'altra creatura, umana o animale, se solo questa rianimazione avrà successo, se solo Eunice ritornerà alla vita, e giuro che mi ammazzerò se non succederà. Ormai la familiare aura violetta circondava il corpo di Eunice, nascondendo alla vista di Helmond gli stadi finali della ricostruzione fisica. Nell'abisso intorpidito del corpo di Helmond cominciò ad ardere una fioca scintilla di ottimismo. Il cuore gli batté più in fretta, l'adrenalina affluì con l'aumentare dell'entusiasmo, iniziò a sentirsi di nuovo almeno un poco vivo. Attento, Helmond, non mettere il carro davanti ai buoi. Eunice sobbalzò come una marionetta appesa ai fili, soltanto una volta, come aveva fatto quando le pallottole l'avevano colpita, poi i proiettori si spensero dopo una frazione di secondo. Era un ottimo segno che i suoi calcoli erano stati esatti. Quando la tirò fuori dalla capsula e la tenne tra le braccia, la bimba non sembrava più una bambola fredda e floscia, ma un essere vivente, anche se non aveva pulsazioni, né respirava. Una volta deposto il corpo sul tavolo d'osservazione, bastò una scarica dell'apparecchio di defibrillazione a riattivare il cuore e a farla respirare con ritmo sano e regolare. Il petto si sollevava e si abbassava, seguendo un ritmo di respirazione normale. Tuttavia la bambina rimaneva incosciente, ed Helmond studiò l'EEG con indicibile timore, mentre immagini dell'antropoide impazzito (e del maniaco con il fucile) tormentavano la sua mente. I secondi passarono, ma Eunice non aprì gli occhi, così Helmond si precipitò a recuperare in un cassetto una siringa e una boccettina di fenobarbital, terrorizzato al pensiero che in effetti era stato quasi sul punto di iniettare anche a Osiride uno stimolante che avrebbe ucciso la povera scimmia molto più in fretta e in maniera più violenta. Si chinò sul corpo della figlia, aspettando angosciato, ma le onde celebrali di Eunice rimasero regolari, senza sbalzi, e infine si assestarono su livelli normali. Stava dormendo! E perché no? Il trauma e lo stress fisico per la morte improvvisa e la rianimazione dovevano aver messo a dura prova il corpo di Eunice; avrebbe
avuto bisogno di molto e intenso riposo, per superare senza problemi ciò che aveva subito. Gli esseri umani erano molto più sensibili delle scimmie e degli animali domestici che aveva utilizato fino a quel momento come cavie, e dunque avrebbe dovuto aspettarsi una reazione simile. In effetti, era una vera benedizione. Se si fosse svegliata nel laboratorio, sarebbe stata confusa e spaventata. Era molto meglio che riprendesse conoscenza nel suo rassicurante lettino. Tirò fuori da un armadietto un camice da laboratorio pulito, vi avvolse Eunice e la riportò alla macchina, dopo aver spento ogni cosa nella stanza, ripulito tutte le superfici dal sangue, gettato il costume da scheletro con la testa da morto nell'inceneritore dell'edificio. Si sbarazzò di ogni prova. Guidò fino a casa senza fare molta attenzione, esausto ma risollevato, cercando di farsi venire in mente una storia da raccontare a Janice. Non poteva assolutamente imporre alla moglie quel peso, e tuttavia, se Eunice svegliandosi si fosse ricordata tutto, avrebbe dovuto farlo. Ma non credeva che sarebbe successo, poiché lo shock fatale era stato troppo forte perché la mente della piccola potesse accettarlo. Per una sorta di meccanismo difensivo, Eunice avrebbe seppellito il ricordo tanto profondamente nella sua memoria che le sarebbe stato impossibile richiamarlo, o almeno così suggerivano a Helmond le sue nozioni di psicologia infantile, per la verità non troppo specialistiche. Avrebbe raccontato alla moglie una bugia: Eunice si era strappata il costume, che poi si era macchiata con il ketchup e il frappé al cioccolato, o qualcosa del genere, al punto che non c'era più stata alcuna speranza di porvi rimedio. Ad ogni modo si trattava di un costume economico di scarsa qualità, e di conseguenza Janice non avrebbe fatto fuoco e fiamme, anche se forse avrebbe voluto conservarlo per motivi affettivi. Per quel che lo riguardava, non avrebbe voluto più vedere in tutta la sua vita un costume da scheletro, anzi nessun altro tipo di costume. Giunto a casa, trasportò in fretta Eunice nella sua stanza, felice di sentire il suo peso caldo e vivo. Le infilò il pigiammo rosa con i cuoricini rossi, la mise a letto con il suo orsetto, e rimase a osservarla per pochi istanti. Dopo un po', gli occhi di lei cominciarono a muoversi velocemente sotto le palpebre, il che indicava un sonno REM e bei sogni. Sogna, bambina, la incitò silenziosamente. Vola felice e libera con le creature amiche dei tuoi sogni. Helmond lasciò la stanza, vi ritornò un momento dopo con la borsa di Halloween piena di dolci, la sistemò fuori dalla porta: sarebbe stata la prima cosa che Eunice avrebbe visto la mattina seguente. Poi scese per versarsi una doppia vodka con ghiaccio.
Seduto in salotto con il suo drink, si sentì come se avesse appena vinto una guerra. Era stata una guerra contro la morte, contro il destino, una guerra contro la Morte, il Fato, il Caso crudele e pericoloso. E sapeva che la tregua finale non era stata ancora conclusa. Quanto era rimasto lì nel letto della sua bambina? Quanto era rimasto di Eunice Anastasia Helmond nel corpo della ragazzina? Tutto, una parte o nulla? Al mattino avrebbe ottenuto la risposta, a meno che la figlia non si fosse svegliata urlando, a meno che non soccombesse al sovraccarico neurale post-rianimazione, a meno che... si fermò prima di farsi prendere dal panico. Eunice stava bene, almeno fisicamente, di questo era certo. Era stata la rianimazione più facile che avesse mai compiuto. A Eunice non era rimasta neppure una cicatrice, aveva soltanto la pelle più chiara nei punti in cui si erano aperte le ferite. Dissolse i suoi illusori timori con qualche altro sorso di alcool. La vecchia pendola nel corridoio suonò docici volte. Mezzanotte. L'ora delle streghe. Halloween era finita. Era stata, in definitiva, la vacanza più spaventosa e più orribile della sua vita. PARTE SECONDA DISCESA AGLI INFERI L'ANGELO DELLA MORTE «E negli ultimi giorni ci saranno segni e prodigi, segni in cielo e prodigi sulla terra.» Helmond fluttuava lentamente sulla superficie della pozza fangosa del sonno, con gli occhi e la mente ancora invischiati nei residui di un sogno. Era sempre sprofondato nella poltrona, il bicchiere si era rovesciato sul pavimento, e la TV, che lui non ricordava di aver lasciata accesa, trasmetteva un sermone. Poi vide Eunice seduta sul pavimento a gambe incrociate, a pochi centimetri da lui, che guardava avidamente l'evangelista televisivo e mangiava i dolci della sua borsa. La pura gioia che provò a quella vista lo lasciò senza parole per alcuni istanti. Naturalmente non era abitudine di Eunice guardare programmi religiosi la domenica mattina, ma tenne in poco conto la cosa. Sette anni erano un'età piena di curiosità e stranezze. Eunice era attiva, sveglia, ovviamente affamata, perfino coordinata e abbastanza cosciente da vestirsi da sola. Un risultato dannatamente buono per chi in quel momento avrebbe
dovuto essere all'obitorio con un cartellino attaccato all'alluce del piede. Quell'immagine smorzò leggermente la sua allegria, così la scacciò dalla mente. La notte precedente era stata solo un incubo, un brutto ricordo, che non l'avrebbe minacciato mai più. Si chinò, cercando di rendere dolce la sua voce mentre parlava, così da non spaventarla. «Non ti piacerebbe fare colazione, zucchetta?» Lazarus entrò trotterellando nella stanza ed Eunice gli diede parte di un barattolo di burro d'arachidi. «Sto già facendo colazione,» rispose, senza distogliere gli occhi dal televisore. Come me la caverò? si chiese Helmond. La notte precedente Eunice aveva vissuto un'esperienza terribile (Dio, questo sì che era sottovalutare quell'esperienza!), e lui non riteneva opportuno pressarla, ma Janice avrebbe avuto un colpo, se, tornando a casa, avesse trovato la figlia che mangiava caramelle senza aver prima fatto colazione. Inoltre, aveva deciso di trattare Eunice allo stesso modo di prima dell'...incidente. «Intendo un uovo, una brioche o qualcosa di simile. Puoi mangiare dopo gli altri dolci. Che ne dici?» Eunice sospirò, gettò nella borsa una tavoletta di cioccolato Hershey e si voltò a guardare il padre. Laz sembrava sorpreso e scontento che il flusso di nettare al cioccolato si fosse improvvisamente interrotto. «Va bene, papà.» Helmond dovette ammettere che nella sua mente si era annidato un lieve dubbio, prima che finalmente riuscisse a vedere il volto della figlia, anche se non sarebbe certo riuscito ad esprimere in parole quel che si aspettava di vedere. Ma ciò che vide lo rapì, lasciandolo senza parole, perché, se era possibile, adesso Eunice era più radiosa di prima, la sua bellezza infantile era ancora più squisita, più affascinante. Si convinse che l'orrore era assolutamente passato, una volta per tutte. Erano seduti al tavolo in cucina quando Janice, Ally e Andy ritornarono a casa. Janice sembrava preoccupata e Ally arrabbiata. Cattive notizie all'orizzonte, concluse Helmond. La figlia adolescente non disse nemmeno ciao, prima di scomparire nel corridoio per salire in camera sua. «Come sta tua madre?» chiese Helmond a sua moglie. «Oh, non ha niente di preoccupante, come al solito. È soltanto sola e depressa.» L'espressione di lei sembrava vagamente colpevole. «Dio, scusa, Len, ha letteralmente assalito Ally, per i suoi abiti, i capelli, l'incidente stradale, ogni cosa. Credo che non sia stata un'idea brillante portarla con me. Mamma non ha smesso di tartassarla per tutta la serata.»
Helmond sentì un fremito d'ira nel petto. «Tua madre è come un animale ferito, ha paura di restare sola ma non fa nulla per non infliggere le sue miserie sulle persone che costringe a starle intorno. Ha bisogno di persone vulnerabili su cui sfogarsi. Dannazione, Janice, Ally non ha bisogno di questo. Quel che ha fatto è stato un errore, so che non sta dimostrando di averlo capito, ma la morte del ragazzo deve averla sconvolta emotivamente.» Janice si morse il labbro inferiore. «Ecco un altro problema, Len. Non sono sicura che tu abbia ragione riguardo a quest'argomento, anzi credo che tu ne debba parlare con lei. Non credo che provi affatto del dolore.» «Chi te l'ha detto? Tua madre?» L'incongnienza di quella situazione era quasi insopportabile per Helmond; dopo gli eventi apocalittici di Halloween, si stava impelagando in una tipica discussione familiare. Soltanto dodici ore prima era rimasto coinvolto in un problema di vita e di morte, e ora stava cercando di vincere ai punti una discussione con sua moglie. Quanto era assurdo tutto ciò, e nello stesso tempo umano. Janice lo fissò con ira per pochi secondi prima di rispondere. «Continueremo la conversazione quando sarai di umore meno vendicativo.» Detto questo, prese per mano Andy e lasciò la stanza. Il bambino non sembrava star molto bene, né pareva troppo contento. Il naso gli gocciolava a più non posso e faceva fatica a respirare. La cosa buona di quella litigata, rifletté Helmond, era che aveva posposto qualsiasi domanda sulla sera precedente. Non aveva neppure sfiorato l'argomento con Eunice; aveva aspettato tutta la mattina che lei l'affrontasse per prima, ma la bambina non aveva detto nulla. Era come se tutto non fosse mai accaduto. «Adesso vado a giocare, papà,» annunciò Eunice, scivolando giù dalla sedia. «Okay, tesorino.» «Andiamo, E.T.» La scimmia balzò giù dal suo alto sgabello e la seguì, emettendo versi d'allegria. Helmond rimase seduto al tavolo, immerso nei propri pensieri. La normalità era quello che lui aveva desiderato ed era ciò che aveva ottenuto: il ritorno ai problemi della vita quotidiana, alle bollette, ai conflitti di famiglia, alle crisi di mezza età. Poi fu illuminato, quasi sopraffatto, dalla comprensione: aveva rianimato con successo un essere umano morto. Era difficile pensare ad Eunice come al soggetto di un esperimento, ma la sua mentalità scientifica era inflessibile. Adesso lo shock era passato e
riusciva a pensare all'intera faccenda con un minimo d'oggettività. Naturalmente non poteva raccontare a nessuno ciò che aveva compiuto, non poteva annunciarlo al mondo. Janice ne sarebbe stata semplicemente orripilata (ricordò la reazione iniziale della moglie nei confronti di Lazarus e rabbrividì), oppure Eunice sarebbe diventata negli anni a venire un'attrazione da circo di quart'ordine, e la consapevolezza di quello che aveva subito avrebbe potuto davvero condurre la bambina alla pazzia. Era meglio per tutti che rimanessero all'oscuro della cosa, e che lui procedesse nel suo lavoro con altri soggetti. Poi ricordò il giuramento che aveva fatto nell'eccitazione del momento, mentre Eunice fluttuava nella capsula, e mise istantaneamente alla prova la sua superstizione alla fredda luce del giorno. A chi aveva fatto con precisione quel giuramento? A Dio? All'Angelo della Morte? A se stesso? Capì che non voleva pensarci su subito, e così lasciò la cucina, in cerca della moglie con l'intenzione di chiederle scusa. Proprio in quel momento Janice stava scendendo le scale, dopo aver messo Andy a letto affinché riposasse. «Il raffreddore di Andy va un po' meglio, credo,» gli comunicò con tono piatto. «Forse non avrei dovuto portarlo fuori la scorsa notte, ma non volevo che Eunice si perdesse Halloween. Si è divertita?» «Oh, sì.» Helmond non aveva mentito. Eunice se l'era spassata un mondo, fin quando tutto era finito così bruscamente. Janice scese nell'atrio, andò alla porta d'ingresso, l'aprì e raccolse il giornale del mattino che era sullo scalino. Leggere il titolo in prima pagina fece di nuovo balzare il cuore in gola a Helmond, anche se avrebbe dovuto aspettarselo, mentre la moglie apriva il giornale e si metteva a sedere. Il PAZZO DI BERKSHIRE UCCIDE NOVE PERSONE, titolava a grosse lettere il giornale. Il Berkshire Beacon tendeva sempre al sensazionalismo, pensò Helmond distrattamente. Janice fece schioccare la lingua sotto il palato in segno di disgusto. «Non riesco a credere che questo è accaduto proprio qui, in questa città,» esclamò. «Bambini! Ha ucciso dei bambini! Voglio dire, che sarebbe successo se tu ed Eunice foste andati lì dopo "scherzetto o dolcetto"?» Quando udì quelle ultime parole Helmond non poté reprimere lo spasmo muscolare che si propagò lungo tutto il suo corpo. Fu costretto a sedersi sulla comoda poltrona accanto a quella della moglie. «Questo mondo è diventato un manicomio disumanizzante,» continuò lei. «Di solito, prima, conoscevi il tuo assassino, si trattava di crimini
commessi per soldi, gelosia o roba del genere. Ma oggigiorno la gente dà di matto, impugna un fucile e comincia a far fuori degli sconosciuti, a caso, gente che non conosci nemmeno e che ti non ha mai fatto del male. Cosa significa, Len? Perché accade tutto questo?» Lui scrollò le spalle. «Per tanti motivi. Uno dei più importanti è una popolazione numerosa - più gente, più variabili, più pazzi. In una tribù di trenta persone ci sarà un solo pazzo, che diventerà il loro sciamano; in una città di un centinaio di persone, avrai due innocui idioti del villaggio; in una città di diecimila persone, infine, nascerà un pazzo tipo quello sul giornale; e in una popolazione di duecentocinquanta milioni la percentuale cresce considerevolmente.» Non riusciva a credere di parlare in maniera così razionale dell'inumano demonio che aveva squarciato le budella della sua piccola, sapeva dannatamente bene che avrebbe detto ben altre cose, se Eunice non fosse stata viva e non stesse giocando al piano di sopra, in camera sua. «Sono stati compiuti studi su topi rinchiusi in gabbie sovraffollate. Diventano estremamente aggressivi e assumono comportamenti incredibilmente aberranti come strapparsi a vicenda code, genitali, piedi. Credo sia la stessa cosa.» Janice studiò il volto del marito per pochi istanti. «Sono certa che questa è una delle cause, ma credo ci sia dell'altro. Non hai la sensazione che la gente stia diventando insensibile, come robot o zombi? Per esempio, c'è stato quello studente di liceo che ha ucciso la sua ragazza, poi ha invitato i suoi compagni di classe a guardare il cadavere, e nessuno di loro ha menzionato la cosa. Ci sono tutti questi film di violenza e quelli pornografici. Che razza di gente guarda quelle cose?» Helmond sogghignò. «Anche noi abbiamo guardato qualche film porno insieme, Janice.» Quell'obiezione scherzosa la smontò un po'. «Be', sì, ma non erano come i film sado-maso che glorificano gli stupri e che di questi tempi sono così di moda. Voglio dire, tutti gli spettacoli oggi sembrano rafforzare l'aspetto bestiale che è nelle persone, invece di quelli più elevati, come l'amore, l'arte, la tenerezza.» Helmond sospirò con aria sconsolata. «Janice, Janice, ho visto molti film porno nella mia vita, ma non contenevano né stupri, né pratiche sadomaso, né torture, di qualsiasi tipo. E voglio sottolinearti che l'orrore può essere un'opera d'arte. Stai sottovalutando gli esseri umani. L'indulgere in forti stimolazioni non rende necessariamente insensibili a sensazioni più sottili. Un uomo può sbavare per una rivista porno e tuttavia apprezzare
ancora la bellezza di un nudo di Rubens, oppure può ubriacarsi di birra da quattro soldi e gustare ancora il sapore del vino francese. C'è sempre molto dell'animale in ognuno di noi, e a questo animale a volte piace divertirsi. Ecco tutto. Ci vuole molto di più di una subcultura della libidine per produrre un maniaco assassino.» Dopo un attimo, la moglie mise giù il giornale e assentì. «Hai ragione. Hai ragione. Una persona deve essere educata a non avere empatia, ad essere insensibile, o perfino a essere stimolata sessualmente dalla sofferenza, dal sangue e dalla morte degli altri. Forse, allora, puoi spiegarmi perché tua figlia Ally non ha provato dolore per la morte del suo ragazzo? Non ha versato una lacrima, non ha mostrato neppure un minimo d'angoscia. È come se quella dannata musica punk che ascolta le avesse sconvolto il cervello, come se Ally provasse emozioni aliene. O non ne avesse alcuna.» Lanciando uno sguardo al giornale che teneva in grembo, Helmond colse il nome dell'assalitore di Eunice: Cullan Dwayne Detwiler, così diceva l'articolo. Lesse anche, con non poca soddisfazione, che l'uomo era stato fatto fuori dalla polizia sulla scena della strage. Poi si chiese se fosse appena rimasto vittima di una di quelle astute trappole psicologiche della moglie. «Va bene. Ti prometto che le parlerò. Okay?» Janice sembrò improvvisamente sul punto di scoppiare in lacrime. «È tutto quello che chiedo. Se Ally sta diventando cinica, o altro, il momento per scoprirlo è adesso.» «Me ne occuperò io, Janice.» Continuando a leggere di sottecchi la prima pagina, Helmond notò un passaggio che non riuscì a comprendere subito. Quando gli risultò chiaro, non seppe se ridere, arrabbiarsi, oppure esserne disgustato. Un giornalista che aveva intervistato un sopravvissuto al massacro aveva etichettato Cully Detwiler come il «Figlio di Samain.» La cena si svolse tranquillamente, forse un po' troppo, anche se in un'atmosfera non del tutto imbarazzata. Helmond trascorse buona parte del pasto osservando Eunice, ma si accorse chiaramente che Ally era ancora turbata. Eunice sembrava completamente normale, allegra e affamata, la perfetta figlia di sette anni. Se soltanto Ally avesse avuto ancora quell'età spensierata, non avrebbe avuto i problemi di sesso, droga e stile di vita che le complicavano costantemente la vita. (No, le bambine di sette anni non avevano quei problemi; si limitavano a farsi ammazzare da pazzi sanguinali.) Era fin troppo ironico, vero? Era riuscito a ridare la vita ad Eunice, ma
non sapeva come rimettere insieme i pezzi della vita di Ally. Dopo cena, Helmond salì in camera di Ally e bussò gentilmente alla porta. «Principessa? Posso parlarti un minuto?» «La porta è aperta, papà.» Non riusciva a ricordare quando fosse stata l'ultima volta in cui era entrato in quella camera, ed ora ebbe la sensazione di trovarsi in un posto molto strano. Tende di velluto nero oscuravano completamente le finestre, sembrava esserci una profusione di catene d'argento legate dappertutto, e un gruppo di candele ardeva in un angolo. Le pareti della camera erano tappezzate di manifesti che esaltavano gruppi musicali come Alien Sex Fiend, London After Midnight, Caterwaul e Sisters of Mercy, chiunque o qualunque cosa fossero. Incenso dolce, al muschio, saturava l'aria di un aroma intossicante, e fece ricordare a Helmond il periodo in cui aveva frequentato l'università. Al di sopra del letto era appeso un crocifisso, solo che non c'era Cristo che si torceva nella passione dell'espiazione sull'antico strumento di morte lenta. Invece una splendida donna demonio era inchiodata alla croce alle caviglie e ai polsi, con delle ali di pipistrello spiegate, la bocca sensuale contorta in muta agonia, la testa riversa all'indietro che formava un angolo così acuto, che le piccole corna ricurve penetravano nel legno della croce. Trecce nere, macchiate di sangue le scendevano lungo i seni e le spalle. Il fisico voluttuoso, nudo e insanguinato, era stata scolpito squisitamente nei minimi dettagli, forse da Ally stessa; da bambina era stata molto dotata artisticamente. La vista della statua lo fece rimanere senza parole per qualche istante. Forse sua figlia era diventata un'adoratrice del demonio? Oppure quello era il modo in cui vedeva se stessa? Un'immagine molto ambigua. La trovò decisamente inquietante, specialmente dopo i terribili eventi della notte precedente. Lo stereo stava suonando musica che Helmond non aveva mai sentito prima, le parole invitavano a fare qualcosa tipo «ballare per tenersi lontani dalla morte». Immaginò che si trattasse di quello che veniva definito rock gotico o industriale, o in qualunque altro modo venisse chiamato. «È un po' di tempo che non abbiamo avuto occasione di chiacchierare,» esordì Helmond sedendosi sul letto. «Beh, credo che tu sia stato molto occupato.» Con la schiena poggiata ad una pila di cuscini rossi, Ally indossava dei jeans molto sdruciti e consumati ed un top arancione e aderente, che mostrava chiaramente l'avanzato sviluppo dei seni. Se Tommy Giraud non fosse morto, Helmond lo avrebbe considerato un ragazzo davvero molto fortunato.
«Credo di sì, ma questa in realtà non è una scusa.» Helmond intrecciò le dita e le fissò, poi si ricordò di guardare negli occhi sua figlia. «C'è qualcosa di particolare di cui ti piacerebbe parlarmi?» Ally non era truccata e ricordava a Helmond com'era stata da bambina, almeno nel volto. Assomigliava molto a Martha - gli stessi occhi stretti, le labbra piene, i tratti sfrontati, anche se la bellezza di Ally, rispetto alla madre, suggeriva maggiore intelligenza, maggiore consapevolezza. Il tono di lei fu leggermente spavaldo, anche se affettuoso, quando gli rispose. «Sto bene, papà. Riesco a sopportare bene la morte di Tommy. Semmai sono un po' scocciata per la lavata di testa della nonna.» «Perché è così? Perché la morte di Tommy non è un problema per te?» Ally sollevò le braccia al cielo. «Cosa si suppone che faccia, che me ne vada in giro con il saio e la cenere in testa per sei mesi? Non ero sposata a quel ragazzo, per l'amor di Dio. Uscivamo insieme, tutto qui. L'intera società è così legata al lutto, è patetico. Dovrebbe dolersi per la morte di se stessa.» Un pensiero interessante. «La società è morta?» «Sta morendo. Non è ovvio? I miei amici ed io ne siamo consci e non ce ne preoccupiamo più. Sta accadendo e basta, e noi siamo pronti. Come posso spiegartelo? Quando ci siamo trasferiti qui, ho subito trovato un gruppo di amici, molto simili a quelli che avevo in Pennsylvania. C'è stata una comprensione istantanea tra noi, perché pensiamo le stesse cose sul mondo, cioè che sta decadendo ed è irrilevante.» Helmond stava scoprendo un lato sconosciuto di sua figlia. Quando aveva smesso di sapere chi era Ally, come la pensava? «Questi amici di cui parli sono punk, vero?» La figlia parve disapprovare quel termine. «Le etichette sono inutili, papà. Sono soltanto giovani che stanno crescendo in questo particolare periodo ed epoca, e che hanno gli occhi aperti. Questo ci ha resi come... non so, commandos o qualcosa del genere. Se la società collassa o scoppia la terza guerra mondiale, noi saremo ancora capaci di divertirci tra le rovine della terra devastata. Siamo preparati a morire, e quando uno di noi muore, beh, non è una grande sorpresa, né un avvenimento importante. Per tutta la nostra vita abbiamo vissuto sotto la minaccia della guerra atomica, delle catastrofi nucleari, della guerra batteriologica, delle sostanze chimiche tossiche, delle droghe di contrabbando tagliate con cianuro, dei buchi nell'ozono e di pazzi, come il tipo che ieri sera ha fatto fuori tutta quella gente al Cream King. Questo ci rende pronti alla nostra morte, e a quella degli al-
tri.» Helmond desiderava ardentemente che gli altri smettessero di richiamare l'argomento del maniaco che i giornali avevano soprannominato "il guerriero pazzo". «I mali del mondo non devono farvi assumere un atteggiamento rinunciatario, Ally.» Ally si sporse verso di lui. «Noi non siamo abbattuti, papà. Ci siamo solo adattati agli orrori del mondo in cui stiamo crescendo. Non lo ignoriamo. Ma non cerchiamo più di cambiarlo. Questo è ciò che voleva fare la vostra generazione, e anche se noi capiamo quanto buone fossero le vostre intenzioni, sappiano anche che non sono servite a granché. La CIA e i pezzi grossi delle industrie sono ancora al potere e non si può fare molto per cambiare la situazione.» Stava diventando una discussione politica e Helmond non aveva intenzione di immischiarsi in una cosa simile. Non aveva mai pensato seriamente alla politica fin dai giorni dell'università, anzi non votava da più di dieci anni. Il lavoro lo aveva lentamente ma inesorabilmente consumato e a qual punto se ne stava rendendo conto soltanto in quel momento. «Credo di capire, ma davvero senti di affrontare ogni giorno la morte?» «E non è così?» Dovette ammettere che lei lo aveva colto in fallo. Da qualche parte, la generazione di Ally aveva perso l'ignoranza beata della generazione degli anni Cinquanta, l'ottimismo sognante della generazione degli anni Sessanta e l'edonismo egoistico della generazione degli anni Settanta. Negli anni Novanta, i ragazzi erano fin troppo consci dalla cruda e fredda realtà, grazie all'intensa esposizione ai media, senza dubbio, e questo conferiva loro la mentalità di truppe di prima linea. Non c'era da meravigliarsi che si rasassero a zero le teste, indossassero trucchi di guerra, si automutilassero con i gioielli e si vestissero di pelle come selvaggi. Si trattava di un comportamento rituale osservabile in ogni cosiddetta tribù primitiva, specialmente quelle la cui esistenza era minacciata da forze esterne ostili. Era questo ciò che il movimento punk rappresentava: una reazione all'incombente estinzione della razza umana? «Sono contento che abbiamo fatto questa chiacchierata,» disse Helmond, dandosi un colpo con la mano sulla gamba destra. «Non sono d'accordo con la tua visione della vita, ma ti ho allevato affinché tu ragionassi da sola. Penso che tu esprima il tuo cordoglio nella maniera da te reputata migliore, nel modo che ti è più congeniale. E non preoccuparti di nonna Loring. Non ti permetterò di farle visita senza che ci sia anch'io lì, a difender-
ti.» Ally abbassò lo sguardo, sorridendo lievemente. «Mamma ci ha provato, ma la nonna è sua madre, capisci? Mi ha perfino offerto di riportarmi a casa, ma io ho insistito per rimanere.» Helmond trovò la cosa incoraggiante. «Questo è molto maturo da parte tua, Ally. Sono molto orgoglioso di te.» Helmond si alzò e si diresse verso la porta. «Non volevo creare nessun altro problema. Dì, babbo?» «Sì, tesoro?» Ally lo stava guardando con un espressione supplichevole. «Sono ancora in punizione?» La resistenza di Helmond era debole in quel momento, e apparentemente lei lo aveva percepito con incredibile intuito. «Credo di no.» Fuori della stanza, nel corridoio, rifletté che aveva trascorso la giornata venendo abilmente manipolato da due delle donne della sua vita, e che dopo tutto non gli importava poi così tanto. LA SCAPPATOIA DI DIO Il lunedì mattina, Helmond non gradì molto l'idea di andare in laboratorio, di ritornare nel luogo in cui si era svolta la strenua battaglia che aveva sostenuto con le forze del più profondo oblio. Qual era quel modo di dire con cui si indicava l'inizio della settimana lavorativa? «Ritornare nel pozzo?» Sì, pensò. Di nuovo nel pozzo senza fondo. Di solito, il suo lavoro era pura estasi, più gioco che fatica, un'autentica esaltazione, ma ora era tormentato da cupi timori. Non aveva ancora deciso se avrebbe onorato oppure no il melodrammatico giuramento che aveva formulato, e l'indecisione lo dilaniava. Nemmeno nei suoi incubi più folli avrebbe supposto che le cose avrebbero potuto andare in quel modo. Quando entrò in laboratorio, Sharon stava ripulendo il pavimento dai vetri rotti; aveva un ottimo aspetto, nonostante la terribile esperienza a cui l'aveva sottoposta Helmond. Quella donna era decisamente un enigma per lui, un momento prima così vulnerabile, un momento dopo così forte, comunque sempre capace di riprendersi rapidamente. Si chiese come fosse realmente nell'intimo, piedi d'argilla o nervi d'acciaio. «Buongiorno, Herr Doktor,» gli augurò sorridendo Sharon. «Allora, cosa abbiamo in programma oggi?» Dio, come sempre aveva scelto il momento sbagliato per scherzare.
«Autopsia, scartoffie, compilazione delle richieste di sostituzione di tutto quello che è andato distrutto.» Stava solo fingendo, oppure voleva davvero utilizzare tutto l'equipaggiamento che avrebbero ordinato? «Sembra divertente. Dì un po', cosa ne è stato del brodo primordiale nel serbatoio di riserva? Il livello è a zero.» La risposta ebbe un tono meno amichevole di quanto Helmond avrebbe voluto. «Il sistema di controllo della temperatura ha funzionato male durante il fine settimana, il liquido si è guastato, e allora l'ho gettato.» Lei lo fissò, sbattendo le palpebre. «Di solito non ti fai vedere durante i fine settimana. Quando sei venuto?» «Che differenza fa, Sharon?» Quel giorno la ragazza gli stava davvero dando sui nervi. «Be', ho verificato tutti i quadranti, quando sono venuta sabato per dar da mangiare agli animali, e tutto funzionava bene. Ma quando sono ritornata domenica, il resto della soluzione era scomparso.» Helmond si spostò verso un banco di lavoro, dando le spalle alla sua assistente. «Be', sono venuto domenica notte. Perché stai ingigantendo la cosa? Era andata a male, e me ne sono sbarazzato. Okay?» «Sì, certo, Lenny, solo che qui noi misceliamo il brodo più caro del mondo. Un bel po' di sovvenzioni in denaro che se ne vanno nella fogna. Be', in tutti i casi, devo ordinare altre sostanze per la soluzione?» Perché Sharon lo stava pressando a quel modo? Helmond sapeva che non era così, ma ne aveva lo stesso l'impressione. «È troppo presto. Prima devo cercare di capire esattamente cosa è andato male durante l'ultimo esperimento.» Sharon si avvicinò a lui con le braccia incrociate, guardandolo come se fosse un bambino testardo. «Ci vorranno cinque settimane circa perché tutti gli elementi vengano consegnati. Per allora conosceremo la risposta, non è vero?» Helmond si allontanò da lei. «Non ne sono sicuro. Per quel che so, potremmo anche dover ricominciare daccapo. Magari ci vorranno mesi per riaggiustare le cose.» Sharon ora lo fissava accigliata. «Non ci credo, Lenny, e nemmeno tu ci credi. Lenny, guardami!» Helmond incontrò con riluttanza lo sguardo dell'assistente. «Lascerai forse che un fallimento distrugga la tua fiducia? Be', non farlo, Lenny. Io credo in quello che stiamo facendo. Io credo in te.» C'era una strana espressione negli occhi di lei, un'espressione che Helmond aveva visto prima, ma che non aveva mai pensato di poter scorgere
nello sguardo di Sharon Bishop. L'intera conversazione si era caricata troppo di sottintesi emotivi, e troppo in fretta, come se lui avesse improvvisamente intavolato un'accesa discussione con un paranoico schizofrenico. Quel che stava accadendo sembrava non avere nessun rapporto diretto con la realtà. «Il processo funzionerà,» disse lui, debolmente. «È solo che voglio procedere con cautela questa volta. Non voglio che capiti nessun altro disastro come quello di Osiris.» Sharon sembrò rendersi conto che la scena aveva preso una piega un po' da soap opera e si ricompose, impacciata. «Be', volevo solo che sapessi che sono con te, qualunque cosa succeda. Tu puoi contare su di me.» Helmond era ancora impietrito dalla rivelazione. Quella donna era innamorata di lui, o almeno lo desiderava ardentemente. Ma chi l'avrebbe mai pensato. Be', non voleva trovarsi di nuovo impelagato in quel genere di problemi. Ad ogni modo, probabilmente si trattava soltanto di una fissazione per la figura paterna che lui incarnava. «Okay, Sharon. Grazie. Adesso mettiamoci al lavoro.» Dovette lottare conto il desiderio di rivelarle quello che era veramente successo domenica notte, lottare contro la voglia di confessarlo tutto d'un fiato, in un moto liberatorio, con violenza, insieme alle lacrime, ai singhiozzi e a tutto quello che sarebbe uscito. Doveva dirlo a qualcuno; non era il genere di cose che si potevano tenere dentro. Ma decise di non farla soffrire con quella rivelazione. L'autopsia di Osiris non rivelò niente di nuovo, anche se avallò tutte le conclusioni di Helmond. Buona parte dei neuroni dello scimpanzé erano letteralmente esplosi: adesso somigliavano a chicchi oblunghi di pop-corn. Alcuni campioni di quel tessuto vennero rimossi e riposti in un liquido conservante, per essere sottoposti ad ulteriori studi specifici. Quando ebbero finito, misero i resti dell'animale nell'inceneritore con una triste cerimonia, poi si sedettero alla scrivania del laboratorio per alcuni minuti di imbarazzante silenzio. Sharon continuò a fumare una sigaretta dopo l'altra. «Sono contenta che sia finito,» disse l'assistente dopo un po'. Helmond non sapeva nemmeno che le avrebbe posto la successiva domanda, fin quando non gli scappò detto. «Sharon, tu credi in Dio?» Lei esalò un filo di fumo e osservò il soffitto, riflettendo. «Sì, penso di sì. L'intero meccanismo è un tantino troppo perfetto per essersi prodotto per puro caso.» Lui prese una sigaretta e l'accese. «Quale meccanismo?» L'espressione meditabonda di Sharon le conferiva un'aria da scolaretta.
«Oh, tutti i fattori ecologici che rendono la terra abitabile. L'orbita è nel posto giusto, una variazione di pochi gradi può rendere il pianeta così freddo o così caldo da non permettere l'esistenza di alcuna forma di vita, un migliaio di variabili che si associano, e in qualche modo restano abbastanza stabili da permetterci di sopravvivere.» Helmond assentì. «Questo tuo Dio possiede i concetti di bene e di male?» Lei lo fissò negli occhi. «Be', non nel senso che si mette a contare il numero di volte che ognuno si masturba o ruba i posacenere di un motel, ma credo che sia una forza creativa. E quando ti astieni dal distruggere, anche questa è creazione. Quando crei e sviluppi delle cose, che siano un'opera d'arte, una pianta, un'emozione piacevole, qualunque cosa, tu compì la Sua volontà. Quando distruggi qualcosa, un essere vivente, la vita di qualcuno, o qualsiasi altra cosa, questo è male.» «E cosa ne pensa il tuo Dio del nostro piccolo esperimento?» Appoggiandosi contro lo schienale della sedia, la donna appoggiò le gambe sulla scrivania e le accavallò, offrendo ad Helmond una piacevole visuale. Lo scienziato giunse alla conclusione che Sharon aveva delle gambe notevoli. «Dio ha creato la natura e gli esseri umani sono evoluti da essa, dunque niente di ciò che facciamo può essere considerato innaturale. Non esiste nulla nell'universo che all'Uomo non sia permesso conoscere e la scienza dovrebbe scoprire tutto ciò che le è possibile. So di aver espresso dei sentimenti difficili da definire, Lenny, ma se Dio lascia una scappatoia nell'esistenza, una scappatoia che possiamo utilizzare per aggirare la morte, dovremmo utilizzarla. Qualche altra fondamentale domanda sulla metafisica?» Lui spense la sigaretta. «Sì. Se si fa un voto solenne in un momento di profonda agitazione, a te stesso o a Dio o a qualsiasi altra potenza esista, sei legato alla promessa?» Sharon rise allegramente. «Parli di un ateo in una trincea sotto il fuoco nemico che promette di diventare un prete, se solo Dio lo farà uscire dalla battaglia sano e salvo?» «Qualcosa del genere, sì.» Sharon era sorpresa che lui le avesse rivolto una simile domanda, quell'uomo freddo e razionale il cui grandioso intelletto era in procinto di rivoluzionare il cosmo da cima a fondo. «Lenny, il testamento e le ultime volontà di un folle non sono validi, la promessa di matrimonio di un seduttore è priva di fondamento, e i giuramenti fatti durante le notti buie dell'ani-
ma non sono legami. Sei libero da qualsiasi fardello tu ti sia addossato. Inoltre, cosa ne sarebbe della tua vita, se abbandonassi la ricerca scientifica? Non sai fare nient'altro, diventeresti un barbone da strada. E non saresti un bello spettacolo.» Risero insieme, e Helmond si sentì immensamente meglio, come se un pesante demone che incombeva sul suo spirito se ne fosse improvvisamente andato. Immaginò anche questo irsuto demone dal posteriore abbondante che crollava a terra con un grugnito. La scena lo fece ridere ancora di più. «Andiamo, signora,» le disse Helmond alzandosi. «La porto a pranzo.» Sharon era assolutamente raggiante mentre si dirigevano vero la porta. «Gesù, dovremmo parlare di teologia più spesso. Ha un effetto salutare su di te.» «Non cercare di salvare la mia anima, pupa. L'ho venduta al rettore Ingersoll.» Uscirono dal laboratorio con un nuovo scoppio di risa. Nella sua gabbia, il topo chiamato Valdemar rimase nel suo stato di morte vivente, desiderando ardentemente di porvi fine. Quella sera, proprio mentre Helmond imboccava con l'auto il vialetto di casa, la macchina dello sceriffo della contea lo raggiunse e parcheggiò dietro di lui. Dopo un attimo di confusa curiosità, a Helmond venne in mente la possibilità peggiore. Ebbe un tuffo al cuore. Se continua così, avrò certamente un infarto, pensò, mentre usciva dall'auto e andava incontro allo sceriffo a metà strada. «Professor Helmond?» L'uomo in uniforme era piuttosto giovane e di bell'aspetto per quel lavoro, giudicò Helmond. «Non insegno in questo quartiere,» rispose, «Dunque può lasciare perdere il 'professore'. Mi chiami semplicemente Len.» L'uomo lo stava scrutando attentamente. «Bene. Lo farò. Sono Stuart Coleridge, lo sceriffo della contea. Mi chiedevo se potevo farle alcune domande.» Helmond cercò di apparire impaziente. «Su cosa?» Coleridge si produsse nella classica spiegazione impacciata. «Be', signore, è piuttosto difficile spiegarlo. Ha a che fare con quel che è accaduto domenica notte al Cream King. Sembra che uno studente dell'università l'abbia vista lì quella notte. Si chiama Dom Pitney. Lo conosce?» Helmond annuì. «Sì, lo conosco. Ha sostenuto un colloquio con me per
un lavoro di assistente di laboratorio. È successo tempo fa, e da allora non ho parlato più con lui, tranne che per salutarlo qualche volta al campus.» Il suo cuore sembrava una locomotiva a tutta velocità che stava per deragliare, e pregò che non si notasse. Lo sceriffo si grattò dietro un'orecchio. «Be', signore, verrò subito al punto. Questo Pitney dice di averla vista raccogliere un corpo nel parcheggio, che poi ha messo nella sua auto. So quanto suoni folle tutto questo, ma lui giura che è vero. Dice di essere arrivato in auto proprio nel momento in cui è cominciata la sparatoria, e che l'ha vista in ginocchio su di un corpo sanguinante, sembrava quello di una bambina, che giaceva sull'asfalto. Stando al racconto di Pitney, lei ha poi aperto il bagagliaio della macchina, vi ha sistemato il corpo, per poi andarsene a velocità folle.» Si fermò, nervoso, e indicò la casa. «Possiamo entrare a discuterne, Dr. Helmond?» Helmond fissò con ira quell'uomo che non riusciva neppure a chiamare qualcuno col nome di battesimo, mentre lo accusava di una tale mostruosità. «No, non possiamo. Non voglio che mia moglie venga turbata da queste sciocchezze. Mi sta dicendo, sceriffo Coleridge, che ha preso sul serio questa storia?» Coleridge era decisamente imbarazzato. «Be', signore, ho pensato fosse meglio verificare. Voglio dire, l'intera faccenda è alquanto bizzarra, bisogna ammetterlo. Non sono sceriffo da molto, ma ho vissuto in questa città tutta la mia vita, e in precedenza non è mai accaduto niente. Comunque, Pitney stesso quella notte se l'è cavata per un pelo. La sua Firebird è tutta sforacchiata. Così, vede, non riuscivo ad immaginare il perché si fosse preso la briga di architettare tutta questa storia. Capisce cosa voglio dire?» Adesso il biochimico cominciava ad arrabbiarsi. «Allora cosa suggerisce che ne abbia fatto del corpo? Pedofilia necrofila? Raccapriccianti esperimenti? Cosa? Ci pensi su logicamente, sceriffo. Qualcuno ha riferito della scomparsa di un bambino?» Con le mani infilate nelle tasche, lo sceriffo sospirò profondamente. «No, signore, ci ho pensato anch'io. Poi ho svolto delle indagini e ho scoperto che lei ha una figlia piccola, così ho pensato che poteva essersi ferita o che fosse svenuta per la paura, e che lei poteva averla portata in ospedale, ma nessun pronto soccorso locale aveva registrato l'eventuale ricovero. Inoltre, non riuscivo a capire perché avrebbe dovuto sistemarla nel bagagliaio, invece che sul sedile anteriore. Ma lei afferma di non essere stato lì quella notte, è vero, dottore?» Era arrivato il momento della verità, pensò Helmond. Ora doveva deci-
dere come comportarsi. Se avesse ammesso di essere stato presente sulla scena del crimine quella notte, avrebbe sollevato ogni genere di domande nella mente di Janice e avrebbe potuto perfino innescare qualcosa di spiacevole in Eunice. Tuttavia, se Coleridge sapeva più di quel che diceva, avrebbe attirato dei sospetti su di sé, nel caso fosse stato colto a mentire. Si guardò intorno nell'oscurità che stava calando, poi fissò il suo inquisitore. «È così, sceriffo. Non ero lì. Mia figlia sta bene. Se non mi crede, può chiamare la scuola elementare Windsor. Oggi, come al solito, ha seguito le lezioni.» «Sua figlia è in casa adesso, dottore? Posso parlarle?» Ormai Helmond cominciava a preoccuparsi sul serio. La cosa stava andando troppo per le lunghe, e da un momento all'altro Janice poteva uscire di casa per scoprire cosa stesse succedendo. «È fuori discussione. Non vedo la necessità di disturbarla.» Lo sguardo di Coleridge divenne di pietra, quando incontrò gli occhi di Helmond, e l'uomo adottò un nuovo ruolo. Prima, si era comportato come il poliziotto di una piccola città, poi si era trasformato in investigatore, e ora era Mr. Piedipiatti-figlio-di-puttana. «Le dispiacerebbe, allora, se do un'occhiata nel bagagliaio della sua auto?» Tutti gli organi interni dello scienziato sembrarono improvvisamente voler abbandonare il suo corpo. Non aveva ancora pulito il sangue all'interno del bagagliaio, e sarebbe stato difficile spiegare le macchie, nel migliore dei casi. «Sceriffo Coleridge, penso che lei abbia sprecato una quantità sufficiente del mio tempo e la mia cena si sta raffreddando. Le auguro buona notte.» Cominciò a risalire il vialetto. «Posso procurarmi un mandato.» Helmond si voltò e ritornò sui suoi passi, infuriato. «Sulla parola di qualche moccioso pieno di foruncoli che ce l'ha con me perché ho rifiutato di assumerlo un paio di mesi fa? Penso che qualunque giudice le riderebbe in faccia. Inoltre, a cosa le servirebbe? Se ci fosse una prova incriminante in quel bagagliaio, potrei rimuoverla adesso, subito, mentre aspetto il suo ritorno. Allora, cosa ne dice, sceriffo, dimentichiamo che questa insana conversazione abbia mai avuto luogo?» Coleridge rifletté sulla faccenda, sembrò aver deciso che non valeva la pena di continuare il battibecco, e rivestì di nuovo i panni dell'amichevole poliziotto di quartiere. «Niente di personale, beninteso, Dottore. Cercavo soltanto di venire a capo della cosa, ecco tutto. Mi dispiace di averla disturbata.» Fece un cenno di saluto toccandosi il berretto e ritornò in mac-
china. «Buona sera, signore.» Per un breve attimo, Helmond dovette sforzarsi di non salutare lo sceriffo Coleridge con il dito medio della mano destra, poi entrò in casa per gustarsi il calore e l'affetto della famiglia. Le ripercussioni di quel che aveva fatto avrebbero mai avuto fine? Sarebbe mai riuscito a lasciarsi alle spalle quella crudele e inumano tormento? «Cosa è successo là fuori?» gli chiese inevitabilmente Janice. Lui posò la valigetta sul tavolino dell'ingresso, cercando di prendere tempo, poiché non voleva mentire alla moglie. «Qualche studente sta spargendo delle stupide chiacchiere su di me al dipartimento di polizia, ecco tutto. Niente di cui debba preoccuparti.» La moglie si accigliò e storse leggermente la bocca. «Che genere di chiacchiere? Voglio dire, mi è sembrato che stessi discutendo con quel poliziotto.» Mantenendo un tono di voce calmo con la pura forza di volontà, Helmond la guardò dritta negli occhi e disse, «Davvero, Janice, non è nulla. Non preoccuparti.» Per un attimo, sembrò che la moglie volesse insistere, poi Janice si calmò. «Se lo dici tu. Ah, la cena è pronta.» «Bene. Muoio di fame,» commentò lui con falsa contentezza. Ma dimostrò di non avere troppo appetito. CORPI MENTALI Quando giunse il giorno del Ringraziamento, sembrava che gli echi dell'impresa terribile e meravigliosa compiuta da Helmond si fossero attenuati, tanto che ormai lo scienziato riusciva a non pensarci per ore intere. Come molti altri maschi americani, sedette nella sua comoda poltrona a bere birra di fronte al televisore, guardando una partita di football e aspettando che il banchetto festivo si materializzasse. Andy sedeva raggomitolato al suo fianco, con in mano un pallone ovale Nerf, ed esultava nei momenti appropriati. Helmond gustò quell'atmosfera di normalità come un assetato avrebbe gustato un sorso d'acqua: la guerra che si svolgeva sul teleschermo, sublimata sugli spalti di uno stadio, gli spot di cure per il piede d'atleta, di deodoranti, di colluttori, di birra a bassa gradazione e di rimedi contro il prurito che la interrompevano, l'odore intenso dell'arrosto di tacchino che aleggiava per casa; la rumorosa, divertente compagnia dei figli e il lieve sopore
che gli provocava la bottiglia di Coors. Cosa piuttosto insolita, Ally era in cucina ad aiutare Janice a preparare l'enorme banchetto, mentre Eunice era sul divano e leggeva Grendel di John Gardner. Helmond si rese conto, quasi casualmente, che era una lettura piuttosto impegnativa per una bambina dell'età di Eunice, ma non dedicò troppo tempo ad approfondire quella riflessione. «Dove hai trovato quel libro, zucchetta?» le chiese. Eunice rispose dopo un'esitazione di alcuni secondi. «In biblioteca. C'è il nome di Ally sopra.» Probabilmente la figlia stava capendo ben poco di quello che leggeva, decise Helmond, e poi si concentrò nuovamente sulla partita. Lazarus fece il suo ingresso, stringendo apparentemente nella zampa destra un occhio insanguinato. Helmond sussultò e trascorse una spiacevole frazione di secondo prima che comprendesse che si trattava soltanto di un grosso ravanello che la scimmia stava sgranocchiando allegramente. Si staccò dalla poltrona e andò in cucina per prendersi un'altra birra. Sul frigorifero erano stati incollati disegni infantili tracciati a mano di pellegrini e tacchini; i due figli più piccoli li avevano portato a casa da scuola. Nella sua illustrazione del primo giorno del Ringraziamento, Eunice aveva rappresentato gli indiani come esseri scuri e pelosi, i pellegrini come uomini smunti e con gli occhi incavati, e il tacchino come un avvoltoio con ali simili a quelle di una falena. Helmond non poté fare a meno di ridere del bizzarro senso dell'umorismo dimostrato dalla piccola. Poi notò che tutte le zucche nel disegno avevano un volto, come quelle che venivano esposte a Halloween. Forse quello era un ricordo inconscio dell'incidente? C'era da dubitarne. Aprì lo sportello e prese una birra fresca. «Come sta procedendo, signore?» chiese alla madre e a Ally, che erano estremamente occupate. Teddy Bear stava annusando il pavimento vicino ai loro piedi, alla ricerca dei rimasugli caduti. «Abbiamo quasi finito,» annunciò Janice, spalmando con un coltello un po' di crema di formaggio su di un gambo di sedano. «Credo di aver preso un tacchino troppo grande quest'anno. Pesa quasi otto chili.» «Benissimo, mangeremo panini al tacchino freddo per tutto il prossimo mese. Personalmente, non mi stanco mai di mangiarli.» Accanto al lavandino, Ally ridacchiò mentre tagliava e puliva ravanelli per gli antipasti. Ovviamente era da lì che proveniva lo spuntino di Laz. «Be', sai come si dice: sei quello che mangi.» Lui le diede una lieve pacca sul sedere, che non era poi tanto coperto:
c'erano soltanto i lembi della camicia verde a maniche lunghe che indossava, e i collant neri che portava sotto. Dopo aver compiuto quel gesto, ne fu leggermente imbarazzato, ma Ally non parve dargli alcuna importanza. «Il tuo vecchio non ha bisogno per forza di tacchino freddo» replicò un po' impacciato. «Non sono un drogato.» «E la bottiglia che hai in mano?» lo punzecchiò Janice. «Forse il trangugiare birra non è una forma di tossicodipendenza?» Helmond sollevò la bottiglia verso di lei. «Questa la bevo solo a scopo curativo, capisci.» La moglie sghignazzò allegramente. «Oh, fuori di qui, lascia che le donne sbrighino le loro faccende.» «Capito, obbedisco.» Ritornò in sala da pranzo, lietissimo che Janice ed Ally fossero in buoni rapporti. Forse non sarebbero state mai più tanto vicine quanto lo erano state un tempo, questo Helmond lo sapeva bene, ma almeno era stato gettato un ponte sull'abisso sempre più vasto che le separava. Sperò che fosse abbastanza forte da resistere alla prova del tempo, alla tensione degli anni più difficili che sarebbero sicuramente arrivati. Mentre si sedeva di nuovo accanto ad Andy, la sua mente creò di colpo un'immagine di Ally - il corpo di lei abbandonato con nonchalance in una posa sensuale, l'espressione vivace e provocante - e rimase sconvolto da ciò che aveva pensato. Buon Dio, hai fatto pensieri erotici su tua figlia! Ehi, rilassati, si disse. Senza dubbio tutti i padri di belle ragazze avevano sperimentato pulsioni simili, e non c'era nulla di anormale, a meno che non si volessero attuare concretamente. Era la prima figlia che diventava adulta, e l'intensa percezione della sua sensualità che sbocciava lo aveva leggermente colto di sorpresa, ecco tutto. Non c'era modo di prepararsi alla cosa. Bevve un lungo sorso di birra e guardò una violenta ammucchiata che si svolgeva sul campo di gioco. Eunice lo stava fissando. Helmond se ne accorse con la coda dell'occhio, poi incontrò lo sguardo della figlia: azzurro e attento. La sua espressione sembrava stranamente triste, quasi ferita da un'immensa saggezza che era al di là dei suoi anni, e i nervi di Helmond ne furono leggermente scossi nel guardarla. Era impossibile che Eunice avesse potuto intuire cosa aveva pensato, ma di sicuro gli sembrò che l'avesse fatto. Il libro le giaceva aperto sulle gambe, e lei si era voltata a guardarlo con uno sguardo strano, vagamente accusatorio. Helmond maledisse se stesso per la sua stupida immaginazione. «Perché quel faccino scuro, tesoro?» le chiese.
Lei abbassò lo sguardo, distogliendolo dagli occhi del padre. «Niente. Mi sta solo venendo fame, credo.» «Tua madre ha detto che la cena sarà pronta tra poco.» E così era ancora un po' nervoso. Ma chi non lo sarebbe stato, dopo quello che aveva passato il mese precedente? Il grande volatile terminò finalmente di cuocere, e Helmond fu chiamato in cucina per tagliarlo con il coltello elettrico. Era davvero un esemplare formidabile: un qualche essere preistorico, magari un moa, catturato e servito a tavola con insensibile indifferenza per il suo inestimabile valore scientifico. Helmond accese la lama che vibrava e la immerse nello spesso ammasso di carne bianca del petto del tacchino; tagliò con abilità sottili fette di carne che, piegandosi, caddero sul piatto di portata. Poi, improvvisamente, quello che stava sezionando, non fu più un uccello. Divenne un torso umano, crudo e tenero... e ancora vivo. Non erano gli Aztechi che erano soliti scuoiare vive le vittime sacrificali e danzare indossando le loro pelli? Il loro lavoro sarebbe stato facilitato, se avessero avuto a disposizione un coltello elettrico come quello che impugnava lui. Non aveva la più pallida idea del perché stesse pensando a una cosa del genere, ma le ginocchia gli si fecero molli e provò una sensazione di nausea. Lo stordimento gli sconvolse i sensi; Helmond lasciò cadere il coltello e afferrò il bordo del ripiano della cucina giusto in tempo per non cadere sul pavimento. Ally lo resse da dietro, e Janice rapidamente la imitò. «Cosa c'è che non va?» chiesero quasi simultaneamente in tono ansioso. Il malessere, di qualunque cosa si fosse trattato, passò in fretta. Helmond si riprese completamente, anche se stava sudando un po' più del normale. «Vorrei saperlo anch'io. Forse, inconsciamente, sono un vegetariano o qualcosa del genere. Ma adesso sto bene. Davvero.» «Troppa birra a stomaco vuoto, ecco cos'è stato,» disse Janice in tono un po' rude. Helmond tagliò dell'altra carne, e non avvenne nessun'altra macabra trasformazione; poi sedettero tutti a tavola in sala da pranzo per divorare il tacchino, il ripieno, il purè di patate, la salsa, i panini sfornati di fresco e pieni di burro, le patate dolci e la salsa di mirtilli. Come al solito, prima di mangiare, Janice insisté nel voler pronunciare una breve preghiera di ringraziamento. «Signore,» disse con una voce né troppo imperiosa né troppo solenne, «ti ringraziamo per questo cibo che ci hai donato, per la salute e la felicità, e per la buona fortuna che abbiamo avuto l'anno passato. Ti ringraziamo, o
Signore. Amen.» Poi iniziarono il complicato balletto del passarsi le cose l'uno con l'altro, le discussioni scherzose per accaparrarsi la carne perfettamente cotta, che non era mai sufficiente, i vari ed esagerati complimenti sulla bontà del cibo. Quando si sedettero e si apprestarono ad attaccare l'abbondante contenuto dei loro piatti, parlando del più e del meno, la mente di Helmond ritornò alla preghiera della moglie. Certo, non era una fanatica, non andava in chiesa, né guardava programmi evangelici alla TV, ma aveva una fede profonda e irremovibile, molto simile a quella di Sharon. Ricordò le lunghe conversazioni sulla teologia che aveva avuto con Janice quando avevano iniziato a frequentarsi, dopo che l'aveva incontrata alla Deacon, la compagnia di forniture per laboratorio dove lei lavorava come segretaria, conversazioni che si erano trasformate in discussioni accese. Lui aveva utilizzato ogni approccio logico per incrinare la fede di Janice in Dio, e aveva esposto con calma ogni fatto e ogni tipo di ragionamento che deponessero a favore dell'ateismo, ma lei non aveva ceduto neppure di un centimetro. Semplicemente, Janice non riusciva ad accettare che gli esseri umani fossero stati lasciati soli alla deriva in un universo privo di senso, senza un creatore che si prendesse cura di loro e li proteggesse. Era fondamentalmente la stessa convinzione di Sharon, a cui aderivano la maggior parte delle persone, non appesantita dal dogma, dalla dottrina o dal rituale, ma semplicemente la certezza che esisteva un qualche tipo di Essere Supremo. In tutta la sua vita, Helmond non era mai riuscito riuscito a convertire all'ateismo neppure una delle donne che aveva amato, anche se Martha era rimasta così delusa da quei predicatori isterici e inclini alla glossolalia dai quali, per un po', era stata estremamente attirata, che si poteva addirittura affermare fosse scivolata verso la miscredenza. Per quanto riguardava i suoi figli, Helmond stava tentando di non influenzarli, affinché si formassero autonomamente una propria opinione sull'argomento. Si chiese cosa avrebbero deciso. «Nonna Loring desiderava che andassimo da lei per il pranzo di Ringraziamento,» annunciò Janice con cauta ironia. «È inutile dire che ho pensato non fosse una brillante idea.» «E neppure così-così,» concordò Helmond. «Oltre a cercare di far dire ad ognuno la propria versione della preghiera di ringraziamento prima di mangiare, mette le mandorle nel ripieno, e io odio le mandorle.» «Io non ci sarei venuta,» asserì Ally. «Punto e basta. Avrei preferito morire di fame.»
Janice e Helmond si scambiarono un sorriso, sollevati che Ally manifestasse di nuovo il suo carattere pestifero, che in lei sembrava del tutto naturale. Helmond non aveva riferito per filo e per segno alla moglie quello che Ally gli aveva detto la notte in cui avevano parlato della morte di Tommy Giraud; aveva avuto la sensazione che Janice avrebbe reagito male. Invece aveva spiegato alla moglie che alcune persone soffrono in silenzio e nell'intimo, e che non c'era nulla di anormale in proposito. La moglie gli era parsa alquanto soddisfatta di quel resoconto estremamente libero. «Quanto lavoro hai nelle prossime due settimane?» gli chiese Janice. «Non dovrei fare tardi, se è questo che vuoi sapere. Ho dovuto ordinare delle forniture, e non posso fare molto prima che arrivino. Perché?» «Be', mi piacerebbe che si facessero dei lavoretti in casa, almeno che si desse una tinteggiata alle camere. La stanza di Eunice è quella che ne ha più bisogno.» Helmond piagnucolò mentalmente. Odiava i lavori domestici. «Perché non chiami qualcuno ad aiutarti, Janice? Io non sono bravo per questo genere di cose.» Lei gli puntò contro un dito. «Oh, non ci riuscirai, non te la caverai affermando di non esserne capace. Hai dato un'occhiata al nostro bilancio di recente? No, certo che no. Queste sono faccende che deleghi sempre a me. Be', non siamo ancora ricchi, Einstein. Fino a quando non diffonderai in tutto il mondo la tua miracolosa invenzione, continueremo a vivere come bifolchi, dunque, preparati spiritualmente ad impugnare il pennello, giovanotto.» Helmond si considerò definitivamente sconfitto. «Sì, mia regina.» Lei si girò verso Eunice, seduta alla sua destra. «Presumo che vorrai che la tua stanza venga dipinta di celeste.» Eunice rifletté. «No. Giallo, penso.» Janice replicò, leggermente stupita, «Ma il celeste è il tuo colore preferito.» La figlia la guardò con manifesta perplessità. «Davvero?» Helmond smise di masticare, mentre avvertiva una leggera pelle d'oca. E così, dopo tutto, Eunice aveva subito una qualche perdita di memoria, qualcosa le era stato davvero sottratto dalla sua personalità. Be', è inutile farsi prendere dal panico. È una cosa che si può sopportare. Si deve. «Certo che lo è, cara. Lo è sempre stato, per quel che mi ricordo.» Janice sembrava molto più turbata da quell'improvviso cambiamento di carattere di sua figlia di quanto avrebbe dovuto - intuizione materna, forse, che la
informava che quello era un sintomo di qualcosa di più vasto e profondo. Eunice scosse le spalle. «Be', ora non lo è più. Penso che una stanza dipinta di celeste sarebbe orribile.» Helmond dovette concordare con la figlia. Gli sarebbe stato assolutamente impossibile abitare in una stanza del genere. Non che una stanza tutta gialla fosse molto meglio. «Va bene. Vada per il giallo allora.» Janice pareva un poco titubante, ma grazie a Dio non insistette sull'argomento. Non c'era modo di appurare quali effetti avrebbe potuto avere sulla sanità mentale di Eunice il richiamare aspetti perduti della sua personalità. Helmond non riteneva che la condizione mentale della figlia fosse particolarmente fragile, ma non voleva neppure correre rischi. «Voglio la stanza dipinta di rosso, come il camion dei pompieri.» annunciò Andy. In quel momento della sua vita diventare un pompiere gli sembrava la cosa più importante del mondo. A volte pareva mangiare, bere, sognare e respirare nient'altro che pompieri, caserme di pompieri e camion di pompieri. «Non puoi avere una stanza rossa, Andy,» lo ammonì gentilmente la madre. «Perché no?» «Perché è troppo luminosa. Non si dipingono stanze di quel colore, ecco tutto.» A meno che non si tratti di una stanza in un bordello, pensò Helmond. Andy sentenziò, «Che stronzata,» con totale innocenza. Ci fu un attimo di sopresa generale, poi scoppiarono tutti a ridere. Janice fu la prima a ricomporsi. «Non è divertente. Andy, non devi dire quella parola.» Poi guardò gli altri seduti intorno al tavolo. «Dove ha sentito una cosa simile?» «Per l'amor di Dio, Janice,» intervenne Helmond. «Fai uso di quella parola almeno tre volte al giorno.» «Non è vero!» Tutti risero di cuore alle sue spalle. Come al solito, Ally fu la prima a finire di mangiare, si alzò e andò in cucina, ancora ridacchiando. Quando raggiunse il vano della porta, si arrestò di scatto e rimase immobile e silenziosa, fissando ciò che i suoi occhi avevano visto, poi reagì. «Oh cavolo!» esclamò. Dopo qualche istante, il resto della famiglia si alzò da tavola e le si affollò intorno per scoprire cosa avesse visto. Lazarus era accucciato sul ripiano
della cucina e stringeva un cuore di tacchino mezzo mangiato tra le lunghe dita, con il sangue che grondava sul dorso peloso delle zampe e intorno alla bocca. Mentre loro guardavano, la scimmia strappò un altro morso di tessuto duro e fibroso dall'organo sanguinolento. «Volevo darlo al gatto,» fu l'assurdo commentò di Janice. Helmond la guardò, incapace di rispondere, poi fissò di nuovo Lazarus, che stava masticando soddisfatto. «Len, di solito le scimmie non mangiano carne, vero?» chiese la moglie, ora in tono più inquieto. «Uh, in generale no. Qualche volta, i babbuini mangiano carne, o almeno credo. Ma non penso che la stia mangiando veramente, però. Credo che ci giochi soltanto.» Ma l'animale stava chiaramente inghiottendo il boccone, quando Helmond superò Ally e gli si avvicinò attraversando la cucina. Lazarus reagì con estrema violenza, strillò con tutto il fiato che aveva nei polmoni e soffiò come un gatto arrabbiato, poi evacuò nella mano sinistra e lanciò quel fetido proiettile contro Helmond. Questi, totalmente impreparato all'assalto, fu colpito in pieno petto dalle feci, che rimasero per un istante attaccate alla felpa color rosso chiaro, lasciando una macchia scura, per poi cadere sul pavimento. Quello era un comportamento difensivo abbastanza tipico per i primati, ma in precedenza Lazarus lo aveva adottato soltanto una volta, e contro Teddy Bear. Quando Helmond raccolse mentalmente le idee e continuò a procedere verso il rhesus, Lazarus si riempì la bocca con quello che era rimasto del cuore, facendo gonfiare oscenamente le guance. Afferrò lo stomaco insanguinato che stava ai suoi piedi e balzò via dal ripiano, per sparire nella dispensa. Helmond fece irruzione nella stanza in tempo per vedere la creatura correre giù per le scale nel buio seminterrato. Non aveva alcuna intenzione di inseguirla oltre. «Certo che è strano,» commentò Ally, con il piatto in mano. Proprio così, pensò Helmond mentre raggiungeva la famiglia in sala da pranzo. La questione era: quanto strano? Bisognava riportare la scimmia al laboratorio per degli esami? Non sapeva molto sul comportamento dei primati, ma certo quello di Lazarus non gli sembrava normale. Dal primo giorno che aveva ricevuto il rhesus dalla ditta fornitrice di cavie, la bestiola era stata assolutamente erbivora, con una particolare preferenza per il peggiore cibo da fast-food. Laz non si era mai avvicinato, per esempio, al cibo per gatti nella ciotola di Teddy Bear, e neppure ai croccantini di cereali. Quelle riflessioni conducevano Helmond verso un percorso buio e spaventoso; quasi iniziò a tremare di paura, prima di riuscire a ricomporsi. Se
la scìmmia stava subendo un qualche tipo di reazione ritardata, se stava degenerando... «Dove è andata?» gli chiese Janice. «In cantina.» Andy ed Eunice stavano indicando la macchia sul davanti della camicia di Helmond, divertendosi un mondo. Egli evitò di guardare la figlia più piccola mentre diceva, «Devo riportarlo in laboratorio per fargli degli esami. Ha qualcosa che non va.» C'era un'accusa severa negli occhi di Janice, mentre fissava con furia il marito. Tutto l'affetto che aveva nutrito nei confronti dell'animale pareva svanito e la sua espressione ora sembrava voler dire, «Hai portato quella cosa in casa nostra ed ecco che ora è diventata una specie di mostro.» «No, papà!» piagnucolò Andy. «Non puoi farlo!» Eunice stava per scoppiare in lacrime. «Non portare via E.T.!» I due bambini urlarono, piansero, lo scongiurarono, e Helmond quasi cedette, non tanto perché il loro dolore lo aveva intenerito, ma perché voleva usarlo come scusa per negare ciò che, nel suo intimo, sapeva essere la verità. Qualcosa di strano stava accadendo a uno dei rianimati, e uno dei suoi figli era un rianimato. Il cupo orrore di quel pensiero gli fece desiderare di smettere di pensare. «Mi dispiace, bambini. Devo farlo.» Helmond tornò nella dispensa e si fermò di fronte alla porta della cantina. Da qualche parte, nell'oscurità, un'altra delle sue cavie era impazzita, non per un sovraccarico neurale, ma per un motivo più strano, più sinistro e imprevedibile. Si mise le scarpe, accese le luci, e scese per le scale. Il rhesus poteva essere nascosto in un migliaio di posti. Il seminterrato era largo, con tre grandi stanze più una lavanderia. Una delle camere era utilizzata come ripostiglio - legna per il camino, zanzariere, mobilia da giardino, vecchi barattoli di pittura, scatole di roba lasciata dai vecchi proprietari - e qualsiasi creatura un po' furba avrebbe scelto quella giungla di vecchi oggetti per nascondersi. Helmond, comunque, non dovette cercare a lungo. Trovò aperta una finestra che prima era sicuro fosse chiusa, e piccole orme insanguinate tutt'intorno alla parete. Lazarus era fuggito, un essere morto e rinato con un gusto per la carne cruda acquisito di recente. Era l'ultima cosa che Helmond desiderava accadesse in quel giorno del Ringraziamento. Suonò il campanello della porta d'ingresso, e Helmond salì di corsa le scale nutrendo la folle idea che Lazarus avesse fatto loro uno scherzo, fingendo di mangiare le interiora del tacchino, per poi raggiungere la porta
d'ingresso e premere il campanello; il tutto solo per divertimento. A cosa stai pensando, Helmond? Al fatto che le scimmie non sono così intelligenti da suonare i campanelli? Be', questa di sicuro è stata abbastanza intelligente da aprire una finestra del seminterrato. Quando arrivò, Sharon Bishop era all'ingresso, con in mano un grosso contenitore di plastica circolare della Tupperware e due piccoli tacchini ripieni (erano di pezza e imbottiti di batuffoli di cotone, non pollame farcito con mollica di pane). Indossava un soprabito lungo, color marrone chiaro che in qualche modo la faceva sembrare più sofisticata del solito. L'espressione che aveva sul volto rivelava che si sentiva come se avesse appena partecipato ad un funerale; forse il proprio. «Siete stati tutti presentati formalmente?» chiese Helmond. Adesso c'era una nuova ombra di sospetto negli occhi di Janice. Non aveva mai incontrato Sharon ed era ovviamente sorpresa di scoprire che l'assistente di suo marito fosse così di bell'aspetto. «Non formalmente,» replicò in tono teso. «Bene. Lei è Sharon Bishop, la mia assistente di laboratorio. Sharon, questa è la mia famiglia. Mia moglie, Janice, Ally, mia figlia, Eunice, l'altra figlia, e mio figlio Andy.» «Piacere di conoscervi tutti,» disse Sharon, un po' meccanicamente. Poi porse sia a Andy che a Eunice un tacchino di stoffa. «Questi sono per voi. Li ho fatti con le mie mani. Realizzare pupazzi del genere per me è una specie di hobby. Ho preparato anche questa torta di zucca, come potete vedere. Credo sia venuta abbastanza bene.» Per un attimo, rimase sulla soglia in un silenzio nervoso. «Spero di non avervi disturbato, piombando qui inaspettatamente. Non ho potuto permettermi di ritornare a casa per le vacanze, i miei vivono giù in Florida e la mia Volkswagen si regge con lo sputo e la gomma da masticare.» «E.T. è appena impazzito,» annunciò Eunice. Sharon, accigliandosi, guardò per un attimo la piccola, prima di ricordare che Helmond le aveva detto che i ragazzi avevano dato a Lazarus un nomignolo, poi fissò con sguardo duro Helmond. «Cosa è successo, Lenny?» Helmond si passò una mano tra i capelli. «Non ne sono sicuro. Deve essersi manifestato una gravissima deficienza proteica dovuta a qualche disfunzione digestiva, a un'incapacità di assorbire nutrimento in modo normale. Abbiamo sorpreso Lazarus mentre mangiava gli organi del tacchino che Janice aveva lasciato sul ripiano della cucina.»
Sharon sospirò in maniera udibile. «Dov'è ora?» Helmond alzò le braccia al cielo in segno di leggera disperazione. «È scappato dalla finestra del seminterrato. Stavo per uscire a cercarlo.» Sharon diede la torta a Janice, che la prese senza pensarci. «Per favore, può reggere questa, signora Helmond? Andiamo, Lenny. Dobbiamo trovarlo.» Poggiò la borsetta sul tavolino accanto alla porta ed uscì per la porta da cui era appena entrata. Helmond stava per seguirla, ma Janice lo fermò. «Mettiti la giacca, prima. Fuori ci saranno almeno dieci gradi sotto zero.» Helmond assentì, sentendosi un po' intontito, e prese dall'armadio d'ingresso la sua giacca di pelle nera. Non può essere che tutto questo stia succedendo per davvero, si ripeteva in continuazione. Quella era la peggiore eventualità che avrebbe mai potuto affrontare, anche peggio di dover catturare un cane idrofobo che avesse appena morso la figlia. Uscì per raggiungere Sharon in quella sinistra ricerca. Il prato davanti alla casa non era molto ampio, tra la strada e la casa non c'erano più di trenta metri, ma quello sul retro era grande ben due acri, e terminava in una fitta boscaglia. Le scimmie rhesus erano animali tropicali, e di conseguenza non amavano il freddo, ma se Laz stava trasformandosi in qualcos'altro, allora quell'avversione poteva essere scomparsa. Helmond e Sharon non dissero nulla, mentre aggiravano il fianco della casa e raggiungevano la finestra aperta del seminterrato. Non c'erano né segni né tracce che potessero indicare la direzione in cui era fuggito il primate. Scoraggiati dalla prospettiva di dover controllare un tratto di terreno così vasto, decisero di perlustrare la proprietà sul retro della casa. «Ti è sembrato normale Lazarus?» chiese Sharon mentre superavano l'altalena. Lui scrollò le spalle. «Stando a quel che ho visto, sì. Però ti dirò che appariva terribilmente spaventato e irritato.» Sharon sospirò di nuovo. Si fermò e gli toccò leggermente il braccio. «Lenny, c'è qualcosa che voglio dirti, qualcosa che avrei dovuto dirti molto prima che succedesse questo.» Oh Dio, pensò Helmond. E adesso, cosa verrà fuori? Una dichiarazione dell'amore che Sharon provava per lui proprio lì, sul retro di casa sua, con la moglie e i bambini che li guardavano dalla finestra della cucina? «Cosa, Sharon?» «Ricordi il giorno in cui sono venuti al laboratorio gli attivisti della protezione animale, e i topi erano nervosi?»
Lui assentì, sentendo che un timore diverso gli stava scendendo lungo la schiena come un rivolo d'acqua ghiacciata. «Dopo che quel giorno sei andato via al laboratorio, ho sentito qualcosa. Era una specie di grido, solo che nessun animale che conosco avrebbe mai potuto emetterlo. Era un urlo tormentato, ma anche impaurito e maligno. Il giorno successivo, tutto sembrava apparentemente normale, e così ho pensato che la mia immaginazione mi avesse giocato un brutto scherzo; di conseguenza non te l'ho mai detto. Scusami.» Helmond si guardò le scarpe. E anche se Sharon glielo avesse detto? La cosa avrebbe modificato una qualunque delle sue azioni dei giorni seguenti? Era sicuro di no. «Va bene, Sharon. Non preoccuparti. Ora dividiamoci e perlustriamo separatamente. Così, copriremo una zona più grande e più in fretta.» Dopo un po', Janice e i ragazzi uscirono per prendere parte a quel nascondino trasportato nella vita reale. Helmond aveva cominciato a controllare il limitare del bosco quando Ally lo raggiunse, con i lembi della camicia verde che fuoriuscivano da sotto la giacca di jeans. «Papà, cosa pensi sia successo a Laz?» gli chiese lei, ma non in tono accusatorio. «A quale tipo di esperimento di laboratorio lo hai sottoposto?» Helmond si rese conto che non c'era modo di dirle la verità. «È molto complicato, Ally. Si tratta di qualcosa che ha a che fare con la rigenerazione rapida del tessuto danneggiato. La, ehm, rigenerazione non deve essere stata tanto completa quanto pensavo.» Ally era una ragazza sveglia; sapeva riconoscere una mezza bugia quando la sentiva, ma decise di lasciar correre. «Capisco. Laz è pericoloso?» A quella domanda, gli occhi di Helmond si spalancarono. «Non credo, tesoro. Anche se ha intenzione di attaccare qualcuno, non è abbastanza grande o ben equipaggiato per procurare ferite gravi.» Lei assentì, poi diede un calcio ad un mucchio di foglie secche con la punta dello stivale di pelle nera. Continuarono a cercare fin quando non rimase più un solo raggio di luce. Setacciarono a fondo la boscaglia, chiamando per nome la scimmia ed Eunice cercò di attirarla con i Reese's Pieces rimasti da Halloween. Tuttavia, nessuno desiderava particolarmente farsi sorprendere da un primate divora-budella che avrebbe potuto sbucare fuori dalle ombre che si stavano allungando, e così, al calare del buio, rinunciarono alla ricerca. Ritornati in casa, sedettero in salotto a bere caffè e a mangiare fette della torta di Sharon. Ma Helmond non toccò nulla.
«Laz tornerà quando avrà fame,» disse Janice, cercando di sembrare il più possibile rilassata. «O quando farà più buio.» Helmond rise tra sé (e di sé) senza la minima traccia di allegria. Laz non si sarebbe preoccupato di ritornare a casa, se aveva imparato non solo a mangiare carne, ma anche a procurarsela da altri esseri viventi contro la loro volontà, magari uccidendoli. E per quanto riguardava l'oscurità, la bestia poteva anche essere diventata una creatura delle tenebre. Naturalmente non rivelò nulla di tutto ciò a Sharon, o alla famiglia. «Ha una bellissima casa, signora Helmond,» disse Sharon, ora che quasi tutto il suo nervosismo era sparito. «E dei figli meravigliosi. Io sono figlia unica. Mi è sempre dispiaciuto non avere fratelli o sorelle.» Janice sembrava essersi completamente rilassata, nonostante la fuga dell'animale domestico che si era trasformato in un divoratore di frattaglie e in un lanciatore di escrementi, e la rivelazione che l'assistente del marito era più carina di quanto lei desiderasse. «Grazie, Sharon. Questa torta che hai preparato è eccellente. C'è della cannella dentro?» «Sì. È una ricetta di mia nonna, tramandata per generazioni, fin dall'arrivo dei primi coloni in Massachusetts. Si dice perfino che una delle streghe impiccate a Salem fosse una mia antenata.» Tutti risero, leggermente imbarazzati. Helmond non sapeva se Sharon stesse scherzando o no, e neppure gli importava molto. Ci risiamo ancora, eh Sharon? Sempre pronta a mettere in imbarazzo gli altri prima che possano scoprire come sei veramente e prima che possano decidere onestamente se accettarti o rifiutarti! Troppo rischioso, vero? Helmond si alzò e si versò nel bicchiere una robusta quantità di scotch con ghiaccio. Dopo quel momento di imbarazzo, la conversazione continuò su argomenti leggeri e piacevoli, ma Helmond non riuscì a parteciparvi. Era troppo sconvolto dal terrore che stava crescendo dentro di sé per potersi perdere in chiacchiere futili. Si limitò a rimanere seduto e a guardare furtivamente Eunice, che, seduta sul divano e vestita con i jeans e il maglioncino rosa, stava rimpinzandosi la bocca sorridente di ripieno arancione e crosta umidiccia. Un pensiero mostruoso continuava a pulsare malignamente nella coscienza di Helmond: stava succedendo qualcosa all'interno di Lazarus, un processo orribile e misterioso; e di conseguenza, proprio in quel momento, probabilmente stava operando anche all'interno del corpo della figlia. VELOCITÀ DI DETERIORAMENTO
Helmond non dormì molto quella notte; in compenso, ebbe un terribile incubo. C'era una donna legata ai pali della biancheria sul retro della casa. Assomigliava ad un misto tra Janice e Fay Wray da giovane, e indossava lo stesso abito trasparente dell'eroina urlante nel vecchio film, ormai un classico. Le braccia erano legate alla barra orizzontale, come in una specie di crocifissione mal riuscita, e il suo sguardo era fisso sul bosco. Era l'ora del crepuscolo. Un ruggito assordante risuonò in lontananza, non dissimile dal verso viscido e lacerante, da rettile, di Godzilla, ma più sinistro, più malefico. Passi rimbombanti, che si avvicinavano, scossero il terreno, accompagnati dal fracasso dei tronchi d'albero che si frantumavano, mentre intere querce e aceri venivano sradicati e scagliati al suolo. L'essere al quale apparteneva quella voce che echeggiava quella della morte stava arrivando, affamato, pieno di odio, e incarnava tutti i morti adirati e senza pace. Sta arrivando, ora stanno cadendo gli alberi più vicini, la foresta si apre al suo passaggio... ...e fu una ricostruzione da museo vivente quella che emerse dalla foresta, uno scheletro animato della grandezza di un edificio. Era King Kong, Lazarus e la mostruosità universale senza nome che si cela nei recessi di ogni mente umana. Ruggì di nuovo, guardandosi intorno con orbite prive di occhi incassate in un gigantesco cranio scimmiesco. Fissò lo sguardo sulla donna legata e si incamminò a grandi passi verso di lei. Adesso la donna stava urlando, solo che non si trattava del grido teatrale e accuratamente calcolato di Fay Wray; era un lamento viscerale, struggente, che implorava pietà, espressione della pura volontà animale della carne di sfuggire a quell'essere tanto incredibile da indurre alla follia, ma quella indescrivibile creatura continuò ad avvicinarsi. L'ammasso d'ossa si muoveva con fluida grazia, rivoltante alla luce del crepuscolo, tendendo un braccio lunghissimo dalle lunghe dita scheletriche, cercando di afferrarla, pronto a divorarla in un sol boccone o a renderla sposa di una miriade di anime disincarnate, più vicino, sempre più vicino... A quel punto Helmond si svegliò di colpo dal sonno, ed un urlo gli esplose in petto, non tanto lungo, né sonoro, ma sufficiente a svegliare Janice. Dio, sto davvero cominciando a perdere l'autocontrollo, pensò quando tornò a ragionare. «Che è successo, Len?» chiese la moglie, con gli occhi aperti ma ancora
annebbiati dal sonno. «Un incubo,» mormorò lui. «Qualcosa su King Kong.» Janice ridacchiò. «Vuoi dire che nel tuo sogno c'era una scimmia rhesus alta più di dieci metri?» Helmond rabbrividì e si sforzò di sorridere. «Qualcosa del genere.» La donna si drizzò leggermente e gli toccò un braccio. «Mi dispiace di essermi arrabbiata tanto oggi. Sono soltanto una stupida superstiziosa. Laz soffre di un danno celebrale o qualcosa di simile provocato da quell'esperimento a cui lo hai sottoposto, e io lo sto trasformando in una specie di lupo mannaro in miniatura. Certo, però, avresti dovuto tenerlo per un po' sotto osservazione in laboratorio. Ora i ragazzi gli sono affezionati e lui morirà lì fuori per il freddo. Si spezzerà loro il cuore, quando non lo vedranno ritornare.» «Lo so,» fu tutto quel che poté replicare Helmond. Non voleva dirle che quella specie di effetto collaterale a scoppio ritardato andava totalmente al di là della biochimica che lui conosceva e che per lui era tanto ignoto e innaturale quanto la licantropia. C'era molto lavoro da fare, se voleva evitare che accadesse anche a Eunice. «E Sharon sembra una ragazza carina e intelligente, forse soltanto un po' bizzarra.» Lui assentì con un cenno impercettibile. «Credo che abbia avuto un'infanzia difficile.» «Be', dille che siamo stati felici di averla avuta come ospite e che qui è sempre la benvenuta. Okay?» E questo cosa significava? Janice non era un eremita, ma non era neppure l'animale più sociale del mondo. Aveva una cerchia di amici molto ristretta e selezionata, ma le piaceva la privacy, la solitudine; preferiva che la sua famiglia fosse un'isola senza molti rapporti col mondo, che la sua casa fosse un paradiso invaso di rado. La compagnia era benvenuta, ma non troppo spesso, e Sharon e Janice non sembravano avere molto in comune. La risposta era ovvia: Janice percepiva la giovane donna come una minaccia e pensava di neutralizzarla comportandosi amichevolmente con lei, immaginando che Sharon non avrebbe mai tradito una amica. Helmond non credeva che quella strategia avrebbe funzionato. A suo avviso, anni di privazioni emotive avevano reso Sharon amorale in alcuni tipi di rapporti umani. «Lo farò. Ora fammi tornare a dormire. Devo andare presto in laboratorio e iniziare a fare degli esami sugli altri rianimati. Dio non voglia, ma se
Laz non è un caso isolato e io non posso impedire agli altri di diventare come lui, dovrò eliminarli tutti. Capisci ora perché ho degli incubi?» Lei assentì pensierosa. «Va bene. Sogni d'oro.» Lo baciò e scivolò di nuovo sotto le lenzuola. È dannatamente improbabile, pensò lui. Helmond non riuscì più a dormire, ma si agitò inquieto nel letto per tutta la notte; così non era nello stato mentale migliore quando si alzò dal letto al mattino un'ora prima del solito. La giornata prometteva soltanto grottesche rivelazioni, e forse una debole speranza di trovare un antidoto all'inferno che minacciava di sconvolgere la sua vita. Era difficile sentirsi motivati di fronte a quella cupa prospettiva. «Hai un aspetto orribile, Lenny,» gli fece notare Sharon quando arrivò al laboratorio pochi minuti dopo di lui. Helmond era rimasto al centro della stanza, a fissare le gabbie dei rianimati. «Anche tu ci stai perdendo il sonno, Sharon?» Lei gli si avvicinò. «Non proprio. Sono un tipo mattiniero e, piuttosto che gironzolare per l'appartamento, ho pensato di venire qui a rendermi utile. Ma non mi aspettavo che fossi già arrivato.» «Stai scherzando? Questa notte ho a stento chiuso occhio, e quando l'ho fatto ho avuto solo degli incubi.» Helmond si avvicinò alla gabbia dei topi. «Devo sapere se quello che è accaduto a Lazarus è stato un fenomeno isolato o se sta accadendo a tutti i rianimati.» Sharon con un gesto indicò le gabbie dei roditori. «Come è possibile? I topi sono stati rianimati molto prima di Lazarus, e loro non hanno avuto reazioni.» Helmond la fissò socchiudendo gli occhi; sembrava molto depresso. «La degenerazione varia da specie a specie, Sharon. Più è complesso l'organismo, più è rapida la velocità di deterioramento, se di questo si tratta. Eppure, dopo cinque mesi, Valdemar dovrebbe manifestare dei sintomi, se al suo organismo sta succedendo qualcosa. Cominceremo da lui.» Sharon gli infilò i guanti di gomma, aprì la gabbia in cui era ospitato Valdemar (ebbe un piccolo fremito quando ricordò quel giorno di qualche settimana prima in cui il dannato aveva strillato contro di lei da quell'angolo del laboratorio), prese il topolino bianco che ormai sapeva riconoscere e lo depose sul tavolo di dissezione. Come in guerra, in un sacrificio, oppure in una deflorazione, versarono il primo sangue.
Janice fu un po' sorpresa che suo marito fosse andato al lavoro così presto e preoccupata perché aveva saltato la colazione. Non era davvero da lui. Beh, aveva la mente occupata dai suoi animali da laboratorio e dagli ostacoli che aveva incontrato nei suoi esperimenti. Lo avrebbe chiamato più tardi, per sapere come stava. Si sedette al tavolo di cucina, avvolta nell'accappatoio di spugna verde, e bevve una tazza di caffè guardando la televisione. Con il passare degli anni aveva smesso con le droghe (quelle chimiche non le mancavano assolutamente, ma Dio, quanto desiderava ancora farsi uno spinello), diminuito gli alcolici e eliminato le sigarette. Poteva mangiare in abbondanza e non preoccuparsi dei rotoli di grasso che avrebbero deturpato la sua figura ben modellata, perché era stata benedetta dal dono di un metabolismo efficiente, e così anche quello non era un problema. La caffeina rimaneva il suo unico vizio, dieci o dodici tazze di caffè al giorno per lei costituivano una dose media, un fatto del quale era orgogliosa, anche se si rendeva conto che esagerava. Mentre stava guardando il telegiornale del mattino, Eunice ed Andy entrarono saltellando, fecero una rumorosa colazione e poi uscirono in quel gelido ma soleggiato mattino autunnale, proprio nel momento in cui iniziavano ad andare in onda i giochi a premi. A quel punto, Janice andò di sopra, indossò un jeans leggermente stinto, una camicia bianca con maniche a sbuffo e pizzi (che una volta considerava un capo da grandi occasioni, ma che ormai si era consumato abbastanza da essere usato per tutti i giorni), dei calzettoni alti fino alle ginocchia e le sue consunte scarpe di pelle nera. Poi iniziò a sbrigare le faccende domestiche. Chi l'avrebbe mai detto? pensò, mentre passava di stanza in stanza per raccogliere gli indumenti sporchi. Una femminista militante, che aveva bruciato reggiseni, partecipato a marce di protesta, impugnato cartelli, ridotta a super donna di fatica. A quel pensiero, ridacchiò tra sé. Forse, quell'immagine di se stessa non era troppo vera e neppure giusta. Era stata una sua scelta quella di avere dei figli e di fare la casalinga, e Len era di aiuto e comprensivo, anche se di solito era talmente assorbito dal lavoro, che non gli rimaneva molto tempo per dare una mano. Inoltre, Janice aveva il suo diploma di amministratore commerciale (avrebbe voluto metter su una boutique di moda) e poteva sempre riprendere a lavorare una volta che i ragazzi fossero cresciuti. A dispetto delle sue credenziali, era finita a lavorare come segretaria alla compagnia per le forniture di laboratorio, la Dea-
con, quando aveva incontrato Len. Era improbabile che avrebbe fatto carriera, a meno che non fosse andata a letto con il suo disgustoso capo, e così a quel tempo la prospettiva del matrimonio e della maternità le era sembrata molto attraente. E poi doveva ammetterlo: le piaceva molto governare la casa. Bussò alla porta chiusa a chiave di Ally. «Hai intenzione di dormire tutto il giorno, signorina? Devo fare il bucato. C'è niente che vuoi che ti lavi?» Il borbottio di risposta parve emesso attraverso un cuscino. «Andiamo, alzati,» insistette implacabile Janice. «Se dormi troppo i tuoi amici ti rinnegheranno.» Il letto cigolò, qualcuno poggiò i piedi sulla moquette e la porta finalmente si aprì. «Non ricordo di averti chiesto di svegliarmi, mamma,» disse Ally con divertita severità, consegnando a Janice una massa di panni sporchi appallottolati simile ad un bouquet. Il bouquet non aveva nemmeno una fragranza particolarmente gradevole, notò la donna mentre lo prendeva. «Perché disturbarti a darmeli? Potevano arrivare da soli alla lavanderia.» «Mammaaaaa!» protestò gentilmente Ally mentre richiudeva la porta. Janice si diresse verso le scale. La faceva sentir bene il fatto che la figliastra la chiamasse così, anche dopo tutto quel tempo. Spesso, in passato, Ally aveva usato quella parola, ma in una maniera che suonava molto insincera, poi a lungo non era più ricorsa a quell'appellativo affettuoso, ma ultimamente aveva ricominciato ad adoperarlo, come se questa volta per lei avesse davvero un significato. Quella selvaggia, imprevedibile (volubile, capricciosa e manipolatrice) donna-bambina era il frutto dell'unione di Len con un'altra donna, e Janice avrebbe sempre conservato una punta di risentimento nei suoi confronti, ma se fosse riuscita a farsi accettare da Ally come madre spirituale, questo avrebbe reso le cose certamente più facili. In cucina, mentre divideva in mucchi diversi gli indumenti, Janice decise di prepararsi un panino al tacchino. Dopo l'episodio di Laz il giorno precedente, nessuno era riuscito a rimettersi a tavola per continuare la cena, e così era rimasta un bel po' di carne di tacchino. Tirò fuori dal frigorifero il piatto da portata con la carcassa del volatile e lo mise sul bancone, poi prese il coltello elettrico dal cassetto dove era stato riposto. Un fiume di pensieri fluì lungo il paesaggio della sua mente, mentre tagliava alcune fettine di carne dal petto; lo strano malessere che aveva colto Len mentre affetta-
va il tacchino, la comparsa improvvisa della sua eccentrica e bella, anche se leggermente goffa, assistente di laboratorio, il comportamento aggressivo primordiale di Laz. Si infilò in bocca un pezzo di carne fredda, bianca e sugosa e la masticò pensierosa, mentre prendeva il pane dall'armadietto e la maionese dal frigorifero. Ally discese rumorosamente le scale e fece una breve comparsa in cucina, vestita ancora una volta come un'incantatrice ctonia. «Io esco, mamma. Sarò a casa per cena, in caso contrario ti avvertirò.» «Sì, certo, quando chiamerai avrò già apparecchiato anche per te. Non vuoi fare colazione, uno spuntino o qualcos'altro?» «No, grazie. Devo andare. Ciao.» E sparì come un fuoco fatuo dai colori psichedelici, pronta ad immergersi nel suo mondo fatto di nuove, pericolose e sconosciute attrazioni. Janice terminò di preparare il panino, ne mangiò alcuni morsi, poi si dedicò di nuovo alla routine di separare i panni che dovevano essere lavati a temperature diverse. Teddy Bear entrò furtivamente, e lei gli lanciò un pezzo secco e ben cotto di tacchino, che il gatto consumò con gusto. Infine, Janice completò la sua cernita e scese le scale del seminterrato con il primo carico di panni in un cesto di plastica arancione. L'odore la colpì solo quando aveva già infilato la biancheria in lavatrice, aggiunto detersivo e ammorbidente e acceso l'elettrodomestico. Conosceva quell'odore: era qualcosa di morto. C'erano molti topolini di campagna che si aggiravano indisturbati in cantina, e così Len, naturalmente a malincuore, aveva comprato alcuni barattoli di veleno per topi. I topi ingerivano il veleno, si trascinavano in un angolo, da qualche parte, e poi morivano, iniziando a decomporsi. L'odóre che arrivò alle narici di Janice fu simile, solo che era ancora peggio. Pensò che magari un paio di topi dovevano essere morti contemporaneamente, o forse in cantina era entrato un vero e proprio ratto di fogna o uno scoiattolo, o forse... La sua mente si rifiutò di formulare quell'ulteriore possibilità. Cominciò a seguire quel tanfo secco e oleoso, che la condusse immediatamente nel magazzino. Lì era così forte che Janice fu certa che in quella stanza fosse morto un animale più grosso, forse una marmotta o un opossum. Mentre spostava gli oggetti, controllando sotto e dietro di essi, la sua mente iniziò a ragionare con logica inesorabile. Il giorno precedente, Laz era sceso laggiù. Poche settimane prima, Laz era morto. Era possibile che Laz fosse ritornato lì durante la notte per trovare un posto dove stare e improvvisamente fosse morto di nuovo, subendo un poche ore quel processo di putrefazione che sarebbe dovuto avvenire mol-
to tempo prima? Poteva davvero essere successa una cosa simile? Le sue mani presero un rotolo di fibra di vetro isolante rosa e lo spostarono da un lato. Non riuscì ad identificare quel che stavano vedendo i suoi occhi nello spazio dietro il rotolo, ma dopo pochi secondi fu abbastanza certa che non potevano essere i resti una scimmia rhesus. O almeno, non erano i resti di tutta la scimmia. Era più simile a una sorta di poltiglia: una pelle intera, dalla cima della testa fin alla punta della coda, spaccata giusto nel mezzo come un minuscolo costume da gorilla. Delle orbite vuote la fissarono dalla pelle simile ad una marionetta in cui si infila una mano mentre Janice la prendeva. Puzzava come una cosa morta, ma qualcosa di vivente doveva esserne uscita, come un insetto da una crisalide. All'improvviso un lamento proveniente dalle scale la sorprese a tal punto che sussultò e lasciò cadere il bozzolo di pelo a forma di primate, che urtò il pavimento formando un mucchietto amorfo. Teddy Bear stava soffiando e miagolando contro qualcosa; sembrava più agitato di quanto Janice l'avesse mai visto fino a quel momento. Vi fu un urlo finale, strozzato, di terrore e sofferenza felina, poi calò il silenzio. Janice si rese conto che, inginocchiata nell'angolo del magazzino, stava tremando. Si strinse le braccia al petto, e udì dei deboli singhiozzi provenire da qualche parte, fin quando si rese conto che venivano proprio da lei. Qualcosa si aggirava per la casa. Qualcosa aveva appena ucciso il gatto. Oppure il gatto aveva semplicemente avuto un malessere, ed era morto di morte naturale? Ma lei aveva sentito le sue grida di folle spavento e sapeva che non era vero. Qualcosa si aggirava per la casa, qualcosa di mortale, che si muoveva di soppiatto, tanto da non essere udito, e che presto sarebbe venuto a cercarla. Per un solo istante rimase letteralmente pietrificata, paralizzata da un indicibile timore; poi si scosse, si rialzò tremante, si guardò intorno per cercare un'arma con cui difendersi contro l'essere sconosciuto. Dio, e se non riuscissi a vederlo? le borbottò la sua mente. E se fosse stato invisibile? È impossibile, Janice, ragiona. Buona parte del corpo di Laz manca; dev'essere qui attorno. Quel pensiero non la confortò poi tanto. Tutto quello che riuscì a trovare come arma fu una paletta da giardino, macchiata di ruggine e con l'estremità smussata. Cominciò a pregare in silenzio: sì, anche se cammino nella valle dell'ombra della morte, non temerò alcun male, perché Tu sei con me, Tu sei il bastone e la verga che mi danno sostegno... Tremando a tal punto che quasi mancò il primo gradino, Janice iniziò a
salire le scale. La Sua verità sarà il tuo scudo e la tua difesa. Non dovrai temere il terrore della notte; né i dardi che volano di giorno. Né la pestilenza che cammina nelle tenebre; né la devastazione che colpisce a mezzogiorno. Raggiunse la sommità delle scale, incapace di pensare ad altri versetti della Bibbia appropriati alla situazione, ma unicamente a quanto fosse terrorizzata. Era un incubo in technicolor che assaliva tutti e cinque i sensi, un viaggio lisergico pessimo e vividissimo, e lei non aveva altra possibilità che viverlo fino alla fine. Janice non voleva andare avanti. Non voleva vedere cosa fosse diventato Laz. Tuttavia, non c'era altro modo. Andy ed Eunice erano a casa di Doris Paulson, lì accanto, al sicuro, per il momento, dalla scimmia-demonio, ma avrebbero potuto tornare a casa in qualsiasi istante. Doveva affrontare l'orrore che incombeva sulla loro casa, sulle loro vite. Reggendo la pala come un coltello, lasciò la dispensa e cominciò a percorrere il pavimento piastrellato della cucina. Stava respirando a fatica per la tensione quando attraversò la sala da pranzo per raggiungere l'atrio. C'era un oggetto scuro che giaceva sul pavimento del corridoio che conduceva all'ingresso del salotto e della biblioteca, buttato contro la parete. Janice si avvicinò, lanciando occhiate alle due estremità del corridoio per cogliere anche il minimo movimento. Cos'era? Sembrava... un animale impagliato, come un orsacchiotto con metà dell'imbottitura che fuoriusciva, solo che non era nulla del genere. Era invece Teddy Bear, con il corpo squarciato e gli organi interni esposti in bianche volute, cumuli purpurei e rosse spire; alcune parti del suo corpo erano state asportate da quelli che parevano morsi profondi. Janice fu certa che non sarebbe riuscita a sopportare quella visione. Gli impulsi di urlare, vomitare, piangere e correre lottarono dentro di lei, si annullarono a vicenda, e la immobilizzarono. Teddy Bear somigliava a una di quelle povere creature che si vedono ai bordi della strada, mutilate dalla collisione con un veicolo a gran velocità. No, anzi, era ancora peggio. Le macchine che procedevano ad alta velocità erano assassini freddi, indifferenti. L'essere che aveva ucciso il gatto era malefico e cosciente; non aveva soltanto sventrato Teddy Bear ma lo aveva anche preso a morsi. Era un abomin... Qualcosa di piccolo e grigio saettò all'estremità del campo visivo di Janice, attraversando il corridoio dal salotto alla biblioteca. Dio, le era sembrato uno scheletro! Fa' che non sia proprio questo, Signore, un maledetto
sacco d'ossa ambulante! Cominciò a dirigersi verso la biblioteca strisciando lungo il muro, con la paletta smussata pronta ad assestare un colpo a quell'essere da incubo, nel momento in cui fosse ricomparso. Sentì che il suo battito cardiaco era irregolare, come se avesse un pacemaker che funzionava a singhiozzo; era così veloce che pensò che il cuore le sarebbe saltato fuori dal petto. Oh, e se così fosse stato, la dannatissima cosa lo avrebbe mangiato, giusto? Quanto le sarebbe piaciuto. Janice raggiunse la porta e si sforzò di ragionare. Qualunque cosa fosse quell'orrore, era ancora in parte una scimmia; Laz era stato un ottimo arrampicatore, e dunque poteva trovarsi su un lampadario o uno scaffale o un mobile. Decise di tenerlo bene in mente, quando lo avrebbe attaccato. Ora, se solo fosse riuscita a far muovere le sue gambe, avrebbe cercato di coglierlo di sorpresa facendo irruzione nella stanza. Okay, Janice Louise Loring Helmond. O adesso o mai più. Uno, due, tre... Balzò nel vano della porta e avanzò di pochi passi nella stanza brandendo l'arma verso alto, pronta a colpire in qualunque direzione. Ma non vide alcun bersaglio; nessun essere, vivo o morto, era in vista. E così, si era nascosto. Bene. Questo significava che gli stava alle calcagna, che aveva paura di lei, che lei era in vantaggio. Fece un altro passo, e qualcosa di piccolo ma di molto massiccio le cadde sulla schiena. Questa volta Janice urlò, a lungo e forte. Si era attaccato al soffitto, ne era sicura, ma neppure una creatura arborea come Laz sarebbe stata in grado di farlo; soltanto esseri come mosche e ragni ne erano capaci. Artigli aguzzi le stavano scavando la schiena, lacerandole la pelle. Come era possibile? Le unghie di Laz erano così corte che, il più delle volte, la scimmia sembrava essere appena uscita da una seduta di manicure. A meno che quelle che stavano penetrando a fondo nella sua carne non fossero unghie. A meno che non fossero le punte acuminate delle ossa delle dita. A quel pensiero, Janice urlò ancora più forte. Entrò barcollando nell'atrio e sbatté la schiena contro il muro per schiacciare il suo aggressore, ma era fatto di qualcosa che non si schiantò all'urto. Janice aveva la sensazione che fosse coperto da un guscio, come un granchio o un'aragosta, solo più ruvido e non così flessibile. Lo sbatté cinque volte contro l'intonaco della parete, ma era ancora avvinghiato a lei e cercava di lacerarle i vestiti e la pelle con gli artigli. Infine, ormai in preda a un terrore disperato, Janice allungò la mano dietro la schiena per afferrarlo, mentre lo colpiva con la paletta che stringeva nell'altra. Quel che toccò fu simile a carne decomposta su uno scheletro di ferro, e in effetti un liqui-
do freddo e viscoso sembrò bagnarle la mano. Strinse la prese intorno al torso della cosa e tirò, ma l'essere rimase attaccato come una sanguisuga. La punta della paletta colpì con forza il cranio, producendo un suono simile a quello di metallo che rimbalzi su una roccia, ma non sembrò provocare alcuna lesione. Ora Janice poteva sentire il sangue scorrerle lungo la schiena e fu quasi sopraffatta dal panico. Le venne in mente un'ultima, disperata strategia. Passò nell'altra mano la paletta, afferrò la testa della cosa con la destra e cominciò ad allontanare quel corpo dal suo con l'attrezzo da giardino. La cosa, a morsi, le ridusse a brandelli la membrana tra il pollice e l'indice, ma lei riuscì a strapparsela di dosso, a scagliarla lontano e a correre in cucina, facendo cadere al suo passaggio sedie e soprammobili per rallentare l'avanzata del suo inseguitore. Non si guardò alle spalle fin quando non strinse tra le mani il coltello elettrico, che vibrava al massimo della velocità. La cosa stava avanzando rapidamente verso di lei, e così Janice ebbe soltanto pochi secondi per studiarla; in un certo senso, non era tanto orribile quanto aveva temuto, e in un altro, era anche peggiore. La coda si dimenava e si contorceva come un serpente, la carne era grigia e molto decomposta (aveva continuato a decomporsi sotto la pelle esterna per tutto quel tempo?), e avvolgeva la struttura ossea come un velo sottile ma duro. Alla creatura erano spuntati artigli e denti orribili, così lunghi e aguzzi che non riusciva a chiudere completamente la bocca. Occhi tanto rossi da brillare la fissavano con espressione maniacale dal cranio quasi nudo, ricoperto solo di una membrana sottilissima, e apparentemente Janice lo aveva ferito con la paletta, perché si poteva vedere circa un quarto del cervello attraverso un foro nel cranio. L'ultima cosa che notò prima che la creatura si scagliasse su di lei, fu il suo pene eretto, duro come roccia. Janice sferrò un colpo con il coltello ronzante, ma Laz ebbe il buon senso di arretrare e di aspettare, nel tentativo di individuare un varco nella difesa della donna. Janice prese l'iniziativa, calando più forte che poteva la lama sull'essere-bestia. Colpì Laz tra le gambe, tranciando il fallo e lo scroto, ma il coltello smise di penetrare, la lama si piegò e rientrò nel meccanismo. L'animale non-morto non mostrò alcun segno di sofferenza e non sanguinò. Janice gli scagliò addosso il tacchino, poi corse verso la porta del garage, la aprì, si scaraventò dentro e la richiuse dietro di lei. In qualche modo, sapeva che la porta non l'avrebbe trattenuto a lungo, ma credeva
di avere il tempo di trovare una nuova arma. L'ascia appesa al muro le sembrò adatta allo scopo, ma dovette fermarsi qualche secondo per riprendere fiato. L'auto era in garage, la Camaro nera del '68 che lei manteneva in condizioni perfette. Poteva entrarvi e fuggire da quella cosa orrenda che era in cucina. Ma, non aveva le chiavi della macchina con sé. Erano appese ad un gancio dietro la porta che aveva appena chiuso, e contro cui era seduta. E poi i bambini potevano entrare in casa e incontrare il piccolo incredibile demonio in cui si era trasformato il loro amato animaletto. Non poteva andare da nessuna parte, fin quando non si sarebbe assicurata che quell'essere fosse stato distrutto. Prima del previsto, la forma putrescente fece irruzione attraverso i vetri della finestra della porta, volando direttamente sulla sua testa e proiettando frammenti taglienti di vetro in tutte le direzioni; alcuni di essi le scalfirono il cuoio capelluto. La cosa atterrò sul cofano della macchina, le zampe persero la presa e slittò dall'altro lato dell'auto. Janice per un pelo non scoppiò a ridere, poiché quella le era quasi sembrata la scena di un cartone animato; sarebbe stata davvero divertente, se non avesse avuto per protagonista un mostriciattolo alto mezzo metro. Saltò in piedi, afferrò l'ascia proprio mentre Laz riappariva sul cofano, pronto a balzare su di lei, simile al proverbiale cadavere del topo portato in casa dal gatto. Quel pensiero le fece ricordare ciò che aveva fatto a Teddy Bear, e per un istante la rabbia prese il posto della paura. Vibrò l'arma con forza, e Laz saltò, ma non abbastanza rapido. La lama colpì la caviglia sinistra della creatura e le amputò il piede, costringendola a zoppicare, come un capitano Achab in miniatura, sul moncherino di tibia che sporgeva. Quella ferita orribile non rallentò per nulla l'attacco della creatura, che afferrò la testa dell'ascia, mentre Janice tentava di estrarla dal metallo del cofano in cui si era incastrata. Laz allora si puntellò avvolgendo la coda segmentata intorno al paraurti e riuscì alla fine a strappare l'arma dalle mani di Janice che intanto era riuscita a liberarla. Ora la cosa era armata e lei no. Non è possibile, si lamentò rivolta a qualunque divinità la stesse ascoltando. Nessun essere così piccolo, decomposto e ferito poteva avere quel genere di forza. Eppure, Laz agitò l'ascia con sorprendente coordinazione, e se lei non si fosse scansata di scatto, l'avrebbe colpita alla tempia. Questo gioco possiamo farlo in due, bastardo di uno zombi. Afferrò la sega a motore del marito appesa al muro alla sua destra, aprì lo sportello della Camaro dal lato del passeggero, ed entrò proprio mentre la lama d'acciaio ricadeva sul tetto dell'auto, mancando la sua testa per pochi millimetri. Un
guaito di potenziale isteria le scappò di bocca mentre chiudeva la portiera e schiacciava la sicura con il pugno. Usando buona parte della sua residua freddezza che ormai stava svanendo, chiuse in fretta anche la portiera dal lato del guidatore e si assicurò che i finestrini fossero completamente alzati, poi si abbandonò contro lo schienale del sedile, per il momento al sicuro. Laz si fermò un istante per fissarla attraverso il parabrezza. Janice non riuscì a credere all'espressione di quei tratti cadaverici, una specie di smorfia ad occhi spalancati, la faccia del caos, dall'umorismo lascivo, folle, maligna e arrogante. In effetti era il viso di un demone cinese, pensò Janice. Distolse lo sguardo e si concentrò sulla motosega, poi tirò la cordicella d'avviamento. L'arnese rumoreggiò ma non si accese. Il parabrezza diventò una mappa di fessure quando l'ascia lo colpì, ma non si ruppe. Janice tirò di nuovo la cordicella, ma senza successo, e ancora una volta l'ascia piombò sul vetro. Enormi linee di frattura si diramarono dal punto d'impatto; il parabrezza si era ormai ridotto a vetro polverizzato che reggeva a stento. Un altro colpo e Laz l'avrebbe raggiunta. Janice diede un ultimo disperato strappo e la motosega si accese; con lo sguardo pieno di rabbia aprì la portiera, uscì dall'auto e si avventò sull'incubo. La faccia spaventosa e ghignante la guardò e l'ascia calò giù di nuovo roteando, ma lei la bloccò con i denti mobili della sega. Per un istante si udì lo stridio di metallo su metallo, poi la sega tranciò il manico dell'ascia e la lama cadde sul pavimento di cemento. Janice incalzò la creatura e cercò di tagliarla in due, ma tutto quello che colpì fu la coda serpentina, asportandola alla radice ed esponendo la base della spina dorsale di Laz. Quest'ultimo roteò su se stesso e colpì il dorso della mano destra di Janice con il manico decapitato dell'ascia, rompendole alcuni ossicini del tarso. Il colpo la costrinse a mollare la sega, che piombò a terra e si fermò, forse rotta. Allora Janice capì cosa doveva fare: se non usciva di lì, quella cosa l'avrebbe uccisa. Corse verso la porta che conduceva in casa, ma un brutale colpo sul fianco la scaraventò a terra. Ora le dolevano terribilmente anche le costole, forse erano incrinate. La mano destra era un peso morto di pura agonia, e così tese la sinistra per aprire la porta. Mentre la attraversava strisciando si rese conto di essere caduta sui vetri rotti e di essere coperta di lacerazioni sui seni, sul ventre, sulle gambe. Poi sentì un nuovo dolore che iniziava a martellarle la gamba destra. Si voltò per vedere cosa fosse, anche se lo sapeva già. Laz era lì, con le mascelle avvinghiate alla caviglia, i denti af-
fondati nel muscolo che raschiavano contro l'osso, il sangue che colava intorno al muso simile ad un becco e... stava bevendo? In quel momento, Janice perse totalmente il controllo. Si agitò come un epilettica in preda a un violento attacco, cercando di staccare la mummia vampiro attaccata alla sua pelle e gridando aiuto con quanto fiato avesse in gola. C'era molto spazio tra le case del vicinato (ecco perché la casa le era piaciuta tanto, si ricordò) ma certamente qualcuno l'avrebbe sentita. Scalciò contro Laz con il piede sinistro e sentì qualcosa lacerarsi nella gamba destra, mentre la creatura si scuoteva e sobbalzava sotto i suoi colpi. Dio, la tratteneva in una presa mortale, determinata a non mollare fin quando uno dei due, o entrambi, non fosse morto! Mentre si stava trascinando in casa riconobbe l'odore della benzina, guardò nel garage, sul lato destro, e vide, lì vicino, un tanica di quel liquido. Poi, guardando a sinistra, intravide sul bordo di un banco degli attrezzi una scatola di fiammiferi. Quello a cui stava pensando era molto pericoloso, ma non aveva scelta. Versò la benzina sul dorso del mostro, attenta a non farla scorrere sui suoi jeans, poi afferrò i fiammiferi, ne accese uno, e lo lanciò sulla cosa. Il fuoco attecchì e bruciò la carne decomposta per parecchi secondi prima che il demone si staccasse dalla sua gamba e corresse per il garage in preda al panico, colto di sorpresa. Janice balzò in piedi e quasi svenne per il dolore nauseante che le faceva avvampare la gamba destra. Soltanto il timore di svenire accanto a Laz che si consumava lentamente la tenne cosciente. Con le chiavi in mano, zoppicò pesantemente verso la Camaro, entrò, la mise in moto, senza preoccuparsi di aprire la porta esterna del garage. Inserì la retromarcia e schiacciò a fondo il pedale dell'acceleratore proprio mentre Laz saltava per la terza volta sul cofano, irradiando un'aura fiammeggiante. La Camaro sfondò la porta del garage con un violento scossone ed uno schianto, subendo grossi danni alla parte posteriore. Ma in qualche modo Laz riuscì a reggersi e strisciò sul cofano verso di lei, attaccandosi come si era attaccato al soffitto della libreria. «Va bene, figlio di puttana,» ringhiò sottovoce Janice. «Ne ho abbastanza di te.» Ingranò la prima e lanciò l'auto in avanti, contro il retro del garage. All'inizio, la creatura scivolò verso di lei, ma quando giunse l'impatto venne spinta all'indietro, trovandosi incastrata tra il muso dell'auto e il muro di solido cemento. Janice fece retromarcia per mezzo metro e la creatura cadde nello spazio che si era improvvisamente aperto; poi Janice lanciò di nuovo in avanti la macchina con un'accelerazione folle che fece stridere i pneumatici e investì Laz, sentendo rimbombare per tutta l'auto
il rumore del corpo della scimmia che si schiantava. Era come se avesse schiacciato un enorme insetto. Mentre usciva dalla Camaro, vide la signora Paulson, Eunice ed Andy immobili sul vialetto, con espressioni spaventate sui loro volti. Forse i suoi figli avevano pensato che la madre era diventata pazza ed aveva messo sotto il loro animaletto? «Va tutto bene,» ansimò, cercando di rivolgere loro dei gesti rassicuranti. «Sto bene. Va tutto bene ora. Ma non entrate ancora.» Si avvicinò zoppicando al muso dell'auto per dare un'occhiata al nemico sconfitto. Laz non sembrava molto più morto, visto che lo era stato fin dall'inizio, ma sembrava definitivamente innocuo, tagliato com'era quasi completamente in due, carbonizzato e in alcuni punti annerito fino all'osso per la sua involontaria immolazione, le braccia allungate sul cofano come per implorare pietà. Questa volta era morto sul serio. Nell'uscire dal garage, Janice guardò la sua malridotta Camaro e incominciò a singhiozzare. «Signora Paulson,» disse rivolta all'anziana donna quando ebbe percorso barcollando il vialetto, «la prego, riporti a casa sua i ragazzi ancora per un po'. Tra un po' verrò a prenderli.» «Ma cosa è successo?» chiese la signora Paulson, anche lei dal viso piuttosto pallido. «Janice, lei ha bisogno di un'ambulanza.» Janice tossì alcune volte, sentendo in gola il sapore del sangue. «Lo so, lo so. E ne chiamerò una, ma prima devo fare delle cose. La prego, faccia come le ho detto.» «Mammina, cosa c'è che non va?» Eunice aveva un'espressione molto solenne, ma non sembrava essere spaventata. Andy, invece, piangeva stringendosi alla signora Paulson e la fissava come se fosse l'uomo nero. «Lazarus è tornato.» Janice quasi rise dell'ironia di quell'affermazione. «Va' con la signora Paulson. È tutto a posto. Non preoccuparti.» I tre ritornarono nella casa accanto e Janice entrò nella sua. Si sedette al ripiano della cucina, sganciò il ricevitore del telefono e cominciò a comporre con la mano sinistra il numero del laboratorio di Len. Bastarono pochi secondi di biopsia e Helmond e Sharon si fecero un'idea di quanto fosse andato storto l'esperimento. Il sangue di Valdemar non era altro che denso liquido carico di impurità, e neppure un solo organo del suo corpo funzionava normalmente. Secondo la fisiologia che entrambi conoscevano, il roditore non doveva essere vivo. Quando, verso mezzogiorno, il telefono suonò, furono certi che quella
telefonata non annunciava buone notizie. MISTERI DELL'ORGANISMO Non appena riappese il telefono, sconvolto dall'angoscia, dalle accuse e dal terrore residuo nella voce della moglie, Helmond mandò a casa sua Sharon per raccogliere i resti di Laz e rimase d'accordo con Janice che l'avrebbe raggiunta in ospedale, dove l'avrebbe condotta un'ambulanza. La moglie gli aveva detto che ne avrebbe chiamata una, e che poi avrebbe pulito la stanza da ciò che era rimasto di Teddy Bear, mentre aspettava che arrivasse. Non voleva che i bambini vedessero il loro micino ridotto in quello stato. Non avevano parlato a lungo perché Janice gli aveva detto che stava sanguinando abbondantemente, ma da quel dialogo quasi incoerente Helmond aveva ricevuto molte emozioni e informazioni: in particolare che la scimmia si era tramutata un essere orribile e feroce che aveva quasi ucciso Janice, e che era tutta colpa sua. Al pronto soccorso del Berkshire Memorial sistemarono la mano di Janice, la ingessarono, le ricucirono la ferita alla gamba con settantanove punti e le praticarono una antitetanica. Il loro medico di famiglia, Ernst Severin, si recò in sala d'attesa per chiedere cosa diavolo fosse successo. «Un paio di mesi fa ho portato a casa dal laboratorio una scimmia rhesus,» gli raccontò Helmond, «che è stata subito adottata dalla famiglia come animale domestico. Ma per qualche motivo è diventata aggressiva e ha attaccato Janice.» Severin sembrava scettico. Era un uomo piccolo e nervoso che ostentava un papillon e un distintivo SALVIAMO LE BALENE appuntato sul bavero della giacca di tweed. Era anche diventato un ottimo amico degli Helmond, sebbene si fossero conosciuti da poco. «Stai cercando di farmi credere che è stata una minuscola scimmia rhesus a provocarle tutte quelle ferite?» Il biochimico scosse le spalle, con aria un po' colpevole. «L'ha spaventata. Una finestra si è rotta e lei è caduta sui vetri. Ha detto che era davvero isterico, Ernie, completamente folle. Janice è stata presa dal panico e si è ferita tentando di uccidere l'animale, ecco tutto.» «Uh-huh. E ci è riuscita?» Helmond era preoccupato per sua moglie (il loro matrimonio sarebbe sopravvissuto a quell'incidente?), ma anche per molti altri motivi. Avrebbe desiderato ardentemente ritornare al più presto in laboratorio per analizzare
la degenerazione dei rianimati, invece di perdere tempo prezioso all'ospedale, dove non poteva essere di alcun aiuto. «Ad ucciderlo? Sì. Lo ha messo sotto con l'auto.» Gli occhi del dottore mostrarono tutto il bianco. «Lo ha messo sotto con... Be', sarebbe meglio analizzare l'animale per vedere se aveva la rabbia. Senza contare le altre malattie che avrebbe potuto trasmettere. Ho visto Janice, Leonard. Le ha portato via un pezzo di gamba. Non avrei mai immaginato che una scimmia rhesus, piccola com'è, fosse capace di causare ferite simili.» «Ecco, Laz era molto grosso, rispetto alla media degli esemplari della sua specie. E mi ero assicurato che avesse fatto tutte le vaccinazioni.» Si chiese cosa avesse trovato Sharon in quel garage, cosa avesse portato in laboratorio. Janice aveva detto che Laz aveva lasciato una specie di «fanghiglia» nel seminterrato, e così aveva chiesto a Sharon di procurargli anche quella. «Temo di non potermi trattenere oltre,» lo informò Severin. «Ero qui per visitare una paziente, una dolce signora di novant'anni il cui fegato è grande quanto la rocca di Gibilterra ed altrettanto duro, e ho notato Janice dando per caso un'occhiata in pronto soccorso. Dovresti avere più cura di lei, Leonard. Non avrebbe dovuto subire questo tipo di trauma.» Helmond sospettava seriamente che Severin avesse una cotta per la moglie. In un altro momento, l'avrebbe trovato divertente, ma adesso nulla era divertente. «Lo so, Ernie. È stato un incidente. Avrebbe potuto succedere a chiunque.» Severin lo fissò per pochi secondi. «Sei certo di questo? Voglio dire, hai somministrato qualcosa di strano a quell'animale, in laboratorio, prima di portarlo a casa? Gli hai dato una droga alla Jekyll e Hyde o simili?» Il tono dell'uomo era serio solo a metà. «Ci vediamo, Leonard.» «Okay, Ernie.» Il medico si allontanò, fece un gesto di saluto da dietro la schiena e scomparve, e Helmond gliene fu eternamente grato. Janice uscì zoppicando dall'ambulatorio con il braccio destro appeso ad una fascia e una benda enorme alla caviglia della gamba destra. Gli sorrise debolmente. «Volevano darmi una stampella, ma, visto come è ridotta la mano, non avrei mai potuta usarla.» La voce suonò tesa e stanca, ma non rotta, non completamente scoraggiata. «Hanno detto che Laz in effetti mi ha morso fino all'osso e che l'avrebbe rotto, se avesse stretto un po' di più le mascelle.»
Helmond trasalì al pensiero. «Janice, io... io non so come dirti quanto sia dispiaciuto. Davvero.» Janice lo guardò di traverso, trattenendo la rabbia, le labbra increspate. «Faresti meglio a trovare il modo, è tutto quello che posso dirti.» In silenzio giunsero alla macchina e Helmond, messosi al volante, si sentì la forma di vita più infima della terra. Aveva lo stomaco in subbuglio, una massa di grovigli, e la testa gli doleva, mentre cercava di pensare a qualche frase consolatoria da dirle, ma non gli veniva in mente niente. Per una volta, il suo fascino e la prontezza di spirito lo avevano completamente abbandonato. Improvvisamente, Janice gli rivoltò contro con furia. «Allora, cosa diavolo dirò ai bambini, Len? E c'è di peggio: pensa se fossero stati in casa! Pensaci per un istante, incosciente bastardo!» E proruppe in singhiozzi convulsi, abbandonandosi contro la portiera come se cercasse di allontanarsi il più possibile da lui senza uscire dall'auto. In quella posizione semifetale, sembrava una bambina un istante dopo il suo primo vero incidente con la bicicletta: la bolla che racchiudeva il suo mondo sicuro era improvvisamente esplosa, forzandola ad ammettere che, dopo tutto, non era una ragazzina cresciuta. Ed era così, vero? Quel che aveva subito l'aveva semplicemente privata della fiducia in una realtà sana, stabile, e Helmond era pienamente consapevole di quanto forte fosse sua moglie. Una persona più debole forse non sarebbe sopravvissuta a quella prova, e lui era assai orgoglioso di lei. Ma si sentiva anche terribilmente colpevole per averla costretta a subire una tale sofferenza - e avrebbe potuto capitarle perfino qualcosa di peggio. Arrivarono a casa e Janice vi entrò zoppicando il più velocemente possibile, singhiozzando sonoramente. Helmond la seguì dopo un istante e la trovò distesa sul divano del salotto con l'avambraccio sinistro sugli occhi. «Janice, dobbiamo parlare,» disse lui in tono calmo. «Non voglio parlare con te. Tu distruggi esseri viventi e hai messo la tua famiglia in grave pericolo.» Quella frase suonava decisamente biblica rifletté cupamente Helmond. «Devi dirmi dell'altro su quel che è accaduto. Potrei essere in grado di salvare gli altri rianimati, se so cosa c'è che non va in loro.» E questo vale anche per nostra figlia, pensò ma non lo aggiunse, anche se era il suo chiodo fisso. Lei sospirò forte e a lungo, poi si riprese e si asciugò gli occhi. «Cosa vuoi sapere?»
Helmond sedette sul bracciolo del divano. «Dimmi cosa c'era di diverso nel comportamento di Laz, nella sua personalità, nella sua natura.» Il braccio sinistro di Janice si levò in un gesto disperato. «Da dove posso iniziare? Tutto era diverso in lui. Era più forte, più infido, più maligno, come se fosse qualcosa di più di una scimmia, ma anche qualcosa di meno. Come posso spiegartelo? È come se una sanguisuga si fosse evoluta in un essere intelligente.» Agitò la mano come se volesse ripulire l'aria da quelle parole. «Non so nemmeno io cosa sto dicendo. Ti ho raccontato che lui - la cosa - era attaccata al soffitto della libreria come una rana o una cosa del genere? Ora, dimmi come è possibile questo.» Helmond sollevò verso l'alto uno sguardo duro. «Torno subito.» Attraversò il corridoio che portava alla libreria ed esaminò il soffitto. Proprio al di là della porta, c'era una melma fangosa e grigia sull'intonaco, di forma vagamente umanoide. La sua ipotesi fu che il rianimato avesse utilizzato le secrezioni corporee per aderire all'intonaco, suppergiù come una lumaca. Era un'analogia che Janice avrebbe apprezzato. Lei annuì quando Helmond le espose quella teoria. «Okay. Quell'essere sapeva anche maneggiare bene gli strumenti. Ti ho detto cosa ha fatto con l'ascia. Ah, un'altra cosa. Non ha emesso versi durante tutto l'attacco, evidentemente non possedeva la voce. O almeno, non ne ha fatto uso.» Guardò l'orologio e si alzò dal divano, ma troppo in fretta. Strinse i denti per il dolore che la gamba, per tutta risposta, le aveva procurato. «Devo andare dalla vicina a prendere i ragazzi. Doris se li è tenuti tutto il giorno, e ormai probabilmente l'hanno legata ad un palo e bruciata.» «Va bene. Io devo ritornare al laboratorio. Ho detto a Sharon di venire qui a prendere il corpo di Laz e di portarlo lì. Devo esaminarlo prima che si decomponga ulteriormente.» Si chiese se doveva azzardarsi a baciarla, poi decise che era meglio di no. Lei ridacchiò con un filo di isteria nella voce. «Se tu l'avessi visto, non penseresti che potrebbe decomporsi più di così.» Helmond rimase per un attimo imbarazzato. «Cercherò di non far tardi.» Janice scosse le spalle. «Fa' come vuoi.» E ognuno andò per la sua strada, ma soltanto per quel giorno, sperò lui. Quando aprì la porta del laboratorio fu colpito da un forte odore stagnante di fumo di sigaretta, mentre nell'aria pareva addirittura aleggiare una leggera nebbiolina (il che, per qualche strano motivo, gli procurò un brivido spettrale di déja vu). Era la prova tangibile che Sharon stava fumando
come una ciminiera. Oltre a quell'odore soffocante ce n'era un altro, acre e nauseante, un odore di decomposizione che incupì ulteriormente l'umore di Helmond. Quando entrò, Sharon stava passeggiando con una sigaretta in mano. «Allora?» le chiese. Sembrava che la donna fosse appena stata testimone di una combustione spontanea. «Guarda tu stesso,» disse con una punta di rabbia, indicando con la sigaretta accesa, la bara luccicante, un contenitore metallico sul banco da lavoro centrale. Helmond si avvicinò al contenitore e ne sollevò il coperchio. Era ancora peggio di quanto avesse immaginato. La sua mente si sforzò di identificare e di spiegare i diversi sintomi che vedeva, per dare un nome familiare e una definizione razionale alla sindrome raccapricciante che aveva devastato la scimmia, ma non gli venne in mente nulla. Sapeva che era qualcosa che andava al di là della scienza conosciuta. Con un paio di pinze sollevò la pelle vicina al cadavere mutilato e alle altre parti di esso, girandola e osservandola da ogni lato. «Valdemar ha cominciato a dare segni di un processo di questo tipo,» ricordò a Sharon. «Perdita della pelle, formazione di un endosoma in putrefazione.» Lei lo raggiunse. «È così che chiami questa cosa infernale? Un endosoma incancrenito? Mi sembra piuttosto qualcosa che sia uscita direttamente da un quadro di Giger o di Bosch.» Helmond fece ricadere la pelle nel contenitore. «Sharon, se non riesci a rimanere razionale, vattene a casa. Ho bisogno che tu sia in uno stato mentale perfettamente lucido. C'è una spiegazione razionale per tutto questo e io la troverò.» Lei gettò il mozzicone sul pavimento e lo spense con il piede, emettendo un filo di fumo dalle narici. «Va bene. Sono con te, Lenny. Mettiamoci al lavoro.» Quando dissezionarono il corpo trasformato di Lazarus (necromorfizzato, così lo chiamò Helmond) e presero dei campioni da altri rianimati, i due conclusero che il processo di rianimazione non invertiva o neutralizzava il processo di necrosi dell'organismo, ma semplicemente lo rallentava. All'inizio tutti i processi vitali dell'organismo rimanevano normali, ma col tempo soltanto all'esterno l'organismo conservava "il roseo colorito della vita". Il perché accadesse questo era ancora oscuro, ma Helmond teorizzò che doveva avere a che fare con il modo in cui il soggetto assorbiva
gli elementi della soluzione durante il procedimento di infusione. Le misurazioni avevano dimostrato che in effetti parecchie once di soluzione venivano assimilate dall'organismo durante la rianimazione, in buona parte proteine, e una grossa quantità di soluzione veniva assorbita direttamente dalla pelle. La soluzione si trasmetteva anche alle ossa, in base ad un rapido processo di osmosi, il che spiegava la forza fenomenale dello scheletro di Laz. Ad un certo punto, nel metabolismo si manifestava un drastico squilibrio: le sostanze nutritive non venivano più distribuite in tutto il corpo, i rifiuti si accumulavano nelle cellule, e aveva luogo una vera e propria decomposizione del tessuto. Il sangue diventava una melma vischiosa e il battito cardiaco rallentava fino a fermarsi completamente durante la fase latente di necromorfosi. Uno strato di endosoma, tuttavia, subiva un processo di pietrificazione, invece che di decomposizione, e si saturava di minerali, proteine e tessuti fibrosi, che andavano a formare la sottile ma solida copertura corazzata sullo scheletro, la quale rimaneva elastica alle giunture, assomigliando molto alla cartilagine. Tutti gli organi interni erano al loro posto, ma ben pochi, in quello stadio, funzionavano. Per esempio, la ragione per cui Lazarus era rimasto in silenzio durante il feroce assalto era perché le corde vocali si erano fuse insieme. In definitiva, ecco in che cosa consisteva il processo di necromorfizzazione. Era mezzanotte quando finirono di raccogliere tutti i dati, ed entrambi si sentivano esausti e molto depressi. Helmond si sentiva sull'orlo di un collasso nervoso per la costante consapevolezza che quei processi degenerativi stavano avvenendo anche nella sua cara Eunice, che lui poteva aver fatto di più che semplicemente posporre l'inevitabile, e che le sue azioni avrebbero potuto portare a un vero parossismo di orrore. Be', non si sarebbe arreso; almeno non ancora. Per quanto estesa fosse la sindrome di necromorfizzazione di un corpo, forse poteva ancora essere prevenuta o invertita. Era possibile che esistesse un altro stadio nella procedura di rianimazione che aveva trascurato; se né la soluzione né l'infusione REM potevano ridare la vita, magari esisteva una terza componente nel trattamento. Doveva sperare che fosse così. «Andiamo, Lenny,» lo esortò Sharon, con i capelli biondi scompigliati e la camicetta rossa intrisa di sudore che dava l'impressione che la donna sanguinasse abbondantemente per una ferita al petto. «Andiamo a casa, dormiamo un po', riposiamo le cellule del cervello e lasciamo che i nostri subconsci si diano alla pazza gioia. Domani è un altro giorno e alla fine arriveremo a capo di questa faccenda. Stanotte, abbiamo fatto un ottimo la-
voro. Abbiamo raccolto materiale da Premio Nobel, davvero.» Helmond sollevò lo sguardo dalla scrivania e i suoi occhi erano quelli di un uomo perduto, quasi distrutto; volle raccontarle ciò che aveva fatto, quel che temeva stesse per accadere, ma si trattenne. In quel momento desiderava disperatamente credere in un Dio che non avrebbe permesso a innocenti ragazzine di trasformarsi in voraci cadaveri viventi e che non avrebbe permesso ad un padre amoroso di cadere vittima degli ignobili capricci del fato, ma sapeva che le cose non stavano così. Sapeva di essere vittima delle conseguenze inesorabili del proprio operato scientifico. Per ogni azione esiste una reazione uguale e contraria, ciò che sale deve anche scendere, e chi viene ucciso deve morire, in un modo o nell'altro. «Hai ragione,» disse, chiudendo il blocco per appunti e alzandosi con difficoltà. «Per stanotte, non c'è nient'altro che possiamo fare.» Mentre stavano indossando le loro giacche, la mano di Sharon gli afferrò una spalla, non molto gentilmente, ma come se si stesse aggrappando alla vita o alla ragione. «Ho soltanto una domanda da farti, Lenny.» Lui fissò la mano di Sharon e il suo volto profondamente accigliato. «Cosa, Sharon?» «Se il loro sangue non scorre e il cuore non batte e l'unico organo che lavora dentro di loro è un tratto di intestino che serve ad assorbire le proteine dal sangue e dalla carne che ingeriscono, cosa diavolo è a tenerli in vita quando raggiungono lo stadio finale di necromorfosi? Lasciami spiegare meglio. Cosa li fa muovere? Cosa anima Valdemar adesso?» Helmond distolse lo sguardo. «Non posso dirlo con certezza. So soltanto di cosa deve trattarsi: è il sistema nervoso, che continua a pulsare d'energia elettromagnetica, che sia residua del processo o che provenga da qualche altra parte. Il tessuto è morto, ma risponde ancora agli stimoli elettrici.» A quell'affermazione Sharon inarcò le sopracciglia. «Da qualche altra parte. Francamente, detta da te, Lenny, una frase del genere suona come superstiziosa.» Lui la cinse con un braccio. «Usciamo di qui,» disse. Quando arrivò a casa l'abitazione era silenziosa, erano tutti a letto, ma sapeva che non sarebbe riuscito a dormire. Si versò un doppio scotch liscio, si trascinò in salotto, accese la TV e si accasciò sulla poltrona. La televisione trasmetteva un film, una commedia su una coppia sposata che metteva su uno stravagante servizio di sesso a pagamento e uccideva le persone che si presentavano per rubare il loro denaro. Alla fine, la coppia
uccideva il loro socio in quell'attività criminosa e lo serviva a tavola durante un pranzo con un ospite importante. Helmond non riusciva a concentrarsi sul film, credeva che comunque non ne avrebbe compreso il significato (ma giravano davvero film di quel genere?), e così rivolse la sua mente gravemente affaticata al problema che più lo angustiava. Ovviamente, al momento della morte qualcosa di fondamentale veniva distrutto nell'organismo: il potere di rigenerazione o forse soltanto il fattore elusivo che organizzava i processi della vita stessa. Cos'era? Dov'era localizzato? Era un enzima, un ormone, una parte del cervello? Una seconda infusione di REM avrebbe arrestato la degenerazione? Concluse che sarebbe stato troppo pericoloso. Quasi sicuramente si sarebbe verificato un sovraccarico neurale. No, era convinto che il problema riguardasse qualcosa di fondamentalmente organico, e dunque doveva essere risolto a livello corporeo. L'organismo necromorfizzato bramava proteine ma le conveniva e le distribuiva in modo anomalo. Ciò, in qualche modo, doveva essere evitato. Quando il sangue cessava di fluire, un altro sistema di trasporto delle sostanze nutritive ne prendeva il posto, ma Helmond non aveva neppure la più pallida idea di come funzionasse. Dio, era una caricatura talmente orribile dei sistemi vitali, una beffa della natura, che il solo pensiero lo disgustava. Era pura follia incarnatasi, il disegno malefico e sadico di un dio folle. Cosa causava la corruzione? Perché, dopo la rianimazione, la vita non riprendeva in maniera normale? Forse si trattava di qualche fattore psicologico, mormorò nella confusione indotta dall'alcool e dalla stanchezza. Forse, una volta che l'organismo fosse veramente morto, esso rimaneva talmente traumatizzato che non poteva accettare di rivivere ancora e dimenticava definitivamente come vivere. A quel pensiero, rise con il riso di un dannato. Con il bicchiere nuovamente pieno in mano, tentò di affrontare tutte le possibilità. Laz si era necromorfizzato circa undici settimane dopo la sua rianimazione, e pareva che anche le altre scimmie rhesus rispettassero lo stesso intervallo, poiché mostravano vari gradi di peggioramento interno. Sembrava anche che se la sua teoria sugli organismi più complessi che degeneravano a una velocità maggiore si fosse dimostrata corretta, allora Eunice avrebbe avuto meno tempo, prima di subire il fato di Laz. Quanto tempo in meno? Era stata rianimata quattro settimane prima e poteva subire una necromorfosi in qualsiasi momento, per quel che ne sapeva Helmond. Non aveva avuto la possibilità di realizzare una tabella differenziata
per specie. Tuttavia, nel complesso, le scimmie erano molto simili all'uomo, paragonate agli altri soggetti dei suoi esperimenti, e così Helmond pensò che non poteva esserci un'enorme differenza, forse una settimana. Immaginò di avere ancora sei settimane prima che Eunice si spogliasse della sua pelle e assumesse la sua forma necromorfizzata, sei settimane prima di trovare un antidoto alla non-morte. Grandioso, pensò. Se avesse fallito Eunice si sarebbe trasformata giusto in tempo per Natale. Questo avrebbe certamente rallegrato le vacanze di tutti, vero? Be', al diavolo: Dio aveva creato il mondo in sei giorni. In sei settimane lui poteva fare di tutto. Fu il suo ultimo pensiero prima di piombare nel sonno. COLAZIONE CON CROCIFISSIONI Il giorno seguente non fu un giorno felice per la famiglia Helmond. Due animali di casa erano morti nello stesso giorno e ciò spiegava perché i bambini fossero tanto tristi e soggetti ad improvvisi attacchi di pianto. Janice disse ad Andy, Eunice ed Ally che Laz e Teddy Bear si erano azzuffati ferendosi a morte, e che poi Laz l'aveva attaccata in garage. Anche se in versione corretta, rimaneva pur sempre una storia spaventosa da raccontare: i loro affettuosi e amabili animaletti si erano improvvisamente trasformati in feroci predatori, ma i figli la accettarono e si prepararono a superare il dolore. Verso l'una del pomeriggio, una Eunice imbronciata e con gli occhi arrossati si avvicinò a Janice e le domandò se poteva avere un cucciolo. La madre rispose che ci avrebbe pensato su. Quando tutta la famiglia fu scesa dabbasso, Helmond si alzò dal divano, deambulò meccanicamente fino alle scale e andò in camera da letto, dove rimase fin dopo mezzogiorno, incapace di affrontare la tortura emotiva che quella giornata avrebbe rappresentato per lui. I sogni suoi cupi furono affollati da fantasmi e incubi biologici, mentre il subconscio elaborava le sue paure e iniziava a cercarvi una risposta. Mitocondri gli fluttuarono accanto come nuvole vetrose, nuclei fiammeggiarono con primordiale intensità, lisosomi tremolarono in globuli volteggianti, dendriti e sinapsi sfrigolarono ed emisero scintille come cavi elettrici caduti, corpuscoli rossi, della grandezza di massi, rotolarono in un immenso fiume di plasma. I processi chimici più microscopici divennero visibili a occhio nudo e il suo io sognante, simile a quello di un bambino, fu incredibilmente sorpreso di essere il primo a osservare quelle miracolose operazioni: i meccanismi fondamentali del funzionamento delle cellule. Apparve un'escrescenza nera e cancerosa
che cominciò a divorare tutto quel che c'era nel sogno con tentacoli simili a radici, ma lo stato mentale febbrilmente ottimistico di Helmond li scacciò, determinato a far sì che quella visione di sogno non si trasformasse in tetra disperazione. E il suo sforzo lo ricompensò con maggiori conoscenze su quegli stessi processi. Nel sogno, le cellule cominciarono a dividersi in tre tipi. Il primo era costituito dalle cellule normali di esseri non sottoposti al trattamento, le quali metabolizzavano alla giusta velocità. Il secondo da cellule necromorfizzate, ossificate, cristallizzate e impregnate di effluvio. Infine c'era il terzo tipo, cellule che quasi brillavano di vitalità, cellule che sembravano funzionare con efficienza molto maggiore del normale. Helmond le chiamò ipervitali, ed erano quelle cellule che si erano saturate di "brodo primordiale" durante la rianimazione. Un altro termine scaturì dal limbo turbinante del suo id: effetto Achille. E fu allora che si svegliò. Ricordandosi del sogno mentre faceva la doccia, si rasava e indossava vestiti puliti, tentò di analizzare gli indizi che l'inconscio gli aveva fornito. Ebbe la sensazione, per la prima volta da parecchi giorni, che ci fosse una luce alla fine del tunnel, e si sentì cautamente incoraggiato. Era sempre stato convinto che nessun problema fosse definitivamente irrisolvibile per la mente umana, come si evinceva dal suo interesse per l'enigma più grande: la fine della vita, ma di fronte alle colossali avversità che aveva affrontato di recente, aveva cominciato a dubitare. Mai più, annunciò a se stesso. Verrò a capo di questa faccenda, senza mezzi termini. Janice era ancora seduta al tavolo in camicia da notte quando Helmond entrò in cucina. Mentre stava scendendo le scale, Helmond si era sorpreso a fischiettare allegramente, ma ora, guardando Janice, fu felice di aver smesso prima che lei se ne fosse accorta. Dall'aspetto, Janice aveva l'aria di chi non sarebbe mai più stato felice, e probabilmente lo avrebbe infilzato con un coltello da cucina poiché non era infelice quanto lei. Lenny vide sul tavolo un pacchetto di Pall Mall mezzo vuoto, un posacenere colmo accanto al gomito di Janice e una sigaretta accesa nella mano sinistra della moglie. Si chiese da dove fossero uscite fuori le sigarette: forse Janice le aveva nascoste in caso di un improvviso bisogno di una dose di nicotina, oppure qualcuno gliele aveva procurate, o magari le aveva comprate in ospedale? Ma negli ospedali esistevano macchinette distributrici di sigarette? Forse. Il cancro ai polmoni era un'ottima cosa per i loro affari. «Finalmente ti sei deciso a raggiungere la terra dei vivi, eh?» gli disse lei con un tono di voce davvero spento. «Se lo è davvero, cioè.»
Ally non si vedeva da nessuna parte, ma Helmond riuscì ad osservare Eunice ed Andy dalla finestra della cucina sul retro: non stavano giocando, in effetti non stavano facendo assolutamente nulla. In questa casa non c'è certo un'atmosfera gioiosa, rifletté. Si versò del caffè, sedette a tavola e guardò sua moglie. Assomigliava a una profuga di guerra che fosse stata coinvolta in un combattimento. «So che quel che ho fatto è imperdonabile,» esordì Helmond. «Avrei dovuto prendere maggiori precauzioni, ma devi anche capire che quel che è successo, secondo le normali leggi della biologia, non avrebbe potuto assolutamente capitare. È un territorio vergine, un'area della biochimica e della fisiologia completamente nuova. Non c'era modo di...» Lei gli fece cenno di stare zitto. «'Fanculo tutto, Len. Hai visto la mia auto? L'hai vista? È demolita, completamente distrutta. Dio, avrei voglia di cavarti quei maledetti occhi, subito.» «Scusami, Janice. La farò riparare.» Gli occhi di lei lo fissarono infuriati, pieni di dolore e di un senso di perdita. «Non è questo il punto! La riparazione non risolverà un bel niente! Quasi tutta la macchina era originale, capisci? La carrozzeria era quella di venti anni fa, intatta in ogni millimetro come quando uscì dalla catena di montaggio! È tutto andato. Prima di ieri era un'auto classica, una rarità. Ora è un mucchio di rottami.» Helmond si sentì molto imbarazzato; il suo buon umore iniziale aveva ricevuto un duro colpo. Era ovvio che la moglie stava insistendo su quel particolare aspetto dell'episodio per evitare di dover affrontare l'orrenda verità di quel che aveva subito, ma Helmond si rendeva conto che, in fin dei conti, non faceva alcuna differenza. La Camaro aveva significato molto per lei e Janice lo avrebbe sempre associato alla sua distruzione... lo avrebbe sempre biasimato per la perdita della sua auto. E questo non era un bene. «Ho avuto quella macchina a sedici anni,» insisté Janice, cominciando a raccontare una storia che Helmond aveva già sentito dozzine di volte. «Allora, tutte le mie amiche andavano in cerca di ragazzi con macchine fantastiche. Be', vaffanculo, mi dissi. Comprai la mia auto fantastica, anche se era un mezzo catorcio. Ma ci pensai io, con le mie mani, a rimetterla in sesto. Oh, quanto sono stata sfottuta perché volevo impicciarmi di meccanica. Si presuppone che le ragazze non siano dei buoni meccanici, vero? Be', gli altri si rimangiarono tutto, quando mi sfidarono a correre contro di loro. Lasciatelo dire, la Regina Nera poteva stracciare qualsiasi macchina di
quella cittadina di provincia in cui sono cresciuta.» Spense con violenza la sigaretta nel posacenere. «Che comportamento infantile, eh? La madre biologica di due ragazzi e la matrigna di una terza che indulge ancora in simili sciocchezze. Be', amavo quell'auto, Len, e tu e quel tuo dannato mutante me l'avete distrutta.» Forse non era solo fissazione, pensò Lenny. Forse, Janice, pronunciando quell'elogio funebre, stava tentando di rassegnarsi, di superare il suo dolore. «Lo so, e per questo mi sto davvero dannando, Janice. Non riuscirei neppure a dirti quanto sia sconvolto.» Questo sembrò calmarla un po'. Si accese un'altra sigaretta e chiese, un po' a malincuore, «Be', il tuo progetto è andato a monte o cosa?» Helmond sospirò. «È ancora troppo presto per dirlo, temo.» Janice espirò il fumo dall'angolo della bocca. «Hai dissezionato quella dannata cosa? Era così orribile dentro quanto lo era fuori?» «Sì.» rispose Helmond dopo una lunga pausa. Non voleva parlare con la moglie di quella faccenda. «Be', te l'avevo detto che quello che stavi facendo era contrario alle leggi di Dio e della Natura. Una volta che un essere è morto, deve rimanere tale. Forse non è una cosa piacevole, ma è così che devono andare le cose.» Lui la osservò, tentò per un momento di scutarle nell'animo. Lo diresti ancora, se fosse stata tua figlia a essere uccisa? avrebbe voluto chiederle. Se tu avessi la possibilità di ridarle la vita, non lo faresti? «Voglio dire, ho avuto tempo di pensarci,» continuò Janice. «Non solo su quello che ho sofferto io, ma anche su quello che deve aver sofferto Lazarus. Era un animale così dolce, affettuoso, felice e giocherellone, così inoffensivo. Quello che mi ha attaccato non era lui. Era un essere infernale, una cosa. Degenerare così deve essere stata l'esperienza più orribile che sia possibile immaginare per una creatura tanto sensibile come Laz; come essere divorato da un incubo, o da un cancro.» Tremò. «È come se fosse morto tre volte: una volta in laboratorio, una nel seminterrato, e una in garage. Quella in cantina probabilmente è stata la morte peggiore.» Se Janice stava cercando di farlo sentire un verme disgustoso, ci era riuscita alla perfezione. Era come fare colazione con il proprio demone personale, espiando ogni peccato, fin nei minimi dettagli, tra succo d'arancia, caffè e toast. Helmond sapeva che quella discussione era fondamentale per il futuro del loro matrimonio, ma era impaziente di ritornare al lavoro in laboratorio, voleva sfuggire a quella flagellazione verbale a cui lei lo stava sottoponendo.
«Non penso che sia stato così brutto per lui,» obiettò Helmond; «Penso che fosse piuttosto intontito, al momento di entrare nello stato di letargo.» Disse questo per alleviare più la sua vergogna che la preoccupazione di Janice per l'orrore subito da Laz; e non ci credeva poi molto. Il cervello era l'unico organo del rhesus che non si fosse visibilmente deteriorato. Janice si appoggiò allo schienale della sedia, e sospirò come se soffrisse per tutti i mali che affliggevano il mondo. «Be', Eunice vuole un cucciolo e penso che sia una buona idea. Un nuovo animale distoglierà i ragazzi dal pensiero dei due che hanno appena perso. Cosa ne pensi?» «Sì, certo.» In realtà, Helmond odiava quell'idea. Dopo la morte del suo cane Argo, non aveva mai voluto rischiare di avere un altro amico canino. Aveva sofferto troppo per la prematura scomparsa di Argo. Era dispiaciuto della morte di Teddy Bear (e specialmente del modo in cui era avvenuta), ma l'amore di un gatto era limitato e alieno. D'altra parte, l'amore e la lealtà di un cane erano così totali e così simili ai corrispondenti sentimenti umani che quando l'animale moriva era davvero come se fosse mancata una persona. «Ti piacerebbe che stasera ne prendessi uno dal canile, al mio ritorno?» Janice assentì. «Prendine uno di taglia piccola, non un danese o un sanbernardo che ci butterebbero fuori di casa, okay?» «Va bene.» Ora Helmond poteva finalmente uscire, oppure c'erano altre riparazioni urgenti tra loro due che richiedevano un'attenzione immediata? Il problema delle relazioni umane, notò, era che si trattava di una scienza imprecisa, piena di congetture e tiri alla cieca. Sorrise quando rifletté che «tiri alla cieca» era una metafora decisamente adatta ad indicare l'atto sessuale, poi si incupì nuovamente ricordando che era stato un suo tiro alla cieca di diverso genere ad aver messo nei guai Eunice. Ma ormai la sua pazienza si era esaurita; che avesse trascorso o meno abbastanza tempo a parlare con Janice, doveva ritornare in laboratorio e lavorare per scongiurare il fato che sempre più vicino incombeva sulla vita di Eunice. «Devo andare, tesoro,» disse avvicinandosi alla moglie. «Sì, lo immaginavo.» Il tono di Janice non era molto comprensivo. «Parleremo ancora quando tornerai a casa.» «Potrei fare tardi.» Si preparò alla reazione che quella dichiarazione poteva generare. Janice tirò un altro respiro lungo e sofferente. «Bene. Puoi trascorrere tutto il tuo tempo con i tuoi animali e la tua assistente dal bel faccino e mandare a puttane il nostro matrimonio. Non so se valga la pena preoccu-
parsene ancora oppure no.» Helmond era sicurissimo che Janice non stesse parlando sul serio; il tono di voce apatico non era convincente. «Tenterò di tornare a casa presto. Te lo prometto.» «Non importa. Fai quel che devi fare.» Janice si alzò e uscì dalla stanza. Quel comportamento inquietò Helmond; aveva davvero bisogno di un bacio di Janice, prima di ritornare al caos che era divenuta la sua vita. Sharon era già in laboratorio, impegnata al terminale del computer. Personalmente, Helmond utilizzava la macchina il meno possibile, pensava molto meglio quando aveva una penna in mano, ma alcune delle equazioni a cui lavorava erano troppo complesse per essere risolte in quel modo. Posò la valigetta sulla scrivania e lesse al di sopra delle spalle di Sharon quel che era scritto sul video. Sembravano equazioni sulle capacità di assorbimento della soluzione proteica da parte delle cellule. «Penso di aver scoperto parte del problema,» gli comunicò Sharon con una punta di ottimismo nel tono di voce. «Differenti tipi di tessuto sembrano assorbire differenti quantità di "brodo primordiale". E sono proprio quei tessuti che assorbono più soluzione che si necromorfizzano di meno.» Indicò lo schermo. «Vedi? Ossa, pelle e nervi hanno avuto il tasso di assimilazione maggiore, mentre con il tessuto muscolare è successo qualcosa di strano, una specie di indurimento e irrigidimento che ha prodotto un rigor mortis flessibile.» La testa di Sharon si inclinò verso di lui. «È come se soltanto una parte dell'animale ritornasse in vita; il resto rimane morto e continua a decomporsi.» Qualcosa scattò nella testa di Helmond. Un termine scaturì dall'inconscio: effetto Achille. Ora capiva cosa significava: la madre di Achille lo aveva tenuto per un tallone, immergendolo nel fiume Stige e rendendolo completamente invulnerabile, tranne per il lembo di pelle del tallone coperto dalla sua mano. Helmond aveva fatto la stessa cosa con i rianimati: aveva ipervitalizzato soltanto sezioni del loro corpo, suddividendo in maniera ineguale le proteine irradiate nei loro tessuti. La rivelazione lo scosse talmente che per un attimo rimase senza fiato: la soluzione era la soluzione! «Lenny, qualcosa non va?» disse Sharon, balzando in piedi quando lo vide allontanarsi di alcuni passi. «Ho trovato la risposta!» urlò lui. «Finalmente so quel che dobbiamo fare.»
Lei lo costrinse a sedersi sulla sedia da cui si era appena alzata. «Cosa? Dimmelo!» Helmond era tanto eccitato da non riuscire quasi ad esprimersi in maniera coerente. «È semplice. Sottoponiamo una certa quantità di soluzione all'infusione REM, poi la iniettiamo direttamente ai rianimati. Quelli con il sistema vascolare ancora funzionante la riceveranno per via endovenosa, gli altri per via intramuscolare fin quando il loro sangue non ricomincerà a circolare. Ma è questa la soluzione, ne sono certo! Tutto quello che dobbiamo fare è completare le rianimazioni in questo modo e ovviare all'assorbimento insufficiente di soluzione. «Capisci, la soluzione acquista una specie di vita propria, dopo essere stata irradiata. Diventa un plasma vivente, forse come il brodo primordiale da cui si evolsero, milioni di anni fa, i primi composti di proteine capaci di autoriprodursi. Essa si fonde con l'interno e con l'esterno del corpo del rianimato. Per quel che ne sappiamo, potrebbe essere quest'organismo colloidale ciò che anima la materia del cadavere, in maniera simile alla possessione spiritica. Non riesco a comprendere a pieno quest'effetto, ma la soluzione dovrebbe conservare il suo stato energizzato anche molto dopo l'infusione.» Sharon rifletté sulla cosa. «Sembra logico.» «Logico!» Helmond improvvisamente balzò in piedi, afferrò tra le mani il volto di Sharon e la baciò sulle labbra. «È dannatamente sublime! Quando arriveranno le forniture?» Ora fu lei a rimanere senza fiato, perché quello che per mesi aveva sognato accadesse, era appena successo in maniera totalmente inaspettata. «Ehm, all'inizio della prossima settimana, credo.» Helmond cominciò a misurare a grandi passi il laboratorio. E pensare che aveva quasi evitato di ordinare i componenti per una nuova partita di soluzione! Sarebbe stata davvero una catastrofe, perché ci sarebbero volute almeno sei settimane affinché ne spedissero degli altri, e per allora Eunice si sarebbe sicuramente trasformata in una zombi. Evidentemente, la Provvidenza non lo aveva del tutto abbandonato. Ora, la questione era come somministrare l'iniezione (una flebo endovenosa sarebbe stata l'ideale) a sua figlia senza sollevare sospetti. In un modo o nell'altro, quel problema sarebbe stato risolto. Sharon lo fissò piacevolmente sorpresa, mentre Helmond girava per la stanza. Non aveva mai sospettato che ci fosse tanta passione in lui. Certo, quella era un scoperta significativa e la posta in gioco era alta, ma Hel-
mond si stava comportando come un uomo condannato a morire a cui fosse stato appena detto che la sua malattia giunta allo stadio terminale stava regredendo spontaneamente, come un uomo condannato all'inferno che fosse stato appena graziato dell'Altissimo. Non c'era neppure bisogno di dire che era davvero incoraggiata dall'aver scoperto un tale turbinio di emozioni sotto quella dura scorza da uomo calmo e razionale. Poteva trarre dei vantaggi da ciò, ne era sicura. «Ho un'idea,» disse Helmond, voltandosi di scatto a guardarla. «Non abbiamo nulla da fare qui oggi. Andiamo a fare una passeggiata, e magari a fare colazione da qualche parte. Hai già mangiato?» «Stai scherzando?» replicò Sharon, sforzandosi di conservare la sua calma apparente, mentre nell'intimo era eccitata come una scolaretta. «Posso permettermi a stento un pasto al giorno, figuriamoci tre.» «Bene. Ho voglia di uscire, di stare a contatto con la natura per un po'. Andiamo.» Presero i soprabiti, lasciarono l'edificio dei laboratori, e iniziarono ad attraversare il campus. Le ampie distese d'erba stavano ingiallendo e gli alberi avevano perduto il loro fogliame rosso e oro; i rami si diramavano nell'aria come unarete di vene. Gli scoiattoli, rimpinguatisi per affrontare l'inverno, le guance rigonfie di noci e ghiande da conservare, si esibivano nelle loro corse sfrenate agitando le folte code. Il mondo stava morendo, si avvicinava rapidamente la stagione dei morti, anche se sarebbe ritornato alla vita a primavera con una resurrezione generale che la scienza non sarebbe mai stata in grado di realizzare. Era a questo che pensava Helmond mentre camminava a fianco di Sharon lungo il marciapiede antistante a quella montagna gotica di marmo che era Pendrake Hall. «Io amo l'autunno,» esclamò Sharon. «È solitario, come un lungo tramonto.» Rise in tono nasale. «Credo di amarlo perché somiglia un po' alla mia vita. Mi identifico con esso. Cose che muoiono, cose che finiscono, come l'amore perduto, come una tragedia greca.» Quel che Sharon aveva appena detto lo aveva reso nervoso, e così Helmond rise per nascondere il suo imbarazzo. «Non avrei mai immaginato che tu fossi una poetessa. E non avevo mai pensato all'autunno come a una tragedia, ma credo che sia davvero così: una tragedia su scala naturale. A questo punto, immagino che la primavera sia una commedia.» Mentre camminavano, Sharon continuava a sfiorarlo, quel tanto che bastava a non far sembrare intenzionale quel gesto. «Naturalmente ciò renderebbe Dio un drammaturgo; del teatro dell'assurdo, senza dubbio, come Beckett o Ione-
sco.» Helmond si chiese se Sharon lo continuasse a sfiorare di proposito; decise che era molto probabile e che comunque non c'era niente di male. «Anche a me piace l'autunno, ma non sopporto l'inverno. Anzi, se non fosse per il Natale, credo che mi sarebbe intollerabile.» «Oh, come si può odiare l'inverno? Pupazzi di neve, ghiaccioli, bambini infagottati sugli slittini, la divina geometria dei fiocchi di neve...» «Rimanere bloccati nel vialetto di casa, lastre di giaccio sull'asfalto, bollette del riscaldamento alle stelle, e piedi bagnati. In inverno, la terra muore. Tutti i colori scompaiono dal paesaggio, l'aria diventa priva di odori e il freddo rende insensibile la pelle. È un periodo di grigiore e di oscurità, la stagione della morte.» Sharon lo guardò con autentica sorpresa. «Dio, scommetto che odi i bambini e i cuccioli.» Helmond si fermò per un attimo. «Ehi, questo mi fa venire in mente una cosa. Qual è la razza canina che preferisci?» Sharon ci pensò su. «Oh, credo i samoiedi. Sono animali carini e molto intelligenti. Mio zio ne aveva uno nella sua fattoria nel Massachusetts. Si chiamava Vanilla. Quando inziò in tv la Ruota della Fortuna, cominciammo a chiamarla Vanna White.» Helmond assentì soddisfatto. «E vada per il samoiedo, allora. Prenderò un cucciolo ai ragazzi dal momento che hanno, ehm, perso Laz e Teddy Bear.» Sharon abbozzò un sorriso incerto e i due ripresero a camminare. «Oh. È una buona idea. Vedi soltanto di non farlo avvicinare troppo al laboratorio, okay?» Ormai si stavano lasciando alle spalle il campus per dirigersi in centro. «E con questo, Amen, signora.» Sulla Main Street si aprivano file di negozi, ristoranti, uffici, uno accanto all'altro; sembrava ci fosse un lungo, unico edificio su entrambi i lati della strada. Dal momento che Berkshire era una città universitaria, molti negozi erano librerie. C'era anche una boutique chiamata Lo Straccione, che soddisfava i gusti bizzarri dei giovani e un locale chiamato Riff Raff. Quest'ultimo era stato per molto tempo il bersaglio di azioni legali da parte del consiglio comunale, ma tutti i tentativi di sfrattare, chiudere, togliere dalla circolazione quel posto erano assolutamente falliti. Era ancora aperto e faceva ottimi affari in una città come quella, piena di studenti ribelli e inclini alla sperimentazione.
«Andiamo a mangiare da Primo's,» suggerì Sharon. «Cucinano delle fantastiche bistecche con le uova.» «Hai scelto il ristorante più caro della città. Dovrei fare alla romana.» Lei gli sferrò un leggero colpetto alla spalla. «Provaci e lascerò il lavoro. Un capo difficile come te impiegherebbe un bel po' a trovare un sostituto, credimi.» Un gruppo di giovani stava uscendo dal Riff Raff, una decina di metri più avanti; alcuni avevano tagli di capelli alla mohicana, le orecchie forate e abiti in pelle: tre ragazzi e due ragazze, tutte al di sotto dei vent'anni. Sia che avessero voluto regredire a un'epoca passata o che fossero precursori di un epoca futura (postnucleare? postcivilizzata? postumana?), sembravano assolutamente fuori luogo in quella strada tranquilla, in un sabato luminoso ma freddo, alieni in visita in una piccola città americana, venuti per comprare una tubatura o qualche amuleto. Poi si rese conto che uno dei primitivi era la figlia. Ally riconobbe Helmond e sul suo volto in pochi secondi apparve un'intera gamma di emozioni. Il primo impulso fu quello di ignorare il padre che si stava avvicinando e sperare che passasse senza notarla; poi, più realisticamente, ammise l'inevitabilità dell'incontro, e infine assunse un atteggiamento noncurante. Aveva deciso che dal momento che Helmond stava passeggiando con la sua assistente, e non certo per lavoro, era ovvio che non poteva rimproverarla di nulla. «Ciao, papà,» disse la ragazza quando Sharon ed Helmond raggiunsero lei e i suoi amici. «Ciao, Ally,» rispose lui in tono pacato. Si considerava un individuo aperto e tollerante, ma quei ragazzi con i quali Ally andava in giro sembravano così duri, spietati, amorali e deviati, che non riusciva a non preoccuparsi. Inoltre, sembravano avere due o tre anni in più di Ally. Andava a letto con uno di loro? Con tutti? Chi erano quei ragazzi e chi erano i loro genitori? Lo fissavano senza un minimo di apprensione, e con non poca indifferenza. Inoltre vedere Ally lo faceva sentire ancora colpevole dell'episodio di Laz. Cosa pensava di lui la figlia in quel momento? Di un uomo che aveva lasciato libero per casa, con conseguenze quasi fatali, un esemplare da laboratorio mortalmente pericoloso? «Ehm, ti ricordi di Sharon Bishop, la mia assistente, vero?» Ally assentì con un'espressione sul volto che voleva dire: comportatibene-qui-con-i-miei-amici-presenti-o-dirò-a-mamma-che-ti-ho-visto-ingiro-con-Miss-So-Tutto. «Questi sono i miei amici, Bobby, Colin, Doug, e
Lucy.» In risposta alle rispettive presentazioni, i ragazzi rivolsero a Helmond lievissimi cenni del capo o mormoni appena udibili. «Questo è mio padre. È uno scienziato che lavora come ricercatore all'università.» «Davvero?» disse Bobby con un tono che indicava un sincero interesse. Era un tipo grosso, piuttosto muscoloso; probabilmente sarebbe stato carino, se non avesse torturato i propri capelli con un taglio a cresta color arancione. «Cosa fa lì dentro, Dr. Helmond? Forse fabbrica mutanti, oppure sta mettendo insieme i geni di qualche ceppo di microbi che spazzerà via l'intera razza umana?» Helmond notò il tono di derisione che c'era nella voce del punk, ma decise di ignorarlo. «Niente di tutto questo, assolutamente. In realtà, ho vivacemente protestato contro lo sviluppo di agenti per la guerra chimica e biologica e contro le scarse precauzioni prese durante le ricerche d'ingegneria genetica.» «Be', si sa, qualche incidente può succedere,» disse il ragazzo chiamato Colin, piccolo ma dall'aspetto truce e che aveva dei tatuaggi sul dorso delle mani, un serpente sulla destra e uno scorpione sulla sinistra. I giovani pensarono che il suo commento fosse molto intelligente e risero di gusto. «Sì, beh, dobbiamo scappare,» intervenne Sharon, che chiaramente presagiva uno scambio di battute piuttosto acceso. «Lieta di avervi conosciuto.» Afferrò il braccio di Helmond e lo tirò via. «Ehm, giusto,» disse il biochimico. «A più tardi, Ally.» Quando si furono allontanati abbastanza, Helmond commentò, «Altri attivisti per i diritti degli animali.» «No,» esclamò Sharon. «Solo altri animali.» «Sei diventato improvvisamente silenzioso.» disse Sharon mentre erano seduti a un tavolo del ristorante. «Scusa, ma sto pensando ad Ally. A volte mi preoccupa.» Anche se non se ne rese conto, mentre si guardava intorno nella sala, Helmond voleva assicurarsi che non ci fosse nessuno che conosceva e che potesse riferire a Janice di averlo visto con Sharon. Senso di colpa ingiustificato: il grande passatempo americano. Stiamo semplicemente facendo colazione, per l'amor di Dio! «Sono dei brutti tipi quelli che frequenta. Dei punk.» disse Sharon. Bevve un sorso d'acqua. «Lo so. Dice che sono come dei commandos delle periferie o qualcosa del genere. Sai, all'inizio ho pensato che la sua mancanza di dolore per la
morte di Tommy fosse il risultato di un salutare distacco dalla crudele realtà della morte. Ora credo che nasca da una morbosa attenzione nei confronti della morte, dalla familiarità con la desolazione della tomba.» Sharon poggiò il gomito sul tavolo e pose il mento sul palmo, facendo gli occhi dolci a Helmond in una maniera che a lui parve ridicola. «Ehm, oggi siamo d'umore tetro, vero?» Lui sorrise. «Decisamente, ma avresti dovuto sentire quel che mi ha detto: di essere pienamente preparata a camminare e vivere nelle terre desolate e radioattive un mondo post-apocalittico. Quel che mi preoccupa di più è che quando si è così nichilisti forse esiste qualche depravazione alla quale non ci si sottometterà?» «In quel che hai appena detto rilevo forse una leggera paranoia tipicamente paterna?» Fissando le posate d'argento avvolte nel candido tovagliolo, Helmond scrollò le spalle. «Spero sia così. Voglio dire, non ho mai pensato a me stesso come ad un tipo vecchia maniera, ma mi sembra che una ragazza della sua età dovrebbe indulgere in cose dolci, tranquille, belle, e vivere una vita romantica e piena di emozione... come la facciata che Ally fino a poco tempo fa mi presentava anche se adesso non si cura più di fingere, e non nel vagabondare nell'orrore della strada.» Sharon fece scorrere pensosamente il dito intorno al bordo del bicchiere d'acqua. «Senti, Lenny, non so se tu hai studiato materie umanistiche al liceo o ti sei limitato a seguire i corsi di scienza applicata, ma hai dimenticato che la morte ha ispirato altrettanta poesia quanto ha fatto la vita, se non di più? Sono due facce della stessa medaglia, capisci. Mary Shelley ha scritto Frankenstein quando aveva soltanto ventun'anni, e non ho mai sentito qualcuno definirla una punk.» Helmond la guardò interdetto per un attimo. «Frankenstein è stato scritto da una donna?» La risata di Sharon fu per metà di sbalordimento. «Se qualcosa non ha a che fare con la chimica, tu lo ignori completamente, vero?» «Aspetta un attimo. Il Frankenstein che conosco io è quel bestione con la testa piatta, il collo imbullonato, le scarpe con la suola rialzata, che si solleva da un lastrone di pietra in un laboratorio creato in un castello, mentre un gobbo chiamato Igor ridacchia e un dottore pazzo ha un attacco apoplettico per la delusione di non essere riuscito a emulare Dio. Non posso credere che sia frutto della mente di una giovane donna.» Sharon sorrise con divertita frustrazione. «Prima di tutto, il libro non ha
niente a che vedere con il film interpretato da Boris Karloff. Non leggi nient'altro, oltre alle riviste scientifiche? È il ritratto molto commovente e sentito della nascita di una nuova creatura - priva di conoscenza, ma non di anima - che viene abbandonata dal suo creatore a causa della sua bruttezza, e che deve badare a se stessa in un mondo strano ed ostile. Sorprendentemente, malgrado tutto, se la cava molto bene, diventa istruita e acculturata, e rintraccia colui che le ha dato la vita. E quando incontra il suo creatore, tutto quello che chiede a Victor Frankenstein è di avere una compagna, per porre fine alla solitudine a cui quell'uomo lo ha condannato rendendolo così orrendo. E così l'uomo si appresta a creare una donna con parti di cadaveri, ma, giunto a metà dell'opera, decide, mostrando una completa ignoranza della genetica e dei processi di sterilizzazione, che la coppia potrebbe generare un'intera razza di mostri, e così distrugge l'essere. Il resto della storia narra la vendetta del mostro contro Frankenstein, e bisogna decidere chi è il vero cattivo della storia: se lo scienziato che si è rifiutato di assumersi la responsabilità della sua creazione, o il mostro che tormenta indicibilmente l'uomo che gli ha dato la vita.» Durante il riassunto del romanzo, Helmond aveva ascoltato rapito. «Quando è stato scritto il libro?» «Nel 1818. Fu il frutto di una notte passata a raccontare storie di fantasmi, in un castello sul lago di Ginevra, da Mary Shelley, Percy Bysshe Shelley e Lord Byron. Erano poeti inglesi, sai.» «Non avevo idea che fosse stato scritto tanto tempo fa.» Comparve la cameriera e Helmond ordinò per entrambi, con un po' di impazienza. Voleva proseguire la conversazione. «E così, il mostro non era pazzo, non possedeva un cervello anormale, o era in qualche modo privo di essenza spirituale?» «Giusto, anche se per dimensioni, forza e tenacia era davvero sovrumano. La sua distruttività era provocata dal rifiuto degli altri nei suoi confronti, dall'alienazione e dalle persecuzioni subite.» Helmond si carezzò il mento, accigliandosi leggermente. «Allora da dove è derivata l'idea che gli esseri rianimati sono in un certo senso ancora morti dentro?» La domanda lasciò Sharon momentaneamente interdetta, poiché poteva applicarsi in tutto e per tutto anche ai loro esperimenti, cosa di cui Helmond non sembrava essersi accorto. «Non lo so. Con Dracula, credo. I vampiri non vengono riflessi negli specchi perché non hanno anima, capisci. È una vecchia credenza quella secondo la quale la propria immagine è
la propria anima. Gli indiani d'America, per esempio, una volta credevano che se fossero stati fotografati, sarebbe stato loro sottratto lo spirito. «Mi sembra che sia avvenuto una specie di mutamento nella coscienza sociale. Ci crederai o no, ma una volta all'università ho preparato una tesina in psicologia su quest'argomento. In epoca vittoriana, con Jack lo Squartatore, Dr. Jekyll e Mr. Hyde di Stevenson, le teorie di Freud sugli impulsi di base dell'id e la teoria di Darwin sull'evoluzione umana dalle scimmie, la gente aveva paura fondamentalmente di tramutarsi in selvaggi, animali, demoni, di ritornare cioè alla condizione primitiva. Nell'Era Atomica, comunque, abbiamo le teorie sulla cospirazione comunista, L'invasione degli ultracorpi, 1984 di Orwell, i culti religiosi, e il lavaggio del cervello, e così la nostra paura più grande è quella di diventare zombi, automi, esseri alienati privi di volontà che camminano in forma umana, corpi senza mente che sgobbano insieme in un'armonia totalitaria da formicaio. Capisci la differenza? È una sorta di controversia natura-contro-cultura. Freud esordisce dicendo che noi siamo un miscuglio di istinti, tendenze e nevrosi. Poi arriva Skinner e proclama che siamo una tabula rasa: computer con memorie in origine vuote e che occasionalmente si guastano confondendo i dati. Entrambe queste paranoie collettive - trasformarsi in una bestia o in un robot - sono reazioni e tentativi di venire a patti con le rappresentazioni, costantemente rinnovate e inquietanti, che l'umanità dà di se stessa in epoche differenti.» Helmond annuì, sorridendo. «Sì, mi pare sensato. Penso sia stato Nietzche ad affermare che l'umanità deve superare gli abissi del nichilismo assoluto per raggiungere lo stato di superumanità, l'Übermensch.» Sharon fece finta di essere rimasta a bocca aperta per la sorpresa. «Mio Dio, allora un po' di filosofia l'hai letta davvero.» Lui immerse il dito nel bicchiere e le schizzò addosso dell'acqua. «Buona, giovincella, o ti sculaccerò sulle ginocchia.» «Promesse, promesse.» Arrivarono le loro ordinazioni e per un po' mangiarono in silenzio. «Comunque,» disse Helmond tornando con la mente ai problemi che l'angustiavano, «non riesco a immaginare perché Ally sia così cambiata. Addirittura non la riconosco più. Forse il divorzio ha influito su di lei più di quel che sia disposta ad ammettere, anche se Martha era una cattiva madre; Janice è giovane, probabilmente non riesce a imporsi ad Ally come una figura dotata d'autorità. Non so. O forse il mondo sta davvero andando a rotoli e soltanto una persona molto giovane può capirlo.»
Sharon picchiettò la forchetta contro il lato del piatto. «Senti, Lenny. Non ho figli, ero una bambina normalissima, ma credo che tu stia prendendo questa faccenda troppo sul serio. Si tratta di una sindrome culturale perfettamente naturale: i figli che tentano di distinguersi dai loro genitori per affermare la propria identità. Ci sono stati i beatnik e i rocker; presumo che tu sia stato un hippie, anch'io ho avuto un periodo del genere, e adesso ci sono i punk. Soltanto Dio sa cosa ci sarà dopo: probabilmente mutanti che altereranno se stessi fisicamente mediante manipolazioni genetiche e innesti biomeccanici. Andy ed Eunice potrebbero diventare così, dunque preparati, cervellone.» Helmond si sentì molto confortato da quelle parole, poi fu improvvisamente assalito all'inquietudine. Quella mattina, si era seduto a colazione con due donne diverse, e non era stata certo sua moglie quella con cui aveva comunicato meglio. Non riuscì a scrollarsi di dosso la sensazione che, da qualche parte, ci fosse qualcosa che non andava. FIGLIA DEI FIORI DELLA NOTTE Com'era prevedibile, i ragazzi chiamarono il cucciolo di samoiedo, una femmina, Polar Bear, in memoria del loro gatto morto anche perché era tutto bianco. Anzi, assomigliava anche un po' ad un orso polare, con il muso corto e grosso e una folta criniera di pelo candido. Helmond non riuscì a scoprire chi fosse stato a coniare quel nome, ma sospettava fortemente di Eunice. Trovare un cane non era stata un'esperienza piacevole. Al canile aveva visto cani e gatti, per la maggior parte cuccioli e micini che proprietari senza scrupoli si erano trovati tra i piedi e non volevano. Gli animali erano rinchiusi in piccole gabbie ammassate l'una sull'altra. Sebbene fossero mantenuti puliti e ben nutriti, era una sorta di esistenza a termine, che poteva avere come esito la camera a gas. Tutte quelle graziose creaturine pelose erano parse a Helmond così innocenti, così ansiose di essere portate a casa e amate, che la prospettiva di lasciarne uno solo lì dentro, di dare la salvezza a un solo animale, lo aveva reso estremamente depresso. Inoltre, chiusi com'erano in quei contenitori metallici, gli ricordavano le cavie del suo laboratorio, che vivevano in condizioni migliori, pur essendo condannate a una dannazione che fortunatamente quelle bestiole non avrebbero mai conosciuto. Gli ritornarono in mente gli attivisti per i diritti degli
animali, il loro fervido impegno per la protezione degli esseri sensibili e pensò che avevano ragione. C'era una sorta di sacralità in quelle creature indifese, delicate, una santità e un valore che lui aveva violato. Aveva l'impressione che quanto più cercava di preservare la vita, più finiva con il distruggerla, non solo le vite delle sue cavie, ma anche le vite di quelli che amava. Era il dio demente, lo scienziato pazzo che tenta di giocare senza prima aver imparato le regole, per poi tentare di usare le proprie, e tutto ciò per la più pura e nobile delle cause. Si sentì un po' meglio quando uno degli impiegati del canile, un ragazzo alto e con la testa rasata, lo condusse a una gabbia che conteneva un piccolo, batuffolo di pelo bianco. Il batuffolo si alzò e rivelò qualcosa di simile a un cane, con neri e grandi occhi ansiosi, che quando vide Helmond ansimò allegramente con la lunga lingua rosa penzoloni. «Non è di pura razza samoieda,» lo avvertì il giovane con una voce appena incrinata dai i segni della pubertà. «Ha del sangue di pastore tedesco, ma è difficile accorgersene.» «Andrà benone,» replicò il biochimico. «La prendo.» E così Helmond pagò la «donazione» di venti dollari (avrebbe anche potuto pagarne solo dieci, ma provava un senso di colpa) e portò il lupetto bianco in auto. Si instaurò subito un buon rapporto tra i due: il cucciolo gli saltellò intorno e gli leccò il viso con la lingua umida, offrendo spontaneamente a Helmond quell'amore che lui non pensava di meritare. Ma era lo stesso una bella sensazione. Mise in moto l'auto e partì verso casa. I ragazzi reagirono con appropriati gridolini di eccitazione quando videro il cane, perfino Ally, che si era degnata, occasione rara, di rientrare da una delle sue uscite con quei cannibali. Finalmente, tutto sembrava essere sul punto di ritornare alla normalità. A Helmond sembrava che la mente umana fosse fatta in modo tale che, indipendentemente da quanto potesse venir sconvolta, tendeva a ritornare al proprio stato di cieco ottimismo. Oh, c'era ancora un po' di tensione sotterranea che ogni tanto sarebbe riemersa, c'erano delle cicatrici invisibili che non sarebbero mai guarite, ma quella sera parve che la famiglia fosse ritornata alla sua routine regolarmente stravagante. Ma questo riguardava la famiglia considerata nel suo complesso. Helmond non sapeva ancora come si sarebbero messe le cose tra lui e la moglie, anche se Janice aveva fatto finta di essere una madre ligia al dovere e una sposa amorosa, curandosi le ferite con compiaciuto fatalismo, come se se le fosse procurate in un incidente di sci. Era sufficientemente allegra,
ma Helmond vide che aveva il viso molto più segnato, era più nervosa nei movimenti, e che aveva ripreso a fumare e a bere. Be', anche se Janice era dotata di una grossa capacità di recupero, Helmond non poteva aspettarsi che la moglie si rimettesse completamente in breve tempo. Helmond andò a letto prima di lei, chiedendosi come avrebbe potuto fare un'iniezione a Eunice senza che nessuno se ne accorgesse, compresa la figlia. Janice uscì dal bagno, nuda eccetto per le mutandine verdi, la benda sulla gamba e il cerotto sulla mano. Aveva graffi e lividi su tutto il petto, lo stomaco, le braccia, le gambe e un'enorme escoriazione sul fianco destro. Una parte distorta della mente di Helmond trovò quelle ferite eccitanti, traendo sadicamente piacere dalla vulnerabilità della moglie, e fu rapidamente distolto dai suoi pensieri. Ma era anche un desiderio di confortarla, un desiderio quasi paterno di alleviarle il dolore. «Come ti senti?» chiese alla moglie mentre quest'ultima scivolava sotto le coperte. «Come se fossi stata calpestata da un'intera squadra da football,» rispose lei. «Però sto già meglio.» Helmond si avvicinò al corpo della moglie. «Allora, che ne pensi di fare l'amore?» Lei si mosse rapidamente, scostando il volto. «Non sono pronta, Len. Sono ancora piena di rabbia nei tuoi confronti. E non ti sbarazzerai così facilmente della tua colpa. Mi hai quasi ammazzato, lo sai?» Il marito si spostò di nuovo nella sua metà del letto. «È stato un incidente, Janice, un errore commesso in buona fede.» «Lo so, ma non posso farci nulla.» Nella voce di Janice vi era un tono quasi di scusa. «Sei responsabile di quello che è successo. Sei stato tu la causa. Tu hai sottoposto la tua famiglia a quest'incubo. Le cose non ritorneranno alla normalità così facilmente.» Be', questo risponde alla domanda che mi sono posto, pensò Helmond. Avrebbe dovuto sopportare da solo l'ansietà che gli avrebbero arrecato le settimane seguenti, senza il conforto della moglie. E di sicuro non poteva raccontarle la verità. Quando avrebbe saputo che la figlia correva il rischio di diventare come l'essere che l'aveva attaccata il giorno prima, sarebbe uscita completamente fuori di testa. Già il fatto di essere il solo a saperlo gli causava una tensione quasi insopportabile, e c'erano dei momenti, fugaci frazioni di secondo, in cui desiderava ardentemente aver lasciato, quella notte da cui sembravano essere trascorsi mille anni, Eunice inerte e senza vita sull'asfalto nero del parcheggio. Spense la lampada, si girò sul fianco,
dando le spalle a Janice, e provò a dormire. Ci fu un urlo nella notte. Helmond si svegliò di soprassalto, si rese conto che aveva dormito e che i suoi sogni non erano stati per nulla piacevoli, e si chiese se fosse stato lui a urlare. Quando il grido di dolore risuonò ancora una volta e la sua gola rimase in silenzio, balzò giù dal letto, uscì dalla stanza e scese nell'atrio. Riconobbe la voce, anche se era alterata dall'angoscia: era quella di Eunice. La figlia era seduta a letto rigida come una statua, gli occhi sbarrati dal terrore più intenso che Helmond avesse mai visto in un essere umano, la bocca spalancata al massimo per scaricare l'enorme paura che aveva dentro, mentre tutto il corpicino tremava per la forza delle sue urla. Per un momento, Helmon esitò ad avvicinarsi, e il pensiero di quel che stava accadendo all'interno di sua figlia gli balenò cupamente nella coscienza; poi corse da lei e se la strinse al petto. «Va tutto bene, piccola,» mormorò in tono rassicurante, seduto ai bordi del letto e carezzando i capelli che incorniciavano il volto di Eunice distorto in una smorfia di pianto. «È soltanto un brutto sogno, un incubo. Non era vero.» I membri della famiglia apparvero uno ad uno sulla soglia della stanza: prima Janice, in accappatoio, poi Andy con Polar Bear in braccio, poi Ally in camicia da notte, mentre la moglie si precipitava a un lato del letto. Le urla di Eunice si smorzarono, divennero singhiozzi e la bambina si aggrappò stretta a Helmond, ansimando come se il sogno l'avesse spossata, come se qualcosa nell'incubo le avesse succhiato un po' di vita, come se fosse stata spaventata quasi a morte. «C'era... quella... tomba vecchia e polverosa,» spiegò Eunice tra i singhiozzi, respirando con difficoltà mentre parlava. «C'era... qualcosa che cercava di... cercava di uscire dal... muro di pietra. Era enorme, nero, orribile. Io... non lo vedevo, ma sentivo che era là. Era come se sapessi cos'era. Allora io... mi sono guardata intorno e ho visto che la cosa non stava cercando di uscire dalla tomba. Ero io ad essere nella tomba e la cosa stava cercando di entrare per prendermi. Il muro stava crollando, il buco si faceva più grande e sono riuscita a vedere la cosa. Era come un enorme insetto nero, solo che era peloso e aveva un teschio al posto della faccia. E allora ho gridato.» «Be', adesso è tutto finito, piccola,» la tranquillizzò Janice, carezzandola. «Non pensarci più.»
Helmond non avrebbe potuto sentire più freddo, anche se si fosse trovato nel mezzo di una vasta pianura artica. Sapeva molto bene cosa significasse il sogno di Eunice e non gli piaceva nemmeno un po'. Avrebbe preferito che la bambina avesse contratto la polmonite, invece di avere quel tipo di incubi. Era un sintomo della malattia per la quale non era certo di avere una cura efficace. Eunice si calmò e assicurò i genitori che sarebbe stata capace di trascorrere il resto della notte nel suo letto. Ora che il brutto sogno era finito, Eunice sembrava più intontita e perplessa che atterrita, e così tutti andarono a letto. Helmond continuò ad avere davanti agli occhi l'espressione orribile che aveva scorto sul volto pallido della figlia, come se quel terrore allo stato puro l'avesse condotta tanto vicino al limite della vita e della ragione quanto un essere umano potesse mai sopportare rimanendo vivo e sano di mente. Sapeva che non sarebbe riuscito a dormire per il resto della notte. «Hai visto cosa hai fatto?» gli rinfacciò Janice. «Ora comincerà ad avere degli incubi per la morte di Laz. È un miracolo che, finora, non abbiamo perso tutti la ragione.» Helmond assunse una posizione fetale, sperando che la moglie smettesse di parlare. «La bambina sta bene, Janice. Era soltanto un sogno.» Lei si avvicinò al suo lato del letto, sedette sulla sponda e gli mise una mano sulla spalla. «Len, ascoltami. Voglio che tu metta fine a tutto questo una volta per tutte. Elimina le tue cavie e distruggi i tuoi apparecchi. Non compiere altri esperimenti sulla vita.» Oh, se solo fosse così semplice. «Non posso farlo, Janice. Ti prego, non chiedermelo.» «So che ti sto chiedendo molto e odio vedere uccidere gli animali, ma sono andati troppo oltre, Len. Non puoi più aiutarli. Tu non hai visto Laz l'ultimo giorno. Non ti rendi conto di cosa hai creato. Se andrai avanti, finirai col procurarci soltanto altre sofferenze.» Sia la voce che il tocco di Janice erano molto dolci. Helmond la guardò. «E cosa farò, se metterò fine al progetto? È il lavoro della mia vita, il culmine di tutte le mie ricerche. Se rinuncio, non avrò nulla. Di cosa vivremo?» Lei scosse le spalle in maniera impercettibile. «Potresti incominciare ad insegnare a tempo pieno o tornare a lavorare per qualche ditta che fabbrica prodotti chimici. Io potrei trovarmi un lavoro. Ci sono un mucchio di alternative, Len. Ma tutto quel che so è non possiamo continuare così.» Lui si rizzò a sedere di scatto, facendo sussultare il letto. «Non ti rendi
conto cosa stai chiedendo? È il segreto stesso della vita quello che ho scoperto, Janice; ho sconfitto la morte. Gli uomini hanno cercato un modo di far ritornare in vita i morti fin dall'inizio dei tempi e io l'ho trovato. Abbandonare il progetto sarebbe cento volte peggio del rifiutare di condividere con gli altri una cura alla malattia più letale che abbia mai afflitto l'umanità. Il volto della moglie impallidì per la rabbia. «La tua macchina non riporta in vita i morti. Li fa soltanto permanere in uno stato di non-morte per un po'. Non capisci, Len? La tua cura è peggiore della malattia più tremenda.» Janice aveva certamente ragione, ma Helmond non poteva mollare, almeno fino a quando non avesse trovato una cura alla maledizione che aveva gettato su se stesso. Come chiamavano gli zingari la maledizione? Purpurfargade ansiktet, vero? "Figlia dei fiori della notte" era la traduzione letterale; un termine molto appropriato per la tragedia che lo aveva colpito. Se una dose della soluzione trattata, iniettata via endovena, non arrestava o invertiva il processo di necromorfosi, Eunice sarebbe diventata una belladonna incarnata, il fiore notturno più mortale di tutti. «Lascia solo che tenti di salvare gli animali, Janice.» Poi guardò la sveglia digitale sul comodino. Le tre meno un quarto di domenica mattina. Come avrebbe fatto a trascorrere quel giorno poltrendo senza far nulla, sopportando la presenza accusatrice della moglie, affrontando lo spettro minaccioso della figlia in trasformazione? «Okay? Fammi solo salvare gli animali e poi ti prometto che abbandonerò il progetto. Va bene?» Janice assentì, con gli occhi lucidi. «Credo sia un accordo ragionevole.» Lo baciò leggermente ed in fretta sulle labbra. «Ora entriamo nei nostri incubi privati prima che spunti il giorno, che ne dici?» «L'idea è invitante.» Ma, come aveva previsto, Helmond rimase sveglio per tutte le buie e opprimenti ore prima dell'alba, un cadavere irrequieto che ballava una danza macabra sulle lenzuola del letto madide di sudore. Quella domenica vi fu la prima nevicata della stagione. Normalmente avrebbe dovuto procurare a Helmond un sentimento di allegra nostalgia, avrebbe dovuto fargli ricordare che Natale era dietro l'angolo (soltanto altri venticinque giorni di compere!), ma quel giorno la sua mente vagava in spazi oscuri. Rimase seduto per tutta la giornata davanti alla televisione a bere birra, senza badare a cosa stava guardando, senza curarsi di cambiare canale, qualunque cosa trasmettessero. Bonanza, telegiornali, un documen-
tario sulla natura, poi il film del pomeriggio. La trama di quest'ultimo attrasse finalmente la sua attenzione. Era un film in bianco e nero intitolato Disgusto ed era la storia del rapido decadimento mentale di una bella ragazza che veniva lasciata da sola per una settimana in un appartamento di Londra dalla sorella maggiore, la quale non sospettava che la demenza incombeva sulla sventurata. Il primo giorno la ragazza prendeva dal frigorifero un piatto di portata con un coniglio già preparato e se lo dimenticava distrattamente sul ripiano della cucina. Con un simbolismo perfetto, mentre il film andava avanti e i giorni passavano, la carcassa continuava a decomporsi, a putrefarsi, a degenerare, proprio come la mente della ragazza. La giovane iniziava ad avere allucinazioni che la spingevano perfino ad uccidere, senza mai mostrare alcuna emozione sul volto impietrito. Nel suo mondo illusorio, l'entropia accelerava - i muri crollavano, la muffa spuntava dappertutto - ed era costantemente immersa in un timore irrazionale. In effetti, sembrava essere fuori dalla vita, dall'universo dei cinque sensi, come assorbita in un cosmo interiore dalle profondità abissali che si avvicinava alla morte stessa. La realtà e la vita quotidiana erano basate sull'ordine, la logica, la stabilità, e più la ragazza si allontanava da tutto questo per immergersi negli abissi della coscienza, più caotici e sconnessi divenivano i suoi processi mentali. Il pandemonio precedeva l'oblio. Conscio, preconscio, subconscio, inconscio, nonconscio, era quello il percorso verso il basso, che portava dapprima alla pazzia e poi alla morte; e qualcuno forse dubitava che almeno un frazione di secondo di pazzia precedesse l'istante dell'annichilimento? La mente umana poteva accettare realmente il fatto della propria imminente nonesistenza? Anche dopo che il film fu finito, Helmond continuò a pensarci su. Esisteva un sintomo della schizofrenia chiamato "livellamento d'effetto", per cui le persone cessavano di essere in empatia con gli altri, di provare sentimenti. Come la ragazza del film, morivano dentro e soffrivano di deprivazione sensoriale in un ambiente pieno di stimoli. Perché? Nessuno lo sapeva con certezza. Forse si interrompevano in un qualche punto i canali di comunicazione tra neuroni e cervello. Quando i maniaco-depressivi gravi e gli psicotici si bruciavano con le sigarette e si tagliavano con lamette di rasoio, forse non volevano punire se stessi, né indulgere all'autoflagellazione per vergogna o senso di colpa. Forse cercavano soltanto di sentire qualcosa, qualunque cosa, si trattasse di piacere o dolore, qualcos'altro rispetto a un torpore infinito e sempre maggiore.
A Helmond non piaceva la direzione che il filo dei suoi pensieri stava prendendo, perché Laz di sicuro alla fine era impazzito, e Eunice era morta ed era stata riportata alla vita proprio come Laz, e Helmond temeva di cominciare a capire perché la scimmia rhesus fosse diventata pericolosa. Andò a prendersi un'altra birra in cucina, tentò di concentrarsi sulla stupida sitcom che stavano trasmettendo in televisione. Sarebbe mai finito quel giorno? Se l'indomani le forniture non fossero arrivate, non avrebbe potuto sopportarlo. I bambini erano fuori a giocare con Polar Bear, deliziati che la strana sostanza bianca e ghiacciata stesse finalmente scendendo dal cielo. Ne udiva le risate mentre correvano intorno alla casa: risolini infantili, spensierati e ininterrotti, che gli arrivavano all'orecchio attraverso la finestra. La faranno stancare, quella povera bestiolina, pensò, ma non si preoccupò della cosa. In fondo i cani di razza samoieda una volta cresciuti tiravano slitte da neve. E i cani erano più ragionevoli dei gatti, dei cavalli o degli uomini; quando si stancavano, si sdraiavano a riposarsi, e non volevano sentire ragioni. Non si sforzavano fino a morire. O no? Dio, come siamo cupi oggi. Era come se una specie di morbosità insinuante si stesse diffondendo sul pianeta. La fonte? Il maniaco omicida di Berkshire, naturalmente. Tutto era cominciato con Cully Detwiler, il Cavaliere dell'Apocalisse dalla testa mozza, non era così? In quella notte di Halloween, non aveva sparato soltanto pallottole di metallo, ma anche piccoli capsule di fato malvagio, proiettili di un'essenza degna del vaso di Pandora che avevano infettato il mondo con un miasma capace di divorare ogni luce. Una di quelle sinistre pallottole deve essere entrata nel mio cervello, pensò Helmond, e deve aver inviato tentacoli neri di oscurità e paranoia nella materia grigia. Sì, questo è un altro pensiero allegro, in caso ci fosse stato bisogno di un esempio. Uno dei due figli che stavano giocando fuori improvvisamente incominciò ad urlare, come se stesse soffrendo un'indicibile tortura. Dopo pochi secondi, Helmond realizzò che non si trattava della voce di Eunice, provò un attimo di sollievo, poi si rese conto che doveva essere successo qualcosa ad Andy. Si precipitò oltre la porta d'ingresso, a piedi nudi e con la birra in mano, come un uomo in fuga da un edificio in fiamme; Janice lo imitò subito dopo. Andy era al centro del prato dietro la casa, le mani strette al volto, il sangue che filtrava tra le piccole dita. Sangue. Era davvero sangue, di un rosso brillante e reso ancora più intenso dai raggi del sole che stava tra-
montando. Eunice era a pochi passi da lui, il volto assente, tranne che per una vaga traccia di espressione colpevole, mentre Polar Bear le saltellava accanto. Mio Dio pensò Helmond, gli ha lacerato il volto, gliel'ha strappato via come una maschera di Halloween... Janice corse dal figlio e gli scostò a forza le mani dal viso, con un'espressione di terribile timore. Il fluido scarlatto scorreva soltanto dalle narici di Andy. «Eunice mi ha dato un pugno!» piagnucolò lui. Per il sollievo, Helmond quasi crollò al suolo, e provò l'impulso di scoppiare a ridere. Oh, era una faccenda seria, abbastanza seria, ma certo non così orrida quanto lui aveva temuto. Paragonata alla scena orribile a cui aveva immaginato di dover assistere, la situazione era quasi comica. «Non è rotto,» annunciò Janice, esaminando il naso del ragazzo. «È solo insanguinato. Porterò dentro Andy. Devi parlare con Eunice, Len.» Lui assentì e si chinò davanti a Eunice, guardandola dritta negli occhi. «Perché lo hai fatto, principessa?» Una profonda confusione le contrasse i tratti accigliati. «Non lo so, papà. Ho provato un impulso terribile che mi ha costretto a colpirlo.» Questo non preannunciava nulla di buono. «Ti dispiace per quel che hai fatto, Eunice?» Lei guardò a terra e la sua perplessità improvvisamente si dissolse. «Sì, credo di sì.» L'espressione vuota sul volto della figlia cominciò a gelare di nuovo i nervi di Lenny. «Capisci che quello che hai commesso è un gesto molto cattivo?» Eunice assentì, ma in maniera non molto convinta. Helmond prese il cane e si alzò in piedi. «Va bene. Vai in camera tua. Non potrai giocare con Polar Bear per il resto della serata.» La bimba si lamentò, piuttosto indifferentemente, mentre attraversava il prato per rientrare il casa. Lui la osservò, accarezzando il cucciolo che gli leccava il volto, e capì che ormai aveva poco tempo, che doveva fare i conti contro una scadenza sempre più incalzante. Ma nel mio caso sarebbe meglio definirla una "deadline", pensò poi. SOLUZIONE FINALE L'attrezzatura e gli elementi vennero miracolosamente consegnati il lunedì seguente, con indicibile sollievo di Helmond. Lui e Sharon aprirono
le scatole come bambini intenti a scartare i regali di Natale, e montarono le apparecchiature con la stessa eccitazione di studenti che lavorassero a un progetto per una mostra scientifica. Parte delle nere nubi infernali che erano calate sulle loro vite sembrava sul punto di dissolversi. «Ci siamo,» disse Helmond quando tutto fu pronto. «Oggi o la va o la spacca.» Sharon ridacchiò con allegro sarcasmo. «E se non ce la faremo, finiremo molto male.» A queste parole Helmond trasalì leggermente. «Be', cominciamo a distillare la quintessenza per il reagente.» Mentre i vari componenti della soluzione venivano riscaldati, catalizzati e filtrati, poi combinati in un tino da miscelazione prima di essere pompati nella capsula, Sharon e Helmond sedettero alla scrivania, lei fumando una sigaretta dopo l'altra, lui battendo una penna su un blocchetto di fogli e cercando di calmare la sua impazienza. Per preparare la soluzione ci volevano delle ore, e così avevano molto tempo per parlare. «Questa tua pessima abitudine di fumare ti ammazzerà,» commentò il biochimico indicando la sigaretta di Sharon. Lei sorrise, esalando una voluta di fumo. «Non mi preoccupo. Di sicuro quando sarò morta mi rianimerai.» Ancora una volta le parole di Sharon gli provocarono uno spasmo alle viscere. Quel giorno la sua assistente lo innervosiva tremendamente. «Vuoi fare la fine di Lazarus?» Spegnendo il mozzicone, lei inarcò le sopracciglia. «Il che non ridurrebbe le mie possibilità di avere un appuntamento, visto che sono già mille.» Lui rimase in silenzio, non abboccando all'esca. «Come vanno le cose a casa?» chiese Sharon con un sorrisetto. Nelle profondità più recondite e più inconsce della sua mente, considerava il disastro provocato dalla scimmia rhesus come un'inaspettata opportunità di coronare il suo sogno d'amore non corrisposto per Helmond, anche se la sua coscienza si rifiutava di ammetterlo. Helmond scrollò le spalle, evitando di guardarla. «Così e così. Sto cominciando a pensare che i bambini possono superare tutto, anche se Eunice, ehm, ha avuto un incubo la notte scorsa. Janice, comunque, è ancora decisa a non perdonarmi. E chi può biasimarla? Dio, mi sento un mostro.» Sharon avvicinò la sua sedia. «Bene. Allora tu farai lo scienziato pazzo, e io Igor. Mi procureresti una gobba?» Helmond fu costretto a ridere alla battuta, ma poi ritornò rapidamente
serio. «Mia moglie vuole che rinunci, Shar.» Lei scosse la testa leggermente, senza comprendere. «Rinunciare a cosa, Lenny?» Helmond indicò il laboratorio con un ampio gesto della mano. «A tutto questo, all'esperimento, alle ricerche.» Sharon si sporse in avanti, gli afferrò il polso, con gli occhi spalancati e il labbro inferiore che le tremava. «Cosa? Non può fare sul serio. Non può. È come se Pasteur rinunciasse alle ricerche sul vaccino antirabbia o Salk abbandonasse quelle sul vaccino antipolio. Tu non lo farai, naturalmente.» Helmond abbassò la testa. «Le ho detto che l'avrei fatto, dopo aver trovato un modo per salvare i rianimati.» Sharon rimase senza fiato per lo stupore impotente. «E lo farai davvero?» Guardando dall'altra parte del laboratorio, Helmond osservò per alcuni istanti uno dei componenti gocciolare nel serbatoio di storaggio. «Non lo so ancora. Comincio a pensare che abbia ragione, che abbia sempre avuto ragione.» I suoi occhi accesi incontrarono quelli di lei. «Davvero non so cosa sto facendo. È evidente. È scienza quella che pratichiamo qui? È tortura ad alta tecnologia, sofisticata mutilazione.» Sharon emise un sospiro di stanchezza. «Ora chi è che gioca a fare il luddita, Lenny? Siamo di fronte a un ostacolo, ecco tutto. Quante conquiste scientifiche sarebbero state raggiunte, se la gente avesse rinunciato a fare esperimenti dopo i primi insuccessi?» «Questo piccolo ostacolo, come lo chiami tu, ha quasi ucciso mia moglie!» La replica di Helmond la smontò leggermente; Sharon si rese conto che forse aveva parlato troppo, si era spinta troppo in là. Si appoggiò di nuovo contro lo schienale della sedia. «Be', non permetteremo che nulla o nessuno esca dal laboratorio, fin quando non saremo sicuri che il processo sia stato perfezionato e ogni rischio sia stato eliminato.» Con una scrollata di spalle, Helmond si alzò e cominciò a camminare avanti e indietro. «Forse. A dire il vero, sto cominciando a perdere il mio entusiasmo nei confronti del progetto. Quando ho cominciato, sentivo di compiere un'impresa fantastica, quasi divina, di rendere all'umanità il servizio più alto e nobile. Ora provo la sensazione di aver manipolato sconsideratamente esseri viventi la cui vita era preziosa, di aver interferito in maniera arrogante e insensibile con processi delicati e complessi che in realtà non conosco.»
Sharon lo fissò. «Questo non è da te Lenny. Cominci a parlare come un indù.» Sorridendo tristemente, Helmond indicò il poster sul muro. «E poi, gliel'ho promesso.» Sharon aveva preso un'altra sigaretta, l'accese. «Sì, conosco quel genere di promesse. Estorte nel buio della mezzanotte in circostanze fortemente emotive... magari dopo aver fatto del sesso? Devi parlarle, convincerla. Puoi farlo. Sei bravo in questo genere di cose.» Helmond si fermò, si voltò e la guardò duramente, accigliato. Allora le cose stavano così, eh? Sharon non voleva che il progetto finisse perché ciò avrebbe significato la fine della loro relazione lavorativa, che così non avrebbe avuto alcuna possibilità di svilupparsi in qualcosa di più. Helmond era naturalmente lusingato dall'adorazione che l'assistente manifestava nei suoi confronti, ma era anche irritato dalle complicazioni che ciò implicava. «Ci penserò. Prima vediamo cosa possiamo fare per salvare l'esperimento al punto in cui è.» Quando ebbero abbastanza soluzione da riempire il serbatoio inserito nel soffitto, Helmond la pompò nel ricettacolo, la raffreddò alla temperatura giusta, poi la fece scorrere nella capsula di rianimazione. Quindi la sottopose a un'infusione REM a basso livello e insieme a Sharon versò l'intera quantità di liquido in trentasei contenitori grandi all'incirca quanto un sacchetto di plasma sanguigno. «Brahman sarà il primo,» annunciò Helmond in tono di voce serissimo. «È la scimmia rhesus che è stata rianimata subito dopo Laz, e di conseguenza è il più vicino alla decomposizione.» Anche l'atteggiamento di Sharon era serio. «Bene, dottore.» A nessuno dei due faceva piacere maneggiare la scimmia, sapendo che si era già quasi trasformata in un necromorfo. I raggi X cui era stato sottoposto Brahman avevano rivelato un'anatomia concepita da un tossicomane morente, una biologia scaturita da un'immaginazione infernale. Poiché nelle vene del primate non circolava sangue, e il suo cuore batteva inutilmente soltanto due volte al minuto, Helmond iniettò la soluzione direttamente nel tessuto dei punti strategici del suo corpo. Ripeterono la stessa cosa con altre tre scimmie, Gandalf, Varney e Sardonicus, anche se ai due esemplari rimasti, Aslan e Sabella, Helmond praticò delle iniezioni endovena, visto che il loro sistema circolatorio era ancora normale. Soltanto i topi che erano stati rianimati per primi richiesero delle iniezioni intramuscolo; Valdemar era quello in condizioni peggiori.
A giudicare dal pessimo aspetto, Helmond ebbe la sensazione che mancavano poche ore alla sua completa necromorfosi. Per le sei, tutti i rianimati avevano subito il trattamento e due di loro davano segno di essere estremamente affaticati, con perdita di lucidità a livello celebrale. Inoltre, Helmond era tormentato da ben due dilemmi: se trattare Eunice immediatamente, o aspettare di vedere se la soluzione rigenerante si dimostrava efficace sulle cavie (ma di quale utilità si sarebbe dimostrata quell'attesa, visto che, se quel sistema non funzionava, non aveva nessuna alternativa?) e, primo fra tutti, il problema di come somministrare il reagente a Eunice. Ma credeva di avere ancora del tempo a disposizione, così decise di ritardare ancora un po' l'iniezione alla figlia, in modo da avere più tempo per lambiccarsi il cervello nel tentativo di trovare un'idea geniale e astuta. Parte della risposta l'aveva già trovata: avrebbe stordito Eunice con alcuni grammi di idrato di cloruro sciolto in un bicchiere di latte o di qualcos'altro, ma doveva ancora trovare un sistema per allontanare da casa Janice, Andy e Ally la notte in cui avrebbe agito. Si rese conto di quanto fosse stato fortunato che tutti fossero via la sera in cui Eunice era morta e risorta, ma era assai improbabile che un'occasione del genere si ripetesse. Doveva pensare a qualcos'altro. Mentre si toglieva il camice da laboratorio e si infilava la giacca, Sharon si appoggiò alla scrivania e si allungò in maniera molto provocante. «Le annuncio, professore,» disse l'assistente, «che se continueremo a lavorare così, pretenderò un aumento. Questa faccenda è troppo snervante e orrenda.» Lui le sorrise nervosamente. «Non preoccuparti, Shar. Qualunque cosa accada, non dimenticherò tutto quello che hai fatto per il progetto. Sarai ricompensata per la parte che hai avuto in tutto questo.» Sorridendo in maniera seducente, la donna si sedette sulla scrivania e accavallò la gamba destra, offrendo a Helmond un'altra panoramica di quel che c'era al di sotto della gonna. Helmond non poté fare a meno di notare che Sharon aveva veramente delle splendide gambe (e mutandine blu). Inoltre si accorse che stava lanciando all'assalto della sua libido la propria artiglieria erotica, probabilmente sapendo che per un po' egli non avrebbe subito di simili attacchi da parte di Janice. Una ragazza intelligente, forse troppo per il suo bene. «Puoi ricompensarmi subito, se vuoi.» «Su, andiamo a casa,» disse Helmond allontanandola gentilmente dalla
scrivania. Quella goffa manovra finì in un mezzo abbraccio, e la cosa non sorprese nessuno dei due. Helmond si affrettò ad allontanarsi dal corpo di Sharon. «Sei stanca e ti stai comportando da sciocca. È ora di andar via. Dobbiamo essere qui domattina presto per controllare se il procedimento di ricostruzione dei tessuti ha funzionato.» Sharon si strusciò contro di lui alzandosi per andare a prendere la giacca. «Come ordina, professore. A domani.» La osservò andarsene, e sorrise. Certo, Sharon era stata colpita emotivamente e ferita nell'anima, ma da qualche parte, nella zona di guerra delle relazioni umane aveva imparato dei trucchi, aveva sviluppato metodi di difesa e offesa, nel secondo caso in diversi sensi. Per un attimo pensò di chiamare Janice e dirle che avrebbe trascorso la notte in laboratorio per controllare i suoi soggetti, ma poi decise altrimenti. Voleva farlo, ma si chiese se Janice gli avrebbe creduto, se lui stesso avrebbe resistito oppure si sarebbe arreso e nelle ore silenziose e solitarie del mattino, avrebbe chiamato Sharon affinché lo raggiungesse o addirittura sarebbe andato da lei... No. Quella linea d'azione implicava troppi potenziali sospetti e possibili tentazioni. Spense le luci, chiuse a chiave la porta e lasciò il laboratorio. «Come sta Eunice?» Furono queste le prime parole che quella sera Helmond pronunciò arrivando a casa. Janice era affaccendata ai fornelli, ancora un po' stanca, ma meno abbattuta di com'era stata dall'indomani del giorno del Ringraziamento in poi. Accettò il suo bacio sulla guancia e rispose. «Be', stamattina non si sentiva bene e così non l'ho mandata a scuola. È stata molto capricciosa e non ha mangiato nulla. Non capisco cosa abbia.» Io invece sì, pensò Helmond. No, non saltare subito alle conclusioni, stupido. Le bambine si ammalano, e nonostante quello che ha subito, in fondo Eunice è ancora una ragazzina normale. Per il momento. Potrebbe trattarsi di un colpo di freddo o di un raffreddore. «Ha la febbre o roba del genere?» Janice scosse la testa. «Sembra un po' pallida, ma la temperatura è normale. È come se... Non so, è come se qualcosa l'abbia disgustata, facendola star male di stomaco, come la vista del sangue o una cosa simile. Capisci cosa voglio dire?» Fin troppo bene, cara. Percepisce quello che sta avvenendo dentro di lei: la disidratazione e la decomposizione dei tessuti, è come sentire che il
tuo corpo viene infestato dagli scarafaggi. «Credo di sì. Sembra più una cosa psicologica che fisica, eh?» «Proprio così.» Janice rimescolò lo stufato che cucinava nella pentola sul fuoco. «Si direbbe un problema di tua competenza. Sei tu quello che conosce mille trucchi psicologici. Va' a parlare con lei. Sta riposando in camera sua.» Non sarebbe stata una cosa divertente. «Penso che prima berrò un drink.» Si servì un whiskey liscio e si mise a sedere sulla sua poltrona in salotto, fissando lo schermo spento della TV. Quello non era un problema alla sua portata. In effetti, non era alla portata di nessuno. Per quel che ne sapeva, la necromorfosi comportava una trasformazione sia della mente che del corpo, per quanto metafisica suonasse un'affermazione del genere. Eunice era il primo e unico essere umano che fosse mai realmente ritornato dalla morte e chi poteva dire cosa avesse subito la sua psiche? Eunice non aveva mai parlato di quella sera e Helmond era stato ben attento a non menzionarla. Janice aveva accettato la storia in blocco, preoccupata com'era in quel periodo per la lite tra Ally e nonna Loring e per l'orrenda notizia del massacro avvenuto al Cream King. E così, nel suo caso, Helmond non aveva avuto alcun problema. Lo sceriffo Coleridge non era più ritornato. In effetti, tutto era andato perfettamente, al di là di ogni sua più rosea aspettativa, fino allo spaventoso spettacolo inscenato da Laz. Salire le scale fu un po' come salire sul patibolo. Paura, Helmond. È soltanto paura. Emozione irrazionale. È la tua piccina, sangue del tuo sangue ed in lei c'è ancora più splendore che ombra. Sta a te salvarla dal fato a cui l'hai condannata, aiutarla a superare ciò che l'affligge con la mente intatta e felice. Dio, nessun essere umano dovrebbe subire quello che lei ha subito, ma che dovesse accadere ad una dolce e bella bambina di sette anni... Il destino era uno spietato figlio di puttana, e bussò leggermente alla porta della camera della figlia. «Entra, papà,» disse la vocina dall'altra parte. Helmond, entrando, constatò che Eunice stava leggendo Il Signore delle Mosche. Accanto aveva un blocco d'appunti con fogli a righe verdi, apparentemente riempito da una scrittura fitta. Anche Polar Bear era presente: dormiva raggomitolato. «Cosa stai facendo, zucchetta?» Helmond si sedette sulla sponda del letto. Lei alzò lo sguardo dal libro, con un'espressione essenzialmente neutra.
«Ho letto, ho scritto qualcosa. Ultimamente penso a tante cose.» «Di che tipo?» Helmond inclinò il capo per cercare di leggere quello che c'era scritto sul blocco ma Eunice con calma lo girò prima che lui potesse sbirciare qualcosa. «Cose, ecco.» La figlia chiuse il libro e lo poggiò sulla trapunta per dedicare al padre tutta la sua vibrante attenzione. Il colorito era pallido, ma per il resto Eunice sembrava avere un ottimo aspetto. «Mamma mi ha detto che non ti senti bene. Cosa c'è che non va?» Eunice prese Polar Bear e se lo strinse al petto, e subito ricevette come in risposta numerose scrollate di coda e piccole leccatine da parte del cagnolino intontito dal sonno. «Sto facendo tanti brutti sogni. Mi tengono sveglia tutta la notte.» Helmond grattò la pancia del cucciolo. «Che genere di sogni? Come quello dell'altra notte?» La bimba annuì. «Come quello. C'è sempre questa grande cosa che cerca di entrare per prendermi.» Helmond trovò che quelle parole si rivelavano piene di doppi sensi. Dentro dov'era lei o dentro di lei? In ogni caso, lui sapeva che si trattava soltanto di una simbolizzazione onirica della sindrome mortale che stava cercando di impadronirsi di Eunice, o forse dell'impensabile verità che la mente della figlia aveva rifiutato di accettare. «Presto li dimenticherai, tesoro. Te lo prometto.» La baciò sulla fronte, poi tamburellò sulla copertina del libro che stava leggendo. «Capisci davvero quello che leggi qui dentro?» «Certo. Non dovrei?» Helmond rifletté che uno degli effetti della rianimazione era l'ipervitalità di determinate cellule, tra cui i neuroni. Il cervello era formato esclusivamente da neuroni, perciò non era impossibile Che i rianimati avessero un cervello più efficiente. Di sicuro Laz aveva dimostrato un'intelligenza superiore a quella normale per un esemplare della sua specie, specialmente dopo la necromorfosi, e questo sembrava confermare la sua teoria. Era consolante scoprire che il processo comportava almeno un effetto collaterale positivo. «Certo, piccola. Non c'è ragione perché non sia così. Posso dire alla mamma che te la senti di cenare?» Eunice considerò la cosa, poi assentì. «Sì. Ora credo di sentirmi meglio. E ho fame.» Lui le scompigliò scherzosamente i capelli. «Bene. Allora, lavati e scendi giù in cucina.»
Bene, è stato abbastanza facile, pensò mentre lasciava la stanza. Il recupero dei rianimati fu più che totale; lo si sarebbe potuto definire incondizionato e stupefacente. Tutti gli animali, compresi Brahman e Valdemar, scoppiavano di salute. Apparentemente il dosaggio non era un fattore importante, anche se quelle cavie che avevano potuto ricevere iniezioni endovena ora possedevano senza dubbio un più alto grado di ipervitalità. Ma il reagente stesso sembrava essere servito da stimolo per la regressione della necromorfosi. «Sembra davvero che questa volta tu ce l'abbia fatta, Lenny,» commentò Sharon, con le mani nelle tasche del camice da laboratorio e il sorriso sgomento, estatico. «Remissione completa al cento per cento.» A Helmond risultava difficile contenersi, impedirsi di scoppiare a urlare dalla gioia. «La regressione può essere temporanea. Dobbiamo tenerli attentamente d'occhio per i prossimi giorni e le prossime settimane, forse per mesi. Questa volta, non voglio correre alcun rischio. Un esperimento scientifico condotto con troppa superficialità ci ha condotto a questo caos e non voglio che accada di nuovo.» L'assistente scosse le spalle. «Bene. Minimizza pure il tuo successo se vuoi, ma questo è un fottuto miracolo. Comunque tu non sei colpevole di superficialità. Semmai sei colpevole di superscienza, di esserti avventurato in una terra incognita precorrendo i tempi.» A Helmond piacque molto il suono di quelle parole e così decise di non montarsi la testa. «Forse, ma abbiamo preso il toro per le corna, Shar. Stiamo giocando grosso, questo è un boccone troppo grosso per noi.» Ridacchiando, la donna replicò, «Cosa stai cercando di fare, uccidermi con i cliché?» «Scusa. Quel che voglio dire è che abbiamo aperto un barattolo pieno di vermi...» «Vermi della tomba?» «Vuoi lasciarmi finire?» protestò Helmond, spalancando le braccia in un gesto di finta disperazione. «Quel che voglio dire è che le implicazioni del processo sono gigantesche. Avremmo bisogno di un intero istituto perfettamente equipaggiato e di uno staff completo per studiare tutti gli aspetti e le conseguenze del processo. Le proprietà dell'ipervitalità sono di importanza altrettanto capitale quanto la rianimazione stessa, e il nostro lavoro sta sconfinando in campi a noi ignoti.» Sharon scosse lentamente la testa. «E pensare che soltanto ieri stavi pen-
sando di gettare la spugna, una frase fatta che oggi non hai ancora usato. Già me lo immagino: l'Istituto Helmond per le Ricerche sulla Nuova Vita. Il nome di Orville Leonard Helmond sarà registrato negli annali accanto a quello di Orville Wright. Giusto? Voglio dire, quel che hai fatto è impressionante, no?» Lui grugnì. «Più che altro rischia di farmi diventare un maniacodepressivo. Eppure sembra essere il logico passo successivo dopo che qui avremo tirato le somme, però mi rifiuterei di chiamare l'istituto con il mio nome. Il mio ego è prodigioso, ma non obeso.» «Forse, ma potrebbe sicuramente sopportare una dieta.» Helmond la guardò e in quel momento gli piacque molto. Voleva abbracciarla, non come un'amante, ma come un'amica, una compagna leale, nobile, che gli era rimasta sempre accanto e aveva sopportato i tempi bui da cui sembrava stessero uscendo appena adesso. E quando era scoppiata la crisi, Sharon si era comportata splendidamente. Eppure, Helmond non voleva esprimere fisicamente ciò che provava. «Tenga pronte le sue agili dita per il word processor, signora. Adesso abbiamo qualcosa da pubblicare.» «Agli ordini, capitano. Mi lasci soltanto appuntire la matita.» E così Helmond aveva soltanto altri due problemi da risolvere: strappare la figlia dagli artigli di Azrael e convincere Janice che il proprio lavoro doveva continuare. E non sapeva quale dei due sarebbe stato il compito più arduo. «Stasera porterò i bambini a fare le spese di Natale,» lo informò Janice a cena. «Vuoi unirti a noi?» Sollevò la mano, ancora incerottata. «Un aiuto per portare i pacchetti non mi sarebbe sgradito.» Helmond comprese all'istante che quella era una grossa opportunità. Se fosse riuscito a giostrare bene la situazione, le cose potevano andare come voleva lui. «Ehm, ho troppo lavoro da sbrigare, tesoro. Sai bene che presto uscirà una pubblicazione e c'è ancora molto lavoro da fare.» A Janice non sfuggì che il marito aveva cominciato a riferirsi al progetto come ad un lavoro di gruppo, e che ormai parlava dell'assistente come di una sua eguale. «Pensavo che avessi assunto Miss. Bishop proprio per questo.» Lui la fissò ad occhi spalancati e uno sguardo innocente. «Ed è così, ma lei può soltanto organizzare e battere l'articolo. Sono io che devo scriverlo.»
Janice lasciò cadere l'argomento con un gesto della mano che teneva il coltello. «Bene. Me la sbrigherò da sola, allora.» Prossima mossa. «Hai deciso di portare con te Eunice?» Lei alzò lo sguardo. «Certamente. Mi sembra che oggi stia bene. È andata a scuola, non ha avuto problemi.» Helmond si voltò a guardare la figlia. «Penso sia ancora un po' pallida. Se non vogliamo che abbia una ricaduta, dobbiamo andarci piano con lei.» La moglie sbatté le palpebre, senza sorridere. «Ci sono altre mie decisioni che ti piacerebbe cambiare? Ally esce con i suoi amici, sempre che tu sia d'accordo.» Helmond si chiese per quanto tempo sarebbe andata avanti quella situazione. Non avevano fatto più l'amore dal giorno del Ringraziamento. Non si erano nemmeno toccati, e l'atteggiamento di sua moglie verso di lui poteva essere descritto quantomeno come negativo - quando non assolutamente gelido. A volte, pensava che il loro matrimonio fosse davvero finito, tutto a causa di una piccola scimmia mutante. Non le aveva ancora parlato del successo ottenuto nel tentativo di riportare gli animali allo stato normale perché ciò avrebbe comportato anche una discussione sulla sua decisione di continuare le ricerche, cosa che ora intendeva fare assolutamente. Stava aspettando che lei fosse d'umore più ricettivo e meno ostile per dirglielo. Quando sarebbe stata meno severa con lui e fino a quando lui le avrebbe perdonato la sua durezza?» «Stavo soltanto facendo una considerazione, Janice, non c'è bisogno di darmi una rispostaccia.» Janice si concentrò sulla cena. «Be', sei stato chiaro. Tu non verrai con noi e io lascerò a casa Eunice. Pensavo che per una volta sarebbe stato bello essere una famiglia, ecco tutto.» Quelle parole fecero soffrire Helmond. Di sicuro non ci sarebbe stato bisogno di uno strumento molto delicato o preciso per misurare la tensione che aleggiava a tavola in quel momento, ma Helmond sapeva che non poteva cedere. Il benessere di Eunice aveva la priorità e se questo significava la rottura del matrimonio e la derisione dei figli, ebbene avrebbe dovuto andare avanti egualmente, perché se avesse fallito nel guarire la bambina il risultato sarebbe stato ben peggiore della semplice discordia domestica. «Cara, sono d'accordo con te, ma questa non è la serata adatta. Okay?» L'espressione di Janice sembrò addolcirsi leggermente. «Non siamo costretti ad uscire, sai. Andy ed io possiamo stare a casa. Possiamo rimanere tutti insieme, qui, a casa.»
Avresti dovuto mollare quando eri in vantaggio, Helmond. «No, vai pure. Non voglio cambiare i tuoi piani.» «Non vuoi cambiare...» Janice gli rivolse un'occhiata infuriata. «Non mi vuoi tra i piedi?» Lui sospirò. «No, Janice. Stasera non ti sarei di nessuna compagnia. Te l'ho detto. Ho troppo lavoro da sbrigare.» La moglie afferrò il piatto e si alzò da tavola. «Bene. Non me ne starò in giro a scocciarti. Ce ne andremo e ti lasceremo solo.» Poi si avviò a grandi passi in cucina. Helmond decise che dopo tutto non se l'era cavata troppo bene, ma che aveva compiuto quello che si era proposto di fare. Sperava soltanto che Janice non cominciasse a sospettarlo di pedofilia incestuosa, perché era quello ciò che le circostanze suggerivano. Bruciava dal desiderio di dirle che, se voleva disperatamente che rimanesse fuori di casa quella sera, era soltanto per il suo bene, più di quel che lei avrebbe mai potuto o voluto immaginare. Seduto nella sua comoda poltrona con un bicchiere di scotch in mano, Helmond rimase a fissare il notiziario nazionale alla televisione, senza neppure vedere le immagini, in attesa che Janice, Andy e Ally uscissero. Con un piano accurato, quella sera non si sarebbe rivelata terribilmente dura per lui o per Eunice, ma solo leggermente spiacevole per entrambi. «Ally è già andata via,» disse Janice dalla soglia del salotto, intenzionata a non entrare. «Avrai la casa tutta per te. Per te e Eunice. Lei sa come passare il tempo e spero che tu ti divertirai da solo.» Poi uscì; la porta d'ingresso si aprì, si richiuse e la macchina partì. Per Helmond era giunto il momento di mettere in pratica la sua nera arte. Il reagente conservato nella valigetta non era alla temperatura ideale, ma non vi era stato abbastanza a lungo per deteriorarsi. Nella valigetta c'era anche una bottiglietta di idrato di cloruro, un catetere endovena sigillato in una busta di plastica sterile, e una forcella per mantenere sospesa la bottiglia di soluzione. Il tempo era fondamentale, e così lavorò in fretta. Trovò Eunice in biblioteca che guardava la televisione. «Dì, tesoro, ti va se preparo col frullatore due frappé alla fragola?» Lei lo guardò dal tappeto dove era stesa a pancia in giù e gli fece un sorrisetto. «Certo, papà.» «Magnifico.» Non c'era nulla di strano, visto che altre volte, quando erano rimasti soli, si erano concessi quel particolare trattamento. Andò furtivamente in cucina, preparò con il latte e il gelato alla fragola una miscela
spumosa e la versò in due bicchieri da frappé alti, semplici, di vecchio stile. In quello di Eunice sciolse tre grammi di cristalli aromatici e incolori, sperando che il sapore acido dell'idrato di cloruro venisse mascherato dallo zucchero del gelato. Poi infilò in ogni bicchiere una cannuccia con un gomito flessibile. Un inevitabile parossismo di disgusto verso se stesso lo invase mentre si rendeva conto che stava drogando la propria figlia, poi ritornò verso la biblioteca. Eunice consumò in fretta il suo frappé con pochi sorsi. Nessun problema, dunque. Helmond si mise a sedere a gambe incrociate sul pavimento accanto a lei e prestò attenzione a quel che la figlia stava guardando, una specie di chiassoso gioco a premi. Prima che lo spettacolo fosse finito, la bambina era immobile come un cadavere. Quella vista risvegliò nella mente di Helmond ricordi che avrebbe voluto cancellare. La portò di sopra, la mise a letto, la spogliò, e le infilò il pigiama. Eunice non si mosse neppure una volta, poiché le aveva somministrato una dose di sedativo così forte che avrebbe potuto anche sottoporla ad un'operazione chirurgica. Se si fosse svegliata troppo presto, sarebbe stato imbarazzante doverle spiegare perché aveva un tubo infilato nel braccio. Recuperò quello che gli serviva dalla valigetta, prese del cotone idrofilo e dell'alcool dall'armadietto del bagno di sopra e ritornò dalla figlia incosciente. Considerando obiettivamente la cosa, comprese che Eunice era il soggetto più grande che aveva rianimato (con successo), e decise di somministrarle una robusta dose di reagente. A dispetto dell'effetto che aveva scoperto, voleva essere sicuro che in lei la necromorfosi regredisse totalmente, in ogni organo, in ogni tessuto, in ogni cellula. Nessuna traccia di necrosi corruttrice doveva rimanere nella sua bambina. Appese la flebo alla mensola sul letto, sterilizzò l'interno del gomito destro di Eunice, inserì con cura l'ago nel braccio (stai esercitando illegalmente la professione medica, Helmond), poi collegò il catetere alla flebo. Lentamente, il reagente gocciolò attraverso il tubo nelle vene di Eunice, ripristinando auspicabilmente, la vitalità (e possibilmente l'ipervitalità) dei tessuti morenti, ritardando il processo di degenerazione. Mentre la flebo si svuotava, il biochimico si mise a sedere accanto al letto, per quelle che gli parvero ore lunghissime, in una sedia troppo piccola per un adulto. Pur spasmodicamente ansioso e angosciato, provava quasi un senso di sollievo nel poter finalmente portare a compimento quel che aveva iniziato la notte della rianimazione. Quando le tolse l'ago dal braccio, lo piegò per accelerare il processo di cicatrizzazione, poi si apprestò a far scomparire la prova
incriminante, nascondendola nel fondo del secchio della spazzatura sul retro dell'abitazione. Subito dopo ritornò da Eunice. Avrebbe dormito poco quella notte, ma sarebbe stata un'insonnia dovuta alla preoccupazione e ad una crescente felicità e non al panico o alla disperazione. Quando la piccola si sarebbe svegliata avrebbe potuto accusare una serie di sintomi, da un leggero stato di torpore, addirittura di confusione mentale, a conati di vomito, ma ciò si poteva spiegare come conseguenza della recente malattia. Ritornò al piano di sotto con la sensazione che quella sera aveva fatto un buon lavoro e cercò di concentrarsi nel tentativo di riordinare in maniera comprensibile i suoi appunti. NEL MEZZO DELLA VITA Quel periodo dell'anno, per Helmond, fu un'oasi di celebrazione della vita nella stagione della morte. Nonostante il suo ateismo, aveva sempre amato il Natale, era la sua festa preferita (Halloween non lo era di certo, specialmente dopo l'ultimo che aveva trascorso). Inoltre, la considerava essenzialmente come una festa pagana cooptata dalla Chiesa cristiana per incoraggiare la conversione, combinando la nascita del Messia con i Saturnalia romani e la festa del solstizio d'inverno dei Celti. Tutto quel che sapeva è che si trattava di un periodo in cui le caratteristiche migliori dell'umanità si intensificavano: lo spirito di generosità, la volontà di stare insieme, il sentimento di fratellanza con il resto della razza umana, nonostante il consumismo, il materialismo e l'aumento vertiginoso dei suicidi. Non faceva caso neppure alla folla, pensò mentre con la famiglia al completo (tranne Ally) passeggiava nel centro commerciale di sabato sera. Era l'unico momento in cui poteva verificare che la massa esisteva davvero, che lui era parte del grande tutto degli esseri viventi, giacché trascorreva buona parte del suo tempo rinchiuso nel laboratorio od oziando in casa. La maggior parte dei volti che vedeva erano senza sorriso; aveva notato che c'era un momento molto vicino al Natale in cui la gioia sembrava animare le facce di quasi tutta la gente, ma a quanto sembrava quel momento non era ancora arrivato. L'euforia collettiva non aveva ancora colpito l'intera popolazione, tranne i tossicomani del Natale. Ultimamente, le cose stavano procedendo al meglio di quanto ci si poteva aspettare, e considerando il modo in cui sarebbero potute andare altrimenti, Helmond la considerava una benedizione. Eunice sembrava in perfetta salute, lui stava per dare alle stampe un articolo che avrebbe proba-
bilmente sconvolto la comunità scientifica e Ally non si era prodotta in nessun altro exploit dall'ultimo, traumatico episodio. Il rancore di Janice nei confronti del marito sembrava essere diminuito, ma non avevano ancora ripreso a fare l'amore e lui non le aveva ancora confessato di voler continuare le ricerche. Poiché era un uomo dai regolari appetiti fisici (forse leggermente più sviluppati del normale), l'ostinata astinenza della moglie gli stava procurando uno snervante disagio, che il volto e il corpo di ogni bella donna che gli passava accanto per strada non facevano che aggravare. Erano anni che non ricorreva alla masturbazione poiché Janice a letto si era sempre dimostrata una partner appassionata - forse l'attacco di Laz aveva in qualche modo provocato un calo della sua libido? - e certamente non voleva soddisfare i suoi desideri con qualcun'altra, anche se Sharon stava facendo di tutto per rendergli facilissima quella possibilità. Arrivarono nel posto dove Babbo Natale riceveva i suoi piccoli ospiti e Andy e Eunice si misero in fila per sedersi sul pancione dell'uomo in abito rosso. Quella mattina la bambina aveva sbalordito i suoi genitori annunciando che non credeva più a Santa Claus, ma che, comunque, sarebbe andata a vederlo solo per evitare un dispiacere al fratello. «Dunque è sicuro che per Natale andremo a casa di tuo fratello Frank?» chiese Janice al marito mentre aspettavano. Helmond si trattenne a stento dall'occhieggiare una bionda, senza reggiseno in un maglioncino di angora, che gli passò accanto. «Ehm, pensavo che avremmo potuto, sì. Quando viveva in Pennsylvania non gli abbiamo mai fatto visita e ora vive in uno stato confinante. Glielo devo. Inoltre, ho dei nipoti che non vedo da quando erano neonati.» La moglie non sembrava particolarmente entusiasta. «Non so. Mi farai trascorrere il periodo più bello dell'anno con dei completi sconosciuti. Penso di aver incontrato Frank soltanto una volta, al nostro matrimonio, in quella riunione di famiglia a casa di tua sorella. Ho avuto la netta impressione che sua moglie non mi sopportasse molto.» Helmond dette un colpetto di tosse piuttosto forzato. «Ehm, Laura e Martha erano piuttosto intime. Amiche fin da piccole.» Janice sorrise rigidamente. «Meraviglioso. E per l'apertura dei regali? Lo abbiamo sempre fatto la mattina di Natale.» «Possiamo farlo la Vigilia o la mattina presto. Il viaggio fino in Indiana dura soltanto tre ore.» Notò una scena della natività in una vetrina di un negozio e si mise a contemplare il bambino nella mangiatoia. Una volta aveva udito un evangelista affermare alla televisione che i doni portati dai
Re Magi, incenso e mirra, una resina acre che veniva bruciata come incenso, erano anche usati nella mummificazione dei morti, e così, fin dalla sua nascita, al Bambino Gesù quei doni ricordavano che il suo unico scopo nella vita era di ricevere la morte e di diventare il simbolo di entrambe. Come un feto nato con un teschio e le tibie incrociate tatuati sulla fronte. Non potevano essere che i cristiani a contaminare una festa così gioiosa con questa sinistra morbosità, pensò. «Va bene,» si arrese Janice, e sospirò. «Ci andremo, ma se mi rovinerai le vacanze, Orville Leonard Helmond, non te lo perdonerò mai.» Helmond tentò di non calcolare quanto quella frase fosse carica di frecciatine freudiane. «Sarà divertente. È una famiglia che sa davvero come organizzare il Natale. Comprano sempre il più grande albero di Natale che tu abbia mai visto, si mangia e si beve a profusione, e di solito vengono anche alcuni tra i parenti e gli amici di famiglia più svitati. Vedrai.» I bambini finirono di giocare con il clone di Santa Claus, e la famiglia si avviò verso l'ingresso da dove erano venuti. Durante il percorso, Eunice fece una curiosa osservazione. «Sapete,» disse. «Il nome Santa è Satana pronunciato male. E poi, il diavolo non indossa anche lui un abito rosso?» Helmond fu costretto a ridere. «Hai ragione, tesoro. Ma il diavolo non celebra il Natale.» «Oh», commentò Eunice, del tutto insoddisfatta da quella spiegazione. Janice scoprì, e suo marito ricordò, che la casa di Frank Helmond era del tutto diversa da quella di Len Helmond. Laddove la seconda era amministrata con un'efficienza quasi scientifica ed era avvolta in un'atmosfera di sterile pulizia, intensità intellettuale e silenzio monastico (tranne che per lo stereo costantemente acceso a tutto volume di Ally), la prima era un guazzabuglio di oggetti disordinati, emozioni prepotenti, rumori assordanti e disorganizzazione. Ciò innervosiva Janice e le impediva di concentrarsi, ma Andy e Eunice sembravano spassarsela un mondo. Ally si sforzò di non sembrare annoiata, fumò una montagna di sigarette e bevve di nascosto alcuni drink. Helmond bevve dei margaritas e del rum caldo, divenne leggermente brillo, poi si rilassò e cercò di godersi la fervida attività con distaccato divertimento. Non era un elitario, non riteneva che gli scienziati fossero superiori alla gente normale, ma non poteva negare il fatto che questi la pensassero in modo diverso. Frank lavorava come operaio in una fabbrica di tubature e sua moglie Laura lavorava in un negozio di fiori.
Cosa aveva in comune Len con quelle persone? Di cosa poteva parlare con loro? Delle proprietà atomiche dei metalli con cui lavorava Frank oppure della struttura genetica della flora che vendeva Laura? Avrebbe sempre voluto chiederle perché la gente era ossessionata dagli organi sessuali delle piante, ma era certo che non avrebbe compreso la battuta. Di sicuro non poteva discutere con loro del suo lavoro; il fratello credeva fervidamente in Dio e nei suoi comandamenti, e Laura era quasi istericamente superstiziosa. I gatti neri, il numero 666, il venerdì 13 la gettavano nel panico. Secondo il loro modo di vedere, Helmond non sarebbe stato che un abominio, un demone. Dopo la cena e il dolce, e diversi altri drink, Helmond notò che Frank si era allontanato dal gruppo. Senza farsi notare, si mise a cercarlo per casa e alla fine trovò il fratello abbandonato su di una sedia a sdraio nell'oscurità del seminterrato, molto simile ad una segreta, con un drink in mano, mentre fissava un televisore in bianco e nero dalle immagini disturbate. Il locale era umido, con il pavimento ricoperto da una moquette ammuffita, e pieno di vecchi pezzi di mobilio. «Ci siamo isolati dalla razza umana, eh?» commentò Helmond. Frank sobbalzò, sentendosi un po' colpevole per essere stato scoperto in uno stato d'animo tanto abbattuto. «Ciao, Lenny. Prendi un puff e siediti.» Helmond obbedì, sostituendo una sedia da giardino al puff. «Fa un tantino freddo qui sotto, eh?» «Sì,» rise Frank. «Una specie di animazione sospesa. È roba di cui ti occupi anche tu? Come si chiama, crionetica o qualcosa di simile? Non è il tuo campo?» «Ehm, si dice crionica o criogenetica e no, non me ne sono mai occupato.» Len sorseggiò il suo scotch, essendo passato a quello che considerava un drink civilizzato.» «Sì, beh, ho letto qualcosina sull'argomento. Roba affascinante. Se prendi una malattia che oggi non si può curare, basta semplicemente metterti in un frigorifero e ti tireranno fuori quando trovano una cura. Hai una seconda possibilità di vita e per giunta potrai vedere com'è il futuro, se ce n'è uno.» Si girò verso Helmond. «Che ne pensi, Lenny? È una cosa possibile?» Helmond formulò attentamente la risposta. «Francamente, nutro i miei dubbi, Frank. Non è ancora possibile conservare un organismo complesso immerso in nitrogeno liquido per un certo periodo di tempo senza causare gravissimi danni cellulari. La mia opinione è che i corpi umani così con-
servati siano semplicemente dei cadaveri ben conservati, il che in sé può essere di una certa utilità per la medicina del futuro, quando verranno praticate su di essi le autopsie. Racconteranno ai posteri dei veleni e dell'inquinamento con cui gli uomini del ventesimo secolo hanno saturato i loro corpi, del cibo pieno di additivi chimici che mangiavano, dell'aria piena di piombo che respiravano e dell'acqua inquinata da rifiuti tossici che bevevano.» Frank lo guardò ammiccando. «Sei una persona dannatamente deprimente a parlarci, lo sai questo?» «Sei tu quello che si è allontanato dalla festa, fratello.» Len cercò di capire cosa stesse trasmettendo la TV; sembrava un episodio di Hollywood Squares. «Sì, beh, qualche volta non ce la faccio a mantenere un sorriso finto quando non sono particolarmente in vena di sorridere. È la più dannata contraddizione in cui mi sia capitato di imbattermi. La società ti dice la vita non è felicità, ma dovere e responsabilità, duro lavoro e realizzazione, ma se non sei felice, ti dicono che c'è qualcosa in te che non va.» Frank bevve un sorso del suo drink; sembrava un doppio whisky. «Dimmi, Lenny. Perché tutto questo? Cosa significa? Che senso ha tutto questo? Tu sei il cervellone della famiglia. Spiegamelo.» Helmond fissò a lungo e con attenzione il fratello. Sicuramente quell'uomo era preoccupato per qualcosa. «Non sono un filosofo, Frank. Sono soltanto un tecnico specialista. Non mi hanno insegnato le risposte alle grandi questioni della vita e del mondo, nella scuola dove sono stato. Conosco come funzionano i processi vitali, ma non saprei spiegarti il significato della vita.» Frank annuì. «Capisco. Siamo tutti schiavi, lo sai. Nati in schiavitù, incatenati ai polsi e alle caviglie fin dal primo giorno. Voglio dire, l'uomo ha a disposizione suppergiù settant'anni di vita e nessuno di noi riesce a fare quello che vuole veramente. Perché? Perché, se viviamo così poco tempo su questa terra, non possiamo goderci appieno la vita? Sudiamo, ci sforziamo e ci preoccupiamo per sette o otto decenni e poi moriamo. Non è giusto, Lenny, non lo è per nulla.» Oh, pensò Helmond. La crisi della mezza età. Naturalmente. «È la malinconia dei quarantotto anni, vero Frank?» Il fratello scosse le spalle. «Credo di sì. Tu sei un uomo fortunato. Hai una moglie giovane e bella e un brillante futuro, forse diventerai addirittura famoso. Io faccio parte di una classe sociale inferiore e rimarrò sempre
quello che sono. Una considerazione dannatamente triste, vero?» Quell'affermazione meravigliò Len. Cosa poteva replicare a una cosa del genere? «Ehi, non ti accorgi che stiamo vivendo in un'epoca di miracoli scientifici? Diamine, le tecniche di prolungamento della vita potrebbero essere dietro l'angolo.» «Grandioso,» disse Frank, sollevando in alto le braccia. «Semplicemente grandioso. Così invece di essere calpestati e di morire di noia soltanto per sette decenni, ne avremo quattordici, o giù di lì. Questa è una buona ragione per alzarsi la mattina, vero?» Helmond ammise che avrebbe dovuto aspettarsi un'obiezione di quel tipo. «Ma immagina gli eventi e le scoperte che vedrai vivendo, Frank. La creazione della vita in laboratorio, l'invenzione dell'intelligenza artificiale, macchine che pensano e hanno una coscienza, e forse potresti anche entrare in contatto con una razza intelligente extraterrestre. Pensaci. Non ti viene voglia di essere testimone di simili meraviglie?» L'espressione di Frank non era certo entusiasta. «Non sono un fanatico del progresso scientifico, Lenny. Niente di personale. Se ne sono usciti con la rivoluzione industriale e l'automobile, e noi ne abbiamo ricavato inquinamento ambientale e le morti in massa sull'autostrada. Hanno ottenuto la fissione dell'atomo e adesso siamo costantemente sull'orlo di una guerra nucleare. E per quanto riguarda le ricerche genetiche, probabilmente riusciranno ad allevare un virus che ci spazzerà via tutti. Forse l'AIDS è proprio questo, ma non ce l'hanno detto. E le macchine intelligenti? Potrebbero fare la stessa cosa: ucciderci e conquistare il pianeta, e lo stesso vale per gli alieni, se si facessero vedere. Molto spesso le scoperte che gente come te ha fatto si sono rivelate un disastro per gli altri.» «E tu dici che io sono deprimente!» replicò Helmond, ridendo incredulo. «Saresti capace di convincere un clown a suicidarsi. Pensavo che fossi un uomo religioso. Non credi nella vita dopo la morte, in un futuro glorioso in seno all'Onnipotente?» Frank ci pensò su. «Lo so, si suppone che ci creda, ma che io sia dannato se non ho la sensazione che sia tutto una grossa balla. Quel che provo in questo momento è quanto sia miserabile e inutile la mia vita. Non mi consola la prospettiva di sedere su una nuvoletta pizzicando un'arpa per l'eternità. Inoltre, l'unica soluzione a cui riesco a pensare è condannata come un peccato dalla mia religione.» «Quale soluzione, Frank?» Helmond sorseggiò il suo drink. «Il suicidio.»
Helmond quasi si strozzò con lo scotch. Guardò il fratello sinceramente sbalordito. «Cosa?» «Sto morendo, Lenny,» annunciò Frank fissando Len dritto negli occhi. «Cancro al fegato e al pancreas. Non l'ho ancora detto a Laura. Non so come farlo, ma sono spacciato, questo è certo. La farei finita subito se non avessi paura di andare all'inferno; non mi va di distruggermi nell'agonia in qualche letto d'ospedale.» Ammutolito e impietrito, Helmond mandò giù quel che era rimasto dello scotch. Buon Natale, pensò tra sé. Il tumulto interiore che lo assalì mentre guidava verso casa fu terribile. Se alla fine fosse riuscito a sciogliere tutti i nodi del suo processo, avrebbe potuto salvare il fratello (non erano stati effettuati dei test sui malati di cancro, ma i tumori erano una forma di danno ai tessuti, e così era certo che la rigenerazione avrebbe avuto luogo senza problemi), non appena fosse stata costruita una capsula adatta per accogliere un uomo. In effetti, ne aveva ordinata una. E aveva anche il suo primo soggetto umano adulto, per quel che interessava al mondo, se Frank era d'accordo, se Frank decideva che la sua vita, che riteneva senza senso, valeva la pena di essere prolungata. Non amare la vita, voler continuare a vivere solo a causa della paura della morte: Helmond non poteva concepire un tale stato mentale. Tenne per sé la triste notizia del fratello e cercò con difficoltà di non apparire turbato. I soliti rimpianti lo assalirono: il fatto di non aver visto molte volte Frank negli anni passati, il non aver mai detto al fratello di volergli bene, il non essere mai riuscito a conoscerlo veramente. La morte sembrava essere la sola cosa che cancellava la disperazione silenziosa dell'uomo comune, pensò Lenny mentre si spogliava per andare a letto. «Odio doverlo ammettere,» disse Janice in tono allegro, «ma mi sono davvero divertita. Laura non è poi così male, anzi è simpatica. Comunque, ha delle abitudini strambe. Non ho mai visto nessuno gettarsi alle spalle il sale, quando qualcuno ha rovesciato lo shaker un attimo prima.» «Serve a colpire in faccia il demone che è alle spalle,» replicò Helmond in tono assente. «Comunque, si è scusata di avermi trattata freddamente al matrimonio e alla riunione. E penso che anche i ragazzi si siano divertiti, eccetto Ally. Sai, credo che si sia ubriacata a nostra insaputa.» Helmond si sedette sul letto. «Non la biasimo, poverina. Tutti i figli di Frank sono tipi normali e così non ha avuto nessuno con cui legare. Cos'al-
tro avrebbe dovuto fare?» Janice si rannicchiò sul suo lato del letto. «Be', spero soltanto che non stia diventando un'alcolizzata.» «Assurdo. Ally è come me: incline alle cattive abitudini, ma assolutamente incapace di sviluppare una dipendenza nei confronti di qualcosa.» Si voltò a guardare la moglie. «Sono contento che tu ti sia divertita. Temevo che non sarebbe andata così.» «Davvero?» Janice si avvicinò in ginocchio a lui e lo abbracciò da dietro. «È carino da parte tua. Buon Natale, professore.» «Buon Natale, angelo mio. Hai voglia di scopare?» Con sorpresa di Helmond, Janice rispose, «Puoi scommetterci.» E così diedero subito sfogo al desiderio e all'amore che avevano entrambi represso, assicurandosi reciprocamente il godimento almeno tre volte durante la notte. Dopo il terzo orgasmo di Janice, che il marito era riuscito a strapparle con la sua maestria nel cunnilinctus, Helmond le si distese sopra e le disse nell'oscurità: «Non ho rinunciato alle ricerche.» La risposta della moglie fu espressa in tono casuale, senza rabbia né sorpresa. «Lo so.» Helmond non era sicuro di comprendere bene l'atteggiamento della moglie. «Non posso rinunciare.» «Lo so,» disse Janice con lo stesso tono. «Non sei arrabbiata?» Lei sospirò. «No. Prima di tutto, da parte mia è stato ingiusto chiedertelo.» Helmond fu piacevolmente sorpreso, si sentì pieno di sollievo, gratitudine e stima per quella donna. «Ti amo più della mia vita,» le disse. «Che non è nemmeno la metà di quanto ti amo io, tesoro.» Dopo tutto, quella notte Helmond dormì molto bene. Il venerdì successivo Ally trovò di nuovo una ragione per odiare il mondo intero in generale e i genitori in particolare: quella sera doveva rimanere a casa per badare ai fratelli più piccoli. Anche di venerdì. Si sdraiò sul letto infuriata, sotto la statuetta raffigurante la sua amica che lei stessa aveva accuratamente modellato. Gli occhi truccati o coperti dagli occhiali a specchio degli idoli raffigurati sui poster appesi alle pareti la fissavano con indifferente lascivia. Accese lo stereo al volume più alto possibile senza oltrepassare la soglia dell'assordamento. Len e Janice erano andati a cena fuori, per interpretare le parti della moglie adorante e del marito innamora-
to nella loro insensata mascherata monogama, e l'avevano condannata ad una serata mortalmente noiosa in casa. Che delizia fare da baby-sitter. Forse non era più in punizione, ma i matusa di certo stavano trovando molte altre ragioni sospettosamente convenienti per impedirle di uscire. Molto intelligente da parte loro. Presto avrebbe combattuto quella sottile manipolazione utilizzando i propri stratagemmi, ma doveva aspettare l'occasione giusta. Doveva lasciar loro credere che l'avevano in qualche modo domata, per poi colpire quando meno se l'aspettavano. Ally non prendeva ordini da nessuno. Poiché non aveva niente di meglio da fare, decise di prendersi qualcosa da bere. Si alzò, scese le scale in direzione della cucina, lasciando la porta della stanza spalancata cosicché il ritmo martellante che esplodeva dalle sue casse risuonò per tutta la casa. Andy Eldritch, l'uomo dei suoi cupi sogni, stava intonando con voce cadaverica "This Corrosion". Andy era già a letto, ma Ally dubitava che si fosse già addormentato. Magari al piccolino di mamma avrebbe fatto bene un po' di confusione. Tutto quel che Ally trovò in frigo fu latte, succo d'arancia, e una bottiglia di Dr. Pepper. Il latte andava bene per i poppanti, Ally odiava il succo d'arancia e non aveva bisogno delle calorie e dello zucchero della gazzosa. Be', chi se ne fregava? Sarebbe ingrassata e il viso sarebbe esploso in un'orrenda maschera di brufoli; allora avrebbe aperto il Mar Rosso nelle vene del polso con un ferro accuminato e sarebbe scivolata nell'oblio. Non avrebbe più dovuto affrontare quel casino. Avrebbe superato tutte quelle futili assurdità, sarebbe ascesa a un livello più alto e puro di piena e perfetta oscurità, avrebbe scalato la nera vetta appuntito nel cuore della notte gloriosa ed eterna. Nessuna paura, nessun dolore, nessuna confusione, solo volontà allo stato puro. Forse un giorno avrebbe fatto quel viaggio. Forse sarebbe avvenuto presto. Ma per il momento doveva accontentarsi di un mediocre stimolante liquido. Dopo aver tolto il tappo con un apribottiglie, Ally decise di andare alla ricerca di Eunice, per assicurarsi che la principessina non la stesse mettendo nei guai facendo qualcosa di stupido. Ally la trovò nel salotto, seduta sul pavimento, vicino al tavolino da caffè, intenta a disegnare. Dalla soglia sembrava qualcosa di interessante; Ally picchiettò sovrappensiero la bottiglia ed entrò nella stanza. «Cosa stai disegnando, sgorbio?» Eunice la guardò per un istante. «Qualcosa.» Ed era davvero qualcosa di notevole. Sembrava una Madonna cadaveri-
ca con in braccio un Bambin Gesù scheletrico. Il bambino aveva come aureola una corona di mosche. Nell'arte classica, Ally aveva appreso durante le lezioni di storia dell'arte che simili dipinti erano chiamati pietà, solo che essi rappresentavano la Madonna che piangeva la morte del figlio dopo la sua crocifissione. Be', anche il Cristo di Eunice non aveva un aspetto molto sano. Che disegno bizzarro. Ultimamente la bambina si stava comportando in un modo da far accapponare la pelle; era la sola cosa che la ragazza trovasse attraente in lei. «L'hai ideato tutto da sola?» chiese, inginocchiandosi accanto al tavolino. La piccola deve guardare molti film dell'orrore, pensò Ally. «Uh-huh. Ho ideato un sacco di cose.» Eunice diede il tocco finale all'ultima mosca, poi posò la matita e fissò la sua opera compiaciuta. Ally dovette ammetterlo: era roba buona, quasi quanto quello che lei stessa avrebbe potuto immaginare in uno dei suoi stati d'animo d'ispirazione notturna. Il disegno non era così meravigliosamente malvagio quanto Arcania, la macabra martire che ornava la parete della sua stanza, ma era pur sempre dannatamente impressionante. Lo considerò un atto di superbia da parte di Eunice. Credi di essere una cattiva, eh? Credi di poter scioccare le persone disegnando cose strane? Quelle faccende blasfeme e provocatorie erano di suo esclusivo dominio. Non poteva certo passarci sopra, così decise di spaventare la ragazzina, di fargliela fare sotto. Sarebbe servito di lezione a lei e ai genitori. «Ehi, Eunice,» disse sedendosi accanto alla sorella. Provò un fremito all'idea di quel gioco. «Ti sei mai chiesta cosa si prova quando si muore?» La bambina la guardò, studiò il volto della sorella per un lungo momento con espressione vuota. «No, ma ho un'idea di come sia.» Ally sbuffò. «Davvero? Dimmelo, allora.» «È come precipitare all'infinito in un abisso senza fondo, decomponendoti fin quando non rimane di te nemmeno la più piccola particella.» Ally corrugò la fronte e bevve un sorso di gazzosa, lasciando che il rivolo di liquido sciropposo e zuccheroso le solleticasse la gola. Le cose non stavano procedendo come si aspettava. Come faceva il mostriciattolo a essere così intelligente? «Sì, beh, non è per niente così. In realtà la morte è una transizione verso lo stato finale dell'estasi, un lasciarsi alle spalle tutti i fardelli e le meschinità della vita di ogni giorno. Abbandoni il tuo corpo, come un serpente fa con la sua vecchia pelle, e diventi un'anima luminosa simile ad una stella cadente in un piano dell'esistenza superiore a questo, totalmente libera, nel pieno controllo di te stessa. Dopo la morte non c'è
nulla da temere.» Eunice spostò da un lato il dipinto che raffigurava l'orribile Natività, raccolse la matita, e iniziò un nuovo disegno. «Penso che se una persona muore, desideri essere ancora viva, anche se non può tornare in vita. O almeno, non alla vita di un tempo.» «Non è così.» La bambina non aveva compreso; non la stava ascoltando. «La vita è un inganno, Eunice, una bugia. È breve, piena di problemi e inganna la gente con la promessa di gioie che non dona mai. Capisci, se ti stacchi dalle sensazioni della vita, allora sarà più facile rinunciarci quando morirai. Ecco cos'è la vita: un'abitudine, una routine, qualcosa a cui ti abitui talmente da dimenticare che un giorno dovrà finire, o che potrebbe finire in qualunque momento. Be', io mi rifiuto di cadere in questa trappola. Sono pronta a morire anche adesso, subito. Non riusciranno a farmi aggrappare alle illusioni in cerca di sicurezza e a farmi implorare pietà. Sono io a guidare la mia anima, dovunque essa vada, anche se percorrerà la via che conduce all'inferno. Soltanto una sottilissima membrana di tenebre mi separa dal peggio che può accadermi. Capisci? Non posso essere delusa perché non mi aspetto nulla. Quando non hai nulla, non hai niente da perdere.» La bambina era intenta nella sua creazione artistica, che assunse la forma di una giovane donna, vestita con cappuccio e mantello, in piedi al di fuori del cancello di ferro di un cimitero, reggendo in mano una grossa chiave di ossa. Occhi non completamente umani sbirciavano ansiosamente tra le sbarre della cancellata. «Sai una cosa, Ally? Penso che tu non sappia di cosa stai parlando.» Quella piccola strega aveva nervi d'acciaio! «Sì? Be', e tu sai una cosa? È già passata l'ora di andare a letto; fila a dormire, subito. E senza fare storie.» Con ritrosa obbedienza, Eunice raccolse le sue cose e si alzò, voltandosi verso la sorella con una lievissima aria di sfida. «Non posso andare a dormire con il volume del tuo stereo così alto.» «Che peccato. Rassegnati.» La bambina lasciò la stanza, lasciando Ally a giocherellare con il collo della bottiglia del Dr. Pepper mentre rifletteva sulla loro conversazione. Cosa era andato storto nel suo piano per spaventare quella mocciosa? Cosa stava diventando il mondo, se non si poteva più terrorizzare neppure un bambino che andava ancora alle elementari? Il futuro si prospettava bizzarro, ammesso che ci fosse stato un futuro. Il pianeta poteva anche non riu-
scire a sopravvivere alla generazione di Eunice, o alla sua, per quanto le importasse. Bevuto l'ultimo sorso di gazzosa, Ally poggiò la bottiglia sul tavolo, dove lasciò un cerchio d'acqua indelebile, poi salì di sopra a fumare uno spinello nella sua stanza chiusa a chiave. Un'euforia artificiale si impadronì di lei per tutta la notte. ANIMALI DI STRADA Anche se si era ai primi di gennaio, dunque in pieno inverno, pensò Helmond mentre usciva casa per recarsi al lavoro in un soleggiato lunedì mattina, aveva la netta sensazione che fosse arrivata la primavera. Per lui andava benone. Quell'anno avrebbe potuto evitare la malinconia stagionale. Uscì a marcia indietro dal garage e imboccò la strada, poi si fermò quando notò un corpo sul ciglio, che giaceva quasi nel canale di scolo. Era un gatto morto, schiacciato da un automobilista di passaggio e aveva il pelo a chiazze bianche e nere, piuttosto insolite. Le zampe erano come guantini bianchi, una macchia bianca all'interno di una nera marcava il lato sinistro, la coda sembrava nera di sopra e bianca di sotto. Anche a quella distanza, circa tre metri, era ovvio che il collo dell'animale era rotto, visto che la testa era ripiegata sotto il corpo con un angolo del tutto innaturale. Per un attimo Helmond pensò di raccogliere la creatura, portarla in laboratorio e farla resuscitare. Ma naturalmente avrebbe dovuto miscelare una nuova partita di soluzione, perdendo l'intera giornata e ritardando il lavoro già pianificato. In precedenza, avevano utilizzato alcuni gatti, otto per la precisione; ma ormai era giunto il momento di abbandonare gli esperimenti sui gatti e le forme di vita inferiori. Non puoi riportare in vita ogni bestiola morta, Helmond. Non puoi essere Dio. Persino Lui lascia che il passero muoia, anche se si accorge che sta cadendo. È la vita: gli animali di strada muoiono. L'incubo principale di ogni cane e di ogni gatto è il bestione a quattro ruote che noi chiamiamo macchina. Tolse il piede dal freno, premette il pedale dell'acceleratore e proseguì. Mentre guidava, rifletté su come il procedimento che aveva inventato avrebbe cambiato le cose. Certamente la sala di rianimazione di ogni ospedale sarebbe stata equipaggiata con una delle sue capsule. Probabilmente le operazioni chirurgiche sarebbero state eseguite con meno accortezza, visto che ogni errore commesso poteva essere corretto trattando i pazienti con
una rapida seduta nella capsula di rianimazione. Probabilmente si sarebbero installate delle unità portatili anche nelle ambulanze, specialmente in quelle che operavano sulle maggiori autostrade. Le vittime di incidenti stradali sarebbero state rimesse in perfetta salute sul luogo stesso dell'incidente. I mortiammazzati avrebbero accusato in tribunale i loro assassini. «Sì. Vostro Onore. Questo è l'uomo che mi ha staccato la testa. Ero morto, quando sono arrivato al Memorial Hospital. Ecco il mio certificato di morte che lo prova.» Le professioni mediche e legali non sarebbero più state le stesse, una volta che la miracolosa apparecchiatura di Helmond fosse stata introdotta sul mercato. Cos'altro avrebbe influenzato? «Finché morte non ci separi.» Il suicidio seguito dalla rianimazione sarebbe stata una scappatoia dal matrimonio? I rianimati umani avrebbero potuto riscuotere di persona l'assicurazione sulla vita? Le principali religioni non avrebbero certamente visto di buon occhio l'intera faccenda. Come avrebbero potuto controllare il comportamento umano con la minaccia della dannazione, se nessuno fosse più morto? E se l'esperienza della morte si fosse rivelata piacevole? Magari, un giorno, sarebbero esistiti dei rianimazione-dipendenti, capaci di uccidersi intenzionalmente per rinascere più volte? Helmond sapeva che alcuni individui, principalmente di sesso maschile, si eccitavano masturbandosi mentre quasi si impiccavano, e molti finivano con il morire. Persone di quel tipo avrebbero potuto utilizzare in maniera macabra la sua invenzione. Freud sosteneva che Eros e Thanatos erano collegati, e qualche volta l'orgasmo sessuale era descritto come la "piccola morte". Helmond si rendeva sempre più conto che il procedimento da lui inventato avrebbe messo a soqquadro il normale modo di vita dell'umanità, ma riteneva che non era compito suo stimare e prevedere ogni effetto che la propria scoperta avrebbe provocato. Era soltanto un uomo e la sua esperienza era limitata a uno o due campi d'indagine. Certo, ci sarebbero state delle conseguenze negative, ma non si poteva cancellare un'idea solo perché eventualmente avrebbe comportato danni imprevedibili e non voluti, non si poteva frenare il progresso, aspettando di esaminare e valutare ogni variabile contingente. L'evoluzione tecnologica aveva il suo slancio che non poteva essere frenato, disse a se stesso mentre attraversava il campus. Sharon non aveva l'aria felice quando Helmond entrò in laboratorio. «Cosa c'è che non va, bimba?» chiese il biochimico, poggiando la valigetta sulla scrivania. «Stamattina il Rettore Ingersoll è venuto qui giù a ficcare il naso,» lo in-
formò lei. «Penso che nutra dei dubbi sul progetto.» Helmond si sedette alla scrivania. «Ma lo ha approvato. E per di più sembrava dannatamente entusiasta della cosa. Pensava che avrebbe dato prestigio a questo sputo ammuffito d'accademia.» Sharon si appoggiò al bordo della scrivania sulla sinistra di Helmond. «Lenny, ho lavorato per altri professori, in altri laboratori. Lui fa così con tutti: quando, a suo giudizio, non ottengono dei risultati abbastanza in fretta, li butta fuori senza cerimonie.» Helmond digerì quell'informazione. «Be', cosa ha detto?» «Prima di tutto, mi ha fatto capire in maniera molto indiretta che non credeva che tutti questi animali di laboratorio fossero stati uccisi e poi riportati in vita. Nel caso di Mithras era abbastanza convinto, ma aveva paura che si trattasse di un imbroglio. Non riesce ad accettare il fatto che stiamo già sperimentando il processo sui primati. Ha insinuato cose tipo "Siete sicuri che fossero veramente morti, e non semplicemente in stato comatoso o catalettico?" Se non avessimo avuto altro da mostrargli che un mucchio di topolini rianimati, sono certa che non sarebbe stato sufficiente per lui. Fai attenzione a quel tipo, Lenny, ti avverto.» «Ho ascoltato il tuo avvertimento e lo terrò in debita considerazione. Hai preparato del caffè?» Sharon si mosse, gli versò del caffè in una tazza e gliela portò. «Poi ha cominciato a insistere sulle applicazioni pratiche. Non aveva ancora letto il nostro articolo, o almeno ha detto di non averlo ancora fatto. Mi sono rifiutata di fargli vedere la capsula, non è affar suo valutare i metodi usati, soltanto i risultati, e allora si è un po' offeso. Sapeva che non saresti stato qui, ne sono convinta; pensava di potermi intimidire, per costringermi a mostrargli tutto quello che voleva vedere e a spifferargli tutti i nostri segreti.» Helmond rise. «Non sapeva con chi aveva a che fare, vero?» «Puoi scommetterci. Ma è lui a tenere i cordoni della borsa, dottore. Non sarebbe una cattiva idea lasciarlo assistere a una delle prossime rianimazioni. Penso che se vedesse uno scimpanzé alzarsi e camminare, dopo essersi accertato di persona che era veramente morto, si esprimerebbe in tono ben diverso.» Helmond cercò di reprimere un brivido, ma non ci riuscì. Il ricordo della morte di Osiris era ancora fresco nei suoi incubi. E se fosse capitata la stessa atrocità mentre Ingersoll era presente, era possibile che il preside commentasse semplicemente con ironica calma, «Ragazzo mio, sembra che tu abbia scoperto un notevole procedimento per eliminare inermi an-
tropidi nella maniera più atroce possibile?» Probabilmente no. Anzi, molto più probabilmente sarebbe stata la fine della sua carriera. «Ehm, magari quella successiva a questa,» rispose a Sharon. «Non sappiamo ancora se un primate può essere rianimato senza farsi a pezzi dopo essere stato sottoposto al procedimento.» «Oh, andiamo. Sono convinta che la tua teoria sul sovraccarico neurale è giusta. Ma hai ragione. Meglio premunirsi. Però sarà meglio farlo al più presto o Nostro Signore Ingersoll diventerà impaziente.» «E sia, ma non facciamoci condizionare troppo. Evitiamo di commettere imprudenze. Al...» Suonò il telefono e Helmond sollevò la cornetta. «Pronto, qui Helmond.» «Len, sono Janice. Ti è possibile ritornare a casa un attimo? C'è qualcosa che credo tu debba vedere.» Helmond provò un moto d'impazienza nei confonti della moglie. «Qual è il problema, Janice?» «Be'... oggi ho cambiato le lenzuola per lavarle e ho trovato qualcosa su quelle di Eunice, una specie di macchia. Non sembra vomito o diarrea, ma esala un odore non troppo piacevole. Immagino che Eunice abbia fatto versare qualcosa, ma non riesco a capire di cosa si tratti.» Ogni muscolo del corpo di Helmond si irrigidì. No, ti prego. È finita. Non può succedere più nulla alla mia piccolina. Non riusciva a spiccicare parola. «Len? Sei ancora lì?» «Sì, sì, ci sono. Ehm, ascolta. Non lavare quelle lenzuola. Mettile in un sacchetto di plastica in frigorifero. Le porterò domani in laboratorio per analizzarle io stesso. Probabilmente ha mangiato qualcosa di strano e poi lo ha vomitato. Ecco tutto.» «Forse,» disse Janice con voce incerta. «Ma di solito ci dice sempre quando ha qualche problema.» «Be', sta diventando grande. Forse era imbarazzata. Non preoccuparti, Janice. Non è niente. E non parlarne con Eunice quando torna a casa da scuola. Okay?» Ci fu una pausa. «Va bene. Ci vediamo quando torni. Ciao.» Helmond riagganciò, sentendosi come se fosse stato investito da un camion. Non può essere nulla di grave, continuava a ripetersi. «Problemi a casa?» chiese Sharon. «Cosa? Oh, no. Soltanto uno dei bambini che si è messo a mangiare a letto.» Sperò sinceramente che quanto aveva appena detto si rivelasse vero.
Se si viveva per un bel po' in un incubo, si finiva per abituarsi? Helmond se lo chiese mentre ritornava a casa. Aveva spesso considerato la questione in relazione al finire al'inferno, poiché c'era sempre la remota possibilità che l'universo fosse strutturato in maniera sufficientemente folle da dare ragione ai cristiani, e visto che lui era un ateo devoto, il suo fato era già segnato. Riteneva che dopo un migliaio d'anni di lamentazioni e di stridor di denti, l'intera esperienza sarebbe diventata una routine, piuttosto noiosa, in definitiva. La tortura era una sorta di stimolo, ma un qualunque stimolo è percepibile soltanto quando si differenzia da un'altra sensazione. Helmond era convinto che un tormento costante alla fine sarebbe divenuto la norma. Per esempio, aveva notato che molte persone non ricavavano alcun piacere dall'iniettarsi eroina. Coloro che ricevevano un forte impulso dalla droga erano individui il cui stato di benessere usuale era al di sotto della media; semplicemente, l'eroina li elevava ad uno stato di benessere normale. Ciò che arrecava piacere a una persona arrecava sofferenza a un'altra. Comunque, questo non alterava il fatto che Helmond stesse sopportando una terribile agonia mentale. L'angoscia, il terrore, il completo stravolgimento della vita quotidiana erano ricominciati. L'oggetto delle sue preoccupazioni comparve mentre imboccava la strada di casa: la dolce, piccola Eunice, che accovacciata sul bordo del vialetto giocava con un gatto bianco e nero. Senza dubbio la figlia aveva un aspetto sano e spensierato: una tipica ragazzina di sette anni che faceva amicizia con un membro della popolazione felina locale. Il soprabito invernale rosso, i jeans stinti, la massa di capelli castani, tutto questo colmò Helmond di struggimento lacerato dalla disperazione. Quell'aspetto esteriore perfettamente normale nascondeva un essere mostruoso che stava ancora sviluppandosi dentro di lei? Dove aveva sbagliato? Qualcosa lo inquietò mentre imboccava il vialetto e la figlia lo salutava sorridendo. Quel gatto gli sembrava familiare. L'aveva forse visto nei dintorni in precedenza? Forse. In quella zona giravano molti animali randagi. No, un attimo. Lo aveva visto... quella mattina. In strada: giaceva lì, immobile. Lo aveva visto morto. Cercando di controllare il tremito che l'aveva invaso, uscì dall'auto e si incamminò verso Eunice. Studiò il gatto, che miagolò verso di lui e poi ritornò a fare le fusa alla bambina. Non c'era da sbagliarsi; un gatto con quel pelo e con quelle macchie bianche e nere tanto particolari doveva essere
praticamente unico. Dunque doveva trattarsi dello stesso animale. «Chi è il tuo amico?» chiese a Eunice, con voce più calma di quanto non si sentisse. «Non so come si chiama,» replicò lei, «io l'ho chiamato Smokering. Smokey, per fare prima.» Helmond si sforzò di mantenere la prontezza di spirito. «Questo è un nome che si adatta di più ad un orso, o no? E poi credo che sia una lei e non un lui.» Lei scosse le spalle e continuò ad accarezzare l'animale. «Anche se è così, è un nome che va bene.» «Credo di sì.» Incapace di chiederle direttamente del gatto, Helmond ritornò sulla strada per andare a controllare il luogo in cui, quella mattina, aveva visto il cadavere dell'animale. Non era più lì, rimanevano solo delle macchie scure che avrebbero potuto anche essere sangue. Naturalmente, il corpo poteva essere stato raccolto da qualche spazzino. Forse il gatto non era stato veramente morto, ma soltanto stordito. Eppure, dalla maniera in cui il collo era stato... ma lui non era un veterinario. I gatti erano creature dotate di agilità sorprendente, capaci di passare attraverso strettoie grandi la metà di loro, perfettamente in grado di far assumere al loro corpo le forme più svariate e incredibili. Ma cos'altro può essere? Non tagliarti sul rasoio di Ockham moltiplicando entità inutili. Soprattutto entità sovrannatuali. Tornò da Eunice, tentato di rinnovarle quella domanda. E se la piccola avesse ammesso di aver resuscitato l'animale? Come se la sarebbe cavata in quel caso? Nessun uomo sano di mente poteva affrontare il mondo dopo aver sentito una cosa del genere, così non le chiese nulla. «Entra dentro, tesoro. Probabilmente la cena sarà pronta tra poco.» Lanciando un'occhiata al gatto, aggiunse, «Non dimenticare di lavarti le mani. Non puoi sapere dove sia stato quel gatto.» «Non preoccuparti.» Eunice cominciò a dirigersi verso casa, ma poi si fermò e si voltò verso il padre. «Ally ha portato dei ragazzi cattivi in casa.» Helmond comprese all'istante cosa volesse dire la figlia. «Quelli sono semplicemente gli amici di Ally, Eunice. Non sono necessariamente cattivi.» La bimba assentì incerta, e riprese a camminare. Quando fu entrata in casa, Helmond si chinò ad esaminare il gatto. Non aveva cicatrici o malformazioni di sorta, almeno a prima vista, il battito cardiaco era regolare e,
anche se la temperatura era leggermente inferiore a quella media, il suo corpo era tiepido. Tutti indizi che non portavano a niente. Anche Helmond entrò in casa, dirigendosi direttamente in cucina. Fu doloroso per lui osservare l'espressione sul volto della moglie quando entrò nella stanza. «Vuoi vederlo?» gli chiese Janice, con la sua bellezza guastata dal pallore causato dalla preoccupazione. «Possiamo aspettare fino a domani.» Sperò che la voce non tradisse il disgusto che l'aveva invaso. «Len, sono davvero preoccupata. Eunice potrebbe essere seriamente malata. Ha tutti questi incubi, il suo comportamento è diventato decisamente strano... a volte non sembra la stessa persona. È violenta, usa parole che nessuna bambina normale di sette anni dovrebbe capire, e ora questo. Penso che dovremmo portarla dal medico.» Helmond provò la sensazione che una scarica di mille volt gli avesse appena attraversato la spina dorsale. Sarebbe grandioso, eh? Lasciare che il Dr. Severin dia un'occhiata ad Eunice e constati in che genere di paesaggio alieno si era tramutato il suo interno. Quello sarebbe stato il disastro culminante dell'intero esperimento. «Le hai chiesto se ha qualche sintomo di malessere?» Janice emise un forte, intenso sospiro, fissando il contenuto della pentola che stava rimestando. «Dice che non si è mai sentita meglio. La temperatura è normale e non ha eruzioni cutanee. C'è soltanto uno strano scolorimento intorno al petto e allo stomaco che non avevo mai notato prima, ma credo che si tratti soltanto di una leggera mancanza di pigmento.» Helmond si sedette a tavola. «Allora, non lasciamoci travolgere dal panico, Janice. Scoprirò cos'è quella macchia sulle lenzuola e poi si vedrà. Secondo me, Eunice sta benone.» La moglie assentì, anche se impercettibilmente. «Questo è uno dei problemi. L'altro è Ally. Ha portato a casa due ragazzi da scuola, Colin e Bobby, credo si chiamino così.» «Li ho già conosciuti,» rispose lui mantenendo un tono piatto. Gli occhi della moglie, un po' più spalancati del normale, incontrarono i suoi. «Allora sai cosa voglio dire. Sono dei punk! Adesso sono in salotto, ma non avrei saputo cosa fare, se Ally avesse cercato di condurli in camera sua, di sopra. E non voglio assolutamente che rimangano qui per cena. Immagina che genere di influenza potrebbero avere su Andy e Eunice.» Non c'è pace per i dannati, meditò cupamente Helmond. Sapeva che la
moglie stava esagerando, che stava dando prova di una mentalità ristretta, ma non aveva la forza di controbattere. «Parlerò con Ally, per vedere com'è la situazione.» Janice ritornò ad occuparsi della cena. «Grazie. Te ne sono davvero grata.» Helmond andò in cerca della figlia maggiore e la trovò seduta sul divano con i due ammiratori all'aspetto tanto terrorizzante. O era lei ad essere la loro ammiratrice? Evitò quei pensieri ed entrò con decisione nella stanza, cercando di proiettare un'aura di autorità. «Ciao, papà,» disse con voce allegra Ally e sorrise. «Ti ricordi di Bobby e Colin, vero?» I due sembravano aver deciso di sfoggiare le loro maniere migliori in presenza dei genitori di Ally, perché lo salutarono con un «Dr. Helmond» e gli strinsero la mano in modo assolutamente convenzionale. La loro correttezza lo disarmò un po', come senza dubbio avevano previsto. «Ehm, Ally, i tuoi amici restano per cena?» «Oh no, devono ritornare a casa loro. Mi hanno dato solo un passaggio a casa, ecco tutto, e sono rimasti a vedere dei video.» Helmond rifletté sulla risposta che gli aveva dato la figlia. Dall'aspetto di Bobby, non gli sembrava probabile che il ragazzo, che sembrava già un uomo, vivesse ancora con i genitori. Helmond si ricordò che era quello che aveva fatto le osservazioni più ostili, quando si erano incontrati per strada, a Berkshire. Il candidato perfetto per la dipendenza da rianimazione. «Ricordo che Ally ci ha detto che lei è uno scienziato,» fece Colin, un ragazzo magro e che dimostrava meno della sua età, con la guancia destra e le braccia solcate da numerose cicatrici. «Anch'io, in un certo senso, mi interesso di scienza. Qual è il suo campo?» «Ehm, biochimica. Sto lavorando sulla possibilità di prolungare la vita.» Bobby parve non poter fare a meno di mostrarsi sprezzante. «Non pensa che utilizzerebbe meglio il suo tempo tentando di rendere la vita migliore, invece di far vivere la gente più a lungo?» Santi numi, pensò Helmond. Sono l'unico al mondo che gode della vita, che trova inaccettabile l'inesorabile falce della Triste Mietitrice? «Non ti diverti a vivere, Bobby?» Il ragazzo si accese una sigaretta. «Le dirò, dottore, che in un certo senso trovo difficile divertirmi, sapendo che molta gente non può. C'è chi muore di fame, chi viene ucciso in guerra, chi lotta per sopravvivere nei ghetti, chi viene oppresso, chi muore per le malattie, si consuma nelle prigioni,
viene torturato fino a non sembrare più neppure un essere umano. Le loro sofferenze, ecco, rovinano i miei giorni, se capisce quello che intendo dire.» Helmond credeva che il ragazzo avesse una sua logica, anche se piuttosto inutile. «Nessun uomo è libero, fino a quando non lo sono tutti, eh? Giustissimo. Io ho partecipato alle marce negli anni sessanta. Ho preso parte a quelle lotte. So anche che la lotta non è ancora finita, ma non c'è ragione di abbattersi per questo. Non puoi fare del bene se non ti senti bene. Non puoi aiutare gli altri a vivere, se tu stesso non ami la vita.» Colin e Bobby si scambiarono un'occhiata, come per trasmettersi un segnale. «Be', parlando di divertimento, Dr. Helmond», disse Colin, «c'è questo concerto a Chicago, sabato sera, che vorremmo andare a vedere, io, sua figlia, Bobby e la sua ragazza, Lucy. Il fatto è che la città è piuttosto lontana da qui e il concerto non finirà che molto tardi, così pensavamo di trascorrere la notte lì, nel mio furgoncino. Ci chiedevamo se sarebbe stato okay per lei.» Il volto di Ally era inespressivo, tranne per un lieve e controllato cipiglio che tradiva la sua attesa. Colto impreparato dalla richiesta, Helmond fece attenzione a non dire la prima cosa che gli passava per la testa. «Ehm, temo che sia fuori discussione, ragazzi. Ally ha soltanto quattordici anni ed è troppo giovane per trascorrere la notte da sola in città. Mi dispiace. La cena sar...» «Aspetti un minuto,» disse Bobby. «Per essere stato un hippie, un contestatore, lei è fin tròppo ansioso e formale, Dr. Helmond. Se si preoccupa per la verginità di sua figlia, beh, è una cosa molto futile, perché lei può sempre perderla in qualsiasi momento e in qualunque posto. Allora qual è il problema? Perché non può venire?» Helmond stava perdendo definitivamente la pazienza. E non ne aveva proprio bisogno. «Sentite, voi mi avete raccontato quello che avete intenzione di fare, ma io non ho modo di verificare se questo è davvero quello che avete in mente. Potreste mentire o potreste decidere di fare qualcos'altro. Io sono responsabile per Ally e una grande città può essere un posto pericoloso, specialmente se quella notte voi ragazzi vi drogate o vi sbronzate. E inoltre, non sono obbligato a giustificarmi con voi. Sono il padre di Ally e agisco così nel suo interesse. Voi siete giovani e non siete pienamente responsabili neppure di voi stessi, figurarsi di qualcun altro.» Bobby si alzò, cercando di assumere un aspetto minaccioso. E ci sarebbe riuscito, se non fosse stato per il fatto che Helmond era notevolmente più
alto di lui. «Proprio come pensavo. Voi psichedeloidi siete tutti uguali. Una volta superati i trenta, cominciate a vivere in piccole scatole dei sobborghi e perdete il contatto con la vita nelle strade, diventando esattamente ciò che una volta combattevate.» L'affermazione offese profondamente Helmond; era molto orgoglioso delle sue radici nella controcultura degli anni sessanta. «A guardarvi, si direbbe che se si vive per strada abbastanza a lungo, ci si trasforma in animali, senza neppure possedere la volontà o l'interesse di continuare a vivere che possiedono gli animali. Il nichilismo è uno strumento, Bobby, non un modo di vivere.» Il punk non rispose. «Dài, Colin, andiamocene di qui.» Lui e l'amico si diressero verso la porta. «Aspettate, vengo con voi,» esclamò Ally, saltando in piedi e seguendoli. Helmond pensò di fermarla, ma sentiva che in quel momento dar prova d'autorità sarebbe stato poco saggio. Rimase lì, in silenzio, pensando che stava perdendo il controllo su tutto quello che lo circondava. Guardando fuori dalla finestra, verso il giardino, vide il gatto con cui aveva giocato Eunice seduto nel vialetto, mentre si leccava pazientemente le zampe. TORRI D'AVORIO Helmond arrivò di buon'ora in laboratorio, dopo aver insistito affinché Sharon si prendesse un giorno di libertà, e si mise a lavoro per esaminare la macchia sulle lenzuola di Eunice. Non era grigia, fortunatamente, poiché ciò avrebbe indicato una decomposizione interna avanzata, ma era di un colore marrone chiaro, quasi ambra. Le analisi rivelarono rapidamente che la sua composizione chimica era fondamentalmente identica a quella della soluzione di rianimazione, anche se più complessa, come se il reagente che aveva iniettato alla ragazzina si stesse trasformando in qualcos'altro. In quella sostanza esistevano lunghe catene incredibilmente intricate di proteine, una specie di DNA supermutante. Helmond sarebbe stato sbalordito e sopraffatto dalla gioia per aver scoperto una simile meraviglia, se non fosse venuta dall'amata carne della sua carne. Gli esami ematici e i campioni di tessuto presi dagli animali rianimati non mostravano alcun cambiamento di quel tipo. Era un fenomeno che si era manifestato unicamente in Eunice. Perché? E allora si rese conto di un fattore vitale che aveva a
lungo trascurato: sua figlia era il solo rianimato non adulto. Notevolmente sconvolto, si sedette alla scrivania e considerò cosa potesse significare quel particolare. Diversamente dagli organismi adulti, il metabolismo e i processi interni di Eunice erano ancora sottoposti a una rapida crescita e a trasformazioni. Cristo! pensò. Avrebbe potuto guarire la figlia senza neppure somministrarle il reagente; forse, dopo tutto, non era stata sul punto di necromorfizzarsi, magari si era trattato soltanto di un trauma psicologico post mortem ritardato. Gli animali degeneravano perché le funzioni cellulari erano cessate e non avrebbero mai ripreso a funzionare totalmente, ma la giovane costituzione di Eunice era più robusta, più tenace, più resistente. Non ne era ancora pienamente sicuro, ma la sua intuizione gli diceva che quella che aveva appena formulato era una diagnosi accurata. Era una illuminazione e non il procedimento che un buon biochimico avrebbe seguito normalmente, ma la sua mente a volte aveva di tali intuizioni, che spesso si rivelavano giuste. C'era del metodo scientifico nella sua pazzia, per quel che gli poteva giovare in quel momento. Comprese che in precedenza avrebbe dovuto sottoporre Eunice ad un esame completo, ma era stato impossibile. Non aveva potuto esaminarla in maniera appropriata a causa dell'atteggiamento avverso della società nei confronti della morte, e perché doveva tener conto dei sentimenti di tutti. Ma la società doveva avere un tale atteggiamento nei confronti della morte, vero? Se la morte non era gran cosa, allora anche la vita non sarebbe stata gran cosa, o almeno così gli sembrava. Non lo sapeva. Non aveva risposte. Il peggio è che ora non aveva alcuna idea di come aiutare Eunice. Qualunque cosa stesse accadendo dentro di lei, era totalmente al di là della scienza conosciuta e forse non sarebbe stata capita per decenni, fin a quando la ricerca biologica non avesse studiato a fondo quella sindrome. Tutto quello che poteva sperare era che il processo regredisse da solo o che si trasformasse in qualcosa di benigno e non di maligno. Una cosa era certa: non avrebbe mai più rianimato un essere umano, per tutto il resto della sua vita. C'era un'ascia antincendio appesa al muro nel corridoio. Helmond guardò da entrambi i lati per assicurarsi che nessuno lo vedesse, uscì e la prese. Poi si avvicinò alla sala di rianimazione, ricordando che una volta aveva visto un teschio luminoso dipinto sulla porta. Quando era successo? In sogno, pensò. Doveva essersi trattato di una premonizione, di un avvertimento. Aprì la porta, accese le luci, sollevò in alto l'ascia e mentre stava per calarla sulla capsula, qualcosa all'interno attirò la sua attenzione. Al centro del recipiente, c'era un oggetto nero, della grandezza di una
palla da golf. All'inizio Helmond pensò che stesse galleggiando, ma poi si accorse che era sospeso a centinaia di sottili filamenti, quasi invisibili, che provenivano da tutti i lati del materiale trasparente di cui era fatta la capsula. La cosa tremolò, quando Helmond picchiettò sul vetro. Mentre la osservava, cominciò a crescere e a cambiare. Sta avvenendo una scissione cellulare? Cosa può essere? si chiese oziosamente, visto che per il momento la curiosità superava la paura. Oh, certo. Dopo le ultime due rianimazioni e il trattamento con la soluzione aveva dimenticato di sterilizzare l'interno della capsula, che di conseguenza era diventato un mezzo nutritivo e un terreno di cultura di ogni genere di microrganismi. Ma ciò che aveva di fronte non era una normale cultura batterica o una formazione di muffa. Era più simile a... «Stai cercando di distruggere le prove, ragazzo?» domandò una voce alle sue spalle. Helmond si voltò e vide un uomo in un abito scuro che sapeva di dover riconoscere. «Gli esperimenti pasticciati possono rivelarsi imbarazzanti, non è così?» Helmond si sentì colto sul fatto. Anzi, colto con l'ascia. Come poteva spiegare il motivo per cui impugnava un simile strumento di distruzione? Gli venne in mente un nome: Tyrone Drexler. Corwell Biochemical. Tanto tempo prima. «Tyron Drexler?» esclamò Helmond, poggiando l'ascia contro la parete della camera, e uscì chiudendo la porta come se niente fosse. «Mio Dio, amico, sono anni. Come te la passi?» Si strinsero la mano al centro della stanza. «Bene. Bene. Sono ancora uno schiavo della Corwell. Ma adesso sono diventato supervisore alla ricerca.» Helmond dovette sforzarsi per assumere un tono allegro e amichevole. «È grandioso, Tyrone. Immagino che ora, a noi miseri topi di laboratorio, ci guarderai dall'alto in basso.» Il sorriso di Drexler si smorzò un po' e l'uomo fissò lo sguardo su Helmond. «In realtà, sono venuto per congratularmi con te. Ho letto la versione non definitiva del tuo articolo e, francamente, sono pieno di invidia. Un lavoro veramente straordinario, Len. Incredibile. Stavo ritornando da una riunione sulla costa occidentale e ho dovuto fermarmi qui per vederti. Ho affittato un'auto e sono venuto direttamente all'università dall'aeroporto. Non so dirti quanto sia contento per te. Chi avrebbe mai immaginato che saresti salito così in alto?» Helmond era turbato dal tono dell'uomo. Era passata troppa acqua sotto i
ponti, ma una parte stava rifluendo nella sua memoria. Oh, Signore, era andato a letto con la moglie di quest'uomo, una volta, vero? Melissa, era così che si chiamava. Drexler l'aveva mai scoperto? «Stai esagerando,» replicò Helmond. «Sono soltanto quello con l'aquilone e l'interruttore che ha scoperto l'elettricità. Un colpo di fortuna, ecco tutto.» Drexler indicò un becco Bunsen. «Un colpo di fortuna che ti renderà disgustosamente ricco. Hai il brevetto di una macchina che tutti, senza eccezione, vorranno avere. Chi vuole morire, tranne i suicidi? Sarai un dio umano in terra, Len. Avrai potere di vita e di morte. Mi sto solo chiedendo se ti ricorderai degli amici quando ascenderai al sacro trono.» Helmond stava cominciando a stancarsi. Non sopportava la gelosia professionale e certamente non aveva tempo in quel momento per simili sciocchezze. Cosa stava facendo quell'essere nella capsula? In cosa si stava trasformando? «Amici? Tyrone?» L'uomo si allontanò di alcuni passi, facendo finta di studiare gli animali nelle loro gabbie, poi si voltò. «Sì. Sai, gli amici che hai calpestato per salire in vetta. Gli amici che hai derubato e imbrogliato.» Helmond fu davvero sorpreso dall'accusa. «Non ho mai rubacchiato le ricerche di qualcun altro e lo sai. Ora devi scusarmi ma ho un...» «Hai sviluppato il metodo base del procedimento di rianimazione sotto gli auspici della Corwell. Devi darci una quota delle royalties che ricaverai dal brevetto.» Ogni traccia di finto cameratismo e cortesia era scomparsa dall'atteggiamento di Drexler. Ora si era trasformato nel classico uomo d'affari, in una sega circolare dalle sembianze umane. «Dovrai dare una parte anche a noi, Len, o ti citeremo in giudizio.» Rassegnato all'irragionevolezza dell'uomo, Helmond si limitò a scrollare le spalle. «Citatemi pure, Tyrone. Ho sviluppato il processo nel seminterrato di casa mia, nel mio tempo libero. La Corwell non può reclamare su nulla. Non mi sarei mai aspettato un trucco così infantile e scoperto da parte vostra. Sapevo che quello era un posto di imbecilli boriosi nonché miopi, ma non avrei mai pensato che fosse anche ladro per disperazione. Dovete essere vicini alla bancarotta, a chiudere bottega, grazie senza dubbio ad amministratori abili come te, amico.» Il volto di Drexler era rosso dalla rabbia. «Tu, presuntuoso bastardo. Pensi di avere tutto per te, vero? Mi hai nascosto i risultati ottenuti in laboratorio, ti sei scopato mia moglie nel tempo libero e poi ci hai lasciato in pompa magna. Be', non sarà così facile questa volta, Lenny. Questa volta
farò qualcosa anch'io.» E si diresse dritto verso la camera di rianimazione. «Aspetta, non farlo!» Helmond urlò con un tono di voce quasi incoerente, ma temeva davvero per la vita dell'uomo e per la propria. L'uomo si bloccò e si voltò. «Voglio soltanto dargli un'occhiata, Len, solo un momento. L'Opus Magnum, la Pietra Filosofale, l'Elisir di lunga vita; devo vederlo coi miei occhi.» Drexler continuò ad avanzare, ma Helmond gli saltò alle spalle, gettandolo sul pavimento. Drexler si liberò di Helmond e sferrò un efficace gancio destro che lo lasciò stordito al suolo. Attraverso una nebbiolina Helmond vide Drexler aprire la camera e guardare all'interno. L'anomalia nel recipiente sembrava essere scomparsa. No, un momento. Era ancora lì, sì, solo che si era estesa; la capsula adesso era un unico ammasso nero. Si era probabilmente alimentata della luce sovrastante. Quel che accadde subito dopo non fu esattamente un'esplosione, ma piuttosto sembrò che l'entità all'interno della capsula, avendo finito di assorbire o di dissolvere il materiale che la racchiudeva, manifestasse la sua liberazione con un'improvvisa e rapida espansione all'esterno. I filamenti esplosero in ogni direzione, e una parte di essi si attaccò al petto di Drexler, mentre un tentacolo notevolmente più grosso aderiva all'uomo con una specie di formazione simile a una ventosa. Il resto della sostanza lo seguì strisciando, finché l'intera massa non ebbe avvolto completamente l'uomo. Drexler era sbalordito. Indietreggiò di pochi passi, sperando che quella cosa malefica si staccasse da lui, ma nello stesso tempo non aveva alcuna intenzione di toccare la sostanza nebulosa di cui era composta. Lentamente cominciò a urlare, sempre più forte, in maniera sempre più atroce, mentre l'essere oleoso e amorfo gli squarciava il petto e penetrava all'interno; e l'apertura si richiuse così perfettamente che non rimase alcun segno. Dopo un istante, aculei neri spuntarono da ogni millimetro della pelle di Drexler, bucando la carne dall'interno come se ogni singola cellula del suo essere e dei suoi abiti fosse consumata dal plasma fuligginoso. Fu in quel momento che Helmond si riprese quel tanto da riuscire a capire che era in pericolo. Non riuscì a pensare a nessun sistema convenzionale per distruggere l'entità amebica, ma dal momento che era scaturita dalla matrice di rianimazione, ipotizzò che potesse essere vulnerabile alle stesse forze a cui lo erano i rianimati: cioè, ad un sovraccarico di REM. Ruotando su se stesso, accese i proiettori, continuando a tenere gli occhi puntati nel punto in cui si trovava la creatura onnivora, che conservava una forma
approssimativamente umana e dall'aspetto irto di protuberanze aguzze proprio là dove Drexler si era fermato. Gli aculei stavano ondeggiando come ciglia di una cellula e continuavano a crescere. Helmond fece irruzione nella camera e lottò per staccare il proiettore più in alto dal sostegno. Sembrava fosse ben saldato, ma quando riuscì nell'impresa, Helmond lo allontanò dal fusto quel tanto che consentiva lo spesso cavo, in modo che il pulsante d'accensione fosse alla sua portata. Il tozzo tubo del proiettore era molto pesante, ed era difficile puntarlo contro l'invasore microbico. Il biochimico schiacciò il pulsante e l'apparecchio gli si riscaldò in mano. Era stata un'ottima idea. Come un budino in cui fosse stato inserito un mortaretto, l'ammasso gelatinoso esplose in milioni di frammenti che si sparsero per il laboratorio, e si seccarono, cristallizzandosi e disintegrandosi, nei punti in cui avevano aderito al pavimento o alle pareti. Helmond spense l'interruttore, ma non abbastanza in fretta. Iniziò con un formicolio che gli attraversò la schiena, si allargò all'inguine e al cervello, per poi comunicarsi ad ogni neurone, finché le punta delle dita si contrassero al ritmo irregolare dello spasmo selvaggio che aveva invaso il suo corpo. Incapace di reagire, Helmond cadde a terra, sentendo che la vescica e l'intestino si liberavano, chiedendosi se era arrivato il momento in cui sarebbe morto. Non poteva trattarsi di un sovraccarico eccessivo, si disse; era stato sottoposto all'irradiazione diretta del fuoco elettromagnetico neppure per un secondo, ma il suo sistema nervoso era già fin troppo carico di energia, e poi c'erano sempre emissioni imprevedibili che fuoriuscivano dai proiettori. Ecco perché le rianimazioni si svolgevano in un ambiente isolato dall'esterno: per evitare che gli esseri viventi venissero sottoposti a quello che stava sopportando lui ora. Forse l'energia dentro di lui stava raggiungendo un punto critico? Poteva essere. Non era un modo piacevole di morire; si soffriva sul serio. Comprese che l'arresto cardiaco non era lontano, e dovette lottare per non lasciar scivolare all'indietro la lingua, il che avrebbe ostruito la trachea soffocandolo - quello che veniva comunemente ed erroneamente chiamato "inghiottire la lingua". Non voleva che il suo corpo esplodesse in un ammasso sanguinolento di carne, viscere e ossa. C'era qualcosa di profondamente spaventoso, per lui, nel diventare irriconoscibile come un essere umano al momento della morte, incapace di giacere con dignità nella bara. Qualsiasi altra cosa, ma non quello. Forse la sensazione stava attenuandosi? Gli sembrò di sì, ma non voleva essere troppo ottimista. Osiris aveva attraversato un attimo di calma duran-
te il suo attacco, prima di strapparsi la testa. Ma sì, sembrava che stesse davvero passando. Ora le mani tremavano soltanto, invece di agitarsi freneticamente come granchi. Alcuni istanti dopo riprese il controllo su braccia e gambe, poi fu la volta della testa e del petto, anche se soffriva ancora di alcuni tic. Era tutto a posto; i movimenti del suo corpo non erano più incontrollabili. Si mise a sedere e fissò il punto in cui Drexler aveva trovato la morte. Avrebbero fatto delle domande, naturalmente. Da qualche parte nel campus era parcheggiata una macchina noleggiata a nome di Tyrone Drexler, che non era più vivo. Qualcuno lo aveva visto entrare nel complesso? Forse, ma molto probabilmente non se ne sarebbe ricordato. Nonostante tutto, qualcuno alla fine avrebbe stabilito un nesso tra Drexler e la Corwell, e collegato quella stimata istituzione con Lenny Helmond. Non che gli importasse molto; la sua carriera era finita, la sua vita distrutta. Non gli importava niente di se stesso. Un uomo era morto ed era colpa sua; avrebbe pagato. Ma c'era la famiglia, e soprattutto Eunice. Se fosse stato costretto a languire in prigione, non avrebbe potuto assistere la figlia che si stava trasformando in una mutante; sarebbe stato incapace di aiutarla durante la fase di metamorfosi che stava attraversando. Per il bene della sua bambina doveva rimanere in libertà. Quando sarebbero venuti a fargli domande su Tyrone Drexler, avrebbe dovuto rispondere di non averlo visto. Niente cadavere, niente crimine. Ormai tornato alla normalità, e solo leggermente scosso, si ripulì, si cambiò usando gli abiti che conservava in laboratorio in caso di incidenti e bruciò quelli sporchi nell'inceneritore. Poi riprese l'ascia che aveva lasciato nella sala, chiuse la porta e spense le luci. Rimise l'ascia al suo posto nel corridoio. (Lo hai fatto a pezzi e poi lo hai eliminato con l'acido, vero?) Intontito nella mente e nel corpo, chiuse il laboratorio e ritornò a casa. Ma anche lì sarebbe stato un inferno, perché in quei giorni dovunque andasse morte e dannazione sembravano seguirlo come un'ombra. Era mezzo ubriaco ancor prima di cena. Sedeva di fronte al televisore, ignorando completamente quello che stava trasmettendo. Per risolvere il problema della macchia aveva semplicemente detto a Janice che si trattava di cibo parzialmente digerito e aveva suggerito che durante la notte Eunice avesse vomitato nel letto, senza accorgersene. Niente di cui preoccuparsi. La moglie aveva accettato quella spiegazione (cos'altro poteva essere?), poi aveva espresso di nuovo il desiderio di sottoporre Eunice a una visita
medica completa. Helmond riuscì nuovamente a persuaderla altrimenti, almeno per quella volta. Mentre sedeva immerso nei suoi cupi pensieri, gli venne in mente un'idea maligna: violare la privacy della figlia. Perché no? Tanto valeva andare fino in fondo. Quel giorno aveva già ucciso un uomo. Così salì di sopra nella stanza di Eunice (che stava cenando a casa di una delle sue amichette) e cominciò a rovistare tra le sue cose. Non era certo di cosa stesse cercando, forse soltanto una traccia che gli facesse comprendere quello che le aveva fatto, quanto grave fosse la situazione. Non tardò ad individuare gli indizi; il primo giunse sotto forma di disegni eseguiti a matita e colorati con pastelli e acquarelli. Uno era un paesaggio tenebroso in cui alcuni scheletri danzavano a coppie, in circolo, da soli. Considerando i mezzi rudimentali e l'età dell'artista, il disegno era considerevolmente dettagliato ed eseguito con perizia. Lo stesso poteva dirsi del gigantesco mostro che mangiava bambini raffigurato nell'altro disegno che trovò. L'essere abominevole consisteva in due grandi fauci in cui cadevano dozzine di bambini nudi. O ne venivano sputati? Difficile a dirsi. Nel terzo disegno che vide, un demone grosso, peloso e dalla testa di lupo, uccideva delle persone con le mortali eiaculazioni del suo pene a forma di canna di fucile, ovviamente si trattava di una lontana eco subconscia del trauma che Eunice aveva subito a Halloween. C'era anche un altro disegno: raffigurava dei bambini con ali da pipistrello che si libravano su un cimitero di notte, un'immagine molto curiosa e sconcertante. Helmond trovò molti altri disegni, come se la morte di Eunice avesse fornito nuove risorse alla sua mente già incline all'arte, o come se la figlia stesse cercando di esprimere i suoi profondi disturbi psicologici attraverso quel canale, oppure entrambe le cose. In ogni caso, Helmond decise che aveva visto abbastanza. Poi trovò il quaderno su cui stava scrivendo Eunice il giorno in cui era salito in camera sua per vedere come stava. Lo aprì a caso e iniziò a leggere il testo scritto con una matita dalla punta grassa e marcata sulle ampie linee verdi del foglio: "La mia mente si è svuotata di ogni pensiero terreno. Ho sperimentato l'unità e la tranquillità del nulla, la conoscenza assoluta dell'abisso universale, la purezza della non esistenza. Ho sperimentato l'annichilimento di ogni sentimento umano, l'annullamento di ogni emozione, l'assenza totale di sensazioni, poiché la morte è la privazione sensoriale definitiva. Sono scesa al livello d'esistenza più buio: il vuoto completo della mente e dell'a-
nima, la chiarezza cristallina della separazione dal corpo, l'annullamento della coscienza. Conosco quella suprema e insopportabile verità, sono stata testimone della terribile rivelazione che si manifesta quando il sottile velo della materialità è caduto, quando la pelle della notte si è aperta per esporre il pulsante cuore primordiale dell'universo, l'amorfo, orribile infinito potere che ci ossessiona nel sonno, nella morte, nella pazzia, l'invulnerabile forza irrazionale che spinge il mondo al massacro, alla decadenza, al caos." Quelle parole furono troppo per Helmond. Oh, senza dubbio le funzioni cerebrali di Eunice erano state amplificate dalla rianimazione, ma quest'ultima le aveva imposto una mostruosa conoscenza contro cui lottare: la consapevolezza di quel che c'era dopo la morte. Leggere tali parole, scritte da una ragazzina di sette anni, era osceno, grottesco, blasfemo - Helmond pensò che avrebbe potuto vomitare oppure impazzire. Ingurgitò quello che era rimasto del suo drink e scese al piano di sotto per versarsene un altro. Forse sarebbe riuscito a ubriacarsi completamente prima di cena. Non riuscì a inghiottire un solo boccone di cibo e si limitò a spiluccare, attirandosi le occhiate preoccupate di Andy e Janice. C'era anche Ally, ma non era realmente presente; era persa nel suo mondo, carica di ostilità per il suo oppressivo genitore. Helmond era contento che Eunice non ci fosse; non era sicuro che in quel momento avrebbe potuto sopportare la sua vista. Perché tanta vile crudeltà? si chiese. Non è colpa della piccola, ricordò a se stesso. Ma non è neppure mia; quale padre non avrebbe riportato la figlia in vita, se mai ne avesse avuto il potere? Bevve un sorso dal bicchiere, poiché si era portato il drink a tavola, cosa che non aveva mai fatto prima. Un solo pensiero gli procurò una ben magra consolazione. Tutti gli incubi, prima o poi, finiscono. Oppure no? Il mattino seguente Helmond era nell'ufficio del rettore Ingersoll e lottava con i postumi abbastanza impietosi della sbornia mentre ascoltava l'altro che gli illustrava la gloriosa storia della Manchester University. La stanza era un omaggio alla cultura: un sacrario di legno verniciato, volumi rilegati in pelle e brandy sorseggiato in bicchieri di cristallo purissimo. Seduto in una poltrona imbottita, rivestita in pelle di vitello marrone scuro, Helmond stava tentando di ingurgitare una tazza di caffè e si sforzava di non avere l'aspetto di un morto, anche se senza molto successo. Ingersoll non sembrò accorgersene. «Conoscenza, Leonard,» stava dicendo il rettore. «Verità. Scoperta. È
questo ciò a cui aspira la scienza. L'eterna ricerca di come sono realmente le cose, della comprensione completa - è per questo che la Manchester University è stata fondata, è questo il motivo per cui esistiamo. Non sono la nostra morale, le nostre capacità tecniche o la nostra organizzazione sociale che ci elevano al di sopra degli animali. È il nostro intelletto, il nostro brillante spirito di ricerca, la nostra inquieta mente sempre pronta a nuovi vagabondaggi intellettuali.» Come vuole lei, rettore, disse silenziosamente Helmond alla sua acqua addizionata con caffeina. Tanto, ormai, che diavolo di differenza fa? Più impariamo e meno sappiamo. Ingersoll continuò. «Ho letto il suo ultimo articolo e, a dir poco, ne sono rimasto alquanto impressionato. Lei ha fatto la scoperta più importante di tutti i tempi, Leonard, sul serio. Quando prevede di eseguire la prossima rianimazione? Mi piacerebbe molto essere presente quando la effettuerà.» Helmond trasalì. «Ehm, stiamo ancora controllando i dati accumulati. Potrebbe volerci un po' di tempo.» Il rettore era un uomo alto, ossuto; aveva un aspetto rude, a differenza dei tipi miti che di solito popolavano quelle torri d'avorio: atrofizzati dall'inedia e anemici per aver respirato l'aria condizionata e l'atmosfera rarefatta della sterile accademia. Helmond ammise che anche lui ne faceva parte, o almeno ne aveva fatto parte. Parole, teorie, studi accademici, pensieri precisi espressi attraverso un linguaggio meticoloso, l'intera montagna di scritti dei grandi pensatori occidentali a partire dai greci dell'età classica. Ora sentiva il peso di quella enorme massa di potenza intellettuale schiacciarlo con forza inumana, perché lui aveva fallito, aveva deluso quegli uomini e le brillanti speranze che nutrivano in un futuro civilizzato, la loro certezza che l'esistenza poteva essere compresa dalla mente umana. O erano stati loro a fallire, invece? Gli avevano assicurato che la scienza, col tempo, poteva risolvere ogni cosa, ogni problema e ogni mistero; lui ci aveva creduto, aveva agito di conseguenza, e aveva vissuto tutta la sua vita basandosi su quella convinzione. Beh, forse poteva sembrare che non fosse così, ma nemmeno una voce nel coro di menti fiduciose si era levata ad ammonire "Caveat Physicus." Questo ammonimento proveniva da ambienti che lui aveva sempre considerato come anti-intellettuali, misoneisti, reazionari, paranoici. Aveva sempre pensato che la scienza pericolosa fosse frutto di ricercatori stupidi o malintenzionati. Beh, non era stato quello il caso di Oppenheimer, uno dei suoi idoli, e certamente non era vero nel suo caso. L'analisi scrupolosa e attenta della natura sembrava sempre trovare il
modo di sfuggire di mano. «Be', non perdiamoci nei dettagli,» stava dicendo lngersoll. «Deve prendere il toro per le corna, deve procedere il più in fretta possibile con le ricerche. La cautela è un tratto ammirevole e inestimabile in un uomo di scienza, ma non lasci che l'esitazione e la pignoleria la facciano rallentare. Rammenti la tragedia professionale della dottoressa Rosalind Franklin. Se non fosse stato per la sua natura troppo meticolosa, ora potremmo onorarla come la scopritrice della struttura del DNA prima di Watson e Crick, sebbene anche loro meritino il dovuto rispetto.» Helmond guardò il rettore. Sì, quell'uomo stava diventando vecchio, doveva aver oltrepassato i sessanta. Aveva paura di morire. Tutta quelle dichiarazioni retoriche sul compito della scienza mascheravano probabilmente un desiderio meschino di prolungare la propria vita. L'immortalità. Be', mi dispiace, rettore, ma la macchina è stata smantellata e avrei distrutto i miei appunti, se non sapessi che più tardi potrei averne bisogno forse per trovare un modo per curare Eunice. Accetti la sua inevitabile morte, Ingersoll. Muoia come deve fare ogni altro organismo e lasci spazio alle future generazioni più evolute. Quel paradosso infastidiva ancora Helmond: se la morte era necessaria all'evoluzione, al progresso lungo l'asse quadridimensionale, perché la natura instillava nelle singole creature un desiderio di vivere tanto feroce? La risposta era che gli organismi non avrebbero cercato di sopravvivere quel tanto sufficiente a riprodursi, se non fossero stati dotati di un forte istinto di auto-conservazione. Questa la rendeva una condizione necessaria, ma non giusta. Helmond guardò fuori dalla finestra, fissando la torre dell'orologio del campus. Non indicava mai l'ora esatta; a quanto pareva, era sempre in anticipo o in ritardo di cinque minuti. Pensò: il tempo è il grande nemico che ci spinge a un cieco altruismo. L'evoluzione aveva giovato alle varie specie, ma le creatura solitaria non ne aveva ricavato alcun vantaggio e poteva soltanto morire per il bene di una progenie non nata. Mentre rifletteva su questo, la voce del rettore si smorzò nella sua mente in un ronzio privo di significato, e l'orologio della torre cominciò a cambiare, i mattoni grigi divennero una sostanza simile al gesso, le lancette del quadrante cominciarono a girare all'indietro rapidamente, la massa dell'edificio cominciò a crescere in altezza e larghezza. Ora sembrava alto chilometri, e fatto non più di mattoni, ma di ossa, milioni e milioni di ossa: zanne, denti, tibie, femori, radii, ulne, costole e vertebre, tonnellate di teschi e ossa pelviche, gli scheletri di tutte le creature che erano vissute sulla faccia della terra.
C'erano mucchi d'avorio provenienti dai mammuth, dai mastodonti e dai moderni elefanti, enormi e massicci scheletri di dinosauri, i resti scarnificati delle antiche balene, bradipi giganti e baluchiteri, tutti ammassati l'uno sull'altro e incastrati come in un puzzle cinese di dimensioni prodigiose. Che significato ha quest'enorme cimitero verticale? si chiese Helmond, sorpreso. La torre di avorio in cui sedeva era estinta quanto gli esseri le cui ossa costituivano la torre che vedeva là fuori? Il rettore Ingersoll era forse tanto arcaico quanto un diplodocus? O forse era un monumento ai predecessori delle forme di vita attuali, un segno che tutti quegli antenati morti erano stati lieti di contribuire con la loro morte all'evoluzione della specie? Era troppo sperarlo. I morti sono morti, pensò. Anche ammesso che avessero dei sentimenti, avrebbero odiato gli esseri viventi perché questi ultimi erano ancora capaci di provare delle sensazioni. «Quando lei è venuto qui, le ho promesso che la ricerca sarebbe stata soltanto sua,» continuò il rettore, «e manterrò la promessa. In ogni caso, sono molto orgoglioso di quel che ha fatto, poiché si riflette favorevolmente sul nostro istituto. Pensando a ciò, mi chiedevo se le interesserebbe rappresentare questa università al Simposio di Biochimica di New York City, il prossimo fine settimana. Aveva intenzione di parteciparvi?» Helmond ne aveva davvero avuto l'intenzione, fino al giorno precedente. Gli eventi successivi gli avevano decisamente fatto cambiare idea. «Ehm, sì signore.» Ingersoll rimase compiaciuto. «Splendido. Sono certo che sarà al centro dell'attenzione, il ragazzo prodigio del momento. Pagheremo noi tutte le spese, naturalmente. Prenoti l'albergo migliore, mangi in un ottimo ristorante, si diverta, Leonard. Se l'è meritato. Può portare con lei anche la sua assistente, se vuole. Come si chiama? La signorina Bishop?» La guglia di calcio crollò al suolo, i fossili ritornarono nelle esposizioni dei musei o si nascosero negli strati rocciosi. Helmond era contento che fosse scomparsa, perché quella colonna bianca di souvenirs cimiteriali gli aveva comunicato una forte sensazione di inquietudine. Solo per un istante, gli era sembrato che fosse viva. LA PELLE DELLA NOTTE Non era chiaro a Eunice cosa le fosse accaduto ad Halloween, ma sapeva che quell'avvenimento l'aveva profondamente trasformata in modo quasi insopportabile, e stava continuando ad trasformarla, e che il papà ne era in
qualche modo responsabile. Aveva la vaga impressione che egli avesse compiuto uno dei suoi orribili esperimenti su di lei e questo la rendeva confusa. Perché avrebbe dovuto procurarle un dolore simile? Due cose erano certe: lei era rimasta morta davvero per qualche tempo, e stava cambiando dentro di sé, mentalmente e fisicamente. Vedeva, conosceva e provava cose che la spaventavano, la stimolavano e, nello stesso tempo, la facevano star male e la rendevano forte. Era impossibile non pensarci, per quanto ci provasse; era come se l'incubo peggiore che si potesse immaginare non finisse mai. Non aveva avuto la possibilità di farsi un'idea completa della realtà, prima che la sua capacità di concepirla e di sperimentarla le venisse strappata. Ora sentiva un vuoto doloroso e famelico dentro di sé, un abisso d'invidia e di desiderio di vendetta. A volte aveva la sensazione che tutte le sue terminazioni nervose fossero morte e che fosse rinchiusa in un luogo oscuro dove né suoni, né odori, né luce riuscivano a penetrare. Si sentiva isolata da tutto e da tutti, al centro di un universo con nulla all'interno, eternamente affamata di luce e di vita. Altre volte vedeva il mondo così chiaramente che le sembrava una lastra di vetro attraversata da un fascio di luce brillante, tutte le sue infinite sfaccettature e i diversi livelli si spalancavano alla sua vista, e lei li riconosceva ma non poteva percepirli. E c'erano altre volte in cui si sentiva come una strega delle favole, carica di uno strano potere, come quando aveva operato le magie con gli insetti, i topi e il gattino. Quel che il suo corpo era ancora in grado di percepire le pareva orribile, vile e disgustoso. Era una bramosia per la carne altrui, anche se non era sicura di quale tipo di appetito si trattasse. Aveva un che di adulto, ma sembrava anche andare oltre, essere qualcosa di peggio, qualcosa che avrebbe spaventato perfino gli adulti. Ciò significava, così credeva, che soltanto sensazioni davvero estreme potessero stimolarla. Inoltre, sebbene non volesse ammetterlo a se stessa, provava anche gelosia nei confronti di quello che la gente normale era capace di sentire, ciò che lei non poteva e non avrebbe mai più potuto sperimentare. Il suo umore era estremamente volubile: immaginava se stessa ora come un mostro osceno, poi come qualcosa di più di un essere umano, oppure come una non-entità anonima, o un attimo dopo si sentiva enormemente megalomane. Non si sentiva mai divina, o pura, o in pace con se stessa. C'erano addirittura delle volte in cui non riusciva a pensare a se stessa se non come ad un essere abominevole, malato, inumano, che nessuno avrebbe mai voluto avere tra i piedi. Si odiava, ma odiava ancor più la gente
normale. E quando avrebbe finito di cambiare dentro e fuori, avrebbe mostrato loro quanto li odiava. Sharon si stava divertendo come mai in vita sua: adorava New York, l'attenzione che riceveva al simposio e l'idea di avere Helmond tutto per sé, nonostante non si stesse dimostrando particolarmente divertente. Si limitava a bere tantissimo, a leggere i discorsi senza entusiasmo e a dare risposte laconiche alle domande che gli ponevano. "Musone" e "depresso" erano due definizioni che non si avvicinavano neppure allo stato reale di Helmond, ma Sharon era molto paziente. Lo era diventata, dopo una vita intera di delusioni. Inoltre, se Helmond era turbato per qualche motivo, sarebbe stato anche più vulnerabile alla sua opera di seduzione, che aveva deciso di attuare quando le si fosse presentata l'occasione propizia. Quei pensieri le attraversarono pigramente e euforicamente la mente mentre assisteva a una conferenza (la quarta) del suo mentore, benefattore e amante da cui non era riamata. «Abbiamo stimato l'assorbimento della soluzione da parte dei tessuti in 0,6 livelli di saturazione nelle cellule gliali,» stava intonando lui. «Una spiegazione soddisfacente di questo fenomeno comporta ulteriori indagini, ma ovviamente ciò suggerisce che i neuroni subiscano una qualche specie di mutazione.» Helmond fece una pausa per bere un sorso da un bicchiere che si supponeva contenesse acqua, ma che lui aveva riempito di vodka liscia. «A chiunque si impegnerà in questo campo della ricerca, dò due avvertimenti sotto forma di due leggende, una molto antica, l'altra soltanto vecchia: una a che fare con l'avventata curiosità, l'altra con il desiderio più profondo degli esseri viventi. Vi imploro di ricordare le lezioni del vaso di Pandora e del racconto "La Zampa di Scimmia". Nella nostra ansia di scoprire i segreti dell'esistenza e ottenere la capacità di dominarli, facciamo in modo di non riempire il mondo di demoni che ci divoreranno o di produrre miracoli che genereranno conseguenze atroci e incontrollabili. Grazie.» E con quell'allegra conclusione lasciò il podio e la sala conferenze, mentre una serie di sguardi perplessi e tutt'altro che divertiti accompagnarono la sua uscita. Sharon si alzò e lo seguì, un po' preoccupata. «Lenny, cosa ti rode?» chiese quando lo raggiunse al guardaroba. «Dovrai dirmelo prima o poi, lo sai.» «Non proprio,» replicò lui, dirigendosi verso l'ingresso dell'auditorium
per poi uscire in strada. «Potrei farmi scoppiare il cervello, ma non racconterei niente a nessuno.» «Non ti capisco. Dovresti essere al settimo cielo e invece sei il dannatissimo spettro al banchetto.» Helmond si incamminò verso la Cadillac che avevano noleggiato e aprì la portiera dal lato del guidatore. «Ritorno in albergo. Vieni come me, o no?» Sharon entrò in auto e si diressero in silenzio verso il Sovereign Hotel, rimanendo altrettanto silenziosi mentre l'ascensore li portava alle loro camere al venticinquesimo piano. Dopo aver fatto finta di inserire la chiave nella toppa della serratura, Sharon lo seguì nella sua, con un sorriso malizioso in volto. «Okay, Lenny,» esordì, sedendosi sul letto mentre lui si toglieva la cravatta e si sganciava i gemelli. «Ti farò la mia diagnosi. Sei un perfezionista, e così i problemi che abbiamo avuto con Osiris e Lazarus hanno gettato un'ombra sulla tua ora di gloria, sul tuo giorno alla ribalta. Questo lo capisco. Non riesci a credere di aver finalmente raggiunto il successo. Ti aspetti ancora che qualcosa vada storto.» Helmond si tolse la camicia, dimenticando che non l'aveva mai fatto prima in presenza di Sharon. «Le cose non potrebbero andare più storte di così,» rispose e improvvisamente proruppe in singhiozzi, crollando sul letto con la testa tra le mani. Sharon sentì che il panico l'assaliva. Se un pilastro di forza e razionalità come Helmond era crollato, significava che doveva essere successo qualcosa di veramente grave. «Che c'è, Lenny? Ti prego, dimmelo. Se ha a che vedere con il lavoro, ho il diritto di saperlo. Sono stata coinvolta in questa faccenda fin dall'inizio.» Gli posò la mano gentilmente sulla schiena. «E poi, voglio aiutarti.» «È successo ad Halloween,» esclamò Helmond, con un tono di voce ormai parzialmente sotto controllo. «La soluzione che mancava. Ti ricordi? Ho mentito. Non era andata a male. Non l'ho gettata. L'ho usata.» Sharon non riusciva a capire di che cosa stesse parlando Helmond, ma improvvisamente ebbe la sensazione di non voler ascoltare. «Su cosa, Lenny? Su chi la hai usata?» Gli occhi dell'uomo, rossi per il pianto, incontrarono quelli di lei, le labbra tremarono mentre pronunciava il nome. «Eunice. Mia figlia. L'ho usata su Eunice.» La reazione di lei si manifestò in fasi rapide ma distinte. Per prima cosa
pensò: Tu, mostro! Come hai potuto fare esperimenti sulla tua bambina, usarla come una cavia? Poi si ricordò con che tipo d'uomo aveva a che fare. Halloween. Il pazzo di Berkshire. Quella strana voce che era girata per il campus e a cui lei non aveva prestato quasi attenzione... «È stata uccisa nella sparatoria,» disse Sharon, a bassa voce. «Cully Detwiler ha ucciso Eunice. Tu l'hai presa, portata in laboratorio e rianimata.» Helmond assentì quasi impercettibilmente. Sharon rifletté. «Sta subendo il processo di necromorfosi? Se è così, tutto quello che dobbiamo fare è iniettarle la soluzione trattata.» Il biochimico scosse violentemente la testa, si alzò in piedi e distolse lo sguardo da lei. «No, no. Questo è il punto. Non si stava trasformando. Pensavo di sì, ma mi sbagliavo. Tutti gli altri rianimati erano adulti, capisci. Ma visto che quello di Eunice è un organismo giovane, il suo metabolismo ha equilibrato la distribuzione squilibrata della rigenerazione, l'ha compensata. Non aveva bisogno di un secondo trattamento, e quando gliel'ho praticato, ho peggiorato la situazione. «La mia teoria è questa: il trauma della morte è come un'onda d'urto che si propaga nel corpo di un rianimato e deve manifestarsi in un modo o nell'altro, fisicamente o psicologicamente. In alcuni soggetti culmina nella necromorfosi. Quella di Eunice, tuttavia, non è una morte vivente, ma un'ipervita. Sta diventando una forma di vita completamente nuova e io non posso frenare la trasformazione.» Sharon era decisamente sconvolta da quella rivelazione. Fu colta da una lieve nausea e sperimentava un senso crescente di irrealtà, che riconosceva come la sindrome delle tre scimmie, un desiderio di non sentire il male, di non vederlo, di non parlarne, solo che questa volta era minato dal presentimento che se quella storia fosse andata avanti, lei avrebbe anche potuto impazzire. Ma poiché Helmond stava mascherando la sua angoscia con un'atteggiamento accademico, decise di rispondere a tono. «Questo non ha senso, Lenny. Stai confondendo le manifestazioni fisiche con quelle psicologiche.» Helmond si stava tenendo la nuca come se avesse paura che potessero scaturirne dei demoni. «È esattamente questo il punto. Quando si muore non fa differenza, ma non è così quando il processo naturale è stato interrotto.» Questa frase inviò un brivido gelido lungo la spina dorsale di Sharon. «Aspetta un minuto. Vieni qui e siediti. Dimmi com'è accaduto. Comincia dall'inizio.»
Helmond obbedì e le raccontò l'intera storia nei minimi dettagli, il che richiese delle ore. Il massacro di Halloween, la sinistra procedura di laboratorio, gli incubi della figlia, la somministrazione del reagente, l'analisi della macchia sulle lenzuola. Quando arrivò a quel punto, diventò silenzioso e si avvicinò alla finestra. Aveva fatto in modo di allontanare Sharon dal laboratorio gli ultimi giorni e così lei non aveva notato la mancanza della capsula di rianimazione o le apparecchiature smantellate, e stranamente nessuno aveva ancora fatto indagini su Tyrone Drexler. Raccontare la storia l'aveva fatto sentire meglio, gli aveva permesso di condividere il fardello doloroso e tormentato con qualcun altro. E Sharon sapeva ascoltare. Ma non poteva raccontarle quella morte accidentale di cui nessuno sapeva nulla, specialmente poiché era avvenuta in maniera così bizzarra e infernale. Sharon avrebbe potuto sentirsi forzata ad agire dopo essere stata informata, oppure avrebbe potuto essere sopraffatta dal senso di colpa se non l'avesse fatto, e così le risparmiò di confessarle che un vecchio collega di laboratorio era stato divorato da un'entità non identificata. Quando Sharon fu certa che Helmond non aveva più niente da dire e che ormai aveva finito, anche se sembrava avere qualcos'altro da confessarle, sospirò e chiamò a raccolta le sue risorse. Quello che Helmond le aveva raccontato l'aveva letteralmente spaventata a morte, ma dirglielo non gli avrebbe recato alcun conforto. «Va bene,» ragionò l'assistente. «Prima di tutto, non sai cosa stia succedendo realmente a Eunice. Di qualunque cosa si tratti, potrebbe finire senza manifestare nessun sintomo esteriore. Oppure Eunice potrebbe dimostrarsi ipervitale, il che potrebbe essere una buona cosa. Forse sei riuscito a prolungarle la vita o magari ad averla resa immune alle ferite e alle malattie.» Lui la guardò con l'espressione di un condannato a morte. «Oh sì, è ipervitale, giusto, ma il trauma postmortem si annida ancora dentro di lei. Ho paura di quello che può risultare dalla combinazione delle due cose. Ti ho detto dei disegni che fa, delle cose infernali che scrive. Credo di aver condannato mia figlia all'inferno sulla terra.» Lei lo afferrò e lo fece sedere sul letto. «Ne uscirà fuori, Lenny. Passerà. È una questione puramente mentale. È stress ritardato. Il subconscio ha bisogno di tempo per superarlo, ecco tutto. Starà bene.» Helmond scosse le spalle. «Come puoi esserne certa? È un territorio vergine questo in cui ci siamo perduti, se Azrael, Ecate e Kali possono essere definite vergini.»
«Ne sono certa perché io ho una preparazione in psicologia più ampia della tua. Volevo fare la psicologa, prima di dedicarmi alla fisiologia.» Accennò a una risata e gli prese la mano destra nella sua sinistra. «Ma sono giunta a pensare che quel che conta realmente è il corpo.» Helmond fissò con aria assente la sua mano stretta in quella di Sharon. «Spero che tu abbia ragione. Dio, non riuscivo più a pensare in maniera razionale. Ho pensato a cose così folli: per esempio che ucciderla di nuovo avrebbe potuto invertire il processo, che avrebbe potuto rianimarsi da sola, ma in uno stato normale. Ma con la fortuna che mi ritrovo, si sarebbe rianimata in uno stato di lenta degenerazione come gli altri... soggetti. «Quel che mi ha davvero logorato, Sharon, è il terrore, la colpa; mi stanno divorando, stanno esigendo il loro prezzo. C'è stato addirittura un momento in cui ho desiderato che Eunice morisse di nuovo e che rimanesse morta, investita da un'auto o qualcosa del genere, e io non l'avrei più riportata in vita; sarebbe rimasta così com'era ad Halloween, se non avessi agito. Non avrei dovuto preoccuparmi del suo stato di deterioramento, della mutazione o della morte della sua mente. Mi chiedo spesso cosa sarebbe successo se non l'avessi rianimata, come sarebbero state le nostre vite. La morte di Eunice avrebbe provocato un trauma devastante in famiglia, ma a lungo andare avrebbe potuto farci sentire più uniti, avrebbe riavvicinato Janice e Ally, forse avrebbe fatto sì che Ally, provando l'atroce dolore della perdita, amasse più la vita. La rianimazione di Eunice sembra averci solo separato ancora di più.» Con disinvoltura, Sharon cominciò ad accarezzargli la schiena. «Non avresti mai potuto lasciarla lì morta, sapendo che avevi la possibilità di aiutarla, Lenny. Non condannarti. Siamo pionieri in un campo ancora tutto da esplorare. Ciò su cui stiamo lavorando avrà i suoi effetti sulle future generazioni umane. Naturalmente i dolori della nascita porteranno sofferenza, tristezza e difficoltà. Ma noi sopporteremo questo sacrificio per la posterità. È così che si vincono le battaglie della scienza, come Marie Curie, e forse anche Pierre, che furono colpiti dalle radiazioni emesse dalle sostanze con cui stavano lavorando.» Helmond si lasciò andare a una breve e cupa risata. «Vite umane in cambio di conoscenza. È un buon affare?» «A volte è il solo modo in cui si possono ottenere dei successi. Quando il primo uomo primitivo si è fermato a studiare un serpente velenoso, invece si scappar via, allora è nata la scienza.» Senza pensarci, Helmond la cinse con un braccio. «E senza dubbio, un
sacco di scienziati aborigeni hanno perso così la loro vita.» Lei avvicinò il suo corpo a quello di lui. «Vero. Ma quello è stato il modo in cui hanno scoperto un antidoto al veleno del serpente, senza il quale tanta gente sarebbe morta.» I loro occhi si incontrarono, lo sguardo che si scambiarono divenne sempre più intenso. «Per il bene di molti, pochi di noi si cimentano nella prova del fuoco della ricerca empirica. Il fuoco di un becco Bunsen, potrebbe essere definito anche così.» «Basta con le parole,» disse Helmond e la baciò. Sapeva che era sbagliato, ma paradossalmente sentiva anche che era giusto. Lei lo desiderava e lui in quel momento aveva bisogno di Sharon, non solo dal punto di vista mentale, ma anche da quello fisico. Cominciarono a spogliarsi metodicamente, ma poi i loro gesti diventarono più frenetici. Erano animali invasi da un desiderio febbrile; lei era affamata d'amore, lui era assetato di evasione, di distrazione, di assoluzione, che richiedevano accettazione e comprensione. L'inferno li aveva uniti, e così il minimo che potevano fare era godere del paradiso dei loro corpi. Fu un incontro appassionato che durò quasi una notte intera. Anche se cose del genere erano difficili da valutare, Helmond si sentiva molto meglio per il sollievo e il conforto che Sharon gli aveva dato, per quanto fuggevoli. Giunto il mattino, ancora una volta quella parte di lui che non era stordita era piena di timore - il suo stato normale da un po' di tempo. Sono poco meglio di un cadavere, pensò; ormai spesso anelava unirsi ai ranghi dei morti, apatici e ormai privi di preoccupazioni. Si diceva che il suicidio non arrecasse dolore. La morte stessa doveva perciò essere totalmente libera «dai colpi e delle frecce dell'avversa fortuna.» Shakespeare, attraverso il suo principe danese, aveva mostrato di saperlo bene. Eppure Helmond, come Amleto, aveva scelto di continuare a vivere. Il corpo gli rammentò le sensazioni animalesche che lui e Sharon avevano condiviso al buio. Quello che l'aveva colpito di più era stato il sesso di Sharon: insaziabile, bollente, viva, divoratrice, non semplicemente uno scrigno di carne morbida e umida, ma una vibrante, sinuosa bocca animata da contrazioni ritmiche. Si chiese se era una di quelle donne che esercitavano i muscoli vaginali. Alcune attrici porno lo fanno, vero? E non c'erano forse delle donne che facevano cose spettacolari con una palla da ping pong infilata proprio lì? Be', questo non c'entra. Odiava ammetterlo, ma la sua assistente era un'amante migliore di sua moglie. Naturale, era la numero due e così si era impegnata di più. E quanto! Non era venuto così tante
volte in una notte fin dai tempi del liceo. Ma non aveva cercato di strappargli alcuna promessa. Forse sapeva che Helmond non poteva fargliene alcuna. Non c'era altro da fare ora che affrontare la colpa e le conseguenze, qualunque fossero, pensò mentre si alzava e si rivestiva. Ormai non aveva più la sua vita sotto controllo, doveva soltanto abituarsi all'idea. Cosa aveva detto Oppenheimer a Trinity, osservando l'esplosione della prima bomba atomica? «Ora sono diventato la Morte, il distruttore dei mondi.» Quella frase diceva tutto. Helmond era sul punto di distruggere se stesso, il suo matrimonio, e le vite di tutti quelli che lo circondavano. Aveva già distrutto quella di sua figlia. Rimaneva soltanto da vedere quanta parte di mondo avrebbe portato con sé nel suo magnifico spettacolo di distruzione. «Buongiorno, super stallone,» disse Sharon, rivolgendogli un sorriso ironico tra i cuscini. Immersa nella luce del primo mattino, era davvero bellissima, senza trucco e con i capelli in disordine; primitiva, giovane, colma di sessualità soggiogata. Piena d'amore per lui, realizzò Helmond con un'acuta sensazione di vergogna. «Sarà meglio sbrigarci,» fu tutto ciò che riuscì a dire. «Presto sarà ora di lasciare la stanza.» Lei scostò la coperta e le lenzuola dal suo corpo candido e nudo. «Come dissero Adamo ed Eva, il paradiso non dura mai abbastanza. Sicuro che non abbiamo il tempo per un'altra seduta di peccato originale? Voglio dire, è già stata fatta, ma va altrettanto bene dell'originale.» Helmond non poté fare a meno di sorridere, poi scosse la testa. «Dobbiamo ritornare a casa entro oggi.» Sharon non gli fece domande né richieste, mentre si rivestiva e lo aiutava a fare le valigie, anche se fu lei a parlare di più. Era un'accettazione realistica della situazione, o era fiducia che l'aver trionfato in una battaglia le avrebbe alla fine fatto vincere la guerra? Conoscendola, sospettava che la seconda ipotesi fosse quella giusta. Sharon ritornò in camera sua a fare le valigie mentre lui la attendeva nell'atrio dell'albergo. Il volo di ritorno fu come viaggiare con Virgilio e Dante, solo che era un viaggio di sola andata e senza nessun paradiso all'arrivo. Aveva la sensazione che l'aereo lo stesse trasportando attraverso i diversi livelli dell'inferno per riportarlo ai terrori quotidiani e all'attesa angosciosa in cui si era trasformata la sua vita. Ricordò che qualcun altro aveva fatto quello stesso viaggio in precedenza, per riportare la donna amata dagli inferi alla terra dei vivi. Il più grande musicista del mondo: un giovane capace di amma-
liare le bestie selvagge e i demoni con la magia della sua voce e della sua cetra, capace di incantare perfino il Signore dell'Oltretomba che gli aveva restituito la sua amata morta. Ma anche quella particolare rianimazione non aveva funzionato tanto bene. Era il crepuscolo quando atterrarono all'aeroporto O'Hare e lì si separarono, perché Janice e i ragazzi (tranne Ally) erano venuti a prenderlo. Sharon ritornò alla sua malridotta Volkswagen, diretta all'università, spiegò, per assicurarsi che l'assistente di laboratorio temporaneo che avevano assunto, Jake Boyd, si fosse preso cura degli animali a dovere. In quell'ultimo colloquio, fece ridere Helmond pronunciando la parola "laboratorio" come "labo-ratto-rio". Era calata la sera, quando Helmond e famiglia arrivarono a casa e Sharon Bishop alla Manchester University. In qualche modo il biochimico si sforzò di essere più loquace con la moglie di quanto lo fosse stato con Sharon; non voleva far sospettare a Janice che era accaduto qualcosa. Ora tutto si era trasformato in una sciarada, pensò Helmond, perfino il suo adulterio. Era stato solito tradire la prima moglie per divertimento e soprattutto perché sapeva che Marma non lo amava. Questa volta lo aveva fatto per disperazione, per debolezza; era la prima volta da quando aveva conosciuto Janice, la donna che amava e che lo amava. Ma era tutto così duro da sopportare. Nell'intimo siamo soltanto dei bambini spaventati, pensò, bestie selvatiche intrappolate, in fin dei conti organismi solitari, e quando il nostro ambiente, in cui siamo in salvo e al sicuro, viene sconvolto, siamo capaci di qualsiasi cosa, possiamo mutilare emotivamente noi stessi e chiunque ci circondi. «Come è andato il simposio?» chiese la moglie durante il tragitto verso casa. Era lei a guidare. «Oh, le solite vecchie cose,» rispose lui. «Un mucchio di gergo tecnico, di personalità fin troppo convinte del proprio valore, e lo sport preferito dagli scienziati: distruggere le teorie altrui.» Janice sembrò trovare insoddisfacente quella risposta. «Be', sicuramente la tua scoperta avrà fatto sensazione?» Helmond diede una risposta programmata in anticipo. «Sì, credo di essere stato il centro dell'attenzione per un po', ma sono stati presentati anche molti altri lavori importanti. Per esempio, Parnelli ha fatto sorprendenti scoperte sulla nascita della vita sul pianeta.» Eunice rimase in silenzio per tutta la durata del viaggio; appariva molto distratta. Agli occhi di Helmond, aveva un buon aspetto. Addirittura troppo sano. Gli occhi erano luminosi anche se lo sguardo era introspettivo; il
colorito della pelle era roseo. Aveva davvero qualcosa da temere? Non aveva fatto nient'altro che renderla ciò che era naturalmente: una ragazzina di sette anni? Voleva così tanto aggrapparsi a quella speranza, far cessare l'attesa e la paura, ma non poteva. Una volta a casa, Helmond salì di sopra a fare una lunga doccia mentre Janice preparava la cena, che poco dopo consumarono tutti insieme, compresa Ally. Ma la prima frase che sentì gli fece perdere immediatamente l'appetito. «Lo sceriffo Coleridge è venuto qui sabato,» gli annunciò la moglie. «Sembra che il tuo vecchio amico Tyrone Drexler sia scomparso. Era un tuo collega di laboratorio, vero? Comunque, si suppone che sia venuto all'università a farti visita. Hanno perfino trovato l'auto che aveva noleggiato parcheggiata nel campus.» Helmond masticò un boccone privo di gusto. «Cosa gli hai detto?» Janice lo guardò. «Cosa potevo dire? Gli ho detto che non vedevo quell'uomo da anni e ho suggerito che poteva essere stato assalito e rapito da qualche studentessa arrapata e drogata che forse, dopo averlo portato da qualche parte, lo aveva ucciso. Ho ipotizzato un fidanzato geloso o un assassinio rituale.» Rise. «Coleridge ha preso tutto sul serio e mi ha chiesto se avevo qualche conoscenza di prima mano su atti del genere avvenuti in questa zona. Culti satanici e simili. Ho dovuto assicurargli che avevo scherzato.» Helmond assentì. «Mi chiedo cosa gli sia accaduto. Strano che si sia fatto vivo dopo tutto questo tempo.» Lei ghignò ironicamente e puntò la forchetta verso il marito. «Se mi ricordo bene che razza di individuo fosse, probabilmente era venuto per esigere una parte della fama e del denaro che senza dubbio riceverai.» «Forse voleva soltanto congratularsi con me, Janice.» Quell'uomo aveva una tale reputazione? Beh, è inutile malignare su di un morto. «Ah! Ricordi quando rubò le tue ricerche, che roba era, sui catalizzatori di specializzazione cellulare? Non ho mai capito perché mai gli hai permesso di farlo.» Perché mi sentivo colpevole per essermi scopato sua moglie, ecco perché. «È possibile che fossimo giunti contemporaneamente agli stessi risultati. Gli ho concesso semplicemente il beneficio del dubbio, ecco tutto. E comunque tutta la faccenda si è rivelata un vicolo cieco.» In seguito, la discussione continuò su argomenti meno penosi, poi la cena terminò; presto i più piccoli vennero spediti a letto, Ally si chiuse nella
sua stanza, e Helmond e Janice guardarono un po' di televisione insieme. Lei si ritirò prima di lui, lasciandolo a bere un paio di drink e ad addormentasi sul divano al buio, immerso soltanto nella luce nevosa di una TV che non trasmetteva nulla. Nel frattempo, Sharon aveva passato un brutto quarto d'ora. Il suo maggiolino si era rotto a metà strada prima di arrivare a Berkshire e aveva dovuto aspettare circa due ore perché due stupidi meccanici lo riparassero. Quei due esempi di mutazione naturale regressiva si presero frequenti pause per fare a turno apprezzamenti pesanti su di lei e tentare approcci volgari, in maniera fin troppo simile al modo in cui gli altri ragazzi l'avevano trattata a scuola. Avendone avuto abbastanza, Sharon afferrò un paio di pesanti cesoie da un banco di lavoro e lo brandì minacciando i meccanici. «Sentite ragazzi,» disse con voce minacciosa. «Vi piacerebbe diventare dei succhia-cazzo autoerotici? Ora, normalmente questo non è possibile ai maschi della nostra specie, ma con queste credo che riuscirò a darvi una mano.» I due si rimisero alacremente al lavoro, sorpresi dall'intensità della rabbia di quella bella donna dall'aria intellettuale. Sharon non ebbe altri fastidi. Era passata la mezzanotte quando arrivò al campus, frustrata, stanca, affamata e bisognosa di un bagno. Parcheggiò nelle vicinanze del complesso dei laboratori, si diresse verso la porta d'ingresso con in mano il mazzo di chiavi, facendo risuonare il rumore dei tacchi lungo il corridoio buio che portava al laboratorio di Helmond, aprì la porta ed entrò. Non appena richiuse la porta alle sue spalle, si accorse che qualcosa non andava. C'era un odore nell'aria simile a quello di Lazarus: la fragranza di fiori mortali e in boccio, di carne putrida animata da correnti nervose provenienti dall'oltretomba. Non può essere, urlò la sua mente. Le cavie erano tutte guarite, una volta per tutte. E così era stato, almeno per un po'. Un rianimato, comunque, il più vecchio dei morti viventi, si era ripreso a stento; in effetti era in uno stadio troppo avanzato del processo affinché il reagente potesse fare effetto. Il topo chiamato Valdemar alla fine era entrato in necromorfosi e come nel caso di una mela marcia che emette etilene e fa marcire tutti gli altri frutti della cesta, la sua trasformazione aveva innescato una reazione a catena negli altri animali. La catalisi era avvenuta tramite particelle microscopiche sospese nell'aria, necroni, se bisognava attribuirvi un nome. I resti della trasformazione erano stati raccolti e distrutti
nell'inceritore dalle scimmie, le più intelligenti tra i rianimati. Ora erano un'armata di creature prive di pelle, già morte, che erano scappate dalle loro gabbie. In attesa, poiché avevano percepito l'arrivo di Sharon. Erano in contatto con l'unico tra di essi che avesse un cervello, mediante impulsi psichici trasmessi attraverso il suolo stesso. A miglia di distanza, nel suo letto, avvolta in un bozzolo di carne morta, Eunice riusciva a percepire attraverso i sensi dei necromorfi, e poteva riconoscere il seme di suo padre dentro Sharon. Capì quello che avevano fatto insieme. La cosa la infuriò. Non era in grado di controllare le bestie, ma esse erano completamente d'accordo su quello che avrebbero dovuto fare. Gli animali del laboratorio si diressero tutti insieme verso la donna. Sharon, sentendo gli artigli graffiare sul pavimento verso di lei, girò la maniglia e cercò di aprire la porta. Non ci riuscì. Due scimmie rhesus in forma mutata e più forti del normale la tenevano chiusa. «Oh, no,» disse. «Bei demonietti, non vorrete mica farmi del male. Oh, merda.» I suoi occhi si stavano abituando al buio. Le sagome deformi che si avvicinavano diventavano sempre più distinte, anche se, senza la pelle e i segni caratteristici, non riusciva a identificarli individualmente, tranne l'essere-gatto più grande, che doveva essere Dandelo. Erano un orribile zoo di animali domestici, un bestiario da incubo, piccoli mostri ricoperti da un esoscheletro che strisciavano sul soffitto, le pareti e i mobili, con i pallidi corpi che brillavano sotto i raggi di luce lunare che penetravano dalle finestre. Sharon era indubbiamente terrorizzata ma reagì con stoico fatalismo al suo inevitabile fato. Le passò per la testa che quella potesse essere la punizione per aver fatto l'amore con Helmond. Si era comportata tanto male? Poi ragionò che poteva essere il culmine dell'esperimento, il sacrificio estremo per la causa; e, in fin dei conti, aveva conosciuto l'appagamento dei sensi con l'uomo che amava. Sharon aveva davvero nervi d'acciaio. Un attimo dopo, le creature si avventarono su di lei, dall'alto e dal basso, le cavarono gli occhi, le scuoiarono le gambe, facendo assomigliare la pelle strappata via a delle calze di nylon, le squarciarono il ventre, facendone fuoriuscire le viscere, le mangiarono la lingua, la smembrarono con la rapidità e l'abilità di piccoli e demoniaci macellai. Una delle creature più piccole scivolò sotto il vestito, si fece strada nella vagina e cominciò a divorarla dal di dentro. Topi, porcellini d'India, gatti, cani e scimmie rhesus,
tutti presero parte a quella accurata dissezione, bevendo il sangue che scorreva dalla miriade di ferite, divorando le membra, gli organi, ingerendo il suo corpo mentre la sua mente si disintegrava. Quando non rimase più nulla se non uno scheletro insanguinato, nudo sul pavimento, essi svanirono nelle tenebre, nella vegetazione, nella follia della natura. A casa, ancora addormentato sul divano del salone, Helmond sudava prigioniero nel lugubre abisso di un sonno senza sogni. Venne svegliato dal suono di un respiro e da uno strano odore, qualcosa di dolce ma nello stesso tempo di oleoso, come di carne troppo viva. Quando aprì gli occhi vide qualcuno su di lui, una ragazza nuda. All'inizio pensò fosse Ally, poiché aveva seni e peli sul pube, ma quando la guardò in viso riconobbe le fattezze di Eunice, che gli sorrideva a occhi spalancati. La pelle era liscia e bianchissima; oltre questo, e all'improvvisa maturità sessuale, la figlia sembrava perfettamente normale. Tranne per le labbra, che apparivano esageratamente rosse. O forse su di esse vi era un qualche liquido scarlatto, magari... sangue? «Ciao, papà,» disse la figlia. «Voglio che tu faccia l'amore con me.» Helmond concluse che era ancora addormentato, e che stava avendo un orribile incubo freudiano su cose che sarebbe stato meglio non sognare. «No, non stai sognando e te lo dimostrerò.» Balzò su di lui, inchiodandolo al divano con le mani e i piedi tremendamente forti. Il suo tocco era freddo, cadaverico. «Tu vuoi scoparti Ally, lo so che lo vuoi, e ti sei già scopato Sharon. Lo so. I morti vedono molte cose, papà. Perché non fotti me, allora? Non sono abbastanza bella?» Tenendogli entrambi i polsi con la mano destra, portò la sinistra verso il basso e, calandogli la cerniera dei pantaloni, gli scoprì il pene, l'organo da cui era nata. Lui lottò freneticamente, ma senza speranza. La figlia lo portò in erezione, gli montò sopra e lo infilò dentro di lei. I suoi movimenti erano così abili e forti che Helmond, per quanti sforzi facesse, non riuscì a evitare di arrivare all'orgasmo e allora scoppiò in singhiozzi convulsi mentre veniva dentro la figlia. Lei rise. «Rilassati, papà,» disse con voce dolce. «Va tutto bene. È quello di cui avevo bisogno da te. Vedrai.» Poi se ne andò, dirigendosi verso la porta d'ingresso, lasciando il padre sull'orlo di un attacco di follia. Un urlo agghiacciante lo scosse dalla catatonia. Helmond sapeva che anche le sue congetture più orribili non avrebbero potuto rivaleggiare con ciò che avrebbe trovato se saliva le scale per scoprire la fonte e la causa di
quell'urlo, ma volle comunque affrontarlo, salì per le scale, percorse il corridoio. Guardò dapprima in camera di Eunice, dove vide la poltiglia grigiastra che aveva lasciato sul letto, poi proseguì dirigendosi verso la stanza di Andy. Janice era riversa al suolo e stava tremando come se fosse stata sottoposta ad un elettroshock, il volto cinereo, gli occhi spalancati, ma che non riuscivano a vedere. Ally era dietro la madre, appoggiata contro la parete, e sembrava un animale ferito, respirava convulsamente. Sul letto c'era qualcosa di irriconoscibile in un mare di sangue: un corpo straziato, divorato a metà, i resti di un bambino di cinque anni. Era tutto quello che era rimasto di Andy dopo che la sorella aveva finito con lui. In quel momento, la maggior parte delle facoltà mentali di Helmond abbandonarono il suo corpo, riducendolo ad un robot dalle risposte condizionate. Non ricordava di aver chiamato la polizia o di aver gettato nella tazza l'involucro abbandonato da Eunice, ma lo fece, poi si sedette sulla poltrona in salotto e aspettò. La sua coscienza era invasa dalla distruzione e dal caos, un nauseante pandemonio che riempiva un mondo senza sole, come se la pelle della notte si fosse squarciata e il pus di migliaia di ferite infette e cancrenose fosse scaturito dal cuore putrido dell'oscurità pura e primordiale. Un solo pensiero coerente attraversò il suo cervello ormai quasi sopraffatto dalla follia: non finirà fin quando non sarò io a finirla, ammesso che sia possibile porre fine all'inferno. PARTE TERZA MONDO MACABRE UNA MALATTIA DELLE TENEBRE Coleridge non ci mise molto per farsi un quadro della situazione. Un bambino morto, mutilato, parzialmente divorato; una bambina scomparsa, rapita. Di sicuro un autentico maniaco psicotico aveva fatto visita agli Helmond, un bastardo completamente fuori di testa. Per la quinta volta provò l'impulso di vomitare, ma ormai si trattava soltanto di conati a vuoto. Oh Dio, quello era stato veramente un anno orribile. Prima il Pazzo di Berkshire, Detwiler, ora questo. Desiderò sinceramente di non aver scelto di fare lo sceriffo. Gli avevano detto che era un lavoro facile, pieno di privilegi, un posto in cui si lavorava a contatto con la gente. Come no, sicuro. Molte delle persone che aveva incontrato erano morte o stavano morendo.
Aveva evitato il Vietnam e ora c'era una fottuta zona di guerra proprio dietro l'angolo. Il posto era affollato di poliziotti, ispettori, infermieri; il medico legale era venuto con due suoi uomini. Con un aspetto orribile, il capo della polizia Dixon si muoveva sulla scena del massacro, barcamenandosi tra completa incredulità e disperati tentativi di ricordare come affrontare i casi di omicidio. C'era anche il medico di famiglia, Ernst Severin, con l'espressione di chi era stato vittima di un incidente. Cominciavano ad arrivare i giornalisti, per lo più del luogo, meno aggressivi di quelli della grande città. Coleridge si rese tristemente conto che quella storia avrebbe attirato l'attenzione dei media nazionali. Dei sopravvissuti, Ally era la sola in grado di parlare, e quel che raccontò non fu di grande aiuto. Non sapeva nulla che potesse fornire qualche traccia sull'identità dell'aggressore. La madre era scivolata in uno stato di totale catatonia, chiudendosi in se stessa, tanto quanto poteva farlo un essere umano pur rimanendo ancora in vita. Helmond non era in condizioni migliori, anche se sembrava essere consapevole di ciò che lo circondava. Era in grado di parlare, ma si rifiutava. Era meglio non forzarlo. Quando arrivò la notizia di cosa era stato trovato nel laboratorio di Helmond, una nuova ondata di sconcerto e confusione colpì le forze dell'ordine. Tutti gli animali da laboratorio erano scomparsi, e i resti dello scheletro insanguinato di una donna, presumibilmente Sharon Bishop, giacevano sul pavimento. Helmond ebbe un violento attacco isterico e si mise a urlare quando sentì la notizia, tanto che fu necessario somministragli un sedativo. Coleridge temeva che l'uomo non avrebbe più riacquistato la ragione e che perciò il caso non sarebbe mai stato risolto. Era così bizzarro, complesso, misterioso, un vero e proprio enigma. Quale poteva essere il collegamento tra i vari episodi? Che razza di demonio si aggirava per Berkshire, mangiando donne e bambini, rapendo animali da laboratorio e ragazzine? Stava accadendo qualcosa di veramente strano, e lo sceriffo voleva disperatamente capire cosa. «L'assassino si è lavato nella vasca del bagno del piano di sopra dopo aver commesso il crimine,» stava dicendo Dixon a Coleridge mentre si trovavano nella cucina dell'abitazione. «Ci sono tre asciugamani insanguinati di sopra. Dio, è orribile.» «Deve essere stato molto silenzioso nei suoi movimenti,» ipotizzò lo sceriffo. «Eh? Oh, sì.»
«Cioè, secondo la figlia, Ally, Helmond stava dormendo sul divano del salone, di sotto. L'assassino deve essergli sgattaiolato accanto e da lì è salito per le scale. Ha ucciso il bambino, lo ha fatto a pezzi e... ne ha mangiato una parte, poi si è portato via la bambina senza che nessuno sentisse il minimo rumore.» Dixon rabbrividì, poi scosse le spalle. «Credo si tratti di un tipo molto sicuro e che sa il fatto suo. Deve aver addormentato la piccola prima di portarla via.» Coleridge aggiunse un altro anello di nicotina alla catena di sigarette che aveva fumato. «Ma come la mettiamo con quello che è successo al laboratorio di Helmond? Pensi che il maniaco abbia colpito prima lì, uccidendo e divorando la Bishop? Questo spiegherebbe perché non era così affamato quando è venuto qui?» «Gesù, non lo so.» Il capo si accasciò su una sedia accanto al tavolo. «Cosa cazzo ne ha fatto degli animali del laboratorio? Li ha fatti fuori e gettati nell'inceneritore?» «I miei uomini hanno controllato, Hal. Ci sono delle ossa animali, tra le ceneri dell'inceneritore dell'edificio, ma non in quantità sufficiente a giustificare la sparizione delle cavie di Helmond.» Dixon annuì. «Merda. Vorrei aver fatto il panettiere come voleva mia madre.» Amen, fratello, pensò Coleridge. Non riusciva credere di star discutendo su argomenti tanto terribili in maniera così razionale. Cristo, anche lui aveva un figlio e una figlia, rispettivamente di tre e sei anni. Anna aveva quasi la stessa età di Eunice, la bambina rapita. Cosa stava accadendo alla figlia di Helmond in quel momento? A quali luride perversioni e folli torture veniva sottoposta? Sentiva che se quel caso fosse andato per le lunghe avrebbe incominciato a tremare e non si sarebbe mai più fermato. Il sottotenente Funderburke arrivò di corsa. «Si è raccolta una folla qui di fronte, sceriffo,» annunciò. «Sta diventando difficile controllarla.» Coleridge aggrottò la fronte. «Chi sono?» «Vicini, studenti universitari, giornalisti assatanati.» Funderburke sembrava esasperato. Come il suo capo, si era aspettato che il suo lavoro fosse una semplice passeggiata. «Me ne occupo io.» La folla stava premendo contro il nastro giallo che isolava la zona e sembrava che ci fossero troppo pochi poliziotti per tenerla a bada. Una piccola città come Berkshire non era avvezza a quel genere di crimini. Co-
leridge si avvicinò alla folla indisciplinata tenendo le braccia spalancate. «Per favore, gente. Qui stiamo cercando di svolgere un lavoro duro, e voi lo state rendendo ancora più duro.» «Chi è stato ucciso?» gridò una donna di mezza età che lui riconobbe come Sal Marcum, corrispondente di spicco del Beacon, il che non era un certo un grosso riconoscimento. Aveva già fatto passare dei brutti momenti a Coleridge quando era avvenuta la strage al Cream King. «Chi ha detto che qualcuno è stato ucciso?» replicò Coleridge. Lei gli sorrise. «Andiamo, Stu. Ho uno scanner e so cosa significa un codice trentadue.» Beh, lo aveva incastrato. «Vi riferiremo i fatti in questione al momento debito.» «Ha qualcosa a che fare con le ricerche del Dr. Helmond?» «Cosa diavolo ne so, Sal? Non so neppure su cosa stesse lavorando il tipo.» Sal sembrò molto contenta di illuminarlo sulla questione. «Uccideva animali per poi riportarli in vita. La chiamano rianimazione. È una grossa novità in campo scientifico.» Quelle informazioni fecero lavorare in fretta la mente di Coleridge (oltre a procurargli un brivido gelido lungo la schiena). L'orgia di sangue di Cully Detwiler, la scomparsa di Tyrone Drexler, la morte di Sharon Bishop e Andy Helmond e la scomparsa di Eunice, erano tutti eventi che in un modo o nell'altro avevano coinvolto Orville Leonard Helmond. Di cosa si occupava quell'uomo? Cosa aveva fatto? Lo sceriffo non riusciva a collegare i vari elementi in uno schema coerente, ma aveva cominciato ad elaborare una vaga ipotesi su di un qualcosa di mortale concepito in laboratorio, un gas, un virus o una droga, che si era diffuso all'esterno, distorcendo il cervello della gente o roba del genere. Se Helmond aveva creato un qualche genio malvagio in laboratorio e l'aveva scatenato contro l'umanità, nonostante il figlio morto e la figlia rapita, Coleridge lo avrebbe ucciso con le proprie mani. Sommersa da un oceano di tenebre, nel fondo di un abisso privo di riferimenti, solo in un vuoto spaventoso, il barlume di consapevolezza che un tempo era stata Orville Leonard Helmond si ricostituì gradualmente, facendo attenzione a mantenere una zona neutra di oblio tra sé e la realtà che non riusciva ad affrontare. Tornò a percepire il suo corpo, i sensi ripresero a funzionare, anche se evitò di ricevere i messaggi che gli comunicavano.
Per prima cosa doveva capire chi fosse. Era un ragazzino, ed era inverno a Webster, Pennsylvania. La sua casa era vicina a Cataract Park e nel parco sorgeva una grande collina. Infagottato come un eschimese, portava lo slittino alla sommità del pendio, che gli sembrava lungo chilometri, e lasciava che la gravità lo spingesse in avanti, sempre più in fretta, fino a volare sul manto bianco. Si infilava con la slitta in un mucchio di neve e ne usciva ridendo a crepapelle. Era un bellissimo ricordo. Un anno aveva avuto un buon amico, Jerry. Facevano tutto insieme. Quando era arrivato l'inverno si erano divertiti un mondo con lo slittino di Lenny giù per la collina di Cataract Park e avevano giocato a hockey sul fiume gelato del parco, chiamato chissà perché Melassa. Pochi inverni dopo, Lenny aveva litigato con Jerry, che poi era andato a giocare ad hockey con altri ragazzi. Qualche ora più tardi Lenny era venuto a sapere della morte di Jerry: era caduto nel ghiaccio ed era annegato, e da allora in poi Lenny aveva odiato l'inverno. Il piccolo Lenny allevava come animali domestici insetti, girini, serpenti, salamandre. Osservava campioni di acqua di stagno al microscopio, affascinato dalla varietà delle forme di vita a livello microscopico. All'età di undici anni aveva ricevuto un set da piccolo chimico, ed era stato da allora che la scienza era divenuta l'interesse primario della sua vita. Non leggeva fantascienza, ma scienza: libri di testo, riviste, manuali tecnici, opere scientifiche vecchie e nuove, da Bacone a Einstein. Darwin lo incantava, Pasteur lo ispirava, Crick e Watson lo intrigavano. Non sospettò mai quanto avesse in comune con il Victor Frankenstein di Mary Shelley. Poi aveva frequentato la scuola superiore, senza fare troppa vita sociale, anche se era riuscito a perdere la verginità con una ragazza di origine polacca di cui non ricordava nemmeno più il nome. Aveva studiato sodo, ottenuto voti eccellenti ed era conosciuto come una persona intelligente dotata di senso dell'umorismo, il che l'aveva salvato dall'essere etichettato come secchione. Poi vennero anni di duro lavoro universitario, anni di studio in cui aveva dovuto comprendere a fondo il funzionamento dell'universo a livello chimico e cellulare. Ciò che aveva appreso lo aveva quasi spinto sull'orlo della follia, poiché la natura gli era parsa operare in modo spaventosamente arbitrario. Perché basare la vita su una tale complessità? Avrebbe dato qualunque cosa per conoscere la risposta. Perché condizionare gli organismi a nutrirsi di metà dei composti presenti nell'ambiente e rendere velenosa l'altra metà? Perché gli esseri viventi hanno bisogno di
cibo e di aria? Perché non di uno o dell'altra o di entrambi, ma mescolati? Perché tanti sistemi interni? E soprattutto, perché gli organismi muoiono? Quegli anni erano stati anche pieni di droghe, rock'n'roll e sperimentazioni di stili di vita. Aveva praticato un po' d'amore libero, flirtato con l'estremismo politico, aveva marciato e protestato, partecipato ad alcune sommosse (perché lui odiava la guerra, quella oscena divoratrice di carne giovane!), ed era presente quando gli studenti vinsero. Che lungo e strano trip erano stati quei giorni! Alla fine aveva imparato, si era laureato con il massimo dei voti, era diventato un brillante scienziato, assicurandosi un posto da ricercatore ben pagato in una delle industrie biochimiche più prestigiose del paese. Subito il problema principale era stato quello di essere costretto a fare ricerche solo nel campo che gli indicava la Corwell, poiché tutto era subordinato alla vendibilità dei prodotti. Si era sposato e il matrimonio era fallito, ma lui l'aveva sopportato, come aveva fatto per il lavoro. Ma un giorno aveva deciso che c'era una cosa che non avrebbe mai potuto sopportare: la supremazia della morte. Per tutta la vita la Triste Mietitrice lo aveva tormentato con la morte di animali, parenti, amici e ora ne aveva avuto abbastanza. Si era messo al lavoro su ciò che chiamava il Processo e ci aveva lavorato su per anni, prima di ottenere un risultato positivo. Risultati positivi. Ma si chiese se poteva essere definito risultato positivo una qualunque delle conseguenze del Processo. Come Faust, stavo cadendo e pensavo di salire. Come Orfeo, ho incantato il Signore dell'Ade, ma poi mi sono voltato indietro e, a causa della mia avventatezza e impetuosità, ho perso la mia amata, colei per cui avevo rischiato ogni cosa pur di farla ritornare dal luogo della morte e delle ombre eterne. Ero simile a Dio, ma i semi del male erano dentro di me e hanno continuato a mettere radici e sono cresciuti nella mia creazione. La mente di Helmond, utilizzando quelle metafore, si stava avvicinando pericolosamente alla dura e terribile realtà della situazione in cui si trovava, e così egli contrasse leggermente la propria consapevolezza. L'essere mortali, rifletté, non implicava soltanto un arco vitale limitato, ma anche l'esistenza di un limite di comprensione. Un giorno gli homo sapiens sarebbero stati dotati di intelligenza illimitata, sarebbero stati capaci di percepire la totalità del reale e di prevedere ogni conseguenza delle proprie azioni prima ancora di agire, e dunque avrebbero progredito con accortezza, misura e lungimiranza. Per adesso, imprigionati dai filtri dei loro ri-
stretti cinque sensi, intenti solo a sbirciare soltanto attraverso una fessura delle porte della percezione, erano come bambini che giocavano con la dinamite. Privi di una reale comprensione dell'ecosistema, devastavano senza scrupoli la biosfera. Poiché la biologia era ancora come scienza giovane, avevano introdotto ogni sorta di sostanze poco testate nei loro corpi: droghe, conservanti, vegetali irradiati, antibiotici, coloranti, dolcificanti sintetici, aromi artificiali. In cosa stavano trasformando l'umanità? Cosa stavano facendo alla struttura genetica dei loro figli? Helmond era convinto che fosse più sano e sicuro mangiare la carne di animali uccisi mentre attraversavano una strada che quella comprata dal macellaio. Dissolvere lo strato di ozono, provocare piogge acide, aumentare l'albedo della superficie del pianeta con la deforestazione, immettere piombo nell'atmosfera, bruciare tonnellate di rifiuti nucleari e chimici; ma forse lui aveva compiuto qualcosa di meno rischioso o pericoloso? Non era forse colpevole dello stesso genere di crimine che deplorava con tutto se stesso? Sì, era vero. Era lui stesso il diavolo che tanto disprezzava. Come Morbius nel Pianeta Proibito, doveva confessare che il mostro invisibile che infestava il mondo era emerso da se stesso, era lui stesso, era la sua fragilità, la sua fallibilità, la sua miopia. E Dio, come faceva male ammetterlo! Si mise seduto e si guardò intorno. Era di nuovo notte e si trovava nel salotto di casa sua, sullo stesso divano su cui Eunice, l'ipervitale, ultraanimata, immortale Eunice, lo aveva violentato. Qualcosa si mosse nell'ombra, una lampada si accese; era Ally, seduta sulla comoda poltrona del padre. Aveva un aspetto sconvolto, ma in qualche modo era riuscita a mantenere il controllo, era ancora mentalmente lucida. «Stai bene, papà?» chiese con una voce debole, strozzata. Quella era una domanda a cui Helmond davvero non poteva rispondere. «Dov'è tua madre?» Ally rabbrividì leggermente. «L'hanno portata via. Ha cominciato a comportarsi in maniera violenta e così le hanno messo la camicia di forza e l'hanno portata in un manicomio. Posso capire cosa stia provando.» Attraversò la stanza e si rannicchiò contro di lui. «Abbracciami, ti prego. Tienimi stretta.» Helmond obbedì, traendo anche lui un po' di conforto dall'abbraccio. Erano i sopravvissuti di quella notte, i profughi dell'incubo. Qualunque cosa dovesse ancora succedere, l'avrebbero affrontata insieme. Stuart Coleridge non era uno stupido, ma mentre il giorno seguente se-
deva nel suo ufficio a leggere l'articolo più recente di Helmond, pubblicato nel Biomed Journal, non riuscì a capirci poi molto. Era troppo tecnico. Aveva preso in prestito la pubblicazione dalla biblioteca dell'università sperando che potesse far luce sul caso. Non era stato così. Cosa diavolo era la necromorfosi? Si recò alla Manchester University e diede un'occhiata al laboratorio di Helmond, a cui erano stati apposti i sigilli, ma neanche questo lo aiutò. L'articolo affermava che i soggetti venivano immersi in una specie di capsula ripiena di liquido. Guardò nella sala di rianimazione ma non vide nessuna capsula. Il mistero aumentava, anziché diminuire. Però aveva scoperto una cosa riguardo alle gabbie degli animali: sembrava fossero state rotte dall'interno, ma questo era assurdo e comunque era difficile stabilirlo con certezza. Una massiccia battuta ad ampio raggio era stata organizzata per trovare il corpo di Eunice Helmond, ma si era scatenata una vera e propria tormenta di neve, la prima della stagione, e così era stato necessario interromperla, almeno per il momento. Magra consolazione: il cadavere si sarebbe ben conservato con il freddo e la neve, se gli animali non l'avevano già trovato e se ci riusciva la polizia prima del disgelo di primavera. Coleridge andò via dall'università e si unì per un po' alle ricerche. L'unica ipotesi che Coleridge aveva formulato era che Helmond avesse effettuato un esperimento illecito su un volontario umano, che l'esperimento fosse fallito in maniera orribile, trasformando l'uomo in un maniaco assassino, e che costui si fosse vendicato di Helmond. Sapeva che si trattava di un'ipotesi decisamente fantasiosa, ma il mestiere di poliziotto spesso richiedeva l'uso di molta immaginazione. Certamente quelli della polizia federale non sarebbero giunti a una conclusione migliore. Stavano seguendo le solite procedure d'investigazione: qualche malato mentale fuggito dal manicomio, studenti che nutrivano rancore nei confronti di Helmond, drogati, ecc. Il filo dei suoi pensieri venne interrotto da Funderburke, perpetuo latore di cattive notizie. «Mi dispiace disturbarla, signore,» disse il giovane dall'aspetto scandinavo. «Ci è stato appena riferito che alcune tombe del cimitero di Grange Hill sono state profanate.» Il che concluse alla grande la giornata di Coleridge. Per una mente profondamente disturbata, il tempo cessa di avere qual-
siasi significato. I giorni possono sembrare minuti, i minuti possono trasformarsi in ore. Per Janice, non più costretta nella camicia di forza, ma rinchiusa in una cella imbottita, i secondi erano diventati eoni, e ogni istante rappresentava una condanna all'inferno. Era riuscita finalmente ad allontanare dalla mente l'immagine del corpo insanguinato del suo bambino, squarciato, divorato, ma non aveva nulla con cui rimpiazzarla se non un vuoto piatto, assoluto. E così fluttuava nel nulla, la realtà simile ad un lido lontano perso da qualche parte, e l'universo ridotto ad uno spazio chiuso da morbide barriere, un cosmo con all'interno nulla, neppure se stessa. Si stava distruggendo fisicamente, rifiutando il cibo, e il desiderio di vivere l'aveva abbandonata ormai da molto tempo; ora le mancava addirittura il desiderio di esistere. Essere dotata di sostanza, occupare uno spazio, percepire, tutto questo la faceva soffrire terribilmente. Era convinta che se avesse atteso abbastanza a lungo si sarebbe dissolta, come un pupazzo di neve sotto il sole estivo, come un castello di sabbia sulla battigia all'arrivo dell'alta marea, come una pietra che si consuma lentamente, carezzata dal vento del deserto. La notte era il momento peggiore, quando il sole tramontava, le luci si spegnevano e l'edificio si riempiva di grida, bisbigli e urla di menti malate. Di notte, il vuoto bramato da Janice diventava nero e lei riusciva a distinguervi all'interno delle forme: esseri-scimmia scheletrici e cuori palpitanti con al centro occhi balenanti e ogni genere di perverse allucinazioni. La sua mente era avvolta nelle tenebre, e quando lo era anche il mondo, le due oscurità si fondevano e fluivano l'una nell'altra, la sua verso l'esterno, quella della notte verso l'interno. Si perdeva nella natura priva di luce, natura che la spaventava perché era piena di grandi che mangiavano i piccoli, di creature inferiori che divoravano quelle più evolute, di decomposizione, tumori, parassiti e predatori. Ma era incapace di non sprofondare nel delirio nebuloso ogni dodici ore, che le sembravano dodici secoli. Una notte, esattamente la quarta dal suo internamento (anche se non teneva il conto dei giorni), ebbe un'allucinazione di tipo differente. Cose simili a vene e nervi sembrarono filtrare dal pavimento e risalire lungo le pareti della cella come rampicanti dalla crescita rapidissima. Subito dopo apparvero fluidi di color marrone, grigio e bianco, e tutte quelle orribili apparizioni iniziarono a fondersi in qualcosa, acquistando una solida forma tridimensionale nella stanza, proprio di fronte a Janice, e prima che se ne accorgesse, sua figlia Eunice era lì davanti a lei. «Ciao, mammina,» disse la bambina. Senza dubbio si trattava di Eunice,
o almeno il volto era quello della figlia, ma il corpo era quello di una adolescente, inumanamente pallido, e da cui pendeva in alcuni punti una sostanza simile a ragnatela, come se la pelle stesse venendo via a strati. Janice si inginocchiò davanti alla mostruosa visione, inerme e ammutolita. Aveva la sensazione di non doversi sorprendere, se il suo inconscio era capace di produrre simili allucinazioni. «Sono venuta per due ragioni,» continuò l'apparizione. «Prima di tutto, voglio dirti che sono stata io ad uccidere Andy. L'ho fatto perché ero stanca di dividere le cose con lui e di vedere che lui riceveva più attenzioni di me, e perché sarebbe cresciuto e avrebbe sperimentato la vita in maniera normale, cosa che per me ora è impossibile. Ma non preoccuparti. Niente rimarrà per sempre morto, mai più. «E poi, sono venuta a portarti un regalo.» Allungando il suo indice destro, Eunice inserì la mano nel basso addome, vi rovistò per un momento, poi la tirò fuori e si inginocchiò davanti alla madre. «Non preoccuparti, mammina. Non ti farà alcun male.» Janice indietreggiò mentre il dito le si avvicinava, ma Eunice la incalzò fino a quando la donna non rimase con la schiena contro il muro. La ragazza scompose la mano in una massa di tessuti separati, poi inserì i fasci contorti in Janice, penetrando pelle, muscoli, utero e lasciandole un dono prima di ritirare la mano. Una volta estratta, la mano riassunse rapidamente la sua forma normale. Eunice le rivolse un sorriso spietato. «Così non sarai più sola qui dentro. Arrivederci, mamma. Devo andare ora. Ho molto da fare.» Il corpo di Eunice si scompose immediatamente in una miriade di filamenti che si ritirarono dalla stanza nello stesso modo in cui erano entrati, lasciando Janice nella sua vuota e infinita solitudine. Ancora una volta, le tenebre si impadronirono di lei come una malattia. DALL'ABISSO Nei giorni che seguirono la morte di Andy, la sparizione di Eunice, l'internamento di Janice e l'assassinio di Sharon, Helmond e Ally cercarono di vivere un'esistenza normale, ma senza molto successo. I piatti e la polvere si accumularono, il cibo venne lasciato fuori dal frigo a marcire, non si cambiarono d'abito tanto spesso quanto dovevano, i loro ritmi furono sconvolti e la casa venne abbandonata al disordine, ma loro trovarono uno nell'altra la forza di andare avanti, come l'anno dopo che la prima moglie
di Helmond, Martha, li aveva lasciati. La tormenta li costrinse a stare in casa, ormai la neve era alta quasi un metro, ma in ogni caso si curavano poco del mondo esterno. Recarsi al lavoro o a scuola era impensabile. Fu allora che si accorsero che Polar Bear non era più in giro. «Vorrei poter ritirare tutte le cose terribili che ho detto di loro,» disse Ally un pomeriggio, mentre erano seduti a vedere una soap opera, senza seguirla veramente. Anche il tempo aveva perso di significato; non sapevano, né gli importava, che giorno fosse. «Vorrei poter cancellare ogni litigio che ho avuto con mamma, mamma-Janice.» Helmond guardò la figlia con occhi cerchiati. «Lo so, principessa. Lo so.» Avevano dovuto rimandare il funerale di Andy, non avrebbero retto al dolore. Il rettore Ingersoll, alcuni membri della facoltà e degli amici di Ally avevano telefonato o si erano recati a far loro visita oppure avevano fatto entrambe le cose, ma comprensibilmente i due non si erano rivelati padroni di casa loquaci. A peggiorare la situazione di Helmond, Laura lo aveva chiamato per comunicargli che il fratello, Frank, era in ospedale; la malattia aveva raggiunto la fase terminale; non sarebbe sopravvissuto un'altra settimana. Helmond pensò che la Mietitrice si stava vendicando di lui, e con gli interessi. Gli ispettori di polizia andavano e venivano, ma non scoprivano nulla di nuovo dai due. Quella sera si fece vedere anche lo sceriffo Coleridge e il suo atteggiamento diede a Helmond motivi fondati per preoccuparsi di nuovo. Ci fu la serie di domande di routine mentre sedevano nella cucina in disordine davanti a due tazze di caffè. Il pubblico ufficiale dimostrò molto tatto. Pur sentendosi colpevole, Helmond indirettamente incoraggiò la teoria del maniaco. Anche se avesse detto la verità alle autorità, non c'era niente che potevano fare. Soltanto lui poteva affrontare Eunice, non appena avesse capito come. «Non ha nessuna idea su ciò che è accaduto ai suoi animali, professore?» gli chiese Coleridge. Helmond scosse le spalle. «Si sa che gli attivisti per i diritti degli animali fanno irruzione nei laboratori e rubano le cavie. Ve ne sono alcuni nel campus.» Lo sceriffo lo studiò con uno sguardo privo di espressione. «Sì, e stiamo seguendo quella pista, ma sembra piuttosto contraddittorio che della gente animata da un così profondo rispetto per la vita massacri così selvaggiamente un essere umano.»
«Non so che dire. Sono un biochimico, non uno psichiatra.» Coleridge annuì. «Sì, e su questo argomento ho una domanda da rivolgerle. Spero che lei non si offenda. Ha mai usato, durante le sue ricerche, un volontario umano?» Sebbene evitasse attentamente di mostrare una qualsiasi reazione, Helmond fu molto impressionato. Aveva sottovalutato quel poliziotto. Eppure, fu facile rispondere onestamente alla domanda. «Nossignore. Mai.» «Mi scusi ma dovevo chiederlo.» Coleridge sorseggiò il caffè. «Lei senza dubbio riterrebbe decisamente fantasiose alcune delle ipotesi prospettate durante le nostre riunioni. Ma se il motivo del crimine era la vendetta, abbiamo pensato a un soggetto menomato durante un test come a un probabile sospetto. Abbiamo anche ipotizzato che qualcuno che si opponeva alla sua tecnica di rianimazione per motivi morali o religiosi potesse essere l'autore di questo crimine orrendo.» Helmond si versò dell'altro brandy nella tazza di caffè tiepido. «Sono tutte teorie molto valide, sceriffo. Vorrei poter essere di maggiore aiuto.» «Sono certo che ci sta fornendo tutto l'aiuto possibile.» Il poliziotto improvvisamente si sporse in avanti. «L'animale più grande su cui ha fatto esperimenti era uno scimpanzé, giusto?» «Giusto, ma è morto immediatamente dopo la rianimazione. E se sospetta di lui, allora è arrivato ad un altro punto morto. Mi perdoni il gioco di parole.» Coleridge sorrise leggermente. «Sono contento di constatare che non ha perso il senso dell'umorismo, professor Helmond. Quello è stato l'unico scimpanzé che ha utilizzato?» Il biochimico assentì. «Bene, non voglio rubarle altro tempo,» disse lo sceriffo, alzandosi e prendendo il cappello. «Grazie per aver risposto alle mie domande.» Quando il poliziotto se ne fu andato, Helmond si rese conto che aveva una decisione da prendere. La frase utilizzata da Coleridge, "un soggetto menomato durante un test" lo aveva fatto trasalire, perché era una accurata descrizione di Eunice. Presto o tardi sarebbe accaduto qualcosa così di fuori dall'ordinario che sarebbe stato impossibile dare una spiegazione normale e voleva che Ally fosse preparata alla cosa. Doveva dirle la verità. La figlia era seduta in salotto, al buio, avvolta in una coperta imbottita, a guardare una situation comedy in televisione. Raccogliendo tutto il coraggio e quel po' di sanità mentale che gli era rimasta, Helmond si mise a sedere accanto a lei sul divano.
«Ho qualcosa da dirti, principessa,» esordì. «Credo che tu possa sopportarla. Sei molto forte; in tutta questa storia ti sei comportata meglio di me. E poi, in tutti i casi, penso che tu sospetti quello che sta realmente accadendo.» Ally si irrigidì, ma non distolse lo sguardo dallo schermo. «Sì. È successo qualcosa nel tuo laboratorio, giusto? Ed è stata la causa di tutto quel che è successo.» Helmond aveva a stento la forza di continuare quella devastante confessione. «Giusto. Si tratta della tua sorellastra, Ally. Eunice. Lei... è molto malata. Lei era ...è morta ad Halloween. L'ha uccisa Cully Detwiler. Io l'ho riportata in vita, ma qualcosa è andato terribilmente storto con lei. Non so come descriverlo. Non ne conosco nemmeno la portata. Non è più Eunice. Non è più neppure umana.» C'erano lacrime negli occhi di Ally e le labbra le stavano tremando. «Ha ucciso Andy e Sharon?» «Sono sicuro che è stata lei, anche se, nel caso di Sharon, i colpevoli potrebbero essere gli animali del laboratorio. Devono essersi di nuovo necromorfizzati.» Lei rimase in silenzio per un momento. «Non biasimarti, papà. Non è colpa tua. Qualunque padre avrebbe fatto lo stesso per la propria figlia. Io, per te, lo avrei fatto. Non avrei avuto scelta.» Lui la baciò sulla fronte. «Grazie, principessa. Questo significa molto per me.» «E così siamo in pericolo, vero? Eunice è là fuori da qualche parte, forse sta attaccando altre persone, e ovviamente farebbe fuori senza scrupoli anche gli altri.» Helmond aggrottò le ciglia immerso nei suoi pensieri. «Non lo so. Avrebbe potuto ucciderci tutti quella notte, almeno penso. Il fatto è che c'era una rivalità piuttosto forte tra lei e Andy, dovuta alla loro vicinanza d'età. Inoltre, deve essersi risvegliata dopo la necromorfosi terribilmente affamata di proteine, e Andy era la vittima più vicina, ed anche la meno capace di opporre resistenza. E poi non credo che mi ucciderebbe; sono suo padre. Questo rapporto è così fondamentale per la sua identità che dubito che se ne potrebbe staccare.» Anche se ha sviluppato una strana idea di cosa significhi, aggiunse a se stesso, ricordando la violenza subita dalla figlia. Sì, pensò, la Morte è colei che denuda tutto, che annulla ogni freno e sfumatura. Eunice era diventata una creatura di pura e maligna ma onesta crudeltà; di conseguenza aveva dato sfogo al complesso di Elettra, sopraf-
fatta dal manifestarsi improvviso della sua sessualità. O così aveva teorizzato Helmond. Dubitava che le fosse piaciuto, tuttavia. Per trarre piacere dalla perversione bisognava essere, nell'intimo, un puritano, ma ora Eunice era completamente al di là di ogni senso morale. Per lei non si era trattato di un atto sessuale, ma più che altro una procedura chirurgica, l'estrazione di una certa quantità di spermatozoi, per poi conservarli come fa la femmina di pipistrello, per uno scopo che Helmond non voleva neppure tentare di immaginare. Se ne aveva tratto qualche sensazione di piacere, questa era stata certamente la distruzione dell'affetto di suo padre per lei. Ally stava annuendo lentamente mentre rifletteva sulle parole di Helmond. «Beh, cosa le è accaduto? Assomiglia ad uno zombie in putrefazione o cosa?» Helmond si accasciò contro la spalliera del divano. «Non ci sono parole per descrivere quello che è diventata. Una forma di vita nuova, diversa, credo. Non è una morta vivente. È come se si fosse trasformata in una super creatura non-morta e iper-vitale. Non so. Semplicemente, non ci sono parole.» Ci fu di nuovo un lungo silenzio. «Cosa succederà?» chiese alla fine Ally. Abbracciandola stretta, le disse l'assoluta verità. «Non c'è modo di saperlo. Credo che finirò per scovarla e...fermarla.» Lei sussultò leggermente all'ultima parola pronunciata dal padre e lui credette di capire il perché. Il Signore dona e il Signore toglie, e così fa Helmond. Il giorno seguente Coleridge si recò nel cimitero di Grange Hill. Odiava tutti i cimiteri, e quello in particolare. Tutti quei corpi sotterrati che si contorcevano nelle loro danze macabre di decomposizione e dissoluzione, il pensiero gli faceva accapponare la pelle. Undici tombe saccheggiate. Undici! Con il terreno indurito dal freddo, addirittura. I furti di cadaveri si erano protratti per una settimana ma ormai sembravano essere cessati. Come se non fosse già sufficiente avere in circolazione un assassino cannibale. Si chiese quale uso avrebbe potuto fare di quei cadaveri l'autore (o gli autori) della profanazione. Necrofilia? Ma come si poteva avere un rapporto sessuale con un cadavere? O forse Berkshire era stata invasa da un culto voodoo che stava reclutando morti per un'armata di zombi? Un pensiero piacevole. Una goliardata di qualche studente della Manchester
University? Sembrava abbastanza probabile. Il Pazzo di Berkshire e gli "omicidi da macello" (il modo in cui un buontempone senza troppo tatto aveva etichettato le morti di Andy Helmond e Sharon Bishop) stavano probabilmente distorcendo il comune senso dell'umorismo. In giro si sentiva circolare la battuta, nemmeno tanto improbabile, che l'autore degli ultimi delitti fosse in realtà il fantasma di Cully Detwiler. Camminando tra le file di lapidi, Coleridge ricordò che il cimitero era stato costruito su un antico tumulo indiano. Era passato quindi molto tempo da quando quel luogo era stato diverso da una residenza per i morti. Non sapeva davvero che posizione prendere riguardo al problema dell'aldilà. Se esisteva, aveva la sensazione che sarebbe stato probabilmente molto simile a questa vita: cara, piena di difficoltà, e non così divertente quanto avrebbe dovuto essere. Ecco a cosa stava pensando mentre si avvicinava a un masso nero che pareva spuntare tra due tombe. «Che diavolo?» esclamò ad alta voce. Non aveva l'aria di essere una roccia: sembrava più un osso o il guscio di un insetto. Lo toccò: aveva la consistenza di un minerale, ma come era arrivato lì? Sembrava proprio spuntato dal suolo. Abbastanza bizzarro vero, Stu? Guardò i monoliti, gli obelischi, le statue e il grande mausoleo di marmo al centro del cimitero. In apparenza tutto sembrava normale. Solo che c'erano altri strani massi in giro per la necropoli. Ne contò almeno sette, ma potevano essercene altri, più piccoli, nascosti sotto la neve. Poi vide qualcosa di veramente strano correre attraverso lo spesso strato di neve bianca. Era un topo, pensò, ma di tipo particolare. Ne vedeva chiaramente la gabbia toracica e la spina dorsale, ma l'animale non aveva ventre. In effetti, la testa non era altro che un teschio. La poca pelle che aveva sembrava scolpita delicatamente in forme lisce e morbide, come se la bestia non fosse stata mai ricucita dopo un'operazione o una dissezione. Un topo di quelle dimensioni avrebbe dovuto sprofondare nella neve, ma apparentemente non era rimasta tanta carne da conferirgli peso sufficiente. Era possibile che una creatura potesse sopravvivere in quelle condizioni? Prima che potesse riflettere seriamente sulla questione, il roditore sparì nella cappella del cimitero. Poi ebbe un'illuminazione. Helmond aveva compiuto esperimenti sui topi. Quella doveva essere una delle cavie scomparse! Mio Dio, pensò. Cosa le era successo? Perché aveva quell'aspetto? Secondo la procedura, avrebbe dovuto perquisire l'edificio, ma non ebbe il coraggio di farlo. Quello era solo un topo. Ma c'erano anche degli ani-
mali più grossi nel laboratorio di Helmond. Cani. Immaginò di trovarsi di fronte ad un cane con un teschio al posto del muso e senza quasi più pelo. No, grazie. Ma doveva affrontare il fatto che si era imbattuto nel nascondiglio di almeno uno degli animali del laboratorio, e forse anche degli altri, e che ovviamente erano tutti ancora in libertà. Per quel che ne sapeva potevano essere portatori di malattie. O peggio. Era un ufficiale delle forze di polizia, servitore e protettore del popolo. Era suo dovere affrontare quella faccenda ripugnante e spaventosa. Ma, per l'inferno, non l'avrebbe fatto da solo. Due nuove sensazioni avevano invaso il monotono, desolato universo di Janice: una forte nausea e acuti dolori addominali. Tutto il suo essere cominciò a concentrarsi sul malessere fisico; stava vivendo interminabili momenti di anonima sofferenza, e si ricordò di come si era sentita durante la gravidanza. La prima volta era stato un vero tormento, una complicazione dopo l'altra. Ricordò il vero e proprio orrore che aveva provato quando i dottori l'avevano informata che l'utero sembrava rigettare il feto che ospitava, a causa dell'incompatibilità di sangue e tessuti. Inoltre, dopo nove mesi di paura, agonia e costante malessere, ci fu il travaglio, che era durato trentaquattro ore; in più, Eunice era quasi stata strangolata dal cordone ombelicale. E anche dopo, ci furono tre giorni di angoscia, mentre la neonata lottava per sopravvivere. Alla fine Eunice si era ristabilita perfettamente, e dal momento che i dottori avevano assicurato a Janice che le difficoltà erano state puramente un caso fortuito, era rimasta di nuovo incinta l'anno seguente. La seconda gravidanza e la nascita di Andy era state perfette, normali, quasi da manuale. Mentre Janice giaceva sul pavimento della cella rannicchiata in posizione fetale, con gli occhi incavati e iniettati di sangue fissi nel vuoto, il corpo emaciato nel camice d'ospedale, si chiese se quelle circostanze avessero alterato il suo atteggiamento verso i bambini. Nel subconscio provava forse ostilità nei confronti di Eunice, che l'aveva costretta a subire quel tormento tanto lungo? Pregò che non fosse così. Nella sua mente, si ostinava a credere che la visita di sua figlia era stata un'allucinazione, un brutto sogno. Molte volte si era chiesta perché aveva avuto una così bizzarra visione sulla figlia; forse era a causa del senso di colpa. La nascita di Eunice era stata fin troppo difficile, come se la natura avesse dovuto lavorare più duramente per far nascere una creatura così bel-
la. Ora sembrava che la vita della piccola non sarebbe stata più facile della sua nascita; forse era anche finita, violentata e distorta da una folle bestia in forma umana. Forse la sua esistenza era stata troncata poiché il mondo non era in grado di sopportare la piena maturità di una creatura tanto sublime e speciale? Era così ingiusto. Janice percepiva che qualcosa stava deformando il suo corpo. Si sentiva l'addome gonfio e irregolare; era la malnutrizione? Stava morendo? Forse il suo desiderio si sarebbe finalmente realizzato e l'oblio sarebbe venuto a divorarla. Ma percepiva dei movimenti nella zona più bassa, come se gli organi sessuali fossero diventati un'entità separata dal corpo. Non faceva differenza: non li avrebbe usati mai più. Continuate, supplicava. Toglietemi il sesso, la carne, la mente, distruggetemi. Fatemi superare anche l'insensibilità, poiché è una sofferenza, in quei momenti in cui mi ricordo di essere una creatura umana, anziché una frazione della parete, dell'aria o della notte. Aveva mangiato qualcosa durante quei giorni di permanenza in manicomio, anche se non molto, ma la quantità si era ridotta ulteriormente. Sicuramente non mangiava abbastanza da soddisfare i suoi custodi. La imboccavano come una bambina ed erano estremamente frustrati quando lei sputava il cibo o sbavava. L'ultima volta avevano minacciato di alimentarla a forza, infilandole un tubo lungo la gola direttamente nello stomaco, ma non le importava. Quello non era più il suo corpo. La sua mente era troppo frammentata, troppo dislocata per percepire davvero qualcosa, perfino la patetica, tormentata carcassa che ormai era divenuto il suo corpo. Per lei era una trappola, una prigione, una camera di tortura fatta di tessuti e liquidi, anche se un tempo le aveva procurato piacere. Quanto ne era stata orgogliosa, quanto era stata felice dell'estasi che regalava al suo uomo, quanto aveva goduto del rapimento dei sensi che aveva provato con il suo corpo. Ora sarebbe stata ben contenta di disfarsene. Aveva anche pensato di smettere completamente di mangiare, ma sapeva che avrebbe dato un grosso dispiacere ai dottori e alle infermiere. Loro desideravano sinceramente che vivesse e lei se ne chiedeva il perché. Che cosa rappresentava per loro? Cosa rappresentava lei per se stessa? Nulla. Non avrebbe mangiato più. Ora si sentiva come se qualcosa la stesse divorando dall'interno, come se annidato nel suo ventre vi fosse un orribile parassita. Era incinta? Prendeva ancora la pillola, ma erano cose che potevano capitare. Non esisteva nulla a prova di stupidità. E chi era lo stupido in quella situazione? Era lei? E che prove aveva per affermarlo?
Ad un certo punto della notte, si convinse di essere davvero in travaglio. Esisteva la gravidanza isterica, vero? Ma esistevano anche le doglie da isteria? Anche se era incinta, non doveva ancora essere arrivato il momento giusto per il parto oppure era in quel posto da così tanto tempo? Perché non gliel'avevano detto? Temevano forse che avrebbe potuto far del male al bambino? Oh mio Dio, pensò. Pensano forse che sia stata io a far del male ad Andy? Ho fatto davvero questo ad Andy? Qualcosa stava venendo alla luce, qualcosa di non molto grosso. Le contrazioni erano lievi, ma dolorose. Janice giaceva immersa in un liquido; sperò non fosse sangue, ma soltanto le acque che si erano rotte. La cosa che stava mettendo al mondo scivolò fuori e rotolò via, strane e piccole appendici che rotolavano sul pavimento bagnato facendo rumore. Ma dentro di lei sentiva ancora del movimento, il che le fece pensare che le creature fossero più di una. Ne partorì altre due e poi si sentì svuotata. Le creature giacquero in un triangolo intorno a lei, emettendo miagolii lamentosi simili a quelli di gattini spaventati, anche se Janice non riusciva ancora a distinguere il loro aspetto. Questa può essere un'altra allucinazione, si disse, ma ad ogni modo devi dar loro un'occhiata. Devi sapere quanto sei pazza. Lentamente si sollevò, sostenendosi sulle braccia atrofizzate, e tentò di vedere le piccole e strane sagome immerse nell'oscurità, i corpi che brillavano in quel poco di luce che filtrava attraverso il vetro della porta della cella. Erano simili a embrioni, ma grandi quanto dei feti: pelle trasparente, organi interni visibili, scheletri di fragile cartilagine, cuori che battevano furiosamente esposti alla vista; avevano braccia ma non gambe. Come le lumache, il torso poggiava su un'appendice umida di bava e anche il loro sistema di locomozione era simile a quello delle lumache. I volti erano appena abbozzati, ma in apparenza dannatamente umani. Janice non era certa di quello che provava per quei piccoli abomini, poiché fondamentalmente era al di là della paura e della repulsione. Quegli esseri osceni non erano peggiori di alcune creazioni del proprio subconscio che era stata costretta ad affrontare nelle ultime settimane. Tuttavia, desiderava che svanissero. Cosa volevano da lei? Avevano bisogno di una madre? Mi spiace, ma avete dei volti che neppure una madre potrebbe amare. Anzi, avete a malapena dei volti. Per puro riflesso diede un nome alle creature: Gaspare, Melchiorre e Baldassarre, i tre sapienti, i Magi presenti alla Natività. Non erano nomi molto appropriati, lo sapeva. La facevano pensare a Gaspare il Fantasmino
amico, quel ragazzino dei cartoni animati morto per una causa sconosciuta e che ora benignamente vagava per il mondo, senza avere più la possibilità di diventare adulto, di sperimentare la maturità della vita. Come Andy. Forse, come Eunice. Quelle cose di tessuto membranoso che la circondavano reggendosi su viscidi moncherini - sarebbero cresciute, trasformandosi in mostruosità semiumane? Le sembravano troppo rudimentali, troppo premature, troppo incomplete per intraprendere un normale processo di crescita. Dubitava addirittura che potessero vivere a lungo, quei modelli anatomici scuoiati vivi, quei frutti deformi di un ventre malato. Si chiese se fossero manifestazioni fisiche della sua pazzia, poveri mostri insensibili inviati a lei per il suo peccato e la sua follia. Qualcuno aveva detto che l'ignoranza genera i mostri. Be', almeno a giudicare dal suo recente parto, doveva trattarsi del più stupido bastardo che fosse mai vissuto sulla terra. Janice si chiese perché era così dura con se stessa, e capì che era perché sentiva di aver tradito i figli quando avevano avuto più bisogno di lei. In qualche modo, avrebbe dovuto percepire che erano in pericolo, essere pronta a proteggerli. Le creature premature che la circondavano sembravano deriderla per questo, e provocarono il suo primo vero sentimento nei loro confronti: disgusto. Dopo un po', le creature cominciarono a leccare il sangue e il liquido amniotico dal pavimento, contendendosi debolmente i resti di placenta. Fu allora che Janice comprese quale fosse la situazione reale: per quanto fossero spaventosi nell'aspetto, quegli esseri erano deboli e vulnerabili. Vivevano perché era lei a permetterlo; poteva schiacciarli sotto i piedi se voleva, e dipendevano di lei per il cibo. Forse questo era una prova per il suo istinto materno, la sua umanità, il suo giudizio, anche se non sapeva ancora quale fosse il giusto comportamento da seguire. Sdraiandosi di nuovo, decise che la questione richiedeva ulteriori riflessioni. Quella notte Eunice tornò a casa per una visita. Helmond e Ally avevano cenato in salotto con il televisore acceso, come al solito. Tutta roba precotta. Le riserve di cibarie stavano assottigliandosi e presto uno di loro avrebbe dovuto avventurarsi fuori di casa fino al supermercato, il che sembrava una prospettiva insopportabile. Ormai per loro le pressioni del mondo esterno erano così minacciose, che si chiedevano come avessero potuto sopportarle in precedenza. Avevano trovato molti modi per passare il tempo e per tenere la mente
occupata. A volte erano giochi di carte o da tavolo; altre volte lui le leggeva qualcosa come quando Ally era piccola. Spesso si limitavano a guardare la televisione. Ally trascorreva anche molta parte del suo tempo in camera sua, da sola, con la musica che proveniva a tutto volume dallo stereo. La musica era un'amica, una scappatoia, un specie di catarsi emotiva e questo Helmond lo comprendeva bene. Lui stesso trovava frequentemente rifugio nella bottiglia, il che non era sicuramente ammirevole come passatempo. Quella notte stavano giocando a backgammon, gioco al quale la figlia lo batteva con una notevole costanza. Era un'avversaria spietata che adorava aumentare continuamente la posta, cosa che lui trovava divertente; come poteva qualcuno che prendeva alla leggera la vita applicarsi così seriamente ad un gioco? Tuttavia, nei giorni precedenti passati insieme, Helmond aveva notato una profonda forza interiore in Ally, come se la figlia credesse davvero alla filosofia che professava, o forse ciò indicava una chiara consapevolezza della natura del proprio animo. In ogni caso, lui trovava enorme sollievo nella fermezza e tenacia di Ally. Fino a quel momento non l'aveva distrutta, e fin quando lei sarebbe riuscita a tirare avanti, anche lui ce l'avrebbe fatta. «Rimarrai in quella posizione per tutta la serata, papà?» lo punzecchiò lei. Helmond le lanciò una pedina nera. «Se continui a giocare così, è sicuro. Perché non concedi un attimo di pausa al tuo vecchio?» «Huh-uh.» Ally agitò i dadi e li tirò. «Il nome del gioco è "Senza Quartiere".» «Pensavo fosse "Tutti i miei quartieri", quelli che tu continui a vincere.» Ally cominciò a ridacchiare, poi si zittì improvvisamente, il volto pallido e lo sguardo fisso su Helmond. «Hai sentito, papà?» Sì, aveva sentito. Era una giovane voce femminile che chiamava dal prato davanti la casa: «Papààààà.» Il tono era sensuale, ma vi si avvertiva come un vuoto di fondo. Eunice è tornata per giocare a un gioco diverso, ipotizzò Helmond mentre il panico aumentava. Con movimenti meccanici si alzò, andò alla porta d'ingresso e l'aprì. Eunice era lì, nella notte, con la neve che le arrivava alle caviglie, immersa nella luce della strada. Era completamente nuda, se si escludeva una specie di sudario di ragnatela, evidentemente ricavato dalla sua stessa pelle, che le avvolgeva il corpo. Parte di lei era davvero morta, dunque. Helmond non poté evitare di accorgersi che la figlia sembrava esattamente l'opposto degli altri rianimati, vivi più internamente che esternamente.
La guardò di nuovo, e meglio. Era sua figlia quella laggiù nel prato: una specie di creatura disumana, un'entità la cui natura andava al di là della scienza conosciuta. Quello era il mostruoso essere femminile in cui egli l'aveva trasformata. Eunice stava sorridendo, sogghignando, in realtà, e gli occhi le brillavano di ironica malizia. Il sottilissimo indumento che indossava, che somigliava a seta antica, rendeva il suo aspetto nello stesso tempo decadente e regale. «Ciao, papà,» disse l'essere innaturale in cui si era trasformata. «Posso entrare?» Helmond ebbe la sensazione di avere la gola ostruita dalla polvere di una vecchia tomba, ma si sforzò di parlare. «Cosa...cosa vuoi?» Eunice avanzò quasi a passo di danza, un passo in avanti, uno a destra. «Sono venuta per un po' a casa. Volevo solo far visita al mio amato padre e alla mia cara sorellastra. Sono già stata a trovare la mamma.» Helmond aveva creduto di poter superare nuovi shock, ma le ultime parole di Eunice gli procurarono nuove e spiacevoli scariche elettriche su e giù per la spina dorsale. Sentiva che il suo corpo era come uno strumento musicale abilmente e impietosamente suonato dalle gelide mani scheletriche del dio della paura: Phobos, era così che si chiamava? «Va' via,» quasi singhiozzò. «Distruggi te stessa. Ucciditi come hai ucciso Andy. Il tuo fratellino Andy, maledetta cagna disumana!» Lo sguardo sardonico di Eunice non vacillò nemmeno per un istante. «Non posso uccidermi, papà. Non posso morire. Merito tuo. Qual è il problema? Non mi ami più? Non sono più la tua meravigliosa bambina?» Helmond era al limite della sopportazione; Eunice lo stava facendo impazzire. Era quella la sua intenzione? Era quella la sua ultima penitenza: essere torturato emotivamente dalla sua creazione? Come avrebbe potuto superare tutto ciò? Quale orribile e infamante peccato aveva commesso per essere condannato ad una tale dannazione? «Va' all'inferno!» urlò, poi sbatté la porta e, lasciandosi scivolare lungo di essa, cadde al suolo. «Sono già all'inferno, papà» replicò la voce di Eunice dall'altra parte della barriera. «Non vuoi unirti a me?» Helmond non disse nulla, e il silenzio si prolungò per parecchi secondi. Il cuore quasi gli schizzò fuori dal petto quando udì un tonfo sul legno della porta. «Non vuoi uscire a giocare, papà?» Eunice ridacchiò. «Faccio sul serio, lo sai. Se non apri la porta, entrerò a modo mio. Passerò attraverso i muri,
come un fantasma. È abbastanza divertente, non credi?» Per un bel po', Helmond non si mosse, non poteva. Però non riusciva a sopportare di rimanere immobile; doveva veder cosa stava accadendo fuori, anche se temeva che quella vista avrebbe segnato indelebilmente la sua mente. Si accovacciò sotto la finestra a sinistra della porta e guardò. Eunice stava danzando nella neve canticchiando tra sé, saltando e piroettando, spassandosela come una bambina di sette anni perfettamente normale, perfettamente felice, solo che di tanto in tanto si intravedevano, sotto il vestito svolazzante fatto di veli a brandelli, i seni maturi e il pube. Improvvisamente si fermò, fissò la casa, alzò le braccia in aria, e il corpo cominciò a dipanarsi, era quello il termine giusto per ciò che stava accadendo: Eunice si suddivise letteralmente in migliaia di filamenti di vari colori che iniziarono a fluire verso la casa. Helmond distolse lo sguardo, tremando: Dio, cosa aveva visto? Cosa sarebbe successo ancora? Non era reale, non era possibile, non poteva esserlo. Il mondo non andava così. «Pà, cosa succede?» chiese Ally dal salotto. Quelle parole lo scossero in qualche modo dall'attacco d'ansia che lo immobilizzava. Si alzò, andò da lei e se la strinse al petto sul divano. «Siamo assediati, bambina,» le disse, con una voce che era poco più che un bisbiglio. Ally contraccambiò il suo abbraccio disperato. Qualcosa stava strisciando lungo le pareti: filamenti rossi, bianchi, grigi, marroni. Filamenti neri si diramarono da tutte le parti a partire dal soffitto, e rimasero sospesi in aria, crescendo e diffondendosi. Il sistema nervoso, registrò automaticamente la mente di Helmond. Dannazione, Eunice era ancora meno umana di quanto lui aveva pensato! De profundis, fu il grido che giunse dalla profondità della sua coscienza. Era all'ultimo stadio; era precipitato talmente in basso che gli sembrò non ci fosse più alcuna speranza di vedere di nuovo la luce. La sua vita, la sua ragione, la sua stessa esistenza erano state distorte, insozzate al di là di qualsiasi possibilità di redenzione. Un abominio che un tempo era stato oggetto del suo amore più profondo ora infestava la casa, la invadeva, filtrava dalla pareti; era soltanto un aborto blasfemo che Helmond odiava, temeva e non poteva comprendere. Ora sparsi nella stanza c'erano veri e propri organi corporei. Ossa si stavano ricostruendo in un angolo, un cervello si stava solidificando vicino alla libreria, e uno stomaco saltellava vicino al divano come un pesce fuor d'acqua. Un cuore, ancora privo di sangue, pulsava sul tappeto. Il sangue,
invece, era una specie di viscida colla sospesa accanto a una lampada, una parte di esso sotto forma di spire lentamente roteanti, un'altra parte sotto forma di globuli che galleggiavano come sospesi in assenza della forza di gravità. Due occhi fluttuavano sul televisore con muscoli e nervi ottici che terminavano a pochi centimetri dietro di essi. Quegli occhi erano puntati direttamente su Helmond e Ally. Tutte quelle parti anatomiche scorporate erano collegate da una rete pulsante di vene prive di sangue e sparse sul pavimento. L'intelletto di Helmond, allenato al metodo empirico, stava tentando di elaborare delle spiegazioni: il segreto della vitalità risiedeva nelle cellule e non nell'organismo in generale, i corpi infatti erano essenzialmente colonie di cellule e l'ipervitalità conferiva ad esse... proprietà straordinarie. Smettila, Helmond, si disse. Proprio pensare ti ha gettato in questa stanza degli orrori. Ma perché vuoi rimanere sano di mente? si chiese. Per il bene di Ally, fu la risposta. Le varie parti di Eunice stavano iniziando a riunificarsi. Come una grottesca larva che si trasformasse in forma adulta, la bambina si riassemblò in una massa corporea completa, nuovamente avvolta nel sudario ectoplasmico, ancora ghignante e con occhi eccessivamente brillanti, gli ultimi organi a ritornare al loro posto. «Buonasera, Ally,» disse con voce molto cortese. «Come stai? Hai un bell'aspetto. Sai, mi sembra di ricordare che non molto tempo fa mi hai definito "caro mostriciattolo". Ora quella descrizione mi si adatta piuttosto bene, non credi?» Ally reagì vomitando violentemente la cena sul tappeto di fronte al divano. Eunice studiò quella scena per un attimo. «Che maleducata. Be', non posso trattenermi a lungo. I miei amici sentono la mia mancanza. Sono venuta soltanto per mostrarti uno dei tanti meravigliosi trucchi che ho appreso, papà, e per invitarti a venire a trovarmi qualche volta. Vivo in un posto veramente bello ora, dove molta gente dorme per sempre... fino a quando non la sveglierò, cioè. Be', ora devo andare. Arrivederci.» Subito cominciò di nuovo a dissolversi nell'aria, come una statua di sabbia immersa nell'acqua; svanì come fumo vampirico finché tutto ciò che rimase di lei fu un ghigno sospeso, come quello del Gatto del Cheshire. «Ciao, papà,» dissero le labbra senza corpo, prima di scomparire anch'esse nel nulla. Ally e Helmond si abbandonarono l'uno sull'altra, sfiniti dalla tensione e dal terrore. Come si poteva sfuggire a un incubo, se si era già svegli?
A Helmond venne in mente una sola risposta: uccidere l'incubo. LA SIGNORA DELL'ABISSO Janice trovò una ragione per ricominciare a mangiare: ora aveva tre esseri da nutrire. Si accorse che la sua improvvisa decisione di interrompere il digiuno aveva deliziato i suoi custodi, ma doveva fare attenzione; il ritorno a un comportamento normale poteva far venire loro l'idea di metterla con altri pazienti, dove non sarebbe state più sola e dunque non avrebbe più potuto nascondere la progenie demoniaca. Le tre creature si erano dimostrate abbastanza intelligenti: quando qualcuno entrava in cella, salivano lungo la parete imbottita e si attaccavano al soffitto, dove erano celati alla vista. Ma in una stanza piena di pazienti Janice avrebbe dovuto nasconderle dentro il suo corpo, il che, anche per poco tempo, era impossibile. Non appena finiva di mangiare e rimaneva di nuovo sola, si infilava le dita in gola per rigettare il pasto, e le tre creature strisciavano giù affamate per consumare il vomito come uccellini. Janice non aveva ancora preso a voler loro bene, ma aveva deciso che le piaceva averli intorno per spezzare quell'inutile solitudine e darle una ragione per continuare a vivere. Giocavano con lei e tra di loro, la intrattenevano, l'aiutavano a passare il tempo. Fino a quel momento le creature avevano imparato a giocare solo ad acchiapparello, a "imita il capo" e alle sedie musicali. Sembrava che dietro i loro grandi occhi vuoti albergasse l'intelligenza, anche se Janice non era in grado di stabilire di quale tipo e quanto estesa fosse. A volte, sembravano essere ad un gradino superiore a quello degli animali, altre volte ad uno inferiore. Aveva scoperto che era ancora capace di provare disgusto, quando ingerivano con soddisfazione le feci contenute nella sua padella, ma trovava le loro rivoltanti abitudini alimentari più divertenti che rivoltanti. Come bambini, provavano a succhiarle i seni (in effetti, aveva un po' di latte), ma come cani le annusavano i genitali e l'ano. Passava ore intere a chiedersi cosa fossero quegli esseri. Erano davvero usciti dal suo corpo? Anzi, erano davvero reali? Reali o no, Gaspare, Melchiorre e Baldassarre cominciavano a diventare un grosso problema. Stavano crescendo, anche se il loro aspetto non era cambiato di molto, e per quanto al momento fossero indifesi, se avessero continuato a crescere avrebbero davvero potuto diventare una minaccia per lei. Presto avrebbe dovuto decidere se distruggerli o lasciarli vivere. E la questione era diventata fondamentale, specialmente da quando era-
no cominciati a spuntare loro denti e artigli dall'aspetto mortale. Quella notte, Ally fece un grosso sforzo per dormire normalmente, per la prima volta da molto tempo. Giaceva a letto vestita e con la luce accesa. Aveva gli occhi chiusi ed era nel dormiveglia, sforzandosi di liberare la sua mente dalle immagini di parti del corpo che si libravano in aria, cercando di spezzare l'involucro di stanchezza in cui era rinchiusa la sua mente. Abbassa la guardia e sei morta, aveva continuato a dirsi per molto tempo. Se perdi la capacità di reazione a causa dello stress e della fatica sei morta, ora cercò di convincere se stessa. Sei in un ambiente pericoloso, ragazza; adattati. Non permettergli di logorarti o di prendere il meglio di te. Si avvicinava sempre più al muro del sonno. Un odore simile a un miscuglio di polvere depositata da lungo tempo, d'olio di muschio economico e di hamburger andato a male colpì improvvisamente le sue narici. Qualcuno la stava osservando, capì dal formicolio della pelle. Aprì lentamente gli occhi, sperando di non incontrare un paio di occhi senza volto. C'era un'ombra seduta sul tavolino da toeletta ai piedi del letto, con il viso rivolto verso di lei e la schiena appoggiata allo specchio; l'essere era celato dall'ombra, ma la luce che filtrava da sotto la porta lo rendeva a malapena visibile. Era piccolo, avvolto in un sudario e il suo atteggiamento era molto rilassato. Due neri punti luminosi all'altezza della testa della creatura parevano fissarla. Era Eunice. «Non mi fai paura,» disse Ally, e allungò la mano per prendere le sigarette dal comodino, ma non accese la luce; non desiderava vedere quale forma bizzarra avesse assunto la ragazzina morta per il proprio divertimento. «Bugiarda.» La voce della sorella era beffarda e divertita, ma sottile, un bisbiglio spettrale. «Va' a farti fottere.» Ally sperò che il tono della sua voce fosse più forte e deciso di quanto si sentisse lei internamente. Ciò che quella puttanella fottuta aveva fatto ad Andy poteva farlo anche a lei, a dispetto di quanto aveva detto suo padre. «Non prima di aver fatto una chiacchierata. Mi sto consumando, capisci, e forse questi che passo con te sono gli ultimi momenti che mi rimangono. Dunque, ascoltami, va bene?» Ally si mise a sedere con la schiena appoggiata ai cuscini, attenta a non fare nessun movimento minaccioso, chiedendosi se avrebbe dovuto chia-
mare in aiuto il padre. No. Lui non poteva fare nulla. «Sono tutta orecchi, cara sorellina.» Sul volto della bambina balenò il biancore dei denti; stava sorridendo per quella battuta! «E potresti esserlo sul serio, se io lo volessi. Ma non sono venuta qui per questo. Quando ho fatto visita a papà gli ho preso qualcosa. Quando ho visto la mamma le ho dato qualcosa. Con te vorrei fare entrambe le cose. Voglio toglierti qualcosa che in realtà non vuoi e ridarti qualcosa che hai perso.» Ally soffiò il fumo verso il soffitto, simulando impazienza, ma in realtà si sentiva sul punto di svenire per la paura. «Staremo sedute qui tutta la notte a giocare agli indovinelli? Ho bisogno di dormire.» «Sei dura, Ally. Mi piaci. Ma non sei dura abbastanza. Credimi. Nessuno lo è.» L'ospite indesiderata incrociò le gambe, alla maniera indiana, facendo cadere rossetti, ciprie, e un portagioie poggiato sul ripiano del tavolino. «Tu pensi che al di là dei confini della realtà, al centro stesso della coscienza, ci sia qualcosa di potente, di forte, di oscuro, ma là non c'è nulla, nemmeno l'oscurità. Lo so perché ci sono stata. È l'assenza di tutto, è lo zero assoluto. È circondato da un involucro di caos, ma sotto c'è soltanto un'infinita bolla di non esistenza che non contiene assolutamente nessun punto di riferimento. Non è pesante, non è entusiasmante, non è un "annientamento da desiderare devotamente". Si limita a continuare per sempre, e noi siamo molto meno che minuscole molecole fluttuanti sulla sua superficie, che può scoppiare in qualunque momento. Ecco com'è essere privi del corpo, uscire dalla carne. E così ti renderai conto che non desideri avere realmente questo tipo di esperienza, Ally. Non vorrai spingerti così in là, non fino a quando sarà la tua ora, almeno.» Consigli dalla tomba, pensò Ally. Non ne aveva bisogno. E comunque quella cosa grottesca che stava tormentando la sua vita probabilmente mentiva. «Forse è così per te. Tu sei debole, attaccata ai sentimenti. Per anime più profonde, si tratta di qualcosa di completamente diverso, qualcosa simile ad un orgasmo infinito, totale.» Eunice scosse la testa lentamente. «No. È così per tutti. E tu hai più sentimenti di quanto pensi. È facile giocare con gli incubi, se sei fermamente radicata nel mondo del calore, del colore, delle percezioni. Quando lascerai andare tutto questo, ti separerai da tutto, ti isolerai in una nicchia nel nulla, allora sarà un'altra faccenda. Non varcare la soglia di inferni da cui non puoi ritornare. Non metterti in una condizione da cui non puoi uscire. Non diventare qualcosa che non può riconoscere, come me, la differenza tra
piacere e dolore. «Vedi, avevi ragione. Dopo la morte non hai nulla da temere, ma è proprio il nulla che devi temere di più. Abbi paura della Mietitrice, Ally.» Ora Ally ne aveva abbastanza: giochi mentali a mezzanotte con un fantasma uscito dalla scatola dei giocattoli. Era troppo; Ally sentì che qualcosa stava cedendo nella sua mente; il diamante nero e scintillante del suo io veniva scalfito da una vena di follia. Ti sta conquistando, Ally! Non ascoltarla; impediscile di divorarti. Dov'era il duro guscio della sua volontà, il suo dominio sulle ferite e su chi la feriva? Nell'ira, ricordò a se stessa. Nell'odio freddo, affilato come una lama di ghiaccio. «Cosa t'importa?» Parve quasi sputare quelle parole contro la demoniaca bambina. «Eh? Perché mi metti in guardia, stronzetta? Perché mi fai il... notiziario del mondo degli spiriti?» Una volta ancora Eunice sorrise. «Non lo so. Chiamalo un capriccio. Forse penso a noi come ad anime affini, in un certo senso. Per essere ancora viva, sei molto consapevole. O forse è un tormento peggiore di qualunque sofferenza che potrei infliggere alla tua carne.» Si alzò, allargando il sudario, come per prepararsi a spiccare il volo. «Ci rivedremo,» disse, poi si dissolse e scivolò via attraverso il pavimento in forma di liquido scuro. Soltanto allora Ally cominciò a tremare e il tremolio si tramutò in un tremito violento che passò dopo un'ora. Poi dormì, un sonno pericolosamente profondo. Ma almeno riuscì a dormire un po', e se ne rese conto quando si svegliò il mattino dopo. Ancora una volta reso quasi insensibile dal dolore, ma acceso da una scintilla repressa di furia, Helmond trascorse il giorno seguente intento a raccogliere la forza d'animo per uscire e dare la caccia ad Eunice. Con il calar della sera, si sentì abbastanza prossimo alla follia per farlo, e così decise di armarsi, senza nessun valido motivo, con la pistola che aveva usato per uccidere il povero Osiris. Aveva portato la pistola a casa dopo quel giorno infausto, e l'aveva riposta in uno scatola da scarpe nell'armadio della camera da letto sua e di Janice. Non ricordando dove aveva nascosto le pallottole, dovette mettere a soqquadro la casa per trovarle. Era tutta fatica inutile, lo sapeva. Aveva visto che razza di mostruosità fosse diventata Eunice ed era ovvio che semplici pallottole di metallo non avrebbero avuto alcun effetto su di lei. E per quanto avesse riflettuto intensamente sulla possibilità di eliminarla usando una soluzione tecnologica-
mente avanzata, non era approdato a nulla. Aveva la mente troppo offuscata dalla paura, dall'angoscia e dal senso di colpa. Un'altra iniezione di siero probabilmente l'avrebbe semplicemente nutrita e inoltre era troppo furba per lasciarsi avvicinare da lui con una siringa piena di qualcosa di tossico o di corrosivo. Poteva sottoporla a un'infusione intensa di REM, ma come avrebbe fatto ad attirarla in laboratorio? No, fin quando non avesse escogitato un piano migliore, avrebbe dovuto tentare con la pura violenza fisica. Inoltre, la pistola poteva fornirgli una certa protezione contro gli altri rianimati in libertà. Mentre frugava frettolosamente in un ripostiglio situato sotto la scala che conteneva giochi di società, equipaggiamento sportivo, vecchi giocattoli di Ally, quel pensiero gli fece quasi cambiare idea. Aveva visto soltanto uno di quei macabri rianimati, Lazarus, e dopo che era stato ucciso. La prospettiva di affrontare più creature come quella era invitante quanto introdurre i genitali in un frullatore alla massima velocità. Ma doveva farlo: inoltrarsi nella bocca del diavolo, giù per la gola, fino alle budella di frammentata e mutilata realtà, per essere ingoiato da un fato oscuro e da un terribile delirio; non poteva evitarlo. Trovò le munizioni in garage, in una scatola con su scritto MASON JARS. Era stato lui ad averle messe lì? Forse aveva detto a Janice di nasconderle e lei aveva dimenticato di dirgli dove. Si chiese come stesse la moglie, e si ricordò che doveva andarla a trovare. Come stai ragazzona? Tieni duro. Ci tireremo fuori di qui e poi ogni cosa andrà per il meglio, anche più di prima. Le sue dita tremavano mentre caricava la pistola, ma alla fine riuscì a riempire tutto il tamburo. Poi si infilò il cappotto, nascose la pistola in una tasca e il resto delle pallottole in un'altra, e andò a vedere come stava Ally. Era in camera sua rannicchiata a letto. Quando vide che era pronto per uscire, si drizzò di scatto. «Dove stai andando?» chiese con voce spaventata. Helmond sospirò. «Vado a cercarla. Per ucciderla.» Ally rifletté. «Quando tornerai?» «Quando avrò finito.» Helmond scrollò le spalle, si trascinò nella stanza e le baciò la fronte, poi andò via senza dire altro. Ally gli aveva raccontato della visita notturna di Eunice, ma si era rifiutata di rivelargli l'argomento della loro discussione. Lui era stato in qualche modo propenso a considerare l'episodio come un brutto sogno o un'allucinazione paranoica; sembrava assurdo che una creatura nelle condizioni di Eunice volesse fare un salto lì solo per una piacevole chiacchierata. Ma
Ally pareva profondamente scossa, il che era raro per lei, e così Helmond si era convinto che il fatto era veramente accaduto. Una ragione in più per eliminare il più in fretta possibile la figlia mutante. Quando uscì, trovò una leggera nevicata. La notte era molto buia, senza luna, tanto che fu costretto a rientrare in casa a prendere una torcia elettrica. Prima di aprire lo sportello dell'auto esitò, chiedendosi se non avesse dovuto armarsi invece di un martello e di un paletto di legno. Poi entrò in auto e mise in moto. L'indovinello di Eunice indicava chiaramente in che luogo si trovava, e il cimitero più vicino era Grange Hill. Nessuno avrebbe potuto prevedere quel che stava accadendo lì: una folle sarabanda di cadaveri viventi, un'orgia di scheletri danzanti, chi mai avrebbe potuto saperlo? Mentre guidava verso il cimitero, Helmond ebbe la netta sensazione di esser diretto ad una casa degli orrori da luna park, ma che questa volta sarebbe stata reale... e per nulla divertente. Il cimitero era situato alla periferia della città, oltre una piccola zona residenziale, ma poco prima dell'inizio delle zone coltivate. Helmond non conosceva bene i dintorni, ma aveva l'impressione che ci fossero più crinali e colline di quanto ricordasse. Inoltre, ben presto si trovò a guidare in una nebbia imperscrutabile. All'esterno c'erano diciassette gradi sotto zero, con almeno un metro di neve al suolo, una condizione climatica certo non ideale. Abbassò il vetro del finestrino, annusò, respirò il fetore, e, richiudendo il finestrino, cominciò a pensare alla provenienza di quell'odore. No, era impensabile, come se il mondo stesso si fosse putrefatto e gonfiato dai gas mefitici che adesso riempivano l'atmosfera. Ma da quegli elementi non riuscì a trarre alcuna spiegazione coerente. Parcheggiò ai cancelli del cimitero e percepì immediatamente che c'era qualcosa di anormale. I fari dell'auto illuminarono grossi tumuli che parevano spuntati da terra; alcuni erano alti anche tre metri, neri e quasi del tutto lisci, tranne rigonfiamenti e solchi circolari qua e là. Altri sembravano saldati da segni simili a costole. Perfino in quella situazione, la sua curiosità scientifica lo spinse a chiedersi di cosa fossero fatti (ossa? gusci? pietra vetrificata?) e quale fosse la loro origine (le tombe dei morti?), anche se la sua mente era sopraffatta da una nuova ondata di timore. Fino a che punto si sarebbe spinta la distruzione dell'ordine naturale? Forse l'intero pianeta era condannato a causa di un atto d'amore disperato? Forse. Spense i fari, impugnò la pistola ed entrò nel cimitero. Immediatamente constatò che quelle strane formazioni geografiche ob-
bedivano a una specie di schema, poiché erano collegate da strutture simili a tubi, spesse, semisepolte, che si irradiavano verso l'esterno del mausoleo al centro del cimitero. Ovviamente il covo dei rianimati doveva essere lì. Sembrava che Eunice avesse ricavato una specie di casa dei giochi da un ossario. Lapidi, obelischi e statue erano state scalzate dal terreno e rovesciate da quelle escrescenze a forma di vesciche; perfino alcuni grossi alberi erano stati completamente sradicati, e la cancellata si era inclinata sotto la pressione di numerosi tumuli, come se quella malattia della terra morta stesse cercando di diffondersi anche nel terreno vivo al di fuori del perimetro del cimitero. Nessuno si era ancora accorto del fenomeno, oppure si era manifestato troppo all'improvviso? Nessuno rendeva visita agli amici e ai parenti deceduti durante il gelido inverno? E dov'erano i corpi rinsecchiti che erano stati scalzati da quelle piaghe sulla superficie del mondo? Le risposte, lo sapeva, lo attendevano tra le mura di marmo della cripta sulla collina. Come un mare gassoso, la nebbia giallognola fluttuava tra i tumuli e i monumenti ancora in piedi, più spessa in quel luogo che non nella campagna: doveva essere quella la fonte dell'effluvio, che sembrava sollevarsi dai tumuli. Il fetore era talmente intenso che Helmond ebbe diverse volte dei conati e una volta fu sul punto di vomitare. Era come trovarsi nel corpo di un'enorme bestia morta, un tempo ibernata, e ora scongelata stava liberando nell'atmosfera le esalazioni della putrefazione. Poteva consolarsi solo pensando alla stagione in cui erano, perché se fosse stata estate nessun mortale sarebbe riuscito a sopravvivere in quella zona invasa da un fetore tanto nauseabondo. Si avventurò in quello scenario allucinante, penetrando nel suo mistero, raggiungendo finalmente, e senza incidenti, il mausoleo. Per un attimo dubitò dei suoi sensi, perché aveva l'impressione di percepire vibrazioni sotterranee che attraverso le scarpe si trasmettevano ai suoi piedi, e di udire un respiro ritmico, lontano, debole, una moltitudine di pulsazioni regolari e discordanti come se migliaia di cuori palpitassero nel sottosuolo. Era l'attività cardiovascolare degli ospiti in posizione orizzontale di Grange Hill? Forse Eunice aveva perversamente rimesso in moto i loro muscoli cardiaci, facendo loro credere che fossero stati seppelliti prima del tempo? Gli piacque pensare che una tortura così follemente orribile fosse al di là dei suoi poteri, ma non fu facile. Entrò nella struttura di pietra levigata e scolpita che ospitava file di cadaveri accatastati e ignoti pericoli celati nei suoi recessi; percorse lo stretto corridoio con ai lati nomi e date, epitaffi ricercati e incisioni ornamentali, per lui ormai così banali e insigni-
ficanti, addirittura offensivi. Piangere i morti? Addolorarsi per i cari estinti? Una sofferenza e una tristezza del genere non potevano eguagliare l'autentica agonia organica che lo stava dilaniando in ogni fibra del suo essere. Nossignore. Trasforma tua figlia in un mostro, osservala mentre infligge le peggiori atrocità alla tua famiglia, poi dàlie la caccia come un animale, se vuoi veramente renderti conto di cosa significa piangere e addolorarsi, uomo. L'entrata del covo di Eunice era chiaramente individuabile: un buco dagli orli irregolari spalancato nel pavimento piastrellato alla fine del corridoio, aperto su una leggera pendenza che conduceva nelle profondità sotterranee. Helmond vi discese in fretta, spaventato dalla possibilità che aveva in quel momento di perdere tutta la sua determinazione, e si ritrovò in un passaggio scavato nella terra, sufficientemente spazioso. Finora, non aveva trovato niente di particolarmente inquietante, solo una galleria sotto un cimitero, leggermente più calda di quanto ci si sarebbe potuto aspettare. Da qualche parte, davanti a sé, brillava una luce, e così iniziò a procedere in quella direzione, chiedendosi se stesse camminando sotto le tombe del cimitero, se le bare giacessero orizzontalmente sulla sua testa. Arrivò a una caverna illuminata da torce fissate alle pareti che mostravano una scena molto strana e capì di aver trovato la figlia. Era una cappella, o almeno a questo somigliava più di qualsiasi altra cosa. Vi erano dozzine di bare vuote che fungevano da panche. E verso la parete opposta c'era Eunice, assisa elegantemente su di un trono di ossa umane, su di un altare ricavato... dalle parti decomposte da un centinaio di cadaveri, fatti a pezzi e riassemblati in un carnaio di toni grigi, bruni e neri. Le torce avevano la stessa origine, ricavate com'erano da abiti incrostati di materia putrefatta, avvolti intorno alle lunghe ossa di braccia e gambe. «Entra, papà,» disse la ragazza con semplicità, come se stesse seduta nella camera di casa sua a giocare con le bambole o a colorare disegni. Helmond obbedì trascinando i piedi, con le braccia inerti lungo i fianchi che reggevano ancora la pistola e la torcia elettrica, la bocca spalancata, paralizzata dal terrore. Eunice utilizzava i cadaveri per la decorazione degli interni, come un nazista o la dea Kalì. Perché ne era sorpreso? Persefone aveva accettato il proprio destino, si era innamorata di Plutone e ora indulgeva nelle macabre delizie dell'Ade. Un'altra orribile rivelazione l'attendeva, quando vide cosa teneva in grembo la figlia: un topo bianco che sembrava aver subito innumerevoli mutilazioni, al punto di dover essere già morto, e che invece si muoveva con vivacità mentre lei lo accarezzava e
gli strappava con noncuranza pezzi di pelle. Quel topo era Valdemar. Helmond cadde in ginocchio, quasi privo di sensi. La voce di Eunice era calma, quasi gioviale. «Che c'è? Sei stato tu a crearlo. Cos'è, non ti piacciono le tue creazioni?» «Perché, Eunice?» mormorò Helmond con la gola inaridita dalla sporcizia e dal vomito. «Perché stai facendo tutto questo?» «Perché? Perché mi hai dato una conoscenza che nessuno dovrebbe mai avere, papà. Non voglio neppure parlartene, tanto è incredibilmente raccapricciante. Non potresti mai immaginare com'è essere vivi e sapere cosa sia la morte, essere morta, privata di ogni esistenza. Questo mi hai fatto. Ho fissato in volto le tenebre e non riuscirò mai più a liberare la mia mente da questa macchia che la sfigura. Le tenebre hanno marchiato per sempre la mia anima. Per questo, e perché vuoi più bene ad Ally che a me, ti meriti il tormento e la sofferenza che ti infliggo.» Helmond scosse il capo. «Non è vero. Ti sbagli.» Gli occhi di Eunice si spalancarono. «Non mentire. Ricordi il giorno del Ringraziamento? Eri appena uscito dalla cucina e stavi scoppiando di feromoni, avevi il suo odore su di te, il profumo di un intenso desiderio, qualcosa che non hai mai provato per me. Vedi, quando si muore si diventa tutt'uno con ogni livello dell'esistenza, lo spirituale, l'animale, quello primitivo, quello previtale. Nel mondo, niente sembra essere del tutto vivo, ma neppure davvero morto.» Per sottolineare il concetto, agitò distrattamente il dorso della mano destra in direzione della muraglia di forme contorte e decomposte dietro di sé, infondendo loro momentaneamente una luminescenza violacea, e alcuni teschi senza occhi batterono le mandibole con un suono orribile, mentre filamenti di intestini sibilavano in aria. Helmond rimase sconcertato, poiché pensava che fossero tutti resti senza vita. «Devi smetterla. Stai aprendo la strada ai morti. Invadi il mondo con spiriti già estinti, liberando energia vitale. Non puoi continuare così.» Eunice gli sorrise. «Temo che tu ti stia completamente sbagliando. Non sono i morti che tentano di entrare nel mondo, ma coloro che non sono ancora nati. La vita è l'invasore, papà, non la morte, la vita priva della morte, la vita senza la forza regolatrice della morte. Non capisci? Il ciclo della vita e della morte è un processo istintivo, quasi inconscio, ma tu mi hai reso tutt'uno con questo ciclo, lo hai messo nelle mie mani. Hai distrutto la valvola di sicurezza. Sono un cancello spalancato, uno squarcio nel tessuto della materialità, il passaggio attraverso cui la forza vitale penetra nel
mondo. E posso dirigerne il flusso in qualunque cosa desideri. Sto lentamente riportando il pianeta dei morti alla vita, capisci, e riempirò il mondo di mostri.» All'improvviso allargò le gambe e una sagoma nera balzò dall'orifizio, cadendo a pochi passi da Helmond. Indietreggiò. All'inizio non riuscì a distinguerla, la sua mente non riusciva a paragonarla a nulla che conoscesse, un simile aborto innaturale della biologia, ma i suoi sensi rapidamente la percepirono come qualcosa di simile somigliava a un grosso girino, della grandezza di un neonato umano, con braccia scheletriche e una pelle tra il verde e il marrone piena di protuberanze. Sembrava non avere occhi, e come unico organo di senso una proboscide, simile a quella di una mosca, che sporgeva dal volto della creatura esplorando bramosamente l'ambiente circostante. La spessa coda aveva degli aculei ventrali e dorsali neri e acuminati e terminava in un groviglio di spine. «Dannazione,» ringhiò Helmond a quella vista, poi sollevò il revolver e scaricò sei colpi nell'ammasso di sconvolgente protoplasma che si contorceva. La creatura versò un liquido giallastro e morì nel punto in cui era caduta. «Questo non mi preoccupa,» commentò Eunice mentre il padre ricaricava la pistola. «Posso crearne molti altri, di qualunque forma, di qualunque colore io desideri. Ma quella che hai ucciso era carne della tua carne. Cosa si prova ad uccidere una figlia e un nipote?» Helmond ormai non aveva più parole; la repulsione e la furia erano arrivate al parossismo. Rapidamente puntò la rivoltella e fece fuoco, colpendo Eunice con tutti i proiettili, quattro nel petto e due nello stomaco. La reazione parve coglierla di sorpresa; la suaespressione da serenamente sardonica divenne furibonda, mentre il corpo espelleva le pallottole attraverso i fori sanguinanti che le avevano procurato, e le ferite si rimarginavano istantaneamente. Helmond sapeva che si sarebbe trattato di un'azione inutile. «Non avresti dovuto farlo,» sibilò Eunice a denti stretti. Il muro alle sue spalle improvvisamente esplose facendo schizzare all'esterno quelli che all'inizio parvero a Helmond frammenti di carcasse; ma subito si rese conto che si trattava dell'intera collezione di animali del suo laboratorio, tutti necromorfizzati (il suo peggior timore), che si riversavano fuori dai loro nascondigli. Li guidava il piccolo Polar Bear, dall'aspetto normale tranne per la testa e le zampe, ora ridotte a nude ossa; anche Smokering, il gatto, faceva parte di quell'orda infernale, e dove un tempo il suo pelo mostrava
una chiazza circolare, adesso si apriva un buco che gli perforava di netto il corpo. Helmond non perse tempo: balzò in piedi e cominciò a fuggire dalla Cappella di Eunice, Nostra Signora dell'Abisso. Cercò di ricaricare la pistola mentre correva, ma senza riuscirvi, e si concentrò allora sulla fuga, poiché era quello l'unico modo per salvarsi. Le creature gli erano alle calcagna, tentavano di morderlo e di artigliarlo. Sentì di averne schiacciato alcune tra le più piccole sotto i piedi, anche se non poteva essere certo di averle eliminate definitivamente. Arrivò all'uscita e si arrampicò, scalciando contro le bestie scarnificate che lo inseguivano: cani, gatti, roditori, scimmie che sembravano essere state immerse nell'acido, progenie della sua pazzia, della sua enorme colpa che ora cercava di farlo a pezzi e di divorarlo. Per quello che avevano fatto a Sharon, desiderò di poterli incenerire tutti, uno ad uno. Si ritrovò nel mausoleo, correndo all'impazzata nel corridoio mentre una massa di animali mutanti lo inseguiva. Si rese conto che si stava abituando all'orrore; aveva convissuto con esso per così tanto tempo che ormai faceva parte della sua vita. Forse Ally aveva ragione. Forse era ragionevole voler continuare a vivere dopo un olocausto nucleare, perché alcuni esseri umani, i più adattabili, potevano adattarsi a tutto, anche a un mondo contaminato e distrutto, o ai tentativi dei propri animali da laboratorio di divorarli. Ora era all'esterno, stava correndo tra i tumuli, attraverso il vapore tossico. Non era molto lontano dall'auto e dalla salvezza. Ma, in tutti i casi, c'era un problema: nel tempo che avrebbe impiegato per fermarsi e aprire la portiera dell'auto, i rianimati gli sarebbero stati addosso. Ci penserò quando verrà il momento, si disse. La neve lo rallentava, ma fortunatamente sembrava ostacolare anche i suoi inseguitori, almeno i più grossi, così decise di tentare di ricaricare la pistola. Quando raggiunse l'auto l'arma era carica, ma il problema non era stato risolto, così saltò prima sul cofano, poi sul tetto del veicolo, in cerca di una posizione vantaggiosa, e cominciò a respingere i mostri. I topi, i gatti e le scimmie potevano essere respinti o colpiti usando la torcia come bastone, sebbene ritornassero immediatamente all'attacco, ma sapeva che, se uno dei mostri dall'aspetto di cane lo avesse raggiunto, per lui sarebbe stata la fine, dunque era meglio sistemarli per primi. Uno di essi piombò goffamente sul cofano, annaspando sulla superficie e Helmond con un proiettile gli fracassò la testa. Privata dei suoi organi di senso, la creatura scivolò di nuovo al suolo e corse intorno senza meta. Ecco cosa ci
vuole: decapitazione esplosiva. Buono a sapersi. Un'altra necrobestia canina lo assalì, ma subito cadde decapitato. Beccato, Cerbero o Laika o qualsiasi altro esemplare tu sia stato in vita. Un altro si fece avanti e Helmond lo colpì con un calcio, perdendo a causa di un morso una buona parte della scarpa, poi puntò e fece fuoco. La mascella e tutto il lato destro della testa dell'assalitore furono spazzati via, lasciando un solo occhio furente e la mandibola che tentava ancora di mordere. Non era una bella visione. Non svegliare can che dorme, pensò Helmond mentre faceva esplodere il cervello rimasto della bestia morta. Una delle scimmie gli saltò sulla faccia, cercando di cavargli gli occhi con gli artigli, proprio mentre uno dei cani riusciva a salire sul tetto dell'auto. Helmond inserì la torcia nella bocca del cane, sentendo lo scricchiolio dei denti enormi che mordevano il metallo. Con una manata si liberò del rhesus, poi piazzò una pallottola nel cranio del cane cadavere. Il corpo rotolò via, trascinando nella caduta due creature feline. Avendo assistito alla sorte toccata ai suoi compagni, l'ultimo cane girò intorno al veicolo, rielaborando la sua strategia. Morse a caso uno degli esseri senza testa, come per provare che quello era realmente un mondo in cui cane mangia cane, o mostro mangia mostro, poi nei suoi occhi perennemente sbarrati balenò una furia spettrale rivolta contro il suo creatore. Andiamo, cagnolino, disse tra sé Helmond. Avvicinati. Avrebbe voluto avere qualcosa con cui attirarlo, ma che tipo di biscotti per cani avrebbero allettato quel cerbero? Le sue viscere sarebbero state senza dubbio adatte. Be', qualche altra artigliata alle sue budella, e avrebbero penzolato in bella vista. Finalmente il cane prese una decisione, si portò ad una certa distanza dall'auto, prese la rincorsa e spiccò un salto. Trattenendo il respiro, Helmond seguì il volo dell'animale che sembrava un pezzo di carogna mezzo digerito rifiutato da fauci infernali e gli puntò la pistola sotto il muso, mentre si scagliava su di lui. Una spruzzata grigia esplose dalla parte superiore della testa della creatura che cadendo trascinava Helmond con sé sul vinile nero del tettuccio, ed entrambi rotolavano verso la massa frenetica di piccoli mostri che attendevano a terra. Helmond si riprese, scaraventò via il cane morto, si alzò e si preparò a massacrare il resto delle sue orride creazioni. Queste parvero in dubbio se fermarsi a nutrirsi del cane caduto, ma qualcosa, forse un ordine silenzioso di Eunice, le spinse a concludere il loro compito. Si lanciarono verso di lui come un'onda grigiastra. Zanne affilate come pugnali gli morsero il corpo e artigli acuminati gli lacerarono strati
di pelle. Schiacciando un porcellino d'India sotto i piedi, Helmond strinse un rhesus tra il bicipite e l'ascella, puntò la canna contro la testa dell'animale, e quando fece fuoco la vide andare in frantumi come il guscio di un uovo. Mentre ricaricava, sforzandosi freneticamente di tenere a bada le bestie, cominciò a provare quasi una sensazione di perdita, perché, dopo tutto, aveva dedicato molto tempo e moltissimi sforzi a quelle cavie. E ora non rimaneva che questo: l'inutile, sanguinosa fine di un esperimento fallito. Soltanto la morte di Polar Bear e Smokering non gli dispiaceva. Sparò in un'occhio furioso e iniettato di sangue dell'ultima scimmia, frantumò un cranio di topo sotto il tallone, e vide l'ultimo rianimato puntare su di lui. Era la creatura-gatto più grossa, doveva essere Dandelo. Inserì la pistola nella gola dell'animale e premette il grilletto; l'animale andò letteralmente in pezzi, mentre frammenti di gatto volavano dappertutto. Doveva averlo preso in pieno. Ormai Helmond era trasfigurato dalle ferite e dal sangue che scorreva, ed era circondato da una armata sconfitta di pezzi anatomici mutilati, contorti, tremanti che giacevano sparsi nella neve. Inginocchiandosi sul tetto dell'auto, esausto ma sollevato, sofferente per le infinite ferite ricevute, abbassò lo sguardo su ciò che aveva compiuto, come probabilmente aveva fatto Dio dopo aver distrutto Sodoma e Gomorra. Senza soddisfazione, ma con la consapevolezza che era un'azione che andava compiuta. Ma era meglio andarsene, prima che Eunice potesse produrre qualche altra nuova mostruosità. Scese dal tettuccio, con difficoltà, quasi cadendo, si sedette al volante e partì, dirigendosi verso casa. Naturalmente sapeva che Eunice poteva raggiungerlo di notte e sorprenderlo nel sonno, e rivestire di una forma reale i suoi peggiori incubi, ma davanti a quella eventualità era impotente. Era quasi allo stremo, sia mentalmente che fisicamente, e non aveva altra scelta che riposarsi per qualche ora. Inoltre, era ben certo che Eunice non desiderava la sua semplice morte. Voleva farlo soffrire, fargli provare una parte di quel tormento che lei aveva provato, e ciò richiedeva tempo, pazienza e organizzazione. Scatenargli contro i rianimati era stato un gesto impulsivo di dispetto, perché ovviamente non si aspettava una tale reazione selvaggia da parte di Helmond. Dio... era in guerra con sua figlia, che a sua volta era in guerra con il mondo dei vivi e il peggio era che riusciva a comprendere il punto di vista di Eunice; in quella prospettiva, sentiva che sua figlia aveva ragione. Chi, al suo posto, non sarebbe stato malvagio, vendicativo e morboso? Ally era sveglia ad aspettarlo, quando Helmond ritornò a casa. I suoi oc-
chi appannati mostrarono un leggero shock, non appena si accorse in che stato era il padre. «L'hai presa?» Helmond zoppicò in cucina, posò la pistola e la torcia sul ripiano. «No. È ancora lì. Devo escogitare qualche altro sistema.» Ally si avvicinò, lo strinse a sé mentre lui le accarezzava la schiena e i capelli. Perché non mi odia? si chiese. Io sono stato la causa di tutto questo. È tutta colpa mia e di nessun altro. Come può ancora volermi bene, dopo quello che è accaduto? «Vieni in bagno,» esclamò la figlia, tirandolo per un braccio. «Lasciati lavare e curare queste ferite.» Forse Ally gli voleva ancora bene perché era tutto quello che le era rimasto, e così era per lui. E di questo, qualunque fosse la ragione, Helmond fu estremamente felice. IL TORNIO DELL'INFERNO Sotto Grange Hill continuava la vita, o una parvenza di essa. Eunice sedeva sull'orribile trono nella cattedrale sepolcrale, ignara delle larve, dei vermi e degli scarafaggi che strisciavano ai suoi piedi o cadevano dalle pareti e dal soffitto, qualcuno anche tra i suoi capelli. Immersa in un'immobilità che nessun altro essere vivente sarebbe stato in grado di raggiungere, era incapace di percepire l'odore della terra umida, delle radici che affondavano in profondità, il fetore dei corpi in decomposizione che permeava l'aria che passava irrespirata attraverso i suoi polmoni. Non poteva riattivare il senso dell'olfatto, ma la cosa non la crucciava. A quel punto, il gusto e l'odorato, talenti minori, erano irrilevanti. Ormai la vista e l'udito erano gli unici sensi di cui disponesse, ed entrambi trascendevano il regno fisico. Oltrepassavano il tempo, penetravano attraverso la superficie dei corpi e percepivano processi dei quali gli umani neppure sospettavano l'esistenza. Non le piaceva molto ciò che veniva comunicato ai suoi sensi, ma era tutto quello che aveva. Ai suoi occhi, il mondo dei vivi stava diventando sempre più distante, e perciò sempre più odioso. Anche quel poco di umano che era in lei stava iniziando a dissolversi, a svanire. Nella cappella venerava il caos: poteva vederlo, viscoso e lucente, al di sotto dell'apparenza esteriore delle cose: il caos bello e invitante, mosso dall'abisso. Si dilettava inoltre nello scoprire in quale miriade di forme i corpi vivi o morti potevano essere distorti, trasformati, mutati, fusi, riplasmati in esseri che soltanto lei poteva creare.
Tutti i suoi animali erano morti, uccisi dal padre, dal loro creatore. Non importava. Ne avrebbe creati di migliori, ancora più speciali. La sua capacità di trasformare l'ambiente in un enorme, perversa opera d'arte, aveva un effetto affascinante sui vivi. Dopo tutto, era un'aliena nel loro mondo di luce e vita; perciò a sua volta voleva trasformarli in alieni nella sua fredda, buia terra dei morti. Appena al di là delle pareti del tempio sotterraneo poteva sentire e quasi toccare un vento incessante che soffiava da un baratro senza fine, un'oscurità ululante che le rivelava la sola cosa che potesse ancora spaventarla, e che, nonostante tutto, l'attirasse: per quanto fosse non-morta e immortale, anche lei aveva un termine ultimo, una fine. Era un suono solitario, ma ora era la cosa più vicina a un amico che lei avesse. E dove gemeva l'oblio, agli estremi limiti della sua percezione, incombeva la morte dell'universo stesso, in una nube di polvere gelida e priva di stelle. Se avesse avuto abbastanza tempo, avrebbe affrettato il suo arrivo. Ma prima doveva far impazzire il mondo e poi l'avrebbe fatto divorare dal nulla. Se le fosse andato a genio di farlo. Esisteva una ragione per cui lo sceriffo Coleridge non era ritornato al cimitero per constatare quanto fossero cresciuti i tumuli: un altro atroce episodio su cui investigare. Un'intera famiglia di sette persone, madre, padre, due figli e tre figlie, era stata massacrata in una casa che adesso assomigliava un mattatoio. Le pareti erano schizzate di sangue, mentre pezzi di corpi erano disseminati qua e là come costolette di vitello crude. Per determinare quante persone erano morte nel massacro, si erano dovuti raccogliere tutti quei frammenti e poi ricomporli insieme come in un puzzle. Fortunatamente, l'assassino aveva lasciato numerose e chiarissime impronte digitali sulla scena del crimine, molte nel sangue delle vittime. Il capo della polizia, Dixon, aveva avuto un collasso nervoso e perciò non era presente sulla scena del delitto. In quel momento era il tenente Jerome Moreno, un investigatore della polizia di Stato, a fare le sue veci. Era un uomo che avevalavorato per un po' in una metropoli come Chicago, e per questo non era apparentemente colpito dal mostruoso crimine perpetrato nella casa degli Adamson. Coleridge aveva anche sentito dire che Moreno era un reduce del Vietnam, un berretto verde per la precisione. Il suo nomignolo era, naturalmente, Geronimo. «È una comunità molto tranquilla la sua, sceriffo, vero?» commentò il tenente.
Coleridge si fece piccolo piccolo. «Una volta lo era.» Si trovavano sul prato antistante la casa, perché non c'era nessun posto all'interno dove potessero chiacchierare senza pestare del sangue coagulato e probabilmente compromettere le prove. Quel giorno faceva più caldo, la temperatura era al di sopra dello zero, e la neve stava cominciando a sciogliersi. Moreno si mise in bocca una gomma da masticare. «Una scena davvero orribile. I miei uomini hanno ricostruito l'accaduto, almeno in parte. L'assassino o gli assassini sono entrati in casa, dopo aver tagliato i fili del telefono. Dovevano essere armati. Sotto la minaccia delle armi, hanno legato i genitori, i figli e due delle figlie e hanno cominciato a violentare le ragazze una alla volta di fronte al resto della famiglia. Dopo averne straziato gli organi genitali con diversi oggetti, attizzatoi roventi, coltelli e così via, hanno asportato loro i seni. Infine le hanno uccise, per divertirsi con gli altri. Hanno castrato i maschi, squartato la madre, poi si sono abbandonati ad una vera e propria frenesia di smembramenti e dissezioni.» Lo sceriffo imprecò. «Cosa sta accadendo in questa città? Hanno messo dell'LSD nelle tubature d'acqua o cosa?» «Forse si tratta soltanto di un attacco di follia. Guardi, abbiamo trasmesso via fax queste impronte a Washington e così, se Dio vuole, avremo subito il nome del nostro colpevole.» «Ha mai visto qualcosa di simile, prima d'ora?» Coleridge accese una sigaretta, chiedendosi se aveva abbastanza risparmi per andarsene in pensione. Assolutamente no. Forse poteva trovare un lavoro come guardia giurata da qualche parte, lontano sia da Berkshire che dallo stato dell'Illinois. Ma esisteva un posto sufficientemente lontano per sfuggire agli incubi che quella città gli stava provocando? «Non dall'epoca della guerra, e mai un episodio così cruento.» Lo sguardo di Moreno si perse in lontananza. «Conosco killer strafatti di droga che hanno quasi raggiunto questo grado di crudeltà, ma è raro che un professionista impieghi tanto tempo a uccidere. Questo tizio è arrivato di sera e se n'è andato poco prima dell'alba. Deve essersi veramente divertito.» «Abbiamo trovato qualcosa, signore,» annunciò a Moreno un poliziotto dall'auto pattuglia parcheggiata in strada. I due uomini si avvicinarono all'auto. «Di cosa si tratta?» chiese il tenente. «Identificazione positiva di quelle impronte. Registri militari, esercito. Corrispondono a quelle di Cullan Dwayne Detwiler. Il nome suona familiare, vero?»
Un'oscurità fluida invase la vista di Coleridge e lo sceriffo stramazzò al suolo come se fosse stato colpito alla testa. Prima cadde in ginocchio, poi batté con la schiena sulla neve. L'ultima cosa che vide prima di perdere del tutto i sensi fu l'espressione comicamente sconvolta sul volto del tenente Moreno. Janice aveva recuperato parte della sua sanità mentale e aveva cominciato a sperimentare di nuovo alcune normali sensazioni umane. Viveva ancora in un mondo fantastico, in cui accettava la presenza dei tre mostri come del tutto naturale, a volte la considerava perfino una benedizione, ma attraversava periodi di sofferenza e di profonda confusione e repulsione in cui ricollegava le creature al lavoro malefico del marito (chi era? dov'era?), qualunque fosse stata la loro misteriosa natura. La loro pelle stava diventando di un grigio opaco, cosa di cui fu grata perché la vista costante del loro interno la stava nauseando, e anche il modo in cui doveva nutrirli stava cominciando a disgustarla. Uno della sua spaventosa progenie, Melchiorre, stava crescendo più in fretta degli altri, ora era lungo almeno trenta centimetri, e aveva sviluppato un atteggiamento che ne rispecchiava le dimensioni. Dominava gli altri con la forza fisica, a ringhi, morsi e artigliate, e aveva anche cominciato a mostrare un comportamento minaccioso nei confronti di Janice. Sebbene fosse la madre, si comportava più come un demone esorcizzato ma tenace che come un bambino, e lei stava cominciando a preoccuparsi, addirittura ad aver paura. Janice era mentalmente superiore e molto più grande di Melchiorre, ma questi era tremendamente forte per la sua piccola statura e sembrava spinto da un intento sinistro. Ciò che circondava Janice stava iniziando a spazientirla, a renderla inquieta e ad annoiarla. Aveva deciso di fuggire, per più di una ragione. Le erano ritornati in mente brutti ricordi, l'assassinio di Andy, la scomparsa di Eunice, l'improvvisa riapparizione di Eunice in quella stessa cella, e anche quello che le aveva fatto durante la visita. Janice non era ancora capace di trarre una conclusione logica, ma aveva capito che la figlia era ancora viva, era lì fuori da qualche parte, forse aveva bisogno di lei. In ogni caso, voleva sapere esattamente cosa era accaduto quella notte di morte, tanto tempo prima, e non poteva farlo fin quando fosse rimasta rinchiusa in un manicomio. Così aveva incominciato ad escogitare dei modi per scappare: fingere di comportarsi come un soggetto sano di mente oppure rinsavire davvero, ma non sapeva se sarebbe stata capace di fare una o l'altra cosa, e
si preoccupava anche della sorte dei tre mutanti. O forse si sentiva loro prigioniera? Se venivano scoperti, avrebbe provato vergogna e imbarazzo, anche se non sapeva bene perché. Ma doveva trovare una soluzione, questo lo sapeva. Aveva la netta sensazione che all'esterno stesse accadendo qualcosa di molto brutto, anche se non sapeva con certezza quale fosse la causa. Forse era il morale di coloro che lavoravano in quel posto o il fatto che il marito (Len, era quello il suo nome, vero?) non veniva a trovarla. Doveva sapere; non riusciva più a sopportare di essere tagliata fuori dal mondo. Quello non era un giorno particolare, ed era il dodicesimo giorno dal suo internamento. La fecero uscire dalla cella per darle da mangiare e Janice mostrò abbastanza resistenza da convincerli che aveva bisogno di protezione da se stessa e di isolamento per il bene degli altri ospiti. In verità, era ansiosa di fare loro domande a cui era certa non avrebbero risposto. «Dov'è mio marito?» chiese. «Quando verrà a trovarmi?» «Presto,» rispose l'infermiera Kominsky con tono di voce privo di interesse, mentre infilava una cucchiaiata di cibo nella bocca di Janice. «Può comunicargli un messaggio da parte mia?» L'assistente di nome Dobbins stava alla spalle di Janice, pronto a infilarle la camicia di forza se fosse caduta preda di un altro attacco di rabbia. A volte Janice lo faceva intenzionalmente, a volte del tutto involontariamente, e altre volte ancora non era completamente sicura di quale delle due alternative si trattasse. «Certo,» acconsentì l'uomo, senza un minimo di sincerità. «Cosa desidera che gli diciamo?» Janice ci pensò per un momento. «Ditegli che Eunice non è morta, che non è stata rapita. Che se n'è semplicemente andata, ecco tutto, e che è stata qui a farmi visita in cella. Ditegli questo da parte mia, d'accordo?» «Naturalmente» la rassicurò l'infermiera Kominsky. «Ora mangi.» «Ho sentito delle cose,» disse Janice. «Gli assistenti parlano tra loro. Ci sono stati dei furti al cimitero e altri omicidi. Cosa sta accadendo fuori? La prego, me lo dica.» Kominsky sospirò con impazienza. «Non succede nulla. Ora stia zitta e mangi, intesi?» Janice desistette da quel tentativo e lasciò che l'infermiera le infilasse il cucchiaio in bocca. Devono chiedersi come faccio mangiare tanto e a rimanere pelle e ossa, pensò. Il suo aspetto stava cominciando a somigliare a quello dei prigionieri di Auschwitz, ma non le importava. In ogni caso, non era ancora riuscita ad accettare nuovamente il suo corpo.
La riportarono in cella. Rimase ferma a fissare i tre mostriciattoli affamati che l'aspettavano. Ora della pappa. Be', non dar loro da mangiare sarebbe servito a poco. Così si inginocchiò e vomitò al centro del pavimento, poi si rannicchiò contro il muro. La sua progenie si diresse verso la poltiglia dall'odore disgustoso per placare la fame, ma Melchiorre spinse da parte gli altri. Aveva ovviamente deciso di imporre il suo dominio una volta per tutte. Quando Baldassarre e Gaspare strillarono le loro proteste, li attaccò, graffiando e mordendo senza pietà, abbattendone infine uno e continuando a strozzare l'altro. Gli occhi del povero Gaspare sporgevano dal fragile cranio mentre la gola veniva compressa all'inverosimile, e un vero e proprio terrore disperato si impadroniva del suo corpo tremante e indebolito. Questo fu troppo per Janice. Perse la pazienza, si drizzò sulle gambe malferme e, afferrando i lati della testa traslucida di Melchiorre, piantò le dita negli occhi dell'essere. Questi lasciò andare Gaspare con uno strillo, poi artigliò le mani di lei, cercando nello stesso tempo di percuoterla con la tozza coda, mentre Janice lo sollevava da terra. Il cranio di Melchiorre sembrò deformarsi sotto la presa convulsa di Janice, ma la creatura non perse la sua combattività, come se essendo amorfa non avesse bisogno di una forma definita. «Bastardo!» gli urlò la donna. «Ti piace? Eh? Ti piace questo?» Del sangue colò dal dorso delle sue mani quando prese a sbatterlo contro il muro come uno straccio bagnato; si chiese se il sangue fosse il suo o quello del mostro. La struttura interna di Melchiorre si stava danneggiando, le ossa semirigide si spezzavano, gli organi esplodevano, i muscoli si laceravano, ma Janice non si fermò. Melchiorre si stava trasformando in un sacco di pelle ripieno di frammenti, in uno stufato anatomico. «No!» gracchiò la creatura ferita. «No, mamma! Fermati!» Il suono di quella voce folgorò Janice come un'onda d'acqua percorsa da elettricità. Lasciò cadere la sua vittima, che atterrò con uno tonfo umidiccio in una pozza di liquidi corporei e indietreggiò, mentre Baldassarre e Gaspare si nascondevano dietro di lei. Melchiorre rimase immobile per qualche attimo, poi cominciò a muoversi lentamente, cieco e mezzo distrutto, e si sollevò sulle braccia. Frammenti di ossa fratturate bucavano la pelle di entrambi gli arti, e diverse costole gli fuoriuscivano dal petto. A Janice, stranamente, sembrò in qualche modo nobile e coraggioso, nel momento della sua agonia mortale. Il volto insanguinato e distrutto ghignò: «'Fanculo, stronza,» imprecò e
cadde senza vita al suolo. Janice rimase a bocca aperta e scosse la testa incredula. Lo aveva detto davvero? Le aveva parlato? Attese che gli altri due divorassero il fratello tiranno, ma si rifiutarono con decisione. Forse il cannibalismo era troppo anche per quei mostri che si nutrivano di escrementi? In ogni caso, non voleva trovarsi lì quando qualcuno avrebbe rinvenuto i resti di Melchiorre. «Portatemi fuori di qui,» disse loro. «Non possiamo restare più a lungo.» I due capirono e si misero subito a indebolire i cardini della porta. Ci volle un bel po' di tempo, ma al calar della notte furono liberi e vagarono nell'oscurità di quel mondo sempre più macabro che era diventato ormai la cittadina di Berkshire. La situazione in casa Helmond si era ulteriormente deteriorata; il biochimico e la figlia non potevano fare altro che attendere un destino che sapevano imminente. Non c'era nulla che potessero dirsi, niente che riuscisse a far passare il tempo. Ora evitavano il salotto e in realtà era l'intera cosa a essere diventata un luogo di tristi ricordi, ma era l'unico baluardo rimasto. Verso le sette suonò il telefono, e Ally rispose dalla biblioteca. Helmond ascoltò la fine della conversazione dal pavimento nel corridoio di fronte, dove sedeva contro il muro nella posizione del loto, simile ad un guru satanico in attesa dell'oscurità definitiva che avrebbe inghiottito la sua anima. «Pronto? Oh ciao, Colin. Niente, perdo tempo. Eh, va ancora di merda. Sì, lo so, ma tu non conosci neppure metà della storia. No, davvero. Be', non fa nessuna differenza. Certo, se vuoi. Ma non aspettarti troppo da me. Non sono di compagnia, di questi tempi. Okay, a più tardi.» Riagganciò e si avvicinò al padre. «Degli amici stanno venendo a trovarmi, va bene per te, papà?» Helmond scosse impercettibilmente le spalle, ma lei intuì il gesto e andò a sedersi al tavolo in cucina. Helmond pensava che la figlia stesse facendo un solitario. Oppure stava leggendo i tarocchi? Era la notte ideale per farlo. Si chiese come Eunice l'avrebbe ucciso, perché ora era davvero sicuro che l'avrebbe fatto. Ne aveva la possibilità, anche se desiderava conservarlo per il momento culminante della sua apocalisse pandemoniaca, visto che per lei sarebbe stato facilissimo rianimarlo, forse per un numero infinito di volte. Non si erano mai accertati di quante volte fosse possibile replicare il processo sullo stesso soggetto. Forse poteva incenerire se stesso per impedirsi di ritornare in vita, o forse Eunice poteva farlo resuscitare anche dalle
ceneri? Il suo era un ragionamento inutile, e così pensò a come le generazioni future lo avrebbero ricordato, se ci fosse stato un futuro. Quanto avrebbero maledetto il suo nome? L'uomo che tradì i viventi; sarebbe stata questa la fama che avrebbe meritato? Be', in tutti i casi era assolutamente irrilevante. Il mondo stava girando sul tornio dell'Inferno, ed era stato lui a modellare il disegno infernale che stava prendendo forma. Qualunque cosa avessero detto di lui, se la sarebbe meritata. Non fu sorpreso quando sentì Eunice chiamarlo dal giardino, ma sussultò di ripugnanza e afferrò la calibro .22. Lentamente strisciò alla finestra vicino alla porta, guardò fuori. E desiderò essere cieco. La sua figlioletta era ritornata, ma non finiva li. Si era portata dietro qualche amico dal cimitero. Quel che Helmond vide non fu una tipica scena da film dell'orrore. I ventitré cadaveri non apparivano tanto minacciosi e cattivi quanto patetici e fuori posto. Sembravano sconcertati e piuttosto imbarazzati, come se fossero dispiaciuti per essere ritornati dalla tomba, e avessero potuto far poco per impedirlo. Era chiaro che avevano ritenuto definitivi i loro traumi terminali, un biglietto di sola andata via da quella Valle di Lacrime che era la vita. E ora che Helmond si trovava di fronte a quei cadaveri umani resuscitati da Eunice usando l'energia vitale riservata ai nascituri, rifletté sulle parole di lei e valutò quale effetto avrebbero provocato le azioni di sua figlia a lungo andare, il drenaggio di energia che avrebbero comportato per le anime in attesa di incarnarsi. Forse le nascite avrebbero sofferto un calo drammatico, negli anni a venire? O i nuovi nati sarebbero venuti al mondo come vegetali immobili e privi di mente? Smettila di pensare come uno scienziato, si rimproverò. Sei in guerra. Comincia a pensare come un soldato. Ma non poteva farci nulla. Si trovava di fronte a un fenomeno inspiegabile che contaminava i suoi sensi, e in qualche modo doveva affrontarlo intellettualmente. Era innegabile che quelli fossero corpi già morti, ma il fatto che adesso potessero camminare e mostrassero segni di consapevolezza indicava che almeno alcune parti (la muscolatura atrofizzata e il sistema nervoso deteriorato) dovevano essere state ricostruite da Eunice. Molti erano davvero in cattive condizioni, anche se il volto di una donna-zombi era bello e perfettamente conservato; o si trattava di un macabro scherzo oppure era una santa. In piedi, vicino a Eunice, c'era un giovane che indossava un abito di ot-
timo taglio. Era il più fresco tra i cadaveri. Sarebbe stato bello, se non avesse avuto una metà del volto mancante. Il preparatore di cadaveri aveva fatto davvero un buon lavoro di ricucitura, ma probabilmente non aveva molta importanza, perché era il candidato perfetto per una cerimonia funebre con il coperchio della bara chiuso, se mai Helmond ne aveva visto uno. «Mio Dio!» esclamò Ally emettendo un suono che era a metà tra un urlo e un rantolo. Helmond non si era neppure accorto che fosse accanto a lui. «Quello è Tommy! Quella cagna ha fatto resuscitare il mio ragazzo.» Bella mossa, pensò Helmond. Molto abile da parte sua. «Certo che ha sviluppato un senso dell'umorismo davvero macabro.» Ally si lasciò sfuggire una risata isterica. «Non intendevo questo, quando ho detto che sarebbero venuti a trovarmi alcuni amici.» Nel turbine di crescente disperazione che minacciava di travolgerlo, Helmond si stupì che la figlia fosse riuscita a scherzare anche in momento del genere, e dopo tutto quel che era successo. Ally era davvero un osso duro. Lo fece sperare che, forse, la morte di Sharon non fosse stata poi così orribile, che forse la sua assistente avesse reagito con la stessa ironia; le due donne avevano qualcosa in comune. Ma visto che si ser t va colpevole per i suoi esperimenti, forse stava solo cercando di far tacere la propria coscienza. «Sei in casa, papà?» chiamò Eunice. «Sono con delle persone, voglio presentartele. Uno di loro è un ottimo amico di Ally. Non vuoi lasciarci entrare?» Helmond sapeva che questo era solo un gioco, un grottesco, beffardo scherzo, perché i cadaveri erano disseccati, fragili, e sarebbe stato relativamente facile liberarsi di loro, anche se erano abbastanza numerosi. Eunice si limitava ad utilizzare i sudditi del suo regno sotterraneo per attaccare la sensibilità dei vivi, un'insolita e alquanto originale forma di tortura. Madre Natura aveva generato una Figlia assolutamente innaturale, che sapeva esattamente cosa fare con le sue creature deformi. Era sempre stata dotata di molta inventiva. «Armati, bambina,» suggerì lui ad Ally. Lei lo guardò. «Con che cosa?» «Non lo so. Trova qualcosa in garage. Un'ascia o qualcosa del genere.» Dopo un attimo di esitazione, Ally obbedì. Mentre Helmond studiava la folla inquieta dei resuscitati, si chiese quanta consapevolezza ci fosse realmente nei loro teschi (alcuni dei quali erano in bella vista). Sembravano umiliati, vergognosi di lasciarsi vedere nel loro
orribile stato dai vivi, costretti da Eunice a offendere il mondo dei normali con la loro presenza. Una donna anziana, i cui vestiti erano marciti più in fretta della carne imbalsamata, stava futilmente cercando di coprirsi i seni raggrinziti e i rugosi e i glabri organi genitali con quel po' di stoffa che era rimasta, e Helmond sentì una grande pietà per lei. E un incredibile disgusto per la figlia. «Non siete molto ospitali,» disse Eunice. «Andiamo, papà. Non vuoi conoscere i miei compagni di giochi?» «Mangia la tua merda e crepa!» le urlò Helmond. Lei ridacchiò. «Ho mangiato qualcosa di peggio della merda, e sei stato tu a darmelo, e come sai non posso morire.» La sua espressione divenne più intensa, e i cadaveri avanzarono verso la casa. Si fermarono a pochi passi dalla porta d'ingresso, lasciando che Tommy Giraud continuasse da solo. Si udì bussare alla porta, ci fu una lunga pausa, poi un altro colpo. Una voce fioca, a stento udibile bisbigliò, «Ally? Sono io, Tommy. Sono venuto a trovarti.» Helmond si rese conto di essere caduto in ginocchio davanti alla porta, di fissarla a bocca aperta con aria idiota. Poi sentì un rumore dietro di lui e, voltandosi, vide lì vicino Ally che reggeva un'ascia con un'espressione allo stesso tempo infuriata e sofferente. Stava fissando la porta, trasalendo a ogni colpo. «Ally, ti prego, lasciami entrare,» sussurrò la voce spettrale del ragazzo morto. «Ho paura. Non so cosa mi sia accaduto.» Ora la voce sembrava impaurita. «Sono morto? Ally, sono morto?» «Sì!» urlò lei al ragazzo attraverso la barriera. «Sì, sei morto. Sei morto in un incidente stradale.» «Oh, Dio,» ansimò il cadavere. «Aiutami! Ho bisogno di te, Ally. Stammi vicino. Ho paura. Mi sento... vuoto dentro. Mi sento come se mi mancasse qualcosa.» Ally si morse il labbro inferiore. «Non è rimasto nulla di te, Tommy. Ritorna alla tua tomba.» Helmond percepì la tensione che minacciava di far crollare la ragazza; notò quanto la figlia desiderasse aprire di colpo la porta per vedere ancora una volta il ragazzo che aveva amato, ma sapeva che sarebbe stato un errore e avrebbe soltanto peggiorato il dolore. «Non voglio ritornare lì,» singhiozzò Tommy. «È buio, freddo e vuoto. Ti prego, non farmi ritornare lì, Ally. Lasciami restare con te.»
Con un ringhio feroce, Ally sollevò l'ascia e aprì la porta. Gesù, Tommy, hai un'aria tremenda, pensò mentre abbatteva l'attrezzo sull'amato che ora si era trasformato in un tormentatore. Quel che era rimasto della testa di Tommy esplose e si ridusse in pezzi; Ally sollevò di nuovo l'ascia e lo colpì ancora una volta, tranciandogli di netto la testa e il braccio destro. Tommy Giraud cadde sui gradini e non parlò più. Scioccata dal proprio brutale gesto, Ally indietreggiò, ansimando con gli occhi sbarrati. Helmond rapidamente le fece scudo, mentre gli altri cadaveri si avvicinavano alla porta aperta. Puntò la pistola contro il primo, un anziano sacerdote che indossava una tonaca rosa dai vermi. Evidentemente Eunice aveva fatto una capatina al vicino cimitero cattolico per risvegliarlo. Helmond era impietrito dall'esitazione, fissava gli occhi immobili dell'uomo che aveva vissuto la sua vita nella grazia di Dio e con la promessa del paradiso dopo la morte. Da dove è ritornato, padre? Cosa ha visto lì? Era quello che si aspettava? La sofferenza che ha incisa sul volto rugoso e raggrinzito è venuta dalla scoperta di essere alla deriva in un vuoto senza Dio, o di essere ritornato ai suoi resti putrefatti? O al fatto di dover gettare lo sguardo su di me: un peccatore, un profanatore di tutto ciò che è sacro? Mi dispiace, Padre. La prego, mi perdoni. Fece fuoco a bruciapelo contro la faccia del prete. Materia grigia e viscida, defluì dalla orribile ferita alla testa; dunque la sua teoria era corretta. Ma in ogni caso, sarebbe stato difficile distruggere quei rianimati; infatti, soltanto altri due spari dritti al cervello fecero cadere l'uomo di chiesa e lo costrinsero ad accettare la morte. La cosa alle sue spalle era una maschera grottesca, un uomo di circa trent'anni la cui testa era ridotta quasi all'osso, con un'orbita vuota. Helmond vi infilò di nuovo la pistola, premette il grilletto e fece esplodere la parte posteriore del cranio. Una notevole quantità di corteccia celebrale fuoriuscì dal buco che si era aperto, ma la sventurata carcassa non crollò. Altre tre pallottole completarono l'opera. Se continuava così, Helmond avrebbe finito le munizioni prima ancora di aver abbattuto una metà degli esseri. Ricaricò in fretta. Poi fu il turno della donna rapita dalla tomba con la testa ricostruita, che indossava una gonna color acquamarina e una giacca, una camicetta di seta bianca con un collo a gorgiera, guanti bianchi con ossa che spuntavano dalle dita. Mentre infilava le cartucce nel caricatore, Helmond ebbe l'impressione che le sue percezioni aumentassero d'intensità; i dettagli si impressero con chiarezza cristallina nella sua mente e li catalogò come uno scienziato pazzo che raccogliesse dati. Come gli altri zombi, anche la don-
na era scalza, con i piedi in decomposizione, frammenti di nylon le coprivano ancora le gambe. Avendole ricostruito soltanto il volto, Eunice stava cercando di dirgli qualcosa, ma Helmond non riuscì a capire cosa. Che andava pazzo per i bei visini? Gli occhi erano color nocciola, i capelli resi di un biondo quasi bianco dalla lunga permanenza nella tomba, il naso, le guance e le labbra erano quelle di una reginetta di un concorso di bellezza. Al momento della morte, non doveva aver avuto più di diciannove anni; cosa l'aveva uccisa? Helmond era riluttante a distruggere un viso di tale bellezza, anche se era legato a un corpo orribilmente sfigurato e sembrava che i suoi tratti fossero tristi. Poi la ragazza aprì la bocca e sputò vermi, ragni, insetti. Helmond utilizzò tutti e sei i colpì per ridurle la testa in un disgustoso ammasso scuro. La nonna pudica entrò subito dopo, quasi con esitazione ed imbarazzo. Posso entrare e insudiciarle la casa? sembrava chiedere, una vittima della vecchiaia, morta normalmente e resuscitata in condizioni decisamente bizzarre. Helmond puntò l'arma e la liberò da quell'agonia con due proiettili nel cranio che lo fracassarono come fosse d'argilla. Prima che le pallottole la colpissero, comparve un lampo di vera e propria paura nei suoi occhi. Paura per il dolore, oppure paura per il luogo in cui la stava rispedendo? Forse aveva avuto paura di ogni cosa per tutta la sua vita, e anche oltre. Gli erano rimaste sedici pallottole, e ora i morti stavano cominciando a entrare in casa a coppie. Ally sembrava troppo paralizzata dallo shock per potergli essere di qualche aiuto al momento, ma lui lo capiva. La sua giovane mente era stata marchiata da un ricordo a cui nessuno avrebbe mai dovuto essere condannato. Una cosa priva di pelle e decrepita si trascinò attraverso la porta: era uno scheletro marrone. Una benda consunta, da cui pendevano ossicini e piume, i resti dei suoi ornamenti, gli cingeva la testa. Da quale tomba era stato risuscitato? E se era davvero un indiano, a cosa stava pensando? Al fatto che i bianchi lo avevano disturbato perfino nelle celesti praterie? Helmond distolse lo sguardo e si concentrò. Doveva fare attenzione. Non poteva perdere il controllo; era ciò che Eunice voleva. Sterminali soltanto, non pensare, non provare nulla. Un omone puntò su di lui, obeso e fuori allenamento, il naso venoso e gonfio, il volto chiazzato da macchie dovute al troppo alcool ingurgitato. Indossava un orribile abito di poliestere verde (non morirei mai dalla voglia di indossare un vestito del genere, fu la battuta prodotta dell'umorimo macabro che provava a mettere in secondo piano la razionalità di Helmond). Con le braccia sollevate, lo zombi gestico-
lava come a voler dire «Salve, siamo gente normale che è stata per qualche anno a fermentare nelle bare. Ora siamo maturi. Scusate se abbiamo un aspetto così disfatto, ma stiamo cercando di essere soltanto amichevoli.» Una brodaglia verde-grigia gli colava dalla bocca spalancata e dalle labbra nere. Dio, quanto odiava Eunice, la detestava, più di chiunque avesse mai odiato prima, ma sapeva bene che una parte di quell'odio lo riservava a se stesso. Quello probabilmente era un rappresentante di commercio, morto per una cirrosi epatica. Troppi pasti a base di Martini, troppa pressione dovuta alla concorrenza, uno Stige di alcool. Helmond sollevò la pistola, pensando, Ne è valsa la pena, amico? Alla fine, hai avuto la tua ricompensa? Scusami per averti causato altri problemi. Notò l'anello massonico corroso sulla mano destra dell'uomo, prima di ridurgli in poltiglia il resto del cervello, che schizzò via dalla testa spaccata. Per la seconda volta privato della vita, il cadavere cadde sul tavolino accanto alla porta tirandosi dietro una lampada. La stanza adesso puzzava come un mattatoio sotto il sole, come la discarica di un intero pianeta morto. Sei zombi erano riusciti a entrare e mentre puntavano su di lui, Helmond venne preso dal panico. Con un proiettile mozzò un orecchio, con un altro trapassò una gola, e col terzo sfiorò un pezzo di epidermide secca che pendeva da un cranio. Colpisci i dannati cervelli, si disse. La rianimazione richiede un sistema nervoso funzionante. Naturalmente c'era sempre la possibilità che Eunice potesse rigenerare all'istante i cadaveri, ma sperò che il procedimento richiedesse uno sforzo da parte di sua figlia. Sparò nell'occhio di un maschio adulto morto in un incendio, poi venne quasi atterrato da un tipo massiccio, un operaio edile. Questo fece infuriare Helmond, e la rabbia lo fece concentrare; mentre con quattro pallottole disintegrava la testa pelata del bestione ebbe il tempo di riflettere sul fatto che i tatuaggi non facevano bella figura su una pelle putrefatta, specialmente quelli che raffiguravano donne nude chiamate Carla. Poi l'indiano cominciò ad infastidirlo, e Helmond fu costretto a usare due pallottole per recidergli di netto il cranio polveroso. Una donna con una cicatrice di sutura lungo la gola gli afferrò una spalla con una mano ossuta. Doveva essere morta soffocata durante un pasto. Helmond si rese conto che ben pochi conoscevano la manovra di Heimlich. Fece fuoco tre volte e la donna cadde sulla sedia bianca di vimini. Ucciderli ancora una volta era forse commettere un assassinio? Perché era costretto ad agire in quel modo? Cosa aveva fatto? Cosa avevano fatto quegli sventurati per meritarsi un simile destino? Quella era la Parusia di Eunice e lui era l'ese-
cutore del Giorno del Giudizio: somministrava una seconda morte a quelle anime, rigettate dai loro luoghi di riposo sotto terra. Come al solito, stava giocando a impersonare Dio. Una vittima in uniforme che risaliva a ben tre guerre addietro si trascinò verso di lui e Helmond premette il grilletto. Ma l'arma non fece fuoco: erano finite le munizioni. La mano incrostata del soldato lo afferrò alla spalla mentre l'altra cercava il collo. Forse questo pensa di essere ancora in guerra, ipotizzò Helmond. Di sicuro conservava un bel po' di spirito combattivo. Buon vecchio addestramento da esercito americano. Semper fidelis, marine. Ally si mosse dalla parete a cui era stata appoggiata fino a quel momento, sollevò l'ascia e la calò con violenza. La testa del soldato venne tranciata di netto, un po' troppo facilmente. Molto probabilmente non era la prima volta che quell'uomo veniva decapitato. Il corpo lasciò andare Helmond e cadde sul tappeto persiano. Il biochimico porse alla figlia la pistola e prese l'ascia, spingendo Ally da parte. Poi riprese ad affrontare gli zombi che avanzavano; ne aveva abbattuti dieci, ne rimanevano ancora tredici. Un uomo con gli abiti a brandelli barcollò verso di lui: era senza naso, senza denti e senza capelli. Senza dubbio, un vagabondo di passaggio a Berkshire che era morto per congelamento nel gelido inverno ed era stato seppellito in una bara di pino da quattro soldi in una fossa senza nome, a spese della contea. Niente funerali, né persone che avrebbero pianto per lui. Anche in quell'occasione era stato sfortunato, come sempre. Helmond urlò involontariamente mentre vibrava l'ascia, come se impugnasse una mazza e la testa del cadavere ambulante fosse una palla da baseball. Il colpo spaccò l'osso parietale e decerebrò completamente il cranio. Questa volta ne uscì del sangue (Eunice si stava divertendo o stava semplicemente sperimentando) e la vista del liquido rosso fece scattare qualcosa in Helmond. Non mentalmente, ma visceralmente. Già si sentiva come un uomo primitivo, un padre primordiale che proteggeva la sua dimora dai terrori notturni, ma il sangue del vagabondo destò un impulso selvaggio nei suoi muscoli, quasi un desiderio, una fame, un istinto di reagire con tutte le sue forze. Adesso, era come se vedesse con altri occhi quei pietosi bruti: occhi sbarrati dalla collera, gli occhi di un distruttore vendicativo, pronto a ripulire il suo territorio da quell'orda uscita dalle fosse. Quasi assordato dal rumore degli spari, era cosparso di sudore per la paura e la stanchezza, e le narici erano otturate dal tanfo degli aggressori. Colpì ancora. Ad Ally il padre improvvisamente apparve più temibile delle macabre
marionette che sfilavano attraverso la porta di casa. Si fece letteralmente largo a colpi d'ascia in mezzo a loro, stritolando la spalla di un giovane che indossava una divisa blu da poliziotto e aveva una sola mascella (l'altra doveva averla persa nell'adempimento del suo dovere), poi si scagliò contro uno zombi con grossi muscoli afflosciati, che aveva la parte anteriore del corpo tutta ricucita. Ally sapeva che era la prova che il cadavere era stato sottoposto ad un'autopsia; forse era un suicida o un assassino. Helmond con un colpo d'ascia gli portò via la testa, dalla quale cominciò a uscire una porcheria grigiastra. Poi Helmond si scagliò contro un tizio tutt'ossa, che indossava un giubbino di pelle da motociclista, incrostato dagli anni; sul di dietro era scritto FIGLIO DEL DIAVOLO. Gli tagliò la testa da orecchio a orecchio con un unico colpo. Helmond sembrava un CroMagnon in abiti moderni, con i lembi della camicia di fuori, i pantaloni stracciati, pronto a uccidere qualunque cose gli si parasse davanti. Una volta, Ally aveva visto un ragazzo in overdose di acidi agire come lui. Quando ebbe finito con i morti viventi che gli erano entrati in casa, Helmond uscì in giardino per sistemare gli altri. Ally si trascinò alla porta per guardare, appoggiandosi allo stipite più lontano da Tommy. Un ragazzo della sua età cercò di mordere il padre con i denti scoperti dalle labbra contrattesi al momento della morte. Rictus, credeva si chiamasse la rigidità improvvisa della morte. Era orrendo. Sembrava un atleta; forse era morto mentre giocava a football; si era spezzato il collo durante una partita importante. Helmond roteò l'ascia e frantumò quei denti marci, poi colpì ancora, portandogli via la testa. Una casalinga che indossava un vestito viola tutto tarlato e gioielli falsi afferrò i capelli del padre con lunghe unghie nere e in cambio ricevette un colpo d'ascia in pieno viso. Il sangue sgorgò dalla grossa ferita, bagnandogli la camicia e macchiandogli il viso. Zombi che sanguinavano... una scena davvero bizzarra. A Eunice, in qualunque cosa si fosse trasformata, sembrava che piacesse giocare non solo con la menti ma anche con i corpi, caldi o freddi che fossero. Di sicuro, qualcosa era andato storto nel laboratorio del padre, era accaduto qualcosa di strano e orribile, per cui ora egli stava pagando il fio. Ally si chiese dove fossero i vicini. La vecchia signora Paulson era decisamente sorda e un po' rimbambita; gli altri probabilmente erano in preda dalla sindrome NEAM: "Non È Affar Mio". Poteva chiamare la polizia, ma, da esperienze precedenti, sapeva che coinvolgere i poliziotti molto raramente portava qualche vantaggio. Inoltre, sembrava che suo padre se la cavasse bene anche da solo; sperava però che la sua salute mentale fosse ancora integra.
Comunque, era chiaro che il padre si stava stancando. Un colpo indirizzato a una testa colpì invece un petto. A pochi passi, la sua sorellastra era in piedi, immobile come un albero, avvolta nella sua pelle-ragnatela, e sogghignava come un'idiota. Evidentemente quella era la sua idea di divertimento. Helmond adesso aveva preso a usare entrambi i lati dell'ascia mentre i restanti sei zombi convergevano su di lui. Ridusse in poltiglia la testa di un ragazzo grasso, tagliò la calotta cranica di una maestrina zitella, poi spazzò via il naso e gli occhi di un vecchio negro con l'estremità del manico. Ally aveva sempre pensato al padre come a un pensatore, una persona amante della tranquillità; era spaventoso, ma in qualche modo anche rassicurante, scoprire che poteva anche trasformarsi in un feroce combattente. I tre cadaveri ancora in piedi lo stavano attaccando con entusiasmo, senza dubbio istigati da qualche segnale inviato da Eunice. Una donna incinta gli tirò i capelli; aveva il collo tanto escoriato che doveva essere morta impiccata. Ally si chiese se anche il feto dentro di lei fosse stato riportato alla vita, ma decise che non voleva davvero pensarci. Una creatura gonfia e grigiastra, che sembrava essere rimasta a lungo sul fondale di uno dei laghi dei paraggi, stava vomitando sul padre gli organi interni infestati di creature acquatiche. Ally capì che presto l'avrebbe imitata. Il terzo esumato era un uomo sulla cinquantina che indossava solamente una grossa fascia elastica addominale, probabilmente la sola cosa che gli mantenesse dentro le viscere. La sua carne era solcata da numerose cicatrici di interventi chirurgici, segno evidente di una lunga malattia terminale. Suo padre riaprì un bel po' di quelle incisioni con l'ascia e ne provocò delle altre, mentre il tizio tentava di colpirlo con dei calci, ma a un certo punto le budella sbucarono per davvero; sembravano palloncini sgonfi. Infine anche quel cadavere cadde, poi suo padre distrusse il cranio coperto di fango della vittima annegata, fin quando essa piombò con un tonfo nella neve. Trovatosi faccia a faccia con la madre suicida ebbe una smorfia di repulsione mista a pietà. Ally pensò di aver capito: la donna era rimasta incinta, si era resa conto di non essere fatta per la maternità, e per questo aveva preferito uccidersi, come alternativa migliore dell'aborto. Era davvero sadico da parte di Eunice averla fatta rivivere per far rivivere a lei e a agli altri una sofferenza così intensa. Il padre cercò di uccidere la donna il più rapidamente possibile, con un primo colpo alla trachea che le attraversò la gola, e un secondo che recise il tessuto connettivo rimasto. Senza testa, l'anima della donna ritornò all'oblio e il cadavere stramazzò. Il ventre rigonfio cominciò
a pulsare e qualcosa iniziò a farsi strada in esso verso l'esterno. Ally si voltò prima di poter vedere chiaramente cosa fosse. Non aveva bisogno di un altro essere che infestasse i suoi incubi. Quando guardò di nuovo, il padre aveva ridotto la cosa in un ammasso informe e sanguinolento e si stava trascinando verso casa. Cadde in ginocchio e strisciò per gli ultimi tre metri, portando ancora con sé l'ascia. Assicuratasi che Eunice non stesse facendo nessun movimento improvviso, Ally lo aiutò ad entrare nell'ingresso, facendosi largo tra i cadaveri e adagiandolo in un angolo. Sedettero sul pavimento in un imbarazzato silenzio per alcuni minuti. Ally cominciò a compiere un esame psicologico di se stessa. Quel che era appena accaduto era peggio di un cattivo trip da acido, e a lei era capitato almeno un paio di volte, ma la sua mente sembrava ancora reggere senza troppi problemi. Non c'era nulla di bello o di sensuale nella morte - o almeno in quel tipo di morte. Pensava che avrebbe potuto morire senza fare troppe storie, ma quando sarebbe arrivato il suo momento, a modo suo, per sua scelta. E in quel momento la sua scelta era di sopravvivere. Helmond, completamente sfinito, anelava a ritrovare la sua razionalità come un uomo che soffocando desideri disperatamente respirare. Nove cadaveri giacevano nel giardino, dieci, se si contava il bambino senza occhi e malformato che la madre morta aveva appena dato alla luce. Tredici di quegli esseri giacevano in casa; Tommy Giraud era metà dentro, metà fuori. Come aveva potuto il suo lavoro intellettuale, pulito, preciso e razionale, provocare quell'orrore? Tutto quello che conosceva, tutto ciò che era, era demolito dal carnaio che lo circondava. «Stai bene?» chiese ad Ally con un enorme sforzo. Gli occhi di lei erano vacui, assenti. Helmond pensò che era responsabile anche di quel dolore. «Sì. E tu?» Poi sentirono un rombo di motociclette fuori della casa. Eunice non aveva ancora finito con loro. Helmond si levò sulle gambe tremanti e guardò fuori dalla finestra, verso un gruppo di cinque motociclisti dall'aspetto poco rassicurante che si stavano avvicinando alla casa... e chi c'era alla testa del gruppo se non Cully Detwiler, con il cervello e il cranio fatti a pezzi dalle pallottole della polizia rozzamente rigenerati? Quei rianimati non avevano assolutamente un aspetto fragile; sembravano grossi e dai muscoli solidi, e gli occhi luccicavano tra macchie cutanee e ossa sporgenti. Il sorriso sadico che risplendeva sul volto dell'omicida diceva tutto: era estremamente felice di essere ritornato in vita, di servire lo spirito folle della
ragazzina che aveva ucciso due volte in vita sua. È la fine, pensò Helmond. Non aveva più forze, né pallottole, né voglia di vivere. Sarebbe morto ora, lì, per mano del maniaco che aveva causato tutto quel massacro. Solo un pensiero lo tormentava: cosa avrebbe fatto Cully a Ally? Doveva sollevare l'ascia, e dopo aver raccolto le forze rimaste da qualche riserva sconosciuta, ucciderla prima che cadesse nelle mani del Pazzo di Berkshire, oppure Eunice l'avrebbe resuscitata affinché potesse godere dei piaceri che le avrebbe inflitto il Figlio di Samain? Ally era appoggiata contro la parete, il volto confuso, spaventato, ma non ancora totalmente sconfitto. Era pronta a continuare a lottare, ma non era rimasto niente con cui potersi aiutare. All'esterno si udì un forte rumore metallico, e alcuni spari echeggiarono nella notte invernale. Helmond guardò in strada, incapace di reagire emotivamente a quello che vide. Un camioncino color dorato si era fatto strada tra i motociclisti, investendo due di loro. Ma ora Cully e due compari stavano stringendo d'assedio il veicolo con i fucili. La gente nel furgone stava rispondendo al fuoco, e apparentemente la mira dei vivi era migliore di quella dei morti, perché a Cully venne ben presto strappato il fucile dalle mani, insieme alle mani stesse, e i suoi amici vennero letteralmente fatti a pezzi sull'asfalto. Il camioncino si aprì e ne uscirono Colin, Bobby e Lucy, gli amici di Ally; i due maschi erano armati di fucile. «Guarda cosa hai fatto al mio camioncino, fottuto cadavere,» urlò Colin a Cully. Cully rise e sputò della melma verdastra in faccia a Colin, ricevendo per tutta risposta un proiettile nello stomaco. Budella insanguinate volarono in aria e penzolarono dall'enorme foro, da cui colava un disgustoso impasto di sangue coagulato. Cully sussultò appena. «Non sai quando farla finita, vero, amico?» Eunice era al centro del prato, e osservava lo scontro con aria non troppo divertita. Sicuramente non aveva previsto uno sviluppo simile. Helmond calpestò le carcasse facendosi strada fino alla porta e con voce strozzata consigliò a Colin, «Sparagli alla testa. Devi distruggergli il cervello per fermarlo.» Colin assentì, anche se impercettibilmente, sollevò l'arma e fece fuoco. Per la seconda volta, la testa di Cully Detwiler venne attraversata da un proiettile ad alta velocità. La carcassa crollò come un sacco nella neve. Ora tutti gli occhi erano puntati su Eunice. Gli amici di Ally la fissavano con allarmata meraviglia. Eunice esitò, mentre una furiosa sfida lampeg-
giava nel suo sguardo. Poi la sua figura snella esplose e scomparve, trasformata in migliaia di filamenti che puntarono verso il cielo e ricaddero ad arco in tutte le direzioni, come lo sbocciare di un fiore alieno. Colin, Bobby e Lucy si diressero verso la casa, evitando i cadaveri che giacevano sul prato ed entrando con cautela nell'ingresso. In loro c'era un misto di repulsione ed eccitazione nei confronti di quegli avvenimenti tanto straordinari a cui era loro capitato di partecipare. «Gente, questi tipi non hanno un bell'aspetto,» osservò Bobby. «Ehm, per quanto riguarda l'uso delle armi,» spiegò Colin, «di solito siamo dei giovani assolutamente amanti della pace, ma da quando a Berkshire sono cominciate a succedere tutta queste strane merdate, abbiamo deciso, beh, che uomo armato, mezzo salvato. Una bella fortuna per lei, eh, Doc?» Helmond annuì, rizzandosi sulle ginocchia. «Vi sono grato.» La forza delle armi. Armi da fuoco... era proprio di questo che aveva bisogno. Fuoco e potere. Dio, dove avevi la testa, Helmond? Puoi usare il fuoco contro la piccola arpia infernale, un fuoco davvero speciale. E se Eunice non vuole avvicinarglisi, sarai tu a portarglielo, Una consegna speciale. Per la nostra liberazione. «Ehi, di nulla,» replicò il ragazzo, scrollando le spalle. «Avete qualcosa da mangiare in questo buco? Muoio di fame.» «Dì, Ally,» chiese Lucy, indicando la forma decapitata e parzialmente smembrata che giaceva sulla soglia. «Quello non è mica Tommy Giraud?» Il biochimico da quel momento si isolò completamente dalla conversazione; la sua mente era totalmente impegnata a pensare a come mettere fine una volta per tutte a quell'incubo; adesso credeva di aver trovato il sistema. FORTIFICAZIONI TOMBALI Era sicuramente possibile, pensò Janice, che si trovasse ancora nella cella imbottita in uno stato catatonico turbato da allucinazioni, perché il mondo esterno, immerso nella notte, in cui stava camminando non le sembrava normale. O forse era davvero fuggita e semplicemente non riusciva a vedere il mondo nel modo giusto - lo stava osservando attraverso il prisma buio e deviante della sua follia. In ogni caso, era come se il suo caos mentale si fosse in qualche modo materializzato nel paesaggio intorno all'ospedale, come se la terra stessa fosse impazzita.
Cosa aveva prodotto quel pianeta alieno, quell'inferno in terra? I cambiamenti erano troppi; tanti da non poter quasi essere enumerati. Per prima cosa, gli alberi. Ogni albero che vedeva era morto; alcuni erano diventati bulbosi, con la corteccia liscia, assomigliavano a cactus, molti erano stati sradicati da tumuli che erano spuntati un po' dappertutto. I tumuli erano davvero strani, sembravano grandi gusci d'insetto neri collegati tra loro da vene spesse e grosse, e formavano una rete che si stendeva all'intera zona. Ogni punto del terreno sembrava essere stato contaminato, trasmutato in una sostanza color ebano simile a osso, o magari fuso da un tremendo calore in vetro opaco, oppure plasmato in forme fantastiche da un delirante artista di dimensioni gigantesche. Qui una catena di costole, là una valle di grandi e piccole labbra, ancora più in là si ergeva un monumento fallico. Un campo aveva l'aspetto di una distesa di intestini strettamente avvolti su se stessi, o forse si trattava di un intricato labirinto creato da un enorme bruco scavatore. Nel paesaggio si profilavano forme imbarazzantemente erotiche: gambe spalancate e pronte all'amplesso, natiche che si ergevano provocanti al di sopra del terreno. Un cranio alto quanto lei apparve sul fianco di una collina rivolgendole un ghigno sarcastico, mentre esseri vermiformi si contorcevano nelle sue orbite. E i tumuli si ergevano al di sopra di quello scenario sensuale e surreale come bunker sepolcrali. Infine c'era una nebbia maleodorante che pervadeva la regione e aleggiava sul terreno, rilucendo giallastra alla luce della luna. Janice si chiese quale fosse la causa di tutto ciò. Ipotizzò che forse qualcosa di veramente enonne aveva strisciato al suolo, era morto e ora stava trasudando nell'aria le fetide esalazioni della sue putrefazione. Dio, era spaventoso. Forse si trattava di un disastro chimico o nucleare. Sì, poteva essere. Avevano trasformato Berkshire in un grande deposito di sostanze tossiche e ciò aveva ucciso l'intero territorio circostante, forse l'intero pianeta. E poi dicevano che la pazza era lei. Continuò a camminare con fatica in quella desolazione fantasmagorica, seguendo la strada, ma non così da vicino da essere vista, affiancata dai due goffi pargoli, aggrappati rispettivamente a un dito di ciascuna mano. Sembravano sentirsi stranamente a loro agio in quell'ambiente trasformato, autentici abitanti di un simile regno, ed emettevano viscidi mormorii spalancando gli occhi con curiosità a ogni grottesco fenomeno in cui si imbattevano. «Non capisco cosa stia succedendo,» disse loro Janice. «È come se la natura fosse impazzita.» Guardò una collina nodosa simile a un paio di te-
sticoli e un'erezione che penetrava in una vagina nel terreno. «Forse qualcosa è caduto sulla terra, le ha dato vita per qualche tempo, ed adesso è morto di nuovo. O forse Dio si è addormentato e ha avuto un incubo? Me lo chiedo davvero.» Janice stava cominciando a sentire freddo, vestita com'era soltanto del camice d'ospedale. Eppure non sentiva tanto freddo quanto avrebbe dovuto. Il suolo irreale sotto di lei era leggermente caldo al tocco dei piedi nudi. Helmond era in laboratorio e lavorava freneticamente. Non aveva aspettato a casa che arrivassero le ambulanze e la polizia; aveva fin troppo da fare. Almeno non doveva preoccuparsi di aver lasciato sola Ally. Era in ottime mani, o così sembrava. E pensare che in precedenza aveva temuto che i suoi amici fossero pericolosi, avendo avuto l'impressione che potessero essere capaci di tutto, il che era vero... grazie a Dio. Pensò che avrebbe dovuto allontanarla da tutta quella faccenda tempo prima, ma sapeva che non avrebbe potuto farlo. La sua presenza, il suo sostegno, la sua fermezza erano stati vitali per lui; aveva bisogno di Ally. Era terribilmente egoista da parte sua, ma non poteva farci nulla. L'egoismo e l'avventatezza erano i suoi più grandi peccati, e avrebbero potuto provocare la fine del mondo. Ora il diavolo era tornato al lavoro, e stava cercando affannosamente di ricordare quei pochi rudimenti di elettronica che aveva imparato. Helmond aveva studiato a fondo elettronica mentre cercava di costruire il primo apparecchio per la rianimazione, ma negli ultimi tempi era stato costretto a chiamare un tecnico professionista per aiutarlo ad approntare un prototipo di proiettore REM. Ora stava tentando di capire come costruirne uno portatile in modo da attaccare Eunice direttamente nel suo covo. Non aveva la certezza che il sistema nervoso ipervitale di Eunice potesse essere sovraccaricato, ma non aveva alternative. La concentrazione di Helmond era disturbata continuamente da riflessioni ed ipotesi sugli zombi. Sembravano mostrare una qualche coscienza delle loro personalità. Non riusciva a capire come potesse essere successo, tenendo conto che i loro cervelli si erano decomposti o (nel caso di Cully Detwiler) erano stati fatti a pezzi. I neuroni erano stati ricollegati insieme, questo era certo, ma al momento della morte gli insiemi quantici delle loro personalità avrebbero dovuto assolutamente e irrimediabilmente disperdersi. Ciò evidentemente non era accaduto. Infondendo loro di nuovo la vita, Eunice doveva aver richiamato nei corpi, intenzionalmente o accidental-
mente, una parte di essi che era sopravvissuta, e forse queste essenze erano contenute nelle strutture genetiche stesse dei corpi in cui una volta avevano dimorato. Erano ritornate... ma da dove? Dal vuoto, dai confini decrepiti dell'eternità? Niente paradiso, né inferno, soltanto un abisso infinito. Eunice l'aveva visto ed era ritornato dal suo vuoto regno per riferirlo. E così, dopo tutto, l'antichissimo mito della vita dopo la morte in un certo senso era vero. L'uomo l'aveva forse intuito? Be', lui non era ancora pronto a convertirsi. Rifiutava di definire "anima" quell'essenza vivente, anche perché non sembrava affatto essere quel genere di spirito incorporeo che ognuno anelava diventare. Lontano dalle attrazioni e dalle sensazioni dell'esistenza, l'aldilà poteva essere tollerabile, ma una volta ritornati sul piano fisico, non si sarebbe provato altro che disperazione, senso di perdita, ci si sarebbe resi conto di quanto ormai si era lontani dal mondo materiale. Forse il sistema nervoso dell'uomo nel corso della vita generava un campo coerente di energia. Dopo la morte, il corpo e l'essenza potevano mantenere una certa continuità, ma il primo non poteva più rigenerare l'energia idonea a rianimare la seconda. A meno che una anomalia come Eunice non giungesse a realizzare un miracolo infernale, utilizzando l'essenza vitale di coloro che non erano ancora nati. Helmond accese un piccolo saldatore e iniziò a saldare due pezzi di metallo insieme, un cono e un disco concavo. Stava pensando a Laz. Non allo sfortunato rhesus, ma al fratello di Marta e Maria di Betania. Quella storia lo aveva sempre infastidito, perché Lazzaro era rimasto quattro giorni nella tomba, mentre i tessuti si putrefacevano, il cervello diveniva un ammasso disseccato di corruzione. Cosa aveva aspettato Gesù? Che il rigor mortis abbandonasse il cadavere? Come si era svolta dunque la resurrezione? Forse il nazareno aveva ristrutturato per ogni cellula inerte un metabolismo funzionante, e poi aveva richiamato nelle membra lo spirito di Lazzaro, dovunque fosse andato? La faccenda suonava familiare. Si poteva porre la questione anche in questo modo: Gesù era forse stato un rianimato ipervitale? Di sicuro, se si flagellava, crocifiggeva e impalava Eunice, quest'ultima non avrebbe avuto alcun problema ad uscire dalla sua tomba, anche dopo essere rimasta per tre giorni nel ventre della terra. Helmond aveva la prova che qualcosa sopravviveva alla morte: un bioplasma che si scorporava. Ma non poteva essere stato scoperto dai profeti delle Sacre Scritture, individui che credevano che il mondo fosse piatto, il cielo solido e le eruzioni vulcaniche fossero le fiamme della perdizione. Sembrava che una speranza nata con la razza umana avesse trovato rispo-
sta nella realtà, anche se la cosa non offriva nessun conforto. Quando arrivava la tua ora indugiavi per sempre in un nulla assoluto, o forse ti dissolvevi in esso. Due morti da subire - una corporale, una astrale. Studiò la macchina che aveva costruito, la sistemò sul ripiano di un banco da lavoro tra rimasugli di fili elettrici e frammenti di metallo bruciacchiato. Dopo ore di tentativi, era riuscito con successo ad adattare ai suoi scopi la batteria d'energia ricaricabile della sala di rianimazione. Progettata per entrare in funzione nel caso avvenisse un calo di energia durante una rianimazione, la batteria era pesante, circa dieci chili, ma Helmond decise che poteva caricarsela sulle spalle in un zainetto. Collegata da uno spesso cavo a un proiettore REM attivato da un interruttore, essa avrebbe fornito energia per dieci brevi accensioni, prima di aver bisogno di ricarica. Aveva saldato al proiettore anche un manico, un beccuccio affusolato per indirizzare più accuratamente il fascio di raggi e uno scudo circolare che lo proteggesse, evitando che fosse di nuovo irradiato. Il proiettore così modificato era lungo circa trenta centimetri e somigliava a un grosso ingrassatore di metallo argenteo. Helmond aveva anche realizzato una fondina di pelle che si adattava alla cintura. Il proiettore era finito, anche se non lo aveva ancora provato. Ora doveva trovare il coraggio per utilizzarlo. Ci sono demoni e morti viventi là fuori, dottore (o stregone?). Cosa farai? Accenderai un falò sulla collina? Creerai feticci e amuleti per tenerli alla larga? Lancerai incantesimi e agiterai le mani per aria? In quella situazione, quei rimedi avrebbero potuto rivelarsi tanto efficaci quanto la sua scienza, ma non aveva ancora intenzione di abbandonarsi alla superstizione. La morte era soltanto la distruzione del corpo, la cessazione delle funzioni vitali, e ora gli uomini lo sapevano. Allora perché la morte li spaventava così tanto? Perché spaventava lui? Perché in tutti noi vive ancora un primitivo ignorante, ecco perché. Sapere che il fulmine era una semplice scarica di elettricità statica non eliminava il timore di quel fenomeno. L'animale che si annidava nelle parti meno evolute del cervello umano si rannicchiava ancora nella pianura primordiale ad ogni scoppio di tuono. Ma gli uomini sono animali dotati di ragione, pensò Helmond. Alla ricerca di sicurezza emotiva, escogitano ogni tipo di assurdi sistemi di credenze che non corrispondono assolutamente alla realtà oggettiva, ma quando devono costruire un rifugio o procurarsi del cibo, si affidano a metodi razionali. Possono tentare di trovare Dio in una chiesa, ma per costruirne una, per prima cosa devono trovare Pitagora e Euclide. La vita riservava molte
sofferenze, e fin quando sarebbe esistito il dolore, sarebbe esistita la religione. Gli sembrava che il concetto, comunque, potesse essere riassunto in questa maniera: l'uomo era legato al suo aspetto razionale quanto lo era a quello irrazionale. Non si può eliminare il Dottor Jekyll dal Signor Hyde. Sperò che la ragione alla fine avrebbe prevalso. Mentre caricava l'equipaggiamento in auto e si metteva al volante, si chiese perché stava per affrontare Eunice da solo. Perché non chiedere aiuto? Qual era la vera ragione? Onestamente? Perché, nel profondo, sentiva che stava per porre rimedio ad un suo sporco peccato, un suo vile segreto. Non una trasgressione contro Dio o la dignità umana, ma contro l'intelletto. Era così; Eunice aveva compiuto cose abominevoli, da quando il processo di necromorfosi era terminato, e Helmond desiderava disperatamente che nessuno sapesse che era stato lui a ridurla così, ma quella non era la cosa peggiore. Era la ferita ricevuta dal suo orgoglio, ciò che lo faceva stare veramente male. Non sopportava che altre persone comprendessero la gravità e l'ampiezza del suo errore, venissero a sapere quale fallimento si fosse rivelata la sua opera. Mise in moto, tremante e teso, e si diresse di nuovo al cimitero di Grange Hill, sperava che fosse per l'ultima volta. Aveva fatto lo. stesso percorso molto spesso in precedenza, ma non riconobbe più la zona. Il paesaggio, pieno di cumuli, era quasi irriconoscibile, una distesa aliena non solo alla Terra, ma alla possibilità stessa di essere stata creata. Era come se un episodio di Ai confini della realtà si fosse avverato, come se l'Ignoto si fosse insinuato nella natura e nelle opere dell'uomo. La mente di Helmond riusciva a stento a dare un'interpretazione alla scena. Il pianeta si stava trasformando in un globo di morti viventi, stava mutando per uniformarsi ai capricci di una follia aliena. Forse si era aperta una breccia nella barriera, il tessuto stesso della realtà era stato lacerato, le leggi fisiche di un'altra dimensione stavano penetrando nell'universo, corrompendo ogni cosa sul loro cammino. Era come se non ci fosse alcuna speranza che l'ordine e la ragione potessero sopravvivere nel mondo. In quel momento, Helmond si stupì dall'incredibile egotismo dell'organismo umano, perché l'unica cosa a cui riusciva a pensare era un passo del Frankenstein di Mary Shelley, che aveva letto dopo la discussione avuta con Sharon. Esso diceva: «Rabbrividii al pensiero che i posteri potessero maledirmi come il loro persecutore il cui egoismo non aveva esitato a comprare la propria pace al prezzo, forse, dell'esistenza dell'intera razza umana.»
Sì, era vero. In fin dei conti, tutto quello che Helmond provava era autocommiserazione, non altruismo, né curiosità o colpevolezza o compassione per le vittime. Era stato prosciugato di ogni emozione, tranne per la sensazione di aver ricevuto un terribile torto dal fato. Ma voleva davvero sapere da dove era venuto il male. La sua fonte non era stata la bambina, poiché Eunice era stata una pedina innocente e torturata, resa folle e perversa da quel che le era stato fatto. Certamente, la fonte non era in lui; non era un uomo malvagio. Sì, aveva mentito continuamente, aveva mentito a se stesso, a Janice, alla povera Sharon, visto che non era stato unicamente spinto dalla limpida luce della scienza. Era stato guidato dal timore, dall'odio per la morte, da una ripugnanza assoluta per la mortalità, ma era soltanto un auto-inganno, non era il male. E neppure la scienza era malvagia, poiché era un potere neutrale da utilizzare per scopi benefici o malefici, e le intenzioni di Helmond erano state delle più oneste. Certo, certo, si diceva spesso che la strada per l'inferno era lastricata di buone intenzioni, ma allora perché tutto questo? Perché gli umani, nella loro limitatezza, non riuscivano a intuire il progetto universale di Dio e così, portando a termine quelli che loro ritenevano atti virtuosi, non facevano altro che sovvertire il disegno celeste? Era quella la risposta? Perché allora Dio ci ha concesso tali facoltà, se non potevamo utilizzarle? Perché tentarci con la mela della conoscenza, se ci era proibito mangiarla? Helmond non ottenne alcuna risposta, durante il lasso di tempo che impiegò per raggiungere la sua destinazione. Col motore ancora acceso, rimase in auto fissando i cancelli del cimitero e chiedendosi come Sharon avrebbe risposto alla domanda. Gli mancava la sua compagnia - era la sola persona al mondo che avrebbe potuto almeno cominciare a capire il suo travaglio spirituale. Forse, alla fine, lo aveva odiato. Forse adesso lo stava osservando, consapevole della sua debolezza e della sua follia? Povera ragazza, non aveva avuto una vita felice, ma almeno non era rimasta coinvolta in quell'incubo. Il vuoto dell'aldilà l'aveva sorpresa? Aveva professato una specie di fede metafisica nella necessità, da parte di un'entità divina, di creare solamente, e non di distruggere. Be', di sicuro, vecchio mio, tu sei stato bocciato a questo test spirituale. Perfino nella teologia edulcorata di Sharon, gli era stata già prenotata la suite migliore nell'albergo più caro dell'Inferno. Spense il motore, poi goffamente si mise in spalla lo zaino con la batte-
ria e infilò il proiettore nella fondina. Uscì dall'auto, senza più dio, senza verità, senza legge, pronto a compiere la sua impresa. A quel punto lo sceriffo Coleridge aveva quasi deciso di unirsi a Dixon nella stanza nel seminterrato dove questi sedeva in pigiama a fissare placidamente l'acquario gorgogliante. Erano due giorni che non tornava a casa, ma la moglie gli aveva telefonato alla stazione per informarlo che il giardino sul retro, come quello di circa trecento altri cittadini di Berkshire, era diventato un giardino di delizie ultraterrene. Quando trovò un po' di tempo per verificare i rapporti ricevuti, scoprì che la campagna alla periferia della città era diventata un oscuro e strano paesaggio lunare, un incubo in cui si poteva camminare perfettamente svegli. Che divertimento. Poi era arrivata la notizia della sparatoria a casa Helmond e, radunate le forze della polizia di contea, ancora una volta si era recato a quel turbolento domicilio. Geronimo, il volto cinereo, lo stava aspettando al centro della strada. Era inquietante osservare una roccia d'uomo come il tenente ridotto in quello stato di nervosismo. «Cadaveri,» gracchiò il tenente. «Un sacco di cadaveri. Vecchi. Dappertutto.» Questo spiegava le profanazioni delle tombe, pensò Coleridge con fatalismo distaccato. «Helmond è in casa?» Geronimo scosse il capo con un ghigno tremulo. «No, ma indovina chi c'è: Cully Detwiler, con il cranio di nuovo spaccato in due.» Coleridge sospirò. Stava cominciando ad averne abbastanza di tutti quei fottuti misteri. «Chi c'è dei vivi?» «Oh, la figlia di Helmond e un gruppetto di suoi amici punk. Non hanno fornito molti elementi.» «Vedremo.» Coleridge attraversò con passo deciso il campo di battaglia cosparso di cadaveri in cui si era trasformato il prato, ed entrò nell'ingresso della casa ingombro di corpi, ripetendosi continuamente che c'era una spiegazione logica (anche se forse non molto razionale) per tutto quello che era successo. Ormai non c'erano dubbi che i bizzarri esperimenti del biochimico fossero la causa dell'ondata di disastri innaturali che avevano colpito la città negli ultimi mesi. Pur non sapendo cosa fare, era determinato a ad andare fino in fondo alla faccenda prima dello spuntar del giorno. Ally e i suoi amici, due ragazzi e una ragazza, erano in salotto a bere birra e a discutere tra loro nei particolari di quanto strani fossero stati gli eventi di quella sera.
«Scusatemi,» disse lo sceriffo. «Posso disturbare voi ragazzi per avere delle informazioni?» «Del tipo?» disse il ragazzo con un'intera collezione di cicatrici sul volto. «Cosa cazzo è successo qui, tanto per cominciare.» I ragazzi sembrarono aver preso quella fase come spunto per tapparsi la bocca, e risero sotto i baffi. Coleridge si voltò verso la figlia di Helmond. «Ti chiami Ally, giusto? Be', stammi a sentire, tesoro, mi sono fatto un'idea abbastanza precisa di quello che sta succedendo, quindi potresti anche raccontarmi tutto. Tuo padre ha combinato qualche grosso casino nel suo laboratorio, e ora i morti sono vivi e i vivi stanno morendo molto in fretta. Non pretendo di sapere cosa sia successo esattamente, ma so che tutto questo è fuori dal suo controllo. Non credi che abbia bisogno di aiuto?» Ally ci pensò su e alla fine decise che la segretezza non serviva più a nulla. «D'accordo. Mio padre ha sviluppato un processo per riportare in vita organismi morti, risanando le ferite e infondendo loro di nuovo la vita. Quando la mia sorellastra Eunice è stata uccisa da Cully Detwiler a Halloween, papà l'ha sottoposta al processo. Ha funzionato perfettamente, per un po'. Nessuno si è accorto della differenza. Ma poi le cose hanno cominciate ad andar male, Eunice è uscita fuori di testa, ha ucciso mio fratello Andy, poi è fuggita. Ora possiede il potere di ridare vita ai morti. Vuole sbarazzarsi di noi, ecco perché ha attaccato la casa. Non conosco il motivo di tanto odio.» Coleridge fece fatica a digerire la cosa; era peggio di quanto avesse sospettato. La cosa più strana era che aveva creduto a ogni parola che la ragazza gli aveva detto. La seconda stranezza era che il tono pacato con cui Ally aveva narrato i fatti. «Dov'è ora tua sorella?» «Nel cimitero di Grange Hill, se lo stato in cui si trova può essere ancora definito vita.» «È lì che ora si trova tuo padre?» Ally annuì. «Penso che abbia escogitato un sistema per eliminarla.» Lo sceriffo si voltò per andarsene e quasi andò a sbattere contro Geronimo, che stava dietro di lui. «Hai sentito la storia?» «Buona parte. Non mi dirai che ci hai creduto anche per un solo istante?» «Non per un istante, ma per il resto della mia vita. Andiamo.» Salirono sull'auto-pattuglia di Coleridge e si diressero verso il luogo del-
lo scontro, augurandosi sinceramente che fosse già finito prima del loro arrivo. Helmond non sapeva da dove stesse attingendo tutta quella forza. Era stanco. Mortalmente stanco. Era passato molto tempo dall'ultima volta che aveva mangiato, dormito o si era riposato, eppure era ancora in piedi, continuava ad andare avanti. Era il suo spirito a sostenere la carne riluttante, sebbene fosse stato attaccato tanto selvaggiamente e ferocemente quanto il corpo. Appoggiandosi a una lapide rovesciata, si fermò pochi secondi per raccogliere le forze vacillanti. Era nel parco giochi di Eunice. In mente gli balenò una orribile visione della figlia: la vide saltellare tra le pietre irte come un demonietto e dischiudere magicamente la terra che copriva le tombe con movimenti rigidi delle braccia distese. Molti pensavano che terriccio e argilla formassero una crosta senza vita, ma in realtà pullulavano di microrganismi, specialmente nei punti in cui la terra conteneva un grosso corpo in putrefazione. Eunice uccideva quel suolo vivente, lo rivitalizzava, assoggettandolo di conseguenza alla sua volontà, e lo faceva spalancare. Poi scivolava nel buco, apriva la bara e osservava la ricompensa per le sue fatiche. Per prima cosa, molto probabilmente doveva toccare i morti, far filtrare il nutrimento dal suo corpo per poi iniettarlo nella carne morta attraverso la mano, o forse un bacio. Poi un'aura violetta scaturiva dalla punta delle sue dita, si trasmetteva al cadavere, rinsaldando i tessuti avvizziti, infondendo nelle cellule morte una luce simile a quella di un sole sotterraneo che le faceva vibrare di nuovo. Quei germogli cellulari avrebbero palpitato nel freddo e torpido guscio, gli occhi ricostruiti avrebbero visto di nuovo, il cervello riplasmato avrebbe ancora una volta conosciuto la coscienza... e l'orrore peggiore che avesse mai potuto immaginare. A quel punto, Eunice poteva ordinare al suo nuovo amico di camminare, o con un battito di ciglia poteva sigillare nuovamente la tomba e conservare quel corpo per una data da destinarsi. Forse il modo in cui lo faceva era ancora più lugubre di quel che lui pensasse. Ad ogni istante un nuovo abominio poteva spuntare dalla terra per assalirlo, ma questo non lo preoccupava. Lo avrebbe fatto a pezzi con il raggio del suo proiettore. Nessun problema, a meno che non si fossero fatti avanti in molti. C'era forse un limite alle risorse della figlia? Poteva sperare di coglierla alla sprovvista? La necromorfosi del mondo sarebbe continuata anche dopo il suo annientamento? Ma non poteva sprecare altro tempo a
ragionarci su. Doveva far ricorso alle sue ultime forze e portare a termine il solo compito che gli era rimasto. Si avvicinò a grandi passi al mausoleo. Un uomo con una pistola a raggi che si aggirava per un cimitero... era così che si vedeva. Non gli sfuggiva l'incongruità di quell'immagine, comica e spaventosa al tempo stesso. Scienza e superstizione sembravano procedere a braccetto, in quel minuscolo angolo della terra dei morti, e la membrana tra i mondi minacciava di lacerarsi. Come percepisse tutto questo, non lo sapeva; forse era un'illusione. Eppure, aveva la sensazione che qualcosa stava per accadere, che alla fine sarebbe riuscito a compiere almeno una parte della sua missione. Stava passando accanto a quella che pensava fosse una statua erosa dalle intemperie, quando questa si sporse e gli afferrò il braccio. Il cuore di Helmond sussultò e gli mancò completamente il fiato. Per un istante si limitò a fissare il duro granito stretto intorno al suo braccio. Poi estrasse di scatto il proiettore dal fodero. La cosa mollò la presa mentre lui cadeva in ginocchio. Helmond puntò e fece fuoco. La pietra esplose in frammenti grigi che furono scagliati violentemente in aria e caddero poi a terra come grossi spaghetti in un raggio di cinque metri. Molti di quei pezzi gli sfiorarono la testa; quelli che lo colpirono non si incollarono. Questa è la tua prova sul campo, Helmond, si disse mentre si rialzava, barcollante. Il proiettore funziona ottimamente. Ma bisognerebbe capire su cosa cazzo ha funzionato. Dai resti non poteva dire nulla. Forse, si trattava di una specie di sentinella. I peli sulla nuca si drizzarono quando pensò che, se ce n'era una, potevano essercene molte altre. Dando una lenta occhiata tutt'intorno al cimitero le individuò, immobili come statue, tatticamente distribuite sul territorio. Sembravano essere state assemblate con parti ricostruite di uomini, animali morti e monumenti del cimitero, ed erano più o meno di forma umanoide. Erano molto ben fatte e dall'aspetto solido, come se si fossero realmente evolute in quella maniera, e la pelle era di un colore smorto, uniforme. Helmond continuò ad avvicinarsi alla fortezza di marmo di Eunice. Zigzagando tra le lapidi, tentò di tenersi alla larga dalle sentinelle. Mentre si addentrava sempre più nel cimitero, notò che non c'erano due di quelle statue che si somigliassero. Erano creazioni nate dall'incubo di un bambino... ce n'era una con la testa di una manta e arti tripli, un'altra simile ad una radice con tentacoli a frusta. Ancora una volta Helmond entrò nel mausoleo, incoraggiato dalla facilità con cui aveva evitato la creature composite. La sua apparecchiatura
sembrava funzionare alla perfezione. Aveva di nuovo il controllo della situazione, per quanto potesse essere limitato. Superò le nicchie in cui erano ospitati i cadaveri (ormai la maggior parte erano vuote) e cominciò a scendere, diretto verso la Cappella di Nostra Signora dell'Abisso. Ma lei sarebbe stata lì? Magari di malumore a causa della sconfitta che aveva patito quella notte, poche ore prima? La mente di Helmond fluttuava tra la paura, che lo esortava a non procedere oltre, e un rabbioso sentimento di vendetta, che lo spingeva avanti. Ho un regalo per te, Eunice. È come una candela esplosiva su di una torta. Sei stata davvero cattiva. Aspetta solo che tuo padre torni a casa, ti strapperò la pelle di dosso. A causa dei suoi esperimenti, della sua superbia, aveva distrutto tutto ciò che aveva. Tentò di ricordare che Eunice era già morta, che l'essere che stava per affrontare non era sua figlia, non aveva alcun legame con lei. Entrò nella sala con il proiettore puntato aventi a sé, e lei era là, in piedi davanti al suo trono, illuminata dalle ossa nelle pareti. Anche se dalla sua espressione traspariva una sapienza di molto superiore a quella che poteva aver acquisito durante la sua esistenza; il viso di Eunice era lo stesso di quello che gli aveva dato il bacio della buonanotte poco tempo prima, che gli aveva rivolto quei sorrisi che Helmond aveva tanto amato, e gli occhi erano quelli di sua madre. «Bentornato papà,» lo salutò Eunice con voce dolce. Helmond percepì del movimento sulla sua sinistra. Ruotò di scatto e azionò il raggio, e un mostro troppo fiducioso venne fatto a pezzi. Ed ecco l'elemento sorpresa che va a farsi friggere, pensò Helmond mentre puntò di nuovo l'arma contro Eunice. Quest'ultima era rimasta chiaramente sbalordita, ma creò rapidamente un essere filiforme, tutto zanne e artigli, formato dal pulviscolo che fluttuava nell'atmosfera. Non era particolarmente massiccio o muscoloso, ma quando l'assalì, Helmond fu costretto ad usare un'altra scarica di raggi per sbarazzarsene. Mentre era occupato con il mostro, Eunice lo superò di corsa, diretta verso l'uscita. Helmond premette il grilletto del proiettore, ma il colpo la mancò di un pelo, facendo esplodere una sezione della parete vivente. Allora Helmond, con due soli colpi rimasti nella sua arma, inseguì la figlia in superficie. Quando uscì di corsa dal mausoleo, inciampò e cadde sul terreno gelido. Eunice gli aveva fatto lo sgambetto. Sentì una altro peso aggiungersi a quello dello zaino che portava sulla schiena, e le sue narici furono invase da un fetore simile a quello di un cadavere putrefatto immerso nel miele. Due manine gelide gli si chiusero intorno alla nuca, iniziando a stringere.
Helmond sentì uno strano formicolio: le sue cellule si stavano preparando a mutare forma. «Ho vinto!» annunciò allegramente lei. «Eunice! No!» All'inizio fu una supplica, poi divenne un comando paterno, e quel che era rimasto della personalità della figlia in quella creatura, obbedì di riflesso. Scese dalla sua schiena e Helmond si girò supino, con il peso dello zaino che lo inchiodava al pavimento come una tartaruga rivoltata. Lei lo guardò con occhi stupiti, mentre il padre le puntava il proiettore sul cuore. Helmond pensò di intravedere la figlioletta sotto quegli strati di follia organica, che risplendeva dalla fiamma guizzante al centro di essi. O era un trucco? Premette il grilletto. Non lo avrebbe mai saputo. Il corpo di Eunice si disintegrò in migliaia di pezzi, il sangue zampillò in mille rivoli, frammenti d'ossa si sparpagliarono come una manciata di dadi. Helmond rotolò di lato e finì in ginocchio davanti alla pozza grigiastra di resti umani. Coleridge e un uomo in borghese che non riconobbe arrivarono di corsa con le pistole in pugno. «Cosa diavolo è successo qui?» chiese lo sceriffo. Geronimo indicò l'ammasso. «Cos'è?» «È finita,» disse il biochimico. Ma il corpo polverizzato si ricompose così in fretta che Eunice sembrò comparire dal nulla. Non aveva né suture né cicatrici né qualunque altro segno, e la sua pallida perfezione si erse alla luce del sole che sorgeva, sogghignando maliziosamente. I tre uomini le spararono contemporaneamente, e questa volta l'espressione sul volto della ragazza tradì una vera sofferenza quando il raggio del proiettore giunse a segno. Quest'ultima dissoluzione sembrò peggiore della prima; Eunice si trasformò in un fetido ammasso grigiastro. «Ce l'abbiamo fatta? Stavolta l'abbiamo presa?» Coleridge era sul punto di mettersi a correre. Helmond controllò il proiettore. Era scarico, ormai inutilizzabile. Ma Eunice si riformò di nuovo, anche se molto più lentamente e in maniera meno perfetta. Quando il processo di ricostruzione fu completo, il volto era quasi un nudo teschio, il corpo scheletrico era avvolto da spessi strati di pelle morta e tutta la bellezza e l'umanità si erano dileguate da quell'essere. Fu allora che i tumuli cominciarono a eruttare.
PARTE QUARTA IL VENTRE DELLA TERRA LE VISCERE DELLA TERRA Fu all'alba che la crosta del pianeta vomitò all'esterno la sua putrefazione. All'inizio, sembrò che una nebbia scura scaturisse dai tumuli, ma presto fu evidente che dagli abissi, insieme ai miasmi, era risalito una torma di esseri marci e deformi. I tumuli più piccoli, simili a pustole, si ruppero e liberarono frenetici sciami di forme minuscole simili a insetti, mentre le protuberanze più grosse e più distanti proiettavano alte nel cielo nuvole di caos nero, oscurando le luminose tonalità del sole nascente. Nell'aria riecheggiò un rombo come quello di un cannone. Coleridge, Moreno e Helmond, assolutamente sbalorditi, osservarono la scena, testimoni della vendetta finale di Eunice. L'apparizione demoniaca che stava loro di fronte ridacchiò con gioia maligna alla vista dei volti impietriti dei tre, poi ritornò nel mausoleo. «Mio Dio,» ansimò il tenente. «Siamo nella merda, e di brutto» rantolò lo sceriffo. Helmond non disse nulla, non desiderando indugiare in quel luogo perché gli esseri usciti dai tumuli si stavano dirigendo su di loro, provenienti da tutto il cimitero. Non si trattava di semplici cadaveri, ma di diverse creazioni, forse clonate da nuove specie di mostri che Eunice aveva tenuto in incubazione nelle pustole comparse sulla crosta terrestre. Sua figlia aveva nel sangue la vocazione dello scienziato, proprio come lui. Quelli erano gli ultimi prodotti del proprio lavoro, della propria vita. Il pensiero lo disgustò. Helmond corse verso l'auto, la mise in moto e si allontanò a rotta di collo, investendo dozzine di omuncoli sotto i pneumatici. Seguito a ruota dai due ufficiali, si diresse verso il laboratorio; non aveva un posto migliore dove andare. Con questa nuova catastrofe che si era appena abbattuta su Berkshire, i poliziotti dovevano tenere a bada la cittadinanza. Non passò molto tempo che si imbatterono nella prima vittima, una giovane donna che faceva jogging, vestita con una tuta color avocado, riversa al suolo mentre cinque mostri la facevano a pezzi. Il biochimico aveva visto la vittima insanguinata, ma si era limitato a pensare che i vivi fornivano carne ai morti, mentre questi ultimi la offrivano ai non nati.
All'università, Helmond si precipitò in laboratorio, si mise a sedere alla scrivania nella penombra, e fissò la sala di rianimazione. Che cosa gli era sfuggito? In che cosa aveva sbagliato? Perché non era riuscito ad infliggere ad Eunice una morte permanente? E dov'era la misericordia divina? Mentre vagava ancora per quel territorio fantastico e infernale, e aveva difficoltà a ritrovare la strada per Berkshire, poiché non c'erano più punti di riferimento familiari, Janice vide i tumuli esplodere intorno a lei. Fortunatamente nessuno era troppo vicino. Meravigliata e incuriosita, per un istante ebbe un moto di riso isterico al pensiero che la terra stesse avendo un enorme sommovimento di viscere. Forse stava defecando l'inferno dai suoi abissi? Quando riuscì a vedere meglio l'orda di figure demoniache che si riversavano dalle protuberanze, ognuna della grandezza di una scimmia, capì che non si era sbagliata poi tanto. Le creature guardarono lei e i suoi due mostriciattoli, li annusarono, decisero che non avevano nulla per cui farsi temere o odiare, e permisero loro di continuare nel loro cammino. Janice ebbe la netta impressione che l'avessero lasciata in pace per merito dei compagni che aveva con sé. Apparentemente avevano un legame con le orribili bestie espulse dalla terra. Il mondo non aveva più senso. Queste nuove creature erano ancora più spaventevoli di Gaspare, Baldassarre e del povero e defunto Melchiorre. Le loro fattezze erano rozzamente umane, o almeno derivavano da quelle della razza umana. Si muovevano come ragni, ma avevano anche qualcosa di simile ai roditori. Grigi, marroni, neri o colorati, robusti e muscolosi, alcuni avevano una massa simile a quella degli insetti, altri una pelliccia irsuta, altri ancora erano ricoperti di aculei; tutti erano il prodotto di una natura impazzita. Una dannata cosa dopo l'altra, pensò Janice. Erano certamente abitanti ideali di quell'incubo in cui sì era trasformata la terra; forniti di becchi, code, tentacoli, scaglie, zanne e pinne, saltavano, strisciavano, correvano, si trascinavano nel paesaggio infernale come se fosse il loro ambiente naturale. Alla fine riuscì a trovare la strada per Berkshire, che pareva assediata dalle creature. La gente urlava, le armi sparavano, macchine stracariche di persone stavano lasciando la città in un disordinato esodo in miniatura. Erano troppo occupati a mettersi in salvo per far caso a quella donna macilenta con i due esseri inumani che le camminavano a fianco. E a Janice interessava solo ritornare a casa per vedere se vi fosse ancora qualcuno.
La casa era aperta e vuota quando vi arrivò, ma era troppo stanca per preoccuparsene. Andò in cucina e mangiò del pane duro e del formaggio ammuffito, dando a Gaspare e Baldassarre l'hamburger andato a male che aveva trovato. Andò in camera da letto e si infilò un paio di jeans e una maglietta, poi si adagiò sul letto per dormire, rannicchiata tra i goffi corpi dei suoi orribili figli. Era bello essere di nuovo a casa. Ally e gli amici avevano assistito all'inizio dell'attacco ed erano usciti per affrontarlo a viso aperto. Non avevano paura; per loro si trattava di una sfida, di un'opportunità, di uno stimolo. Per una volta tanto, i nemici e il male erano evidenti e tangibili, cose su cui potevano sfogare le proprie frustrazioni represse e l'inquietudine generata dalla noia. Lucy aveva una calibro .38, Colin e Bobby i loro fucili a pompa, e Ally la calibro .22 del padre. Per quest'ultima arma, Bobby si era procurato delle munizioni in casa sua. Giravano per le strade di Berkshire investendo i mostri, e sparando a quelli che non erano in strada. Era un gioco bello ma strano, quella caccia a una selvaggina soprannaturale, qualcosa che non avrebbero mai più dimenticato per il resto della loro vita. Alexandra Helmond non conosceva più la disperazione e la paura; e questo da anni. Era al di là della disperazione, in quella che chiamava "deriva". Una deriva attraverso la vita; tutto quello che capitava intorno a lei e perfino a lei stessa era solo una commedia. Il mondo era diventato sempre più folle, man mano che Ally cresceva. Stragi insensate, serial killers, avvelenatori che usavano il Tylenol, incidenti nucleari, fughe di gas chimici che spazzavano via decine di migliaia di persone, aerei civili colpiti da missili militari... chi poteva provare ancora orrore, con quel bombardamento costante di atrocità? Nessuno aveva energia sufficiente per riuscirci. L'indifferenza come risposta all'assalto massiccio subito dalla mente: era quella l'unica soluzione. E a un certo punto si superava perfino l'indifferenza e si abbracciava l'orrore. Ally sapeva che avrebbe potuto essere irradiata o colpita dalla bomba nucleare, violentata o mutilata; prodotti chimici mortali potevano ucciderla per la negligenza di una multinazionale o per un progetto governativo. Non c'era verso di prepararsi a quei possibili destini, ma aveva fatto in modo di vivere quante più esperienze estreme possibili, così lo shock sarebbe stato attutito, almeno in parte. Il suo corpo aveva conosciuto una miriade di stati alterati, che andavano dalla dolore al piacere. Per essere "giusti", secondo lei, bisognava aver visto di tutto e fat-
to di tutto. Lo sterminio di quei nanerottoli grotteschi che invadevano la città non era altro che un'altra esperienza da provare. «Benvenuti, amici miei, allo spettacolo senza fine,» mormorò, più a se stessa che agli altri. «Pronti ad assistere all'orrore.» «Di sicuro sono fetenti, piccoli ma resistenti,» commentò Colin quando fu costretto a sparare una seconda pallottola a una creatura dalla faccia di rospo appollaiata sul ciglio della strada. «Non dirlo a me,» disse Bobby. Sedeva accanto a Colin vicino al portellone laterale aperto del furgoncino. Lucy stava guidando e Ally le sedeva accanto con un fucile a canne mozze, anche se non era armata in maniera appropriata per stare in quel punto. «I cadaveri erano molto più facili da eliminare di queste bestie.» «Questo perché sono nate dagli incubi,» replicò Ally in tono leggermente pensoso, «ed è difficile liberarsi degli incubi.» Sporgendosi da un finestrino in frantumi, colpì una cosa squamósa e rigonfia dritto in mezzo ai tre occhi. «Bel colpo,» disse Colin. «Ehi, guardate quella povera donna.» Si riferiva a una donna che indossava un accappatoio rosa e che era appena uscita correndo da casa sua. Uno scheletro nero in un guscio lucente da scarafaggio le si aggrappava alla schiena come un'arpia. La donna stava urlando. «Ferma», ordinò Bobby, balzando giù dal furgoncino per avvicinarsi alla povera donna. «Salve, signora, siamo la pattuglia antimostri. Ha bisogno d'aiuto?» Senza aspettare la sua risposta, con un calcio allontanò la creatura dalla donna e le scaricò addosso entrambe le canne del fucile facendola a pezzi. La donna sollevò lo sguardo, ovviamente grata, ma ancora traumatizzata e ammutolita. «Ecco fatto, signora. Se ha ancora qualche problema con questi mostri, non esiti a chiamarci. Di questi tempi stanno diventando un grosso problema, sa.» Ally studiò Bobby mentre ritornava al furgoncino e Lucy innestava la marcia. Aveva definito le creature mostri, aveva aiutato la donna, ma lei percepiva che non c'era molta sincerità in entrambi i gesti. Anzi, semmai tutti e quattro avevano un'affinità con quei mostriciattoli vendicativi: sia loro che quelle creature non provavano altro che disprezzo per l'ordinato conformismo e la sicurezza illusoria della cultura della periferia urbana e la cieca mediocrità della classe media. I mostri erano orrendi e distruttivi,
ma almeno stavano scuotendo la gente dal loro mondo piccolo e miope, costringendola al duro impatto con la realtà, svegliandola. La consapevolezza della comunità di Berkshire era stata definitivamente ridestata. «Ehi, avete visto,» disse Colin. «Siamo dei veri e propri dannati acchiappafantasmi, non è vero?» «No,» replicò Lucy. «Siamo come Ripley. Sapete: sterminatori di alieni.» No, pensò Ally. Non siamo niente di tutto questo. Siamo semplicemente cannibali che si cibano dei loro simili. Siamo criminali la cui ira senza un preciso obiettivo sta inavvertitamente contribuendo a risolvere un dramma provocato dalla ricorrente stupidità del genere umano. Improvvisamente ebbe voglia di rivedere suo padre. «Andiamo al cimitero,» disse ad un tratto. «Voglio sapere se è successo qualcosa a mio padre.» Dopo una scrollata di spalle generale, gli amici accettarono il suo suggerimento. Per la terza volta, Helmond stava dirigendosi al cimitero, e ormai si era fatto un quadro completo della situazione. Aveva ricaricato il proiettore REM, e sul seggiolino accanto a lui c'era una piccola capsula di rianimazione che aveva utilizzato quando aveva fatto esperimenti sui topi e i criceti. Valdemar era stato rianimato nello stesso contenitore che ora sarebbe stato usato per distruggere la sua crudele dominatrice. Per due volte la soluzione si era presentata al biochimico, una volta, qualche tempo prima, in sogno e di recente durante una conversazione con Eunice. Vi era uno squarcio nel tessuto dell'esistenza attraverso cui si riversava la forza vitale. La ragazza aveva parlato di un cancello. Dove si trovava quel cancello? Non dentro di lei, come sembrava pensare Eunice, ma nel luogo della sua resurrezione, nel luogo in cui era stato sabotato il corretto funzionamento delle leggi fisiche. Glielo aveva detto il sogno, il sogno in cui Eunice era apparsa come la Triste Mietitrice che protendeva un dito scheletrico attraverso la barriera tra i mondi nella sala di rianimazione, per liberare quell'energia vitale che ora stava permeando la totalità della materialità entropica. Era nella sala che l'equilibrio vita-morte era stato sconvolto; era lì che doveva essere restaurato. Mentre guidava, pensò a quel buco, che sapeva non essere un vero buco ma per il quale non aveva altra definizione. Ora credeva che la sua prolungata vicinanza all'apertura fosse stata la causa di allucinazioni e sogni tanto
vividi: si era avvicinato troppo alla fonte stessa del principio animatore, la causa prima vitae. Oh, vada a farsi fottere pure il latino, si rimproverò, è una lingua morta, tranne per quelli che vivono della morte: medici, avvocati, cercatori di fossili. L'apertura era una frattura nel corso ordinario delle cose, non avrebbe dovuto esistere. E se non la si poteva richiudere, allora il mondo sarebbe divenuto sempre più folle, fin quando non vi sarebbe rimasto nulla di familiare o di accettabile. Sperava che se avesse disintegrato Eunice nella sala di rianimazione, la figlia sarebbe stata risucchiata dalla lacerazione della realtà, che si sarebbe poi sigillata alle sue spalle. Era una teoria degna di un pazzoide, ma d'altronde non aveva più a che fare con avvenimenti logici. Sembrava ragionevole testare il soggetto con diversi metodi in un ambiente da laboratorio, anche se attirare Eunice là era davvero un problema. Ma Helmond credeva di sapere come risolverlo. Il cimitero di Grange Hill fu uno spettacolo sgradevole. Si fermò ai cancelli e lasciò l'auto in moto. Sbirciando attraverso l'inferriata, Helmond fu sollevato nel constatare che c'erano soltanto poche creature dei tumuli a infestare la zona, e molte se ne stavano appollaiate sulle lapidi a sgranocchiare le ossa dei morti. A che punto sono arrivato, pensò Helmond. Soltanto quattro mesi fa la vista di uno solo di questi esseri avrebbe profondamente sconvolto la mia salute mentale; ora non mi sembrano peggiori di topi di fogna. Ritornò all'auto, si infilò zaino e proiettore, prese la capsula ed entrò nel prato costellato di tombe scoperchiate. Avendo in mente uno scopo ben preciso, superò a gran passi i demoni in miniatura. Soltanto uno tentò di saltargli addosso, una lucertola con la testa di capra e il cervello visibile. Helmond lo ridusse in poltiglia. Si diresse dritto al mausoleo e scese sotto terra, per affrontare l'essere senza volto che era diventato Eunice. Solo affrontandola poteva liberare lei, se stesso e l'umanità da ulteriori sofferenze. Eunice si alzò dal trono di scatto quando lo vide. Helmond poteva percepire la tensione della creatura, ma il sottile strato di pelle traslucida intorno alla bocca di Eunice sembrava distorto da un ghigno, come l'osso sottostante. Occhi azzurri privi di palpebre lo fissarono con sguardo di sfida. Era convinta della propria invincibilità, e non era turbata all'idea di avere sembianze da incubo. Helmond sollevò il proiettore e fece fuoco senza indugi. Il corpo deteriorato di Eunice esplose in una galassia di frammenti grigiastri. Quando atterrarono sul pavimento della caverna, cominciarono a pulsare come se-
zioni di intestino, con piccoli movimenti, preparandosi a fondersi di nuovo. Helmond raccolse nella capsula il maggior numero di pezzi possibile, avvitò il coperchio, e riprese in tutta fretta la strada da cui era venuto. Si voltò un attimo per lanciare un'occhiata al corpo di Eunice, che invano cercava di riformarsi, per poi ridividersi ancora. Allora cominciò a correre: il suo piano stava funzionando. Mentre si affrettava a uscire dal cimitero, sottoterra i pezzi di carne ipervitale cominciarono a muoversi ondeggiando, all'inseguimento dei frammenti rubati. Non avrebbero potuto fermarsi o riprendere forma fin quando tutti i frammenti dell'organismo di Eunice non si fossero riuniti. Helmond ritornò nel suo laboratorio e rimase in attesa. DIES IRAE Non appena Ally e i suoi amici furono giunti al cimitero di Grange Hill, si misero subito a sparare con allegra noncuranza ai piccoli demoni sparsi per la necropoli. In quel luogo, erano gli umani a instillare terrore, ed erano i mostriciattoli a dover subire un massacro a causa della loro imprevedibile volontà. In quel cimitero la supremazia dei vivi e la predominanza dell'homo sapiens erano state restaurate non grazie alla scienza, alla fede o ad un parossismo di volontà purificatrice, ma semplicemente grazie a un semplice, febbrile nichilismo. Eppure, nemmeno i quattro ragazzi avrebbero sostenuto che in quell'avvenimento c'era una profonda lezione da imparare. «Be', la macchina di papà non è qui,» disse Ally, quando parve ormai sterminata l'orribile selvaggina a cui dare la caccia. «Forse è tornato a casa o in laboratorio.» «Ehi, andiamo a dare un'occhiata al laboratorio,» disse Colin. «Non ci siamo mai stati. Sarebbe fantastico vedere il posto in cui è iniziato tutto questo casino.» «Ragazzi!» li chiamò Bobby dall'ingresso del mausoleo. «Questa dovete vederla.» I tre lo raggiunsero, rendendosi conto di quello di cui si era meravigliato ancora prima di arrivare sul posto. Piccole e strane forme stavano prendendo il volo dal terreno accanto ai suoi piedi: i ragazzi compresero subito cosa stesse succedendo, anche se non riuscirono a capire il perché. Cose grigie simili a lumache si stavano appiattendo al suolo, assumendo uno spessore millimetrico, per poi sollevarsi in aria, lasciandosi trasportare dal
vento in direzione della città. Un numero sempre maggiore di frammenti tremolanti di quella che sembrava carne putrefatta presero il volo, finché in alto si levò come uno sciame di farfalle dalla consistenza di una ragnatela. Subito dopo scomparvero in lontananza. «Scommetterei che era ...» proruppe Ally. «Eh?» disse Lucy. «Andiamo al laboratorio di mio padre, presto.» E così la pattuglia anti-mostri si mise di nuovo in marcia. Berkshire si era trasformata in un vero macello e Coleridge e Geronimo Moreno erano stati presi in mezzo. I morti erano centinaia, una dozzina di incendi infuriavano senza controllo, molte di quelle creature erano ancora in libertà, anche se si erano annidate nei posti più nascosti della città come cantine, fogne, vicoli. Quella ritirata parziale degli invasori era dovuta in buona parte ai gruppi di adolescenti armati che avevano intrapreso una guerra estemporanea contro di essi. I due poliziotti di solito disapprovavano le tendenze distruttive della gioventù, ma in questo caso erano grati che si fossero manifestati. Da parte sua, Coleridge non si sentiva più un uomo di legge. Aveva visto troppe cose per credere ancora in un sistema retto dalla giustizia civile. Corpi smembrati e mezzi mangiati, bambini sventrati, uomini e donne squarciati e straziati come pupazzi o bambole di pezza: erano visioni che richiedevano una risposta immediata e non fatta di sole parole. Le sofferenze e i bisogni della città avrebbero aspettato. In quel momento tutto quello che voleva vedere era il volto del responsabile del caos, il volto di Leonard Helmond, il volto a cui avrebbe mostrato tutto quello che lui aveva visto, fin quando Helmond non avesse versato lacrime di sangue da ogni poro. «Abbiamo fatto il possibile qui,» disse a Geronimo. «È arrivato il momento di andare dritti all'origine del male.» Geronimo non capì. Aveva passato tutto il giorno a uccidere mostri ed era quasi accecato dal desiderio di morte. In lui si era scatenato il parossismo purificatore. «La fonte? Dov'è?» «Il laboratorio di Helmond. Andiamo.» Si misero in marcia raccogliendo lungo il cammino una folla stordita e barcollante. Janice aveva dormito nonostante la confusione, tanto era esausta. Ora si
era svegliata, rinfrancata e anche quasi felice di essere viva. Preparò per lei e per i suoi piccoli un buon pasto in cucina: hot dogs, uova strapazzate e birra. Gaspare e Baldassarre lo gradirono molto. A Gaspare piaceva il ketchup sulle uova. Quando finirono di mangiare, Janice dovette riflettere su quale piano d'azione intraprendere. Non riusciva a capire perché a casa non ci fosse nessuno. Be', Andy era morto, adesso riusciva finalmente ad ammetterlo, anche se quel pensiero fortunatamente era ancora circondato da una certa aura di irrealtà, e Eunice era stata rapita o qualcosa del genere. Ma forse anche lei era stata uccisa, visto che le aveva fatto visita in cella come un fantasma. Ally non era quasi mai in casa e Len trascorreva quasi tutto il tempo in laboratorio. Troppo tempo, per quanto ricordava. Forse si trovava proprio lì in quel momento. Così i tre si diressero verso l'università, questa volta passando attraverso boschi, campi e strade secondarie. In pieno giorno e con l'ordine ristabilito in quasi tutta la città, potevano destare un'attenzione indesiderata. Inoltre, lei era pur sempre scappata da un ospedale psichiatrico. Helmond era orgoglioso della sua teoria, anche se ormai non riusciva a provare più nulla, o quasi. Sedeva alla scrivania con il proiettore portatile, pregustando la sua vittoria, la fine di quell'incubo. La semplice logica dell'idea lo meravigliava. Eunice era diventata un'entità sinergica, un essere la cui totalità era superiore alla somma delle singole parti. Non avrebbe potuto praticare le sue fantastiche imprese che sfidavano le leggi naturali, a meno che non fosse una gestalt, una spaventosa supersimmetria di forza e di materia. E ora stava cercando di recuperare la sua massa mancante, diretta verso la fine. Alla fine, pensò, la scienza era allo stesso tempo trionfo e tragedia, Prometeo e Faust. Sì, lui era il portatore del fuoco. Lo aveva tra le mani. Certo, esso poteva bruciare, ma anche portare calore e luce, illuminare e rischiarare. Non poteva negare di aver scatenato un terribile orrore contro la razza umana, né voleva farlo. Tuttavia, aveva anche trovato un antidoto... forse. La scienza partoriva la minaccia e poi la annientava: era un circolo vizioso. Cosa implicava? Una sfida più grande implicava rischi maggiori? Una conoscenza più vasta generava crisi più complesse? Era impossibile dire se valeva la pena di correre quel pericolo e provare quell'agonia, oppure no. Era semplicemente il modo in cui si evolveva la specie, ferendosi, guarendo e lottando per ottenere la saggezza prima di commettere acciden-
talmente un suicidio di massa. Dio, umanità, perdonatemi, pensò Helmond, sono soltanto un mortale, dopotutto. Non aveva mai avuto propensione per la religione, ma almeno essa offriva un codice da seguire. Il suo codice, la scienza, lo aveva condotto a un folle destino. Non forniva nessuna grande risposta, non dava riferimenti su come comportarsi, su dove tracciare la linea tra bene e male. Perfino un'anima mercenaria e ferita come quella di Sharon possedeva un concetto di bene e di male. Lui no. La sua idea di bene era ciò che si poteva fare, non quello che si doveva fare. Quando aveva rianimato Eunice, non aveva creato, aveva soltanto cercato di conservare qualcosa che qualcun altro aveva distrutto. Sì, l'aveva conservata, ma salvandole il corpo cosa aveva fatto della sua anima? E cosa stava facendo lei delle anime dei morti? Anima. Un uomo con la sua cultura non avrebbe dovuto far ricorso a una parola come quella. Ma allora come avrebbe dovuto chiamare la sua scoperta? Era così che funzionava. Chiamiamolo col suo nome: necroplasma, il più piccolo residuo della vita. E c'era anche una cosa di cui era certo: i necroplasmi dovevano essere lasciati lì dov'erano, ovunque fossero. La morte era un momento, non una condizione, e una volta che fosse giunta, non poteva essere evitata. Con un brivido che gli sconvolse le budella, comprese che l'attesa era finita. Macchie d'inchiostro grigie e animate stavano scivolando sotto la porta esterna e strisciavano come un'armata di larve con ali di falena, ognuna lunga circa tre centimetri, dirigendosi verso la porta della sala di rianimazione. Dentro la capsula, la sostanza grigia palpitante li attirava, fungendo da esca. I frammenti si affollarono sulla capsula e la ricoprirono. Helmond sentì che il contenitore stava cominciando a spaccarsi. Tutte le particelle erano all'interno della sala. Helmond balzò in piedi, chiuse di scatto la porta e premette i pulsanti che attivavano i tre proiettori rimasti, inondando la sala di radiazioni elettromagnetiche. Eunice si rigenerò quasi immediatamente, con il viso ormai scarnificato e atteggiato a un'espressione di fredda, inumana furia, con gli occhi che fiammeggiavano di fuoco nero. Intorno a lei, la camera ardeva di fiamme violette, simili a un'aurora boreale, che le elettrizzavano i capelli rendendola simile a una Gorgone. La fiamma cominciò a divorarla dal di dentro, dissolvendone il corpo. Improvvisamente il corpo di Eunice si aprì al centro. Era la frattura dimensionale che diventava visibile. La sala esplose, la porta volò via dai cardini. Una folata di aria rovente scaraventò Helmond a terra, accanto alla scrivania. Mentre boccheggiava,
si rese conto che aveva perso la sensibilità alle gambe e che non poteva alzarsi. Sopra la sua testa, l'essenza di Eunice si trasformò in un vortice di un bianco carnoso, con un'apertura simile a uno sfintere, che famelico si apriva e chiudeva ritmicamente nel nucleo. All'interno del gorgo protoplasmatico apparve un cadavere nero. Era rannicchiato in posizione fetale e avvolto in un sacco amniotico. La creatura venne proiettata dal vortice attraverso la stanza. Poi il vortice esplose con una forza che investì Helmond, lo accecò e assordò, lo racchiuse in un universo silenzioso e senza tempo. Gradualmente riacquistò i sensi e si ritrovò ancora riverso sul pavimento del laboratorio. L'aria era satura di polvere. Mentre questa decantava, Helmond vide che il soffitto e tre pareti della stanza erano scomparsi. Da nessuna parte nella stanza e nel laboratorio si scorgevano resti di Eunice. C'era riuscito; l'equilibrio era stato ristabilito. Era rimasto un ultimo abominio da fronteggiare. Helmond era mezzo sepolto dalle macerie ed era quasi incapace di muoversi, ma doveva raggiungere il proiettore portatile. Tre metri più in là, la piccola forma coperta di muco stava rompendo l'involucro membranoso. Presto gli sarebbe stato addosso. Helmond si sollevò sulle braccia. Fitte di dolore gli colpirono il fianco (probabilmente aveva le costole fratturate), ma continuò a sopportare quel tormento mentre strisciava intorno alla scrivania. Costretto a riposarsi, intravide il regalo di Eunice e non fu ricompensato di quello sforzo: il cadavere aveva il suo volto. Fuori del complesso di laboratori si era radunato un gruppetto di persone: Ally e i suoi amici, Coleridge e la folla che l'aveva seguito. Avevano sentito la prima esplosione e visto la seconda, e stavano quasi per arrivare all'edificio, quando udirono una voce urlare alle loro spalle. Si voltarono e videro una donna dall'aspetto malandato che usciva correndo dal bosco, accompagnata da due creature deformi. «Ce ne sono altri,» mormorò Geronimo. Sollevò il fucile e ridusse Gaspare in frammenti traslucidi. Baldassarre strillò, corse in avanti con sorprendente velocità e attaccò Geronimo. Azzannò, strappò, morse e squarciò fin quando non estrasse dal corpo il cuore sanguinante del poliziotto. Coleridge si avvicinò e gli sparò in testa. Janice scoppiò in singhiozzi, inginocchiandosi accanto alla piccola carcassa. «Mamma!» Ally finalmente aveva riconosciuto la donna che piangeva il mostro morto. Si avvicinò a lei, la strinse a sé, e Janice le restituì l'abbrac-
cio quando si rese conto della presenza della figlia. Il gemello infernale di Helmond era nato, e ora lo stava cercando avidamente tra le macerie del laboratorio. Helmond indietreggiava sulla schiena, spingendosi all'indietro con furia frenetica. Le gambe gli erano di scarso aiuto in quel momento. In una mano reggeva il proiettore. Trascinava con sé anche la batteria. Il messaggio di Eunice nel creare l'orribile gemello era ovvio: non puoi sfuggirmi, perché non puoi sfuggire a te stesso. Era vero, almeno a lungo andare. Ma per il momento avrebbe scelto di sopravvivere. Il demone con il suo volto si stava avvicinando, scagliando da parte blocchi di cemento e travi di metallo. Helmond non poteva indietreggiare ulteriormente. Era arrivato all'unica parete rimasta della stanza. Non sapeva se il proiettore funzionava ancora, ma l'indicatore era acceso. Avrebbe aspettato di poter colpire quasi a bruciapelo, per ottenere il massimo effetto. Il mostro si avvicinò sempre più, fin quando non gli fu addosso, e senza barriere più tra loro Helmond poté constatare che la creatura non era veramente un suo ritratto, ma una sua caricatura. La testa era un contorto ammasso di cartilagine nera e ossa gialle plasmate a imitare grossolanamente i tratti del suo viso, il torso era una gabbia toracica aperta da cui pendevano organi rinsecchiti. Helmond sollevò il proiettore e premette il grilletto. Non accadde nulla. Evidentemente l'unità era stata danneggiata durante il crollo del laboratorio. La creatura allungò verso di lui le dita formate solo a metà, e nei suoi occhi stretti e vacui Helmond vide riflessi la propria presunzione e il proprio egoismo. Poi percepì un movimento alle spalle della cosa. Lo sceriffo Coleridge e altre persone fecero irruzione ad armi spianate. Mentre Helmond rotolava per mettersi al riparo, fecero fuoco. La creatura fu fatta a pezzi dai fucili, parti del suo corpo caddero sul pavimento e Helmond fu macchiato dai tessuti e dai fluidi che lo toccarono. Infine il resto della carcassa crollò tra le macerie. Non diede alcun segno di rianimazione. Helmond studiò il gruppo di cittadini mentre si avvicinavano. Erano guidati dallo sceriffo, tra loro c'erano anche dei poliziotti in uniforme, ma la maggior parte erano civili armati, spaventati, quasi impazziti e dall'aspetto decisamente minaccioso. Probabilmente avevano trascorso la giornata a battersi con le creature ctonie di Eunice. Uno dei poliziotti aveva finissimi tratti nordici. Reggeva un forcone come nel dipinto American Gothic, e dai denti dell'attrezzo gocciolavano i fluidi corporei di esseri non umani.
«Sceriffo,» ansimò Helmond. «È finita. Siamo salvi ora.» Coleridge abbassò il fucile. «No. Non è finita! Non siamo salvi. Non saremo salvi fin quando ci saranno in giro persone come te.» Helmond si mise a sedere con un tremendo sforzo e uno spasmo di dolore, e guardò i volti della folla. Era perfettamente in grado di riconosce una folla pronta al linciaggio; se voleva rimanere vivo, doveva fare il discorso della sua vita. Rivolgendosi alla folla disse: «Ascoltatemi. Si è trattato di un incidente. Non si può avere il progresso tecnologico, senza correre determinati rischi. Questa è la realtà. Vorreste ritornare all'Età della Pietra? Vorreste forse vivere solo trent'anni, morire per un raffreddore, un'influenza o un taglietto, o essere continuamente in balia degli elementi? Tutti gli agi di cui gode la nostra civiltà sono stati ottenuti ad un certo prezzo, durante l'evoluzione storica. Certo, la fissione dell'atomo ci ha posti sotto l'ombra della morte nucleare, ma ci ha anche regalato una fonte di energia quasi infinita e ci ha permesso di analizzare l'esistenza al suo livello fondamentale. Non capite dunque perché ho rischiato? Non sapete cosa stavo cercando? Ho trovato il modo di abolire la morte, una volta per tutte. Avrei dovuto rinunciarci perché era pericoloso? Ero obbligato a seguire quella visione. Con quello che c'era in gioco, non c'era altra scelta possibile!» «Potevi pensare a noi!» urlò Coleridge. Qualcuno nella folla gli porse un'ascia antincendio. «Potevi pensare a tutta la gente a cui avresti causato del male, a tutti quelli che avrebbero potuto soffrire. Invece ci hai fatto subire l'inferno per scontare i tuoi peccati personali!» La folla, nervosa e leggermente confusa si scambiò degli sguardi. Helmond li aveva conquistati! Con le sue parole aveva instillato loro il dubbio, come succedeva sempre, come era successo con gli attivisti per i diritti degli animali. Ma si stavano di nuovo avvicinando. La tregua nella loro avanzata era servita a raccogliere la loro collera. Sarebbe morto, come il suo diabolico doppio, uno spaventapasseri per tenere lontani i corvi del progresso. Un tempo era vissuto un altro Orville, rifletté, un genio che si era librato in alto davanti agli occhi dell'umanità, che aveva dato alla sua specie il dominio del cielo, e che per questo era ricordato con rispetto. Eppure si era limitato a sconfiggere la gravità. Helmond aveva sconfitto la morte stessa, ma a causa di quella vittoria sarebbe stato ucciso e ricoperto di infamia. Poteva forse biasimare la folla? No davvero, ma essere sacrificato sull'altare della paura era l'ultima sorte che si sarebbe aspettato. Non era giusto,
ma presto avrebbe saputo quanto tempo resisteva la coscienza una volta separata dalle spoglie mortali, se era eterna o relativamente passeggera. Poiché era il primo uomo che moriva con una certa conoscenza dell'aldilà, aveva una missione nella morte. Stava per sottoporsi all'esperimento finale. A dispetto delle sue convinzioni, desiderò che ci fosse un Dio da pregare o da maledire, o che almeno stesse assistendo alla sua morte. Coleridge, il volto simile ad una maschera kabuki, distorto dalla sete di sangue, sollevò verso l'alto l'ascia e la vibrò contro la spalla sinistra dello scienziato, polverizzandogli la clavicola e tagliandogli il muscolo trapezio. Helmond penetrò immediatamente in un nuovo universo di purpurea agonia abbagliante. Lo sceriffo sollevò di nuovo l'arma e colpì di lato il collo del biochimico, recidendogli la giugulare. Sgorgò un fiotto di sangue. Poi il poliziotto dal viso nordico infilzò le quattro punte del forcone nelle costole già fratturate di Helmond. L'intera moltitudine si gettò su di lui. Coleridge continuò a colpirgli il collo; gli altri gli straziarono il corpo con pezzi di metallo e pietre, facendolo a brani. Quando la testa fu separata dal corpo, ridotto a un ammasso di carne, si fecero indietro per osservare inorriditi lo scempio che avevano compiuto. Janice e Ally irruppero tra la folla, le loro grida finalmente udibili nel silenzio. Caddero in ginocchio alla vista del corpo, abbracciandosi a vicenda. Ritta su un blocco di cemento, con gli occhi e la bocca che si muovevano, la testa mozzata disse «Ma l'ho fatto per amore...» STAGIONI DELL'OSCURITÀ Simile a un macabro amuleto voodoo un topo nero chiamato Lugosi fluttuava in una soluzione salina satura di proteine, in attesa di essere rianimato dallo stato privo di vita a cui era stato ridotto da una sonda d'acciaio infilata nel cervello. I proiettori REM furono attivati e un fuoco di S. Elmo violetto avviluppò il cadavere. Alle spalle del professor Amos Pindarin dell'Università di Princeton, Alice Holliman osservò il roditore morto nella capsula, visibile attraverso l'oblò d'osservazione della sala di rianimazione. Era molto tranquilla, con la mente limpida, e certa del risultato dell'esperimento. «L'aura caratteristica è ora visibile.» Pindarin parlava in un registratore. «Helmond ha descritto questo fenomeno come fuoco di Sant'Elmo, in ma-
niera appropriata, ma in un certo senso in termini metafisici. Lo spasmo che indica la resurrezione, che ricorda la contrazione mioclonica di soggetti immersi nel primo stadio del sonno, dovrebbe verificarsi da un momento all'altro.» Passò un minuto, ma la creatura rimase ancora inerte, anzi, se possibile, divenne ancor meno vitale di prima. Pindarin aggrottò la fronte, nel fissare furente il soggetto che lo stava defraudando della fortuna e della gloria anelate e che negava alla razza umana la sua ricompensa più grande. Dopo aver atteso pochi altri secondi, spense i proiettori e abbassò lo sguardo sul pavimento. «Non riesco proprio a capire.» Si voltò verso l'assistente, l'alta e misteriosa bellezza dai lunghi capelli neri, che di solito indossava occhiali da sole. Era l'unica consolazione quel fiasco. «Helmond deve aver messo delle trappole nei suoi appunti di ricerca, omettendo informazioni vitali, impedendo così la duplicazione dell'esperimento. Ha eseguito una doppia verifica, non è vero, Alice?» L'assistente sorrise sarcasticamente, ma in modo quasi impercettibile. «Naturalmente, professore. Come dice lei, Helmond deve aver lasciato alcune lacune negli appunti che lei non ha scoperto.» Pindarin aprì la porta della sala. «Be', che io sia dannato se ho idea di quali fossero. C'è bisogno di un'intelligenza superiore alla mia per individuare e colmare quei vuoti.» Alice lo aiutò a rimuovere Lugosi dal serbatoio. «Doveva avere un presentimento inconscio di quanto grande fosse il rischio che le cose potessero andar storte nell'esperimento. Ecco perché ha preferito non svelare completamente il suo modus operandi.» Alice rimase per un attimo in. silenzio. «Professore, lei non si è mai preoccupato di qualcosa del genere? Cioè, che quest'esperimento avrebbe potuto sfuggirle di mano, come è successo in precedenza?» «Cosa? Oh, no, mia cara. Sappiamo dove Helmond ha sbagliato, conosciamo gli errori che ha commesso. Qui a Princeton non si ripeterà certo il disastro di Berkshire.» Sospirò; in quel momento, sembrava molto più vecchio. «Inoltre, ormai è inutile discutere. Ho fallito, eppure mi vanto di essere lo scienziato più qualificato in questo campo.» Alice gli appoggiò gentilmente la mano sulla spalla. «Non ha bisogno di falsa modestia, professore. Tutti i suoi colleghi concordano al riguardo.» «E sia. Ma se è vero, allora il segreto di Helmond è perduto per sempre. Si è trattato di un colpo di genio irripetibile, che forse per secoli sarà im-
possibile riscoprire. È un peccato, se si pensa a tutti coloro che moriranno senza necessità, prima che giunga quel giorno.» Uscirono dalla stanza e Pindarin distese il cadavere bagnato di Lugosi sul banco da lavoro. «Alice, temo che non avrò più bisogno del suo aiuto. Devo rinunciare alla sua collaborazione.» Lei annuì. «Non si preoccupi. Me la caverò. Ho diversi talenti.» Il professore indicò il topo. «Sì, ma questo l'avrebbe resa famosa.» Quell'affermazione la fece trasalire leggermente. «Non desidero troppo la fama. Senta, perché non torna a casa? È chiaro che è abbattuto. Io, intanto, eseguirò l'autopsia di Lugosi per constatare se ci sono stati cambiamenti fisici interni; poi ripulirò tutto e scriverò le conclusioni nei suoi appunti. Okay?» Pindarin accennò di sì con la testa. «Molto bene. Mi dispiace davvero. Lei è una studentessa brillante, Alice. Spero che continuerà a lavorare su questo tipo di ricerche.» Alice fece spallucce. «Forse. A volte mi sembra che la vita duri abbastanza e prolungarla non mi sembra necessario.» Il biochimico le prese le mani nelle sue. «Sì, ma lei ha un dono e non deve essere egoista nell'elargirlo. È una questione troppo importante perché una persona sola possa prendere delle decisioni.» Su questo hai ragione, pensò Alice. «Grazie, professore. Lo terrò presente.» Lui annuì di nuovo e sembrò soddisfatto della sua risposta. «Be', allora buona notte. E grazie ancora per il suo aiuto.» «Buona notte, Amos.» Rimasta sola nel laboratorio, Alice Holliman, alias Alexandra Helmond, prese Lugosi con un paio di pinze di metallo e lo portò a passi lenti all'inceneritore. Lo gettò dentro, lo sottopose a due cicli completi di fiamme capaci di consumare le ossa, poi guardò all'interno per assicurarsi che non fosse rimasto nulla. Il pericolo era scongiurato, almeno per ora. Non odiava sul serio Pindarin; in effetti voleva abbastanza bene a quel vecchio sciocco, che in realtà era molto più brillante di quando lui stesso credesse. Il padre di Ally aveva davvero lasciato delle lacune nei suoi appunti sugli esperimenti, e molto probabilmente per i motivi che lei aveva addotto al professore, ma Pindarin era riuscito a colmarle tutte! Era dovuta ricorrere al sabotaggio per assicurarsi che la rianimazione non avesse luogo, e aveva dovuto farlo di nascosto, per evitare che Pindarin se ne accorgesse o sospettasse di lei.
Ally si era assunta il compito di custodire il segreto di Orville Helmond, poiché aveva trovato gli appunti del padre tra le macerie del laboratorio. Sapeva che ci sarebbero stati pazzi impulsivi che avrebbero provato a replicare gli esperimenti, e così si era messa a studiare con diligenza per due ragioni: comprendere quello che era scritto nelle note del padre, e poter entrare in qualsiasi università o lasciarsi assumere in qualunque laboratorio di ricerca privato in cui venisse studiato il Procedimento Helmond. Aveva avuto sentore che Amos Pindarin stava per tuffarsi nelle arti oscure mentre stava scoraggiando le aspirazioni di un arrogante e giovane biochimico all'Università di Eldon, Massachusetts. Il giovane si era rivelato abbastanza incompetente, e così lei aveva cambiato università il più in fretta possibile. E ora aveva compiuto la sua missione. Janice si era ristabilita e si era risposata. Il marito, Lloyd Bergson, uomo di non grande intelletto, gestiva un negozio di abbigliamento maschile e l'aveva aiutata a realizzare il suo sogno: aprire una boutique. Si tenevano in contatto, ma Ally aveva la netta impressione che vedere la primogenita di Helmond comportasse per Janice una grossa sofferenza, poiché le ricordava le mostruosità e le morti che avevano distrutto il suo matrimonio e la sua famiglia. Ally ne era un po' ferita, ma la capiva, e aveva coltivato quella natura fredda e calcolatrice che le era necessaria per dominare il genio maligno che il padre aveva lasciato uscire dalla lampada. Non aveva più fatto visita a Janice. A Berkshire avevano spianato con i bulldozer i macabri tumuli creati da Eunice, e la città era ritornata più o meno alla normalità. Alla Manchester University non erano più permesse ricerche biologiche di alcun tipo, il nome di Orville Leonard Helmond non era assolutamente pronunciato, e di tanto in tanto venivano avvistate alcune creature di Eunice nelle fogne o nei cimiteri. Ally era stata costretta a cambiare legalmente cognome, il che si era rivelato perfetto per i suoi piani. Per lei quegli anni erano stati bui e solitali, all'inizio segnati dalla tristezza e dal pianto e in seguito con la fine di ogni sentimento. Ally aveva un solo scopo nella vita: assicurarsi che quello che era successo a lei e ai suoi cari non accadesse mai più. Doveva tenere vivo nella mente l'incubo, in modo da impedirgli di manifestarsi ancora una volta nel mondo. Per lei, tutte le stagioni erano tristi e fredde, stagioni di morte, ma era una vita per cui era stata allenata. La società l'aveva preparata all'orrore e ora lei stava proteggendo la società da quest'ultimo. Tuttavia non aveva bruciato gli appunti di suo padre. Sentiva di non a-
verne il diritto, perché, come aveva detto il professor Pindarin, era una decisione troppo grande perché potesse prenderla una persona sola. Aveva le chiavi della morte e dell'inferno, proprio come Eunice l'aveva ritratta in quel quadro dipinto tanto tempo prima, e che adesso era appeso ad una parete del suo tetro appartamento, accanto al crocifisso infernale. Quando sarebbe giunto il momento, li avrebbe affidati al figlio, o forse al nipote, se mai ne avesse avuti, se avessero dimostrato di essere abbastanza saggi e se l'umanità l'avesse meritato. In caso contrario, avrebbe portato con sé il segreto fin nella tomba, forse come ironia definitiva. Nel suo triste destino c'era almeno un aspetto favorevole: dal momento che la sua vita era priva di felicità o di luminosità, non desiderava che essa continuasse più del dovuto, e di conseguenza non aveva mai avuto la tentazione di sfruttare per i suoi scopi la conoscenza proibita che conservava. Per salvare i vivi, ci si poteva fidare soltanto dei morti, si diceva spesso. Terminò di pulire il laboratorio, poi lasciò l'edificio, indossando gli occhiali da sole a specchio alla luce della luna e pensando al padre. La sua testa era vissuta soltanto pochi secondi, dopo aver pronunciato la propria giustificazione finale. Presumeva che il padre fosse riuscito a rianimarsi per pochissimo tempo a causa di una dose di REM ricevuta fortuitamente in una qualche occasione. La folla, in preda ad una frenesia superstiziosa, aveva imbevuto i suoi resti di gasolio e li aveva bruciati. Nessuno era mai stato incriminato per quell'assassinio, un fatto che l'aveva mal disposta nei confronti della razza su cui vigilava. Suo padre era stato un uomo ingegnoso, ma sfortunato, e lei gli voleva ancora bene nonostante tutto. Forse, un giorno, la sua figura sarebbe stata considerata come una tra le più nobili e brillanti di tutti i tempi. Ma fino ad allora, suo padre, come del resto lei stessa, avrebbe dovuto rimanere tra le schiere dei dannati. FINE