Pubblicazioni del
CENTRO DI RICERCHE DI METAFISICA (nato nel 19 31 e Il nome d 1. Werner Beierwaltes , . . , d. M Umverslta di filo sofia nell . d 11. onaco d. . pro f essore f di Baviera) si è imposto ra qu~ 11l eg l stu tosi ·· La .bsua . aud t. pnmo p iano a livello in ternaziOnale. . d torità risulta collegata so prat tu tto ar contr~ utt . a lui dati per la conoscenza del Neoplatomsmo m tl.colare e in oenerale per la conoscenza della par ·o · non so lo ne Il' a~ b.tto d el storia dei 'suoi· mflusst, pensiero antico, ma anche nel corso _dell r?tero arco del pensiero occidentale: dall~ ftlo_softa tardoantica cris tiana al medioevo , al nnasctmento, alla filosofia moderna e contemporanea. Il taolio e l'impostazione della sua indagine hanno 0 uno spessore teoretico notevole, su basi. storic~ mente e filologicamente be n fondate, e, tn particolare, hanno un interesse squisitamente metafisica. In questo libro Beierwaltes dimostra che il pensare metafisica è, fin dalle sue origini, determinato in maniera veramente essenziale dalla domanda che concerne il nesso antologico sussistente fra l'Identità e la Differenza, sia che, come ad esempio in Parmenide , la Differenza (o Alterità) non risulti affatto legittimabile, sia che, come ad esempio in Platone, si pensi la Differenza come un costitutivo strutturalmente necessario dell'essere. Questo problema dell ' Identità e della Differenza e del loro nesso viene trattato da Beierwaltes so tto differenti aspetti e secondo differenti ottiche: viene studiato nel Platonismo e nel Neoplatonismo, nella trasformazione che esso subisce mediante la te_ologia cristiana in Mario Vittorino, in Agostino, m Eckhart, oppure sotto vari influ ssi di istanze moderne in Cusano e in Bruno o nell' Idealismo tedesco di Schelli ng e di H~gel. [segue nell'altro risvolto]
Sezione di Metafisica e storia della metafisica 4.
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CENTRO DI R.I CERCHE DI METAFISICA dell'Università Cattolica del Sacro Cuore Largo A. Gemelli, l - I-20123 Milano
Comitato scientifico: Adriano Bausola Carla Gallicet Calvetti Virgilio Melchiorre Angelo Pupi Giovanni Reale Mario Sina
Werner Beierwaltes
Identità e Differenza
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Traduzione di Presidente: Gustavo Bontadini
Direttori: Adriano Bausola Giovanni Reale
SAL v ATORE SAINI
Introduzione di ADRIANO BAUSOLA
Sezione di Metafisica e storia della metafisica diretta da Adriano Bausola e Virgilio Melchiorre
VITA E PENSIERO Pubblicazioni della Università Cattolica del Sacro Cuore Milano 1989
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Titolo originale: Identitii.t un d Differen z ( 1980)
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HENRY DJEI
prima edizione italiana: gennaio 1989
Questo volume viene pubblicato con contributi del «Centro di Ricerche di Metafisica» e del «Dipartimento di Filosofia» dell 'Università Cattolica
© 1980 Vittorio Kl ostermann - Frankfurt am Main © 1988 - Vita e p .
enstero - Largo A. Gemelli l - 20123 Milano ISBN 88-343-0275 -3 (b rossura) ISBN 88-343-0279-6 (n.1egato)
Sommario
Introduzione di Adriano Bausola: Significato e importanza dell' «Identità e differenza» di Werner 13eierwaltes
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Prefazione
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Parte prima: Identità e differenza nel Platonismo e nel Neoplatonismo. Platone - Plotino - Proclo - ps . Dionigi Areopagita
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Il «non-essere è» in Platone Fondazione della problematica dell'identità e diffe renza in Plotino III. Sviluppi della prob lematica dell 'identità e differenza in P roclo J.V. Trasformazione della problematica dell'identità e differenza nella teologia di ps. Dionigi Areopagita l.
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Parte seconda: Identità e differenza nel pensiero ta rcloanticocristiano e medievale . Mario Vittorino - Agostino - Meister Eckhart
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L"'" Trasformazione cristiana del nesso di identità e differenza con
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Mario Vittorino Il. Creatio come posizione della differenza in Agostino ( fii. Distinzione mediante indistinzione in Meister Eckhart
Parte terza: Identità e differenza nel pensiero del Rinascimento Cusano - Giordano Bruno
91 li ! 134
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l.
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Il.
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Identità e differenza come principio del pensiero cusaniano Visio absoluta. Riflessione assoluta in Cusano III. Identità come differenza? Intorno alla cosmologia e alla teologia di Giordano Bruno
208
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SOMMARIO
Parte quarta : T rasformazioni e sviluppi della problematica dell'identità e differenza nell'idealismo tedesco. Schelling ed Iiegel I.
Il.
Identità e differenza assoluta. Implicazioni neoplatoniche nel «Bruno» di Schelling Differenza, negazione, identità. Il movimento riflessivo della dialettica hegeliana
Parte quinta: La critica della concezione metafisica dell'identità nel pensiero contemporaneo. Adorno e Heidegger Il non-identico in Adorno. Critica alla identità e la distinzione negativa come rimedio II. L'arte come rappresentazione del non-identico in Adorno III. Il non-identico attraverso la mimesi in Adorno IV. La musica come la forma più intensiva del non-identico in Adorno V. Il linguaggio come ricerca del non-identico secondo Adorno :i. Martin Heidegger. La sua tesi dell'«oblio dell'essere» messa in 7 dubbio dal pensiero neoplatonico
Introduzione di Adriano Bausola 239
241 280
311
I.
Indici
Significato e importanza dell' «Identità e differenza» di Werner Beierwaltes
313 328 343 351 360 365
379
Il nome di Beierwaltes si è imposto ormai da alcuni anni fra quelli degli studiosi di primo piano a livello internazionale. La sua autorità risulta legata soprattutto ai contributi da lui dati alla conoscenza del Neoplatonismo, e in particolare di Platino (Plotin, Ueber Ewigkeit und Zeit. Enneades III, 7. Text griechisch-deutsch eingeleitet und kommentiert, Frankfurt am Main 1967; 1981 3), e di Proclo, al quale ha dedicato un volume che imprime una nuova direzione agli studi moderni su questo autore (Proklos, Grundztige seiner Metaphysik, Frankfurt am Main 1965; 1979 2; tradotto in italiano e già pubblicato nella collana del «Centro di Ricerche di Metafisica» parallela a queste). Gli interessi di Beierwaltes, tuttavia, si estendono all'intero arco del pensiero filosofico occidentale, incentrandosi su alcuni pensatori cristiano-medievali, rinascimenta/i, moderni e contemporanei. Inoltre, il taglio e l'impostazione della sua indagine proprio su basi storicamente e filologicamente ben fondate, hanno uno spessore teoretico notevole, e in particolare un interesse squisitamente metafisica. Proprio il volume che ora presentiamo mette bene in evidenza tutti questi elementi. I numerosi capitoli che lo costituiscono nell'edizione italiana sono stati divisi da Beierwaltes in cinque gruppi: un primo incentrato sul pensiero antico, un secondo incentrato sul pensiero tardo-antico cristiano e medievale, un terzo incentrato sul pensiero rinascimentale, un quarto sul pensiero moderno e un quinto sul pensiero contemporaneo. I filosofi presi in esame nel primo gruppo sono Platone e i maggiori Neoplatonici. L 'indagine riguardante Platone, si incentra soprattutto sul Sofista, dialogo in cui, per la prima
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volta in maniera !ematica e approfondita nel pensiero occidentale, viene messo a tema il grande problema del nesso di identità e differenza, e, superando Parmenide, viene incluso nella problematica dell'essere anche il non-essere, inteso appunto come alterità e differenza. Ovviamente, come Beierwaltes esplicitamente rileva, la problematica del nesso identità e differenza nasce con lo stesso sorgere della problematica metafisica. Nello stesso Parmenide la questione dell'alterità risulta determinante, anche se respinta dall'identità (l'unica legittimabile dal punto di vista speculativo), proprio nel gioco che essa esplica dal punto di vista di esclusione negativa; mentre in Eraclito il nesso positivo di identità e differenza emerge in primo piano come la ben nota «armonia degli opposti»; e in Democrito (e proprio in polemica antieleatica) si incentra sulla questione del pieno e vuoto. È soprattutto con Platone, però, che il problema del nesso di identità e differenza si impone come irrinunciabile, e l'essere emerge nella sua complessa articolazione, che implica strutturalmente la differenza. L 'impostazione che Beierwaltes dà alla sua rilettura del Sofista implica la tematizzazione dei rapporti del problema del nesso identità e differenza con il problema del nesso dei rapporti fra uno e molti, cui, in ultima analisi, si riconduce come a sua matrice. L 'idea platonica è, nella sua struttura metafisica, l'atemporale identico metafenomenico di ciò che è differente temporalmente e fenomenicamente, e che permette di identificare, universa/izzandola, ogni cosa singola (differente) secondo un nesso strutturale. Ebbene, appunto questo nesso dell'identità fondante la differenza coincide con il nesso di unità e molteplicità e con il dispiegarsi dell'uno-nei-molti. L 'idea platonica è l'unità, e i fenomeni ad essa connessi sono un dispiegarsi dell'unità-nella-molteplicità. Pertanto, ben si comprendono queste affermazioni di Beierwaltes: «sotto l'aspetto dell'influenza storica, la dialettica platonica appare già come accertamento dell'"assoluto" (apolyton), poiché il neoplatonico "Uno in sè e per sè" viene ad assumere la posizione strutturale del Bene Platonico». Affermazione, questa, che dimostra come su altre basi e per altre vie Beierwaltes giunga a conclusioni che concordano pienamente con quelle cui è pervenuta, su questo punto, la Scuo-
INT ROD UZIONE
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la di Tubinga. Da noi, Reale, nel suo libro su Platone (Per . una nuova interpretazione di Platone, Milano 1987~), parla addirittura di struttura bipolare della realtà secondo Platone a tutti i livelli, di cui il nesso identità-differenza rappresenta uno dei vertici. Nei capitoli dedicati ai Neoplatonici, Beierwaltes mette in rilievo soprattutto due punti, articolandoli in vario mode~ L 'alterità o differenza nei suoi nessi con medesimezza o identità risulta la condizione che rende possibile la comprensione a) sia della struttura della realtà (quindi a livello antologico) b) sia della possibilità e della struttura del pensiero (quindi a livello gnoseologico). Per quanto concerne la trattazione di Platino, risulta particolarmente interessante ciò che Beierwaltes dice intorno all'Uno (prima ipostasi) e intorno al Nous (seconda ipostasi). Il concetto di alterità o diversità appare in maniera assai interessante in primo luogo proprio nella determinazione del concetto del Principio assoluto, vale a dire dell'Uno medesimo. L 'Uno viene infatti presentato come «altro» o «diverso» rispetto a tutto, nel senso di assoluta tJ·ascendenza, come «al di sopra» di tutto, e dunque come l'in sè differente da tutto (differenza assoluta). Pertanto - scrive Beierwaltes - «l'assolutamente diverso da ciò che è altro deve essere pensato come non diverso da se stesso, come ·il non differente in sé», e dunque in questo senso non-differenza coincide con unità, identità assoluta, non molteplicità. Insomma, «l'essere pura non-differenza è la differenza assoluta dell'Uno rispetto a ciò che è fondato, che certo implica la sua presenza universalmente fondante in ciò che è diverso da lui». Questa concezione, mediata attraverso Proclo, diventa la base su cui Cusano fonderà la sua concezione di Dio come nonaliud. «In tale concetto -precisa Beierwaltes - si potenziano sia la dialettica negativa neoplatonica sia la metafisica dell'unità: l'attribuzione a Dio del non-aliud non dice ciò che Dio è, piuttosto delimita l'essere in sè di Dio da ciò che è altro, e, cosi, esclude da sé anche l'altro in sé, ma al modo del fon damento fondante, lo include ugualmente in se stesso. Essere senza alterità in modo in sé assolutamente diverso ·da ogni altro, spetta solo all'unità assoluta. In questo, unum e aliud sono identici».
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volta in maniera tematica e approfondita nel pensiero occidentale, viene messo a tema il grande problema del nesso di identità e differenza, e, superando Parmenide, viene incluso nella problematica dell'essere anche il non-essere, inteso appunto come alterità e differenza. Ovviamente, come Beierwaltes esplicitamente rileva, la problematica del nesso identità e differenza nasce con lo stesso sorgere della problematica metafisica. Nello stesso Parmenide la questione dell'alterità risulta determinante, anche se respinta dall'identità (l'unica legittimabile dal punto di vista speculativo), proprio nel gioco che essa esplica dal punto di vista di esclusione negativa; mentre in Eraclito il nesso positivo di identità e differenza emerge in primo piano come la ben nota «armonia degli opposti»; e in Democrito (e proprio in polemica antieleatica) si incentra sulla questione del pieno e vuoto. È soprattutto con Platone, però, che il problema del nesso di identità e differenza si impone come irrinunciabile, e l'essere emerge nella sua complessa articolazione, che implica strutturalmente la differenza. L 'impostazione che Beierwaltes dà alla sua rilettura del Sofista implica la tematizzazione dei rapporti del problema del nesso identità e differenza con il problema del nesso dei rapporti fra uno e molti, cui, in ultima analisi, si riconduce come a sua matrice. L 'idea platonica è, nella sua struttura metafisica, l'atemporale identico metafenomenico di ciò che è differente temporalmente e fenomenicamente, e che permette di identificare, universa/izzandola, ogni cosa singola (differente) secondo un nesso strutturale. Ebbene, appunto questo nesso dell'identità fondante la differenza coincide con il nesso di unità e molteplicità e con il dispiegarsi dell'uno-nei-molti. L 'idea platonica è l'unità, e i fenomeni ad essa connessi sono un dispiegarsi dell'unità-nella-molteplicità. Pertanto, ben si comprendono queste affermazioni di Beierwaltes: «sotto l'aspetto dell'influenza storica, !a dialettica platonica appare già come accertamento defl>«assoluto" (apolyton), poiché il neoplatonico "Uno in sè e per sè" viene ad assumere la posizione strutturale del Bene Platonico». Affermazione, questa, che dimostra come su altre basi e per altre vie Beierwaltes giunga a conclusioni che concordano pienamente con quelle cui è pervenuta, su questo punto, la Scuo-
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la di Tubinga. Da noi, Reale, nel suo libro su Platone (Per . una nuova interpretazione di Platone, Milano 1987~}, parla addirittura di struttura bipolare della realtà secondo Platone a tutti i livelli, di cui il nesso iden tità-differenza rappresenta uno dei vertici. Nei capitoli dedicati ai Neoplatonici, Beierwaltes mette in rilievo soprattutto due punti, articolandoli in vario mode: L 'alterità o differenza nei suoi nessi con medesimezza o identità risulta la condizione che rende possibile la comprensione a) sia della struttura della realtà (quindi a livello antologico) b) sia della possibilità e della struttura del pensiero (quindi a livello gnoseologico). Per quanto concerne la trattazione di Platino, risulta particolarmente interessante ciò che Beierwaltes dice intorno all'Uno (prima ipostasi) e intorno al Nous (seconda ipostasi). Il concetto di alterità o diversità appare in maniera assai interessante in primo luogo proprio nella determinazione del concetto del Principio assoluto, vale a dire dell'Uno medesimo. L 'Uno viene infatti presentato come «altro» o «diverso» rispetto a tutto, nel senso di assoluta trascendenza, come «al di sopra» di tutto, e dunque come l'in sè differente da tutto (differenza assoluta). Pertanto - scrive Beierwaltes - «l'assolutamente diverso da ciò che è altro deve essere pensato come non diverso da se stesso, come· il non differente in sé», e dunque in questo senso non-differenza coincide con unità, identità assoluta, non molteplicità. Insomma, «l'essere pura non-differenza è la differenza assoluta dell'Uno rispetto a ciò che è fondato, che certo implica la sua presenza universalmente fondante in ciò che è diverso da lui». Questa concezione, mediata attraverso Proc!o, diventa la base su cui Cusano fonderà la sua concezione di Dio come nonaliud. «In tale concetto - precisa Beierwaltes - si potenziano sia la dialettica negativa neoplatonica sia la metafisica dell'unità: l'attribuzione a Dio del non-aliud non dice ciò che Dio è, piuttosto delimita l'essere in sè di Dio da ciò che è altro, e, così, esclude da sé anche l'altro in sé, ma al modo del fon damento fondante, lo include ugualmente in se stesso. Essere senza alterità in modo in sé assolutamente diverso da ogni altro, spetta solo all'unità assoluta. In questo, unum e aliud sono identici».
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-Il concetto di alterità si articola, poi, in maniera complessa nel dispiegarsi dell'Uno nei molti. L 'essere, che è originariamente incluso nell'Uno, supera quest'essere-incluso proprio mediante l'alterità, e in questo modo si esplica il dispiegamento dell'Uno nei molti tramite la differenza. Nell'analisi di Beierwaltes risulta particolarmente importante, a proposito di questo dispiegamento dell'Uno nei molti tramite la differenza, la delucidazione del concetto di Nous, in cui l'alterità o differenza diventa determinante. Lo Spirito e il pensare non potrebbero sussistere senza l'alterità, in strutturale nesso con l'identità. In particolare, l'alterità e differenza «è quel momento nel vouç, attraverso il quale questo stesso articola o profila se stesso ad un tempo come molteplicità e unità in sé strutturata. Ma l'intento del pensare mira, in un certo modo, al superamento dell'alterità nell'unità o alla sua integrazione. Dunque il pensiero del vouç in un certo modo, supera l'alterità di se stesso nella sua unità. E il vouç è unità solo in quanto questi comprende in sé ogni "altro" come una sua cosa "propria", o come il suo identico». La trattazione del Neoplatonismo di Plotino si completa con rilievi essenziali concernenti Proclo e Dionigi Areopagita. Per quanto concerne Proclo, di cui Beierwaltes è oggi uno dei massimi conoscitori, viene messo in rilievo in modo particolare il «Circolo», che a spirale si attua in ogni grado ed in ogni forma di realtà: esso in maniera metafisica strutturale implica un «venire dall'Uno» ed un «ritornare all'Uno », articolantisi nella celebre triade «manenza» - «processione» - «ritorno» (o «con-versione»), che è non altro se non l'operare dell'identità nella differenza, o della differenza nell'identità. L'ente viene in tal modo ad esplicarsi come unità dialettica mediata, ossia come unità che viene a determinarsi e a delimitarsi nella molteplicità, ossia come identità nella differenza, squadernandosi nella concezione triadica circolare. In questa ottica viene riesaminato Dionigi Areopagita. In par~ ticolare, viene spiegata secondo il nesso di unità e differenza la sua concezione di Dio come identità e differenza e come essere-al-di-sopra-dell'essere, in stretta relazione con l'unità trinitaria al. di sopra dell'unità e con la concezione di «processione permanente» e di «permanenza creativa». Beierwaltes dedi-
INTRODUZIONE
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ca a Dionigi solo alcune pagine, ma esse si impongono fra le poche che siano state scritte su questo pensatore con quelle conoscenze a livello scientifico che presuppongono una profon da conoscenza di Proclo, essendo Dionigi un ripensamento di Proclo in dimensione cristiana. Il secondo gruppo di studi è dedicato al pensiero tardo-antico cristiano latino e al Medioevo, incentrandosi su JV!ario Vittorino, Agostino, Eckhart. Mario Vittorino viene affrontato nella nuova ottica impostasi soprattutto dopo il libro fondamentale di P. Hadot, Porphyre et Victorinus (Paris 1968), e dopo la scoperta, fatta sempre da Hadot, di un commentario al Parmenide platonico identificato con il commentario (conservato in un palinsesto torinese) che ci è giunto anonimo, ma che risulta opera di P01jirio. Scoperta, questa, che modifica non solo la tradizionale interpretazione alquanto anodina di Porjirio, ma proprio l'interpretazione di 1Vfario Vittorino ed anche, in una certa misura, del Platonismo di Agostino. In questi capitoli Beierwaltes mette in evidenza soprattutto i rapporti fra il nesso metafisica identità-differenza e i dogmi teologici della Trinità e della creazione, e quindi la comprensione dell 'incidenza dei presupposti metajisici neoplatonici nella speculazione trinitaria e creazionistica. In particolare, viene messo ben in evidenza un dato che emerge come essenziale, ossia il rapporto fra Dio, principio primo e supremo, e l'essere. Porlirio, a differenza degli altri neoplatonici, intende l'Uno, ossia Dio, non solo come proousion, ossia pre-esistente (prima dell'essere), ma anche come pura attività propria dell'essere medesimo. In questo modo, la concezione aristotelica di Dio può venir congiunta con la concezione dell'Uno (a differenza del neoplatonismo in generale) adattandosi pe1jettamente alla teologia cristiana, congiungendosi l'Uno, l'Essere e lo Spirito. Uno, Essere e Pensare appaiono in Porjirio, e negli sviluppi che ne trae Mario Vittorino, in un certo senso incongiungibili e, in altro senso e in altra ottica, congiungibili. Pertanto, «l'Uno è, così, se stesso ... , ma, ad un tempo, è l'Uno nell'Essere e nello Spirito, o l'Uno che esiste e si differenzia in sé per riflessione ... Ciò che è indeterminato (Uno) si determina in ciò che è altro e perciò lo determina contemporaneamente. Per ana-
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logia con l'Idea, la quale è fondamento o essere dell'ente determinato, l'Uno è l'essere dell'Uno esistente». Questo è il nucleo metafisica che innerya l'intero svolgimento della speculazione di Mario Vittorino sulla Trinità, e che Beierwaltes mette molto bene in evidenza. Per quanto riguarda Agostino, Beierwaltes non prende in considerazione il concetto di Trinità (dato che i nessi che esso ha con i presupposti neoplatonici sono più chiari e più evidenti in Mario Vittorino), bensì il concetto di creazione, quale viene presentato nel libro undicesimo delle Confessioni. La creazione (come l'incarnazione) può essere vista come un manifestarsi dell'alterità, e l'incarnazione può essere intesa «come seconda alienazione di Dio nella creazione». La tesi di fondo in base alla quale Beierwa!tes conduce le sue analisi agostiniane è molto interessante, ed è la seguente: «La creatio come mediazione dell'essere attraverso un essere divino, che rimane in sé e che penetra, tuttavia, l'ente creato quale sua essenza, è... un momento essenziale della trattazione della questione del rapporto dell'archetipo con la copia, del movimento dialettico del «sopra» e «in» del principio, di trascendenza e immanenza o di identità e differenza, e del suo nesso di ritorno all'identità» . In questa ottica, si sentirebbe il desiderio di una trattazione anche di Scoto Eriugena e della Scuola di Chartres, come lo stesso Beierwaltes riconosce. Infatti, nel concetto di mondo come teofania, in Scoto Eriugena, viene sviluppato il concetto di differenza, operante nel manifestarsi, ma in stretto e inseparabile nesso con la sua origine. Mentre sulla Scuola di Chartres gli influssi del platonismo sono ben noti. Ma Beierwaltes ha già provveduto a fare le analisi che qui mancano nel suo ultimo volume dal titolo Denken des Einen (1985), in due cospicui capitoli, opera che a breve distanza da questa verrà pubblicata anche in italiano dal «Centro di Ricerche di Metafisica» della nostra Università. Nel lavoro che stiamo presentando, da Agostino si passa ad una delle ultime figure del medioevo, Meister Eckhart, il cui pensiero viene interpretato nell'ottica del nesso uno-molti, e dei problemi dell'Uno in tutto e quindi dei nessi indistinctiodistinctio, identità e differenza.
INTRODUZIONE
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Il gruppo di capitoli sui pensatori rinascimentali contiene alcune delle più robuste analisi forniteci dal nostro autore. A Cusano vengono dedicati due eccellenti capitoli, che contengono alcune delle pagine più belle che finora siano state scritte su questo pensatore, che per Beierwaltes raggiunge alcuni vertici della problematica identità-differenza nella sua matrice neoplatonica e nella sua mediazione con la teologia cristiana. In queste dense pagine - che sono tutte da leggere con molta attenzione - fanno particolare spicco quelle che illustrano i tre attributi divini, veramente enigmatici, non-aliud, idem e possest. II non-aliud è lo stesso identico in ottica globale. Infatti, nell'identico (idem) tutto è lo stesso, quindi anche il differente e l'opposto (in quo omnia idem ipsum, dice Cusano). È l'idem absolutum anteriormente ad ogni differenziazione che si esplica in identità e differenza, e quindi è «la pura autoidentità che si pensa e ritorna a se stessa in una triunitas, massimo assoluto incommensurabile. L 'assoluta identità, inoltre, si esplica nella alterità costituendola in base all'attività creativa. E questa comporta una partecipazione dell'alterità all'assoluta identità. L 'alterità da cui derivano gli enti differenti presuppone un nesso strutturale con l'identità, ossia implica che ogni ente, che si distingue per la diversità, partecipi, proprio in quanto creato, dell'identità e che sia quindi anche un identico a sé. Dunque, dice giustamente Beierwaltes, per Cusano «l'identità dell'identico a sé o dell'in sé determinato è proprio il fondamento della distinzione antologica». Invece il possest (da posse est) significa l'identità di possibilità e realtà in quanto pura realtà assoluta, ossia è il fondamento stesso che rende possibile il rapporto "possibilità" e "realtà": «La determinazione dell'essere come possest - scrive Beierwaltes - vuole perciò significare che l'essere, nel modus dell'assoluto, è !'"entità" costitutiva ed insieme connettiva di possibilità e realtà o il fondamento, interno allo stesso essere, dell'unità di possibilità e di realtà nell'essere stesso». Nell'ambito di questa analisi, condotta nell'ottica di una rivisitazione globale del Neoplatonismo secondo il nesso di identità e differenza, acquistano notevole luce i celebri concetti cusaniani di com plicatio e di explicatio. Scrive Beierwa!tes: «Il
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possest non è, di conseguenza, una cosa posta col creare, poiché questo stesso - ciò che è posto - non è mai ciò che potrebbe essere; ma il possest è il poter essere come essere o come essenza di ogni cosa creata. Proprio il rapporto di complicatio ed explicatio chiarisce il nesso di questo pensiero con il rapporto di identità e differenza: complicatio significa pienezza coincidente dell'essere - una pienezza che esiste prima di ogni opposizione - ed identità dell'essere assoluto e del pensare con se stesso; al contrario /'explicatio esprime la differenziazione di questa identità assoluta nel nesso di identità e differenza, che in una sempre diversa intensità, ossia in un grado più o meno determinato di identità (unità) e differenza, costituisce l'universum dell'essere». Infine, molto significative sono anche le analisi di Beierwaltes della visio assoluta, intesa nel senso di riflessione assoluta. Da Cusano si passa a Giordano Bruno, di cui viene esaminata l'opera De la causa, principio et uno. E anche in questo capitolo si leggono molte cose dette con un linguaggio nuovo, che fanno ben vedere la rivisitazione bruniana del neoplatonismo, e si mostra come nella concezione bruniana dell'universo come unità di opposti congiunti in maniera pe1jetta risultino operanti i concetti cusaniani di coincidentia oppositorum e di possest, così come anche i concetti di complicatio e di explicatio. Ma colpisce la maniera in cui Beierwaltes dimostra come Bruno non distrugga il concetto di trascendenza, sebbene alcune sue indicazioni sembrino indirizzarsi in senso panteistico e immanentistico (come spesso è stato interpretato).
Da Bruno, nel quarto gruppo di capitoli si passa a Sche!ling, studiato proprio nel suo dialogo Bruno. Beierwaltes indica molto bene il modo in cui Bruno è stato rilanciato da Jacobi (contro le sue intenzioni) nel 1789, in estratti in forma di parafrasi del De la causa, principio et uno, pubblicati come supplemento alla seconda edizione delle sue Lettere sulla dottrina di Spinoza. Egli, inoltre, mette bene in evidenza in che senso Schel!ing si sia riconosciuto come anticipato da Bruno, e per questo abbia scritto un 'opera che portava il nome di Bruno proprio come titolo. Fra Bruno e Schelling Beierwaltes dimostra esservi tangenza di temi ed anche di espressioni, in particolare in senso panteistico ed immanentistico, avendo Schelling conce-
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p ito l'infinito come indifferenza di ogni forma di opposti, e come tale in contrapposizione totale con il mondo. Il tipo di discorso impostato e condotto nel volume porta inevitabilmente, sia per il contenuto che per gli influssi storici, alla dialettica di Hegel, la quale prosegue, recependo/a e trasformando/a, una concezione dello spirito che si realizza proprio in fun zione del nesso di unità e molteplicità, identità e differenza. La differenza radicale fra la concezione neoplato·., nica e quella hege!iana sta nella processualità e storicità secon- >.: do cui si impernia la dialettica hegeliana. Beierwa!tes aveva già molto ben dimostrato i rapporti fra il neoplatonismo e l'idealismo tedesco nell'opera Platonismus und Idealismus (Frankfurt am Main 1972), già tradotta in lingua italiana (Il Mulino, Bologna 1987), dove in modo particolare si mettono in evidenza i significativi rapporti fra Proclo ed Hegel; egli mette ben in risalto, su basi filologiche e storiche e in maniera ben più articolata, un 'intuizione che era già stata espressa addirittura da L. Feuerbach e da F.A. Trendelenburg, e che da noi N. Abbagnano ha diffuso nella sua Storia della filosofia, ma che la communis opinio si è finora rifiutata di recepire. In particolare, per quanto riguarda il volume che stiamo presentando, Beierwaltes mette assai bene in evidenza la statura metafisica della Logica di Hegel; ma questa è una tesi che ha dalla sua testi e contesti, che però l'antimetafisicismo moderno e contemporaneo cerca in tutti i modi di respingere o di allontanare. La logica hegeliana ha il medesimo contenuto della metafisica, e lo stesso Hegel dice senza mezzi termini: «La logica oggettiva ... prende il posto della metafisica di una volta, come di quella che era l'edifizio scientifico sopra il mondo, da innalzarsi solo per mezzo di pensieri». Naturalmente, si tratta di una prospettiva metafisica che si intende solo comprendendo come, per Hege!, il pensare è un movimento riflessivo dell'essere e «l'essere è interpretazione pensante di sé», e per di più nella dimensione processuale e storica. E appunto in questa ottica in Hege/ si articola il nesso di identità e differenza, unità e molteplicità (e Beierwaltes lo mette bene in evidenza). A lla filosofia contemporanea viene dedicata l'ultima parte, che
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contiene un cospicuo gruppo di capitoli incentrati su Adorno e sul non-identico. Questo non-identico di Adorno vuole sottrarsi al nesso dialettico di identità e differenza, così come esso è stato inteso dalla tradizione e in particolare da Hegel. «Secondo Adorno - scrive Beierwaltes - il non-identico diversamente dalla "differenza", nega radicalmente l'identità: esso non è identità e non deve diventarlo: in opposizione all'identità deve, piuttosto, sorgere un non identico che la annulla e la muta». Senonché per identità Adorno intende qualcosa che non pone criticamente in questione se stesso, qualcosa di definitivamente fissato, come una sorta di sistema senza vita che procede costantemente verso un inglobamento universale, non solo in senso concettuale, ma altresì in senso . sociale. Tutto ciò che è eterogeneo, in quest'ottica, secondo Adorno viene costretto ad unità. Lo stato senza speranza della società contemporanea, per Adorno, avrebbe a suo fondamento proprio il predominio dell'identità. Identità viene anzi ad identificarsi con il totalitarismo nel senso deteriore. La stessa filosofia prima, ossia la metafisica, che si fonda su un primo inteso come un assoluto, diventa secondo Adorno una forma di «totalitarismo». L 'identità, insomma, è intesa in tutti i sensi come oppressione del non-identico. Tutta la dialettica da Platone ad Hegel viene criticata e respinta, di conseguenza. La vera dialettica, secondo Adorno, deve essere intesa come «coscienza conseguente della non identità», ossia come un consistente sottrarsi alla «magia» e al mitico incantesimo della presunta realtà prima e dell'identico. Pertanto, come coscienza conseguente della non-identità - scrive Beierwaltes - «la dialettica deve rendere cosciente nel pensiero, o nella realtà sociale, proprio l'inconsistenza, la disarmonia, la non conformità, la fragilità o l'utopico non-ancora e mobilitar/o ad una prassi guidata dalla teoria, nella misura in cui tale prassi dovrebbe, in quanto piena di senso, essere ancora possibile nella situazione presente». In questo modo, si comprende come Adorno consideri ogni forma di metafisica come responsabile e colpevole di sistemi totalitari, e non solo implicitamente. E si comprende, altresì, come ciò su cui egli punta sia /'aconcettuale. Si capisce, quindi, come egli consideri non la filosofia ma l'arte il veicolo della verità, e fra le arti la musica, so-
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prattutto in quelle forme che rappresentano l'evidenziazione del negativo, del non-identico. Ma - giustamente rileva Beierwaltes - non è possibile ad una dialettica sottrarsi all'identità; e Adorno, proprio mentre ritiene di poter procedere in senso puramente negativo e di sottrarsi ad un assoluto, rimane coinvolto nell'identità, «in quanto cerca di dare figura al non-identico e di aiutarlo a raggiungere la sua esistenza». In effetti, scrive Beierwaltes, si impongono queste difficoltà insuperabili: «La negatività, quale rovesciamento o distruzione del "semplicemente" identico sempre presupposto, non è la prima realtà cripticamente ipostatizzata di questo pensiero, l'assoluto hegeliano rovesciato in male radicale? Vi sono in generale criteri in grado di chiarire per se stessi il non-identico? Il pensare può sottrarsi alla polarità di affermazione e negazione? Come potrebbero, allora, essere classificati i due poli?». Il nesso metafisica e dialettico platonico dell'identità e differenza viene negato, ma si reimpone un nuovo nesso che risulta dal capovolgersi della struttura del precedente, incentrandosi anziché sull'identità sulla non-identità nel senso precisato; in quest'ottica, l'interpretazione del pensiero di Adorno fatta da Beierwaltes risulta molto efficace. L 'ultimo capitolo è dedicato ad Heidegger, di cui nell'edizione tedesca si parla con ampiezza nella seconda sezione del primo dei capitoli dedicati a Cusano, mentre nell'edizione italiana Beierwa!tes lo ha impostato come capitolo a sé e conclusivo a motivo dei suoi importanti rilievi di carattere teoretico. Infatti, in un certo qual modo, si può dire che è proprio la linea secondo cui Heidegger ha interpretato la storia della metafisica occidentale, che, in senso capovolto, chiarifica in maniera specifica la direzione che Beierwa!tes ha cercato di seguire e di imporre in questo suo libro. Come è noto, Heidegger ha interpretato la storia della metafisica occidentale come una storia dell'«oblio dell'essere», presentando il proprio pensiero come una «distruzione» e un «superamento» di questo oblio. Ora, rileva giustamente Beierwaltes, la tesi di Heidegger si basa sulla convinzione che tutta la metafisica occidentale, in particolare a partire da Platone, verta non già intorno all'essere, bensì intorno all'ente, all'ente come ente, e non ponga in questione l'essere nel suo fonda-
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mento. L 'oblio dell'essere sta appunto in questo confondere l'ente con l'essere, e quindi nell'oblio della «differenza fra essere ed ente». In altri termini, secondo Heidegger all'impostazione della metafisica tradizionale che nell'ambito degli enti pone attenzione solo al «differente della differenza» bisogna contrapporre l'attenzione alla «differenza in quanto differenza>>, e quindi all'«essere» come «differente». Senonchè, nell'interpretazione di Heidegger della storia del pensiero occidentale emerge una lacuna cospicua, che la rende non solo unilaterale, ma artefatta e quindi antistorica. Heidegger, come risulta da tutte le sue opere che finora sono state pubblicate, mostra non solo di ignorare ma addirittura di rimuovere largamente il Neoplatonismo e i suoi influssi storìci. Heidegger su questo tema si è fermato agli schemi della manua!istica dei suoi tempi, peraltro già largamente superati da Th. Whittaker, da W.R. lnge, da R. Arnou, da E. Bréhier e da altri. Ma P/olino e il Neoplatonismo, con una analisi storicamente adeguata e filosoficamente corretta dei loro testi, stanno proprio contro la tesi di Heidegger, in quanto puntano proprio su quel fondamento dell'essere, che secondo Heidegger la filosofia occidentale avrebbe obliato. È evidente che solo un conoscitore come Beierwaltes del Neop!atonismo, riguadagnato non solo su un piano filologico e storico, ma pensato a fondo anche nella sua dimensione speculativa, poteva confutare Heidegger in questa sua tesi, che ancora oggi alcuni pensano di dover ritenere valida ed addirittura indiscutibile. Ecco il passo in cui Beierwaltes riassume queste sue critiche; conviene legger/o con attenzione, perché costituisce uno dei più cospicui contributi di questo libro: «Se con "differenza antologica" si intende la distinzione tra "essere" ed "essere dell'ente", dove la distinzione è ciò che produce proprio la loro differenza, se inoltre il "nulla", "che cooriginariamente è la stessa cosa dell'essere", deve essere pensato come il "totalmente altro rispetto all'ente" o come "il non dell'ente", allora mi sembra legittima la domanda: l'intento del concetto neoplatonico dell'Uno e degli enigmatici nomi cusaniani del principio (non aliud, idem, possest) non è proprio quello di mettere anzitutto in evidenza l'assoluta differenza proprio di questo principio da ogni ente e non solo dì "rappresentare" qualcosa di superlativamente "differente" che fosse
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incluso all'interno della stessa dimensione, cioè insieme all'ente? L 'Uno plotiniano in quanto[. . .] altro rispetto a tutto l'altro, nulla di tutto - dunque esattamente il "non dell'ente" -, è identico al cusanìano non-aliud o alla coincidenza quale tratto fondamentale dell'esse absolutum, "prima" dì ogni differenza di essere ed ente (esse et id quod est), essere e nonessere. Da questo fondamentale concetto del pensiero neop!atonico non può in ogni caso essere asserito, in un argomentare fondativo, che l'essere della "metafisica" sia sempre e solo l'essere dell'ente, e lo sia sempre attraverso questo nesso». Dunque, la tesi heideggeriana dell'oblio dell'essere di tutta la metafisica occidentale non è più sostenibile in alcun modo, giacché il principio per i Neoplatonici non è l'ente, ma addirittura il sopra-ente, e dunque il fondamento è una realtà che è sopra l'ente. A questo proposito, le osservazioni sì potrebbero moltiplicare: il guadagno, dal punto di vista storico e filosofico, della storia del Platonismo, modifica notevolmente molte convinzioni impostesi nel passato. A/lettore verrà spontanea, a questo punto, la domanda: quale è la posizione teoretica di Beierwaltes? Ci sembra che la risposta possa essere questa: egli cerca di riproporre, da un punto di vista moderno, proprio la !ematica platonica di cui il nesso metafisica identità e differenza risulta un asse portante, e con quella sensibilità che la problematica e la metodo!ogia del P/atonismo nella sua Wirkungsgeschichte hanno portato in primo piano; questo, pur riconoscendo espressamente che in questa !ematica manca «la fondazione logica del pensiero metafisica con le sue implicazioni», e manca l'indagine della identità e differenza «come fenomeno de/linguaggio, come principio strutturale del tempo e modello interpretalivo dell'evoluzione storica». Ma, in particolare, la sensibilità teoretica e il taglio dell'indagine metafisica di Beierwa/tes emergono nella maniera in cui viene studiata, approfondita e comunicata la storia del concetto, che, come tale, viene presentata come essenziale per un fare filosofia. «L 'accertamento storico del pensare- scrive Beierwaltes- è... essenziale ad esso stesso, e viceversa /'oggetto del pensiero è presente anche al suo auto chiarimento storico». È questo un modo di far filosofia che ci sembra ben condivisi-
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bile. Un ultimo punto resta da rilevare. Fin dalle prime battute in cui viene scandito il problema del nesso de/l'identità e differenza risulta la stretta connessione che esso ha con il problema del nesso fra unità e molteplicità. Beierwaltes ha, di conseguenza, chiamato assai spesso in causa anche questo problema, la cui soluzione storica e filosofica ha sviluppato nel suo ultimo libro Denken des Einen (Frankfurt am Main 1985), già citato. Qui non possiamo occuparcene; ma è utile richiamare, per concludere, il sottotitolo, che risulta in certo senso emblematico: Studien zur neuplatonischen Philosophie und ihrer Wirkungsgeschichte. In effetti, qui sta uno dei più significativi e costruttivi punti chiave delle concezioni di quanti ripropon gono la problematico metafisica, e un recupero di quella che si può chiamare henologia, con un riesame dell'antologia anche in questa ottica. Il grande oblio del pensiero occidentale non è quello che nasce dall'aver confuso l'essere con l'ente, come dice Heidegger, ma, semmai, in certa misura l'uno con l'essere, con tutta una serie di conseguenze. Questo non significa, dunque, che si debba contrapporre la metafisica dell'uno (con tutte le implicanze che ne derivano) alla metafisica dell'essere; ma significa che, commisurandosi con la Wirkungsgeschichte della metafisica platonica dell'Uno, la metafisica dell'essere potrebbe trovare una nuova ricchezza dì spunti e di aperture. E già questo volume sulla Identità e differenza di Beierwaltes offre alcuni di questi spunti. Adriano Bausola
IDENT'ITÀj. E DIFFERENZA
Prefazione
II pensiero metafisica risulta, sin dalle sue origini, definito, in modo sostanziale, dalla domanda circa il nesso di identità e differenza. E questo sia che - come in Parmenide - la differenza o l'alterità sembri assolutamente non legittimabile filosoficamente, sia che - come in Platone - si pensi la differenza come ciò che costituisce necessariamente l'essere nell'intero. Tale domanda è, anch'essa sin dalle origini, unita inseparabilmente a quella che concerne l'unità e la molteplicità, il senso e la funzione degli opposti. Il «logos» di Eraclito - almeno nel suo contenuto - deve essere inteso come alternativa all'uno, ossia all'essere indifferenziato o alla pura identità di Parmenide, proprio in quanto esso riconduce l'opposizione, la molteplicità in sé differenziata, all'unità. «Congiungimenti: intero non intero, concorde discorde, armonico disarmonico, e da tutte le cose l'uno e dall'uno tutte le cose» 1 - è questo che definisce l'operare del logos. Anche il proposito di Platone, di assumere nell ' essere il non essere inteso come essere altro o come diversità, deve essere concepito in modo analogo a quella concezione del vuoto che Democrito sviluppava, al fine di chiarire il processo cosmogonico e, in generale, fisico, in opposizione al concetto parmenideo di essere. Solo in questo modo un movimento intelligibile, una relazione di idee come forme intelligibili esistenti e di concetti nel linguaggio, possono essere pensati con evidenza, e, 1
Fr. B IO Diels-Kranz, Fragmente der Vorsokratiker, Berlin !9609, I, p. 153, IO ss. [ed. it. a cura di G. Giannantoni, I presocratici, Testimonianze e frammenti, Bari 1981 , r, p. 198].
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,)::
PREFAZIONE
PREFAZIONE
di conseguenza, la partecipazione del logos (della proposizione) al vero e al falso essere ritenuta plausibile e filosoficamente fondata. Se - come suggerisce il Sofista platonico - l'essere corrisponde a ciò che è identico, ed il non essere a ciò che è differente, allora la risposta, che, quand'anche non «parricida», trasforma la comprensione parmenidea dell 'essere, rappresenta lo sviluppo primo, ed insieme ricco di conseguenze, del nesso di identità e differenza: con la scoperta della differenza l'identità è diventata una unità non più fissata in sé, un punto di riferimento di una relazione molteplice. Nella filosofia di Plotino tale concezione viene ad operare quale elemento strutturale del nus atemporale, assoluto: lo Spirito è quell'essere delle idee che pensa se stesso. Ogni singolo intelligibile, ogni idea da pensare, è unito a ciò è che altro, attraverso il pensare, in un atto atemporale. Il pensare, o l'autoriflessione, fonda, dunque, l'unità dell' intero attraverso la differenza del singolo. Lo Spirito è, di conseguenza, un'unità che si riflette nella differenza o un'identità attraverso la riflessione della differenza. Tale identità riflessjva nella differenza è in modo analogo al rapporto esistente tra l'idea platonica di Bene e le rimanenti idee - separata dal principio universale, che è anche il suo principio, proprio mediante questo essere della differenza: essa è «la prima alterità» nei confronti dello stesso Uno, di modo che l'alterità diviene determinante anche per il proprio essere interno. La teologia cristiana filosoficamente caratterizzata (ad esempio Mario Vittorino) nel concetto di un Dio che trinitariamente riflette se stesso ha serbato la diversità dell'unità indifferenziata del principio rispetto alla differenza che riflette su se stessa. In esso la differenza è ridotta al momento coessenziale, ma «necessario», dell'unità. La differenza, che determina l'essere nell'intero insieme all'identità, appare come reale proprio attraverso l'atto della creazione: come libero porre la differenza da parte di una unità riflessiva, trinitaria. Questo abbozzo del nesso di identità e differenza illustra la prima grande fase del suo sviluppo storico: la· configurazione della struttura di fondo del problema e della dimensione concettuale nel «platonismo» e la sua trasformazione nella teologia cristiana, la quale, proprio per questo, deve essere intesa come una teologia filosofica. Il nesso di identità e differenza,
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concepito filosoficamen te, è diventato infatti anche fondamento filosofico del dogma teologico centrale. Superando una rigida presentazione di platonismo e cristianesimo come «confessioni» intransigenti, deve essere, in modo del tutto netto, mostrato che la teologia cristiana, senza i contenuti filosofici che sono costitutivi della sua peculiare nuova forma, non potrebbe essere se stessa, almeno nella misura in cui vorrebbe essere una riflessione implicita o esplicita sulla fede. Che una assunzione puramente formale di contenuti filosofici sia un processo ermeneuticamente inverosimile e difficile da fondare - eventualmente nonostante la resistenza strutturale ed apologetica della teologia - lo rende lampante non solo una riflessione sulla Trinità e sulla creatio. Né la «confusione» secondo il motto «nil novi sub idea» né la separazione estrema di posizioni di coscienza storicamente diverse può avere un senso quale principio ermeneutico, ma piuttosto lo ha l'accettazione di una fusione dialettica di orizzonti la quale lascia scorgere proprio ciò che è nuovo ed inaspettato. A partire da questa prospettiva si dovrebbe ancora difendere il termine «platonismo cristiano» - come forma storica di identità nella differenza e della differenza che mantiene ed insieme determina ciò che è essenziale per la struttura originaria del pensiero . Tale questione - la filosofia come realtà determinante il contenuto in teologia- si incontra, nel momento in cui si segue il filo conduttore di identità e differenza, anche all'interno della seconda fase dello sviluppo del problema: nel primo medioevo sino al suo compimento ed al passaggio all'epoca moderna - nel corso delle mie riflessione esemplificata con Agostino, Meister Eckhart e, soprattutto, Nicolò Cusano. Certo dovrebbe essere qui incluso anche Eriugena: questi ha, infatti, sviluppato, proprio con la sua co ncezione del mondo come «teofania», il pensiero della differenza, che opera nel «manifestarsi», ma, ad un tempo, ha pensato a questa nel suo inseparabile nesso con la sua origine. L'atto di questa ad esso immanente è concepito come una identità, o una unità, che diviene oggetto a se medesima e si differenzia nell'altro come l'inizio- condizione per il suo manifestarsi nel mondo come fondamento di questo stesso: occulti manijestatio 2 • 2
Cfr. a riguardo: W. Beierwaltes, !:legati affirmatio: We/t a fs Metapher. Zur Grundlegung einer mitte!alterlichen Asthetik durch Johannes Scotus Eriugena, in : «P hil. Jahrb. », 83 (1976), pp. 237-265.
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Cusano rappresenta per molteplici aspetti la «meta» della storia dell'influsso della concezione platonica e neoplatonica di identità e differenza - insieme alla concezione di una «riflessione trinitaria assoluta», ma anche quale cardine nello sviluppo verso l'idealismo tedesco. In questo il nesso di identità e differenza - nel contesto del passaggio della logica nella metafisica e della religione nella filosofia - è l' «anima viva» del pensare. Tale posizione diventa chiara in modo paradigmatico nella recezione di Schelling del concetto di unità di Giordano Bruno, la quale si collega alla sua intenzione di esplicare l'unità delle opposizioni nell'io e nell'assoluto, ma in misura non minore diventa chiara anche nella dialettica di Hegel, per il cui movimento la differenza come negazione è costitutiva, per giungere, per suo tramite, all'autocomprendersi del concetto nell'idea assoluta. Questa identità è dialettica o concreta (in opposizione a quella astratto-formale), poiché, nello stesso tempo, supera e mantiene in essa la differenza. Il diventare-altro-dase-stesso mediante negazione produttiva e la mediazione che ritorna all'inizio, in quanto inizio concepito, sono, dunque, i momenti di una riflessività assoluta, la quale è intelligibile tanto logicamente come anche teologicamente. Si chiude qui il cerchio di Plotino, Proclo, Dionigi, Mario Vittorino e Cusano - nonostante la diversità ad esso intrinseca. All'interno della filosofia contemporanea la domanda circa l'identità e la differenza si è mantenuta un tema dominante soprattutto in Heidegger ed Adorno. Heidegger ha pubblicato le conferenze La proposizione dell'identità e La concezione onta-teo-logica della metafisica con il titolo complessivo Identità e Dijjerenza 3 • Entrambe sono parte del tentativo di «portare alla memoria» l'ESSERE e, quindi, di illustrare la «comune appartenenza» di identità e differenza. Heidegger sviluppa la propria concezione dell'ESSERE come «avvenimento» «nell'ambito della tradizione»\ nonostante il fatto che a volte si sottragga e s'allontani da essa. Oltre alle tesi di grande portata che concernono la storia della
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metafisica 5 , a caratterizzare questo tentativo sono le peculiari interpretazioni di Eraclito e di Parmenide. Per la visione di Heidegger dell'evoluzione storica di identità e differenza è istruttivo un accenno al lasso di tempo tra Platone ed Hegel. Platone ha formulato nel Sojista l'autoidentità di categoria dell'essere e categoria del linguaggio e, quindi, anche l'autoidentità di ogni ente con cxìrtò É.cxu-r0 -rcxth6v 6 • Heidegger mette giustamente l'accento sul dativo riflessivo - lo stesso a se stesso («ogni cosa essa stessa con se stessa la stessa cosa» [HeideggerJ)1 - mediante il quale Platone pone una relazione nella identità stessa. Dal punto di vista della storia della filosofia la conclusione di Heidegger suona allora: ·'« prima che, tuttavia, la relazione della ipseità con se stessa (dell'identità con se stessa) regnante (presente) nell'identità, preannunziata già agli albori del pensiero occidentale, venisse (pervenisse) decisamente alla luce ed in modo definitivo (in un modo ben definito), cioè come tale mediazione, prima che persino si trovasse una dimora per questo apparire della mediazione nell'ambito dell'identità [precisamente nell'idealismo speculativo], il pensare occidentale ha impiegato più di duemila anni» 8 • Ritengo che le mie riflessioni storiche intorno al concetto di identità e differenza possano per alcuni aspetti rendere evidente che queste parole di Heidegger, gravide di conseguenze per quanto concerne la storia della questione, sono parte della «violenza necessitante». In dee~ posizione contraria si trova il concetto """) , neoplatonico di spirito~ nel quale l 'identico trova se stesso in altro ed attraverso esso, e, in misura non minore, l'identità f " o l'unità trinitaria, per la quale risulta costitutivo il riflessivo ~ venire-posto-di-fronte-a-se-stesso attraverso il quasi-altro. Più che da Leibniz e Kant, la dialettica di Hegel è stata oggettivamente «preparata» da questa concezione - filosofica nella sua struttura di fondo - , essendo in essa il pensiero dell'automediazione pen_s ato attraverso riflessione. Heicteggef, invece, conseguentemente alla sua costruzione della storia della metafisica, ha dissolto i contenuti filosofici neoplatonici.
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5 3 Pfullingen 1957. [trad . it. di E. Landolt: Heidegger, Identità e differenza, in: «Teoresi», 1966, pp. 3-22; 1967, pp. 215-235]. - -4 Identitiit und Differenz, p. 34 [trad . it. p. 22].
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Per un confronto, vedi qui sotto pp. 365 ss. Sojista, 254 d 15. ldentitiit und Dijferenz, p. 14 [trad. it. p. 10]. !bi, p. 15 [trad . it. p. 10].
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Per Adorno, l'opposizione al concetto di identità di una «metafisica», o «filosofia prima» da lui stesso impoverita conduce ad una elevazione del «non-identico» a categoria fondamentale del pensiero, ossia ad appagante punto prospettico di tutte le intenzioni. La realizzazione del non-identico viene creduta una forza capace di «dirompere» il «vincolo di identità», sotto il quale l'uomo pena nell'attuale situazione sociale. Io cerco di analizzare il non-identico di Adorno come paradigma del nesso di identità e differenza nel pensiero contemporaneo: esso eleva una pretesa di universalità riguardo alla spiegazione dei fenomeni teoretico-conoscitivi, estetici, e - invadendo questi ultimi - storici e sociali. Intenzionalmente antihegeliano, si basa nondimeno sulla dialettica hegeliana, perfino nella negazione. Heidegger ed Adorno non sono sempre da considerare come antipodi. Nonostante i diversi presupposti e le diverse conseguenze della loro critica alla metafisica, perseguono, in un ambito essenziale delle loro riflessioni critiche, l'identico fine. Potrebbe essere mostrato come l'unica cosa, con cui, per mezzo di termini propri della dimensione concettuale di identità e differenza, dovrebbe essere espressa l' «alienazione dell'uomo» dovuta al «dominio dell'essenza della tecnica moderna» (Heidegger) o al «rapporto di irretimento o di accecamento» della società (Adorno), non deve essere solo spiegata, ma come attraverso la riflessione intorno ad identità e differenza potrebbero essere realizzati impulsi ad un nuovo «essere». La «coerente coscienza della non-identità», che spezza l'alienazione o per lo meno avvicina la resurrezione dell'uomo, si incontrerebbe, secondo Adorno, almeno con l'intendimento di Heidegger di «salvare» l'uomo dalla costrizione del «pianificare e calcolare» tecnico: per mezzo di un «pensare che prima di ogni cosa si volga a ciò che viene incontro, come allocuzione dell'essenza dell'identità di uomo ed essere» 9 • L'«identità» indica l'invischiarsi nell'ESSERE, l' «appartenere-insieme» di uomo ed ESSERE 10 , che, secondo Heidegger, è dato al pensare come ... l' «evento», come la «distinzione», «differenza come differenza». La prospettiva fondamentale, che determina tutte le mie anali9
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/bi, p. 34 (trad. it. p. 22]. /bi, p. 32 [trad. it. p. 21).
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si intorno a identità e differenza, ~
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Cfr. ad esempio: N. Griffin, Relative Identity, Oxford 1977. Identità nella differenza corrisponde essenzialmente a: Andersheit. Grundriss emer neuplatonischen Begriffsgeschichte, in: «Arch. f. Begriffsgeschichte», 16 0?72), pp. 162-197. Identità e differenza come principio del pensiero cusaniano 12 .
è li testo modificato d'una conferenza accademica che aveva l'identico titolo («Rhein. -Westf. Ak. d. Wiss.», Vortrage G 220, Westdeutscher Verlag, Opladen l977). Il testo di Visio Absoluta risale, in forma modificata ed ampliata, ad un omonimo saggio, una parte del quale costituiva il contenuto d'una conferenz~all'_Heidelberger Akademie («Sitzungsberichte d. Heidelberger Ak. d. Wiss., P 1--hist. Klasse», 1978, Abh. l, Winter Verlag, Heidelberg 1978). Identità senza
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in parte mutate, abbreviate o ampliate - mediante nuovi modi di formulare la questione per giungere ad un intero progressivo 13 • Con diritto, così credo, posso dire che il titolo «Identità e differenza», nonostante la sua enorme ampiezza, è in un certo qual modo esatto per ciò che è qui riassunto. Vorrei, quindi, insistere sul fatto che questo libro, sebbene sia certamente inadeguato all'originaria pretesa, non è da considerare come una raccolta, ai giorni nostri solita, di articoli, che vengono inclusi sotto un titolo, forse attraente, ma ampio e che comprende in modo benevolo cose eterogenee. In ciò si può vedere certamente anche un aspetto negativo del mio tentativo: sebbene fossi teso a ridurre il ripetersi, determinato dal contesto, di tematiche identiche o analoghe nel contenuto, non potevo riuscirvi del tutto nelle parti già pubblicate, qualora la linea ideale non dovesse essere in sé sensibilmente interrotta ed i singoli aspetti essere ridotti - in modo troppo abbreviato - a puri segni rammemorativi. Questo riguarda prima di tutto i determinati contenuti filosofici neoplatonici intorno all'Uno e allo Spirito, così come le idee fondamentali di Cusano. In questa situazione, le singole parti possono essere lette anche come analisi di problemi e come interpretazioni di testi. Analisi di problemi comprensibili in sé. «Identità e differenza» indica l'intendimento oggettivo, più o meno esplicito, di tutti i gruppi di problemi qui approfonditi. In essi mi si presenta il contenuto teoretico, verificato nella storia dell'influenza del pensiero platonico, di ciò che dall'intensa occupazione con le singole posizioni del platonismo ho
differenza è, per l'essenziale, identico alla mia introduzione a: G. Bruno, Von der Ursache, dem Prinzip und dem Einem (cfr. indici ed abbreviazioni). In Identità assoluta ho modificato ed ampliato in alcuni aspetti uno studio in precedenza pubblicato nel «Phil. Jahrb. », 80 (1973), pp. 242-266. Era dedicato al 70. compleanno di Joachim Ritter, e qui vorrebbe esser segno del suo ricordo. 13 Nuove sono le parti che riguardano la dialettica platonica, la speculazione trinitaria di Mario Vittorino, il concetto di creatio in Agostino, Meister Eckhart ed Hegel. In gran parte nuovo è anche Il non identico in Adorno. Nella nuova stesura ho in modo sporadico inserito il testo pubblicato, con il medesimo titolo, nell'opuscolo commemorativo in onore di R. Berlinger ( Weltaspekte der Philosophie, a cura di W. Beierwaltes e W. Schrader, Amsterdam 1972, pp. 7-20). La mia voce Gegensatz nell' Hist. Wdrterbuch der Philosophie (a cura di J. Ritter), III (1974), pp. 105-117, contiene per un aspetto particolare un primo abbozzo all'inter pretazione storico-concettuale del problema.
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guadagnato in visione dell'oggetto e della forma di pensiero di questo filosofare. La «storia del concetto» non è un puro accidente di un filosofare che si concepisce «sistematico», ossia «teoretico». L'accertamento storico del pensare è, anzi, essenziale ad esso stesso, e viceversa l'oggetto del pensiero è presente anche al suo autochiarimento storico. Entrambi i processi dovrebbero formare una unità dialettica. Per questo conviene anche ad una filosofia ermeneutica aperta in modo esplicito alla propria storia, che la storia del concetto «faccia parte dell'esecuzione della filosofia» 1\ o che sia anche un modo di filosofare. Le mie riflessioni storico-concettuali intorno a identità e differenza si legano a degli aspetti della «storia del problema». Non in modo tale che venga asserita una totale invarianza storica della questione intorno a identità e differenza, ma in modo tale che divenga chiaro il motivo per cui le questioni di volta in volta diverse possano sulla base dei loro presupposti storici essere pensate come trasformazioni dell'identico. E ciò appare legittimo proprio in rapporto ai diversi aspetti delle cose qui discusse, poiché esse sono unite nel fondamentale modo di vedere «platonico» in sé differenziato.
14 H b' · G. Gadamer, Begriffsgeschichte a/s Philosophie, in: Kleine Schriften, Tiimgen 1972, III, pp. 237-250.
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PARTE PRIMA
Identità e differenza nel Platonismo e nel Neoplatonismo Platone - Plotino - Proclo - ps. Dionigi Areopagita
«In relazione a tutti, infatti, la natura del diverso, rendendo ciascuno di essi diverso da "ciò che è", lo fa non essere, c per la stessa ragione noi potremo così correttamente dire di tutti che non sono e di nuovo, per il fatto che partecipano di «ciò che è», potremo anche dire che sono, e che si tratta di cose che sono». Platone, Sojista, 256, d-e. «Non potrebbe infatti aver luogo il pensare se non ci fossero alterità ed identità». P loti no, Enneadi, V l, 4, 33 s.
1. Il «non essere è» m Platone
1. Identità e differenza come elementi della dialettica platonica
Il nesso di identità~ differ.enz~ ;iene pensa~~ ~a Pl~ton~ ~ell'o- ) rizzonte della questione d1 umta e moltephc1ta o di umta nella molteplicità. È, questa, la questione fondamentale del pensiero platonico e, quindi, in forma variamente modificata, del platonismo in generale. Il nesso di unità e molteplicità, identità e differenza, viene portato a livello di consapevolezza e contemporaneamente praticato nel metodo della dialettica, che da Platone è stato espressamente elaborato a tale scopo. Questo metodo, insieme al contenuto in esso svolto, può essere inteso, da un punto di vista storico, come la «risposta» di Platone al rigo- ~ roso concetto di unità o di essere quale unità immobile e immutabile, che esclude la molteplicità, quale è stato proposto, in modo efficace, soprattutto da Parmenide. La risposta di Platone non volge totalmente le spalle alla «questione dell'essere» di Parmenide a favore di un puro atto formale di un concepire astraente, che si renda in sè strumentalmente autonomo. La dialettica rimane, anzi, Jjferita all'essere; è la2_t.g_~~p_!~cazione. L'essere è, in senso proprio, l'idea: intesa uale forma intelligibile in sé esistente, in sé invariabile, (Pldea stessa è una forma dell'unità nella molteplicità o l'identico senza tempo del differente che si manifesta nel tempo, e a partire dal quale ogni cosa singola può essere compresa, può essere «identificata» nel suo nesso con un universale. Strettamente connesse nel loro intento, le tre similitudini della Repubblica hanno lo scoPo, in ogni diversa intensità e accentuazione, di fornire ragione della dialettica com~metodo _di conoscenz~ dell'idea 1• Suo
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Per gli aspetti generali e particolari della dialettica platonica, cfr. H. G. Ga-
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IDENTITÀ E DIFFERENZA
fine, a partire dal quale si determina tutto il resto, è l'idea del Bene, che garantisce l'unità di ogni idea. Pensata secondo la similitudine della linea, essa è principio incondizionato, senza presupposti (ò:px.~ ò:vun6th:roç) dell'intero 2 , dunque anche nell'ambito delle idee. La v61J
damer, Dialektik und Sophistik im siebenten platonischen Brief, in: «Sitzungsber. d. Heidelb. Ak. d. Wiss .», 1964, 2. Abh . H . Gundert, Dialog und Dialektik, in: «Studium Generale», 21 (1968), pp. 295-379 e 387-449. H . J. Kriimer, Ober den Zusammenhang von Prinzipienlehre und Dialektik bei Platon (zu Politeia 534 B-C) , in: Das Problem der Ungeschriebenen Lehre Platon, («Wege der Forschung», 186), a cura di J. Wippern, Darmstadt 1972, pp. 394-448. 2 Repubblica, 51 O b 7. 3 !bi, 533 c 8: &vonpoiicra.
PLATONE
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do sufficiente solo a partire da esso, ossia dalla «fine». dell'influenza storica, la dialettica platonica a~- 1 re già come un accertamento d eli' «assoluto» (apo!yton), pOlpa il neoplatomco . . se, e per se~> , vtene . ché « U no m a d assumer e \ la posizione strut~urale del ~ene .platontco: , Questa configurazwne della dralett1ca plato~tca e - d~l punto di vista storico -- la seconda ad essere congmnta alla mt.erpretazione, di valenza antologica, delle idee. La prima cornsponde alla prassi dei primi dialoghi: la domanda socratica, che ha come fine la definizione, «che cosa è X?», tende ad una unità che si ripete in molti fenomeni, a ciò che permane ed è identico, il quale «si mostra» in essi ogni volta diverso, ma li determina in quanto oggettivamente comparabili per il genere sulla base di un universale, che è !!!} singolo ed insieme è oltre esso. Questa form~ di d~alettic? int~r.rog~re a fondo prepara proprio la concezwne d1 ~na. tdenuta eSISte~te .n~lla ~ differenza (idea) e non ha - al pan d1 questa - un sigmficato puramente logicò:nel contesto del tentativo platonico, essa ha lo scopo di legittimare, nei confronti del relativismo e del dispotismo concettualmente cieco dei sofisti, tanto la fondazione della conoscenza come anche le forme politiche ed etiche. Entrambe le configurazioni della dialettica, sebbene si volgano alla definizione e al concetto o all'idea, hanno in comune l'intento di conoscere l'universale come il fondamento del particolare e, dunque, il nesso di unità e molteplicità, identità e differenza: come una cosa sia anche molte, e come molte cose siano una o come esse possano essere ricondotte ad un universale, che le fonda e rende comprensibili. Mediante esso, le molteplici cose, che si manifestano, sono «salvate» e «legittimate»; esso è ciò che è propriamente vero di un ente (di una cosa) o di un pensiero. Determinante per il dialettico è, di conseguenza, la sua capacità «sinottica». Il dialettico porta ciò che è in modo molteplice disperso, ciò che apparentemente non è unito, ad una unione, in quanto vede l'ente comune a Partire da un determinato aspetto concettuale o da una idea, o in vista di essa 4 • Per quanto concerne il guadagno di un concetto, che comprende e fonda ciò che è singolo, esso avviene attraverso il classificare, lo scomporre o il «suddividere»
~~to l'aspetto
d
4
Fedro, 265 d 3 ss.
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un concetto in ciò che è ad esso subordinato e, per questo, comprensibile solo a partire da esso. Il «suddividere in specie» deve corrispondere alla «natura» dell'oggetto (oLcx-ri!J.VE.Lv xcx-r' cip~pcx fl7tiq>uxE.v) 5 • Il dialettico deve, dunque, essere almeno consapevole dell'esistenza di un adeguato pre-concetto dell'oggetto in causa. Al termine di questo processo si trova ciò che non è ulteriormente divisibile, l' ci-ro[J.ov dooç fine del volere-sapere. La forma della dialettica definitoria viene ampliata, in modo diversificante e modificante, mediante questo procedimento diairetico; e questa forma si presenta come il terzo modo della dialettica platonica, dal quale sono caratterizzati, in particolare, i dialoghi Sojista, Parmenide, Filebo e Repubblica. Che anche così la dialettica non si riduca ad un'arte puramente formale del disputare, ma rimanga legata in misura determinaV ta alla dimensione dell'essere o dell'idea, lo mostra una riflessione intorno al movimento dialettico dell'essere stesso nel Sofista. Da ciò deriva questa conseguenza per il logos (nel senso di asserzione o proposizione intorno ai fatti): la comunanza , 'fe la divisibilità dei concetti in un logos non è oggetto di una unione qualsiasi, ma si fonda nell'essere dell'oggetto stesso. Dunque, la dialettica diviene quella scienza che conosce nei suoi fondamenti la comunanza e la divisibilità di concetti o idee. Di conseguenza a tutte tre le forme di dialettica è comune il render conto di qualcosa mediante il concetto e basarsi su questo. Il logos dialettico (il logos realizzato mediante il metodo della dialettica) non è solo notizia, affermazione o opinione non vincolante, ma è enunciato fondato, in quanto chiede ogni volta del fondamento, trattandosi per lui, quale termine medio della dialettica, della conoscenza di ciò che è «ogni cosa in se stessa», dunque di una conoscenza dell'essenza attraverso il puro pensare (v61Jcnç) 6 • I sunnominati ultimi dialoghi documentano in misura diversa la stretta unione, che si mostra indissolubile, nel contenuto, di dialettica e questione dell'essere o teoria dell'idea, la compenetrazione di antologia e logica o il loro essere situate nella dialettica dell'essere. In una riflessione sul Sofista può, perciò essere esaminato anche un aspetto essenziale della risposta pia-
~
l
5 6
!bi, 265 e l s. Repubblica, 531 e 3 ss.
PLJ\TONE
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tonica riguardo alla questione intorno al nesso di identità e differenza 7 • Nel Sojista si compenetrano molteplici questioni. Da una parte Platone approfondisce, precisa o modifica in esso la problematica posta per mezzo della sua teoria delle idee, ma dall'altra perviene a nuove consapevolezze o a nuove formulazioni del problema, che erano, a dire il vero, state applicate già nelle precedenti discussioni (ad esempio nella questione intorno al principio che determina e tiene unite le idee). A ciò si aggiunge il contrasto, implicito o esplicito, di Platone con i propri antecedenti filosofici - certamente in misura non minore, ciò vale per il Parmenide -, in modo particolare con il concetto di essere e identità, così come esso era stato sviluppato da Parmenide, ma anche con il rigoroso e pervertente prosecutore di questo pensiero, Antistene, e soprattutto con la seducente logica cavillosa dei sofisti. Proprio il confronto critico con il metodo sofista di discussione e con l'habitus ad esso connesso dei sofisti rappresenta per Platone il punto d'attracco che rende possibile un confronto con la precedente logica greca e con le sue assurde conseguenze, determinate dalla sofistica. Lo scopo del dialogo Sojista non è esclusivamente quello di far prigioniero, con il metodo della diairesi, magistralmente usato da Platone, il sofista come non-filosofo o antifilosofo. Nondimeno, ben oltre l'occasione storica, una cosa verrebbe detta, proprio mediante questa diairesi, stimolante ed 7
Il Sojìsta è stato, negli ultimi anni, oggetto, in modo particolare da parte della ricerca in terra inglese su Platone, di un confronto vivace, però, ora, a sufficienza conosciuto e in modo irritante ripetitivo - questo a motivo di un interesse primariamente analitico o linguistico-analitico . Rispetto alla totalità viene qui rimossa, in modo più o meno esteso, la questione dell'unione di logos e idea, poiché gli accenni, che in Aristotele divengono espliciti, d'una logica platonica nascosta nei dialoghi manifestano il filo conduttore dell'interpretazione. Nella ricerca in terra tedesca sono state accolte, in forma modificata, alcune formulazioni del problema. Per esempi simili e diversi si deve rimandare a: G.E.L. Owen, P/ato on Not-Being, in: Plato, ed. by G. Vlastos, London-Berryville 1971, l, pp. 223-267; G. Vlastos, An ambiguity in the Sophist, in : P/atonie Studies, Princeton 1973; P. Seligman, Being and Not-Being. An introduction to Plato's Sophist, Den Haag 1974; W. Kamlah, Platons Se/bstkitik im Sophistes, Miinche~ 1963; W. Detel, P/atons Beschreibung des fa/schen Satzes im Theiitet und Sophls~es, Gòttingen 1972. In forma assolutamente diversa, rispetto alla letteratura Citata, R. Marten si confronta con i problemi fondamentali del Sojìsta partendo dal tema del compimento del logos dialettico: Der Logos der Dialektik, Berlin 1965. Il presente capitolo ha unicamente la funzione di introdurre allo sviluppo del problema di identità e differenza, il quale ha la sua origine in Platone.
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illuminante a proposito di una fenomenologia, ancora attuale, di ciò che è «sofistico» e che compare in un certo modo nella forma dell'impostore speculativo, del sognatore che si comporta razionalmente, ma che, in realtà, procede in modo irrazionale, dell'acuto bluffatore («incantatore», «imitatore dell'ente»), dell'adapteur («policefalo») frettoloso e tardivo, del funzionario ideologico, che in modo semplicemente insolente asserisce il sedicente vero senza prova, senza riflessione sui propri presupposti e cerca di sottomettere le masse («seduttore», «incantatore»), o del feticista del metodo, che offre alla filosofia, in modo elegantemente versato, formalismi logici come chance di sopravvivenza e, in aggiunta, si schiera in modo dispotico e autoritario contro il cosiddetto pluralismo anarchico. L'enunciato autoelogiativo del sofìsta, secondo il quale tutto ciò che egli dice è vero, si basa su un presupposto dipendente da una logica determinata: non esiste un giudizio falso. La discussione sul fenotipo e sul suo smascheramento come mimetismo del filosofo conduce, dunque, alla questione centrale del dialogo: è possibile un giudizio falso? Se sì, in che cosa si fonda, allora? Oppure: qual è il fondamento di un giudizio vero e di uno falso? La questione, che conduce alla problematica ontologica e logica del dialogo, viene in tal modo precisata: come si può dire che una cosa falsa o un «falso dire o ritenere» sia vero, senza impigliarsi mediante il semplice esprimere questo enunciato in una fondamentale contraddizione? Chi afferma che qualcosa è «falso» asserisce nello stesso tempo: «qualcosa è così». Si deve, allora, valutare come falsa anche questa asserzione? Se «falso» è identico a «non essere», allora il logos «qualcosa è falso» implica l'asserzione che il non essere sia (-rò fl.~ ov dvaL)s. Dall'identificazione di «falso» e «non essere» consegue l'ulteriore questione se il non-ente, ciò che non è in alcun modo «ente», sia esprimibile. L'enunciato, infatti, si riferisce sempre ad un ente. Inoltre, colui che dice qualcosa intende sempre quantomeno un qualche cosa. Ogni logos nasce allora mediante la possibilità di una unione di un ente con un altro. La provvisoria conclusione della in sé semplice, ma che diviene sempre più complessa, formulazione della questione è certo, per il momento, aporetica: per se stesso il non essere non deve 8
Sofisra, 237 a 3.
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pLATONE
e pronunciato né pensato. Esso è dunque indicibile, impro· b'l esser 1 e. Se d' a.lt ra par te nunciabile e inesplicabile, per~ h'e t~pensa l'ente può essere detto, e I ente e qua cosa, a 11ora 11 non en' l ?9 so lo . te non può essere detto, tn quanto non e qua cosa.
1
2. L 'eredità di Parmenide Così esasperata e, per ciò che concerne la questione di partenza del dialogo, terminante in una aporia, la tesi contiene tutti quegli elementi che sembrano corris~o~d~re ~ ciò che ~egu,e al concetto parmenideo di essere. n pnnc1p10 d1 Parmemde e questo: l'essere è, il non essere non è 10 • Solo dell'essere si deve dire che è: «bisogna dire e pensare che l'essere è mentre il nulla non è» 11 • Poiché «non c'è» il non essere, l'essere è tutto, è un continuo 0 l'intero. La proposizione «l'essere è» non può essere ridotta ad un giudizio analitico che esprime nel predicato semplicemente ciò che il soggetto stesso è; proprio nella sua opposizione al «non», essa mostra di più: solo l'essere è. La proposizione non deve essere limitata al concetto di copula usuale nella logica formale, di modo che, nel significato della proposizione, l'essere «è» sia uguale a «l'essere "è" esistente». L' «è» nell' «essere è» rende piuttosto manifesta l'essenza dell'essere, ossia la realtà, la presenza, l'esistenza di questa per un pensare ed un enunciare. Se si prende la proposizione «l'essere è» nel contesto della sua negazione «il non essere non è», diviene chiaro che .- malgrado il fatto che i predicati rispetto all'intero (esere) appaiano in forma negativa - sono possibili evidentemente solo giudizi positivi, poiché l'essere stesso, del quale viene detto che è, è lo stesso punto di partenza proprio di questo enunciato. n predetto principio viene spiegato attraverso entrambe queste proposizioni: -rò yò:p aù-rò vodv Ècr-r(v -rt: xat dvaL. « ... infatti il pensare e l'essere sono lo stesso» 12 • 9
!bi, 238 c-e. 8, vv. 2, 5, 7, 16, 25, 33, 36, 40, 46 (l'essere separato dal non essere). Diels-Kranz, Fragmente der Vorsokratiker, Berlin 19609 , I, pp. 235, 2 ss. 11 Fr. 6 (I, pp. 232, 21 s.): XP'Ìl 'tÒ Àlym 't& vo&i'v -:'Eflfi.&vow fo··a y<Xp &tvocl, f.1.1)8È.v
° Fr.
1
8'oòx ta'tw. 12 Fr. 3 (l, pp. 231, 22). Circa la problematica di queste proposizioni, cfr. le interpretazioni , che nascono a volte da traduzioni divergenti, e le discussioni
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IDENTITÀ E DIFFERENZA
"C<XIhòv o' t<J"CL VOELV "CE X<Xl OUVEXEV E<J"Cl VOY)f.L<X. où y<Xp <Xvw "COÙ l6noç, iv ~ 1tE
«È la stessa cosa pensare e ciò per cui è il pensiero. Infatti senza l'essere, in ciò che è detto, non troverai il pensare» 13 • Entrambe le proposizioni si riferiscono all' «identità» in sé mediata di pensare ed essere come le ha in un certo modo pensate già il neoplatonismo nel suo ritorno a Parmenide? Se non è intesa né questa uguaglianza né una uguaglianza di entrambe, come deve essere allora compresa la loro «relazione», senza che una differenza venga portata nell'essere stesso? Nel linguaggio filosofico primitivo il pensare, il conoscere (noein), non implica un soggetto che si pone in opposizione ad un oggetto, ma significa piuttosto: percepire ciò che è 14 • L'essere è, dunque, normativa nei confronti del pensare. Il suo significato di «essere-possibile», di «avere-stabilità, avere-esistenza» implica il concetto della «presenza-per», è in rapporto al percepire; nessuno dei due è senza l'altro. Pensare è, allora, esclusivamente pensare l'essere (non pensare il non essere); essere è essere solo attraverso il pensare che si esprime in esso (lv ~ 7tE
Fr. 8, vv. 34-36 {l, pp. 283, 3 s).
Cfr. a questo proposito K. v. Fritz, Die Rolle des vouç, in: Um die Begriffswelt der Vorsokratiker («Wege der Forschung», 9), a cura di H. G. Gadamer, Darmstadt 1968.
pLATONE
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«segno» _ come chiarisce il frammento 8 - essenziale allo stesso essere. S lo ciò che può essere, o ciò che è (tcr•t), può essere ~ensato ( ~ è come pensato)_ ~d. è enunci~bile solo come tal~, 1_1 nu!la · ·mpensabile ed indicibile. Propno questo concetto md1ca l aer . f l . paria nella quale è incorso P latone nella pnma or~u azwne del nesso di pensare e parlare con es~ere n~l Sojtsta: Il comprendere pensante e conoscente, Il noern, appart1en~ ~ come è già stato accennato - ai «s~g?i» 15 , al~e carat~~n.sti che, ai predicati, ai tratti dell'essere, e Il suo pnm? e PI~ Importante «segno». Il concetto di «segno» o anche d1 p~ed1cat?, di caratteristica, di proprietà dell'essere, seguendo l'etlmologta aristotelica, potrebbe essere fuorviante riguardo al p~im? p~n siero greco, in quanto esso verrebbe inteso come I~dt~atJv~ di un'«altra cosa» rispetto a se stesso, o come enunciativo d1 un'altra cosa. Il concetto fondamentale di Parmenide insiste, invece, esattamente sul fatto che una differenza nell'essere non possa essere pensata, perché essa non ~- S?uesto,. n~nostante il fatto non ulteriormente riflesso, che Il hnguagg10 m questa assenz; di differenza deve compiersi in realtà nella dimensione della differenza. Di conseguenza per limitare il sorgere del pensiero di una differenza, il «segno», il predicato, la proprietà dovrebbero essere piuttosto concepiti nel senso di una «autopredicazione», da comprendere in modo specifico, o di una «auto-interpretazione». La concezione corrente di una identità di pensiero ed essere dovrebbe essere intesa come «indivisibilità» di entrambi. Quand'anche i «segni» debbano essere necessariamente qualificati de facto come molteplici, rimandano tuttavia, tutti, a ciò che è uno e a ciò che è unico; in quanto singoli, essi portano la struttura dell'intero dinnanzi al pensare o, in quanto aspetti singoli, danno uno sguardo all'intero, che in essi si annuncia ogni volta «divisibile», ma si intende lo stesso come intero. Soprattutto i «segni» di «unitario», di «del tutto nello stesso momento», di «continuo», di «pieno dell'essere», di «mantenentesi nei vincoli del limite», di «uguale da tutte le parti», di «etero», di «imperituro», di «immobile~>, di «persistente come un identico e fermo in sé», o, detto m negativo, di «non divisibile», rimandano alla proposizione fon15
Fr. 8, v. 2.
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damentale: «solo l'essere è». A partire dal concetto questo uno in sé esistente è l'essere che esclude il non ess o l'essere-altro-da-se-stesso, la proposizione fondamentale Parmenide può essere formulata anche nel modo seguente: «solo l'identità è, la differenza non è pensabile né dicibile».
3. La risposta di Platone Così dicendo, il pensiero si collega di nuovo alla problematica platonica; provoca la risposta peculiare di Platone riguardo ai suoi antecedenti filosofici. Senza che questo appaia come «parricidio», come assassinio dei grande Parmenide 16 , Platone deve «obbligare», in opposizione alla formulazione ed al pensiero di Parmenide, il non essere ad essere: ossia «che ciò che non è, in un certo senso è>> 17 • Ma ciò significa anche: sciogliere l'identità immobile dell'essere con se stesso e rendere l'essere dialettico in se stesso. La critica all'antica «antologia» e quella alla logica sofistica che da essa discende (ogni giudizio è vero perché esprime l'unico essere enunciabile), si uniscono prima di tutto al tentativo di modificare la teoria delle idee a partire dalla sfida descritta: la struttura della sfera delle idee, che appare «statica», deve essere «dinamizzata». Diretta contro Parmenide e caratterizzante la propria teoria delle idee, la domanda centrale di Platone suona: «ci faremo persuadere così facilmente che in realtà il moto, la vita, l'anima, l'intelligenza non ineriscono a ciò che assolutamente è, ch'esso né vive né pensa, ma invece venerabile e santo, senza intelletto, se ne sta fermo, immoto?» 18 • La differenziazione della posizione «classica» di Platone della teoria delle idee consiste nel tentativo di riflettere attentamente almeno sulla possibilità di una fondazione riflessiva della sfera delle idee e, così, di rendere compatibile l'immobilità o immutabilità delle singole idee 6 1 7 1 1
Sofista, 237 a 5; 241 d 5. /bi, 241 d 6.
8 /bi, 248 d 6- 249 a 2. Un'interpretazione più radicale del concetto di «essere perfetto» (pantelos on) potrebbe mostrare a mio avviso che con esso si intende l'essere dell'idea o della sfera delle idee. Accenni a questo riguardo in: A. Diès, Définition de l'étre et nature des idées dans le <<Sophiste» de Platon, Paris 1963 , 2 ed in: C. J . de Vogel, Some controversia/ points of Plato interpretation reconsidered, in: Philosophia, l, Assen 1970, pp. 197 ss.
47 · . . Questo implica, a !!ora ' che , dell'intero con Il mo~tmento. e identità nuovo rispetto a in se e a un concetto dt essere do ad esso convensi «Compiuto» è l'essere solo realizzato, come momenti. Il neoplatomsrl_lmo postazione di Platano 1 su . 1 guente questa 1 go o sefigura di'. una um"tà di essere e pensare si mostrer à nel d capito . o nella . modo ecis . . lo Spirito come mtero. d. f. la concezione di ne m che formai. devono, dunque, me se' e quella delGr1 estrem h ta JffiffiO l e l ' . de del puro essere, c e s . proprio mai .esistenParmem . v·mento m senso l'essere totalmen.te m c~; ~!atone 'attribuisce agli ~rachd·t.e~, s:~9a - una concezwne . l concetto eracliteo I og . PL
AToNE
introdu~
qua~a
parm~mdddetti
esser~
bi~ll.·n
t~e questo fosse corr~spondente ~a nella domanda riguardo al ~'intenzione mediatnce SI. artl~~etti che appaiono antitetiCI o al come l'essere ed I . co d' ovimento» (kinesis) pos~e i~ee di «imobilità» (stasts) e I <~:anza (koinonia), ad una s~no assieme giungere ad una cor:estione è anzitutto il nesso
unione o ad una mes~olanza~· I~ ~ntità reali, nell'essere. Questa o la relazione di quest.I :once~~e attraverso il concetto, com~ne relazione è comprensibile. ~n di «partecipazione» (methexts). alla teoria classica del.le l ee, ossia ogni idea, è ess~ stessa Per il motivo che ogm concet~o,tto le altre e sì determma co~ "dentica a sé, essa esclude a?zitu d d'essere essa determi1 ndo Il suo mo o eludendole da se stessa cociò positivamente; seco n a anche le altre, e precisa~e~te t~s.n mi·sura ancora maggiore s· ' OSI gmn l l . p me suo non essere: I ~ ~ che va oltre la concezione di ar: nei pressi della tesi decisiva, . non essere, ed esso SI menide: l'ambito dell'essere tmp tca l . suoi singoli elementi, O . d a cw ·, costituisce soprattutto P sitivamente, d. nei te la distinzwne (ossia me Jan . mediante il non essere . ', La scoperta e l'elaborazione che è altro attraverso l'altenta). delle idee e del concetdel concetto di relazione nella strudttura tale di Platone intorno d nda fon amen , to è implicita nella orna d il molto all'uno, ma e 1 e al rapporto dell'idea a come l'uno è rispetto al mo anche preparata dal la domanda mtorno
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All'un_ilater~lel~nlt,~~J:::z;~:munis,
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. e platonica di Eraclito o m~Sofista, 249 d 3 ss. a lungo glio di un suo supposto pensler? tto scorra o si muova» (ad es. m. da per la quale secondo Eradno « _u . · · una unità duratura, vtene 40Ì a 8 ss .) · Il logos che unisce gh oppodstltomcon ciò che è «stabile» o «duraQuesto velato· addirittura verre bbe avvtcen a turo», da Platone cercato come idea. · 19
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di Bene con le altre idee: questa è la «garanzia ontologica» dell'identità (e quindi implicitamente anche della diversità) delle idee. In quanto «produttrice del bene» - «al di sopra dell'essere delle idee» -, essa le fa apparire come ciò che esse stesse sono 20 • Nel Sofista proprio questa fondamentale questione viene esplicitata in modo più esatto e, nello stesso tempo, distinta con l'introduzione dei cosiddetti fliyLcr-rQ: yivTJ, dei più importanti, o particolarmente importanti, generi o «categorie», che esprimono qualcosa di universale, e pur tuttavia di determinato, intorno all'essere di una cosa, e altrettanto intorno all'essere di una idea 21 • Non bisogna certo pensare i megista gene come delle idee proprie, ma non mi sembra che siano nemmeno riducibili a puri concetti. Piuttosto, essi sono le strutture ontologicamente e, perciò, anche logicamente esprimibili che competono ad ogni ente e ad ogni idea: movimento - permanenza (quiete)- essere- medesimezza (identità)- alterità (differenza). Il fatto che l'essere abbia priorità tra questi cinque appare sia dal punto di partenza sia dal punto di arrivo della trattazione: la determinazione dell'essere e la questione intorno all'accordo di enunciato ed essere. Anzitutto Platone riflette sull'indipendenza, o identità, di ognuno dei cinque gene. Se questo fosse il risultato della riflessione, allora rimarrebbe l'estremo parmenideo. La riflessione sull'indipendenza dei cinque gene deve essere, invece, intesa come presupposto della loro comunicabilità o unione. Introducendo i concetti di «natura di ciò che è altro», diverso, e di differenza, Platone riesce a mediare le proposizioni antitetiche di Parmenide: «l'essere è» e «il non essere non è» 22 • Con differenza si intende il non essere parziale come enunciato intorno ad un ente; oppure: il non essere di un ente è la differenza di questo da ciò che è altro, a sua volta differente da esso stesso 23 • L'intento di Platone di considerare l'essere in se stesso e in riferimento a ciò che è altro, 20 21
22
23
Repubblica, 508 e l ss.; 509 b 9. Sojista, 254 d ss. Ad es.: ibi, 255 d 9; 257 c 7. !bi, 255 d l; 256 c 5. Per quale ragione stasis e kinesis- in sé eterogenee,
secondo la loro origine categoriale, rispello a identità e differenza - vengono prese in considerazione insieme con queste, è invero una questione centrale per l'interpretazione del Sojista, ma qui può essere accantonata. Sembra abbastanza
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conduce alla tesi correttiva nei riguardi della tradizione parmenidea: escluso in precedenza dall'essere, il non essere non deve essere concepito come l'opposizione contraddittoria d eli' essere ma - in quanto si riflette sulla relazionalità verso un «altr~» essere - solo come una cosa diversa dali 'essere determinato, dunque un non essere relazionale o relativo, che è asso~ Jutamente connesso con l'essere identico del punto di partenza 24. Dunque, il presupposto della possibilità di d~r~ che il non essere è, è il concetto che la differenza determini del tutto ogni essere, nonostante l'identità di quest'ultimo. «In relazione a tutti, infatti, la natura del diverso, rendendo eia- rt:/ scuno di essi diverso da "ciò che è", lo fa essere» 25 • La comunanza di ambedue nella nostra connessione delle categorie, che principalmente interessano, di identità e differenza è, dunque, una comunanza operante nell'essere stesso, tanto che nella stessa sono uniti essere e non essere mediante identità e differenza. Poiché il non essere è, nell'essere, un non essere relativo e relazionale e non assoluto, anch'esso è formulabile. Ecco la complessa conclusione di Platone: «Ma nessuno dica di noi che, indicando in "ciò che non è" l'opposto di "ciò che è", osiamo sostenere che esso in tal senso è .... Quanto a quello invece che noi ora abbiamo detto essere "ciò che non è", o uno, confutatici, ci convincerà che sbagliamo, oppure, fino a che non sappia far ciò, anch'esso dovrà dire, come diciamo noi, e che i generi si mescolano fra loro, e che "ciò che è" e il diverso si estendono a tutti i generi e pure l'uno all'altro, e che il diverso è in quanto partecipa di "ciò che è", proprio per questa partecipazione, e non è ciò di cui lo dicemmo partecipare, ma ne è diverso, ed essendo diverso da "ciò che è'.', per necessità evidentissimamente deve essere non essere; "ciò che è", a sua volta, partecipando del diverso, sarà diverso da tutti gli altri generi, ed essendo diverso da tutti questi non è ciascuno di essi, e neppure tutti questi meno lui stesso, cosicché "ciò che è", senza alcun dubbio, innumerevoli volte non è in innumerevoli circostanze, e così gli altri generi, uno per
'
chiaro che identità e differenza debbano essere categorie universali, che nel loro valore vanno anche ai di là di stasis e kinesis. 24 /bi, 257 b 3. 25 !bi, 256 d 12 ss.
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uno e tutti insieme analogamente, in innumerevoli modi sono e in innumerevoli modi non sono»26. Essendo inverosimile che questa concezione fosse cancellabìle dall'adozione di una ironia universale nei dialoghi platonici, essa può essere accettata come risultato epocale della riflessione intorno al nesso di identità e differenza, unità e molteplicità. In quanto elemento necessario, nella sua teoria dell'atomo, alla spiegazione del processo della materia, il vuoto come il nulla nell'essere che ha tuttavia esistenza è invero - antiparmenideamente - ammesso da Democrito; ed anche Eraclito si colloca però, nei pressi della concezione platonica - in opposizione al-' la stessa interpretazione platonica deg li eraclitei -, in quanto il suo concetto di logos ordina l'opposizione in una unità compiuta, o è illogos stesso ad essere ciò che legittima l'unione della struttura molteplice e in sé contraddittoria dell'esistente o di ciò che accade. La concezione di Platone del non essere come elemento costitutivo dell'essere è la prima feconda riflessione sull'identità nella differenza e nonostante la differenza, o sulla differenza nell'identità. Nel Sojista viene fondato, in modo sistematico, ciò che Platone ha, in precedenza, praticato nel metodo dialettico. Aver riconosciuto la rilevanza dei megista gene e in particolare del nesso di identità e differenza, è in assolut~ il presupposto della dialettica. Il nesso di identità e differenza rivela l'identico anche sotto l'aspetto del diverso, dunque per la prima volta come un intero 27 . Disporre in questo senso del metodo dialettico è per antonomasia costitutivo del filosofare anche nel Sojista. La trattazione dell'elemento antifilosofico deÌ sofista fonda dunque, in pari tempo, il metodo che è essenziale al «vero filosofare» 28 • Di un particolare dialogo intitolato il Filosofo non c'è perciò, in sostanza, più bisogno. La dimostrazione del non essere nell'essere e del fatto che an26
27
/bi, 258 e 6 - 259 b 6.
Vedi a questo proposito (in relazione alla dialettica) H. G. Gadamer Platos dialektische Ethik, Hamburg 19682, pp. 76-79. ' 28 Sofista, 253 c 6 ss., in particolare 254 a 8 ss. riguardo al filosofo, il quale «co_st ant~mente mediante i suoi ragionamenti (Àoytaflo(: pensiero discorsivo, dialet uco) SI stnnge ali~ natura propria di ciò che è, a sua volta non è per nulla a~cvole ad osservars~ a causa della luce di questa regione; infatti gli occhi dell'anima della moltitudmc non possono sopportare la vista del divino» - ciò è e_videntemente contrario all'onnipresente sofista, visibile importunamente da tutIl ed anche apparentemente «sopportabile».
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pLATONE
che il non essere è, e, ulteriormente, che il non essere è stato determinato come essere altro - essere diverso (differenza), è il presupposto di una risposta alla questione legata proprio alla prassi della sofistica: se sia possibile, o meno, un logos falso. Le riflessioni di Platone (259 e ss.) non possono essere trattate espressamente in questo contesto; e nemmeno le implicazioni logiche, molto discusse, della proposizione «Teeteto vola»29. A mo' di tesi sia detto solo questo: se l'essenza di un logos consiste nella unione di onoma e rhema 30 , e questa unione ha la sua analogia nell'unione dei gene, allora il logos è condizionato da questa unione e la sua qualità deve essere giudicata in conformità di essa. Il logos diviene la mimesi della sfera delle idee, delle possibilità di unione e di divisione di concetti. Ora la questione centrale, gravata da numerose difficoltà, è se e come il non essere, il quale si è dimostrato nel senso della differenza come un genere (o principio strutturale) e di conseguenza come spettante all'essere 31, si lasci unire anche con il logos. In esso il non essere viene inteso come «falso». Che il non essere possa essere unito con l'ente, il quale è il logos per affermazione, è perciò la condizione di possibilità di un falso logos. Il logos, nel senso di giudizio da interrogare riguardo alla sua qualità logica, deve essere determinato come logos «falso», quando dice del (reale) non essere che è o dell'essere che non è 32 • Ne segue, per il concetto dell'enunciato, vero o della verità come enunciato che esso dice ciò che (realmente) è, o che esso concorda con una idea o con un fatto reale. La verità è quindi la rappresentazione dell'essere nel linguaggio. Essa formula strutture che, in quanto esistenti sono linguisticamente analoghe ad esso. Se l'enunciato, come Platone propone, è in rapporto tanto con la sfera, per lui normativa, delle idee come anche con la realtà, nel senso di un fatto, di certo rimane sempre la questione che riguarda il definitivo chiarimento del criterio per l'accordo dell'enunciato con l'essere. Questo significa: la questione del logos viene rimandata alla questione della possibilità di una conoscenza 29 /bi,
263 a in: «Archiv. 30 /bi, 261 d 31 !bi, 258 d 12 · !bi, 263 b
3 ss. Pro multis: K. Lorenz e J. Mittelstrass, Theaitetos fliegt, f. l 6: 2
Gesch. d. Phil.», 48 (1966), pp. 113-151. ss. tròoç -,;où fl~ ihn:o,; analogamente a 255 e 5: tòi<X ~or;-,;Épou. _ ~ "•l ''' ss. (' ,
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IDENTITÀ E DIFFERENZA
reale e di ciò che globalmente fonda il reale, dell'idea o della sfera in sé intrecciata delle idee. Le complicanze presenti in tale questione sono state certo per Aristotele uno stimolo, che si volgeva in critica, a staccare la logica universale dal tentativo di una fondazione ontologica e, dunque, principalmente a formalizzarla.
II. Fondazione della problematica dell'identità e differenza in Plotino
1. Premessa alla problematica neop/atonica dell'identità e dtjjerenza
Alterità, diversità, differenza, è un concetto costitutivo per il filos ofare neoplatonico 1 • Insieme a medesimezza, identità o unità indica la struttura dialettica tanto dell'essere come anche <'! del pensare. Il nesso di identità e differenza deve quindi essere pensato - in modo analogo a Platone - sotto il generale orizzonte del nesso di unità e molteplicità. La tematica si colloca nell'ambito di una questione complessiva: per quale ragione e con quale risultato la dialettica di 'tiXU't6-rr1ç e h-ep6't1Jç, identità e differenza, ha mosso in modo continuo il pensiero filosofico e teologico sino all'idealismo tedesco? Quale trasformazione ha inoltre ricevuto tale problema genuinamente filosofico, in particolare da parte della formulazione teologica e, infine, da parte di quella trascendentale della questione? Il concetto di alterità, dal Sojista platonico in poi, ha una funzione sia ontologicamente che logicamente negativa: afferma che qualcosa esclude da sé un determinato enunciato, perché esso non è una cosa determinata. L'alterità è, quindi, non solo un attributo logico-formale o un momento di distinzione, ma si fonda sul fatto che qualcosa è identico a se stesso. La sua identità separa il qualcosa da un altro identico. Di conseguenza l'alterltàereii'identico è il «rovescio» dell'identità, op- -d
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IDENTITÀ E DIFFERENZA
altro ente. Il non essere dell'identico è, così, il proprio essere altro. Il non ente è, dunque, nel senso dell'alterità. II darsi un profilo o l'autolimitarsi dell'ente tramite la propria identità permette prima di tutto a ciò che è altro di apparire nello stesso ambito dell'essere. II non essere, superato nell'essere, che lo differenzia, rende dunque possibile il concetto di una unità che racchiude, riunisce e tiene congiunta la molteplicità o l'alterità: identità nella differenza. La recezione nel pensiero neoplatonico dei «cinque generi supremi»2, ossia di essere, quiete, movimento, identità e alterità, come strutture dell'essere e come costituenti dell'enunciato, ha dato origine in modo sostanziale, insieme alla .c.oncezione aristotelica del voùç, ad un nuovo concetto di 'Spirito senza tempo e assoluto, che pensa se stesso dialetticamente 3 • E pensa se stesso a partire dall'alterità in direzione della sua propria unità e dell'unità che lo fa scaturire. 2. L 'Uno come differenza assoluta sulla base della sua autoidentità La negatività del concetto di alterità compare nel pensiero di Plotino anzitutto nella determinazione del principio: l'Uno è diverso da ogni altra ~o~a che ~- ~ediante lui e, perciò, dopo di lui: he.pov 1tciv-rwv 4 • (
3
Cfr. sopra pp. 48 ss.
Intorno alla recezione del Sofista in Plotino: G. Nebel, Plotins Kategorien der intelligiblen Welt. Ein Beitrag zur Geschichte der Idee, Tiibingen 1929; K. H. Volkmann-Schluck, Plotin als lnterpret der Ontologie Platons, Frankfurt 19663 (il quale, all'interno di una riflessione consapevole della problematica filosofica contemporanea, propone un primo accesso, riguardo al contenuto filosofico, ad una delle questioni fondamentali di Plotino); P . Hadot, Etre, vie, pensée chez Plotin e~ avant Plotin, in: Sources de Plotin. Entretiens sur I'Antiquité classique, V, Geneve 1960, pp. 107 ss. 4 Enneadi, VI 7, 42, 13; V 3, Il, 18; V 4, l, 6; V 3, 10, 50: •ò •o[wv oL
P LOTI NO
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denza assoluta (~1tixma 6 ). La proposlZ!one per la quale l'Uno è ovunque e, ad un tempo, in nessun luogo concerne anche il fatto che l'Uno, come fondamento fondante, è e rimane in se stesso lui stesso 7 • In quanto se stesso l'Uno rimane sottratto all 'ente, è in esso sol~ __come Uno, cp~- ~_Qiv~tato unomolti nel momento in cui ha lasciato la pura unità. Gli enunciati prevalentemente negativfrifedtf all'Uno stesso gli tolgono tutti i tratti categoriali che sono propri dell'ente e lo delinea· , ~ no, dunque, come la differenza assoluta. Se l'ente è in sé differente mediante l'Uno, essendo il mohepli- · ce costituito dall'alterità, allora l'Uno è differenza assoluta. Infatti l'ente non è tutto ciò che è l'in sé differente, dunque non è nemmeno forma determinante, delimitante, non è qualcosa e, perciò, è anche non esistente, dal momento che solo l'essere può essere qualcosa. L'enunciato più vuoto e, al tempo stesso, più esteso intorno alla trascendenza assoluta dell'Uno o alla differenz~ _as_,soluta di questo suona di conseguenza: l'Unoe nulla di tuttoj. Qui l'unità dell'Uno si stacca, nel mo o ptu chiaro, dalla molteplicità dei molti o degli in sé differenti. L'Uno è, in quanto il diverso da tutto o il nulla di tutto, il non molti per eccellenza 9 • Qui sta la sua vera identità. È identità vera, o pura (e non solo relativa), poiché è ciò che è 10 , essendo solo tramite se stesso e, come fondamento di sé 11 , non avendo bisogno per la sua realtà di nessun alAd es. : Enn., V 4, 2, 39; VI 8, 19, 13. Fonte platonica: Repubblica, 509 b. x<Xi oùo:xf!oG: Enn., III 9, 4, 1-9; VI 8, 16, 1 ss. La dialettica paradossale mette in rilievo una tendenza antipanteistica (l'Uno non si perde in ciò che da lui dipende). Come riminiscenza di Plot. , Enn., III 9, 4: Porf., Sent., 31; 17, l ss . Sulla storia dell'influenza di questo concetto: W. Beierwaltes, Platonismus und ldealismus, Frankfurt 1972, pp. 40 ss., 62 s. [trad. it. di Elena Marmiroli: Beierwaltes, Platonismo e idealismo, Bologna 1987, pp. 48 ss., 72]. 8 !bi, VI 7, 32, 12; VI 9, 3, 39 s. (oùOlv); III 8, IO, 28 (f!YJOtv); V 2, l, 1: -.ò &v' mi~<X x<Xi oùoi. &v· àpx~ yàp 7t<XV"twv où miv't<X. 9f:v='A-7t6ÀÀwv: Enn., V 5, 6, 26 ss. IO Formula dell'identità dell'Uno: Enn., VI 8, 8, 13; 9, 4; 9, 22, 29, 34; 10, 22 ss., 25; 12, l; 13, 33, 37; 15, 27 s.; V 6, 6, 7; VI 7, 40, 42. li Enn., VI 8, 14, 41: <:t\·nov É<Xu"tou. Con lo stesso significato: <Xu'tò i<Xu"tò r.o~ti: ibi, 7, 54; 15, 8; 16, 21; 20, l (20, 6: 7tOLYJa~ç &7t6Àu•oç= assoluta) e t<Xu;òv7t<Xp
7
1t<Xv~<Xxou
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tro fondamento: 7tpw'twc; cxù,òc; xcxt ùm:poV'twc; cxù,òc; . . . cxù-còc; 1tcxp' cxù-cou cxù-c6c;
12
•
L'alterità dell'Uno nei confronti di ciò che è altro (non Uno) implica che l'Uno sia ciò che «costituisce» 13 , «afferma» 14 o «vuole» 15 «se stesso», e, quindi, «ciò che determina se stesso» o ciò che è assolutamente libero 16 • Anche attraverso queste determinazioni, da Plotino Tri tradOtte solo come ipotesi 17 , non può essere pensata alcuna differenza nell'Uno. Ciò che è «costituito», «affermato», «voluto» o «determinato» è infatti l'Uno stesso. Non esiste nulla che egli possa volere oltre a sé o al di fuori di sé, essendo lui stesso la pienezza: ì}é.ÀTjaLc; xcxt cxù-còc; ev 18 e di conseguenza è sempre «già» ciÒ clie vuole. Ciò che costituisce, o vuole, e ciò che è costituito, o voluto, non sono, dunque, una «parte» o una funzione parziale dell'Uno, ma l'atto dello stesso Uno. Di conseguenza non è neanche pensabile in lui una differenza di prima e poi o di potenza e atto. L'Uno è, come cxu-cou ivé.py1JfLCX 19 , p~altà. Dunque l'assolutamente diverso da ciò che è altro deve essere pensato unicamente come non diverso da se stesso, come il non differente in sé 20 : la non differenza o l'assenza di differenza ha il medesimo significato di pura unità, identità assolu12
/bi, VI 8, 14, 41; 20, 18. Cfr. anche 17, 25. 13 Cfr. nota 8. 14 /bi, VI 8, 7, 40: oiov &pÉcrxew éau~
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ta, non molteplicità. L'essere pura non differenza è la differenza assoluta dell'Uno rispetto a ciò che è fondato, che certo implica la sua presenza universalmente fondante in ciò che è diverso da lui. Questa concezione plotiniana, soprattutto tramite la mediazione di Proclo, fu un oggettivo impulso per Cusano a comprendere Dio come non aliud 21 • In tale concetto si potenziano sia la dialettica negativa neoplatonica che la metafisica dell'unità: l'attribuzione a Dio del non aliud non dice ciò che Dio è, piuttosto delimita l'essere in sé di Dio da ciò che è altro, e, così, esclude da sé anche l'altro in sé, ma al modo del fondamento fondante, lo include ugalmente in se stesso. Essere senza alterità in modo in sé assolutamente diverso da ogni altro, spetta solo all'unità assoluta. In questo, unum e a~ono identici. Alcune asserziò.iii di Plotino riguardo all'Uno sembrano portare ad una aporia: se l'Uno deve essere fondamento di tutto22 , benché, al tempo stesso, sia nulla di tutto, come può allora dare ciò che non ha? Se l'Uno è ciò che è altro rispetto ad ogni altro, benché debba, quale fondamento universale, essere insieme «tutto», come mantiene la sua differenza? Ad entram- J be le domande si può rispondere: eg!l è tutto in modo diverso di come ogni ente è in sé: non dispiegato senza differenza n - 24 Ìn ---· ' semplice (&7tÀouv opposizione a 7toLx(Àov). Il dispiegarsi o' il differenziarsi dell'ente è, dunque, condizionato nella sua semplicità o nella sua assenza di differenza, diverse dall'essere iden- · ti co di ciò che è altro nello stesso Uno 2s.
.
-
21
C:fr. a quesro proposito W. Beierwal!es, Cusanus und Proklos. Zum neuplatomschen Ursprung des Non Aliud, in: Nicolò Cusano agli inizi del mondo moderno (Atti del Congresso su Cusano - Bressanone, 1964), Firenze 1970, pp. 137· 140 e, sotto, pp. 154 ss. Formulazioni plotiniane che definiscono il concerto di non aliud: VI 8, 9, 13 (dell'tv): -rò oì. !J.Ovaxòv -roiiTo :tap' aù-roii. ·tau-ro oùv xat oùx aÀÀo. 37 s.: &n& 'tÒ o\1-:w !J.OVOV xai oùx àv
· · · 24 !bi, II 9, l, 8; V 3, 13, 34 s.; VI 9, 5, 24. All'opposto la «varierà di colori» del voiiç originata dall'alterità: V 3, IO, 30; VI 4, Il, 15 s; VI 7, 15, 25; 39, 17. 25 o.u~sta dialertica di imp/icatio ed explicatio determina tulti i plaronismi sucCeSSIVI. In tale contesro mareriale la merafora ploriniana deve essere assunra co-
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3. Lo Spirito come unità dialettica determinata m~diante la differenza f.l 0 _'\0 / ~~ 11 .3 ;= v t-N ':j f fl\,. t v~ A motivo dell'accezione per cui l'Uno è origine e fo damento, l' «alterità», quale struttura dell'essere e quale categoria der-comprendere, non viene ad essere meno rilevante di quanto lo sia all'interno della questione intorno alla delimitazione dell'Uno da ciò che è già presupposto come altro: l 'alterità viene posta come esistente mediante o nell'atemporale movimento che procede da lui stesso. Proprio per il fatto che l'ente, come qualcosa, è, è, perciò, condizionato nel suo essere racchiuso nell'Uno e nel superamento di questo essere racchiuso, dunque nel passaggio dell'Uno ai molti, nel suo autodispiegarsi. Ciò che è venuto alla luce, o «generato», è il primo modo della moJ!eJ>licità (la duplicità). Esso potrebbe anche essere detto-«prima alterità» 26 , poiché tramite esso qualcosa d'altro dall'Uno è e poiché, inoltre, tale modo nel suo compimento è sostanzialmente determinato dall'alterità. La prima molteplicità, o alterità, che non si separa del tutto dali' origine, o anche il compimento dell'essenza del primo essere mediante l'alterità e nell'alterità, è, secondo Plotino, (<Spirito» (vouç). Il dispiegarsi, l'aprirsi dell'Uno indifferenziato nella differenza sarebbe un atto chiuso e, quindi, incompiuto, se rimanesse fissato in sé in modo insoluto o «indeterminato». Plotinianamente è in questione il come la duplicità, prima di tutto illimitata 0 indeterminata (&optO"'toç OUtXç), la «materia intelligibile» come pura possibilità 2\ determini o delimiti se stessa e, con ciò, divenga una Ù7toa'to:atç, ossia una particolare quiddità in sé esistente, vista a partire dall'origine e nell'orizzonte di ciò che è originato da essa. L'alterità intelligibile è all' «origine della materia (intelligibile), essa e il movimento primo; perciò anche il movimento è detto alterità, poiché movimento e alteme «fonte», «radice», «seme» del traboccare e del permanere dell'Uno. Egli esce e, ad un tempo, rimane diverso da ciò che è uscito : Enn., III 8, IO, 19: IJ.&VOU
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rità sono nat1 msieme: ora il movimento e l'alterità che provengono dal primo, sono cose indeterminate e di quello hanno bisogno per determinarsi; e si determinano quando si rivolgono verso di quello» 28 • Tale volgersi che si dirige verso di sé e termi na all'inizio del movimento, e col quale movimento e .J-alterità vengono per primi materialmente determinati, è il j2f}lk sare. Il movimento e l'alterità non rimangono, dunque, isolatt eInsoluti, ma vengono mediati in modo riflessivo con l'identità dell'origine. Come la duplicità indeterminata o l'illimitata materia intelligibile diviene una quiddità «determinata» è una questione che equivale a quest'altra: come si genera lo Spirito dall'Uno, il quale non è Spirito? «Gli è, ecco, che rivolgendosi lo Spirito verso di Lui, contemplava: ma la contemplazione è, di p~r se ~tess~, Spirito» 29 • L'atto deil'autocostituzione del-] ) lo Spmto è 1dent1co al fatto che l'Uno indifferenziato è «diventato» un Uno che s'oppone a se stesso ed entra in rapporto, mediante la riflessione, con la sua origine. Mentre l'Uno e m se stesso irriflesso, lo fu?irito è l'Un Q che .riflette su .se-< ~ .
l
28
Enn., II 4, 5, 29-34; VI 7, 17, Il ss. Il movimento nella «prima diade»: VI 7, 8, 25.
29 30
/bi, v l, 7, 4 ss. !bi, V 2, l, 9-12: -.ò B& yevOIJ.&vov dç etÙ'tÒ btt(np
1tpòç etÙ1:Ò ~Ài1tov xetl voiiç .?ù1:oç. Intorno alla problematica di questo passo cfr. W. Beierwaltes, Plotin. Uber Ewigkeit und Zeit (Kommentar zu III 7), Frankfurt 1967, p. 15; P . Hadot, Porphyre et Victorinus, Paris !968, p. 320, n . 3; H.R. Schwyzer, «Mus. Helveticum», 26 (1969), pp. 259 s. Sull'atto costitutivo del voùç (iJ.t'tetG"tpet
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intenda l'origine, il pensiero di sé non toglie di nuovo la differenza (nei suoi confronti), anzi la mantiene e la delimita: per questo lo Spirito è molteplicità limitata, o unità relativa e in sé, tramite la differenza, relazionale, l'Uno che è, in conformità con la seconda ipotesi del Parmenide platonico. Per lo Spirito l'alterità non è, di conseguenza, costitutiva soltanto nei confronti dell'Uno, ma è anche alterità in lui stesso, ~oiché lo~rito__è___ç_q_:ne~_n'~nità che si pensa a partir~al Slll%Q.!o (vorrr<X). Il movimento presuppone l'alterità, e il movim~nto nel vouç è intenzionalità pensante verso il da pensare o Il pensato 31>---ill!in~ -~ compimento della differenza di pen~ sare e pensato in un'unità secondaria. Ciò che- è da pensare è !'·essere 6 le -idee; e questi sono l'essere dello Spirito. «Certo è che essi (pensare ed essere) coesistono insieme e non si lasciano l'un l'altro; ma questo uno che è ad un tempo Spirito ~d essere e pensante e pensato risulta da una dualità: è Spirito ~n qu~nto pensa, è essere in quanto è pensato. Non potrebbe Infatti aver luogo il pensare se non ci fossero alterità ed identil\ tà. Ed ecco sorgere i principi fondamentali: Spirito, essere \ ) alterità, identità. Ed è bene includere altresì moto e quiete; moto, in quanto lo Spirito pensa; quiete, poi, in vista dell'identità. Occorre l'alterità a che vi sia pensante e pensato 0 altri~enti, se elimini l'alterità, si avrà una unità silenziosa; e poi anche pensante e pensato han da essere diversi tra loro per la mutua distinzione - e l'identità poiché Io Spirito è uno con se stesso e tutti gli esseri dello Spirito hanno qualcosa di unitario in comune: ché la differenza tra loro è nell'alterità» 32 • Questo passo è la conferma del concetto espresso in li V07J
ÉÀ'(lç TI}v htpOTIJ'tCX, tv ytVO!J.tvov alw1t'f)at"tCXl. Òt1 Òt xcxl -:ofç V07J\ìttalv hipolç r.pòç .XÀÀ7JÀCX e!vcxl) · opcx, htp6UJç . Cfr. anche V 3, IO, 23 ss.; vÌ 6, 13, Il ss; VI 7, 39 4 ss. Per quanto riguarda l'htp6UJç come presupposto necessario del pensare vedi anche Damascio di Damasco, Dub. et sol., I, pp. 178, IO ss.; p. 179, 20 ss. (Ruelle): livw yàp l.--:<-p6UJ--:oç oùx iì:v t'l7J 1:Ò fi.Èv vryvwaxov --:ò ÒÈ y~yvwax6fi.tvov, 1:Ò ÒÈ fi.Éaov ~ yvwalç. /bi, pp. 29 ss. Sull'atto di ' identificazione di pensare ed essere come vouç: W . Beierwaltes, Plotin, pp. 25 ss. Lì si tratta
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precedenza, ossia della necessità che vi sia l'alterità ~rché possa esserci il pensiero. Il pensiero è sempre pensiero(gi) qualcosa. Questo qualcosa è, in quanto «oggetto», differente dall'atto del pensare stesso. Anche quando il pensare è volto a se stesso come al proprio essere, questo stesso, come punto di relazione, deve essere rappresentato anzitutto come un «altro», come «opposto» al pensare. Proprio attraverso l'alterità, l'identico è, in qu.a nto tale, identificabile col pensare. L'alterità è quel momento nel vouç, attraverso il quale questo stesso articola o pì'ofi.ra:-se sTesso ad un tempo come molteplicità e unità in sé strutturata. Ma l'intento del pensare mira, in un certo modo, al «~.era~» dell'alterità nell'unità o alla sua «integrazione». Dunque il pensiero del vouç, in un certo modo, supera l'alterità di se stesso nella sua unità. E il vouç è unità solo in quanto questi comprende in sé ogni «altro» come una sua cosa «propria», o come il suo identico. Alterità e identità, movimento e stabilità costituiscono l'unità dello Spirito come unità dialettica. Ogni ente, o il da pensare, è una «particolare forma» 3l, una «(delimitata) particolare potenza» 34 . È se stesso. Essendo tale identico, esso non è altro, ma nel contempo è altro in rapporto all'altro identico. Di conseguenza ogni singolo è insieme identico e altro 35 • Alterità e identità di ogni singolo delineano reciprocamente sia se stesse che il da pensare; mediante esse il pensiero ha un appoggio. Ora il pensiero che riconosce il da pensare come proprio essere e si riflette in esso, e quindi completa l'identità di se stesso , con l'essere del da pensare, supera l'alterità nell'unità. Poiché questo compimento non è tuttavia di natura temporale e, perciò, non ha in sé né il prima né il dopo, e nemmeno il passaganche della recezione neoplatonica della asserzione parmenidea secondo la quale pensare ed essere sono «identici». 33 /bi, II 4, 4, 5: OLXtlCX fi.OP'f~· 34 /bi, V 9, 6, 9: lxcxa1:ov ouvc:tfi.lç tò[cx. Cfr. VI 2, 8, 26 ss.; V l , 4, 43: tòl6T7Jç. 35 /bi, VI 8, 21, 33: txcxa1:ov cxù1:ò xcxl &Uo, in opposizione all'Uno, che è solo se stesso e niente altro, poiché è l'altro dell'altro. Vedi sopra, nota 21. IV 3, 5, 7: fJ.ÉVtl txcxa-rov lv htpOTIJ'tl !:xov 1:Ò cxù1:ò o la'tlv <-!vcxL. La negatività, all'inizio menzionata, del concetto di alterità (hep6UJç o iìci-rtpov = fi.1J ov) deriva da Platone, Sojista, 255 e; 256 d; 258 b . Sistematizzata, ad es., in Siriano di Alessandria, M et., 171, 29 ss. (Kroll): ~ ò& htp6UJç Òl(OTIJalv où 1:61t~, xcx-:' oùa(cxv ò& 1:(Ì ov-;cx, xcx\ 7:À7]\ìoJtl xcxt 7t0lEl f1.1J ttVOtl \ìci-rtpcx ':Otç É'tipolç 'tCXÙ'tcX,
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gio dalla possibilità alla realtà, l'alterità del singolo non è risolta nell'identità di voùç, v61JcrLç e vo1J-r6v 36 , ma in quanto conosciuta è conservata. Ne consegue che questa unità dialettica, in sè re/azionale mediante l'alterità e l'identità, non può non essere descritta in modo paradossale. «E venga (il dio) e rechi il suo essere - ch'è un mondo! - con tutti gli dei ( = idee) che vi son dentro, uno com'è e, a un tempo, totalità di cui ogni "singolo" è "tutti gli altri", i quali sono stretti in unità, pur essendo diversi per potenze: tutti, però, "uno" in quella unitaria pluralità; o meglio, l'Uno è tutti - poiché Egli non si esaurisce se nascono tutti da Lui -; essi stanno insieme eppure ciascuno è, dal canto suo, distinto in un punto indistinto»37. Il mondo intelligibile è dunque unità relazionale, ed attraverso il pensare è ad un tempo identità (of.toù) e differenza (xwp(ç): identità nella differenza, o nonostante la differenza 38 . Esso è un movimento, in sé «stabile», da identità ad identità (idea), che si differenzia, in quanto tale, nella riflessione ed è ordinato da una differenza, identica di volta in volta a sé, in una unità della totalità, di modo che questa totalità possa essere giustamente pensata come identità «dinamica». L'alterità funge da principio differenziante anche nei nume-
36Jbi, VI 7, 41, 12. 7 3 !bi, V 8, 9, 14-20: 'O 8& ~xoL -ròv whou xÒcrfLov opa ... 15 s.: tÒ 1tOLXLÀov ar:Àouv aò... 20: E~L jÒtp xai 1t()(p~lV()(L xwpiç ov. IV 3, 4, 9 s.; VI 2, 8, 32 ss.; VI 4, 4, 25; VI 6, 7, 4; 7; 9; VI 7, 39, l ss.; VI 9, 5, 16: lo Spirito è molteplicità indivisa e, tuttavia, divisa, 1tÀi'jiloç &8uxxpLtov xal aù 8Lax&xpL!LÉvov. Dal contenuto denso di significato è anche la paradossale definizione di «distinto indistinto» come caratteristica dell'ambito intelligibile: V 8, 9, 19 s. (Testo dell'ed. Harder nella nota 37). Per il termine 8Lacr'taaLç vedi W. Beierwaltes, Plotin, lndex I (p. 309). Porfirio ha mantenuto questo concetto come interpretazione dell'ambito intelligibile (del «vero essere»). Egli concepisce, al pari di Platino, la differenza come elemento immateriale che delinea un'unità relazionale dell'ov-rwç ov: ~v r:oÀÀ&, 0'\'L xail'o rv, Ì:'t&pov, xal i} tt~pÒ't7]ç aÙ'tOÙ 8Lnp1J't()(L xai 1\VW't()(L (Senf. 36; 30, !9 S. Mommert). L'impulso all'unità ha la sua origine nella differenza intelligibile (in opposizione a quella materiale) tramite il suo fondamento, tramite l'unità o l'identità (lv6't7]ç, tau't6n;ç): nell'essere intelligibile (nei confronti dell'ambito del divenire) «conduce » a unità ed identità, i} 8È Éup6't7]ç lx toù iv~FI1J~Lx'Ì}v dvaL -d;v Év6't7]'ta yiyov~ (i bi, 31, 8 s.).
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ri 39; questi sono identici alle idee. Se lo Spirito, quale «numero che si muove in se stesso» 40 , comprende nel pensiero le idee-numero come unità del molteplice, ha raggiunto la più piena vicinanza possibile all'Uno originario, che è principio anche del numero. Egli ha concepito la molteplicità del singolo (f.tov&ò~ç) come unità fondata. 4. L 'alterità che nega l'unità e il suo supera mento
Il dispiegarsi dell'Uno dà origine ad una gradazione dell'ente, la cui dignità si fa minore con l'aumento della molteplicità o dell'alterità. E all'aumento della molteplicità o dell'alterità corrisponde una diminuzione dell'effetto del principio. Si può allora capire perché la materia, quale realtà più lontana dall'Uno e inafferrabile, debba essere definita, con l'identica valenza concettuale negativa, come lo stesso Uno: senza forma, senza qualità, pura privazione, nulla, semplice alterità (whot-r~p6-r1Jç)41. A differenza delle discussioni, avutesi sino a questo punto, qui viene a chiarirsi in modo particolare il carattere negativo-peggiorativo dell'alterità. Due aspetti stanno manifestamente giustapposti in modo diretto: l'Uno fa scaturire da sé l'ente in virtù della sua bontà, della sua pienezza e della sua dynamis 42 • Ciò che è scaturito, tuttavia, non è mai del tutto separato dali' origine; la sua legittimità lo colma, se esso rivolge se stesso all'Uno. «Lo Spirito vede l'Uno senza esserne staccato (où xwpLcr~dç), giacché esso è immediatamente dopo di Lui e nulla è tra loro di mezzo (f.tncxçù oùòtv), come pure tra Anima e Spirito» 43 • «Solo l'alterità» separa i singoli gradi l 'uno dali 'altro, -r'U hepo-r1J-rL f.tovov xexwp(cr~cxL 44 • Questo significa che i suoi gradi non vengono distinti da nessun ulteriore componente della mediazione (come in Proclo), ma che basta il suo carattere di essenza a stabilirne la reciproca differen39 Enn., V l, 4, 41 ss.; VI 6, Il, 15 ss. !bi, VI 6, 9, 30 s. 41 !bi, II 4, 13, 18. 42 !bi, v 2, l, 9: 'tÒ U1t&p-:tÀ·~ptç aÙ'tOÙ 11:t1tOL1}X&V aÀJ.o. III 8, IO, l s.; 33: 8UV()(fLLç 1tÒtV'tWV. 43 !bi, v l, 6, 49 s. 44 !bi, 53. 40
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3, 15,
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za, ed anche a unirli: anche se attenuata, l'origine corrispondente ed universale è dunque operante in ciò che è derivato. L'alterità è ritenuta, in questo contesto, descrittiva, e non valutati va 45 • L'altro aspetto chiarisce la volontà dell'ente di «decadere» dall'Uno e da ciò che è relativamente Uno (dal voùç o dalla <jlux~), di «staccarsi», di «dimenticare» l'origine, e di «estraniarsi» da essa per «determinare se stesso». Questa volontà dell'alterità coincide con la temerarietà ed il rischio: "toÀfJ.(X 46 • Si può dire che lo Spirito, «ubriaco di sonno», sia diventato molteplice senza rendersene como ed «abbia dispiegato se stesso dacché vuoi possedere ogni cosa; quanto meglio sarebbe stato non aver di tali brame! e, infatti, egli divenne secondo!» 47 • II dispiegarsi nella molteplicità o nell'alterità è, dunque, fondamentalmente illegittimo, non avrebbe dovuto aver luogo: in particolare sotto l'aspetto- del pericoloso e arbitrario allontanamento di un ente dalla sua origine. In modo analogo al processo del dispiegarsi delle ipostasi, l'anima del singolo uomo, imbrigliata nella temporalità e nella finitezza, s'allontana da ciò che deve essere. «La prima radice del male, per essa, fu la temerarietà, e poi il nascere e l'alterità primitiva e la voglia di appartenere a se stessa» 4s. Dalla domanda circa l'origine del male risulta subito in modo chiaro la valenza eminentemente antropologica del problema 45
Per la trasformazione di questa concezione all'interno della dottrina della Trinità di Cirillo di Alessandria, cfr. R. Arnou, La séparation par simple altérité dans la « Trinité» plotinienne, «Gregorianum», Il (1930), pp. 181-193. 46 /bi, V l, l, l ss.; VI 9, 5, 29. Sulla questione (e sulla sua origine pitagorica) nel neoplatonismo e nella gnosi, cfr. E.R . Dodds, Pagan and Christian in an age oj anxiety, Cambridge 1965, pp. 24 s. [trad. it. Firenze 1970]. Per i passi citati a p. 24, nota 3, cfr. inoltre Nicomaco, Theo/. arithm., in Fozio, Bibl. 187 (Bekker). Giamblico, Theol. arithm., 9, 6. (de Falco); Proclo, In Eucl., IO!, 9 (Friedlein). Henry-Schwyzer, Platini Opera, II, p. 260; A. H . Armstrong, Plotinus, in: The Cambridge History oj later Greek and early medieval philosphy, Cambridge 1967, pp. 242-245. N. Baladi, La pensée de Plotin, Paris 1970 (il punto di vista centrale è: 'tOÀiJ.cx). Dell'ambito concettuale di 'tOÀiJ.cx fa parte anche wò(ç, l'andare gravida della molteplicità, la tendenza di un grado verso l'altro, che s'allontana sempre piu dall'Uno: Plotino, Enn., III 8, 5, 4; 7, 19. Proclo, In Tim ., III 12, 25. Damascio di Damasco, Dubitationes et solutiones, I, 110, 18 (Ruelle); In Phileb., 240, 2 (Westerink): wòic; òtcxxpicrtwç. 7 4 !bi, III 8, 8, 33-36. 48
/bi, V l, l, 3-5: cipx-i} il~" ovv cx!J,cxrc; (se. 'tcxtc; <Jiuxcxìc;) 'tou xcxxou ~ 'tOÀiJ.cx xcx1
-fJ ylvtcrtc; xcxi ~ 7tpw't1] htp6TI]c; xcxi 'tÒ PouÀ1Jl}1jvcxt ò~ l.cxu-:wv dvcxt.
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t ologico dell'alterità. Il x(Xxov è ciò che non deve assolutaon ·à e mente essere: è l'espressione più radicale della mo ltep r·ICit dell'alterità. Tuttavia «non deve essere» nemmeno la strut~ura molteplice, che è data con l'essere dell'uomo . T_ale concezi~ne diviene per l'uomo un impulso immanente a ncondur~e (tmcnpocpij) all'origine quel se stesso che si trova, nell'estramame~J- ~ • ....-~• to dall'origine, separato dal «Padre», pur non essendo!? defi- ~ .,, ;, }.,c nitivamente. Questo significa che egli si deve allora hberare y u !J (in se stesso, nella sua esistenza concreta) dal_molteplice,_ deve é -'n NJ riunirsi a se stesso, al suo vero essere, per gmngere cosi alla massima unità possibile. K&.\hpcnç, Òflo(wcnç ed Evwcnç debbono essere intesi - in modo analogo alla liberazione dell'esistenza dal tempo - come graduale rimozione dell'alterità 49 • Un~ simile riduzione della differenza, in ogni modo, non equivale ad un processo di svilimento della individualità. Anzi, essa conduce proprio all'identità peculiare dell'uomo (Evtt(X, ossia nell'ambito delle idee, o~ ~flE.lç flliÀLCJ"t(X: I l, 7, 16 s.), in quanto, attraverso la riduzione all'interiorità (ali' «uomo interiore» ) 50 , rende riflessa la strutturazione henologica dell'uomo, !'«Uno in noi» 5t. «Le cose incorporee non sono scisse dai corpi: esse non possono dunque distanziarsi, le une dalle altre, spazialmente, ma solo per via di alterità e di differenza e allora basta che non faccia la sua comparsa l'alterità ed ecco che le cose non diverse sono presenti le une alle altre» 52 • Se l'uomo vuole giungere alla forma suprema della sua esistenza, all'unione c~n l'Uno stesso, deve, nel diventare simile all'Uno, superare m modo continuo - mediante riflessione ed ascesi - la diffe-
4
Circa il problema dell'imCI'tpo'!'+. e del trascendere: W. Beierwaltes, Plotin, pp. 75 ss.; Proklos. Grundziige seiner Metaphysik, Frankfurt 1965, pp. 275 ss. 50 /bi, V 1, 10, IO: 6 ttcrw civl}pw7toc; (cfr. Platone Repubblica, 589 a 7-b l; H.R. Schwyzer in Les Sources de Plotin, Vandoeuvres-Genève !960, p. 89)~ l 1.' 10_, 15 . Intorno a questo problema, ora ampliamente: G.J .P. O'Daiy,_Piotmus phtlosophy oj the selj, Shannon 1973 c A.H. Armstrong, Form, mdmdual and person in Plotinus, in «Dionysius», l (1977), pp. 49-68. Si Jbi, III 8, 9, 23: tCJ'tt yap •t xcx1 ltcxp'i}iJ.Tv cxthou ('tou l.v6c;), attraverso il quale noi tocchiamo l'Uno in sé in base al principio di OiJ.OWv ÒiJ.oic.p; V 3, 8, 41-43: wc; xcxi ltcxp'~IJ.WY -:-ijv (\IWCltV cxthou òt' CXÙ'tOU y(vtcr~cxt;_ VI 9, 3, 27: 'tOU YOÙ -:<\> 1tpW":C]l (l}tàcrl}cxt). Sull'intelligibile come unità provv1sona: cfr. V l, 11, 6 ss. 52 Jbi, VI 9, 8, 31-35: oùò' cX'!'ÉCITI]xt •o(wv ciÀÀTjÀwv -;Olttp, bp6TI]'tt ÒÈ x~t Òtcx'I'~P~' o'tcxv oliv ij htp6TI]c; iJ.-i} 7tcxptj, ciÀÀ-f}Àotc; 'tÒt iJ.-i} htpcx 7taptcr'ttv. lxtTvo f.(tv ouv ~~ txov htp6't1j-:cx &t17t<XptCI'ttv, ~iJ.tl; òl. o-rcxv Il~ rxw!J.tv. Cfr. anche V 8, Il, IO ss. mtorno alla dialettica di distanza ed unità. 49
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renza tra ciò che s'è ongmato e l'origine. Questo significa, tuttavia, che l'uomo, nella riflessione sulla struttura unitaria del proprio pensare, fondata dall'Uno stesso, deve diventare libero da ogni «impronta» (forma, 'tu1toç) e, quindi, da ogni pensiero che possa nascondere in noi l'Uno. La liberazione dalla differenza è dunque l'unica maniera di libertà adeguata all'uomo in rapporto all'Uno. La riduzione della differenza viene a coincidere, al termine di questo processo di astrazione, con l'empimento e con la folgorazione (1tÀ:rJpwcnç xiXt n.À1Xf1.~~ç) ad opera del fondamento senza forma di ogni forma, della luce dello stesso Uno 53 • In questo attimo, sottratto tempo, l'uomo è «in se stesso uno; non ha in sé alcuna differenza da se stesso», neanche tramite il pensiero concepente. Dunque, la stessa dialettica, come forma dell'alterità, deve trascendere se stessa. Solo così il centro dell'uomo può diventare tout court una cosa sola con il centro dell'ente: x&x~(vou r~v6f1.~voç ~v ~cr't~V wcr1t~p xi v't p~ xiv'tpov cruvcX~IXç 54 •
III. Sviluppi della problematica dell'identità e differenza in Proclo
Il significato logico, ontologico ed etico-antropologico del concetto di alterità, così come il suo nesso dialettico con l'identità e l'unità, nel modo esplicitato da Plotino, è rimasto, con alcune modificazioni e radicalizzazioni, normativo per l'intero pensiero neoplatonico successivo a Plotino. L'elaborazione maggiormente differenziata della concezione neoplatonica è stata offerta da Proclo. Non bisogna - per il nostro aspetto del problema - prendere in considerazione [cap. 2] in lui solo la problematica derivata dal Sofista platonico, ma anche l'aspetto del problema determinato dalla «dottrina non scritta» di Platone (Ev· 6:6p~cr'toç òu&ç, 1tip1Xç· a1t~~pov [l a], la deduzione dei numeri [l b]), e quello determinato dal Timeo [3]. Densa di aperture per il concetto di alterità è anche la recezione esplicitamente attiva ma, soprattutto implicitamente, della seconda ipotesi del «Parmenide» platonico da parte di Proclo. Questa problematica deve essere descritta in un altro contesto. Da schizzare ora sarà quell'ambito problematico dell'alterità che tratta in particolare della dialettica ontologica come fondamentale concetto prospettico.
l . Prosecuzione dei concetti fondamentali della tradizione platonica indiretta
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!bi, VI 9, 7, 16. !bi IO, 16 s.
Caratteristico per la tradizione platonica indiretta è l'accostamento dei due principci di ~v e &6p~cr'to~ òu&ç, la deduzione delle idee e dei numeri da essi e, quindi, ad un tempo l'essere strutturate numericamente di tutte le idee, così come la costituzione della realtà percettibile attraverso strutture matematicogeometriche che si concretizzano nella sequenza: punto (mo-
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linea (dyas) - superficie (trias) - corpo (tetraktys). L'intero della realtà è allora comprensibile come «sistema» di assiomi e strutture ontologiche. Il «sistema» si muove in sé tramite la derivazione dell'ente dai principi ontologici e tramite la riduzione a questi concetti, in conformità determinati, di definizione e relazione (1tp6npov- Ucr'tE.pov, oÀov- fl.ipoç, crUVIXlpE.'lv). Nei dialoghi questo non si manifesta però in quel modo tanto chiaro che propone la tradizione indiretta: si trova a fondamento di parti essenziali dei dialoghi e può, perciò, aspirare ad essere il medium euristico di una comprensione globale dell'opera platonica. La tradizione indiretta, che rappresenta l'abbozzo del «sistema», riceve, al contrario, proprio dalla comprensione dei dialoghi la sua vita peculiare; in quanto «sistema» fissato, separato dal logos empsychos, essa possiede poca forza filosofica di persuasione 1• nas)
a) Uno-dualità indeterminata; limite-illimite Sulla scia di Platone, la riflessione fi losofica intorno alla questione dei principi oscilla tra una soluzione dualistica, vicina alla concezione pitagorica degli opposti, la quale attribuisce identico valore ai due principi di Ev e ti6pLcr-.oç ouliç, ed una monistica, che come unico principio ammette l'Ev. Il più puro rappresentante del secondo modo di pensare è Plotino. Ma anche Proclo ne fa parte, sebbene sporadiche affermazioni possano indurre a supporre che i primi opposti, che determinano tutto ciò che segue, 1tip1Xç e òi1tE.lpov, siano solo «aspetti» dell'Uno o siano «in qualche modo contenuti» in lui. Questa concezione formulata in modo radicale, dopo Proclo, dalla teologia cristiana viene contraddetta in modo deciso da quella pre-
'/
1 Per farsi un'idea della storia c dell'attuale stato della ricerca sulla dottrina non scritta di Platone sono utili: Das Problem der ungeschriebenen Lehre Platons, in Beitriige zum Verstiindnis der Platonischen Prinzipienlehre («Wege der Forschung», 186), a cura di 1. Wippern, Darmstadt 1972, e Idee und Zahl. Studien zur platonischen Philosophie, con saggi di H . G. Gadamer, K. Gaiser, H. Gundert, H.J. Kriimer e H . Kuhn («Abh . Heid. A. Wiss., phil.-hist. Kl.», 1968, 2. Abh.). La tradizione platonica indiretta deve essere presa in considerazione in questo contesto, poiché elementi essenziali del neoplatonismo si comprendono come storia dell'inl1uenza di determinate tesi filosofiche, approfondite proprio all'interno di questa tradizione. Le implicazioni filosofiche e filologiche dell'intero complesso della questione non possono tuttavia essere qui discusse.
PROCLO
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ponderanza di formu lazioni (soprattutto nella Theologia Platonis II e nel Commentario al Parmenide) che ritengono l'Uno libero da ogni opposizione, anche da quella originaria di 7tip1Xç e &7tE.lpov (limite-illimite, indeterminato )2. Il luogo sistematico dell'opposizione originaria di 7tip1Xç - &7tE.lpov, 7tpwwv 7tip1Xç 1tpw•11 li7tE.lpL1X, o 1XÌn6mp1Xç e IXÙ'tOIX1tE.lpL1X, deve essere così pensato immediatamente (lif1.icrwç)3 dopo lo stesso Uno (1X1hoiv). Fondamento assolutamente trascendente, l'Uno «oltrepassa» ogni ente e si fonda in sé. Nonostante il suo essere in sé, fonda tutto ciò che è a lui esteriore. Proprio perché è al di sopra dell'essere (l1tixE.w1X), non raggiungibile per partecipazione (lifLWE.x-.ov), partecipa a sé per mediazione. La prima mediazione dell'Uno è costituita dai due principi (ouoE.lOE.lç lipX1XL, ou!Xç -.wv lipxwv di limite e illimitatezza, determinazione e indeterminatezza 4 • In origine entrambi esistono solo in sé (lifl.liE.'lç, 7tpÒ -.rjç fl.E.~i~E.wç). Giusto nel loro effetto combaciano. L'attività, che si determina reciprocamente, dei due principi fonda quell'ambito che ha inizio dal 7tpw-.wç ov, ossia l'ambito dell'ente come loro di volta in volta concreta unità (f1.Lx-.6v). Tutto «partecipa a 1tip1Xç e li1tE.lpov» - per poter essere. fHp1Xç ha, in questo processo atemporale, la funzione dell'Ev p latonico; &1tE.lpi1X ha quella della platonica &6plcr-.oç ou6:ç 5 • L'illimitatezza e l'indeterminatezza sono anche fondamento per l'alterità. Nella questione del rapporto dell'Uno in sé irrelato, incommensurabile (&crxnov), con l'ente moltep lice, dunque segnato da !Ì1tE.lpL1X e ~np6-. 11 ç, trova rilievo anche in Proclo la crux della filosofia neoplatonica: come può l'Uno «dare» ciò che egli stesso non è, né ha? La ristrutturazione del pensiero plotiniano da parte di Proclo potrebbe essere intesa come una risposta a questa domanda: ossia come sia possibile il tentativo paradossale di permettere che si compia nel modo più agevole il passaggio dall'Uno al molteplice e, nello stesso tempo, voler mantenere l'Uno come una pura unità. Tutte le metafore di questo pas2 Proclo, In Parm., 1124, 14 s., 23 ss. (Cousin) e Theol. Plat., II 12; 67, 14 ss . (Saffrey-Westerink). 3 Theol. Plat., III 7; 132, 50 (Portus); anche: In Parm., 1190, 17; In Eucl., 98, 20 (Friedlein); In Remp., II 45, 27-46, l (Kroll). 4 Riguardo a ciò che segue, cfr. Theol. Plat., III 7; 131, 38 ss.; In Parm., 1119, 1 ss. e W. Beierwaltes, Proklos, pp. 50 ss. [trad . it., pp. 97 ss.]. s Theol. Plat., III 7; 133, 18 ss. e 134, 28 ss .
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saggio, tanto i due primi principi come le enadi, che, come unità, o Uno molteplici, devono mediare tra l'Uno ed il molteplice, rimangono tuttavia costruzioni ermeneutiche di aiuto, che indicano solo ancora più intensamente l 'impossibilità di risolvere il problema. Da ciò derivano anche le sopra accennate formulazioni di Proclo, le quali sembrano porre nell'Uno un nesso interiore con sé: la forza generatrice nell'Uno o dell'Uno si dispiega attraverso la posizione dei principi primi. L'Uno porta a manifestarsi ciò che è in lui implicito 6 • Per poter comprendere le funzioni dell'htp6nJç nel sistema dell'ente è necessario che venga chiarito il suo nesso materiale COn (bttLp(cx, &opL
Theol. P!at., lii 7; 133, 9 ss.; 3!. Cfr. ad es.: In Eucl., 131, 25 ss.: 1ttp<x~ come causa di opoç (aon"j;, ~ocu•6n"J;;
ma èilttLpov come causa di èilttLpoç 7tp6oooç, ocù~aLç, &vta6n"Jç, tJ.dwaLç, t"ttp6n"j;, per la qual cosa questa seconda «serie» è la «più povera». L'ente molteplice esiste, tuttavia, solo tramite l'operare di entrambe. /bi, 5, 25 ss. 8 In Parm., 1154, 26-30: "tOCU"tOU~OCL ràp X<Xl htpOLOU"t<XL !tpOtÀ~OV"t<X "tà OV"t<X &!tò "tWV ochLWV tJ.E"tCx "tOU tJ.tVtLV Èv <XLJ"tocTç, htpOLOUtJ.EVOC tJ.ÈV ":(il !tpoEÀ ~tTv oÀwç, "tOCU"tOUtJ.tVOC OÈ -:<;:> È1tL<J"tpiyoct !tpÒç "tÒ tJ.ETvocv . Cfr. anche 1186, 7 s. Probabile che vi sia un nesso
riguardo al contenuto e alla terminologia con !'«identificare» ed il «diversificare» di Cusano (De Genesi, 149 s. - [Wilpert]). L'alteritas e la diversitas del creato si fondano nell'opera «identificante» (creativa) dell'assoluto-identico (idem absolutum): idem identificai. Questa asserzione esplica la concezione per la quale l'assoluto-identico, in quanto identificante, pone solo ciò che è ad un tempo differente (diversificai), perché anche la diversitas è in esso identità pura (De Gen., 149). Cfr. sotto p. 159 ed il capitolo successivo su Dionigi.
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pROCLO
Ad &7ttLp(cx e ou&ç la unisce, dunque, l'essere causa dell'uscita (1tp6oooç) 9 , della divisione e della suddivisione (oLcxiptcrLç, oL&X.PLcrLç) 10 , del «moltiplicare» (7tÀ7Jt'}uvm, xtpflcx•i~tLv, t'}pu7t'ttLv) 11 , ossia della costituzione della molteplicità, graduata in sé secondo la dignità d'essere, e quindi della posizione delle opposizioni 12 • L'aspetto creativo dell'alterità si mostra anche nel fatto che essa viene intesa, al modo della tradizione (oracolare) pitagorica e «caldaica», come principio femmini le 13 • Tramite il suo carattere fondamentale di superam~ attivo del limite, l'hep6,7Jç crea e moltiplica il movimento (il cambiamento) 14 ; essendo proprio quel tipo di ouvcxfJ.Lç ouo1tm6ç, o &ÀÀo7tOL6ç (potenza che produce ciò che è altro) 1S, essa dà origine ad una continua diminuzione d'essere e, quindi, ad un sempre più grande allontanamento dell'Uno dal molteplice o (dal punto di vista della molteplicità): un allontanamento (u
9
ocÌ·tioc. o~
=
= tijç t1tL<1"tp~ijç 'tWV r:potÀ~OV"tWV
Il In Tim . , II 123, 22 ss.; Theo/. Plat., IV 27; 22I, 43. 227, 20. Sulla terminologia, si veda anche Siriano di Alessandria, In Met. , 43, 3I ss. 50; I5. Boezio, De Trinita/e, I 13 s. (Stewart-Rand): principium enim p/uralitatis a/teritas est. 12 In Parm., 739, 37 ss. 13 'Ìj rovLtJ.oç tijç lup6TIJ
htpoTIJ ç. 14 In Tim, II 315, 29 s. ts In Parm., 712, 14; 738, IO s.; ouo7toL6~ come termine presunto platonico riferito a ou
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!DE TITÀ E DIFFERENZA
suo aspetto peggiore si evidenzia in modo caratteristico anche in Proclo nella sua affinità con l'ambito espressivo di 'tOÀf.tcx 18 • Certo l'alterità non è l'unico fondamento del dispiegarsi: ad ogni grado dell'ente, essa opera in misura sempre diversa insieme all'identità 19 • Solo così un ambito in sé formato (ordinato, 'ta1;t~) può realizzarsi. Se l'alterità toglie i limiti, discioglie nel molteplice, se è costitutiva del movimento verso il «basso» e verso l' «esterno», allora la medesimezza opera la delimitazione o la determinazione di ciò che di volta in volta sorge, lo riconduce ad una unità relativa (Èmcr'tpoc:p~)2°. Attraverso i loro «tipi di movimento», la medesimezza e l'alterità sono unite alla somiglianza ed alla dissomiglianza (Òf.tot6't1Jç e &vof.tot6't1J~). La dissomiglianza corrisponde all'uscita, la somiglianza al ritorno 21 • In ogni grado che è proceduto, la dissomiglianza rispetto all'origine (o la sua alterità) viene superata dalla somiglianza, immanente all'ente, con l'origine (l'identità). Il circolo, che così si compie ad ogni grado (&c:p'tvò~ xcxl rtpò~ tv)2 2 è inserito nel circolo di flOv~-rtp6ooodma'to
portata a compimento dallo stesso Pitagora, come in Damascio insinua un'affermazione attribuita ad Aristotele (Aristotele, fr. 207 Rose), ma risalga al Parmenide platonico, è stato esposto in modo convincente, contro Rostagni, da C.J. de Vogel, Pythagoras and early Pythagoreanism, Assen 1966, pp. 211 ss. Nella storia dell'influenza di questa identificazione - consolidata dalla tradizione dei commenti a Platone, Tim., 35 a - durante il medioevo vi è, in riferimento a Pitagora, ad es . la scuola di Chanres : Clarenbaldo, Tractatus, nr. 34 (ed. Haering) : materia è absoluta possibilitas ratione alteritatis. Cfr. p. 133 nota 42. 18 Cfr. a questo proposito la nota 46 del capitolo precedente. 19Jn Parm., 738, IO ss.; 1174, l ss.; 1188, 19 ss.; 1189, 17 ss. zo -;otu'tÒTIJ~ come auvtx-;Lx6v: In Parm ., 1184, 3 ss. e 16. In Tim ., II 23, l s. 5 s.: 1hòt Tij~ 'totU'tÒTIJ'tO~ bd .-Tjv tvwaLv ~
In Eucl., 154, 8 ss. Sulla questione del circolo si veda: W. Beierwaltes, Proklos, pp. 165-239 [trad. it., pp . 205-269).
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le o l'altro nello stesso, e viceversa, è stato sviluppato in mod~ differenziato da Proclo nell'ambito concettuale dell'&vcxÀoricx, principio di struttura e di movimento del mondo 24 • • • Poiché l'htpO't1J~ caratterizza l'uscita, la divisione e la suddiVIsione e, quindi, la molteplicità, Proclo non osa ancora definire apertamente - come ha fatto Plotino 25 - l'Uno come il «diverso da tutto» (rtanwv t'ttpov). L'Uno deve essere libero anche da ogni apparenza della relazionalità interna: xcx1Jò ÒÈ EV 'tÒ ev Ècr'ttv EV, oùx ov 'tWV rtp6~ 'tt' xcx1J'cxu'tÒ rap «Ciò che concerne l'essere uno dell'Uno è, così, l'uno dell'Uno e non appartiene al relativo; è, cioè, in sé» 26 • Al posto dell'enunciato platonico rtav'twv htpov subentra in Proclo l'affermazione eh~ l'Uno è oùotvò~ e'ttpov 27, «diverso in nulla», sia nei confronti dell'altro sia nei confronti di se stesso. Lo stesso vale per la medesimezza 28 • L'«Uno, che è tolto da ogni ente, non è tolto perché è altro (o la stessa medesimezza). In tal modo egli, essendo altro, è tuttavia tolto da tutto» 29 • La formulazione che ne deriva e che corrisponde ad una dialettica radicalmente negativa suona: l'Uno è «prima dell'alterità», «prima della differenza» o «dell'opposizione» 30 •
b) I numeri Un particolare significato ha b:tp6't1J~ anche come principio formale e qualitativo nella deduzione della struttura matematica dell'ente. I numeri sono essenzialmente diversi a secondo della dimensione della loro esistenza - di quella dell'Uno stesso, dello Su Ol<Ìt 1t0:v'twv OL?jxouaot &votÀojCot, su otl'tlWOT)ç ativotaf.Loç (In Tim., l, 330, 18; 332, 22) vedi W. Beierwaltes, Proklos, pp. 153-158, 329 ss. [trad. it., pp. 193-197, 362 ss.]; A. Charles, Analogie et pensée sérielle chez Proclus, in: « Rev . Internat. Phil.», 23 ( 1969), pp. 69-88 . 25 Cfr. sopra: nota 4 del precedente capitolo. 26Jn Parm., 1187, 24 s. 27 In Parm., l 183, 33 s.: oùotvò; t-;tpov. Theol. Plat., II 12; 69, 24: oùoÈ tnpov 'tW\1
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Spirito o dell'anima -; i numeri, di volta in volta diversi, costituiscono la diversità antologica delle singole dimensioni. I numeri che risultano possibili immediatamente dopo l'Uno mediante la prima diade di principi, le enadi identiche agli dei, sono «al di sopra dell'essere». «Essenti» al contrario sono i numeri dello Spirito; essi partecipano, tuttavia, a quelli che sono al di sopra dell'essere come ai loro propri fondamenti per la molteplicità. L't·n:p6't'T]ç rappresenta ora il momento funzionale di cbmp(cx e ou6:ç nella derivazione di ogni specie di numero. Esso «suddivide» o supera anzitutto lo stesso Uno dell'essere 3', in quanto «divide» l'Ev in molteplici lv6:oeç e l'essere in molti enti32. L'l'tep6't'T]ç è così la mediazione (metaxy) 33 che differenzia e genera le enadi divine che sono al di sopra dell'essere ( = numeri), e, infine, che libera la pienezza, o dynamis, dell'Uno. Tramite la diakrisis (divisione) e la dihairesis (separazione), in apparenza puramente formali, essa crea qualcosa di qualitativamente nuovo. Accanto a questa «alterità al di sopra dell'essere» (umpoucrwç é'ttp6't'T]ç)34 vi è - secondo la dottrina non scritta di Platone e in conformità con la fondamentale tesi neopitagorica 35 quell'hep6't'T]ç che è costitutiva per i rimanenti numeri, ed anche l'hep6't'T]ç che nell'ambito dell'intelligibile articola l'essere come «genere d eli 'ente» 36 insieme alla 'tcxu'tO't'T]ç. Per i numeri, ad esempio, della dimensione intelligibile e intellettuale (dello Spirito, dunque) questo significa che: il numero intelligibile è il momento mediatore tra intelligibile e intellettuale; pur rimanendo nell'unità con l'intelligibile, dispiega la sua possibile molteplicità (implicita). «Evoca alla distinzione (ot6:xplcrlç) l'unità occulta ed unica» 37 • Così il numero intelli31 32 33
Theol. Plat., TV 30; 227, 31 s.; 228, 19. /bi, IV 30; 227, 23, 30 s. /bi, riga 23. Riguarda al difficile problema delle «enadi», si può ora consul-
tare l'istruuiva introduzione di H.D. Saffrey e L.G . Westerink al terzo libro della Théologie Platonicienne (Paris 1978, pp. IX ss.). 34 /bi, riga 34.
35
Nicomaco di Gerasa, Introd. arithm., 109, 2 ss. (H oche); Giamblico, In Nicom., 73, 5 ss. (Pistelli); Siriano di Alessandria, In Met., 122, 4 e 137, 8 ss. 36 Proclo, Theol. Pia t., IV 30; 228, I s. 37 !bi, 224, 18 s.
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gibile è -prima di ogni ol6:xplcrlç e xowwv(cx - il fondamento, in sé indistinto (&ol6:xpl'toç)3 8 , dei numeri, la loro «singolarità» in sé «unitaria» (tolO't'T]ç lvlcx(cx), che è in grado di dispiegarsi come un activum solo mediante l'hep6't'T]ç e si determina poi insieme alla 'tcxu'tO't'T]ç. Unitaria in sé, la molteplicità dell'intelligibile si «differenzia» in tal modo attraverso il numero - come numero dispiegato - nell'intellettuale. «"07tou oÈ ~ ol6:xplcrlç, ~xd xcxi ò &pl~fLOç» 39. Formulata nell'orizzonte di fLOv6:ç e ou6:ç, la stessa concezione si presenta così: la «monade» e la «diade», benché non ancora numero, sono i «primi principi» 40 dei numeri. Le monade 4 ' ha in sè 7tcx'tplxwç la molteplicità dei numeri, dunque è causa del fatto che la «diade», la quale implica fl'T]'tplxwç o yew'T]'tlxwç la molteplicità o l'infinita serie di numeri, sospende questa da sé «attraverso la forza generatrice deli' alterità» 42 . Il primo numero effettivo e, quindi, la prima molteplicità effettiva mediante alterità è solo la triade. 2. La realtà strutturata triadicamente come unità dinamica di identità e d1jjerenza
La triade di oùcr(cx - hepo't'T]ç - 'tCXU'tO't'T]ç 43 non ha in sé l'identità e l'alterità come opposti non mediabili, ma, secondo quanto dice il Sojista platonico, come complementari gene tou ontos che si condizionano e s'esplicano reciprocamente. Essa determina universalmente l'ente: 1t6:nwv Ècr'tl xolvi} 't wv ov,wv cx(,(cx ~ 'tpl&ç cx\h1] 44 • Mediante questa triade, l'unità prospettica di 'tCXU'tO't'T]ç e hepÒ't7Jç in ogni ente viene di conseguenza indicata come realtà costitutiva di questo ente. Come in Plotino per la sfera intelligibile, così in Proclo per la dimensione dell'ente nel suo complesso, vale, come legge ontologica ed ermeneutica, che ogni 38
/bi, 225, 12.
39 /bi, 40 41
42 43
226, 58 s.
/bi, 222, 30. /bi, 222, 34 ss. /bi, 222, Il; In Ti m., I 148, 30, e sopra nota 13 .
Riguardo a questa triade si veda: W. Beierwaltes, Proklos, pp. 60 ss. [trad. it., pp. 107 ss.]. 44 In Parm., 735, 5 s.; In Tìm., II 132, IO ss .
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ente è se stesso e, insieme, non è se stesso, ma altro, nella misura in cui viene inteso e limitato a partire da un altro identico come altro. Dunque, in questa triade, l'alterità rende manifesta ex negativo l'identità di qualsiasi cosa esistente. Usci t o da sé mediante l'he.p6Tr)ç, l'ente, che si mostra come altro, viene di continuo «dischiuso» dalla 't<XU'tO"tr)ç: la medesimezza riconduce l 'alterità, la quale non si consolida nell'opposizione ad essa, all'unità 45 • Mediante l'operare di volta in volta diverso di alterità e medesimezza (1tp6oooç e imcr'tpoqn1) l'ente, di conseguenza, diviene una unità che è in sé dialetticamente mediata, positivamente determinata e negativamente delimitata. Ogni dimensione dell'ente è allora «identità nella differenza». L'unità in sé differenziata o l'identità dinamica, diventa così, in generale, la concezione fondamentale della legge «triadica» di Proclo. Ossia ciascuna triade media ciò che è distinto in una unità che conserva la distinzione, e tuttavia la riconduce alla sua origine. Quale formula di questo tipo di identità vale la seguente espressione: «tutto è in tutto, ma in ciascuna cosa nel modo che a quella è proprio», 1texna iv 1tiXcrlv, otxdwç o~ iv ixci:cr't~ 46 • Questo significa che ogni concrezione dell'ente in sé graduato non è certo nelle altre come fosse un'unità ornopolare o un'identità tautologica, ma in modo tale che un nesso subordinato sia costituito ogni volta dal primo di una serie (triade o eptade) rispetto ai loro elementi. Attraverso l'alterità attiva all'interno della serie, ognuno di questi elementi è in modo «puro, semplice e uniforme» 47 se stesso, nonostante il suo essere in rapporto con l'altro e nonostante il suo essere sé in altro. Il nesso con l'altro e con l'essere stesso di un ente all'interno di una serie viene inteso da Proclo in modo nuovamente triadico: x a,' ahfav - xai} 'u1tap~w - xa'tò: f.lWe.~tv 48 • Ossia: implicato «originariamente» in ciò che lo precede, ogni elemento di una serie «esiste» in sé in un senso peculiare, assolu'- tamente solo ad esso proprio, ed è nell'elemento che lo segue / nel modo proprio della partecipazione. L'esplicato dalla causa
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Cfr. nota 20. Elem. theol., 103; 92, 13. A questo riguardo il commentario di Dodds: Proclus, The Elements oj Theology, Oxford 19632, p. 254. 47 In Parm., 750, 21 s. 4 8 Ad es.: Elem. theol., 65; 62, 13 ss. e 103; 92, 17 ss. Commentario di Dodds, pp. 235 s. 45
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è dunque, al tempo stesso, l'implicato dell'effetto. O anche: ciò che precede e segue un elemento determinato è, in questo, nel suo modo d'essere determinato come elemento prevalente di distinzione. Per questo all'elemento intermedio (secondo) della triade compete un'attiva funzione mediatrice. In questa differenziazione deve essere tuttavia mantenuta l'unità di un ambito limitato. Si tratta dunque di chiarire come le diverse forme dell'ente possano essere «unite senza confusione e, ad un tempo, divise senza separazione» 49 , e come la peculiarità (1olO'tY)ç, xai}apO'tY)ç, otxe.ia 9ucrlç) del singolo possa essere conservata e, tuttavia, costituisca un'unità relazionale, invero distinguibile nei suoi elementi, ma non separabile. Poiché in un'«unione non mescolata» di questo tipo si compie un movimento differenziante dal primo al terzo e da questo al primo, essa dovrebbe essere detta unità dinamica 50 •
3. Recezione del «Timeo» Il significato cosmologico dell'identità determinante o riconducente e della differenza, tendente alla molteplicità, si evidenzia nella recezione del Timeo da parte di Proclo. Il Demiurgo del Timeo platonico (35a ss.) forma l'anima del mondo come un circolo raddoppiato: come l'unità del circolo del medesimo e dell'altro. In una prospettiva platonica questo coincide con il fondamento - da intendere geometricamente - logico ed onto!ogico della sfera delle stelle fisse e dell'eclittica51. 49 In Parm., 749, 37-39: O
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In parte noncurante del senso genuino del testo platonico, nel quale il circolo esteriore viene identificato con quello del medesimo, il circolo interiore con quello dell'altro 52 - Proclo identifica il circolo interiore, o rivolto verso l'interno, con quello del medesimo e il circolo esteriore, o rivolto verso l'esterno, con q~ello dell'~ltro. Per questa ragione egli adatta il testo alla propna conceziOne fondamentale, nella quale l'alterità viene conce~ita come ~a ~ausa,? il p_r~cedimento reale di 7tp6oòoç, o~cdpe
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Skemp, The _theory oj motion in Pia t o 's later dialogues, Amsterdam 19672, pp. 78 ss.; L. Bnsson , Le méme et l'atllre dans la structure ontologique du « Timée» de Platon, Paris 1974, intorno all'interpretazione di passi del Timeo. Sulla recezione procliana: W. Beierwaltes, Proklos, pp. 202 ss. [trad . it., pp. 240 ss.]; J: Trouillard, L 'un et l'iime selon Proclus, Paris 1972, pp. 50 ss. Per Plotino, SI veda H.R . Schwyzer, Zu Plotins Interpretation von Timaios 35 A, in: «Rhein. Mus .», 84 (1935), pp. 360-368. 52 Platone, _Tim., 36 c. Al contrario P rodo, In Tim., II 252, 29 ss. Sull'operare del DemiUrgo: operare che diviene concreto tramite medesimezza e alterità, cfr. Theol. P/al., V 39; 332, 7 ss.; In Eucl., 36, Il ss.; In Tim., II 155, 3 ss . Medesimezza e alterità (otJ<Xç) nell'anima: In Remp., rr 137, 5 ss.; Theol. P/al., IV 27; 221, 33 ss. 53 In Tim., Il 242, l e 238, 17.
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La struttura concettuale dell'he:p6-c7Jç, manifestata in significativi complessi di pensieri, rende possibile attraverso il pensiero neoplatonico semplicemente, ma soprattutto attraverso quello di Proclo, l'enunciato tetico: l'alterità è, anche dove non è propriamente nominata, l'elemen:to11egante-movente nel sistema dell'ente; essa produce l'autodifferenziarsi dell'Uno nel molteplice, il7toÀÀo:1tÀo:crto:cr!J.6ç. Tale moltiplicarsi non dovrebbe aver luogo nel fondamento; ma poiché è presente - come isolamento (ìo(wcrtç), distacco (&7tocr7tiXcrt1o:t), alienazione (&ÀÀo-cp(wcrtç) - esso diviene ciò che muove questa filosofia, anche e proprio nel tentativo di superarlo nel pensiero. L' «identità» dell'Uno ed il pensare «riduttivo-identificante» penetrano e limitano, dunque, la differenza in modo tale che anche l'intero - eccetto lo stesso Uno, assolutamente alieno alla differenza - non diviene mai una molteplicità caotica, ma rimane sempre un'identità nella differenza. Il prevalere dell'identità obbliga perciò l'interpretazione filosofica a trovare, nella subordinazione dei singoli gradi, proprio la sua identità, o unità, dinamica. Sarebbe un'incomprensione dell'intento di Proclo, se non si ponesse l'attenzione, attraverso la differenziazione, da lui usata in modo esasperante, sulla più forte tendenza all'identità da/la differenza. L'Ev diverrebbe allora il cro:t1pòç À6yoç, un «argomento fatiscente». I tre aspetti delineati dell'he:p6-c7Jç, quello segnato soprattutto dalla dialettica non scritta di Platone, quello ontologico categoriale del Sojista e del Parmenide, così come quello cosmologico del Timeo, hanno sviluppato nel medioevo e nel rinascimento, tramite una differenziata mediazione neoplatonica, una feconda storia di effetti. Li ritroviamo tanto nella dottrina dei numeri, nella cosmologia, nella questione intorno al rapporto di Dio con il mondo e nell'ontologia. Da questo punto di vista si dovrebbero interrogare Calcidio, Boezio, Gundissalino (De unitate), Avencebrol (Fans vitae), Adelardo di Bath (De eodem et diverso), il platonismo di Chartres, e in particolare Bernardo Silvestre, Teodorico di Chartres e Clarenbaldo di Arras. Sotto l'influsso diretto del pensiero di Proclo il problema dell'alterità s'è differenziato e consolidato, in Cusano, nel contesto di «identità e differenza>>. Unitas (identitas) e alteritas, injinitas e jinitum non sono più funzioni del principio primo,
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ma, in quanto principio primo stesso (identitas), e nell'ambito del principiato (alteritas), sono in un rapporto dialettico. Che Dio, qua unum o unus, potesse essere pensato come idem o identitas, presupponeva certo la rifondazione dell'Uno di Proclo in un concetto cristiano di Dio attraverso Dionigi l'Areopagita. Mentre l'Uno procliano non può dirsi e non può essere né medesimo né altro - è «E-rE.pov mxnwv», come s'è mostrato, solo dal punto di vista degli EnpiX, e non è da sé per essenza -, il Dio cristiano, per il suo concetto, è in sé necessariamente non senza relazioni: è Trinità, pensiero di se stesso, ideazione del mondo; dunque Egli è anche ad un tempo IXÙ-r6ç ed E-rc.poç (medesimo e diverso) 54 • Diviene allora comprensibile l'attribuzione di idem abso!utum data da Cusano a Dio 55 • Quale trinitario idem absolutum, o unilas absoluta, Dio fonda il mondo, il quale è universalmente «costituito dall'unità e dall'alterità, che passano reciprocamente l'una nell'altra» 56 • L'alterità è il modo nel quale l'identità assoluta si dispiega e, quindi, diviene accessibile al pensiero: identitas inexplicabi!is varie differenter in alteritate explicatur, atque ipsa varietas concordanter in unitate identitatis comp!icatur 57 • Dal momento che questa alteritas, che costituisce ogni ente, non può essere totalmente superata dal nostro pensiero, la conoscenza è possibile solo come ars coniectura!is, o coniectura, alla quale rimane ultimamente preclusa la praecisio veritatis: in alteritale veritatem, uti est, participans 58 • D'altra parte questo significa, tuttavia, che la partecipazione dell'ente al fondamento dell'essere e di colui che conosce al fondamento della verità è resa possibile dal cooperare dialettico dell'esplicativo dar parte di sé dell'identità divina all'ente e della forza distinguente dell'alterità, diventata costitutiva per l'ente proprio attraverso l'explicatio. Questa preliminare visione in abbozzo verrà esplicitata con più esattezza nei capitoli che concernono Cusano; qui doveva essere messa in luce solo la rivelanza storica del suo pensiero.
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Dionigi Areopagita, De div. nom., IX 4 s.; PG 3, 912 s. Cfr. il capitolo seguente. Cusano, De Genesi, l; Opuscula, l 147 (Wilpen). De coniecturis, l 9, 39, 2 s. (Koch-Bormann-Senger). !bi, l Il, 55, Il s. I bi, l Il, 57, Il.
IV. Trasformazione della problematica dell'identità e differenza nella teologia di ps. Dionigi Areopagita
l. Identità e differenza come predicati di Dio
La filosofia neoplatonica, in particolare il pensiero di Proclo, non ha mai agito su alcuna forma di teologia filosofica in modo così intenso quanto su quella di Dionigi l'Areopagita. Uno dei suoi scopi centrali è la spiegazione dei «nomi divini» . Questi devono essere concepiti come il pendant teologico alla fondazione filosofica della possibilità di attribuire al principio Uno predicati o caratteri dell'essere, o di negarglieli. Guida filosofica a questa esplicazione è la recezione neoplatonica di due ipotesi, la prima e la seconda, del Parmenide platonico 1 • Poiché i «nomi divini» riguardano, in modo universale, l'essenza di Dio, essi implicano tanto la domanda circa la relazione che vi è in Dio come anche quella circa il suo nesso fondante con l'ente, con la creazione. Di estrema importanza per entrambe è il concetto di alterità (differenza). Esso, in quanto predicato di Dio e della sfera intellegibi le, deve esser inteso, riguardo alla medesimezza (identità), all'unità, all'essere, alla quiete e al movimento, alla similitudine ed alla dissimilitudine, alla grandezza ed alla piccolezza, nel contesto delle categorie «sofistiche» o «parmenidee». Un reale nesso dialettico, indice del reciproco approfondimento delle strutture filosofiche e teol E. Corsini, Il trattato De divinis nominibus dello Pseudo-Dionigi e i commenti neoplatonici al Parmenide, Torino 1962. Per la comprensione delle strutture teologiche e filosofiche di Dionigi sono soprattutto da consultare: R. Roques, L 'univers dionysien, Paris 1954; W. Volker, Kontemplation und Ekstase bei PeusdoDionysius A reopagita, Wiesbaden 1958; E.v. lvanka, Plato Chrìstianus, Einsiedeln 1964, pp. 225 ss. e B. Brons, Gott und die Seienden. Untersuchungen zum Verhdltnis neuplatonischer Metaphysik und christlicher Tradition bei Dionysius Areopagita, Gottingen 1976.
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logiche della realtà e del pensiero, esiste tra essi e termini come «giustizia», «sapienza», «pace» o «logos», stabiliti in modo anzitutto teologico. Secondo Dionigi, Dio è in sé identità e, ad un tempo, differenza 2 • Questa unità paradossale è analoga al paradosso di fondo della sua essenza: egli è semplicemente e, tuttavia, ad un tempo non è in quanto al di sopra dell'essere; unità triadica e, tuttavia, è al di sopra dell'unità. In fondo colui che ha molti nomi coincide con l'indicibile nel nome (ò:vwvufLoç). Con identità si intende, prima di tutto, l'immutabilità del suo essere, l'immutabile essere uguale a se stesso, e quindi la sua infinita perfezione. «L'Identità (il Medesimo) è soprasostanzialmente eterno, invariabile, rimane sempre in se stesso, è sempre nella stessa maniera e si mantiene ugualmente presente a tutte le cose, collocato egli stesso per se stesso e da se stesso stabilmente e interamente nei bellissimi confini di un'Identità soprasostanziale, senza cambiamento, senza perdita ... non mescolato ... semplicissimo, senza bisogno ... sempre esistente e in sé perfetto e sempre il medesimo secondo se stesso e determinato da sé in una sola e uguale maniera, fa risplendere la medesima facoltà ... congiunge ... anche le cose contrarie» 3 • Il concetto di identità viene spiegato attraverso quello della )( permanenza (stasis). Dionigi lo concepisce come «un rimanere di Dio in se stesso» (moné), come «un essere fisso» solidamente in una medesimezza immobile (immutabile) 4 • Perciò Dio è colui che «Sta» o che «permane» (écr-cwç) 5 • Nella determinazione di Dio come identità o medesimezza sono subentrati predicati della riflessione filosofica che riguardano l'Uno (ad es. di semplicità massima, di autarchia, di sopraessenzialità, o di essere non mescolato e, tutta via, in tutto), ma anche tali che caratterizzano l'Uno esistente e lo Spirito; De div. nom., IX 4 e 5; PG 3, 912 B ss. Il problema della differenza deve in questo contesto, essere spiegato prevalentemente sulla scorta dei predicati «par: menidei». Il significato, che la «di fferenza», come sfumatura differenziata della pienezza divina dell'essere, ha per il concetto di «gerarchia», non è dunque propriamente tematizzato. A tal riguardo si veda R. Roques, op. cit., pp. 92 ss. 3 /bi, 912 B. 4 /bi, IX 8; 916 B: fi.ÉVEW cxò-ròv iv tcxu-r
t
7tE7t"Y)yévcxL. 5 6
/bi, IX l; 909 B; Ep. , IX, 3; 1109 C. Cfr. a tal riguardo W. Beierwaltes, Plotin, pp. 165 e 176.
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e da ultimo in particolare mediante le attribuzioni di nomi come «colui che sta» o «Colui che permane». Il concetto platonico di essere come eternità subisce qui una trasformazione teologica. L'eternità caratterizza il Nous come un essere identico, che, nonostante le idee, l'una dall'altra differenti, presenti in esso, è senza distanza, puntualmente unitario e, quindi, atemporale. Il pensiero del Nous dispone ciò che è differente nell'unità e, con questo, nella sua verità, la quale si impone in forma di armonia del Nous 6 • La «permanenza» di Dio coincide con il suo atemporale, pensante essere identico a sé. Questa differenza, o il «diverso, l'altro», come tratto fondamentale dell'essere e dell'operare divino, viene a significare, secondo Dionigi, in primo luogo: render possibile un'attività «verso l'esterno», un attivo e libero passaggio autonomo, un essere attivamente fondante e attivamente conservante nell'altro, posto da lui stesso. Perciò la differenza riguarda anzitutto il rapporto di Dio con la molteplicità terrena, a Lui esterna. Tale rapporto è, tuttavia, non solo una spiegazione secondo la prospettiva della molteplicità finita, esso ha piuttosto il suo fondamento nell'essenza di Dio. La differenza deve essere intesa in modo analogo alla bontà di Dio: riguarda il mondo, ma si fonda in Lui stesso. Quale «differenza», Dio è, di conseguenza, creativo 7tp6oooç, <:pw-co<:p&veLet., raggio di luce, ~xnet.crLç 7 , che non supera certo la sua identità, il rimanere Egli stesso in Lui stesso (flov~): «Ora guardiamo la stessa Diversità divina, non come un mutamento entro l'identità inconvertibile, ma co~ Unità di lui capace di moltiplicarsi e procedimenti della fecondità che produce tutti gli esseri» 8 • La differenza ha il suo fondamento n eli 'identità ' essa è cioè un momento interno all'essere dell'unità di Dio. La differenza è e fonda il movimento (kinesis), o la mobilità, \ di Dio, la quale tuttavia non muta la Sua essenza (non è movi7
De cae/. hier., I l; PG 3, 120 B. I 2; 121 B. Div. nom., IV 13; 712 A ss.: o& xcx\ ÈX
U7tEpcx-cpÉ7t"tOU -ccxu-c6TIJ·roç 07tomtucrw(J.tv, Ò:ÀÀÒL -ròv tvLcxl"ov cxù-roii r.oÀu7tÀcxaL<Xcr(J.Òv xcx\ -rÒLç fJ.OvOtLoilç tijç t7tt 7tÒ:II"t<X 7toÀuyov(aç 7tpo6oouç. V IO; 825 B: t1ti miv-rcx 1too"iwv xa1 !J.Évwv io:p' &cxu-roii. Cael. hier., l 2; 121 B. Ep. IX 3; 1109 C s. ·
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IDENTITÀ E DIFFERENZA
mento spaziale, ma nemmeno movimento discorsivo del pensiero); il movimento è piuttosto «ciò che è causa dell'essere e che tutto contiene» 9 • Il movimento e l'alterità sono in Dionigi e, dunque, in Plotino e Proclo ugualmente originari: moa--p vimento d'una ipotesi in sé e verso !'«esterno». Poiché Dio è, oltre ad alterità, anche medesimezza in uguale misura, Dionigi concepisce l'essere e l'atto di Dio, per ciò che lo costituisce, in modo analogo al vouç plotiniano come l'unità paradossale, cioè non contraddittoria di permanenza e movimento: X(Xt ~o"tw~ x(Xt xLvouf.L~voç 10 • Quale processione che pone la differenza, ossia che pone realmente l'essere esistente in Lui come «modello» ideale (1tpooptcrf.L6ç, m:xp<:Xo~t'Yf.L(X, M;oç) 11 , l'essere di Dio è, infatti, «processione permanente», o «permanenza creativa», che unisce il momento del permanere a quello del muovere, e contemporaneamente riconduce in sé (Èmcr-rpocpij) 12 tramite l'universale comprendere e mantenere tutto ciò che è proceduto. Di conseguenza, se la sua essenza è mobilità creatrice «permanente» in base a identità e differenza, egli è l'unità dell'atto di f.LOV'ij - 1rp6oooç - Èmcr-rporri) 13 • 9 Su 7ttptÉXtiV o 7ttptox~ come atto del causare e del mantenere in essere (essere sopra ed essere in di Dio): Ep. IX 3; 1109 C s.: bt .-c
mento ai concetti di ambire ed amhitus di Eriugena) in É. Jeauneau, Jean Scot. Homélie sur le prologue de Jean, Paris 1969 («Sources Chrétiennes», 151), pp. 238 s. Particolarmente vicino a Dionigi è Proclo, In Parm., 1098, 32; 1118, 22 s.; In Aie., 38, 5 ss.; In Tim., l 160, 9; 247, 30; Elem. theol., 152; 134, 11. Cfr. anche Plotino, Enn., VI 6, l, 24; 7, 17 ss. IO Ad es.: Div. nom., V lO; 825 B; Ep. IX 3; 1109 D. L'unità di permanenza e movimento è espressa anche dall'unità dei tre tipi di movimento, lineare, a spirale e circolare, nessuno dei quali è in sé astratto in Dio: Div. nom., IX 9; 916 D . Sulla storia del problema e del concetto: W. Beierwaltes, Proklos, pp. 207-209, nota 95 [trad. it., pp. 247-249, nota 95]. Il Div. nom., V 8; 824 C. 12 !bi, IX 9; 916 D. 13 Differenziata in particolare da Proclo, la triade neoplatonica di f.lO~ • r.pooòoç · l7tta-rpoq>Tj anche in Dionigi, all'interno della «gerarchia» dell'ente, è diventata determinante, quale legittimità fondamentale dei singoli gradi, e non di meno per l'essere operante di Dio: Egli è inizio del dispiegarsi e fine del ritorno, pone l'alterità, e la riconduce di nuovo in sé. Cfr. R. Roques, L 'univers dionysien, )' pp. 68 ss. Con alterità si intende «si mbolicamente» la dimensione interna di Dio, come ci viene presentata dalla lettera agli Efesini di Paolo, 3, 18: «ampiezza» di Dio come processione, «lunghezza» come Sua potenza, «profondità» come Sua occultatezza o inconoscibilità di principio: Div. nom., IX 5; 913 B.
PS. DIONIGI AREOPAGITA
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L'alterità, come atto di Dio ed essere del creato, viene da Dionigi spiegata anche a partire dall'orizzonte generale della domanda circa il rapporto d'unità e molteplicità. I termini, l'un l'altro dialetticamente connessi, di questo ambito della questione sono l'E:vwcrtç e la oL<:XxpLcrLç, unione (unità intesa in modo attivo o dinamico) e distinzione attiva. Se l'unione è identica al rimanere in sé (f.LOVLf.LO't1Jç) o alla medesimezza di Dio 1\ allora con ot<:XxpLcrLç viene ad essere inteso l'atto col quale Dio nel rimanere sé si distingue da se stesso: in sé come PadreFiglio-Spirito Santo, fuori di sé, come creatore. In conformità con la Sua bontà, la oL<XxpLcrtç creatrice è dunque processione di Dio (&yot1'}o1tp~7tTjç 1rp6oooç) 15, il Suo apparire nel molteplice (tX(jl(XVO'Lç; tVWO'Lç ... É(XU'tTJV <:Xy(Xì}Q't1j'tL 1tÀ1jì}uoUO'(X 't~ X(XL 1tOÀÀ(X1tÀ(XO'La~OUO'(X)16, il Suo partecipare a se stesso. Tanto all'interno della divinità quant'anche attraverso il suo operare oltre di sé, la distinzione non è certo tale da superare l'unità divina: come la luce di tre lanterne che, sebbene, siano in un unico ambiente, ognuna è interamente nell'intera (luce) delle altre ed ha pure una consistenza autonoma ed è propriamente distinta dalle altre, «unite nella distinzione e distinte nell 'unione» (ijvwf.LÉV<:x -rfl OL<:xxp(cr~t x<:xi -rfl ~vwcr~L OL<:xx~xpLf.LÉv<:x) 17 , così anche le divine tmocr-r<:Xcr~Lç costituiscono, nonostante la loro differenza, un'unità indivisibile. Anche nei confronti della distinzione creativa l'unità è predominante, ed infatti Dio nella creazione non si distingue da se stesso, per così dire, in una seconda essenza e non aliena, con ciò, se stesso 18 • Realmente «altro», come un'unità che è organica ed anche in sé divisa, è solo il creato. Che la distinzione reale sia tramite la creazione, non ha, quindi, il suo fondamento in una distinzione simile Div. nom., Il 4; 640 D s. !bi, II 5; 641 D. Questo è uno dei punti di partenza della concezione della coincidentia oppositorum; cfr. a tal riguardo in Dionigi: De div. nom., V 7; 14
15
821 B: -rot"tij-.:wç. 17 !bi, II 4; 641 B. 18 Cfr. nota 16. !bi, 641 B.: TjvwfLÉvwç ÒlatxpCvtatlcxl, JtÀT]ilutailcxt tvlxw;, detto della .-cp6oòoç creatrice. Con particolare attenzione alla Trinità: l.-cl -:wv tltCwv ex[ i.vwatlç ~wv Òtcxxpiatwv tltlXpcx~oGal . . . xcxt oùòèv ~n6v ta"tlV i)vwfLÉvcx xcxl f.I.E~Ò: -ri)v ~ou i.vòç &vtX90l"tTI'tOV xcxl tvtcx(cxv Òt
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IDENTITÀ E DIFFERENZA
presente in Dio. La distinzione o l'alterità avviene piuttosto, per la prima volta, tramite l'esistenza del creato. L'ente è, esso stesso, questa distinzione 19 •
2. Rapporto e differenza con il pensiero neoplatonico genuino Plotiniana e procliana è la concezione genuinamente filosofica che determina in modo sostanziale questi enunciati sull'essere e l'operare di Dio: come dovrebbe essere stato chiarito dalle precedenti riflessioni, lo Spirito, quale processione esistente, è, secondo Plotino, il primo movimento, la prima alterità o molteplicità rispetto all'Uno, diversa da tutto, mxnwv e·n:pov 20 ; è anche in sé costituito mediante l'alterità, la quale si subordina, in quanto pensare, o a causa di esso, atemporalmente all'identità. La distinzione, o alterità, creatrice e movente, concepita da Dionigi, trova le sue analogie nel concetto procliano di alterità. Come è stato evidenziato, essa è condizione di possibilità dell'altro, posto al di fuori dell'Uno; ha la funzione attiva di differenziazione, manda avanti il corso della processione (diakrisis, dihairesis) dell'ente: corso che nasce dall'Uno; infine è, attraverso la costituzione della molteplicità, la causa delle opposizioni nell'ente, dalle quali è tolto in modo assoluto l'origine. Ciò che fondamentalmente distingue questa esplicazione filosofica (di tipo neoplatonico) da quella di Dionigi, consiste nel fatto che essa riguarda esclusivamente, certo in misura variabile, l'ambito dello stesso Uno. Per Plotino, e in modo del tutto evidente per Proclo, l'Uno è (dal punto di vista dell'intero) indifferenziato e irrelato in se stesso. Sebbene tutto nasca da lui e a lui ritorni, non gli viene attribuita in quanto immanente questa mobilità. Piuttosto, in strettissima conformità con la prima ipotesi del Parmenide platonico, per riferirei ai predicati all'inizio accennati, egli non è anzi né essere né medesimezza o alterità, permanenza o movimento, somiglianza o dissomiglianza, grandezza o piccolezza. (Questa caratteristica del-
pS. DIONIGI AREOPAGITA
l'Uno non viene superata neanche dall'ipotetica riflessione di Plotino sulla volontà dell'Uno nei confronti di se stesso e nei confronti della sua autocostituzione. Una tale riflessione rimanda invece a come potrebbe essere pensato l'Uno, essendo in sé - içtlP'YJf.LÉvov - sopracategoriale, se non dovesse essere - a parte hominis - limitato dalla pura negazione. Al contrario Dionigi nega invero di Dio, in modo identico, tutti i predicati «sofisti» e «parmenidei», ma glieli attribuisce poi di nuovo, come ha mostrato la trattazione intorno all'identità e alla differenza, come nomi divini. In questo egli segue l'interpretazione della seconda ipotesi del Parmenide platonico, che comprende l'Uno come esistente e, di conseguenza, anche come in sé differenziato e relazionale. L'unità di entrambi gli aspetti (la prima insieme alla seconda ipotesi del Parmenide; teologia apofatica e catafatica) lascia comprendere in sé, certo in modo unitario (Évlodwç) 21 , Dio tanto come tutto che come differente, e Lo emancipa, ad un tempo, dall'Uno esistente 22 e dall'Uno in modo assoluto in quanto umpiv 23 • L'identità e la differenza, la permanenza ed il movimento determinano l'essenza di Dio, nella misura in cui Dio è l'esistente, ma in quanto viene considerato come al di sopra dell'essere, non lo è e, così, corrisponde precisamente all'Uno di Procio. Al concetto paradossale di Dio, secondo il quale Egli deve, e non può, essere essere e, al tempo stesso, sovraessere, e quindi identità e differenza insieme, Dionigi non sarebbe stato tanto indotto dalla tradizione del commento al Parmenide si potrebbe pur sempre pensare a Porfirio, il quale per primo ha pensato come compenetrati entrambi gli aspetti: l'essere ed il sovraessere, che è puro pensiero 24 - , quanto piuttosto dalla finalità, cristianamente motivata, di concepire Dio come -rplcxOlx~ év&ç 25 , come À61oç (crocp(cx), che si pensa e s'esprime, 21 Div. nom., XIII 2; 980 A: ... 7tcXvt<X x<Xi oÀ<X 7tcXV't<X x<Xi 1:Òt &nlxdfJ.tVOt x<Xl ~vl<Xiwç 7tpouÀ'fl
!bi, XIII 2; 980 C: tv ov . !bi, 3; 981 A s. e II 4; 641 A . 24 P. Hadot, Porphyre et Victorinus, Paris 1968, l, pp. 162 ss. Nel secondo volume (pp. 64 ss.) è contenuto il testo del commentario porfiriano al ?armenide. Cfr. sotto pp. 95 ss. 25 Div. nom., I 5; 593 B.; Ecc/. hier., I 3; 373 D: 1:pio07J ~ fJ.ov.Xç; Myst. theo/. l, l. 22 23
19
!bi, II 6; 644 B s.; XI 3; 952 B.
2o L'espressione 1t(Xvtwv htpov si trova anche in Dionigi. Essa corrisponde alla
tendenza proprio di Dionigi di pensare l'Uno divino come assolutamente trascendente, ad es. : Div. nom., IX 7; 916 A. Enfaticamente simile: ò 7tcXV'twv bixuV« (De myst. theol. , I 3; 1000 C).
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IDENTITÀ E DIFFERENZA
come amore che muove e come progetto ideale del mondo (creator). C'è, a dire il vero, motivo di supporre che la prevalenza della metafisica dell'unità 26 di Proclo abbia provocato, in Dionigi, una esplicazione differenziata della Trinità, secondo la quale unità e trinità non dovrebbero essere dette solo coessenziali, ma anche riflesse con l'identica intensità. Ma il concetto dialettico di Spirito di Plotino e di Porfirio, certo insieme a quello dell'unica origine, è chiaramente, nonostante la triade procliana, il presupposto filosofico più adeguato per un intento di questo tipo. Fecondo di analoghi problemi, il complesso processo di recezione dei contenuti filosofici sinora sviluppati ali 'interno della concezione cristiana della Trinità, deve ora essere mostrato in modo paradigmatico nel pensiero di Mario Vittorino.
PARTE SECONDA
Identità e differenza nel pensiero tardo-antico cristiano e medioevale Mario Vittorino - Agostino - Meister Eckhart
«In isto sine intellectu temporis tempore ... alteritas nata cito in identitatem revemt» Mario Vittorino, Inni alla Trinità, I 57, 20 «Itaque tu, domine, qui non es alias a~iu~ et alias aliter, sed id ipsum et id ipsum . et .id Jpsum ... In principio, quod est de te, in s~pl.en tl.a t~a, quae nata est de substantia tua, fecJstl ahqUJd et de nihilo» Agostino, Confessioni, XII 7 «Deus sua indistinctione distinguitur» Meister Eckhart, Expositio libri Sapientiae, n.
154.
26
!bi, 652 A (per il testo cfr. nota 18).
I. Trasformazione cristiana del nesso di identità
e differenza con Mario Vittorino
l. La Trinità
Nel corso del suo svolgimento storico- ad esclusione certo del Nuovo Testamento - il dogma cattolico della «Trinità» è stato, nel contesto di «creazione» e «incarnazione», determinato, nel modo più intenso, da elementi filosofico-concettuali ed anche da una metodica filosofica. Questo potrebbe essere chiarito tanto per la filosofia della religione di Hegel 1 come per Riccardo di S. Vittore o per il De trinitate di S. Agostino. L'approfondimento speculativo della Trinità inoltre è sempre stata una sfida per la questione intorno al nesso di unità e spirito, come anche per la questione intorno al rapporto di identità e differenza. La ragione per cui tale complesso di questioni deve essere mostrato in modo paradigmatico nel pensiero di Mario Vittorino sta nel fatto che il suo pensiero rende accessibili i presupposti neoplatonici della speculazione trinitaria in modo ancor più convincente ed immediato di quanto questo possa essere possibile in una riflessione su Agostino. La sua concezione della Trinità non è certo un modello, ma precorre storicamente il tentativo di Agostino di portare la Trinità a livello di concetto. Se la fondamentale struttura filosofica della speculazione trinitaria di Mario Vittorino è essenzialmente neoplatonica, proprio questa forma di filosofia è, in misura determinata, decisiva anche per il concetto di Trinità di Agostino. Insieme all'opuscolo De trinitate di Boezio, questa ha avuto, poi, un peso determinante nella teologia trinitaria del medioevo. 1 Cfr. sotto pp. 300 s. Circa il significato teologico della concezione trinitaria di Mario Vittorino : A. Ziegenaus, Die trinitarische Auspriigung der gdttlichen Seinsjiille nach Marius Victorinus, Miinchen 1972.
92
IDENTITA E DIFFERENZA
Riguardo all'intento di Mario Vittorino di rendere razionalmente comprensibile l'unità trinitaria come homoousia (consostanzialità) nell'ambito di una trasformazione delle categorie platoniche del Sojìsta e del Parmenìde in senso plotinoporfiriano, risulta di particolare importanza il nesso di identità e differenza. Mario Vittorino nacque (probabilmente) verso la fine del III secolo e deve essere vissuto sino a poco prima del 386, anno in cui Agostino ebbe notizia della sua morte. Originariamente Vittorino fu retore; e come tale scrisse libri di grammatica, commenti sulla retorica di Cicerone, commentari alla logica di Porfirio e di Aristotele, alla topica di Cicerone. Di certo commentò anche i dialoghi di quest'ultimo. La sua epoca gli fu debitrice di una traduzione di Platino, della quale, tuttavia, a noi sono giunte solo delle piccole tracce nell'opera di Vittorino, così come la testimonianza, fino ad ora contestata di ' Agostino sui libri Platonìcorum 2 • Agostino dà notizia, nelle Conjessìoni 3 , della conversione di Vittorino al cristianesimo: Marìus Vìctorinus, il/e doctissimus
senex et omnium liberalium doctrinarum peritissimus quique philosophorum tam multa legerat et diiudeicaverat, doctor tot nobilium senatorum ... depuduit vanitati et erubuit veritati ... per baptismum regenera [tus est] mirante Roma, gaudente ecclesia. Proprio mediante questa sua conversione da retore a teologo dal carattere filosofico Vittorino diviene - per noi in modo paradossale - l'autore dell'unico complesso di concetti metafisici in lingua latina: al centro del suo pensiero vi è il tentativo necessariamente filosofico, a cui sopra si è accennato, di fondare in modo sistematico la dottrina della trinità. Il riferimento storico e, insieme, di contenuto di questo tentativo fu la dottrina di Aria, contro la quale Vittorino difese la dottrina ortodossa. Indice della fondazione sistematica della sua difesa è il termine homoousios (consubstantialis): contro l'arianesimo deve essere mostrata la consustanzialità del Figlio con il Padre o l'unità della sostanza della Trinità divina. Nel metodo primariamente filosofico di questo tentativo e di fronte alla struttura di contenuto primariamente filosofico del pro2 3
Conj., VIII 2, 3. /bidem.
MARIO VITTORINO
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blema, il Nuovo Testamento ha una funzione solo euristica e convalidante. Presupposta l'intenzione teologica finale, il tentativo di Mario Vittorino diviene uno dei paradigmi più istruttivi, nei quali i contenuti filosofici e le strutture concettuali metafisiche possono essere assunti in modo fecondo e persino dominante come strutture basilari della riflessione cristiana sulla fede, e senza ulteriore giustificazione. La nuova concezione, che ne risulta, si muove, in modo affascinante, tra filosofia e teologia.
2. Il contesto della speculazione trinitaria I trattati teologici di Vittorino, che egli scrisse dopo la sua conversione (da porsi certo prima del 354), consistono in quattro libri contro Aria, in una lettera fittizia a Candido, quale risposta ad una altrettanto fittizia lettera di Candido, nonché in commenti alle lettere ai Galati, ai Filippesi ed agli Efesini. l tre inni, incentrati sul pensiero della Trinità, sono una testimonianza della sua concezione centrale 4 • La dottrina di Ario fu di grande importanza teologica e politico-ecclesiale. Essa sostiene la diversità sostanziale del Figlio dal Padre ed una subordinazione sostanziale del Figlio al Padre (subordinazionismo). In questo aspetto la concezione trinitaria di Aria appare più vicina alla filosofia neoplatonica che non un cosiddetto concetto ortodosso di Trinità, poiché per il pensiero neoplatonico è essenziale una subordinazione determinata di tutto ciò che proviene dal primo principio, ossia dallo stesso Uno, nei confronti di questo. Tuttavia una differenziazione subordinativa dell'ente dall'Uno non esclude la concezione di una identità nella differenza. Aria fondò, tra l'altro, la sua teoria in modo tale che la superiorità e l'unicità di Dio fosse così grande da 4
Su Vittorino cfr. le ampie e fondamentali ricostruzioni di P. Hadot, Marius Victorinus, Paris 1971; Porphyre et Victorinus, Paris 1968, 2 voli.; Christlicher Platonismus. Die theologischen Schriften des Marius Victorinus, trad. di P. Hadote U. Brenke, Ziirich-Stuttgart 1967. Testo latino in «Sources Chrétiennes», 68-69 (ed. P. Henry-P . Hadot), Paris 1960. Lo stesso testo, senza note di commento, in: («Corpus Scriptorum ecclesiasticorum Latinorum»), 83, Wicn 1971. Nella trattazione del commentario porfiriano al Parmenide ho usato alcuni rilievi di mie recensioni in: «Erasmus», 21 (1969), pp. 621 ss. e «Phil. Rs.», 16 (1969), pp. 137 ss.
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non potere il mondo essere prodotto direttamente da Lui e, d'altra parte, da non potere il creato tollerare il diretto essere in rapporto attivo di Dio. Ne risulta per Aria la necessità di una sostanza media, della quale Dio si serve come tramite della creazione. Questa sostanza mediatrice è il Logos, o il Figlio, la cui essenza non è, perciò, simile a quella del Padre, o ad essa identica. Non essendo della essenza di Dio, il Logos è derivato «dal nulla»: ~ç oùx onwv y€.yovE. 5 • In luogo dell'eternità di Dio vi è per il Logos solo un essere che è prima del mondo, e perciò vi era un tempo nel quale il Figlio di Dio non esisteva: rjv 1tO-rE., o-rE. oùx rjv, x<Xt oùx ~v, 7tptv y€.v7)'t<Xl 6 • Il Figlio è, dunque, egli stesso ktisma o poiema, cosa creata. La relazione finita di produzione e prodotto è applicata alla stessa relazione assoluta di Dio. Aria venne scomunicato in un sinodo in Alessandria, nel 321, e la sua dottrina rifiutata come erronea. Fondamentale, per l'epoca seguente, è il fatto che il sinodo di Nicea (325) si pronunciò, in opposizione al concetto ariano, per un simbolo che stabiliva l' homoousia, o la consostanzialità, del Figlio con il Padre: generato, non creato, consostanziale al Padre, attraverso il quale tutto è stato fatto: yE.vV7)tJÉn<X où 1tOl7)tJÉn<X,
oL' oLi -r&: 1tCXv-r<X ~y€.vE.-ro. Genitum non factum, consubstantialem patri, per quem omnia facta sunf1.
MARIO VITTORINO
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pensiero neoplatonico è diventato normati va per la concezione e la formulazione (terminologia) argomentativa della dottrina vittori na della Trinità? Come l'ha trasformata Vittorino per poterla unire, il più possibile senza rottura, con i presupposti del consustanzialismo niceano? Dalle discussioni di Hadot mi sembra risultare certo che in particolare il Commentario al Parmenide di Porfirio può essere accettato coma la fonte filosofica ricercata. Il fatto che i frammenti, tramandati in un palinsesto torinese, di un Commentario al Parmenide, un originale e, dal punto di vista concettuale, denso passo di teologia metafisica, abbiano ad autore Porfirio, è stato mostrato come probabile da Hadot con convincenti argomentazioni. È così giustificato il fatto che nell'interpretazione del movimento di pensiero vittorino si rimandi di continuo a questa forma di pensiero neoplatonico. La struttura filosofica di fondo della speculazione trinitaria si mostra chiaramente nei tre gruppi di testi dal carattere principalmente filosofico di Vittorino, che riguardano il concetto di essere, l'Uno nel nesso con la triade «essere-vivere-pensare» e il problema della forma attiva.
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Il diretto punto di riferimento storico della cristologia e della speculazione trinitaria di Mario Vittorino fu il sinodo antiniceno di Sirmio (357). La formula di fede definitiva di questo sinodo confessa, certo, un unico Dio, ma comprende Cristo come il Figlio di Dio che deve essere diverso dal Padre e non può essere l'unico Dio. Proprio contro la proibizione sirmiana dell'uso dei termini ousia e homoousios sì volge l'argomentazione filosofico-teologica di Vittorino. La questione poc'anzi accennata dell'intensa compenetrazione di filosofia e teologia in Mario Vittorino è stata chiarita da P. Hadot mediante un'assai istruttiva spiegazione del contenuto delle «fonti» filosofiche. Soprattutto il suo Porphyre et Victorinus è una sicura risposta alla domanda: quale forma di 5 Ario, frammenti in Atanasio, Or. l adv. Arianos, c. 5; PG 26, col. 21 A. Questi testi sono anche in Mario Vittorino: A dv. A r. , II IO, pp. 34 ss. 6 Ibidem. 1 Denzinger, Enchiridion Symbolorum, 1965, nr . 125 .
3. Le implicazioni filosofiche Nel primo gruppo di questi testi è centrale la domanda sui modi dell'essere e del non essere, ed anche sulla posizione sistematica di Dio nell'essere o in rapporto con esso. Al modo di Porfirio, Vittorino anzitutto lo pensa come non essere, che è «sopra» o «prima» dell'essere (Porfirio, In Parm., II 11). Un enunciato, questo, che sembra contraddire quello all'interno del terzo gruppo di testi, il quale attribuisce l'essere a Dio e, dunque, identifica Dio-Padre, l'Uno e l'essere. Anche questa concezione, tuttavia, è analoga, a quella di Porfirio: questi intende infatti Dio, o l'Uno, come proousion (preessente), ma anche, sotto un altro aspetto, come pura operosità o attività: attività che è l'essere stesso (~vE.pyE.'l oÈ fLiXÀÀov x<Xt <XÒ-rò -rò ~vE.pydv X<XtJ<Xp6v, WCJ't€. X<Xl <XÒ-rÒ -rò dV<Xl 1tpÒ -rou onoc;, In Parm.' XII 25 s.). Diversamente da quanto avviene in Platino e nel neoplatonismo posteriore, la concezione di fondo della teologia aristotelica si è unita con il concetto dell'Uno divino assumendo
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la forma di una nuova concezione di Dio. Una simile struttura di pensiero si adatta esattamente alla teologia cristiana, la quale non dovrebbe intendere Dio come relazione irrelata, e perciò sopra-esistente e sopra-pensante, ma come pensante relazione trinitaria 8 • Questa concezione di Porfirio può essere formulata anche sotto l'aspetto di opposizione e rapporto di entrambe le dimensioni come di ciò che è incongiungibile (in sé) e ciò che è congiungibile (in altro). Essa chiarisce la comune appartenenza di Uno, essere e Spirito, e la loro differenza. L'Uno, l'essere ed il pensare (Spirito) appaiono sempre sotto un duplice aspetto: in sé (in modo incongiungibile) e contemporaneamente rapportati ad un altro piano o in esso (in modo congiungibile). L'Uno è, così, se stesso (cxthò -cò dvcxL 1tpò -roti ov-coç: XII 25 s.), ma, ad un tempo, è l'Uno nell'essere e nello Spirito, o l'Uno che esiste e si differenzia in sé per riflessione (XII 4, 9 s.). Ciò che è indeterminato (Uno) si determina in ciò che è altro e perciò lo determina contemporaneamente. Per analogia con l'idea, la quale è fondamento o essere dell'ente determinato, l'Uno è !'«essere» dell'Uno esistente (l 9 s., 10tcx -cou ov-coç: XII 32 s.). Anche l'essere è in un duplice senso: per se stesso preesiste all'ente, ma, insieme, è fondamento di esso. Il pensare o lo spirito è infine, esso stesso, ciò che proviene dall'Uno: l'autocostituzione dello Spirito si compie in forma di processo triadico che attraversa l'essere, il vivere ed il pensare. Contemporaneamente lo Spirito può essere solo se stesso, poiché anch'egli, come ciò che proviene, è nell'Uno come nel fondamento del suo essere. Nello Spirito, o come questo, l'essere entra in relazione con se stesso. Il duplice aspetto e la «graduazione» che ne deriva all'interno di ciò che è divino, ha anche delle conseguenze metodologiche: se la sfera dell'Uno, o di Dio, come essere e, insieme, come non-(sopra)-essere, come pensiero e, insieme, come non-pensiero (nel senso di un pensiero non riflettente) può essere inteso come congiungibile e incongiungibile, allora la dialettica affermativa e la dialettica negativa formano, quale enunciato su di esso, un'unità legittima, paradossale, e, tuttavia, piena di senso. Questa struttura della dimensione divina in sé duplicata - ins Cfr. a questo riguardo in particolare le riflessioni su Cusano, pp. 187 ss.
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tesa come un momento riflessivo- è la base filosofica della speculazione trinitaria di Vittorino. In essa si verifica l'unità della concezione filosofica e teologica: la filosofia non è qui, in alcun modo, «ancella della teologia», presa in una funzione solo «formale»: piuttosto la teologia dice, in o attraverso la concezione filosofica, ciò che essa originariamente intende riguardo all'oggetto, e la filosofia si compie nel tentativo di esplicitare il pensiero supremo - Dio - e in modo definitorio ciò che è concettuale. In una interpretazione di Adversus Arium I, 48 s. cercherò ora di sviluppare le accennate implicazioni filosofiche della speculazione trinitaria. L'intento di questo testo è evidentemente quello di rendere in modo argomentativo e razionalmente comprensibile la processualità atemporale della Trinità.
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I, pp . LXXV ss. e al vol. III, pp. XL ss.
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ciprocamente diversi? 12 • Oppure deve essere pensata una mediazione, in modo tale che nell'essere in sé (differenza) venga mantenuta la reciproca compenetrazione delle tre Persone e, in questa, l'essere-per-sé: quae dijjerentia et quae communio? 13 Se mai, in che senso la differenza, o alterità, potrebbe poi essere determinante per il processo e per l'intero che è in sé? Per quel che riguarda l'essere in sé o per sé della prima «fase», nel metodo della dialettica, o teologia, negativa, con il fine della piena delineazione dell'assoluto, non viene ad esso riconosciuta la differenza o l'alterità e, con queste, tutti gli altri predicati categoriali: illud unum oportet dicere et intel!igere quod nullam imaginationem alteritatis habet 14 • È l'Uno in modo esclusivo (unum solum), è la pura semplicità senza interiore relazionalità (unum simplex); ed è detto Uno solo per dargli un nome, ma in alcun modo con la pretesa di cogliere in ciò la sua «essenza»: unum per concessionem 15 • Il fatto che l'alterità sia delimitata dall'Uno, è ciò che segue al cominciamento del pensare: il puro Uno è «sopra» o «prima» dell'essere e del pensare, poiché entrambi sono, in una certa misura, fenomeni della differenza. Ambedue sono, in lui, solo come assoluta praeexistentia e praeintelligentia. Il «prae» indica che il riferimento non è ancora stato realizzato come tale. L'essere-non-misurabile dell'Uno in se stesso (immensum) suppone anche la sua incongiungibilità o la sua incommensurabilità nei confronti del pensiero finito; è per se stesso indistinguibile da ogni altro, ma è distinguibile e, perciò, determinato solo mediante se stesso 16 • Se il pensare finito procede categorialmente, allora esso non ha alcun tipo di connessione con l'Uno assoluto inteso in tal modo. L'essere-determinato-da-sé dell'Uno non è certo originato da un'attività (actus) propria, piuttosto esso è esclusivamente per
A dv. Ar., I 48, 4. !bi, I 48, 7 s. 14 lbi, I 49, 10-12; IV 23, 17: sine fantasia alterius unum. Porfirio, In Parm., III 33. 15 !bi, I 49, 12 s. Porfirio, In Parm, II 25 ss. sull'inconoscibilità e indeducibilità dell'Uno. Plotino, Enn., V 3, 13, 4 ss.; 14, 5 ss. 16 !bi, I 49, 20 s.: soli autem sibi et discernibile et definitum. t2
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il suo essere (ipsa sua existentia, wh<{'> •0 d vaL) 17 . Una tale concezione implica che l'Uno, se deve essere distinguibile e determinato da se stesso, debba avere una forma determinata di conoscenza di sé, che non è distinta da lui come fosse un altro 18. Questo non significa ancora pensare o conoscere, in lui, nel senso autentico di un essere per sé di pensare e conoscere. Proprio perché essere, pensare e conoscere nell'Uno assoluto sono nel loro essere per sé compiuti, egli è l'assoluto «prima» (prae): "è" "prima" di tutto ciò che è universale e di tutto ciò che è parte, causa prima, praeprincipium, la "forza" o la possibilità esistente di tutte le potentiae; secondo la misura filosofica a7t~Lpoç ouvaflLç, o ouvaflLç •wv 7tav•wv 19 • L'assoluto prae non rimanda ad un incremento superlativistico di tutti i predicati pensa bili: è al di fuori della comparazione, nonostante la forma comparativa del linguaggio, «mosso come ogni movimento, stabile come ogni stato ... continuo come ogni continuità, superiore, come ogni distanza ... penetrabile come ogni pensiero ed ogni corpo» 20 • La conclusione di questa concezione è che l'Uno come assoluto è prima o sopra ogni opposizione pensa bile e la loro propria possibilità - perciò è omnium potentissimum, potentia potentiarum. In teologia: Hic est deus, hic pater2 1• La triade neoplatonica di «permanenza-processione-ritorno» (flov~ - 7tp6oooç - È.7tL
mobili motione semet ipsum custodiens .. . ipse sibi et focus et habitator, in semet ipso manens, so!us in solo ... 2!. Sulla scor17 /bi, I 49, 21. Sulla formula di Proclo <XÙn7> n7> &tv<X\ r.o\&tv cfr «Gnomon» 41 (1969), p. 132 e 1. Trouillard, Les degrés du· r.m~tv chez Proclos." «Dionysius»: l (1977), pp. 69-84. 18 !bi, I 49, 22. 19 Porfirio, In Parm., I 25 s. Plotino, Enn., III 8, 10, 1. 2o Adv. A r., I 49, 30 ss. 21 !bi, I 49, 35 s.; 50, l. 22 Ad es.: Inni, III 71 ss.; mansio: IV 24, 33. 23 Adv. Ar., I 50, 2 ss.
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ta della concezione teologica della Trinità e non meno della forma porfiriana del pensiero neoplatonico, questo Uno, considerato già in sé come «Padre», è, pur rimanendo in se stesso anche nella processualità, una potentia che ne riunisce (couniens) in sé tre: existentia - vita - beatitudo (quest' ultima identica all'intelligenza) 24 , essere - vivere - pensare. Come tale, il semplice Uno è, dunque, la potenza di essere, la potenza di vivere, la potenza di pensare 25 • Se questo Uno deve essere concepito come «idea» 26 e come «Àoyoç sui ipsius», che ha in sé il vivere e l'attività riflessiva, allora è solo nel senso di ìnexistentia o di quel tipo dì potentia, che non può essere intesa come pura possibilità da condurre al suo compimento, ma semplicemente come la realtà «completa», poiché essa è al di sopra o prima del modo d'essere dei sunnominati tre elementi e, insieme, funge da fondazione basilare del suo essere proprio, o essere vero, o essere-in-sé. Nell'Uno stesso, cioè, i tre elementi sono «solo» unità dispiegata in sé, o sono, per dirla a partire dallo stesso Uno, in modo assoluto «pre-essere» di ciò che è altro. Unum proexsiluit - l'Uno è «balzato fuori» 27 • Tale espressione, benché la sua formulazione sia di valore temporale, indica la seconda «fase», che non si compie nel tempo. Vittorino definisce questo stadio dell'unità o della triade presuntiva «uno-uno», unum unum: non la duplicazione di ciò che è primo, ma la sua esplicazione, realizzazione specifica o potentia, alla quale ora spettano veramente tutti i tratti essenziali, che vengono negati al semplice Uno - in conformità all'interpretazione del Parmenide, !'«Uno che è», existentialiter unum 28 • La potentia del Padre, dunque, si dirige su un quasi-futuro. È una potentia mediante la quale la sua propria realtà diviene, come tale, reale o attiva (qua actio actuosa fit) 29 • Pensata a partire da una potentia che esiste come realtà, l'esplicazione 24 !bi, I 52, 4 s. 2s !bi, I 50, 12 ss. 26 !bi, I 50, 16. Cfr. Porfirio, In Parm., XII 32 . Riguardo alla tradizione greca della metafora del «salto», cfr. ad es. Sincsio, /nn., Il 123: yovoç 1tpo~opwv.
137: À6yoç ... 1tpo~opwv. 27 !bi, I 50, 22. 28
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!bi, I 50, 25. /bi , I 50, 29 .
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di ciò che è primo in ciò che è «secondo» rimane, tuttavia, nell' unità o identità, unalitas igitur ista 30 • La vita è l'Uno, Uno come «movimento infinito», origine concepente ed esprimente ogni altro ente . L'intenzionalità ed il movimento del logos si dirigono, così, verso «ciò che è l'essere delle cose che sono» 31 • Come accennato, il movimento è una esplicazione dell'inizio, una forma di espressione, di manifestazione, di rivelazione di questo: la potentia come praeexistentia, immota in sé, procede (1tp6oooç) da sé, «sorgendo da se stessa» «Si manifesta» come unità esistente, logos e vita in infinito movimento. Allo stesso modo che in Plotino, lo Spirito atemporale, pensato filosoficamente, rappresenta il compimento di una identità dinamica di essere - vivere - pensare: pensare è il vivere come la sintesi identificante dell'essere nell'intero, cioè, complessivamente, le idee. Essere - vivere - pensare sono, dunque, aspetti diversi di una unità in sé riflessivamente mossa. Secondo Mario Vittorino tale un ità o identità di esse - vivere - intelligere è il compimento della Trinità. Ciò che in essa è per essa stessa «conoscibile» è la stessa conoscenza, sia esso una conoscenza (del puro Uno) che si «mantiene interna», oppure una conoscenza che «procede» (egressa) da sé in se stessa 32 • Questa identità di conoscibile e di conoscente, di pensare e di da-pensare (o di «Sempre già» pensato) è il Figlio, teologicamente concepito come la forma specifica di essere, vita e rivelazione («luce»). In tale seconda fase vengono approfondite le parole fondamentali del vangelo di Giovanni, logos - vita - luce. La terza «fase» del processo trinitario è in senso proprio il ritorno riflessivo o il compimento riflessivo del movimento infinito o della vita infinita, la ricongiunzione dell'espressione, della manifestazione (apparentia, effulsio) nell'inizio fondativo: la vita si rivolge alla sapienza, all'essere paterno 33 • Alla processione, pensata neoplatonicamente, della prima molteplicità o dell'Uno esistente dallo stesso Uno, corrisponde la «di/bi, I 50, 32; III l, 36: idem semper. !bi, I 51, 3 s. 32 !bi, IV 24, 1-20. 33 !bi, I 51, 23 s.: ... vita conversa in sapientiam et magis in exsistentiam praticam . 30 31
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scesa» (descensio) della vita. Come la processione è Nous, allo stesso modo la «descensio» nella processualità trinitaria è vita i~ sen~o vero e proprio. E analogamente al concetto neoplatomco d1 pensare o di autoriflessione, per il quale il ritorno dello Spirito a sé (lmcr-cpo<;J~) è costitutivo, la sapientia (o intelligentia) è determinata come «salita», ascensio (o conversio rever~io ~ ~ecur~us). È ve~o che all'interno del pensiero ne;platomco e Implicata, mediante la processione dello Spirito dall'Uno, una certa differenziazione di «gradi», ma Io Spirito non viene caratterizzato esclusivamente come processione; anzi, solo , tra.n:ite un 'autodelimitazione, la processione «raggiunge» un u~1t~ an.aloga allo stesso Uno. Ma è necessario pensare l'autodehmitazwne solo come un ritorno riflessivo, in modo che lo Spirito, quale processione dell'Uno, sia direttamente anche suo ritorno (come anche dell'Uno che è) in se stesso e nel suo fondamento 34 • La processualità della Trinità deve essere pensata con l'esclusione della concezione di una conseguenza subordinativa: né la vita né la sapienza devono essere pensate esclu~ivam~nt.e in sé, anzi la discesa come vita è, ad un tempo, la salita o Il ntorno come sapienza, è l'essere dello stesso Uno. «ln» lui si compie, dunque, questo processo. Il pensiero che la potentia patris, la quale si manifesta in forma di essere vita e movimento (riflessivo), si muova verso l'esterno senz~ cessare d'essere in sé all'interno, viene confermato e, ad un tempo, completato dalla conversio: la sapientia «ritorna in se stessa, e di nuovo si volge a se stessa» 35. Se. ~ensata t~ologicamente la sapientia è, in senso proprio, lo Spmto che e «nascosto» nel Padre (quale sua potentia) <> che unisce (copula, conexio, conplexio 36 ) l'intero all'unità, allora l'essere della Trinità è, in quanto totalità, l'unità in sé separabile e nondimeno, in quanto mediazione massimamente unitaria, è l'unità coesiva di essere - vivere - pensare, unità - vita - sapienza o Padre - Figlio - Spirito. .cfr: ad es .: . .Piot~no, En.n., ': 5, 5, 17 s.: f.lt'taa~p:xq>Èv oÈ dç ~ò t raw ta'tT) . LimitaziOne deU Ilhmltato (nflesswne): Plot ino, Enn ., II 4, 5, 31 ss . ; VI 7, 17, 14 ss . Cfr. mtorno a questa problematica, sopra pp. 58 s. 35 Adv. Ar., l 51, 34 s.: in semet ipsam recurrit, rursus in semet ipsam conversa. 36 Inni, l 4; III 242 e 245 . 14
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Descritta nelle tre «fasi», la processualità atemporale o l'autocostituzione della Trinità deve essere ancora una volta trattata sotto l'aspetto del nesso di unità, o identità, e differenza. Il fatto che l'interpretazione possa ulteriormente seguire il passo del testo che abbiamo sino ad ora preso come fondamento, dimostra anche esternamente la rilevanza di questo aspetto della questione per Mario Vittorino. La processione e ciò che deriva dalla processione sono rispetto alla loro origine, alla potentia fontana o fontana existentia 37 , in un rapporto dialettico di «interno» ed «esterno>> 38 , esserenascosto ed essere-rivelato, unità o identità originaria, e alterità, o differenza «prodotta». Con l'indicazione di un rapporto «dialettico» si «relativizza» sin dal principio l'essere specifico della differenza. La questione riguarda, dunque, il modo con cui l'essere autonomo della differenza si fonda nell' identità, o crea mediante la sua «relativizzazione» dialettica un concetto determinato di identità. La vita, la vita riflessiva, il logos o il Figlio sono, nel modo d'essere proprio, solo per processione. Questo movimento si «rivela» a partire dal «movimento del Padre», il quale avviene «in una realtà nascosta», ossia è la potentia nascosta rispetto a tutte le altre potentiae. In quanto rivelata, manifestata, essa è «esterna»; ma essa è «interna», nella misura in cui è nell'«inizio» (Padre) come preesistente e nascosta. Originata dalla processione e giunta alla sua realtà peculiare, la vita riflessiva è, di conseguenza interna, ed esterna in pari tempo: vita igitur
et intus et foris est. Vivit igitur deus, vivit ipsa vita. Vita ergo et deus et vita 39 • Bisogna intendere questo rapporto dialettico come un reciproco essere-in; «ciò che è altro e ciò che è identico» (alterum et idem) è in ogni cosa. Bisogna intendere l'alienazione del Padre nel Figlio, dunque il passaggio della potentia fontana in essere - vivere - pensare, nel vero senso biblico (e filosofico) di forma patris (Filippesi 2, 6). Con forma non ci si riferisce certo all'accidente di una essenza (sostanza), ma ad una essenza in sé sussistente, nella quale «si manifesta e si mostra ciò che è nascosto e mascherato in un'altra 37 38
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A dv. A r., I 52. 42; 55, 21. /bi, I 52, 37 ss. !bi, l 52, 48 ss .
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realtà» 40 • Se lo stesso Dio (Padre) è qualcosa di mascherato, nascosto, inaccessibile a partire da lui stesso, «senza forma», allora ciò che da lui procede è «forma», realtà interna diventata forma nel senso di una manijestatio, apparentia, ejjulgentia, ejjulsio, - espressione chiara del prae-principium come princtptUm, la quale mostra se stessa ed il suo fondamento 41 • Solo in lui e attraverso lui diviene manifesto ciò che l'inizio è in sé e ciò che egli può essere in ciò che è altro. L'alienazione dell'inizio nella sua forma e, quindi, in un'altra realtà o - nel senso dell'homoousia- nella sua necessità è «necessaria», affinché l'inizio «veda se stesso» (videre semet ipsam) in questo (suo altro) 42 • Una inspectio di sé, o autoriflessione, è pensabile assolutamente solo attraverso l'alterità; una alterità, però, non fissata in sé, ma connessa direttamente al punto di partenza e d'arrivo del movimento, e con esso «nuovamente» unita: in isto igitur sine intellectu temporis tempo re ... alteritas nata cito in identitatem revenit 43 • Questo pensiero corrisponde alla concezione porfiriana di un pensare che, nei confronti di un vedere senza oggetto, si priva di questo per vedere se stesso, per essere autoriflessione. La «conoscenza assoluta» (yvwaLç &1t6Àu'toç) - senza oggetto - diviene un movimento che penetra se stesso nel movimento di ritorno a se stesso 44 • Come modo dell'alienazione o della rivelazione, la «forma» del manifestarsi o dell'esprimersi di qualcosa di nascosto è identica alla parola. Nel Figlio Dio si esprime come se fosse la
!bi, I 53, 9 ss. 41 !bi, I 51, 15 ss.; 52, 34 ss.; 53, 17 ss.; Ili l, 31, 36; 7, 26; IV 15, 24; 24, 12 ss. 42 lbi, l 57, 15 ss.; III 5, l ss. Identico a se intellegere ac nosse ve/le: II 2, 46; I 57, 29: sui ipsius cognoscentia, logos sui ipsius: 50, 16. L'identità di esse - vivere- intellegere come autori flessione: cum intellegit deus, se ipsum intellegit. Cum autem se ipsum intellegit, non ut alter alterum, jit ut intel/egentia ipsa se intel/egat. Quod cum est, se esse ejjicit atque in exsistentiam provenir jitque sibi quod est esse atque eodem modo intel/egendo exsistit et suum vivere (IV 40
27, 6-11). - Riguardo alla modalità filosofica della concezione: in opposizione alla conoscenza senza oggetto, assoluta, del puro Uno, per la seconda forma di conoscenza è costitutiva la riflessività dell'Uno esistente, l'alterità (htp6TIJ,). Porfirio, In Parm., XII 18 s. Una concezione analoga in Plotino, vedi sopra p. 60. 43 /bi, I 56, 17-21. 44 ln Parm., VI 8; V 34; XIII l ss.; XIV 19 s.
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propria parola (pronuntiatur - verbum patris) 45 : in lui, nel Padre, la parola è «in ciò che è nascosto», «parola che tace» (tacens verbum), in lui 46 , come Figlio, essa è parola che si annuncia (locutio), autoesplicazione del suo essere e pensare nel pensare e parlare dell' «altro»: la forma della rivelazione intratrinitaria. Dal punto di vista dell'esprimersi, o del manifestarsi, la parola deve essere intesa anche come luce (lumen patris): come irraggiamento o splendore (ejjulgentia, ejjulsio, elucescentia) 41 di ciò che la potentia dell'«inizio» è in sé. La P arola e la luce sono entrambe manifestazioni della differenza, nondimeno il loro nesso non si dà per niente altro che per il proprio «inizio», del quale sono espressione o manifestazione. A partire dal concetto di Trinità è possibile riconoscere la ragione per Cl;li la differenza, come coessenziale espressione della propria identità, possa essere pensata e definita anche come identità: in identitate altera esse et eadem 48 • La mediazione della triade in una unità viene ad essere formulata come: altera in identitate, sive eadem in alteritate 49 • Però l'identità è assolutamente prevalente nei confronti della differenza, quale differenza connessa alla propria identità. L'unità, in modo conforme ad essa, esiste nonostante o con la differenza (secundum identitatem counita alteritate) 50 • Dunque, Adv. Ar., I 53, 19. /bi, I 55, 32 ss.; III 7, 31 ss.; 16, 14-17: est enim pater loquens silentium, Christus vox, paraclitus vox vocis. 47 /bi, I 52, 34 s.; 56, 2; 56, 28; 57, 21; III l, 36. lumen: I 56, 2; Il Il, 22 ss. rejulgentia luminis: I 34, 33. Sull'accordo della terminologia del «dispiegar-
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si» o del «manifestarsi» (èxq>cx(vtw, exq>cxvcnç) con la rappresentazione della differenza nel neoplatonismo, vedi i miei accenni in: Negati Affirmatio, p. 249, nota 51 (cfr. sopra p. 27). t-~Ì .-JA1t-!l'b.~1' ) 48 !bi, I 54, 18 s. g'?, 49 !bi, I 48, 25. so /bi, I 53, 2. Cfr. anche alter in altero come identità: II 4, 29; Il, 18: alterum in altero unum redditur. Inni, III 19 s.: alterum cum altero. Attraverso le formulazioni suddette, e altre simili, il termine «identità nella differenza», che caratterizza, soprattutto in Hegel e Schelling, l'ambito della riflessività assoluta, è, condizionato da una analoga costellazione di problemi, preformato linguisticamente (cfr. sotto p. 279) . Intorno alla provenienza neoplatonica: Porfirio, Sent., 36 (31, 2 e 5, Mommert): ... o·n 't'Ì)v 1tiicrcxv htpoTI]t'tx 1M Tijç •cxu-.6TIJ•oç U1tÉGTI]GtV ... ÉVOTI]' l.v htpOTI]t'~. 37 (32, 15 s.): htpOTI]ç ijv ll&VOUcrT)ç Tijç t'(X\lt'OTI]-;oç. Riguardo alla sorprendente formulazione di Coleridge dell'autoapertura dell'Uno trinitario: «the absolute Alterity of the Absolute» (The Literary Remains, London 1836-39, IV, p. 2), che vuole essere l'espressione dell'autoaffermazione
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l'alterità o differenza (differentia, I 55, IO) non deve essere affatto esclusa dalla Trinità 51 , giacché l'identità non è da intendere come «ipseità» (ipseìtas) nel senso di tautologia fissata in sé (eadem, non ipsa)S 2 • L'identità nell'essenza include l'intera differenziazione, la quale si delinea nella esplicazione dell' «inizio»: ognuno dei tre momenti nella triade è, per se stesso, qualcosa di diversamente determinato, ma nello stesso tempo tutti i predicati di una realtà singola riguardano l'essere dell'intero. Presentato con l'esempio dello Spirito, questo significa: «Se si vuole sapere ciò che Dio è, il termine "Spirito" significa l'essere di Dio. "Dio" e "Spirito" indicano infatti l'essere. Che cos'è ora la vita? La stessa cosa che lo Spirito. Spirito e vita indicano infatti l'essere. In modo identico lo "Spirito Santo" indica l'essere, ed invero mediante la parola stessa, in unione al tratto che lo distingue rispetto ai primi due, i quali sono definiti solo con un nome. Questa distinzione di tipo sostanziale indica anch'essa l'essere. Ne risulta in modo chiaro che ognuno dei concetti indica l'essere, poiché ciascuno di essi esiste come sostanza. In questi tre lo Spirito è sostanza. Essi sono, quindi, consustanziali (coessenziali), dal momento che sono Spirito - e Spirito non separato da se stesso, essendo uno in tre» 53 • L'interna autodifferenziazione, o generazione, ed il suo nesso riflessivo volto all'«inizio» devono essere compresi come l'assoluta, in quanto atemporale, autocostituzione del Dio trinitario 54 • L'autodifferenziazione all'interno della autocostituzione dell'intero non «lacera» l'identità ( . .. neque scissa est ... ), ma la rende anzitutto un'identità riflessiva. La differenza che non ha una origine temporale ritorna direttamente all'identità (alteritas nata cito in identitatem revenit) 55 , tuttavia l'identità mantiene in sé la differenza quale suo elemento costitutivo. Entrambe sono l'intero come identità, che in sé nasce e ritorna. Il pensiero dell'auto-«generaziotrinitaria o della sintesi dell'unità con il suo stesso «altro», cfr. il lavoro, non ancora dato alle stampe, di F.A . Uehlein, Endliches und Unendliches /eh im Denken von S. T. Coleridge. SI !bi, I 54, 13 s. S2 !bi, I 54, l 4. 53 !bi, I 55, 5-16. 54 !bi, I 18 ss .: sese generare; pater ... suae ipsius substantiae generator; 57, 12: ipsa manifestatio sui, quae genera/io est et dicitur. s5 !bi, I 57, 20.
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ne» o autocostituzione della Trinità non implica quello del «Dio diveniente», dal momento che esso esclude da sé sia la possibilità, la quale non è essa stessa reale, ma è volta alla realtà, così come la finitezza e, quindi, la temporalità. II modello dell'autocostituzione assoluta non è dunque il processo da un prima ad un dopo che implica e lascia stare una differenza reale, al modo di una causa efficiens che pone se stessa e termina in un risultato differente da essa; il pensiero si riferis<..:e piuttosto all'autooriginarietà del Dio assolutamente esistente, all'autoesplicazione come esplicazione della sua identità e al riferimento di ciò che è esplicitato proprio da questo stesso in lui. Mario Yittorino ha più volte formulato questo stato di cose:
ipse enim constitutivus est et ipsius 'toG À6you. Si enim prima causa, non solum omnium causa, sed et sibi ipsi causa est ... Numquam se deserit, quod sibi causa est, ut hoc ipsum sit quod exsistit ... Deus substantiae causa ... suae ipsius substantiae generator... ipse origo substantiae 56 • In quanto punto aperto (unità), la «circolarità» (circularis motus)S" diviene metafora, che non può ormai più essere afferrata concettualmente, per la Trinità quale unità in sé differente, in quanto riflessiva: l'Uno assoluto. al-di-sopra dell'essere, è diventato «oggetto» a se stesso attraverso la mediazione dell'Uno esistente (del Figlio) e nel vedere-se-stesso (inspectio) rimane unito a se stesso attraverso il legame riflessivo (Spiritus Sanctus). La riflessione filosofica sul rapporto di identità e differenza in una unità, la quale è trinitariamente differenziata e aperta in sé per relazione, serve da fondamento della dottrina ortodossa: le tre divine naturae, o personae, sono una cosa sola nella loro distinzione e distinte nella loro unità : tripiex unitas, unalis trinitas 58 • L'interesse primario di Mario Yittorino è rivolto alla compren56 Ad Cand., 18, 9 ss.; Adv. Arium, IV 6. 38 s.; I 29, Il; 55, 19 s.; II 2, 42. Circa la storia del problema e del concetto di autocostituzione e di autodeterminazione nel neoplatonismo cfr. J . Whittaker, The historical background of Proclus' doctrine of the cxù~u7to
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sione del processo trinitario, che, a partire dall'orizzonte fondativo filosofico, si manifesta come un'identità che s'apre nella circolarità di essere - vivere - pensare e si unisce a se stessa. Rispetto a ciò il problema della creatio di ciò che è esterno al divino rimane piuttosto marginale. Come fenomeno intratrinitario la creatio ex nihilo viene rifiutata: in luogo dell'ariana creazione del Figlio o del logos «dal nulla» si trova la generatio, fondata in modo molteplice da Mario Vittorino, quale spiegamento di ciò che nel Padre è nascosto nella sua propria identità, il Figlio, nel quale egli diviene «manifesto» a se stesso, «vede» se stesso. Secondo gli accenni di Vittorino, la creazione del mondo può essere intesa come «prosecuzione» della esplicazione interna della Trinità sotto il modello «identità-differenza» o come manifestazione di ciò che è nascosto (absconditi manijestatio)59. La parola - che è generata dal Padre - crea ogni cosa. In principio o in capitulo fecit deus caelum et terram significa in modo corrispondente: Dio crea in Cristo, il quale è «inizio» o «capo». Di conseguenza, Cristo è come il Dio creatore, nell'identità con lui, pater omnium et generator o ut semen omnium 60 • Nonostante questa identità trinitaria, Mario Vittorino insiste sulla differenziazione, che precede la creazione del mondo, in «logos» e deus (Padre) e sull'alienazione del «logos» nel mondo: la capacità del «logos» di porre ciò che è altro (potentia aliud constituendt) 61 non è identica alla capacità di Dio di costituire se stesso e il «logos» (in sé e il logos del mondo). In senso proprio tocca perciò al fondamento, il quale è fondamento di se stesso, la denominazione di omnium causa 62 • Creare «in Cristo » significa creare «mediante la parola» (per verbum) 63 o in essa. Il parlare ed il creare sono, dunque, un atto simultaneo: il parlare, come superamento del tacere (del parlare «possibile») pone ciò che è altro, porta ciò che è nascosto (ciò che non è o non è ancora) a manifestarsi come esistenza. Il mondo deve, perciò, essere concepito come dialo/bi, 14, 12. Analogamente in Eriugena: cfr. p. 27, nota 2. /bi, 27, 9 ss.: À6yov omnium esse, ciò che include anche tutti gli enti singoli (IV 31, IO ss.). 61 /bi, 18, 7 s. 62 /bi, 18, 9 ss. 63Ad es.: Ad Cand., 18, 5; 30, 23; !ldv. Ar., III Il, 16. 59
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go intradivino alienato, al quale spetta la fo rza costitutiva dell'essere. «Il Padre parla al Figlio, il Figlio al mondo, perché il Padre crea ogni cosa attraverso il Figlio e il Figlio attraverso la potenza del verbo del Padre, cioè il verbo che parla a se stesso, che si esprime apertamente (nella manifestazione) mediante la parola, crea ogni cosa» 64 • Dunque nel mondo si realizza come mondo la apparens substantia di Dio, la quale è in sé e rimane secondo la sua essenza. È il verbo. Pensata a partire dal concetto di alienazione, se exinanivit 65 , l'incarnazione del «logos» è il compimento del mistero della salvezza (mysterii ordinario) e della creazione del mondo. Lo stesso logos, mediante il quale ogni cosa ha avuto origine, adempie il mysterium, manifestandosi «nella materia», «nella carne»66. Il senso di questa manifestazione del «logos» nel mondo è il suo movimento di ritorno (recurrere) 67 dalla corruptio e dall'alterità al compimento del senso, posto in essa dal verbo. Il fenomeno della grazia di Dio, che dona ed aiuta, si realizza nel mysterium crucis e nel mysterium cognoscentiae, per ultimo opera tramite lo Spirito Santo, il quale è identico al verbo e nel quale questo si esprime 68 • Anche il mistero centrale della rivelazione cristiana è dunque comprensibile nell'orizzonte dei concetti di «identità e differenza». Il nesso di «i dentità e differenza» è la sua forma fondamentale di riflessione. Una fondazione filosofica di impronta neoplatonica della speculazione trinitaria secondo il nesso di identità e differenza si rivela in Eriugena ed in particolare in Cusano con una intensità concettuale paragonabile a quella di Vittorino 69 • È vero che gli elementi filosofici nel pensiero trinitario di Agostino sono, anch'essi, di provenienza essenzialmente neoplatonica, 64!ldv. Ar., 111 Il, 13-16; IO, 23: loquens silentium come verbum o come espressione della parola in potentia, quale verbum verbi. 65 Fil., 2, 7; A dv. A r., IV 32, 41 ss. 66 Adv. Ar., l 26, 38 s.: ... À6yoç, vita perjecta, conplevit mysterium et apparuit in materia, hoc est in carne et in tenebris. Cfr. anche IV 33, 2 ss. 67 /bi, I 57, 2 ss.; In Eph., l, 21-23 ; PL 8, 1250 C: Per Christum id est per Spiritum recreatas animas et liberatas esse, ut in suam originem reverterentur. 68 !bi, III 8, 30 ss .; IV 33, 20 ss. Cfr., a tal riguardo, sotto pp. 166 ss. e 187 ss. La storia della di retta influenza di Mario Vittorino necessita ancora di una ricerca più circostanziata.
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ma si mostrano come più fortemente mediati in una originaria impostazione di pensiero che non in Mario Vittorino. Da ciò risulta una sintesi di filosofia e teologia unica nella storia. Questa caratterizzazione non deve però ridurre il contributo storico di Mario Vittorino al fatto di avere sviluppato la prima metafisica con un intento teologico nell'ambito linguistico latino.
II. «Creatio» come posizione della differenza in Agostino
Le ultime osservazioni intorno a Mario Vittorino hanno già messo in luce che creatio e incarnatio possono essere intesi, nel senso più ampio, come fenomeni della differenza e dell'alienazione. L'unità, o l'identità, trinitaria contribuisce creativamente alla pienezza del suo essere e, con ciò, pone la differenza rispetto a questo stesso, differenza che rimane però relata alla sua origine. L'incarnazione è, per così dire, la seconda alienazione dì Dio nella creazione: Egli opera in ciò che è altro, rispetto a Lui, nel creato, il quale deve nondimeno diventare analogo all'essere divino, avendo strutture da Lui poste, ed essere restituito al suo stato originario attraverso la storia.
l. Il cominciamento della differenza
Il tentativo di Agostino di rendere intelligibile il concetto di creatio quale fondamento teologico e filosofico e quale centro oggettivo della sua confessio sarà nelle Confessioni un paradigma, alla luce del quale chiarire la precedente concezione. Conformemente alla finalità delle riflessioni su identità e differenza potrebbe essere trattata, in modo relativamente conciso, la questione che viene posta specificamente dal problema della creazione. Un'interpretazione dettagliata dell'argomentazione, quale viene sviluppata da Agostino nell'XI libro delle Confessioni (cc. 3 ss.), ha nei confronti di questa il vantaggio di rendere in modo più esatto i presupposti del pensiero e la sua portata nella questione intorno all'essere dell'idea, del mondo, del tempo e del linguaggio. Per poter studiare le implicazioni filosofiche del concetto agostiniano di creatio, almeno a partire dalle loro condizioni sto-
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riche, sarebbe necessaria un'analisi del concetto di Demiurgo del Timeo platonico e della concezione plotiniana della processione-del-mondo dall'Uno, e in misura non minore una riflessione sulla trasformazione dei filosofemi neoplatonici nel concetto origeniano di creazione. Ciò può essere qui accennato soltanto come una cosa desiderata ed eventualmente toccata di sfuggita, ma globalmente esige una trattazione propria, in quanto questione centrale per il rapporto della metafis ica greca con la teologia cristiana. Dal punto di vista filosofico è centrale, nel complesso concettuale di creatio, la domanda sull'inizio: inizio come essere dell'inizio, o inizio autoesistente, e come inizio mediato di un nuovo essere. La domanda viene, dunque, a differenziarsi in questi aspetti: qual è e come è il soggetto dell'inizio, ciò che fa iniziare? Come può essere inteso il porre o il costituire di ciò che ancora non è? La posizione di un nuovo essere o di una alterità è, rispetto all'inizio, un atto di libertà o di necessità, un atto di costrizione inerente al soggetto dell'inizio? Con ciò viene posta anche una questione più ampia: perché viene non solo postulato un inizio, ma pensato anche come esistente? E questo nei confronti della possibilità, per lo meno pensabile, di descrivere l'essere del mondo soltanto come un essere che si incontra e di volerlo chiarire nei suoi nessi immanenti. Se l'atto creativo del porre l'essere si realizza per libertà, come deve essere allora intesa la relazione di ciò che è posto con colui che pone? È, essa, semplice contingenza e differenza, alterità («caduta») che fissa se stessa in modo permanente, oppure lo stesso esistente creativamente posto è della stessa specie del suo inizio, determinato mediante differenza e analogia rispetto all'inizio esistente? Come reminiscenza di una fondamentale concezione platonica si pone qui la questione del rapporto dell'archetipo normativa e creatore con la copia creata, della «traccia» dell'inizio in ciò che ha avuto inizio e, quindi, del suo legame con ciò che lo precede, o del suo ritorno all'inizio. Se il porre l'essere è un lasciare iniziare da parte dell'ente, che determina se stesso come processo che deriva da questo inizio, e se, inoltre, l'inizio che pone creativamente è, esso stesso, natura assoluta, aprocessuale, allora la domanda circa l'origine e l'inizio dell'alterità-processuale costringe alla rifles-
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sione sul tempo quale modo d'essere che corrisponde alla differenza di ciò che ha avuto inizio. Anche il tempo è, dunque, posto dall'assoluto atemporale inizio come un nuovo essere rispetto a questo? La posizione del tempo realizza l'atemporale origine nel modo d'essere di ciò che è posto? Strettamente connessa si presenta ora la domanda: l'inizio rimane se stesso, totalmente in sé, pura trascendenza nell'atto di porre l'essere o nonostante l'atto di porre l'essere? O piuttosto passa «Oltre» in ciò che da esso è derivato, viene assorbito da questo? O una mediazione di queste due alternative rappresenta un concetto più adeguato, un concetto mediante il quale, da una parte, la creatio non viene intesa come un «ritirarsi» del creatore dal mondo e, dall'altra, viene tenuto lontano un possibile sospetto di panteismo? La creatio come mediazione dell'essere attraverso un essere divino, che rimane in sé e che penetra, tuttavia, l'ente creato quale sua essenza, è, dunque, un momento essenziale della trattazione della questione del rapporto dell'archetipo con la copia, del movimento dialettico di «sopra» ed «in» del principio, di trascendenza e immanenza o di identità e differenza, e del suo nesso di ritorno all'identità: come è possibile che il Dio della creazione sia origine, fondamento o causa di ogni ente, e anche che mantenga questo ente mediante l'atto del far iniziare, e dunque che sia in questo, e che, tuttavia mantenga sé stesso come ciò che egli è in sé, la sua assolutezza? 1 La riflessione sull'atto della creatio e sulla struttura d'essere del suo risultato, ossia del mondo, provoca anche una domanda riguardo a come, davanti alla descritta intenzione divina, il mondo sia giustificabile nella sua incompiutezza almeno moralmente manifesta.
Audiam et inte/legam, quomodo in principio jecisti cae!um et terram. «Fammi udire e capire come in principio creasti il cielo e la terra» (Conj. XI 3, 5)2.
1 Questa domanda si pone nel pensiero di Cusano e Giordano Bruno ancor più acutamente che in Agostino, cfr. sotto pp. 230 ss. 2 Intorno alla questione della creazione in Agostino, in particolare a partire dal De Genesi ad litteram, si veda A. Solignac, in: In principio, {«Ét. Augustiniennes))), Paris 1973, pp. 153-171.
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2. Comprensione della «Creatio»
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!n principio jecit deus caelum et terram? La questione intorno
In questo capoverso, che introduce la discussione intorno al problema della creazione, emerge una caratteristica essenziale della teologia di Agostino: essa si propone di comprendere gli enunciati della fede, di approfondirli attraverso la riflessione razionale. Ma la fede non deve, per questa ragione, venir superata o annientata in un comprendere razionale, anzi diviene una fede «ragionevole» proprio attraverso questo atto, di modo che entrambi i modi di esistenza s'accrescano o si condizionino reciprocamente 3 • In un contesto particolare si tratta del discernimento conoscitivo del procedere del creare divino (lacere, creare), qual è affermato in Genesi l, l: In principio jecisti.caelum et terram - una proposizione che, immediatamente, viene associata all'inizio del vangelo di Giovanni e, più tardi, anche nell'interpretazione viene oggettivamente unita ad esso: In principio erat Verbum. In quale senso bisogna intendere principium, deve per il momento rimanere ancora in sospeso, ma si dovrebbe oià sapere che con il termine biblico principium viene insieo . ' me indicata una parola fondamentale del filosofare greco: <XPXTJ· Si porrà in evidenza anche che con in principio non è inteso solo l'inizio temporale del creato o, addirittura, ciò che il creatore «per primo» (xE-cpaÀ<Xwv) ha prodotto all'inizio del suo creare. Per una interpretazione che cerca di prendere in considerazione le implicanze filosofiche, si pone, esattamente qui, la domanda circa l'intensità con cui, mediante il concetto di principium, l'originaria questione filosofica intorno all'inizio esistent~ è stata accettata come determinante per un nuovo pensare e Il modo con cui si è in esso modificata . Sed unde scirem, an verum diceret (Moyses)? ... « Ma come potrei sapere se dice il vero?». Il comprendere, il riconoscere, il conoscere devono essere «sicuri» attendibili (certus, Xl, 3, 5). Ecco allora la domanda ' . sull'istanza dell'evidenza consiste nella domanda: chi garantisce l'affidabilità o la verità di proposizioni come quella citata: l
3 Cfr. ad es.: Tract. in Joh ., XXIX 6: lntellegere vis? Crede! Deus enim per prophetam dixit: Nisi credideritis, non intellegetis.: . Si non intellexisti, ... crede. !ntellectus enim merces fidei. Ergo noli quaerere mtellegere ut credas, sed crede ut intellegas.
all'istanza della sicurezza di un'evidenza o intorno alla fondatezza della verità è per Agostino centrale come quella intorno all'accertamento riflessivo della fede. La verità in senso peculiare, cioè nel senso che supera la pura informazione di fatti accertabili empiricamente, può essere riconosciuta con difficoltà, se colui che vuole intendere accoglie o assume solo un enunciato che gli si presenta. La verità si costituisce unicamente all'interno dell'intenso, criticamente provante ponderare di enunciati assunti nella propria «realtà interiore»; detto in termini più precisi: nella mens dell'anima, dell'anima pensante, ossia intus in domicilio cogitationis, «nell'intima dimora del pensiero» (XI 3, 5). Il pensiero e l'evidenza sono il risultato di un parlare pensante o di un pensare parlante. Il verbo, la parola, si dimostra, inoltre, un'evidenza articolato sulla verità di una cosa, un pensiero reso in una forma definibile. Agostino qualifica la parola, «che diciamo nel cuore», come «il pensiero che si è formato a partire da ciò che già sappiamo», formata quippe cogitatio ab ea re quam scimus 4 • Il pensare e il parlare si compiono in un atto simultaneo: il parlare, da una parte, quale modo nel quale si articola o si forma il pensare, e, dall'altra, il pensare quale fondamento di possibilità o principio del parlare, non avendo il non pensato alcuna parola che gli corrisponda. Come parola interna, del cuore (verbum cordis), il pensare non è legato ad una lingua particolare:
intus utique mihi, intus in domicilio cogitationis nec hebraea nec graeca nec latina nec barbara veritas sine oris et linguae organis, sin e strepitu syllabarum diceret: «verum dici t» ... (Xl 3, 5). Il pensare è fondato a priori, prima di ogni esperienza, e, quindi, anche prima di ogni rapporto con una lingua storicamente determinata. Sebbene il pensare debba concretamente compiersi in una lingua storicamente determinata, questa costituzione a priori dell'unità di linguaggio e pensiero è da comprendere come la reale possibilità di trovare la verità, come l'unico criterio per la sua adeguatezza e affidabilità, ma anche come la fondazione universalmente valida di ogni singola lin4
De trinitate, XV IO, 19. Per questo ambito della questione nel suo complesso, cfr. il mio saggio Zu Augustins Metaphysik der Sprache, «Augustinia n Studies», 2 (1971), pp. 179-195.
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gua. La verità e l'affidabilità di una proposiZione si misura sulla sua accertabilità e discernibilità proprio mediante questo approfondimento dialettico a priori di pensiero e parola. Il carattere di istanza della componibilità a priori di parola e pensiero viene indicato nella formulazione agostiniana della verità: il fatto che essa governi interamente lo spirito, intus (animo) praesidens veritas (Xl 5, 7). Questa concezione è rappresentata teologicamente da Cristo, che è il vero maestro cioè, il fondamento di possibilità ed il mediatore della verità; la veritas animo, o menti praesidens, viene di conseguenza identificata con Cristo, che determina ed illumina l'<momo interiore» in cui abita 5• Tale teologizzazione della componibilità a priori di pensiero e parola risale all'origine filosofica di queste e di simili concezioni: alla dottrina platonica dell'anamnesi. Quest'ultima si fa garante della possibilità e della necessità di un inizio della conoscenza nel tempo ed, insieme, esige il movimento di ritorno fondante all'idea temporale, da cui sola si legittima e si consolida la conoscenza. Senza questo implicito presupposto filosofico, la predetta teologizzazione del pensiero dovrebbe essere intesa come una decisione che evita l'esigenza razionale di fondazione; essa rimarrebbe difficilmente «pensa bile». Il presupposto di un'evidenza attendibile nella proposizione in principio jecit deus caelum et terram è il movimento accertante di ritorno all'interiorità del pensiero. Solo così l'ascoltatore può giungere al comprendere. Perfino il fatto stesso di parlare di questa proposizione come di una proposizione «riconosciuta», in quanto conosciuta, presuppone la formazione del «verbo interiore» prima e in vista di questa proposizione, dunque una riflessione autonoma su ciò che è stato udito o tramandato. L'invocazione della veritas divina al termine del terzo capitolo corrisponde alla teologizzazione dell'istanza interiore di verità: quando l'uomo interroga se stesso, nello stesso tempo interroga il proprio fondamento divino, che gli è immanente. Ma 5 De magistro, XI 38: De universis autem quae intel/egimus non loquentem qui personat foris, sed intus ipsi menti praesidentem consulimus veritatem, verbis fortasse ut consulamus admoniri. /Ile autem qui consulirur, docer, qui in interiore homine habitare dictus est Christus, id est incommutabi/is Dei Virtus atque sempitema Sapientia: Quam quidem omnis rarionalis anima consulit. XII 40: lntus magisrer. Cfr. anche Conf., XI 8.
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essa corrisponde né più né meno alla struttura delle Confessioni in generale. L'autoaccertamento della propria storia personale e delle proprie possibilità non storiche, ma intrecciate con la storia, avviene sempre in forma di dialogo con Dio. La conjessio è, quindi, contemporaneamente confessione e invocazione di lode.
Ecce su n t caelum et terra, c!amant, quod facta sin t ... Et vox dicentium est ipsa evidentia. «Ecco che il cielo e la terra esistono, proclamano la propria creazione ... La voce con cui parlano è la loro stessa evidenza». (Xl 4, 6).
3. Essere e attività del Principio Se dall'ente globalmente deriva per il pensiero l' «evidenza» che esso non è da sé (Xl 4, 6), l'enunciato metaforico «essi proclamano» è già un elemento della risposta alla domanda: «in quale modo (quomodo) hai creato cielo e terra»? Come si può dire che l'essere bello e buono, o l'essere dell 'ente, esiste assolutamente solo perché è posto dall'essere bello e buono e dall'essere stesso, così l'enunciato metaforico «essi proclamano» è possibile e sensato solo perché essi sono creati dalla P AROLA STESSA. La composizione verbale e linguistica dell'ente è, dunque, fondamento del fatto che questo stesso rimanda alla sua origine. Come la parola esterna è l'estrinsecazione o il dispiegamento della parola interna, così il «proclamare» dell'ente è espressione o manifestazione della sua parola (assoluta) che lo fonda, ed è ad esso immanente. Il compito, che risulta per l'uomo dall'essere composto del creato mediante parola e linguaggio, consiste nel riconoscere e «lodare» nella riflessione sull'ente la sua origine, nel ricondurre (reductio) di conseguenza ciò che è creato alla sua origine per mezzo della parola che conosce e rende gloria. La formulazione della parola che si trova nell'ente, della sua struttura ideale creata è la conseguenza del!' evidentia che deriva dalle cose. Secondo Agostino l'uomo dovrebbe, tuttavia, non solo dare origine, nel parlare, ad una riconduzione così pensata, ma diventare, mediante conoscenza, egli stesso parola esistente: l'uomo come inno dell'origine, laus ipsius estote 6 • 6
Sermo, 34, 3, 6.
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In verbo tuo jecisti ea. «Nella tua parola le creasti» (Xl 5, 7). Abbozzata già in clamant, questa è la risposta alla domanda iniziale del V capitolo: «come, in quale modo e con che cosa creasti il cielo e la terra?». L'andamento della questione in questo capitolo esclude anzitutto alcune possibilità plausibili, in parte date dalla tradizione: l'atto del creare divino non inizia da una materia già esistente, né si compie in uno spazio già dato (Xl 5, 7). La formula «Con la tua parola le creasti» contrasta con l' «in» inteso in senso spazi al e (non utique in caelo neque in terra jecisti caelum et terram ... ). Da questo enunciato ed ancor più da quello proposto poco più oltre, dicendo jacis (XI 7, 9) - «con la parola crei» - , bisogna tener lontana l 'idea che la parola venga usata strumentalmente 7, così che possa essere considerata come uno strumento manovrabile a proprio piacimento, subordinato al soggetto creatore, o come una istanza ad esso preposta 8 • Questo aspetto possibile viene chiarito dalla risposta alla domanda: quomodo dixisti? «come parlasti»? (Xl 6, 8), e: qua verbo a te dictum est? «con quali parole è stato detto da te»? (XI 6, 8). La parola nella quale o con la quale viene detto, e con ciò immediatamente creato, è la parola «Dio presso Dio», la parola che viene pronunciata eternamente e tutta insieme: simul ac sempiterne omnia (Xl 7, 9). La parola non è, dunque, nel creatore qualcosa che possa essere reso concreto con strumenti o possa essere separato da lui; è, piuttosto, lo stesso creatore. La parola è, quindi, essenzialmente identica al principium che «ci parla» (Giov. 8, 25; Conf, XI 8, 10). Dal punto di vista teologico, questo è il Figlio, la sapienza; nella connotazione filosofica è ragione eterna, eternità senza tempo, verità (Xl 8, 10; XI 6, 8). Creare «all'inizio» significa perciò: colui che crea (rispetto al modello della techne dell'attività finita) in modo assoluto, dunque senza tempo e sulla base di una libera spontaneità, crea in se stesso o attraverso se stesso. Parola, sapienza, ragione eterna, verità sono diverse denominazioni di un momento «dell'intima autoesplicazione di In modo simile in Filone, Leg. a/1., III 96; Cher., 125 ss. Questa è una concezione che ha la sua origine nel Timeo platonico e che prosegue nel suddetto aspetto «strumentale», cfr. Tim ., 28 a 6 s.: ò OT]f.llO\JPIÒç r.pòç 7
8
"tÒ XOt>Òt "tOtÌr:Òt !'xov PHr.wv &t(, "tOlOV"t -:tvl r.poaXPWf.ltvo.; r.OtpOtot(yf.lOt"tt ....
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Dio» 9 ; se la parola è momento dell'autoesplicazione dell'identità divina o dell'unità dell'essere, mediante l'abbozzata interpretazione di in principio viene allora posta in risalto anzitutto l'assoluta spontaneità, l'autonoma capacità di dare origine da parte di Dio. L'interna autoesplicazione passa nell'«esterna»; la parola interna si aliena in quanto pone ciò che è altro nel tempo. Il creatore crea attraverso se stesso e non a partire da una cosa che è altro, allorché crea «i n principio», ma l'auto noma capacità interna di dar origine si esprime in ciò che è altro e creato nella parola. Tale creativa alienazione di ciò che è interno viene indicata col termine virtus (dynamis), che ha lo stesso significato tanto teologico che filosofico 1o. In modo del tutto generale può ora essere detto della dottrina agostiniana della creatio: il concetto biblico di un Dio creatore, insieme alla concezione filosofica di un principio che è anche vouç (pensiero, Spirito) ed è origine dell'ente, è stato in essa disposto in modo da formare l'unità di un nuovo pensiero. 4. Eternità e tempo La struttura di questo pensare e parlare creatore deve ora, per alcuni aspetti, essere analizzata in una maniera più precisa. E ciò è possibile in parte con riferimento agli stessi testi che sono già stati inizialmente discussi. Con la domanda: quomodo dixisti?, viene postulata anche una risposta sulla differenza e sul rapporto di atemporalità (eternità) e temporalità. Analogamente all'esclusione di un creare in una materia preesistente o in uno spazio già esistente, Agostino esclude che la parola che si compie e si manifes ta nel tempo sia la parola creatrice. Infatti la parola creatrice è essen9
Cfr. l'autocostituzionc trinitaria in Agostino ed in Cusano pp. 102 ss., 166 ss., 187 ss. L'incremento di questa concezione nel se ipsum creare di Dio come parola o ambito de lle idee (causae primordiales) in Scoto Eriugena, De div. nat., II 20, PL 122, col i. 683 A; 684 B. 10 Conf, XI 9. Il riferimento biblico: E br. l, 3: Portansque omnia verbo virtutis suae ( = Filius). Virtus Altissimi: Luc. l , 35. Chrisrus Dei virtus et Dei sapientia: I Cor. l, 24. Dal punto d i vista filosofico la potentia, o dynamis, è sempre pensata volta all'alienarsi, pendant di r.p6oòo;, cfr. ad es. lo stesso Uno come ovvOtf.ltç -:wv r.
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zialmente diversa dalla parola che inizia e finisce temporalmente e con la quale noi parliamo (Xl 6, 8). Rispetto alla parola che è nel tempo ed ha fine, la parola creatrice non è da ritenere presente a fatica, è piuttosto lo stesso presente temporale che «rimane sopra di me». Esso viene «proclamato per tutta l'eternità» e perciò attraverso di esso «tutto» viene proclamato per tutta l'eternità: «tutto» come essere di questo stesso atto eterno (Xl 7, 9). Da qui deriva appunto la stimolante domanda: come giungerà l'ente temporale all'esserci, essendo tutte le cose dette senza tempo e cioè «insieme» nel principio? Se non dovesse «bastare» che la parola senza tempo esprime se stessa in se stessa, come e attraverso che cosa viene allora posto e diviene pensabile un passaggio dall'assenza di tempo al tempo? Perché e come l'inizio senza tempo, che è parola senza tempo, passa creativamente in una cosa che inizia nel tempo, dunque in un altro il quale non è «prima» di questo passaggio, ma diviene solo attraverso di esso? Nell'ottica di identità e differenza questo significa: perché e come ha inizio la differenza, che segna tanto una distinzione dal principio quanto anche una differenza nella propria struttura d'essere, contro cui lo stesso inizio esistente deve essere inteso come un'unità, in cui la differenza non può diventare predominante come peculiare modo d'essere. Le risposte di Agostino alla domanda intorno al perché di questo passaggio, quia bonus est (deus) - quia voluit, possono soddisfare altrettanto poco un pensiero essenzialmente razionale dal punto di vista dell'intero, come l'uso neoplatonico della metafora per la nascita dell'ente dall'Uno stesso. Le riflessioni a questo proposito si mostrano, così, più o meno come fondanti descrizioni del «fatto» presupposto di un'alienazione del principio. Attraverso il traboccare creativo del principio, o attraverso il porre ciò che ha inizio nel tempo, il principio stesso non deve affatto risultare affetto dal tempo, dunque non deve temporalizzarsi nella sua essenza; e altrettanto poco il tempo può essere pensato come un tempo esistente (e operante) già nel principio. È di conseguenza assurda anche la domanda: quid faciebar deus antequam faceret caelum et terra m XI l O, 12) 11 • Il tempo e, quindi, la differenza in sé esistente e la mutabilità 11
Cfr. anche De civ. dei, XI 5.
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dell'ente (mutantur enim atque variantur: XI 4, 6; coepta et finita Xl 6, 8; cedit atque succedi! XI 7, 9) viene, come struttura dell'ente creato, posto direttamente con questo. Anche il tempo, dunque, quale realtà creata è un novum 12 • Se nel principio e nell'inizio è creato tutto ciò che è come realtà creata ed anche il tempo inizia così da esso, allora l'eternità senza tempo deve essere pensata secondo il modello platonico e neoplatonico, ossia come paradigma del tempo. Dal momento che non inizia da se stesso, il tempo è «traccia» dell'eternità 13. Proprio per questo il passaggio non può essere né pensato né descritto come temporale nella sua qualità d'essere; si compie, piuttosto, in un salto, senza mediazione. La processione creativa d eli' ente dal creatore è, essa stessa, atemporale, assolutamente libera e spontanea, essendo atto determinato da null'altro che dalla propria autooriginarietà. In esso, in quanto atto atemporale, viene immediatamente posto il tempo, e, con questo, l'ente temporale. Viene così fatta una rigida distinzione tra la concezione secondo la quale in Dio vengono create tutte insieme 14 e eternamente le cose che egli «crea con la parola» (Xl 7, 9), e l'alienazione, la quale è causa dell'essere, di questo interno atto di parola e creatore, che nonostante l'alienazione «rimane» quello che è. In sé Dio è la verità in sé immutabile (stabilis veritas, XI 8, 10), !'«eternità sempre stabile» (semper stans aeternitas, XI 11, 13), che è presente totalmente a se stessa; l'essere stesso, o il «puro» e «vero» essere (esse ipsum, esse sincerum, esse germanum), che si esprime nella proposizione «io sono colui che sono» (Es. 3, 14) 15 • 12 E n. in Ps., l Ol; s II l 0: Factum est et tempus. De civ. dei, XI 6: Procul dubio non est mundus factus in tempore, sed cum tempore. (Platone, Tim.,
38 b 6: XP6voç ll'o\w !J.t-:'o~pcxvoo ylyovtv). Senza creato non v'è dunque tempo, e questo è costitutivo di quello, Conj., XI 30: Nullum tempus esse posse sine creatura. Il tempo non inizia da un tempo, ma in quanto «nell' inizio» è creato tutto ciò che è come creato, anche il tempo inizia attraverso l'atto alienantesi dell'inizio atemporale: Tempus non coepit ex tempore, come dice in: De div . quaest., LXXXIII q. 72. 13 De Genesi ad lit., lib. imp. XIII 38: ... ut signum, id est quasi vestigium ae-
ternitatis tempus appareat. 14 Al termine simul corrispondono all'incirca in Plotino O!J.oG c &ilp6ov per «l'insieme» atemporale e aspaziale delle idee nel Nous (cfr. III 7, 3, 4; Il s.; 37. 8, 50). &ilp6wç indica, tuttavia, anche l'assenza di passaggio o l'immediatezza del creare demiurgico: Proclo, In Tim., l 358, !3; II 102, 7 e 18; III l, IO ss. IS Cfr. la mia interpretazione dell'esegesi agostiniana della proposizione Ego sum
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AGOSTINO
IDENTITÀ E DIFFERENZA
La relazione, qualitativa dal punto di vista del contenuto, dell'assenza del tempo con il tempo viene chiarita dal termine praecedere, il cui autosuperamento deve essere pensato sempre in rapporto al fine di questa asserzione: Nec tu tempore tem-
pora praecedis, sed praecedis omnia praeterita celsitudine semper praesentis aeternitatis... Tu aut em idem ipse es et anni tui non dejicient «Ma non è nel tempo che tu precedi i tempi ... E tu precedi tutti i tempi passati dalla vetta della tua eternità sempre presente ... Tu invece sei sempre il medesimo, e i tuoi anni non finiranno mai» (XI 13, 16) 16 . Il «precedere» ontologico, cioè condizionato dall'essere, è da intendere come il fondamento, che è in sé e rimane unico, di ogni esplicazione nel tempo; ciò che esso «precede», la temporalità del creato, può essere nominato solo attraverso esso stesso. Ciò che esso è in sé come essere, come unità o identità, è ciò che è creato nella separazione e nella successione, nella differenza di spazio e tempo. In questo l'inizio esistente è paradigma di ciò che ha inizio nel tempo e che nel tempo si dispiega. Nondimeno nell'esistente-creato non è operante solo la differenza in sé e la differenza rispetto alla sua origine: quale immagine del modello originario, quale traccia dell'atemporalità, esso è esistente anche in riferimento alla sua origine, realizza in se stesso la sua «somiglianza» con essa in modo tale che rimanda oltre se stesso. Per l'intento conoscitivo dell'uomo questo significa che il carattere «trascendente» dell'ente deve essere realizzato nel conoscere, poiché l'ente viene superato nel riferimento al fondamento. L'esperienza della temporalità dell'ente attraverso l'esperienza della temporalità interna nel movimento di ritorno del pensiero a se stesso diviene punto di partenza per il fatto che questo pensiero, intrecciato anche col tempo, diviene cosciente di sé nel risalire al suo fondamento atempoqui sum come esse ipsum, in: P/atonismus und ldealismus, pp. 26 ss. [trad. it., pp. 34 ss.]. Metafora teologica dell'eternità che rimane in sé (mansio) è il «giorno» che non passa o !'«oggi» atemporale: Et dies tuus non cotidie, sed hodie, quia hodiernus tuus non cedit crastino ... ego hodie genui te (Conj., Xl 13; 249, 20 ss.). Per questo la proposizione del salmo 101, 28, «ma tu sei lo stesso e i tuoi anni non avranno fine», può essere intesa come spiegazione di Esodo, 3, 14: il «punto» atemporale, l' incommwabilitas di Dio come categoria primaria di interpretazione dell'esse ipsum. 16 Sulle metafore «giorno» e «anno» , cfr. W. Beierwaltes, P/atonismus und ldea/ismus, pp. 30 ss. [trad. it., pp. 38 ss.].
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rale. Il diventare cosciente della struttura a priori del pensare lo sguardo sulla verità interna del pensare come riflesso dell~ verità eterna che determina il pensare - detto teologicamente: ~'aprirsi a.l «maestro interiore» - , è il punto di partenza per Il passaggiO pensante alla verità in sé immutabile (atemporale) (XI 7, 9) 17 • Mediante questo movimento pensante di ritorno (cognoscendo utique redimus; XI 8, 10), dunque, ciò che è creato per riflessione viene eccezionalmente ricondotto all'origine in sé esistente per mezzo della quale è. La riconduzione all'origine del creato si compie, dunque, nella conoscenza dell' operare nel creato stesso. Dall'ente stesso prende inizio l'impulso a questa reductio (per creaturam mutabilem cum admonemur, ad veritatem, stabilem ducimur ... ; XI 8, 10)18. D'altro canto, nella reductio dell'ente riconduciamo noi stessi al nostro proprio fondamento, che è anche fondamento dell'ente (reddentes nos, unde sumus; XI 8, 10).
5. « Verbum» e «sapientia» L'affermazione precedente, ossia che la concezione biblica di u.n .Dio cr~atore, insi~~e alla concezione filosofica di un prinCipiO che e anche spmto e pensiero e che è fondamento dell'ente, sia giunta ad una nuova unità nel concetto di creatio deve essere ora trattata, almeno in modo abbozzato, in bas~ al nesso verbum - sapientia. Il principio biblico dell'identificazione di Verbum ( = Cristo) e sapientia - accanto alla tradizione veterotestamentaria di sapientia - si trova in 1 Cor. l, 24: Christum Dei virtutem, et Dei sapientiam; 30: . . . in Christo Jesu, qui factus est nobis sapientia a Deo ... Da Giustino martire in poi l'unione teologica di logos e sophia viene pensata a partire da un contesto filosofico che agisce da _ Per la problcmatic~ della certezza cfr. Conf, VII IO; VIII IO. De vera re/igwne, 39, 72: W. Be1erwaltes, Aequa/itas numerosa. Zu Augustins Begriff des Schonen, «W1ssenschaft und Weisheit», 38 (1975), pp. 150 ss.: Reditio in seipsum come presupposto d'una certezza di giudizio riguardo al fenomeno del 17
bello. 18 _Ciò s~ documenta anche neH'_interpretazione, che ritorna di sovente in Ago · stmo, d1 Rom. l, 20: lnviSibllw emm ipsius, a creatura mundi, per ea quae
!acta sunt, mtel/ecta, conspiciuntur.
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IDENTITA E DIFFERENZA
fondamento 19 • Gregorio di Nissa ed Origene determinano, ad esempio, l'ambito greco di quella tradizione che ho cercato di rendere chiara a proposito di Mario Vittorino e che, ora, vorrei presentare in Agostino, e, in un ulteriore giro di riflessioni, in Cusano. Se per Mario Vittorino nell'unione di verbum - sapientia - intelligentia, nell'ottica di una considerazione storica del problema, risulta normativa la concezione porfiriana dell'Uno che si pensa, per Agostino risulta normativa il concetto platonico dello Spirito atemporale (vo0ç). Esso è essenzialmente determinato dal fatto che il nous è insieme «già sempre)) interamente, compiutamente, e dunque senza possibilità di evoluzione, tutto ciò che egli è. Il nous è l'identità di possibilità e realtà; nulla più gli manca; è realtà alla quale né è precedente né segue una possibilità. In lui l'elemento sintetizzante è pensiero e riflessione. Se il vouç deve essere inteso come quell'essenza che «per prima» ha in sé l'alterità, e di conseguenza è dopo lo stesso Uno il primo modo dell'essere molteplice, allora il pensiero di ciò che in lui è molteplice è quella cosa che stabilisce una unità relativa, ma anche intrinsecamente dinamica, proprio per tale suo essere movimento riflessivo. Il vouç è tutto ciò che egli stesso è, come pura realtà; per questo il pensiero può riferirsi solo a ciò che il vouç è. In quanto egli pensa tutto ciò che è, pensa dunque se stesso. Ma il molteplice, al quale s'è aperto l'Uno stesso, è costituito dalle idee, l'ambito della pura intelligibilità. Le idee perciò non solo sono, ma vengono anche pensate. Il loro essere è il venir-pensate dal pensiero senza tempo. Di conseguenza, il pensiero del vouç unisce in sé l'essere delle idee come esistente-pensato e pensato-esistente. Si può perciò dire che il vouç nel riflettere sulla propria «ideale» molteplicità pensa se stesso come un'unità, ed in questo modo è l'identità di essere e pensare proprio mentre egli la compie. In questa concezione le idee non sono più, come in Platone, forme intelligibili in sé esistenti, conoscibili come fondamenti di tutto ciò che esiste, modelli del Demiurgo creatore o concetti per i quali Platone ha cercato un <<soggetto» pensante, ma
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che non ha trovato in modo definitivo. Esse sono, invece, «Oggetto» (sulla base della prima alterità) di un pensiero che le comprende, essendo in esse stesse; il loro essere oggetto non significa, dunque , distanziata separazione, ma è la condizione a che le idee vengano a costituire internamente lo Spirito, divengano i momenti che lo articolano, di modo che questo stesso divenga in esse determinatezza e forma. In questo non può essere cercata una priorità dell'essere o del pensare; lo Spirito esistente è, invece, la spontanea compenetrazione dialettica di entrambe le sfere in una unità. Di pari rango, l'una non potrebbe essere senza l'altra. L'atemporalità (eternità, aion) pone in rilievo questo rapporto equivalente o l'essere esposto senza tempo del pensare all'essere e dell'essere al pensare: lo Spirito è, ad un tempo, tutto ciò che è da pensare come cosa «sempre già» pensata; è pensare esistente ed essere pensante. L'essere, che pensa questo pensare esistente, sono le idee come esso STESS0 20 • Ciò che è stato finora oggetto di spiegazione deve essere ancora ampliato con la seguente riflessione di Platino tratta dall' Enneadi VI 6 (Sui numen). In essa Platino offre un fondamento all'identità di numero ed idea creatrice responsabile dell'ordine del cosmo. I numeri «essenziali» o esistenti hanno il carattere di principio per la struttura dell 'essere delle idee. Essi rendono le idee un Uno in sé determinato, ma danno contemporaneamente origine alla possibilità di una loro connessione o di un'unità sintetica. Il numero non è però da considerare una grandezza astratta e formale, ha invece lo stesso modo d'essere dello Spirito: fondamento per l'unità o l'identità di una cosa singola nello Spirito pensante e, ad un tempo, anche fondamento per l'unità nonostante o nell'alterità, ossia per l'unità dall'alterità. I numeri non sono, tuttavia, solo il fondamento interno delle idee, ma n eli 'atto del vouç operano in pari tempo verso !'«esterno»; contribuiscono a costituire l'esistente sensibile come un intelligibile oscurato: «insomma, l'Essere è numero che avvolge le altre cose. E poi, per il fatto Plotino ha esplicitato questo pensiero in modo vario, ad es. in Enn., V 5, che nell'edizione di Porfirio prende il titolo: «l'intelligibile non è esterno allo Spirito» (dunque è identico ad esso come suo «essere oggetto»). Cfr. a tal riguardo A.H . Armstrong, in: Les Sources de P/otin («Entrctiens Hardt») Gcnève 1960, pp . 391 ss. e la mia introduzione a P loti no, Enn . , III 7, 21 ss . 20
19 Giustino martire, Dialogus, 61 s., PG 6, coli. 613 C ss.; cfr. a questo proposito G. Andresen, Justin und der mittlere P/atonismus, «Zcitschrift ftir die neutestamentliche Wissenschaft», 44 (1952-53), pp. 188 ss. sui presupposti platonici.
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stesso che l'Essere è nato dall'Uno, come Quegli era uno, così questo deve, dal canto suo, essere numero; onde fu detto che le forme sono unità e numeri. Ed è proprio questo il numero essenziale; ben diverso, invece, il numero che viene detto "aggregato di unità": ombra del primo. Il numero essenziale è quello che si scorge nella contemplazione delle idee, quello che le genera ad un parto solo; ma, primordialmente, è proprio quello che è nell'essere, è associato all 'essere, e precede gli esseri. E in lui gli esseri trovano fondamento, sorgente, radice, e principio»21. Qui viene annunciato l'aspetto, che opera verso l' «esterno» e che fonda ("creative") il diverso da sé, dei numeri essenziali (idee), ossia dei numeri che costituiscono lo spirito. Questa concezione dello Spirito senza tempo, che pensa se stesso come kosmos noetos e che, nel suo essere atto di essenza, implica l'idea e il numero, o che è questo come unità, e, ulteriormente, la dottrina, fuor di dubbio già presente nel medioplatonismo dì Albino, secondo la quale idea deve essere intesa 22 come pensiero (noesis) di Dio che pensa se stesso, è - in particolare riguardo al rapporto di verbum e sapientia - il presupposto oggettivo e storico del concetto agostiniano di creatio, in quanto Dio esprime creativamente e quindi pone nella parola ciò che pensa in se stesso come idea 23 • Nella Qua est io de ideis 24 di Agostino le idee, al modo di questa concezione medioplatonica, vengono «pensate» come forme originarie, attive, ossia come forme che modellano (principales jormae) o come fondamenti fissi e immutabili delle cose (da creare o create), che «vengono comprese nel pensare divino» 2S. Le idee, 21Enn. , VI 6, 9, 29-39. 22 Albino, Isag., IX (ed. K.F.
Hermann, Plato, vol. VI , p. 163, 13; 27); determinato a partire da: Calcidio, Com. in Tim., 363 , 7 (Plato Latinus, IV ed . Waszink): Idea ... perjectus intellectus dei. 23 Riguardo a l presupposto storico di questo problema in Agostino, ho oltre al passo di Plotino sopra citato, richiamato l'attenzione anche su Nicomaco di Gerasa nel mio articolo Augustins Jnterpretation von Sapientia Il, 21 (Omnia in mensura et in numero et in pondere disposuistt), «Rev. Ét. Aug.», 15 (1969), pp. 55 ss. (cfr. sotto nota 32). 24 De div. quaest., LXXXIII , q. 46.
Rationes rerum stabiles atque incommutabiles in mente divina, in divina intelligentia continentur. Sulla cerchia d i problemi legati a idea in mente divina come fon damento e precondizione della creazione si veda: J . Pépi n, Théologie cosmique et théologie chrétienne, Paris 1964, pp. 493 ss.
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dunque, sono l'abbozzo preliminare del mondo costituito nel ensiero divino e, in quanto «sempre già» pensate, sono l'espenza della mens divina o della sapientia dei; per così dire idee s orne «espressioni o parole intelligibili» (rationes tamquam in~elligibiles locutiones) 26 • Dio pensa oppure sa l'ente in se stesso come idee di questo; il suo sapere in lui è identico a questo, ed in pari tempo è «inizio» e fondamento del fatto che l'ente ha un esserci «esterno» a lui stesso. Questa funzione di fondazione del pensare o del sapere divino (della parola ·o della sapienza divina) viene espressa chiaramente nel seguente_ ~ass~ del De trinitate (XV 13, 22): «tutte le sue creature, spmtuah e corporee, non le conosce perché esistono, ma esistono perché le conosce. Infatti non poteva non conoscere le cose che un giorno avrebbe creato. Dunque è perché le ha conosciute che le ha create, e non è perché le ha create che le ha conosciute. E dopo averle create non le ha conosciute diversamente da come le conosceva prima di crearle» 27 • L'origine del sapere e dell'essere dell'essere è lo stesso inizio senza tempo come puro sapere, conoscere, pensare, come unità dell'essere «ideale» e del pensiero di questo essere. A partire da questo modo d' essere dell'inizio l'ente viene fondato globalmente come razionale, conoscibile; esso ha parte nell'uni tà assoluta di essere ideale e pensare ed è, nonostante la diversità (dissimilitudo) causata da tempo e spazio o nonostante la differenza dall'origine, simile a quest'ultima 28 • Se l'inizio esistente o la 26 27
De Genesi ad li t., I 9, 17. De trin., XV 13, 22: Universas autem creaturas suas, et spirituales et corpora/es, non quia sunt ideo novit; sed ideo sunt quia novit. Non enim nescivit quae juerat creaturus. Quia ergo scivit, creavi!; non quia creavi!, scivit. Nec a/iter ea scivit creata, quam creanda. Conj., Xl 8: i n aeterna ratione cognoscitur. !bi, XXXI 4 1: Sicut ergo nosti in principio caelum et terra m sin e varietate notitiae tuae, ita jecisti in principio caelum et terram sine distinctione actionis tuae. Sull' identità di pe nsare (sapere, sapienza) ed essere in Dio: Quae autem scientia dei est, ipsa et sapientia; et quae sapientia, ipsa essentia sive substantia. Quia in illius naturae simplicitate mirabili, 11011 est aliud sapere, a/iud esse; sed quod est sapere, hoc est et esse (De trin., XV 13, 22). 2 g Il mondo è in un certo senso regio dissimilitudinis (Conj., VII 10; cfr. Platone, Repubblica, 273 d; circa la tradizione cristiana: E. TeSelle, in: «Augustinian Studies», 6 [1975], pp. 153-1 79) , tuttavia deve essere, a motivo della sua provenienza e della «riconversione» ad esso proprio, caratterizzato come «dis simile sirnilitudi ne» (dissimi!is similitudo) - e questo come tratto caratteristico del creato in opposizione alla veritas ipsa, che, quale summa similitudo, è «senza similitu
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parola pone all'esterno di sé l'ente, così esso esprime le idee pensate nella sapientia o intelligentia divina; in quanto la parola come sapienza è l'essere pensato dell'idea, il suo proprio pensiero si esprime nella creatio. Il mondo diviene parola manifestata o pensiero manifestato di Dio nel tempo sul fondamento dell' atto senza tempo, ad esso immanente 29 • Nell'interpretazione agostiniana di Genesi I, l si è sinora chiarito che creare «in principio» significa creare in Lui stesso mediante il parlare; e questo parlare è identico al divino pensare, sapere e conoscere. A tale riguardo, creare «in principio» significa costituire attraverso l'espressione delle idee, che «procedono» atemporalmente, l'ente temporale, un essere nuo vo nel suo proprio modo d'essere rispetto al principio. Questa identità di parlare e pensare può essere espressa tanto come atto immanente all'origine divina quant'anche come porre l'ente temporale nella metafor a del vedere: il vedere di Dio crea, in quanto unità senza tempo, ciò che viene visto (idee) da Lui, l'essere nel tempo. Il fondamento del nostro poter «vedere» l' ente è il vedere o lo scorgere l'ente da parte di Dio stesso. Nos itaque ista quae jecisti videmus, quia sunt, tu autem quia vides ea sunt3o. 29 Cfr. a questo riguardo, l'analoga problematica in Cusano (rapporto di complica/io ed explicatio), sotto pp. 179 ss. 3 Conf, XIII 38: Nos itaque ista quae fecisti videmus, quia sunt, tu autem quia vides ea suni. La tessa specie di fatto espressa dal eognoscere (dunque: videre = cognoscere), In E v. Joh., XXXVII 8: Quia omnia in sapientia feci t deus, et cune/a nota feci/; non enim quia fecit didicit, sed quia noverat fecit. Nobis quia facta sunt, nota sunt; ilfi nisi nota essent, facta non esseni. PraecessiE ergo Verbum. Dalla metafora del vedere che costituisce l'essere viene in Cusa-
°
no a svilup parsi, attraverso la mediazione di Eriugena , la concezione d'una «Vi-
sia absoluta» (sotto pp . 175 ss.). L' unirà di essere , pensare e volere nel Demiurgo divino, quale fon damento dell'essere del mondo, è una tesi fi losofica della
cosmologia neoplatonica che cer to risale a Porfirio. Sulle formule cxù-,;w •w dvOtt e cxÒ•<\> -:<\> voe;tv ;cotiiv, cfr. J. Trouillard , Agir par so n étre meme, «Rech. Se. Re!. » , 32 (1958), pp. 347 ss. e in «G nomon», 41 (1969), p. 132. Proclo, In Parm., 844, l s.: lltò xcxl ~ç vot"t r-otd, xcxi wç r-otd vod, xcxl cxdlx(X.epov. In questa prospetti va deve essere inteso anche Dionigi Areopagita: De div. nom., l 5; PG 3, 593 D e IV l; 693 B. Se il pensare del Demiurgo non può essere inteso che come autopensare (analogamente all'identità di pensare ed essere nel voGç plotiniano ), allora egli è esattamente, in quanto pensa se stesso, ;cotYJ't~ç 11<Xv-:wv. L 'u nità di volere c creare necessi terebbe d'una propria riflessione che da una part e tematizzi il fondamenE O pensante della volontà - quale unione di teologia cristiana e metafisica greca - , ma da ll 'altro l'evoluzione verso un volontarismo divino .
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L'intelligibilità dell'ente si mostra nella reductio come idea fondata. Questo concetto viene ampliato e precisato con il principio agostiniano, guidato dalla concezione plotiniana di ideanumero e da dottrine filosofiche neopitagoriche, secondo il quale la determinatezza qualitativa (identità) e la diversità dell'ente vengono poste dal «numero» 31 • Il numero determina la forma definita (forma) di un ente, la sua interna bellezza (species) o disposizione , ossia la struttura razionale del!' ente in sé ed il nesso dei molteplici singoli tra di loro e con la comune origine . Analogamente alla già descritta reductio, la conoscenza del numero posto e della caratteristica numerica dell 'ente rito rna al fondamento di questo atto del porre, vale a dire al numero assoluto . Dunque, il numero che viene posto mediante creazione e che comporta la forma, la bellezza e l'ordine del mondo, ha il proprio fondamento nel numero assoluto, che è identico all'intelletto divino o alla sapienza del creatore quale luogo dei numeri (idee)3 2 • Sulle basi di tale premessa il creare divino significa: il singolo ente viene posto come realtà temporale dal pensiero divino, i cui immutabili elementi strutturali sono l'idea e il numero come unità. Oppure: la parola, o la sapienza, si esprime come numero dell'ente e, così, rende il mondo una molteplicità che si dispiega dali 'unità originaria: un mondo che, nonostante quella , è volto all'unità 33. 31 3
Cfr. W. Beierwa ltes, Aequalitas numerosa, cit., pp. 147 ss.
~ De ~ibero arbitrio, II Il, 30: lncommutabilis veritas numerorum, ... eius qua-
SI cu~1/e
ac penetrate ve! regionem quamdam, ve! si quod aliud nomen aptum mvenm potest, quo nominemus quasi habitaculum quoddam sedemque numerorum. De civ. dei, XII 19; De trin. , III 9, 16. 18. «Numero in Dio», ma certo senza valenza quantitativa: numerus sine numero (De Gen. ad lit. , IV 4, 8); l'unità trinitaria è, piuttosto, l'origine sopracategoriale del numero e dell'esisten-
te secondo il numero (cfr. per Eckhart e C usano, sott o pp. 135, 166). Accanto alla concezione plotiniana dello Spirito che pensa le Idee come numero (cfr. sopra p. 125) è stata, riguardo a ll'aspetto della creazione, di grande significato nel concetto agostiniano di Idea-numero anche l' lntroductio arithmetica di Nicon:aco di Gerasa, la quale poteva essere accessibi le ad Agostino in una traduzione d1 Apuleio. lntroductio, I 6; 12, 1-12 (Hoche): «Tutto ciò che è ordinato, secondo parte e intero, in uno spiegarsi artistico nel cosmo attraverso la natura sembra essere stato ordinato e suddiviso in modo conforme al numero dalla ;rovvidenza e dallo Spirito che consegue l' intero, con riguardo ad un prototipo immutabile in qualità di modello; e questo, perché il numero è preesistente nel pensare del Di o creatore del mondo, intelligibile e immateriale, è l'essere veramente atemporale, di modo che tutto venga portato a term ine in esso , come in un'i dea artistica: tempo, movimento, cielo, i mol teplici mur amenti». 33 Dall'esegesi del Timeo della tradizione platonico-agosti niana si può compren-
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6. «Creatio ex nihilo» La domanda iniziale, quomodo fecisti caelum et terram?, possiede, accanto alle risposte in verbo, dicendo o in sapientia, anche un altro aspetto essenziale. Esso diviene manifesto nel V capitolo dell'XI libro delle Confessioni. L'intento principale di questo passo consiste essenzialmente nel distinguere il creare divino da quello umano, dall'homo artifex. Questa distinzione viene stabilita da una concezione che viene sempre rivendicata come specificamente cristiana: la concezione della creatio ex nihilo, del creare da niente o dal nulla. L'uomo è ritenuto artefice o artista (homo artifex) quando forma plasticamente qualcosa come un corpo. L'atto del creare o del produrre fa diventare realtà visibile nel corpo una idea (forma pensata o intesa, forma, species); oppure, l' artifex trae, plotinianamente 34, l'idea o la forma immanente alla materia data, proprio mediante questo atto del dar forma. L'homo artifex presuppone, dunque, in ogni caso una materia già di spo nibile e data in una «forma» qualsiasi. Le idee, che sono interne a lui stesso, sono i principi formanti dì ciò che è da creare: videat intus (sci!.: interno oculo), quìd faciat foris (XI 5, 7). L'h omo artifex impone la forma su· «qualcosa che già esiste e possiede quanto basta per esistere» (imponit speciem iam existenti et habenti, ut esset: XI 5, 7). Qui, nell'attuazione della fantasia artistica e della trasformazione delle idee immanenti alla coscienza nella forma artistica, il creare artistico dell'uomo è analogo al creare di Dio dall 'idea 35 • La diversità dere l'affermazione di Teodorico di Chartres: Creatio numerorum rerum est creatio (Tractatus de sex dierum operibus, ed. N. Harìng, nr. 36, in : Platonismus in der Philosophie des Mittelalters [«Wege der Forschung» , 197], p. 245). 34 P1otìno, Enn., I 6, 9, 8 ss. 35 Cfr. La LXV lettera dì Seneca, ricca di implicazion i da questo punto di vista : Exemplar, quam ipse (?lato) ideam vocat; hoc est enim, ad quod respiciens
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del creare u~ano dal divino sì mostra, però, in questo: Dio non ha uno spazro (e anche un tempo) come condizione del suo creare o~sia ?on ?a ~reato l'universo «nell'universo» come se esso ve~ msse msento m un qualcosa dì già dato; né, come il Demiuroo platonico , ha solamente mutato ciò che c'era da un disordì~e provvisorio in un ordine. Poiché non vi era nulla da cui avreb be potuto essere «fatto» l'ente e poiché egli «non aveva fra mano un elemento da cui trarre cielo e terra» (XI 5, 7) , si può solo pensare ad un atto assoluto del creare, che crea l'ente non come da una «materia informe», ma da niente o dal nulla. II fatto che questo « nulla» non possa essere ipostatizzato a quasinient_e, si manifesta in forma verbale e concettuale nel dodicesimo hbro delle Confessioni al paragrafo 7: «dunque sei tu, Signore, non soggetto a mutamento continuo, ma che sei sempre lo stesso e lo stesso e lo stesso ... tu, che nel principio originato da te (de te), nella tua Sapienza nata dall a tua essenza, hai creato qualcosa, e dal nulla (de nìhilo)» 36 • Con il facere de non si dice, tuttavia, che il creatore si livelli con questo atto al creato penetri sostanzialmente in esso e rinunci alla sua essenza. Infat~ ti, l~ ~ormula in principio, quod est de te viene interpretata, modrfrcandola, con la proposizione fecisti enim caelum et terram n?n de te: tu hai «da te» creato l'ente, non in modo che esso divenga «uguale» a te nella dignità d'essere, così come il de in deum de deo o in lumen de fumine indica nello stesso tempo origine ed uguaglianza. L'assoluto porre della creazione è caratterizzato proprio dal fatto che attraverso l'atto del creare esso_costì:uisce in primo luogo la differenza tra l'esse ipsum ed un tipo d1 ente che ha «ricevuto» il suo essere o la sua essenza. Creatio ex o de nihilo, dunque, non indica, solo la diversità · dal creare o produrre umano, ma chiarisce l'assolutezza di questo creare a partire da una differenza essenziale rispetto a ciò che è da creare. Esso è inizio assoluto o assoluto dar-inizio da parte dell'al tro . Il «nulla» , dal q uale Dio crea, è, in sostanza, egli stesso; ex nihi!o facere è identico a in principio, quod est de te facere o a in sapientia facere. Dio è per se stesso
artijex id, quod destinabat, ejjecit. Nihi/ autem ad rem pertinet, utrum joris habeat exemplar, ad quod rejerat oculos, an intus, quod sibi ipse concepii et posuit. Haec exemplaria rerum omnium deus inlra se habet numerosque universorum quae agenda sunt, et modos mente conplexus est; plenus his fìguris est. Riguardo alla storia dell'influenza di questa concezione si veda Theiler, Die Vorbereitung des Neuplatonismus, Berlin 1930, pp. 15 ss.; E. Panofsky, Idea, Leip-
~:cna ommum r~nonum v1ventJUn~ mcom~utabilium: Agostino, De irin., VI IO, Il.
zig 1924. (Sulla critica di alcune tesi fondamentali di Panofsky : W. H iibener, Idea extra artijiciem, in: Festschrift jur O. von Simson, 1977, pp. 27 ss.). L' identità di essere - vivere - pensare nel summus intellectus come condizione
. Conj., XII 7. Itaque tu, domme, qw non es alias aliud et alias a/iter sed id lpsum et id ipsum et ~d ipsum. In principio, quod est de te, in sapientia t~a, quae nata est de substantw tua, jecisti aliquid et de nihi!o.
Prelimi na re all'ars che opera «verso l' esterno» .. . omnipotentis atque sapientis dei,
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IDENTITA E DIFFERENZA
i\GOSTJNO
il «punto di partenza» del suo creare, puro essere origine da sé. «C' eri tu e null'altro. Da questo nulla creasti il cielo e la terra, due creature, di cui l'una prossima a te, l'altra prossima al nulla» 37 • Per l'auto-originarietà non c'è prima un dato, una materia informe o indeterminata, che a causa della sua indeterminatezza possa essere intesa come «nulla relativo»; anche questo è incluso nella creatio ex nihilo 3s. L ' assoluto dar-inizio da niente si oppone alla concezione, determinante per l' epoca classica del pensiero greco, dell ' eternità del mondo (ad esempio Aristo tele). La creatio ex nihilo deve perciò essere concepita come il punto di differenza della teologia cristiana rispetto alla metafisica greca. Il fatto che l'aspetto distintivo in tale questio ne venga mantenuto storicamente solo in misura determinata, dovrebbe essere tematizzato 39 • Riguardo al pensiero successivo ad Agostino e da lui variamente influenzato, la creatio come «porre la differenza» potreb-
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be essere mostrata in modo eccellente in Eriugena . Nell'intendi chiarire gli elementi neoplatonici nell a fondazione d'una «estetica» medioevale, ho cercato di analizzare il concetto di mondo come «teofania» di Eriugena; e ciò come condizione preliminare al fatto che l'arte - come il mondo - rimanda all'origine comune, in quanto la fa apparire in se stessa 4o . 11 mondo, o l'ente nel complesso, è manifestazione di Dio come di colui che si manifesta per sé o manifestazione dell' origine in altro o come altro , passaggio dalla negatività assoluta (nihil omnium) all'ente-determinato e a ciò che è positivamente conoscibile: non apparentis apparitio, occulti manifestatio, negati affirmatio... infiniti definitio, incircu mscripti circumscripti041. Lo storico e oggettivo consolidarsi di questa concezione, o della sua influenza, potrebbe essere approfondito, attraverso il platonismo di Chartres , in Alano di Lilla e Meister Eckhart, sino a Cusano e Giorgio Veneto 42. to
Conf, XII 7: Tu eras et aliud nihil, unde fecisti caelum et terram, duo quaedam, unum prope te, alterum prope nihil... 38 Conf, XII 8: Tu enim, domine, fecisli mundum de materia informi, quam jecisri de nulla re paene nullam rem . In un passo (18, 35 s.) del De vera religione, ex e de vengono usati indifferentemente per la concezione della creatio ex n i hilo: Unde feci t? Ex nihilo ... Id igitur est, un de fecit deus omnia, quod nulla m speciem habet nullamque jormam, quod nihil est aliud quam nihil.... Quaproprer etiam si de aliqua informi materia factus est mundus, haec ipsa !acta est de omnino nihilo. 39 P rima tes timonianza biblica d'una crea/io «ex nihilo» : 2 Macc. 7, 28 (I sec. a.C.) . Gli apologeti cristiani del II secolo usavano questa concezione per mett re 37
in evidenza un contrasto del pensiero cristiano con la cosmologia greca. Sul contesto cultu rale del passo dci Maccabei , cfr. G. May, Schopjung aus dem Nichts, Berli n 1978, pp. 6 ss. Per il periodo classico della filosofia greca dovrebbe essere discussa come asserzione realmente rilevante la teoria platonica della genesi del cosmo (cfr. a tal proposito \V . Scheffel, Aspekte der p/atonischen Kosmologie, Leiden 1976, pp. 25 ss.; per la storia dell' influsso: M. Baltes, Die We/tentstehung des platonischen Timaios nach den antiken Interpreten, Leiden 1976). Che la creatio ex nihilo non possa essere fatta completamente valere come genuinamente cristiana, si mostr a tenendo presente che a Porfirio risale la tes! secondo cui anche la materia è creata dal demiurgo. Egli non ha bisogno d1 un dato precedente la creazione del cosmo. E dunque «tutto giunge da Dio» : panta rheothen. Questa tesi è stata assunta e sviluppata da Ierocle di Alessandria (in Fozio, Bibl., 172 a 24 ss. ; 46 1 b 6 ss.) e da Proclo . A questo proposito: T. Kobusch, Studien zur Philosophie des Hierokles von Alexandrien, Miinchen 1976, pp. 66 ss.; I. Hadot, Le problème du néop!atonisme a/exandrine. Hiéroclès et Simplicius, Paris 1978, pp. 77 ss.; Proclo, In Tim., I 396, 23; 440, 4; II 102, 6 ss.; Theo/. Plat., V 20; 289, 11 e 276, 41 (a riguardo Giamblico , In Nicom., ed. Pistelli 79, 4 ss. ).
°Cfr.
4
W. Beierwaltes, Negati Affirmatio, cit., pp . 244 ss. e 260 ss. De div. nat., III 4; PL 122, 633 AB. 42 In modo simile: Teodorico di Chanres, Tract. de sex dierum operibus, 36 ss. Clarenbaldo di Arras, Tractatulus, 23 s.: materia come possibilitas absoluta ~el ~~nso della possibilità indeterminata che, quale alteritas, è aperta, tramite 41
l llllJ ta della creazione, alla determinazione «identi ficante » (ed. N. H aring, in:
P!atonismus in der Philosophie des Mittelalters [«Wege der Forschung», !97], Darmstadt 1969, p p. 245; 257) . Bernardo Silvestre, De mundi universitate, II, XII! l ss. (ed . Barach-Wrobel) sui «due principi delle cose», unitas et diversum (materia); 5 s.: Primiparens igitur divinitas diversitatem exco/uir. limitavi! intermmam, figura vit informem. Il nesso con il concetto platonico cÙ ahorisros dyas e con l'esegesi di Calcidio del Timeo (Timeo, 35 B: idem-diversum) è evidente.
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il distinto e l' indistinzione, vengono definiti come l'in sé distinto (predicazioni distinte), e nondimeno come lo stesso di un unico ed identico stesso: cuius indistinctio est ipsa distinctio3. La citata affermazione del Commentario alla Sapienza è il fine a .cui tende l'interpretazione del versetto: et cum sit una, omnia potest, «ed essendo (la sapienza) una, può tutto». Risulta da ciò evidente che la discussione intorno al nesso di indistinctio e distinctio si colloca all'interno dell'orizzonte della questione di unità e molteplicità, assoluta identità in sé esistente e differenza che determina l'ente come intero in sé e rispetto alla sua origine. In che senso, dunque, Dio è indistinctio, indistinzione rispetto a se stesso e all'altro ( = distinto), ma ad un tempo anche diverso da questo proprio per tale ragione, ossia per la indistinzione?
III. Distinzione mediante indistinzione in Meister Eckhart
Uno dei concetti centrali di Meister Eckhart ruota int orno al nesso ed alla differenza di Dio rispetto al creato, o intorno alla sua immanenza e trascendenza. Entrambe le dimensioni non vengono qui né isolàte né radicalizzate; esse, piuttosto, devono essere dialetticamente mediate l'un a con l'altra, e dunque deve essere considerato il nesso del nesso e della differenza. Come in precedenza presso Agostino ed Eriugena, anche presso Eckhart è, in ciò, diventata operante, quale dogma filosofico neoplatonico, la concezione dell'Uno secondo la quale l'Uno è in tutto e, ad un tempo, al di sopra di tutto: Uno che opera in ciò che è scaturito da lui stesso e, tuttavia, non passa nella sua identità, ma rimane in se stesso come è lui stesso 1• Solo in questo modo può essere pensata la differenza e l'analogia dell'ente rispetto alla sua origine. In un passo del suo Commentario alla Sapienza, Eckhart esplicita questa concezione nella forma paradossale di divergenza ed unità di distinto ed indistinzione: Deus indistinctum quoddam est quod sua indistinctione distinguitur. «Dio è un indistinto che si distingue mediante la sua indistinzione (da tutto il creato)» 2 • Il nesso e la differenza unitamente (coniunctim), l Per Plotino, cfr. sopra p. 55 e la mia introduzione a E nn. , III 7, 11 ss . Riguardo a Proclo: W. Beierwaltes, Proklos, pp . 343 ss. [trad. it., pp . 375 ss.). Su Eriugena: N egati affirmatio, pp . 241 ss. Su Eckhart: Platonismus und Idealismus, pp. 59 ss., soprattutto p. 62 [trad. it. pp . 68 ss., 71). Per Cusano e Bruno, cfr. pp. 149 ss . e 228 ss. 2 Expositio libri Sapientiae, n. 154; LW II 490, 7 s. (Koch-Fischer). Cfr. inoltre n. 38; 359, 5 ss.; Expos. l. Exodi, n. 113 . 117; LW II 110, 7 ss. 112, 7 ss. (Weiss). Sermo, IV l, n. 28; L W IV 27, IO ss. (Benz-Decker-Koch). La ritlessione sul nesso di indistinctio e distinctio è stata per me un momento essenziale nella mia interpret azione del commento eckhaniano all'Ego su m qui su m (Esodo 3, !4): Platonismus und Idealismus, pp. 39 ss., 61 ss. [trad. it. pp . .47 ss.; 71
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Est igitur sciendum quod ei unum idem est quod indistinctum 4 • Di conseguenza, l'indistinzione è prima di tutto un predicato della divina unità in sé. L'unità assoluta (merissima unitas o purissima simplicitas) 5 non ha in sé qualcosa di determinato, ma è semplicemente essa stessa determinatezza in sé sussistente; - l'Uno è un in-finitum (infinito, o illimitato), in-terminatum (indeterminato), in-divisum (senza parti proprie) 6 , e per questo s ~.] .
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Nel frattempo è stata rivolta più volte l'at tenzione al significato de l passo Citato in precedenza dal commentario ai Libri Sapientiae (G. v. Bredow, Platonismus im Mittelalter, Freiburg 1972, pp. 66 ss.; H. Fischer, Meister Eckhart, Freiburg 1974, pp. 124 ss. Precedente e autorevole: V. Lossky, Théologie négative et connaissance de dieu chez Maftre Eckhart, Paris 1960, pp. 26 I ss.). Se ancora una volta accolgo l'interpretazione di questo testo, e di altri ad esso legati, lo faccio perché credo che questo concetto di Eckhart formuli, in modo paiadigmati<:o per il «platonismo» dell'altomedioevo, la questione dell'identità e della differenza, ed abbia in sé inoltre un forte potenziale di influenza storica. 3 Exod., n. 117; l 12, 9. 4 Sap., n. 144; 482, 4. ~ In Joh., n. 35; L W III 30, 3 (Koch). Platonismus und ldealismus, p. 40 [trad. It . p. 48). 6 Sap., n. 146; 484, 3 ss. 154; 490, 9 s. indivisum esse come indice di unità e di aequalitas: Sap., n. 39; 360, 12. L'analogo concetto neoplatonico consiste nella «determinazione» dell'Uno ad essere prima d'ogn i totalità e divisione , prima del limite, della distinzione (ot<XxExptf1ivov), di alterità ed opposizione, in quanto no n determinato (ò:vdowv) «prima di qualcosa», 7tpò -rou -rt. Nulla di tutto . Cfr. ad es . Proclo, In Parm., !097, 8; 1107, 6; 111 4, 14; 1124, 14; 1127, 20; 1183, 31; In Parm., VII (Plat. Lat., III, ed. Klibansky) 36, 15; In Tim., I 176, 9 ss .; Plotino, Enn., V 3, 12, 52. Con adiakritos si indica l' unità e l'assenza di parti del nous, la quale è ad un tempo determinata dalla distinzione: Plotino, Enn. , IV l, l, 7; VI 9, 5, 16. Adihaireton come determinazione dell ' unità
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ME!STER ECKH/\RT
IDENTITÀ E DIFFERENZA
non vr e in esso una diversità (diversitas 7 ) ed una alterità (in deo non est aliud 8). Indice di diversità, il numero è divisio e, dunque, molteplicità. Secondo il modello neoplatonico, il numero, in quanto fenomeno della differenza, viene di conseguenza escluso da ciò che Dio è: Egli è senza numero, poiché è la pura unità «al di sopra» di ogni ente determinato 9 ; questa tuttavia è «fonte» del numero (come dell'ente determinato)10. L'autodeterminazione intradi,,ina dell'unità nella triade non può, quindi, essere concepita a partire né dal numero né dalla differenza reale, la quale costituisce un modo finito d'essere. La Trinità in sé riflessiva è sempre già pensata a partire dall'unità, o identità, e in vista di questa 11 • Il numerus, la distinctio e la difjerentia sono costitutivi solo per l'ente «al di fuori» o «fuori » dall'Uno (difjerentia sub uno) 12 • Mediante questa indistinzione in sé si distingue, dunque , la pura unità, o identità (identitas est enim unitas), dal distinto in sé e dall'altro: Dio distinctissimus ab omnibusP~ -Ciò che è da lui detto radicalmente - è ciò che egli stesso non è, nondimeno questo non essere (o essere altro) non è assolutamente in opposizione ·a lui, poiché esso è lui ed è ad immagine sua nella dimensione dell'altro, o dell'in sé distinto. L'ente creato è, dunque, determinato, limitato, essenzialmente escludentesi reciprocamente, nonostante un rapporto determinato; ogni cosa è per ogni cosa un qualcosa d'altro e in modo diverso un «questo» diviso nel numero, identico a se stesso (hoc aut hoc 14 ): omne fi losofia parmenidea, che deriva già da Melisso, B IO (Diels-Kranz I 275, 14 ss. ). Filone, Gig., 52. Clemente Alessandrino, Strornata, V 12, 81. 7 In Joh. , 342; 291 , 7. s S~cmo-XX.JX, n. 304; LW IV 270, 7 s. e Pred., 23 ; DW I 401 , 7 (Quint) : dfì ist al ander abgelegt. Cfr. Proclo, In Pam1., 1180, 22 s.: -rò oliv ~-rspov o:ò-;ou ( = diversurn esse come aliud esse) ov o&x ev. 1179, Il: 'è v y6:p lcr-r( iJ.Ovov (-rò ~v), è<ÀÌ.o oùOiv. Su Porfirio cfr. sopra p. 95. La suddetta affermazione eckhartiana manifesta un aspetto del non aliud cusaniano, vedi sotto pp. 154 ss. 9 Exod. , n. 57; 62, 12. 58; 64, Il e 65, l. 10 Sap., n. 149; 487, 4. Il Cfr. W . Beierwaltes, Platonismus und Idealismus, pp. 42 ss.; 49 ss. [trad. it. , pp. 50 ss.; 58 ss.]. 12 Exod., n. 58; 64, 4 ss. e 12 s. (citazione da Fons vitae di Avencebrol). 13 Senno XXIX,- n. 303; LW I\;: ,269:- 12 s. (identitas). Sermo IV, n. 28; 27, Il e 28, 8. Sap. , n. 154; 489, 6: deus est distinctissimus ab omni et quolibet
oi
creato. 14 In Joh., n . 52; LW III 43, Il. 103 ; 88, !3: hoc aut
hoc~
distinctum quid
,.
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creatum, eo quod creatum, distinctum est, et per consequens alterum omni creato, utpote omni distincto 15 • Che vi sia un qualcos' altro rispetto a Dio non è pensabile 16 • Egli non «ha», cioè, alcunché d' altro di fronte a sé; infatti ogni altra cosa \( è in lui come egli stesso. E questo rimanda al secondo aspetto dell'indistinctio di Dio, al fondamento dell 'ente. L'essere distinto categorialmente determinabile dell'ente non consiste solo nel non essere del fondamento, ma anche tramite il non essere che è ad esso immanente (dal Sojista platonico in poi la formulazione della differenza separante, limitante, deter minante) esso è diverso in sé e (di conseguenza) rispetto h ··é''(f-l al suo fondamento. «Tutte le creature hanno in se stesse una ~ \l negazione (negatio): l'una nega di essere l' altra» 17 ~~Il fondamento, o unità pura, è visto a partire dalla negazione immanente dell'ente, negatio negationis 18 ; e questa significa, in quanto delimitazione del nulla, la pura affermazione o il puro essere come sua pienezza (plenitudo) - propriamente non la cosa più vuota e più astratta -, l'essere stesso (senza tfri"ente determinato in esso, altrimenti non sarebbe l'essere stesso) o la pura autoaffermazione dell'essere che penetra e illumina riflessivamente se stesso. L'unità come indistinzione si rivela dunque in sé come puro essere (deus est esse 19 ) o come negazione della negazione - il rovesciamento speculare della conce: ~'? zione per la quale l'ente creato è determinato dal suo non es- ..sere fondamento (unum purum nihi/ 20 ) - : proprio tramite in opposizione all'esse absolute divino, quod non est quid distinctum aut proprium alicui naturae ... Della separazione D W V 406, 7 (Quint) e 425, l. 15 Sap., n. 52; 379, l s. 38; 359, 9 ss. 144; 482, 6 ss. Serrno Il l ; L W II 9, 9. XLIV-l.;J_(;i_8, 9 s. Exod., n. 58; 64, 8: distinctio come «colpa» e «macchia». 11 5; 11 1, 5 ss: In Joh., n. 267; 222, Il ss. ~ 16
Qui si manifesta il concetto neoplatonico secondo il quale l' Uno non ha (di f ronte a sé) un altro, poiché egli stesso è il diverso rispetto a tmto per la sua assoluta negatività: oùo~v r.6:nwv come 11:6:nwv ~"topov. Cfr. sopra pp. 56 e 73. l ì Pred., 21; DW I 363, 5 s. In Joh., n. 20: 17, IO s.: res enim omnis creata sapit umbram nihili. Sermo XLIV l; DW IV 368, 9 s.: onme ... creatum ...
est amarum, tenebra et quoddam nihil. 18 Su questo e sul seguente vedi: Platonismus und Idealismus, pp. 48 ss., 59, 65 [trad. it., pp. 57 ss., 68, 75]. Sap., n. 147; 485, 6 ss. 19 Sap., n. 145; 483, 4. L'unità come plenitudo esse: Senno XXIX; L W IV 265, 8. P!atonismus und Idealismus, pp. 38 ss. [trad. it., pp. 46 ss .). 20 Rechtjertigungsschrijt, IV 15, ed. Daniels pp. 20, 23. Platonismus und Idealismus, pp. 43, 176 [trad. i t. pp. 51, 195) e Pred., 77; D W Ili 339, 3: alle creatu-
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. !DENTI T À E DIFFERENZA
l'esclusione della negatività, che ora significa differenza, o alterità, Dio non è come ogni altro ente. Il «n ulla di tutto» (nihil omnium 21), il suo essere «al di sopra» e «al di fuori» di tutto 22 segna il suo essere distinto. Dunque: deus sua indistinctione (in se, sui natura) distinguitur 23 , distinzione mediante indistinzione in sé. Il secondo aspetto, a cui s'é già accennato, dell'indistinctio mostra l' essere-in di Dio nel creato, la sua immanenza. Ed è il fatto che entrambi gli aspetti sono insieme e nelle stessa misura validi a costituire il paradosso del pensiero: che non può essere pensato, da una parte, nulla di <
unwesene ... Daz ich aber gesprochen han, got ensf niht ein weseìi'-unds/ ii.ber wesene (super esse), hie mite enhiìn ich im niht wesen abegesprochen, mér: ich han ez in im gehoehet (Pred., 9, DW I 145, 6. 146, 4-6), [trad. it. di G. Faggin : Maestro Eckhart, Trallati e prediche, Milano 1982, p. 224: «egli (Dio) opera nel non-essere ... Ma quando ho detto che Dio non è un essere, non per questo gli ho contestato l' essere, anzi, gliel'ho nobilitato»]. 22 Exod., n. 57; 63, 9. Ecc/i., n . 54; 283, l ss. 23Sap., 154; 490, 8. Exod., n. 117; 112, 10. Sermo - IV l;.LW IV 28,5 s.:
.. . deus est in se indistinctissimus secundum natura m ipsius, utpote vere unus et propriissime et ab aliis distinctissimus. 24 Exod., 11. 113 s.; 110, 7-111, 5 e 112, 7. 2s Riguardo alla tradizione di questa concezione: Platonismus und Idealismus, pp. 62 s. [trad . it., pp. 71 ss.]. Per Eriugena : Negati affirmatio, pp. 247 ss. Su Cusano , sotto pp. 157 s. Fu una tragica incom prensione per la storia della vita di Eckhart che l'i nqu isizione avesse isolato questo secondo aspetto, che è in opposizione ad afferma-
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.......
MEISTER ECKHART
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unum vult dicere deum esse indistinctum ab omnibus, quod est proprietas summi esse et primi et eius bonitas exuberans .. . Niente è, quindi, uno e indistinto come Dio e tutto il creato .. . Dio è indistinto da ciascun ente 27 • Con indistinctio viene dunque inteso anche il fatto che Dio, come fondamento universal- A mente fondante, ponente l'essere, è più interno all'ente di quanto 5<....t questo possa esserlo a se stesso; è suo fondamento d'esistenza e d'essenza, analogamente alla paradossale concezione agostiniana di «in» e «Sopra», secondo la quale Dio è più all'interno dell'uomo della sua parte più interna e più alto della sua parte più alta; è la «parte più interna» di ogni ente 28 • Tale concezione cresce sull'identità di Dio, unità, indist inzione ed essere: non solo come l'essere, ma, in quanto esso, Dio è in . ogni ente, è presso (prope) o con esso, è ciò che è «comune» ( (commune) a tutto senza il quale l' ente (non) sarebb~~ «nulla», è la «parte più interna di tutto», intimum omnium29'. L'essere indistinto o l'essere uno con il creato - quale fondamento fondante - non può essere inteso come una risoluzione panteistica di Di~- nel finito, identificazione dell'infinito col finito, ma nemmeno come superamento del finito in un atto assoluto :o nell'essere della pura indistinzione. A ciò si oppone la dialettica del pensiero, la quale non permette di fermarsi ad un aspetto. Nonostante la massima similitudine possibile di Dio con il creato - quale fondamento indistinto - «rimane la dissimilitudine», manet ergo dissimilitudo 30 . I poli del rapporto
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zioni di questo tipo: deus est rebus omnibus intimus, utpote esse, et sic ipsum edit omne ens; est et extimus, quia super omnia et sic extra omnia. Ipsum igitur edunt omnia, quia intimus, esuriufit;-quia extimU's;edìiiiT, quia «intus totus», esuriunt, quia «extra totus» (Ecc/i. , n. 54; LW II 282, 13 ss.). 27 Sap ., n. 144; 482, 10 s. e 155; 490, 11 s. Exod., n . 113; 110, 11 e 115; 111, 5: nihil tam simile quam deus et creatura. 28 Agostino, Conf., III 6, 11; De Gen ad li t., VIII 26, 48: interior amni re, exterior amni re. Rigua rdo a Meister Eckhart, vedi nota 26 e Platonismus und Idealismus, p. 62, nota 274 [trad. it., p. 71, nota 275]. Bonaventura, Itinerarium, V 8: (deum) intra omnia, non inclusum, extra omnia, non exclusum . 29 Intimus: nota 26. Comm unis: In Joh., n. 103; LW III 89, l s. Senno VI l, n. 53; LW IV 51, 7 s. 52, 3 s. Prope: ermo X; 98, 10. In et eu m omnibus: · ermo XXXIV 2; 299, 14.--8eparari non-vult (-= amor:}: ibi, 320;1' s> -368, 4 / s. Pred., 77; DW III 340, l ss.: Daz ander: ez meinet, daz got ungescheiden ist von allen dingen, wan got ist in allen dingen, wan er ist in Triiiìger, aansie in se/ben sint. Als6 ist got ungescheiden vorz allen dingen. 30Exod., n . 121; 115, l e 126; 11 7,9 s.: creatura est deo similis, quia id ipsum est in deo et creatura, dissimilis tamen, quia sub alia ratione est hinc et inde.
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IDENTITÀ E DIFFERENZA
dialettico s(!E_?llJ~ ngono coniunctim nella misura in cui a vicenda si tollerano, non si nascondono o non si portano all'estinzione. Ciò si manifesta anche nell'interpretazione antologica data da Eckhart ad una frase di Agostino di significato autobiografico (Conf, X 27): «Eri con me, e non ero con te». Con l'essere-con di Dio si intende la sua indistinctio rispetto all'ente creato, ma il «non con te» la simultanea indistinzione del creato rispetto al suo fondamento, di modo che nella indistinctio permane la distinctio o, appunto, si dimostra tramite essa come indistinzione del creato (Sap., n. 145). Vista a partire dal secondo aspetto 31 della indistinctio, l'asserzione di Eckhart deus sua indistinctione distinguitur significa: ciò che distingue l'essere di Dio dall'essere del creato è esattamente la sua indistinzione rispetto al tutto, mentre la cosa creata non può appunto essere, quale determinata, finita o singola, in tutto l'altro, il quale permette una relazionalità, però subordinata, dell'ente. Vista a partire dal creato, la sua differenza rispetto all'essere dell'origine consiste nel fatto che esso non accoglie a partire da sé o come «proprio» il suo essere indistinctum (distinctum ... proprie non recipit indistinctum, In Giov., n. 99; 85, 14 s.), di modo che l'indistinzione di Dio rispetto a ll 'ente è solo una «cosa» sua, sebbene l'ente non possa essere se stesso senza questa indistinzione. La comunanza di Dio con l'ente, la differenza da esso superata tramite la propria unità sostanziale nell'atto della fondazione, il massimo avvicinamento possibile all'ente, tutto questo insieme è, dunque, la sua differenza, poiché nessun ente può essere tanto vicino ad un altro quanto lo è il fondamento divino ed esso stesso da sé non può essere tanto in o con sé quanto questo è in o con esso. Qui vengono a chiarirsi, in una certa misura, anche la paradossali asserzioni di Eckhart. «Q uan to più qualcosa è distinto , tanto più è indistinto; quanto più indistinto, tanto più distinto», quanto distinctiusJ
tanto indistinctiusJ· et quanto indistinctius, tanto distinctius
32 •
31 Riguardo all'analogo aspetto del cusaniano «non aliud», cfr. sotto pp. !56 s. Sulla conoscenza di Cusano della concezione eckhartiana dell'indistinctio, cfr. H. Wackerzapp, Der Einjluss Meister Eckharts auf die ersten philosophischen Schrijten des Nikolaus von Kues, Miinster 1962, pp. 153 ss. 32 Sap., n. 154; 490, 4 s. In modo analogo Exod., n. 117; 112, 9 ss.: cuius dissi-
militudo est ipsa simi/itudo ... quanto dissimilius, tanto similius.
MEISTER ECKHART
141
Un livello più alto di distinzione in un ente rivela più un indistinto rispetto ad esso stesso che al suo fondamento. Quanto più l'Uno, quale fondamento fondante, accosta l'ente all 'indistinzione come ad una qualità d'essere, tanto maggiore è la sua distinzione rispetto a tutto il distinto. Se l'asserzione che è a fondamento di questa interpretazione viene intesa nella prospettiva di quella che ad essa segue, deus autem indistinctum quoddam est quod sua indistinctiohe distinguitur, allora essa rimanda alla coniunctio di distinctum e indistinctum esse in Dio: quanto maggiore appare la sua distinzione rispetto all'ente, tanto più egli è in realtà suo fondamento ponente e mantenente (l'«essere» di ciò che da sé sarebbe n~lla), quanto più intensamente si mostra essere il fondamento, tanto più evidente diviene anche la sua distinzione rispetto al proprio ambito di riferimento e di dispiegamento. Nonostante il nesso egli è la differenza; nonostante la differenza è l'essere che è dentro a tutto l'ente e lo porta verso se stesso, il nesso. Questa unità si compie dialetticamente, ed è una unità di aspetti che appaiono in opposizione o addirittura in contraddizione. Essa è possibile o pensabile solo in un infinito, o come un infinito, poiché questi si isolano, si fissano, si «limitano» in se stessi come realtà singole, e perciò si possono escludere reciprocamente33. Per questo al termine della trattazione eckhartiana del rapporto di distinctum e indistinctum si trova giustamente l'affermazione di Giovanni Damasceno, spesso citata nella storia della teologia filosofica: Est enim deus pelagus infinitae substantiae et per consequens indistinctae. «Dio è infatti un mare di sostanza infinita e di conseguenza indistinta» (di essenza in sé esistente o di essere - ousia 34 - distinto).
33 Questo è uno degli effettivi punti di partenza del principio cusaniano di coincidenza. 34
Sap., n. 154; 490, 9 s. Prima di Giovanni Damasceno già Gregorio di Nazianzo: Or., 45, 3; PG 36, 625 C: ~<.Òç ... o[6v 'tl 7tO.o:yoç oòcr(ocç &7t<.tpov xcd &6pt· cr-rov. La trattazione eckhaniana del nesso di distinctio e indistinctio evidenzia '>' la .co~1mistione, carat~eristica del suo linguaggio, di ncl1~zione e paradosso. Al ~luarune!H o de l dtfftc!le rapporto tra concetto fi losoficò, esperienza mistica e hnguagg~o. A.M. Haas contribuisce, in modo essenziale e paradigmatico, con . una senstb1 le interpretazione dei testi mistici del medioevo: Serrno mysticus, Frei- .(1 burg (Svizzera) 1979.
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PARTE TERZA
Identità e differenza nel pensiero del Rinascimento Cusano - Giordano Bruno
« ... ut sis omnia in omnibus et ab omnibus tamen maneas absolutus». Cusano, De docta ignorantia, II 5. «In alteritate veritatem, uti est, partecipare». Cusano, De coniecturis, l 11. «Sicuramente possiamo affermare che l'universo è tutto centro, o che il centro dell' universo è per tutto: e che la circonferenza non è in parte alcuna, per quanto differente dal centro; o pur che la circonferenza è per tu tto, ma il centro non si trova in quanto che è differente da quella». Giordano Bruno, De la Causa, dia!. V.
I. Identità e differenza
come principio del pensiero cusaniano
Nel pensiero di Nicolò Cusano la questione intorno a identità e differenza giunge al culmine di ciò che con essa viene inteso, ma nello stesso tempo sfocia in una nuova concezione, per la quale appare assolutamente significativo un confronto con la dialettica hegeliana, in quanto dischiude e determina il contenuto stesso della questione. Il nesso di identità e differenza diviene in un duplice senso il principio del pensiero cusaniano: esso è la legge interna che muove e determina i problemi centrali di questo pensiero stesso; pensiero che vorrebbe rendersi conto della struttura dell'essere nel suo complesso, così come della possibilità e della funzione del conoscere, e non di meno del legame di pensiero e di azione del singolo con la sua origine. È questo, in un certo qual modo, l'aspetto «soggettivo» o metodico del principio 1• Ad esso corrisponde la concezione per la quale è la stessa origine esistente a fon dare il nesso di identità e differenza e a poter essere intesa, a partire da questo nesso, come l'assoluto o l'irrelato per eccellenza. Questo può essere pensato come l'aspetto <
fio, contraria). 1 Questo aspetto non verrà qui appositamente tematizzato. Dettagliato ed estremamente i tnlttivo riguardo alla questione della conoscenza J. Stallmach, Geist als Einheit und Andersheit. Zur Noologie des Cusanus, in: «Mitteilungen und Forschungsbeitriige der Cusanus-Gesellschaft» ( = MFCG), Il (1975), pp. 86-116 .
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IDENTITÀ E Dll'JlF..RENZA
1. Unità e alterità, infinito e finito nell'ottica del principio cusaniano della «coincidentia»
cUSANO
147
In una fondamentale distinzione iniziale, ma in seguito ricorrente, Cusano separa infinitum - l'infinito - da finitum il finito - e, ad un tempo, li congiunge. Separazione e unione presuppongono un movimento che nasce dallo stesso principio esistente. Il termine finitum indica, cioè, l'ente come qualcosa che procede dall'atto del «porre termine», del determinare, del delimitare, del «definire»; e, di conseguenza, significa finito, determinato, delimitato nel contesto di ciò che è altro pur avendo lo stesso modo d'essere. La concezione di una finitezza così intesa diviene manifesta a partire dal principio di «identità e differenza»: il finito o il determinato, e così il delimitato, è identico a se stesso; ma, in questa sua identità consiste proprio la sua differenza rispetto all'altro identico, tanto che è entrambi contemporaneamente: insieme identico e differente. «Esso è distinto mediante la finitezza» (distincta per finitatio nem)2; e, tuttavia, il distinto o il differente è tanto identico a sé 3 quanto l'identico si distingue dalla molteplicità dell' altro mediante la sua identità. Essendo identità e differenza, in ogni ente, intrecciate l'una nell'altra in modo tanto individuale, l'ambito dell'ente è nel suo complesso caratterizzato da una maggiore o minore similitudine reciproca del singolo; maius et minus o excedens et excessum, ciò che va oltre e ciò che rimane indietro, diviene determinante in esso 4 • Per dirlo in senso generale, l'ente singolo si trova dunque, l'uno verso l'altro, in un rapporto di proporzionalità. È reciprocamente parago nabile e misurabile (mensurabile) secondo una misura asso-
Iuta. Il più o il meno (in quantità, virtù o perfezione) 5 divergono negli' estremi, si schiudono a partire da essi. Dunque, questa struttura proporzionale dell'ente è condizione a che gli opposti - siano essi contrari oppure contraddittori - in generale risultino determinanti per l'ente: omnia igitur ex opposWs su n t in gradus diversitate 6 • Fondata nell'identità di sé e nella proporzionalità7, l'opposizione non trascina però l'ambito del finito ad una differenza inconciliabile: le distinzioni dei più e meno formano un universum 8 in sé funzionale, in cui le opposizioni non si superano, ma esistono necessariamente l'una con l'altra e nell'altra. Determinata mediante la differenza, la connessione degli opposti è pensata in modo così intensivo, che l'uno deve avere in sé il «principio» dell'altro 9 • Il nesso di identità e differenza, che deve essere inteso anche come rapporto dell'unità con l'alterità, si presenta nella sua polarità, dunque nel non-essere-superato degli opposti, come una unitas in alteritate 10 • Come il numero si costituisce dall'unità, quale suo principio, e dall'alterità, «in quanto l'unità procede nell'alterità e l'alterità ritorna nell' unità» 11 , e come, dunque, l'unità nella molteplicità rende quest'ultima una pluriunità numerabile, così l'universo e «tutti i mondi» si costituiscono dall'unità e dall'alterità, in quanto entrambi «passano»12 l'uno nell'altro, tanto che nell'ente singolo si mostra, di volta in volta, un più o un meno dell'uno o dell'altro elemento. Unità ed alterità, o identità (come una forma dell'unità) e differenza, come luce e tenebra, si penetrano a vicenda, nell'ambito del finito, in una sempre diversa unità relativa. Di conseguenza, l'ambito del finito non può addirittura essere senza il dispiegarsi dell 'unità nell'alterità e senza la ricondu-
D. i., I 17; 34, 23 (detto della «linea») [trad . it., p. 85]. [Si fa qui riferimento alla traduzione di G. Federici Vcscovini, in: Nicolò Cusano, Opere filosofiche, Torino 1972] . 3 Gen., n. !46, 1 s.: Nam cum dicirnus diversum esse diversurn, a.ffirmarnus diversum esse sibi ipsi idem. La fo rmulazione negativa di questa autoidentità (l'identico a sé è, ad un tempo, l'altro dell'altro o dell'altro identico): oportet enim omne aliud ab a/io esse aliud, cum solum «non aliud» sii non aliud ab omni a/io (de virtute ipsius non a/iud prop .: XVIII: Non a/iud, 64, 27-29); Gen., n. 146, 3 s.: omne quod est est idem sibi ipsi et alteri aliud; Coni. , I IO; 44, 22 s.: nec est possibile apposita reperiri, quorum unum non sit ul unitas alterius respectu. 4 D. i., I 3; 8, 21 ss. 4; 10, 6 s .
II l; 63, 26 s. !bi, n. ,14 s. 7 Gen., n. 152, 7 s. s D. i., II 4 e 5. 9 De beryl/o, 27; 36, 5 s.: lune enim in uno (sci/. contrario) est alterius principium. 1 Coni., I 10; n. 46, 5. 74, 8: in identilate diversilas et diversitate identitas. Ri guardo alle analoghe formulazioni in Mario Vittorino cfr. p. 105. 11 Coni., I 9; n. 37, 6 s.: .. . unitate in alteritatem progrediente atque a/teritate in unitatem regrediente [trad. it. , p. 224] . 12 lbi, I 9; 39, 2: ... ex unitate et alteritale in invicem progredientibus [trad. it. , p. 225].
2
5 !bi,
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°
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IDE1 TIT i\ E DIFFERENZI\
zione proprio di questa alterità, mediante l'unità ad essa im~ manente, nell'unità fondante come origine dell ' intero. Il procedere dell'unità nell'alterità ed il ritorno dell'alterità nel~ l'unità, da questa stessa diretto, corrispondono alla concezio ~ ne neoplatonica della universalissima legge strutturale che go~ verna la dimensione della molteplicità: l'ima-rpotf>Tj (il ritorno) comprende una molteplicità che ha origine nell'unità a partire dall 'alterità (np6oooç) ed attraverso questa la comprende in un'unità relativa, nella quale l' unità funge di nuovo da principio unificante di costituzione e di fine . Il concetto dell'unitas uniens o complicans che implica l' «inizio» e la «fine» del movimento del reciproco penetrar-si, rende manifesto in Cusano tale aspetto attivo 13 • Il grado di unità in un ambito limitato della molteplicità è, analogamente all' intensitas !ucis 14 , decisivo per il suo grado di perfezione. Nelle rispettive «unità», come quelle di intellectus (ragione), ratio (intelletto), sensus, corpus (sensibilità), il procedere dell'unità è ad un tempo - in forma di mediazione sempre diversa - immediato ritorno dell'alterità nell'unità: compimento di un cerchio LI. Ciò che determina tutti gli ambiti, o tutte le unità che si attuano in modo circolare, e quindi media l 'unità con intensità sempre diversa, è la stessa unità prima o assoluta. Si delinea, così, una graduazione delle unità in sé differenti, la cui determinatezza si mostra, tramite l'unità assoluta, proprio come relazione con questa . Con praecisio 16 Cusano concepisce l'atto che media l'unità e che insieme conduce (trasporta) ad una forma più intensa di unità. Dunque, l'intelletto è la praecisio della sensibilità, ma la ragione è la verità stessa o la prima unità - essa è praecisio absolutali. Praecisio - la precisione sempre diversa, che produce sempre maggior precisione - dice della funzione unificante e si ntetizzante 18 dell'ambito superiore nei confronti di /bi, 10; 49, 3 e 44, 22 . /bi, 48, 2. 15 /bi, 53, l s.: unitatem autem in alteritatem progredì est simul alteritatem regredi in unitatem; 7: progressionem cum regressione copulatam concipito. 16 /bi, 52. 7 ss. 17 Possest, 43, 11: praecisio divina; De mente, III 56, 2 s.: deus est cuiuscum· que rei praecisio; Coni., II 16; l 68, 26: divinus intellectus, quae est praecisio absoluta. 13
14
IS
Sulla funzione sintetizzante dell 'organo della conoscenza di volta in volta s m-
CUSANO
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ciò che è ad esso preordinato e co ordinato. Detto in altri termini: l'ambitb ogni volta inferiore, in quanto meno unito in sé, giunge alla sua precisione nell'unità di misura (mensura) che lo misura e ne fa la sintesi. Dunque riconduzione, o sintesi, o rendere più preciso, o misurare, intende un superamento dell'alterità nell'unità o una negazione ogni volta diversa dell' alterità (differenza) che muove all'identità. Praecisio e mensura, tuttavia, nella dimensione del. finito devono essere intese come relative: infatti, la misura è sempre anche misura misurata (posta), l'esattezza di verità è sfiorabile sempre solo congetturalmente. La pura praecisio - ossia, sine alteritate - è perciò, rispetto al finito, incommensurabile e reale soltanto come principio assoluto. Ma la cognizione di questa precisione è predominante nella coscienza finita dell'irraggiungibilità della precisa verità ed imprime l'imp ulso permanente al superamento della imprecisione. Determinata dall ' uni tà e dall'alterità, e a queste riferita quale loro corrispondente praecisio, l' unione delle faco ltà conoscitive può nel complesso essere ritenuta paradigmatica per la continuità dell'ente, nella quale unità e alterità, identità e differenza coesistono necessariamente con intensità sempre diversa. Ciò che determina la misura rimane, tuttavia, ogni volta l'unità; essa è ciò che costituisce la forma ed è, dunque, anche principio che distingue questa realtà formata da un'altra 19. «L'alterità (invece) non può essere principio dell'essere»: alteritas igitur non potest esse principium essendi 2o. Essa è - totalmente nel senso del Sojista platonico - l'elemento negativo nell'essere non-assoluto 21, finito nel suo complesso; è espressione del fatto che ogni ente, in base all'identità o all'unità che esso via via attua, non è ciò che è altro n, e proprio per questo non può neanche essere pensato come ciò che è altro. Se la forma, in base alla sua unità, è ciò che distingue, allora pre più «concettuale», nel circolo s. Unire, ad es.: I 10; n. 49, 3 19 Coni., I 10; 44, 16 s.: forma 20 Vis. dei, 14; P I 106 r [trae!.
di discensio e ascensio , cfr. Coni., II n. 157 e 52, 8. cfr. anche II 16; n. 159, 6. est discretiva, quare unitas.
it., p. 584). /bi, 14; 106 r: detto a proposito di Dio quale absoluta simplicitas e infinitas absoluta: esse omnium complicans simplicissima virtute. Il fatto che tutto sia In esso, viene for~1ulato negativamente: non sunt aliud a te; e: al!eritas, quae In te non est. Ctr. anche nota 41 (in deo non est aliud). 22 Allo stesso presso: unum non est aliud: hinc dicitur alterum. 21
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CUSANO
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vale la proposlZlone: nec est possibile opposita reperiri,
quo~
rum unum non sit ut unitas alterius respectu 23 • Il reciproco compenetrarsi di unità e alterità, o di identità e differenza , nell'ambito del finito implica, come conseguenza, che in esso ciò che può essere è nulla. Di regola l'essere è condeterminato dal non-essere, in quanto in ogni ente manca ancora qualcosa. La sua realtà non è infatti chiusa, ma permanentemente - in successione temporale - aperta alla nuova realtà, realtà dunque nell'orizzon te di possibili tà e tempo 24 . La proposizione: infiniti ad finitum proportionem non esse, o finiti ad infinitum nulla est proportio 25 , non nega il nesso della dimensione dell'infinito con quella del finito, il quale è dato già con l'atto costitutivo della stessa origine e con il ritorno partecipativo dell'en te, ma la loro comparabilità. Ri spetto all'infinito il fi nito non sta in una proporzionalità misurabile, così come ciò che è finito è misurabile e comparabile con ciò che è finito. L 'infinito non è nemmeno il grado supremo nell'ambito del più e meno in modo da rimanere anche come realtà suprema ad esso immanente. Esso è, piuttosto, in sé esistente fuori o «sopra» la dimensione di ciò che è misurabile, comparabile, proporzionale, sopra ogni gradazione (supra omnem gradum). Solo così può essere fondamento assoluto ed origine proprio di questa dimensione e, con questo, anche del nesso di identità e differenza. Mentre nella dimensione del finito ciò che è grande può essere ancor più gran~ de, il piccolo sempre ancor più piccolo, il «massimo assoluto» è ciò che non può né essere né veni r pensato in rapporto al più grande, poiché è tutto ciò che può essere e tutto ciò che esso può essere in realtà 26 • Con un massimo pensato in tal
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modo coincide anche il minimo. Questa coincidenza del massimo e del minimo nell'assolutamente più grande è precisamente !'«infinito in senso negativo» 27 • Esso si distingue, come tale, dall' «infinito» soltanto «privative», dalla cattiva infinità, che comprende tutto ciò che l'infinito non è in se stesso. Perciò esso - sottratto ad ogni misura finita (contracta mensura)2s - è anche l'i n sé non misurabile, l'incommensurabile, non è, nel suo essere in sé, raggiungibile dal finito e attraverso il finito, poiché questo è «misurato» assolutamente solo da esso quale misura assoluta, cioè posto come prop orzionato29. La vera o negativa infinità , di conseguenza, è adeguatamente intesa solo come coincidenza o come essere superato deg li opposti prima o sopra la dimensione degli opposti, dunque prima o sopra il nesso delle unità e alterità poste, prima o sopra il nesso di realtà e possibilità, di essere e non essere, di identità e differenza. E senza opposizione o diversità in se stesso esso si oppone a nulla e nulla ad esso è opposto: supra opposi~ ta, nihil sibi opponitur 30 • Il superamento esistente degli opd'_anche per i testi c_itati fosse valida solo la traduzione «ciò che esso può essere» (circa la problemat1ca connessa alla traduzione, vedi P. Wi lpert , Das Problem der cotncldentla oppositorum in der Philosophie des Nikolaus von Kues in: Hum~nismus, Mystik und Kunst in der Welt des Mittelalters, ed. J. Koch: LeidenKoln 1953, p. 47), tuttavia con la traduzione «ciò che può essere e ciò che esso P_uò ess:re» verrebbe chiarita la totalità della concezione di Cusano . Punto di VISta umco : «esso è tutt~ ciò che può essere» viene spiegato nel termine complicano come es~ere del divino principio creatore, cfr. ad es. Possest, n. 8, 19: lpsum, complictfe esse omnia. n. 14, 7: Omnia in illo (in possest) utique compli-
24
cantur. D. i., Il l; 64, 14 s. [trad. it., p. 110]. 28 Theol. compi., XI; P Il b, 98 r. 29 lbi e D. i., _I 16; 32, 11-15 : ... est igitur adaequatissima et praecisissima ommum essentwrwn mensura infinita essentia. :Per questo ~omplesso di concetti cfr. tra gli altri: Possest, n. 73, 14: Supra mnem opposllwnem; D_. t., I 4; 10, 27; Ven. sap., 13; n . 35 (cfr. questo passo, sotto, nota 69); non a!JUd, 4; 9, 13: ante omnem positionem et ablationem· Sermo «Dies sanctificatus», 12, 12-1 4; 16, 4-6; Possest, n. 25, Il: Supra ipsu~ esse et no~-~sse; n. 27, 5 s.: Supra actionem et passionem, supra posse jacere et posse j1en; 20, 9 s.: Deum supra omnem differentiam, varietatem, alteritatem, tempus, locum et oppositionem esse; Princ., 38: Primum enim principium est a~te Of!1nem alteritatem et identitatem; Vis. dei, 11; P l 04 v: Ultra murum cotn~tdenttae complicationis et explicationis; D. i., l 2; 7, 7 s.: Nihil sibi opponi manijestum est, cwn sit maximitas abso/uta. Lo stesso essere tolto dell'Uno dal-
potest, est penitus in actu; et sicut non potest esse maius, eadem ratione nec minus, cum sit omne id, quod esse potest; Ven. sap., 35, n. 105, sull 'elogio del possest: Quae id est quod esse potest, quia jons et causa laudabilium. Quan-
SI
Coni., I IO; 44, 22 s. T ale questione, che per Cusano è centrale, viene nel trialogus De possest trattata in rapporto a ll 'identità esistente di possibilità (facoltà attiva) e realtà. Cfr. a questo proposito sotto pp. 161 ss. 25 D. i., I 3; 8, 20 s. Sermo «Dies sanctijicatus», in: Cusanus-Texte, I, Predigten, l, pp. 30, 20, a cura di E. Hoffmann e R. Klibansky. Sulla discussione intorno alle diverse form ulazioni di questo concetto, vedi J. Hirschberger, Das Prinzip der lnkommensurabilitat bei Nikolaus von Kues, in: «MFCG», 11 (1975), pp . 39 ss. 26 D. i., I 4; 10, 12-14: Quare maximum absolute cum sit omne id, quod esse 23
27
l'_ ambito dell'alterità è una fondamentale concezione neoplatonica, alla quale collega Cusano (cfr. p. 154 e le postille di Cusano al commentario di Proclo al Parmenide, sotto no ta 41). La differenza si fonda infatti in Cusano sul _ o·r,s11A' OtG l! Sluo1
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posti è liberato da ogni limitazione (contractio) mediante la fi31 nitezza di questa, esistente in sé. È l'assoluto per eccellenza . Il concetto dell'assoluto espresso nella concezione di coincidenza è intensificato in quello di differenza assoluta allorché Cusano pensa il «luogo» di Dio come «al di là del muro della coincidenza degli opposti» 32 , in quanto la coincidenza potrebbe pur sempre suggerire un «coesistere» degli opposti nell' assoluto . Con la metafora del «muro» diviene manifesto che l'enunciato oer il quale il principio divino è «prima o sopra glì opposti»: 'implica il loro essere l'uno ne altro . ~ropr_io per il fatto che dunque, gli opposti non «coeststono» m DIO, ma ' . ' . in lui sono superati, ossia il loro propno essere non e mente altro che l'essere dell'assoluto stesso, egli è sopra essi, è l'assoluta differenza stessa senza differenza. Se la metafora del «muro» può in sé significare l'inafferrabilità del princi~io,_ n~n vorrà, tuttavia essa negare la concezione secondo cm DIO m senso assolut;, ossia come infinito, comprende in sé il finito. Lo renderebbe altrimenti un vuoto concetto. Una delle sue determinazioni fondamentali consiste proprio nel concepire se stes33 so e tutto ciò che può essere come concetto esistente . Parimenti il mettere in evidenza la differenza assoluta non equivale alla negazione dell'autoesplicazione di Dio ne l mondo , si 34 deve piuttosto tenere presente che il principio creativo puÒ
!l:
cetto di coincidenza. Per un pensare genuinamente neoplatonico, tale co~cetto è immaginabile esclusivamente per l'am bito del vovç assoluto, l'Uno stes ~ e però l'assoluto non molteplice in sé irrelato. La nozione di coincidenza è dtve~t.at a determinante per il principio divino proprio per .il fatto che.. vovç ed essere t~tmta rio - per la motivazione teologica nella fond azwne ~tloso!Jca .- s~no statt P.ensati come la sua identità. Cfr., a riguard o, in parttcolare Dwmg1 Areopagtta, De div. nom ., V 4; PG 3, 817 C e V 5; 82~ ~B : -~io è ~s~e.re. VI~ 2; 8~ AB: Dio pensa sé, è vovç. XIII 3; 980 D: Egh e ulll.ta e tnmta . ': 7, 821 . · XI 4; 912 C: coincidenza degli opposti. Un' interpretazw.ne ~ompless tva del_ pnncipio di coincidenza, che pensa ad un tempo la sua de~tvaztone dalla tra?lZlone filosofica, è stato proposta da K. Flasch: Die Metaphysrk des Emen ber Nrkotaus von Kues, Leiden 1973. 31 L'aggettivo absoluta, legato ad entitas, unitas, m~ximitas, possi~ili~as, nec~s sitas, veritas, aequalitas, praecisio, visio ecc. spiega l'mcomme~surabtilta .del pnncipio e fa risaltare la differenza nei c_o~fronti del , li~guag~JO c~tegonale, che è val ido solo per l'ambito nel quale umta ed altenta, Jdeno ta e differenza sono pensati come elementi che coagiscono «sullo stesso piano». 32 Vis. dei, 11, P I 104 v [trad. it., p. 567]. 33 Cfr. a questo proposito, sotto, p. 152. 34 Ciò viene detto riguardo all'enunciato di Cusano in: Vis. dei, 12; P l !05
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essere pensato come misurato solo da se stesso e non dal finito se esso, anche come «superlativo», non sarà reso «finito» nel fondamento.
2. Nomi enigmatici dell'origine divina. L'assolutezza, l'incommensurabilità e, con ciò, l'inconoscibilità dell'origine mediante un pensare che è per sé principalmente in rapporto col finito e può abbracciare in sé, come proprio fon damento a priori, l'infinito, tuttavia solo provvisoriamente, rimanda ad un aspetto dell'Uno neoplatonico: egli è «sopraesistente», prima della differenza e dell'opposizione, niente altro che se stesso così come è in sé, nulla di tutto o il diverso da tutto. L'altro aspetto complementare del concetto di Uno consiste in questo: ad un tempo è in tutto e ovunque, e nulla può essere senza di lui, poiché è il fo ndamento fondante e mantenente, e l'origine di tutto 35 • I tre nomi cusaniani di Dio o meglio le tre caratterizzazioni enigmatiche 36 dell'origine divina, non-a/iud, idem, possest, riuniscono ambedue i suddetti aspetti di sopra-essere ed essere-in, di assoluta trascendenza ed assoluta immanenza, da pensare in modo paradossale, ossia contemporaneamente. A parte la determinazione dell'origine divina come origine trinitaria e riflettente se stessa (conceptus absolutus), Cusano si distingue dalla concezione neoplatonica essenzialmente per il fatto che egli, guidato da una riflessione filosofica sul dogma teologico della creazione e dell' inv, secondo il quale Dio è
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carnazione, considera in modo pm fecondo l'immanenza del principio nell'ente posto da lui stesso, proprio grazie alla valutazione di questo ente. Il mondo, cioè, è voluto dal concetto assoluto come infinitas finita, deus creatus o occasionatus 31 , come specchio ed immagine di Dio, come suo splendore riflesso e sua «repraesentazione» (reRraesentatio), come partecipazione a lui, come suo mostrar-si, come sua auto-esplicazione nell'alterità costituita da lui stesso 38 • Poiché Cusano non ha mai concepito la proposizione Deus est omnia isolata dalla proposizione che Dio è sopra tutto o il nulla di tutto, egli si sottrae al sospetto di panteismo che con leggerezza qualcuno ha espresso. Nel mondo Dio non è al modo del mondo.
a) Il non-altro (non-aliud)
Non-aliud, il non altro, non può essere un nome esaustivo del principio, poiché esso, come ogni parola, è un elemento della ratio finita e, perciò, è vero solo rispetto al finito, al determinato, a qualcosa; il non-aliud è piuttosto aenigma, immagine o rinvio a ciò che in senso proprio è innominabile a partire da lui stesso 39 • Nell'orizzonte della limitazione congetturale del pensiero finito - la praecisio veritatis è sfiorabile solo tramite !'«alterità» della congettura 40 - il non-aliud è appunto un'immagine precisa di ciò che viene di esso inteso. Pensato come principio in sé esistente, il non-aliud è prima di tutto non l'altro o nulla d'altro, è l'esclusione di ogni alteri-
D. i., II 3; 68, 16 e 18 s. Su speculum cfr. l'interpretazione, connessa anche all'essere del mondo, di l Cor. 13, 12: Videmus nunc per speculum et in aenigmate, tunc autem facie in faciem: Apologia, 11, 9; Possest, 72, 10 s.: incognoscibilis deus se mundo in speeulo et aenigmate cognoscibiliter ostendit. Mondo come invisibilis dei apparitio, ibi, 72, 6 s.; Apologia, 11, 23: Imago; D. i., II 2; 67, 22: Resplendentia; Gen., n. 151, 2: Repraesentatio; Non aliud, lO; 21, 14 ss.: Dei participatio; Non a/iud, prop. XII; 63, 4: Creatura igitur est ipsius creatoris sese definientis seu lucis, quae deus est, se ipsam manifestantis ostensio; Possest, 9, 6 s.: Volo dicere otrmia illa complicite in deo esse deus sicut explicite in creatura mundi sunt mundus; Non a/iud, 23; 55, 13 s.: ... ut universum esse! gloriae et sapientiae dei perfecta revelatio. 37
38
39
Cfr. sopra nota 36.
40
Coni., I, n. 2, 9 ss.
CUSANO
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tà, diversità o differenza da sé; il non-altro, dunque, precede l'ambito di ogni alterità 41 • Se la formulazione «niente altro che ... » può valere, nel senso di Cusano, come essenza di una definizione non solo logica, ma metafisica o ontologica 42, allora il non-aliud è proprio grazie all'esclusione dell'alterità da sé, dunque come assoluto, niente altro che se stesso: il nonaltro definisce se stesso attraverso se stesso; questa è la sua essenza. In base al presupposto che il mondo deve essere, dunque che l'esplicazione dell'Uno, principio divino, è voluta fin dentro l'alterità costituita, il non-altro non rimane, però, solo se stesso. Esso diviene il fondamento che pone e conserva l' altro . Proprio per il fatto che è questo fondamento, esso è in tutto, o è tutto, in quanto essenza di ogni singola essenza (essentia essentiarum) 43, o tutto in tutto, - una formula che deve essere intesa secondo l'interpretazione cusaniana, ricca di differenti aspetti, e determinata mediante implicazioni filosofiche, 41
Dio come pura infinitas: sine alteritate, Vis. dei, 15, 106 v; D. i., I 24; 49, 10 ss . 14 ss.: sulla semplicità dell'unità, che include in sé tutto ubi non est aliud ve/ diversum; Possest, n. 73, 15: In ipso non potest esse ~lteritas, cum stt ante non-esse; Ve n. sap., 13; 35: ante differentiam omnem; Non aliud, 3· 7, 4: ante a/iud. Annotazioni eli Cusano al commentario di Proclo al Parmenide' c?sì come la sua stessa i nterpretazione di Proclo in Non a/iud, 20; 49, 1 ss:
(tdeo ipsum unum ... non est aliud... ideo unum nomina! (Proculus), ut "non aliud" exP_rimat) rendono manifeste le implicazioni del concetto. Cfr. a riguardo: W . Be1erwaltes, Cusanus und Proklos, in: Nicolò Cusano agli inizi del mondo moderno, Firenze 1971, pp. 137 ss. Le formulazioni plotiniane di uno stato di cose analogo (l'Uno è solo se stesso e niente d'altro : sopra p. 56). Accanto a Proclo e a Dionigi Areo pagita è stato determinante per la concezione del non aliud anche Meister Eckhart: quale unità, Dio esclude da sé ogni alter ità; creatura e creabile sono aliud a deo ... in deo enim non est aliud, Sermo XXI, n . 305, LW IV; 270, 7 s. Sul fatto che Cusano conoscesse questa predica, vedi H . Wackerzapp, Der Einfluss Meister Eckharts auf die ersten philosophischen Schriften des Nikolaus von Kues, Miinster 1962, p. 38. Comparabili nel contenuto, fo rmulazioni dell'unità di Dio si trova no in E riugena, ad es.: Div. 1wt., I (73); 210, 11 - 13 (Sheldo n-Williams) : Ubi enim est vera et aeterna et insolubilis per se ipsam simplicitas i bi aliud-et-aliud et multum diversumque fieri impossibile est. Cusano nota intorno a questo passo (in Cod. Addit. 11035, «MFCG» 3 [1963], p. 99): in deo non est a/iud et diversum. Bonaventura, Itinerarium: V 6: nihil habens diversificationis, ac per hoc ut summe unum. (Sin dall'inizio a Cusa no era noto l'Itinerarium, cfr. R. Haubst sul Codicillus Strassburg 83, m «MFCG», l (1961), pp. 18-20). L'identica fo rmulazione in De Myst. trin., 3, l ad 7 (ed. Quaracchi, V 72). 42 Non aliud, l; 4, l ss. [tracl. it., p. 792] . 43 !bi, IO; 22, 11.
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della proposizione: ut deus sit omnia in omnibus (I Cor. 15) 44 • Nell'esplicazione di se stesso, la quale costituisce in assoluto l'alterità, il non-altro «definisce» - in forza della sua autodefinizione - anche tutto l'altro: delimita l'identità di ogni singolo dall'altro , così che «il cielo non è altro che il cielo, la luce niente altro che la luce». La non-alterità di ogni singoloesistente, la sua identità, ha dunque il suo fondamento nella presenza, che costituisce l'essere, del non-altro nel singolo; o, in altri termini: il non-altro rende tutto l'ente di volta in volta un non-altro 45 • Un unico ed identico non-altro fonda, in ogni singolo ente, insieme all 'identità, anche l'alterità o la differenza dell'ente rispetto all'altro. Poiché il non-altro deve essere pensato come la non alterità (identità) o come l'essenza di ogni singolo ente, senza la quale l'ente non sarebbe, esso appare come inseparabile da esso. Il non-altro è perciò, in senso stretto, nient'altro che l'altro: oportet enim omne a!iud ab alio
esse aliud, cum solum non-aliud sit non-a!iud ab omni alio 46 • Però il non-altro è l'altro o è nell'altro non come questo stesso altro (come alterità), per così dire come ciò che supera nell'alterità se stesso nella sua assolutezza, ma come esso stesso, il non-altro, nel costitutivo, fondante e conservante rapporto con l'altro. Per intendere in modo adeguato l' aenigma del nonaliud bisogna mantenere la paradossale dialettica: l'assoluto, identico a sé quale definizione di se stesso, è, proprio in qualità di assoluto, fondamento per la differenza reciproca dell'ente, «nel cielo, cioè, il non-altro è niente altro che cielo, nella luce niente altro che luce». Il non-altro non è tuttavia in un altro un altro come se stesso. È e rimane se stesso, anche se si manifesta in tutte le cose in modo differente 47 • Sebbene sia 44 Cfr . ad es.: Non aliud, 6; 14; 17 ss. e 22; 52, 22; Coni., I 5; 17 , 13; Possest, 56, 2. L'interpretazione di questa affermazione non implica per Cusano il superamento della trascendenza assoluta, cfr. Vis. dei, l 2; P I 105 r: ... ut sis omnia in omnibus et ab omnibus tamen maneas absolutus. 45 Ven. sap., 16; n. 46 : nam non a!iud ipsa omnia jacit esse non aliud. Sul
concetto dell' «alterità », cfr. K. Bormann in: «MFCG », IO (1973), pp. 130-137. Non a!iud, propositio XVIII; 64, 27-29; 17-19. Ven. sap., 14; n. 40; ... deum non esse aliud ab a/io, quia ipsum aliud dijjinit. D. i., I 4; 10, Il: Maxima aequalitas, quae a nullo est alia aut diversa (sguardo preliminare sul non aliud). 1\nche D. i., II 5; 76, 26 s. formula già l'essenziale essere-in del principio come
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non aliud: ... deus est absque diversi/ate in omnibus, quia quodlibet in quolibet et omnia in deo. 47 Non aliud, 6; 14, 3 ss.; Coni., I 11; n. 55, 11 s.: ldentitas igitur inexplicabi-
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tutto in tutto, è e rimane, dunque, se stesso solo quando è niente di tutto, quindi niente di singolo, di determinato, o: non è qualcosa nel modo in cui questo stesso qualcosa è 48 • Il principio è tutto e, insieme, nulla di tutto; e: il non-altro, poiché è l'assoluto «prima» (eminentissime ipsum ante) 49 , non è l'altro, ma, ad un tempo, il non-altro dell'altro come sua essenza: questo paradosso viene precisato nella concezione approfondita intensamente da Meister Eckhart ed assunta da Cusano : il principio creativo è indistincta distinctio 50 , indistinta distinzione e differenziazione. In questo senso il non-altro è, nei riguardi di un ente, un indistinto dall'ente, in quanto essenza di questo 51, ma contemporaneamente si differenzia dall'essere distinto di ogni ente, proprio perché è la sua indifferenziazione o autoidentità, senza la quale l'ente stesso - in sé e da sé - non sarebbe o sarebbe nulla. Il fatto d'essere questa differenziazione distingue dunque il non-altro proprio da ogni distinto. In una nota Cusano si riconosce nel senso del pensiero eckhartiano presente in Senno IV l e nel commentario della Sapienza: Deus autem indistinctum quoddam est quod sua indistinctione distinguitur, Dio è un indistinto che si distingue mediante la sua indifferenziazione 52 • Tramite lis varie d{fferenter in alteritate explicatur, atque ipsa varietas concordanter in unitate idenritatis complicatur. 48 Non aliud, 6; 14, 17: Omnium nihil; Apologia, 31, 27 : (deus) est complicative omnia et nihil omnium explicative,· Vis. dei, 13; P 105 v: lnjinitas igitur sic ornnia est quod nullum omnium; Ve n. sap., 34; n. !03: Est igitur coniuncte omnia et nihil omnium; Possest, n. 74, 6: In omnibus omnia, in nullo nihil et o11znia et nihil in ipso ipse. !bi, n. 14: nihil omnium quae sunt. Riguardo al retroscena neoplatonico e pseud odionisiano di questa concezione, cfr. Pau! Wilpert nelle note alla traduzione Vom Nichtanderen, Hamburg 1952, pp. 146 ss. e sopra, p. 151, n. 30. 49
Non aliud, 15; 39, 19. In modo identico all'U no , il quale è precedente all'Uno esistente: Unum ante ipsum unum, quod est unum (ibi, 39, l s., 12). 50 Apologia, lO, 3. Sul significato intratrinitario di questa formula, cfr. sotto p. 165; per Eckhart pp. 134 ss.
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Non aliud, 6; 14, 13 -15: Deus autem, quia non aliud est ab a/io, non est aliud, quamvis non aliud et a!iud videantur opponi; Ven. sap., 14; n. 40: .. . deum non esse aliud ab a/io, quia ipsum a/iud diffinit. 52 Meister Eckhart, Expos. libri Sap., n. 154; L W II 490, 8, dove riconduce a Tommaso, il quale tuttavia mette in evidenza solo la distinctio. Sermo IV l , n. 28; LW IV 28, 5 s. Per le postille di Cusano a questo testo, vedi in Apologia, IO, riguardo al n. 3: ... nota, quomodo deus sua indistinccione distingwitur (sic!).
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la formula sua indistinctione distinguitur entrambi chiariscono la paradossale -unità del nesso costitutivo di Dio ed ente nel suo complesso con la sua differenza assoluta nei confronti di ogni ente. Con l'operare immanente non si supera la differenza dell'essere assoluto e dell'essere Uno nei confronti proprio di questo ente, tanto che solo la «simultanea» realizzazione di entrambi gli aspetti è adeguata al concetto di principio: deus est "distinctissimus" ab omni et quo!ibet creato, e: Deus et creatum quodlibet "indistincta" 53 . Un tale pensare interno di immanenza e trascendenza, intra ed extra, -..o:v-co:xou xo:t oùoo:~-toti 5 4, produce l'aenigma del non-aliud, che è, insieme, non-altro e il non-altro.
b) l'identico (idem)
L' aenigma del non-aliud viene espresso positivamente, almeno per la forma linguistica, nella denominazione idem per l'essere e per l'operare del principio divino. Infatti, il non-aliud è niente altro che se stesso o l'identico. Qualcosa di analogo come per il non-altro bisogna, di conseguenza, pensare anche per l'identico (idem): tutto (anche il differente o l'opposto) è in esso lo stesso, in quo omnia idem ipsum 55 ; in quanto idem absolutum 56, esso è, prima di ogni differenziazione in identità Eckhart, Expos. libri Sap., n. 154; 489, 12 e n. !55; 491, 10. Eckhart e Cusano si trovano all' interno della storia dell ' influenza di un pensiero neoplatonico che venne formulato, per il concetto di Dio, in modo classico già da Agost ino, Eriugena e Bonaventura; tanto la crea t io come anche :'incarnafio hanno in lui un fondamento filosofic amente determinante . Accenm alla storia della questione: W. Beierwaltes, Platonismus und ldealismus, pp. 62 e 40 ss. [trad. it., pp. 71 ss. e 48] e sopra p. 54. 55 Gen. , n. 142, 6; D. i., I 21; 42, 17 s.: Omnis enim diversitas in ipso (i. e., maximo) est identitas. La limitazione del concetto di identità all'ic.lentità l~gico fo rmale e dia lettica (Hegel), così come al concetto hcideggenano d1 «avvemmento» - Ereignis - (così E.A. Wyller, Zum Begriff «non aliud» bei Cusanus, in: Nicolò Cusano agli inizi del mondo moderno, Firenze 1970, pp. 427-429) rispetto ad un concetto di identità genuinamente neop latonico, che val~ per l'Uno e in form a modificata - come identità «dinamica» - per la dtmenswne del Nous, conduce alla tesi secondo la quale non a/iud «non significa ìde?li~à » (Wyller, p. 427). Questa tesi sarebbe vera solo se. fosse vera. la su~dett~ ~~n:Ita zione. Il fatto che nel conte to d'una interpretaZione cusamana l JdentJta e da concepire come un modo dell 'unità, lo mostrerà proprio l' unione del non aliud con l'idem e col possest. 56 Gen., 144, 5 ss .; 145, 6 ss. e 16 ss.
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e differenza, la pura autoidentità che si pensa e ritorna a se stessa in una triunitas. In quanto è tale autoidentità, esso superexaltatum 57 - è in se stesso la pura unità, la cui essenza è determinata dalla inalterabifitas e dalla immultiplicabilitas; ma deve, insieme, essere pensato come il massimo assolu. to, ossia coincidente e incommensurabile58 • L'assoluta identità, o unità, del principio si esplica nell'alterità59, dal momento che la costituisce prima fra tutti: essendo ciò che è altro rispetto all'identico, l' alterità, in forza dell'attività creativa del principio, può essere partecipe della medesimezza di questo e solo così può in assoluto essere 60 • L'ambito dell'alterità costituita è, quindi, una connessione di identità; ogni singolo ente partecipa, come diverso, all'identità ed è perciò anche un identico a sé O!; l'identità dell'identico a sé o dell 'in sé determinato è proprio il fondamento della distinzione ontologica. Se ogni ente deriva dal principio, allora l'atto assoluto dell'assolutamente medesimo, che è l'immediata esplicazione di sé ad extra, - esplicazione che però è incapace di superare se stessa -, può essere pensato come il produrre l'identico (identificare) o come l' ars identificandi62. Il risultato di questo atto è identità nella connessione delle identità: identità che ha la di fferenza in sé o in ciò che consegue da essa: omne quod est, est idem sibi ipsi et alteri aliud 63. In modo del tutto generale questo identificare viene concepito da Cusano come assimilazione o acquisì-
54
!bi, 147, 11. /bi, 144, 15 SS . 150, l. 154, l. Coni., l l l, n. 55, 11. 6 Ce n., 147, l 5: Video idem absolutum ab omnibus participari. Partecipazione all'in sé «non med iabile», in quanto identità essa stessa non «spiega bile» e, così come essa è in se stessa, non «Sfiorabile» dal pensare: Coni., l 11; n. 54 ss.; Princ., n. 36. 61 Gen., 146, 2: Diversum esse sibi ipsi idem. Come l'identità assoluta ca usa l'identità anche del diverso, così il non-aliud il non essere dell'altro, cioè l'autoidcntità che ad esso spetta in modo essenziale. Cfr. Ven. sap., 16; n . 46: Nam non-aliud ipsa omnia facit esse non aliud. 62 Gen., 149, 2. 150, 7: Idem identificai. 173, 9: Ars identijicandi ne! senso di ars creativa. In modo analogo a questo, riguardo all'atto creativo di Dio, 5?
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che produce, in virtit della cor rispondente autoide ntità, l' unicità o la singolarità dell'eme e, quindi, la sua diversità nei confronti dì ogni altro: una est omniwn singularium causa, quae omnia singularizat, in: Ven. sap., 22; n. 66. 63 !bi, 146, 4.
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zione. Omnis identificatio reperitur in assimi!atione. Vocat igitur idem non-idem in idem 64 • Il vedere vede, nel verificare il non-visto (il non-identico), o: l'atto del conoscere consiste nel risolvere o nel superare il non-conosciuto (il non-identico) e nell'assimilarlo, in tal modo, a se stesso nel concetto, cioè nell'identificarlo a se stesso. Una cosa analoga vale per l'atto creativo del principio; mediante esso si rivela il fondamento nell'Uno, che pone l'ente dal nulla e riferisce ciò che è posto a se stesso (finale). Ma questo è il momento dell'assimilati o: assimilatio autem dicit quandam coincidentiam descensus ipsius idem ad non-idem et ascensus non-idem ad idem. Potest igitur creatio seu genesis dici ipsa assimilatio entitatis absolutae, quia ipsa, quia idem, identificando vocat nihil aut nonens ad se 65 • La costituzione dell'identico, e con ciò del differente, dal nonidentico, cioè dal nulla, mediante l'assoluto-identico conduce a problemi analoghi a quelli dell'aspetto creativo o attivo del non-altro. Con l'atto dell'identificare (rendere-identico) l'idem absolutum è nel tutto come sua autoidentità o come sua essenza 66 • Infatti, se esso fosse diverso dagli enti singoli, questi non sarebbero ciò che sono. Quomodo enim quodlibet esset idem sibi ipsi, si abso!utum idem ab ipsis joret diversum et distinctum aut a!iud? 67 • Quale atto dell'idem abso!utum, l'identificare ha di conseguenza un duplice aspetto: produrre l'identico, costituire dal nulla e rendere identico il costituito o mantenerlo come tale, vale a dire come se stesso in se stesso. Indistinto da sé l'assolutomedesimo è, perciò, l'essenza del medesimo nella dimensione dell'alterità - abso!utum in contracto - ed insieme è niente di determinato-medesimo o di altro, ma illimitato niente altro che se stesso e, con ciò, distinto dal tutto - idem «è» non-aliud. L'unità di entrambi gli aspetti del principio, ossia il suo essere-in ed il suo sopra-essere, la sua assoluta autodeterminazione ed il suo costitutivo essere-fondamento, si evidenziano anche nel!bi, 149, !bi, 149, 66 !bi, 154, sibi ipsi. 67 !bi, 147, 64
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8 s. 15-18. 9 s.: ... idem absolutum est in omnibus, quoniam quodlibet idem 17 s.
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l'enunciato su Deus: oppositio oppositorum est oppositio sine 0 ppositione, l'opposizione degli opposti è opposizione senza 68 0 pposizione • Poiché l'opposto può essere opposto soltanto attraverso l'opposizione, e tuttavia il principio esplica da sé ogni ente, con la prima parte della proposizione si intende che Dio è fondamento ed origine degli opposti. Come tale, è in essi come loro essenza (come loro opposizione). Egli stesso, ossia in sé, è, tuttavia, senza opposto, in quanto sopra e prima della sfera degli opposti che deriva da lui. Di conseguenza egli è altrettanto diverso da questa sfera: opposizione rispetto ad essa, senza essere determinato nella sua essenza dalla categoria di diversità o opposizione, e senza essere toccato in se stesso . L'esplicazione o la contrazione fondante di Dio è, quindi, il mondo come dimensione degli opposti, ad un tempo egli è in sé solo lui stesso «non contratto» - idem «come» nonaliud. c) il poter-essere (possest) La coincidenza, la facoltà di «tirar fuori» o l'assolutezza del principio, così come la sua funzione costitutiva nell'ente, è, come concezione fondamentale, mantenuta anche nell'aenigma del possest, e, da un certo punto di vista, ancora intensificata. Quale parola-proposizione (posse est), il possest mostra che il principio divino è l'identità di possibilità e realtà come realtà pura. L'alternativa, secondo cui ciò che è possibile può anche non essere, dunque che il principio possa «ancora» qualcosa che «ancora» non è, è già superata dal concetto stesso. Esso è tutto ciò che può essere e ciò che esso può essere: est omne id, quod esse potest, mentre ogni ente esterno al principio e derivante dal principio non è ciò che esso può essere; questo è determinato in modo assoluto dal movimento dialettico dalla possibilità alla realtà. L'identità, o la reciproca compenetrazione di possibilità, nel senso di facoltà, o capacità, e realtà, o essere nel principio, non deve essere concepita, ana6B
Vis. dei., 13; 105 v.; Non aliud, 19; 47, 9 s.; Theol. compi., XIII; P II b
l 00 r. Riguardo all'interpretazione e alla derivazione storica di questa concezione, cfr. il mio saggio: Deus oppositio oppositorum, «Salzburger Jahrbuch fiir
Philosophic», 8 (1964), pp. 175-185.
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IDENTITÀ 13 DIFFERENZA
logamente a non-aliud e idem, come coincidenza di poli che si negano o sono opposti all'interno della stessa dimensione, ma come l'unione che precede assolutamente la dimensione dell'opposto o del differente, attraverso la quale è resa per la prima volta possibile l'opposizione o la differenza. Est enim ante differentiam omnem: ante dzfjerentiam actus et potentiae, ante differentiam posse fieri et posse facere, ante differentiam lucis et tenebrae, immo ante d~fferentiam esse et non esse, a!iquid et nihil, atque ante differentiam indifferentiae et differentiae, aequalitatis et inaequalitatis, et ita de cunctis 69. Il possest, dunque, non è semplicemente la realtà in opposizione alla possibilità, ma il fondamento che rende possibile proprio questo rapporto. Il concetto di possest è determinato come lo stesso essere (ipsum esse) 70 • Il rovesciamento di questo enunciato è per Cusano valido nella medesima misura: l'essere stesso, o essere assoluto (absolutum esse, absoluta entitas), «è» possest. La determinazione dell'essere come possest vuole perciò significare che l'essere, nel modus dell'assoluto, è l' «entità» costitutiva ed insieme connettiva di possibilità e realtà o il fondamento, interno all'essere stesso, dell'unità di possibilità e realtà nell' essere stesso 71 • L'unità di possibilità e realtà non indica un passaggio dall'uno all'altro; anzi, l'essere assoluto è, a tal riguardo, poter-essere, poiché è o ha «sempre già» in sé ogni possibilità come superata: è la realtà di ogni possibilità. Quale essere reale di ogni possibilità, l'essere assoluto si esprime in modo preciso nell'affermazione di Esodo 3, 14: «io sono colui che sono» E non: colui che sarò 72 • Questo autoenunciato del principio - essere assoluto come pura realtà nella quale coesistono tutti gli opposti possibili in unità - supera la dialettica aristotelica di possibilità e realtà; rende evidente una potentia, che è in sé pura, ossia potenza reale ed operante e creativa verso l' «esterno » - actus omnis potentiae come omnipotentia. In quanto tale, ossia non semplicemente in quanto realtà Ven. sap., 13; n. 35; Possest, n. 7, 2 ss. e 25, 7 ss. 70 Possest, 12, 5. 71 !bi, 65, 7 s. 72 Jbi, 14, 12 ss. e 65, 7: absoluta entitas. Circa la storia dell'interpretazione 69
di Es. 3, 14, con particolare riguardo ad Agostino, Meister Eckhart e Schelling, cfr. W. Beierwaltes, Platonismus und !dealismus, pp. 5-82 [trad. it., pp. 11-93].
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suprema (ens rea!issimum) all'interno della stessa sfera, ma in quanto realtà precedente ogni differenza, è fondamento costitutivo del rapporto della possibilità con la realtà e dell'inverso. La possibilità e la realtà sono nel complesso determinanti per la sfera del finito. Diviene, così, chiaro che il puro, assoluto essere, proprio in quanto unità interna di possibilità e realtà, è anche !'esse omnium entium, «esterno» a loro stessi, potentia creativa nel senso di potenza. Questo concetto è pensato per la prima volta (come trasformazione della concettualità aristotelica) in modo convincente da Plotino: lo stesso Uno, che è informe, dunque niente di determinato e, con questo, prima di qualsiasi cosa, è, ad un tempo, una potenza che impone principi al tutto, ouva!J.Lç -rwv 1tanwv, e, di conseguenza, fondamento di ogni determinatezza 73. Se dunque l'essere stesso, o l'essere assoluto 74 (cioè antecedente al rapporto di essere e non essere esistente), e quindi l'essere come pura realtà, determina il concetto di possest, allora il posse pensato ed esistente in esso può essere solo actu: come esclusione di ogni possibilità di un potere attivo nella intensità assoluta, esso è posse absolutum, possibilitas absoluta75. In forza dell'identità, il concetto è rovescia bile e non contiene alcuna differente inclinazione da «soggetto » a «predicato» della proposizione: in quanto tratto essenziale del principio, il posse è ciò stesso, dunque è essere come realtà pura. Ergo: possest est actu omne posse: unità di esse e posse che è e si mantiene nell'identità 76 ; il possest comprende (complica!) perciò la possibilità atemporale e indifferenziata (facoltà o potenza) al di sopra dell'alternativa di attività e passività , poter fare e poter essere fatto. Dal momento che esso non può essere ciò che esso non è, allora può essere solo ciò che esso è - se STEsso -, la denominazione possibilitas absoluta si inasprisce in absoluta "necessitas " 77 : esso non potrebbe non essere, poiché in esso anche il non essere è se stesso, dunque essere, come la possibilità è realtà dell'essere assoluto 1s. 73 74
P lo tino, Enn ., III 8, IO , l. Possest, 25, Il : Supra ipsum esse et non esse. Cfr. anche nota 69. 75 /bi, 27, 5 e 6, 12 s. 76 Ven. sap., 13 ; n. 36; Possest, 27, 7 ss. 7 7 Possest, 27, 20. 7& !bi, 25, 15: Non-esse ... ibi est omnia esse.
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Essere necessità assoluta non è, tuttavia, per il principio una limitazione nel senso di una autocostrizione, ma è indice della sua libera perfezione, niente altro che se STEsso, e questo significa: essere lo stesso essere. Così come l'insistere sull'assolutezza del non-aliud e dell'idem non conduceva ad un offuscamento del problema del mondo, ma provocava proprio una riflessione intorno all 'atto costitutivo del principio, anche il possest viene pensato in vista della sua capacità creativa (il suo essere ed operare creativo). Cioè il concetto di possest implica anche questo: tutto ciò che può «una volta» essere come creato e, quindi, come posto all'esterno di esso, è «sempre già» il principio in quanto essere senza tempo. Esso «comprende» (come già è stato accennato) in sé tutto l'essere che deve essere costituito in quanto essere temporale. Il modus di questo «Comprendere» è il pensare;9 • È la pienezza delle idee come pensante schema progettuale del mondo: è, questo, il «tesoro dell'essere» (thesaurus essendl) 80 • A partire da tale identità di pensare ed essere nel principio diviene comprensibile perché l'aspetto creativo del principio, il «verbum dei, che si esprime nella creatio, venga da Cusano pensato filosoficamente come conceptus sui et universi, concetto di se stesso e dell'universo 81 • Poiché il possest è un icamente ciò che esso può essere ed è, insieme, tutto ciò che può in generale essere, esso è TUTTO alla maniera di ciò che tutto abbraccia (complicafio, ambitus); e il mondo, come mondo creato, è il suo dispiegarsP 2 • In quanto comp!icatio dell'ente antecedente al -mondo e in quanto potentia creativa 83, il possest è perciò tutto o tutto in tutto, ma come tale è anche principio che provvede al /bi, 30, 7 s. Cfr. sotto pp. 168 s. so /bi, 64, 18 [trad. it., p. 782]. s1 Ihi, 38, 11. 82 /bi, 8, 19; 14, 7; 16, 13 ; Princ., n. 36: ambire (l'uso del term ine ambire per complicare o del termine ambitus per complicatio risale sicuramente ad Eriugena, cfr. ad es .: Div. nat., I 206, 29 (Shelclon-Williarns): (deus) est ambitus omnium. III 4; PL 122, 633 A). 9, 6 s.: Omnia il/a complicite in dea esse deus sicut explicite in cremura mundi sunt mundus (questo significa anche, che il mondo come explicatio di Dio , dunque come mondo, non è Dio). D. i., II 3; 72, 13-16: .. .Deum omnium rerum complicationem et explicationem, et- ut est complicatio - omnia in ipso esse ipse, et - ut est exp/icatio - ipsum in omnibus esse id quod sunt, sicut veritas in imagine. /bi, II 5 e 6. S3 Possest, 8, 12 s. 79
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creato, però proprio non limitatamente (contraete) al singolo. In ogni ente esso è, precisamente, come lo stesso principio, essenza dell'in sé differente: «esso è, così, tutto ciò che non è più una cosa che l'altra, perché non è così una cosa da non essere anche l'altra». È fissato in niente di determinato, ma insieme è tutto e nulla 84 • Il possest non è, dì conseguenza, una cosa posta col creare 85 , poiché questo stesso - ciò che è posto - non è mai ciò che potrebbe essere; ma il possest è il poter essere come essere o come essenza di ogni cosa creata . Proprio il rapporto di complicatio ed explicatio chiarisce il nesso di questo pensiero con il rapporto di identità e differenza: complicatio significa pienezza coincidente dell'essere - una pienezza che esiste prima di ogni opposizione - ed identità dell'essere assoluto e del pensare con se stesso; al contrario explicatio esprime la differenziazione di questa identità assoluta nel nesso di identità e differenza, che in una sempre diversa intensità, ossia in un grado più o meno determinato di identità (unità) o differenza, costituisce l'universum dell'essere. Una tale costituzione procede, da una parte, come determinazione, delimitazione (porre termine : terminatio, jinitatio) e limitazione (contractio), ma, dall'altra, come unione dell'in sé differente con l'origine: a l dispiegamento del principio corrisponde il ritorno dell'ente al principio, così come il rito rno pensante (reversio) del pensiero (mense inte!lectus) a se stesso per diventare certo del suo fondamento a priori 86 •
3. L 'autoidentità rij!essivo-trinitaria (identità con se medesimo)
Non-aliud, idem e possest -
come s'è visto - sono, in pari misura, nomi enigmatici per l'assoluto , trascendente essere co-
84
!bi, 12, 5-7: Sed dum est omnia in omnibus, sic est omnia quod non plus unum quam aliud, quoniam non est sic unum quod non aliud.; Ve n. sap., 34; n. 103: ... in ipsis omnibus possest ... est id quod sunt, et nullum omnium. i::,st igitur coniuncte omnia et nihil omnium. 8 5 Possest, 27, 14 s.: Nulla creatura est possest. 86 Riguardo all'unità sintetica di descensio ed ascensio nell'atto conoscitivo, cfr. Coni., II 16; 157 ss. Tale formulazione della ques tione è stata da me sviluppata in: Subjektivitiit, Schopfertum, Freiheit. Die Pltilosophie der Renaissance zwischen Tradition und neuzeitlichem Bewusstsein. in: «VerOffentlichune:en der JoachimJ ungius-Gesellschaft der Wissenschaften ·Hamburg», Gottingen-1978, pp . 15-31.
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me per l'operare di un principio divino immanente all'ambito della differenza o dell'alterità. Il pensiero che si esprime in questi nomi ha in comune con la concezione neoplatonica dell'Uno assoluto il fatto che esso chiarisce, da un punto di vista sempre diverso, l'autoidentità che non si esaurisce, nonostante il suo essere nell'altro. Motivata teologicamente, ma pensata nella sua struttura in modo del tutto filosofico, la forma caratteristica dell'autoidentità è per Cusano l' autoidentità trinitaria, vale a dire in sé re/azionale. Una tale forma di autoidentità illumina, ancora una volta a partire da una riflessione sui concetti di unità e identità, il concetto di differenza. L'autoidentità, o unità, trinitaria è infatti in sé «differenziata» o «distinta», poiché teologicamente il Padre non è il Figlio, il Figlio non è lo Spirito 8', differenziata o distinta tuttavia, non nel senso di una molteplicità numerica e dunque di una alterità che si esclude reciprocamente . Giacché questa differenziazione o dist inzione interna del principio è un procedere senza tempo in se stessa e a se stessa, l' unità è «sem pre già» raggiunta come essere identico a se stesso. In essa non può, allora, essere sorta o pensata l'alterità che si nega realmente o si esclude reciprocamente. Per questo è altrettato valida la proposizione: il Pad re è il Figlio, il Figlio è lo Spirito. Dunque, distinzione è, in modo identico, indistinzione: nam ubi distinctio est indistinctio, trinitas est unitas;
et e converso, ubi indistinctio est distinctio, unitas est trinitasss. Non potendo la trinitas, o triunitas, o unitrinitas 89 , essere intesa come trinità numerica, essa è pensabile solo come unità dei tre prima del numero tre, come principio di questo: tria sunt ante tria 90 • Tutte le affermazioni che riguardano l'esAeq., P. II a 20 r. [con P. si indica l'edizione del 1514 - di Faber Stapulensis - delle opere di Cusano]. 88 D. i., I 19; 39, 3-5. L'indistinctio, o indivisibilitas, è una determinazione del87
l'unitas: unitas, quae indistinctionem a se dicit et ab alio distinctionem (Non aliud, 5; 13, 10 s .. ; Coni. I 10; 44, 7). (Sulla storia del concetto, cfr. sopra p. 135). L'unità in tre persone tuttavia è, ad un tempo, distincta: questo certo come insuperabilc in-distinctio secondo l'essenza. Posizione del problema e terminologia del tutto simili in Agostino, Conf., XIII Il, 12: inseparabilis distinctio et tamen distinctio (attribuito alla Trinità). 89 D. i., I 20; 39, 25; Vis., 17; 11 8 r; Possest, 48, 6 (unitrinitas absoluta) . 90 Aeq., p I 19 r. Ibidem: Non erunt igitur plures aequa!itat~s, sed ante omnem pluralita/em erit aequalitas generans verbum, aequalitas gemta et aequalrtas ab urraque procedens.
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sere prima, o sopra, o assoluto del non-aliud, o idem, o possest, valgono, perciò, nella stessa misura e propriamente anche per la trinità. La trinità, nella quale il tre è superato nell'unità e che è complicativamente t utto ciò che può nel tempo essere, è unità assoluta o pura autoidentità, dalla quale scaturisce, attraverso il non essere del delimitato, primissimamente tutta la differenziazione (esterna) in finito e determinato. Essa è, come tale, «al di sopra» di tutto, ma la sua traccia è rintracciabile nell 'ente, del quale è fondamento creatore e conservatore. In particolare, l'uomo ha una struttura trinitaria, la quale viene da lui conosciuta nella riflessione su se stesso come unità da compiersi di ragione, giustizia e amore 91 • L 'autoriflessione, o autoconoscenza, dell'uomo diviene quindi punto di partenza per l'esperienza di una analogia trinitatis nell'ambito della finitezza, della riconduzione della traccia al suo fondamento. Siccome l'unità trinitaria è l'unico nesso di tutti i diversi aspetti del principio che si manifestano nei diversi nomi, appare di poco aiuto voler determinare il pensiero di Cusano come «metafisica dell 'unità» («metafisica dall'alto») a differenza di una «metafisica dell' essere» («metafisica dal basso» ) 92 • Nonostante il legame con l'interpretazione neoplatonica del Parmenide, il concetto cusaniano di unità è identico a quello di essere assoluto. L 'essere assoluto dell'Uno trinitario realizza il postulato neoplatonico, secondo il quale il principio deve essere sopra l'essere: come essere assoluto, esso è proprio sopra o prima della differenza di essere e non-essere. La differenziazione interna dell'unità trinitaria viene intesa da C usano ad un tempo come l'autoapertura del principio all'uguaglianza con se stesso e come ritorno a se stesso. Cusano incastona questo «processo», per il quale non sono pertinenti le categorie di «prima» e «dopo» 93 , nel movimento ternario: unitas - aequalitas - connexio, unità - uguaglianza - connes91
Coni., II 17; n. 173 ss. Su questa cerchia di problemi, cfr. R. Haubst, Das Bi/d des Einen und Dreieinen Gottes in der Welt nach Nikolaus von Kues, Trier 1952, pp. 145 ss.
n Quanto J. Koch abbia reso tutto ciò gravido di conseguenze per sé e per gli interpreti che lo seguono, in: Die Ars coniecturalis des Nikolaus von Kues,
«Arbcitsgemeinschaft ftir Forschung des Landes Nordrhein-Wes tfalen», Heft G 16, Opladen 1956, p. 23 .. . 93 D. i., I 20; 40, 5 ss. Successio sine successione: Vis. dei, Il; P I 104 r.
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sione 94 • L'unità «ripetuta una volta sola genera l'uguaglianza dell 'unità» 9S. L'uguaglianza è, così, «uguale» all'unità. Ossia: se alla sua essenza non spetta l'alterità, allora essa è pura unità o identità 96 ; se essa non può essere né più né meno di quanto è, è l' unica realtà dell'assoluto essere e potere (possest)97. Come il non-aliud, quale principio operante nell'ente, fonda la sua non-alterità o identità, allo stesso modo, per l'aspetto positivo, l'uguaglianza chiarisce la stessa azione del principio: essa costituisce l'uguaglianza (identità) dell'ente con se stesso, tanto che questo è sempre né più né meno che se stesso (quod subsistit) 98 ; ad un tempo essa è causa del fatto che una cosa è nell'altra 99 • L'aequalitas absoluta deve essere così intesa tanto come autouguaglianza del principio che come fondament.o dell'uguaglianza dell'ente con se stesso. L'uguaglianza dell' uguaglianza con se stessa si esprime nella connexio; essa è l'attiva, unificante disposizione di questa autoidentità. Non potendo l'autoapertura del principio nell'uguaglianza essere afferrata come diventar-altro-da-sé, anche la connessione è «nient'altro » 100 che l'uguaglianza con l'unità. L'autoapertura è infatti già un movimento di ritorno in sé. Oppure: la connessione è il compimento senza tempo dell'unità. Definito processio nella tradizione teologica, questo compimento dell'unità verso una tri-unità, o la terza persona divina come unità della prima e della seconda, può perciò essere definita solo come quasi quaedam ab altero in alterum extensio 101 : la relazionalità esistente dell'unità stessa. Nel contesto della sua riflessione teologica e filosofica Cusano concepisce il compimento di questa unità tanto come amor 102 94
D. i., I 8 s.; Coni., I l; n. 6; Sap., I 19, 13 ss.; Ven. sap., c. 21-26. 95 D. i., I 8; 17, 19 s. [trad. it. , p. 69]. Nel suo commentario da Giovanni e in quello all'Esodo (n. 164; LW III 135, 7. n. 16; LW II 22, 2) Meister Eckhart intende un'a ffermazione attribu ita ad Ermete Trismegisto, monas monadem gignit (ve/ genuit), in modo analogamente oggettivo. 96 Aeq., P II a 18 v; D. i., I 21; 42, 13 ss. 97 !bi, 18 v l 19 r. 98 !bi, 19 r (sotto) l v (sopra) . 99 Theol. compi., III; P II b 94 r. 100 Ven. sap., 24; n. 71. JOJ D. i., I 9; 18, 5 s. JOl Vis. dei, 17; 108 r s .: amor amans, amor amabilis, utriusque amoris nexus.
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che come intellectus 103 o conceptus absolutus 104 • Il concetto assoluto, o intellectus, è il principio in quanto pensa e comprende se stesso 105 • All'interno di questo pensare-se-stesso il principio procede in se stesso e diviene, per così dire, «oggetto» a se stesso. Dal punto di vista teologico tale procedere del principio in se stesso è PAROLA: il principio si esprime in essa. Ma tale esprimere-se-stesso è identico alle idee, che, come mundus per se subsistens, sono il fondamento di un mondo, il quale, come finito , esiste, in un secondo dispiegarsi del principio - parola , solo mediante quelle. Nel principio essa è contemporanea a questo in quanto se stesso - poiché non è «ancora » un altro - atemporale come infinito «schema progettuale» del finito 106 • Nell' autoapertura che pensa se stessa, il principio, che media nella parola sé con se stesso, si riconduce nel medesimo tempo a se stesso e, così, si connette a sé in un'unità trinitaria. L'autoapertura trinitaria è, dunque, ritorno pensante di un principio a se stesso. Identico ad amor o connexio, questo ritorno è unità che si apre all'uguaglianza, ossia a se stessa, e, in quanto uguale a se stessa, si è così unita a sé: autoidentità relazionale, riflessiva.
4. Cusano in riferimento alla dialettica di Hegel L'autoidentità trinitari o-riflessiva, secondo una prospettiva filosofica, aggiunge al «primo principio eterno» lo stesso concetto neoplatonico dell'Uno e dello spirito atemporale che pensa se stesso, cioè le idee, come suo proprio essere 107 • La rifles103 Ad. es.: Vis. dei, 18; l 09 r: lntellectus intelligens, inte//ectus intelligibilis, utriusque nexus. !bi, c. 10. 103 v: il vedere (creativo) di Dio è identico al pensare. e. 12; 105 r: sulla visio absoluta: ... non vides aliud a te, sed tu ipse es obiectum tuiipsius (es enim videns et visibile atque videre). D. i., I l O; 20, 7 s.: deus come simplicissima et abstractissima intelligentia ... ubi omnia sunt unum; 17 s.: videmus unitatem inte//ectus non a/iud esse quam intelligens, intelligibile et intel/igere. Ma il maximum è anche max ime inte//igens (nr. 20 e pp. 21, 12 s.); Coni., I 2; 7 e 12: mens infinita. 104 Possest, 38, Il e 40, 18; Non aliud, 20; 49, 20 s.; Sap., II 30, 4; IO (come ars abso/uta mentis). All'esplicazione di questa cerchia di problemi nella pro-
spettiva della metafora del «vedere assoluto» è dedicato il capitolo seguente. 105 Possest, 30, 7 s. 106 Princ., n . 15 ; 21; 23. 107 Aeq., P II a 19 r.
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sione fìlosoficamente stringente intorno al dogma teologico della Trinità è difficilmente pensabìle senza un legame a tale forma storica della riflessione assoluta. Proprio questo fa apparire tuttavia legittima anche la domanda se ed in quale misura possa essere pensata un'affinità di Cusano con la dialettica di I-legel - anche se, o addirittura perché, Cusano determina ulteriormente la concezione neoplatonica di principio e di riflessione assoluta. L'affinità immediatamente percettibile delle due strutture concettuali deve però essere sempre corretta e modificata - tanto sin dai presupposti come anche rispetto al fine del pensiero di volta in volta in questione 108 • Neanche il comune orizzonte dell'indivisibilità di teologia e filosofia è un orizzonte identico: la riflessione fi losofica di Hegel supera in sé il pensiero teologico, tanto che esso giunge in essa al suo compimento; la comprensione filosofica di Cusano - almeno nelle intenzioni - sta nella funzione del pensiero teologico, il quale però non può essere isolato o colto in modo ingenuamente storico e letterario, ma rimane sempre speculativamente compenetrato. La coincidenza deglì opposti è una concezione che muove il pensiero di entrambi. Mentre Cusano pensa il superamento degli opposti in Dio risalendo sino all'essere, al di sopra di ogni contraddizione, della triade nell'unità che è già sempre ciò che essa è, Hegel comprende l'unità degli opposti come un «risultato»: è il movimento della riflessione immanente all'essere; e tale movimento permette che ciò che appare come tale separato passi l'uno nell'altro, comprende ciò che è opposto nella sua unità e, con questo, dà origine all'identità come autocompenetrazione o automediazione dello spirito con !'«idea». Ma l'idea «è, essa stessa, la dialettica che eternamente separa e distingue l'identico a sé dal differente, il soggettivo dall'oggettivo, il finito dall'infinito, l'anima dal corpo, e solo così è 108 S'adoperano a ch iarire qu esto rapporto: E. Metzke, Nicolaus von Cues und Hegel, in : Coincidentia oppositorum. Gesammelte Studien zur Philosophiegeschichte, a cura di K . Gr(inder, W itten 1961, pp. 241-263 ; J. Stallmach , Das Absolu!e und die Dialektik bei Cusanus im Vergleich zu Hegel, in: «Scholastik» , 39 (1964), pp. 495-509; M . de Gandillac, Nikolaus von Kues zwischen P/(1/on und Hegel, in: «MFCG», 11 (1975) , pp. 21-38. Cfr. anche il prossimo capitolo,
pp. 202 ss.
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creazione eterna, vitalità eterna e spirito eterno» 109 • Questa determinazione dell'idea può essere pensata solo insieme con l'altra, secondo la quale essa è essenzialmente «processo» o «corso» llo, dunque «originariamente» non questa vitalità eterna ecc., ma un'unità che media sé con se stessa; cioè, in questo contesto: un'unità che costituisce mediante riflessione se stessa nell'alterità. L'unità è «solo alla fine» ciò che «è in verità»u 1• Questa concezione non può essere però identificata con la rappresentazione romantica di un «Dio diveniente», di un assoluto che si produce come tale nella storia: il «risultato» del movimento è l'esplicazione di ciò che l'inizio «era in sé», di ciò che era nel modo astratto d'essere. L'inizio media per riflessione sé a vero inizio e così diviene ad un tempo punto d'arrivo del movimento, diventar-cosciente dell'in-sé n eli 'essere-in-sé-e-per-sé dell'intero. Per Cusano la negatività o è alterità che delimita e determina nella dimensione del finito (e dunque degli opposita), o negatività o differenza assoluta, il nihil omnium, antecedente ad ogni opposizione e, come coincidenza dei contrari, al di sopra di ogni opposizione. Tuttavia, secondo Hegel, la negatività deve essere intesa come l'elemento che muove nell'esplicazione dell'idea, come «impulso» o «inquietudine» di questo processo, la quale non permette che si radichi in se stessa una determinata fase dell'essere. La negatività , come forma di riflessione e come determinazione dell'essere, supera, nel complesso, la contraddizione e spinge così o il qualcosa o una fase all'interno del processo globale, in modo da apparire ancora tale in ciò che di nuovo è stato raggiunto. Questo, il negativo, è tuttavia proprio ciò che in esso è realtà vitale. Anche se Hegel definisce il «non-essere del finito l'essere dell'assoluto» 112, difficilmente esso può essere identificato con il concetto cusaniano della negatività assoluta dell'assoluto essere-Uno. Il non109 Enc., § 21 4, 184, 7-11. [trad. it., p. 440) [Dove è possibile si fa riferimento alla trad. it. di V. Verra: Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio. Scienza della Logica, Torino 1981 ]. IlO !bi, § 215, 184 s. [trad. it., p. 441). 111
Phanomenologie, Vorrede p. 21 (Hoffmeister) [trad. it . di E. De Negri: Hegel, Fenomenologia dello spirito, Firenze 1960, p. 17]. 11 2 Logik, II, p. 62 [trad . it. di A. Moni riv. da C. Cesa: Hegel, Scienza della logica, Bari 1924/25-19682 II, p. 64. Ci riferiamo qui alla ristampa - 1974 - della seconda edizione]. Sul concetto hegeliano di negazione, cfr. pp . 305 s.
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aliud non può essere infatti pensato alla stregua di una tale negatività che si dispiega, dal suo in sé al suo in-sé-e-per-sé, come «concetto assoluto» nella negazione del negativo o del contraddittorio . Il non-aliud è - detto hegelianamente in una prospettiva volta ai contenuti cusaniani - già sempre, dunque non «nel», ma «come» inizio (principio) , «essere pieno», «concetto che si concepisce», «assolutamente intensiva totalità» 113 • La differenza del concetto filosofico di Hegel della triade (triplicità) e della trinità teologica rispetto alla "triunitas" cusaniana si mostra primariamente nel fatto che essa ha in sé necessariamente il momento dell'alterità: la trinità è pensabile solo in base all'autoseparazione, al divenire altro da se stesso, ali' autonegazione. La trinità è totalità concreta, cioè totalità che «si forma» da se stessa 11 \ e alla fine giunge (in forma compiuta) al suo vero inizio, diviene inizio che media e riflette se stesso. Questo «assolutamente concreto» è insieme ciò che di più ricco e soggettivo vi sia, che «attraverso la dialettica assoluta» mantiene e contiene tutto in sé: la «pura divina personalità»115. Di fronte a questa automediazione mediante negazione ed alterità sta l'autoapertura nell'uguaglianza (aequa!itas) dell'unità, che, come uguaglianza, è legata all'atemporale inizio dell'autoapertura, all' unìtas: l'uguaglianza è nello stesso tempo connessione (connexio). In vero, tanto l' «idea» hegeliana come anche la trinità cusaniana sono riflessione assoluta, ossia riflessione in sé compiuta e perciò non più superabile, e, tuttavia, entrambe si distinguono in relazione alla riflessio-· ne finita che tende all'assoluto. Per Hegella riflessione assoluta è totalmente trasparente anche al pensiero finito, il quale è come un momento in essa; il processo delle categorie della Logica è, per così dire, il compimento trascendentale (temporale) del pensare ed essere in sé e per sé assoluto. L'autoidentità trinitario-riflessiva di Cusano è, al contrario, sottomessa sempre alla riserva congetturale della teologia negativa: solo limitatamente - in alteritate - essa è raggiungibile dal pensiero finito sulla base dell'assolutezza di quella. 113Logik, II , p. 114 Sul significato
504 [trad . it., III, p. 374]. di questo concetto, cfr . W. Beierwaltes, Platonismus und ldealismus, pp. 169 ss. [trad. it., pp. 187 ss.] . 115 Logik, II, p. 502 [trad . it ., III, p. 372].
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La riserva congetturale «sa» tuttavia che quello che il pensiero «tocca senza toccare» (inattingibiliter attingit) è l'assoluto nella forma della pura autopresenza riflessiva. Talvolta ardite, le anticipazioni cusaniane della dialettica hegeliana 11 6 possono essere intese come il culmine delle possibilità di una teologia filosofica, le cui concezioni fondamentali si fondano su una metafisica neoplatonica. Nel riallacciarsi a questa tradizione speculativa e nel suo sempre diverso trasformarsi, il pensiero di Hegel è strettamente unito a quello di Cusano. Nonostante le diverse impostazioni e i diversi fini, a giudizio di entrambi è centrale la domanda circa l'identità di essere e pensare: l'essere assoluto (divino) è il puro, assoluto pensare. Esso ha superato in sé tutto il finito sia come già sempre esistente, in quanto principio, fine dell'intelligibile circolo del mondo che ad esso è legato, sia come tefos della storia della ragione che giunge a se stessa. Attraverso Hegella dialettica, riducibile da ultimo al Parmenide di P latone, è diven tata, da un incommensurabile nesso dell'Uno assoluto (non-aliud, idem, possest) con il molteplice posto dalla creatio e in sé opposto, come lo ha pensato Cusano, l'atto del superamento del molteplice e dell'opposto in un'unità assoluta che riflette se stessa nel suo altro: «identità dell' identità e della non-identità», nella quale è «contemporaneamente opporre ed essere-uno» w .
11 6 Sul sign ificato della concezione di coincidenza per Schelling, che, tramite Giordano Bruno, lega il suo pensiero tanto a Cusano come anche alla filosofia neoplatonica, cfr. pp. 249 ss. 11 7 Hegel, Dijjerenz des Fichteschen und Schellingschen Systems der Philosophie, Ges. Werke IV (a cura di H. Buchner e O. Pi:iggeler), Hamburg 1968, p. 64, 13-15. [trae!. it. R. Boclei, Hegel: Primi scritti critici, ìviilano 1971 , p. 79]. Nella edizione tedesca del presente libro si trovava qui un capitolo su Martin Heidegger che era preposto a chiarire l'oggettiva ri levanza delle nozioni in precedenza sviluppate. Esso ora costituisce la chiusura del li bro.
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II. Visi o absoluta. Riflessione assoluta m Cusano
Per diversi aspetti il nesso di identità e differenza si è dimostrato in un senso assoluto la struttura concettuale basilare della riflessione. La «differenza» è costitutiva per l'autoidentità trinitario-riflessiva, senza che essa si fissi in sé e raggiunga così una polarità antitetica (non-dialettica) rispetto all'identità. La seconda riflessione intorno al pensiero dì Cusano inizia con la veritas absoluta, che pensa e conosce se stessa, e cerca di chiarire la struttura della riflessione assoluta nel contesto di identità e differenza. Inoltre lo sviluppo soprattutto cusaniano di questi contenuti viene storicamente delimitato e, ad un tempo, mediato col ricorso ad Aristotele e ai concetti neoplatonici dì Uno e di Spirito. La determinazione del primo principio o dell'essere divino, qual è stata formulata nella «teologia» di Aristotele, di essere non solo spirito o pensare, n1a pensiero del pensiero, autoriflessio-· ne, rimane feconda per la metafisica sino alla sua forma idealistica. Di conseguenza tale determinazione costituisce il concetto supremo della metafisica aristotelica, in quanto pensa il principio primo, in se stesso senza processo, ma fondamento di ogni mutamento, come pura realtà. Pensare è la forma infinita di vita dell'essere divino; esso non gli s'aggiunge incidentalmente, solo in momenti limitati e sotto determinati presupposti; al contrario: è la sua essenza. Se pensare è in assoluto l'attività suprema ed è, quindi, «anche» quella del principio divino, allora il pensato o l' «oggetto» di questo pensiero può essere solo il massimo o il meglio (il più razionale): il pensiero stesso. Ciò che riesce solo in singoli momenti al pensiero umano, ossia avere nella riflessione se stesso ad oggetto, è essenziale e necessario per l'essere originario, primo. Dio pensa se
stesso, è il suo proprio pensare, pensiero del pensiero 1 • Dì regola decisiva per l'am bito della kinesis, la priorità del pensato intenzionalmente teso rispetto all'atto del pensare è superata nell'identità - pura realtà esistente - di pensato e pensare. Proprio per il fatto che Dio, in quanto pensare, è «oggetto» di se stesso egli rende possibile e garantisce la processualità ordinata della physis e del suo movimento verso di lui, come telos di essa. La fi losofia neoplatonica e la teo logia cristiana hanno, in modo molteplice e con intenzione parzialmente diversa, elaborato questa concezione della «teologia» aristotelica in un dogma filosofico o teologico altrettanto centrale : è, questo, lo Spirito senza tempo («asso luto»), che si pensa come suo essere, e l'essere di Dio, che si coglie riflessivamente nel procedere trinitario e nel movimento di ritorno 1" . Nicolò Cusano è molto legato a questa concezione dì fondo della teologia filosofica. Nel periodo dì transizione all'epoca moderna egli è stato colui che l'ha portata, in modo particolare nella sua opera del 1453, De visione Dei, ad espressione massima, perché massimamente differenziata secondo l'oggetto. È proprio per questa ragione che - nonostante ogni diversità - precorre la dialettica hegeliana, la quale è essenzialmente determinata dal concetto di Dio come assoluto che pensa se stesso.
l. Il vedere e concepire Dio come atto assoluto e, ad un tempo, finito
Già il titolo dello scritto cusaniano De visione Dei chiarisce il duplice aspetto sotto il quale la concezione si dispiega nella sua interezza: Dio stesso vede, e viene insieme visto da coloro che vede. Con ciò il «vedere» di Dio non è, tuttavia, tematizzato in un modo tale che entrambi gli aspetti siano di fronte come attività e passività. II vedere di coloro che Dio stesso 1
Met., 1072 b 18 ss. e 1074 b 33 ss. (circa il voilç divino):
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t'cr'tt'l 7j v6r:crtç vof1az.cvç 'J6Yjcrtç.
1' Riguardo al rapporto di Agostino con la tradizione aristotelica e neoplatonica per l'aspetto dell'«autoriflessione», cfr. E. Booth, St . Augustine's «notitia sui» related to Aristotle and early neo-Platonists, in: «Augustinia na », 27 (1977), pp. 70-132, 364-401 ; 28 (1978), pp. 183-221. Vedi anche nota 92.
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vede, come suo esser-visto, è infatti incluso nel suo proprio atto di vedere, in quanto fondato da lui stesso 2 • L'inseparabile nesso tra i due aspetti si mostra primariamente nel fatto che l'esservisto di Dio da parte di un altro presuppone il suo proprio vedere, quale esser-visto-da-Lui-stesso. In questo duplice, sempre diverso esser-visto, il vedere di Dio risulta essere fondamento, origine, principio (principium) esistente. L'approfondimento delle molteplici connotazioni del vedere (ad esempio: discernere, loqui, movere, causare, amare, misereri, pro-videre) diviene, così, apertura all'essere ed operare dello stesso principio. Il potenziale metaforico - ricco anche storicamente - del vedere ne media la maggior parte con un interesse primariamente filosofico: vedere come pensare e riconoscere (intefligere, intellectus, intuitus) o come concepire (concipere, conceptus), vedere, dunque, come riflessione o autorìflessione del principio divino. L'intento del De visione Dei può essere concepito anche come sviluppo speculativo dell'etimologia, che risale alla Stoa, di -&~6ç come -&~wpwv (deus videns)3, però senza la pretesa di possede2
Vis. dei, 2; fo l. 99 V, !in. 38 s. Cfr. anche nota 11 4. P roprio la fondazione dell'uma no vedere Dio nello stesso vedere d i Dio (gen. sogg.) viene presa in considerazione da Meister Eckhart quando afferma: Daz auge, diì inne ich got sihe, daz ist daz se/be auge, diì inne mich got sihet: mfn auge und gates auge daz ist éin auge und éin gesiht und éin bekennen und éin minnen (Pred., 12, DW I 201, 5-8, ed. Quint.) -«L'occhio nel quale vedo Dio è lo stesso occhio nel quale Dio mi vede: il mio occhio e l'occhio di Dio non sono che un occhio, una visione, una conoscenza, un amore» [trad. it., p. 250]. 3 SVF, II 300, 21 (gli dei permettono che si possano vedere i :p::nvovov:x). La· recezione di questa etimo logia è stata feconda di conseguenze per la teologia cristiana. I. Opelt ha seguito, soprattutto all'interno della patristica greca, alcuni aspetti di questo processo («Jb. f. Antike und Christentu m », 2 (1959), pp. 70-85; pp. 72 ss. su ~Eoç). Quale nomen agentis (storicamente ancora prima del passo di Eucherio addotto da Opelt , op. cit., p. 76), ad es. in Gregorio di N issa, c. Eunom., II, vol. l, 397, 9 ss. Jaeger: r.Cicn 7t<Xpiì:vcxt 'tÒ ~Etov xati r-oorc:x ~Eiia~cxt xa1 o•.ò: 7té
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re già nella parola, in modo completo e attendibile, ciò che è il contenuto. Questo viene a chiarirsi proprio in quelle connotazioni del vedere che non sono direttamente congiunte alla parola iniziale: videre. cusano rende comprensibile l'inseparabile relazione di vedere ed esser-visto nel fenomeno del vedere divino o assoluto mediante un'analogia, un'immagine in senso reale e metaforico. Ai destinatari dello scritto, i monaci del convento di Tegernsee, manda una «icona Dei» che tramite l'evidenza e la certezza di una esperienza sensibile - experimentaUter - deve condurre all'analogo ed intelligibile essere e procedere. Questa «immagine di Dio» - fissa in un luogo - segue ad un tempo con lo sguardo ogni osservatore che è rivolto ad essa da un «angolo visuale» (angulus ocu!t) continuamente diverso. II suo sguardo rimane rivolto all'osservatore anche nel momento in cui costui muta la sua posizione, e nemmeno «abbandona» coloro che nello stesso tempo si scambiano, in direzione opposta, il punto di partenza del loro sguardo: piuttosto entrambi «Si seguono» reciprocamente, ma rimangono , in modo invero sempre diverso, totalmente all'interno dello sguardo dell'unico fine 4 • La funzione metaforica di questa immagine reale - essa stessa deve essere intesa come un'immagine: una metaphora rei - si manifesta a più livelli già nell'ambito che procede la fondazione del pensiero. Prima di tutto essa rimanda all'atto fondamentale di Dio, il vedere. Questo è invero distinto, in quanto vedere assoluto (v;sio absoluta), dal vedere finito, li mitato o ristretto (visus contractus), tuttavia è e rimane in esso. Il vedere assoluto si confina, per così dire, nel vedere dei singoli osservatori, i quali, proprio per questa contractio, sono in grado di vedere 5 • L'autolimitazione del vedere assoluto a sguardo su ciò che è singolo, è, ad un tempo, un superamento di ciò che è limitato nello stesso assoluto: tutto è infatti nell'assoluto in del De visione Dei di Cusano si trova anzitutto la discussione della tematica indicata, in quanto essa chiarisce, connettendoli concettualmente, gli aspetti essenziali del problema. 4 Vis., praef. 99 r 13 s. e 4; 100 r 12 e 44. Sulridentificazione storica d'una immagine del tipo descritto, cfr. H. Kauffmann, Ein Selbstportrdt Rogers van der Weyden auf der Berner Trajansteppichen, in: c
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modo illimitato (incontracte) comejondamento del limitato. Oppure : omnis contractio est in abso!uto, quia absoluta visio est contractio contractionum 6 , è l'assoluto come negazione del limite. L'immagine rimanda anche al fatto che il vedere assoluto è in-finito o «completo» rispetto a quello limitato, in quanto esso vede nello stesso tempo il singolo e l'intero: «si cura» del singolo, o dell'individuale, allo stesso modo che dell'intero. Nel suo vedere, che riunisce il minimo ed il massimo, ed è in esso operante, appare il suo essere concidente 7 • Rispetto a ciò il vedere finito, o limitato, a partire ·dalla prospettiva ad esso propria, è sempre fissato soltanto su una cosa determinata e questa non viene vista come intero; ed anche nello sguardo all 'assoluto, esso non lo vede in lui stesso, ossia così come esso stesso è, l'onniveggente (cuncta videns), ma sempre solo in limitazione negativa, ossia congetturale . Dal fatto che lo sguardo di Dio nell'immagine rimane anche in colui che muta la sua prospettiva rispetto a lui, deve diventare inoltre chiaro che il vero sguardo del Dio vero rimane se stesso, ma ad un tempo appare di volta in voita altro o mutevole; in se stesso è l' unità paradossale di immutabilità e mutamento, di movimento e stato di calma come movimento permanente o permanenza mossa. Allo sguardo finito quello assoluto sembra mutarsi, tuttavia rimane in sé ciò che è, nonostante il suo «essere-esterno-a-sé» 8 • Nell'immagine traspare già l'incrocio, che deve essere ancora trattato, di trascendenza ed immanenza del principio divino. Quanto al contenuto, Cusano differenzia il vedere assoluto in primo luogo a partire dalla metafora della facies e dal concetto di forma. Nel vedere di Dio non viene «isolato» il suo sguardo ; è questo invece ciò che nel volto è determinante: visus tuus ... est jacies tua 9 • In quanto tale sguardo determina il volto, esso può essere pensato identico alla forma: certo non nel senso di un apparire analogo a ciò che è esterno, ma del!bi, 2; 99 v 36 s. !bi, l; 99 v 12: simul omnia et singula inspiciens. 2; 99 v 31: simul et seme!. 9; 103 v 36. Pmef 99 v 3. 8 !bi, Praef 99 r 34 e 3; 100 v 2 ss. L'identità di en unciati che si spiegano reciprocamente caratterizza il metodo come una theologia circularis (o in circulo: D. i., I 21; 44, 4; Vis., 3; 100 r 3 s.). Cfr. anche sotto pp. 183, 197 . 9 !bi, 6; 101 r 28. 6
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l'attivo dare forma. L'absoluta forma, come forma libera da ogni contractio categorialmente intelligibile, diviene misura determinante per tutto ciò che attraverso essa stessa è, per sé, altro da essa stessa 10 • Nel concetto di forma che dà forma in modo assoluto, è dunque colto l'aspetto costitutivo dell'essere del vedere assoluto; questo indica principalmente a partire da sé: vedere come principium ex quo omniall. La funzione costitutiva, o creativa, del vedere è, tuttavia, sufficientemente comprensibile solo sul fondamento di un vedere «interno». Punto di partenza può essere il tentativo, decisivo anche per il De visione Dei, di pensare il presupposto e l'avvenimento dell 'alienarsi creativo del principio nella polarità concettuale di comp!icatio ed explicatio (includenza, complicazione ed esplicazione) 12 • La metafora, a questo connessa, illumina il fondamentale problema filosofico e teologico del rapporto dell'unità originaria con la molteplicità posta e riferita al suo inizio: il punto si apre alla linea, l'Uno nel numero, l' «arte» si sviluppa dall'unità delle progettazioni in forme molteplici, il seme dispiega ciò che in esso è deposto in un risultato in sé unico e, tuttavia, dìfferenziato 13 • Se exp!icatio significa partecipazione, che si delimita e pone il limite ed il finito, da parte del principio alla sua intensità d'essere, allora complicatio esprime l'unità originaria, che è vis (virtus) absoluta o posse abso!utum 14 nel senso che tutto ciò che può essere è in essa come pura realtà: possest, poter-è. Dal momento che il principio, quale causa, o forma fondante (vis conditrix), com!bi, 6; 101 r 13 ss. e 103 r 24. /bi, 7; 101 V 27 S. 12 /bi, 2; 99 v 32 ss. IO; 104 r 17 . 11; 104 v IO s.; D. i., II 3; 69, 9 ss.; Possest, 8, 19 ss. Questa termi nologia non ricorre solo a partire dalla scuola di Chartres in poi (cfr. ad es. Teodorico di Chartres, Lectiones in Boethii librum de trinitate, II 4; 155, 39 s. - Haring 1971 - : deus est unitas conplicans in se rerum universitatem in simplicitate quadam. II 27, 163, 13. !55, 41: conplicationis exp/icatio), ma risale al concetto genuinamente neoplatonico dello spiegarIO
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si dell'unità. Per i term ini mptixew o neptÀafJ.~6.vew, t;e).[netv cfr. ad es. Proclo , In Parm., 1098, 31 s. (Cousin): 1:Ò tv rc6.v~wv inìv ... rcept).1J7t'ttxw,;a,;ov xaì oùo~v z~w 'COU Év6ç. Tutt o questo può fungere da modello immediato per Dionigi Areopagita, De div. nom., IX 3; PG 3, 912 B: 1t&ptÀ1Jmtxòv mxnwv: In Aie., 38, 5 (Westerink). Elem. theol., 152; 134, 11 (Dodds). Plati no, Enn., VI 8, 18, 18 (circa lo Spirito in rapporto all'Uno): otov l~eÀ tx-6 ~v oòx l~&À1J),twivov. 13 /bi, 7; 101 v 31 ss. e 102 r 17. 19; 109 v 13 ss. 14 !bi, 7; JOl v 40 e 45. 102 r 10; 15. Possest, 6, 7; 12 (possibilitas absoluta come puro atto creati vo), 14, 4: posse est; 27, 5: posse absolutum.
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prende in sé tutto in modo assoluto 15 , questo è in esso in quanto esso stesso, quindi in quanto assoluto, ma è alienato in quanto cosa sempre propria: (omnia) exp!icite in creatura mundi sunt mundus 16 • Però questo non significa che entrambe le dimensioni siano di fronte dualisticamente o addirittura si escludano. È proprio un fine del pensiero di Cusano, e da lui perseguito in modo diverso, concepire l'unità assoluta processuale e l'alienazione creativa mediante gli enigmatici nomi divini di non-aliud, idem e possest come un rapporto dialettico, nel quale tuttavia l'unità del principio rimane determinante per la sua esplicazione 17 • In modo corrispondente il fondamento complicativo è anche nella sua propria exp!icatio; infatti ciò che è altro rispetto alla stessa origine è solo attraverso l'operare iniziale di questa: operare poi continuo in ciò che è posto creativamente: essa è la sua essenza fondante e conservante ; .. .et - ut est comp!icatio - omnia in ipso esse ipse, et - ut est exp!icatio - ipsum in omnibus esse id quod sunt 18 • Se essa viene pensata esistente addirittura come «tutto in tutto» (l C or 15, 28), poiché la sua essenza penetra ogni ente, così questa concezione non è separabile dal pri ncipio secondo cui essa è l'assoluto ad un tempo esterno e al di sopra del creato come nulla di tutto 19 , in quanto in alcun ente sorge pienamente come se stessa. Mediante che cosa o come il principio comprenda processualmente ogni ente è una questione che riconduce alla spiegazione del vedere assoluto e chiarisce le conseguenze per la concezione cusaniana del principio. La forza includente, unificante, ma altrettanto separante 20 , è nel principio il pensare, il comprendere, l'intuire, il sapere, che si esprime nella parola. Que15 !bi, 7; 102 r 5 e 2 s.: principium il/ud et causa in se habet complicite et absolute ut causa, quidquid dat ejjectui. 16 Possest, 9, 7.
Cfr. a riguardo pp. 191, 193. D. i., II 3; 71, 14 ss. 19 Ad es.: Vis., 12; 104 v 38: omnia et nihil omnium simul. 13; 105 v 37: nullum omnium. Non aliud, 6; 14, 17: omium nihil. Plot ino, Enn., VI 7, 32, 12 s.: l'Uno è oùoi~ 'w~ o~~w~ xcd 1tG.v~tx. Vf 8, 9, 43. Proclo, In Parm., 1108, 24 (Cousin): oòU~ 'tWV 7ltXV'((<)V. In Parm., VII (Piato Latinus, m, ed. R. Klibansky) 68, 10; inoltre l'appunto di Cusano a p. !05: unum nullum ens omnium, causa est onznium. 20 Vis., 8; 102 v 20: unicus intuitus, che distingue c, ad un tempo, unisce. 17
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sto esprimer-si non crea, tuttavia, una differenza nell'assoluto, rna è lo stesso assoluto pensare o comprendere. Il principio può perciò essere inteso in modo filosoficamente sufficiente come concetto assoluto (conceptus abso!utus)Z 1, come ratio absoluta o fondamento pensante delle idee che progettano atemporalmente il mondo 22 , oppure come sapere (scientia) che si sa da se stesso e come inte!lectus che riflette se stesso. In questa concezione di fondo Cusano si vede rimandare oggettivamente e storicamente a «Platone», cioè al concetto neoplatonico di conditor inte!lectus e alla metafisica di Aristotele che «dimostra razionalmente molte teorie conformi alla verità»: principium esse penitus in actu, qui se ipsum intelligit, ex quo de!ectatio summa 23 • Queste ed altre strutture concettuali genuinamente filosofiche identificano il concepire, o il pensare, con l'essere nella sua suprema intensità (esse absolutum) e determinano in modo identico il dogma teologico centrale di Verbum: unicus enim conceptus tuus, qui est et verbum tuum, omnia et singu!a complicat. Oppure: «il tuo concepire è parlare»24. Concepire, intuire, sapere e parlare, quali modi del pensare, vengono da Cusano considerati in generale identici al vedere 25 • Il vedere, così «differenziato», è allora in senso vero e proprio la forza complicativa, unificante e formante del principio divino, e lo è in quanto presupposto del!'exp!icatio di quest'ultimo. Dall'ulteriore identificazione del vedere col creare 26 diviene evidente la funzione non-recettiva, ma piut!bi, lO; 104 r 16; Possest, 38 , II. 40, 18; Non aliud, 20; 49, 20 s.; De aeq., P II a 19 r 12: conceptus sui ipsius. La qual cosa è analoga al pensiero plotiniano secondo cui il voiiç assoluto è, in quanto pensiero o comprensione di se stesso, vedere sé: òpiiv ltxu~6v ... '~v o:icr(tx~ txù~o5 opMw ~tvtxt (V 3, 10, IO ss .). 22 Vis., 3; 99 v 42 e 20; IlO r 25 . 23 !bi, 12; 104 v 41 ss. e 18; 109 r 19 s.; De beryllo, 24 (Baur = C. 25 Bormann); 30, 16 ss. (circa la connessione con Aristotele). Non aliud, prop. XIX; 64, 30 ss.: deus come intellectus intelligens (qui non est) aliud ab intellecto. Nel Non aliud (23; 54, 17) ·la visionum visio può anche corrispondere all'aristotelica ~o~cro:w; v6Y)crt;, che «guarda (intuetur) a sé e, ad un tempo, a tutto», e, con ciò, «delimita» (definire, 54, 26 s.). Intellectus sui: Possest, 38, Il.; Princ., 21, 5 ss. - De sap., I; 14, 5, Baur: suum vivere est intelligere, rimanda ad 1\rist., Mel ., !072 b 26 (cfr. nota III) . 24 Vis., lO; 104 r 16 s. In 104 r 8: concipere tuum est loqui. 25 !bi, IO; 103 v 40 ss. e 12; 104 v 41 s.; Princ., 21, Il ss. 26 !bi, IO; 105 r 6: videre tuum est creare tuum. 10; 104 r 2 s. Theol. comp., P II b 100 v 9: se videndo cum sit causa videt omnia creata. Non aliud, 23; 2l
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tosto attiva, costituente del vedere per l'essere del medesimo principio, ed anche per il divenire e l'essere dell'ente finito. Il vedere del principio in esso stesso ha se stesso ad «oggetto», è, a differenza del vedere finito, allo stesso tempo e in una volta (simul et seme!) soggetto del vedere, atto del vedere e cosa visibile 27 • In questo veder-si, quale in sé unitario diventare oggetto a se stesso, esso crea se stesso (videris creare teipsum, sicut vides te ipsum)2 8 • Non si può, tuttavia, affermare che il principio si sia prodotto come risultato dal suo proprio inizio nel senso di una evoluzione temporale. Il suo veder-si , in quanto identità di creare e venire creato o in quanto percepire del principio da se stesso, deve essere inteso come un atto assoluto e, quindi, atemporale - detto in modo paradossale: come una successio sine successione 29 • Il concetto assoluto, in quanto vedere se stesso o in quanto autocostituzione assoluta, è pensabile solo come unità, semplicità, identità, o come infinità vera, attuale. Ma ciò significa: il pensare stesso, l'autoapertura pensante e parlante del principio, o compie o è questa unità. L'inversione di questa proposizione è altrettanto valida in una theologia in circulo: in quanto autocostituzione dell 'assoluto, dell'infinito (sphaera infinita), l'unità è autoriflessione. 2. Vedere assoluto come unità trinitaria Proprio in questo il concetto cusaniano dell'unità assoluta si distingue dal concetto neoplatonico dell'«Uno stesso»: a parte il tentativo di Plotino di introdurre ipoteticamente il pensare, o la riflessione, nel concetto dell'Uno, questo Uno deve essere pensato indifferenziato, analogo al punto inaccessibile, come ciò che deve avere o essere «comunque» quella cosa il cui fondamento è nel fatto che ogni tentativo di espressione riguardo 54, 28: illius videre constituere est. - Sulla tradizione di tale concezione, cfr. l'identificazione di visio, novisse e jacere (creare) in Dio in Agostino: Conf, XI 31, 41 e De trin., XV 7, 13. -cò yev6p.ev6v icr-t l ~écq.w: lp.6v ... xo:t ~ò ~ewpwv !J.OV ~e<~P1J!J.O: noL~t: in Plati no, Enn ., III 8, 4, 5 ss. riguardo all'anima del mondo, il cui operare consiste nel vedere. 27 lbi, 12; 105 r 7 s.: non vides aliud a te, sed tu ipse es obiectum tui ipsius (es enim videns et visibile atque videre). Inoltre Non aliud, 23; 54, 8 ss. 28 Ibi, 8 s. Cfr. anche sotto p. 201. 29 Jbi, 10; 104 r 19 s.
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a questo porterebbe però molteplicità e, quindi, differenza. Al contrario quell'unità che si comprende per riflessione e, insieme, comprende tutto ciò che da essa scaturisce, è in un certo senso - almeno in un senso strettamente neoplatonico - molteplicità o realtà determinata dalla differenza, - unità in o nonostante la differenza. Con la trasformazione del concetto di principio e di Uno neoplatonico in particolare da parte della teologia cristiana, è stato modificato anche il concetto di unità. Il pensare doveva pervenire all'unità se essa doveva essere logos, verbum, sapientia 30 • In tal modo veniva a costituirsi un concetto di unità che, nonostante l'autoapertura riflessiva e la sua riconduzione proprio all'inizio di questo atto, deve essere concepito come non-molteplice e non-«differente» prima di ogni molteplicità e differenza; cosa che corrisponderebbe ancora al concetto neoplatonico di Uno come principio primo: l'interna autoapertura del principio non fonda una molteplicità che sarebbe determinata da una reale separazione, ma compie proprio l'unità che si concepisce tramite la sua propria distinzione, e tuttavia non supera con ciò la sua essenza mediante differenziazione. Ciò che sembra essere una questione di sistemazione verbale annuncia un gravoso problema reale. Problema che diviene evidente soprattutto durante la più precisa descrizione dell'unità trinitaria a cui s'era già accennato. Di questo nuovo concetto di unità, determinato dalla teologia cristiana, può anzitutto dare una sorprendente impressione quando Cusano cerca in tratti essenziali di fondare il suo concetto del principio Uno a partire dal commento di Proclo al Parmenide. Proclo non ha, infatti, considerato nemmeno ipoteticamente il pensare come un atto essenziale dell 'Uno. Al fatto che la trattazione del concetto di unità nel De Principio, un sermone del 1459 nato dall'intenso studio di Proclo, s'incontri nel contenuto con le riflessioni del De visione Dei intorno al 30
A dire il vero, Porfirio - diversamente da Plotino e Proclo - ha pensato l'Uno come un essere e come un vedere senza oggetto, una ·rvwcnç unita in misura suprema in sé: In Parm., V 34 (ed. P. Hadot, in: Porphyre et Victorinus, Paris 1968, vol. II) , XII l ss. e XIII l: p).ér.~t to:u"C6v . 7. 35 : opiiv. XIV 20: l cw~òv 1oetv come vita del voGç, che deve essere concepito come l'atemporale accadere della «costituzione di sé» dell'unità. Da questo contesto filoso fic o riceve la sua comprensione anche Mario Vittorino: A dv. A r., III 2, 46 ss .: il vedere di Dio come atto che costitu isce la Trinità. III 5. IV 24, 37 ss.: Dio vede in sé le idee (ideas invece di lineas, Hadot) ... et a centro simul in omnia unus est visus.
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concetto di unità riflessiva, bisogna per lo meno far cenno. Il sermone ha a tema la risposta di Gesù alla domanda Tu quis es?; e la risposta è questa: Principium, qui et loquor vabis (Giov. 8, 25). L'inadeguata t raduzione del testo greco 31 ha fatto intendere un enu nciato d'essenza: «io so no il principio (l'origine) e vi parlo». Prima di tutto per mezzo del concetto procliano di authypostaton (per se subsistens) 32 Cusano determina l'essere dell'origine come essere per se stesso. È questo a caratterizzare l' infinitum-esse d eU' o rigine, il suo essere illimitato o indeterminato, che, quale determinazione di se stesso (e perciò quale determinazione di ogni altro), non è più riafferrabile con un determinante che di nuovo superasse il fondamento di ogni determinazione. Una tale inattingibile o rigin e può per eccellenza essere solo uno, o l'Uno. Cusano dà un fondamento a questa co ncezione unendo il motto salvifico di Luca 10, 42, unum autem est necessarium, con l' enunciato metafisica di Proda sul fondamen to unico ed universale 33 : L 'UNO solo è necessario; l 'UNo è ciò che è necessario o la necessità assoluta, in quanto è per se stesso e insiem e fon d am ento di ogni essere «esterno » ad esso. L'unum necessarium, o absolutum, è - qui in modo però diverso rispetto a P roda - da pensare assolutamente com e la fo rma p iù intensa d'essere, ma ad un tempo anche - questo nel senso di Proclo - come una realtà che è sopra ogni determinatezza d' essere. Al di sopra della dimensione dell'ente l'Uno è, ad esempio, per il fatto che è posto al di fuori dalla dialettica, che determina l'ente nel suo complesso, di possibilità e realtà come unità che le fonda e rende possibili. P rop rio per il fatto che il principio è per eccellenza l ' unità di possibili31 e'Àsyov OUY CY.Ù't<ÌJ: crù ·tiç sr; EL1to'l OCIÌ'toiç o 'l7]crovç· 't'Ì)Y &:px~v o 'tL XO'.l ÀocÀw UIJ.TY; Questo passo non viene inteso da Agostino né, infine, mediante una riflessio ne sul testo greco (accusativo), né, immediatamente, come enunciato dell 'essenza (principium sum), ma lo include nell'atto di fe de: principium me credite (In Giov. 38, 11 ). - La funzione di rivelazione del principium identico al verbum: ipsum est verbum tuum, quod et principium est, quia et loquitur nobis (Conf., Xl 8, 10). 32 Princ., 2. 20, 4. 22, 8. L'interpetrazione cusaniana è certo in contraddizione con il concetto procliano ; questo non funge infatti da predicato. Per la discussione intorno a tale questione in : P lotino, Enn. , VI 8, 7, 53 (ocù'tò whò noLsT); IO, 23: oùx imocrn'}crCY.ç i.ocu't6v. Cfr. anche 8 s.: &:px~ç 3è '~ç 11:6:C11]ç oùx ~cmv àpx~ (princi-
pium sine principio). JJ !bi, 6, 3 ss.
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tà e realtà, uno e essere, è nulla di tutto (nihil entium)3 4 • Per questo non può essere direttamente e precisamente raggiunto da un pensare categori ale e non può essere espresso nel su o in sé, concernendo il linguaggio solo qualco sa di esistentedeterminato (vocabulum); accessibile è soltanto il metodo della delimitazione negativa, la quale precisa quella cosa che non può essere detta da esso. In questo Cusano segue totalmente le negazioni del Com mento di Proclo al Parmenide, le qua li culminano nell 'enunciato che l'Uno è al di là degli opposti , prima di ogni alterità, prima di ogni affermazione e negazione: !'«assoluto prima» 35 • Nel De visione Dei, anche senza un collegamento diretto con il pensier o neoplatonico, in particolare procliano, viene guadagnata , mediante il concetto di principio determinato soprattutto attraverso l'atto del vedere , la concezione per la quale il principio è l' Uno (necessario), come essere da se stesso, ed è il fondamento, che non può più essere determinato, di sé e dell'altro , il fon d amento sopracontraddittorio della contraddittorietà, il nulla di tutto e insieme l'essere in senso eminente o asso luto. A nche nella esplicazione del vedere assoluto, il principio divino è pen sato come pura unità o come assoluta semplicità. In quanto non-molteplice per eccellenza (èbwÀÀov), tale unità non si costituisce in un modo tale che essa, come nel contesto pr odiano, escluda la relazionalità; piutt osto è e vive proprio di questa. Ciò che in essa o ciò che essa stessa è, ossia le idee come schema progettuale del mondo, l' «ancora» immanente autoesplicazione verbale d eli' «inizio », non può essere pensato come reale di fferenza in essa 36 , ma solo come dispiegarsi dell o stesso. La t riplice « ripetizione» di unum, o non-aliud, è di conseguen za una formulazione adeguata all'intenzione 37 : l' assol utamente stesso, o Uno, dispiega se stesso . Tale dispiegarsi costituisce invero la razionalità, p erò non u na differenza reale . Anche il li nguaggio è dialettico: es-
!bi, 18, 4; 14. Cfr. 22, 2 e 34, 14 ss.; Possest, 14, 14: absolutum esse. Princ., 20, 3: ante omnem alteritatem; 24, 15: ante omnem affirmationem et negationem; 23, 6: !'«eternità» dell'autounum come l'assoluto ante. 36 Vis., IO; 103 v 25. 37 !bi, 17; 108 r 40; Non aliud, 5; 12, l l ss. - Tre volte id ipsum definisce la Trinità: Agostino, Conj., XII 7, 7.
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so, nonostante la distinctio, indica l'unità, e, nonostante l'unità, o la non-alterità, la distinctio. L'unità che si costituisce e si dispiega in se stessa, include in sé, come infinito, anche il finito come infinito; in tal modo non può, né in essa né al di fuori di essa, essere pensata una cosa altra nei confronti di essa. L'altro è altro unicamente da se stesso. Procedendo al modo della temporalità e della differenza, il linguaggio deve con più conseguenza negare immediatamente tutto ciò che pone una differenza apparentemente reale nell'unità (injinitas sine alteritate, oppure l'espressione estrema che viene subito ripresa: alteritas in simplicitate sine alteratione est)3 8 • Se, dunque, l'immanente esplicazione non deve, in quanto processio o successio, superare l'unità, allora - formulato in modo paradossale - essa deve essere intesa come una processio sine processione o una successio sine successione 39 che contraddice il principio di non-contraddizione. È, questa, la determinazione di aeternitas, in cui o come tale si compie la processio interna, ma in cui ogni realtà temporale, o analoga al tempo (successio), è come se stessa: istante senza tempo e, perciò, «permanente» ora 40 • Il modo col quale l' aeternitas in sé unitaria è, è il concepire pensante, parlante o «vedente»: conceptus tuus (identico a loqui e a verbum) est ipsa aeternitas simplicissima 41 • Il concepire, il parlare o il vedere nell'assoluto è, proprio mediante l'esclusione della differenza, puro concepire se stesso, esprimeVis., 13; 105 v 22 s., 28 ss. e 36 ss.; 15; 106 v 38. lbi, IO; 104 r 19 s. Anche le fonnulazioni principium sine principio o finis sine principio (o altre) negano il supponibile carattere temporale del principio (Vis., 13; 106 r 22 ss.). In quanto struttura dell'anima, il «tempo atemporale» rimanda (in quanto analogia) all'essere della stessa Trinità: Aeq., P II a 17 r 26 ss.; 30 ss. - Al modo d'u na manuductio experimenta!is, il pensiero verrà chiarito attraverso l'ora: in quanto determinata o esistente temporalmcnte, questa rappresenta il tempo ed è così annuncio e modello del movimento successivo, che, nonostante ogni apparenza, è irreversibile; come concetto puro (simplex conceptus), essa tuttavia dimost ra h1 modo insistente ma paradossale l'assenza 38 39
di tempo. Dal momento che questo concetto (che si fonda nel concetto di Dio) comprende in sé ogni successio temporale ed anche l'exp/icatio del tempo, esso diviene - senza prima e dopo - l'analogon dell'eternità: ... omne illud, quod
successive evenit, non exit quovismodo conceptum, sed est explicatio conceptus (Vis., 11; 104 v 6 s.). 40 Vis., IO; 104 r 22. Possest, 18, 4 ss. Cfr. Agostino, De trin., II 5, 9. 41 Vis., iO; 104 r 12 s.
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re se stesso o vedere se stesso: dunque tale atto dell'autoriferimento con sé come indice dell'unità: non vides aliud a te 42 ; la PAROLA assoluta non parla «come nell'altro» (ut in a/io), si vede ed esprime se stessa come il non-aliud, o come l'Uno e lo stesso. Anche nel contesto procliano del De principio la questione dell'unità è connessa alla questione del modus dell'unità che conduce al conceptus absolutus: tutto vedere o pensare in sé significa vedere o pensare se stesso 44 • Il Logos, il Verbum, Christus, è vedere o pensare del principio come sua interna autoalienazione. Questa autoriflessione dell'unità - senza che debbano essere nominati sempre dei termini teologici - è triadica, o trinitaria, nella sua struttura: riflessione dell'unità nella o mediante la triade. L'autoapertura vedente - pensante - parlante e, quindi, creatrice (di sè) è determinata dal fatto che essa non rimane ferma nella processione per giungere così nel vuoto; se ciò verso cui !'«inizio» s'apre è questa stessa- nella forma dell'oggettivarsi che non è separato per differenza (obiectum sui ipsius) -, allora lo stesso, che è proceduto da sé, rimanda o riconduce al suo proprio «inizio». Propria della riflessione è questa struttura secondo cui essa pensa o vede di fronte a se stessa e riferisce contemporaneamente a se stessa questo «di fronte», poiché esso - nonostante l'essere «di fronte» - è ciò che è identico o ciò che è uguale ad essa. Sin dagli inizi Cusano ha cercato di concepire questa triunitas mediante la triade di unitas-aequalitas-connexio 45 come l'unità originaria, la quale «diviene» uguale a se stessa nel testimoniare del Figlio, della Parola, o produce la propria uguaglianza, ma che ha unito anche la sua uguaglianza con se stessa all'assoluta uguaglianza con se stessa (aequalitas abso!uta) 46 • Dunque la processione è già un movimento di ritorno a sé. Se la processione dell'inizio sino alla sua propria uguaglianza non può essere pensata come un diventar-altro-da-se-stesso, al42
Cr. nota 27 e Non aliud, 23; 55, 2: non aliud a se ipso vidit, di modo che il vedere di Dio equivalga al non aliud. 43 Princ., 16, 20. 44 l bi, 21' 9 ss. 45 D. i., I 8 s.; 17 ss.; Coni., I l; n. 6; De aequ., P II a 19 v 3 ss.; Ven. sap., 2 l; nn. 59 ss. 46 Aeq., P II a 19 r 9.
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!ora anche l'unione è identica all'uguaglianza: l'uguaglianza sorta dall a processione proceduta è il suo proprio movimento di ritorno ; oppure: uguaglianza e unione sono allo stesso modo il compimento dell'unità senza tempo . Poiché l'unità viene rivendicata per questa triade, le tre fas i della processio senza tempo non possono essere viste sotto l'aspetto del numero. Come l'Uno non è numero, ma principio di questo, così anche l'assoluta unità che si apre deve essere pensata libera dal numero e, qu indi, dall'alterità (nel senso di una reciproca esclusione) . Numerare enim est unum "alterare", .sed unum et idem triniter replicare est p!urificare sine numero 47 • Nonostante l'unità, deve essere, tuttavia, accettata una distinzione, che l'unità invero schiude, ma le cui «fasi» non esclude reciprocamente. Di conseguenza si deve accettare l'accertazione verbale mediante negazione e paradosso: l'unità trinitaria è alteritas sine alteritate, quia est alteritas quae identitas. Ciò significa ad un tempo che l'assoluta identità, o unità, «precede» 48 ogni alterità e diversità a ragione del suo essere coincidente. Cusano interpreta il compimento di questa unità anche mediante la triade di unitas uniens - unitas unibilis - utriusque nexus (la qual cosa non deve però far intendere che l'unità sarebbe allora da raggiungere: essa è piuttosto , «già sempre», essa stessa come pura realtà senza possibilità ancora in sospeso), o amor amans - amor amabilis - utriusque amoris nexus 49 , il quale deve essere pensato come assolutamente identico al pensare, al concepire, al vedere, e in queste mette in evidenza proprio la loro forza unificante: intellectus intelligens - intellectus inte!ligibilis - utriusque nexus 50 • La concezione salvifica secondo cui Cristo è il mediatore tra Dio e l'uomo , viene assunta da Cusano a spiegazione dell 'unità trinitaria: Cristo, o il Verbo, è, in quanto deus genitus amabilis, il mediatore assoluto
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(absolutus mediator) 51, cioè unico e senza tempo, dell 'unità trinitaria . In lui il Padre si media nel Figlio, e questi è la mediazione del Padre. Ossia: l'unificante unità, che proviene dall '«inizio», l' amore, il vedere, il pensare , il parlare o il concepi re si media in lui con se stesso. «< l tuo concetto è il Figlio, e tutte le cose sono in esso. E l'unione di te e del tuo concetto è l'atto o l'operazione che ne scaturisce, nella quale è l'atto e l'esplicazione di tutto» 52 • Il concetto è mediazione assoluta anche per il fatto che da esso proviene un operare concepente, il quale fonda l'unione proprio di questo concetto con l' «inizio» che lo costituisce, o per il fatto che - a causa dell'ident ità di entrambi - esso si «media» ad una autoidenti tà per riflessione in sé relazionale. Tale unione è teologicamente lo Spirito Santo. Tutto ciò che è «Con cepito» nel Figlio in lui si «dispiega». E contemporaneamente dò che s'è dispiegato viene ripreso nel suo inizio: «procede da te Dio aman te e dal tuo concetto amabile generato da te, il tuo atto e il concetto di te» - lo Spirito Santo - «che è il nesso che unisce te e il tuo concetto» 53 • A partire dall'identità in sé relazionale della triunitas, il concetto che si esplica è pensato anche come mediazione, dal momento che è la stessa ed unica cosa con il ritorno al fondamento della mediazione. Con la concezione del ritorno amante e pensante-concepente a se stesso - all ' identitas absoluta et essentialis 54 - viene chiarito anche il concetto dell' infinitas absoluta 55 • In modo analogo alla differenza, l' infinitas esclude il concetto di limite o di fine dal principio. Se finis deve essere enunciabile di esso , allora lo è unicamente nella negazione paradossale: finis sine fine, o finis infinitus 56 • Finis: il fine, anche il termine illimitato è il principio dell'ente esterno ad esso, il cui movimento !bi, 19; 109 r 42. !bi, 19; 109 v 6-8: nam conceptus tuus est filius et omnia in ipso; et unio tua et tuus conceptus est actus et operatio exsurgens in qua est omnium actus et explicatio. 53 !bi, 9-11: .. .procedi! ex te deo amante et conceptu tuo amabili a te genito actus tuus et tuus conceptus, qui est nexus nectens et deus uniens te et conceptum tuum. 54 !bi, 20; 11 O r 4 s. 55 !bi, 13; l 05 v 7. 56 !bi, 13; 105 v 13. 51
Vis., 17; 108 r 42 s.; Possest, 46, 7 s.: trinitas in principio est principium et non est a numero, qui non potest esse ante principium. 48 !bi, n . 44. l 08 v 3 s.: praevenit omnem alteritatem et diversi/atem; quae intelligi potest. 3; l 00 r 6 s.: absoluta ratio, in qua omnis alteritas est unitas et omnis diversitas identitas. Vis., 13; 105 v 20: alteritas in unitate est sine alteritate. 4 9 !bi, 17; 108 r l ss. e IO ss. 50 !bi, 18; 109 r !9 s.; D. i., I IO; 20, 18 ss. Sul legame con Raimondo Lullo: R. Haubst, Das Bi/d des Einen und Dreieinen Gottes in der Welt nach Nikolaus von Kues, Trier 1952, pp. 73 s. 4i
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è diretto verso se stesso mediante esso. Nel caso che lo stesso principio non possa tuttavia essere determinato da un fine distinto da esso, ma sia fine di se stesso o in sé (sui ipsius finis)57, la relazionalità può in esso essere intesa come «intenzionalità». La processione amante o pensante è infatti, dall' «inizio», diretta a se stessa, quale suo fine ad esso immanente; mediante l'automediazione riflessiva la processio giunge dunque al fine di se stessa. Solo mediante il raggiungimento ciclico di questo fine, che è insieme l' «inizio», esso si mostra absoluta
infinitas: Finis igitur, qui est sui ipsius jinis, est infinitus 58 • Numerose identificazioni, o coincidenze, stanno alla base delle riflessioni intorno all'unità trinitaria: ad esempio il vedere assoluto è- in modo diverso da ciò che avviene nell'ambito del finito, nel quale i singoli atti sono separati Fune dall'altro- identico a amare, muovere, causare, creare, parlare, concepire, pensare, sapere, essere; il creare, il concepire, il vedere sono, come atti, da paragonare alloro diventar cosa compiuta, e ad un tempo il loro obiectum è l'origine dell'atto-«risultato»; i tratti fondamentali dell'ente finito, come successio, alteritas, contractio, finis, sono e, in pari tempo, non sono nell'infinito, poiché sono in esso in maniera assoluta (alteritas sine alteritate, o oppositio sine oppositione) 59 ; nell'infinità l'ente è, ad un tempo, il suo (del principio) non essere dell'ente, sebbene quest'ultimo possa essere, come esso stesso è, solo attraverso la sua alienazione; la facoltà (potere) è, in esso, essere (realtà); in quanto maximum assoluto include in sé- non, in senso superlativistico, all'interno della stessa dimensione, ma come differenza assoluta (il momento negativo del non-aliud) - anche il minimum assoluto. Una descrizione dell'unità (assoluta) identificante di questo atto in sé diverso o, sotto l'aspetto del finito, di questi opposti o, persino, contraddittori modi d'essere è intesa mediante il principio d'essere e di conoscere della coincidentia appositorum o della coincidentia contradictoriorum. Tutto questo, preparato mediante lo scritto Le congetture, è presente anche nel De visione Dei con una riserva congetturale: «e quando ti vedo, Dio, nel Paradiso recinto dal muro della coincidenza degli Si !bi, l L ss Ibidem. 59 /bi, n. 25.
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opposti, ti vedo né complicare né esplicare disgiuntivamente e copulativamente. La separazione e la congiunzione insieme sono il muro della coincidenza, oltre la quale esisti completamente svincolato da ogni cosa pensabile ed esprimibile (abso !utus)» 60 • A causa della metafora del «muro» il principio di coincidenza non deve essere messo da parte come inefficace; non solo la formulazione dello stesso scritto, secondo la quale Dio «abita nella coincidenza» 61, ma anche l'argomentazione intorno all'unità riflessiva sarebbe nel complesso contraria ad una tale supposizione. Anzi, con la metafora viene messo in risalto che il concetto di coincidenza, il quale può mediante manuductiones geometriche e matematiche essere raggiunto dal pensare finito, è insufficiente o inesatto per l'assoluto, in quanto esso potrebbe comunque intendere un coesistere di opposti nell'assoluto, e tuttavia deve riferirsi ad un superamento o nonessere degli opposti come tali. La metafora quindi intensifica il convincente concetto del Commento di Proclo al Parmenide col fatto che l'unità del principio è prima e sopra ogni opposizione 62 e, in quanto opposizione agli opposti o in quanto fondamento dell'opposizione, implica questa opposizione in qualità di non opposizione (oppositio sine oppositione)6J. L'uguaglianza con se stesso del principio (aequalitas abso/uta) nega gli opposti o li ha «sempre già» superati 64 • Questa intensificazione della trascendenza dell'assoluto mediante la suddetta metafora non può però superare né la riflessività del principio, la quale poggia sulla relazionalità, né la sua alienazione nel mondo o come mondo. Essa indica invece il fatto che il tentativo di una «visione di Dio» a partire dall'ambito !bi, Il; 104 v 24-27: quando video te deum in paradiso, quem il/ic murus coincidentiae oppositorum cingit, video re nec complicare nec explicare disiunctive ve! copulative, disiunctio enim pariter et coniunctio est murus coincidentiae: ultra quem existis absolutus ab omni eo quod aut dici aut cogitari potest. Sulla metafora murus cfr. inoltre 9; 103 v 17 ss. IO; 104 r 27. I l ; 104 v 15. 13; 105 r 31. 17; 108 v 41. Riguardo all'interp retazione qui contenuta: J . Stallmach, Das Absolute und die Dialektik bei Cusanus im Vergleich zu Hegel, in : «Schola-
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stik», 39 (1964), p . 503. · . 61 !bi, 10; 104 r 39 .. . ubi habitas in coincidentia. Questo non può benché sia tanto contiguo - contraddire ciò che è supra. 62 Princ., 34, 23 s.: supra omnia apposita; Ven. sap., 13; n. 35. Già in D. i., I 4; 10, 27. 63 Vis., 13. 105 v 25. 64 Princ., 36, 5 s.: principium videtw· in oppositorum aequalitate.
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del finito non dovrebbe neanche portare a termine questo, al contrario esso è reso possibile solo dalla negazione di ciò che è proprio al pensare finito; può avvicinarsi all'in-finito o all' assoluto, però in un senso improprio , che non supera la propria condizione, in quanto lo «tocca senza toccare o senza conoscere», o lo «concepisce senza concepire» 65 • Il vedere esclusivamente congetturale, nella condizione del finito, dello stesso vedere assoluto - in speculo et in aenigmate - presuppone, da una parte, un concetto che si estende sino a quel «muro», ma, dall'altra, anche l'intento di oltrepassare il concetto mediante il concetto e, con ciò, tutte le forme e figure limitate, che sono determinate come qualcosa: jormas transi!ire et omnes figuras, transcendere omnes conceptus 66 • Connesso alla determinatezza ed alla limit atezza dell'ente-qualcosa, il pensare finito non è adeguato alla conoscenza dell'assoluto o del concetto assoluto. La coscienza di ciò può svegliare il pensare, se essa scopre, nella riflessione intorno alle proprie possibilità, il fondamento che in sé la trascende e, tuttavia, opera in essa: l'«Uno in noi» quale nostro concetto dell'Uno in sé 67 • Questo è il momento, che invero conosce in modo approssimativo, e, tuttavia, rimanda oltre sé, nell'amor inextinguibilis allo stesso Uno; esso diviene in noi, per così dire, il modello col quale può essere concepito cio che l'Uno in sé è e non è. Come ammissione cosciente del necessario - in quanto si fonda sulla cosa stessa - rifiuto del concetto finito , la negazione è quindi l'espressione caratteristica di una docta ignorantia: 65
D. i ... I 4; 10, 6: veritas infinita, quam incomprehensibiliter attingimus. Inoltre Non aliud, 8; 18, l ss. 66 Vis., 6; 101 r 45 s. e 101 v 12: ... quando omnem scientiam et conceptum transiti! (inaccessibilis lux come caliga, tenebrae). 67 Princ., 26, 3-6 (conceptus ut de uno); 29, 9 e 39, 6 ss. Cusano segue la concezione che per Proclo è centrale, secondo la quale l'Uno è accessibile in quanto unum in nobis o intelligentia unius; questo è il fondamemo d'ogni autoriflessione e della riflessione autonegantesi dell'Uno in sé: fondamento che precede la riflessione c che la ren de possibile. Proclo, In Parm., VII (Piato Latinus, III, ed. R. Klibansky) 70, 7: .. .nomen hoc, scilicet "unum ", est eius qui in no bis conceptus, sed non ipsius unius. A ques to proposito, l'annotazione di Cusano in Cod. Cus., 186 (Commentario di Proclo al Parmenide): nota primo non convenir hoc nomen «ununm, sed noster conceptus ipsum jormat; et sic circa ipsum non sunt negaciones, quia exaltatum super omnem opposicionem et negacionem, sed de ipso (Kiibansky 106). - Intorno al problema: W. Beierwaltes, Proklos, pp. 367 ss . [tr ad. it. , pp. 397 ss.].
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3. Il vedere creativo dell'assoluto stesso
L' interesse principale delle riflessioni finora condotte era rivolto alla struttura interna del vedere assoluto. Inoltre, talvolta si è accennato anche al suo aspetto creativo. Tale aspetto precisa una caratteristica fondamentale del pensiero cusaniano, il quale, in quanto a ciò, si rivela dialettico quando considera tanto la forza complicativa, inviluppante ed unificante del principio ( virtus ita unita, quod magis uniri nequit) 68 quanto il suo spiegamento nel o come mondo. I tre attributi enigmatici di Dio, non-a!iud, idem, possest, per quanto ha mostrato la loro spiegazione, illustrano allo stesso modo tanto l'essere dell'assoluta trascendenza di Dio quanto il suo operare nell'ente: il «non altro» significa, da una parte, che Dio è differenza assoluta rispetto a tutto ciò che è altro, poiché ciò che è altro non è in lui, e, d'altra parte, non è, come nonaltro, diverso da questo, ma opera in esso quale sua essenza (non come egli stesso); lo «stesso» ha il significato di pura identità o unità di Dio, ma, ad un tempo, di fondamento operante dell'autoidentità di ogni ente limitato posto dall'identità infinita: il «poter-è» non riguada solo l'unità di facoltà e realtà nella pura realtà, ma anche l'atemporale, compiuto essere fond amento di ciò che «per una volta» può essere nel tempo 69 • Così l'assoluto vedere non è solo chiuso in sé come circolarità di riflessione e amore, ma s'apre alla costituzione della reale alterità, la quale è nondimeno connessa alla sua origine. Identico al principio immanente di creare "e" creari, il vedere interno, o il percepire il proprio sé, diviene dunque presupposto del creare che si aliena; il fatto che quest'ultimo sia già dato nel primo viene proposto nel seguente passo: «Creare ed insieme essere creato non è altro che comunicare il tuo essere a tutte le cose, in modo da essere tutto in tutto e rimane-::. re, tuttavia, svincolato da tutto (maneas abso!utus)» 70 • La domanda circa il fondamento, però, non ha con questo avuto risposta. Una risposta è, a dire il vero, implicita nel pensiero 68
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Vis., 14; 106 v 21 s. Cfr. sopra pp. 152 ss . Vis. , 12; 105 r 13-15: nec est aliud creare et creari quam esse tuum omnibus
communicare, ut sis omnia in omnil!us et ah omnibus tamen maneas absolutus.
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che il princ1p10, quale ratio abso!uta, o idea abso!uta 7 1 , pensa le idee del singolo ente, sempre possibile, ed è conceptus sui et universin, concetto di sé e dell'universo: se concepisce se stesso, lo concepisce in se stesso «prima» della posta temporalità dell 'universo e lo esprime in se stesso. Il fatto che il principio divino crea mediante o come parola, mediante o come concetto che concepisce se stesso, è equivalente al pensiero che crea mediante o come vedere. Come percepisce in , sé le idee, così per alienazione percepisce anche la loro forma temporale: visione tua sunt 73 • Il vedere assoluto è dunque il percepire l'ente finito, e insieme anche il render possibile che questo stesso veda da sé e così il vedere assoluto venga visto da esso, dal finito; lo sguardo infinito del vedere assoluto combacia con lo sguardo finito, come dovrebbe rendere evidente l'icona Dei all'inizio del De visione Dei: in eo enim quod omnes vides, videris ab omnibus; e: «l'essere della creatura è tanto il tuo vedere che il tuo essere visto» 74 • Se il principio viene pensato come «specchio dell'eternità», ossia in modo che faccia apparire l' eterno, allora colui che getta uno sguardo vede in esso se stesso . Tuttavia non come una copi a, come suggeriscono nel finito lo specchio e l'immagine specchiata; piuttosto vede la sua forma come verità, dal momento che la vede nella «forma delle forme», e precisamente tramite il suo essere creativo in sé; e nello specchio dell'assoluto è questa stessa «vivo» specchio specchiante. Copia è il vedente che vede la sua verità, poiché questa lo vede, ossia vede il vedente in essa come vede se stessa 75 • 71 /bi, 20; 110 r 25 e 35. n Possest, 38, Il ; De mente, 3; 57, 13: conceptio divinae mentis est rerum productio; 7; 75, 2 ss. 7 3 Vis., 10; 104 r 2; Agostino, Conf., XIII 38: nos itaque ista quae fecisti videmus, quia sunt, tu (deus) autem vides ea, sunt. (Ad es.) Eriugena, De div. nat., III 28; PL 122, 704 C: Non enim deus vidit nisi seipsum, quia extra ipsum nihil est, et omne, quod in ipso est, ipse est, simplexque visio ipsius est, et a nullo a/io formatur nisi a seipso. Già in P lotino, Enn. , III 8, 3, 20 ss. s'a ffac-
cia come fondamento della natura il pensare, o vedere (~twpio:), non finito che crea. /bi, IO; 104 r l e 2 s.: esse creaturae est videre tuum pariter et videri. 7 5 Jbi, 15; 107 r 7 ss. Cfr. anche 8; 102 v 41 ss. Riferimenti storici alla metafora dello specchio vivente, creatore (attivo), in : H. Leisegang, Die Erkenntnis Gottes i m Spiegel der Seele und der Natur, in: «Z. f. phil. Forsch .» 4 (l 979), pp. 161-183. 74
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L' essere che pone, che dà ongme, ossia il vedere «che chiama»76 dal nulla o da lui stesso, distingue (discernit) ogni singolo ente nell' intero e lo unisce contemporaneamente ad una unità relazionale 77 , attraverso cui ogni singolo è nell'altro in misura sempre diversa: nell' universo alienato è quod!ibet in quolibet. Il vedere, che distingue nella costituzione dell'essere, è tuttavia - pensato secondo l'enigmatico attributo divino di idem - un porre l'identico (identificare): l'idem absolutum fonda il singolo come una cosa di volta in volta identica a se stessa, e con questo diviene contemporaneamente il fondamento della distinzione antologica dell'ente. Essendo il singolo scorto come cosa singola o identica a sé, si rivela immediatamente anche l'alterità, la finitezza ed il limite come sua propria determinazione 78 • Analoga a quella distinguente, la funzione congiungente e unificante del vedere creativo si manifesta nel fatto che il principio - in modo da essere tutto in tutto - «penetra», «Comprende», «rende vivo»' 9 l' ente nel suo complesso, come sua essenza e, insieme, permanente fondamento trascendente. Questo comprendere vedente della cosa singola nell' unità dell ' universo può anche essere concepito teologicamente come pre-vedere (providentia), amare, prendersi cura, avere compassione o essere in ogni ente 80 • Il pensiero primariamente filo sofico secondo cui l'essere assoluto non abbandona l'essere finito, in quanto suo fondamento attivamente presente, è complementare al fatto che tanto poco si può sottrarre un ente al vedere assoluto, quanto potrebbe rinunciare a se stesso, ossia alla propria identità s1 • Il vedere assoluto non è, dunque, solo il fonda/bi, 10; 104 r 3 ss . 12; 105 r 15. 8; 102 v 19: videre tuum est causare. Princ., 21, 11 : essentiare. (Cfr. nel commentario a Giovanni di Origene (GCS O rigenes IV 484, 14 ss. 24, l ss. l'attiva ousiosis della sapienza demiurgica di Dio). Non aliud, 23; 54, 28: illius (dei) videre constituere est. 77 /bi, 8; 102 v 19 ss. 7S Cfr. sopra pp. 158 ss., De genesi, Opusc., I 149, 2 e 150, 7: idem identificai; non a/iud definii, pone, cioè, identità e alterità (cfr. sopra nota 23): deus come mensura e attiva praecisio dell'ente. 79 /bi, 9; 103 r 33; Princ. 27, 14: penetrare. 14; 106 r 4: infinitas ... omne esse ambit; 4; 100 v 5: vivificare. so /bi, 8; 102 v 6 s .: visi o tua providentia est; c. 4 e 5 nel complesso. Praej. 99 v 3; 5 s. (cura). 81 /bi , 4; 100 r 28 ss. e 9; 103 r 34-36: sicut igiwr nihil omnium quae sunt po-
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mento alienantesi dell'esistenza dell'ente, ma anche, in quanto vede insieme il singolo e il tutto, il fondamento del suo mantenimento sotto le condizioni di finitezza e temporalità. Mediante lo sguardo dell 'assoluto - sguardo che costituisce l'essere - diviene visibile il suo essere in sé invisibile: il mondo è perciò manifestazione dell'assoluto, «teofania», al modo della contrazione (contractio) o della visione 82 • Se la visione rimane sempre determinata anche dalla differenza ed è comprensibile solo a partire dal suo archetipo, gli è tuttavia in misura altissima simile. Cusano esplicita questo fatto tramite il modello della techne , più volte modificato nella tradizione dell'esegesi al Timeo!. Dio stesso è, come sapere o sapienza, l' «arte» paradigmatica che realizza interiormente ed esteri ormente a se stesso l'idea di una forma in sé differenziata del mondo 83 ; ciò che egli «specchia» 84 in se stesso in idee lo esterna nel mondo, di modo che questo veda in lui, come suo specchio, se stesso, e cioè lo stesso specchiante, o vedente. Il mondo può perciò essere inteso in modo adeguato come una «auto-immagine» (sui ipsius imago) di Dio 85 • Questa immanenza universalmente operante del principio può essere formulata anche come un'uguaglianza apparente del fondamento co l fondato: mentre ogni altro è diverso dall'altro, esso non è il non-altros 6 • Tale uguaglianza è perciò «apparente», dal momento che il non-altro, come è già stato detto, non è nell'altro come se stesso, ma come sua essenza. Nonotest fugere esse suum proprium, ila nec essentiam tuam quae dal esse essentiae omnibus, quare nec visum tuum . 82 Possest, 72, 6 s.: quid ... est mundus nisi invisibilis dei apparitio? Questo termine è la traduzione di theoplzania ed è noto a Cusano attraverso Dionigi ed il suo interprete Eriugena: \V . Beierwaltcs, Negati affirmatio, pp. 237-265. Sui ipsius ostensio (Possest, 31, 8) è il presu pposto della visione umana di Dio, che secondo Rom. l, 20 deve aggiungersi nel mondo «al fe nomeno». 83 Ars (infinita) ad es.: Vis., 7; 102 r 17 e 109 v 16 ss.; De mente, II; p. 51, 24 . Ars creativa: Possest , 36, 3. De genesi, Opusc., I 173, 5 ss. Riguardo alla tradizione di questa nozione: Agostino, De vera re!., 31 e 57 ; In Giov., III 4; Ono rio Aug., De cogn. vitae, 25; PL 40, 101 5. Elegans architectus: Alano di Lilla, De planctu naturae, PL 210, 453 n (ibi, anche il concetto delle praeconceptiones). Su Eriugena cfr. nota 102. 84 Il vedere in sé come «Specchiare» (speculan): Vis. 8; 102 v 34 ss. ss Quasi pictor: Vis., 25; 113 v 20 ss. Questa metafora è equivalente a quella del «libro» del mondo scritto dalle «dita di Dio»: De gen., 172, IO ss. 86 Non aliud, Prop. XVIII; 64, 27-29: oportet enim omne aliud ab a/io esse aliud, cum so!um non aliud sit non aliud ab omni a/io.
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stante la sua intensiva immanenza all'ente, il principio è dunque trascendente, è stato «tolto » ad esso come ess~ st.es:<>o (su perexaltatus) 87 • Questo essere-tr a.scen~en~e del pnnc1pro, ne~ senso della differenza assoluta, VIene mdrcato da C usano, ne1 predicati che determinano il principio, sempre con l'aggettivo <
veritas, unitas, posse, possibilitas, necessitas, esse, entitas, virtus, vis, forma, idea, ratio, conceptus e visus, o visio. La metafora del murus Paradisi mostrava l'identica intenzione. Per collocare, dunque, un'unità «al di sop ra » degli opposti, la quale implichi nondimeno una relazione trinitaria, deve essere negata anche l'unità coincidente come forma-di-essere del principio. Questo non è (ad esempio) l' unità di stasi (rimanere-in-sé e fine) e movimento , ad un tempo opposti coesistenti, ma nessuno dei due: stas igitur et progrederis et neque stas neque progrederis simu/ 89 • Se qualcosa deve poter essere detto sul principio, se inoltre il mondo deve essere inteso come manifestazione ed esplicazione di esso (partendo dal mondo, deve tuttavia essere detto qualcosa sulla sua origine), allora, quale forma più densa di significato e più adeguat a dell'enunciato, resta solo la paradossalità, la quale appare ancora a~uita rispetto alla coincidenza, in sé già paradossale : essa limita l'intendimento di un predicato positivo mediante negazione, intende anche la negazione soltanto come congettura o come negazione della negazione: supra omnem
afjirmationem pariter et negationem 90 • 87
Superexaltatus et absolutus: Vis., 9; 103 r 41 s. Princ., 38, 26: superexaltatum (principium) per eminentiam. Vis., 12; 105 r 23: absolute superexalta~us. Tale concezione corrisponde a quella neoplatonica per la quale l'Uno è semphcemente «tolto» (exheremenon) dal tutt o del quale è fondamento (v. W. Beierwaltes, Proklos, pp . 352 s . [trad. it., pp. 383 s.]). infinitum manet absolutum. Vis., 13; J06 · r 5 s. e 12; 105 r 14 s.: ab omnibus ... maneas absolutus. 88 Absolutum corrisponde all'.X7t6),u-rov, usato soprattutto in un contesto dal conten uto analogo : Porf., In Parm., XII 32 (Hadot). 89 Vis., 9; 103 r 42 s. Conformemente alla theologia in circu!o: habere dei est esse eius et movere est stare et currere est quiescere: 3; 100 r 4 s. Cfr. Eriugena, De div. nat., I 60, 26 (I. P. Sheldon-Williarns): de deo siquidem verissime dicitur motus stabi!is et status mohi!is. 90 D. i., I 4; 11, 3. De dato Patris han., Opusc., l 107, 5. Princ., 19, 16 ss. La ne"azione della nee:azione non deve però superare la «realtà» del principio: essa rfa uarda l'essere ;tesso. ma mostra che lo scopo di questo enunciato, l'affermazione dell'essere, non può essere mantenuto fissato in sé come un'affermazione commisurat a proprio a questa realtà. Una predica di Cusano (ed. «Koch , Sitzungsber. d. lleid. Ak. d. Wiss.», 100, 1936-37, pp. 17 ss.) cita Meister Eck-
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4. Cusano come punto focale fra passato e futuro a) La mediazione storic a d ' una «visio absoluta» Espressa all'inizio in modo generale, l'affermazione secondo cui la determinazione, da parte della teologia di Aristotele, del principio primo, o dell'essere divino, come pensiero del pensiero, o autoriflessione, è feconda per lo sviluppo storico e teoretico della met afisica, si fonda, nella forma cusaniana del pro~lema, a partire dal contenuto 91 • Per la mediazione storica, tuttavia, non è innanzi tutto determinante l'originaria impronta aristotelica di questa concezione. In questo contesto non è quindi assolutame nte necessario approfondire la questione riguardo a che cosa sia veramente il «contenuto» del concetto aristotelico dell'autopensiero divino - oltre allo stesso Dio e alle determinazioni che gli sono proprie 92. Il Dio han: ... negationis negatio, quae est medulla et apex purissimae affirmationis, secundum 1/lud: «Ego sum qu1 sum». L'antecedente filosofico di Cusano: Proclo, In Parm. , VII 72, 1: et ipsas abnegationes removit ab uno. 74, 14 e 76, 6: per negari et ipse removit (omnes) abnegationes. 91 Il De visione Dei, che qui viene concepi~o primariamente come uno stadio della storia della «metafisica», è da interpretare, non certo con minor di ritto. sotto l'aspetto «ascetico-mistico »: l'eserci tarsi nella visio dei deve essere determi nante per colui che vede. Lo scopo è l'es perienza dell'oscurità divina come «luce inaccessibile» (visio in tenebra: Possest 74, 19), la quale può essere raggi unta proprio attraverso la negazione o la totale astrazione (absolvar ab hoc mundo: 25 ; 114 r 9 s.; cfr. P lotino, Enn., V 3, 17, 38: èiq>eÀe Ttanet), nel superamento di se stesso: rapis me, ut sim supra meipsum (25; 11 3 v 45; cfr. Ploti no Enn., VI 9, IO, 13 ss. e Il , 23 : il «vedere» non spaziale dell' Uno come Ekstasis). Questo «esser sopra sé nel vedere div ino» non coincide però con il superamento della propria indi- _ vidualità, o personali tà, piuttosto presuppone che l' uomo abbia scelto se stesso in li bertà (posuisti in liberiate mea ut sim, si voluero, meìipsius... ut ego eligam meìipsius esse... meiipsius, liber: 7; 102 r 27 ss.), ossia che in un atto libero di donazione si disponga al vedere di Dio. Lo stesso essere dell'uomo è dunque la condizione preli minare a che ancora P<;>tenzi se stesso nell' essere ed operare di Dio: s1s tu tuus, et ego ero tuus, l 02 r 27. (E ques to che Dio afferma come ipsa libertas [8; 102 v IO] rispetto all' uomo: una modificazione, caratteristica per Cusano della formula di Cassiodoro, De anima, 12; PL 70, 1308 A: tunc ero meus eu m juero tuus [i. e. de1]). Il potenziamento consiste nel fatt o che l'uomo che vede att raverso la visio intuitiva (De fil. dei, Op. I 52, 5) viene ricondotto al fon damento che rende possibile il suo vedere. Questa è per lui theosis in un duplice senso: diventare identico attraverso il vedere unificante. 92 H .J. Kramer ha presentato una proposta di interpretazione motivata con acribia: Grundfragen der aristotelischen Theologie, in: «Theologic und Philosophie» 44 (1969), pp. 363-382, 481 -505. In essa vengono portate avanti da Kriimer riflessioni dettagliate e, per la storia della questione, di gra nde significato, che, a partire dal concetto di spirito, permettono di collegare Aristotele a Ploti no e di porre,
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aristotelico non deve essere pensato come un fondam ento atemporale che pre-pensa il mondo, ma solo come un fondamento che muove quest'ultimo, ossia che garantisce il suo ordine, in quanto lo dirige, come fine, verso se stesso (xwd wç €.pwfH> vov) 93. Qui viene ad evidenziarsi in modo particolare una precisa differenza rispetto alla concezione di un Dio creatore. Lo sviluppo della concezione filosofica del Dio che pensa se stesso, attraverso la teologia cristiana, il cui interesse principale è rivolto alla fondazione del mondo in Dio , si fonda - come nel pensiero di Mario Vittorino o di Agostino - essenzialmente sul concetto neoplatonico di Spirito. Di conseguenza, questo è diventato determinante per la costellazione filosofica e teologica del problema, però, attraverso di esso, lo è diventato anche il pensiero aristotelico. Un tale stato di cose può essere spiegato, in modo relativamente adeguato , dando un profilo al rilievo storico di Cusano, almeno per il contesto contemporaneo. Nel co ncetto p!o[;niano di Spirito senza tempo e, quindi, assoluto la concezione aristotelica del «pensiero del pensiero>> si lega alla trasformazione del fondamentale concetto parmenideo dell'identità di essere e pensare e al tentativo platonico, ora sviluppato, di determinare l' «essere compiuto» (7t<XV"tc.Àwç ov)94 mediante un atto, ad esso immanente, del pensare. Questo essere dello Spirito è la molteplicità delle idee, che tramite la valenza antologica delle «categorie» di identità e differenza sono invero diverse l'una dall'altra quale ovvcifmç sempre proprie, ma si riferisco no l'una all'altra in modo tale che una cos a si mostri nell 'altra o ciò che è di volta in volta singolo specchi l'intero. La differenza è necessaria affinché il pensiero possa rendersi «opposto» in ciò che è da pensare; tuttavia essa viene contemporaneamente sintetizzata, mediante l'intenso nesso del singolo con l'altro e con l'i ntero , in una unità tramite il pensare o come il pens are; e di essa Plotino dice che è identità senza tempo, e quindi senza distanza, che «vive» attraverso il pensare, identità, dunque, nonostante o nella differenza. Lo Spirito che nel suo essere, nelle idee, pensa se stesso, è perciò, ad un tempo, attenzione alla teologia del logos: Der Ursprung der Geistmetaphysik, Amsterdam !964. Per la tradizione posteriore: R. Im bach, Deus est intelligere, Fribourg (Suisse) 1976. 93 Met., 1072 b 3. 94 Sof, 248 e 7 s.
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secondo la pura, irrelata unità dello stesso Uno , la forma più inte~sa di unità, forma che si costituisce attraverso la differenza nel modus dell'autoriflessione 95 • Se anche secondo Plotino non ci deve essere molteplicità nel fondamento, ma il suo essere, se o perché è, deve essere ridotto all'unità di volta in volta suprema, la comprensione rifless iva della prima alterità o molteplicità, dunque lo Spirito senza tempo, è nondimeno il presupposto filosofico del concetto cristiano di creazione. Ad esempio, nonostante il diverso procedimento conoscitivo dell'essere del mondo, determinato dalla teologia, le discussioni a più livelli di un Agostino non sono, in ogni caso, pensabili senza la concezione, approfondita in modo differenziato da Plotino e portata avanti da Porfirio, della «scuola» medioplatonica: Dio, e non primariamente un pensare temporale (~ux~, ò t6:vo to:), è il «luogo delle idee». A causa di questa trasformazione del concetto aristotelico di autoriflessione, Scoto Eriugena si avvicina moltissimo al pensiero cusaniano tanto per la mediazio ne storica come anche nella forma materiale del pensiero. In misura ancora maggiore rispetto ad Agostino, costui concepisce il creare di Dio in rap porto al vedere. Nella formulazione di questo pensiero da parte dell'Eriugena vengono dati anche gli elementi della concezione cusaniana di una visio absoluta: Dio crea in se stesso tutto, mentre lo vede in se stesso 96 • La produzione della parola, o della sapienza, coincide con la produzione delle «cause primordiali » (causae primordia!es). Essendo la parola o la sapienza del Padre, il Figlio deve, di conseguenza, essere pensato, egli stesso, come il luogo delle idee 97 • Ma questa processione nella parola e nell'idea è ad un tempo «vedere»; «vedere» è dunque l' esterno fondare ed essere delle cose in Dio 98 •
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E se ogni idea, che è un prototipo (prohorisma o prototyon)99 dell' essere del mondo, si costituisce nel «vedere» della ~apienza o della parola, allo stesso modo «Dio ~rea se ste~so» (deus igitur seipsum jecit) proprio nella processrone nelle rdee e nella sua parola 100 • Come è già stato accennato riguardo a cusano, questo non deve essere tuttavia inteso nel senso di un Dio che diviene solo nella storia, o tramite la propria storia, ma come auto-esplicazione senza tempo dell'essenza divina. Se il Padre è l' essere che crea, m a non viene creato, allora il Figlio è colui che crea e «viene creato», natura quae et creatur et creat 101 : il creare interno quale presupposto del creare il mondo , l' "ars Patris" 102 • Tanto il vedere interno, qua creare, come anche la determinazione di vedere e parlare, come sapere o concepire, hanno la loro analogia in Cusano. Il Figlio, la parola o la sapienza, viene infatti pensato da Eriugena come autocoscienza del Padre - ciò che è generato conosce se stesso e la sua origine - , o come il concetto del Padre, nel quale Dio concepisce se stesso come «intero», ossia trinitario 103 . Cusano ha sviluppato in modo conseguente questa fondamentale concezione di Eriugena, e in pari tempo ha intensificato l'aspetto neoplatonico e cristiano di questa, avendo operato una convincente sintesi, decisiva per la metafisica, del concet-· to di unità e trinità a partire dai nominati elementi filosofici ed avendola pensata in modo universale nella prospettiva dell'autoriflessione esistente: il «vedere», quale concetto di sè, viene ad essere la caratteristica, che penetra tutte le sue determina-
!bi, II 204, IO ss. !bi, III 17; 674 A. III 20; 683 A. I 64, 37. IO! !bi, I 36, 24. 102 Jbi, II 120, 30 ss .: pater opifex - ars sua, sapientia, la cui creazione de l «molteplice» si compie simul et seme/. Cfr. riguard o a Cusano, nota 83. 103 Intorno alla fondazione: W. Beierwaltes, Das Problem des absoluten Selbstbewusstseins bei Scotus Eriugena, in : Platonismus in der Philosophie des Mittelalters ("Wege der Forschung", 197). Darmstadt 1969, pp. 484-5 16, sop rat~utlo pp . 498 ss. Sul rapporto di Cusano con Eri ugcna, che tocca Il pensiero d1 entrambi nei punti nevralgici, ho pubblicato una ricerca speci fic a: W. Beierwaltes, Eriugena und Cusanus, in AA.VV., Eriugerw Redivivus. Zur fV_irkungsgeschichle seines Denkens in Mittelalter und im Ubergang zur Neuze1t. (Vortrage des V. Intemationalen Eriugena - Colloquiums, Werner-Reimers-Stiftung, 26-30 August 1985), herausgegeben von W. Beierwaltes, Heidelberg 1987, pp . 311-343.
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95 Questo ab bozzo del problema è sviluppato nell'introduzione al mio commento Ploti no, Enn., III 7, Ober Ewigkeit und Zeit, 21 ss., 28 ss. Vedi anche
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sopra pp. 58 ss. 96 De div. nat. , I 60, 20 s. (l. P. She!don-\:V illiams): ipse enim (videns) omnia quae suni in se ipso videt ... 32: videndo ila et currendo (th6ç da {)iw) fiunt omnia. 9 7 De div. nat. , II 204, IO ss. Pro!. in Joh. Ev ., VIII ; 238 , 15 ss. (É. Jeau neau): nihil extra ipsum est factum, quia ipse ambii intra se omnia, comprehendes omnia. 98 De div. nat., IV 9; PL 122, 778 D: ... sapientia creatrix, quod est Verbum Dei, omnia, quae in ea jacla sunt, priusquam fierent, vidit, ipsaque visio eorum, quae priusquam fierent, visa sunt, vera et incommutabilis aeternaque essentia est.; rrr 17; 673 c s.
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zioni, dell'essere assoluto. Questo è in sè visi o absoluta e, msieme, fondamento creativo.
b) «Visio absoluta» e concezione hegeliana di «Dio che pensa se medesimo» Punto di partenza oggettivo e storico delle mie rit1essioni intorno al concetto cusaniano di una visio abso!uta è stata la concezione, centrale per la teologia filosofica, secondo la quale Dio pensa se stesso. Hege! non ha propriamente conosciuto Cusano, tanto che un confronto diretto tra le due strutture concettuali risulta impossibile. Se il loro legame deve essere ugualmente posto in esame, allora la forma aristotelica della esplicitata concezione, o la sua trasformazione neoplatonica, può essere assunta, in modo realmente legittimo, come mediazione del pensiero cusaniano ed hegeliano. In esso comincerebbe ad essere evidente che l'oggettiva continuità di Hegel rispetto al tardo medioevo - proprio in base al concetto di spirito - è più forte e feconda di quanto suggeriscano da un punto di vista storicofilosofico gli «stivali delle sette leghe» propri di Hegel, che egli calza per superare il più presto possibile il «secondo periodo» della storia della filosofia. Senza passare sotto un silenzio livellante la concezione, sostanziale per la dialettica hegeliana, del giungere-a-se-stesso dell'assoluto, può essere ritenuto un intento aristotelico ed hegeliano il fatto di concepire il divino assoluto come un essere che pensa se stesso, che è in rapporto con se stesso nel concetto di sè; e ciò significa: come riflessione assoluta. Questo è venuto a chiarirsi già nella particolare discussione intorno al nesso di identità e differenza all'interno della prospettiva che da Cusano porta ad Hegel. A partire dal pensiero aristotelico e neoplatonico la tematizzazione dell'autoriflessione assoluta conduce conseguentemente al legame di Hegel con questi due momenti essenziali della storia che lo precede. Tra l'altro Hegel mostra di collegarsi al culmine della teologica aristotelica per il fatto che egli, al termine della sua Enciclopedia, cita, come testo greco senza ulteriore commento, quel passo della metafisica aristotelica 104 che 104
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ha a contenuto l'autopensare di Dio. Ciò che lega questo passo al te!os dell'evoluzione concettuale di Hegel non mi sembra tanto essere la «teoria piena di avidità» 105 , quanto Dio quale più intensa forma o realizzazione della theoria. Hegel considera come «momento capitale» della filosofia aristotelica il fatto che la «sostanza del pensato è il pensare», o che «l'atto del pensare e l'oggettivo pensato» sono «uno» 106 • Proprio per questa ragione il suo principio non è, nel senso di Hegel, un' «arida», «morta identità», ma «un'unità, che sia attività, movimento, repulsione, e nel differenziarsi sia a un tempo identica con sè» 107 • Se tale - conformemente all'interprezione hegeliana - è l'attività del Dio aristotelico, una t'hwp(o: assoluta che è totalmente connessa a se stessa, e quindi che trae ogni ente a sè e lo garantisce nel suo essere. Allora «in fondo - rispetto al concetto hegeliano di idea assoluta - il modo di vedere fondamentale è il medesimo». Allora anche Aristotele «non si esprime nello 105
M. Theunissen, Hegels Lehre vom absoluten Geist als theologisch-politischer Traktat, Berli n l 970, p. 326. Il passaggio da Cusano ad Hegel può apparire
un «salto» dal punto di vista dello sviluppo storico del problema. Se si volesse, almeno nella metafora del vedere, procedere oltre, allora si dovrebbe accanto a Marsilio Ficino (Plat. Theol., I 6 [vol. I 70 ed. Marcel], II 9; 101 e II IO; 104: oculus infinitus), Giordano Bruno (cfr. ad es. Spaccio de la bestia trionfante, in: Dia!. it., ed. Aquilecchia, p. 649: «occhio, che è la luce istessa, luce, che è l'occhio istesso»), Leibniz, Hegel (questi legittima la concezione centrale della sua filosofia della religione, «conoscere Dio come Spirito», citando, con l'aiuto di Baader, Meister Eckhart: «l'occhio col quale Dio mi vede è l'occhio col quale io lo vedo. Il mio occhio ed il suo fanno uno», cfr. sopra nota 2. Vorles. iib. d. Plzil. d. Re!., ed. Lasson, Leipzig 1925, I, p. 257 [trad. it. I p. 290]) e Schelling (VI, p. 198. VII, pp. 360 s. 363), porre attenzione in particolare a Jacob Bohme. Cfr. ad es.: Mysterium Magnum, c. l , 7 (VII 6. W .E. Peuckert): «Un occhio del vedere eterno». De signatura rerum, c. 3, 2 (VI l, 18): il «nulla» (di Dio), «questo è un occhio dell'eternità, un occhio senza fondamento». De incarnatione verbi, II. parte, c. l, 8 (IV 121): il non fondamento come occhio, il quale è il proprio specchio. Sex puncta theosophica, l, l, 9 ~IV 2, 4 s.): nel vedere di Dio è celata la natura; il vedere «appare dallo spirito», Il quale è suo occhio e specchio (ibi, 12, p. 5). Come sapere assoluto, attività che ritorna a quel sé nel qual e sono identici attività e prodotto, la trasformazione trascendentale dell'io è «la luce libera che si guarda come esistente» (J .G. Fichte, Darstellung der Wìssenschaftslehre [ 180 l], Werke II 31). 106 Vorlesungen iiber die Geschichte der Philosophie, Werke XIV (1842), p. 294. [tra d. it., II, p. 308]. 107 /bi, p. 295 [trad. it., II, p. 309]; Logik, II 27 [trad. it., II, p. 32]: «l'identità è la rit1essione in se stessa, che è questo solo come un respingere interno, e questo respingere è, come riflessione in sé, un respingere che immediatamente si riprende in sé». Riflessione come «identità davvero asso luta», ìbi, p. 169.
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stesso modo della filosofia odierna» 108 • Tutta via ciò in cui la filosofia ha «ora», ossia nella fase dell 'idealismo assoluto, la sua verità è l'idea quale pensare semplicemente identico a sè; dal suo essere altro l'identico del pensare ritorna a se stesso ed è, in questo , ciò che di più ricco v'è in sapere ed essere. Tramite tale ritorno, il più ricco è ad un tempo «il più concreto e il più soggettivo»: è ciò che ha mediato il proprio inizio, nel quale esso è già in sè l' assoluto, con se stesso riflessivamente verso la «pura personalità» 109 ; e questa, come dice l'ultimo paragrafo dell 'Enciclopedia, «si produce e gode se stessa eternamente come spirito assoluto» 11 0 • Uscendo dal concetto preliminare di un pensare costitutivo, Hegel però si distingue da Aristotele quando, parlando di costui, afferma: l'attività dell'accogliere «produce quello che appare come un venire accolto». Dunque egli vede in Aristotele l' «atto stesso del pensare», e non il pensato, come la cosa «più eccellente». Rispetto a ciò per Aristotele si tratta di determinare l'essere del principio primo, o della sostanza prima come pensare puro, ossia esclud ente ogni possibilità progettante e, perciò, connesso a se stesso, senza a vere l'intento di stabilire una conclusione puramente formale (ma certo necessaria) del «sistema». L'uguaglianza, o l'identità, di «pensato» e pensare stabilisce proprio la pura realtà del principio divino. Resta poi da considerare un elemento sostanzia le , che divide Ar istotele da Hegel e a motivo del quale la citazione dalla «teologia» di Aristotele, posta al termine dell'Enciclopedia, non può apparire una semplice identificazione di Hegel con Aristotele: nella misura in cui la fi losofia «enciclopedica» di Hegel, la quale concilia il punto finale con quello iniziale, deve essere intesa come processo di superamento del pensare finito nel sape re assoluto, proprio questo punto finale rimanda al fatto che nell'idealismo assoluto è riuscito al fin ito ciò che Aristotele era costretto ancora a separare (l 072 b 24-26), sebbene esso (dal punto di vista hegeliano) lo formulasse almeno come possibi li108 Gesc~ich te der Philosophie, pp. 294 s., 296 [trad. it. , pp . 308 s., 310] . A questo cornsponde - ancora adesso - l'osservazio ne di C.L. 1v1ichelct secondo la quale 1-Iegel è stato colui che ha «i n una certa misura riscopcrto la pro fond ità speculativa di Aristotele» (Das System der Philosophie, III , Berlin 1878, p. 666). 109 Logik, II , p . 502 [trae!. it., III, pp. 37 1-372]. 110 Enzyklopadie, § 577; 463, 14 s. [trae!. it. di B. Croce: Hegel, Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, Bari !97 33 , II, p . 529) .
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tà del dispiegarsi storico del pensare. In quanto a cw Hegel rappresenta il compimento che trasforma Aristotele e non un semplice ritorno a lui. Il concetto aristotelico di Dio implica un'unità di essere e pensare come vita: r1 yò:p voli ivtp;Eto: ~vYi}, o nella traduzione di Hegel: «l'attività del pensiero è vita. Ma egli (sci!. Dio) è l'attività; l'attività volgentesi su se stessa ( = attività in sè) è la sua più eccellente ed eterna vit a» 111 • In questo punto l'autocomprensione di Hegel s'incontra talmente con una interpretazione, oggettivamente appropriata, del suo pensiero che il suo proprio concetto di idea può essere inteso come il compimento e l'esplicazione moderna del pensiero centrale della teologica aristotelica che identifica essere, o unità, o riflessione, o pensare, e vivere. Senza nominare lo stesso Aristotele , benché di fatt o a lui simpateticamente unito , tranne che in una diversa coscienza storica, Hegel formula l'i ntento della sua «logica» rispetto all 'idea assoluta: «essendo il concetto razionale» , questa sola «è essere, vita che non passa, verità di sè conscia, ed è tutta la verità» 112 • La convergenza di Hegel con l'affermazione aristotelica, secondo cui «la realtà dello spirito è vita» , consiste principalmente nel fatto che in lui non solo Io spirito viene pensato come vita, ma anche la vita, nella sua intensità suprema, come spirito. Ciò ha anche una analogia nel pensiero platonico, secondo il quale la vita dell ' anima culmina, quale originario movimento di sè, nella capacità del pensare ed ha la sua immortalità proprio dall'un ione con il mondo dell'idee, unione che si documenta nel pensare. Con questo non si deve privilegiare l'idea che l' autoriflessione del principio sia, come vita, soltanto una proiezione della dimensione fisica. Se si considera che questa fo ndamentale concezione aristotelica si sviluppa produttivamente, anche secondo Hegel 113 , nel concetto neoplatonico di spirito, allora, prop ri o a ragione del legame di Hegel con la prima e con la tarda metafisica greca, la concezione cristiana della rifl essione assoluta, della visio ab~ yàp 'JOG ivipym,; ~w~, hélvoç o~ ~ t•;ip'(&\0'. " i vÉpj"E\0'. Ot ixeivou ~<ù~ &picr'O) xo:l &towç. Hegel, Vorlesungen ii. d. Gesch . d. Phil., XIV , p. 294 [trad. it., II , p. 308]. 112 L ogik , II , p. 484 [trad. it. , III, p. 349]. 1!3 C fr. W. Beicrwaltes, P/atonismus und ldea/ismus, pp . 149 ss ., 167 ss. [trad. it., pp. 165 ss.; 189 ss .]. Il i
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so/uta trinitario-creativa, non può essere intesa come un esito medioevale, ma come un potenziale storico che si evolve nella concezione moderna della soggettività assoluta n 4 • All'interno 11 4 Partendo prevalentemente dall'a,spetto della soggettività , W . Schulz ha fatto accenno al significato del De visione Dei di Cusano per il concetto moderno di Dio (Der Gott der neuzeitlichen Metaphysik, Pfullingen 1957 , p. 13 ss.). In ques to contesto Schulz spinge la concezione che emerge dalla contemplazione dell'icona dei e secondo la quale nel muta mento del punto d'osservazione Dio ap pare «Come un'ombra che accompagna lo spostamento di chi cammina» (c . 15; 107 rr 16 s.), al gioco d'una costituente soggettività che, per così dire, mette in campo il suo fondamento . Il rovesciamento, notato anche da Schulz, della concezione per la quale in verità l'uomo è l' <> e Dio la «verità» che lo fo nda (sed quia ego sum viva umbra et tu veritas. .. videris aliquando, quasi sis umbra, qui es lux, c. 15; 107 rr 14 s.) viene con questo relativizzata. Non può essere ritenuto un intento cusaniano suggerire un concetto di Dio che si «trasfo rmi» in un aspetto della «mia» soggettività, e, cioè, insieme a «me» . La concezione che brevissimamente compare dall'insieme della visione non può legittimare, rispetto al suo potenziamento o capovolgimento moderno, l'interpretazione secondo cui come <<mia om bra» il Dio cusaniano attesta la «potenza della soggettività finita» (pp. 31 s.), anche se essa si dovesse manifestare come impotenza di questa. Cusano non avanza mai una defin izione di Dio come «ombra che mi accompagna» (Schulz, p. 31), anzi lo definisce luce e arche ti po che insieme pone l' immagine e l'om bra di sé. Dio è qu indi «compreso» nel vedere dell'uomo nella misura in cu i il vedere d i quest'ultimo è reso possibile solo dal vedere di Dio (la medesima concezione viene in tal modo espressa da E. Metzke: il vedere divino introduce «il nostro essere soggetto, quale proprio centro esecutivo, nel Suo vedere e lo rende condizione condizionata dell'essere visto divino»; Nicolaus von Cues und Hegel, in: «Kantst udien », 48 [1956], p. 230). Come momento della sua essenza, la trascendenza di Dio, o il suo «essere per sé», non viene tuttavia toccata in tal modo. Proprio in rapporto a Cusano e al pensiero ncoplatonico, l'insistere sul nesso di trascendenza ed immanenza non ha il significato di legame ad uno schema che nasconde meglio la realtà effettiva, indica piuttosto, con energia, che il concetto del principio divino può essere inteso solo all 'i nterno di una relazione dialettica con il mondo, senza che, quale origi ne e misura proprio di questo rapporto, esso stesso si risolva o sia superato in questo . È q uesto ciò che si intende quando si afferma che Cusano ha «desostanzializzato Dio» (pp. 21, 24): il dispiegarsi tipicamente cusaniano del rapporto di trascendenza ed immanenza esige proprio un'interpretazione che renda accessibile il suo pensiero soprattutto nella sfera di quei filosofemi neoplatonici che si sono modificati, ad es., in Eriugena o Meister Eckhart . Propr io la concezione neoplatonica che pensa l'essere-in del principio nell 'ente in modo paradossalmente complementare al suo sottrarsi, viene contraddett a dalla seguente affermazione: «C usano non deve esser interpre tato a partire dalla trad izione che lo precede, dal momento che non attri buisce a Dio l'esistenza per sé, ma lo desostanzializza e lo pone in nn rapporto essenzialmente irrisolvi bile con il mondo e l'uomo» (Schulz, p. 24). Anche l'Uno, in senso plotiniano, non sta in un «rapporto solvibile» con il mondo, poiché il mondo è da lui e attraverso di lui; al trettanto poco viene concepito come un «per sé esistente» che rimane anche «per sé». Però il mondo per Plotino non è un «risultato» di una creatività illim itata, ossia intesa, voluta al modo con cui l'ha concepita Cusano: presupposto atemporale dell'explicatio temporale di Dio. Di fronte al livcllamento moder-
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di un tentativo ulteriore di riflessioni storico-filoso fiche è, questo, un essenziale punto di partenza a favore del convincimento che l'epoca moderna non possa essere intesa primariamente 0 esclusivamente come una risposta alla filosofia nominalistica. La formulazione cusaniana dell'assoluta riflessione trinitada rappresenta in modo palese un'obiezione decisiva alla concezione statica ed estremamente volontaristica di Dio e dell'uomo da parte del nominalismo. Col sostegno degli elementi metafisici (e non solo logico-formali) del pensiero aristotelico, le concezioni centrali della tradizione neoplatonica divengono dunque, in essa e attraverso di essa, costitutive per il pensiero moderno 115 •
no della trascendenza assoluta è necessario tuttavia ricordare che la dialettica cusaniana di «in» e «sopra» ha il suo punto di partenza e d'appoggio reale e storico nel pensiero neoplatonico, il quale analizza entrambi gli estremi nelle loro, conseguenze. Proprio a partire da tale tradizione può essere meglio inteso il fatto che Cusano pensi intensamente la «vicinanza» del principio al principiato nonostante o nella differenza. 11 5 I concetti sviluppati in questo capitolo sono stati da me ulteriormente trattati in: Visio Facialis - Sehen ins Angesicht. Zur Coincidenz des endlichen und unendlichen Blicks bei Nicolaus Cusanus, «Mittcilungcn und Forschungsbcitrage der Cusanus-Gesellschaft», 18 (1988).
GlORD,\NO BRUNO
III. Identità senza differenza? Intorno alla cosmologia ed alla teologia di Giordano Bruno
l. Problemi metajisici di Bruno e loro implicanze Nel pensiero istintivo di Giordano Bruno, pensiero che spesso confonde, ma che pure persegue in modo filosoficamente intenso e produttivo, le questioni centrali della cosmologia e della teologia, la questione del nesso di identità e differenza sembra incorrere in una aporia: l'unità universalmente determinante (in quanto unità del principio o del mondo) supera tutto il determinato, tutto l'in sé differente? Senza la riserva di una sua propria possibilità, l'identità è totalmente nel mondo o addirittura è come questo? Il fondamento ed il fondato si confondono senza distinzione in un 'identità che esclude ogni «grad-a zione» antologica? In quanto «immagine speculare» o in quanto «autoritratto» di Dio (Cusano), il mondo viene ipostatizzato esso stesso ad atto assoluto che rende il «vero infinito», come essere proprio, una costruzione superflua? Queste domande - certo nella prospettiva necessariamente coi·rettiva degli scritti latini del Bruno - possono essere approfondite in modo paradigmatico sulla scorta del De la causa. Ciò che viene nascosto antiaristotelicamente nella riflessione sul rapporto di causa ed effetto, principio e principiato, e non meno di materia e forma, o sostituito dalle nuove concezioni, si evidenzia nel pensiero di Bruno piuttosto chiaramente tramite il legame - certo non sempre netto - con la tradizione platonica intorno all'Uno e all'universo, o intorno all'Uno dell'universo: la questione della differenza non viene da Bruno sconsideratamente resa scialba, come invece suggerisce la recezione dei suoi concetti fondamentali. È stata infatti l' intensificazione da parte di Bruno del concetto di immanenza a dare adito a quel tipo di recezione.
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Analoghe fo rmulazioni della questione caratterizzano la forma più insigne della fortuna bruniana: la «filosofia dell'identità» di Schelling. Anche in questa devono essere chiarite le riduzioni sommarie che - ancor sempre per alcuni motivi - cercano di nascondere la differenza nell'identità. n dialogo De la causa, principio et uno venne alla luce come La cena de le Ceneri e De l'infin ito, universo e mondi - in un periodo in cui la vita di Giordano Bruno era relativamente libera e felice: venne, infatti, scritto nel 1584 durante la sua permanenza in Inghilterra e pubblicato lo stesso anno in una fittizia Venezia ( = Londra)!. La forma dialogica rende in Bruno meno significativo l'intento platonico di un filosofare dialogico, che mediante un esame argomentativo delle opposte opinioni giunge ad un risultato che non può essere sempre fissato. Essa piuttosto manifesta per Bruno - straniato, in modo talvolta fittizio, dai partner del dialogo - la possibilità di descrivere la propria situazione spirituale e storica, e in essa di dare un profilo a se stesso. Ciò diviene particolarmente chiaro nel primo dei cinque dialoghi del De la causa: precisamente in una replica difensiva ed attenuante rispetto ad alcune esuberanze ed intemperanze della Cena delle ceneri; ma diviene chiaro anche nella critica, spesso pungente, alla tradizione filosofica e teologica; critica che, non raramente, colpisce solo una larva creata di propria mano o avuta in retaggio. L'ambivalenza di tale critica si rivela, e non ultimamente, nella valutazione della fisica e metafisica aristoteliche; ad esse si oppongono invero le concezioni cosmologiche del Bruno. Tuttavia le forme essenziali del pensiero che cercano di dar vita a qualcosa di nuovo, non sono concepibili senza quelle. La nuova cosmologia del Bruno, intesa come infinità dell'universo e numero infinito dei mondi in esso, partecipa di ciò che è seguito alla riforma copernicana. Bruno rivendica a sé il merito I I numeri posti dopo la C si riferiscono alle pagine e alle righe della traduzione di A. Lasson (Von der Ursache, dem Prinzip und dem Einen, Hamburg 1977, a cura di P .R. Blu m). Per il testo italiano rinvio, dove appare terminologicamente istruttivo, all 'edizione commentata di G. Aquilecchia: Giordano Bruno, De la Causa, Principio et Uno, Torino 1973 (abbreviato: Aq; pagina e riga di questa edizione sono, poi, ogni volla indicate dopo il pu nto e virgola di una citazione el i C), o (dalla nota 78) ai Dia!. it.: Giordano Bruno, Dialoghi italiani, a cura dì G. Aquilecchia, firenze 1958, voli. 2, pp. LXII- 1241 [tutte le aggiunte del traduttore sono poste tra parelllesi quadra).
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d'aver completato in modo radicale la concezione copernicana secondo cui la terra non si trova al centro dell'universo- detto metaforicamente: d'essere il giorno rispetto al quale Copernico è «come un'aurora, che doveva precedere l'uscita di questo sole»2. Ma ciò che con Bruno, seguendo la sua immagine, venne a giorno è l' «antiqua vera filosofia», che era rimasta sino a quel momento nascosta. Proprio questa affermazione, con la quale Bruno si caratterizza, relativizza tuttavia il pathos del nuovo rispetto a ciò che è storicamente accettabile come vero: la «soglia epocale» 3 può essere intesa in modo adeguato solo se viene riconosciuta la continuità di concetti, questioni, problemi e strutture di pensiero all'interno e nonostante la discontinuità; però l'invarianza dei termini non può qui essere confusa con la trasformazione concettuale dell'oggetto. Il pensiero di Bruno, nel rivolgimento verso l'epoca moderna, è, in ogni caso, uno di quei feco ndi paradigmi che pongono in risalto tanto il nuovo nel vecchio quanto il vecchio nel nuovo. Se all'interno del tentativo di introdurre all'ambito problematico del De la causa viene posta attenzione a questa interferenza, ciò accade non al fine di mantenere ed accertare tranq uillamente «ciò che già c'è», ma per porre in evidenza, in vista del significato reale di una concezione, una misura possibilmente superiore in ragione ed oggettività. Una misura che sembra essere attiva nella storia del pensiero. Senza che si debba assumere direttamente il concetto di storia universale quale è stato proposto da Hegel, per un processo di tal genere è valida la seguente tesi: il nuovo non appare come nuovo in quanto distrugge l'antico, ma in quanto lo supera in sé - anche nella negazione - come momento essenziale di se stesso, e lo mantiene nel mutamento; almeno per Bruno lo si può provare. La fisica moderna, da Copernico in poi, e la sua nuova cosmologia vengono infatti svolte principalmente mediante i concetti centrali della metafisica neoplatonica ed aristotelica. Le diversità di contenuto si mostrano qui in modo particolarmen2 3
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te jrappant nei confronti dei termini tradizionali (ad esempio nei confronti della coincìdentia opposìtorum o del possest oriainariamente cusaniani), i quali, pur ampliando e spostando Uloro ambito di validità, non sono in grado di risolversi nella struttura di pensiero della loro origine. Nel De la causa Bruno non cerca - come ne La cena e nel De l'infinito - di spiegare l'universo da un punto di vista principalmente cosmologico; in questo dialogo sono dominanti, piuttosto, le question i metafisiche: che cosa rende l' universo, cioè l'essere nel suo complesso (tutto essere), un'unità in sé ricca di relazioni? Quali sono le forze moventi, immanentemente vivificanti, di questa unità? Quale nesso ha l'unico fondamento universale con l'intero molteplice dell'universo? Rispondendo a tali questioni, Bruno discute: a) la funzione e l'ambito di attività del «principio» e della «causa»; b) l'essere e l'operare dell'anima del mondo come principio di movimento e di vita dell'universo; c) il concetto di materia, al quale e mediante il quale si mostrano i singoli nessi vitali e le forme dell'intero, dunque il rapporto di materia e forma; d) l'essere dello stesso Uno sotto un duplice e tuttavia unico aspetto: come principio divino che esiste in sé e come operare creatore che unisce e determina tutto, e nel quale si fon da anche l'operare delle singo le forze o cause. 2. Principio e causa
In una consonanza totale con la tradizione metafisica Bruno chiama Dio ad un tempo «principio primo» e «causa prima»4. La distinta denominazione vorrebbe chiarire i diversi aspetti dello stesso essere ed operare: principio, in quanto Dio è la cosa prima rispetto alla quale ogni altra viene dopo in dignità d'essere, e origine, in quanto la differenza rispetto all'ente (le cose tutte son da fui distinte ... ) 5 è posta da lui stesso. È ciò corrisponde tanto al concetto come anche all'uso li nguistico di Aristotele e di Cusano 6 • Il Dio della metafisica
CC., 29.
Intorno al pensiero di Bruno quale aspetto di una «svolta epocale», cfr. H. Blumenberg, Die Legitimitat der Neuzeit, Frankfurt 1966, pp. 435 ss. e: Die ::;en.esis der kopernikanischen Welt, Frankfun 1975, pp. 416 ss . Blurnenberg mette m nsalto che li copernicanesimo di Bruno «non coincideva con la sostanza delle accuse che gli venivano rivolte».
4
C., 27, 34 s. ; 65, 16 s.: primo principio e prima causa. C., 28, l; 65, 23. 6 Qui si incontran o in modo pieno la tradizione aristotelica e quella neoplatonica. Per Aristotele, tuttavia, il punto ontologico in cui si uniscono non è tanto 5
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aristotelica è l'unica prote arche, dalla quale tutto dipende e che, quale pensiero atemporale di se stessa, è ad un tempo «ciò che v'è di più prezioso» (timiotaton) nell'ente, ossia ciò che è assolutamente reale ed operante 7 • Il Dio della teologia filosofica di Cusano è un principium che procede riflessivamente in se stesso e si esterna creativamente, e come tale è anche causa universale, ciò che è «prima» di tutto per eccellenza 8 • I concetti di principio e di causa devono essere differenziati per il chiarimento degli oggetti o dei processi della natura. Con principio - quale concetto più ampio - s'intende, in codesto ambito, quell'elemento che costituisce internamente una cosa o un processo e s'impone in questi come identico. Con causa s'intende invece ciò che contribuisce alla produzione dì una cosa, ma ha il suo essere all'esterno di questa 9 • Tale differenziazione è però più pronunciata di quanto essa si mantenga nel pensiero di Bruno. La riflessione sull'universo porta l'attenzione anzitutto all'anima del mondo come forma universale 10 • Entrambi i concetti sono per essa, in modo analogo al concetto "Dio", altrettanto validi: essa è causa efficiente (causa effettrice) 11 in quanto determina iri modo predominante l'universo, è principio in quanto, come forma interna, anima e forma il mondo 12 • Se si prescindesse per una volta dal concetto finale del movimento del pensiero, Bruno, nella duplice valenza dei concetti di principio e causa, si mostrerebbe fedele, per la spiegazione delle formazioni e dei processi naturali, all'uso linguistico e concettuale aristotelico. I concetti di principio , causa (e elemento) vengono usati da Aristotele, talvolta senza distinzione, per la medesima realtà: tutte le cause valgono anche come principi 13 • «Carattere comune di tutti i significati di principio è di essere il primo termine la processione quanto piuttost.o la «garanzia» dell'ente che si ha tramite il principio (xtv<.i: wç ipwf.!. Mel., 1013 a 17.
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a partire dal quale una cosa o è o è generata o è conosciuta»; deve essere, dunque, assunto un principio per essere, divenire e conoscere. «Di questi principi alcuni sono interni alla cosa, (della quale sono principio), altri sono, invece, esterni» 14 • Conformemente a questa determinazione, può essere principio non solo la causa efficiente o materiale, ma altrettanto la causa formale o finale. Bruno è in consonanza con Aristotele anche nella quadruplice determinazione degli ambiti di relazione delle cause: ciò che determina l'essere, ciò che dà forma propria, è causa formalis 15 ; il possibile volto alla determinazione o ciò che è impulso alla determinazione è causa materia!is; il «da cui» del movimento ( = del cambiamento, del processo) è la causa efficiente (causa efficiens); il «verso cui» o il tendereal (il fine o la fine) del movimento e del divenire è la causa finale (causa finafis) 16 • Tanto per Aristotele come anche per Bruno è necessario che la causalità determini non «occasionaimente» il singolo ente e l'ente come intero; che la causalità, come concetto di riflessione o come categoria puramente linguistica, non spieghi solo l'ente, ma sia la struttura interna dello stesso ente: la causalità è operante nelle cause dell'essenza. Nel corso della discussione nel De la causa, il pensiero si concentra su due cause o principi: la materia e la forma. Queste sono tuttavia da considerare come un'unità, essendo le forme immanenti alla materia stessa. Benché diverga nelle sue conseguenze da Aristotele, a questa concezione corrisponde la riduzione aristotelica delle quattro cause a materia e forma, poiché essenza, fine, realtà causante possono essere pensate in modo identico alla figura interna di un ente o di un processo 17 • Mediante la causa, che determina la forma, o la figura, interna di un ente come fine, viene attivata la causa efficiente. La forma di un ente è dunque il fine causato. La materia è invece il fondamento intelligibile o sensibile di possibilità di ogni concrezione della forma o dì ogni singolarità. In opposizione a Bruno, per Aristotele materia e forma stanno, tuttavia, l'una rispetto all'altra in una differenza ontologi14
/bi, nr. 17-20. !bi, 983 a 27 s. 16 Met., 983 a 29 s.; Met. . 1013 a 24 - 1014 a 25; Phys., 194 b 16 ss . Su questa suddivisione in Bruno: C. , 31, 28 ss .; [69, 2 ss. ] 17 Phys., 198 a 24 s. 15
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ca, e sono reciprocamente connesse in modo necessario al fine di porre in atto processi e forme concrete (ossia la realtà singola). Mentre Aristotele inoltre, tramite la quadruplice causalità e la sua riduzione alla differenza, in sé relazionale di materia e forma, spiega singoli processi o un singolo esistente determinato, e fa sì che l'ordine dell'intero venga garantito dalla causa finale dal principio primo (divino), Bruno intensifica ed amplia il ruolo della causa formale in forza del suo concetto di materia, della concezione dell'anima del mondo e della concezione dell'Uno . Riguardo a questi ultimi due, ciò trova il suo fondamento in una visione platonica di fondo e nel concetto di creatore.
3. L 'anima del mondo come principio di movimento e di vita dell'universo L'universo, o il mondo, quale unica unità da sé vivente presuppone l'operare dell'anima del mondo. Essa è la sua «forma (intrinseca) universale» 18 , o la «forma unica e prima», che, sussistendo da sé e a partire da sé, si comunica intatta a tutto «in quanto principio di ogni formazione e sussistenza» 19 • Nel comunicarsi in tal modo, essa media lo «spirito» (intelletto universale, mens) nell'ente e lo rende vissuto o animato proprio tramite questo atto. Ma lo spirito è parte di questa stessa anima, è la sua prima facoltà (facultà) ed una sua facoltà essenziale, la «più interna» e più reale, o la più attiva 20 • Tale mediazione attiva dello spirito indica l'anima del mondo quale primus motor di tutto il processo , e quindi anche di tutto l' essere 21 • Come tale, essa non forma, o modella, solo la realtà singola in ciò che è vivo mediante lo spirito, ma compone anche il nesso della realtà singola - nesso pieno di senso e
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che si sostiene nella reciprocità - di modo che, nonostante le molteplici differenze immanenti, vi sia, per suo tramite, un unico ìntero 22 • Essa dà origine, dunque, al nexus o alla connexio rerum, e con ciò anche all'armonia del mondo, che è ad un tempo la sua bellezza 23 . La forza unificante che deve essere pensata come un aspetto dello Spirito che procede da se stesso - essa corrisponde totalmente alla descrizione del suo operare - è amor: questo compenetra in modo totale e vincolante tutto, «concilia tutto in tutto e opera tutto in tutto» 24 • Il male, o ciò che non è ordinato, non ha assolutamente posto in questo universo, se tramite l'anima del mondo lo spirito, o la ragione, vuole essere attivo «ovunque» e «in tutto». A motivo della sua indivisibilità 25 , che include il suo effetto moltiplicante, l'anima del mondo è interamente nell'intero del mondo e interamente in ogni parte dell'intero 26 . Metafore di questa onnipresenza dell'anima del mondo nell'universo sono il cerchio, la luce e la voce. Poiché l'anima del mondo senza nessuna diminuzione di sé, partecipa al tutto secondo lo spirito ad essa proprio, il pensiero garantisce che essa è il centro di un cerchio che si esplica nella prospettiva dell ' intero, il qua le , poi, solo mediante questa esplicazione è. Di conseguenza, il centro è implicite «l'intera essenza del cerchio»27, tutto è in tutto ciò che può essere tramite il centro. Come forma universale, l'anima del mondo è «luce infinita» (lux injinita)2 8 che da sé delimita proprio tutto ciò che è finito, che è reciprocamente differente, e lo determina come cosa singola, ma come intero è e rimane infinito allo stesso mo22 23
C., 39, 14; 79, 7: la composizione, e consistenzia de le parti. C., 34, 20 ss .; 73, 8 ss. 13. 25: bellezza; LTS., 61, 3 ss .; U., 27 ordo-
connexio-pulchritudo: universas jacit conspirare partes (ordo). LTS., 54, 9 s.; 61, 6. M. 346: amor unus omnia omnibus concilians. S., 195,
24
3 ss. 18
C., 29, 14 ss. e 39, 8 ss. [67, 12 ss. e 79, l ss .]. Sul problema, cfr. P. H. Miche!, La cosmologie de Giordano Bruno, Paris 1962, pp. 113 ss. 19 S., 202 s. 20 C., 29, 5, 14 ss. [67, 3, 12 ss.]. Cfr. inoltre C., 32, 30 STM., 103, 19-21:
intelligentia... est divina quaedam vis, insita rebus omnibus cum actu cognitionis, qua omnia intelligunt, sentiunt et quomodocunque cognoscunt. 21 LTS., 60, 15 ss .: ... hic (primus motor) igitur est qui immobilis in se dat cunefa m o veri (riminiscenza di Boezio , Phil. Co ns. , III 9, 3: stabilisque manens das cuncta moveri). A., 160 s.
25
LTS., 56, 22 s.: spiritus et anima mundi penetra! omnia et est in omnibus, ut nulli admisceatur, in nul!ius substantiam transeat. 57, 15 : indivisibilis, e nondimeno multiplicabilis (nel tutto essa rimane tuttavia se stessa), vis intima cuique. M., 3!3. 26 C., 35, 31 ss. 44, 24 ss. 102, 27 ss. (onnipresente). 78, 6. (tutto in tutto). S., 196, 15 s. : ubique praesens; tota et in toto et in quacumque parte tota. 27 338, ultima riga e 339: maxima et omnis vis posita in centro est rerum, est anima ipsaque centrum... centrum tota est essentia cyc!i. 28 S., 203, 11.
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do che la realtà da illuminare, lo stesso universo, è infinita. La voce è udibile ovunque nella misura in cui è una e intera: è l'unico centro, in tutto attivo, della forza, indi'visibile non al modo del punto, ma come un'unità diffusiva, la quale rende accessibile la sua pienezza ed è nondimento continua 29 • Un aspetto dell'attività dell'anima è dunque amor - la coesione -, un altro, pensato secondo il concetto di forma che dà forma, è quello del formare creativo: Bruno concepisce lo spirito mediato attraverso l'anima del mondo, in modo analogo al demiurgo platonico (fabro del mondo), all'orfico «occhio del mondo», al separatore, dichiarato empedocleo, delle forme e al fondamento platonico delle forme nel mondo sensibile, come artefice interno, che, dalla materia nel suo complesso, attiva in essa tutte le forme e, con ciò, ordina la somma del singolo esistente in un intero in sé concordante 30 • Anima mundi et spiritus universi, lo spirito che opera nell'anima del mondo, è dunque, come ars artium o prima ars, la stessa natura 31 che forma. Essa è la forza che dall'interno costituisce (in qualità di principio) l'ente nella sua globalità 32 , e che non «usa» la materia come un mezzo che le sta di fronte (esterno ad essa), ma, unita al mundus archetypus idea!is, ha nella materia il suo diretto ambito di esplicazione. Mediante questa determinazione di «artefice interno» l'anima del mondo è come uno spirito che «fa» tutto, anche il centro mediatore tra lo spirito divino, che «è» tutto, e Io spirito nell'ente singolo, che «diviene» tutto 33 • Nella sua concezione dell'anima del mondo Bruno, in modo piu o meno legittimo dal punto di vista del contenuto e da quello storico, si collega expressis verbis ad Empedocle, ai pitagorici, che secondo Bruno sono documentati dai versi signi-
GiORDANO HRUNO
[icativi e storicamente fecondi di Virgilio, ai «platonici», a Orfeo e Plotino 34 • Elementi essenziali della tradizione platonica che si sono uniti nel neoplatonismo con la concezione stoica della sympatheia, sono rimasti operanti anche nelle modificazioni del Bruno. originariamente, e in modo determinante per la cosmologia posteriore, il concetto di anima del mondo venne sviluppato nel Timeo 35 di Platone: essa è il principio della struttura e del movimento del cosmo che si fonda nel Nous del Demiurgo ed opera a partire da esso; è l'espressione riflessa e riflettente del rapporto matematico che fonda il cosmo e lo mantiene nell'ordine; è il principio che sostiene e produce la proporzione o l'analogia delle parti. E questa, il «legame bellissimo» 36 , produce l'unità o l' «amicizia» (phi!ia = amor) delle cose che costituiscono il mondo. L'anima del mondo è anche l'immagine suprema dell'unità degli opposti: del cerchio dello stesso e dell'altro 37 • Attraverso l'unità di questi due movimenti, del movimento riflessivo che pensa volto a se stesso, e di quello che si aliena nell'ambito della realtà sensibile, è garantita l'unità, l'armonia, l'identità di sé e la perfezione del cosmo. A ragione dell'esistenza dell'anima del mondo diviene possibile, in forma di enunciato essenziale della cosmologia platonica, che l'unico cosmo, l' «animale visibile, che accoglie in sé tutte le cose visibili, il dio percepibile sensibilmente immagine dell' intelligibile, si fondi su un principio intelligibile e razionale che il suo movimento sia movimento mediante il pensare, e da esso abbia la sua bellezza e perfezione 38 • Plotino riprende il concetto platonico del mondo come essenza vitale e lo integra con la concezione stoica della sympaiheia. 34
C., 45, 5. LTS., 57, 16. Ploti no, Enn. , VI 4, 12, l ss. 30 C., 30, 14; 68, 13: artefice interno. TMM., 142, 11 s.: spiritus architectus se infuso totum moderatur; LTS., 49, 15: artijlex. In OLI 2, 312: natura come ars vivens. LTS., 52, 18: mundi jaber: intrinsecus agens et fabrejaciens. 31 LTS ... 61, 13 ss. 32 Natura come virtus insita rebus: !m., 3IO. STM., IO l, 6: natura ... divina 29
virtus in rebus ipsis manifestata. C., 31, l O. L' «anima come centro d i med iazione» è una ~oncezione fondamentale del neoplatonismo: vedi a questo proposito W . Beierwaltes, Neuplatonisches Denken als Substanz der Renaissance, in: «St udia Leibnitiana », suppl. 7 33
(1978), pp. 1-18 .
217
Circa Virgilio, Eneide, VI 724-27 : C., 29. 38 [66 . 78]. Ploti no: C., 33, 20
(Enn., I I 9, 7, 14. Cfr. il termine <Xy6~rp:t in III 7, 12, 3, che significa anche
«faci lità di operare»; Bruno, LTS., 54, 24: l'operare dello spiritus universorum avviene sine labore). Sulla tradizione «Orfica» e «ermetica», cfr. D. P. Walker, Orpheus the Theologian and Renaissance Platonists, in: «Journal of the Warburg and Courtauld Institu tes», 16 (1953), pp. I00-120; F.A. Yates , Giordano Bruno and the Hermetic Tradition, London 1964 [trad. it. eli R. Pecchioli: Yatcs, Giordano Bruno e la tradizione ermetica, Bari 1981 ]. 35 Il Timeo di Platone era noto a Bruno; cfr. ad es.: C., 64, 30 e 73, IO ss. Aq. 36 !bi, 31 c 2 e 32 b 5 ss. 37 !bi, 35 a 1 ss . 38 !bi, 92 c 7 ss.
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II principio di questa vita, i cui singoli elementi sono reciprocamente uniti nell'essenza, è l'anima del tutto o del mondo: un 'anima dà vita e determina tutte le «parti»; essa è ovunque «la stessa», vale a dire niente è escluso dal suo operare; con la sua onnipresenza avvicina ciò che è più lontano (tutto è «affetto» da tutto) 39 • Tanto rispetto a Platone come anche rispetto a Bruno vi è tuttavia - con conseguenze sempre diverse - una differenza essenziale: invero l'anima del mondo ordina e governa il cosmo, «illumina» la materia e così rende intelligibile il corpo del mondo, ma non si unisce direttamente ad esso. L'anima del mondo trascende (hyperechein) 40 il cosmo, in quanto lo spirito che è a fondamento di essa impedisce uno sciogliersi nel cosmo: rimane «sempre al di sopra» 41 • La mediazione dell'intelligibilità, e quindi dell'ordine e dell'armonia del cosmo, mediante l'anima del mondo è dunque determinata dalla distanza. Nondimeno il cosmo sensibile è un' «immagine» simile a quella intelligibile, poiché in esso l'anima del mondo, come forma di vita, ha posto il tempo quale immagine del nous senza tempo. Il cosmo è, perciò, sempre una totalità analoga rispetto all'unità del nous; totalità che porta in sé gli opposti. Tutti gli elementi del pensiero - platonico, neoplatonico e stoico - sono riuniti nel concetto di Ficino di anima del mondo. Dal punto di vista del contenuto e storicamente Ficino è colui che più si avvicina a Bruno, anche nel legame di questa concezione con la magia naturalis. Ficino pensa l'anima del mondo, o anima universale, come concreazione, o mediazione, della libera alienazione di sé da parte di Dio (dijjusio sui ipsius); essa è il fondamento del mondo che crea unità: Et
quia ipsa est universorum «connexio», dum in alia migrat, non deserit alia, sed migrat in «singula», ac semper «cuncta conserva!», ut merito dici possit «centrum» naturae, universorum
GIO RDANO BRUNO
«medium», mundi series, vultus omnium nodusque et «copula» mundi 42 • Questa unità causata è da concepire come congiungimento reciproco della realtà singola; congiungimento volto a quell'origine dalla quale la realtà fondata non è mai totalmente separabile. Dall 'opera dell'unica anima del mondo risulta dunque la continuità dell'ente nella sua globalità, il nesso senza lacune con l'inizio assoluto, la perfezione, la vita immanente e il movimento dell'universo 43 • Già con Ficino l'amor viene concepito come espressione dell'anima del mondo, perciò viene definito, al pari della stessa anima del mondo, nodus perpetuus et copula mundi 44 • Esso è, in forma vera e propria, una forza cosmologica che penetra tutto l'ente creato: unisce in una armonia (concordia) 45 l'ente in sé distinto , delimitato e determinato, e in tal modo lo ordina ad un tempo e lo rende bello. Esso non è tuttavia solo un inizio che costituisce l'ente (la sua ejjectio), ma ha anche nei suoi confronti la funzione di reductio e conservatio, e nella materialità in sé disparata fa apparire l'unico e unificante fondamento intelligibile46: la riduzione è anche una spiritualizzazione. Tramite questa duplice mediazione, amor si dimostra una funzione dell'essere-centrale dell'anima del mondo. In questa concezione d'una concordia cosmica mediante l'amor, Ficino - come poi Bruno 47 - si riallaccia ai principi cosmologici di «amore» e «discordia» di Empedocle e, non da ultimo, intensifica la concezione neoplatonica con elementi «orfici» 48 • In quale misura e in che senso gli elementi, assunti dalla tradizione filosofica, della concezione dell' «anima del mondo» si modifichino, nel pensiero del Bruno, in vista di una più intensa unità con il suo «corpo» (con l'universo, con il mondo) può chiarirsi ancor più grazie ad una analisi del concetto di «materia». 43
Plat. Theol., IV l; I 161. De amore, III 3; 165 (Marcel). Oggettivamente rilevante all'interno di questo contesto è la fondazione filosofica della poesia Quod mundus stabili fide in Boezio, De Phil. Consol., II m. 8. Cfr. a riguardo C.J. de Vogel, Amor quo coelum regitur, in: «Vivarium», l (1963), pp. 2-34. ~s De amore, III 2; 162. 46 Jbi, IV 6; 177. VII 13; 257. VII 14; 259. 47 Ad es.: C., 29,3 1 s. [67 , 29 s.]. 48 Ad es.: De amore, III 2; 162 e (come Bruno in C., 30, 3; 68, 5 Aq : occhio del mondo) Pia t. Theol. , II l O; I l 04, oculus infinitus. Cfr. anche nota 34. 44
39 Plotino, Enn., IV, 4, 32, 4 ss. e 13 s.: (l1)[J.no:\H.ç m'iv o;:oil't'o ,ò &v. Cfr. anche 33, 6. IV 9, l, 8: no:v;o:xoG "to:u"t6v. V l, 2, 31: n&v ... 8tacrTIJ[J.O: &~uxuno:t. IV 7, 3, 32 ss. IV 4, 32, 14: noppw·lnu;. 40 !bi, IV 8, 2, 32 e 8, 14 (8, I5 s. citato da Bruno, C., 34, 8; Plotino gli era noto tramite l'edizione di Fici no, Editio princeps, 1492). 41 !bi, III 9, 3, 5 s. 42 Plat. Theol., III 2; vol. I 142 (Marcel). Il corsi vo segnala il rinvio ai nessi con la tradizione e a Bruno .
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4. Il nuovo concetto di materia
Alcune caratteristiche peculiari del pensiero del Bruno si mostrano proprio nel suo concetto di materia. La modalità con la quale questa coopera con l'anima del mondo determina la struttura dell'universo; e la materia, ad un tempo, getta una luce nell'ambito e nell'intensità d'azione del principio divino. Il Bruno pone ripetutamente in rilievo ciò che distingue la sua concezione di materia da quella aristotelica. Il suo rimprovero, per il quale alla materia, nell'accezione aristotelica, non convenga alcuna realtà e sia soltanto una logica intenzione, magis logicum quam physicum•9 , coincide - certo rovesciato in una comprensione positiva, non polemica - con l'affermazione dell'attuale ricerca intorno ad Aristotele, secondo la quale la predetta «materia originaria» è una pura astrazione o un «concetto riflessivo» 50 • La materia originaria è nel suo significato aristotelico il sostrato necessario (hypokeimenon) di tutti i processi fisici (mutamento o movimento), il presupposto a che le forze attive (eide) determinino, in modo differenziato, la pura possibilità (dynamis) in forme sempre nuove 51 • Perché dalla indeterminatezza della materia originaria (prote hyle) nasca qualcosa di variamente determinato o la materia determinata (hyle aisthete), è necessaria un'attività in sé esistente (energeia); in essa sola è fondato ed è comprensibile il cambiamento da uno stato della materia ad un altro, il «mutamento» reciproco anche degli oppostP2 • Un tale «mutamento» consiste nel passaggio da un non-essere o da un non-essere-ancora (non-essere relativo) in un essere limitato, autonomo, percepibile, conoscibile ed esprimibile. Invece alla materia originaria non devono essere attribuiti - via negativa - tutti questi predicati, tanto che non può spettare ad essa neanche la predicazione più universale di oùcrio:. Proprio in virtù di questo predicato essa sarebbe certo forma formante e non condizione di ogni formarsi, aperC., 60, 5 ss.; 102, 7. A 102. LTS., 25, 8: quasi pure logicum. W. Wicland, Die aristotelische Physik, Gottingen 1962, p. 211. Da sé non tende alla forma, è «vuota di contenuto». Sull'intero complesso di tale questione, vedi H. Happ, Hyle, Berlin 1971. 51 Phys .. 192 a 31 s.; Mel., 1028 b 36 ss.; Gen et corr., 322 b 12 ss. 52 Met., 1032, 13 ss.; 1042 a 33 ss.; 1069 b 2 ss.
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tura all'intero processo di riduzione al singolo 53 • Essa è dunque, aristotelicamente, quel prope nihi/ 54 che, secondo Bruno, né può né deve essere. Egli stesso si comprende nella sua opposizione ad Aristotele a guisa di colui che porta avanti - certo in una maniera più ampia - gli intendimenti di Democrito, di Epicuro, di Lucrezio, di Davide da Dinant e di Avicebron 55 • Da parte di questi ultimi due il carattere di realtà della materia è tanto intensificato, che essa viene pensata identica al principio divino 56 • La concezione propria del Bruno non è, tuttavia, senza ambivalenze, tanto che non può essere paragonata ai risultati a cui è giunta la predetta tradizione. L'ambivalenza deve essere vista nel fatto che Bruno da una parte non sa liberarsi completamente dal modello aristotelico di materia e forma, dall'altra - e in ciò sta il mutamento essenziale di concezione - concepisce la forma come l'aspetto attivo della materia stessa. Ciò domina invero sulla «rimanente» 57 parte aristotelica, tanto che Predicati negativi che rendono evidente l' «essere nulla» della prima materia: «non percepibile» (Gen. et corr., 332 a 35), «in sé non conoscibile» (Met., 1036 a 8 s.), «senza forma» (De caelo, 306 b 16 ss.), dunque anche non «enunciabile» (Met., !035 a 8), «senza determinazione né quantitativa né qualitativa» che si possa dire di un «ente» : M et., 1029 a 20 s. Non è né un ente né un qualcosa, dunque ad essa spetta solo impropriamente (come non ancora) la denominazione di oùcr(o:: M et., l 042 a 32 - b 3; Phys., 192 a 2-6. 54 C., 88, 21 ; 134, 8. Il termine viene da Agostino, cfr. Conf, XII 8, 8: ilfud 53
autem totum prope nihil erat, quoniam adhuc omnino informe erat; iam tamen erat quod formari poterat. XII 6, 6: informe prope nihil; nihil alìquìd; est non est (riguardo alla materia). La concezione aristotelica o, in forma modificata, della Stoa secondo la quale la materia è expe1:s omni qualitate (Agostino, Contra ep. Fund. 29, 32) rimane decis iva per Filone, Origene, Plotino (tuttavia non è un cr(-;)f!.o:, ma in senso proprio un non ente, in quanto senza forma, logos e limite: III 6, 7, 9 ss.), Cicerone e la tradizione aristotelico-platonica del medioevo. 55 C., 51, 3 ss. 61, 17. 80, 3. 95, 16. V., 696, Il ss . Con «Aristotele», quale fine della polemica bruniana, si deve sempre pensare alla ricezione scolastica tramite Tommaso d'Aquino, Duns Scoto e l'occamismo. Bruno era del tutto consapevole di ques ta sindrome. 56 V., 969, 13: qui ausi sunt materiam etìam Deum appellare. C., 61; !03, 13. Su Davide di Dinant e Avicebron, cfr. nota di Blum a p. 95, 15 della traduzione di Lasson (Giord ano Bruno, Von der Ursache, dem Prinzip und dem Einen, hrsg. von P.R. Blum, Hamburg 1977). 57 Come tale designo il fatto che Bruno considera la materia contracta (in opposizione ad una materia prima et absoluta) a) come subiectum formarum substantialìum (fondamento del divenire sostanziale) e b) come subiectum formarum accidentalium (fondamento del divenire accidentale, evoluzione dell'accidentale): STM., 21, 7 ss. In modo simile LTS., 25, 13-15 e 29, 14 ss . !m., 312 (OL I 2): est quoque materies, passiva potentia substans.
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il pensiero del Bruno non può pru limitarsi in realtà ad un nesso quasi esterno di materia e forma. Di conseguenza, la materia è in un «senso superiore reale» 58 come le forme: essa è «fonte de la attualità» o «delle forme» 59 , il suo «seno»60, per se stesso «fertile», mater, parens, genitrix 61 • È l'unico principio permanente che non solo assume in sé le forme, ma le produce totalmente da sé e le riferisce di nuovo a sé. La materia, quale egestas («povertà») 62 , né tende semplicemente alla forma né è semplicemente aperta ad essa, per diventare «qualcosa», ma è la forma che tende alla materia per radicarsi nell'essere o come tale 63 • Questo è un procedimento immanente alla materia, che ha già in sé, in quanto producente, tutte le forme (extra quam nulla est jorma) 64 ; non è perciò pensabiìe una materia assolutamente senza forma e senza differenza 65 , essa è piuttosto «formante», «poter fare» e «poter essere fatto» nello stesso tempo, nel senso di un compimento in sé unitario 66. Certo l'universo non è semplicemente identico alla materia, la «comprende» invece nella sua totalità 67 • Nè la materia allo stesso modo dell'universo - si mostra senza una minima differenza rispetto all'essere e all'operare del principio divino, ma è, secondo Bruno, in base alla sua attività e dinamica, 58
C., 92, 30. 59 C. , 93, 30; 139, 3: fonte de la attualità. 95, 32; 141, 12: fonte de le forme. 60 «Seno» (gremium) dal quale scaturiscono le forme e nel quale ritornano di nuovo: C., 60; 102, 32 ss. 87; 132, 26 . 88; 134, 12 (pregnante). 93; 138, 18. 95; 140, 16. 61 C., 92, 4 s. 137, 18 s.: ottima parente, genetrice e madre . 61, 29; 103, 21: progenitrice. Dal punto di vista terminologico è paragonabile anche Platone, Tim. 49 a 6: ·m5i!~Ti e 50 d 3: f.t:>')'t'l]p, in realtà solo recettivo (Ù7toooxf)). Plotino, III 6, 19, l ss.; 18: f.lirtTiP invero, e tuttavia: o:lol.v rò:p <XU'tT) r•vv~. Al cont rario Bruno: generatore, fertile, partoriente: C. , 60, 40; 102, 34 e 103, 21. 62 Sulla concezione neoplatonica della materia come egestas, inopia, paupertas (evowx, 1wAo:) rispetto alla «ricchezza», alla «pienezza» e al «puro essere» dell'intelligibile, cfr. W. Theiler, Forschungen zum Neuplatonismus, Berlin 1966, p. 192. 63 C., 95, 20 ss . [141, 2 ss.]. V., 695, 25-27: eiusmodi est materia per universum, extra quam nulla est forma, in cuius potentia, appetitu et dispositione omnes suni jormae. 64 Cfr. nota 63. 65C., 41,4 s. 66 v.' 696, 2. 67 C., 68, 4; IlO, 14: e continenza di tutta la materia.
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senz'altro «qualcosa di divino» (divinum quoddamY'8 • Nel terzo dialogo del De la causa tale tratto fondamenta le diventa particolarmente manifesto nel significativo capovolgimento del pensiero che prende le mosse dalla esplicazione del concetto di universo e del principio «supremo». Questo viene inteso in un senso attivo come potestà assoluta, dunque anche come essere per eccellenza, che dice di sé: «io sono colui che sono». Ma ciò è «assoluta realtà» («atto assolutissimo») 69 • L'unità del principio consiste proprio nella coincidenza di questi due aspetti: la sua facoltà assoluta è la sua realià assoluta, possest. A questa concezione segue l'affermazione decisiva per il concetto di materia: «se vi piace chiamarla ragione di materia, che non hanno penetrato i filosofi volgari, la possete senza detraere alla divinità trattar più altamente, che Platone nella sua Politica, et il Timeo» 70 • A partire da ciò viene almeno consolidato il concetto dell'attività della materia. La sua autooriginaria attività ha se stessa come ambito d'azione (unità di posse jacere e posse fieri) e in essa o fuori di essa la forma non può essere incontrata isolata; entrambe sono piuttosto momenti diversi di un unico ed identico essere. Questo unico essere è unità di momento «corporeo» e momento «spirituale» 71 • E viene a manifestarsi anche la loro determinatezza a causa del principio divino, non tuttavia un'identità con esso, come viene in un certo modo indicata da Davide da Dinant. Quell'essere che da questa unità di sostanza spirituale e corporea fa procedere nuove, o altre forme, dunque l'activa potentia della materia, è spirito: virtus mira quae praedita mente est 72 • Un tale spirito, o elemento che forma ed opera nella materia, è, nella sua caratteristica fondamentale, difficilmente separabile dall'anima del mondo: al modo di questa, esso è descritto come «arte vivente» (ars vivens), che dalla materia 68
V., 695, 29 e 696, 13. C., 61, 16; 103, 12: principio necessario eterno e divino. 92, 4; 137, 18: cosa divina. 69 C., 70, 17 s.; 113, 5: potestà assoluta; 16: «atto assoluto» come «absolutissima potenza». 7oc., 71, 13 ss.; 114, 7 ss. 71 C., 72, 25 ss.; 115 , 16-1 8: sustanza spirituale e corporale: .. .l'una e l'altra se riduca ad uno essere, et una radice. n !m., 312 (OL I 2).
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ad essa propria dispiega ciò che essa stessa contiene di non dispiegato 73 • In questo consiste la sua fecondità razionale 0 intelligibile. Dal punto di vista della questione della materia l'anima del mondo, o lo spiritus mundi, appare, dunque, act un tempo come l'elemento spirituale e, mediante lo spirito, come l'elemento produttivo della materia, il suo centrum esistente ed operante. La concezione di una materia dinamico-produttiva, la cui attività è spirito formante ed al cui essere spetta una dignità divina, ha anche conseguenze per il concetto di natura. Questa non può essere intesa né come l'essere della realtà sensibile nel suo complesso, o come l'unità dell'intera processualità, né come l'ambito di rappresentazione di uno spirito il cui essere in sé è la sua immagine originaria, distinguibile chiaramente da essa. In seguito alla determinazione bruniana dell'universo, della materia e dell'anima del mondo, la natura può con difficoltà essere rappresentata come realtà indipendente. Essa appare più simile che sinonima dei predetti. L'inesattezza di questo enunciato dipende dal fatto che mediante la trasformazione del contenuto di questi co ncetti è stato perturbato anche il loro accordo in sommo grado differenziato nei nessi reciproci. Completamente teso ad una dinamicizzazione della materia tramite lo spirito fondante, Bruno concepisce, di conseguenza, la natura come una «forza nelle cose» (virtus insita rebus), come il loro facitore interno (jabrejactor)' 4 • O anche: la materia, in quanto «ottima parente, genetrice e madre», è nella sostanza la natura intera («la natura tutta in su stanza») 75 • La predicazione, secondo cui la natura è vis, actus, ratio, verbum, vox, ordo, voluntas 16 , rimanda all'origine di questa alienazione; origine che si realizza e si dispiega in essa o come essa. La natura è, cioè, lo strumento, o la «mano», di Dio 77 • Non è dunque solo della materia essere «una realtà divina», ma anche della natura: divina potestas, che «trascina» o muo-
ve formando la stessa materia, una forza divina, che si manifesta determinante e creatrice nelle cose, invero Dio stesso, la cui «parola» penetra le «parti» della natura: natura enim aut est Deus ipse, aut divina virtus in rebus ipsis manifestata. Questo può, a ragione, essere inteso come una anticipazione materiale del concetto spinoziano di una natura naturans che è Dio 78 • Un a tale concezione di natura è essenzialmente diversa da quella di Platino, sebbene costui, come nessun altro prima di lui, comprenda la natura come attività pensante: la sua 7tp&çtç è la sua ~e.wpCa, e viceversa 79 • La conoscenza speculativa della natura è in un modo tale direttamente produttiva da rendere il mondo - certo in modo diverso rispetto a se stessa - specchio dell'intelligibile. La sua prassi teoretica riallaccia continuamente il creato ai logoi, al nous e quindi allo stesso Uno che è senza fondamento ed è fondamento di altro; ambiti che, nonostante l'immanenza, sono per la loro essenza trascendenti tanto rispetto alla natura quanto ai logoi.
Ibidem. LTS., 49, 14 ss.: spiritus vivificans come art((ex, qui non circa materiam, sed intra omnem materiam et naturam operatur; 50, 28: spiritus universalis seu anima mundi. 74 !m., 310, 3I2 (OL I 2) .
tu ttavia in opposizione a quei testi citati nelle note 94 ss. che hanno visto la luce nella stessa epoca (1591). Una simile d iscrepanza mi semb ra essere risolta dal contesto, il quale è diretto in modo del tutto pronunciato verso l'operare eli Dio immanente alla natura ed alla materia. 79 Plotino, Enn., III 8, 6, 10. so C. , 97 , 1 s.; 142, 3. 81 C., 142, II Aq.
i3
75
C., 92, 6; 137, 18-20. 234 (OLI!) .
16Jm. , 7ì
Manus cunctipotentis: STM., 101.
5. L 'Uno come principio divino che è in sé e come attività unificatrice dell'universo «È dunque l'universo uno, infinito, immobile» 80 • Questi ed altri predicati dell'universo, in particolare l'essere quasi eterno, senza parti, vale a dire invisibile, o l'essere in sé indistinto e l'ab bracciare «tutto lo essere» 81 , appaiono riducibili all'«Uno», o all'«in sé unico» e all'«infinito». Ciò non significa che i restanti predicati fossero tautologie superflue, anzi espiiIm. , 193 (OL I 2); STM., 101; Spaccio, dia/. III (Dia/. ìt. , 776): nmura est deus in rebus. Sull'argomento in generale, cfr. H. Védrinc, La conception de la nature chez Giordano Bruno, P aris l 967. Ancor più lontano giunge evidentemente allorché «precorre» Spinoza in !m., 312 (OL I 2): Deum esse infinitum in infinito. ubique in omnibus, non supra, non extra, sed praesentissimum (sulla poesia : Ergo age, comprendas ubi sit Natura Deusque). Questa espressione sta
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citano i predetti predicati fondamentali e così, nonostante abbiano un unico punto di convergenza, mettono in evidenza la differenziazione interna del pensiero. Bruno chiarisce il modo in cui l'universo è unità: esso accoglie in sè la cosa singola e quindi anche l'ente diverso, ma in pari tempo annulla la sua potenziale e implicita esclusività: nell'universo vi è (anche) ciò che si oppone reciprocamente. L'Uno «è "concorde"» o «coincide» (co inciden[z]ia) 82 con l 'altro. P er dirla nella dimensione dell' universo: esso è l'i ntero, o il tutto, senza distinzione («indifferentemente») 83 , cioè è in ogni cosa il fondamento che conduce all'unità dell'intero. Questo tutto «senza distinzione» deve essere indizio non certo del caos, ma dell'essere disposto della cosa singola ad una perfetta unità. «Tutto è in tutto», tuttavia non in modo tale che ciò che è proprio di ogni ente sia totalmente superato : «non totalmente et omnimodamente in ciascuno» 84 • Ciò è pur sempre analogo a quell'affermazione di P roclo sulla struttura del Nous che pone attenzione alla differenza e per la quale tutto (vale a dire tutto l'intelligibile) è, in esso, in tutto, e tuttavia in modo sempre particolare 85 • La forma completa della concezione di coincidenza diviene evidente nella caratterizzazione dell' universo come unità condizionata, non assoluta, di possibilità (facoltà, potenza) e realtà: esso è tutto ciò che può essere 86 • Questo significa anche l'unità di tutto lo spazio e di tutto il tempo: all'esterno dell'universo non v'è nessuno dei due. L'universo è un essere et erno, che si mantiene intero e al quale la cosa singola, mossa dal tempo e caduca, appare s2 C. , 11 4, 4. 114, 27. 142, 22. 155, 26. 159, IO Aq. (coincidenza come indice di infinità). E., 1130; I, 153 ss. 83 C., 143, IO Aq.
C., 101, 2 s.; 146, 13 ss. La form ulazione c la concezione di omnia in amnibus deriva da Anassagora (cfr. la nota di Aquilecchia a C., 77, 5-7), ma non rimane confinata alla sua interpretazione, anzi accenna alla permanente problematica di Bruno: F.A. Yates, Giordano Bruno, cit. p. 248. Si deve certo considerare anche che in questo il significato teologico di l Cor. 15, 28, ut deus sit omnia in omnibus, è penetrato nel concetto cosmologico di unità. Cfr. a questo proposito p. 214 sopra. 85 Proclo, Elem. theol. , 103; 92, 13 (Dodds); Tim., I 423, 13 s.; Plorino, Enn., v 8, 4, 4-11. 86 C., 99, 18 ss. Essere immagine come condizione: C., 68, I ss. (11 0, 11 $S.]. Cfr. inol tre 72, 5. 84
GJORD;\NO BRUNO
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. ·eme come accidente 8ì . Mediante il movimento fondamentaInsr · c ·rpt~ · ) e .d el :lto~no · le della processione dell'~no \co~e pnn ad 0 l'unità dell'intero e costrtmta come umtà m se ammata, ess ' tutto «Concorre» 88 m · essa, e' - p~r d'rr la c?n Sch e11·m~ attiva: _una universio in sé mossa. La struttura mterna dr questa umtà ha la sua metafora nelle immagini di scala natu~ae. e di .catena aurea 89 , le quali rappresentano, da una parte, 1 drversr gradi di intensità, determinati dal rispettivo grado di unità, dall'altra la coesione causale dei singoli ambiti ed accadimenti. Nel concetto di universo, come unità perfetta di opposti in sé congiunti e come unità condizionata da possibilità e realtà, divenaono operanti i concetti basilari di Cusano: coincidentia opposftorum e possest. Entrambi cercano esclusivamente di comprendere e di delineare in modo enigmatico l'essere assol uto di Dio90. Se Dio in quanto luogo dell'intersecarsi degli opposti, in quanto superamento esistente di essi o in quanto pura unità, è senza opposti e, quindi , al di sopra di essi, se, in quanto unità di possibilità e realtà, è pura realtà (poter-essere), nella quale niente più è mancante, e tutto ciò che diviene possibile «una volta» mediante creatio è la sua realtà, ossia realtà di Dio, allora l'essere di Dio, in tal modo concepito, deve essere inteso in stretta distinzione dall'essere dell'universo o del mondo. Sebbene nell'universo ogni ente sia da considerare funzionale ad ogni altro ente e proprio il reciproco nesso (q uodlibet in quolibet) 91 costituisca l'unità relativa dell'intero, esso non deve essere, tuttavia, caratterizzato, quale ambito della realtà finita e limitata, in modo coincidente, ma in modo assolutamente comparativo e proporzionale. Contrariamente al maximum e minimum ed al loro intersecarsi, ogni ente è insieme excedens ed excessum, di volta in volta più grande o più piccolo rispetto ad un altro (e ciò non riguarda solo la quantità, ma soprattutto l'intensità d'essere). Ogni cosa singola non è ciò che le è possibile essere, --------------------------------------------7 8
C., 103, 30. A., 96 ss. Bruno fa uso continuo del Parmenide per la sua concezione di unità, sebbene questo non sia compatibile con il concetto bruniano di infinito (sui «limiti » dell'essere: Fr. B 8, 42 ss.). 88 C., 101, 37; 147, 12. Concurrunt: !m., 310 (OLI 1). U., 22 s. 45: cum vero ref!uunt uniuntur usque ad ipsam unitatem quae unitatum omnium jons est. 89 Cfr. C., 86, 11 ss.; 131,20 ss. U., 28. 90 Vedi a tal riguardo, pp . 150 ss. e 161 ss . 91 D. i., II 5.
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!DENTIT À E DIFFERENZA
vale a dire: è determinata dalla variabilità temporale e spazia~ le, è finitezza in genere. La differenza, alla quale s'é precedentemente accennato, del principio divino rispetto all'ambito del finito e del limitato (jinitum) non significa certo l'esclusione di Dio dal mondo: il suo essere-in nel mondo tramite una alienazione creativa costituisce proprio l'essenza di ogni singolo ente. Il mondo è la sua esplicazione. Il modello complicatio~ explicatio potrebbe chiarire l'essere-in causante e l'essere-sopra, ad un tempo, di Dio: Dio è tanto complicativo come anche esplicativo di tutto, tuttavia in modo sempre diverso. Come ciò che racchiude, in sè tutto l'ente «da esplicare» (il mondo, l'universo) è solo se stesso; al di fuori di lui, cioè come esso stesso, l'ente è solo mediante l'operare di questo. Dunque, egli è, come suo fondamento, in esso, e non come egli stesso. La descrizione di Bruno dell'universo con i concetti di coincidentia e possest solleva la domanda riguardo a ciò che distingue e ciò che unisce le due concezioni, e con essa un'altra che si chiede se e in quale misura Bruno abbia proseguito oppure portato mutamenti alla forma originaria della metafisica. I predicati cusaniani di Dio non vengono dal pensiero di Bruno applicati in modo diretto all'universo, così che questo sia tutto ciò che in passato «era» proprio di Dio. Il verdetto o l'affermazione perentoria di un panteismo bruniano sarebbe illimitatamente legittima se Bruno sostenesse di fatto un'identità indifferenziata di mondo e Dio, fondamento e fondato . Certo alcune affermazioni del De la causa e del De l'infinito favoriscono un'interpretazione di questo tipo. Essa sembra sostenere in particolare la tesi che l'universo e i mondi, o il mondo, siano nel complesso infiniti poiché solo una causa infinita ( = il Dio infinito) può porre un effetto infinito 92 • Se «infinito» fosse univocamente usato per Dio e per il mondo, il mondo dovrebbe essere inteso come un raddoppiamento o un'autoesplicazione totale di Dio. Ciò viene però contraddetto dalla comprensione bruniana del modello comp!icatio-exp!icatio in rapporto al concetto di infinito, dal suo insi stere sulla trascendenza di Dio, nonostante l'immanenza, e dalla sua caratterizzazione dell'universo come immagine, ombra o specchio dell'immagine originaria. Tali affermazioni non possono esse92
Cfr. ad es.: l., 43 ss. e 337 s.; lm., 294 (OL I 12).
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re trascurate - come semplici façons de parler - ad esclusivo favore della solita etichetta di panteismo 93 • Bruno concepisce l'«uno summo ente» come una cosa infinita, e in un duplice senso: «l'uno ente summo, nel quale è indifferente l'atto dalla potenza, il quale può essere tutto assolutamente ed è tutto quello che può essere, è complicatamente uno, immenso, infinito, che comprende tutto lo essere ed è esplicatamen te in questi' corpi sensibili e in la distinta potenza e atto che veggiamo in essi» 94 • Alla infinità complicativa, o intensiva, corrisponderebbe cusanamente l'infinità «negativa», o vera, di Dio (injinitas abso!uta), alla infinità esplicativa, o estensiva, l'infinità «privativa» , «Cattiva» (infinitas finita o confl·acta) del mondo, pensabile solo a partire dalla vera. Questo parallelo con Cusano, che appare legittimo dal punto di vista dell'affermazione citata, deve essere, tuttavia, modificato: l'universo, nella prospettiva di Bruno, non è, come potrebbero suggerire alcune espressioni, un infinito puro, in sé comprensibilile, ma un infinito determinato in modo assoluto dalla differenza. L'universo è tanto poco pura e assoluta coincidentia oppositorum quanto puro e assoluto possest: ciò che nel principio è pura unità («complicato, unito e uno indifferentemente») è nell'universo unità dalla molteplicità e nonostante la molteplicità. O anche: l'infinità di Dio è l'infinito «co mplicativamente» e «totalmente», al contrario l'universo è infinito «tutto nel tutto» «esplicatamente e non totalmente», è una totalità analoga a quella assoluta 95 • Certamente l'affermazione che l'universo è unità di possibilità e realtà e, quindi, tutto ciò che può essere (quale «continenza di tutta la materia»), non deve essere semplicemente superata. Le differenze, i modi, le proprietà e le individualità nell'universo lo rendono un «estensivo» possest, un'ombra allungata dell'unità. Esso è pure un 93
La formulazione dell 'essere assoluto («superessentiale») è intesa da Hegel proprio come rimando all'affinità con il pensiero neoplatonico («ùotepo\lotcc in Procio» , Vorlesungen iiber die Geschichte der Philosophie, Jubilaumsausgabe, XIX p. 238 [trad. it., III / l, p. 328)). Le incornprensioni di Bruno nella linea d'una «totale emancipazione dalla metafisica» sono diversamente comprensibili anche oggi per il fatto che gli scritti latini non sono stati in modo su fficiente «oggetto di uno studio serio» (così già H. Steffens, Uber das Leben des Jordanus Brunus, Nachgelassene Schriften, Berlin 1846, p. 75). 94 C. , 105, 9 ss.; 150, 23 ss. !., 381 s. e 388 s. («infinità intensiva ed estensiva») . 95 l .' 381.
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IDENTITÀ E DIFFERENZA
«grande simulacro», una «grande immagine» dell'«altezza
del~
l'archetipo» • Ciò non corrisponde però ad una radicale im~ manentizzazione del divino e ad una (solo da questo condizionata) divinizzazione totale del mondo; Bruno non distrugge, di conseguenza, il concetto della trascendenza del principio, sebbene le riflessioni sullo spirito del mondo, sull' anima del mondo e sul loro nesso con la materia sembrino indicare questa direzione. Nella Summa terminorum metaphysicorum Bruno concepisce, e persino con una termi nologia classicamente metafisica (in prevalenza di stampo neoplatonico), Dio come l'atto più semplice, che si aliena nel tempo come una forma della differenza. Dio, come Uno, è la stessa «grandezza» incommensurabilmente al di sopra di tutto il genus più grande o del genus della cosa più grande. In lui è superata la differenza, attiva nell' ente, di essere ed essenza. Dio viene, invero, pensato in tutto e tutto in Dio, e tuttavia non in modo identico . In tal modo la differenza di comprendente e compreso, di fondamento e fondato viene mantenuta: Dio è immediate in tutto , ossia da se stesso; e questa proposizione non può essere invertita n. II Deo nihil est oppositum di Bruno non corrisponde solo verbalmente alla proposizione di Cusano che pone in rilievo la differenza di Dio. Infatti afferma Bruno: 96
Illi nihil est contrarium, sed omnia contraria illi sunt subiecta ex contrariis omnia jacienti 98 • Ed anche la concezione, tipica di Cusano e della tradizione neoplatonica, per la quale l'Uno, o Dio, è tutto (in quanto fon damento) e nulla ad un tempo (in quanto irriducibile a qualcosa di determinato e solo così fondamento, in sé senza fondamento, di tutto) rimane centrale per Bruno: est enim omnia in omnibus, quia dat esse amni-
bus: et est nullum omnium, quia est super omnia, singula et
96 C., 67, 36 ss.; 110, 9 ss. 104, 12; 149, 27. lm ., 239 s. (OLI 1): magnum simu!acrum (dei immensi), vestigium. 241: specu!um. 97 STM., 81, 22-25: sed Deum intelligamus in omnibus et omnia in Deo non eodem modo; Deus in omnibus tanquam continens, in Deo tanquam contenta ab eo, sicque Deus in omnibus immediate, in Deo omnia non immediate. 83, 5 ss.: licet habeat dijferentiam ab omnibus, non tamen ita d(ffert ab omnibus, sieu t singula a singulis ... creatum vero et creator differunt plus qua m genere ... 97, 25 s. Perciò anche la parteci pazione del singolo al princi pio divino è differente in modo assolu to: STM., 89, 24 ss.; 90, 21 ss. 98 STM., 83, 19 s.
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universa essentia et nobilitate et virtute praetergrediens 99 • Ciò che è, è solo per lui e in lui, perché egli solo - in una interpretazione metafisica di Esodo 3, 14 ego sum qui sum - può essere inteso come I' essere stesso (esse ipsum, qui est o quod est)i 00 • Anche se modificato, il mantenimento della concezione della trascendenza permette che abbia ancora senso il discorso intorno al principio creatore, implicando esso la differenza di atto e risultato. II creare del principio è, anch'esso, un atto atemporale, che pone nell'attimo dell'eternità e dall'attimo dell 'eternità (ab instanti aeternitatis) 101 infinite successioni (vicissitudines); un susseguirsi, che, tuttavia, non emerge come tale, ma è esso stesso, ossia infinito temporale e spaziale, solo «quando» è prodotto da sé: haec a se ipso producens - immutabiliter jacit mutabilia, aeterne temporalia 102 • In vero il concetto bruniano di creazione respinge la concezione di una creatio ex nihilo, e supera l' ipotesi di una fine del mondo che porterebbe con sé un giudizio di esso 103 • Non ne segue, tuttavia, la li mitazione dell 'atto che determina, delimita e costitu isce la form a mediante la creatio. II principio di vino è pensato, piuttosto, in un'unità riflessiva come fons idearum e mundus ideatus ad un tempo 104 , come il supremo modo del pensare, nel quale l'atto di questo è identico a ciò che è da pensare, al «concetto» dell'universo 105 • Questa concezione appare comprensibile nella prospettiva del concetto cusaniano di «concetto assolu-
99 !bi, 86, 13 ss .; 97, 19: super omnem ordinem ( = «taxis» come «gradm>), super omnem seriem, omnis seriei et ordinis auctor. TMM., 146, 13: et simu/ in cunctis totum manet et super ipsa; 7 s.: pariterque movetur l Et stat; nam simu/ it rediens, rediitque quiescens. 100 STM., 86, 18-21. 101 !bi, 93, 12. Cfr. note 30 e 114. Che il concetto di creatio implichi tout court quello di differenza viene ad es. chiarito da E., 1097: il principio divino parteci-
pa la sua pienezza di essere «all'universo infinito e agli innumerevoli mondi in esso»; 11 25: dalla Monas divina, la quale è «la vera essenza di tutto l'essere», procede «la natura, l'universo, il mondo»: come similitudine, immagine, specchio o ombra della «luce assoluta». 102 !bi, 93, 22 e 19 s. 103 CC., 155. 104 S., 164, 27 ss. IOS C., 108, 29 ss.; 154, 9 ss. STM., 113, Il ss. 116, 24 ss. 79, 2 s.: sibi soli
notus.
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IDENT ITÀ E DIFFERENZA
to » (il «conceptus absolutus» che è identico al VERBUM quale ideale «mundus per se subsistens») a partire dalla tradizione neoplatonica del pensare 106 • Da quest'unica autoriflessione, conforme alla volontà divina, vengono alla luce molteplici unità, ed esse hanno, ad un tempo, questa come fin e del loro ritorno, che ristabilisce l'unità dell'intero dalla molteplicità 107 • La dialettica dell 'essere e dell'operare trascendente ed insieme immanente del principio divino mantiene intenzionalmente l'inclinazione di un ciclo di descensus ad ascensus. Se, analogamente al concetto neoplatonico dell'Uno e al concetto cusaniano di Dio, questo principio divino è insieme tutto e nulla, «ovunque» e «in nessun luogo» (come esso stesso), «interno a tut.t o e, tuttavia , non incluso in esso, esterno a tutto e, tuttavia, non escluso da esso» 108 , se inoltre, nonostante ogni nesso del finito con l'infinito, «non c'è - come per Cusano - una proporzionalità (ossia la possibilità di paragone) tra il finito e l 'infinito ( = assoluto)» 109 , allora si può, a ra-
Su questa sfera di problemi in Cusano: pp . 188 ss ., 193 s. , 205. U., 23 s. e 49. C ., l 06, l ss. l 08 , 33 ss . (scend ere e salire: 1tp6oooç . ~1t\· cr-;poq>~). TMM., 187, 2 1 ss. 108 TMM., 147, 5 ss .: (Deus) ubique et nusquam, infra omnia fundans, super 106
!Oi
omnia gubernans, intra omnia non inclusus, extra omnia non exclusus ... in quo sunt omnia, et qui in nullo .. . est ipse. Redatto dopo il De la Causa, questo testo, che precisa il rapporto tra trascendenza ed immanenza, è già stato st ampato da Brucker in una raccolta di passi relativamente ampia : Ilistoria Critica Philosophiae, Leipzig 1744, tom. IV 2, 44, T ext XXXI - con tro il pia tto livellamen to eli Dio al mondo . STM., 98, 28 ss. Sulla storia del pro blema inerente a questa dialettica: W. Beierwaltes, Platonisnzus und Idealismus, Frankfu rt 1972, p. 62 [trad. it., p. 7 1] e sopra pp. 55 s. Al fi ne d 'una comprensione adeguata del pensiero bruniano importa far «esistere» come tale l'am biva lenza paradossale della dialettica di trascendenza cd immanenza , n Ila quale ad enunciati pii1 immanentistici stanno di fronte enuncia!Ì esattamente trascendenti. Un accecamento degli enunciati di trascenden<:a a favore d'una interpretazione di un perfetto compito persona le eli Dio nel mondo, o una spiega:.done biografica (genetica), o una che si richiami alla censura per rivendicare alla concezione «panteistica » la caratteristica di Bruno invero diminuisce - per riduzione - la elifficollà della materia in esame, ma non la rende in alcun modo pii1 comprensibile. Come eccezione alla tendenza abbozzata deve essere nom inato P.O. Kristeller, il quale pur sempre constata: «tha t his position was closer to Cusanus and to the dualistic passages in his dialogues than ma ny interpreters have been willing to admit» (Eight Philosophers of the Italian Renaissance, Cal ifornia 1964, p. 135). 109 STM., 97 , 2 1: mi! lo quod inter fini tu m et infinitum nulla est proportio. Cfr. Cusano, D. i., l 3.
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aione, chiedersi in che cosa il «sospetto di panteismo» possa ;vere in Bruno un inequivocabile appiglio. Non si tratta di liberare Bruno da tale sospetto, ma di chiarire il rapporto tra l'essere-in e l' essere-sopra del principio o il nesso di Dio con il mondo. Non può essere certo negato che Bruno, tramite il concetto della «divinità» della materia e del principio che la vivifica, l' anima del mondo, intensifichi, in modo ricco di conseguenze, l' immanenza dell'agire divino nell'universo e che, tramite l'attività, postulata infinita, della causa infinita, incrementi, in seguito, l'essere qualitativo del mondo come tale: la possibile ed effettiva dissomiglianza del mondo nei confronti del suo principio è superata in una più grande somiglianza, in particolare attraverso la trasformazione del concetto di materia. Il plausibile «disprezzo del mondo» cede ad un entusiasmo per esso. Di conseguenza, la concezione, ancora normativa per Tommaso e Bonaventura, per la quale le cose sono «migliori», cioè in un modo migliore d'essere, nel pensiero di Dio che in loro stesse viene superata. Rispetto a ciò, Dio non è, secondo Bruno , solo la substantia universalis in essendo, tramite la quale tutto è, ma è il fondamento primo delle cose, in modo tale che queste non possano, da sé, essere più interiori a sé e che il loro fondamento interno (divino) non debba, quindi, mai essere esperito eteronomo ad esse: intima ( = deus come substantia universalis) amni enti magis quam sua forma et sua natura unicuique esse possit 11 0 • Mediante l'immanenza di Dio in esse, le cose, dunque, sono così in se stesse che esse - ipoteticamente - non potrebbe essere, in quanto se stesse, intese in modo miglio re. Il divino è ciò che è ad esse proprio, senza che, con questo, entrambi giungano ad una identità diffusa. L'alienar-si di Dio nel mondo infinito, da lui diverso , non è, quindi, un dar-si come mondo. Anche per Bruno, la creazione non distrugge la divinità di Dio in modo che questi, come mondo, diventi altro da se stesso. Proprio per il fatt o che Bruno pone in risalto la trascendenza di Dio, la descrizione riduttiva, dovuta alla storiografia filosofica, della creazione come autodissoluzione di Dio e, ad un tempo , come realizzarsi della divinizzazione del mondo, si trova in opposino STM., 73, 20 s . Sicut enim natura est unicuique fundamentum emitatis, ita profundius naturae uniuscuiusque fundamentum est Deus (2 1-2 3).
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zione al rapporto dialettico delle due sfere. Rispetto alla chiarezza della concezione cusaniana, i poli di questa dialettica sono , tuttavia, resi meno contrastanti. Se dunque , nel pensiero di Bruno, la trascendenza del principio divino viene mantenuta - stat ergo 111 - , benché modificata a partire dal concetto di universo, attraverso l'intensificazione del concetto di immanenza e attraverso l'incremento qualitativo ad esso connesso dell'essere del mondo, viene, nondimeno, dato inizio ad un concetto di mondo che cerca di fondare e comprendere la trascendenza, in modo sempre più deciso, da essa stessa: il pensare trova una coesione fondativa immanente al mondo stesso, la quale non sembra aver bisogno di un nesso dialettico con un esso, anche o primariamente, trascendente. Quale soggetto che comprende il mondo, l'uomo include se stesso nel movimento di fondazione immanente al mondo. Ciò rappresenta il presupposto di un concetto filosofi co che né cerca, nel ritorno a sé, l'essere che lo trascende come proprio fondamento (al modo veemente di Bruno negli Eroici furori) , né inizia nel tentativo di comprensione universale con una riflessione su un principio assoluto in sé esistente. L'inizio è il soggetto stesso: ragione autonoma concepita aprioristicamente. L' aver inizio presso di sé da parte dell'autoriflessione trascendentale conduce ad una autofondazione immanente al soggetto stesso ed autoriginaria, e che permane anche in esso. La scoperta della trascendentalità del soggetto (in un certo modo come in Kant) non necessita d'una fondazione trascendente, piuttosto pensa l' essere divino, in precedenza trascendente, alla stregua d'una proiezione postulativa dell'io prodotta da un pensare che procede come se fosse una cosa reale ciò che lo sfida ad una «vita migliore nell'immanenza» e lo riconosce come proprio apriori. La dibattuta questione circa il nesso del principio divino con l'universo nasce, in realtà, da un concetto di unità assoluta, che, come atto assoluto, è «assolutamente tutto»: il «bene supremo», che comprende in sé tutto, è, ad un tempo, l'oggetto della «felicità suprema». Con il concetto neoplatonico e cusaniano di Uno, il concetto bruniano di unità ha in comune nonostante la diversità, dovuta alla identificazione dell 'Uno Ili
STM., 93, 22.
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con il pensare - il carattere di incomprensibilità ultima. L'attimo dell'evidenza, scaturito dai gradi di riflessione argomentativa , è determinato dalla coscienza che il pensare contenga solo ombre, enigmi e similitudinil 12 • Detto con una metafora: «Apollo», in quanto unità e verità pura, diviene accessibile solo in «Diana» 113 • Una tale riserva congetturale nei confronti dell'assoluto, non riguarda, tuttavia, la riflessione sull'universo. Per Bruno , questo è, almeno in una misura essenziale , dunque nella sua struttura, penetrabile concettualmente.
6. L 'infinità dell'universo La domanda circa il nesso dell'D no con l'unità dell'universo deve, ora e ancora una volta, ricondurre alla proposizione citata all'inizio: «l'universo è uno, infinito, non mosso»; e considerare le implicazioni dell'infinità dell'universo 114 • Questa concezione corrisponde alla tesi bruniana, secondo la quale il principio divino Uno, che è la stessa infinità complicativa o vera, può avere, quale origine dell'universo o del mondo, un effetto solo infinito. E contraddice, in modo assolutamente deciso, il concetto aristotelico e neoplatonico del rapporto di causa ed effetto: di regola la causa è, in questo contesto concettuale, «più grande» o «più piccola» del suo effetto 115 • La cosa implicata si riproduce in un ente minore, che esiste, certo , solo tramite la partecipazione alla causa. Questa contraddizione, alla quale Bruno si volge 11 6 , è diretta, dal punto di vista cosmologico, contro la concezione aristotelica della finitezza e limitatezza del mondo, per la quale in questo e fuori 11 2 E., 1094 e 1159 (cfr. l Cor 13 , 12: videmus nunc per speculum in aenigmate , e la teologia negativa); 1123: inaccessibile, incomprens ibile. C. , 110, 13; 145, 14. STM., 79, 3: deus absconditus, ciò nonostante si comunica. 113 E. , 1099. Cfr. W. Beierwaltes, Actaeon. Zu einem mythologische Symbol Giordano Brunos, in: «Z. f. phil. Forschung» , 32 (1978), pp. 345-354. 11 4 A., 68 ss.: infi nitae causae infinitus ejjectus; !m., 202 ss. (OL I l); CC., l 04 (né la sensibilità né l'intellett o posso no costituire un limite). E., l 063. 1 JS Cfr. a questo proposito A.C. Lloyd, The principle that the Cause is greater than its Ejject, in : «Ph ronesis», 21 (1976), pp . 146-!56. 116 Ad es.: !m., 304, l ss. (OL, I l); CC. , 33 ss.
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di questo non può esserci vuoto: ogni corpo h a in esso un luogo che gli è proprio. Un luogo «vuoto» non è concepibile. E altrettanto poco pensabile è il concetto di un infinito attuale 117 • Prima postulato, poi fondato , questo determina, tuttavia, l 'impeto cosmologico di Bruno contro i limiti del mondo fino ad allora accettati: i «muri» delle nuove sfere del mondo fin ito devono essere aperti su uno spazio infinito, che supera i limiti della percettibilità e nel quale innumerevoli mondi «vivono e si agitano» in collegamento l'uno con l'altro 11s. Essi formano il simpatetico continuo dell ' unico intero, che, quale Uno infinito, comprende nel tempo infinito tutto ciò che è determinato e particolare (singoli mondi). A causa del concetto di infinito attuale non può essere pensato né l' «esterno», o la «circonferenza», del mondo né un centro di esso 119 • I mondi hanno il loro rispettivo centro, e ogni punto può valere come centro: centrum spacii immen~·i statuetur ubiquel2o. Per questo la concezione, secondo la quale l'unico centro, sino a quel momento supposto , dell'universo ha una qualità d'essere , viene a cadere -totalmente in disuso. E Bruno tr ae rabbiosamente, dalla teoria , fondata cosmologicamente e matematicamente, di Copernico, la conseguenza secondo la quale la terra non può essere centro dell'universo 121• Essa, la «nostra madre», è diventata una delle stelle 122 • Benché non annunciata come enfatico depotenziamento del mondo, questa concezione era stata comunque preparata, prima di Copernico, da Cusano: terra non est centrum mundi - essa è una stella nobilis. Deus è, in senso costitutivo, centrum terrae et omnium sphaerarum atque omnium, quae in mundo sunt 123 • L'affermazione dello 11 7
Cfr. Met., 1074 a 31 -38; Phys. 202 b . 30 ss.; De caelo, 27 1 b 17 ss.; 276
a 18 ss. 11 8 CC., 33 . l , 361 s.; 376 s .; 382. l m., 274 (OL l 2) . Accanto a Democrito ed Epicuro, è Lucrezio ad essere testimonium non solo materiale, ma anche all'interno della storia delle idee , ad es .: 1., 531 ss. Oltre ad Aristo tele, in opposizione a ques to: Platon e, Tim., 31 b 3: ~rç ooz fi.Ovoy~v~ç oùpO'.voç, contro la possibilità di due o più, sino a infinitamente molteplici , cosm i. 119 C., 100, 7; 145, 9 s. 100, 39 ss.; 146, Il s. Cfr. 1. , 406, 462 s. e 520. 12o !m. , 218 (OL I l) . 121 l. , 405 s. c 43 5. 122 Oratio va/ed., OL I l, 19 : nec non abhorreamus hanc Tellurem matrem nostram unum ex astris nihi/o mu/1is circumstantibus indignius inte/ligere. m D. i., II l l c 12.
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pseudo-ermetico Libro dei ventiquattro filosofi, secondo cui
Deus est sphaera infinita, cuius centrum ubique, circumferentia nusquam, era originariamente pensat a solo come un enunciato intorno all'infinità di Dio. Ora essa, in seguito al depotenziamento della terra quale punto centrale dell'universo e contestualmente al concetto di universo infinito, può concernere anche l'essere dell'universo, quale indice della sua infinità «estensiva;.>: «Sicuramente possiamo affermare che l' universo è tutto cen tro, o che il centro de l'universo è per tutto, e che la circonferenza non è in parte alcuna per quanto è differ ente da l centro, o pur che la circonferenza è per tu tto, ma il centro non si trova in quanto che è differente da quella» 124 • In modo analogo alla coincidentia oppositorum e a l possest, quali enunciati intorno alla infinità condizionata dell'universo, viene dato rilievo, anche tramite la sphaera infinita, alla «divinit à», alla infinità ed unità estensiva dell'universo, benché non venga, con essa, immediatamente intesa anche l'identità assoIuta di Dio. L'aporia inerente al nesso di identità e differenza, della quale sin dall'inizio si parlava, è attiva, come domanda - per lo meno implicita - , in tutt e le fasi dell' opera, metafisicamente rilevante, di Bruno nel contesto dei concetti di unità ed infinità. Essa non è, tuttavia, né lasciata in sospeso, né univocamente fissata. Da ciò deriva la di fficoltà, nel comprendere Bruno, di trovare un «equilibrio» che gi ustifichi testi che appaiono spesso divergenti. Il fatto che questa intenzione non debba condurre ad un livellante «tanto - quanto », che leviga la differenza, potrebbe essere reso evidente ac costando il De la causa, p ur mantenendo desta l'attenzione anche nei confronti degli scritti latini. In ogni caso, l' enfasi bru niana riguardo all'unità non deve nasco nd ere il suo legame con la tradizio ne neoplatonica, che è di particolare importanza per u n'oggettiva valutazione della sua po sizio ne storica.
124
c.,
100, 5-11; 145, 8-13.
PARTE QUARTA
Trasformazioni e sviluppi della problematica dell'identità e differenza nell'idealismo tedesco Schelling - Hegel «!:errore fondamentale dell'intera fi losofia sta nel presu pporre che l'identità assoluta sia realmente uscita da é e nel tentare di rendere comprensibile questo uscire, in qualunque modo esso avvenga. !:identità assoluta non ha ora mai smesso di essere e tutto ciò che è, è in sé - e non la manifestazione dell'identità assoluta, ma essa stessa, e dal momento che è tipico della natura della filosofia considerare le cose come esse sono in sé, ossia per quanto sono infinite e identità assoluta stessa, così, dunque, la vera filosofia consiste nel dimostrare che l'identità assoluta (l'infinito) non è uscita da se stessa e che tutto ciò che è, per quanto è, è la stessa infinità» . Schelling, Darstellung meines Systems der Philosophie (1801), § 14. «Il concetto è... dapprima l'assoluta identità con sé in modo che questa è tale identità solo come negazione della negazione o come infinita unità della negatività con se stessa ... quella mediazione assoluta che è appunto ... assoluta negatività». Hegel, Logica (1816), III, pp. 38-40. «Lo spirito assoluto è identità che è a ltrettanto eternamente in sé, quanto deve tornare ed è tornata in sé». Hegel, Enciclopedia (1830), § 554.
.i
1. Identità assoluta Implicazioni neoplatoniche nel «Bruno» di Schelling
1. La riscoperta di Bruno da parte di Schelling Giordano Bruno «è rimasto, dopo la sua morte, a lungo in una falsa luce , inascoltato e incompreso, sino a che Friedrich Heinrich Jacobi accrebbe i suoi molteplici meriti nel risveglio di uno spirito filosofico vivace, spontaneo, strappando dall'oblio quest'uomo e le sue idee, ormai considerate quasi solo come curiosità letterarie e sottratte ad ogni possibilità di rinascita spirituale, e dirigendo l'attenzione dei contemporanei agli scritti di Bruno» 1 • Nel 1789 Jacobi pubblicò , come «supplemento» alla seconda edizione delle sue Lettere sulla dottrina di Spinoza degli estratti, in forma di parafrasi, del De la causa di Bruno. «Scopo principale» dichiarato di questi estratti fu «di esporre ... , mediante il confronto tra Bruno e Spinoza, la summa della filosofia dell' hen kai pan. È ben difficile dare una traccia più bella e più pura del panteismo, nel senso più ampio, dì quella delineata da Bruno» 1• Gli estratti permettono una visione autentica delle concezioni centrali del dialogo bruniano. L'accusa dì panteismo rivolta da Jacobi a Spinoza doveva essere ancora più intensificata attraverso la filosofia di Bruno; ed infatti lo stesso Bruno venne accusato di ateismo. Il proposito di Jacobi si risolse, invece, contro se stesso: in questo «ricco compendio» infatti, Schelling, si imbatté in un pensare che scoprì essergli congeniale. Egli si identifica con una proposizione chiave di Bruno, la quale gli appare come 1 J .F. H. Schlosser , Versuche von Obersetzungen aus de m Werke d es Giordano Bruno, in: Studien (a cura di C. Daub e F. Creuzer), VI, Heidelberg 1811, p. 448. 2 .Jacobi, Werke, IV (Leipzig 18 19) l, 10. [trad . it. di F . Capra: Jacobi, La dottrina di Spinoza. Lettere al signor Moses Mendelssohn, Bari 19!42, p. 27).
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il «simbolo della vera filosofia»: «per penetrare i più profondi misteri della natura, non bisogna stancarsi di studiare gli estremi opposti e contraddittori delle cose; ciò che è più importante non è trovare il loro punto di unione, ma sapere dedurre da quest'ultimo l'alt ro punto opposto; in questo consiste il segreto vero e più profondo dell'arte» 3 • Se la storia della fortu na non significa solo una conoscenza o un'esposizione di testi (accompagnata forse d a epoche'), ma una acquisizione produttiva , che influisce sul proprio pensiero, allora essa, in un senso differenziato, trova, nel caso di Bruno , la sua realizzazione vera solo nella filosofia di Schelling. Redatto anch'esso in forma dialogica, lo scritto di quest'ultimo, Bruno o il naturale principio delle cose, pubblicato nel1 802, non è in un rapporto soltanto esterno col pensiero bruniano. Esso appartiene a quella fase del pensiero di Schelling, nella quale fu particolarmente significativa l '~laborazione della questione dell' identità, d ell 'unità e, quindi, dell'assoluto. Dunq ue, può essere inteso come tentativo di inclusione delle tesi centrali di Bruno e delle sue implicazioni neoplatoniche nell'orizzonte della «filosofia dell 'identità». II fine delle seguenti riflessioni non consiste in un'interp retazione del Brun o di Schelling che pretenda d'essere completa e pretenda di riflettere ogni movimento del pensiero; esse cercano piuttosto - conformemente alla questione intorno al nesso di identità e differenza, unità e molteplicità - di chiarire che Schelling, proprio col richiamo a Bruno, ha, indi rettamente, assunto nel suo pensiero elementi genuinamente neoplatonici. A partire dalla sua seconda fase (dal 1801), il filosofare di Schelling, nella sua forma di pensiero e in alcuni concetti, rivela una particolare affinità con il neoplatonismo, e in parti3
Schel_ling, Bruno (a_bbrcviato: B), in: F. W.J. Schelling, Siimtliche Werke, a cura d1 ~ :F.A. Schelh~g, Stuttgart e Augsburg 1859 (trad. it. di F. Waddington , terza edlZione a cura d1 A. Valori, Bruno, ossia un discorso sul principio divino e _na~urale de!le ~o~e, :o~i no 1906, pp. 152 e 156]. Con riguardo a Jacobi p. 4:l, n~petto a1 «fm1 ulttmi delle cose» Schclling ha invero tralasciato quella part'?r, ~
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colare con la filosofia di Plotino. Tale affinità, a partire dal 1805, è sostenuta , almeno in parte, da una conoscenza diretta 4 dei testi di Plotino. Determinante per essa è la concezione schellinghiana per la quale l' assoluto è l'Uno o l'unità originaria, è l'identità autoaffermantesi di pensiero ed essere, Riguardo a questo, W. Beierwaltes, Platonismus und Idea/ismus, pp. 100 ss. [trad. it., pp. 113 ss.]. In un articolo, Die Beziehungen zwischen Schellings "Naturphilosophie" und dem Jdentitiitssystem in den Jahren 1801-2, in «Ph. Jb.» (78) 197 1, pp. 260-293, Hans Holz ha accentuato ancora rispetto alla sua presentazione in Spekulation und Faktizitat (Bonn 1970) la sua tesi di un rapporto del primo Schelling con il neoplatonismo (cfr. sull'intento di questo libro in: Platonismus und ldealismus, pp. 109 s. [trad. it., pp. 122 s.]). Egli ammette che Schelling già nell'anno 1798 si sia, «detto grossolanamente», occupato in modo più intenso della filosofia di Plotino . Riconduce ciò agli stimoli, in realtà indimostrabili, di Novalis, Goethe, Platner e Loffler. Quando Schelling incontrò nel 1796, in Lci pzig, Loffler, il traduttore e commentatore de Le Platonisme dévoilé (Versuch uber den Platonismus der Kirchenviiter - Zilllichau e Freystadt 1792) di Souverain, non è assolutamente certo che il «neoplatonismo» fo sse stato un tema di conversazione, come invece Holz fa intendere alle pagine 267 e 269. Non è vero che F. Berg abbia tenuto in Wilrzburg lezioni sul «sistema di identità» di Schelling, «da lui annunciato come filosofia di Plotino» (così Holz, p . 267, n. 35): è anzi l'autore del dialogo antischellinghiano Sesto, nel quale traveste Schelling da Plotino (su questo: Platonismus und ldealismus, pp. 100 ss. (trad. it., pp . 113 ss.]); né è esatt o che Windischmann abbia, nel l805, pubblicato un «articolo sulle connessioni tra la fi losofia di Schelling c quella di Plotino » (così Holz, Spekulation und Faktizitiit, p. 59 n. l, con l'indicazio ne della «Jenaer Allg. Lit. Zeitg.», nr . 40, Col. 314), ma ibi Nr. 39, 15 febbraio 1805, Coli. 306-312; Nr. 40, 16. Febr. 1805, Coli. 313-317 una recensione del Sextus di Berg; con questo egli non s'è tuttavia espresso sulle reali connessioni tra Schelling e Plotino. Lo fec e solo nelle sue «note » ai «passi di Plotino » omessi da Schellin g (Platonismus und ldealismus pp. 203 ss. [trad. it., pp. 226 ss.J). A partire dal 1793 a Schelling fu accessi bile la presentazione di Plotino scritta da Tiedemann nel suo Geist der spekulativen Philosophie (vol. 3); le 170 pagine sulla fi losofia di Plotino contengono parafrasi di testi plotiniani, ma né una traduzione né il «il testo greco». In Die Beziehungen ... , p. 269, Holz passa sotto silenzio questi presupposti ad un recezione di Plotino da parte di Schelling. Una datazione che intenda, sulla scorta dei menzionati incontri con Novalis e con gli altri, far risalire nel tempo la conoscenza di Ploti no, deve rimanere una ipotesi, sebbene la sua esattezza farebbe comprendere in modo più preciso tratti essenziali del sistema dell'identità , almeno per la sua determinatezza storica . In quanto, in Platonismus und ldealismus, ho cercato di rendere evidente l'affinità e la differenza di Schelling con il pensiero neoplatonico (anche tramite l'interpretazione di nuovi rapporti diretti di Schelling e Plotino), non era mio interesse rimuovere l'innegabile convinzione rispetto all'influsso di Boehme sulla fi losofia di Schelling. Il termine «leggenda di Boeheme» non è una mia invenzione. Ma certo dovrebbe essere modificata l'idea d ' una fi liazione estremamente uni la terale del pensiero di Schelling da lla teoso fia. Con questo non si giunge a «concordanze letterali» di Schelling con Plotino, ma ci si pone domande circa la collocazione d' un sistema che si nasconde sotto termini del tutto diversi. Del resto l'interesse di Schelling per Boehme non esclude in alcun modo un'affinità con il neoplatonismo. 4
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e costituisce il cerchio di processione e ritorno dell'ente. Per essa, inoltre, l'intuizione intellettuale ha, all'interno del sistema, una funzione analoga a quella dell'estasi plotiniana e la natura deve essere intesa come una creatività dello spirito. Questi ed altri aspetti all'interno di tale ambito di problemi ho tentato di motivarli, in modo più esteso, nel capitolo «La presenza di Platino nell'idealismo tedesco» nel mio libro Platonismo ed idealismo. Alcuni aspetti vengono qui confermati o differenziati, però a partire da un altro contesto, in base al presente modo di porre la questione 5 , altri vengono posti in modo del tutto nuovo. Se è in questione l'affinità del pensiero schellinghiano con i vari dogmi filosofici del pensiero neoplatonico, allora è, ad un tempo, pensata la differenza contenutistica ed ermeneutica che, sempre, caratterizza un movimento di recezione, compiuto più o meno consapevolmente: il «platonismo» del pensiero schellinghiano può essere, non senza fratture, conciliato con il significato e la funzione dell'originaria concezione platonica o plotiniana. Allorché una concezione «antica» guadagna, a partire da altri presupposti, una nuova rilevanza, diversifica o muta anche la sua precedente funzione. Così, nella continuità , proprio la frattura della continuità diviene l' hermeneuticum. Da ciò risulta, soprattutto per quanto concerne l'impiego del concetto di «platonismo», che esso non può, in un tale ambito, essere inteso come un sistema di proposizioni dal contenuto fissato o come una dichiarazione d'identità (per esempio in opposizione al cristianesimo), ma primariamente come una forma di pensare. I I platonismo, come forma di pensiero, non significa, tuttavia, una restrizio ne a puri formalismi nel qual caso sarebbe superflua una trattazione della questione sotto l'aspetto filosofico - , ma il mantenere, nell 'ordine della cosa pensata, ciò che è essenziale. Se la forma interna di un pensiero, che diviene visibile nella sua espressione, rappresenta, almeno nell'intenzione, la cosa stessa da conciliare nella riflessione, non può, allora, essere separata da essa in forma di «esterno» e «interno». Compiuta in base all'interna affinità delle diverse situazioni storiche del pensare, la recezione pro-
cede sempre selettivamente. La trasformazione consiste in questo: diversificazione del recepito nel recepente, ed insieme sua specifica modificazione. Quando s'è cercato di confrontare, nella riflessione intorno ai processi di recezione, «sistema» con «sistema» e, con ciò, di porre di volta in volta a tema nel toro insieme i vari presupposti storici e le varie intenzioni , è necessariamente risultata una più forte accentuazione della differenza in opposizione ad un tentativo di porre principalmente a confronto le posizioni dei sistemi e le forme di pensiero, come ho cercato di fare, per alcuni aspetti, in Platonismo ed idealismo. Nella misura in cui né s'aspetta una sterile ripresa di un «sistema» da parte di un altro né si ha motivo di credere che siano da negare affinità reali delle diverse impostazioni problematiche nelle diverse situazioni storiche, ritengo più filosoficamente costruttivo il metodo da me messo in atto. Per quanto concerne l'altro tentativo di interpretazione, ossia il confronto - tra l'altro qui in questione - del «sistema» schellinghiano con quello plotiniano (come che sia da concepire questo concetto per Platino), si avrebbe come risultato che la concezione schellinghiana di unità come totalità organica non sembrerebbe poter essere paragonata all'Uno platonico come principio del tutto; e tuttavia, pensato rispetto alla posizione del sistema e della forma del pensiero, il concetto schellinghiano di unità o di identità assoluta deve essere considerato compatibile col concetto plotiniano di Spirito, il quale ha la propria unità per riflessione e tramite lo stesso Uno, e, in tal modo, afferma in sé la differenza come «superata». Altrettanto sviante sarebbe opporre un «sistema» cosiddetto «a ntologiCO» ad uno strutturato mediante la soggettività, poiché, ferma restando la differenza del concetto plotiniano di essere riflessivo, assoluto (atemporale), rispetto al concetto schellinghiano di soggettività strutturante e costituente, potrebbe, con ciò, venire suggerito che l'intero del!' essere secondo Platino sia, in opposizione alla totalità organologica di Schelling, «statico» o «rigido», benché proprio lo Spirito e l'anima debbano essere intesi come gli elementi motori nell'ente: elementi che danno frutti (produttivi) e riconducono (congiungono l'intero ad un'unità in sé differenziata). Il contrasto nei confro nti di Platino viene però ad evidenziarsi, in modo chiaro, nella fond azione schellinghiana, pronunciatamente trascendentale, della sogget-
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Una spi gazione complemema re della complessità dell' elemento tr adi zionale presente nel pensiero di Schelling porrà a tema, in un altro contes to , gli impulsi spinoziani che devono essere confrontati con quelli del primo «platonismo».
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tività e nella esplicazione di questa nella storia o come storia. 2. Unità degli opposti concepiti come indifferenza di identità e differenza
Il concetto di unità degli opposti è ciò che caratterizza in modo totale il Bruno di Schelling. II dialogo esplicita il procedimento antologico e il senso gnoseologico di questa unità. Come opposti, che costituiscono l'ente nel suo complesso e dirigono l'ente finito, Schelling pone i concetti- già intensamente approfonditi dalla tradizione filosofica 6 - di finito - infinito, limite - illimite, particolare - universale, intuire - pensare, possibilità - realtà, attività - stasi, molteplicità - unità, essere - pensare, oggetto - soggetto, e come suprema opposizione, che comprende tutte le altre: reale - ideale. La ragione del fatto che l'ente nella sua interezza non deve essere inteso come una accumulazione di opposizioni, che si diffondono e si fissano in sé, ma come un organismo, si trova nello stesso «principio supremo» 7 , il quale riunisce e contiene in sè, come separati, tutti gli opposti, ma li lascia anche essere nella loro «separazione» e funge, ad un tempo, da elemento motore nella rìconduzione alla loro unità originaria. In quanto pensata, questa unità originaria è come un atto riflessivo. Essa, essendo la «prima cosa che precede tutte le cose» 8 , non sta astrattamente contro gli opposti (all'esterno di essi) nè, essa, è tutti questi presi in modo semplicemente addizionale; essa, piuttosto, fa sì che il reciproco approfondirsi pensante divenga una pura, assoluta unità, che non «è affatto libera da ogni differenza» 9 • È unità in cui «l'unità e l'opposto, cioè l'uguale e il diseguale non sono che uno » 10 , è l'
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ferenza» 11 , l' «unità assoluta dell'unità e dell'opposto»' 2 • In essa gli opposti sono «congiunti in modo assoluto» '3 o «superati» 14 nella loro individualità, ossia essi non sono nell'unità assoluta ciò che in sé sono l 'uno per o contro l'altro, ma sono questa stessa unità. Schelling pensa l'unità assoluta come «identità pura» 15 • Viene, di conseguenza, a chiarirsi che anche qui l'identità non deve essere intesa alla stregua della vuota tautologia di un logico-formale A= A, ma come fondamento che pensa e supera in sé ogni opposizione e, cioè, ogni ente, o che è sapere assoluto, e come unità che si compie in modo riflessivo si pone nella riflessione identica a sé stessa. La concezione che nell'unità o identità assoluta gli opposti sono o «congiunti» o «superati» permette di comprendere l'enunciato , secondo il quale l'identità è l' «Uno senza opposti» 16 o l' «Uno che s'è portato al di sopra d'ogni opposto»'\ «sopra» la differenza 18 , o ha «sotto di sé» ogni opposto 19 • In modo analogo alla concezione neoplatonica dell'Uno come fondamento di tuttv e, ad un tempo, come nulla di tutto, cioé nulla di «determinato», Schelling persegue il seguente paradosso: l'unità assoluta è tutto, è la totalità dell'ente , il fondamento completo e il superamento d'ogni opposizione, ma anche nulla di questa opposizione nella misura in cui questa è in se stessa opposta. Che questo Uno sia «senza» opposto o «sopra» di esso, significa di nuovo che non ha in sè l'opposto o la differenza come opposto o differenza. Schelling definisce l'unità assoluta «indifferenza assoluta» 20 al fine di distinguer-
B. , 243 [trad . it., p. 40]. B., 295 [trad . it. , p. 109); B., 298 [trad. it., p. 112]. 13 B., 244 [trad. it., p. 41]. 14 B., 239 [trad . it., p. 36]. 15 B., 323 [trad . it. . p. 143]. 16 B., 265 [trad. it. , p. 72); B., 302 [trad. it., p. 119]; B., 321 [trad . it., p. 140]. 17 B., 310 [trad. it., p. 129). rs B., 237 [trad . it., p. 31]. 19 B., 302 [trad. it., p. 119]. Cfr. riguardo a questo, sotto, p. 265 (Cusano). Per la tradizione dell'i:v si deve rimandare all' Uno concepito da Proclo senza opposizione, cioè tolto ad ogni ente categoriale , ad es. In Parm. , 1076, 35 ss. (Cousin); 1062, 36 s.; 1123, 26-1124, 28; 1127, 20; 1203, 40 s. 2o B., 268 [trad. it., p. 74): l'unità suprema «che contiene l'indifferenza eli tutIl
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la come esistente esclusione dagli opposti come tali o dalla differenza come differenza. Essa contiene gli opposti come non opposti. Se, dunque, può essere pres upposto che l'unità debba essere intesa come identità riflessiva, dinamica, e, perciò, a d un tempo come indivisibilità degli opposti, allora, analogamente alla formula «unità dell'unità e dell'opposto», ris ulta per il principio supremo che esso può significare l'indifferenza dell'identità e della differenza 21 , o, se l'identità è indifferenza, l'identità di differenza e indifferenza 22 • Il fatto che Schelling metta alla pari l'unità, l'identità o l'indifferenza, in tal modo intese, con l' «assoluto» 23 e, di conseguenza, concepisca i predetti concetti come «predicati » dell'assoluto, chiarisce tout court il tratto fondamen tale del suo filosofare. La filosofia è, infatti, riflessione sull'assoluto, trascendere e ridurre gli opposti dall'ambito della rappresentazione nell'unità che Ii fonda, procedere nell' «infinito come tale», nell'«identità assoluta», nel «semplicemente Uno, che è, e che, come assolutamente ideal e, è assolutamente reale, perché all'esterno di esso v'è solo irrealtà, dunque anc he massimo punto di indiffe renza» 24 • In quanto la filosofia è, secondo Schelling, «sempre e completamente nell'assoluto» 25 , ossia ha il suo principio nell'assoluto e, di conseguenza, cerca la spiegazione
te le cose che vi sono comprese». B. , 322 [trad . it., p. 143]; B., 323 [trad. it. , p. 145] («indi fferenza assoluta»); B., 328 [trad. it., p. 153]. 21 Per far valere la separazione e l' unità degli opposti nell'assoluto, Hegel afferma acutamente: «l' identi tà dell 'identità e della non identità; opporre ed esseruno sono comemporaneamente in esso» (per la comparazi one del principio schellinghiano della fi losofia con quello fichtiano, D(f.ferenzschrift, p. 64 , 13 ss. , ed. Buchncr-Poggeler [trad. it. , op. cit., p. 79]). 22 Cfr . anche le Stuttgarter Privatvorlesungen, Werke VII 445 [trad. it., di Luigi Pareyson : F.W .J . Schelling, Scriiii sulla filosofia, la religione, la libertà, Milano 1974, p. 162] . 23 Ad es ., nel Bruno a p. 243 [trad . it., p. 40]. 24 Propddeutik der Philosophie (1804), VI 130. 25 Femere Darstellungen aus dem System der Philosophie (1802) , IV 388: «la fi losofia è del tutto e assolutamen te solo nell'assoluto, e considera tutte le cose solo in qua nto sono nell'assol uto » . System der gesamten Philosophie und der Naturphi/osophie insbesondere ( 1804), VI 176 ss: la filosofia è rappresentazione dell 'au toaffermazione di Dio, dell' Uno come dell' intero. (Vedi a rigua rdo , sotto pp. 25 1 ss.). Il mistero supremo della fi losofia : in che modo Dio «stesso è, qua le unica sostanza , sostanza infi nita» (ib i, p. 198). La filoso fia è, qu indi, soprattutto teologia e henologia.
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di questo in tutti gli ambiti dell'ente , essa, nonostante le sue origini puramente trascendentali e gli ancora attuali intendimenti trascendentali, è da concepire come la ripresa radicale del carattere onto-teologico della metafis ica. La distinzione schellinghiana del rapporto di trascendenza e di immanenza dell' assolut o rispetto alla teologia metafisica (non idealistica) deve, tuttavia, essere ancora tematizzato in modo appropriato a partire da questa tesi. È anzitutto necessario chiedersi in quale modo e in quale misura il principio dell'essere e del pensare possa costituire «l'unità degli opposti», l'assoluto. A tal proposito faccio un rimando ai paradigmi essenziali.
a) Finit o-infinito Il finito è «necessariamente sempre un finito limitato da un altro finito, il quale a sua vo lta è limitato da un altro, e così di seguito all'infinito» 26 • Il finito equivale, dunque , al limitato , al separato dall'altro, esso è qualcosa in sé determinato, differenza. E precisamen te, il finito è finito per sè e in sé, ma non è per sé reale, in quanto rimane penetrato dall 'infinito, che è a fon damento di esso, anche nella sua finitezza, dunque in quanto la sua realtà si basa sull'idealità che lo fonda. E questo significa, viceversa, che ogni finito ha il suo fondamento non in se stesso, «ma necessariamente all'esterno di sé» 27 • Esso è, dunque, una realtà, la cui possibilità sta in un altro . Se l'infi nito , come ass oluto compenetrarsi di tutte le determ inazioni possibili, è, secondo la terminologia platonica (che Schelling usa richiamando il Tim eo e il Filebo, e trasforma per il suo scopo) 28 , il «vero universo d'una pienezza infinita» , l' «idea » o il «concetto» (che concepisce in modo assoluB., 247 [trad. it. , p. 48]. B., 249 (trad. it., p. 51]. 28 Sul confronto tra vero, eterno essere e temporale divenire, archetipo e copia : Tim., 27 d 6 ss . Schelling conosceva il Timeo, benché dubitasse della sua autenticità (G.L. Plitt , Aus Schellings Leben, Lcipzig 1870 , II 8 s.). lnoilre Bockh, cfr. le sue Gesammelte Kleine Schriften III (Leipzig 1866), pp. 125 s. e 249. Sulla discussa problematica fil osofica, vedi Schelling, B., 242 s. [trad . it. , p. 39 s. ]; B., 250 [trad. it. , p. 52]; B. , 263 [trad . iL, p. 70] . 26 27
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to) eterno, allora il finito è l'unità «che s'è separata» 29 , la copia moltiplicata o l'immagine invertita dell'idea, copia estesa nel tempo illimitato. Con un movimento contrario rispetto a quello del «concetto eterno», il tempo è indice della differenza, nel finito, di essere e non-essere, causa ed effetto, possibilità e realtà. L'assoluto è, invece, la negazione di ogni finitezza; dunque è anche superamento di tutti gli opposti che dominano l'ambito del fin ito. In esso il finit o è indifferente rispetto all'infinito, è come un infinito atemporale, e il singolo non è in esso come singolo, ma come fosse lo stesso intero. L'assoluto, o l'identità assoluta, è, quindi, l'unità dell'infinito e del finito in quanto infinito. «Spiegare in modo esauriente questo misterioso essere (l'assoluto in quanto assoluto) che si compone di finito e infinito, è lecito solo a colui che sa che e come nel tutto è contenuto il tutto e che anche nell'individuo fu posta la pienezza del tutto» 30 • Questa indifferenza di finito e infinito, reale unità senza opposizione di tutti i possibili opposti, ha oggettivamente in comune con la concezione plotiniana il fatto che nell'ipostasi atemporale il vouç è «tutto in tutto», e che nella chiarezza o nel riflessivo rischiararsi del singolo intelligibile (idea) nel vouç appare la luce dell'intero, o che la «luce», riflessione dell'intero, congiunge il singolo ad un'identità dinamica. In misura non minore, inoltre, è presente la concezione leibniziana, secondo la quale ogni singola monade rispecchia in sè l'intero (il tutto) delle monadi 31 •
b) Possibilità-realtà. Il finito, che, come immagine «Separata» dell'infinito, mantiene anche la realtà divisa dalla possibilità, rimanda al fatto che anche questa opposizione, come quella di finito e infinito, corB., B., renza. 4 ss., 29
283 [trad. it., p. 91].
291 [trad. it., p. 104]. Nell'assoluto nulla è «affatto libero» dalla diffe«Tutto è qui pura luce», B., 239 [trad. it., p. 36]. Cfr. Plot., V 8, 4, sulla sfera intelligibile (atemporale voliç): òto:cpo:v1j yò:p ;-c&v,o: ... 1téiç 1to:v-cl cpo:vepòç sècr 1:Ò e\'crw xo:l ;-c6:v-co: ... <;)(7lç yò:p
30
Ex<Xcr~:ov
ttav x<X~ &~t-tpoç ~ o:ryÀTj .
W. Beierwaltes, Platonismus und ldealismus, pp. 116 s. [trad. it., pp. 130 s.], e sotto p. 256. 3!
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risponde alla concettualità finita, e proviene da essa. Nel «concetto eterno», unità per sé infinita, «ogni possibilità possiede la propria realtà, ogni realtà la propria possibilità immediatamente in sé e con sé» 32 • Nell'ambito del finito ogni singolo è, sì, ciò che al momento può essere,' ma non ciò che poi potrebbe essere. Al contrario, l'assoluto è tutto ciò che può essere, e, quindi, è anche «sempre quello che può essere in qualsiasi momento e contemporaneamente, senza differenza di tempo : e non ve ne può essere che uno solo» 33 • Questa determinazione dell'assoluto, come unità di possibilità e realtà, viene però messa in discussione da alcune affermazioni di SchelJing, le quali sembrano favorire l'idea di un Dio «diveniente» che esplica ciò che in lui è presente, ma anche da alcune altre della sua ultima filosofia che tentano di dare un fondamento al processo teogonico 34 • La concezione della storicità, nella quale si esplicita Dio in quanto tale, rende, dunque, la pura identità del sistema d'identità un'identità processuale, separata che cerca se stessa solo nel corso della storia della coscienza.
c) Essere-pensare; reale-ideale. a. L'assoluto è conoscere assoluto o riflessione assoluta. Ma il conoscere assoluto «non è un pensare in opposizione ad un essere; esso piuttosto mantiene, in sé e in modo assoluto, uniti il pensare e l'essere» 35 • Il conoscere finito è determinato dal32 B., 283, 246 [trad. it., pp. 91, 46]; nell'assoluto: «assoluta unità della possibilità e della realtà». B., 250 [trad. it., p. 52]: all'infinito, come il reale, è «direttamente unita la sua possibilità. Così tutte le cose, in quanto sono in Dio, sono anch'esse assolute, fuo ri di ogni tempo, e ciascuno in lui gode di una vita eterna». 33 B., 312 [trad. it., p. 130]. Propadeutik der Philosophie, VI 86: «Ma ciò che non è in realtà tutto ciò che può essere è necessariamente im perfetto e finito, così come, al contrario, ciò che è tutto ciò che può essere è perfetto, infinito e oltre il tempo; infatti ciò che è compiuto non può essere nulla proprio perché è tutto». 34 Cfr. Platonismus und Idealismus, pp. 74 s., 194 s. [trad . it., pp. 84 s., 213 s.]. Contro la connotazione del «divenire»: il «soggetto vincitore di tutto» (Dio) «mostra al termine ciò che già era all' inizio». Esso «è già Dio, prima che venga posto come Dio nel risultato» (Zur Geschichte der neueren Philosophie, Werke, X, pp. 117, 124). 35 B., 323 [trad. it. , p. ìt., p. 121 ].
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la differenza tra co lui che pensa e ciò che deve essere pensato; una differenza che non è sempre raggiungibile, e, quando essa è superata mediante evidenza, ri-inizia sempre. Il nesso di pensare finit o ed essere è, perciò, essenzialmente un'intenzione e, a motivo della cosiddetta «scissione soggetto-oggetto»J< più un non-ancora che un già-ora, più una possibilità in continuo mutamento che realtà · compiuta. Costitutiva rispetto al pensiero finito, questa opposizione è superata nel conoscere infinito o assoluto, nel quale «l'essere, non meno della conoscenza, è in modo assolu to, ... ed essendo entrambi assoluti nessuno dei due trova opposizione nell'altro all'infuori di sé.' Cioè a dire che l'assoluta conoscenza è l'essenza ( = essere) assoluta, e l'essenza assoluta è l'assoluta conoscenza» 37 • Poiché nell'assoluto l'essere ed il pensare sono reciprocamente indifferenti, l'oggetto è assolutamente uguale al soggetto , e dunque l'assoluto è il puro soggetto-oggetto, allora l'enunciato, secondo cui l'unità di pensare ed essere, la quale è questo Uno assoluto, è sopra il pensare e l'essere 38 , è superiore ad entrambi, nella misur a in cui li concepisce come o pposti, è adeguato a quel rapporto. L 'assol uto, dunque, è unità al di sopra delle opposizioni ossia unità di pensare ed essere che concilia e supera gli opposti. Questo stato di cose è stato inteso, da Schelling, anche come «assoluta affermazione (dell'assoluto) di se stesso»; in ciò consiste, l'identità riflessiva di colui che afferma (il soggetto pensante) con ciò che viene affermato (l'oggetto, l'essere pensato): l' eterno, in quanto ass oluto essere compenetrato di soggetto ed oggetto, conosce se stesso. Op pure: il pensare ass oluto è l'autoconoscersi della propria identità , l' autoriflessione della prop ria assoluta indifferenza>9. Il concetto fo n damentale di Hegel che l'essere , nel suo complesso, sia determinato dall a ragione, o che il pensare rìfletta, nello spiegarsi dei suoi momenti, se stesso come essere che si compie, o che l'idea stessa sia il movimento dialettico della 36 Riguardo alla cosiddetta scissione soggetto-oggetto ed al suo su perarnento si deve mettere a confronto in modo particolare il System des transzendenta/en ldealismus (1800). 37 B., 203 [trad . it., p. 1211. 38 B., 302 , 323 [trad . it., pp. 120, 1451. 39 A questo proposito W . Beierwaltes, P/atonismus und l dealismus, pp . 71 s. [trad. il., pp. 81 s.].
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cosa: ebbene, questa concezione ha, a ncor prima della sua elaborazione nella Grande Logica (1812- 16) , il suo p endant nel sistema schellinghiano del 1804. Però questo testo non poteva essere direttamente noto ad Hegel, poiché venne pubblicato solo nell'Opus postumum del 1859. Jl fi ne della filo sofia consiste, secondo Schelling, nel superare la fin itezza della soggettività umana. La conoscenza appare ad essa raggiungibile solo allorché il soggetto distingue da sè un oggetto. Se la finitezza della soggettività deve essere vinta dal filosofare , allora è necessario che venga superata la differenza di soggetto ed oggetto , essendo questa un prodotto proprio della soggettività . La sintesi degli opposti è dunque, anche in questo contesto concettuale, il principale intendimento del filosofare schellinghiano . Il superamento sintetizzante della differenza di soggetto ed oggetto ripristina l' uguaglianza di entrambi. La modalità con cui si esprime questa uguaglianza è identica a quella della soggettività finita : la conoscenza; ma, ora, una conoscenza tale che «in essa ogni eterna uguaglianza conosce se stessa» 40 • In questo tipo di conoscenza, che Schelling concepisce come «ragione», cessa, con ciO, ogni soggettività 41 ' e cioè - riguardo ad essa stessa si può dire anche così: qu est a conoscenza è proprio la forma suprema di soggettività, poiché sintetizza in sé la propria oggettività, la possiede in modo inseparabile da essa , per se stessa. In una forma tale di conoscenza di sè della ragione, l' «identico» conosce «l' identico» e così, rispetto ad un'opposizione determinante di soggettività ed oggettività, è esclusione assoluta della differenza. Questa escl usione caratterizza il conoscere che procede in modo assoluto e la cui «legge fondamenta le» è quella dì identità: autoconoscersi dell' eterna uguaglianza 42 • Q uesta asso luta identità viene semanticamente rapp resentata dalla formula A= A. Il soggetto è il predicato, ed entramb i sono superati l'uno nell 'altro - in sé diversi, tuttavia un unico atto. Schelling, come già è stato accennato, definisce il compimento di questo conoscere, che è in quanto assoluto un autoconoscersi dell 'assoluto, affermare. L' «è» nella proposizione A= A 40
Werke, VI 141. !bi, 142. 42 !bi, 145. 41
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IDENTITÀ E DIFFERENZA.
signi!ica, quindi, «A afferma A». Se il soggetto afferma il predicato A, allora A afferma se stesso, o esprime se stesso nel conoscere. «Ciò che come tale afferma se stesso, è solo l'assoluto o Dio» 43• Secondo Schelling, l'unica vera idea di Dio è, perciò, Dio quale «affermazione assoluta di se stesso» o assoluta autoaffermazione, che è, ad un tempo, autoconoscenza44. Concetto - come concetto di sé - ed essere si uniscono in esso in assoluta identità. Dalla sintesi assoluta, dall'assoluta autoaffermazione, consegue, per Schelling, che Dio non è l'altissimo ma «l'Uno per eccellenza» 45 , dunque non semplicemente, pensato in modo superlativo, l' ultimo membro di una serie, ma il centro che riunisce in sé tutto l'essere e perciò, lo pensa. In senso vero e proprio non può, così, «na~ scere» da lui alcun mondo, nella misura in cui egli è, in quanto autoaffermazione assoluta, tutto (dunque anche il mondo). Oppure: l'autoaffermazione di Dio è nello stesso tempo affermazione del «tutto» 46. Proprio per il fatto che da questo atto sintetizzante dell'autoconoscersi è escluso un prima ed un poi, e così l'intera temporalità47; per questo ciò che viene affermato non è un prodotto dell'affermare o di colui che afferma. L'assoluta uguaglianza di affermante ed affermato implica che colui che afferma sia anche «affermato», ma implica pure che ciò che viene affermato sia anche e allo stesso modo «affermante». Entrambi gli aspetti del conoscere hanno sempre già in sé l'altro, sono questo aspetto sempre a partire dall' «altro». Sebbene tutto l'interesse di Schelling sia diretto a non far sorgere nell'assoluto alcun tipo di opposizione, nella misura in cui questa è particolare, o di differenza 48 , un tale atto appare, tuttavia, 43
/bi, 148. 168 e 171. 152 e 157. 46 /bi, 155.
44 /bi, 45 Ibi,
47 L'assoluto è «eterno» (ibi,
pp. 158 ss.), è «già sempre» interamente uno. L'affermazione di sé da parte di Dio o dell'assoluto non deve essere intesa secondo il modello dell'azione che va al di là di sé (p. 170). 48 Se, dunque, Schelling non vuole comprendere l'autoconoscerc di Dio come «au~odiffer~nzi~zi o ne~> o_ come «usci re da se stesso» (pp. 170 s.), è solo per non porre m questt atu, che mdtcano verbalmente un a differenza, anche una differenza reale, esistente. È una configurazione analoga a quella della speculazione trinìtari a (inseparabilis distinctio et tamen distinctio, Agostino, Conj., XIII Il, 12).
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difficilmente comprensibile se non si ammette - almeno transitoriamente nel procedere del comprendere - la concezione e la terminologia della differenza . In caso contrario l'assoluto sfuggirebbe totalmente ad un tentativo di comprensione ed Hegel avrebbe ragione a definire - senza, però, conoscere questi testi che avrebbero corretto il suo giudizio - l'assoluto schellinghiano come quella « notte» nella quale «tut te le mucche» sono «nere». Il diritto ad una terminologia e ad un pensiero, da lasciare di nuovo in sospeso, della differenza mi sembra trovare, nella prospettiva di Schelling, la sua legittimità già nella formulazione linguistica dell'unità dell'assoluto: colui che afferma e ciò che viene affermato sono verbalmente differenti , allora viene suggerito un oggetto. Una tale rappresentazione ha, però, il suo superamento nel fatto che l'oggetto deve essere lo stesso soggetto. Il conoscere non è vuoto, esso conosce se stesso. Se l'autoconoscersi conosce, dunque, un oggetto, questo oggetto è, ad un tempo, identico e, con ciò, supera di nuovo l' oggettualità dell'identico. Che la ragione sia nell'intero queìla cosa «nella quale Dio stesso si conosce nell'unità totale di tutte le conseguenze della sua idea» 49 , è una formulazione che pensa il tutto come il medio attraverso il quale Dio pensa se stesso: egli stesso è il fondamento e il contenuto della sua mediazione - o assoluta automediazione. Essa esclude la concezione del prodotto e del divenire come risultato: è l'assoluta automediatezza. Del tutto coerente all'accezione cusaniana e plotiniana, il concetto schellinghiano dell'autoaffermazione dell'assoluto può essere concepito come la processione di questo in se stesso (nonostante il ri fiuto di questa tenni nologia 50 , la quale insiste sull'unità assoluta), come il diventar oggetto a se stesso, senza che questo «uscire» in se stesso divenga differenza nell'assoluto. Come identità assoluta, questo atto rimanda proprio al fatto che ciò che procede o ciò che diviene oggetto a se stesso non è altro che Io stesso assoluto, l' <
Werke, VI 207.
50
!bi, 171.
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della divinità e pensare, non di meno, la loro unità. Un altro momento della «differenziazione», che supera se stessa, «nell'assoluto» sono le idee come forme del Tutto, le quali non sono una cosa singola «in particolare», ma sono ad un tempo l'intero, o il tutto come singolo. L'intero si pone a «oggetto» di se stesso solo attraverso la cosa singola: essa lo rispecchia in sè, e viceversa. All'interno di ogni prospettiva appare contemporaneamente il centro. Però, in tutto questo si deve vedere, come è già stato accennato, una reale analogia con il concetto plotiniano di Spirito, nel quale le singole idee, a motivo d'una unità dinamica - posta con la riflessione - , sono l'intero, e, inversamente, lo Spirito, come Uno, può riflettersi, in quanto intero ed uno, solo nelle singole idee come punti di partenza differenti del pensare: attraverso il singolo sino all'intero, di modo che una differenza non possa mai, come tale o in sé, diventare operante. In quanto singolarità dell'idea, la differenza viene piuttosto superata atemporalmente nell'intero dell'atto riflessivo. Certo, esiste un'analogia anche con il concetto eckhartiano dell'essere divino che riflette se stesso (in se ipsum et super se ipsum rejlexiva conversio) e deve essere percepito come «affermazione purissima» (purissima ajjirmatio) di se stesso 51 ; un'analogia che esiste, inoltre, anche con la concezione leibniziana di un centro prospettico come fondamento della monadologia ... La concezione schellinghiana corrisponde a ciò che per questa tradizione dovrebbe essere detto con il termine "autoriflessione assoluta", nella misura in cui con riflessione si intende il legame, che si riunisce a se stesso, dell'assoluto con e attraverso se stesso, ma non la si associa con quella intesa criticamente, ma in modo peggiorativo, nella cosiddetta «filosofia della riflessione». b. Con la descrizione dell'unità di essere e pensare nell'assoluto viene delineata anche l'unità dell'opposizione suprema che racchiude tutte le altre opposizioni: quella di reale e ideale. Per reale si intende il finito, il determinato, ciò che è come oggetto ed è connesso all'intuizione. L'ideale è il predicato più universale dell'infinito, dell'illimitato, di ciò che è come sog-
SI Cfr. a riguardo la mia interpretazione di Eckhart in Platonismus und Jdealismus, pp. 47 ss . [trad. it., pp. 55 ss.].
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getto della coscienza, ed è articolabile solo dal pensare. Il fatto che un concetto, che si mostri adeguato, di filosofia non separi l'una e l'altra cosa - «l'idealismo è l'anima della filosofia, il realismo ne è il corpo; e solo tutt'e due insieme formano un tutto vivente» 52 - , si fonda sulla convinzione che il principio d'una tale filosofia sia l' unità di entrambi: «l'unità suprema deve essere posta nell' unità che forma la base dell'ideale e del reale» 53 • Ciò significa, dunque, che principio esistente e normativa della filosofia è l'unità assoluta quale identità di ideale e reale, pensiero e intuizione, pensare ed essere, finito ed infinito. Se anche l'ideale fosse sempre l'assoluto prius nei confronti del reale, allora si fraintenderebbe l'intenzione di Schelling, in quanto l'unità assoluta verrebbe considerata «solo» ideale. Proprio il concetto di identità implica una realtà dell'ideale. L'autoriflessione dell'ideale-reale, del puro soggetto-oggetto, trasforma, nell'atto atemporale, il reale in una realtà ideale. La rappresentazione di sé da parte dell'assoluto (divino) può: dunque, essere intesa solo come un'autorappresentazione esistente del proprio pensiero. Con ciò l'argomento antologico di Anselmo viene verificato sul piano dell' «idealismo ». Con la concezione dell'identità di essere e pensare nell' assoluto, Schelling si trova - consapevolmente o meno - all'interno della storia dell'influsso di un principio parmenideoneoplatonico che qui deve essere, ancora una volta, richiamato alla mente per il contesto proprio del contenuto. La concezione parmenidea che possa essere pensato solo ciò che anche sia, è stata assunta da Platino in una forma condensata, ma, in rapporto alla sua applicazione, ad un tempo ampliata: «identico è pensare ed essere». Platino ha concepito il principio parmenideo come la sintesi in atto (attiva) dell'ipostasi voGç, come il compimento riflessivo della prima molteplicità, o alterità, in un'unità in sé differenziata: pensando le idee (l'intelli-
52 Philosophische Untersuchungen iiber das Wesen der menschlichen Freiheit, VII 356 [trad. it. di S. Drago Del Boca: F.W.J. Schelling, Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, cit., p. 95]; «L'idealismo è l'anima della filosofia; il realismo ne è il corpo; e solo tutt'e due insieme formano un tutto vivente», B., 321 ss. [trad. it., pp. 140 ss.]. 53 B., 239 [trad. it., p. 36].
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gibile), lo Spirito pensa il suo proprio essere. Insieme a questo impulso parmenideo ha avuto importanza anche la concezione aristotelica del Dio che pensa se stesso (vo~crc.wç v6YJcrlç) quale forma del compimento dello Spirito. Lo Spirito è essere che riflette se stesso, al modo dell'alterità rispetto all'Uno: identità relazionale, dinamica, nella differenza. Nel solco di Fichte e Jacobi, Schelling ha sviluppato, in una prospettiva filosofico-trascendentale, questa concezione già nel suo scritto Dell'lo come principio della filosofia, o sopra l'incondizionato nel sapere umano (1795). Il tentativo di fondare, in modo assoluto, il conoscere finito porta all' «Io assoluto» o (nel contesto del sistema dell'identità) ad un assoluto pensato come trascendente e immanente, nel quale il principio dell'essere e del pensare coincidono. Con questo viene a crearsi una vicinanza nel contenuto alla metafisica greca. La filosofia schellinghiana dell'identità, tuttavia, non riflette, solo su di un assoluto che è indifferenza di tutte le opposizioni, ma in misura non minore su di una facoltà trascendentale del conoscere finito, che sa riconoscere questa indifferenza dell'assoluto: l'intuizione intellettuale, spesso screditata e, nella sua valenza fi losofica, incompresa. Già il termine esprime un'unità dell'opposto 54 • Il suddetto atto deve essere «intuizione», perché, nel guardare, il soggetto «perde» se stesso, si «pone all'esterno di sé» 55 , ed «intuizione intellettuale», perché l'osservare non si aliena nell'«oggetto», come avviene in un processo sensibile, ma termina in qualcosa «che non può affatto essere oggetto», in quanto deve essere pensato come unità pura di soggetto e oggetto. Con intuizione intellettuale, di conseguenza, si intende, anzitutto, un compimento di una conoscenza che p rocede in modo diretto, cioè non-discorsivo, nonoggettivante . In conformità al principio, valido anche in q~~ sto caso, della teoria greca della conoscenza, secondo cm I~ simile può essere conosciuto solo dal simile, la possibilità d1 uno sguardo nell'assoluto, quale indifferenza o identità semplice degli opposti, esige una facoltà conoscitiva che coincida con l'identità assoluta. Questa facoltà deve «identificare» l'op-
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posiZlone, cioè poterla superare, Essa fa sì che la conoscenza puramente empirica, finita, venga trascesa, e che cessi la relazione soggetto-oggetto, costitutiva per quest'ultimo tipo di conoscenza. Lo scopo di questo movimento di pensiero coincide con il «punto in cui il sapere intorno all' assoluto e l'assoluto stesso sono una cosa sola» 56 , dunque con il compimento delIo stesso atto assoluto attraverso il compimento d ' una soggettività finita, in sé ferma. In questo «punto » «si chiude l'occhio mortale, dove non più l' uomo vede, ma l'eterno vedere è diventato in lui vedente» 57 • L'intuizione intellettuale, come vien formulata da Schelling nel Bruno, è diventata dunque «il punto d'i mpatto dell'infinito col finito», ma anche del finito con l'infinito, o il compimento dell' indifferenza di finito ed infi nito nell'ambito del sapere finito, l'identificazione di essere e pensare e, di conseguenza, il compimento successivo dell 'identità dell'assoluto attraverso l'evidenza filosofica suprema. «L'unità del pensiero e dell'essere non è assoluta se non nell' idea e in una intuizione intellettuale» 58 • Risulta quindi legittimo, partendo dal suo modulo teoretico e dal suo te!os, porre questo modus dell' evidenza desoggettivizzata, nella quale però la soggettività offre il suo massimo, in analogia con l'estasi mistica di Plotino 59 • La differenza, che ha le sue radici soprattutto nell' elemento ascetico e nel diverso contesto religioso di Platino, risulta in tal modo determinante.
56
Fernere Darsteffungen aus dem System der Phifosophie (1802), IV 361. Kritische Fragmente (1807), VII 248. Riguardo a questo si confronti Ploti no VI 7' 36, 19-21: ~ fJiCt. r.Ài)aCt.aCt. 6-r;e fi.èv oih e òp~ oòoè OLCt.XfilVoL 6 opwv oòol. )f.liVOV. 58 B., 325 [trad . it., p . 147] . Fernere Da1:5telfungen aus dem System der Phifosop hie, IV 362: l' intuizione intellettuale è «in assoluto la possibilità di veder riunito l'universale nel par ticolare, l'infinito nel fi nito, ed entrambi in un'unità vivente ... di vedere il concetto o l'indiffe renza nella differenza». Essa pone come «assolutamente uguali» il pensare e l'essere, in quanto conoscenza è «una cosa sola» con l'oggetto della conoscenza (ibi , pp. 368 s.) 57
59
B., 240 [trad . it., p. 36]. Il termine «estasi» subentra in Schelli ng al posto di quello di «intuizione i~ tellettuale», ma non ha lo stesso significato : cfr. Oher die Natur der Philosophte afs Wissensclwft (1821), IX 229 . 54 55
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Su questo, in modo più esteso, W. Beierwaltes, Pfatonismus und ldeafismus Pp. 92 s., 134 ss. , 200 [trad . it., pp . 105 s., 149 ss., 220]. Come prima di lui Novalis, Hegel rimanda all 'affinità e alla differenza del concetto schellinghiano di «i ntuizione intellettuale» da quello di «entusiasmo del pensa re», di conoscenza immed iata dell'assoluto, qual è tipico dei neoplatonici (Jubifiiumsausgabe , XIX 667 [trad . it., III-2, p. 382]).
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3. Affinità di Sche!ling con la tradizione neoplatonica Riguardo alle analogie, sino ad ora solo accennate, che legano la filosofia schellinghiana dell'identità con gli altri sistemi di pensiero sino a Plotino, devono essere ora chiariti i nessi, concretamente verificabili nel Bruno, con il pensiero neoplatonico. Gli estratti dal De la causa, principio et uno di Bruno, che J acobi aveva pubblicato come supplemento alle sue Lettere sulla dottrina di Spinoza, dovrebbero, come è stato accennato all'inizio6<J, essere considerati la «summa della filosofia dello 6° F.H. Jacobi, Werke, IV (Leipzig 1819) l, 10. Più che una parafrasi, che s'av-
vicina al testo e ridona ad esso il suo intento, il supplemento deve essere considerato come una vera e propria traduzione, come dice Schelling in B., 310 [tra d. it., p. 128]: un «estratto geniale». Jacobi deve la sua conoscenza di Bruno agli stimoli ricevuti da Hamann, cfr. ad es. Hamann a Jacobi (16. 1.1785), Briefwechsel, V, a cura di A. Henkel (frankfurt/M. 1965), p. 327 . .Jacobi a J.G. Jacobi (5.9. 1787, sul principio hamanniano di coincidenza), Werke, III (Leipzig 1816), p. 504. L'assimilazione da parte di Hamann del concetto bruniano di coincidentia oppositorum è oggetto anche del carteggio con Herder (29.4.178 1, Briefwechsel, IV (Wiesbaden 1959), p. 287; 18.1 1.1782, ibi, p. 462). Ricca di conseguenze, la recezione di Bruno ebbe nel 1770 inizio con l'attacco polemico di Goethe alla voce «Bruno» di I3ayle (Ephemerides, Weimarer Ausgabe, I, pp. 37, 82). Nel corso degli anni successivi, Goethe ha conosciuto in modo diretto alcuni aspetti dei testi di Bruno. Della loro affinità materiale e concettua le si deve assolutam ente tener conto. Lo si potrebbe mostrare già in uno dei primi frammenti: Die Natur (W.A ., II Il, 5-9). In esso la natura è intesa come l'«unico artista» che «crea eternamente nuove forme»; in essa, pur avendo carattere di immu tabilità, vi sono vita, divenire, movimento eterni. «Gli uomini sono tutti in essa ed essa è in tutti». Bruno: «l' universo è in tutte le cose, noi in esso, esso in noi» (C., 101 [147]). La natura è tutto, il principio che «sente», penetra ogni cosa, essa è «assolutamente» e «sempre identica» - essendo una unità di realtà opposte o singole: «ha reso tutte le cose singole per poi riunirle insieme». Il fatto che senza opposizione noi non possiamo nulla, dunque che ad ogni «effetto contrario risponda un effetto contrario», e che tuttavia l'unità sia da cercare in ogni opposizione rappresenta la forma interiore del pensiero goethiano: G. Baumann (Goethe. Dauer im Wechsel, Miinchen 1977) chiarisce secondo diversi aspetti proprio questo tratto fondame ntale. A partire dalla concezione fondamentale secondo la quale il principio divino, come spirito o anima del mondo, muove l'universo, può essere interpretata, accanto ad altre, la poesia (del 1812- 13) del gruppo Gott, Gemiit und Welt (W. A., I 3, 73):
« Was wiir' ein Gott, der nur von aussen stiesse, !m Kreis das Al/ am Finger laufen fiesse! !hm ziemt 's, die Welt im Innern zu bewegen, Natur in Sich, Sich in Natur zu hegen, So dass, was in !hm lebt und webt und ist Nie Seine Kraft, nie Seinen Geist vermisst». Certo l'affin ità tra Goethe e le concezioni di Bruno non può essere dedotta in modo unilaterale; ad un tempo devono essere prese in considerazione le impli-
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hen kai pan». Essi contengono delle asserzioni di Bruno intorno al principio e all'origine, universalmente intesi, all'anima del mondo, alla materia («il principio materiale visto come potenza e come soggetto») e, infine, intorno all'Uno (nel V dialogo): che l'universo sia uno, che esso sia, in pari tempo e in una volta, tutto ciò che può essere (identità di possibilità e realtà), che in esso il massimo non si distingua dal minimo, che ciò che è opposto in esso coincida, che l'Uno si dispieghi e, tutt avia, sia «mero punto centrale», uno in tutto, che esso, come intelletto supremo, sia, ad un tempo, ciò che viene concepito e colui che concepisce. In connessione con il concetto di anima del mondo e di materia viene, per due volte, citato il nome di Plotino. Già la semplice enumerazione delle questioni inerenti agli estratti evidenzia l'oggettivo legame con le domande centrali del Bruno 61 di Schelling: la questione dell'Uno, o dell'unità come superamento degli opposti, dell'identità di possibilità e realtà, cazioni neoplatoniche presenti nel concetto goethiano di natura (cfr. Platonismus und Idealismus, pp. 93 ss . [tra
eodem idem est esse, posse, agere, velle, essentia, potentia, actus ... in simplici essentia non potest esse contrarietas ullo modo, neque inaequa!itas [ibl]». «Deus est essentia simplicissima, ergo in eo idem est posse et esse ... » [5 1]. {omnia] ab eodem principio manant, in eodem conservante perseverant, et ad eundem finem conspirant» [52] e nel Geist der spekulativen Philosophie (Marburg 1796), V 570-582 di D . Ticdemann, che però non poteva essere influente per l'indirizzo filosofico di Schelling. È inoltre improbabile che l'ampia trattazione, la quale si basa su una conoscenza relativamente vasta del testo e rimanda ripetutamente (pp. 739, 831 s., 854) al «platonismo» di Bruno, della Geschichte der neueren Phi!., II 2, 703-856 (Gottingen 1801) di J.G. Buhles abbia avuto un influsso essenziale sulla concezione schellinghiana del Bruno. L'inizio della stampa del Bruno, al quale sono seguite certamente delle interruzioni, si deve sicuramente porre alla metà del l 80 1, cfr. lettera a A. W. Schlegel, senza data, Plitt I 346; inoltre 357, 361, 373. Una datazione più tarda della lettera, Plitt I 346, da pane di H. Fuhrmans (Schelling, Briefe, Il 385) non appare in ogni caso chiara.
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d'essere e pensare. Proprio questi quesiti, che convergono con quelli di Bruno, sono anche i quesiti centrali che si pone il pen~ siero neoplatonico. Per lo stesso Bruno, essi sono stati mediati da Nicolò Cusano (coincidentia oppositorum, possest), e da Piotino (unum). E perché il senso specifico della ricezione di tali questioni attraverso Bruno possa essere comprensibile, devono essere anzitutto ricordati tanto il principio cusaniano della coincidentia oppositorum 62 che i suoi elementi neoplatonici . La finitezza costituisce - secondo Cusano - la dimensione della nostra conoscenza. In essa un ente limita l'altro (finitum), è più piccolo o più grande di un altro, sta in opposizione ad un altro. Perciò il conoscere, il quale deve adattarsi a questa struttura, è anzitutto conoscenza del rapporto (proporfio) degli enti fra di loro: mediante essa viene reso comprensibile il ruolo funzionale dell'ente nell'intero dell'essere. La funzione o la delimitazione (d1jjinitio) di un ente si mostra come sua essenza. La conoscenza della proporzionalità dell'ente-finito avviene, tuttavia, alla luce del tentativo di conoscere l' essere infinito (injinitas absoluta), la sua verità ed unità asso luta. La difficoltà di poter pensare e dire, anche in modo solo approssimativo , l'infinito, ossia ciò che non è limitato da altro, ha il suo fondamento nel fatto che tra il finito e l'infinito non è pensabile una proporzionalità, quale esiste reciprocamente tra tutti gli enti-finiti: ex se manifestum est infiniti ad jinitum proportionem non esse 63 • Nell'ambito della finitezza non è possibile trovare un «assolutamente massimo» (maximum simpliciter), dunque è sempre pensabile una cosa più grande. Se al contrario Dio, in quanto injinitas absoluta, è la cosa rispetto alla quale non vi può essere cosa più grande 64 - questa è in confronto la formu lazione cusaniana dell'argomento antologico - , dunque è il massimo per eccellenza, allora questo stesso, non può essere pensato come il vertice della finitezza, guadagnata mediante una continua ascesa, ma come il «totalmente altro», opposto, ma non in senso categoriale, all'ente. 62 Cfr. a ques to propo ito J. Ri tter, Docta ignorantia (Leip:dg 1927), pp. 14 ss., 61 ss., e sopra, pp . !50 ss. 63 D. i., I 3; 8, 20. 64 D. i., I 2; 7, 4 ss.: maximum, quo nihif maius esse potest.
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Essendo semplicemente o assolutamente massimo, Dio è tutto ciò che può essere 65 , ossia è puro atto, l'intera possibilità è in lui realtà; di conseguenza l'asserto [maximum absolute est] omne id qu·od esse potest 66 significa anche: egli è tutto ciò che può essere. Ma se egli è il massimo, dunque la cosa al di fuor i della quale nulla è, egli è anche il minimo. Il superlativo implica che Dio sia insieme massimo e minimo, o che in lui coincidano tutti gli opposti (maximum minimo coincidere; .. .in sua simplicitate absoluta omnia complectl) 67 • Ciò che è opposto non è, di conseguenza, in lui come tale, ma è in lui l'origine stessa, la cui essenza è unificazione e unità: omnia in deo sunt deus 68 • Che egli sia l'assolutamente, cioè illimitabilmente massimo, implica che egli sia tutto e che tutto sia in lui: assoluta, infinita unità in sé dialettica 69 , quindi l'essere semplicemente, riflettere puro: absolutus conceptus, simpli-
cissima et abstractissima intel!igentia, ubi omnia su n t unum ... ipsum unum omnia; et per consequens quodlibet in ipso omnia'0 • Proprio come unità assoluta, o, semplicemente, come unità, egli è l'unità dialettica degli opposti che sta, senza opposizione, al di sopra di essi: supra omnia opposita per me-
dium coincidentiae maximi et minimi videtur superexaltatum ... 71 • La concezione d'una unità sovraopposizionale rimanda a Proclo, il quale riteneva l'Uno privo d'ogni categorialità, dunque anche come irrelato sovra-esistente, ma ancor prima a Schelling, che ha fatto del paradosso dell'unità degli opposti unità che rispetto a loro è al di sopra - di nuovo la fo rma fondamentale del suo concetto d'identità. L'altro elemento della concezione, la coincidenza degli opposti, è stato approfondito 65
Intorno a questa interpretazione, cfr. sopra, p. 150, n. 26. Questa possibilità interpretativa viene appagata con I 4; 11, l : maximum abso/ute est omnia absolute actu, quae esse possunt. Anche 12, 31. Mediante questo aspetto il possest cusaniano, influenzato dal concetto cristiano di creazione, si distingue dall'iden ti ficazione aristotelica del Dio che pensa se stesso con la pura realtà. 67 !bi, 10, 16. 11 ' 21. 68 !bi, I 22; 45, 16. 69 !bi, I 5; 13, 2: unitas infinita, ossia un'infinità delimitata, lim itata da nulla, al di fuori della quale nulla è, poiché è, come maximum absofutum, tutto. ìo r IO; 20, 7 ss. ì J Princ., n. 34, 15 s. e 23 s. 66
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dal punto di vista teologico da ps. Dionigi Areopagita: come modello preliminare in sè opposto, Dio è tutta questa opposizione «seconda una sola unione non confusa». Le categorie platonico-pannenidee (e, in seguito, anche cusaniane) di identità - differenza, movimento - quiete, grande - piccolo, limite - senza limite, formano in lui un'unità dialettica (trinitaria); ma è, ad un tempo, necessario che egli sia «antecedente» a questi opposti in quanto tali, se deve essere l'Uno 72 • Anche Plotino porta un contributo decisivo a tale concezione, delineando un concetto di unità - pensato però non per il primo principio in sè irrelato, l' gv - , che congiunge ciò che è opposto ad un riflessivo essere uno. Nello Spirito, precisamente nel primo uno-molteplice, ogni possibilità è realtà, perché non c'è in esso, a causa dell 'assenza della temporalità, un prima e un dopo. Tutto è sempre e contemporaneamente, il movimento (del pensiero) è quiete (immutabilità) e, viceversa, la «quiete» dello spirito deve essere rappresentata come suo moto riflessivo, la cosa singola è l'intero, e l'intero è tramite la cosa singola ed è in essa, l'essere è il pensare, il molteplice in esso è un ' unità dinamica 73 • Con la parte iniziale delle nostre riflessioni intorno a identità e differenza dovrebbe essere evidente - cosa che qui ricordo ancora una volta - che la trasformazione, compiuta da Plotino, delle categorie dell'essere del Sofista e del Parmenide platonico in uno spirito assoluto pensato come ipostasi, dunque libero, nel quale la cosa distinta, ed anche opposta, si configura come unità nella differenza, costituiva l'oggettivo presupposto in base al quale Dionigi poteva pensare anche il pri ncipio divino uno come un'unità riflessiva deg li opposti. Cusano ha elevato questo teologumeno filosofico a principio centrale della sua riflessione su Dio e sul pensiero umano. Concepito già nel De docta ignorantia nella prospettiva della maximitas absoluta - insieme con la coincidentia appositorum - , questo pensiero secondo cui in Dio tutto è possibile, cioè che tutto ciò che può essere è sempre già reale, è stato, più tardi, da Cusano fissato in un termi ne, esatta espressione n Dionigi Areopagita, De div. nom., V 7; PG 3, 821 B e IO; 825 B. Cfr. sopra 85, n. 15. 73 W. Beierwal tes, Plotin, pp . 25 ss. e Enn., VI 6, 3, 28 ss.
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del concetto: D io è il poter-essere, «possest» (absolutum posse è absolutum esse), possibilitas absoluta come puro essere attuale 74 ; il suo potere è identico al suo essere, il suo essere al suo potere. Oltre che nel dialogo Bruno, proprio questa identificazione - però senza un richiamo diretto a Cusano, ed anche diversamente da lui nel concepire la funzione di una metafisica del volere assoluto - ha avuto un ruolo determinante nella filoso fia «positiva» di Schelling: poiché Dio è ciò che l'ente stesso è - «signore dell'essere» - , egli è, ad un tempo, ciò che pone in modo assoluto l'essere. Egli non lo è come possibilità passiva, non ancora adempiuta, ma, nel significato che gli dà il concetto schellinghiano, come suprema e pura potenza, ossia come actus purissimus qua omnipotentia. È, tuttavia, tramite la sua volontà che egli pone l'essere; eo-li è ciò che vuole essere. In questo si «completa» e si conserv~ il suo potere. In Dio essere, potere e volere sono, di conseguenza, da comprendere come elementi dell'unico atto, in modo supremo reale, che coincide con il compimento della sua essenza 75 •
4. Cusano in Bruno
Nella riconduzione all'ambito problematico del De la causa era divenuto già evidente che tanto il principio cusaniano della coincidentia oppositorum come anche il concetto di possest, quale nome divino di coincidenza, sono elementi costitutivi del tentativo di Giordano Bruno di illustrare, sotto eleganti presupposti fisici, il mondo e la sua origine creatrice e conservatrice. Alcuni aspetti essenziali del pensiero cusaniano erano noti a Bruno 76 ; e il suo rapporto con lui era, nonostante la stima
7
Ad es.: Vis., c. 15 ; Possest, n. 6; 7, 12 sg. il term ine possibilitas absoluta. A riguardo in modo più esauriente: Platonismus und ldealismus, pp. 76 ss. [tra d. it., pp. 87 ss .] 7 6 Sul rapporto di Bruno con Cusano, vedi F.J. Clemens, Giordano Bruno und Nicolaus von Cues, Bonn 1847; H . Ritter, Geschichte der christlichen Philosophie Hamburo 1850; V 595 ss., passim.; H. Blumenberg, Die Legitimitdt der Neu~eit (rrantfurt !966), pp. 435 ss. (centrale punto di divergenza: l'incarnazione come scandalo fondamentale), e sopra pp. 227 ss . 4
7 5
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di principio, ambivalente a causa delle diverse concezioni dei principi cosmologici 77 • Il principio cusaniano di coincidenza è, per Bruno, tanto principio ermeneutico dell'essere dell'origine divina, dell'Uno, come anche - e in questo si distingue in modo essenziale da Cusano - principio della struttura del mondo. Però certamente Bruno non identifica semplicemente Dio, il principio assoluto e il mondo senza distinzione termino logia e di contenuto. La trascendenza (nonostante la sua immanenza) di Dio, o dell'Uno, trascendenza pensata enfaticamente da Cusano e da Plotino, viene, tuttavia, modificata da Bruno, dal momento che questi non cerca anzitutto di spiegare l'essere in sè di Dio, ma il suo operare nel mondo, nell'universo, nella natura, senza cancellare, però, il concetto del «sopra-essere» del principio-mondo. In connessione con questo tentativo, il concetto di materia riceve - come s'è mostrato proprio nello schizzo della questione del De la causa una nuova valenza rispetto alla tradizione (in particolare in opposizione ad Aristotele): la materia non è senza forma, ma essa stessa è pienezza di forme, e per questo è intelligibile. Essa non è pura possibilità, ma anche potenza produttiva, dunque anche fondamento del cominciamento e mezzo dello spiegarsi dell'essere: Plotino- almeno per quanto concerne il concetto dell'uno e della materia intelligibile- e Democrito dovrebbero venir unificati. In un passo del terzo dialogo del De la causa, la recezione del principio di coincidenza giunge il più vicino possibile all'originaria concezione cusaniana: «il primo principio assoluto è grandezza e magnitudine; ed è tal magnitudine e grandezza, che è tutto quel che può essere. Non è grande di tal grandezza che possa essere maggiore, né che possa essere minore, né che possa dividersi, come ogni altra grandezza che non è tutto quel che può essere; però è grandezza massima, minima, infinita, impartibile e d'ogni misura. Non è maggiore per essere minima; non è minima, per essere quella medesima massima; è oltre ogni equalità, perché è tutto quel che ella possa essere» 78 • 77
Ri manda a Cusano, ad es. CC. 91, C. 335 (d'ora in poi citato secondo Dia/. !t.). Ved i anche sopra p. 226, nota 82. Oratio valedictoria (1588), OL I l, 17:
Huius ingenium, si presbyterialis amictus non imperturbasset, non Pythagorico par, sed Pythagorico longe superius agnoscerem, projiterer. I 440 ss. (critica alla cosmologia cusaniana) . Bruno, C., 283 . Ecco la traduzione tedesca: «Das erste absolute Prinzip ist
;g
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Di conseguenza, il principio è (unitamente e indifferentemente)19 ogni ente, pura unità nella quale tutto è in tutto; ciò che normalmente è opposizione, è in esso uno e identico, «senza differenza e distinzione» 80 • II principio assoluto è dunque la coincidenza degli opposti 81 • Poiché in esso possibilità e realtà di se stesso e di tutto l'ente sono identiche, in quanto è tutto ciò che può essere, come anche tutto ciò che esso stesso può essere, Bruno Io definisce «possibilità assoluta», possibilità o potenzialità assoluta, attiva: «il possere essere è con lo essere in atto ... Quello che è tutto che può essere, è uno, il quale nell'esser suo comprende ogni essere» s2 . Fedele all'intento cusaniano, Bruno ha così concepito la coincidentia oppositorum ed il possest in un'unità . Ma egli abbandona il pensiero di Cusano, allorché ritiene anche l'universo dunque congiuntemente, il mondo ed il suo principio identità di essere e potere: anche l'universo è tutto ciò che può essere 83 ; lo è tramite il suo principio che opera ovunque ed in esso come intero. Ne risulta la concezione, talvolta definita, nella recezione bruniana, come «monismo», per la quale «il tutto , secondo la sustanza, è uno» 84 ; l'Uno è anche tutto: «hen kai pan». Che questo sia solo uno degli aspetti della questione intorno al rapporto di principio e mondo, deve essere sempre mantenuto presente a proposito dell'asserto bruniano Erhabenheit und Gr6J3e; es ist solche Gr6J3e und Erhabenheit, daJ3 es alles ist was es sei~ kann. Es ist nicht groJ3 ( = erha ben) in dem Sinne (v o n solcher Gr o: Be), daJ3 s1e noch gr6J3er sein konme, auch nicht, daJ3 sie klciner werden oder geteilt werden konnte , wie jede andere GroJ3e, clie nicht alles ist was sie sein kann; vielmehr ist es die gr6J3te, dic kleinste, unendliche, unterilb;re Gr6J3e und von jeglichem MaJ3. Sie ist nichr das Gr6J3te, weil sie das Kleinste ist· sie is t nicht das Kleinste, weil sie zugleich das Gr6J3te ist; sie ist jenseits aller GI~ichheit (i.iber allen Vergleich hinaus), denn sie ist alles, was sie sein kann ». - Non può esservi dubbio sul fatto che questo passo rimandi a Cusano benché costui non venga nominato. Cfr. De possest, n. 9; IO, 8 ss. D. i.,' I 4 e 5. 79 c., 282. 80
Ibidem .
81
Più spesso Bruno usa il termine «coincidenzia», ad es. C., 286. E.; 1130. Spaccio, 573. Con lo stesso signif.icato: <~co!lcordano», ad es. C., 335, 337, op-
pu~e «co nven ~re», 339 co!1 1l termme «comc1denza» che s'addice di più alla conceziOne cusa~1ana, Jacob1 (pp. 43 s.) parafrasa la concezione attribui ta (da nrun.o) .ad .Erachto : «tutte le cose essere uno ... e per tanto le contraddittorie enunCiazlom son vere» (329). Cfr. sopra p. 225 . 82 C., 28 1. 287. I 349. 384. 83 C., 287. 84
Ibidem .
ii
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sulla trascendenza 85 • Per questi è pensabile che proprio 1'h kai. pane l'integrità del cosmo, da quella suooerita abbia daetno . bb ' ongme. e rafforzato la disposizione di Bruno contraria ad un'incarnaziOne storica del divino.
5. La concezione degli opposti di Sche!!ing e fa funzione dell'arte Il rinvio al principio di coincidenza e di possest di Cusano a.lle ~ue im?licazioni neoplatoniche ed alla assunzione e modi~ fr~azwne dr queste da parte di Bruno dovrebbe chiarire in quale mrsura Schelling s'era confrontato, benché in modo indiretto con i principi filosofici del neoplatonismo, quando le conce~ zioni cusaniane lo sollecitavano ad intensificare la filosofia dell'i~entità pura o della assoluta indifferenza. L'idea di un'unità attt:'a degli opposti non è, t uttavia, per lo Schelling di questo p~nodo un abso!utum novum. La ricezione di Bruno riguarda prutt~sto un int,~ndimento schellinghiano che è alla base già del Szstema del! zdea!ismo trascendentale (1800) e tramite Bruno ~i ~~ò raf;orzare, amplia~e e. concentrare sulla questione dell umta del! assoluto. Tramrte rl fondamentale intento tras~ende~tale del Sistema del! 'idealismo trascendentale, il penSiero dr Schelling è determinato dal fatto che egli cerca di provare l'unità dell'opposizione anzitutto e primariamente rispett? al fen?n:eno della coscienza, del conoscere e della produZione artiStica. II conoscere è, secondo il Sistema, un movimento di coincidenza, un '«identificazione»: tutto il reale deve essere ricondotto all'ideale. Questa riduzione non è, al termine del processo conoscitivo, un isolamento del reale dall ' ideale . ma un ' umone d'entrambi. Lo scopo è fondare la fondatezza' assoluta della stessa coscienza; questa è, infatti, il punto in cui si identificano ideale e reale. Oltre all'opposizione fonda~entale di id.eale - reale, vengono tematizzate quelle di oggettivo .- soggettivo, natura - libertà, conscio - inconscio, cosciente - mcosciente. Anch'esse devono essere condotte all'identità che le supera. Del tutto singolare si rivela l'unità di conscio e in coscio nell'arte. In essa, attività cosciente e attività incosciente devono essere nel prodotto una cosa assolutamente 85
Cfr . pp. 228 ss.
269
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una 86 • Nel proprio prodotto, l'artista supera, in un'armonia infinita, la contraddizione che nell'uomo si presenta apparentemente irrisolvibile&7 • Ma a fondamento dell'armonia prestabilita tra conscio e incoscio vi è l'assoluto, o l'originario ident i co8~. Nell'opera d'arte si manifesta, così, lo stesso assoluto attraverso questa attività «identificante» dell'artista. Addirittura essa ha la funzione di dimostrazione dell'esistenza di Dio. Se nel Sistema dell'idealismo trascendentale l'assoluto identico è contemporaneamente ciò che non è oggettivo, ciò che non è oggettivabile, dunque non è un elemento o un prodotto d'una rappresentazione , allora è accessibile in modo adeguato soIo ad un'intuizione intellettuale, immediata; questa, infatti, è in misura suprema movimento di coincidenza. Da ciò si può comprendere come l'arte, o il rendere presente l'infinito nel fini to, possa essere intesa come l'intuizione intellettuale diventata oggettiva, o «estetica», poiché essa fa apparire ciò che viene creato dall'artista geniale nell'attività interiore 89 • Necessariamente ne risulta che, proprio a partire dalla domanda circa il nesso della coscienza finita con l'assoluto identico , l'arte trovi una più alta considerazione rispetto alla filosofia. L'arte può, cioè, essere produttiva dove la filosofia, quale tentativo di comprensione argomentativa, oggettivante, rimane indietro: ossia rendere accessibile l'assoluto identico nella sua forma indivisa, ossia come unità delle opposizioni di cosciente e incosciente, finito e infinito, reale e ideale. Con ciò l'arte adempie, o completa, l'intento della filosofia di superare la separazione delle attività reciprocamente contrapposte nel finito, ossia in rottura individuale e storica. L'intuizione produttiva dell 'artista, la sua immaginazione, descrive l'unità degli opposti non solo riflessivam ente, come possibilità massima della filoso fia , ma la rappresenta anche come possibilità effettiva, nella misura in cui configura l'infinito nel finito. Ben oltre la filosofia, l'arte è, dunque, l'unica possibilità di far diventare oggettivo l'assoluto identico, l'identità pura. Solo una conseguenza è il fatto che nel Sistema dell'idealismo trascendentale la filosofia venga ridotta a presupposto del buon esito dell'intuizione intellettua86 System, Werke, 87 !bi,
617. 8S J!Ji, 6!5. 89 /bi, 625.
III 614.
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le o trascendentale. L'arte può, dunque, essere intes a, ad un tempo, come «unico, vero ed eterno organo, e come documento della filosofia» 90 , nella quale l' intento della filosofia viene appagato; conseguentemente essa è «per il filosofo ciò che vi è di più supremo, poiché gli dischiude, per così dire, la cosa più santa, dove, in una fusione eterna e originaria, brucia di un'unica fiamma ciò che nella natura e nella storia è separato, e ciò che nella vita e nell'agire, così come nel pensiero, si deve eternamente rifuggire» 91• In questo compimento dell'identificazione da parte dell'arte viene ad essere chiarita, in rapporto alle opposizioni di conscio - inconscio, soggetto - oggetto , sapere - agire, la sua universale e suprema pretesa. Anche in altri luoghi rispetto al Sistema dell'idealismo trascendentale Schelling s'è attenuto, come ad esempio nelle lezioni sulla Filosofia dell 'arte (1802), al concetto che l' arte è ciò che permette all'assoluto dì apparire e che in questo si mostra la sua funzione di verità : l' arte come «ripetizione», alla massima potenzan, del sistema schellinghian o, efflusso (emanazione) dell'assoluto93. Contraria a questa apoteosi è la tesi di Hegel della «fine» dell'arte. Al livello «idealistico» della coscienza, l'arte non può più essere l'unica concrezione adeguata dell' assoluto: «Per noi l' arte non è più il modo supremo nel quale la verità si procura l'esistenza», non è più <
!bi, 627.
91 !bi,
628.
Werke, V 363. 93 !bi, 372. Sull 'argomento, cfr. D . Jahnig, Schelling. Die Kunst in der Philosophie, 2 voli. (P fullingen 1966-69), in part. II, pp . 17 ss. 94 Asthetik, a cura d i F. Bassenge (Berlin 19652) p. 110. [trad. it di N: Merker e N. Vaccaro: G.W .F. H egel, Estetica, Torino 1963, p. 20]. 95 Ibidem. 92
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unità delle opposizioni, l'assoluto non appare nell' arte, ma nell'idea assoluta, e questa è il concetto che comprende se stesso, che ha superato in sé, conciliandole, tutte le opposizioni che per sé possono apparire come momenti.
6. Bruno come mediatore del pensiero neoplatonico p er Schel!ing Se già nel Sistema dell'idealismo trascendentale Schelling può, per ambiti particolari, aver fondato il concetto dell ' unità degli opposti, è certo dovuto anche all'influsso della filoso fi a di Bruno il fatt o che egli abbia pensato l'unità assoluta come l' Uno e, in questo modo , abbia radi calizzato il suo nesso con il mondo e con il conoscere finito , tuttavia senza far assorbire la di fferenza dall 'unità molteplice. Proprio tr ami te l'enfasi dì Bruno sull'Uno come Principio, Schelling vede porsi - in una forma modificata - il confronto con la fond amentale tesi filosofica del neoplatonismo. L'intenzione di pensare il principio assoluto come l'Uno - costituito in modo non solo trascendentale - ha, infatti, in Bruno origini neoplatoniche tant o concrete quant'anche di ffuse. Origini che egli collega in modo particolare a P itagora, Parmenide, Eraclito, Cusano ed alla cabala. Di questo complesso soltanto l'aspetto specìficatamente neo- · platonico 96 ha bisogno di un chiarimento. Bruno ha conosciuto Plotino attraverso il testo latino di Marsi lio Ficino. Più spesso lo cita letteralmente, oppure lo tiene mascherato 9;. Oggettivi punti di contatto sono la questione 96
Un'analisi più esatta dei rapporti di Bruno col neoplatonismo verrà proposta in un lavoro specifico. Essa si concentrerà ancor più sugli scritti latini di Bruno . Per «iniziare a pensare l'uni tà» e per il «tentativo di concepire l 'universo nella sua evoluzione, nel sistema della sua determ inazione», di pensare l'uni tà di processione e ritorno (Hegel, XIX 244 [trad. il. , op. cit., p. 232]), la co nnessione con il pensiero neop la tonico è internamente conseguente. Cfr. anche i rimandi di Hegcl a Proclo nella sua tra ttazione di Bruno (XI X 229, 237, 238, 241 [trad. it. III/ l, p. 217, 224, 226, 229]. Filosofia alessandrina = neoplaton ismo: 227 (trad. it., p. 215 ]) . 97 Accenni riguardo a q uesto in F. Tocco , Le opere Latine di Giordano Bruno esposte e confrontate con le Italiane, Firenze 1889, e nel la dissertazione, che può essere i n modo relativo usata solo come raccolta di materiale, di Julie Sarauw, Der Einfluss Plotins auf G. Brunos Degli Eroici Furori (Jena 19 16), e sopra p. 223. In torno a Ficino: A. Jugegno, Il primo Bruno e l'influenza di Marsi/io Ficino, in: «Riv. crit. Stor. Filos. », 23 (1968), pp. 149-70.
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della bellezza intelligibile, la questione della conoscenza come movimento ascendente (trascendente), diretto dall'Eros, la questione della possibilità della conoscenza in virtù dell'Uno che è in noi immanente, ed, inoltre, la questione delle idee nel pensiero divino, del concetto e della funzione dell'anima del mondo, della materia e dell'Uno come principio universale. Bruno esplicita quest'ultima parte nel quinto dialogo del De la causa. In opposizione a P latone, ma come far à più ta rdi Schelling, identifica l'Uno con l'i ntelletto supremo, tanto che per lui il concepito è «ad un tempo il concepente » 98 , dunque il pensare è uguale all'essere; una concezione che permane dalla recezione cristiana delle tesi filosofiche neoplatoniche in poi. Di conseguenza, aspetti esse nziali di questo testo, che era noto a Schelling attraverso gli estratti di J acobi, trovano verifica negli enunciati di Plotino intorno all'Uno e a llo Spirito. Ma essi sono anche interpretabili come un P armenide inteso secondo canoni plotiniani 99 • L'uno è tutto centro, ossia il suo centro è ovunque, la sua circonferenza in nessun luogo 1110 • Questo significa: l'Uno è l'origine che opera nel tutto, di modo che ogni singolo è un'unità, ma, ad un tempo, anche l'Uno è specchiabile a partire da esso, dal singolo stesso. 98
De la causa, 333: La prima intelligenza in una idea perfettissimamente comprende il tutto; la divina mente e la unità assoluta, senza specie alcuna, è ella medesimo lo che intende e lo ch'è inteso. Jacobi, 46. 99 C., 287. Jacobi, 40. I termini parmenidei in particolare all 'inizio del sa dialogo (p. 318): unità e immutabilità dell'universo ( = l'i6v pa rmenideo, nel quale non v'è vuoto). S., I 34, OL Il 2, 180: ens, potens et agens est unum: ita ur omnia sint unum, ut bene novit Parmenides unum omne et ens. Di certo contraddice il concetto parmenideo, come predicato dell'«illimitatezza». 100 C., 321: «Sicuramente possiamo affirmare che l'universo è tutto centro, o che il centro de l'universo è per tutto, e che la circonferenza non è in parte alcuna per quanto è differente dal centro, o pur che la circonferenza è per tutto, ma il centro non si trova in quanto che è differente da quella». Jacobi, 38. Bruno interpreta in modo puramente immanentistico l'affermazione del «Libro dci 24 filosofi» - Deus est sphaera infinita, cuius centrum esr uhique, circumferentia nusquam - la quale dovrebbe chiarire la dialettica 4! essere trascendente e operare immanente di Dio (anche il nusquam è ubique). Cfr. D. Mahnke, Unendliche Sphiire und Allmittelpunkt (Hallc 1937), pp. 49 ss. W. Beierwaltes, Platonismus und Idealismus, pp. 61 s. [trad. it., pp. 70 s.). Sul Liber XXIV Philosophorum cfr. anche il mio articolo in: Die deutsche Literatur des Mittelalters, V2 , pp. 767-770. Con una tendenza simile a Bruno : Anton Giinther , Januskopfe (Wien 1834), p. 408: «Il punto nella circonfereuza è sempre ed eternamente la fine del raggio, e questo è il centro prolungato, eli conseguenza la circonferenza e il centro sono essenzialmente una cosa sola o uguali nell'essenza».
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L'Uno è il «Padre»; egli compie la processione (np6oooç) in forma di «generazione», dispiegarsi della sua unità nel molteplice (nelle «sostanze particolari», in analogia con i numeri che scaturiscono dall'unità) 101 • Tuttavia, è e rimane uno ed «indivisibile». È un'«unità che nel discendere comprende l'intero» 102 ; «fonte di tutta la conoscenza» 103 , cioè fondamento della possibilità del sapere - Schelling definisce nel Bruno 104 la suprema unità «pri ncipio del sapere» - , ma noi giungiamo ad esso attraverso la «composizione del molteplice», in un' «unità del concetto». Detto con le parole di Plotino: attraverso la liberazione del pensiero dal molteplice, per «astrazione» (&qJ(Xtp<.crtç &ÀÀo-rp(ou n(Xv-r6ç, &cpe.À<. n&\rw.) 105 •
Dal momento che, nel Bruno, Schelling pone a tema l'identità assoluta, l'Uno che sta al di sopra delle opposizioni, egli assume di fatto alcuni aspetti dell'Uno p lotiniano e bruniano all' interno di un contesto caratterizzato in particolare dal pensiero trascendentale; tuttavia questo contesto persegue ancora le fondamentali questioni metafisiche inerenti al principio uno, e può così apparire, almeno per questa intenzione (che non può essere considerata puramente formale), sulla linea di Piotino e Bruno. La soluzione di Schelling si distingue da quella di Bruno - nonostante il suo riferirsi a questo - in alcuni aspetti essenziali. Una domanda che sempre torna e che da Schelling viene posta con forza anche nel Bruno riguarda il rapporto che l'unità assoluta ha con la molteplicità, o l'infinito con il finito reale: come giunge il finito a ll'esistenza? Schelling insiste sulla tesi che una «derivazione» del finito dall'infinito, un continuo passaggio dall'infinito al finito, non sia accettabile da una «vera filosofia» 106 • Perciò nella descrizione del nesso dell'identità
101
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C., 330. Jacobi, 42. !bi, 333: Così dunque, montando noi alla perfetta cognizione, andiamo com-
plicando la moltitudine: come, descendendosi alla produzione de le cose, si va esplicando la unità . !bi: e giamai credemo esser gionti al primo ente e universal sustanza ... Jacobi, 43 e 45. 103 Jacobi, 46. 104 B., 253. IOs Enn., V 3, 17, 38; I 2, 4, 6. 106 C irca questo problema: Platonismus und Idealismus, pp. 118 ss. [trad . it ., pp. 132 ss.].
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con l' «UniverSO» egli pone l'accento SUl SUO rimanere-in-sé. Il tentativo di mediare il movimento dell'identità verso l' «esterno», dunque la processione, con il rimanere all'interno cade qui in preda ad una aporia. Nel Bruno, l' Uno è sì !'«esterno ed invisibile Padre», o il «re ed il padre di tutte le cose» Io; ma «non toglie mai se stesso dalla sua eternità» 108 ; rimanen~ do così in sè, egli concepisce «infinito e finito in un unico ed identico atto del conoscere divino» I 09 • L'unità ha certo «reso divisibile» ciò che in essa «è indivisi bile» uo, dunque ha «posto» il mondo del fenomeno, e, con ciò, la forma, separatasi nel tempo dall'archetipo, senza tuttavia «ammettere e riconoscere» per questo processo inteso atemporalmente, «un qualche passaggio dall'infinito al finito» II I . Non essendo, dunque, pensabile una derivazione mediatrice, o un continuo passaggio dall'infinito al finito , nel quale l'assoluto spieghi se stesso in base alla propria spontaneità, Schelling cerca di risolvere l' aporia, che da ciò risulta, attraverso la metafora del «salto», dello «staccarsi», della «sospensione», della «caduta» 112 , o - nel Bruno - attraverso la categoria della «separazione» , dell' «isolamento» II 3 • Tale tipo di denominazione deve servire a chiarire che il fondamento di questo movimento non si trova nell'assoluto, ma nella liberatà di colui che si
·sola. La motivazione di tale libertà rimane, tuttavia, oscura. Quindi, il finito è, «attraverso il proprio volere, un Dio che soffre ed è sottomesso alle condizioni del tempo storico» II 4 • Vn siffatto peggioramento del finito non sarebbe stato pensabile per Giordano Bruno, dal momento che la processione dell'Ono dell'universo dall' Uno-principio costituisce certo la molteplicità infinita, ma non, in senso vero e proprio, la differenza, la quale potrebbe apparire autonoma rispetto alla sua stessa origine. L' «isolamento» del finito dall'infinito impedisce, per Schelling, di pensare che l'assoluto dispieghi spontaneamente se stesso, cioè la sua essenza, nell'ente (universo, mondo, finitezza) ad esso esterno e divenga, così, indistinto rispetto al tutto . La separazione non riguarda, quindi, l'essenza dell 'assoluto, è solo «posta con riguardo a ciò che è isolato da esso per se medesimo» 115 • L'esistenza del finito non dimostra , di conseguenza, che l'identità assoluta sarebbe realmente emersa da sè , ma solo che l'essere del mondo è, come finitezza, «già sempre» nella dimensione dell'infinito, nell'essere di Dio. Formulato in modo radicale, questo significa che tutto ciò che è, è l'assoluta identità stessaii 6 • La separazione non disturba, o non «turba», l'identità medesima, ma costituisce solo, come risultato, un' unità relativa, ormai «separatasi», ma riferita nei suoi elementi a se stessa e all'assoluto. Dunque, sebbene valga affermare che «la suprema unità» è «il sacro abisso da cui esce tutto e in cui tutto ritorna» - «tutto esce da lui e rientra
IO? B., 252 (riminiscenza di Platone, Tim., 28 c: rcot1J -r·~ç xo:1 no:-::~p -:ouos -roti no:v-;:oç). !bi, 320 (riguardo a questo [Plat.] Ep., II 312 e: mxv'twv ~o:crtÀsuç. Schelling cita la seconda lettera «platonica» , ad es. I, VI 28). Negli estratti di Bruno in Jacobi, [8] il «pad re e creatore» è l'anima del mondo , introdotta come enunciato di P lotino sul modo dell'«intelletto universale» (De la Causa, 232). Ios B., 252.
Ibidem. !bi, 280. Un contenuto simile si ha nella dialettica eckhartiana di indistinctum e distinctum. Cfr. sopra pp. 134 ss. I 09
IlO
III
fbi, 282.
Il confronto con P ldtino in: Platonismus und ldealismus, p. 122 ss . [trae!. it., pp. 136 ss .]. Il «passaggio dall'i dentità alla differenza», o la distruzione non im plica alcun «annullamento della identità» (Stuttgarter Privatvor/esungen, VII 424 [trad. it. d i L. Pareyson: F .W.J. Schelling, Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, Milano 1974, p. 146]). 113 Bruno, 257 s., 263 s., 279, 293. [trad. it. , pp. 63 s., 69 s., 93, 107] . Se l'atto d i separazione viene definito ciò «che turba l'universa uni tà» (264 [trad. it. p . 70]), allora con questa unità non può essere intesa l' unità assoluta, «nella quale» l' identico è «nulla di divisibile», dunque senza opposizione, ma un'unità relati va, nella quale il particolare (il separato) è in rapporto di opposizione all 'altro particolare. II2
II 4 Il fondamento della possibilità della caduta si trova nella libertà; il fondamento della realtà (della caduta) in ciò che è caduto: Philosophie und Religioi;, VI 40 [trad. it. di V. Verra: F. W .J. Sahelling, Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, Milano 1974, pp. 54-55]. Sulla relativa controversia di Schelling, con Eschenmayer, cfr. ibi, p. 28 s. [trad . it., pp. 45 s.]. Il s B., 285 [trad. i t., p . 93]. Ciò che qui Schelling dice sulla libertà di colui che, quale fon damento dell'esistenza del fi nito, si separa è in discrepanza con la concezione secondo cui l'unità suprema è «padre di ogni cosa», ma ancora PitÌ con la tesi, espressa nelle Stuttgarter Privatvorlesungen (18 10), per la quale l'inizio della creazione è un «ab bassarsi di Dio» al reale, una «contrazione» in questo. «Questo atto del limitarsi o abbassarsi di Dio è libero e volo ntario. Non vi è dunque altro principio di spiegazione del mondo all'infuori della liber tà di Dio» (VI 249 [trad. it., p. 149]) . Con ciò i tentativi schellinghiani di spiegazione dell'esistenza del fini to mostrano con chiarezza una tendenza volta alla «creazione». Cfr. in particolare i concetti, a ciò connessi, di amore e di «estasi» divina nei Weltaltern . 116 Darstel/ung meines Systems der Philosophie (1801 ), IV 16.
276
IDENTITÀ E D IFFERE ZA
in lui» 117 - , questo rapporto non deve essere, t uttavia, inteso come se l' assoluto si fosse differenziato tramite la stessa processione, cioè foss e proceduto verso una sfera a lui opposta. Lo stesso conoscere sé dell' assoluto non è comprensibile come un dividersi, un diventar opposto, o oggetto, a se stesso in soggetto ed oggettoll 8 • L'assoluto non ha, dunque, rinunciato all 'assolutezza a causa della processione del finito , non è, esso stesso, diventato differenza; piuttosto, nonostante l'«isoJata» esistenza del finito «differente» dall' identità, nonostante il mondo, come sua immagine rovesciata diventata reale, è rimasto ciò ch e è: pura identità, indifferenza. Ciò che è isolato e sta, come finito, in relativa differenza rispetto all'in finito , ha però il fondamento della sua unità dallo stesso assolutamente identico, dal quale s'è separato 11 9 • L'assoluto è presente in tutto, ma non come esso stesso, non come «intero» . È il fondamento, immanente al finito, del ritorno di quest' ultimo all'Uno 120 • Proprio lo sviluppo della questione dell'isolamento e del ritorno del finito mette in evidenza l'inadeguatezza del sospetto - nei confronti di Schelling - di panteismo grossolano , di un panteismo che identifica in modo di retto Dio e mondo. L'intangibilità dell'identità asso luta viene, da Schelli ng, chiarita anche per mezzo della metafora della luce. Il «semplice raggio, che dall' assolut o si diparte ed è l'assoluto stesso»l21, appare certo diviso in differenza ed indifferenza, in fi nito ed infinito, ma permane - nonostante la separazione del finito o nonostante la luce dell'originaria unità nel molteplice - «punto d'unità asso luto» di tutto ciò che è separato. La luce è in realtà «i nseparabile » dalla sua fonte e non può neanche agire sulla pienezza d'essere e sul modo d' essere della sua fonte. « .. .Identicamente la luce del sole nasce senza un movimen117 B. , 258 e 320 [u·ad. it:, pp. 63, 140]. Sul term ine «profondissimo abisso»: C., 285. Jacobi, 27. Un'altra strada di mediazione di ques ta concettualità si può imboccare con J. Bohmc (cfr. ad es. Quaest. 1heosophicae, Fr. 2, Werke, XVIII 3 ss. Vierlzig Fragen von der Seelen, Fr. l, l 08 e 120, Werke, IV 31. 34), per il qua le Schelling s'era interessato già relativamente presto. Cfr. il piano
prospettico del sistema nei manoscritti postumi di Schclling («Zcmrales Archiv der Akademie der Wissenscha ften der DDR», Berli n, Nachlass Sche/ling, K 4, 12). IIS Philosophie und Religion, VI 31 ; [trae!. it., p. 48]. 12o / bi, 320, 329 [trae! . it., pp . 140, 153]: «dissolvimento» nell'Uno. 121 /bi, 328.
scHELJJNG
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(mutamento) di questo stesso» 122 • Diversamente da altri testi, sco nosciuti a Schelling , gli estratti a sua disposizio ne della trattazione bruniana del concetto di unità avrebbero potuto condurlo più faci lmente, se li avesse seguiti in tutti gli aspetti, al concetto di un passaggio continuo dall ' Uno al mo lteplice e ad un'ulteriore assimilazione dell'Uno, pensato come principio, con l'Uno universo in sé infinito in modo molteplice. Sul filo conduttore del suo concetto di «isolamento», Schelling non ha , però, identificato il mondo con l'assoluto, e nemmeno lo ha paragonato al figlio di Dio 123 • Un a cosa simile sarebbe infatti da considerare una conseguenza dell ' indebolimento operato da Bruno dell a differenza tra la generazione intratrinitaria del Figlio e la creazione esterna del mon do. Rispetto a ciò l'insistenza di Schelling sul permanere interno, o sul persistere, dell' unità assoluta, sul mantenimento della sua indifferenza nei confronti della finitezza, appare proprio come una «ripetizione» intensificante della fondamentale concezione plotiniana: l'Uno è origine di tutto, ma permane come tale in sé. Solo ri manendo in sé (f.J.ov~) 124 gli è infatti possibile essere il centro di un cerchio verso il quale di nuovo ritorna (~mcr-.:pocp~) tutto ciò che s'è originato dalla processione. Propria de ll'Uno, questa processione (1rp6oooç) non equivale, di conseguenza, ad un «fluire» o ad una profusione dell 'essenza», come Schelling 125 potrebbe intendere il concetto di emanazione, nGn è vero e proprio uscire dell'Uno da se stesso : l'Uno è «dispiegato senza essere dispiegato» (~ç<-ÀtXl}~v oùx ~(<.):f]À tjf.J.Évov); «non supera i propri li miti, ma è immutabile, non devia da se stesso» (tÒ O~ OÙ JçC((ìE'.X~E'.~'ljXÒç ~WHO , &n' cXxÀWÈ.ç OV ~CY.V'tOV) 126 ; la «fo nte» rimane sempre fonte - ciò che la definisce è l'essere origine «permanente» - , anche quando «Si» dispiega. Una
10
122 Philosophie und Religion, VI 32 [trad. it., p. 49] (1804, all'interno di un di rett o conte to materiale com une al Bruno, cfr. la «prefazione» e alcuni rimand i di Schel!ing al dialogo). 124 Cfr. a riguardo W . Beierwaltes, Neoplatonica, in: «Pilil. Rundscham>, 16 (1969), p. 132. 125 Wesen der menschlichen Freiheit, VII 355. [trad . it. , p. 95]. 126 Enn., VI 8, 18, 18; VI 8, 9, 32 s. Il suddetto passo si trova nelle tradu:.doni, note a Sch lling, di Plotino di Windischmann: attraverso le linee che parton o dai centro del cerchio (tv) «l'assoluto appare ovunque, evoluto e, tuttavia, anche involuto» ( = testo 7 in Platonismus und ldealismus, p. 214 [trae!. it., pp. 243 s.]).
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IDENTITÀ E DIFFERENZA
cosa analoga avviene per le metafore di seme e radice, me~ diante le quali Plotino descrive la potenzialità dispiegata del~ l'Uno «prima» della sua processione, ma che potrebbe anche indicare la sua forza di conservazione «dopo» la processione. Per ciò che concerne il fatto che tutto ciò che ha avuto origi~ ne, inclusa la sfera del tempo che è nato da un «caso», rimane centrato nell'Uno, non è, nonostante la sua «lontananza», se~ parato da lui, si fa garante - come in Schelling, in modo funzionale - la metafora della luce: «che cosa dobbiamo pen~ sare di lui che è immobile (Uno)? Splendore tutt'intorno dif~ fuso, sì, da lui, ma da lui che se ne sta fermo, come, nel sole, lo splendore che gli fa quasi un alone d' intorno; splendo~ re che si rigenera, eternamente, da lui, ch'è fermo» 127 • Op~ pure: «il sole che ne è un'immagine, poiché esso è come un centro per la luce che si diffonde da esso: questa è ovunque, con lui e non si spezza, ma se tu vuoi dividerla in due parti, la luce rimane soltanto dalla parte del sole» 128 • La luce ren~ de evidente la paradossale unità di processione e permanenza. L'assoluta priorità dell'Uno origine, del centro, della luce sorgente rispetto a ciò che è originato, ai raggi e alla circonferenza (ciò che equivale alla cosa «illuminata») permette di affer~ mare che l'Uno è ovunque, ma anche assolutamente in nessun luogo, è tutto e, tuttavia, nulla di tutto e, dunque, il sovraesistente per eccellenza l29 . A parte gli intenti relativizzanti riguardo alla differenza, Bruno s'avvicina, come accennato, alla concezione plotiniana in quegli aspetti, in particolare degli scritti latini, che pongono in risalto l'assolutezza dell'Uno. Questi erano, tuttavia, del tutto sconosciuti a Schelling. All'Uno di Schelling, di Plotino e di Bruno è proprio, in modo analogo, il fatto d'essere difficilmente asseribile o d'essere incomprensibile 130 • La parola, precisamente, che cerca di dire l'Uno, è «presa dalle copie», e a causa della sua struttura di
127
v
l, 6, 27-30. I 7, l, 23-28. 129 In questo Plotino viene a convergere con il significato dell'asserto Deus est sphaera infinita, cuius centrum est ubique, circumjerentia nusquam , cfr. nota 100. 130 Schclling , B., 302 [trad. it.. p. 119]; Bruno, C. , 227, 285; Jacobi, 27; Plotino, Enn., V 3, 13, l e VI 9, 10, 19. 128
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differenza, nella quale vengono tenuti separati soggetto ed oggetto , non è adeguata ad esprimere l' indifferenza. L' indifferenza degli opposti o !'ev in sé senza relazione e senza opposizione esigono proprio l'intuizione intellettuale, consona all'unità, o l'estasi mistica come un medio dell'evidenza, preparato invero dal pensare discorsivo che tuttavia viene scavalcato 131 • L'intuizione intellettuale e l'estasi mistica non sono però un atto irrazionale di un sentimento che illude se stesso, ma il punto d'arrivo del tentativo di rendere conoscibile l'«incomprensibilità» dell'unità assoluta e quindi d'accertarsi intorno allo stato del finito rispetto all'assoluto. Negli abbozzi schellinghiani ai Weltalter (Le età del mondo) si afferma: «questa incomprensibilità di Dio ha il suo fondamento nel fatto che è un'essenza astrusa ... Inoltre si deve fare una distinzione tra comprendere e conoscere. Infatti incomprensibile è ciò che non può essere compreso, trascritto, incluso in un concetto, ma proprio ciò, l'actus purissimus, è in sé anche ciò che è in massimo grado conoscibile, poiché è identico alla materia purissima del conoscere» 132 • Sebbene in aspetti essenziali e in forme caratteristiche d'espressione si siano evidenziate delle affinità tra Schelling e Bruno, non si può certo dire che Schelling abbia portato avanti l'intento metafisica e cosmologico di Bruno in una direzione «panteista»; egli sembra, piuttosto, aver respinto, proprio mediante gli elementi che lo legano al filosofare neoplatonico, ciò che vi era di teologicamente eretico nel pensiero del «filosofo martire» 133 • Questo vale tanto per la concidentia oppositorum, pensata esclusivamente come struttura dell'assoluto e non anche dell'universo infinito-finito, come anche per il nesso di identità (di assoluto) e mondo. Nell'esplicazione dei propri contenuti Schelling non è sempre fedele alla tendenza presente nei testi di Bruno a lui noti; infatti per Schelling l'infinito, in quanto indifferenza di tutte le opposizioni, mantiene se stesso in opposizione assoluta con il mondo, quand'anche non senza il mondo e questo non possa essere senza l'assoluto infinito. 131 Per Bruno ad es. E., 987 ss. W. Beierwaltcs, Actaeon. Zu einem mythologischen Symbol Giordano Brunos, in : «Z. f. phil. Forsch.», 32 (1978), pp. 345 ss. 132 Die Weltalter, a cura di M. Schròter (Miinchen 1946), p. 220. 133 J.G. Hamann, Lettera a J.G. Steudel, 4 maggio 1978 (ed. Roth, Leipzig 1825, VII 414).
Hf;GEL
II. Differenza, negazione, identità. Il movimento riflessivo della dialettica hegeliana
Le riflessioni sinora proposte intorno alla tradizione platonica hanno, per diversi aspetti, rimandato alla dialettica di Hegel tanto dal punto di vista del contenuto quanto dell' influsso sto- -· rico: questa forma del filosofare dovrebbe essere intesa come prosecuzione affermante, trasformatrice e critica d'una concezione dello spirito che si compie nel cooperare in unità di identità e differenza, unità e molteplicità. Nel contesto di un concetto ermeneutico di metodo , il punto di contatto nel contenuto e nella forma del pensiero era, ed è, costituito ad esempio dai concetti di concreta totalità, triplicità, unità _degli opposti, nflessione assoluta.
l. Connessione fra negatività e differenza Nella prospettiva di un'ampia ricerca storico-terminologica e concettuale, dovrebbero essere analizzate, in particolare nell'ambito della differenza, le nuances di significato di alterità, distinzione, opposizione, contraddizione, negazione, separazione e limite a seconda che il loro luogo sistematico sia, di vo lta in volta, nella Logica o nell'Enciclopedia. Per il presente scopo considero giustificato l'uso indistinto di differenza ed alterità; entrambe sono determinate da una negazione che dirime e pone dei limiti. L'identità deve essere ricondotta al concetto d'unità e, come tale, essere intesa nelle sempre diverse sue modificazioni: identità come forma attiva, cioè riflessiva ed intellettiva, d'unità, connessa alle singole dimensioni della realtà e all'intero in qualità di sistema che si costituisce da sè (dal concetto). In ogni caso, ai concetti di identità non dovrebbe essere associata l'identità
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vuota, morta, arida, astratta; questa deve essere pensata, nel senso di Hegel, come identità da superare. Essa caratterizza la costituzione ed il procedere formale della filosofia dell'intelletto, che argomenta, secondo la sua essenza, in modo dialettico 1 • Rispetto a ciò l'identità - sia detto preliminarmente - che parte dal metodo dialettico deve essere pensata come identità concreta o in sé dialettica 2 • Per essa, costitutive sono differenza, negazione e contraddizione: essa s'unisce a se stessa a partire dalla differenza, dalla negazione e dalla contraddizione; è automediazione della separazione (superata). Tutto questo verrà a mostrarsi, in particolare, nel nesso di concetto ed idea. L'identità si chiarisce solo nello «specchio» della differenza. Ma la negazione non è né materialmente né concettualmente separabile dalla differenza. Come momento essenziale della differenza - l'alterità è non essere - , essa fon da il «movimento del contenuto» e, ad un tempo, lo mantiene o Io muove. Sebbene la dialettica, quale movimento del contenuto, favor isca il concetto di processo, si rende, tuttavia, plausibile in questa prospettiva un legame reale con il pensiero platonico e neoplatonico: il rapporto dell'Uno con il molteplice (in termini platonici: il comune cammino del molteplice verso un èidos o la comprensione del molteplice a partire da un eidos o dall'Uno) diviene una proiezione del sistema, e allo stesso modo lo diviene il dispiegarsi del molteplice dall'Uno-Principio, il quale sarà tuttavia, per «riduzione» (riconduzione), una realtà una nel molteplice, un'identità nella differenza. La differenza tra · la concezione hegeliana di questo rapporto e quella platonica sta - come accennato - essenzialmente nella storicità, o processualità, di essere e pensare (sapere, comprendere). Mentre l' idea platonica o il nous plotiniano sono «sempre» ciò che «già» sono - perfetta realtà, che non viene determinata dalla storia -, l'idea in Hegel è «solo alla fine» ciò che deve o 1 Ad es. Enc. (1830), § 74 e prefazione p. 6 [trad. it. di V. Vena, op. cit. p. 91]; § 573 nota, p. 460, l. Logik, Il , pp . 26 ss . 237 [trae!. it., pp. 32 ss., 244] . Religion, XV , p. 163; XVI, p. 236. Filosofia dell 'intelletto: Kant quale suo prototipo; compiuta filosofia dell'intelletto come «fine» della «metafisica» dogmatica «dell'intelletto» (XIX, p. 610 [n·ad . it., op. cit., III/2, p. 339]). Cfr. anche l'introduzione a Fede e sapere [trad. il. di R. Bodei, op.cit., pp. 123-135]). 2 Cfr. ad es., Logik, II, pp . 239 s., 327 s., 410 s., 485 [trad. it., III, pp. 41 s., 149 s., 247 ss., 336].
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può essere, ma è, ad un tempo, ciò che «già» era. Nel dispiegarsi, l'identità, o unità, viene raggiunta come risultato del movimento, ed essa è identità vera, assoluta, mentre nell'ambito del molteplice - ad esempio, nel nous atemporale - l'unità è, nei confronti dello stesso Uno, unità non vera, ma solo analoga (simile dunque all'origine, ma determinata in sé e rispetto a questa dalla differenza): identità dinamica. L'affinità tra le due concezioni ha un ulteriore fon damento nel modo con cui si compie ' l'identità: in un senso sempre diverso, nella riflessività assoluta3. Dei possibili aspetti del problema dell' «identità e della differenza» deve essere posto in risalto quello metafisica e quindi nel senso di Aristotele - «teologico». Riandando, di nuovo, con lo sguardo ai concetti trinitari di Mario Vittorìno e di Cusano si ripropone la domanda riguardo al modo con cui il nesso dì unità e molteplicità, identità e differenza, medesimezza e alterità, o separazione, è per Hegel costitutivo dell'essere e del movimento della Trinità. Ad un tale quesito si può in una certa misura dare una ri sposta solo se, da una parte, (a) la struttura metafisica della logica hegeliana, la quale implica l'elemento teologico, e, dall'altra, (b) il superamento della religione nella filosofia vengono resi e mantenuti coscienti mediante la filosofia hegeliana della religione . Con questo aspetto della questione né si deve né si può risolvere il carattere trascendentale della logica e della filosofia della religione. Io voglio, tuttavia, assumere con estrema serietà la caratterizzazione data da Hegel alla struttura metafisica della logica e della filosofia della religione, di modo che non mi inquieti la facile accusa d'aver proposto un'interpretazione «eccessivamente metafisica». Il peso della dimostrazione spetta a coloro che o girano intorno alle relative affermazioni di Hegel o le interpretano in modo puramente trascendentale, logico-riflessivo. Anche qui sì potrebbe mettere in evidenza il fatto che la logica hegeliana ha un tratto storìco-dialettico, mediando, essa, tra metafisica e filosofia trascendentale 4 • Su questo problema in Plotino e nel tardo neoplatonismo , cfr. sopra pp. 58 s. - Non adopero i termini «riflessione» e «riflessività» nel senso limitato della «logica oggettiva», ma col significato di «pensare a se stesso», di «nesso pensante di sé» o di «ritorno del pensiero a se stesso». Non si deve in ogni caso associare l'aspetto negativo della «filosofia della riflessione». 4 Deve essere provato in modo argomentativo come la realizzazione storica del3
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IDENTITÀ E DIFFERENZA
z.
La struttura metafisica della logica di Hegel
Anzitutto deve essere spiegato il significato della presente tesi: la logica di Hegel ha, per quanto riguarda lo stesso contenuto, uno stretto rapporto con la metafisica. Il fatto di comprendere l'unione di «logica e metafisica» come un asserto sul carattere della filosofia hegeliana nel suo complesso, ha la sua origine da un intento' storico-filosofico. Questo è rivolto a quel luogo storico nel quale la logica è passata nella metafisica, e viceversa. «La logica oggettiva ... prende il posto della metafisica di una volta, come di quella che era l'edifizio scientifico sopra il mondo, da innalzarsi solo per mezzo di pensieri» 5 • Tale affermazio ne di Hegel non proviene, in alcun modo, da una semplificazione della problematica sin qui trattata, e nemmeno annuncia una soppressione dei limiti delle discipline. Essa indica, piuttosto, una trasformazione della logica secondo una prospettiva metafisica, ma, nello stesso tempo, in modo universale della metafisica a partire dal concetto logico. Sino ad Hegel, la logica era pensabile come logica cosiddetta formale, la quale aveva ad oggetto le regole e l'esatto funzionamento del pensare. Come tale era nella sua essenza determinata dal rapporto dì soggetto - oggetto e, così, quale metodo che oggettiva e procede strumentalmente, era in un certo modo esterla logica hegeliana abbia sintetizzato in una teoria unitaria le questioni che riguardano la trascendentalità della coscienza o del pensare con quelle dell'onto-teologia. A differenza di D. Henrich mi sembra che, «insieme a ciò che è connesso con la dottrina metafisica di Dio» , l'assoluto, quale principio e fine della logica, non solo non sia eliminabile, ma sia, insieme all'evoluzione del movimento di riflessione, il suo vero e proprio punto di divinazione. Solo con difficoltà si può, in opposizione all'espressa indicazione hegeliana, sostenere un ' interpretazione fondamentalmente «non metafisica» della logica (a riguardo cfr. il seguito). Inoltre la realizzazione della concezione «enciclopedica» di fondo, quale cerchio dei cerchi, mostra che anche nella logica - come in ogni forma diversa della sfera enciclopedica - ciò che è in questione è l'assoluto. Questo non è messo acriticamente dinnanzi alla logica come fosse un «dogma»; anzi è il contenuto, che inizia con essa stessa, della logica che si legittima nel movimento ri flessivo dell'oggetto. 5 Logik, I, p. 46 [trad. it., I, p. 49]. Di una particolare interpretazione necessiterebbe la presente quest ione: come si distinguono gli aspetti, e che cosa hanno in com une quelli tra i quali Hegel, a partire dalla logica dell'essere, dell'essenza e del concetto, vede di volta in volta la «metafisica» come una posizione della coscienza che deve essere sottoposta alla critica, ma anche che termina nella Logica come momento della storia e del contenuto stesso. La pretesa di Hegel che la logica nella sua totalità debba essere il superamento critico della metafisica non viene co ntraddetta da un pu nto di vista sempre diverso (cfr. nota 8).
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na all'oggetto del pensiero. Ma poteva anche riflettere - come nel significato dato ad essa dalla critica kantiana della ragione - la possibilità o le condizioni del pensare: le forme dell'intuizione, le categorie e le idee di questo. La logica era, quindi, fissata ad una descrizione della possibile attività del soggetto. Come ancora verrà posto in evidenza nelle nostre riflessioni, rispetto a ciò Hegel, in punti decisivi, ha, insieme al concetto della logica, modificato anche quello di meto do: la reciproca estraneità di metodo e contenuto diviene «interno muoversi del suo contenuto» 6 • Ciò viene già ora a chiarire che la logica si basa, in un modo del tutto nuovo rispetto alla tradizione (parmenidea), sul principio di pensare ed essere, o concetto e contenuto, di modo che il pensare possa essere inteso come il movimento riflessivo dell'essere e l'essere come interpretazione pensante di sé. Il compito della logica consiste nell'analizzare proprio questo modo di appartenersi di concetto e contenuto, essere e pensare, realtà e pensiero. «Essa contiene (come scienza pura) il pensiero in quanto è insieme anche il contenuto in se stesso, oppure il contenuto in se stesso in quanto è insieme anche il puro pensiero. Come scienza, la verità è la pura coscienza che si sviluppa, ed ha la forma del sé, che quello che è in sé e per sé è concetto saputo, e che il concetto come tale è quello che è in sé e per sé» i. In questo contesto - sia qui anticipato ciò che verrà detto nella trattazione seguente - non viene con «Concetto» indicata esattamente la formulazione astratta di un contenuto, da esso stesso risolvibile, ma, piuttosto, l'atto riflessivo dello stesso contenuto: il suo concepire se stesso. Poiché l'atto del concepire comprende sempre qualcosa, e ciò che viene compreso è lo stesso contenuto, il concetto concepente e il concepito sono nel contenuto identici. La possibile rappresentazione di un concepire, esterno rispetto al contenuto da esprimere, e della relativa concordanza, caratterizzata in modo sostanziale dalla differenza, è, anche nel concetto di «verità», posta a favore d'una unità di pensare concepente e contenuto da concepire, la quale si rende totalmente manifesta e supera se stessa. Pensare, concepire, sapere sono facoltà di alcuni momenti della ragione, in 6 i
Logik, l, p. 35 [trad. it., I, p. 37]. !bi, pp. 30 s. [trad . it., l, pp. 32 s.].
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cui la ragione, quale «fondamento» universale, espone se stessa. La logica diviene così l'analisi di queste facoltà della ragione, concepite, tuttavia, non come «pure forme» del pensare, come concetti riflessivi della soggettività, ma come strutture concettuali della cosa o dell'essere, come forme esistenti di riflessione. II pensiero, la ragione e lo spirito penetrano, secondo Hegel , Ja realtà nel suo complesso. È perciò solo una conseguenza, se la logica, quale scienza del pensiero o dello spirito, ne fa, in base al suo nesso effettivo con la metafisica e con la sfera «teologica» di questa, il proprio oggetto. «La logica è ... da intendere come il sistema della ragione pura, come il regno del puro pensiero. Questo regno è la verità, com'essa è in sé e per sé senza velo. Ci si può quindi esprimere così, che questo contenuto è la esposizione di Dio, com'egli è nella sua eterna essenza prima della creazione della natura e di uno spirito finito» 8. Questo asserto spiega, in riferimento al contenuto, l'affermazione storico-filosofica di Hegel, secondo la quale, cioè, la logica è subentrata, in un senso determinato, alla metafisica, e la funzione della metafisica prosegue ora in modo più adeguato, dal momento che, sinora, la logica non poteva per sé pretendere d'avere a contenuto la rappresentazione di Dio. Questa pretesa non può essere avanzata neanche a proposito della critica kantiana della ragione, la quale ha pensato Dio come idea della ragione, come postulato della ragion pratica; e, come tale, essa rimane una forma del pensare del soggetto, con la quale quest'ultimo sembra poter viver meglio che senza di essa. La logica di Hegel concentra, invero, la sua attenzione anche su tutte le categorie che sono state tradizionalmente sviluppate dalla logica: essere, esistenza, finitezza, infinitezza, quantità, qualità, identità, differenza, contraddizione, opposizione ecc. Infatti, essa persegue - nonostante l' epoché critica nei riguardi della sua tendenza all'aggettivazione - lo stesso intento della filosofia trascendentale, ma all'interno di un nuovo contesto. Ma anche altre formulazioni della questione, che, tradizionalmente, sono state soprattutto oggetto della metafisica, essa include in sé: ancora una volta l'essere, l'essenza, identità e differenza, realtà e fenomeno, sostanza e soggetto, s !bi.. p. 31 [trad. it. , l , p. 32].
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l'idea, l'assoluto, l'idea assoluta. L'analisi dì ogni categoria, tanto dì quelle «Un tempo logiche», come di quelle «un tempo metafisiche», è interamente determinata dali ' universale orizzonte concettuale di un'unità di pensare ed essere. Tutte le categorie, che secondo la tradizione sono specificamente logiche - tra le altre, in particolare il concetto, il giudizio, il sillogismo - , divengono strutture o momenti dell'essere nel suo complesso, forme, nelle quali l'essere comprende, giudica se stesso e conclude in un sillogismo. Coinvolgendo anche il momento teologico della metafisica, la logica viene ugualmente a concepirsi come scienza del «concetto divino» o del «conoscere divino» 9 • Proprio sotto questo punto di vista la logica si rivela come una logica trasformata in metafisica, o una logica che supera e persegue criticamente in se stessa questa, in quanto, come metafisica, considera, al modo dell'autoriflessione assoluta, l' essere come Dio o Dio come l'essere. La logica non sviluppa, nel concetto divino che comprende se stesso, solo la «pura personalità», ma anche la concezione del determinare se stesso o della libertà assoluta. Come si mostrerà, l'assoluto che concepisce se stesso ha, certo, in se stesso tutti i momenti che esso stesso ha percorso per diventare ciò che è, benché questi non superino l'essere in e per sé dell'assoluto, dunque la sua autonomia e libertà, ma li costituiscano. L'essere in sé e per sé assolutamente libero dell'idea equivale al concetto della personalità o dell' assoluto essere io .
de. Lo scopo del filosofare hegeliano consiste, quindi, nella trasformazione completa della realtà nel concetto. Nel procedere di questo movimento, anche il fenomeno della religione viene superato nella riflessione filosofica; come sfera dello spirito assoluto, la religione trova, al pari dell'arte, il suo compimento nella filosofia. «Superamento» non significa distruzione di queste sfere, ma il loro determinarsi a momenti necessari della filosofia, come il venire a se stesso del concetto. In quanto realtà singole e reciprocamente diverse, i fenomeni hanno il loro kairos in ogni situazione storica; ma, quest'ultimo spinge al di là di sé, verso la forma più propria al concetto o verso il concetto stesso. L'autosuperamento della religione nella filosofia è già preannunciato nel fatto che la religione è solo «mediante il pensare e nel pensare» 11 , poiché Dio è il supremo pensiero esistente. In opposizione al convincimento paolinoluterano secondo cui l'uomo diviene «giusto» (giustificato) solo mediante la fede, H egel insiste sulla concezione per la quale la religione riceve la sua giustificazione solo «dalla coscienza pensante», dunque nella filosofia 12 • «Quando il tempo è compiuto e la giustificazione mediante il concetto è un'esigenza, allora non vive più nella coscienza immediata, cioè a dire nella realtà , l'unità dell'interiore e dell'esteriore, ed essa non è più giustificata nella fede » 13 • L'intento della filosofia di mediare tutta la realtà immediata o astratta attraverso il concetto, si rivela anche nel rapporto che la fi losofia ha con la religione o la fede: se non s'apre al concetto, fine del proprio movimento, la fede rimane, come sapere immediato , inviluppata nel fi nito, nel sentimento e nella sensazione. Lo sco po che Hegel si prefiggeva nelle sue lezioni sulla filosofia della religione consisteva allora anche «nel conciliare la ragione con la religione» 14 • Se la filosofia non solo supera in sé la religione, ma la legittima in quanto tale - come momento dello spirito assoluto -, allora si può, a buon diritto, porre la questione -che riguarda la loro reale comunanza nell'ambito dell'oggetto. Partendo
3. Superamento della religione nella filosofia Dall'intenso nesso della logica con l' ambito reale della «teologica» metafisica diviene possibile comprendere in modo completo lo stretto legame che unisce religione e filosofia. Essendo il metodo «il concetto che si esplica», ... «e questo è solo Uno», «anche in tutta la scienza» vi può «essere un solo metodo» 10 • Come concetto che si esplica, è la filosofia a pretendere d'essere questo metodo. Essa pone, infatti, in rapporto con se stessa tutti gli ambiti della realtà e della scienza, mentre li compren-
11
!bi, p. 62. XV I, pp. 350 s., 353 [trad . it., II , pp. 421 s., 424]. 13 lbi, p. 355 [trad. it., Il , p. 425]. 14 Ibidem . 12
! bi, II , pp . 505 e 506 [trad . it. , III , pp. 360 c 361 ]. o Religion, X V, p. 59.
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da una parte, ad asserire che l'elemento emozionale, o rituale, di ciò che è religioso ha un ruolo attivo, ossia che la filosofia è «di fa tto servizio di Dio» 21 , e, dall'altra, a stabilire, tuttavia, uno stretto legame tra la religione o la filosofia della religione e la logica. E la logica non è solo il presupposto, ma un momento essenziale, cioè materialmente determinante, della filoso fia della religione. II suo oggetto è detto, nel linguaggio della logica, «idea assoluta», la quale è spirito che sa 22 , che riflette se stesso; come «idea» assolutamente «concreta» 2\ essa implica tutte le determinazioni del pensiero in cui si spiega l'idea logica, ma le oltrepassa in quanto «concilia», o media, il loro manifestarsi nella natura e nella storia con se stessa, quale loro inizio. Se, dunque, la domanda circa la funzione dell'identità e della differenza deve essere perseguita all'interno della speculazione trinitaria di Hegel, allora non solo è legittimo, ma è persino necessario comprendere, a partire dalla logica, quell'aspetto di tale questione che è proprio della filosofia della religione. Ciò significa anzitutto: il concetto di Dio, cioè di uno spirito che riflette se stesso, e si spiega trinitariamente in natura e storia, deve essere concepito a partire dal concetto logico di idea assoluta e dal metodo ad esso legato della dialettica 24 . Solo così si verifica la tesi dì Hegel: «la filosofia si rende esplicita solo in quanto rende esplicita la religione e, rendendosi esplicita, fa esplicita la religione» 25 • Affermare che il concetto hegelìano di idea si differenzia in modo essenziale dall'idea di forma platonica o lockiana, e che con esso non si intende né il veì·o essere, come esistente forma sensibile, né la semplice rappresentazione della coscienza finita, è in sé una banalità. Tuttavia, è realmente utile, per un'adeguata comprensione storica di «idea», tenere presente, ora come contrasto rispetto ad Hegel, ora come aspetto principale di quella tradizio ne che Hegel intende continuare, soprattutto la concezione platonica di essa come dell'essere sempre identico a se stesso, immutabile nel tempo e nella storia. Da questo
dalla suddetta intenzione Hegel spinge la comunanza sino all'identità: il loro oggetto «è la verità eterna nella sua stessa oggettività, Dio e null'altro che Dio ed esplicazione di Di0»1s. Tanto nella religione come anche nella filosofia, lo spirito entra in relazione con il suo «interesse supremo»: con lo spirito, o con se stesso, nella sua forma assoluta. La ragione, o lo spirito, o lo spirito divino, sono, di conseguenza, contenuto di entrambi 16 • Questo implica che la religione non può essere ridotta alla morale razionale, nel significato che Kant dà a questa, né che deve sciogliersi in indole, in sentimento, in sensazione, in cuore 17, cosa che H egel sempre mette in evidenza come pericolo dell'impostazione di J acobi. La religione è, all' opposto, solo nel e mediante il pensiero, perché Dio non viene esperimentato e rappresentato come la sensazione suprema, ma pensato come il «concetto supremo» 18 . Analogamente alla fi losofia, la religione è, perciò, elevazione pensante della soggettività finita all'assoluto; la fede, come forma iniziale di religione, trapassa in un saper intorno a Dio. Dio diviene senz'altro manifesto, nella misura in cui si sa nello spirito fìnito 19 e questo, attraverso di Lui, si sa in se stesso. Nella concezione di un Dio che diviene, nella manifestazione totale di sé, pienamente conoscibile anche allo spirito finito 20, il telos hegeliano d'una filosofia della religione si distingue in modo essenziale da una filoso fia congetturale (Cusano) e dal metodo d'una dialettica negativa (neoplatonismo), sebbene anche queste credettero che la ragione o la riflessione argomentativa (elevazione pensante) fosse assolutamente necessaria sulla via che porta all'assoluto. La convinzione che l'oggetto stesso sia penetrabile e formulabile rimane l'elemento diversificante al' lorché Hegel crede di poter rischiarare con il pensiero il mistero. L'identità dell'oggetto della religione e della filosofia conduce, 15
XV, p. 21 [trad. it., l, p. 86].
16
!bi, p. 34 [trad. it., l, p. 97].
17 Come. segno di un qualcosa di antagonista rispetto alla ragione e allo spirito, la metatora «cuore» è per Hegel senza senso; comunque è accettata nel senso pascaliano di raison du coeur: un «cuore dello spirito» o lo spiri to «comandato alla potenza del cuore». 18 Religion, XV, p. 62. !9 XVI, p. 192. 20 !bi, p. 352.
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21
XV, p. 21. XVI, p. 209; XV, pp. 98 e 28. 23 XV, p. 28 [trad. it., l, p. 89]. 24 !bi, p. 47. 25 !bi, p. 21 [trad. it., I, p. 86]. 22
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punto dì vista, inoltre, è degno di nota che l'interesse di Hegel non sia tanto diretto a idee o concetti, ma all'idea e al concetto. I momenti molteplici e diversi del pensare e del concepire · vengono assunti come elementi che costituiscono un'unica forma, di modo che proprio l'idea ed il concetto possano fungere da paradigmi del rapporto dell'identità con la differenza, dell 'unità con la molteplicità.
4. Idea, concetto e movimento dialettico come elementi della «teologia» hegeliana
Concepito come attivo, e non come risultato di un'astrazione logico-formale tendente ad una definizione, il concetto è la forma attraverso la quale il pensare comprende, sì, se stesso, ma nei suoi oggetti o nella sua oggettività. Questo atto penetra ciascuno dei suoi elementi sino al tutto da pensare, tanto che ciascuno dei momenti è anche il tutto che egli stesso è 26 • Il comprendere se stesso del concetto è, dunque, la sua propria genesi; ed il «contenuto» nel quale comprende se stesso, e lo comprende in quanto tale, è determinato da un movimento dialettico-progressivo. La via di questo movimento, o il «creare» del concetto, va incontro ad una totalità intensiva 27 : tutto ciò che è differente e si mostra nel «contenuto» viene mediato reciprocamente e in direzione dell'intero, o superato in esso. Ciò non significa, certo , che la differenza come tale venga tolta; al contrario, quale elemento costitutivo di ciò che è diventato intero, si mantiene in esso . Solo essendo una tale mediazione di se stesso, mediazione che contiene tutto il pensato ed il da pensare, il concetto rappresenta «l'assoluta identità con sé» 28 • Solo mediante il concetto l'identità è identità concreta, l'assolutamente concreto 29 : tutto ciò che è astratto, vuoto, indeterminato è·in sé determinato dalla determinazione negatrice ed è mediato con ciò che è ( = il suo) altro, o è unito nel concetto. Il concetto dunque esaurisce tutto il non Enc., § 160; p. 15 1, l ss. Logik, li, p. 504 [trad. it. , III , p. 359] . 28 !bi, II, p. 240 [trad. it., III, p. 43]. 29 Enc., § 164; p. 153, 15. 26
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vero (in quanto astratto) e, dal momento che è questo movimento verso la concrezione e la mediazione assoluta, è, ad un tempo, l' accadere della verità. Dall'impostazione di questo concetto, dal movimento o dal precedere del contenuto , emerge con chiarezza che, nel contesto hegeliano, verità non significa, primariamente , una operazione dell'intelletto, che conduce ad un giudizio astratto, ma con essa, piuttosto, si deve intendere un carattere fondamentale del concetto che concepisce se stesso. «Il vero» è (solo) «l'intero». «Ma l'intero è soltanto l'essenza che si completa mediante il suo sviluppo» 30 • Se l' assoluto deve essere identico (ciò che sarà da mostrare) al concetto assoluto, o all'idea assoluta, allora di esso bisogna affermare che «è essenzialmente risultato, e che solo alla fine è ciò che è in verità» 31 • E tuttavia la sua verità sta nel fatto che l'assoluto diviene uguale a se stesso o nel fatto che è l'identità di sé in movimento. Essa non gli si fa incontro come se venisse dall' «esterno» - allo stesso modo che l'enunciato su di una cosa viene pensato spettante a questa -, ma è la sua essenza ed è, dunque, identica al metodo in quanto procedere riflessivo dello stesso contenuto. La verità è, quindi, compiuta mediazione con se stesso: la definizione classica di verità, veritas est adaequatio rei et intellectus, o intellectus ad rem , viene trasformata nel movimento del concetto immanente al «sistema» che si pensa. In esso è superata la differenza , in caso contrario possibile, di realtà e concetto: entrambi «corrispondono» reciprocamente (adaequatio come correspondentia! ). Il concetto s'è, come tale, realizzato, ha raggiunto !'«esistenza» come sua verità. È ora opportuno determinare in modo più esatto il rapporto del concetto con l'idea. Da una parte, il concetto non è, all'interno della sfera ad esso propria della logica, pensato come realtà compiuta, tanto che esso deve innalzarsi all'idea, ma, dall'altra, l'idea assoluta non può essere pensata senza concetto: in essa il concetto diviene identico all'oggettività o alla realtà da esso stesso intesa. La riflessività, nella quale l'idea media sé con tutte le fo rme logiche in essa contenute, è il lavoro del concetto. L'idea può, perciò, essere concepita come l' «uni-
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30
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Phiinomenologie, Vorrede, p . 21 [trad. it., Prej. , p. 15]. Ibidem.
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lDE~TlTÀ E DIFFERENZA
tà assoluta del concetto e dell'oggettività» 32 ; e oggettività, in quanto il concetto compiuto è il contenuto stesso in sé e per sé esistente oggettività, trasformato in soggettività da astratto essere in sé (fissato). Nell'idea la sostanza è diventata soggetto assoluto 33 • Essa, di conseguenza, è tanto l' «unità del concetto e della realtà effettiva», come anche il «concetto liberato» rispetto alla sua «soggettività» 34 • L' autocostituzione del soggetto-oggetto assoluto, nel quale la soggettività è diventata del tutto oggettiva (reale) e l'oggettività del tutto soggettiva (riflessiva, pensante) , dunque l'identità di essere e pensare come fecondissima mediazione della realtà iniziale immediata, riconduce di nuovo al concetto di verità. Con l'espressione «l'idea è il vero in sé e per sé», o «l' idea è la verità», si intende, perciò, che il concetto ha raggiunto nell'idea la sua oggettività, è diventato assoluto accordo con sé e, solo allora, «vera realtà effettiva». Questa è, tuttavia, soggetto, o «spirito» 35 • Dal momento che il concetto nell'idea, o come idea, si identifica con la sua oggettività o si assimila ad essa nel processo del divenire di sé, l'idea è il concetto «adeguato» (il vero in quanto tale) 36 • In un richiamo oggettivo alla concezione aristotelica del pensar-si divino, l'idea è, secondo Hegel, il concetto assoluto, che è in armonia solo con se stesso e, grazie a ciò, contiene in sé tutta la realtà. Solo l'idea assoluta, come concetto assoluto, «è essere, vita che non passa, verità di sé conscia ed è tutta la verità» 37 • L'elemento platonico di questo pensiero si evidenzia nel fatto che l'idea «sola» viene intesa come «quel che è veramente reale» 38 , ma è questo solo in quanto comprende se stesso. Hegel - detto storicamente ha, così, «dato un soggetto» all'idea platonica come a ciò che è veramente essere o è reale nel concetto e, ad un tempo, ha 32 33
Enc., § 213; p. 182 , 4 s. C fr. Phiinomenologie, Vo rrede, pp. 19 s. [trad. it. , Prej. , p. 13 s. ]: sull'in-
tento generale di H egel di concepire la sostanza come «Soggetto», in modo di opporsi all ' astratta separazione di soggetto e oggett o. 34 Logik, II, pp. 409 e 411 [trad. it., III , p . 245 c 247]. 35 Enc., § 213; p. 182, 31. ' 6 Logik, II , 407 s. [trad. it ., III , pp. 243 s.]. 37 !bi, p . 484 [trad . it., III, p. 335]. A riguardo cfr. le riflessioni connesse alla cusaniana visio absoluta, pp . 173 s. 38 Aslhetik, I, p. 116 (Basscngc) [trad . it ., p. 128].
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trasformato l'aristotelico pensiero del pensiero nell'automovimento riflessivo dell'idea assoluta 39 • Questo automovimento dell'idea verso la più concreta o ricca totalità soggettiva è, a partire dalle singole fasi dell'evoluzione, costituito da una negatività produttiva che prosegue il processo, da concepire come unità dinamica o come identità nella differenza. «L'idea è essenzialmente processo (non sostanza), poiché la sua identità è soltanto l'assoluta e libera identità del concetto , in quanto essa è la negatività assoluta e perciò è dialettica» 40 • L'elemento «identificante» di questa identità è la riflessione, il pensare o il concepire. L'idea è, du nque, il «pensare semplicemente identico a sé», verità conscia di sé, concetto supremo e «assoluto» 41 • No~créwç v6Tjcrtç è l' idea (logica) assoluta, infatti essa «intuisce» nella forma del concetto il «proprio contenuto come se stessa. Essa è contenuto a se stessa, in quanto essa è il distinguersi idealmente di sé da sé, e l'uno dei distinti è l'identità con sé, nella quale però la totalità della forma è contenuta come il sistema delle determinazioni del contenuto»42. L'autodistinguersi dell'idea in sé non distrugge, dunque, la sua identità, ma addirittura la costruisce. Nel distinguere sé, l' «idea che pensa se stessa» 43 non rimane ferma alla differenza rispetto al suo cominciamento riflessivo, riferisce piuttosto l'altro in essa, come suo altro a se stessa, e ne fa, di conseguenza, sua proprietà. Per questo l'idea è anche «infinito ritorno» a se stessa 44 • Secondo il rapporto fo rma e contenuto, questo significa: la forma non si rende indipendente nei confronti del contenuto, e viceversa, la forma e il contenuto costituiscono piuttosto, riflessi l'uno nell'altro, una unità o identità che non si scioglie. In connessione con il concetto-idea deve essere, ancora una volta, posta l'attenzione sul concetto di metodo. Esso permette di chiarire sostanzialmente il primo. Hegel pensa che sia 39
Cfr. sopra p. 202 ss.
Enc., § 215; p. 184, 36 ss .. 4 1 Il>i, § 18; p . 51 , 3 ss. § 574; p. 462, 2 ss. Logik, II , p. 484 [trae!. it. , III, p. 33 5]. Re!igion, XV , p. 62. 42 Enc. , § 237 ; p. 194, 13 ss . 43 !bi, § 236; p . 194, 7 s. 44 !bi, p. 214; p . l S3, 14. In tal modo viene comuneme nte determina to anche 40
lo Spirito.
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dialettico il metodo peculiare al suo sistema. Se l'idea è lo spiegarsi riflessivo di un iniziale essere astratto in un «essere pieno» 45 , se questo è il «movimento dello stesso contenuto», allora l'asserto, che identifica idea e metodo, afferma conseguentemente: «l'idea è essa stessa la dialettica» 46 • Il metodo non può, come viene qui detto, essere inteso in un senso strumentale, ossia come pensare concepente che si confronta solo «esternamente» alla cosa da concepire. Né la logica è quindi, al modo dell'Organon aristotelico, sussidio d'una precisazione del concetto. È, invece, l'auto-esplicazione interna del «contenuto» o l'auto-movimento dialettico dell'idea 4i. Questo si compie come «eterno» distinguer-si-da-sé e, insieme, come riconduzione di ciò che è distinto al cominciamento che distingue. L'assoluto è ciò che - quale concetto conscio di sé ha se stesso ad oggetto. Successivo alla precedente citazione, il seguente passo unisce i sunnominati momenti del movimento dialettico di sé, o del contenuto: «l'idea è essa stessa la dialettica che eternamente separa e distingue l'identico a sé dal differente, il soggettivo dall'oggettivo, il finito dall'infinito, l'anima dal corpo, e solo così è creazione eterna, vitalità eterna e spirito eterno. In quanto l'idea in tal modo è anche il passare o, piuttosto il trasferirsi, nelì' intelletto astratto, l'idea è anche eternamente ragione; essa è la dialettica che porta l'intellettivo, il diverso, a intendere nuovamente la sua natura finita e a comprendere che l'apparenza d'indipendenza delle sue produzioni è un'apparenza falsa, e riconduce ciò che è intellettivo nell'unità. In quanto questo movimento raddoppiato non è temporale, né in qualche modo separato e distinto - altrimenti sarebbe di nuovo soltanto intelletto astratto è il suo eterno intuirsi in altro; il concetto che, nella sua oggettività, ha realizzato se stesso, l'oggetto che è finalità interna, soggettività essenziale» 48 • Il presupposto di questa identificazione di metodo e contenuto nell' idea è il fondamento del fatto che la processualità, dal suo cominciamento sino alla fine che in essa termina, venga pensata come un'attività concettuale o una «riflessione» efficace, presente e attiva in forma
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diversa (con inclinazione ali' assoluta concretezza). Essendo questa elaborazione di un contenuto sempre più ricco e più concreto, il metodo dialettico è la mediazione della fine con il cominciamento; e tuttavia, non in modo tale che solo la fine che porta a compimento l'intero si unisca con il suo cominciamento e lo faccia, così, apparire nella luce trasformante del concetto; piuttosto, è all'interno di ogni sfera della mediazione progressiva che si compie l'unione di fine e cominciamento: ogni singolo «membro, essendo animato dal metodo, è il ripiegamento in sé che, in quanto ritorna nel cominciamento, è insieme il cominciamento di un nuovo membro». L'intero in sé mosso e movente deve essere, perciò, pensato come un «circolo di circoli» 49 • L'asserita mediazione di ciò che di volta in volta e definitivamente è fine con il suo cominciamento non dispensa dal porsi una domanda tipica tra le numerose cruces dell'interpretazione di Hegel: come e con che ha inizio il processo? Come esce da sé il cominciamento, ed è così, secondo il significato del concetto, cominciamento effettivo di ciò che è altro? La questione ritorna, in modo analogo, nel dispiegarsi da sé della Trinità. Il tefos del movimento spinge comprensibilmente o addirittura necessariamente a presupporre , al modo hegeliano, che il movimento inizi con la cosa più vuota ed astratta, da Hegel concepita come «essere» 50 : il semplice rapporto a sé, l'assolutamente immediato e non dispiegato, il punto in sé raccolto. Certo l'assoluto sostanzialmente deve essere inteso come risultato, ed allo stesso modo lo sviluppo dell'evoluzione iniziale deve essere concepito come una rappresentazione dell'assoluto; ma proprio per questo non si può pensare dell'assoluto che esso, in una qualsiasi fase del processo, aderisca ad esso; per così dire entri in modo immediato nel movimento. L'assoluto - «soltanto allora in sé» - è anche nel cominciamento o coincide con esso ed è perciò la sua propria negazione nel cammino verso la pienezza di sé. All'inizio, o in quanto inizio, l'assoluto «non è in pari tempo l'assoluto» 51 • In questo HeLogik, II, p. 504 [trad. it., III, p. 359]. so Ibidem, e I, pp. 58, 66 ss. [trad. it., I pp. 62, 72 ss.] - Sulla comprensione del c"oncetto di essere nella forma espressa dalla logica, cfr. W. Wieland, Bemerkungen zum Arifang von Hegels Logik, in: Wirklichkeit und Rejlexion. Walter Schulz zum 60. Geburtstag, a cura di H. Fahrenbach, Pfullingen 1973, pp. 395-414. 51 Logik, Il, p. 490 [trad. it., III, p. 342].
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45 Logik, II, p. 46Enc., § 214; 47 Logik, II, p. 48 Enc., § 214;
504 [trad. it., II, p. 359]. p. 184, 7. 485 [trad. it., III, p. 336]. p. 189, 7 ss.
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gel si distingue in modo sostanziale dalla concezione neoplatonica del procedere dell'Uno come di un assoluto che non necessita d'una auto-esplicazione per essere se stesso o - con una terminologia hegeliana - l'assoluto esistente in sé e per sé. In relazione a questa concezione può essere compresa anche quell 'annotazione di Hegel che cerca di dare una cornice al proprio concetto di assoluto: «l'avanzamento non è quindi quasi un che di superfluo; sarebbe tale, se veramente l'iniziale fosse già assoluto ... Solo quando è compiuto esso è l'assoluto» 52 • Se il cominciamento è il vuoto, l'astratto, l'indeterminato e l'immediato, l'assoluto è soltanto nel suo in sé; ma se deve, ad un tempo, essere l'idea come attività, che còncepisce in forma sempre diversa, o riflessione sviluppante, allora bisogna che nel cominciamento ci sia anche riflessione, soggettività, spirito. Però questo essere nel cominciamento non è ancora se stesso, come una cosa giunta a sé. La domanda circa il cominciamento (o intorno a ciò che costituisce l'inizio della scienza) può essere anche così formulata: come e in che modo viene prodotto il passaggio dall'immediatezza dell'in sé? Come e in che modo l'essere raccolto in sé del «punto» rende dall'interno accessibile se stesso al movimento? Come movens del processo e dynamis universalmente mediatrice, Hegel assume la negazione determinata, la quale supera a priori l'immobilità e l'astrattezza e, così, determina il negato ad una forma sempre più alta. La negazione non è posta «dall'esterno», ma opera immanente al negato; essa è anzitutto l'essere relativo a sé 53 • Anche nel suo modo più elementare e più primitivo, questo non può essere, tuttavia, ritenuto niente altro che riflessione. Hegel definisce il cominciamento non solo puro essere (in sé), ma anche «unità indivisa» di essere e nulla (non essere): l'essere come nulla da cui deve aver origine qualcosa 54 • La negazione è, dunque, già nell'essere come cosa operante senza la quale sarebbe del tutto inimmaginabile un effettivo cominciamento del cominciamento, un oltrepassarsi del cominciamento in altro o l'effettivo emergere della differenza. In quanto rela52
Ibidem. 53 Cfr. a questo proposito D. Henrich, Hegels Grundoperation, in Der Idealismus und seine Gegenwart, Fs. f. W. Marx, Hamburg 1976, pp. 215 ss. 54 Logik, I, pp. 58 s. [trad. it., I, p. 62].
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zione, la negazione è reale, o «all'opera» nell'essere. L'atto elementare della riflessione sarebbe allora l'unione di «è» e «no n è» nell'asserto: il non essere dell'essere esiste come nulla di questo. Ma, con ciò, l'astratto cominciamento si oltrepassa come cominciante. Se, dunque, il cominciamento è l'assoluto in sé o la totalità concreta in sé 55, allora è in sé anche riflessione o pensiero di sé per negazione. Unito al nulla, l'essere si definisce perciò per negazione, traduce la sua astrattezza nella prima sfera di concrezione. Che l'essere, inizialmente astratto e vuoto, si muti in sfere più concrete e più ricche, lo mostra la definizione dell'idea assoluta come «essere pieno»: la «pura immediatezza dell'essere, nel quale dapprima sembra estinta ... ogni determinazione, è l'idea che per via di mediazione ... è giunta alla sua corrispondente uguaglianza con sé» 56 • Lo stesso astratto è dunque, come idea, diventato l'assoluto concreto, tanto che, con riguardo all'essere astratto del cominciamento, può radicalmente significare: «solo l'idea assoluta è essere ... » 57 ; ossia quale verità che è «ora» conscia di sé. Il soggetto è nei diversi aspetti, fasi o gradi l 'identico. Alla concezione che il cominciamento immediato implichi, nella forma astratta dell'in sé, ciò che - in quanto saputo sarà, al termine del movimento concettuale, in sé e per sé, si oppone un'interpretazione dell'inizio della Logica 58 che cerca di evidenziare che l'essere non perde mai la sua immediatezza, che l'essere è, quindi, anche nel divenire, nel quale è già «sciolto» o superato per negazione, ed è poi, nello stadio della qualità, della quantità, della misura, e così via, già e del tutto libero dalle strutture della riflessione. Dall'essere non potrebbe, dunque, mai venire qualcosa d'altro. Solo una libertà come quella delle strutture della riflessione potrebbe rappresentare in modo appena adeguato l 'inizio della logica, che H egel dice essere, a causa della sua vuotezza ed assenza di presupposti, «non analizzabile» 59 • Lo sviluppo dell'essere vuoto non potrebbe essere guadagnato col riflettere sulla determinazione presente nel concetto di indeterminatezza. Non viene chia55 56 57
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!bi, II, p. 490 [trad. it., III, p. 342]. !bi, II, p. 504 [trad. it., III, p. 359]. !bi, II, pp. 409 e 484 [trad. it., III, pp. 245 e 335]. D. Hcnrich, H egei i m Kontext, Frankfurt 1971, pp. 73 ss. Logik, I, p. 60 [trad. it., I, p. 64].
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rito, attraverso un'interpretazione di questo tipo, ciò che, invece, necessita assolutamente di un chiarimento: con quale operazione immanente giungerà mai la riflessione al puro e vuoto cominciamento, e alla evoluzione di questo? Sino ad ora è difficilmente comprensibile in che senso il determinarsi del cominciamento, il suo giungere all'esterno di sé, l'atto del passare e del superare, ed il ritorno al cominciamento che si compie certo anche all'interno della logica dell'essere, possa essere inteso come un atto non riflessivo. Come possono i suddetti termini caratterizzare ancora l' «immediatezza»? L'immediatezza pura, cioè stretta, non dovrebbe assolutamente ammettere in sé un movimento che prosegua dal cominciamento. Anche a questo, che la logica considera immediato, si oppone il detto di Hegel secondo cui non c'è nulla nel cielo e sulla terra che non sia già mediato 60 • L'immediatezza del cominciamento della logica sarebbe, di conseguenza, mediata nel suo in sé dalla negazione, o riflessione, immanente. E questo non appare chiaro se non quando si concepisce l'inizio della logica come assoluto. Un inizio nuovo , ma nella continuità con la fenome nologia 61 • Senza la sua azione preparatoria il pensare sarebbe difficilmente in grado di distinguere l'immediatezza vOlta alla mediazione. Le ragioni dovrebbero essere sviluppate in modo più dettagliato in vista dell'affermazione che le determinazioni non sono, nel movimento della logica, da cercare là dove esse vengono come tali generate, al contrario sono già implicate anche prima del loro «luogo sistematico». II primo essere in sé - ad esempio, l'esistenza come qualcosa, da Hegel pensata «in sé riflessa» - può essere concepita come riflessività, sebbene questa, in senso vero e proprio, non compaia, al momento, ancora. Un tale modo di vedere non deve, però, condurre ad una concezione livellante o riduttiva del processo logico. II movimento dall'astratto al concreto - ossia la «concrezioBeweise, p. 26 [trad. it . di G. Burruso: G.W.F. Hegel, Lezioni sulle prove della esistenza di Dio, Bari 1984, p. 46]. Logik, I, p. 52 [trad. it. , I, pp. 54-55]. 6l Cfr. a riguardo H. Fulda, Das Problem einer Einleitung in Hegels Wissen schajt der Logik, Frankfurt/ M. 1965. - Benché dalla Fenomenologia in poi l' inizio della logica sia da concepire come un inizio mediato più immediatamente, il suo esser mediato deve di nuovo essere «messo in disparte» (Logik, I, p. 53 [trad . it. , I, p. 55]) di modo che l' inizio possa essere realmente inizio, ossia immediato . 60
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ne» del concetto o dell'idea è, nello scavalcamento o nel superamento della differenza e dell' alterità, una forma attiva della sintesi. Presente all'interno delle singole fasi, la concrezione dà uno sguardo precorritore alla coesione dell'intero con se stesso, all'intero identico a se stesso nella differenza: totalità concreta come determinazione dell'idea. Nella fine di tutte le fasi sintetizzanti, nelle quali il cominciamento si rinnova, di volta in volta, su un altro grado, essa diviene, attraverso l'assoluto ritorno a sé, vero cominciamento: cominciamento mediato con se stesso, che si determina mediante se stesso, che riflette ed è riflesso in sé. Così viene raggiunta- nell'atto di mediazione permanente - una nuova forma di immediatezza mediata, la quale si apre, quale totalità intensiva o soggettiva, ad un'altra sfera rispetto alla logica: «assolutamente sicura di sé e riposando in sé l'idea si affranca da se stessa» in natura e storia, nella «esteriorità dello spazio e del tempo» 62 • La determinazione del concetto di idea doveva essere, in un certo modo, chiarita per fondare la funzione aperta, affermata in precedenza, della logica nei confronti della filosofia della religione, e soprattutto della speculazione trinitaria. Dopo aver giocato un ruolo nella trattazione del nesso di logica e metafisica, gli stessi aspetti ritornano, ora, in una forma più ricca, concretizzata dal concetto di idea: dal momento che la perfetta manifestazione del concetto, nella logica , si «equilibra» con questo stesso o si trova nella verità di essa, la stessa logica è «quella teologia metafisica» che «considera lo sviluppo dell'idea nello spazio del concetto puro» 63, o fissa a suo contenuto «la rappresentazione di Dio», «quale è nella sua essenza eterna prima della creazione della natura e di uno spirito finito»64. Il «corso logico» dell 'idea non è, dunque, anzitutto un accadimento trascendentale, ma la «determinazione all'essere che Dio opera di sé» 65 e che si specchia nella trascendentalità della coscienza. Quale momento riflessivo dell'idea, il concetto, che raggiunge in essa la sua oggettività, o realtà (essere), è «concetto assoluto, divino» 66 : e ciò che lo-caratterizza è la Logik, II, p. 505 [trad. it. , I, pp. 359-360]. Enc., § 244; p. 196, 32 ss. Beweise, p. 86 [trad. it., p. 104]. 64 Logik, I, p. 31 [trad . it., I, p. 32]. 65 !bi, II, p. 356 [trad . it., III, p. 182]. 66 Ibidem .
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«personalità» 67 • Perciò, la logica è già anch'essa, come tale dimostrazione dell'esistenza di Dio, che, implicita nello stess~ corso logico, diviene esplicita nella filosofia della religione. Attraverso le determinazioni della logica, la filosofia della religione pensa Dio, o la natura divina, come il «concetto assoluto» o come l' «idea assoluta» 68 - essendo essa spirito che «si riflette in se stesso» 69 • È l'assoluto che sa o pensa se stesso 7o. Il delimitarsi della logica a scienza «del solo concetto divino» (dunque, di Dio come unico regno del concetto puro) può trovare nella filosofia della religione una precisazione: nel suo essere in sé, Dio è Dio come idea logica o come l'essere pieno del concetto supremo; essere, che può schiudersi in natura e storia 71 • Ciò non può, però, essere pensato come pura possibilità, ma come essere che realizza anche questa sua facoltà. Proprio in tale processione, o uscita, l'idea realizza o evidenzia il suo essere-spirito, in quanto si realizza «per sé»: essere spirito per lo spirito è il compimento del suo proprio concetto. La filosofia della religione riflette, perciò, l'idea assoluta «unitamente al modo con cui essa appare, si manifesta» 72 , Dio dunque, non solo nel suo in sé, ma come essenza che appare, come sua manifestazione e rivelazione. Vi è qui implicito tanto il concetto di creazione, come anche quello di incarnazione e di conciliazione del finito con l'infinito. La filosofia della religione analizza, di conseguenza, lo sviluppo o il compimento dell'idea temporale attraverso l'alienarsi di questa nel suo altro, in quanto essa riconduce la finitezza, come modo dell'idea che appare e si spiega storicamente e temporalmente, nel suo cominciamento atemporale. Soltanto allora, nel momento in cui il finito viene conosciuto come un momento di Dio 73 , dell'infinito, l'assoluto dimostra la sua verità. La filosofia possiede «il medesimo contenuto e fine» dell'arte e della religione, ma essa è il «modo supremo» della ri flessio!bi, II, pp. 484 e 502 [trad . it., III, pp. 335 c 356]. Religion, XVI, pp. 209 s. Beweise p. 28 [trad. it., p. 47]. 69 Religion, XV, p. 28 [trad. it. , p. 89]. 70 !bi, XV, pp. 26 s. e 98 [trae!. i t., pp . 87 s. e 135]. 71 XVI, pp. 219 s. n XV, p. 28 [trad . it., p. 89]. 73 XV, pp. 192 s. [trad. it., pp. 192 s.]. 67 68
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ne «di concepire l'idea assoluta» 74 • Dal superamento legittimante della religione nella riflessione filosofica segue proprio che Dio viene pensato come l'idea che esiste in sé e per sé. Secondo la stessa prospettiva teologico-rivelativa, in questa identificazione risalta un ' ulteriore determinazione del concetto di idea: con il manifestarsi in tempo e storia e con il ritorno, che fonda la conciliazione, di tempo e storia, l'idea è (la) trinità. L'orizzonte della speculazione trinitaria di H egel è costituito dalla fondamentale peculiarità di Dio, di essere cioè spirito assoluto che si spiega in una trinità in sé unita. Secondo Hegel con «spirito» si dà la definizione suprema dell'assoluto 75 • Tutte le espressioni intorno al dispiegarsi trinitario dell'idea divina vengono, dunque, a chiarire anche il concetto e l'essenza dello spirito.
5. Identità e differenza nell'ambito della speculazione trinitaria di Hegel Il dispiegarsi della Trinità, come nella tradizione teologicofilosofica da Mario Vittorino in poi, è anche nel pensiero di Hegel di grande rilievo per il rapporto di identità e differenza, unità e molteplicità. Determinante per l' idea logica, la tipologia di questo rapporto viene qui ampliata alla storia e, in essa, modificata, in modo tale che la trinità, quale «storia divina» 76 , guadagna se stessa, come totalità massimamente possibile, soltanto passando attraverso la finitezza. La trinità viene, invero, pensata come identità, come identità che costituisce e produce se stessa; ma la differenza è, in essa, il presupposto necessario proprio di questo atto: l' idea divina deve apparire, si deve «manifestare», per diventare spirito per lo spirito 77 e unirsi così all'identità, o unità trinitaria, con se stessa. La storia temporale della trinità di viene, di conseguenza, il compimento della sua storia eterna ed asso luta; solo in essa può essere conosciuto ciò che il processo assoluto o eterno è come tale. L'assoluto stesso si rivela alla fine ciò che 74
Logik, II p. 484 [trae!. it., III , p. 335]. Cfr. Enc., § 384; p. 314, 24 ss. 76 Religion, XV I, p. 219. 77 Enc. , § 564; p. 446, 9. Religion , XVI, pp. 47 e 197 . 7'
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«già» era all'inizio 78 : nella sua compiuta automediazione che include in sé tutta la realtà. Col linguaggio della teologia Hegel chiama la Trinità unità dei tre regni: del Padre, del Figlio e dello Spirito. Nell'ambito della riflessione filosofica vengono intesi come tre «sfere particolari, o elementi, in ciascuna delle quali il contenuto assoluto si rappresenta come contenuto eterno, che resta in possesso di sé nella sua manifes~azione; come distinzione dell'essenza eterna dalla sua manifestazione, la quale mediante questa distinzione diviene il mondo dell'apparenza in cui entra il contenuto; come infinito ritorno e conciliazione del mondo alienato con l'essenza eterna, come il tornar di questa dall'apparizione nell'unità della sua pienezza» 79 . AI regno del Padre corrisponderebbe l'idea logica, la dialettica senza tempo dell'essere, il quale si concreta, attraverso la riflessione, in «eterno contenuto» assoluto . La «rivelazione», o la «manifestazione», di Dio costituisce il regno del Figlio. Il suo compimento sta nella soggettività infinita, assoluta, che si distingue da sé, si «dirime» 80 in sé, ma certo in modo tale che in . tale disgiunzione rimanga identica a se stessa 81 o ritorni alla sua identità 82 • Nella «riflessione assoluta» la negatività, la quale è in diretto rapporto con se stessa» 83, si rivela, ad un tempo, essere questa disgiunzione e questa potenza che ritorna a sé. La negazione deve sempre essere pensata come determinazione. In tale concezione viene determinata l' idea concreta. La disgiunzione è, dunque, negazione d'una determinazione o negazione della negazione 84 • A sua volta questa, in quanto negazione di sé da parte di Dio, Suo alienarsi (kenosis, Fil. 2, 7), è il Figlio: la differenza, che procede verso la finitezza 85 , l'altro s6, nel quaReligion, XVI, p. 241. Enc., § 566; p. 447, 26 s. so Religion, XVI, pp. 197 s. SI Enc., § 567; p. 448, 6. 82 Religion, XVI, pp. 296 e 279 . Come «spirito vivente» Dio è questo: «distin78
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guersi da sé, porre un altro e in questo altro rimanere con sé, avere in questo altro l'identità del suo sé con sé». . S3 Religion, XVI, p . 240. 4
Pensata in forma di struttura di «mediazione»: Logik, I, p. 135 [trad. it., I , p . 157]. Enc., § 111; p. 121, 29 ss. Enc. (181 7) , § 187 (Jub. Ausg., VI, p. 143): la negazione della negazione come «anima vitale della totali tà» (idea). C fr. anche not a 100. 85 Religion, XVI, p. 247. 86 Jbi, pp. 198, 247, 249, 280, 308. 8
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le l'inizio del movimento coincide con se stesso, o - cosa che dal punto di vista trinitario, nel quale si conserva l'unità di Dio, ha lo stesso significato - anche: riprende di nuovo in sé l'alterità, è un eterno essere-ritornato-a-sé 87 • Ma in questo, nel superamento del! 'essere altro 88 nel suo aver inizio, egli si rivela come l'amore o come Spirito (Santo). L'intento filosofico di Hegel di determinare la realtà nel suo complesso a partire dallo spirito - quale intensità suprema della soggettività s'unisce qui al principio giovanneo nel modo più intimo: «Dio è spirito (pneuma), e quelli che l'adorano devono adorarlo in spirito e verità» 89 . Come «scienza del ·concetto o dello spirito» la filosofia giustifica il cristianesimo come la religione dello s~irito: «questa religione .... è la esplicita conoscenza che Dio è spirito, propriamente, che egli, esattamente come in sé e per sé sta a se stesso come al suo altro (che si chiama il Figlio), ' se stesso come amore. E' essenzialmente come questa mee in diazione con sé» 90 • Come risulta chiaramente dal dettato della filosofia hegeliana della religione, lo Spirito Santo non è spirito nel senso d'una personalità «Conclusa», al contrario è proprio questo aprir-si del cominciamento e, ad un tempo, il ritorno ad esso: mediazione della mediazione che si supera. Se ciò che caratterizza lo spirito è il distinguersi da sé e il diventare, nel procedere da sé, oggetto a se stesso, ma insieme l'essere ritorno in sé - «identità ... che deve tornare ed è tornata in sé»9 1 - , allora Dio è, come intero, spirito. L'identità che si sta compiendo trinitariamente deve essere intesa anche nella prospettiva della triplicità logica di «concetto - giudizio - sillogismo»: l'autoapertura del concetto assoluto pone se stessa come distinzione, diventando così «giudizio» 92 ; ma, da l punto di vista dell'identità, il soggetto media se stesso a «predicato», o si media con se stesso nel predicato, in quanto lo pone come identico a se stesso. Anzi è il concetto stesso che sì esprime nel giudizio. Compientesi nel giudizio, questa 87
!bi, p. 249.
ss !bi, p. 28 1. Giov., 4, 24. Beweise, p. 28 [trad. it., p . 47]. 91 Enc. , § 554; p. 440, 12 s. n Religion , XVI, pp. 228 s. 248. Cfr. anche Enc. § 577 ; 463, 7. 89
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«identificazione» - il ritorno - è il chiudersi dello spirito in se stesso, il compimento del porre e del saper se stesso, o il «tornar "dell'essenza eterna" dal fenomeno all' unità della sua pienezza» 93 . Il ritorno dello spirito a se stesso corrisponde, teologicamente, a lla m orte e resurrezione di Cristo. Con l'alienarsi, come infinito, nella soggettività fi nita e nel porsi come identico ad essa, nell' «assumerla», Dio la supera ad un tempo: nella morte di Cristo è «stata uccisa la fin itezza dell'uomo»94; la morte di Cristo diviene, nella resurrezione, la «morte della morte» 95 , ma, con questo, anche il superamento della finitezza alienata e del male 96 • Essa è il rovesciamento vero, che rappresenta nella storia finita «ciò che è accaduto in sé e ciò che eternamente accade» - «la storia assoluta dell'idea assoluta» 97. A complemento dell 'alienazione per negazione, qui si compie di nuovo una «negazione della negazione»98, la quale non deve essere concepita come una categoria, esterna rispetto al divino, della riflessione, ma come un momento ad esso immanente 99 • Il ritorno della natura divina dalla «cima somma del fenomeno» a se stesso come negazione della negazione è, perciò, responsabile del concetto teologico che mette in ri lievo una caratteristica fondamentale di Dio: li berazione, conciliazione, amore. Questa negazione della ne93 Enc., § 566 ; p. 447, 32 s. 571; p. 449, 24 ss. Religion, XVI, p. 308 [trad. it., II, p. 377]. 94 Religion, XVI, p. 305 (trad. it. , II, p. 375) . 95 !bi, pp. 300 s. [trad. it., II, pp. 370 s.]. -Le affermazioni di Hegel si pongono qui nell'orizzonte di pensiero e di linguaggio di Lutero. Egli rimanda a quest'ultimo: «in un canto luterano si dice che Dio stesso è morto» (Vorl. iiber die phil. d. Re!., a cura di G. Lasson, Hamburg 1966, p. 172 [trad. it., II, p. 374]). La frase si trova nella seconda strofa del corale O Traurigkeit, o Herzeleid [O mestizia, o patire del cuore], che, a dire il vero, è di Johannes Rist). Intorno alla mors mortis: Lutero, Predigt am Ostersonntag Vormittag 1524 (Weim. Ausg. 15; 518, 26 s.); In ep. S. Pauli ad Gal. Com., 2, 19 (40/l ; 267, l ss.): mors mortis ... sic mors devorat mortem, quae est vita quae occidit mortem; ibi 3, 13 (440, l ss.; 13): Christus, qui factus est mors mortis. - Eriugena, De div. nat., V 7; PL 122, 875 C sulla resurrezione come mors mortis. 96 Enc., § 569; p. 448, 33. Phanomenologie, p. 541 [trad. it., p. 295]. Retigian, XVI, pp. 258 ss. e 267 ss. [trad. it., II, pp. 328 ss. e 333 ss.] (peccato originale). La riconciliazione è necccssaria a causa del male: p. 270 [trad . it., II, p. 377]. Asthetik, I, pp. 421 s. [trad. it. , pp . 574 s.] . 97 Religion, XVI, pp. 302 s. [trad . it., II , pp. 373 s.]. 98 !bi, pp. 300 s., 304 [trad. it., II, pp. 370 s. 374]. 99 !bi, pp. 304, 307 [trad. it. , II, pp. 374, 376].
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gazione diviene pura (assoluta) affermazione di sé da parte di Dio attraverso la fini tezza del mondo e dell'uomo, di modo che questa, nell'atto di quell'affermazione di sé, si eleva a suo momento)(){). Affermazione - passaggio nel suo altro -, ne100 D. Henrich ha cercato di caratterizzare la negazione come negazione «autonoma», prendendo le mosse anzitutto dalla Logica. In quanto semplice nesso con sé, la negazione non sarebbe «in una relazione originaria con un concetto ad essa corrispondente», come accade con una affermazione (Hegels Grundoperation, in: Der ldealismus und seine Gegenwart, Fs. f W. Marx, Hamburg 1976, p. 21 4). La negazione deve essere li berata da ogni correlazione. Se essa deve essere vista a priori in rapporto a se stessa e tutto ciò che è al di fuori della negazione deve essere eliminato dal processo logico, allora la negazione sarebbe «sempre» «negazione duplice» (p. 215). Non mi sembra chiaro il motivo per cui la negazione duplice, nel senso d'una negazione della negazione o del negativo, non debba poter diventare un'affermazione, perché dunque Hegel non avrebbe dovuto trasformare anche l'assioma duplex negatio est affirmatio (come altri assiomi della logica forma le) nella logica del concetto che concepisce se stesso. A partire dal concetto di dialettica può essere più esattamente detto che il negativo deve essere inteso come un elemento strutturale dell'affermativo, dunque che l'affermativo può essere solo un elemento strutturale del negativo (p. 221). Se la negazione della negazione non diventasse affermazione, non mi apparirebbe chiaro in quale modo l'idea possa spiegarsi, attraverso il movimento delle negazioni, in una sempre più ricca, più concreta realtà. II telos del «movimento della cosa» è nella logica l' idea assoluta, poiché essa è semplicemente mediazione, com prensibile solo come affermazione di se stessa, che ha in sé le negazioni come momenti separati, ossia come momenti che rimangono costitutivi per l'intero. Hcnrich cita (p. 221) invero la seguente affermazione della Logica (II, p. 496 [trad. it., III, p. 350]): la negatività è «l'intima fonte di ogni attività, di ogni spontaneo movimento della vita e dello spirito, l'anima dialettica che ogni vero possiede in se stesso», ma passa sott o silenzio il suo contesto. In esso Hegel chiarisce il «negativo del negativo» come «il toglimento della contra ddizione» e come il «momento oggettivo della vita e dello spirito», «per cui viene ad essere un soggetto, una persona, un libero». Questo atto della negazione appare come «ciò che media», «perché racchiude in sé se stesso e l'immediato di cui è la negazione» (Logik, Il, p. 497 [trad. it., III, p. 35 1]). Ma !'«immediatezza» mediata o posta, prodotta per negazione è proprio il «positivo, l'identico, l'universale (II, p. 497 [trad. it., III, p. 351]). Come punto dell' inizio (nel senso di «risoluzione» dell' idea) questa «immediatezza» può risultare «mediata»; essa è, quale risu ltato dello spiegarsi del «primo» inizio, «l' intero che è giunto a sé ed è identico a sé». Inoltre come determinazione essenziale del pensiero, valida anche per il pensare dell'idea, Hegel concepisce <
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gazione della negazione quale ritorno che afferma: questo è il movimento, interno e - storicamente - «esterno», della Trinità . La comunità, o il regno, di Dio è l' ambito nel quale si mantiene e continua la riconciliazio ne compiuta con la morte e la resurrezione di Cristo 101 . Essendo lo spirito essenzialmente apparire, manifestare, e rimanendo, tuttavia, ciò che appare nella, o nonostante la sua oggettività, deve, per H egel, essere concepito anche come amore 102 che si realizza storicamente: come ritorno dali ' alienazione e dalla finitezza, dal dolore infinito, dalla dilacerazione della negatività e del male nell 'intimo e nel «contenuto eterno» 103 . La «discesa dello Spirito Santo» non costituisce, però , la comunità semplicemente come un fatto permanente; essa è anzi «spirituale» in senso eminente, poiché la «venuta di un consolatore» presuppone il superamento, riconduttore della «storia sensibile» 104 • L'esplicazione della riviene rappresentato)». - Se non si concepisce la logica di Hegel solo come un accadere trascendentale, e se, ad un tempo, non si assume, come mostra anche la parantesi suddetta, l'idea logica come un presupposto della filosofia della relHone, la cui interpretazione «metafisica» potrebbe essere con difficoltà elimina ta: allora appare del tutto ch iaro che il concetto hegelia no di negazione non è identificabile con la cosiddetta negazione «autonoma ». Anche nell'ambito della fi losofia della religione - allo stesso modo che nella logica - la negazione o nee:a tività è «il punto in cui si ha la svolta del movimento del concetto» (L~gik, II, p. 496 [trad. it., p. 350]): la morte di Cristo com~ «.nullità posta;> (negazione del negati vo) è «ad un tempo la nullità superata ed 11 ntorno al pOSItivo» (Religion, XV, p. 176 [trad. it ., I, p. 176]); l'infinito divino «come asso.luta negatività, è solamen te la mediazione in se stesso» (ibi, p. 192: [trad. 1t. , . I, p. 192]). Il non fin ito, o l'infinito, co me negazione della negazt?ne, o del negativo (fini to) , è questo: «essere assoluto» come «puro autodetermmare» . <~f fermazione) per duplice negazione (Re!igion, XVI, pp. 535 s.). In quanto spmto o in quanto vol to a llo spirito della comunità, anche il movime t~to dell 'idea deve essere concepito come un distinguere in se stesso, che si riporta, ad un tempo, a se stesso: esso diviene negazione della distinzione come «negazione della negazione» e così d iviene «l'affermazione come in finito, assoluto essere per sé» (XV, p. 203 [trad. it ., I, p. 203]). - Che H egel valuti positivamente- come affermazione - la ne"azione della negazio ne, lo si può ad es. constatare anche per il fatto che riti:ne insoddisfacente il risultato «negativo» del Parmenide platonico, dal momento che esso «non esprime - così dice H egel - la vera affermazione come negazione» (Geschichte der Philosophie, XV III , p . 206) . 101 Religion, XV, p . 47; XV I, pp. 191, 316 ss. Asthetik, .I , 5~2 [trad . it., p. 716]. Theol. Jugendschriften (ed. Nohl), p. 311 s. [tr ad. n. d1 N. Vaccaro e E. Mirri: G.W.F . Hcgcl, Scritti teologici giovanili, Napoli 1972, pp . 423 ss .]. 102 Religion, XVI, p. 318 [trad . it., II , p. 397] . 103 Enc. , § 566; p. 447, 28 ss. Re!igion, XVI, p . 312 [trad. it., II, p. 393]. 104 Religion, XVI, p. 312 [trad. it., Il, p. 393].
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conci liazione, o la presenza dello spirito nella comunità, è perciò identica al suo permanente ritorno; in esso Dio si mostra come colui che eternamente ritorna. Ma ciò significa che la comunità deve «innalzare» se stes sa, in quanto pensante, allo spirito divino. Solo così lo «spirito per lo spirito» 105 diviene di fatto fenomen o, nel quale l' «altro» è la comunità. Che l'essere dello spirito per lo spirito si realizzi nella comunità, la rende il luogo della coscienza di Dio. In quanto Spirito della Sua comunità, Dio si dimostra vero nell 'unità dell 'autocoscienza di questa con la coscienza stessa di Dio: «la coscienza finita sa Dio nella misura in cui Dio si sa in essa» 106 . O, detto secondo l'intenzione dell'asserto , il finito, che nega la sua finitezza, si sa come momento dell'in fi nito: «Dio è Dio, solo in quanto sa se stesso; il suo saper se stesso è, inoltre, la sua autocoscienza nell'uomo e il sapere che l'uomo ha di Dio, che progredisce al sapersi dell ' uomo in Dio» 10i . Se l'apparire di Dio deve essere anzitutto pensato come l'apparire di sé, attraverso il quale Egli realizza la coscienza di sé come Spirito, allora appare, in modo assoluto, se stesso anche quando appare all'altro (alla coscienza della comunità) 108 . Io non posso essere d'accordo con l'affermazione che la coscienza finita di Dio costituisca proprio in questo atto la coscienza asso luta o il saper sé dello stesso assoluto, mi semb ra , piuttosto, che la coscienza finita di Dio o la coscienza di Dio del finito venga inclusa, come momento necessario di se stesso, in questo atto dell'autocostituzione o dell'autoesplicazione di Dio . Nella coscienza di Dio della comunità, Dio sa se stesso, in quanto la comunità lo sa, dunque si sa nel passaggio attraverso la sua fini tezza; ma Egli la supera ad un tempo, in quanto essa, nell' «elevazione dello spirito» , che proviene dalla soggettività fini ta, supera se stessa come finita - un atto assolutamente dialettico. «Il senso dell' elevazione dello spi rito è che al mondo spetta sì l'essere, ma che però è soltanto apparenza, non il vero essere, non la verità assoluta; e questa verità, piuttosto, 105 C fr. sopra nota 77. Re!igion, XVI, p. 286 [trad. it., Il , p . 344: «P oiché è l'apparizione di Dio, è essenziale per la comunità. Apparire è essere per l'altro, questo altro è la comunità»]. 106 Religion, XV I, p. 191 [trad. it ., II, p. 234]. 107 Enc., § 564; p. 447, 4 ss. Cfr. Phiinomenologie, p . 543 [trad. it. , II, p . 298] . 10s Re!igion, XV, pp. 80. 202 s.
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è al di là del fenomeno, soltanto in Dio, e Dio soltanto è il vero essere . In quanto questa elevazione è passaggio e mediazione, è anche superamento del passaggio e della mediazione; infatti ciò mediante cui Dio potrebbe essere mediato, cioè il mondo, viene piuttosto riconosciuto nullo; soltanto la nullità dell'essere del mondo è il legame connettivo dell'elevazione a Dio per cui ciò che è l'elemento mediatore svanisce e, quindi, in questa mediazione è superata la mediazione stessa» 109 • Di fronte ad una tale negazione del mondo, quale sfera del finito, l'affermazione «senza mondo Dio non è Dio» 110 , a mio avviso, può essere intesa come se Dio avesse bisogno del mondo per essere totalmente se stesso: vera, assoluta infinità. «Senza» mondo Egli non esiste, dal momento che l'ha posto tramite la Sua autoapertura negante e l'ha determinato, conciliandolo in esso con l'infinito, tramite l'autonegazione: come Suo altro, Egli riso lve il finito - in se stesso. Dio non è, dunque, senza il mondo, poiché, come spirito, ha compenetrato tutta la realtà sino ad esso stesso e, insieme , sino a Lui. Egli è «l'intero contenuto, tutta la verità e realtà» 111 • A fondamento di questa mediatezza universale del reale vi è l'automediazione dell'assoluto in esso, nel reale. Questa mediazione della realtà in quanto automediazione dell'assoluto è - come s'è detto - lo spiegarsi della Trinità. Essendo questa, l'idea assoluta pone in sé e da sé ciò che è altro - la differenza - , e, ad un tempo, il suo superamento come ritorno dello spirito a sé. L'i dea trinitaria, che si dispiega, si rivela, al modo dello spirito, della ragione e della riflessione assoluta, come l'identità in sé più ricca, per la quale la differenz a rimane costitutiva in quanto superata. Di fatto - nonostante la distinzione, già evidenziata in modo molteplice - la speculazione trinitaria di Hegel s'unisce, nell'orizzonte della domanda circa il nesso di identità (unità) e differenza, alla concezione neoplatonica della ·processione e del 109
Enc., § 50; p. 75, 42 ss.
no Religion, XV, p. 194 (trad. it., I, p. 194]. -
Dire che come creatore Dio è creatore solo «per mezzo del mondo ... del creato», risulta vero dal momento che Dio, come colui che si aliena nella creazione non esiste per dejinitionem senza il mondo ma Egli non é immediatamente identico ad esso né è suo prodotto. Per que~to è anche «senza» di esso, ossia «è, in sé e per sé, al di là del mondo e senza di esso» (Beweise, p. 28 [trad. it., T, p. 46]) . 111 Religion, XV, p. 199 [trad. it., l, p. 196].
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ritorno, quale movimento costitutivo tanto della realtà in generale come anche dello spirito in particolare, e in misura non minore all'autoapertura trinitaria del principio divino nel contesto d'una teologia filosofica. Nella domanda intorno alla continuità storica e oggettiva d'una struttura della riflessione assoluta non c'è, e questo viene confermato ancora una volta da uno sguardo retrospettivo, un più convincente punto d'analogia con Hegel, all'interno della metafisica, della concezione trinitaria di Cusano, di Meister Eckhart o di Mario Vittorino. Da parte loro, costoro rimandano, alle loro implicazioni filosofiche: al concetto neoplatonico di spirito, che spinge l'aristotelico «pensiero del pensiero» ad essere movimento riflessivo delle idee in sé differenti. In analogia con l'asserzione di Hegel «l'idea è, essa stessa, la dialettica», il concetto neoplatonico di spirito può essere compreso come un essere che esiste, esso stesso, per riflessione - certo «già sempre», e non soltanto nel dispiegarsi di sé. Non è solo l'argomentare discorsivo intorno ad essere, idea, spirito o Uno ad avere - come in un certo modo secondo Platone - la funzione di «dialettica», ma lo spirito stesso è «dialettico» in una forma assoluta, così come in Hegel, non strumentale. Il pensiero dello spirito si compie cioé come movimento in sé «continuo», movimento che costituisce - attraverso la differenza, ossia mediante le idee in sé differenti - un'identità di essere e pensare. Il movimento di ritorno a se stesso dello spirito e, di conseguenza, la riflessione sul fondamento in sè attivo , l'Uno , sono il centro di questo concetto di identità nella differenza - modello fondamenta le di tutte le sue di fferenziazioni teologiche e fi losofiche nella storia della metafisica.
PARTE QUINTA
La critica della concezione metafisica dell'identità nel pensiero contemporaneo Adorno - Heidegger
«La dialettica è la coscienza conseguente della non-identità». Adorno, Dialettica negativa. «Quando noi cerchiamo di riflettere sulla differenza in quanto tale, non la portiamo a svanire, anzi la seguiamo nell'origine del suo essere. Nel cammino verso di essa noi pensiamo il dirimere tra l'accadimento e l'avveni mento. Solo così ciò che compete al pensiero è pensato più concretamente rispetto ad un passo indietro : l'essere è pensato a partire dalla differenza». Heidegger, Identità e differenza.
I. Il non-identico di Adorno Critica alla identità e la distinzione negativa come rimedio
Il «non-identico» è un concetto fondamentale in Adorno. Una scepsi universale s'articola in esso ed esso è nerbo e movente di polemica e critica. Già la struttura linguistica del non identico, o della non-identità, fa capire che il pensiero che qui s'annuncia, vuole sottrarsi al nesso dialettico di "identità e differenza" . Le precedenti rit1essioni sul nesso di identità e differenza hanno reso evidente che la tradizione filosofica, ed in essa in modo particolare Hegel, ha inteso l'identità e la differenza come concetti necessariamente connessi, e che delimitano reciprocamente se stessi o l'intero che è a loro fondamento; essi costituiscono una unità in sé mossa. Ciò significa che la differenza è certo in sé negativa, ma anche che essa è superabile, riconciliabile con ciò che nega, è «momento» dell'identità. Secondo Adorno, tuttavia, il «non-identico», diversamente dalla «differenza», nega radicalmente l'identità: esso non è identità e non deve diventarlo: in opposizione all'identità deve, piuttosto, sorgere un non identico che la annu lla e la muta. Che cosa sia, poi, questo «definitivo», rimane insoluto già per il <mom>; anzitutto esso deve essere inteso come negazione del tutto univers ale che in modo radicale delimita ed esclude un 'identità intesa in senso peggiorativo. «In· modo definitivo» è legittimo e possibile dire forse soltanto ciò che l'identità è come identità che si stacca dalla non identità. Nella concezione restrittiva di Adorno, essa - intesa in modo altrettanto peggiorativo, e, perciò, continuamente posta sotto accusa - è precisamente il positivo o l'affermativo in generale. Come tale è paragonabile ad un'astrattezza che, nonostante l'asserzione di opposizione ai sensi, è immediata ed è caratterizzata dall'assenza di riflessione; dunque, un essere che non pone criticamente in questione se stesso; e, del resto,
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né Io può né Io vuole . Con identità viene, perciò, inteso qualcosa in sé consistente, fissato, e cioè: un «sistema» senza vita che scorre verso un'implicazione universale, sia, esso, pensiero o realtà sociale. Comunque, Adorno imputa al pensiero concettuale discorsivo, «strumentale» di «identificare», ossia di porre, sod~ disfatto e tranquillo, «un ordine concettuale davanti a ciò che il pensiero vuole capire» 1 • Da questo punto di vista il pensiero nel complesso è sospettato come «sistema», in quanto né percepisce né lascia emergere, nella cosa da esso pensata o rispetto a se stesso, gli antagonismi reali. L'eterogeneo viene costretto all'unità. In tal modo intesa, l'identità evoca l'apparire del sempre già finito e, quindi, del non dialettico per eccellenza. Senza esprimerlo, Adorno attribuisce al concetto di pensare uno scolasticismo, che a forza propone definizioni, o un razionalismo illuminato dall'ottimismo e non scosso da alcuna scepsi. Di fronte alla struttura di pensiero di un Plotino, di un Cusano, dì Kant o di Hegel, la parodia adorniana del pensiero può ben difficilmente mantenersi sulla base di un'interpretazione responsabile che non derivi dall'isolamento di aspetti particolari. Adorno postula un continuo determinarsi reciproco di pensiero (concetti, ideologismi) e società. Nell'orizzonte del concetto di identità sopra delineato, la società stessa diviene, di conseguenza, necessariamente «identica». In essa «il principio predominante dell'identità» 2 opera come sistema che opprime e disarma ciò che è differente ed emancipante. Lo stato quasi senza speranza della società contemporanea avrebbe, così, il suo fondamento proprio ed esclusivamente nel dominio dell'i. dentità pensata, dell'universale pensato e del primo pensato - come si vedrà. Nella storia del pensiero l'identità, variamente diagnosticata da Adorno, tende quindi, in quanto conciliante identità che livella ed armonizza, alla totalità, alle cose «totali» e «totalitarie». Adorno ha trovato nella philosophia prima l'elemento originariamente responsa bile, nel pensiero come nella società, di un identico, o non dialettico, così inteso . In questo concetto egli include, in modo rapsodico ed autoritario, tanto i «presocratiND, p. 15 [trad. it., di C. A. Donoio: Adorno, Dialettica negativa, Torino 1970, p. 5]. 2 /lujsatze zur Gesellschajtstheorie und Methodologie, Frankfurt 1970, p. 141.
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ci», e con essi Platone insieme alla successiva metafisica (inclusa la «filosofia dell'origine» di Heidegger), come anche la fil osofia trascendentale di H usserl. La philosophia prima si lascia guidare da un «primo» come suo principio; ed essa pone questo «primo» anche come assoluto. Secondo l'i nterpretazione adorniana della tradizione metafisica non è, dunque, solo l' «essere» di Parmenide o l' «idea» di Platone, ma anche il «soggetto» che si costituisce attraverso la riduzione trascendentale di Husserl ad essere inteso come un tale primo-assoluto. Poiché ciò che è il «primo», essendo principio (arché) nascosto o aperto , è identificato, almeno nell 'interpretazione di Adorno, sempre con il «dominio», ad esso può essere con facilità attribuito anche il carattere d'una identità che opprime il non identico, cioè l'individuale, il singolo, l'antinomico rispetto all' intero, così come esso, per se stesso, potrebbe essere o è. In opposizione a questo concetto di philosophia prima, che determina universalmente la realtà storica, Adorno introduce - in conformità all'orizzonte ermeneutico che gli è proprio - la dialettica. Se la soluzione di una questione filosofica non può venire spiegata mediante riminiscenze biografiche o storicosociali, nella concezione adorniana della dialettica non si può, tuttavia, prescindere dalla lungamente ripercossasi esperienza storica di Adorno: la «dialettica» di Adorno mi sembra, in una certa misura, l'esito della sua esperienza del fascismo, in quanto risposta proprio a questa situazione d'orrore e sua alternativa - nella critica - critica per una possibile resistenza ad un prolungarsì o ad un ripetersi dell' orrore. La critica all'identità diviene immediatamente accusa alla storia, la quale sarà condizionata direttamente da essa: «Auschwitz ha dimostrato inco nfutabìlmente il fallimento della cultura. Il fatto che potesse succedere in mezzo a tutta la tradizione della filosofia, dell'arte e delle scienze illuministiche, dice molto di più che essa, lo spirito, non sia riuscita a raggiungere e modificare gli uomini. In quelle ragioni stesse, con la loro pretesa enfatica di autarchia, sta di casa la non verità. Tutta la cultura dopo Auschwitz, compresa la critica urgente ad essa, è spazzatura»3. Adorno non elimina il fascismo, Auschwitz, come culmine del crimine, come coincidenza di qualche sorta di forze
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ND., p. 357 [trad. it., p. 331].
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demoniache; anzi, il fascismo decifra, per lui , il mito avvo lto in un 'oscurità aggressiva, smaschera la razio nalità come irrazionale. Se il pensiero dell'identità, cosa che dovr à essere ancora discussa, persegue il primat o dell'universale rispetto al particolare, allora sembra innanzi tutto plausibile voler comprendere la situazione storica proprio a partire da questo modello: «Poiché nei campi di concentramento non moriva più l'individuo, ma l'esemplare, il morire deve attaccarsi anche a quelli sfuggiti a t ale misura» 4 • Se inoltre l'astrazione, come sussunzio ne del particolare nell 'universale, «liquida» proprio il particolare o il singolo (l'individu ale), allora la liquidazione delle vittime nei campi di concentramento può diventare l'espressione sensibile della liquidazione logica. Ci sarà certamente da chiedersi , da una parte, se l'astrazione, o il pensare dell 'identità, superi in modo tale il particolare, il singolo, l'individuale nell'universale da finire per distruggerlo , dall'altra, se è possibile in assoluto un pensare senza l'atto dell'astrarre; e inoltre c'è da chiedersi se la struttura del pensare diagnosticata da Adorno possa o debba essere interpretata come causa immediata, o anche in modo molteplice mediata, degli avvenimenti storici. Notevolmente maggiore rispetto a P latone o a Hegel, la difficoltà nel comprendere il concetto adorniano di non identità e di dialettica può forse apparire fondata nell'epoché di Adorno o nella sua reazione nei confronti dell 'identità e nei confronti della dialettica ad essa collegata all'interno della tradizione fi losofica, ma a d un tempo nel fatto, che, nonostante la disposizione contrari a a lla «dialettica dell ' identità», il modo fon damentale del fi losofare di Adorno deve chiamarsi nondimeno ' è centrale.' «dialettica»; una dialettica per la quale il non-identico La tradizione metafisica ha concepito la dialettica come metodo del pensare, ma anche come struttura dell 'essere. In quanto metodo del pensare, la dialettica è diventata costitutiva del dialogo platonico: ossia il «dire» argomentativo intorno ad una questione, ad un fatto , ad un problema. In questo contesto, la dialettica è determinata in modo essenziale dal suo fine: è questo il concetto universale d'una cosa, o l'idea a lla quale
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!bi, p. 353 [trad. it., p. 327].
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partecipa il singolo, o l' individuale; e l'idea che, così, è ciò che esso stesso è. Priva d'una fondazione trascendente o d'un a finalità, che si esprima nel linguaggio, la dial ettica è, nella fi losofia aristotelica, il metodo minuziosamente elaborato del discutere, di un dialogo che si concentra sulla cosa secondo le regole della logica. Priva dell'aspetto di ciò che è strumentale, ma essendo esplicazione dell' «idea», la dialettica è diventata, nella filosofia di Hegel, determinazione e movimento di fondo di pensare e essere: il pensiero, la riflessione, l'autoriflessione, della ragione è il momento motore all'interno dell'essere; e proprio per la riflessività che lo distingue, questo non è pensato come una cosa in sé ferma, m a come un processo, o progresso, verso u n fine che deve essere raggiunto . Questo è un universale comprendere se stesso della ragione che penetra tutte le sfere dell 'essere , quindi della storia, della natura, dell'arte e dello spirito (filosofante). Tale dialettica universale è stata da Marx trasformata in una dialettica dei processi materiali economici e politico-economici, e ridotta a base della vecchia «sovrastruttura». In questo contesto la dial ettica è, dunque, il processo d 'un a società materialistica. P er la dialettica come metodo ciò significa: la dialettica non è, innanzi tutto, oggetto della riflessione teoretica, ma viene, sin dall'inizio, praticata nell 'analisi della realtà sociale; così, la dial ettica deve portar avanti la lotta di classe sino al dissolvimento delle stesse classi. In quanto produce la coscienza di classe, può per il resto abdicare alla filosofia. Nonostante l'intenso intreccio che lega Adorno alla tradizione filosofica e che si esplica in modo determinante nella negazione, egli pretende di definire con il termine «dialettica» una cosa nuova. Seb bene esplicitassero la mobilità dialettica dell'essere e del pensare , né Platone né Hegel possono essere ritenuti, nei confronti della tesi adorniana, dei «dialettici», poiché la loro forma di dialettica pone l'universale o come idea o come assoluto che si coglie al di sopra del particolare (del nonidentico); e con la tendenza, imputata loro da Adorno, ad opprimere proprio quest'ultimo, a disgregarlo, a non permettergli affatto di giungere a se stesso . Rispetto a ciò, la «vera» dialettica è «la coscienza conseguente della non identità » 5 • s !bi, p. 15 [trae!. it. , p. 5]. Il term ine «non-identit à » , o «non-identico», viene
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Vale a dire: la dialettica ha come fine oggettivo il sottrarsi alla «magia» o all' «incantesimo», presentato addirittura come mitico, di una realtà prima. Ciò che la cosa originata non può pretendere nei confronti della sua origine, viene destinato alla dialettica concepita in tal modo: spezzare l'incantesimo opprimente, o persino distruttivo, dell'origine o dell'identità. Se ad essa dovesse riuscire, ancora una volta contro ogni orrore, di eliminare la costrizione dell'identità e far risaltare il non-identico , allora - così deve essere intesa la stessa Dialettica negativa - essa tenderebbe a ciò che, nella metafisica, aleggia davanti a questa non come fondamento che domina in modo dispotico, ma come fondamento che dona. Nel caso che il mondo debba essere interpretato unicamente come un «gigantesco giudizio analitico» 6 , ne segue che la filosofia può avere senso solo come filosofia critica, ossia come dialettica che p rocede in modo permanentemente negativo e non lascia coagulare nulla di positivo o affermativo. Come «Coscienza conseguente della non-identità», la dialettica deve pertanto render cosciente nel pensiero, o nella realtà sociale, proprio l'inconsistenza, la disarmonia, la non conformità, la fragilità, l'utopico non-ancora e mobilitarlo ad una prassi guidata dalla teoria, nella misura in cui tale prassi dovrebbe, in quant o piena di senso, essere ancora possibile nella situazione presente. La negatività della dialettica, che, almeno come pretesa, nega permanentemente, si differenzia da quella hegeliana, e da altre, per il fatto che trascende continuamente il pensato, il detto e il dato, senza voler raggiungere una fine conciliatrice (affermativa), o anche solo pronostìcarla in modo definitivo. A causa di una «ico noclastia» rigorosamente mantenuta e influenzata biblicamente non è possibile neanche fare domande sulla determinatezza materiale di questa fine comunque usato, nel contesto della filosofia idealistica, in modo non incondizionatamente polemico, ma come descrizione dello stato o dell'atto di negazione di un'identità che dovrebbe essere . Schelling, Vom !eh als Prinzip der Philosophie (1795), citato secondo l' edizione dì Landshut degli scritti (l, 52 s.): l'essere «non identico» come contrasto rispetto all'imperativo: «sii assolutamente identico a te stesso». Hegel, Differenzschrift (ed. Buchner-Pi:iggeler), pp. 59, 17; 64, 14 (trad. it. , pp. 71, 18, 79, 15). Adorno non ha posto attenzione al fatto che la propria terminologia fosse affine o diversa a quella di ti po fo ndamen talmente idealistico. Cfr. anche nota 17. 6 DA., p. 33 [trad . ìt . di L. Vinci: M. Horkheimer e T. Adorno, Dialettica dell'illuminismo, Torino 1966, p. 36].
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intesa. La conciliazione possibile, o legittimamente pensabile, si mostra unicamente nell' arte; ma anche su di essa rimane l'ombra della nostalgia . Nel concetto adorniano di dialettica è senz'altro hegeliana la concezione secondo cui la dialettica deve rendere evidente ciò che, «fluente» nella sua continuità verso l'altro, nonostante la negatività, è esistente, ciò che è fermo, ciò che è non-differenziato 7 • A favore d'una comprensione di Hegel non guidata da un rigido preconcetto, agisce prop rio in modo provocatorio il fatto che Adorno si preclude il punto di vista hegeliano di una negazione (determinata) produttiva e creativa che non dimentica il processo in ciò che è stato una volta raggiunto, ma nemmeno guarda a ciò che è stato raggiunto come qualcosa di totalmente distrutto o distruggibile. Infatti il processo continua oltre di esso. Lo scandalo, che corrisponde al preconcetto di Adorno, sta certo come già accennato - nella concezione hegeliana della concrezione o della conciliazione; una concezione che ha come suo momento essenziale il non-identico nell'identico - e questo è fondamentale per una comprensione adeguata di Hegel: lo ha mantenuto in sé. Così l'elemento hegeliano si volge in dialettica adorniana, la negazione determinata nel suo opposto, a condizione che essa non debba essere portata ad una conciliazione conclusiva all'interno di una fine che completa se stessa. La negazione determinata opera, piuttosto, in opposizione al carattere di sistema o alla tendenza al sistema, che viene attribuita al pensiero , in opposizione alla formazione di principi «isolati»; attraverso di essa il pensiero, secondo Adorno, è in grado «di pensare contro se stesso, senza rinunciare a se stesso; se una definizione di dialettica fosse possibile, si dovrebbe proporre questa» 8 • Ma tramite che cosa dovrebbe un pensare - in quanto tale - pensare in opposizione a se stesso, ossia mettersi continuamente in questione, se non per mezzo del concetto argomentativo? In opposizione all'automediazione riflessiva dell'essere che Hegel concepisce come l'intero conciliato con sé, all'idea quale dialettica stessa, Adorno rovescia l'asserto hegeliano «la verità Questo termine (« fl uente») si pone in contrasto con quello aggressivo, e nel frattempo largamente diffuso, di «liquidare», che ha la sua origine nel linguaggio delle «SS». s ND., p. 142 [trad. it., p. 126].
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è l'intero» (soltanto l'intero mediato con sé, l'inizio giunto al suo telos, è «vero») nella tesi «l'intero è il non-vero»: l'intero (mal)inteso come un identico fissato in sé 9 • Questa opposizione di Adorno all'intero come il vero o alla verità, raggiunta nell'intero conciliato con sé, può essere intesa a partire dalla sua concezione d'una correlazione inseparabile di filosofia «totale» e dominio totale; qui ad Hegel viene attribuita in modo assoluto la tendenza al «totalitario» w. Prescindendo dal gesto verbale proprio di Adorno, che talvolta, nonostante il suo intendimento contrario, agisce in modo supremamente affermati vo, per lui sono del tutto accettabili anche quelle concezioni che non sembrano, almeno secondo i concetti di contraddizione e di negazione, escludere la «positività». Questo si può notare, ad esempio , nel passo altamente istruttivo, che ben esemplifica l'intento dei Minima Moralia e che nel titolo richiama l'elemento «escatologico»: Per finire. «La filosofia, quale solo potrebbe giustificarsi al cospetto della disperazione, è il tentativo di considerare tutte le cose come si presenterebbero dal punto di vista della redenzione. La conoscenza del mondo : tutto il resto si esaurisce nella ricostruzione a posteriori e fa parte della tecnica. Si tratterebbe di stabilire prospettive in cui il mondo si dissesti, si estranei, riveli le sue fratture e le sue crepe, come apparirà un giorno, deformato e manchevole, nella luce messianica>> 11 • Questo passo vorrebbe essere testimo ne di un pensiero che non procede in modo discorsivo-argomentativo , ma che si riflette nelle costellazioni del non-identico, e che «deve comprendere anche la propria impossibilità per amore della possibilità», e che dunque pensa in opposizione al pensiero a partire dalla coscienza di un «incondizionato» forse raggiungibile. Tale - in qualità di «fine» - è il suo movens. In esso i temi centrali sono la ~ Ph~nomenol?gie,
Vorrede, p . 21. [trad. it., Prej., p. 15]. MM. , p. 57 [trad. d1 R. Solrm: Adorno, Minima Moralia. Mediazione della vita offesa, Torino 1983, p. 48]. Intorno ad I-legel vedi sopra pp. 290 s. IO Studien zu H egei, p. l 04 [tracl. i t. di r. Serra: Adorno, Tre studi su H egei, Bologna 197 1, p. 101]. 11 Mlvf., p. 333 s. [tracl. it., p. 304]. La «l uce messianica » mi sembra essere un riflesso , costi~utiv? cl~! pensiero di Ad.«?rno, dell'idea messianica di W . Benjamm (cfr. ad es. 1 suoi D1e Aufgabe des Ubersetzers - Il compito del traduttore - o G~sch_ichtsphilosophische Thesen - Tesi di fil osofia della storia -, in : W. Ben.1amm , A ngelus Novus [trad . it. di R. Solmi: Benjamin, Angelus novus. Saggi e f rammenti, Torino 1962] . It.
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liberazione e la luce (messianica). Benché entrambe debbano essere intese «solo» come metafora, come una metafora «assoluta» che non è più concettualmente riscattabile, nondimeno con essa si intende una realtà, qui: la realtà agognata o il momento storico definitivo. I concetti di liberazione e luce non possono sottrarsi alla loro origine religiosa, o teologica; anche quando aspirerebbero a definirsi come «non teologici», senza dubbio comportano l' associazione religiosa o teologica nel suo uso storico. La liberazione non implica certo un liberatore «eteronomo», ma vuole essere autoliberazione dall 'intreccio coesivo d'una «vita guastata». Questa è la luce «della» conoscenza che svela il mondo come «indigente e deformato», con «scissioni e spaccature», e ne è così la risposta (analogamente all'atto di liberazione del liberatore nei confronti del peccato), e insieme, in contrasto con tutto l'essere condizionato o mediato del mondo (si dovrebbe quasi dire con una riminiscenza neotestamentaria: con «questo» mondo presente), la promessa dell' «incondizionato». La liberazione e la luce sono elementi assolutamente positivi e affermativi del pensiero metaforico, essi rimandano ad uno stato che è al di là della negazione permanente, alla «negatività compiuta» - ossia alla dialettica negativa giunta alla sua fine; dialettica che sembra diventare «positività» e, con ciò, supera se stessa: essa «Si converte nella cifra del suo opposto». Ma proprio in questo passo, che mira alla positività possibile, il testo si rovescia e si dimostra, quindi, dialettico: la «cifra dell'opposto» della negazione - conoscenza che ha la sua luce dalla liberazione e trapassa in essa -, questo è «anche l'assolutamente impossibile, perché presuppone un punto di vista sottratto, sia pure di un soffio, al cerchio magico dell'esistenza», mentre, al contrario, ogni conoscenza possibile non deve, semplicemente, essere strappata a ciò che è per riuscire vincolante, anzi, proprio per questo, è sconfitta con l'identica alterazione e miseria dalle quali ha in animo di fuggire. In questo rivolgimento non viene, tuttavia, cancellato in alcun modo il primo concetto teso all' «escatologia»; deve solo diventar cosciente che si manifesta solo attraverso la negazione, e che non è pura affermazione , fissata in sé. Il pensiero deve concepire la propria «impossibilità» non come pura incapacità del concetto, ma, paradossalmente, per dare alla sua «possibilità» limitata una chance. Se non venisse
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indicata con forza la coscienza della necessaria non identità nel pensare, la sua «possibilità» renderebbe nulla proprio ciò che Adorno intende per liberazione dall'identità, nel senso dì un autofìssarsì 12 • Nella comprensione della concezione e delle tesi dì Adorno, la difficoltà sta nel condensato difficilmente solvibile dì vero e acuto da una parte, e, dall'altra, nella dichiarazione che fa uso di vio~ lenza e riduce rigidamente alla propria tesi. Questo corrisponde certo al fatto che all'interno della storia della filosofia il soggetto è diventato «Oggetto» proprio mediante l' «identificare» razionalistico e il pensare eteronomo nemico della libertà, e che l'inizio della regolamentazione e della reificazione del soggetto può essere quindi dato sotto determinate costellazioni storiche. La dialettica, rispetto a ciò, si è assunta il compito di gettare una luce sul processo di trasformazione del soggetto in oggetto. N_o n si potrà sostenere con diritto che la dialettica negativa, quale richiamo al non-identico e quale distruzione dì ogni «filosofia prima», sia nata solo da un'esperienza storica dolorosa: né che la tradizione filosofica ha sempre solo promesso la libertà, ma sinora non ha ancora mantenuto fede a· ciò, anzi ha solo intensificato lo stato di illibertà. In modo filosoficamente adeguato sì può, però, pensare che la dialettica negativa - del tutto inclusiva dell'esperienza storica dell'orrore - si motiva antropologicamente in modo intensivo. Riflettere e superare l'autoalienazione e la reificazione, sottrarre l'uomo alla presa eteronoma dell' «identico» in ogni concrezione reale o possibile e aprirlo alla libertà che gli spetta: questo si dimostra essere il suo fine. Se anche Adorno interpreta l'autonomia soggettivistica e l'isolamento dell' individuo come un'apparenza che viene necessariamente prodotta dalla società borghese 13 , anche per lui, tuttavia, l'individuo, o l'individualità, rimane ciò che è in sé incommensurabile al processo dì scambio della società. «Poiché esso solo (l'individuo) conserva, per quanto deformata, la traccia di ciò (vale a dire la disposizione del progresso alla libertà) 12 Senza criptogama religiosità o teologia, dimenticando l'«autoproibizione delle immagini» sulla <
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che conferisce valore alla tecnicizzazione, e di cui quest'ultima si vieta la coscienza» 14 • La possibilità e la capacità dell'individuo di sottrarsi al processo minaccioso dell'universale-identico deve essere sciolta e svolta. È questo, di fronte all'attuale situazione mondiale, un impulso essenziale della dialettica negativa, nel quale sì cerca .dì comprendere la motivazione antropologica: la conseguente coscienza della non-identità deve essere prodotta e mantenuta in opposizione all'universale tecnicizzazione e burocratizzazione della realtà immediata dell'uomo. Essa infatti minaccia, nello sguardo sull'intero della società, di giungere a nascondere o, persino, a distruggere il non identico. La dialettica negativa deve, quindi, terminare nel risveglio o nella liberazione della capacità dell'individuo di sottrarsi al processo minaccioso dell' <
MM., p. 168 [trad. it. , p. 150].
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crede di vedere nella metafisica ciò che è «ideologico», e, quindi, in ogni pensiero dell'identità una caratteristica, o addirittura necessaria, affinità con il potere. Oppure li considera uguali. Con ciò è attribuita globalmente ad ogni forma di metafisica la tendenza alla regressione e alla repressione, e così viene negato anche alla fi losofia trascendentale ogni potenziale critico. A causa di questa tendenza alla regressione, essa diviene, secondo Adorno, sospetta e, talvolta, addirittura «colpevole» di sistemi totalitari: «come programma politico l'identità assoluta passa nell'ideologia assoluta, alla quale nessuno più crede» 15 • Questa affermazione patisce del fatto che essa non mette in questione la differenza tra ciò che è originariamente pensato e la sua possibile evoluzione o trasformazione che la deprava. Né riflette se sia legittimo identificare reciprocamente e indistintamente il soggetto conoscente e il soggetto anonimo della società, se dunque la società sia totalmente orientata, come soggetto universale, verso l' «identità» del soggetto conoscente, e se proprio questo sia il motivo per cui essa non si chiarisca razionalmente, ma rimanga e venga irretita ncll'irrazionalismo. Sensata non è nemmeno l'osservazione secondo cui l'autoanalisi del soggetto trascendentale può diventare tanto strapotente nell'individualità di colui che analizza, che essa lo distrugge totalitariamente nella sua particolarità, nel suo io , nella sua personalità e che egli rimane ancora solo come ciò che è universale e, con questo , come ciò che è puramente «identico ». Come dovrebbe avvenire allora la ricerca o la comprensione postulata del non-identico, se questa volesse rinunciare ad ogni identità ed universalità, dunque anche al puro concetto e al concetto di un soggetto universalmente trascendentale? Già la «teoria della conoscenza», quale accertamento e legittimazione delle possibilità di conoscere, sarebbe impossibile. Contrariamente alta analisi razionale trascendentale il silenzio «teoretico-conoscitivo» provocherebbe necessariamente un passaggio alla conoscenza per immagini. Nell' «addio» alla filosofia dunque anche i concetti si interrompono e divengono immagini ... Non la filosofia prima è attuale, ma una filo sofia ultima» 16 • Come in precedenza in Schelling, ma ora senza un 15
16
E., p. 28. E. , p. 47.
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assoluto, la fi losofia è l'organon dell'arte che supera se stessa. Bisogna, inoltre, chiedersi se una dialettica che procede in modo puramente negativo , sebbene pretenda di sottrarsi ad un primo assoluto, non rimanga, tuttavia, in «balia dell'identità», in quanto cerca di dar figura al non-identico e di aiutarlo a raggiungere la sua esistenza. La negatività, quale rovesciamento o distruzione del «semplicemente» identico sempre presupposto, non è la «prima» realtà cripticamente ipostizzata di questo pensiero, l'assoluto hegeliano rovesciato in male radicale? Vi sono in generale criteri in grado di chiarire per se stessi il non-identico? Il pensare può sottrarsi alla polarità di affermazione e negazione? Come potrebbero, allora, essere classificati i due poli? È evidente che l'identità , o la realtà prima, - in una riflessione ermeneutica consapevole - non deve essere senz'altro intesa (e perciò con minor pericolo) al modo in cui la dialettica adorniana la caratterizza o la suggerisce 17 • Questo vale per Hegel non meno che per Platone e Parmenide. In modo grottesco la dialettica, che è, secondo il suo intendimento, non affermativa, si capovolge in una ostentazione da essa stessa (giustamente) sempre sospettata, quando ad esempio accusa Platone, per il cui pensiero domanda ed aporia sono costitutive , d'avere, come un sofista, «tutto nel sacco e di conoscere tutto» 18 • Questo linguaggio tradisce una comprensione emozionalmente distorta dell'ironia platonica che contraddice del tutto il sistema rigido, e, ad un tempo , s'oppone al «dialogo» platonico, forma di pensiero che si corregge continuamente senza lasciare il tutto in sospeso e senza decidere in modo dogmatico. Porre P latone accanto allo «stregone» e al «portatore di vascolo » 19 , non è una questione di «gusto»,
n riferimento storico concettuale di Adorno all'uso del «termine» identità nella filosofia moderna si limita, oltre a Hegel, a Kant (ND., p. 143, nota [trad. it . , p. 127, nota 2]) . Risulta incom prens ibile il coraggio con cui Adorno esprime un verdetto universale sulla cosiddetta metafisica dell'identità senza riflettere in modo esplicito o anche in modo implicitamente riconoscibile, intorno al concetto d' identità , come è avvenulO finora nelle nostre riflessioni. 18 E., p. 22. 19 E., pp. 22, 35. In tale modo Adorno descrive il legame tra Plato ne ed i sofisti («disoccupati diventati uomini di medicina»; E., p. 22):
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ma una contraddizione non chiarita circa la presenza dell'elemento socratico nel pensiero di Platone. In modo ancora più grave patisce, sotto questo punto di vista, l'identità di Hegel, citata come tautologia che mena immenso vanto di se stessa. In realtà, non è pensabile un aspetto centrale nella dialettica adorniana senza l'identità dialettica di Hegel, la quale concepisce se stessa come autoconsiderazione riflessiva del contenuto e nella quale metodo e contenuto si «identificano» reciprocamente. Di qui l'insistenza· adorniana sulla valenza fondamentale della forma verbale d'una concezione che s'annuncia nel postulato «di avvicinare fino all'indistinguibilità espressione e contenuto» 20 • Anche l'asserzione di Adorno, per la quale il mutamento, in quanto compito filosofico, si oppone all'idea d'una philosophia prima, deve essere contraddetta. Essa implica che la filosofia abbia nella sua storia affermato e confermato soltanto l'esistente e non gli abbia mai rivolto un'effettiva critica. Se la filosofia avesse sinora favorito sempre solo un accomodamento con l'esistente e ne fosse stata la conferma (come sua struttura intelligibile), allora dovrebbero essere lasciati da parte tutti quei fenomeni che non possono essere considerati come una conferma dell'esistente, e che hanno quindi «preceduto» l'attuale situazione socio-politica o hanno rispetto ad essa pensato il contrario: Platone, Epicuro, Platino, Agostino, Kant dovrebbero essere, riguardo a questo complesso di questioni, trattati in modo differenziato. Secondo Adorno, alla filosofia per se stessa, come s'è mostrato, è propria la tendenza all'autosuperamento. Invero essa non può, anche essendo permanentemente negante, sottrarsi al concetto come atto del concepire e del comprendere; se lo fosse darebbe anche addio alla parola. Il suo fine trascende il «concetto»: in essa vi è lo sforzo «di giungere, tramite il concetto, oltre di esso» 21 • « ... Che il concetto possa superare il concetuna forma determinata di retorica (la sofistica), questa amenità di Adorno rivela una notevole cecità rispetto al fatto che proprio il dialogo platonico cerca, attraverso il logos empsychos, d'imprimere un movimento ad una concettualità fissa e criticamente risolve ciò che sembra evidente, senza tuttavia con questo, sottrarre, in modo relativistico, terreno al pensiero. 20 ND., p. 62 [trad. it., p. 50]. 21 ND. , p. 25 [trad. it. , p. 15].
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to, quel che è apparato mutilante, e così avv1cmarsi all'aconcettuale, è indispensabile alla filosofia e quindi parte dell'ingenuità di cui soffre» 22 • Questo è ciò che in essa oscilla, «espressione d eli 'inesprimibile in se stessa. In ciò essa è veramente imparentata con la musica» 23 • Il trascendere sè della filosofia non è, però, il salto in ciò che è assolutamente indeterminato o irrazionale, anzi risulta essere la difesa di un concetto strumentale, in sé fisso e usabile a piacere, che agisce come se sapesse sempre già ciò che è e deve. Ma alla fine la difesa del concetto· si trasforma in immagini.
22 23
ND., p. 19 [trad. it. , p. 9]. ND., p. 113 [trad. it., p. 98].
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II. L'arte come rappresentazione del non-identico in Adorno
In che cosa è filosofia ciò che è «senza concetto», ciò che «compare» nella nat ura, nell'individualità, nella società, così come essa deve essere, questo si rivela nel!' arte, mediato in forma e figura. Se identità e concetto sono indivisi bili l'una dall'altra, così, rispetto a ciò, l'arte, e principalmente la mus ica, come il diventar figura di ciò che è senza concetto, è il non identico per eccellenza. La sua verità è il non identi co. La differenza dell'arte nei confronti de ll'esistente, il suo connaturale essere altro, che nella sua verità si rivela essere il non identico, viene rafforzato dall'affermazione che «vero è solo ciò che non si adatta a questo mondo» 1 • Un'opera d'arte può dirsi «Vera» solo se in qualche modo e forma si oppone allo stato attualmente esistente, che viene presupposto come «non vero», e d unque se Io nega, lo trascende o Io critica con il pro prio essere . Le vere opere d'arte non si identificano con il mondo falso (come un gigantesco giudizio analitico), ma vivono dell'estraneità rispetto ad esso, sono semmai il negativo, nel quale il possibile si dà da conoscere in una cifra. Dunque , le opere d'arte fanno sapere che questo mondo deve essere diverso, sono «prototipi inconsapevoli del cambiamento del mondo » 2 • I ntendere l'arte come una «consolazione», nel senso d'una pura affermazione, sarebbe discreditarla. «L' arte si può ricond urre tanto poco alla formu la generale della conso lazione quanto poco alla formula contraria» 3 • Ogni vera opera
1
2
AT., p. 93 (trad . it., p. 100]. AT., p. 264 [trad. it., p. 297].
3 !bi, p. 11 (trad . it., p. 5]. Cfr. anche ibi, p. 26 [trad . it., p. 22]: «l'arte ... vicaria d' una prassi migliore». !bi, p. 127 [trad. it., p. 140], «L'arte rettifica la conoscenza concettuale perché l'arte, a parte, compie ciò che quella invano
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d'arte è dunque il comparire di un possibile. Proprio perché nell'arte deve apparire ciò che dovrebbe essere possibile, ma no n lo è ancora, essa sostituisce ciò che non è estraniato. La «natura» potrebbe diventare il paradigma di un'arte che porta ciò che non è estraniato, o ciò che non è identico, a manifestarsi. «Che le opere d' arte ci siano indica che ciò che non è potrebbe essere. La realtà dell'arte testimonia la possibilità del possibile» 4 • O ltre a ricordare la concezione di Ernst Bloch, questo carattere utopico dell'arte, come realtà che ~or ta alla luce il non-ancora, impedisce ad essa d'essere semplicemente la piatta ripetizione o il riflesso che conferma ciò che è la tendenza a l suo «raddoppiamento». L'impulso verso il n~n-esistente la eleva al di sopra della proiezione di ciò che comunque è. In q uesto impulso dell'arte Adorno vede un momento teologi co che consiste nella «secolarizzazione della rivelazione». Certo l' arte non può essere direttamente congiunta alla rivelazione; né sarebbe, quindi, da favorire l'arte com e «sostituzione della rivelazione» . Ma, d'altra parte, proprio la distruzione in essa della traccia della rivelazione potrebbe ab b assare l'arte a ciò che in precedenza era inteso come «indifferenziata ripetizione di ciò che è» 5 • Secondo questa prospettiva come essenziale all 'arte deve essere indicata a nche q uella co~a che «non c'entra» con essa, quella cosa che la rende incommensurabile all a p ura empiria o alla misura empirica 6 • La pura conferma o la ripetizione indifferenziata della realtà trova opposizione in un intento essenziale dell'arte: la trasf?rm~ zione della realtà; e questa richiama l' attenzione sull' «ep1fama della sua essenza nascosta» 7 • Ma tutto ciò implica anche che le opere d'arte possiedano il carattere di conseguenza che non ammette compromessi e - affermando il concetto ~i epifani~ - spingano così avanti gli impulsi, che sono all 'mterno dt loro stesse, sino a diventare leggibili come «idee della cosa stessa»s. All'assenza di compromessi, alla non-identità o alla si aspetta dall'astratta relazione tra soggetto e oggetto: che tramite un lavoro soggettivo si rivela un fatto ob biettivo». 4 AT., p. 200 (trad. it. , p. 224]. s !bi, p. 162 [trad. it., p. 179]. 6 Jbi, p. 499 [trad. it., p. 563]; DA. p. 24 [trad. it. , p. 26]. 7 !bi, p. 384 [trad. it., p . 43 11. s PM. , 12 [trad. it., p. 9] .
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non conformità delle vere opere d'arte sta, perciò, in brusca opposizione - nel caso sia pensato coerentemente - ogni forma di convenzionalismo o di «classicismo». L'arte ha anche il ruolo di luogotenenza del non-identico, dal momento che essa - ciò potrebbe intendere la concezione adorniana - prova e difende la sua «assenza di fine» attraverso la sua esistenza stessa, in contrasto con una situazione sociale che è completamente determinata da un pensiero razionalmente finalizzato da tecnicizzazione e burocratizzazione, e che più per convenzione, o indulgenza, o anche abbondanza concede all'arte uno spazio libero, che è pur sempre tollerato, ma che diviene sempre minore. Le opere d'arte hanno certo un «significato», ma non un fine immediato, in quanto non propongono nulla di ciò che è unilateralmente traducibile nel linguaggio dei fini; al contrario esse «significano». Contrasto estremo, ironizzante e critico rispetto al mondo tecnicizzato e razionalmente finalizzato sono, ad esempio, le costruzioni di Tinguely di machines inuti!es come opere d'arte che, tramite una tecnica estranea e morta, elevano una protesta. Una tecnicizzazione dell'arte che appaia funzionale e che la leghi inalienabilmente a forme utili, pone, d'altra parte, l'arte stessa in contraddizione con la sua assenza di fini. Questa caratteristica fondamentale dell'arte, nella quale proprio l'assoluta disposizione all'utile della vita non artistica si specchia e, così, può essere portata ad una coscienza elevata, viene addirittura posta apertamente sotto il modello della domanda circa il fine per «legittimare» se stessa, per rendere consapevole la propria legittimità. Ne è esempio il saggio A che serve la lirica? di Hilde Domin. Rispetto ad un pensiero razionalmente finalizzato bisogna certo ammettere che il mondo attuale «funzionerebbe» senza alcun genere di arte altrettanto bene di come ora «funziona». Di sicuro non ci sarebbe allora - forse tranne che nella filosofia critica, nella teologia o nella sociologia - alcuna riserva alla possibilità di mostrare in modo non diretto alla società ciò che essa è e ciò che non è, ciò che potrebbe e dovrebbe essere. Lo si potrebbe ugualmente anche chiarire con la promessa di felicità come essa appare, prima degli sfaceli, nella musica di Mahler ad esempio o come essa è diventata forma nell'«ordo», dell'Arte della fuga di Bach che pur essendo matematico si muove del tutto liberamente. Questa, proprio
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per l'attuale situazione storica, potrebbe diventare un'istanza contraria, ossia una riminìscenza o uno sguardo al possibile e al sensato. La fine dell'arte equivarrebbe ad una restrizione essenziale di ciò che di libertà, fantasia, immaginazione e creatività ancora rimangono, e sarebbe una riduzione a qualcosa fatto solo per il consumo, per il mantenimento di sé da parte della specie o per la sua (non proprio progettata) distruzione simulata, conferma ed incremento della dittatura dell'immediatamente utile, del raggiungimento del massimo di profitto e della massima produzione. Dopo tali accenni alla funzione dell'arte, che riguardavano la tesi intorno alla sua verità e, quindi, al suo rapporto con la società, devono ancora essere chiariti e distinti proprio i seguenti due aspetti 9 • a) Da quando esiste, l ' affermazione «verità dell'arte» offre notevoli difficoltà alla riflessione analizzante. Che cosa può significare l'unione di verità e arte di fronte a quella di «arte e bellezza»? Anche la verità è, come la bellezza, un elemento dell'arte? Noi siamo abituati a concepire la «verità» come carattere di un enunciato, a indicare come «vere» delle proposizioni o della affermazioni intorno ad un fatto. Questo significa, nella gran parte dei casi, che l'enunciato, cioè la forma verbale delle proposizioni, vuole rendere comprensibile un fatto al pensiero. Dell'enunciato viene supposto che esso corrisponda al contenuto, al fatto, al problema; «concordi» con esso. La differenza tra contenuto ed enunciato consiste nel fatto che l'enunciato deriva da una sfera di altro tipo rispetto al contenuto. Quella del pensare e del comprendere. Questa differenza viene, in una certa misura, superata in un altro concetto di verità, che concepisce il «vero» come un concetto strutturale della cosa o del fatto stesso: la cosa, o il fatto, è da se stesso manifesto , non nascosto, accessibile al pensiero. Un tale non nascondimento, che è una struttura del contenuto stesso, è certo traducibile anche in linguaggio, altrimenti la verità del contenuto o il contenuto stesso non sarebbe comunicabile. Dunque ciò che è nel contenuto non nascosto si mostra nell'enunciato, fa in essa la sua apparizione per il comprendere. 9
Almeno a partire dall'Estetica di Hegel; cfr. ad es. I, pp. 81, 157 [trad. it., p. 67): «verità dell 'arte».
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Anche quest'ultimo aspetto si riferisce ad un rapporto di corrispondenza tra enunciato e contenuto che modifica in tal modo la sopramenzionata forma di verità che il vero nell'enunciato corrisponde al vero nella cosa o nel fatto, risponde ad esso, lo esplicita. Un'altra possibilità di concepire la verità come elemento o caratterizzazione dell'arte può essere questa: un'opera d'arte appare come «vera» quando è in sé consona, per così dire senza contraddizione - nonostante le differenziazioni in essa poste ed in essa operanti -, così che gli elementi che la costituiscono come un intero , tendano, nonostante la loro eterogeneità, ad un unico significato, certo né immediato né intelligibile come intero. Verità significa, in questo senso, l'intima conseguenza di un'opera d'arte, la risposta nella forma artistica all'intenzione dell'artista che crea. Verità dell'arte può significare anche la sua «veridicità»: che un'opera d'arte non sia prodotto di una ideologia e, così, non seduca ideologicamente i suoi recepenti, che non nasca - cosa che la discrediterebbe - da una ricerca di adattamento e non si voti ad ogni costo a ciò che sembra essere moderno, en vogue, che essa tuttavia non sorga come restituzione o imitazione di una cosa in realtà passata e, così, cerchi di conservare, in una situazione storica completamente diversa, qualcosa che non c'è: inganno della nostalgia. A quest'ultimo aspetto della verità s'avvicina moltissimo ciò che Adorno intende con verità e contenuto di verità dell'arte o dell'opera d'arte. Con questo egli si trova in una ambivalente sequela di Nietzsche, il quale poneva la «veridicità dell'arte» in opposizione alla «natura bugiarda» 10 • E tale sequela di Nietzsche è ambivalente perché, come si vedrà più tardi, pur non essendo proprio mendace, la natura nasconde in sé ciò che l'arte deve portare a manifestazione in quanto misura di un essere possibile della società. Escluso dai suddetti concetti possibili di verità è il primo, che Adorno definisce concetto tradizionale di verità della metafisica 11 • Qui Adorno si oppone alla supposta trasposizioIO Nietzsche, Der letzte Philosoph. Der Philosoph. Betrachtungen iiber den Kampj von Kunst und Erkenntnis, Gesammelte Werke (Musarion), VI, p. 31. Il Il desiderio adorn iano del non-identico si rivela, perfino, nella sostituzione ali 'interno della formula veritas est adaequalio rei et intellec!us, del generico et con il più intenso atque.
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ne universale della verità nel concetto. In modo simile al rifiuto che Heidegger aveva fatto del concetto tradizionale di verità come adaequatio o correspondentia, anche da Adorno viene nascosto il secondo aspetto della verità, ossia che essa è un momento fon damentale della cosa o dell'essere stesso. A partire da questo nascondimento Adorno può cadere tanto più facilmente nell'affermazione che il concetto tradizionale di verità - un elemento nel sistema dei concetti puri - non raggiunge il processo sociale e storico, non esprime assolutamente nulla a riguardo. A questa riduzione del concetto tradizionale di verità s'oppone il fondamentale convincimento di Adorno secondo cui la verità avviene esclusivamente nel processo dialettico della società. Solo se si pone ciò a presupposto, gli enunciati veri possono permettere anche delle prospettive di mutamento della situazione sociale; e questo, il mutamento, è diventato il compito per eccellenza della filosofia. Dall'unione postulata di verità ed arte, o dalla verità, come carattere fondamentale dell'arte, risulta, quindi, necessariamente la correlazione di arte e storia, arte e società. L'arte diviene punto di cristallizzazione della storia o della situazione sociale. Come, di volta in volta, risponde l'arte alla situazione vigente? In quale modo essa la «formula»? Nonostante ogni epoché nei confronti dell'«enunciato», una «risposta», una «formulazione» è possibile solo in una forma linguisticamente analoga, in un linguaggio sui generis. Anche se Adorno rifiuta, per l'essere dell'opera d'arte, il concetto di verità come adaequatio di enunciato e fatto, tuttavia a lui si pone la questione di una adaequatio, in quanto l'arte deve essere concepita da una parte come linguaggio sui generis, dall'altra come una «risposta» alla situazione storica. La misura della concordanza diviene, anche nella negazione, misura per il contenuto di verità dell'arte o per l'autenticità di un'opera d'arte. La critica- quale funzione dell'arte- sarebbe proprio la forma negativa dall'adaequatio e avrebbe in ciò la sua verità. Nella teoria estetica di Adorno, la «verità» diviene l'elemento . che unisce filosofia e arte. «Filosofia e arte convergono nel contenuto di verità: la verità progressivamente dispiegantesi dell' opera d'arte non è altra che quella del concetto filosofico . ... Il contenuto di verità delle opere ... coincide ... con la verità filosofica ... l'esperienza estetica genuina deve diventare fi-
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losofia oppure non c'è affatto . La condizione dellapossibilità della convergenza di filosofia e arte è da ricercare nel momento dell'universalità, che l'arte nella sua specificazione - come linguaggio sui generis - possiede». «Il marchio delle opere d'arte autentiche è che ciò che esse appaiono dia di sé una tale manifestazione da non poter essere una bugia, senza che però il giudizio discorsivo pervenga alla sua verità» 12 • «Le grandi opere d'arte non possono mentire» 13 • Quest'asserzione contrasta, in una certa misura, con l'antico topos greco: «i poeti mentono». Certo qui non viene in origine intesa una generale svalutazione della poesia, ma un ammo nimento critico al rapsodo ad esporre ciò che è vero, a presentare, in forza della memoria, ciò che è nobile 14 • Ciò fondamentalmente significa che l'epos deve comunicare la verità nel modo con cui un enunciato deve concordare con il fatto inteso. Bruno Snell ha chiarito in La cultura greca e le origini del pensiero europeo 15 che la generalizzazione dell'accusa di «menzogna» è nata proprio con l'affermarsi dell'illusione come elemento costitutivo del dramma. In esso domina una tecnica diversa da quella dell'epos: la tecnica dell'attualizzazione· la «rappresentazione» (mimesis) rende cosciente la differenz~ di realtà ed arte. Rappresentazione, illusione e finzione divengono una realtà di tipo proprio, la realtà della poesia, che non può pretendere di presentare il suo oggetto «come esso è stato»; in questo la poesia si distingue, secondo Aristotele, dalla storia. Se la prima presenta più l'universale e, quindi, è «più filosofica» della storia, allora essa non è direttamente impegnata nella cosiddetta verità storica; rappresentare come l'universale «dovrebbe o potrebbe essere stato» è il suo tratto «idealizzante» e, insieme, illuminante, che nel recepente va in cerca dell'universale 16 . La conoscenza che l'illusione, o la finzione, è la vera e propria forma effettiva della poesia, inoltre, opera addirittura il rovesciamento dell'asserzione «i poeti men12
ÀT., p. 197 [trad. it., pp. 220-1 ]; p. 199 [trad. it., p. 223]. p. 196 [trad. it., p. 220] .
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tono» in quella: «le grandi opere d'arte non possono mentire», se vogliono corrispondere all'intento loro proprio. Nell'illusione o nella finzione si mostra la loro verità. Da Parmenide in poi, alla verità è opposta l'apparenza. E questa sarebbe la «menzogna». Platone ha spinto tale opposizione agli est remi nella Repubblica: la poesia non può rivendicare una funzione positiva nell'ordi ne costruttivo dello stato, poiché essa - quale mimesis - è essenzialmente inganno, è ciò che dà l'illusione di un irreale e, produce, ad un tempo, una confusione nell'anima. La poesia non solo migra dalla verità, ma non lascia nemmeno alla coscienza di giungere alla verità; essa indugia sull'antistante terreno dell 'apparenza simulatrice, bugiarda, che s'atteggia a verità. Aristotele ha scavalcato questa reazione radicale alla poesia e, con essa, anche la determinazio ne platonica del concetto di questa, in quanto ha attribuito alla mimesis poetica un contenuto di verità che è assolutamente affine al concetto filosofico di verità. In ciò viene, dunque, già raggiunto il rovesciamento dell'asserzione «i poeti mentono»; anche se Aristotele non lo dice espressamente, tuttavia la finzione (nel senso di «rappresentazione») e, quindi, anche l' «apparenza» vengono riabilitati, almeno come medium della poesia. L' intento di Adorno si rivela del tutto quando egli afferma che il centro dell' estetica sta «nel salvataggio dell'apparenza», o che «l'arte possiede la verità in quanto apparenza di ciò che non ha apparenza» 17 ; essa accenna in anticipo ad una condizione che non ha più bisogno dell'apparenza. Certo non è necessario che Adorno - in opposizione forse alla recezione di Aristotele da parte di Lukacs - per questo aspetto si riferirisca ad Aristotele; più vicino si trova Nietzsche, il quale vede nell 'apparenza la veridicità dell 'arte. Arte concepita come apparenza veritiera: «l'arte tratta l'apparenza come apparenza, dunque non vuole proprio ingannare, è vera» 18. L'«apparenza» deve, anche secondo Adorno, essere liberata dal suo carattere (pre)illusorio . Di conseguenza, l'arte non potrebbe essere altro che l'apparenza nel senso di appar!Zlone di una realtà che è in sé «senza apparenza», o l'apparenza
14
Scnofane, fr. B l, 19 ss. (Fragmente der Vorsokratiker, ed. Diels-Kranz, !9609, 127).
15
Gotti ngen !975 4 , p. 95 [trad. it. di V. Al berti e A. Solmi: Snell, La cultura greca e le origini del pensiero europeo, T orino, Einaudi 1963]. l6 Aristotele, La poetica, c. 9; 1451 a 36 ss.
17
AT., pp. 164, 199 [trad . it. , pp. 181, 222).
18 Nietzsche,
op. cit. (cfr. nota IO), p. 98.
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di qualcosa che è senza apparenza: dovrebbe apparire come realtà pura - ciò che può essere, ma che ancora non è. Questo concetto di apparenza è connesso al carattere storico dell'arte: le opere d'arte indicano sempre qualcosa che è al di sopra di sé, danno origine, per così dire, alla loro propria trascendenza storica; in quanto non sono, tuttavia, teatro di questa, esse sono di nuovo separate dalla trascendenza. L'ambivalenza dell'apparenza, o il fatto che l'arte possa essere «solo» apparenza, e così stia, quale realtà particolare, al posto della realtà possibile o necessaria, conferisce, come afferma Adorno, «a tutta l'arte la tristezza che ha; una tristezza che è tanto più affliggente quanto più perfettamente il contesto ben riuscito suggerisce un significato». «L'opera d'arte è apparenza non solamente come antitesi dell'esistente ma anche nei confronti di ciò che essa vuole da se stessa» 19 • Il suo intento va oltre ciò che viene raggiunto nella forma; come «cosa finita», non raggiunge neanche ciò che vuole essere. Anche così è apparenza; una cosa «in apparenza» compiuta. Nonostante la sua completezza ha sempre con sé l'ammissione d eli' <
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tà di spiegare non solo il fenomeno dell'arte guidata politicamente e ideologicamente (il dominio del contenuto in essa), ma anche le variazioni del kitsch. b) È stato già più volte mostrato che la concezione adorniana della verità e del contenuto di verità dell'arte è essenzialmente determinata dalla questione intorno al suo rapporto con la società. La riflessione su entrambi gli ambiti della questione esplica il concetto di non-identico. Il metodo dialettico di Adorno e l'elemento critico in esso presente lo trattiene da un giudizio radicale riguardo al rapporto tra arte e società, così come da un modello grossolano, per il quale la struttura politicoeconomica condiziona direttamente anche la sovrastruttura artistica, o da quello secondo cui, essendo la realtà sempre realtà sociale, l'arte si sviluppa come «autocoscienza dell'umanità che cresce di pari passo alla umanizzazione (sociale) dell'uomo» (Lukacs) o, per illustrare il punto di vista del rapporto tra la sovrastruttura ideologica e la struttura economica con un esempio assolutamente evidente: «La fuga bachiana s'estinse verso la fine del XVIII secolo e venne sostituita dalla forma sinfonica. Questo è in chiara relazione con l 'ascesa del capitalismo, del regno dell'impresa, con il montante principio della libertà generale. Vennero allora pretese la posizione di soggetti e quella di controsoggetti, mentre la fuga riflette lo stato corporativo come sovrastruttura di voci, che stanno l'una sopra l'altra, e non di voci in divenire» 21 • E le fughe di Mozart, di Beethoven, quelle di Bruckner e di Reger - tutte anacronismi o nostalgie di uno stato corporativo? Rispetto a ciò, Adorno fa da mediatore tra il concetto che l'opera d'arte, da una parte, sia, di per sé, genuinamente se stessa - autonoma - , e che, dall'altra, sia un «fatto sociale». Sebbene nelle opere d'arte sia in gioco, in modo del tutto costitutivo, una «profonda corrente collettiva», esse vengono con difficoltà «dedotte» - eziologicamente - in modo diretto dalla società 22 • Se la verìtà o il contenuto di verità è, nel senso descritto, un tratto fondamentale dell'opera d'arte autonoma, se la verità deve essere compresa come il non-identico, 21
19
AT., p. 161 [trad. it., pp. 178 s.].
20
Noten zur Literatur, 1, p. 77 [trad. it., I, p. 48].
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E. Bloch, in: Tagtriiume vom aujrechten Gang, a cura di A. Miinster, Frankfurt 1977, pp. 144 s. Rispetto alla solita sensibilità di Bloch in musicis, questa affermazione è, in modo degno di nota, contraria . 22 A T. , p. 19 [t rad. it., p. 15] .
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come «ciò che non si adatta a questo mondo» 23 , allora la misura di verità di un'opera d'arte è da cogliere proprio dalla sua «antitesi», dalla sua forza di resistenza ad essa, in quanto lo stato attuale del mondo e della società non è altrimenti diagnosticabile che come «falso», come un sistema colpevolmente implicato, con riguardo al quale di fatto fa meraviglia che esista in generale arte. L' estraneità al mondo è, perciò, un momento fon damentale in essa 24 • Per questa ragione essa ha nei confronti dell'esistente una funzione, analogamente alla dialettica negativa, essenzialmente critica: le opere d'arte annunciano che questo mondo deve essere diverso, sono «inconsapevoli prototipi del suo cambiamento» 25 • La loro funzione sociale consiste antisocialmente proprio nella loro assenza di finzio ne 26 • Se l'arte è, o almeno implica, correzione o critica della società, poiché essa è apparizione di ciò che nella società ancora non è, e tuttavia dovrebbe e potrebbe essere, la società non può, all'opposto, concepirsi semplicemente come imitazione dell'arte, per diventare «copia» di questa, scadendo ad apparizione superficiale, illusoria dell'arte 2;; essa deve piuttosto - e questo è, insieme, una pretesa ed una promessa che derivano dall'arte - diventare a partire da se stessa, dai propri elementi, ciò che le opere d'arte di volta in volta già sono. Le opere d'arte hanno carattere di appello nei confronti della società; o lo dovrebbero avere. L'autonomia estetica, o il nonidentico dell'arte, si mostra, perciò, proprio nella sua forza di resistenza sociale: ciò che in essa è sociale, è il suo movimento immanente contro la società, la sua antitesi artificiale, che presenta ciò che è vero, rispetto all'intero, esperito come falso. Da questo è comprensibile anche il particolare significato che Adorno assegna proprio alle «creazioni ermetiche» dell'arte (ad esempio Valéry o George, Celan o Beckett, Schoenberg, Berg e Webern): esse, cioè, «criticano il vigente più di quelle che per amore di una critica sociale comprensibile si /bi, p. 93 [trad. i t., p. l 00]. lbi, p. 273 [trad. it., p. 328] . 25 lbi, p. 264 [trad. it., p. 297]. 26 !bi, p. 336 [trae! . it., p . 377]. Cfr. sopra, p. 329, intorno alla «libertà di fine » dell'arte. 27 Come in Schelling, l'«estelizzazione» dello stato ha carattere assolutamente utopico (Werke , VI, pp. 575 s.). 23
ADORNO
339
dedicano ad un 'opera di conciliazione formale e riconoscono tacitamente come valido l'esercizio della comunicazione, fiorente in ogni dove» 28 • In modo corrispondente l'estetica di Adorno, proprio perché dà all'elemento sociale il suo diritto all'opera d'arte, non diviene un'arringa per l'insegna, banale in sé e nei suoi risultati, dell' «arte per il popolo», ma contrasta anche con la rappresentazione dell'«arte come fenomeno che si segrega in modo elitario». «Ermetica» deve essere l 'arte solo in quanto si sottrae proprio alla tendenza generale della società, all'affermazione di questa e con ciò al rafforzamento acritico dell'esistente. Essa si sottrae primariamente in forza della sua struttura autonoma, che si documenta nella forma, in forza del desiderio evidente di «rilevanza sociale». In forma autentica essa critica la società solo attraverso la sua semplice esistenza, in quanto oggettivamente si presenta con la libertà, che le è propria, come immagine invertita rispetto alla società «vincolata». Proprio per questo s'accresce in essa, secondo Adorno, la più grande attività per la società. A motivo della sua forma autonoma, essa rappresenta già a sufficienza un'accusa. L'esigenza di una diretta applicazione pratico-politica dell'arte fa sorgere l'illusione che in un mondo di mediazione universale dell ' agire e del pensare razionalmente finalizzato (questa espressione caratterizza per Adorno il mondo in quanto gigantesco giudizio analitico) ciò che in sé è immediato, in quanto autonomo e autentico, debba essere realizzato immediatamente. Ciò che è immediato verrebbe ridotto semplicemente a mezzo 29 • Così il concetto (l'utilità dell'arte per la società) delineato all'inizio viene, in modo inaspettato, raggiunto per via indiretta nell'antitesi alla società e viene consolidata la fondamentale libertà dell'arte riguardo al fine. L'arte si comporta dunque in modo socialmente giusto e necessario solo «quando essa segue la propria legge di movimento» 30 , cioè se essa sviluppa la sua autonomia e non s'adatta a forma e contenuto dettati 31 • La critica che l'arte stessa - non principalmente a partire dal
24
28
AT., p. 218 [trad. it., p. 245].
29 30
Noten zur Literatur, I, p. 183 [trad. it. pp. l 13-4]. Dissonanzen, p. 63.
31
Caso estremo, disapprovato dalla stessa arte, è quello dell'A gitprop.
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!DENTIT À E DI PPERENZA
suo contenuto, ma attraverso il suo modo d'essere come opera d'arte - rivolge all'assenza di fine, prossima alla follia, del progresso della ragione razionalmente finalizzata, permette, nonostante la più diversa provenienza storica delle opere d'arte, uno sguardo su ciò che deve o potrebbe essere. Le opere d'arte sono portatrici di implicazioni utopiche - concezione che Ernst Bloch, sin dal suo Spirito dell'utopia (in particolare a partire dalla musica), ha sviluppato sulle basi di una ricca esperienza estetica. Il potenziale di possibilità e di utopia dell'arte ha il suo fondamento nel fatto che le stesse opere d'arte vengono intese come processi storici: niente di stabilito, fissato in modo definitivo, niente di capace dì un'interpretazione «infinita»: esse sono solo «ciò che possono diventare» 32 • Questa affermazione allude alla possibile forza modificante dell'arte, e riferita all'evoluzione storica del genere umano, così viene a formularsi: l'arte «Si schiera dalla parte di ciò che noi potremmo essere un giorno» 33. La fondamentale opposizione dell'opera d'arte ermetica, o autonoma, verso ciò che è identico nel pensiero e nella società non può certo preservarla dal fatto che ciò che era in essa originariamente, nella costellazione storica del suo sorgere, provocatorio, viene paralizzato dall'industria culturale, che ha una funzione livellatrice, e, quindi, vie ne falsificato in affermazione armonistica. Talvolta l'opera d'arte ha bisogno di una difesa dai suoi nuovi «amanti». La struttura di identità della società, che cerca di trasformare tutto interamente in se stessa, potrebbe diventare operante propri o come costrizione snobistica: la società accetta nelle opere d'arte, antitetiche rispetto ad essa come intero, proprio ciò che è antitetico, ciò che nega , e rende così la funzione dì verità dell'antitesi rapidamente una comunicazione senza asperità. La provocazione insita nelle opere d'arte viene livellata da questo metodo, manipolato, in certi casi persino consapevolmente, da funzionari della cultura, in qualcosa di totalmente rassicurato o rassicurante (cfr. ad esempio la denominazione «classico moderno» nella pittura e nella musica). La funzione critica dell'arte nei confronti della società, così come Adorno cerca di esplicitarla secondo la concezio32AT., p. 533 [trad . it., p. 602]. Noten zur L iteratur, I, p . 191 [trad. it. , p . 11 9).
33
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ne del non-identico, ma anche l'estetica dell'apparenza, come essa consegue dal concetto di utopia e dal principio-speranza dì Ernst Bloch, è in sé sicuramente convincente e, proprio nell'attuale situazione storica e sociale, è densa di significato e addirittura necessaria. La sua indiretta provenienza storica testimonia appunto un'antica pretesa dell'arte, che Ado rno non nomina certo come tale: in conformità con l'idea romantica, all'arte spetta u n ruolo anticipatore, che si realizza in uno stato finale (non pensato hegelianamente) dello spirito o della stori a, il quale è impensabile senza l'elemento religioso. Un esempio è rappresentato dall'affermazione programmatica di Clemens Brentano: «tutta l'arte vera è un precorrere la rinascita, poiché il suo tendere va verso l'eterno, va, senza saperlo, verso il Signore»; o anche dalla concezione schlegeliana della poesia universale; o dal postulato esorcizzante di Schelling di un nuovo mito e d'una nuova poesia, nei quali si dovrebbero unire, in libertà, natura e storia. In una creazione tanto delicata e sensibile come quella dell'arte, è però giustificata la domanda se ad essa possa venir assegnato il «carico» d'una forza che trasforma il sistema e la situazione storica partendo da una coscienza in una certa misura realistica. Nondimeno non deve risultare già cancellata con questa domanda la indicata possibilità d'una epoché tro ppo scettica nei confronti di ciò che è utopicamente im plicato. Sono percettibili e descrivibili tracce nel «soggetto totale» della società che potrebbero essere ricondotte alla forza trasformatrice delle opere d'arte autentiche, ossia non-identiche? O anche le opere d'arte sono impotenti ad u na reale trasformazione della società nell'intero, nonostante la loro riuscita, nonostante il loro intento volto a chiarire proprio ciò che è contraddittorio nella società e nella storia attraverso una contraddizione estetica? Il non-identico rimane sempre, quale fattore attivo, band ito dal sistema? Appare soltanto come suo accidente impotente? La sola cosa che potrebbe e dovrebbe riuscire è la trasformazione della coscienza di coloro che sì pongono di fronte alle opere d'arte come forme del non-identico. La costituzione d'una coscienza di quel tipo è, tuttavia, un atto di riflessione che confida nell'efficacia trasformatrice del pensiero, del concetto, della coscienza. Nella prospettiva di questa possibile efficacia
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compare la domanda se i rappresentanti della cosiddetta coscienza universale si lasciano includere in una riflessione di quel tipo. Chi è sempre aperto ad una riflessione sulle condizioni di ciò che oltrepassa l'autoconservazione della società, la riproduzione o l'incremento di essa, si può appunto difficilmente sottrarre all'impegno, che nasce dalla cosa stessa, di rendere, con una vigorosa argomentazione, consapevoli almeno delle possibilità, secondo lui ragionevoli , della produzione spirituale per un processo di schiarimento e forse anche per una metamorfosi della società. L'esperienza, che attraverso la riflessione s'accresce in colui che riflette, può, nella situazione data, diventare soltanto un appello ad esso. Ma ciò è, ad un tempo, anche il massimo. Il ripiegare dalla teoria ad una prassi eventualmente senza teoria né arte, potrebbe solo concludersi in una pura, incosciente affermazione dell'esistente, e una possibile istanza critica si neutralizzerebbe a favore di un Iivellamento barbarico.
III. Il non-identico e la mimesi m Adorno
Che l'arte è o debba essere essenzialmente concrezione del nonidentico, si mostra anche nel concetto adorniano di mi mesi. Determinare tale concetto anche solo in u na misura approssimativa rappresenta certo una delle fasi più difficili del confronto con la teoria estetica in Adorno. La difficoltà trova il suo alimento nel rifiuto «sistematico» di Adorno - rifiuto che si rivela nella pratica dello scrivere - di fissare i concetti; il loro significato emerge - e ciò proprio a proposito della mimesi - in modo multiformemente cangiante nella «configurazione» con altri concetti. Una siffatta configurazione, che oltrepassa la sfera mimetica, avrebbe luogo se si pensasse al concetto adorniano di mimesi sullo sfondo della sua storia sommamente differenziata. Ciò non è mai stato fatto dallo stesso Adorno. Nel nostro contesto sono appunto possibili alcune indicazioni sul nesso della mimesi con il non-identico e sul suo significato per l'arte. Una determinata differenza nell'uso adorniano del concetto di mimesi rispetto alla tradizione estetica sta già nel fatto che la mimesi non è in alcun modo identificabile con l'imitazione, il rispecchiamento, la rappresentazione; né Io è con la rappresentazione interna di ciò che nell'opera d'arte diviene, in quanto «oggetto», forma. Nella Dialettica dell'illuminismo la mimesi, o «tabù mimetico», non è limitata alla sfera dell'estetica, è piuttosto una categoria della spiegazione universale del mondo o un termine di filosofia della storia che include componenti psicologiche come la tendenza di tutta la realtà vitale a perdersi nell'ambiente, invece di imporsi attivamente in esso, l'inclinazione a lasciarsi andare, a ricadere nella natura, a conservare la sua sopravvivenza assimilandosi in modo camaleontico all'ambiente, fingendosi morta. Una simile finzione sarebbe
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fondamentalmente contraddittoria rispetto alla funzione critica e correttiva dell'arte. Di fronte a questo vasto e, talvolta, diffuso aspetto della mimesi e di fronte al tabù mimetico della Dialettica dell'illuminismo 1 viene di nuovo fatto uso nella Teoria estetica tanto dell'apparenza come anche della mimesi come categoria estetica. Esse coincidono con il diventar fo rma nell'arte della realtà non-identica. La «dimensione mimetica» dell'arte ha la sua «verità in forza della critica che mediante la sua esistenza esercita sulla razion alità divenuta ai propri occhi un assoluto. L'incanto stesso, emancipato dalla sua pretesa di essere reale, fa parte dell'affermazione della ragionevolezza (incanto come apparenza!): la sua apparenza disincanta il mondo disincantato» 2 • Che il tabù mimetico (la proibizione all'assimilazione all'esistente) sia un momento essenziale dell'autonomia dell'arte: questo sembra essere la forma potenziat a della mimesi. Se la mimesi non può essere assimilazio ne ad una realtà esterna all'opera d'arte (cosa che corrisponderebbe al tabù mimetico presente nell'opera d'arte), e se, del resto, è anche una categoria essenzialmente estetica, essa può propriamente rimandare solo ad un avvenimento interno all'opera d'arte stessa. « La spiritualizzazione, come permanente estensio ne del tabù mimetico sull'arte, cioè sul regno autoctono della mimesi, lavora all'autoscioglimento ma lavora anche come forza mimetica, attiva nella direzione dell'uguaglianza della creazione artistica con se stessa; essa scevera ciò che a questa è eterogeneo, ed in tal modo rafforza il carattere di immagine proprio della creazione artistica» 3 • La mimesi coinciderebbe dunque - come paradossalmente dice Adorno con il ritrovamento dell'identità dell 'opera d'arte quale adeguamento a se stessa, al suo dover essere, - questo certo contro un'identità pensata in modo sempre identico di storia in sé e di società in sé; identità con se stessa, dunque, che deve essere concepita, rispetto all'intero, dichiarato falso, senz'altro come non-identità. Raggiunta in se stessa mediante la mimesi, «l'identità» dell'opera d'arte è perciò, in quanto non identica, l'alternativa al sistema identico della società. Nel con-
fronto con questo essa limita, almeno potenzialmente, la pretesa di identità della società: questa è la funzione critica dell'arte come mimesi che si sottrae, proprio tramite la mimesi, all'irr igidimento. In quanto ritrovamento dell'identità dell'opera d'arte, la mimesi può quindi, se pensata come «mimesi a», essere intesa come diventar identico del non-identico 4 • Anche per il carattere di linguaggio che i'arte ha vi è u na mimesi (certo non armonicistica). Di tale linguaggio non si può fare un'analogia con un «enunciato» traducibi le in pensiero discorsivo, è invece pensabile secondo ciò che si potrebbe chiamare «linguaggio della natura», che rimanda a qualcosa ultimamente non riscattabile, ma inteso e delimitato in modo preciso. Il linguaggio dell ' arte non «imita la natura né il bello naturale singolo, bensì il bello naturale in sé» 5 ; o: «all'idea di un linguaggio delle cose le opere d'arte s'avvicinano solo attraverso il proprio linguaggio, attraverso l'organizzazione dei loro momenti disparati» 6 (e qui s'intende !'<
1
Cfr. ad es .: pp . 98 s.
2
AT., p. 93 [trad. it., p. 99].
3
!bi, p. 142 [trad. it. , p. 156] .
345
~DORNO
p. p. p. p. p.
202 113 21 1 425 171
[trad. (trad . [trad . [tra d. [trad .
i t., it. , it., i t., it.,
p. p. p. p. p.
226]. 123] . 236]. 477]. 190].
346
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a quello «discorsivo»), tu ttavia non si restringe all'informazione, come vuole l'estetica dell'informazione secondo il modello cibernetico. Si dovrebbe ben più chiaramente dire che l'impulso o il sentimento mimetico è solo verbalmente simile. Ha un carattere verbale 9 • La dimensione mimetica sembra, dunque, essere esattamente quel momento dell'arte che differenzia questa dalla pura razionalità, dunque qualcosa nel quale s'é ritratto il non-razionale senza diventare assolutamente - proprio a causa del carattere verbale - negazione della razionalità, ma pretendendo di trascenderla. «L'arte è il rifugio del comportamento mimetico ... Che l'arte, fatto mimetico ( = gestuale), sia possibile in mezzo alla razionalità e si serva dei suoi mezzi è una reazione alla cattiva irrazionalità di un mondo che è razionale in quanto è amministrato» 10 • Uno dei compiti essenziali dell'estetica consisterebbe, dunque, nel riflettere la dialettica, immanente all'arte, di razionalità da non negare e di mimesi (non concettuale), di modo che l'arte possa essere intesa proprio come mimesi spinta alla «coscienza di se stessa». L'arte è una forma di conoscenza alla quale manca univocamente l'univocità. Con una formula dialettica si può dire: «l'arte è razionalità che critica la razionalità senza sottrarlesi» 11 • Nessuna differenza totale rispetto al concetto o alla razionalità è pensabile per l'arte, poiché anche alla mimesi non concettuale, come momento di razionalità, inerisce almeno questo: in quanto mimesi, l'arte tende, così come (analogamente alla) la conoscenza, alla verità, verità certo nel senso mostrato, nel senso che ad essa è proprio. La mimesi è strettamente unita al fenomeno dell'espressione. Si deve differenziare invece l'espressione dall'enunciato come giudizio comunicabile mediante discorsi. Esso non è nemmeno imitazione di stati personali del soggetto che si manifesta. Piuttosto, l'espressione estetica sarà oggettualizzazione dell'inogettuale12. Essa si muove verso il trans-soggettivo e deve essere intesa come esigenza di qualità: non tutto ciò che si presenta come arte è, eo ipso, anche espressione nel senso /bi, pp. p. Il /bi, p. 12 /bi, p.
9
IO /bi,
170, 172, 41 3 [trad. it. , pp. 189, 191, 463]. 86 [trad. it. , p. 91] . 87 [trad. it. , p. 93] . 170 [trad. it. , p. 189].
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inteso da Adorno. Con «espressione» vengono principalmente caratterizzate le opere d'arte autentiche che, nonostante la loro concinnità, svelano in modo totale la contraddittorietà dell'essere e la sua scissura, e hanno in ciò la loro verità. «L'arte è espressiva lì dove da essa parla, mediato soggettivamente, un elemento obbiettivo: tristezza, energia, anelito. L'espressione è il volto doloroso delle opere» 13 . La riproduzione si sostiene su «ciò che è obbiettivo», poiché l'espressione non deve essere concepita come semplice duplicazione di sentimenti soggettivi e, quindi , a piacere non vincolanti. Tale espressione di dolore dovrebbe essere visibile anche nelle creazioni artistiche che appaiono primariamente serene (punto più estremo nel dolore: la rassegnazione di Schubert; le «catastrofi» di Mahler). L'accertamento del concetto di mimesi è importante proprio nei confronti dell'arte non mimetica. In opposizione alla sua concezione di sé, questa, a mio avviso, persegue, proprio in quest'ultimo periodo, una mimesi di tipo particolare, che rende gli oggetti «simbolo» o «monumento»: ne è esempio l' Erdkilometer di Walter de Marias (documenta 6, Kassel 1977). Esso rimanda allusivamente ad un «centro santo» della terra e si presenta con la pretesa «neomitica» di stimolare, come afferma lo stesso artista, gli uomini proprio con questo oggetto, l' Erdkilometer, «a riflettere sulla terra e sul suo posto nell'universo»: forma moderna, per così dire, delle riflessioni cosmologiche di Cicerone, all'interno del Somnium Scipionis, sulla posizione della terra e dell'uomo nell'universo; anche l' Honigpumpe di J osef Beuys sottende un tipo di rimando mimetico: la continua circolazione di trecento libbre di miele mostra - anche simbolicamente - l'eternamente uguale consumo dell'eternamente uguale Medien-Seim . Tramite il suo «carattere spirituale» (Beuys) è dunque diretta contro il cosiddetto spirito del tempo. La determinazione dell'opera d'arte autonoma come un nonaffermativo, o non-identico, è all'origine anche della disposizione adorniana verso il bello naturale, il cui salvataggio può essere compreso come attacco ad Hegel, che poneva il bello naturale, a motivo della sua finitezza e particolarizzazione, come «prosa del mondo» 14 ; ma anche come ripresa di Kant e 13 Ibidem. 14
Hegel, Asthetik, I, pp . 151 s. [trad. it. p. 170 s. ].
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riminiscenza ottemperata del fine marxiano d'una naturalizzazione dell'uomo e d'una umanizzazione della natura 15 , che ridarà alla natura quel diritto che le è sottratto dall'umano «dominio su di essa». Legato al bello artistico, il bello naturale entra cioè nella teoria estetica in qualità di istanza contraria al sistema, alla società, a ciò che è totalitario. Esso si manifesta come «traccia del non-identico nelle cose sottoposte alla signoria dell'identità universale» 16 • Ha il carattere della promessa di qualcosa che nel sistema o nella società è corrotto distrutto: la vita. «Nella natura è bello ciò che appare più di ciò che esso è letteralmente lì per lì» 17 • Il bello naturale è, per così dire, l'humanum come l'aspetto inaccessibile all'uomo di ciò che prova in natura, come proprio desiderio, come ideale della propria nostalgia 18 • Di conseguenza, il bello naturale diviene, in natura, provocazione ad imitare nel bello artistico la «promessa» della natura senza presentare questo bello, mediante una umanizzazione intenzionale, al modo d'una copia. La natura e l'arte hanno in comune che il bello in loro rimanda, all'interno di un linguaggio non concettuale, ad un in-sé non ancora esistente; e, attraverso questo non ancora del suo essere in sé, l'uno e l'altro si salvano davanti all'intervento identificante del sistema. Qui viene di nuovo a rilevarsi il significato di mimesi. Mediante il suo linguaggio peculiare, l'ar15 Okonomisch-philosophische Manuskripte, MEGA, suppl. I parte, Berlin 1968, 515, 537 s. [trad. di Gaeta no della Volpe: Marx, Opere filosofiche giovanili Roma 1950 [1971], pp. 199, 227 ; oppure in: Opere, III, 1843-1844, Roma 1976: pp. 302, 326 s.), Marx non chiede un ritorno a dimensione unica al rou sseauiano «Retour à la nature» , ma una mediazi one tra una riacquisizione della nat ura attraverso l'uomo (umanizzazionc) ed una riacquisizione dell' uomo attraverso la sua assimilazione ad una «naturalilà» che gli è stata strappata - in opposizione all'industriale estraniazione e reificazione dell'uomo . t6AT., p. 114 [trad. it. , p. 124]. 17 /bi, p. 11 I [trad . it., p. 120] . 18 /bi, p. I 14 [trad. it., p. 123]. Che la natura possa divent are un impulso morale per gli uomini e, quindi, riceva in senso ampio un significato estetico , è un concetto espresso, ad es., nella Philosophie der Kunst, di Schelling. Natura: «per così dire la bellezza morale anticipata». Anche Schiller - nonostante la dichiarata dichiarata opposizione - è vici no ad Adorno . La carat terizzazione a dorniana_della funzione utopica dell'arte come promesse du bonheur (AT. , p. 26 [trad. It ., p. 27]; PM., pp . 120, 199. Nolen zur Literatur, III, p. 134 [trad . it. , H, p. 109]) rima nda all a determinazione rinunciataria di Baudelaire del bello : le Beau n'est que la promesse du bonheur (Oeuvres, ed. Le Damec [Piéiade]. Paris 196 1, p. 1155).
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te si «conforma» alla natura, benché non come se rispecchiasse o rappresentasse in modo realistico: i due linguaggi, della natura e dell'arte, devono essere alla stessa guisa pensati «senza significato» o «con un significato mascherato o velato» 19 • Proprio in questo le opere d'arte sono mimesi della natura (senza duplicarla o introdurla totalmente in un atto di identità, dunque senza risolvere se stessa in natura), in quanto «producono la propria trascendenza», pur non diventando «scena» di questa 20 ; esse hanno in sé un «sovrappiù» irrisolto, utopico, che sicuramente non può essere fissato nel concetto. Il fatto che l'arte stia nondimeno «al di sopra» della natura, della quale segue il rinvio immanente , quasi verbale, pone in un certo modo Adorno di nuovo nella sequela aristotelica: l'arte non solo imita la nat ura (non solo si conforma ad essa), ma la perfeziona (la porta a compimento )2 1 • Per Adorno: «ciò che la natura invano vorrebbe fare, Io compiono le opere d'arte: spalancano gli occhi» 22 • Creata dalle stesse opere d 'arte, la propria trascendenza, in conformità con il divieto di farsi immagini del compimento, rimane necessariamente aperta e vuota, ma è fondamento d'una speranza «che ci consente di tirare un respiro» e inoìtre ci porta inoltre nell' arte e nella filo sofia a considerare tutte le cose «come se esse si rappresentassero già salve ... ». La verità del momento attuale è perciò «inseparabile dall 'illusione che un giorno, dalle figure e dai simboli dell'apparenza ( = dell'arte), possa emergere, nonostante tutto, libera da ogni traccia d'apparenza (cioè effettiva, senz'arte), l'immagine reale della salvezza» 23 • I fattori che determinano la mimesis dell'arte in natura si trovano - oltre a ciò che è stato detto - nel fatt o che la natura non dovrebbe essere ridotta all'ambito di ciò che è disponibile , alla semplice (tecnica) utilizzabilit à. Solo così potrebbe mettere in salvo in sé la speranza «che tutto possa 19
AT., p. 122 [trad. it., p. 133].
20
Ibidem.
21
Aristotele, Phys., 199 a 15 ss. 22 AT., p. 104 [tra d. it., p. l 12] . Cfr. anche p. 121 [trad . it ., p . 133]: «Se il linguaggio della natura è muto, l'arte cerca allora di far parlare il muto» . Riguardo alla meta fora del «colpo d'occhio» , cfr. W . Bcnjamin, Uber einige Motive bei Baudelaire, in: Il!uminationen, Fra nk furt 1961, p. 23 4, «Sperimentare è aura di un fenomeno, significa dotarla della capacità, di aprire lo sguardo». 23 MM., p. 157 [trad. it., p . 141 ].
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avere ancora un buon esito» 24 • Di fronte alla continua corruzione progressiva della natura da parte della tecnica e del pensiero commerciale, la tesi di Adorno può però essere e questo è il massimo - assunta e ammessa come postulato che dovrebbe penetrare ulteriormente nella coscienza generale: la mimesi della natura ormai persa o il ritrovamento della natura attraverso l'arte. La suddetta motivazione ha, tuttavia, anche una componente storico-filosofica di genere assolutamente «nostalgico». Uno degli intenti dell'estetica di Adorno è di far valere il nucleo storico di tutto ciò che percepiamo di «bello» in natura ed arte - «senza una memoria storica non ci sarebbe alcuna bellezza»25. In tale problematica la mimesi si rivela ancora una volta come un'unità dialettica di nostalgia e ricordo. La natura diviene, nella fase civilizzatrice della storia, una riserva necessaria a colui che è in balia dell'universale aggressione tecnica; essa fa sì che sia possibile l'esperienza estetica di pace e sicurezza. In certo qual modo questa concezione viene confermata dal fatto che non si può negare che il sentimento del bello naturale è cresciuto nella stessa misura della «sofferenza che il soggetto rigettato su di sé provava per un mondo ammannito e organizzato; è un sentimento che porta le tracce di un dolore cosmico» 26 •
24
25
AT., p. 114 [trad. it ., p. 125] .
Ibì, pp. 102, 111 [trad . it., pp. 110, 121 ]: «il bello naturale è storia ar restata, divenire che si mantiene in sé>>. Attraverso la poesia (Valéry), mediata «dalla natura», la metafora de ll' «apparition» (manifestazione celeste), al modo dell'epifania, metafora, questa, che ha rilievo storico-religioso, è assunta ad indice del non-identico (ÀT., p. 125 [trad. it., p. 137]), Tertium comparationìs tra «apparizione» ed epifania è la loro fugacità, mutabilità, appartenenza all'attimo: nei loro luoghi di culto gli dei si manifestano «fugacemente» - come la manifestazione nei cieli passa velocemente. Le opere d'ar te sono l' «a ttimo » che evidenzia la loro storicità, la loro fragili tà nella storia, la loro realtà sempre non identica e, di conseguenza, la loro realtà anticipatrice. E secondo tale concezione, anche «i fuochi d'artificio» - una manifestazione artificiale nei cieli possono diventare un fenomeno di significato artistico (AT., p. 125 [trad. it. , p. 137]). 26 AT., p . 100 [tra d. it ., p. 108].
IV. La musica come la forma più intensiva del non-identico secondo Adorno
In relazione alla fondazione della dialettica negati va come nervatura di una estetica altrettanto, almeno nella pretesa , negativa, è risultato evidente che è intento della filosofia giungere», tramite il concetto, oltre di esso» 1 ; e che il concetto possa arrivare a ciò che è senza concetto. Questo intento della filosofia però s'inviluppa continuamente nell'aporia di dover nondimento esprimere il rifiuto nei confronti del concetto in un linguaggio concettuale che cerca d ' opporsi permanentemente al concetto: il tentativo di un «disincanto» del concetto, di una liberazione da esso, in una determinata misura rimane lo stesso in questa sfera o trapassa in immagine come forma di ciò che è senza concetto 2 • Proprio nell'uso, che la filosofia si permette, dell' «inesprimibile», la filosofia viene, nel contesto della concezione adorniana, «affratellata veramente alla musica» 3 • Suprema forma di un filosofare ancora possibile, la teoria estetica ha di conseguenza il suo centro oggettivo nella musica: ciò in cui sempre si concluderà la riflessione estetica e dal quale è sempre determinata 4 • Se dunque ciò in cui la filo sofia è «imparentata» all'arte e, in particolare, alla musica è l'immacrinifico o ciò che è senza concetto, la filosofia sarebbe allora 1:> il modo per rendere evidente ciò che è senza concetto quale vero e proprio fine del comprendere, e avrebbe la funzione, ND., p. 25 [trad. it., p . 15]. Cfr. sopra, pp. 325, 327. 3 AT., p. 113 [t rad. it., p. 123]. 4 Come alcun altro filosofo del presente, Adorno ha rivolto il suo impegno concettuale non solo all'inter pretazione della musica moderna, ma anche a quella delle epoche passate . Qua le allievo di Alban Berg, ed egli stesso compositore , possedeva degli strumenti adeguati per l'esatta in terpretazione specifica delle opere d'ar te musicali . Le sue riflessioni di fi losofia della mus ica si possono dire rilevanti tanto filosoficamente (o sociologicamente) come musicologicamen_te_._ __ l
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che oltrepassa e supera se stessa, di preparare a «ciò che è essenziale» 5 , pur dovendosi pure distinguere essenzialmente da ciò che è in sé senza concetto e dalla realizzazione artistica di questo. Ciò che è provvisorio, oscillante e (in rapporto al suo telos) paradossale nella filosofia è proprio il fatto che essa s'è affermata, anche nella teoria estetica, attraverso il concetto. Se la filosofia prescrive o usa - in opposizione critica ad una determinazione precipitosa - il concetto, esso è lo strumento nel quale deve compiersi l'interpretazione dell'arte come riflessione su ciò che è senza concetto per essere comunicabile e per poter rinviare in modo plausibile alla di versità dell'arte. «La filosofia, che volesse imitare l'arte, che volesse diventare di per sé opera d 'arte, cancellerebbe se stessa» 6 • La riflessione intorno alla struttura delle opere d'arte musicali deve, proprio per questo, prestare in misura particolare attenzione al fatto che la «logica» 7 - i cosiddetti linguaggio e sintassi - musicale è in generale una logica assolutamente «frao-ile» rispetto a quella filosofica. Sebbene la musica abbia ad ~ggetto proprio ciò che è senza concetto, parlare di un linouaggio e d'una logica della musica è legittimo e produttivo fuori dalla analogia solo se ad essa spettasse un proprio linguaggio ed una logica che siano sovraformati in modo non eteronomo dal linguaggio e dalla logica discorsiva, o modellati su di essa. La struttura che scaturisce dalla premessa di concezioni determinate è leggibile nell'opera d'arte musicale in quanto «logica» di quel tipo. Nel particolare linguaggio e nella particolare logica della musica, tesa a ciò che è senza concetto e a ciò che è l'inesprimibile, Adorno vede l'elemento che l'accomuna alla teologia: «la musica è, rispetto al linguaggio dell'os Denominata o meno con questo ter min e, anche la filoso fia eli Ad orno va in cerca di esso (cfr. sopra p. 324, nota 11 eli p. 320 e nota 22 eli p. 349). Indice d'ogni pensiero realmente «impegnato». Non per ultimo, questo non permette di chiarire proprio la polemica, spesso sin troppo aggressiva, contro il «gergo essenzialista». L'impegno per la realtà non ha, _invero, la sua pro~a né in una fissa zione ideologica né in una costruzione esotenca d'una nuova mitologia (riguardo ad una tale tenden za, da Holderlin sino ad Heidegger: \\'. Brocker, Dialektik, Positivismus, Mythologie, Frankfun 1958, p. 89). 6 ND., p. 24 [taci. it. , p. 14]. 7 Intorno alla metafora che articola questo complesso, cfr.: H .H . Eggebrecht, Musik als Tonsprache, in: «Arch. f. Musikwissenschaft », lR (1961), pp. 73-100. F. Reckow, «Sprachdhnlichkeil» der i'vfusik als terminologisches Problem, Freiburg 1977.
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pinione, un linguaggio di tipo del tutto diverso. In esso è presente il suo aspetto teologico. Ciò che la musica afferma, è nascosto e, ad un tempo , determinato come realtà che si manifesta. La sua idea è la forma del nome divino . È preghiera etimologizzata, liberata dall'incantesimo dell'agire; il tentativo umano, anche vano come sempre, di dar nome, non di partecipare a significati» 8 • Proprio tramite questo linguaggio aconcettuale e, rispetto a ciò che il discorso è, inintenzionale, la musica è, con particolare intensità, espressione del non-identico. Non è, al pari del linguaggio della parola e del concetto, più o meno univocamente determinabile: la sua struttura ha un significato «disordinato», ma nondimeno comprensibile, direttamente traducibile in linguaggio discorsivo. Proprio in questo si mostra l'avversità del non-identico verso un totale trasformazione in concetto: cosa che minaccerebbe di «sostituire» in modo inespresso l'opera d'arte. Il convincimento, condizionato alla dialettica negativa, che l'arte debba fare le veci del non-identico e che proprio in questo si trovi la sua funzione critica rispetto all'esistente, ha nella filosofia della musica, come conseguenza, che Adorno sì interessi proprio a quella musica che sembra più di ogni altra assecondare tale concetto: alla scuola di Vienna tra i moderni, a quegli aspetti della musica del passato che non mettono in mostra una concordanza facile e positiva con ciò che viene conseguito, ma si aprono un varco nella «situazione storica». Ma, con questo, intende anche che un tale tipo di musica, che in misura particolare si opponeva al suo tempo, non poteva contare sull'immediato consenso del pubblico; la cosa, dunque, che è eventualmente in opposizione al suo tempo e nella quale può emanciparsi da esso, o quella cosa che permette di intravedere ciò che già annuncia il futuro. Ma tutto questo deve essere tipologicamente chiarito in uguale misura tanto in
s Quasi una janrasia, Fragment uber Musik und Sprache, p . l l. La somiglianza con Walter Benjamin sarebbe certo da chiarire sulla scorta della concezione del «nome divino», che a Benjamin era nota per ciò che di esso v'è nella cabala, cfr. Ober Sprache, in Angelus Novus, Frankfurt 1966, pp. 9 ss., in particolare 13 ss. [trad. it., pp. 55 ss., 58 ss.]. La filosofia del linguaggio ha, qui, il suo più intimo legame con la fi losofia della religione (con la creazione Dio rese conoscibili le cose nel loro nome ... la natura è «percorsa da un linguaggio muto»; p. 26) .
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Bach, Beethoven o Mahler come nelle opere della scuola di Vienna. Lo sguardo all 'aspetto emancipatorio del non-identico in una musica non ha nulla a che vedere con il modo di dire riduttivo, banale, di colui che afferma: «qui Haydn (ad es.) ha un suono già beethoveniano» . II non-identico in musica s'evidenzia in modo particolare per il suo fondamentale tratto utopico. Qui Adorno, come potrebbe essere delineato, è fedele nella sostanza a Lo spirito dell'utopia di Ernst Bloch . Nella misura in cui spinge verso qualcosa di agognato, di desiderato come possibile - e questa è una concezione che è agli inizi dell'evoluzione del pensiero di Adorno , presente già nel 1928 - la musica di Schubert «registra l'annuncio del mu tamento qualitativo dell'uomo ... Piangiamo senza sapere perché; perché noi non siamo ancora come quella musica promette, e nell'innominata felicità secondo cui la musica ha bisogno d' essere solo in modo d'assicurarci di ciò: che noi un tempo saremo così» 9 • Il <
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mane legata al trascendere utopico nei ricordi dell'infanzia, o nonostante essi. La fanci ulla del Canto della terra lancia all'amato segreto «lunghi sguardi pieni di desiderio»; i ricordi sono indizi del fatto che l'opera stessa è rivolta verso una felicità perduta , che, tuttavia, non è mai stata così come ora appare. Ma con ciò il ricordo può diventare una nostalgia che agisce da impulso. Secondo Adorno la trascendenza e l' utopia si oppongono alla conciliazione, o affermazione, fi ttizia. Del tutto in contrasto rispetto a questa posizione appare però l'ottava sinfonia di Mahler, la quale è infatti la meno amata da Adorno 13 • Complessivamente il sinfonismo mahleriano rappresenta la realizzazione dell'elemento «negativo» nella musica. Esso corrisponde ad un momento storico e artistico che sembra da una parte superare se stesso, ma dall'altra, proprio in ciò, nega di nuovo se stesso : i mezzi musicali non sembrano essere ulteriormente ampliabili; le dissonanze annunciano un nuovo rapporto con la tonalità 14 • Non si deve certo essere propagatori di un mondo in apparenza sano per trovare, di tanto in tanto, astratta e violenta in modo uni laterale la ricerca adorniana di ciò che è «negativo» o «fragile». Tanto ricche · di informazioni possono essere le sue analisi strutturali delle opere musicali che la loro qualifica nel complesso e la valutazione storica della loro collocazione s'avvicinano ad essere una 13 Nella sua appassionata opposizione a ciò che è realmen te o apparentemente affermativo, Adorno diviene pesantemente polemico e partigiano, cfr. ad es. Mah/er, p. 184 [trad. it., p. 262] : «nell'ottava egli si è piegato a quel tipo di voJgarizzazione dell'estetica hegeliana che fiorisce oggi negli stati dell'est». Questo ~drastico giudizio, per Mahler solo parzialmente valido, non deve certo essere rafforzato. Esso si basa su di una determinazione unilaterale, incontrollata, del sionificato del contenuto nell'estetica hegeliana e in una rimozione della concezi~ne hegelia na d'una uni tà dialettica di contenuto e for ma (circa! il «reciproco. compenetrarsi» di concenuto e forma, cfr. Enciclopedia § 133). 14 La concezione adorniana del contenuto di verità dell'arte e la sua ricerca del non identico in essa, in particolare nella musica, porta a quella contrapposizione tra Strawinsky e Schèinberg che è certo dogmatica, e discut ibile nel suo duro contrasto: di fronte all'avanguardismo eli Schèinberg, conservatore e re azionario appare Strawinsky, a causa del suo magico partecipare alla forza collettiva («Sacre ») e dell'indicazione di indipendenza di un ritmo privato da l suo nesso con l'espressione - Rimozione di un sempre uguale ( = di un identico!). Cfr. PM., pp. 101, 116 [trae!. ìt., pp . 107, 123] . Del tutto simile è il giudizio su Hindem ith: questi viene «classificato» neoclassicista e ripreso severamente come «alessandrino» (lmpromptus, p. 67) [trad. it. di Carlo Mainoldi: Theodor Adorno, lmpromptus, Milano 1973 , p. 85). Anche qui il peggior giudizio è: «è positivo» (ibi, p. 75 [trad. it., p. 94]).
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nuova ideologia, che vive di grandi gesti precettistici. Tale modo d'essere, che opera una rigorosa selezione, non riguarda solo dei «maestri minori». Esso agisce in modo disastroso e persino oscurantistico - allorché nella critica musicale si ritiene importante in quanto linguaggio facilmente manovrabile, ma che in realtà serve più la vanità che l'oggetto. Se la filosofia è schiava del divieto all'immagine, se non può e non le è permesso trattare o descrivere in modo non argomentativo (discorsivo) riguardo al modo con cui deve essere pensato la conclusione del processo storico nella società, allora , rispetto alla stessa filosofia, è la musica, proprio a causa del suo carattere utopico, che anticipa una realtà possibile o desiderata, a causa del suo disordinato, aconcettuale significare, non univocamente determinabile, ad ottenere un più alto contenuto di conoscenze e verità. Ciò che la filosofia riesce solo a toccare con il concetto: ciò che è senza concetto, questo è lo strumento e il fine della musica. Se l'affermazione di Adorno permette di chiarire che la filosofia che imita e vuole fare di sé un'opera d'arte cancella se stessa, la vicinanza suprema della filosofia all'arte, e in particolare alla musica, non è in una differenza determinata in alcun modo da cancellare 15 • Per questo la filosofia ha, secondo Adorno, una
15 L'affinità all'arte, in particolare alla poesia è, forse in misura ancor maggiore, essenziale a quella forma di fi losofia, o alla sua intesa istanza di conseguenze, detta «pensiero» es presso, che pure s'emancipa in modo solo apparentemente totale dalla tradizione «metafisica», in quanto, cercando di ripensarla nel suo fondamento, ripensa il fondamento sinora impensato della «metafisica»: la filo sofia che in Heidegger segue Essere e tempo. Nella pretesa di «pensare» l'essere sinora impensato o «dimenticato» (cfr. sotto pp. 365 s.) consegue implicitamente che il pensare - ossia la svolta che rimuove «la filoso fia non pensante» debba diventare pensante, dunque poetico . Il «carattere poetico del pensare» è, secondo Heidegger, «ancora nascosto» alla nostra epoca (Aus der Erjahrung des Denkens, Pfullingen 1965 , p. 23. [Dell'esperienza del pensare, trad. di E. Landolt, in «Teoresi» 1965, p . 23], o: «il più considerevole si mostra, nella nostra epoca preoccupante, nel fatto che noi ancora non pensia mo», Vortriige und Aujs·dtze, Pfullingen 1954, p . 131 ; [trad. it. di Gianni Vattimo, Martin Heidegger, Saggi e discorsi, Mi lano 1976, p. 89]). In modo analogo ad Adorno e a Blocl1, anche da qui risulta un a nostalgia utopica di una «fine» (cfr. a riguardo il Per finire di Adorno pp. 275 s. [trad. it ., p. 304]: quell'epoca nella quale l'essere si lascerà, forse , pensare e l'uomo troverà l'identità - presente nell' «evento» - è suggerita come uno stato quasi paradisiaco di unità, realmente compiuta, di pensare e poetare; egli annulla anche le colpe storiche del solo pensiero che si inganna. Anche in questo, nel tentativo di difesa e di correzione
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«necessità verbale» di dire ciò che intende dire da sé. Se essa si rifiuta d'essere una metafisica, quale è stata realizzata nella
di quel pensiero che procede discorsivamente, argomentativo, concettuale, ossia il pensiero cosiddetto «rappresentativo» della tradizi one fi losofica, del linguaggio della scienza e, quindi, anche del linguaggio di quella fi losofia che non esclude da sé il pensare argomentativo, Heidegger si incontra almeno con l'intento di Adorno. Il pensiero «in maggior misura pensante», ossia diventato poetico, o che intende il poetico ha in Heidcgger una funzione analoga a quella che, nella concezione di Adorno, è propria della musica . In quanto modello determinante di filosofia, essa porta al «linguaggio» l' in sé inesprim ibile. L'intento beid ggeriano di giungere ad un pensare «poetico» si realizza storicamente nel fatto che, p rtendo dalla visione, per lu i normati va, dell 'insufficienza del linguaggio «mctafisico», cioè concettuale, di affermare l'ESSERE, egli spinge il pensare al linguaggio proprio della poesia o a neologismi analoghi a quell i della poesia. Di questo persistente punto di partenza è una metaforica (uso questo termine nonos tante l'afferma zione decisiva di Heidegger in Der Satz vom Grund [Pfullingen 1957, p. 89], secondo la quale «solo all'interno della metafisica vi è l'elemento metaforico»; un'affermazione di difesa in quel contesto di interesse per la quale il «nuovo» linguaggio del pensiero deve essere o non-metafisico, o ametafisico; le metafore in questione sono, ad es.: «ciò che è santo», «grazie», «pastori», «la custodia» , «le cose divine», e «mortali », il «favore dell'ESSERE », «donazione», « fondazione » e «favore», «raccoglimento» e «soneria del silenzio») che rimanda ad H olderlìn e che non evita assolutamente ciò che è religioso o ciò che è crittogramma teologico. Attraverso H olderlin, soprattu tto, H eidegger f a l'esperienza, per lui ricca di conseguenze, che tra pensare e poetare «agisce una nascosta parentela». La lcgittimazione all'a ffermazione che la poesia sola sia - rispetto al linguaggio concettuale - un «puro p arlato », nel quale il linguaggio può, quale evento dell'ESSERE, compiersi per lo meno anticipatamente in modo «escatologico», viene trovata da Heidcgger manifestamente nella sua rappresentazione specifica, normativa mente operante, del poeta: colui che più è vicino all'ESSERE o agli dei, come anche «ai messaggeri della divinità che annunciano» (Vortriige un Aujsdtze, p. 150 [trad. it ., p. 99] l'ESSERE è il «vates». Con la sua parola «fonda» l'essere, d i modo che la poesia, al modo del «dar nome fondante degli dei e del l'essenza delle cose», suggerisce al pensiero che l'essere, nel suo complesso, è linguaggio. (Erlduterungen zu Holderlins Dichtung, Frankfur t 195 !2, pp. 38 s .). - L'aspetto normativo di una tale concezione del poeta, visto come colui che fonda l'essere, determina la limitazione heideggeriana alla lirica, della quale vengono favoriti principalmente Rilke, George, Trakl (e Hebel per ragioni di « lingua materna »). - L'orientamento del pensiero di Heidegger alla poesia lirica ha il suo pendant filosofico nella sua preferenza per i presocratici: anche costoro sono, infatti, più vicini al «non nascondimento» dell' ESSERE eli quanto sia- secondo l'interpretazione heideggeriana- la «concettualizzazione» del pensare iniziata con P latone. In essi «lampeggia» ancora l'originario sguardo all'essere (cfr. l'articolo Fulguration in: Historisches Worterbuch der Philosophie, III), inoltre il ìoro linguaggio è «Concreto», ulteriormente meta fo rico e, dunque, unito ancora in modo assoluto con la poesia ed il mito, nonostante la sua differenza. Con le parole di Adorno: nel Pens iero presocratico Heidegger cerca ciò che è non identico rispetto alla più tarda tradizione filoso fica. - La preferenza per i presocratici è, comunque, tipica d'una tendenza (Nietzsche ad altri) che s'oppone ad una filosofia concettuale «sistematica».
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tradizione filosofica, o crede di non poter lo essere, ma se d 'altra parte nemmeno vuole identificarsi con il convincimento neopositivista di poter dire solo ciò che «è così», allora è obbligata, proprio da questa necessità verbale, a rinviare, nel medio del linguaggio, a ciò che è senza linguaggio, e, nel medio di un concetto (ridotto già a partire dal suo fine), a ciò che è senza concetto. Se, dunque, non può essere indicato in modo legittimo un passaggio diretto dalla filosofia all'arte (nel senso d'una trasformazione), può essere possibile almeno questo: la filosofia sta del tutto in funzione del concetto di arte, da essa stessa pensato. L'arte è di fatto - come prima accennato «documento e organo» della filosofia, senza l'obbligo ad un assoluto, a meno che l'arte stessa in quanto tale assoluto, con una funzione analoga a quello di Schelling, la sostituisca inespressamente. Al fine d'una riflessione caratteristica, sicuramente istruttiva, sarebbe necessario portare alla luce l'analogia romantica tanto nell'epoché adorniana nei confronti del linguaggio che procede in modo concettuale-argomentativo, e del pensiero della logica, quanto nell 'elevazione della musica a realtà prima e ultima della filosofia. Si impone ora un richiamo a Schopenhauer, al quale dovrebbe invero essere riservato uno spazio maggiore. La filosofia schopenhaueriana della musica 16 pone in evidenza una differenza fondamentale della sua filosofia nel complesso da quella di Hegel. Sotto questo aspetto Adorno si incontra con Schopenhauer. La funzione dell'arte nella filosofia di quest'ultimo è, nella sua intensità, paragonabile solo alla concezione radicale di Schelling, nel cui Sistema dell'idealismo trascendentale la musica è, tra le arti, la prima e la suprema 17 • Per la sua immediatezza verso l'assoluto, verso il volere assoluto, la musica scavalca «le idee», non ha, cioè, bisogno di un medio che, in una certa misura, debba essere ancora determinato razionalmente e costringa, ad un tempo, in una forma razionale il diventar cosciente di colui che assu16 Cfr. a tal riguardo, W. Beierwaltes, Musica exercitium metaphysices occultum? Zur philosophischen Frage nach der Musik bei A. Schopenhauer, in: Festschrift fiir Manfred Schrdter, a cura di A.M. Koktanek, Mlinchen 1965, pp . 215-31. 17 Per il potenziamento dell'arte e della musica vi sono una serie di enunciati programmatici nella letteratura non filosofica del romanticismo. Cfr. alcuni cenni in Musica, pp . 229 s.
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me. In ciò la musica è contemporaneamente il compimento dell'arte e della filosofia. «La musica non è dunque, come le arti, una riproduzione delle idee, ma una riproduzione della stessa volontà, una sua aggettivazione allo stesso titolo che le idee. Perciò il suo effetto è più potente, più penetrante di quello delle altre arti; queste non esprimono che l'ombra; quella celebra l'essenza» 18 • Nello scavalcamento delle idee viene dunque - atto del genio - lasciato in sospeso il concetto. La musica deve liberare colui che la percepisce dalla conoscenza razionale o dal servizio della volontà. Per mezzo della rimozione del concetto e l'ipostatizzazione dell'inconscio viene svalutato anche il linguaggio che vuole chiarire e precisare proprio tramite il concetto; solo la musica libera - in una narcosi - da esso, cioè da un modo incompleto di conoscere. Se ciò che lega Adorno a Schopenhauer è la tensione del suo pensiero verso ciò che è senza concetto e la convinzione che la musica sia il tramite massimo di questo, così lo divide, però, la mancanza di «negatività» che la filosofia di Schopenhauer accusa. A dispetto di ogni rassegnazione, l'uomo deve, di fronte al dolore del mondo, giungere alla conciliazione con sé, all'autoliberazione mediante la musica. Ma tale narcotizzante liberazione dal dolore è solo momentanea, di attimi. Adorno s'oppone in modo deciso anche alla concezione di Schopenhauer secondo cui l'esperienza, lo stato d'animo, il sentimento o «l'ebbrezza pseudomistica» possano diventare possibili categorie interpretative della musica. A tale riguardo la tensione adorniana a ciò che è senza concetto, tramite il concetto, non è direttamente neanche una via verso un irrazionalismo ineludibile 19.
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Die Welt als Wille und Vorstellung, Werke (cd. A. Hlibscher) III, p. 52. All'interno d'una analisi dei centrali filosofemi di Fricdrich Schlegel, dal titolo Verdinglichung (in pubblicazione) M. Elsasser ha messo tipologicamente in rapporto determinati aspetti della filoso fia contemporanea (in particolare in Heidegger, Benjamin e Adorno) con il romanticismo - e, con questo, ha posto, anzitutto, a tema il rifi uto d'un pensiero concettuale («razionale»). 19
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V. Il linguaggio alla n cerca del non-identico secondo Adorno
o illusione, viene compensata dall'essai, in quanto esso cerca di salvare l'accuratezza nell'espressione, nella forma verbale 2 • 2
Nella concezione adorniana, vo lta a trascendere la riflessività concettuale, è venuta già di frequente evidenziandosi l'aporia di un tale tentativo: nel permettere ad un medio di manifestare il suo altro. L'intento fondamentale di Adorno, in conformità del quale anche linguaggio e pensiero dovrebbero giungere ad una indifferenza, si sviluppa, almeno in una certa misura, nel linguaggio e nella forma concettuale. Essi vogliono essere una correzione ad una rigida concettualità, e quindi sono del tutto analoghi all'opera d'arte. Vale a dire: un pensiero che concepisce in modo universale il non-identico, si può concretizzare solo in una forma linguistica e letteraria che pretenda d'essere essa stessa «non identica» . Questa è la ragione per cui Adorno difende l'essai come forma legittima del suo modo di filosofare. «Esso tiene conto della coscienza della non identità anche se nemmeno la enuncia: è radicale nel rifiuto di qualsiasi radicalismo, nell'astenersi da qualsiasi riduzione a un unico principio, nel porre l'accento sul particolare contrapposto alla totalità, nella frammentarietà» 1 • Ciò che Adorno dice dell'essai, come for ma letteraria e di pensiero, corrisponde in modo preciso al suo intendimento: non spiegare un oggetto deduttivamente, con concetti «guidati dall'alto», rifiutare la definizione piatta dei suoi concetti, e al posto di questi ideare solo prospettive paratattiche intorno all'oggetto, non simulare- in modo anticartesiano - una sicurezza, ma rappresentare, contro l 'usurpazione «della filosofia dell'identità», proprio le discontinuità e le trasgressio ni, dunque il non-identico dell'oggetto. Il fatto che un'indistinta identità di pensare e oggetto sia raggiungibile solo come apparenza I
Der Essay als Form, in : Noten zur Literatur I, p. 22 [trad . it. , I, p. 13] .
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Mostrare il non identico dell 'oggetto, del testo , della creazione musicale o della realtà nel suo complesso è l'intento di Adorno, e questo determina anche la sua concreta espressione: proposizioni afor istiche, paradossali, antitetiche, che potrei anche chiamare, in quanto rimandi a qualcosa di lasciato in sospeso, proposizioni dialettiche; ad es.: «l'arte vuole ciò che non è ancora· stato, però tutto ciò che essa è, è stato già» (AT., p. 203 [trad. it., p. 227]). «La critica alle invarianti non semplicemente nega queste ma le pensa nella loro propria varianza» (ibi, p. 522 [trad. it., p. 590]. «Il fatt o che nella sua (= di Mahler) evoluzione egli non sia mai riuscito a esprimere l'affermazione è il suo vero trionfo » . (Mahler, p . 177 [trad. it., p. 258]). «La conciliazione come modo di comportamento dell' opera d'arte viene oggi esercitata proprio là dove l'arte rinuncia all'idea di conciliazione» (AT., p. 202 [trad . it., p. 227]) . L'ambiguità (ad es., della conciliazione) deve essere riso lta : e in questa riflessione risolutiva si evidenzia precisamente l'irrisolvibile contradditt orietà, svelata nella contraddizione, della cosa: la conciliazione, semplicemente ind icata, non concilia, anzi rafforza la divisione, in quanto la nasconde. La conciliazione nell'opera d'arte è pensabile solo come «promessa», dal momento che essa, non conciliata con il reale, è ad esso obbligata solo negativamente. Le proposizioni ritmizzate vogliono sottrarsi al cosiddetto incantesimo di ciò che è sempre uguale nel li nguaggio. In opposizione all'attuale uso del linguaggio, Adorno cerca di salvare il non identico mediante forme anacronistiche di linguaggio (ad es., la spesso usata forma «ward» al posto di «wurde» o «ist geworden»; l'hegelismo o il georgismo delle forme, senza apostrofo, «durchs», <
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Di fronte ad una realtà che o è già danneggiata dal tipo incriminato di pensiero dell'identità o è continuamente esposta a questo pericolo, l'essai suggerisce qualcosa che non è né compiuto né fissato, anzi è, per essa, tout court l'istanza critica o dialettica. «La legge fo rmale più intima dell 'essai è l'eresia» 3 • Perciò esso agisce - certo con una modalità diversa - in modo provocatorio tanto sui fanatici dell' «identità» quanto su colui che pensa dialetticamente, dunque in modo non meno simile ali 'aporetica socratica che all' «eraclitizzante» Nietzsche. Sebbene sia segnato dall'esperienza del non identico, l'essai favorisce talvolta l'elemento affermativo che batte in modo del tutto violento, per così dire, la non identità regressiva. Intensa ed in forma di essai, la ricerca adorniana del nonidentico è certo indizio ovvio del suo rapporto ambivalente con la tradizione filosofica: lo stesso Adorno non è pensabile senza di essa, e non lo è assolutamente senza l'identità dialettica di Hegel; ma altrettanto poco lo è con essa quale ermeneuta affermativo di questa. La riflette piuttosto in modo espresso ed inespresso, dialettico-negativo, non-identico. nunciamento (su questo, cfr. M. Puder, Zur «Asthet. Theorie» Adornos, in: «Neue Runduschau», 82 [197 1], pp . 472 ss.), e, soprattutto, hanno carattere di provocazione o, inversamente, di schok proprio del non identico; solo ad un pensare fascistoide esse possono sembra re come degli «ebrei nella lingua» (Sulla giustificazione delle «paro le da fuori»: Adorno, Noten zur Literatur, II, pp. 110 ss. [trad . it. , I, pp . 203 ss .]) . Se l' intento di Adorno è di rendersi comprensibile e d'essere oggettivamente chiarificatore, diviene in coloro che lo imitano, raffo rzato dal vocabolario sociologico, un gergo raffinato che, usato in modo asso lutamente inconsapevole, presenta l' oggett o ogni volta tramite «parole»: incalzano gli inuti li liquidiren, desavouieren , denunzieren , reklamieren, suspendieren, immunisieren ecc., senza dimenticare l' «omti presente Strategie». Il tentativo adorniano di rendere «d 'uso» per l 'espressione del non identico il linguaggio e la for ma letteraria e per sottrarla, almeno intenzionalmente, all '«incontro dell' ident ità», è analogo al tentativo heidegger iano , che si pone ce rto un altro fine , di strappare il linguaggio, che «us a>> dell'ESSERE, ali 'incanto di quella metafisica e di quella logica «che hanno dimenticato l'essere». Entrambi i tentativi possono , in ogni caso, essere immanenti al «sistema », in quanto il meta-linguaggio semantico non può anco ra emanciparsi totaimente dal linguaggio normale per il quale è metalinguaggio (cfr. sopra, nota del capitolo precedente 15). Pensare in opposizione a sé è anche, o proprio , del linguaggio della filoso fia argomentativa. Anzi , questo deve essere il fi ne critico ad esso immanente. 3 Der Essay als Form, p . 49 [trad. it., p. 35]. L'aspetto ami-sistematico e nonded uttivo dello «stile filosofico» si deve confrontare con la «premessa gnoseologica» che Benjamin ha posto a Ursprung des deutschen Trauerspiels, Schriften, a cu ra di T h. W . e G . Adorno, J:rankfurt I 955 , I, pp. 141 ss. [L 'origine del dramma barocco tedesco, trad. di Enrico Filippi ni, To rino 1971, pp. 7-41].
ADORNO
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Antiplatonico - come ho affermato all'inizio - è il mu tamento adorniano nell'ambito problematico dì identità e differenza, dal momento che egli identifica nell'identità il capro espiatorio del pensiero e dell'attuale situazione della società. Senza prendere per una volta in considerazione l'attitudine antimetafisica- rivolta contro un primo o un assoluto - Adorno si oppone, attraverso il non-identico, a quel rapporto di identità e differenza che si mostrava determinante per la tradizione «platonico» sino ad Hegel. Secondo questa tradizione egli pensa in modo non dialettico, in quanto non crede capace di alcuna forza costruttiva il comune operare creativo di identità e differenza come identità nella differenza o nonostante essa, o come differenza e negazione nell'identità 4 • Così la sua critica riguar da, in genere, più la forma degenerativa di questa concezione, nella quale l'identità storicamente operante è irrigidita in ciò che patisce, in misura non minore, un pensiero metafisica diventato autocritico. Rimane incerto se una forma di pensiero che, quale nuova (contro-) dialettica, rende il negativo suo elemento primario possa essere nella nostra situazione ciò che salva. Rispetto alla fuga verso l' «immagine» Adorno, insieme ad Heidegger - mi sembra che questo elemento salvifico si trovi piuttosto nella riflessione del concetto, che è cosciente delle sue possibilità e dei suoi limiti, della sua forza chiarificatrice e dei suoi pericoli , e rimuove continuamente questa coscienza. Essa dovrebbe mantenere un giusto mezzo, certo difficile da aversi, tra un ottimistico razionalismo volto ad un fine ed una nuova mitologia di ciò che è senza concetto. Entrambi, fo rme estreme di ciò che è antiplatonico 5. 4
Non rimossa da una tale visione del «platonismo» è, tuttavia, nel gi udizio di Adorno sulla tradizione musicale da Bach sino a Schonberg, la consapevolezza che la qualità musicale sia essenzialmente dimostata dal «regno del nesso », dall'«unità nella molteplicità », dal «molteplice nell' Uno» (Glosse ìiber Sibelius, in Impromptus, p. 92). 5 Tratto convincente e prottetico degli scritti di H enry Deku è dì fondare, al di là di un ottimismo del concetto, proprio la necessità di un pensare che s'apre concettualmente. L'oggettiva occasione per Larmoyanz e per un'opposizione critica al presente starebbe, più che in base del suo disagio distruttivo, nel concetto. La varia fuga da esso provoca un irrazionalis mo altrettanto vario , nel quale l'illusione personale dell'uomo diviene un' «autopunizione» . I nazionalismo e fanatismo subentrano, poi, come un cosiddetto dis corso esteti zzante che parte da se stesso e che può valere come esponente d'una «speculazione senza catarsi» .
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IDENTITÀ E DIFFERE ZA
VI . Martin Heidegger. La sua tesi dell'«oblio dell'essere» messa in dubbio dal pensiero neoplatonico
Dagli elementi neoplatonici del pensiero cusaniano , che si presentano, in modo particolarmente chiaro , nel suo principio di «identità e differenza», passo ora a discutere alcuni aspetti della valutazione della reale rilevanza di questo pensiero all'interno della storia della metafisica. Punto d'avvio potrebbe essere una tesi corrente. Martin Heidegger ha in molteplici contesti, ed anche nell' orizzonte della questione di identità e differenza, defi nito !'«oblio dell 'essere» il tratto fondamentale della metafisica occidenta~ le 1 • Perciò eglì' -h i posto·-·m.-conflitfo con ra ·tradizione il pro: prio pé-nsiero · fìiTesocon1e ((distruzione>> o «superamento» di gliesta, in modo eh~- aùraversèi'l?_!lle!afisica deb ~a essere condotto al «fondamento» da essa lasciato non-pensato. Da allora la tesi di Heidegger è stata molte volte cìecamente ripetuta, ma non ancora approfondita a sufficienza, sino alla sua stringenza. Le è implicito il presupposto secondo cui la questione fondamentale della «metafisica» riguarda l'essere dell'ente o l'ente -dell'essere l'ente come ef}te (ov ov) , ma non l' essere ). ·come essere, dunque non pone assolutamente la «questione del- · · ·i l'essere» nel fondamento. «Essa non si chiede (della verità dell'e'Ssererperché pens~- l'essere per l'appunto ment re si rappresenta l' ente come ente. Essa intende l'ente nella totalità e par-
o
- Intorno a tale problematica, cfr. di H. Deku : Possibile logicum , in: «Phil. Jahrbuch», 64 (1955) , pp. 1-21; Correctorium Corruptorii, ibi, pp. 65, 1956, 68 ss ., 82 ss; Rot und Braun, in: Fs. E. Voegelin, Miinchen, pp. 113 ss.; Studium aeternitatis imitandae, in: Fs. D. von Hildebrand, Regensburg 1970, pp . 107 ss. I suddetti lavori sono ora riuniti, con altri saggi di Deku, nel seguente volume: Henry Deku, Wahrheit und Unwah rheit der Tradition. Metaphysische Reflexionen, hrsg. von Werner I3eierwaltes , St. Ott ilien 1986 .
n
l Einleitung a: Was ist Metaphysik?, in: Wegmarken , Frankfurt 1957, pp. 196, 200 s. [trad. it. di Ar mando Carlini: Heidegger, Che cos'è la metafisica, Firenze 1953, pp . 66, 71 ss.]; Der Spruch des Anaximander, in: Holzwege, Frankfurt 19573, p. 336. [trad. it. di Pietro Chiodi: Heidegger, Sentieri interrotti, Firenze 1973, p. 340]; Die onto-theologische Verjassung der Metaphysik, in: Jdentitiit und Dijjerenz, Pfullingen 1957, p. 65: [trad. it., p. 233); Zur Seinsjrage, Frankfurt 19592 , p. 35; Zeit und Sein, in: Zur Sache des Denkens, Tiibingen 1969, pp. 6 ss . [trad. it. di Eugenio Mazzarella : Heidegger, Tempo ed essere, Napoli 1980].
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IDENTITÀ E DIFFERENZA
la dell 'essere» 2 • Ma proprio nel fatto che essa «scambia» l'es("· sere con l'ente sta per Heidegger il suo «oblio dell'essere». ,/ La sua dimenticanza non deve, però, essere intesa come una omissione, una incomprensione, un caso o una dimenticanza del tipo di quella di un professore di filosofia che ha «lasciato» da qualche parte !'«essere» come fosse un «ombrello» 3 • «Oblio dell'essere» significa, piuttosto, l'escludersi della «metafisica» dalla questione dell'essere, assegnata al pensiero, a causa dell'essenza ad essa propria. Esso è allora un indice dell' «abbandono dell'essere» 4 da parte della filosofia, la quale rimette l'uomo esclusivamente all'ente. La tesi dell '«oblio», o dell'«abbandono, dell'essere» da parte della «metafisica» deve essere precisata come oblio della «dii). stinzione fra essere ed ente» 5 o della differenza dell'essere ri"' spetto alla distinzione «metafisica» di essere ed ente, che, nella comprensione di Heidegger, è soltanto verbale, e dunque rimane presso l'ente quando parla dell'essere. Nello slancio di un superamento della «metafisica», att~Ilt.~_s-~LQ_é!l.Kdiff~_rente della differenza», ossia di un superam(;mto nel suo fondamento o nella sua essenza, si deve por mente - così il postulato di Heidegger - alla «differenza in quanto differenza» 6 , o all' «essere in quanto differenza». Il fatto che la «metafisica» rimanga ferma all'ente, rappresenti come «essere» solo l' «ente» e, quindi, non possa pensare la «differenza ·ontologica» 1, è ciò che Heidegger cerca di chiarire anche rispetto alla «Conceifone Onto-teologica» 8 di essa: da · Platone-iii poi la-<<métafisica» pensa l'essere come la <
e··
2
Einleitung zu: « Was ist Metaphysik?», in: Wegmarken, p. 199. [trad. it., p.
70]. 3 4
Zur Seinsjrage, p. 35. Einleitung, p. 208 [trad. it., p. 81]. Pongo il termine metafisica tra virgolette
quando viene usato nel senso restrittivo di Heidegger. ~~ Der Spruch des Anaximander, p. 336 [trad. it., p. 340]; Die onto-theo-logische "->verjassung der Metaphysik, pp. 46, 62, 65 [trad. it. , pp. 218, 231, 2]. 6 !bi, pp. 43, 63, 69 [trad. it., pp. 216, 230, 233]. 7 Vom Wesen des Grundes, Frankfurt 1955, pp. 5, 15 s. 8 Die onto-theo-logische Verjassung der Metaphysik, pp. 51 ss. [trad. it., pp. 223 ss.] . 9 !bi, pp. 58, 69 [trad. it., pp. 228, 233]. Dunque l'unità delle cosiddette metaphysica generalis e metaphysica specialis dall 'illuminismo in poi .
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l'ente supremo e più universale. Entrambi i superlativi suggerisconocneia<
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IDENTITÀ E DIFFERENZA
meno la parvenza di legittimità solo allorché le conseguenze, che eventualmente risultano dalla tesi storico-filosofica di Heidegger, non fossero così incidenti per la valutazione sia della metafisica sia anche di un filosofare attuale e futuro: sono infatti in questione il rapporto e la differenza del presente rispetto alla metafisica. ,.,. [(L In primo luogo bisogna accertare che nell'opera di Heidegger, l'l v sinora pubblicata, non vi siano tracce di un confronto con il pensiero neoplatonico. Dove, in qualche modo, viene citato \ ùf1 Plotino, ciò avviene totalmente nel senso livellante della storia V\ della filosofia consueta al suo tempo 12 • Ma questa costatazione non vuole certo rinfacciare ad Heidegger una «omissione» forse casuale, e comunque sempre da provare, che - come quell' «ombrello» apostrofato da Heidegger - potrebbe essere ancora «registrata». Essa potrebbe, però, farsi garante della convinzione che la ricostruzione heideggeriana della storia dell'essere da_.AJ]-assimandro . in poi avrebbe dovuto essere scompigliata o( nQ!!.·,avrebbe potuto essere pienamente sostenuta, se ,, w h Heidegge~fos-seoccupato dei pensiero neoplatonico: Ploti':.' J,. v~ r. rr no, Procìo"~---:E~riugena, Meister ~ckh~rt 13 , Cusano. Le riserve
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12 Menzione en passant di Plotino: Was heisst Denken?, Tiibingen 196!2, p. 40. Moira, in: Vortri:ige und Aufsi:itze, p. 238 [tra. it., p. !62] (secondo lo schema corrente di «sensibile-soprasensibile») Die Grundprobleme per Phi:inomenologie (Vorlesung SS 1927), Frankfurt 1975, p. 327; qui Heidegger cita di Plotino il passo Enn. III 7 su «eone e tempo» quale esempio di un «C~!Jo-significato» d'una antica concezione del tempo. L'unica affermazione da commento di Heidegger, «l'eone è una particolare forma intermedia tra eternità e tempo», non può esser confermata dal testo di Plotino, che con cx1<0v intende l'essere atemporale dell'eternità. Squalificare, a partire da tale presupposto, la trattazione plotiniana del tempo come «speculazione teosofica» ha poco a che fare con quell'«attenzione» che Heidegger esige giustamenfe~-da chi legge i testi. 13 Meister Eckhart viene citato nei Fruhen Schriften, cioè nello scritto di abilitazione del 1915 Die Kategorien- und Bedeutungslehre des Duns Scotus, Frankfu rt 19722, pp. 160, 344, 357 [trad. it. di Albino Babolin: Heidegger, La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto, Bari 1974, pp. 255]. Alla nota 2 di p. 344 [trad . it., p. 255] Heidegger fa sperare che possa aver luogo una «spiegazione e valutazione filosofica» della «metafisica del problema della , verità» connessa con la mistica eckhartiana. Il piano ngp.. viene ulteriormente \_ sviluppato. Tuttavia~si mostrano nell'opera di Heidegger tracce della concezione eckhartiana dell'unuin come suQer..._e_s.se e di Dio come distinctio (cfr. sopra pp. 134 ss.), che av rebbe 12otuto modificare lo schizzo heideggerTano dalla storia "\ della «metafisica» . A dire il-vero, un legame reale e storico tra l'uso heideggeriano dell'«antico termine» di «abbandono» - Gelassenlzeit- (Gelassenheit, P fulli ngen 1959 [nella trad. it. E. Landolt lo rende con «rilassamento», in: «Teoresi», 1969]) ed il concerto di Meister Eckhart della «Separatezza» - abeg~chejflenheit - e dell'«abbandono» - gelfìzenheit - è plausibile, ma anche la lezione di
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1
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nei confronti di questa concezione non possono pm essere in alcun modo avanzate a partire da Hegel e dalla divulgazione di testi sinora poco o per nulla noti - una rinnovata, più adeguata comprensione era già iniziata (in particolare nella letteratura inglese e francese) all'epoca dei primi passi di Heidegger in filosofia -, documentabile nei lavori di Thomas Whittaker, W.R. Inge, R. Arnou e E. Bréhier, ma anche nel libro di F. Heinemann su Plotino e nelle discussioni, feconde per il proprio pensiero, di E. Lask sulla dottrina platonica delle categorie. Inoltre la fortuna di questo pensiero nel medioevo, nel rinascimento e nel XIX secolo è palesemente tanto differenziata e tanto intensa che essa non può essere fatto scompa- . _),' rire dal movimento della storia dell'essere senza che sia occul- ~. tato il contenuto. Alcuni accenni possono nel complesso valere come spiegazione del problema: una spiegazione che non può essere fatta in questo contesto. La «metansica» - così dice Heidegger - dimentica l'essere, dunque non pensaJa «diffeJenza antologica». Se con «differenza antologica» si intende la distinzione tra «essere>> ed «essere dell'ente», dovela d istinzione è ciò che R_roduce proprio la loro differenza:--se inoltre .il «nulla», «Che CO-originariamente è la stessa cosa çiell'essere», ci~v~ es"sel'
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dell'ente» 14 , allora mi sembra legittima la domanda: l'intento ("' c1efc.oncetto neoplatonico di Uno e degli enigmatici nomi cusaniani del principio (non-a!iud, idem, possest) non è proprio quello di mettere anzitutto in evidenza l'assoluta differenza di questo principio da ogni ente e non solo "àì«rappresé'ilarè>> .qualc
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Zur Seinsjrage, pp. 40 e 38 s.
Cfr. sopra, p. 55. 16 Partendo da presupposti aristotelico-platonici viene affermato in Boezio, Quomodo substantiae ... , ed. Stewart-Rand pp. 48, 28. Sulla distinzione di ov e dvw, vedi Mario Vittorino, Adversus Arium, IV 19, 4-7. 17 Das Ende der Philosophie und die Aujgabe des Denkens, in: Zur Sache des --i).Denkens, p. 62. [trad. it . , p. 162]. I8 Ibi, p. 71 [trad. iL, p. 172]. 15
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HEIDEGGER
mento che l'~gte,__ çh~ ~1'.alt.t.o_ r:.isp_ettoalCUno, pu.Q_~s_s~e solo attraverso--di esso. 1-.JJ.llQ non è tuttavia, allo stesso modo e àd un tempo, fondamento _i."è~us~, dal momento che il pensare potrebbe inco-ntrai-e la sua «essenza», o essere-in-sé: questo - la sua «essenza» - è primariamente·;-·ossia da sè, se stesso -prima di tutto l' essere-fon damento e l'essere-causa . .. Lo chiarri.iil!nò~ fondamento o causa solo «per noi». Eer questo aspetto è di chiarimento il seguente pensiero di Plotino: «Del resto, anche se noi lo [l'Uno] riconosciamo come cài.isa, questo non vuoi dire che gli assegniamo un attributo accidentale; ma l'espressione vale solo per noi uomini, in quanto noi possediamo qualcosa di Lui, mentre Egli in realtà persevera in se stesso. Pure, a rigor di termini, non si dovrebbe applicare a Lui, né quello, né questo; e intanto, è fatale che noi uomini, quasi correndo intorno a Lui, dal di fuori, bramiamo interpretare i sentimenti umani, a volte giungendogli vicini, a volte respinti indietro per le difficoltà che sperimentiamo in Lui» 19 • QuandO.•. dunque, lo chiamiamo causa, espriEJiamo _piuttost~ nolstès- ~ si: Il nesso dell'altro con l'IDENTICO, ma non questo identico · stessò~C'afferrriazione- di Heidegger che l'essere deve essere inteso soltanto come fondamento fondante, pretende una validità assolutamente universale per la «metafisica», ma, dal punto di vista neoplatonico, isola l'accesso affermativo al principio e così non porta a vedere proprio l'«essere» dell'Uno da pensare paradossalmente o almeno da dèì!mftate in -modo -paradossale ~ Terminologicamente- la paradossalità che qui è intesa trova adeguata espressione in ~rodo: lo stesso Uno è fondamento senza fondamento o causa senza causa (ò:vo:~'t(wç o:t1:wv)2°. Ciò significa ad un tempo che egli, in quanto fondamento o- causa, è senza fondamento e senza causa, ma ·an~ -che che non è disponibile nella sua _essenza al pensiero che pensa a partire dall'alterità. Ciò che è in movimento verso 19 P lotino, Enn., VI 9, 3, 49-54: 'E1td xcd -.:ò ar-.:wv Àiy~w oò xa-.:r1 yop~l"v tcr·n CSU!J.~~~·~x6.; -;:t whc'i), ò:H'rwiv, Ì:XO!J.iv 'tl 7t
v.r.
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CÌ7topto-;tç.
2o Theol. Plat., II 9; 58, 24. Nesso, e nondimeno Ù1t~pox~ t~nPTJflivTJ: In Parm., 1212, 28. L'Uno è inizio fondante, termine finale e medio mediatore di tutto (visto a partire proprio da questo), ma in sé (7tpòç éau-.:6) non Io è: In Parm., 1115, 36 ss.
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l'altro di fronte a lui, ciò che è uscito da lui, non è proprio in rapporto a se stesso. Mediante questa negazione (&vo:vdwç) viene dunque essenzialmente modificata l'affermatività non isolabile (o:t~tov): l'unità di essere in sé ed essere _verso l'altrq.(questo ~ «fondare») deve- màntenersi unità riflettente, attraverso la quale l'UnQ_~ fQ_I1_çlf~crn.ento,_ma_nQn_<;iell'ambito_del_ foD.Jiato: oùosv ~&v ·-~&v't'wv 21 • Cusano porta a compimento questa riflessione col pensare immedesimati Dio come principio e come sua negazione: principium sine principio, oppure finis sine fine, ma altrettanto principium sine fine et finis sine principio: infinità pura o assoluta 22 • La te~ di tJeidegger circa l' «oblio dell'essere» da part~ dell'interi<<metafisica» non mi sembra essere sostenibile, tenendo anche presente che per il pensiero neoplatonico il principio non è appuil.t~ l'essere, m;-qj9~J «SOpra-essente». Ciò verrebbe c'òntraddetto già da Porfirio, il quale pensa !'Uno come la pura realtà (~ò èvspyci:v xo:t}o:p6v) dì un essere esistente sopra
21 Plotìno, cfr. nota 37 della «Parte terza», capitolo primo. Per Proclo ad. es.: In Pann., 1108, 24. Cusano, Coni., l 5; n. 21; Ven. sap., 7; n 16. 22 Vis., 13; 106 r. Cfr. a riguardo Proclo, In Parm., 1115 , 36-38: wa•• ò:px~ xu.ì >iÀoç ia·n xaì tJ.iaov n<Xnw'i -rò tv, o:u-:ò oì npòç iu.nò 1:0u1:wv oùoàv ~;(<:L. L'essere fondamento «senza fondamento», o l'esser causa «senza causa», dell'Uno possi ede anche un altro aspetto: in quanto l'Uno è identico al Bene, partecipa senza contrarietà (ò:>.sen:Za· lasciare··seslèss.a··=--quesfa è J.:qrigine.:-jì.latonico -neòplatonica ~(per Dionigi Areopagita, vedi De div. no m., II 11; PG 3, 649 BC: xuoLç) della concezione medioevale di bof]um come «diffusi.J!pm sui» (cfr. ad es.: Tommaso, Summa c. gent., I 37; Bonaventura, Itinerarium , VI 2); il quale offre liberamente da sé l'essere. La «fonte» e la «luce» ne sono metafora. Anche il «dare» descrive il procedere dell'ente dall'Uno (come un «dato »), Platino, Enn., V 3, 7, 4 ss. Rimarrebbe da chiedersi in che ( in fon do la concezione di Heidegger di un «avvenimento senza fon damento ci1e ! si offre» - per lo meno partendo da questo «offrire senza fondamento» distingue dalla suddetta concezione determinante del neoplatonismo . La traJ._sformazione cristiana di questo pensiero con Dionigi Areopagita ne conserva anche il carattere paradossale implicito: !'«abbondanza di un potere (divino) sovraeminente», che è senza molteplicità (ò:nÀ~pw1:wv >ln~pr.),ijp't]ç), va fuori di sé nella sua bontà amorosa (rpwç i.xo-ra·nx6ç): l' essere e ciò che gli appartiene è, perciò , ojjerta (owp~&): De div. nom., VIII 6; PG 3, 893 BD. II Il; 649 C. IV 13; 712 A. V 6; 820 C. - Una tale questione non dovrebbe dar adito al sospetto che a parti re dalle sue domande, e da simili, Heidegger venga interpreh_ tato di punto in bianco secondo il comodo modello «secolarizzante», che lascia inoltre disatteso l'elemento esistenziale della storicità in Heidegger. Solo in questo contest o si possono intendere questi accenni di critica alla fondamentale ricostruzione storico-filosofica di Heidegger .
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l'ente e perciò assoluto (~ò &1t6À:nov absolutum) 23, e - come si è evidenziato nel contesto positivo e storìco del pensiero neoplatonico - da Cusano: Essere, Uno e Dio sono senza distinzione identici. Anche se Plotino e Proclo si attengono al non-essere, cioè al sopra-essere ~ell'Uno, poiché !'«essere» viene pensato come un modus della differenza, tuttavia Io stesso Uno o la pura identità di essere e unità come essenza di Dio ; dòvrebbe essere paragonabile, per Io meno «topologicamen- ) te» 24, all'Essere (seyn) di Heidegger. Ciò certameiife--non·-significa che l'intenzione propria di Heidegger sia stata già anticipata o conseguita da Plotino o da Cusano; piuttosto farà soltanto apparire i!!'!_deguatal'ass~r_E_gn~--~(oriogrgficg__che caratterizza il pensiero heideggeriano e secondo la quale la «metafisica» non pensa la «differenza» . È certo che la metafisi- " ca @,n pensa la «differenza», come «conclusione» «fattuale» ,_..., di elsere ed ente in un nesso immediato con l'essere umano "-' determinato dal tempo in quanto «esistente». Di fronte a ciò deve essere mantenu1a 1.§1. consapevolezza che è uno scopo fon:damentale della metafisica di impronta appunto ne.oplatonica pensare la differenza assoluta e la sua molteplice media~ zione finita. Tale fatto viene però risolutamente nascosto dal~-
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23 Commentario al Parmenide, Xll, 25 ss. (ed. Hadot, in: Porphyre et Vie/orinus, Il, pp. 104-106). 24 Zur Seinsfrage, p. 32. In questione è unicamente la posizione della differenf-:,. za nel sistema; rispetto a ciò e in questo contesto la definizione del principio come essere o come Uno non-esistente sembra relat ivamente insignificante. 25 Cfr. nota 52 della «Pane Terza», capitolo primo. -~_Pio.t...,_Enn..,_..Y.l.,_ 12, 50-52: "E'i y6:p 'tL xat 1:Ò ILVWOXSLV' 1:Ò oi ia-.w &'io\) 'tOU <<'d » ~v· ol yàp -.t ~v, ovx a~o"Iv· -rò yò:p «o:v,ò» npò -roG
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volesse replicare che lo stesso Uno e l' essere assoluto (esse abso!utum) sono nondimeno «qualcosa», essendo essi stati pensati come Dio, o ath61}é:oç, o dovendo Dio essere pensato come essere (esse est deus et deus est esse)21, allora alla teologia filosofica rimarrebbe da considerare che le determinazioni che esplicitano Dio, ossia essere, unità, identità, trinità, non sono appunto da concepire alla stregua di proposizioni intorno all'ente, ma come autoesplicitazioni, che appaiono di volta in volta diverse, dell'identico , di conseguenza come proposizioni i\ . di identità, o proposizioni speculative, in cui il predicato è )allo_~~~~Q modo originario che il soggetto. Per quel che riguarda Platino - e questo vale in genere per la filosofia neoplatonica - rimane da riflettere sul fatto che l'impulso e il fine di tutte le sue riflessioni è lo stesso Uno. Questo è invero il «Dio primo», concepibile proprio come concetto predicativo; ciò che è realmente da pensare è e rimane tuttavia l'Uno. Ma l'Uno è in senso stretto «egli stesso e niente altro» 28 • P er indicare il fatto che l'essere, il quale non è «più» concepito - come viene preteso - «metafisicamente», non dovrebbe essere un ente o un qualcosa, Heidegger risponde alla domanda: «L'essere, dunque: ma che cos'è l'essere?»: «Esso è esso stesso [il corsivo è mio]. Il pensiero avvenire dovrà imparare
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55). Heidegger interpreta il punto platonico di connessione (Resp., 509 b 9, 1'&. yct.l'J6v come lnbmvct. ·djç oùcrict.ç) di quest a concezione neop latonica in modo tale che non può del tutto venire alla luce il pensiero genuinamente platonico secondo il q uale l 'idea di bene, come «al di là» dell'essere delle idee, rimanda a lla «differenza» . Il problema dell'&yo:136v e per lui «solo il punto culmi nante della questione centrale e concreta della possibilità preminente dell'esistenza del Dasei n nella polis». L'<wriginario contenuto» dell'lr.€'-
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a sperimentare e a dire . L"'essere": cioè, non Dio, e non un ..: / ·J. fondamento o ragione del mondo» 29 • Se l'essere, nel significato proprio di Heidegger, può essere distinto in modo essenziale dall' «essere» o dal principio della metafisica, dal momento che l'Essere deve essere l' «evento » o il «diporto», o l'accordo di evento e diporto , e questo è determinato in modo essenziale come accadere temporale dell'«esser-presente» temporale, la distinzione nei confronti della metafisica non è costituita dall'insistere -su SE STESSO dell'Uno o dell'essere 30 . L'essereEGLI-STESSO dell ' Uno ha nella fo rmulazione radicalmente negativa, che mette in evidenza la differenza rispetto a tutto l'altro (all'ente), del non-aliud trinitario, la sua corrispondenza oggettiva e stor.(ca: «il non-altro è non altro che non altro»31. Ma l 'I DE~) è niente altro che proprio questo nonaltro: il puro, presente riflessivamente a se stesso, ma che assicura anche l'essere e l'essenza dell'ente, assoluto STESSO dell'essere. " · - " ,: c< ·· Bisognerà _ammettere che la proposizione heideggeriana della postfazione della quinta edizione di Che cos'è la metafisica? «secondo la quale ... l'essere non è mai senza l'ente» 32 , non supera l'essere come «esso stesso». In modo identico la diffe-
tio, ut vides, ipswn projecto est unitrinum et non alia ratione, quam quia se ipsum definit. 32 Wegmarken, p. 102 [trad. it., p. 42). Nella quarta edizione (Frankfurt 1943) si dice a p. 26: « .. .che l'essere è certo senza l' ente».
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HEIDEGGER
IDENTITÀ E DIFFERENZA
ridotto la verità all'«esattezza dello sguardo» 33 _ Prima di lui, la verità, per lo meno in un concetto che balena all'improvviso, ma che poi di nuovo si nega, sarebbe stata intesa come un tratto .fondamentale dell'essere, come sua non-ascosità. Ma con Platone sarebbe inizi ata - qui, HeideggEr~-péT ragione diverse, concorda con Nietzsche - la «decadenza» come oblio di essere e verità nel senso di una non-ascosità dell' essere da pensare di nuovo. «D'ora in poi l'impronta dell' essenza della verità come esattezza del rappresentare asserente diviene determinante per l'intero pensiero occidentale» 34 • Il paradigma di questa riduzione , introdotta da Platone, della non-ascosità all' esattezza, o consonanza, di un enunciato è, per Heidegger, la definizione di verità che T~,PI)J..as.o_d' Aquino ha ripreso dalla tradizione aristotelica: véi-itas est adaequatìo rei et intel!ectus 35 , l'adeguazione e la consonanza del conoscere , che si esprimere nell 'enunciato, con la cosa, cioè con l'ente o con il fatto. Che questa definizione di verità come verità dell'enunciato non sia tuttavia «determinante per l'intero pensiero occidentale», lo rende evidente già la determinazione platonica dell 'idea come essere vero o essere in senso proprio; una determinazione che Heidegger respinge a favore di una interpretazione etimologizzante che s'attiene al termine «idea». La conseguenza di questa rimozione è «l'idea come puro apparire nel significato dell'affermazione "il sole appare"»; oppure: l'idea è «ciò che appare» 36 , a cui deve corrispondere la posizione esatta dello sguardo. Sebbene per Platone la riflessione intorno al nesso del conoscere «visivo» con la forma (idea) «sensibile» sia centrale, eglì non ha prop rio negato la verità come tratto fondament ale dell'essere, ma l'ha_co~~epita c~me~ supp?~-~~-~~~ «vedere»; il fatto che «a conseguenza del soggio-
.
gamento all' idea» la verità sia diventata «esattezza» 37, occulta un elemento genuinamente platonico presente nel concetto di verità. Un elemento che manca alla tradizione aristotelica. La concezionè platonica di fondo non è caduta nell' «oblio» a motivo dell'interesse di Aristotele per la logica proposizionale, s'è anzi indubbiamente mantenuta ed intensifìcata nel concetto che Plotino ebbe di verità. Tale concetto avrebbe dovuto correggere e mettere in discussione la costruzione heideggeriana della storia di essere ~ .:verità. La concezione plotiniana di verità è, cioè, un paradigma che persuade del fatto che la verità è una caratteristica fondament ale dell'essere ed invero dello stesso essere assoluto, atemporale. Questo essere è ad un tempo pensare, ed il compimento riflessivb-della·-loro- identìtà è la'~entà cfel pensare esistente e dell'essere pensante (voùç). La verità dello spirito come verità dell 'essere non è però il risultato di una coincidenza con qualcosa di esterno a l pensare, ma è «sempre già» l'atemporale autocoincidenza dell'essere con 1- il pensare. Una distinzione tra una cosiddetta verità dell'essere ~ ed una cosiddetta verità dell'enunciato diviene perciò senza sen- · · so: «la reale e pura verità non s'accorda con altri che con se stessa, e null'altro esprime ed è fuor che se stessa; e quello che è, quello , ad un tempo, ella esprime» 38 • La verità come/· caratteristica fondamentale di essere e pensare, come pura autodeterminazione, è anche il fondament:o_del fatto che l'essere nel pensiero di se stesso è trasparente a se stesso (~vo:py~ç whòç · o:u-r(i>) 39 ' o è del tutto rischiarata (o~wpo:v'ij yàp nano:) 40 : la «non-ascosità» tout court esistente in se stessa e a se stessa ri fles sa, nella quale deve superarsi il pensare determinato nel tempo. Una alternativa a questa verità - non vero o falso - non esiste. Una corrispondenza dello «Spirito» plotiniano, come atemporale e riflessiva autocoincidenza, per il contenuto è data in momenti essenziali dal concetto cusaniano di veritas
l
33 Platons Lehre von der Wahrheit,
p. 41. !bi, 44, 46: «In quanto non nascondimento, la verità non è più la caratteristica dell'essere, ma è diventata, in seguito al suo soggiogamen to all ' idea esattezza, e· quindi segno della conoscenza . dell'ente». Vom Wesen der Wahrheit · PP~· 6 ss .; Zur Sache des Denkens, p. 76: ad un pensiero nell 'intenzione no r; più «me tafisica» il termi ne «verità» appare inusabilc a causa di una possibile tendenza all'occultamento. 35 Quaestiones disputatae de veritate, I l , C01pus articuli. Sull'origine aristotelica di questa definizione: Gottingische Gelehrte Arzzeigen, 220 (1969), pp. 7, 9-12 . 36 Platons Lehre von der Wahrheit, pp. 34 s.
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34
.· l f
3ì
!bi, p. 46. P lotino, Enn.,
v 5, 2, 18-20: "Da-t& xo:t ~ onwç CÌ.Àrphto: .ou
4
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IDENTITÀ E DIFFERENZA
absoluta 41 • Da Plotino lo separa tuttavia la concezione, secondo la quale la veritas absoluta è ad un tempo il primo principio, e dunque è analoga allo stesso Uno: è il Dio che pensa o comprende se stesso, che procede persino in se stesso e per riflessione media se stesso nella triunitas, che ha la visione di se stesso ed in essa scorge tutto ciò che è «possibile» attraverso la creazione: conceptus absolutus, mens absoluta, visio absoluta 42 • In quanto assoluta unità di essere e pensare, la verità, dunque, non segue proprio il modello del nesso di pensiero rappresentante e cosa rappresentata, pensata o anche esistente. È piuttosto il punto ass9lutq di unità, a partire dal quale solo può essere pensatO'Ui1 concetfo di verità. Una verità che _app.?:re nel processo di differenza temporale raggiungibile ! o costituibile mediante il pensare.
INDICI
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4'
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Ad es.: Possest, n. 69, 10 g.; Coni., II l; 75 , 20. Cfr. p. 168, note !03 e 104.
/ ABBREVIAZIONI
Nicolò Cusano I testi di Cusano vengono citati secondo l'edizione critica, che dal 1932 appare «issu et auctoritate Academiae Litterarum Heidelbergensis» (H), o indicazioni del libro o del capitolo è di volta in volta annotate la pagine o il paragrafo e la riga delle edizioni. Le citazioni del De venatione sapientiae seguono l'Editio minor (Phil. Bibl., Hamburg 1964). Nelle citazioni del De visione Dei non sono incluse nelle indicazioni delle righe i numeri dei capitoli o i titoli.
Apol.: Co ni .: Gen.: Sa p. : Vis.: Theol. compi.: Princ.:
De docta ignorantia (H I) Apologia de docta ignorantia (H II) De coniecturis (H III) De genesi (H IV) Idiota de sapientia (H V) De visione Dei (P, vol. I) De theologicis complementis (P II b) De principio (ed. Feigl-Vaupel-Wilper, Padova
Aeq.: Possest: Com p. Non aliud: Ven. sap.:
De aequalitate (P II a) De possest (H XI 3) Compendium (H XI 3) Directi speculantis seu non aliud (H XIII 17) De venatione sapientiae (Ed. min.)
D. i.:
1960)
Meister Eckhart DW:
Die deutschen Werke, a cura di J. Quint, Stuttgart 1936 sgg.
LW:
Die /ateinischen Werke, a cura di J. Koch e altri, Stuttgart 1936
382
AI313REVIAZ!ON!
Giordano Bruno A.: C.: CC.:
Dia!. It.:
E.: 1.: Im.: LTS.: M.: Ma.: OL:
S: Spaccio: STM.: TMM.: U.: V.:
Jubilaums-Ausgabe XVII-XIX Theodor Wiesegrund Adorno
Acrotismus Camoeracensis (OL I l) De la causa, principio et uno La cena delle Ceneri (Dial. It.) Giordano Bruno, Dialoghi Italiani; Dialoghi metafisici e dialoghi morali. Nuovamente ristampati con note di G. Gentile. Terza edizione a cura di G. Aquilecchia, Fi renze 1958. De gli eroici furori (Dial. It.) De l'infinito, universo e mondi (Dial. It.) De immenso et innumerabilibus (OL I 1/2) Lampas triginta statuarum (OL III) De monade, numero et figura (OL I 2) De magia (OL III) Jordani Bruni No/ani Opera latine conscripta, ree. F. Fiorentino, F. Tocco et alli, Napoli-Firenze 1879-91 (tre volumi [cifre romane] in otto parti [cifre arabe]) Sigillus sigillorum (OL II 2) Spaccio de la bestia trionfante (Dial. It.) Summa terminorum metaphysicorum (OL 4) De triplici minimo et mensura (OL I 3) De umbris idearum (OL II 17) De vinculis in genere (OL III)
Hegel Phan.: Logik: Enc.:
Religion:
Phdnomenologie des Geistes, a cura di J. Hoffmeister, Hamburg 1952 Wissenschaft der Logik, a cura di G. Lasson, Hamburg 1951 Enzyklopddie der phi!osophischen Wissenschaften im Grundrisse (1830), a cura di F. Nicolin O. Pi:iggeler, Hamburg 1959 Vorlesungen uber die Philosophie der Religion, Jubilaums-Ausgabe XV-XVI ( = 2a ediz. Berlin 1840)
Bweise:
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ABBREVIAZIONI
Vor!esungen uber die Beweise vom Dasein Gottes, a cura di G. Lasson, Hamburg 1966 Asthetik, a cura di F. Bassenge, Berlin 1965 Vorlesungen iiber die Geschichte der Philosophie,
ÀT.:
DA.:
E.:
MM.:
ND.: PM.
Asthetische Theorie, Gesammelte Schriften vol. VII, a cura di G. Adorno e R. Tiedemann, Frankfur t 1970 Dialektik der Aufkldrung (insieme a Max Horkheimer) Frankfurt 1969 A1etakritik der Erkenntnistheorie, Gesammelte Schriften, vol. 5, Frankfurt 1971 lmpromptus, Frankfurt 1968 Mahler. Eine musikalische Physiognomik, Frankfurt 1963 Minima Mora!ia. Reflexionen aus dem beschddigten Leben, Frankfurt 1964 Moments musicaux, Frankfurt 1964 Negative Dialektik, Frankfurt 1966 Noten zur Literatur l-IV, Frankfurt 1963-74 Philosophie der neuen Musik, Frankfurt 1958 Quasi una fantasia. Musikalische Schriften, II, Frankfurt 1963 Drei Studien zu Hegel, Frankfurt 1963
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ABBREVIAZIONI
ABBREVIAZIONI
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ELENCO DELLE TRADUZIONI ITALIANE DELLE PRI CIP ALI OPERE CITATE E UTILIZZATE
Scienza della logica, traduzione di A. Moni, rev. della tra d. di Claudio Cesa, Bari I 974.
Platone
Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio. Scienza della logica, a cura di V. Verra, Torino I 981. Enciclopedia delle scienze filosofiche in compendio, trad. di B. Croce, Bari I 907.
I testi di Platone vengono citati secondo la traduzione delle Opere complete, Bari 1966. Aristotele Si fa uso delle traduzioni delle Opere, Bari 1973, tranne per la Metafisica, dove ci si riferisce alla traduzione di G. Reale (Napoli I968). Plotino
Enneadi, prima versione integra e commentario di V. Cilento, Bari 1948.
Lezioni sulla filosofia della religione, a cura di E. Oberti e G. Borruso, Bologna I973. Lezioni sulle prove della esistenza di Dio, a cura di G. Borruso, Bari 1984. Estetica, trad. di N. Merker e N. Vaccaro, Torino 1967. Lezioni sulla storia della filosofia, trad. di E. Codignola e G. Sanna, Firenze 1973.
Dionigi Areopagita
Tutte le opere. Gerarchia celeste - Gerarchia ecclesiastica - Nomi divini - Teologia mistica - Lettere, trad. di Piero Scazzoso, introduzione, prefazioni, note e indici di E. Bellini, Milano 1981.
Adorno
Teoria Estetica, trad. di E. de Angelis, Torino 1975. Dialettica dell'illuminismo, trad. di L. Vinci, Torino 1966.
Agostino
Wagner e Mahler, trad. di M. Bortolotto e G. Manzoni, Torino I966.
Ci si è serviti dell' edizione latino-italiana ancora in corso delle Opere di Sant'Agostino, a cura dì A. Trapé, Roma 1965 ss.
Minima Moralia. Meditazioni sulla vita offesa, trad. di R. Solmi, Torino 1983.
Meister Eckhart
Dialettica negativa, trad. di C.A. Donolo, Torino 1970.
Trattato e prediche, introduzione, traduzione e note di G. Faggin,
Note sulla letteratura, trad. di A. Frioli, Torino I979.
Milano 1982. Nicolò Cusano
Opere filosofiche, a cura di G. Federici-Vescovini, Torino 1972. Schelling
Bruno, ossia un discorso sul principio divino e naturale delle cose, trad. di F. Waddington, Milano I 844. Una terza edizione fu curata da A. Valori, Torino 1906. Scritti sulla filosofia, la religione, la libertà, a cura di L. Pareyson e trad. di S. Drago Del Boca, L. Pareyson, V. Verra, Milano 1974. Hegel
Fenomenologia dello spirito, trad uzione di E. Negri, Firenze 1960.
Tre studi su Hegel, trad. di F. Serra, Bologna 1971 . Heidegger
Identità e differenza, trad. di E. Landolt, in «Teoresi» I966-67. La dottrina delle categorie e del significato in Duns Scoto, trad. di A. Babolin, Bari 1974. Kant e il problema della metafisica, trad. di M.R. Reina, riv. da V. Verra, Bari 198 1. Che cos'è la metafisica? (Con estratti della Lettera su l'Umanesimo), trad. di A. Carlini, Firenze I974 .
4
387 Corsini E. 81. Cusano 27, 57, 70, 80s ., 109, 113, 124, 128, 140, 141, 143 ss., 174 ss., 211, 227 s., 232, 236, 255, 262, 263 ss., 266, 309. Cirillo di Alessandria 64.
INDICE DEI NOMI
Adelardo di Ba t h 79 . Adorno T.W. 30 s., 313 ss. Linguaggio 360. Alano di Lilla 133, 196. Alberto Magno 176. Albino 126. Alessandro Afrodisia 71. Alfaric P. 369 Anassagora 226. Andrcsen C. 124. Anselmo d'A osta 257. Antistene 41. Aquilecchia G. 209 Ario 92 ss. Aristotele 52, 92, 95, 162, 174 s., 181 s., 198, 203 ss. (Hegel), 210 s., 219, 234, 235, 266, 293, 316, 333 s., 349, 377. Armstrong A. H. 58, 64, 125. Arnou R. 369. Agostino 91, 92, 109, 134, 139, 166, 175 , 182, 184, 185, 194, 198, 22 1, 369, creatio 111 ss. Avencebrol 79, 136. Avicebron 221. Bach J.S. 330, 337. Baladi N. 64 Baltes M. 132. Baudelaire Ch. 349. Baumann G. 260. Beethoven L. van 337. Benjamin W. 320, 353. Berg F. 243.
Bernardo Silvestre 79, 133. Beuys J . 347 . Bloch E. 337, 340 s. Blumenberg H . 210 , 265. Boeckh A. 249. Boehme J. 243 , 276. Boezio 79, 91, 214, 220, 370. Bonaventura 155, 233. Booth E. 174. Bormann K. 44, 156. Boyer Ch. 369. Bredow G. v. 153. Brchler E. 369. Brentano Cl. 341. Brisson L. 78 . Brons B. 81. Brucker J. 232, 261. Bruckner A. 337. Bruno G. 113, 173, 203, 208 ss, 260, 263 ss. Buhle J. G. 261. Calcidio 79, 126, 134. Cassiodoro 198. Charles A. 73. Cristo, maestro interiore 115, 124, mediatore 188 s. morte e risurrezione 304 s. 306. Cicerone 92, 221, 34 7. Clarembaldo 72, 79, 133 . Clemente Alessandrino 136. Clemens F. J . 265. Colcridgc S. T. 105 . Copernico 209, 236 .
Dangelmayr S. 153. Damascio 60, 64, 71. Davide di Dinant 221, 223. Democrito 50, 221, 236, 266. Deku H. 364 . Detel W. 41. Diès A. 46. Dionigi Areopagita (ps.) 81 ss., 128, 152, 155, 176, 194, 264, 372. Dodds E .. R. 64, 76. Dorrie H. 77. Domin H. 330. Duns Scoto 221. Eckart Meister 134 ss. 155, 157, 168, 176, 197, 206, 256, 274, 309, 368 s. Eggebrecht H. H . 352. Elsasser M. 359. Empedocle 216 , 219. Epicuro 221, 236. Eriugena Giovanni Scoto 27, 69, 119, 128, 133, 134, 155, 164, 176, 196, 197, 200 s., 206, 374. Eschilo 176. Ficino Marsilio 203, 218 s., 271. Fichte J. G. 258. Filone di Alessandria 118, 136, 221. Fischer H. 135 . Fulda H. F . 298 . Flasch K. 152. Frantzki E. 153. Fritz J. v. 44. Gadamer H. G. 33, 37 s. Gaiser K. 68, 72. Gandillac M . de 170. Giorgio Veneto 133 . Gersh S. 53, 107 .
INDICE DEI NOl\H
Giamblico 64, 71, 74, 132, 138. Giovanni Damasceno 141. Giustino Martire 124. Goethe 260. Gregorio di Nazianzo 77, 141. Gregorio di Nissa 124, 176. Giinther A. 272. Gundissalino 79. Haas A. M. 141 . Hamann J . G. 279. Hadot I. 132. Hadot P. 54, 59, 87, 93 s., 372. Happ H . 220. Harnack A. 365 . Haubst R. 155, 167 , 188. Hegel 28, 29, 91, 158, 169 ss., 202 ss., 241, 252 s., 255, 259, 270 s., 272, 280 ss. , 316, 317 s., 325, 331, 354, 358, 369. Heidegger M. 28 ss ., 158, 356 s., 361, 365 ss. Heinemann F . 369. Heitsch E. 44. Heinrich D. 283, 296, 305 s. Hindcmith P. 355. Hirschberger J . 150. Hoffmann E. 150. Holderlin F. 356 s. Holscher U. 44. Holz H. 243. Hiibener W. 130. Husserl E. 315. Ierocle 132. Imbach R. 199. Inge W.R . 369. Ivanka E. v. 81. Jacobi F. H. 241 s., 260 s., 288. Jacobi K. 153. Jahning D. 270. Jugegno A. 267. Kamlah W . 41. Kant 281, 284, 285, 288, 325, 347. Kauffmann H. 177 . Klibansk y R. 150.
388
INDICE DEI NOMI
Kobusch T. 125. Koch J. 167. Kramer H .J. 38, 68, 198. Kr isteller P. O. 233. Lask E. 369. Lasson A. 209. Leibniz 250, 256. Lcisegang H. 194. Lloyd A. C . 235. Loffler J. F. Chr. 243. Lorenz K. 51. Lossky V. 135. Lucrezio 220, 236. Lukacs G. 335, 337 . Lullo Raimondo 188. Lutero 304. Mahler G. 330, 354 s. Mahnke D . 272. Marcuse H. 323. Maria Walter de 347. Marten R. 41. Marx K. 317, 322, 348. May G. 132. Melisso 136. Metzke E. 166, 206. Michel P. H . 214. Michelet C. L. 204. Mittelstrass J . 51. Mozart W. A . 337. Nebel G. 54. Nicomaco di Gerasa 64, 74, 129. Nietzsche F . 332, 335, 362, 376. Novalis 243, 259. O'Daly G . J. P . 65 . Opelt I. 176. Origene 112, 124, 195, 221. Owen G. E . L. 41. Panofksy E. 130. Parmenide 25, 43 s., 61, 135, 227, 257, 271, 325 . Pépin J. 126. P itagora 71 s.
Platner E. 243. Platone 25 s., 37 s., 117, 118, 121, 124, 127, 132, 209, 217, 223, 236, 247, 274, 292, 306, 316, 353 s., 335, 366, 375 s. Sofista 29, 41 ss., 67, 76, 81, 91, 137, 149, 200, 205. «megista gene» 48. Parmenide 81 s., 87, 98, 173, dottrina non scritta 67 . Platino 25 ., 54 ss. , 95, 111, 119, 121, 124 ss., 130, 153, 155, 158, 163, 179, 180, 181, 182, 183, 194, 198, 199, 206, 217, 218, 22 1, 225, 242, 250 S., 255, 256, 257, 259, 262, 264 s. , 266, 27 1, 272, 277 s., 368, 37 1, 374, 377 s. Poggeler O. 369. Porfirio 62, 71 , 87, 92, 95 s., 98, 99, 100, 104, 105, 128, 132, 183, 200, 372. Proclo 57, 62, 64, 67 ss., 99, 119, 121, 128, 132, 155, 179, 180, 183 s., 192, 198, 226, 263, 271, 371, 372. Presocratici 357. Puder M. 362. Reckow F. 352. Reger M. 337. Riccardo di S. Vittore 9 1. Rist J. M. 53, 58. Ritter H. 265. Ritter J. 246, 261. Roger van der Weyden 177. Roques R. 81 s. Saffey H . D . 74, 97. Sarauw J. 27 1. Scheffel W. 132. Schelling 28, 173, 226, 241 ss., 318, 338, 341, 348, 358, 369. Schlegel A. W. 261. Schlegel F. 341. Schlosser J . F. H. 241. Schonberg A. 355 . Schopenhauer A. 358 s. Schroter M. 279. Schubert F. 354.
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INDICE DEI NOMI
Uehlein 106.
Schulz W . 206 s. Schwyzer H .R. 59, 65, 78. Seneca 130. Senofane 334. Shcldon-Williams l. P. 155, 164. Sinesio 100. Siriano 6 1, 71, 74. Skemp J. B. 78. Snell B. 334. Solignac A. 113 . Souverain N . 243. Spinoza 31, 225, 241, 250, 260. Stallmach J. 144, 170, 191. Strawinsky I. 355.
Valér y P. 350. Védrine H . 225 . Virgi lio 2 17. Vittorino Mario 91 ss., 183, 198, 309, 370. Vlastos G . 41. Volker w. 81. Vogel C. J. de 46, 72, 83, 220. Volkman n-Schluck K. H . 54. Wackerzapp H. 140, 155. Walker D. P. 217. Westcrink L.G. 74, 97. Whittake r J. 107. Whit taker Th. 369. W ieland W. 220, 295. Wilpert P. 151. Windischmann C. J .P. 243, 277 .
Tanin L. 44. Teodorico di Chartres 79, 130, 133, 179. TeSe li e E. 127. Tiedemann D. 243. Tinguely 330 . Theiler W. 130, 222. Tocco F. 271. Tom maso d'Aqui no 221, 233, 376. Trouillard J. 71, 78, 99, 128.
Yatcs F. A . 217, 226. Ziegenaus A. 91.
DIPARTIMENTO
e
TEORIA
lNV. n.
01
DELLE
FILOSOFIA SCIENZE
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