Massimo Carlotto, Arrivederci amore, ciao.
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Massimo Carlotto, Arrivederci amore, ciao.
Copyright 2001 by Edizioni e/o. Arrivederci amore, ciao è la storia di una carogna, un extra-parlamentare che tradisce gli ex compagni, accumula un bel capitale attraverso crimini di ogni genere, approfitta del fascino che esercita sulle donne per sfruttarle o per possederle, scopre il gusto dell'omicidio nel tentativo di ricostruirsi una verginità politica e sociale che gli consenta di entrare a pieno titolo nella buona società. E' un romanzo di formazione criminale, un genere sconosciuto da noi e che forse ha solo pochi antecedenti in certe storie settecentesche inglesi che raccontano l'accumulazione primitiva senza scrupoli di futuri borghesi e nobiluomini. In questo romanzo che racconta il cuore nero del Nordest e, più in generale, dell'Italia patinata ed "emergente", Carlotto "mette a frutto" le pessime conoscenze che ha fatto in carcere, nel mondo criminale e anche tra personaggi delle istituzioni e ci da il primo grande e sconvolgente ritratto dell'Italia nera dei nostri anni. Il giovane e bel protagonista del romanzo ha un solo scopo: lasciarsi alle spalle una storia politica in cui non ha mai creduto veramente e che gli ha procurato solo guai ed entrare nel mondo dei vincenti. Per farlo, si darà una sola regola: prevaricare a ogni costo, con ogni mez zo. Dopo aver letto questo romanzo non si potrà più guardare senza disagio a certi ambienti e a certi personaggi di un mondo fin troppo reale e vicino.
Indice
Prologo Flora Francisca Luana La Nena Roberta Nota sull'Autore
Arrivederci amore, ciao
Articolo 178 codice penale: La riabilitazione estingue le pene accessorie ed ogni altro effetto penale della condanna, salvo che la legge disponga altrimenti. Articolo 179 codice penale: La riabilitazione è conceduta quando siano decorsi cinque anni dal giorno in cui la pena sia stata eseguita o siasi in altro modo estinta, e il condannato abbia dato prove effettive e costanti di buona condotta.
Prologo
La carogna dell'alligatore galleggiava a pancia all'aria. Era stato abbattuto perché aveva iniziato ad avvicinarsi troppo all'accampamento e nessuno voleva rimetterci un braccio o una gamba. La puzza dolciastra della decomposizione si mescolava a quella della selva. La prima capanna distava da quella radura un centinaio di metri. L'italiano chiacchierava tranquillo con Huberto. Avvertì la mia presenza. Si voltò e mi sorrise. Gli strizzai l'occhio e lui riprese a parlare. Mi portai alle sue spalle, respirai a fondo e gli sparai alla nuca. Si afflosciò sull'erba. Lo afferrammo per i piedi e le braccia e lo buttammo a fianco all'alligatore. Il rettile a pancia all'aria e lui a faccia in giù. L'acqua era così densa e immobile che sangue e brandelli di cervello riuscirono a fatica a ricavarsi uno spazio non più grande di un piattino da caffè. Huberto mi prese la pistola, se la infilò nella cintura e con un cenno del capo mi fece segno di ritornare al campo. Obbedii anche se avrei preferito rimanere ancora un po' a fissare il corpo nell'acqua. Non pensavo che sarebbe stato così facile. Avevo appoggiato la canna sui suoi capelli biondi, stando attento a non toccare la testa per non correre il rischio che si girasse e mi guardasse negli occhi, e avevo tirato il grilletto. La detonazione era stata secca e aveva fatto scappare gli uccelli. Il rinculo sulla mano era stato leggero e con la coda dell'occhio avevo visto il carrello della semiautomatica arretrare e caricare un'altra pallottola. In realtà il mio sguardo era concentrato sulla sua nuca. Un forellino rosso. Perfetto. Il proiettile era uscito dalla fronte aprendo uno squarcio slabbrato. Huberto l'aveva guardato morire senza muovere un muscolo. Sapeva che sarebbe accaduto. L'italiano doveva essere giustiziato e lui si era offerto di attirarlo
nell'agguato. Da un po' di tempo era diventato un problema. La notte, ubriaco fradicio, molestava i prigionieri. La sera prima il comandante mi aveva chiamato nella sua tenda. Sedeva su una branda e tra le mani rigirava una grossa pistola. "E' una calibro nove, di fabbricazione cinese" spiegò. "E' una copia esatta della Browning HP. I cinesi copiano tutto. Sono precisi e meticolosi, se non ci fossero gli ideogrammi la prenderesti per una autentica. Però la meccanica fa schifo. Si inceppa a metà caricatore. Perfetta nell'aspetto ma debole dentro... Esattamente come il socialismo cinese". Annuii fingendo interesse. Il comandante Cayetano era uno dei quadri storici della guerriglia. E' uno dei pochi sopravvissuti. Aveva superato la sessantina e portava un pizzo lungo e sottile alla zio Ho, e come il leader vietnamita anche lui era lungo e sottile. Figlio di un latifondista della canna da zucchero, da giovane aveva scelto di passare dalla parte dei poveri e degli indios. Un tipo coerente. Palloso e cazzuto. Non mi aveva certo chiamato per scambiare quattro chiacchiere. Non l'aveva mai fatto. Non gli ero mai stato simpatico. "Ammazzalo" disse porgendomi la pistola. "Ti basterà un colpo". Annuii ancora. Non dimostrai sorpresa e tantomeno domandai chi avrei dovuto uccidere. Avevo capito benissimo. "Perché io?" mi limitai a chiedere. "Perché anche tu sei italiano. Siete arrivati insieme e siete amici. E' meglio che la faccenda rimanga in famiglia" disse con un tono cattivo che non ammetteva repliche. Avevo annuito per l'ennesima volta e la sera dopo avevo premuto il grilletto. Al campo nessuno aveva commentato l'accaduto. Tutti se l'aspettavano. Fu tutta lì, in quell'esecuzione a tradimento, la mia esperienza guerrigliera. Ammazzare uno che come me aveva deciso di dedicare la vita alla causa di un popolo del Centroamerica. A parole. In realtà eravamo due cazzoni pieni di boria, fuggiti dall'Italia e dalle fighette dell'università, inseguiti da un mandato di cattura per associazione sovversiva e per qualche attentato senza importanza. A parte la bomba che avevamo piazzato davanti alla sede dell'Associazione Industriali e che aveva ammazzato un metronotte. Uno sfigato al limite della pensione. Aveva notato la borsa, era sceso dalla bicicletta e aveva avuto la pessima idea di andare a ficcare il naso. Dai giornali scoprimmo che passava di lì tutte le sere. Semplicemente non avevamo controllato, troppo occupati a vantarci al bar di azioni che avevano compiuto altri. Fu una ragazza con cui ero stato per un paio di settimane a decidere di pentirsi una mezz'ora dopo l'arresto e di fare i nostri nomi. In tutta fretta avevamo attraversato il
confine francese. Poi, a Parigi un anno dopo, quando avevamo saputo di essere stati condannati all'ergastolo, ci eravamo guardati negli occhi e avevamo deciso di fare gli eroi. Solo che la selva non era il quartiere latino, non era Bergamo e tantomeno Milano. E il nemico, se ti catturava, non ti metteva in galera ma ti scuoiava vivo tirando la pelle dalle caviglie. Eravamo arrivati pieni di entusiasmo e sano fervore rivoluzionario, ma impiegammo una settimana per scoprire che la vita nella guerriglia era un vero inferno. Per fortuna eravamo rimasti sempre nelle retrovie. Non avevamo le palle per affrontare i ranger della dittatura e i loro istruttori americani come facevano quegli indios silenziosi. Non sorridevano mai. Vivevano e morivano con la stessa espressione. Il mio amico, col tempo, era andato fuori di testa. Aveva cominciato a bere e a fare strani giochetti con i soldati che il Frente catturava nelle imboscate. L'avevo avvertito che da quelle parti non gradivano certe debolezze ma lui, ormai, non ascoltava più nessuno. Trascorreva il giorno come un automa in attesa della notte. Approfittai dell'arrivo di una troupe della televisione spagnola per allontanarmi sempre di più dal comandante Cayetano, dal pericolo dei combattimenti e dalla causa di cui non mi fregava più nulla. Una giornalista bassottina e culona mi aveva messo gli occhi addosso. Io le feci capire che le avrei fatto provare l'ebbrezza di un'avventura con uno degli ultimi combattenti delle brigate internazionali. Lei, dopo qualche notte di passione, aveva chiesto e ottenuto dal comandante che fossi io ad assisterla nelle interviste. Fuggii in Costarica attraversando il confine a piedi, dopo averle promesso che l'avrei raggiunta a Madrid. Ma ero sprovvisto di documenti e tornare in Europa con un ergastolo sulle spalle a quel tempo mi sembrava ancora un rischio inutile. Cercai lavoro sulle spiagge. Investitori europei, in particolare italiani, avevano iniziato a costruire alberghi su spiagge bellissime e incontaminate. Nessun vincolo, nessun piano regolatore e la concessione delle licenze basato su un semplicissimo sistema di bustarelle. Da paradiso terrestre a paradiso del cemento. Oltre l'italiano, parlavo lo spagnolo e me la cavavo egregiamente con il francese. Fui assunto come barista in un hotel di proprietà di un'italiana. Una quarantenne piena di soldi, separata senza figli. Era una milanese portata per gli affari. Una di quelle che con la gente ci sapeva fare. Quando mi presentai mi squadrò dalla testa ai piedi. Quello che vide dovette piacerle ma non era affatto stupida. Mi disse chiaro e tondo che le sembrava
evidente che io ero un terrorista in fuga. Una di quelle teste di cazzo che le avevano distrutto la macchina per costruire una barricata in pieno centro a Milano. Si ricordava la data. Anch'io. Tre giorni di rabbia, la città che puzzava di benzina e lacrimogeni e due morti, Varalli e Zibecchi. Le rifilai una storiella patetica ma credibile. Mi raccomandò di non comportarmi male; la polizia del Costarica non aveva alcuna simpatia per i rifugiati politici. Quel luogo mi sembrava un paradiso in confronto alla selva e per la prima volta dopo la fuga potevo prendere in considerazione l'idea di mettere radici. Il mio destino era però nelle mani della padrona e infilarmi nel suo letto, al momento libero, mi parve il metodo migliore per tenere la situazione sotto controllo. Si chiamava Elsa e non era male. Certo, per la spiaggia giravano donne molto più belle e molto più giovani ma non ero nella condizione di potermi permettere certi lussi. Era una tipa difficile e si fece corteggiare due mesi prima di farsi baciare. Lei non credeva alla sincerità del mio amore e a quasi nessuna delle cose che le raccontavo. A me riusciva facile mentirle e lo facevo con piacere, mi permetteva di costruirmi un'identità diversa come un documento falso. Interiore. Mi permetteva di vivere lunghi periodi senza dover fare i conti con la mia vita reale che avevo iniziato a odiare. Mi faceva paura. Era stata basata per troppo tempo su dichiarazioni d'intenti alle quali non avrei mai tenuto fede. Per mancanza di coraggio. E in fondo l'avevo sempre saputo. Ma era facile mentire a se stessi e agli altri nei bar e nelle assemblee. Non erano tutti come me. Anzi. Io facevo parte di quella minoranza che aveva trovato nel movimento spazi di socialità e libertà che la famiglia mi aveva sempre negato. Se avessi immaginato che il prezzo sarebbe stato beccarsi il carcere a vita e ammazzare un amico me ne sarei rimasto a casa tranquillo, a sopportare le stronzate di mio padre, le debolezze di mia madre e il bigottismo delle mie sorelle. Elsa preferiva scopare al mattino, prima di andare a preparare la colazione per gli ospiti. Ho sempre pensato che preferisse quel momento perché non la costringeva a fare sesso a lungo. Era frettolosa e senza nessuna fantasia. Orgasmo. Un bacio sulla fronte. E una sigaretta. La tradii la prima volta due anni dopo con un'altra quarantenne. Fiorentina, marito e cognata al seguito, con la scusa di una carnagione molto chiara e delicata, trascorreva la maggior parte del tempo seduta al bancone del bar. Gin tonic e tanta voglia di chiacchiere. Era un po' sovrappeso ma aveva un bel viso e occhi maliziosi. Mi lanciava segnali inequivocabili. Non era
l'unica, e le altre erano tutte più giovani e appetibili. Ma ero attratto dalle quarantenni. Mi dava le vertigini l'idea di insinuarmi nelle loro esistenze e di giocare con la loro vulnerabilità. Tradii Elsa senza nessun rimpianto. Poi ne vennero altre. All'epoca avevo poco più di trent'anni e, come diceva Elsa, un bel culo. Il bar era un posto strategico e non occorrevano grandi capacità seduttive. Erano sufficienti un gioco di sguardi appena un po' torbidi, sorrisi gentili e indifesi, e una grande disponibilità ad ascoltare. Trascorsi sette anni in quel modo. Senza quasi rendermene conto. Tutto finì quando Elsa entrò all'improvviso nel retro del bar e mi trovò avvinghiato a una tedesca. Non ricordo il suo nome e nemmeno il suo viso, ma fu una donna molto importante nella mia vita. Quella scopata mi tolse all'improvviso tutto quello che avevo. Il mattino dopo ero fuori dall'hotel, con una borsa in mano e una gran fretta di sparire. Elsa per tutta la notte aveva recitato la parte della benefattrice tradita, e in qualche modo si sarebbe vendicata. Era una brava donna ma quando era incazzata non ragionava più. Feci in tempo a rubare il passaporto spagnolo di un cliente di Alicante che aveva caratteristiche abbastanza simili alle mie, andare da un falsario che frequentava il bar, fargli sostituire la fotografia e imbarcarmi su un aereo diretto a Parigi. Quando arrivai all'aeroporto ero intenzionato a trasferirmi in Messico. Mi sembrava la mossa più logica. Poi tre hostess dell'Air France mi erano passate davanti. Mi ero fermato a osservarle. E guardando ammirato i loro culi avevo deciso di dare una svolta alla mia vita. Fu solo un'intuizione, ma sufficiente a farmi cambiare piano di fuga nonostante il mandato di cattura internazionale che ormai mi inseguiva da oltre die ci anni. Durante il volo l'intuizione prese corpo, si trasformò in una decisione irrevocabile e poi in un piano ben preciso, e quando passai il controllo doganale puntai al primo telefono pubblico. Non fu facile rintracciare la persona che cercavo, ma alla fine ci riuscii. Fu sorpresa di sentirmi dopo tanto tempo e si affrettò a chiedermi se avevo dei problemi. Sospirai e risposi che dovevo incontrarlo subito. Ci trovammo all'ora di pranzo in una brasserie di fronte alla stazione della metropolitana di Gobelins. Arrivai in anticipo e passai un po' di tempo a osservare le persone che entravano e uscivano dal locale. "Enrico, come mai sei tornato? Cos'è successo? E Luca?" domandò ancora prima di togliersi la giacca, usando i nostri nomi di battaglia. Sergio, il mio diretto responsabile nell'organizzazione ai tempi dell'esilio parigino, in realtà si chiamava Gianni. Era sempre stato un
quadro intermedio e aveva fatto carriera in Francia solo perché i pezzi grossi erano finiti tutti in galera in Italia. Lo guardai. Aveva una faccia da contadino e le mani sporche di grasso. Doveva lavorare in qualche officina. Tutta la vita si era alzato alle cinque del mattino per portare in fabbrica la sua coscienza di classe. "Luca è morto diversi anni fa" annunciai. "Lo hanno trovato che si trastullava con l'uccello di un ufficiale prigioniero e lo hanno steso". "Stai scherzando?". Mi limitai a fissarlo. "E tu?" domandò sottovoce. "Io mi sono rotto il cazzo e sono tornato". Sergio addentò il sandwich per avere il tempo di riflettere. Masticò piano e bevve di colpo mezzo bicchiere di vino rosso. Aveva capito che ero una rogna e che sarebbe toccato a lui risolvere il problema. "Cosa conti di fare?". Era arrivato il momento di giocare le mie carte. "Torno in Italia. Collaboro con la magistratura e cambio vita". Sbiancò. "Non puoi farlo. Siamo stati già decimati dai pentiti. Abbiamo chiuso tanti anni fa, Enrico. L'organizzazione non esiste più, nessuna organizzazione esiste più. L'esperienza della lotta armata è finita". "E allora non c'è problema" tagliai corto. "No. Tu conosci un sacco di compagni che non sono mai stati individuati. Tutta gente che oggi conduce una vita normale. Non meritano di finire in carcere". Alzai le spalle. Se al suo posto ci fossi stato io avrei fatto la faccia cattiva e avrei sibilato minacce di morte. Invece lui si limitò a una sincera smorfia di dolore. "Cosa ti è successo?" chiese, passandosi una mano sul viso. o "Mi sono stancato di questa vita di merda" risposi secco. "Non ho la minima intenzione di passare il resto della mia esistenza in esilio, rischiando ogni giorno la galera per un pirla di metronotte e quattro volantini". Sergio tentò un ultimo disperato appello ai valori e agli ideali. Lo bloccai con un cenno della mano. "Trova una soluzione, Gianni" dissi chiamandolo con il suo vero nome. "Altrimenti fotto tutti i superstiti. Anche tua sorella che non c'entra un cazzo. Infilo il suo nome insieme agli altri, dico che mi ha portato l'esplosivo e gli sbirri se la bevono di corsa". Mi alzai e me ne andai senza neanche guardarlo in faccia, lasciando a metà la birra e il panino. La cosa era seccante. Avevo pochi soldi e quel giorno non mi sarei potuto permettere altro. Cominciai a bussare con metodo alle porte delle persone che avevo conosciuto durante il mio primo soggiorno parigino. Selezionai quelle che non avevano legami diretti con gli italiani. Sapevo di non avere nulla da temere da guerriglieri ormai in pensione, ma la prudenza non era mai troppa. Avevo un passaporto falso e una condanna in Italia.
Una soffiata e mi avrebbero rinchiuso alla Sante con i baschi e gli islamici. Trovai ospitalità da una coppia di uruguayani, esuli di una generazione precedente. Lui ingegnere, lei psichiatra. La donna ascoltò comprensiva. "Una settimana" mi disse alla fine, alzando il pollice per essere più chiara. Se sei nella merda in una grande città europea e vuoi trovare un posto dove dormire e tre pasti sicuri al giorno devi battere scientificamente la grande prateria dei single. Se poi, come il sottoscritto, sei un uomo di bell'aspetto e con una grande esperienza in fatto di tardone, le possibilità di successo aumentano sensibilmente. Mi sedetti sulla poltrona e iniziai a controllare le inserzioni del sabato su Liberation. Dovevo per forza rivolgermi a un settore di sane tendenze progressiste dove avrei potuto presentarmi come un combattente per la libertà del terzo mondo. Scartai le inserzioniste sotto i quarant'anni e con figli a carico e risposi a una quindicina di annunci con caselle vocali. Non potevo attendere i tempi delle poste. Una settimana dopo portai i miei quattro stracci a casa di Regine, dalle parti di place de la Republique. Il nostro primo appuntamento era stato a una mostra fotografica in una galleria privata. Una sua amica esponeva e lei trovava intrigante incontrarsi in mezzo a tanta gente che conosceva. Arrivai determinato a concludere. Gli altri incontri si erano rivelati infruttuosi e pro misi a me stesso di non fare il difficile e di sfoderare tutto il mio fascino. Ma Regine era un vero cesso e dovetti impormi di non girare sui tacchi e sparire tra la folla degli Champs-Elysées. Quarantasette anni, impiegata di un certo livello e separata da tanto, recava sul viso e sul corpo i segni di una donna che si era lasciata andare e che aveva deciso di darsi ai cuori solitari quando si era resa conto che era troppo tardi per ritornare a somigliare, anche lontanamente, alla donna di un tempo. All'inizio trovò strano che un uomo con dieci anni meno di lei la corteggiasse, ma poi la voglia di sesso la convinse ad approfittare dell'occasione. Fu più facile farle credere che stava vivendo una grande storia d'amore che scoparla, ma alla fine fu lei stessa a propormi una convivenza di prova, con la scusa che avevo bisogno di una casa e che a Parigi non sarebbe stato facile trovarla. Si rivelò un'amante piena di attenzioni e la mia sistemazione fu decisamente confortevole. In realtà era una donnetta insignificante, brutta come la sua vita. Era impossibile che nel profondo del suo cuore non dubitasse della montagna di menzogne che le scaricavo continuamente addosso. Ma la solitudine la rendeva vulnerabile, cieca e sorda. Il poco
buon senso che le rimaneva la convinse a mettere sotto chiave contanti e gioielli. Quello strazio durò un paio di mesi. Alla fine Sergio trovò la soluzione. Mi convocò nella stessa brasserie dell'incontro precedente. Lo trovai già seduto, intento a fissare un quartino di rosso. Sembrava una caricatura da osteria. Forse stava sognando quella sotto casa, in Italia, dove un bel po' di tempo prima trascorreva un'oretta dopo il lavoro a sciacquarsi la bocca dai sapori della ferriera e a discutere di politica, parlando male dei padroni e dei dirigenti del partito che avevano tradito la causa. Mi sedetti senza salutarlo. "E allora?". "Ci siamo consultati e abbiamo deciso di farti una proposta" esordì. "La tua condanna è definitiva e l'unica speranza di cavartela è la revisione del processo. Abbiamo convinto un compagno condannato all'ergastolo a confessare la partecipazione all'attentato al posto tuo. Dirà che è un caso di coscienza, che quel giorno con lui c'era Luca e fornirà una serie di particolari credibili. Secondo gli avvocati dovrebbe funzionare, ma devi rassegnarti a fare un po' di galera". "Quanto?". "Due, tre anni, il tempo dell'iter processuale. E poi per rendere credibile il caso di coscienza, il compagno deve confessare una volta che ti sei costituito. Ci sono poi i reati associativi, ma quelli li sconti mentre aspetti la revisione". Non era quello che volevo. Mi accesi una sigaretta. "Troppo" sibilai. Sergio scosse la testa. "Anche se ti penti e spifferi tutto, un po' di galera te la fanno fare. Gli avvocati dicono che questa offerta è la più conveniente sul mercato delle infamità". "Non mi provocare" dissi calmo. "Mi licenzio dalla ditta e sto solo trattando la liquidazione". Ordinai una birra e continuai a fumare valutando la proposta. "D'accordo. Mi consegnerò al confine". Sergio tirò un sospiro di sollievo. Dalla tasca estrasse un taccuino e una penna. "Scrivi quello che ti ricordi di quella sera, soprattutto i particolari. La confessione deve essere precisa". Mentre scrivevo mi domandò se volevo sapere cosa avessero detto gli altri, i compagni e gli amici di un tempo, sul mio tradimento. Sorrisi. "Lo so già. Li conosco bene. Mi avranno chiamato pezzo di merda e avranno starnazzato di vendetta: un colpo alla nuca o di piccozza come a Trockij. Parole al vento. Da aggiungere a tutte le altre". "Non ti interessa nemmeno sapere chi è il compagno che pagherà al posto tuo?". "No. Lo leggerò sui giornali. E poi se lo fa vuol dire che non aveva altra scelta. Scommetto che tra i nomi che avrei potuto fare c'è quello di qualcuno che gli sta molto a cuore". Chiusi il taccuino e buttai una banconota sul tavolo.
"Meriteresti davvero di morire" disse serio. "Non essere patetico". Me ne andai con la certezza che non l'avrei più rivisto. Un paio di settimane dopo forzai con un cacciavite il cassetto della scrivania di Regine, presi gioielli e franchi e uscii per sempre dalla sua vita. L'indomani mi sarei consegnato alla polizia italiana e avevo intenzione di spassarmela un po' prima di finire in galera. Per pochi spiccioli piazzai i gioielli da un ricettatore algerino di Barbes. Dalla Gare de Lyon presi un treno per Nizza. Scelsi un hotel di lusso, una puttana costosa, un buon ristorante e quando mi risvegliai il mattino seguente non avevo più un franco in tasca. Al confine ci arrivai in autostop. Prima di portarmi a San Vittore, gli sbirri mi fecero fare una sosta alla Digos della questura di Milano. Mi chiusero in una sala usata per gli interrogatori. Una distesa di cicche sul pavimento, qualche schizzo di sangue e parecchi sbaffi di caffè sui muri verdognoli. Agli sbirri piaceva tirare i bicchieri di carta pieni di caffè schifoso addosso ai sospetti per dimostrare che erano incazzati e che non si bevevano le stronzate che avevano appena cercato di rifilargli. Io, tutto sommato, mi sentivo tranquillo. Mi ero arreso consegnandomi nelle mani della legge. Più di tanto non mi potevano rompere i coglioni. Entrò un tizio con il mio fascicolo sotto il braccio. Era alto, grosso, con una faccia da carogna e un vestito di buon taglio. Abbassai lo sguardo sulle scarpe. Inequivocabilmente costose. O era ricco di famiglia o era corrotto. Optai per la seconda ipotesi e mi rilassai. Sbattè l'incartamento sul tavolo e si sedette. "Mi chiamo Ferruccio Anedda e sono un pezzo grosso". Mi limitai a un servile cenno del capo. Non volevo guai e agli sbirri piace avere la situazione sotto controllo. "Chi te l'ha fatto fare di tornare dal Centroamerica?" domandò per farmi capire subito che sapevano molte più cose di quanto immaginassi. "Ho chiuso. Voglio pagare il mio conto con la giustizia...". Mi tirò un calcio sotto il tavolo. "Sappiamo tutto. Hai ricattato quegli stronzi che stanno a Parigi e avete messo in piedi un bel teatrino per i giudici". Lo guardai ammirato. "Avete una spia a Parigi?". Piegò la testa di lato. "Una sola?" domandò ironico. "Cosa volete?". "Ecco, così mi piaci" disse soddisfatto. Poi cambiò tono: "Vogliamo i nomi di tutti quelli che non sono mai stati individuati. Soprattutto dei fiancheggiatori. Altrimenti, al momento giusto, vado a fare una chiacchieratina col presidente della corte e il conto del metronotte lo paghi tutto". "Secondo gli avvocati non mi conviene fare il pentito" azzardai per saggiare il terreno della
trattativa. "Non ci servi come pentito. Non abbiamo nessuna intenzione di raschiare il fondo del barile. L'organizzazione è fottuta da anni. Li mettiamo semplicemente sotto controllo, così se a qualcuno salta in testa il ghiribizzo di rimettere in piedi la baracca ce ne accorgiamo subito e risparmiamo un sacco di lavoro". "Cosa ci guadagno oltre a sfangarmi il metronotte?". "Evitare l'ergastolo non ti sembra abbastanza?". Allargai le braccia. "Vi posso essere molto utile". Lo sbirro sbuffò. "Possiamo darti una mano e renderti il soggiorno in galera più confortevole". Accesi una sigaretta e iniziai a frugare nella memoria. Un'ora dopo l'organizzazione era definitivamente liquidata. Avrei potuto continuare a fornire informazioni su altri gruppi che avevo raccolto nel corso degli anni, ma pensai che in quel l'occasione sarebbero state del tutto sprecate. Magari potevano rivelarsi utili più avanti. Ero sempre stato un buon ascoltatore e l'ambiente della lotta armata italiana aveva perennemente brillato per l'assoluta mancanza di rispetto per le norme di sicurezza. A parole erano ferree e in grado di salvaguardare l'organizzazione, ma nella realtà i militanti non le rispettavano mai, dimostrando una spiccata debolezza per le chiacchiere e le confidenze. Entrai in carcere prima di sera. Mi portarono direttamente all'ufficio matricola e Anedda mormorò qualcosa all'orecchio di un brigadiere. Il sottufficiale si girò per guardarmi e mi strizzò l'occhio. Lo sbirro della Digos aveva passato le consegne. Avrei dovuto fare la spia anche per gli agenti di custodia. Un appuntato mi prese per un braccio e mi portò a un bancone dove aprì un registro dall'aria ottocentesca. "Cognome?". "Pellegrini". "Nome?". "Giorgio". "Nato a?" "Bergamo, l'otto maggio del 1957". La guardia smise di scrivere. "L'otto maggio" ripetè. E poi rivolto agli altri: "Questo è nato lo stesso giorno in cui è morto Gilles Villenueve". "Non lo sapevo. Quando è successo?". L'appuntato mi guardò stupito. "Dieci anni fa, nel 1982. Il più grande lutto nella storia dell'automobilismo". Indicò una parete dove era stato allestito un piccolo altare con la foto del pilota di Formula 1 e altri gagliardetti della Ferrari. Poi puntò l'indice contro il mio naso. "In questo ufficio tutti tifano Milan e Ferrari, capito?". A San Vittore mi ambientai subito. Campare senza problemi non era difficile, bastava rispettare le regole non scritte e fottersene del resto. Mi misero a lavorare come scopino. Dovevo spazzare il corridoio della sezione e tenere gli occhi aperti, soprattutto con gli stranieri. Ogni tanto mi chiamavano in una stanzetta vicino alla rotonda e mi chiedevano
informazioni su alcuni detenuti. Avevo capito che il trucco era parlare male di quelli che non riscuotevano simpatia in direzione, anche se non avevano fatto nulla. A volte inventavo, altre riferivo quello che avevo visto. Ogni tanto si faceva vivo Anedda per avere ulteriori informazioni o chiarimenti. Se avevo bisogno di qualcosa, trattavo sul compenso e lo sbirro, tutto sommato, era di manica larga. Col tempo prese l'abitudine di portarmi una bottiglia di whisky. Le sue erano le uniche visite. La mia famiglia non venne mai a trovarmi. Mi aveva rinnegato il gior no in cui ero fuggito a Parigi. Le maledizioni di mio padre mi avevano inseguito lungo le scale della nostra palazzina, mentre scendevo di corsa senza mai voltarmi indietro. All'inizio ne avevo sofferto molto, ma poi il destino mi aveva portato lontano e ormai non ci pensavo quasi più. L'irriducibile che si addossò la responsabilità dell'omicidio del metronotte lo conoscevo bene. Si chiamava Giuseppe ed era uno di quelli che non si erano pentiti perché era rimasto comunista e rivoluzionario. Aveva fatto l'operaio alla Dalmine, come suo padre e suo nonno. Sindacato, partito, Lenin, Togliatti e Berlinguer appesi in cucina. Poi aveva preso una strada diversa entrando in clandestinità. Era stato fregato da un pentito, ma lui la bocca l'aveva aperta solo per dire, in puro dialetto bergamasco, di essere un prigioniero politico. A Parigi dovevano aver rotto il salvadanaio. Mi procurarono un avvocato che un tempo aveva militato in Soccorso Rosso e che adesso aveva intrapreso una solida carriera aderendo a una nuova forza politica di centro destra. Mi disse che aveva accettato il caso perché le revisioni andavano di moda, procuravano un sacco di pubblicità e nel mio caso c'erano concrete prospettive di successo. Si dimostrò abile anche nelle relazioni con la stam pa e di me si occuparono i quotidiani e qualche rotocalco. Intanto i giorni passavano e cominciai a pormi il problema del futuro. Per non uscire con le tasche vuote mi dedicai a piccoli traffici con la copertura di qualche agente. Per un periodo presi sotto la mia protezione un travestito brasiliano. I giorni dispari, quando era turno di doccia, gli organizzavo un giro di marchette, non più di cinque per evitare di dare nell'occhio. Una stecca di Marlboro per un pompino, due per una botta. A lui andava il dieci per cento e l'assicurazione che nessuno gli avrebbe tagliato la faccia. Le guardie gli facevano visita in cella alla conta delle quattro del mattino. Ma quelli non erano affari miei. Anche perché non c'era nulla da guadagnare. Il personale penitenziario non pagava mai. In quel periodo feci anche
un sacco di conoscenze interessanti. Molti professionisti di vari campi del crimine mi offrirono la loro amicizia. In altri tempi un dissociato, per di più sospetto confidente degli sbirri, sarebbe stato accoltellato appena messo il naso fuori dalla cella, ma ormai anche il carcere non era più quello di una volta. L'iter giudiziario fece il suo corso. Lento ma inesorabile. La Corte di Cassazione ammise l'istanza di revisione e rimandò gli atti alla Corte d'Assise d'Appello di Milano. Al processo, Giuseppe evitò accuratamente di guardarmi in faccia. L'avvocato, durante l'arringa, spiegò alla corte che il suo atteggiamento nei miei confronti era dovuto alla vergogna di avermi costretto a vivere ramingo per il mondo. Chiunque si sarebbe accorto che era solo disprezzo. Ma ormai gli anni Settanta erano storia vecchia nelle aule di tribunale. La camera di consiglio durò un paio d'ore, giusto il tempo di scrivere il dispositivo della sentenza. Venni assolto. Mi avanzavano da scontare ancora un paio di mesi per partecipazione a banda armata e finalmente sarei uscito dall'incubo. Iniziato molti anni prima, quando Sergio mi aveva convocato in un bar della periferia e mi aveva proposto di entrare nell'organizzazione. Clandestina, comunista e combattente. Una mattina mi dissero di consegnare in magazzino materasso, lenzuola e gavette. Avevo compiuto da poco 38 anni. All'uscita trovai Anedda. "Ricordati che sei proprietà della Digos di Milano" disse a voce alta. "Sono in pensione" replicai stizzito. Lo sbirro mi sbattè con forza contro il muro. "Mi devi un sacco di favori, e non dimenticarti mai che un altro sta scontando l'ergastolo al posto tuo". Mi liberai dalla sua stretta e mi incamminai lungo il muro di cinta. Osservavo la libertà dall'altra parte della strada, ma non mi sentivo ancora pronto a impossessarmene. Poi, all'altezza della torretta, attraversai.
Flora
La nostalgia per il mio Paese e per la vita spensierata di un tempo si era cristallizzata in un ricordo di infanzia. I nonni paterni, che abitavano appena fuori Bergamo, quando venivano a trovarci portavano sempre in dono, a me e alle mie sorelle, una scatola di Otello Dufour. Le caramelle più buone del mondo. Arraffavo una manciata di quelle delizie e mi rifugiavo in camera o in giardino con un libro di Salgari, e una dietro l'altra le scartavo, appoggiandole delicatamente alla lingua,
facendole sciogliere lentamente. Negli anni della latitanza e del carcere i momenti più intimi e struggenti legati ai ricordi finivano sempre per trasformarsi nel desiderio di un bonbon di cioccolato e liquore. Quando uno è in galera pensa sempre alla prima cosa che farà in libertà. Il mio desiderio era marcato Dufour. Mi infilai nella prima pasticceria e ne comprai un'intera scatola. Ma appena la scartai mi resi conto che qualcosa non andava. La forma era tonda e non ovale e la superficie non era più di cioccolato liscio e nero come il mistero, ma più chiara e punteggiata da granelli di nocciola. L'infilai in bocca e con raccapriccio scoprii che non aveva più nulla a che vedere con la Otello di un tempo. Mi sentii tradito e mi venne da piangere. Per anni avevo sognato qualcosa che non esisteva più. Rientrai nel negozio e la proprietaria mi confermò che era diventata una specie di cioccolatino farcito. "Sa, i gusti che vanno oggi" aveva detto alzando le spalle. Avevo gettato la scatola in un cestino dei rifiuti. Ero deluso e preoccupato. Pensavo che se ero stato così sfortunato nell'esaudire il primo desiderio appena uscito dal carcere, la mia vita futura non sarebbe stata una passeggiata. Anche Milano era cambiata. Brulicava di stranieri morti di fame lanciati all'assalto dell'opulenta Europa. Mi trovavo esattamente nella loro > situazione. Ero solo e dopo tanti anni di assenza mi sembrava di conoscere l'Italia meno di loro. Mi rifugiai in una comunità religiosa che offriva assistenza agli ex detenuti. Parlai a lungo con un prete, un abruzzese coriaceo dell'ordine dei Mercedari che bazzicava il carcere da troppi anni per raccontargli storielle. Con lui fui sincero. "Ho paura. Non so come affrontare questo mondo, non è più quello che conoscevo". Mi fissò a lungo. "Ti ho tenuto d'occhio in que sti anni. Sei una carogna. Delle peggiori". Poi mi diede un paio di pacche sul ginocchio. "Ma tutti hanno diritto a una seconda possibilità. Puoi stare qui per un po', ma non sognarti di agire come a San Vittore". Lo ringraziai e mentre mi allontanavo aggiunse: "E non disturbarti a fare finta di essere credente. Qui non è necessario". I soldi che avevo risparmiato in carcere mi scivolavano tra le dita e quello che guadagnavo in comunità, assemblando portascarpe per una ditta specializzata in televendite, non mi bastava nemmeno per le sigarette. Ogni volta che uscivo tornavo sempre più povero. Una trattoria per dimenticare per un attimo la sbobba cucinata da una coppia di ex tossici. E una puttana da strada per recuperare l'astinenza forzata del carcere. Di
più non mi potevo permettere. Andavo in centro e guardavo per ore la gente e le macchine. Giravano un sacco di soldi e molte persone trasudavano sicurezza. Io, invece, mi sentivo solo smarrito. Cercavo di agganciare le quarantenni eleganti. Milano era piena di donne come Regine, ma molto più graziose e scopabili. Dieta, palestra, parrucchiere. Mi eccitava quella loro necessità di essere sempre competitive sul piano della bellezza e della sensualità. Ma non c'era verso di essere notato. Mi si leggeva in faccia che ero un marginale. Cer cai lavoro ma mi resi conto che entrare in quell'ottica mi avrebbe fottuto per l'eternità. Sarei rimasto un miserabile. Nei miei piani per il futuro c'era ben altro che vivere osservando la realtà dal retro di un fast food con i capelli puzzolenti di grasso. Soldi. Avevo bisogno di soldi per rialzarmi dal letamaio in cui ero finito. Poi mi sarei costruito una posizione rispettabile e avrei passeggiato in centro tirato dalla testa ai piedi, osteggiando un volto sereno da vincente. E non avrei fatto l'errore di tutti quelli che avevo conosciuto a San Vittore: tentare di fare soldi rimanendo un malavitoso del cazzo. In quel modo l'unica prospettiva sicura era la galera. Aveva senso rischiare di finire in tribunale solo se il denaro era un mezzo per elevarti socialmente. Quando vivevo in famiglia, prima di entrare nel movimento e farmi fottere il cervello, facevo parte della Bergamo bene. Ripensando a quanto avevo disprezzato e deriso quell'ambiente, mi veniva voglia di spaccarmi la testa contro il muro. Ben presto cominciai a disperare. Non era facile nemmeno fare il delinquente. La città era blindata e tutto quello che si poteva arraffare era già sotto il controllo di bande provenienti dall'est, dal nord Africa e dall'estremo oriente. Il prete mi costrinse ad accettare il lavoro in un bar. E fu la mia fortuna. Una mattina servii il caffè a una vecchia conoscenza di San Vittore. Un barese che aveva accorciato la galera infamando un boss della Sacra Corona Unita. "Come va?" domandai osservando il suo vestito di buon taglio. "A me bene" rispose osservando a sua volta il mio orologio di plastica. "Piuttosto tu che ci fai qui a servire al banco? Mi sembri sprecato. Sei malato, forse? Un ragazzone come te potrebbe guadagnarsi il pane in maniera un po' più dignitosa, no?". Aveva usato un tono offensivo e avrei voluto tagliargli la faccia con il coltello che usavo per la buccia dei limoni. Invece gli sorrisi. "Sto cercando l'occasione giusta". Bevve il caffè, poi mi chiamò con un gesto della mano. "Ho aperto una certa attività in Veneto, dalle parti di Treviso" spiegò. "Un lap dance, un locale dove le ragazze ballano a tette nude
e i clienti sbavano e infilano i soldi nelle mutandine. Mi serve una persona di fiducia per gestire i rapporti tra loro e le ballerine. Forse potrebbe interessarti". "La paga?". Mi mostrò una fila di denti macchiati di nicotina. "Buona, ottima. Te lo assicuro". "Allora mi interessa" dissi con slancio. Mi passò il cartoncino con la pubblicità del locale. Si chiamava Blue Sky. Davvero originale. "Presentati domani sera". Poi, mentre stava aprendo la porta per uscire, ebbe un ripensamento e tornò indietro. "So che sei un informatore" sussurrò. "Lo sono anch'io. Ho tenuto a precisarlo così non ci pestiamo i piedi". Il Blue Sky era un'ex discoteca. Intorno la campagna deserta garantiva ai clienti una certa discrezione. Era una fabbrica di soldi dove, come aveva preannunciato il proprietario, decine di ragazze straniere ballavano agitando il culo verso i clienti, che allungavano il braccio per infilare banconote nei loro slip. Non tutte erano delle bellezze. Il viso contava poco. I criteri di assunzione si basavano sul seguente ordine: tette, gambe, altezza e culo. Per duecento carte al giorno dovevo occuparmi di gestire il traffico dei clienti che chiedevano un prive. Venivano da me, indicavano una ballerina e quando era libera la spedivo in un séparé dove si sarebbe esibita in esclusiva. Ogni tanto riuscivo a scucire qualche mancia e lo stipendio non era male, ma anche quel lavoro non mi avrebbe portato nulla di buono. Il massimo che mi poteva offrire era di diventare proprietario di un locale simile. Esattamente come il barese, che sfoggiava oro al collo e ai polsi, e sui mignoli un ghie lunghe quattro centimetri. Un malavitoso di rispetto. Ma non era quello il mio modello. Il Veneto invece mi piaceva. Era un luogo di frontiera e tutti avevano la possibilità di costruirsi un futuro da vincenti. Bastava un po' di inventiva, voglia di fare e zero paura di metterlo in culo al prossimo. Primo della lista lo Stato e le sue tasse del cazzo. Conoscevo gente che prima girava con le pezze sul sedere, poi aveva trovato il business giusto e ora il sedere lo appoggiava sul sedile in pelle di una Mercedes e spendeva un milione a sera con le ragazze. Al terzo mese di quella solfa decisi di fregare il barese. La faccenda era rischiosa perché il tipo era furbo, attento e malfidato, condizioni indispensabili per non farsi mancare di rispetto. Per fugare ogni dubbio in proposito esibiva in pubblico i suoi due gorilla rumeni, ex minatori robusti e crudeli. Erano stati al servizio di Miron Cosma, il capo dei musi neri che aveva condotto i suoi minatori a Bucarest per dare una lezione agli studenti in rivolta. I due non erano più tornati a estrarre carbone e avevano
attraversato il confine in cerca di fortuna. Mi convinsi di essere più dritto di lui e iniziai a fare la cresta sui numeri dei prive. La prima mossa fu quella di privilegiare le ragazze che mi davano una percentuale. Il dieci per cento per ogni cliente. Il che significava altre tre-quattrocentomila lire a sera. Successiva mente, dato che ero io a tenere il conto delle prestazioni e i soldi dei clienti, quando le serate erano piuttosto vivaci e le ballerine superavano le venti prestazioni, "scordavo" di segnare un cliente e mi tenevo i soldi. Durante il fine settimana riuscivo a guadagnare anche un milione a sera. Un sabato, poco prima della chiusura, una slovena dalla lingua lunga mi fece segno di seguirla in camerino e mi fece una scenata, urlando che rivoleva i suoi soldi altrimenti avrebbe spifferato tutto al proprietario. Ero ovviamente preparato ad affrontare una situazione del genere e reagii con prontezza. La colpii alla bocca dello stomaco perché, come mi avevano spiegato i due rumeni, le puttane agli schiaffi sono abituate e li sopportano bene. La ragazza cadde a terra. L'afferrai per i capelli, la costrinsi a inginocchiarsi e le infilai il cazzo in bocca. Sentii che si rilassava pensando di cavarsela a buon mercato. La lasciai fare. Poi la tirai su di scatto e la voltai sbattendola contro il muro, le strappai il perizoma e la sodomizzai. Tentò di divincolarsi ma le rifilai due pugni sui reni che la fecero desistere. "Raccontalo alle altre" dissi alla fine, abbottonandomi i pantaloni. "E non dimenticare: chi non sta al mio gioco se ne ritorna a casa. Conosco i poliziotti giusti. Hai capito?". Lei abbassò il capo. L'afferrai per il mento. "Tu però non devi temere. Ti perdono e non ti faccio accompagnare al confine". "Scusa. Non volevo creare problemi" disse tra le lacrime. "Brava, un po' di educazione non guasta mai" dissi dandole un buffetto sul viso. La stronza c'era cascata in pieno. D'altronde aveva appena diciannove anni ed era arrivata da poco. Sognava di andare a ballare a Las Vegas e farsi riempire le mutande di dollari. Tonta com'era non ci sarebbe arrivata mai. Con quel giro di soldi potei permettermi di affittare una casa in paese. Fino a quel momento avevo vissuto in un monolocale ricavato al piano superiore della discoteca. Ovviamente me la procurò un cliente proprietario di un'agenzia immobiliare. Al locale funzionava così. Quando qualcuno aveva bisogno di favori si rivolgeva al cliente giusto. In paese ci conoscevano, anche quelli che non avevano mai messo piede al Blue Sky, e in pubblico ostentavano un atteggiamento moralista, trattandoci con disprezzo. Si comportavano come ai tempi dei casini, da veri campagnoli bigotti. Perfino la vedova
Biasetto, la donna delle pulizie, si permetteva di fare dei commenti. Ma i clienti li tenevamo per le palle. E sapevamo tutto di loro perché si confidavano più con le ra gazze che con il parroco. Da quando presi possesso della casa, una porzione di bifamiliare, arredata a poco prezzo grazie ai numerosi mobilieri a cui piacevano i prive, iniziai a frequentare il paese senza preoccuparmi delle occhiate della gente. Avrei potuto permettermi anche un'automobile decente, ma quelle danno nell'occhio, soprattutto ai carabinieri che mi fermavano ogni volta che mi incontravano. Al controllo dei documenti risultavo essere un pericoloso ex terrorista e loro ne approfittavano per perquisirmi la macchina e interrogarmi sui traffici del barese. Speravano di beccarmi con un po' della cocaina che girava a fiumi nel locale, ma non ero così stupido. Così dovetti accontentarmi di una Panda usata. Al volante dell'utilitaria davo l'impressione di essere l'ultimo dei galoppini del Blue Sky. Mi consolavo sognando il macchinone che avrei comprato un giorno. Un pomeriggio d'inverno, passeggiando sotto i portici, mi fermai a guardare la vetrina di un negozio di scarpe. Apparteneva a un commerciante che aveva il vizio delle ballerine e dello sniffo. Alla cassa notai una bella donna sui quaranta, bionda, nasino all'insù, labbra piene, occhi azzurri. Cambiai vetrina per osservarla meglio. Indossava un tailleur nero molto attillato e scarpe con un tacco vertiginoso. Entrai per provare un paio di mo cassini di cui non avevo nessun bisogno. Feci in modo di farmi servire da lei. Aveva un leggero reticolo di rughe intorno agli occhi e un'espressione dura da donna arrivata all'agiatezza sgomitando. Scoprii che si chiamava Flora. La corteggiai un po' e comprai le scarpe. Tornai nei giorni seguenti e quando non c'era il marito ne approfittavo per entrare e scambiare due chiacchiere con lei. Era sempre meno gentile. Una mattina si guardò attorno per verificare che non ci fossero clienti e mi disse a chiare lettere di evitare di seccarla. Parlò in dialetto e usò espressioni dure come schiaffi. Bofonchiai qualche parola di scuse e infilai la porta. Pensai di dimenticarla ma Flora, giorno dopo giorno, diventò per me un'ossessione. Mi addormentavo e mi svegliavo pensando a lei. Una notte incontrai il marito al locale. Cercava cocaina a credito e in quel momento capii come sarei riuscito a portarmi a letto la moglie. Iniziai a foraggiarlo di droga e ragazze assicurandolo che avrebbe potuto pagare con comodo. Si fece stritolare dal meccanismo come un vero idiota. Poi un giorno andai a trovarlo in negozio. Lo chiamai con un gesto della mano. C'era
anche Flora alla quale strizzai l'occhio. "Il tuo conto è salito a venti milioni. E' arrivato il momento di saldare". Il commerciante impallidì. "Non li ho. Devi avere pazienza". "Io ne ho quanta ne vuoi" mentii fingendo comprensione. "Il problema è il barese. Sai com'è fatto, è un meridionale del cazzo e quando uno non paga gli salta la mosca al naso. Riceverai una visitina dei rumeni che ti spezzeranno gambe e braccia. E così che funziona". "Aiutami, ti prego" frignò disperato. "Tra una settimana i soldi raddoppiano. Lo sai come vanno queste cose. Non sei più un ragazzino". "Aiutami, siamo amici". Finsi di osservare l'interno del negozio. "Chi è quella bella signora?" domandai indicando Flora. "E mia moglie" rispose sorpreso. Gli afferrai il braccio e lo strinsi con cattiveria. "Adesso sai come ti posso aiutare". Mollai la presa e me ne andai. Il commerciante quella sera non si fece vedere. Qualche giorno dopo, uscendo dal locale alle quattro del mattino, una macchina attirò la mia attenzione, lampeggiando. Mi avvicinai. Era la Hyundai coupé di Flora. Abbassò il finestrino. "Ti seguo a casa" disse senza nessuna emozione. La feci accomodare in salotto. Si tolse la pelliccia. "Mi scopi qui o a letto?" domandò in tono sgradevole. "Vattene" ribattei incattivito. "Di' a tuo marito che domani vogliamo i quaranta milioni o arrivano i rumeni. In negozio. Così tutto il paese saprà come si è sputtanato i soldi". Alzò le braccia in segno di resa. "Scusa". La pupa andava addomesticata. Decisi di rincarare la dose sbattendola fuori di casa. La lasciai al freddo per una ventina di minuti. Non si mosse. Continuò a suonare il campanello. "Vattene" ripetei al citofono. "Fammi entrare. Qualcuno potrebbe vedermi". Pigiai il pulsante e mi avviai verso il divano. Quando entrò le feci segno di accomodarsi al mio
fianco. Le accarezzai il viso col dorso della mano, poi infilai una mano sotto la corta gonna di pelle e iniziai a giocherellare con l'elastico delle autoreggenti. "Ti sei tirata come una battona" ridacchiai per insultarla. Abbassò il viso. "E' quello che devo fare per salvare il negozio e la reputazione. Mia e di quello stronzo di mio marito. A proposito, quanto dovrebbe durare questa storia?". "Fino a quando il tuo uomo non salda il conto. Senza interessi, ovviamente. Quelli li paghi tu". "A una condizione: mio marito non deve mettere più piede in quel locale".
"D'accordo" acconsentii. In realtà ci avevo già pensato. Non potevo certo rischiare che fatto di coca e alcol l'ometto si mettesse a raccontare in giro la storia dei debiti. Il proprietario l'avrebbe saputo subito. Mi avvicinai per baciarla. Mi respinse. "No, niente baci". Il suo rifiuto mi eccitò ulteriormente. La costrinsi a guardarmi negli occhi. "Adesso io e te limoniamo come due ragazzini al primo appuntamento, altrimenti l'accordo salta". La storia con Flora mi fottè la concentrazione. Avevo sempre il cazzo duro pensando a lei, e quando non ce la facevo ad aspettare la notte mi presentavo in negozio durante la pausa per il pranzo, attendevo che le commesse se ne andassero e poi me la sbattevo tra le pile di scatole del magazzino. Al locale arrivarono due rumene, ma non ci feci caso, imponendo anche a loro la percentuale sui prive, e come era logico supporre andarono subito a raccontarlo ai due gorilla. Il barese a fine serata si avvicinò sorridente e mi chiese di raggiungerlo in ufficio. I due rumeni mi fracassarono il braccio sinistro. L'osso fece un rumore di ramo spezzato e il dolore fu insopportabile. Vomitai sulla moquette. Una debolezza che pagai con un
pugno sulla frattura. Poi mi fecero sedere sulla poltrona di fronte al proprietario. "Devo ammettere che avevi messo in piedi un tramaccio ingegnoso" si complimentò il proprietario, osservando le unghie dei mignoli. "E le persone intelligenti meritano rispetto. Per questo ho detto ai rumeni di farti solo un poco di bua. Le ragazze in fondo guadagnano già abbastanza. Continuerai a tenerti i quattrini di un prive ogni dieci. Solo che li metterai in cassa. La prossima volta che ti becco con le mani nella marmellata finisci sottoterra. I ragazzi sono bravi a scavare buche profonde". Guardai i due gorilla. Prima mi avrebbero picchiato a morte e poi avrebbero preso i badili dal baule della macchina. "D'accordo. Filerò dritto" promisi, sollevato che il proprietario fosse all'oscuro del mio ricatto nei confronti del commerciante di calzature. Altrimenti ci avrei rimesso l'altro braccio e avrei dovuto dire addio a Flora e ai venti milioni che comunque, un giorno o l'altro, sarebbero finiti nelle mie tasche. La sera dopo le ballerine iniziarono a rivolgermi sguardi di sufficienza e qualche sorrisetto sprezzante. Per ristabilire l'ordine dovetti fare una scenata nei camerini e tirare sul muro qualche vasetto di crema. Tornai a guadagnare duecento carte al giorno e la prospettiva di ritrovarmi con le tasche vuote mi costrinse ad aguzzare l'ingegno. Nonostante il pensiero fisso di Flora. Quella donna mi detestava. Mai e poi mai sarebbe venuta a letto con me volontariamente. Ed era proprio questo il lato eccitante della vicenda. Mi imposi di non pensare a lei mentre lavoravo e ben presto iniziai a risolvere i miei problemi finanziari. Il proprietario di un laboratorio dove si fabbricavano falsi pizzi fiorentini mi chiese una mano per far entrare clandestinamente in Italia un gruppo di ricamatrici bulgare. Non fu un problema e venni pagato lautamente. La voce si sparse e un altro paio di padroncini, che cucivano jeans in appalto per una marca pubblicizzata in televisione, avevano invece bisogno di manodopera cinese. Si trattava di guidare un furgone da Milano a Treviso, e la busta che mi feci consegnare in anticipo era foderata di biglietti da cinquecentomila. Il padrone di una peschiera mi propose di avvelenare le vasche di un concorrente. Quando versai le taniche, l'acqua prese a bollire e la superficie si riempì di trote stecchite. Facevo sempre tutto con calma, e non avevo mai paura. Pensavo solo ai soldi. Il Blue Sky era ovviamente frequentato dalla malavita. Italiana e straniera. Ma con quell'ambiente non volevo avere nulla a che fare e mi ero sempre limitato a rapporti educati
ma formali. Comunque li tenevo sempre d'occhio e ben presto mi resi conto che clienti onesti e malavitosi si integravano perfettamente. Spesso assistevo alla conclusione di affari. In particolare nel campo assicurativo: incendi di capannoni, rapine ai Tir, furti. Crimini o incidenti ai danni di mercé inesistente. Le forze dell'ordine controllavano il locale, ma anche per loro c'era una bella fetta della torta. La filosofia del barese si basava su mazzette e informazioni. I primi soldi veri li feci rovinando un padre di famiglia a cui piacevano le ballerine, ma aveva la sfortuna di vivere dello stipendio di impiegato dell'ufficio imposte. La prima volta arrivò accompagnato da un paio di industriali della zona. Io ero già stato avvertito e avevo preparato una serie di numeri di prive con le ragazze più carine. Fu subito chiaro che al tizio piaceva una dominicana, alta e slanciata. Organizzai subito un balletto esclusivo per il signore. Alla ragazza dissi di fargli un lavoretto di bocca che i due accompagnatori avrebbero pagato bene. Divenne ben presto un frequentatore assiduo del locale. All'inizio spendeva solo quello che si poteva permettere e faticai non poco a convincerlo che potevo fargli credito a interesse zero. "E' come comprare un'automobile a rate" gli dicevo sorridendo. Alla fine cedette, e quando il conto diventò insostenibile per le sue finanze, i due industriali gli illustrarono il piano per risanare i debiti imponendogli di chiudere tutti e due gli occhi sulla contabilità delle loro aziende. Anche lui, come il marito di Flora, si era fatto fregare. In tutto il tempo che rimasi a lavorare al Blue Sky ne vidi molti come loro. Eppure il gioco era a carte scoperte. A parte gli ingenui e gli idioti, ho sempre pensato che quella gente non vedesse l'ora di farsi corrompere. La trappola delle ballerine o della cocaina rappresentava solo l'occasione per fare il salto e godersi la vita. Il locale era un mondo a parte che esisteva solo di notte e di giorno svaniva. Col tempo iniziai a temerlo. Se avessi continuato a lavorarci sarei rimasto invischiato per sempre. Avrei confuso la realtà con quella falsa delle luci basse e dei visi troppo truccati delle ballerine. Quando contai il mio gruzzoletto e vidi che era salito a una sessantina di milioni, pensai che fosse arrivato il momento di cambiare attività. Ma non era facile lasciare il barese. Non era sufficiente annunciargli il licenziamento. Nella sua mentalità da malavitoso meridionale del cazzo quella decisione spettava solo a lui e per il momento gli ero an cora utile. Mentre attendevo l'occasione giusta per risolvere il contratto con il Blue Sky, una notte venni chiamato dai rumeni. Bisognava da-
re una lezione a quattro albanesi che avevano infastidito alcune ballerine in paese. Tentai di convincerli a non trascinarmi nella spedizione punitiva, ma mi resi conto che se avessi insistito troppo quelle due bestie mi avrebbero suonato come un tamburo. Salimmo su un'auto rubata. Uno dei due mi consegnò un manico di piccone. Gli albanesi abitavano in un casolare sperso nelle campagne tra viti e campi di soia coperti di brina. Il piano dei gorilla era semplice. Sfondare la porta, entrare urlando e distribuire mazzate a destra e a manca. La sorte mi riservò l'unico albanese armato di coltello. Tentai di spaccargli la testa ma lui evitò il colpo, che finì sul suo ginocchio destro. Svenne dal dolore. Uno dei rumeni mi gridò di colpirlo al viso. Sferrai tre colpi con rabbia. A casa dovetti buttare i pantaloni sporchi di sangue. La vicenda occupò un trafiletto sui giornali locali. Uno era morto con una tempia sfondata. Forse era quello che avevo colpito. Forse no. Gli albanesi erano dei poco di buono e al bar, in paese, festeggiarono con un giro di prosecco. Una notte, dopo il lavoro, vidi Flora che mi aspettava davanti a casa, chiusa in macchina. Mi avvicinai sorridendo. Quel giorno non dovevamo incontrarci e per un attimo mi illusi che desiderasse stare con me. Invece abbassò il finestrino. Mi sorrise come non aveva mai fatto. La mano coperta da un guanto nero mi consegnò una busta. "Ecco i venti milioni. Ci sono tutti. Finalmente possiamo dirci addio" disse soddisfatta. Rimasi impietrito. Non volevo rinunciare a lei, al potere che esercitavo sul suo corpo. "Flora...". "Flora un cazzo" mi interruppe con rabbia. "Adesso vattene dalla mia vita". Accese il motore e sparì nella notte. Sapevo di averla perduta per sempre. Se avessi insistito, lei sarebbe andata a lamentarsi dal barese e sarei finito in guai seri. Entrai in casa. Con un coltello tolsi le mattonelle sotto il lavello e aggiunsi i soldi al gruzzolo. Ottanta milioni. Si cominciava a ragionare. Il giorno dopo andai a passeggiare in centro. Quando passai davanti al negozio di Flora non mi avvicinai neanche alla vetrina. Ero nuovamente a caccia di un'amante e battei la zona con metodo e pazienza. Ma una donna bella e sensuale come lei non la trovai da nessuna parte. Quella notte, dopo una giornata fiacca e poco movimentata, uscii dal locale un po' prima. Andai in un night di Jesolo dove mi avevano detto che la vorava un'entraìneuse inglese che aveva superato i quaranta. Fu una delusione. Era una spilungona magra e dal seno piatto. Aveva la sua clientela ma non era il mio tipo. Le offrii da bere. Mi feci raccontare un po' di cazzate e poi me ne tornai a casa. Ogni tanto
mi veniva voglia di andare da Flora, ma la paura mi faceva desistere. Solo quella. Perché altrimenti avrei fatto qualunque fesseria pur di stare di nuovo con lei. Ebbi una storia con la vedova di un boss della mala milanese. Morto il marito, assassinato in un carcere speciale, aveva perso potere e denaro e ora si arrangiava smarchettando negli hotel. Recitava la parte della bella dama, fine e di classe, dedicandosi ai rappresentanti cinquantenni calvi con la pancetta e il portafoglio gonfio. Fui io ad agganciarla dopo averla osservata tentare inutilmente di accalappiare il proprietario di un caseificio valdostano. Le proposi di bere qualcosa insieme. "Non ti sembro un po' troppo stagionata?" domandò stupita. La osservai. Un tempo doveva essere stata una donna bellissima, adesso era una cinquantenne in lotta col tempo e le rughe per non dover finire a battere in strada a trenta carte a botta. "Vieni a bere o torni dal formaggiaro?" tagliai corto. Era una tipa navigata e simpatica. Chiacchierava con disinvoltura, destreggiandosi tra i discorsi per non apparire pettegola e invadente. Con qualche domanda azzeccata riuscii a capire che non se la passava molto bene. Era esattamente quello che speravo di sapere. Mi eccitava l'idea di vedere quanto riuscisse a degradarsi e umiliarsi per una manciata di soldi veri. A un certo punto, mentre lei mi raccontava un paio di aneddoti su un viaggio a Vienna, la interruppi. Avvicinai la bocca al suo orecchio e le dissi una cifra. Poi le chiesi se era disposta a fare una certa cosa. Fece finta di scandalizzarsi ma dalla sua espressione avevo già capito che la risposta sarebbe stata affermativa. Giocai con la sua dignità per un paio di mesi. Più di una volta prese i soldi con gli occhi pieni di lacrime. Una notte mi chiese come facevo a essere così schifoso. Poi se ne andò. Meglio così. Anch'io mi ero stancato e poi quella faccenda mi stava costando un sacco di soldi. La sua domanda però mi fece riflettere. Aveva ragione, ero uno schifoso, o meglio una carogna, come aveva detto il prete. Non provavo vergogna per questo. Ne ero cosciente, ma in realtà esercitare potere su donne deboli mi aiutava a campare. A stare meglio. A sopravvivere. A sopportare il mio passato, le angherie del barese e l'ambiente di merda del locale. In fin dei conti si trattava sempre di rapporti di scambio. Convenivano a entrambi. Un tempo non ero così, ma poi le esperienze mi avevano trasformato l'esistenza. Ero cambiato. E poi sentivo che si era rotto qualcosa dentro di me. Forse qualunque psicanalista del cazzo avrebbe detto che era stata la galera a distruggere il mio equilibrio. In fondo il
rapporto tra guardie e reclusi non era affatto dissimile da quello che avevo instaurato con Flora o la vedova. Forse era successo prima. A Parigi o nella selva centroamericana. Ma non mi andava di pensarci troppo. San Vittore per me era un ammasso confuso di visioni frammentate, rumori e odori. Concentrandomi, avrei potuto razionalizzare e riordinare i ricordi. Ma temevo di andare in pezzi. Era trascorso troppo poco tempo. Riuscivo a trovare un senso alla vita e a immaginare il futuro solo misurandomi continuamente con situazioni limite. Mi piaceva essere una carogna. Finalmente avevo la possibilità di diventare un vincente. Arrivò l'estate. Il giro di affari del locale stava aumentando e io non avevo ancora trovato l'occasione per sganciarmi senza urtare la suscettibilità del barese. Un giorno il barista mi avvertì che c'era un tizio che aveva chiesto di me. Lo riconobbi di spalle. L'avevo guardato troppe volte camminare lungo i corridoi del sesto raggio spingendo il car rello della lavanderia. Si chiamava Francesco Casu, detto Ciccio Formaggio, perché in sardo il suo cognome significava proprio formaggio. Ma in Sardegna ci era andato solo a trovare i nonni in estate. Era nato e vissuto a Milano. Anche lui si era fatto succhiare il cervello dagli extraparlamentari e aveva fatto le sue brave cazzate, fino a quando non l'avevano arrestato dandogli la possibilità di pentirsi. Non avevo nessuna stima del personaggio, lo consideravo un pirla senza speranza e mentre mi avvicinavo sperai che non avesse fatto tutta quella strada per chiedermi un lavoro. Mi sbagliavo. Il lavoro era venuto a offrirmelo lui. Una rapina. Bottino un miliardo. Almeno. Lo fissai dritto negli occhi. "Perché sei venuto proprio da me?". Allargò le braccia. "Perché io ho solo la dritta e non ho la minima idea di come si organizzi un colpo. Ho pensato a te per il tuo passato nella guerriglia centroamericana. Sarai pur capace di pianificare un'operazione militare". "Chi ti ha passato le informazioni?". "Una guardia giurata". "Quelli sono i primi a cantare". Abbassò il tono della voce. "Pensavo di toglierlo dalle spese al momento di dividere. Una fetta in più per tutti". "Chi altro è a conoscenza della vicenda?". "A parte te, nessun altro". "L'obiettivo?". "Un furgone portavalori in provincia di Varese. Ogni sabato sera, puntuale come un treno svizzero, passa a prendere gli incassi settimanali di un ipermercato. Scendono in due, aprono lo sportello della cassa continua, ritirano i sacchi e ripartono". "La storia del miliardo è attendibile?". "Sì. Prima ho detto
almeno un miliardo. Secondo il basista non è mai inferiore al miliardo e mezzo". Terminai il gin fizz, rimuginando sulla proposta. La cifra era di quelle che rendevano accettabile il rischio di tornare in galera, soprattutto se si era in pochi a dividere. La guardia giurata sarebbe stato il primo a morire, poi sarebbe stato il turno di Ciccio Formaggio, troppo stupido per continuare a vivere con un segreto che mi riguardava direttamente. Per gli altri si sarebbe visto in seguito. "Prima di decidere voglio vedere il posto e il movimento". "Non ti preoccupare. A questo penso io". Il sabato seguente mi ritrovai nel parcheggio di un gigantesco ipermercato a spingere un carrello zeppo di mercé appena acquistata. Fingevo di aver dimenticato la fila dove era parcheggiata l'automobile e nel frattempo tenevo d'occhio lo sportello d'acciaio incassato nel muro esterno dov'era custodito il denaro. Secondo le informazioni di Ciccio Formaggio, doveva essere ritirato entro pochi minuti. Il furgone blindato entrò puntuale nel parcheggio. Erano le otto e mezzo di sera. Le guardie giurate attesero un paio di minuti prima di scendere per assicurarsi che non ci fossero movimenti sospetti nei paraggi. Dal mezzo uscirono solo in due, l'autista e il collega che sedeva al suo fianco. Il terzo rimase chiuso nel retro a fare da copertura. Se fosse stato necessario avrebbe sparato attraverso le feritoie. I due aprirono lo sportello, ritirarono i sacchi e salirono sul furgone in meno di un minuto. Sarebbe stato impossibile tentare di avvicinarsi, disarmarli, tenere a bada l'altro e allontanarsi col bottino. L'unica soluzione era eliminarli. Mi guardai attorno e vidi una palazzina di quattro piani con terrazzo sul tetto che distava in linea d'aria un centinaio di metri. Raggiunsi il portone e attesi che qualcuno entrasse. Arrivò una signora con un paio di bambini. In quel momento saltai fuori dal buio reggendo un paio di borse della spesa. Il mio aspetto, il vestito, il sorriso aperto e la spesa la rassicurarono e mi fece entrare. Infilai le scale e raggiunsi il tetto. Come avevo previsto, dal terrazzo si aveva una visione perfetta dello sportello. Due uomini armati di fucili di precisione avrebbero potuto eliminare le due guardie giurate nel momento in cui stavano risalendo sul furgone. Il terzo sarebbe rimasto intrappolato nel retro e qualche raffica sulle feritoie sarebbe stata sufficiente a tenerlo a bada. Una macchina parcheggiata sarebbe partita all'improvviso raggiungendo i due cadaveri e recuperando i sacchi col denaro. Tempo stimato dell'operazione: un minuto. Fumai un'altra sigaretta calcolando il numero di uomini necessari per il colpo. Oltre a me, a Ciccio e al
basista ci sarebbe stato bisogno di due cecchini sul tetto e tre uomini nell'auto. In tutto otto persone. Calcolando che la guardia e Ciccio Formaggio non avrebbero visto un quattrino, rimanevano sei fette della torta. Da un minimo di 170 a un massimo di 250 milioni a testa. Troppo poco per rischiare di finire all'ergastolo. Sarebbe stato necessario sfoltire un po' i pretendenti. Recuperai l'automobile e mi diressi verso Varese, dove Ciccio Formaggio mi attendeva in una paninoteca. "E allora?" chiese in tono apprensivo. Bevvi un lungo sorso di birra gelata. "Ci vuole tempo per organizzare un colpo di queste proporzioni. Bisogna pianificare l'azione, trovare le armi, le macchine, i rifugi e soprattutto la gente giusta". "Quando pensi che entreremo in azione?". "Non prima di ottobre". Gli puntai l'indice contro. "Partecipo a questo lavoro a una condizione: il comando è mio e tu da questo momento fai solo ed esclusivamente quello che dico io". "D'accordo. Nessun problema". "Tu dovrai tenere i rapporti con il basista. E basta. Non ti azzardare a prendere iniziative di altro genere". "Ehi, amico" ribattè in tono risentito. "L'idea del colpo è mia. Ricordati che se diventi ricco lo dovrai solo e unicamente al sottoscritto". Lo fissai. Ciccio era proprio un idiota. "Scusa, hai ragione, ma è necessario essere chiari fin dall'inizio. Nessuno di noi due ha intenzione di tornare in galera, giusto?". "Giusto". Pensai che gli avrei sparato con piacere e sorridendo gli diedi una pacca amichevole sulla spalla. Guidando in autostrada iniziai a pensare a come sciogliere il sodalizio con il barese. Se fossi rimasto con lui sarei stato per sempre un suo galoppino. Non gli interessava fottermi la vita, per lui ero solo qualcuno da sfruttare e di cui disfarsi quando non sarei servito più. Era un penti to e un informatore e come la maggior parte di noi aveva continuato a delinquere. Aveva in piedi diversi traffici, ma il suo punto debole era lo spaccio di cocaina. I suoi controllori della Direzione distrettuale antimafia potevano passare sopra a molte cose, dalle puttane allo strozzinaggio, ma la droga era una di quelle cose che li faceva incazzare di brutto e tirare fuori le manette. Il barese infatti con la coca ci andava cauto. Avevo impiegato un bel po' a scoprire chi gliela forniva. Ma come tutti i malavitosi anche lui non riusciva a non vantarsi con le puttanelle che si scopava. A una ballerina venezuelana che sniffava come un'idrovora aveva promesso un bel po' di neve, chiedendo però di avere pazienza perché sarebbe arrivata solo dopo due giorni. La ragazza mi aveva chiesto se potevo procurargliene un po' nell'attesa, mettendomi così
al corrente dell'arrivo della mercé. Il giorno della consegna lo pedinai. A metà pomeriggio si incontrò con uno straniero dalla carnagione olivastra nel reparto abbigliamento di un grande magazzino a Treviso. Con la vecchia scusa di provarsi dei pantaloni entrarono uno dopo l'altro nello stesso camerino. Il corriere lasciò un'elegante valigetta che venne poi raccolta dal mio datore di lavoro. Lo straniero rientrò a provarsi un altro paio di pantaloni e prese possesso del denaro che l'altro aveva lasciato. Seguii lo spacciatore fino a un parcheggio. Presi nota della targa della macchina. Prima di andare a lavorare mi concessi una cena in un ristorante di lusso per festeggiare. Il barese ora mi faceva meno paura. Per chiudere con il lavoro al locale avevo due possibilità. Vendere il proprietario alla Sacra Corona Unita che da un pezzo voleva pareggiare i conti perché lui aveva mandato in galera un boss tarantino, o venderlo agli sbirri. I prò e i contro erano da valutare con attenzione. Non potevo certo permettermi di sbagliare. La mafia pugliese l'avrebbe sgozzato come un capretto o riempito di piombo, eliminando il problema alla radice, ma non era affatto sicuro che non intendessero eliminare anche il sottoscritto, che un giorno avrebbe potuto trasformarsi in un testimone scomodo. L'ipotesi sbirri era meno pericolosa ma più complessa. Il problema era di quale sbirro fidarsi, perché come i malavitosi anche quelli ti usavano e poi ti scaricavano. Poliziotti e carabinieri lo facevano per disprezzo, non per tornaconto. Con il loro stipendio da fame, i rischi e l'ulcera, il mondo per loro era diviso tra cittadini da difendere e feccia da sbattere in galera. Feccia da odiare e riempire di sputi in faccia e calci nelle palle. Ma di Anedda, lo sbirro della Digos, sentivo di potermi fidare. C'era qualcosa in lui che mi aveva sempre suggerito l'idea che fosse marcio. Non solo corrotto. Marcio. Il tipo giusto con cui entrare in società. Offrendogli il barese su un piatto d'argento gli avrei stuzzicato l'appetito. Il resto gliel'avrei proposto dopo. Misi la freccia per entrare in un'area di servizio. Un cesso, un caffè e un telefono. Esattamente in quest'ordine. Ferruccio Anedda era davvero elegante. Non solo aveva buon gusto, i vestiti li sapeva indossare con naturalezza. Come un vero signore. Aveva guidato per trecento chilometri e il completo di lino color crema non aveva nemmeno una piega. Andai dritto al punto e lui mi ascoltò con attenzione. Alla fine si accese la sigaretta che fino a quel momento aveva rigirato tra pollice e indice. Infilò nel taschino della giacca il foglietto con il numero di targa dello spacciatore e solo
allora si decise a parlare: "E bravo Giorgetto Pellegrini. Vuoi fottere il barese e vuoi pure che io ti permetta di soffiargli i quattrini della coca". "Di quelli facciamo a metà" puntualizzai. Le parole mi uscirono dalla bocca in un tono troppo acuto. Era la paura di essermi sbagliato sul personaggio. "Fama e denaro. Due ottimi motivi per accettare la mia proposta" aggiunsi cercando di mascherare la tensione. Anedda era troppo vecchio del mestiere per essersi fatto sfuggire questi particolari e giocò con la mia paura guardandomi a lungo dritto negli occhi. "Settanta e trenta. Chi ti credi di essere per pretendere la metà?". Allargai le braccia. "Chiedo scusa". Ci trovavamo in una stradina di campagna alla periferia del paese. Nonostante il buio e i finestrini abbassati, nell'auto dello sbirro faceva caldo. Come se le lamiere emanassero la calura assorbita durante il giorno. Sentivo la camicia incollata alla schiena. Odiavo sudare. Lui invece sembrava appena uscito dalla doccia. "Allora noi aspettiamo il barese fuori dal grande magazzino e lo pizzichiamo con la cocaina" iniziò a ricapitolare. "Nel frattempo tu intercetti il corriere nel camerino, gli dai una botta in testa e gli freghi i soldi. E' questo il tuo piano, no?". "Sì". "Non è male. Ci risparmia un sacco di fastidi. Tu però sei sicuro che lo scambio avvenga sempre nello stesso posto?". Rimasi in silenzio e mi guardai la punta delle scarpe. Non avevo proprio pensato a questa eventualità. Mi sembrava di essere tornato indietro nel tempo, quando non avevo verificato gli orari del metronotte e quello stronzo si era fatto scoppiare la bomba tra le mani. "Te lo chiedo" continuò Anedda con un tono freddo come la canna di una pistola, "perché non vorrei spostare una squadra da Milano, inventandomi una montagna di cazzate per giustificare l'urgenza e l'assenza di comunicazioni con i colleghi di Treviso, per poi fare un buco nell'acqua. E una figura di merda. E beccarmi un cazziatone coi fiocchi. Uno di quelli che ti stroncano la carriera. Perché, in quel caso, io ti fotto, Pellegrini. Stanne certo". Non avevo dubbi su questo. Dovevo decidere in fretta. Annullare l'operazione o garantire che non ci sarebbero state sorprese? Decisi di rischiare. Altrimenti il colpo all'ipermercato sarebbe rimasto solo un'occasione mancata e non avevo più l'età per permettermi dei rimpianti. Potevo solo rischiare. D'altronde da un punto di vista statistico era difficile che mi ricapitasse due volte la stessa sfiga. "Non ti preoccupare, Anedda" dissi, "ti procurerò fama e denaro. Per te sarà solo un affare". Al locale la scorta di coca sembrava non finire mai. Seguivo il traffico attraverso alcuni clienti con
il vizio di sniffare. Mi dovevano dei favori. La tensione mi consumava. Una donna mi avrebbe fatto bene. Una come Flora. Ma avrei dovuto aspettare. Ci sono momenti in cui è meglio stare soli. Il barese non aveva soci. Non poteva averne. E dopo essere caduto nelle mani di Anedda avrebbe dovuto dire addio al Blue Sky e alla libertà. I suoi amici dell'Antimafia non avrebbero potuto fare nulla. Lo sbirro milanese si sarebbe coperto il culo con una bella conferenza stampa. Giornali, radio e tv e lui e i suoi uomini schierati dietro a un tavolo dove, in bella mostra, ci sarebbe stata la coca. Ad Anedda avevo detto che nel locale non c'era nulla di interessante. Ballerine e un paio di gorilla. Mentre lo stavo dicendo mi era venuta un'idea. Anzi due. La prima mi dava la possibilità di regolare i conti con i due rumeni. Quando pioveva, il braccio che mi avevano spezzato mi doleva ricordandomi l'umiliazione subita. Gli raccontai che mi avevano confidato di aver ucciso l'albanese nel casolare. Il funzionario della Digos drizzò le orecchie. "Mi stavo giusto chiedendo cosa potevo lasciare ai colleghi della zona per aiutarli a ingoiare il rospo. Risolvere un omicidio è sempre una buona pubblicità anche se è un caso senza importanza. Sei a conoscenza di qualche elemento che li possa inchiodare?". Sorrisi. "Si sono sbarazzati dei bastoni e dei martelli gettandoli in un fosso". "E tu guarda caso conosci il posto". Sorrisi ancora. La seconda idea riguardava il patrimonio del locale, e cioè le ballerine. Il Blue Sky sarebbe stato posto sotto sequestro e loro si sarebbero trovate a spasso. Un vero peccato. Io invece avrei potuto ricavarci un bel po' vendendone alcune alle bande di kosovari che da tempo ronzavano intorno ai locali del nord est a caccia di ballerine professioniste per i locali di Pristina. La gloriosa guerra di liberazione era finita da un pezzo, ma le truppe della Kfor, la forza di pace, non se n'erano ancora andate. E come tutti i soldati, anche loro avevano voglia di divertirsi e di scopare. Così da un giorno all'altro la mafia kosovara, emanazione diretta di quella albanese, aveva aperto locali di tutti i tipi. I lap dance erano quelli che rendevano di più, ma non era facile trovare ballerine professioniste. L'ostacolo maggiore erano le ragazze stesse, che per nulla al mondo volevano finire nelle mani degli albanesi. Avrei potuto concludere quel piccolo affare approfittando del momento di confusione dopo l'arresto del barese. Non potevo far sparire tutte le ragazze, ma cinque o sei poteva essere un numero accettabile. Avrei dovuto tenere all'oscuro Anedda e rischiare mol-
to, ma le pupattole mi avrebbero fruttato almeno cinquanta milioni. Mi recai in un night dove bazzicava il capo dei kosovari. Si stava vantando con della manovalanza italiana di essere un eroe dell'Uck e uno sterminatore di serbi. Finsi di ascoltarlo con rispettosa attenzione, poi gli proposi l'affare. Accettò la cifra senza troppo discutere, disse che avrebbe mandato qualcuno a scegliere le ragazze e fu così gentile che quando uscii decisi di presentarmi armato alla conclusione dell'affare. I giorni passavano, la riserva di cocaina diminuiva e il momento di liberarmi del barese si stava avvicinando. Capii che era giunto il momento di procurarmi un rifugio sicuro e segreto. Gli sbirri non dovevano trovarmi nel locale e in ogni caso ben presto avrebbero voluto fare quattro chiacchiere anche con me. Fino a quando Anedda non avesse chiarito con i colleghi la mia situazione, era salutare rendersi irreperibile. Conoscevo un solo sistema per procurarmi un covo sicuro. Iniziai a spulciare gli annunci dei giornali della Lombardia, evitando quelli della provincia di Bergamo e privilegiando la zona di Varese. Volevo procurarmi una sistemazione non troppo lontana dall'obiettivo della rapina. Ma appena venni a sapere che il barese avrebbe incontrato il suo fornitore dopo una decina di giorni, rinunciai a questa parte del piano, ripiegando su una vecchia conoscenza: la vedova del boss. Possedeva una casa a Milano, me l'aveva confidato quando non aveva ancora capito che tipo ero. Andai a bussare alla porta della sua stanza in un hotel di Udine. Stava intrattenendo un sessantenne che quando mi vide capì che era meglio rivestirsi e sparire. Lei invece neanche si coprì. Cercò una sigaretta sul comodino e si sedette sul bordo del letto sfatto. "Cosa vuoi?" chiese, passandosi una mano sui capelli. Non risposi. Osservai la camera. Squallida e sporca. "Con tutti i soldi che ti ho dato potresti permetterti di meglio". Lei scosse la testa. Attraverso il movimento dei capelli notai una smorfia di amarezza devastarle il volto. Fu una questione di un attimo, ma sufficiente per capire di averla in pugno ancora una volta. I miei quattrini le avevano fatto così schifo da giocarseli tutti. Fino all'ultima lira. "Te li sei sputtanati al casinò, eh?". "Magari. E' bastata una bisca". Non avevo molto tempo a disposizione. Rincarai la dose. "E adesso sei di nuovo senza un soldo, costretta a fare servizietti ai pensionati". "Cosa vuoi?" ripetè. "Che tu prenda un treno, torni a Milano a casa tua e mi ospiti per un paio di mesi. Ti pagherò bene". La donna mi fissò. Aveva compreso che cercavo un rifugio. Era una
vedova di malavita. "Niente schifezze, però. Ne ho piene le scatole dei tuoi giochetti" sibilò con un tono da megera. Forse la signora si sentiva autorizzata a pensare che potessimo invertire i ruoli, visto che ero io ad avere bisogno della sua casa. Quella sua timida ribellione mi eccitò come non mi accadeva da tempò. Guardai la pelle grinzosa del suo collo, il seno cadente, i solchi della cellulite lungo le cosce. L'afferrai per i capelli e la costrinsi a distendersi sul letto a faccia in giù. Dal comodino presi la bottiglia di Fernet che usava per sciacquarsi la bocca dopo i pompini e l'appoggiai delicatamente tra i glutei. La mia mano rimase immobile per un interminabile minuto. Volevo che fosse assolutamente cosciente di quello che stava per subire. Si comportò bene. Sapeva di essere solo una perdente, una che nella scala gerarchica di quell'ambiente stava all'ultimo posto. Fece di tutto per farmi capire di essere rientrata nei ranghi. Quando comunicai ad Anedda che lo scambio sarebbe avvenuto nel giro di quarantotto ore, mi disse di aver identificato il corriere attraverso il numero di targa. La macchina apparteneva a una cittadina italiana residente a Milano, un'ex battona a riposo. Il suo convivente si chiamava Jesus Zamorano, boliviano con precedenti per spaccio. La sera stessa lo sbirro arrivò con la sua squadra, formata da quarantenni dall'aria esperta. Appartenevano alla generazione dell'antiterrorismo, ed erano quelli che ci avevano dato la caccia e ci avevano rotto il culo. Ci incontrammo nel parcheggio di una pensione, sulla terraferma veneziana. Anedda mi fece segno di seguirlo. Mi consegnò un aggeggio a metà strada tra un cellulare e un rasoio. "E una pistola elettrica" spiegò. "L'appoggi al corpo del boliviano, pigi il pulsante e quello finisce a terra fuori uso per una decina di minuti". "Avrei preferito una pistola vera". Sbuffò spazientito. "Meglio evitare sparatorie e morti in un grande magazzino. Quest'affare è più discreto". All'improvviso capii. "Non hai intenzione di beccare il corriere". "Certo che no. Lo regalo a certi colleghi di Milano a cui debbo un paio di favori. In questi casi bisogna essere generosi. Per fare bella figura basta e avanza il barese". La serata al locale era piuttosto movimentata e il barese sorrideva soddisfatto per come stavano andando gli affari. Mi sarebbe piaciuto sapere do ve aveva nascosto il malloppo. Forse all'estero, ma non mi sembrava il tipo da stare lontano dal suo denaro. Il Blue Sky era una vera miniera d'oro e stimavo che avesse messo da parte almeno un paio di miliardi. Un bel po' di quattrini li avrebbe spesi con
gli avvocati e, comunque, gliene sarebbero rimasti più che a sufficienza per campare senza problemi. Una volta uscito di galera. Un tizio mi toccò la spalla. Era il kosovaro che doveva scegliere le ragazze. Le osservò per un bel pezzo, poi ne indicò sette. "Allora sono settanta milioni" dissi in tono duro. Sorrise conciliante. "Non c'è problema, amico". Evitai di guardarlo per non fargli capire che non avevo dubbi sul fatto che mi volessero fregare. Volevano portarsi via le ballerine senza sborsare un centesimo e io non potevo certo presentarmi all'appuntamento armato della pistola elettrica che mi aveva consegnato Anedda. Me l'avrebbero fatta ingoiare. Decisi che se non avessi trovato un'arma più efficace avrei mandato a monte l'affare. Gli ultimi clienti uscirono dal locale alle quattro. Corsi a casa. Preparai le valige e le caricai sulla Panda. Dopo qualche ora di sonno, mi buttai sotto la doccia e mi diressi verso Treviso. Controllai per l'ennesima volta la carica della batteria del cellulare. Anedda doveva chiamarmi appena il barese si fosse avvicinato al grande magazzino. La suoneria si attivò poco dopo le undici del mattino, mentre gironzolavo già da un po' nel settore casalinghi, all'ultimo piano. "Sta entrando" mi avvertì lo sbirro. Lentamente mi avvicinai alla scala mobile. Dall'alto notai anche il boliviano che si aggirava tra i banchi dei giocattoli. Anche lui, dopo una telefonata, si avviò verso il reparto abbigliamento. Ancora una volta usarono lo stesso camerino per scambiare denaro con droga. Quando il barese si allontanò con la cocaina, mi avvicinai alla porta chiusa dietro la quale il corriere stava probabilmente contando il denaro. Quando aprì gli piantai la pistola elettrica nel petto e l'uomo si afflosciò senza un lamento. Entrai chiudendomi la porta alle spalle. Controllai la valigetta. Era piena di banconote. Frugai Zamorano e scoprii che sotto il giubbotto, all'altezza del fianco sinistro, aveva una doppietta a canne mozze. Un gingillo di una quarantina di centimetri caricato a pallettoni per la caccia al cinghiale. L'arma ideale per presentarsi a un appuntamento d'affari con la mafia kosovara. Uscii dal camerino e mi allontanai svelto imboccando le scale. In strada notai un certo trambusto. Un capannello di curiosi circondava due auto civetta della polizia. Raggiunsi il par cheggio, nascosi valigetta e lupara sotto il sedile e tornai in paese stando ben attento a non commettere la benché minima infrazione al codice della strada. Arrivai al Blu Sky, che a quell'ora era deserto, e presi possesso del furgone che veniva usato per i trasporti più vari.
La sera prima avevo sottratto le chiavi che stavano sempre vicino al registratore di cassa. Iniziai a fare il giro delle case delle ballerine che erano state scelte per esibirsi nei lap dance di Pristina. Abitavano tutte nei dintorni. A mano a mano che bussavo alle loro porte, raccontavo che c'era una retata in corso e che il barese mi aveva ordinato di nasconderle. Nessuna delle ragazze trovò da ridire. La storiella in fondo era plausibile. Il mezzo non aveva finestre nel vano di carico e non avevano modo di vedere dove le stavo portando. L'appuntamento con i kosovari era nel parcheggio di un centro commerciale alle porte di Mestre. Il gruppetto di cinque persone era guidato dal tizio che era venuto al locale. Si avvicinarono sorridendo. Compresi immediatamente le loro intenzioni. Mi avrebbero circondato salutandomi con grande affetto e uno di loro mi avrebbe pugnalato. Discretamente. Un colpo al cuore, la lama insinuata con destrezza tra le costole. Poi mi avrebbero sorretto come un amico troppo ubriaco per reggersi in piedi e mi avreb bero infilato in un'auto. Li fregai appoggiando la schiena al furgone e tirando fuori da sotto la giacca la lupara. I mafiosi si bloccarono tenendo ben in mostra le mani. Veri professionisti. Il messaggio era chiaro e significava una richiesta di tregua per poter trattare. Il sudore mi scendeva a rivoli lungo il collo e il viso. Mi entrava negli occhi e bruciava maledettamente, ma per nessun motivo avrei allontanato le mani dall'arma. Passò una coppia di signori con il carrello della spesa, notò la scena e affrettò il passo. "Soldi domani, oggi non possibile" disse il capo. "Brutti figli di puttana. Volevate fregarmi. Andatevene o sparo". Si divisero in due auto di grossa cilindrata e partirono sgommando. Spalancai lo sportello scorrevole del furgone. "Fuori" urlai alle ragazze. "Il locale è chiuso per sempre. Cercatevi un altro lavoro". La lupara che stringevo ancora in mano fu per le ballerine un argomento decisivo. Scapparono a gambe levate senza fare domande. Salii sul furgone sconvolto dalla rabbia e dalla paura. Con il palmo della mano mi colpii la fronte. Forte. Per farmi male. Che stronzo ero stato. Per settanta milioni di merda avevo corso il rischio di farmi ammazzare. In futuro avrei dovuto essere meno avventato. Altrimenti non avrei avuto nessuna possibilità di farcela.
Francisca
Dovevo uscire dalla casa della vedova per incontrarmi con Anedda. Ma non potevo lasciarla sola con i miei soldi. In quel cazzo di appartamento non avevo trovato nemmeno un buco per imboscarli decentemente. Una volta sola, alla vecchia bagascia sarebbe bastato frugare nelle mie valigie e sarebbe corsa a sputtanarsi i miei risparmi nel più vicino casinò. Cercai una soluzione. Alla fine scesi a comprare un biberon nella farmacia sotto casa e una bottiglia di Fernet in un alimentari. La vedova stava facendo il bagno. Le tappai il naso e le ficcai in bocca due pastiglie di sonnifero e la tettarella. "Succhia" ordinai. Probabilmente pensò che si trattasse di uno dei miei giochetti. Obbedì spaventata. Non vedeva l'ora che me ne andassi e la lasciassi in pace. Mi sedetti sul bordo della vasca e accesi due sigarette. Ne infilai una tra le sue labbra. "Non sognarti di vomitare". Vidi nei suoi occhi la voglia di pronunciare una delle sue solite battute sgradevoli, ma si tratten ne. Credo più per rassegnazione che per paura. Attesi una decina di minuti. Per evitare che annegasse, tolsi il tappo e l'acqua cominciò a defluire. "Quando torno voglio trovarti qui". "Lasciami andare a letto. Mi farò una bella dormita. Tutta bagnata rischio di beccarmi un accidente". Sospirai. Non mi andava di fare concessioni. "No. Rimani qui". Ferruccio lo sbirro mi aveva detto di farmi trovare sulla porta del McDonald's, di fronte alla stazione centrale. In mano tenevo ben stretta la valigetta con i soldi. Tutti. Doveva essere lui a darmi il mio trenta per cento. Atteggiamento da capobanda più che da poliziotto. Ma uno parte come un crociato e poi col tempo si insozza le mani, il cuore e il cervello. Arrivò con una Fiat Brava. Sporse la mano dal finestrino per farmi segno di salire. "Hai visto i giornali?" domandò con aria soddisfatta. Scossi la testa. "E la TV?" insistette. "Non la guardo e non leggo i giornali. Non me ne frega un cazzo". "Peccato. L'operazione ha avuto grande risalto e i colleghi veneti hanno dovuto starsene calmi. Il capo della polizia si è complimentato di persona". Annuii con aria solenne. Anedda parcheggiò in una via laterale e poco trafficata. Indicò la valigetta. "Quanti sono?". "200 tondi tondi". Mi colpì allo zigomo con il gomito. Un colpo secco, preciso e potente, rifilato con la naturalezza della pratica e dell'allenamento. Mi si annebbiò la vista e appoggiai la fronte sul cruscotto. "Ho saputo di un movimento strano in un parcheggio a Mestre" sibilò con furia. "Un tizio con un fucile a canne mozze che teneva a bada un gruppo di facce di merda, e ragazze tipo battone che all'improvviso sono spuntate dal retro di un furgone scappando in
tutte le direzioni come tante galline". Era inutile negare. Anedda mi avrebbe massacrato. "Ho fatto una cazzata". Usò ancora il gomito per colpirmi l'orecchio. Tecniche da interrogatorio. Nella sua lunga e onorata carriera doveva averne mazzolati un bel po' di studenti e operai di estrema sinistra. Capii che aveva bisogno di sfogarsi e che era meglio stare zitto. "Volevi fregarmi, ma siccome sei una testa di minchia hai rischiato di mandare tutto a puttane. Se ti beccavano i carabinieri o la finanza finivamo tutti in galera". Estrasse la chiave dell'auto dal quadro e mi tagliò la guancia. In silenzio presi il fazzoletto e mi tamponai la ferita. Abbassai il parasole, con le dita pulii lo specchietto dalla polvere e controllai il taglio. Una lacerazione di un paio di centimetri. Roba da poco. Giusto per mettere in chiaro presente e futuro del nostro rapporto. "Hai bisogno di una lezione" continuò lo sbirro in tono più calmo. "Invece del trenta la tua parte sarà del dieci". Scossi la testa. "Dammi il trenta e ti faccio entrare in un affare che ti renderà ricco". "Cos'è? Un'altra vendita all'ingrosso di puttane?" ribattè con aria di scherno. "Un furgone portavalori". Accese una sigaretta. "Quanto?". "Un miliardo sicuro, probabilmente uno e mezzo". "Ti ascolto". "Voglio il trenta".
"Lo avrai solo se la proposta mi interessa". Raccontai tutto, senza omettere un solo particolare. "Cosa vuoi da me?" chiese alla fine. "Non pretenderai mica che mi infili un passamontagna in testa". "Certo che no" ribattei pronto. "Dovresti solo
indicarmi la gente da contattare per il colpo. Sono fuori dal giro. O meglio, non voglio rivolgermi ai malavitosi conosciuti a San Vittore. Sanno chi sono e comunque non mi fido, se qualcosa andasse storto canterebbero subito". "Solo questo?". "Ci sarebbe un'altra cosetta, ma non è necessaria per realizzare il colpo. Diciamo che è utile per essere in meno a dividere". Ghignò. "Quanti vuoi farne fuori?". "Due sono già morti ma ancora non lo sanno. Gli altri è da decidere. Pensavo di riunirli tutti per la spartizione e... col tuo aiuto distribuire un po' di piombo". Tirò fuori la pistola e me la puntò nel fianco. "Magari ti viene voglia di ammazzare anche me". "Magari l'idea è reciproca". Ferruccio ricacciò la Beretta nella fondina e cambiò discorso. "Allora vuoi che ti procuri dei
disperati, gente senza speranza". "E' complicato?". Scoppiò a ridere. "Affatto. Una volta erano una rarità, ma adesso vanno tanto al chilo. Questo Paese è diventato il cimitero degli elefanti: vengono tutti qui a morire". Ridiventò serio e si mise a contare il denaro. Cacciò la mia parte in una busta di carta e mi dis-
se di sparire. Si sarebbe fatto vivo al cellulare. Non mi domandò dove alloggiavo. O lo sapeva o non gliele fregava niente. Fermai un taxi e mi feci lasciare a duecento metri dalla casa della vedova. La trovai ancora nel mondo dei sogni. La presi di peso dalla vasca e la deposi sul letto. Tornai in bagno a guardarmi allo specchio. Lo zigomo era gonfio e la ferita sulla guancia non sanguinava più. Rovistai nell'armadietto e trovai disinfettante e cerotti. Mi sarebbe rimasto il segno. In un pronto soccorso un chirurgo con un paio di punti avrebbe potuto riavvicinare i lembi di pelle, ma il taglio sembrava esattamente quello che era: uno sfregio. Meglio evitare complicazioni. La casa era silenziosa e mi buttai su una poltrona a fumare una sigaretta. Dovevo risolvere il problema del nascondiglio dei miei risparmi. Non potevo addormentare la vedova ogni volta che uscivo. A furia di sonniferi e Fernet l'avrei ammazzata. Troppo presto. Che dovesse morire l'avevo sempre pensato. Dopo la rapina non potevo lasciarmi alle spalle una bocca pronta a parlare. Al momento non sapeva nulla ma era stata troppo tempo a contatto con la malavita per non collegare la mia presenza a Milano con l'assalto al furgone. Un colpo miliardario con due morti ammazzati sull'asfalto è una notizia che non passa inosservata. Se Ciccio Formaggio do veva essere eliminato per la remota possibilità che potesse lasciarsi sfuggire una parola di troppo, sulla vedova non avevo nessun dubbio che parlasse. Per vendetta. Per il gusto di rialzare la testa un'ultima volta nella vita. Avrei dovuto trovare un modo per eliminarla senza destare sospetti, i vicini mi avevano sicuramente notato. Mi alzai e cominciai a girare per casa alla ricerca di un nascondiglio. In una stanza trovai un
armadio troppo pesante perché lei riuscisse a spostarlo da sola. Tornai nella sua camera e mi accertai che dormisse. Divisi il denaro in mazzette che infilai nei sacchetti per conservare gli alimenti in freezer e li attaccai con le puntine sul retro del mobile. Lo spinsi contro la parete e controllai che i sacchetti non si vedessero. Non era granché come salvadanaio ma non avevo di meglio a disposizione. Mi cambiai. La vedova si era svegliata ma fingeva di dormire per evitare di avere a che fare con me. "Esco. Tu rimani a casa a guardare la televisione. Sei pagata anche per questo". Quando fui in strada mi resi conto che non sapevo dove andare. Non avevo voglia di rivedere i luoghi che frequentavo quando ero un ex detenuto disperato e senza un quattrino. Iniziai a camminare senza una meta. Era una bella serata di fine settembre, e camminai a lungo, guardando le vetrine e la gente. Mi infilai in un ristorante pieno di gente che mangiava, beveva e chiacchierava. Ero l'unico che non aveva altro da fare che guardarsi attorno. Rimasi sulle spine fino a quando il cameriere non mi servì il risotto. A un certo punto dalla cucina spuntò lo chef. Da come si comportava capii che era anche il proprietario. Cominciò ad aggirarsi tra i tavoli chiedendo ai clienti se le pietanze erano state di loro gradimento. A volte si sedeva per qualche minuto a scambiare due chiacchiere. Era un gesto di cortesia che le persone apprezzavano. Venne il mio turno. Il tizio mi squadrò, giudicò che ero solo un cliente occasionale e si limitò a chiedermi a mezza voce se ero soddisfatto del cibo e del servizio. Non risposi e gli indicai la sedia alla mia destra. "Le offro un bicchiere di vino". Rimase un attimo interdetto, poi mi accontentò. Con un gesto della mano si fece portare un bicchiere. "Lavoravo in un locale" raccontai. "Anch'io come lei ero trattato con rispetto dai clienti. Capisce cosa intendo?". Lo chef annuì e si aggiustò il fazzoletto al collo. Era sui cinquanta, magro ma muscoloso. Sulla sua divisa non aveva una sola macchiolina e anche le mani erano pulite e curate. Un vincente. "Mi chiedevo" continuai, "visto che vorrei cambiare attività, se aprire un ristorante può essere un buon investimento. Sa, a me piace lavorare in mezzo alla gente...". Lo chef vuotò il bicchiere con un sorso. Non aveva nessuna intenzione di trattenersi con me. "Non so in quale tipo di locale lavorasse prima, ma la ristorazione è una cosa seria" iniziò a spiegare in tono saccente. "Bisogna essere del mestiere e avere una grande conoscenza anche in campo enologico. Forse una pizzeria è un'attività
più adatta. Buone o cattive, tutti le mangiano" concluse alzandosi. Mi porse educatamente la mano e si avvicinò a un altro tavolo. "Pizzeria un cazzo" pensai continuando a osservarlo. Non avrei investito i miei soldi in un'attività di basso livello. Ormai le pizzerie le gestivano perfino i cinesi. Con i rischi che stavo correndo per garantirmi un futuro decente meritavo qualcosa di meglio. Soprattutto a livello di clientela. Avrei avuto bisogno di una nuova verginità e quella poteva fornirmela solo la gente bene. Quella con il portafoglio gonfio e le conoscenze giuste. Avrei aperto un locale di lusso. Ovviamente senza neanche tentare di improvvisarmi ristoratore. Mi sarei limitato ad assumere dei professionisti e avrei fatto il padrone, dividendo mi tra la cassa e i tavoli dei clienti. Era solo un problema di soldi. Quando sei un marginale uscito di galera la vita è una corsa in salita. E tutto costa il doppio. Pagai il conto e ripresi a camminare. Quando mi sentii stanco mi infilai in un cinema. Pellicola americana. Noiosa. Tornai dalla vedova. Quando sentì la chiave girare nella serratura corse a chiudersi in camera. Per un attimo fui tentato di lasciarla in pace, ma ero annoiato e avevo voglia di distrarmi. Bussai alla porta. La costrinsi a tornare in salotto a quattro zampe. Ferruccio lo sbirro non si fece sentire per una settimana. Il sabato mi recai all'ipermercato a verificare orari e movimenti del furgone portavalori. Ma fu l'unico momento in cui riuscii a scacciare la noia. La città mi respingeva come un corpo estraneo e l'unica distrazione erano i ristoranti. Due al giorno. Entravo solo in quelli che mi sembravano di un certo livello. Stesso McDonald's dell'altra volta e stessa macchina. Anedda guidava veloce nel traffico, controllando continuamente lo specchietto retrovisore. Era uno che stava sempre attento. "Ho trovato i tipi giusti" annunciò. "Tre anarchici spagnoli, due uomini e una donna, in fuga da un'altra rapina e senza nessuna prospettiva di cavarsela". "E poi?" lo sollecitai. Ridacchiò. "Due ustascia croati. Criminali di guerra ma ottimi tiratori". Scossi la testa. "Non funzionerà. Non accetteranno mai di lavorare insieme". "E invece sì" ribattè Ferruccio. "Sono dei veri disperati e hanno bisogno di soldi. E poi non devono agire insieme. I croati sul tetto e gli spagnoli in macchina a recuperare i sacchi con i soldi". Aveva ragione. L'idea non era male. "E anche se crepano non se li fila nessuno, giusto?". "Giusto. Sotto il tuo sedile ci sono due fascicoli con tutte le informazioni su di loro, foto e indirizzi attuali. Servivano per arrestarli, ma sono riuscito a cambiare programma. Hai dieci minuti di tempo per leggere le
informative. Quelle non le posso lasciare in giro". Iniziai dai croati. Romo Dujc detto Cerni, il nero, 44 anni e Tonci Zaninovic, 42. Miliziani del settantaduesimo battaglione della polizia militare, erano stati accusati di aver partecipato a varie operazioni di pulizia etnica. Il rapporto li indicava come sniper, cecchini. E questa era l'unica informazione che mi interessava. Osservai le fotografie. Brutte facce. Gente pericolosa. Non sarebbe stato facile liquidarli. Si nascondevano in un piccolo ap partamento del Giambellino, affittato da una prostituta croata. Solidarietà patriottica. Passai agli spagnoli. Sebastiàn Monrubia, Esteban Celiar e Maria Garcés. 39, 36,31 anni. Nomi di battaglia, Pepe, Javier e Francisca. Lei era un gran pezzo di fica, gli altri due avevano espressioni torve da militanti votati al sacrificio. Toglierli di mezzo non sarebbe stato un problema. La giustizia spagnola li braccava per una rapina finita male, una guardia civil defunta e un'altra ferita gravemente. Si erano rifugiati nella casa di un compagno italiano che frequentava un centro sociale e aveva il telefono sotto controllo. Rimisi a posto il fascicolo e mi accesi una sigaretta. "Domani contatterò entrambi i gruppi". "Come pensi di avvicinarli?". Mi aspettavo quella domanda. D'altronde era il momento più difficile dell'operazione. Il pretesto doveva essere convincente. Molto convincente. "Dirò loro che sono un informatore e che li ho individuati, ma dato che sono dei bravi ragazzi, invece di venderli agli sbirri gli propongo la partecipazione a una rapina facile e redditizia". Anedda si voltò a guardarmi. "Non ti è venuto in mente qualcosa di meno pericoloso? Non mi sembra gente che apprezza gli infami. Rischi di farti bucare la pancia". Alzai le spalle. "Difficile dargli a bere che un malavitoso li abbia scoperti. Meglio una mezza verità". Lo sbirro mi scaricò vicino alla stazione Cadorna. Passeggiai fino a quando non mi venne fame. Poi entrai in un ristorante. Suonai al campanello del rifugio dei croati alle otto del mattino. Preferivo affrontarli assonnati. Mi aprì la ragazza. Di cognome faceva Bazov, il nome era impronunciabile. Nell'ambiente si faceva chiamare Luana perché non c'è niente di peggio per una puttana che avere un nome complicato. Veniva da Vukovar. Profuga in patria, profuga in Italia, poi la strada. Aprì la porta con gli occhi socchiusi. "Cosa vuoi?" farfugliò. "Da te nulla. Voglio parlare con Cernì e il suo socio, Zaninovic". Impallidì e si svegliò del tutto. Scosse la testa in preda al panico. "Non conosco questi uomini" mentì. Le pizzicai un capezzolo con cattiveria. Un altro trucchetto che mi avevano
insegnato i due rumeni al locale. "Vai a chiamarli" ordinai. Luana, spaventata, mi sbattè la porta in faccia. Avrei potuto dare una spinta ed entrare nell'appartamento con la forza, ma non era escluso che i due fossero lì a origliare, armati e pronti a ogni evenienza. Avvertii la presenza di una persona che mi osservava dallo spioncino. Non mossi un muscolo. Fu Cernì in persona ad aprirmi. Una mano sulla maniglia, l'altra armata di una grossa automatica. "Ciao Romo" lo salutai. "Voglio parlarti". Allungò il capo per verificare che fossi solo. Poi tornò a fissarmi. Il croato era alto e robusto e aveva un volto inquietante. La boccuccia da signorina contrastava con il cranio rasato, i basettoni da skinhead e la pelle cascante del mento. Quando incrociai i suoi occhi azzurro pallido, da animale braccato, ebbi la certezza che non si sarebbe fatto ammazzare tanto facilmente per regalarci la sua fetta di torta. Con la testa mi fece cenno di entrare. Appena superai la soglia mi sbattè contro il muro per perquisirmi. Mi frugò con professionalità. In fondo era stato uno sbirro della polizia militare per buona parte della sua vita. Con la pistola mi indicò il corridoio. Entrammo in un'ampia cucina dove ci attendeva il suo socio armato di un fucile a pompa. Me lo puntò sul viso. Se avesse premuto il grilletto, la mia testa si sarebbe staccata dal corpo. Romo abbaiò un ordine e Tonci abbassò l'arma. Gli sorrisi. Era alto e magro, con i muscoli ben modellati da anni di palestra. Anche lui aveva la testa rasata e la faccia da carogna su cui spiccava un pizzetto biondo. Il classico esecutore. Mi indi carono una sedia. Il tavolo era ancora apparecchiato dalla sera prima. Piatti e posate per due. La ragazza doveva andare a battere prima di cena. Mi accesi una sigaretta. "Parla" ordinò Cerni in italiano con un tono da sbirro. Il mestiere gli era rimasto impresso nel Dna. "Lavoro per la polizia" spiegai. "Aiuto gli sbirri a dare la caccia ai latitanti. Per denaro. Non sono un patriota come voi. Vi ho scovato, ma anziché vendervi ho pensato di offrirvi un lavoro". Cerni tradusse per l'amico. Poi tornò a fissarmi. "Che tipo di lavoro?". "Una rapina a un furgone portavalori". "Non abbiamo mai fatto rapine". "Dovete solo stare su un tetto e abbattere due guardie" feci il gesto di imbracciare il fucile e sparare. "Sniper" aggiunsi. Parlottarono fra di loro. "Quanto denaro per ognuno di noi?". "Non meno di 200 milioni. Con quei soldi potete garantirvi una fuga decente". "Perché dovremmo fidarci di te?". "Perché siete nella merda fino al collo. Se siete costretti a nascondervi all'estero significa che i vostri amici in patria vi hanno scaricato. Siete stati giudicati
sacrificabili e l'unico modo di salvare il culo è trovare abbastanza quattrini per attraversare l'oceano e abbandonare l'Europa". "E se non accettiamo la proposta, magari perche non ci fidiamo? Gli informatori tradiscono tutti, senza distinzione". "Allora è meglio che vi troviate un altro rifugio perché qui arriverà presto la polizia". Romo ghignò. "Potremmo ucciderti adesso, così non potrai andare ad avvertire i tuoi amici poliziotti". Scossi la testa desolato. "Mi deludi. Ti facevo più furbo. Pensi davvero che sia venuto qui senza prendere le dovute precauzioni?". Si alzò. Prese una bottiglia di birra dal frigo. "Non mi piace dovermi fidare di un confidente". "Ma non hai alternative" tagliai corto in tono duro. "Non vi ho venduto perché siete due buoni tiratori e la rapina mi rende di più. Tutto qui". Parlarono ancora tra loro. Dei due, Tonci mi sembrava il più malleabile. Romo si grattò la barba ispida. "D'accordo, ci stiamo. Ma stai attento, italiano. Noi siamo vendicativi". Liquidai la minaccia con un gesto della mano e passai ai dettagli del colpo. Scoprii che possedevano un discreto arsenale, tra cui due fucili russi di precisione modello Dragunov, con caricatore da dieci colpi, e cannocchiali a raggi infrarossi. Ai ferri del mestiere ci si affeziona e non si abbandonano mai. Romo tradusse la domanda di Tonci su come sarebbe avvenuta la spartizione del bottino. I due non erano affatto stupidi. Avevano già individuato il momento più pericoloso per la loro incolumità. Risposi che non ci avevo ancora pensato e Romo mi avvertì che non avrebbero partecipato all'operazione senza conoscere tutti i dettagli. Dissi loro di non preoccuparsi e mi avviai verso la porta. Andai a bere un caffè per rilassarmi. Quei due mettevano i brividi. Fanatici pericolosi, professionisti della violenza e della crudeltà. Ripensando al colloquio, parola per parola, giunsi alla conclusione che avrebbero tentato di tenersi l'intero bottino. Non avevano nulla da perdere e potevano decidere di non lasciarsi alle spalle testimoni. Il momento della spartizione rischiava di trasformarsi in una sparatoria. Il mio piano prevedeva invece un'esecuzione. Decisi di andare a trovare gli spagnoli. Presi il tram. Preferivo sempre viaggiare con i mezzi pubblici, perché potevo controllare con più facilità se qualcuno mi stava seguendo. E poi mi piaceva guardare la città dal finestrino e osservare le strade e il traffico. A casa non c'era nessuno. Il loro ospite doveva essere al lavoro. Dato che erano le undici del mattino, pensai che fossero in giro per il quartiere a fare la spesa, sempre che non avessero deciso di
tenersi in esercizio rapinando una banca. Invece li trovai in un bar. Passando davanti alla vetrina li vidi intenti ad addentare cornetti e a bere cappuccini e frullati. Entrai, presi una sedia e mi sedetti al loro tavolo. I due uomini reagirono infilando le mani nelle tasche dei giubbotti alla ricerca del calcio rassicurante delle pistole. Li sfidai con lo sguardo. Lei si limitò a fissarmi. Era la donna il capo. Non c'erano dubbi. Appoggiai le mani sul tavolo per far capire che non avevo brutte intenzioni. "Pepe, Javier e Francisca. Piacere di fare la vostra conoscenza" dissi in tono amichevole, parlando in spagnolo e usando i loro nomi di battaglia. "Chi sei?" domandò lei. "Uno che sa tutto di voi". "Sei un compagno?" domandò Pepe. Ghignai. "Lo ero un tempo. Ora ho smesso di sognare e mi dedico a fare soldi". "Chi sei?" ripetè Francisca. "Parli spagnolo come un messicano". La osservai. Era veramente bella. Capelli e occhi neri. Viso ovale e perfetto. Tette grosse e gambe lunghe che spuntavano dalla minigonna. Le scarpe col tacco basso stonavano con la sua mise, ma la scelta doveva essere stata imposta dalla necessità di poter correre il più in fretta possibile. Peccato non fosse il mio tipo. Non solo era troppo giovane, ma doveva anche essere la solita rompicoglioni che non chinava mai la testa, tantomeno di fronte a un uomo. Ignorai le sue domande e ordinai al barista il terzo caffè della mattina. Accesi una sigaretta. Solo allora parlai. "Sono un informatore della polizia. Vi avrei venduto agli sbirri per denaro, ma per vostra fortuna ho bisogno di voi per un certo lavoretto". "Che lavoretto?" domandò la donna. "Una rapina. Un furgone. 200 milioni a testa". I tre si guardarono. I due uomini mi stavano puntando addosso le pistole attraverso la tasca del giubbotto. Avrebbero sparato volentieri ma si trovavano in un posto troppo affollato. "Non lavoriamo con i pezzi di merda" disse Francisca. Sorrisi e la fissai negli occhi. "Allora cominciate a correre" ribattei indicando la porta del bar. "Certo che il vostro amichetto italiano, la sua ragazza e gli altri del centro sociale passeranno un po' di guai". "Figlio di puttana" mi insultò Pepe. "Loro non sanno nulla di noi. Pensano che siamo tre compagni spagnoli in vacanza". "Lo so. Ma pensate che polizia e magistratura non ne approfitteranno per "criminalizzare quell'area di movimento", per regolare un po' di conticini con un centro sociale che rompe le palle tutto il tempo? Non è la prima volta che succede in Italia. Anzi, è la regola". Li guardai. Sapevo perfettamente che cosa stavano pensando. Altri avrebbero infilato la porta e non
avrebbero provato nessun rimorso se qualcuno fosse finito in galera. I compagni, no. Coerenza, senso di responsabilità e solidarietà militante. Osservai il loro smarrimento. Identico a quello che avevo letto sul volto di Gianni nella brasserie di Parigi. Avrebbero accettato. Non potevano portare nella tomba la vergogna di un tradimento. Buon per loro, sarebbero morti contenti. "Levati dai coglioni" ordinò la donna. "Dobbiamo parlare. Ci rivediamo qui domani alla stessa ora". Passeggiai fino all'ora di pranzo. Scelsi con cura un ristorante e telefonai a Ferruccio lo sbirro. Mi chiese dove mi trovavo. Una ventina di minuti dopo lo vidi entrare, impeccabile ed elegante come sempre. Il vino che avevo scelto non era di suo gradimento e lo fece cambiare senza chiedere il mio parere. Prepotenze da sbirro. "Hanno accettato?" domandò. Raccontai tutto nei minimi particolari, come facevo sempre con lui. Gli confidai anche i miei sospetti sulle intenzioni dei croati di farci fuori e tenersi il malloppo. "Una tentazione che potrebbe venire anche agli spagnoli" ragionò Anedda. "Così possono stendere due fascisti croati e un informatore della polizia". A questo non avevo pensato. Il ragionamento non faceva una grinza, ma conoscevo troppo a fondo l'ambiente degli idealisti di estrema sinistra per ritenerlo possibile. A ogni buon conto era consigliabile non dare nulla per scontato. "Quando divideremo il bottino tu dovrai essere lì, ben nascosto e pronto a saltare fuori al momento giusto e darmi una mano a farli secchi". "Sette sono troppi" commentò. "Cinque" puntualizzai. "Ciccio Formaggio e il suo informatore creperanno la sera prima". "Ci pensi tu?". "Sì". Si aggiustò il nodo della cravatta. "Cinque non sono pochi, ma si può fare. Piuttosto bisognerà trovare un casolare disabitato in campagna". "Questo è compito tuo. Il milanese sei tu". Per l'ennesima volta si guardò attorno con discrezione alla ricerca di qualche faccia conosciuta. Tranquillizzato, si alzò e se ne andò senza pagare la sua parte di conto. La vedova si era ubriacata. La trovai distesa bocconi sul divano. La stanza puzzava di fumo e di liquore. Spalancai una finestra. Preparai un caffè forte e riempii la vasca di acqua fredda. Quella stronza aveva bevuto apposta per evitarmi. La mattina dopo al bar si presentò solo Maria Garcés, alias Francisca. Portava i capelli raccolti e jeans che mettevano in evidenza culo e gambe. "Sola?". "Meglio uno in galera che tre". "Giusto. La prudenza non è mai troppa. Allora cosa avete deciso?". "Non possiamo permettere che degli innocenti paghino per noi. Il problema è che tu
non offri nessuna garanzia di sicurezza. Può trattarsi di una trappola, oppure dopo il colpo ci spari alla schiena o ci consegni alla polizia. E una volta partiti puoi denunciare i compagni italiani. Con i pezzi di merda come te non si può mai sapere". Le piaceva insultarmi. Era indignata e incazzata, soprattutto perché sapeva che li avevo incastrati. "Se hai finito con le stronzate potremmo passare a esaminare il piano". Spiegai l'operazio ne senza indicare il luogo e il giorno, così come avevo fatto con i croati. Quando mi chiese chi erano gli altri complici, parlai solo di Romo e Tonci. Appena la donna venne a sapere che erano ustascia, prese a sibilare insulti per alcuni minuti. La lasciai sfogare. Si calmò quando le dissi che dopo la spartizione del bottino avrebbero potuto scannarsi. Dalla sua espressione capii che anche loro avevano riflettuto e discusso su questa opportunità. Ferruccio aveva visto giusto. A parte quell'idiota di Ciccio Formaggio e del basista, tutti gli altri partecipanti al colpo pensavano di eliminare la concorrenza. Ma degli spagnoli non mi preoccupavo neanche un po'. Erano i croati a darmi pensiero. E Anedda. Lo sbirro era un'incognita. Lo ritenevo capace di tutto. Anche di riservarmi l'ultimo proiettile del caricatore una volta eliminati gli altri. Io non avevo nessuna intenzione di stenderlo. In futuro poteva essere ancora utile. Ma l'avrei tenuto d'occhio, e se solo avesse tentato di fregarmi l'avrei ripagato con la stessa moneta. "Voglio vedere il posto e il furgone quando preleva il denaro. Voglio verificare le vie di fuga" iniziò a elencare la spagnola distogliendomi dai miei pensieri. La bloccai con un gesto della mano. "Vi mo strerò una videocassetta. Non voglio latitanti che ronzano intorno al mio colpo. Rischiate di mandare tutto a puttane. L'operazione è tra dieci giorni". Il sabato avrei ripreso la scena con una telecamera e la settimana seguente saremmo scesi in campo. Mi fissò con odio. "Questa rapina puzza sempre più di trappola". "Invece puzza solo di soldi, ma tu sei troppo presa dal tuo ruolo di militante dura e pura per rendertene conto". Alzò la mano per schiaffeggiarmi. "Siamo in un bar" le ricordai in tono calmo. L'abbassò. "Prova a fotterci ed è l'ultima cazzata che fai". Sospirai. Era insopportabile. Spararle sarebbe stato un piacere. Abbozzai un sorriso. "Ci ritroviamo qui esattamente tra una settimana, alla stessa ora. E porta i tuoi amichetti. Vi farò conoscere il resto del gruppo". Ciccio Formaggio lo incontrai a pranzo. Iniziò a lagnarsi dopo aver letto i prezzi sul menù. "In che cazzo di posto mi hai portato. Qui ci pelano talmente che ce lo ricordiamo per un pezzo". Sbuffai. "Che
palle! Stai per riempirti le tasche di milioni e ti lamenti del conto del ristorante?". Gli tornò il buonumore. "Allora si fa?". "Sì. Mancano giusto alcuni dettagli operativi". "Cosa devo fare?". "Rubare due macchine. Che abbiano quattro porte e non siano dei catorci. Poi le porti in due garage a pagamento ben distanti tra loro e mi consegni le ricevute". "Tutto qua?". "Beh, no" risposi ammiccante. "Devi venire con il basista a prendere la vostra parte dei soldi e goderveli". "Dove ci incontreremo?". "Te lo dirò quando mi darai le ricevute". Mi sbrigai a imparare a usare la videocamera che avevo pagato un sacco di soldi. Mi servivano immagini nitide da mostrare al resto della banda. Quando arrivò il furgone a prelevare gli incassi della settimana, mi trovavo sul tetto della palazzina dove avrei piazzato i croati, pronto a girare un filmino da un miliardo e mezzo. Ero entrato con un passe-partout che mi aveva procurato Ciccio Formaggio la sera prima. Era già buio, ma il piazzale dell'ipermercato era illuminato a giorno. Come le altre volte, il mezzo blindato si fermò per un paio di minuti con il motore acceso. Le portiere si aprirono e le due guardie scesero con la mano sul calcio delle pistole. Grosse semiautomatiche, con un volume di fuoco complessivo di trenta colpi. Armi adatte per uno scontro a distanza ravvicina ta con un nemico visibile, ma non per difendersi dalle pallottole dei cecchini. Indossavano giubbotti antiproiettile, ma anche quelli servivano a poco contro i potenti calibri da guerra di Romo e Tonci. Le palle blindate avrebbero trapassato il corpetto da parte a parte come un coltello affondato nel burro. Gli sniper, comunque, avrebbero mirato alla testa. Le due guardie sarebbero crollate a terra abbattute come buoi al macello. Assaltare furgoni portavalori in Italia era remunerativo e per niente complicato. Bastava capire il punto debole del tragitto e ammazzare la maggioranza delle guardie. Si trattava solo di avere le palle di rischiare l'ergastolo. I due aprirono lo sportello d'acciaio e prelevarono i sacchi col denaro. Attraverso l'obiettivo seguii il mezzo fino a quando non scomparve dietro una curva. Per sicurezza riguardai il filmato. Perfetto. Avevo organizzato l'incontro in una bisca sui Navigli. La domenica mattina era deserta e il titolare, un malavitoso di mezza tacca che avevo conosciuto a San Vittore, me l'aveva affittata per qualche biglietto da centomila. Quando aprii la porta, venni investito da una zaffata di puzza di fumo, sudore e sfortuna. Spalancai tutte le finestre nell'inutile tentativo di cambiare aria. Arredamento essenziale, tavoli di plastica rotondi coperti da un panno
verde, sedie di legno vecchie e traballanti. Gli unici oggetti nuovi erano la televisione e il videoregistratore. Di fianco, a terra, una pila di cassette porno. Servivano a far passare il tempo ai clienti mentre aspettavano di giocare. Accesi una sigaretta e mi piazzai alla finestra per controllare la strada. Per primi arrivarono i croati. Guardinghi e con le mani ficcate in tasca, pronti a estrarre le pistole e sparare. Li attesi sulla porta e con le mani bene in vista li invitai a perlustrare l'appartamento. Per nulla tranquillizzati si sistemarono su un divanetto da dove potevano tenere d'occhio l'entrata. Gli spagnoli arrivarono con mezz'ora di ritardo. Pepe e Javier entrarono tenendo i revolver nascosti dietro la schiena e si piazzarono ai lati della porta. Solo allora entrò Francisca. Quel giorno era ancora più bella. Indossava un tailleur elegante, scarpe e borsetta assortite, calze nere velate. Non mi degnò di uno sguardo. Si fermò al centro della stanza a fissare i due croati. Romo e Tonci la guardarono a loro volta. Mi inquietò lo sguardo torbido di Cerni. La spagnola gli piaceva. Gli sarebbe piaciuto violentarla e poi assassinarla. In Centroamerica avevo avuto modo di farmi una discreta esperienza in fatto di soldataglia e sapevo di non sbagliarmi. Non me ne sbatteva un cazzo della fine che avrebbe fatto la spagnola, ma non volevo che il colpo andasse a monte per una scopata. Quando i croati si resero conto che gli accompagnatori della bella donna impugnavano le pistole, tirarono fuori le loro, appoggiandole sulle ginocchia. La tensione era palpabile. "Mettete via i ferri" dissi in tono fermo, "e concentratevi sul piano. Sabato prossimo faremo il colpo". Oscurai l'ambiente e azionai il pulsante del videoregistratore. Le immagini iniziarono a scorrere sullo schermo, catalizzando l'attenzione di tutti e smorzando la tensione. Mostrai il video senza interruzioni, poi lo riavvolsi e usai il fermo immagine per poter discutere i dettagli. La faccenda andò a rilento a causa di Tonci, che aveva bisogno della traduzione del socio, ma alla fine tutti erano convinti che il piano avrebbe funzionato. Su una cartina indicai la strada per arrivare all'ipermercato e la via di fuga. Croati e spagnoli dovevano usare le due macchine rubate da Ciccio Formaggio, e dopo l'assalto raggiungermi in una stazione di servizio sulla Varesina. Li avrei condotti in un casolare di campagna per la spartizione del bottino. Poi ognuno per la sua strada. Gli anarchici si alzarono e uscirono dalla stanza. Francisca si voltò a fissare Romo dritto negli occhi. Aveva letto nel pensiero dell'ustascia, e la sua risposta era in quell'occhiata di sfida. L'uo mo, per
nulla impressionato, si leccò le labbra in modo provocante. I due croati attesero dieci minuti prima di uscire senza salutare. Fumai una sigaretta. Tolsi la cassetta dal videoregistratore e la pestai sotto i piedi. Inutile conservare prove a carico. Misi i frammenti in un sacchetto di plastica, dove svuotai anche i portacenere pieni di cicche. Mi accertai che nella bisca non rimanesse traccia della nostra presenza, e me ne andai. Passeggiai nelle strade deserte fino al bar, dove mi attendeva il proprietario della bisca. Feci scivolare nella sua mano la chiave dell'appartamento e l'altra metà dei soldi che gli dovevo. Mi diressi verso il centro. Avevo bisogno di riflettere con calma. Scelsi un ristorante dove si cucinava pesce. Avevo appetito e ordinai un antipasto misto, caldo e freddo, linguine all'astice, fritto di seppie e calamari. Arrivò il sommelier. Con fare sussiegoso mi consigliò un bianco del Collio. Mentre ne decantava le lodi, sbirciai la carta e vidi che costava un intero biglietto da cinquantamila. Per quel prezzo doveva essere buono per forza. Con un cenno del capo mi dichiarai d'accordo con la sua scelta. Quando rimasi finalmente solo, fissai a lungo l'immagine del mio volto deformato dal sottopiat to d'argento. Poi mentalmente compilai la lista delle persone che dovevano morire. La vedova, Ciccio Formaggio, la guardia-basista, Romo, Tonci, Pepe, Javier e Francisca. Otto. Troppi se collegati tra loro. Ma questo non sarebbe accaduto, e i corpi degli stranieri non sarebbero mai stati ritrovati. Latitanti anche da morti. Dei primi tre avrei dovuto occuparmene personalmente. A metà antipasto avevo risolto il problema della vedova. Si sarebbe addormentata col solito sistema, Fernet e sonniferi. Poi, tirandola per le gambe, avrei fatto scivolare il suo corpo nell'acqua fino a coprirle la testa. I vicini, abituati alle sue lunghe assenze, non avrebbero sospettato di nulla e quando la puzza li avrebbe convinti a chiamare la polizia, tutti, medico legale compreso, avrebbero pensato a un incidente. La stampa si sarebbe ricordata di chi era stata la moglie e le avrebbe dedicato un trafiletto condito di ricordi e di pietà. L'avrei uccisa martedì mattina, tre giorni dopo il colpo, una volta calmate le acque. Poi mi sarei trasferito in Veneto per cambiare vita. Pensare alla vedova mi fece venire il cazzo duro e alcune ideuzze per divertirsi. Ma era meglio lasciar perdere. Trovando qualche segno dei miei giochetti, uno squartacadaveri sveglio poteva farsi venire delle strane idee. Gli altri due sarebbero morti la sera prima del colpo, il venerdì. Avrei chiesto a Ciccio di venire a consegnarmi le chiavi assieme al basista. Se avesse domandato il perché
di quell'incontro, gli avrei risposto che volevo vedere in faccia il suo socio prima della spartizione del denaro, per evitare brutte sorprese. Era una scusa del cazzo. Solo uno stupido come Ciccio Formaggio poteva crederci. L'avrebbe bevuta anche la guardia perché era un incensurato senza nessuna esperienza di malavita. E poi Ciccio avrebbe garantito. Succhiando le chele dell'astice pensai a come farli fuori. Bisogna sempre scegliere il sistema più facile, più veloce e più pulito. E in questo caso un colpo alla nuca era la soluzione migliore. Il proiettile devasta il cervello e la vittima non ha nemmeno tempo di dire addio al mondo. E la zozzura, sangue, frammenti ossei e materia cerebrale schizzano esattamente dal lato opposto al foro di entrata. Mi sarei seduto sul sedile posteriore della loro macchina e li avrei freddati. Prima il conducente. Poi quello a fianco. Con una pistola col silenziatore. Quando avevo giustiziato Luca in Centroamerica, la detonazione mi aveva assordato, rovinandomi in parte il senso di meraviglia e di potere che si prova nel togliere la vita a un uomo tirando il grilletto. Infine avrei spruzzato di benzina i cadaveri, e gli sbirri ci avrebbero impiegato del tempo per identificare i resti carbonizzati. E una volta scoperto che appartenevano a un ex terrorista pentito e a una guardia giurata, avrebbero immediatamente collegato il duplice omicidio alla rapina. Era quello che volevo. La pista non avrebbe condotto da nessuna parte e comunque Anedda, in qualità di funzionario della Digos, avrebbe partecipato alle indagini, depistandole se si fosse reso necessario. Per gli altri cinque, i croati e gli spagnoli, il discorso era diverso. Ammazzarli era un rischio. Calcolato, ma sempre un rischio. Bisognava sparare a gente che se l'aspettava ed era perfettamente in grado di rispondere al fuoco. Ma ne sarei uscito fuori. Vivo. Loro no. Non avrebbero più avuto la possibilità di assaggiare un fritto di seppie e calamari come quello che il cameriere mi aveva appena servito. Caldo caldo e così tenero che si scioglieva in bocca. Li avrei condotti al casolare. Anedda sarebbe saltato fuori dal suo nascondiglio innaffiandoli di piombo. Nel frattempo io avrei estratto la lupara facendo la mia parte. In realtà il momento migliore sarebbe stato più tardi, durante la divisione del bottino. Ma c'era il rischio che qualcuno di loro anticipasse la nostra iniziativa. E la possibilità che i soldi si rovinassero, macchiandosi di sangue o colpiti da una scarica di pallettoni. I corpi li avremmo seppelliti e i loro nomi e i loro volti sarebbero rimasti per un'altra ventina
d'anni solo sugli elenchi dei latitanti. Terminai con una fetta di pastiera napoletana. Si rifece vivo il sommelier per propormi un passito siciliano da accompagnare al dessert. Per evitare una lezioncina sui vini dolci gli dissi subito che era uno dei miei vini preferiti. Era arrivato il momento di pensare ai tempi. Ogni operazione militare deve funzionare come un orologio svizzero. E un assalto a un furgone blindato con un contorno di una decina di morti lo era a tutti gli effetti. Ricapitolai ogni fase del colpo e quando pagai il conto mi sentivo diverso. Ricco e vincente. Ecco come mi sentivo.
Luana
Lunedì ore 14 Anedda era nervoso. Aveva fretta. Lo stavano aspettando in questura per organizzare un'irruzione in un covo di terroristi algerini. Un gruppo di fanatici, abituati a sgozzare donne e bambini. Come sempre, guidava guardandosi le spalle. "E allora?". Lo misi al corrente della situazione. "Mi pare che tutto proceda bene" commentò
soddisfatto.
"Mi serve una pistola con il silenziatore". "Per chi?". "Ciccio Formaggio e il basista". "I corpi?". "Flambée". "E la vedova?". Quello sbirro di merda sapeva dove abitavo. Un modo per avvertirmi di non tentare di fregarlo. Incassai il colpo senza muovere un muscolo. "Morte naturale. Dramma della solitudine". Ridacchiò divertito. "Ho trovato un casolare abbandonato in aperta campagna che fa al caso nostro" disse ridiventando serio. "Nessuno sentirà gli spari e non sarà necessario scavare fosse. C'è una vecchia cisterna dove sistemare i corpi. Andremo a vederla dopodomani. Porterò anche le armi". Accostò al marciapiede. Non avevamo più nulla da dirci.
Mercoledì ore 11 Un bel sole caldo. Un ottobre così non si vedeva da tempo. Il tetto delle stalle e del granaio della vecchia fattoria abbandonata era crollato da un pezzo. La casa invece era ancora solida. Porte e finestre di-
velte e muri pieni di scritte. Segni di bivacchi e un materasso sventrato. Anedda scaricò dalla macchina un borsone e mi fece strada fino alla cucina. Una stanza ampia, con un grande camino annerito dal
fumo e dal tempo e un lavabo di pietra consunta. In mezzo un vecchio tavolo di legno. "Quello ce l'ho messo io. L'ho trovato al piano di sopra". Poi iniziò a spiegare il suo piano: "Quando arriverete sarà buio pesto. Scendi dalla macchina, con la torcia elettrica illumini la porta e il corridoio e li porti qui, accendi la lampada da campeggio e dici agli spagnoli di mettere i sacchi sul tavolo. Io sarò nascosto dietro la finestra. Appena i soldi sono sul tavolo, comincerò a sparare". Osservai l'ambiente. "Mi troverò proprio in mezzo al traffico di pallottole". "No" rispose lo sbirro. "Ma dovrai avere la prontezza di ripararti dietro al lato sinistro del camino. Sarai al coperto e potrai sparare con tranquillità". La vecchia struttura di pietra era profonda più di un metro e alta un po' meno di un metro e mezzo. Meglio di niente. Notai che nell'angolo con il muro c'era una mensola. Un ottimo nascondiglio per la lupara, che mi aveva salvato dagli albanesi a Mestre. Tolsi gli stracci che l'avvolgevano, controllai che fosse carica e l'appoggiai sul ripiano. Era l'arma giusta da usare al chiuso. Impossibile mancare il bersaglio a distanza ravvicinata. "Ti servono munizioni?". Scossi la testa. "Non avrò tempo di ricaricare". Anedda aprì la borsa di tela. Tirò fuori un fucile a pompa con il calcio pieghevole, due pistole a tamburo di grosso calibro e una semiautomatica calibro .22 silenziata. Tipica arma da esecuzione. Un tempo era snobbata dai killer per lo scarso potere d'arresto del calibro, poi la mafia americana aveva iniziato a usarla con successo ed era diventata di moda. La presi in mano per controllarla. Il caricatore era pieno di proiettili blindati. "Che provenienza hanno?". "Souvenir di perquisizioni" rispose divertito. "La sana abitudine di noi sbirri di tenerci un ricordino. I terroristi ne avevano sempre in sovrabbondanza". Mi passò uno dei revolver. Un .357 magnum di fabbricazione spagnola. "Mettilo a fianco alla lupara. Potrebbe servirti". Coprii le armi con uno straccio e guardai di nuovo la stanza, memorizzandone i particolari. Poi seguii lo sbirro, nel retro della casa. Spostò un vecchio coperchio di ferro bucato dalla ruggine.
Guardai giù. Sul fondo della cisterna di cemento c'erano solo due dita d'acqua piovana. Quella tomba enorme avrebbe nascosto i corpi di cinque nostri complici. "Li metteremo qui". "Non possiamo" obiettai, "nel giro di quattro o cinque giorni la puzza della decomposizione appesterà la zona. I campi intorno sono tutti coltivati". "Butteremo sopra il coperchio qualche tavola di legno e la copriremo di terra. Riposeranno in pace per un bel pezzo".
Mercoledì ore 19 "Il bello di questa città è l'ora dell'aperitivo" commentò Ciccio Formaggio entrando nel bar. "I banconi sono pieni di ogni ben di Dio e puoi tranquillamente saltare la cena". "Hai procurato le macchine?" domandai dirigendomi verso un tavolino appartato. "Sì. Una Escort station wagon e una Renault 21. Modelli che non danno nell'occhio". "Non saranno dei catorci, spero". "No" rispose sicuro. "Le ho provate e filano che è un piacere. Comunque, per precauzione, ho cambiato olio, filtri e candele, controllato le gomme e fatto il pieno". "Ma che bravo!" mi complimentai sorridendo. "Sono un professionista" ribattè l'idiota gongolando. "Quando le porterai ai garage?". "Venerdì in tarda mattinata. Gli sbirri spesso fanno dei controlli a caccia di macchine rubate.
Ormai il trucco lo conoscono anche loro". Il cameriere ci portò due Negroni e un piatto pieno di stuzzichini. "Tu non ne vuoi?" domandò Ciccio con stupore, riempiendosi subito la bocca di arachidi. Non risposi. Era davvero uno stupido ingordo. Ripresi a parlare del colpo. Gli dissi il nome di un bar di Porta Romana, dove mi avrebbe consegnato le ricevute dei garage. "Vieni anche
col basista. Voglio vederlo in faccia prima di ritrovarmelo davanti per la spartizione del malloppo". L'ex terrorista si mosse a disagio sulla sedia. "Ecco, proprio di questo volevo parlarti. La guardia che mi ha dato la dritta del colpo non vuole farsi vedere da nessuno. Nemmeno per prendersi la sua parte. Vuole che sia io a portargliela". Ridacchiai. "Il tuo amico vuole fare il furbetto. Se la polizia lo sospetta e lo torchia può sempre dire di avertene parlato e tu, pregiudicato, hai approfittato della sua buona fede, organizzando la rapina. La sua parola contro la tua. Tu finirai in galera e lui si godrà il denaro, che nel frattempo avrà infrattato per bene". Ciccio Formaggio mi fissò. Era visibilmente tormentato dal dubbio. "Pensi che voglia fottermi? Perché sai, ci metto un secondo a piantargli una lama in pancia" si bilò in tono bellicoso. Gli poggiai una mano sul braccio. Come un vero amico. "Non potrà fregare nessuno se ci incontra tutti. Se lo conosciamo possiamo sempre vendicarci, magari confessando il suo ruolo nella faccenda". L'ex terrorista non era ancora convinto. A malincuore fui costretto a rivelargli parte del piano: "Dovremo tirare giù dalle spese due suoi colleghi. L'istituto di vigilanza verrà rivoltato come un calzino. Capisci bene che dobbiamo tenerlo per le palle per impedire che gli cedano i nervi". Ciccio annuì. "Minchia, due morti ammazzati" commentò sottovoce. "Vedrai che te lo porto all'appuntamento. Stai tranquillo".
Venerdì ore 19,30 Il basista era un ragazzone che non arrivava ai trent'anni e, come sospettavo, non aveva più cervello di Ciccio Formaggio. Aveva creduto di aver diritto a un po' della ricchezza che difendeva ogni giorno per uno stipendio da fame. Si era spinto ai confini del territorio della malavita perché sapeva che l'onestà gli avrebbe garantito al massimo una pensione striminzita. Ma ora si sarebbe voluto tirare indietro. Era finito il tempo delle chiacchiere e delle confidenze da bar, dove sembra facile afferrare la vita per il collo. Ora si faceva sul serio e i soldi avevano un colore leggermente diverso. Potevano comprare le macchine e le donne che non si era mai potuto permettere, ma potevano portare dritto in galera. E le guardie, anche se avevano saltato il fosso, non erano mai ben viste. Avevo letto tutto questo nei suoi occhi. Eliminarlo era diventata una necessità. Di fronte al primo sbirro che gli avesse rivolto la più semplice delle domande, avrebbe vuotato il sacco. Un altro perdente. Feci il simpatico. Distribuii strizzatine d'occhio e pacche sulle spalle. Il
basista si chiamava Ausonio. Probabilmente quella sera avrei ammazzato l'ultimo uomo che portava quel nome. Offrii da bere. Solo un giro. Avevo fretta di concludere perché avevo voglia di ucciderli. Sentivo il peso della pistola in una tasca del giubbotto. Nell'altra tenevo il silenziatore. Avevo trascorso il pomeriggio ad allenarmi per avvitarlo velocemente. Il tempo di contare fino a cinque e sarei stato pronto ad aprire il fuoco. La guardia giurata si sbottonò la giacca di cuoio di poco prezzo. Un rigonfiamento del maglione mi fece capire che portava una pistola infilata nella cintura. Non avrebbe fatto in tempo nemmeno a pensare di poterla usare. "Ecco le chiavi e le ricevute dei garage" disse Ciccio, passandomi una busta di carta. "Siete venuti in macchina?" domandai in tono discorsivo. "Con la sua" rispose Ciccio indicando il socio con il pollice. "Perfetto" dissi. "Vi porto a vedere il posto dove ci incontreremo per dividere il malloppo". "E' proprio necessario che io venga?" balbettò timidamente Ausonio. Allargai le braccia. "Nessuno ti obbliga. Ma in questo modo il colpo salta e i miei soci si incazzeranno con te. Penseranno che ci hai fatto perdere tempo e denaro e vorranno darti una lezione". Il ragazzone impallidì e chinò la testa sul petto. Aveva un inizio di calvizie e della forfora mai combattuta con decisione. "Io non sono del giro e certe cose non le so". "E' vero. Bisogna avere un po' di pazienza con lui. Non è dei nostri" intervenne in sua difesa Ciccio. "Adesso conosce le regole" tagliai corto. "Va bene. Andrò fino in fondo " sbottò la guardia. Mi alzai. "Seguitemi". Montai sulla mia Panda e loro sulla Tipo di Ausonio. Li condussi in campagna, dalle parti di Cu sago. Imboccai una strada sterrata e accostai a una cinquantina di metri da un casolare abbandonato. Mi infilai un paio di guanti di pelle. Scesi e salii sulla loro macchina. Mi sedetti al centro del sedile posteriore. "Quello è il posto" dissi mentre tiravo fuori dalle tasche pistola e silenziatore. "Domani arriverete qui non prima delle undici di sera. Segnalerete la vostra presenza accendendo e spegnendo gli abbaglianti per tre volte". I due, concentrati sulle mie parole, guardavano verso il casolare. Tolsi la sicura, distesi il braccio e sparai nella nuca di Ausonio la guardia. Uno schizzo di sangue raggiunse il parabrezza. Spostai l'arma sulla nuca di Ciccio Formaggio il tonto. Tirai il grilletto. Altro schizzo sul parabrezza. Il silenziatore aveva soffocato efficacemente le detonazioni. I bossoli, espulsi dall'estrattore, avevano cozzato tintinnando contro il finestrino alla mia destra. L'abitacolo si era riempito di puzza di cordite e del
silenzio improvviso della morte. Dovevo raccogliere i bossoli per non lasciare tracce e conservare la pistola. Dovevo anche prendere la semiautomatica della guardia, la tanica di benzina dalla mia macchina, appiccare il fuoco e filarmela alla svelta. Non avevo tempo da perdere. Ogni istante trascorso senza motivo sul luogo del delitto è pura follia. Ne ero co sciente, eppure con calma presi dalla tasca dei pantaloni sigarette e accendino. E fumai. Un'intera sigaretta. Allungai il braccio e accesi la luce interna. Presi i loro portafogli e frugai nelle loro vite. Documenti, tessere, fotografie. Ausonio sorrideva in mezzo a due signori anziani. Mamma e papà. La strappai con un gesto secco. Dieci minuti dopo accesi la seconda sigaretta. Un paio di boccate e poi la buttai nell'abitacolo saturo di benzina.
Sabato ore 11,30 Gli spagnoli erano sempre in ritardo. Entrarono nel bar con le mani ficcate in tasca. Pepe andò al bancone e ordinò una spremuta. Javier si diresse verso il mio tavolino. Gli consegnai la chiave della macchina e la ricevuta per ritirarla. Se ne andò in silenzio. Il suo compagno pagò la consumazione e uscendo si limitò a rivolgermi un'occhiata distratta.
Sabato ore 14 Altro bar, altro quartiere. Romo Dujc, detto Cerni, stava bevendo una bibita analcolica. Mai alcolici prima di appoggiare l'occhio a un cannocchiale di precisione e tirare il grilletto. Tonci Zaninovic, il suo socio, sedeva a un altro tavolo, gli occhi puntati sulla strada. Buttai sul tavolino la busta. "Chiave e ricevuta". Il croato annuì. Quel giorno nessuno aveva voglia di parlare.
Sabato ore 20,32 Dopo la rapina riuscii a ricostruire i fatti tramite i giornali e le interviste ai testimoni mandate in
onda dalle emittenti lombarde e nazionali. Il furgone blindato arrivò puntuale alle otto e mezzo di sera. Per due minuti la scorta aveva controllato la zona circostante. Poi l'autista e un'altra guardia giurata erano scesi dal mezzo, avevano aperto lo sportello d'acciaio e preso i sacchi col denaro; in quel momento erano stati abbattuti da diversi proiettili. Gianni Casiraghi, l'autista, 41 anni, separato con due figlie, era stato centrato in pieno volto e alla gola. Walter Salemme, 29 anni, coniugato, un bambino di 4 mesi, alla tempia. Era già morto prima di crollare a terra. Da una fila del parcheggio una Renault 21 era partita sgommando verso i sacchi abbandonati sull'asfalto. I testimoni erano certi che alla guida ci fosse una donna. Nel frattempo i cecchini avevano continuato a sparare qualche colpo sulla feritoia posteriore del furgone per impedire che l'altro vigilante potesse aprire il fuoco. Ma fu perfettamente inutile. Antonio Donati, 33 anni, co-
niugato senza figli, alla vista dei suoi colleghi fulminati con micidiale precisione, si era disteso sul pavimento del mezzo, pregando e singhiozzando. Il terrore gli aveva addirittura impedito di afferrare il microfono della radio e dare l'allarme alla centrale dell'istituto di vigilanza. Dalla Renault erano scesi due uomini. Uno aveva raccolto i quattro sacchi, l'altro l'aveva coperto impugnando due pistole. I giornali si erano sbizzarriti proponendo ai lettori piantine del luogo elaborate al computer e tesi poco credibili. L'unica supposizione esatta si riferiva alla presenza di un basista
nella banda. I cadaveri di Ciccio e Ausonio erano stati già ritrovati, ma automobile e corpi erano carbonizzati a tal punto che ci sarebbe voluto del tempo per risalire alla loro identità. La notizia della rapina conquistò la prima pagina per diversi giorni, non solo per i due morti, i funerali con prelati di rango e il lutto cittadino, ma anche per l'entità del bottino: un miliardo e settecentoquaranta milioni. Diversamente dal solito, gli inquirenti avevano rilasciato solo dichiarazioni vaghe e di scarso interesse. La dinamica della rapina e il ritrovamento sul tetto di una ventina di bossoli di fabbricazione russa li aveva immediatamente indirizzati sulla pista di una pericolosa banda straniera. Un'indagine difficile, dove ogni elemento poteva risultare utile solo se non veniva reso pubblico.
Sabato ore 21,15 La stazione di servizio aveva chiuso alle 19,30. Avevo parcheggiato la Panda dietro il tunnel dell'autolavaggio per evitare di essere visto dalla provinciale. La mia presenza avrebbe potuto stuzzicare la curiosità di qualche pattuglia in transito. Arrivò la Tipo dei croati, tallonata dalla Renault degli spagnoli. Girai la chiave nel quadro e li guidai fino al casolare. Ero contento. Contento ed eccitato all'idea di diventare ricco. L'ultima fatica sarebbe stata quella di infilare i cadaveri dei miei complici nella vecchia cisterna.
Sabato ore 22,40 Per evitare i posti di blocco fummo costretti a percorrere strade secondarie, spesso sterrate. Parcheggiai la macchina, accesi una potente torcia elettrica e feci segno agli altri di seguirmi. Il casolare abbandonato era immerso nel buio. Per un attimo nessuno si mosse. Il posto sembrava fatto apposta per un tranello. Poi tutti infilarono le mani in tasca e il contatto con il calcio delle pistole li convinse a entrare in casa. In cucina accesi la lampada da campeggio, e mentre dicevo agli spagnoli di mettere i soldi sul tavolo, iniziai a spostarmi verso il mio nascondiglio, l'angolo del caminetto. Anedda iniziò a sparare troppo presto e mandò tutto a puttane. Fulminò Pepe colpendolo al petto e con un'altra scarica di pallettoni squarciò il fianco di Javier. Ma Francisca e i croati non erano ancora entrati nella stanza. Arretrarono lungo il corridoio portandosi fuori tiro. Impugnai la
doppietta a canne mozze e mi sporsi lentamente dalla porta, pronto a fare fuoco. Ma venni accolto da un tiro incrociato e dovetti mettermi al sicuro. Javier cominciò a lamentarsi debolmente. Presi la pistola e lo finii. "Hai combinato un casino" sibilai furioso ad Anedda, che era entrato dalla finestra. "Abbiamo i soldi" ribattè indicando i sacchi sul tavolo. "Andiamo fuori a finire il lavoro" aggiunse spegnendo la lampada. E invece rimanemmo inchiodati nella stanza. I croati avevano preso dalla macchina i fucili con i cannocchiali a raggi infrarossi e protetti dal buio ci tenevano sotto tiro, mentre noi non potevamo vederli. "Ci hanno fottuto". "Trattiamo" consigliò lo sbirro. "E' inutile spararci addosso" gridai. "Vi diamo metà dei soldi e ognuno se ne va per la sua strada". "Tutti i soldi" gridò a sua volta il croato. "Non siete nella condizione di trattare". "Possiamo resistere fino all'alba e allora i vostri cannocchiali potrete schiaffarveli nel culo". Non rispose. Evidentemente stavano valutando la situazione. "E la spagnola?" domandò Anedda. Già. Francisca. "Non ne ho idea" risposi. "O l'hanno stesa gli ustascia o è nascosta nei paraggi". "Che facciamo?". "L'unica cosa è stare al coperto. Tu controlli la porta, io la finestra". Venimmo interrotti dalla voce di Romo: "D'accordo. Buttate fuori due sacchi e noi ce ne andiamo". "Furbo l'amico" commentò acido Ferruccio. "Se continui a dire cazzate ci facciamo un sonnellino fino a domani mattina" urlai. "I soldi in cambio dei fucili con i cannocchiali. E niente discussioni inutili". "Va bene". Trascorse un'altra decina di minuti prima di trovare un accordo sulla dinamica dello scambio. Alla fine i due sacchi e i due Dragunov giacevano sullo spiazzo di fronte alla casa. Solo a quel punto riaccesi la torcia elettrica. Con il fascio di luce spazzai il buio fino a quando vidi Romo e Tonci al riparo dietro una macchina. Ma non erano so li. Cerni teneva Francisca per i capelli, puntandole un coltello alla gola. Il socio impugnava una pistola e ci teneva sotto tiro. Ricambiato da Anedda, che non lo perdeva d'occhio attraverso il mirino del fucile a pompa. Il croato ghignò. "Voi andate. Noi rimaniamo qui a divertirci con la puttana anarchica". Francisca con uno scatto della testa tentò di autosgozzarsi. Non ci riuscì. Fu sfortunata. Romo le sbattè la testa sulla macchina e lei scivolò a terra svenuta. I due ustascia avrebbero trovato il modo di farla rinvenire. "Cosa facciamo?" domandai sottovoce a Ferruccio. Alzò le spalle. "La spagnola deve morire comunque. Mentre loro se la spassano noi troveremo il modo di fotterli. Quei
due sacchi sono nostri". "Hai già un piano?". "No. Ma ho un'idea: andiamo a fare due chiacchiere con Luana". "Perfetto. Quella di sicuro conosce le mosse future di quegli stronzi". "E allora?" ci pungolò l'ustascia. "Va bene, ce ne andiamo" dissi a voce alta. "Ma non possiamo permetterci di lasciare cadaveri in giro. Prima di andarvene dovrete nascondere i corpi nella cisterna che si trova sul retro della casa". "Nessun problema" disse Cerni. "Adesso allontanatevi dalle macchine" ordinai. Mentre lo sbirro mi copriva le spalle, montai sulla Panda e con una fulminea retromarcia gli arrivai accanto per farlo salire, poi ingranai la prima e schiacciai a fondo il pedale dell'acceleratore.
Domenica ore 1,25 Luana batteva in via Novara, dalle parti di San Siro, ma quella notte nessuno l'aveva vista. "E' a casa" suggerii per l'ennesima volta. Anche se eravamo sulla macchina di Anedda, che poteva esibire il suo tesserino di funzionario della Digos, non mi sentivo a mio agio a circolare armato fino ai denti e con due sacchi pieni di denaro rapinato nel bagagliaio. Lui invece se ne sbatteva. Si sentiva intoccabile. Guidava piano, scrutando il marciapiede affollato di puttane provenienti dall'est. Quella era la loro zona. "Sicuramente è a casa ad aspettare gli altri due" ripetei ancora una volta. "D'accordo, andiamo a vedere. Ma avrei preferito prelevarla in strada". Venti minuti dopo stavo appoggiando l'indice sul campanello della porta del suo appartamento. Lo sbirro mi bloccò con un cenno della mano. Arretrò di un passo e tirò un calcio alla serratura. La porta di pessima qualità cedette con un rumore di legno spezzato. Entrò tenendo la pistola con le due mani in posizione di tiro. Lo seguii estraendo a mia volta il revolver. Luana Bazov, profuga di Vukovar, era in camera da letto e stava facendo le valige. Quando ci vide il suo volto divenne una maschera di terrore. "Falle male" ordinò il mio socio. Non mi feci pregare. Fingendo di colpirla al volto la costrinsi a proteggersi allungando le braccia verso di me. Le afferrai il dito di una mano e con una torsione veloce del polso glielo spezzai. Rimase senza respiro. Con una spinta la buttai sul letto. Ferruccio le piantò la pistola sul seno sinistro, all'altezza del cuore. "Puttana viva o puttana morta. A che gioco vuoi giocare?". "Puttana viva" piagnucolò la ragazza. "Vogliamo Romo e Tonci". "Non so dove si trovano" rispose disperata. "Puttana morta" ringhiò lo sbirro alzando il cane della pistola.
Aveva paura più dei suoi connazionali che della nostra minaccia di morte. Gli ustascia e i loro amici avrebbero potuto far del male ai suoi familiari. Mi chinai su di lei. "Se ci aiuti a trovarli li ammazziamo. Non li vedrai più e nessuno potrà collegarti alla loro morte". "Verità che voi uccidete quel porco di Romo?". Avevo visto giusto. Le rifilai un sorrisetto complice: "Sì". Luana riprese colore, si mise seduta e ci raccontò che doveva attenderli in un altro appartamento, affittato qualche giorno prima. Serviva a nasconderli fino a quando non si sarebbero calmate le acque. Poi un treno fino a Genova e una nave diretta in Paraguay. Cerni aveva deciso che lei era la sua donna e che avrebbe dovuto seguirlo ovunque lui andasse, ma lei lo odiava. Ci diede l'indirizzo, le chiavi e ci spiegò il segnale per farsi riconoscere. Un trillo di campanello corto e due lunghi. "Sparisci da Milano" le intimò Anedda. "Se ti incontro di nuovo sei morta". Indicai la donna. "Ci lasciamo un testimone alle spalle?". Guardò Luana. "L'ultima cosa che le conviene fare è parlare di questa faccenda". "Potrebbe avvertire i due croati". Scosse la testa. "Non lo farà". Alzai le spalle. "A me pare un rischio inutile. Comunque il capo sei tu". Uscendo dalla stanza mi voltai verso la battona: "Visto che sei ancora viva, metti del ghiaccio sul dito e vai al pronto soccorso". Scoppiò a piangere per il sollievo di essere sta ta risparmiata dal destino. Ferruccio lo sbirro sorrise soddisfatto per il suo grande gesto. Una vera stronzata, in realtà. Non bisogna mai fidarsi delle puttane. Ma non osai contraddirlo. Fiato sprecato. Non avrebbe cambiato idea. "Sbrighiamoci" disse Ferruccio una volta saliti in macchina. "Dobbiamo arrivare prima di loro". "Come pensi di stenderli nell'appartamento? Non possiamo permetterci il lusso di una sparatoria in un condominio". "Hai la pistola col silenziatore?". "E' a casa della vedova. Non mi doveva servire oggi". "Allora ci dovremo arrangiare". Parcheggiammo lontano e ci avvicinammo con circospezione, controllando le macchine ferme ai lati della strada. Non vedemmo né la Renault, né la Tipo. Suonai il campanello rispettando il segnale. Un minuto dopo entrammo nell'appartamento con le pistole spianate. Vuoto. A parte le valige degli ustascia. Le frugammo in fretta. Vestiti, tre pistole e qualche scatola di munizioni. Anedda ne indicò una che conteneva lo stesso tipo di proiettili usati per assassinare le guardie giurate. "Quando le troverò, perquisendo l'appartamento con i miei uomini, potrò affermare con assoluta certezza che i due cadaveri appar tengono ai cecchini. La mia carriera ne trarrà un discreto
giovamento" ridacchiò strofinandosi le mani. Lo guardai ammirato. "Hai un bel fegato. E come farai a "scoprire" il covo?". "La classica soffiata di un informatore". "Già. Con quella voi sbirri giustificate sempre tutto". "Non lamentarti della categoria. Piuttosto pensa che in questo modo l'indagine imboccherà definitivamente la pista ustascia e noi non correremo nessun pericolo". Guardò l'orologio. "I nostri amici avranno terminato di spupazzarsi la spagnola e saranno qui a momenti. Prepariamoci ad accoglierli". In cucina rovesciò il tavolo di legno e ne staccò una gamba. "Useremo il sistema Rwanda. Rapido, silenzioso e letale". Venti minuti più tardi il campanello trillò tre volte. Aprii il portone. Romo entrò per primo, seguito da Tonci. Avevano le mani occupate dalla custodia dei fucili e dai sacchi coi soldi. Le canne delle nostre pistole si materializzarono sulle loro nuche. "In ginocchio e mani intrecciate dietro la testa" ordinò Anedda. Romo obbedì e il suo amico non ebbe bisogno della traduzione. Non lasciai loro il tempo di ri flettere. Misi via la pistola, impugnai la gamba del tavolo e l'abbattei con tutte le mie forze sul cranio di Cerni. Alzai di nuovo il legno sopra la testa e colpii Tonci Zaninovic. Arretrai di un passo per contemplare la scena: due corpi a terra, crani sfondati, schizzi di sangue sul muro, sulle mie scarpe e sui pantaloni di Anedda. Lo sbirro si chinò a tastare la carotide. "Sono ancora vivi". Masticai tra i denti una bestemmia. Andai a frugare nelle valige. Tornai con la cinta di un accappatoio e i pantaloni di un pigiama. "Occupati dell'altro" dissi, avvolgendo la gamba del pigiama al collo di Romo. Non bisogna mai avere troppa fretta di abbandonare il luogo del delitto. Si rischia di tralasciare quel particolare che può indirizzare le indagini nel verso giusto. Io e Anedda ci cambiammo scarpe e pantaloni pescando nel guardaroba dei defunti. I nostri indumenti, insieme alla cinta, al pigiama e alla gamba del tavolo, finirono in un sacco della spazzatura che avremmo poi gettato in un'altra zona della città. Lo sbirro cominciò a cercare tracce. Non certo da repertare. Avevamo sempre usato i guanti e non dovevamo preoccuparci delle impronte digitali. Ma le suole delle nostre scarpe risultavano ben nitide sul pavimento. Cercai un secchio e uno straccio e risolsi il problema. Alla fine ce ne andammo soddisfatti. Anedda sarebbe ritornato la sera dopo, indossando un giubbotto blu con la scritta "Polizia" sulla schiena. Non sapevo ancora se fidarmi di lui. Adesso eravamo rimasti solo noi due a dividerci il bottino. Poteva sempre venirgli la voglia di tenersi tutto. Quando salimmo in macchina,
infilai la mano in tasca cercando il calcio della pistola. Notò il gesto, ma fece finta di nulla. "Quando hai intenzione di ammazzare la vedova?" domandò. "Martedì, prima di lasciare Milano". "Potrebbe essere troppo presto. Domani rientro in servizio e vedrò che aria tira. Aspetta una mia telefonata prima di agire". "D'accordo". "I soldi tienili tu. Divideremo prima che tu parta. Appena hai sistemato la tua ospite". Deglutii per la sorpresa. "Stai scherzando?". "No. Di te mi posso fidare perché non ti sogneresti mai di fottermi. Non te lo puoi permettere". Aveva ragione. Mi avrebbe ritrovato dovunque. "Conta e dividi a metà" aggiunse. "Butta via i sacchi e metti le banconote in borse da viaggio". L'appartamento della vedova era immerso nel silenzio. Come sempre. Quando la televisione non era accesa, sembrava che non ci fosse nessuno. Il telefono non suonava mai, e raramente il cellulare. Chiamate di vecchi clienti preoccupati di non averla incontrata in qualche albergo. La solitudine di quella donna era agghiacciante, e la solitudine era l'unico lato dell'esistenza che mi faceva paura. Quando sei solo e privo di mezzi, diventi preda di qualcun altro. Come avevo fatto io con lei. Ma questo a me non sarebbe successo, perché mi sarei organizzato la vita diversamente, e non mi sarei mai trovato nella sua stessa situazione a una certa età. Quella stupida donna non aveva saputo guardare lontano e aveva giocato male le sue carte, recitando per troppo tempo il ruolo della vedova del grande boss. Ma la gente dimentica in fretta e lei era caduta sempre più in basso, fino a quando non mi aveva incontrato, sprofondando per sempre negli abissi della sconfitta. Le mancava solo una morte violenta e ingiusta e a quello avrei provveduto ben presto. Andai nella mia camera e buttai sul letto i sacchi col bottino, pistola e lupara. Avvertii una presenza alle mie spalle. Mi girai lentamente e mi ritrovai a fissare negli occhi la padrona di casa. Indossava un tailleur nero, calze velate, scarpe di vernice col tacco alto. I capelli erano raccolti in un sobrio chignon ed era truccata alla perfezione. Per la pri ma volta sembrava una vera signora e non una vecchia bagascia. "Stai uscendo?" domandai. Scosse la testa e indicò i sacchi. "Ho visto la televisione. Avevo capito fin dall'inizio che stavi preparando un colpo e che io non ero altro che un testimone scomodo". Si aggiustò i polsini della camicia di seta. "Un tempo ero una donna elegante, e voglio morire elegante". Continuai a fissarla senza dir nulla. Il mio silenzio confermava i suoi sospetti, ma non aveva senso rassicurarla. Se non era fuggita significava solo che le stava bene
andare all'altro mondo, e anche che fossi io a ucciderla. "Non preoccuparti, non accadrà stasera". La vedova annuì. Si sedette sul bordo del letto accavallando le gambe e accese una sigaretta. Passò lentamente la mano sui sacchi. "Quando il mio uomo era vivo faceva contare a me i soldi delle rapine. Voleva che mi dipingessi le unghie con uno smalto rosso scuro di Chanel, si sedeva su una poltrona e mi guardava mentre maneggiavo le mazzette di banconote. Alla fine facevamo l'amore. E mentre era dentro di me mi annusava le mani, che profumavano di soldi. Poi è diventato importante e ad assaltare le banche ci mandava gli altri. Allargò il giro di affari, droga, bische, riciclaggio e da quel momento cominciò ad avere al tre donne. Passeggiavo per Milano impellicciata e ingioiellata come una principessa, ma la notte dormivo sola. Non ho mai smesso di amarlo, però, io sono una di quelle che amano solo un uomo nella vita, e quando me l'hanno ammazzato sono diventata la "vedova". Per sempre". Ricordavo il fatto. Il boss si trovava nel cortile del supercarcere di Cuneo quando un gruppo di killer assoldati dai cutoliani l'aveva circondato e assassinato a coltellate. Per disprezzo gli avevano strappato il cuore e l'avevano gettato nella polvere. "Dopo il funerale" riprese a raccontare malinconicamente la donna, "alcuni dei nuovi capi mi corteggiarono a lungo. Solo per il gusto di scoparsi la moglie del vecchio boss. Uno sfregio senza rischi, roba da vigliacchi, e io preferii difendere la sua memoria e fottermi la vita. Poi sei arrivato tu. Mi hai fatto capire che continuare a vivere così può essere solo umiliante. Non ho più paura di morire e la mia tomba è già pronta da tanto tempò. A fianco al mio uomo. Le uniche cose che ti chiedo sono di non farmi soffrire troppo e di farmi ritrovare elegante, come sono adesso. Non voglio che i giornali scrivano che me ne sono andata come una stracciona". Le sorrisi. "Tranquilla, farai una gran bella fi gura" mentii. Il mio piano prevedeva ben altro per lei. Poi cambiai discorso: "Sono stanco, conta tu i soldi e dividili in due parti". "Siete rimasti in pochi a spartire il bottino. Una banda di galantuomini". Mi infilai sotto la doccia per lavare la puzza di morte e di paura che mi impregnava i vestiti e il cervello. Iniziai a rilassarmi e a sentirmi contento. Due conti, e compresi di essere diventato miliardario. Non male, per uno che era partito dal Centroamerica con un ergastolo sulle spalle. Finalmente ero ricco, e potevo pensare a costruirmi la vita a cui avevo diritto, dopo tanta fatica. Anche l'atteggiamento rassegnato della vedova contribuiva alla mia soddisfazione. Non avevo voglia di
nuovi casini. Quando ritornai in camera, la donna stava ancora contando. Andai in salotto, mi versai un goccio e accesi il televisore. Tutte le emittenti trasmettevano servizi speciali sulla rapina all'ipermercato. Le immagini erano quasi sempre le stesse: i corpi delle due guardie coperti da un lenzuolo e gli uomini della scientifica che facevano i rilevamenti. Alzai il bicchiere per brindare al mio piano. Semplice, facile e quindi geniale. La vedova si avvicinò. "Un miliardo e settecentoquaranta milioni. Complimenti". Poi guardò le immagini che scorrevano sul video. "Una volta la mala dava parte dei soldi alle vedove. Anche a quelle degli sbirri". "Non dire puttanate. Queste sono le favolette che raccontava il tuo boss per farti credere di essere un grand'uomo" ribattei con cattiveria. "E adesso sparisci, vattene in camera tua". Quella notte dormii con la pistola sotto il cuscino. Razionalmente sapevo di essere al sicuro, ma era difficile riuscire a controllare la tensione, e mi svegliavo a ogni piccolo rumore. La mattina aprii gli occhi e trovai la vedova seduta sul letto, in vestaglia. Aveva i capelli sciolti sulle spalle e profumava di pulito. Si accese una sigaretta e iniziò a raccontare aneddoti di quando era ancora qualcuno. Una vera rottura di palle. Avrei voluto mandarla via, ma era meglio lasciarla tranquilla. Avrebbe creato meno problemi al momento di abbandonare la vita terrena. Ogni tanto annuivo fingendo interesse, ma mentre parlava la mia mente era lontana, era tornata al paese, da Flora. Per qualche minuto mi abbandonai al sogno irrealizzabile di riprendermela con la forza del denaro. Al ricordo delle scopate nel retro del negozio di scarpe, l'uccello mi diventò duro come marmo. Presi la mano della donna e la infilai sotto le coperte. "Renditi utile" le dissi. Il tempo non passava mai e l'attesa della telefo nata di Anedda diventò esasperante. La vedova iniziò a perdere il controllo dei nervi e alternava momenti di apparente tranquillità a lunghe crisi di pianto. La televisione era perennemente sintonizzata sui notiziari. Quando una sera vidi il mio socio pavoneggiarsi in una conferenza stampa per il ritrovamento del "covo dei rapinatori e dei cadaveri di due di essi, probabilmente estremisti croati", la spensi. Non c'era più bisogno di seguire le cronache per capire a che punto si trovavano le indagini. Era tutto sotto controllo. Preparai le valigie. Quelle con i soldi e quelle con i vestiti. Lunedì squillò il cellulare. "Domani mattina tolgono i posti di blocco" annunciò sbrigativo Ferruccio. "Fatti trovare alle dieci in punto davanti al ristorante dove abbiamo pranzato insieme... con la mia borsa,
ovviamente" aggiunse ridacchiando. La vedova invece stava piangendo. In silenzio ma in modo irrefrenabile. Gli occhi erano gonfi e rossi. " Le circondai le spalle con un braccio. "Forse è meglio che tu faccia un bel bagno caldo. Ti calmerà". L'aiutai a spogliarsi e a riempire la vasca di acqua, sali e bagnoschiuma. Poi andai a riempire il biberon di Fernet e a prendere le pastiglie di sonnifero. Quando mi vide tornare si spaventò. "Parto fra tre giorni" mentii per tranquillizzarla. Le misi la tettarella in bocca e le snocciolai una quantità inverosimile di parole vuote ma sdolcinate. Lei ciucciò tutto fino all'ultima goccia, come una brava bambina. Perse i sensi dopo venticinque minuti. Le presi i piedi, me li infilai sotto le ascelle e afferrandola saldamente per le ginocchia iniziai a farle affondare la testa nell'acqua. L'istinto di sopravvivenza le fece compiere alcuni movimenti convulsi per riemergere dall'acqua, ma furono deboli e insignificanti. Quando fui certo della sua morte, ricomposi il corpo nella vasca. Poi iniziai a ripulire l'appartamento dalle tracce della mia presenza e dalle impronte. Ne approfittai per perquisire attentamente le stanze, alla ricerca di qualcosa che valesse la pena portarsi via. Fu un bene, perché scoprii che quella vecchia puttana aveva cercato di fregarmi. In un cassetto trovai una busta nascosta con l'indicazione "Da leggere dopo la mia morte". E all'interno un paio di fogli scritti con una calligrafia incerta ma perfettamente comprensibile. Se fossero finiti nelle mani sbagliate mi sarebbero costati l'ergastolo. Mi ritrovai a tremare come una foglia, e un attacco di panico mi spinse a frugare la casa da cima a fondo un paio di volte. L'indo mani, al momento di andar via, tormentato dall'idea che la vedova avesse nascosto altre lettere, fui assalito dalla tentazione di bruciare tutto. Riuscii a ragionare e a convincermi che se non le avevo scovate io non ci sarebbero riusciti nemmeno gli sbirri. Alla fine trovai la forza di aprire la porta e andarmene. Decisi di non raccontare nulla ad Anedda. Il dubbio di un mio coinvolgimento poteva fargli venire la voglia di considerarmi un potenziale pericolo. E di spararmi un colpo in testa. Ferruccio lo sbirro arrivò con un'auto civetta della questura. Aprii la portiera e appoggiai sul sedile la borsa con la sua parte di bottino. Ingranò la marcia e partì, salutandomi con un frettoloso cenno della mano. Seguii la macchina con lo sguardo fino a quando non si confuse nel traffico, pensando che avevo fatto bene a fidarmi di quello sbirro elegante fuori e marcio dentro. In seguito avrei avuto modo di pentirmene amaramente. E' che in
quel momento non potevo saperlo, o immaginarlo, non arrivò mai a essere una giustificazione valida. In una storia come quella un morto in più non avrebbe fatto nessuna differenza. Semplicemente perché degli sbirri non ci si può mai fidare. Come le puttane, hanno sempre un ultimo favore da chiederti. Quello che ti fotte. Invece della borsa avrei dovuto infilare in macchina la pistola col silenziatore. Tre, quattro colpi e la fac cenda sarebbe stata sistemata per sempre. E non avrei dovuto dividere con nessuno. L'errore fu quello di pensare che uno sbirro con cui avevo fatto affari poteva sempre tornare utile. E invece appena smisi di giocare a guardie e ladri ed entrai nel mondo reale mi resi conto che lì gli sbirri non contavano un cazzo. Esisteva un sottobosco di "professionisti", ognuno con la sua specificità, le sue conoscenze, le sue entrature e la sua parcella salata. Erano loro che ti risolvevano i problemi. E della legge e dei tutori dell'ordine se ne sbattevano altamente i coglioni. Montai sulla mia Panda, che trasportava più di un miliardo nei diversi tagli di banconote stampate dalla zecca di Stato. Imboccai l'autostrada diretto a nord-est. Non avevo ancora le idee chiare sul mio futuro, ma sapevo di andare nella direzione giusta, dove chi ha palle e cervello può andare lontano: il nord-est dei vincenti.
La Nena
Qualche giorno dopo aver compiuto quarantun anni, mi stabilii in una città del Veneto. Non è importante specificare quale. Padova, Treviso o Vicenza; la fame di soldi era uguale dappertutto. La scelta, comunque, non fu casuale. Mi trasferii dove viveva l'avvocato Sante Brianese, il professionista che mi doveva traghettare nel mondo dei cittadini onesti. Il suo nome mi era stato consigliato a San Vittore dall'ex direttore di un istituto bancario veneto, condannato per truffa e appropriazione indebita, caso mai avessi avuto bisogno di un azzeccagarbugli. "Non capisce un cazzo di procedura penale" aveva chiarito l'uomo, "ma è abile a risolvere quella miriade di problemi che fanno da corollario a una causa penale, in particolare l'investimento di capitali di provenienza illecita". All'inizio non avevo intenzione di rivolgermi a lui. Pensavo di cavarmela da solo. Ma ben presto dovetti rendermi conto che non avevo le carte in regola nemmeno per affittare un
appartamento, e ogni volta che venivo fermato a un posto di blocco i miei precedenti penali mi causavano un sacco di grattacapi. Brianese mi ricevette in uno studio poco appariscente, arredato con mobili sobri e costosi. Di media statura, ma con un fisico allenato con regolarità sui campi da tennis, era un uomo elegante che ispirava fiducia. Il suo volto dai lineamenti spigolosi, da sensale dell'Ottocento, dava l'impressione che fosse in grado di risolvere qualsiasi problema. Quando gli confidai dove avevo conosciuto la persona che mi aveva fatto il suo nome, mi disse di mettere sulla scrivania un anticipo del suo onorario. "Bene" disse infilando le banconote nella giacca. "Adesso lei è mio cliente. Parli pure liberamente". In realtà fui molto stringato. Mi limitai a delineare la mia situazione di ex detenuto con un certo capitale da investire nel settore della ristorazione. "Torni domani alla stessa ora" mi congedò il professionista. "Lei mi ha esposto la sua situazione con estrema chiarezza, ma capisce bene che devo assumere le dovute informazioni". "Il suo problema si chiama riabilitazione" iniziò a spiegare il giorno seguente. "Il nostro codice prevede la possibilità che un condannato, dopo aver dato prova per cinque anni di assoluta buona condotta, possa richiedere al magistrato di sorveglianza di riacquistare i diritti civili. In sostanza la concessione di questo beneficio cancella il marchio di pregiudicato dalla vita di una persona". "E tutto diventa più facile" commentai. Il professionista sorrise. "Sì. Proprio così. Da quanto ho capito lei ha terminato di scontare la condanna circa tre anni fa...". "Tre anni e due mesi". "Quindi tra un paio d'anni potremo avanzare istanza di riabilitazione, sempre che il suo comportamento successivo alla scarcerazione si sia mantenuto all'interno della più assoluta legalità". Mi mossi a disagio sulla sedia. "Beh, per qualche tempo ho lavorato in un lap dance. Polizia, carabinieri e guardia di finanza ci facevano spesso visita e il mio nome figura senz'altro nei rapporti, tanto più che il principale è finito in galera per spaccio". "Lei è stato direttamente coinvolto nell'inchiesta?". "No". "Allora non abbiamo nulla di cui preoccupar ci. L'importante è che da ora in poi eviti di frequentare ambienti poco raccomandabili. Ma di questo mi sembra già convinto se, da quanto ho capito, ha intenzione di investire nella ristorazione, attività redditizia e di tutto rispetto". "Esatto. Ho a disposizione una certa cifra e il mio obiettivo è quello di gestire un locale di buon livello". "Quanto?". "Un miliardo". "I risparmi di una vita" scherzò
l'avvocato. "Qui da noi non è importante sapere da dove proviene il denaro" aggiunse ridiventando serio. "Ma non deve puzzare di malaffare. Al contrario deve profumare di duro lavoro e intelligenza produtti va. Capisce quello che voglio dire?". "Alla perfezione. Proprio per questo mi sono rivolto a lei". "E ha fatto bene. Si attenga alle mie istruzioni e le garantisco che otterrà quello che vuole". La prima istruzione fu circa il suo onorario. Per lo studio di fattibilità chiese venti milioni, in contanti. Prima di congedarmi mi chiese dove alloggiavo. Gli feci il nome di un albergo della periferia e l'avvocato inorridì. "Con tutti i controlli di polizia negli hotel della zona, se scoprono che non lavora rischia il foglio di via" mi rimproverò scuotendo la testa. Prese un paio di chiavi da un cassetto. "Un amico possiede una foresteria in centro. Piccola ma confortevole". Allungai la mano. "Quanto?" domandai. "Due milioni al mese". L'avvocato aveva detto la verità. L'appartamentino era arredato con gusto. E la vista sui tetti delle chiese e dei palazzi antichi era incantevole. Mi bastò un'occhiata al bagno e al frigorifero per capire che nessuno ci aveva mai vissuto, e che si trattava di uno scannatoio. Probabilmente apparteneva allo stesso avvocato, che usava la foresteria per portarci le amiche e per organizzare qualche orgetta. Mi trasferii, portando con me solo le vali ge piene di denaro e la pistola silenziata. Le borse con i vestiti le avevo gettate il giorno prima in un cassonetto. Avevo deciso di cambiare look, e di vestirmi finalmente da un sarto. Come uno che si rispetta. Andai anche in un centro di bellezza. Mentre aspettavo il mio turno con la manicure, sfogliai distrattamente qualche rivista. Mi ritrovai a fissare una foto della vedova, quando era ancora giovane e sorridente. Il settimanale le dedicava ben tre pagine di servizio. Non persi tempo a leggerlo. Mi bastò il titolo: "Disgrazia o suicidio?". Una decina di giorni dopo entrai nello studio di Brianese tirato come un vero signore. L'avvocato mi squadrò senza fare commenti. Mi accomodai e accesi una sigaretta. "Buone notizie" esordì il professionista, esaminando una serie di fogli sparsi sulla scrivania. "Ma prima di esporle il mio progetto vorrei discutere l'onorario". "Quanto?" tagliai corto. "Trecento milioni a rate mensili fino all'ottenimento della riabilitazione e il dieci per cento degli utili della sua attività per i successivi cinque anni". Lo fissai incredulo. La cifra mi sembrava esorbitante. "E con quali garanzie?". Brianese alzò le spalle. "Nessuna. Ma le possibilità di successo sono ragionevolmente buone".
Avrei potuto minacciarlo. Promettergli una palla in testa nell'ipotesi di un fallimento, o peggio, di una fregatura. Ma l'uomo non era affatto stupido. Non poteva non conoscere i rischi di quell'attività, e certamente sapeva il fatto suo. "D'accordo, avvocato. L'ascolto". La Nena era una vecchia osteria del centro storico, gestita da una coppia di anziani. Toni e Nena. Un tempo lei era stata una donna bellissima, che aveva fatto girare la testa a un sacco di avventori. Ora, a settant'anni suonati, non vedeva l'ora di ritirarsi col marito in una casetta di campagna. I due figli avevano studiato all'università e non volevano seguire le orme dei genitori. Il piano di Brianese prevedeva che iniziassi a lavorare nell'osteria come cameriere e che a poco a poco ne assumessi la direzione. Una volta riabilitato ne sarei diventato il proprietario, trasformando il locale a mio piacimento. Nel frattempo, per impratichirmi del mestiere, avrei frequentato corsi di specializzazione. Toni e Nena erano ovviamente d'accordo, e avevano già fissato il prezzo dell'acquisto dell'osteria. Metà al momento della mia assunzione, il resto alla conclusione della vendita. "Non nasconderemo il suo passato" spiegò l'avvocato. "La gente lo scoprirebbe comunque e sa rebbe peggio. La presenteremo come un brav'uomo, vittima di cattive compagnie, ma pronto a dimostrare di essere cambiato e di valere qualcosa. Lei dovrà avere un atteggiamento discreto ma allo stesso tempo simpatico, facendosi benvolere. E soprattutto non dovrà fare alcuno sfoggio di ricchezza. I vestiti che indossa in questo momento li rimetterà nell'armadio, in attesa di diventare proprietario. Si vestirà ai grandi magazzini, come fanno i camerieri. E non frequenterà locali costosi e tantomeno night e lap dance. La sua vita sarà casa e lavoro. Io le fornirò la clientela. Selezionata e di prim'ordine. Col tempo lo faremo diventare un locale esclusivo. Ho intenzione di mettermi in politica, e La Nena potrebbe diventare il mio club". "Politica? Che tipo di politica?". "Moderata e destinata a governare" rispose ammiccando. "Rappresento un gruppo di commercianti e professionisti che per troppo tempo è stato costretto a stare ai margini della vita politica di questa città. Ma adesso il vento è cambiato e abbiamo intenzione di contare sempre di più. Qui e a Roma. Avrà la possibilità di fare conoscenze che le torneranno utili per inserirsi completamente nel tessuto cittadino. Cosa ne pensa?". "A parole sembra un piano perfetto" risposi cauto. "Lo è" sottolineò piccato. "Sempre se lei non manda tutto a monte combinando qualche fesseria".
"Non ne ho la minima intenzione". Brianese cambiò discorso. "Dato che in questo periodo sarà costretto a intaccare il suo capitale per il mio compenso e la caparra dell'osteria, la posso indirizzare a una persona di fiducia che può farle recuperare parte del denaro". "In che modo?". "Prestiti. Consistenti, veloci e redditizi. Se ha tra le mani altri liquidi da investire ne approfitti, è un vero affare". L'avvocato parlò ancora per un'ora. Direttive, consigli, avvertimenti. Il tizio di San Vittore aveva ragione. Sante Brianese era un vero dritto. Aveva pensato a tutto. In un paio di anni mi sarei costruito una posizione rispettabile, gettandomi per sempre alle spalle il passato. Quando uscii dallo studio fui tentato di correre a festeggiare in un ristorante di lusso, ma ricordando gli ammonimenti dell'avvocato mi infilai in un self-service della catena Break. Poi subito a casa. Nei giorni seguenti incontrai alcune persone di fiducia di Brianese, incaricate di seguire gli aspetti fiscali dell'operazione. Conobbi anche il consu lente del lavoro che gestiva il giro di usura. Un direttore di banca gli indirizzava i clienti bisognosi di prestiti. I soldi venivano elargiti da una società finanziaria e di intermediazione che provvedeva direttamente al recupero crediti. L'affare era ben congegnato, e cercò di convincermi ad affidargli duecentocinquanta milioni, ma alla fine gliene diedi solo settanta. Preferivo tenermi da parte una certa sommetta, nel caso qualcosa fosse andato storto e fossi stato costretto ad abbandonare precipitosamente la città. Finalmente Brianese mi accompagnò nel mio locale. Si trovava sotto i portici di una strada antica, dalle parti della piazza del mercato. Toni e Nena accolsero l'avvocato con timorosa deferenza. Dovevano avere un grosso debito di riconoscenza nei suoi confronti. Con me si limitarono a una semplice stretta di mano. Lui aveva un aspetto da bevitore a fine carriera. Lei invece era piena di energia e cercava di darsi ancora un tono da padrona. Indossavano camici azzurri. Non ne vedevo più dai tempi della mia infanzia. Anche gli avventori non erano più giovani, a parte qualche gruppo di studenti e di sfaccendati con le treccine e piercing, che avrei fatto sloggiare alla prima occasione. Il locale - un unico stanzone disseminato di tavoli e sedie in legno - odorava di cibo riscaldato, fumo stantio e vino. Il bancone di marmo occupava un'intera parete. Di fronte c'erano il bagno e una porta che dava su un cortile interno, che comunicava con il magazzino pieno di damigiane. Ovunque quadri a olio dipinti dalle mani più disparate. Pare che Toni per un periodo accettasse che gli artisti sfigati si pagassero
qualche pasto con le loro opere. Nena mi disse che avevano rilevato il locale appena finita la guerra. Gli ebrei che l'avevano in gestione erano stati portati via dai repubblichini nel '44. Da allora non era cambiato nulla. Lo stesso vino di sempre e lo stesso menu. Trippe in brodo, baccalà con polenta, spezzatino, pollo in umido. Al banco piatti di nervetti, polpette, frittate con le verdure, uova sode con sottaceti, soppressa ai ferri e moscardini lessi. Brianese mi aveva detto che era una delle ultime osterie d'Italia. Addirittura un'associazione l'aveva inserita in un elenco di locali storici da salvaguardare. L'avvocato aveva un'idea molto diversa. Un suo amico architetto l'avrebbe trasformato in un locale alla moda. Pareti color salmone e arredamento francese. Non aveva tutti i torti. Di sicuro l'osteria aveva bisogno di una buona mano di pittura. Iniziai lavando piatti e bicchieri e servendo ai tavoli. L'osteria apriva alle sette del mattino e chiudeva alle otto di sera. Tornavo a casa distrut to. Una doccia, un piatto di pasta e poi uscivo per andare a lezione dal cavalier Minozzi. Per quarant'anni aveva diretto il miglior ristorante della città, fino a quando i debiti di gioco non gli avevano impedito di pagare i fornitori. La faccenda rischiava di finire in tribunale, ma il provvidenziale intervento dell'avvocato Brianese aveva tranquillizzato i creditori. I figli a quel punto avevano preteso che il padre vendesse il locale e si ritirasse a vita privata. Ora era un vecchietto arzillo, che in cambio dei suoi consigli mi obbligava a lunghe partite a carte. Ero un giocatore di galera, scaltro e svelto di mano, e gli davo filo da torcere. Lui si divertiva, e i migliori suggerimenti sulla mia futura professione me li dava tra una mano e l'altra. La moglie, una donnina minuta e materna, provvedeva a rifornirci di fette di torta e liquori. Il cavalier Minozzi si rivelò un maestro prezioso. Dopo un paio di mesi introdussi i primi due cambiamenti epocali nella storia della Nena. Eliminai il vino sfuso e i vecchi bicchieri da "ombra". Al loro posto una selezione di bottiglie delle migliori aziende vinicole del Veneto, Trentino e Friuli, oltre a qualche buon rosso piemontese e toscano. Sostituii i bicchieri in duralex con calici e flùte. Ovviamente i prezzi lievitarono, e i pensionati furono i primi a cercare un altro posto dove bersi il quartino di rosso a duemila lire. To ni e Nena mi lanciavano mute occhiate di disapprovazione. Ai vecchi clienti che chiedevano spiegazioni, non potevano che fornire risposte vaghe e sconsolate. L'uomo, come un automa, continuava a ripetere: "Xe cambià i tempi. No xe più come 'na volta". La mossa successiva fu
rinnovare i piatti al banco. Affettati, tartine e tramezzini. Furono sufficienti queste innovazioni e una seria pulizia del locale per assistere a un graduale cambio di clientela. Dopo i vecchietti sloggiarono gli studenti e gli alternativi. Il locale per qualche tempo andò in perdita, ma per fortuna i quattrini investiti nell'usura erano più che sufficienti a tappare i buchi. Grazie alla pubblicità di Brianese, l'osteria cominciò a essere frequentata da bella gente. Si facevano vedere all'ora dell'aperitivo. Prosecco e uno stuzzichino. E una marea di consigli. Tutti avevano qualcosa da raccomandare. Dai vini alle insalate. Il più delle volte si trattava di nomi che non avevo mai sentito. Sembrava che alla gente di un certo livello importasse solo il denaro e quello che ficcava in bocca. Ben presto mi resi conto che in questo paese era successo qualcosa. Era cambiato il rapporto con il gusto. Adibii un tavolo alla consultazione di guide e riviste specializzate. I clienti non facevano che chiedermele per poter mostrare agli amici la recensione di un ristorante o di un vino barricato. Tutti si davano arie da gourmet. Toni e Nena non ressero a tutti questi cambiamenti, e chiesero all'avvocato di ritirarsi in anticipo rispetto agli accordi. Brianese disse loro di spargere la voce che intendevano vendere e che nel frattempo io avrei fatto le loro veci. Per prima cosa assunsi un paio di ragazzi per servire ai tavo li. Su consiglio di un'antiquaria, li vestii come camerieri di una brasserie parigina. Nonostante i miei sforzi e la qualità degli spuntini e dei vini, il locale rimaneva sempre un'osteria. Il lato debole era la cucina. La nuova clientela non aveva nessuna nostalgia per le pietanze unte e grasse della Nena. Il cavalier Minozzi mi organizzò un menù leggero, con qualche pasta e molte insalate. Trovai un giovane cuoco appena uscito dalla scuola alberghiera, e in poco tempo riuscii a creare un giro di clienti che venivano regolarmente a pranzo. Mi iscrissi a un corso per sommelier e a tutti quelli organizzati dai vari circoli e associazioni di gourmet. Quasi tutte le sere le trascorrevo tra degustazioni e lezioni di enologia, e francamente era piacevole. Dopo extraparlamentari, guerriglieri, galeotti e rapinatori mi trovavo finalmente tra gente normale. Persone che avevano avuto un'esistenza assolutamente normale. Dalla scuola all'università, dall'avvio della professione al matri monio. Le invidiavo, e quella nuova vita dedicata al lavoro era così diversa da quella che avevo vissuto fino al giorno in cui avevo annegato la vedova, che i ricordi si facevano sempre più confusi. Mi
sentivo più tranquillo, scoprivo sensazioni nuove e iniziavo ad apprezzare cose che mi erano sempre state indifferenti, come la musica e il cinema. C'erano diverse donne che mi piacevano. Ma non sapevo come avvicinarle. Con loro ricatti e sopraffazione non avrebbero funzionato. Appartenevano a un altro mondo. Le voci sul mio passato, alimentate volutamente da Brianese, avevano fatto il giro della città, ma non avevo registrato commenti negativi. Curiosità sì. E molta. Ogni tanto qualcuno mi faceva delle domande sul terrorismo o sulla galera. All'improvviso calava il silenzio e tutti mi fissavano in attesa della risposta. L'avvocato mi aveva preparato bene sull'argomento, e con un sorriso mesto stampato sul volto li accontentavo. In quel giro c'erano anche degli ex compagni. Spesso si avvicinavano e, con aria da cospiratori, mi confidavano di aver militato in qualche gruppo della sinistra rivoluzionaria. Errori di gioventù. La notizia della sentenza definitiva sul caso Calabresi venne annunciata all'osteria da un avvocato appena tornato dal tribunale di Venezia. Era l'ora dell'aperitivo serale, e La Nena era piena di gente. La condanna venne accolta con esclamazioni di soddisfazione e gridolini di gioia di un paio di signore. Santo Brianese organizzò un brindisi, e all'improvviso mi ritrovai gli occhi di tutti puntati addosso. Capii cosa mi stavo giocando. "Offro io" gridai gioioso, alzando una bottiglia di prosecco. Cercai con lo sguardo tra i clienti gli ex rivoluzionari, e notai che tutti facevano a gara per dimostrare di avere tagliato i ponti col passato. Sorrisi soddisfatto. Ero in buona compagnia. Quando riuscii a tenere l'osteria aperta fino all'una di notte, ci fu il vero salto di qualità. Dovetti assumere altro personale, ma il giro di clienti aumentò considerevolmente. Affidai l'apertura del mattino a uno dei ragazzi che avevo assunto e che si era dimostrato serio e affidabile. Io arrivavo verso le undici e mi occupavo della chiusura. La clientela della sera era completamente diversa. A parte qualcuno che si faceva vedere anche durante il giorno, gli altri frequentavano il locale esclusivamente dopo cena. Mi bastò poco per capire che erano tutte persone legate a Brianese. Dal punto di vista professionale o politico. O entrambe le cose. Su consiglio di un arredatore avevo eliminato le vecchie luci al neon, sostituendole con applique che rendevano l'ambiente più accogliente. La sera il locale perdeva completamente l'aria da osteria. Il vecchio e saggio Minozzi mi aveva preparato una lista di liquori raffinati che i clienti consumavano volentieri, chiacchierando
amabilmente ai tavoli. Sante Brianese faceva da padrone di casa. Passava da un tavolo all'altro, concludendo affari o allargando il club dei sostenitori. I suoi obiettivi erano chiari. Consigliere regionale per una legislatura e poi dritto a Montecitorio. Non avevo dubbi sul suo successo ed erano in molti a pensarla come me, a giudicare dalla deferenza con cui trattavano il personaggio. In realtà della politica non gliene fregava niente. Era solo uno strumento per raggiungere i suoi scopi. In buona parte illeciti. Il suo campo era la criminalità economica. Infatti all'osteria non misero mai piede personaggi legati al traffico di stupefacenti o alla prostituzione. E tanto meno extracomunitari. Anche quelli onesti. Brianese aveva capito che il modello economico del nordest, la famosa "locomotiva", com'era chiamata dai media, dove economia legale e illegale si fondevano in un unico sistema, offriva la possibilità di arricchirsi e di costruirsi una discreta posizione di potere. E lui ne approfittava con intelligenza e saggezza. Affari, crimine e politica. La mafia, quella nuova, aveva fatto scuola. Tra i suoi più stretti collaboratori figuravano diversi ex politici e amministratori pubblici, finiti nei guai con Tangentopoli. C'era anche l'ex comandante della polizia tributaria. Aveva appena finito di scontare sei anni di reclusione per concussione e corruzione. I giudici erano convinti che fosse riuscito a mettere da parte un'ingente fortuna. L'avevano cercata per un pezzo anche all'estero, ma erano stati costretti a rinunciare. Brianese aveva fatto un ottimo lavoro. La maggioranza militava nell'area di centro destra, sognando di regolare i conti con quella parte della magistratura che li aveva messi sotto inchiesta e con le forze politiche che l'aveva appoggiata. Altri ostentavano posizioni indipendentiste o autonomiste, ma a parte qualche discussione l'ambiente era assolutamente tranquillo. L'unico episodio spiacevole accadde non a causa della politica ma della musica. Il primo anniversario della morte di Lucio Battisti, un gruppo di clienti, fan del cantante scomparso, aveva organizzato una serata per ricordarlo. Arrivarono con dischi e chitarre. Cori, qualche lacrima e molti applausi. A un certo punto si avvicinò al banco un tizio che era rimasto per tutta la sera appartato a bere. Non l'avevo mai notato prima. Era alto, grosso e con gli occhi azzurri. E soprattutto ubriaco. Con un gesto della mano mi fece segno di avvicinarmi. "Battisti ha cantato i luoghi comuni della pic cola borghesia italiana" disse piano. "Sei nel posto sbagliato per permetterti certi commenti" lo avvertii. "I testi non sono altro che disgustose banalità e le melodie...". "Se la
smetti ti offro da bere" lo interruppi. "Brindo a De Andrè" disse a voce alta. E scoppiò il finimondo. I fan di Battisti iniziarono a insultarlo. Qualcuno gridò: "Comunista di merda". E tutti pretesero che lo sbattessi fuori dal locale. La signora Cardin, proprietaria di un beauty center, tentò di aggredirlo. Per sistemare la faccenda dovetti tirare due cazzotti in pancia al tizio. Poi lo presi per la collottola e lo trascinai via. I clienti applaudirono e ricevetti un sacco di complimenti e pacche sulle spalle. Quella notte feci la prima scopata della mia nuova vita. Gianna, una cliente abituale, mi lanciava occhiate già da qualche tempo. Una brunetta carina, sui quarant'anni. Dalle chiacchiere delle amiche avevo saputo che il marito da qualche tempo la trascurava, a causa del lavoro. Ufficialmente risultava essere un piccolo artigiano con un'impresa individuale. In realtà era proprietario di una vera e propria ditta specializzata nel settore della pavimentazione. Al fisco assolutamente sconosciuta. Strutture, mezzi, personale, erano gestiti da una contabilità parallela. Che gli affari andassero a gonfie vele era dimostrato dai gioielli e dalle pellicce che la moglie ostentava con poca discrezione. Rimase a chiacchierare con me al banco fino all'ora di chiusura. La portai in magazzino e le infilai una mano sotto la gonna. Si dimostrò un'amante abile e calorosa. Capitò altre volte e fu sempre piacevole. Poi conobbi Nicoletta. Bionda, alta, snella e con due poppe grandi e bianche come il latte. Gran fumatrice e amante dei rossi invecchiati, si occupava di alta moda e indossava sempre abiti eleganti e costosi. Hermès o Chanel. Facevano parte del suo campionario. I capi erano rigorosamente falsi, ma per molte signore della buona società e per alcuni negozianti si trattava di un particolare trascurabile. Era già finita in tribunale un paio di volte, e l'avvocato era riuscito sempre a toglierla dai guai. Non vi fu bisogno di farle visitare il magazzino. Era separata, e viveva in una villetta confortevole in periferia. Si faceva vedere un paio di sere la settimana, attendeva che abbassassi la saracinesca e poi mi portava a casa sua. In quel periodo decisi di lasciare lo scannatoio dell'avvocato. Mi presentai in un'agenzia immobiliare del centro, e come garanzia fu sufficiente il nome della Nena. Affittai un appartamento vi cino all'osteria. Nicoletta mi aiutò ad arredarlo. Per la prima volta sentii che una casa mi apparteneva. Scegliere mobili e oggetti con lei mi aveva fatto conoscere il piacere di condividere qualcosa con una donna. Iniziai a desiderare un rapporto duraturo. Con Gianna e Nicoletta non c'era stato nulla al di là dell'attrazione fisica e della simpatia.
Ma per me era una novità. Non avevo sentito il bisogno di sottometterle e di controllare la loro esistenza come avevo fatto con Flora o con la vedova. Anche se questo non significava che avessi cambiato le mie preferenze sessuali. Provavo continuamente sensazioni nuove. E la cosa mi piaceva. Forse cambiare vita significava proprio questo. Dopo un anno esatto Brianese venne a chiedermi il primo favore. Ben pagato, ma comunque al di fuori degli accordi presi. Una commerciante di casalinghi della provincia si era fatta turlupinare da una veggente e le aveva sganciato 55 milioni per guarire la figlia da una grave forma di anoressia. L'avvocato voleva che li recuperassi. "Ho cambiato vita" tagliai corto. "Certo. E con ottimi risultati. Solo che tu hai un bagaglio di esperienze che nessuno di noi possiede. E' giusto che tu le metta al servizio degli amici. Lo sai bene anche tu che ci sono delle situazioni che non possono essere risolte con l'intervento della giustizia". "Questo significa che ci saranno altre richieste di favori?". "E' possibile. Hai avuto il tempo di guardarti attorno e di renderti conto che qui puoi fare fortuna, e campare felice e tranquillo con le conoscenze giuste. Le conoscenze però vanno coltivate...". "Rischi?". "Minimi. D'altronde si tratta di piccolezze. E poi ricordati che hai il culo coperto". "Quando lei mi parlò della riabilitazione, mi disse di tenermi lontano da certi ambienti e di attenermi a una condotta irreprensibile...". Il professionista mi interruppe con un gesto insofferente. "Qual è il problema?". "Non voglio mettere a repentaglio la riabilitazione". "Non succederà. Hai la mia parola". Lo fissai. Non avevo nessuna voglia di mettere a rischio tutto quello che avevo costruito con tanta fatica. Ma dovevo tutto a Sante Brianese, e dovevo fare quello che voleva lui. Sempre. Obbedirgli come un servo. "D'accordo". L'avvocato recuperò il sorriso e il buonumore e, tra un aneddoto e una battuta, mi raccontò il ca so della maga. Il meccanismo del raggiro era semplice. Jessica la chiromante pubblicizzava i suoi poteri magici da un'emittente locale. La commerciante, disperata per la situazione della figlia, aveva fissato un appuntamento. Per duecentomila lire Jessica si era fatta spiegare le preoccupazioni della madre, promettendo di interrogare le forze misteriose dell'occulto per verificare la possibilità di risolvere il problema. E aveva fissato l'appuntamento dopo una decina di giorni. Nel frattempo la maga, com'era sua abitudine, aveva incaricato un investigatore privato di raccogliere più notizie possibili sulla cliente, soprattutto sulle sue possibilità economiche.
All'incontro successivo Jessica si fece trovare scura in volto. Senza mezzi termini disse alla commerciante che la situazione della figlia stava peggiorando di ora in ora e che solo un intervento esoterico poteva salvarla. E così nel giro di quattro sedute la cliente si era ritrovata alleggerita di un bel po' di soldi. Il marito, venuto a conoscenza della cosa, si era rivolto all'avvocato. Jessica riceveva in diverse città del nord-est. Fissai l'appuntamento a Mestre. Non c'ero mai stato e nessuno mi conosceva. Un tizio con un'aria da buttafuori di discoteca mi fece strada fino allo studio. Quando aprì la porta lo colpii con un calzino pieno di monete. Prima che cadesse a terra lo spinsi con tutte le mie forze dentro la stanza. Atterrò sulla moquette, proprio di fronte alla scrivania di Jessica. La donna si alzò di scatto. "Mio Dio" gridò terrorizzata. La zittii con un ceffone. Mi aspettavo di trovarmi di fronte una tipa stravagante, invece era solo una donna sui cinquanta, sovrappeso, con i capelli cotonati, le mani grassocce piene di anelli e un vestito a fiori. L'afferrai per il collo. "Hai tre giorni di tempo per restituire i soldi alla commerciante". La donna annuì. Capii che non l'avevo spaventata abbastanza e le ruppi un braccio, come avevano fatto i due rumeni con me. La chiromante svenne. Avrei voluto minacciarla ancora ma non c'era verso di farla rinvenire. Peggio per lei. Quando si va a sollecitare un credito bisogna dimostrare di non conoscere limiti nella violenza. La colpii diverse volte sul viso, appiattendole per bene il naso. Poi tornai a occuparmi della sua guardia del corpo. Calci in bocca e sui coglioni. Tanto nessuno dei due avrebbe sporto denuncia. Jessica rispettò i tempi per la restituzione, e tre giorni dopo la commerciante rientrò in possesso dei suoi milioni. Brianese si congratulò e mi passò una busta con il compenso. Li usai per l'ac conto della macchina. Era arrivato il tempo di rottamare la vecchia Panda. Scelsi un'altra utilitaria. Il tempo dei macchinoni era ancora lontano. Mi vennero chiesti altri favori. Ma l'avvocato rispettò sempre il patto che si trattasse di cose di poco conto. "Il tuo ruolo è quello di difendere il nostro gruppo di amici da aggressioni esterne" mi disse una volta. "Di ripristinare la legalità. La nostra, ovviamente". In genere dovevo mostrare i muscoli. Alcune volte non dovetti nemmeno far ricorso alla violenza, come nel caso di una cliente di un'agenzia bancaria della provincia, che sosteneva che il direttore le aveva fatto firmare fidejussioni in bianco a garanzia di un prestito di 300 milioni. Mi limitai a consigliarle di ritirare la denuncia. In altre occasioni fui costretto a essere
davvero cattivo. Come nel caso di Alexia, puttana triestina che ricattava un affezionato cliente della Nena. L'uomo, un facoltoso imprenditore nel settore della minuteria metallica, aveva incontrato la ragazza in un locale notturno. Si era fatto rimorchiare a casa sua per una botta da mezzo milione, e mentre erano a letto una videocamera nascosta in una libreria aveva ripreso l'amplesso. Per non spedire un pacchetto anonimo alla moglie dell'imprendi tore e ai due quotidiani della città, Alexia voleva 200 milioni. Accompagnai l'uomo all'appuntamento per la consegna del denaro. Quando la ragazza guardò attraverso lo spioncino vide solo il cliente, ma quando aprì la porta trovò me. Spaventata, cercò di chiamare l'imprenditore che si stava allontanando per le scale. Le tirai un cazzotto alla bocca dello stomaco e la spinsi all'interno. Recuperai la cassetta, ma nonostante le sue assicurazioni non le credevo quando giurava di non aver fatto altre copie. La legai a una sedia. Dalla cucina presi un pacco di sale grosso, un imbuto e una caraffa d'acqua. Un interrogatorio di polizia in piena regola. Alla seconda caraffa mi confidò che nell'armadio, tra le lenzuola, c'erano altre due cassette. Alexia aveva deciso di spennare per bene il suo pollo. All'imprenditore dissi che esistevano altre copie del video e che ci volevano venti milioni per recuperarle. Pagò senza discutere. Una volta mi dissero di compiere un furto. Ben pagato e, immagino, commissionato da qualche industria farmaceutica. Dovevo introdurmi in un reparto dell'ospedale per sottrarre alcuni tabulati con i dati clinici dei pazienti. Fu un gioco da ragazzi. L'avvocato aveva avuto ragione anche sul discorso delle amicizie. I clienti, quando si resero conto che godevo della sua fiducia, iniziarono a trattarmi in modo diverso. Non come uno di loro, ma come uno con cui si potevano fare affari. Entrai così in altri due giri di usura. Diventai socio di un laboratorio clandestino di maglieria, dove era occupata manodopera cinese. E soprattutto investivo in affari rapidi e redditizi, dalle partite di vino ai mobili, dai mortaretti di Capodanno ai computer. Il nord-est era così. Merci e soldi correvano veloci. Bastava essere nel giro giusto. E quello lo era in tutti i sensi. Sotto la voce amicizie potevo annoverare una serie di sbirri. Di tutti i tipi, dai caramba ai vigili urbani. Quelli che facevano parte della corte di Brianese frequentavano La Nena assiduamente. Altri venivano ogni tanto a prendere l'aperitivo. All'inizio la loro presenza mi rendeva nervoso. Poi ci feci l'abitudine. L'avvocato non perdeva occasione per lodare la mia volontà di reinserimento. Col tempo iniziarono a farmi qualche
domanda su alcuni clienti. Non mi stupii più di tanto. Buona parte dei proprietari di locali sono informatori. Qualcuno finì nei guai grazie alle mie soffiate, che riguardavano solo cose di poco conto. Falsi provini cinematografici, vacanze-truffa, traffici di opere d'arte. Tutti organizzati da criminali da strapazzo. Gente che aveva fretta di fare i soldi e aveva scelto la scorciatoia pensando che fosse facile. Così facile da permettersi il lusso di parlare troppo. Per conto mio ero più che felice di fornire informazioni alle forze dell'ordine. Serviva a spianare la strada per ottenere il mio reinserimento nella società. Una volta venne anche la Digos. Subito dopo l'omicidio D'Antona. Mi chiesero di avvertirli nel caso si fosse fatto vivo qualche vecchio compagno dei tempi della lotta armata. "Da me non verranno mai". "Chi lo sa. Tutti fanno cazzate" ribattè il più anziano. "A noi interessano quelli dei centri sociali" spiegò l'altro. "Non frequentano questo locale". "E' vero. Ma tieni le orecchie aperte lo stesso, d'accordo?". "D'accordo". Ero sicuro di aver ragione. In città tutti sapevano che La Nena era gestita da un ex terrorista. E quelli dei centri sociali conoscevano anche il modo in cui mi ero sfangato l'ergastolo. Me l'avevano fatto capire scrivendo sulla saracinesca "Pellegrini infame". Più volte. Ci passavo sopra una mano di vernice, e loro tornavano armati di bomboletta color rosso fuoco. Una notte qualcuno scrisse "Dopo Seattle nulla sarà più come prima". Conoscevo lo slogan. Era scritto su tutti i muri della città. Non lo cancellai. Non mi riguardava. Sante Brianese diventò consigliere regionale. Dopo un'abile campagna riuscì ad aggiudicarsi un assessorato che garantiva un buon giro di affari. Festeggiò alla Nena. Fiumi di champagne, abbracci con i vecchi amici e strette di mano solenni con i nuovi. La sua corte diventava sempre più numerosa. Offrii il rinfresco. Ero sinceramente felice del suo successo. Anche perché ormai sentivo di avere in pugno la riabilitazione. Mancavano quattro mesi alla scadenza dei cinque anni. Poi, dopo la presentazione dell'istanza, avrei dovuto attendere i tempi tecnici dell'inchiesta e che venisse fissata la data dell'udienza. Otto, dieci mesi al massimo. A 44 anni sarei diventato un cittadino a tutti gli effetti. Quella sera Brianese mi cinse le spalle con un braccio. "E' ora che ti trovi una brava ragazza" disse in tono paterno. "Gira voce che tu sia un sottaniere, e questo non va bene. Qui da noi prima ci si sposa in chiesa. Poi, con la benedizione del prete, si scopano tutte le fighe che capitano a tiro". Le sue parole mi fecero riflettere per la prima volta sulla possibilità di accasarmi. Era una buo-
na idea. Vivere con una donna poteva essere utile e piacevole. Iniziai a guardarmi attorno. Notai subito una donna sui trentacinque anni che veniva a pranzo tutti i giorni. Si chiamava Roberta. A quanto sapevo era impiegata in uno studio notarile. Arrivava con un paio di colleghe e ordinava sempre pietanze leggere. Anche se per i miei gusti era un po' troppo giovane, mi aveva colpito per la sua timidezza. Quando facevo il giro dei tavoli, scambiavo battute scherzose con i clienti. E con le donne ero esageratamente galante, come mi aveva insegnato l'avvocato. Lei ogni volta abbassava lo sguardo, e sulla sua bella bocca si disegnava un sorriso imbarazzato. Osservandola mi ero convinto che fosse una donna sottomessa per natura, e che non ci sarebbe stato bisogno di costringerla nel ruolo. Fisicamente mi attirava. Era alta, snella e ben fatta. Il seno non era abbondante ma nemmeno inesistente e aveva un bel culetto. I capelli castani, lunghi fino alle spalle, incorniciavano un viso grazioso dai lineamenti regolari. Le gambe invece non erano un granché. Le sbirciai, mentre le accavallava, e notai che le caviglie non erano sottili e che sulle cosce aveva tracce di cellulite. Imperfezioni che sicuramente la rendevano vulnerabile e bisognosa di conferme. Iniziai a corteggiarla. Sguardi, sorrisi, piccole attenzioni. Di lei non sapevo nulla. Domandai a Nicoletta, la mia ex amante spacciatrice di Chanel fasulli, di chiedere in giro. Venni a sapere che aveva rotto una relazione durata sei anni con un uomo che non aveva voluto condurla all'altare. Viveva sola, in un bilocale di un grande condominio della periferia. "Non è la donna giusta per te" commentò la mia informatrice. "Gelosa?". Scosse la testa. "Roberta è una ragazza all'antica. Matrimonio, figli, l'albero di Natale...". Sorrisi soddisfatto. "E' proprio la donna che desidero". Nicoletta mi diede un buffetto sulla guancia.
"Buona fortuna, allora". L'occasione per agganciarla fu un mal di testa. Un giorno venne al banco e mi chiese una pastiglia. Guardai in un cassetto. "Ho dell'aspirina". "No, grazie, sono allergica". "Avevo una zia con lo stesso problema. Ricordo che doveva stare molto attenta. Aspetta che chiedo al cuoco. Soffre di emicranie e tiene sempre una scorta di antidolorifici". Tornai dalla cucina con una compressa. "Mi ha detto che questa dovrebbe andare bene". Controllò il nome del farmaco. "Va benissimo. Grazie". "Mercoledì è il giorno di chiusura. Ti piacereb-
be uscire con me?". Mi fissò. "Per andare dove?" domandò cauta. "Cinema e pizza?". Fece finta di pensarci su. "D'accordo". La pellicola era un polpettone mieloso con Richard Gere. Lei moriva sotto i ferri e lui diventava un uomo migliore. Non avevo mai visto un film così palloso, ma Roberta aveva pianto tutto il tempo e ne era entusiasta. "Bellissimo. Una grande storia d'amore. A te è piaciuto?". "Molto". In pizzeria approfittai del suo stato d'animo per rifilarle una storiellina confezionata su misura. "Sono un uomo che ha sbagliato per buona parte della sua vita" esordii. "Ora sto cercando di riparare ai miei errori e al male che ho fatto. Soprattutto alla mia famiglia. Mio padre e mia madre sono morti di crepacuore. Le mie sorelle vivono lontane e non ho il coraggio di rivederle". Posò la sua mano sulla mia. Le raccontai di come i cattivi maestri e le forze oscure dell'eversione avessero traviato la mia giovane mente. Parigi. Il Centroamerica. Il ritorno in Italia. La galera. Una massa incoerente di menzogne, sostenute solo dal tono affranto della mia voce. "E'
la prima volta che mi confido con qualcuno" dissi alla fine. "Mi fa piacere che tu abbia scelto me. Avevo sentito qualcosa sul tuo passato, ma non immaginavo che avessi sofferto così tanto". Sentì il bisogno di confidarsi a sua volta. Parlò del lavoro, della famiglia e soprattutto di Alfio. Era stato l'amore della sua vita, che al momento di affrontare il discorso sul matrimonio se l'era svignata. Lei si era ripresa a fatica, e adesso non era sicura di voler rischiare con un altro uomo. Mi dimostrai comprensivo e tentai di rassicurarla con discorsi banali sulla sincerità dei sentimenti. In fine le lanciai un chiaro messaggio, confidandole i miei sogni e i miei progetti. Il ritratto della mia donna ideale sembrava la sua fotografia. L'accompagnai fino al portone di casa, salutandola con un casto bacio sulla guancia. Lei, come sempre, sorrise imbarazzata e abbassò lo sguardo. Da quel giorno uscimmo tutti i mercoledì. Il primo mese solo cinema, teatri e ristoranti. Poi, una sera, venne a casa mia. Dopo cena la inchiodai sul divano e la baciai. Si lasciò accarezzare il seno, ma quando aprii la cerniera dei suoi pantaloni disse che le sembrava prematuro. Mentre si stava infilando il cappotto decisi di rischiare. Era giunto il momento di verificare se l'avevo giudicata bene. "Così mi perdi. Per sempre" dissi con un filo di voce. Lei si bloccò, impietrita. Poi si tolse il cappotto e tornò sul divano. "Metti un po' di musica. Per favore". A casa non c'era granché. Cd che compravo al supermercato a novemilanovecento lire. Per lo più ristampe di vecchi dischi. Musica che ascoltavo quando andavo alle feste il sabato pomeriggio e ballavo i lenti cercando di toccare le tette alle compagne di classe. Presi il primo che mi capitò tra le mani. I successi di Caterina Caselli. Roberta era una pessima amante. Sapeva giusto aprire le gambe. Nonostante la voglia di farle il servizio completo, mi comportai come un vero gentiluomo coprendola d'attenzioni. Ascoltai nove brani prima di farla godere. Lanciò il primo gridolino mentre la Caselli cantava "Arrivederci amore, ciao, le nubi sono già più in là". Quando mi alzai per buttare il preservativo, lei mi chiese di riascoltare il pezzo. "Si intitola Insieme a te non ci sto più". "Lo so. E' triste, ma mi è sempre piaciuta tanto". L'accontentai. E tra le varie smancerie da amanti diventò la "nostra" canzone. La usavo come segnale quando avevo voglia di portarmela a letto. Che non accadeva spesso. Di una donna che non aveva intenzione di succhiarmelo e di farselo sbattere nel culo non sapevo davvero cosa farmene.
Però aveva tante altre qualità, e visto che volevo sposarmela non ne facevo una malattia. Era dolce, premurosa, e non rompeva le palle. E in casa si dava da fare. Amavo la sua compagnia. Riempiva i buchi della mia vita. La notte. Il tempo libero. In coppia era più divertente. Capii finalmente perché la gente si sposava e non persi tempo a parlare di matrimonio. Per coronare i suoi sogni da fotoromanzo, un mercoledì sera la portai a Venezia. Grande ristorante e giro in gondola con serenata. In piazza San Marco le misi in mano un astuccio. "Mi vuoi sposare?" domandai nel momento esatto in cui si ritrovò a fissare un anello da 15 milioni. Ovviamente non l'avevo pagato quel prezzo, ma era quello il suo valore. Roberta scoppiò in lacrime per la felicità. Mi abbracciò e mi coprì di baci. Quella notte strinsi tra le braccia una donna appassionata, e capii che aveva solo bisogno di essere rassicurata sulle mie reali intenzioni. Voleva essere certa di andare all'altare. Decidemmo di fissare la data dopo la riabilitazione. Festeggiammo il fidanzamento alla Nena. Brianese alzò il calice e brindò alla nostra felicità. Da quel momento iniziai a frequentare la famiglia della mia promessa sposa. E le sue amicizie. Uscivamo spesso con un'altra coppia. Luciano e Martina. Mi bastò un'occhiata per capire che lei non era come la mia Roberta. Ogni tanto incrociavo il suo sguardo, denso di allusioni. Il suo uomo, moscio e antipatico, giustificava in pieno tanto ardore. La cosa non sfuggì alla mia fidanzata. Una volta a casa mi fece la prima scenata. Avrei voluto picchiarla per farla smettere, invece mi limitai a tranquillizzarla. Era una di quelle donne che si dedicano anima e corpo a un uomo, ma non reggono lo stress dell'insicurezza. Adottai una strategia d'attacco e feci di tutto per farle credere che lei fosse la persona più importante della mia vita. Renderla felice non era affatto complicato. Era così prevedibile nei desideri che bastava fare un po' di attenzione. Ogni tanto la stupivo. Con il lusso. Quando facevo un affare o arrivava la mia parte dai giri di usura, le facevo dei regali costosi. Da gran signora. Lei non sapeva che ero ricco e pensava che quegli oggetti mi fossero costati sudore e fatica. Quando si calmò, mi portai a letto Martina. Sesso vero, finalmente. Ma la pagai cara. Lei confidò la scappatella a una amica, e di bocca in bocca la notizia giunse alle orecchie di Roberta. Negai risolutamente. Lei alla fine finse di credermi, ma la sua fiducia nei miei confronti si era incrinata. Scoprii ben presto di essere tenuto sotto sorveglianza. La mia fidanzata mi frugava nelle
tasche, nel portafoglio, controllava le chiamate del cellulare alla ricerca di tracce di altre donne. Feci finta di nulla. In futuro avrei dovuto stare più attento. Sante Brianese mi chiamò nel suo studio. L'istanza di riabilitazione era stata depositata. Il magistrato di sorveglianza avrebbe chiesto alle forze dell'ordine un rapporto sulla mia condotta e sul mio stato patrimoniale. "Ho già mosso le mie pedine" disse. "Non abbiamo nulla di cui preoccuparci". Come al solito ebbe ragione. I rapporti furono tutti positivi. Il giudice fissò l'udienza per il mese seguente. Trenta giorni mi separavano dalla mia nuova vita. Avrei potuto votare, fare altre mille cose e soprattutto smettere di temere di venir fermato a un posto di blocco. Proposi a Roberta di sposarci subito dopo. Giusto il tempo di preparare una cerimonia da sogno. Lei ci aveva già pensato e dimostrò di avere le idee molto chiare in proposito. Anche sul viaggio di nozze. Maldive. Non mi sembrava un gran posto, ma mi guardai bene dall'obiettare. I preparativi l'avrebbero tenuta occupata e avrebbe smesso di macerarsi nel dubbio che l'avessi tradita con Martina. Per la prima volta mi sentivo veramente a po sto. E inattaccabile. Il passato non avrebbe mai più rappresentato una minaccia.
Roberta
Mi ero sentito troppo sicuro. E fu un errore imperdonabile. Si può sentire sicuro solo chi, nella vita, non ha mai fatto nulla al di fuori delle regole. Uno come me poteva solo affidarsi alle probabilità. Al massimo avrei potuto dire di sentirmi "ragionevolmente" al sicuro. Quello sarebbe stato il modo giusto per non abbassare mai la guardia. Invece un errore, uno dei tanti, riaffiorò dal passato e mi sorprese col culo scoperto. Anedda. Alzai lo sguardo e me lo ritrovai davanti. La prima cosa che pensai era che avrei dovuto ammazzarlo per impedirgli di tornare nella mia vita. La sua non era certo una visita di cortesia. Ferruccio lo sbirro era nei casini. E grossi. Bastava guardarlo per capire che era un uomo disperato. Il vestito stropicciato, la barba lunga, gli occhi lucidi e febbricitanti, i capelli spettinati. Davanti a me c'era il fantasma dell'uomo che avevo conosciuto un tempo. Il suo sguardo diceva che ero la sua ultima speranza. Gli versai un brandy. Roba da poco. Quella che usavo per correggere il caffè. Lo buttò giù in un sorso. "Ti devo parlare" disse con la voce rauca. La tensione
tra noi era palpabile quasi quanto il fu mo della sua sigaretta. "Io, invece, non ho niente da dirti". "Ci vediamo stasera a casa tua". "Non ci siamo capiti". "Tu non hai capito" sibilò con il suo solito tono arrogante. "Fai quello che ti dico e non discutere". Mentre si allontanava fissai la sua schiena con odio. Guardai i clienti per capire se qualcuno di loro avesse notato lo scambio di battute. La situazione sembrava tranquilla. Mi versai due dita di Lagavullin. Il calore del whisky cancellò per un attimo il gelo che mi attanagliava lo stomaco. Anch'io ero disperato. Lo sbirro voleva sicuramente coinvolgermi in qualche brutta storia che avrebbe messo in pericolo tutto quello che avevo costruito. A diciotto giorni dall'udienza per la riabilitazione. Non meritavo questo affronto dal destino. Abbassai la saracinesca dell'osteria e mi avviai verso casa. Lo sbirro non mi aveva chiesto l'indirizzo. Doveva aver già preso tutte le informazioni su di me. Mentre stavo aprendo il portone, con la coda dell'occhio vidi Anedda scendere da un'Alfa Romeo nera come la notte. Mi seguì in silenzio. Si buttò su un divano. "Che stanchezza" esclamò. Prese una sigaretta da un pacchetto stropicciato come il suo vestito. "Cosa vuoi?". Andò dritto al punto. "Devi far fuori un tizio". "Non se ne parla proprio" sbottai. "Io non ammazzo nessuno per te. Ho cambiato vita". "Lo so. Sei diventato un bravo ragazzo. Ma se non mi fai questo favore finirò nella merda. E per ridurre i danni sarò costretto a collaborare. Ti trascinerò a fondo con me". E bravo lo sbirro. Mi aveva incastrato. Mi versai da bere. "Chi dovrei eliminare?". "Un mio informatore. Un merdoso di algerino infiltrato nel Fis. Abbiamo fatto un paio di affari insieme. Poi è scomparso. Ho saputo che si è messo a lavorare per i carabinieri. Se non gli tappo subito la bocca mi fotterà alla grande. Quelli della benemerita riescono sempre a farsi raccontare tutto". "Dove si trova?". "A Bologna. Ho impiegato tre giorni e tre notti a individuare il suo nascondiglio. Ho mosso mare e monti". "E perché non lo fai tu il lavoretto?". Scoppiò a ridere. "Lo farei volentieri. Ma nel momento in cui lo stronzo passerà a miglior vita io sarò nel mio ufficio a Milano. Ho bisogno di un alibi inattaccabile". "Allora sospettano già di te?". "Sì. Ma non hanno ancora nulla di preciso in mano. Stanno indagando perché ero il controllore diretto dell'algerino".
"Cos'è successo?". "Nulla che ti riguardi". "Non rischio l'ergastolo al buio. Voglio sapere in che casino ti sei cacciato". "Un corriere proveniente dall'Iran. Una valigetta piena di dollari. Ti serve sapere altro?". Scossi la testa. "Come deve morire?". "Una palla in testa. Hai conservato la .22 silenziata?". "Ho cambiato vita. Le pistole non mi servono più". "Allora te la procuro io". "Quando lo devo stendere?". "Dopodomani. Sperando che non sia già troppo tardi". "E dopo?". "Dopo cosa?". "Continuerai a rivolgerti a me ogni volta che ti troverai nella merda e avrai bisogno di uno spazzino?". "Tranquillo. Una volta risolto il problema non mi vedrai più". Capii in quel momento che Anedda voleva eliminare anche me. Altrimenti mi avrebbe scaricato addosso tutta la sua arroganza per ricordarmi
che ero al suo servizio. La storia dell'algerino gli
aveva insegnato la lezione. Nessun testimone, nessun rischio. Sentii la chiave che girava nella toppa. Roberta. Da quanto sapevo, quella sera doveva essere a casa dei suoi genitori. Entrò di corsa in salotto. "Amore, ho una sorpresa!" disse contenta. "Un cd di Alessandro Haber con Insieme a te non ci sto più". Quando si rese conto della presenza di uno sconosciuto, si zittì di colpo. "Scusate" bofonchiò imbarazzata. "Credevo che Giorgio fosse solo". Lo sbirro si alzò. "Stavo giusto andando via" disse con un sorriso tirato. "Ti accompagno alla porta". "Vedo che hai smesso di frequentare le professioniste" commentò lo sbirro sottovoce. "Ho cambiato vita" ripetei per l'ennesima volta. "Passerò domani mattina all'osteria" promise Anedda. Chiusi la porta biascicando una bestemmia. "Chi è?" domandò la mia fidanzata. Alzai le spalle. "Il proprietario di un'azienda vinicola" tagliai corto. "E cosa voleva?". "Mi ha proposto un affare". "Come mai qui a casa? Di solito vengono in
osteria". Roberta stava facendo troppe domande. L'abbracciai. "Non vedo l'ora di ascoltare la versione di Haber". Sorrise contenta, lasciando perdere la curiosità. Qualche secondo dopo la voce calda dell'attore che si era lasciato tentare dalla musica riempì la stanza. Quella notte era lei ad avere voglia di fare l'amore. L'ultimo pensiero che avevo in testa. "Un'altra volta" dissi in tono secco. La sua presenza mi infastidiva. Avevo bisogno di stare solo per riflettere. Nelle successive ventiquattro ore avrei dovuto uccidere un uomo e cercare di non fare la stessa fine. Non avevo sonno. Roberta, al mio fianco, dormiva tranquilla, la mano appoggiata sul mio petto. Il problema non era ammazzare l'algerino, ma impedire che Ferruccio lo sbirro mi eliminasse. Doveva avere già un piano. Non avrebbe tentato nulla il giorno della morte del maghrebino. La necessità di un alibi lo costringeva a rimanere chiuso in questura. Per diversi giorni. Fino a quando non si fosse scrollato di dosso il sospetto di essere un funzionario corrotto. Poi, dopo aver aspettato qualche tempo, una notte mi avrebbe sparato sotto casa. Oppure si sarebbe fatto invitare a bere un bicchiere. Ipotesi più probabile. A questo punto avrebbe dovuto eliminare anche Roberta. L'aveva visto bene in faccia. E in mia compagnia. Non avevo paura. Ma ero profondamente angosciato per l'imprevedibilità del destino. Non sopportavo l'idea di una vita in balìa degli eventi. Se fossi sopravvissuto a questa storia, cos'altro mi sarebbe capitato? Un tumore? Un incidente stradale? L'arresto di Brianese? Una crisi di tachicardia mi costrinse ad alzarmi. Che cazzo mi stava succedendo? Tornai in salotto e mi costrinsi a guardare la televisione. Un film con Franco Franchi. Recitava la parte di un fraticello che andava a trovare la zia, tenutaria di un bordello. Dopo un po' sentii che il battito si normalizzava. Tornai in camera per controllare se la mia fidanzata dormiva. Poi con un cacciavite staccai dalla parete del corridoio un pezzo di battiscopa. Una nicchia scavata nel muro nascondeva un sacchetto di nailon. Avevo mentito ad Anedda. La pistola l'avevo conservata. Perché non si sa mai quello che può succedere. Ed era stata una scelta giusta. La Ruger .22, quella che avevo usato per uccidere Ausonio e Ciccio Formaggio, era smontata. I vari pezzi li avevo avvolti in pezzuole imbevute di olio. Canna, molla, carrello, fusto, caricatore. Avvitai il silenziatore. Feci scattare a vuoto il percussore. Ero pronto a difendere la mia vita nell'unico mo do che conoscevo. Tornai a letto.
Roberta si strinse a me. Ferruccio lo sbirro si fece vedere dopo mezzogiorno. Ordinò un caffè. "Stanotte passo a casa tua. Ti porterò la foto del tizio e il pezzo". "No" risposi pronto. "C'è la mia ragazza. Vediamoci al parcheggio della stazione delle corriere". Rimuginò qualche secondo sul cambio di programma. "D'accordo. All'una e mezza. Puntuale". Marzo era iniziato da poco e il freddo della notte era ancora pungente. Mi infilai un giubbotto scuro e un caldo berretto di lana. Regali della mia promessa sposa. I guanti di pelle li avevo comperati proprio quel pomeriggio. Presi la bicicletta dal magazzino e mi diressi all'appuntamento. Era una Bianchi degli anni Cinquanta, restaurata e ridipinta. Costava molto, ma non avevo resistito perché era identica a quella del nonno. Quando ero piccolo e andavo a trovarlo, mi metteva sulla canna e mi portava in giro per il paese. La usavo ogni giorno per girare nel centro ormai precluso alle quattro ruote. Il parcheggio non era propriamente deserto. Qui e là stazionavano le macchine dove si erano appartate puttane nigeriane o albanesi con i loro clienti. L'Alfa Romeo nera era ferma al centro del grande spiazzo. Ferruccio lo sbir ro voleva essere certo di veder bene chi stava arrivando. Mi fermai all'altezza della portiera del passeggero. Mi fece segno di salire. Con il piede abbassai il cavalletto della Bianchi e aprii la portiera quel tanto che mi bastava per infilare la pistola. Tirai il grilletto dieci volte. Tutti i proiettili del caricatore. Il silenziatore attutì il rumore delle detonazioni e soffocò le vampate di fuoco che accompagnavano la fuoriuscita dei proiettili. Le persone presenti nel parcheggio avrebbero potuto sicuramente notare nel buio quella lunga serie di lampi, simili a quelli di un flash. Invece non videro e non udirono assolutamente nulla. Lo stronzo era morto. La testa appoggiata sul volante. Gli occhi sbarrati. Un rivolo di sangue che gli colava dalla bocca. Richiusi delicatamente la portiera, salii sulla bicicletta e me ne andai pedalando tranquillamente. Mi sbarazzai dei guanti e della pistola gettandoli in un cassonetto. Fu un dispiacere dire addio alla Ruger. Mi aveva servito fedelmente, ma ormai era bruciata. Nell'auto e nel corpo di Anedda erano rimaste palle e bosso li. Conservarla sarebbe stato un suicidio. Ero soddisfatto. Ma non tranquillo. Per poterlo cogliere di sorpresa avevo dovuto rinunciare a un piano più sicuro. Avrei preferito attirarlo in un posto tranquillo, in piena campagna, per poter bruciare macchina e cadavere. Ma lui era troppo furbo per cadere in un tranello così banale. Scoperto il cadavere, gli inquirenti avrebbero trovato il materiale
che mi doveva consegnare. La pistola e la fotografia dell'algerino. Il rischio è che ci fosse qualcosa che potesse collegarmi a lui. Un appunto. Un indirizzo. Un numero di telefono. Una saggia precauzione sarebbe stata quella di rendermi irreperibile per un certo periodo. Ma non potevo farlo. Avrei dovuto fornire troppe spiegazioni a troppe persone. Potevo solo aspettare. E rischiare di essere arrestato. A casa trovai Roberta. Mi stava aspettando leggendo sulla poltrona. "Dove sei stato?". "A bere un bicchiere con Brianese in un altro locale". "Avete parlato dell'udienza?". "Sì. Ormai manca poco". "Non è che sei stato con qualche donna?". "Ti prego amore, non ricominciare". Buttò sul tavolino la rivista di arredamento. Allargò le braccia per accogliermi. "Vieni qui". Mi lasciai coccolare. Avevo bisogno di rilassarmi. Chiusi gli occhi e rividi la scena della morte di Anedda. Ammazzarlo era stato necessario. E appagante. Uccidere mi era sempre piaciuto. Da quella volta che avevo sparato alla nuca del mio amico Luca in quel cazzo di selva centroamericana. Anche a Ferruccio lo sbirro avrei voluto sparare alla nuca. E non l'intero caricatore come ero stato costretto a fare nel dubbio di non colpire subito i centri vitali. Ferito, anche se gravemente, poteva estrarre la sua calibro nove e ripagarmi con la stessa moneta. Gli inquirenti avrebbero sicuramente pensato a un killer frettoloso e impreparato. Avrei preferito che si fossero trovati di fronte all'opera di un professionista. Il colpo alla nuca è solenne come la sentenza di un tribunale. E' giustizia. Due giorni dopo apparvero sui giornali gli articoli sul ritrovamento del cadavere di Anedda. In città non si parlava d'altro. Arrivarono troupe dei canali nazionali. I giornalisti sposarono la tesi del terrorismo internazionale. Ma l'interesse dei media a tenere viva la notizia non corrispondeva a quello degli inquirenti. Sbirri e magistrati sapevano bene di non aver a che fare con un servitore dello stato sacrificatosi nell'adempimento del dovere. E poi non avevano in mano un solo indizio concreto sull'autore dell'omicidio. I frequentatori abituali della zona non avevano riferito nulla di interessante. L'attenzione sul caso durò un paio di giorni, e poi svanì soppiantata da altri avvenimenti. Svanì anche la mia tensione. A quel punto mi convinsi che l'indagine non aveva fatto emer gere niente che mi riguardasse. Il mio piano aveva funzionato. Quella sera tornai a casa un po' più tardi. Accanto al telefono notai la borsa di Roberta. Una visita inaspettata. In quei giorni era stata influenzata e aveva preferito stare a casa dei genitori. La trovai in salotto. Al buio. "Stai male,
amore?" domandai premuroso. Non rispose. Accesi la luce. Aveva gli occhi gonfi di pianto e in mano una copia del quotidiano cittadino. Lo tese perché vedessi bene la foto di Ferruccio lo sbirro. Mi crollò il mondo addosso. Il destino continuava ad accanirsi contro di me. Prima Anedda. E adesso la mia promessa sposa che si trasformava in un'altra pericolosa minaccia. "E' l'uomo che ho trovato in questa stanza una settimana fa" disse in tono accusatorio. "Ti sbagli. Le fotografie dei giornali ingannano". "Alla televisione ho visto dei filmati di repertorio. Era proprio lui. E poi la notte che è stato ammazzato tu non eri a casa". "Mi stai accusando del delitto?" domandai incredulo. Iniziò a singhiozzare. "Non so cosa pensare. Sono certa di aver incontrato qui questa per sona". Assunsi un tono indignato. "Ti ho già detto che non era lui. E poi io ero con Brianese quando gli hanno sparato. Se non mi credi chiedilo a lui". Sapevo che non avrebbe mai osato avvicinare l'avvocato per porgli una domanda del genere. La mia risposta avrebbe dovuto tranquillizzarla. Invece era ancora devastata dai dubbi. L'abbracciai. "Come puoi pensare che io sia un assassino? Vuoi farmi morire di dolore?". Mi strinse a sé. "Non posso credere che tu sia un mostro, ma conoscevi quel poliziotto e hai il dovere di riferire alla magistratura quello che sai". Mi si gelò il sangue nelle vene. La faccenda si stava mettendo male. Dovevo inventarmi qualcos'altro, altrimenti lei sarebbe andata dagli sbirri a dire che aveva visto Anedda a casa mia 48 ore prima che venisse freddato. Le presi il viso tra le mani. "Sì, lo conoscevo" ammisi. "Ero uno dei suoi informatori. I terroristi si stanno riorganizzando, e la mia esperienza gli tornava utile. Non te l'ho detto prima perché si tratta di indagini delicate e segrete. Ma non sono stato io ad ammazzarlo. Ficcatelo in testa una volta per tutte". "Una ragione in più per chiarire la tua posizione" insistette testardamente, "le tue informazioni possono servire a catturare l'assassino e i suoi complici". "Lo escludo. Ma anche se fosse, questo significherebbe uscire allo scoperto, trasformarmi in un bersaglio. Dovrei nascondermi, abbandonare il mio lavoro, rinunciare a vivere con te". L'argomento mise in crisi il suo senso civico. Era il momento di rincarare la dose. "Tra pochi giorni ho la possibilità di togliermi il marchio di pregiudicato. Mi attende una nuova vita. Con te. Se vado alla polizia l'iter dell'istanza verrà sospeso e chissà quanto ancora dovrò attendere. Non costringermi a rinunciare a te. Voglio sposarti. E voglio un figlio". La recita da telenovela funzionò. Roberta pianse come una fontana e si
liberò di ogni dubbio. Scelsi il cd di Caterina Caselli. Selezionai Insieme a te non ci sto più. La presi in braccio e la portai a letto. Le sussurrai dolci parole d'amore. Quando si addormentò tirai un sospiro di sollievo. Per il momento ero al sicuro. Ma in futuro? Preso alla sprovvista, le avevo rifilato la menzogna sbagliata. Avrei dovuto dirle che avevo già parlato con gli inquirenti mantenendo la mia copertura di informatore. Ormai era troppo tardi per rimediare. L'unica speranza era il matrimonio. Legarla a me in modo indissolubile. Fino a quel momento mi ero opposto con fermezza al rito religioso. Appena sveglia le avrei detto che avevo cambiato idea e che ci saremmo sposati nella sua parrocchia. E non avremmo mancato a un solo incontro del corso prematrimoniale. La nostra sarebbe stata un'unione benedetta. E assolta da tutti i peccati. Fu una mossa vincente. La mia fidanzata si tranquillizzò e non toccò più l'argomento Anedda. Tornò a occuparsi dei preparativi delle nozze. E io feci la conoscenza del suo confessore, don Agostino, che ci avrebbe guidato nel cammino verso il sacramento del matrimonio. Un vecchio prete arcigno e puntiglioso. L'antipatia fu reciproca fin dal primo incontro. Ma ero pronto a sopportare qualsiasi cosa pur di condurla all'altare. Arrivò il giorno dell'udienza per la riabilitazione. Il giudice di sorveglianza lesse una lunga relazione. Mi fece qualche domanda. Poi diede la parola al pubblico ministero. "Non mi oppongo alla concessione del beneficio" si limitò a dire. Brianese parlò per cinque minuti. Descrisse la mia volontà di reinserimento con parole pacate ed efficaci. "Come è andata?" domandò Roberta all'avvocato quando uscimmo dall'aula. "Bene. Adesso si tratta solo di attendere la decisione. Come ti avrà già spiegato Giorgio, il tri bunale di sorveglianza la comunicherà per iscritto. Dovrete pazientare ancora qualche giorno". Festeggiammo alla Nena dopo la chiusura. Per motivi di opportunità. Una decina di amici e l'avvocato. Champagne, tartine di foie gras e una torta. Sante Brianese iniziò a raccontare aneddoti divertenti dell'ambiente del tribunale. All'improvviso sentii la voce di Roberta che domandava: "Cosa si dice in tribunale sul poliziotto ucciso nel parcheggio?". Il professionista alzò le spalle. "Poco o nulla. Indaga la Digos, e quelli hanno la bocca cucita. A dir la verità è un caso che ho seguito poco. Il giorno dell'omicidio mi trovavo a Roma per un processo in Cassazione, e quando sono tornato non se ne parlava già più". Fottuto. Ecco come mi sentii in quel momento. Stavo festeggiando la riabilitazione e la mia fidanzata mi scavava la fossa con le sue
domande del cazzo. Roberta era pallida e mi fissava smarrita. Rimase in questo stato fino alla fine della festicciola. Tornammo a casa senza scambiarci una parola. Si chiuse in bagno a piangere. Per la seconda volta in pochi giorni sprofondai in uno stato di disperazione assoluta. Quando si sarebbe calmata avrebbe preteso delle risposte. E non c'era menzogna al mondo in grado di togliermi da quel guaio. Potevo solo sperare di limitare i danni. Me la trovai di fronte all'improvviso. Il volto rigato di mascara. "Dove sei andato quella notte?". "Brianese si è sbagliato. E' un uomo pieno di impegni. Si è confuso". "Dove sei andato?" urlò. "Forse mi sbaglio io. Non ricordo bene, magari ho fatto una passeggiata". "Dove?" gridò con tutto il fiato che aveva in corpo. Mi rimaneva un'ultima versione per tentare di sviare i suoi sospetti. "E va bene. L'hai voluto tu" gridai a mia volta. "Sono stato con una donna". "Bastardo". Mi aggredì, cercando di colpirmi al viso. "Sei andato a letto con quella puttana di Martina, vero?". "No. Ne ho raccattata una per strada". L'abbracciai forte. "E' stata solo una scopata. Io amo solo te". Si divincolò e corse a chiudersi in bagno. Una decina di minuti dopo aprì la porta. Si era lavata il viso e si era pettinata.
"Non ti voglio più sposare". "Cosa stai dicendo?". "Pensavo tu fossi una persona diversa. Invece sei solo un bugiardo". "Ora sei sconvolta. Hai ragione a esserlo, ma
non è questo il momento di prendere decisioni che possono compromettere il nostro futuro". Se ne andò senza ascoltare. Mi accasciai sul divano. Avevo voglia di attaccarmi alla bottiglia di whisky, ma dovevo pensare. La perdita di Roberta era un danno di poco conto. Anzi. La nostra storia era definitivamente compromessa e continuare nel progetto del matrimonio sarebbe stata pura follia. Avrei messo in giro dei pettegolezzi poco lusinghieri nei suoi confronti. Dopo un po' si sarebbero esaurite le chiacchiere sulla vicenda. Sostituirla non sarebbe stato difficile. Il vero problema era un altro. Avrebbe taciuto sull'omicidio di Anedda, oppure ne avrebbe parlato con la mamma, le amiche e don Agostino? La conclusione era ovvia. Sarebbe stata costretta a dare ampie spiegazioni per aver mandato a monte il matrimonio e avrebbe certamente raccontato come mi aveva costretto a confessare il tradimento. E a quel punto sarebbe saltato fuori l'incontro con Anedda a casa mia. Qualcuno l'avrebbe convinta a parlare con gli sbirri. Ma non sarebbe stato neanche necessario per mettere la polizia sulle mie tracce. Una storia del genere avrebbe generato tante chiacchiere, che ben presto sarebbero arrivate alle orecchie sbagliate. Anche se Anedda era un poliziotto marcio, i suoi colleghi dovevano pur essere ansiosi di scoprire chi l'aveva riempito di piombo. Valutai l'ipotesi di fuggire. Disponevo di un gruzzoletto in grado di portarmi lontano. Ma avrei dovuto ricominciare tutto daccapo. Non era giusto. All'improvviso mi resi conto che dovevo uccidere Roberta. Non sarei voluto arrivare a tanto, ma la regola "nessun testimone, nessun rischio", si imponeva in tutta la sua evidenza. Ma era altrettanto evidente che si trattava di un problema di non facile soluzione. La sua morte violenta avrebbe attirato tutti i sospetti sul suo fidanzato, appena riabilitato ma pur sempre con un passato discutibile. Era una brava ragazza, coscienziosa sul lavoro, con un profondo senso religioso della vita. Nel suo mondo l'omicidio non era considerato un evento probabile. Ma talmente
straordinario da obbligare le forze dell'ordine a svolgere serie indagini. Se si fosse trattato di una battona, una tossica, una barbona, un'extracomunitaria, o semplicemente la donna di un qualsiasi marginale, la notizia dell'omicidio avrebbe occupato un trafiletto sui quotidiani e mezza pagina di un verbale di polizia. Passai in rassegna diverse ipotesi. La più convincente era quella di mascherare il delitto come opera di un maniaco. Ma alla fine gli sbirri avrebbero bussato sempre alla mia porta. Da qualunque lato esaminassi la faccenda rimanevo il sospetto principale. Chiusi gli occhi. Ripensai a lei dal primo momento che l'avevo notata all'osteria. Il ricordo di un dialogo fece scattare qualcosa nella mia mente. Al principio non capii cosa. A forza di pensarci divenne sempre più nitida e si concretizzò in un'idea. E poi in un piano. Mi alzai prima del solito. Attesi che don Agostino terminasse di officiare la messa delle sette. Lo intercettai mentre si avviava verso la canonica, seguito dai due chierichetti. "Le devo parlare. E' importante". "Non ho tempo stamattina" rispose sgarbato. "E' successa una cosa grave tra me e Roberta. Mi conceda qualche minuto. La prego". Alzò gli occhi al cielo. "Aspettami nel mio ufficio, il tempo di cambiarmi e sono da te". Si fece vedere dopo una buona mezz'ora. Da alcune briciole di pane sulla tonaca dedussi che ne aveva approfittato per fare colazione. "Allora, raccontami cos'è successo". "Padre, ho fatto una cosa bruttissima. Ho tradito Roberta" dissi subito per attirare la sua attenzione. Volevo che ricordasse ogni parola di quel colloquio. "Una notte non ho resistito alla tentazione e ho comprato il corpo di una prostituta. Mi sono reso conto di aver sbagliato quando ho trovato la mia fidanzata ad aspettarmi. All'ini zio non ho avuto il coraggio di confessarle quello che avevo fatto e le ho mentito per giustificare la mia uscita notturna. Poi, per una serie di eventi, la mia bugia è stata scoperta, e sono stato costretto a dire la verità". "Le bugie hanno le gambe corte" commentò soddisfatto. "E adesso cosa vuoi da me?". "Roberta non mi vuole più sposare. Lei deve convincerla a riconsiderare la sua decisione. Con me non vuole più parlare". "Forse non sei l'uomo adatto a lei. I suoi genitori ne sono sempre stati convinti. In passato ti sei macchiato di gravi colpe, e anche adesso, a pochi mesi dal matrimonio, continui ad avere una condotta immorale". "E' stato un momento di debolezza. Non accadrà più. Io sono profondamente innamorato di Roberta. Sono certo di poterla rendere felice". "Proverò a parlarle. Ma non ti prometto nulla. Mentire e andare con le prostitute sono
peccati gravi. Quella ragazza non merita tanto dolore". Mi esibii in un'espressione contrita e me ne andai in silenzio. La mia seconda tappa fu in una biblioteca di quartiere. A quell'ora del mattino era frequentata per lo più da pensionati. Trovai il volume che mi interessava. Verificai l'esattezza dei miei ricordi e me ne andai a lavorare. La giornata trascorse tranquilla. Un cliente venne a chiedermi un prestito. Cinque milioni. Me ne avrebbe restituiti sei la settimana seguente. Lo accontentai. Era già capitato che qualche habitué mi chiedesse piccole somme in contanti. Fino ad allora li avevo indirizzati a una delle bande di usurai con cui ero in affari. Ma a pensarci bene potevo organizzare una piccola finanziaria nell'osteria. Il segreto per non destare l'interesse delle forze dell'ordine era quello di limitarsi a cifre basse. Per tutto il giorno mi feci vedere allegro. Con diverse persone parlai del matrimonio, chiedendo consigli su fiorai e fotografi. Poco prima della chiusura ricevetti una telefonata di Roberta. "Ti devo parlare". "Don Agostino?". "Sì. Mi ha convinto. Dobbiamo guardare nel profondo dei nostri cuori e valutare la sincerità dei nostri sentimenti". "Ti aspetto a casa". Aveva il viso sciupato. E un'aria stanca. Si sedette sulla poltrona. "Mi addolora vederti soffrire così". "E' solo colpa tua". "Che commenti hanno fatto tua madre e le tue amiche?" domandai per saggiare il terreno. Scosse la testa. "Non ho ancora detto nulla. Ho troppa vergogna di raccontare quello che hai fatto". "Hai fatto bene a non parlarne con nessuno. Sono certo che riusciremo a capirci. E tutto tornerà come prima". Dalla borsa prese un fazzoletto e cominciò a frignare. "Non mi fido più di te". "Non piangere, ti prego. Così diventa difficile parlare". Si asciugò gli occhi e si soffiò il naso. "Non sono mai stata tanto male in vita mia". Le accarezzai la guancia. "Hai cenato?".
Scosse la testa. "Non riesco a buttare giù niente". "Ma così ti ammalerai" esclamai preoccupato. "Mangerò qualcosa a casa". "Dall'osteria ho portato un paio di porzioni di cannelloni con la ricotta. Stavo giusto per mettermi a tavola. Dai, fammi compagnia". Aggiunsi un piatto. Le offrii un bicchiere di vino mentre la pietanza si riscaldava nel microonde. Lasciai che si servisse da sola. Ne prese uno solo. Le passai la formaggiera. Mangiammo in silenzio. "Don Agostino crede che tu non sia un uomo adatto al matrimonio. E' convinto che tu sia una persona amorale". "Si sbaglia". "E allora perché sei andato con quella prostituta?".
"Per colpa tua. Sessualmente lasci molto a desiderare". Arrossì per la vergogna. "Avevo bisogno di tempo. Tu hai molta più esperienza, e comunque certe cose che vuoi fare con me non mi piacciono. Mi sembrano sporche, innaturali tra due persone che si vogliono sposare". "E' il tuo giudizio o quello di don Agostino?". "E' il mio confessore". "Ma non ha nessuna esperienza in questo campo. E ti sta consigliando male. Per esempio, cosa pensi quando ti tocchi?". "Smettila. Non voglio parlare di queste cose". "Invece di portarle in confessionale, quelle fantasie dovevi portarle a letto. Ci saremmo divertiti e io non avrei sentito il bisogno di sbattermi una prostituta". "Non usare quei termini. Mi danno fastidio". "Perché Alfio ti ha lasciato?". "Non sono affari tuoi". "Non riuscivi a soddisfarlo. Ecco la verità. Lui ha rotto il fidanzamento, io sono andato a cercare il piacere altrove. E il prossimo come credi che si comporterà?". Scoppiò a piangere. Decisi di smorzare i toni della
discussione. Ormai doveva essersi convinta che la mia uscita notturna fosse stata motivata dai bisogni della carne. L'abbracciai forte. "Io ti amo, Roberta. Non voglio perderti. Ti giuro sulla memoria di mio padre e mia madre che non andrò più con nessun'altra donna. Farò l'amore solo con te. Senza forzarti e rispettando la tua sensibilità". Mi prese il viso tra le mani. Mi fissò dritto negli occhi. "Lo giuri davvero?". "Lo giuro. Don Agostino mi ha fatto capire che il sesso è solo uno degli aspetti della vita di coppia". "Come vorrei crederti". "Fallo e sarai felice". "Sono confusa. Prima la storia del poliziotto ucciso. E poi l'umiliazione di essere tradita con una donna di strada". "Non pensarci più. Pensa al nostro futuro". "Non ci riesco" ribattè sconsolata. "Era più bella di me?". Sorrisi. "Questo è impossibile". "Era una negra?". "No". "L'hai baciata sulla bocca?". "No". "Hai usato il preservativo?". "Sì". "Voglio sapere cosa avete fatto".
"Adesso basta. E' una richiesta umiliante per entrambi".
Calò un silenzio carico di tensione. La lasciai tranquilla per un po'. Le offrii una sigaretta e un bicchierino. Accesi la televisione. La sintonizzai sulla replica notturna di Striscia la notizia. Il Gabibbo la metteva di buonumore. Le proposi di mangiare una fetta di tiramisù. Era il suo dolce preferito. E il cuoco della Nena lo preparava in maniera eccellente. "Mi vuoi prendere per la gola?" scherzò. "In tutti i modi. Pur di riconquistare il tuo cuore". Ne mangiò due fette. Le accompagnò con del marsala invecchiato. Poi si alzò. "Vado a casa". "Rimani qui, ti prego. Stare vicini ci aiuterà a ritrovarci". "E va bene. E poi sono troppo stanca per guidare fino a casa". Quando si svegliò le portai la colazione a letto. Latte macchiato e Nastrine del Mulino Bianco. "Voglio trattarti come una principessa". Mi sorrise. "Devo sbrigarmi. Altrimenti arrivo tardi al lavoro". "Ti aspetto a pranzo". Le servii linguine al pesto. Con molto parmigiano. Il suo umore era migliorato. Anche se continuava a sentirsi spossata. E infastidita da un persistente prurito al viso e alle mani. "Stai somatizzando lo stress di questi giorni" commentai. "Ti passerà presto". Quando lei tornò la sera, il prurito era peggiorato. Ed esteso al seno e all'inguine. "Vai a casa mia. Ti raggiungo appena possibile. E non mangiare troppo. Magari è un'intossicazione. In frigo ci sono degli yogurt". Attesi un'oretta. Poi dissi ai camerieri che ero preoccupato per la mia fidanzata che non si sentiva bene. Chiesi al più anziano di occuparsi della chiusura del locale. Quando entrai in casa, notai il vasetto di yogurt sul bordo della poltrona. Lo presi in mano. Era vuoto. Andai in camera. Roberta era distesa sul letto. In camicia da notte. Immobile. Il volto trasfigurato dai pomfi rosei di una grave eruzione cutanea. "Sto male. Chiama un medico". "Non mi pare sia il caso" dissi. Si toccò il viso. "Oddio" gemette. "Cosa mi sta succedendo?". Mi sedetti sul bordo del letto. "Stai morendo, Roberta. Hai ingerito una quantità eccessiva di aspirina. E tu sai quanto l'acido acetilsalicilico sia nocivo per la tua salute". "Cosa stai dicendo?". "Ho messo aspirine polverizzate in tutti i cibi che hai mangiato nelle ultime 24 ore. Nei cannel loni, nel latte, nel parmigiano..." spiegai mentre infilavo nella sua borsa la scatola di pastiglie che avevo usato. "Mi hai avvelenato". "Sì. Mi sono ricordato che una
volta mi avevi detto di essere allergica all'aspirina. Avevo una zia che aveva il tuo stesso problema. La cosa mi aveva colpito perché, allora, non riuscivo a credere che una medicina potesse uccidere una persona". "Chiama un medico, ti scongiuro". "Non è necessario. La mia diagnosi è esatta". "Perché mi uccidi?". "Non posso permettere che tu vada in giro a raccontare di aver incontrato Anedda in questa casa. E neppure che la notte in cui è stato assassinato ero a spasso per la città". "Sei stato tu?". "Sì. E non chiedermi perché. Prega piuttosto. Come ho potuto verificare oggi in biblioteca, secondo la letteratura medica internazionale dovresti schiattare al massimo tra un paio d'ore". Si afferrò il collo. "Aiuto, mi manca l'aria". "E' la crisi respiratoria. Te ne stai andando, bella mia". Roberta si attaccò con le unghie alla vita. Iniziò a maledirmi. La sua voce era diventata afona. E insopportabile. Andai in salotto e accesi lo stereo. La voce di Caterina Caselli riempì la casa. Bisognerebbe avere un cuore talmente puro In questo fango vedere nascosto il cielo Bisognerebbe amare davvero Non avere paura Roberta, nel frattempo, era diventata cianotica. Labbra e unghie blu. Dal movimento delle labbra capii che si stava raccomandando l'anima al Signore. Guardai l'orologio. Poteva morire per insufficienza respiratoria o per collasso cardiovascolare. L'importante era che si spicciasse. Appena perse conoscenza, chiamai l'ambulanza. Mi feci trovare in pigiama. "Mi sono svegliato e l'ho trovata così". Quando la caricarono sulla barella era ancora viva. Ma non ce l'avrebbe fatta. Troppo tardi. Tirai un sospiro di sollievo. Non ne potevo più di recitare la parte dell'innamorato. Tutte quelle smancerie da soap opera che ero stato costretto a dire mi rivoltavano lo stomaco. L'autopsia svelò la causa della morte. Insufficienza respiratoria. Gli esami tossicologici individuarono la sostanza che l'aveva prodotta. I genitori affermarono che mai e poi mai la loro Roberta avrebbe assunto acido acetilsalicilico. Furono così convincenti che un paio di carabinieri in borghese vennero a trovarmi a casa. L'osteria era chiusa per lutto. Recitai la parte dell'uomo distrutto. Non riuscii a impressionarli. "Era al corrente del fatto che la sua fidanzata era allergica all'aspirina?" chiese il maresciallo.
"No. Non lo sapevo". "E come mai?" chiese il brigadiere. "Come mai cosa?". "Non lo sapeva" spiegò l'altro. "Non me l'aveva mai detto". "Il medico legale ci ha detto che ci ha messo un bel po' a morire. Come mai lei non si è accorto di nulla?". "Roberta era venuta al locale. Aveva detto che non si sentiva bene...". "Questo lo sappiamo. Abbiamo interrogato il personale. La domanda era un'altra". "Quando sono tornato a casa Roberta era a letto. Stava dormendo...". "Non stava dormendo. Era in piena agonia...". "Sembrava che stesse dormendo. Mi sono messo il pigiama e mi sono infilato a letto". "E non si è accorto di nulla?". "No". "Non le ha dato nemmeno il bacio della buona notte?". "No". "Strano. I fidanzati e gli sposini si danno sem-
pre il bacio della buona notte". "Quella sera non è successo". "E com'è che si è accorto che la sua fidanzata
stava male?". "Dovevo andare in bagno. Ho acceso la luce. Mi sono reso conto che Roberta aveva il viso gonfio e le labbra viola. Ho chiamato immediatamente l'ambulanza". "Ma quando si è coricato il viso gonfio non l'aveva notato?". "No. Era girata su un fianco". Rimasero zitti per un po', fissandomi con un'espressione perplessa. "Andavate d'accordo?" chiese il maresciallo. "Ultimamente c'erano stati degli screzi. Ma poi tutto si era sistemato". "E di che natura erano questi "screzi"?". "Non credo che questo possa interessarvi". "Ci interessa, invece". "Non fare lo stronzo, Pellegrini" intervenne il brigadiere. "Anche se ti stanno ripulendo la fedina per noi rimani sempre un delinquente. E noi ai delinquenti gli spacchiamo il culo". "Fate come volete". "Don Agostino ci ha raccontato una storiella interessante". "E va bene. Sono andato a puttane". "Ti ricordi con quale?".
"No".
"E almeno dove te lo ricordi?". "La circonvallazione della zona industriale". "Che giorno era?". Alzai le spalle. "Non me lo ricordo. E poi che importanza ha?". "Noi siamo pagati per fare domande. Anche quelle poco importanti". "Vuoi sentirne una importante?". Allargai le braccia. "Sentiamola". "Hai dato tu l'aspirina alla tua ragazza?". "No". "E allora dove l'ha trovata?". "In una farmacia, immagino". "I famigliari dicono che è impossibile. Sapeva che l'avrebbe uccisa". "Allora non lo so". "Nei giorni precedenti alla sua morte aveva detto di avere mal di testa, dolori mestruali, la febbre
o qualche altra magagna?". "A me ha detto di essere infastidita da un forte prurito". "Nient'altro?". "Nient'altro". Il maresciallo chiuse il taccuino e si avviò verso la porta, prontamente imitato dal collega. Posò la mano sulla maniglia, poi si voltò verso
di me. "Sulla morte di Roberta si possono formulare solo tre ipotesi: incidente, omicidio o suicidio. L'incidente possiamo tranquillamente escluderlo. O ha deciso di farla finita per il dolore e l'umiliazione che le avevi procurato o l'hai ammazzata tu". "Perché avrei dovuto uccidere Roberta? L'amavo, volevo sposarla". "Già. Il movente" disse pensoso. "Se fosse per me ti sbatterei in galera fino al termine delle indagini, ma nessun giudice firmerebbe un mandato di cattura sulla base di qualche sospetto e senza un movente preciso". "Ci vediamo presto" aggiunse il brigadiere. "Magari in caserma". Andai in cucina a prepararmi un caffè. Accesi una sigaretta e la gustai con calma. Era andata bene. Gli sbirri non avevano nulla in mano. L'inchiesta sarebbe stata archiviata. Era solo questione di tempo. Ne ero certo. Ma a ogni buon conto telefonai all'avvocato Brianese. "Non ti preoccupare, Giorgio" disse in tono comprensivo. "Parlerò con il procuratore. E chiederò ai nostri amici in divisa di intervenire. Ti garantisco che quei due non ti daranno più fastidio". Già, gli amici. Al funerale c'erano tutti. Perfino gli usurai. Solo i genitori e i parenti di Roberta in chiesa non mi degnarono di uno sguardo. In qualche modo mi ritenevano responsabile della sua morte. Sante Brianese venne a sedersi al mio fianco. Mi strinse il braccio. "E' arrivata la notifica del tribunale di sorveglianza. Sei stato riabilitato". Scoppiai a piangere. Per la felicità. Ce l'avevo fatta. L'incubo era finito. Potevo finalmente essere uno come gli altri. Uno dei tanti. Mi asciugai gli occhi. Non vedevo l'ora che finisse quello strazio. Qualcuno mi prese la mano. Era Martina. Nel suo sguardo lessi la determinazione a prendere il posto di Roberta. Risposi alla stretta. L'avrei sposata. E non avrei più ucciso nessuno. Non ne avevo più bisogno. Ero riuscito finalmente a recidere ogni legame con il passato. Il presente e il futuro erano rappresentati da una comunità che aveva il senso dell'amicizia e della solidarietà. E degli affari. Sarei stato considerato uno stimato e onesto cittadino, impegnato solo a guadagnarsi il pane. E a godersi i soldi. Il cimitero era illuminato da un bel sole caldo. Il mesto corteo seguiva il carro funebre in assoluto silenzio. Si udiva solo il rumore dei passi sulla ghiaia dei viali. La mia corona era la più grande. Sul nastro avevo fatto scrivere "Arrivederci amore, ciao". Non mi era venuto in mente altro. Nota sull'Autore
Massimo Carlotto è nato a Padova nel 1956 e vive a Cagliari. Scoperto dalla scrittrice e critica Grazia Cherchi, ha esordito nel 1995 con il romanzo Il fuggiasco, pubblicato dalle Edizioni e/o e vincitore del premio del Giovedì 1996. Per la stessa casa editrice ha scritto, oltre ad Arrivederci amore, ciao, altri cinque romanzi: La verità dell'Alligatore, Il mistero di Mangiabarche, Le irregolari, Nessuna cortesia all'uscita (premio Dessi 1999 e menzione speciale della giuria premio Scerbanenco 1999) e Il corriere colombiano. I suoi libri sono pubblicati o in corso di pubblicazione in vari paesi. Massimo Carlotto è anche autore teatrale, sceneggiatore e collabora con quotidiani, riviste e musicisti.