Carcinoma della cervice uterina Eziopatogenesi e profilassi
*Romane:Volume Carc.Romane
21-05-2008
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Carcinoma della cervice uterina Eziopatogenesi e profilassi
*Romane:Volume Carc.Romane
21-05-2008
17:44
Pagina III
Francesco Broccolo
Carcinoma della cervice uterina Eziopatogenesi e profilassi
13
FRANCESCO BROCCOLO Dipartimento di Medicina Clinica e Prevenzione Università degli Studi Milano-Bicocca Monza
ISBN 978-88-470-0851-9 e-ISBN 978-88-470-0852-6
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Stampato in Italia Springer-Verlag Italia S.r.l., Via Decembrio 28, 20137 Milano
A Lisa e Caterina
Presentazione
Tra le discipline che nell’arco degli ultimi decenni più si sono distinte per il progredire delle conoscenze, la virologia e l’oncologia occupano i primi posti. Alla base di tale sviluppo sta un diffuso e proficuo impiego delle metodiche più raffinate di biologia molecolare, che ha rivoluzionato la virologia classica e tradizionale permettendo il raggiungimento di risultati straordinari. L’epidemia di AIDS ha rappresentato il momento di svolta. L’impatto anche mediatico della nuova sindrome ha consentito forti aggregazioni di ricercatori e di risorse e dopo solo 18 mesi dalla segnalazione dei primi casi, l’HIV è stato isolato e clonato. Ciò ha permesso la preparazione, in pochi mesi, del kit diagnostico per l’identificazione dei soggetti HIV positivi e, successivamente, dei primi farmaci antiretrovirali. I tempi impiegati per identificare l’agente eziologico della nuova sindrome, riconoscere i soggetti portatori di HIV, misurare i tassi di replicazione virale e curare l’infezione sono stati considerati straordinariamente brevi e del tutto inconsueti. La SARS, sindrome respiratoria acuta severa, e l’influenza aviaria pandemica rappresentano rispettivamente, in campo infettivologico, l’ultimo allarme e l’allarme prossimo venturo. L’isolamento e la clonazione del Coronavirus responsabile della SARS ha richiesto pochi mesi, polverizzando i tempi pur brevi che sono stati necessari per giungere all’isolamento di HIV. I virus dell’influenza aviaria, candidati ad evolvere nel futuro prevedibile virus pandemico, sono oggi isolati, identificati e clonati in tempo reale, in laboratori “sentinella” ubicati in aree strategiche diffuse su tutto il pianeta. Il numero dei virus erpetici è oggi salito a oltre 10. Per numerosi quadri clinici orfani è stato possibile attribuire una precisa eziologia.
VIII
Presentazione
L’intima conoscenza delle tappe di replicazione virale e degli enzimi che ne condizionano il corretto svolgimento, ha permesso di costruire farmaci antivirali specifici che hanno profondamente modificato la prognosi di molte infezioni. Le infezioni da Herpes virus 1 e 2, da virus della varicella zoster, da CMV, virus influenzali, virus dell’epatite B e C HIV e sono oggi curabili con successo. I percorsi che conducono a vaccini sicuri ed efficaci si sono rivelati più complessi, ma i risultati non sono mancati. La vaccinazione contro il virus dell’epatite B è una pratica diffusa che ha significativamente ridotto la circolazione del virus e la vaccinazione antiinfluenzale raggiunge, nei soggetti di età superiore ai 65 anni, una buona copertura, riducendo sensibilmente la circolazione del virus. I virus potenzialmente oncogeni costituiscono modelli di studio di eccezionale valore scientifico e di eccezionali potenzialità applicative. Virus potenzialmente oncogeni sono noti da tempo: HHV-8 è associato al sarcoma di Kaposi; il virus di Epstein-Barr ad alcuni linfomi ed al carcinoma rino-faringeo; HTLV-1 alla leucemia umana a cellule T. Alcuni papilloma virus (HPV) sono oggi riconosciuti come determinanti cofattori nella genesi del carcinoma della cervice uterina. Il carcinoma della cervice ha assunto recentemente un andamento simil-epidemico: costituisce pertanto un vero e proprio problema sociale gravato da sofferenze umane e costi economici consistenti e che richiede il coinvolgimento di più figure professionali e un approccio interdisciplinare. L’infezione da HPV rientra nell’ambito delle infezioni a trasmissione sessuale, oggi in sensibile incremento a causa della precocità e promiscuità sessuale. Solo alcuni sierotipi di HPV sembrano dotati di oncogenicità, ma l’ecologia virale, sotto la pressione selettiva della immunità naturale, può mutare a favore di sierotipi oggi trascurati. La scelta di introdurre una nuova vaccinazione di massa richiede valutazioni complesse di ordine clinico ed assieme economico e sociale. Lo studio della patologia HPV-correlata, dell’epidemiologia, della diagnosi precoce e delle manifestazioni cliniche, del ruolo dei distinti sierotipi virali e delle possibilità di cura e prevenzione, dei costi di gestione, coinvolge oggi specialisti di differenti e complementare estrazione.
Presentazione
IX
Il testo “Carcinoma della cervice uterina: eziopatogenesi e profilassi” è un importante contributo all’approfondimento destinato a queste figure professionali: il virologo, l’infettivologo, il ginecologo, l’epidemiologo, l’esperto in sanità pubblica ma anche il medico di medicina generale e l’amministratore pubblico. Lo Specialista troverà le più aggiornate informazioni scientifiche approfondite con rigore e affiancate da selezionati riferimenti bibliografici. Il Medico di Medicina Generale troverà preziose informazioni sulla complessità e dimensioni del problema e sul ruolo che dovrà avere. L’Amministratore Pubblico elementi utili a maturare le scelte che gli competono. Il curriculum dell’autore documenta una formazione microbiologica con particolare attenzione alla virologia. Le esperienze professionali sono maturate in ambienti altamente qualificati ed in stretto contatto con le realtà cliniche. È questo un dato estremamente caratterizzante che ben emerge dalla lettura del testo in quanto ha permesso all’autore di mostrare la maturità professionale con la sensibilità tipica di chi ha vissuto accanto ai pazienti. Il testo si caratterizza pertanto per una non usuale completezza che lo rende particolarmente prezioso per uno spettro di lettori ampio e diversificato.
Milano-Monza, maggio 2008
Prof. Mauro Moroni Direttore Dipartimento Scienze Cliniche “L. Sacco” Sezione Malattie Infettive e Tropicali Università degli Studi di Milano Az. Osp. - Polo Univ. “Luigi Sacco” Milano
Prof. Costantino Mangioni Consulente Ginecologia Oncologica Direttore Clinica Ostetrica e Ginecologica Ospedale San Gerardo Vecchio Monza
Prefazione
Il carcinoma della cervice uterina (CC) è la seconda causa di decessi per cancro nelle donne in tutto il mondo. La sua prevenzione è in rapida evoluzione da quando è stato riconosciuto che genotipi oncogeni di Papillomavirus umano (HPV), definiti “high-risk”, sono la causa necessaria, anche se non sufficiente, del cancro del collo dell’utero. Due dei genotipi oncogeni – HPV 16 e 18 – sono insieme responsabili del 70% dei casi di cancro cervicale. Sebbene le infezioni transienti da HPV siano molto diffuse tra le donne sessualmente attive, è stato dimostrato che è necessaria per la carcinogenesi la persistenza di uno dei 15 genotipi oncogeni di HPV. L’infezione da HPV è facilmente riscontrabile mediante gli HPV DNA test i quali vengono oggi associati al Papanicolau (Pap) test standard (riconosciuto come “gold standard”) ed eventualmente ad altri test che individuano biomarcatori dell’infezione da HPV in tutte le fasi del processo infettivo e neoplastico, con il fine di migliorare lo screening e il management clinico del CC. Sebbene vi siano oramai in commercio numerosi saggi per il rilevamento di HPV, la Food and Drug Administration (FDA) ha approvato un solo HPV DNA test il quale guadagna in sensibilità con una limitata perdita di specificità rispetto al tradizionale Pap test. È un test in grado di rilevare sequenze specifiche di genotipi “high-risk” e “low-risk” di HPV e utile per: • lo screening nelle donne con esame citologico dubbio; • per il follow-up di donne con lesioni precancerose in associazione con i consueti esami colposcopici; • per determinare l’eventuale persistenza del virus, una condizione necessaria per la carcinogenesi cervicale; • per la ricerca dei genotipi di HPV inclusi nel vaccino per le giovani donne candidate alla vaccinazione.
XII
Prefazione
Parallelamente, l’immunoprofilassi del cancro della cervice uterina, delle lesioni precancerose e di altre condizioni connesse all’HPV, rappresenta un diverso approccio di ricerca, volto a ridurre l’incidenza del CC. La possibilità di vaccinazione rappresenta la più potente scoperta nella storia della medicina preventiva che ha risparmiato innumerevoli vite con costi bassi. Ne sono esempio le pandemie causate dal vaiolo, la poliomelite, il tetano e più recentemente i casi di cancro al fegato associati al virus dell’epatite B ormai drasticamente ridotti dalla somministrazione dei rispettivi vaccini. Individui vaccinati alla nascita o subito dopo sono, in alcuni casi, protetti per la vita. Non c’è dubbio quindi che i vaccini siano responsabili di un sostanziale aumento dell’aspettativa di vita e della qualità della vita in tutti i paesi del mondo, a prescindere dal loro livello di sviluppo. Tutti i dati disponibili ad oggi indicano che la risposta immunitaria indotta dal vaccino profilattico impedisce sia l’infezione da HPV sia, nella quasi totalità dei casi, la progressione delle lesioni precancerose. La prevenzione primaria del CC mediante immunizzazione specifica è certamente l’obiettivo più ambizioso e prestigioso, ma perché il vaccino risulti efficace sarà necessaria una potente e capillare campagna educativa. Questo libro vuole essere un passo in questa direzione. Ho ritenuto necessaria una spiegazione divulgativa dell’eziopatogenesi del CC per poter successivamente affrontare le problematiche relative al management clinico, diagnostico e all’immunoprofilassi. Monza, maggio 2008
Francesco Broccolo
Indice
Capitolo 1 - Carcinoma della cervice uterina 1.1 1.2 1.3
1.4 1.5
Epidemiologia del carcinoma della cervice uterina . . . . . . . Classificazioni delle lesioni pre-cancerose . . . . . . . . . . . . . . . Cofattori coinvolti nella carcinogenesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.3.1 Cofattori legati all’ospite . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.3.2 Cofattori ambientali o esogeni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Patogenesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.4.1 Evoluzione delle lesioni precancerose . . . . . . . . . . . . . . Trattamento chirurgico delle lesioni pre-neoplastiche . . . . . 1.5.1 Trattamento chirurgico della Neoplasia Intraepiteliale Cervicale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.5.2 Caratteristiche del trattamento . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.5.3 Trattamento escissionale o distruttivo: indicazioni . . . 1.5.4 Valutazione clinica e trattamento chirurgico dopo recidiva della CIN . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 1.5.5 Il valore dei margini chirurgici nella prognosi dei trattamenti escissionali della portio per CIN . . . . . . . . .
2 2 5 6 6 9 10 11 11 12 14 15 16
Capitolo 2 - Le infezioni da Papillomavirus 2.1 2.2 2.3
2.4
I Papillomavirus . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Organizzazione del genoma virale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Ciclo replicativo di HPV . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.3.1 Stadi dell’infezione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.3.2 Mantenimento del genoma virale . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.3.3 Fase proliferativa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.3.4 Stato fisico del genoma virale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Meccanismi patogenetici associati allo stato fisico del genoma virale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
20 21 25 26 33 33 36 38
XIV
Indice
2.5 2.6
47 47 48 50 52 53 54 54 56 57 61 61 62 62 63 64 65 65 68 69
Coltivazione dei virus . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Epidemiologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.6.1 Classificazione epidemiologica degli HPV . . . . . . . . . . 2.6.2 Cofattori legati all’HPV coinvolti nella carcinogenesi . 2.7 Modalità di trasmissione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.7.1 Profilassi: come prevenire l’infezione da HPV . . . . . . 2.8 Patologie associate all’infezione da HPV . . . . . . . . . . . . . . . . 2.8.1 Lesioni da HPV . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.8.2 HPV e cancro del collo dell’utero . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.8.3 Storia naturale dell’infezione da HPV . . . . . . . . . . . . . 2.9 Terapia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.9.1 Trattamenti chirurgici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.9.2 Agenti citotossici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.9.3 Terapia fotodinamica . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.9.4 Terapia immunomodulatoria . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.9.5 Terapia antivirale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.10 HPV e modulazione del sistema immunitario . . . . . . . . . . . . 2.10.1 Meccanismi di difesa dell’ospite . . . . . . . . . . . . . . . . . 2.10.2 Infezioni da HPV in pazienti immunocompromessi . . . 2.10.3 Meccanismi di evasione dal sistema immunitario . . .
Capitolo 3 - Screening del carcinoma cervicale e diagnosi delle infezioni da HPV 3.1
3.2 3.3 3.4
3.5
Esame citologico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.1.1 Pap test . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.1.2 Citologia su monostrato . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.1.3 Citologia in strato sottile ThinPrep 2000 versus Pap test convenzionale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.1.4 Lo screening citologico (Pap test) è veramente efficace nel prevenire il cancro del collo dell’utero? . . . . . . Biopsia cervicale e l’esame istologico . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Colposcopia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Diagnosi molecolare delle infezioni da HPV . . . . . . . . . . . . . 3.4.1 Hybrid capture (HC 2) Test . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.4.2 Polymerase Chain Reaction (PCR) . . . . . . . . . . . . . . . . 3.4.3 INNO-lipa HPV Genotyping v2 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.4.4 Altri test di laboratorio per la diagnosi delle infezioni da HPV . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Applicazioni del test HPV nei protocolli di screening del CC . .
72 73 78 79 81 82 83 85 86 88 90 90 92
Indice
3.6
3.7
3.8
XV
3.5.1 Uso del test HPV nella gestione della paziente con Pap test anormale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.5.2 Uso del test HPV nel follow-up della paziente trattata per neoplasia cervicale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.5.3 Uso del test HPV come test di screening del carcinoma cervicale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Altri test di laboratorio per la valutazione della paziente con infezione da HPV . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.6.1 Determinazione della persistenza di HPV . . . . . . . . . . 3.6.2 Misurazione della carica virale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.6.3 Tipizzazione, sottotipizzazione e sequenziamento degli oncogeni di HPV ad alto rischio . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.6.4 Ampliamento del numero di genotipi di HPV inclusi nel test . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.6.5 Valutazione dello stato di integrazione del genoma di HPV . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.6.6 Analisi dell’espressione dei trascritti E6/E7 di HPV ad alto rischio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.6.7 Analisi della risposta immunitaria . . . . . . . . . . . . . . . . Biomarcatori dell’infezione da HPV . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.7.1 Significato clinico degli HPV DNA test . . . . . . . . . . . . 3.7.2 Significato clinico della carica virale . . . . . . . . . . . . . . . . 3.7.3 Ricerca dei trascritti oncogeni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.7.4 Diagnostica sierologia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 3.7.5 La proteina p16 . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
92 92 93 96 96 97 97 98 99 99 100 100 100 101 103 104 105 106
Capitolo 4 - Profilassi contro l’HPV 4.1 4.2
4.3 4.4
L’immunoprofilassi e i vaccini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Vaccini preventivi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.2.1 Sviluppo di vaccini preventivi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.2.2 Vaccini preventivi in commercio . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.2.3 Efficacia dei vaccini profilattici anti-HPV . . . . . . . . . 4.2.4 Sicurezza dei vaccini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.2.5 Immunogenicità dei vaccini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.2.6 Risposta anticorpale . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Vaccini terapeutici . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . Vaccino profilattico contro HPV: più risposte più domande . . . 4.4.1 Quando e chi vaccinare? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
110 112 112 112 113 120 121 124 124 126 128
XVI
4.5 4.6
Indice
4.4.2 Come evolverà l’HPV per sfuggire alla neutralizzazione? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.4.3 La vaccinazione può cambiare il repertorio genotipico degli HPV che causano il cancro cervicale? . . . . 4.4.4 Quale effetto avrà la vaccinazione sui programmi di screening? . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 4.4.5 Si dovranno vaccinare anche i maschi? . . . . . . . . . . . . 4.4.6 Il vaccino contro l’HPV dovrebbe essere obbligatorio? . Vaccino HPV: educazione e comunicazione . . . . . . . . . . . . . . Conclusioni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
Glossario
130 131 131 133 134 134 135
. . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .137
Bibliografia . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . 141
Capitolo 1
Carcinoma della cervice uterina
l carcinoma della cervice (CC) uterina è la seconda causa di decessi per cancro nelle donne in tutto il mondo. L’infezione persistente da Papillomavirus umano (Human Papillomavirus, HPV) è necessaria, ma non sufficiente a causare il cancro cervicale e le lesioni pre-neoplastiche. Esistono numerosi cofattori implicati nella cancerogenesi potenzialmente legati all’ospite: i livelli ormonali endogeni, i fattori genetici legati ad antigeni leucocitari umani (Human Leukocyte Antigene, HLA) ed altri fattori legati alla risposta immunitaria dell’ospite. Inoltre possono esserci fattori virali legati all’HPV e ambientali o esogeni, che includono l’utilizzo di contraccettivi orali, il fumo di sigaretta, la dieta, i traumi cervicali, le coinfezioni con il virus dell’immunodeficienza umana (HIV) e/o con altri patogeni trasmessi sessualmente. Il trattamento delle lesioni pre-neoplastiche dipende innanzitutto dal grado di neoplasia cervicale intraepiteliale (Cervical Intraephitelial e Neoplasm, CIN). Le tecniche utilizzate si distinguono in distruttive ed escissionali; quelle distruttive demoliscono la lesione senza lasciare spazio all’esame istologico e si distinguono in laser vaporizzazione, termocoagulazione e crioterapia. Alcuni ospedali utilizzano queste tecniche per le lesioni di basso grado. Le tecniche escissionali (conizzazione) ci consentono invece di avere un riscontro istologico importante per capire se la lesione è stata completamente asportata o se il pezzo operatorio presenta margini o apice positivi. Tali tecniche si utilizzano per trattare le lesioni ad alto grado con esame colposcopico positivo e biopsia positiva.
I
2
Carcinoma della cervice uterina
1.1 Epidemiologia del carcinoma della cervice uterina Il carcinoma della cervice (CC) uterina rappresenta, a livello mondiale, una delle neoplasie maligne più frequenti nelle donne al di sotto dei 50 anni. Ne colpisce infatti poco meno di 500000 ogni anno nel mondo uccidendone circa 230000. Attualmente, nella sola Europa, si registrano 65000 nuovi casi ogni anno di cervico-carcinoma, con 28000 decessi dovuti a questa forma tumorale; in Italia si stima che ci siano 3500 nuovi casi all’anno e oltre 1500 decessi. Nei paesi ad alto sviluppo socio-economico, grazie all’introduzione della pratica di screening basata sul Pap test, questo tumore è divenuto una neoplasia rara, mentre nei paesi sottosviluppati rimane molto frequente. La maggior accessibilità al Pap test ha permesso di individuare la malattia nei suoi stadi pre-cancerosi e di ridurne l’incidenza. A 50 anni dall’introduzione del programma di screening, si registra una netta diminuzione dei nuovi casi, ad esempio negli Stati Uniti si è osservata una riduzione di nuovi casi da 20000/anno nel 1960 a 12200/anno nel 2003, con una riduzione della mortalità da 41 a 5 donne su 100000 [1]. In Italia le percentuali di decremento riportate dall’ISTAT sono, per fascia d’età, del 69% nel gruppo 20-54 anni, del 56% nel gruppo 55-64 anni e del 17% nelle donne oltre i 64 anni. La riduzione di mortalità più evidente è a vantaggio quindi della fascia di età 20-54, dove è anche la maggiore incidenza del tumore della cervice uterina. È stato anche osservato che gran parte delle neoplasie francamente invasive viene reperita in donne mai sottoposte oppure sottoposte in modo irregolare al Pap test. Questa osservazione fa emergere l’importanza nella diagnosi di questo tumore nelle sue fasi pre-invasive.
1.2 Classificazioni delle lesioni pre-cancerose Prima di trattare la classificazione citologica delle lesioni pre-cancerose è necessario sottolineare la differenza esistente fra queste e il tumore invasivo della cervice uterina. Lesione pre-cancerosa o cancro pre-invasivo: la lesione non è evidente macroscopicamente, vi è sospetto a seguito del Pap test positivo; le cellule cancerizzate dell’epitelio non hanno ancora superato
3
Carcinoma della cervice uterina
la membrana basale che separa l’epitelio stesso dallo stroma sottostante (Fig. 1). Carcinoma invasivo detto anche Invasive Squamous Carcinoma (carcinoma infiltrante squamoso): la lesione è evidente macroscopicamente e le cellule cancerizzate dell’epitelio hanno superato il confine fra questo e lo stroma sottostante penetrando più o meno profondamente nel connettivo e di conseguenza nei suoi vasi linfatici o nei suoi vasi sanguigni (Fig. 1); è caratterizzato dalla diffusione alla vagina e ai tessuti paracervicali e/o da metastasi pelviche. Il progresso delle conoscenze sul piano biologico ha portato alla determinazione di diverse classificazioni citologiche delle lesioni pre-cancerose negli anni: – Classificazione di Papanicolaou. Suddivideva le lesioni in 5 classi differenti. Verrà trattata più avanti, nel capitolo “Diagnosi delle infezioni da HPV”, quando appunto si parlerà ampiamente del suo test, poiché alle sue colorazioni si deve il successo della diagnosi precoce del tumore della cervice. – Classificazione “Displasia/Carcinoma in situ” (CIS). È stata utilizzata soprattutto negli anni Sessanta-Settanta. Lo stato di displasia veniva suddiviso in lieve, medio, grave e CIS (Carcinoma In Situ) (Fig. 1). La diagnosi di carcinoma in situ è ristretta a lesioni dell’epitelio che non hanno superato la membrana basale e che, pertanto, non invadono la lamina propria e non hanno potenziale metastatico; per contro, una lesione neoplastica minimamente invasiva (carcinoma “microinvasivo”) non si estende alle strutture muscolari o cartilaginee adiacenti, ma è già capace di metastatizzare pur
displasia
Particelle virali
carcinoma
Membrana basale
Epitelio normale
Infezione da HPV; coilocitosi
L-SIL
In situ CIN 1
CIN 2
CIN 3
H-SIL
Micro invasivo ≤5
Invasione Stromale minima Invasivo
Fig. 1. Classificazione delle lesioni cancerose e pre-cancerose della cervice uterina
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essendo confinata alla lamina propria (Fig. 1); come carcinoma microinvasivo si definisce una neoplasia che infiltra lo stroma per pochi millimetri (Fig. 1). In questa sede, infatti, le cellule neoplastiche sono potenzialmente capaci di invadere i vasi linfatici ed ematici e, quindi, produrre metastasi linfonodali o a distanza. È una delle più antiche classificazioni, ma ancora in uso in alcuni ospedali nonostante le numerose critiche. – Classificazione secondo il sistema norvegese [2]. Ralph Richart nel 1967 ha proposto una nuova classificazione denominata CIN, Cervical Intraephitelial Neoplasm in cui le lesioni venivano suddivise in 3 gradi (Fig. 1). Oltre ad una indubbia semplificazione della terminologia, questa classificazione permise anche un diverso approccio all’interpretazione biologica di queste lesioni. Sul piano pratico, CIN 1 corrisponde allo stadio di displasia lieve, CIN 2 alla displasia moderata, CIN 3 alla displasia grave e al CIS, per cui la diagnosi differenziale tra queste due entità diviene, opportunamente, non più necessaria. Dal punto di vista del loro significato biologico, tutte le lesioni sono interpretabili come neoplasie intraepiteliali, anche se è mantenuta la suddivisione su base morfologica (Fig. 1). Spogliata così del suo significato prognostico, all’istopatologia rimane soltanto una funzione diagnostica, mentre sede ed estensione della lesione, valutabili colposcopicamente, condizionano prognosi e terapia. – Classificazione secondo il sistema Bethesda [3]. Questa classificazione (definita Bethesda system) utilizza una terminologia più uniforme capace di fornire chiare indicazioni per la gestione clinica. Nel 1988, per ridurre la generale confusione tra laboratori e clinici causata dall’uso di classificazioni diverse, venne tenuto un primo workshop che poi venne ripetuto nel 1991, a seguito dell’esperienza clinica e di laboratorio condotta. Attualmente, oltre il 90% dei laboratori negli USA usano almeno in parte il sistema del 1991. Con l’impiego sempre più frequente di nuove tecnologie ed in base ai risultati di recenti ricerche, nel 2001 è stato nuovamente rivalutato il sistema, con l’apporto di ultime modifiche. La classificazione dicotomica prospettata a Bethesda indica le lesioni con il termine di Lesioni Intraepiteliali Squamose (Squamous Intraephitelial Lesion, SIL), suddivise in lesioni a basso grado (Low SIL), che corrispondono a HPV e CIN 1 della classificazione precedente, e lesioni ad alto grado (High SIL), che includono CIN 2-CIN 3. Sempre nel 1988 il Sistema di Bethesda prevedeva la categoria “ASCUS”, cellule squamose atipiche di significato indeterminato,
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per designare anormalità cellulari non sufficienti a supportare la diagnosi di “SIL”. Nel workshop del 2001, una minoranza dei partecipanti ha proposto l’eliminazione di questa categoria, ma si è infine deciso di mantenerla per l’elevata frequenza di CIN 2-CIN 3 che di fatto vengono identificate nell’accertamento diagnostico di questi casi. Si stima che dal 10 al 20% delle donne con ASCUS abbiano una CIN 2-CIN 3 e che 1 su 1000 abbia un carcinoma invasivo. Altra categoria compresa nel Sistema è l’“AGUS”, cellule ghiandolari atipiche di significato indeterminato, sostituita col termine “AGC” (cellule ghiandolari atipiche) nella revisione del 2001 per evitare confusione con ASCUS. La gestione di questi pazienti varia molto a seconda del tipo cellulare (cellule ghiandolari endometriali o endocervicali) e giustifica che venga fatta una distinzione, quando è possibile. L’evidenza di cellule ghiandolari atipiche è importante sul piano clinico perché la probabilità di associazione con alterazioni di grado elevato è più frequente rispetto agli ASCUS. Quindi queste ultime categorie ASCUS/AGUS hanno un significato ben preciso di invito al follow-up e quindi di discriminazione rispetto ai reperti nell’ambito della norma, piuttosto che di segnalazione di un quadro patologico ben definito e quindi suscettibile di trattamento [3]. A livello di vagina, vulva, ano e pene si riscontrano lesioni simili, ma non identiche: neoplasie intraepiteliali vaginali (Vaginal Intraephitelial Neoplasm, VAIN), vulvari (Vulvar Intrae phitelial Neoplasm, VIN), anali (Anal Intraephitelial Neoplasm, AIN) e penili (Penile Intraephitelial Neoplasm, PIN).
1.3 Cofattori coinvolti nella carcinogenesi Evidenze epidemiologiche hanno definito che l’infezione con tipi oncogeni di HPV è la causa necessaria del carcinoma cervicale e delle lesioni pre-neoplastiche [4]; tuttavia, come già accennato, l’infezione virale non è sufficiente, ma esistono numerosi altri fattori esogeni ed endogeni che influenzano sia la storia naturale dell’infezione sia il rischio di progressione della neoplasia. I fattori legati alla storia naturale dell’infezione sono il numero di partner, l’età dei soggetti coinvolti, l’età del primo rapporto sessuale, l’uso di contraccettivi a barriera e la presenza di coinfezioni [5]. Invece i fattori implicati nella cancerogenesi possono essere suddivisi in tre gruppi:
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– cofattori legati all’HPV, quali l’infezione da tipi specifici di HPV, la carica virale, l’integrazione virale e la presenza di trascritti oncogeni che verranno trattati nel Capitolo 2; – cofattori legati all’ospite, compresi i livelli ormonali endogeni, i fattori genetici legati all’HLA ed altri fattori legati alla risposta immunitaria dell’ospite [6]; – cofattori ambientali o esogeni, che includono l’utilizzo di contraccettivi orali (Oral Contraceptive, OC), il fumo di sigaretta, la dieta, i traumi cervicali, le coinfezioni con il virus dell’immunodeficienza umana (HIV) e/o con altri patogeni trasmessi sessualmente.
1.3.1 Cofattori legati all’ospite Numerosi studi hanno riscontrato un’associazione tra carcinomi contenenti HPV-16 o HPV-18 e la presenza di particolari antigeni leucocitari umani (HLA). Individui con alcuni tipi di antigeni tissutali, come, ad esempio, HLA-DQB1*03 (DQ3), corrono maggiori rischi di sviluppare CC. Allo stesso modo pazienti con HLA-B7 tendono a sviluppare carcinomi più aggressivi con una diagnosi peggiore. L’antigene HLA-II Dqw3 è espresso dal 67-88% delle donne con cancro alla cervice, mentre solo dal 50% della popolazione di controllo [7]. Infine, all’interno della popolazione, è possibile riscontrare un polimorfismo a livello del codone 72 della proteina p53, che può codificare alternativamente per un’arginina o una prolina. La variante con l’arginina è più suscettibile alla degradazione da parte della proteina E6; infatti, risulta maggiormente presente nei tumori associati agli HPV [8].
1.3.2 Cofattori ambientali o esogeni Contraccettivi orali In molti studi epidemiologici è stato osservato che i contraccettivi orali sono correlati allo sviluppo del cancro cervicale. Tuttavia, negli studi limitati alle donne HPV positive l’evidenza dell’associazione è in genere più debole. Anche se l’uso costante di contraccettivi orali è moderatamente associato con il rischio del cancro, all’aumento degli anni di assunzione corrisponde un aumento della relazione dose-risposta: con l’assunzione dei contraccettivi orali fino a quattro anni non cresce il rischio di neoplasia cervicale, ma oltre i cinque il rischio sale di quattro volte per il carcinoma invasivo [9, 10]. Non sono disponibili
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molti dati relativi ai meccanismi attraverso i quali le influenze ormonali possono modulare il pericolo di progressione ad HSIL (High Grade Squamous Intraepithelial Lesion, lesioni squamose intraepiteliali di alto grado) e a carcinoma. Tuttavia è stato osservato che gli ormoni, fra cui l’estradiolo, possono influenzare la progressione da lesioni premaligne a maligne promuovendo l’integrazione del DNA virale nel genoma dell’ospite, la quale induce la deregolazione delle proteine virali E6 ed E7. Inoltre i contraccettivi orali sembrano facilitare la riattivazione e/o la persistenza virale anche se mancano ancora evidenze sperimentali a proposito.
Numero di gravidanze Esiste una consistente associazione tra l’alto numero di gravidanze ed il carcinoma cervicale ed in situ; infatti la maggior parte degli studi ristretti alle donne HPV positive riportano un aumentato rischio di HSIL/CC in soggetti che hanno avuto un elevato numero di gravidanze. In particolare il rischio di tumore per le donne con sette o più gravidanze portate a termine è quattro volte più alto rispetto a quelle senza figli. Questo rischio cresce linearmente e d’altra parte alcuni studi condotti su donne con basso numero di gravidanze non hanno fornito dati significativi per questo tipo di correlazione [11]. L’elevato numero di gravidanze può aumentare il rischio di CC perché mantiene la zona di trasformazione sull’esocervice per molti anni facilitando la diretta esposizione all’HPV e ad altri cofattori. I cambiamenti ormonali indotti dalla gravidanza (gli aumentati livelli di estrogeni e progesterone) possono anche modulare la risposta immunitaria all’HPV e influenzare il rischio di persistenza o progressione [12].
Fumo Gli effetti del fumo sono stati ben studiati ed è stata dimostrata un’associazione con il CC moderata, ma statisticamente significativa, che ha evidenziato come il fumo di tabacco aumenti il rischio di sviluppare HSIL e CC e come tale rischio cresca con la prolungata esposizione a questo cofattore [13]. Inoltre coloro che fumano per un lungo tempo ed intensamente mostrano un aumentato rischio non solo di CC, ma anche di sviluppare un’infezione di tipo persistente. Il fatto di avere trovato la nicotina e cancerogeni specifici del tabacco nel muco cervicale ha rafforzato l’ipotesi di un’azione sinergica tra il fumo di sigaretta e l’HPV per lo sviluppo di HSIL/CC [14]. I cancerogeni correlati al tabacco possono esercitare un effetto mitogeno diretto causando danni al DNA. Alcuni hanno ipotizzato che l’esposizione al tabacco
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possa influenzare la capacità dell’ospite di attivare un’efficace risposta immunitaria locale contro le infezioni virali, dal momento che è stato osservato che il fumo può ridurre il numero di alcuni marcatori della risposta immunitaria. Studi prospettici hanno inoltre evidenziato che i fumatori mantengono l’infezione virale cervicale per un periodo significativamente più lungo ed hanno una probabilità minore di eliminare il virus rispetto alle donne che non hanno mai fumato. Il ruolo del fumo di tabacco nella cancerogenesi è stato ulteriormente validato osservando come donne fumatrici con lesioni di basso grado abbiano mostrato una riduzione della massa della lesione con l’interruzione dell’esposizione al fumo, al contrario di quelle che mantenevano l’abitudine al fumo [15].
Coinfezioni Gli studi relativi a questo cofattore iniziano negli anni ’90, quando si scopre che le infezioni multiple trasmesse sessualmente (Sexually Transmitted Infection, STI) possono rappresentare un fattore di rischio per il cancro cervicale, suggerendo così che le STI non-HPV potevano agire come cofattori dell’HPV. Successivi studi hanno valutato l’associazione tra le STI e la cancerogenesi da HPV, focalizzando l’attenzione sulla Chlamydia trachomatis [16], Citomegalovirus (CMV), Epstein-Barr Virus (EBV), Herpes Simplex 1 (HSV-1) e Herpes Simplex 2 (HSV-2) [17]. È stato osservato che, tra le donne infettate da HPV oncogeni, quelle positive anche per Chlamydia mostrano un rischio di sviluppare il cancro due volte maggiore rispetto a quelle negative. Inoltre molti lavori hanno ottenuto forti evidenze circa il ruolo esplicato da HSV-2 come cofattore di HPV nella promozione della progressione delle lesioni cervicali. Recentemente è stato suggerito anche un possibile ruolo eziopatogenetico del virus erpetico umano 6 (HHV-6) nello sviluppo delle lesioni precancerose e cancerose della cervice uterina [18].
Infiammazione cervicale Sono noti molti meccanismi mediante i quali le coinfezioni possono agire (tossicità diretta), ma il più rilevante dal punto di vista biologico è l’induzione dell’infiammazione a livello della cervice che determina danni di tipo genotossico attraverso metaboliti reattivi ossidanti. Per esempio, C. trachomatis è una causa ben conosciuta di cervicite; inoltre in soggetti in cui oltre al patogeno è presente uno stato di CC si verifica una secrezione di citochine proinfiammatorie molto più consistente rispetto a soggetti non colpiti da CC. L’HSV-2
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può procurare ulcere periodiche, suggerendo una sua possibile azione attraverso un meccanismo infiammatorio, ma l’attivazione virale e lo shedding virale non sono stati ancora misurati nel contesto di un’infezione con HPV. L’infiammazione cronica è stata a lungo considerata un fattore di rischio per il cancro a numerosi organi, infatti essa determina un aumento della produzione di radicali liberi dell’ossigeno ed una riduzione dell’immunità cellulo-mediata, cosa che sembra influenzare significativamente la progressione dell’infezione virale verso il cancro. Le più importanti osservazioni riguardano l’aumento dei livelli di espressione delle COX-2 in soggetti con cancro cervicale. In particolare è stato dimostrato che questo aumento implica l’innalzamento della produzione di IL-10, la quale, impedendo la produzione di IL-12 da parte delle cellule dendritiche, determina una forte diminuzione della risposta immunitaria cellulo-mediata [15]. Questo a ribadire il ruolo dell’infiammazione sia nell’integrazione del genoma virale che nella progressione del cancro.
Nutrienti antiossidanti Da molti decenni si sta esaminando la relazione della dieta e dello stato nutrizionale con la neoplasia cervicale ed il rischio di sviluppare il cancro. Da recenti studi è emerso che esiste un’associazione inversa tra il β-carotene sierico e la cancerogenesi, tra il licopene sierico e la vitamina E e CIN e tra il β-carotene ed il carcinoma invasivo. In esperimenti di tipo chemopreventivo di fase III condotti con l’acido folico, il β-carotene e l’acido retinoico, solo con quest’ultimo è stato osservato un significativo incremento delle lesioni cervicali. Si suppone che i nutrienti antiossidanti possano essere attivi solo nella cancerogenesi precoce; a sostegno di questa ipotesi si è visto che la luteina, la vitamina E ed il licopene sono inversamente associati ad un diminuito rischio di persistenza di tipi oncogeni. In modo analogo, bassi livelli sierici di β-carotene, β-criptoxantina e vitamina C sono associati con l’infezione persistente tipo-specifica. Questi dati suggeriscono che certi carotenoidi, come la luteina, possono influenzare soprattutto la storia naturale dell’infezione da HPV [16].
1.4 Patogenesi La zona di trasformazione è l’area compresa fra l’epitelio pavimentoso stratificato non cheratinizzato e l’epitelio cilindrico che rive-
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ste l’endocervice. A livello della giunzione squamo-colonnare sono localizzate cellule totipotenti, dette “cellule di riserva”, che originano dall’epitelio cilindrico, le quali hanno la possibilità di crescere, moltiplicarsi e differenziarsi anche come epitelio pluristratificato. Questo epitelio pluristratificato, chiamato “epitelio metaplasico” non è in grado di accumulare glicogeno e rimane bianco al test di Shiller creando un contrasto con l’epitelio pluristratificato che origina normalmente dalle cellule basali, che invece si colora col lugol. È proprio in questo epitelio metaplasico che avviene l’azione oncogenica dell’HPV, delle molecole derivanti dagli estroprogestinici e dal fumo. E questa azione crea le premesse per una facile evoluzione dell’epitelio metaplasico di ricostruzione in epitelio displasico più o meno alterato.
1.4.1 Evoluzione delle lesioni precancerose La storia naturale di questo tumore ipotizza che un fattore sconosciuto agisca sull’epitelio della zona di trasformazione della cervice uterina, determinando inizialmente una neoplasia intraepiteliale di basso grado che può evolvere verso lesioni di più alto grado. Le percentuali di regressione ad una citologia negativa e di progressione verso gli stadi più avanzati, distribuite nei vari gradi di displasia, sono indicate nella Tabella 1. Qualsiasi CIN può evolvere direttamente a carcinoma invasivo senza necessariamente passare per gli stadi progressivi. Non tutte le lesioni progrediscono e la maggior parte delle lesioni di basso grado (CIN 1) tende a regredire [21]. Il tempo di progressione da lesioni intraepiteliali a forme invasive può essere estremamente lungo (da 10 a 20 anni), anche se è possibile che in brevi periodi di tempo (<12 mesi) lesioni iniziali si trasformino in forme invasive. Solamente il 1222% delle lesioni CIN 1/2 progredisce in carcinoma [22]. Tabella 1. Evoluzione delle lesioni cervicali Probabilità di: Lesione Regressione Progressione a CIN 3
Progressione a carcinoma
CIN 1
60%
10%
-
CIN 2
40%
20%
-
CIN 3
33%
-
12-22%
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1.5 Trattamento chirurgico delle lesioni pre-neoplastiche Il trattamento delle lesioni pre-neoplastiche dipende innanzitutto dal grado di CIN, e in ogni caso ogni struttura ospedaliera possiede diversi tipi di protocolli terapeutici. Le tecniche utilizzate si distinguono in distruttive ed escissionali: quelle distruttive demoliscono la lesione senza lasciare spazio all’esame istologico e si distinguono in laservaporizzazione, diatermocoagulazione e crioterapia. Alcuni ospedali utilizzano queste tecniche per le lesioni di basso grado. Le tecniche escissionali (conizzazione) ci consentono invece di avere un riscontro istologico importante per capire se la lesione è stata completamente asportata o se il pezzo operatorio presenta margini o apice positivi. Tali tecniche si utilizzano per trattare le lesioni ad alto grado con esame colposcopico positivo e biopsia positiva. Non è infrequente il riscontro di lesioni durante la gravidanza in quanto spesso la donna ha l’occasione di effettuare in questo periodo il suo primo Pap test. In questo caso si posticipa il trattamento a dopo l’espletamento del parto. Con l’utilizzo delle tecniche escissionali si raggiungono percentuali di guarigione del 95-99% [23]. Le pazienti trattate hanno comunque un rischio di sviluppare un tumore del collo dell’utero superiore rispetto alla popolazione sana, dato che su queste donne continuano ad agire i medesimi fattori di rischio che hanno determinato la prima lesione.
1.5.1 Trattamento chirurgico della Neoplasia Intraepiteliale Cervicale Il trattamento della Neoplasia Intraepiteliale Cervicale (CIN) si pone l’obiettivo di eradicare dalla cervice uterina lesioni con eventuale potenziale evolutivo, al fine di prevenire la possibile evoluzione a carcinoma invasivo, e di identificare eventuali lesioni già microinvasive localizzate nell’ambito della CIN. Questo è il vero motivo per cui trattiamo alcune CIN e non ne trattiamo altre. Di per sè infatti la CIN è espressione dell’infezione da HPV, e, come questa, nella gran parte dei casi guarisce da sola, senza la necessità di alcun trattamento. Per questo motivo inoltre la dizione CIN è stata sostituita da quella SIL, mutuata dalla citologia, che esprime solo il concetto di lesione (di alto o basso grado) senza riferimenti alla neoplasia. Attualmente vengono utilizzate entrambe le dizioni. In letteratura
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viene riportata una possibilità di progressione a carcinoma invasivo per il CIN 3 dal 12 al 36% [24]. Per contro, la regressione spontanea del CIN 3 viene riferita attorno al 30-35% [25] con negativizzazione istologica a 6 mesi dalla biopsia nel 25% dei casi [26]. Nel caso di lesioni di basso grado, la regressione spontanea viene riportata dal 47% all’85% indipendentemente dal tipo di HPV coinvolto [25] e nel 20% dei casi persistenti a due anni potrebbe essere possibile un’ulteriore regressione spontanea nel corso del terzo anno [27]. Va ricordato che il trattamento anche radicale della lesione sulla cervice uterina non assicura l’eliminazione dell’infezione da HPV, ed il rapporto tra HPV e mucose genitali è determinato da complessi meccanismi coinvolgenti l’immunità locale e generale. In attesa dello sviluppo dei vaccini contro l’infezione da HPV, per i quali si iniziano ad avere i primi dati clinici [28], le possibilità terapeutiche sono indirizzate al trattamento locale delle lesioni cervicali.
1.5.2 Caratteristiche del trattamento La conoscenza della storia naturale delle lesioni displastiche cervicali (potenziale evolutivo, regressione spontanea, correlazione all’infezione da HPV) e lo sviluppo e diffusione della colposcopia, hanno permesso di modificare le indicazioni agli interventi terapeutici e l’entità degli stessi. La diffusione della CIN/SIL in donne sempre più giovani che non hanno ancora completato il loro programma riproduttivo, la nuova sensibilità per l’ottimizzazione del rapporto costobeneficio (inteso in senso non solo economico, ma anche sociale) degli interventi terapeutici hanno portato all’esecuzione, nei casi in cui può essere indicato intervenire, di interventi sempre più conservativi. Questi sono usualmente eseguiti in anestesia locale, in regime ambulatoriale o di day surgery, guidati colposcopicamente al fine di essere il più radicali possibile sulla lesione ma contemporaneamente il più conservativi possibile sui tessuti sani. Nelle donne in età fertile, infatti, l’obiettivo principale è quello di eradicare le lesioni senza alterare le capacità riproduttive delle pazienti. Gli interventi debbono comportare scarse complicanze precoci e tardive, e solo in casi particolari può essere presa in considerazione l’anestesia generale o l’ospedalizzazione ordinaria, comunque con un numero cumulativo di giornate di degenza molto basso. I trattamenti debbono prevedere generalmente un rapido ritorno della donna alle usuali attività sociali e lavorative.
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Le tecniche che si sono sviluppate hanno posto sempre più attenzione anche al mantenimento di una cervice che possa permettere un adeguato follow-up citologico e colposcopico: vanno quindi proscritti tutti gli interventi che possano portare alla risalita della giunzione squamo-colonnare in sede non esplorabile o che portino alla stenosi del canale cervicale, quali quelli che prevedano l’applicazione di punti alla Sturmdorff. Il ricorso ad interventi demolitivi è stato limitato a situazioni particolari, legate spesso a patologie benigne concomitanti in perimenopausa o alla non affidabilità del follow-up in menopausa. È stato inoltre adottato a causa di stenosi conseguente ai trattamenti eseguiti [29] o in caso di lesioni persistenti in assenza di possibilità tecniche di ripetere l’escissione locale [30]; in questi casi l’isterectomia può rivelare fino dal 16% al 28% di lesioni persistenti [30] anche se il significato clinico di questi residui non è chiaro. In menopausa può esserci indicazione all’intervento demolitore per la presenza di alterazioni citologiche persistenti o recidivanti dopo trattamento conservativo [31], quando la paziente non desideri conservare l’utero, e tanto più in presenza di difficoltà al follow-up. Tra i trattamenti conservativi si distinguono tecniche distruttive, che non permettono il riscontro istologico sul tessuto trattato, e tecniche escissionali che invece lo permettono. Indipendentemente dal tipo di trattamento attuato questo deve essere eseguito sotto guida colposcopica. Tra le tecniche distruttive ricordiamo la crioterapia, la diatermocoagulazione, la termocoagulazione di Semm, la vaporizzazione laser CO2, l’elettrofolgorazione e, recentemente e ancora a livelli sperimentali, la terapia fotodinamica. Tra le tecniche escissionali possono essere distinte tecniche con modulazione della resezione “step by step” quali: conizzazione laser CO2, conizzazione con ago/spatola a radiofrequenza e tecniche con geometria della resezione decisa preventivamente quali le resezioni elettrochiurgiche ad ansa – LEEP o LLETZ – (o mediante elettrodi a vela ed escissione per biopsia a cono di Fisher) - e tecniche comunque con resezione meno modulabile sulla lesione quale la conizzazione a lama fredda eseguita con diverse tecniche. Le tecniche a resezione modulata step by step richiedono una curva di apprendimento molto più prolungata, da parte degli operatori, rispetto alle altre tecniche, maggiore sia per il laser che per le tecniche ad ago/spatola a radiofrequenza, e generalmente necessitano di un maggior tempo di esecuzione. Nell’ambito delle tecniche step by step la resezione può essere guidata dall’applicazione di coloranti vitali endocervicali che, impre-
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gnando le pseudoghiandole endocervicali, ne segnalano l’eventuale resezione, permettendo di correggere la resezione stessa. Sia le tecniche distruttive che quelle escissionali devono essere utilizzate sotto guida colposcopica; spesso però la resezione a lama fredda viene guidata non dalla colposcopia ma dall’applicazione di lugol sulla cervice, con il rischio di escindere aree iodonegative non patologiche, ma rappresentanti solo metaplasia immatura.
1.5.3 Trattamento escissionale o distruttivo: indicazioni Le linee guida della Società Italiana di Colposcopia e Patologia Cervico Vaginale (SICPCV) prevedono il trattamento di tutte le lesioni di alto grado (HSIL o CIN 2-CIN 3/CIS) per la loro possibilità evolutiva [32]. Il trattamento in questi casi sarà escissionale, al fine di identificare sul pezzo istologico forme invasive o microinvasive misconosciute già presenti (riscontrabili fino all’8-12% nei coni eseguiti per CIN 2-CIN 3/CIS). Al fine di permettere una corretta stadiazione nell’eventualità del riscontro di un invasivo da parte del patologo, è fondamentale inviare un cono adeguato possibilmente in un unico pezzo. Il trattamento escissionale andrà riservato anche alle lesioni di basso grado, soprattutto se persistenti, quando queste non abbiano margini completamente visibili in colposcopia, al fine di identificare sull’istologico lesioni di grado più elevato altrimenti misconosciute [33]. Trattamenti escissionali sono indicati anche in presenza di discordanza tra citologia/colposcopia/istologia e risultano ovviamente mandatori in caso di sospetto colposcopico di microinvasione. In casi selezionati di lesioni di alto grado, in presenza di lesioni colposcopiche completamenti visibili, dopo adeguato campionamento bioptico può essere eseguita anche terapia distruttiva [34]. La terapia distruttiva può essere indicata nei casi di lesione di basso grado con margini completamente visibili in colposcopia dopo adeguato campionamento bioptico rappresentativo della lesione. Il management delle lesioni di basso grado prevede protocolli molto variabili a seconda delle varie realtà cliniche [35]. A limitare i trattamenti in caso di lesioni di basso grado vi è la considerazione della frequentissima possibilità di regressione spontanea soprattutto in donne giovani, indipendentemente dal tipo, oncogeno o meno, di HPV in causa, oltre al fatto che il trattamento è sulla lesione e non sull’infezione da HPV. Il trattamento viene eseguito solitamente nei casi persistenti o quando la paziente ha superato i 35 anni, soprattut-
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to se in presenza di lesioni ampie con quadri colposcopici complessi, in cui il campionamento bioptico potrebbe non essere stato adeguato; si adotta inoltre in presenza di una bassa compliance socio-economica al follow-up [35]. Attualmente sia le linee guida della SICPCV che quelle americane prevedono la possibilità sia di trattare che di non trattare le lesioni di basso grado. In genere il percorso che porta alla terapia deve prevedere la biopsia: il “see and treat” è gravato da una alta percentuale di sovratrattamenti (16% in caso di Pap test positivo per HSIL [36] e dovrebbe essere evitato tranne quando la paziente abbia scarsa aderenza ai protocolli diagnostici o in particolari realtà quali ad esempio in paesi con scarse risorse in cui il 10% di sovra- o sottotrattamenti viene considerato accettabile [37] rispetto ai costi della biopsia.
1.5.4 Valutazione clinica e trattamento chirurgico dopo recidiva della CIN Ogni tipo di approccio clinico ad una determinata patologia contiene inevitabilmente una certa percentuale di fallimenti. L’analisi degli insuccessi terapeutici e lo studio delle cause di recidiva offrono un bagaglio di informazioni e di conoscenze sul comportamento biologico di questa determinata forma morbosa estremamente utili nel disegnare i protocolli di diagnosi, terapia e follow-up. In questo lavoro abbiamo cercato di valutare in maniera critica i risultati del trattamento ambulatoriale della CIN, ricercando eventuali correlazioni fra gli “insuccessi terapeutici” ed alcuni parametri colposcopici, anatomopatologici e di biologia molecolare. Si è voluto inoltre puntualizzare le differenze cliniche fra la recidiva e la persistenza, argomento questo oggetto ancora di grandi discussioni in quanto le due forme vengono distinte unicamente da un criterio temporale. Si può parlare di recidiva, infatti, solo se esiste la documentazione di un intervallo libero da malattia; questo aspetto però crea dei problemi nella valutazione dei dati reperibili in letteratura, in quanto la modalità del follow-up è frequentemente disomogenea ottenendo risultati difficilmente confrontabili. In ogni caso quando durante il follow-up di una paziente trattata per CIN ritroviamo la lesione, indipendentemente dal fatto di essere al primo controllo (persistenza) o a controlli successivi (recidiva), l’approccio clinico è lo stesso. Questo consiste nell’esecuzione di una colposcopia con accurata ispezione della vagina, esame colpocitologico e biopsia mirata; risulta inol-
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tre importante la valutazione del canale cervicale specialmente se l’esocervice risulta negativa o la lesione penetra nel canale cervicale. Individuata la lesione, valutata la sua distribuzione topografia ed il grado di atipia, si imposta un trattamento il più conservativo possibile, ma al tempo stesso il più idoneo ad asportare completamente l’area displastica, privilegiando le metodiche escissionali in special modo se è interessato il canale cervicale. Anche nell’ambito delle tecniche escissionali verranno scelte le procedure più idonee: ad esempio se è stato eseguito in precedenza un intervento con ansa sarà opportuno scegliere un trattamento con ago o spatola che consente di asportare un frammento cilindrico di portio con minor rischio di lasciare in loco sfondati ghiandolari interessati dalla lesione.
1.5.5 Il valore dei margini chirurgici nella prognosi dei trattamenti escissionali della portio per CIN La necessità di interventi ultra conservativi per preservare la fertilità in donne giovani affette da lesioni intraepiteliali della cervice, espone ad un più elevato rischio di persistenza o di recidiva della malattia dopo il trattamento primario. Per questo motivo si è reso indispensabile il riconoscimento e la valutazione di fattori prognostici che possano orientare sul comportamento da tenere nei confronti della paziente già sottoposta ad intervento chirurgico. Alcuni fattori prognostici sono unanimemente riconosciuti come tali e pertanto trovano comune considerazione tra i clinici. Tra questi si possono annoverare: l’età della paziente, l’immunodepressione, il fumo di sigaretta, le caratteristiche della lesione e la persistenza dell’HPV. Al contrario di questi fattori relativamente certi, il riscontro di malattia sui margini di resezione del pezzo escisso ha ancora un significato controverso, nonostante intuitivamente si possa assumere la paziente esposta ad un rischio di persistenza/recidiva nettamente più elevato rispetto ai casi in cui i margini risultino liberi. L’esperienza comune ed i dati della letteratura non confermano totalmente questa correlazione risultando il valore predittivo dell’assenza o della presenza di malattia sui margini molto incerto. Se in una metanalisi di 11 studi [38] l’assenza di malattia residua sui margini avrebbe un valore predittivo negativo del 91%, altri studi evidenziano come la negatività di questi parametri si accompagni ugualmente alla possibilità di persistenza fino al 47% [39-41]. Su
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queste basi alcuni autori [42] ritengono che i margini di resezione liberi da malattia non dovrebbero essere considerati un criterio prognostico di recidiva statisticamente significativo. Ci si deve quindi chiedere se nella valutazione di questo parametro prognostico non debbano essere introdotti dei criteri addizionali tali da consentire nel suo interno un’identificazione più accurata delle pazienti ad alto rischio di ripresa della malattia. In primo luogo è indispensabile la precisazione di quale margine chirurgico risulti interessato da malattia residua. L’escissione chirurgica viene a creare tre margini: l’esocervicale, il profondo (lungo la superficie di penetrazione) e l’endocervicale. I risultati della maggior parte degli studi presenti in letteratura concordano nel ritenere aumentato in modo statisticamente significativo il rischio di persistenza/recidiva di malattia se la lesione è presente sul margine di resezione endocervicale. Se invece la CIN si trova in corrispondenza del margine esocervicale, la probabilità di fallimento della terapia risulta paragonabile a quella delle pazienti con margini liberi da malattia. Tale ipotesi viene confermata da uno studio statistico condotto su 700 donne trattate con metodi escissionali (LLETZ) per CIN, in cui si è evidenziato che il rischio relativo di fallimento del trattamento raddoppia se la lesione è presente sul margine di resezione endocervicale, mentre la presenza di CIN sul margine esocervicale non risulta essere associata ad un rischio aumentato di persistenza di malattia. Un ulteriore recente studio condotto su 317 conizzazioni ha confermato che solo l’interessamento del margine endocervicale è correlato con un rischio di persistenza significativo (40% vs. 23% con margine endocervicale libero), mentre i margini esocervicale e profondo, sia a ridosso sia interessati, non mostrano rischi aumentati. La frequenza aumentata di recidive nel caso di interessamento del margine endocervicale si avrebbe con lesione iniziale sia di alto grado sia di basso grado. Un altro importante fattore che deve essere oggetto di valutazione in caso di margini interessati è la tecnica chirurgica utilizzata per l’escissione. Senza sopravvalutare le difficoltà diagnostiche ed i conseguenti dubbi clinici che possono insorgere nella lettura dei margini chirurgici ottenuti con tecniche che comportino un danno termico dei tessuti, è indispensabile considerare la leggibilità globale dei pezzi che si offrono all’anatomo patologo. Con la LEEP può essere più difficile ottenere un’escissione in pezzo unico soprattutto nelle lesioni estese verso i fornici e che si approfondano nel
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canale cervicale. In questi casi il riscontro, all’esame istologico, di margini positivi su alcuni frammenti, può non corrispondere ad una reale positività dei margini in vivo. C’è da considerare inoltre che le tecniche miste che comprendono, oltre all’escissione, anche la distruzione (per vaporizzazione, elettrocoagulazione o folgorazione) del letto chirurgico e dei tessuti perichirurgici, comportano una persistenza reale della malattia residua più bassa di quella ipotizzabile sulla positività dei margini del pezzo escisso. Nella clearance della malattia residua è indispensabile infine tenere conto sia dei normali fenomeni riparativi tessutali con la produzione di citochine e l’attivazione dell’immunità cellulo-mediata, sia della spontanea regressione della lesione essendo la carica virale totale ridotta dall’intervento chirurgico. Quest’ipotesi è confermata da studi che confrontano la presenza di malattia residua nel caso di secondo intervento eseguito immediatamente dopo il primo o a distanza di alcuni mesi da esso [32].
Capitolo 2
Le infezioni da Papillomavirus
videnze epidemiologiche molecolari indicano che il DNA di almeno uno dei 15 tipi oncogeni di Papillomavirus umano (HPV) viene rilevato virtualmente in tutte le lesioni carcinomatose e che l’infezione persistente da HPV ad alto-rischio è la causa necessaria ma non sufficiente per il processo carcinogenico. Sebbene il rilevamento di DNA di HPV in tutte le lesioni cancerose non sia prova definitiva del suo ruolo causale nella carcinogenesi, è stato valutato che il rischio relativo di cancro associato con i genotipi oncogeni di HPV è addirittura più alto del rischio di carcinoma polmonare associato con il fumo. In natura sono stati identificati più di 120 genotipi di HPV, di cui circa 40 possono infettare il tratto genitale; di questi, 15 sono fortemente associati al cancro della cervice. Il meccanismo biologico di trasformazione maligna è stato ben caratterizzato. In sintesi, il potenziale oncogenico di questi virus è legato ai geni virali E6 e E7. La oncoproteina virale E6 inizia la degradazione della proteina anti-oncogenica (p53), mentre la oncoproteina virale E7 porta all’inattivazione di un’altra proteina di soppressione tumorale (RB). Questi effetti sinergici sono passaggi importanti della carcinogenesi in quanto danno luogo alla perdita del controllo del ciclo cellulare. Sulla base della loro presenza in lesioni benigne o maligne della cervice, questi virus sono stati definiti come HPVs a basso, medio od alto rischio oncogeno. Gli HPV vengono tipicamente trasmessi nelle donne entro pochi anni dall’inizio della loro attività sessuale e, prevalentemente, sono causa di infezioni transitorie e clinicamente irrilevanti che nella maggior parte dei casi si risolvono spontaneamente senza alcuna conseguenza patologica e con cambiamenti citologici temporanei. Fortunatamente, a seguito dell’infezione primaria, soltanto una minoranza di donne mantiene una infezione persistente (circa il 10% dopo 5 anni) ed è questo gruppo più piccolo che
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ha un sostanziale rischio (più del 50%) di sviluppare lesioni precancerose ad alta malignità (HSIL) o, in assenza di uno screening efficace, il carcinoma della cervice (CC) uterina.
2.1 I Papillomavirus I Papillomavirus (dal latino “papilla”, pustola e dal Greco “oma”, tumore) sono classificati nella famiglia Papillomaviridae, di cui sono noti 118 tipi [43]. La famiglia dei Papillomavirus, Papillomaviridae, è stata ufficialmente riconosciuta dall’International Council on Taxonomy of Viruses (ICTV) solo alcuni anni fa. Infatti i Papillomavirus erano raggruppati con i Poliomavirus nella famiglia Papovaviridae (denominazione derivante da papilloma, polioma e virus vacuolizzante della scimmia), in quanto i virioni appartenenti alle due sottofamiglie sono caratterizzati da un genoma circolare costituito da una molecola di DNA a doppio filamento, dalla assenza di envelope e da un capside a simmetria icosaedrica. Questi due gruppi di virus erano in realtà considerati generi diversi della stessa famiglia, differendo per dimensioni del virione, organizzazione e dimensioni del genoma (5 kb e per i Poliomavirus, 8 kb per i Papillomavirus). Dal 1998 anche la distinzione in sottofamiglie è stata considerata non più rispondente all’evoluzione delle conoscenze sulla biologia molecolare di questi virus. Pertanto il comitato internazionale per la tassonomia virale ha definitivamente optato per la distinzione ufficiale delle famiglie Papillomaviridae e Poliomaviridae. I Papillomavirus che infettano l’uomo (Papillomavirus umani; HPV) hanno uno spiccato tropismo per i tessuti epiteliali e possono essere causa di lesioni proliferative della cute e delle mucose. Il gruppo degli HPV è estremamente eterogeneo e il numero di genotipi identificati è in continua crescita, sebbene un cospicuo gruppo di potenziali nuovi tipi rimangono ancora da caratterizzare. Attualmente 118 tipi di HPV [43] sono stati classificati in base alla loro sequenza nucleotidica, al potenziale oncogeno e alla posizione filogenetica. Come già detto, il virione di HPV è privo di envelope ed ha simmetria icosaedrica. Il capside è costituito da 72 capsomeri (12 pentameri e 60 esameri) ed è formato da 2 proteine strutturali: la proteina capsidica maggiore (L1) di 55 kD costituente l’80% delle proteine virali totali e la proteina virale minore (L2) di 70 kD.
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Le infezioni da Papillomavirus
Regione conservata dopo l’integrazione ed espressa nelle cellule tumorali
Regione in cui si ha la rottura al momento della integrazione
Regione persa e non espressa dopo l’intergrazione
Fig. 2. Organizzazione del genoma degli HPV in forma episomale
2.2 Organizzazione del genoma virale Il genoma virale è costituito da una singola molecola, di circa 7900 paia di basi, di DNA circolare covalentemente chiusa (Fig. 2); l’organizzazione del genoma di HVP lineare viene mostrata in Figura 3. Questa molecola di DNA, associata a proteine istoniche (di origine cellulare) va a formare un complesso simile alla cromatina. Nel genoma di alcuni HPV genitali sono state identificate delle regioni di attacco alle proteine istoniche, le Scaffold Attachment Regions (SARs) o “Matrix Attachment Regions” (MARs), molto simili a quelle presenti nel DNA eucariotico. Si è portati oggi a ritenere che questi elementi possano avere influenza sulla espressione genica e sulla replicazione virale. Il genoma dei diversi sottotipi di HPV è caratterizzato da un’organizzazione peculiare: la presenza di un genoma formato da otto sequenze codificanti (Open Reading Frame, ORF), localizzate su una singola elica di DNA virale, il quale rappresenta lo stampo per la trascrizione di messaggeri policistronici. Le ORFs, che rappresentano l’85% del DNA virale, vengono distinte, in funzione del tempo di intervento nel corso dell’infezione virale, in due regioni definite: early, ovvero precoci (costituenti il 45% del genoma virale) e late, ovvero tardive (rappresentanti il 40% del genoma virale). Tali regioni codificano rispettivamente per proteine precoci definite E1, E2, E4, E5, E6, E7, necessarie per la replicazione del DNA virale e per la trasformazione cellulare, per due ulteriori proteine definite E3 ed E8 con funzione ancora sconosciuta, e per proteine tardive
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(L1, L2) facenti parte del capside e aventi anche una funzione regolatoria. La ORF che codifica per L1 e L2 contiene l’origine di replicazione ed alcuni elementi di controllo per la trascrizione e la replicazione. Le funzioni delle otto ORFs della regione Early (da E1 a E8) e delle due ORFs delle regioni Late (L1, L2) sono descritte nella Tabella 2. Esiste inoltre una regione in cui non sono presenti ORF, chiamata Long Control Region (LCR), o Upstream Regulatory Region o Noncoding Region (URR); all’interno di questa regione sono concentrate sequenze regolatorie richieste per la replicazione e la trascrizione virale. I geni precoci vengono trascritti efficientemente nelle fasi non produttive delle infezioni e codificano per proteine funzionali necessarie alla replicazione del DNA e, in alcuni casi, importanti nella trasformazione cellulare. I geni tardivi sono espressi soprattutto nelle fasi produttive delle infezioni. Malgrado il genoma di HPV sia una molecola di dimensioni ridotte, la sovrapposizione dei geni e la possibilità di sfruttare splicing alternativi, conferisce ad esso la capacità di codificare per un numero relativamente ampio di proteine. Nella regione URR è presente un major late promoter, che controlla l’espressione dei geni tardivi e del gene E4 e una sequenza “enhancer” che interagisce sia con prodotti genici virali, che con fattori cellulari. I geni precoci, espressi sia in cellule infettate in modo non produttivo sia in cellule trasformate, sono trascritti in numerose sequenze codificanti parzialmente sovrapposte, che subiscono uno splicing alternativo e presentano una comune sequenza finale in 3’, definita da un segnale di poliadenilazione. Le regioni precoci codificano per proteine virali regolatorie, tra le quali quelle necessarie per dare inizio alla replicazione del DNA virale [8]. Negli HPV oncogeni le proteine precoci sono codificate a partire da promotori precoci, quale, ad esempio, P97 in HPV-31, prima dell’inizio della replicazione virale. La trascrizione di proteine tardive è sotto il controllo di promotori tardivi, quale, ad esempio, P742 in HPV-31, questa si verifica durante l’assemblaggio di nuovi virioni maturi. Il capside, che racchiude il genoma virale, presenta una simmetria icosaedrica ed è composto da 72 capsomeri. Ogni capsomero è un pentamero di L1 (55 kD), una proteina strutturale del capside, che costituisce l’80% delle proteine virali totali. L1 è coinvolta principalmente nel legame al DNA virale, come dimostrano studi su virus mutanti per L1, i quali sono ancora in grado di formare il cap-
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side, ma non possono incorporare il DNA. Il capside di ogni virione contiene inoltre circa 12 copie di L2 (70 kD), la proteina minore del capside [7]. L2 svolge principalmente ruoli di tipo strutturale, ma anche diverse funzioni regolatorie durante il ciclo vitale degli HPV, tra le quali il legame a recettori secondari, la determinazione della localizzazione nucleare del virus e l’incapsidazione selettiva del DNA nel capside virale, aumentando così l’infettività dei virioni (Tabella 2).
Fig. 3. Organizzazione del genoma degli HPV in forma lineare Tabella 2. Elenco delle ORF di HPV e funzione delle proteine da esse codificate ORF
Funzione
E1
Mantiene il genoma virale in forma plasmidica. - Ha attività ATPasica e 3’-5’-elicasica. - Lega sequenze ricche in AT situate all’origine della replicazione per iniziare la sintesi e l’allungamento del DNA virale. Il legame al DNA è debole e viene rafforzato da un legame con E2. - Interagisce con Ini 1/hSNF5 per innescare la replicazione virale. - Interagisce con RPA e hsp40 dell’ospite per far progredire la forca di replicazione. - Interagisce con E-Cdk2 per favorire un’efficiente replicazione virale.
E2
Codifica per proteine chiave nella regolazione del genoma virale che svolgono sia funzione di attivazione che di repressione sulla trascrizione del DNA. - Se espresso a bassi livelli attiva la trascrizione a partire dai promotori precoci. Se espresso, invece, ad alti livelli reprime la trascrizione bloccando il legame dei fattori di trascrizione. - E2TA interagisce con Brd4 per favorire l’inclusione del genoma virale nel nucleo della cellula ospite, il quale si divide e si mantiene in forma episomale. - E2TA spiazza i fattori di trascrizione Sp1 e TFIID dal promotore di E6 se espresso a bassi livelli. continua ➞
*Carc. della cervice:Carc. della cervice 2^ bozza
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continua Tabella 2 - E8E2 reprime la trascrizione a grandi distanze. - La perdita di E2 è uno step fondamentale della trasformazione neoplastica. E3
Funzione sconosciuta
E4
Codifica per una proteina tardiva, il cui ruolo preciso è ignoto, ma che si ritiene causare le caratteristiche modificazioni citopatiche virali (induce il collasso della citocheratina citoplasmatica fino alla formazione dell’alone citoplasmatico: coilocitosi).
E5
Ruolo trasformante nelle fasi iniziali dell’infezione. - Predispone la cellula a successivi stimoli mitogeni. - Associata ad EGFr determina un aumento del signalling recettoriale e dell’aumento dell’attività delle MAP chinasi. - In sua presenza le cellule mostrano bassi livelli di HLA A e B superficiali.
E6
Codifica per proteine in grado di degradare la p53, inducendo quindi la proliferazione e la trasformazione cellulare. - Si associa a diverse proteine cellulari per immortalizzare (PDZ e hTERT) e trasformare (p53) la cellula ospite. - Interferisce con la regolazione del ciclo cellulare mediata da p53. - Si associa con E6AP facilitando il rapido turnover di p53. - Interagisce con proteine contenenti domini PDZ alterando il signalling cellulare e l’adesione cellula-cellula. - Può attivare la telomerasi hTERT attraverso il legame a myc e Max causando instabilità cromosomica e senescenza cellulare.
E7
Codifica per una proteina trasformante dell’HPV, si lega alla proteina retinoblastoma (RB) determinando una disattivazione degli oncosoppressori a cui segue una eventuale trasformazione. - Ha soprattutto attività trasformante. - Lega e degrada proteine della famiglia Rb. - Lega Rb in forma ipofosforilata, causando il rilascio di E2F e modificando il normale controllo del ciclo cellulare. - Interagisce con HDAC (class I histone deacetylases) inducendo il rimodellamento della cromatina e l’ingresso della cellula in fase S. Questa interazione è fondamentale per il ciclo virale stesso. - Può legare direttamente E2F1 aumentando l’attività di trascrizione. - Può legare le cicline A/cdk2 ed E/cdk2 favorendo la fosforilazione di Rb. - Interagisce con p27kip1 e p21cip1 inibendo il loro ruolo inibitorio sul ciclo cellulare. - Induce instabilità genomica ed anomalie numeriche a livello dei centrosomi. continua ➞
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continua Tabella 2 E8
Funzione sconosciuta
L1
Codifica per la proteina L1, proteina maggiore del capside comune a tutti gli HPV, contro la quale viene prodotta la maggior parte degli anticorpi. - Lega il DNA virale. - È espressa solo in cellule infettate in modo produttivo.
L2
Codifica per la proteina L2, proteina minore del capside, che presenta un’elevata variabilità tra i differenti tipi di HPV. - Ha principalmente ruolo strutturale. - Può formare un complesso con le chaperonine Hsc70 e Hsp40 per la traslocazione nucleareel virus. - Recluta i genomi virali localizzandosi a livello del nucleo per interazione sui domini ND10. - Può esplicare alcune funzioni regolatorie come il legame a recettori secondari e l’incapsidazione selettiva del DNA nel capside, aumentando così l’infettività dei virioni.
2.3 Ciclo replicativo di HPV Il ciclo replicativo di HPV è strettamente legato allo stato di differenziazione delle cellule infettate (Fig. 4).
Fig. 4. Sezione della epitelio cervicale pluristratificato; l’infezione avviene nello strato basale dell’epitelio a seguito di microlesioni della mucosa
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2.3.1 Stadi dell’infezione L’infezione iniziale richiede l’ingresso di una particella virale in una cellula staminale epiteliale localizzata sulla membrana basale. La modalità d’ingresso del virus è ancora poco chiara: potrebbe esistere un recettore di superficie che ne favorisce l’attacco, oppure potrebbe essere indispensabile la presenza di eparina, un’altra ipotesi prevede un lento processo endocitotico mediato da vescicole rivestite di clatrina [44-46]. Il virus ha un tropismo molto ristretto per l’epitelio squamoso pluristratificato e si replica pertanto solo nelle cellule epiteliali in differenziamento della cute e delle mucose, come dimostra il fatto che le funzioni replicative del virus, come la sintesi del DNA virale, la produzione di proteine capsidiche e il montaggio dei virioni, hanno luogo unicamente a livello di cheratinociti in differenziamento terminale. Le fasi iniziali della replicazione (adsorbimento a recettori cellulari, penetrazione e scapsidazione) sono poco conosciute, date le difficoltà di propagazione del virus, che avviene solo in colture organotipiche che mimano in vitro la struttura dell’epidermide. L’infezione virale inizia con il legame del virione alla superficie della cellula bersaglio, in seguito a piccole ferite o traumi che permettano l’esposizione dello strato basale dei cheratinociti al virus. I recettori utilizzati dal virus per prendere contatto con le cellule e penetrare all’interno di esse non sono stati ancora chiaramente identificati. Studi di legame con virioni marcati radioattivamente hanno dimostrato che gli HPV possono legarsi non solo a cellule epiteliali squamose, ma anche ad altri tipi di cellule. Questo indica che lo spiccato tropismo degli HPV per i cheratinociti non è dovuto alla specificità del recettore. L’integrina α6 è stato il primo candidato come possibile recettore degli HPV, secondo studi che utilizzano le Virus Like Particles (VLP). Le VLP si legano all’integrina e l’uso di anticorpi diretti contro α6 blocca il legame del virus alla cellula. Il ruolo di questa integrina come recettore è stato confermato anche da studi in cui, su linee cellulari dove l’espressione recettoriale era stata soppressa, veniva fatta esprimere unicamente α6; questo era sufficiente per rendere possibile l’ingresso del virus nella cellula. L’integrina α6 coopera con le subunità β1 e β4 dell’integrina β, situate sulla superficie cellulare. L’integrina α6β1 viene espressa su un’ampia varietà di cellule, tra cui piastrine, linfociti e cellule endoteliali; α6β4, invece, si trova su
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cellule epiteliali, mesenchimali e neuronali. Gli HPV si possono legare ad entrambi i tipi di cellule, ma preferenzialmente a quelle con profilo α6β4. L’espressione di queste integrine non risulta però necessaria per l’ingresso del virus nelle cellule, come dimostra il fatto che alcuni HPV entrano in cellule prive di questi recettori. È stato osservato che tali virus, a livello di cheratinociti, si legano ad eparina e glicosaminoglicani, successivamente avviene il legame al recettore e l’internalizzazione. Le particelle virali internalizzate sono trasportate in fagosomi, processo che può essere inibito da citoclasina B e taxolo; questo implica un possibile coinvolgimento di microtubuli e microfilamenti, inibiti da tali sostanze. Nonostante il legame alla membrana plasmatica e l’ingresso del virione in grandi vescicole citoplasmatiche possa essere monitorato con un microscopio elettronico, non si osservano virioni completi nel nucleo delle cellule infettate, mentre si riscontra un segnale molto forte per proteine L1 e L2. Questa osservazione indica che la scapsidazione del virione si verifica nel citoplasma e che le proteine L1 e L2 migrano nel nucleo grazie a segnali di localizzazione nucleare. Il ciclo replicativo del virus può essere suddiviso in uno stadio non produttivo o precoce e uno produttivo, più tardivo, correlati allo stadio differenziativo della cellula ospite. La fase non produttiva implica lo stabilirsi del genoma virale come plasmide nucleare a livello delle cellule dello strato basale dell’epitelio. Le cellule appartenenti a questo strato sono costituite da cellule staminali in continua divisione, che rappresentano un serbatoio per gli strati superiori. Dato che la cellula basale è l’unica cellula dell’epitelio in grado di dividersi, il virus deve realizzare un’infezione a questo livello per indurre una lesione persistente, ma l’espressione dei geni tardivi, la sintesi del DNA e delle proteine capsidiche, avvengono solo nelle cellule in differenziamento terminale degli strati superiori. L’infezione delle cellule basali porta all’attivazione della cascata di espressione dei geni virali, che permette la produzione di 20-100 copie per cellula di DNA virale in forma episomale; questo viene mantenuto stabilmente, replicandosi in sincronia con il DNA cellulare. A livello basale l’espressione dei geni virali è limitata a specifici geni precoci; alcuni di questi, in particolare E5, E6, E7, stimolano la cellula infettata a proliferare e ad espandersi lateralmente. Un gruppo di cellule figlie (in cui le copie di DNA virale sono state equamente ripartite, assicurando l’infezione persistente delle cellule staminali dell’epidermide) abbandona la membrana
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basale per stratificare e differenziare, rendendo possibile l’ingresso del virus negli strati superiori dell’epidermide. A questo livello inizia la fase tardiva del ciclo replicativo degli HPV, in assenza di replicazione del DNA virale, con l’espressione di geni virali tardivi e la traduzione di proteine strutturali. Successivamente, nelle cellule differenziate, viene completamente perso il controllo del numero di copie genomiche e il DNA è amplificato fino ad avere migliaia di copie per cellula. Infine, negli strati superiori dell’epitelio, si verifica l’assemblaggio e il rilascio nell’ambiente extracellulare di particelle virali mature (Fig. 5) [47, 48]. La trascrizione dei geni virali è un processo complesso per la presenza di promotori multipli, di meccanismi di “splicing” alternativi e per la produzione diversificata di mRNA nelle differenti linee cellulari. Come gli herpesvirus e gli adenovirus, gli HPV utilizzano, per la trascrizione, le RNA polimerasi DNA-dipendenti della cellula e pertanto devono iniziare la trascrizione nel nucleo della cellula ospite, dove si trovano gli enzimi necessari. Il genoma degli HPV viene trascritto in due tempi, precoce e tardivo, come riportato in Figura 6. Nella produzione dei diversi tipi di mRNA sono coinvolti promotori multipli; in particolare si distingue un promotore precoce ed uno tardivo. Nel caso di HPV-31, P97 è il promotore maggiore, attivo in cellule differenziate in maniera non terminale; questo promotore dirige l’espressione di E6 e E7 e corrisponde a P97 di HPV-16 e P105 di HPV-18.
Fig. 5. Ciclo vitale degli HPV. Modificata da [45], con autorizzazione di Macmillan Publishers Ltd
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Fig. 6. Meccanismo di replicazione e trascrizione degli HPV
La regione regolatrice LCR contiene diversi “enhancer” costitutivi, con specificità di tessuto e di tipo cellulare che possono essere indotti da un’ampia varietà di molecole. Tali elementi sono essenziali per l’inizio dell’espressione genica virale e per il mantenimento della latenza. Un importante regolatore della trascrizione è il prodotto del gene E2, descritto successivamente. La regolazione dell’espressione dei geni virali è controllata da diversi fattori di trascrizione cellulari, che si legano all’LCR. Tra questi ricordiamo AP1 (activator protein-1), YY1 (yin yang-1), alcuni membri della famiglia degli octamer binding factor, NF-1 (nuclear factor-1), elementi responsivi ai glucocorticoidi e Sp1 [49]. Le prime proteine virali ad essere espresse sono i fattori di replicazione E1 e E2; esse formano un complesso che si lega a sequenze all’origine della replicazione virale, che recluta la polimerasi cellulare e le proteine accessorie che mediano la replicazione [50]. La proteina E1 svolge un ruolo importante nella fase plasmidica dell’infezione. Le sue dimensioni variano dai 593 (HPV-48) ai 681 (HPV-10) aminoacidi, con un peso molecolare compreso tra 67,5 kD (HPV-47) a 76,2 kD (HPV-10). Viene codificata a partire dall’ORF E1, che è la più grande e meglio conservata ORF tra i diversi sottotipi degli HPV, a dimostrazione del suo ruolo cruciale durante la replicazione virale, svolto in collaborazione con E2. La proteina svolge un’attività ATPasica e 3’-5’elicasica ed è necessaria per l’inizio della sintesi e per l’allungamento del DNA virale, in quanto riconosce regioni ricche di AT situate all’origine della replicazione. Studi di
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mutagenesi hanno dimostrato che E1 è indispensabile per il mantenimento del DNA in forma plasmidica e, in assenza di E1, il genoma virale può essere espresso solo in forma integrata. E1 ha un’organizzazione strutturale tripartita: una regione N-terminale ad attività non ben definita, uno spaziatore di lunghezza variabile e una zona C-terminale correlata all’attività ATPasica ed elicasica. Il dominio di legame al DNA è stato caratterizzato attraverso studi di cristallizzazione: è costituito da un’estesa ansa e da una regione ad α-elica, importanti per il riconoscimento del DNA. E1 interagisce, oltre che con E2, con numerose altre proteine cellulari, quali la subunità p180 della DNA polimerasi a cellulare e recluta il macchinario di replicazione cellulare a livello del sito di origine della replicazione del genoma virale. E1 lega inoltre il complesso ciclina E-Cdk2, specifico della fase S del ciclo cellulare, contribuendo a un’efficiente replicazione virale in associazione alla replicazione cellulare. L’interazione E1-Ubc9 è importante per l’accumulo intra nucleare di E1, dovuto all’aggiunta di un gruppo SUMO su E1 da parte di Ubc9. La proteina E2 è un importante regolatore della replicazione e della trascrizione virale; la proteina è conservata tra le diverse sottofamiglie degli HPV, ha un peso molecolare di 50 kD ed è attiva sotto forma di dimeri. Presenta diversi domini: nella regione C-terminale si trova una sequenza che contiene specifici domini di legame al DNA; è inoltre presente una sequenza di legame a E1 [51]. Nella porzione N-terminale della proteina è situato un dominio di transattivazione, formato da una regione ad elica affacciata ad una zona a foglietti β; questi due domini sono separati da una regione non strutturata interna che, al contrario, non è ben conservata tra i diversi HPV né per quanto riguarda le dimensioni né per la composizione aminoacidica. E2, così come E1, è espressa a partire da un promotore precoce, svolgendo pertanto un ruolo attivo nel controllare il numero di copie di genoma virale nelle cellule indifferenziate. E2 lega il DNA come dimero in modo specifico a livello della sequenza consenso palindromica ACCN6GGT. Quattro di queste sequenze sono presenti nella regione URR e tre fiancheggiano le regioni che riconoscono E2 presenti all’origine della replicazione. E2 è importante anche nel regolare la trascrizione virale a livello di promotori precoci ed esiste in due forme: a piena lunghezza, E2TA, con attività di attivatore o repressore della trascrizione, e troncata, E2TR e E8E2, repressori della trascrizione. Il ruolo di E2TA nel mantenimento dei plasmidi
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virali è dovuto alla sua capacità di legare tali plasmidi ai cromosomi durante la mitosi cellulare, in modo tale che il genoma virale sia racchiuso nel nucleo cellulare quando questo si riforma durante la telofase. I siti di legame per E2 sono localizzati vicino ai siti di legame per i fattori di trascrizione cellulari che attivano i promotori precoci. A bassi livelli, E2 si lega a specifiche sequenze di riconoscimento e attiva i promotori precoci, mentre a concentrazioni elevate reprime la trascrizione bloccando il legame dei fattori di trascrizione [52]. Il ruolo di E2 come repressore è molto importante nel regolare i livelli di E6 e di E7, le due principali oncoproteine virali; la sua perdita è il primo stadio di trasformazione neoplastica. Ci sono due principali meccanismi di repressione messi in atto da E2: E2TA spiazza i fattori Sp1 e TFIID dal promotore di E6, mentre E8E2 è in grado, attraverso meccanismi non ancora del tutto chiari, di reprimere la trascrizione a grandi distanze [53]. Le ultime fasi del ciclo replicativo degli HPV sono caratterizzate dalla trascrizione dei geni virali tardivi L1, L2 ed E4, anche se questo gene è localizzato all’interno della regione precoce. Questi geni sono sotto il controllo di un promotore specifico, situato all’interno dell’ORF di E7 degli HPV che danno infezioni a livello genitale, attivo solo in cheratinociti differenziati. Questo promotore, a differenza del precoce, non viene modulato negativamente da E2 e quindi presenta elevati livelli di espressione in cellule differenziate. Lo stretto legame tra l’espressione di geni tardivi e lo stadio di differenziazione degli epiteli indica che questo processo è controllato da diversi fattori cellulari specifici, la cui modalità d’azione non è ancora stata chiarita completamente [54]. Il ruolo della proteina E4 non è del tutto chiaro: infatti, nonostante sia espressa ad alti livelli in tessuti infettati e non sia rilevabile all’interno delle particelle virali mature, non si sa quale sia la sua funzione nel ciclo vitale del virus. Studi di mutagenesi effettuati sul gene E4 in BPV-1 evidenziano che E4 non è essenziale alla replicazione o alla trasformazione virale. È stato osservato che E4 di HPV16 svolge un ruolo nell’infezione produttiva; la proteina si trova associata al citoscheletro di citocheratina, di cui induce il collasso, che presumibilmente contribuisce alla liberazione della progenie virale. Non si è tuttavia osservato il collasso di filamenti intermedi di cheratina in cellule esprimenti E4 di HPV-1, mettendo così in discussione la generalità di questi effetti. I dati attualmente disponibili sono compatibili con la possibilità che E4 potrebbe essere coinvolta nella replicazione del DNA virale, attraverso l’alterazione dell’ambiente
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extracellulare in modo tale da favorire i processi di sintesi o il rilascio del virus [55]. Durante l’assemblaggio del virus, la proteina L2 si accumula in strutture nucleari dette corpi PML e recluta L1 in questi domini; è stato suggerito che i corpi PML possano essere i siti di replicazione del DNA del Papillomavirus e che le proteine di replicazione si accumulino presso questi siti per facilitare il packaging virale. Sebbene le virus-like particle possano assemblarsi anche in assenza di L2, si ritiene che la proteina L2 incrementi il packaging e l’infettività. Per essere efficace, il virus deve fuoriuscire dalle cellule infettate e sopravvivere all’esterno della cellula prima della re-infezione. I Papillomavirus non hanno ciclo litico e non vengono rilasciati finché le cellule infettate non raggiungono la superficie epiteliale. Di conseguenza gli antigeni virali non vengono esposti sin quando le particelle virali non raggiungono lo strato superficiale [56]. Inoltre, l’espressione delle proteine virali può inibire l’espressione dei marker di differenziamento, prevenendo la formazione di un normale strato corneo; è stato anche suggerito che la proteina virale E4 possa contribuire direttamente all’uscita del virus negli strati superiori, disturbando l’integrità della cheratina e danneggiando l’assemblaggio dello strato corneo. Per la produzione di virioni infettivi, il Papillomavirus deve amplificare il suo genoma e impaccarlo nelle particelle infettive; questo processo si verifica a seguito di un’incrementata attività del promotore tardivo, che è dipendente dallo stato differenziativo delle cellule epiteliali infettate. Si ritiene che il promotore late, localizzato all’interno dell’ORF di E7, quando up-regolato, incrementi l’espressione delle proteine coinvolte nella replicazione del DNA virale (E1, E2, E4, E5), senza direttamente modificare il livello di espressione di E6 ed E7, necessarie per l’ingresso in fase S. L’amplificazione del genoma virale inizia in un ristretto numero di cellule del compartimento proliferativo e richiede l’espressione di tutti i prodotti early compresi E4 ed E5, anche se il loro effettivo ruolo nella replicazione non è ancora completamente chiarito. Il legame di E2 alla regione URR è necessario per la replicazione del DNA virale e causa il reclutamento della DNA elicasi E1 all’origine di replicazione del DNA virale. Durante tutto il ciclo vitale del virus, il differente livello di proteine virali è controllato dall’uso dei promotori e dalla selezione dei diversi siti di splicing. Tuttavia il meccanismo molecolare che porta all’attivazione del promotore tardivo e all’upregolazione dell’espressione di E1/E2 non è ancora chiaro; potrebbe
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essere possibile che questo promotore sia costitutivamente attivo in tutte le fasi del ciclo produttivo. Il modello attuale suggerisce che un modesto incremento nell’attivazione del promotore durante la differenziazione possa portare ad un incremento nei livelli di E1 ed E2 (anche di E4 ed E5) e conseguentemente ad un aumento del numero di copie del genoma virale. I nuovi genomi sintetizzati potrebbero servire come templati per ulteriore espressione di E1 ed E2, che potrebbero facilitare un’addizionale amplificazione del genoma virale e in ciclo di ulteriore espressione di proteine di replicazione E1/E2. Poche informazioni sono note riguardo l’assemblaggio e il rilascio degli HPV. I virioni si osservano solo nello strato granuloso dell’epitelio, mai in strati inferiori e senza alcun effetto citolitico.
2.3.2 Mantenimento del genoma virale Successivamente all’ingresso del virus nella cellula, facilitato dall’assenza di envelope e dalla rottura dei ponti disolfuro tra i capsomeri [57], il genoma dell’HPV si stabilizza in forma extracromosomiale all’interno del nucleo e si replica sino a raggiungere approssimativamente 10-200 copie per cellula. Quando la cellula infettata si divide, il DNA virale viene distribuito ad entrambe le cellule figlie, una delle quali migra verso lo strato spinoso e inizia un programma di differenziazione, mentre l’altra permane nello strato basale senza essere lisata, poichè la produzione di virioni dell’HPV è ristretta allo strato soprabasale, costituendo così il reservoir di DNA virale per ulteriori divisioni cellulari. Nelle cellule basali il pattern di espressione dei geni virali non è ben definito, tuttavia si ritiene che le proteine virali E1 ed E2 vengano espresse con la specifica funzione di mantenere il DNA virale in forma episomale [58] e di favorire la corretta segregazione dei genomi durante la divisione cellulare [59]. Per quanto concerne le proteine E6 ed E7, nelle cellule a livello della membrana basale, non è ancora del tutto chiara la loro funzione in questa fase del ciclo vitale del virus (Fig. 7).
2.3.3 Fase proliferativa In un epitelio non infettato, le cellule basali migrano nello strato soprabasale e vanno incontro al processo di differenziazione termi-
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a
Packaging Viral DNA
L2, L1
Viral DNA
Rilascio del virus
E4 E4/L1
E4 E7/E4 S-phase competent
p670
E6, E7, (E1, E2 E4, E5)
p97
E4, (E2, E1, E5)
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E7
Replicazione del genoma virale Proliferazione Mantenimento del genoma virale
b
Fig. 7. Livello di espressione dei geni virali nei vari strati dell’epitelio pluristratificato della cervice uterina (a). In rosso viene indicata l’espressione dei geni necessari per l’ingresso in fase S; in verde l’incremento delle proteine di replicazione virale, che favoriscono l’amplificazione del genoma. Nello strato più superficiale lo splicing alternativo porta alla trascrizione delle proteine virali L1 e L2 (giallo) (b). Le cellule nello strato basale dell’epitelio sono in fase S. L’amplificazione del genoma virale inizia in queste cellule ma cessa quando queste perdono la capacità di esprimere le proteine di fase S. Sebbene il genoma virale si può rilevare per tutto lo strato superficiale dell’epitelio, le cellule che supportano attivamente l’amplificazione del genoma sembrano essere confinate alla regione in cui l’espressione di E7 coincide con elevati livelli di E4 e probabilmente con un incremento di E1 ed E2. Modificata da [56a], con autorizzazione di Elsevier
nale. Le modificazioni includono i cross-linking tra i filamenti intermedi di cheratina, la formazione di un rivestimento corneo, la secrezione di lipidi; tutte proprietà che permettono alla superficie epiteliale di formare una barriera [60]. Viceversa, durante un’infezione da HPV, le proteine oncogene E6 e E7 agiscono sul check point del ciclo cellulare legandosi alle proteine regolatorie del ciclo cellulare [61]; questo implica un ritardo della normale differenziazione terminale [62]. Le proteine E6 e E7, nelle lesioni cancerose, sono codificate, sotto un promotore virale precoce p97, in un messaggero bicistronico. L’associazione di E7 con le proteine della famiglia delle proteine pocket , quale pRb, è ben caratterizzata. pRb è un regolatore negativo del ciclo cellulare, che normalmente previene l’ingresso in fase S associandosi con la famiglia di fattori trascrizionali E2F. E7 legando-
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si a pRb spiazza E2F, indipendentemente dalla presenza di fattori di crescita esterni, e comincia l’espressione delle proteine necessarie alla replicazione del DNA. Inoltre E7 può associarsi con altre proteine coinvolte nella proliferazione cellulare, tra cui le deacetilasi istoniche, i componenti del complesso di trascrizione AP1 e le chinasi ciclina-dipendenti inibitorie di p21 e p27 (Fig. 8) [63]. Per l’ingresso della cellula in fase S è necessaria l’espressione della ciclina E, che è nelle cellule infettate il risultato dell’espressione di E7 e della distruzione del complesso pRb/E2F, tuttavia nelle cellule epiteliali in differenziamento possono essere presenti elevati livelli di chinasi cicline-dipendenti inibitorie che portano alla formazione di complessi inattivi contenenti E7, ciclina E e p21/p27. Pertanto in un’infezione, la capacità di E7 di stimolare la progressione in fase S è limitata a quel sottogruppo di cellule differenziate con bassi livelli di p21/p27, oppure con un espressione di E7 tanto elevata da superare il blocco di ingresso in fase S. L’azione di E6 si esplica con diversi meccanismi [64]. La proteina virale E6 complementa il ruolo di E7, si ritiene infatti che prevenga il processo apoptotico come risposta ad un ingresso in fase S mediato da E7 e quindi non programmato. E6 può inoltre associarsi con p53, determinandone l’ubiquitinazione [65] e la conseguente degradazione; pertanto comporta l’inattivazione della soppressione della crescita e/o dell’apoptosi mediata da p53. E6 può anche legarsi a proteine pro-apoptotiche quali Bak e Bax. Come conseguenza la presenza di E6 è considerata un fattore predisponente nello sviluppo di un carcinoma asso-
Fig. 8. Meccanismo d’azione delle proteine E6 e E7 sul ciclo cellulare. Il legame di E7 a pRB determina il rilascio del fattore E2F1 che attiva la trascrizione dei geni cellulari implicati nella sintesi del DNA e nella progressione del ciclo cellulare in fase S. E6 media tramite il legame con E6-AP l’ubiquitinazione di p53 che viene quindi degradata dal proteosoma 26S. Modificata da [63]
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ciato ad HPV, poiché permette l’accumulo di errori casuali nel DNA della cellula ospite che non vengono riconosciuti. La proteina E6 dei genotipi di HPV ad alto rischio può anche stimolare la proliferazione cellulare indipendentemente da E7 attraverso il suo dominio carbossi-terminale che lega PDZ. Il legame E6-PDZ è sufficiente a mediare la proliferazione delle cellule soprabasali [66] e quindi contribuire allo sviluppo di tumori metastatici alterando la normale adesione cellulare.
2.3.4 Stato fisico del genoma virale Il DNA virale può essere presente in una forma circolare libera extracromosomica, chiamata “episoma”, o essere integrato nel genoma della cellula ospite. In alcuni casi sono stati ritrovati nello stesso campione di tessuto sia il DNA virale integrato sia la forma episomale. L’integrazione prevede che il DNA si linearizzi; questo processo avviene frequentemente a livello del gene E2. E2 è un regolatore negativo (inibitore) della trascrizione dei geni E6 ed E7. L’assenza del prodotto del gene E2 comporta un incremento di espressione proprio di quei geni precoci che sono i principali responsabili del potenziale oncogeno degli HPV. L’interazione HPV-cellula realizza quadri diversi in funzione del differente stato replicativo virale: – infezione allo stato latente; – infezione produttiva; – integrazione del DNA virale in quello cellulare. Nella fase iniziale dell’infezione, ovvero quando il virus colonizza le cellule basali e parabasali dell’epitelio, il genoma virale va incontro alla replicazione in forma episomale essendo presente come frammento extracromosomico di DNA circolare; in tale fase, la replicazione episomale o precoce, responsabile dello stato latente dell’infezione, conduce alla formazione di una sola copia di DNA virale per cellula ospite, con conseguente impossibilità di rilevazione del virus, in quanto la quota risulta inferiore alla soglia di sensibilità dei test più comunemente utilizzati. Le cellule infette con virus funzionalmente inattivo (fase di latenza), non mostrano alcuno dei classici effetti citopatici virali caratteristici di uno stato replicativo virale in fase produttiva. Il significato dell’infezione latente è ancora poco conosciuto. Non è noto per quanto tempo l’HPV possa mantenere tale
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stato o in quale percentuale di casi l’infezione latente possa progredire in infezione produttiva. Le condizioni che favoriscono tale viraggio sono ancora incerte; tuttavia, emerge con sempre maggiore chiarezza il ruolo che lo stato immunologico svolge sull’interazione viruscellula (immunodepressione congenita o acquisita, terapie immunosoppressive, gravidanza). Il passaggio dallo stato di latenza episomale a quello produttivo è favorito da una condizione di cosiddetta “permissività cellulare”. Nella “cellula permissiva” il virus si moltiplica realizzando un ciclo litico-citopatico. Si assiste, quindi, alla penetrazione dell’HPV nel nucleo cellulare, laddove, una volta perso l’involucro capsulare, il suo DNA viene trascritto nei messaggeri, cui segue la produzione delle proteine precoci caratteristiche della trasformazione. In tali condizioni il virus si moltiplica come entità autonoma mentre l’attività del DNA cellulare viene inibita. La cellula, nonostante la presenza delle proteine trasformanti, non è in grado di svolgere alcuna attività di trasformazione e progressivamente si avvia alla morte. Nella “cellula non permissiva” si realizzano le prime fasi del ciclo virale che conducono alla sintesi delle proteine precoci. Il virus diviene lineare, in quanto scisso in un punto preciso del DNA, e si integra stabilmente nel genoma della cellula ospite diventando un gene soprannumerario; la sintesi delle proteine precoci non è seguita da quella delle proteine tardive a causa di un’inibizione della loro espressione. Il virus non va incontro pertanto a replicazione e scompare come entità autonoma. Le cellule trasformabili si caratterizzano quindi per la capacità di inibire la sintesi delle proteine capsidiche o proteine tardive. L’atto fisico dell’integrazione generalmente spezza il genoma di HPV a livello della regione E1/E2 mentre mantiene integra la regione E6/E7. La proteina E2 codificata dagli HPV oncogeni inibisce l’espressione dei geni E6 ed E7 in vitro e la proliferazione nelle cellule del carcinoma cervicale in vivo. Pertanto la perdita funzionale del gene E2 e della proteina da esso codificata sembra portare ad una incrementata trascrizione delle ORFs E6 ed E7, con una conseguente over-espressione delle proteine da esse prodotte. Il sito cromosomico in cui si integra il DNA di HPV è altamente variabile e non è stato identificato nessun locus preferenziale specifico per l’integrazione. Comunque, in alcune linee cellulari infettate da HPV e nei cheratinociti umani immortalizzati, il DNA virale integrato è stato mappato entro “siti fragili”, che sono regioni cromosomiche particolarmente suscettibili all’integrazione di DNA esogeno
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o di agenti mutageni. L’integrazione del DNA di HPV può avvenire anche nelle immediate vicinanze di oncogeni cellulari, quali C-myc e N-myc. L’interruzione ed il riarrangiamento di queste regioni potrebbe portare ad una instabilità genomica o all’attivazione di oncogeni cellulari e potrebbe conseguentemente promuovere la progressione tumorale.
2.4 Meccanismi patogenetici associati allo stato fisico del genoma virale I meccanismi patogenetici degli HPV differiscono da quelli di altre famiglie virali in quanto l’infezione richiede cellule epiteliali proliferanti, situate nello strato basale dell’epidermide e delle mucose. Il ciclo replicativo completo del virus, con produzione di una progenie virale matura è tipica delle infezioni da HPV a basso o medio rischio o delle lesioni a basso grado degli HPV ad alto rischio, in cui il genoma degli HPV permane in forma plasmidica. Invece, nelle lesioni ad alto grado indotte dall’infezione da HPV ad alto rischio, quali HPV-16 e HPV-18, avviene l’integrazione del DNA virale nel DNA cellulare, con conseguente mancata produzione di una progenie virale completa (Fig. 9). Tale integrazione è determinante nei meccanismi di trasformazione e immortalizzazione cellulare, poiché si verifica a livello della ORF E2, con conseguente perdita dell’azione repressiva di E2 sulle oncoproteine virali E6 e E7, che svolgono un ruolo fondamentale nei meccanismi di oncogenesi [67]. Pertanto nelle cellule dei tumori indotti da HPV ad alto rischio, i geni E1, E6 e E7 sono integrati e funzionali, con conseguente stimolo alla proliferazione cellulare, mentre i geni E2 ed E4 vengono persi o non sono trascritti. Oltre alle proteine E6 e E7, anche E5 è coinvolta, in misura minore, nei processi di stimolazione della proliferazione. Verranno ora descritte in modo maggiormente dettagliato queste proteine virali. Il gene E5 degli HPV codifica per una proteina altamente idrofobica di circa 80 aminoacidi, localizzata a livello delle membrane endosomali, dell’apparato di Golgi e della membrana plasmatica. Essa può avere un ruolo trasformante nelle fasi iniziali dell’infezione, durante le quali il virus è presente in forma episomale, predisponendo la cellula a successivi stimoli mitogeni. E5 contrasta i mecca-
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nismi di inibizione di crescita, formando un complesso con il recettore per EGF, per il fattore di crescita derivato dalle piastrine e per il CSF-1 (Colony Stimulating Factor); inoltre la proteina E5 si lega a una subunità di 16 kD dell’ATPasi vacuolare, interferendo con l’acidificazione degli endosomi. Vengono così inibite le variazioni di pH, con conseguente aumento del ricambio del recettore di EGF a livello della membrana plasmatica che porta ad un aumento del segnale dato dal complesso EGFR/EGF. E5 svolge molteplici funzioni: attiva la trasduzione del segnale per la mitosi tramite fattori di trascrizione come c-jun e c-fos, inattiva la p21 e previene inoltre l’apoptosi in seguito a danno al DNA. Tuttavia il suo ruolo nei processi di trasformazione è secondario, in quanto la sua espressione viene persa in seguito all’integrazione del genoma virale [47]. Un ruolo di primaria importanza nei processi di trasformazione è svolto dalle oncoproteine virali E6 e E7, grazie alla capacità di agire sui meccanismi di regolazione del ciclo cellulare. La sola espressione di E6 e E7, soprattutto se concomitante, degli HPV a elevato rischio è sufficiente a indurre l’immortalizzazione di cheratinociti
Fig. 9. Meccanismo di integrazione del DNA virale in quello cellulare. Modificata da [47], con autorizzazione di Macmillan Publishers Ltd
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primari umani in coltura. Queste linee cellulari non sono tuttavia sufficienti per innescare il processo di tumorigenesi in topi nudi e richiedono altri eventi, come ad esempio la presenza dell’oncogene Ras attivato. Queste osservazioni testimoniano che, in vivo, è necessario un processo a più fasi per favorire la progressione tumorale indotta dagli HPV. A differenza degli HPV ad alto rischio, E6 e E7 dei Papillomavirus umani a basso rischio sono incapaci di immortalizzare cheratinociti in vitro, nonostante possano prolungarne il tempo di vita. Il gene E6 è uno dei primi ad essere espresso durante l’infezione dei Papillomavirus. Codifica per una proteina costituita da 150 aminoacidi che presenta due domini Cys-X-X-Cys; la proteina E6 è distribuita nel nucleo e nel citoplasma, è priva di attività enzimatica intrinseca e, per esercitare la sua funzione, deve legarsi a diverse proteine cellulari [44]. La sua espressione porta alla trasformazione di cellule NHI 3T3 (fibroblasti murini) e all’immortalizzazione di cellule epiteliali umane della mammella [68]. L’efficiente immortalizzazione di cheratinociti umani richiede invece la coespressione di E6 e E7. I meccanismi d’azione di questa proteina virale sono stati chiariti soprattutto grazie a studi sull’interazione con p53. p53 è uno dei primi geni oncosoppressori ad essere stato caratterizzato. Svolge un ruolo di primaria importanza nel regolare l’espressione di proteine coinvolte nel controllo del ciclo cellulare; viene attivata in seguito a danno al DNA e induce l’espressione di p21, un inibitore delle chinasi dipendenti dalle cicline, con conseguente blocco del ciclo cellulare e induzione di apoptosi. Generalmente uno dei meccanismi di risposta dell’organismo ad un’infezione virale è l’innesco di apoptosi, utile a limitare la diffusione dell’infezione virale. Molti virus, tra i quali gli HPV, hanno evoluto un sistema di evasione dall’apoptosi, contribuendo così alla progressione tumorale. Per bloccare l’attività pro-apoptotica di p53 e rendere possibile la progressione del ciclo cellulare, E6 lega p53 attraverso l’ubiquitina ligasi E6AP, formando un complesso ternario. Questo porta all’ubiquitinazione di p53 da parte di E6AP e alla sua successiva degradazione attraverso il sistema del proteosoma 26S, con conseguente diminuzione della vita media di p53 nei cheratinociti, da diverse ore a meno di 20 minuti [69]. E6 regola p53 anche indirettamente, associandosi a p300/CBP, un coattivatore di p53. In seguito all’inattivazione funzionale p53, vengono deregolati i principali meccanismi di controllo del ciclo cellulare in G1/S e G2/M, con conseguenti anomalie a livello della duplicazione e della struttura dei cromosomi.
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È interessante notare che il legame di E6 a E6AP ha come conseguenza l’ubiquitinazione di E6AP stessa [70]. Quindi E6 potrebbe regolare i livelli dei substrati naturali di E6AP attraverso la sua degradazione. Alcune delle proteine bersaglio di E6AP appartengono alla famiglia Src delle tirosine chinasi, che interagiscono con diverse cascate di trasduzione del segnale. E6 presenta anche un’attività indipendente da p53, importante per l’immortalizzazione di cellule umane. Sono state identificate proteine E6 di HPV-16 incapaci di degradare p53, ma che immortalizzano cellule epiteliali mammarie umane. Viceversa, altri mutanti mantengono la capacità di degradare p53, ma non sono in grado di immortalizzare le cellule [71]. Questi dati dimostrano che per l’immortalizzazione cellulare è importante l’interazione di E6 con altre proteine, oltre a p53. Ad esempio E6 interagisce con proteine appartenenti alla famiglia delle PDZ; queste presentano un dominio conservato che si trova spesso in proteine situate nelle aree di contatto tra le cellule, come le giunzioni strette tra le cellule epiteliali o le giunzioni sinaptiche delle cellule neurali. Le proteine PDZ sono importanti per il mantenimento dell’architettura molecolare al fine di rendere possibile la trasmissione del segnale. Il legame dei membri della famiglia dei PDZ, MUPP-1, hDLG e hSCRIB, all’estremità C-terminale delle proteine E6 ad alto rischio, porta alla loro degradazione. L’importanza di questa interazione è stata confermata in esperimenti su topi transgenici esprimenti la proteina E6 priva del dominio di legame a PDZ. In questi topi viene mantenuta la capacità di inattivare p53, ma essi non sviluppano la iperdisplasia epidermica, che invece si osserva frequentemente in topi transgenici per E6 normale [66]. Non è chiaro quali siano i meccanismi attivati in seguito al legame di E6 alle proteine PDZ e quali membri di tale famiglia siano più importanti per questi fenotipi. Un’altra funzione fondamentale della proteina E6 ad alto rischio nell’immortalizzazione cellulare è la capacità di attivare l’espressione della subunità catalitica della telomerasi, hTERT. Si tratta di un enzima formato da quattro subunità, che addiziona ripetizioni esameriche all’estremità telomerica dei cromosomi. L’attività telomerasica è solitamente limitata a cellule embrionali ed è assente in cellule somatiche. La perdita di questa attività porta ad accorciamento dei telomeri, con successive divisioni cellulari e induzione di senescenza [71]. E6 attiva la trascrizione di hTERT attraverso l’azione combinata di Myc e Sp1. E6 lega Myc e il suo cofattore Max, portando all’attivazione del promotore di hTERT [72]. Per determinare
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l’immortalizzazione delle cellule è più importante l’azione su hTERT rispetto a quella su p53. Tuttavia l’immortalizzazione dei cheratinociti umani del derma (Human Foreskin Keratinocyte, HFK) richiede la presenza di E7, con conseguente inattivazione della proteina retinoblastoma, che porta a deregolazione del ciclo cellulare [73]. Quindi la degradazione di p53 è fondamentale per una completa trasformazione, mentre il legame a proteine PDZ e l’attivazione di hTERT è necessaria per l’immortalizzazione. Il ruolo primario di E6 nel ciclo degli HPV non è di per se indurre trasformazione o immortalizzazione, ma rendere più semplice alcune fasi del ciclo replicativo del virus. Usando un sistema genetico che permetta la trasfezione in cheratinociti del genoma dell’HPV clonato, è stato dimostrato che l’espressione della proteina E6 funzionale è necessaria per mantenere i genomi di HPV-31 e HPV-11 come episomi, in grado di replicarsi stabilmente. La seconda oncoproteina degli HPV, importante per l’immortalizzazione delle cellule infettate e per la patogenesi virale, è E7. Le proteine E7 degli HPV ad alto e basso rischio si trovano prevalentemente nel nucleo e hanno una dimensione di 100 aminoacidi. L’espressione di E7 porta alla trasformazione di cellule NIH 3T3 murine immortalizzate e, meno frequentemente, di cheratinociti umani [74]. Un’efficiente immortalizzazione di cheratinociti umani richiede però l’azione concomitante di E6 e E7. Topi transgenici che esprimono solo E7 sviluppano lesioni a basso grado e displasie cervicali ad elevato grado che possono andare incontro a progressione maligna, mentre topi transgenici per E6 sviluppano solo lesioni iperproliferative a basso grado. La caratteristica peculiare di E7 riguarda la sua capacità di associarsi alle proteine appartenenti alla famiglia del retinoblastoma (Rb) [75]. Il legame a Rb si verifica a livello di una delle tre regioni conservate presenti in tutte le proteine E7 degli HPV a elevato rischio: CR1 nella porzione N-terminale; CR2, che contiene una sequenza LXCXE che lega Rb; CR3, in C-terminale, che contiene due domini a dita di zinco, importanti per la dimerizzazione. I domini CR1 e CR2 di E7 presentano un’omologia di sequenza alle regioni CR1 e CR2 della proteina E1A di adenovirus, anch’essa capace di legare la proteina Rb [76]. La famiglia di proteine del retinoblastoma comprende Rb, p107 e p130, espresse in modo diverso durante il ciclo cellulare. Mentre Rb è espresso costitutivamente durante tutte le fasi del ciclo, p107 viene sintetizzato soprattutto durante la fase S, mentre p130 predomina durante la fase G0.
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Rb, nella forma ipofosforilata, presente durante la fase G1 precoce, forma complessi con i fattori di trascrizione appartenenti alla famiglia E2F/DP1, che si legano ai promotori di geni coinvolti nella progressione del ciclo cellulare verso la fase S (come la DNA polimerasi β, la timidina chinasi e la timidilato sintetasi) o nei meccanismi apoptotici; questo ha come conseguenza la repressione della trascrizione. Per rendere possibile la progressione dalla fase G1 a S, complessi ciclina chinasi fosforilano Rb, con conseguente rilascio di Rb dal complesso con E2F, che rende possibile la trascrizione di geni coinvolti nella sintesi del DNA. E7 recluta Rb lontano dal complesso E2F/DP1, con conseguente attivazione costitutiva dei geni bersaglio di E2F. Oltre a legare Rb, E7 ne media anche la degradazione attraverso il sistema del proteosoma. I membri della famiglia dei Rb sono i principali regolatori dell’uscita dal ciclo cellulare, che avviene durante la differenziazione degli epiteli. La perdita della funzione di Rb rende possibile la replicazione produttiva in cellule soprabasali differenziate [76]. Il legame di E7 a Rb è importante per il mantenimento di un adeguato numero di copie di HPV-31 in forma episomica in cellule indifferenziate [77]. Questo è legato alla perdita dei punti di controllo del ciclo cellulare, che bloccano il mantenimento di DNA in forma extracromosomale. Il legame dei membri della famiglia di Rb a E7 non è limitato agli HPV ad elevato rischio, in quanto anche proteine E7 a basso rischio si associano a Rb, anche se con una ridotta affinità di legame. Le proteine E7 degli HPV ad alto e basso rischio presentano sequenze aminoacidiche simili, ma non identiche, a livello del dominio CR2, che media il legame a Rb. La mutazione di un singolo aminoacido a livello del dominio CR2 di E7 appartenenti agli HPV a basso rischio ha come conseguenza una maggiore affinità di legame di E7 e l’acquisizione della capacità di trasformare cellule di roditore. Inoltre, la proteina E7 di HPV-1 a basso rischio non è in grado di degradare Rb e questo spiega la sua incapacità di attivare geni regolati da E2F. Questo implica che, nonostante il legame tra E7 e Rb sia molto importante, altri fattori partecipano alla trasformazione e immortalizzazione cellulare [78]. E7 degli HPV ad elevato rischio induce inoltre la degradazione di Rb mediata da meccanismi di ubiquitinazione, importante per il superamento del blocco del ciclo cellulare, mentre gli HPV a basso rischio non presentano questa capacità. Oltre a legare i membri della famiglia di Rb, le proteine E7 si associano alle cicline A ed E, così come gli inibitori dipendenti
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dalle cicline chinasi, p21 e p27. Dato che le cicline e le chinasi ad esse associate guidano la progressione nel ciclo cellulare fosforilando la proteina Rb, non sorprende che E7 agisca aumentando l’attività di queste proteine. Le proteine E7 ad elevato rischio legano direttamente i complessi ciclina Acdk2 e E7 di HPV-18 lega anche la ciclina E indirettamente, attraverso p107. La proteina E7 ad elevato rischio aumenta i livelli delle cicline A ed E, mente le E7 a basso rischio non hanno questo effetto. p21 e p27, due inibitori delle cicline chinasi, sono legate da E7, che ne blocca l’azione e aumenta ulteriormente l’attività delle cicline chinasi [79]. Questo punto è molto importante, in quanto chiarisce perché l’azione associata di E6 e E7 porta a un’immortalizzazione dei cheratinociti più efficiente rispetto a quando le due proteine agiscono separatamente. Infatti, come si è affermato precedentemente, E6 viene neutralizzato da INK4, mentre E7 supera questa inibizione attivando direttamente le cicline A ed E. E6, a sua volta, impedisce l’apoptosi indotta da E7 degradando proteine proapoptotiche. Il terzo gruppo di proteine legate da E7 sono le istone-deacetilasi (HDAC). Generalmente la repressione di promotori indotti da E2F è mediata non solo dal legame a Rb, ma anche dall’azione di HDAC (Fig. 10) [80].
Fig. 10. Meccanismo di regolazione del ciclo cellulare mediato dalle proteine Rb, HDAC e E2F/DP1
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In cellule che non presentano il Papillomavirus umano, Rb lega le HDAC e le recluta a livello di promotori inducibili da E2F. Recentemente si è visto che le proteine E7 legano HDAC indipendentemente dal loro legame a Rb e questa associazione è importante per permettere a E7 di svolgere un ruolo nell’immortalizzazione e nel mantenimento del virus in forma episomale. Le proteine HDAC sono espresse in tutti i tessuti e agiscono per rimuovere i gruppi acetile da code Nterminali degli istoni che formano i nucleosomi, bloccando così la replicazione. In più le HDAC deacetilano direttamente i fattori E2F, con conseguente perdita della loro funzione. Sono state identificate tre classi di HDAC, ma sono stati studiati principalmente i membri delle prime due classi. Le HDAC di classe I sono attive solo quando legate a cofattori che ne modulano l’attività o le dirigono al sito dove verranno deacetilate. Fanno parte di questa classe le HDAC umane 1, 2, 3, 8, localizzate esclusivamente nel nucleo. Le HDAC di classe II entrano ed escono dal nucleo. Le proteine E7 degli HPV ad elevato rischio si legano alle HDAC 1 e 2 attraverso MIP2, che si lega direttamente a E7 [81]. In particolare, la proteina E7 di HPV-16 e HPV-31 spiazza HDAC da Rb e lega questa proteina indipendentemente da Rb [80]. Nella proteina E7 di HPV-31, la mutazione del sito di legame per HDAC, porta all’incapacità di mantenere stabilmente il genoma virale in forma episomale e all’impossibilità di aumentare la vita media delle cellule trasfettate. Non è chiaro il motivo per cui il legame di HDAC a E7 sia necessario per il mantenimento del genoma virale, ma sono state formulate diverse ipotesi. La prima di queste afferma che, poiché il legame di E7 alle HDAC impedisce a queste ultime di legare Rb, E7 potrebbe agire bloccando alcune importanti attività di Rb. Una seconda possibilità è che il legame di HDAC a E7 ne blocchi la capacità di deacetilare i fattori di trascrizione E2F, portando alla loro rilocalizzazione all’esterno del nucleo. La rimozione dell’attività di HDAC dai promotori ne rende possibile l’acetilazione e la successiva attivazione. In esperimenti di trasfezione transiente, si è visto che E7 transattiva il promotore della fosfatasi cdc25A, attraverso i siti di legame a E2F presenti su tale promotore e questa attività dipende dal legame sia di Rb sia di HDAC [66]. cdc25A è importante per la defosforilazione e attivazione delle cdk ed è necessario per la progressione nel ciclo cellulare. Questo è un altro importante bersaglio di E7, necessario per lo svolgimento del suo ruolo nel contesto della patogenesi virale. Infine E7 silenzia i geni reclutando HDAC, come nel caso di IRF1 (interferon regulatory factor 1), la cui espressione è importante per la risposta
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Carcinoma della cervice uterina
del sistema immnunitario e degli interferoni verso infezioni di Papillomavirus persistenti [82]. La regione C-terminale di proteine E7 appartenenti a Papillomavirus ad alto e basso rischio presenta domini Cys-X-X-Cys, simili a domini a dita di zinco. La mutazione di una o di entrambe le cisteine in uno di questi domini porta alla perdita della capacità di immortalizzare cellule HFK e di trasformare cellule di roditore [74]. Inoltre la stabilità di E7 diminuisce notevolmente in seguito alla mutazione di queste cisteine, dimostrando la loro importanza nel mantenere l’integrità strutturale di E7 [77]. Una delle proprietà più particolari della proteina E7 degli HPV ad elevato rischio è la loro capacità di indurre instabilità genomica. Molti tipi di cancro positivi per il Papillomavirus umano contengono diverse aneuploidie, ad indicare che variazioni nel numero di cromosomi sono eventi importanti nella progressione tumorale. L’espressione unicamente di E7 è sufficiente ad indurre un aumento anomalo nel numero di cromosomi in cheratinociti umani primari. I centrosomi sono i principali centri di organizzazione dei microtubuli e guidano la segregazione dei cromosomi in cellule figlie durante la divisione cellulare. Proteine E7 mutate che non legano o degradano Rb, ma si associano a p107, mantengono la capacità di indurre anomalie a livello dei centrosomi [83]. Tali anomalie si osservano anche in cellule prive di Rb e p53 e in fibroblasti embrionali di topi “knock out” per Rb, p130 e p107. È possibile che il legame di una combinazione di membri della famiglia di Rb o di altri fattori sia richiesta per mediare le anomalie del centrosoma [83]. Nella Tabella 3 sono riassunte le funzioni delle oncoproteine E6/E7. Tabella 3. Funzioni delle oncoproteine E6 e E7 Oncoproteine virali
Funzioni identificate
E6
Immortalizzazione cellulare Degradazione di proteine specifiche della cellula ospite (p53) a seguito del legame alla proteina E6 Effetto anti-apoptotico Destabilizzazione cromosomiale Aumento della integrazione e mutagenesi del DNA Attivazione delle telomerasi Immortalizzazione cellulare Attivazione di cicline E e A
E7
Inattivazione di proteine pocket correlate al RB Induzione dell’apoptosi Inibizione delle chinasi inibitorie-ciclina dipendenti Aumento della integrazione e mutagenesi del DNA
Le infezioni da Papillomavirus
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2.5 Coltivazione del virus Gli HPV sono difficilmente coltivabili in vitro, in quanto si replicano in vivo in epiteli squamosi stratificati, le cui condizioni non sono completamente riproducibili in coltura su monostrati cellulari. L’infezione di monostrati cellulari (fibroblasti o cellule epiteliali) con HPV, induce la replicazione del DNA virale in forma episomale e l’espressione di proteine non strutturali, ad eccezione di E4. Il principale limite di questa tecnica è la mancata espressione di proteine virali strutturali. In monostrati cellulari è possibile tuttavia produrre il virus in forma infettiva se i geni codificanti per le due proteine virali strutturali vengono forniti attraverso altri vettori virali attenuati. Date le difficoltà dell’isolamento dell’HPV da monostrati cellulari, per la diagnosi clinica di questo tipo di infezione, si utilizzano tecniche per la ricerca del DNA virale, quali PCR o ibridazione molecolare. Il tropismo specie-specifico di HPV ne ha limitato lo studio attraverso l’uso di modelli animali. Tuttavia un possibile approccio per la propagazione degli HPV è stato esporre colture di cellule epiteliali primarie all’azione del virus e in seguito porle sotto la capsula renale di topi nudi. Quest’ultimo è un sito anatomico immunologicamente protetto, che può sostenere la crescita di cellule eterologhe e la formazione di un epitelio pluristratificato, in grado di riprodurre le caratteristiche di un epitelio squamoso stratificato. Questo tipo di approccio ha reso possibile la propagazione in coltura di diversi tipi di HPV, ma non viene applicato abitualmente nella pratica clinica; infatti si tratta di un sistema non ottimizzabile per la produzione del virus su larga scala o per l’analisi della replicazione virale. Il ciclo replicativo completo del virus può essere riprodotto su colture cellulari utilizzando sistemi di colture “raft”, formati da epiteli squamosi stratificati posti su un’interfaccia aria-acqua. Questa tecnica è più complicata rispetto alla coltivazione su monostrato cellulare e la replicazione virale completa avviene solo per una piccola percentuale di cellule. Tuttavia è possibile ricorrere a questo sistema per studiare aspetti biologici, genetici e biochimici del virus.
2.6 Epidemiologia La prevalenza è correlata all’età della donna ed è direttamente proporzionale al numero di partner sessuali [84]. Circa la metà delle infezioni avviene fra i 15 e 25 anni [85-88] e l’80% delle donne ses-
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Carcinoma della cervice uterina
sualmente attive contrae l’infezione entro i 50 anni. L’infezione in donne senza alterazioni citologiche varia dal 9% in Europa al 24% in Africa [89]; inoltre, la frequenza dell’infezione risente degli stili di vita e dei comportamenti delle popolazioni [90]. Una recente indagine negli Stati Uniti [91] mette in rilievo che un quarto delle donne fra i 14 e 59 anni risulta positivo per l’HPV. Va sottolineato che gli studi epidemiologici sottostimano la prevalenza dell’infezione da HPV, poiché questa può non essere diagnosticata in quanto di durata relativamente breve e non necessariamente si associa ad una risposta anticorpale. Studi epidemiologici hanno rilevato che in USA, il 75% della popolazione compresa tra i 15 e 50 anni viene infettata da HPV, di cui il 60% manifesta infezione di tipo transiente (rilevazione con anticorpi), il 10% infezione persistente (rilevazione del DNA virale), il 4% anomalie citologiche e l’1% lesioni cliniche. La prevalenza dell’infezione di HPV in donne sessualmente attive è del 18-25%, in particolare tra adolescenti. Queste donne possono trasmettere l’infezione al proprio compagno o ai loro bambini. In particolare la prevalenza degli HPV ad alto rischio è massima dopo la pubertà (30-50%), si riduce al 15% nelle donne di età compresa tra i 26 e i 30 anni e al 10% nelle donne di 31-35 anni, mentre mostra un secondo picco del 30% nelle donne ultracinquantenni. Nelle donne di età inferiore ai 25 anni il 20% delle infezioni da HPV ad alto rischio persiste, mentre il rischio di persistenza supera il 50% nelle donne di età superiore ai 55 anni. In particolare, nei neonati l’infezione da HPV può causare papillomi nella cavità orale e nel tratto respiratorio superiore. In individui infettati da HIV, l’infezione da HPV causa verruche estese e patologie rapidamente progressive. Evidenze epidemiologiche e molecolari hanno evidenziato che sequenze di HPV oncogeni sono presenti nella quasi totalità (99,7%) dei casi di carcinoma invasivo e soltanto nel 13,4% nel gruppo di controllo [86, 92]. L’estrema rarità di casi di carcinoma HPV-negativi implica che l’HPV è una causa necessaria per lo sviluppo della neoplasia cervicale invasiva nel mondo.
2.6.1 Classificazione epidemiologica degli HPV Dei 120 genotipi rilevati in natura, almeno 40 possono infettare la mucosa genitale; di questi circa 15 sono oncogeni. Sono stati suddivisi in categorie di rischio differenti a seconda della loro diversa associazione con le lesioni preneoplastiche e neoplastiche [93]. Sono
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Le infezioni da Papillomavirus
stati classificati genotipi ad “alto rischio”, “probabili alto rischio” e “basso rischio” (Tabella 4). Esiste una buona correlazione fra la classificazione filogenetica ed epidemiologica. Nel comparare queste due classificazioni, infatti, si può osservare una discrepanza solamente per i tipi 70 e 73 (Tabella 4) [93]. È opportuno segnalare che le classificazioni in genotipi ad alto e basso rischio sono continuamente revisionate alla luce delle nuove conoscenze nel campo, e pertanto non è possibile dare indicazioni definitive riguardo l’oncogenicità soprattutto dei genotipi a classificazione intermedia. Da studi epidemiologici emerge che, dei genotipi definiti “ad alto rischio”, il genotipo 16 è il più frequente (53-68%) nei vari paesi; segue il genotipo 18 (3-26%), ma con molta variabilità a seconda dei paesi, il genotipo 45 (4,4%), il 31 (3,4%), il 52 (2,2%) e il 33 (2%) (Fig. 11). Come evidenziato nella Figura 12 esistono, oltre ai ben noti 6 genotipi high risk più frequenti, altri meno frequenti (5-17%) [93]. Sono state descritte coinfezioni da genotipi maligni di HPV [93] (nel 8,1% delle donne con cancro e nel 13,9% dei controlli) che sono stati associati ad un maggior rischio di cancro cervicale rispetto all’infezione con un singolo genotipo (Figg. 11 e 12) [93]. I Papillomavirus sono classificati sulla base delle specie di origine (umana, bovina, ecc.) e il grado di relazione con altri HPV della stessa specie. I diversi tipi di HPV vengono definiti in base all’analisi della sequenza nucleotidica. Oggi è possibile disporre attraverso l’accesso a siti informatici, quali Gene-Bank, delle sequenze complete o parziali della maggior parte degli HPV identificati, di esaminare le relazioni tra i vari tipi di HPV mediante lo sviluppo di alberi filogenetici (Fig. 13). Un nuovo tipo di Papillomavirus per essere considerato tale deve presentare una divergenza maggiore del 10% Tabella 4. Classificazione filogenetica e epidemiologica dei vari genotipi di HPV [93] Classificazione filogenetica Alto rischio
Basso rischio
* Genotipi probabili alto rischio
Classificazione epidemiologica Alto rischio Basso rischio 16, 18, 31, 33, 35, 39, 45, 51, 52, 56, 58, 59, 68, 82, 26*, 53*, 66*
70
73
6, 11, 40, 42, 43, 44, 54, 61, 72, 81, CP6108
50
Carcinoma della cervice uterina
20,8
13,5
17,2
11,4
22,1
54,9
15,3
43,4
HPV-16 HPV-18
56
HPV-45
Asia
Nord America
HPV-35
Europa
HPV-33 HPV-58 Africa 13
HPV-52 HPV-35
Sud America
17,5
10,6
14,1
51,7
50,2
Altri Oceania
Fig. 11. Distribuzione nei vari paesi paesi dei genotipi oncogeni di HPV associati al carcinoma cervicale rilevati più frequentemente
Fig. 12. Frequenze dei 15 genotipi oncogeni di HPV rilevati nelle lesioni cervicali secondo la classificazione di Munoz (2003)
rispetto alle sequenze delle regioni E6, E7 e L1 di tutti i tipi già noti. Differenze tra il 2 e il 10% definiscono i “sottotipi”, mentre le “varianti” sono caratterizzate da divergenze inferiori al 2%.
2.6.2 Cofattori legati all’HPV coinvolti nella carcinogenesi Un altro fattore emergente nello sviluppo di neoplasie cervicali è il ruolo svolto dalle diverse varianti virali [94]. Le varianti virali differiscono per quanto riguarda proprietà chimiche e patogenicità. Sulla
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Fig. 13. Albero filogenetico dei principali Papillomavirus umani
base di variazioni di sequenza delle regioni L1, L2, LCR del genoma virale, è stato possibile individuare cinque varianti filogenetiche di HPV16: Europeo (E), Asiatico (As), Asiatico-Americano (AA), Africano-1 (Af1) e Africano-2 (Af2). La loro oncogenicità varia in base alla distribuzione geografica e all’origine etnica della popolazione virale. In uno studio è stato dimostrato che, a causa dell’aumento dell’attività trascrizionale e delle variazioni subite a livello delle sequenze responsive ai progesteroni, la variante asiatica-americana presenta un’attività maggiormente oncogena rispetto alla variante europea [95]. Anche la predisposizione genetica svolge un ruolo importante nel favorire l’insorgenza di cancro alla cervice uterina. Essa determina la suscettibilità all’infezione, l’abilità di eliminarla e il tempo necessario per lo sviluppo della malattia. Gli effetti di un ambiente famigliare condiviso incidono solo per un 2%, soprattutto tra sorelle piuttosto che tra madre e figlia. La gravità della malattia tende inoltre ad aumentare per il verificarsi della contemporanea co-infezione di diversi tipi di HPV. Queste sono state riscontrate nell’11,8% di pazienti con analisi citologiche normali e nel 34,5% di pazienti con lieve o moderata discariosi. La maggior parte delle infezioni multiple è caratterizzata dalla presenza di due genotipi virali, anche se sono già stati riscontrati casi con tre, quattro o cinque genotipi. L’infezione degli HPV è più diffusa in giovani donne attive sessualmente, in un’età compresa tra i 18 e i 30 anni, anche se il tumore col-
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Carcinoma della cervice uterina
pisce soprattutto donne aventi più di 35 anni, ad indicare che l’infezione è probabilmente contratta in giovane età e progredisce lentamente verso il cancro. La risposta immunitaria principale verso il virus è di tipo cellulare; pertanto situazioni di immunodepressione, come trapianti o sindrome da immunodeficienza acquisita, aumentano il rischio di contrarre l’infezione. La regione LCR del genoma virale presenta sequenze simili agli elementi responsivi agli ormoni glucocorticoidi e pertanto la loro attività è aumentata dagli ormoni steroidei, come il progesterone e il desametasone. Anche gravidanze multiple sono un fattore di rischio tra donne che presentano infezione da HPV, così come il consumo di alcol e le abitudini alimentari [47].
2.7 Modalità di trasmissione Gli HPV sono patogeni ampiamente distribuiti nella specie umana, che si trasmettono prevalentemente in seguito a rapporti sessuali (vaginali o anali), talora anche non penetrativi [96-98]. L’infezione viene acquisita precocemente nel corso dei primi anni di attività sessuale ed è ritenuta l’infezione a trasmissione sessuale più frequente al mondo. Sono virus ubiquitari e si calcola che il 70% della popolazione sessualmente attiva venga in contatto con almeno un tipo di virus nel corso della vita. Sono virus molto resistenti al calore e a condizioni di aridità, pertanto si può verificare anche un tipo di trasmissione non sessuale, ad esempio per mezzo di fomiti, in seguito a prolungato contatto con abiti contaminati. È stato dimostrato anche che l’acquisizione dell’infezione da HPV, rilevata mediante PCR, è altamente correlata con il numero di partners, soprattutto se recenti, e con la frequenza dei rapporti sessuali [85]. Tali evidenze sono state confermate in questi ultimi anni anche con test sierologici tipo-specifici. È possibile, anche se raramente (4,3/100000), la trasmissione verticale materno-fetale sia transplacentare che perinatale (attraverso il canale del parto) ed è stata ipotizzata (ma non dimostrata) la trasmissione indiretta attraverso oggetti. È stata dimostrata la sieroprevalenza in bambini tra 0 e 13 anni per i vari tipi oncogeni di HPV tra lo 0,6%e il 3% indicando che non c’è quasi alcuna evidenza di reattività sierologica specifica per l’HPV. Nel valutare la sieroprevalenza nei bambini, non è da trascurare la possibilità che la presenza degli anticorpi IgG nel neonato e nei bambini più piccoli possa riflettere il passaggio degli anti-
Le infezioni da Papillomavirus
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corpi attraverso la placenta. Non è certamente da escludere la possibilità che bambini più adulti tra 10 e 13 anni non abbiano ancora avuto esperienze sessuali. Ci sono anche evidenze, sia da studi sierologici che da studi condotti sulla ricerca del DNA di HPV, che i genotipi genitali benigni di HPV possono essere trasmessi sessualmente; tuttavia la quantità di informazioni epidemiologiche su questi genotipi di HPV è inferiore e meno chiara. Saggi sierologici per i genotipi benigni di HPV hanno anche riportato che la sieropositività nelle donne monogame è superiore rispetto a quella rilevata per i tipi oncogeni di HPV [98]. Ciò potrebbe suggerire che gli HPV benigni hanno un’altra possibile via di trasmissione oltre a quella sessuale.
2.7.1 Profilassi: come prevenire l’infezione da HPV L’uso del condom può ridurre il rischio di contrarre l’infezione da HPV. Il condom però protegge da infezioni procurate dal liquido seminale infetto e non da infezioni “epiteliali” di altre parti dell’area genitale non protette e quindi non offre una protezione assoluta sulle infezioni da HPV. È comunque fondamentale ribadire l’importanza dell’uso del condom nella prevenzione delle malattie a trasmissione sessuale. Esiste un numero limitato di studi prospettici a supporto di questa evidenza. Uno studio condotto tra le adolescenti che avevano appena iniziato l’attività sessuale in un college americano ha dimostrato una significativa riduzione dell’infezione da HPV quando i partners avevano fatto uso costante e corretto del condom. Anche la circoncisione maschile sembra avere un effetto protettivo nello sviluppo del carcinoma della cervice uterina. La comprensione del fatto che le lesioni a livello cervicale, vulvare, vaginale e perianale sono di origine infettiva ha portato a notevoli miglioramenti in materia di prevenzione del cancro alla cervice uterina. In primo luogo sono state consigliate misure legate all’igiene, per evitare la trasmissione iatrogena tra i pazienti affetti da disturbi ginecologici. La prevenzione meccanica di infezioni anogenitali trasmesse sessualmente è invece impraticabile. Infatti, le infezioni da HPV sono molto diffuse all’interno della popolazione sessualmente attiva e l’uso del preservativo o di sostanze spermicide offre solo una protezione limitata, in quanto le infezioni possono essere trasmesse in seguito al contatto con altre parti del corpo, come labbra, ano, scroto, che non sono protetti dal preservativo [2, 7].
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Carcinoma della cervice uterina
2.8 Patologie associate all’infezione da HPV Gli HPV possono essere suddivisi in tre sottotipi: a basso, intermedio ed alto rischio, in base alla gravità della patologia ad essi associata. Gli HPV a basso rischio sono associati a lesioni proliferative della pelle e delle mucose, in genere benigne. Le manifestazioni cliniche comprendono verruche comuni, piane e plantari, condilomi acuminati genitali e anali, condilomi piani cervicali (Fig. 7), lesioni maculari pitiriasiformi in pazienti con epidermodisplasia verruciforme (EV) e papillomi laringei. Questi ultimi si presentano nell’infanzia e, nonostante siano benigni, possono causare ostruzione respiratoria acuta e danno spesso recidive (Tabella 5). Tabella 5. Principali patologie associate all’infezione da HPV Tipi di lesione Lesioni cutanee: - Verruche volgari, piane e plantari - Epidermodisplasia verruciforme
Genotipi di HPV associati 1, 2, 3, 4, 7, 10, 27, 28, 29, 41, 2, 3, 5, 8, 9, 10, 12, 14, 15, 17, 19, 20, 21, 22, 23, 24, 25, 36, 37, 38, 47, 50
Lesioni mucose: - Condilomi acuminati e piani - Condiloma gigante - Papillomi delle vie respiratorie - Papillomi congiuntivali
6, 11, 30, 42, 43, 44, 54, 55, 70 6, 11 6, 11 6, 11
Lesioni della mucosa orale: - Papilloma laringeo - Papillomi orali ed iperplasia focale
6, 11 2, 11, 13, 32
Carcinoma della cervice uterina: - Alta associazione - Moderata associazione - Scarsa associazione
16, 18, 45, 56 31, 33, 35, 51, 52 6, 11, 42, 43, 44
Cancro vulvare
16
2.8.1 Lesioni da HPV I Papillomavirus umani sono abitualmente distinti in genotipi cutanei o mucosi, in relazione alla localizzazione delle lesioni in cui solitamente si rilevano (Tabella 5).
Le infezioni da Papillomavirus
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Tra le lesioni cutanee, le verruche comuni o volgari sono le forme più diffuse e si manifestano in forma di papule bianche-grigiastre o brune, piatte o rilevate, che si localizzano più frequentemente a livello delle mani, in particolare sulle superfici dorsali e nelle regioni periungueali. Vi sono inoltre verruche piane, che hanno l’aspetto di papule rosse, lievemente rilevate, che insorgono a livello del viso o delle mani e le verruche plantari e palmari, che si localizzano rispettivamente nella pianta dei piedi e nel palmo delle mani. I genotipi degli HPV più frequentemente riscontrati in verruche sono i tipi 1, 2, 3, 4 e 7. La maggior parte dei restanti tipi cutanei degli HPV (genotipi 5, 8, 9, 12, 14, 15, 17, 19, 20, 47, 49) è stata ritrovata nelle lesioni della epidermodisplasia verruciforme (EV), un’affezione caratterizzata dalla diffusione delle lesioni da HPV disseminate in gran parte della superficie corporea, simili a verruche piane e macule rossastre, che si manifesta in soggetti con profonde alterazioni dell’immunità cellulare. Non è infrequente la degenerazione in carcinoma a cellule squamose. Tra gli HPV di tipo cutaneo, i genotipi 5 e 8 e meno frequentemente il 14, 17, 20 e 47, sono stati identificati in carcinomi a cellule squamose che possono insorgere in tali individui. Le lesioni mucose benigne da HPV comprendono prevalentemente condilomi acuminati e piani, che sono conseguenti a trasmissione sessuale del virus e insorgono a livello del pene, dei genitali femminili, dell’uretra, dell’area perianale e del retto. Si manifestano come masse esofitiche verrucose di consistenza molle (condilomi piani) o modestamente rilevate (condilomi acuminati). Sono generalmente associati ad infezioni dei genotipi 6 e 11 di HPV a basso rischio e non portano a cancro. La maggior parte delle lesioni è asintomatica e si può risolvere spontaneamente in 3-4 mesi, rimanere invariata o aumentare di dimensione e numero. Quando le verruche sono di colore rosso-marrone devono essere sottoposte a biopsia, in quanto potrebbe trattarsi di papulosi Bowenoide, causata da HPV-16 e HPV-18 e, dal punto di vista istologico, presentare la stessa configurazione delle neoplasie intraepiteliali. Queste lesioni potrebbero evolvere in carcinoma. Altre sedi mucose infettate dagli HPV, caratterizzate da lesioni benigne di tipo papillomatoso, si trovano a livello respiratorio, congiuntivale e orale. L’infezione può verificarsi in forma latente o inattiva, con andamento asintomatico, che presenta la zona epiteliale infettata citologicamente normale. Il DNA dei Papillomavirus umani (solitamente HPV-6 e 11) è riscontrabile generalmente nel 10% dei casi. L’infezione attiva, caratterizzata da SIL, si manifesta con grandi cellule arrotondate dette coilociti.
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La maggior parte di queste lesioni è associata ad infezione da HPV. In particolare, nelle lesioni a cellule squamose intraepiteliali di basso grado (Low Grade Squamous Intraepithelial Lesion, LGSIL) si riscontrano soprattutto HPV ad alto rischio. La maggior parte delle lesioni mantiene il virus in forma episomica e sostiene un ciclo di replicazione completo: sono espressi anche geni tardivi e origina una particella virale completa. Le HSIL sono prevalentemente associate a HPV ad alto rischio, che non possono però compiere un ciclo di replicazione completo, a causa di difetti differenziativi tipici di queste lesioni. I geni tardivi non sono espressi, il DNA virale è integrato in quello cellulare e l’espressione degli oncogeni E6 e E7 è deregolata. CIN 3 è caratterizzata da aneuploidia e può presentare la stessa configurazione delle neoplasie intraepiteliali. Queste lesioni potrebbero evolvere in carcinoma. L’HPV è anche associato, in proporzioni variabili, ad altri tumori, in particolare al 60% dei carcinomi vaginali, al 40-60% di quelli vulvari, al 45-95% di quelli anali, al 30% dei tumori della testa e del collo (45-47), oltre a quelli dell’uretra e del pene. L’HPV 6 e 11 vennero inizialmente isolati da verruche genitali (dette anche verruche ano-genitali o condilomi acuminati) e successivamente dai papillomi laringei del bambino (Tabella 5). L’HPV 6 e 11 sono responsabili del 90% di tali verruche. La contagiosità è molto elevata (65% di trasmissione ai partner sessuali) e il periodo d’incubazione varia da 3 settimane a 8 mesi. Con il passare del tempo le lesioni tendono a diventare più numerose ed estese, anche se in circa un quarto dei casi regrediscono spontaneamente dopo 4 mesi. Le verruche vengono vissute come un elemento deturpante, si accompagnano a un senso di vergogna e hanno un elevato costo economico. Il papilloma laringeo è l’infezione da HPV più frequente nel bambino: esso si manifesta prevalentemente in bambini piccoli con un’età mediana alla diagnosi di 4 anni ed è dovuto a trasmissione per contatto in epoca peri- o post-natale. La presenza del condiloma genitale materno aumenta di 200 volte il rischio per il bambino. L’evoluzione clinica è variabile, ma spesso associata a frequenti recidive. Mediamente sono necessari ben 13 interventi chirurgici per mantenere pervie le vie aeree e rimuovere le verruche che provocano una sintomatologia ostruttiva. In rare circostanze il papilloma può evolvere verso forme carcinomatose.
2.8.2 HPV e cancro del collo dell’utero L’infezione da HPV è la più diffusa infezione a trasmissione sessuale nel mondo occidentale, ed è causa necessaria, anche se non sufficien-
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te, del carcinoma del collo dell’utero. Infatti studi accurati su biopsie di cancro provenienti da 22 Paesi diversi hanno dimostrato che la prevalenza dell’HPV DNA è stata del 99,7% [47]. Il CC è il primo cancro ad essere riconosciuto dall’OMS come totalmente riconducibile ad un’infezione: quella dei virus oncogeni HPV. I genotipi oncogeni (definiti high-risk) del Papillomavirus umano (HPV) sono il vero agente eziologici del cancro cervicale o sono soltanto degli innocui passeggeri? La correlazione causale o casuale può essere esaminata mediante i postulati di Koch modificati da Rivers per le malattie virali (Tabella 6). Molti di questi sei postulati non possono essere testati nei pazienti per problemi ovviamente etici. Pertanto, dobbiamo fare affidamento in gran parte su studi epidemiologici e di laboratorio per capire il ruolo dell’HPV nell’eziopatogenesi del cancro cervicale. Modelli di infezione in animali sono certamente di aiuto; in particolare, è stato visto che il Papillomavirus del coniglio (CRPV) può indurre il carcinoma a cellule squamose nei conigli. Studi epidemiologici e di laboratorio sostengono un necessario ma non sufficiente ruolo per l’infezione persistente di HPV nella carcinogenesi cervicale. Una riduzione dell’incidenza del cancro cervicale a seguito di una diminuzione delle infezioni da HPV (ad esempio mediante l’utilizzo di vaccini profilattici) sarebbe la prova definitiva del ruolo causale di HPV high-risk nel cancro del collo dell’utero (Tabella 6).
2.8.3 Storia naturale dell’infezione da HPV La maggior parte delle infezioni da HPV, anche quelle dovute ai genotipi oncogeni, sono transitorie e si risolvono, o comunque non sono più rilevabili all’esame citologico dopo un anno o due [86]. Di solito l’infezione da HPV è quindi autolimitante: viene in genere superata nel corso di 4 mesi per i tipi a basso-rischio e di 8-12 mesi per quelli ad alto-rischio; di fatto, entro 2 anni il 90% delle donne supera l’infezione. Con il persistere dell’infezione il virus può provocare Low LSIL. L’infezione può altresì rimanere silente nelle cellule basali dell’epitelio cervicale per un periodo variabile da 8 mesi a 10 anni. In questa fase il virus è presente all’interno della cellula come episoma, non si replica e l’epitelio rimane normale. Esso può però riattivarsi ed il persistere della fase produttiva può condurre ad alterazioni dell’epitelio cervicale che variano a seconda del genotipo virale (alto o basso-rischio). Alcune volte l’infezione persiste e, se il genotipo è oncogeno, la donna va incontro ad un alto rischio di sviluppare una lesione pre-
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Carcinoma della cervice uterina
Tabella 6. Prove sperimentali che soddisfano i postulati di Koch modificati da Rivers per le malattie virali Postulati
Prove sperimentali ed epidemiologiche
Isolamento virale da ospiti malati
DNA di HPV è rilevato nel 99,7% dei cancri cervicali
Coltivazione del virus nelle cellule ospite
HPV replica in colture di cheratinociti umani. Gli HPV oncogeni immortalizzano i cheratinociti primitivi e le cellule del cancro cervicale non possono sopravvivere dopo il blocco dell’espressione di E6 ed E7
Infettività dopo aver filtrato i batteri
Mostrata per il Papillomavirus (CRPV) nel coniglio
Riprodurre la malattia nell’ospite
La malattia viene riprodotta negli animali; il papillomavirus del coniglio (CRPV) può infatti indurre il cancro a cellule squamose
Re-isolamento del virus
La trasformazione è associata con l’assenza di differenziamento epiteliale e l’integrazione del genoma di HPV prevendo la produzione di virioni e conseguentemente il “classico” reisolamento. Sebbene l’infezione con CRVP non sia produttiva, il genoma di CRVP è presente nel carcinoma a cellule squamose
Rilevamento della risposta immunospecifica al virus
Immunoglobuline G specifiche contro il capside di HPV sono associate un rishio relativamente alto di cancro del collo dell’utero
Le infezioni da Papillomavirus
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cancerosa ed un cancro [99-101]. L’HPV 16 è quello maggiormente legato a questo tipo di evoluzione. Comunque, non tutte le infezioni persistenti evolvono verso lesioni precancerose di alto grado e non tutte queste evolvono verso il cancro. Le lesioni di basso grado risolvono senza alcun trattamento nel 90% nelle adolescenti e nel 75% delle donne adulte. Questo è un concetto da tener ben presente: infatti, uno degli obiettivi secondari della vaccinazione è appunto quello di evitare il sovratrattamento delle lesioni che non avrebbero avuto conseguenze. Si calcola che il tempo di sviluppo complessivo tra la prima infezione, la sua progressione e lo sviluppo di un cancro sia mediamente di circa 20 anni, anche se sono stati documentati alcuni casi con tempi di latenza più brevi [99-101]. Le giovani donne possono contrarre l’infezione da HPV non appena divengono sessualmente attive; sono comuni le infezioni multiple e sequenziali con differenti tipi oncogeni di HPV. Solitamente le infezioni sono transienti e clinicamente irrilevanti, sebbene esse producano delle alterazioni citologiche temporanee che si risolvono spontaneamente. Fortunatamente soltanto in poche donne l’infezione da HPV è persistente e attiva (soltanto nel 10% l’infezione permane dopo 5 anni) e diviene clinicamente rilevante con un aumentato rischio (superiore al 50%) di sviluppare lesioni precancerose o cancro della cervice (Figg. 14, 15) [86, 99-101]. Il modello di carcinogenesi cervicale segue un percorso plurifasico multifattoriale (Fig. 15). La causa necessaria (ma non sufficiente) è l’infezione persistente da HPV ad alto-rischio. All’infezione da HPV
Fig. 14. Storia naturale della carcinogenesi della cervice uterina
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Carcinoma della cervice uterina
Fig. 15. Patogenesi del carcinoma cervicale
con genotipi a basso-rischio (LR) può fare seguito una lesione clinicamente rilevabile (LSIL), definita in passato come CIN 1 o displasia lieve (Fig. 15). Questa categoria corrisponde alla presenza di lesione displastica limitata al terzo inferiore dello strato epiteliale squamoso. La percentuale di regressione spontanea dell’LSIL è molto elevata specie nelle donne giovani (<30 anni). In termini oncologici l’infezione da HPV a basso-rischio non ha, quindi, risvolti clinici significativi. Anche l’infezione da HPV con genotipi ad alto-rischio (HR) può dar luogo a LSIL. Questa, in seguito al persistere dell’infezione, può però progredire verso HSIL (già definita come CIN 2-3). Si tratta di una lesione displastica estesa ai due terzi o all’intero strato epiteliale squamoso (laddove si identifica anche nel carcinoma in situ). L’HSIL è il precursore del cancro della cervice. Il tempo medio fra infezione primaria ed insorgenza di HSIL è di 7-12 anni e quello per il tumore invasivo è di 20 anni o più [86, 99-101]. Più raramente sono descritte lesioni ad andamento “esplosivo” che in 1-2 anni evolvono in HSIL e successivamente in carcinoma, senza la tappa intermedia dell’LSIL. Alcune di queste neoplasie fulminee sono responsabili dei carcinomi identificati a pochi mesi da un Pap test negativo. Non tutte le infezioni persistenti da genotipi HR evolvono in lesioni precancerose e queste non sempre progrediscono verso il tumore. D’altro canto, quanto più a lungo l’infezione persiste tanto meno facilmente sarà eliminata [86]. Poiché non tutte le donne infettate da virus oncogeni sviluppano il tumore, debbono esistere altri cofattori, fra cui quelli genetici legati alla risposta immune.
Le infezioni da Papillomavirus
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2.9 Terapia Gli obiettivi delle terapie verso le patologie associate a HPV sono: – l’eradicazione delle infezioni; – la guarigione dei sintomi; – la prevenzione delle malattie a lungo termine; – la prevenzione delle infezioni. Le terapie attualmente disponibili hanno raggiunto questi obiettivi solo in parte. Infatti, non si tratta di terapie antivirali specifiche, ma di trattamenti ablativi che non risolvono l’infezione virale e il problema della trasmissione. È possibile suddividere le terapie disponibili in quattro categorie: 1) ablative (trattamenti chirurgici); 2) agenti citotossici; 3) terapia fotodinamica; 4) terapie immunomodulatorie.
2.9.1 Trattamenti chirurgici Le lesioni non invasive intraepiteliali, identificabili solo utilizzando il microscopio, sono solitamente trattate con procedure ablative superficiali, come la crioterapia o la terapia laser. Sono procedure ambulatoriali che garantiscono il mantenimento della fertilità; sono efficaci, a breve termine, ma il tasso di ricorrenza è elevato, in quanto si rimuove unicamente la lesione superficiale, mentre persistono in profondità i cheratinociti infettati. Con la crioterapia, il tessuto anomalo e cinque millimetri di tessuto circostante sono raffreddati con una sonda per diverse volte consecutive, al fine di indurre necrosi. Un’alternativa è la rimozione del tessuto attraverso un laser di biossido di carbonio: è efficace come la crioterapia e la zona cicatrizza più velocemente, subendo meno deformazioni, ma i costi sono più elevati. Le procedure di rimozione che sfruttano un’ansa elettronica sono attualmente considerate il trattamento più adatto per la cura di lesioni non invasive. Si utilizza un filo carico elettricamente per l’ablazione della zona alterata e del canale endocervicale distale. È meno cara rispetto alla terapia con il laser e preserva il tessuto rimosso per un successivo esame istologico. I tumori di dimensione inferiore ai tre millimetri sono trattati utilizzando la biopsia conica. I tumori precocemente invasivi sono affrontati ricorrendo ad isterectomia o radioterapia. L’obiettivo è distruggere le cellule maligne della cervice, dei tessuti paracervicali e dei linfonodi regionali. I tumori in stadio già avanzato sono trat-
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Carcinoma della cervice uterina
tati con radioterapia diretta verso il tumore primario e verso i potenziali siti di metastatizzazione [7].
2.9.2 Agenti citotossici Gli agenti citotossici sono utilizzati per il trattamento delle verruche genitali. Si tratta di preparati ad uso topico, che distruggono le cellule al momento del contatto, indipendentemente dalla presenza di HPV. Sono caratterizzati da forti effetti collaterali e da un elevato tasso di ricorrenza della malattia.
Podofilina Un esempio di tali agenti è costituito dalla podofilina, un derivato del Podophyllum, ad uso topico. Agisce legando le proteine dei microtubuli, con conseguente arresto della cellula in metafase. È controindicato in gravidanza.
Acido tricloroacetico L’acido tricloroacetico è un altro agente utilizzato a livello topico, ma che può provocare effetti collaterali quali ulcerazioni, dermatiti, infezioni secondarie. Il vantaggio rispetto alla podofilina è che non dà effetti collaterali sistemici e pertanto può essere utilizzato in gravidanza. Questi farmaci sono stati analizzati in ristrette sperimentazioni cliniche, al fine di valutare la loro efficacia nel trattamento della CIN e della VIN, ma non sono abitualmente utilizzati per la cura di infezioni di HPV a livello mucosale.
5-fluorouracile Il 5-fluorouracile, un antitumorale antimetabolita, è disponibile sotto forma di pomata, ma la sua applicazione sulle lesioni genitali esterne è limitata, in quanto provoca notevoli reazioni infiammatorie. Il meccanismo d’azione si basa sul blocco del trasporto della timidina extracellulare, inibendo la via di salvataggio della sintesi dei nucleotidi. Presenta rischio di teratogenesi e il suo uso è controindicato in gravidanza. È utilizzato per il trattamento della VIN, ma i risultati sono variabili.
2.9.3 Terapia fotodinamica La terapia fotodinamica presenta un’efficacia variabile nel trattamento delle infezioni da HPV. Il meccanismo d’azione si basa sull’at-
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tivazione di un fotosensore (ad esempio l’acido aminolevulinico) da parte della luce, portando al rilascio di specie dell’ossigeno molto reattive. Questo provoca la distruzione dei tessuti, con conseguente attivazione del sistema immunitario dell’ospite. Il fotosensore è somministrato in modo sistemico o topico (nel caso di CIN, VIN e verruche genitali). Il fallimento della risposta alla terapia si associa ad una diminuzione dell’espressione di MHC di classe I su cellule neoplastiche, indicando che la terapia fotodinamica agisce come immunomodulatore [102].
2.9.4 Terapia immunomodulatoria Una strategia per il controllo delle infezioni da HPV consiste nell’indurre o potenziare la risposta immunitaria, in particolare cellulo-mediata. Questo rende possibile il trattamento anche di infezioni silenti. Gli anticorpi sono invece scarsamente coinvolti nel controllo delle infezioni di HPV, ma potrebbero prevenire infezioni successive.
Interferone La terapia con interferone (IFN), caratterizzato da attività antiproliferativa, antivirale e immunomodulatoria, è molto importante, soprattutto nella papillomatosi respiratoria ricorrente, ma anche in altre lesioni papillomatose, quali i condilomi genitali. Non sono bloccate le recidive anche se il trattamento ha il vantaggio di non danneggiare i tessuti e può inoltre aiutare a ridurre la massa delle lesioni prima dell’intervento di distruzione con mezzi fisici o chirurgici. L’efficacia terapeutica migliore si è osservata con IFN-β somministrato per via parenterale e con IFN-β intralesionale, che possono indurre remissione completa dei condilomi genitali recidivanti in gran parte dei pazienti trattati. Tuttavia si verificano effetti collaterali, quali febbre e mialgia. Il trattamento è costoso, di efficacia limitata e non è applicato nei trattamenti di routine di queste lesioni.
Imidazochinoloni Sono particolarmente importanti gli imidazochinoloni, agenti farmacologici che modulano le cellule dendritiche e i macrofagi. Un esempio è l’Aldara (Imiquimod), che applicato in modo topico, agisce come ligando di recettori situati su macrofagi e cellule dendritiche, provocando il rilascio di citochine e IFN-α; è efficace nel trattamento di verruche genitali. Non è ancora riconosciuto per il trattamento
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Carcinoma della cervice uterina
della CIN, mentre è stato già realizzato un “trial” per la sua applicazione nella cura della VIN. Il suo utilizzo deve essere strettamente controllato, in quanto il rilascio di citochine può causare potenti effetti collaterali di tipo infiammatorio.
Cimetidina La cimetidina, antagonista del recettore H2 istaminico, è un altro farmaco ad azione immunomodulatoria. È stata somministrata per via orale, ad alte dosi, per il trattamento di verruche genitali e cutanee, papillomatosi respiratoria e congiuntivale, soprattutto nei bambini. La cimetidina è stata testata in trial clinici in doppio cieco e con il placebo, ma non è risultata efficace nel trattamento di patologie indotte da HPV [102].
2.9.5 Terapia antivirale Attualmente non sono disponibili in commercio chemioterapici attivi contro HPV, ma il loro sviluppo è auspicabile per diverse ragioni. Una terapia antivirale ha le potenzialità di essere efficace verso infezioni sia inapparenti sia visibili clinicamente. Ci sono numerosi pazienti immunodepressi infettati da HPV, che non possono essere trattati con immunoterapia e per i quali i farmaci antivirali sarebbero l’unica alternativa. Inoltre, lesioni multifocali, come la VIN, che non possono essere sottoposte a terapie ablative e potrebbero essere resistenti a terapie immunomodulatorie, sarebbero trattate efficacemente con chemioterapici. Per queste motivazioni lo sviluppo di un antivirale attivo verso HPV è un obiettivo prioritario per aziende e gruppi di ricerca [102].
Retinoidi I retinoidi sono composti naturali o sintetici simili alla vitamina A, che svolgono una funzione preventiva verso la CIN e il cancro cervicale. Presentano un effetto antiproliferativo, inducono differenziazione in cellule epiteliali legandosi ad un recettore nucleare, ma non presentano una specifica attività anti HPV. Tuttavia si è osservato che, in vitro, portano ad una diminuzione dei livelli di trascrizione di E6/E7 e delle molecole coinvolte nell’apoptosi. La potenzialità dei retinoidi come agenti preventivi verso le infezioni da HPV è discutibile: in studi sperimentali sono risultati efficaci solo in combinazione con agenti citotossici, come il cisplatino [102].
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Indolo 3-carbinolo (I-3-C) È un derivato vegetale che ha effetti chemiopreventivi, come dimostrano studi in fase pre-clinica. Presenta un’attività anti-estrogenica e induce apoptosi. Topi transgenici per E6/E7, esposti cronicamente a 17 β-estradiolo, sviluppano cancro cervicale; tuttavia, quando questi animali sono sottoposti ad una dieta supplementata con I-3-C, l’incidenza di cancro si riduce. Questi risultati sono senza dubbio importanti, ma necessitano di conferme su trial estesi a un maggior numero di pazienti.
Cidofovir Tra i farmaci utilizzati per la cura delle infezioni degli HPV è necessario citare anche il Cidofovir, un analogo nucleosidico, che presenta un’attività ad ampio spettro verso i virus a DNA e in particolare il citomegalovirus. È relativamente efficace anche verso gli HPV, inducendo apoptosi quando è applicato localmente a livello delle cellule infettate. Durante una sperimentazione, è stato applicato un gel, costituito per l’1% da Cidofovir, in modo topico, per un mese su 15 donne affette da una grave forma di CIN. Nell’80% delle pazienti è stata osservata una risposta completa o parziale, che è stata in seguito verificata anche attraverso analisi istologiche e PCR.
2.10 HPV e modulazione del sistema immunitario 2.10.1 Meccanismi di difesa dell’ospite Il sistema immunitario è importante nel controllo delle infezioni degli HPV. Questo concorda con il fatto che, in donne immunodepresse, la SIL presenta una maggiore incidenza e persistenza. In particolare si osserva l’intervento del sistema immunitario cellulare ed umorale. Le infezioni di HPV sono simili a quelle mediate da virus non litici, in quanto non causano distruzione cellulare, ma sono rilasciati dalle cellule infettate mediante desquamazione. La difesa ideale verso questo tipo di infezione è una combinazione di anticorpi neutralizzanti e lisi cellulare mediata dai linfociti T citotossici (CTL). I CTL agiscono su cheratinociti presenti negli strati intermedi degli epiteli squamosi, dove si verifica la trascrizione e replicazione del virus e dove le proteine precoci sono espresse abbondantemente. La neutralizzazione mediata da anticorpi coinvolge in particolare IgG
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sieriche e IgA secretorie, rivolte verso antigeni di superficie del virus, al fine di bloccarne l’ingresso nelle mucose epiteliali. Gli anticorpi circolanti e il complemento possono opsonizzare e agglutinare le particelle virali, facilitando la fagocitosi mediata dai recettori C3b e Fc. Non è chiaro se la risposta anticorpale sia sufficiente a proteggere le donne dall’infezione e se tale protezione sia duratura. La persistenza delle verruche, anche in individui immunocompetenti, indica che il sistema immunitario trova difficoltà nell’innescare una risposta effettiva, a causa di immunodepressione locale o mancato riconoscimento delle proteine virali. Gli anticorpi non sono sempre in grado di eliminare il virus, soprattutto quando entra nello stato di latenza, durante il quale il DNA virale è integrato in quello cellulare. Risulta particolarmente importante, a questo punto, l’intervento del sistema dell’immunità cellulare, mediato da linfociti T citotossici CD8+ e da linfociti T helper di tipo 1 (Th1) CD4+. Questo sistema mette in atto strategie di sorveglianza intercellulari e intracellulari, che impediscono l’accumulo di cellule tumorali, sia abolendo l’espressione degli oncogeni virali, sia eliminando le cellule infettate attraverso l’apoptosi (Fig. 16) [45].
Fig. 16. Controllo intercellulare e intracellulare dell’ospite durante il processo di progressione tumorale causato dagli HPV. Modificata da [47], con autorizzazione di Macmillan Publishers Ltd
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I meccanismi di regolazione intracellulari prevengono l’immortalizzazione di cellule infettate con HPV ad alto rischio. I meccanismi molecolari alla base di questo processo implicano la modificazione di oncoproteine virali, attraverso fosforilazione o defosforilazione. L’oncoproteina E7, ad esempio, è fosforilata dalla caseina chinasi II. Un altro meccanismo di inibizione è mediato dall’interazione tra oncoproteine virali e proteine dell’ospite, quali gli inibitori delle cicline chinasi (p21 e p27), che solitamente sono inattivate da E7, ma la cui overespressione porta a risultati opposti, bloccando E7. La regolazione intercellulare, invece, previene la conversione verso un fenotipo maligno di cellule immortalizzate (che dal punto di vista clinico equivalgono a lesioni epiteliali di basso grado) da HPV. Questo meccanismo è mediato principalmente dall’azione di citochine secrete dai Th1 e Th2. Specifiche citochine mediano la repressione della trascrizione di oncogeni virali, a differenza di quanto accade nel caso di IL-6 e IL-17, che potenziano la tumorigenicità di cellule di cancro alla cervice uterina in topi nudi. TGF-β rientra tra le citochine che bloccano la trascrizione di geni precoci di HPV in cellule immortalizzate, mentre in cellule maligne l’attività trascrizionale rimane invariata. La resistenza all’inibizione di TGF-β è un evento tardivo nel corso dello sviluppo di carcinoma alla cervice. Altre citochine che bloccano la trascrizione di HPV in cellule immortalizzate sono IL-1 e TNF-α [103]. Alcuni studi hanno dimostrato che anche TNF-β, secreto dai macrofagi, agisce reprimendo la trascrizione dei geni di HPV in cellule immortalizzate, ma non in cellule maligne. Questo è dovuto principalmente a modificazioni del complesso trascrizionale AP-1. L’espressione di AP-1 nel corso della differenziazione cellulare determina l’espressione di E6 e E7 in epiteli stratificati. Mentre in cellule immortalizzate il complesso trascrizionale AP-1 a livello del promotore di HPV è costituito da omodimeri c-jun/c-jun, il trattamento con TNF-α porta invece alla formazione di eterodimeri cjun/fraI (quest’ultimo è anche attivato dall’acido retinoico, altro potente inibitore di HPV), in grado di sopprimere la trascrizione di HPV. In cellule maligne il complesso AP-1 è invece formato da eterodimeri c-jun/c-fos, che svolgono un ruolo importante nella conversione di cellule immortalizzate verso un fenotipo maligno [47]. Altre importanti citochine inibitorie sono gli interferoni e IL-2, prodotti da cellule Th1 attivate. IL-2 svolge un’azione indiretta, mediando l’attivazione dei precursori dei CTL. IL-2 e IFN-γ attivano le cellule NK, importanti nei primi giorni dell’infezione finché si svi-
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luppa, in 3-4 giorni, una risposta specifica mediata da CTL. Questi distruggono le cellule infettate, eliminando potenziali fonti di infezione. Gli interferoni, soprattutto β e α (α è più specifico per alcune linee cellulari), agiscono sia su cellule immortalizzate sia su cellule maligne, eliminando il virus attraverso l’induzione di uno stato antivirale nelle cellule. Il tumore può presentare meccanismi di resistenza agli interferoni, attraverso l’azione di E6 e E7, che interagiscono con fattori coinvolti nella sintesi di IFN-γ, quali p48, bloccandone così la trascrizione. La dimostrazione di un’inibizione selettiva, in vivo, mediata da IFN, della trascrizione di HPV in cellule immortalizzate, deriva da esperimenti di ibridazione in situ, in seguito al trapianto di cellule immortalizzate in topi nudi e trattamento con IFN. Dopo tre giorni la trascrizione di E6 e E7 si riduce maggiormente rispetto a quanto accade in vitro. Se lo stesso trattamento è realizzato su cellule maligne, non si ottengono gli stessi risultati. Questi dati concordano anche con le osservazioni cliniche, in cui si vede che, in lesioni a basso grado l’espressione di E6 e E7 è notevolmente inferiore rispetto alle lesioni ad alto grado. Da questi dati emerge un importante ruolo del controllo intercellulare di HPV mediato dalle citochine, che viene perso con la progressione maligna del tumore [47].
2.10.2 Infezioni da HPV in pazienti immunocompromessi L’elevata prevalenza dell’infezione e della neoplasia in donne immunocompromesse suggeriscono quanto l’immunità sistemica e locale influenzino la storia naturale dell’infezione da HPV. Non è del tutto chiara la funzionalità di anticorpi contro proteine capsidiche (L1, L2) nel prevenire infezioni e re-infezioni, con lo stesso tipo virale o con altri virus strettamente correlati, e nel modificare la storia naturale sulle lesioni cervicali. Al contrario dell’immunità umorale, la risposta cellulomediata dei linfociti T non è tipo specifica ed è un importante meccanismo effettore per la “clearance” delle infezioni persistenti. L’importanza della risposta immunitaria cellulo-mediata è indirettamente dimostrata dall’aumento della prevalenza del CC nelle donne HIV positive e nei soggetti trapiantati. La riduzione dell’immunità cellulo-mediata che si osserva durante il decorso dell’infezione da HIV e che si accompagna ad una elevata prevalenza dell’infezione da HPV e della patologia correlata, si associa ad una progressiva riduzione del pattern citochinico di tipo Th-1 (IL-2, IFN, IL-12), mediatore dell’immunità cellu-
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lo-mediata, e ad un aumento della sintesi di citochine di tipo Th-2 (IL-4, IL-5, IL-10) che stimolano invece l’immunità umorale. La clearance virale e la scomparsa delle lesioni associate ad HPV è significativamente inferiore nei pazienti immunosoppressi, come nei pazienti trapiantati di organi o coinfettati da HIV. I pazienti che hanno subito trapianto di organo e pazienti con infezione da HIV hanno cariche virali più alte e genotipi di HPV insoliti, più una maggiore propensione a neoplasie maligne connesse ad HPV, soprattutto il cancro cervicale (nelle pazienti HIV positive c’è un rischio maggiore di otto volte) e cancro anale (negli uomini HIV positivi il rischio aumenta di 42 volte).
2.10.3 Meccanismi di evasione dal sistema immunitario Gli HPV, in modo particolare i sottotipi ad alto rischio, hanno evoluto una serie di meccanismi per evadere dai sistemi di difesa della cellula bersaglio, i quali sono alla base della progressione dei tumori in cui è coinvolto HPV: – portano a diminuzione dell’espressione cellulare del complesso maggiore di istocompatibilità di classe I (MHC I) e della proteina di trasporto TAP-1, con conseguente alterazioni nella presentazione dell’antigene [104]; – modificano l’espressione di chemochine e citochine, bloccando i processi di comunicazione tra i cheratinociti infettati da HPV e gli effettori del sistema immunitario [105]; – guidano la cellula all’evasione dagli stimoli apoptotici mediati dai complessi CD95/TNF, TRAIL/TNF-α e i loro relativi meccanismi di trasmissione del segnale [106]. L’interazione tra HPV e il sistema immunitario si differenzia da quella di altri virus. Infatti, mentre patogeni quali il citomegalovirus producono specifici antigeni che interferiscono con i meccanismi di processazione dell’antigene, nessuna proteina di HPV svolge questa funzione come scopo primario. È la concomitanza di più fattori a minimizzare la presentazione del virus al sistema immunitario. Diverse alterazioni del sistema di presentazione dell’antigene, che coinvolgono i meccanismi di trasporto al proteosoma (i recettori HLA e i sistemi cellulari di riconoscimento dell’antigene) si verificano, ad esempio, nel corso di lesioni squamose intraepiteliali a elevato grado e carcinoma in situ. Questo insieme di meccanismi di evasione dal sistema immunitario è determinante per la progressione delle infezioni verso la malignità.
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Un altro meccanismo coinvolge le cellule presentanti l’antigene. Infatti, per essere riconosciute dai CTL, gli antigeni virali devono essere rilasciati dalla cellula infettata e presentati da cellule presentanti l’antigene (APC), tra le quali sono importanti le cellule di Langerhans. In seguito all’infezione, si osserva una diminuzione e un’alterazione morfologica di queste cellule, fenomeno che potrebbe spiegare la lunga persistenza del virus nelle cellule. La causa potrebbe essere una diminuzione di TNF-α, che è un potente attivatore delle cellule di Langerhans, o l’espressione dell’oncoproteina E7, che interferisce con la loro differenziazione. Inoltre, poiché l’infezione degli HPV non comprende una fase viremica, diminuisce la possibilità di un’efficace presentazione antigenica da parte delle APC. Anche l’evasione dai meccanismi apoptotici è particolarmente importante nel corso della patogenesi virale. Per definizione, l’apoptosi è un programma geneticamente determinato che porta all’attivazione di deossiribonucleasi attivate da caspasi. Di conseguenza, non solo viene degradato il DNA a elevato peso molecolare, ma anche il genoma virale che non è ancora stato incapsidato. Quindi è un processo importante nel limitare la diffusione della progenie virale nell’organismo e nel mantenere un adeguato rapporto tra il numero di cellule perse e acquisite; l’alterazione di questo equilibrio può favorire la progressione tumorale. Gli oncogeni di alcuni tipi di HPV interferiscono con la capacità della cellula di andare incontro a morte cellulare programmata, come è stato dimostrato utilizzando la tecnica “TUNEL” (che misura il livello di frammentazione del DNA direttamente su sezioni di tessuto primario) [107]. L’apoptosi è generalmente innescata nelle cellule da un’ampia gamma di diversi segnali intrinseci, come mancanza di nutrienti, ipossia o agenti chemioterapici. Tuttavia il principale evento fisiologico che rende possibile l’accensione del macchinario che porta a morte cellulare programmata è il legame tra i ligandi naturali in grado di attivare l’apoptosi (CD95L, TRAIL, TNF-β) ai recettori suicidi corrispondenti presenti sulla superficie cellulare, che appartengono alla famiglia dei recettori transmembrana TNF. In seguito al legame con il ligando, si verifica l’oligomerizzazione del recettore, seguita dal reclutamento del dominio FADD (Fas-associated-death domain) e della procaspasi 8, in modo tale da realizzare il complesso DISC (Death-inducing signaling complex).
Capitolo 3
Screening del carcinoma cervicale e diagnosi delle infezioni da HPV
’incidenza del carcinoma della cervice uterina è attualmente ridotta dall’esame citologico (Pap test) associato all’HPV DNA test. La citologia cervicale ha però una sensibilità bassa nel caso di riscontro di alterazioni citologiche di basso grado (LSIL) e, nel caso di anomalie squamose o anomalie ghiandolari di incerto significato (ASCUS, AGUS), richiede la ripetizione a distanza dell’esame citologigo oppure l’approfondimento diagnostico con altri test HPV, o l’esecuzione di un esame di secondo livello, quale la colposcopia. La citologia non è quindi un metodo affidabile per rilevare l’HPV. Per questi motivi il test di screening citologico è stato implementato in molti centri con il test HPV e molte Società Scientifiche hanno incluso nelle loro linee guida l’uso del test HPV il quale secondo le indicazioni attuali viene indicato, accanto al Pap test, come test di screening del CC nelle donne di età superiore ai 30-35 anni, nei casi di citologia (Pap test) dubbia (ASCUS) e nel follow-up delle pazienti sottoposte a trattamento escissionale di lesioni cervicali di alto grado. Le tecniche per la rilevazione dell’HPV differiscono in sensibilità e l’esperienza del laboratorio è di importanza critica per ottenere risultati attendibili, soprattutto per le tecniche PCR. In particolare oggi il test più diffuso e commercialmente disponibile, approvato dall’FDA (Food and Drug Administration), è denominato Hybrid Capture II. È un test che consente la simultanea determinazione di genotipi ad alto e basso rischio oncogeno attraverso l’ibridazione in fase liquida del DNA virale eventualmente presente nel campione. Questo metodo utilizza una miscela di sonde a RNA marcate; in particolare sono disponibili due pool di sonde che riconoscono rispettivamente HPV 16, 18, 31, 33, 35, 39, 45, 51, 52, 56, 58, (alto rischio) e HPV 6, 11, 42, 43, 44 (basso rischio).
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Carcinoma della cervice uterina
3.1 Esame citologico La miglior strategia per la prevenzione secondaria del cancro della cervice rimane ad oggi lo screening colpo-citologico con Pap test. Di fatto, il Pap test ha ridotto sensibilmente l’incidenza e la mortalità per cancro della cervice nei paesi occidentali; l’80% dei tumori si manifesta oggi nei paesi in via di sviluppo, ove si raggiungono tassi di incidenza di 50 casi per 100000 donne, proprio perché la carenza di informazione e risorse non ha permesso l’istituzione dello screening di massa. La sua efficacia deriva dal fatto che le lesioni precancerose sono citologicamente riconoscibili, evolvono di solito lentamente e possono essere eliminate con interventi mirati. Il test va, però, ripetuto regolarmente (viene consigliato ogni 3 anni in donne dai 25 ai 64 anni); la sua sensibilità, la riproducibilità e specificità non sono ottimali e può fornire risultati dubbi. È stato quindi raccomandato di aggiungere la ricerca del DNA di HPV alla citologia nello screening di donne che hanno superato i 30 anni. La ricerca virale è un test più sensibile e la prospettiva futura dello screening consisterà nell’integrazione razionale tra questa ricerca e il Pap test più specifico. Il metodo di screening tradizionale (che risale agli anni 50, ma che rimane pur sempre un valido metodo in quanto presenta un buon rapporto costo/efficacia) è l’esame citologico (il cosiddetto test di Papanicolau o Pap test). Questo esame permette di discriminare le cellule normali da quelle patologiche. Tuttavia, nonostante il miglioramento delle tecniche analitiche anche recentemente proposte, rimane una elevata percentuale di risultati incerti/anomali (5-10%), in cui le cellule vengono appunto definite come anomali (Pap test: ASCUS), con la conseguente necessità di dover ripetere il test ed eventualmente effettuare esami addizionali di conferma, quali la colposcopia e la biopsia. Oltre a questa attuale e complessa problematica, occorre riconoscere che il metodo non è immune da errori (sia nelle lettura che nel campionamento con alta variabilità inter-operatore ed inter-laboratorio) e soprattutto non è un esame di tipo predittivo oltre ad avere una bassa specificità e sensibilità. In conseguenza di ciò sono possibili risultati falsi negativi e falsi positivi che hanno forti ripercussioni sul paziente.
Diagnosi delle infezioni da HPV
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3.1.1 Pap test Il principale metodo per la rilevazione degli HPV ad alto rischio è la colorazione di Papanicolau degli strisci di campioni prelevati dalla cervice uterina (chiamata comunemente “Pap test”); è stata introdotta nel 1949 dal patologo Gorge Papanicolau, prima che si sapesse quale fosse la causa del cancro alla cervice uterina. Questa tecnica si basa sull’osservazione dei cambiamenti morfologici subiti dalle cellule nelle zone trasformate della cervice. In conformità a questo tipo di colorazione è stata realizzata la classificazione di Bethesda, introdotta nel 1988 e approvata nel 1991, in sostituzione al sistema CIN (introdotto nel 1973 e basato sull’analisi dell’architettura dei tessuti). Un aggiornamento della classificazione di Bethesda è stato realizzato nel 2001, per integrarvi i miglioramenti nella comprensione di questi tipi di patologie come specificato nel Paragrafo 1.2. Il “Pap test” presenta alcuni limiti. I campioni prelevati sono, nell’8% dei casi, inadeguati. Si possono verificare risultati falsamente negativi nel 20-30% dei casi, in quanto, talvolta, il campione è contaminato da sangue, funghi, batteri presenti a livello della cervice, impedendo la rilevazione di cellule anomale. Inoltre, se le cellule rimangono esposte all’aria troppo a lungo prima della fissazione, si alterano [7]. Il Pap test o test di Papanicolaou, dal nome di colui che lo ha scoperto nel 1942, è l’importante esame cito-oncologico semplice, valido ed economico che ha permesso la diagnosi precoce e la prevenzione del CC, riducendone l’incidenza e la mortalità. È stato osservato che dal 1950, anno in cui è stato introdotto, al 1970 l’incidenza e la mortalità per il cancro cervicale invasivo si sono ridotte di più del 70% e successivamente dal 1970 al 1995 c’è stata un’ulteriore riduzione del 40%. Quindi sicuramente questo tumore non è stato completamente eradicato, ma di fatto si è verificato un forte impatto su incidenza e mortalità. Questo test consente di attuare una profilassi secondaria volta a ridurre la prevalenza (frequenza di casi esistenti) di questo tumore poiché permette la cura negli stadi precancerosi, a differenza della profilassi primaria che è volta invece ad agire sulla diminuzione dei fattori di rischio della malattia riducendone l’incidenza (comparsa di nuovi casi). È stato quindi istituito un “Sistema di Screening Organizzato”, istituito secondo le linee guida del Piano Sanitario Nazionale e della Comunità Europea, basato sul Pap test che consente alle donne di età compresa tra 25 e 64 anni di attuare un prelievo ogni 3 anni finanziato dallo Stato.
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Esiste infine lo “Screening Opportunistico” che si differenzia da quello precedente perché non è un protocollo comportamentale rigido, ma bensì un protocollo clinico che si basa sul rapporto medicopaziente, dove è appunto il clinico a consigliare alla donna, in base alla sua situazione, il tempo opportuno tra un Pap test e l’altro. È fondamentale una corretta opera di educazione sanitaria della popolazione con lo scopo di promuovere la conoscenza riguardo al fatto che il cancro del collo dell’utero rappresenti una malattia frequente, ma curabile al 100% se diagnosticata nelle sue fasi iniziali. Inoltre è importante che tutte le donne, anche in assenza di qualsiasi disturbo, inizino a fare il Pap test non appena comincino ad avere rapporti sessuali. Il Pap test è l’esame fondamentale per effettuare il controllo sull’intera popolazione femminile presunta sana e per poter individuare, nell’ambito di questa, i soggetti con sospetta neoplasia intraepiteliale non evidente clinicamente (lesione pre-clinica). L’esame citologico si basa sul prelievo di materiale di sfaldamento mediante una spatola di legno apposita in corrispondenza dell’orifizio esterno della portio il più vicino possibile alla zona di trasformazione (giunzione squamo-colonnare) e presso i quattro fornici vaginali allo scopo di raccogliere le cellule esocervicali. Poi successivamente si raccolgono le cellule endocervicali tramite la rotazione nel canale cervicale di un minispazzolino, chiamato citobrush. Il materiale così prelevato viene strisciato su un vetrino porta oggetti e fissato con una miscela di alcool-etere in parti uguali in genere emessa sotto forma di spray. Lo striscio viene poi colorato con il metodo di Papanicolaou o con metodiche simili. Attraverso l’analisi accurata del vetrino colorato si possono evidenziare innanzitutto le alterazioni dovute alla presenza del Papillomavirus, dove l’espressione clinica principale consiste nei condilomi, che in sede esocervicale, sono solitamente pianeggianti, alcune volte invertiti e dotati di minuti aculei e quasi mai acuminati in senso stretto. I condilomi cervicali costituiscono in molti paesi la lesione più frequente dell’epitelio pavimentoso e rappresentano il risultato di una infezione virale subclinica generalmente non sistemica. L’effetto citopatico del Papillomavirus è rappresentato da cellule caratteristiche e facilmente identificabili che esfoliano dalle lesioni condilomatose: i coilociti. Questi coilociti, rappresentati nella Figura 17, sono cellule pavimentose mature superficiali o intermedie con ampio citoplasma che rilevano un alone perinucleare bianco otticamente vuoto a margini netti e circondato da citopla-
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sma generalmente denso. I nuclei sono spesso eccentrici, talora lievemente ingranditi con cromatina pallida, ma più frequentemente ipercromatici e picnotici. I caratteri citologici che permettono al citologo di differenziare i 3 stadi di neoplasia epiteliale si riassumono nei seguenti: – polimorfismo nucleare per variabilità di contorno e di forma; – aumento del rapporto nucleo/citoplasma; – ipercromasia o distribuzione irregolare della cromatina; – presenza di macronucleoli; – ispessimento e irregolarità della membrana nucleare; – evidenza di mitosi frequenti tipiche e atipiche. Dalla Figura 18 possiamo notare soprattutto l’aumento delle dimensioni del nucleo nei vari stadi. Essi sono sempre di dimensioni aumentate rispetto a quelli delle adiacenti cellule pavimentose normali, anche con il progredire del grado della lesione. Si ha di conseguenza una corrispondente riduzione del citoplasma. Questi due aspetti riflettono la progressiva perdita di differenziazione verso la superficie. La struttura cromatinica è in forma di granuli per lo più uniformemente dispersi, la cui grandezza aumenta con il progredire delle altre lesioni. I nucleoli sono assenti nel nucleo delle cellule squamose normali e nelle lesioni di basso grado (HPV e CIN 1) cominciando a farsi evidenti nelle alterazioni neoplasiche più avan-
Fig. 17. Esame citologico mediante colorazione di Papanicolau; ingrandimento originale 400X. Striscio cervico-vaginale: alterazioni da HPV (coilocitosi). (Per gentile concessione del Prof. Eugenio B. Leone)
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Fig. 18. Esame citologico mediante colorazione di Papanicolau; ingrandimento originale 400X. a Alterazioni da HPV (coilocitosi); b CIN 1; c CIN 2; d CIN 3. (Per gentile concessione del Prof. Eugenio B. Leone)
zate (CIN 2 e CIN 3). La loro comparsa indica una progressione neoplasica della neoplasia intraepiteliale verso una possibile conseguente invasione stromale. Papanicolaou avendo analizzato tutti questi criteri citologici, pubblicò una classificazione costituita da 5 classi (Tabella 7). Questa classificazione venne poi sostituita dalle classificazioni più recenti, ma rimane comunque, a grandi linee, la guida che ha permesso l’applicazione di questo test. Per quanto riguarda il periodo in cui è più opportuno che le donne vengano sottoposte al prelievo, sembra essere nel periodo della fase ovulatoria quando, per la particolare fluidità del muco cervicale, compaiono nello striscio anche le cellule colonnari dell’endocervice. In questa sede, infatti, può insorgere una forma di neoplasia iniziale, anche se con frequenza inferiore alla localizzazione esocervicale. La presenza delle cellule endocervicali è di fondamentale importanza per considerare lo striscio valido. È inoltre sconsigliabile eseguire l’esame in vicinanza della mestruazione o in presenza di perdite ematiche, poiché sono condizioni che possono alterare la lettura dello striscio. I vantaggi di questo test sono notevoli. Innanzitutto è un esame accettabile dalla donna perché il grado di invasività è minimo, viene fatto inoltre in una zona particolarmente
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Tabella 7. Classi secondo Papanicolaou Classi secondo Papanicolaou Classe I
Pap test negativo: assenza di cellule atipiche
Classe II
Pap test negativo: presenza di cellule con alterazioni dovute di solito a fatti flogistici, ma senza caratteri di discariosi (alterazioni del nucleo)
Classe III
Pap test dubbio: presenza di qualche cellula alterata, ma con caratteristiche insufficienti a sospettarne la malignità. Coesistenza con flogosi da Trichomonas o infezioni virali (HPVHSV-2)
Classe IV
Pap test positivo: presenza di pochi elementi nettamente displasici, cioè con discariosi e con anomalie citoplasmatiche, per cui c’è il fondato sospetto di lesione cancerosa iniziale
Classe V
Pap test positivo: presenza di numerosi elementi displasici, presenza di lesione maligna quasi certa
accessibile (la cervice uterina è un organo comunicante con l’esterno e quindi di facile accesso) e infine presenta dei costi contenuti per la società. La sensibilità del Pap test è del 60% e la specificità ≥90%. La correttezza del prelievo è fondamentale per evitare i falsi negativi (circa il 7-20%), che rappresentano un limite per questo esame. Infatti un test negativo nei tre anni precedenti la diagnosi di tumore cervicale è riportato tra il 13 e il 31% dei casi; altro dato è che nel 16-36% dei casi di CIN 1 istologico il Pap test risulta negativo. Questi falsi negativi possono essere dovuti ad un errore durante il prelievo da parte del clinico in quanto eseguito con tecnica scorretta (non in corrispondenza della giunzione squamocellulare) oppure ad errore durante la lettura da parte del citologo. I falsi positivi del Pap test (circa il 10-20%) sono dovuti invece a reperti interpretati erroneamente come positivi a causa di alterazioni cellulari dovute a flogosi cronica cervico-vaginale come quelle sostenute dal Trichomonas. In queste infiammazioni infatti si verifica una notevole desquamazione dell’epitelio pavimentoso e compare così un elevato numero di cellule basali, il cui nucleo, per le influenze dell’agente patogeno, può avere subito modificazioni che imitano la vera “discariosi”. Strisci falsi positivi si possono avere anche per una poco accurata valutazione delle modificazioni citologiche che si
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verificano in gravidanza o in donne che utilizzano gli estro-progestinici a scopo contraccettivo oppure nelle condizioni di distrofia associate all’età post-menopausale. Il citologo deve quindi essere sempre informato da parte del clinico di tali condizioni.
3.1.2 Citologia su monostrato Sono stati sviluppati nuovi metodi per la raccolta e l’analisi di campioni destinati al Pap test, al fine di ridurre il numero di risultati falsamente negativi. Con tali sistemi i campioni sono raccolti in una soluzione conservante, anziché essere posti direttamente sul vetrino manualmente. La struttura cellulare è mantenuta più correttamente, in quanto le cellule sono immediatamente fissate. Inoltre si utilizza una particolare spatola cervicale per la raccolta del campione, che permette di raccogliere un numero di cellule doppio rispetto agli altri strumenti. Il monostrato cellulare uniforme che si ottiene viene così esaminato più facilmente dai tecnici, si evita la seccatura del campione e viene rimossa la maggior parte dei contaminanti (muco, proteine, globuli rossi, batteri e lieviti). Attualmente sono disponibili due sistemi di citologia su monostrato approvati dalla FDA: il sistema “PrepStain” e il “ThinPrep Pap” (Fig. 19). I costi sono maggiori rispetto al Pap test tradizionale, ma numerose pubblicazioni in questo campo consigliano l’utilizzo della citologia su monostrato per la rilevazione di lesioni precancerose. La sensibilità della diagnosi è maggiore per tutti i tipi di patologie, in una percen-
Fig. 19. Striscio realizzato con la tecnica “ThinPrep Pap”, che mette in evidenza cellule squamoseanomale con effetto citopatico causato dagli HPV (freccia), in accordo con il quadro istologico della LSIL
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tuale che varia dal 4 al 17% in base al tipo di paziente. Quando si paragonano i risultati della citologia su monostrato e della colorazione di Pap tradizionale al “gold standard”, costituito da biopsia effettuata con colposcopia diretta, la citologia su monostrato è più efficace nell’identificazione di un quadro displastico [108]. La FDA ha approvato due nuovi dispositivi: “AutoPap” 300QC (NeoPath, Redmond, Wash) e “PapNet” (Neuromedical Systems, Suffern, N.Y.), realizzati al fine di rendere le procedure diagnostiche maggiormente automatizzabili. Sistemi computerizzati mostrano, su uno schermo, cellule potenzialmente anomale, destinate a successiva analisi. Con questo sistema si possono studiare sia campioni ottenuti con il “Pap test” tradizionale sia quelli ottenuti con la tecnica del monostrato cellulare. Un altro sistema per migliorare la diagnosi effettuata con il Pap test è realizzare una colorazione specifica per gli HPV. “BenchMark” (Ventana Medical Systems, Tucson, Arizona) è un sistema automatizzato modulare che realizza una colorazione immunoistochimica su campioni ottenuti con il sistema “ThinPrep Pap”. Sono disponibili sonde per alcuni sottotipi di HPV ad alto rischio (HPV-16, 18, 31, 33, 35, 39, 45, 51, 52, 56, 59, 70) e a basso rischio (HPV-6, 11, 42, 43, 44) [7].
3.1.3 Citologia in strato sottile ThinPrep 2000 versus Pap test convenzionale Nonostante sia universalmente riconosciuto al Pap test il merito della riduzione dell’incidenza e della mortalità per cervicocarcinoma, ancora oggi gli studi epidemiologici evidenziano negli Stati Uniti una previsione di 12800 casi di neoplasie invasive della cervice uterina e circa 4800 morti per questa patologia. La Commissione Oncologica Nazionale ha stimato in 1500-2000 le morti evitabili in Italia. La strategia degli screening, che prevede pochi Pap test, ma “ben fatti”, può dare risultati significativi in termini di efficacia preventiva se la qualità complessiva del sistema è “alta”. Vari studi hanno dimostrato che campionamenti inadeguati, errori nella metodologia organizzativa e gestionale del programma di screening associati ad interpretazioni diagnostiche errate, giustificano dati di incidenza e mortalità ancora troppo elevati. La qualità della prestazione citologica rappresenta il cuore della prevenzione della patologia cervicale e vari autori hanno dimostrato che le percentuali di falsi negativi nel Pap test convenzionale variano dal 6 al 55% [108]. I limiti
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tecnici del Pap test convenzionale possono essere alla base di questi falsi negativi. È noto che la maggior parte degli strisci negativi sono il risultato di errori di campionamento e che l’accuratezza della diagnosi citologica può essere compromessa da fattori quali materiale scarso o troppo spesso, granulociti e/o eritrociti che oscurano il materiale cellulare, o da cattiva fissazione [109, 110]. Negli ultimi anni alcune tecniche innovative sono state introdotte con lo scopo di ridurre i falsi negativi [110, 111]; tra queste la citologia in strato sottile ThinPrep 2000. La percentuale dei preparati “adeguati” aumenta dall’85,75% dei Pap test convenzionali al 97,9% dei Pap test con ThinPrep 2000. Una diminuzione dell’85% degli “inadeguati” totali è statisticamente significativa e, come si può notare, è dovuta essenzialmente ad una drastica diminuzione dei preparati inadeguati per presenza di flogosi intensa. È importante sottolineare i vantaggi e gli svantaggi della metodica in strato sottile. Vantaggi: – migliore fissazione/preservazione delle cellule; – più facile visualizzazione delle cellule senza sovrapposizione cellulare; – diminuzione degli elementi infiammatori ed ematici che disturbano la lettura; – diminuzione dell’area di lettura; – diminuzione dei tempo di screening; – possibilità di produrre vetrini addizionali da un singolo campione. Svantaggi: – minor quantitativo di materiale diagnostico rispetto al Pap convenzionale in alcuni casi; – maggior dispersione di cellule anormali non più circoscritte a zone precise del vetrino; – vanno riconsiderati i criteri per riconoscere le cellule displastiche; – l’individuazione meno frequente delle cellule endocervicali; – l’allestimento e la lettura dei preparati va effettuata da personale adeguatamente formato; – il costo elevato. Nell’esaminare i quadri patologici rilevati, si evidenzia immediatamente un aumento delle diagnosi delle SIL nei preparati ThinPrep 2000 e questo ci porta ad affermare che l’alta definizione della citologia in strato sottile fa sicuramente diminuire i falsi negativi. Questo forte aumento è attribuibile soprattutto all’incremento nella diagnosi
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di LSIL. Con l’uso del ThinPrep 2000 le diagnosi di SIL sono quasi triplicate. Altri studi apparsi in letteratura hanno dimostrato un forte aumento nella diagnosi di LSIL [111]. I veri positivi rispetto a tutti i positivi diagnosticati mitologicamente sono stati confrontati con il calcolo del PPV. Per una diagnosi citologica di LSIL il PPV è maggiore per ThinPrep 2000, anche se l’incremento è lieve (79,4% vs. 72%). Per diagnosi di SIL i PPV sono praticamente uguali (89,7% vs. 86%). L’analisi del rapporto costo-benefici delle due metodiche evidenzia: – l’area del vetrino sottoposta a lettura è notevolmente diminuita ed è evidente che il tempo richiesto per l’osservazione al microscopio è inferiore per il ThinPrep 2000 rispetto al Pap test convenzionale; – per quanto concerne il fattore economico, in alcuni lavori sono stati fatti calcoli minuziosi considerando tutte le possibili spese per l’allestimento dei due preparati, arrivando alla conclusione che il costo di un vetrino allestito con la metodica in strato sottile è quasi il doppio di quello che si ha per l’allestimento convenzionale; – ampliando il discorso dei costi oltre le cifre, occorre considerare anche altri fattori non numerici che possono influire sui costi della salute pubblica; una brusca riduzione degli inadeguati diminuisce il numero dei preparati da riallestire con conseguente raddoppio dei costi, rallentamento nei tempi di screening e inutile stress emotivo per le donne che vengono richiamate per ripetere il test. La diminuzione dei falsi negativi migliora decisamente la performance di tutta l’attività di screening. Il Pap test non è però un esame diagnostico ma è un test di screening capace di individuare le donne sospette portatrici di una neoplasia iniziale del collo uterino e rappresenta un campanello d’allarme che comporta ulteriori indagini. Una paziente con un Pap test positivo o dubbio deve essere sottoposta ad un altro esame, la colposcopia.
3.1.4 Lo screening citologico (Pap test) è veramente efficace nel prevenire il cancro del collo dell’utero? Lo screening si è sicuramente dimostrato fino ad ora la strategia migliore nella prevenzione del cancro del collo dell’utero e l’introduzione della vaccinazione contro l’HPV non ne deve assolutamente attenuare l’implementazione e la diffusione. Nonostante esista un
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problema relativo alla limitata sensibilità e specificità del test, per cui sono stati rilevati mediamente un 30% di falsi negativi (soprattutto al di fuori di contesti di screening organizzato e controllato), l’introduzione dei programmi di screening di popolazione tramite Pap test ha dimostrato di ridurre dal 60 al 90% entro tre anni l’incidenza del cancro del collo dell’utero. Esiste una marcata differenza di incidenza della malattia tra i Paesi che hanno realizzato programmi efficienti di screening e quelli che non l’hanno fatto. I problemi sono semmai rappresentati dalla diffusione dei programmi di screening. La metà delle donne americane che hanno avuto diagnosi di cancro del collo dell’utero non si erano mai sottoposte a screening ed un ulteriore 10% non lo aveva fatto negli ultimi 5 anni, oppure avendolo fatto, non si erano sottoposte agli accertamenti ed alle cure necessarie in caso di Pap test anormale. Esistono diversi fattori che limitano la partecipazione delle donne allo screening. Tra questi: – fattori personali (vergogna, povertà, mancanza di tempo, bassa percezione del rischio); – fattori culturali (credo religiosi, superstizioni, sesso dell’operatore); – fattori relativi al servizio (scarsa organizzazione, diffusione, fruibilità, inadeguata accoglienza). Va ricordato che in tutto il mondo le donne appartenenti ai livelli sociali più bassi sono quelle maggiormente colpite dal cancro del collo dell’utero. Nei paesi a maggiore sviluppo si verifica una specie di circolo vizioso per cui le donne che si sono sottoposte al test una prima volta lo fanno regolarmente e a volte con frequenza maggiore del necessario e chi invece non è mai stata contattata o ha rifiutato lo screening non lo fa nemmeno una volta nella vita.
3.2 Biopsia cervicale e l’esame istologico I pazienti che, in seguito ad analisi con Pap test, presentano anomalie, ma senza evidenti lesioni cervicali, sono solitamente sottoposti a colposcopia e a biopsia con colposcopia. La biopsia cervicale e l’esame istologico del tessuto prelevato vengono eseguiti nel caso di Pap test positivo o dubbio e/o di esame colposcopico suggestivo per lesioni pre-cancerose. Il prelievo mirato va attuato con un’apposita pinza o con l’ansa diatermica sotto guida colposcopica. Al fine di escludere che nell’endocervice ci siano zone di atipia sfuggite all’esame colposcopico, si associa alla biopsia mirata il “curettage endocervicale”
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onde dare al patologo la possibilità di effettuare un esame istologico anche di questa zona. La colposcopia può rilevare displasie ad alto e basso grado, ma non patologie microinvasive. Se non vengono rilevate anomalie, viene effettuata una biopsia. Essa è utilizzata per confermare la maggior parte delle diagnosi attraverso l’osservazione delle alterazioni morfologiche tipiche delle infezioni da HPV, come iperplasia epiteliale (acantosi), vacuolizzazione citoplasmatica degenerativa (coilocitosi) in cheratinociti differenziati con nuclei atipici. Inoltre può essere utilizzata una colorazione che evidenzi gli antigeni o gli acidi nucleici degli HPV. Sono disponibili anticorpi monoclonali o policlonali diretti verso un antigene comune tra gli HPV, ovvero un epitopo lineare situato al centro della proteina maggiore del capside, molto espressa tra i diversi genotipi virali. Il legame dell’anticorpo viene rilevato attraverso la marcatura con perossidasi-antiperossidasi. La colorazione è solitamente localizzata nel coilociti. Il DNA o l’RNA degli HPV può essere evidenziato in tessuti derivanti da biopsia attraverso metodi di ibridazione in situ, che prevedono l’uso di sonde marcate con radioisotopi o con ligandi chimicamente reattivi e rilevati con autoradiografia, fluorescenza o con una reazione colorimetrica. Le tecniche di ibridazione in situ localizzano le sequenze degli acidi nucleici dell’HPV all’interno di singole cellule, mantenendo la morfologia delle cellule e del tessuto al fine di valutare le alterazioni morfologiche associate alle lesioni. Per la rilevazione degli HPV, sono preferibili sonde che non utilizzano isotopi e i metodi enzimatici sono più adatti rispetto a quelli basati sulla fluorescenza per agevolare l’interpretazione. Le caratteristiche del segnale (confluente o appuntito) riflettono la forma episomale o integrata del DNA virale. L’intensità del segnale è direttamente proporzionale al numero di copie. Le tecniche in situ di amplificazione del segnale o del bersaglio sono state sviluppate per rilevare enzimaticamente un basso numero di copie delle sequenze di acido nucleico degli HPV [7].
3.3 Colposcopia La colposcopia riveste un ruolo importante nei programmi di screening per il Carcinoma Invasivo della Cervice (CIC), dal momento che costituisce l’indagine di riferimento per la valutazione di secondo livello dei Pap test anormali. In presenza di un esame citologico
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anormale, prima di adottare la terapia, è necessario localizzare la lesione dove eseguire la biopsia per l’esame istologico e la valutazione dell’estensione. La colposcopia, quindi, è considerata un importante ausilio per la localizzazione e la delimitazione dei precursori del cancro invasivo e microinvasivo della cervice. Numerose indagini sono state effettuate per valutare il ruolo che tale esame svolge nella diagnostica delle lesioni pre-neoplastiche nelle pazienti HIV-positive, che presentano un rischio aumentato di insorgenza di CIC e dei suoi precursori. Per tale motivo, dal 1993 i Centers for Disease Control (CDC) di Atlanta hanno incluso il CIC tra i criteri di definizione di caso di AIDS. Negli Stati Uniti, le linee-guida emanate dai CDC per proteggere le donne HIV-positive dal cancro della cervice, stabiliscono la necessità della visita ginecologica e del Pap test. Se il primo Pap test è negativo, bisogna ripetere l’esame dopo sei mesi e successivamente ogni 12 mesi. Tuttavia numerosi autori hanno messo in discussione l’uso del Pap test come metodo di screening per la neoplasia cervicale nelle donne HIV-positive, sottolineando l’importanza dell’esecuzione sistematica della colposcopia. La questione chiave è se il Pap test sia in grado di rivelare tutte le anomalie cervicali individuabili invece con la colposcopia. La modalità con cui questo esame viene effettuato è a base di coloranti particolari in grado di mettere in evidenza un’eventuale lesione pre-neoplastica. In questo modo si può avere una conferma riguardo alle alterazioni riscontrate al Pap test e di conseguenza suggerire un prelievo bioptico mirato della lesione per ottenere una diagnosi istologica definitiva in grado di determinarne il tipo di trattamento. L’esame consiste nell’osservazione del collo uterino con un “colposcopio”, il quale, utilizzando ingrandimenti di 10-20 diametri fino a 60 diametri, consente di osservare gli aspetti del connettivo sottoepiteliale e lo spessore che l’epitelio squamoso o quello cilindrico assume nelle varie zone della portio, soprattutto presso la giunzione squamo-colonnare. Dopo aver osservato la portio e la mucosa vaginale senza nessun tipo di preparazione, si ripete l’osservazione dopo detersione con acido acetico al 3%, il quale serve per eliminare le secrezioni che ostacolano la visione della mucosa e fa acquisire all’epitelio squamoso normale un colorito rosa brillante, mentre all’epitelio colonnare un aspetto papillare villoso “a chicchi di uva”. La zona di trasformazione viene ben evidenziata dopo l’uso di questo colorante per l’aspetto diverso che assumono queste due zone.
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Le aree di epitelio atipico o displasico assumono invece un colorito biancastro, dovuto alla presenza in questo particolare epitelio, che tende a proliferare, di un elevato contenuto di proteine, che vengono coagulate dall’acido acetico stesso. A seconda dello spessore dell’epitelio squamoso atipico e della struttura dei vasi sottostanti che irrorano il connettivo si possono avere diversi quadri. L’epitelio che diventa bianco all’acido acetico non è solo quello neoplastico, ma anche quello delle lesioni da virus (HPV), quello della zona congenita di trasformazione e quello con metaplasia squamosa immatura; istologicamente non è sempre facile differenziare questi quadri dalla neoplasia intraepiteliale. Successivamente si passa al test di Lugol o test di Shiller utilizzando un colorante a base di iodio. Quest’ultimo viene utilizzato perché colora l’epitelio squamoso normale di una donna in età feconda di bruno mogano, perché è un epitelio contenente glicogeno. Viene così facilitato il riconoscimento della giunzione squamo-colonnare perché l’epitelio cilindrico cervicale non prende lo iodio e rimane chiaro. L’epitelio squamoso neoplastico e quello alterato per fatti flogistici sono poveri di glicogeno e non si colorano in bruno mogano, rimangono cioè iodo-negativi. Di seguito viene riportato l’algoritmo delle indagini da eseguire qualora si presentasse un caso di citologia anomala (Fig. 20).
3.4 Diagnosi molecolare delle infezioni da HPV Attualmente la diagnostica del Papillomavirus si effettua soprattutto a livello molecolare ed in particolare si basa sulla ricerca del DNA o dell’mRNA virale; le metodiche sierologiche invece sono meno utilizzate. L’HPV DNA test offre un modo per migliorare i programmi di screening per il cervicocarcinoma e ridurre la mortalità per cancro. A tale proposito è stata pubblicata una mole straordinaria di lavori scientifici, tesi a dimostrare l’utilità della ricerca del DNA virale ed il rapporto costo-efficacia di questi test [112]. Le tecniche per la tipizzazione dell’HPV hanno differenti sensibilità. Nella diagnostica di routine si usano correntemente tre tipologie di test per l’identificazione: – Hybrid Capture II (HC 2); – Polymerase Chain Reaction (PCR); – INNO-Lipa HPV Genotyping v2.
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Fig. 20. Iter diagnostico in presenza di PAP-TEST anomalo
3.4.1 Hybrid Capture (HC 2) test L’HC 2 (Digene Company) è il test più diffuso commercialmente disponibile, approvato dalla FDA. Si tratta di un saggio che rende possibile l’amplificazione del segnale di ibridazione e che determina quantitativamente la presenza di virus nel campione attraverso tecniche di chemioluminescenza basate sull’uso di anticorpi. È un test di ibridazione molecolare in micropiastra, che utilizza una miscela di sonde a RNA marcate, distinte in due pool, consente la simultanea determinazione di genotipi ad alto e basso rischio oncogeno attraverso l’ibridazione in fase liquida del DNA virale eventualmente presente nel campione. I pool possono essere impiegati simultaneamente, per una diagnosi generica dell’infezione, o separatamente, per definire la determinante di rischio oncogeno. A seguito della denaturazione del DNA presente nel campione, si forma un ibrido DNA/RNA che viene riconosciuto da un anticorpo
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monoclonale specifico immobilizzato sul pozzetto di reazione. Il rilevamento della reazione avviene attraverso l’uso di un anticorpo secondario, che riconosce quello monoclonale, coniugato con fosfatasi alcalina. Successivamente, viene aggiunto un substrato chemioluminescente che, metabolizzato dalla fosfatasi alcalina, emette fluorescenza. Il metodo presenta dei limiti: distingue fra tipi ad alto e basso rischio, ma non permette di definire il genotipo specifico, è meno sensibile rispetto alla PCR e da problemi di cross-reattività fra i due pool di sonde. HC 2 comunque è molto utilizzato e riproducibile; la tipizzazione avviene tramite chemioluminescenza, con una soglia di identificazione pari ad 1 picogrammo di DNA virale per ml. L’HC 2 non individua però il singolo tipo virale e la carica virale è calcolata in forma semiquantitativa (tramite un gradiente di intensità di chemioluminescenza). Il segnale luminoso, misurato con un luminometro ed espresso come unità di luminosità relativa, viene paragonato a un valore limite. La sensibilità analitica varia da 6,6 a 17,6 pg/ml in base al tipo di HPV. Questa tecnica non presenta una forte rilevanza clinica, ma è ampiamente usata in studi di ricerca ed epidemiologia. Non viene utilizzata per analisi di screening sulla popolazione generale, ma è indicata come supporto alla diagnosi di infezione da HPV e per discriminare tra Papillomavirus umani ad alto e basso rischio. È utilizzato inoltre per un’analisi più approfondita di pazienti risultati positivi al Pap test, al fine di valutare il rischio di sviluppare cancro alla cervice uterina. Tuttavia questo saggio non può essere realizzato indipendentemente dal Pap test. I limiti sono legati alla reattività crociata degli anticorpi utilizzati per la rilevazione del segnale, che può portare ad ottenere risultati falsamente positivi [7]. Da poco tempo è stato introdotto Hybrid Capture 3, l’evoluzione di HC 2 [113-116]. Questo metodo si basa sullo stesso principio del precedente ma utilizza oligonucleotidi biotinilati per la cattura di regioni specifiche all’interno della sequenza target e i pozzetti sono quindi ricoperti da streptavidina. Supera soprattutto i limiti di ibridazione aspecifica di HC 2 utilizzando nucleotidi “blocker”, ovvero molecole di DNA non marcato complementari agli oligonucleotidi biotinilati. In questa maniera riduce la cross-reattività mantenendo la specificità. HC 3 è disponibile anche in versione completamente automatizzata, Rapid Capture System, con un robot che svolge tutte le fasi di incubazione, agitazione, lavaggio e deposizione su piastra. Solo la fase di denaturazione deve essere svolta manualmente.
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3.4.2 Polymerase Chain Reaction (PCR) Questa tecnica permette di amplificare selettivamente il DNA virale da un campione dopo averlo estratto. La sensibilità e la specificità dei metodi basati sulla PCR possono variare in relazione ai primers utilizzati, alle condizioni della reazione, alla performance dell’enzima DNA polimerasi, allo spettro del DNA amplificato ed alla capacità di riconoscere siti multipli. Possono essere utilizzati primers specifici per l’amplificazione del singolo genotipo di HPV; ciò implica l’allestimento di più saggi separati per ciascun campione e richiede un attento lavoro di validazione di ogni set di primers. In alternativa si utilizzano primers consensus che permettono l’amplificazione di un’ampia gamma di genotipi. Questi primer sono studiati in regioni conservate nei diversi genotipi virali; in particolare sono stati studiati molteplici set di primers consensus nelle regioni L1 ed E1. Esistono diversi sistemi di primers a largo spettro, in grado di identificare un elevato numero di genotipi di HPV. SISTEMA GP5+/GP6 [117]: identifica oltre 30 genotipi di HPV amplificando una regione di circa 150 bp. I primers contengono numerosi mismatch per cui, per favorire l’annealing, i cicli di amplificazione devono essere effettuati ad una temperatura molto bassa (circa 45°C). Richiede un accurato set up della PCR (concentrazioni di Mg2+, numero di cicli di amplificazione, temperatura di annealing...) affinchè il metodo dia risultati soddisfacenti. SISTEMA MY09/MY11 [118]: sono primers che contengono basi degenerate per compensare la variabilità delle sequenze fra i diversi genotipi. È il sistema che identifica il numero maggiore di genotipi HPV e amplifica una regione conservata su L1 di 450 bp. Lo svantaggio principale di questi primers è dato dalla scarsa riproducibilità di sintesi degli oligonucleotidi degenerati, che implica sia la validazione del sistema ad ogni nuova sintesi sia una variabilità di risultato. L’evoluzione degli MY09/MY11 sono i PGMY09/11, che risolvono il problema dei mismatch utilizzando un pool di primers. SISTEMA SPF10 [119]: questo sistema utilizza una miscela di coppie distinte di primers disegnati nella stessa regione genomica e che non contengono nucleotidi degenerati, ma eventualmente inosina, che è complementare ad ogni nucleotide. Il vantaggio che deri-
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va dall’utilizzo di questi primers è dato dall’elevata riproducibilità di sintesi abbinata alla possibilità di effettuare il saggio di PCR a temperature ottimali (Fig. 21). Il test con PCR si è ultimamente reso disponibile in Italia con due metodiche che identificano i 13 principali genotipi degli HR HPV: 1) DuoPap (con individuazione del singolo tipo virale); 2) Amplicor (che non individua il singolo sottotipo). Recentemente è stato reso disponibile un nuovo metodo, il Linear Array HPV test, che identifica ben 37 genotipi di HPV ad alto e basso rischio, anche individualmente. 1) DuoPap (Bi-tech) Abbina la metodica PCR alla citologia su strato sottile. Tipizza i 13 principali genotipi di HPV ad alto rischio: 16, 18, 31, 33, 35, 39, 45, 51, 52, 56, 58, 59, 68 (con possibilità di individuazione del singolo tipo virale). La carica virale è determinata con precisione ed è sufficiente un singolo prelievo. Viene fornito tutto il materiale necessario per il prelievo ed il ritiro del campione. I referti sono personalizzati via e-mail oppure on-line e il costo è contenuto.
Fig. 21. Schema del genoma di HPV linearizzato e localizzazione dei diversi set di primers che vengono più comunemente utilizzati: MY09/11, GP5+/6+, SPF
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2) Amplicor HPV test (Roche) L’Amplicor è un test marcato CE, altamente sensibile ed affidabile che come l’HCR test rileva, ma non identifica singolarmente i 13 principali genotipi di HPV ad alto rischio [120]. La “cross-contaminazione” con altri tipi di HPV è risultata pari a zero. Il rilevamento di DNA virale mediante Amplicor HPV test dovrebbe essere effettuato entro 21 giorni dal prelevamento del materiale. Un test negativo in presenza di CIN è risultato associato a regressione o persistenza delle lesioni, mai a progressione. L’Amplicor HPV test si correla bene con il grado delle lesioni associate e la storia naturale della malattia. Questo test è risultato più sensibile rispetto all’HC 2: la presenza di HR HPV è stata confermata nel 33% dei campioni positivi con Amplicor e negativi con HC 2. In nessuno dei campioni negativi con Amplicor e positivi con HC 2 sono stati riscontrati HPV ad alto rischio: ciò starebbe ad indicare una falsa positività dell’HC 2.
3.4.3 INNO-lipa HPV Genotyping v2 Questo saggio di tipizzazione è basato sul principio di ibridazione inversa, in base al quale un frammento target della regione L1 del genoma di HPV precedentemente amplificato e denaturato viene fatto ibridare con sonde oligonucleotidiche tipo-specifiche [120]. Per permettere la rivelazione, gli ampliconi marcati con biotina vengono legati dalla streptavidina coniugata ad un enzima che, in seguito all’aggiunta di un substrato specifico, effettua una reazione che sviluppa colore (Fig. 22).
3.4.4 Altri test di laboratorio per la diagnosi delle infezioni da HPV Esistono poi i Biochips (microarrays), che non sono ancora entrati nella routine per il costo proibitivo quali l’HPV Genotyping chips (Biomedlab Company) e Array HPV. Ogni chip genico consiste di una fila di pozzetti di 20 micron quadrati su una superficie di silicone di 1,3 cm.
HPV Genotyping chips (Biomedlab Company) È un sistema basato su di un microarray di oligonucleotidi. Permette di identificare 22 tipi di HPV con l’immobilizzazione di sonde oligo-
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Fig. 22. Nella parte sinistra della figura è riportato lo strip di riferimento per l’interpretazione dei risultati ottenuti dalla tipizzazione mediante ibridazione inversa con sistema INNO-lipa HPV Genotyping v2; nella parte destra della figura alcuni esempi di strisce positive ad HPV
nucleotiche tipo-specifiche su di un foglio di vetro derivatizzato con acetaldeide. Il DNA target è sottoposto ad una PCR standard in presenza di nucleotidi fluoresceinati (Cy5 o Cy3) con il sistema di primers GP5+/6+. Il prodotto di PCR viene ibridato sul chip e poi letto con uno scanner laser a fluorescenza. Questo metodo permette una analisi di tipo semiquantitativo identificando nello stesso tempo sia la carica virale sia il tipo di HPV. Tuttavia la rilevazione del segnale nei microarray è soggetta a variazioni, richiede un processo di normalizzazione e, soprattutto, un costo aggiuntivo.
Array HPV Questo kit per la diagnosi in vitro dei vari tipi di HPV si basa sull’amplificazione di frammenti specifici del suo genoma e successiva rivelazione mediante l’ibridazione con sonde di cattura specifiche e lettura automatica con ATS Reader. È un sistema brevettato basato su micro arrays a bassa densità posizionati sul fondo di un tubo tipo Eppendorf. Il micro-array ha dimensioni di 3x3 mm. In esso sonoposizionate 124 sonde (35 genotipi di HPV in triplicato + 3 controlli interni e 3 controlli per PCR).
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3.5 Applicazioni del test HPV nei protocolli di screening del CC 3.5.1 Uso del test HPV nella gestione della paziente con Pap test anormale L’introduzione del test HPV nei programmi di prevenzione secondaria del carcinoma della cervice uterina (CC) è avvenuta in seguito alle numerose dimostrazioni nella letteratura scientifica che l’identificazione di HPV ad alto rischio ha una maggiore sensibilità nel predire le HSIL o il CC invasivo rispetto al Pap test. Una meta-analisi sull’uso del test HPV nel triage del referto ASCUS al Pap test ha dimostrato che il test HPV ha un’accuratezza migliore rispetto alla ripetizione dell’esame citologico. La sensibilità e specificità complessiva del test HPV erano del 84,4% e 72,9%, rispettivamente, vs. 81,8% e 57,6% del Pap test, usando come cut-off il referto ASCUS; usando invece come cut-off il referto LSIL, la sensibilità del Pap test si riduceva al 45.7% mentre la specificità aumentava al 89,1% [121]. Tra i vari studi inclusi nella meta-analisi, va citato l’autorevole studio ALTS (ASCUS Low SIL Triage Study), uno studio clinico controllato randomizzato, che ha reclutato 3488 pazienti, suddivise nei tre bracci di trattamento: colposcopia immediata, ripetizione della citologia in fase liquida, o test HPV. Questo studio, confermato poi da altri analoghi, ha dimostrato che la sensibilità del test HPV nell’identificare i casi di CIN 3 era superiore rispetto alla ripetizione della citologia, pur mantenendo una simile specificità [122]. Sulla base di questi dati, negli Stati Uniti, l’American Society for Colposcopy and Cervical Pathology, indica oggi il test HPV come opzione ottimale per il triage del Pap test ASCUS [123]. In uno studio prospettico randomizzato condotto in Italia, in cui l’esame citologico ed il test HPV erano condotti in parallelo, è emerso che la specificità del test HPV, se usato per il triage dell’ASCUS o del LSIL, è maggiore nelle donne di età superiore ai 35 anni rispetto a quelle più giovani, in accordo con altri studi pubblicati in letteratura [124].
3.5.2 Uso del test HPV nel follow-up della paziente trattata per neoplasia cervicale Numerosi studi dimostrano che il test HPV, eseguito ad intervalli di 4-6 mesi dopo trattamento escissionale di lesioni di alto grado (CIN
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2-3), è superiore per sensibilità e specificità all’esame citologico nel monitorare il rischio di ricorrenza di malattia [195]. In assenza di HPV DNA il rischio di persistenza o recidiva di CIN di alto grado è praticamente nullo, come dimostrato dagli studi pubblicati in letteratura, nei quali il 97% dei casi di recidiva CIN 2-3 identificati nel corso del follow-up erano HPV-positivi.
3.5.3 Uso del test HPV come test di screening del carcinoma cervicale In letteratura sono stati pubblicati numerosi studi che hanno valutato il ruolo del test HPV nei programmi di screening del CC [126, 127]. Questi studi sono stati condotti utilizzando metodiche diverse e hanno dato risultati talora contrastanti. Recentemente è stata pubblicata una meta-analisi comprendente 25 studi non randomizzati in cui la performance dell’esame citologico nel predire le lesioni CIN 2 era confrontata con quella del test HPV nei programmi di screening [127]. Complessivamente, la sensibilità del test HPV era del 90% nel caso in cui era usato il test HC 2 e del 80,9% nel caso in cui era usata la PCR con primer consensus; i livelli di specificità erano invece invertiti per i due test, dando valori rispettivamente del 86,5% e 94,7% per HC 2 e PCR. L’accuratezza della citologia risultava comunque più bassa: considerando come cut-off il referto ASCUS, la sensibilità era del 72,7% e la specificità del 91,9%. Considerando solo gli studi che comprendevano le donne di età superiore ai 30 anni, la sensibilità complessiva del test HC 2 era del 94,8% e la specificità del 86% [127]. Analoghi risultati sono emersi dalla meta-analisi di Cuzick et al. [128] comprendente solo gli studi condotti in Europa e Nordamerica su un totale di circa 60.000 donne: la sensibilità e la specificità complessiva del test HPV erano rispettivamente del 96,1% e 90,7%, mentre quelle della citologia erano del 53,0% e 96,3%, rispettivamente. Inoltre, a differenza dell’esame citologico, la sensibilità del test HPV non variava nei diversi Centri ed era elevata sia nelle donne giovani che in quelle di età superiore ai 50 anni. Tra gli studi compresi in queste meta-analisi, va citato lo studio HART, un protocollo di screening multicentrico condotto su oltre 10000 donne di età compresa tra 30 e 60 anni, in cui le donne con citologia bordeline e quelle positive per HPV ad alto rischio ma citologia negativa erano randomizzate all’esecuzione immediata di
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un esame colposcopico o alla sorveglianza con ripetizione di test HPV, esame citologico, e colposcopia a 12 mesi [110]. Lo studio HART ha confermato la superiorità diagnostica del test HPV rispetto alla citologia e giungeva alla conclusione che il test HPV poteva essere usato come test di screening primario nelle donne di età superiore ai 30 anni, mentre l’esame citologico poteva essere usato come test di secondo livello nel triage delle donne positive per HPV ad alto rischio. Gli studi prospettici randomizzati [129], condotti più recentemente, non erano inclusi in queste meta-analisi. Uno di questi è lo studio NTCC (New Technologies for Cervical Cancer screening), condotto recentemente in Italia su circa 45000 donne, le quali erano randomizzate ad un protocollo di screening convenzionale con Pap test ed invio alla colposcopia nel caso di risultato ASCUS o ad un protocollo sperimentale basato sulla citologia in fase liquida e test HPV con HC 2 ed invio alla colposcopia nel caso di risultato ASCUS. Nel caso di test HPV positivo, ma citologia negativa, gli esami venivano ripetuti dopo un anno. L’endpoint dello studio era l’identificazione del CIN 2 alla colposcopia. I risultati di questo studio hanno confermato che lo screening basato sulla sola citologia ha una sensibilità inferiore rispetto all’associazione della citologia con il test HPV, sia nelle donne di età superiore ai 35 anni [130] che in quelle di età inferiore [131]. Questo studio, che rispetto allo studio HART includeva anche donne di età inferiore ai 30 anni, indica che anche nelle donne giovani il test HPV può essere usato in alternativa alla citologia come test di screening per il cervico-carcinoma, usando l’esame citologico nel triage dei casi HPV-positivi [131]. Recentemente sono stati pubblicati i risultati preliminari di altri studi prospettici randomizzati di valutazione dell’efficacia del test HPV, utilizzando sia tecniche di ibridazione con HC 2 che tecniche di amplificazione degli acidi nucleici, nell’ambito dei protocolli di screening. Il Population Based Screening Study Amsterdam, che ha l’obiettivo di valutare se lo screening primario con test HPV è più efficace del test citologico nei programmi di screening, ha arruolato 44938 donne di età compresa tra 29 e 56 anni e partecipanti regolarmente ai programmi di screening del CC e le ha randomizzate per l’esecuzione dello screening con la sola citologia (gruppo di controllo) o con la combinazione di citologia e test HPV (gruppo sperimentale) con l’obiettivo primario di identificare le lesioni CIN 3. In questo studio, il test HPV era basato sull’amplificazione di HPV mediante PCR utilizzando i primer, consensus GP5+/6+
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PCR, seguita da rivelazione con un cocktail di sonde oligonucleotidiche in grado riconoscere 14 genotipi virali ad alto rischio. I risultati ottenuti dalla valutazione delle prime 17155 donne, delle quali 8575 erano randomizzate nel gruppo sperimentale e 8580 nel gruppo di controllo, e seguite per un follow-up superiore o uguale a 6 anni e mezzo, dimostrano che, in occasione del primo screening al momento dell’arruolamento, la combinazione del test HPV con l’esame citologico consente di identificare un numero significativamente maggiore (70% in più) di lesioni CIN 3 rispetto alla sola citologia [132]. Il numero di lesioni CIN 3 riscontrate alla successiva visita di follow-up, in cui erano eseguiti sia test HPV che esame citologico, era significativamente minore nel gruppo sperimentale rispetto al gruppo di controllo. Il numero complessivo di lesioni CIN 3 identificate nelle due visite non differiva significativamente tra i due gruppi. I risultati di questo studio dimostrano quindi che l’implementazione del test HPV nei programmi di screening consente di identificare più precocemente le lesioni CIN 3 e quindi, eventualmente, di allungare gli intervalli di screening [132]. Un analogo studio condotto in Svezia ha arruolato 12527 donne di età compresa tra 32 e 38 anni, randomizzate all’esecuzione del test HPV insieme al Pap test o all’esecuzione del solo Pap test con l’obiettivo primario di identificare il CIN 2 [133]. Anche in questo studio il test HPV era basato sull’amplificazione mediante PCR con i primer consensus GP5+/6+ PCR, seguita dall’identificazione di 14 genotipi virali ad alto rischiomediante sonde oligonucleotidiche. Le donne che risultavano positive al test HPV, ma avevano un Pap test negativo, eseguivano un secondo test HPV almeno dopo un anno e coloro che dimostravano un’infezione persistente da parte dello stesso genotipo ad alto rischio eseguivano la colposcopia con biopsia cervicale. Un numero simile di donne arruolate nel braccio di controllo veniva sottoposta a colposcopia e prelievo bioptico. Anche questo studio dimostra che, alla prima valutazione eseguita al momento dell’arruolamento, il numero di lesioni CIN 2 nel gruppo sperimentale era significativamente maggiore (51% in più) rispetto al gruppo di controllo. Alla successiva visita di screening, il numero di lesioni CIN 2 nel gruppo sperimentale era inferiore del 42% rispetto al gruppo di controllo, con una riduzione soprattutto dell’incidenza di CIN 3 e cancro. Inoltre, le donne con infezione persistente da HPV ad alto rischio, nelle quali la colposcopia non aveva evidenziato lesioni ad alto rischio, dimostravano un rischio elevato di svilup-
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pare lesioni CIN 2 durante il follow-up. Questo studio dimostra quindi che l’implementazione del test HPV nei programmi di screening è più efficace del Pap test da solo anche nell’identificare precocemente le lesioni CIN 2, CIN 3 ed il carcinoma invasivo [133]. Il confronto diretto tra Pap test e test HPV (utilizzando il kit HC 2) usati da soli nel programma di screening del CC è stato effettuato in un trial randomizzato canadese, in cui sono state arruolate 10154 donne di età compresa tra 30 e 69 anni [134]. Le donne erano sottoposte ad entrambi i test, ma solo uno era considerato ai fini dello studio. Nel caso i test dessero un risultato positivo, veniva eseguita la colposcopia con biopsia cervicale. La colposcopia era eseguita anche in un campione casuale di donne con test negativi. Questo studio ha dimostrato che la sensibilità del test HPV nell’identificare il CIN 2 o il CIN 3 era del 94,6%, significativamente superiore (con una differenza del 39,2%) rispetto a quella del Pap test, che era del 55,4%. La specificità del test HPV era del 94,1%, inferiore soltanto del 2,7% rispetto a quella del Pap test. Quando i due test erano considerati insieme, la sensibilità era del 100% e la specificità del 92,5%. In sintesi, i risultati di questo studio dimostrano che il test HPV, usato da solo come test di screening, è nettamente più sensibile rispetto al Pap test nell’identificare le lesioni precancerose cervicali [134].
3.6 Altri test di laboratorio per la valutazione della paziente con infezione da HPV 3.6.1 Determinazione della persistenza di HPV Tra le donne positive al test HPV, solo alcune sviluppano cancro. Quindi, il riscontro di un singolo test HPV positivo, in assenza di lesioni clinicamente significative, non sembra giustificare l’intervento terapeutico [28]. Diversi studi longitudinali hanno dimostrato che la persistenza di HPV ad alto rischio è necessaria per lo sviluppo e la progressione delle lesioni precancerose e che la maggior parte delle infezioni da HPV ad alto rischio, così come le lesioni ad esse associate, si risolvono spontaneamente nel giro di 6-18 mesi [99]. Strategie di screening basate sulla ripetizione del test HPV a 6-12 mesi dal primo riscontro della presenza di HPV ad alto rischio
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potrebbero consentire di identificare il gruppo di donne a rischio da inviare all’esame colposcopico, evitando il trattamento di lesioni destinate a regredire.
3.6.2 Misurazione della carica virale Un’elevata carica di HPV 16 è stata riportata essere associata con gradi più elevati di CIN e di carcinoma invasivo o con un maggior rischio di sviluppare CIN 2-3 durante il follow-up [135-138]. Per questo la misurazione della carica di HPV 16 è stata proposta come marker per valutare il rischio di progressione del CIN. Risultati contrastanti sono stati ottenuti circa la correlazione tra misurazione della carica virale degli altri genotipi di HPV ad alto rischio e la gravità delle lesioni cervicali o il rischio di sviluppare malattia [135-139]. Il significato clinico della carica virale viene discusso nel Paragrafo 3.7.2.
3.6.3 Tipizzazione, sottotipizzazione e sequenziamento degli oncogeni di HPV ad alto rischio Diversi studi pubblicati in letteratura hanno dimostrato che le donne con infezione da HPV 16 e HPV 18 hanno una maggiore probabilità di sviluppare cancro rispetto alle donne con infezione da altri genotipi oncogeni [140-142] e che la tipizzazione di HPV 16 e HPV 18 consente di identificare le donne con rischio più elevato di sviluppare un CIN 2-3 [140, 141]. Alcuni studi suggeriscono che anche l’identificazione degli altri genotipi oncogeni di HPV possa essere utile nello stratificare i pazienti a rischio. Interesse è emerso anche nello studio delle varianti intra-tipo di HPV, definite da una differenza inferiore al 2% nella sequenza nucleotidica del gene L1 rispetto a quella del prototipo di riferimento. Studi condotti in popolazioni multietniche hanno dimostrato che le varianti asiaticheamericane e altre varianti non-europee di HPV 16 e HPV 18 si associano ad un maggior rischio di infezione persistente e di sviluppo di lesioni cervicali e di CC [47]. Risultati interessanti sono emersi anche dallo studio degli oncogeni E6 e E7. Studi di sequenza del gene E6 dell’HPV 16 hanno evidenziato che la variante T350G riscontrata nella popolazione europea si associa ad una aumentata persistenza virale e ad un incremento dell’oncogenicità a livello cer-
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vicale [143]. Il cambiamento aminoacidico può influenzare la capacità dell’oncoproteina E6 di degradare p53 oltre a influenzarne l’immunogenicità. Inoltre, è stato dimostrato che la mutazione L83V potenzia l’attivazione della via MAPK e coopera con Notch 1 favorendo la progressione neoplastica [144]. Pertanto varianti genetiche dello stesso HPV 16 possono essere associate ad un differente potenziale oncogeno, determinando una derepressione del promoter degli oncogeni E6 e E7 anche in assenza di integrazione virale. È infatti da tener presente che più di un terzo dei tumori cervicali contiene il virus in forma episomale [145, 146]. Infine, mutazioni sono state descritte anche a livello della regione regolatoria URR (che regola l’espressione degli oncogeni E6 ed E7) dove si possono riscontrare siti di legame per numerosi fattori di trascrizione. Mutazioni a carico di questi siti potrebbero comportare alterazioni della regolazione della trascrizione dei geni oncogeni [147]. Pertanto, la tipizzazione, sottotipizzazione e sequenziamento degli oncogeni di HPV, includendo anche la regione LCR e le varianti E6 di HPV ad alto rischio, possono essere quindi utili non solo dal punto di vista epidemiologico ma anche come fattore prognostico.
3.6.4 Ampliamento del numero di genotipi di HPV inclusi nel test La dimostrazione che nuovi genotipi di HPV, definiti a rischio intermedio, come HPV 26, 53, 66, 73, e 82, possono essere associati al rischio di CC ha portato a considerare l’eventualità di ampliare il numero di genotipi inclusi nei test di identificazione degli HPV ad alto rischio. Per valutare l’impatto nella pratica clinica dell’ampliamento del numero di genotipi di HPV identificati dai test HPV, sono stati esaminati i dati di due trial clinici randomizzati, in cui il test HPV era usato nello screening del CC e nel triage del Pap test anormale, rispettivamente [148]. Nel protocollo di screening, l’aggiunta di altri genotipi virali, oltre ai 12 genotipi ad alto rischio più comuni, non aumenta ulteriormente la sensibilità del test. Analogamente, anche quando il test HPV è usato nel triage dell’ASCUS, la sensibilità del test è massima con 17 genotipi, ma a discapito di una specificità molto bassa [148]. L’ampliamento del numero di genotipi di HPV, oltre quelli attualmente presenti nel test approvato dalla FDA,
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non sembra quindi al momento particolarmente vantaggioso né per lo screening né per il triage del Pap test anormale. Va peraltro segnalato che i test diagnostici oggi approvati non identificano il singolo genotipo presente nel campione in analisi, non caratterizzano le capacità oncogene dei singoli virus, e quindi non contribuiscono in modo adeguato al miglioramento dei protocolli di diagnosi dell’infezione da HPV.
3.6.5 Valutazione dello stato di integrazione del genoma di HPV L’integrazione di HPV 16 e degli HPV ad alto rischio nel genoma della cellula infettata è un evento cruciale nella tumorigenesi, in quanto promuove l’espressione dei trascritti dei geni E6/E7, ed è associata ad un maggior rischio di fallimento terapeutico e ad un più breve intervallo libero da malattia [149]. La valutazione dello stato di integrazione del genoma di HPV, analizzato mediante Southernblot o misurando con PCR quantitativa il rapporto tra le sequenze E2/E6, potrebbe pertanto rappresentare un valido marcatore prognostico di utilizzo futuro.
3.6.6 Analisi dell’espressione dei trascritti E6/E7 di HPV ad alto rischio L’iperespressione di E6/E7 di HPV ad alto rischio è associata al CC e alle sue lesioni pre-cancerose. L’analisi dell’espressione dei trascritti E6/E7 di HPV 16, 18, 31, 33, 45 con il test commerciale PreTect HPV Proofer (Norchip) ha dimostrato una buona specificità nell’identificare le lesioni CIN 2+ [150-153]. Studi comparativi con il test HPV hanno dimostrato che la determinazione di E6/E7 mRNA ha la stessa sensibilità della determinazione di HPV DNA e una maggiore specificità nell’identificare il CIN 2+ [150-153]. È stato inoltre dimostrato che la determinazione quantitativa dell’espressione di E6/E7 mRNA nel cervico-carcinoma, ma non la carica di HPV DNA, correla con la sopravvivenza delle pazienti [139]. Il significato clinico della ricerca dei trascritti oncogeni di HPV viene discusso nel Paragrafo 3.7.3.
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3.6.7 Analisi della risposta immunitaria Sia la risposta immunitaria umorale che quella cellulo-mediata sono essenziali per le clearance delle lesioni cervicali associate ad HPV. La risposta umorale contro HPV o Virus-Like Particles (VLP) è costituita prevalentemente da anticorpi neutralizzanti contro epitopi conformazionali immunodominanti tipo-specifici, anche se sono state dimostrate cross-reattività, come tra HPV 6 ed HPV 11, HPV 31 e HPV 33, HPV 18 ed HPV 45. Nell’uomo la presenza di anticorpi antiHPV nel siero è stabile nel tempo, anche dopo la clearance del virus, per cui la valutazione sierologica di anticorpi anti-HPV può essere usata come test di esposizione al virus. La sensibilità del test sierologico è però bassa (50-60%) mentre la specificità è elevata (circa 90%), La bassa sensibilità del test è anche dovuta al fatto che molti soggetti esposti ad HPV e con dimostrazione di HPV DNA non presentano sieroconversione. D’altro canto, la dimostrazione di anticorpi anti-HPV, soprattutto se a titolo elevato, è più frequente nelle donne con infezione persistente [154, 155]. Inoltre, la dimostrazione di sieropositività per più genotipi diversi di HPV ad alto rischio si associa a CIN di grado elevato, indipendentemente dalla presenza di HPV DNA [156]. Per quanto riguarda i test, non esistono test immunologici standardizzati per la determinazione di anticorpi anti-HPV; quelli descritti in letteratura sono di tipo immunoenzimatico o radioimmunologico basati sull’utilizzo di VLPs tipo-specifiche adsorbite su micropiastre. La risposta immunitaria cellulo-mediata è importante nella clearance di HPV, come dimostrato indirettamente dalla elevata incidenza di infezioni persistenti da HPV nei pazienti trapiantati o con AIDS. Inoltre, la persistenza dell’infezione e la progressione neoplastica è associata ad una alterata risposta sia dei linfociti T CD4+ [157] che dei linfociti T CD8+ [158]. La valutazione della risposta immunitaria cellulo-mediata potrebbe essere quindi un marcatore predittivo di rischio di infezione persistente e di cancro.
3.7 Biomarcatori dell’infezione da HPV 3.7.1 Significato clinico degli HPV DNA test Lo sviluppo di saggi altamente sensibili per il rilevamento del DNA ha rivoluzionato la diagnostica dell’infezione da HPV e ha permesso
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di studiarne molteplici aspetti. Il risultato di questi test diagnostici richiede un’accurata interpretazione ed un attento processo di validazione [159]. Pertanto esiste l’esigenza di un controllo di qualità internazionale per poter comparare i differenti metodi diagnostici. Le implicazioni associate al rilevamento degli acidi nucleici di HPV per il management dei pazienti è ancora oggetto di studio [112]. Recentemente è stato osservato che la prevalenza dell’infezione da HPV e la presenza di infezioni multiple sono superiori alle aspettative; è stato stimato che l’80% delle donne sessualmente attive contrae almeno una volta nella vita questa infezione. L’efficacia di uno screening di popolazione dipende dall’accuratezza e dal valore predittivo del saggio utilizzato. Oggi le infezioni da HPV sono monitorate principalmente attraverso HPV DNA test, ovvero tramite metodiche qualitative. I limiti associati a queste metodiche sono molteplici e, primo fra tutti, bisogna considerare il fatto che esse non possono distinguere un’infezione transiente da una persistente, considerata essere un precursore fondamentale della progressione neoplastica. Risulta quindi evidente che, per identificare donne con un incrementato rischio di neoplasia, il solo rilevamento dell’HPV DNA è insufficiente. È necessario quindi sviluppare un nuovo algoritmo che combini lo screening citologico con l’analisi degli acidi nucleici virali, al fine di ottimizzare il valore predittivo positivo e negativo per lo sviluppo della patologia. A questo proposito bisogna tenere in considerazione l’essenzialità di un’accurata genotipizzazione ai fini di un’adeguata classificazione delle pazienti nelle diverse classi di rischio. Inoltre preliminari evidenze suggeriscono che la presenza di più genotipi di HPV rifletta una ripetuta esposizione e possa essere correlata ad un aumentato rischio di progressione della patologia. Infine, la persistenza di HPV, identificata come un importante fattore di rischio della patologia neoplastica, può essere inclusa negli algoritmi dei test clinici. Tuttavia risulta difficile rilevare la persistenza di HPV (se non con lo stesso follow-up della paziente) e per questo è stata recentemente proposta la carica virale come marker di replicazione ed indice di infezione persistente.
3.7.2 Significato clinico della carica virale In questi ultimi anni sono stati sviluppati numerosi saggi di real-time PCR per la quantificazione di genotipi maligni di HPV da
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campioni della cervice uterina [135-137]. Questo metodo applica lo stesso principio della PCR tradizionale, ma permette di fare un’analisi quantitativa molto accurata, rilevando anche un numero molto basso di copie di DNA nel campione [160]. Ciò è possibile grazie all’utilizzo di sonde altamente tipo-specifiche dirette contro il target di interesse e grazie alla loro capacità di emettere un segnale luminoso quando si verifica l’ibridazione sonda/DNA. Il segnale fluorescente emesso (direttamente proporzionale alla quantità di DNA amplificato) viene letto in tempo reale ad ogni ciclo amplificativo, generando delle curve che, comparate ad uno standard, permettono di effettuare l’analisi quantitativa. Sebbene la maggior parte degli studi associno la progressione delle lesioni precancerose e l’elevato rischio di carcinoma della cervice con l’aumento della carica virale dei genotipi di HPV high risk, altri sembrano non confermare questi dati. L’incongruità dei risultati potrebbe essere associata alle diverse metodiche utilizzate e alla scelta dei target e alle diverse forme di DNA amplificato (episomale o integrato) o più semplicemente al diverso modo di esprimere le cariche virali (valori normalizzati o valori assoluti). Quindi è ancora da chiarire il significato clinico di questo marker. Inoltre, molti lavori sono stati effettuati esclusivamente sul HPV 16, responsabile di circa il 50% delle infezioni da HPV oncogeni. Infine rimane ancora da stabilire quali siano i “threshold” dei “viral load” per ciascun genotipo maligno di HPV che permetta di distinguere un’infezione transiente da un’infezione persistente attiva. In un recente lavoro è stata valutata, mediante un nuovo metodo quantitativo di real-time PCR, sviluppato sulle regioni E2 (solitamente escissa durante l’integrazione) e E6, la carica virale e lo stato fisico del genoma (forma episomale e integrata) del genotipo HPV 16 [135-137]. Con questo tipo di saggi è stato dimostrato che la forma integrata di HPV 16 è già presente nelle lesioni precancerose. Nella maggior parte dei campioni cervicali analizzati sono state trovate entrambe le forme (episomale e integrata); è stato interessante riscontrare che nei pochi campioni in cui veniva rilevata soltanto la forma episomale, le lesioni tendevano a regredire spontaneamente, mentre nella forma integrata tendevano ad una rapida progressione in due anni. Recentemente è stato ipotizzato un modello in cui vengono presentati gli eventi temporali della carcinogenesi indotta da HPV (Fig. 23) [135].
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Fig. 23. Ipotesi degli eventi temporali della carcinogenesi indotta da HPV; da [135]
In questo modello gli autori suggeriscono che, in seguito ad una infezione da HPV maligno, il DNA di HPV che si trova all’inizio prevalentemente in forma episomale, si replica attivamente producendo un’alta carica virale che aumenterebbe la probabilità di integrazione del DNA virale nel genoma della cellula. Durante l’infezione persistente, la delezione di E1/E2 determina l’attivazione dei geni E6/E7 e quindi un incremento dei trascritti oncogenici. Si selezionano i cloni con l’HPV integrato (processo di immortalizzazione cellulare) e quindi una diminuzione della carica virale.
3.7.3 Ricerca dei trascritti oncogeni Poiché la maggior parte delle infezioni da HPV è transitoria e solo l’HPV che esprime attivamente le proteine oncogeniche può causare
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Carcinoma della cervice uterina
il cancro della cervice, si sono implementate nuove metodiche atte a ricercare i tracritti oncogeni E6/E7. Un possibile progresso nella diagnosi precoce o nella determinazione di un aumentato rischio del carcinoma della cervice è offerto dalla recente osservazione che è richiesta per la trasformazione e l’immortalizzazione cellulare: l’espressione dei trascritti oncogeni E6/E7 di HPV. Quindi, il rilevamento degli mRNA E6 e E7 di genotipi oncogeni di HPV potrebbe essere un utile indicatore prognostico della progressione delle lesioni precancerose verso il cancro della cervice [138, 150-153]. È possibile effettuare la ricerca dei trascritti oncogeni mediante metodo tradizionale di RT-PCR anteponendo all’amplificazione uno step di retrotrascrizione. Questo tipo di approccio è stato applicato per la ricerca dei trascritti oncogeni E6 ed E7 dei genotipi maligni, e in particolare di HPV 16 e 18, suggerendo che l’espressione di questi trascritti sia incrementata in parallelo con la severità delle lesioni. È stato anche sviluppato un test commerciale per la ricerca di mRNA E6/E7 dell’HPV di genotipi oncogeni 16, 18, 31, 33 e 45, il quale impiega la tecnologia NASBA (Nucleic Acid Sequence Based Amplification) basata sull’amplificazione isotermica (condotta a 41°C) del target RNA. Questo test ha dimostrato un buon valore prognostico ed un’elevata specificità anche se il suo reale valore clinico deve ancora essere dimostrato su ampia scala [150-153].
3.7.4 Diagnostica sierologica La frequenza ed il titolo di molti anticorpi sierici anti-HPV mostra una grande variabilità che dipende dalla specificità del genotipo, dagli epitopi riconosciuti, dal tipo di campione e dalla sensibilità del saggio. In genere la risposta immunitaria umorale anti-HPV viene misurata con il metodo ELISA (Enzyme-linked Immunoadsorbent Assay) con VLPs (Virus-Like Particles) tipo-specifiche adese ai pozzetti. Sono disponibili anche altre due varianti del test, quali il sandwich ELISA ed il saggio radioimmunomarcato. Queste tecniche sono state sviluppate per individuare le proteine precoci E6 ed E7 attraverso anticorpi altamente specifici. Nonostante il metodo presenti un’elevata specificità, è stato soppiantato dalle metodiche molecolari a causa della sua scarsa sensibilità e della sua incapacità di distinguere infezioni transienti/acute ed infezioni persistenti.
Diagnosi delle infezioni da HPV
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3.7.5 La proteina p16 L’iperespressione dell’inibizione della chinasi ciclinodipendente p16 INK4a nelle cellule displastiche indica un’attiva espressione dell’oncogene virale E7. Una maggiore espressione della proteina p16 INK4a può oggi rappresentare un utile biomarcatore per cellule con espressione attivata di oncogeni virali. La p16 INK4a è una proteina che interviene nel controllo del ciclo cellulare e che viene iperespressa in cellule cervicali trasformate dagli HPV ad alto rischio [161]. Abbiamo visto come nella patogenesi del cancro cervicale e dei suoi precursori, l’espressione degli oncogeni E6 ed E7 dei tipi virali ad alto rischio sia richiesta per avviare e mantenere il fenotipo trasformato delle cellule epiteliali. L’espressione del gene E7 nelle cellule epiteliali in replicazione comporta la distruzione del complesso pRb-E2F e l’inattivazione funzionale del pRb. Ciò induce una overespressione dell’inibitore chinasico p16 INK4a ciclina dipendente in maniera indipendente dal tipo di HPV ad alto rischio. Il gene INK4 è uno dei più frequenti geni oncosoppressori inattivati nel cancro umano. La p16 INK4a (inibitore della chinasi ciclino dipendente) è un gene oncosoppressore in grado di prevenire la fosforilazione della pRb, bloccando così la cellula in fase G1. Quando l’oncoproteina E7 lega la pRb viene rilasciato il fattore trascrizionale E2F permettendo alla cellula di procedere dalla fase G1 alla fase S: divisione cellulare. Nelle cellule normali la p16 INK4a non è determinabile con metodiche immunoistochimiche. In poche cellule tuttavia, specialmente nella metaplasia squamosa, questa proteina può essere espressa fisiologicamente durante il processo di trans-differenziazione. In immunoistochimica gli stadi di differenziazione cellulare “displasia” e “metaplasia” sono caratterizzati da differenti espressioni di p16 INK4a rispettivamente “diffuso” e “localizzato”. In citologia queste differenze di colorazione non possono ovviamente essere rilevate. Nel cancro della cervice l’inattivazione della pRb è mediata dal legame dell’oncoproteina E7 dell’HPV ad alto rischio alla pRb. Dal momento che l’espressione della p16 INK4a è sottoposta ad un controllo di feed back negativo da parte della pRb funzionante, l’iperespressione rappresenta un utile biomarcatore per cellule in cui vi è un’intensa espressione degli oncogeni HPV. Nelle cellule displastiche ed in proliferazione la p16 INK4a è fortemente espressa e quindi facilmente identificabile con metodi immunoistochimici. Il kit CINtecTM p16 INK4a per citologia è pro-
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gettato per l’utilizzo su campioni citologici preparati in modo convenzionale o su strato sottile [162]. I reagenti contenuti nel kit sono ottimizzati per l’utilizzo su campioni citologici ed il sistema di rivelazione si basa sulla tecnologia del polimero di destrano al quale sono legati gli anticorpi secondari. I controlli di qualità garantiscono un’elevata standardizzazione e riproducibilità della metodica.
3.8 Conclusioni L’impiego clinico dell’HPV DNA test è stato valutato per le seguenti indicazioni: 1) nello screening primario del cancro cervicale nelle donne di 30 anni in aggiunta alla citologia; 2) nella gestione dei risultati citologici dubbi (ASCUS); 3) nel follow-up delle lesioni squamose intraepiteliali di basso e medio grado (CIN 1-2), per predirne la regressione, la persistenza o la progressione; 4) dopo trattamento per displasia cervicale. L’esecuzione annuale del Pap test è valida per diagnosticare le lesioni cervicali neoplastiche preinvasive e il cancro cervicale nei suoi stadi più precoci. L’HPV test può essere utile nei casi in cui un Pap test risulti positivo per lesioni dubbie o di basso grado, per la sua capacità di predire le lesioni cervicali di alto grado. Questa strategia incrementa la sensibilità dello screening citologico, senza la necessità di inviare tutte le donne con anomalie citologiche minori all’esame colposcopico. L’impiego del test in Italia è attualmente limitato dal costo eccessivo. Pertanto l’utilizzo che può essere auspicato fin da oggi è quello relativo al follow-up di pazienti trattate per pregressa lesione di alto grado, considerando anche che il numero di questi casi è limitato ed al contrario in questo gruppo è molto più frequente il cancro invasivo (per cui anche il rapporto costo-efficacia può essere considerato favorevole). Nuove prospettive si aprono con il sempre crescente utilizzo della citologia su strato sottile in sostituzione di quella convenzionale: tale metodica, consentendo di effettuare il test in caso di citologia dubbia o di basso grado senza che la paziente debba tornare alla visita, permetterà di avere anche un più favorevole rapporto costo-efficacia, ampliandone così l’utilizzo nella routine clinica. La scoperta che la persistenza dell’infezione da parte di HPV oncogeni [47, 86, 99, 100] (ovvero la costante presenza del DNA di un determinato genotipo high risk di HPV in due campioni cervi-
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cali ottenuti a 6 mesi di distanza) è un prerequisito per lo sviluppo di forme di neoplasia intraepiteliale cervicale CIN 2-CIN 3 ha fatto progredire le metodiche di screening e prevenzione di questa patologia. Saggi di determinazione della presenza di DNA appartenente ai principali sottotipi high-risk di HPV, mediante la tecnica della PCR per l’amplificazione di una sequenza del genoma virale, hanno infatti dimostrano rispetto al Pap test un’alta sensibilità clinica (99%) ed un elevato valore predittivo negativo (99,7%), offrendo un ulteriore e più specifico elemento per la valutazione del rischio del paziente. Attualmente quindi viene raccomandato l’utilizzo del HPV DNA test [92], una metodica squisitamente qualitativa, in associazione al Pap test per lo screening primario o come approccio diagnostico successivo alla diagnosi di ASCUS. Questo tipo di gestione diagnostica permette di fornire immediati chiarimenti sui risultati di Pap test incerti o anomali (in caso di test HPV-DNA negativo le pazienti possono essere tranquillizzate e ritornare a controlli più dilazionati nel tempo) riducendo e razionalizzando le necessità di controlli mediante colposcopia, ulteriori Pap test o biopsie. L’identificazione delle pazienti con Pap test negativo ma HPV-DNA positivo verranno seguiti in modo più assiduo rispetto ai pazienti con entrambi i test negativi aumentando indubbiamente la sensibilità clinica. D’altra parte, questi test di amplificazione del DNA (PCR convenzionale) sono soggetti, per problematiche proprie della metodica (contaminazioni da carry-over, ecc.) a dare dei risultati falsi positivi. Inoltre, si deve considerare che la sola positività al test di HPV DNA, non rappresentando un fattore di rischio di valore predittivo noto, espone, se usato come test di screening primario, anche in considerazione dell’alta diffusione dell’infezione da HPV (transiente o persistente); un alto numero di donne al timore non giustificato di sviluppare un tumore maligno. Infatti, anche in un recente lavoro [93] il DNA di genotipi oncogeni di HPV è stato rilevato nel 13,4% di campioni cervicali ottenuti da donne sane con Pap test negativo [86, 92]. Pertanto, sebbene sia comprensibile volere ottenere la massima protezione con un test di screening, l’abuso di questi test potrebbe allarmare eccessivamente le pazienti ed aumentare sensibilmente i costi di gestione diagnostica. Ulteriori studi sono necessari per validare l’impiego dei test di ultima generazione (oncoproteine E6/E7, proteina p16).
Capitolo 4
Profilassi contro l’HPV
l recente sviluppo di vaccini preventivi per l’HPV ha naturalmente modificato le prospettive di una efficace strategia di prevenzione nei confronti dell’infezione da HPV e delle patologie ad esso correlate. Devono essere considerati due tipi di approcci per la vaccinazione: l’immunizzazione “profilattica” (preventiva) e “terapeutica”. Mentre i vaccini profilattici vengono somministrati a individui sani per prevenire la malattia prima dell’esposizione agli agenti eziologici, per contro i vaccini terapeutici sono indicati per i soggetti già esposti. La possibilità di produrre un vaccino anti-HPV basato sulla capacità di auto-assemblaggio della proteina capsidica L1 in particelle simili al virus (Virus-Like Particles, VLP), prive di attività infettiva per l’assenza del DNA virale, ma con capacità di indurre una risposta immunitaria protettiva tipo-specifica era stata identificata e descritta in vari modelli animali. Nel corso degli anni sono stati sviluppati e testati per immunogenicità, sicurezza ed efficacia in studi clinici randomizzati vari modelli vaccinali monovalenti contro HPV 16, bivalenti contro HPV 16 e HPV 18 e quadrivalente contro i tipi 6/11/16/18. A livello europeo è in corso di registrazione il vaccino bivalente (HPV 16 e 18) prodotto dalla GlaxoSmithKline (Cervarix) da somministrare i.m. in tre dosi (tempo zero, uno e sei mesi), mentre è già stato registrato il vaccino quadrivalente (HPV 6, 11, 16, 18) prodotto dalla Merck & Co., Inc. e distribuito in Europa dalla Sanofi Pasteur MSD (Gardasil) e dalla Merck Sharp & Dohme (Silgard) da somministrare i.m. in tre dosi a tempo zero, due e sei mesi. In Italia, il Consiglio Superiore di Sanità (CSS) ha indicato la necessità di intervenire, in via prioritaria, con una campagna di vaccinazione gratuita sulle ragazze in età prepubere (12 anni) in modo da produrre una progressiva immunizzazione della popolazione giovane adulta esposta al rischio di infezione. La scelta dei genotipi per i vaccini pro-
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filattici è stata effettuata basandosi sulla diffusione degli stessi (6, 11, 16 e 18) e sull’elevata incidenza che essi hanno nei casi di carcinoma cervicale (16 e 18). Infatti i tipi 16 e 18 sono presenti nel 70% dei casi di carcinoma squamoso cervicale e nell’85% dei casi di carcinoma adenocervicale. Tutti i dati disponibili ad oggi indicano che la risposta immunitaria indotta dal vaccino profilattico impedisce sia l’infezione da HPV che comparsa di lesioni precancerose del collo dell’utero. Si sta valutando inoltre la possibilità che si verifichi una crossprotezione legata alla notevole omologia della regione L1 di HPV 18 e 45; in questo caso si raggiungerebbe un livello di protezione pari al 78% dei casi di carcinoma squamoso cervicale e il 90% dei casi di adenocarcinoma. Per quanto concerne invece l’immunizzazione “terapeutica” non ci sono attualmente vaccini contro HPV che si siano mostrati efficaci. Le principali problematiche relative all’introduzione di questi vaccini riguardano soprattutto il costo elevato, che ne limita la distribuzione nei paesi sottosviluppati, e la giovane età del target di popolazione ideale, che potrebbe indurre delle difficoltà nell’ottenimento del consenso informato da parte dei genitori. La prevenzione primaria del CC mediante immunizzazione specifica è certamente l’obiettivo più ambizioso e prestigioso, ma perché il vaccino risulti efficace sarà necessaria una potente e capillare campagna educativa.
4.1 L’immunoprofilassi e i vaccini Il riconosciuto ruolo carcinogenetico dell’HPV nella specie umana, unitamente alle acquisizioni di carattere bio-immunologico degli ultimi anni, ha spinto l’interesse speculativo di molti ricercatori dell’area ginecologica-oncologica (affiancati da immunologi, virologi) verso la ricerca di vaccini contro questo agente. L’obiettivo perseguito è, nell’ipotesi di un vaccino “preventivo”, l’immunoprofilassi del cancro della cervice uterina e, nell’ipotesi di una formulazione terapeutica (vaccino “terapeutico”) mediante la distruzione delle cellule infette da HPV, un significativo contributo al trattamento della malattia già clinicamente evidente (sia essa in fase invasiva conclamata, che pre-invasiva). La prevenzione primaria del CC mediante immunizzazione specifica è certamente l’obiettivo più ambizioso e prestigioso; è ben evidente lo straordinario impatto globale di questo progetto che, per
Profilassi contro l’HPV
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avere la giusta efficacia, deve essere geograficamente il più ampio possibile, acquisendo quindi una dimensione mondiale. In questo senso il target prioritario è rappresentato da quei Paesi in via di sviluppo (il Centro- e Sud-America, l’intera Africa, la quasi totalità delle regioni asiatiche) che per motivazioni logistiche, territoriali e finanziarie, hanno di fatto grandi difficoltà ad una pianificazione dello screening citologico. In queste realtà geopolitiche può risultare più efficace intraprendere (sui “tempi lunghi”) delle direzioni programmatiche alternative al Pap test, come appunto l’ipotesi di vaccinazione. Non meno rilevanti sono, tuttavia, le ragioni dell’applicabilità di un simile programma vaccinale nei Paesi Occidentali, dove il depistage citologico e la gestione della malattia (pre-) neoplastica cervicale rappresentano un grande impegno in termini di risorse umane ed economiche. L’ipotesi strutturale su cui poggia la presunta efficacia di questo programma vaccinale sta nell’induzione di una risposta immunitaria virus-specifica (anticorpi neutralizzanti nel caso di una programmazione preventiva [137] e CTLs nel caso di un programma terapeutico), tale cioè da prevenire/curare l’infezione naturale [137]. In senso assoluto, la comprensione dei fenomeni immuno-biologici che intercorrono tra ospite e virus (unitamente alla valutazione del ruolo delle proteine virali all’interno del processo carcinogenetico) sono alla radice della definizione di un vaccino-HPV: sia preventivo, che terapeutico. L’acquisizione di questo vasto background immuno-biologico si concretizza nella: – conoscenza dei determinanti antigenici virali, identificazione del tipo di vaccino e dello specifico target di popolazione; – valutazione delle risorse biotecnologiche per la produzione degli antigeni virali (recombinant live vectors, protein and peptides, VLPs, edibles vaccines), analisi delle problematiche relative alla scelta della via di somministrazione (parenterale versus orale) e dell’enhancement della risposta immunitaria (adiuvanti capaci di amplificare l’immunogenicità); – verifica e valutazione nel modello animale e trasferimento sull’uomo, con tutte le problematiche legate al rapporto sicurezza/ efficacia, non meno che all’accettabilità e compliance; – pianificazione degli studi di fase I e II sulla base dei quali attivare large-studies di fase III, come di fatto sono in fase di realizzazione.
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4.2 Vaccini preventivi 4.2.1 Sviluppo di vaccini preventivi La vaccinazione ha sempre rappresentato il miglior approccio in termini di costi-efficacia per combattere le malattie infettive. Gli elementi che qualificano e differenziano invece un vaccino “terapeutico” sono la composizione limitata ai soli tipi virali ad alto rischio (HPV 16, 18), con una rapida ed efficiente risposta di tipo cellulo-mediata. I determinanti antigenici sono, in questo caso, rappresentati dalle “early proteins” (E1 - E7). La capacità delle proteine virali capsidiche L1 e, in misura minore, L2 di autoassemblarsi in VLPs, strutturalmente ed antigenicamente identici ai virioni naturali (tali quindi da evocare una risposta anticorpale virus-specifica, conferendo una protezione specifica), è stata la chiave di volta nell’elaborazione di questa tipologia di vaccino. Il processo di self-assembling è stato descritto dapprima sul modello animale per il BPV [163] e successivamente confermato per l’HPV [164, 165]. Le VLPs rappresentano, in altre parole, il capside virale vuoto, cioè privo di qualsiasi materiale genico virale e, pertanto, possono essere somministrati con sicurezza nella popolazione sana. L’obiettivo di questo vaccino è quello di prevenire l’infezione da HPV attraverso l’induzione di anticorpi neutralizzanti diretti contro il capside virale. È costituito da particelle VLPs della regione L1 di alcuni genotipi di HPV che, espresse in un sistema ricombinante, sono in grado di riassemblarsi in un virione privo di DNA. Le VLPs sono prodotte clonando la regione L1 (geni che codificano per la proteina capsidica maggiore) dei genotipi di HPV presi in considerazione in plasmidi di espressione mediante i lieviti. Le proteine ricombinanti sono successivamente assemblate nelle VLPs le quali appaiono strutturalmente identiche ai virioni, ma prive di DNA. Quindi le VLPs sono completamente non infettive e non oncogene. Le VLPs purificate sono quindi “miscelate” con un adiuvante contenente allumina per produrre il vaccino.
4.2.2 Vaccini preventivi in commercio Esistono in commercio due tipi di vaccini preventivi contro HPV: – vaccino bivalente (HPV 16 e 18) prodotto dalla GlaxoSmithKline (Cevarix).
Profilassi contro l’HPV
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Il vaccino bivalente ha l’obiettivo di ridurre l’incidenza delle lesioni precancerose e cancerose a livello cervicale. Per ottenere l’epressione di L1 VLP di HPV 16 e 18 viene utilizzato un vettore Baculovirus ricombinante. Venti μg di ciascun genotipo sono addizionati ad un adiuvante costituito da sali di alluminio e da un agente lipidico. Per questo vaccino il protocollo utilizzato prevede tre somministrazioni i.m. di 0,5 ml (a 0, 1 e 6 mesi). Il dossier per l’approvazione del vaccino è stato presentato all’EMEA e se ne attende l’esito; – vaccino quadrivalente (HPV 6, 11, 16, 18) prodotto dalla Merck & Co., Inc. e distribuito in Europa dalla Sanofi Pasteur MSD (Gardasil) e dalla Merck Sharp & Dohme (Silgard). Il vaccino quadrivalente, in aggiunta alle lesioni precancerose, ha anche l’obiettivo di ridurre le lesioni precancerose genitali (vulvari) e le lesioni condilomatose. Il vaccino può essere indicato anche nei ragazzi di 9-15 anni con l’obiettivo di limitare la trasmissione del virus. Le proteine L1 vengono espresse in Saccaromyces cerevisiae e generano VLP che mimano il capside di HPV 16, 18, 6 e 11 [96]. Le particelle purificate sono adsorbite con sali di alluminio che fungono da adiuvante. Il vaccino è senza preservanti e contiene 20 μg di HPV 6 e 18 e 40 μg di HPV 11 e 16. I protocolli impiegati si basano su tre somministrazioni i.m. di 0,5 ml (a 0, 2 e 6 mesi) [97]. Il vaccino è stato approvato dalla FDA, dall’Agenzia Europea dei Medicinali (EMEA) e dall’AIFA, ed è quindi disponibile anche in Italia (approvato dai 9 ai 26 anni) dal marzo 2007.
4.2.3 Efficacia dei vaccini profilattici anti-HPV La valutazione dell’efficacia dei vaccini nei protocolli clinici di fase II-III si è basata sulla quantificazione della riduzione dell’incidenza dell’infezione persistente da HPV vaccinale (due rilevazioni positive a distanza di almeno 4-6 mesi) e sulla riduzione dell’incidenza delle lesioni precancerose (CIN 2 e CIN 3) da genotipi di HPV vaccinali. Poiché gli standard di cura internazionali di lesioni precancerose CIN 2/3 richiedono la terapia ablativa e dal momento che, in studi prospettici, non è considerato etico permettere che una donna sviluppi una malattia invasiva per dimostrare l’efficacia preventiva, sia l’OMS che gli organismi regolatori internazionali hanno codificato come endpoint clinico surrogato valido per la dimostrazione dell’efficacia preventiva lesioni considerate francamente precancerose (CIN 2/3).
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Carcinoma della cervice uterina
Gli studi clinici randomizzati hanno dimostrato che la vaccinazione in tre dosi è efficace nel prevenire l’infezione persistente e le lesioni precancerose correlate. Sono state testate varie vie di somministrazione (aerosol, parenterale e orale), ma la più efficace nell’innalzare i livelli anticorpali nel siero e nelle secrezioni cervicali è quella parenterale. Il vaccino quadrivalente si è dimostrato efficace anche nel prevenire le lesioni condilomatose e le lesioni genitali precancerose (vulvari) da genotipi di HPV contenuti nel vaccino. Gli studi sono stati condotti su donne giovani (<26 anni), con un numero medio di partner limitato (fino a 5-6), con anamnesi negativa per precedenti lesioni cervicali e negative per i tipi di HPV contenuti nel vaccino al momento dell’arruolamento. I risultati di efficacia riferiti negli studi sono sostanzialmente di due tipi: (i) analisi dei risultati per protocol in cui si vede l’efficacia “pura” del vaccino, analizzando nell’ambito della sperimentazione clinica i dati relativi alle donne che non hanno violato il protocollo (hanno cioè ricevuto le tre dosi di vaccino o placebo come previsto), che erano risultate negative per i tipi di HPV contenuti nel vaccino sia all’arruolamento che durante il periodo di somministrazione del prodotto; (ii) analisi dei risultati modified intention to treat in cui si ha una valutazione più vicina all’efficacia del vaccino quando utilizzato nella realtà, in quanto analizza i risultati di tutte le donne arruolate, purché abbiano ricevuto una prima dose di vaccino o placebo e risultassero negative ai tipi vaccinali solo alla prima dose. Una pietra miliare che dimostra che la vaccinazione con HPV 16 L1 VLPs protegge contro la naturale acquisizione dell’ infezione persistente da HPV 16 e contro CIN HPV 16-associati è lo studio pubblicato da Koutsky et al. [166]. Sono state arruolate donne di età compresa fra i 16 e i 23 anni, che hanno ricevuto tre dosi di un vaccino contenente 40 mg di L1 VLP HPV 16 versus placebo. Campioni cervicali per il rilevamento del DNA da HPV 16 sono stati ottenuti all’arruolamento, un mese dopo la terza vaccinazione (mese 7) e successivamente ogni 6 mesi. Le donne sono state seguite per un periodo mediano di 17,4 mesi dopo avere completato il ciclo di vaccinazioni (Tabella 8). Efficacia del vaccino bivalente I dati relativi all’efficacia del vaccino bivalente prodotto dalla GlaxoSmithKline (Cervarix) si riferiscono a studi di fase II-III. Nello studio di fase II di analisi per protocol, condotto su 732 donne (367 nel gruppo vaccinale e 365 nel gruppo placebo) di 15-25 anni che
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Profilassi contro l’HPV
Tabella 8. Vaccinazioni verso HPV: principali risultati degli studi in fase II Vaccino
Monovalente (HPV-16) [166, 167]
Bivalente (HPV 16-18) [168, 162]
Quadrivalente (HPV 16-18-6-11) [170, 171]
Tipo di studio
Doppio cieco randomizzato
Doppio cieco randomizzato
Doppio cieco randomizzato
Pazienti arruolati
1533 di cui: 765 placebo 768 vaccinati
721 di cui: 355 placebo 366 vaccinati
552 di cui: 275 placebo 277 vaccinati
Età partecipanti
Range: 16-23 anni
Range: 15-25 anni Range: 16-23 anni
Follow-up
Media 17,4 mesi Massimo 48 mesi
Media 18 mesi 36 mesi Massimo 53 mesi Gruppo di 241 per 5 anni
Risultati: Infezioni persistenti Vaccino 7 * da HPV presente Placebo 111 * nel vaccino
Vaccino 1 ° Placebo 16
Vaccino 4 § Placebo 46§
Lesioni condilomatose Sviluppo di CIN 2-3 Vaccino 0 da HPV vaccino Placebo 12 specifiche
Vaccino 0 Placebo 5
Vaccino 0 Placebo 3
Sviluppo di CIN 2-3 Vaccino 8 da qualsiasi tipo Placebo 17 di HPV
Vaccino 3 Placebo 9
Sieroconversione
100%
99,7%
100%
* incluse 7 vaccinate e 19 controlli DNA positive solo all’ultimo controllo ° infezione persistente a 6 mesi non a 1 anno § incluse 3 vaccinate e 10 controlli DNA positive solo all’ultimo controllo
avevano completato il ciclo di tre dosi, che si erano mantenute negative per i tipi di HPV contenuti nel vaccino durante lo studio e che avevano partecipato al follow-up per un periodo di 4-5 anni, l’efficacia del vaccino nel prevenire infezioni persistenti da HPV-16 e HPV18 era del 94,9% (95% CI, 63,2-99,9), considerando una persistenza per 6 mesi, e del 100% (95% CI, 33,6-100), considerando una persistenza per 12 mesi [169]. L’efficacia nel prevenire neoplasie intraepiteliali cervicali da HPV 16/18 era del 100% (95% CI, 42,4-100), con otto casi di lesioni precancerose (CIN 1-2) nel gruppo placebo e nes-
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suno nel gruppo vaccinato. In questo studio fu osservata anche una minore incidenza da HPV 45 e HPV 31 nel gruppo sottoposto a vaccinazione rispetto al controllo. Uno studio randomizzato di fase III condotto in 2 province del Costa Rica, ha arruolato 2189 donne di età compresa tra 18 e 25 anni ed ha studiato se la vaccinazione contro HPV 16 e HPV 18 era in grado di aumentare la clearance virale nelle donne già infettate da HPV al momento della vaccinazione [172]. Questo studio non ha dimostrato alcuna efficacia del vaccino nell’accelerare la clearance sia dei genotipi vaccinali di HPV che di altri genotipi e pertanto non dovrebbe essere impiegato nel trattamento delle infezioni preesistenti da HPV [172]. Efficacia del vaccino quadrivalente Uno studio clinico randomizzato di fase II è stato condotto su 552 donne (277 randomizzate nel gruppo vaccinale e 275 randomizzate nel gruppo placebo). L’analisi di efficacia per protocol ha dimostrato che il vaccino quadrivalente Gardasil riduce del 90% (95% CI, 71-97) l’incidenza di infezione persistente o di lesioni genitali associate agli HPV presenti nel vaccino (Tabella 8) [170]. Un subset di soggetti ha partecipato ad un successivo follow up dello studio. A cinque anni dall’arruolamento l’incidenza combinata di infezione persistente o malattia correlata a tipi di HPV 6, 11, 16, 18 è risultata del 96% (95% CI 83,8-99,5) [171]. L’analisi di efficacia modified intention to treat ha dimostrato che il vaccino diminuisce l’incidenza di infezioni e di lesioni del 94% (95% CI, 83-98,3) (Tabella 9) [171]. Gli studi di efficacia di fase III del vaccino quadrivalente Gardasil sono stati condotti nell’ambito dei due protocolli Females United to Unilaterally Reduce Endo/Ectocervical Disease (FUTURE) I e FUTURE II: FUTURE II. - L’analisi per protocol su oltre 10000 donne (5305 donne randomizzate nel gruppo vaccinale e 5260 randomizzate nel gruppo placebo; Tabella 9) di età compresa fra 15 e 26 anni dimostra che, dopo un periodo medio di 3 anni dalla somministrazione, il vaccino ha un’efficacia del 98% (95% CI, 86-100) nel prevenire le lesioni displastiche intraepiteliali CIN 2 e CIN 3 e l’adenocarcinoma in situ da HPV 16 e HPV 18 [176]. È da notare che la sola donna appartenente al gruppo vaccinale che sviluppò una lesione associata ad HPV 16 o HPV 18 aveva un CIN 3 positivo
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Tabella 9. Vaccinazioni verso HPV: descrizione e principali risultati degli studi in fase III Vaccino
Studio
Partecipanti
Risultati
Quadrivalente Future I [173, 174]
5455 (range: 16-23 aa; follow-up medio 2aa)
CIN 1-3 e AIS: vaccino 0 placebo 37 Condilomi e lesioni vulvari: vaccino 0 placebo 40
Quadrivalente Future II [173, 175, 174]
12167 (range: 16-23 aa; CIN 2-3 e follow-up medio 2 aa) Adenocarcinoma in situ: vaccino 0 placebo 21
Quadrivalente Randomizzato, 3800 (range: 26-45 aa) controllato in doppio cieco [173]
Dati non disponibili
Bivalente
Randomizzato, 18000 (range: 15-25 aa) Dati non controllato in disponibili doppio cieco [173]
Bivalente
Randomizzato, 12000 (range: 18-25 aa) Dati non controllato in disponibili doppio cieco [173]
per HPV 52 al controllo iniziale e in tutti i successivi 5 prelievi eseguiti nel follow-up, uno solo dei quali risultava positivo per HPV 16. L’analisi modified intention to treat (denominata anche unrestricted susceptible population) delle donne randomizzate (95% del campione), negative per i tipi vaccinali al momento della prima dose, anche non perfettamente complianti, dimostra che il vaccino ha un’efficacia del 95% (95% CI, 85-99). È stata poi effettuata un’analisi intention to treat su tutti i soggetti randomizzati, senza screening prevaccinale, utilizzata per valutare l’effetto di una vaccinazione di massa della popolazione comprendente anche soggetti con malattie prevalenti/incidenti da HPV 16/18, che ha mostrato un impatto del 44% (95% CI, 26-58) a tre anni di follow-up.
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FUTURE I. - L’analisi per protocol su oltre 5000 donne (2261 donne randomizzate nel gruppo vaccinale e 2279 randomizzate nel gruppo placebo; Tabella 9) di età compresa fra 16 e 24 anni dimostra che, dopo un periodo medio di 3 anni dalla somministrazione, il vaccino ha un’efficacia del 100% (95% CI, 94-100) nella prevenzione delle lesioni condilomatose e delle neoplasie intraepiteliali vulvari, vaginali correlate ad HPV 6/11/16/18 ed un’efficacia del 100% (95% CI, 94-100) nel prevenire le neoplasie cervicali intraepiteiliali CIN1-3 o l’adenocarcinoma in situ associati ai genotipi vaccinali di HPV [177]. L’analisi modified intention to treat (denominata anche unrestricted susceptible population) ha mostrato un’efficacia del 95% (95% CI, 87-99) per quanto riguarda le lesioni genitali precancerose vulvari e vaginali o i condilomi e del 98% (95% CI, 92-100) per i CIN di ogni grado o AIS da tipi di HPV vaccinali. L’analisi intention-to-treat ha dimostrato un effetto del vaccino del 73% (95% CI, 58-83) nel prevenire lesioni esterne anogenitali o vaginali di qualsiasi grado ed un’efficacia del 55% (95% CI, 40-66) nel prevenire lesioni cervicali di qualsiasi grado associate ai genotipi vaccinali di HPV, a tre anni di follow up, e nel caso di patologie da HPV da tipi vaccinali già prevalenti/incidenti nella popolazione. In entrambi gli studi FUTURE I e II, la vaccinazione non sembrava modificare significativamente il decorso di infezioni o lesioni da HPV presenti prima della somministrazione della prima dose di vaccino. - L’analisi di efficacia per protocol dei risultati ottenuti dalla combinazione di tre trial clinici randomizzati di vaccinazione (n=7811) versus placebo (n=7785) ha dimostrato che la vaccinazione, dopo un follow-up medio di 3 anni, ha un’efficacia del 100% (95% CI, 72-100) nella prevenzione delle neoplasie vulvari e vaginali di grado 2 e 3 associate ad HPV 16 e HPV 18. L’analisi modified intention to treat (denominata anche unrestricted susceptible population) ha mostrato un’efficacia del 97% (95% CI, 79-100) e l’analisi intention-to-treat, su un totale di 18174 donne randomizzate, ha dimostrato un effetto del vaccino a tre anni del 71% (95% CI, 37-88) nella prevenzione dello stesso tipo di lesioni, in una popolazione di giovani donne in cui fossero già presenti malattie incidenti/prevalenti da HPV vaccinali [178]. - L’analisi di efficacia per protocol dei risultati ottenuti dalla combinazione di quattro trial clinici randomizzati di vaccinazione con il vaccino quadrivalente (n=9087), la sua componente
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HPV 16 L1 (n=1204) vs placebo (n=10292) dimostra che, dopo un follow-up di 3 anni, nelle donne negative per HPV 16 ed HPV 18, l’efficacia del vaccino è del 99% (95% CI, 93-100) nel prevenire lo sviluppo CIN 2/3, adenocarcinoma in situ, o carcinoma della cervice uterina invasivo associati ad HPV 16 e HPV 18. L’efficacia è risultata del 98% (95% CI, 93-100) nella popolazione dell’analisi modified intention to treat (denominata anche unrestricted susceptible population), ossia nelle donne con compliance non ottimale e negative per i tipi vaccinali al momento della prima dose. L’analisi modified intention-to-treat dimostra un impatto del vaccino del 44% (95% CI, 31-55) nel ridurre l’incidenza di lesioni cervicali associate ad HPV 16 e HPV 18, nel caso di patologie da HPV da tipi vaccinali già prevalenti/incidenti nella popolazione [179]. Conclusioni Comunque ad oggi non ci sono sufficienti informazioni riguardo della durata dell’effetto protettivo dei due vaccini e non si può escludere la teorica necessità di dosi booster col passare degli anni dalla vaccinazione, anche se a 5 anni dall’immunizzazione l’efficacia protettiva sembra conservata pressoché in tutte le vaccinate. Valutazioni condotte in ragazzi (sia maschi che femmine) tra 9 e 15 anni hanno dimostrato che in questa fascia di età il vaccino induceva una risposta immunitaria maggiore di quella osservata nelle donne tra 16 e 26 anni. Non vi sono dati per bambine di età inferiore ai 9 anni né su donne di età superiore ai 26. L’efficacia protettiva è invece ancora in corso di valutazione nei maschi. Sono in corso o pianificati cinque studi multicentrici di fase III: 3 di questi, con il vaccino quadrivalente, dovrebbero terminare entro il 2008; 2, con il bivalente, entro il 2010 [121, 173, 180]. Dalle analisi di due studi di fase III [174, 175] emerso che il vaccino quadrivalente è efficace in donne ancora non sessualmente attive nel prevenire alterazioni istologiche di vario tipo (CIN 1, 2 e 3) correlate ai genotipi di HPV presenti nel vaccino (Tabella 9). È stato, inoltre, evidenziato che questo conferisce protezione non solo nei confronti di lesioni pre-cancerose vulvari o vaginali da HPV 16 e 18 [181], ma anche di lesioni genitali esterne condilomatose [181]. Concludendo, i lavori pubblicati e i risultati preliminari di quelli in corso indicano che con un regime a tre dosi entrambi i vaccini sono efficaci nel prevenire le infezioni e le lesioni causate dai tipi di HPV in essi contenuti [182].
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4.2.4 Sicurezza dei vaccini Durante gli studi randomizzati in fase II entrambi i vaccini non hanno evidenziato significativi effetti collaterali. Nello studio con il vaccino quadrivalente sono state notate reazioni avverse locali nell’86% dei vaccinati rispetto al 77% dei controlli [170]. Va sottolineato che fra le reazioni locali rientravano il dolore, gonfiore ed eritema nella sede di iniezione. Le reazioni sistemiche (febbre, cefalea e nausea) rilevate erano simili nei due gruppi, con temperature >37,8° nell’11,4% dei vaccinati e nel 9,6% dei controlli. Cinque vaccinati svilupparono manifestazioni gravi (senza apparente correlazione con il vaccino) e due fra i controlli. Non sono stati effettuati studi mirati sul vaccino in gravidanza. Durante il programma pre-registrativo relativo al vaccino quadrivalente, 2266 donne (vaccino=1115, placebo=1151) hanno presentato almeno una gravidanza. Nel complesso, le gravidanze con esito negativo sono state sovrapponibili nei due gruppi. Fra le 56 donne che divennero gravide entro 30 giorni dal vaccino, 5 ebbero bambini con anomalie congenite rispetto a nessuna fra le 58 che ricevettero il placebo; le anomalie, di vario tipo e senza correlazione fra di loro, furono giudicate non legate al vaccino [183]. Per le gravidanze iniziate dopo i 30 giorni dalla vaccinazione si sono osservati 10 casi di anomalie congenite nel gruppo delle vaccinate rispetto a 16 nel gruppo placebo. In generale, il tipo di anomalie osservate è sovrapponibile a quelle che di solito si riscontrano in gravide di 16-26 anni. I dati sulla somministrazione del vaccino quadrivalente in gravidanza non hanno al momento fornito risultati sufficienti per la sua raccomandazione, che deve, pertanto, essere rimandata a dopo il completamento della stessa. Un totale di 995 madri in allattamento ha ricevuto il vaccino o il placebo senza differenza di reazioni avverse fra i due gruppi. L’immunogenicità è risultata paragonabile fra le donne che allattavano o non allattavano, per cui la vaccinazione può essere effettuata in nutrici. Anche dalle analisi disponibili degli studi in fase III [173] non si sono evidenziati particolari effetti collaterali nelle donne vaccinate rispetto ai controlli (vaccino=5088; placebo=3790). In pochi soggetti (0,1%) gli eventi avversi hanno causato l’interruzione del ciclo vaccinale. I più comuni effetti collaterali sono stati quelli locali e la febbre. Le manifestazioni avverse gravi (indipendentemente dal loro rapporto con la vaccinazione: cefalea, gastroenterite, appendicite e malattia infiammatoria pelvica), sono risultate molto rare sia nei vaccinati (0,02-0,03%) che nei controlli (0,01-0,02%).
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Per il vaccino bivalente negli studi di fase II le reazioni locali furono del 94% fra i vaccinati e dell’88% fra i controlli, mentre le reazioni sistemiche furono sovrapponibili (4%). La grande maggioranza degli effetti collaterali furono lievi o moderati. Il 16,6% dei vaccinati ed il 13,6% del gruppo di controllo ebbe temperatura >37,4°. Non sono stati pubblicati dati relativi all’andamento della gravidanza e a eventuali anomalie congenite per questo vaccino [168, 169]. Non si sono notati eventi avversi diversi dall’atteso in seguito a vaccinazione di donne che erano già infettate da tipi di HPV contenuti nei vaccini [182]. Una preoccupazione teorica riguarda la possibilità che la vaccinazione verso alcuni genotipi di HPV possa favorire la diffusione di altri, sia carcinogenici che non. I timori in tal senso sono però limitati, in quanto secondo le conoscenze attuali sembra improbabile una competizione di nicchia per i Papillomavirus, contrariamente a quanto avviene per alcuni batteri (ad es. pneumococco).
4.2.5 Immunogenicità dei vaccini Il successo di un vaccino profilattico si misura quindi dalla sua capacità di indurre un’immunizzazione specifica contro il/i tipi virali utilizzati e pertanto di impedire l’attecchimento della malattia al momento di un futuro contagio. Per queste caratteristiche, le giovani donne all’inizio o prima dell’attività sessuale (preteens-teenagers) rappresentano il target idoneo di popolazione di questa tipologia di vaccino. In considerazione dell’incapacità dell’HPV di crescere in modo adeguato in coltura o dell’impossibilità di poter trasfettare gli animali di laboratorio, sono stati di fondamentale importanza gli studi condotti con virus “HPV-affini”su modelli animali quali Bovine Papillomavirus (BPV), Canine Oral Papillomavirus (COPV) e Cottontail Rabbit Papillomavirus (CRPV). Rimangono certamente alcuni dubbi legati a questi modelli sperimentali come l’utilizzo di animali non-primati, la diversità del virus utilizzato e la differente via d’infezione rispetto all’HPV (orale-mucosale per il COPV e BPV; cutanea per il CRPV). Benché non vi sia dubbio che, come suggerito da Hillemanm “the only real model of vaccines for man is man himself”, le sperimentazioni animali hanno prodotto dei dati scientificamente molti rilevanti. Da questi studi [184-186] infatti, è emersa l’efficacia dei vaccini preventivi VLPs:
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– induzione entro 3 settimane di alti titoli sierici di anticorpi neutralizzanti-specifici; – >90% degli animali senza evidenza di malattia, rispetto ai controlli che nel 90% hanno invece sviluppato papillomi; – immunizzazione della durata di oltre un anno. L’importanza della risposta cellulo-mediata è di assoluta priorità nelle sperimentazioni condotte con vaccini terapeutici, cioè che utilizzano le oncoproteine E6/E7. Anche in questo campo d’applicazione è utile ricordare l’efficacia di queste sperimentazioni terapeutiche sul modello animale (HPV 6 L2E7 [187], HPV 16 L2E6E7 [188], così come nei primi studi su pazienti con CIN 3 o carcinoma microinvasivo [189-190]. Sulla base di queste esperienze, come era prevedibile, si stanno diffondendo sperimentazioni terapeutiche anche su altri distretti anatomici, come l’area vulvare [191], e anale [192]. Il trasferimento sull’uomo di quanto emerso in letteratura obbliga, specie nell’impiego di un vaccino preventivo, ad alcune riflessioni: – l’uso di miscele virali polivalenti è certamente preferibile, non solo per la compresenza dei tipi ad alto-rischio (16, 18, 31,...), ma anche per quelli a basso-rischio (6/11). L’utilizzo anche di quest’ultimi rende infatti maggiormente attraente il vaccino presso l’opinione pubblica, eliminando un’importante fonte di STD e rendendo più velocemente percepibile il vantaggio del vaccino [135]; – l’arruolamento maschile potrebbe risultare difficoltoso per l’estrema rarità dei tumori che, in analogia con il cervicocarcinoma, sono teoricamente prevenibili: quelli del pene ed ano. Il coinvolgimento del maschio è quindi legato soprattutto all’interruzione del ciclo venereo della malattia; – la valutazione dell’end-point finale di un progetto di vaccinazione preventiva (riduzione significativa di incidenza e mortalità da cervicocarcinoma) richiede un follow-up molto lungo, cioè adeguato alla storia naturale della malattia. Per questo motivo potrebbe essere appropriato (anche se questo non trova concordi tutti i ricercatori) programmare degli end-point alternativi (surrogateend-points), come la riduzione delle lesioni preneoplastiche; – l’organizzazione e l’implementazione di trials clinici è un punto molto delicato. È necessario, al fine di un corretto svolgimento dei programmi e della validazione dei risultati, l’identificazione in alcune aree geografiche che si prestano meglio di altre alla programmazione di trials clinici. Secondo alcuni autori [193, 194] questi dovrebbero essere condotti nelle aree del Nord Europa, caratterizzate da:
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– popolazione femminile relativamente poco numerosa e molto sensibile alle istanze preventive; – screening di massa organizzati, tali da coprire adeguatamente la popolazione; – accurati registri-tumore di popolazione. Viceversa, altri autori ritengono più opportuno lo svolgimento di detti trials in aree ad alta densità d’incidenza della malattia (Corea e regioni limitrofe). Non va dimenticato che un progetto di prevenzione primaria mediante immunizzazione profilattica deve essere inserito all’interno del contesto corrente di strategie preventive del cervicocarcinoma. Questo sta a significare che vaccinazione, da un lato, e programma routinario cito-colposcopico di prevenzione, dall’altro, devono correre parallelamente: l’uno monitorando e validando l’altro. In base a quanto sopra riferito, paradossalmente ed in contrapposizione ad una delle motivazioni principali all’implementazione del vaccino, sono previsti sensibili aumenti dei costi della sanità pubblica per questa materia, per tutto il periodo di tempo (decenni) necessario per convalidare l’ipotesi vaccinale su larga scala. La giovane età del target di popolazione ideale, preteens e teenagers, potrebbe indurre delle difficoltà nell’ottenimento del consenso informato da parte dei genitori/tutori e nell’adeguamento ad un rigoroso rispetto del follow-up. Non va infine dimenticato che i vaccini VLPs (attualmente alla base della maggior parte dei trials clinici sull’uomo) sono molto costosi e difficilmente applicabili nelle aree sottosviluppate del mondo. Per le applicazioni su larga scala, specie nelle aree geografiche più depresse, bisognerà attendere il completamento dei vaccini edibili, stabili a temperatura ambiente, largamente e facilmente utilizzabili dalla popolazione. In termini generali il vaccino preventivo ideale dovrebbe rispondere a quattro prerequisiti fondamentali: – essere multivalente, cioè rappresentare quel pool di tipi virali più frequentemente presente nelle lesioni cervicali; utilizzando infatti un pool di HPV 16, 18, 31, 45 è possibile in linea teorica (cioè sulla base cioè delle prevalenza dei singoli virus nel cancro della cervice) prevenire sino all’80% dei cervicocarcinomi [195]. – evocare una valida risposta umorale (probabilmente anche cellulare) tanto a livello sistemico, che mucosale; – conferire un’efficace protezione a lungo-termine; – essere poco costoso e di grande maneggevolezza; – essere facilmente accettato dalla popolazione.
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4.2.6 Risposta anticorpale La misurazione degli anticorpi IgG anti-L1 VLP è stato il principale parametro per valutare le risposte immuni indotte dai vaccini negli studi clinici. Gli anticorpi sono tipo-specifici [196], anche se esistono omologie fra alcuni HPV che condividono uno o più epitopi (ad es. HPV 6/11, 31/33, 18/45 e 16/31). Va sottolineato che durante l’infezione naturale molte donne non sviluppano anticorpi dosabili: nel caso dell’HPV 16 i test evidenziano la sieroconversione solo in circa il 60% dei casi [163, 154, 197]. Nelle infezioni naturali la presenza di anticorpi verso un determinato tipo di HPV è associata a protezione [198], anche se in un singolo lavoro viene segnalata come non assoluta [199]. I vari studi documentano, invece, sieroconversione verso tutti i tipi di HPV contenuti nel vaccino in oltre il 98% dei casi. Inoltre, i soggetti immunizzati presentano risposte anticorpali sostanzialmente maggiori (almeno di 1-3 logaritmi) di quelle riscontrate in seguito ad infezione naturale. Ciò è verosimilmente imputabile al fatto che nell’infezione naturale la viremia è bassa o addirittura assente, mentre i vaccini L1 VLP, somministrati per via intramuscolare, raggiungono facilmente il circolo ed i linfonodi [200]. È stato segnalato che l’uso dell’adiuvante lipidico incluso nel vaccino bivalente induce titoli di anticorpi più elevati che con soli sali di alluminio [201], ma il significato clinico di questa osservazione rimane da verificare. Il picco anticorpale si verifica dopo un mese dalla terza dose, poi si abbassa lentamente fino al 18° mese. In generale, i titoli anticorpali si riducono di 10 volte nei primi 1-2 anni e si stabilizzano a 3-5 anni a livelli ben superiori di quelli indotti dall’infezione naturale [168, 169, 201, 202] Non potendosi valutare l’efficacia clinica dei vaccini in soggetti sessualmente naïfs, è stata paragonata l’immunogenicità del vaccino quadrivalente in ragazzi e ragazze di 9-15 anni rispetto a donne di 16-26 anni in cui l’efficacia clinica è dimostrata. I titoli anticorpali sono risultati più elevati fra gli adolescenti [203]. Non è stato ancora identificato il livello minimo di anticorpi che inequivocabilmente indichi protezione.
4.3 Vaccini terapeutici Anche se la vaccinazione profilattica si pone come obiettivo quello di raggiungere una diffusione su scala mondiale, a causa della lunga
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latenza dall’infezione del virus allo sviluppo del cancro cervicale saranno necessari decenni per percepire una più bassa incidenza di malattie cervicali preinvasive ed invasive. I vaccini “terapeutici” hanno quindi la funzione di colmare questo gap temporale risolvendo le infezioni da HPV e le malattie già presenti. I vaccini “terapeutici”, in contrasto con i vaccini “preventivi” necessitano di includere alcuni determinanti antigenici derivati da proteine dell’HPV precoci (come E2, E6 e E7) piuttosto che proteine tardive. Sono attualmente in studio vaccini per uso terapeutico mirati all’induzione di una risposta immunitaria cellulo-mediata specifica verso particolari antigeni tumorali. Nella patologia HPVassociata due proteine virali E7 ed E6, sono riconosciute come “antigeni associati al tumore” ed essendo antigeni non-self rappresentano ideali bersagli di un vaccino terapeutico. Inoltre, poiché E6 ed E7 sono richieste per l’induzione ed il mantenimento di un fenotipo maligno delle cellule neoplastiche, queste difficilmente evadono la risposta immunitaria attraverso la perdita di antigene. Così le proteine E6 ed E7 rappresentano un buon target per lo sviluppo di immunoterapie o vaccini antigene-specifici per il cervicocarcinoma. Bisogna considerare che la risposta immunitaria cellulare sembra essere la componente chiave necessaria per la clearance delle infezioni HPV e quindi dovrebbe anche essere il target principale per il vaccino terapeutico. Sono state descritte varie forme di vaccino in sistemi sperimentali che colpiscono le proteine E6 ed E7 dell’HPV. La maggior parte degli studi è focalizzata su E7 perché è espressa più abbondantemente, è meglio caratterizzata immunologicamente e la sua sequenza a livello genico è più conservata rispetto a quella di E6. Sono stati valutati numerosi approcci per lo sviluppo di vaccini terapeutici, i cui vantaggi e problemi sono riportati nella Tabella 10. Nonostante non siano ancora in commercio due tipi di vaccini terapeutici (il vaccino proteico hspE7 e quello a DNA ZYC101) hanno già fornito buoni risultati nei trial clinici. Recentemente è stata espressa la proteina E7 nella foglia di una pianta di tabacco (Nicotiana benthamiana) mediante un vettore derivato dal virus della patata PVX. Dalle foglie infette è stato ricavato un estratto usato per vaccinare dei topi. Dopo la vaccinazione nei topi è stato indotto un tumore HPV-associato. I topi sono risultati protetti per il 40%, ma il tumore cresciuto nei topi vaccinati risultava molto più piccolo che quello presente nei topi di controllo. Il sistema è stato quindi potenziato variando la strategia di espressione di E7 nella
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Tabella 10. Tipi di vaccini terapeutici Vaccino
Vantaggi
Svantaggi
Vettori: virali/batterici
Altamente immunogenici
Sicurezza, immunizzazione precoce
Peptidi
Sicuri, facili da produrre
Debolmente immunogenici, richiedono compatibilità con HLA
Proteine
Sicuri, no restrizione HLA
Deboli attivatori della immunità cellulo-mediata
DNA
Facile da produrre e trasportare, intensa espressione antigenica
Debolmente antigenici
Cellule Dendritiche
Altamente immunogenici
Difficili da produrre e da somministrare
pianta. I risultati hanno messo in evidenza valori di efficacia dell’80%. Inoltre studi sono in corso sull’uso di questi estratti di pianta contenenti E7 per pulsare cellule dendritiche umane per una possibile applicazione per vaccinazioni autologhe.
4.4 Vaccino profilattico contro HPV: più risposte più domande Gli studi già realizzati e quelli in corso sui vaccini profilattici stanno indubbiamente aprendo nuove prospettive nel campo della prevenzione del cancro cervicale. Dai diversi studi fino ad oggi realizzati risulta che i vaccini profilattici contro l’HPV sono sicuri ed efficaci. Rimangono, comunque, aperte numerose questioni, che dovranno essere affrontate nel corso dei prossimi anni: – le IgG di L1 non danno cross-reattività e quindi un determinato vaccino anti-HPV può fornire protezione solo verso i tipi virali inclusi. Dato che i tipi virali oncogeni sono molti, per ridurre l’incidenza del cancro cervicale in modo significativo, un vaccino
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dovrebbe comprendere almeno i tipi più comuni e tenere presente delle differenti distribuzioni genotipiche nelle diverse aree gefrafiche in cui gli stessi sono impiegati; non si conosce con esattezza la lunghezza dell’immunità indotta da un vaccino profilattico (dosi di richiamo? Quando? Quante volte? Fino a che età?); popolazione bersaglio: per garantire un’immunità prima dell’esposizione all’HPV, sarebbe necessario un programma di vaccinazione durante l’adolescenza (accettazione da parte dei genitori?) o l’infanzia (immunità per tutta la vita?); ci saranno richieste di vaccinazione anche oltre i 26 anni: occorre dare una risposta; occorre calcolare quale percentuale della popolazione bersaglio si sottoporrà realmente alla vaccinazione; ci si dovrà confrontare su due tipi di vaccini: il bivalente (vs. 16 e 18) ed il quadrivalente (vs. 6, 11, 16, 18); non si conosce il livello degli anticorpi serici richiesto per un’adeguata protezione dall’infezione; i maschi devono essere vaccinati? I partner potrebbero ricevere sia benefici indiretti (nel senso di una riduzione dell’esposizione al virus nelle donne), sia benefici diretti (l’associazione anche dei sottotipi virali a basso rischio in un vaccino profilattico consentirebbe una protezione anche dei condilomi acuminati, patologia psicologicamente invalidante, che dà frequente recidive e richiede trattamenti spesso dolorosi); i vaccini costituiti da VLPs funzionano solo come vaccini profilattici, poiché le proteine capsidiche non vengono più espresse dopo che il virus è entrato nella cellula epiteliale; è necessaria la catena del freddo (e ciò cui costituisce una limitazione notevole nei paesi in via di sviluppo); se la vaccinazione verrà introdotta in modo tale da non permettere almeno una riduzione degli screening i costi potrebbero risultare proibitivi in alcune aree geografiche; in ogni caso lo screening deve continuare e va incentivato; occorre valutare l’effetto della vaccinazione sugli attuali programmi di screening. Poiché è inverosimile che un qualunque tipo di vaccino sia in grado di prevenire tutte le infezioni da HPV ad alto rischio, un qualche programma di screening dovrà rimanere in atto. Se un vaccino è efficace nel prevenire le lesioni di alto grado e il cancro, ma non diminuisce anche la prevalenza delle lesioni di basso grado, le attuali linee-guida dovranno essere rivi-
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ste, in modo da evitare alle pazienti portatrici di lesioni di basso grado test e interventi non necessari; – se le donne vaccinate saranno erroneamente indotte a credere di non essere più a rischio per il cancro cervicale e diserteranno i programmi di screening, l’impatto ultimo sull’incidenza del cancro sarà diminuita. La risoluzione di tutti questi problemi rappresenta la grande sfida che ci attende per il prossimo futuro. È comunque un fatto estremamente positivo poter riporre speranze nell’utilizzo di un vaccino, fino a pochi anni fa considerato di difficile realizzazione, per la prevenzione di una malattia tumorale come il cervicocarcinoma.
4.4.1 Quando e chi vaccinare? L’infezione da HPV viene acquisita dopo l’inizio dell’attività sessuale. I vaccini non sembrano capaci di far regredire le lesioni in atto. Ne deriva che dovrebbero essere vaccinate le ragazze prepuberi o nel primo periodo adolescenziale, così come le donne che non hanno ancora avuto rapporti sessuali (da ricordare che la trasmissione avviene anche per rapporti non penetrativi). Anche donne che hanno una vita sessualmente attiva potrebbero giovarsi della vaccinazione, poiché alcune potrebbero non essere ancora state contagiate da uno o più dei tipi di HPV contenuti nel vaccino. Il rapporto costo-beneficio pare tuttavia inversamente correlato all’età della donna, ricordando l’incidenza rapidamente cumulativa delle infezioni genitali da HPV in giovani donne [204-206]. Secondo l’American Cancer Society [183] anche le donne di 13-18 anni andrebbero vaccinate, per recuperare quelle non vaccinate in precedenza o completare i cicli incompleti. In Italia, dopo il parere favorevole del Consiglio Superiore di Sanità e la presa d’atto dell’AIFA, è stato registrato il vaccino quadrivalente per bambine/donne dai 9 ai 26 anni. È prevista la vaccinazione attiva e gratuita della coorte di ragazze dodicenni. Va segnalato che in Italia il 96,8% delle bambine ha già manifestato i primi segni di sviluppo puberale all’età di 12 anni e che l’età media del menarca è di 12,4 anni [207]. D’altra parte, la vaccinazione conferisce una protezione massima se eseguita prima dell’inizio dell’attività sessuale. Un’indagine recente segnala che nel nostro paese l’1% dei giovani ha avuto rapporti sessuali entro i 12 anni ed un terzo entro i 17 anni [208]. Alcuni adolescenti sono tuttavia a rischio per un inizio
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precoce dell’attività sessuale (Tabella 11) [209]; in questi soggetti, come in alcuni gruppi di immigrati le cui tradizioni culturali potrebbero favorire rapporti sessuali precoci, dovrà quindi essere valutata l’opportunità di una vaccinazione anticipata. Il rischio di tumori associati ad HPV nonché di forme diffuse di condilomi è particolarmente elevato nei soggetti immunodepressi, come quelli con infezione da HIV o sottoposti a trapianti. Rimane da verificare l’immunogenicità, l’efficacia e la sicurezza di questi vaccini in questi gruppi di pazienti. I fattori che si devono maggiormente tenere in considerazione ai fini della scelta dell’età di una vaccinazione sono tre: 1. Durata dell’effetto protettivo del vaccino Come per tutti i nuovi vaccini, ci sono ancora poche informazioni riguardanti la durata dell’immunogenicità. Il follow-up più lungo nei trials di fase 2 è durato 60 mesi, al termine dei quali i titoli anticorpali erano ancora elevati. 2. Età in cui l’efficacia è maggiore Il massimo beneficio che si ottiene da questa vaccinazione coincide con l’età che precede l’esposizione al virus. L’infezione da HPV avviene precocemente nel corso dei primi anni di attività sessuale ed in questa fascia di età è stata inoltre osservata la migliore risposta immunitaria al vaccino. Nei trial l’età più bassa di reclutamento è stata di 9 anni. Va tenuto conto anche del fatto che la vaccinazione è controindicata in gravidanza (anche se i dati finora raccolti su donne coinvolte nei trial vaccinali e risultate gravide poco dopo non indicano un impatto negativo del vaccino sulla salute del feto). 3. Fattibilità dei piani vaccinali di popolazione Tabella 11. Condizioni e fattori favorenti l’inizio precoce dell’attività sessuale negli adolescenti Fattori di rischio
Descrizione
Biologici
Anticipazione del menarca
Intrafamiliari
Storia multigenerazionale di genitorialità adolescenziale, situazioni di affido, genitori poco presenti o attenti
Socioculturali
Residenza in aree con alto tasso di povertà e disoccupazione, basso reddito della famiglia
Intrapersonali
Storia di abuso sessuale o fisico
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All’età di 11/12 anni, in coincidenza con la scuola dell’obbligo, e con la somministrazione booster di altri vaccini in Italia è più facilmente realizzabile un’offerta attiva del vaccino all’intera popolazione femminile; la comunicazione ed il contatto con le famiglie da parte degli stessi servizi impegnati nelle vaccinazioni per l’infanzia sono più agevoli, anche quelle appartenenti alle classi sociali più disagiate. Mentre le malattie HPV correlate rimangono un importante obiettivo di salute per tutte le donne di qualsiasi età, i benefici potenziali del vaccino contro l’HPV per le donne già sessualmente attive da tempo sono oggetto di discussione. Non esistono ad oggi prove definitive a favore o contro la vaccinazione universale per i soggetti tra i 19 ed i 26 anni (Tabella 11). L’efficacia del vaccino, come abbiamo visto, diminuisce nelle donne già infettate dall’HPV. Le donne di questa fascia di età che non fossero sessualmente attive potrebbero beneficiare di effetti simili a quelli delle dodicenni. Ad oggi, è ragionevole ritenere la scelta della vaccinazione a questa età come una scelta consapevole e personale della donna, basata sulla propria storia sessuale, stile di vita, priorità e scelte di salute. Il vaccino si è comunque dimostrato ben tollerato anche in questa fascia di età.
4.4.2 Come evolverà l’HPV per sfuggire alla neutralizzazione? L’HPV utilizza l’apparato di replicazione della cellula ospite (un classico meccanismo dei virus a DNA) per replicare il suo genoma, inserendo un tasso di errori molto basso rispetto al virus ad RNA come virus della immunodeficienza umana (HIV) che utilizzano i propri enzimi (es. trascrittasi inversa) per copiare genoma. Pertanto, le sequenze dei vari HPV sono molto stabili nel tempo. Tuttavia, all’interno del genoma di HPV ci sono molte varianti con circa il 2% di divergenza della sequenza nucleotidica. Molti di questi cambiamenti sono nella regione L1 (codificante per epitopi neutralizzanti), la quale suggerisce un meccanismo di selezione per sfuggire alla neutralizatione [95, 210-212]. Mediante un meccanimo analogo, questi epitopi sono molto divergenti tra i genotipi, il che è coerente con successo fuga dagli anticorpi neutralizzanti derivanti da altre infezioni da HPV genotipi. Prove indicano che le varianti all’interno di un genotipo di HPV sono efficacemente neutralizzati dall’azione crociata degli antisieri prodotti contro L1 VLPs prove-
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niente da un altro variante nello stesso genotipo [95]. Di fronte a questa azione di neutralizzazione crociata delle varianti e il lento tasso di HPV sequenza di mutazioni, è improbabile che il virus possa fuggire dal sistema immunitario.
4.4.3 La vaccinazione può cambiare il repertorio genotipico degli HPV che causano il cancro cervicale? Un problema di tipo teorico analogo alle resistenze agli antibiotici, che porta alla selezione di nuovi ceppi batterici definiti “emergenti” contro i quali ogni anno clinici e ricercatori devono fare i conti, riguarda la protezione contro i genotipi di HPV diversi da quelli inclusi nel vaccino; non si può certo non considerare la possibilità che nuovi genotipi potrebbero moltiplicarsi per riempire la nicchia ecologica lasciata dai genotipi contro cui il vaccino è efficace. Poiché, sebbene la ricombinazione tra due diversi genotipi di HPV è un evento poco frequente e studi epidemiologici indichino che la competizione tra i diversi genotipi non sia significativa, evidenze sieroepidemiologiche indicano che la protezione contro carcinogenesi cervicale associata a HPV 16 sia connsessa ad infezioni con il genotipo HPV 6 a basso rischio. Tuttavia, ciò probabilmente è la conseguenza di un fenomeno di protezione crociata piuttosto che la competizione per la replicazione in una particolare nicchia. Infatti, nel corso di 4 anni di follow-up non è stato osservato un aumento delle patologie associate a genotipi diversi da quelli presenti nei vaccini VLP. Studi indicano che, la protezione mediante VLPs è ristretta agli stessi genotipi e che, nel breve termine, non ci sarà alcuna espansione di altri genotipi di HPV dopo la vaccinazione contro i due più comuni genotipi che causano il cancro. Nel caso improbabile che questo si verificasse nel corso del tempo, potrebbero essere inclusi altri antigeni protettivi (es. L2).
4.4.4 Quale effetto avrà la vaccinazione sui programmi di screening? È stato stimato che anche ipotizzando le migliori previsioni di copertura vaccinale, ci vorranno diversi decenni (mediana dell’età è di 48 anni) di età prima di riuscire ad abbattere il tasso di incidenza del cancro del collo dell’utero.
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I programmi di screening dovranno essere continuati su tutta la popolazione femminile sessualmente attiva: – per chi fosse stata vaccinata, ai fini della sorveglianza su HPV oncogeni non compresi nei vaccini; diversamente non potrebbe essere poi esclusa un’eventuale infezione prima dell’età della vaccinazione; – per tutte le altre donne non vaccinate, ai fini di non interrompere i programmi di sorveglianza e prevenzione. Si prevede che, diminuendo in proiezione la prevalenza della malattia nella popolazione, statisticamente diminuirà il potere predittivo positivo (PPV) del Pap test ed aumenterà quello negativo (NPV). In conseguenza di ciò, sarà possibile che una più piccola percentuale di donne con Pap test positivo avranno un CIN 2/3 al riscontro bioptico (aumenta la percentuale di falsi positivi al Pap test) e, dall’altra parte, una più piccola percentuale di donne con Pap test negativo avranno poi un CIN 2/3 alla biopsia (diminuisce la percentuale di falsi negativi). In Italia i programmi di screening citologico di popolazione organizzati prevedono attualmente, su indicazione della Commissione Oncologica Nazionale e della Direzione Generale della Prevenzione del Ministero della Salute ed in linea con le Linee guida Europee: – I livello: esecuzione del test di screening (esame citologico, tradizionale o liquido), a tutte le donne da 25 a 64 anni, da ripetere (a parte casi particolari) in caso di normalità, ogni 3 anni. – II livello: per le donne con citologia ASCUS valgono le seguenti opzioni: – ricerca dei tipi di HPV ad alto rischio e invio in colposcopia soltanto delle donne positive a questo test (triage mediante test HPV DNA); – invio diretto in colposcopia; – ripetizione della citologia a sei mesi ed invio in colposcopia in caso di persistenza della anormalità o di anormalità superiore. Il triage Test con HPV DNA si è dimostrato più accurato rispetto alla ripetizione della citologia ed è particolarmente indicato nelle realtà che utilizzano la citologia in fase liquida, in quanto non richiede la ripetizione dell’esame. Di regola, alle donne con citologia LSIL dovrebbe essere raccomandata la colposcopia. Tuttavia, sulla base della frequenza locale di infezione da tipi di HPV DNA ad alto rischio in questa classe diagnostica, si può adottare un protocollo basato sul triage mediante test HPV DNA. Si raccomanda
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l’invio in colposcopia di tutte le donne con citologia HSIL o più grave, nonché delle donne con citologia ASCUS. È proposto il trattamento ed un adeguato follow-up di tutti i casi di CIN 2 o 3. Per quanto riguarda l’uso del test HPV DNA nello screening è attualmente in corso in Italia lo studio randomizzato NTCC, che ha coinvolto circa 100000 donne in nove centri di screening e che ha per il momento dimostrato una più alta sensibilità, anche se una minore specificità del test HPV DNA, rispetto agli esami citologici, nello screening primario. Solo al termine della ricerca sarà possibile definire l’utilità o meno del test HPV DNA nello screening primario, le modalità più appropriate di applicazione e soprattutto la gestione dei casi con test positivo che è ancora in via di definizione, poiché è necessario conoscere l’evoluzione nel tempo dei casi in studio. Nel frattempo il test per l’HPV non è consigliato al di fuori di studi che includano una rigorosa valutazione.
4.4.5 Si dovranno vaccinare anche i maschi? Nei maschi la vaccinazione potrebbe proteggere dai condilomi acuminati causati dai tipi di HPV presenti nel vaccino quadrivalente, nonché dai tumori del pene e da quelli anali (con rischio elevato per maschi omosessuali), dell’orofaringe, della testa e del collo. I modelli matematici suggeriscono che se la copertura vaccinale nelle donne è bassa, la vaccinazione di entrambi i sessi può essere più efficace per prevenire le lesioni innescate dall’HPV [213], mentre se la copertura vaccinale è alta i vantaggi derivanti dal vaccinare anche i maschi sarebbero limitati per il noto effetto dell’immunità “di gregge” (herd immunity) [214]. Quindi dipenderà dall’efficienza di copertura vaccinale sul sesso femminile, che potrebbe determinare un effetto protettivo indiretto sui maschi. Viceversa, la vaccinazione dei maschi potrebbe avere impatto sulla trasmissione dell’infezione alle femmine. Il profilo di costo-efficacia di questa opzione dovrà essere valutato, in quanto certamente meno favorevole di quello della vaccinazione delle femmine. Al di fuori delle considerazioni teoriche, anche se le risposte anticorpali al vaccino sono sovrapponibili nei maschi e nelle femmine [203], al momento non vi sono studi che documentino l’efficacia dei vaccini in maschi, in cui oltretutto la maggioranza delle infezioni genitali da HPV non sono mucose ma cutanee; nelle donne il vaccino quadrivalente si è comunque dimostrato protettivo anche nei confronti delle lesioni cutanee.
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4.4.6 Il vaccino contro l’HPV dovrebbe essere obbligatorio? Il vaccino HPV solleva una serie di questioni etiche che potrebbero influenzare il suo uso [215, 216]. La vaccinazione non è senza rischi, e le prove indicano che le altre misure, tra cui i preservativi, l’astinenza e la circoncisione maschile, sono abbastanza efficaci a limitare la diffusione della malattia [217]. Sebbene sia stata espressa la preoccupazione che la vaccinazione per HPV possa promuovere comportamenti sessuali a rischio, la paura del virus HIV probabilmente domina [218]. Infatti, l’epatite B può essere diffusa attraverso il contatto sessuale, e non ci sono elementi che provano che l’introduzione globale del vaccino contro il virus dell’epatite B ha promosso comportamenti sessuali a rischio. Efficaci programmi di istruzione e la vaccinazione obbligatoria sarà probabilmente la più grande e la più rapida riduzione in termini di incidenza di del cancro cervicale [219].
4.5 Vaccino HPV: educazione e comunicazione Perché la vaccinazione contro HPV abbia successo sarà necessaria un’adeguata informazione della popolazione e degli operatori sanitari, una chiara volontà politica, le risorse ed una strategia per la sua implementazione (incluse l’identificazione e la distribuzione del vaccino ai servizi) e la pianificazione dell’intervento in maniera sequenziale. Infine, è necessaria un’alta copertura con relativa sorveglianza nel tempo. Oltre a questi elementi si deve tener conto degli aspetti psico-sociali legati all’accettabilità della vaccinazione da parte della popolazione [220]. Un punto critico è rappresentato dal fatto che le conoscenze sulle potenzialità cancerogene dell’HPV sono in genere scarse, ma anche altri ostacoli possono influire sull’azione di promozione [140, 221]. Pare quindi opportuno non solo sviluppare, ma anche valutare i risultati di una campagna di informazione mirata. Il fatto che siano necessarie 3 somministrazioni nel corso di 6 mesi al 12° anno di età richiederà anche l’adozione di un programma di salute che preveda l’accesso ripetuto al medico vaccinante di bambine sane di questa età. Un ruolo chiave per l’accettazione e diffusione del vaccino, visto che questo è destinato soprattutto a una popolazione di adolescenti, sarà quello del pediatra. I genitori attribuiscono infatti molta impor-
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tanza alla sua opinione per l’esecuzione o meno di una vaccinazione. Il problema di quella verso HPV ha, tuttavia, aspetti più complessi ed articolati rispetto ad altre. Inchieste nel Regno Unito [222-225] hanno ad esempio dimostrato che molte madri di bambine di 8-14 anni sapevano pochissimo di HPV e cancro uterino. Inoltre, trattandosi di un’infezione sessualmente trasmessa avevano molte perplessità sull’epoca ideale in cui somministrare il vaccino, per il timore che in bambine troppo giovani la vaccinazione potesse portare ad un eccesso di sicurezza con comportamenti sessuali più aperti e a rischio. L’opera del pediatra deve includere un counselling ampio e complesso che entri nella discussione delle tematiche sessuali e vada oltre la semplice informazione sull’HPV [226]. Egli deve essere disponibile ad affrontare il tema dell’attività sessuale dei suoi pazienti, oggi discusso raramente e sempre con comprensibile difficoltà. Un’indagine condotta in Italia conferma la necessità che la campagna vaccinale sia preceduta da un aggiornamento del pediatra sull’argomento, aggiornamento che deve includere anche una profonda rivisitazione del suo ruolo come tutore della salute psico-fisica del bambino e dell’adolescente, così da permettergli di svolgere, con piena consapevolezza ed adeguata autorità, il ruolo di consigliere anche per i problemi sessuali prima ancora che per quelli strettamente legati alla vaccinazione.
4.6 Conclusioni Sono stati preparati vaccini proflattici contro HPV che hanno dimostrato ottima immunogenicità e sicurezza. Anche se gli studi di efficacia di fase II e III coprono un arco di tempo ancora limitato, la vaccinazione di ragazze e donne non infette si è dimostrata in grado di prevenire le infezioni da genotipi virali contenuti nel vaccino e di incidere in modo significativo sulla comparsa di lesioni precancerose del collo dell’utero, nonché di condilomi acuminati nel caso del vaccino quadrivalente. La vaccinazione va offerta prioritariamente a soggetti di sesso femminile prima dell’inizio dell’attività sessuale. La scelta nel nostro Paese è di offrirla a tutte le ragazze nel 12° anno di vita. La vaccinazione può rivelarsi utile anche in ragazze e donne di età maggiore, specie se non ancora sessualmente attive. Le indicazioni autorizzate per il vaccino quadrivalente sono dai 9 ai 26 anni. Al momento non vi è documentazione di efficacia nei maschi.
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L’implementazione della vaccinazione non deve ridurre la prevenzione secondaria del cancro della cervice attraverso lo screening di massa con Pap test. Gli attuali vaccini proteggono infatti solo per i tipi di virus in essi contenuti e non possono, quindi, eradicare il carcinoma cervicale. Per avere successo la vaccinazione non richiede solo l’impegno delle classe medica, ma deve essere preceduta ed accompagnata da una chiara volontà politica, dalla disponibilità delle risorse necessarie, da una implementazione razionale e da una campagna d’informazione mirata che renda accettabile e condivisa la vaccinazione alla popolazione generale. Le attuali conoscenze sulle malattie associate all’infezione da HPV ed in particolare al suo ruolo cardine nel cancro del collo dell’utero sono, infatti, molto frammentarie. È importante che venga sottolineato che la vaccinazione non protegge dalle numerose altre malattie sessualmente trasmesse e ribadito l’importanza dell’uso del condom nella prevenzione delle malattie a trasmissione sessuale. Poiché si tratta di un’infezione trasmessa per via sessuale, oltre ad una conoscenza approfondita della tematica, si rendono necessaria attenzione e sensibilità nel dialogo con le ragazze ed i genitori, teso a chiarire gli obiettivi della vaccinazione anche vincendo una certa reticenza che talora emerge da indagini specifiche. Infine non si può dimenticare che l’80% dei tumori del collo dell’utero si riscontra nei paesi in via di sviluppo, dove i problemi di tipo economico ed organizzativo sono rilevanti. Ciascun paese dovrà valutare l’importanza della vaccinazione anti-HPV nel contesto locale del rapporto costo/beneficio e rispetto ad altre priorità del sistema sanitario nazionale [227]. Tuttavia, i vaccini in genere si sono rivelati efficaci strumenti di salute pubblica anche in paesi con risorse limitate ed è in corso uno sforzo congiunto delle aziende produttrici e delle agenzie internazionali per la distribuzione ed il finanziamento dei vaccini per HPV sì da renderli disponibili, ad un prezzo accessibile, in tutto il mondo. Questi possono, quindi, rappresentare uno straordinario mezzo di profilassi primaria in grado di ridurre significativamente il tumore cervicale anche nelle zone geografiche più svantaggiate o fra la popolazione meno abbiente.
Glossario
Adiuvante. Componente del vaccino, che aumenta in modo non specifico la risposta immunitaria all’immunogeno. Gli adiuvanti sono importante perché tipicamente aumenti l’efficacia del vaccino. Esempi di adiuvanti includono l’allume e l’ASO4. Anticorpi neutralizzanti. Anticorpi presenti nel siero (plasma dopo la coagulazione) in grado di inattivare l’infezione virale. Antigeni maggiori e/o minori del capside L1 e L2. I componenti del capside del Papillomavirus L1 e L2 sono proteine “tardive”. Capsomeri. Subunità strutturali ripetute che formano il capside di un virus. Cellule T CD4+. Aiutano a stimolare la reazione del sistema immunitario. Cheratinociti. Cellule epidermiche che producono cheratina. Conformazionale. Quando per il riconoscimento, un epitopo richiede un specifica disposizione spaziale. E6 ed E7. Le due oncoproteine virali di HPV più significativamente correlate al cancro. Geni precoci e tardivi. Geni precoci o proteine precoci e geni tardivi o proteine tardive sono due classi di geni o di proteine che sono prodotte in diversi momenti del ciclo di replicazione virale: proteine virali precoci per regolare la replicazione del DNA (E1 e E2), la trascrizione di RNA (E2), la trasformazione (E5, E6 e E7) e la morfogenesi del citoscheletro (E4), e proteine (L1 e L2) “tardive”.
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Hybrid Capture II (HC 2). Il test HC 2, che è l’unico test approvato dalla FDA, è un test di ibridazione molecolare in micropiastra con un cocktail di sonde che identifica i 13 principali genotipi di HPV ad alto rischio (è disponibile anche il cocktail di sonde che identifica un gruppo di HPV a basso rischio) e la rivelazione del segnale avviene mediante chemiluminescenza. Lesione squamosa intraepiteliale. Il sistema di Bethesda per diagnosi citologica utilizza i termini “Lesione squamosa intraepiteliale di basso grado” (LSIL) per lesioni precedentemente classificate come atipia coilocitica e CIN 1, e “lesioni squamose di alto grado” (HSIL) per lesioni precedentemente designate come CIN 2/3. Linfociti T citotossici (CTL). Sono linfociti T CD8+ che distruggono una cellula che presenta un antigene specifico sulla sua superficie. Neoplasia cervicale intraepiteliale. La terminologia CIN divide i precursori del cancro cervicale in tre classi istologiche: CIN 1 (displasia lieve), CIN 2 (displasia moderata) e CIN 3 (displasia grave o di carcinoma in situ). Lesioni squamose di alto grado è sinonimo di CIN 2/3. Particella virus–simile. Un capside non infettivo privo di acido nucleico virale che comprende tutti o una parte degli antigeni del capside e che somiglia virione nativo sia morfologicamente che immunologicamente. PCR. È l’acronimo di Polymerase Chain Reaction, una tecnica che permette di amplificare selettivamente il DNA (es. DNA virale) mediante l’utilizzo di specifici oligonucleotidi (primers). Postulati di Koch modificati da Rivers per le malattie virali. I postulati di Koch sono criteri utilizzati per giudicare se un determinato microbo provoca una determinata malattia. Nel 1937, Rivers estese il postulati di Koch originali e propose sei criteri che dovrebbero essere soddisfatte per stabilire se un virus è l’agente eziologico o meno di una malattia. Saggio di neutralizzazione. Una misura dell’efficacia dell’inattivazione di un agente infettivo mediata dagli anticorpi.
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Sensibilità. La sensibilità è la capacità di identificare correttamente i soggetti malati. In termini di probabilità, la sensibilità è la probabilità che un malato risulti positivo al test; si può anche dire che essa è la proporzione degli ammalati che risultano positivi al test. Sieroconversione. Quando un paziente si converte da un risultato negativo ad uno positivo in un saggio sierologico. Specificità. La specificità è la capacità di identificare correttamente i soggetti sani. In termini di probabilità, la specificità è la probabilità che un individuo sano risulti negativo al test; si può anche dire che essa è la proporzione dei sani che risultano negativi al test. Test ELISA. ELISA è l’acronimo dell’espressione inglese EnzymeLinked Immunosorbent Assay, un metodo di analisi immunologica usato in biochimica per rilevare e quantificare la presenza di un dato anticorpo o di un antigene caratteristico di un organismo patogeno in un campione prelevato da un soggetto che ne è probabilmente affetto. Per misurare la concentrazione di un anticorpo il test utilizza un antigene il quale viene adsorbito su una superficie e esposto a un anticorpo specifico per l’antigene presente nel campione; successivamente viene aggiunto un anti-anticorpo specifico legante un enzima. La reazione dell’enzima con un substrato determinerà il cambiamento del colorato prodotto che può essere quantificato. Vaccinazione parenterale. Vaccino dato tramite iniezione endovenosa, intramuscolare o sottocutanea. Vaccini terapeutici e vaccini profilattici. I vaccini profilattici sono dati a pazienti sani per prevenire la malattia prima dell’esposizione agli agenti eziologici. Per contro, vaccini terapeutici sono indicati per i pazienti o per curare migliorare una malattia. Vaccino contro il virus dell’epatite B. Impedisce l’infezione del virus dell’epatite B e le sue sequele, come il carcinoma epatocellulare (cancro al fegato). È il primo vaccino antitumorale. Vaccino Multivalente. Comprende più di un genotipo di HPV.
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