JOHN DICKSON CARR DELITTI DA MILLE E UNA NOTTE (The Arabian Nights Murder, 1936) Prologo Quattro uomini erano seduti int...
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JOHN DICKSON CARR DELITTI DA MILLE E UNA NOTTE (The Arabian Nights Murder, 1936) Prologo Quattro uomini erano seduti intorno a un tavolo tondo nella grande biblioteca al numero 1 di Adelphi Terrace. Nel corso di pochissimi anni, una buona quantità di strani e sorprendenti reperti erano stati posati su quel tavolo sotto il lume a saliscendi per l'esame del dottor Fell. C'era stato, per esempio, un ballerino giocattolo, quella figurina di latta le cui giravolte avevano procurato l'indizio per il delitto Weatherby Grange; le sei monete azzurre che avevano fatto impiccare Paulton di Regent Street. Ma raramente il tavolo aveva visto una collezione più incongrua degli oggetti che erano lì quella sera. Erano i reperti di quel caso che diventò poi noto come il delitto delle Mille e Una Notte. Ce n'era una mezza dozzina, a cominciare da un ricettario di cucina fino a un paio di barbe finte. La luce forte sul tavolo sembrava quella di un riflettore più che di un lume, E nella stanza non c'era altra luce a eccezione del fuoco nel caminetto, acceso per l'eventualità di una lunga seduta notturna. Installato nella sua più grossa poltrona, con accanto un tavolinetto zeppo di sigari e di liquori, il dottor Gideon Fell sorrideva beato. Dopo quattro mesi nel sud della Francia, il dottore scoppiava di salute. Era stato a Cannes, bisogna ricordare, per il caso dell'avvelenamento Giraud in cui erano rimaste coinvolte le due ragazze inglesi: una brutta faccenda. Poi aveva bighellonato sulla Costa Azzurra, in parte per curarsi dell'asma che lo affliggeva ma più che altro per la sua innata pigrizia. Ora, sotto il lume a saliscendi, la sua faccia era più rossa che mai. I suoi occhietti ammiccavano dietro gli occhiali tenuti dal grosso cordoncino nero; le risate animavano le sue svariate pappagorge e scuotevano le protuberanze sotto il suo panciotto. La sua voluminosa figura sembrava riempire la stanza come il fantasma del Pacco Dono di Natale. Una mano era appoggiata al bastone, l'altra reggeva un sigaro con cui indicava i reperti sul tavolo. «Sì, m'interessa» disse, compiaciuto, respirando rumorosamente. «Sono disposto ad ascoltare tutta la notte qualunque storia che in certo qual modo abbini un ricettario di cucina con due paia di barbe finte. Una bianca, vedo, e l'altra nera. Ma senti, Hadley, cosa mi dici di questi altri reperti?» Li indicò. «Sembrano quasi altrettanto misteriosi. Quella lama ricurva posso
capirla. Ha l'aria abbastanza micidiale. Ma, e queste fotografie? Questa qui sembrerebbe una serie di orme. E quest'altra... be', sembrerebbe un negozio orientale o un bazar, con una grossa chiazza nera sulla parete proprio sopra la porta. Be'?» «Esatto» rispose il sovrintendente Hadley con aria grave. «Quella chiazza è stata fatta da qualcuno che ha tirato del carbone contro il muro.» Il dottor Fell restò col sigaro a mezz'aria. Inclinò leggermente la testa da un lato, e la massa dei capelli brizzolati gli ricadde su un orecchio. «Tirato del carbone contro il muro?» ripeté. «E per quale ragione?» L'ispettore Carruthers intervenne con espressione cupa. «Sì, signore. È molto importante, a meno che la ricostruzione dei fatti del sovrintendente Hadley non sia completamente sbagliata. E, in relazione a quella macchia, richiamo la vostra attenzione su quel paio di finti baffi neri. Tanto per cominciare, potete vedere che c'è della gomma appiccicata, il che è ancora più importante...» «Piano, piano!» ruggì sir Herbert Armstrong, quell'eminente uomo d'affari le cui capacità lo avevano fatto nominare vice alto-commissario della Polizia Metropolitana. «Non vedete che imbrogliate ogni cosa? Calmatevi, tutti e due, e lasciate che spieghi io. Ecco! Fell, ci troviamo in alto mare e ci rivolgiamo a voi come ultima risorsa. È una situazione così pazzesca che nessun altro ci capirebbe qualcosa.» «Mi confondete» disse il dottor Fell. «Andate avanti.» Guardò i suoi tre ospiti intorno al tavolo. Ognuno contrastava con l'altro nel modo di raccontare una storia o perfino nel pensarla: ognuno, difatti, pur essendo inglese, proveniva da una zona differente. John Carruthers, l'irlandese, era ispettore di divisione di Vine Street. Era il funzionario di polizia di nuovo tipo. Non aveva più di trentacinque anni ed era un uomo di vasta cultura e con un'ottima preparazione atletica, beneducato e con una forte immaginazione. Aveva astutamente imparato a frenare la sua immaginazione, sebbene spesso ciò lo mettesse in imbarazzo. Il suo tratto non irlandese era una capacità a volte fastidiosa di indovinare il pensiero degli altri. Altrimenti aveva il viso lungo, tenebroso e arguto, scure sopracciglia unite sopra occhi sardonici e non lo si vedeva mai senza la pipa penzolante da un angolo della bocca. Sir Herbert Armstrong, con la testa calva e il corpo robusto e voluminoso, era inglese al cento per cento. Avrebbe potuto fare da modello per quel dottor Bull di cui rimane soltanto il simbolo della sua personalità. Leale, sentimentale, cinico, cordiale, garrulo, eccitabile e ostinato, detestava le
proprie qualità ma era fierissimo dei propri pregiudizi. Aveva un carattere violento ma perfettamente innocuo che (dietro le spalle), attraverso canali misteriosi del Corpo, gli aveva fruttato il biasimevole soprannome di Paperino. E infine aveva un forte senso dell'amicizia, come almeno una persona nel caso del delitto delle Mille e Una Notte poteva testimoniare. Il terzo del trio, il sovrintendente David Hadley, era originario del nord Tweed. Era il miglior amico del dottor Fell, e il dottore, che lo conosceva profondamente, ammetteva spesso che con lui non si sapeva mai dove si cascava. Cauto, calmo e logico in superficie, Hadley poteva essere ora lento e brillante, ora stolido e strambo. Quella sua tranquilla stolidità... si parla ancora di come entrò da solo in quella profumatissima cucina, covo di ladri, a est di Poplar, di come arrestò Myers e Bailey con una pistola giocattolo dopo di che, imperturbabile, li fece camminare davanti a sé voltando le spalle a tutti i gorilla del locale... quella sua tranquilla stolidità nascondeva una suscettibilità che lo portava a offendersi anche quando l'offesa era del tutto inesistente. Detestava gli scandali, era un uomo tutto famiglia e forse aveva un senso della dignità anche troppo accentuato. Anche se lui lo avrebbe negato vigorosamente, aveva un'immaginazione forse ancora più forte degli altri due. E alla fine era famoso per non lasciare mai nessuno nei guai, che si trattasse di un amico o meno. «Statemi a sentire» continuò sir Herbert Armstrong, tirando una botta sul tavolo, «questa faccenda del museo Wade va studiata. Siete sicuro di non aver letto un giornale inglese negli ultimi quattro mesi e di non saperne niente? Bene! Tanto meglio! Qui, in queste schede, c'è tutto registrato, parola per parola. E davanti a voi avete le tre persone che si sono occupate del caso durante tutti i suoi stadi, per poi essere trionfalmente premiate da un bellissimo fiasco...» «Fiasco?» esclamò Hadley. «Non arriverei a dire tanto.» «Be', fiasco legale, comunque. La cosa sta così: Carruthers fu il primo a scontrarsi con la pazzia, l'assassinio e con una situazione che nessuno al mondo pareva capace di spiegare. Poi subentrai io e la situazione parve chiarirsi, ma il delitto restava sempre un insensato spaventoso guazzabuglio. Poi subentrò Hadley, e trovammo una spiegazione per il delitto... ma tutto il resto restava insensato.» Il dottor Fell pareva un po' confuso. «È il gioco d'un pazzo» continuò Armstrong, querulo. «Ma ripasseremo ancora una volta questa storia caotica. Dovrete sedervi sul tappeto volante, che vi piaccia o no. Ognuno di noi, a turno, vi racconterà la sua storia e
spiegherà i dubbi di chi l'ha preceduto. Alla fine voi dovrete dirci cosa diavolo dobbiamo fare. Cioè, se ci capirete qualcosa, del che dubito. Forza, Carruthers, attaccate.» Carruthers sembrava a disagio. Prese il mucchio di cartellette blu con i fogli dattiloscritti, accanto al gomito di Hadley, e i suoi occhi cupi e arguti si posarono sui presenti. Poi, dietro la pipa dondolante, la sua bocca si aprì in un sorriso. «Temo di aver fatto una gran confusione» disse. «Però, signore, non credo di essermi cacciato in grossi guai, perciò sono abbastanza tranquillo. Così diceva il cantastorie dalla sua sedia accanto ai bazar. Vi suggerisco di riempire il bicchiere e di reggere forte il cappello, signore, perché si parte.» PARTE PRIMA DEPOSIZIONE DELL'ISPETTORE JOHN CARRUTHERS 1 La mia prima impressione che c'era qualcosa che non funzionava l'ebbi dal sergente Hoskins, un sergente in uniforme, questo va ricordato, e anche allora era difficile vedere nella faccenda nient'altro che uno svitato che tentava di scavalcare un muro. Ciononostante, anche se in Vine Street abbiamo l'abitudine di riderci su, specialmente quando si tratta di persone del bel mondo che fanno baldoria, in genere simili buontemponi non hanno lunghe barbe bianche. Incontrai Hoskins alle undici e un quarto di venerdì sera, quattordici giugno. Mi ero trattenuto fino a tardi alla Centrale e poiché avevo del lavoro da sbrigare, ero uscito per andare a prendere un caffè e un sandwich in un chiosco di Panton Street, con l'intenzione poi di tornare a lavorare. Quando mi guardai attorno in Haymarket per potermi riposare un attimo sotto le luci, quasi mi scontrai con Hoskins. È un tipo all'antica, massiccio e risoluto, con baffoni napoleonici: non lo avevo mai visto così sconvolto. Respirando affannosamente, mi trascinò nell'ombra e mi disse: «Ascoltate, signore, in venticinque anni mi è capitato di vedere dei burloni, ma mai uno come questo! E con la barba bianca, anche se era finta! Gliela do io la barba!» esclamò, rabbioso. «Guardate qui!» M'indicò il suo collo. Al
di sopra del colletto vidi i segni lunghi e profondi di unghiate. «Sapete dov'è il museo Wade, signore? In Cleveland Row?» Come molti, avevo sentito parlare del museo Wade. Avevo sempre pensato di andare, un giorno o l'altro, a farci una capatina, ma non lo avevo mai fatto. Il nostro distretto aveva ricevuto severi ordini di tenerlo d'occhio, non solo da Wade stesso, ma anche dai capi in testa del Corpo. Immagino che avrete sentito parlare del vecchio Geoffrey Wade, anche se soltanto come sinonimo di un grosso conto in banca. Tuttavia questa definizione non gli piacerebbe. Per quanto io non l'abbia mai visto, l'ho sentito descrivere come un uomo eccentrico, focoso, e come il più grande showman del mondo. Inoltre sapevo che aveva diverse proprietà in St. James, compreso un blocco di appartamenti in Pall Mall Place. Circa dieci anni fa mise su un piccolo museo privato (aperto al pubblico) che amministra e cura personalmente. È un museo asiatico o orientale, o così ho sempre creduto, sebbene ricordi d'aver letto un articolo da qualche parte che diceva che vi sono anche buoni esemplari di carrozze inglesi antiche: un miscuglio che forma la gioia del vecchio. Il museo è in Cleveland Row, di fronte al St. James Palace. Ma è incastrato nell'estremità orientale della strada, in mezzo a spiazzi e palazzotti bui che sembrano abbandonati sin dal diciottesimo secolo. Durante il giorno, nelle vicinanze non c'è quasi anima viva - ci sono troppi echi - e di notte uno si può immaginare quello che vuole. Di conseguenza, quando Hoskins mi parlò di quel museo, il mio interesse si destò. Gli dissi di piantarla di ansimare e di raccontarmi cos'era accaduto. «Stavo facendo la mia ronda» rispose Hoskins ricomponendosi, «e camminavo verso ovest lungo Cleveland Row. Erano circa le undici, signore. Stavo per dirigermi verso la mia prossima meta - il giro di Pall Mall - per incrociarmi con il poliziotto di ronda là. E stavo passando davanti al museo Wade. Conoscete quel museo, signore?» C'ero passato vicino qualche volta e ricordavo un edificio a un piano prospiciente la strada e circondato da un muro alto e stretto. Inoltre c'era un'alta porta di bronzo tutta piena di fregi e ghirigori che potevano essere, come no, iscrizioni arabe: quello era il motivo per cui veniva fatto di notare l'edificio. Entrambi, Hoskins e io, lasciammo perdere il tono ufficiale: non riesco mai a sostenerlo a lungo, temo. «Così mi sono detto» continuò Hoskins, con un tono rudemente confidenziale «mi sono detto: ora vado a provare la porta per vedere se Barton
non ha trascurato niente. Be', signore, la porta era chiusa. Perciò ho roteato il raggio della mia lampada attorno senza pensare a nulla di particolare, capite, signore, l'ho semplicemente roteato.» S'interruppe. «Be', mi sono preso un bello spavento. Ci potete credere. Perché quello era lassù, seduto sul muro. Un uomo alto, magro, vecchiotto, con cilindro e finanziera. E una lunga barba bianca.» Scrutai Hoskins, Non sapevo se ridere o che altro fare. Se non lo avessi conosciuto bene, avrei pensato che si stesse facendo gioco di me. Ma l'uomo era terribilmente serio. «Sì, signore, proprio così. Seduto sul muro. Gli ho schiaffato la luce addosso; naturalmente ero un po' stranito... alla sua età e con quel cappello sulle ventitré e perfino abbastanza malconcio... ma ho gridato: "Ehi, cosa ci fate lassù?". Poi ho sbirciato gli occhi di quell'individuo e sono costretto ad ammettere...» «Sei troppo sensibile, sergente.» «D'accordo, signore, ridete pure» disse Hoskins, cupo, scuotendo la testa minacciosamente, «ma voi non lo avete visto. Aveva dei grossi occhiali cerchiati di tartaruga. Mi fissava con un'espressione da pazzo. Quella faccia lunga e quella barba inverosimile e poi quelle gambe lunghe e sottili da ragno penzolanti dal muro... E tutt'a un tratto è balzato giù. Bangi Così. Ho creduto che mi piombasse addosso. Avete mai visto, signore, un sagrestano che gira col piattino della questua? Ecco, lui aveva quell'aspetto, solo sembrava matto. È caduto giù tutto in un mucchio, ma poi si è rialzato. E mi ha detto: "Lo hai ucciso e sarai impiccato per questo, mio bell'impostore. Ti ho visto nella carrozza". È così dicendo mi ha agguantato il collo con tutt'e due le mani.» Ora Hoskins non era ubriaco (mi respirava forte in faccia, perciò posso ben dirlo) né è il tipo che possa inventarsi una simile mostruosità. «Il vecchio della Montagna, forse» dissi. «E poi, cosa è successo?» Hoskins riprese a parlare in tono umile. «Alla fine ho dovuto sganciargliene uno, signore. Era una belva, nonostante quel suo aspetto da vecchio: non ho potuto fare altro. Be', per fare più alla svelta l'ho colto proprio sulla mascella, e lui è crollato. E a quel punto ho scoperto la cosa più strana... la barba era finta. Credetemi, signore, è la verità. Era appiccicata con una specie di gomma e nella lotta si era staccata. Non sono riuscito a vederlo bene in faccia perché lui, nel tentativo di tirarmi un calcio, mi aveva fracassato la lampada e in quel tratto di strada il buio era piuttosto fitto.» Suo malgrado, un sorriso cominciò ad aleggiare sulle labbra di Hoskins.
«Be', signore, mi sono detto: "Lummy, questa faccenda è poco chiara". Eccomi qui (ho pensato) nelle peste con quello che si potrebbe definire un tipo venerabile, con la barba finta, steso al suolo come uno stuoino a neanche cento metri da Pall Mall. Cosa ne dite? Mi sentivo un po' idiota, vi assicuro. L'unica cosa che potevo fare era chiamare il cellulare. Mi sono ricordato che dovevo vedere Jameson, il poliziotto che stava facendo il suo giro in Pall Mall proprio in quel momento. Così ho pensato di andare a chiamare Jameson perché venisse a badare a quel tipo mentre io andavo a telefonare. Be', signore, l'ho appoggiato con la testa sul bordo del marciapiede perché non gli venisse un'emorragia proprio lì, col rischio di diventare ancora più matto. Poi mi sono allontanato, e dopo neanche venti passi mi sono voltato per assicurarmi che stesse bene...» «Ed era così?» «No, signore, non stava bene» rispose Hoskins solennemente. «Era sparito.» «Sparito? Volete dire che si era alzato ed era scappato?» «No, signore, era svenuto, ci giurerei sulla Bibbia! Voglio dire che si era volatilizzato. Pfff!» disse Hoskins con un grosso sforzo di fantasia e un ampio gesto della mano. «È la verità sacrosanta, signore.» Si raddrizzò in tutta la sua dignità, qualcosa evidentemente lo angustiava. «Voi siete un signore intelligente, signore, e so che mi credete. L'agente Jameson non mi ha creduto. E cosa fa lui se non scherzarci su col suo diretto superiore? "Sparito?" dice. "Dove? Portato via dagli spiriti, immagino. Barba finta!" dice. "Barba finta un corno! Magari aveva anche i pattini a rotelle e un ombrellino verde. Meglio che tu non racconti questa storia quando torni alla Centrale, ragazzo mio." Ma io invece la dico, perché è mio dovere e ci insisto! Inoltre non poteva svanire da nessuna parte, quel tizio.» Dopo aver tirato due o tre grossi sospiri, Hoskins riuscì a dominare la sua rabbia. «Ascoltate, signore. Il tipo era là, lungo disteso in mezzo alla strada, lontano da qualunque porta. Per giunta c'era tanto silenzio che avrei sicuramente sentito se qualcuno si fosse avvicinato; avrei visto chiunque, perché la strada non era poi tanto buia, e giuro che non mi ero allontanato più di dieci metri. Ma io non ho visto niente né udito niente e in dieci secondi quel tipo è... pfff! Sembra proprio un episodio da libro giallo. Sparito! Svanito dove era impossibile svanire, ci giuro sulla Bibbia. Ma la mia preoccupazione è solo questa: cosa devo fare?» Gli dissi di tornare alla Centrale e di calmarsi un po' mentre io andavo a prendere una tazza di caffè. Anche se sarei stato felice che quella storia
fosse vera e di scoprire così qualcosa di micidiale che mi aiutasse a fare il mio primo colpo nel West End, mi era impossibile dedicare un pensiero concreto al Problema della Barba che spariva senza sentirmi ancora più idiota di Hoskins. E, al pari di Hoskins, cosa diavolo potevo fare? D'altro canto, a meno che Hoskins non fosse stato vittima di un volgare scherzo, non serviva a niente negare che quel fatto era spiacevolmente strano e comico insieme. Sebbene continuassi a tempestare Hoskins di domande, Hoskins giurava che era impossibile che Barba fosse stato portato via senza che lui vedesse o udisse; inoltre era sicurissimo che il tipo aveva perso i sensi. Sul momento c'era soltanto una cosa da fare: andai a prendere il mio famoso caffè. E quando tornai indietro, a quel punto ancora più preoccupato di cosa potesse significare quella maledetta faccenda, trovai che c'erano stati altri sviluppi. Il sergente Hoskins mi venne incontro sulla porta: era fuori servizio e si era messo in borghese, ma traccheggiava con allegria repressa e agitava il pollice indicandomi l'agente Jameson che stava dietro di lui con atteggiamento saturnino. «Un pizzico di fortuna, signore» disse. «Jameson ha avuto il suo giro di valzer.» «Vuoi dire che Barba è ricomparso?» Il saturnino Jameson scattò sull'attenti. «No, signore, non si tratta dello stesso individuo. Si tratta di qualcuno che ha cominciato a fare un putiferio davanti al museo Wade nemmeno cinque minuti dopo che il sergente è andato via. Ma quando mi sono avvicinato a quel tizio... be', quello aveva anche voglia di litigare.» Mi guardò con occhi fiammeggianti. «Ho pensato che vi sarebbe piaciuto parlargli. Non l'ho accusato di niente, ma posso sempre farlo nel caso che vogliate trattenerlo per una qualche ragione: ha tentato di colpirmi col bastone, il fottuto. L'ho solo pregato di venire qui tranquillamente per scambiare una parola con voi. È nel vostro ufficio.» «Cos'è successo?» «Be', signore» rispose Jameson, scalpicciando un poco, «stavo facendo il mio giro davanti a quel museo... quando ho visto quell'individuo che, voltandomi le spalle, pareva strusciare le mani sulla porta di bronzo. Un giovanotto molto elegante, moderno, vestito da sera, costituzione robusta, con quell'aria da attore del cinema che sembra dire: "Me ne frego di tutto". L'ho chiamato e gli ho chiesto cosa stava facendo. Lui ha detto: "Sto cercando di entrare, non è abbastanza chiaro?" Io gli ho detto: "Saprete che è un museo, immagino, signore". Lui ha detto: "Sì ed ecco perché voglio en-
trare. C'è un campanello qui, da qualche parte, aiutatemi a trovarlo". Be', io gli ho detto che il museo era chiuso, che era tutto buio e che avrebbe fatto meglio ad andarsene a casa. Lui si è girato, furioso, e ha detto: "Se non vi sembra troppo strano, sono stato invitato a un'esposizione privata. Così non ho nessuna intenzione di andarmene. Cosa ne dite?" Io ho detto...» Jameson gonfiò le gote: «"Potrei anche aiutarvi". Allora lui dice: "Perdio, accidenti alla vostra impudenza" (proprio così) e, alzando quel suo bastone, tenta di colpirmi...» «A quanto pare ci dev'essere qualcosa nell'aria» commentò il sergente grattandosi un baffo. «Che mi pigli un colpo se ci capisco qualcosa, e voi, signore?» «Andate avanti, Jameson.» «Gli ho afferrato il bastone e gli ho chiesto, con gentilezza naturalmente, se non gli dispiaceva seguirmi al posto di polizia per rispondere a qualche domanda dell'ispettore. Lui è cambiato completamente. Si è calmato. "Domande su cosa?" ha voluto sapere. Io ho detto: "Su una sparizione". Ho avuto l'impressione che assumesse un'aria molto strana, ma non ha scatenato nessun putiferio come mi sarei aspettato ed è venuto con me continuando a farmi un sacco di domande. Io non gli ho detto niente, signore. Ora è nel vostro ufficio.» Jameson, come sapete, era andato oltre il suo dovere, ma dato che la faccenda cominciava a sembrarmi molto strana, ne fui lieto. Mi avviai verso il mio ufficio e, là, aprii la porta. Stanotte udrete varie interpretazioni dei personaggi con i quali abbiamo avuto a che fare. Io posso soltanto darvi la mia. L'uomo che era stato seduto sulla mia poltrona girevole e che si era alzato come se lì per lì non avesse saputo come comportarsi con me, era piuttosto imponente e in maniera particolare nel mio squallido ufficio. Per un attimo mi parve di vedere in luì qualcosa di così vagamente familiare che avrei giurato di averlo già conosciuto. Quella strana sensazione persistette finché non mi resi conto di quale ne era la causa. L'uomo che avevo davanti era il tipico eroe di almeno un migliaio di romanzetti. L'eroe da romanzo in carne e ossa. (E per giunta ne era consapevole.) Difatti era alto, con spalle larghe, e aveva quel bell'aspetto forte e duro preferito dalle romanziere, con occhi azzurro chiaro sotto sopracciglia cespugliose e scuri e folti capelli corti, ed era anche, giuro, abbronzato. Metteteci ogni genere di cliché, compreso il perfetto vestito da sera e quell'aria di chi ha combattuto contro le tigri: non ne sbaglierete uno. Ma più che altro era il suo atteggiamento. Esagerando fino
all'assurdo, ci si poteva quasi immaginare di sentirgli dire: "Olà, mio scudiero..." con un rapido gesto del polso... però si aveva la sgradevole impressione che lo scudiero sarebbe scattato sull'attenti. Ciò che lo salvava dall'apparire un borioso pedante erano i suoi modi veramente affascinanti, sebbene sotto la superficie s'intuisse una buona dose di spavalderia, un'energia e un'eccitabilità che lui tentava di reprimere. Quegli occhi chiari mi scrutavano in modo tale che ebbi l'impressione che sotto quella sua rigidezza stesse ponderando su qualcosa e tremasse per qualche forte eccitazione mentale. Alla fine, col suo bastone, mi fece una specie di saluto (evidentemente aveva optato per una calorosa cordialità) e sorrise mostrandomi una bella sfilata di denti robusti. «Buona sera, ispettore» disse. La sua voce era esattamente quella che ci si poteva aspettare... tirate pure fuori altri cliché. Si guardò intorno con aria ironica e indifferente. «Sento di dovervi dire che sono stato altre volte in un commissariato e anche in qualche carcere piuttosto sgradevole. Però senza saperne precisamente il motivo.» Adottai il suo atteggiamento. «Be', signore, qui abbiamo delle prigioni molto rispettabili» dissi, «nel caso che vogliate ampliare le vostre esperienze. Sedetevi, prego. Sigaretta?» Si sedette di nuovo sulla mia poltrona e accettò una sigaretta. Stava leggermente proteso in avanti, le mani unite sul bastone, e mi scrutava con una tale intensità minacciosa sotto le sopracciglia cespugliose da dare l'impressione che fosse strabico. Ma presto il sorriso ricomparve e lui aspettò che io accendessi un fiammifero. «Non posso fare a meno di pensare» riprese con aria sicura quando io finalmente riuscii ad accendere il fiammifero, «che il vostro poliziotto sia un po' svitato. Naturalmente l'ho seguito... sapete, io adoro le avventure, ed ero curioso di vedere cosa succedeva.» (Una specie di maliziosa millanteria.) «Londra è una città noiosa, ispettore. Ma non ho ancora capito cosa c'è sotto. L'agente ha accennato a una sparizione.» «Sì, una cosa da niente, signor...?» «Mannering. Gregory Mannering.» «Il vostro indirizzo, signor Mannering?» «Edwardian House, Bury Street.» «La vostra professione, signor Mannering?» «Oh, diciamo... soldato di ventura.» Nonostante la sua riprovevole ma accattivante millanteria, pensai che qui aveva toccato una nota stonata, ma lasciai perdere. Continuò: «Vedia-
mo di sbrogliare questa faccenda, ispettore. Forse voi potrete darmi una risposta, perché certamente io non sono in grado di farlo. Ascoltate: oggi, nel pomeriggio, ho ricevuto l'invito... un invito personale... di trovarmi al museo Wade alle undici di questa sera». «Capisco. Conoscete il signor Geoffrey Wade, allora?» «Per la verità non l'ho mai conosciuto. Ma immagino che arriverò a conoscerlo presto e piuttosto bene dato che sono il suo futuro genero. La signorina Miriam Wade e io...» «Capisco.» «Cosa diavolo volete dire con quel "capisco"?» mi domandò, calmissimo. Il mio abituale sistema di troncare il discorso gli aveva fatto incrociare le sopracciglia a V, il che gli dette quella sospettosa espressione semistrabica di quando guardava direttamente in faccia qualcuno. Ma poi si dominò e scoppiò a ridere. «Scusate, ispettore, ammetto di essere un po' seccato. Quando sono arrivato là e ho trovato quella maledetta casa completamente buia e senza un segno di vita da nessuna parte... però non capisco come abbia fatto Miriam a sbagliare data. Mi ha telefonato questo pomeriggio. Doveva essere una riunione di persone di una certa importanza, compreso Illingworth da Edimburgo - l'esperto di cose asiatiche - ne avete sentito parlare, è quel sacerdote che va sempre in giro a far conferenze... E dato che io mi sono fatto un po' d'esperienza in Oriente, Miriam aveva pensato...» Il suo umore cambiò. «Perdio, ma perché vi racconto tutte queste storie? Perché tutte queste domande, comunque? Nel caso che non lo sappiate...» «Solo una domanda ancora, signor Mannering, tanto per chiarire le cose» dissi suadente. «A cosa serviva questa riunione al museo?» «Non posso dirvelo, purtroppo. È una scoperta del museo, qualcosa di segreto. In un certo senso, dovevamo violare una tomba. Credete nei fantasmi, ispettore?» Di nuovo cordiale, con uno dei suoi strani balzi d'umore. «È una domanda difficile, signor Mannering. Ma uno dei miei sergenti stava quasi per crederci, stasera. Questa, difatti, è la ragione per cui siete stato portato qui. I fantasmi portano barbe finte?» Lo guardai e d'un tratto la sua espressione mi fece trasalire. «Quel particolare fantasma se ne stava lungo disteso per terra tranquillissimo e poi è sparito proprio sotto gli occhi del sergente: è stato portato via. Ma quel fantasma aveva fatto una certa accusa...»
Continuai per un bel po' con quelle cretinate cercando di nascondere il fatto che mi stavo rendendo ridicolo e chiedendomi perché mai Mannering avesse chinato la testa e fosse scivolato leggermente in giù sulla sedia. Aveva chinato la testa lentamente come se stesse pensando, ma a un certo punto la sedia scricchiolò e io vidi che la sua testa ciondolava da una parte. Il bastone dal pomo d'argento gli sgusciò via dalle dita, sostò un attimo su un ginocchio e piombò per terra. La sigaretta lo seguì. Lo chiamai, così bruscamente che qualcuno arrivò di corsa dal corridoio. Quando lo afferrai per le spalle mi resi conto che il signor Gregory Mannering era svenuto. 2 La signora di Harun-ar-Rashid Trascinai di peso Mannering verso una panca, ve lo distesi sopra e ordinai dell'acqua. Il suo polso era debole: da come respirava sospettai che perfino un individuo così vigoroso doveva avere il cuore malato. Il sergente Hoskins, che era entrato dopo aver frettolosamente bussato, restò a guardare a bocca aperta Mannering, il cappello, il bastone e la sigaretta per terra. Raccattò la sigaretta. «Ecco!» esclamò Hoskins con violenza, esaminando la sigaretta invece che l'uomo sulla panca, «allora c'è davvero qualcosa di strano in quel museo.» «Sicuro» risposi, «e ci siamo cascati proprio in mezzo, però solo Dio sa di cosa si tratta. Andrò là per cercare di scoprirlo. Resta qui con lui e tenta di fargli riprendere i sensi. Prendi nota di tutto quello che dice. Io ho accennato al tuo amico Barba, e lui, zac, è svenuto... C'è un modo per entrare in quel museo a quest'ora? Un guardiano notturno o qualcosa di simile?» «Sissignore, c'è il vecchio Pruen. Il museo è aperto tre volte la settimana, la sera dalle sette alle dieci. Una mania del vecchio proprietario, capite. Durante quelle tre ore Pruen fa da assistente e poi ridiventa guardiano notturno. Ma dal davanti non può sentire. Se volete svegliarlo dovete girare sul retro... da Palmer Yard.» Palmer Yard, ricordai, era un vicolo che partiva da St. James Street e correva parallelo a Cleveland Row, sul retro. Hoskins ammise che non gli era nemmeno passato per la testa di chiamare Pruen perché non aveva collegato quelle buffonate con un'istituzione così rispettabile come il museo Wade. Ma, pensai, mentre mi cacciavo in tasca una torcia elettrica e mi
avviavo verso la mia auto, ora si poteva cominciare a considerare il Problema delle Barbe che sparivano con un certo grado di serietà. Il buon senso mi diceva che c'era un solo sistema per cui un uomo svenuto può sparire improvvisamente dal centro di una strada deserta. Non era molto dignitoso, era perfino decisamente comico, ma perché dovremmo aspettarci che il delitto debba essere dignitoso? Vedete che stavo già considerando quella faccenda come un delitto, anche se la consideravo pazzesca. Quando, undici anni fa, mi arruolai nel Corpo, la prima cosa che mi ordinarono fu di liberarmi del senso umoristico, e per essere venuto da County Down, ho fatto del mio meglio con così breve preavviso. Salii in macchina e mi avviai giù per Haymarket e lungo Pall Mall completamente deserta. Nessun punto a Londra ha un aspetto solitario come quell'angolo di St. James Street a quell'ora. Era una chiara notte di luna e l'orologio dorato sopra il cancello del palazzo segnava mezzanotte e cinque. Verso ovest, Cleveland Row era cupa e buia. Non girai sul retro come mi aveva suggerito Hoskins. Parcheggiai l'auto proprio davanti al museo, scesi e perlustrai il selciato scuro con la torcia. Accanto al bordo del marciapiede vidi quello che Hoskins, con la sua torcia fracassata, non era riuscito a vedere: un'apertura circolare nel suolo con un coperchio di ferro. In altre parole il pazzo sparito doveva essere stato risucchiato giù attraverso uno scivolo per il carbone. Non ridete, signori. Voi non avete visto quel maledetto affare come lo vidi io, in mezzo a una piazza buia e deserta e con la porta bronzea di quel museo di fronte che pareva sbeffeggiare. Barba era scivolato nella carbonaia come un genietto nella sua bottiglia. Spostai il raggio della lampada sul museo. Era un palazzo massiccio con circa duecentocinquanta metri di fronte sulla strada e piuttosto acquattato con i suoi due piani di lisci blocchi di pietra. Le finestre del piano terreno erano murate, quelle superiori munite di grate di ferro nello stile francese. Con una mezza dozzina di scalini larghi e poco profondi si arrivava alla porta sopra la quale c'era una tettoia sorretta da due colonne di pietra, e la luce della mia lampada illuminò un groviglio di caratteri arabi. In nessuna strada di Londra c'era mai stata una casa così fantastica da sembrare uscita da Le Mille e Una Notte. Un muro alto circa tre metri si estendeva da ciascun lato. Sulla destra, al di là del muro, intravidi la cima di un albero: probabilmente si trattava soltanto di un volgare platano londinese, ma la mente suggestionata poteva facilmente trasformarlo in qualcosa di più esotico. Tornai verso quella carbonaia, sollevai il coperchio di ferro e illuminai
l'interno. Lo scivolo del carbone era stato spostato. Essendo nel pieno dell'estate, c'era pochissimo carbone là sotto e il salto era relativamente breve. Feci quello che la situazione richiedeva. Mi lasciai scivolare giù reggendomi al bordo in modo da poter richiudere alla meglio il coperchio per evitare che qualche colonnello nevrastenico, rientrando a casa, vi piombasse dentro... e mi lasciai andare. C'erano delle scatole e delle casse da imballaggio. Mentre penzolavo, le avevo quasi toccate con i piedi. Evidentemente erano state spinte a casaccio nella cantina del carbone, comunque formavano una specie di comoda piattaforma su cui qualcuno era indubbiamente salito per tirar giù Barba. Per giunta l'uscio della carbonaia che dava nella cantina vera e propria era aperto: un grosso lucchetto penzolava dal gancio con la chiave ancora infilata dentro. Dopo aver inciampato contro una cassetta scatenando un infernale fracasso rimbombante, schizzai nella parte più ampia della cantina. C'era umido, caldo e odore di muffa. Girai il raggio della lampada sulle pareti a calce e sul pavimento ingombro di altre pile di casse da imballaggio e quasi ricoperto di trucioli e di paglia. All'estremità opposta c'era una caldaia spenta da cui partivano tubi ricoperti d'amianto; tutta la cantina era, a occhio e croce, lunga circa trenta metri. In alto, sul muro posteriore, proprio dietro la caldaia, c'erano tre finestre. Alla sinistra della caldaia c'era una grossa carbonaia, una specie di recinto con alte pareti di legno il cui uscio dava sull'ingresso della cantina e dove c'era ancora un mucchio di carbone. Poiché stavo guardando dappertutto in cerca di Barba aspettandomi di trovare Dio sa cosa, guardai perfino là. Ma di lui nessuna traccia. Nondimeno la mia sensazione di disagio cresceva. Lì dentro c'era qualcosa, anche se non l'uomo stesso. Nell'allungare la mano per evitare di sbattere la testa contro un tubo della caldaia, trovai una lampadina elettrica penzolante: era ancora calda. Da qualche parte arrivava corrente e avrei giurato di sentire dei passi. Sulla destra c'era una rampa di scalini di cemento. La cantina continuava in quella direzione: le scale erano state messe lì come un monumento contro un divisorio di legno che separava quella parte piuttosto stretta dal magazzino al di là. E portavano verso la direzione da cui ero entrato. Salii con la lampada spenta ma pronta. In cima c'era un uscio d'acciaio antincendio dipinto in modo che sembrasse legno e munito di una di quelle valvole ad aria compressa che gli impedivano di chiudersi di colpo. Aprii. La valvola fece come un fruscio, un rumore improvviso che mi bloccò a mezzo attraverso l'apertura...
Davanti a me, per quanto potei giudicare in quell'oscurità, c'era una grande sala col pavimento di marmo. E al centro di quel pavimento c'era qualcuno che ballava. Letteralmente. Potevo udire i tonfi cupi di quell'empio ticchettio. Guardando verso l'ingresso principale del museo, la parte più grande della sala era ora alla mia sinistra: vedevo la balaustrata di una scala di marmo bianco. In alto, il bagliore di una lanterna elettrica: un lieve chiarore nel buio. La lanterna era immobile e rendeva spettrale il pavimento di marmo bianco e gettava un cerchio di luce intorno all'oggetto su cui era puntata... una cassa oblunga lunga circa due metri e mezzo per uno di altezza; le teste dei chiodi nuovi scintillavano. Intorno a essa, nella penombra, una piccola figura umana danzava e piroettava, ticchettando. Era una visione oltremodo grottesca perché l'omettino indossava la severa uniforme blu con bottoni d'ottone di un inserviente e la visiera di pelle lucida del suo lindo berretto luccicava mentre lui agitava il capo. Eseguì un'ultima piroetta e finì la sua gaia danza col fiato mozzo. Tirò un calcio alla cassa e il rimbombo echeggiò nella sala. Qualcuno parlò, la sua voce fu soltanto un bisbiglio. «Moglie di Harun-ar-Rashid!» disse, quasi teneramente. «Destati! Ehi ehi! Spirito! Ti chiamo! Spirito!» Ora vi sto raccontando tranquillamente quello che vidi e udii, ma sul momento non riuscivo a crederci. Era esattamente come uno di quei cartoni animati che si vedono al cinema in cui oggetti animati prendono improvvisamente vita al calar della notte, e nulla, pensavo, poteva essere più inanimato dell'inserviente di un museo. Ma la sua voce nasale era reale. Dopo un paio di sghignazzate asmatiche, lui si aggiustò per benino l'uniforme, tirò fuori di tasca una fiasca piatta, la scosse e gettò all'indietro la testa per bere. A quel punto accesi la mia lampada. Attraverso la sala, il raggio colse il pomo d'Adamo che andava su e giù nel collo grinzoso e rosso come quello di un tacchino. Quando si accorse di me, l'uomo lasciò ricadere il braccio di scatto. Sbatté le palpebre sorpreso, sì, ma per niente spaventato. «È...» disse, poi, in tono diverso: «Chi è là?». «Sono un funzionario di polizia. Venite qui.» Parve rinsavire. Qualcosa lo fece irrigidire, qualcosa sembrò farlo diventare querulo e spavaldo: si contrasse e mi guardò con astio, ma sempre per niente allarmato. Conservava perfino un pizzico d'allegria. Prese la lanterna, si avvicinò strascicando i piedi, borbottando, muovendo il collo a de-
stra e a sinistra. Vidi una faccia ossuta, la pelle rugosa piena di chiazze rosse che si estendevano, ancora più rosse, sulla punta del naso lungo: una faccia avvizzita con occhiali sul naso e occhi strizzati che mi fissavano astiosamente mentre lui inclinava la testa fin quasi sulla spalla per guardare in su. E alla fine s'irritò. «Ah, funzionario di polizia, eh?» disse, con studiato sarcasmo. Poi dondolò il capo come per un sospetto confermato e dovette schiarirsi la gola. «E posso chiedervi cos'è questo giochetto d'irrompere qua dentro così? Da dove siete venuto? Posso sapere cos'è questo scherzo?» «Risparmiatevi questi discorsi» dissi. «Cos'è successo qui, stanotte?» «Qui?» domandò. «Qui? Niente. A meno che le mummie non siano uscite dalle loro luride casse... e io non ne ho vista alcuna... be', niente.» «Vi chiamate Pruen, non è vero? Benissimo. Volete essere accusato di rapimento? In caso contrario, cos'è successo al vecchio alto con occhiali cerchiati di tartaruga...» la mia gola si chiuse mentre io stavo per dire barba finta... «che era qui circa un'ora fa? Cosa ne avete fatto di lui?» Lui borbottò con aria incredula non scevra di una certa ilarità. La sua spavalderia parve afflosciarsi mentre mi fissava. «Siete ubriaco, capo» disse il signor Pruen pari pari. «Dite un po', non siete mica passato dal Dog and Duch? Il vecchio con... ah, ora capisco, l'avete presa bella! Sicuro! Sapete cosa vi dico, capo, andatevene a letto a smaltire la sbronza come un bravo...» Gli posai una mano sulla spalla. Il fatto che io stesso mi chiedevo se per caso non fossi ubriaco mi fece venir voglia di torcergli quel collo grinzoso. «Benissimo, allora l'accusa sarà di assassinio» dissi. «In ogni caso ora verrete con me al posto di polizia...» Lui crollò mentre la sua voce si levava, stridula: «Uh! dico... aspettate un momento! Io non ho fatto niente...». «Cos'è accaduto qui, stanotte?» «Niente! Non c'è stato nessuno, qui, da quando ho chiuso alle dieci!» (Il guaio era che quanto diceva sembrava proprio la verità.) «Doveva esserci una mostra privata o qualcosa di simile, qui, stasera alle undici... no?» D'un tratto parve illuminarsi. «Ah, quello! Quello! Perché non l'avete detto subito?» Divenne aggressivo. «Sì, ci doveva essere, ma non c'è stata. È stata rimandata. Sì, dovevano venire a vedere certe cose, e il dottor Illingworth in persona doveva venire a vederle, ecco com'era importante. Solo che oggi, all'ultimo momento, il signor Wade... parlo del vecchio... e quan-
te ne buscherete da lui, vedrete!... è dovuto andare fuori città. Così nel pomeriggio la riunione è stata rimandata. Tutto qui. Non è venuto nessuno.» «Può essere. Comunque accendiamo le luci e andiamo a dare un'occhiata in giro.» «Con piacere» ridacchiò Pruen. Mi guardò. «Però, da uomo a uomo e tra noi, cosa pensate che sia successo qui? Qualcuno si è lamentato?» Vedendomi esitare gridò, trionfante: «No, nessuno, vero? Bene, allora! Siete pagato per entrare con scasso anche se nessuno sporge querela?». «E voi siete pagato per ballare intorno alle casse nel cuore della notte? Cosa c'è in quella cassa?» «Non c'è nulla in quella cassa» dichiarò lui con uno scuotimento solennemente ilare della testa. «So che siete propenso a sospettare che vi sia un uomo morto lì dentro, ma non c'è nemmeno una donna morta. Questo è il bello: non c'è niente in quella cassa! Cosa ne dite?» Prima che potessi cavar qualcosa da quel discorso, lui era avanzato nel buio strisciando i piedi e ondeggiando la lanterna. Sparì dall'altra parte della scala. Seguì una serie di clic, e le lampadine disposte dietro la cornice del soffitto diffusero una luce soave che illuminò la sala con un bagliore dolce come quello del chiarore lunare. Ma la stanza, ora che era illuminata, non diventò meno spettrale. Era una sala ampia, dal soffitto alto, tutta pavimentata di marmo e con due file di colonne di marmo, distanti le une dalle altre circa tre metri, che arrivavano fino alla porta d'ingresso. C'era quell'atmosfera spoglia delle sale adibite a mostre pubbliche. Sul retro, in linea diretta con la porta, un'ampia scalinata di marmo saliva e si biforcava in due gallerie aperte che, evidentemente, formavano il primo piano. Il soffitto di entrambe era di mattonelle smaltate a quadri bianchi e verdi; i colori, come appresi più tardi tra le molte curiose informazioni che raccolsi su quella casa, erano identici a quelli delle cupole delle moschee di Bagdad. Nelle pareti laterali c'erano quattro arcate, due su ciascun lato, e sopra di esse lessi, in sottili lettere dorate: "Galleria Persiana", "Galleria Egiziana", "Galleria dei Bazar", "Galleria degli Otto Paradisi". Oltre quegli archi e oltre la grossa porta di bronzo sul davanti, c'erano altri tre usci. Uno... l'uscio da cui ero entrato... era alla sinistra della scala (guardando la scala). Un altro, identico, era alla destra della scala. Il terzo era quasi in fondo alla parete laterale sulla destra (sempre guardando la scala) dove c'era scritto in lettere dorate: STANZA DEL CONSERVATORE ed era il più vicino all'arcata contrassegnata "Galleria degli Otto Paradisi".
Ma furono le cose in mostra in quella sala, sebbene ve ne fossero pochissime, che guardai. Sulla parete laterale a destra, sempre verso il fondo, erano appesi enormi tappeti di un disegno che colpiva talmente lo sguardo che uno si ritrovava a voltarsi continuamente per ammirarli. Non so bene come descriverli. Non era soltanto la loro sontuosità o i disegni complicati o le immagini sbalorditive che suscitavano (difatti erano più che altro disegni di fiori sparsi a strati per terra) ma la loro essenza languida e viva. Aumentavano la spettrale irrealtà del luogo. Al centro della sala c'erano bacheche di vetro contenenti armi: l'occhio andava istintivamente dai tappeti ai coltelli e viceversa. Fu un sollievo guardare verso la parete di sinistra tra la fila delle colonne e la parete stessa. Lì c'erano degli esemplari che sarebbero dovuti sembrare incongrui, tuttavia, non si sa come, non era così. Carrozze o diligenze. Ce n'erano cinque, enormi e brutte in quel chiarore lunare. Quella più vicino a me, la prima, era bassa, dipinta in colori sgargianti, voluminosa, e aveva una targhetta su cui era scritto: "Fabbricata da Guilliam Boonen, cocchiere della Regina Elisabetta, il primo a introdurre le carrozze in Inghilterra, nel 1564 circa. Le tirelle sono di cuoio a indicare regalità, ma il corpo non è ancora sospeso su cinghie...". Guardai quelle dopo. Una carrozza di vetro del diciassettesimo secolo, una specie di bomboniera francese dorata, con lo stemma dei Borboni in rosso e verde, e una vettura postale dickensiana sulla cui portiera c'era la scritta: IPSWICK TELEGRAPH. E infine, al centro, c'era un gigantesco veicolo dipinto di nero, con un mantice di cuoio nero e piccoli finestrini simili a spioncini e sospeso su balestre arcuate a un buon metro e mezzo da terra. Presi a camminare avanti e indietro, i miei passi che echeggiavano, e fui riscosso da una voce sarcastica. «Tutto a posto?» domandò Pruen. Le palpebre grinzose si alzavano e si abbassavano nella sua faccia rugosa. Si mise il berretto sulle ventitré e le mani sui fianchi. «Niente vittime rapite? Nessun cadavere? Ehi, dico! Assolutamente nessuna traccia di...» S'interruppe di botto perché io mi ero avvicinato alla porta di bronzo e avevo visto la traccia di qualcosa. Sul pavimento di marmo, estendendosi per circa una mezza dozzina di passi, in linea diretta con la porta, c'era una fila di macchie nere. Tirai fuori la lampada, erano orme non ben definite, un ammasso confuso dove si vedevano chiaramente le tracce di qualcuno che era entrato da quella porta e aveva camminato per circa due metri prima che le macchie svanissero. Si distingueva il segno di mezzo tacco e co-
sì il lato di una scarpa a punta. E quelle orme erano state fatte con la polvere di carbone.
«Cosa avete trovato?» gridò all'improvviso Pruen. Udii i suoi passi rumorosi. «Chi ha lasciato queste tracce?» domandai. «Quali tracce?» «Eccole lì. Non avete detto che non c'era stato nessuno qui, stasera?» «Bah» fece Pruen. «Tutto qui? Io ho detto che dopo la chiusura, alle dieci, non c'è stato nessuno. Cosa volete che sappia, io? Prima c'erano dozzine di persone... non sorridete... dozzine. Siamo popolari, noi!» «Qual è la vostra posizione quando siete di servizio? Dove state? E in piedi o seduto?» Lui indicò una sedia alla sinistra della porta di bronzo. Da lì si dominava la sala dal lato destro delle carrozze e anche più di metà dell'uscio attraverso il quale ero arrivato di sopra. «Voi sedevate là. Non avete visto nessuno lasciare quelle orme?» «No, non ho visto.» «E saprete spiegare, immagino, come può aver fatto qualcuno a entrare dalla strada con le suole delle scarpe sporche di polvere di carbone.» Qualcosa balenò dietro quei suoi occhialucci, pareva nervoso ma deciso. Sporse il labbro inferiore. «Ora vi domando, proprio vi domando, cosa c'entro io. È affar vostro.
Orme, perbacco.» La sua voce si fece stridula. «Forse il cadavere che state cercando è entrato qui quand'era vivo, eh? E forse io ho afferrato un coltello e l'ho pugnalato, eh? E poi l'ho infilato in una di queste carrozze o magari in un cubicolo nella Galleria dei Bazar, o forse in quella degli Otto Paradisi, oppure di sopra nella Galleria Araba... A cosa mirate ora?» Qualcosa mi aveva mozzato il respiro. Mi avviai, piuttosto in fretta, lungo la fila delle carrozze lasciando Pruen ad agitarsi e gesticolare nello sfondo. Era la carrozza di mezzo che m'interessava: quell'enorme veicolo dal mantice nero con i suoi spioncini e le sue maniglie d'ottone lucido. Su una targa che penzolava dalla maniglia della portiera c'era scritto: "Carrozza inglese dei primi del secolo diciannovesimo, fabbricata per un viaggio sul continente. Usata per assoluta riservatezza". La voce di Pruen mi seguì. «Benone!» sghignazzò lui. «Non toccatela, capo! C'è un uomo morto dentro! C'è un cadavere sanguinante grande e grosso proprio den...» Poi la voce si levò in un urlio farfugliante. Allungai la mano e con uno strattone aprii la portiera. Qualcosa mi piombò quasi in faccia, a testa in avanti. Parve balzare su come uno di quei diavoletti delle scatole a sorpresa e ne vidi gli occhi. Volò al di sopra della mia spalla e atterrò sul pavimento di marmo con un tonfo sordo. Il cadavere di un uomo alto giaceva piatto sulla schiena, le braccia e le gambe spalancate come un omino di marzapane, e dalla sua mano era caduto un libro rilegato in pelle marrone. L'uomo era senza vita come l'omino di marzapane. Indossava un lungo cappotto scuro, e sul lato sinistro del petto, quel cappotto era sollevato stranamente, quasi come una tenda. Quando spostai quel lato del cappotto vidi l'impugnatura bianca di un pugnale spuntare da una camicia inzuppata di sangue. Ma non era quello che aveva attirato il mio sguardo né il cappello a cilindro che gli era stato calato giù fin quasi sugli occhi. Per colmo di quell'incubo, il morto aveva la barba finta, una barba corta e incolta che gli si era quasi staccata dal mento. Ma quella barba finta era nera. 3 Il cadavere nel museo Sostengo, signori, che ci sono dei momenti in cui il cervello razionale non ragiona coerentemente, e cioè quando registra e assorbe solo, attraver-
so gli occhi, tutti i particolari visivi in una paralisi del buon senso. Se ciò vi sembra troppo metafisico o (nel caso di un poliziotto) troppo maledettamente insensato, posso dirvi che voi non eravate nel museo Wade venti minuti dopo la mezzanotte e non avete visto quell'essere grottesco con barba finta. Mentre esaminavo ogni particolare, notai l'ora. La vittima doveva avere trentacinque-quarant'anni sebbene fosse stata truccata per apparire molto più vecchia. Perfino la barba finta era stata accuratamente spruzzata di grigio. La faccia era decisamente bella malgrado una leggera rotondità e, persino nella morte, ironicamente spavalda. Il cilindro, decrepito ma spazzolato con cura, era profondamente calcato sui capelli neri. Gli occhi, spalancati, erano castani, il naso era aquilino, e la pelle leggermente olivastra. I baffi (veri) erano neri. Sulle guance e sul mento la gomma luccicava ancora e la barba nera pendeva da una chiazza dalle dimensioni di cinque centimetri all'estremità della mascella sinistra. La bocca era aperta. Era morto, per quanto potei giudicare, da non meno di un'ora e non più di due ore. Il cappotto era vecchio come il cappello, e logoro sui gomiti, ma ben conservato. M'infilai i guanti e riaprii il cappotto. Un lungo cordoncino nero, in fondo al quale era attaccato un paio di occhiali, girava intorno al colletto del cappotto e scendeva giù dentro il cappotto stesso. L'uomo indossava un vestito da sera, anche quello vetusto e con un bottone mancante nel panciotto; la biancheria era logora a eccezione di un colletto nuovo troppo largo per lui. Dal petto, un po' più su del cuore (sebbene il suo aspetto dimostrasse che era morto istantaneamente), spuntava il pesante manico d'avorio di una lama conficcata per almeno quindici centimetri. Osservai la mano destra protesa in fuori, e il libro che era scivolato dalle sue dita quando lui era caduto. Rilegato in pelle, era aperto, le pagine arricciate e spiegazzate, e suggeriva segreti ancora più difficili a capire in tutto quell'enigma. Lo raccattai e lo sfogliai: era un ricettario di cucina. Signori, la faccenda non poteva essere più pazzesca. Il titolo era Il manuale di ricette casalinghe della signora Eldridge. E la prima ricetta che mi capitò sotto il naso era una piccola lezione sul modo giusto di preparare il brodo di carne. Rimisi giù il libro rispettosamente, poi, aiutandomi con una mano, mi issai sull'alto predellino della carrozza per dare un'occhiata all'interno. La luce della mia lampada mi mostrò che era stato spazzato e spolverato. La tappezzeria di cuoio nero e il lindo pavimento di legno non presentavano
tracce nemmeno del suo ultimo occupante. L'uomo doveva essere stato appoggiato in avanti, in ginocchio, la guancia contro la portiera e la testa piegata in giù in modo da non essere visto dall'esterno. Qualche macchia di sangue sul pavimento: nient'altro. Il primo punto che dovevo stabilire aumentava la confusione già esistente: l'identità del morto. Ora, a meno che non fossero stati commessi due errori madornali, l'uomo con il coltello nel petto non poteva verosimilmente essere l'uomo che aveva assalito il sergente Hoskins davanti al museo poco dopo le undici. Era alto, sì. Era piuttosto magro, sì. Era possibile confondere una finanziera, del tipo antiquato portato dagli statisti vittoriani, con un cappotto come quello lì. Ma sembrava impossibile confondere una barba bianca con una nera, e occhiali appesi a un cordoncino con grossi occhiali cerchiati di tartaruga. Hoskins non poteva sbagliarsi così grossolanamente sui due punti più importanti della sua descrizione. A meno che, naturalmente, qualcuno non avesse cambiato, per un qualche fantastico motivo, completamente tutto. Balzai a terra e grattai le suole delle scarpe del morto. C'era una patina piuttosto spessa di polvere di carbone. Ma all'inizio di un caso non si ha il tempo di pensare, neanche alle parole pazzesche gridate da Barba Bianca a Hoskins poi: "L'hai ucciso e sarai impiccato per questo, mio bell'impostore. Ti ho visto nella carrozza". Per il momento quel fatto andava lasciato perdere. Mi rivolsi a Pruen. «Avevate proprio ragione» dissi. «C'era un uomo morto, lì dentro.» Lui se ne stava a una certa distanza e si passava il dorso di una mano sulla bocca, tenendo la fiasca del gin contro il petto con l'altra, guardandomi con gli occhi cisposi. Per un istante credetti che si mettesse a piangere. Invece lui cominciò a parlare con molta calma. «Non lo sapevo» disse. «Che Dio mi aiuti, non lo sapevo.» La voce rauca sembrava venire da molto lontano. Gli presi di mano la fiasca e lo spinsi in avanti. Tremava in maniera spaventosa. «Insistete ancora a dire che eravate solo qua dentro, stasera?» dissi. «In tal caso, naturalmente, sarete accusato d'assassinio.» Una pausa. «Non ci posso far niente, signore. Insisto a dire che sì... io... io ero solo.» «Venite qui, più vicino. Conoscete quest'uomo?» Girò la testa di scatto con tale inattesa rapidità che mi fu impossibile vedere la sua espressione. «Lui? Mai visto in vita mia. No. Sembrerebbe un italiano.» «Guardate il manico di quel coltello. Mai visto?»
Pruen si voltò e mi guardò negli occhi, con la stessa ostinazione lagrimosa. «Sì. Sì. Ve lo dirò chiaro e tondo: ho visto quel coltello un migliaio di volte. Perché viene da qui, ecco perché l'ho visto, perciò pensate quello che vi pare! Ecco, ve lo proverò!» gridò, come se io dubitassi delle sue parole, e mi tirò per il braccio prima di indicarmi le bacheche al centro della sala. «Viene da quella bacheca. Lo chiamano khanjar; è un pugnale persiano. Lo sapevate? Ah! Scommetto di no. È curvo. Un khanjar, sparito da quella bacheca, che viene adoperato...» La sua voce aveva preso la cantilena di chi ripete un discorso preparato, e quando lui si rese conto di ciò che stava dicendo, sbatté le palpebre, rabbrividì e si dominò. «Così sapevate che era sparito?» Un'altra pausa. «Io? No. Voglio dire che lo so ora.» «Ne riparleremo quando avrò fatto qualche telefonata. C'è un telefono qui? Bene. A proposito, continuate a dire che il signor Wade è fuori città?» Continuò a dirlo, con veemenza. Incaricato del museo, in assenza del proprietario, era un certo signor Ronald Holmes. Il signor Holmes abitava poco lontano da lì, in un appartamento in Pall Mall Place, e Pruen mi suggerì con insistenza quasi morbosa di mettermi immediatamente in contatto con lui. Seguitando a parlare confusamente, mi portò davanti a un uscio con la scritta "Conservatore". Ma dopo aver girato un interruttore accanto alla porta, trasalì lievemente di fronte a ciò che vide nella stanza e io potrei giurare che quella vista era nuova per lui come lo era per me. Sebbene non vi fossero altri cadaveri, lì dentro, evidentemente era successo qualcosa di natura piuttosto violenta. Era una stanza grande, piacevole, piena di sontuosi tappeti stile Kurdistan. C'erano due scrivanie, una col ripiano di mogano in mezzo alla stanza, l'altra, una scrivania qualunque, forse per la macchina per scrivere, in un angolo, circondata da schedari. Le poltrone erano di pelle rossa; le pareti, sulle quali alcune fotografie incorniciate stonavano maledettamente, erano ornate da una specie di intarsi moreschi. Sulla scrivania di mogano, accanto a un portacenere pieno zeppo di mozziconi di sigaretta, c'era un libretto aperto. Ma la cosa che più colpiva in quella stanza era la corrente d'aria. Nella parete sinistra, sul retro, c'era un uscio aperto che dava in una toilette. Una finestra in alto nella parete posteriore della toilette, sopra il lavandino, era aperta. Sul tappeto, davanti alla scrivania di mogano, c'erano i frammenti di uno specchietto portatile. Un tappetino era come attorcigliato. Ma non era tutto. Nella parete sulla destra dell'uscio da cui ero entrato era stato installato
un ascensore elettrico. I due sportelli dell'ascensore, ciascuno con un finestrino munito di grata, erano parzialmente aperti. Il vetro di uno dei finestrini era stato fracassato, ovviamente dall'interno. Sul pavimento c'erano dei vetri frantumati, un'accetta e un cartello che doveva essere stato appeso all'esterno dell'ascensore con la scritta "Fuori servizio". Notai che all'esterno dell'ascensore c'era un paletto di ferro che permetteva di chiudere gli sportelli anche da fuori. Si aveva l'impressione che qualcuno fosse rimasto imprigionato nell'ascensore e avesse agito con violenza per uscirne. Spinsi gli sportelli ed entrai. Un filo di luce filtrava attraverso gli sfiati del ventilatore situati in alto nella parete della cabina che dava sulla sala. Sul pavimento c'era una cassa di legno vuota rovesciata. «Insisto a dire che non so niente di tutto questo» disse Pruen con aria infelice. «Non sono venuto qui, stasera. Quest'ascensore è guasto da una settimana, pare che nessuno riesca ad accomodarlo e Dio sa che io non ne sono capace. Il vecchio si è molto arrabbiato perché secondo lui qualcuno deve averlo messo fuori uso deliberatamente, il che non è vero, comunque qualcosa dev'essere successo; lui non ha l'aria allegra quando lo usa e per ben due volte c'è mancato un pelo che restasse decapitato, ma quando vedrà questo caos... uh!» «Il vecchio? Volete dire il signor Wade? A proposito, che aspetto ha?» Mi fissò. «Che aspetto ha? È un bell'uomo, il signor Wade, anche se piuttosto basso. Focoso. Un grande showman. Sicuro. Bellissimi baffoni bianchi, un vero castigamatti. Sì! È un uomo importante... è stato due anni in Persia, è stato a scavare in quei palazzi dei califfi col permesso del governo e tutto quanto. Sicuro. E...» s'interruppe, mi fissò astiosamente e riprese in tono querulo: «Perché volete sapere tutte queste cose? Perché non telefonate? Eccolo lì il telefono, sulla scrivania, ce l'avete proprio sotto il naso. Perché non lo usate?». L'idea peregrina che mi era frullata insistentemente per il capo e cioè che potesse essere stato il focoso signor Wade stesso ad appiccicarsi una barba finta e a girellare nel suo museo... fu spazzata via da quella descrizione... piuttosto basso. Telefonai in Vine Street, spiegai la situazione a Hoskins e gli dissi di mandare il fotografo, l'uomo delle impronte e il medico della polizia. Dopo una pausa sbalordita, Hoskins esclamò con aria trionfante: «Quel tipo, quel Mannering, signore...» «Portatevelo dietro. Non l'avrete mica lasciato andare, vero?» «No, signore. Oh, lo porterò, lo porterò, sicuro!» bisbigliò Hoskins. «Per giunta, ho le prove. Gli è sfuggito di tasca un biglietto, signore. La prova
che c'era un delitto m programma. Delitto e cospirazione...» A beneficio di Pruen ripetei: «Biglietto che comprova cospirazione...» e riappesi il ricevitore con uno scatto deciso. «Questo chiarisce tutto» dissi a Pruen. «Non avete bisogno di parlare, a meno che non vogliate farlo prima che vi porti via. Sappiamo tutto. Così c'era una cospirazione e voi lo avete ucciso, eh?» «No. Chi l'ha detto? Chi l'ha detto?» «Perché negare? In una tasca di Gregory Mannering è stato trovato un biglietto che spiega tutto.» «Mannering?...» borbottò lui e sbatté gli occhi. «Via! Mannering! Perbacco, lui sarebbe l'ultimissima persona, l'ultimissima!» Alzai bruscamente la mano per farlo tacere perché entrambi avevamo sentito dei passi. La finestra nella toilette era spalancata e il rumore pareva venire da fuori. Dissi a Pruen che se avesse fatto un qualunque rumore le conseguenze non gli sarebbero piaciute. Poi entrai nella toilette, salii sullo sciacquone e sbirciai fuori della finestra. Dietro il museo c'era un cortile e un alto muro il cui cancello di ferro si apriva su un vicolo chiamato Palmer Yard. Dopo aver aperto quel cancello qualcuno stava entrando. La luna era ancora alta: fui in grado di distinguere la figura di una donna. La donna si chiuse il cancello alle spalle e si avviò, piuttosto frettolosamente, lungo il marciapiede. Nel vedere la mia testa inquadrata nella finestra... evidentemente si aspettava di trovarvi qualcuno lì... agitò la mano in segno di saluto. «Restate qui» dissi a Pruen, «e se aprite bocca... Come si arriva alla parte posteriore di questa casa?» Per arrivare alla porta posteriore, spiegò, bisognava andare nella sala e poi aprire l'uscio a destra della scala, entrare in un breve corridoio che portava alle sue stanze personali e finalmente alla porta posteriore. Andai nella sala, seguii le sue istruzioni e arrivai nel piccolo buio corridoio proprio mentre la donna apriva la porta posteriore. La vidi delineata contro il chiarore lunare mentre allungava la mano per accendere una lampadina che penzolava dal soffitto. E la luce si accese. Ecco, signori, quella sì che era una donna. Ho visto ragazze più belle in senso classico, però mai con quel portamento e quel fascino che prende subito. La sua presenza si faceva sentire. Per un istante restò sotto la lampadina oscillante sbattendo gli occhi per abituarsi al bagliore. Portava un mantello scuro sulle spalle sopra un vestito da sera rosso scarlatto molto scollato. Non era alta né esattamente florida. Se non sono più esplicito, si-
gnori, e traccio il mio schizzo con mano leggera e da gentiluomo, è perché da quel momento sono in rapporti più che amichevoli con lei. Ma, come dicevo, dava l'impressione di essere florida. Aveva quei pesanti capelli scuri che sembravano riflettere la luce intorno, e lunghi, luminosi occhi scuri sotto palpebre che parevano di cera, la bocca rosa e il collo sottile. Gli occhi sembravano ansiosi, e lei era indubbiamente nervosa. Ma nonostante quell'ansietà, era l'intensa vitalità in lei... una specie di vitalità cordiale, sorridente, che la rendeva vivida come il suo vestito scarlatto in quel corridoio. La lampadina le dondolava sopra la testa facendola entrare e uscire dall'ombra. Guardava lungo il corridoio fissandomi. «Dico, Ronald» cominciò in tono eccitato. «Ho visto la tua luce, là dentro, ma non pensavo che tu fossi qui. Credevo che tu fossi andato a casa tua. Stavo appunto per andarci. C'è qualcosa che non v...?» s'interruppe bruscamente. «Chi è? Chi c'è? Cosa volete?» «Signora» dissi, «non vorrei sembrarvi troppo curioso ma vorrei sapere cosa sta succedendo in questa casa di matti. Chi siete?» «Io sono Miriam Wade. Voi chi siete?» Alla mia risposta spalancò gli occhi e si avvicinò un poco per vedermi meglio. Ma in quegli occhi scuri la perplessità era dominante al pari della paura. «Un funzionario di polizia» ripeté. «Cosa volete mai, qui? Cos'è successo?» «Assassinio.» Sulle prime mi sembrò che non capisse. Quando si rese conto, Miriam Wade scoppiò a ridere, una risata che, mentre lei mi scrutava, si faceva sempre più isterica. Si portò le mani sulla bocca poi sulle guance. «Scherzate...» «No.» «Volete dire... un morto? Chi è morto? Certo non...» «È quello che voglio sapere, signorina Wade. Perché non venite a vedere se potete identificarlo?» «Certo che lo farò» rispose con uno sforzo, «ancora non vi credo, ma lo farò. Vorrei... voglio dire, non ho mai visto un... dico, è molto brutto? Non potreste dirmi qualcosa? Chi vi ha chiamato qui?» La guidai nella sala. Prima che io avessi il tempo di indicarglielo, lei vide il Reperto Numero Uno con la testa voltata verso di noi. Di una cosa fui certo quando la vidi scattare all'indietro: non era quello che si aspettava di vedere. Poi si fece coraggio, tese le braccia lungo i fianchi, fece qualche
passo in avanti, guardò la faccia e si fermò. All'improvviso si chinò come se stesse per inginocchiarsi, poi si dominò: il suo bellissimo viso sotto quella luce lunare era inespressivo. Inespressivo e, per una qualche ragione, stranamente maturo. Qualcosa era cambiato in quel viso... un grido muto?... qualcosa s'indurì, tuttavia per un istante credetti di vedere i suoi occhi velarsi di lacrime. Si raddrizzò, rigida, e disse in tono calmo: «No, non lo conosco. Devo guardarlo ancora?». Cosa diavolo è la logica? Forse fu il vago aspetto da gigolò di quell'uomo per terra, un qualcosa di rocambolesco nel ghigno del suo viso morto o il suo logoro vestito da sera che mi spinse a dire quello che dissi. «Non mentite» dissi. «Mi renderete le cose molto più difficili se mentite.» Lei mi rivolse un sorriso, un sorriso quasi tremolante. Muoveva le mani su e giù lungo i fianchi del vestito.«Siete abbastanza gentile» disse. «Ma io non sto mentendo. Mi rammenta qualcuno... ma non c'è altro. Per amor di Dio, ditemi cos'è successo! Come è entrato qui quest'uomo? Cosa è accaduto? Quel coltello...» indicò, e mentre lo guardava trasalì e la sua voce si fece stridula. «È quello che Sam...» «Quello che Sam?» Senza dare l'impressione di avermi udito, lei si voltò e guardò la lunga e orribile - in un certo senso - cassa da imballaggio intorno alla quale Pruen aveva danzato. Ma la domanda l'aveva ben capita. Quando tornò a guardarmi, lo fece con una civetteria quasi macabra che non cancellò l'espressione artificiosa dei suoi occhi né l'ansimare del suo petto. «Ehi, non dovete badare a me. Se mi trascinate a guardare cadaveri, non dovete aspettarvi un comportamento coerente, non vi pare? Sinceramente non volevo dire proprio nulla. Sam... Sam Baxter è un amico mio... ammirava quel pugnale. Era là in una di quelle bacheche, o da qualche altra parte. Sam desiderava che mio padre glielo vendesse per appenderlo alla parete della sua camera, diceva che aveva un'aria piuttosto... piuttosto spaventosa e sinistra...» «Calma, signorina Wade. Venite via di qui, ora.» La presi per un braccio e la spinsi verso la scala. «Perché siete venuta al museo, stasera?» «Non avevo intenzione di venirci! Voglio dire, Ronald Holmes... il segretario di mio padre... Ronald stava dando un piccolo party in casa sua e io ero diretta là. E quando vengo da queste parti, parcheggio sempre la
macchina in Palmer Yard. Comunque l'ho parcheggiata lì, dopo di che ho visto la vostra luce. Così ho creduto che Ronald fosse stato trattenuto...» A ogni parola che pronunciava, si allontanava sempre più dal morto e io la seguivo come se la pedinassi. A quel punto era arrivata oltre le colonne sul lato destro della sala. Allungò una mano e toccò un lungo tappeto persiano appeso al muro dietro di lei; la sontuosità del tappeto pareva incombere su di lei che vi si appoggiava contro e con le mani sottili e magre ne carezzava la superficie come per trarne conforto. «Stavate andando a un party in casa del signor Holmes» ripetei. «Ma il vostro fidanzato non veniva con voi?» Lei taceva e io dovetti spronarla. «Siete fidanzata con un certo signor Gregory Mannering, mi pare, no?» «Be', sì, non proprio ufficialmente.» Disse quelle parole in fretta, farfugliando, come se non avessero alcuna importanza, ma i suoi occhi erano tornati a sbirciare furtivamente il morto, e la loro espressione era spaventata. «Greg! Dite, cosa c'entra Greg? Lui non ha mica visto quel... vero?» «Credo di sì... ascoltate, signorina Wade, non sto cercando di sopraffarvi o di tacervi fatti misteriosi.» Non era saggio, ma le raccontai per filo e per segno cos'era accaduto quella sera. Lei dava l'impressione di frugare freneticamente nei propri pensieri come una donna potrebbe frugare nei suoi armadi, e avrei giurato di averle udito mormorare almeno una volta "La finestra della cantina". Ma continuai. «Il punto è questo. Ho accennato vagamente alla sparizione di un uomo con la barba finta... e il vostro fiancé è svenuto. Ci capite qualcosa?» Ma a quanto pareva a lei interessava poco anche quello. «Il poliziotto» cominciò, «il vostro poliziotto ha visto un uomo con... chissà perché la parola "barba" è così terribilmente buffa... che lo ha accusato di essere un assassino?» La sua voce si spense, per un qualche motivo lei era più calma di quanto lo fosse stata prima e ora la sua mente tornò alla mia frase precedente. «Svenuto? Ah! Non potete capire. Greg è svenuto perché... se lo conosceste, capireste la ridicolezza della cosa! Quando faceva parte della Guardia Civile Spagnola fu distaccato nella Legione Straniera come spia tra gli arabi nel periodo in cui c'era tutto quel subbuglio non so bene dove... si divertiva da matti... Ma, vedete, si tratta del suo cuore, gli tocca prendere la digitalina. Ecco perché fu costretto a dimettersi. Ogni volta che fa qualche sforzo o si emoziona... avete detto che c'è stata una rissa tra lui e il poliziotto, no?... si sente male. Soltanto la settimana scorsa ha portato sulle spalle un baule al piano di sopra perché Ronald
Holmes aveva scommesso che nessuno era abbastanza forte da farlo da solo, e poi ha avuto un attacco di cuore. È fortissimo, l'ha portato su per ben due rampe prima di mancare un gradino e lasciarlo scivolare giù... solo che era pieno di porcellane antiche... papà era furioso. Greg che sviene perché qualcuno gli dice qualcosa! È assurdo! Ne convenite, no?» «Ma come mai quel malinteso? Stasera era qui e batteva alla porta insistendo a dire che ci doveva essere una riunione al museo...» Lei mi guardò direttamente negli occhi. «Non ha avuto il mio messaggio, tutto qui. Stasera sul presto gli ho telefonato là, dove abita, lui era fuori, ma mi hanno detto che sarebbe rientrato entro pochi minuti e che gli avrebbero trasmesso il mio messaggio. Gli dicevo che la riunione era stata rimandata e di venir invece da Ronald in Pall Mall Place.» «Chi ci doveva essere a quella riunione?» «Solo mio padre... vedete, volevo che conoscesse Greg in un ambiente congeniale; non si erano mai incontrati faccia a faccia; Greg non conosce neppure mio fratello...» Buttò là un'infinità di parole, alla disperata, ma io la lasciai parlare sperando che saltasse fuori qualcosa di utile da quella tirata ansimante. «Cosa stavo dicendo? Ah, sì. Solo mio padre e Greg e Ronald e il dottor Illingworth... il predicatore scozzese, sapete, un uomo terribilmente moralista, ma con un grandissimo interesse per Le Mille e Una Notte...» «Le Mille e Una Notte?» «Sì. Sapete, Alì Babà e Aladino e tutti quei personaggi. Soltanto, e questo mi fa andare in bestia, a sentire mio padre lui non le considera novelle, non sa nemmeno che sono novelle, lui cerca di rintracciare la loro origine storica o una cosa così. Ricordo d'aver tentato di leggere un suo articolo nel "Journal Asiatique", su quella novella delle Mille e Una Notte che narra di uomini trasformati in pesci: pesci bianchi, azzurri, gialli e rossi, ricordate, a seconda se erano musulmani, cristiani, ebrei o santoni. Il dottor Illingworth sosteneva che quei colori rappresentavano i turbanti portati dai sudditi di Maometto quando Maometto Vattelapesca d'Egitto comandava i musulmani, i cristiani e gli ebrei nell'anno milletrecentouno. Non so bene di cosa si trattava, ma so che era spaventosamente culturale e barboso.» Si torceva le mani cercando di assumere un atteggiamento disinvolto, ma era chiaro che tentava di distrarmi da qualcosa. Che cosa? «E cos'era» domandai, «che dovevano esaminare stasera prima che vostro padre fosse costretto a partire?» «Esaminare?»
«Sì, non doveva essere soltanto una riunione sociale, a quanto ho capito. Infatti il signor Mannering mi ha detto: "Violeremo una tomba" e poi mi ha chiesto se credevo ai fantasmi.» Qualcuno bussò bruscamente alla grossa porta di bronzo e il rimbombo la fece trasalire. Ma mentre i colpi echeggiavano nel museo, lessi la paura nei suoi occhi, ed era stata la mia ultima frase che l'aveva provocata. 4 Ci vuole un cadavere Mi affrettai verso la grossa porta e tirai indietro il paletto. Hoskins, i baffi ritti, entrò come se si aspettasse di trovare un cadavere sulla soglia. Con lui c'era il dottor Marsden, il medico del distretto; Crosby, l'addetto alle impronte; Rogers, il fotografo, e due poliziotti. Dopo averli avvertiti di non calpestare le tracce di polvere di carbone e aver detto a Rogers di fotografarle, detti loro le solite istruzioni. L'agente Martin restò accanto alla porta e l'agente Collins partì per una ricerca (probabilmente inutile) nella casa. Rogers e Crosby si misero immediatamente a lavorare sul morto perché io non potevo nemmeno frugare nelle tasche della vittima finché il lavoro di routine non fosse stato portato a termine. Hoskins mi trasse da una parte. «Ho Sua Signoria... voglio dire il signor Mannering... fuori, in macchina» mi disse con un borbottio misterioso. «Devo dire a Jameson che lo porti qui?» «Un momento. Cos'ha detto quando ha ripreso i sensi?» Il sergente rispose con aria perplessa: «Mi ha parlato del suo cuore malato e mi ha mostrato una boccetta di compresse. Ma quanto a essere spaventato, signore, perdio, ha fatto un cambiamento completo. Quando gli ho detto di Barba Bianca e di cosa mi aveva fatto Barba Bianca...» «Glielo hai detto?» «Ho dovuto, signore! Non c'è altra via d'uscita quando uno ti chiede per quale motivo viene trattenuto... Be', signore, crede che ne sia rimasto sconvolto? No! Si è messo a ridere! Ha riso e riso a non finire.» Hoskins si accigliò. «Pareva che quello svenimento lo avesse molto sollevato. Poi, quando voi avete telefonato per dire del delitto e dell'uomo con la barba nera, lui era tutto interessato ed eccitato ma non più spaventato di me. Ha continuato a vagolare e a raccontarci di un delitto commesso da teppisti nell'Iraq o che so io, e di come lui aveva aiutato la polizia nelle indagini»
disse Hoskins strizzando un occhio con fare confidenziale. «Però, detto tra noi, secondo me è un fottuto bugiardo. Vedete, signore, lo abbiamo riportato alla ragione con quel biglietto... Devo dire a Jameson che lo porti qui?» «Prima dobbiamo chiarire qualcosa. Vieni qui e dimmi se questo è lo stesso uomo che ha tentato di strangolarti davanti al museo.» Hoskins mi seguì premurosamente. Nel vedere Miriam Wade, che era sempre appoggiata al tappeto e alla quale avevo fatto un cenno rassicurante, il sergente lanciò un fischio. Quando gli dissi chi era, fu chiaro dalla sua espressione che considerava la cosa sinistra. Poi guardò il cadavere. «No, signore» dichiarò dopo averlo osservato. «Non è lo stesso uomo.» «Ne sei sicuro?» «Assolutamente, signore! Guardate! Questo tipo qui ha la faccia piuttosto tonda e un naso che definireste ebraico. Il vecchio che è saltato giù da quel muro...» «Sta' a sentire, sei sicuro che era vecchio?» Hoskins gonfiò le guance. «No, signore, non ci potrei giurare, capite. Ci avevo già pensato, ora che me lo chiedete. Ma di una cosa sono certo: aveva la faccia lunga e affilata come quella d'un cavallo, e il naso schiacciato. Non come questo qui. Giurerei che non si tratta della stessa persona.» Si fece brusco. «Ordini, signore? Non sono in servizio, ma dato che, per modo di dire, sono coinvolto in questa faccenda...» Be', quello sembrava stabilire che c'erano state due persone con barbe finte a girare lì attorno. Non riuscivo a decidere se ciò migliorava o peggiorava la situazione: la peggiorava, forse. Faceva venire alla mente strane visioni di un club di uomini con barbe finte che si riunivano in un museo orientale in una notte di luna. Non quadrava... «Fammi vedere quel biglietto» dissi. Hoskins lo tirò fuori delicatamente. Era un foglio di carta qualunque, ripiegato in un quadratino, ben schiacciato e, da un lato, molto sporco. Lo spiegai. Scritte a macchina sotto la semplice intestazione "Mercoledì" c'erano le seguenti parole piuttosto insolite: Caro G. Ci vuole un cadavere... un vero cadavere. La causa della morte non ha importanza, ma ci vuole un cadavere. Combinerò io il delitto... quel khanjar col manico d'avorio andrà benone, oppure, se ci sembrerà meglio, or-
ganizzeremo uno strangolamento... Seguivano due parole cancellate con una serie di X e il biglietto finiva lì. Cercai di raccapezzarmi. Il sergente Hoskins lesse nel mio pensiero. «Un tipo molto disinvolto, eh, signore?» disse. «Assassinio, puah... "Ci troviamo al Lyons per il tè..." così, semplicemente. Eh?» Dissi: «Accidenti, Hoskins, qui c'è qualcosa che non quadra. Avevi mai letto qualcosa che desse meno l'impressione dell'appello di un assassino assetato di sangue?». Hoskins rifletté. «Be', signore, non saprei esattamente dire com'è un assassino assetato di sangue. A me sembra che avrebbe dovuto metterci più passione. Ma sono costretto ad ammettere che mi fa un gran brutto effetto.» «Dove lo hai trovato?» «È caduto dalla tasca del cappotto del signor Mannering mentre io gli muovevo le braccia su e giù per fargli riprendere i sensi. Non gli ho detto niente del biglietto. Ho pensato di lasciar decidere a voi. Dico, però: cos'è un khanjar col manico d'avorio?» "Ci vuole un cadavere... un vero cadavere." Quella frase era abbastanza orribile, in ogni modo. Con Hoskins alle calcagna, camminai lungo la fila di bacheche in mezzo alla sala e cercai quella dalla quale era stato preso il pugnale. Fu piuttosto facile trovarla. Nella terza bacheca dalla porta principale, etichettata "Persiano moderno". Sul velluto blu scuro c'era il solco, lungo circa venticinque centimetri, di un pugnale ricurvo. La bacheca era chiusa e cardini non se ne vedevano. Come si aprivano quelle scatole di vetro?, mi domandai, come mi ero domandato spesso nei musei. M'infilai i guanti e tastai attorno accuratamente. Su un lato, nel supporto di legno, c'era una minuscola serratura senza chiave. Evidentemente il lato si apriva interamente come una porta, ma ora era chiuso. Perciò era da presumere che chiunque aveva preso quel pugnale possedeva una chiave, il che portava direttamente ai Wade o ai loro amici. "Ci vuole un cadavere... un vero cadavere." Così l'assassinio era stato un piccolo particolare di qualche programma fantastico? Naturalmente la persona più immediata cui portava quell'indizio era il vecchio Pruen. Lì stava il guaio. Non credevo, e se avessi fatto parte di una giuria non avrei creduto, che Pruen avesse qualcosa a che fare col delitto. «Dobbiamo metterci al lavoro» dissi a Hoskins. «Vai a prendere il tuo amico Pruen: il custode di cui mi hai parlato... è giù nella stanza del con-
servatore. Portalo da qualche altra parte... quella stanza mi servirà per altri testimoni... e cerca di tirargli fuori tutto quello che è successo stasera. Chiedigli di questo pugnale, quando si è accorto della sua sparizione e tutto quello che sa al riguardo. Vedi quella cassa là? Scopri perché Pruen vi ballava attorno stasera e cosa intendeva dire con "la signora di Harun-arRashid".» Non a torto Hoskins volle sapere chi era Harun-ar-Rashid e cosa c'entrava la sua signora. Secondo quanto ricordavo nebulosamente, Harun era stato un califfo di Bagdad nell'ottavo secolo o giù di lì: il famoso personaggio delle "Mille e Una Notte" cui piaceva andare in cerca di avventure travestito. Una volta qualcuno mi aveva detto che Harun-ar-Rashid, tradotto, significava Harun l'Ortodosso... il che sembrava una specie di denigrazione. C'era da supporre che avesse una moglie; almeno quello era un indizio ovvio. Mannering aveva parlato di una scoperta fatta dal museo, una faccenda segreta, e che, così per dire, avrebbero violato una tomba. Era possibile che Geoffrey Wade (che Pruen aveva descritto come un tipo che andava a frugare nei palazzi dei califfi) avesse scoperto, o creduto di aver scoperto, la bara della moglie di Harun-ar-Rashid? C'è da aggiungere, tuttavia, la divertita dichiarazione di Pruen secondo la quale nella cassa non c'era niente. E quando ci avete aggiunto questo, cercate di immaginare cosa ci incastri un cadavere con la barba finta e con un ricettario di cucina in mano. Parlai di quella nuova possibilità a Hoskins che stava fissando la cassa. Il sergente abbassò la voce. «Alludete, signore, a una mummia?» domandò. «Come quelle che, nei film, si alzano e si mettono a camminare?» Gli feci notare che i califfi erano musulmani e che seppellivano i morti come tutti, e questo sembrò rassicurarlo. Lui era molto sospettoso riguardo alle mummie: aveva l'idea che erano morti che non volevano stare sdraiati nelle bare. «Visto che non ci sono mummie...» disse, «cosa volete che faccia? Devo disseppellirla, se questo è il termine giusto?» «Sì, se Pruen non vuol parlare. Nella stanza del conservatore c'è un'accetta. Se non riesci a cavar niente da Pruen, apri la cassa, con molta attenzione. Noi cerchiamo qualcuno che sa tutto di questo posto...» «Be', signore, anche se il vecchio signor Wade è via, ci sarà qualcuno incaricato. Non potremmo telefonargli?» Ronald Holmes. Ma c'era un'idea migliore che quella di telefonargli. Ronald Holmes che, in quel momento, secondo Miriam Wade, stava dando
una festicciola dove probabilmente erano presenti tutte le persone collegate col museo. E abitava a non più di cinque minuti di distanza da lì, in Pall Mall Place. Se mi prendevo dieci minuti e andavo là prima che la notizia di questa faccenda arrivasse a loro, c'era la probabilità di ottenere qualche risultato. «Bada tu a tutto» dissi a Hoskins. «Non starò via molto, e mi porterò dietro Holmes. Se troviamo altri testimoni, questa casa è abbastanza grande per tenerli separati. Nel frattempo metteremo la ragazza giù, nella stanza del conservatore, sorvegliata da Martin. Non deve comunicare con nessuno, tieni Mannering lontano da lei, anche se lui dovesse cominciare a far cagnara. Intanto...» «Dov'è la donna?» domandò brusco Hoskins. Ci girammo entrambi di scatto. La fila dei tappeti persiani lungo la parete era deserta: ebbi la sensazione di essere al volante di una macchina di cui avevo perso il controllo. Non poteva essere corsa verso l'uscita, l'agente Martin era di guardia alla porta di bronzo. Mi precipitai verso la stanza del conservatore. L'uscio era chiuso, ma io udii debolmente una voce che parlava senza però distinguere le parole. Parlava con Pruen? Attraverso quell'uscio listato d'acciaio non si poteva udire niente, ma proprio sopra la mia testa c'erano gli sfiatatoi del ventilatore all'interno dell'ascensore. Aprii rapidamente l'uscio giusto in tempo per afferrare chiaramente una mezza dozzina di parole. Ma di nuovo la faccenda mi sembrò strana e incomprensibile. Miriam Wade era seduta dietro la scrivania di mogano e stava china sul telefono. Le parole che udii erano "Whitehall zero zero sei sei. Voglio parlare con Harriet Kirkton". Ma aveva messo un fazzoletto sul microfono... evidentemente per alterare ancora di più la voce, perché stava parlando con una profonda tonalità di contralto che contrastava con la sua abituale. Quando mi vide, sbatté il ricevitore sulla forcella e si alzò con il viso in fiamme. «Voi!» gridò, affannata. «Voi... odioso, maledetto ficcanaso!» «Via via» dissi. C'era sempre la tentazione di dire "Via via" a quella vitalissima femmina che ora sembrava Messalina in preda a una crisi di nervi, ma ne sciupava l'effetto con la sua scelta delle parole. «Stavate telefonando. Perché non continuate?» «Non sono affari che vi riguardano.» «Date le circostanze devo chiedervi a chi stavate telefonando.» «Avete sentito, no? Ad Harriet. È una delle mie migliori amiche. Era con me a bordo della nave quando sono tornata a casa. Lei...»
«Sì, ma quando telefonate alle vostre migliori amiche, camuffate la voce? Statemi a sentire, signorina Wade, questo non è proprio il momento per fare scherzi...» Credetti che prendesse il portacenere di bronzo e me lo scagliasse sulla testa. Invece dominò l'impulso e, portandosi le mani sul florido seno, mi disse esplicitamente, con un tono che voleva essere di profondo disprezzo, cosa dovevo fare e dove dovevo andare. «Whitehall zero zero sei sei» dissi. «Che numero è? Posso saperlo dal centralino, sapete.» «È l'appartamento di Ronald Holmes. Non mi credete, vero?» (Avevo preso la guida del telefono.) «Non lo troverete. Ma è così.» I suoi occhi si velarono.«Sentite, dovete proprio tenermi qui? Credete che sia piacevole per me, con quel... quel coso di là e tutto il resto? Non potreste lasciarmi andare o almeno permettermi di chiamare qualcuno? Di chiamare mio fratello?» «Dov'è vostro fratello?» «Da Ronald.» La domanda, sul motivo per cui non aveva chiesto del fratello invece di quella Harriet Kirkton, se voleva parlare con lui, era così ovvia che non la posi neppure. Ma riguardo al numero mi aveva detto la verità: Ronald Holmes, Prince-Regent Court, Pall Mall Place, era sull'elenco col numero Whitehall 0066. Posai l'elenco e per la prima volta mi resi conto che Pruen non era nella stanza; ma lei mi prevenne con un atteggiamento amaro e altezzoso. «È nella toilette» spiegò. «L'ho pregato di stare lì mentre io telefonavo. Venite, Raffles, vecchio amico! Potete uscire ora.» Immusonito ma imbarazzato, Pruen aprì la porta e venne fuori con aria di sfida. Il suo atteggiamento verso la ragazza, dall'occhiata che le lanciò, era quasi di adorazione: dava l'impressione di cercare una scusa qualsiasi per scagliarsi contro chiunque gli rivolgesse la parola. Feci un cenno a Hoskins e Martin che erano rimasti sulla soglia. «Incarico te, Martin, resta qui e sorveglia la signorina Wade fino al mio ritorno. Il telefono è fuori servizio, intesi?» La ragazza, cupa, si era seduta su una poltrona di pelle rossa e io mi rivolsi a lei. «Ora state calma per qualche minuto, se non vi dispiace. Parlerò con vostro fratello e lo porterò qui, poi tutto si aggiusterà. Torno presto.» Mentre uscivo, la udii imprecare in un modo che mio zio e mia zia a Belfast avrebbero estremamente disapprovato. Mi fermai accanto a Rogers
che aveva finito di fotografare il cadavere e la sua posizione, ma Crosby era sempre al lavoro con le impronte digitali, e il dottor Marsden stava facendo un esame accurato. Il pugnale era stato tolto dalla ferita. Crosby me lo mostrò dentro un fazzoletto: una lama ricurva dall'aspetto micidiale, venticinque centimetri scarsi di lunghezza, affilata da entrambi i lati e con la punta aguzza. L'avevano ripulita. «Un'infinità di impronte, qua sopra, signore» disse Crosby indicando il manico d'avorio. «Ma sbavate e sovrapposte come se fosse stato toccato da un sacco di gente. Le ingrandirò e vedrò se riesco a ottenere qualcosa di chiaro. Qualche impronta abbastanza chiara all'interno della carrozza... qui c'è qualcos'altro. Pare che il nome di questo individuo fosse Raymond Penderei. Questi due biglietti da visita spuntavano dal taschino del panciotto e lo stesso nome è stampato nel cappello.» Mostrò due biglietti macchiati di sangue su cui "Raymond Penderel" era stato stampato evidentemente da uno di quei tipografi ambulanti che si trovano per strada. Guardai il taciturno dottor Marsden che grugnì. «Non ho un gran che da dirvi» disse. «Questo coltello è stato scagliato direttamente al cuore: l'uomo è morto istantaneamente.» Si rialzò, rigido. «Ora della morte... uhm. Quando lo avete trovato? A mezzanotte e venticinque. Già. Adesso è appena l'una e un quarto. Direi che è morto tra le dieci e mezzo e le undici e mezzo, minuto più minuto meno.» Esitò. «Ascoltate, Carruthers, non è compito mio, ma voglio darvi un suggerimento. Vedete la forma di questa lama? Pochissime persone, senza una conoscenza medica, avrebbero saputo calcolare esattamente l'angolatura per arrivare al cuore. Una pugnalata simile... o è stata un diabolico incidente, oppure l'assassino sapeva precisamente dove colpire.» M'inginocchiai e frugai nelle tasche del morto. C'erano soltanto qualche spicciolo, un pacchetto di sigarette da dieci e un logoro ritaglio di giornale. Il ritaglio era di una di quelle colonne di pettegolezzi ed era quasi in cima alla pagina del giornale così che si vedeva anche la data: 11 maggio, poco meno di un mese prima. Diceva: È tornata oggi in Inghilterra, dai rigori del clima nell'Iraq, la signorina Miriam Wade. Bella, giovane, schietta, terrore delle hostess. Prima della sua partenza, diciotto mesi fa, le voci la davano per fidanzata con "Sam" Baxter, figlio di Lord Abbsley, ex maestro di baldorie e ora stella nascente della Legazione Britannica, Cairo. È atteso, per la prossima settimana, il padre Geoffrey Wade, studioso e collezionista, i cui lunghi baffi sono sem-
pre presenti alle riunioni culturali. Secondo lui, tracce del palazzo dei Califfi a Bagdad possono essere... Il ritaglio, che piegai e misi nel mio blocco per appunti insieme con l'orribile biglietto trovato addosso a Mannering, non faceva capire chiaramente se il maestro di baldorie fosse Lord Abbsley o suo figlio, ma noi propendevamo per il figlio. Era ancora un altro anello della catena. Ma di Raymond Penderei, chi era o dove viveva, nel suo vestiario non c'era traccia. Il vestito odorava di canfora come se fosse stato riposto a lungo, e sul taschino interno c'era l'etichetta "Gaudien, sarto inglese, Boulevard Malesherbes 27, Parigi". E basta. Lasciai Rogers e Crosby con l'istruzione di cercare tracce nel caos intorno e dentro quell'ascensore nella stanza del conservatore e andai a trovare Ronald Holmes. Fuori, in una macchina della polizia parcheggiata accanto al marciapiede, Gregory Mannering stava discutendo violentemente con l'agente Jameson; me la svignai in fretta non desiderando lasciarmi coinvolgere nella lite e mi diressi a est lungo Pall Mall. La città pareva deserta, le strade erano talmente silenziose che il suono di un clacson lontano pareva vicinissimo. Pall Mall Place è una piccola corte e vi si accede per mezzo di un vicolo ed è separata dalla strada da un grande arco. Più in là, oltre un gruppo di bui edifici addossati gli uni agli altri, trovai una casa alta e stretta su cui brillava un'insegna al neon: "Prince-Regent Court". Dentro c'era un lungo e angusto atrio e in fondo ad esso la cabina di un ascensore automatico. Niente portiere in vista, ma un sonnacchioso giovincello in livrea sbadigliava davanti a un centralino telefonico evidentemente preparandosi a smontare. Non volevo annunciare la mia presenza. «È ancora in corso il party dal signor Holmes?» «Sì, signore» disse Livrea con uno svogliato tentativo di prontezza militaresca. Allungò la mano per inserire la spina. «Nome?» Usai una moneta con buon risultato. «Aspettate un momento. Non mi annunciate. Voglio picchiare alla porta dicendo che sono un funzionario della polizia. Vado su: è il D, non è vero?» Lui sogghignò e mi disse che era l'E e che me ne sarei accorto subito. Mentre entravo in ascensore mi fermai con aria indifferente. «Quanto tempo è che sono su?» «Tutta la sera» rispose Livrea. «Dalle nove, comunque. Attenzione allo scalino, signore.» Quando l'ascensore arrivò oscillando al piano di sopra e si fermò, udii
per davvero un gran vocio. Mi trovavo in un corridoio semibuio dipinto di verde talmente angusto che appena ci si rigirava. Da una porta in fondo giungevano le note deboli ma calorose di un'armonica a bocca rinforzata da voci smorzate che cantavano con religioso fervore. Picchiai forte il battente, così forte che evidentemente le persone all'interno dovettero pensare che qualcuno fosse salito a protestare per il rumore, perché i canti cessarono come se fossero stati soffocati. Udii un tramestio, il rumore di un uscio che si schiudeva e dei passi. La porta fu aperta da un uomo magro con un bicchiere in mano. «Sto cercando» cominciai, «il signor Ronald Holmes...» «Sono io» rispose quello. «Cosa c'è?» Poiché stava di fianco, la luce illuminò il corridoio. L'uomo portava grossi occhiali cerchiati di tartaruga. 5 Le chiavi della bacheca del pugnale Lo seguii mentre lui indietreggiava nella stanza. Era una stanzetta deserta e ordinata: non la scena del concerto. Al di là di un uscio chiuso di fronte a me venivano risate accompagnate da qualche nota dell'armonica. L'unica fonte d'illuminazione lì proveniva da una grossa lampada con un paralume giallo che gettava il suo riflesso sul piano di un tavolo lucido e illuminava un lato della faccia del mio ospite. Il quale aveva alzato le sopracciglia con un'espressione di blanda curiosità: nient'altro. Era magro, di media statura e leggermente curvo. Aveva la testa lunga e capelli biondastri ispidi e ondulati tagliati corti. Miti occhi azzurri mi guardavano da dietro le lenti: la sua faccia era affilata, sottile, con lineamenti aguzzi e l'espressione quasi umile. Portava un elegante vestito nero con un colletto duro e una grinzosa cravatta scura. Lo giudicai appena sulla trentina, ma quando girò il capo alla luce vidi che la sua fronte, lustra di sudore, era solcata da qualche ruga. Sebbene non fosse ubriaco, era chiaro che doveva aver bevuto parecchio. Si schiarì la voce, strusciò i piedi per terra, guardò il bicchiere che teneva in mano e tornò a guardare me. Nella sua voce cortese c'era una strana nota tra l'umiltà e la determinazione. «Sì?» mi spronò. «Cosa c'è? Sentite, non vi conosco? Ho l'impressione di avervi già visto.» Da dietro la porta venne una voce di donna che cominciò in tono norma-
le, poi d'un tratto si levò in una specie di grido lamentoso e querulo e allo stesso tempo gaio. «Sei tu, Rinkey?» gridò la voce. «Rinkey, cretino! Sei tuuuu?» Seguì il rumore di tacchi femminili che risuonavano rapidi su un pavimento di legno. «Calmatevi!» ruggì all'improvviso Holmes, girando il capo. «Non è Rinkey.» Si voltò di nuovo verso di me con aria pazientemente interrogativa. «Be'? Come dicevo, la vostra faccia non mi è nuova, ma...» «Credo proprio che non ci siamo mai conosciuti, signor Holmes. Sono l'ispettore Carruthers e sono qui per domandarvi cos'è successo stanotte al museo Wade.» Durante un lasso di tempo in cui si sarebbe potuto contare fino a dieci, Holmes restò immobile con la testa delineata contro la luce. «Scusatemi solo un momento» disse, in fretta. Si mosse talmente alla svelta, che io non ebbi neanche la possibilità di aprir bocca prima che lui posasse il bicchiere, arrivasse rapidamente all'uscio, l'aprisse e sparisse all'interno, poi tornò subito fuori chiudendosi l'uscio alle spalle. «Fanno tanto di quel chiasso» spiegò, scusandosi, «che non si può nemmeno sentire i propri pensieri. Siete venuto a chiedermi cosa...» s'interruppe. «Buon Dio, cos'è successo? Mica un furto?» «No. Non è stato rubato niente.» «Oh... allora un incendio?» «No.» Holmes tirò fuori dal taschino un fazzoletto e si asciugò con cura la faccia. Quegli occhi miti parevano scrutarmi da sopra, sotto e intorno al fazzoletto. Poi lui sorrise. «Be', mi avete tolto un bel peso dallo stomaco, naturalmente» disse, «ma continuo a non capire. Uh... posso offrirvi un whisky e soda, ispettore?» «Grazie, signor Holmes» risposi. Ne avevo proprio bisogno. Continuando a parlare, appoggiò il suo bicchiere su una credenza, ne tirò fuori un altro e versò tre buone dita di whisky in ciascuno. «Seguitiamo a parlare per enigmi» disse tossicchiando. «Per quello che ne so io, non è successo niente stanotte al museo, a meno che il signor Wade non sia tornato improvvisamente. Io non ci sono stato. Io... per la miseria, non siate così misterioso. Cos'è successo?» «Assassinio» dissi.
Aveva appena cominciato a premere la levetta del sifone del seltz: mancò il bicchiere. Sibilando, il seltz schizzò sulla credenza di quercia, al che lui tirò fuori immediatamente il fazzoletto per asciugare e prima di voltarsi di nuovo parve avventarsi sul mobile. «Che sbadato» borbottò. «È imposs... scherzate o cercate di... Dite un po', chi è stato assassinato? Cos'è questa storia?» «Un uomo di nome Raymond Penderei. È stato pugnalato stasera con un pugnale dal manico d'avorio preso da una delle bacheche del museo. Ho trovato il suo cadavere in quella grossa carrozza chiusa nella sala.» Holmes tirò un respiro tremolante, poi si ricompose. I suoi occhi erano miti come prima, ma sconcertati. Fu allora che notai, sulla parete sopra la credenza, una fotografia incorniciata. Era la foto di un uomo che indossava una lunga veste sullo sfondo di un bosco, e quell'uomo aveva un'accuratissima barba bianca. Da qualsiasi parte ci si rigirasse, in quel caso non si trovavano che barbe: per me erano diventate un incubo e un'ossessione. «Penderei!» stava dicendo Holmes con un tono che avrei potuto giurare sinceramente perplesso. «Raymond Penderei! Questo nome non mi dice assolutamente nulla. Cosa diavolo è successo? Cosa ci faceva lì, comunque? E chi l'ha ucciso? Lo sapete?» «Non sappiamo la risposta a nessuna di queste domande, signor Holmes. Ma forse voi potrete esserci d'aiuto. Quanto al pugnale con cui è stato ucciso...» Per la prima volta, all'accenno al pugnale, gli occhi di Holmes si velarono leggermente. «È una lama curva con un manico d'avorio chiamata, secondo Pruen, khanjar...» «Pruen!» esclamò Holmes, come se avesse dimenticato qualcosa. «Uhm, sì, naturalmente. Cosa c'entra Pruen? Cosa ha detto?» «Ha negato che qualcuno sia stato al museo stanotte, tranne lui. Quindi è ovvio che per lui si mette male.» Lasciai che digerisse quella frase. «E ora torniamo al pugnale. Chi ha la chiave di quelle bacheche nella sala principale?» «Io. Ma se è stata rubata...» «Nessun altro ha una chiave?» «Be', il signor Wade, naturalmente. Ma...» «Il pugnale non è stato rubato. È stato preso dalla bacheca da qualcuno che aveva una chiave e che poi ha richiuso la bacheca.» Holmes parlava in tono calmissimo. Quasi meccanicamente prese i due bicchieri dalla credenza. A quel punto feci un gesto come per rifiutare per-
ché non si può bere con un uomo contro il quale si è lanciata un'accusa del genere, ma lui disse seccamente: «Non siate sciocco!». E continuò con la stessa voce pacata: «Qualcuno doveva avere un duplicato della chiave. Io posso soltanto dirvi che non l'ho ucciso e che in vita mia non ho mai saputo niente di qualcuno di nome Raymond Penderei. I miei amici e io siamo stati qui tutta la sera...» «A proposito, chi c'è qui con voi?» «Jerry Wade, il figlio del signor Wade. Un nostro amico di nome Baxter e la signorina Kirkton. Non credo che li conosciate. Stavamo aspettando la signorina Wade e un suo amico, un certo Mannering...» «Nessun altro?» «Ora no. C'erano altre persone, ma se ne sono andate. Sentite, volete che faccia venire qui Jerry Wade?» Guardai l'uscio chiuso dell'altra stanza. Il silenzio là dentro era sospettoso, ed era iniziato dal momento in cui vi era entrato per un attimo Holmes. A un certo punto la donna aveva tentato di attaccare Barnacle Bill, il Marinaio, ma era stata violentemente zittita alle prime note. «Scusatemi un istante» dissi a Holmes. Mi avvicinai all'uscio, bussai e aprii. Dalla varietà delle voci mi sembrò, dopo il primo attimo di silenzio, di essere entrato in una gabbia di pappagalli. Era una stanza piccola, quasi come l'altra, ugualmente illuminata e piena di fumo azzurrognolo. Raggomitolata su un divano di fronte all'uscio sedeva una snella bionda dalle gambe lunghe che stava ammiccando e ridendo allegramente con un bicchiere da cocktail in mano e il gomito appoggiato al bracciolo del divano. Aveva una di quelle facce spirituali e ascetiche che ricordano quelle dei dipinti preraffaelliti, con occhi color azzurro porcellana; ogni tanto scattava in avanti all'improvviso come se il diavolo le avesse dato una spinta. Ritto dietro una foresta di bottiglie su un tavolo c'era un giovanotto robusto con una massa di capelli color rosso acceso, vestito anche troppo correttamente da sera. A causa di una sigaretta che gli pendeva da un angolo della bocca, sbatteva le palpebre per non farsi andare il fumo negli occhi mentre esaminava un appiccicoso shaker che teneva in mano. Al mio ingresso si girò di scatto, mi fissò e poi tentò di assumere un gelido atteggiamento dignitoso, cosa che, in un certo senso, era impossibile per il fatto che qualcuno gli aveva attaccato con degli spilli da balia il lungo nastro rosso di una scatola di cioccolatini attraverso il petto. Per giunta aveva l'aria spaventata.
La terza figura sedeva su un seggiolino basso e stava lustrando un'armonica a bocca. Potrei solo descriverlo come un giovane con la faccia d'un vecchio. Sebbene non avesse certamente più di ventisette, ventotto anni, aveva la faccia raggrinzita vuoi per il troppo ridere vuoi per il troppo leggere. A parte quella del nostro amico dottor Fell, credo che fosse la faccia più simpatica che io abbia mai visto. Lui sembrava eccitato e dava l'impressione di gesticolare anche se non si muoveva affatto. Si appoggiò allo schienale della sedia e salutò affabilmente con la mano: un tipo mingherlino, insaccato in una vecchia giacca di tweed, con capelli neri tagliati alla tedesca. Una pausa di silenzio e poi la gabbia di pappagalli prese vita. Harriet Kirkton gettò la testa all'indietro con aria compiaciuta e ispirata, spalancò la bocca fino a mostrare le tonsille preraffaellite e si mise a cantare con voce così forte da spaccare il soffitto: "Chi è che bussa alla mia porta? "Chi è che bussa alla mia porta? "Chi è che bussa alla mia porta? "Disse la bella giovane dooonna". Il giovanotto dalla testa rossa si drizzò e cominciò, con voce avvinazzata dal tono baritonale: «Ehi, è imperdonabile piombare qui in questo modo...». Il giovane-vecchio alzò la mano e la puntò contro di me fissandomi intensamente quasi volesse ipnotizzarmi. «Non potrete mai dire che sono stato io» dichiarò con voce profonda. Poi, dopo aver soffiato con enfasi nell'armonica, disse in tono naturale: «Buona sera, vecchio amico. Sedetevi. Bevete qualcosa. Come stanno tutte le barbe finte a Scotland Yard?». Holmes troncò quelle chiacchiere con la sua voce piatta, nervosa: «Per amor di Dio, piantala» disse. Fu efficace come un vero diluvio d'acqua gelida; non mi era mai capitato di sentire un gruppo di persone zittirsi così istantaneamente. Il giovanevecchio posò tranquillamente l'armonica accanto alla sua sedia e alzò lo sguardo. «Uh!» esclamò dopo una pausa. «Ma dico, cosa succede, Ron? Si ha quasi l'impressione che cerchi di trattenerti dall'esplodere.» «Mi spiace di essere piombato qui in questo modo» dissi. «Ma si tratta di una cosa importante. Nessuno tra voi qui presenti conosceva un uomo di
nome Raymond Penderei?» Il Rosso aveva l'aria completamente assente. Aprì la bocca, poi ci ripensò e la richiuse, ma non dava l'impressione che avrebbe detto qualcosa di illuminante. Ma Harriet Kirkton conosceva certamente quel nome; ne ero sicuro. A quel punto sembrava un po' meno sbronza. Per quanto non si fosse mossa e continuasse a restare con il gomito rigidamente appoggiato al bracciolo del divano, notai, alla luce del lume accanto a lei, che le unghie della sua mano che stringeva il bicchiere erano sbiancate. Ma non era ancora arrivato il momento di sganciare la bomba cui stavo pensando. «Nessuno?» incitai. Nessuno parlò, e io ebbi la strana sensazione che in quel silenzio venissero bruciati dei ponti. La voce di Holmes, di nuovo disapprovante, tornò a farsi sentire. «L'ispettore Carruthers mi dice che questo Penderei è stato assassinato. Non interrompete. È stato pugnalato stasera al museo... correggetemi se sbaglio, ispettore... con un coltello dal manico d'avorio preso in una delle bacheche.» Holmes scandiva accuratamente le parole. «Io gli ho detto che siamo stati tutti qui, stasera, dalle nove, ma pare che lui seguiti a pensare...» «Assassinio» fece il Rosso e si strusciò una mano tremante sul viso. Era stato abbastanza sbronzo, ma quel fatto sembrò farlo tornare lucido come dopo uno scontro automobilistico. Quel suo strusciarsi la faccia era curioso: come se tentasse di cancellarvi qualcosa o di trovarvi qualcosa. Abbronzati dal sole, i suoi lineamenti erano devastati ma belli. I suoi lucenti occhi castani si fecero più acuti. «Assassinio! Buon Dio, è terribile! Volete dire assassinato proprio nel museo? Quando? Quando è successo?» Cominciò a battere le nocche sul tavolo. Ma Holmes, con la sua voce levigata, riprese il discorso al punto in cui era stato interrotto. «... ma pare che lui seguiti a considerarci un gruppo sinistro. Oh, sì, permettete. Signorina Kirkton, vi presento l'ispettore Carruthers. Il signor Baxter...» Indicò con un cenno della testa il Rosso che stava borbottando qualcosa sui coltelli dal manico d'avorio. «E il signor Wade... figlio.» L'uomo dalla faccia giovane-vecchia s'inchinò con cordiale sarcasmo, e Holmes continuò: «Perciò cercate di rispondere sensatamente quando sarete interrogati, altrimenti corriamo il rischio di ritrovarci nei guai anche se abbiamo quello che si suol dire un alibi di corporazione». «Certo che l'abbiamo» disse Harriet Kirkton scoppiando in una risatina tremula. «Cosa diavolo c'entriamo, noi?»
Il giovane Wade alzò una mano per chiedere silenzio. I suoi occhi da spiritello erano contratti. «In questa mente focosa» annunciò con voce elaboratamente lenta che contrastava con i suoi gesti concitati, «è saltato il ghiribizzo di studiare un enigma che non ha alcun senso. Chiudete il becco, accidenti a voi!» Prese l'armonica e suonò una lunga nota per dare più enfasi alle sue parole. Poi, dopo aver fissato astiosamente Sam Baxter, si voltò verso di me. «Allora: la prima domanda...» «Sì, ma stai attento, Pagliaccio» intervenne Baxter. «Io avevo posto una domanda e l'ispettore stava per rispondermi. Quando è stato ucciso?» «È stato ucciso» risposi lentamente, «tra le dieci e mezzo e le undici e mezzo.» «Volete dire di sera?» volle sapere Baxter quasi con speranza morbosa. «Voglio dire di sera.» Seguì una pausa. Baxter si sedette. Io non avevo fretta di interrogarli, perché quello che dicevano spontaneamente era più significativo. Il giovane Jerry Wade, quello che chiamavano Pagliaccio, parve intuirlo, e sotto la sua amabile indifferenza era ancora più preoccupato di Holmes. Perché chiaramente gli stava venendo un'idea e, mentre muoveva dolcemente l'armonica da una parte all'altra contro i denti, vidi che quell'idea cominciava a farsi strada. «Ispettore» domandò bruscamente, «chi era questo Penderei e che aspetto aveva?» «Non sappiamo chi era. Non aveva documenti o carte di identità, tranne un paio di biglietti da visita. Infatti non c'era niente nelle sue tasche tranne il ritaglio di un giornale riguardante la signorina Miriam Wade...» «Cristo!» esclamò la signorina Kirkton. Baxter alzò lo sguardo, gli occhi duri. «Tira vento da quella parte, eh?» disse la voce baritonale avvinazzata con un tono ancora più soave, un tono, si sarebbe detto, da diplomatico. Contrastava in maniera grottesca col nastro della scatola di cioccolatini appuntato sulla sua camicia. «Scusate, ispettore. Proseguite.» «Quanto alla sua descrizione, è alto circa un metro e ottanta, faccia tonda, naso a becco, carnagione olivastra, capelli e baffi neri. Tutto ciò dice niente a nessuno?» Ai tre uomini almeno era chiaro che non diceva niente o così mi parve. Wade sbatté le palpebre, lo scintillio dei suoi occhi era svanito. Ma la mia successiva osservazione suscitò risultati decisamente positivi. «E quando
l'ho visto con quel pugnale nel petto» continuai, «aveva una finta barba nera...» Wade schizzò su. «Barba nera?» gridò. «Avete detto barba nera?» «Sì. In effetti» dissi, «vi aspettavate che dicessi barba bianca, non è vero?» L'altro si controllò. «Mio caro ispettore» rispose con un ghigno, «vi assicuro che non pensavo assolutamente a nessuna barba. La mia mente era priva di pensieri sulle barbe. Non mi sono mai passati per la testa. Ma voi avete talmente calcato sulla parola "nera" che ho avuto l'impressione di vederci cacciare tutti quanti in galera a causa di un qualche significato minaccioso. Un cadavere con la barba finta! C'era altro?» «Per adesso parliamo un po' di barbe» proposi. Era arrivato il momento di attaccare. «Questo delitto è un incubo, e sarebbe bene tirarne fuori qualcosa di sensato... per esempio, signor Holmes, nella stanza di là, sopra la credenza, c'è la fotografia di qualcuno con una lunga veste e una barba bianca. È la foto di una compagnia teatrale di dilettanti. Chi è la persona?» Holmes aprì la bocca, esitò e si sbirciò attorno. Fu Jerry Wade che rispose. «Oh, quello» disse con fare noncurante, «sono io.» 6 Gli inseparabili «Avete perfettamente ragione» continuò Wade. «È proprio la foto di un dramma e vi figuro io nel mio famoso ruolo di Re Lear. Non vi sorprende mica, vero? Vi prego di esaminare questa mia faccia avvizzita, e non vi sorprenderà davvero. La gente dice che ogni giorno sembro più giovane... perché v'interessa tanto? Non andrete per caso a caccia di barbe?» «È proprio quello che sto facendo. Mettiamo le carte in tavola. Io vi dirò cosa abbiamo scoperto e voi mi aiuterete il più possibile.» Guardai il gruppo. All'accenno alla barba nera, l'espressione di Harriet Kirkton era diventata vuota come quella degli altri. Perfino Holmes aveva abbandonato quella sua aria di sfida e mi fissava apertamente. Continuai: «La faccenda è così complicata e ingarbugliata che qualcuno deve pur avere un indizio sensato, anche se innocente. «Stasera, qualche minuto prima delle undici, un sergente di Vine Street passava davanti al museo Wade. Un uomo alto con una finanziera, occhiali cerchiati di tartaruga e barba bianca appiccicata alle guance, è spuntato sul
muro rumorosamente. E ha urlato al sergente: "Lo hai ucciso, e sarai impiccato per questo, mio bell'impostore. Ti ho visto nella carrozza". Poi si è buttato sul sergente come un pazzo e ha tentato di strangolarlo. Per calmarlo il sergente è stato costretto a stenderlo con un pugno. Poi, quando il sergente si è allontanato per chiamare aiuto, l'uomo svenuto... apparentemente svenuto... è sparito dalla strada.» A quel punto sul gruppo gravava una sgradevole tensione. Harriet Kirkton cominciò a ridere sguaiatamente, premendosi le mani sulla bocca mentre i suoi occhi di porcellana azzurra mi fissavano. «Non avevo mai sentito dire che in quella parte di St. James bazzicassero le fate» disse il giovane Wade pensoso. «Ma forse mi sbaglio. Andate avanti.» «Qualche minuto più tardi è arrivato un signore piuttosto altezzoso e ha cominciato a tempestare di colpi la porta di un museo deserto scatenando un tale pandemonio che hanno dovuto portarlo al posto di polizia. Ha detto di chiamarsi Gregory Mannering e ha detto di essere fidanzato con la signorina Miriam Wade.» A quel punto Baxter fece la faccia scura, ma Holmes si limitò ad annuire e Wade restò serio. «Ha detto inoltre che era stato invitato stasera al museo per una riunione che lui chiamava privata, organizzata dal signor Geoffrey Wade per un certo dottor Illingworth di Edimburgo...» «Allora ecco perché Mannering non si è fatto vedere qui, stasera» osservò Holmes. «Al posto di polizia, eh?» Alzò gli occhi al soffitto con aria sognante e compiaciuta. «Be', ispettore, è presto spiegato perché al museo non c'era nessuno. Mannering era stato avvisato con un messaggio. Vedete...» «Sì» dissi. «Questo è già stato spiegato. Mi pare d'aver capito che il signor Wade è dovuto partire improvvisamente...» Baxter si drizzò. «Come lo sapete? Ve l'ha detto Mannering?» «Un momento. È vero, signor Holmes?» «Verissimo, solo che non era esattamente una partenza inaspettata. È andata così. Wade è tornato da poco dall'Iraq. È stato là due anni a fare un lavoro di ricerca con Morel di Lione nella pianura a ovest del Tigri, fuori Bagdad. Cioè il luogo dov'era l'antica città dei Califfi, capite, la Bagdad moderna è a est. Sfortunatamente, molte rovine sono state spazzate via e una gran parte è stata adibita a cimitero, perciò hanno avuto qualche difficoltà per ottenere dalle autorità il permesso di scavare. Durante quei due anni ha scoperto parecchi reperti, molti dei quali sono stati spediti qui, a
me. Uno di essi doveva seguirlo per nave e doveva arrivare ai primi di questa settimana. Si tratta di roba molto voluminosa, il frammento di una torre saracena molto simile alla torre di Babele con un'iscrizione che... Ma non voglio sviarvi con queste...» «Non mi sviate affatto. Continuate.» Holmes mi guardò curiosamente. I suoi occhi miti si illuminavano di luce fanatica quando lui parlava di mattoni... sempre che fossero mattoni persiani. Esitò, tossicchiò e riprese: «Be', ecco. Il carico, come dicevo, doveva arrivare in Inghilterra martedì. Poi ci hanno avvertiti che la nave era in ritardo e che non sarebbe stata qui fino a sabato. Oggi abbiamo saputo che il carico sarebbe stato sbarcato nel pomeriggio. Così non c'era altro da fare: il signor Wade è stato costretto ad andare a Southampton personalmente per sovrintendere allo sbarco della cassa... perché, capite, più che altro si tratta di roba fragile... per poi portarsela a Londra. E partito dicendo che la riunione si poteva facilmente rimandare a sabato o domenica». «Capisco. Ora qualche particolare personale. Quando è tornato in Inghilterra il signor Wade?» «Circa tre settimane fa. Credo che fosse il venti maggio.» «E la signorina Miriam Wade è arrivata una settimana prima, diciamo l'undici.» Baxter scattò su di nuovo. Afferrò goffamente una bottiglia di Scotch, ne versò una buona dose in un bicchiere da cocktail, e mi puntò il bicchiere contro. «A cosa mirate?» domandò. «La vostra è una procedura poliziesca maledettamente strana, se volete sapere il mio parere. Cosa c'entra Miriam con questa faccenda? È stata in casa tutta la sera. Cosa ha a che fare Miriam con uno straccione con la barba finta che nessuno di noi ha mai sentito nominare?» A quel punto mi fissavano tutti astiosamente e io, per il momento, scantonai. «Non volevo parlare tanto della signorina Wade, quanto del signor Mannering» dissi. Dovevo andarci cauto, perché ancora non volevo coinvolgerla. «Come di questo fatto, per esempio. Il signor Mannering è fidanzato con la signorina, ma a quanto ho capito, non ha ancora conosciuto suo padre né suo fratello. Come mai?» Gli occhi lucidi e furbi di Pagliaccio-Wade erano fissi su di me da dietro l'armonica a bocca. Poi lui parlò quasi con veemenza. «Aha. Deduzione. Giusto. Voi state pensando che il serissimo padre e il truce fratello cerchino di stroncare questo odioso connubio che fiorisce in segreto dietro gli angoli. Balle, ispettore. Lo ripeto fermamente: balle. Di-
rei anzi che è decisamente l'opposto.» Corrugò la fronte. «La verità è che Mannering è l'unico tra noi tutti che può dirsi nato da illustri lombi. Qualcuno che conosceva la sua famiglia ne ha parlato al mio vecchio. Da quello che so, Mannering è un bugiardo di tre cotte ma discende davvero da qualche crociato. E posso crederci perché ora so chi ha dato origine a queste gigantesche balle come quella di essere andato e aver fatto fuori trecento saraceni con una sciabolata. Qui c'è il tocco di Mannering... No, mio padre era piuttosto contento della cosa, e Dio sa che a me non dispiace...» Baxter grugnì rumorosamente. «Sta' calmo, Sam» disse Jerry Wade tranquillamente. «Io parteggio per te, amico mio, ma la ragazza deve decidere da sé... Per continuare, ispettore, il fatto che il vecchio non lo conosca ancora è puramente accidentale. Vedete...» «Oh, taci tu... tu gnomo supercresciuto» gridò Harriet Kirkton all'improvviso. Wade arrossì un poco: quella frase, notai, aveva toccato il segno. Seguì una pausa di silenzio mentre Wade si ritraeva e la ragazza esitava, anche lei col volto arrossato. «Scusa, Pagliaccio. Non volevo... Solo, Dio mio, dici tante stupidate!» Si girò verso di me. «Miriam lo ha conosciuto a bordo della nave mentre tornava a casa, io ero con lei. Non so ancora giudicarlo, in realtà. Poi, appena siamo arrivate in Inghilterra, Miriam è stata spedita per due settimane da una zia, nel Norfolk...» «Spedita» la spronai, forse un po' troppo bruscamente. «Be', ogni tanto bisogna andare a trovare le zie» interloquì Jerry Wade con aria savia (lui era sempre pronto con lo scudo per difenderla). Sorrise. «So che è una scusa incredibile da infilare in una storia poliziesca, ma così è.» «Un momento, signore... cosa volevate dire col vostro "spedita", signorina Kirkton?» «Io non volevo dire niente! È una frase perfettamente naturale, no? Buon Dio, cosa potrei aver voluto dire? Suo padre aveva pensato che prima di tornare qui sarebbe stato bene che andasse a stare un po' con sua zia... sua madre è morta, capite... e così, eccoti che la zia era al molo ad aspettarla in modo che Miriam non potesse scapolarla. E io sono andata con lei.» Quella faccia da innocente angioletto era rivolta verso l'alto con un'espressione che Burne-Jones avrebbe certamente dato non si sa cosa per poterla dipingere. «Ma voi stavate chiedendo di Gregory Mannering, non è vero? Be', lui è andato a cercarla in casa di lei. Poi quando, dopo due settimane, lei è
tornata, Greg doveva presentarsi al vecchio in pompa magna... in casa di Miriam, Hyde Park Gardens... solo che è arrivato troppo presto, nel pomeriggio. Così ha cercato di mettersi in mostra giostrando con un baule pieno di vasellame antico o roba simile, il baule gli è scivolato e si è spaccata ogni cosa.» Una luce diabolica parve illuminarle il viso, spalancò gli occhi e sorrise. «Oh, sì, è stata una scena spaventosa! Perciò abbiamo pensato che sarebbe stato meglio mandarlo via e farlo tornare quando il vecchio si fosse calmato. Poi lei gli ha telefonato...» La ragazza s'interruppe, si strofinò la fronte e sembrò rammentare qualcosa. Di nuovo la sua espressione si alterò e questa volta in un'espressione di paura. «Dov'è Miriam?» domandò, la voce stridula. Visto che io non rispondevo, lei alzò un dito. «Dov'è Miriam? State a sentire, ragazzi. Vi ricordate che... poco fa... Ronald ha detto che una donna ha telefonato cercando di me con voce contraffatta... e che poi ha tolto improvvisamente la comunicazione? Chi era? Cos'è accaduto a Miriam? Perché fate tutte queste domande sul suo conto?» Io li guardai e risi. «Date l'impressione di voler sempre riportare il discorso sulla signorina Wade» dissi, «mentre la mia intenzione è di parlare di Mannering. Ascoltate! Non serve a niente negare che abbiamo prove che indicano come lui, probabilmente, sia coinvolto nella faccenda di stanotte.» Queste mie parole li tranquillizzarono. Seguì un silenzio che quasi avvertii fisicamente, un silenzio di stupore e assoluta incredulità. Ronald Holmes entrò lentamente nella stanza dall'uscio dietro di me, con l'aria di voler prendere le redini della situazione. Si sedette sul bracciolo di una poltrona, scosse il bicchiere che aveva in mano e si guardò la punta oscillante della scarpa. «Prove...» fu un'affermazione più che una domanda. «Quali prove?» «Risponderò a questa domanda chiedendo a voi cos'era quella riunione privata di stasera, prima che venisse rimandata. È vero che dovevate aprire la bara della moglie di Harun-ar-Rashid?» «Oh, Signore!» borbottò Baxter, e Holmes lo zittì. Quest'ultimo pareva scosso, ma disse, calmo: «No, non è vero. Come diavolo, se posso chiederlo, vi è saltata in mente quest'idea? Ve l'ha suggerita Mannering?». «In parte. Tanto per cominciare, lui ha detto che avreste "violato" una tomba.»
«Calma, Pagliaccio...» Holmes alzò gli occhi al cielo. «E ora perché? Perché vi avrebbe detto una cosa simile? No, non divago. È il problema astratto che m'interessa. La bara della moglie di Harun-ar-Rashid!» «Lasciate perdere per un momento il problema astratto. Dite che non è vero. Pensateci bene, signor Holmes.» Lui si girò con un sorrisetto talmente scettico che pareva una smorfia. «Pensiamoci bene tutti e due. Dite, sapete niente di Bagdad?» «No.» «La tomba della moglie di Harun-ar-Rashid, Zobeide... immagino che alludiate a quella... è nel cimitero della città vecchia, non lontana dalla tomba dello sceicco Maruf. È uno dei principali monumenti di Bagdad ed è stato costruito oltre mille anni fa e amorosamente restaurato da diversi governanti musulmani. Nessuno ha mai visto la tomba di Zobeide. È raro che i musulmani permettano di avvicinarsi: ne fa testo la tomba di Maometto a Medina dove i visitatori sono costretti a guardare attraverso una palizzata perfino l'antitomba del profeta. Di Zobeide si sa soltanto che fu messa in una bara di piombo che ne racchiudeva una d'oro. E l'idea che qualcuno possa... no, no, no!» Scosse la testa ancora più vivacemente. «Supponete che qualcuno rubi la bara di Nelson dalla cattedrale di St. Paul, o la bara di un qualunque personaggio da un monumento pubblico. Sarebbe già abbastanza terribile, ma niente in confronto alla profanazione... Signore! Una reliquia musulmana! Non ha nulla a che fare con l'antico Egitto, capite: è una religione viva. Aggiungeteci l'assoluta impossibilità di violare una tomba simile...» Spalancò le braccia e si strinse nelle spalle. Sebbene vi fosse uno scintillio dietro i suoi occhiali, ebbi l'impressione che il suo comportamento fosse un po' più enfatico del necessario quando guardò gli altri dicendo: «Naturalmente tutto ciò è assurdo. Quello che mi lascia perplesso è dove Mannering possa aver preso quest'idea.» «Vorrei che fosse vero, però» disse Baxter con cupa aria divertita. L'ultimo abbondante beveraggio lo aveva ravvivato in maniera notevole. Se ne stava lì con le mani in tasca, occhieggiando la bottiglia. «Sarebbe eccitantissimo, secondo me. Ricordo quella tomba, un affare di mattoni con un cono in cima. Me la fece vedere il vecchio quando andai là dal Cairo. Molto meglio che armeggiare con...» «Con che cosa?» domandai. «Se non era una bara, che cosa dovevate esaminare, allora?»
Holmes lanciò un'occhiata maliziosa agli altri. «Mai sentito nominare Antoine Galland, ispettore?» «No.» «Eppure tutti, a questo mondo, sanno cosa ha fatto. Ha tradotto Le Mille e Una Notte dall'arabo in francese, tra il millesettecentoquartro e il millesettecentododici, e le traduzioni dal francese sono arrivate a noi. Il signor Wade ha un interesse particolare per Le Mille e Una Notte perché anche lui è convinto che sono state prese direttamente dal persiano Hézar Afsàne, o i Mille Racconti, sebbene l'adattamento sia arabo da cima a fondo. Così, quando ha avuto l'occasione di comprare le prime duecento pagine della traduzione di Galland con le note e le interpolazioni...» «Un momento» dissi, «volete dire che il motivo per cui queste persone si dovevano riunire era quello di guardare qualche foglio di quella traduzione?» A quel punto, mi spiace dirlo, capii che io, che mi sono sempre considerato una persona seria e piena di raziocinio, mi stavo sinceramente divertendo alla mattana di quella notte, e che ritenevo deludente la spiegazione di Holmes. «Sì, certo. Ecco perché doveva intervenire il dottor Illingworth. Con le note e le interpolazioni, capite...» «Ed è tutto qui?» Jerry Wade, che era stato ad ascoltare con un'espressione viva e colma d'interesse, si sporse in avanti. «Diamoci la mano, ispettore» esclamò. «La penso esattamente come voi. Sotto la vostra uniforme blu batte, per così dire, il cuore di un ragazzino che legge L'Isola del Tesoro. Simpatizzo con voi, possa morire se non è vero, e se questo bel tipo avesse un qualche senso di...» «Io comunque ho il senso della correttezza» disse Holmes. La sua voce era talmente fredda che mi riportò con i piedi in terra. «Non scordate che dopotutto è stato commesso un assassinio, un vero assassinio.» Si voltò verso di me con espressione preoccupata. «Avete chiesto "Tutto qui?". Perbacco, amico, non capite... fogli manoscritti di Galland!» Fece un gesto vago come se io gli avessi chiesto "Cos'è la civiltà?" o fatto qualche domanda troppo difficile a cui rispondere. «La luce storica che getterà...» «Al diavolo la luce storica» esclamò Wade. «Non mi tocca. È stato commesso un assassinio. Ma che l'ispettore Carruthers ci guardi con occhio sinistro solo perché noi non siamo affranti e sconvolti per la morte di qualcuno che non abbiamo mai sentito nominare, non ha senso. Secondo
me, da un punto di vista umano è interessante il fatto che Le Mille e Una Notte abbiano preso vita. Il guaio è che. a voi queste storie non interessano affatto; a voi interessa soltanto un buon racconto terrificante come quello del sultano che ammazzò sei mogli perché getta un fiotto di luce sugli usi matrimoniali a Bassora sotto Hassan, il Rammendatore di calze nel millequattrocentouno. Ora ho raccolto qualche informazione da voi e dal vecchio tanto per poterne parlare con Rinkey Butler e aiutarlo a scrivere una storia poliziesca. Ma veramente tutto quello che so sugli asiatici è che si vestono in maniera buffa, che non fanno che parlare di Allah e vanno in giro ad ammazzare chi arraffa reliquie sacre. Il che è abbastanza. Non distinguo un persiano musulmano da un indiano indù. Però so che se non sto in guardia gli spiriti folletti mi acchiapperanno, e qui sta il segreto di una vita eccitante.» «Calma, signor Wade» intervenni notando che cominciava a eccitarsi e a dimenarsi sulla sua poltrona col dito puntato su Holmes. «Allora tutto ciò significa che voi non avete alcun legame col museo?» Holmes sorrise. «Proprio così. L'unica occupazione del Pagliaccio è la lettura: un libro insulso dopo l'altro. È da questo che viene il suo atteggiamento... gli psicologi lo chiamerebbero un meccanismo di difesa. A lui piacerebbe un mondo in cui tutte le cose diventassero un po' strane, dove si vedessero i vicari arrampicarsi sulle grondaie delle proprie chiese e il sindaco di Londra dicesse d'un tratto "No" quando la processione regale volesse oltrepassare il Tempie Bar. Gli ho detto un centinaio di volte che una cosa non diventa necessariamente più interessante solo perché vista capovolta. E il fatto puro e semplice è, Pagliaccio, che il mondo reale non è così.» «No?» dissi io. «Io sarei propenso a convenire col signor Wade.» Dopo una pausa, Harriet Kirkton mi apostrofò con un nervosismo esasperato e perplesso. «Oh, ma quando ci direte che cosa volete da noi?» gridò. «Perché continuate a girarci intorno... e... e, non so, ma c'è qualcosa di strano... perché"?» Dissi: «Perché, signorina, con tutta probabilità uno di voi mente. Quanto a stranezze, un vicario che si arrampica su una grondaia non è meno eccentrico dell'inserviente di un museo che danza intorno a una cassa da imballaggio inneggiando alla moglie di Harun-ar-Rashid. O di un cadavere con un ricettario di cucina in mano. Siete sicura di non aver niente da dirmi adesso?». «No!»
Esposi i fatti brevemente. Baxter borbottava e tirava pugni sul tavolo. Ma fu l'accenno al ricettario di cucina ciò che sembrò sconcertarli di più, tutti quanti. Holmes, sempre contenuto, ma con un'espressione di gelida furia in viso, si girò verso Jerry Wade. «Se non sapessi...» disse e deglutì. «Sembrerebbe opera tua. Un ricettario di cucina! Sarei quasi portato a credere che tu abbia qualcosa a che fare con questa storia.» «Sta' calmo, Ron» disse Baxter con improvvisa, brusca autorità. Allungò il collo guardandosi in giro. «Ma, ascolta, Pagliaccio. Voglio dire... non sei mica stato tu, vero? Dopotutto....» «Credeteci o no, io non so niente di questa storia» rispose semplicemente Jerry Wade. (Nondimeno sembrava molto a disagio.) «Un ricettario di cucina non è davvero abbastanza pittoresco per i miei gusti. Oh, mio Dio Signore! Bisogna fare qualcosa. Lasciatemi un po' in pace, voglio cercare di pensare. Quel tizio non sarà stato un capocuoco italiano?» «Be', anche se lo fosse stato, difficilmente avrebbe avuto il ricettario della signora Comesichiama, no? Voglio dire, non avrebbe ottenuto molti suggerimenti su come preparare il Soufflé à la Carmagnole, o una qualunque di quelle cose strane, il che è tutto ciò che la gente di quel tipo sembra sapere. A meno che non si trattasse di un crittogramma o di un codice o di qualcosa del genere. Voglio dire che "Bistecca e cipolle" significa "Scappa subito siamo scoperti". Sarebbe veramente un sistema diabolico per...» Holmes balzò in piedi. «Siete ubriachi» disse con gelida calma, «o vi viene fatto naturalmente di comportarvi come dei ragazzini, oppure non avete ancora capito che si tratta di una cosa seria?» «Siamo spaventati a morte» ribatté Wade altrettanto calmo, «se proprio vuoi sapere la verità. Avete altre carte nella manica, ispettore? Se non abbiamo ancora sviscerato la faccenda dei sacerdoti che si arrampicano sulle grondaie e...» S'interruppe guardando la porta, e tutti seguirono il suo sguardo. Io stavo da una parte, in piedi, e lì per lì il nuovo venuto non si accorse di me. Nella stanza aveva fatto capolino l'elmetto di un poliziotto. Era un grosso poliziotto con fasce bianche al braccio a indicare che era di servizio, e stava fissando astiosamente gli occupanti della stanza. «Nessuno di voi ha qualche spicciolo?» domandò. «Ne ho bisogno per pagare il taxi. Sacré nom d'un petit chauffeur rouge!... Che nottata! Si profilano grossi guai in vista, perciò piantatela di guardarmi in quel modo e tirate fuori gli spiccioli, forza!»
7 Il poliziotto che prese a calci il suo elmetto Prima che lui mi vedesse o che io avessi il tempo di fare qualcosa, il nuovo venuto si tolse l'elmetto con aria grave, lo posò per terra come un pallone da football e con un calcio lo scagliò dall'altra parte della stanza. L'elmetto mancò il lume per un pelo, sbatté contro la parete e rotolò indietro fin quasi sui miei piedi. Harriet Kirkton balzò su con un grido. «Vattene, cretino! C'è un vero...» Il nuovo venuto si girò di scatto. Vidi i numeri sul suo colletto e capii. Era un giovane poderoso con un amabile viso tondo ora velato di sudore e di preoccupazione. Sotto quelle poche ciocche di capelli neri di cui gli pendeva qualche ciuffo sulla fronte, stava diventando calvo. Cominciò a passarsi ininterrottamente la manica sulla fronte sudata mentre le sue palpebre si raggrinzivano per la tensione e gli occhi color grigio chiaro si guardavano attorno ansiosamente e gli angoli della sua amabile bocca socchiusa calavano in giù. Dava l'impressione di un uomo capace, pigro e in un certo senso pericoloso. Ma era il benvenuto. La sua presenza mi aveva dato la soluzione di almeno una parte di quell'incubo e ora sapevo come sistemare qualcuno dei pezzi che erano stati i più sconcertanti. Quando mi vide esitò, lanciò una rapida occhiata in giro e si ricompose in un ovvio tentativo di atteggiare la faccia a un'espressione impenetrabile tirando indietro il mento e indirizzandomi una specie di ghigno sinistro; se ne avesse avuto la possibilità, sarebbe arrivato a cacciarsi i pollici nelle tasche di un panciotto immaginario. «Vediamo un po'» cominciò con aria burbera. «Vediamo un po'.» «Siete piuttosto sibillino» dissi. «Io sono di Vine Street. Voi a quale zona appartenete?» Lui restò immobile, respirando affannosamente. «Sì» rispose, senza alcun nesso. «Sì, certo. Vedete...» «Il numero di matricola ZX105 non esiste. Chi siete e dove avete preso quell'uniforme e perché vi siete mascherato?» «Datemi una sigaretta, qualcuno di voi» disse l'altro quasi senza voltarsi. Gesticolò col braccio. «Volete sapere cosa succede, agente? Uno scherzo, tutto lì. Mi chiamo Butler, Richard Butler. Sono un cittadino rispettabilissimo.» Cercò di sorridere, a disagio. «Perché tante storie? Non c'è nulla di male ad andare a una festa in maschera.» «Una festa in maschera dove?»
«Per amor di Dio, Rinkey, sta' attento» borbottò Harriet Kirkton dimenandosi sul divano in preda a un'indecisione angosciosa. «È venuto a parlarci di un assassinio che, a quanto pare, è stato commesso al museo e noi gli abbiamo detto che non ne sappiamo nulla e che non ci siamo neanche avvicinati al museo, ma lui seguita a pensare...» «Ah» fece Butler fissando la mia spalla. «Una festa in maschera dove?» «Eh? Ah, da certi amici...» Esitò di nuovo, rabbuiandosi. «Dico, perché diavolo mi guardate come se avessi ammazzato qualcuno? Perché mi siete saltati addosso appena sono entrato?» «Ve lo dirò subito, signore, se venite con me. Stavo giusto per andarmene e se venite con me al museo per qualche minuto...» «Ah» ripeté Butler con lo stesso tono. Muoveva lentamente la spalla sotto la giacca. «E se non volessi venire?» «Non sei costretto ad andare, sai» intervenne Holmes. «Se telefono all'avvocato del signor Wade...» «Be', signore, il signor Butler è piuttosto pesante» dissi, «ma credo che ce la farei a portarlo via e non avrei che da rischiare qualche noia col vostro avvocato. Per giunta...» guardai Holmes e Jerry Wade, «vorrei che veniste anche voi due.» I pappagalli ricominciarono a strillare. «Statemi a sentire, benedetti sciocchi ragazzi. Calmatevi e ascoltatemi un istante. Non posso prendervi tutti quanti in collo e portarvi là, ma perché fare tanto chiasso inutile? Soltanto la semplice curiosità dovrebbe spingervi a fare del vostro meglio per aiutarmi e se non lo fate le autorità vi faranno passare qualche guaio... senza contare quello che dirà il vecchio Wade.» Accennare al vecchio fu un'ottima idea. Holmes si calmò, si passò una mano sui capelli e annuì gravemente. Jerry Wade, con aria di cupa reminiscenza, suonò un paio di strofe di For he's a jolly good fellow sulla sua armonica a bocca. E Butler, continuando ad asciugarsi il sudore sulla fronte con la manica, scoppiò a ridere: sembrò preso da un'allegria febbrile sotto la quale credetti di intuire il lavorio frenetico di una mente agile, e nonostante che il suo comportamento restasse piacevole, lo sguardo dei suoi occhi grigio chiaro acquistò una fissità particolare. «Giusto, figliolo» disse. «Non so cosa sia questo presunto assassinio, né perché d'un tratto sia diventato tanto importante. Ma verrò con voi tranquillamente, sempre che qualcuno mi dia degli spiccioli per pagare il taxi. Il conducente è sempre giù ad aspettare, il portiere è smontato, perciò non c'era nessuno per pagar...»
«Rinkey!» gridò la ragazza. «Non ti rendi conto che lui interrogherà il taxista? Non capisci perché vuole portarti giù?» «Ah, tutto qui?» esclamò Butler con un ampio gesto del braccio. «Io sono ben felice se lo interroga e magari posso appioppargli la spesa. Forza, datemi alla svelta qualcosa da bere, prima che me ne vada.» «Veniamo tutti al museo» dichiarò Baxter con aria ispirata come se qualcuno avesse proposto un festino. «Andremo tutti e presenteremo un fronte unito.» Bloccai quel proposito con una certa difficoltà. Non volevo con me né Baxter né la ragazza e mi stavo arrabbiando. Gli altri tre (Butler aveva raccattato l'elmetto e ingollato una buona dose di whisky) mi avevano preceduto fuori. Scendemmo in silenzio, sbirciandoci l'un l'altro con quello sguardo curiosamente assente che la gente assume quando è pigiata in un ascensore. Il taxista... un tipo cadaverico con la schiena curva e il naso paonazzo... non aveva voluto correre rischi: stava aspettando nell'ingresso in fondo alle scale. Mentre Wade lo pagava, io mi detti da fare. «Dove avete caricato questo cliente?» «Allora non è un poliziotto» esclamò il taxista con l'aria di chi ha la conferma di un fiero sospetto. «E voi sì, invece. Lo so. Aha. Orkney Hotel, Kensington High Street.» «Quanto tempo fa?» «Venti minuti.» «Usciva dall'albergo?» «No. Era fuori, sul marciapiede, camminava. Cosa succede, signore?» Guardai Butler, la cui faccia blanda aveva un'espressione soddisfatta e innocente. «No, non ero all'albergo» disse. «Ascolta, autista, sir Robert Peel qui presente non crede che io sia stato a una festa in maschera. Illuminalo un po', vuoi?» Il taxista era molto deferente. «Facile che ci sia stato, sir Robert» mi disse. «C'era un ballo in maschera due o tre portoni più in là, solo che era finito un po' prima. Al Pennington. L'associazione dei fabbricanti di cesti di vimini o qualcosa del genere.» Questo fu un colpo mancino per la teoria che stavo sviluppando, ma mi convincevo sempre più che la mia teoria doveva essere giusta, però, malgrado altre domande al taxista, non venne fuori nulla, così lo lasciai andare dopo aver preso il suo nome e il suo numero. Riprendemmo la nostra marcia con Wade e Holmes qualche passo indietro per poter interrogare Butler.
Raramente Pall Mall aveva visto processioni più strane. Quei tre erano piuttosto tesi e ciò si manifestava nella maniera sbagliata. Forse, fino a un certo punto, era la parziale conferma di quanto aveva detto Butler, ma secondo me più che altro era perché per la prima volta in vita loro stavano per vedere un uomo assassinato sul serio... una bruttissima faccenda dove il sangue non era l'inchiostro rosso del palcoscenico o l'ectoplasma delle novelle... il che li scioccava e provocava in loro, per reazione, un'allegria nervosa. Jerry Wade, che si era portato dietro l'armonica, dette la sua versione di Gli animali camminavano a due a due e io mi resi conto che mantenevano il passo al ritmo come soldati. Sebbene il corretto Holmes non uscisse con osservazioni che non si adattassero al suo cravattino nero e alla sua bombetta ben spazzolata, rideva stupidamente alle battute degli altri. In quella rigida strada polverosa, sotto una luna calante, l'ilarità era grottesca perché doveva culminare con la contemplazione della morte, e diventò molto poco divertente quando d'un tratto Butler si sporse in avanti e gridò «Buh!» all'orecchio di un distinto signore che stava scendendo gli scalini del suo club. «Vi diverte?» domandai quando riuscii a ottenere silenzio. «Sentiamo un po'. Immagino che direte che siete stato al ballo dei fabbricanti di cestini. Perché?» «Ci sono stato. C'era una bellissima operaia bionda...» Vide la mia espressione e s'interruppe. Nella sua faccia c'era di nuovo qualcosa di ambiguo e di astuto, come se lui si stesse preparando a un duello, e perfino disperatamente. «Statemi a sentire, ispettore, siete un brav'uomo per essere un segugio e vi dirò la verità. Sono davvero intervenuto a quel ballo di fabbricanti di cestini... Era una ditta che fabbricava motori, in effetti... e, incidentalmente, c'era davvero una bella bionda che mi ha anche dato appuntamento per domani da qualche parte. Ma io ci sono rimasto solo poco, più che altro per avere una scusa.» «Una scusa?» «Sì. Le cose stanno così: io scrivo racconti polizieschi, qualunque tipo di roba a sensazione per rivistucole americane con l'occasionale aiuto di Pagliaccio Wade. Il museo è inestimabile per materiale sulla maledizione di Kalì, o forse si tratta di qualcun altro. Ma più che altro volevo provare se c'era veramente un po' d'eccitazione e di colore per le strade. Ora vi domando quale occasione può avere un uomo per piombare proprio in mezzo al pericolo se non quella di indossare l'uniforme di un poliziotto e girare in...»
Si stava sempre più accalorando alla sua idea che, avrei giurato, gli era venuta in mente solo da pochi minuti, e al suono della propria bella voce. Quando si girò a guardarmi c'era qualcosa di consapevolmente ipnotico nel suo sguardo, qualcosa che, malgrado il suo ampio sorriso, mi fece l'effetto, in quella strada illuminata dal chiarore lunare, di falso e di viscido. «Tutto questo» dissi, «per dire che stasera non siete stato al museo Wade?» Si fermò di botto. «Al... Eh? No, non ci sono stato.» «Potete provare dove siete stato?» «Sarà un po' difficile. Maschere a quel ballo... e poi in giro per le strade... potrei tirar fuori la bionda, però» borbottò, quasi a se stesso. «Maledizione, ma se è per questo, voi potete provare che ero al museo? Cosa sta succedendo, comunque? Non so neppure perché devo dare tante spiegazioni. Sam Baxter farfugliava dì un certo Penderei che è stato ammazzato con un pugnale dal manico d'avorio, ma io non ne so assolutamente nulla. Potete provare che io ero al museo?» «Può darsi. Siete stato visto, sapete.» A quel punto si bloccò del tutto, fisicamente, voltandosi con un violento moto delle spalle, ma io lo spronai a camminare perché gli altri non ci raggiungessero. Dietro di noi l'armonica pareva mormorare che stavamo veleggiando al Chiar di luna, ma la faccia di Butler contrastava spaventosamente con quel poetico suggerimento. «Visto?» esclamò lui. «È una sporca menzogna. Chi ha detto che sono stato visto? Chi mi ha visto?» «Un uomo con la barba bianca finta. È uscito dalla porta posteriore del museo e si è arrampicato sul muro. Ora ascoltate! Ha visto il mio sergente che è della stessa vostra corporatura e vi somiglia un poco, eccetto nei baffi. Nella semioscurità quell'uomo ha visto il sergente mentre tentava di aprire la porta del museo. E ha detto: "L'hai ucciso e sarai impiccato per questo, mio bell'impostore. Ti ho visto nella carrozza". Lui non intendeva dire quelle cose al sergente: aveva scambiato il sergente per qualcun altro... Chi potrebbe essere stato?» Camminando molto lentamente e fissando davanti a sé, Butler disse una cosa strana: «Avete parlato di questo fatto agli altri?». «No.» «E dov'è questo testimone con la barba finta?» «Sparito.» «Sapete chi è?»
«Non ancora.» Butler si guardò attorno con fiero e violento compiacimento. «Magnifico, ispettore! Proprio come c'era da aspettarsi!... E sottile come carta velina. Non regge. Non potrete arrestare nessuno con un'accusa del genere. A cosa si riduce? Avete un testimone nobile e senza macchia (che non potete esibire, per giunta) con la mania di portare la barba finta, di arrampicarsi sui muri e di saltare addosso ai sergenti di polizia. Sulla base di parole senza senso dette da quel... per essere magnanimi... quel personaggio eccentrico, voi scegliete, su otto milioni, una persona che, si dà il caso, quella notte fosse a un ballo mascherato e può provarlo. (Anche l'altro potrebbe essere stato mascherato, ma lasciamo perdere.) Con questo, quindi, decidete che io ho ucciso un uomo che non ho mai sentito nominare e in un luogo dove non posso essere stato. Può un testimone attendibile, che non sia un fantasma e che era sulla scena e che può essere esibito... può asserire che io ero al museo? C'è il vecchio Pruen, per esempio, con vent'anni di servizio sulle spalle presso la famiglia Wade, e dieci anni al museo... Cosa dice lui? Dice forse che io stasera ero al museo?» «Be', ora come ora...» Butler mi guardò, sprezzante, scuotendo il capo. Proseguì: «Sinceramente, amico mio, non attacca. Dentro di voi potete pure pensare che io ci fossi. Non c'ero, ma non discutiamo su questo. Ho detto che potete pensare dentro di voi che io ero al museo, ma potete provarlo? Avreste il coraggio di presentarvi davanti a un magistrato con le prove che avete? Perbacco, amico» si stava scaldando con nuova eloquenza, «pensate al vostro caso così come sta! Voi sostenete che io ho pugnalato questo sconosciuto e poi ne ho cacciato il cadavere in una carrozza nella sala...» «Davvero? Nessuno ha parlato della carrozza nella sala. Come lo sapete?» Lui non batté ciglio. «Uh, be', l'avrò sentito dire da Sam o da Pagliaccio durante tutto quel parlottare là, nell'appartamento. Avete intenzione di fermarmi su una simile prova pazzesca?» «Quando il caso è pazzesco, anche le prove sono destinate a essere pazzesche. Ecco, siamo arrivati.» La grossa porta di bronzo non era completamente chiusa, il selciato era attraversato da una striscia di luce. Le finestre del primo piano erano illuminate: c'era un'atmosfera di febbrile attività in quei paraggi generalmente sonnolenti. Ma con mia gran rabbia notai subito una cosa: la macchina della polizia, dov'era stato l'agente Jameson con Mannering, era vuota. L'erro-
re era stato mio per essere andato via, ma se, contrariamente ai miei ordini, avevano permesso a Mannering di parlare con Miriam Wade, gliel'avrei fatta pagare. Prima di tutto dovetti barcamenarmi con una mezza dozzina di giornalisti e fotografi promettendo loro qualche informazione al più presto poiché, qualora non si fosse riusciti a scoprire l'identità del morto, avremmo dovuto diramare un appello per radio. Butler passò inosservato come un autentico poliziotto, ma furono scattate parecchie foto di Wade e di Holmes, il primo nervosamente compiacente e l'altro furioso. Hoskins, con l'agente Collins dietro di lui, stava aspettando accanto alla porta. Il sergente sgranò tanto d'occhi alla vista di Butler che gli rivolse un bel saluto. Ma la spavalda giocosità finì lì. In quel luogo c'erano troppi echi, la luce lunare artificiale era più suggestiva di quella reale, i mille colori dei tappeti spiccavano sulle pareti bianche, la fila delle carrozze era come in attesa, e così il morto, sempre disteso sulla schiena. La faccia di Wade sembrava un po' sconvolta, Holmes si tolse il cappello. Cominciarono a parlare a bisbigli. Ordinai che li accompagnassero a vedere il cadavere e poi li mettessero in un'altra stanza con Collins di guardia in modo che la loro conversazione non si facesse troppo interessante, dopo di che presi Hoskins da una parte. «Dov'è Mannering?» Hoskins esitò. «Be', signore, ho pensato...» «Vuoi dire che l'hai messo nella stessa stanza con la signorina Wade?» Il sergente si rabbuiò. «Ma io, signore, ho pensato che non c'era nulla di male. Anche voi eravate dell'idea che la signorina non c'entrava per niente in questa faccenda. E lei me l'ha chiesto... per un pelo non scoppiava a piangere... non c'è nessun pericolo, tranne che per la ragazza, se quell'individuo è un assassino, comunque Martin è stato quasi tutto il tempo con loro. Sono sempre là, nella stanza del conservatore.» Sebbene il sergente non muovesse le braccia, dava l'idea di un gran movimento. «Ascoltate, signore, ho tempestato Pruen di domande tentando di cavargli qualcosa, come mi avete ordinato...» «Lascia perdere. Ne hai cavato qualcosa?» «No, purtroppo, signore. Non dice niente! Soltanto "non lo so" oppure "mai sentito nominare" perfino quando gli si chiede il suo stesso nome e continua a dire che il signor Wade mi farà strappare i gradi. Però un paio di cose le abbiamo scoperte.» «Sì?» Hoskins alzò la mano e spuntò gli argomenti sulle dita.
«Primo, quella cassa da imballaggio. L'ho aperta, come mi avete detto. C'era qualcosa dentro, sicuro. Un affare, simile a una bara, molto vecchia, apparentemente, e di piombo, sopra un letto di segatura. Qualcuno ha messo della ceralacca lungo la linea di appoggio del coperchio. Io non ho fatto altro, signore, ho pensato che magari avreste voluto farlo da voi.» Era difficile dire se ciò confermasse le mie supposizioni oppure se fosse un altro smacco. Mi ero aspettato che in quella cassa non ci fosse niente, che facesse solo parte di qualche trucco o imbroglio per spiegare la malefica gaiezza di Pruen. Mi parve di risentire la mite voce di Holmes che diceva dolcemente come soltanto uno sciocco avrebbe potuto pensare che lì dentro vi potesse essere una bara del tipo che mi aspettavo; tuttavia intorno a Holmes c'era un'atmosfera falsa. Mentiva... o mentiva qualcun altro... e Pruen aveva ballato intorno a una vera bara in quel museo di pazzi. «C'è altro?» domandai. «Signorsì!» esclamò Hoskins. «Polvere di carbone! Carbone! Venite con me.» Guardando la parte in fondo del museo, come ho spiegato, c'erano, nella parete di destra, oltre la fila delle colonne, due arcate aperte contrassegnate con lettere dorate: "Galleria degli Otto Paradisi" e "Galleria dei Bazar". La prima, il cui nome aveva attirato la mia attenzione e sulla quale intendevo indagare, era verso il retro. La seconda era sul davanti, poco distante dalla porta di bronzo. Hoskins mi portò oltre quell'arcata larga circa tre metri ma così alta che sembrava meno ampia. Nella parte interna, le luci erano state accese per dare l'impressione di uscire da Londra ed entrare in Oriente o, per chi avesse una mente più prosaica, in un museo delle cere sotterraneo senza le figure di cera. La lunga stanza era stata sistemata per rappresentare una strada intersecata da altre strade contorte, e sul soffitto erano dipinti grovigli di rami e di foglie. Pareva la verosimile ricostruzione di un bazar orientale, abilmente illuminato in modo che lo si vedeva in una mezza luce attraverso i rami, perché la cosa che più ricordo è quel sinuoso gioco d'ombra e di luce. Contro le pareti di mattoni cotti, tinti di un rosso giallastro, i negozi e gli stand formavano come delle caverne dietro una foresta di tendaggi realisticamente lerci. C'era troppa roba per poter descrivere tutto. Rammento uno stand di armi, uno di collane e uno di lucenti ottoni e di ceramiche davanti al quale c'era una di quelle grosse pipe ad acqua chiamate hookah, con un cuscino dietro come se il fumatore si fosse appena alzato per andare dentro. Sopra tutto ciò, il gioco delle ombre dava la sensazione di intimità e
segretezza: si aveva l'impressione che il gran rumore del luogo fosse cessato soltanto al momento in cui si era arrivati nella strada. Era un'ottima illusione, così buona che io, meccanicamente, mi voltai a guardare la fila delle carrozze nella sala. «Strano posto, vero?» disse Hoskins grattandosi il mento. «Se dovevano uccidere quel tizio da qualche parte, mi domando perché non l'abbiano fatto proprio qui. Ho pensato ai miei bambini: se li portassi qua dentro, loro lo considererebbero il posto ideale per giocare a rimpiattino. E ora, signore! Collins ha frugato dappertutto. Niente che non vada, voglio dire... tranne questo.» Indicò una sporgenza del muro, in alto, dove la finta strada curvava, vicino a noi. Sul muro rosso-giallastro, al di sopra di una tenda davanti allo stand dell'ottone e delle ceramiche, c'era una chiazza nera a forma di stella. Polvere di carbone. Alcuni spruzzi avevano macchiato anche la tenda, insieme a lucenti particelle di carbone. Altri frammenti cospargevano il pavimento davanti allo stand, e venivano da un grosso pezzo di carbone i cui resti erano accanto alla pipa hookah. Hoskins disse: «Visto? Ecco? A quanto pare qualcuno è stato qui vicino al punto dove siamo noi ora, ha preso un grosso pezzo di carbone e l'ha tirato... bangi... contro il muro sopra questo boudoir. Cosa ne dite? Ma ora vediamo: perché? Perché qualcuno dovrebbe tirare carbone contro un muro? A cosa mirava il tipo? Non c'è niente lassù e nessuno potrebbe salirvi senza sconquassare tutto lo stand. Non penserete mica che giocassero alla guerra col carbone? Io non sapevo cosa potesse significare, ma poiché l'aveva notato Collins, ho pensato che fosse meglio farvelo vedere. Il tipo dev'essere stato proprio qui» disse Hoskins, che amava rendere le cose chiarissime a forza di ripetizioni, «e bang!, un pezzo di carbone proprio contro quel muro...» «Sì, l'ho capito. Hai chiesto a Pruen?» «Pruen non sa niente del carbone. Così dice. Di nessun carbone.» Riflettei. «Sergente, c'è, o Dio sa che ci dovrebbe essere, una spiegazione ragionevole perché tutte queste cose quadrino. Per quale ragione qualcuno dovrebbe gettare carbone contro un muro non lo so, come non lo sai tu. Come dici non poteva tirarlo contro nessuno; nessuno potrebbe arrampicarsi lassù senza mandare all'aria tutto il bazar... Trovato altro?» «Oh sissignore!» gridò il sergente, ghignando, scuotendo la testa su e giù. «Venite da questa parte!» Tornammo nella sala. Intorno al cadavere dello sconosciuto, il gruppo con Wade, Holmes, Butler e Collins cominciava a sfasciarsi: i primi tre si
stavano allontanando. Holmes dava l'impressione di sentirsi male, Wade era volutamente cinico e Butler del tutto inespressivo. «Mai visto» gridò Wade, e la sua voce rimbombò echeggiando in maniera tale che lui stesso trasalì. Poi, quando continuò a parlare tentando una parodia di gaiezza, la voce s'incrinò. «E ora cosa volete da noi? Abbiamo risposto compiacentemente a tutto. Se non avete obiezioni, Ron vuole andare nella stanza del conservatore per assicurarsi che ogni cosa sia in ordine.» Nonostante le loro proteste, li mandai nella sala contrassegnata "Galleria Persiana", sorvegliati da Collins. Holmes cominciò a spazzolarsi le maniche della giacca e riattaccò a parlare di un avvocato. Evidentemente, sebbene io avessi temuto che la voce del giovane Wade avrebbe fatto uscire di colpo Miriam e Mannering dalla stanza del conservatore, l'agente Martin teneva ogni cosa sotto controllo. A quel punto Hoskins mi guidò verso la bacheca da cui era stato preso il pugnale. «Ecco, signore, guardate qui. Avevate detto a Rogers di cercare impronte su questa bacheca, ricordate? Bene! E la porticina sul lato della bacheca era chiusa a chiave. Ma Collins se ne intende abbastanza di serrature, così quando Rogers gli dice che possono esserci impronte all'interno di quella porticina, Collins si mette al lavoro e te l'apre in un baleno con uno spillo piegato, vedete?» Si chinò ansimando e mosse avanti e indietro la piccola anta di legno. Poi infilò la mano dentro con aria da cospiratore e ve la lasciò. «Così abbiamo aperto. Ho frugato all'interno, così, e ho trovato ciò che prima non si poteva vedere perché è scuro e si confondeva col velluto nero. Eh? Ma c'era! Era accomodato lì, infilato attraverso questa porticina e sistemato sul velluto come se fosse un oggetto in mostra. Ed è questo.» Ritirò la mano alla svelta, si raddrizzò quasi aspettandosi un elogio e allungò la mano: sul palmo c'era un paio di baffi neri. 8 La bara di Zobeide è vuota «Così» riflettei, giocherellando col nuovo reperto ora nella mia mano, «abbiamo un altro pezzo per la nostra strana collezione. Qualcuno ha tolto il pugnale dalla bacheca e l'ha sostituito con un paio di baffi finti. Nessuna idea, sergente?» «N... no, signore. Tranne una cosa che ho potuto dedurre» rispose Ho-
skins con cupa modestia. «Quei baffi non appartenevano a lui.» Indicò il morto col pollice. «Primo, perché lui ha baffi veri. Secondo, perché anche se non li avesse avuti, questi baffi erano stati creati per un tipo di truccatura diversa, vedete? La barba di Penderei è come spruzzata di grigio qua e là perché lui sembri più vecchio, ed è di capelli... capelli veri. Questi aggeggi qui sono neri come la pece e fatti con materiale da due soldi, quel tipo di baffi che i ragazzini comprano per mascherarsi.» «Allora abbiamo una terza persona in ballo... uhm.» «Sembrerebbe, signore, vero? Gente che tira carbone contro i muri!» esplose Hoskins, il quale, per qualche ragione, pareva considerare quel fatto la parte più stranamente misteriosa di tutta la faccenda. «E che mette baffi finti al posto dei pugnali! Be', e ora cosa facciamo?» Mi assicurai che avessero chiamato il furgone per portare il cadavere all'obitorio fino a che non fosse stato identificato. Ci doveva pur essere qualcosa per l'identificazione nella biancheria intima del morto; ordinai che ne conservassero gli indumenti insieme con la barba finta e gli occhiali. Seppi che avrei avuto la classificazione separata delle impronte soltanto il mattino seguente; avevo quindi poco tempo per stendere un rapporto completo, dato che sembrava molto probabile che Scotland Yard mi esentasse dall'incarico. Perciò aggiunsi i baffi alla mia collezione di reperti e ritirai fuori dalla busta quel sudicio biglietto piegato e ripiegato su cui era dattiloscritto il messaggio trovato nella tasca di Gregory Mannering. Caro G. Ci vuole un cadavere... un vero cadavere. La causa della morte non ha importanza, ma ci vuole un cadavere. Combinerò io il delitto... quel khanjar col manico d'avorio andrà benone, oppure, se ci sembrerà meglio, organizzeremo uno strangolamento... Era arrivato il momento di avventarsi su Mannering il quale, a quel punto, doveva essere in uno stato sufficientemente nervoso per i miei scopi. Quel biglietto poteva essere la chiave di tutto il caso, con Mannering nel ruolo del bruto incidentale, tuttavia ne dubitavo. Se qualcuno mi avesse chiesto perché, non avrei saputo fornire una spiegazione abbastanza solida da reggere davanti a una Corte, tuttavia ne dubitavo. Allora cosa si poteva dedurre da quel biglietto? Era scritto su una normale carta da appunti, con un normale nastro nero e su una normale macchina per scrivere che non aveva alcun particolare
visibile a occhio nudo tranne una lieve sbavatura nella coda della virgola. Presumibilmente era stato scritto da una persona abituata a scrivere a macchina perché il dattiloscritto era molto pulito e senza quelle esitazioni che si notano in un novellino. Per giunta, a giudicare dal casuale riferimento al khanjar col manico d'avorio, era stato scritto da qualcuno che aveva molta dimestichezza con quel museo: il che restringeva il campo. Quanto al fatto che il biglietto era così sudicio... lo osservai di nuovo e mi sembrò probabile che quel sudicio fosse polvere di carbone. Quella stramaledetta polvere stava diventando onnipresente come le barbe. Ne grattai un poco su un foglio del mio blocco per appunti e la misi via per farla analizzare. Ma se fosse saltato fuori che era polvere di carbone uguale a quella delle grosse orme sulla porta principale del museo e le chiazze intorno allo stand nella "Galleria dei Bazar", cosa se ne poteva dedurre? Il biglietto era stato trovato nella tasca di Gregory Mannering... E a questo punto, signori, finalmente (proprio finalmente) al mio cervello ottuso apparve chiaro un semplice fatto, così ovvio sin dal principio, che neppure una fila di barbe appese a una corda da biancheria avrebbe dovuto offuscare. Ed era questo: il biglietto non poteva essere stato scritto per Gregory Mannering. Non poteva essere stato scritto per Gregory Mannering per la semplice e non molto complicata ragione che era incompiuto. S'interrompeva, e l'ultima riga era troncata a metà. Se scrivi un biglietto a qualcuno, puoi, per un motivo o per l'altro, omettere la firma. Ma non smetti all'improvviso a metà frase e a metà del foglio e poi cacci il biglietto in una busta e lo spedisci. In effetti quella lettera non era nemmeno piegata per entrare in una busta. Era stata ripiegata in un quadratino, molto schiacciata e piatta come se fosse stata sotto un peso... Per farla breve, lo scrittore di quel biglietto aveva fatto quello che fanno molti sbadati corrispondenti quando non hanno un cesto per la carta straccia a portata di mano. Le prime righe che aveva scritto non gli erano piaciute, oppure aveva deciso di non scrivere affatto, così aveva smesso. Poi, per levare di mezzo il foglio, lo aveva piegato e se lo era cacciato nel taschino interno della giacca dove c'erano altri fogli che lo avevano pressato. Mannering, dunque, non aveva mai ricevuto quel biglietto, ma lo aveva forse scritto lui? Era stato trovato addosso a lui, ma io non ritenevo nemmeno probabile che lo avesse scritto lui. Per cominciare, era stato trovato nella tasca del suo cappotto e messo lì con abbastanza noncuranza da scivolare fuori. Non ti siedi alla macchina
per scrivere col cappotto... un cappotto da sera, per giunta... e anche nel caso improbabile che tu cacci biglietti incompiuti nella tasca di un cappotto da sera, non lo metti prima in qualche altra tasca dove tieni altra roba così da schiacciarlo, poi lo levi, lo sporchi con polvere di carbone e lo rimetti in tasca con tale noncuranza che sbuca fuori. Cominciava a sorgere l'idea che Mannering non avesse ricevuto né scritto quel biglietto. Cominciava a sorgere l'idea che lui lo avesse raccattato da qualche parte e se lo fosse cacciato frettolosamente in tasca. Il biglietto era datato "mercoledì", il che significava che poteva essere stato preso in qualunque momento durante due giorni o in qualsiasi giorno dopo una dozzina di precedenti mercoledì, per quanto ne sapevo... e, nonostante la mia ipnotizzata disposizione a vedere polvere di carbone dappertutto, poteva essere stato raccattato ovunque, sia nell'immensa Londra sia nelle vicinanze di quel museo. Sebbene tutto ciò fosse basato su supposizioni, nondimeno la figura di Mannering nel ruolo del sinistro bruto cominciava a svanire e a sciogliersi come neve al sole. Ora mi ritrovavo irragionevolmente furioso con me stesso per non essermi scagliato su Mannering prima di scoprire tutto ciò: non avevo più tanto entusiasmo. Nell'eventualità che succedesse qualcosa prima che mi sbollisse completamente la rabbia, mi precipitai nella stanza del conservatore. C'erano quattro persone là dentro che alzarono lo sguardo, ognuno a suo modo, al fruscio della porta. In un angolo, tutto raggomitolato, Pruen era seduto con un album da disegno sulle ginocchia ossute, e con gesti nervosi scopriva le carte di un solitario. Dietro di lui c'era Martin che, con aria indifferente, sbirciava al di sopra della spalla di Pruen con l'espressione di chi sta per consigliare di mettere il nove nero sul dieci rosso. Ma all'estremità della grossa scrivania di mogano, sul punto di scattare in piedi e con le mani aggrappate ai braccioli della poltrona, Miriam Wade guardò la porta col viso chiazzato di lacrime versate e con un'espressione rabbiosa che non era indirizzata soltanto contro di me... Contro Mannering, allora? Ci doveva essere stata una qualche lite o un'esplosione di sentimenti lì dentro, una di quelle silenziose esplosioni che aveva lasciato tracce nell'aria. Le ondate di quell'esplosione arrivarono a me quando Mannering, girandosi, smosse l'aria: era stato in piedi, eretto, le braccia conserte, voltando quasi le spalle alla ragazza e fissando una cassaforte a muro dall'altra parte della stanza con un'espressione simile a quella di uno scassinatore. I suoi capelli scuri, la sua faccia severa, le sue sopracciglia cespugliose si notavano ancora di più. Inquadrato in quell'ambiente
moresco che, in un certo qual modo, era più esotico di una stazione di polizia, aveva l'aspetto davvero imponente. Il suo sorriso riapparve lentamente, cupo. «Ah, ispettore» disse lui salutandomi con intensa, satanica dolcezza. «Cominciavamo a pensare che ci aveste abbandonati e ve ne foste andato a casa.» Pruen s'interruppe con una carta a mezz'aria. La sua voce stridula s'incrinò. «Grazie a Dio siete tornato» gracchiò. «Non valete un gran che, ma almeno siete un essere umano. Forse riuscirete a convincere questo sciocco qui a piantarla di litigare. La signorina Miriam ne è sconvolta...» Lei gridò: «Pruen!» e lui si afflosciò borbottando sulla sedia come se lei gli avesse sparato. Poi la ragazza rivolse la bella faccia arrossata verso Mannering con le lacrime ancora sulle ciglia e l'espressione confusa e contrita. Certa gente ha tutte le fortune. «Sinceramente, Greg, non intendevo dire quello che ho detto. Ero così sconvolta, e poi questa storia incresciosa di dover stare qui per forza» mi lanciò un'occhiata velenosa, «mi aveva quasi fatto andare fuori di me...» «Cerca di non pensarci più, carissima» disse Mannering, «eravamo sconvolti tutti e due.» Le dette una pacca affettuosa su una mano. «Me la vedrò io con l'ispettore.» «Signorina Wade» dissi. «Vostro fratello è qui, adesso. Nell'altra stanza, col signor Holmes e il signor Butler. Se volete andare da loro, stanno aspettando. Non sanno che siete qui. Pruen, andate anche voi.» Lei volò via dalla stanza con una tale precipitazione che parve amareggiare Mannering doppiamente. Quest'ultimo rimase lì, ritto, stringendo e aprendo le mani, poi si sedette accanto alla scrivania. Sulla soglia, quando la ragazza e Pruen furono spariti, sussurrai a Hoskins: «Fa' uscire Collins da quella stanza. Lasciali parlare, ma ascolta». Alla fine, congedando anche Martin, mi avvicinai a Mannering col mio blocco per appunti. Mannering non dette l'impressione di averlo notato. Se ne stava seduto prostrato sulla sedia, con un atteggiamento d'un tratto così naturale e triste che il suo strabismo tornò a sembrare quasi una deformità. L'atmosfera era cambiata: c'era come un abbassamento di pressione o di vitalità. Lui continuava a starsene seduto strusciandosi i pollici sugli indici delle mani strette a pugno, e dimenandosi un poco. Quando parlò, le sue parole scaturirono fuori scoppiettando come se le sparasse. «Cosa c'è che non va in me?» disse. «Che non va?»
«Sì, sapete cosa voglio dire. Sono un essere umano. Me ne frego di quei porci... me ne sono sempre fregato di quello che potevano pensare, finché... finché questa dispettosa valvola qui...» si premette la mano sul petto, sotto il cuore, «non ha cominciato a fare le capriole. Non posso fare nessuna delle cose che prima facevo senza neppure pensarci. Io tento di fare... ma poi qualcosa s'incrina, e sapete cosa succede. E dare l'impressione del cretino integrale mi fa imbestialire» disse contraendo le mascelle, a bassa voce, ma con una violenza tale che la sua faccia si fece paonazza. «Mio Dio, se c'è qualcosa a questo mondo che detesto, è fare la figura del fesso...» Involontariamente mi ritrovai a provare quasi simpatia per quell'uomo. «Non credete» dissi, «che se provaste a pensarci meno e a dimenticare...» «Pensarci! Pensarci! Dite a un uomo di camminare in una stanza e di evitare di guardare le pareti. Ditegli di andare a teatro e di non guardare il palcoscenico. Siete sempre in prima linea, davanti ai vostri stessi occhi, o almeno così è per me... e fino a poco tempo fa avevo pensato che fosse giustissimo. Mi piaceva essere in prima linea davanti ai miei occhi» continuò con arroganza del tutto inconsapevole, «perché era giusto e io non potevo sembrare più fesso di... Ma qualcosa è cambiato... all'improvviso... e ora mi tocca vivere di rendita, e parlare, parlare... Badate, ho fatto tante cose, le ho fatte veramente, e non vorrei parlarne, ma qualcosa mi spinge a farlo, e quando lo faccio, tutto viene fuori così schifoso, e io stesso mi accorgo di sentirmi idiota. Mi capite? Così ho cominciato a insultare la gente. Ripensandoci, nei tempi passati la insultavo... ingenuamente, perché ho della gente in generale un'opinione estremamente bassa...» Mannering fece quella dichiarazione con serenità, calmissimo, «ma ora lo faccio deliberatamente. Ho pensato in modo particolare a questo in rapporto a quelle persone del gruppo di Miriam...» «Le conoscete?» «Conosco soltanto Holmes e la Kirkton. Dissi che non avevo alcun desiderio di conoscere gli altri» la sua voce era fredda, «perché non mi interessavano particolarmente. Ricordo che Miriam aveva una fotografia di quel tizio, quel Sam Baxter... uno di quegli ingrandimenti a colori: lei ha gusti puerili... e io feci un esatto parallelo scientifico, fino al più piccolo dettaglio, tra lui e uno di quegli scimmioni rossi della penisola malese.» «Molto scientifico, senza dubbio.» Lui meditò un poco. «Be', naturalmente era un po' esagerato. Ma quando Miriam saltò su a dirmi che Baxter, dopo non più di otto mesi alla legazio-
ne del Cairo, sapeva parlare arabo come un egiziano, reagii come meritava.» Il sorriso fu di nuovo sostituito da un'amara perplessità. «Perché non li voglio conoscere? Perché? Potrei sopraffarli, potrei mettere fuori combattimento per una settimana ciascuno di loro, potrei... ma mi sono reso ridicolo con un baule pieno di chincaglieria... e poi sono svenuto come una scolaretta...!» Balzò su dalla sedia. «Non serve. Dovrò cavarmela da solo. Vi sto dicendo tutto questo in parte per sfogarmi e in parte per spiegare perché mi sono reso ridicolo nel vostro ufficio stasera. Non so cosa mi era successo, a meno che non fosse a causa della lite col vostro poliziotto. Sono crollato, semplicemente. Per quale motivo mi sarebbe dovuto capitare al solo accenno di un uomo con la barba bianca che assale il vostro sergente? Perché? Non lo so. Ma non so neanche cosa possa essere successo qui stanotte e certamente non avevo mai visto il morto in vita mia.» Dopo essersi sfogato, tirò un lungo respiro e io sentì che stava cercando di riadattarsi al suo ruolo, di ridiventare minaccioso o baldanzoso come si conviene al personaggio di un soldato di ventura. Di nuovo l'atmosfera cambiò sottilmente. Da come mi sorrideva, dall'espressione sprezzantemente disinvolta e dall'atteggiamento che assunse, era chiaro che stava per fare qualche osservazione tipo: "Basta con queste buffonate! Gregory è di nuovo se stesso!". Ma dovetti sviarlo. «Se non sapete niente di questa faccenda» dissi, «dove avete preso questo biglietto?» Lo posai sulla scrivania. Lui aggrottò la fronte e lo fissò (quasi per farsi coraggio) ma non sembrò affatto allarmato. Dopo aver fissato il biglietto per un momento, alzò lo sguardo. «Così lo avete raccattato al posto di polizia» disse. «Pensavo di averlo perso là. Se volete sapere la verità, l'ho preso nell'appartamento di Holmes.» Mi guardò direttamente negli occhi senza fare un gesto. «Nell'appartamento di Holmes... quando?» «Stasera, proprio prima di venire al museo.» «Ma mi pareva d'aver capito che la riunione al museo era stata rimandata. Se siete andato in casa di Holmes... a che ora?» «Alle undici meno venti.» «Be', allora gli altri non vi hanno detto che la riunione era stata rimandata?» «No, non me l'hanno detto» replicò, piatto, Mannering. «Vedete, non c'era nessuno.»
Per non fargli notare l'importanza di quella frase, e per preparare in qualche modo il mio attacco, feci il giro della scrivania, rilessi il biglietto e lo rimisi giù. «D'accordo» dissi. «Sentiamo cos'è accaduto.» «Come vi ho detto, dovevo essere al museo stasera alle undici. Miriam e suo fratello dovevano andare a una cena o qualcosa del genere e da lì sarebbero venuti al museo: io non dovevo accompagnarla. Ma mi era venuta l'idea di presentarmi al museo con qualcuno per... per non sembrare troppo un estraneo.» Strinse i denti con forza. «L'unico che conoscevo era Holmes. Così, come dicevo, sono andato in Prince-Regent Court alle undici meno venti. Il portiere ha detto che c'era un party di sopra e non voleva lasciarmi salire. Ma io naturalmente sono riuscito a salire lo stesso.» Esitò. «Ho bussato e nessuno mi ha risposto. Dall'interno non veniva alcun rumore. La porta non era chiusa a chiave: sono entrato. L'appartamento era deserto; ma io non capivo come mai, dopo quanto aveva detto il portiere. In un salottino sul retro c'era un fuoco acceso evidentemente da poco. Quel biglietto era in mezzo alla polvere sul focolare, vicino al fuoco, aperto. Aperto, non come ora, piegato. Io...» stringeva le mascelle e il suo viso si era fatto rosso cupo. Parlava come un sonnambulo, «l'ho raccattato e l'ho letto. Poi me lo sono messo in tasca.» «Perché?» «Un motivo c'è, ma non ho intenzione di dirvelo.» (Pareva lì lì per esplodere, le sopracciglia nere erano di nuovo calate giù a V e sotto di esse gli occhi azzurri erano assenti. La sua voce era diventata pastosa.) «C'è un motivo ma non vi riguarda.» «Avete nessuna obiezione a che gli altri lo sappiano?» «Nessunissima.» Andai sulla porta, l'aprii e dissi a Martin che era là fuori: «Vai a prendere tutti gli altri e portali qui. Prima di farli entrare chiama Collins e... sai quella grossa cassa da imballaggio con la bara di piombo dentro che il sergente ha aperto? Be', trascinala qui». Mentre Mannering restava dritto, silenzioso e con gli occhi fissi sullo sportello aperto dell'ascensore dall'altra parte della stanza, io feci quello che avrei dovuto fare prima. In un angolo della stanza sontuosa, come ho accennato, c'era un tavolino pieghevole per la macchina per scrivere. Tirai fuori la macchina: era una Remington 12, modello standard, con nastro rosso e nero. Su un foglio di carta che presi in un cassetto del tavolino, battei un paio di righe. C'era la stessa sbavatura alla coda della virgola. Coin-
cidenze a parte e previo esame degli esperti, il biglietto che Mannering aveva trovato nell'appartamento di Holmes era stato scritto su quella macchina. Lasciai di proposito il foglio nel rullo mentre Martin e Collins, portandosi dietro una scia di segatura, spingevano dentro la cassa. Il coperchio era stato tolto e da un letto di segatura spuntava la parte posteriore di una cassa di piombo curvilinea di circa un metro e ottanta. Il piombo era quasi corroso ma, soffiando via la segatura, mi parve di distinguere dei caratteri arabi scolpiti sul coperchio. Lungo la linea d'appoggio del coperchio c'erano dei sigilli moderni di ceralacca rossa. Collins mi stava porgendo un'accetta e uno scalpello quando la porta si aprì nuovamente. Per prima entrò Miriam, il cui sguardo si posò immediatamente su Mannering. Dopo di lei entrò Jerry Wade; poi Holmes, poi Pruen e per ultimo Butler col suo elmetto da poliziotto sempre sulle ventitré. Ma era l'unico segno di allegria, perché tutti fissavano Mannering: e in effetti con tanta concentrazione che non notarono nemmeno la cassa finché Jerry Wade non vi inciampò contro. «Cosa diavolo è quest'affare?» domandò, e la sua voce familiare, querula, parve alleviare la tensione. In un certo senso quell'avvizzito piccolo gnomo, in apparenza il più fuori posto nella stanza, sembrava il più umano. «Mi sarò scorticato gli stinchi un miliardo di volte contro aggeggi strani qua dentro, ma cosa diavolo è questo, in nome di Allah?» «Lo scopriremo» dissi. «Può essere, o anche no, la moglie di Harun-arRashid. A proposito...» Fu Miriam che, ansiosamente, fece le presentazioni tra Mannering, Wade e Butler, sorridendo con l'aria di sperare che tutto andasse bene. Sebbene poco prima, nel mio ufficio, Mannering mi fosse sembrato un tipo cordiale, ora non porse la mano. «Oh, sì, certo» disse. «Credo di avervi sentito nominare entrambi. Però Miriam non mi aveva detto che il signor Butler era un poliziotto.» Feci un cenno, e Martin e Collins attaccarono a lavorare sulla cassa con accetta e scalpello. Bastò spaccare i sigilli e tirare il coperchio. Il rumore dello scalpello parve ridestare Holmes il cui sguardo, fin allora, aveva vagato per la stanza; prima sulla cassaforte a muro, poi sulla macchina per scrivere e di nuovo sulla cassaforte. «Non vedo proprio lo scopo di questo...» esclamò con voce piuttosto stridula indicando la cassa. «Perché l'avete fatta portare qui? Non è nuova, è in mostra al piano di sopra tra le cose arabe da anni, e non è che un cofa-
no arabo. Non c'è niente dentro. Che razza di idea vi siete cacciato in testa, ora, ispettore? Uhm, a proposito, vorrei sapere chi si è preso delle libertà con la mia macchina per scrivere.» «Ecco fatto, signore» disse Collins. «Dobbiamo alzare il coperchio? Sull'altro lato ci sono dei cardini.» «Alzalo» dissi e mi tenni pronto. Tutti restarono in silenzio e si scambiarono occhiate con espressione sconcertata, come se non sapessero quale atteggiamento assumere. Per un paio di secondi, mentre i due poliziotti trafficavano intorno al coperchio, si udì soltanto un forte scricchiolio. E anche il mio cervello era pieno di pensieri nebulosi come se la cosa peggiore che avremmo potuto trovare in quella cassa non fosse polvere persiana e neppure un altro cadavere, ma semplicemente una barba finta. Alla fine il coperchio venne sollevato con uno stridente cigolio ora mescolato alle sghignazzate di Pruen. Non c'era alcunché nella cassa. Era foderata d'acciaio e non c'era niente dentro, neanche polvere di Londra, dell'aria di Londra. Era pulita. «Bene, ragazzi» dissi. Il coperchio ricadde giù con un tonfo. «Glielo avevo detto, io, che non c'era niente dentro» la voce di Pruen si levò insieme a una solenne risata. «La signora di Harun-ar-Rashid, dice! Glielo avevo detto che non c'era niente dentro.» Quando alzai lo sguardo, vidi il pallido sorriso di Holmes. «Con ciò la questione è chiusa, no? Povera Zobeide! Comunque posso assicurarvi che non la troverete in nessun cofano arabo. Siete disposto a credermi, ora?» «Non necessariamente in tutto» risposi, e tirando fuori di tasca il biglietto, lo spiegai lentamente. «Avete scritto voi, questo?» «Scritto cosa?» «"Caro G, ci vuole un cadavere... un vero cadavere. La causa della morte non ha importanza, ma ci vuole un cadavere. Combinerò io il delitto... quel khanjar col manico d'avorio andrà benone, oppure, se ci sembrerà meglio, organizzeremo uno strangolamento..." Guardatelo! L'avete scritto voi?» «No di certo» disse Holmes, e dietro le grosse lenti il suo viso divenne pallidissimo. «Di cosa diavolo state parlando? Non tentate di spaventarmi, amico! Che idea ridicola...» «È stato scritto con la vostra macchina per scrivere. Lo negate?» «Mio caro signore, io non affermo e non nego niente. Non lo so. Io non l'ho scritto. E non lo avevo mai visto.» Holmes indietreggiò di un passo. La sua faccia piacevole, equilibrata, disapprovante, era rigida come lo sguardo dei suoi miti occhi azzurri.
«Un momento, ispettore!» disse Jerry Wade, con un sobbalzo. «Accidenti, se...» «Chiudi il becco, tu, Pagliaccio» lo interruppe Holmes in fretta, quasi dolorosamente, «lascia che me la sbrighi io. Dite che è stato trovato in casa mia. Trovato da chi?» «Dal signor Mannering. E c'è un'altra cosa. Avete detto che siete stato, con gli altri, nel vostro appartamento tutta la sera, dalle nove in poi, vero?» «Certo.» «Ma il signor Mannering è andato là alle undici meno venti e non c'era nessuno. Nessuno nel modo più assoluto.» Da un gruppo immobile accanto alla porta, gruppo che adesso era diventato un fronte compatto in più d'una maniera, venne fuori Richard Butler. Si era spinto l'elmetto all'indietro - sorretto dalla cinghia sul mento - un effetto grottesco sopra quella sua faccia tonda e pesante dove i sonnacchiosi occhi grigiastri erano lievemente strizzati. Con le mani in tasca, si avvicinò lentamente a Mannering. «Tu, sporco spione» disse, calmissimo. Mannering lo guardò. «Scelgo te per questo» disse Mannering, «perché sei il più grosso.» Come dicevo, Butler aveva le mani in tasca, ma anche se le avesse avute fuori delle tasche, mi chiedo se avrebbe avuto il tempo di parare. Mannering dovette essere stato almeno cinque volte più veloce di un serpente a sonagli perché nessuno vide quello che accadde. Più tardi Collins mi disse che il suo pugno doveva aver percorso soltanto una trentina di centimetri. Ma noi non ce ne rendemmo conto, ci accorgemmo solo del fatto che qualcosa parve esplodere in Mannering come una bomba. Quando riuscii a vedere la sua faccia, per un secondo, oltre la spalla di Butler, fu la faccia di un pazzo quella che vidi, e udii soltanto un rumore piatto, secco. Poi, senza un gemito e tranquillamente, come di propria volontà, Richard Butler scivolò sulle ginocchia e si ripiegò su se stesso sul sontuoso tappeto. Nel silenzio si udì il sibilo del respiro di Mannering, e nessuno si mosse. «È stato giusto, lo ammetto» disse Jerry Wade, in mezzo a quel silenzio, «ma con ciò credete di aver provato di essere meno fesso?» Per un istante credetti che Mannering si lanciasse su di lui ed ero pronto a rompergli il braccio se ci avesse provato. Ma lui, respirando sempre debolmente e pallidissimo sotto l'abbronzatura, prese cappello e bastone dalla scrivania. «Mi dispiace di aver messo fuori combattimento un testimone, ispettore»
disse, tranquillo, «ma si riprenderà in cinque minuti. Avete ancora bisogno di me?» «Grazie» risposi. «Ma per questa sera basta e avanza. Bene. Potete andarvene a casa.» «Con questo, signori» disse l'ispettore Carruthers concludendo, «termina il mio rapporto ufficiale sul caso. Il risultato dei miei appunti vi verrà spiegato da uomini migliori, comunque mi è stato ordinato di darvi tutti i particolari dell'inizio di questo delitto insieme alle descrizioni e alle mie impressioni personali dei personaggi della vicenda. Può essere che per alcune si tratti soltanto di pregiudizi e chi mi sostituirà potrà correggerle. Dovete considerare solamente i fatti che vi ho esposto; io non sono riuscito a cavare altro da quelle persone sebbene le abbia interrogate fino alle quattro del mattino. Mantennero un fronte compatto. «Qualunque mia ipotesi non ha più alcun valore perché alle dieci del mattino seguente tutto il caso venne capovolto. E capovolgendosi spiegò ogni particolare delle precedenti cose insensate su cui mi ero tanto arrovellato... ma, sfortunatamente, furono sostituite da altre cose insensate. «Non tornai a casa quella notte. Dormii qualche ora al posto di polizia, poi mi misi a lavorare al mio rapporto. Rapporto che mi portò via parecchio tempo e stavo terminandolo quando il sovrintendente Hadley mi telefonò per dirmi che ero atteso all'ufficio del vice alto-commissario a Scotland Yard. Quando vi arrivai, poco prima delle dieci, trovai sir Herbert Armstrong che camminava su e giù per la stanza ora sghignazzando ora imprecando su una lettera. Quella lettera faceva il punto di tutto lo sbalorditivo caso. Ne accludo la copia. È datata sabato quindici giugno, Orkney Hotel, Kensington, ore una ed è indirizzata personalmente a sir Herbert. La calligrafia mostra uno stato d'animo in preda all'eccitazione. Signore, È con infinita riluttanza e non senza apprensione e il senso della più profonda vergogna che scrivo queste righe. Ma ho interrogato il mio cuore e so che il dovere mi obbliga a farlo. Durante vent'anni di umile (ma, confido, non inutile) servizio come pastore della Chiesa presbiteriana John Knox di Edimburgo, mi sono trovato abbastanza spesso coinvolto in situazioni che potrebbero definirsi dolorose o imbarazzanti. (Forse avrete letto nelle colonne dell' "Ecclesiastico Protestante" le mie divergenze d'opinione col Moderatore riguardante la questione del piatto della questua e
cioè se doveva essere passato da destra a sinistra invece che da sinistra a destra, una controversia che per poco, temo, non divenne astiosa.) Né sono, credo, uomo di vedute ristrette. Non vedo alcun male nel gioco delle carte o nella salutare distensione del ballo, e sono sempre più convinto che la depravazione della vita sociale della Chiesa sia stata sopravvalutata. Anche se sono stato sempre propenso ad adottare punti di vista provinciali, i miei lunghi viaggi in Oriente che comportarono contatti con uomini e usi di altri paesi dovrebbero aver allargato (per modo di dire) la mia mente. Scrivo questo per dimostrare che non sono privo di esperienza pratica o di vedute liberali, però mai nei miei più arditi sogni avrei immaginato che io, ministro della Chiesa scozzese, mi sarei volontariamente appiccicato alla faccia una barba finta, che sarei sgattaiolato via da un edificio attraverso un mezzo d'uscita offerto dalla finestra di una toilette e che da lì sarei sceso mediante l'aiuto di una grondaia, che avrei scavalcato un muro, che avrei assalito con ferocia un poliziotto il quale, ora me ne rendo conto, non aveva fatto alcun male e finalmente che sarei svanito da quella deplorevole scena per mezzo di uno scivolo del carbone. Queste cose, è inutile aggiungere, non furono fatte per divertimento, e neppure posso sostenere di essere stato sotto l'influenza dell'alcol, della droga, dell'ipnosi o di un incantesimo. Ma non è tutto qui, altrimenti, temo, non mi sarei mai sentito spronato a parlare. Per farla breve, ho visto commettere un delitto e, incurante delle conseguenze per la mia persona qualora questi particolari dovessero diventare di dominio pubblico, devo parlare. Se mi permetterete di venire a porgervi i miei rispetti questa mattina alle undici e mezzo precise, avrete, insieme, la mia più profonda gratitudine e la mia più profonda umiliazione. Sinceramente vostro, William Augustus Illingworth PARTE SECONDA DEPOSIZIONE DEL VICE ALTO-COMMISSARIO SIR HERBERT ARMSTRONG 9
Davanti alla porta di bronzo: come il dottor Illingworth sostenne il ruolo di Alì Babà Be', ragazzi, quando il mio segretario mise quella lettera sulla mia scrivania alle nove del sabato mattina, io restai sbalordito. Sì, zucconi miei, sbalordito. Ma ciò che più mi fece andare in bestia era il fatto che quel tipo non concludeva. Se c'è una cosa che mi piace è vedere qualcuno che va diritto al nocciolo della questione. Non esiste nulla al mondo su cui valga la pena soffermarsi, tranne forse una buona cena col tipo giusto di Borgogna... Non venite a dirmi che non va bene per la linea. Cosa c'è che non va in un po' di pancetta se la carne è soda? Guardate la mia. Dura come il ferro. Cosa cavolo stavo dicendo? Piantatela di sviarmi. Ah, sì, voi, Carruthers, il vostro guaio è che avete troppi istinti da gentiluomo per arrivare da qualche parte. Ecco, io non li ho. È per questo che sono capace di organizzare un dipartimento di polizia, una ditta per la produzione del burro o qualunque altra cosa, e tutti sanno che se non si danno da fare e non lavorano, io ballerò sulle loro tombe. Diritti al sodo. Trattarli duramente. Grrr. Così son fatto, io. Quindi, come dicevo, alle nove del mattino il mio segretario entrò e mi sibilò all'orecchio... È un'abitudine che ha preso. Sono cinque anni che penso di licenziare quell'uomo e per giunta credo che sia stato proprio lui ad avere avuto la sfrontatezza di cominciare a chiamarmi Paperino dietro le spalle. Mise la lettera sulla mia scrivania con aria solenne e io la lessi. Dissi: «Chi è questo Illingworth?». Allora lui corrugò la fronte, si grattò la pera e alla fine rispose: «Direi che è uno scozzese, signore». Dissi: «Lo so maledettamente bene che è uno scozzese. Ma io ti sto chiedendo chi è. Sai niente di lui? Dov'è andato a finire il Who's Who? Inoltre cos'è questa storia della barba finta? Cretinate! I pastori evangelici non portano barbe finte!». «Be', signore, questo qui sì» puntualizzò lui. «Forse in Scozia fa parte di un rituale. Comunque, cosa intendete fare? Penso che dovrei dirvi del rapporto ricevuto stamane. Un uomo, non ancora identificato, è stato assassinato stanotte al museo Wade. Secondo il sovrintendente Hadley, potrebbe avere qualcosa a che fare con quella faccenda.» Mi dette i primi scarsi particolari e io rimasi talmente sbalordito che per qualche minuto non mi preoccupai neanche di contraddirlo. Vedete, conosco Jeff Wade da molto tempo, da prima che facesse quattrini, siamo nati
entrambi nello stesso villaggio nel Somerset. Ha sempre avuto il pallino delle rovine... si divertiva molto di più in mezzo alle rovine che a gozzovigliare in una taverna... ma non era così colto e nebuloso come crede di essere oggi. Ricordo Jeff Wade sulla strada tra High Littleton e Bristol (era sprofondata nella polvere, quella strada) che, con un vestito a quadri e un cappello a bombetta dalla tesa ondulata, cercava di andare su una schifosa, scalcinata bicicletta con un sellino alto due metri da terra. Procedeva vacillando come un uomo sui trampoli, ogni dozzina di metri cadeva, e una volta piombò perfino a testa in giù sulla bombetta, ma rimontava sempre. Così era Jeff Wade. Un contadino che era appoggiato a una staccionata e che, evidentemente, credeva che si trattasse di una penitenza, gli domandò: "Cosa state facendo, signor Wade?". Jeff rispose: "Ho spaccato la mia stramaledetta bombetta, ma perdio, arriverò a Bristol anche dovessi spaccarmi lo stramaledetto...". E lo fece. Non voglio dire che se lo spaccò, ma che arrivò a Bristol. Anche allora coltivava quei baffoni come spade che gli spuntavano dai lati della faccia; era un ragazzo basso di statura, robusto. Poi andò al nord e fece i milioni con pantaloni o biancheria o roba del genere. Lo strano in Jeff Wade era l'odio che aveva per gli stranieri, specialmente per quelli di pelle scura. È perfettamente logico che ora il suo interesse principale sia per le rovine persiane o egiziane, sebbene immagino che consideri giusto che quegli stranieri siano morti: noi inglesi in genere la pensiamo così, ma non fino a quel punto. Comunque lo ricordo sempre barcollante su quella strada in mezzo a un nuvolone di polvere, con quel contadino appoggiato alla staccionata e i meli in fiore tutt'attorno. Popkins, il mio segretario, disse: «Lasciate perdere i meli. Qui si tratta di assassinio. Andiamo diritti al sodo, signore. Cosa volete che faccia?». Dopo aver ottenuto da lui tutto quello che sapeva, mi feci dare tutti i rapporti che c'erano e mandai a chiamare Carruthers per farmi raccontare i fatti da lui. Quando ebbi sentito il succo della faccenda (e il punto importante spiccava chiaramente come vi dimostrerò tra un secondo) ero preoccupato. Diabolicamente preoccupato. A quel punto volevamo il dottor William Augustus Illingworth perché ci desse la sua versione di un incubo cui non avrei mai creduto se non ci fosse stato di mezzo Jeff Wade. Così lasciai da parte tutte le altre pratiche, fumai un'infinità di sigari e aspettai il dottor Illingworth. Alle undici e mezzo precise, proprio al rintocco del Big Ben, un paio di agenti me lo portarono in ufficio come un criminale, mentre lui si guardava intorno con ferocia come se lo avessimo fermato per farlo impiccare.
Non so cosa mi aspettassi, ma lui era un tipo abbastanza normale per rassicurarmi e allo stesso tempo per farmi imbestialire. Era alto, magro, ossuto... come un'aringa affumicata troppo cresciuta... c'era perfino qualcosa nei suoi occhi da pesce che faceva pensare a un'aringa... ma quando riprese il controllo di sé, mi guardò con gran dignità. Davvero. Aveva la faccia lunga, coriacea, e ogni volta che cominciava a parlare, cacciava il mento nel colletto così che le rughe gli arrivavano alle orecchie. Aveva anche il tic di fissare il pavimento quando apriva la bocca e di rialzare subito lo sguardo come per non perdere il filo del discorso. Dalla tasca tirò fuori un paio d'occhiali cerchiati di tartaruga; le sue mani tremavano quando inforcò quegli occhiali che fecero sembrare il suo naso più lungo che mai. Portava un vestito scuro rugginoso e un cappello floscio sotto il braccio, e aveva i capelli grigiastri pettinati un po' tortuosamente. Naturalmente io avevo già preso informazioni sul mio uomo: era semplicemente quello che voleva essere. Per giunta a quel punto mi feci l'idea (ed è difficile che mi sbagli, zucconi miei) di un vecchio rigido, educato, gentile, confuso, capace di fare qualcosa d'inaspettato all'improvviso e di correre dietro a ciò che riteneva suo dovere cacciandosi nei pasticci. Non mi viene in mente altro tranne il fatto che stava molto più dritto di un granatiere della Guardia e che doveva portare scarpe numero quarantotto. «Sir Herbert Armstrong?» disse con una voce così acuta che mi fece fare un salto. «Sedetevi. Calmatevi.» Lui mi fece trasalire di nuovo piombando sulla sedia come se gli avessero sparato. «Porco cane, piantatela!» esclamai. «Calmatevi. Allora. Al sodo.» Lui posò il cappello per terra con molta cura, tirò in dentro il mento, aprì la caverna e cominciò a parlare come una mitragliatrice. Non potrei ricordare la sequela di frasi che usò, perciò cito tutto prendendolo dalle note dello stenografo. «Vedo, sir Herbert, che avete ricevuto la mia comunicazione» disse. «Confido di essere perdonato, e lo sono, credo, per uno scusabile, sovreccitato stato d'animo che può aver provocato qualche malinteso sul mio intendimento nell'avvicinarmi a voi per mezzo della mia lettera. Ma io... uhmm... e lo confesso con un senso di sollievo... non vedo... non ancora... nessun segno di manette o di catene.» «No» dissi. «Sono un vice alto-commissario di polizia, non un fabbroferraio. Prendete un sigaro.»
Prese il sigaro, ne staccò con un morso delicato l'estremità e continuò: «Per riprendere il filo del discorso, sir Herbert... mentre non ritiro, né desidero ritirare nessuna delle dichiarazioni nella mia lettera di ieri sera, voglio seriamente togliervi dalla mente che il delitto al quale mi sono riferito abbia alcun rapporto... per farla breve... l'abbia commesso io. Sebbene io abbia sempre cercato di coltivare l'abitudine di pensare e di scrivere in modo preciso, temo che nel mio stato d'animo confuso di ieri sera io possa avervi dato erroneamente l'impressione... scusatemi!». S'interruppe al momento giusto. Prima di tutto, vedete, aveva tirato fuori di tasca una scatola di fiammiferi e nel tentare di prenderne uno aveva dato uno strattone tale che i fiammiferi mi erano piovuti tutti in faccia. E per quello, pazienza. Ma alla fine ne aveva preso uno e lo aveva strofinato per accendere il mio sigaro. Quando aveva detto "scusatemi!" era stato perché la sua mano tremava talmente che aveva lasciato cadere il fiammifero acceso tra la mia camicia e il panciotto. Disse che non riusciva a capire come poteva aver fatto e io ne convenni. E le cose che dissi mentre mi battevo sul petto non dovrebbero mai essere proferite di fronte a un ecclesiastico. Per un attimo mi ritrovai così furioso che per un pelo non lo buttai fuori, ma poi mi dominai e mi limitai a guardarlo freddamente. «Dottor Illingworth» dissi, quando riuscii a riprendere fiato, «dottor Illingworth, vi ho detto che non sono un fabbroferraio. Adottando il vostro stile, posso anche dire che non sono un maledetto razzo. Questo è un fiammifero. Osservatelo. È un oggetto utile, se usato in modo giusto. Ora accenderò io il vostro sigaro, sempre che ci si possa fidare di voi con un sigaro. Poi, regolamenti della polizia o meno, vi farò bere qualcosa. Ne avete bisogno.» «Grazie» rispose lui. «Mentre naturalmente io non condivido la debolezza nazionale e sia anzi uno zelante sostenitore della temperanza, nondimeno, la vera temperanza... per farla breve, sì.» Gli versai una dose enorme di whisky Uscio; lui lo tracannò senza batter ciglio e con una faccia assolutamente inespressiva. «È stato molto corroborante» disse il dottor Illingworth buttando con aria grave il bicchiere nel cesto della carta straccia, «e mi darà la forza per dirvi quello che, ahimè, va detto. In secondo luogo, sir Herbert, vi sono grato per le vostre maniere informali che mi aiutano molto a mettermi a mio agio in circostanze conturbanti, circostanze che, mi rendo conto con grande costernazione, non placheranno certamente i pezzi grossi della Chiesa presbiteriana John Knox. Tuttavia non devo divagare su simili que-
stioni, per quanto penose. Durante il viaggio in treno da Edimburgo ho ingannato il tempo libero (la maggior parte del viaggio era dedicata alla composizione del discorso che dovevo fare a Londra stasera alle Scuole Domenicali dei Presbiteriani Uniti) ho ingannato il tempo libero sfogliando un romanzo poliziesco tascabile intitolato Il pugnale del destino che un viaggiatore di commercio nel mio scompartimento mi aveva gentilmente prestato. I miei doveri di pastore, non meno dei miei studi sulla storia delle antiche civiltà, mi hanno lasciato poco tempo per letture riguardanti il mondo vivente che ci circonda, ma devo dire che ho trovato il racconto commovente, perfino affascinante ed è stata per me una rivelazione che mi ha profondamente colpito. In effetti ero scandalizzato dalla brutalità del personaggio principale la cui identità non veniva rivelata fino... No, sir Herbert, nonostante quello che state per osservare, non divago. Ciò che volevo dire è questo! Se ho imparato qualcosa sui vostri sistemi da Il pugnale del destino, ho imparato che non bisogna trattenere né omettere niente, per quanto insignificante possa sembrare. Mentre vi racconterò la mia storia, cercherò di ricordarlo, almeno finché si accorda con quella brevità legale che voi richiedete.» Signori, stava per venirmi un colpo apoplettico, ma quel cortese vecchio balordo aveva una tale aria da martire che mi limitai a fare un cenno allo stenografo. Dopo aver tossicchiato un paio di volte, Illingworth tirò una boccata al sigaro e ripartì in quarta. «Mi chiamo William Augustus Illingworth» annunciò d'un tratto, come uno spirito durante una seduta spiritica. «Sono il pastore della Chiesa presbiteriana John Knox di Edimburgo, come lo era prima dì me il mio defunto padre; vivo nel presbiterio di quella chiesa con la signora Illingworth e con mio figlio Ian che sta studiando per diventare sacerdote. La sera di giovedì tredici giugno (ieri l'altro, faccio notare) sono arrivato a Londra e dalla King's Station mi sono fatto portare all'Orkney Hotel in Kensington High Street. Il motivo del mio viaggio a Londra era, in parte, come ho già detto, per parlare a una riunione delle Scuole Domenicali dei Presbiteriani Uniti all'Albert Hall, ma la mia più ansiosa anticipazione del viaggio veniva da un altro motivo, più egoistico, temo. «Da parecchio tempo seguo con moltissimo interesse le fonti e gli sviluppi di quegli interessanti documenti storici deplorevolmente popolarizzati e quindi spesso privati di significato, noti come Le Mille e Una Notte. Uno stimatissimo studioso, un certo signor Geoffrey Wade, era stato recentemente così fortunato da acquistare duecento fogli manoscritti della
prima traduzione...» «Un momento» dissi. «Lasciatemi stabilire questa parte e vediamo se sistemiamo un primo punto. Ieri sera eravate stato invitato al museo Wade per esaminare il manoscritto di un certo Antoine Galland, che poi è risultato un bel fiasco, non è così?» Lui non si stupì, neanche un po'. Immagino che pensò che io lo avessi dedotto, e buttò fuori due o tre palate di parole che significavano sì. Dissi: «Conoscete Jeff Wade? Voglio dire, lo conoscete personalmente?». Risultò di no. Avevano tenuto una lunga corrispondenza, si erano scambiati un sacco dì complimenti e avevano deciso di incontrarsi alla prima occasione: la riunione al museo era stata combinata prima della sua partenza da Edimburgo. «E» riprese Illingworth, mentre la sua faccia legnosa si animava sempre più via via che arrivava al nocciolo della questione, «è stato con notevole disappunto che ieri, a mezzogiorno preciso, ho ricevuto al mio albergo una comunicazione dal signor Ronald Holmes, il segretario e socio del signor Wade, il quale mi ha spiegato, col più profondo rammarico, che il signor Wade era stato inaspettatamente chiamato fuori città e che quindi si trovava nella spiacevole necessità di rimandare la nostra riunione ad altro momento. Io gli ho detto che ero dispiaciuto, ma sinceramente non posso dire di esserne rimasto sorpreso. Ero stato informato (da amici comuni che, ritenevo, esagerassero un poco) che il signor Wade è un uomo di grande intelligenza, ma capriccioso, e che lo si poteva anche definire un eccentrico. Difatti ho saputo da fonte attendibile che una volta quando, durante la sua lettura di un documento originale della Società Medio Asiatica della Gran Bretagna, una delle sue opinioni era stata contestata, il signor Wade aveva apostrofato la persona che lo aveva interrotto con il desolante termine di sciocco, e pare perfino che arrivasse a dire che il presidente, sir Humphrey Balhnger-Gore, aveva la faccia come una prugna secca. «Perciò non mi sono affatto stupito quando, alle cinque del pomeriggio di ieri, ho saputo che aveva cambiato i suoi piani per la seconda volta. Poiché, tornando in albergo, dopo aver passato due ore stimolanti nel museo di South Kensington (che io, tanto per cominciare, non trovo un'istituzione così frivola come vorrebbero farci credere), mi è stato dato un telegramma del signor Wade, spedito da Southampton poco tempo prima. Eccolo.» AVENDO SAPUTO CHE CE LA FARÒ A RIENTRARE PRESTO
NON È NECESSARIO RIMANDARE TROVIAMOCI MUSEO STASERA DIECI E MEZZO GEOFFREY WADE. «Alla luce degli avvenimenti susseguenti» continuò il pastore, indicando il telegramma con un gesto del capo, «ho cercato di dedurre qualcosa esaminando quel documento, secondo certi ammirevoli suggerimenti presi da Il pugnale del destino. Ho tenuto il foglio controluce per cercare la filigrana. Tuttavia, dato che non so bene cosa possa essere la filigrana, temo che mi sia sfuggito il significato sinistro che potrebbe derivare dalla sua presenza o dalla sua assenza. «Ma permettetemi di andare avanti. Per quanto, confesso, fossi un po' seccato col signor Wade per il suo secondo cambiamento di programma e per la sua scarsa considerazione del mio tempo, nondimeno non ero affatto riluttante ad andare. Mi sono vestito con una certa cura e ho preso con me un volume che raramente lascia la mia persona... la rarissima prima edizione araba delle prime cento Notti, pubblicate, come saprete, a Calcutta nel milleottocentoquattordici, per mostrarlo al signor Wade. Glielo avevo promesso già da tempo.» Dalla tasca della giacca tirò fuori con gran delicatezza un grosso libro rilegato in pelle e lo posò sulla scrivania accanto al telegramma come un altro reperto. «Per proseguire» disse (a questo punto cominciava a essere piuttosto eccitato) «alle dieci e venti circa, sono salito su un taxi davanti al mio albergo e mi sono fatto portate al museo Wade dove sono arrivato precisamente alle dieci e trentacinque. Posso stabilirlo senza alcun dubbio poiché, mentre stavo per pagare il conducente del taxi, l'orologio da tasca mi è caduto in terra insieme con alcune monete, e si è fermato... in effetti non sono ancora riuscito a rimetterlo in movimento.» Venne fuori l'orologio che fu messo sulla scrivania accanto al telegramma e al libro. Era come se avessimo cominciato a giocare a strip-poker. «Per un momento, lo confesso» continuò il vecchio, abbassando il mento, «non ho potuto resistere alla tentazione di indugiare davanti al portone di quell'edificio e di perdermi in muta contemplazione di quegli splendidi battenti di bronzo: fedeli riproduzioni di quei battenti, ci dicono, che adornavano l'ingresso dell'Hasht Bihisht, o Otto Paradisi, di Shah Abbas il Grande. Sarei forse rimasto lì un bel po', perso nella mia contemplazione, dopo aver acceso un fiammifero o due per esaminare meglio le iscrizioni iraniane, ma fui rudemente riportato alla realtà dai volgari commenti di
due passanti i quali, a quanto pareva, avevano l'impressione che io fossi appena uscito da una taverna vicina chiamata "Dog and Duck", e che non fossi in condizioni di trovare il buco della serratura. «Ho ingoiato quelle calunnie con silenziosa dignità e quando i passanti sono passati (tanto per dire) ho suonato il campanello come mi era stato detto di fare. La porta si è aperta e alla luce dell'interno ho visto che la persona che l'aveva aperta doveva essere l'uomo cui il signor Wade aveva accennato qualche volta: un fedele servitore che aveva da molti anni e che faceva da inserviente e da custode notturno. Si chiama, credo, Pruen.» «Aha!» esclamai. «Allora era lì, dopotutto.» Il vecchio parve non udire. Invece mi fissò con uno sguardo così fermo che io cominciai a sentirmi la coscienza sporca. «Poi è accaduto» disse, «quello che posso soltanto descrivere come il primo e il più lieve degli avvenimenti straordinari che dovevano seguire all'interno di quella stramaledetta porta. In una parola... Pruen mi ha riso in faccia.» Dissi: «Cosa ha fatto?». «Ha riso» dichiarò Illingworth scuotendo la testa su e giù con aria grave. «Mi ha riso in faccia. Dopo avermi invitato a entrare con una certa pantomima di segretezza, mi ha squadrato da capo a piedi con gran concentrazione e poi ha emesso quello che posso solamente descrivere come una sghignazzata esplosiva che pareva trasformargli il viso. Poi ha detto le seguenti parole, in un gergo che non tenterò nemmeno di imitare. Ha detto: "Salve! E voi chi siete?". «Io ero ragionevolmente irritato di fronte a quel deplorevole e sorprendente comportamento e gli ho risposto con un tono piuttosto aspro: "Sono il dottor William Augustus Illingworth, mio brav'uomo" l'ho informato, "e credo che il signor Wade mi stia aspettando. Volete avere la bontà di accompagnarmi da lui?". «Con mio assoluto stupore, non solo la sua ilarità non si è calmata, ma è aumentata in maniera allarmante. Sembrava addirittura piegato in due, si reggeva la pancia e si dondolava da una parte all'altra con fare misterioso ma senza quasi fare il minimo rumore. «"Ah, siete un bel tipo, siete" mi ha detto alla fine asciugandosi gli occhi dopo una serie di singulti. "Non capisco proprio come mai non avete un successone nelle sale, davvero non lo capisco." (Questa frase "nelle sale", ho saputo dopo, si riferisce agli artisti dei music-hall come cantanti, ciclisti, acrobati e simili; pareva decisamente incomprensibile applicata a un
ministro del Vangelo.) "Siete la cosa più convincente che mi sia capitato di vedere" ha aggiunto quel vecchio sbalorditivo "e andrete a meraviglia per il delitto". «E con questo, sir Herbert, e con una straziante sghignazzata, ha allungato un dito e mi ha pungolato nelle costole.» 10 L'inizio di un incantesimo: come il dottor Illingworth sostenne il ruolo di Aladino «Sul momento non potevo tirare alcuna conclusione tranne quella che l'uomo fosse ubriaco, sebbene, a parte il suo straordinario comportamento, non desse nessuna prova di quello stato. Così mi sono guardato attorno nella sala in cui mi trovavo sperando di vedermi venire incontro il signor Wade. Ero davvero impressionato dalle nobili proporzioni e dalla grandiosità che mi circondava, il tutto dolcemente illuminato da un bagliore bianchiccio, proveniente dalle cornici del soffitto, che dava un aspetto di spettrale luce lunare abbastanza piacevole per una persona di temperamento meditativo. Dava perfino uno strano colore alla faccia del vecchietto vestito con una specie di uniforme blu che mi stava saltellando accanto. Dopo di che il tipo mi ha detto le seguenti parole: "Immagino che vorrete andare dal boss. Siete in ritardo, eh, vecchio arnese". Sto cercando, sir Herbert, di essere preciso. "Ma sarete perdonato, e vi pagheranno perfino in anticipo se lo desiderate, per il vostro magnifico travestimento." «Ora vi posso assicurare che non c'era minimamente nulla di strano nel mio cilindro e nella mia finanziera (che erano di modello normale, perfino severo), di conseguenza ho cominciato a pensare che si doveva trattare di pazzia o di malinteso. Quando il mio uomo ha aggiunto: "La stanza del conservatore... diritto, poi girare a destra, la prima porta, è là adesso" sono stato costretto a parlare. «"Per una qualche ragione" ho detto "sembrate dubitare che io sia il dottor Illingworth. Visto che dubitate, eccovi il mio biglietto da visita. Visto che dubitate, vi prego di guardare questa prima edizione delle prime cento Notti che porto da mostrare al signor Wade. Se si tratta di un malinteso genuino sarò lieto di scusarvi, se invece è semplicemente un'impertinenza gratuita da parte vostra, mi premurerò di farlo notare al signor Wade." «Durante il mio discorso ho notato un certo vago, dubbioso cambiamento sulla sua faccia e, sebbene le sue parole non fossero percepibili, ha mos-
so la bocca. Tuttavia, decidendo che sarei stato in grado di trovare la strada per la stanza del conservatore senza il suo aiuto, ho proseguito col fare più dignitoso che sono riuscito ad assumere finché non sono stato bloccato dalla vista di una cosa ancora più strana. «Sebbene avrete indubbiamente familiarità con l'interno del museo Wade, debbo spiegare che sulla parete di destra, quando si è in posizione da guardare direttamente verso la parte posteriore, a un sessantacinque metri circa dalla porta principale, c'è una grossa arcata con la scritta "Galleria dei Bazar". È una divertente ricostruzione, del tutto insignificante (dal punto di vista archeologico o storico) di un bazar o della strada commerciale di una città orientale. La ricostruzione, devo dire, è abbastanza accurata e le è stata data una realtà teatrale per mezzo dell'illuminazione che produce un effetto di luci e ombre sopra una strada fantasiosa. Mentre guardavo da quella parte, sono stato bloccato non soltanto dalla fuggevole illusione di vedere una strada di Isfahan verso il crepuscolo, ma anche da una figura umana che era là, in piedi. «In mezzo a quella strada, immobile sotto un groviglio di ombre, ho visto distintamente un nobile persiano nel suo costume indigeno. «Signore, io non sono affatto malato di cervello mentre vi racconto queste cose e posso darvi la mia più solenne parola che sto dicendo la verità. Naturalmente ero estremamente preso dal suo vestiario. Aveva il consueto alto copricapo di pelle di pecora, la sua tunica era di seta ricamata e molto lunga, il che... insieme alla camicia bianca... stava a indicare ricchezza o rango. Gli zirjamah o pantaloni erano di cotone bianco, ma il segno più evidente del rango stava nel cinturone nero di pelle lucida che invece di una fibbia d'ottone, come nel caso di un qualunque cortigiano, aveva la fibbia del nobile con un grosso ornamento tondo di rubini tagliati. Del viso, che era in ombra, ho potuto distinguere soltanto la carnagione olivastra che si notava molto per il contrasto con il bianco degli occhi. Sulle prime una simile apparizione contro un simile sfondo mi ha fatto pensare che potesse trattarsi di una figura di cera, sistemata lì per dare un'aria di verosimiglianza a quella mostra. Ma non lo era, e di questo fatto ho avuto ampia prova. Era una prova irrilevante, ma in quelle circostanze produceva un effetto che posso soltanto descrivere come terribilmente magico... cioè, l'uomo apriva e chiudeva gli occhi. «Credo di poter essere considerato un uomo abbastanza riflessivo, non certo un tipo fantasioso. Per lo strano stato d'animo in cui mi sono trovato, posso solo addurre la scusante dell'incongruità di simile vista in un mo-
mento simile. Ma l'irrazionale sensazione (arrossisco nel riconoscerlo) di vagare attraverso un qualche squarcio del cosmo in una delle Notti e che l'inserviente con l'uniforme blu potesse essere un negro Sharazad che m'invitava ad altre avventure, è stata scacciata non soltanto dai miei principi religiosi ma anche dal mio forte buonsenso. E quel buonsenso mi ha dato l'ovvia spiegazione. Cosa c'era di più naturale che il signor Wade, con la sua indubbia vasta cerchia di amici in Persia e nell'Iraq, avesse fatto laggiù la conoscenza di un nobile e che quel gentiluomo fosse stato invitato lì per fare la mia conoscenza? Certamente nulla. Perciò ho deciso, con la più grande formalità, di parlargli. E per farlo ho scelto l'arabo puro piuttosto che il bastardo "nuovo persiano" (uso questo termine senza nessuna acrimonia) che gli arabi hanno corrotto dalla sua antica purezza. «Quindi ho alzato la mano in un gesto di saluto: "Essalâmu 'alaikoom es-salâm. Inshâ allâh tekoon fee ghâyit as-sahhah". Al che lui ha risposto gravemente: "Wa 'alaikoom es-salâm. Ana b'khair el-hamd lillâh". «La sua voce aveva una tonalità grave e profonda, e lui parlava con incomparabile dignità, ma pareva eccessivamente stupito che io fossi in grado di rivolgermi a lui nella sua lingua. Un altro fatto che ho notato con interesse è stato che l'intonazione del suo arabo era più egiziana che persiana. Per esempio quando ho continuato: "El Kâ ât Kwyeeseen..." Scusate, sir Herbert, ma avete detto qualcosa?» s'interruppe il dottor Illingworth. «Nell'eccitazione del mio racconto temo di essermi distratto. Avete detto qualcosa?» Dopo aver ascoltato quei farfugliamenti tanto a lungo ci potete scommettere che avevo parlato. «Uh!» dissi. «È una bellissima imitazione di qualcuno in cima a una moschea, ma smettetela di chiamare i fedeli alla preghiera e raccontatemi cos'è successo nella nostra lingua.» Credeteci o no, lui aveva l'aria sorpresa. «Scusate, sì, certo. Era semplicemente l'abituale forma di saluto che lo scrupoloso straniero non trascura. Dopo avergli augurato la buona sera gli ho detto: "Pace a voi! Spero che stiate bene". Al che ha risposto, anche lui in maniera formale: "E pace anche a voi. Sto benissimo, grazie a Dio!". Posso continuare? Grazie. «Stavo per fargli altre domande, quando lui mi ha troncato la parola di botto, imperiosamente ma con grande cortesia, indicandomi la stanza del conservatore verso la quale ero già stato indirizzato. Sebbene intuissi che c'era sempre un profondo mistero là dentro, ho ripreso a camminare... ag-
giungendo alcune gentili osservazioni e concludendo, in inglese, se desiderava parlarmi in quella lingua... ed ero arrivato oltre la metà della sala quando ho notato la seconda delle meraviglie di quella notte. Era una bellissima ragazza che indossava un vestito color cremisi scuro il cui nome tecnico non conosco... «Mi sembra d'avervi visto trasalire, sir Herbert, all'accenno di questa ragazza. Sarò chiarissimo poiché questo fatto può essere di grandissima importanza. Quando si guarda la parte posteriore del museo, proprio nel mezzo, c'è un'ampia scalinata di marmo bianco. Nelle pareti dietro a ciascun lato della scala, ci sono due porte. Una a sinistra e una a destra. È stata la porta sulla sinistra che io ho visto aprirsi. E ne è uscita la ragazza col suo vestito da sera rosso, una ragazza con i capelli neri e con quello che descriverei un gran fascino. Di tutte le persone che mi avevano salutato nel museo fino a quel momento, ognuno aveva espresso in grado differente una certa sorpresa, ma quella ragazza, sebbene apparisse anche lei sorpresa, sembrava in uno stato d'animo così distaccato che mi ha prestato pochissima attenzione. Si è girata ed è corsa su per la scalinata di marmo verso le gallerie del piano di sopra ed è sparita dalla vista. Posso osservare che, da qualche parte del piano di sopra, la cui esatta dislocazione non ho potuto identificare, veniva un rumore molto simile a quello fatto da qualcuno che pianta chiodi nel legno. «Ma non avevo tempo di rimuginare su quel fatto. A una certa distanza alla mia destra, dato che ormai ero ai piedi della scalinata, l'uscio contrassegnato "Conservatore" si è spalancato e finalmente e con - devo dire - un enorme senso di sollievo, ho visto il mio ospite. «Sebbene non avessi mai visto una fotografia del signor Wade, quelli che lo conoscevano avevano accennato a due punti della sua descrizione fisica: la bassa statura e i lunghi baffi bianchi. Ero preparato alla bassa statura (che ho visto) e ai lunghi baffi (che ho visto), ma non ero preparato alla lussureggiante barba bianca che gli arrivava al petto e gli dava un aspetto imponente, perfino venerabile. I suoi capelli bianchi e la barba bianca incorniciavano un viso in un certo qual modo logorato dall'età, ma con due occhi estremamente acuti, lui mi squadrava da capo a piedi. E veramente, per l'atteggiamento e la dignità con cui mi stava davanti, mi ha fatto venire in mente la figura di Re Lear come ritratto da sir Henry Irving molti anni fa. Figuratevi il mio sommo stupore quando ho visto quel distinto signore tirar fuori pensosamente dalla tasca della giacca un'armonica a bocca... sì, sir Herbert, un'armonica a bocca... portarsela alle labbra e con aria medita-
bonda cominciare quell'esercizio che si chiama, credo, fare le scale. «Al mio accenno all'armonica a bocca, sir Herbert, noto che siete di nuovo trasalito violentemente. A meno di sbagliarmi, avete anche mormorato la parola "Jerry". Cosa possa significare riesco a indovinarlo, dato che ho saputo che Scotland Yard ha una lista di tutti i disperati criminali e delle loro stranezze per riferimenti nel caso di un delitto. È probabile che riusciate a mettere subito il dito sull'identità dell'uomo a causa della sua debolezza traditrice di suonare l'armonica a bocca durante un furto con scasso o un omicidio, proprio come il dottor Chianti in Il pugnale del destino (me ne sono ricordato più tardi) suonava il trombone. Ma sul momento, per sfortuna, non avevo capito di essere entrato nella tana di criminali disperati. Ahimè, signore, essendo stato informato della lieve eccentricità del signor Wade, ho creduto che il suo penchant per l'armonica a bocca fosse una di quelle leggere distensioni in cui spesso indulgono uomini dalla mente superiore come il mio amico dottor MacTavish dell'università, un uomo erudito e altrimenti esemplare che ha l'abitudine, al cinema, di ridere sgangheratamente quando qualcuno viene colpito in faccia da una torta di crema. Così non ho mostrato alcuna sorpresa nemmeno quando il mio ospite mi ha rivolto la parola con una certa violenza. «"Siete in ritardo" ha detto, puntando l'armonica verso di me. "Perché volete perdere tempo a parlare? Abbiamo da fare. Siete in ritardo, accidentaccio, e abbiamo solo mezz'ora. Entrate. Sbrigatevi!" «Il suo modo di fare era diventato quasi spasmodicamente eccitato, il che mi è sembrato inutile e perfino maleducato, ed è entrato nella stanza prima di me con un'agilità sorprendente per uno della sua età. «"Mi spiace moltissimo, signor Wade" gli ho detto piuttosto seccamente, "se il mio lieve ritardo vi ha causato qualche noia. Confesso che speravo che il nostro primo incontro potesse aver luogo in un'atmosfera più amichevole." «Con la stessa agilità, borbottando tra sé, lui ha attraversato la stanza e si è seduto dietro una grossa scrivania. Sulla scrivania ho notato un libriccino aperto e, accanto, un grosso portacenere pieno di cicche, e sul bordo di quel portacenere una sigaretta ancora accesa. Dopo aver preso quella sigaretta ed essersela cacciata in bocca, con gran pericolo per quei formidabili baffi, ha fatto scorrere il dito lungo una pagina del libro. «"Sì, sì" ha detto. "Non volevo essere sgarbato con voi, ma bisogna che questa faccenda vada bene." Nemmeno allora, sir Herbert, il suono minaccioso di quella parola, faccenda, è penetrato nella mia consapevolezza per-
ché il mio ospite, fissandomi con occhi improvvisamente seri e spaventosi, ha declamato le seguenti parole in arabo: "Yà onbâshee irga' ente bi'ddeurtena'l wa kool li'lyoozbâshee hiknadâr yegee henâbì'lghârl". Che, se le orecchie non mi ingannavano, significavano: galoppate, caporale, e dite al capitano del vettovagliamento di venire qui immediatamente! «Non ho potuto fare altro che fissarlo. «"Mio caro signore" gli ho detto "a quanto pare, c'è un grosso malinteso. Io non sono un militare e non ho mai..." «"Sbagliato pagina" ha detto quell'uomo straordinario bruscamente. Ha cominciato a sfogliare il libro aspirando nervosamente la sigaretta. "Queste maledette grammatiche" scusatemi, sir Herbert, ma bisogna che io sia preciso, per quanto penoso possa essere. "Queste maledette grammatiche non servono a niente. Smontate e aprite il fuoco! Montate e coprite il fianco sinistro dello Squadrone due! Niente, non serve. Roba molto vivace e stimolante, certo, ma un po' difficile infilarla in una normale conversazione sociale. Ah, eccoci!" Dopo aver borbottato fra sé un momento, ha ricominciato a fissarmi con sguardo penetrante e mi ha chiesto in arabo: "Dite, amico, conoscete il negozio di Hassan l'orefice, accanto alla stazione di polizia, che ha subito un furto la notte scorsa? Rispondete in inglese". «Per un attimo ho creduto di intravedere un po' di luce. "È perché siete stato derubato, signor Wade, che siete così agitato? Se è così, posso capirlo sicuramente. Il negozio di Hassan l'orefice in quale città?" «"Lasciate perdere la città!" esclamò il mio ospite quasi stizzosamente. "Il punto è: avete capito che cosa ho detto? Magnifico. Comunque, Sam ci aveva già provato... Sam Baxter impersona il nobile persiano con quel cappello da music-hall, quello col quale avete parlato quando siete arrivato, e pare che Sam sia un mago nella lingua araba. Di conseguenza, posso assicurarvi solennemente che a me sta tutto bene." «Sto facendo enormi sforzi, sir Herbert, per citarvi a memoria la sbalorditiva e strana concatenazione delle parole che sono uscite con terrorizzante gaiezza dalle labbra di quel venerabile studioso. Era quasi come se un patriarca del Vecchio Testamento si fosse improvvisamente messo a ballare una giga. Ma tutte le precedenti sensazioni di sacro rispetto e di trepidazione sono sgusciate via dalla mia mente al discorso successivo del mio ospite il quale si è alzato maestosamente e ha tirato un pugno sulla scrivania. «"Sta tutto bene, tranne una cosa" ha gridato. "Dov'è la vostra barba?" «"Barba?" ho risposto io, incapace di credere alle mie orecchie.
«"Porco Giuda, dovete avere la barba!" ha urlato lui, con un tono che posso solo descrivere come un eccesso di rabbiosa sicurezza. "Chi ha mai sentito di un erudito asiatico senza barba? Perdio, c'è un vecchio al museo Britannico che ne ha una che gli arriva alle ginocchia. Posso giurarvi, Laughton, che non esiste un orso simile fuori dello zoo." «"Ma io non ho barba." «"Lo so" ha convenuto pazientemente il mio ospite. "È questo che mi secca. Ma dovete avere la barba. Qua" ha aggiunto con aria ispirata "qua... prendete la mia!" «Dopo pochi minuti, sir Herbert, ero arrivato alla fine della mia cecità riguardo a quanto stava succedendo in quel posto malefico. In quell'attimo, tuttavia, ho notato con le mie facoltà mentali ed emotive paralizzate che il mio ospite aveva cominciato a esplorare con le dita la regione sulla propria mascella. Ha attraversato lo studio e ha aperto la porta di una stanza adiacente che, mi sono reso conto, era un piccolo bagno. Con l'aiuto di uno specchio su una mensola sopra il lavandino, si è delicatamente staccato la barba (che era stata appiccicata con una sostanza liquida adesiva) dalle guance e dalle mascelle. «"Restate lì seduto dove siete" ha detto, "ora l'appiccico su di voi. Facilissimo riapplicarci l'adesivo e queste sono le migliori barbe che un costumista teatrale potrebbe fornire, per garantire e ingannare lo stesso Sherlock Holmes. In effetti non avrei dovuto mettermi una di queste barbe, io anzi ero contrario. Ma sapete, farò la parte del vecchio, di Jeff, in questa faccenda, stasera, perché naturalmente, gli somiglio parecchio. Ma Rinkey Butler vuole sempre strafare, e per l'eventualità che la vittima si accorgesse che sono più giovane di quello che dovrei essere, ha insistito per trasformarmi in un Babbo Natale in embrione. (È una parrucca stupenda, questa, non vi pare?) Voi prendete la barba, io mi tengo i baffi. Voi naturalmente siete un esperto del mestiere e non c'è bisogno che vi dica, qualunque cosa facciate, di mantenere il viso serio e di non ridere quando l'assassino starà per colpire. Qua, voglio mettervi questa barba prima che scendano gli altri. Sono di sopra che stanno preparando la bara, ora." «Io ero irrigidito dal terrore. Lo ammetto, signore, senza un briciolo di vergogna. Per la prima volta il pieno impatto di quelle procedure cominciava a penetrarmi nel cervello, e cominciavo a capire quello che avrei dovuto capire da un pezzo dato che in Il pugnale del destino c'era quasi la stessa situazione. Senza la minima intenzione sacrilega, dico fermamente che considererò sempre quel romanzo poliziesco che mi è stato messo a
portata di mano un dono della provvidenza. Dei particolari specifici di quella cospirazione non potevo ancora essere sicuro, ma almeno tanto era chiaro: quel museo era in mano di una gang di desperados che avevano approfittato dell'assenza del signor Wade in modo che il loro capo lo impersonasse (uno stratagemma, rammentavo, preferito dal terribile dottor Chianti). Non solo avrebbero derubato il museo, ma presumibilmente un estraneo sarebbe stato adescato nella trappola e ucciso, sia per ragioni collegate con la ghenga, come per esempio se quello li aveva traditi, sia per estorcergli oggetti di valore che poteva portare con sé, come diamanti e rubini. Per un istante mi sono sentito morire al pensiero che forse io ero la vittima designata, e il bottino la mia prima edizione Calcutta milleottocentoquattordici che mi stringevo ancora al petto. «Ma una breve riflessione mi ha convinto che non sarebbe stato così. Evidentemente ero stato scambiato per un disperato malvivente con un numero imprecisato di identità... perché il mio ospite, con quella sua odiosa maniera scherzosa che mi faceva gelare il sangue nelle vene, si era rivolto a me in tre diverse occasioni usando i nomi di Charles Laughton, Wallace Beery e George Arliss... e, ironia delle ironie... io, io in quella nefasta faccenda dovevo sostenere il ruolo di un erudito asiatico. «Cosa dunque potevo fare? In una situazione di estremo pericolo, dovevo forse tentar di fuggire con una corsa pazzesca in mezzo a quei tagliagole e chiamare la polizia? Vi rendete conto che una simile impresa sarebbe stata inutile. E per giunta, sir Herbert, lo dico con un senso di vergogna misto a un po' d'orgoglio: in quel momento di cupo terrore provavo una sensazione che fino a quel momento non mi era mai capitata. Il cuore mi tonfava in petto e, in quell'ora del pericolo, il mio sangue scozzese, da tempo addormentato, si era ridestato e si ribellava e scorreva nelle mie vene con un impeto selvaggio. Dovevo forse lasciar vigliaccamente derubare il signor Wade e macellare un qualche inoffensivo estraneo da quei delinquenti? No! Perdio no!» ruggì il dottor Illingworth. «Benissimo. Avrei osservato. Aspettato. Avrei fatto finta di essere quel famigerato erudito asiatico. Per quanto sconcertato e allarmato dalle mie stesse sensazioni, avrei assillato il capo con abili domande finché non gli avessi strappato tutti i particolari del complotto... esattamente come il vostro uomo di Scotland Yard in Il pugnale del destino... e nel frattempo avrei messo in moto le meningi per escogitare qualche sistema con cui poterli frustrare. «Sebbene abbia impiegato molto tempo per descrivervi il mio stato d'animo, tutto questo è stato il pensiero di un momento. Il capo, sghignazzan-
do diabolicamente, stava attraversando la stanza (il mento raso sotto i baffoni gli dava un aspetto ancora più malefico) preparandosi ad appiccicare sulla mia faccia la barba finta. Nonostante che ogni fibra del mio corpo rabbrividisse a quel tocco, mi sono irrigidito e non ho aperto bocca. Quel mostro che poteva biecamente consigliarmi di non sorridere durante il delitto, quel mostro avrebbe trovato in me un suo pari! Mi sono perfino spinto al punto di ammirare il mio aspetto nello specchio portatile del bagno che lui aveva posato sulla scrivania. Poi, con enorme sforzo, facendomi coraggio per affrontare il cimento, ho abbassato il tono e ho bisbigliato con voce rauca: "Chi facciamo fuori, boss?".» 11 Il terribile signor Gable: come il dottor Illingworth sostenne il ruolo di William Wallace Ragazzi, a quel punto del racconto più pazzesco che avessi mai sentito, dovetti dare al vecchio Illingworth un altro beveraggio. Ne aveva bisogno. E, perbacco, lo ammiravo!... Mi pareva perfino che lo stenografo stesse dominando l'impulso di applaudire. Jerry Wade e la sua ghenga stavano preparando uno scherzo idiota, naturalmente. Ma Illingworth non lo sapeva. Lui credeva di essere piombato pari pari in un covo di malviventi. Be'? Era il vecchio gentiluomo più confuso e più sprovveduto che sia mai sceso da un pulpito, ma quando è arrivato al dunque, ha mostrato il coraggio e gli istinti sportivi di un vecchio capo scozzese che difende il passo a Vattelapesca. Dopo alcuni istanti, durante i quali restò lì ansimante, tastandosi il mento come se ancora avesse la barba, si schiarì la voce e proseguì: «Mentre dicevo quelle ultime parole, ho creduto di vedere una curiosa espressione sulla faccia del capo, come se lui avesse osservato un cambiamento nel mio comportamento. Difatti, cogliendo il mio aspetto barbuto nello specchio che avevo davanti mentre sedevo alla scrivania, ho osservato che sulla mia faccia c'era la parvenza di un ghigno odioso... ghigno che, qualora fosse stato visto dalla congregazione della Chiesa John Knox, avrebbe spaventato a morte, ne sono convinto, gli occupanti delle prime tre file di panche. «"Be', siete il tipo più strano che io abbia mai conosciuto" ha dichiarato lui guardandomi in modo singolare. "Ora state a sentire. Abbiamo solo pochi minuti. Gli altri scenderanno con la bara, dopo di che ripasseremo le istruzioni, signor... a proposito, come vi chiamate?"
«"Wallace Beery" ho risposto scegliendo a caso uno dei nomi che in precedenza mi aveva appioppato. «Questo, sir Herbert, ha scatenato in lui una rabbia inutile e terrificante, mi sono accorto che lui avrebbe voluto, per dirla nello stile del libro poliziesco, che io gli spiattellassi il mio cognome autentico e si rendeva conto che non lo avevo fatto. Tutti i segni dei suoi perfidi sentimenti erano impressi sulla sua faccia quando lui ha cominciato a tempestare di pugni la scrivania. «"Sì, certo" ha detto, "e io sono Clark Gable. Sentite, le agenzie teatrali mandano sempre gente con un senso umoristico come il vostro? Non so proprio cosa fare di voi. Avete una faccia simile a quella d'uno scaccino... avete un aspetto come se foste davvero il dottor Illingworth..." «L'impatto di quel nome mi ha demoralizzato, come potete capire, ma dopo la prima dolorosa sensazione mi sono fatto forza e ho chiesto: "Cosa intendete dire?". «"Dico che avete proprio l'aspetto del dottor William Augustus Illingworth, l'uomo che dovete impersonare stasera" ha risposto il dottor Gable. D'un tratto mi è parso in preda a un terribile sospetto. "Buon Dio, non ditemi che Rinkey Butler o Ronald Holmes... Rinkey è venuto da voi questo pomeriggio, vero?... Non ditemi che non vi ha detto cosa dovete fare..." «Potete immaginarvi dunque il mio stato d'animo perché, a parte il fatto che avevano l'audacia di mischiare il mio nome, il mio nome, con quella diavoleria, ora sembrava che io dovessi impersonare me stesso. Ma quella consapevolezza mi ha dato la forza e la freddezza per l'astuzia che dovevo usare. «"Idiota, so tutto io, sui particolari del mio ruolo" gli ho detto. (Pare che nei libri gialli i criminali usino frequentemente quei termini e io ho intuito che ciò avrebbe dato un'aria di verosimiglianza al mio discorso.) "Ma cosa ne direste, per amor di chiarezza, di ripassare i vari avvenimenti, eh? Per esempio, chi è la vittima?" «Il dottor Gable ha chinato la testa, come per calmarsi. «"Be', siete stato raccomandato" ha osservato in tono disinvolto, "e immagino che conosceranno il loro mestiere. Comunque hanno detto che siete mezzo persiano e che sapete tutto sui monumenti antichi, manoscritti o che so io. Vedete, voi dovrete stare in prima linea e sostenere la maggior parte della conversazione, ecco perché nessuno di noi ha potuto sostenere il vostro ruolo... e la parte di Sam Baxter con la minaccia, la pugnalata e via discorrendo, sarà brevissima.
«"Ora ascoltate, la vittima è un tizio di nome Gregory Mannering, e noi gli faremo un piccolo test del famoso coraggio di cui blatera tanto." «"È un membro della vostra ghenga?" «"Sono propenso a scommettere che non lo sarà per molto" ha risposto il dottor Gable con un'altra delle sue smorfie diaboliche. "Io non ho nulla contro di lui, ma Sam Baxter e Rinkey Butler e Ron Holmes ce l'hanno a morte... ha detto che Sam sembra uno scimmione e che non poteva parlare arabo che come uno scimmione, e le cose che ha detto sul conto degli altri non sono ripetibili, sebbene lui non conosca nessuno di noi tranne Ron. Ecco perché possono sostenere i loro ruoli, e io anche, senza il timore di essere scoperti. Vedremo se quel suo intrepido coraggio (che secondo le sue dichiarazioni in un racconto lo sostenne mentre rubava il rubino Kali dall'idolo, perseguitato da uno stuolo di preti inferociti), vedremo se quel coraggio lo sosterrà quando Sam, nel ruolo del persiano Nemesis, si butterà su di lui con il coltello dal manico d'avorio per estirpargli il fegato." «Così c'era un doppio motivo: odio e saccheggio. «"E gli prenderete anche il rubino, naturalmente" gli ho detto con un ghigno che rabbrividisco a ricordare. «"Oh, senza dubbio" ha risposto quel demonio scoppiando in una risata e strizzandomi l'occhio. "Senza dubbio troveremo il rubino cucito in una borsettina di camoscio sotto il suo cappello... Ma non è affatto per quel rubino che lo abbiamo attirato qui con una scusa. Quello non servirebbe e potrebbe insospettirlo." «"Ah, sì" ho detto io comprendendo l'astuzia di quel ragionamento. «"Gli è stato detto che il vecchio Jeff, cioè io, ha segretamente rubato nell'Iraq la bara di Zobeide, la moglie favorita di Harun-ar-Rashid..." «"Ma, mio caro dottor Gable" sono esploso, "sicuramente è ovvio che..." «"Un momento. Miriam non voleva coinvolgerlo in questa storia (Miriam è mia sorella) perché è fidanzata con lui, ma Sam e Rinkey l'hanno talmente stuzzicata che lei ha accettato di... metterlo nei guai, per modo di dire, per vedere fino a che punto avrebbe sopportato." (Se non avessi letto Il pugnale del destino, sir Herbert, una simile perfidia in una donna sarebbe stata al di fuori di ogni mia comprensione, ma la bellissima mezzosangue Wonna Sen fece una cosa del genere nella camera della tortura del dottor Chianti. Ma pensate!) "Questo è il piano" ha continuato lo spietato dottor Gable. "Deve venire qui verso le undici... è quasi ora, adesso. Lui sa che un certo dottor Illingworth doveva venire qui a trovare il vecchio... sareste voi... perché c'era sui giornali, così tutto sembrerà giusto. Ron Hol-
mes sosterrà la parte del mio socio e anche quello andrà bene. Miriam sarà qui come se stessa, e così Harriet Kirkton. Sam Baxter (che sarà Abù 'Obiad di Tàif, principe della Casa di Mihràn: abbiamo preso il suo costume nella galleria persiana) e Rinkey Butler (sotto le vesti del poliziotto) staranno nascosti fino al momento appropriato. Per la bara di Zobeide usiamo un cofano per l'argenteria arabo, al diavolo la discrepanza: è l'unica cosa che siamo riusciti a trovare. Naturalmente tutto l'argento è stato tolto dalla cassa da un pezzo..." «"Naturalmente" ho detto io, sardonico, ma con ira sempre crescente. «"E la storia dice che su quella bara c'è una maledizione... veramente il vecchio e quel barbogio di Illingworth dovevano esaminare certi stupidi manoscritti, ma Mannering non lo sa... C'è una maledizione su quella bara. Qui, ragazzo mio, è dove farete il vostro discorso. Chiunque tocchi la bara e disturbi le sacre ossa ivi contenute" ha detto il dottor Gable con una voce talmente potente e uno sguardo viscido come quello di un rettile che mi hanno convinto d'avere a che fare con un pazzo... "avrà le mani e i piedi tagliati. E la sua faccia sarà mutilata con le novantaquattro torture... È stato tutto ideato e studiato accuratamente da Rinkey Butler e ciascuno di noi ha la sua parte. Credete di farcela?" «"Per Giove, quello che ho in mente sarà sicuramente fatto!" «"Benissimo, allora. Chi aprirà la bara? Io esito. Voi anche. Sarà creata un'atmosfera. L'intrepido signor Mannering si offre di sfidare la maledizione. Luci attenuate e musica" grida il mio ospite girando intorno alla scrivania e agitando le mani per aria. "La Galleria degli Otto Paradisi. Il rumore di uno scalpello e di un martello. Poi la bara. Il coperchio viene toccato... ah! D'un tratto voi... e qui è dove salterà fuori la vostra esperienza d'attore... voi cambiate atteggiamento. Schizzate in mezzo al gruppo. Tirate fuori di tasca una pistola. Questa pistola." «Estrae dalla propria tasca una pistola automatica, di un modello raro e dall'aspetto incredibilmente micidiale che mi caccia tra le mani. «"Poi rivelandovi improvvisamente per quello che siete, gridate: Indietro, indietro, infedeli e blasfemi! Per l'anima di mia madre morta... Siete davvero persiano per metà, vero?... Per le splendide stelle del sacro Iraq e per i forti venti del deserto, ho giurato che chiunque tocca... eccetera, sapete le vostre battute. E a questo punto entra Sam Baxter. Ah, l'atmosfera è creata in pieno. Giusto dice. Che l'empio burlone sia preso..." «Posso soltanto pensare che qualcosa della sua ferocia doveva essersi riversata in me. Mi sentivo la gola strozzata e il cuore mi batteva all'impaz-
zata. Il che presagiva male per un uomo della mia età, ma sentivo dentro di me un'irriflessiva sensazione di trionfo, perché il miscredente... estatico nel delitto con la sua faccia avvizzita e i suoi lunghi baffi... quel miscredente, come il dottor Chianti, aveva commesso il suo errore. Aveva messo nelle mie mani la pistola carica che, al momento opportuno, sarebbe stata la sua rovina. «"Quando entra in scena il poliziotto... naturalmente è uno di noi..." continua lui, "voi gli sparate. Saremo in una stanza interna e nessuno udrà lo sparo. Perciò..." S'interrompe, guardando oltre la mia spalla. E di nuovo, sir Herbert, posso solo offrire i miei umili ringraziamenti alla provvidenza che mi ha guidato sin dal principio. Come credo d'aver accennato, sulla scrivania davanti a me c'era uno specchio portatile per cui potevo vedere riflesso l'uscio dietro di me. Quell'uscio si era aperto di uno spiraglio di neanche dieci centimetri. Inquadrato in quell'apertura ho visto un giovane che mi sbirciava furtivamente e che, gesticolando, cercava evidentemente di attirare l'attenzione del dottor Gable. Era un giovanotto il cui aspetto esteriore normalmente non avrebbe tradito cosa nascondeva dentro: una faccia niente affatto brutale e perfino piacevole a vedersi, con capelli chiari e occhiali cerchiati di tartaruga simili ai miei, ma angustiata da qualche dubbio o repellente perplessità. Mentre io guardavo, lui faceva una pantomima dietro le mie spalle: puntava l'indice su di me con dei movimenti che facevano pensare al dondolio della testa di un'anitra. Poi ha scrollato con forza le spalle e, spalancando gli occhi al massimo, ha scosso il capo. «Ero stato scoperto. «In che modo fosse stata scoperta la mia identità non potevo saperlo, ma la penosa verità era saltata fuori. Il dottor Gable aveva detto che i suoi compari erano di sopra a preparare la bara e ora sarebbero scesi e si sarebbero radunati sull'uscio per catturarmi. Anche a quel punto non disperavo, signore, non potevo, sebbene provassi di nuovo quei sintomi fisici che ho descritto, e davanti agli occhi avevo come una strana macchia. «Mi sono guardato furtivamente attorno. C'erano tre mezzi per uscire dalla stanza. Uno era l'uscio che dava nel corridoio davanti al quale si sarebbero raggruppati i pistoleri del dottor Gable. Uno era un ascensore nella parete subito dietro di me, ma i pesanti sportelli di quell'ascensore erano accuratamente chiusi e sopra di essi era appeso un cartello con la scritta "Fuori servizio". Alla fine, nel piccolo bagno alla mia sinistra, avevo notato una finestra in alto sopra il lavandino che, se proprio si fosse arrivati al peggio, offriva un praticabile mezzo di fuga. Ma ero io disposto a schivare
la mia battaglia e, vigliaccamente, a fuggire dal campo dell'onore, specialmente (se posso dirlo) per mezzo di un'uscita poco dignitosa ed effettivamente perfino indegna come la finestra del bagno? No! Mentre mi guardavo attorno nella stanza, vedendo il mio stato d'animo riflesso nei ricchi, cupi colori del tappeto, quei versi nobili e stimolanti che forse ricorderete mi sono lampeggiati nel cervello come un'ispirazione: Scozzesi, scozzesi, benvenuti nel vostro letto di sangue, o nella vittoria! «E come avrebbe fatto Wallace, così ho fatto io. Ricordo di essermi messo accuratamente in tasca la prima edizione di Calcutta, e mi sono calcato in testa il cilindro. La mia più grossa preoccupazione era fare in modo che i pistoleri del dottor Gable non varcassero quell'uscio del corridoio nel timore che fossero troppi per me, e se fossi riuscito a tenerli fuori, il capo sarebbe stato in mio potere. «Poi, sir Herbert, sono schizzato su. «Balzando in piedi ho spazzato via lo specchio dalla scrivania con un gesto del braccio... come ora spazzo nuovamente via la foto della vostra brava moglie che avete rimesso lì... Così! (Bang!) Non che, così facendo, sir Herbert, sperassi di ottenere un qualche risultato pratico, ma perché nella mia esaltazione mi sembrava necessario buttar giù qualcosa. In due salti sono arrivato alla porta prima che i giannizzeri del dottor Gable potessero entrare, ho sbattuto l'uscio in faccia al giovanotto con gli occhiali, ho girato la chiave nella serratura e con un gelido sorriso mi sono voltato per affrontare il dottor Gable con la mia pistola puntata all'altezza del suo cuore come avrebbe potuto fare Wallace. «Il dottor Gable dice: "Ehi, cosa significa questa storia?" «Una forza selvaggia sembrava spronarmi a pronunciare parole che non mi erano mai passate per la mente, sebbene conservassi una calma glaciale. «"Significa, dottor Gable, che il gioco è finito!" dico. "Sono l'ispettore Wallace Beery di Scotland Yard e vi arresto per tentato omicidio di Gregory Mannering! In alto le mani!" «L'animo umano è irrazionale. Perfino in quell'ora del pericolo, perfino con quella barba bianca che pendeva giù dalla mia faccia, e col cappello sulla testa in un'inclinazione assolutamente disadatta a un ecclesiastico, non potevo fare a meno di chiedermi... con un improvviso fremito d'orgoglio... cosa avrebbero pensato del loro pastore le signore della Società Assistenziale del martedì sera, se lo avessero visto in quel momento. E provavo una sensazione ancora più trionfante nel vedere l'espressione idiota che aveva pervaso la faccia del dottor Gable, i cui occhi parevano diventati
grossi come lenti di occhiali e che mi fissavano, al di sopra di quei baffoni bianchi, con una mescolanza di quelle che probabilmente erano paura e colpa. «Dice: "Ascoltate, amico mio, avete perso la bussola?". «"Queste trovate non vi serviranno a niente, dottor Gable" ribatto io, severamente. "Quando sarete rinchiuso in una cella, avrete modo di riflettere sul disegno provvidenziale che ha frustrato il vostro complotto. Fate un passo e dite una sola parola e vi faccio saltare le cervella!" «"Matto come un cavallo!" grida il dottor Gable agitando furiosamente il pugno. "Quella pistola è carica a salve, pezzo di cretino! Mettetela giù." «"Il vostro è un vecchio stratagemma, amico mio" gli rispondo io, sprezzantemente. "Un vecchissimo stratagemma. State lontano da quel telefono. Chiamerò Scotland Yard e farò intervenire un nugolo di agenti perché io sono l'isp..." «"Lo so cosa siete" dichiara il dottor Gable con una sconcertante malevolenza che supera ogni descrizione. "Siete un pazzo scappato dal manicomio, capitato qui non si sa come, ma non vi permetterò di rovinare il nostro splendido scherzo contro Gregory Mannering." «Ora, sebbene dovessi essere stato preparato alla sua reazione, dato che un incidente molto simile capita anche nel libro, l'amara verità è che non lo ero. Se ben ricordo, stavo ritto su uno di quei tappetini che a volte si mettono sopra tappeti più grandi: con un diabolico, velocissimo movimento, il dottor Gable si è semplicemente chinato, ha afferrato l'estremità del tappetino e gli ha dato un terribile strattone... «Un attimo dopo essere caduto con le gambe per aria, ho l'impressione di aver battuto violentemente la testa contro un lato della scrivania proprio dietro di me. Mi sentivo ronzare la testa cupamente. La stanza si è oscurata allargandosi e stringendosi a ondate come un'immagine sott'acqua e, sebbene fossi nebulosamente consapevole di quanto avveniva intorno a me, sono rimasto col sedere per terra, quasi incapace di muovermi. «In quell'umiliante posizione, che la debole carne non può sopraffare, ero (come ho già detto) completamente consapevole di ciò che succedeva. Così ho visto il dottor Gable che alzava un braccio e rivolgeva al soffitto un'appassionata supplica esclamando: "Cosa devo fare con questo pazzo?". Potevo persino, con lentezza distaccata, seguire il suo pensiero. Sbirciava il bagno e poi l'ascensore... che, ora lo capivo vagamente, aveva, all'esterno, un saliscendi di ferro, come una spranga. Quale migliore prigione momentanea, ronzava il mio pensiero, quale migliore prigione momentanea
poteva esserci di un ascensore dalle pareti metalliche che era fuori servizio e che poteva essere chiuso dall'esterno? Perfino mentre tentavo di lottare debolmente farfugliando parole inarticolate, mi sono sentito trascinare all'indietro col tappetino e tutto sul... sulle mie parti posteriori, poi, dopo aver aperto gli sportelli della cabina, il dottor Gable mi ha cacciato dentro l'ascensore. Quando ho udito sbattere e chiudere gli sportelli, lo choc della mia posizione vergognosa mi ha schiarito la testa. Mi sentivo male, terribilmente confuso, ma ho cercato di alzarmi in piedi: il dolore che provavo alla caviglia, avendola urtata contro una cassa di legno vuota nella cabina buia, mi ha aiutato a schiarire ancora di più la testa dolorante. «Ciascuno sportello dell'ascensore aveva un finestrino di forse trenta centimetri quadrati di vetro spesso. Premendo la guancia contro il vetro avevo una buona visione della stanza. Se le cose si fossero messe al peggio, avrei potuto tentar di spaccare quel vetro spesso col pugno, ma per il momento ho pensato di serbare le mie energie finché non mi fosse passata la nausea. Così mi sono messo a osservare. La prima mossa del dottor Gable, dopo avermi chiuso dentro, è stata di correre alla porta del corridoio, che io avevo chiuso a chiave, e di aprirla. A quel punto è entrato frettolosamente il giovane dai capelli chiari con gli occhiali, e il dottor Gable ha attaccato con lui una concitata conversazione, ed entrambi hanno indicato diverse volte l'ascensore facendo gesti indecifrabili. Per sfortuna le pareti metalliche m'impedivano di udire cosa dicevano. Potevo solo rodermi nell'impotenza mentre sbirciavo da quel posto umiliante come una qualche creatura di uno zoo. Da quello che potevo intuire, l'occhialuto giovanotto pareva tentare di persuadere il dottor Gable a uscire per parlare con qualcuno nel corridoio. Poi quando entrambi si sono avviati verso la porta, mi è venuta l'ispirazione. «Nella parete posteriore dell'ascensore, cioè la parete parallela al corridoio fuori, avevo osservato un chiarore contro il buio, e mi ero accorto che veniva da alcuni sfiatatoi di un ventilatore, o da una rete, che correva lungo il soffitto dell'ascensore. Ah! Ispirazione! Se fossi riuscito ad arrivare a quel ventilatore, avrei avuto la piena visuale di quanto succedeva nel corridoio esterno ed essere anche in grado di udire quello che succedeva. Sebbene io sia un uomo di notevole statura, non ero tanto alto da portare gli occhi a quel livello, ma l'aiuto della cassa di legno avrebbe reso facile a chiunque il procedimento. «In un baleno sono salito sulla cassa e premendo il naso contro il ventilatore o rete, e allungando il collo leggermente da una parte e dall'altra, po-
tevo vedere benissimo quasi tutta la sala.» Qui il dottor Illingworth s'interruppe, tirando il fiato con forza. Per la prima volta da quando aveva cominciato a parlare, la sua faccia aveva preso un colore strano. «E da quella posizione strategica, sir Herbert» disse, «ho visto commettere il delitto.» 12 Veduta da un ascensore: come il dottor Illingworth sostenne il ruolo del diavolo Ora finalmente... finalmente, finalmente... stavamo andando diritti al sodo. Quello era il punto cruciale dell'infernale vicenda. E io non volevo interrompere il vecchio nel suo racconto, né dirgli di essere breve dopo tutta la verbosità precedente, perché il tipo aveva il pallino della precisione. Perfino lui pareva intuire di essere entrato in un'atmosfera diversa, sebbene io sia quasi sicuro che si arrovellasse per capirne il motivo. Ora non era più un gioco, ora c'era di mezzo un delitto. E il fatto che per tutto quel tempo Illingworth si era aspettato un delitto, lo avrebbe aiutato a rivedere come in un film tutto quello che aveva visto e udito. Se ne stava lì seduto accanto alla mia scrivania col sigaro diventato ormai un mozzicone spento, continuando a fare movimenti come se stesse sempre fumando, ma con l'aspetto un po' grigio e stanco. Comunque riprese, con voce stridula e gracchiante come quella di una cornacchia. «Mi rendo conto che voi volete da me più precisione possibile su questo punto particolare» disse, asciugandosi la fronte, «e io cercherò di farlo. Dalla mia posizione strategica, i primi oggetti distinguibili erano le colonne che, situate forse a tre metri di distanza, correvano lungo quel lato del muro. Oltre quelle vedevo un grande spazio aperto al centro della sala, poi un'altra fila di colonne dalla parte opposta e, al di là, la fila delle carrozze. Immediatamente alla mia destra, in fondo alla sala, c'era la scala e, premendo la guancia contro gli sfiatatoi e strizzando gli occhi verso sinistra, riuscivo a distinguere una parte della porta di bronzo. Vicino a quella porta si era radunato un gruppo di persone che parlavano tra loro a bisbigli. Erano Pruen, il custode traditore, la florida ragazza col vestito rosso che avevo già visto, e una ragazza snella dai capelli chiari che non avevo mai visto: una delle due doveva essere la Miriam che avrebbe tradito il suo innamorato, e l'altra quella Harriet della quale mi aveva parlato il dottor Gable. E al-
la fine, con loro c'era il bruto che doveva impersonare un principe della Casa di Mihràn, sempre con i suoi appariscenti indumenti rubati, che stava gesticolando violentemente. Perfino i loro bisbigli suscitavano echi in quella casa bianca e azzurra e scialba con la sua luce lunare artefatta, e indicibilmente spaventosa. «L'uscio della stanza del conservatore si apre e ne escono il dottor Gable e l'uomo biondo, così che per la prima volta li sento parlare. La loro conversazione mi colpisce per la sua incongruità, perfino sconcertante, ma io ve la cito letteralmente, e potrei testimoniare sulla sua precisione perché ero appena a una dozzina di passi dai due. «"... ma non è possibile che sia il dottor Illingworth!" stava protestando il dottor Gable, a voce bassa ma con una specie di guaito. "Accidentaccio, Ron, ti dico che quel tipo è matto! Ha detto che era Wallace Beery di Scotland Yard e mi ha snocciolato un sacco di versi sugli scozzesi!" «"Siamo nei guai" asserisce il suo compagno che io avevo già individuato come quel delinquente di Holmes: il segretario che tradiva il suo datore di lavoro. "Va' su e parla con Pruen. Pruen è sempre stato accanto alla porta. Anche lui aveva pensato che vi fosse qualcosa di strano in quel tipo, quando è entrato. Poi, non erano passati dieci minuti dall'arrivo di Illingworth - se è lui - che è arrivato il vero attore dell'agenzia teatrale...!" «Il dottor Gable appariva sconvolto. «"Be', perché Pruen non ci ha avvertiti? Da me non è venuto. Dov'è?" «"Non lo so! E pare che non lo sappia nessuno!" risponde Holmes. "Pruen non osava lasciare la porta per paura che Mannering arrivasse inaspettatamente; l'attore non è arrivato che cinque minuti fa più o meno, e Pruen non ha capito che si trattava di lui finché non l'ha visto. Allora, dato che Pruen non osava allontanarsi dalla porta, sono sceso io subito dopo, e quando Pruen me l'ha detto, sono venuto qui di corsa per parlarti. Ascolta, Jerry, cosa aspettiamo? Per amor del cielo, torniamo là dentro e tiriamo fuori Illingworth da quell'ascensore, scusiamoci con lui e cerchiamo di calmarlo! Darei l'anima per non essermi cacciato in questa storia. Se il vecchio lo viene a sapere, io posso salutare il mio impiego, e Sam verrà buttato fuori dalla legazione... sai com'è il vecchio Abbsley, e tu sarai cacciato fuori di casa a calci per non parlare di quello che succederà a Miriam. In qualche modo dobbiamo mettere tutto a tacere." «Un discorso simile era veramente straordinario per un membro di quella ghenga, e fatto con un tono talmente saggio, freddo e tagliente che il mio cervello lì per lì ha vacillato. Forse quello era il tipo meno micidiale
della banda, oppure era tutto uno spaventoso errore? Ma non avevo tempo di meditare sulle ramificazioni di quei pensieri, perché Baxter, l'individuo vestito da persiano, si era staccato dal gruppo accanto alla porta e stava correndo verso i due sotto il mio ventilatore. Per arrivare sino a lì doveva passare accanto alle bacheche dentro le quali erano esposte armi di tutti i generi, e poi oltre la fila delle cinque carrozze lungo la parete opposta. Mentre passava vicino a una grossa e scura carrozza chiusa, di un modello che non conosco, ho avuto l'impressione che guardasse il pavimento dietro di essa. Poi si è chinato, è andato sotto la carrozza e (dato che proprio in quel punto c'era una colonna) è sparito dalla mia vista per alcuni secondi, dopo di che è riapparso portando nel palmo un piccolo oggetto scuro che, a quella distanza, non ho potuto identificare con sicurezza sebbene io sia dotato di un'insolita vista lunga. Tutto ciò, come dico, è avvenuto mentre i due compari stavano parlando, e, posso aggiungere, il dolore alla testa, o il mio spirito sofferente e umiliato non erano stati affatto leniti dal tono con cui il dottor Gable aveva parlato di me. «"Sì, immagino che dovremo rimandare questa faccenda" dice il dottor Gable. "Sono le undici, siamo completamente disorganizzati, abbiamo un pazzo rinchiuso nell'ascensore e ora pare che sia arrivato l'uomo mandato dall'agenzia Brainerd... oh, Signore!" «A questo punto l'individuo chiamato Baxter, con la sua tunica celeste ricamata, arriva farfugliando. La sua faccia, ho pensato, doveva essere stata scurita artificialmente (difatti mostrava la tendenza di toccarsela e strusciarsela con le mani come fa un gatto domestico) e dal disordine dei suoi capelli ho capito che sotto il berretto di pelle di pecora doveva portare una parrucca nera. Il suo eloquio, in tono querulo, era pieno di "io dico" e "accidenti a tutto". Mi sono molto meravigliato, lo confesso, perché oltre all'intrinseco terrore della situazione, la sanguinaria conversazione aveva assunto uno strano tono, come se quei tipi fossero degli scolaretti. «"No, non rimandiamo proprio nulla" ha ghignato Baxter. "Chi dice di rimandare? Ormai non si torna indietro." «Quando il dottor Gable ha cominciato a spiegargli la situazione, Baxter gli ha troncato la parola. "Parli come quelle donne là. Lascia che quel tizio, chiunque egli sia, se ne stia nell'ascensore. Non renderà più divertente la scena? Al momento giusto lo libereremo e lo porteremo davanti a Mannering... farà un effettone... Quello che voglio sapere invece è dove si è cacciato quell'attore che abbiamo ingaggiato. È venuto, dice Pruen: non può essere svanito come un maledetto fantasma, a meno che non abbia tagliato
la corda. Ma che razza di stranezze stanno succedendo qua dentro, comunque? Guardate qui!" «Ha mostrato il palmo della mano col piccolo oggetto che aveva raccattato, e io, afferrandomi precariamente al bordo sotto la rete, ho potuto vedere che si trattava di un ciuffo di peli neri o di un pezzetto di lana tagliata a forma di baffi finti. «"Li avevo cercati dappertutto" dice. "Rinkey insisteva che dovevo metterli. Ha la fissazione di adornare la gente con peli, lui. E ora li trovo per terra. Per giunta dov'è il mio pugnale? Non trovo neppure quello. Come diavolo credete che possa fare la mia parte senza il pugnale? È la cosa più importante di tutte. Ron, tu sei il trovarobe di questo spettacolo... dov'è il mio pugnale...?" «"Non ho la minima idea di dove sia il tuo pugnale" risponde Holmes parlando a bocca stretta proprio come il mio amico signor Murdoch quando si esibisce in spettacoli di ventriloquia ai festival della chiesa. "Ho aperto la bacheca e l'ho messo in bella vista per te. Vuoi cacciarti in testa che ci sono cose più importanti del ritrovamento del tuo pugnale? Proprio ora... Sam!" «Baxter, con un'imprecazione, aveva voltato le spalle e stava tornando frettolosamente verso la parte anteriore del museo. Parlando fitto fitto tra loro, gli altri due lo hanno seguito, e anch'io ho cercato di seguirne il cammino allungando il collo sul mio trespolo. Come ho fatto a perdere l'equilibrio non saprei dirlo. Comunque mi ero allungato troppo e sono riuscito a schivare un bel tonfo per terra afferrandomi al bordo sotto il ventilatore da dove mi sono poi calato lentamente giù. Di nuovo, signore, lo ripeto, la scivolata della cassa è stata provvidenziale. Mentre arrancavo febbrilmente per rimetterla ritta, le mie mani hanno incontrato una superficie fredda sul pavimento della cabina: hanno trovato, per farla breve, la lama di un'accetta. Avrei urlato dalla gioia quando mi è capitata sotto la mano, poiché sia per il dolore delle mie ecchimosi, sia per la mia umiliazione e una certa tensione nervosa, avevo raggiunto un limite in cui il cuore mi scoppiava dal desiderio di lottare contro quegli scellerati e (lo confesso senza vergogna) i miei occhi erano quasi colmi di lacrime. Armato di quell'accetta come un guerriero indiano americano per le strade di Miami, avrei potuto sfidare i miei nemici e rispondere loro con lo stesso linguaggio di un intrepido Seminole. «Stavo guardando, come vi ho detto, direttamente verso la fila delle carrozze sul lato opposto della sala. Opposto, non proprio davanti, ma non co-
sì lontano alla mia sinistra da non poter vedere senza interruzione... là c'era la gigantesca carrozza nera di cui vi ho parlato. Tutti i membri del gruppo che avevo visto precedentemente erano riuniti nell'angolo più lontano della sala, vicino all'uscio con la scritta "Galleria Persiana": si trovavano dall'altra parte della fila delle carrozze, in cima, e non potevano vedere ciò che vedevo io. Udivo le loro voci cinguettare allegramente, ma non le ascoltavo. Perché la portiera della carrozza si stava aprendo lentamente. «La portiera della carrozza si stava aprendo, verso di me, sotto il bagliore bluastro di quella luce lunare. L'interno pareva abbastanza spazioso perché un uomo potesse starvi in piedi, e difatti c'era un uomo in piedi, un po' curvo, e stava fissando qualcosa di voluminoso sul pavimento e con la mano destra spalancava la portiera della carrozza per avere più luce. L'uomo indossava l'uniforme di un normale poliziotto; sulle prime ho pensato che fosse arrivata la polizia, poi mi sono ricordato che il mio ospite aveva descritto un membro della loro ghenga in uniforme di poliziotto. Tenendo aperta la portiera col piede, si è chinato ancora di più e con uno sforzo poderoso ha cominciato a sollevare quella massa voluminosa dal pavimento. Allora ho potuto vedere che quella massa era il corpo di un uomo la cui testa ciondolava nella mia direzione e che il falso poliziotto lo aveva afferrato per le spalle e lo stava tirando su. A quel punto, reggendo il corpo con una mano, ha afferrato la testa, apparentemente per i capelli o per il cappello, un cilindro ben calcato, e lo ha alzato quanto bastava per poterne guardare il viso. «Era un viso morto, sir Herbert, e guardava direttamente verso di me con occhi spalancati, tondi, in cui riuscii a vedere un cerchio bianco, sebbene il collo dondolasse. Era la faccia di un uomo barbuto, con la bocca aperta. Quando il soprabito scuro si è spalancato, ho visto che dal petto del morto spuntava una protuberanza di colore bianchiccio simile all'avorio. E allora ho capito. «In quel momento, dalla parte anteriore del museo da dove non potevano vedere l'interno della carrozza o il suo macabro contenuto, la ragazza dai capelli chiari ha cominciato a gridare. Chiamava il falso poliziotto rivolgendosi a lui con "tesoro"... l'effetto di simile espressione affettuosa echeggiante nella sala dove c'era un morto, era orrendo... chiedendogli: "Perché ti sei messo a saltare dentro le carrozze in un momento come questo?" Lui agiva in fretta e dai suoi movimenti era chiaro che era colpevole. Sempre sostenendo il cadavere con una mano, è sgusciato fuori dalla carrozza dalla mia parte e con l'altra mano ha sbattuto la portiera in faccia al
morto. Confesso che al rimbombante rumore della portiera che sbatteva e si chiudeva sulla testa di un morto che cercava di uscire, ho trasalito, e ho trasalito ancora di più al suono echeggiante della voce gaia dell'uomo. «"Non è successo niente" ha gridato. "Avevo lasciato lo sfollagente in una di queste carrozze, tutto qui. No, non è successo niente... solo che dobbiamo andarcene e andarcene alla svelta. A quanto pare lo spettacolo è andato a carte quarantotto, quindi cosa restiamo qui a fare? Ma prima portiamo fuori, da qualche parte, voi ragazze, poi Jerry e Sam e Ron e io dovremo parlare un po'." «Baxter è arrivato a gran passi verso il centro del corridoio principale. "Perché vorresti andare via? Non è mica successo qualcosa, vero?" «"No, no!" L'altro gridava con voce fessa, falsa, vigorosa, poi, quando si è girato, ha alzato gli occhi e, attraverso la sala, ha visto la mia faccia. «I buchi del ventilatore erano molto vicini gli uni agli altri perciò era impossibile, naturalmente, che potesse aver distinto i miei lineamenti, ma la vaga sagoma di una testa era sufficiente. Non dimenticherò tanto presto quella figura in blu col suo elmetto, ritta immobile sul marmo bianco, una piccola ombra bluastra ai suoi piedi e le spettrali colonne intorno. Sebbene gli occhi fossero in ombra sotto la visiera, sembravano agitati e lustri, e lungo un lato della faccia ho visto il luccichio di un rivolo di sudore che colava giù da sotto l'elmetto. «"Chi c'è in quell'ascensore?" ha domandato lui. «"Il prigioniero arpionato da Jerry" ha risposto ridacchiando la ragazza dai capelli chiari. "Perché?" «"Voglio parlargli" ha detto il poliziotto. «Ancora prima che quello cominciasse a parlare, io ho agito con una furia pazzesca che neppure adesso riesco a rimpiangere. Sono saltato giù dalla cassa e ho lanciato l'accetta contro il vetro del finestrino dell'ascensore. Il primo colpo l'ha spaccato, il secondo e il terzo hanno ripulito l'intelaiatura in modo che io ho potuto mettere fuori la mano e afferrare la sbarra all'esterno. Proprio mentre lo facevo, ho udito la voce angosciata di Holmes che gridava: "Sta uscendo!" e subito dopo la voce più grave del falso poliziotto che urlava: "Sarà meglio fermarlo, vi avverto! Non potete capire e non chiedetemi niente, ma saranno guai seri se quello riesce a uscire e a chiamare la polizia". «Quelle parole mi hanno spronato a sforzi ancora più poderosi, perfino con una bieca selvaggia sensazione di trionfo, specialmente quando li ho sentiti correre precipitosamente verso quella stanza. Dopo aver aperto gli
sportelli dell'ascensore, ho gettato via l'accetta... a quel punto avevo soltanto una mira... e come il fulmine sono corso a chiudere a chiave l'uscio che dava sul corridoio per impedirgli di entrare. E... ero trionfante. E mentre una valanga di passi sembrava avventarsi contro quell'uscio, io ho girato la chiave nella serratura e poi mi sono appoggiato contro l'uscio con la vista annebbiata ma sempre ben deciso. Dovevo dimenticare tutte quelle storie sulla dignità personale. Con passo risoluto sono entrato nella toilette dove ho trovato perfettamente possibile salire sul lavandino (sebbene la superficie convessa rendesse estremamente precaria la presa del piede) e da lì mi sono seduto sul davanzale e ho spinto in su il vetro della finestra. Il salto non presentava un gran rischio e per facilitare la mia fuga, proprio alla sinistra della finestra, c'era un grosso tubo della grondaia. Un uomo ancora più pavido di me sarebbe stato stimolato dalle grida che udivo alle mie spalle. Sebbene dall'uscio ancora chiuso non potesse penetrare alcun suono, udivo venire debolmente le voci dagli sfiatatoi del ventilatore poiché gli sportelli dell'ascensore erano rimasti aperti. «"Non può uscire da lì" diceva la voce del dottor Gable. «"Ti dico di sì" urlava la voce del falso poliziotto. "Può uscire dalla finestra della toilette. Non discutete, andate a precederlo dalla porta posteriore o saranno guai grossi. Io coprirò il davanti." «Nessun ulteriore stimolo mi è stato necessario per aiutare la mia frenetica discesa. Mi sono ritrovato ritto e senza fiato in un giardino o cortile sul retro, recintato da alti muri, ma la luce benedetta della luna che l'illuminava con casto splendore mi indicava un cancello di ferro nel muro posteriore. Mi sono precipitato là e con mani ansiose e supplicanti ho saggiato la mia liberazione. Il cancello era chiuso a chiave. «Dietro di me ho udito vagamente un tintinnio e un clic. Contro la sagoma scura del museo, una striscia di luce, proveniente da una porta aperta, illuminava il sentiero. Con la mia oasi trasformata in crudele sabbia, non ho avuto altro pensiero che di schivare quella luce indagatrice, perché a quel punto dovevo essere rimasto imprigionato in mezzo ai miei inseguitori. Ho ripiegato lungo il muro senza saper cosa cercare, né consapevole di farlo, mentre i miei inseguitori entravano nel sentiero diretti verso il cancello posteriore. Così mi sono ritrovato sul davanti e a quel punto la mia mano, che brancolava lungo il muro, ha trovato qualcosa: un sostegno di ferro, o una lancia, una serie di lance che spuntavano dalla pietra formando come una specie di scala sul muro. «Non ricordo di aver salito quella scala: ricordo solo di aver avuto la
sensazione che la libertà stava dall'altra parte. Ma non è durata. Perché non appena mi sono trovato, col fiato mozzo, seduto cavalcioni sul muro, una luce mi ha folgorato gli occhi. E là sotto ho distinto l'odiata sagoma dell'elmetto di un uomo che ho scambiato per il mio nemico, il falso poliziotto; il mio cervello in subbuglio ha captato le parole trionfanti che ha pronunciato, ma non riesco a ricordarle, perché più distintamente ricordavo il grido di pochi minuti prima: "Io coprirò il davanti". «Sappiamo che non esiste furia simile a quella dell'eternamente sconfitto. Io ero l'eterno sconfitto, e la bomba sigillata è scoppiata. Eravamo uno contro uno: avrei preso l'assassino da solo o sarei morto. Sugli avvenimenti successivi, quando mi sono gettato su di lui pazzamente da quel muro, sorvolo in fretta. Prima del pugno che mi ha fatto perdere i sensi, provavo una terribile amarezza, e quell'amarezza era composta di due fattori: che ero un ministro della Chiesa e che avevo assalito con ferocia l'uomo sbagliato.» Il dottor Illingworth si mise le mani sulla testa e tacque per un bel po'. Io dissi la mia. «Ma poi cos'è accaduto, dottore? Non è mica finita qui, vero?» «Fin dove posso controllare me stesso o le mie facoltà per abbozzare un racconto coerente...» disse, e rabbrividì, «sì, lo è. Non mi restano più che impressioni vaghe.» «Però nella vostra lettera avete accennato a uno scivolo per il carbone.» «Uno scivolo per il carbone!» esclamò lui come se l'avessi bucato con uno spillo. «Cielo misericordioso, uno scivolo per il carbone! Che io... Be', oso dire, sir Herbert, sarà meglio che vi parli anche di quel nebuloso interludio tra le undici e qualcosa e mezzanotte e mezzo, anche se io non riesco a cavarne niente. Se quelli sono criminali, e nulla riuscirà a convincermi che non lo sono, perché si sono trattenuti e non mi hanno ucciso quando sono stato alla loro mercé? «Comunque, la prima impressione che riesco a ricordare è quella di essere seduto e sballottato da una parte all'altra in un qualche veicolo a motore, con la testa che mi doleva al di là di ogni sopportazione e la sensazione di luci che mi balenavano negli occhi. Per quanto potevo capire, dovevo trovarmi dentro un taxi buio. Ero consapevole di un acre odore d'alcol che ostensibilmente emanava dal mio vestiario mentre una figura scura mi sedeva accanto tenendo una bottiglia accostata alle mie labbra. «Con voce fievole ho chiesto dov'ero. «"Hammersmith Bridge" mi ha risposto una voce lontana. "Siamo stati fino a Slough e ce n'è voluto per farvi riprendere i sensi! Grazie a Dio state
meglio! Il taxista vi crede ubriaco. Non vi preoccupate. Va tutto bene." «Nonostante le fitte di dolore, ho lottato per drizzarmi su a sedere e, avendo riconosciuto quella voce, ho incrociato le braccia. "Se avete altri omicidi da compiere, stanotte" mi sono udito borbottare al falso poliziotto, "sbrigatevi. Sono sfinito." «"Nessuno vi vuole uccidere, dottor Illingworth!" ha detto l'uomo, quel Butler, gridandomi all'orecchio con tale dolorosa sonorità da darmi l'impressione che la mia testa si spaccasse. "Sì, so come vi chiamate, abbiamo trovato il vostro biglietto da visita nella vostra tasca quando vi abbiamo tirato giù per lo scivolo del carbone. Dottor Illingworth! Mi sentite? Vi dobbiamo le nostre scuse... vi chiediamo scusa in ginocchio. È stato uno spaventoso errore, tutto qui. Ecco perché ho voluto portarvi via da solo: per spiegarvi le cose, ho persuaso gli altri di permettermi di accompagnarvi a casa. Loro non sanno niente ancora... di quello che voi e io sappiamo... di quel cadavere." «Di quello che ha continuato a dire non sono sicuro, sebbene abbia parlato loquacemente e a lungo. La combinazione del taxi traballante, il balenio delle luci e una forte nausea mi distraeva completamente da ogni altra cosa, tanto che a un certo punto (avete chiesto l'umiliante verità, sir Herbert) ricordo di aver vomitato l'anima dal finestrino. Solo in un momento sono riuscito a seguire quanto mi stava dicendo poiché sentivo una nebulosa meraviglia per ciò che era accaduto dopo il mio scontro col poliziotto. «"Ero appena arrivato alla porta principale aperta solo di una decina di centimetri, quando vi ho visto assalire il poliziotto là fuori" mi ha detto. "Non potevo uscire e portarvi via senza dover spiattellare ogni cosa. Poi voi siete piombato a terra proprio accanto al punto dove sapevo dell'esistenza di una carbonaia. Se il poliziotto fosse andato via per chiedere aiuti, sapevo di potervi tirare giù. Così Sam e io siamo andati in cantina. Appena il poliziotto si è allontanato... voi eravate proprio sull'orlo della botola... vi abbiamo tirato giù e lui non è riuscito a vedere niente perché voi gli avevate spaccato la torcia elettrica..." «Ha continuato a lungo mentre tornavamo a Londra. Una volta, ricordo, mi sono fatto coraggio e l'ho chiamato assassino. Lui mi ha giurato che non c'entrava niente con quella faccenda spaventosa, ma mi era troppo difficile seguire le sue argomentazioni. Credo più che altro che mi pregasse fervidamente di dimenticare i nomi dei suoi compagni coinvolti in quella storia, specialmente quello delle donne. Dal caos della mia mente affiora una frase ansiosa.
«"Ascoltate, vi dirò cosa faccio" ha detto. "È tutta colpa mia perché non posso soffrire quel porco di Mannering e quello che ha detto dei miei amici. Se mi date la vostra parola di predicatore e di gentiluomo che non direte che erano al museo stanotte, sul mio onore domani andrò a Scotland Yard e confesserò di aver ucciso quell'individuo nella carrozza. Ci sono delle ragioni per cui nessuno di loro deve essere coinvolto in questa storia." «Io gli ho risposto che non potevo far niente di simile e ricordo il suo viso bianco sotto le luci stradali. «"Allora dovrò arrangiarmi in qualche modo. Dovrò andare da qualche parte per camminare e pensare." «Capirete, sir Herbert, il mio disorientamento di fronte al suo comportamento, specialmente dopo gli eventi della sera. Quando siamo arrivati al mio albergo, l'Orkney Hotel in Kensington High Street, lui è riuscito a trovare alla fine nelle sue tasche il denaro appena sufficiente a pagare l'esorbitante tariffa del taxi. Mi ha accompagnato dentro l'albergo sempre impersonando un agente di polizia, e per spiegare il mio stato indegno (la barba, grazie al cielo, mi era stata tolta) ha raccontato al portiere una storia fantasiosa secondo la quale mi ero trovato coinvolto in una rissa mentre parlavo a una riunione. Sul momento non ho avuto il coraggio né la voglia di contraddirlo, ma di nuovo al sicuro nella mia stanza e dopo una notte paurosa come una qualunque notte dei vostri romanzi polizieschi, ho capito di dover prendere la penna per scrivere la verità. Ora sapete tutto. È arrivato il momento di giudicare il mio comportamento, sir Herbert...» Agitò le mani con l'aria di un uomo che ha passato una notte brava, tirò il mento in dentro e tacque. 13 Gli undici punti L'ora del pranzo era passata quando riuscii a liberarmi del vecchio Illingworth, ma io avevo bisogno di stare seduto, di chiudere le orecchie e di pensare. Naturalmente avevo guardato Illingworth con la faccia brutta, perché io sono un duro... grr! e credo nel trattamento duro. Ma avevo dovuto assicurargli, perfino mentre gli mettevo addosso una paura del diavolo, che non era probabile che passasse dei guai per quella faccenda e che ci aveva dato alcune informazioni che potevano essere anche preziose. Ma perdio, se non erano preziose! Era proprio quello che temevo. Era un pasticcio infernale e avevo paura che non potesse essere messo a tacere. Co-
sì, quando Illingworth se ne andò dopo un ultimo ribaltamento della fotografia di mia moglie, io mi misi a girare per l'ufficio dando calci ai mobili e sputando fuori i miei sentimenti, e alla fine premetti qualche pulsante. Popkins, il mio aide-de-camp di cui vi parlavo prima, che era stato a origliare con le sue orecchie d'elefante dietro la porta, entrò. Dissi: «Siediti, cretino. A parte il rapporto di uno stenografo col crampo dello scrittore, cosa abbiamo?» Lui fece la sua solita pantomima di corrugare la fronte e di grattarsi la cute. Poi disse: «Abbiamo un signore molto insolito, con il complesso di accoppiare divi del cinema e gialli sensazionali. Sarebbe stato un grande attore anche lui. Da un momento all'altro mi aspettavo che saltasse a dire che era Mickey Mouse della Sûreté. Sarà davvero sincero? Sembra troppo bello per essere vero!». «Sì, penso di sì. Controlleremo, naturalmente. Ripensandoci, Carruthers nel suo rapporto afferma di aver detto all'uomo del laboratorio di cercare impronte in quell'ascensore. Se Illingworth è stato là dentro... be', avrei dovuto chiedergli se non gli dispiaceva di farsi prendere le impronte, e se lui era davvero stato in quell'ascensore, dovrebbero... porco cane, avrei proprio dovuto...!» «Ci ho pensato io, signore» disse Popkins. «Lo fermeranno appena arriva giù. Dovremmo avere le impronte per un confronto tra pochi minuti.» «Sta bene, sta bene» dissi. «Ora sentiamo cosa ci dà la tua famosa imitazione d'intelligenza e vediamo cosa altro ricavi da questa storia.» Naturalmente non viene mai fuori nulla, ma di solito gli faccio quella domanda: mi stimola. Lui tirò fuori il suo libretto di appunti. Disse: «Lo schema principale è abbastanza facile da seguire. Il giovane Wade, Holmes, Baxter e Pruen e le due ragazze stavano organizzando quello scherzo ai danni di Mannering per vedere se riuscivano a spaventarlo dopo tutte le bravate sulle sue avventure. Dovevano farlo con molta abilità perché Mannering era stato davvero in Oriente, presumibilmente conosceva un po' di arabo e non si sarebbe lasciato prendere in castagna da qualcosa di goffo. Il personaggio chiave della faccenda, naturalmente, era il "dottor Illingworth", che doveva sostenere gran parte dell'elevata conversazione... la questione era: chi avrebbe recitato quella parte? Nessuno di loro poteva farlo adeguatamente perché Holmes, l'unico con i requisiti richiesti, era anche l'unico che Mannering conosceva e quindi sarebbe stato individuato. Vedete cosa hanno escogitato. Il giovane Wade aveva il dono di una certa parlantina e qualche conoscenza per il ruolo di Illingworth, ma
lui doveva sostenere la parte di Jeff Wade dato che somiglia tanto al padre. Mannering non conosceva il vecchio ma poteva averne visto una fotografia. Baxter sapeva l'arabo per la parte di Illingworth, ma non aveva né cultura né il dono della parlantina. Butler sapeva parlare, ma non aveva nessuna conoscenza della lingua araba. «Così erano rimasti bloccati finché non hanno pensato di telefonare a un'agenzia teatrale chiedendo se non avessero qualcuno che potesse sostenere quel ruolo con tutti i requisiti, conoscenza della lingua, dei monumenti...». Dissi: «È una richiesta infernale da fare a un'agenzia teatrale. Comunque il nome dell'agenzia lo sappiamo... (Brainerd, vero?) e possiamo telefonare...». «Già fatto» rispose Popkins. «E qui ci sono tutti i particolari su Raymond Penderei.» S'interruppe e mi fissò. «Si dava il caso, dico si dava il caso, che conoscessero un uomo che poteva soddisfare pienamente a quelle richieste...» Io imprecai violentemente. «"Si dava il caso." Qui sarebbe dove le acque incerte si uniscono e i destini si incrociano. Popkins, non mi piace.» «Comunque a me piace. Ci porta diritti al punto... scusatemi, porta voi. L'agenzia Brainerd è specializzata nel fornire numeri per feste private. Se volete un'orchestra da ballo per il ricevimento di vostra figlia, se volete una dozzina di ballerinette per un festino da scapolo, se volete qualunque cosa, da un soprano a una troupe di pulci ammaestrate, telefonate e loro mandano.» Aprì il blocco. «Raymond Penderei. Età trentadue. Nato nell'Iraq. Figlio di padre inglese e madre persiana, da qui ottimo suddito inglese. Cultura, non un gran che, ma molto talento. Arrivato in Inghilterra soltanto quattro mesi fa, da Bagdad...» «Uh!» «Sì, signore. Si è sbottonato con un tizio dell'agenzia, al quale pare abbia rotto parecchio le scatole. Ho parlato con quel tale dieci minuti fa e ho avuto qualche informazione utile. Penderei gli disse di essere figlio di un nobile inglese, un maggiore... la depravazione dei maggiori è notoria... che era andato a una scuola inglese quando l'Inghilterra, nel millenovecentodiciannove, aveva un mandato sul territorio... e che aveva fatto la guida turistica... osservate, la guida... per le antiche meraviglie. A ventun'anni andò a Parigi, cantò per un po' di tempo in un music-hall e fece anche qualche
imitazione di personaggi. Osservate anche questo: imitazione di personaggi. Inoltre era un gigolò. Pare che si fosse cacciato nei guai perché, diceva, una donna lo aveva accusato falsamente di aver tentato di estorcerle del denaro...» «Mio Dio, Popkins, lo temevo.» Qui il mio fedele segugio mi guardò quasi cercasse di indovinare i miei pensieri, lanciò il suo solito sibilo e proseguì. «Alla fine venne a Londra e circa quattro anni fa tornò a Bagdad, la sua brughiera nativa. È più o meno tutto, tranne il fatto che dal suo ritorno qui quattro mesi fa, era senza lavoro. Non c'era molta richiesta per il suo canto o le sue imitazioni. Ma quando ieri dai Wade hanno telefonato per cercare qualcuno che si adattasse alle loro esigenze, quelli dell'agenzia hanno naturalmente pensato a Penderei!...» «Chi di loro ha telefonato?» «Butler. Ha offerto venti ghinee per una piccola imitazione, una parte che doveva essere imparata alla svelta: era già mezzogiorno quando ha telefonato. Ha detto di mandare l'uomo in un bar di Piccadilly alle due del pomeriggio per fargli conoscere i particolari. Così quando Carruthers ieri sera è piombato addosso a quella gente con l'informazione che un uomo chiamato Raymond Penderei era stato assassinato, non c'è molto da stupirsi se quel nome non diceva niente a nessuno. Non lo avevano mai sentito, o almeno così era per molti di loro...» «Ascolta, lurido individuo» ruggii, «cosa stai insinuando sulla figlia di Jeff Wade?» Popkins disse: «Via, via, non sto insinuando assolutamente nulla. Sto abbozzando il probabile corso degli eventi, signore. Che è questo: Penderei ha accettato di recitare la sua parte, e da qui abbiamo una spiegazione di un sacco di cose. La barba finta, spruzzata di grigio: doveva impersonare il dottor Illingworth, e sia Butler sia Jerry Wade si erano fissati sul fatto che gli eruditi dovevano avere la barba. Quegli occhiali appesi a un cordone nero: un tocco molto da erudito, come il nostro amico dottor Fell. Il sobrio cappello a cilindro e il vestito da sera: gli abiti dei suoi giorni da gigolò, se ricordate l'etichetta di Parigi trovata da Carruthers. Tutto quadra, perfino se quei ragazzi matti... be', non proprio tanto matto, uno di loro. Calma ora, signore! «Alla fine, se Illingworth ha udito bene, Penderei dev'essere arrivato al museo circa dieci minuti dopo di lui. Tra quel momento e le undici qualcuno lo ha ucciso. Ora non c'è bisogno che io vi faccia notare che, mentre
è possibile, è estremamente improbabile che un estraneo sia sgusciato lì dentro e abbia commesso il delitto. Abbiamo tutto l'elenco dei personaggi sotto i nostri... vostri... occhi. Perciò?» Dovevo ammettere che Popkins aveva ragione. Vi rimuginai su per un minuto, poi mi avvicinai alla finestra e guardai il lungofiume. Alla fine gli domandai se c'era altro. C'era. Popkins continuò: «Ora, col racconto del dottor Illingworth abbiamo la spiegazione di gran parte delle cose pazzesche in cui Carruthers si è imbattuto ieri notte. Gran parte! Possiamo ricavarne una storia filata. Ma alcuni punti non sono spiegati. Certi possono essere importanti, altri no. Dovrete spremere quei ragazzi sulla faccenda carbone e direi anche parecchio il fedele Pruen che può essere il vostro testimone principale, dato che era stato tutta la sera di guardia sulla porta da dove aveva una chiara visuale della sala. Alcuni di questi punti, di conseguenza, potrete chiarirli alla svelta. Probabilmente qualcuno sarà spiacevole. «Quando quei giovani ieri notte hanno spento le luci e sono usciti dal museo con quella fretta del diavolo dopo aver sgraffignato il vero dottor Illingworth al sergente Hoskins, hanno deciso una cosa. Hanno stabilito di non dire, qualunque cosa succedesse, di essere stati al museo quella sera. Avevano paura di Illingworth, non volevano che dicesse a Jeff Wade che erano stati a giocare nel suo adorato museo e che lo avevano chiuso nell'ascensore... credevano che Butler riuscisse a calmarlo... Ma, con due eccezioni, nessuno di loro sapeva che era stato commesso un delitto. Quelle due eccezioni erano Butler e l'assassino, naturalmente, oppure Butler può anche essere l'assassino, per quello che ne so io. Ma gli altri... be', ne dubito.» A Popkins piace il suono della propria voce. Dissi: «Credi che io sia scemo? Certo che non lo sapevano. Altrimenti Pruen non sarebbe stato così scherzoso quando è arrivato là Carruthers. Non avrebbe ballato allegramente al buio, se avesse saputo che dentro quella carrozza c'era un bel cadavere fresco fresco. Sii logico. Pruen è affezionato a quella ragazza, come del resto lo è tutta la ghenga, ma...» «Ma, come dite» intervenne Popkins liscio come il burro, «ora che sanno del delitto dovranno parlarne. È per questo che insisto che vi concentriate su questi punti. Alcuni, come dicevo, possono essere spiegati facilmente. Ho fatto una lista dei punti che non sono stati spiegati dal racconto del dottor Illingworth; ne ho preparato un duplicato per voi.» Me lo spinse sulla scrivania. «E, col vostro permesso, ora lo ripasso. È diviso in due
parti: prima e seconda, prima i punti pratici, poi quelli che possiamo chiamare punti filosofici. I 1) Come si spiegano le tracce di polvere di carbone proprio all'interno della porta di bronzo del museo, quelle macchie indistinte che Carruthers ha trovato sul pavimento? Commento: Dato che una patina di polvere di carbone è stata trovata sulla suola delle scarpe dell'uomo assassinato, le orme dovevano essere state presumibilmente fatte da lui. Dov'era stato allora, proprio prima di entrare nel museo, per lasciare tracce sul pavimento di marmo? 2) Come si spiega il biglietto dattiloscritto che comincia con "Caro G. Ci vuole un cadavere... un vero cadavere" eccetera, che è stato trovato nella tasca di Mannering? Commento: Quel biglietto, scritto sulla macchina per scrivere di Holmes e, secondo Mannering, trovato nell'appartamento di Holmes, non quadra esattamente col falso "assassinio" come aveva capito il dottor Illingworth. 3) Come si spiega il grosso pezzo di carbone tirato contro il muro della Galleria dei Bazar per nessun motivo apparente, come scoperto da Carruthers? Commento: Questo fatto non è menzionato dal dottor Illingworth, né da alcun altro, e non quadra col racconto. Le persone più adatte da interrogare sono Pruen, che aveva sempre avuto una chiara visuale della sala, e Baxter, che era nella Galleria dei Bazar alle 10 e 35, quando il dottor Illingworth è arrivato al museo. 4) Quali sono state le avventure dei finti baffi neri? Commento: Quei baffi, che Baxter avrebbe dovuto applicarsi, erano stati messi, secondo Holmes, da qualche parte, insieme al pugnale, sulle scale nella sala principale in un primo tempo della serata. E insieme al pugnale sono spariti. Sono stati ritrovati più tardi da Baxter sul pavimento del museo, poi ne abbiamo perso di nuovo le tracce e Carruthers li trova dentro una bacheca chiusa a chiave al posto del pugnale. Significa qualcosa? Interrogare Pruen che era lì.
5) Perché dopo che il gruppo è uscito dal museo in un qualche momento dopo le undici, Miriam vi è ritornata? Commento: Poco dopo che Carruthers ha scoperto il cadavere a mezzanotte e venticinque, Miriam Wade è tornata passando dal cancello posteriore. Aveva la chiave per quel cancello, che era chiuso. Scambiando Carruthers per Holmes, ha detto: "Ho visto la tua luce là, ma non sapevo che tu ci fossi. Ti credevo a casa tua, stavo appunto andandoci. C'è qualcosa che non va?". Dov'era stata nel frattempo, e perché era tornata? 6) Perché, quando è tornata e Carruthers l'ha informata del delitto, lei ha telefonato in casa di Holmes cercando di Harriet Kirkton... alterando la voce? Commento: Se voleva semplicemente informarli del delitto, perché non chiedere di uno qualunque di loro e dire tutto? A quanto sembra per questo non c'è spiegazione. 7) Come si spiega il ricettario di cucina? Commento: Inutile. «Questo, credo» disse Popkins contraendo la faccia con espressione di modestia, «copre diversi punti. Naturalmente l'intenzione è di collegare i fatti in maniera coerente. Ometto le domande facili come: dov'erano tutti tra le dieci e quarantacinque (circa) quando Penderei è arrivato al museo, e le undici (circa) quando Butler ha trovato il suo cadavere nella carrozza? Capirete che questo documento serve solo per scoprire i punti più strani. Ma faccio osservare che quando avremo trovato le risposte a questi punti avremo l'assassino.» «Sei sottile, sei» gli dissi, perché, naturalmente, tutto ciò era chiaro senza bisogno di tanti trucchi, documenti fantasiosi o liste. «E stai tirando conclusioni prima ancora di aver incominciato gli interrogatori.» Allora lui continuò con un sacco di idiozie dicendo che io ero un membro del dipartimento di polizia e che non serve a niente avere preconcetti. Ma io lo feci tacere piuttosto seccamente dicendogli che, se aveva qualche altra cosa da suggerire, si sbrigasse. (Figuriamoci se io, tra tutti, avevo preconcetti!) Be', la seconda metà della sua Usta continuava così. Io bollivo e bollivo, sto ancora bollendo.
II 8) Come si spiega il telegramma che il dottor Illingworth ha ricevuto dal signor Geoffrey Wade alle cinque del pomeriggio di ieri? Commento: Quel telegramma, spedito da Southampton, invitava Illingworth ad andare al museo quella sera alle dieci e mezzo e diceva che Geoffrey Wade sarebbe tornato presto. Evidentemente non è tornato; dov'era e cosa significa tutto questo? 9) Perché Raymond Penderei è arrivato così in ritardo al museo ieri sera? Commento: Questo è un punto importante, sebbene non così ovvio come qualcun altro. Mannering, la persona destinata a subire lo scherzo, era stato invitato al museo alle undici. Bisogna quindi presumere che Penderei sia stato pregato di presentarsi molto prima in modo da ambientarsi e ripassare la parte con gli altri. Questa è puramente logica. Ma lui è arrivato soltanto alle 10 e 45, solo quindici minuti prima che lo show dovesse iniziare. Difatti sappiamo che Illingworth, scambiato per Penderei, è stato rimproverato per il forte ritardo sia da Pruen sia da Jerry Wade. 10) Qualcuno del gruppo aveva mai studiato medicina o aveva una speciale conoscenza di anatomia o di chirurgia? Commento: Vedere la testimonianza del dottor Marsden, il chirurgo della polizia, il quale ha detto che per poter penetrare nel cuore con quella lama ricurva bisognava avere una buona conoscenza medica, o era stata una strana coincidenza. 11) Cosa ci faceva Miriam Wade nella cantina quando il dottor Illingworth è entrato nel museo? Qui gli troncai la parola in bocca, prima che potesse fare il suo piccolo, pignolo commento. Su undici punti, tre riguardavano direttamente Miriam Wade, il che mi faceva imbestialire. Io conosco bene quella ragazza, se volete sapere l'amara verità: sono il suo padrino. Jeff faceva arrabbiare talmente tanto tutti che nessuno aveva voluto accettare l'incarico, ma io capisco la sua strana mentalità e non me ne è mai importato. Quanto alla ragazza, potrebbe anche diventare una piccola puttanella, infatti direi che ne ha piuttosto la tendenza, e lo stavo pensando quando Carruthers ne faceva
la descrizione... ma non si lascerebbe mai coinvolgere in una faccenda del genere. Popkins disse: «Sono tutti coinvolti. Io non ho detto niente contro la vostra figlioccia. Ho soltanto domandato: "Cosa ci faceva nella cantina?". E l'ho accennato semplicemente perché in questo caso c'è un tale, eterno aroma di carbone che pensavo potesse essere importante.» «Sì, ma cosa c'entra la cantina? Cos'ha a che fare una stramaledetta cantina con lei? C'è nessuna prova che lei sia mai stata in una cantina?» «Credete al racconto di Illingworth, vero, signore?» «E se fosse? Be'?» «Benissimo. Lui dichiara... ce l'ho qui nel blocco e potete trovarlo nel rapporto stenografico... dichiara che mentre andava verso la stanza del conservatore, l'uscio sulla sinistra della scala si è aperto e ne è uscita la ragazza col vestito rosso. Quell'uscio porta in cantina. Quod erat demonstrandum. Non dico niente della ragazza, non dico neppure che il fatto sia necessariamente importante, dico solo che era là... Ma il punto è questo: è arrivato il momento di decidere. Quali ordini darete?» La faccia di quell'uomo mi era odiosa. «Daremo ufficialmente l'incarico ad Hadley» dissi, «e al giovane Betts come suo aiutante. Ma per adesso me ne occupo io, finché non ne caverò qualcosa di sensato. Chiamami Jeff Wade al telefono e non ti lasciar sviare da nessuna scusa. Scattare.» Avevo un sacco di cose da fare, ma per il momento avrebbero aspettato. Perciò mi sedetti, mi estraniai da tutto e meditai. Malgrado quello che avevo detto a Popkins, potevo vedere come stava la faccenda. Ero sicuro che Miriam conoscesse quel Penderei, come avrete capito anche voi, parecchie cose lo facevano sospettare, ma quello che mi rendeva così sicuro era un piccolo indizio la cui importanza il lungo naso di Popkins non aveva annusato, anche se lo aveva segnato nella sua lista. Perché, quando aveva saputo dell'assassinio e dopo aver visto il cadavere di Penderei, Miriam aveva telefonato ad Harriet Kirkton camuffando la voce? Ora io non conoscevo quella Kirkton. Difatti non avevo visto neppure Miriam da tre o quattro anni, quando ancora stava sbocciando come una futura bricconcella ed esprimeva la sua gioia per tutto arricciando il nasino. L'unica cosa che avevo sempre pensato di lei era che aveva fegato e sangue freddo e in quel caso lo aveva dimostrato. La Kirkton, comunque, era la sua migliore amica. Era stata nel deserto con Miriam durante i diciotto mesi, aveva viaggiato con lei sulla nave di ritorno, probabilmente sapeva cosa c'era sotto. Pende-
rei era venuto in Inghilterra, da Bagdad, quattro mesi prima. Miriam era tornata in Inghilterra da Bagdad un mese prima, e dietro ordine di Jeff era stata immediatamente spedita da una zia nel Norfolk... la zia era andata al porto per essere certa di acchiappare la sua preda... finché Jeff non fosse tornato a casa per occuparsene personalmente. Quando si sta lontani dagli amici e dalla propria città per quasi due anni, non è mai senza una buona ragione. Per ultimo, il ritaglio di un giornale riguardante Miriam era stato trovato nella tasca di Penderei, e Carruthers aveva detto che l'unica persona del gruppo che avesse decisamente dato l'impressione di riconoscere il nome "Raymond Penderei" era stata Harriet Kirkton, proprio come Miriam aveva dato l'impressione di riconoscere la faccia quando aveva visto il morto. Tutti piccoli indizi che non si potevano provare ma che portavano alla prova più importante. Io non so molto sulle donne essendo stato sposato una volta sola, comunque l'unica ragione per cui la gente esprime il proprio parere sulle donne è semplicemente per fare un epigramma. Ma so due cose. So che non ho mai conosciuto una donna alla quale piacesse un cappello a bombetta e non ho mai conosciuto una donna che riuscisse a trattenersi dal dare l'allarme a meno di non avere una ragione schiacciante e personale per non farlo. Non appena ha potuto, quella sera, Miriam si attaccò al telefono. Una cosa naturale, certo, ma se lei fosse stata terrorizzata solamente dal fatto che c'era un cadavere e non quel particolare cadavere, avrebbe telefonato all'appartamento di Holmes dove sapeva che erano tutti riuniti e avrebbe sputato fuori la notizia alla prima persona che le rispondeva. Ma non era stato quello il suo primo pensiero. No, no. Il primo pensiero era stato di parlare in privato, di dire a quella ragazza qualcosa che gli altri non sapevano. Qualcosa che doveva essere tenuto nascosto agli altri. Se lei avesse chiamato e detto: "Sono Miriam" avrebbe dovuto dare subito la notizia, e ciò avrebbe significato un ritardo che lei non si poteva permettere per paura che Carruthers la cogliesse mentre telefonava. Lei non voleva dire: "C'è un morto qui e siamo tutti nei guai"; lei voleva dire: "Penderei è morto, non dire niente di niente quando ti informeranno". E quello, pensava, era un guaio peggiore. Da qui la voce camuffata che sarebbe tornata normale quando avesse parlato con Harriet. Mi seguite, testoni? Nonostante tutto il fiuto di Popkins, un fatto valido emerge, e scintilla. C'era qualcosa di così importante per lei che doveva dirlo ad Harriet prima di informare gli altri del delitto. Qualcosa che aveva appena scoperto: l'identità del cadavere. Significava che lei o la Kirkton, o
tutt'e due, avevano avuto a che fare con Penderei. Voi non credete che quel suo telefonare in quella maniera sia un fatto valido? Io sì. Perché l'identità del cadavere aveva cancellato il fatto dell'assassinio dalla sua mente. Questo, probabilmente, è il comportamento di una donna colpevole di quella che viene giudicata "leggerezza". Non è certamente il comportamento di una donna colpevole d'assassinio. Ma era sempre una faccenda sporca e non mi sentii per niente meglio quando mi dissero che Jeff Wade era in linea. Mi preparai a un'esplosione e a una solenne litigata. Quando dissi "Ciao, Jeff" e lui borbottò "Ciao, Bert", quella sua voce profonda, gracchiante, aggressiva, non mi obbligò a tenere il ricevitore a mezzo metro di distanza. E notai un'altra cosa ancora. Quando gli dissi: "Sai perché ti chiamo?" lui non si comportò come suo solito quando sente una frase pertinente del genere. Lui di solito avrebbe risposto "Bella giornata, eh?" fingendo di temporeggiare e di non capire finché non avessi gridato "Ascolta, vecchio cretino, piantala e rispondimi a tono". A quel punto avrebbe detto "Ah, così va meglio" e sarebbe andato allegramente al sodo. Fu con un certo choc che io udii mormorare: «Già, quasi mi aspettavo la tua telefonata.» Seguì una pausa così lunga da farmi pensare che fosse caduta la linea. «È una brutta faccenda, Bert. Hai da fare?» «Io ho sempre da fare.» «Be'... mi stavo chiedendo se tu potessi passare di qui verso le due... sono al museo. La padrona di casa di quel Penderei si è messa in contatto con me e dice di avere informazioni importanti. È brutta, Bert. Piuttosto brutta.» E per la prima volta da quando lo conosco, aveva la voce di un vecchio. 14 Il segreto del ricettario di cucina Arrivai al museo alle due passate. Il pranzo mi era rimasto sullo stomaco, cosa che non succede spesso, e le scarpe mi stavano strette. Nel frattempo, l'unica notizia avuta di fresco era che le impronte digitali di Illingworth corrispondevano a quelle trovate nell'ascensore; l'ascensore non era stato usato da un bel po' di tempo, e le sue erano le uniche impronte là dentro, così che quella parte del racconto del vecchio era esatta. Avevo incaricato ufficialmente Hadley del caso e gli avevo consegnato tutti i rapporti.
Per giunta, giugno o no, la giornata era piovosa e fresca come se fosse ottobre. La porta del museo era chiusa e davanti ad essa era spuntata una moltitudine di ombrelli come tanti funghi neri. Ebbi la soddisfazione di urtarne un paio prima di arrivare al poliziotto di servizio. La porta venne aperta da Warburton, l'inserviente diurno di Wade, che, contrariamente a Pruen, ha qualcosa del dignitoso sergente maggiore. Sebbene vi fossi già stato qualche volta, conoscevo meglio quell'edificio dalle descrizioni di Carruthers e di Illingworth che non da quanto ricordavo. Quell'effetto lunare dava uno strano aspetto familiare a ogni cosa, perfino alle stanghe delle carrozze, e il soffitto di mattonelle bianche e verdi era riflesso qua e là sulle bacheche di vetro al centro, sebbene non credo proprio di essermi aggirato là dentro in sogno. Mi fu detto che Jeff era nella stanza del conservatore, solo. C'era piuttosto buio nella stanza del conservatore. Jeff non aveva acceso lumi, e l'unica luce veniva dalla finestra della toilette da dove la pioggia, essendo la finestra aperta, entrava a fiotti. Ma potevo vedere una grande, bellissima stanza. Dietro una scrivania di mogano sedeva Jeff Wade, inclinato all'indietro, su una poltrona girevole, le pesanti scarpe di cuoio appoggiate al bordo. Stava voltato verso la finestra, e sulla sigaretta che spuntava da sotto i suoi baffi bianchi c'era almeno un tre centimetri di cenere. La luce grigia metteva in evidenza le sue tempie incavate e una strana espressione nei suoi occhi. Non si girò, fece solo scricchiolare leggermente le scarpe e m'indicò una sedia con un gesto del capo. Mi sedetti, e insieme ascoltammo lo scrosciare della pioggia per un paio di minuti. «Abbiamo fatto una lunga strada, Bert» disse. E io rammento di aver annuito come avevo fatto tanti anni prima nel Somerset. «Me ne stavo qui seduto a pensare» borbottò Jeff in tono quasi polemico. «Un quarto di birra costava cinque centesimi, e potevi averla calda con la noce moscata. Ma ora tu sei un vice alto-commissario di polizia, con un titolo e tutto quanto... e non sei affatto poliziotto, Bert.» «E tu non sei un uomo d'affari, se è per quello» ribattei, «comunque sei milionario lo stesso.» «Già» fece Jeff, meditando su quella frase. Si girò un poco, e la cenere cadde giù dalla sigaretta; cominciò a strofinarsi le tempie con le mani, sbattendo le palpebre come se non ci vedesse molto bene. Avete notato lo sguardo confuso che hanno le persone abituate
agli occhiali quando se li levano? Lui aveva quello sguardo. «Immagino che saprai, o forse no» continuai, «quello che è successo qui ieri notte. Un tizio di nome William Augustus Illingworth è piombato nel mio ufficio e mi ha raccontato ogni cosa.» «Ho saputo tutto anch'io» borbottò Jeff, imprecando tra i denti. «Mi hanno informato Miriam e Jerry stamattina. Dicono che avranno un sacco di guai, e io ho rincarato la dose dicendo loro che sarà proprio così.» «In effetti, Jeff, passeranno dei guai un po' tutti. L'inchiesta avrà luogo dopodomani, e il magistrato inquirente sarà piuttosto duro quando sentirà di quella pazzesca mascherata...» Jeff si raddrizzò. Qualunque accenno ad autorità, specialmente ad autorità della polizia, lo eccita come si eccita un cane nervoso quando gli si tira un secchio d'acqua addosso. Rizzò di nuovo il pelo. Notai con grandissimo piacere che probabilmente avrebbe preso le parti di quei ragazzi e non li avrebbe redarguiti con troppa durezza se non altro per far dispetto alla polizia. «Ah, sì, eh? Ah, sì, eh?» esclamò. «Il magistrato sarà duro, eh? Chi è questo magistrato inquirente? Come si chiama?» «Lascia perdere questo per un minuto. Ti vuoi cacciare in testa che una delle persone presenti ieri sera al museo ha ucciso Raymond Penderei?» «Uhm, sì» rispose Jeff, lentamente. «Lo so. Non credo che si possa far niente per mettere a tacere la cosa, vero? Nelle circostanze...» «Quali circostanze?» Di nuovo si strofinò la guancia, ma non rispose. «Ascolta, Jeff: Miriam ha qualcosa a che fare con questa storia?» «Sì.» «Be'? Conosceva Penderei?» «Sì... tra pochi minuti verrà qui qualcuno che vuol vedermi. È la padrona di casa di Penderei, o almeno, da quanto ho potuto capire, la donna che si curava di lui. Ho avuto il suo nome e l'indirizzo. Ann Reilly, Crown and Dragon, Land Street, Borough. Inoltre ho detto a tutti: Miriam, Jerry, Holmes... accidenti a lui... Baxter, la Kirkton, il suo amico Butler e Pruen... maledizione, Bert» disse Jeff col primo ruggito di sorpresa che gli avessi mai sentito, «maledizione, non credevo che il vecchio Pruen fosse così!... ho detto a tutti di venire qui perché tu gli vuoi parlare. Cerca di andarci piano... Sai, porco Giuda, avrei dato mezza sterlina per vedere Illingworth con quel barbone, l'avrei proprio data!» «Ora va un po' meglio» gli dissi. «E adesso questa faccenda Illingworth
e la tua parte in essa...» «La mia parte?» «Stammi a sentire, vecchio idiota, non ti rendi conto di essere stato tu a far sì che Illingworth restasse coinvolto in questa storia e per giunta a far sì che la cosa venisse risaputa? Se si deve incolpare qualcuno, questo qualcuno sei proprio tu. Ieri pomeriggio gli hai spedito un telegramma da Sounthampton, no?» «Uh, perdio!» esclamò Jeff improvvisamente con le gambe e le braccia vibranti come quelle del fantoccio di una scatola a sorpresa. «Credo proprio di sì.» «Sai benissimo di averlo fatto. D'accordo. Hai spedito quel telegramma dopo che Holmes aveva già telefonato all'albergo di Illingworth per avvertirlo che la riunione era stata rimandata e tu invece gli hai detto di venire qui alle dieci e mezzo. E va bene. Dov'eri? Cosa ti è successo? Non sei poi tornato in città?» Jeff rifletté. «Uhm. Oh, sì, sono tornato in città» rispose tranquillamente. «Stavo comprando un ristorante.» Se lo conosceste, ragazzi, sapreste che quel non sequitur è naturalissimo per lui, ma dover vivere a lungo con un tipo come lui spingerebbe gli uomini più forti a prendere una solenne sbronza. Sotto certi aspetti, per quanto diversi, lui e Illingworth erano dello stesso tipo. Se quel museo fosse stato di proprietà di tutti e due, la metà degli oggetti sarebbe stata rotta e l'altra metà non sarebbe esistita. Era sempre stata quella la preoccupazione dei suoi figlioli: non sapevano mai da che parte girava il vento, e se lui avrebbe tirato fuori le unghie o sarebbe stato tutto latte e miele. Dissi: «Stavi comprando un ristorante. Magnifico. E cosa te ne saresti fatto di un ristorante, secondo te? Ti sei precipitato a comprare un ristorante per un impulso improvviso o volevi semplicemente fare uno scherzo a Illingworth?». Lui mi guardò, serio. «Bert» disse, «in ogni pazzia che io abbia mai fatto, c'è sempre stato un motivo, altrimenti non saremmo seduti qui, ora. E l'idea di comprare quel ristorante, ora comincio a capirlo, era davvero abbastanza pazzesca, sebbene in quel momento non la pensassi così... A volte mi vengono idee strane. E quello è stato un impulso. Capisci, stavo tornando in treno da Southampton. All'ultimo momento avevo deciso di non prendere l'autobus. Mi fa male al sedere. E sul treno ho incontrato un amico, un tizio di nome Shattu, da Zagros, vicino a Shíràz, e un suo amico
greco di nome Aguinopopolos...» «Gestori di ristoranti?» «Sì. Avevano aperto un locale a Soho dove servivano cibi asiatici. Ma stavano quasi per fallire perché, dicevano, nessuno capisce l'arte culinaria. Ora io vado matto per quel tipo di cibo, l'ho mangiato per anni. Così ho detto: "Be', finanzierò io il vostro locale...". No, maledizione, ascolta! Ho detto: "Comprerò il locale o ci metterò abbastanza quattrini perché voi possiate restare a galla". Credevo che impazzissero. Shattu ha detto: "Bisogna festeggiare l'avvenimento. Venite stasera al ristorante e io con le mie mani vi preparerò un banchetto tale...". Uh! E avevo fame, Bert...» «Mi stai dicendo che ti sei scordato di Illingworth?» «Proprio così!» rispose Jeff, aspirando rumorosamente. «Perciò ti puoi consolare» dissi, «pensando che, in parte, tutto quello che è successo è colpa tua.» Lui si alzò e prese a camminare per la stanza. Aveva l'aria strana e il viso tirato, e la pioggia, fuori, continuava a scrosciare. «Mi sarei potuto divertire un sacco con quel ristorante» disse, bruscamente. «Ti saresti potuto? Cosa vuoi dire?» «Oh, nulla. Quando sarà finita questa storia tornerò in Oriente, e se Miriam...» Giunse le mani, fece schioccare le nocche e mi guardò. «Mi volevi domandare qualcosa, Bert? Qualcosa d'importante?» «Forse. Per esempio, cosa sai di questo Mannering che, a quanto pare, è fidanzato con Miriam?» Lui si girò di scatto. «Perché diavolo continui a insistere su Miriam? Io non so niente di Mannering, voglio dire non lo conosco. Sembra un bravo ragazzo, nonostante le sue balle. Ti ho chiesto se avevi qualcosa d'importante.» Sotto la scrivania tirai fuori la lista infernale di Popkins e vi detti una rapida occhiata. «C'è una cosa» dissi. «Tra le persone che erano qui ieri notte c'è qualcuno che studia o ha studiato medicina?» La mia domanda lo sbalestrò un poco. Jeff detesta tutto quello che non capisce, e la domanda gli fece effetto. Restò lì, tutte le rughe in movimento, contraendo i baffi come una specie di pagliaccio da baraccone. «Eh?» fece. «Di' un po', cos'è questa storia? Studente di medicina? No, che io sappia. Miriam non ha mai studiato niente, si è limitata a farsi buttar fuori da diverse scuole di lusso. Jerry ha cominciato a studiare per diventare ingegnere perché gliel'ho detto io. Holmes non fa altro che leggere un
libro dopo l'altro, lui è solo libri e cortesia: è stato maestro di scuola, mai studiato medicina. Baxter era un fannullone con troppi quattrini finché Abbsley non l'ha messo a stecchetto... oh, oh! Dick Butler scrive un sacco di fesserie su avventure pazzesche di cui non sa nulla. Aspetta!» s'interruppe. «Credo che abbiamo un amico, un certo Gilbert Randall, che studia medicina da qualche parte, ma non so altro di lui.» «Cosa sai della ragazza Kirkton?» Lui gonfiò le guance. «Poco. È figlia del vecchio maggiore Kirkton, di non si sa dove. Non è una cattiva ragazza» borbottò, ridacchiando maliziosamente. «Ha il diavolo in corpo e, porco Giuda, come le piace bere! È l'unica che abbia avuto il coraggio di dirmi impertinenze sul muso, ed è per questo che mi piace. Ora sta a casa nostra.» Meditò. «È pazzamente innamorata di Butler, e lui non se la squaglia, ma è piuttosto tiepido.» Bussarono alla porta e Jeff si girò quasi urlando. «C'è una certa signora Reilly, signore» disse la voce di Warburton, l'inserviente diurno. «Dice di avere un appuntamento.» «Falla passare» disse Jeff con un tono strano. Mi guardò. «Reggiti forte, Bert, e dammi una mano se avrò bisogno d'aiuto. Non credo che succederà. Ma ti avverto, non userò guanti bianchi.» Accese il lampadario centrale, il che mi fece sbattere le palpebre, poi si sedette dietro la scrivania, sporgendosi in avanti con le mani unite sopra il ripiano. Se non fosse stato così abbronzato in viso sarebbe sembrato un vecchio fantasma, e ogni volta che sbatteva gli occhietti neri, i suoi baffi guizzavano quasi fossero collegati a essi con un filo. Alla fine la signora Ann Reilly fece il suo ingresso solenne. Non avevo mai visto una stola di pelliccia così voluminosa intorno al collo di una donna. Era nera con un'infinità di code e pareva salire e circondarle la testa come uno di quei famosi colletti elisabettiani. Era una bella donna, ma piuttosto tarchiata, sulla trentina avanzata o all'inizio dei quaranta; aveva la pelle che pareva dura come quella di un pugile e quando camminava oscillava... se mi capite. Portava un tailleur marrone-giallastro e lucide calze color carne e scarpe con tacchi così alti che sarebbero bastati per ballare sulle punte. Sulla sua mano sinistra c'erano tre brillanti che davano l'impressione di essere stati strofinati energicamente, forse erano quei brillanti che la facevano rifulgere. Quello che più si notava era la faccia che spuntava da quel collare: larga, bruna, dipinta come il manifesto d'un circo, e che sparava sorridenti raggi magnetici per la stanza.
Erano proprio quelli che si notavano: i raggi magnetici che si mescolavano con i bagliori dorati che sprizzavano dalla sua bocca. Se non fosse stato per quei bagliori d'oro nei denti l'avrei considerata una figura di donna diabolicamente bella perché a me piacciono i tipi giunonici. E poi c'era la sua voce che era così affettata da far venir male. «Signor Wade?» disse. «Sono venuta per il povero caro Raymond.» Dopo aver spazzato la stanza con i suoi raggi magnetici quasi avesse voluto disinfestarla e dopo aver fatto l'impressione appropriata su Jeff, assunse un'espressione triste. Arrivò perfino a tirar fuori un fazzoletto dalla borsa e si tolse un granello di rimmel dall'angolo dell'occhio sinistro. Ma notai che mi stava guardando fissamente con aria pensosa. «Sedetevi» disse Jeff col suo tono più vago. «Giornataccia, eh? Chi è il povero caro Raymond?» «Ma certamente capite... oh, a proposito, signor Wade» s'interruppe lanciando raggi magnetici e sorridenti su di me. «Il signore è il vostro avvocato, immagino.» «Be', si dà il caso che lo sia» rispose Jeff. «Ma come avete fatto a indovinare? Cosa vi ha fatto pensare che ci fosse un avvocato, qui?» Lei rise... musicalmente. Si sedette su una sedia con un movimento simile a un paracadute che atterra. «Ora stiamo tutti belli comodi» disse la signora Reilly. «Credo che ci intenderemo, no? Ah, ah, ah. Ma che meravigliosa, affascinante stanza!» Jeff disse: «Che vada a farsi fottere la stanza affascinante. Chi siete e cosa volete?». Lei non si scombussolò per niente, sebbene i raggi si facessero più duri. «Che strano!» esclamò. «Pensavo... sono la signora Reilly, naturalmente. Il mio defunto marito era il proprietario del Crown and Dragon Inn, e io ho ereditato da lui la proprietà.» «Un pub, eh? Buon affare. Avete l'aria prosperosa.» «L'aspetto spesso inganna, signor Wade. Anche il vostro, forse, per una cosa o l'altra. Stavo dicendo: abito sopra il pub. E credo di essere l'unica persona a Londra che conosceva Raymond Penderei, il povero ragazzo che è stato ucciso ieri sera in questo magnifico, affascinante museo. Abitava in casa mia, come ospite pagante, da tre mesi o giù di lì...» «Uhm. Pagava?» «Ha passato momenti terribili, povero figliolo» continuò lei a voce più alta. «E mi raccontava tutti i suoi guai... così distinto, era, Raymond! Un così bel contegno aveva! E così bello, anche!» La donna fece una smorfia.
Giuro che la fece. «Soltanto ieri sera, proprio prima che venisse qui, l'ho aiutato a mettersi il costume e a truccarsi per quello che doveva fare qui. Sapete, credo che la polizia abbia qualcosa che mi appartiene. Raymond mi aveva chiesto in prestito un ricettario di cucina.» Era chiaro che non si aspettava di cogliere nel segno o di suscitare alcuna sensazione con quella frase, ma fu così. «Aveva preso in prestito...» dissi, e mi alzai. «Un ricettario di cucina. Perché?» «Ma non lo sapete?» domandò la signora Reilly, con la sua risatina allegra, dondolando il capo e alzando e abbassando le mani in grembo. «Che strano! Credevo che lo sapeste... vedete, Raymond doveva sostenere il ruolo di un signore molto erudito, un professore, credo. Quando Raymond ieri pomeriggio è uscito per incontrare l'altro signore che doveva dargli tutte le istruzioni per la parte... un certo signor Butler, credo... il signor Butler gli ha detto che il professore non lo si vedeva mai in giro senza un certo libro in tasca o in mano. Ho dimenticato di che razza di libro si trattasse (qualcosa a che fare con Calcutta, credo). Raymond mi ha detto: "Andiamo, acushla, io sono un realista. Non abbiamo il denaro per comprare un vero libro come quello, ma tanto non dovrò mica aprirlo, no?... perciò non avete niente nella vostra libreria che, dall'esterno, somigli a un libro del genere?". Così abbiamo guardato nella mia piccola libreria, e l'unica cosa che abbiamo trovato è stato quel ricettario di cucina che la mia cara suocera mi aveva fatto elegantemente rilegare quando mi sposai...» Touché. Non ero tanto seccato per non averlo capito prima, mentre avrei dovuto, quanto per il fatto che la spiegazione era così semplice. Carruthers aveva descritto la logora pelle di quel libro, libro che era stato scelto per la sua rilegatura. Sulle prime, quando lo aveva visto a faccia in giù sul pavimento del museo, aveva pensato che si trattasse di qualcosa di misterioso finché non ne aveva guardato il contenuto. Era esattamente quello che volevano far credere. Un libro fesso che aveva fatto fessi noi. Non significava niente. A quel punto si poteva cancellare un altro interrogativo dalla lista di Popkins. Sbirciai Jeff che stava muovendo su e giù le dita delle sue mani strette a pugno. «Uhm» mormorò lui, vago. «A volte bisogna guardare l'esteriorità delle cose. È un fatto che spesso dimentichiamo. A volte bisogna smettere di frugare nella pattumiera, per ridare una nuova lunga occhiata alla facciata della casa. Ma cosa me ne frega? Perché siete venuta qui a farmi perder
tempo, signora... Vattelapesca? Perché non andate alla polizia? A me non interessano i ricettari di cucina. Perché venire qui?» Gli occhi della signora Reilly avevano assunto uno scintillio duro, spiacevole. «Mio caro signor Wade! Certo che no! Ma un momento fa vi ho detto che Raymond era un ospite pagante e voi giustamente mi avete chiesto: "Pagava?". È proprio questo il punto, capite. Non pagava. Mi deve... è orribile essere così mercenari, vero? Ma bisogna pur vivere! Mi deve quasi tre mesi di vitto e alloggio.» «Ma cosa mi dite? Volete che io paghi il suo vitto e alloggio?» La fronte della donna si rannuvolò. Lei alzò la punta di una scarpa e la osservò. «Be'... pensavo che forse avreste voluto reclamare i suoi effetti personali, considerando la vostra stretta parentela...» «Stretta parentela?» «Sì. Lui... lui aveva sposato vostra figlia, no?» Jeff, che era stato assorto a guardare al di là della finestra, voltò il viso verso di lei con un sorriso talmente ampio e ambiguo che io ebbi quasi la certezza che almeno quello non era vero. Jeff sghignazzò dolcemente. Lei lo fissò spalancando con aria innocente quei suoi occhi truccatissimi. Ma il suo respiro era diventato affannoso. «Be'» disse Jeff, «signora... uhm... non so dove avete pescato una simile grossa panzana. Ma posso dichiararvi chiaro e tondo che mia figlia non è sposata. E in ogni caso non avrebbe mai sposato nessuno del tipo di Penderei, chiunque egli fosse.» La signora Reilly si alzò. Respirava ancora più affannosamente e i suoi occhi erano lucidi. «Ma è spaventoso! Oh, terribilmente spaventoso! Non lo avrei mai creduto, altrimenti avrei taciuto... vedete, ha avuto un figlio da lui.» 15 Il segreto dell'Iraq Jeff si era lasciato cogliere con la guardia scoperta. Lei aveva indugiato, aveva fatto una finta e poi gli aveva sganciato uno dei colpi più duri che avevo mai visto incassare da un uomo. Lui non mosse un muscolo, tranne che in faccia, e pensai che la sua faccia fosse lì lì per scoppiare. Non era abituato a dominarsi, ciononostante restò lì, sbattendo le palpebre grinzose,
respirando lentamente. «Vi avevo sottovalutato» disse. «Benissimo. L'avete voluto. Lo avrete.» La signora Reilly si sporse in avanti. «Bando alle ciance, nonno» disse, la voce piatta. «È vero, e voi lo sapete bene quanto me. Ed è un marmocchio di pelle piuttosto scura, sapete.» La donna era una durissima lottatrice, ma subito dopo quella tattica rude, riprese un atteggiamento più pacato, tornò di nuovo tutta sorrisi dorati e affascinanti raggi magnetici. «Ma forse sarà meglio che vi dica tutto. La creatura, un bambino, è nata circa sei mesi fa... il nove gennaio, per essere esatti... in una clinica molto privata al Cairo. Voi lo sapevate, vi avevate mandato vostra figlia perché la sua salute non era buona e non osavate farla abortire. È stato molto bello da parte vostra. «Il povero Raymond voleva il matrimonio; è stato orribile spezzargli il cuore in quel modo, no? Quando avete saputo che la faccenda (alludo al futuro erede) era piuttosto avanzata, dall'Iraq avete mandato vostra figlia in Egitto e avete dato ai giornali la falsa notizia che era tornata a casa. Raymond era frenetico. Cercò di avere informazioni dalla signorina Kirkton... della cui compagnia aveva anche goduto sebbene senza simili concreti risultati... ma lei era partita con vostra figlia. Naturalmente Raymond avrebbe voluto seguirla in Inghilterra, ma non aveva denaro. Gli ci è voluto molto tempo prima di racimolarne un po', e non so davvero come abbia fatto il povero figliolo perché io non ci riesco mai» sorrise, ansimante, «e quattro mesi fa è arrivato qui. Per trovare che cosa? Che voi lo avevate fregato ben bene e lei non era affatto qui. Oh, santo cielo!» Jeff stava seduto eretto e la guardava fissamente con un sorrisetto che sembrò sconvolgerla. La sua voce si alzò di un paio di note. «Ora siete interessato, signor Wade?» «Potrebbe anche darsi. Continuate.» «E Raymond seppe la verità da un amico, ma non poteva scrivere perché non conosceva l'indirizzo. Ma naturalmente avrebbe insistito per vedere suo figlio e riconoscerlo legalmente!... Poi seppe che sua moglie di fronte a Dio» esclamò la signora Reilly alzando piamente la mano e sganciandogli un'occhiata di scherno, «stava veramente tornando a casa. Oh, mio Dio, non sapevate che Raymond Penderei era in Inghilterra?» «No» disse Jeff con aria indifferente. «Chi è questo Penderei? Voi state raccontando balle.» «Allora non lo sapevate, ma non volevate correre rischi.»
«No?» «No. Mandandola prima da una parente per più di due settimane... così che Raymond, il povero marito disperato, non sapeva nemmeno quell'indirizzo... poi, quando siete tornato, non molto tempo fa, l'avete tenuta segregata... segregata, mio Dio... Avete un maggiordomo molto fedele, vero? Che avrebbe respinto lettere o telefonate. Ma in effetti non era stato necessario. Perché non appena lei tornò in città dalla casa dei parenti, non fu forse Raymond che dovette lasciare la città per un impegno? E Raymond era un ragazzo saggio, dell'avviso di non lasciarsi sfuggire dei centesimi quando sapeva che le sterline erano sicure, se sapeva aspettarle. Così è tornato soltanto l'altro ieri. Dunque cosa pensavate voi e Miriam? Credevate che lui non fosse a Londra, vero? Perché naturalmente, se ci fosse stato, si sarebbe fatto vivo per usare il suo fascino o che altro per...» «Altro per...?» la spronò Jeff pazientemente. Stava aspettando. «Confessate confessate confessate!» gridò la signora Reilly, come se stesse facendo un gioco molto arguto di botta e risposta. Non era piacevole a vedersi. «L'avete lasciata circolare di nuovo liberamente perché ormai era al sicuro. E lei era così ansiosa di dimenticare lo sgradevole episodio del Cairo. Il bambino con una tata. Tutto passato. Molto molto spiacevole, ma tutto passato, ormai... Ma non potete vegliare sulle sue sottane, nonno» scattò la signora Reilly balzando in avanti con improvviso veleno. «Povera me, no! Appena s'imbarca su quella grande, bellissima nave e lascia l'Oriente e incontra un altro uomo, lei dimentica tutto quanto. Completamente.» Jeff si alzò lentamente dietro la scrivania. «Cosa voleva Penderei? Denaro?» «Temo proprio di sì» sghignazzò la signora Reilly, assumendo un'aria scioccata. «A volte era una persona terribile. Non è stata una fortuna sbalorditiva, quasi una provvidenza, si potrebbe dire, che per quello scherzetto di ieri sera sia stato scelto l'unico uomo in tutta Londra che voleva incontrarsi con la donna che aveva sposato davanti a Dio?» «E voi cosa volete? Denaro?» Me l'aspettavo. Avevo una voglia matta di lasciarmi andare e di trattare quella donna come meritava, ma non sarebbe servito a niente agire troppo presto. Lei ci guardò con gli occhi spalancati. La sua espressione si fece ancora più scioccata. «Denaro? Santissimo Iddio, no! Sarebbe ricatto, non è vero? Oh, no no no, mi fraintendete! Davvero, non voglio un centesimo! Non minaccio di
raccontare niente, di dire niente...» «Bene» disse Jeff. «Quella è la porta. Uscite.» «Con piacere, nonno» sghignazzò lei, sganciandogli un sorriso, ma ansimando di nuovo. «Vedete, tutto quello che dico potrebbe essere detto di fronte a un branco di giudici, come vi potrebbe dire il vostro avvocato. In realtà io volevo soltanto assicurarmi che voi foste la persona giusta (o Miriam) per consegnarvi il suo bagaglio, ora che è morto. Ma naturalmente se la ragazza non è sposata con lui e non può dimostrare di avere alcun diritto...» Stava facendo un grande armeggio con capelli e vestiario per prepararsi ad andarsene mentre continuava: «Vedete, il povero ragazzo non mi ha mai pagato un centesimo per il vitto e l'alloggio. Potrebbero dirvelo almeno una dozzina di persone, e poi, dove sono le sue ricevute? Così, di conseguenza, il suo bagaglio... con tutto quello che c'è dentro... diventa di mia proprietà finché il conto non verrà saldato. Non potete toccarlo. Io credo... non ne sono sicura... ma credo che nella sua valigia vi siano delle lettere scritte da vostra figlia quando ha saputo di essere in stato interessante. Non lo so e non mi interessano. Ma so che sarò costretta a tenere il suo bagaglio finché qualcuno non mi paga il suo conto». Jeff la guardava con aria distaccata. «Dovrete fare molta strada» disse, «prima di finire in galera... Quant'è il suo conto?» «Be', vediamo» disse la signora Reilly sporgendo le labbra rossissime e piegando la testa da un lato, «sarà piuttosto grosso, temo. Piuttosto grosso. Tre mesi, capite, e Raymond era veramente un forte mangiatore. Ma non ho ancora fatto il conto, so soltanto che la cifra sarà piuttosto alta. Se volete passare da me uno di questi giorni, ve lo preparerò. Nel frattempo, né la polizia né alcun altro potrà portare fuori della mia casa un solo oggetto di sua proprietà; è la legge, capite, e perfino la polizia deve rispettarla qualche volta. Buon giorno, signori. Lietissima di aver fatto la vostra conoscenza.» «Signora Reilly» disse Jeff, «avete mai sentito parlare del duca di Wellington? Sapete cosa disse in un caso come questo?» «No, e non so neppure cosa disse Gladstone nel milleottocentosettantasei» rispose la signora Reilly freddamente. «Ma ho sentito di Waterloo, e questo è il caso vostro.» «Disse: pubblicate e andate all'inferno» replicò Jeff senza batter ciglio. «Ed è quello che dico io a voi ora. E sia che vogliate mettervi in posizione di essere accusata di ricatto o meno, io vi citerò ugualmente. Il signore qui
presente è il vice alto-commissario di polizia. Tocca a te, ora, Bert.» Io la strapazzai bene e le misi addosso una paura del diavolo. La sbatacchiai in mille modi (metaforicamente s'intende). Di lì a poco lei diventò isterica, ma quanto al ricatto aveva perfettamente ragione, lei non aveva fatto alcuna minaccia e lo sapeva. Ma io non volevo sbilanciarmi troppo perché c'era sempre una via d'uscita per noi se lei pensava di tenersi entro la legge. In caso di delitto, la nostra gente poteva prendere "in prestito" il bagaglio (non portarlo via) per esaminarlo. Se lei aveva nascosto le lettere da qualche parte, sarebbe bastato un mandato di perquisizione per scovarle ed esaminarle come facenti parte degli effetti personali del morto. Sarebbe stato un esame lunghissimo. Inoltre, sebbene io non sia avvocato, quel discorso sui suoi diritti legali riguardo al bagaglio mi suonava fasullo. Secondo quanto lei aveva strombazzato in giro, Penderei era stato un "ospite pagante" non un affittuario. Perciò non doveva esistere nessuna registrazione, nessun accordo scritto, nessuna ricevuta: la persona era un ospite. Perciò, dopo la sua morte, la padrona di casa non poteva trattenere il bagaglio dell'ospite... qualora un parente lo avesse reclamato. Qualcuno aveva detto che nell'Iraq Penderei aveva una madre persiana. Mentre noi avessimo trattenuto il bagaglio per esaminarlo, Jeff si sarebbe messo in contatto con un avvocato di là, il quale, a sua volta, si sarebbe messo in contatto con la madre e avrebbe ottenuto l'autorizzazione di salvaguardare i beni del suo povero figliolo nominando Jeff suo rappresentante. Jeff sarebbe venuto da noi a presentare le sue credenziali. "Bene" avremmo detto noi "eccovi ogni cosa." "Ma lui mi deve del denaro!" avrebbe strillato la signora Reilly. "Benissimo" avrebbe detto Jeff "qua ci sono cinquanta sterline. Se secondo voi vi doveva di più, andate in tribunale e citatemi per il valore di un paio di sterline." Così finii col dire parole confortanti alla signora Reilly che se ne andò speranzosa e lacrimosa. Dopo di che chiusi la porta e spiegai la cosa a Jeff che se ne stava lì bianco come un panno lavato e con le mani tremanti. «Ringraziamo Dio per questo» disse Jeff. Dovette sedersi. «A volte sei utile. Sì, ha una madre nell'Iraq. Ne ho sentito parlare. Stavo per perdere la pazienza, Bert, e ho bluffato. Credi che funzionerà?» «Faremo in modo che funzioni. Ora tieniti forte e ascolta! Quelle lettere in se stesse non significano una cicca...» «Ah, non ci credi?» ghignò Jeff. «Io invece ci credo.» «Adesso non cominciare con questi discorsi. Voglio dire che non hanno
importanza, visto che tanto la storia salterà fuori. A meno che non avvenga un miracolo, prima o poi salterà fuori e sarà su tutti i giornali. Guardiamo in faccia i fatti. Se lo si considera un movente per uccidere Penderei, è splendido. Cioè...» Temetti che Jeff cominciasse a spaccare qualcosa, tanto per scaricarsi i nervi. Era in uno di quegli stati d'animo in cui un uomo cerca con grande determinazione di fare una sedia in mille minutissimi pezzi. «Cioè» aggiunsi, «se è vero. Lo è?» «Sì, certo che è vero. Non sapevo se uccidere quella baldracca... o che altro fare. Io... io non lo so ancora. Vedi, io non sono di vedute larghe come la gente del giorno d'oggi, comunque non mi sarebbe importato troppo se si fosse trattato di qualcun altro invece di quel Penderei. Tu non lo conoscevi, Bert. Era il tipo d'uomo che chiama una donna "mia cara signora" e le bacia la mano con un sacco di salamelecchi, ma con gli occhi fissi sui suoi anelli di brillanti. Uhm. Io provo tutta la simpatia del mondo per due persone che non riescono a stare lontane l'una dall'altra, ma questa specie di cosa... specialmente quando c'è di mezzo la propria figlia... la Reilly aveva ragione su un fatto. Io non sapevo che quell'uomo fosse a Londra e non lo sapeva neppure Miriam.» «Ora rifletti un poco. Questa è la questione più importante. Quante persone sapevano della faccenda... del bambino, voglio dire?» «È quello che non so! Maledizione, non riesci a ficcartelo in testa? La Kirkton lo sa, naturalmente. E per quello che ne so io, nessun altro. Ma, come dicevo, non si può mai dire. Ho speso migliaia di sterline per far tutto alla chetichella, ma queste cose saltano fuori. Non capisco mai cosa pensano i giovani...» «Jerry lo sa?» «Uhm. Può darsi. Ma lui non è mai stato molto attaccato a Miriam e non era là, in quei paesi, perciò non l'ha certo saputo né da me né da lei. Ne dubito, però potrebbe averlo sentito. Comunque hanno certamente capito, tutti quanti, che c'era qualcosa che non andava. Dubito anche che conoscessero il nome di Penderei!» «Baxter o Mannering?» Jeff sogghignò con amarezza. «Scommetterei che Mannering non lo sa, non credi? Baxter: uhm. No, sebbene lui fosse al Cairo. Gli agenti segreti che si nascondono nelle cantine non sono niente in confronto alle precauzioni che presi. Mio Dio, Bert, che pasticcio! Su migliaia di attori a Londra dovevano proprio scegliere l'unico...!»
«Be', non è poi tanto strano, le loro esigenze erano piuttosto insolite per un'agenzia teatrale. Comunque il punto è questo: quanti, tra queste persone, se avessero scoperto che Penderei stava tentando il ricatto, lo avrebbero ucciso o sarebbero stati disposti a ucciderlo?» Jeff sbottò in una risata beffarda. «Credi che non mi sia lambiccato il cervello a furia di pensarci? Io, per esempio, Jerry, Baxter. Mannering... non lo so. Domanda grave. Miriam stessa... uhm. Quanto a lei, difficile a dirsi. A volte è coraggiosissima, a volte molle come pan bagnato: strana donna. La fedeltà di Dick Butler non sarebbe altrettanto sicura, perché lui è legato ad Harriet. Come posso saperlo?» Si tormentò il mento. «Senti un po', Bert, tu non credi che potrebbero essere coinvolti tutti quanti in questa storia? Che sia stata tutta una trappola progettata fin da principio? Una volta lessi un buon racconto su questo argomento. Erano tredici persone e tutte avevano infierito contro il morto.» «Stupidaggini» dissi, con ragione. «Non lo avrebbero fatto in maniera così idiota. No. Questo delitto è stato commesso da una persona sola, e il guaio è scoprire chi.» Jeff camminava tristemente su e giù per la stanza e la pioggia continuava a schizzare dentro attraverso la finestra. Disse: «D'accordo. Cosa facciamo ora? Immagino che non serva a niente pregarti di fare in modo di tenere tutto sotto silenzio. Almeno il più possibile». La prima cosa da fare era mettersi a spulciare gli eventi tra le 10 e 45 e le 11 per vedere se si poteva eliminare qualcuno. Si trattava di andare diritti al sodo, ragazzi, e il primo di tutti e il più importante era Pruen. Bene! Pruen era già arrivato, prima degli altri, e in quel momento era nella sala e stava parlando con Warburton. Decisi che sarebbe stato meglio che Jeff non fosse presente all'intervista. Avrebbe creato soltanto guai e probabilmente avrebbe spinto Pruen a mentire più di quanto era solito fare abitualmente. Inoltre per il momento decidemmo di non dire niente a nessuno della signora Reilly, né avremmo tentato di sapere se qualcun altro sapeva quello che sapeva lei: l'epidemia delle menzogne sarebbe diventata ancor più frenetica. Prima che entrasse Pruen, tirai fuori la lista infernale di Popkins, la spiegai sulla scrivania e mi sedetti per esaminarla. Domande risolte? Sì, qualcuna. Su undici punti, quattro avevano avuto risposte abbastanza soddisfacenti: i punti numerati con 6, 7, 8 e 10. Per il 6 la mia ipotesi riguardante il motivo per cui Miriam aveva alterato la voce per chiamare Harriet al telefono era stata burrascosamente confermata. Il 7, sul possibile significato
del ricettario di cucina, era chiarito. E così il numero 8 riguardante il telegramma di Jeff Wade da Southampton e il motivo per cui non era venuto al museo. La risposta al numero 10... qualcuno aveva studiato medicina?... era no. Col che, come noterete astutamente, si restava con i punti dall'1 al 5 e con il 9 e l'11. Mi alzai e andai a chiudere la finestra della toilette perché nella stanza c'era freddo. Ora le luci erano tutte accese rivelando i ghirigori dei tappeti, gli intarsi moreschi e le fotografie incorniciate di ruderi decisamente poco interessanti. A Jeff piace talmente attorniarsi di colore che perfino le poltrone sono di pelle rossa. Della riunione della sera prima, tranne un vetro rotto dello sportello dell'ascensore e la Grammatica Pratica Araba di Green sulla scrivania, non c'erano altri segni. Nascosi la mia lista di domande nella grammatica. Poi Pruen sgattaiolò dentro. Un tipo veramente sbrindellato, quel Pruen. Era un pezzo che non lo vedevo; un po' più ossuto di quanto lo ricordassi, aveva la faccia più venosa e gli occhi più acquosi dietro gli occhiali che si toglieva in continuazione per asciugarsi gli occhi... era la prima volta che lo vedevo senza uniforme e non mi ero mai accorto che fosse calvo. Per giunta non faceva che tirar su col naso. Non era affatto ostile, ma era tanto impaurito che balbettava. Gli indicai una poltrona e lui vi si sedette con le ginocchia divaricate e la testa ciondoloni. Poi dissi: «Avete intenzione di mentirmi?». «No, signore.» Era agitato come Illingworth, tanto che pensai che sarebbe schizzato su dalla poltrona. «Non dico niente di cosa succederebbe a voi, ma sapete che mettereste tutta la famiglia Wade nei guai, se mentiste?» «Voi siete loro amico» rispose Pruen semplicemente. «Vi dirò la verità.» «Chi ha ucciso Penderei?» «Che mi pigli un colpo, non lo so!» esclamò lui gesticolando con aria tragica. «Che mi pigli un colpo qui su questa poltrona, non sapevo neppure che era morto fino a che... lo sapete, signore... fino a che non arrivò quell'ispettore.» «Mai sentito nominare Penderei prima d'ora? Sapete chi è?» «No, signore. Io non lo conosco, il fottuto. Loro non lo conoscono. Così, perché qualcuno avrebbe voluto ucciderlo? Eh, signore?» «Sapete, so tutto dello scherzo che stavate complottando qui, ieri sera. Ve l'ha detto il signor Wade, no? Non lo negate mica, vero?» «No, davvero» rispose lui candidamente. Sotto sotto un sogghigno pare-
va far capolino nella sua espressione. «È vero che ieri sera siete sempre stato di guardia accanto alla porta principale?» Lui era solenne. «Tutta la sera, signore. E anche prima di chiudere il museo. Dopo la chiusura ci sono rimasto dalle dieci e dieci circa fino alle undici. Erano le undici precise quando quel vecchio mentecatto... sapete, signore, credeva di essere Wallace Beery, e se volete il mio parere, è lui l'assassino... è uscito dall'ascensore in quel modo pazzesco! E poi è scappato dalla finestra del bagno... proprio pazzo! Il resto lo sapete. Lo abbiamo tirato giù per lo scivolo del carbone. Poi il signor Holmes dice: "Presto, dobbiamo liberarci di questo qui per l'eventualità che vengano i poliziotti". Parlava dello svitato, naturalmente. Ma prima il signor Baxter è dovuto uscire e rientrare da quella finestra» indicò, «per poter aprire la porta che il vecchio Colney Hatch aveva chiuso a chiave e per poter riprendere i loro cappotti e cappelli dall'armadio di questa stanza.» Respirava rumorosamente. Dissi: «Lasciate perdere questo per un momento. Cominciate da principio e raccontatemi tutto quello che è successo ieri sera, tutto, capito?». «Sicuro, signore, Ecco...» Tirò un profondo respiro e si lanciò. «Ieri sera, vedete, io ho tenuto la porta aperta dalle sette alle dieci, come al solito...» «Aspettate. Come mai così zelante da tenere aperto anche ieri sera quando c'erano in programma tante cose? Avrebbe avuto importanza se non aveste aperto?» «Se avrebbe avuto importanza?» guaì Pruen, offeso. «Perbacco, signore! Non conoscete la popolarità di questo nostro museo, specialmente tra i ragazzini che vengono accompagnati dai maestri delle scuole o dai genitori.» «Va bene, va bene. E ieri sera com'è andata?» «Magnificamente! Venerdì sera, capite, signore. Niente scuola il giorno dopo. Magnificamente. Ecco perché abbiamo dovuto tenere aperto. Di solito alle dieci in punto tutte le sere vengono tre donne a ore per pulire. Ieri sera no. Gli avevano detto di non venire.» «Andate avanti.» Un altro profondo respiro. «Be', signore, gli altri... la signorina Miriam, la signorina Kirkton, il signor Jerry eccetera... sono venuti qui alle...» gettò indietro la testa pensando alacremente, cominciava ad eccitarsi talmente che aveva scordato la paura, «sono venuti qui alle dieci circa. Sono entrati dalla porta posteriore perché la signorina Miriam ha la chiave. Bene! Quel-
li che dovevano travestirsi per i loro ruoli, il signor Baxter e il signor Butler, si erano già cambiati in casa del signor Holmes. Il signor Jerry, che doveva mettersi solo parrucca, baffi e barba (sebbene io fossi contrario alla barba) era vestito come sempre e si sarebbe messo la barba qui. Appena arrivati sono venuti direttamente in questa stanza e hanno aspettato che io chiudessi il museo.» «Quando lo avete chiuso?» Rifletté. «Alle dieci e dieci, più o meno. Ho avuto un po' di difficoltà a mandare via qualcuno, capite, signore. E poi...» «E poi cosa?» Lui si dimenò nella poltrona, strizzando la faccia e battendo le mani sui braccioli. «Dio, mi è venuta in mente una cosa! Aspettate un minutino che metto tutto in fila... questa è nuova! «Allora. Alle dieci e dieci, chiudo la porta e metto il paletto. Poi vengo in questa stanza... erano tutti qui... e do la notizia che il campo è libero. Il signor Butler stava passeggiando su e giù piuttosto nervosamente. "Dov'è quell'attore dell'agenzia?" mi domanda. "Noi abbiamo finito di ripassare le nostre parti, dov'è quel tizio dell'agenzia? Non si è ancora visto?" Questo è quanto mi dice il signor Butler.» «A che ora doveva arrivare l'attore?» «Questa» replicò Pruen, puntando il dito verso di me con aria trionfante, «è la stessa cosa che mi ha detto il signor Butler dopo. Il signor Butler ha detto: "Lo avevo pregato di venir qui più presto che poteva dopo le dieci". Poi il signor Holmes, che stava seduto là davanti alla scrivania con un'aria un po' preoccupata... lui, però, era il più tranquillo... dice: "Bella figura da idioti si farebbe se non arrivasse in tempo; dove credete che sia quell'individuo?". «E il signor Jerry che stava seduto con i piedi sulla scrivania, imitando il signor Wade, dice: "Non vi scalmanate, non sono ancora le dieci e un quarto. Che ne è della bara?"... Dico, signore, volete proprio che vi racconti tutto così? Con tutti i particolari?» «Sì.» «Giusto» convenne Pruen, e sospirò, quasi contento. «Quanto alla bara, capite, usavano un cofano per l'argenteria che avrebbero preso da una delle teche di vetro del piano di sopra. Non l'avevano ancora tirato fuori e nemmeno messo in una cassa perché io non avevo voluto che mi buttassero all'aria le mostre prima della chiusura del museo... Certo, vedete, signore,
avevano dovuto sgraffignare il costume persiano per il signor Baxter nel pomeriggio, tanto per vedere se gli stava, bell'affare sarebbe stato se non fosse stata la sua misura... Ma la bara non era pronta. Io, nelle prime ore della sera, avevo già portato su una cassa da imballaggio. E un sacco pieno di segatura dal laboratorio che il signor Wade ha giù nella cantina. E un po' di ceralacca per renderla più elegante. «Così hanno deciso che mentre il signor Jerry si metteva la barba e si truccava aiutato dalla signorina Miriam e dalla signorina Kirkton, il signor Butler e il signor Holmes sarebbero andati di sopra a preparare la cassa. Il signor Sam Baxter si è rifiutato di aiutarli dicendo che lui si era già mascherato e non voleva sciuparsi con la segatura. Così lui è andato nella Galleria dei Bazar e si è messo a camminare su e giù borbottando versi.» Pruen ammiccò. «Non era un gran che come attore, il signor Baxter, no... Dio! Per quelle poche cose da dire... avrei fatto meglio io... «Prima di separarsi sono venuti tutti nella sala. Il signor Holmes ha aperto la bacheca dove si trovava il khanjar... quel pugnale, signore... e poi ha tirato fuori di tasca un paio di baffi finti e ha cercato di dare tutt'e due le cose al signor Baxter. "Sono tuoi" gli ha detto "prendili, Sam, se no te li dimentichi". Ma il signor Baxter gli ha risposto a voce alta come se lo avessero morso: "Mettili via, non li voglio ancora, non me la sento di camminare su un pavimento scivoloso con quel coso infilato sotto la cintura... no, fino al momento giusto. Mettili via fino al momento giusto". «Così il signor Holmes prende il khanjar e i baffi e li mette sul primo gradino della scala. "Li poso qui" ha detto "dove non puoi perderli di vista". «Poi, come dicevo, si sono separati. Il signor Butler e il signor Holmes sono saliti di sopra. Le due signorine sono andate ad aiutare il signor Jerry a mettersi la barba. Il signor Baxter era su nella Galleria dei Bazar a camminare su e giù e borbottare. E io? Io sono andato a sedermi accanto alla porta d'ingresso e non mi sono mosso di lì per tutto il tempo... A quel punto, signore, saranno state le dieci e un quarto circa.» «Pruen» dissi. «Chi ha rubato quel pugnale? Chi l'ha preso?» Lui si raggomitolò sulla poltrona, tirò un profondo respiro, poi mi guardò con occhi spalancati. «Ch'io possa morire d'un colpo, signore» dice, «ma non ne ho la minima idea.» 16
La prima apparizione di un attore E davanti a me c'era quel piccolo verme dalla faccia butterata che si sporgeva in avanti sulla poltrona, torcendosi le mani, muovendo il collo grinzoso e inclinando leggermente la testa, con una specie di smorfia accattivante sul viso. Ricordate l'espressione delle persone che fanno la pubblicità sulle riviste spronandoti a comprare qualcosa? Quella. Ma i suoi occhi erano terribilmente seri... e spaventati. «Piccolo infernale gnomo cisposo» dissi, controllandomi e mi allungai sulla scrivania e gli puntai un dito sulla faccia. «Avete giurato di dire la verità. Chi ha rubato quel pugnale?» «Ehi, piano!» disse Pruen in tono offeso. «Chi ha rubato quel pugnale?» «Non è necessario che vi facciate venire un colpo apoplettico, signore» si lamentò lui. La sua voce era diventata un bisbiglio, ma lui tenne duro per non perdere neanche quel filo. «E vi verrà, se continuate così. Aspettate mezzo minuto, signore. Datemi soltanto il tempo di spiegare.» Deglutì, e la sua voce si fece più forte. «Qui sono io sulla sedia... vicino alla porta. Capite? A circa tre metri c'è la scala. Quel pugnale è sul gradino più basso. Tra me e la scala c'è una fila di bacheche di vetro che mi tagliano la visuale. Non è così? Luce? Non così luminosa come la vera luce lunare. E, come avete visto, non posso vantarmi di vederci troppo bene da lontano. Ora vi domando... c'era gente che andava avanti e indietro tra quel momento e le undici... se uno di loro si china alla svelta, lo noto io forse? Noto il pugnale? Ve lo domando: credete che stessi lì a pensarci? Ecco! Dico, perché non mi lasciate raccontare tutta la storia prima di giudicare?» In quel discorso c'era una certa logica, ma io ero sempre convinto che mentiva. Comunque gli dissi di andare avanti. «Partendo dal momento in cui è entrato l'uomo che è stato assassinato, naturalmente» disse lui senza malizia e si schiarì la voce, «be'...» «Cominciate da dove avete smesso. Le dieci e un quarto. Avete mezz'ora prima dell'arrivo del cadavere. Raccontate di quella mezz'ora.» Pruen mi fece capire che era una completa perdita di tempo, ma continuò. «Non ho notato un gran che. Forse un paio di minuti dopo che mi ero seduto (mettendo via la pipa perché in servizio non è permesso fumare, naturalmente) la porta della stanza del conservatore si è aperta e ne sono uscite la signorina Miriam e la signorina Kirkton. Mentre loro uscivano...»
il verme ora imitava un agente che dà la sua testimonianza davanti a un magistrato, «... ti appare il signor Butler, frenetico, dalla Galleria Araba del piano di sopra, e scende giù di corsa. L'uniforme di poliziotto gli stava larghissima. Oh oh! «"Chiodi!" dice agitando il martello che io avevo lasciato di sopra per loro. "Chiodi! Dove sono i chiodi, Pruen?" urla attraverso la sala. "Abbiamo sudato sette camicie per tirar fuori quel cofano dalla teca di vetro senza spaccare niente, e il sacco della segatura si è rotto, e ora scopriamo che non ci hai preparato neanche un chiodo." «Era molto sull'eccitato, il signor Butler, era. «Gli ho detto che mi dispiaceva. Gli ho detto che in cantina, nelle tasche della giacca del signor Wade, c'era un mucchio di chiodi... vedete, signore, il padrone ha un laboratorio giù e indumenti da lavoro e tutto quello che gli serve... così, gli dico, faccio un salto giù subito e vado a prenderli. Ma la signorina Miriam interviene rapidamente e insiste per andare lei a prendere i chiodi. Lei è sempre servizievole. Così mentre la signorina Kirkton va di sopra con il signor Butler, la signorina Miriam va giù a prendere i chiodi.» Pruen si era appoggiato allo schienale. Parlava con voce smorta, guardandosi in giro per la stanza e sbattendo gli occhi come se non vedesse l'ora di finirla con quel punto. «Ehi» dissi. «Volete farmi credere che lei si è precipitata ansiosamente in cantina per i chiodi?» «Ed è stata anche molto carina» dichiarò lui con aria di sfida. Gli tremavano le mani e invece di sudare gli lacrimavano gli occhi. «L'ho sempre detto io della signorina Miriam, ho detto...» «Quando è tornata su?» Lui rifletté. «Oh, dopo cinque, otto minuti. Qualcosa di simile.» «Pruen, mentite spudoratamente. Maledizione, ma non capite che così danneggiate soltanto tutti quanti? Ho sentito la deposizione del dottor Illingworth, sentirò quella di tutti gli altri. Dite che lei è scesa in cantina poco dopo le dieci e un quarto... volete farmi credere che è stata giù a cercare i chiodi per quasi venti minuti? Perché sta così: quando Illingworth è arrivato in fondo alla sala, ha visto Miriam che stava venendo su dalla cantina. Venti minuti! E non è tutto. Proprio quando ha visto che lei veniva su e proprio mentre continuava a camminare, Illingworth ha sentito qualcuno che piantava chiodi al piano di sopra. E allora? È vero che quando Illingworth è arrivato qui alle undici meno venticinque ha visto la ragazza che stava tornando su?»
«Sì, è vero» rispose Pruen. Ora ghignava. «Sì. L'ha vista. E perché no? Quella era la seconda volta che lei tornava su dalla cantina.» «La seconda volta?» «Sissignore, ci giuro sulla Bibbia! Non che c'entri niente. Non c'entra affatto. Ma aspettate, lasciate che vi spieghi.» Si raddrizzò e si batté un dito sul palmo. Non voglio soffermarmi sul solito discorso riguardante le atmosfere, ma intorno a lui c'era un'atmosfera di verità. Una distensione, un'aria di premura, la solita premura di parlare. Ora non gli dispiaceva parlare perché aveva superato il punto pericoloso. Quale punto pericoloso? Sì, il furto del pugnale. Era una sensazione orrenda, una sensazione che mi faceva venire i brividi, quella convinzione che sentivo... che il pugnale era stato rubato proprio in quel momento e che chi l'aveva rubato era Miriam. «Lei è scesa giù per prendere i chiodi» continuò Pruen con aria confidenziale, «ed è tornata su con i chiodi dopo cinque, otto minuti... no, diciamo più vicino a cinque minuti. Il signor Butler stava ritornando giù per vedere cosa le era successo, quando lei è salita e gli ha dato i chiodi.» «Questo sarebbe stato venticinque, trenta minuti dopo le dieci?» (L'altra domanda mi restò in gola, non potevo fargliela in quel momento.) «Signorsì. Gli ha dato i chiodi e lui è tornato su. Poi lei ha girellato un po' davanti alle scale... pigramente, si potrebbe dire, e dopo è venuta frettolosamente verso la parte anteriore della sala, verso di me. Ma mi ha fatto soltanto un cenno del capo, sorridendo. Ed è entrata nella Galleria Persiana...» «Che è sul lato sinistro della scala, vero, guardando verso il retro?» «Sissignore. Non c'erano luci, là, le avevo spente io quando mi ero liberato dei visitatori alle dieci. E così le chiedo: "Devo accendere la luce?". Ma lei dice no, non importa. Così per qualche minuto tutto è stato tranquillo. Silenzio, c'era. Potevo sentire il signor Baxter camminare su e giù nella Galleria dei Bazar un po' più in là, borbottando tra sé parole in arabo o roba del genere. E io cominciavo a essere preoccupato perché quell'attore non arrivava. Poi ecco che ti esce la signorina Miriam dalla Galleria Persiana e attraversa di nuovo la sala... e che mi pigli un colpo se non apre l'uscio della cantina e non scende giù di nuovo!» «Lo vedete bene l'uscio della cantina?» «Oh, sissignore. Quando sono seduto sulla mia sedia diritto di fronte a me, o almeno una buona metà. Be', non ho avuto molto tempo per rimuginarci su perché subito dopo il campanello della porta ha suonato... Ah!
quello era un sollievo! L'attore finalmente, penso! Non credo che dal piano di sopra l'abbiano udito... voglio dire il signor Holmes, il signor Butler e la signorina Kirkton... perché sentivo i tonfi che stavano facendo per inchiodare la cassa. Uh, se ero sollevato! Apro la porta e ti entra questo svitato... «Ora, vi domando, come potevo sapere io che non era il tizio dell'agenzia? Sembrava perfetto per il suo ruolo, tranne il fatto che non aveva barba! La più comica aria solenne che avessi mai visto (e quel cilindro, dico!), faccia lunga, mento in dentro, grossi occhiali cerchiati di corno come uno yankee e se le sue scarpe non erano del numero quarantasei mi mangio un rospo! Ma perfino in quel momento, signore, ho avuto l'impressione che c'era qualcosa di ambiguo. Perché quando io ho cominciato a scherzare, lui mi tira fuori un biglietto da visita che dice William Augustus Illingworth D.D. (Divinitatis Doctor), mi caccia sotto il naso un libro scritto in arabo e si allontana tutto irritato. «Io mi dico: ehi! È abbastanza autentico, e comincio a sentirmi un po' preoccupato. Ma forse andava tutto bene... guardate quanta pena si danno nei film per ottenere che ogni cosa sia perfetta! Lui si ferma sulla soglia della Galleria Persiana, e deve aver visto il signor Baxter, perché ti snocciola un paio di metri di parole in qualche lingua. È il signor Baxter gliene restituisce un altro po'. Poi lo svitato prosegue lungo la sala. La signorina Miriam appare di nuovo sull'uscio della cantina, lo guarda e va di sopra senza dire niente. Poi l'uscio di questa stanza si apre e ne esce il signor Jerry infuriato che dice: "Siete in ritardo, entrate" o qualcosa di simile.» «L'ora?» «Esattamente le undici meno venticinque» rispose Pruen, deciso. «Avevo appena guardato il mio cipollone per vedere quanto tempo aveva tardato quell'individuo. Mezz'ora di ritardo! Uh, ve lo domando! Lo svitato e il signor Jerry entrano qui in questa stanza e io ero ancora un po' preoccupato... ma non ho avuto molto tempo per pensarci. Dovevano essere passati tre o cinque minuti quando all'improvviso... BANG!» «Non saltate in quel modo!» urlai. Era schizzato su e aveva battuto le mani con forza, e io detesto la gente nevrastenica. «Cosa volete dire con questo bang?» Lui pareva sinceramente perplesso. «Non lo so. È stato una specie di tonfo, signore, come se fosse caduto o si fosse rotto qualcosa. E veniva dalla direzione della Galleria dei Bazar, dall'interno, sembrava. Ho gridato: "Signor Baxter!" perché pensavo che avesse spaccato qualcosa e poi le avrei buscate io dal signor Wade. Così
mi sono precipitato là per vedere...» «Fermatevi un attimo!» Finalmente qualcosa di concreto. «Avevo capito che non vi eravate mai allontanato dalla porta.» Lui sembrò di nuovo sinceramente sorpreso. «Dio, signore, non ci avevo mai pensato! Sì, mi sono allontanato, non per molto, però. Non c'è da contarlo, direi, perché non è come se fossi andato lontano...» Un'idea nuova e piacevolissima sembrò paralizzarlo. «Ecco! Capisco cosa volete dire. Volete dire che qualcuno potrebbe essere sgusciato fuori da qualche parte e aver preso quel pugnale dallo scalino appena io ho voltato le spalle?» Non ci avevo pensato, ma era un'idea. «Quanto tempo siete stato lontano dalla porta?» Rifletté. «Due o tre minuti, signore, forse. È andata così. Vado là per vedere cos'è successo e, quando entro, il signor Baxter non c'è e io mi chiedo cosa può essere stato perché non vedo niente di rotto. Poi vedo! Pezzi di carbone sul pavimento e una grossa chiazza sudicia sulla parete dove qualcuno che era stato lì aveva gettato un pezzo di carbone.» «Chi?» «È quello che non so, signore, perché nessuno era entrato lì, tranne il signor Baxter, e in quel momento non vedevo neppure lui. L'ho chiamato e lui è venuto rumorosamente attraverso le stradine del Bazar. Ha detto che era stato nella Galleria degli Otto Paradisi... (è accanto e c'è una porta comunicante, così non bisogna passare dalla sala) e mi domanda: "Ehi, cosa diavolo vuoi?". Io dico: "Signor Baxter, avete tirato voi quel carbone?". Lui dice: "Che razza di cretinate stai dicendo? Carbone? Quale carbone?". E quando io glielo indico, lui dice soltanto che non ha tempo da perdere per giocare col carbone e se ne va come se lo avessi offeso, attraversa la sala ed entra nella Galleria Persiana. «Ma, sul serio, signore, cominciavo a provare una sensazione strana... la pelle d'oca, quasi. Era bastato quel piccolo tonfo. Pensavo: ehi, in questo posto sta succedendo qualcosa di molto strano. E a volte ti vengono anche i brividi per la paura.» «Calma, calma. Mentre eravate nel Bazar e prima che il signor Baxter andasse di fronte nella Galleria Persiana, non avete udito qualche rumore nella sala? Passi, cose simili?» Il salto che fece e lo sguardo acceso come se gli fosse venuto in mente qualcosa non potevano essere falsi, oppure poteva essere solo immaginazione. Ma a me sembrarono genuini. «Sì! Ora che me ne parlate, sì... sul momento non ci ho fatto caso perché
c'è sempre un sacco di echi, qui. Ma ho sentito, possa morire d'un colpo, ho sentito un rumore come di passi, là. Dev'essere stato quando hanno rubato il pugnale, potete credere alla mia parola. Ci giuro...» «Quando avete udito quei passi?» Di nuovo strizzò la faccia come per sforzarsi fisicamente di ricordare. «Be', subito dopo che avevo fatto capolino nel Bazar, credo. Sì, proprio allora! Passi veloci e ticchettanti, erano. Veloci e ticchettanti. Ora ricordo.» Ragazzi, io sono un tipo che non ha molta immaginazione, ma quei passi veloci e ticchettanti che si aggiravano furtivamente là dentro fecero quasi venire la pelle d'oca anche a me. Dissi: «Dov'erano gli altri in quel momento?». «Uhm, vediamo. Per quanto ne so io, il signor Jerry era qui in questa stanza con lo svitato che io ancora ritenevo fosse l'attore, e gli altri, eccetto il signor Baxter, erano tutti di sopra. So che erano di sopra perché dalle dieci e un quarto fino alle undici meno venticinque... quando è arrivato lo svitato... ogni tanto, a intervalli, uno di loro si affacciava in cima alle scale e mi gridava: "È arrivato?" alludendo all'attore, naturalmente. Non posso darvi i tempi di tutto questo, signore. Non ricordo. Semplicemente uno dopo l'altro, a turno. La signorina Kirkton, il signor Holmes o il signor Butler, venivano. Oh sì! L'ultima volta che qualcuno mi ha chiamato è stata quando lo svitato è entrato in questa stanza col signor Jerry e la signorina Miriam è ritornata su dalla cantina per la seconda volta. Sì. Il signor Holmes esce sulla balconata lassù e mi urla: "Non è ancora arrivato, Pruen?". Aveva l'aria un po' stranita dalla preoccupazione. E io gli ho risposto allegramente: "È appena arrivato, signore, adesso è col signor Jerry". Sì, me n'ero dimenticato. Lo ricordo benissimo perché lì per lì mi sono chiesto come mai la signorina Miriam, che aveva visto lo svitato, non aveva detto niente dell'arrivo dell'attore.» «Questo succedeva prima del tonfo del carbone nella Galleria dei Bazar?» «Sissignore, un paio di minuti prima. Non moltissimo, però. Ma per tornare a quel qualcuno che aveva tirato carbone contro la parete... avevo sentito il tonfo e vi ho detto cos'è successo poi. E ho avuto quella strana sensazione e ho udito quei passi nella sala...» Mi stavo scrivendo tutto, come Popkins avrebbe approvato. Mi pareva di sentire il suo spettrale applauso proprio accanto a me. Per giunta cominciavo a essere eccitato come Pruen. «Fermatevi un attimo. Siamo rimasti che eravate nella Galleria dei Ba-
zar; Baxter aveva attraversato la sala per entrare nella Galleria Persiana di fronte; Jerry e il... dottor Illingworth qui, in questa stanza, e gli altri di sopra. Dovevano essere quasi le undici meno un quarto. Ora vediamo. C'è un altro mezzo per scendere al piano di sotto, dal piano sopra a questo, voglio dire? Oltre alle scale in fondo alla sala? Altre scale oltre quelle di marmo? Qualcuno poteva scendere qui a questo piano senza che voi lo vedeste?» Lui non rispose per un secondo. Mi scrutava fisso. Con le mani ossute cincischiava il colletto, e il suo respiro si era fatto sibilante. Aveva assunto un'espressione curiosa, mentre i suoi chiari occhi azzurri si spalancavano e si contraevano. «Mezzo per scendere» ripeté. Poi parve ricordare la domanda. «Uno, signore.» «E cos'è?» «Una scala, in un angolo della Galleria Persiana, su questo piano. La Galleria Persiana... potete andare a vedere ora, se volete. Porta su nella stanza dove sono in mostra gli scialli, proprio qui sopra. Una specie di scala privata. Un affare di ferro a chiocciola, capite.» «Ed è l'unico mezzo per scendere giù?» «Sissignore. Tranne l'ascensore, ma quello è morto come San Paolo, e comunque il signor Jerry e lo svitato ci stavano seduti proprio davanti.» «Avete detto che la Galleria Persiana era buia?» «Sì.» «Bene. Ora riprendete il racconto da quando siete andato nel Bazar e avete trovato dei frammenti di carbone per terra.» Lui tirò un respiro sibilante. «Ho guardato, ho frugato... ora che ci penso... e stavo tentando di vedere se c'era qualcuno nascosto da qualche parte... c'è un mucchio di posti per nascondersi, potete vederlo anche voi, con tutte quelle tende e quegli aggeggi, quando... drin! Di nuovo il campanello alla porta. Dio, per poco non me la facevo addosso! Ho tirato fuori l'orologio perché pensavo che non poteva essere il signor Mannering così presto con tutti ancora impreparati. Sicuro, era troppo presto. Appena le undici meno un quarto. Ma forse è venuto prima, ho pensato... No, ho pensato, non è possibile, glielo avevano detto mille volte, o era stata la signorina Miriam... di non venire qui prima delle undici. Allora ho cominciato a chiedermi se lo svitato che avevo fatto passare non fosse l'uomo sbagliato. Oh, ero in uno stato d'animo pauroso, ve lo dico io! Ma non c'era altro da fare che andare a vedere e avvertire gli altri, se era il signor Mannering. Per dirvi la verità, signore, quello che più mi spaventava era che forse, solo
forse, poteva essere il vecchio signor Wade che tornava improvvisamente del tutto inaspettato. «Be', c'è un piccolo pannello in quella porta che si può aprire con una maniglia per dare un'occhiata fuori. Vado alla porta e apro il pannello. E lì c'era il tizio che poi avete trovato morto...» Il sudore gli imperlava la fronte. Se lo asciugò con la manica, quasi tamponandolo con brevi, rapidi gesti come una donna quando s'incipria. «Ma come cavolo potevo sapere, vi domando, chi era quel tizio, signore? Di pelle un po' scura, con una barba nera e degli occhiali giallastri tenuti da un cordoncino e il colletto tirato su... e mi guardava con una specie di ghigno. Era un tipo che faceva paura a trovarselo faccia a faccia all'improvviso, attraverso un buco della porta, come se fosse saltato fuori dal bronzo. Io gli ho detto "Chi siete?" e lui ha risposto con uno strano tipo di... di...» «Intonazione?» «Sissignore, se volete. E con i denti proprio sul bordo più basso del pannello. Dio, che vista! Sembrava infuriato, se riesco a spiegarmi. Ha detto: "Mi manda Brainerd, idiota. Aprite". Io avevo, sì, quella sensazione di paura... strana, ma gli ho creduto e ho capito d'aver commesso un errore con l'altro tipo. «Mentre gli aprivo la porta, lui ha detto, sempre con quella intonazione: "Dov'è la signorina Wade?". Ecco cos'ha detto. Io ho risposto: "È di sopra, con gli altri, ma lasciate perdere. C'è qualcuno qui che io avevo scambiato per uno mandato da Brainerd". «Lui è entrato passandomi avanti. Ha detto: "Di sopra. Con gli altri. Bene. Restate dove siete" ha detto, visto che io stavo per muovermi. "Devo vedere qualcuno." Dio, che maniere! Si allontana a passettini rapidi, cilindro e tutto e un libro rilegato in pelle sotto il braccio, prima che io possa fare un movimento e tirar fuori una parola dalla gola. «Ora seguitemi bene in questa parte, signore. Stanotte me lo sono sognato. Non è stato un sogno piacevole, mi sembrava di vedere sempre quella faccia che all'improvviso mi fissava attraverso la porta di bronzo... lui s'incammina e quando arriva all'altezza di quella diligenza nera, si è sentito un rumore. «Qualcuno aveva fatto: ssst! Proprio così» disse Pruen facendo un sibilo attraverso i denti «ssst! Come quando si vuole attirare l'attenzione di qualcuno. Capito? Forse non forte, ma con tutti gli echi e i suoni che circolano in un posto come questo... quel tizio ha fatto un balzo. Ha fatto un balzo e
ha girato il capo a sinistra... guardando verso le carrozze. C'era qualcuno che faceva ssst! L'attore si è fermato ed è rimasto a guardare per un secondo. Non ha detto niente. Ha semplicemente annuito e poi, rapidissimamente, si è chinato ed è andato sotto le stanghe della carrozza... che erano puntate in questa direzione... ed è passato dall'altro lato delle carrozze dove io non potevo vedere più nulla. Qualcuno stava dalla parte opposta della fila delle carrozze dove io non potevo vedere niente.» Interruppi quel recital perché la voce di Pruen si era fatta stridula e acuta. «Volete dire che dal punto dove eravate non potevate vedere dall'altra parte?» «Signore, che io possa morire d'un colpo, se potevo! Andate a sedervi sulla mia sedia e provateci. Io sto lì. Guardo direttamente lungo quella fila di portiere su questo lato delle carrozze e l'uscio della cantina in fondo. Quella fila di carrozze è sulla sinistra. Bene! C'è una fila di colonne e le carrozze sono sistemate tra le colonne e il muro di sinistra. Non lasciano molto spazio: un piccolo corridoio tra esse e la parete dall'altra parte. Come sapete, la luce non è fortissima e le carrozze proiettano grosse ombre. «Così mi sono avviato verso quella parte per vedere cosa succedeva. Poi mi sono reso conto che il signor Mannering poteva arrivare da un momento all'altro e io non potevo allontanarmi dalla porta perché il tempo correva... dico, non sapevo che cosa fare. Ciononostante sono andato avanti e ho gridato: "Ehi! Dove siete? Che cosa state facendo tra le carrozze? Chi è là?".» «Non avete avuto nessuna risposta?» «No, signore, e non si può dire nemmeno che fossi spaventato, non mi sono spaventato finché quell'ispettore non ha trovato il cadavere nella carrozza. Non io. Ero seccato, ecco. Come quello che si prova quando ci si aspetta qualcosa di piacevole e invece va tutto storto. Ma poi...» Pruen si sporse in avanti. C'era come una luce d'ispirazione intorno a lui: come la fiammella tremula di un lume a gas. «Poi ho visto qualcosa che ho capito soltanto ora perché ricordo le cose e le metto insieme. Mentre guardavo la porta di bronzo e stavo per chiudere il pannello, ho visto delle orme proprio davanti alla porta. Quelle orme non c'erano un minuto prima. Erano come sbafiate sul marmo, come polvere nera, fatte dalle scarpe di quell'individuo...» «Le scarpe di Penderei? L'attore?» «Sissignore. Il tipo che era appena entrato. Le orme continuavano un po'
nella sala poi svanivano. Dove sarà stato quel tipo per avere tanta polvere sulle scarpe, ho pensato. Poi, signore, ho ricordato qualcosa. Mentre quell'uomo andava lungo le carrozze, c'era qualcosa nelle sue spalle, nel suo cappello a cilindro... che mi sembrava familiare. «Lui è arrivato qui, come vi dicevo, alle undici meno un quarto. Ma non è tutto. Perché quello stesso individuo era già stato al museo, nella serata, un po' prima delle dieci.» Pruen si appoggiò allo schienale con aria trionfante. 17 Undici punti, undici sospetti «Era già stato al museo» ripetei, «un po' prima delle dieci. Volete dire che è entrato, si è guardato attorno ed è uscito?» Pruen stava di nuovo faticando a riordinare le idee. «Non so esattamente cosa voglio dire, Dio mi aiuti! Ma cercherò di dirvi quello che ricordo. È tutta una confusione di im... non so come dire...» «Impressioni?» «Uhm» borbottò Pruen piuttosto sospettoso. «È andata così. Nella mia professione, signore, si prende l'abitudine di osservare le persone che vengono nel museo, i loro piccoli gesti, e come si comportano appena entrano. Ieri sera, come vi dicevo, c'era una gran folla. Due gruppi di ragazzini con i maestri. Una vecchia signora e un signore. Due coppie di innamorati: gli innamorati si vedono lontano un chilometro, si infilano subito nella Galleria dei Bazar come fottuti piccioncini. Una famigliola di fuori città. Non so chi altro, ce n'erano ancora tanti. Ma con un cappotto nero e un cappello a cilindro c'era un signore solo. L'ho notato perché di solito non vengono qui con cappelli a cilindro, il perché non lo so, so solo che non vengono... non l'ho potuto guardare bene perché era entrato dietro la famiglia alle dieci meno un quarto o giù di lì. Ho visto soltanto le spalle di quel signore. «Poi l'ho notato anche per un'altra ragione. Per come si comporta la gente quando entra, di solito. Quasi tutti, signore, quando entrano si fermano un po' per guardarsi attorno, con aria indecisa, proprio accanto alla porta. Poi quasi tutti si girano e guardano me. Perché, non lo so. Forse si chiedono se devono domandarmi qualcosa. A volte lo fanno, a volte no, ma in genere, sia che mi domandino qualcosa o meno, mi guardano lo stesso. Vi sorprenderebbe sentire le domande che mi fanno, signore! Per la maggior parte vogliono sapere se c'è da pagare l'in-
gresso, qualcuno chiede se c'è una camera delle torture, altri dov'è la toilette, e io devo sempre tener d'occhio l'uscio che porta allo scantinato e l'uscio dall'altra parte delle scale che porta alle mie stanze, tanto per essere sicuro che non vi entrino. «Quando arriva la prima volta, quest'uomo non chiede niente, né si guarda attorno. Va diritto lungo la sala. E io ho pensato: "Stai cercando una toilette, ma io ti tengo d'occhio perché tu non apra uno di quegli usci sul retro". È stato allora che ho notato il cilindro e il cappotto. Ma lui non cercava la toilette. No. Si è fermato vicino alle carrozze... poi ci è passato in mezzo come per entrare nella Galleria Egiziana. La Galleria Egiziana è la seconda stanza sul lato sinistro. «E dopo me lo sono completamente dimenticato perché sono venuti dei ragazzini a farmi un sacco di domande. Quando è arrivata l'ora della chiusura, ho pensato vagamente che non lo avevo visto uscire. Ecco perché sono andato a dare un'occhiata in giro per vedere se erano usciti tutti. Mi sono rammentato di quell'uomo quando me lo avete domandato poco fa.» «Era uscito?» Pruen esitò. «Be', signore, quando ho guardato in giro non l'ho trovato, e lui certamente è tornato alle undici meno un quarto... quasi un'ora dopo. Oserei dire che se è tornato dev'essere uscito, non vi pare?» Non c'era nessuno scherno in quella frase. Pruen stesso era dubbioso, ma io non ero dubbioso perché cominciavo a capire. Dissi: «Pensateci, ora! È successo prima che gli altri... Miriam e Jerry e tutto il gruppo... arrivassero qui?». «Sì, signore. Qualche minuto prima.» «Sarebbe stato possibile che Penderei (non fingete di non sapere chi era Penderei!)... gli sarebbe stato possibile sgattaiolare in cantina quando è venuto qui la prima volta?» L'espressione di Pruen era quella di chi cerca di vedere dov'è la trappola ed è sul punto di mettere il piede sulla molla. «Fino alla chiusura del museo, no, Dio mi aiuti! Signore, ci sono stati soltanto due momenti in tutta la sera che ho tolto gli occhi dall'uscio della cantina: ci potrei giurare. Il primo è stato quando, alle dieci, sono andato a vedere se erano usciti tutti. Il secondo quando qualcuno ha tirato il carbone nella Galleria dei Bazar. Perciò...» «Ma» dissi, «quello sarebbe potuto entrare nel museo e nascondersi, no? Poi, quando voi avete fatto il giro per mandar fuori la gente, lui potrebbe
essere sgattaiolato in cantina. Rispondete! Avrebbe potuto?» Vedevo con gran chiarezza la spiegazione di quella polvere di carbone sulle suole di Penderei, il carbone che aveva lasciato quelle tracce sul pavimento quando era entrato nel museo la seconda volta. Entra la prima volta alle dieci meno dieci: in anticipo. Per una qualche ragione si nasconde e poi s'infila nella cantina; il motivo, probabilmente, era tendere un agguato a Miriam restando nascosto finché non avesse trovato il sistema di agguantarla da sola. Benissimo! Gli altri arrivano poco dopo di lui, ma per un po' di tempo restano tutti insieme nella stanza del conservatore aspettando che Pruen chiuda. Poi, guarda un po', accidenti, poi Miriam scende in cantina per prendere i chiodi! Ergo, zucconi miei, lei deve aver incontrato Penderei lì. Un appuntamento combinato? No, no, no, non è possibile! Oltre al fatto che Miriam pensava Penderei ben lontano da Londra, lui era l'ultima persona che lei avrebbe voluto incontrare. Ma lo ha incontrato. Cosa è successo? Non lo sappiamo. Sappiamo però che lei è risalita dalla cantina cinque minuti dopo. Poi passeggia su e giù davanti alle scale e alla fine entra nella Galleria Persiana passando davanti a Pruen. Resta là per un poco, poi scende di nuovo in cantina. Questa volta ci rimane pochissimo e ritorna su frettolosamente. Cos'è successo durante quei due incontri? L'unica cosa che sappiamo è quello che ha fatto Penderei. Che è l'unica cosa che può aver fatto secondo ogni indizio. È andato nella carbonaia. Ha preso un paio di cassette e le ha messe una sull'altra in modo da potersi arrampicare su per lo scivolo del carbone e arrivare sulla strada. Da qui la patina di polvere di carbone sulle sue suole che non ha avuto modo di disperdersi in quei pochi passi sul marciapiede per arrivare di nuovo alla porta di bronzo. Quando rientra nel museo è imbestialito e chiede della signorina Wade. Cos'è successo, ci chiediamo di nuovo, in quei due incontri? Una cosa è certa: lui aveva deciso di andare al museo per sostenere il suo ruolo nel gioco, proprio come se non si fosse mai nascosto nella cantina. E, ragazzi, cade in una trappola. Qualcuno lo sta aspettando, in agguato dietro la fila delle carrozze. Sì, era una faccenda spaventosa e non mi vergogno di ammettere, come il vecchio Illingworth, che mi faceva venire la pelle d'oca. Tutto questo mi girava e girava per la testa come una giostra nebulosa con la faccia di Pruen nel mezzo. Dissi a Pruen: «Avete sentito qualcuno fare "ssst!" da dietro le carrozze.
Avete chiamato, ma pur non avendo risposta, non avete osato allontanarvi dalla porta dopo che Penderei era andato a raggiungere... quella persona ignota. Avete cercato di vedere cosa c'era, in qualche modo?». Lui aveva infilato le mani nelle maniche, come un cinese, e le muoveva su e giù lungo le braccia. La sua espressione era piuttosto infelice. «Un po', signore. Mi sono precipitato verso la Galleria Persiana. Da lì si può vedere l'altro lato delle carrozze: il corridoio, intendo, tra le carrozze e il muro.» «Avete visto niente?» «Niente, Dio mi aiuti! Nemmeno la minima traccia di quei due. Ma, capite, non avevo alcuna ragione di pensare che ci fosse sotto qualcosa... capite, di criminale. Ho solo pensato che succedevano cose strane e basta.» «Dove potevano essere andati? Potevano essersi infilati dentro la diligenza prima che voi arrivaste a guardare da quella parte?» «Suppongo di sì» rispose lui tristemente. «La portiera della carrozza era aperta o chiusa da quella parte?» «Chiusa, signore» rispose lui dopo una pausa. «Cioè, se fosse stata aperta lo avrei notato, e io non ho notato niente.» «Avete udito qualche rumore... voci, passi, qualcosa di simile, dopo che i due erano spariti?» Pruen sembrava ancora più impaurito. «Dio, ora che lo dite... mi è davvero parso di sentire dei passi! Sì, e che possa morire d'un colpo, erano gli stessi passi veloci e ticchettanti che avevo udito prima nella sala. Quando avevano tirato il carbone. Sì! Passi veloci e ticchettanti...» «Dove? Da dove venivano?» «Non lo so, signore. Parevano nell'aria per via degli echi. Non si riesce mai a individuare la provenienza di nessun rumore. E poi i passi che ho sentito non sono stati molti. Solo pochi... Forse due o tre minuti dopo che quell'attore era sparito sotto le stanghe della carrozza dall'altra parte. Ma è un po' difficile stabilire l'ora quando non si ha nessun motivo per tenerla a mente.» «I passi che avete sentito vi hanno dato l'impressione di passi di qualcuno che scappava?» Lui si girò a guardarmi. «Volete smetterla, signore?» strillò. «Sono già abbastanza spaventato così, pensando a come mi divertivo, anche se lo scherzo era andato male, a come ballavo intorno a quella cassa... e tutto il tempo col cadavere di quel tizio... e io lì solo con la mia lanterna... Dio!» Cominciò a sbattere le mani aperte su e giù lungo i braccioli della poltrona.
«Sono già abbastanza spaventato anche senza quello. Con la lanterna soltanto, tutto solo nell'edificio con quell'affare. Dio, me lo sognerò! E ora mi venite a domandare di passi che scappavano... Sicuro! Scappavano, ora lo capisco.» Lasciai che quell'esplosione si affievolisse prima di dargli addosso di nuovo. «Calmatevi, maledizione!» dovetti dirgli. «A questo punto abbiamo: quando l'assassino mette le mani su Penderei, agisce come il filmine. Lo attira dentro la carrozza, lo pugnala, chiude la portiera... e scappa. Oppure pugnala Penderei dietro le carrozze, apre la portiera di quella più... chiusa, dove il cadavere non sarà trovato per un bel po', vi spinge dentro Penderei... e scappa. Dite di aver udito solo pochi passi che correvano. Pochi passi... Allora l'assassino non può aver attraversato la sala né essere salito su per le scale o niente di simile, no? Altrimenti lo avreste udito.» «E visto! Perché io ho dato solo una rapida occhiata in giro e poi sono tornato sulla porta. No, signore.» «Allora dove può essere andato?» «Nella Galleria Egiziana, signore. È l'unico posto. Vedete, l'uscio per quella Galleria è lungo il corridoio, tra due carrozze. È parallela alla Galleria Persiana... proprio come quelle dei Bazar e degli Otto Paradisi sono collegate una con l'altra dalla parte opposta.» «Collegate una con l'altra» dissi io. (Capite cosa stavo pensando, vero?) «La Galleria Persiana e l'Egiziana sono comunicanti. La Persiana era buia, avete detto. E l'altra?» «Buia anche quella. Vedete, signore, non ci servivano nessuna delle due per quello scherzo di ieri sera. E per esempio non volevamo che il signor Mannering andasse a girellare per la Galleria Persiana e si accorgesse che avevano preso il vestito del signor Baxter da una teca.» Ora i miei appunti erano disordinati o illeggibili, ma io continuavo a buttar giù note. Così facendo venni violentemente riportato su un punto che avevo dimenticato. «Ecco!» dissi. «Avete detto che Baxter era andato nella Galleria Persiana, buia, subito dopo che qualcuno aveva tirato il carbone contro la parete. È restato là tutto quel tempo? Cosa faceva? Non è uscito a dire qualcosa quando ha sentito annunciare che Penderei era arrivato?» «Be', immagino che sia andato di sopra con gli altri. Voglio dire, usando quelle scale di ferro nella Galleria Persiana. No, è venuto fuori solo più tardi. Ecco cosa stavo per dirvi. Stiamo brancolando avanti e indietro con
tutti questi indizi... ma in realtà tra il momento in cui l'attore è entrato dalla porta di bronzo e il momento in cui ho sentito i passi è passato pochissimo tempo. Perciò! Non sapendo che pesci pigliare, sono tornato accanto alla porta e mi sono messo a gridare. Grido: "Signor Butler! Signor Holmes!" tanto per vedere cosa stavano facendo perché io a quel punto ero quasi fuori dei gangheri...» «Be'?» «Proprio dopo un po' che gridavo inutilmente, ho udito dei passi nella Galleria Persiana. Ne è uscito di corsa il signor Holmes, agitando le mani per farmi zittire e ancora più pallido di prima. Mi dice: "Cos'è tutto questo chiasso?". Era sceso giù per la scala di ferro del piano di sopra, vedete. Allora io gli dico dei due tizi, prima dell'arrivo dello svitato e ora di quell'altro che era sparito. E lui mi ha aggredito in maniera terribile. «"Dov'è?" dice il signor Holmes. "Perché non me l'hai detto?" «"Signore" dico io, perché il suo tono non mi piaceva "me l'avete detto voi di non abbandonare il mio posto. E l'altro è nella stanza con il signor Jerry: quello magro con gli occhiali che è arrivato prima... e a quanto pare per il signor Jerry sta bene, perciò perché non dovrebbe star bene anche a me? Per giunta, se mi permettete di dirlo, perché ci avete messo più di mezz'ora solo per inchiodare una stupida cassetta?" «Era successo, e l'ho saputo più tardi, che il coperchio di piombo di quel cofano era così corroso che avevano dovuto faticare un sacco per aprirlo. Ma io non lo sapevo. Ero un po' innervosito per essere stato lasciato solo per tanto tempo. Ma il signor Holmes se ne sta lì con le mani a pugno premute sulla fronte, poi dice: "Mio Dio, doveva proprio essere il dottor Illingworth". «E se ne va di corsa e si precipita verso la stanza del conservatore... verso questa stanza dove siamo noi adesso. In quel momento il signor Butler e il signor Baxter appaiono in cima alle scale di marmo, trascinando la cassa, e cominciano a portarla rumorosamente al piano di sotto. Il signor Holmes si mette un dito sulle labbra e gesticolando freneticamente gli fa capire di non fare chiasso. Poi fa un cenno a me e comincia ad aprire piano piano l'uscio della stanza del conservatore per sbirciare dentro... «Mentre il signor Holmes fa capolino sulla porta, ascoltando e guardando dentro, gli altri portano giù la cassa. Poi il signor Baxter, la signorina Miriam e la signorina Kirkton corrono da me per sapere cosa sta succedendo... ma il signor Butler, schioccando le dita, ritorna di sopra correndo come se avesse dimenticato qualcosa.
«E in quel momento... BUM! l'uscio della stanza del conservatore sbatte sulla faccia del signor Holmes con un tonfo facendo trasalire tutti quanti noi... È quando lo svitato ha cominciato ad agire, solo che al momento non lo sapevamo...» E con questo, ragazzi, finiscono gli indizi che mi erano nuovi. Nella deposizione di Illingworth, avevo il mezzo sicuro per provare e confutare il racconto di Pruen. Combaciavano esattamente. In definitiva, il racconto di Pruen non era così fiorito, ma dava tutti i fatti. Vicino all'uscio della Galleria Persiana, un gruppetto composto da Miriam, Harriet e Sam Baxter aveva ascoltato mentre Pruen snocciolava la sua storia. Holmes batteva sull'uscio del conservatore per sapere cosa stava succedendo. Butler era andato di sopra dicendo di aver perso lo sfollagente. Alla fine Jerry aveva aperto l'uscio dopo aver trionfalmente cacciato Illingworth nell'ascensore e Holmes era entrato. Poi, dopo un paio di minuti, i due ne erano usciti discutendo animatamente. Baxter si era precipitato verso di loro e durante il tragitto aveva trovato i baffi neri finti per terra e dopo altre discussioni i tre si erano uniti agli altri davanti alla Galleria Persiana. Mentre Jerry raccontava le sue esperienze con Illingworth, Butler era sceso giù per le scale di marmo. Era andato lungo le carrozze e dopo aver cercato in ognuna, aveva aperto la portiera della diligenza... Poi era saltato giù, sbattendo la portiera. Nessuno degli altri aveva potuto vedere dentro, naturalmente, perché erano nel punto più lontano dalla fila delle carrozze. Ma Butler aveva intravisto la testa di Illingworth dietro gli sfiatatoi del ventilatore, e da lì era cominciata la caccia: prima per afferrare Illingworth, poi per tirarlo giù nella carbonaia. «E non sapevamo» concluse Pruen in tono eccitato, «nessuno di noi sapeva del morto.» Pareva ancora ignaro della scoperta prematura di Butler. «Ciò che più ci ha spaventati tutti quanti è stato il fatto che il poliziotto è tornato con rinforzi per scoprire cosa stava succedendo. Quindi hanno deciso di svignarsela... alla svelta. Il signor Butler era già andato via portandosi dietro lo svitato, sempre svenuto, e dicendo che lo avrebbe accompagnato a casa: sembrava molto impaurito, il signor Butler, il che mi ha sorpreso. Inoltre ha fatto giurare a tutti di aspettarlo in casa del signor Holmes. Strano, ora, mi chiedo...» Rifletté un poco, la faccia stupita, ma riprese: «La signorina Miriam se n'è andata appena il signor Butler è uscito. Lei... be', non si sentiva bene, signore, sapete, la sua salute non era stata buona». Mi lanciò uno sguardo penetrante. «Ha detto che andava a fare un giro in macchina per farsi passare il malessere. La sua auto era parcheggia-
ta qua dietro, in Palmer Yard. La signorina Kirkton si è offerta di accompagnarla, ma la signorina Miriam non ne ha voluto sapere. Ha detto che se le passava li raggiungeva più tardi nell'appartamento del signor Holmes ed è corsa via...» «Sola?» Lui schizzò su pensando evidentemente a un'altra cosa. «Questo mi rammenta: vi chiedete perché, se la signorina Miriam era della partita, era tornata al museo, più tardi, ieri sera, quando c'era l'ispettore? Ecco. Era uscita per fare un giro in macchina. Poi è tornata e, come al solito, ha parcheggiato la macchina in Palmer Yard... e ha visto la luce accesa in questa stanza. Così ha creduto che gli altri fossero ancora qui ed è venuta a vedere. «Ma loro non c'erano, nonostante il signor Holmes avesse insistito per restare, poliziotti o non poliziotti. Lui continua a dire: "Cos'è successo a quell'attore? Dov'è? Dove è andato?". Era piuttosto preoccupato. Ma il signor Baxter gli ha detto: "Che vada a farsi fottere, l'attore, non capisci che ci ha piantati in asso: io non resterò certo qui travestito in questo modo". Allora il signor Holmes, che è un tipo terribilmente coscienzioso, ha detto: "C'è una confusione del diavolo dappertutto, dobbiamo rimettere un po' in ordine". «"Non vi preoccupate per questo, signore" gli ho detto. "Ci penso io a pulire e a rimettere in ordine, ho tutta la notte davanti a me. «"Sì" ha risposto il signor Holmes "ma tu non puoi togliere il cofano dell'argenteria da quella cassa e portare quattrocento chili di piombo al piano di sopra, no?" «Ma il signor Jerry ha detto: "Via, è semplice, sciocchi. Adesso tagliamo la corda e aspettiamo che si calmino le acque, sempre che succeda qualcosa, del che dubito. Poi torniamo qui e rimettiamo tutto a posto. Nel frattempo resteremo nell'appartamento di Ron. Comunque dovremo tornare in tutti i modi perché Sam deve rimettere a posto il costume persiano". «La signorina Kirkton ha detto che quella era l'idea migliore e ha cominciato a gridare: "Presto, presto, presto!". Era una situazione strana, perché avevamo spento tutte le luci in tutto l'edificio e stavamo lì in piedi nella sala con soltanto il lume della mia lanterna. Ma il signor Holmes non si è lasciato scuotere. Ha posato la mia lanterna sulla bacheca di vetro dov'era stato il pugnale dicendo: "Be', comunque" ha detto, "rimetteremo a posto il khanjar perché è un pezzo di valore". Ha tirato fuori le chiavi e ha riaperto la bacheca. "Dov'è il khanjar, Sam? Dammelo."
«E il signor Baxter, che è un tipo nervoso, comincia a gridare: "Io non ce l'ho! È tutta la sera che ti chiedo cosa ne hai fatto e per ora non ho trovato altro che questi fottuti baffi finti, là sul pavimento. I baffi e il pugnale erano insieme: dov'è il pugnale, ora? Comunque per il momento non me ne frega nulla di dove sia, io voglio soltanto che tu venga via di qui prima...". Due lunghi squilli di campanello. Uh, signore! Avreste dovuto vedere come sono schizzati su quando hanno sentito suonare quel campanello! Vedevo le loro facce alla luce della lanterna: gli unici a non essere spaventati siamo stati io e il signor Jerry, al punto che ci siamo scambiati un sorriso. Naturalmente chi stava suonando il campanello, ora lo sappiamo, era il signor Mannering. Ma il signor Baxter credeva che fossero i poliziotti e non voleva essere beccato con quel costume idiota addosso pensando che dopo una figura così ridicola sarebbe stato costretto a lasciare il Servizio Diplomatico o quel che è. Dio, sprizzava terrore da tutti i pori. E il signor Holmes non era molto più calmo. «"Smammiamo" grida il signor Baxter. Prende quei baffi finti e li caccia nel primo posto che gli capita: dentro la bacheca. Poi strappa la chiave dalla mano del signor Holmes e richiude la bacheca. Dopo di che tutti quanti si precipitano verso la porta posteriore. L'unica che si ferma un secondo è la signorina Kirkton. Mi posa le mani sulle spalle... Dio! E mi fissa con quei grandi occhi azzurri lucidi e spaventati, sebbene io non capissi davvero perché e mi dice: "Promettimi che qualunque cosa succeda, sia che ti cada addosso la cattedrale di San Paolo o che i morti escano dalle loro tombe, promettimi che non dirai mai che stanotte eravamo qui".» Pruen s'interruppe, tirò un lungo respiro e raddrizzò le spalle. Mi guardò. I suoi occhi brillavano d'orgoglio. «E perdio, signore, perfino quando quello stramaledetto cadavere è ruzzolato giù dalla sua tomba, il vostro ispettore può testimoniare che ho mantenuto la promessa.» Seguì un lungo silenzio; la pioggia continuava a battere contro la finestra, e Pruen sedeva impettito sulla poltrona di pelle rossa. Lo squadrai da capo a piedi. Da Pruen e Illingworth, due persone così diverse tra loro che sarebbe stato difficile trovarne di uguali, avevamo la metà dei fatti. «Sì, sei stupido. Ma lasciamo perdere per ora. Ascolta, ci sono due cose in questo "scherzo" preparato per il signor Mannering che non mi sono ancora molto chiare...» «Sì, signore?» m'incitò sorridendo. «Questo scherzo contro Mannering è stato organizzato molto veloce-
mente, no? Cioè, fino a ieri a mezzogiorno non sapevate che Jeff Wade sarebbe partito. Come avete fatto a mettervi d'accordo e combinare ogni cosa così presto? Battute scritte e via discorrendo?» Lui ridacchiò. «Oh, era una settimana che ne parlavano e lo preparavano, signore. L'unica cosa che non era stata decisa era la data. Doveva aver luogo al più presto, in un momento qualunque, non appena se ne fosse presentata l'occasione. E l'occasione che si era presentata era veramente rara perché, vedete, il vero dottor Illingworth era a Londra, come quello sciocco del signor Mannering avrebbe potuto vedere sui giornali, il che lo avrebbe spinto a crederci. Oh, avevano fatto un sacco di piani.» Si sporse in avanti con un'aria come se mi confidasse un segreto. «Ci credereste che il primo progetto che avevamo fatto... il piano originale che siamo stati costretti a scartare... era di inscenare un assassinio? Voglio dire un assassinio con tutte le regole, con un vero cadavere e tutto. Naturalmente, signore, intendo un cadavere preso in un'università... perché avete sussultato?» Il mio cervello cominciava a dare i numeri. Dissi: «Ascoltate, questa è la domanda che vi volevo fare. Avete detto un cadavere preso in una facoltà di medicina? Uno della ghenga non aveva forse scritto, mercoledì, un biglietto che diceva: Caro G. Ci vuole un I cadavere... un vero cadavere. La causa della morte non ha importanza, ma ci vuole un cadavere. Combinerò io il delitto... quel khanjar col manico d'avorio andrà benone, oppure se ci sembrerà meglio, organizzeremo uno strangolamento... Sapete se qualcuno l'ha scritto?». Pruen annuì spudoratamente. «Sì, signore. Nessuno ha osato affermarlo ieri sera, altrimenti... be', sapete com'è. Non vi ha detto il padrone che il signor Jerry ha un amico, un certo Gilbert Randall, che studia medicina? Loro avevano l'idea che lui potesse sgraffignare un cadavere dalla sala anatomica; la "causa della morte", cioè come il cadavere fosse veramente morto non aveva importanza, a loro bastava avere un cadavere. Lo volevano per finta. Così il signor Jerry si è seduto alla macchina per scrivere e ha cominciato a battere un biglietto, qui in questa stanza. Ma il signor Holmes lo ha fatto smettere dicendo: "Per amor del cielo, imbecilloide, non scrivere niente del genere, vai a trovare Randall, se proprio vuoi, perché se la lettera dovesse andare nelle mani sbagliate, farebbe un effetto strano!". Così il signor Jerry si è cacciato il biglietto in tasca e dopo, in casa del signor Holmes, gli è caduto. Così, quando il signor Jerry è andato a trovare il signor Randall e ha saputo che non potevano avere un cadavere autentico, hanno abbandonato l'idea.» Pruen sghignazzò allegramente. «Voi non c'e-
ravate stanotte, ma quando l'ispettore Carruthers ha tirato fuori quel biglietto con aria terribile e solenne, ha fatto davvero colpo. Il signor Holmes era spaventatissimo. Talmente spaventato che se l'ispettore vi ha lasciato qualche appunto sull'interrogatorio, lo troverete annotato... Il signor Jerry stava per cedere e spiegare tutto, ma il signor Holmes glielo ha impedito. Ma perdio, signore, è finito davvero nelle mani sbagliate e ha fatto davvero un effetto strano.» Touché di nuovo. Mi appoggiai allo schienale, mezzo stordito. Da Illingworth e Pruen avevamo tutta la storia. E avevamo... cosa? Quanto bastava per far impazzire un uomo. Con gran fatica e un sacco di scarabocchi avevamo scavato tanto per raccogliere i pezzi sparpagliati del rompicapo più complicato che avesse mai cosparso il pavimento di Scotland Yard. Li avevamo messi insieme e il quadro era completo. E cosa vedevamo? Vedevamo il quadro di qualcuno che ci faceva le boccacce. Perfino con tutti i pezzi a posto non avevamo la più pallida idea di chi avesse ucciso Penderei più di quanto l'avessimo avuta prima. Quello fu lo stramaledetto fatto che mi spinse a prendere la decisione. Pruen mi guardava speranzoso mentre io raspavo tra i resti di una ex bellissima massa di capelli. Disse: «Ora, signore, cosa avete intenzione di fare? Quella che vi ho detto è la verità, come spero di poter rispondere all'arcangelo Gabriele. Potete provarlo! Chiedetelo a loro. Chiedetelo a tutti loro! Il signor Wade mi ha detto che avreste interrogato anche tutti gli altri...». Dissi fermamente: «Pruen, figliolo, non interrogherò nessuno degli altri». Lui mi fissò a occhi spalancati e io gli dissi quello che dico a voi adesso. Mi sentivo tanto meglio dopo aver preso quella decisione che gli detti un sigaro. «Pruen» gli dissi, «il mio scopo nel cacciare il naso in questo caso è stato di vedere come stavano le cose e fino a che punto andavano male e di cercar di dare al signor Geoffrey Wade tutto il mio aiuto. Ho scoperto che le cose vanno parecchio male. Sono sempre disposto ad aiutare fin dove posso senza incorrere nel pericolo di andare in galera per illeciti nell'espletamento delle mie mansioni. Ma tutto il resto esula dalla mia competenza. In questo museo la notte del quattordici giugno c'erano otto persone: Miriam, Harriet, Jerry, Baxter, Holmes, Butler, Illingworth e voi. Se scartiamo Illingworth, uno degli altri sette potrebbe aver ucciso Penderei. Fuori
di questo museo c'erano almeno altre due persone... Mannering e Jeff... che potrebbero averlo ucciso se ne avessero avuto la possibilità. Se ci cacciamo dentro Illingworth tanto per perversità o perché completa la lista, abbiamo dieci...» «Scusate, signore» interruppe Pruen, «ma non state dimenticando quella donna, con quella faccia di bronzo, che era qui poco fa e che ha fatto tanto chiasso? Io non ho sentito cosa diceva, ma ho capito da quello che le avete detto voi quando è andata via, che doveva avere avuto qualche rapporto con Penderei!...» «Giusto!» esclamai. «La signora Ann Reilly. Sì, cacciamola nel mazzo. Perciò abbiamo undici sospetti, possibili o impossibili, probabili o improbabili. Ripeto, figlio mio: io sono un organizzatore, non un investigatore. Questo giochetto di mosca cieca dev'essere fatto da qualcuno che è abituato a lavorare con gli occhi bendati, cosa che io non sono. Quindi...» «Uhm» fece Pruen, pensoso. «Perciò credo che sia arrivato il momento di sciogliere quel famoso segugio: il sovrintendente Hadley. Figliolo: Popkins ha definito correttamente la mia posizione. Io ho raccolto tutte le informazioni più strane, per non dire pazzesche, o i frammenti. Sono un raccatta-indizi, più o meno. Popkins aveva fatto una Usta di undici punti perché io la chiarissi. Undici punti, undici sospetti, tutto quadra. Popkins ha detto: ometto i punti ovvii, questi sono soltanto i più strani. Indubbiamente aveva ragione. Ma Popkins ha anche detto: penso che quando avrà le risposte a queste domande, avrà l'assassino. Al che io posso dire che Popkins è un bugiardo. «Ognuno di questi punti ha avuto la sua risposta, qualcuna in pieno, qualcuna in parte, e la faccenda è diventata, se mai, ancora più incomprensibile e pazzesca di prima. E il mio contributo a questo caso, il mio solo contributo e il mio ultimo tributo floreale alla pazzia, sarà solo questo: punto i miei cannoni su di lui.» Mentre Pruen si chiedeva di cosa diavolo stavo farfugliando, stesi la lista degli undici punti di Popkins sulla scrivania e presi una grossa matita rossa dal portapenne. Attraverso il foglio scrissi l'ultima domanda: Chi ha ucciso Raymond Penderei? PARTE TERZA DEPOSIZIONE DEL SOVRINTENDENTE
DAVID HADLEY 18 Il velo del mistero delle Mille e Una Notte comincia a squarciarsi, ma non quello dell'assassino Chi ha ucciso Raymond Penderei? Posso dirvelo io. È una persona che all'inizio non si sarebbe potuta sospettare, ma io ne sono certo, il procuratore generale ne è certo, il ministro degli Interni ne è certo, perfino sir Herbert ne è certo. Se non fosse per una perversione della giustizia, ora l'assassino di Penderei sarebbe già stato condannato. Questo è il guaio. Che io sia o meno il famoso segugio che sir Herbert descrive, sono disposto ad ammettere di non essere mai stato soverchiamente portato ad abbaiare lungo questa pista. Se tutta la faccenda fosse finita con un bel fiasco, il procuratore generale sarebbe stato propenso a metterla a dormire e ad archiviarla come un caso insoluto. Ma non accadde niente del genere. Fummo accolti da un marameo intenzionale e da una bella presa per il bavero. Ora, cose simili non si possono permettere e dobbiamo trovare una via d'uscita se non altro per inchiodare uno spergiuro. Il ministro degli Interni ne ha fatto una fissazione, sebbene questa volta non sia io il suo capro espiatorio. Se prima o poi devo entrarci personalmente, vorrei veder trionfare il nostro caso perché è stato il miglior lavoro che io abbia mai fatto. Dato che, a quanto pare, questo caso sembra diventato una gara di racconti, devo ammettere che non posso pretendere di avere l'educata ironia di Carruthers o la disinvoltura garrula di sir Herbert. Né, se è per quello, la briosa, accesa intensità polisillaba di Illingworth: finora il vecchio sacerdote, mi pare, ha vinto la palma del narratore. Io credo in una narrativa chiara, diritta, logica, con un pizzico di tutt'e tre le cose. L'interrogatorio di Pruen condotto da sir Herbert, per esempio, risultò una storia leggermente confusa che bisogna chiarire se vogliamo apprezzarne il significato. Non c'era mai stato un caso, credo, in cui si trovasse tanta occasione di esercitare la logica pura come in questo. È perché vi sono tante stranezze. La logica, signori, non si perde tra le stranezze, è anzi nel suo campo. Per circostanze o enigmi normali vi possono essere dozzine di spiegazioni, l'agente investigativo può scegliere quella sbagliata e mandare a carte quarantotto il suo caso sin dall'inizio. Ma di solito, per una circostanza molto bizzarra c'è soltanto una spiegazione possibile; più strana è la circostanza,
più ristretto diventa l'elenco dei moventi che l'hanno provocata. Prendiamo per esempio il caso del ricettario di cucina, che è stato spiegato così facilmente e che, tuttavia, prima della spiegazione aveva causato tante perplessità. La logica avrebbe dimostrato che poteva esserci una sola spiegazione: la più semplice. Ma per la nostra umana tendenza naturale a lasciar da parte la logica e ad arzigogolare per una soluzione, non si trovava: quando il problema è così strano, pensiamo che anche la soluzione debba essere strana. Perciò propongo di portarvi passo per passo verso la soluzione di tutta questa serie di avvenimenti. Ebbi l'incarico il sabato, come vi ha detto sir Herbert, ma non cominciai nessuna effettiva indagine, né interrogatori, fino al lunedì seguente. Però mi lessi tutti i rapporti a disposizione e passai due ore a parlare con Carruthers, durante le quali fui colpito da certi fatti molto suggestivi. Per il momento non vi dirò quali conclusioni tirai... tranne quelle che riguardavano le scarpe e gli occhiali del morto... ma il caso m'interessava, m'interessava vivissimamente e avrei dato non si sa cosa perché il dottor Fell, invece di vagabondare nel sud della Francia, fosse stato a portata di mano per sviscerare con lui quelle mie conclusioni. Il sabato, nel tardo pomeriggio, sir Herbert mi mandò a chiamare. Veniva dal museo Wade e aveva sentito quello che vi ha raccontato. Per giunta mi dette la lista dei punti strani. Il prezioso Popkins (un fessacchiotto dalle vedute ristrette ma logiche) l'aveva aggiornata. E cominciava a confermare validamente le prime supposizioni di Carruthers. Ma il mio secondo nome è Cautela, così non mi sbottonai su niente. Cercai invece di mettermi in contatto con le varie persone coinvolte. Nonostante che Geoffrey Wade si fosse vantato di acchiapparli per il colletto e trascinarli lì tutti quanti per il mio interrogatorio, loro erano sparpagliati. Miriam Wade era nella casa paterna in Hyde Park Gardens, sofferente di un forte choc nervoso e in ogni caso due medici avevano detto che doveva essere lasciata tranquilla per ventiquattro ore. Harriet Kirkton, a sentire i medici, stava un po' meglio. Il giovane Baxter era nel suo appartamento in Duke Street, ubriaco fradicio. Gli altri, a quanto pareva, avevano preso le cose molto più alla leggera, ma c'erano stati nuovi sviluppi. Jerry Wade, col quale parlai quando telefonai in casa del padre, mi raccontò l'ultimo. C'era stata un'altra rissa (che, credeteci o no, pare finisse amichevolmente) tra Butler e Mannering. Vi ricordate che Carruthers aveva riportato che la sera prima Mannering aveva mollato un pugno alla mascella di Butler e lo aveva messo K.O.? Il sabato mattina, ilare e giulivo, Butler stava aspet-
tando Mannering nell'atrio dell'albergo quando quest'ultimo scese dabbasso. Appena Mannering fu uscito dall'ascensore, Butler gli si avvicinò e gli disse: "Buongiorno. Te l'ha mai detto nessuno che non si colpisce un uomo che tiene le mani in tasca?". Mannering lo guardò un istante e poi gli disse: "Ora hai le mani in tasca?" e senza tante cerimonie gli mollò di nuovo un pugno. Questa volta però Butler era pronto e scoccò un colpo sulla bocca di Mannering. Ne seguì una lotta infernale sul pavimento dell'atrio con il portiere troppo interessato per intervenire. Quando il baccano cominciò ad attirare l'attenzione e il portiere cominciava ad accennare qualche mossa per dividerli, entrambi avevano avuto la propria parte di botte. Butler guardò Mannering, poi guardò se stesso e scoppiò a ridere: di lì a un minuto anche Mannering tirò fuori un sorriso e disse: "Vieni su a bere qualcosa". E Butler rispose: "D'accordo". E salirono su. Evidentemente avevano fatto la pace e tutti e due avevano deciso che poi in fondo nessuno di loro era un cattivo ragazzo, sebbene io avrei pensato che Mannering avesse tanto senso umoristico quanto la mia borsa. Forse l'incidente significava poco o anche nulla, comunque io lo registrai e decisi di rimandare il vero lavoro al lunedì e di passare la domenica a riesaminare tutte le testimonianze. Così passai la domenica in casa, mi chiusi nello studio, accesi la pipa ed esaminai i fatti da ogni possibile punto di vista. Prestai particolare attenzione alla lista di Popkins, ora corretta e aggiornata. Contiene molti suggerimenti veramente preziosi che portano alla verità e io richiamo la vostra attenzione sulla sua versione corretta. I 1) Come si spiegano le tracce di polvere di carbone subito all'interno della porta principale del museo, quelle orme confuse che Carruthers aveva trovato sul pavimento? Commento: Dato che una patina di polvere di carbone era stata trovata sulle suole delle scarpe dell'uomo assassinato, presumibilmente le orme erano state fatte da lui. Dov'era stato, allora, proprio prima di entrare nel museo per lasciare tracce sul pavimento di marmo? Risposta: Era stato nella cantina e nella carbonaia. Entrato nel museo alle 9 e 50 circa, si era nascosto, e in un certo momento tra le 10 e le 10 e 10, quando Pruen non teneva d'occhio l'uscio della cantina, Penderei era sceso nella cantina. Alle 10 e 15 l'altro gruppo si separa: Butler e Holmes vanno di sopra, Baxter nella Galleria dei Bazar e le due donne nella stan-
za del conservatore con Jerry Wade. Alle 10 e 18, o leggermente più tardi (i tempi sono approssimativi) le due donne escono dalla stanza del conservatore proprio mentre Butler scende giù chiedendo chiodi. Sebbene Pruen, che sapeva esattamente dove trovare i chiodi, si offra di andare a prenderli, Miriam Wade insiste per andarci lei. E così fa mentre Harriet Kirkton va di sopra con Butler. Miriam Wade toma dalla cantina alle 10 e 25 o più tardi, proprio mentre Butler scende di nuovo le scale di marmo per sapere perché la donna ci metta tanto. Miriam Wade gironzola per qualche minuto e va nella Galleria Persiana, poi scende di nuovo in cantina dove rimane pochissimo. Risale alle 10 e 35 quando il dottor Illingworth arriva al museo. Poi va di sopra a raggiungere Holmes, Butler e Harriet. Durante tutto quel tempo, Penderei è stato sempre nella cantina. In un certo momento, prima delle 10 e 45, dev'essere andato nella carbonaia, dev'essersi arrampicato su per lo scivolo del carbone fin sulla strada per ripresentarsi alla porta del museo come se non ci fosse mai stato. Questo ci dà una tabella dei tempi e una risposta. Tuttavia, se seguissi il metodo di Popkins, dovrei aggiungere un commento alla risposta. Questo commento sarebbe semplicemente: perché? Perché Penderei è uscito attraverso la carbonaia ed è tornato nel museo? Potete rispondere, se volete, che l'ha fatto perché Miriam l'ha persuaso a fingere di non averla mai conosciuta, lo ha persuaso a non farsi trovare nella cantina con lei, a uscire segretamente dal museo e a tornare come se fosse la sua prima visita. Per il momento non voglio contestare questo punto. Il punto due della lista, il problema del biglietto che comincia con Caro G. Ci vuole un cadavere eccetera, è pienamente spiegato e per il momento si può mettere da parte. Andiamo avanti con: 3) Come si spiega il grosso pezzo di carbone che, secondo Carrathers, era stato gettato contro la parete della Galleria dei Bazar senza alcun motivo apparente? Commento: Questo fatto non è stato menzionato dal dottor Illingworth né da nessun altro e pare che non c'entri nulla. Le persone giuste da interrogare sono Pruen che per tutto il tempo aveva avuto una chiara visione della sala, e Baxter che quando, alle 10 e 35 circa, il dottor Illingworth arrivò al museo, si trovava nella Galleria dei Bazar. Risposta: È menzionato da Pruen, e seguita a non entrarci niente. Il tiro
del carbone rientra nella tabella oraria dopo l'arrivo del dottor Illingworth. Pruen dice di aver udito il tonfo "tre o quattro minuti" dopo l'arrivo di Illingworth. Facciamo cifra tonda e diciamo che il tonfo ha avuto luogo alle 10 e 40. Il rumore udito da Pruen proveniva dalla Galleria dei Bazar. Ma, sebbene l'uscio per quella galleria fosse sempre sotto i suoi occhi, lui non aveva visto entrarvi nessuno, tranne Baxter che era là dalle 10 e 15. Pruen va subito a indagare nella galleria e non vi trova nessuno. Appena entra per dare un'occhiata in giro, ode dei passi (che descrive veloci e ticchettanti) nella sala dietro di lui. Poi vede le tracce del carbone frantumato. Mentre guarda, Baxter esce dagli stand o tende della galleria. Baxter dichiara di essere stato nella stanza adiacente, chiamata la Galleria degli Otto Paradisi, e di non saper niente dì nessun carbone. Poi Baxter si allontana, attraversa la sala e va nella Galleria Persiana. Finalmente, mentre Pruen sta sempre guardando le tracce nella Galleria dei Bazar, alle 10 e 45 suona il campanello alla porta e Penderei viene fatto passare. Dove erano tutti gli altri tra le 10 e 40 e le 10 e 45? Di Baxter lo sappiamo, o almeno pare. E per quello che ne sappiamo, Holmes, Butler, Harriet e Miriam erano di sopra insieme, Jerry Wade era con Illingworth. Chi ha tirato il carbone e perché? Perché: È un fatto significativo che nella mezz'ora tra le 10 e 15 e le 10 e 45, l'unico momento in cui Pruen non sorvegliava la sala fu quando andò a indagare su quel rumore nella Galleria dei Bazar. Così diceva l'ammirevole Popkins che si annotava ogni cosa anche se non capiva. Richiamo la vostra attenzione sulle sue osservazioni senza abbreviarle, perché lì, secondo me, è la chiave di tutta la faccenda. Evidentemente anche Popkins era della stessa idea perché dopo passava, del tutto logicamente, a sviluppare il suo punto seguente così: 4) Quali furono le avventure dei finti baffi neri? Commento: Quei baffi, che dovevano essere usati da Baxter, erano stati messi, secondo Holmes, insieme col pugnale, in un certo punto sulle scale della sala principale, nelle prime ore della serata. E insieme al pugnale erano spariti. Furono ritrovati più tardi da Baxter sul pavimento del museo; poi vennero persi di vista e Carruthers li ritrovò dentro una bacheca
chiusa a chiave al posto del pugnale. Tutto ciò deve avere un qualche significato: interrogare Pruen, di servizio là. Risposta: Pruen è stato interrogato e ora abbiamo rintracciato tutti i movimenti dei baffi tranne i più importanti. La dichiarazione di Holmes, tuttavia, udita da Illingworth, è confermata: lui aveva messo pugnale e baffi sul gradino più basso delle scale alle 10 e 15 circa, quando Baxter si era rifiutato di prenderli. Il che porta alle domande: a) Quando sparirono pugnale e baffi? b) Perché furono rubati tutti e due? Pare che Baxter avesse notato la loro assenza, ma ancora non sappiamo quando fu la prima volta che la notò. Il suo primo accenno al fatto fu poco prima delle 11, quando Illingworth venne rinchiuso nell'ascensore e dappertutto c'era una gran confusione. Illingworth vide Baxter raccattare i baffi sul pavimento vicino alla diligenza e lo udì chiedere a Holmes cosa ne era successo del pugnale. Dopo di che Baxter, in un momento di panico, infilò i baffi nella bacheca di vetro per levarseli di torno e richiuse la bacheca con la chiave di Holmes. Ma tra le 10 e 15 e le 10 e 45 siamo quasi al buio. Dobbiamo presumere, comunque, che pugnale e baffi non siano stati rubati dopo l'arrivo dì Penderei alle 10 e 45, dato che il delitto ha avuto luogo così rapidamente. Perciò devono essere stati rubati tra le 10 e 15 e le 10 e 45. Un intervallo di mezz'ora. Ci sono due alternative: o sono stati rubati tra le 10 e 15 e le 10 e 40, nel qual caso dev'essere avvenuto sotto gli occhi di Pruen, perciò Pruen sa chi li ha presi e mente deliberatamente. Oppure sono stati rubati tra le 10 e 40 e le 10 e 45 e il lancio del carbone sul muro è stata una manovra per distogliere l'attenzione di Pruen e dare campo libero al ladro-assassino. Ma ancora non abbiamo indizi del motivo per cui sono stati presi entrambi. Quest'ultima ipotesi, amico Popkins, pensai, è un portare le cose troppo in là, perché la mia idea del motivo per cui erano stati rubati entrambi si stava cristallizzando. Ma mi dissi che non dovevo aver troppa fretta, visto che non avevo ancora interrogato nessuno dei sospetti sui quindici minuti tra le 10 e 45 e le 11. Naturalmente quei minuti per il mio caso erano d'importanza vitale sebbene, vi avverto, non nel senso che forse voi pensate. Stando al racconto di
Pruen, dove erano tutte quelle persone tra il momento in cui Penderei entra nel museo, alle 10 e 45, e il momento in cui il suo cadavere viene scoperto prematuramente da Baxter alle undici? Sempre stando al racconto di Pruen, Penderei si è avviato lungo la sala, è stato chiamato da qualcuno da dietro le carrozze ed è sparito. Dopo un po', poiché non capisce che cosa stia succedendo, e non riceve risposta alle sue grida, Pruen comincia ad agitarsi. E sente di nuovo quei passi "veloci e ticchettanti". Corre a guardare dall'altro lato delle carrozze e non vede niente. Si mette a chiamare e di lì a poco Holmes esce dalla Galleria Persiana. Confabulano, poi Holmes va verso la stanza del conservatore per indagare su Illingworth... e gli viene sbattuto l'uscio in faccia da Illingworth che, all'improvviso, s'investe del suo ruolo di Wallace Beery. In quel momento Baxter e Butler stanno trascinando la cassa al piano di sotto seguiti da Miriam e da Harriet. Ora io sapevo, naturalmente, che a meno di non avere un altro alibi corporativo, chiunque di quel gruppo poteva aver avuto l'opportunità di uccidere Penderei. Al piano di sopra c'erano diverse gallerie. Da una di quelle, una scala di ferro portava giù nella Galleria Persiana buia. Qualcuno poteva essere sceso, passando da quelle scale, essere entrato nella Galleria Egiziana comunicante, anche quella buia, ricordate, essere uscito dalla Galleria Egiziana dove non poteva essere visto dalle carrozze e aver aspettato Penderei senza che Pruen, dalla sua posizione, potesse vederlo. Chi? Ma io ho indugiato sui tre punti della lista di Popkins perché, insieme al rapporto dell'ispettore Carruthers, mi davano dei suggerimenti che portavano alla prova decisiva contro l'assassino. Se volete, potete guardare le altre domande della lista: tutte hanno una risposta esauriente. Mentre la storia si gonfiava, soltanto una cosa era emersa chiaramente, e già era stata accennata da sir Herbert: chiunque avesse commesso il delitto, era certo che non lo aveva commesso Miriam Wade. Prendete per esempio i punti cinque e sei: le domande sul motivo per cui era tornata al museo dopo il delitto e perché aveva telefonato ad Harriet alterando la voce. Era tornata al museo perché, essendo uscita prima degli altri per andare a fare un giro, dato che era sinceramente sconvolta, nel tornare indietro, mentre parcheggiava la macchina al solito posto, aveva visto una luce e aveva pensato che gli altri non fossero ancora andati via. Come aveva fatto notare sir Herbert, il suo comportamento, sia davanti al cadavere, sia quando aveva telefonato ad Harriet camuffando la voce per
poter parlare con lei sola di un loro reciproco segreto, non era il comportamento di una donna colpevole d'assassinio. Ma il significato d'un fatto importante di quei due punti pare sia stato trascurato da tutti. Mi chiedo, Fell, se tu, ora, vedi quel significato. II fatto è questo: lei aveva la chiave per la porta posteriore del museo. Meditaci su mentre io concludo questa parte. Era stato un bene che mi fossi preso quella domenica tranquilla a Croydon. Perché il lunedì mattina gli avvenimenti cominciarono a precipitare. Alle nove, quando arrivai al mio ufficio, mi dissero che Harriet Kirkton mi stava aspettando perché voleva parlarmi. 19 La persona che rubò il pugnale La giornata era fresca e piovosa come al solito e nel mio ufficio era stato acceso un bel fuoco. Quelle pareti a tempera marrone non sono mai molto gaie, e con la pioggia che sferzava le finestre lo erano ancora meno. Lasciai aspettare la ragazza fuori, su una panca, mentre sfogliavo la corrispondenza. Poi accesi la lampada sulla scrivania. Non ho mai creduto in quella stupidaggine di schiaffare la luce in faccia alla gente, ma credo, invece, nel sistemare i testimoni su una sedia leggermente più bassa della nostra. Il fatto di dover alzare la testa mentre rispondono dà sempre un ottimo risultato. Poi chiamai per farla entrare. Feci un completo inventario di Harriet Kirkton mentre lei tentava di avviare una conversazione. Carruthers aveva avuto perfettamente ragione dicendo che la sua faccia somigliava all'angelo di una cartolina pasquale, ma lei non era affatto un tipo sdolcinato. Mi dette l'impressione di una ragazza normalmente frivola nelle cose di poca importanza e molto ponderata nelle altre. Snella, corpo atletico... sapete il tipo, come un levriere da corsa; aveva il naso leggermente lentigginoso e gli occhi più azzurri, più grandi e più espressivi che avessi mai visto. Portava un impermeabile e un cappello di feltro da cui spuntavano i capelli biondi e sedeva protesa in avanti contraendo le mani strette a pugno appoggiate al bordo della scrivania. Quando una donna è nervosa non ansima né balbetta: non lo si noterebbe affatto se non fosse per l'aria tesa e per il tremolio della sua voce mentre passa da un insignificante argomento all'altro tanto per dar vita alla conversazione. Ma quella ragazza era talmente nervosa che andò subito al sodo. I suoi occhi erano lucidi e brillanti.
«Dovevo vedervi» disse. Io picchiettai con una matita sul bordo della cartella e dissi: «Sì?». «E sono venuta per conto di Miriam» continuò lei con quei suoi grandi occhi fissi su di me. «Non sta troppo bene e non se la sentiva di uscire. Signor Hadley... sono venuta per sapere cosa sapete. Aspettate!» Alzò la mano benché io, in effetti, non avessi aperto bocca. «So che non si dovrebbe pretendere queste cose dalla polizia, ma qui si tratta di un caso particolare e voi dovete dirmi...» «Sì?» «Ecco. So che sui giornali non c'è niente di... di questo. Ma ieri ha telefonato un'orribile donna di nome Reilly dicendo che voleva parlare con Miriam per qualcosa di molto importante riguardo a "R.P." Avevo risposto io al telefono. Pare che abbia certi... effetti personali, valigie o cose del genere.» S'interruppe. Aveva parlato rapidamente, a bassa voce, gli occhi fissi su un angolo della scrivania, ma quelle parole "effetti personali" parevano averla soffocata come un altro lo sarebbe stato con una lisca di pesce. «E ha anche detto di aver parlato col vice alto-commissario, il quale, di conseguenza, era al corrente di tutto. Capite di cosa sto parlando, signor Hadley?» «Sì, capisco.» «Be', deve proprio saltar fuori?» gridò, quasi con un sussulto anche se non osava guardarmi negli occhi. «Deve saltar fuori? Deve? Oh, per amor di Dio, non mi dite che dovremo subire ancora queste persecuzioni!» Queste sono cose che mettono terribilmente a disagio. Sulle sue guance, altrimenti di un pallore cereo, c'erano delle chiazze rosse vivide come voglie di fragola. Quella ragazza aveva bisogno di ingrassare un poco. Aveva bisogno di dormire di più e di bere meno, ma quella mattina aveva certamente già ingollato qualche whisky. «Nessuno vi perseguita, signorina Kirkton» dissi. «Ascoltate, sarò sincero con voi. Siamo esseri umani. Lo scandalo non ci piace come non piace a voi. Ma che ci piaccia o no dobbiamo cercare un assassino, e la difficoltà sta proprio qui: è quasi certo che questo delitto è stato commesso proprio a causa della signorina Wade... o di voi.» Lei restò immobile un istante, respirando lentamente. «Allora sapete anche questo» asserì piuttosto che domandare, guardando l'angolo della scrivania. «Un momento, signorina Kirkton. Saprete che non siete obbligata a dirmi niente a meno che non lo desideriate... Neppure noi vogliamo pubblici-
tà, non farebbe che intralciare le nostre indagini, finché non avremo trovato il colpevole. Ma poi sarà inevitabile, a meno che le prove per un arresto in nostro possesso, siano insufficienti. Ma non sperateci troppo. Sfortunatamente bisogna considerare il magistrato inquirente. In genere i magistrati si mettono d'accordo con noi, fanno il nostro gioco e ci aiutano a passare sotto silenzio quello che vogliamo passare sotto silenzio. Ma certi altri sono dei pomposi rompiballe che vogliono stare alla ribalta e scavare il più possibile, anche a costo di rovinare ogni cosa. E Willerton... il tizio che si occuperà di questo caso... scalogna... è uno di quelli. È giusto che lo sappiate.» È stupido assumere un atteggiamento strafottente verso una testimone con quello stato d'animo. Se si parla tranquillamente e lentamente come quando si spiega qualcosa a un bambino, di solito si scopre ciò che si vuole sapere. Quella ragazza era così avvilita da essere semplicemente disorientata. «Ma» disse, quasi che non riuscisse a capire, «ma... in tal caso, cosa deve fare Miriam? Questa signora Reilly...» «Non ve ne preoccupate. Ci penseremo noi alla signora Reilly. Se vi volete mettere... tutti voi... completamente nelle nostre mani, vedrò cosa si può fare. Ma per questo esigo piena e completa franchezza. Lo capite?» Lei rabbrividì, ma annuì. «È una questione di scelta» proseguii. «Vi siete già messi tutti quanti in cattiva luce mentendo su quanto è successo al museo venerdì sera...» «E questo significa altri guai, immagino» disse stancamente. «Oh, vi prenderete qualche acido commento dal magistrato inquirente. Ma non dovete preoccuparvene, se siete assolutamente sinceri con noi.» «Vi dirò tutto quello che volete sapere» rispose lei con una voce calma, ferma, incolore, che non era più di un sussurro. «Tutto e ogni cosa e che Dio mi aiuti.» La voce si fece spavalda. «Sì, mi fiderò di voi. Mi sembrate... serio. Sì. Cosa volete sapere?» «Benissimo. Per il momento lasciamo fuori la signorina Wade e andiamo al sodo. Voi eravate l'amante di quel Penderei, vero?» «Sì. No, amante non è la parola giusta. Voglio dire... sa di... lungo tempo, capite? Capite davvero? Passai un fine settimana con lui. Ma non potevo sopportarlo!» Si ricompose deliberatamente e con uno scatto nervoso aprì la borsa e tirò fuori un portacipria. Le sue mani tremavano. «Dico, perché mi agito tanto per questo? Voglio dire, tutti facciamo cose del genere in un momento o in un altro, no? Forse perché era così... untuoso. Capi-
te?» «Ha mai tentato di estorcervi del denaro?» «No. Sapeva che non ne avevo.» «Quante persone erano a conoscenza della relazione?» «La mia, intendete? Miriam lo sapeva. Glielo disse lui. Vedete, mi aveva conosciuto prima di conoscere Miriam, e nessuna di noi, né Miriam né io, sapeva che l'altra lo conosceva. So che sto facendo una gran confusione, ma mi capite? Poi, quando Miriam si accorse di essere incinta e gli disse di andarsene e che non lo voleva più vedere, lui rise e disse che lo avrebbe visto eccome. Tanto per rendere la cosa più divertente le raccontò dì me.» «Lei è... sempre innamorata di lui?» «Miriam?» Sogghignò con aria sprezzante e agitò le spalle come se si stesse liberando di un insetto. «Miriam! Per carità!» «Ora una domanda personale. Siete innamorata di Richard Butler?» «Sì.» «Lui sa di voi e Penderei?» «Sì.» «Da quando?» «Da stamattina. Gliel'ho detto.» Mi guardò curiosamente spalancando gli occhi, poi vacillò, sull'orlo di una risata isterica. «Oh, Signore! Non penserete mica che Rink lo avrebbe ucciso, vero? Oh, state a sentire. Dovete essere spaventosamente all'antica. Lui potrebbe anche considerare Penderei un'escrescenza sulla faccia dell'umanità, ma non arriverebbe mai a ucciderlo. Non lo pensate mica, vero?» Non le dissi quello che pensavo come non lo dico ora a voi. Lei continuò a guardarmi con un'aria di trionfo sempre crescente. «E vi dirò qualcosa di più, signor Hadley. Non so chi può aver voluto uccidere Penderei, ma posso dirvi chi non l'ha ucciso né avrebbe potuto ucciderlo. Eravamo in quattro... quattro!... tutti insieme al piano superiore del museo. Rink... Rink mi ha detto di aver scoperto il cadavere prima... sapete... prima delle undici.» Respirava affannosamente. «Ma lui non potrebbe averlo ucciso e voi lo sapete benissimo. Voglio dire, non potrebbe averlo fatto. Rink, Ron Holmes e io siamo stati di sopra dalle dieci e venti circa fino alle undici. Miriam ci ha raggiunto qualche buon minuto prima delle undici meno un quarto e fino alle undici siamo stati tutti insieme lì. In quattro. Cosa ne dite?» Di nuovo non le dissi cosa pensavo, ma lei mi guardava con sincerità quasi esplosiva o con sfida, non saprei dire quale espressione tra le due. Le dissi: «Posso fidarmi di quanto dite o è soltanto un altro alibi collettivo?».
Aprii il cassetto e tirai fuori una pianta del museo abbozzata in maniera rudimentale da Carruthers. «Ecco qua una pianta del terreno. Fatemi vedere in quale stanza eravate del piano superiore, e sopra quale stanza del piano terreno. Capito?» «Sì. Certo. Vedete, di sopra ci sono quattro grandi gallerie, esattamente come quelle del piano terreno. Tutt'attorno c'è una specie di balconata. Noi eravamo nella Galleria Araba che è direttamente sopra la Galleria denominata Galleria Egiziana.» «E accanto alla Galleria Araba cosa c'è?» «Quella che chiamano la Sala degli Scialli.» «Che è direttamente sopra la Galleria Persiana del piano terreno?» «Sì, naturalmente.» «E sapete che in un angolo della Sala degli Scialli c'è una scala di ferro a chiocciola che porta giù nella Galleria Persiana?» Mentre lei annuiva continuando a guardarmi fissamente, proseguii: «Appuriamo questo, allora. Sareste pronta a giurare che tra le dieci e trenta, diciamo, quando la signorina Wade è venuta su, voi, lei, Holmes e Butler siete rimasti tutti insieme nella Galleria Araba e non vi siete mai persi di vista l'un l'altro... fino a quando?» «Fino alle undici meno cinque» rispose lei, decisa. «A quel punto Rink e Ron avevano messo il cofano nella cassa. Sam Baxter era appena salito su dal piano di sotto... lui è salito su dalla scaletta della Sala degli Scialli. Poi Rink e Sam, che erano i più robusti, hanno cominciato a portare giù la cassa da imballaggio. Ron... sì, Ron ha udito Pruen che gridava da giù. Così si è precipitato per la scaletta per andare a vedere cosa succedeva, e Sam e Rink hanno portato giù il cofano dalla scala principale. Non so se siete al corrente di tutto quello che è successo...» Da teste anche troppo restia era diventata una teste troppo loquace, e io la sviai più abilmente che potei. «Sentiamo di nuovo, signorina Kirkton; siete sicurissima che tra le dieci e mezzo e le dieci e quarantacinque voi, la signorina Wade, Holmes e Butler non vi siete mai persi di vista l'un l'altro?» La sémplice ripetizione spesso fa buon gioco, non necessariamente per far cambiare deposizione a una teste, ma per tirar fuori fatti che erano stati sepolti. Harriet Kirkton non era affatto stupida. Non aveva fatto che armeggiare col bordo della scrivania, evidentemente in preda all'agitazione, mentre tentava di capire dove poteva aver commesso un errore. Alla fine annuì, ma la sua faccia avvampata non si alterò.
«Sì, capisco cosa volete dire» disse lentamente. «Avete parlato con Pruen, vero? Volete dire che quando quel buffo vecchio dottor Illingworth è arrivato al museo, più o meno nello stesso momento in cui Miriam saliva di sopra per raggiungerci, saranno state le dieci e trentacinque circa, no? Non ci avevo pensato. E proprio subito dopo, Ron Holmes è andato sulla balconata e ha chiamato Pruen per chiedergli se era arrivato l'attore... Volevate dire questo?» «Be'?» Lei strinse le labbra. «Ron sarà stato fuori della stanza circa venti secondi. E soltanto sulla soglia. Abbiamo udito i suoi passi, lo abbiamo udito gridare, lo abbiamo udito tornare. A onor del vero si potrebbe dire che non è mai stato fuori della nostra vista, no?» A onor del vero era proprio così. «Ancora un altro punto collegato a questo, signorina Kirkton» insistetti. «Illingworth, che era stato scambiato da tutti per l'attore dell'agenzia, ha incontrato Miriam nella sala mentre saliva dalla cantina...» Dissi quelle parole con aria indifferente perché non volevo farle pensare che davo importanza alla cantina. «... e subito dopo è salita da voi. Tuttavia poco dopo Holmes esce tutto agitato per chiedere a Pruen se l'attore era arrivato. Non aveva detto, Miriam, di averlo incontrato nella sala al piano di sotto?» Ebbi l'impressione che la domanda la cogliesse alla sprovvista e che non ci avesse mai nemmeno pensato. «No, ora che ci penso, non l'ha detto! Non l'ha detto per niente!» «Come vi è sembrata quando è venuta su? Nervosa? Preoccupata? Sconvolta?» «Era nervosissima e molto sconvolta» ribatté Harriet Kirkton. «Mi avete detto di dirvi la verità e lo sto facendo.» La ragazza aveva assunto l'atteggiamento che assumono molti quando si trovano ad affrontare un momento leggermente... non troppo, ma leggermente... pericoloso: si era fisicamente irrigidita. Così fa chi passa vicino a un cane dall'aspetto feroce che ha cominciato debolmente a ringhiare. «Sapete perché era sconvolta?» «No, signor Hadley, non lo so.» Lasciai che assorbisse quel pensiero. Mi alzai dalla scrivania, mi avvicinai alla finestra e restai a guardare la pioggia fuori giocherellando con le monete che avevo nelle tasche. Ma con la coda dell'occhio, mentre passavo accanto al cerchio di luce, colsi la sua espressione. Poiché detesto ogni genere d'esagerazione, non voglio calcare troppo su questo, ma mi sembrò
che quando girai l'occhio, quella malconcia figurina con la sua bellezza diafana si rilassasse improvvisamente per poi subito dopo tendere i muscoli in maniera orrenda gettando la testa all'indietro e mettendo a nudo il collo palpitante. Invece lei prese soltanto un portasigarette dalla tasca dell'impermeabile e restò in silenzio a fissare il pavimento. Alla fine mi voltai. «Signorina Kirkton, se le vostre deposizioni possono essere provate, avete procurato, apparentemente, un alibi a quattro persone. Vi renderete conto, suppongo, che con ciò mettete in cattivissima luce altre due persone. Stando alle vostre dichiarazioni, gli unici che potrebbero aver commesso il delitto sono Sam Baxter e Jerry Wade.» Lei si stupì enormemente. «Ma non è possibile! No. No! Oh, è decisamente assurdo! Aspettate! Jerry era con Illingworth, no? Inoltre lui non farebbe mai... e quanto a Sam... Sam!» La sua voce si fece così acuta che la frase poté essere completata soltanto da un gesto: le parole non bastano per esprimere la splendida incompetenza di Sam nelle vesti di assassino. «Sam... Oh, porca miseria! Ma guardatelo! Parlateci! Voglio dire, è un bravissimo ragazzo, ma pensare a lui come assassino...» «Be', non è esattamente un complimento essere definito assassino. Non lo denigrate affatto sostenendo che non può esserlo.» «Oh, ma voi capite cosa voglio dire!» Era talmente agitata che i suoi occhi si colmarono di lacrime. «In qualunque altro momento vi risponderei per le rime. Ma ora non posso. Non ho voglia di scherzare. Vorrei soltanto rintanarmi in un angolo e lasciarmi andare a una crisi isterica. Cioè, Sam, con i suoi capelli rossi e il suo passato peccaminoso (che poi consisteva semplicemente nello sbronzarsi regolarmente) e la sua ritrovata dignità e la sua... ma parlate con lui un poco! Come dicevo, è un bravissimo ragazzo, ma è il tipo che chiederebbe a una donna di sposarlo finendo ogni frase con: "Capite cosa voglio dire?". Per giunta, ora che ci penso, è venuto su da noi nella Galleria Araba prima delle undici...» «Quando, precisamente? Ve ne ricordate?» «Ah, non lo so. Ho ripassato ogni cosa con Rink, cercando di stabilire tutto quello che era successo e quando! Direi che è venuto su alle undici meno dieci. Forse prima. E se...» Clarke bussò alla porta ed entrò con un biglietto piegato che posò sulla mia scrivania: il suo elaborato mezzo di comunicazione riservata quando sarebbe tanto più semplice usare il telefono. Aprii il biglietto che diceva: "Due uomini, che hanno accompagnato la signora in macchina, aspettano
qua fuori. Nomi: Butler e Baxter. Pensato che forse vorrete vederli". Così dissi a Clarke: «Sì, ti dirò io quando». Tornai a rivolgermi alla ragazza. «Se facessimo, signorina Kirkton, uno schizzo di questa faccenda sin da principio? Parlatemi un po' dello scherzo contro il signor Mannering.» «È proprio questo che mi turba più di tutto!» esplose lei. «È strano, ma è così. Indubbiamente Greg Mannering ha girato le carte in tavola contro di noi, no? Avevamo preparato ogni cosa per metterlo in ridicolo, e lui ha reso spaventosamente ridicoli noi! Mi par di sentirlo ridere, insieme a tutti gli altri, quando esporranno i fatti al magistrato inquirente. E ci ha anche messo in cattiva luce, non vedete? Ma noi non avevamo intenzione di fare del male. Volevamo soltanto vederlo crollare quando il Demonio lo avesse minacciato di estirpargli il fegato. È l'insopportabile concetto che ha di se stesso, se lo conosceste capireste.» «È innamorato della signorina Wade?» Lei sembrò pensosa. «Sì, credo che lo sia, veramente e sinceramente.» «E lei di lui?» «È buffo, no?» mi rispose con voce strana, «che io sia tanto sicura di lui e non di lei. È un po' difficile dire di Miriam perfino quando la si conosce bene come la conosco io. Non credo che lo sia, almeno non così tanto.» Harriet sorrise. «So che l'altra sera quell'ispettore di polizia... come si chiama? Carruthers... le ha fatto un grande effetto. Ma ha tanto parlato di Gregory Mannering, ha tanto decantato Greg Mannering, e ha fatto tante storie per Greg Mannering che deve per forza sostenerlo, se non altro per non perdere la faccia. E c'è una cosa. Se fosse stata veramente innamorata di lui, dubito che ci avrebbe lasciato architettare quello scherzo. Voglio dire: supponiamo che si fosse trattato di Rink Butler, io so che mai e poi mai avrei permesso che gli facessero uno scherzo del genere, anche se soltanto per paura che non facesse bella figura.» «E cosa ne pensate voi, di Mannering? In linea generale, cioè?» Lei meditò a lungo, la sigaretta spenta tra le dita. «Ci ho pensato su un sacco. Secondo me è un poseur, ma è realmente valido. Cioè, potrebbe vantarsi di una qualche azione pazzesca ed eroica nella giungla, sull'Himalaya o dove che sia, per pura vanità, ma il fatto è che saprebbe farla per davvero.» Giocherellai con la matita sulla cartella della scrivania per un poco. «Benissimo. Cominciate, come vi dicevo, da principio e ditemi tutto quello che è accaduto venerdì sera... dalle dieci, quando, mi par di capire, il vo-
stro gruppo è arrivato al museo. C'è un punto cui nessuno sembra aver accennato...» Lei era di nuovo sul chi vive, ma annuì con aria interrogativa. «Venerdì notte, o meglio poco dopo l'una di sabato mattina, Carruthers si è presentato in casa di Holmes per indagare sul conto di tutti voi dopo la scoperta del cadavere. Il ragazzo del centralino telefonico gli ha detto che eravate di sopra dalle nove. Era tutto combinato, immagino?» «Sì, è stato combinato quando siamo scappati dal museo dopo il fiasco, e pur non sapendo assolutamente che c'era stato un delitto, avevamo paura di ritrovarci nei guai per il nostro scherzo. Jerry ha dato una cospicua mancia al ragazzo perché dicesse così. Il ragazzo non avrà mica delle noie, vero?» «No, per adesso no.» «E, vedete, il vostro ispettore Carruthers non sarebbe stato lasciato salire se non fosse stato per un errore grossolano. Noi stavamo aspettando Rinkey... Rinkey era andato ad accompagnare all'albergo il vecchio Illingworth e ci aveva fatto giurare di aspettarlo in casa di Ron. Non ci aveva ancora detto niente del delitto. Be', così che soltanto Rinkey e nessun altro sarebbe potuto salire di sopra. Ron aveva detto al ragazzo: "Tra poco verrà qui un uomo travestito da agente di polizia, lascialo salire". Ed ecco che ti arriva il vostro vero ispettore che fa una risata e dice al ragazzo: "Non mi annunciare, vado su a bussare alla porta e dirò che sono un poliziotto". Quindi, naturalmente, il ragazzo ha creduto...» «Capisco. Ma lui non aveva ricevuto istruzioni, durante la serata, prima che tornaste dal museo, di dire che di sopra era in corso un festino?» «No, certo che no. Ehi, cosa state pensando? Perché ve ne state lì come una sfinge e non dite mai niente?» Cominciò a battere il pugno sulla scrivania. «Cosa pensate? Cosa c'è?» «Calma, signorina Kirkton. Riprendiamo dalle dieci, quando siete arrivati tutti al museo. Attaccate da lì.» «Mi sembra che sappiate già tutto» mi rispose stancamente. «Ci ripromettevamo un gran divertimento, ma non lo è stato. Dopo che Pruen ha chiuso, Rink e Ron Holmes sono andati al piano di sopra a preparare il cofano; Sam si è allontanato per ripassare la sua parte e Miriam e io siamo andate ad aiutare Jerry ad appiccicarsi la barba...» «Un momento. È successo qualcosa tra una cosa e l'altra, mi pare. Dico bene che, proprio prima di quei movimenti, Holmes ha tirato fuori il pugnale col manico d'avorio dalla bacheca di vetro? E che insieme a un paio di baffi finti neri l'ha messo sul primo gradino in fondo alla scala?»
«Sì, esatto.» «Signorina Kirkton, voglio che comprendiate che se non rispondete sinceramente alla prossima domanda, io lo capirò e le cose si metteranno molto male per voi. Chi ha preso quel pugnale dalla scala?» Lei sembrò farsi coraggio. «Miriam» rispose con voce piatta. 20 La chiave dalla testa a forma di freccia «Non mi fraintendete» esclamò e alzò di nuovo la mano sebbene io non avessi detto niente anche questa volta. «Non voglio dire che vi fosse nulla... nulla di furtivo nel suo gesto, né che li abbia rubati. Perbacco, Rinkey e io e Pruen anche, l'abbiamo vista mentre li prendeva, sì, e li ha rimessi a posto. Non se li è tenuti, vi dico! Darei non so cosa per sapere cosa stavate pensando.» Mi osservò attentamente. «Comunque ho idea che questo fatto vi abbia molto sorpreso. «È andata così. Quando ci siamo divisi, come vi ho detto, Miriam e io stavamo aiutando Jerry a mettersi la barba e Miriam ha detto: "Ehi, Pagliaccio, dovresti avere il vestiario adatto!"» «Vestiario?» «Sì, vedete, Jerry era vestito come sempre. "Ma" ha detto Miriam "in cantina c'è un paio di vecchie giacche di papà. Dovresti indossare una di quelle. Vado giù a prendertela, va bene? Lasciami andare giù a prendertene una!" Jerry stava imprecando contro la barba piuttosto difficile da applicare e che non voleva stare appiccicata, e non le ha fatto molto caso. Ma Miriam era entusiasta della sua idea. Così Miriam e io siamo andate nella sala e lei stava andando giù a prendere la giacca...» «Vi avrebbe lasciato scendere insieme con lei?» «Sì, certo! Ci stavo andando. Solo che in quel momento Rink si è precipitato giù chiedendo affannosamente i chiodi, e Miriam gli ha detto: "Te li porto io, te li porto io!". A proposito, ci è mancato un pelo che Rink inciampasse su quel pugnale. Rink mi ha detto: "Tu vieni di sopra con me, donna. Se non altro puoi fare il lavoro della ceralacca". Siamo saliti di sopra e, proprio mentre arrivavamo in cima alle scale e stavamo girando sulla balconata, mi è capitato di guardare giù. Miriam stava raccattando il pugnale, e mentre io la osservavo ha preso anche i baffi finti. Ora statemi a sentire» gridò la ragazza imperiosamente. «Miriam ha alzato gli occhi sor-
ridendo e ci ha detto: "Qualcuno finirà per cadere con questo pugnale qui se non stiamo attenti. Sarà meglio che lo dia a Sam".» «E Butler l'ha vista e ha sentito ciò che diceva?» «Io... sì, credo di sì, ma non ne sono sicura, cioè non ci potrei giurare, ma deve averla sentita.» «E Pruen? Lui deve aver visto e udito, no?» «Quanto a udire non lo so, perché la sala è molto lunga. Ma dovrebbe certamente averla vista, a meno che non ne fosse impedito dalle bacheche. Non mi credete? No?» «State calma, signorina Kirkton. Sapete cosa ne ha fatto del pugnale?» «L'ha... l'ha posato altrove.» «Ne siete sicura? L'avete vista?» «No, ma gliel'ho chiesto, dopo che era stata scoperta quella cosa. Gliel'ho chiesto ieri, perché avevo una gran paura, ma lei mi ha detto che non avrebbe fatto nessunissima differenza e di dirlo tranquillamente alla polizia se me lo avessero chiesto. Ecco!» «Com'era il suo atteggiamento quando l'ha preso?» La ragazza aveva sulle labbra un sorrisetto di scherno. «Sempre a caccia di scellerati criminali che si torcono le mani grondanti di sangue, signor Hadley? Era perfettamente normale, un po' eccitata e stupita, ma perfettamente normale.» «Stupita? Stupita di cosa?» «Non lo so.» «Andate avanti.» «Ma non c'è altro, non capite? Questo è assolutamente tutto quello che posso dirvi. Sono andata di sopra con Rink e Ron Holmes. Poi c'è stato tutto quel ritardo. Prima hanno impiegato un secolo a tirar fuori quel cofano dalla teca di vetro senza spaccare niente di tutto quel vasellame intorno. E il sacco della segatura si era rotto. Poi abbiamo trovato che il coperchio del cofano era talmente corroso che non si sarebbe potuto aprire senza un martello e uno scalpello, e con moltissima attenzione. Miriam è salita con noi, come vi ho detto, anzi come dite voi, alle undici meno venticinque circa...» «Quando era sconvolta, come mi pare che abbiate detto?» «Lo eravamo tutti, se è per quello. Tutto quel ritardo e il tempo che stringeva sempre più! Vedete, abbiamo dovuto tirar fuori il cofano, applicare la ceralacca, e cominciare a piantar chiodi nella cassa quando qualcuno si è accorto che il coperchio non si apriva... cose che succedono sempre quando si ha fretta. Sì, eravamo tutti un po'... capite. Perciò quello non si-
gnifica niente. Ma non ho da dirvi altro. Perché siamo stati tutti insieme nella Galleria Araba fino alle undici meno cinque.» Alzai il ricevitore del telefono e dissi a Clarke nell'altra stanza: «Mandali su». Lei non disse una parola né fece un gesto. L'avrei giudicata esausta e indifferente. Anche quando Richard Butler e Jerry Wade entrarono piuttosto timidamente nella stanza guidati da Pierce, lei si limitò a sorridere dicendo: «Così vi hanno beccati, eh? Entrate e unitevi al festino». «Avevamo pensato di venire a darti il nostro appoggio» disse Butler. «Le tue lusinghe funzionano magari benone, comunque pensavamo che tu potessi aver bisogno del nostro aiuto.» «Non so se mi conoscete, sovrintendente» disse Jerry Wade, cercando di parlare con voce ferma. «Sono lo spregevole e terribile dottor Gable del racconto del vecchio Illingworth. Ieri Illingworth è andato a trovare mio padre e io ho sentito la storia delle mie brutalità origliando alla porta della biblioteca. Questo è il signor Butler.» Lo guardai. «Il signor Butler» dissi, «che può essere accusato di complicità nell'assassinio di Penderei. Che ha trovato il cadavere nella carrozza, ma ha nascosto l'informazione...» «Mi domando, signor Hadley, cosa avreste fatto voi» disse Butler semplicemente. «Avreste spiattellato tutto e scatenato il panico nel museo? Avrei detto ogni cosa più tardi, naturalmente, dopo aver portato a spasso Illingworth con un taxi. Ma il vostro agente è arrivato là prima di me e visto che loro avevano già giurato e spergiurato di non aver messo piede nel museo, non potevo certamente sbugiardarli e annunciare la notizia. Se ci sarà da ingoiare una medicina amara, sono disposto a prenderla, ma non rendete il mio reato più grave di quello che è... Quanto a quello, anche il vecchio Illingworth ha visto il cadavere nella carrozza, ma immagino che non accuserete anche lui di complicità.» Sorrise di nuovo con l'aria di ritrovarsi completamente a suo agio e si tolse il cappello. «Sedetevi tutti e due» dissi. «Fumate pure, se volete. Vi rendete conto, signor Butler, dì essere in una posizione molto sgradevole?» «Sì, grazie.» Mi girai. «E voi, signor Wade, sapete che, a meno che non credano interamente al racconto di Illingworth... e lui è un uomo piuttosto strambo... potreste essere arrestato per omicidio?» «Uh, Gesù!» esclamò Jerry, e si bruciò le dita con un fiammifero. «Ehi,
un momento! lo? Perché?» «Perché tutti gli altri, con la possibile eccezione del signor Butler, hanno alibi che non dipendono dalla testimonianza di un vecchio ecclesiastico strambo che potrebbe dire qualunque cosa.» «Be', credeteci o no, io non l'ho ucciso» disse lui. «Ma è un'ipotesi cui non avevo pensato. È verissimo, e posso dirlo per i miei peccati, che il vecchio soffre dì allucinazioni. Per le budella di Giobbe, non so cos'abbia quell'uomo... a meno che per la costante lettura di libri gialli non gli abbia dato di volta il cervello! Quando ieri si è presentato in casa per vedere il mio vecchio non era armato soltanto di un libro intitolato Il pugnale del destino, ma anche di un altro che ne sembrava il seguito, intitolato Il ritorno del dottor Chianti che qualcuno a Selfridge gli aveva dato in un momento di distrazione. Se mai qualcuno gli regalerà una storia del vecchio West, farà bene a stare attento a quello che può scatenare a Edimburgo. Comunque» si asciugò la fronte, «avrà anche allucinazioni ma... accidenti... voglio dire, noi eravamo veramente là.» Troncai di botto le sue proteste. «A proposito, signor Butler, è vero, no, che quattro di voi hanno un alibi di ferro? La signorina Wade, la signorina Kirkton, il signor Holmes e voi stesso?» Capirete che era inutile mettere trappole in quel senso. Che dicessero la verità o mentissero, erano già ben decisi sul da farsi. Adottai la tattica dell'assoluta franchezza. Butler mi osservava da sotto le palpebre pesanti, girava i pollici, sbirciava Harriet con aria interrogativa (la quale fumava placidamente) e adottò la stessa aria diretta. «Suppongo di sì» riconobbe in tono secco. «Non c'è dubbio che eravamo di sopra quando quel... quel tizio è arrivato. Alle undici meno un quarto, no? Ma, ascoltate, perché lasciate fuori il povero Sam?» «Era con voi il signor Baxter?» «Sicuro che c'era. Cioè, è venuto esattamente alle undici meno un quarto.» «Tenevate continuamente d'occhio l'orologio per poterlo dire con certezza?» Lui rise rumorosamente. «No, ma nella Galleria Araba dove eravamo c'è un orologio: un orologio da mostra, ma funziona bene. Certo che lo tenevo d'occhio. Tutti lo guardavamo per vedere quanto mancava alle undici. Era esattamente un quarto alle undici meno un secondo o due quando Sam è entrato.» «Ci giurereste, naturalmente?»
Quello che sembrò disorientare Butler fu il mio modo di fare casuale registrando semplicemente la sua dichiarazione come se fosse un fatto di nessuna importanza. Suo malgrado mi fissò. Io stavo guardando attentamente le mie mani intrecciate. Sbirciò Harriet, poi Jerry, mosse i piedi su e giù e finalmente parve annusare una trappola. «Giurare?» ripeté. «Ah. Oh, sì. Sicuro. Il... il fatto è che temevo che mi deste del bugiardo.» «Perché?» «Perché? La polizia fa così, no? Comunque è affar vostro. Dove sareste se nessuno mentisse mai?» «È abbastanza vero» dissi. «Ora vediamo la vostra parte in questa faccenda, signor Butler. Potremmo parlare di Raymond Penderei.» I tre si scossero. La ragazza gettò la sigaretta nel fuoco e appoggiò la testa alla spalliera della sedia. Jerry Wade pescò un'armonica a bocca dalla tasca e la tirò fuori. «Avevate mai sentito il nome di Raymond Penderei prima di venerdì, signor Butler?» «No» rispose Butler, deciso. «E non lo avevo mai sentito finché l'ispettore Carruthers non l'ha nominato dopo aver scoperto il cadavere.» «Avevate telefonato all'agenzia Brainerd, per un attore, vero?» «Sì.» «Nel pomeriggio di venerdì avevate incontrato Penderei in un bar di Piccadilly per spiegargli la sua parte, vero?» «Sì» convenne Butler e rise di nuovo. «Voi non capite una cosa. Io ho telefonato all'agenzia, ho spiegato che cosa volevamo e loro hanno detto: "Si dà il caso che abbiamo proprio la persona che fa per voi, il signor Caio Sempronio". Non ho affatto prestato attenzione al nome, credo di non averlo neppure udito. Permettete che vi faccia una domanda: quante persone incontrate nella vita sociale... non professionale... delle quali sapreste ricordare subito il nome? I nomi non si ricordano mai a meno di non avere un motivo. Credete che potrei ricordare un nome di una persona astratta come X nel nostro caso, un nome che mi è stato mormorato per telefono... anche se lo avessi udito? Quindi è verissimo, sovrintendente. Non conoscevo quel nome. Ho detto: "Be', ditegli che vada al Caliban Bar alle due del pomeriggio e chieda di me". L'ho incontrato. L'aspetto di quel maiale non mi è piaciuto nemmeno allora. Ma sembrava abbastanza in gamba. Quando gli ho chiesto come si chiamava, ha risposto: "Oh, non importa, per stasera mi chiamerò Illingworth". Lì per lì ho pensato che si comportasse in modo un po' strano, sghignazzando come il bruto di un melo-
dramma...» «Un momento. Se non sapevate nulla sul suo conto perché dite che l'aspetto di quel "maiale" non vi era piaciuto nemmeno allora? Sapete qualcosa di lui, ora?» Butler s'interruppe. Disse a Jerry: «Lo sapevo che dovevamo portarci dietro quello stramaledetto avvocato». «Non serve, Rink» disse Harriet, le guance in fiamme. «Sa tutto. Cioè, sa di me e sa che Miriam aveva avuto una relazione con Penderei.» Pronunciò la parola relazione senza calcarvi molto su. Stavamo finalmente camminando su un sentiero che sin da principio era stato inevitabile, e io da tempo avevo deciso la linea da seguire. "Relazione" e una relazione seria era un movente abbastanza serio in quella faccenda. A meno che non fosse assolutamente necessario, non c'era alcun bisogno di tirare in ballo il bambino. Dissi, scandendo le parole per evitare errori: «Sì, c'era una relazione. La signorina Wade divenne l'amante di Penderei. Questo è quanto so ufficialmente, e se voi tenete la testa a posto, è quanto sarà necessario far sapere al mondo.» Seguì un silenzio. Erano amici leali. Harriet Kirkton aveva le lacrime agli occhi. Jerry Wade aveva chinato il capo e si era portato l'armonica alla bocca. «Va...» borbottò Harriet, «... va bene» aggiunse con una strana misera scelta di parole. «Ma, e quel vostro terribile magistrato inquirente?» «Prendete un buon avvocato per difendervi. Non perdete la testa e non fatevi raggirare. Ve la caverete. Ma ricordatevi: non mentite a me. Ve lo chiedo di nuovo. Qualcuno di voi mi ha mentito su qualcosa?» «No» disse Jerry Wade tranquillamente. Alzò la testa. La sua faccia era arrossata e non aveva ancora riassunto la sua maschera di amabile cinismo. «E... grazie. Nessuno vi mentirà, ora.» «Sapevate di vostra sorella e di Penderei, signor Wade?» «No, non lo sapevo. Cioè, non lo sapevo fino a ieri sera. Poi lei me l'ha detto. Il nome di Penderei però mi era stato accennato: accennato per iscritto. Moltissimo tempo fa, Miriam mi scrisse di una persona "molto affascinante" che aveva conosciuto, con quel nome... Ma lei faceva sempre così. Mi era rimasto impresso quel nome perché mi ricordava il personaggio di un racconto di Michael Arlen.» Soffiò cinicamente alcune note sull'armonica a bocca. «Cosa dovevo fare? "Signore, vi scudiscerò sui gradini di questo club!"? Vorrei averlo saputo, però. Avrei fatto qualcosa di utile. Ma non un gran che. Ah, Cristo! Il vigliacco.»
Suonò una lunga nota e chiuse gli occhi. Mi rivolsi a Butler. «Ora sentiamo il vostro racconto di venerdì notte. Perché, per esempio, eravate così ansioso di mettere in ridicolo il signor Mannering?» Butler sembrò perplesso. «Francamente non lo so. Per quello che avevo sentito di lui, o forse il mio solito desiderio di inscenare qualcosa. In effetti, non è poi un cattivo ragazzo, quando lo si conosce.» Indicò il dente mancante. «Non credo che potrò mai diventare un suo amico intimo, ma... be', la vita sarebbe più semplice se non si rompessero le scatole alla gente. Non so se lo sapete, ma abbiamo avuto un altro scontro. D'un tratto, mentre ce le davamo, mi è sembrato talmente ridicolo che due persone dovessero picchiarsi solo per farsi ammirare o per divertire la gente, che mi è scappato da ridere. In quel minuto ho acquistato qualcosa, una filosofia, forse. È stato come camminare in una nuvola di gas venefico e accorgersi che era gas esilarante. Chissà se ci sarebbero molte guerre se quello stato d'animo diventasse universale. Ma quanto allo scherzo... be', date la colpa alla mania dilettantesca di dare spettacolo.» Il suo rendiconto della serata era talmente preciso a quello degli altri in tutti i particolari che non starò a riferirvelo. Lo interruppi soltanto in un punto. Stava raccontando quella storia di Miriam che scendeva nella cantina per prendere i chiodi mentre lui e Harriet andavano su nella Galleria Araba. «Siete andati di sopra» dissi. «Ora, quando la signorina Wade ha raccattato il pugnale dalle scale, cos'ha detto?» Butler si bloccò come se avesse inciampato in qualcosa. Poi mi guardò. «Ehi!» gridò, come uno che ha ricevuto una botta sotto la cintura. «Ehi, dico, maledizione...» Harriet disse seccamente: «Se ho fatto una gaffe, mi dispiace. Non fa la minima differenza, l'ho detto dozzine di volte: dobbiamo essere leali col signor Hadley come promesso. Non so se tu avevi visto, ma pensavo che avessi udito. Miriam ha preso il pugnale e l'ha rimesso giù, naturalmente, perciò non può nuocerle in nessun modo, perché indubbiamente è stata al piano di sopra con noi tutto il tempo... Non mi guardare in quel modo!» «Io non ti guardo in quel modo» protestò Butler in tono addolorato. Tirò fuori un fazzoletto e si asciugò la fronte. «Ripensandoci, le ho udito dire qualcosa come: "Lo darò a Sam". Sì, perdio! L'ha detto! Ma questa è la prima volta che se ne parla...» «Miriam e io ne abbiamo parlato insieme» ribatté la ragazza di scatto.
«E dato che abbiamo convenuto di dire la verità, ecco.» «Be', cosa diavolo ne ha fatto?» domandò lui. «L'ha dato a Sam? Io non l'ho visto metterselo sotto la cintura in nessun momento. Ma non riesco a ricordare quando ho visto quel maledetto arnese l'ultima volta. La sola cosa che ricordo è che decisamente non era sulle scale quando Sam e io, alle undici, abbiamo portato giù la bara, perché lo cercavo. Per amor del cielo, dove l'aveva messo?» Lo interruppi. «Secondo quanto dice la signorina Kirkton non sappiamo niente, tranne il fatto che l'ha posato da qualche parte. Ma ci torneremo su. Dato che il suo alibi è valido, questo non è necessariamente pericoloso. Torniamo all'ultimo atto della faccenda: la scoperta del cadavere.» A quel punto si calmarono. Per la prima volta Butler parve sinceramente a disagio oltre che nervoso. «Ah, sì. Quello. Come avete sentito, Sam e io abbiamo portato giù la "bara" poco prima delle undici. Non so di cosa stessero cianciando davanti alla porta di bronzo. Pensavo soltanto che non erano ancora le undici. Poi mi è sembrato di ricordare di aver lasciato lo sfollagente di sopra...» «Perché lo sfollagente? Eravate travestito da agente del traffico.» «Davvero?» esclamò lui, vago. «Sì. Veniva con l'uniforme e inoltre era molto necessario. Vedete, io ero il poliziotto, un personaggio molto importante. Avete capito, vero, che la nostra piccola farsa doveva avere una conclusione? Cioè: quando Sam sta per chinarsi su Mannering, minacciandolo con il coltello, l'azione non si doveva fermare lì né esaurirsi rendendo lo scherzo troppo palese, sia che Mannering si fosse spaventato o meno. No, no. La recitazione non era meravigliosa, però volevamo tenere in serbo la cosa per l'avvenire. Mentre Sam si china con il coltello e mentre l'attore nel ruolo di Illingworth tiene a bada gli altri con una pistola, Harriet doveva liberarsi e fuggire urlando. In quel momento entro in scena io. Illingworth, il diabolico maomettano travestito, mi spara di punto in bianco. Io piombo a terra, spaccando una fialetta d'inchiostro rosso che ho dentro la tunica, ma sono sempre pieno d'energia anche se fingo di essere malamente ferito. Quando lui si avvicina per spararmi di nuovo, io gli paralizzo il polso con lo sfollagente e gli arraffo la pistola. A questo punto il principe Abù 'Obiad di Tàif e il traditore Illingworth sono in mio potere. Li prendo e li chiudo nella stanza del conservatore mentre loro sbraitano con quanto fiato hanno in gola. Poi io, malamente ferito, sprono Mannering a prendere la pistola e a badare a quei disperati delinquenti. O rifiuta o accetta. Se accetta io dico: "Hai il coraggio di portarli a Scotland Yard?". Sì, sì, grida l'intrepido
Mannering. Conducimi da loro! Mentre lui tiene la pistola con cupa determinazione, io dico, con voce rauca: "Tienti forte!" e spalanco la porta. Digrignando i denti, lui si precipita dentro. «Alla scrivania, uno di qua e uno di là, parrucche e barbe da una parte, i piedi sulla scrivania, Sam Baxter e l'attore se ne stanno comodamente seduti con una bottiglia di whisky tra loro. «"Permettimi" dico io con un grande inchino, "permettimi di presentarti il dottor William Augustus Illingworth e il principe Abù 'Obiad di Tàif."» Io dissi: «Sono lietissimo, naturalmente, di sentire la fine della puntata. Ma...». Butler gesticolò violentemente. «Oh, so che sembra maledettamente stupido qui e ora» scattò. «Tutto farebbe questo effetto qua dentro. Ma secondo noi era un'idea spettacolosa, e uno studio ravvicinato della faccia di Mannering sarebbe stato interessante. Non capite? Non si può organizzare una scena di lotta veramente convincente, ma una botta su un braccio imbottito, sì. Così, quando ho scoperto che il momento si stava avvicinando e io non ero ancora riuscito a trovare lo sfollagente, sono andato a cercarlo affannosamente. Poi mi è venuto in mente che, quando ero arrivato, per levarlo di mezzo, lo avevo cacciato in una delle carrozze. «Mentre gli altri erano nella sala accanto alla porta, dall'altro lato di quell'affare, ho aperto la portiera della diligenza dal lato della sala. Non so perché avevo scelto quella. Forse perché era la più imponente... E c'era quella cosa infernale a faccia in giù sul pavimento proprio appena sotto il livello dei miei occhi. «La mia prima idea è stata che mi avessero fatto uno scherzo micidiale. Perciò non ho dato in escandescenze né ho aperto bocca. Sono semplicemente salito nella carrozza e ho tirato su quella cosa per darvi un'occhiata.» «Lo avete riconosciuto?» Di nuovo Butler si asciugò il viso col fazzoletto. «Sì, certo. La barba gli si stava staccando dalle guance. L'ho riconosciuto quasi subito. Così l'ho tenuto su quasi ritto, sono saltato giù e gli ho sbattuto la porta in faccia... I due minuti successivi li ricorderò fin che campo. Mi pareva che tutti mi chiamassero gridando, ma io non riuscivo a connettere chiaramente. Vedevo tutto come annebbiato. Quando sono tornato in me, ho visto vagamente la sagoma di una testa dietro il ventilatore nell'ascensore. Non c'era nulla di spaventoso, in quella testa, ma per me sì.»
Tirò un profondo respiro. «Ma c'è una cosa che Illingworth non ha visto, se ho capito bene dal suo racconto fatto al vecchio Wade. Poiché lui era ruzzolato giù dal suo trespolo, non mi ha visto mentre mi avvicinavo alla carrozza, mi ha visto soltanto spalancare la portiera per avere più luce. «Quando ho aperto la portiera è caduto qualcosa. Qualcosa che doveva essere stata su di lui o vicino, ed era finita contro la portiera. Io l'ho presa, non ho potuto farne a meno. Devo essermela cacciata in tasca, anche se non ricordo d'averlo fatto. Quando l'ho ritrovata... in effetti quando ci ho pensato... è stato stamattina mentre frugavo nelle tasche dell'uniforme prima di riportarla alla ditta che me l'aveva noleggiata. Non l'ho ancora detto a nessuno e non so cosa significa. Ma sono venuto qui per darvela. Eccola.» Gli altri erano balzati in piedi e io ebbi una certa difficoltà a mantenere una faccia impenetrabile. Posò sulla mia scrivania una chiave di metallo dalla forma piuttosto strana. Aveva un'asta lunga e stretta con un forellino sulla testa e quattro piccole flange uguali a un'estremità sagomate come una freccia. «Ma, accidenti» esclamò Jerry, e s'interruppe. «Sì?» «Io so che cos'è. È uno dei disegni speciali che piacciono a mio padre. Sembrerebbe la chiave del cancello posteriore del museo.» Lo interruppi bruscamente. «È tutto» dissi. «Potete andare ora, tutti quanti.» 21 L'impronta sullo specchio Tuttavia, prima di lasciarli andare, dovetti appurare qualche altra cosa. Da quanto avevo potuto accertare, soltanto tre persone avevano la chiave per il cancello posteriore del museo: Ronald Holmes, il vecchio Geoffrey Wade e Miriam. Jerry non sapeva affatto che Miriam possedesse una chiave, ma Harriet si ricordava che la sera prima Miriam le aveva detto che lei (Miriam) se n'era fatta dare una da Holmes. Nondimeno Harriet dichiarò che la sua amica l'aveva sempre, come lei stessa aveva visto la sera prima. La chiave trovata da Butler era nuova e lucida, fatta di recente, e per giunta su di essa c'era inciso il nome della ditta che l'aveva forgiata: Bolton, Arundel Street, Strand.
Alla fine chiesi se qualcuno di loro avrebbe avuto niente da obiettare a farsi prendere le impronte digitali. Molti si rifiutano, com'è nel loro diritto. Ma quei tre sembrarono interessati all'idea, e Butler arrivò persino a insistere. «Voglio chiarire ogni cosa, perché io ho toccato quel coltello» ammise tranquillamente. «Non che l'abbia afferrato o maneggiato, capite. L'ho solamente toccato... forse volevo assicurarmi che quell'arnese fosse autentico. Dove dobbiamo andare?» Appena se ne andarono, prima di recarmi al museo Wade, mi sedetti a esaminare e a catalogare tutti i rapporti. Le varie impronte sul pugnale, come mi resi conto esaminando le fotografie, erano talmente confuse e sbafiate da risultare quasi inutili; non saremmo mai stati in grado di ottenere una condanna su una prova simile. Ma c'erano altri indizi che mi dettero molta soddisfazione. Mandai il sergente Betts da Bolton con la chiave. Telefonai a Carruthers in Vine Street e lo pregai di farmi un piacere fuori servizio e di indagare su una certa faccenda in Prince-Regent Court, Pall Mall Place, e poi di raggiungermi al museo. Era quasi ora di pranzo quando mi avviai al museo. La pioggia era quasi cessata, ma c'era sempre un vento fresco. E anche se le idee fantasiose di Carruthers riguardanti un edificio solido qual era quel museo fossero troppo colorite, fui costretto a convenire con lui almeno per quanto concerneva l'aspetto desolato. Quel giorno non c'erano sfaccendati intorno al museo che era chiuso al pubblico. La porta mi venne aperta dall'inserviente diurno che mi disse di chiamarsi Warburton. La sala principale era illuminata soltanto da una fila di lumi così da essere quasi semibuia. Di nuovo fui costretto ad ammettere che mi faceva l'effetto di una sala qualunque molto simile a quella di altri musei. L'aura poetica va benissimo, ma non serve per prendere misure e vedere chiaramente. Dalla famosa Galleria dei Bazar che era il mio primo punto d'interesse (capite perché?) qualcuno stava venendo verso di me. La persona che mi si avvicinò e mi parlò nella semioscurità era, dalla descrizione che ne avevo avuto, il signor Ronald Holmes. Ebbi di lui un'impressione molto favorevole, mi fece l'effetto di un giovane capace, energico e tranquillo, che poteva guardarti negli occhi senza lasciarsi ingannare da stupidaggini. Anche se sembrava piuttosto teso, mi parlò schiettamente senza nervosismi. «Sì, signore» disse. «Sir Herbert ci aveva avvertito della vostra visita. Il signor Wade è nella stanza del conservatore, con il dottor Illingworth:
stanno esaminando alcuni suoi nuovissimi acquisti. Se volete andare là...» «Lasciamo perdere la stanza del conservatore» risposi. «Vorrei dare un'occhiata alla cantina. Ma prima un'altra cosa. Potreste fare accendere tutte le luci nella sala?» Lui mi guardò incuriosito, ma andò a parlare con Warburton senza fare commenti. Nel frattempo io mi avvicinai alla parete sporgente della sala in cui era stato gettato il carbone: il segno era ancora visibile sull'intonaco giallo-rossiccio al di sopra della mia testa. Era, come avete sentito, sopra un cubicolo ricoperto da tendaggi, per l'esposizione di aggeggi vari d'ottone. Mi misi di spalle all'ingresso di quel cubicolo e calcolai la visuale da lì attraverso il grandissimo, alto arco nella sala. Le luci erano state accese. Da quella posizione potevo a malapena vedere un segmento dell'arco che portava alla Galleria Persiana di fronte. Ma avevo una chiara visione, obliqua, di tutte e cinque le carrozze in fila, di una parte dell'arco che portava alla Galleria Egiziana e dell'uscio della cantina, in fondo. Dato che la Galleria dei Bazar era buia, quella parte della sala brillava davanti a me come un palcoscenico illuminato e non c'era possibilità di errore. Quando notai tutte quelle cose mi misi a fischiettare piuttosto soddisfatto. (Capite perché?) Poi feci un cenno a Holmes perché lui avrebbe potuto darmi informazioni preziose e scesi in cantina. Holmes mi osservava con espressione attenta e io mi chiesi se avesse un'idea di quello che stavo pensando. Ma lui non disse niente. Carruthers vi ha già dato una parziale descrizione della cantina. Si oltrepassa l'uscio e si scende giù per una rampa di scale di cemento. Quelle scale sono di fronte al muro posteriore di tutto il museo. Sulla destra, mentre si scende, c'è un divisorio di legno che separa una parte lunga e stretta dal resto della cantina. Sulla sinistra c'è un recinto per il carbone. Sul muro in fondo, a un tre metri di distanza dalle scale, vi sono tre finestre quasi a metà del livello stradale. Il pavimento della cantina è di pietra e le pareti intonacate sono relativamente pulite. Chiaro? Vidi tutto ciò quando Holmes accese la luce elettrica. Forse ricorderete che Carruthers, nel suo rapporto, accennò a questo fatto: quando, la notte del delitto, scese giù attraverso lo scivolo del carbone e s'incamminò verso il fondo della cantina, sentì una corrente d'aria. In aggiunta a quanto già sapevo, quello era un suggerimento. Accanto alla carbonaia, trovai una decrepita sedia da cucina. Salii su quella sedia e provai le tre finestre a turno e trovai esattamente quello che ero sicuro di trovare. La finestra di mezzo non era bloccata.
Allora mi voltai verso Holmes in piedi sotto la penzolante lampadina elettrica che dava ai suoi occhiali un riflesso opaco e gli gettava ombre sulla faccia. Lui se ne stava lì con le mani in tasca fischiettando un motivetto in sordina. «Per il momento accantoniamo la vostra storia sugli avvenimenti di venerdì notte. Ho i resoconti di diverse persone e sembra che collimino. Voglio chiedervi del cancello nel muro posteriore che recinta il cortile di questo edificio. Lo tenete sempre chiuso a chiave?» Lui parve palesemente sorpreso. «Sempre, signore. Alludete al cancello nel muro? Sì, sempre, per ordine del signor Wade. Naturalmente abbiamo sufficiente protezione contro i ladri, ma il signor Wade non vuole vagabondi a dormire nel giardino. Sì, anche nelle vicinanze di St. James si possono trovare vagabondi. E...» esitò e si strusciò la fronte col dorso della mano. «Posso chiedervi perché volete saperlo?» «Mi hanno detto che ci sono soltanto tre chiavi per quel cancello. Voi ne avete una, il signor Wade un'altra e la signorina Wade un'altra ancora. Giusto?» «Non proprio, signore. Le chiavi sono soltanto due.» «Due?» «Sì, vedete. La signorina Wade ha preso in prestito la mia. E così, quando il signor Wade è partito venerdì mattina, io ho dovuto prendere la sua. Inoltre avevamo fatto un bel piano.» Sorrise. «A quest'ora saprete tutto di quello spettacolino idiota. Io sono stato tanto cretino da acconsentire, perciò, dato che avevo acconsentito, ho pensato che tanto valeva fare le cose per bene per non correre il rischio di vederci arrivare il signor Wade all'improvviso piombando qui dal cancello posteriore.» «Così da venerdì mattina il signor Wade era rimasto senza chiave per il cancello?» «Esatto. Questa è la sua chiave, se volete vederla.» Era ansioso di fare le cose coscienziosamente. Tirò fuori di tasca la copia esatta della chiave trovata da Butler nella diligenza, tranne che quella era vecchia e scolorita. «Dovrò restituirgliela. Sta già scatenando abbastanza rogne. Pare che quando Miriam è venuta qui venerdì sera per cercare i chiodi abbia fatto un po' di confusione nel suo amato laboratorio.» Holmes indicò con un gesto del capo il divisorio di legno. «Ha rovistato tra i suoi guanti di lavoro e tra i cacciavite e arnesi vari, proprio come fa lui. Se non avessi saputo il contrario, avrei giurato che il vecchio fosse stato lì a lavorare.» Meditai un secondo o due su quei fatti, poi esaminai la chiave.
«Anche l'altra chiave» dissi, «quella che ora ha la signorina Wade... è vecchia?» «Vecchia?» «Non è stata fatta di recente?» «Buon Dio, no!» La sua espressione si faceva sempre più perplessa, sebbene lui restasse cortese e attento. «Le abbiamo da un paio d'anni, almeno.» «Sapete cosa ne voleva fare della chiave, la signorina?» «Non ne ho la più pallida idea. È quello che le ho chiesto. Ma Miriam è una ragazza strana, sovrintendente.» Il suo sorriso, ora più cupo, lo fece apparire più vecchio. «Capricci, sapete. "Oh, via, ora non fare domande! Accontenta un mio capriccio!" Io non le rifiuto niente. Sentite, non vorrei sembrarvi eccessivamente curioso, ma cosa diavolo succede?» «Grazie. Volete tornare su per un poco?» suggerii. «Devo fare un lavoretto da solo...» Lui si strinse nelle spalle. «Come credete. Devo dire al signor Wade che...» «No, non voglio parlare col signor Wade finché non avrò visto la signorina Wade. Preparatemi campo libero per uscire di qui alla chetichella. Se dovesse arrivare l'ispettore Carruthers, mandatelo da me. C'è solo un altro punto che voglio chiarire. Venerdì sera, quando il dottor Illingworth è scappato e voialtri lo avete trascinato giù per questo scivolo, siete stato voi a farlo?» «Io ero qui, sì. Ma giù per lo scivolo l'ha tirato il signor Richard Butler aiutato dal signor Baxter. Mi rendo ben conto, signore, che non abbiamo scusanti...» «Sì. Certo. Quando siete scesi qui e siete entrati nella carbonaia, quelle casse da imballaggio erano già accatastate là perché fosse più facile arrivare alla strada? Una specie di ponte naturale?» Lui annuì, stringendo gli occhi, e io continuai: «Quindi nessuno di voi si è sporcato le suole delle scarpe con polvere di carbone, vero?». «Non credo. In effetti non ho notato alcuna traccia, però devo dire che non avevo nessun motivo per farci attenzione.» «E tranne la carbonaia vera e propria non c'è qualche altro posto dove tenete il carbone, a parte quel recipiente là?» «No, quello è l'unico posto.» «Alla fine, per chiarire bene questo punto, signor Holmes, c'è uno specchio da qualche parte in questa cantina?»
«Uno specchio!» ripeté. «È quasi l'ultima cosa che si trova in una cantina. Ma, in effetti, ce n'è un paio. In un certo momento, il signor Wade, da showman qual è, ebbe la grandiosa idea di una Sala degli Specchi, come quella di Madame Tussaud... solo che riuscimmo a dissuaderlo. Comprò un paio di quei grossi specchi deformanti, sapete: li teneva qui e vi si metteva davanti ridendo come un matto. Ma non sono mai stati usati e li abbiamo accatastati là, accanto alla carbonaia.» «È tutto» dissi, e Holmes, con un sorriso grave sulla faccia, indietreggiò allontanandosi da me, continuando a fissarmi finché non urtò le scale col tallone. Poi, sempre sorridendo, se ne andò. Se non avessi saputo il fatto mio, avrei pensato che l'idea che quegli specchi venissero trovati non gli andasse a genio. Li trovai appoggiati oltre la carbonaia dove c'era pochissima luce. Il primo voltato in fuori e così polveroso che era percettibile soltanto un'immagine nebulosa. La superficie era formata da una serie di una specie di bordi sporgenti... sapete come... che deformano la figura umana da quella che Dio ci ha dato e presentano una visione considerata divertente dalle persone che hanno la mentalità di ridere davanti a una gabbia di scimmie anche se dovrebbero ridere di se stesse. Tirai fuori la torcia elettrica, ne gettai il raggio sullo specchio e per un attimo mi presi un grosso spavento. Su una superficie tutta bianca di polvere, una faccia guardava direttamente verso di me: larga e schiacciata, da incubo e forse peggio, con lunghi baffoni e una fila di denti simili a quelli di un lupo. Era soltanto la mia faccia, naturalmente. Ma nulla, in tutto quel caso, era stato così spaventoso, come quella mostruosità che mi fissava dalla polvere nel silenzio e nel buio della cantina. Ma il mio interesse non era lì. Vedevo la mia faccia e nient'altro perché sulla superficie polverosa dello specchio era stato ripulito soltanto quel tondo in cui mi specchiavo. Mi chinai per esaminare quel tondo ripulito ed ebbi quella fortuna inattesa che perfino gli investigatori a volte ricevono. Proprio al limite della polvere c'era una strisciata confusa che finiva in una chiara impronta. Avevo l'assassino. Non mi restava che dare qualche ordine, un'ispezione di quella carbonaia, per esempio, con una luce più forte della mia lampadina, poi un colloquio con Miriam Wade e avevo l'assassino. Non ne ero particolarmente compiaciuto, ero persino un po' demoralizzato. Ma dovevo tirare avanti, il che è la maledizione di avere una coscienza. L'uscio in cima alle scale si aprì e io spensi la torcia.
«... ma se qualche screanzato ha davvero preso i guanti dalla vostra scrivania» disse una voce misurata, forte, polemica, «posso suggerire immediatamente una descrizione, rilevata da...» «... e il cacciavite!» strillò un'altra voce. «Perdio, hanno arraffato il mio piccolo cacciavite per aprire quel maledetto cofano arabo, e dov'è quello grosso? Attento allo scalino.» I loro piedi, specialmente quelli appartenenti all'uomo alto e magro che io individuai come il dottor Illingworth, fecero un gran fracasso sulle scale di cemento. Il vecchio Geoffrey Wade arrivò per primo tutto agitato, perfino i suoi lunghi baffi parevano agitati. Dietro di lui, muovendo le spalle a scatti in avanti a ogni scalino, veniva traballando l'altra figura con i suoi grossi occhiali e il lungo mento grinzoso cacciato nel colletto. C'era abbastanza luce e il vecchio Wade mi vide subito nell'angolo dove stavo. Si fermò così bruscamente in fondo alle scale che Illingworth gli andò addosso. «Ehi!» gracchiò. «Chi è là? Chi c'è?» Io accesi la torcia e spiegai. Lui mi si fermò davanti, un po' distante. «Ah!» esclamò facendo tintinnare le monete in tasca mentre gonfiava il petto. «Hadley, eh? Sì, sì, sì. Bert Armstrong me l'aveva detto. Be', ma non dovevate introdurvi qua dentro in questo modo furtivo.» Poi gettò la testa all'indietro e scoppiò a ridere sgangheratamente. «A curiosare... Comunque vi interessano i miei specchi buffi? Venite, andiamo a darci un'occhiata!» Scattò così velocemente che io non ebbi il tempo di muovermi. Mi passò accanto e prima che avessi il tempo di afferrarlo per il braccio in modo da allontanarlo, strusciò la manica sullo specchio. Ormai il danno era fatto. L'impronta era sparita. Seguì un silenzio quasi tangibile. Poi lui gracchiò con rabbiosa, ghignante ilarità: «Sentite, cosa diavolo state facendo?» domandò. «Cos'è quest...» Fell, ammetterai, credo, che sono un tipo abbastanza calmo, che cerco di occuparmi degli affari miei e che considero segno di debolezza proferire minacce. Ma fu quella sua risata gracchiante senza senso che lui mi gettava in faccia come fosse acqua, e acqua sporca se è per quello, che mi fece perdere il lume degli occhi. E non fu neanche l'ultima volta che provai quella sensazione, in quel caso, o che mi capitò. «Sapete cosa avete fatto?» dissi con una voce che parve strana anche a me stesso. «Fatto? Fatto? Cosa volete dire? Piantatela di guardarmi con quella faccia.»
«Andate di sopra» dissi, e questa volta la mia voce era più calma. «Ah, ah!» esclamò Wade, piegando la testa da una parte, con i pugni sui fianchi. «Allora è così, eh? Avreste il coraggio fottuto di ordinare a me, nel mio proprio...» «Levatevi di torno» dissi, «e levatevi di torno subito. Ho cercato di fare del mio meglio per la vostra famiglia, in questa storia. Me ne frego io se siete Geoffrey Wade o il Khan della Tartaria, ma perdio, andate di sopra quando ve lo ordino o vi schiaffo in carcere e vi ci lascio. Cosa preferite?» Lui avrebbe gradito scorticarmi vivo, ma di lì a poco obbedì. Illingworth non rendeva certo la situazione meno tesa continuando a domandare gentilmente e ansiosamente se c'era qualcosa che non andava. Appena sgombrarono il campo, mi misi a camminare su e giù per la cantina per riordinare le idee. Deve succedere una specie di combustione interna quando dentro sei furioso e ciononostante non permetti alla tua voce di alterarsi... comunque, dopo, l'effetto è tremendo. Quel tiranno baffuto, al quale nessuno aveva mai fatto abbassare la cresta, mi scherniva dalle scale minacciandomi di cose spaventose non appena avesse messo in moto la sua influenza. La miglior cura per calmarmi fu di rimettermi tranquillamente al lavoro per vedere se riuscivo a trovare altri indizi che non fossero stati distrutti. Trovai una macchia sull'intonaco che poteva e non poteva essere un'impronta digitale. Ma era dubbio. Quando qualche minuto più tardi arrivò Carruthers, io stavo sempre cercando. «Avevate perfettamente ragione, signore» mi disse. «Vengo ora da Prince-Regent Court. E... riguardo a quanto mi avete detto di chiedere... ci avete azzeccato.» Gli detti alcune istruzioni tra cui quella di restare lì finché io non avessi telefonato a Scotland Yard perché mandassero Betts e Preston a frugare in mezzo a quel carbone e portassero l'equipaggiamento per le impronte. Poi me ne andai. Mentre attraversavo la sala, Holmes era sulla balconata che correva lungo tutto il piano di sopra. Stava appoggiato con le braccia sulla balaustra di marmo, non molto distante dal tetto della grossa carrozza. Stava lì, immobile, con i suoi occhiali, una specie di Illingworth in miniatura sotto la luce bianco-azzurrognola. E sebbene mi salutasse cortesemente con un gesto del capo, mi chiesi se il vecchio Jeff fosse sceso nella cantina per una coincidenza o se non fosse stato avvertito da lui. C'erano ancora molte cose da chiarire in quel museo, ma prima dovevo vedere Miriam Wade. Fuori, dopo qualche boccata dell'aria piovigginosa, mi sentii più calmo.
Da una cabina telefonica in St. James Street, parlai con Scotland Yard e poi, salito sull'auto della polizia, m'infilai nel flusso del traffico di mezzogiorno e mi diressi verso Hyde Park Gardens. Dall'esterno la casa di Geoffrey Wade non era più pretenziosa delle altre case di pietra grigiastre che fiancheggiavano la strada, e nemmeno diversa: era soltanto più grande. Ma dentro, sì, era pretenziosa. Io non sono un'autorità in questo campo, essendo smodatamente fiero della mia magione di sei stanze in East Croydon, giardino e tutto; ciononostante capisco, se non altro per il mio lavoro di poliziotto, quando un maggiordomo si comporta veramente da maggiordomo e quando si comporta come in una commedia da salotto. Quel fatto mi mise subito di malumore. Dopo avermi fatto attraversare un salone dove erano dei cavalli di gesso, mi fece passare in un salottino arredato in quello stile che chiamano rinascimentale. Poi, portandosi via delicatamente il mio biglietto da visita, se ne andò per vedere se la signorina Wade poteva ricevermi. Non dovetti aspettare a lungo. Dal corridoio udii uno scalpiccio e un bisbigliare, dominati da una voce decisa che dichiarò: "Me la vedo io con lui". Poi le portières furono scostate da un gesto alla Cirano de Bergerac e io mi ritrovai davanti il ghigno tranquillo del signor Gregory Mannering. «Ebbene, brav'uomo?» disse. 22 Perché Miriam Wade scese nella cantina Capii che doveva essere Mannering perché non poteva essere nessun altro. Entrò nella stanza con aria disinvolta, picchiettando le dita sul mio biglietto da visita, e dietro quella sua aria c'era odio... perché, non potevo saperlo. Ma lo osservai attentamente. Era di buona statura, spalle larghissime e vita stretta, che il suo vestito grigio chiaro metteva in evidenza pur senza accentuarle troppo. Tutto nel suo vestiario denotava quello che Fell avrebbe chiamato frenetico buon gusto. Teneva la testa all'indietro, ma non troppo all'indietro, il suo marcato volto abbronzato aveva una patina di divertito disprezzo; i suoi capelli neri erano accuratamente spazzolati e da sotto quelle "sopracciglia cespugliose" di cui aveva parlato Carruthers qualunque cosa significasse - mi squadrava da capo a piedi. Della piacevole spavalderia e della repressa eccitabilità, anche quelle menzionate da Carruthers, non c'era segno. Io non lo avrei definito un tipo gradevole. Indubbiamente però dava una certa impressione di forza. Entrò illuminato
dalla luce proveniente dai finestroni e si mise di spalle contro quei mobili Rinascimento che sembravano falsi ma che con tutta probabilità erano autentici. E sorrise. «Mio buon signore» mi disse con grave cortesia, «ve ne intendete un poco dei sistemi della polizia?» Quella non era semplice impudenza, era una specie di follia. A suo modo era serissimo. Per la prima volta nella giornata mi venne voglia di ridere e quasi gli risi in faccia. Lui capì che trattenevo la mia ilarità dal modo in cui stringevo le mascelle, e quel suo strano odio per me crebbe. «Be'» dissi. «Sono un sovrintendente del CID, ma dipende dal punto di vista, immagino. Voi non siete forse il giovane che risolve i delitti degli strangolatori m India?» «Conoscete la zona a nord di Hyderabad?» domandò gentilmente. «No.» «O il nord di Jumma?» «Mai sentito nominare.» «Allora nella vostra ignoranza credete di essere qualificato a parlare come parlate?» Per quanto la ragione potrebbe avere qualcosa da ribattere, dire che quell'individuo non mi stava facendo imbestialire sarebbe una bugia. Comunque ero disposto a lasciar perdere e andare al sodo quando lui riprese: «Vi ho chiesto, signor...» fece finta di guardare il biglietto da visita, lo trovò troppo faticoso e proseguì: «Vi ho chiesto se conoscete i sistemi della polizia. Il motivo è questo: voi volete vedere la signorina Wade. Se sapeste qualcosa della legge, sapreste che lei non è obbligata a rispondere a nessuna domanda e anche in tal caso può esigere la presenza di un avvocato». «Sì, lo sapevo. Ed è per questo che ho chiesto se voleva ricevermi.» «Vi sto facendo osservare tutto questo, capite, perché stamani avete oltrepassato i limiti. Avete invitato tre persone nel vostro ufficio e le avete tempestate di domande, cosa che non avevate nessun diritto di fare, e loro sono stati tanto deboli da rispondervi. Buon Dio!» Aprì la bocca e sghignazzò. «Sono venuti da voi contro il mio consiglio. Io gli avevo detto che se proprio dovevano farlo si portassero dietro un avvocato... come dicevo, quali possono essere state le vostre trappole non lo so, né quali le vostre prepotenze, ma...» Un'agitazione delle portières e Harriet Kirkton entrò precipitosamente nella stanza. Era seguita più tranquillamente da un giovanotto tarchiato i
cui capelli color rosso acceso mi fecero subito individuare la sua identità. Sam Baxter indossava una giacca da casa che gli stava piuttosto larga e aveva in mano un bicchiere di whisky e soda. I suoi pesanti occhi castani erano gonfi e le sue palpebre arrossate, e la sua espressione, mentre guardava Mannering, palesava una tale antipatia che lui stesso, con la sua natura accomodante, ne pareva stupito. «Non essere sciocco, Greg» disse Harriet in tono brusco e sensato. «È un amico. Sa la verità...» «La verità» disse Mannering, e sorrise, e dalle sue narici parve quasi uscire un nitrito. «Sì, anch'io, vedi, so la verità. Ed è per questo che tento di nasconderla» Baxter gesticolò col bicchiere e disse in tono di protesta: «Ma, accidenti, lei vuole vederlo! E lo vedrà, comunque. Ecco, sovrintendente, sarei venuto volentieri anch'io stamattina, solo che stavo smaltendo una sbornia. Chiedetemi quello che volete. Io ero il principe Abù, sapete...». A quel punto il ghigno di Mannering si fece più marcato. «... e forse posso aiutarvi.» «Vorrei sapere» dissi, «se il signor Mannering è disposto a rispondere a qualche domanda.» «Io no, naturalmente» disse Mannering. «Perché no?» «Perché non ho nessun obbligo e non ne ho voglia» m'informò lui sorridendo freddamente. «Preferite rispondere a me o al magistrato inquirente?» Lui rise. «La solita vecchia domanda, la solita vecchia storia, l'eterna minaccia della polizia! Mio buon signor Hadley, credete di potermi citare per questa inchiesta?» «Mio buon signor Mannering» ribattei perché quella faccenda cominciava a darmi terribilmente ai nervi, «citerebbero l'arcivescovo di Canterbury se ritenessero che avesse qualcosa a che fare col delitto. Particolarmente se potessero provare che, almeno sotto un certo punto di vista, Sua Grazia è un bugiardo.» Pensavo che la mia frase avrebbe fatto una certa impressione, invece ebbe soltanto un debole effetto. Per la prima volta gli vidi unire le sopracciglia in quella maniera che lo faceva sembrare strabico, ma il suo disprezzo era così strano e completo e totale che lui mosse la bocca come una maschera greca e ghignò di nuovo. «Lo sono davvero?» disse, con aria indulgente. «La solita storia e il soli-
to bluff. Si dà il caso che io non menta. Non mi disturbo a mentire, io, tutto qui.» «Si dà il caso che io non mi disturbi a bluffare. Non è esattamente necessario che vi interroghi perché avete già fatto alcune dichiarazioni all'ispettore Carruthers che sono state registrate. Mi stavo domandando se vi atterrete a quelle dichiarazioni.» «Quali dichiarazioni?» «Capisco. Allora, dopotutto, siete disposto a rispondere a qualche domanda?» «È un cavillo piuttosto misero, sapete. Risponderò se ne avrò voglia, altrimenti no, naturalmente.» «Abbastanza giusto. Nemmeno un colpevole potrebbe parlare diversamente, non vi pare? Benissimo. Venerdì notte avete detto all'ispettore Carruthers di essere andato in Prince-Regent Court, Pall Mall Place, alle undici meno venti. Che il ragazzo del centralino vi ha informato che di sopra c'era un festino, ma voi lo avete fatto tacere e siete salito ugualmente.» Non detti alle mie parole l'inflessione di una domanda: lessi solo dal mio blocco di appunti. Lui alzò leggermente una spalla, mi guardò fisso e non disse niente. «Cito questo» spiegai, «non per darvi del bugiardo, ma perché bisogna decidere se la verità è quella che avete detto voi o quella che hanno detto tutti gli altri. La signorina Kirkton stamattina nel mio ufficio mi ha detto che il ragazzo era stato istruito di dire che al piano di sopra c'era un party soltanto dopo il loro ritorno dal museo, un bel po' dopo le undici. Fino ad allora il ragazzo non aveva avuto ordine di dire alcunché: per quanto ne sapeva lui, erano usciti tutti. Quello era tutto ciò che sapeva. Così, tutta la chiesa canta un coro sbagliato tranne voi?... A proposito, questo è quanto avete detto, vero, signorina Kirkton?» La ragazza si sedette su una poltrona dallo schienale alto guardandosi attorno a disagio. «Io non so se è questo ciò che ha detto» esclamò Baxter con violenza, «comunque è la verità. Voglio dire, me ne ricordo bene. Il ragazzo si è beccato un paio di sterline per dire che eravamo stati su tutta la sera.» La risata di Mannering cominciava a diventare monotona, simile a quelle interminabili bobine di filmetti parlati che i ragazzi proiettano sui loro piccoli schermi. Ma era stridente e irritante ed evidentemente stava urtando i nervi di Harriet. «È tutto qui quello che avete, amico mio?» domandò lui con aria divertita.
«No, non tutto. Per esempio, a che ora siete andato veramente là, e a che ora vi siete veramente arrivato?» Questo lo scosse. «Ah! allora dubitate che vi sia andato? Un gran peccato. Perché, vedete, io ci sono andato.» Era su un terreno sicuro, lì, e lo sapeva, ma evidentemente aveva preso il mondo intero per un covo di cretini. «Non dubito affatto che ci siate andato. Vi chiedevo soltanto: a che ora? Non certo alle undici meno venti. Il ragazzo ha detto di no. L'ispettore Carruthers ha parlato con lui mezz'ora fa.» Alzando lievemente le spalle, Mannering girò intorno al tavolo e si mise di schiena alla luce. Sembrava che meditasse. La sua baldanza era così assoluta che nel passarmi accanto mi dette perfino una spinta. «Molto abile da parte vostra, monsieur l'inspecteur» disse. «In effetti il ragazzo non può avermi visto perché sono salito dalle scale posteriori in modo da passare inosservato. Volete sapere perché desideravo passare inosservato e perché desideravo visitare l'appartamento del buon signor Holmes? Mio buon signore, lo saprete al momento opportuno, ma non da me, perché mi piace tenervi sulle spine e perciò preferisco non rispondere. Ah, be'! Lahm khanzeer yuhfaz muddah izâ mullih! Permettete che vi traduca, mio eccellente rompiscatole, in modo che possiate trascriverlo sul vostro blocchetto. Significa che il maiale non va a male se lo si sala, e io vi raccomando questo trattamento. Intanto voi non vedrete la signorina Wade.» Una voce di donna disse: «Perché no?». Non l'avevo vista entrare. Finalmente vidi la signorina Miriam Wade: stava lì, con le mani sulla spalliera di una sedia. Da quale punto di vista razionale, da quale punto di vista pratico e sensato si doveva guardare quella ragazza? Era indubbiamente piacevole e, tranne una certa tensione intorno agli occhi, sembrava anche in ottima salute. Cosa avrebbe pensato di lei la signora Hadley posso immaginarlo, ma questo non c'entra con la mia testimonianza. Dico in ottima salute perché fu la prima cosa che mi colpì. Indossava una vestaglia e sebbene io abbia sempre considerato il rosa un colore osceno, si adattava divinamente al suo corpo. Lo metteva in evidenza, se capite cosa voglio dire: Carruthers lo capirebbe. E fino a un certo punto posso dire perché tutti le fossero attaccati... anche se non era bella, non imponente, non (Dio lo sa) furba. Al suo ingresso l'atmosfera della stanza cambiò. No, no, Fell, non sono un vecchio satiro e non sto indulgendo in
voli poetici, sono semplicemente un uomo che precisa dei fatti. Stava lì con le mani sulla spalliera della sedia scura, capelli scuri, occhi scuri e sono convinto che se qualunque altra donna, a Londra, fosse entrata in un salotto con una veste da camera all'una del pomeriggio, avrebbe sbalordito ugualmente. Uno non era consapevole di niente di simile, ma si sentiva soltanto colpevole di notare quello che notava. Mi sono spiegato? Disse, bruscamente: «Perché non dovrebbe vedermi?». «Vuol mandarti sulla forca, tutto qui» rispose Mannering. «Se ciò non significa niente per te...» «Stupidaggini!» gridò Miriam sorridendo. «Dov'è quell'altro funzionario di polizia, quello tanto carino? Oh, dico, che sciocchezze spaventose.» Mannering si girò di scatto. «Ti sto solamente avvisando, mia cara» le disse con lo stesso tono freddo, «che se fai quello che ti ho detto dì non fare... be', tra noi è finita. E dove lo trovi un altro marito quando questa storia sarà di dominio pubblico?» Lei sbiancò ma non rispose. Non ho mai visto, su nessun palcoscenico, l'espressione fredda e altezzosa che aveva Mannering quando disse quella frase... era gelido, pazzo, ma pronunciò quella frase... detta da qualunque altro uomo a qualunque altra donna o di fronte a chiunque altro, avrebbe scatenato tuoni e fulmini... la disse in una maniera tale che nessuno aprì bocca. Poi si voltò, mi salutò con uno scintillio negli occhi e senza aggiungere altro uscì dalla stanza. E quello che vidi negli occhi di Miriam Wade era paura. Lei si mosse, si lasciò scivolare sulla sedia e all'improvviso cominciò a piangere. Uhm! Capisco che nel riportare la scena e nel descriverla con tutti i particolari affinché Fell possa capire, ho forse oltrepassato i limiti di un uomo pratico. Nondimeno è così. Accompagnai gli altri fuori della stanza dicendo loro che volevo interrogare Miriam da solo. Poi accostai le portières. Ma sentivo che, a meno di non andarci con molta cautela, ero fregato. Lei si era alzata ed era andata a sedersi su un divano, un affare con uno schienale di cuoio ornato da teste di chiodi d'ottone, vicino a uno dei finestroni. Stava protesa in avanti e la fioca luce le illuminava un lato del viso e della gola, il corpo avvolto nella vestaglia rosa; protesa in avanti con i grandi occhi fissi su di me; protesa in avanti in un modo che qualunque giuria di donne l'avrebbe fatta impiccare solo per il suo aspetto anche se, sono disposto a giurare, senza malizia. Tuttavia mi sedetti su una sedia a una certa distanza e le spiegai chi ero. «E» conclusi, «non dovete lasciarvi spaventare da lui.»
Seguì un silenzio. Ma io non riuscivo a interpretare correttamente la sua espressione. Lei fissava il tappeto. «Oh, non mi spaventa. Cioè, non so cosa voglia dire. Non riesco a capirlo! Stamattina mi ha chiamato piccola lurida sgualdrina.» «Sa quello che sappiamo tutti noi?» «Non lo so» rispose lei con semplice candore, e mi guardò. «Io non gliel'ho detto e non vedo come potrebbe averglielo detto qualcun altro. Forse fa lo stesso. A volte mi piace, a volte mi fa venire la pelle d'oca. Io...» s'interruppe. «Quando stamattina è venuta nel mio ufficio, la signorina Kirkton era molto preoccupata perché teme che tutta la faccenda, sapete a cosa alludo, possa diventare di dominio pubblico. Voi come vi sentite al riguardo?» Lei mi guardò di nuovo con espressione indecifrabile: uno di quegli sguardi nudi un po' imbarazzanti in cui poteva esserci stanchezza e perfino un certo umorismo. Poi inclinò il capo da una parte come se pensasse e parlò con lo stesso semplice candore. «Be', per dirvi la verità... sempre che non venga fuori la storia del bambino... sempre che non tirino fuori quello, sarebbe terribile... allora se devo dirvi la verità, non me ne importerebbe troppo. Non capisco perché Harriet sia tanto preoccupata. Naturalmente se mio padre non fosse già al corrente, morirei di paura, ma dato che sa già tutto, non mi farà niente... solo quello mi preoccupa. Quanto al resto, pubblicità o qualunque altra cosa del genere, non vedo perché dovrei preoccuparmi, no?» Spalancò gli occhi, con espressione viva, e sorrise. «Cerchiamo di essere sinceri, volete?» Quella frase era un po' sconvolgente, ma non lo diedi a vedere. «Allora» dissi, «non c'è ragione perché non dobbiate dirmi tutta la verità, no?» «Non lo so!» esclamò, torcendosi le mani. «Cosa intendete dire?» Lei disse, petulante: «Esattamente quello che ho detto. Cosa volete sapere?». «Prima di tutto venerdì sera, al museo, circa alle dieci e diciotto minuti, voi e la signorina Kirkton siete uscite dalla stanza del conservatore. E voi siete scesa in cantina... apparentemente per prendere i chiodi. È vero?» «Sì.» «E in cantina vi siete trovata con Raymond Penderei. Anche questo è vero, no?» Lei impallidì. Avevo cercato di parlare casualmente come se tutto ciò
fosse implicito, ma lei se ne spaventò quasi a morte. «Sì. Ma non c'è n... niente contro di me, vero? Sì! Come fate a saperlo?» «Un momento! Gli avevate dato appuntamento?» «Appun... oh, mio Dio, no! NO!» Si alzò e tornò a sedersi con una serietà devastante come il suo candore. «No, credetemi, non sapevo nemmeno che fosse a Londra. Neppure mio padre lo sapeva. È stato il più grosso choc della mia vita. Sono scesa giù e lui era là, in piedi sotto la lampadina e mi stava facendo un inchino. Per un secondo non ho capito chi fosse perché aveva una barba nera e occhiali colorati che gli alteravano l'aspetto, e sembrava più vecchio. Ma lui si è avvicinato, si è tolto gli occhiali e mi ha detto: "Buona sera, tesoro. Non mi riconosci?"» Rabbrividì. «E ora è morto.» «Andate avanti. Cos'è successo dopo?» «Io ho detto: "Come sei arrivato qui?..." intendevo dire a Londra, ma lui ha detto: "Sono venuto prima della chiusura del museo, tesoro, e sono sceso giù strisciando come un topolino quando il custode non guardava". Poi ha detto: "Come sta il nostro...?"» S'interruppe, poi riprese in fretta: «Era questo che volevo chiedervi, signor Hadley, quando me lo chiederanno, devo dire del bambino? Questo è il punto. Non potrei dire solo che voleva denaro per tutto il resto e basta?». «Se volete. Vi ha detto di essere l'attore mandato dall'agenzia?» «No. Continuava semplicemente a parlare: cose orribili. Voleva denaro... diecimila sterline. Io ero fuori di me. Ho detto: "Farai meglio ad andartene perché..."» Di nuovo s'interruppe a mezza frase. «"Perché..."» evidentemente alterò con uno sforzo quello che aveva voluto dire, «perché, ho detto che avrei chiamato gli altri e lo avrei fatto buttar fuori... Lui ha riso e ha detto che non avrei osato. E io pensavo: oh Dio, se non prendo questi chiodi e non torno su verranno tutti giù. Mi affrettai a correre nel laboratorio e tornai indietro di corsa mentre lui mi seguiva sempre parlando. Mi seguì anche sulle scale, non dimenticherò mai quella sua barba nera, il cappello a cilindro e la sua faccia che oscillava su e giù dietro le mie spalle come succede nei sogni. Poi mi sono messa a urlare. Ho detto: "Va' via di qui in ogni modo, se proprio vuoi vedermi, vieni quando sono sola, non qui. C'è una finestra là. Va' via!" E mi sono precipitata su per le scale. Ho creduto che mi seguisse, ma non l'ha fatto. Quando sono arrivata di sopra, ho dato i chiodi a Rinkey, che stava venendo a cercarli, poi ho camminato su e giù per un poco davanti alle scale principali per paura che salisse su dalla cantina. Ma non l'ha fatto e io volevo andare da qualche parte per
pensare. Potete immaginare come mi sentivo. Così sono andata nella Galleria Persiana dove c'era buio e nessuno poteva vedermi. Ma continuavo a pensare: se viene su, oh Signore, se viene su!» Di nuovo si controllò. «Non ha importanza quello che ho pensato, tranne che alla fine ho deciso di scendere giù per vedere se era andato via. Così ci sono tornata... e la cantina era vuota sebbene la luce fosse sempre accesa. Sentivo una corrente d'aria venire da una finestra di fronte. Così ho pensato: be', per ora se n'è andato, è già qualcosa. Poi ricordo di aver notato che si era fatto crescere la barba! «Ma, come potete immaginare, quando sono tornata di sopra ero ancora terribilmente sconvolta. Mentre arrivavo in cima alle scale mi sono scontrata faccia a faccia con l'uomo che ho scambiato per l'attore dell'agenzia. Ma sono andata su dagli altri come vi ha detto Harriet...» Il caso si stava chiarendo, unendosi lentamente ma inevitabilmente in un disegno compatto come sin da principio sapevo che sarebbe successo. «Quando poi l'ho visto morto in quella carrozza o sul pavimento davanti a essa... be', cosa dovevo pensare?» domandò. «Ho cercato di telefonare ad Harriet per chiederle cosa dovevo fare o dire, perché lei è intelligente, ma...» «Ancora un momento, per favore, signorina Wade. Abbiamo dimenticato alcune cose che chiariranno tutto... Quando siete scesa la prima volta nella cantina, vi siete portata dietro il pugnale e i baffi finti, vero? Non lo negate, vi prego. La signorina Kirkton ha detto che voi non avevate obiezione a che venisse risaputo. Perché avete portato giù quegli oggetti?» Lei mi fissava, spalancando gli occhi sempre di più. «Ehi!...» Un nuovo pensiero la colpì. «Io non l'ho ucciso! Santissimo Iddio, non l'ho ucciso. È questo che pensate? È questo?» «No. Affatto. Calma, adesso! Forse posso aiutarvi a spiegare perché li avete portati giù. Ma se non volete rispondere a questo, lasciate che vi domandi: cosa ne avete fatto dopo?» «Ma, non lo so! Davvero! Non riesco a ricordare. Me n'ero perfettamente dimenticata, dimenticata in pieno! Non ho il minimo ricordo di cosa ne è successo dopo che sono scesa nella cantina! Lo choc di vedere lui là... me ne sono ricordata dopo e per quanto ci abbia pensato e ripensato non riesco a ricor...» «Infatti, li avete lasciati nella cantina, no?» «Dev'essere stato così» disse lei stancamente, «perché non ricordo di averli avuti quando sono risalita.»
Mi sporsi in avanti. «Finalmente! È proprio certo che il signor Mannering non avesse saputo dello scherzo che gli avreste giocato quella sera?» «No!» «Pensateci ancora, vi prego. Non è forse vero che lo avevate informato in anticipo per prepararlo in modo che non si rendesse ridicolo? Non è forse vero che volevate essere sicura che si salvasse la faccia perché vi eravate tanto vantata di lui? «Non è forse vero che non sapevate, e non dovevate sapere, tutti i particolari del complotto fino a venerdì sera? Per l'eventualità che saltasse fuori qualcosa di nuovo, non è forse vero che gli avevate dato appuntamento nella cantina del museo prima che avesse inizio lo scherzo per informarlo? Non è stato a quello scopo che avete chiesto in prestito a Holmes una chiave per il cancello posteriore, il cancello che veniva tenuto sempre chiuso? Non è forse vero che lui si è fatto fare un duplicato di quella chiave da Bolton in Arundel Street? Non gli avete detto di entrare dal cancello posteriore... e di venire a parlare con voi attraverso la finestra della cantina del museo? Non era forse per quello? Non era per quella ragione che eravate così spaventosamente ansiosa di correre nella cantina per giacche o chiodi e di non lasciare che nessun altro vi andasse al vostro posto? Non è forse vero che, mentre scendevate nella cantina, avete visto il pugnale sulle scale e avete pensato di farvi una risata mostrandogli con che cosa lo avrebbero ucciso? Non è per quello che avete preso il pugnale? Quando avete alzato gli occhi e avete visto la Kirkton che vi osservava, non avete forse detto qualcosa come "Li darò io a Sam" e perché considerasse la cosa normale avete preso anche i baffi finti insieme al pugnale? Non li avete forse portati giù? E là, invece, avete trovato Penderei. «Non avete forse lasciato tutti e due quegli oggetti e li avete poi dimenticati? E finalmente non è forse vero che, a causa del vostro stesso piano, Mannering deve aver udito ogni parola della vostra conversazione con Penderei dall'esterno della finestra della cantina?» Dopo un lungo silenzio durante il quale potei udire ogni scricchiolio dell'edificio, lei si prese la faccia tra le mani come una bambina e cominciò a piangere. «Sì» disse. Due giorni più tardi, dopo la sensazionale ma inutile inchiesta, dopo che un certo appartamento era stato perquisito, una certa prova trovata e ogni filo della rete tessuto, due giorni più tardi chiesi, con un'analisi particola-
reggiatissima del delitto che mi propongo di dimostrare, un mandato per l'arresto di Gregory Mannering con l'accusa d'omicidio. 23 La tesi dell'accusa Il mercoledì pomeriggio, previo appuntamento, m'incontrai con l'altocommissario, il procuratore generale e sir Herbert, nell'ufficio di sir Herbert. Là spiegai la mia tesi punto per punto come intendo fare adesso nella maniera più logica e concisa possibile. Quindi vi prego, allo scopo di ottenere un'assoluta chiarezza, di dimenticare la testimonianza di Miriam Wade, di dimenticare che ora conoscete ogni pezza d'appoggio e di rivedere con me i fatti come sono stati presentati a noi sin dall'inizio. Non vi chiedo di concentrarvi su alcuna persona o cosa, ma semplicemente di seguire la pura dimostrazione delle prove. Il primo attore ad apparire sulla scena quella sera, le cui domande e risposte sono state registrate, è Gregory Mannering. Sull'apparente svitato che saltò giù dal muro e attaccò il sergente Hoskins, non sappiamo ancora niente. Ma sappiamo qualcosa di Mannering. Alle undici e dieci del venerdì sera, dopo che lo svitato è sparito e il sergente se n'è andato, Mannering si presenta al museo Wade, sotto gli occhi dell'agente Jameson, e scatena un tafferuglio per una questione piuttosto banale. Non vogliamo ancora asserire che sia stato un tafferuglio superfluo, ci limitiamo a registrare il fatto. Quando Jameson gli chiede di accompagnarlo al posto di polizia per rispondere ad alcune domande riguardanti una "sparizione", lui accetta di buon grado: è quindi descritto come un tipo che non fa tante storie (dall'aspetto "molto strano"), ma che tenta ripetutamente di interrogare Jameson sulla questione. Carruthers ci ha lasciato una descrizione di lui. È alto poco più di un metro e ottanta, con spalle larghe e fianchi stretti, faccia abbronzata, capelli neri e occhi azzurri; è vestito da sera, con soprabito nero, cilindro e bastone. Nel raccontare la sua storia appare in preda a un'agitazione nervosa: e cioè che Miriam Wade gli aveva telefonato nel pomeriggio invitandolo ad andare al museo per una riunione privata durante la quale avrebbero "violato una tomba", ma che quando vi era arrivato, il museo era inesplicabilmente chiuso. Tuttavia non succede niente di notevole finché Carruthers non dice le seguenti parole: "I fantasmi portano barbe finte? Quel particolare fantasma era sdraiato per terra molto tranquillamente, e poi era sparito
proprio sotto gli occhi del sergente, era stato portato via". E, inesplicabilmente, Mannering svenne. Ciononostante registriamo tutto questo solo come una circostanza strana, dato che Carruthers si riferiva allo svitato con la barba bianca. Poi Carruthers va al museo dove la sua prima scoperta, dopo una conversazione con Pruen, è una serie di orme sbaffate fatte con polvere di carbone. Queste tracce si estendono alcuni metri dalla porta principale del museo, poi svaniscono; ma poiché nessuna di esse è chiara, non servono per un'eventuale identificazione. Carruthers poi trova un cadavere nella carrozza-diligenza, cadavere che era stato appoggiato alla portiera e che quando la portiera viene aperta ruzzola fuori. Quando esamina il cadavere, nota un fatto che evidentemente non lo colpisce troppo, ma che invece è di una tale importanza che non può non essere preso in grandissima considerazione. È questo: non solo c'è una patina di polvere di carbone sulle suole delle scarpe dell'uomo assassinato, ma è una patina spessa. Vi prego di rifletterci attentamente. Qualcuno, con polvere di carbone sulle suole delle scarpe, è entrato nel museo... lasciando tracce sul pavimento di marmo bianco finché sulle suole non c'è più abbastanza polvere di carbone per farle, così, di conseguenza, le tracce svaniscono. Ma nella carrozza c'è un cadavere le cui suole sono pesantemente ricoperte di polvere di carbone. Perciò sappiamo che, chiunque sia entrato nel museo e abbia lasciato quelle tracce sul pavimento, non può, concepibilmente, essere stato l'uomo assassinato. Questo è il punto naturale e perfino molto ovvio su cui dobbiamo cominciare a ragionare. Un uomo con uno spesso e intatto strato di polvere di carbone sulle suole delle scarpe giace dentro una carrozza chiusa. Come c'è arrivato là dentro, vivo o morto? Non è assolutamente possibile che abbia camminato sino a lì perché intorno a lui, da ogni lato, c'è una distesa di marmo bianco che indubbiamente avrebbe mostrato tracce qualora lui vi fosse passato sopra. Ma da nessun'altra parte del museo vi sono tracce di polvere di carbone tranne quelle che si estendono dalla porta principale per una dozzina di passi. Benissimo, il morto è stato trasportato dove è stato trovato. Trasportato da dove? Dato che il museo ha il riscaldamento centrale e dato che non esistono caldaie o contenitori di carbone da nessun'altra parte, dev'essere stato portato dalla cantina. Esaminiamo il cadavere. L'uomo ha i baffi neri, autentici, ma porta la barba nera finta. Dico "porta" ma non è esatto. Sebbene sul mento e sulle
guance vi sia un luccichio di gomma e una specie di lanugine a dimostrare che vi era stata appiccicata, ora gli penzola lungo la guancia da un punto non più grosso di una monetina. Non era stata strappata durante una lotta perché non c'è segno di abrasione o lacerazione come vi sarebbe se fosse stata tirata via violentemente. Era stata tolta delicatamente, ma poi era stata lasciata lì penzolante da un punto. Chi l'aveva tolta in quel modo? Sembra chiaro che non può essere stato il morto. È una barba piuttosto grande e pesante; perfino nell'eventualità che l'uomo avesse deciso di andare in giro nella vita con la barba penzolante da un punto delle dimensioni di una monetina, è più che improbabile che con quella minima quantità di gomma riuscisse a restarvi appiccicata. Insieme alla nostra convinzione che l'uomo è stato trasportato sulla carrozza, è chiaro che qualcun altro, l'assassino, deve aver fatto quel lavoretto dopo che la sua vittima era morta. Perché? Ora, sui movimenti dell'assassino abbiamo due alternative. O l'assassino (1) ha tolto delicatamente la barba dalla faccia tranne quel minuscolo punto e l'ha lasciata penzolare così com'è stata poi trovata; oppure (2) gliela ha tolta tutta e dopo gliela ha riappiccicata così in fretta che ha aderito soltanto in quel piccolissimo punto. Lasciando le nostre due alternative per un momento, andiamo avanti con altre prove. Intorno al collo del morto, attaccato a un cordone nero, troviamo un paio di occhiali colorati. Ma questo cordone è messo intorno al collo sopra il colletto del soprabito. Di nuovo, signori, riflettete attentamente. La gente che porta occhiali non li porta con il cordone intorno al colletto del cappotto. Perfino nel caso che un uomo si dimentichi gli occhiali e se li metta intorno al collo dopo aver indossato il cappotto, non lascerà il cordone in quel modo; l'infilerà sotto il cappotto e perfino sotto la giacca dove deve stare. Quindi sembra chiaro che gli occhiali sul morto devono essere stati messi là da qualcun altro, e in fretta, dopo che l'uomo era morto. Ma questo diventa insensato se accettiamo la prima alternativa: cioè che la barba era stata staccata delicatamente tranne quel pezzettino sulla mascella. Perché in tal caso abbiamo un inesplicabile assassino che mette e leva. Mette un paio di occhiali intorno al collo ma stacca la barba sebbene la lasci lì ciondoloni. Tuttavia abbiamo una spiegazione decisamente razionale se accettiamo la seconda alternativa: che la barba era stata tolta completamente in un primo tempo e poi rimessa così in fretta che è rimasta attaccata solo in quel punto. Perché ora vediamo che dev'essere successa la
stessa cosa con gli occhiali. Anche quelli erano stati tolti al morto... e poi rimessi in fretta intorno al bavero del cappotto. Le nostre conclusioni sono queste: un uomo è stato assassinato nella cantina e il suo cadavere è stato trasportato da lì alla carrozza. L'uomo, da vivo, aveva portato un paio di occhiali colorati e la barba finta nera; la barba era stata staccata dalla sua faccia e poi rimessa a posto. E alla fine qualche altra persona in un certo momento di quella notte è entrata nel museo con le scarpe sporche di polvere di carbone. Ora, a questo punto dell'analisi sarebbe un passo troppo lungo, e logicamente inammissibile, dire che questo secondo uomo sia l'assassino. D'altro canto, considerando che quelle due persone sole hanno polvere di carbone sulle suole delle scarpe, è possibile collegarle e dire che probabilmente il secondo uomo sa qualcosa del delitto. Di tutte le conclusioni cui siamo arrivati sinora, soltanto una presenta un enigma che è questo: perché l'assassino dovrebbe aver tolto sia la barba sia gli occhiali al morto per poi rimetterli a posto? Potremmo arrovellarci per una risposta, ma la risposta più attendibile e più logica dovrebbe essere questa: che li voleva per sé, che li voleva per un travestimento. Ma se li voleva per sé, perché era stato necessario restituirli al morto? Di nuovo abbiamo la risposta in effetti non troppo difficile: perché si doveva presumere che non fossero mai stati tolti al morto. Messi insieme questi punti (1) che l'assassino voleva quegli oggetti per mascherarsi ma (2) che nondimeno nessuno doveva pensare che fossero mai stati presi dal morto, arriviamo alla conclusione che voleva camuffarsi per sembrare il morto. Voleva personificare uno che era morto. Lasciamo la situazione così per un momento e andiamo avanti. Dopo la testimonianza di Carruthers, il giorno seguente sentiamo le storie del dottor Illingworth e di Pruen. Queste ci forniscono una serie quasi completa di fatti, rispetto alle circostanze esterne, per seguire il nostro filo logico. E subito veniamo a conoscenza di alcuni fatti significativi circa "quest'altro uomo", il secondo uomo, l'uomo che ha lasciato le tracce sul pavimento. Quest'uomo, dichiarando di essere Penderei, appare al museo alle undici meno un quarto e viene fatto passare. E qui c'è la conferma del nostro ragionamento: qui c'è un impostore travestito per personificare Penderei con gli occhiali e la barba di quest'ultimo. Dato che porta quegli oggetti, dobbiamo presumere che Penderei è già morto, che è stato ucciso in un qualche momento prima delle undici meno un quarto. Prima di discutere su chi possa essere quest'impostore, cerchiamo di appurare quando è stato assassinato Penderei. Pruen dichiara che è arrivato
"la prima volta" al museo alle dieci meno dieci. Abbiamo ragione di credere che si sia nascosto nella cantina, e questo rafforza la nostra convinzione che sia stato assassinato nella cantina. Non potrebbe essere stato ucciso prima delle 10 e 15 perché alle 10 e 15 il pugnale era sulla scala sotto gli occhi di tutti e non era stato ancora rubato. Non potrebbe essere stato ucciso dopo le 10 e 45 perché l'impostore è arrivato alla porta principale con le cose di sua proprietà. Possiamo in qualche modo restringere quella mezz'ora per decidere? Sì, possiamo. Se fosse stato ucciso nella cantina tra le 10 e 15 e le 10 e 45, quando è stato portato il suo cadavere nella carrozza? È stato scoperto nella carrozza da Butler un minuto o due prima delle undici. Benissimo. Ora è inconcepibile che l'assassino mascherato, travestito da Penderei, possa aver trasportato il cadavere di sopra tra le 10 e 45 e le 11. Perché, per farlo, sarebbe dovuto andare fino in fondo alla sala, scendere le scale della cantina sotto gli occhi di Pruen, prendere il cadavere della vittima, portare quell'enorme peso - Penderei era alto più di un metro e ottanta - di sopra e, dopo aver attraversato la porta direttamente sotto gli occhi di Pruen, mettere il cadavere nella carrozza e tagliare la corda. Tutte queste improbabilità possiamo scartarle subito. Di conseguenza abbiamo eliminato quindici minuti; sappiamo ora che Penderei deve essere stato assassinato e il suo cadavere dev'essere stato messo nella carrozza tra le 10 e 15 e le 10 e 45. Ma se un uomo che porta quel pesantissimo fardello attraverso l'uscio della cantina sarebbe stato sicuramente visto tra le 10 e 45 e le 11, sarebbe stato anche visto da Pruen in qualunque altro momento precedente... in cui Pruen era di guardia con la visione completa di tutta la sala. Sarebbe stato visto da Pruen in qualsiasi momento tranne che durante quei cinque minuti, tra le 10 e 40 e le 10 e 45 in cui l'attenzione di Pruen era stata completamente distratta dalla sala. Quello è stato l'unico momento in cui Pruen non era di guardia; e l'unico momento in cui il cadavere poteva essere portato su senza essere visto e messo nella carrozza. Perché, cos'era accaduto? Pruen sente un rumore provenire dalla Galleria dei Bazar, corre là a indagare, e scopre che un pezzo di carbone è stato tirato sulla parete di quella galleria. Perde cinque minuti in un'inutile ricerca. E non si accorge di qualcosa di cui pare non si siano accorti anche altri, sebbene sembrerebbe abbastanza chiaro. Pare che tutti abbiano pensato che il carbone doveva averlo tirato qualcuno che era nella Galleria dei Bazar. Ma Pruen dichiara che nessuno era entrato in nessun momento nella Galle-
ria tranne Baxter; e se l'avesse tirato Baxter, dove avrebbe preso Baxter quel pezzo di carbone... dato che non era sceso nella cantina in tutta la sera? Infatti, proprio la scelta di quel missile ci deve portare verso un'unica direzione. Ci porta prima alla supposizione che Il carbone dev'essere stato tirato da una certa distanza, e tirato dalla direzione dell'uscio della cantina. Ora, se visitate il museo, o guardate questa pianta, vedrete qualcosa che vi darà la sicurezza di questo fatto. Il carbone andò a sbattere su quella parete: lanciato in linea diretta. Se vi mettete di spalle contro la parete colpita dal carbone, capirete che c'è solo una linea di lancio: una linea obliqua verso l'uscio della cantina. Se fosse stato lanciato da qualsiasi altro uscio, avrebbe descritto un cerchio o un mezzo cerchio come un boomerang. Per giunta, l'uscio della cantina è quasi nascosto per metà dalla carrozza più vicina. C'è un vasto spazio tra quell'uscio e la carrozza più vicina e (alla fine) l'uscio si apre in fuori verso il muro di sinistra, guardando il fondo. Quindi qualcuno deve aver aperto uno spiraglio di quell'uscio, dev'essere sgusciato fuori stando chinato, poi, raddrizzandosi, ha lanciato; una distanza non superiore ai sei metri. Quando Pruen è andato a indagare, l'assassino ha portato di sopra il suo fardello, scegliendo la diligenza perché era l'unica completamente chiusa, ha nascosto il cadavere ed è tornato nella cantina per... per cosa? Vediamo. Il cadavere, dunque, è stato messo nella carrozza alle 10 e 40. Abbiamo eliminato altri cinque minuti per stabilire l'ora della morte. Possiamo avvicinarci ulteriormente. Se il pugnale dal manico d'avorio era conficcato nel petto di Penderei alle 10 e 40, quando e come era arrivato nella cantina? L'unica persona nel museo che era scesa nella cantina (dato che Pruen era di guardia in tutti gli altri momenti) era stata Miriam Wade. Quindi, innocentemente o colpevolmente, lei deve aver portato giù il pugnale. Dato che Pruen, durante l'interrogatorio fattogli da sir Herbert, aveva insistentemente esitato, schivato e tentennato su quell'unico punto, la prima visita della ragazza nella cantina, era probabile che il pugnale fosse stato rubato la prima volta che era scesa giù, intorno alle 10 e 18 circa. Perciò Penderei è stato ucciso tra le 10 e 20 e le 10 e 40, e già i nostri formidabili tre quarti d'ora possono restringersi a venti minuti. Benissimo. Questo può mettere in cattivissima luce Miriam Wade, dato che è stata incontestabilmente lei a rubare il pugnale. Ora, se avesse ucciso lei Penderei, doveva certamente avere un complice: l'impostore che si era camuffato da Penderei ed era entrato nel museo alle 10 e 45. E per giunta quest'impostore dev'essere stato una persona di fuori, dato che tutte le per-
sone del museo possono rendere conto della loro presenza durante i momenti critici. Ma lasciando perdere questo per un momento, chiedetevi: perché, quando Miriam è scesa nella cantina, ha preso il pugnale? Sapeva forse che Penderei l'aspettava là e lo ha preso per ucciderlo? A parte il fatto che non abbiamo un briciolo di prova per pensare che lei sapesse che Penderei fosse a Londra, ci sono serie obiezioni a quest'ipotesi. Se fosse andata giù pensando di trovare Penderei o pensando di dover usare il pugnale, allora possiamo dire che doveva essere completamente pazza. Perché richiama l'attenzione sul fatto che va in cantina; insiste clamorosamente per andare a prendere i chiodi, e sotto gli occhi di Pruen, come di altri, lo sapremo più tardi, lei raccatta apertamente il pugnale dallo scalino. Non si progetta un assassinio e poi ci si dà tanta pena per richiamare l'attenzione su di esso in quella maniera scanzonata e ridanciana. No, possiamo solo presumere che lei abbia portato giù quel pugnale in tutta innocenza... innocenza di delitto, almeno. Ma perché si è portata dietro il pugnale, e perché era così ansiosa di scendere nella cantina? Per incontrarsi con qualcuno? Perché immediatamente ricordiamo l'impostore che è apparso più tardi e ha sostenuto il ruolo di Penderei. Uno di fuori; bene, vediamo se riusciamo a costruire una descrizione di questo estraneo. Penderei, il vero Penderei, è stato descritto da Carruthers. Penderei è alto un metro e ottanta e più, con spalle larghe e fianchi stretti; ha capelli neri, carnagione leggermente scura, occhi castani e baffi neri, indossa un abito da sera, un cilindro e un cappotto nero. C'è qualcuno in questo caso che, nascosto dietro una barba cespugliosa e occhiali colorati che nascondono il colore dei suoi occhi, potrebbe passare per Penderei di fronte agli occhi deboli e lacrimosi di Pruen? Pruen, naturalmente, non aveva mai visto Penderei in vita sua, basta soltanto convincerlo che l'uomo è questo quando più tardi viene scoperto il cadavere. E in tutto il caso c'è soltanto una persona che si adatta alla descrizione: Gregory Mannering. I vestiti giusti, la statura giusta, i capelli giusti, la giusta abbronzatura che può essere scambiata per carnagione scura: perché gli occhi sono nascosti dagli occhiali e mezza faccia dalla barba. Di primo acchito c'è solo una difficoltà: Penderei aveva baffi neri autentici. Se Mannering per un caso prendeva e si metteva la barba, come poteva supplire i baffi? E qui abbiamo la risposta immediata per quei baffi neri evasivi e inesplicabili i cui movimenti erano stati tanto difficili da rintracciare e che era sembrato non avessero alcuna parte nel quadro.
Lasciamo perdere la questione baffi per un istante, vediamo come la descrizione fisica di Mannering si accorderebbe col quadro che stiamo costruendo. Miriam va nella cantina per incontrarsi con qualcuno... è ragionevole supporre che quell'estraneo possa essere Mannering? Lo è, decisamente. Incontrarsi con lui, perché? La deduzione è così lampante che non avrei neanche bisogno di parlarne. Stavano organizzando uno scherzo contro Mannering, e Miriam Wade, che ne aveva tanto decantato le lodi, doveva fare in modo che non sfigurasse troppo, quindi lo aveva messo al corrente e, per giunta, aveva combinato di incontrarsi con lui nella cantina per dargli gli ultimi particolari. Questa deduzione si accorda con la prova fisica? Sì: perché la cantina è l'unico posto in cui lei avrebbe potuto vederlo in segreto e che aveva anche finestre accessibili per permettergli di entrare. E, in appoggio a questa supposizione, abbiamo la dichiarazione di Carruthers secondo la quale, mentre lui raccontava i fatti a Miriam Wade dopo la scoperta del cadavere, lei aveva mormorato le parole "finestra della cantina". Poteva Mannering essere entrato nel terreno intorno al museo per accedere a quelle finestre? Sì, poiché sappiamo che Miriam aveva una chiave per il cancello posteriore. Lei perciò aveva portato giù il pugnale per mostrargli con che cosa lo avrebbero "ucciso"; probabilmente per un impulso umoristico quando aveva visto il pugnale sulle scale; e aveva preso anche i baffi finti. La prossima domanda è: i due avevano combinato di trovarsi nella cantina col proposito di uccidere Penderei? Questo si può scartare subito per le stesse ragioni che riguardano Miriam sola: lei non avrebbe richiamato tanta attenzione sulla propria condotta. Tutto indica che il delitto non era premeditato, ma che Penderei era apparso nella cantina dove non era affatto aspettato. Sistemando i nostri fatti e le conclusioni in ordine consecutivo, abbiamo ora un disegno più o meno così: Miriam, senza alcun pensiero di delitto, ha combinato di incontrarsi con Mannering nella cantina. Penderei arriva al museo all'insaputa di tutti e si nasconde nella cantina. Alle 10 e 18 o 10 e 20, Miriam scende nella cantina, porta con sé il pugnale e i baffi. Cinque o sette minuti più tardi, esce dalla cantina. Più di cinque minuti dopo, scende di nuovo nella cantina, uscendone quasi subito, alle 10 e 35, e va al piano di sopra. Alle 10 e 40 un pezzo di carbone è gettato, quasi certamente da Mannering, per distrarre l'attenzione di Pruen. Il cadavere è portato nella carrozza, Mannering ritorna nella cantina, sale in strada servendosi dello scivolo del carbone, suona il campanello del museo, ed esegue la sua rap-
presentazione. Deve rimettere barba e occhiali al morto. Si avvia lungo la sala e, voltando le spalle a Pruen, lancia quel sibilo: "Ssst!". Fermandosi e guardando verso le carrozze, dà l'impressione a Pruen che quel sibilo sia stato fatto da qualcun altro. Chinandosi sotto la carrozza, apre la portiera dall'altra parte, dove il cadavere è appoggiato... ma può soltanto attaccare in fretta la barba, mettere il libro di cucina nella mano morta e gli occhiali intorno al collo. E alla fine si Libera dei baffi finti, trovati più tardi sotto la carrozza. Tutto ciò porta via solo pochi secondi, poi Pruen sente di nuovo i passi rapidi di Mannering. Nella susseguente confusione, lui può scendere nella cantina e scappare dalla finestra e dal cancello posteriore. Perché doveva eseguire quella rappresentazione? Questo è il punto cruciale del problema. Nel decidere chi è il vero assassino abbiamo due alternative che sono: 1) Che, sebbene il delitto non fosse premeditato, Miriam Wade e Gregory Mannering lo abbiano commesso insieme quando hanno trovato Penderei nella cantina. O Miriam o Mannering ha ucciso Penderei col pugnale. Poi Mannering, per poter fare in modo che Miriam avesse un alibi di ferro, ha eseguito la rappresentazione... mentre lei risaliva e si preoccupava di stabilire la sua presenza tra i suoi amici. 2) Assassinio e rappresentazione sono stati fatti da Mannering, e Miriam non ne sapeva nulla. Alla prima occhiata, le probabilità sembrano quasi in favore della prima alternativa in modo schiacciante. In appoggio a questa alternativa si possono portare ragioni talmente poderose e convincenti che la fanno sembrare addirittura al di là d'ogni dubbio poiché procura ostensibilmente l'unica ragione valida per cui l'impostura dovesse essere eseguita. Miriam sapeva di essere stata vista andare apertamente nella cantina, portandosi dietro il pugnale. Lei era la sola ad essere scesa nella cantina. Perciò era necessario che il cadavere non venisse trovato lì a indicare così chiaramente la sua colpa. Per rischiare una farsa così pericolosa come quella rappresentazione ci doveva essere solo un incentivo di quella forza, altrimenti Mannering cacciava inutilmente la testa nel cappio. Ma esaminiamo di nuovo la questione. Io ho ribadito sulla necessità di cercare la spiegazione più naturale; ma se questa finora è la spiegazione più naturale, è sicuramente il sistema più anormale che sia mai stato scelto, o che abbia la probabilità di essere scelto, da due cospiratori. Del tutto credibile fino a qui, diventa pazzesco. Perché: se Miriam aveva pugnalato Penderei, o se Miriam e Mannering lo avevano pugnalato insieme, dove-
vano averlo fatto soltanto durante i primi cinque-sette minuti, quando Miriam era scesa nella cantina la prima volta. Se lei aveva una parte di colpa nella faccenda, l'aveva avuta allora. Non è credibile pensare che lei sia scesa nella cantina col pugnale, che abbia trovato Penderei, abbia parlato con lui, sia tornata di sopra per pensarci su, portandosi dietro il pugnale oppure lasciandolo lì, poi, dopo aver pensato, sia tornata giù, sotto gli occhi di Pruen, lo abbia pugnalato in quei pochi momenti che era rimasta giù, abbia detto a Mannering che aspettava: "Fai il resto" e sia corsa su nuovamente. Benissimo. Se lei avesse qualcosa a che fare con l'uccisione di Penderei, l'avrebbe commessa tra le 10 e 18 e le 10 e 25. Penderei, nel corso di una violenta lite, era stato ucciso allora. Lei dice a Mannering, che aveva udito e visto tutto oppure era arrivato subito dopo: "Devi aiutarmi" e l'uno o l'altro dei due pensa alla rappresentazione. Prima di tutto, il cadavere deve essere portato di sopra senza che nessuno veda. Quella, naturalmente, è la parte più pericolosa del piano, più pericolosa perfino della rappresentazione. L'attenzione di Pruen deve essere distratta per potersi liberare del cadavere. Se questi due agiscono in combutta c'è soltanto una cosa naturale e persino inevitabile da fare: Miriam deve distrarre l'attenzione mentre Mannering fa il lavoro. Questa sarebbe non soltanto una cosa semplicissima per Miriam, dato che Pruen ha una vera adorazione per lei, ma le procurerebbe anche l'alibi che apparentemente sta cercando. Portarlo nella Galleria dei Bazar o nella Galleria Persiana, ovunque per far sì che la sala sia libera per un minuto o due... Invece cosa fa lei? Lei sale su poco dopo le 10 e 25, gironzola attorno, va nella Galleria Persiana, torna indietro, scende le scale e torna su di nuovo... per raggiungere gli amici al piano di sopra. Stanno sempre preparando l'impostura? E se è così, perché lei non distrae l'attenzione di Pruen in nessun momento? Non è attendibile pensare che si sia persa d'animo, perché non ha nessuna esitazione nello scendere nella cantina una seconda volta; non si è persa d'animo per nessun'altra cosa quella notte; e finalmente, cosa rischiava a parlare semplicemente con Pruen? E nemmeno avrebbe abbandonato Mannering poiché era il proprio collo che era in pericolo. Come ultima considerazione, abbiamo il secondo punto pericoloso del progetto: l'entrata dell'impostore, la sua restituzione della barba e degli occhiali e la sua sparizione per la seconda volta. E se Pruen avesse insistito nel seguirlo? E se Pruen avesse scatenato un qualche tafferuglio o avesse chiamato gli altri? Mannering sarebbe stato rovinato. Non è una convinzione molto inverosimile pensare che, se c'era stata una cospirazione, il se-
condo cospiratore avrebbe fatto di tutto perché ogni cosa andasse nel modo più liscio: perché Pruen non sospettasse di nulla e per distrarre di nuovo la sua attenzione mentre l'impostore sgattaiolava via; e di nuovo non ci sarebbe stato un briciolo di pericolo per Miriam. Anzi, tutto ciò le avrebbe procurato un ottimo alibi. A questo punto, signori, avevo passato la domenica a confrontare tutti i rapporti. Esaminato il caso, non riuscivo a trovare nessun punto da nessuna parte compatibile con una convinzione della complicità di Miriam. Il delitto mi sembrava opera di una sola persona: un uomo forte, drammatico, audace, dalla vanità smodata. Nella mia analisi, il corso degli eventi dev'essere stato questo: Miriam è andata in cantina, e inaspettatamente ci ha trovato Penderei. Mannering, arrivato dietro la finestra, ha udito tutto, ma non ha fatto notare la sua presenza. Pochissimi uomini, udendo simili rivelazioni quali lui deve aver udito, si sarebbero fatti avanti immediatamente. Miriam, dopo aver ordinato a Penderei di andarsene, e temendo che gli altri potessero scendere giù da un momento all'altro per sapere come mai lei non tornava su con i chiodi, corre di sopra lasciandosi dietro pugnale e baffi. A quel punto Mannering entra dalla finestra... e agisce. Ha passato molto tempo in Oriente, e sa come maneggiare un'arma orientale in modo che arrivi direttamente al cuore. Perché agisce? Io vi dico che può essere stato spinto da amore sincero, dalla vanità, dal desiderio di annientare il futuro, o da tutte e tre le cose; comunque un uomo del tipo di Mannering, preso improvvisamente da una delle sue abituali furie alla rivelazione di un fatto che lo feriva e offendeva la sua vanità in maniera superlativa, avrebbe inevitabilmente affrontato Penderei e (facciamo un nostro piccolo sforzo di immaginazione) "uccide il cane orientale con la sua arma orientale". Per nasconderlo, nell'eventualità che qualcuno possa scendere giù, trascinerà il cadavere nell'unico posto possibile: la carbonaia Il vicino. Il suo ardore eroico sarà sempre fortissimo. E... a quel punto, sente scendere qualcuno. È Miriam che dopo essersi guardata attorno nella cantina vuota, pensa che Penderei se ne sia andato, e torna su di corsa. Date a quell'uomo ciò che gli spetta. A me non è simpatico, arrivo perfino a dire che non lo posso soffrire, ma non si può negare che abbia dimostrato d'aver fegato. Si è reso conto, quando ha visto Miriam per la seconda volta, che lei sarebbe stata inevitabilmente accusata di quel delitto. Lei aveva portato giù il pugnale, gli altri sapevano che era stata lì, e Penderei era stato il suo amante. Che fosse o meno sinceramente innamorato di lei,
Mannering sapeva che una fidanzata accusata d'assassinio lo avrebbe messo in una situazione imbarazzante. Ha perciò deciso una di quelle prodezze spettacolari e drammatiche che facevano parte della sua vita. Soltanto Mannering avrebbe potuto concepire un simile piano pericolosissimo e tuttavia riuscito, soltanto Mannering avrebbe avuto la forza di portare il cadavere di sopra, soltanto Mannering poteva farsi passare per il morto. Per trasferire quella roba sulla propria faccia aveva bisogno di una cosa: uno specchio. Però conosceva lui abbastanza bene il museo per sapere esattamente come fare? Sì, perché abbiamo testimonianze per provare che Holmes gli aveva fatto fare il giro di tutto l'edificio "compresa la cantina". E sul pavimento c'è la cosa che lo aiuta a completare il suo travestimento: i baffi neri finti per imitare quelli autentici di Penderei. Come si spiega il suo svenimento, dopo, al posto di polizia? Non ci hanno forse raccontato di un altro simile svenimento capitato a Mannering qualche giorno prima, dopo che aveva portato al piano di sopra un baule terribilmente pesante? Il venerdì notte, la reazione del suo cuore era stata causata dall'aver portato un cadavere terribilmente pesante. La domenica, come dicevo, ero arrivato a queste conclusioni, e il lunedì cominciai a metterle alla prova. Dato che il mio secondo nome è Cautela, non volevo scartare completamente la possibilità di una complicità di Miriam, ma decisi che se lei avesse risposto alle mie domande liberamente e sinceramente, senza nascondere di aver portato il pugnale nella cantina o di aver visto Penderei là, potevamo escluderla come i miei ragionamenti esigevano. Fino a questo punto, sapete il risultato. Rimane soltanto da sottoporvi le prove fisiche della colpa di Mannering che abbiamo messo insieme in vista del processo e che mercoledì ho sottoposto all'alto-commissario e al procuratore generale. Il recipiente del carbone nella cantina è stato rovesciato ed esaminato, col risultato che vi è stata trovata una buona quantità di macchie di sangue, dimostrando non solo che il delitto era stato commesso nella cantina, ma che il corpo del morto era stato prima appoggiato contro il muro in una posizione accovacciata come un Budda, così che sulle scarpe la polvere di carbone era spessa, ma poca sugli indumenti. È stato ottenuto un mandato di perquisizione per l'appartamento di Mannering in Bury Street. Nell'appartamento abbiamo trovato un paio di guanti di pelle bianca - i guanti che aveva portato con l'abito da sera la notte del delitto - i quali guanti erano sporchi di carbone e avevano macchie di sangue sulla punta delle dita. C'era anche una fotografia di lui con un costume persiano, e con un pugnale alla cintura perfetta-
mente identico a quello con cui era stato commesso il delitto. La chiave che Butler aveva trovato nella carrozza se l'era fatta fare da Bulton in Arundel Street: una copia della chiave di Miriam Wade. La nostra unica chiara impronta, come vi ho detto, era stata cancellata dallo specchio nella cantina da Geoffrey Wade; ne abbiamo trovato un'altra dubbia che forse non sarebbe stata considerata sufficiente dagli esperti, ma abbastanza solida da portare davanti a una Corte. L'alibi di Mannering fu ridotto in briciole. Avevamo la testimonianza di due centralinisti in Prince-Regent Court che dimostrava come non soltanto il venerdì sera lui non era stato là alle 10 e 40, ma che non c'era mai stato in tutta la sera. Mannering aveva detto di essere salito dalla scala posteriore, ma non fu possibile provarlo. Caso mai fu possibile provarlo a nostro vantaggio poiché il portiere disse che la porta posteriore era stata chiusa a chiave tutta la sera. Ma eravamo disposti ad ammettere la sua visita-visto che era chiaro che non l'aveva fatta tra le 10 e 30 e le 11, i tempi cruciali della nostra indagine. Dopo aver messo la mia deposizione sul tavolo nell'ufficio di sir Herbert, mi appoggiai allo schienale della sedia e aspettai che il procuratore generale e l'alto-commissario decidessero. Non credo che dimenticherò molto facilmente quel pomeriggio, a causa della sorprendente interruzione che ebbe luogo subito dopo. Il procuratore generale fu il primo a parlare. «Può andare, credo» bofonchiò, «mi sarebbe piaciuto avere più prove e reperti da sbattergli sotto il naso... ma può andare, credo.» L'alto-commissario borbottò. «Un vero peccato che Jeff Wade abbia rovinato quell'impronta» disse, «ci avrebbe fatto molto comodo. Comunque non ho alcun dubbio sulla colpevolezza di Mannering. Cosa ne dici, Armstrong?» Sir Herbert non disse niente. Non ho certo intenzione di rivangare vecchie liti o divergenze specialmente alla presenza del mio capo dipartimento: sarei veramente pazzo a farlo. Ma proprio mentre il procuratore generale stava radunando le sue carte e noi tutti stavamo spegnendo i sigari, l'inestimabile Popkins entrò frettolosamente. Sembrava perplesso. «Scusate, signori» disse. «Ma c'è...» cambiò tono. «Il signor Geoffrey Wade è di là, col signor Mannering, e chiede di vedervi. Dice di avere la prova sicura dell'innocenza del signor Mannering.» 24
Alibi Di nuovo non credo che dimenticherò tanto facilmente quella scena né le facce intorno al nostro tavolo. Era una splendida giornata di giugno e il sole brillava sulle lussuose suppellettili che un vice alto-commissario può permettersi, e nonostante le finestre aperte c'era una leggera nube di fumo. Il procuratore generale era evidentemente scocciato di quell'interruzione perché aveva pensato di andarsene al golf. Ma non ci fu tempo per eccepire adducendo altri appuntamenti. Il vecchio Jeff entrò spavaldamente... spavaldamente è la parola giusta. Era agghindato con un vestito sgargiante, un cappello a bombetta grigio, e un fiore all'occhiello. Era di un umore smagliante, perfino i suoi baffoni bianchi scintillavano; gracchiante, ma sicuro di sé. Dietro di lui entrò Mannering, soave come un divo del cinema. Geoffrey Wade si avvicinò, spostò le carte da una parte, e si sedette sul bordo della scrivania. «Bella giornata, eh?» disse cordialmente. «Nel caso che non lo sappiate, sono Jeff Wade. Volevo fare una chiacchierata con tutti voi.» «Davvero?» domandò l'alto-commissario nel tono più acido possibile. «Be'?» L'altro sghignazzò allegramente. Poi cacciò il mento nel colletto e lo guardò. «Credete d'avere una tesi d'accusa contro il giovane Mannering, eh?» domandò. «Be'?» Il vecchio avvizzito volpone si stava divertendo. Infilò la mano nel taschino della giacca e tirò fuori un portafoglio. Da quel portafoglio estrasse qualcosa che non avevo mai visto in vita mia e che non credevo neppure che esistesse. Era una banconota da cinquemila sterline e la mise sulla scrivania dicendo: «Metteteci sopra una moneta da dieci pence.» «Dio onnipotente» borbottò il procuratore generale. «State cercando di...» «No, signori» intervenne Mannering con voce soave, molto cortesemente. «Non si tratta di corruzione, altrimenti mio suocero non arriverebbe a tanto; oso dire che sarebbe possibile comprare ognuno di voi con meno. Tirate fuori una moneta.» Nessuno parlò, perché la cosa superava ogni limite. Il vecchio Wade batté la mano sulla banconota. «Nessuno se la sente di rischiare dieci pence?» domandò. «Sicuramente
non sarete tutti così avari! Voglio scommettere questo pezzettino di carta contro dieci pence che non avete un capo d'accusa contro Mannering e che se ci provate non oltrepasserete nemmeno la Corte istruttoria. Be'?» «Jeff» disse sir Herbert dopo una pausa di silenzio, «adesso esageri. Io ti ho seguito e sopportato fino a un certo punto, ma ora passi i limiti, porca miseria. Esci di qui e subito.» «Un momento» disse l'alto-commissario, «perché siete così sicuro?... Ehi, cos'è questo chiasso?» A quel punto interloquì Popkins, perché dall'altra stanza veniva un gran fracasso. «Penso che si tratti del gruppo del signor Wade, signore» ci informò tranquillamente. «Un gruppo veramente considerevole.» «Testimoni» dichiarò, imperturbabile, Wade. «Tredici. Sono testimoni che provano come la sera di venerdì, quattordici giugno, dalle nove fino alle undici meno un quarto, Mannering era con me nel ristorante grecopersiano in Dean Street. Ci sono i due proprietari, i signor Shattu e Aguinopopolos. Quattro camerieri, un guardarobiere e un portiere. Quattro testimoni indipendenti che stavano cenando là...» «Il che fa soltanto dodici» disse l'alto-commissario calmo. «Oh, c'è un tredicesimo per qualcos'altro» ribatté il vecchio, con uno strano sorriso. «Aspettate e vedrete. Sono tutti ottimi sudditi britannici e accettabili da una giuria britannica. Con una testimonianza simile, proverò che un pesce non ha mai bevuto un goccio d'acqua. Questo è ciò che voi chiamate avere un alibi. Credete di poterlo demolire? Volete provarci? I testimoni sono tutti qui: forza, provateci. Portate pure il vostro caso in tribunale e io otterrò il ritiro dell'accusa, subito, non appena il giudice si metterà a sedere sul suo scanno. Ma non arriverete mai fino a lì perché io faccio una piccola scommessa che la Corte istruttoria rigetterà l'accusa. Perciò ecco perché vi avverto: lasciate cadere questa faccenda subito altrimenti vi ritroverete nei guai più seri.» Sir Herbert disse: «Maledizione, hai comprato quel ristorante...». «Provalo» replicò il vecchio, sogghignando. «Stanne fuori, Bert. Mi sei stato utile, e non voglio darti addosso.» «Suppongo che sarà permesso di chiedervi se avete comprato qualcos'altro insieme col ristorante» disse il procuratore generale, impassibile. «Provate a chiederlo» disse Wade sporgendosi in avanti e lo fissò scuotendo la testa, «e vi ritroverete con la più bella querela per diffamazione che vi è mai capitata in vita vostra. Ah, non lo farete, vero? Quello è l'uomo che sistemerò per le feste.» Puntò il dito su di me. «Ho idea, signor so-
vrintendente dei miei stivali, che scoprirete come non sia mai molto salutare tentare di minacciarmi.» «Davvero?» dissi. «Sentiamo cos'ha da dire il signor Mannering. Signor Mannering, dite che eravate in quel ristorante tra le nove e le dieci e quarantacinque di venerdì sera?» Mannering annuì con un'espressione di grave cortesia e di tronfia compiacenza. «Sì.» «Anche se avete dichiarato all'ispettore Carruthers e più tardi a me che alle undici meno venti siete andato in Prince-Regent Court?» «Scusatemi» ribatté Mannering, sempre in tono grave, «credo proprio che mi abbiate frainteso. Naturalmente quando venerdì sera ho parlato con l'ispettore Carruthers ero piuttosto eccitato, lo comprenderete sicuramente, e di conseguenza non ero del tutto responsabile. Non ricordo bene cosa ho detto in quell'occasione, ma l'ispettore potrà testimoniare che non ho firmato né siglato alcuna deposizione. In effetti sono quasi sicuro di avergli detto quello che ho detto a voi lunedì e cioè che, mentre sostenevo di essere realmente andato in Regent Court venerdì sera, non avevo nessuna intenzione di dirvi quando c'ero andato. Ho dichiarato soltanto di essere passato dalla parte posteriore e mi sono giustamente rifiutato di darvi ulteriori informazioni. Uhm, potete negarlo?» «No, è quanto mi avete detto.» Lui fece un gesto magnanimo. «Tuttavia, ora» tuonò con voce trionfante, «sono disposto a dirvi cos'è effettivamente accaduto venerdì notte, tanto per impedirvi di fare un altro dei vostri sciocchi errori. Sino a questo momento non ho detto niente perché non volevo mettere in imbarazzo il signor Wade. «Vedete, mi è capitato di incontrare il signor Wade, alle nove, quando lui stava tornando dalla stazione Waterloo con i suoi due amici... i gestori del ristorante... e ho accettato il suo invito a cena. Dopo saremmo dovuti andare al museo com'era stato combinato; il signor Wade mi aveva informato di aver mandato un telegramma al dottor Illingworth invitandolo a raggiungerci al museo alle dieci e mezzo. Disgraziatamente il signor Wade si è talmente ingolfato in una conversazione sulla Persia col signor Shattu che ha deciso... diciamo la verità, signori... di piantare in asso il dottor Illingworth. Ma non volendo offendere il buon dottore, mi ha pregato di andare al museo, dove il dottor Illingworth lo stava certamente aspettando, e di inventargli una qualche scusa plausibile. Erano le undici meno un quarto precise quando sono uscito dal ristorante. Uno dei proprietari, il signor
Aguinopopolos, tiene la sua macchina nelle scuderie dietro Pall Mall Place; poiché stava andando a casa, si è offerto di accompagnarmi. Durante il tragitto, tuttavia, all'improvviso mi è venuto in mente che c'era stato un errore. Non solo il signor Wade aveva mandato un telegramma al dottor Illingworth alterando l'ora... come sapete la nostra prima idea era di tenere la riunione al museo alle undici, ma aveva anche dimenticato di informare gli altri che la riunione che la mattina aveva disdetto avrebbe avuto luogo ugualmente. Loro non avevano ricevuto nessun telegramma e di conseguenza al museo non ci sarebbe stato nessuno. Io non sarei potuto entrare e così il dottor Illingworth, che ormai doveva essere lì sugli scalini ad aspettare. Comunque mi sono ricordato che il signor Holmes abitava in Pall Mall Place. Ho detto al signor Aguinopopolos di entrare nelle scuderie dalla parte posteriore, dove abitualmente lascia la macchina, perché sarei andato a cercare il signor Holmes. Quando sono sceso sul retro di Prince-Regent Court ho incontrato il signor George Dennison, l'amministratore degli appartamenti...» A quel punto sir Herbert Armstrong dette una botta alla scrivania. «Maledetto porco spergiuro!» ruggì. «Jeff, quel blocco di appartamenti ti appartiene come il ristorante! Pruen ha detto a Carruthers...» «Provalo» disse freddamente Wade. «Ti avverto di nuovo, Bert: stanne fuori. Prosegui, giovanotto.» Mannering riprese con soave sostenutezza: «Sì, certo. Bene, il signor Dennison... che sarebbe il tredicesimo testimone cui ha accennato il signor Wade... mi ha aperto ed è salito con me fino all'appartamento del signor Holmes. Ma non c'era nessuno e da certe prove ho capito che, dopotutto, dovevano essere andati al museo. Saranno state le undici circa. Sono tornato giù, ho parlato col signor Dennison e, a piedi, sono andato al museo. Pensavo che gli altri dovevano essere dentro, perciò ho suonato il campanello a lungo. Mentre lo facevo è arrivato un poliziotto. E naturalmente, pur intuendo che fraintendeva la situazione, non mi sono sentito di strombazzare le cattive maniere del signor Wade verso un illustre ospite come il dottor Illingworth solo per scagionarmi.» Mannering sorrise di nuovo, ma ci guardava con le sopracciglia unite e con un'espressione cortese che somigliava molto a un ghigno di scherno. «È tutto, credo. A proposito... siete ancora dell'idea di arrestarmi?» «È una formalità» disse l'alto-commissario guardandolo curiosamente, «che mi farebbe moltissimo piacere.» Il vecchio si sporse in avanti con espressione gaia.
«Lo farete?» domandò. «Bene! Be', nessuno vuole accettare la mia scommessa, signori?» Di nuovo ci buttò in faccia quell'insensata sghignazzata che ci piovve addosso come acqua sporca. E poteva ben permettersi di ridere. Tre settimane più tardi, la Corte istruttoria rigettò l'accusa. E con questo, Fell, ho quasi finito la mia deposizione. Ora capirai le mie dichiarazioni sin dall'inizio. Nessuno si batterà certo il petto in preda all'angoscia per l'ingiustizia o per il timore di eterna dannazione a causa della dipartita di Penderei, sebbene si potrebbe anche pensare che l'assassinio sia una punizione piuttosto forte per qualcuno che si è approfittato della leggerezza di Miriam Wade. Ma tutta la faccenda era un tale pugno nell'occhio che non potevamo passarci sopra. Capirai la nostra situazione. Non possiamo processare Mannering per assassinio, né Wade per falsa testimonianza. Siamo convinti che la storia di Mannering al ristorante sia una bugia bell'e buona inventata di sana pianta. Ne siamo convinti... e capisco dal tuo cenno d'assenso che ne sei convinto anche tu. Ciononostante non siamo riusciti in alcun modo a smantellare la testimonianza di un singolo testimone. (È questo, a proposito, che ha spinto Jeff ad accusarci di usare metodi da terzo grado, incluso il manganello. Non era vero, naturalmente, ma è stata l'unica volta della mia vita che avrei ardentemente desiderato usare un manganello.) Con un intero reggimento di avvocati al suo fianco per essere sicuro di non commettere errori, il vecchio ha informato la stampa che soltanto il nostro contorto desiderio di ottenere una condanna e la necessità di nascondere la nostra incompetenza ci aveva fatto credere di avere per le mani una tesi d'accusa. Perciò cosa potevamo fare? Con Mannering escluso, non potevamo fare un voltafaccia e accusare la ragazza, perfino se l'avessimo creduta colpevole. Mannering era il protagonista della vicenda, chiunque fosse il colpevole. Ci aveva battuto... e il vecchio lo sapeva. Quel vecchio ciarlatano che non ha mai subito uno smacco in tutta la sua vita, ci ha semplicemente messi nel sacco. Anche sir Herbert, suo vecchio amico, è rimasto molto avvilito. Ecco perché abbiamo passato un'intera notte a parlare. Non che ce ne importi un corno di consegnare l'assassino di Penderei alla giustizia, sebbene Penderei fosse, se non altro, un essere umano vivente. Ma quel diabolico vecchio va in giro a vantarsi di aver preso la legge per i capelli e sta provocando rogne. Come ultima risorsa... e probabilmente senza alcun
successo... sottoponiamo la questione a te. Tu, come noi, sarai certamente convinto che Mannering ha commesso Tassassimo e che Wade ha dato falsa testimonianza. Ma c'è qualche modo di prenderli in trappola? Questi fatti sono successi più di tre mesi fa e ci sono soltanto alcune cose da aggiungere come conclusione. Abbiamo tenuto d'occhio tutti quanti e sappiamo cosa è accaduto. Ti può interessare. Un mese dopo che la Corte istruttoria aveva rigettato l'accusa e le acque si erano calmate, Miriam e Mannering hanno rotto il fidanzamento, apparentemente di comune accordo. Mannering è andato in Cina, ma ora è un uomo più ricco. Attraverso canali discreti e privati, abbiamo saputo che, prima della sua partenza, il vecchio ha versato sul suo conto in banca un bell'assegno di ventimila sterline. Ti dice niente questo fatto? Quanto agli altri, sono più o meno come prima. Abbiamo dato alla signora Reilly quello che si meritava sebbene non avessimo alcun piacere di aiutare il vecchio. Il museo Wade è ancora più affollato di quello di Madame Tussaud; Pruen è sempre l'inserviente notturno e Holmes il vice conservatore. Baxter ha dovuto dare le dimissioni dalla legazione a causa dello scandalo sollevato dall'inchiesta, ma i rapporti tra tutti loro sembrano ancora più amichevoli. Jerry, Butler e Harriet Kirkton sono più o meno come li abbiamo lasciati. Illingworth... be', Illingworth ha avuto il suo momento di gloria. Quanto a Miriam, posso dirti soltanto che un mese fa l'ho vista e se anche avesse sofferto di un qualche ostracismo sociale, non lo dimostra quasi per niente. Anzi sembra che se la spassi molto più di prima. L'ho incontrata in un bar dove ero entrato per beccare un tizio accusato di falso: era seduta su un alto sgabello, elegantemente vestita e più bella che mai. Con una certa discrezione le ho chiesto di Mannering e lei mi ha risposto che era un bel po' che non ne sapeva niente. Poi, mentre mi alzavo per andarmene, le ho domandato: «Ditemi francamente, tra noi, cosa ne pensate veramente di Mannering?» Lei ha guardato lo specchio dietro il banco del bar e ha sorriso con aria quasi sognante. «Penso» ha detto, «ciò che disse quel personaggio nella commedia di Shaw. "Splendido! Meraviglioso! Superbo! E, oh, come l'ho scampata bella!" A proposito, se vedete quel simpatico, giovane poliziotto, ditegli che sta bene per giovedì sera.» Così finiamo, come abbiamo cominciato, con Carruthers.
Epilogo «Ehi!» esclamò Carruthers. «È giorno.» Le finestre nella grande stanza zeppa di libri erano grigie e la luce elettrica sopra il tavolo sembrava cruda e irreale. Nonostante i continui rifornimenti, il fuoco era diventato di nuovo un grosso mucchio di braci nel grande caminetto di pietra. C'era freddo nella stanza e l'aria sapeva di rinchiuso. L'alto-commissario aprì gli occhi. «È stata una prodezza stupida» borbottò sir Herbert Armstrong, sempre piuttosto stizzoso a quell'ora. «Star su tutta la notte. Bah!» Si mise la mano in tasca e con fare sonnolento esaminò una specie di diario. «Diciassettesima domenica dopo la Trinità. Il sole sorge alle sei e venti. Abbiamo sentito tante cose stanotte che potete sentire anche questa. Posso inoltre informarvi che la vostra assicurazione contro l'incendio cessa domani. Nessuno di voi fessacchiotti va in chiesa? Carruthers, dovreste vergognarvi. "Se vedete quel simpatico giovane poliziotto..."» «Mi spiace, signore» rispose Carruthers con umiltà sospetta. «Io non ho detto nulla. Il sovrintendente...» Soltanto Hadley sembrava fresco come una rosa, e tirava la pipa spenta. «Io l'ho detto semplicemente» spiegò con sospetta serietà, «per arrotondare il racconto. Il punto è, ora che abbiamo sprecato una notte per ripassare tutti i fatti, cosa dice l'oracolo? Cosa pensa Fell di tutta la face... Maledizione, dorme! Fell!» Il dottor Fell, seduto nella sua più comoda e decrepita poltrona, se ne stava lì stravaccato, gli occhiali penzoloni e le mani sugli occhi. «Non dormo» ribatté dignitosamente. «Il vostro linguaggio mi addolora e mi sorprende. Uhm.» Si strofinò le tempie ansimando. «Mi stavo solo chiedendo» continuò, schiarendosi la voce, «forse per la millesima volta, come faccio sempre alla fine di ogni caso: cos'è la giustizia? Il tempo, come quel burlone di Pilato, non ci risponderà. Uhm, non ci badate. A quest'ora del mattino voi avete bisogno di un buon tè forte e scuro, spruzzato di cognac. State zitti un minuto.» Si tirò su ansimando e si avvicinò pesantemente al caminetto appoggiandosi ai suoi due bastoni. Su un tavolino, dietro una pila di documenti, c'era un fornellino a gas. Il dottor Fell tirò fuori un bollitore e lo scosse per assicurarsi che vi fosse acqua dentro. Accese il gas, e le fiammelle gialle e azzurre, sibilando debolmente, formarono l'unica luce in quella stanza semibuia. Per un istante il dottor Fell rimase chino sul fuoco come l'alchimi-
sta di un racconto medievale. Poi scosse la testa. «Prima di tutto, Hadley» borbottò pensosamente, «devo congratularmi con te per il tuo bel lavoro. Vai da un punto all'altro, sicuro, come uno di quei disegni fatti di numeri che quando unisci le linee formano un quadro.» «Lascia perdere» disse Hadley piuttosto sospettoso. «La questione è: sei d'accordo? Credi che sia giusto?» Il dottor Fell annuì. «Sì» disse, «sì, penso che sia giustissimo, fino a un certo punto.» Sir Herbert Armstrong mise giù il suo diario e si drizzò di scatto. «Fino a un certo punto?» ruggì. «Non venite fuori a dirmi che c'è qualche altra cosa! Non potrei sopportarlo! Uh, via! Troviamo una scatola decorata da misteriosi caratteri. L'apriamo e dentro c'è un'altra scatola. Apriamo anche quella e... ecco, il mago spara un colpo e finalmente la colomba vola via. Non c'è nient'altro, vero?» «Aspettate un minuto, signore» disse Hadley, meticoloso come sempre. «Sentiamo, Fell. Non tirar fuori scherzetti a quest'ora. Cosa vuoi dire?» Il dottor Fell scrollò le spalle con un movimento che dette l'impressione di un lento terremoto. Si sedette in una grossa poltrona vicino al fornellino a gas e tirò fuori la pipa. Restò a guardarla per un istante sbattendo le palpebre. Poi disse bruscamente: «Secondo il mio umile pensiero, signori, non riuscirete mai a far condannare Mannering per assassinio e non riuscirete mai a far condannare Wade per falsa testimonianza. Se vi può essere di qualche consolazione, credo di vedere un modo per mettere una paura del diavolo in corpo al vecchio e vincere la vostra partita, cosa che, mi par di capire, tutti voi desiderate. Ma quanto al vero corso dei...» Dì nuovo si strofinò le tempie con le mani. «Sì, Hadley, hai fatto un buon lavoro. Ora c'è una buona vecchia frase per descrivere me, e la frase è: colui che si scervella. Il mio vecchio cervello schizza qua e là. Io sono come il cacciatore strabico che sparò un po' qua e un po' là e non lasciò selvaggina per nessuno. Sono come l'uomo di quella vecchia storiella che cercava affannosamente a Piccadilly uno scellino perduto in Regent Street perché là c'era più luce. Ma spesso ci sono da dire molte cose a favore del fatto di cercare un indizio nel luogo dove si sa che non c'è. Si vedono cose che altrimenti non avremmo mai notato. «Voi, signori, vi siete posti un problema e lo avete risolto brillantemente, ma avete trovato una risposta senza sapere esattamente di quale parte
del problema si trattava. E non credo che abbiate visto "una" parte del problema. Lasciate che la chiami "Il mistero dell'alibi non necessario". Non credo che abbiate alcun dubbio sul fatto che l'alibi di Mannering era falso. Jeff Wade, con una grandezza degna del Conte di Montecristo, ha minacciato e corrotto tredici testimoni per ottenere una testimonianza inattaccabile. Dodici di quei testimoni erano necessari, cioè quello che dicevano era molto necessario, anche se non importava portarne tanti per dirlo. Ma il tredicesimo era un sovrappiù. Il tredicesimo non era nemmeno compatibile con una falsa testimonianza su larga scala: era un estraneo, per ottenere la falsa testimonianza del quale Jeff deve aver sudato parecchio... per nessun motivo, se accettiamo l'analisi di Hadley. «Ora lasciatemi dire cosa credo io. Io credo che la ricostruzione del delitto fatta da Hadley sia perfettamente corretta tranne un piccolo particolare, probabilmente banale. Quel particolare è che Gregory, in effetti, non ha ucciso Penderei. «A me sembra chiaro che il vero assassino sia il giovane Jerry Wade, ma dubito che riuscirete mai ad avere abbastanza prove contro di lui. «Temo di avervi sorpreso» continuò il dottor Fell dopo un lungo silenzio interrotto soltanto da una violenta imprecazione di Hadley. Nella semioscurità il dottore si appoggiò allo schienale, le fiammelle del fornellino illuminavano appena il suo viso, ansimò e scosse il capo su e giù pensosamente. «Nel dirvi questo lasciate che vi spieghi le cose a modo mio e che cominci dalla fine del caso per poter mettere in risalto qualcosa. E lasciatemi anche cominciare con un'analogia. «Supponiamo che Carruthers qui presente sia accusato di aver ucciso sua nonna a Islington tra le undici e mezzanotte. Tu, Hadley, sir Herbert e io ci mettiamo insieme per combinargli un alibi falso per l'ora tra le undici e mezzanotte. Acchiappiamo il direttore del Dorchester Hotel (uno scellerato sul nostro libro paga) e il suo socio; acchiappiamo sette inservienti e tre estranei (anche questi prezzolati) che chiameremo D. Lloyd-George, S. Baldwin e N. Chamberlain... che avevano cenato lì. Tutte queste persone giureranno che Carruthers era in sala da pranzo tra le undici e mezzanotte e che è uscito a mezzanotte. «Ora, questo lo scagiona completamente. A nessuno importa dov'è stato dopo la mezzanotte, dato che concepibilmente non può aver ucciso la nonna dopo, e comunque tutto quel tempo impiegato per andare da Park Lane a Islington dopo la mezzanotte gli dà abbastanza margine per rafforzare il suo alibi. Quindi non abbiamo bisogno di correre rischi per corrompere
ancora un altro testimone in modo da provare che è sceso al Savoy a mezzanotte e un quarto e ha fatto una chiacchierata col direttore. È del tutto superfluo persino per l'alibi più scrupoloso. Se ci cacciamo dentro anche quello, significa che abbiamo un motivo piuttosto importante. «Così è per Mannering in questo caso. Jeff ha provato che Mannering non è uscito dal ristorante greco-persiano fino alle undici meno un quarto... precisamente il momento in cui l'uomo travestito entrava nel museo Wade. Era più che sufficiente. Per quale ragione, allora, dovevano escogitare tante storie elaborate facendo accompagnare Mannering da Aguinopopolos fino a Regent Court, facendogli incontrare l'amministratore degli appartamenti, e facendolo salire dalla parte posteriore? Risposta: perché era assolutamente necessario appoggiare la dichiarazione fatta da Mannering secondo la quale quella sera era stato nell'appartamento di Holmes. «Perché era tanto necessario? A voi non importava un corno, come ha detto Hadley, che ci fosse andato, finché potevate provare che non era arrivato alla porta principale del museo alle undici meno venti. Non insistevate nemmeno molto su quel fatto: tu, Hadley, glielo hai più o meno detto, quando hai parlato con lui in casa di Wade. Comunque dev'essere chiaro per voi... che quel suo ribadire di essere stato in Prince-Regent Court in un momento o l'altro era la cosa di cui Mannering voleva assolutamente convincervi. «Se c'è un fatto che ci colpisce nel suo comportamento, è l'instancabile insistenza, quasi fanatica, con cui asseriva di esser andato in quell'appartamento. Ve lo getta in faccia, anche se voi non ne dubitate affatto, sin dalla prima volta che parla con Carruthers fino al momento in cui tira fuori i suoi testimoni nell'ufficio di sir Herbert. Che lui desideri che la sua storia sia verificata in tutti i particolari è naturale, ma su un punto che non ha nulla a che fare col delitto, sembra una strana monomania. Ora cosa diavolo ha fatto in Prince-Regent Court, secondo la sua deposizione? È andato di sopra, ha trovato la porta dell'appartamento di Holmes aperta, ha curiosato in giro e ha raccattato dal focolare una lettera piegata, incompiuta, scritta da Jerry Wade... «Qui, signori, sta tutto il segreto. Lui ha raccattato (dice) dal focolare un biglietto che era caduto dalla tasca di qualcuno. Spiega soltanto di averlo trovato là quando cade dalla propria tasca al posto di polizia, e deve pure trovare una spiegazione. «A questo punto sappiamo che Mannering è un bugiardo, sappiamo che non è andato affatto in Prince-Regent Court. Dove, allora, ha veramente
trovato quel biglietto e perché era così necessario che insistesse sul fatto di averlo trovato in quell'appartamento? Quando vediamo che il biglietto è sporco di polvere di carbone, sappiamo che deve averlo trovato sulla scena del delitto. Perché Mannering, per spiegare quella polvere di carbone, ha commesso un errore grossolano dicendo di averlo trovato sul focolare del caminetto nell'appartamento di Holmes, vicino a un fuoco di carbone. Carruthers è stato in quell'appartamento, ha visto tutt'e due le stanze e non ha visto nessun fuoco, né di legna né di carbone. Voi dovreste sapere che negli appartamenti dei residence ci sono soltanto quei caminetti con il fuoco elettrico che formano una delle vergogne della nostra era. «Temo che non abbiate prestato troppa attenzione a quel biglietto. "Caro G. Ci vuole un cadavere... un vero cadavere" semplicemente perché serviva per fare uno scherzo. Come tale è stato spiegato, e dimenticato. Ma questo non era l'importante riguardo a quel biglietto. L'importante era che, sebbene il suo contenuto non avesse significato, lo aveva il posto in cui era stato trovato. Non faceva alcuna differenza che Jerry Wade avesse scritto a uno studente di medicina chiedendo un cadavere. La differenza invece stava nel fatto che il biglietto era caduto vicino a un fuoco di carbone, inesistente nell'appartamento di Holmes, e caduto accanto a un cadavere nella cantina del museo Wade. Spiega un sacco di cose che erano rimaste oscure. Spiega perché Jeff Wade si è dato da fare per scagionare Mannering: scagionava suo figlio. Credo che spieghi anche quel piccolo assegno di ventimila sterline che spingerà Mannering a cimentarsi in avventure più fantastiche e più succose, in Oriente. «Con quello che Hadley chiama il mio particolare ramo di perversità, vi ho dato prima il finale. Comunque mi sembra lampante che l'assassino di Penderei sia Jerry Wade... «Avete parlato di sospetti ovvi. Avete detto che poiché Miriam Wade era stata assolutamente la sola persona a scendere in quella cantina e poiché non c'era altro mezzo per arrivare giù tranne che attraverso l'uscio della cantina, l'assassino doveva per forza essere Miriam o qualcuno che era entrato dalla finestra. Il guaio è che c'era un'altra strada per scendere in quella cantina. C'era un ascensore bello grosso. Sarà per la mia congenita avversione per le scale, ma quell'ascensore spiccava con caratteri di fuoco. Da qualunque parte vi rigiriate in questo caso, vi inciampate contro. L'ascensore grida a perdifiato. E la prima cosa che sentiamo nei riguardi di quell'ascensore è... che è fuori servizio. «Carruthers ne sente parlare per la prima volta da Pruen la notte del de-
litto, quando entra e trova la prova della comica fuga di Illingworth dallo stesso. Pruen, a proposito, fa, in quell'occasione, un'osservazione (come alcune altre) che dovrebbe richiamare la vostra attenzione. Pruen dice che il vecchio giura che qualcuno deve averlo messo fuori uso deliberatamente, perché il vecchio aveva l'abitudine di usarlo malamente e un paio di volte aveva perfino rischiato di restare decapitato. «Chi avrebbe potuto metterlo fuori uso, mi domandavo? Be', Jerry Wade, a sentire quello che il padre ha detto ad Armstrong, era un ingegnere... «Voglio che diate un'attenta occhiata a quell'ascensore e alla sua storia durante gli avvenimenti di venerdì notte. Illingworth è molto illuminante al riguardo. Credo di aver cominciato a dubitare di Jerry dal momento in cui Illingworth è entrato nel museo. Il che succedeva alle dieci e mezzo, e Miriam stava venendo su dalla cantina. (Era scesa giù per la seconda volta, aveva trovato la cantina apparentemente vuota, aveva creduto che Penderei se ne fosse andato, ed era tornata su di corsa.) Illingworth le era passato accanto e si era diretto verso la stanza del conservatore. Proprio in quel momento la porta si spalanca e ne esce Jerry Wade in una gloria di barba e di nervosismo. Dice a Illingworth che il vecchio dottore non deve perder tempo lì fuori a chiacchierare: perché mai Illingworth dovrebbe star lì a chiacchierare? Questo è quanto dice Jerry Wade. «Qui c'è un altro piccolo punto al quale, di nuovo, non è stata prestata troppa attenzione. Abbiamo sentito da Illingworth un sacco di fatti pertinenti sulla stanza del conservatore e sull'ascensore. La porta, è stato ripetuto, è rivestita d'acciaio; non si può sentire niente al di là di essa. Gli sportelli dell'ascensore sono così spessi che Illingworth, imprigionato là dentro, non può udire ciò che Jerry e Holmes si dicono nella stanza del conservatore. Qualunque conversazione che ha luogo nella sala... d'accordo?... può essere udita soltanto quando gli sportelli dell'ascensore sono aperti. Oppure attraverso i grossi sfiatatoi del ventilatore, altrimenti niente in assoluto. «Quando Illingworth era arrivato al museo aveva parlato con Pruen in fondo alla sala, e con Baxter non molto più in su. Come ha fatto, allora, Jerry Wade a udirlo? Come, infatti, Jerry Wade avrebbe potuto sapere che l'uomo era arrivato se fosse stato chiuso nella stanza senza vedere né sentire? Veniamo alla conclusione non troppo fasulla che doveva essere dentro l'ascensore. Non c'è altra spiegazione. Doveva essere nell'ascensore, e ritto su quella cassa per sbirciare fuori. «Molto strano tutto questo, al principio. Perché quando Illingworth è entrato nella stanza del conservatore ha osservato... vi accenna quando rac-
conta di star pensando al modo di uscire... che gli sportelli dell'ascensore erano ben chiusi e su di essi era appeso un cartello con la scritta FUORI SERVIZIO. Se Jerry era stato nell'ascensore, perché nasconderlo? Ma, Dio, signori!... ha nascosto molto più di questo! Fate un bel salto al giorno dopo e sentite cosa dicono gli uomini delle impronte riguardo all'ascensore quando vogliono assicurarsi che Illingworth vi fosse veramente stato: hanno trovato le sue impronte. Ma lo strano non era quello. Lo strano è che non hanno trovato nessun'altra impronta. «Nessun'altra impronta. Uhm. Jerry dev'essere stato nell'ascensore, ma non c'è un'impronta digitale in tutta la cabina. E questo può accadere soltanto se le impronte sono state accuratamente tolte. Perché un uomo toghe le proprie impronte? Perché nasconde il fatto di essere stato in quell'ascensore? La lettera che comincia con "Caro G..." che gli è caduta nella cantina mentre uccideva Penderei, vi darà la risposta. «Vedete, io non ero per niente soddisfatto del suo comportamento di quella sera. Non ero soddisfatto della sua docile accettazione del dottor Illingworth come l'attore dell'agenzia. Mi sono detto: probabilmente non esiste sulla terra un essere umano che potrebbe parlare mezz'ora con il dottor Illingworth e credere veramente che venga da un'agenzia teatrale. Jerry Wade non era ingenuo fino a quel punto. Ha finto di credere a Illimgworth, ha recitato la sua scena a beneficio di Illingworth perché, per salvarsi la pelle, gli conveniva fingere di credere che Illingworth fosse l'uomo mandato dall'agenzia. Non sarebbe servito a niente far capire che il vero attore giaceva, morto, in cantina. Riconosco che l'attore dilettante ha recitato meravigliosamente a beneficio di Illingworth, subito dopo aver pugnalato l'attore professionista. «Hadley, adatta la tua idea del delitto alla mia, e vedrai che combaciano alla perfezione. Cercherò, nella mia maniera confusa, di spiegarmi. Perché un altro formidabile indizio lo abbiamo in quella breve conversazione che tu stesso hai udito lunedì pomeriggio, mentre Jeff Wade e Illingworth scendevano nella cantina, prima che Jeff Wade cancellasse l'impronta sullo specchio...» Hadley si alzò, rigido, dalla poltrona, e lo fissò. «Alludi» disse, «a ciò che Illingworth stava dicendo al vecchio? Illingworth diceva qualcosa come: "Se qualche screanzato ha davvero preso i guanti dalla vostra scrivania...". Al che Jeff ha risposto: "Sì, e un cacciavite...".» Il dottor Fell annuì.
«Uhm, esatto, ragazzo mio. Qualcuno aveva rubato guanti e cacciavite dalla scrivania di Jeff al piano di sopra. Cosa ti suggerisce questo? I nostri pensieri vanno subito a quell'ascensore che si presume guasto e che qualcuno poteva aver rimesso in uso... «Quando Miriam e Harriet se ne vanno, Jerry Wade rimane solo nella stanza del conservatore dalle dieci e diciotto alle dieci e trentacinque. Rimane solo per più di quindici minuti. Si era messo la barba, lavoro non troppo lungo, dato che Harriet ha dichiarato che lui aveva già quasi finito di applicarsela quando lei e Miriam lo avevano lasciato. Miriam era uscita dicendo che andava a prendergli... cosa? Una delle giacche del vecchio nella cantina per completare la sua rappresentazione. Ti dirò cos'ha pensato e fatto come se fossi stato lì. "Il vecchio è via: bene. Nessun pericolo di ammazzarsi con quest'ascensore. Tra poco gli altri porteranno giù quella grossa bara di piombo: rendiamogli le cose più facili, dato che dovranno portarla qui. Ripariamo l'ascensore... ci vorrà solo un secondo o due visto che sono stato io a metterlo fuori uso." Prende un cacciavite e un paio di guanti, per evitare di sporcarsi, dalla scrivania del padre. Entra nell'ascensore. "Ecco fatto! Semplicissimo. Proviamolo. Dove lo porto? Be', accidenti, andiamo in cantina, prenderò io quella giacca del vecchio..." «E va giù ed esce dall'ascensore nella parte recintata della cantina dov'è il laboratorio. E ode delle voci. «Dopo aver preso il pugnale e i baffi, Miriam scende in cantina per incontrarsi con Mannering. Invece vi trova Penderei. E Jerry, là nel buio, sente tutta la storia... «Tu, Hadley, hai visto quel giovane senza la sua maschera cinica, l'hai visto diverse volte. Abbiamo sentito gli altri schernirlo per la sua inefficacia: una voce che stride, che colpisce e fa male. "Zitto, tu, gnomo supercresciuto!" Lo abbiamo sentito ironizzare su se stesso, torturarsi nello sfondo perché lui è solo "il buon vecchio Jerry" che non avrebbe osato far del male neanche a una mosca. Ma hai anche visto la sua faccia quando hai detto che avresti fatto in modo di non rendere di pubblico dominio la faccenda del bambino di Miriam. Quel piccolo gnomo peggiore di qualunque altro gnomo scaturito dal buio. Ed è scaturito dal buio... contro Penderei... «Miriam, gridando a Penderei di andarsene, torna frettolosamente di sopra. Penderei, più o meno soddisfatto, aspetta e medita sul da farsi. Ed ecco che Jerry sbuca dall'altra parte del divisorio di legno. Mi par di vedere la scena sotto la lampada elettrica oscillante. Il pugnale è là, per terra. Forse c'è stato solo un grido: "Eccoti, maledetto" e l'inetto fratello balza in
quella faccenda micidiale con la stessa rapidità con cui più tardi balza nella sua scena finta con Illingworth per richiamare l'attenzione sul suo alibi. Con quel pugnale può aver trafitto il cuore per puro caso, o forse aveva imparato qualcosa sull'uso di simili strumenti dal suo amico Randall; ma per me è stato un caso. E Penderei piomba giù, morto come Harun-arRashid. "Devo togliere di mezzo questo cadavere, per l'eventualità che venga giù qualcuno. Trasciniamolo... nella carbonaia." Credi che non ne avrebbe avuto la forza? Aveva avuto la forza di trascinare Illingworth, uomo grande e grosso, nell'ascensore. Che ore sono? Solo le dieci e mezzo. "Devo andare via di qui..." «Torna nel laboratorio, nasconde i guanti e il cacciavite. "Devo tornare di sopra, devo fingere che l'ascensore non sia stato ancora riparato." Si precipita di sopra con l'ascensore, e subito si dà da fare per togliere tutte le sue impronte. Deve aver fatto un buon lavoro, dopo di che rimette l'ascensore fuori uso. Nel frattempo, ode delle voci nella sala. Con la cassetta messa per ritto nell'ascensore, può vedere fuori. Illingworth. Chi diavolo è? Non sa che pesci pigliare, comunque è meglio che finga di credere che sia l'attore dell'agenzia. Richiude l'ascensore, ne esce, e un minuto o due dopo ha la faccia tosta di andare incontro a Illingworth...» Il dottor Fell tirò ansimando la pipa spenta. «Ma giù? Mannering ha visto tutto dalia finestra. Ha visto Miriam scendere per la seconda volta... subito dopo l'arrivo di Jerry... e l'ha vista andare via... «I pensieri di Mannering? Attenzione! Il fratello ha commesso il delitto e probabilmente i sospetti cadranno sulla sorella. Date pure la vostra interpretazione ai suoi motivi, ma la mia è questa. Quella notte, con un gesto eroico, recitando una parte pericolosa, pazzesca, può mettere fuori gioco quel diabolico fratello sbeffeggiatore costringendolo in una posizione tale che, se non fosse stato per l'abilità e il fegato di Mannering, sorella e fratello sarebbero entrambi accusati d'assassinio. Questa è la forma che ha preso l'inestinguibile vanità di Mannering. Li avrebbe costretti, tutti quanti, a rimangiarsi le loro parole e a cacciarsele in gola! Poi avrebbe detto a Miriam: "Grazie. Ti ho fatto vedere chi sono io. E ora buongiorno a te". Ricordate la storia di quel tizio che saltò nell'arena dei leoni per raccattare il guanto della dama solo per poi tirarglielo in faccia? Bandiere sgargianti e suono di fatue trombe: Mannering si è visto in quella situazione. Ne è beato. E ha fatto... quello che avete detto che ha fatto. Dal pavimento della carbonaia, dov'era caduto dalla tasca di Jerry, ha raccattato quel maledetto
biglietto che è l'ultima prova che a commettere il delitto è stato Jerry Wade. «Dopo, naturalmente, Mannering ha cominciato ad agitarsi. Di qui l'aiuto del vecchio Jeff. Questo, credo, spiega le ventimila sterline del padre riconoscente. Alla fine ci resta un enigma. Era Mannering un uomo galante dal cuore nobile, anche se ispirato e spronato e spinto dalla pura vanità, o era, a suo modo, un farabutto come Penderei? Dubito che lui stesso lo sappia e se quando si troverà a scalare la vetta più alta dell'Himalaya o a attraversare a nuoto la Manica inseguito dagli squali, capirà cos'ha fatto. È sempre l'uomo saggio che ci può dire qualcosa di un uomo come Mannering e anche se noi riuscissimo a scoprire l'ultimo enigma della vita non lo sapremo ugualmente.» Al di là delle finestre la luce stava schiarendo. Il dottor Fell si alzò in mezzo al silenzio assoluto e si avvicinò per aprirne una e respirare l'aria fresca del mattino. «Ma non c'è alcuna prova...» disse Hadley all'improvviso. «Certo che ora non c'è nessuna prova» rispose il dottor Fell gaiamente. «Altrimenti non vi avrei detto tutte queste cose. Non voglio che arrestiate il giovane. È già stato fatto anche troppo chiasso intorno alla faccenda. Fate pure vedere i sorci verdi a Jeff Wade ma (per fare un paragone che mi dà il voltastomaco) lasciate che la colomba che vola via allo sparo della pistola del mago abbia un ramoscello d'olivo in bocca e lo lasci cadere sulle nostre coscienze.» Si guardarono tutti l'un l'altro e di lì a poco Hadley cominciò a ridere. «D'accordo» disse sir Herbert grattandosi la nuca. «Io non parlerò.» Il dottor Fell, con un sorriso raggiante, si girò e si avvicinò pesantemente al caminetto. «Continuerete a domandarvi se ci ho azzeccato» disse, «e così... farò io. Ma quest'acqua ha bollito abbastanza.» Spense il gas. Un leggero tonfo e il bollitore smise di sibilare. E a quel punto, con appetito imperturbato, tutti quanti si prepararono a fare colazione. FINE