ANNE & SERGE GOLON ANGELICA E L’AMORE DEL RE (Angélique Et Le Roy / Seconda Parte, 1959) 1 Il cavaliere risaliva il vial...
189 downloads
1216 Views
817KB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
ANNE & SERGE GOLON ANGELICA E L’AMORE DEL RE (Angélique Et Le Roy / Seconda Parte, 1959) 1 Il cavaliere risaliva il viale delle grandi querce. Girò intorno allo stagno dorato dal riflesso dell'autunno, e riapparve dinanzi al ponte levatoio in miniatura di cui fece suonare la campana. Angelica, ferma dietro i piccoli vetri della sua stanza, vide l'uomo che metteva piede a terra. Riconobbe la livrea dei domestici della signora di Sévigné, e capì che si trattava di un corriere mandato dalla marchesa. Gettandosi sulle spalle un mantello di velluto si affrettò a scendere le scale, senza aspettare che una servente bene educata le recasse la missiva su un vassoio d'argento. Pochi istanti dopo, avendo raccomandato all'uomo di recarsi nelle cucine per riscaldarvisi e rifocillarsi, risaliva, si risedeva accanto al fuoco, girando e rigirando la missiva, felice. Non era che la lettera di un'amica, ma Angelica l'accoglieva come una distrazione particolarmente gradita. L'autunno era sul finire. Stava per giungere l'inverno e Dio sa se l'inverno al Plessis era triste. Il bel castello stile Rinascimento, creato per servire da cornice a feste campestri, assumeva un aspetto infreddolito contro i rami spogli della foresta di Nieul. Scesa la sera, gli urli dei lupi giungevano a volte sino al ciglio del parco. Angelica temeva il ritorno di quelle lugubri serate che, nella stagione trascorsa, mentre rimasticava il proprio dolore, l'avevano resa quasi pazza. La primavera l'aveva calmata. Aveva percorso i campi a cavallo. Ma a poco a poco l'ambiente penoso del paese l'aveva di nuovo rattristata. La guerra pesava assai sui contadini. Quelli del Poitou, rabbiosi, parlavano di nuovo di buttare in acqua gli esattori delle imposte e quando non era la miseria a destare la loro violenza, era l'amarezza dei villaggi protestanti che prendeva il sopravvento e causava con i cattolici sanguinosi disaccordi. Situazione pericolosa di cui non si vedeva la via d'uscita. Angelica, stanca, rinunciava ad ascoltare le proteste. E si isolava sempre più. Il vicino più prossimo era l'amministratore Molines. Più lontano c'era Monteloup, dove suo padre terminava di invecchiare tra la nutrice e la zia Marta. E come visite, non poteva sperarne altre che quella del signor del
Croissec, un nobiluccio pesante e brontolone come un cinghiale, che le faceva una corte goffa e impacciata di cui non sapeva come sbarazzarsi. La giovane donna ruppe con impazienza i sigilli e prese a leggere. «Mia carissima,» scriveva la simpatica marchesa, «vengo a voi con un intero mucchio di rimproveri e di cose affettuose che dividerete secondo il vostro intendimento per non vedervi dopo di ciò che la forza dell'interesse ch'io vi porto. Mi avete molto trascurata, da alcuni mesi. Poi vi siete rinchiusa, non lasciando alle vostre amiche la consolazione di darvi conforto nella prova che vi colpiva. Ninon si rattristò di quella fuga come me ne rattristai io. Io che, avendo rinunciato all'amore, ho riempito il mio cuore di amicizia, e che, vedendo inutile, respinta, vacante la mia amicizia mi trovo spogliata del mio unico bene. «Questo per i rimproveri. Non seguiterò su questo tono. Vi amo troppo. Sono imitata in ciò da molta gente, e non tutti sono di sesso maschile. Perché il vostro fascino, la vostra semplicità, vi fanno trovar grazia persino dinanzi a colei che potrebbe considerarvi rivale. Vi si rimpiange. Non si sa a volte come attaccare un nastro, una fibbia senza il vostro parere. La moda esita e teme d'ingannarsi non avendo ricevuto il consenso del vostro buon gusto. Allora ci si rivolge alla signora di Montespan, che ha altrettanto buon gusto di voi e che non vi rimpiange. Finalmente regna. È tuonante e trionfante. Tanto più che suo marito ha ricevuto la ricompensa delle sue gesta. Il re gli ha fatto consegnare cinquemila lire e l'ordine di andarsene nel Roussillon e di non muoversi più. Non si sa se obbedirà su quest'ultimo punto, ma per il momento è laggiù. «E poiché vi parlavo di moda e vi dicevo che la signora di Montespan presiedeva ai suoi mutamenti, non vi stupirò raccontandovi ch'essa l'ha resa assai accomodante per se stessa. Ha lanciato una forma di gonna sostenuta su lievi archetti sul dinanzi e non più soltanto sul didietro, il che consente alla figura di svilupparsi in certe circostanze, con la più grande discrezione. Scommettiamo che l'aumento della popolazione si risentirà favorevolmente di questa moda. La signora di Montespan ne approfitta per prima. È priva di vergogna, più bella che mai e il re non ha occhi che per lei. La povera La Vallière non è più che un fantasma. Un fantasma condannato a errare tra i vivi. Il re ne aveva abbastanza del romanzo azzurro, delle dolci lagrime. Desiderava una amante che gli facesse onore, più esigente, più dura a sopportare il male. Dura, lo sarà. Tutti vi si spezzeranno contro. Non vedo alla corte donne che possano eguagliarla e resisterle. Di-
co: presentemente, perché voi non ci siete. Anche lei lo sa. Parla di voi dicendo "quel cencio "...» Angelica s'interruppe, soffocata, poi riprese la lettura, non avendo nessuno con cui condividere la propria indignazione. «Sotto il suo impulso, Versailles sta diventando un incanto. Ci fui lunedì scorso e mi riempii gli occhi di meraviglie. Alle tre, il re, la regina, Monsieur, Madame, Mademoiselle, tutti i principi e le principesse, la signora di Montespan, tutto il suo seguito, tutti i cortigiani, tutte le dame, insomma tutto quel che si chiama la corte di Francia si trovava nel bell'appartamento del re. Tutto è ammobiliato divinamente, tutto è magnifico. La signora di Montespan è una trionfante bellezza da far ammirare a tutti gli ambasciatori. Sì, la sua bellezza è incomparabile, e la sua acconciatura come la sua bellezza, e la sua gaiezza come la sua acconciatura. Ha spirito, una fine educazione, espressioni singolari, una eloquenza istintiva che le fa come un linguaggio particolare ma delizioso. Tutte le persone che servono intorno a lei imitano questo genere. Le si riconosce da ciò. «Non vuole uscire che scortata dalle guardie del corpo. Quando ci fui io, la marescialla di Noailles le portava lo strascico. Quello della regina non era portato che da un semplice paggio. Ha un appartamento di venti stanze al primo piano. La regina non ha che undici stanze al secondo piano...» Angelica sollevò il capo. Descrivendole il fasto e la gloria della signora di Montespan, la marchesa di Sévigné non aveva intenzioni segrete? Quella donna affascinante, piena d'indulgenza, si era sempre mostrata assai severa nei riguardi della bella Atenaide. L'ammirava, ma non aveva per lei alcuna simpatia. «State in guardia,» aveva spesso ripetuto ad Angelica. «Atenaide è una Mortemart. Bella come il mare, selvaggia come lui. Vi distruggerà, se le darete fastidio!» Vi era molta verità in questo giudizio. Angelica l'aveva imparato a proprie spese. Perché la marchesa di Sévigné teneva tanto, allora, a convincerla della vittoria della bella Montespan? Sperava forse che Angelica se la sarebbe presa tanto da ritornare a Versailles per disputare un posto al quale non teneva? La signora di Montespan era la favorita. Il re non aveva occhi che per lei. Ebbene, tutto andava per il meglio... Bussarono un lieve colpo alla porta e Barbara si presentò tenendo per mano il piccolo Carlo Enrico. «Il nostro cherubino sarebbe lieto di salutare la mamma.» «Sì, sì,» fece distrattamente Angelica.
Si alzò e andò a guardare dalla finestra. Nulla si muoveva in quella natura grigia, bianca e nera. «Può restare a giocare un poco qui?» proseguì Barbara. «Gli fa tanto piacere! Ma, in realtà, non fa molto caldo nella camera. La signora ha lasciato spegnere il fuoco.» «Rimettete un po' di legna.» Il bimbo era rimasto accanto alla porta, tenendo stretto nel pugno un bastoncino sormontato dalle quattro ali di un piccolo mulino a vento. Indossava una lunga veste di velluto azzurro e aveva sui riccioli lucidi e dorati un berrettino ornato di piume bianche che gli ricadevano sul collo. Angelica gli sorrise macchinalmente. Si divertiva a mettergli addosso i vestiti più ricchi, perché era davvero bellissimo. Ma perché far tanto lusso lì dove nessuno poteva ammirarlo? Era un vero peccato! «Allora, lascio qui il piccino, signora?» insisteva Barbara. «Ma no. Non ho tempo. Bisogna che scriva alla signora di Sévigné, il cui corriere riparte domani.» Barbara capì, dal viso della padrona, ch'era preoccupata. Sospirò e riprese la manina del suo pupillo, che si lasciò portar via docilmente. Rimasta sola, Angelica tagliò una penna, ma non si affrettò a scrivere. Voleva soprattutto riflettere. Una voce da cui si difendeva a fatica le andava ripetendo: «Versailles vi aspetterà.» Era vero? Forse Versailles la dimenticava ed era meglio così. Ella lo aveva voluto. Ed ora si sentiva addolorata. Era venuta ad abbattersi al castello del Plessis in un grande desiderio di sfuggire a un pericolo che non voleva precisare, e anche per un bisogno di espiazione nei riguardi di Filippo; non si era fermata per nulla a Parigi. Il palazzo del sobborgo SaintAntoine le sembrava sinistro con i suoi oscuri corridoi in cui evocava Filippo e la sua triste infanzia di piccolo signore troppo bello, troppo ricco, e abbandonato. Al Plessis, aveva goduto dell'autunno sontuoso e si era inebriata di solitudine con lunghe cavalcate attraverso la campagna. Ma, venuto il freddo, quell'esistenza monotona le pesava. Un valletto si presentò per chiedere se la signora avrebbe fatto colazione in camera o nella stanza da pranzo. In camera, evidentemente! Disotto si gelava ed ella non aveva più il coraggio di presiedere sola, lei due volte vedova, la lunga tavola dei banchetti carica di argenteria. Allorché si vide sistemata dinanzi al fuoco, con un tavolinetto carico di piccole marmitte di argento dorato che lasciavano sfuggire delicati fumi e
di cui ella sollevava uno dopo l'altro i coperchi per scoprirne le sorprese, si disse a un tratto, amaramente, che aveva ormai tutto di una vecchia vedova sul declinare. Nessun uomo era accanto a lei per ridere con indulgenza della sua graziosa golosità... Per ammirare le sue mani, che aveva poco prima unte e sbiancate per oltre due ore con acqua e unguenti. Per farle un complimento sulla sua pettinatura. Angelica corse allo specchio, si studiò a lungo e si trovò perfettamente bella. Sospirò a varie riprese. L'indomani, si presentò una carrozza. Il signore e la signora di Roquelaure, mentre si recavano in Armagnac nelle loro terre, facevano una deviazione per render visita alla graziosa marchesa del Plessis e per consegnarle un messaggio da parte del signor Colbert. La duchessa di Roquelaure si soffiava di continuo il naso. Si era presa un bel raffreddore per strada, diceva. Aveva così un pretesto per nascondere le lagrime amare che non riusciva a trattenere. Approfittò di un momento in cui si trovava sola con Angelica per confidarle che il marito aveva preso ombra della sua leggerezza e aveva deciso di sottrarla alle tentazioni della corte, rinchiudendola nel loro lontano castello. «È proprio tempo per lui di fare il geloso,» si lamentò, «quando la mia relazione con Lauzun è ormai storia vecchia. Sono vari mesi che mi ha abbandonato. Ho sofferto molto. Che può trovare d'interessante nella signorina di Montpensier?» «È nipote di Enrico IV!» fece notare Angelica. «È comunque qualcosa. Ma non posso credere che Lauzun si lasci trascinare a giocare imprudentemente con il cuore di una principessa di sangue reale. Non è serio.» La signora di Roquelaure affermò che al contrario la cosa era sempre più seria. La Grande Mademoiselle aveva chiesto al re l'autorizzazione di sposare il duca di Lauzun, di cui era violentemente presa. «E che cosa ha risposto sua maestà?» «La sua formula solita. Vedremo!... Si ha l'impressione che il re si lascerà piegare dalla passione di Mademoiselle e dall'affetto che ha da tanto tempo per Lauzun. Ma la regina, Monsieur, Madame, sono offesi all'idea di quello strano matrimonio. E persino la signora di Montespan dà in gridi indignati.» «Di che cosa s'immischia, quella lì? Non è mica di sangue reale!»
«È una Mortemart. Ha il senso di ciò che è dovuto a un rango elevato. Lauzun non è che un oscuro gentiluomo guascone.» «Povero Péguilin! Come lo disprezzate, ora.» «Ahimè!» sospirò la signora di Roquelaure, riprendendo a piangere. La lettera del signor Colbert era di un altro tono. Lasciando da parte la superficialità e le chiacchiere della corte, di cui egli non sapeva che farsene, pregava la signora del Plessis di ritornare al più presto per occuparsi di un affare di seterie che lei sola poteva portare a buon fine. Angelica tergiversò due giorni prima di rispondergli, ciò che le diede il tempo di ricevere un'altra missiva mandata per mezzo della vettura pubblica. Era di mastro Savary, il vecchio farmacista. «Solimano Basctiari Bey, inviato dello scià di Persia, è alle porte di Parigi,» scriveva. «E voi non ci siete! E la mummia minerale così preziosa sarà offerta, disprezzata e forse dispersa senza che voi possiate salvarmene una sola goccia. Eppure, mi avevate promesso il vostro aiuto, o traditrice! L'unica occasione della mia vita è perduta. La scienza beffata, l'avvenire compromesso...» Due lunghi fogli coperti d'una piccola calligrafia minuziosa continuavano così, mescolando suppliche e imprecazioni. Dopo aver letto, Angelica decise che non poteva far altro che ritornare a Parigi. 2 Da Parigi, si recò a Versailles. Incontrò il re nel parco, in fondo al tappeto verde, che la neve trasformava in tappeto bianco. Nonostante il freddo acuto, il sovrano non rinunciava alla sua passeggiata quotidiana. Se la stagione non consentiva di ammirare fiori e foglie, la bella rettilineità delle linee, l'armonia dei viali erano pure ammirevoli nello scenario invernale. Ci si poteva fermare dinanzi alle nuove statue, di un marmo candido come la neve o dinanzi a quelle di piombo sul fondo grigiastro dei sottoboschi. La corte, a piccoli passi, girava intorno alla vasca di Apollo. Riflesso dalla superficie ghiacciata, il gruppo dorato del dio e del suo carro trainato da sei corsieri scintillava di mille fuochi sotto il sole ed era davvero il simbolo dell'astro del giorno che si lanciava in un'apoteosi.
La signora del Plessis-Bellière aspettava accanto a un carpino con il paggio, Flipot, che le reggeva lo strascico del pesante mantello, le due accompagnatrici e il primo gentiluomo Malbrant Colpo di Spada. Andò incontro al re e si sprofondò in una grande riverenza di corte. «Piacevole sorpresa,» disse il re, chinando leggermente il capo. «Penso che la regina se ne rallegrerà con me.» «Sono stata a presentare i miei doveri a sua maestà, che si è degnata di parteciparmi la sua soddisfazione.» «La condivido anch'io, signora.» Dopo un altro cortese cenno del capo, il re si volse al principe di Condé che lo accompagnava e riprese con lui a conversare. Angelica si mescolò al seguito, rispondendo gentilmente alle parole di benvenuto che le venivano rivolte. Guardava avidamente le toilette delle dame di corte notando con un'occhiata i nuovi particolari. In pochi mesi, il suo vestito aveva assunto un aspetto terribilmente provinciale e fuori moda. Era forse l'influsso della signora di Montespan che già imponeva tutte le sue fantasie? Angelica aveva tralasciato di salutarla. Ma Atenaide le dedicò un sorriso scintillante e alcuni allegri cenni di amicizia. Bisognava riconoscere ch'era sempre più bella, con quel suo volto delizioso, di cui il freddo ravvivava il roseo colorito, incorniciato in una sontuosa pelliccia d'un grigio quasi azzurro, morbido e come vivente. Tutte le pellicce erano assai belle, notò Angelica. Il re aveva un grande manicotto dello stesso pelo del cappuccio della signora di Montespan, trattenuto da un cordone d'oro. Molti gentiluomini e dame lo imitavano. Angelica udì Monsieur discorrere con la sua voce di falsetto con la signora di Thianges. «Trovo questa moda veramente stupenda e sono pronto a intendermi come meglio è possibile con quegli amabili moscoviti ai quali la dobbiamo. Sapete che hanno mandato in dono, precedendo la loro ambasciata, tre carretti delle più belle pelli che si possano sognare: pelli di volpi, di orsi, di "skungs"... meravigliose!... Ah! È finita con quei piccoli manicotti non più grandi di una zucca,» esclamò occhieggiando ironicamente verso quello di Angelica, «quella roba lì meschina, avara. Come ce ne siamo potuti accontentare?... Già, il mio è di astrakan... Sono molto curiosi tutti questi ricciolini. Sembra che adoperino soltanto pelli di agnello nato morto...» Intanto, il gruppo risaliva lentamente il viale reale verso il palazzo, anch'esso color di sole punteggiato d'oro dal riflesso dei vetri e dei ghiacci.
Con quel gran freddo, avevano dovuto accendere tutti i camini. Molti fili di fumo bianco si elevavano diritti nel cielo azzurro. Grazie a quegli immensi fuochi nei monumentali camini, e grazie ai bracieri disposti lungo le gallerie, la temperatura all'interno era sopportabile. Nel salone di Venere, dov'era sistemata la tavola del re, e dove tutti si ammucchiarono, si ebbe presto l'impressione di soffocare. Angelica abbandonò vilmente in un angolo il piccolo manicotto «non più grande di una zucca». Il suo vestito nero era anch'esso fuori moda. Doveva ancora conservare il lutto per suo marito e vi si era rassegnata tanto più facilmente poiché il nero le stava molto bene con quella sua chioma bionda. Ma riconosceva nei particolari della sua toilette qualcosa di ordinario che stonava nel confronto con gli altri. Sì, la signora di Montespan aveva cominciato a trasformare la corte a suo piacimento. Messa finalmente al posto in cui poteva dare tutta la misura di sè, riprendeva la corte in mano e segnava ogni cosa col sigillo della sua fantasia, del suo spirito originale e raffinato. Angelica, in piedi fra gli altri, la scorgeva seduta alla tavola dei principi, che rideva e chiacchierava, facendo ridere con le sue frasi e dando con una parola a ciascuno l'occasione di brillare a propria volta. Era una gran dama. Aveva tutte le perfezioni del suo rango. Portava con inimitabile eleganza e un'ammirevole gaiezza il peso delle sue nuove prerogative, unite a quello di un bastardo reale previsto per l'inizio dell'anno seguente. E i volti intorno a lei sembravano sereni. La corte era divenuta più allegra e meno compassata. L'etichetta, tuttavia sempre minuziosa, assumeva grazie da antico balletto intorno al dio sorridente. Quel giorno, il popolo era ammesso a veder mangiare il re e sfilava lentamente all'ingresso della sala, rallegrandosi del volto felice del suo sovrano. Si attribuiva quella distensione alla gioia generale causata dalla nascita del secondo principe, Filippo, duca di Angiò, nato nel settembre e che, con la piccola Madame Maria Teresa, ora in età di dieci mesi, completava felicemente la famiglia reale. Ma la gente si mostrava inoltre a dito la signora di Montespan. Era bella e piacente, la furbacchiona.. Borghesi, mercanti e artigiani, il naso rosso dal freddo, avvolti nei grossi vestiti di lana, si ritiravano ritornando a Parigi, segretamente onorati di vedere per il loro principe una così bella amante.
Verso la fine del pasto, Angelica scorse Florimondo in atto di servire il re. Le labbra strette per l'applicazione, sosteneva una pesante coppa di argento dorato, e versava il vino nella coppa che gli tendeva il signor Duchesne, primo cameriere addetto alla mescita. Dopo che costui vi ebbe portato le labbra, ne fece gustare al piccolo paggio, poi tese la coppa al grande coppiere che vi versò un po' d'acqua prima di consegnarla al re. Mentre tutti, terminato il pranzo, si dirigevano verso il salone della Pace, Florimondo, eccitatissimo e fiero, raggiunse la madre. «Avete visto, madre mia, come svolgo bene il mio compito! Prima, sostenevo soltanto il vassoio, ora debbo portare la coppa e gustare il vino. È meraviglioso! Se qualcuno, un giorno, tentasse di avvelenare il re, morirei per lui...» Angelica lo felicitò di aver ottenuto così presto un compito importante. Il signor Duchesne, che incontrarono, le disse ch'era assai soddisfatto di Florimondo, il quale, sotto apparenze leggere, compiva con molta coscienza le sue funzioni. Era il paggio più giovane ma anche il più abile, di memoria pronta, con molto tatto e che sapeva parlare o tacere quando occorreva. Un perfetto cortigiano in erba! Purtroppo, si doveva ritirarlo dal servizio del re perché monsignor il Delfino non si consolava di aver perduto il suo compagno preferito. E il signor di Montausier ne aveva intrattenuto sua maestà che aveva parlato al grande coppiere. A quanto sembrava, il fanciullo avrebbe assunto i due impieghi simultaneamente. «È troppo per lui,» protestò Angelica. «Bisogna pure che trovi il tempo d'imparare a leggere.» «Oh! Tanto peggio per il latino. Accettate, madre mia, accettate!» gridò il petulante Florimondo. Ella scosse il capo con un sorriso e disse che vi avrebbe riflettuto. Era la prima volta che lo rivedeva dopo sei mesi. Era andato a farle visita due volte al Plessis, sempre di passaggio. Lo trovò ancor più bello, con un'aria sicura e amena. Forse troppo magro, perché viveva, come tutti i paggi, dei bocconi presi al volo, e dormiva poco e male. Ma sotto il giustacuore di velluto, ella indovinava la spalla fragile e nervosa e se ne intenerì, ammirata che quel fanciullo pieno di vita e d'intelligenza fosse suo. Era anche egli vestito di nero, portando il lutto del padrigno e del fratello. Angelica si vide passare nelle alte specchiere incorniciate d'oro, figura di vedova, la mano appoggiata sulla spalla di un paggio orfano e una improvvisa malinconia la invase. «Versailles vi aspetterà,» le aveva detto il re.
No, nessuno l'aspettava. In poche settimane, un capitolo delle cronache della corte era terminato, un altro si iniziava sotto il segno della signora di Montespan. Angelica si guardò intorno con un certo malessere. Aspettava che dai gruppi sorgesse, indifferente nel suo splendore, il cappello sul braccio in una cascata di piume, colui ch'era stato uno dei gioielli di quella corte, il più bello dei gentiluomini, il marchese del Plessis-Bellière, gran cacciatore, gran maresciallo di Francia... Comprese che non c'era più. Lo scenario dei vivi si era richiuso sulla sua presenza. Il posto lasciato vuoto era stato riempito da molto tempo. Angelica rimase un po' in disparte. Florimondo l'aveva lasciata per correre dietro all'insopportabile cagnolino di Madame. La regina, provenendo dai suoi appartamenti, sedeva accanto al re, quindi, formando semicerchio, i principi e le principesse di sangue, i gran signori e le dame che avevano diritto allo sgabello dinanzi al re. La signorina di La Vallière era a capo della tavola, la signora di Montespan all'altro. Quest'ultima stava seduta, radiosa, facendo frusciare le ampie gonne di raso azzurro. Nel suo trionfo per aver ottenuto uno sgabello, lei un tempo dama di onore, si lasciava andare a una punta di volgarità. I dispensieri cominciarono a circolare, presentando bicchierini di liquore, acquavite, rosoli, anice, o tisane fumanti, azzurre, verdi e dorate. Si udì la voce del re: «Signor di Gesvres,» disse al suo gran ciambellano, «vogliate avere la cortesia di far avanzare uno sgabello per la signora del Plessis-Bellière...» Le conversazioni si smorzarono bruscamente. D'un sol moto, le teste si volsero ad Angelica. Era di cattivo gusto che i beneficiari di un sì grande onore manifestassero una gioia o una riconoscenza esagerate. Angelica si fece avanti, si inchinò e sedette accanto alla signorina di La Vallière. Prese su un vassoio un bicchiere di vino di ciliege. La mano le tremava un poco. «Sicché, l'avete avuto quel "divino" sgabello,» le gridò la signora di Sévigné appena la scorse di lontano. «Ah! mia cara, so la grande notizia. Tutti ne parlano, tutti sono rimasti sbalorditi, eccetto me. Sapevo che avreste dovuto soltanto ricomparire. La gente si è ingannata, perché a quanto pare il re non vi ha detto che due parole salutandovi, ma quale sorpresa, poi! Ah! Come avrei voluto esserci!»
La marchesa abbracciò Angelica con ardore. Giungeva da Parigi per assistere a una nuova commedia di Molière. Invitati come lei dal re, numerosi personaggi scendevano dalle carrozze. «Domani ci sarà ancora teatro, poi ballo, dopodomani... non so che cosa, ma si deve rimanere a Versailles per tutta la settimana. Sapete che si parla di una definitiva sistemazione della corte? È la signora di Montespan a insistere. Non può soffrire Saint-Germain. Che cosa ne ha pensato, del vostro sgabello?» «In verità, non lo so.» «Deve avervi gettato uno sguardo più acuto di un pugnale!» «Confesso che non ho pensato a guardarla, in quel momento.» «Comprendo la vostra emozione, ma è un peccato. La vostra soddisfazione sarebbe stata doppia.» «Non vi credevo così cattiva,» disse ridendo Angelica. «Non apprezzo la cattiveria per me stessa. Ma quella degli altri mi diverte abbastanza.» Entrarono nella sala del teatro in mezzo al disordine delle piccole sedie dorate. «Non lasciamoci,» propose Angelica. «Ho desiderio, dopo la commedia, di ritornare con voi a Parigi. Potremo così chiacchierare e rifarci dei mesi di silenzio.» «Siete pazza! Versailles non vi ha mica ritrovato per perdervi. Dovete restarvi finché dura il soggiorno delle loro maestà.» Vi fu un po' di confusione accanto alla porta. La signora di Montespan faceva il suo ingresso. «Guardatela che avanza,» sussurrò la signora di Sévigné, «non è forse splendida? Finalmente Versailles possiede una vera amante reale, della stirpe di Gabriella d'Estrées e Diana di Poitiers. Intrigante, amica delle arti, spendacciona, esigente, con quel fuoco a fior di pelle, quell'appetito dell'amore che occorre per dominare un uomo, sia pure il re! Conosceremo giorni di splendore, sotto il suo regno.» «E allora, perché vorreste tanto vedermi al suo posto?» chiese Angelica. La signora di Sévigné si portò il ventaglio dinanzi al volto e non si videro più che i suoi occhietti spiritosi, addolciti da una sottile tristezza. «Perché ho pietà del re,» disse. Richiuse il ventaglio, sospirò a lungo.
«Voi avete tutto ciò ch'ella possiede, più qualche cosa ch'ella non possiederà mai. E forse, questo qualcosa sarà la vostra forza... a meno che non sia la vostra debolezza.» Il sipario che si apriva sulla scena arrestò le conversazioni. Angelica ascoltò distrattamente le prime battute. Meditava le parole della signora di Sévigné. Pietà del re?... Ecco un sentimento che sembrava non dover ispirare, lui che non aveva pietà di nessuno. Neppure di quella povera La Vallière. Angelica era rimasta penosamente impressionata dalla magrezza, dall'espressione di triste smarrimento della ex favorita. Il modo con cui il re la costringeva a comparire come un tempo, ad assistere, minuto per minuto, al trionfo della rivale, confinava con la crudeltà. Atenaide la trattava con aperto disprezzo. Per colmo d'incoscienza o di cinismo. Angelica l'aveva udita esclamare: «Luisa, aiutami ad attaccare questo nastro. Il re mi aspetta, altrimenti sarò in ritardo...» Docilmente, la povera fanciulla l'aveva aiutata. Che cosa sperava di ottenere con la sua umiltà? Un ritorno d'amore da parte di colui che rimaneva la passione del suo cuore? Era assai improbabile. Sembrava averlo capito dal momento che, a quanto si diceva, a varie riprese aveva chiesto al re di consentirle di ritirarsi al Carmelo. Ma il re vi si era opposto. Angelica si chinò verso la signora di Sévigné. «Perché credete che il re si opponga alla partenza della signorina di La Vallière?» sussurrò. La signora di Sévigné, che cominciava a ridere alle battute di Tartufo, parve stupita ma rispose sottovoce: «A causa del marchese di Montespan. Questi può ancora ricomparire e pretendere che il figlio di sua moglie gli appartenga secondo la legge. Luisa serve da facciata. Finché non è ripudiata apertamente, si può sempre affermare che il favore della signora di Montespan è una voce calunniosa.» Angelica ringraziò con un cenno del capo e tornò alla scena. Quel Molière aveva in verità molto spirito. Ma Angelica, durante lo spettacolo, non cessò di chiedersi perché il signor di Solignac e i grandi nobili della Compagnia del Santo Sacramento avevano visto rosso all'apparizione di quella commedia. Dovevano averne, sulla coscienza, di meschineria, d'ipocrisia e di falsità per essersi creduti attaccati dall'immagine di quel Tartufo di bassa estrazione, ignorante, senza educazione e la cui truffa ai buoni sentimenti non somigliava affatto alla loro medievale intransigenza!
Il re, con il suo fondamentale buon senso, non si era lasciato ingannare. Sapeva che lo spirito della Chiesa non era colpito da una pittura di costumi che giungeva a puntino. I falsi devoti, che non sono utili né a Dio né agli uomini, erano rimessi al loro posto, e il re, buon cristiano ma niente di più, era il primo a rallegrarsene e a tenersi i fianchi dal ridere. Non si faticava a imitarlo. Alcuni tuttavia ridevano giallo. La battaglia di Tartufo non era terminata. Ma il re, Madame e Monsieur, e perfino la regina lo proteggevano. Lo spettacolo terminò negli applausi. Angelica trovò nel suo appartamento le due serventi Teresa e Javotte occupate ad accendere il fuoco. Sulla porta era scritto il Per onorifico. «Debbo presentarmi al re per ringraziarlo delle sue bontà?» si chiese la giovane donna, imbarazzata. «Fingere d'ignorare le sue attenzioni sarebbe villano... O debbo, al contrario, aspettare che mi rivolga la parola?» Si lasciò togliere il vestito nero e ne indossò un altro grigio pallido ricamato d'argento che sarebbe stato più adatto per il grande pranzo. Grattarono alla porta. Era la signorina di Brienne, tutta animata. «Lo sapevo bene che il piccolo farmacista avrebbe finito per ottenervi uno sgabello. Ah! ve ne prego, ditemi: che cosa bisogna fare, che cosa bisogna promettergli perché si occupi di me?... Come si comporta? Indossa una veste da astrologo per fare le sue invocazioni?... Dovete inghiottire polveri di sua confezione?... Sono molto cattive?...» Girava in tondo, spostando gli oggetti. Ne lasciò anche cadere qualcuno. Angelica prese al volo una delle boccette di profumo. Quella fanciulla aveva decisamente lo spirito fuor di posto. Del resto, si attribuiva a suo fratello, Loménie di Brienne, un'esaltazione a volta a volta religiosa o amorosa, prossima alla pazzia. «Calmatevi,» disse alzando le spalle. «Mastro Savary non c'entra. Sono arrivata dalla mia provincia in questo momento.» «E allora?... È stata La Voisin ad aiutarvi?... Sembra che sia molto abile. È la più grande maga di tutti i tempi, mi hanno detto... Ma non oso andarci... Ho paura di essere dannata. Però, se non c'è che questo mezzo per ottenere uno sgabello! Raccontatemi che cosa vi ha fatto fare... È vero che bisogna sgozzare un neonato e berne il sangue?... Oppure inghiottire un'ostia composta di materie immonde?...» «Basta con queste sciocchezze, mia cara! Mi state seccando. Io non ho a che vedere con La Voisin più che con il farmacista, almeno per quanto concerne lo sgabello. Il re accorda questo onore a coloro ch'egli vuole onorare, di sua volontà, e non vi è sotto nessun sortilegio.»
La signorina di Brienne stringeva le labbra, tutta presa dalla sua idea fissa. «Non è così semplice! Il re non è debole. Non lo si può influenzare per fargli fare quello che non vuole. Vi è solo la magia che possa costringervelo. Vedete la signora di Montespan, non è forse riuscita?» «La signora di Montespan farebbe girare la testa a qualsiasi uomo nel pieno dell'età. Non vi è nulla di magico nel suo caso.» «Oh sì!» ghignò la fanciulla con aria saputa. «E poi, perché mentite? Tutti sanno che siete in relazione con il piccolo mago dalla barba bianca. Vi sta cercando con grandi grida attraverso tutto il palazzo.» «Mastro Savary? È a Versailles?» «È stato veduto con i delegati del commercio ai quali sua maestà dà udienza in questo momento.» «Perché non me lo avete detto prima? Faccio in tempo a incontrarlo prima di colazione.» Prese il ventaglio, la stola, raccolse le gonne, e andò via rapidamente, seguita dalla signorina di Brienne, sempre incalzante. «Mi promettete di parlargli di me?» «Ve lo prometto,» affermò Angelica per sbarazzarsene. Mastro Savary le balzò incontro con grandi gesti e la trascinò in disparte. «Eccovi infine, o traditrice!» «Mastro Savary, ho ascoltato or ora la commedia di Molière e per oggi ne ho abbastanza di teatro. Perché vi mettete in questo stato?» «Perché tutto è perduto o quasi. Basctiari Bey è alle porte di Parigi.» «Me lo avete già scritto. Suppongo che, da allora, abbia avuto occasione di oltrepassare le porte.» «Ahimè no! La situazione tra lui e il re si fa sempre peggiore.» «Per quali motivi?» «Lo ignoro. Ma si dice che l'ambasciatore ritorni in Persia senza esser stato ricevuto da sua maestà... e con la "mummia". Quale catastrofe!» «Che posso fare per voi?» «Volete fare davvero qualche cosa?» chiese lui, fremente di speranza. «Ve l'ho promesso, mastro Savary...» Lo trattenne, mentre voleva prosternarsi con la fronte a terra. «... ma non so come aiutarvi. Non è in mio potere appianare le difficoltà sorte fra sua maestà il re di Francia e l'ambasciatore dello scià in scià.»
Il farmacista rifletté un istante. «C'è un'altra soluzione. Recatevi a Suresnes. È lì che sua eccellenza ha preso alloggio nella casa di campagna del signor Dionis. È questi un ex coloniale e la sua villa possiede bagni turchi, cosa che è piaciuta a Basctiari Bey.» «E una volta lì, che dovrò fare?» «Anzitutto vi assicurerete che la "mummia" si trova tra i doni destinati al re. Quindi, cercherete di ottenerne qualche goccia.» «Solo questo? E credete che quel gran personaggio irascibile, a giudicarne dalla condotta insolente nei riguardi del. re, si affretterà a ricevermi, a mostrarmi un tesoro così prezioso e a farmene dono?» «Lo spero,» disse il farmacista fregandosi le mani. «Perché non ci andate voi stesso, se la cosa è talmente facile?» Savary sollevò le braccia al cielo. «È permesso dire simili sciocchezze? Credete che un vecchio caprone come me potrebbe aprire la bocca senza che sua eccellenza non gli facesse saltare la testa con un colpo di sciabola? Ma penso che avrà un orecchio più indulgente per una delle più belle donne del regno.» «Mastro Savary, credo che vogliate farmi fare una parte un po' speciale, per non dire riprovevole...» Il brav'uomo non si giustificò. «Eh! Eh! A ognuno il suo mestiere,» fece. «Io sono un sapiente, e non tocca a me tentare di sedurre un ambasciatore. Invece, se Dio vi ha fatto nascere donna, e affascinante, è perché aveva dei progetti su voi in questo senso.» Dopo di che le diede le ultime istruzioni per la spedizione a Suresnes. Ella non doveva recarvicisi in carrozza ma a cavallo, animale nobile per il quale i discendenti delle legioni di Dario nutrivano una grande passione. Non doveva temere di profumarsi violentemente e di annerirsi le palpebre. Angelica gli fece promettere che sarebbero stati di ritorno al termine della mattinata, perché non teneva affatto che la sua assenza fosse notata dal re durante l'ora della passeggiata nel parco. Savary giurò tutto ciò ch'ella volle e la lasciò raggiante di gioia. 3 Il gruppetto di cavalieri comprendente un'amazzone non attrasse l'attenzione oltrepassando di buon mattino i cancelli del palazzo di Versailles. Vi
era già molto andirivieni di cavalli, di carretti che portavano il loro carico di latte fresco, di carriole spinte dagli operai che salivano verso il cantiere e anche di carrozze che portavano, per l'ora in cui il re si alzava, i gran signori dei castelli. Ai piedi della collina trovarono mastro Savary drappeggiato nella sua gualdrappa nera e appollaiato su una magra ronza. «Ammiro il vostro cavallo di lusso destinato a provocare l'ammirazione di sua eccellenza orientale,» gli disse Angelica. Il vecchio sdegnò l'ironia. Con gli occhi che gli brillavano dietro le lenti dei grossi occhiali borbottava: «Perfetto! Perfetto!» guardando il gruppo. Il giorno innanzi, mentre Angelica assisteva seduta al ballo, a ragione del lutto, le era stato consegnato un foglietto: «Non omettete, per l'uscita di domani, di essere accompagnata da almeno quattro dei vostri domestici. Questo, non perché corriate un pericolo, ma per il vostro prestigio. Savary.» Con Malbrant Colpo di Spada, i baffi bianchi al vento, con i due lacchè e il cocchiere, che erano bei giovanottoni, e con Flipot che aveva preso con sè per far mucchio, Angelica aveva in fretta composto il «seguito» richiesto. I quattro domestici portavano la livrea azzurra e giunchiglia dei Plessis-Bellière e avevano i capelli nerissimi. Ella montava la bionda Cerere, scalpitante e lustrata a puntino. «Perfetto,» ripeté Savary. «Nel gran teatro del sultano di Bagdad non si fa di meglio.» Si misero in cammino al piccolo trotto per la strada impolverata di rugiada. Cammin facendo, Savary parlò di sua eccellenza Mohamed Basctiari Bey. «Uno degli uomini più furbi ch'io conosca.» «Lo conoscete, dunque?» «Un tempo... ebbi l'occasione d'incontrarlo.» «Dove?» «Poco importa...» Il farmacista voleva sviare la conversazione, ma dinanzi alla curiosità di Angelica cedette: «Nel Caucaso, ai piedi del monte Ararat.» «Che facevate da quelle parti? Già cercavate la vostra mummia?» «Silenzio! signora. Non ne parlate apertamente. Sono stato per pagare assai caro, un tempo, la mia indiscrezione. Basctiari Bey mi aveva condannato a ricevere venticinque colpi di frusta e ad essere sotterrato vivo in
una giara di creta, da cui doveva uscire solo la testa e dove avrei dovuto aspettare la morte. Fui salvato all'ultimo momento da un padre gesuita molto influente alla corte dello scià di Persia.» «E non conservate rancore verso sua eccellenza per un simile trattamento?» «La sua crudeltà non gli impedisce di essere un letterato e un grande filosofo. E di avere anche il senso degli affari, ciò che è ancora più raro nei persiani moderni ormai in decadenza e che hanno lasciato a poco a poco il comando a mercanti siriani o armeni. Potrebbe anche darsi che Basctiari Bey finisca un giorno sul trono di Persia...» Intervenne la voce del giovane Flipot: «Sembra che porti con sè una collana di centosei perle per la regina, e lapislazzuli grossi come uova di piccione...» Angelica gli gettò uno sguardo sospettoso. «Sta' attento a sorvegliare le tue mani, e per il momento guarda di tenerti in sella come si deve.» Il giovane valletto non aveva, infatti, l'abitudine di montare a cavallo; scivolava di continuo a destra e a sinistra reggendosi alla meglio sotto le beffe dei compagni. Angelica andò innanzi con Savary che voleva darle una rapida lezione di persiano. «Se vi dicono: Salam o Maleikum, rispondete: Aleikum Salam. È una formula di saluto. Grazie si dice: Barik Allah, ciò che significa letteralmente: Dio è grande. Se udite pronunciare il nome di Maometto aggiungete rapidamente: "Alì vali ullah ", cioè a dire: "Alì è il suo visir." Ciò fa loro piacere perché i persiani appartengono allo scisma sciita e non a quello sunnita come gli arabi o i turchi.» «Credo che mi ricorderò del buongiorno e del grazie, ma vi lascio i profeti,» disse Angelica. «Toh! che accade laggiù?» Avevano seguito la strada maestra che girava intorno a Parigi verso occidente. Stavano giungendo a un incrocio. Si poteva distinguere da lontano un gruppo di gente attorno a un palco che le picche delle guardie a cavallo circondavano. «Credo si tratti di una esecuzione,» disse Flipot, che aveva la vista buona. Angelica fece una smorfia. Distingueva ora l'enorme ruota, la figura nera di un cappellano e quelle vestite di rosso di un boia e dei suoi aiutanti che si staccavano su un fondo di cielo grigio e di alberi spogli. Di frequente,
alla periferia di Parigi, avevano luogo esecuzioni, per evitare troppo frequenti assembramenti in piazza di Grève. Il che non impediva agli abitanti della periferia e dei villaggi vicini di convergere come per miracolo in gran numero verso il luogo dello spettacolo. Il supplizio della ruota era stato importato dalla Germania nel secolo precedente. Si legava anzitutto il condannato con le braccia distese e le gambe divaricate su due pezzi di legno disposti a croce di Sant'Andrea, cioè a forma di X. Su ciascuna delle traverse erano stati praticati dei profondi incavi, specialmente nel punto dove dovevano trovarsi le ginocchia e i gomiti del paziente. Il boia sollevava la pesante sbarra di ferro e colpiva con forza. «Non arriviamo troppo tardi,» si rallegrò Flipot. «Gli hanno soltanto spezzato le gambe.» La padrona lo richiamò seccamente. Aveva deciso di passare attraverso i campi per evitare la vista di quella scena atroce: un essere umano fatto a pezzi sotto gli occhi di una folla attenta e affascinata. Diresse risolutamente la cavalcatura fuori della strada, attraverso un pantano di neve, seguita da Savary e dai suoi domestici, ma poco più oltre furono circondati da cavalieri in divisa grigia della guardia. Un giovane ufficiale gridò: «Alt! Nessuno deve circolare prima che l'esecuzione sia terminata.» Si avvicinò salutando. Angelica riconobbe un giovane alfiere della polizia di Versailles, il signor di Miremont. «Siate così cortese da lasciarmi passare, signore, debbo recarmi in visita da sua eccellenza l'ambasciatore dello scià di Persia.» «In tal caso, lasciate che vi accompagni io stesso da sua eccellenza,» disse il giovane ufficiale inchinandosi. E si diresse verso il luogo del supplizio. Angelica fu costretta a seguirlo. L'ufficiale la condusse sino alle prime file, accanto al palco da cui si levavano le grida rauche e spasmodiche del suppliziato cui il boia terminava di spezzare a colpi secchi le braccia e il bacino. Angelica guardava a terra per non vedere. Udì la voce deferente di Miremont: «Eccellenza, è qui la signora del Plessis-Bellière che desidera incontrarvi.» Alzando gli occhi, la giovane donna fu stupita di trovarsi in presenza dell'ambasciatore persiano, montato sul suo cavallo bruno.
Mohamed Basctiari Bey aveva immensi occhi neri, dalle ciglia e dalle sopracciglia di velluto, in un volto di un caldo pallore inquadrato da una barba di ricciolini neri e brillanti. Aveva in capo un turbante di seta bianca fissato al centro da una rosa di diamanti sormontata da una leggera piuma rossa. Il suo caffettano di laminato d'argento foderato di ermellino si schiudeva mostrando una specie di corsetto guarnito di placche d'argento cesellate e una lunga veste di broccato rosa pallido ricamata a perline che disegnavano grandi fiori e arabeschi. Al suo fianco, anch'egli a cavallo, un paggetto da Mille e una Notte vestito di sete multicolori, con un piccolo pugnale d'oro guarnito d'uno smeraldo alla cintura, reggeva una specie di vaso in metallo prezioso da cui usciva un lungo tubo terminante in una pipa. Tre o quattro persiani sulle loro cavalcature immobili formavano la guardia dell'ambasciatore. Questi, all'annuncio dell'ufficiale, non aveva girato il capo. Gli occhi fissi sul palco, seguiva con la più grande attenzione lo svolgersi del supplizio, tendendo la mano di tanto in tanto per prendere il narghilè e trarne una boccata. Il fumo gli sfuggiva dalle labbra lunghe e sensuali in nuvole azzurrine e profumate, che si dissolvevano lentamente nell'aria gelida. Il signor di Miremont ripeté la sua frase con timidezza, poi fece un gesto di scusa verso Angelica per significarle che sua eccellenza non capiva il francese. In quel momento, un personaggio che la giovane donna non aveva ancora notato intervenne. Era un ecclesiastico che indossava la sottana nera, la larga cintura e sul petto il crocifisso dei membri della Compagnia di Gesù. Questi spinse il cavallo a fianco di quello di Mohamed Basctiari e gli disse alcune parole in persiano. L'ambasciatore volse ad Angelica uno sguardo vuoto che subito si fece brillante, si addolcì. Con l'agilità di un serpente il Bey si lasciò scivolare a terra. Angelica esitava sull'opportunità di porgere la mano da baciare, allorché si rese conto che già l'ambasciatore accarezzava il collo di Cerere mormorandole dolci parole. Poi gettò due parole con tono imperativo. Il gesuita tradusse: «Signora, sua eccellenza vi chiede l'autorizzazione di esaminare la bocca della vostra cavalcatura. Sua eccellenza dice che la qualità di un cavallo di razza si conosce dai denti e dal palato, oltre che dalle caviglie.» Suo malgrado un po' offesa, la giovane donna fece notare seccamente che l'animale era suscettibile, ombratico e sopportava assai male le familiarità degli sconosciuti. Il religioso tradusse. Il persiano sorrise. Si piazzò
proprio di fronte al cavallo e pronunciò con dolcezza alcune parole. Poi subito mise le mani sulle nari della giumenta. Questa ebbe un fremito ma si lasciò aprire la bocca e ispezionare la dentatura senza manifestare la minima contrarietà. E dette anzi un rapido colpo di lingua alla mano bistrata, scintillante di anelli, che la stava accarezzando. Angelica aveva l'impressione di essere tradita da un'amica. Né dimenticava la ruota e il povero essere che gemeva sul palco. In quel caso, era lei che si mostrava assai suscettibile: si vergognò del proprio atteggiamento vedendo il persiano incrociare le mani sul pugnale d'oro e inchinarsi a varie riprese con i segni di un grande rispetto. «Sua eccellenza il Bey Basctiari dice che è il primo cavallo degno di tal nome ch'egli vede da quando è sbarcato a Marsiglia. Chiede se il re di Francia ne possegga molti come questo.» «Delle intiere scuderie,» affermò lei senza vergogna. Il Bey aggrottò le sopracciglia e parlò con precipitosa ira. «Sua eccellenza si stupisce, in tal caso, che non abbiano stimato degno di lui inviargliene qualcheduno per fargli un dono degno del suo rango. Il marchese di Torcy si è presentato a lui come un povero cavaliere ed è ripartito con i cavalli col pretesto che sua eccellenza l'ambasciatore dello scià di Persia non voleva seguirlo... subito... a Parigi... e dice che...» La volubilità del persiano aumentava con il suo furore e l'interprete faticava a seguirlo. «... E dice che non ha ancora veduto nessuna donna degna del suo rango... Che non gliene hanno data nessuna in omaggio... che non gliene hanno mandata nessuna da oltre un mese che soggiorna in Francia... e quelle che si è fatto condurre non avrebbero potuto convenire neppure a un "cunbal" (facchino dei bazar) e che erano ripugnanti di sporcizia... Chiede se la vostra venuta è un segno che sua maestà il re di Francia si decide finalmente a considerarlo con gli onori che gli sono dovuti...» Angelica stava a bocca aperta dallo stupore. «Padre, mi fate ben strane domande!» Un lieve sorriso illuminò il viso impassibile del religioso. Era ancora giovane nonostante il volto severo, ma il suo colorito testimoniava di un lungo soggiorno nel Vicino Oriente. «Signora, mi rendo conto di come tali parole possano apparirvi offensive sulle mie labbra. Considerate, vi prego, che sono da quindici anni addetto come interprete francese alla corte dello scià di Persia, e che debbo tradurre i suoi discorsi il più fedelmente possibile.»
Aggiunse, non senza malumore: «In quindici anni, ho avuto l'occasione di udirne... e di dirne ben altri. Ma rispondete, vi prego, a sua eccellenza.» «È che... sono molto imbarazzata. Io non vengo come ambasciatrice. Anzi, piuttosto all'insaputa del re, che non sembra si preoccupi in modo particolare, credo, di questa ambasceria persiana.» Il volto del gesuita s'indurì e i suoi occhi gialli ebbero una luce gelida. «Che catastrofe!» mormorò. Esitava visibilmente a tradurre la risposta. Per fortuna, i clamori sempre più strazianti del suppliziato richiamarono l'attenzione di Mohamed Basctiari, il cui sguardo si rivolse verso il palco. Durante la conversazione, il boia aveva terminato la sua opera. Dopo aver spezzato le membra e il bacino del condannato, gli aveva ripiegato braccia e gambe, per poterlo attaccare sulla ruota di carrozza preparata allo scopo. Questa poi, in cima a un bastone, veniva drizzata verso il cielo con il suo pietoso fardello. Il disgraziato avrebbe agonizzato lì lunghe ore nell'aria gelida, fra il sinistro volo dei corvi che già si radunavano sugli alberi vicini. Il persiano emise un'esclamazione di dispetto e si lanciò in un nuovo furioso discorso. «Sua eccellenza si lamenta di non aver assistito alla fine del supplizio,» disse il gesuita rivolgendosi al signor di Miremont. «Me ne dispiace molto, ma sua eccellenza stava parlando con la signora.» «Sarebbe stato conveniente aspettare per permettere a sua eccellenza di essere di nuovo attento alla cerimonia.» «Presentategli le mie scuse, padre... Ditegli che in Francia non si usa.» «Misera scusa!» sospirò il religioso. Tentò tuttavia di calmare il corruccio del nobile ambasciatore il quale si illuminò in volto facendo una proposta che gli sembrava dovesse sistemare ogni cosa. Il prete rimase in silenzio. Richiesto di tradurre disse con reticenza: «Sua eccellenza vi chiede di voler ricominciare.» «Che cosa?» «Il supplizio.» «Ma è impossibile, padre,» disse l'ufficiale di polizia. «Non vi sono altri condannati.» Il religioso tradusse. Il Bey mostrò i persiani in fila dietro di lui.
«Vi dice di prendere un uomo della sua scorta... Insiste... Dice che se vi mostrate così scortese, si lamenterà di voi con il re vostro padrone, il quale vi decapiterà.» Il signor di Miremont, nonostante il freddo, cominciava a sudare a grosse gocce. «Che fare, padre? Non posso mica di mia iniziativa condannare a morte il primo che capita!» «Posso rispondergli da parte vostra che le leggi del vostro paese si oppongono a che si tocchi un solo capello sulla testa di uno straniero, qualunque sia egli, quando è nostro ospite. Noi non possiamo immolare uno dei cristiani persiani, neppure con il suo consenso.» «Proprio così. Proprio così. Diteglielo, ve ne prego.» Basctiari Bey si degnò di sorridere e parve apprezzare il tatto delle leggi francesi. Ma non voleva rinunciare alla sua idea e a un tratto tese un braccio spietato verso Savary. Il farmacista emise un urlo e balzando giù dal cavallo si prosternò con la fronte nella neve gridando: «Amman! Amman!»1 «Ma che accade, padre?» chiese Angelica. «L'ambasciatore ha deciso che si doveva scegliere un nuovo condannato tra le persone della vostra scorta, dal momento ch'egli non ha veduto la fine dello spettacolo per causa vostra. Afferma poi che un uomo che osa montare un simile cavallo non merita di vivere.» Il gesuita terminò fra i denti: «Un uomo che - inoltre - comprende e parla il persiano a meraviglia... Sicché, voi non venivate come ambasciatrice, però vi eravate preoccupata di portarvi un interprete!...» «Mastro Savary è un mercante di droghe che ha molto viaggiato e...» «Qual è lo scopo esatto della vostra missione, signora?» «La curiosità.» Il padre Richard fece un sorrisetto sarcastico. Angelica disse irritata: «Non posso dirvene un'altra... Mastro Savary, finitela con quegli inchini e alzatevi. Non siamo a Ispahan.» «Eppure, bisognerebbe finirla,» disse il religioso. «Padre, non pretenderete, spero, che si torturi e si uccida un uomo innocente soltanto per il piacere di un principe barbaro!» «Certamente no, ma protesto contro le sconvenienze, la cattiva volontà, la mancanza di cortesia di cui Basctiari Bey è vittima da quando è giunto 1
«Grazia! Grazia!»
in Francia. Venuto da amico, è molto facile che riparta furibondo e nemico e faccia dello scià di Persia un irriducibile nemico della Francia e, ciò che è più grave, della Chiesa. Noi religiosi che possediamo laggiù una ventina di conventi, tenteremmo invano, in tal caso, d'imporre la nostra influenza. Dovete capire quanto mi addolori che una serie di sciocchezze rischino di far rimandare per secoli l'affermazione della civiltà latina e cristiana in paesi che non chiedono se non di accoglierla.» «Questi grandi problemi hanno la loro gravità, ne convengo, padre,» disse il signor di Miremont molto seccato. «Ma perché ci tiene tanto a quella storia della ruota?» «L'ambasciatore non conosceva questo genere di supplizio. Partito questa mattina per una passeggiata, si è trovato per caso sul luogo dell'esecuzione e ha subito deciso di portare allo scià di Persia l'esatta descrizione di questo nuovo modo di tortura. Per questo è così addolorato di aver perduto alcuni particolari.» «Trovo che sua eccellenza è molto imprudente,» fece Angelica con un sorrisetto. Il persiano, risalito sul suo cavallo con una faccia terribile, le gettò uno sguardo sorpreso. «Dirò anzi che ammiro il suo coraggio,» seguitava la giovane. Vi fu un silenzio. «Sua eccellenza si stupisce,» disse infine il gesuita, «ma sa che le donne hanno a volte sottigliezze che i cervelli maschili ignorano e arde dal desiderio di sapere ciò che voi gli direte. Parlate dunque, signora.» «Ebbene, sua eccellenza non ha pensato che il re dei re potrebbe essere tentato di fare un cattivo uso della nuova macchina?... Ad esempio, decidere che, data la sua novità, la sua originalità, dovrebbe servire solo al supplizio dei grandi signori del suo paese?... E che sarebbe molto indicato sperimentarla con uno dei più grandi fra i grandi, il suo migliore suddito, quella tale eccellenza qui presente? Soprattutto se la sua missione si rivela un fallimento per le speranze del re dei re...» A mano a mano che il gesuita traduceva, il volto del principe s'illuminava. Con grande sollievo di tutti, egli scoppiò a ridere. «Fuzul Khanum!»2 esclamò egli. Con le mani in croce sul petto s'inchinò varie volte verso la giovane donna. 2
Piccola furba, piccola diavolessa.
«Dice che il vostro consiglio è degno della saggezza dello stesso Zoroastro... Che rinuncia al progetto di portare il supplizio della ruota nel suo paese... il quale già ne possiede una varietà piuttosto impressionante... E vi chiede di accompagnarlo fino alla sua dimora... per offrirvi una colazione.» Mohamed Basctiari Bey si mise alla testa del corteo trascinandosi dietro tutta la sua gente. D'un colpo, era divenuto la grazia e la gentilezza in persona. Lungo la strada furono scambiate cortesie squisite durante le quali Angelica si udì gratificare attraverso le labbra a lama di coltello del religioso che le recitava con voce da rosario, di «tenera gazzella di Kashan», di «rosa di Zendé Rud di Ispahan» e, per finire, di «Giglio di Versailles». Giunsero rapidamente alla dimora provvisoria in cui l'ambasciatore aveva eletto domicilio in attesa di fare il suo solenne ingresso in Versailles e a Parigi. Si trattava di una casa di campagna piuttosto modesta con un giardino appena ornato da tre o quattro statue verdastre e con i prati ingialliti. Basctiari Bey si scusò della povertà della sua residenza. Vi si era sistemato perché il proprietario vi aveva fatto costruire dei bagni turchi ed egli poteva così procedere alle sue abituali abluzioni e mantenersi in condizioni di pulizia. Non riusciva a convincersi che tutte le case parigine non avessero il loro stabilimento termale. Al frastuono dell'arrivo alcuni altri domestici persiani accorsero, tutti armati di sciabole e di pugnali. Dietro di loro, due gentiluomini francesi vennero fuori a lor volta. Uno di essi, la cui enorme parrucca tentava di compensare la piccola statura, esclamò in tono aspro: «Un'altra cortigiana! Padre Richard, non contate mica, spero, di alloggiare qui questa creatura! Il signor Dionis si oppone a che si profani più a lungo la sua dimora.» «Non ho detto questo,» protestò l'altro. «Capisco che sua eccellenza ha bisogno di distrazioni...» «Basta,» interruppe l'ometto rabbioso, «se il principe vuole distrarsi non ha che da recarsi a Versailles a presentare le sue lettere credenziali invece di compiacersi a prolungare indefinitamente una situazione vergognosa.» Il gesuita poté finalmente dire una parola e presentò Angelica. L'uomo dalla parrucca divenne di tutti i colori. «Accettate tutte le mie scuse, signora. Sono Saint-Amon, incaricato dal re di accompagnare sua eccellenza alla corte. Scusate la mia ignoranza.» «Siete scusato, signor di Saint-Amon. Capisco che il mio arrivo poteva dar adito a confusione.»
«Ah! signora, compiangetemi, piuttosto! Non so più che fare tra questi barbari individui dai costumi vergognosi, e che io non posso convincere della necessità di affrettarsi. Il padre Richard, pure francese anch'egli, e per giunta religioso, non mi aiuta assolutamente! Guardate il suo sorriso beffardo...» «Eh! E voi forse mi aiutate?» rispose il gesuita. «Il vostro mestiere è quello del diplomatico. Mostrate dunque un po' di diplomazia. Io non sono che interprete, tutt'al più consigliere, ho accompagnato l'ambasciatore a titolo privato, e voi potreste stimarvi fortunato di avermi come traduttore ai vostri servizi.» «I vostri servizi sono anche i miei, padre, perché entrambi siamo soggetti al re di Francia.» «Dimenticate che io sono anzitutto servitore di Dio!» «Volete dire di Roma. Tutti sanno che gli Stati Pontifici hanno maggior valore agli occhi del vostro Ordine che non il regno di Francia.» Il resto della disputa si perdette per Angelica, perché Basctiari Bey l'aveva afferrata per il polso e la trascinava all'interno della casa. Attraversarono un'anticamera dal pavimento di mosaico, poi entrarono in un'altra stanza, seguiti dai rispettivi paggi, quello del principe con l'eterno narghilè da cui Sfuggiva un fumo gorgogliante, e Flipot che entrava come in casa sua, gli occhi spalancati dall'ammirazione alla vista degli arazzi, dei tappeti e dei cuscini ammucchiati in uno splendore di stupendi colori. Mobili di legno prezioso, vasi e coppe di porcellana azzurra completavano l'arredamento. Il principe sedette, incrociando le gambe, e fece segno ad Angelica di imitarlo. «È un uso dei francesi di litigare dinanzi alle persone e per qualsiasi motivo?» chiese in un francese un po' lento ma perfetto. «Osservo con piacere che vostra eccellenza parla assai bene la nostra lingua.» «Sto ascoltando i francesi da due mesi... Sicché, ho avuto il tempo d'imparare. So soprattutto assai bene come si dicono le cose spiacevoli, e molte... ingiurie... È così. E mi dispiace... Perché ho da dirvi altre cose.» Angelica si mise a ridere. Il Bey la contemplò. «Il vostro riso è come una sorgente nel deserto.» Tacquero, come presi in fallo, perché già il religioso e Saint-Amon li raggiungevano, entrambi assai sospettosi per diverse ragioni.
Sua eccellenza non dimostrò tuttavia nessuna contrarietà. Riprese a parlare in persiano e subito ordinò una leggera colazione. Apparvero alcuni giannizzeri, portando piatti d'argento lavorato e versarono in minuscole tazze di cristallo una bevanda fumante, nerissima, e dallo strano odore. «Che cos'è?» chiese Angelica un po' preoccupata, prima di portarvi le labbra. Il signor di Saint-Amon inghiottì d'un sol colpo il contenuto della tazzina e rispose con un'orribile smorfia: «Caffè! Questo è il nome, a quanto sembra. Sono già dieci giorni che mi impongo d'inghiottire questa porcheria nella speranza che la mia gentilezza ottenga ricompensa e che Basctiari Bey acconsenta a salire in carrozza per recarsi a Versailles. Ma rischio davvero di cader malato prima di giungere a questo scopo.» Sapendo ora che il persiano capiva il francese, Angelica si sentì impacciata, ma il Bey rimase impassibile. Le fece notare con gesti le coppe di cristallo sfaccettato e le curiose brocche di porcellana dallo smalto screpolato, di un delizioso colore di lapislazzuli. «Sono pezzi che datano da re Dario,» spiegò il padre Richard. «Il segreto di questi smalti è perduto, e mentre la maggior parte degli antichi bagni di Ispahan e di Meched sono coperti di preziosi mattoni che hanno oltre mille anni, i palazzi di oggi non hanno più la stessa bellezza. Come per i pezzi di argenteria, pur stimati.» «Se sua eccellenza s'interessa agli oggetti preziosi, che cosa non ammirerà a Versailles?» disse Angelica. «Il nostro re ha il gusto del fasto e si circonda di vere meraviglie...» L'ambasciatore parve impressionato. Fece con vivo interesse alcune domande e Angelica rispose del suo meglio, descrivendo l'immenso palazzo scintillante di dorature e di specchi, le opere d'arte che rappresentavano tutti i mobili concepiti da artisti, fabbricati nelle più preziose materie, la ricchezza dell'argenteria unica al mondo. Il suo interlocutore passava da uno stupore all'altro. Con l'intervento del padre Richard, rimproverò al signor di Saint-Amon di non avergli raccontato una sola parola di tutto ciò. «A quale scopo? La grandezza del re di Francia non deve misurarsi dal suo lusso ma dalla sua fama. Quelli sono oggetti da bazar che non possono piacere che a spiriti puerili.» «Per un diplomatico, dimenticate un po' troppo che avete a che fare con degli orientali,» disse seccamente il gesuita. «Comunque, osservo che la
signora, con poche parole, ha fatto avanzare i vostri affari francesi più di quanto abbiate fatto voi in dieci giorni.» «Perfetto! Perfetto! Se voi, uomo di chiesa, siete partigiano di questi procedimenti da harem, non vedo che cosa possa rispondervi la dignità di un uomo di alto rango. Mi ritiro.» Dopo tale acida dichiarazione, il signor di Saint-Amon si alzò e prese congedo. Il religioso lo seguì poco dopo. Mohamed Basctiari si volse ad Angelica con un sorriso che metteva nel suo volto bruno una luce candida. «Il padre Richard ha compreso che non avevo bisogno d'interprete per intrattenermi con una dama.» Si portò la pipa alle labbra e fumò con brevi boccate senza abbandonare la visitatrice con lo sguardo oscuro e ardente. «Il mio astrologo mi ha detto... oggi mercoledì è un giorno "bianco", un giorno felice. E voi siete venuta... A voi lo dico... Mi sento preoccupato, in questo paese. I suoi costumi sono strani e difficili.» Con un gesto, fece segno al paggio che sonnecchiava di offrire le coppe di sorbetto alla frutta, di mandorlato e di paste trasparenti. Angelica disse esitando che non comprendeva la preoccupazione di sua eccellenza. Che vi era di così strano nei costumi francesi? «Tutto... I fella... come si dice... gente della terra...» «Contadini.» «Proprio così... Mi guardano passare stando diritti con molta insolenza. Non ve n'è stato uno, durante il viaggio, che abbia messo la fronte nella polvere... Il vostro re vuole condurmi a sè come un prigioniero... in una carrozza... con guardie agli sportelli. E quel piccolo uomo che osa gridarmi: "Svelto! Svelto! A Versailles!" come se io fossi un sichak, voglio dire un asino da soma, mentre per deferenza, per onore al gran sovrano, ho il dovere di rallentare il cammino... Perché ridete, o bella Firuzè dagli occhi simili alla più preziosa delle pietre preziose?» Ella tentò di spiegargli che in tutto ciò vi era un malinteso. In Francia non ci si prosternava. Le donne facevano l'inchino. A titolo di dimostrazione si alzò e fece diverse riverenze. «Capisco,» disse l'ospite, «è una danza... lenta e religiosa che fanno le donne dinanzi al loro principe. Mi piace molto. Lo farò insegnare alle mie donne... Il re mi vuol dunque, alla fine, un po' di bene dal momento che ha mandato voi. Siete la prima persona che mi sembri piacevole... I francesi sono talmente noiosi!»
«Noiosi!» protestò Angelica con forza. «Vostra eccellenza si sbaglia. I francesi hanno fama di essere molto allegri, divertenti.» «Ter-ri-bil-men-te noiosi!» scandì il principe. «Quelli che ho veduto sinora distillavano la noia come la roccia del deserto distilla il prezioso liquido della mummia...» Il paragone dell'ambasciatore ricordò ad Angelica mastro Savary, per il quale si trovava in quel luogo. «La mummia... È mai possibile, vostra eccellenza? Sua maestà lo scià di Persia si è degnata inviare al nostro sovrano un po' di quel rarissimo liquido?» Il volto dell'ambasciatore si oscurò ed egli guardò Angelica con lo sguardo crudele con cui un sultano cova lo schiavo sospettato di tradimento. «Come sapete... che io la porto fra i miei doni?» «Se ne parla, vostra eccellenza. La fama di quel tesoro non ha forse oltrepassato i mari?» Nonostante l'impassibilità, Basctiari Bey non poté fare a meno di lasciar trasparire sentimenti di perplessità. «Credevo... che il re di Francia non facesse davvero alcun caso alla mummia... Forse mi avrebbe inflitto l'affronto di riderne, ignorandone il valore...» «Sua maestà misura al contrario le nobili intenzioni dello scià di Persia attraverso l'invio di un simile dono. Essa non ignora che quel liquido è rarissimo. Nessun altro paese al mondo, oltre la Persia, lo possiede.» «Nessun altro,» affermò il Bey le cui pupille s'illuminarono d. un fuoco mistico. «È il presente di Allah a un popolo che fu il più grande tra i più grandi... che rimane grande per la ricchezza del suo spirito. Allah lo ha benedetto dedicandogli l'elisir prezioso e misterioso. Le sorgenti ne sono divenute rare ed è per questo che la mummia è riservata solo ai principi del sangue... Le rocce che la distillano sono difese militarmente dalle guardie del re. Ogni sorgente è chiusa dai cinque sigilli dei più alti ufficiali della provincia... Essi rispondono con la loro testa del furto di una sola goccia.» «Quale può essere l'aspetto di questo liquido?» Il sorriso era tornato sulle labbra di Basctiari Bey. «Siete impaziente come un'odalisca alla quale il signore abbia promesso ricompensa... Ma... mi piace veder brillare i vostri occhi.» Batté le mani e diede ordini alla guardia accorsa.
Pochi istanti dopo due servitori entravano con una pesante cassetta di legno di rosa dalle incrostazioni d'oro e di madreperla. Quattro giannizzeri, con la lancia in pugno, li circondavano. La cassetta fu deposta su un tavolinetto accanto al divano e Basctiari Bey l'aprì con rispetto. Conteneva un vaso di spessa porcellana azzurra dal collo largo e lungo. Il persiano tolse il tappo di giada che chiudeva l'orifizio e Angelica si chinò. Vide un liquido oscuro e iridato che le parve di consistenza oleosa, il cui odore penetrante non somigliava a nulla di conosciuto. Era spiacevole o piacevole? Non avrebbe saputo dirlo. Si raddrizzò con l'impressione di provare uno stordimento e un brusco dolore alle tempie. Sussurrando preghiere su un tono salmodiante, il persiano inclinava il vaso per versarne qualche goccia in una scatolina d'argento; vi immerse il dito e lo pose con gesto dolce sulla fronte di Angelica, poi sulla propria. «È una medicina?» chiese lei debolmente. «È il sangue della terra,» mormorò lui mentre le lunghe palpebre gli velavano lo sguardo con estasi, «è la promessa sorta dalle profondità... il messaggio misterioso degli spiriti che comandano il mondo... Vi è un solo Dio. Maometto è il suo profeta e Alì il suo visir!» «E Alì il suo visir,» risposero i servi prosternandosi. Quando questi si furono ritirati portando via il venerabile liquido, Angelica si apprestò a congedarsi. La delusione dell'ambasciatore fu visibile. Ella dovette usare numerose perifrasi e molteplici paragoni poetici per fargli comprendere che in Francia le donne di una certa condizione non potevano essere considerate come volgari cortigiane. Non si poteva conquistarle se non con una corte sottile e lungamente platonica. «I nostri poeti persiani hanno saputo cantare la loro amata,» disse il principe. «Nei secoli passati il grande Saadi non ha forse detto: Colui che tu avvinci conosce una felicità sempre giovane: un paradiso costante gli impedisce d'invecchiare. Da quando ti vedo so dove volgere la mia preghiera: verso il tuo Oriente sale il mio fervore... «Bisogna forse parlare così... per conquistare le difficili donne di Francia?... Vi chiamerò Firuzè Khanum... La signora Turchese... È la più preziosa di tutte le pietre preziose, l'emblema della vecchia Persia dei Medi. L'azzurro è nel nostro paese il colore più amato...»
Prima ch'ella avesse potuto accennare un cenno di diniego, si era tolto dal dito un pesante anello e glielo infilava nell'anulare. «... La signora Turchese... ecco l'espressione della mia gioia quando i vostri occhi si sollevano su me. Questa pietra ha il potere di mutare colore quando colui o colei che la porta ha la coscienza cattiva e il cuore falso.» La fissava con un sorriso dolce e lievemente beffardo che la affascinava. Avrebbe voluto rifiutare ma non poté che mormorare, abbassando gli occhi sulla pietra incastonata d'oro che le ornava la mano: «Barik Allah!» Basctiari Bey si alzò in un fruscio di seta. Aveva movimenti agili e felini che lasciavano indovinare una forza non comune, allenata dagli esercizi di cavalleria e dai combattimenti di «gerib» (clava di legno). «I vostri progressi in persiano... molto rapidi... Vi sono molte donne così belle, così affascinanti alla corte del re di Francia?» «Tante quanti sassolini su una spiaggia dell'oceano,» affermò Angelica. Aveva fretta, ora, di fuggir via. «Vi lascerò dunque andare,» disse il principe, «perché tale è lo strano uso in questo curioso paese dove si mandano doni per riprenderseli subito dopo... Perché il re di Francia mi fa tanti oltraggi? Lo scià di Persia è potente: può scacciare dal suo paese i religiosi francesi dei conventi che si sono installati laggiù... Può rifiutare di vendere la seta. Il vostro re crede forse che potrà in casa sua ottenere seta come quella che possediamo noi? Sulle terre straniere non crescono che i gelsi dalle bacche rosse. Mentre in Persia i bachi si nutrono di gelsi dalle bacche bianche e danno la seta più fine... Il trattato che volevamo firmare non si farà più? Dite questo al re. Ed ora, vorrei consultare il mio indovino. Desidero che siate presente.» 4 La lasciò nell'atrio dove ritrovarono il gesuita e i due gentiluomini. Tornò ben presto accompagnato da due nuovi personaggi, uno dei quali era un vecchio dalla barba bianca mal tinta di un color rosso aggressivo e il cui vasto turbante lasciava apparire vari segni dello zodiaco, mentre il secondo, più giovane, dalla barba nerissima, aveva un naso enorme. Fu quest'ultimo che prese la parola con disinvoltura, in eccellente francese: «Sono Agobian, armeno di rito cattolico orientale, mercante, amico e primo segretario di sua eccellenza, e questo è l'astrologo Hadi Sefid.»
Angelica fece un passo avanti come per eseguire un inchino, ma si fermò vedendo retrocedere l'astrologo che mormorò alcune parole fra cui era ripetuta quella di «negiess» (impurità). «Signora, non avvicinatevi troppo al nostro venerabile cappellano di ambasciata. È un po' rigorista e non ammette contatti con alcuna donna. Deve venire con noi a esaminare il vostro cavallo per vedere se porta con sè il "nehhucet", cioè la cattiva stella.» L'austero personaggio sembrava avere soltanto le ossa e la pelle sotto un caffettano di tela grossolana retto da una cintura di metallo. Aveva le unghie delle mani lunghe e dipinte di rosso come quelle dei piedi, calzati con sandali che sembravano tagliati nel cartone. Non parve soffrire del freddo né della neve quando il gruppo attraversò il giardino per recarsi nelle stalle. «Qual è dunque il suo segreto per non aver freddo?» chiese umilmente la giovane donna. Il vegliardo chiuse gli occhi e rimase muto un istante. Poi la sua voce si levò, straordinariamente giovane e melodiosa. L'armeno tradusse: «Il nostro prete dice che il segreto è semplice: bisogna digiunare e praticare l'astinenza dai piaceri terreni. Dice anche che vi risponde per quanto voi non siate che una donna, perché non apportate il male. E neppure il vostro cavallo è nefasto a sua eccellènza. Questo anzi è molto strano perché il mese in cui siamo è nefasto e apportatore di disgrazia.» Il vecchio, scuotendo il capo, camminava intorno al cavallo. Gli assistenti rimasero in silenzio, rispettando la sua meditazione, fino a che parlasse di nuovo: «Dice che un mese con un destino molto nefasto può essere mutato in giorni migliori dalla congiunzione di preghiere sincere e dall'incontro di astri diversi. Queste preghiere sono tanto più accette all'onnipossente in quanto gli esseri hanno sofferto. Dice che il dolore non ha segnato il vostro volto, ma ha suggellato la vostra anima... Da ciò vi è provenuta la saggezza che ben poche donne posseggono... Ma voi non siete ancora sulla via della Redenzione, essendo troppo attaccata a futilità terrene. Vi perdona perché non portate il male con voi e perché l'incrocio della vostra via con quella del suo padrone apporterà anzi grandi benefici...» Queste parole soddisfacenti erano appena pronunciate che la fisionomia del mago si cambiò d'un colpo. Le sue spesse sopracciglia tinte all'henné trasalirono e i suoi occhi pallidi presero a brillare d'una luce folgorante. La
stessa espressione di sorpresa e di collera si rifletté sul viso dei persiani presenti. L'armeno esclamò: «Dice che un serpente si è insinuato tra noi... ha approfittato dell'ospitalità del principe per derubarlo...» Il dito secco e nodoso, dall'unghia rossa, si appuntò di scatto. «Flipot!» gridò Angelica fuor di sè. Già due soldati avevano afferrato il servitorello e lo gettavano in ginocchio. La sua giacca rivoltata lasciò sfuggire tre pietre preziose, uno smeraldo e due rubini, che misero tre gocce abbaglianti nel candore della neve. «Flipot!» ripeté Angelica costernata. Proferendo parole violente l'ambasciatore avanzò, posò la mano sull'elsa dorata che gli usciva dalla larga cintura e trasse con un gran gesto la scimitarra. Angelica si precipitò in avanti. «Che volete fare? Padre mio, intervenite, ve ne prego. Sua eccellenza non vorrà mica tagliargli la testa...» «A Ispahan sarebbe cosa fatta,» disse freddamente il gesuita. «E io rischierei la mia se tentassi d'intervenire. Deplorevole incidente! Estremo affronto! Sua eccellenza non vorrà mai capire che non può punire questo ladroncello al modo abituale.» Fece del suo meglio per trattenere l'illustre allievo, mentre Angelica si dibatteva contro i giannizzeri che volevano allontanarla e altre tre guardie volevano immobilizzare Malbrant Colpo di Spada che già aveva tratto dal fodero la sua arma. «Sua eccellenza transige a tagliargli soltanto i polsi e la lingua,» disse l'armeno. «Sua eccellenza non deve mischiarsi nel fatto di castigare i miei servitori... Questo ragazzo mi appartiene. Spetta a me decidere sulla punizione che gli infliggerò.» Basctiari Bey la guardò con il suo sguardo scintillante e parve calmarsi. «Sua eccellenza chiede quale supplizio gli riserbiate!» «Gli farò... gli farò dare ventisette sferzate e lo farò rinchiudere vivo in una giara di gesso.» Il principe parve riflettere. Emise un'esclamazione gutturale, e voltando le spalle s'incamminò verso la casa con il seguito. Le guardie che trascinavano Flipot muto dal terrore spinsero i francesi fuori dal giardino, e avendoli messi in tal modo alla porta, richiusero i cancelli della proprietà. «Dove sono i cavalli?» chiese Angelica.
«Quei turchi dell'accidente se li sono tenuti,» brontolò Malbrant Colpo di Spada, «e non credo che li restituiranno.» «Dovremo ritornare a piedi,» osservò uno dei lacchè. Il cocchiere si lamentava: «Una bestia bella come Cerere! Se è mai possibile! La signora marchesa non avrebbe dovuto lasciarsi infinocchiare a questo modo, sono dei veri selvaggi, quella gente!» Angelica si accorgeva che il giorno era molto più avanzato di quanto avesse creduto. Scendeva la sera. La brezza soffiava e una lieve nebbia cominciava a sorgere dalle macchie velando le luci lontane che verso oriente annunciavano Parigi. Si udirono gli zoccoli stanchi di un cavallo battere sulla strada gelata. Apparve mastro Savary che conduceva la sua cavalcatura per la briglia. A pochi passi, cominciò ad annusare rumorosamente come un cane da caccia mentre il volto gli si illuminava. «La mummia!... Ve l'hanno dunque mostrata... Ah! La sento... La sento...» «Non c'è da stupirsi! Tutti i miei vestiti sono come impregnati da quel fetore! Non ci si libera facilmente dall'odore della vostra mummia... Ho un mal di testa spaventoso. Potete vantarvi, mastro Savary, di avermi trascinato in avventure assai spiacevoli. Sapete che l'ambasciatore ha trovato del tutto normale di tenersi i miei cinque cavalli? Quattro cavalli neri incrociati con saraceni e il mio cavallo da sella, una giumenta purosangue che ho pagato mille lire...» «Naturalmente! Bestie così belle! Sua eccellenza non poteva considerarle che come omaggi.» «Non rischiava certo di prendere il vostro!» «Eh! eh! Io sapevo quel che facevo,» ridacchiò il vecchio farmacista dando una manata sul fianco della sua vecchia rozza. «Intanto, come torneremo a Versailles? Non passa per questa strada neppure una carrozza, e d'altra parte non oso confessare a nessuno la mia disavventura, stupida e insultante.» «Propongo di prendervi in groppa,» disse Savary, «e di accompagnarvi questa sera a Parigi. Quanto ai giovanotti, a due leghe da qui troveranno un albergo dove potranno passare la notte; domani, ci sarà pure una carretta per condurli in città, dove basterà che passino dalle vostre stalle per rimettersi in sella.»
«È semplicissimo, infatti,» disse Angelica che cominciava a sentirsi la mosca al naso. «Credete che abbia le stalle piene di cavalli da poter distribuire allegramente a tutti i principi persiani della terra.?...» Savary non se la prendeva affatto e continuava a ridacchiare come un vecchio folletto beffardo. «Eh! Eh! Vedo lì una piccola pietra che vale cinque e anche dieci cavalli purosangue.» Angelica, contrariata, nascose sotto il mantello la mano su cui brillava la millenaria turchese. Mastro Savary tutto allegro si pose in sella, mentre i servitori aiutavano la padrona a salire dietro di lui. «Anche se non volete riconoscerlo, signora,» riprese il vecchio mentre la bestia si metteva al piccolo trotto, «vi siete intesa con Basctiari Bey assai meglio di quanto non vogliate confessare.» «Per nulla affatto! Non posso intendermi con un personaggio di quel genere, il quale trova naturale giocare con la testa dei suoi simili, e che, dopo avermi ricevuto cortesemente, mi fa gettar fuori senza una scusa...» «Questi sono piccoli particolari, signora. Per i musulmani, la vita, di cui pretendono di godere totalmente, non ha quel valore che ha per i cristiani. Allah ci aspetta sulla soglia della morte. Mandare uno schiavo con un colpo di sciabola all'altro mondo, non significa forse fargli generosamente dono della libertà, e fargli guadagnare al tempo stesso il paradiso? Questo privilegio è accordato dal Corano ai domestici messi a morte dal proprio principe. E sono certo che Basctiari Bey conserva della vostra visita il più incantevole ricordo. Ma dopo tutto, voi non siete che una donna!» concluse mastro Savary con un disprezzo tutto orientale. 5 Angelica, stanchissima, dormiva ancora alle dieci dell'indomani, quando fu picchiato alla porta. «Signora, chiedono di voi.» «Lasciatemi in pace!» gridò lei. Si riaddormentò, sprofondando voluttuosamente in un sonno sballottato, mosso come il trotto del cavallo di mastro Savary. Alla fine apri gli occhi. Javotte la scuoteva con una faccia stravolta. «Signora, quei due ufficiali insistono. Chiedono di essere ricevuti immediatamente, dicono.» «Aspetteranno... che abbia finito di dormire.»
«Signora,» disse Javotte con voce spenta, «ho paura. Quella gente sembra che sia venuta per arrestarvi.» «Arrestare me?» «Hanno fatto mettere guardie alle uscite del palazzo e hanno ordinato di preparare la vostra carrozza per condurvi via!» Angelica si alzò facendo uno sforzo per riprendere gli spiriti. Che volevano da lei? Non era più il tempo in cui Filippo poteva giocarle qualche brutto tiro. Il re, anche due giorni prima, le aveva dato uno sgabello... Non c'era dunque ragione di preoccuparsi... Vestitasi in fretta, ricevette i due ufficiali dissimulando uno sbadiglio. Javotte non si era sbagliata riconoscendo ufficiali della polizia del re. Questi le porsero una lettera di cui ella ruppe i sigilli con mano nonostante tutto febbrile. La formula chiedeva al destinatario di quella lettera di voler seguire la persona che gliel'aveva consegnata. Il sigillo del re era apposto in fondo al foglio e teneva luogo, in realtà, di mandato d'arresto sotto beneficio di dubbio. La giovane donna cadeva dalle nuvole. Le venne subito in mente di essere vittima di una macchinazione che usava del nome del re per meglio nuocerle. Domandò sospettosa: «Chi vi ha consegnato questa lettera e dato ordini?» «I nostri superiori, signora.» «E che debbo fare?» «Seguirci, signora.» Angelica si volse ai propri servi che, raccolti intorno a lei, mormoravano ansiosi. Diede ordine a Malbrant Colpo di Spada, al maggiordomo Roger e ad altri tre domestici di far sellare i cavalli per accompagnarla. Così, nel caso in cui si fosse tentato di attrarla in un trabocchetto, avrebbe avuto una scorta per difenderla. L'ufficiale di polizia più anziano s'interpose: «Spiacente, signora, ma devo condurvi sola. Ordine del re.» Il cuore di Angelica cominciò a battere disordinatamente. «Sono arrestata?» «Lo ignoro, signora. Tutto ciò che posso dirvi è che debbo accompagnarvi a Saint-Mandé.» La giovane donna salì in carrozza lambiccandosi il cervello. SaintMandé?... Che cosa c'era, dunque, a Saint-Mandé? Forse un convento dove l'avrebbero rinchiusa senza possibilità di aiuto! E per quale motivo? L'avrebbe ignorato per sempre! E Florimondo, che ne sarebbe stato di lui?
Saint-Mandé?... non era forse lì che l'ex sovrintendente alle Finanze, il famoso Fouquet, aveva fatto costruire una delle sue ville?... Un sospiro di sollievo le sfuggì dalle labbra. Le tornava di colpo alla mente che, dopo l'arresto e l'imprigionamento di Fouquet, il re aveva donato tutti i beni di quest'ultimo al successore Colbert. Vi era certo Colbert, dietro tutta quella storia. Strano modo d'invitare una giovane donna nella sua villa di campagna. Gli avrebbe detto il fatto suo, anche se era ministro. Poi, la preoccupazione la riprese. Aveva visto intorno a lei tanti improvvisi e inesplicabili arresti. La gente a volte ricompariva un po' più tardi col sorriso sulle labbra. Tutto si era arrangiato. Ma nell'attesa si era messo l'embargo sui loro beni e si era frugato fra le loro carte. Angelica non aveva dato la minima disposizione per la sicurezza del suo denaro. «Mi servirà di lezione,» disse fra sè e sè. «Se me la cavo, sarò più prudente e più segreta nei miei affari, in avvenire.» La carrozza, dopo essere uscita dalle strade fangose di Parigi, correva più veloce sulla strada gelata. Le querce spoglie ricoperte di ghiaccioli indicavano l'avvicinarsi del bosco di Vincennes. Finalmente, sulla destra, apparve la facciata della ex residenza di Fouquet, meno sontuosa di quella di Vaux, ma il cui lusso «indecente» era stato uno dei capi d'accusa contro il famoso finanziere che ora ammuffiva in fondo a una fortezza del Piemonte. Nonostante l'inverno e la brina il cortile del castello era un vero e proprio cantiere. Tutto sembrava scavato di buche e messo sossopra. Putrelle e placche di gesso giacevano a piè dei muri alcuni dei quali avevano aperture attraverso cui spuntavano tronconi di tubi di piombo. Angelica dovette sollevare le gonne per superare un fascio di quei tubi che sbarrava l'ingresso. Un soprastante le tese la mano per aiutarla. «Perché mai il signor Colbert fa demolire la sua casa?» gli chiese. «Il signor Colbert conta di ritrarre diverse migliaia di lire da queste canalizzazioni di piombo,» rispose quello. L'ufficiale s'interpose: «La signora non deve saper nulla.» «Non vi è nessun segreto a parlare di tubi di piombo,» protestò Angelica che rifiutava di prendere sul serio l'avventura. Ora che avrebbe potuto spiegarsi con Colbert si sentiva rassicurata. All'interno, lo stesso lavoro di demolizione proseguiva. Alcuni operai strappavano dal soffitto motivi di stucco e di alabastro eseguiti dalla bottega del grande artista Le Brun.
Quel vandalismo indignò Angelica che però si guardò bene dal dire il proprio parere. Aveva altre gatte da pelare. E doveva soprattutto stare attenta a conservare il proprio sangue freddo. Calmissima e in pieno possesso dei propri mezzi, finì coll'entrare nell'ala del castello dove l'attuale sovrintendente aveva sistemato i suoi servizi e che era stata già passata al raschio. Il «lusso inaudito» tanto rimproverato a Fouquet non si era limitato, a quanto pareva, che a quei rivestimenti di gesso dorato perché, tolti questi, non rimanevano più che mura di mattoni malcotti senza nessun rapporto con le costruzioni di marmo di cui era stato tanto accusato l'ex sovrintendente imprigionato a vita. In fondo a un lungo corridoio, Angelica, in uno scenario da centro di raccolta per miserabili, trovò il fiore dei grandi nomi di Francia che si affollava su rudimentali panche. Saint-Mandé non rimaneva meno, per questo, l'anticamera dell'onnipossente ministro, e tutti coloro che avevano una richiesta da rivolgergli si assoggettavano ad aspettare stoicamente tra le correnti d'aria. Angelica scorse la signora di Choisy, la signora di Gamaches, la bella scozzese, accompagnatrice della duchessa Enrichetta, la baronessa di Gordon-Huntley, e il giovane La Vallière che fece finta di non vederla. Il principe di Condé era seduto a fianco del signor di Solignac. Riconoscendo Angelica, voleva andarle incontro, ma il signor di Solignac lo trattenne sussurrandogli qualcosa all'orecchio. Il principe cominciò a discutere. Dopo un conciliabolo piuttosto lungo finì per scuotere la manica che Solignac tratteneva e avanzò cortesemente per quanto zoppicando, perché l'atmosfera non era propizia ai suoi dolori. Ma i guardiani di Angelica s'interposero di nuovo. «La signora è in segregazione, vostra altezza ci scusi.» E, per evitare di opporsi al grande Condé, introdussero la giovane donna in un'anticamera più piccola, nonostante i mormorii dei cortigiani che si vedevano superati nel turno. Nell'altra stanza vi era solo un sollecitatore ch'ella non aveva mai visto prima alla corte. Era uno straniero. Lo guardò due volte, chiedendosi se non fosse persiano, perché assai scuro in volto e con occhi neri allungati verso le tempie che gli davano un aspetto asiatico. Ma era vestito all'europea, per quanto poteva lasciarlo indovinare il largo mantello in cui si avvolgeva. I suoi stivali di cuoio rosso dai risvolti guarniti di una nappina d'oro e una specie di berretto di feltro orlato di pelo d'agnello che aveva sul capo tradivano tuttavia la sua origine esotica. Vide che portava la spada.
Quegli si alzò, salutò con un profondo inchino la nuova venuta senza preoccuparsi di vederla scortata da due aguzzini. In un francese corretto ma che rotolava abbondantemente le «r» le propose di passare prima di lui. Non avrebbe voluto per nulla al mondo che una così «graziosa» signora aspettasse più di qualche minuto in un luogo così triste. Mostrava parlando una fila di denti smaglianti sotto baffi nerissimi e sottili, le cui punte ricadevano un poco agli angoli delle labbra. Era da molto che in Francia nessuno portava più baffi come quelli, se non gli uomini anziani della generazione del barone di Sancé. Comunque, Angelica non ne aveva mai visto di così inquietanti: quando lo sconosciuto taceva, gli davano un'aria feroce e barbara. Angelica si sentiva affascinata da quei baffi. Ogni volta che lo guardava, lo straniero le dedicava uno scintillante sorriso e insisteva perché passasse prima di lui. L'ufficiale di polizia più anziano alla fine gli disse: «La signora vi è certamente molto obbligata, monsignore, ma non dimenticate che il re vi aspetta a Versailles. Al vostro posto, chiederei piuttosto alla signora di voler pazientare qualche istante di più...» L'altro non parve aver udito e seguitò a sorridere arditamente fissando Angelica, che cominciava a sentirsene impacciata. Si stupiva meno della mancanza d'educazione dell'ufficiale di polizia che della deferenza ch'egli sembrava mostrare verso il sollecitatore straniero. Chiunque fosse, quest'ultimo era un uomo assai educato. Tentava di aguzzare l'orecchio per capire se l'attuale interlocutore del ministro ne avesse avuto ancora per lungo tempo. L'uscio del gabinetto di lavoro chiudeva piuttosto male, in seguito alle demolizioni recenti ordinate dal padrone di casa. Il tono delle voci si avvicinava e annunciava prossima la fine della visita. «Non dimenticate neppure, signor di Gourville, che sarete il rappresentante segreto del re di Francia in Portogallo e che nobiltà fa obbligo,» concluse il signor Colbert. «Gourville,» pensò Angelica, «non era mica uno dei complici del sovrintendente condannato? Lo credevo fuggito e anzi condannato a morte in contumacia...» Un gentiluomo dal volto nascosto da una mascherina nera apparve sulla soglia, accompagnato cordialmente dal ministro. Passò con un cenno del capo. Il signor Colbert aggrottava le ciglia. Esitò un istante fra l'ungherese e la giovane donna, ma siccome il primo si faceva di lato, il ministro si fece
ancora più scuro in volto. Fece segno ad Angelica di entrare e respinse la porta un po' bruscamente sul naso dei due accompagnatori. Sedette, fece cenno alla visitatrice di prendere una poltrona e lasciò cadere un silenzio piuttosto greve. Guardandolo con quelle sue folte sopracciglia e l'espressione gelida, Angelica si ricordò che la signora di Sévigné lo chiamava «il Nord». Sorrise. Il signor Colbert sobbalzò, come se l'incoscienza di Angelica lo sorprendesse estremamente. «Signora, potete dirmi per quale motivo avete reso visita ieri all'ambasciatore di Persia, sua eccellenza Basctiari Bey?» «Chi ve ne ha informato?» «Il re.» Colse sul tavolo un piego che rigirò due o tre volte fra le dita con aria seccata. «Ho ricevuto, questa mattina, una richiesta del re che mi pregava di convocarvi al più presto per chiedervi spiegazioni.» «Le spie di sua maestà fanno presto il loro mestiere.» «Sono pagate per questo,» brontolò Colbert. «Be'! Che cosa avete da rispondere? Chi vi ha spinto a far visita al rappresentante dello scià di Persia?» «La curiosità.» Colbert ebbe un nuovo sobbalzo. «Intendiamoci bene, signora. L'affare è grave! Le relazioni fra questo difficile personaggio e la Francia sono divenute tali che coloro che gli fanno visita possono essere considerati partecipi del giuoco di un nemico.» «Assurdità! Basctiari Bey mi è parso molto desideroso di salutare il più grande monarca del mondo e di ammirare le bellezze di Versailles.» «Credevo fosse sul punto di ripartire senza neppure aver presentato le sue lettere credenziali...» «Sarebbe il primo a dolersene. Basterebbe un po' di tatto da parte di tutti quei tangheri che gli hanno messo alle calcagna, Torcy, Saint-Amon e tutti gli altri...» «Parlate con molta leggerezza, signora, di vecchi diplomatici. Vorreste dire che non conoscono il loro mestiere?» «Non conoscono i persiani, questo almeno è certo. Basctiari, Bey mi ha dato l'impressione di un uomo... di buona volontà, sul piano politico, s'intende.» «Allora perché rifiuta di presentarsi?»
«Perché pensa che lo si riceva male, che il presentarsi in carrozza con guardie agli sportelli sia ingiurioso per lui.» «Ma è il cerimoniale di ricevimento ordinario previsto per tutti gli ambasciatori, in questo regno!» «Egli non ne vuole sapere.» «E che vuole, allora?» «Attraversare Parigi a cavallo su una nube di petali di rose, dinanzi a tutti i parigini prosternati.» E siccome il ministro rimaneva a bocca aperta: «Insomma, signor Colbert, la cosa dipende da voi.» «Da me?» si spaventò lui. «Ma io non ne capisco niente di questioni di etichetta.» «Neppure io. Ma ne so abbastanza per dirvi che qualsiasi etichetta si può rendere accomodante piuttosto di perdere un'alleanza favorevole al regno.» «Raccontatemi tutto nei particolari,» fece Colbert asciugandosi il collo con gesto nervoso. Angelica gli fece un rapido racconto della sua burlesca spedizione, omettendo tuttavia di parlare della mummia. Colbert ascoltava con aria scura e senza sorridere neppure al passaggio del supplizio della ruota richiesto da sua eccellenza a titolo di dimostrazione. «Vi ha parlato delle clausole segrete del trattato?» «Per nulla. Ha soltanto alluso al fatto che tutte le vostre manifatture non otterrebbero mai una seta eguale a quella persiana... e ha parlato anche dei conventi cattolici.» «Non ha parlato di contropartita militare da parte araba o moscovita?» Angelica scosse il capo. Il ministro si sprofondò nelle sue riflessioni. Dopo aver rispettato la sua meditazione per un bel pezzo, Angelica riprese la parola. «Insomma,» concluse allegramente, «ho reso un servizio a voi e al re.» «Non parlate così in fretta. Vi siete mostrata pazzamente imprudente e maldestra.» «In che cosa, dunque? Non ho firmato un arruolamento nell'esercito perché non possa far visita a chi mi piace senza avere il permesso dai miei superiori.» «E in ciò vi sbagliate, signora. Permettetemi di dirvelo chiaramente. Credete di poter agire liberamente, mentre più la vostra situazione è elevata, più dovete avanzare con minuziosa prudenza. Il mondo dei grandi è pieno d'imboscate. È mancato poco, infatti, che foste arrestata...»
«Non lo sono dunque?» «No. Mi prendo io la responsabilità di non trattenervi sino a che abbia regolato questo affare con sua maestà. Vogliate tuttavia trovarvi domani a Versailles, e credo che il re vorrà ascoltarvi, dopo alcune verifiche che s'impongono. Mi recherò subito lì e parlerò con sua maestà del progetto che mi viene alla mente e in cui voi potreste esserci utile nei riguardi di Basctiari Bey.» La riaccompagnò alla porta e disse ai poliziotti che attendevano: «Potete andarvene. Missione conclusa.» Angelica fu talmente scossa dal contraccolpo di quella lieta fine alla sua visita forzata che sedette nell'anticamera, dopo la partenza degli ufficiali di polizia, indifferente all'ingresso del nuovo sollecitatore che sostituiva lo straniero introdotto. Alla fine, fu quest'ultimo che, uscendo dall'intervista e vedendola sempre abbandonata sulla panca, le propose con il suo forte accento, di andare a cercare una carrozza da nolo. Egli stesso non aveva altro mezzo di locomozione per ritornare a Parigi. Angelica lo seguì macchinalmente, la testa vuota. Solo rivedendosi dinanzi alla propria carrozza il cui postiglione le si faceva incontro, ritrovò i suoi spiriti. «Scusatemi, signore. Sono io al contrario che desidero chiedervi di salire nella mia carrozza e di farmi il piacere di tornare con me a Parigi.» Lo straniero giudicò con un'occhiata la vettura ornata di drappi d'argento e la livrea dei domestici. Fece un sorriso di pietà. «Povera piccina,» disse. «Sapete ch'io sono molto più ricco di voi? Non posseggo nulla, ma sono libero.» «È un originale,» pensò lei, mentre la vettura si avviava. Rifaceva con inesprimibile sollievo la strada percorsa al mattino nell'incertezza. Ora poteva ben confessarselo. Aveva avuto molta paura. Sapeva che certi malintesi non si risolvono così facilmente. Ripresasi dalla passeggera depressione, fece uno sforzo per sostenere la conversazione con un uomo che aveva dell'educazione e si era mostrato affabile verso di lei mentre già la consideravano come un'appestata. «Posso chiedere il vostro nome, signore? Non mi pare di avervi veduto a corte...»
«Io sì, l'altro giorno, quando sua maestà, vi ha fatto sedere e siete venuta avanti così bella, così seria nel vostro vestito nero, come un rimprovero vivente fra tutti quei begli uccelli.» «Un rimprovero?» «Forse mi esprimo male. Siete uscita dalla folla talmente diversa, talmente un'altra cosa che mi è venuta voglia di urlare: "Non lei! Non lei! Portatela via da questi luoghi."» «Grazie a Dio, avete trattenuto le vostre grida!» «Bisogna pure,» sospirò lo straniero. «Cerco di ricordarmi di continuo che mi trovo in Francia. I francesi non hanno gli stessi movimenti spontanei degli altri popoli. Ragionano con la testa e non con il cuore.» «Donde venite?» «Sono il principe Ragoski e il mio paese si chiama Ungheria.» Angelica scosse il capo cortesemente. Si disse che all'occasione avrebbe chiesto a mastro Savary, che aveva tanto viaggiato, dove si trovava l'Ungheria. Le doveva almeno questo, dopo tutti i fastidi in cui l'aveva trascinata con la sua maledetta «mummia». Il principe raccontava che, di nascita elevata, aveva tuttavia abbandonato tutti i suoi beni per dedicarsi al popolo, la cui misera condizione lo aveva commosso. Aveva fomentato una rivolta per rovesciare il re d'Ungheria che si era rifugiato presso l'imperatore di Germania. «Questo paese si trova dunque in Europa,» pensò lei. «Allora, per un certo tempo, vi fu la repubblica in Ungheria. Poi venne la repressione. Orribile! Fui denunciato dai miei partigiani per un tozzo di pane. Ma potei fuggire e nascondermi in un convento. Quindi oltrepassai le frontiere, inseguito dovunque, e sono venuto in Francia dove ho trovato buona accoglienza.» «Ne godo per voi. Dove abitate, in Francia?» «In nessun luogo, signora. Non sono che un errante come i miei avi. Aspetto di ritornare in Ungheria.» «Ma voi lì rischiate la morte!» «Vi ritornerò ugualmente quando avrò ottenuto i soccorsi del vostro re per fomentare una nuova rivolta di partigiani. Sono un rivoluzionario nell'anima.» Angelica lo guardò con occhi tondi. Era il primo rivoluzionario che vedesse in carne ed ossa. Piuttosto in ossa. La passione dell'anarchia non lo rendeva certo grasso. Ma vi era nel suo sguardo una luce mistica e insieme
allegra che fermava le parole pietose o beffarde. Quel rivoluzionario perseguitato aveva l'aria assai lieta della propria sorte. «Come potete sperare che il nostro re vi dia del denaro per aiutarvi a rovesciare un altro re? Egli, al contrario, ha orrore di questi disordini...» «In casa sua, forse. Ma in casa degli altri un rivoluzionario è una pedina da avanzare di tanto in tanto. E io spero molto.» Angelica rimaneva pensierosa. «Dicono infatti che Richelieu, un tempo, abbia sostenuto Cromwell con il denaro francese e sia stato responsabile della decapitazione del re Giacomo I d'Inghilterra, che pure era cugino del re di Francia.» Lo straniero fece un sorriso lontano. «Non conosco l'Inghilterra, ma so che gli inglesi sono ricaduti sotto il dominio dei rami reali ereditari. Nessun sangue nuovo è venuto a rinnovare il potere. Quella nazione non era matura per una nuova avventura. Neppure la Francia è pronta. Noi ungheresi, che riceviamo l'eredità di diverse razze libere, noi sì lo siamo.» «Ma anche noi in casa nostra siamo liberi,» protestò Angelica. L'ungherese scoppiò in una risata talmente isterica che il cocchiere rallentò e si volse. Poi rimise i cavalli al trotto scuotendo il capo. La signora marchesa era una brava persona ma frequentava individui sempre più strani! Lo straniero andava rimettendosi. Alla fine gridò: «Voi chiamate esser liberi entrare fra due poliziotti dal ministro di un reame poliziesco?» «Era un malinteso,» fece Angelica, contrariata. «Voi stesso avete veduto che i poliziotti non sono ripartiti con me.» «Già. Ma è ancora peggio. Sono dietro di voi. E non potrete mai sfuggir loro. A meno di lavorare con loro e per loro. Cioè a dire vendere la vostra libertà e la vostra anima. Se volete sfuggire a questo destino dovete andarvene.» La giovane donna cominciava ad essere irritata da quei discorsi esaltati. «Andarmene? Che idea! Sono arrivata a una situazione molto invidiabile e vi assicuro che mi sento benissimo, qui.» «Non per molto, credetemi. Con la faccia che avete.» «La mia faccia? Che cosa ha di particolare?» «Avete la faccia dell'arcangelo vendicatore, incorruttibile, di colui che regge la spada della giustizia e spezza i legami dei compromessi. Il vostro
sguardo trafigge. Gli esseri si sentono nudi dinanzi a voi. Non vi sarà prigione troppo profonda per spegnere quella luce. State in guardia!» «C'è un po' di vero in ciò che dite,» fece Angelica scuotendo il capo con un sorriso malinconico. «Sono molto intransigente, lo so. Ma non temete per me. Ho pagato un po' caro i miei errori di giovinezza per non aver imparato ad essere prudente.» «Ad essere schiava, volete dire?» «Le vostre parole sono eccessive, signore. Se tenete alla mia opinione, vi dirò che nessun regime è perfetto sulla terra e che in tutti i paesi la condizione dei miseri non è da invidiarsi. Voi siete in un certo senso un apostolo. Gli apostoli finiscono sempre sulla croce. Molto poco per me!» «Un apostolo dev'essere celibe, o almeno rinunciare alla propria famiglia. Io, invece, vorrei fondarne una ma nella libertà. Ci penso da quando vi ho vista. Siate mia moglie e fuggiamo insieme!...» Angelica se la cavò nel modo naturale alle donne in un caso spinoso: ridendo e mutando conversazione. «Oh! Guardate tutta quella gente che ci viene incontro. Che accade?» Erano entrati in Parigi ed in una delle viuzze del quartiere Saint-Paul un brillante corteo costringeva la vettura a fermarsi. Una turba cenciosa di poveracci reclutati certo per gridare dietro mercede di qualche soldo, scortava una sezione delle guardie che si era fermata in una piazzetta. Installarono al centro una specie di forca da cui dondolava un manichino di paglia che recava sul petto un grande cartello bianco. Un sergente delle guardie, il commissario del quartiere e un usciere rappresentavano il lato ufficiale della cerimonia. Quando il manichino si elevò sulla forca, due tamburi fecero udire un prolungato rullio. La folla urlò con tutto il fiato: «Al fuoco i prevaricatori!» «A morte gli sfruttatori del popolo!» «Immagini rivoluzionarie,» mormorò l'ungherese con gli occhi che gli brillavano. «Vi sbagliate, signore,» disse Angelica, piuttosto lieta di aver partita vinta. «Quella gente applaude proprio un atto di giustizia del re. Si tratta di una "esecuzione in effigie". La si applica a criminali condannati a morte ma che sono riusciti a fuggire all'estero.» Sporse il capo dallo sportello per informarsi sul nome di colui che avevano lì appeso sotto l'aspetto di un manichino di paglia. Un bravo borghese, soddisfattissimo, le disse che si trattava del conte Eraldo di Gourville, ricevitore delle tasse in Guienna, accusato di peculato e di appropriazione
di fondi di Stato, ex complice di Fouquet, il cui processo era stato discusso in quegli ultimi anni. Tutti dovevano sapere che coloro che avevano abusato dell'ingenuità dei contribuenti, avevano a loro volta i guai che meritavano!... La carrozza riuscì a liberarsi e seguitò la corsa. Angelica rimaneva sopra pensiero, imitata dal compagno che quello spettacolo aveva immerso in una profonda meditazione. «Povero infelice,» sospirò egli infine, «povera vittima della tirannia, costretto a vivere per sempre lontano dalla patria, dove non può tornare senza arrischiare la vita... Ahimè! Quanti proscritti vagano così attraverso il mondo, scacciati dal luogo della loro nascita dalla sferza dei monarchi despoti...» «Una sferza che certo hanno meritato. Ma non commuovetevi troppo sulla sorte del signor Gourville e sulla durezza del re nei suoi riguardi. Se vi dicessi d'esser convinta che il condannato gode ottima salute, si trova in Francia e lavora anche nei servizi segreti del re?... Che era lui, insomma, l'uomo mascherato che abbiamo visto uscire dal gabinetto del signor Colbert, stamane?» Ragoski, con gli occhi che gli brillavano, le afferrò il polso nella mano nervosa. «Siete sicura di ciò che dite?» «Quasi sicura.» Il sorriso dell'ungherese si fece luminoso. «Ecco perché il vostro re pagherà me, me rivoluzionario, per combattere un altro re,» fece trionfante. «Perché è così, a doppia faccia. Getta in pasto alla folla, alla stupida folla, l'effigie dei colpevoli, e in segreto se ne assicura i servigi. Firma la pace con l'Olanda e incoraggia l'Inghilterra a farle la guerra. Negozia con il Portogallo per colpire alla schiena la Spagna con cui ha fatto alleanza. E ha bisogno di me, Ragoski, per indebolire l'imperatore di Germania. Ciò che non gli ha impedito di sostenere questo stesso imperatore a Saint-Gothard, contro i turchi. Ciò che non gli impedisce di reclamare il diritto delle capitolazioni firmato con gli stessi turchi. È un grandissimo re, molto segreto e molto abile. Nessuno lo conosce. E farà di tutti voi marionette senza anima.» Angelica si pose il mantello sulle spalle. Le parole dell'ungherese le davano una strana impressione di caldo e freddo. Ne era irritata sino alla punta delle unghie eppure l'ascoltava affascinata. «A sentir voi, non si sa se lo odiate o se lo ammirate.»
«Odio la sua funzione. Lo ammiro come uomo. Egli è più re di tutti coloro che ho conosciuto. Grazie a Dio, non è il mio. Perché colui che lo abbatterà dal suo trono non è ancora nato.» «Avete una strana mentalità. Parlate come un cafone della fiera di SaintGermain che non abbia altro scopo se non giocare al giuoco del massacro con teste di re.» Invece d'irritarsi per la sua riflessione il principe straniero ne fu divertito. «Mi piace la gaiezza dei francesi. Quando vado a passeggio per Parigi rimango sorpreso dalla gaiezza di tutti coloro che incontro. Non c'è un artigiano nella sua botteguccia che non canti o non fischi un ritornello mentre lavora. Mi hanno detto che è per dimenticare i guai. Le facce che si vedono dietro i vetri delle carrozze sono meno allegre. Perché?... I grandi di questo regno non hanno neppure il diritto di cantare per dimenticare i loro guai?...» La carrozza era giunta dinanzi al palazzo del Beautreillis. Angelica si chiedeva come avrebbe potuto congedare quell'uomo senza offenderlo allorché egli stesso balzò a terra e le tese la mano per aiutarla a scendere. «Ecco il vostro palazzo. Anch'io ne possedevo uno.» «Non lo rimpiangete?» «È quando si è staccati dai beni di questo mondo che si comincia davvero a godere la vita. Signora, non dimenticate ciò che vi ho chiesto.» «Che cosa?» «Di essere mia moglie.» «È uno scherzo?» «No. Mi considerate un pazzo perché non avete l'abitudine d'incontrare uomini appassionati e sinceri. La passione di tutta una vita può nascere in un attimo. Allora, perché non confessarvelo subito? I francesi mettono i loro sentimenti come le loro mogli in corsetti di ferro. Venite con me. Vi libererò.» «Per nulla affatto. Ci tengo al mio corsetto,» disse Angelica ridendo. Poi aggiunse: «Addio, signore, mi fate dire delle sciocchezze.» 6 Di ritorno a Versailles in mattinata, Angelica si recò subito dalla regina, per tentar di sapere se la sua piccola carica di assistente della dama addetta all'abbigliamento della regina le spettava ancora.
Le dissero che la regina era uscita con le dame d'onore per scendere al villaggio di Versailles in visita al curato della parrocchia. La regina era in portantina, le dame a piedi, nessuno doveva essere ancora molto lontano. Per raggiungerla, Angelica uscì a sua volta. Mentre attraversava il prato a nord, una grandine di palle di neve le si abbatté addosso. Voltandosi per far fronte a colui che si prendeva quella libertà, fu colpita da un nuovo proiettile che le chiuse la bocca. Inciampò, scivolò e cadde in un gran volo di gonne e in una nuvola di polvere bianca. Péguilin di Lauzun uscì da dietro una macchia ridendo a crepapelle. Angelica era furibonda. «Mi chiedo fino a che età seguiterete a fare questi scherzi da studentello. Aiutatemi almeno a rialzarmi.» «Ah no!» esclamò Péguilin che balzò su lei, la rivoltò nella neve, la baciò, le solleticò il naso con il manicotto e tanto fece che a lei non rimase più che chieder grazia ridendo. «Adesso va meglio,» disse lui rimettendola in piedi. «Vi ho vista giungere tutta arrabbiata e questo non sta bene né a Versailles né al vostro affascinante musino. Ridete! Ridete!...» «Péguilin, avete dimenticato il grande dolore che mi ha colpito da così poco tempo?» «Sì, ho dimenticato,» fece Péguilin con leggerezza. «Bisogna dimenticare come dimenticheranno noi quando ci toccherà fare i conti col Creatore. Del resto, non sareste tornata alla corte se non aveste avuto l'intenzione di dimenticare. Basta con la filosofia. Piccina, bisogna che mi aiutiate.» Le prese un braccio e la trascinò fra i tassi tagliati che l'inverno trasformava in un grazioso esercito di pani di zucchero. «Il re ha dato il suo consenso al nostro matrimonio,» fece misteriosamente. «Quale matrimonio?» «Be'! Quello di Mademoiselle di Montpensier con questo oscuro gentiluomo guascone che si chiama Péguilin di Lauzun. Suvvia, non ne siete al corrente? Essa è pazza di me. Ha pregato varie volte il re di lasciare che mi sposasse. La regina, Monsieur, Madame, hanno mandato alte grida facendo notare che una simile unione era contraria alla dignità del trono. Ma il re è giusto e buono. Egli mi vuol bene. Non crede del resto di avere il diritto d'imporre il celibato alla sua parente, che, giunta a quarantatre anni, non può più pretendere una mano illustre. Insomma, nonostante gli strilli di quei birboni, ha detto di sì.»
«È una cosa seria, Péguilin?» «Tutto ciò che vi è di più serio!» «La cosa mi rattrista.» «Avete torto. Io valgo bene il re del Portogallo che aveva brigato un tempo la mano di Mademoiselle, un grosso porco coperto di ulcere, oppure il principe di Slesia, un bimbo in fasce, ch'ella ebbe tra i suoi pretendenti.» «Non è per lei che mi rattristo, ma per voi.» S'interruppe per guardare quel volto familiare da cui la giovinezza non sarebbe fuggita così presto, gli occhi sempre vivaci nonostante il lieve appassir delle palpebre. «Che peccato!» sospirò. «Sarò duca di Montpensier,» seguitava Péguilin, «e riceverò al tempo stesso magnifici appannaggi. Per contratto, Mademoiselle mi dona quasi venti milioni.3 Sua maestà sta scrivendo a tutte le corti per annunciare il matrimonio della cugina. Angelica, mi pare di sognare. Nei miei sogni più ambiziosi mai avrei aspirato così in alto: il re sarà mio cugino. Non posso credervi ancora. E per questo ho paura. E voi dovete aiutarmi.» «Non vedo come! I vostri affari sono avviati benissimo.» «La fortuna è capricciosa, ahimè! Finché non sarò unito con quella graziosa principessa non dormirò tranquillo. Ho molti nemici, a cominciare da tutta la famiglia reale e dai principi del sangue. Il signor di Condé e suo figlio il duca di Enghien ce l'hanno a morte con me. Potete usare del vostro fascino per placare da un lato il signor principe presso il quale godete di molto credito, e dall'altro rassicurare il re, il quale rischia di lasciarsi influenzare dalle loro grida. La signora di Montespan mi ha già promesso il suo appoggio, ma non sono molto sicuro di lei. In questo genere di politica, penso che due amanti valgano meglio di una.» «Io non sono l'amante del re, Péguilin.» Il gentiluomo girò la testa a destra e a sinistra come un uccello beffardo che ascolti sempre la solita canzone. «Può anche darsi! Ma forse è peggio,» canterellò. Erano usciti dai giardini e si trovavano dinanzi ai cancelli del cortile maggiore. Da una carrozza che vi entrava li chiamò una voce di uomo: «Ehi là! Oh! Oh!» «Siete molto richiesta, a quanto vedo,» disse Péguilin. «Non voglio trattenervi. Posso contare sul vostro aiuto?» «Assolutamente no. Il mio intervento vi nuocerebbe invece di giovarvi.» 3
Venti miliardi di oggi.
«Non rifiutatemi questo piacere. Voi ignorate il vostro potere. Non volete ammetterlo, ma il fiuto di un vecchio cortigiano come me non può ingannarsi. Lo affermo: voi avete ogni potere sul re!» «Sciocchezze, mio povero amico.» «... Voi non ci capite nulla, vi dico. Siete nel cuore del re come una spina, straziante e deliziosa, sentimento che lo lascia smarrito tanto più che non ne ha mai conosciuto di simili. Quando siete vicina, non crede di desiderarvi... Crede di raggiungervi, ma voi fuggite... E la vostra assenza, con suo stupore, lo getta in indicibili tormenti.» «Tormenti che si chiamano signora di Montespan...» «La signora di Montespan è un boccone prelibato, una prebenda assicurata, un solido pasto di carne e di spirito, proprio quel che occorre per ristorare i sensi e la vanità di un monarca. Gli occorre. Ce l'ha... Ma voi... voi siete la sorgente nel deserto, il sogno di colui che non ha mai sognato... Il mistero senza misteri... Il rimpianto, la sorpresa, l'attesa... La donna più semplice che vi sia al mondo... La più incomprensibile... La più vicina... La più lontana... L'inattaccabile... L'indimenticabile,» concluse Péguilin, cacciandosi il pugno con aria lugubre nel giustacuore di pizzo. «Parlate bene quasi come l'ambasciatore persiano. Comincio a capire come abbiate trascinato quella povera Mademoiselle in una così strana avventura...» «Mi promettete di parlare al re, per me?» «Se ne avrò l'occasione, vi sosterrò. Ora, lasciatemi andare, Péguilin. Debbo raggiungere la regina.» «Essa ha meno bisogno di voi che non io. E poi, ecco ancora qualcuno che sembra deciso a strapparvi anche lui al servizio di sua maestà.» Dalla carrozza da cui li avevano interpellati, un uomo sceso velocemente si affrettava a raggiungerli. «È il signor Colbert. Non è con me che ce l'ha,» disse Péguilin. «Io non so giocare col denaro.» «Sono lieto di trovarvi subito.» disse il ministro. «Mi intratterrò dapprima con sua maestà, poi vi chiameremo.» «E se sua maestà non vuol più udir parlare della mia esistenza?» «Malumore... giustificato, convenitene. Ma il re si arrenderà alle mie ragioni. Venite, signora.» L'ottimismo del signor Colbert si rivelò tuttavia prematuro. Il suo colloquio col re si prolungò oltre il tempo normale richiesto da una semplice discussione. Egli aveva pregato Angelica di aspettarlo su una panca nel salo-
ne della Pace. Fu lì ch'ella vide giungere suo fratello Raimondo di Sancé, la cui alta figura austera nella sottana nera fendette la folla variopinta dei cortigiani. Non aveva avuto occasione d'incontrarlo, dopo il matrimonio con Filippo. Veniva da lei per presentarle le sue condoglianze fraterne? Vi adempì con affetto ma ella subito capì che non era quello lo scopo del loro colloquio. «Mia cara sorella, forse ti stupisci di vedermi correre in cerca di te sino alla corte, dove il mio ministero non mi conduce che assai di rado,» «Eppure, credevo che tu fossi stato cappellano o qualche cosa di simile della regina.» «È stato nominato al mio posto padre Joseph. I miei superiori hanno preferito mettermi alla testa della nostra casa di Melun.» «Il che significa...» «Che sono superiore, o qualche cosa di simile,» sorrise, «delle Missioni francesi del nostro Ordine all'estero. E in particolare dei conventi d'Oriente.» «Ah! Ah! Il padre Richard...» «Precisamente!» «Basctiari Bey... Il suo rifiuto di salire in carrozza, le topiche del signor di Saint-Amon, l'incomprensione del re e i danni morali e materiali che debbono risultarne...» «Angelica, la finezza del tuo spirito ha sempre provocato la mia ammirazione.» «Grazie, mio caro Raimondo. Ma in questo caso mi sembra che sarei stranamente limitata se non avessi capito.» «Arriviamo al punto! Il padre Richard, col quale mi sono intrattenuto poco fa, pensa che solo tu possa rimettere le cose in sesto.» «Sono desolata, Raimondo, ma il momento è scelto male. Sono sull'orlo della disgrazia.» «Eppure, il re ti ha ricevuto con molti onori. Mi è stato detto che avevi ottenuto uno sgabello.» «È vero. Ma che cosa vuoi! L'umore dei grandi è mutevole,» sospirò Angelica. «È meno sull'umore del re che bisogna agire che non su quello dell'ambasciatore. Il padre Richard non sa più a che santo votarsi da quando è giunto in Francia. È stata commessa la topica di mandargli incontro il principe di Saint-Amon, diplomatico se si vuole, ma che appartiene alla re-
ligione riformata, e disgraziatamente lo spirito della sua religione è agli antipodi di quella degli orientali. Donde l'accumularsi di malintesi che hanno portato alla presente situazione in cui né il re né il principe possono indietreggiare senza perdere del loro prestigio. Ora, la tua visita di ieri ha provocato una considerevole distensione. L'ambasciatore è sembrato curioso di conoscere Versailles, ha parlato con reverenza del re, ed è parso capire che i costumi della Francia potevano essere diversi e non tutti nascondere nei suoi riguardi intenzioni umilianti. Il padre Richard riconosce tale miglioramento dovuto alla tua presenza. "Le donne," mi ha detto, "hanno alle volte sottigliezze, un istinto, una saggezza, che tutti i nostri ragionamenti di uomini non ci farebbero raggiungere." Confessa che per parte sua egli non aveva pensato di vantare al principe le porcellane di Versailles o i fiori per deciderlo a presentare le credenziali. "Gli orientali," mi ha detto inoltre, "sono sensibili all'influenza di una donna intelligente," più vicina a loro, per certi lati, che non i nostri maschi cervelli d'Occidente, didattici e cartesiani. In breve, mi ha chiesto di pregarti di proseguire il tuo felice intervento. Potresti tornare a Suresnes uno dei prossimi giorni, questa volta forse con un messaggio di intesa del re, un invito, che so io!... Sembra che tu non considerassi sua eccellenza né con timidezza né con paura, né con la curiosità fuori posto di cui dan prova la maggior parte dei francesi che lo avvicinano.» «Perché dovrei condurmi così scioccamente?» disse Angelica. Si accarezzò con la punta delle dita la turchese dai riflessi celesti. «Quel persiano è un uomo simpaticissimo... A parte la piccola mania che ha di voler tagliare la testa a tutti. Ma non hai pensato, Raimondo, che la mia anima poteva trovarsi accanto a lui più in pericolo che non la mia vita?» Il gesuita osservò divertito la sorella. «Non si tratta di compromettere la tua virtù ma di usare della tua influenza.» «Sottile sfumatura! I venti monasteri della Persia valgono pure qualche occhiata languida all'inviato dello scià, non è vero?» Sul volto regolare del reverendo padre di Sancé rimase il sorriso che agli angoli delle labbra era segnato da una punta beffarda. «Capisco che non hai nulla da temere,» disse, «perché non vi sono molte cose che ti facciano paura. Vedo che hai perfino acquistato una nuova arma, da quando non ci siamo più veduti: il cinismo.» «Vivo alla corte, Raimondo!»
«Sembra che me lo rimproveri! Dove vorresti vivere, Angelica? Per quale mondo ti senti creata? La provincia? Il chiostro?» Sorrideva, ma dal suo sguardo duro e brillante ella riconobbe la forza di una spada destinata a trafiggere le anime. «Hai ragione, Raimondo. A ciascuno il suo mestiere, come direbbe mastro Savary. È dunque molto importante, la posta del giuoco persiano?» «Se Soliman Bey se ne ritorna in patria a mani vuote, noi saremo subito espulsi dai nostri conventi, fondati, non senza fatica, nello scorso secolo, sotto l'impulso del signor di Richelieu. Abbiamo case sin nel Caucaso, a Tiflis, Tatum, Bakù, ecc..» «Fate molte conversioni?» «Non si tratta di conversioni, ma di essere lì. Senza contare le minoranze cattoliche armene o siriane che hanno bisogno di noi.» Angelica aveva aperto il ventaglio sulle ginocchia. Quello che aveva scelto quella mattina rappresentava, dipinte su seta, scenette esotiche che circondavano un'allegoria delle cinque parti del mondo in un ovale ricamato di perle: l'indiano con il suo copricapo di piume di struzzo, il negro che cavalcava un leone che sembrava un drago... Il signor Colbert interruppe la loro meditazione. «Nulla da fare,» disse avvilito. «Il re è così furioso contro di voi che mi stupisco di vedervi ancora alla corte. Non vuole udir parlare del vostro intervento.» «Non ve lo avevo forse detto?» Presentò il fratello al signor Colbert il quale, per quanto non volesse riconoscerlo, non era senza diffidenza nei riguardi dei membri della Compagnia di Gesù. Il suo spirito astuto vi riconosceva intelligenze alla propria altezza e capaci al caso di fargli lo sgambetto. Ma il suo volto si rischiarò quando capì che il gesuita recava acqua al suo mulino. Posto al corrente della situazione, Raimondo di Sancé non la prese sul tragico. «Credo d'indovinare la causa principale dell'irritazione del re nei tuoi riguardi. Tu rifiuti di dirgli il motivo della tua visita laggiù.» «Non la dirò a nessuno.» «Ce lo immaginiamo. Conosco la tua testa dura, mia cara Angelica. E se lo hai rifiutato al re, perché sperare che sarai più indulgente verso di noi? Troviamone uno plausibile, che spieghi alla meno peggio il tuo atteggiamento inqualificabile... Vediamo un po'... Ma perché non mettere avanti le ragioni che ti esponevo poco fa? Ti sarai recata a Suresnes su mia richiesta
per stabilire un contatto con il padre Richard, la cui situazione delicata gli impedisce di ricevermi apertamente tra quei musulmani sospettosi. Che ne pensate, signor Colbert?» «Penso che la spiegazione è abile se abilmente presentata.» «Il reverendo padre Joseph, del nostro Ordine, è cappellano del re. Vado subito a trovarlo. Tu che ne pensi, Angelica?» «Penso che questi gesuiti sono davvero persone notevoli, come diceva il mio amico poliziotto Desgrez.» La lasciarono avviandosi a gran passi, ed ella si divertì a seguire con lo sguardo, lungo tutta la galleria, i cui pavimenti di legno prezioso le riflettevano, la figura tozza dell'uomo di Stato accanto a quella, slanciata, del religioso. I passanti si erano fatti d'un tratto rari. Angelica si accorse che moriva di fame, e che doveva essere molto tardi. Tutta la corte si era recata al pranzo del re. Decise che vi si sarebbe recata anch'ella, ma seguitò a sognare guardando il ventaglio. «Vi cercavo,» disse accanto a lei una voce femminile quasi timorosa. Alla vista della Grande Mademoiselle Angelica rimase sbalordita. Quale avvenimento trasformava così la voce autoritaria della nipote di Enrico IV? «Ë vero, il matrimonio!» pensò affrettandosi ad eseguire una riverenza. Mademoiselle la fece sedere e le afferrò le mani, commossa. «Mia cara piccina, sapete la notizia?» «E chi non la sa e chi non se ne rallegra? Vostra altezza mi consenta di rivolgerle i miei più sinceri auguri di felicità!» «La mia scelta non è forse felice? Ditemi, può forse esservi un altro gentiluomo che possegga come lui un tal valore unito a tanta intelligenza? Non lo trovate affascinante? Non avete per lui una grande amicizia?» «Certamente sì,» fece Angelica ricordandosi dell'incidente di Fontainebleau. Ma la memoria di Mademoiselle era corta e le sue frasi senza secondi fini. «Se sapeste in quale impazienza, in quali ansie vivo da quando il re ha dato il consenso!» «E perché mai? Rassicuratevi e rallegratevi senza ombra. Il re non può ritornare sulla sua parola.» «Vorrei esserne sicura come voi,» sospirò la signorina di Montpensier. La testa altera si chinava con sconosciuta dolcezza. Aveva sempre il petto bello come ai tempi in cui il pittore Van Ossel le faceva il ritratto per
mandarlo ai principi pretendenti d'Europa. La sua mano era graziosa e i suoi occhi di un bell'azzurro riflettevano una luce ingenua e incantata di fanciulla al suo primo amore. «Com'è bella vostra altezza!» «Davvero? Siete buona a dirmelo. Il mio sentimento di felicità è così grande che deve riflettersi sul mio viso. Ma tremo al pensiero che il re si riprenda la parola prima che sia firmato il contratto. Quella sciocca di Maria Teresa, il mio cugino d'Orléans e quella sua peste di moglie si sono messi insieme per rovinarmi il progetto. Gridano tutto il giorno. Dal momento che mi amate, tentate di distruggere l'effetto dei loro ragionamenti sul re.» «Ahimè! Vostra altezza, io...» «Voi avete una grande influenza sullo spirito del re.» «Ma chi può vantarsi di avere una grande influenza sullo spirito del re!» esclamò Angelica cedendo a una certa irritazione... «Voi lo conoscete! Dovreste sapere ch'egli obbedisce solo al proprio giudizio. Ascolta i pareri, ma se prende una decisione non è perché si è lasciato influenzare, come voi dite. È perché, secondo lui, quella decisione era buona. Non è mai il re del vostro parere, ma voi del parere del re.» «Rifiutate quindi d'intervenire per me? Eppure, vi aiutai facendo del mio meglio, un tempo, quando vi trovaste presa in quella storia di vostro marito accusato di essere un mago.» Ecco che Mademoiselle ricominciava a mettere i suoi grandi piedi nel piatto! La sua memoria non era così labile... Angelica stava per spezzare il ventaglio a forza di voltarlo e rivoltarlo nervosamente fra le dita. Alla fine, promise in fretta che, se se ne fosse presentata l'occasione, avrebbe cercato di conoscere i sentimenti del re in quell'affare. Chiese quindi il permesso di ritirarsi per ordinare una minestra e un panino, perché era a digiuno dal giorno innanzi, non avendo trovato il momento di bere neppure un bicchier di vino dopo la messa. «Ma non pensateci!» disse la Grande Mademoiselle prendendola per un braccio. «Il re riceverà il doge di Genova e il suo seguito nella sala del trono. Quindi vi sarà ballo, lotteria e gran fuoco d'artificio. Il re vuole che tutte le dame siano presenti per onorarlo. E voi in particolare. Altrimenti rischiamo di vedergli una faccia furiosa come quella che ha fatto ieri quando siete andata chissà dove.» 7
Dormendo, viveva un sogno che le tornava spesso da qualche tempo. Distesa nell'erba di un prato, aveva freddo. Tentava di coprirsi con le erbe ma si accorgeva ad un tratto di essere nuda. Allora si metteva ad aspettare con inquietudine il sole, spiando le nubi bianchissime che passavano pigramente in un cielo azzurro. Alla fine, sentiva sulla carne la carezza di un raggio. Si distendeva. La invadeva un senso di benessere e di straordinaria felicità fino al momento in cui si accorgeva che non era un raggio di luce a cagionarle quella impressione di calore, ma una mano posata sulla sua spalla. Subito aveva di nuovo freddo e si ripeteva: «Naturalmente, fa freddo dal momento che è inverno. Ma perché l'erba è verde?» E seguitava a dibattersi contro il freddo invernale e l'erba verde d'estate, fino a che si svegliava tremante e sfregandosi la spalla dove persisteva la sensazione di una mano calda e dolce. Anche quella notte si destò e battendo i denti raccolse sopra di sè le coperte che la sua agitazione aveva gettate dal letto. Aveva tanto freddo che stava per chiamare una delle signorine di Gilandon che dormivano nella stanza vicina per chiederle di fare un po' di fuoco. L'appartamento che occupava a Versailles comprendeva due stanze e una saletta da bagno dal pavimento in mosaico inclinato verso il centro, che permetteva l'evacuazione dell'acqua. Angelica pensò di andare a riscaldarsi facendo un bagno ai piedi. L'acqua della pentola posata su un fornello a carbone era tiepida. Scostò le cortine dell'alcova e cercò col piede le pantofoline di raso azzurro foderate di pelo di cigno. Crisantemo abbaiò. «Zitto!» Un orologio a pendolo dal timbro argentino sgranò le ore in lontananza. Angelica sapeva di aver dormito poco. Era appena mezzanotte! L'ora fuggitiva in cui, quando non vi era né ballo né cena di notte, e neppure festa notturna, il gran palazzo di Versailles rimaneva in silenzio per un breve riposo. Angelica si chinò, ancora alla ricerca della pantofolina e facendo quel gesto scoprì sulla sinistra, accanto all'alcova, tracciato come da un sottile pennello di luce, il rettangolo di una porticina. Non l'aveva mai notato. Glielo rivelava la luce di una candela tremolante dietro quella porta. Qualcuno stava lì e con la mano andava tastoni in cerca dell'invisibile stanghet-
ta della serratura. Si udì un lieve scatto. La striscia di luce si allargò mentre l'ombra di un uomo si allungava alla parete. «Chi è lì? Chi siete?» chiese Angelica a voce alta. «Sono Bontemps, primo cameriere del re. Non abbiate alcun timore, signora.» «Sì. Vi ho riconosciuto, signor Bontemps. Che volete da me?» «Sua maestà desidera vedervi.» «A quest'ora?» «Sì, signora.» Angelica si avvolse nella veste da camera senza aggiunger parola. Quell'appartamentino per la signora del Plessis-Bellière era lussuoso ma nascondeva i suoi trabocchetti. «Posso farvi attendere un istante, signor Bontemps? Vorrei vestirmi.» «Ve ne prego, signora. Abbiate tuttavia la bontà di non risvegliare le vostre accompagnatrici. Sua maestà desidera che la più grande discrezione sia osservata e che l'esistenza di questa porta nascosta rimanga solo conosciuta da poche persone di fiducia.» «Starò attenta.» Accese una candela a quella di Bontemps e passò nel camerino vicino. «Non vi sono molte cose al mondo che ti facciano paura,» le aveva detto Raimondo. Era vero. Aveva acquistato, nella sua dura esperienza, il gusto di far fronte al pericolo piuttosto che non schivarlo e fuggire. Batteva i denti ma era per un fatto nervoso e per il freddo. «Signor Bontemps, abbiate la cortesia di aiutarmi ad allacciare il vestito, ve ne prego.» Il cameriere di Luigi XIV s'inchinò e posò il candeliere su un cassettone. Angelica aveva una certa considerazione per quell'uomo affabile, di una distinzione senza servilismo e la cui situazione non era sempre invidiabile. Aveva la responsabilità della casa del re, dell'alloggio e dell'approvvigionamento di tutta la popolazione della corte. Luigi XIV, che non poteva farne a meno, si scaricava su lui di mille particolari. Piuttosto d'importunarlo nei brutti momenti, Bontemps non esitava a pagare di persona. Il re era giunto sino a dovergli 7000 pistole anticipate per le tavole da giuoco e le lotterie. Angelica, china verso lo specchio, schiacciò un po' di rosa sulle guance. Il mantello era nella camera vicina occupata dalle damigelle. Alzò le spalle e disse:
«Tanto peggio. Sono pronta, signor Bontemps.» Le sue pesanti gonne non si introdussero che a fatica nella porta nascosta. Chiusasi questa senza rumore, la giovane donna si trovò in uno stretto corridoio appena largo e alto come un uomo. Bontemps le fece salire una scaletta a chiocciola, poi ridiscendere tre gradini. Il budello, lungo come una galleria, s'inoltrava dinanzi a loro. Girava e rigirava, interrotto da gabinetti o da salottini chiusi, ch'ella indovinava ammobiliati sommariamente con un letto, uno sgabello o uno scrittoio, e destinati a chissà quali ospiti misteriosi, a quali incontri. Una Versailles insospettata si svelava, quella delle spie e dei domestici, dei colloqui segreti, delle visite in incognito, dei contratti inconfessabili, degli appuntamenti clandestini. Una Versailles oscura, scavata nello spessore delle mura e intrecciante il suo labirinto invisibile intorno alle sale luminose e dorate. Dopo la traversata di un ultimo ridotto dove una panca e un pezzo di arazzo sembravano aspettare i visitatori di una città sotterranea, una porta si aprì su uno spazio più vasto. Il soffitto, di colpo più alto, rivelava una stanza dei grandi appartamenti. Guardandosi intorno, Angelica riconobbe di trovarsi nel gabinetto del re. Due candelieri a sei braccia posati sulla tavola di marmo nero vi riflettevano le loro luci e rivelavano la presenza del sovrano, chino sul suo lavoro. Dinanzi al camino, dove il fuoco scoppiettava, sonnecchiavano tre grandi levrieri. Si alzarono a mezzo con un lieve ringhio, poi ripresero la loro posa. Bontemps riattizzò il fuoco, vi posò un pezzo di legno, indietreggiò e si confuse come un'ombra nella parete. Luigi XIV, con le dita posate sulla penna, sollevò il capo. Angelica lo vide sorridere. «Accomodatevi, signora.» Ella sedette sull'orlo di una poltrona. Il silenzio si prolungò piuttosto a lungo. Nessun rumore giungeva sin là, smorzato dai pesanti tendaggi azzurri ornati di gigli d'oro, tirati dinanzi alle finestre e alle porte. Alla fine, il re si alzò e andò a piantarsi dinanzi a lei, le braccia incrociate. «Sicché, non avete ancora suonato l'attacco? Neppure una parola? Neppure una protesta? Eppure, siete stata destata dal sonno! Com'è che non siete rabbiosa?»
«Sire, sono agli ordini di vostra maestà.» «Che cosa nasconde questa improvvisa umiltà? Quale risposta sferzante? Quale frase spiritosa?» «Vostra maestà sta abbozzando il ritratto di un'arpia, ciò che mi fa assai vergogna. È questa l'opinione che avete di me, sire?» Il re non rispose direttamente. «Il reverendo padre Joseph mi ha vantato per più di un'ora i vostri meriti. È un uomo di buon senso, dalla mente aperta, di gran cultura e di cui apprezzo i consigli. Mi parrebbe dunque di comportarmi male se non vi dessi l'assoluzione, dal momento che grandi spiriti della Chiesa stendono su voi la protezione della loro indulgenza. Quale riflessione vi suggerisce ciò che or ora vi ho detto, per provocare il vostro sorriso beffardo?» «Non mi aspettavo di essere chiamata a quest'ora della notte per udir vantare i meriti del vostro austero cappellano.» Il re si mise a ridere. «Piccolo demonio!» «Soliman Basctiari Bey mi chiama Fuzul Khanum.» «E che vuol dire?» «La stessa cosa. Ecco la prova che il re di Francia e l'ambasciatore dello scià di Persia possono avere identiche vedute sullo stesso punto.» «Dopo vedremo.» Stese le mani dinanzi a sè, con le palme aperte. «Bagattella, sottomettetevi al vostro sovrano.» Angelica sorridendo posò le mani su quelle del re. «Impegno la mia fedeltà al re di Francia, di cui sono ligia e vassalla.» «Va bene. Ora venite qui.» Con una pressione delle mani la fece alzare e la trascinò dall'altra parte della tavola. Vi era aperta una grande carta dove, fra i segni delle latitudini e dei meridiani e il volo dei venti che soffiavano ai quattro punti cardinali, si spandeva una larga macchia azzurra. Su quella macchia lettere bianche e oro, eleganti come ricami, iscrivevano quattro parole prestigiose: «Mare nostrum - Madre nostrum», vecchio appellativo ancora dato dai geografi al Mediterraneo, culla delle civiltà: «Mare nostro - Nostra madre». Il re indicò con il dito alcuni luoghi. «Qui, la Francia... qui, Malta. Qui, Greta, ultimo bastione del cristianesimo. Poi cadiamo sotto il potere dei turchi. E, come vedete, la Persia è
qui, questo leone sul sole levante, tra la mezza luna della Turchia e la tigre dell'Asia.» «È per parlarmi della Persia che vostra maestà mi ha fatto venire a quest'ora tarda?» «Desiderereste che fosse per parlarvi di altro?» Angelica, gli occhi chini sulla carta, scosse la testa, rifiutando d'incontrare lo sguardo di lui. «No! Parliamo dunque della Persia. Quale interesse questo lontano paese può avere per il regno di Francia?» «Un interesse il cui oggetto non vi sarà indifferente, signora: la seta. Sapete che essa rappresenta i tre quarti della nostra importazione?» «Lo ignoravo. È enorme. Abbiamo dunque bisogno di tanta seta, in Francia? E per farne che?» Il re scoppiò a ridere. «Per farne che? Ed è una donna che lo chiede? Ma, carissima, credete che potremmo fare a meno dei nostri broccati, dei nostri rasi, delle nostre calze, dei nostri merletti, dei nostri arredi sacri? No, piuttosto privarci di pane. I francesi sono fatti così. La loro grande preoccupazione non sono le spezie, né l'olio, né il grano, né le chincaglierie, né tutte le cose grossolane: è la moda.» «Il signor di Richelieu, ai tempi di mio padre, aveva cercato d'imporre una certa austerità nei vestiti...» «Conoscete i risultati: è riuscito solo a far salire il prezzo dei tessuti divenuti rari e clandestini. Ed ecco dove il basto ci ferisce e dove un nuovo accordo commerciale con lo scià di Persia assume la sua importanza: occorre seta ai francesi, ma è troppo cara. È un'impresa rovinosa.» Elencò preoccupato: «Pagamento ai persiani... Pedaggio ai turchi per lasciar passare la merce... Pedaggio ai diversi intermediari, genovesi o provenzali... Occorre un'altra soluzione.» «Il signor Colbert non pensa di sostituire queste pesanti importazioni con una fabbricazione locale? Mi ha parlato di trasformare le manifatture di Lione.» «Progetto a lunga scadenza. Non possediamo ancora il segreto dei procedimenti orientali per la fabbricazione dei broccati o dei laminati... I gelsi che ho dato ordine di piantare nel meridione non giungeranno a maturità prima di lunghi anni.»
«E non forniranno per questo una seta eguale a quella persiana. Sono gelsi dalle bacche nere. Mentre in Persia i bachi sono nutriti di gelsi a bacche bianche, che nascono sugli altipiani.» «E chi mai vi ha così bene informata?» «Sua eccellenza Basctiari Bey.» «Vi ha parlato del commercio delle sete? Suppone dunque che debba essere la parte importante del nostro colloquio? Vi è sembrato al corrente delle nostre difficoltà?» «Soliman Bey è un fine letterato, un poeta, e raffinato... a suo modo; è ascoltato dal re di Persia per tutti i suoi talenti di corte, ma ha anche altre virtù, meno apprezzate laggiù ma più pericolose per noi: è un eccellente uomo d'affari, qualità piuttosto rara per un principe del suo rango, dato che i gran signori persiani hanno abbandonato in genere ogni commercio agli armeni e ai siriani.» Il re sospirò con aria rassegnata. «Decisamente, devo arrendermi alle ragioni del signor Colbert e del reverendo padre Joseph. Voi sembrate proprio l'unica persona capace di sbrogliare questa difficile matassa... di seta.» Si guardarono ridendo, come complici legati da una intesa che non aveva bisogno di esprimersi. Una luce apparve negli occhi del re. «Angelica...» fece con voce sorda. Poi, riprendendosi, continuò con tono naturale: «Tutti coloro che ho mandato da lui non mi hanno detto che sciocchezze. Sia Torcy che Saint-Amon me lo presentano come un barbaro grossolano, incapace di piegarsi ai nostri usi, e che considera senza rispetto il re di cui è ospite. Ora, il mio istinto mi avvertiva che è come voi me lo descrivete: fine e astuto, crudele e delicato.» «Sono convinta, sire, che se aveste potuto incontrarlo voi invece dei vostri plenipotenziari, le difficoltà non sarebbero sorte. Voi avete il dono di penetrare con un'occhiata nell'intimo di ciascuno.» «Ahimè! i re non possono fare loro stessi certi passi. Ma bisogna saper applicare diverse persone a diverse cose secondo i loro diversi talenti. Questo è forse il compito principale e costituisce il più grande talento dei principi. Io ho sbagliato non prendendo abbastanza cura di coloro che mandavo incontro all'ambasciatore. Saint-Amon, invecchiato nella sua carica di aggiunto introduttore delle ambasciate, mi sembrava l'uomo adatto. E non ho riflettuto ai difetti ch'egli ha. È un ugonotto, e come tutti quelli della sua religione è uno spirito stizzoso e sospettoso, più incline a imporre
a torto e attraverso i princìpi della sua rigida coscienza che non a servire con flessibilità gli interessi del re. Non è la prima volta che rifletto su questa gente della religione riformata. I migliori sfuggono al controllo per la curiosa intransigenza dei loro precetti. D'ora in poi, starò attento a non averne più nei miei alti servizi.» Fece un gesto con la mano, come se tracciasse con un tratto di penna una inseparabile barriera. Il suo volto, che si era indurito, ritrovò la serena espressione abituale. «Avete avuto la buona idea di tornare a tempo, signora, per aiutarci.» «Vostra maestà non parlava così, stamane...» «Lo riconosco. Solo gli spiriti meschini non riconoscono di sbagliare. So ciò che debbo ottenere e ciò che debbo evitare. Voi presentate il più sicuro mezzo per raggiungere questo scopo. Se non riusciamo a metterci d'accordo con l'ambasciatore dello scià di Persia, c'è da scommettere che questi espellerà i gesuiti e si terrà la seta dei suoi gelsi. La sorte degli uni e dell'altra è nelle vostre mani.» Angelica si guardò le dita, dove brillava il turchese. «Che debbo fare? Qual è il mio compito?» «Conoscere lo spirito di quel principe, e informarmi quindi sul modo come agire per trattarlo senza errori. E se ciò vi è possibile, intuire in anticipo i trabocchetti che potrebbe tenderci quel tortuoso personaggio.» «In una parola, sedurlo. Debbo tentare di tagliargli i capelli, come Dalila?» Il re sorrise: «Mi rimetto a voi per decidere ciò che è necessario.» Angelica si morse le labbra. «L'impresa non è facile. Richiederà molto tempo.» «Non ha importanza.» «Credevo che tutti avessero desiderio di veder l'ambasciatore presentare le credenziali.» «Tutti... eccettuato me. A dire il vero, quando agli inizi mi è stato parlato delle reticenze di Soliman Bey, ne sono rimasto irritato. Da allora, lascio andare le cose e, al contrario, desidero ritardare il colloquio. Voglio prima ricevere l'ambasciatore moscovita, che è in viaggio. Parlerò più liberamente dopo con il persiano. Se i moscoviti sono d'accordo, bisognerà organizzare un nuovo itinerario per la seta per via di terra: al riparo dalle rapine turche, genovesi e di tutti quanti.» «Le balle di merce non ci arriverebbero più per mare?»
«No. Seguirebbero l'antica strada tartara dei commercianti di Samarcanda verso l'Europa. Guardate! Ecco la strada della seta che io voglio ritracciare, attraverso le steppe della Transcaucasia, l'Ucraina, la Bessarabia, l'Ungheria. Vengono quindi i territori di mio cugino il re di Baviera. Il periplo è compiuto e, a conti fatti, costerà meno che non le ruberie dei barbareschi e i rovinosi pedaggi che dobbiamo versare per la via del mare.» Chinatesi con lo stesso movimento verso la carta dalle prestigiose notazioni, le due teste si erano avvicinate. Angelica sentì la guancia sfiorata dai capelli del re. Si raddrizzò di colpo, turbata. Una sensazione di freddo la penetrava. Fece il giro della tavola per andare a sedersi di nuovo di fronte al re e si accorse che durante la loro conversazione il fuoco si era spento. Quella vista la fece tremare. Si disperava di non aver il mantello. Ma doveva aspettare che il sovrano stesso le concedesse di andarsene. Egli non vi sembrava disposto e parlava ancora, esponendo i progetti di Colbert sulle manifatture di Lione e di Marsiglia. Alla fine, s'interruppe. «Non mi ascoltate più? Che cos'avete?» Angelica, con i gomiti freddolosamente stretti fra le mani, esitò a rispondere. Il re era di una complessione straordinariamente robusta. Ignorava il freddo, il caldo, la fatica e non ammetteva queste debolezze in coloro che avevano l'onore di essere in sua compagnia. Lamentarsi provocava il suo malumore e a volte portava con sè la disgrazia. La vecchia signora di Chaulnes, che aveva espresso a voce alta il proprio sentimento durante una rivista in piazza d'Armi, con un vento gelido, era stata pregata «di andare a curarsi i reumatismi nel suo castello». «Che cosa c'è?» insistette il re. «Sembrate abbandonarvi a pericolose meditazioni! Spero che non mi farete l'affronto di rifiutare la missione che vi ho affidato!» «No, sire, no. Se questa fosse stata la mia intenzione non vi avrei ascoltato. Vostra maestà mi crede capace di slealtà?» «Vi credo capace di tutto,» disse il re con aria scura. «Non state dunque pensando di sottrarvi?» «Certamente no.» «Che cosa c'è, allora? Perché avete assunto a un tratto un'aria smarrita?» «Ho freddo.» Il re fece un gesto di stupore. «Freddo?»
«Il fuoco è spento, sire. Siamo in pieno inverno e sono le due del mattino.» Una divertita sorpresa si lesse sul volto di Luigi XIV. «Vi è dunque una certa fragilità sotto la vostra forza? Non odo mai nessuno lamentarsi così.» «Nessuno osa farlo, sire. Si teme troppo di spiacervi.» «Mentre voi...» «Anch'io lo temo. Ma temo ancor più di cader malata. Allora, come potrei eseguire gli ordini di vostra maestà?» Il re le dedicò un sorriso pensoso e per la prima volta ella ebbe l'impressione che quel cuore orgoglioso scoprisse un sentimento sconosciuto: la tenerezza. «Va bene,» fece con tono risoluto, «desidero restare ancora a parlare con voi ma non vi farò morire.» Prese a slacciarsi il giustacuore di pesante velluto marrone, se lo tolse e glielo posò sulle spalle. Ella sentì gli effluvi del suo calore maschile avvolgerla, misti a quel profumo di giaggiolo, lieve e penetrante, che piaceva al sovrano e che evocava il prestigio e il timore della sua presenza. Provò un piacere quasi sensuale a tirarsi sul petto i risvolti gallonati d'oro della giubba troppo ampia per lei. La mano che il re le aveva posato sulla spalla le lasciava la stessa sensazione scottante del suo sogno. Chiuse gli occhi, li riaprì. Il re stava inginocchiato dinanzi al caminetto dove, con molta semplicità, disponeva pezzi di legno e rattizzava i carboni ardenti per farne sorgere nuove scintille. «Bontemps si prende un po' di riposo,» fece come per scusarsi di un atteggiamento così disdicevole, «e non voglio che nessun altro sia a conoscenza del nostro colloquio.» Si raddrizzò e si pulì le mani. Angelica lo guardava come uno straniero che fosse apparso in quel momento nella stanza. In maniche di camicia, con il lungo panciotto ricamato il cui taglio accusava il busto vigoroso, egli appariva come un giovane borghese. Molto accessibile, un po' timido, aveva conosciuto nella sua esistenza molte vicissitudini materiali confinanti con la povertà: la durezza della vita dei campi ma anche gli esodi sulle strade sfondate, i miserabili castelli dove la corte in fuga, nel 1649, alloggiava tra le correnti d'aria, su fasci di fieno. Il piccolo re dalle scarpe bucate aveva imparato allora, per riscaldarsi, ad accendere il fuoco.
Gli occhi di Angelica non avevano più per lui lo stesso sguardo. Egli se ne accorse e le sorrise. «A notte avanzata, lasciamo da parte le regole dell'etichetta. La condizione dei re è dura e rigorosa per questo; perché debbono per così dire un conto pubblico di tutte le loro azioni, di tutti i loro gesti, a tutto il mondo... e direi anche, a tutti i secoli. L'etichetta è una disciplina necessaria per loro, per quelli che li circondano e per quelli che li guardano; consente loro di non vacillare e di essere in ogni istante eguali all'immagine che ci si fa di loro. Ma la notte è un rifugio anch'esso necessario. E a volte mi piace di trovarvi il mio volto,» terminò portandosi le mani alle tempie. «È questo il volto che mostra alle sue amanti?» si disse Angelica. E pensò a un tratto con violenza che la signora di Montespan non ne era degna. «La notte, posso ridiventare un uomo...» seguitava il re. «Mi piace molto venire in questo gabinetto per lavorarvi tranquillamente. E per meditare, sbadigliare, parlare ai miei cani senza che tutte le mie parole siano preziosamente raccolte.» La sua mano accarezzò la sottile testa del levriero che si tendeva verso di lui. «La notte, posso incontrare chi mi pare e piace senza che subito questo segno d'interesse provochi l'emozione delle cricche, una rivoluzione di palazzo e perfino movimenti politici... Si, la notte è una preziosa complice dei re!» Tacque. Diritto dinanzi a lei, si appoggiava alla tavola in un atteggiamento di abbandono, i piedi semincrociati. Le sue mani non avevano bisogno di contegno. Rimanevano calme, con pochi gesti. E Angelica ammirò che quell'uomo che dormiva appena e che di giorno avrebbe sostenuto una continua rappresentazione, lavorando, ma anche ricevendo, danzando, camminando, andando a caccia, interessandosi ai problemi più ardui, forzando la propria attenzione sui minimi particolari, non tradisse alcun nervosismo. «Il vostro sguardo mi piace,» fece a un tratto il re. «Una donna che guarda un uomo in questo modo gli ispira ogni specie di coraggio, di fierezza, e quando quest'uomo è re, gli dà desiderio di conquistare il mondo.» Angelica si mise a ridere. «I vostri popoli non vi chiedono tanto, sire. Basta loro che li conserviate in pace nelle loro frontiere, penso, e la Francia non esige da voi le fatiche di Alessandro.»
«Vi sbagliate. Perché gli imperi non si conservano che come si acquistano, cioè con la forza, la vigilanza e il lavoro. Non crediate del resto che tali obblighi di cui vi parlavo mi siano pesanti. Il mestiere di re è nobile, grande e piacevole per colui che si sente degno di assolvere bene tutto ciò in cui s'impegna. Certo, non è esente da pene, da fatiche e da preoccupazioni. Quel che più fa disperare è l'incertezza: ci si deve allora decidere a prendere il partito che si crede migliore... Ma tale responsabilità mi conviene abbastanza bene... «Avere gli occhi aperti su tutta la terra... Conoscere in ogni momento tutte le notizie di tutte le province e di tutte le nazioni, il segreto di tutti i cuori e il debole di tutti i principi e di tutti i ministri stranieri... Essere informato su un numero infinito di cose che si crede ignoriamo. Conoscere dei propri sudditi ciò ch'essi nascondono con la maggior cura. Scoprire le mire più lontane dei miei cortigiani, i loro interessi più oscuri e che vengono a me da interessi contrari... Notare ogni giorno certi progressi in imprese gloriose, e la felicità dei popoli di cui abbiamo noi stessi formato il piano e il disegno... Non so davvero quale altro piacere non abbandonerei per questo, se la sorte me ne desse occasione. Ma non vado più oltre, signora. Abuso della vostra attenzione, della vostra pazienza. E vedo spuntare il momento in cui mi guarderete bene in faccia e mi direte: ho sonno!» «Eppure, vi ascoltavo con molta passione.» «Lo so. Perdonatemi la mia riflessione un po' dispettosa. Anche per questo mi piace avervi accanto a me. Perché sapete ascoltare stupendamente bene. Mi direte: chi è che non ascolta il re? Tutti tacciono quando egli parla. È vero. Ma vi sono molti modi di ascoltare ed io scorgo spesso nei miei interlocutori il servilismo, la stupida fretta di approvare. Voi invece ascoltate con il vostro cuore, con tutte le facoltà della vostra intelligenza e con un gran desiderio di comprendere. Ciò mi è prezioso. Spesso mi è difficile trovare con chi parlare, eppure vi è una grande utilità nel conversare. Parlando, lo spirito completa i propri pensieri. Prima li conservava confusi, imperfetti e appena abbozzati. Il colloquio che lo eccita perché lo riscalda lo porta insensibilmente da oggetto a oggetto più oltre di quanto aveva fatto la meditazione solitaria, e gli apre, con gli argomenti che gli si oppongono, mille nuovi espedienti. Ma ora basta. Non voglio più trattenervi.» Dietro la porta segreta, Bontemps dormiva su una panca del lieve e scomodo sonno dei servitori. Fu subito in piedi. Angelica rifece in senso in-
verso il cammino del labirinto notturno, e prima di lasciarlo rese al cameriere il giustacuore del suo padrone. Nella sua camera, la candela che vi aveva lasciato terminava di consumarsi stridendo e proiettando sul soffitto grandi ombre. Alla sua luce, Angelica scoprì una pallida maschera contro il muro e due mani che, su una gonna, sgranavano un rosario. La maggiore delle signorine di Gilandon vegliava pietosamente in attesa che la sua padrona tornasse. «Che fate qui? Non vi avevo chiamata,» fece Angelica assai contrariata. «Il cane abbaiava. Mi sono informata se non aveste bisogno di nulla e siccome non rispondevate temevo che vi sentiste male.» «Avrei potuto invece dormire. Avete troppa fantasia, Marianna, mi dispiace, Devo raccomandarvi di essere molto discreta?» «Ma certamente, signora. Avete bisogno di qualcosa?» «Be', dal momento che siete in piedi, accendete il fuoco e mettete cinque o sei carboni nello scaldino per riscaldarmi il letto. Sono gelata.» «Almeno così non penserà che esco da un altro letto,» pensò, «ma allora, che cosa può immaginarsi? Purché non abbia riconosciuto Bontemps, quando mi ha tenuta aperta la porta...» Rannicchiata fra le coperte, il breve sonno cui aspirava non le fu dato. Dopo appena tre ore, la signora Hamelin, la «vecchia» dalla cuffia di pizzo, sarebbe passata per i corridoi di Versailles e sarebbe andata a tirare le cortine dell'alcova reale. E la giornata di Luigi XIV avrebbe avuto inizio. Angelica udiva ancora la sua voce armoniosa, un po' lenta, che esponeva il frutto del suo pensiero al tempo stesso così nascosto e così universale. Pensava che vi era in lui qualcosa di eroico, alla maniera dei principi del Rinascimento italiano, perché era giovane, sicuro, seducente, innamorato della gloria come loro e appassionato di bellezza, ciò che non è una esigenza maschile molto diffusa. Il suono della sua voce la perseguitava ed ella si sentiva prigioniera di quella notte più di quanto non lo fosse stata dei suoi baci. 8 Basctiari Bey balzò in sella. Sotto la bardatura esotica dalle larghe staffe, la giumenta Cerere appariva molto a suo agio. Non gettò neppure uno sguardo su Angelica che giungeva in quel momento a Suresnes. Alcuni cavalieri persiani, i pugnali sul petto, le sciabole al fianco, avanzavano per i viali dagli alberi grigi. Tenevano tutti nella mano un lunghis-
simo bastone dipinto a colori vivaci, e si allinearono a semicerchio intorno al principe. Questi prese dalle mani del suo paggio un altro di quei bastoni. Si drizzò quindi sulle larghe staffe dalle frange d'oro e mandando un grido acuto trascinò tutta la turba dietro di sè al trotto. I cavalieri scomparvero dietro il fogliame del piccolo parco. Angelica provò l'umiliazione di essere piantata lì sulla scalinata della casa, senza una parola, mentre aveva fatto annunciare la sua visita proprio quella mattina. Agobian, l'armeno che era rimasto accanto a lei, disse: «Torneranno. Si divideranno dinanzi a voi in due colonne parallele e assisterete al nostro "gerid boz". Si tratta di un combattimento nel quale i guerrieri del nostro paese si allenano dai tempi più lontani. Sua eccellenza ha ordinato la cerimonia per farvi onore.» I cavalieri non erano infatti andati lontano. Si udì che si fermavano fuori del villaggio, e poi un trotto precipitoso che si trasformò in galoppo sfrenato. Apparvero su due file, urlando e mulinando in aria i pesanti bastoni. Alcuni spingevano l'abilità fino a passare in pieno galoppo sotto il ventre dei cavalli, e si ritrovavano in sella senza aver lasciato cadere nulla a terra. «Questo volteggio si chiama da noi "giguite" e uno dei nostri più abili giguiti è naturalmente sua eccellenza. Ma egli non si abbandona interamente alla sua fantasia per non spaventare il nuovo cavallo, perché questo lo renderebbe "haram" ovverossia viziato. Ma deve essere assai addolorato di non poter mostrare tutta la sua abilità dinanzi a voi, signora,» spiegò l'armeno. Giunte all'altezza della scalinata, le due file di «giganti» si fermarono di colpo, ciò che fece slittare vari cavalli sulla neve molle. I due ranghi si allontanarono dal viale e formarono sul prato due file di combattenti che dovevano affrontarsi. Ad un segno di Basctiari Bey, i due campi si precipitarono l'uno contro l'altro con violenza, facendo di nuovo giravoltare i loro gerid. Infine avvenne la mischia. I cavalieri, tenendo ognuno il bastone sotto il braccio come una picca, cercavano di disarcionare l'avversario o di fargli abbandonare l'arma. Quando da una parte e dall'altra una presa falliva, i due combattenti si separavano, si allontanavano e tornavano a caricarsi per una nuova singolare tenzone. I cavalieri disarcionati o che avevano perduto il loro gerid abbandonavano la lizza.
L'ambasciatore rimase fra gli ultimi, nonostante l'inferiorità del suo cavallo. I suoi avversari non vi mettevano cortigianeria. Basctiari Bey li dominava per agilità, vigore e abilità. Il gerid boz terminò abbastanza presto. Il signore persiano tornò verso la sua visitatrice con un sorriso che gl'illuminava il bruno volto. «Sua eccellenza vi fa notare che il gerid boz è l'esercizio preferito dalla nostra nazione dal tempo dei medi. Già all'epoca del re Dario ci si batteva così, ed è probabile che questo costume ci sia venuto da Samarcanda, la capitale del Turkestan, dove allora fioriva una così brillante civiltà.» In pubblico, Basctiari Bey affettava sempre d'ignorare il francese e si serviva del proprio interprete. Angelica non volle esser da meno, quanto a erudizione. «I cavalieri del Medio Evo francese si affrontavano in tornei simili.» «Avevano riportato il gusto di questa usanza dalle crociate in Oriente.» «Tra poco mi persuaderanno che dobbiamo a loro se siamo civilizzati,» pensò Angelica. Tutto sommato, le parve che vi fosse, infatti, un po' di verità in questo. Era piuttosto ignorante ma, avendo ascoltato molti sermoni, aveva imparato parecchie cose sull'antichità e la. storia delle civiltà. Erede dell'antico splendore assiro, Basctiari Bey non si era ancora reso conto di appartenere a un popolo in decadenza. Ora Angelica conosceva gli argomenti di conversazione che la situazione esigeva. Bisognava parlare di «cavalli». Sua eccellenza vantò una volta ancora il merito di Cerere. «Dice che non ha mai visto un cavallo del suo paese così docile e al tempo stesso così focoso. Il re di Francia l'ha onorato assai con quel dono. Da noi, un tale cavallo potrebbe essere scambiato con una principessa di sangue reale.» Angelica disse che la giumenta proveniva dalla Spagna. «Ecco un paese dove mi piacerebbe andare,» constatò l'ambasciatore. Ma non rimpiangeva nulla perché la sua missione lo conduceva a conoscere non soltanto il più potente sovrano dell'Occidente, ma anche le più belle donne riservate alla corte del grande monarca, ciò che era assolutamente giusto. Angelica approfittò di quelle buone disposizioni per chiedergli quando sarebbe giunto per lui il momento di presentarsi dinanzi a quel grande monarca. Basctiari Bey ricadde nei suoi pensieri. Con un sospiro le disse che ciò dipendeva da un lato dal suo astrologo, ma da un altro lato dal grado di dignità che si voleva riconoscere alla sua ambasceria.
Durante la conversazione, erano rientrati nella casa e si trovavano nel salotto, trasformato all'orientale. Ricaduta la tenda, egli riprese a parlare francese. «Non mi posso presentare davanti a un re se non con un cerimoniale degno di tale re e degno del sovrano d'Oriente che mi manda.» «Non è ciò che il nostro... gran visir, il marchese di Torcy, vi ha proposto?» «Per nulla affatto!» esplose il persiano. «Voleva condurmi in carrozza tra guardie infedeli, come un prigioniero, e poi pretendeva, quel maledetto mentitore di lacchè di visir, che avrei dovuto presentarmi a capo scoperto dinanzi al re... Ciò è al tempo stesso insolenza e indegnità, perché ci si deve togliere le scarpe e rimanere coperti come nella moschea, dinanzi a Dio.» «I nostri usi sono al contrario. Ci si deve scoprire dinanzi a Dio nelle chiese. Ma suppongo che se un francese giungesse dinanzi al vostro re con le scarpe ai piedi, gliele fareste togliere.» «È vero. Ma se avesse una scorta d'onore insufficiente, gliene sarebbe fornita una... per far onore al visitatore... e per la dignità dello scià. Il vostro re è il più grande sovrano... Egli deve onorarmi accordandomi un ingresso trionfale, degno del suo regno, in mancanza di che sarò costretto a ritornarmene senza aver compiuto la mia missione.» Il tono era fermo e addolorato. Angelica osò chiedere: «Non rischierete di cadere in disgrazia se non compirete la vostra missione?» «Rischio la testa... ma preferisco questo al disonore pubblico nel vostro paese.» Ella si rese conto che la situazione era più grave di quanto si pensasse. «Le cose si arrangeranno,» diss'ella. «Non lo so.» «Bisogna che si arrangino. Altrimenti vi avrei portato il malocchio... il "nehhucet"...» «Brava!» applaudì il persiano, tutto allegro. «E commetterei il delitto di aver fatto mentire un sant'uomo del vostro paese, il quale assicurava che il mio incontro non vi sarebbe stato nocivo, mentre se vi si tagliasse la testa, sarebbe la prova della sua mancanza d'intuizione. Sarebbe per lui una grande umiliazione. Il mio ragionamento è falso, eccellenza? Io non sono che una donna e sono straniera.»
«Non vi sbagliate, credo,» disse con aria scura Basctiari Bey, «e il vostro cervello è anzi al disopra della vostra bellezza. Se la mia missione riesce so il dono che chiederò al vostro re...» Un certo fracasso mescolato al suono acuto dei pifferi si udiva dietro la tenda. «Ecco i miei servitori che vengono per il bagno. Dopo il violento esercizio del gerid boz è bene procedere alle abluzioni.» Entrarono due schiavi negri con una grande vasca di rame piena d'acqua bollente seguiti da altri domestici che portavano asciugamani, boccette di profumo e unguenti odorosi. Basctiari Bey li seguì nella stanza adiacente, che doveva essere quella dei famosi bagni turchi che il signor Dionis aveva fatto costruire. Angelica vi avrebbe volontieri gettato un'occhiata ma tale curiosità le pareva inammissibile. In certi momenti, gli sguardi di Basctiari Bey la mettevano a disagio, e più ella penetrava nella sua mentalità orientale, più la sua parte di ambasciatrice le sembrava rischiosa e comportante servitù, per non dire obblighi, ai quali non era affatto decisa a consentire. Pensò per un attimo di ritirarsi. Avrebbe fatto spiegare che l'uso francese non le consentiva di rimanere più di due ore a colloquio con un uomo. A meno che il persiano non entrasse in furore, considerando la sua partenza come un nuovo affronto; ciò che, evidentemente, avrebbe ancor più complicato gli affari in cui doveva invece rimettere ordine. Al gesto di alzarsi ch'ella aveva accennato, il piccolo paggio che doveva essere incaricato di distrarla, avvicinò il pesante vassoio di dolciumi, poi corse a prendere altri cuscini per metterglieli dietro la schiena e sotto le braccia. Prese quindi un piccolo bruciaprofumi pieno di carboni ardenti, vi gettò un pizzico di polvere e, inginocchiato, tese l'incensorio verso di lei per farle respirare il fumo azzurrino e odoroso. Decisamente, bisognava andarsene. Quella camera dove stagnavano grevi profumi mai sentiti, quel principe che sarebbe ritornato tra poco con le sue oscure pupille, la sua grazia velata di umorismo, la sua dignità che nascondeva imprevedibili collere, avevano veramente troppa seduzione. Il piccolo paggio si agitò. Aprì i coperchi delle coppe d'argento dorato, stappò i flaconi di porcellana azzurra, e in un cinguettio da uccello incoraggiò la visitatrice a servirsi. Non sapendo più cosa fare le portò alle labbra una tazzina d'argento che conteneva un liquore verde e dorato. Ella bevve e trovò che somigliava all'angelica del suo paese. La varietà dei dolciumi la divertiva. Ve n'erano di tutti i colori, piramidi di paste trasparenti
verdi, rosse e rosa, e torroni di pistacchio. Angelica assaggiò di tutto con la punta dei denti, respingendo ciò che le sembrava troppo disgustoso, chiedendo i sorbetti alla frutta che una specie di ghiacciaia conservava al fresco. Voleva fumare col narghilè, ma quando il paggetto comprese il suo desiderio vi si oppose rotando gli occhi pieni di terrore. Poi scoppiò in un riso acuto, piegato in due. Angelica lo imitò, trovando delizioso di non aver nient'altro da fare che riposarsi giocando fra tanta opulenza. Stava ancora ridendo fino alle lagrime mentre si leccava la punta delle dita sporche di marmellata di rose, allorché Basctiari Bey ricomparve sulla soglia. Parve felice. «Siete deliziosa... Mi ricordate una delle mie favorite. Era golosa come una gatta.» Prese in una coppa un frutto e lo gettò al piccolo paggio gridando un ordine. Il fanciullo, sempre ridendo, prese al volo la ricompensa e con due salti si slanciò fuor della stanza. «Quel piccolo re mago mi ha fatto bere qualcosa di tremendamente forte,» si disse Angelica. La sensazione che provava non somigliava all'ebbrezza, ma a un'onda calorosa di felicità, e che metteva a fior di pelle la sensibilità. Il nuovo aspetto di Basctiari non le sfuggiva. Non aveva indosso che le brache di raso bianco strette ai polpacci e che si gonfiavano verso l'alto, trattenute da una cintura punteggiata da pietre preziose. Il suo busto nudo e liscio, unto di unguenti profumati, rivelava un'anatomia perfetta, vigorosa come quella di un felino. Non aveva più il turbante. I suoi capelli neri, lucidi d'olio, erano gettati all'indietro e gli ricadevano sulle spalle. Con un gesto vivace, si sbarazzò dei sandali ricamati e si distese sui cuscini. Mentre si portava con mano indifferente la pipa alle labbra, fissava Angelica che si rendeva ben conto come le discussioni protocollari non fossero più possibili. Di che cosa parlare, allora? Moriva dalla voglia di stendersi anche lei sui cuscini. La rigidezza del corsetto glielo impedì e l'armatura barbara che le comprimeva la vita e la obbligava a star diritta le apparve in quell'istante come il simbolo di un'educazione prudente e che accordava alle peccatrici il beneficio della riflessione. D'altro lato, le sembrava impossibile alzarsi e andarsene senza spiegazioni. Non ne aveva alcuna voglia. Alcuna voglia, davvero! Ma sarebbe rimasta lì seduta. Grazie al corsetto. Il corsetto era una bella invenzione!
Doveva essere stato inventato dalla Compagnia del Santo Sacramento. A quell'idea, Angelica riprese a ridere, oscillando avanti e indietro tanto trovava la cosa divertente. Il persiano era visibilmente felice di quella gaiezza. «Pensavo alle vostre favorite,» disse Angelica. «Descrivetemi il loro costume. Portano vestiti come in Occidente?» «Nelle loro stanze o con il loro padrone e signore si vestono con un leggero "saruah" e con una breve tunica senza maniche. Per uscire, mettono inoltre uno "sciardè" nero e opaco con appena una grata di garza per vederci. Ma proprio nell'intimità non portano che uno scialle leggero come una tela di ragno fatto di pelo fine di capra del Belucistan.» Angelica aveva ricominciato a mettere il dito nella marmellata di rose. «Che strana esistenza! Che cosa possono pensare, tutte quelle donne rinchiuse? E la favorita... quella che era golosa come una gatta, che cosa ha detto della vostra partenza?» «Le nostre donne non hanno nulla da dire... nulla... per queste cose. Ma la favorita non poteva dir nulla per un altro motivo. È morta...» «Oh! Che peccato,» fece Angelica che prese a canticchiare mentre sgranocchiava un pezzetto di «lukum». «È morta sotto la sferza,» disse lentamente Basctiari Bey. «Aveva un amante tra le guardie del palazzo.» «Oh!» fece ancora lei. Ripose delicatamente il dolciume e guardò il principe con occhi tondi di spavento. «È così che avviene? Raccontate. Quale altre punizioni infliggete alle vostre mogli infedeli?» «Le si attacca schiena a schiena al loro amante e le si espone così legate in cima alla più alta torre del palazzo. Gli avvoltoi cominciano a mangiar loro gli occhi e la cosa dura a lungo. Mi è capitato di essere più clemente: ne ho uccise due di mia mano, trafiggendo loro la gola con il pugnale. Non erano state infedeli ma si rifiutavano a me per capriccio.» «Beate loro,» fece sentenziosamente Angelica. «Le avete sbarazzate della vostra presenza e avete dato loro il paradiso.» Basctiari Bey trasalì e si mise a ridere. «Piccola Firuzé... Piccola turchese... Tutto ciò che oltrepassa le vostre labbra è sorprendente e vivo come il fiore del bucaneve del deserto ai piedi del Caucaso. Non vorreste insegnarmi la difficile lezione... per amare le donne d'Occidente?... L'uomo deve parlare molto, avete detto... Parlare e
cantare la sua amata... E poi? L'ora del silenzio quando viene? L'ora dei sospiri quando viene?...» «Quando piace alla donna!» Il persiano balzò in piedi, il volto sconvolto dall'ira. «È falso!» esclamò. «Una simile umiliazione non può essere inflitta a un uomo... I francesi sono coraggiosi guerrieri...» «Nel combattimento dell'amore debbono inchinarsi.» «È falso,» ripeté lui. «Quando una donna riceve il suo padrone deve subito svestirsi, profumarsi e offrirsi a lui.» Con un agile balzo le fu accanto ed Angelica si trovò distesa fra i cuscini morbidi che sposavano la forma del suo corpo e la circondavano dei loro sentori penetranti. Il sorriso crudele di Basctiari Bey si chinava verso di lei, mentre la manteneva ferma. Angelica gli posò le mani sulle spalle per respingerlo. Il contatto di quella carne dorata la fece tremare. «L'ora non è venuta,» disse. «State attenta. Per una ben minore insolenza una donna merita la morte.» «Voi non avete il diritto di uccidermi. Appartengo al re di Francia.» «Il re vi ha mandato per il mio piacere.» «No! Per onorarvi e per conoscervi meglio, perché si fida del mio giudizio. Ma se voi mi uccidete, vi scaccerà ignominiosamente dal suo regno.» «Mi lamenterò che vi siete condotta da cortigiana indocile.» * «Il re non accetterà la scusa.» «Vi ha mandato per me.» «No, vi dico. Questo non dipende da lui.» «Da chi dunque, allora?» Ella gli piantò negli occhi il suo sguardo di smeraldo. «Soltanto da me!» Il principe allentò la stretta e la osservò con aria perplessa. Angelica era incapace di raddrizzarsi, quei cuscini erano troppo molli. Si mise a ridere. Non vedeva confuso, ma al contrario tutto le sembrava luminoso e preciso come se la stanza fosse stata invasa dal sole. «C'è un abisso,» mormorò, «tra ciò che accade quando una donna dice sì e ciò che accade quando una donna dice no... Quando dice sì, è una grande vittoria e gli uomini della mia razza amano combattere per ottenerla.» «Capisco,» disse il principe dopo un momento di meditazione. «Allora, aiutatemi a risollevarmi,» fece lei tendendogli con gesto noncurante la mano.
Egli obbedì. Angelica pensò che assomigliava a una grande fiera domata. Il suo sguardo brillante non l'abbandonava. La sua forza restava in agguato, pronta a balzare al minimo segno di debolezza. «Quali qualità deve avere un uomo perché una donna dica di sì?» «Che sia selvaggio e bello come voi,» stava per rispondergli, ossessionata dalla sua presenza. Per quanto tempo sarebbe riuscita a continuare quel pericoloso giuoco? Il suo corpo era agitato da brividi regolari che le scorrevano per la carne come una febbre, ma non era un malessere, piuttosto una specie di esasperazione amorosa che soltanto una folle stretta, al tempo stesso raffinata e selvaggia, avrebbe potuto calmare. Si rendeva conto di ciò che avevano di desiderabile il suo sorriso, le sue labbra umide e gli occhi un po' vaghi e godeva di essere così desiderata, pur chiedendosi per quanto tempo ancora avrebbe saputo mantenersi sulla rigida corda e da quale parte sarebbe infine caduta: quella del sì, o quella del no? Basctiari Bey riempì egli stesso una tazzina d'argento e gliela tese. Angelica posò sulle proprie labbra la freschezza del metallo. Riconosceva il liquore verde. «È il segreto di ogni donna,» disse, «sapere perché un uomo le piace. Uno perché è bruno, l'altro perché è biondo.» Tese il braccio, disinvolta, e lasciò colare il liquore in un sottile filo verde sul magnifico tappeto persiano. «Demonio,» mormorò il principe fra i denti. «... Uno perché è dolce e l'altro perché può uccidere col pugnale in un gesto di collera...» Era infine riuscita ad alzarsi. Assicurò sua eccellenza ch'era piena di gioia per quella visita e che avrebbe cercato di far capire al re la ragione delle sue proteste, che le parevano ragionevoli e giustificate. Basctiari Bey disse, con un lampo minaccioso in fondo agli occhi, ch'era uso nel suo paese suggellare l'amicizia rimanendo sua invitata «tanto più a lungo quanto l'amicizia era più profonda». Angelica scosse il capo. Un ricciolo dei capelli biondi le oscillava sulla fronte e gli occhi le scintillavano. Sua eccellenza aveva ragione, ma ella doveva ubbidire a quello stesso precetto, cioè che avendo molta obbligazione e molta amicizia per il proprio re, doveva recarsi da lui per rimanervi il più a lungo possibile. «Schac!»4 esclamò lui con aria rabbiosa. 4
Mula.
Una voce salmodiante si levò fuori, attraversando la difesa degli spessi tendaggi. «Non è forse l'ora della vostra preghiera della sera?» disse Angelica. «Per nulla al mondo vorrei che una donna straniera vi facesse mancare ai vostri doveri. Che direbbe il mellah?» «Demonio!» ripeté l'ambasciatore. Angelica si rimetteva a posto le gonne, la pettinatura, riprendeva il ventaglio. «Vado a Versailles a difendere il vostro punto di vista e a tentare di appianare le difficoltà del protocollo. Ma posso portare con me la vostra promessa, eccellenza, che proteggerete i ventisei conventi cattolici oggi installati in Persia?» «Era già mia intenzione per il futuro trattato... La vostra religione e i vostri preti non si sentiranno abbassati nel dovere la loro... salvezza all'intervento di una donna?» «Vostra eccellenza è forse venuta al mondo, nel suo orgoglio, senza passare attraverso il seno di una donna?» Il persiano rimase senza parole e decise di sorridere, senza nascondere la propria ammirazione. «Sareste degna di essere sultana-basci.» «Che cos'è?» «È il titolo che si dà a colei che è nata per dominare i re. Ve n'è una soltanto per ogni serraglio. Non è stata scelta. Si è imposta perché aveva le qualità che incatenano l'anima e il corpo del principe, che non fa nulla senza prima consultarla. Ella governa le altre donne e solo suo figlio sarà l'erede.» L'accompagnò sino al tendaggio di seta. «La prima qualità della sultana-basci è che non conosca la paura, la seconda che sappia il valore di ciò che dona.» Con gesto pronto fece scivolar dalle dita tutti i suoi anelli e ne colmò le mani di Angelica. «Questi per te... Sei la più preziosa... Meriti di essere ornata come un idolo.» Angelica si sentì venir meno dinanzi ai rubini, agli smeraldi e ai diamanti incastonati d'oro fino. Con gesto altrettanto pronto li rese al loro proprietario. «Impossibile!» «Aggiungi un affronto di più a tutti quelli che mi hai inflitto?»
«Nel mio paese, quando una donna dice no, dice no anche ai doni.» Basctiari Bey emise un lungo sospiro, ma non cercò di dissuaderla. Dinanzi al sorriso di Angelica si rimise alle dita gli anelli, ad uno ad uno. «Vedete,» disse lei, «conservo questo perché me lo avete dato in segno di alleanza. Il suo colore non è mutato.» «Signora Turchese, quando vi rivedrò?» «A Versailles, eccellenza,» rispose lei allegramente. Fuori, tutto le parve brutto e triste. La strada fangosa, il cielo basso sull'orizzonte nevoso. Faceva freddo. Aveva dimenticato l'inverno e che si trovava in Francia. E che doveva ritornare a Versailles per rendere conto della propria missione, pavoneggiarsi, ascoltare le chiacchiere senza fine, aver fame, aver freddo, aver male ai piedi, alle gambe, e perdere il denaro al giuoco. Morse con violenza il fazzoletto, e fu sul punto di scoppiare in lagrime. «Stavo bene, poco fa, in mezzo ai cuscini. Sì. Avrei voluto... dimenticare, abbandonarmi all'amore senza costrizione e senza pensieri. Oh! perché ho un cervello? Perché non essere come un animale che non si pone nessuna domanda?...» In cuor suo, ce l'aveva assai con il re. Durante tutta la visita, non aveva potuto liberarsi dal pensiero che il re si servisse di lei come di un'avventuriera il cui corpo aveva una parte da giocare nelle sue transazioni diplomatiche. Richelieu, nel secolo scorso, era stato abilissimo nel servirsi di queste intelligenti cospiratrici, focose e belle, possedute dal demone dell'intrigo e che adoravano agitarsi, compromettersi e... prostituirsi per grandi disegni il cui scopo qualche volta sfuggiva loro. La signora di Chevreuse, ex amica di Anna d'Austria, che Angelica aveva incontrato alla corte, ne era il tipo sopravvissuto. In cerca di una parte da rappresentare, con i begli occhi che spiavano da sotto le palpebre ormai sfiorite il nascere di un complotto, affettando arie misteriose alla minima notizia, ispirava alla giovane corte insolente pietà e beffa. Angelica si vide in un tempo futuro come una frondista invecchiata che nessuno più ascolta, con in capo uno di quei gran cappelli militari ornati di piume di struzzo e ch'erano ormai fuori moda. Stava per piangere di pietà su se stessa. Ecco ciò che il re voleva fare di lei! Ora che aveva la «sua» Montespan, poco gli importava che Angelica portasse non importa dove e non importa a chi i suoi favori. Bisognava ch'ella «servisse» la causa reale! Questo era.
Coi nervi tesi da spezzarsi, Angelica si fece condurre da Savary per chiedergli un medicamento che le permettesse di dormire la notte senza precipitare nei voluttuosi sogni di Schéhérazade. Il farmacista, armato d'un pennellino, scriveva nomi latini su grandi boccali di legno, nei quali metteva le sue erbe e le sue polveri. Li aveva tutti ritinti a colori vivaci per ingannare la propria impazienza. Non pensava che alla «mummia». Si slanciò nella folle speranza che Angelica gli recasse la preziosa boccetta. «Aspettate almeno che l'ambasciatore ne abbia fatto dono a sua maestà! E non posso garantirvi che in seguito potrò avervi accesso...» «Lo potrete. Voi potete tutto! Non dimenticate, per il ricevimento, fasto! fasto! E molti fiori.» «Siamo in inverno.» «Che importa! Occorrono fiori. In particolare gerani e petunie. Sono i fiori preferiti dai persiani.» Nella carrozza, si ricordò di aver dimenticato di chiedergli un medicamento per i suoi nervi. Aveva anche dimenticato di parlare del trattato della seta con Basctiari Bey. Decisamente, non sarebbe mai stata una brava ambasciatrice. 9 «Il re ha detto no,» gli sussurrò qualcuno appena ebbe messo piede sul primo gradino della scala che conduceva ai grandi appartamenti. «A quale proposito?» «Al matrimonio di Péguilin con Mademoiselle. Tutto è rotto. Ieri, il signor principe e suo figlio il duca di Enghien sono venuti a gettarsi ai piedi di sua maestà dimostrandogli quale disonore sarebbe stato per loro, principi del sangue, un matrimonio così basso. Le corti d'Europa ne avrebbero riso a gola spiegata. E lui che cominciava a far tremare il mondo sarebbe passato per un monarca che non ha il senso della grandezza della propria famiglia. Si deve credere che il re fosse un po' di questo parere. Ha detto: no. E ne ha informato stamane la Grande Mademoiselle, che è scoppiata in pianto e si è rifugiata, in preda alla disperazione, nel palazzo del Lussemburgo.» «Povera Mademoiselle!»
Nell'anticamera della regina, Angelica trovò la signora di Montespan che, circondata dalle sue accompagnatrici, stava terminando di abbigliarsi. Luisa di La Vallière, inginocchiata ai suoi piedi, appuntava qualche spilla. Il vestito era di velluto incarnato, ricamato d'oro e di argento, con una gran quantità di pietre preziose. Una lunga sciarpa di seta bianca, che bisognava drappeggiare in una certa maniera perché non fosse troppo sfacciata, preoccupava la signora di Montespan. «Non così! Ecco, così. Aiutatemi, Luisa. Soltanto voi potete farcela, con questa seta. È talmente scivolosa. Ma che meraviglia, non è vero?» Angelica era rimasta a bocca aperta. Luisa di La Vallière si dedicava a occupazioni da cameriera in tutta semplicità, verificando con uno sguardo nella specchiera che un nodo, un drappeggio fossero in ordine. «Ecco. Così mi sembra... Brava, Luisa, avete trovato proprio il movimento giusto. Ah! non potrei fare a meno di voi quando si tratta di abiti di gala. Il re è terribilmente esigente. Ma voi avete dita da fata. É vero che avete servito in casa di donne di gusto che vi hanno formata. La signora di Lorraine e la signora di Orléans. Che ne pensate voi, signora del Plessis, voi che ci guardate con gli occhi spalancati?» «Mi sembra che sia perfetto,» borbottò Angelica. Con la punta del piede tentò di allontanare uno dei cagnolini della regina che sbraitava contro di lei da quando era entrata. «È il vostro abito nero che gli dà fastidio,» disse Atenaide, girandosi dinanzi allo specchio. «Peccato che siate costretta a portare il lutto. Non vi va proprio. Che ne pensate, Luisa?» La La Vallière, di nuovo inginocchiata ai piedi della rivale, sollevò su Angelica lo sguardo azzurro pallido, nel magro volto. «La signora del Plessis è assai più bella vestita di nero,» mormorò. «Più bella che non io in rosso, forse?» Luisa di La Vallière rimase in silenzio. «Rispondete!» gridò Atenaide i cui occhi si oscurarono come il mare sotto il soffio di un uragano, «questo rosso è brutto, confessatelo!» «L'azzurro vi sta meglio.» «E non potevate dirlo prima, sciocca? Levatemi questa roba... Désoeillet, Papy, aiutatemi a uscire di qui. Caterina, correte a prendere il vestito di raso, quello che porto con i diamanti.» La signora di Montespan emergeva dalle gonne mescolando le sue grida all'abbaiar del cane, quando entrò il re in costume di corte, eccettuato l'enorme mantello fiorito di gigli che avrebbe rivestito soltanto all'ultimo
momento. Seguito da Bontemps, usciva dall'appartamento della regina. Aggrottò lievemente le ciglia. «Ancora non siete pronta, signora? Affrettatevi. Il re di Polonia non tarderà a giungere. Dovete essere al mio fianco!» La signora di Montespan lo fissò con stupore indignato. Il regale amante non l'aveva abituata a quelle durezze. Ma il re era di cattivo umore. Il dolore che aveva inflitto a sua cugina, la Grande Mademoiselle, lo tormentava, e le violente spiegazioni della favorita, che gridava di darsi un gran da fare per trovare il vestito conveniente, non erano fatte per addolcirlo. «È un particolare che avreste dovuto regolare da molto tempo...» «Non potevo supporre che a vostra maestà non piaceva il vestito rosso! Oh! questo è davvero ingiusto.» Le sue grida si mescolavano a quelle del cagnolino ancora furibondo. Il re disse, cercando di dominare il rumore senza troppo elevare la voce: «Non agitatevi così. È piuttosto tardi... Ora che ci penso, vi prevengo ad ogni buon conto che partiamo domani per Fontainebleau. Cercate di prendere in tempo le vostre decisioni.» «Ed io, sire,» chiese la signorina di La Vallière, «devo prepararmi anch'io per il viaggio di Fontainebleau?» Luigi XIV gettò uno sguardo oscuro alla figura emaciata della sua ex amante. «No,» fece rudemente. «È inutile.» «Ma che debbo fare, allora?» si lamentò lei. «Rimanete a Versailles... Oppure, andate a Saint-Germain.» La signorina di La Vallière si abbandonò in pianto su una panca; «Sola? Così, senza alcuna compagnia?...» Il re afferrò il cagnolino che lo esasperava e glielo gettò sulle ginocchia. «Prendete, ecco la vostra compagnia. È quello che ci vuole per voi!» Passò dinanzi ad Angelica senza salutarla. Poi, ripensandoci, le chiese seccamente: «Siete stata a Suresnes, ieri?» «No, sire,» rispose lei sullo stesso tono. «E dove siete stata?» «Alla fiera di Saint-Germain.» «A far che cosa?» «A mangiare le cialde.» Il re arrossì sino all'orlo della parrucca. Si precipitò nella stanza vicina e Bontemps trattenne discretamente la porta ch'egli sbatteva. La signora di
Montespan era uscita dall'altra porta con le damigelle che stavano cercando l'abito di raso azzurro. Angelica si avvicinò alla signorina di La Vallière che singhiozzava piano. «Perché vi lasciate tormentare così? E perché accettate queste umiliazioni? La signora di Montespan gioca con voi come un gatto col topo e la vostra docilità esaspera i suoi istinti crudeli.» La povera ragazza sollevò su lei gli occhi inondati di lagrime. «Anche voi mi avete tradito,» fece con voce soffocata. Angelica rispose con tristezza: «Io non vi avevo giurato fedeltà. E non mi sono mai pretesa vostra amica. Ma vi ingannate. Non vi ho tradita e il mio consiglio è privo di ogni calcolo. Abbandonate la corte. Ritiratevi con dignità. Perché accettare di essere lo zimbello di questa gente senza cuore?» Una fiamma trasfigurò per un istante la fisionomia sconvolta. «La mia colpa è stata pubblica, signora. E Dio vuole, certamente, che anche la mia espiazione sia pubblica.» «Il signor Bossuet trova in voi una buona penitente. Ma credete che Dio esiga tanti tormenti? Vi perdete la salute, i nervi.» «Il re si oppone a che mi ritiri in un chiostro, come l'ho spesso pregato.» Gettò uno sguardo ferito verso la porta ch'egli aveva poco prima richiuso con tanta violenza. «Forse mi ama ancora?» fece sottovoce. «Forse tornerà un giorno da me?» Angelica si trattenne dall'alzare le spalle. Entrava in quel momento un paggio, inchinandosi. «Vogliate seguirmi, signora. Sua maestà chiede di voi.» Fra la camera da letto del re e la sala del Consiglio si trovava il gabinetto delle parrucche. Non era frequente il caso che una donna vi entrasse. Luigi XIV si stava scegliendo una parrucca sotto l'egida del signor Binet e dei suoi assistenti. Intorno, in armadi a vetri, stavano le diverse capigliature le cui forme variavano a seconda che il re si recasse alla messa o a caccia, ricevesse ambasciatori o andasse a passeggio nel parco. Qua e là vi erano teste di stucco che servivano per le prove e i rimaneggiamenti.
Quel giorno, Binet insisteva perché il suo augusto cliente si mettesse la parrucca detta «alla reale», alta criniera piena di maestà e che era più fatta per statue che per viventi. «No,» disse il re. «Questa riponiamola per circostanze molto importanti, ad esempio per il ricevimento di quel difficile ambasciatore persiano.» Gettò uno sguardo verso Angelica, che s'inchinò. «Avvicinatevi, signora. Eravate a Suresnes, ieri, non è vero?» Aveva ritrovato la sua urbanità, i suoi gesti pieni di una unzione da attore, naturale in lui. Ma ci voleva qualcosa di più per calmare Angelica irritata. Binet, come fornitore di corte, conosceva l'educazione: se ne andò in fondo alla stanza con i suoi accoliti e si sprofondò nella difficile ricerca della parrucca necessaria. «Ditemi le ragioni della vostra insolenza,» disse il re sottovoce. «Non riconosco più una delle donne più amene della corte.» «Riconoscerò io il re più cortese del mondo?» «Mi piace vedere la collera che vi fa brillare gli occhi e fremere il nasino. Sono stato un po' duro, è vero.» «Siete stato... odioso. In realtà, non ci mancava che la regina perché aveste l'aria di un gallo con le sue galline.» «Signora!... Parlate al re!» «No. All'uomo che gioca con il cuore delle donne.» «Di quali donne?» «La signorina di La Vallière... La signora di Montespan... io... tutte insomma.» «Giuoco assai delicato, quello di cui mi accusate. Chi sa nulla del cuore delle donne? La Vallière ne ha troppo. La signora di Montespan non ne ha... Voi... Se potessi almeno esser sicuro che giuoco con il vostro cuore... Ma esso non è colpito.» A testa bassa, ostinata, Angelica aspettava uno scatto che l'avrebbe scacciata per sempre. «Testa dura che non si sa piegare,» disse il re. Ella sollevò gli occhi su lui. La malinconia di quella voce la sconcertava. «Nulla va, oggi,» fece lui. «La disperazione di Mademoiselle quando le ho annunciato la decisione che ero costretto a prendere circa il suo matrimonio mi ha sconvolto. Credo che abbia amicizia per voi. Andate a consolarla.» «E il signor di Lauzun?»
«Ignoro ancora la reazione di quel povero Péguilin. Credo sia sprofondato in una tremenda disperazione. La delusione sarà crudele. Ma saprò ricompensarlo. Avete visto Basctiari Bey?» «Sì, sire,» rispose Angelica, domata. «A che punto sono i nostri affari?» «Sulla buona strada, credo.» La porta si spalancò con fracasso e apparve Lauzun, gli occhi fuor dalla testa, la parrucca di traverso. «Sire,» fece bruscamente senza scusarsi della sua apparizione fuori luogo, «vengo a chiedere a vostra maestà come abbia io meritato che mi disonorasse...» «Suvvia, suvvia, amico mio, calmatevi,» disse il re con dolcezza. Si rendeva conto di quanto la collera del suo favorito fosse scusabile. «No, sire, no, io non posso accettare una simile umiliazione...» Con un gesto esaltato traeva la spada e la presentava al re. «Mi avete tolto l'onore, prendete la mia vita... prendete... Non la voglio più... la detesto!» «Rincoratevi, conte.» «No, no, è finita... Prendete, vi dico. Uccidetemi, sire, uccidetemi.» «Péguilin, capisco come tutto ciò sia contrario ai vostri desideri, ma ve ne ricompenserò: vi solleverò così in alto che non avrete più da rimpiangere l'unione che devo interdire.» «Non voglio i vostri doni, sire... Non devo nulla accettare da un principe che non tiene fede alla parola data.» «Signor di Lauzun!» esclamò il re con uno scoppio di voce che vibrò come la lama di una spada. Angelica, smarrita, emise un lieve grido. Lauzun la scorse e volse a lei la sua rabbia. «Ah! Siete qui, voi, piccola imbecille, altrettanto stupida che incapace! Dove eravate andata a correre, ieri, sgualdrinella, mentre vi avevo chiesto di sorvegliare il comportamento del signor principe e di suo figlio?» «Basta, conte,» disse il re gelido, interponendosi con dignità. «Ora uscite. Perdono il vostro sfogo, ma non voglio rivedervi a corte che rassegnato e sottomesso.» «Sottomesso! Ah! Ah!» esclamò Lauzun ghignando. «Sottomesso! Ecco la parola che vi piace tanto, sire. Vi occorrono solo degli schiavi... Quando, per fantasia, consentite loro di sollevare un po' la testa, devono essere pronti a riabbassarla e a ricacciarsi nella polvere appena tale fantasia è ces-
sata... Prego vostra maestà di acconsentire che mi allontani. Amavo servirla, ma non saprei mai strisciare...» E Lauzun uscì senza aver fatto il minimo saluto. Il re gettò uno sguardo freddo ad Angelica. «Posso ritirarmi, sire?» chiese la giovane donna, a disagio. Egli annuì col capo. «... E non dimenticate, appena ritornerete a Parigi, di andare a consolare Mademoiselle.» «Lo farò, sire.» Il re andò a porsi dinanzi all'alta specchiera incorniciata di bronzo dorato. «Se fossimo in agosto, signor Binet, direi che è tempo da uragano...» «Infatti, sire.» «Disgraziatamente, non siamo in agosto,» sospirò il re. «Avete fatto la scelta, signor Binet?» «Ecco: una parrucca di grande stile ma con due file di riccioli lungo la linea mediana che si aprono in larghezza e non in altezza. Io la chiamo "all'ambasciatore".» «Perfetto. Voi sapete sempre ciò che è opportuno, signor Binet.» «La signora del Plessis-Bellière me ne ha spesso fatto complimento... Vogliate chinare un po' la testa, sire, perché metta la parrucca al posto giusto.» «Mi ricordo. Siete entrato al mio servizio attraverso la signora del Plessis... Vi aveva raccomandato a me. Vi conosce da molto tempo, credo.» «Da molto tempo, sì, sire.» Il re si guardava nello specchio. «Che ne pensate?» «Sire, è degna solo di vostra maestà.» «Non mi avete compreso, signore. Parlavo della parrucca.» «Sire, anch'io,» rispose Binet chinando gli occhi. 10 Nel gran salone, Angelica chiese chi si stesse aspettando. Tutti i cortigiani erano lussuosamente vestiti, ma nessuno sapeva in onore di chi. «Io ho scommesso per i moscoviti,» le disse la signora di Choisy.
«Non si tratta piuttosto del ricevimento al re di Polonia? Il re ne parlava poco fa con la signora di Montespan,» disse Angelica, lieta di apparire informata dalle fonti migliori. «Comunque, si tratta certo di un'ambasceria. Il re ha fatto chiamare qui tutti i signori stranieri. Guardate quell'individuo dai baffi da barbaro che vi guarda fisso. Mi gela il sangue, parola mia!» Angelica volse macchinalmente il capo nella direzione indicata e riconobbe il principe ungherese Ragoski, che aveva incontrato a Saint-Mandé. Egli attraversò subito il vasto spazio del gran corridoio per venire a inchinarlesi dinanzi. Era vestito da gentiluomo ricco, con tanto di parrucca e tacchi rossi. Ma sostituiva la spada con un pugnale dal manico ageminato di pietre azzurre e d'oro. «Ecco l'arcangelo,» disse felice. «Signora, potete accordarmi qualche istante di colloquio?» «Mi chiederà ancora di essere sua moglie?...» pensò lei. Ma siccome non aveva da temere, in mezzo a tutta quella gente, di esser rapita, lo seguì cortesemente nel riquadro di una vicina finestra, mentre fissava le piccole pietre azzurre del pugnale, che le ricordavano qualche cosa di impreciso. «Sono turchesi persiane,» spiegò lui. «Firuzè, in persiano.» «Conoscete il persiano? Choma pharzi harf mizanit?» Angelica fece un gesto vago. «Questo pugnale è molto bello.» «È tutto ciò che mi rimane della mia passata ricchezza,» fece lui con aria al tempo stesso impacciata e quasi insolente di orgoglio. «Lui e il mio cavallo Hospadar. Hospadar è sempre stato un fedele compagno. Sono riuscito a passare con lui le frontiere. Ma da quando sono in Francia, sono costretto a lasciarlo in una qualsiasi stalla di Versailles, perché i parigini non possono vederlo senza inseguirmi con le loro beffe.» «Perché mai?» «Quando conoscerete Hospadar capirete.» «E che cosa avete da dirmi, principe?» «Nulla. Voglio solamente contemplarvi per qualche istante. Trarvi fuori dalla folla chiassosa per avervi solo per me.» «La vostra ambizione è grande, principe. Raramente la galleria di Versailles è stata così affollata.» «Il sorriso vi scava un leggero segno sulla guancia. Sorridete facilmente, l'ho notato. Eppure, non c'è di che sorridere. Che venite a fare qui, oggi?»
Angelica gli scoccò uno sguardo perplesso. Le parole dello straniero avevano sempre un giro imprevisto, che le comunicava una certa inquietudine. Senza dubbio, nonostante l'eccellenza del suo francese, egli ignorava le sfumature del linguaggio. «Ma... sono dama d'onore alla corte. Debbo mostrarmi a Versailles.» «È questo il vostro ruolo? È veramente inutile!» «Ha il suo fascino, signor apostolo. Che volete farci! Le donne non posseggono le qualità necessarie per fomentare le rivoluzioni. Mostrarsi e rimostrarsi, e abbellire la corte di un gran re convien loro meglio. Per parte mia, non so nulla di più divertente. La vita è così varia a Versailles. Ogni giorno porta con sè uno spettacolo nuovo. Sapete, ad esempio, chi si attende oggi?» «Lo ignoro. Da uno dei cento svizzeri ho ricevuto convocazione, nella stalla ove alloggio insieme con Hospadar, di venire oggi a corte. E speravo di avere un colloquio con il re.» «Vi ha già ricevuto?» «Ed anche diverse volte. Non è un tiranno, il vostro re, è un nobile amico. Mi darà aiuti per liberare la mia patria.» Angelica si faceva vento guardandosi intorno. La folla andava aumentando ad ogni istante. Il suo vestito smeraldo non era fuori posto. Il piccolo Aliman - un meticcio che aveva acquistato come paggio - cominciava a sudare a grosse gocce sostenendo il mantello di stoffa ricamata con una greve guarnitura di filo d'argento. Gli disse di lasciarlo andare per un momento. Aveva fatto male ad acquistare un fanciullo così giovane. Avrebbe dovuto comprarne un altro più anziano. Oppure della stessa età e che avrebbe aiutato Aliman a portare la coda. Sì, l'idea era buona. Un negretto tutto nero e l'altro dorato, vestiti in colori differenti o simili, sarebbe stato molto divertente. Avrebbe avuto grandissimo successo! Accorgendosi che Ragoski aveva seguitato a discorrere disse: «Tutto questo va benissimo ma non mi dice chi siamo stati pregati di onorare con la nostra numerosa compagnia. Si parlava dell'ambasciata moscovita!...» La fisionomia dell'ungherese si trasformò e i suoi occhi non furono più che due segni neri brillanti di odio. «I moscoviti, dite? Non sopporterò mai di vedere, a pochi passi da me, gl'invasori della mia patria!» «Ma io credevo che ce l'aveste soltanto con l'imperatore di Germania e con i turchi!»
«Ignorate forse che gli ucraini occupano Budapest, la capitale?» Angelica confessò molto umilmente che lo ignorava e che non aveva anzi nessuna idea di che cosa fossero gli ucraini. «Sono certa di essere particolarmente sciocca,» fece gentilmente, «ma scommetterei volontieri cento pistole che la maggior parte dei francesi lo ignorano proprio come me...» Ragoski scosse la testa con tristezza. «Ahimè! come sono lontani dalle nostre angosce questi grandi popoli d'Occidente verso cui volgiamo gli occhi speranzosi!» Quindi aggiunse: «Saper parlare una lingua non sopprime le barriere fra i popoli. Io parlo bene il francese, non è vero?» «Perfettamente,» approvò lei. «Eppure tra di voi nessuno mi capisce.» «Il re vi capisce, ne sono certa. Egli è al corrente di tutto ciò che riguarda le nazioni del mondo.» «Ma le pesa sulla bilancia delle sue ambizioni. Speriamo che non mi abbia trovato troppo leggero.» Si spostarono avanzando, perché un movimento di folla annunciava l'arrivo di un importante visitatore. Preceduta da due ufficiali del re in grande uniforme in cui Angelica riconobbe il conte Czerini, luogotenente del primo reggimento straniero Greder Allemand e il marchese di Arquien, capitano delle guardie svizzere di Monsieur, avanzava la principessa Enrichetta, moglie di Monsieur, al braccio di un settuagenario panciuto e coperto di enormi diamanti. Seguivano il fratello del re, assieme al suo favorito, il cavaliere di Lorraine, e il marchese di Effiat. Numerosi ecclesiastici, fra cui il nunzio papale, formavano il seguito. All'avvicinarsi del corteo, l'ungherese sollevò il braccio destro, se lo portò quindi alla fronte, terminando quel singolare saluto con un inchino di corte. L'alto personaggio, entrando, si fermò. Il suo viso, piuttosto brutto e gonfio, parve afflosciarsi e invecchiare di colpo. Ma in quella faccia devastata si accesero a un tratto due occhi d'uno splendore azzurro come la neve fondente, ed egli disse con voce molto bassa e pesante: «Come mai, principe, mi salutate, ora?» «Sire, perché saluto in voi non il tiranno, ma l'uomo che ha saputo rinunciare a tutto.» Il volto del vecchio si oscurò e s'irrigidì.
«È vero. Ho rinunciato agli uomini di questa terra e alle loro dispute. Sicché, chiamatemi piuttosto signor Abate.» «Vostra eminenza mi scusi,» balbettò l'ungherese che parve sinceramente confuso. «Non sono nemmeno cardinale, amico mio. Non riuscite a capire che nemmeno voi siete più principe, agli occhi di Dio. Tutti questi titoli sono futili. Ho detto!» terminò con sorprendente maestà. Il corteo riprese ad avanzare, finché giunse in fondo alla sala. Il giovane ungherese girò verso Angelica un volto torturato. «Non è forse strano, il destino? Quell'uomo era il mio peggiore nemico. Ed eccolo spogliato di tutto, perfino dei suoi nemici.» Proseguì, con voce trattenuta e sorda: «Non potete capirci: siete dei latini. Noi ungheresi discendiamo in linea quasi diretta dai goti, ma dopo abbiamo subito quattro secoli di occupazione da parte degli unni di Attila, i cui discendenti si sono attardati nelle nostre fertili pianure. E questo miscuglio di gialli erranti e di goti primitivi ha formato la nostra fiera patria, il cui motto è "Non c'è vita fuor dell'Ungheria ".» «Era il vostro re?» chiese lei. «Ma no!» gridò quasi con collera l'ungherese. «Vi dico che era il nostro peggior nemico. Non avete dunque riconosciuto Casimiro V, re di Polonia?» «Un re, quel grasso signore panciuto, dai gesti di ecclesiastico?» «Vi ripeto che si tratta proprio di Giovanni, figlio di Sigismondo III di Polonia.» «Ma parla un eccellente francese.» «Ha fatto gli studi in un collegio di gesuiti francesi. Egli stesso è gesuita ed è stato cardinale. Quando dovette succedere al fratello Ladislao VII, ottenne una dispensa per sposare la vedova del fratello, proprio una francese, Maria di Gonzaga. Ma dopo la morte di questa, ha rinunciato a tutto ed ha abbandonato anche il trono.» «Perché dite che è vostro nemico?» «Perché i polacchi non cessano di rivendicare l'Ungheria.» «Se ben capisco, tutti se la strappano l'un l'altro!» «È proprio questa la parola giusta,» disse il principe tristemente. «Il nostro paese è una terra troppo ricca. Il delta di un grande fiume, il Danubio, l'ha ricoperta di melma nera prodigiosamente fertile. La Germania e l'Austria, i turchi e i polacchi, gli ucraini spinti dai moscoviti, la rivendicano,
vogliono almeno averne una parte. Ho scacciato i re che avevano fatto alleanza con i nostri nemici. Voglio ora drizzarmi a dire a tutti: "Indietro!"» Aveva elevato la voce, e i loro immediati vicini lo guardarono con divertito terrore. Il signor di Gesvres, il gran ciambellano, comparve sulla soglia del grande salone e annunciò: «Signori, il re!» 11 Si udì l'urto sordo delle alabarde che le guardie battevano contro il pavimento, poi il passo fermo e posato del giovane re che si avvicinava. Allorché apparve, nel silenzio, tutti i gentiluomini si tolsero il cappello e s'inchinarono, mentre le donne s'inginocchiavano nella loro reverenza. «Vi ringrazio, signore, e anche voi, signori,» disse Luigi XIV, «di esservi radunati così numerosi su mia richiesta. Potremo così onorare meglio la nostra amicizia con il glorioso paese di Polonia cui la Francia ha già dato delle regine, e la cui storia si è spesso trovata congiunta con quella del nostro regno nell'anno 1037, in cui il suo re Casimiro I il Pacifico venne a terminare i suoi giorni in Francia come prete dell'Ordine di Cluny. Illustre esempio che perpetua oggi il nostro amatissimo cugino, che siamo lieti di accogliere prima che vada a servire l'unico Signore di tutti. La sua presenza aggiungerà particolare lustro alla cerimonia per la quale vi ho invitati.» Avendo così parlato, il re prese ad avanzale, con alla destra il re Casimiro, alla sinistra la regina. Venivano poi Monsieur e Madame d'Orléans, con il principe. Le dame d'onore seguivano, precedute dalla signora di Montespan, e infine tutta la corte nel piacevole disordine di una processione. «Quale può essere la sorpresa che ci riserba il nostro re?» chiese la signora di Ludre dietro il suo ventaglio. «Ma non è già la visita di Casimiro V?» «Neanche per idea, mia cara! Un re senza corona, un cardinale che si è tolto l'abito? Mai più! Le sorprese di sua maestà sono in genere più brillanti e originali...» Il principe Ragoski era rimasto a fianco di Angelica. «La presenza del re Casimiro mi rassicura nei riguardi dei moscoviti,» disse. «Il vostro re non ignora che gli ucraini, i quali sono stati a lungo sotto il giogo polacco, li hanno traditi, e che attualmente sono in guerra. Non potrebbe metterli in presenza...»
«Sembra che i moscoviti vi facciano una gran paura...» «Paura!» mormorò Ragoski con un sobbalzo. «Paura! Signora, per un simile insulto meritereste di essere attaccata alla coda di un cavallo selvaggio e trascinata nella steppa!» Aggiunse dopo un momento di riflessione: «Ma è vero che fra tutti i nostri nemici i moscoviti sono gli unici che mi preoccupano e nello stesso tempo m'incuriosiscono. Che cosa significa, infatti, l'entrata in lizza degli sciti dalle lunghe barbe, per tanto tempo relegati dietro le loro gelide paludi? Già lo si sa: le orde cosacche sono a Budapest. Ed io temo che il vostro re, così sottile politico, non si sia ingannato chiamandoli a Parigi, capitale del mondo... Vi è qualche cosa che sta mutando l'equilibrio delle forze della vecchia Europa. Il popolo ha appena scosso il giogo di una occupazione tartara di tre secoli, posteriore a quella che abbiamo subita noi da parte dei mongoli, e chissà se non hanno approfittato della stessa saggezza dei vinti pazienti che assimilano la forza dei loro vincitori, li spogliano di essa e sorgono a un tratto come una razza nuova e indipendente... Quale anche noi siamo...» Nel frattempo, il signor di Brienne, risalendo i gruppi controcorrente, si fermò dinanzi a loro, ansimante. «Principe, sua maestà insiste perché voi compariate in prima fila.» «Vi seguo, signore,» rispose Ragoski, lusingato. Angelica ne approfittò per insinuarsi dietro di lui e per trovarsi così nelle prime file del pubblico. Il corteo si era fermato in mezzo alla grande galleria. E in quel momento, proveniente dalle profondità dello scalone di marmo, scoppiò una strana musica, scandita al suono sordo dei tamburi. Ai lati della scalinata sorsero musicisti vestiti con lunghi abiti dai colori vivaci e con in testa berretti di pelo. Gli uni grattavano piccole chitarre triangolari a tre corde, dalle note acute, gli altri mandolini tondi, dalle tonalità profonde e tristi. I tamburi erano larghi e piatti, ornati come quelli degli zingari. Apparve un altro gruppo di personaggi che saliva lentamente e un mormorio di ammirazione in cui si mescolava una punta di timore, percorse l'assemblea. L'ammirazione si rivolgeva ai costumi stupendi, ai pesanti caffettani di broccato e di velluto lavorato, su cui si intrecciavano i ricami d'oro e d'argento. Lo spavento delle dame era provocato, invece, dalle barbe, nere, bionde, bianche, ma tutte lunghissime e folte che, raggiungendo gli enormi berretti di pelo e le lunghe capigliature intrecciate davano a
quegli uomini magnifici un aspetto feroce. Al centro, colui che sembrava il capo della delegazione portava una specie di tiara dalle rotondità di cupola sotto un intreccio di perle. L'alto colletto rigido, aperto a punta su un nastro di seta era anch'esso ricamato di perle; i risvolti rossi e i lembi del mantello di raso verde, mostravano due file parallele di enormi rubini e smeraldi alternati. Portava sul petto uno smeraldo della grandezza di una carta da giuoco, incastonato di porle e sospeso a un vezzo d'oro che recava altri smeraldi di minor grandezza ma anch'essi assai belli. I foderi delle sciabole che ognuno di quei barbari signori portava alla cintura, erano egualmente guarniti di enormi pietre preziose, cucite su piccoli rosoni di fili d'oro o d'argento tra due file di perle. I loro mantelli non scendevano sino a terra. Stretti alla cintura da sciarpe di seta o di raso, ballavano, rigidi come reliquiari per il peso dei gioielli e dei ricami, al disopra del suolo, lasciando scorgere stivaloni di morbido cuoio rosso o nero, la cui estremità si sollevava a punta, alla moda mongola. Dietro di loro, avanzarono alcuni servitori su quattro file, portando i doni. Occorrevano tre uomini per sostenere le pesanti pelli di orso. Altri sei, per uno solo degli enormi tappeti arrotolati. Subito dopo, dietro il pope in pianeta e mitria, veniva un grassone dal volto imberbe, ma con un paio di enormi baffi che gli facevano una testa da foca e gli davano un'aria vagamente faceta sottolineata dalla testa rasata a zero, eccetto un'enorme ciocca nera che partiva dalla cima del cranio e la cui punta affilata andava ad avvolgersi intorno all'orecchio sinistro, mentre al destro portava un orecchino d'oro con incastonato uno zaffiro. Indossava una camicia di seta rossa che cadeva su brache a sbuffi di seta nera e portava stivaloni neri. La cintura, di seta gialla, gli girava intorno alla vita almeno venti volte. Una corta sciabola curva dal fodero d'oro e un braccialetto al polso della mano sinistra completavano il suo abbigliamento. Seguivano quattro uomini vestiti quasi come lui, ma che portavano cartucciere con cartucce finte dalla testa d'argento cesellato su vestiti interamente di seta nera, pugnali e scimitarra in foderi di cuoio rosso e ornati d'argento. Tutti gli altri uomini della delegazione, alcuni dei quali avevano una caratteristica faccia mongola, erano vestiti con lunghi caffettani moscoviti, che li facevano somigliare a cinesi.
Angelica cercò sul volto del principe Ragoski la risposta alla domanda che si poneva. Lo vide come pietrificato. «I moscoviti!» diss'egli annichilito. Poi le afferrò il polso stringendo da spezzarlo. Chinò su lei la sua alta figura. «Sapete chi è l'uomo al centro?... È Doroscenko, l'etmano dell'Ucraina, colui che è entrato per primo in Budapest.» Angelica lo sentì che fremeva come un cavallo in angoscia. «L'affronto è... incancellabile,» fece pallidissimo. «Principe, ve ne prego, non fate scandali. Non dimenticate che siete alla corte di Francia.» Egli non la udiva. Fissava i sopraggiungenti come se li vedesse avanzare lontano sulla steppa, e non sotto i lampadari dorati di Versailles. A un tratto scomparve, indietreggiando e confondendosi fra i gentiluomini francesi. Angelica emise un sospiro di sollievo. Aveva temuto che quello sventato rovinasse l'appassionante spettacolo. Le sarebbe anche spiaciuto che si fosse compromesso e avesse attirato su di sè la collera del monarca. Questi era assai imprudente a far entrare nella sua corte un rivoluzionario. Non ci si può dunque aspettare di tutto da parte di quella gente? Ogni tre passi, la delegazione moscovita s'inchinava in profondi saluti orientali. L'umiltà di quelle genuflessioni contrastava con la fierezza dei loro sguardi, e Angelica non poteva fare a meno di trovare in quegli agili movimenti della schiena l'impressione di forza dissimulata e pronta a balzare delle grandi belve domate. Sentiva dei brividi alla nuca. Ragoski le aveva comunicato il suo strano isterismo. Aveva paura di qualcosa d'insolito. Stava per scatenarsi come l'uragano, come il fulmine, e il castello di Versailles sarebbe stato distrutto! Guardò il re e si sentì sollevata nel vederlo, invece, perfettamente impassibile, maestoso com'egli solo sapeva esserlo. La parrucca «all'ambasciatore» del signor Binet rivaleggiava abilmente con i berretti moscoviti. Si fece avanti il signor di Pomponne. Essendo stato ambasciatore in Polonia, conosceva il russo e serviva da interprete. Dopo i complimenti d'uso la delegazione presentò i doni portati dalla lontana Russia. Tre pelli di orso bruno, nero e giallo degli Urali. Pelli di zibellino bianche e azzurre della Siberia, pelli di castoro in gran numero, e un'immensa coperta di astrakan nero, fatta con cinquecento pelli di agnelli neonati che si scelgono solo fra le greggi che vivono sulle rive del Mar Caspio.
Strane verghe di fogli di stagno contenenti tè verde e tè rosso, di cui l'imperatore di Cina pagava l'imposta dal tempo di Ivan il Terribile allo zar Alessio. La regina, lieta una volta tanto di poter fare sfoggio di sapienza, disse che le avevano parlato del tè e ch'esso guariva più di venti malattie. Si estasiò soprattutto dinanzi alle pietre preziose, fra cui uno smeraldo grosso come un pane di zucchero, e un berillo azzurro degli Urali, alto come una pietra miliare con la punta a prismi di sei facce. Occorrevano quattro uomini per sollevarlo. I tappeti di Bukhara dal pelo raso e quelli di Khiva dal pelo lungo furono svolti, le seterie, dai colori gialli e rosso vivo, inalterabili al sole, spiegate. Vi era anche seta finissima del Turkestan e pesanti coperte anch'esse di seta, che univano riquadri in mosaico di diversi colori. Uno dei membri della delegazione offrì di persona, inginocchiandosi dinanzi al monarca, una enorme pepita d'oro del lago Baikal, deposta su un cuscino di raso bianco. Tutti davano in esclamazioni, stupiti. Le dame ardivano toccare col dito, con gioia, i tappeti e le sete, ma il gigantesco berillo azzurro era il gran favorito. Nel frattempo, i moscoviti spiegavano che, avendo saputo della passione del gran re d'Occidente per gli animali rari, gli avevano portato una coppia di capre del Panujo il cui pelame serve a fare scialli simili a quelli del Cachemire delle vicine Indie. Il re ringraziò calorosamente. Vi era anche una tigre bianca della Siberia d'una specie rarissima, che aspettava nel «cortile di marmo», pronta a salutare il nuovo padrone che le era destinato al termine di un viaggio assai disagevole per quel signore delle steppe nevose. L'annuncio mise il colmo all'entusiasmo. I servitori dovettero in fretta ripiegare i doni per lasciar libero il passaggio e tutta la corte dietro al re e all'ambasciatore moscovita si diresse verso lo scalone. Fu allora che l'incidente scoppiò. Un animale sorprendente, nero che sembrava vomitato dall'inferno, un piccolo cavallo chiomato come una donna, peloso fino agli zoccoli, comparve in cima ai gradini. Il gentiluomo che lo montava si drizzò sulle staffe e gridò qualche cosa in una lingua straniera, poi lo ripeté in russo e quindi in francese: «Viva la libertà!» Il suo braccio era alzato, il suo pugnale sibilò nell'aria e si conficcò nel pavimento di legno, ai piedi dell'etmano di Ucraina.
Poi il cavaliere fece fare un mezzo giro alla sua strana cavalcatura e ridiscese la scalinata di marmo. «A cavallo! È salito e disceso con il cavallo... Non è un cavallo... Ma sì, suvvia. Li chiamano poney... Incredibile!... Un cavallo al galoppo per una scala!...» I francesi non vedevano che questo: una straordinaria prodezza equestre... I moscoviti invece guardavano, impenetrabili, il pugnale. Il re parlava con tono calmo con il signor di Pomponne. Il suo palazzo, diceva, era aperto al popolo. Perché il popolo ha il diritto di vedere i suoi re. Egli accoglieva in Francia anche degli stranieri. Nonostante le attenzioni della polizia, la sua larga ospitalità si pagava a volte con uno spiacevole incidente come quello ora accaduto: pazzi, visionari di cui non si può sempre indovinare in anticipo le strane idee, si lanciavano in azioni furiose e inesplicabili. Grazie a Dio, l'incidente era senza gravità. L'uomo sarebbe stato inseguito, ritrovato e imprigionato. Lo avrebbero rinchiuso a Bicêtre se era pazzo altrimenti, ebbene, sarebbe stato impiccato! Nulla d'importante! I moscoviti fecero notare con voce arrogante che quell'uomo aveva gridato in ungherese e ne chiesero il nome. «Non l'hanno riconosciuto, grazie a Dio!» pensò Angelica. Tremava nervosamente al punto di battere i denti. Intorno a lei, la storia veniva giudicata piuttosto divertente. Ma il pugnale era ancora lì e nessuno si decideva a muoversi. Infine, una piccola cosa rosea e verde, cangiante come un uccello delle isole, volteggiò e il pugnale scomparve. Era Aliman che, ad un segno di Angelica, lo aveva portato via. Il corteo riprese a muoversi e scese nel cortile, dove la tigre reale bramiva lungamente girando nella grande gabbia montata su un carro tirato da quattro cavalli. La vista del magnifico animale fece sparire ogni contrarietà dalle menti. La tigre fu condotta con grandi onori alla Ménagerie. Era un padiglione ottagonale in fondo al viale reale, verso il boschetto del Dôme, che si apriva su sette cortili a ventaglio, ciascuno dei quali era dedicato a una differente specie animale. La tigre della Siberia sarebbe stata da quel momento vicina ad un leone di Numidia, dono del sultano del Marocco, e a due elefanti delle Indie. Il signor di Pomponne fece da interprete tra i valletti delle belve e i valletti siberiani dagli occhi a mandorla. Si misero d'accordo sul regime e sulle cure da dare al nuovo pensionante, che si degnò di entrare con sufficiente buona grazia nel suo appartamento riservato.
Al ritorno, il re fece visitare i giardini. La signora di Sévigné scrisse al cugino, Bussy-Rabutin: «Rallegratevi con noi. Abbiamo avuto oggi un grande scandalo alla corte di Francia. Ho veduto e ho capito come le guerre si accendono nell'anticamera dei re. Ho visto con i miei occhi la fiaccola ardere dinanzi a me. Ne sono ancora tutta commossa e quasi fiera. Pensate che un uomo montato su un cavallo si è presentato a Versailles. Questa è una cosa ordinaria, direte voi. L'uomo è salito fino alla grande galleria che voi conoscete e dove il re riceveva l'ambasciata moscovita. Dite che anche questo non ha nulla di molto strano?... Ciò che lo è di più è il fatto ch'egli è salito al galoppo sul suo cavallo. Che ne pensate? Che ho sognato? No, cinquecento persone ne fanno testimonianza come me. «Ha lanciato un pugnale. Ancora non sogno e vi prego di non preoccuparvi per la mia salute. «Il pugnale è rimasto lì, ai piedi dell'ambasciatore, e nessuno sapeva che fare. Allora, ho visto la fiaccola della guerra che cominciava a fiammeggiare. Il piede che l'ha spenta è assai lieve. Ë quello della signora del Plessis-Bellière, che voi avete incontrato in casa mia e per la quale avevate una passioncella. Questo racconto vi farà dunque doppiamente piacere. «Ella ha avuto l'idea di mandare il suo paggetto con un cenno, un negretto così vivace che ha fatto scomparire l'oggetto come un illusionista del Ponte Nuovo. Tutti quindi si sono sentiti più a loro agio. La pace è tornata con un alloro sulle dita e noi siamo andati ad ammirare le bestie selvagge. «Che ne dite di questo raccontino? «La signora del Plessis è una di quelle donne che sono preziose accanto ai re. Credo che il re lo abbia capito da molto tempo. Tanto peggio per la nostra trionfante Canto...5 Ma possiamo essere certi ch'ella non si lascerà detronizzare senza lotta. Il che ci promette ancora molte distrazioni a Versailles.» Angelica non era invitata al viaggio di Fontainebleau. Non doveva invece dimenticare che il re le aveva raccomandato di andare a consolare la Grande Mademoiselle. Tornò quindi a Parigi. In carrozza, trasse dalle pieghe della gonna il pugnale del principe ungherese e lo osservò con un misto di apprensione e di soddisfazione. Era lieta di aver fatto scomparire quell'arma. Il «rivoluzionario» non aveva me5
Nome con cui la signora di Sévigné indicava la signora di Montespan nelle sue lettere.
ritato che cadesse in altre mani, dal momento ch'ella era forse, in quel regno, la sua unica amica. Vedendo che le signorine Gilandon, sedute al suo fianco, osservavano il pugnale con quell'interesse che era loro consentito da un'indolenza quasi vegetale, chiese se fossero al corrente di ciò ch'era capitato all'uomo dal piccolo cavallo. Le due fanciulle si eccitarono un po'. Come tutti a Versailles, dall'ultimo sguattero sino al gran ciambellano, erano state felici di assistere a un «incidente diplomatico». No, il rivoluzionario non era stato arrestato, dissero. Dopo aver disceso di corsa la scala di marmo, lo si era visto fuggire di gran galoppo verso i boschi. E alcune guardie lanciate all'inseguimento erano tornate senza averlo trovato. «Gli è sfuggito, tanto meglio!» pensò Angelica. Ma subito si rimproverò quel pensiero. Una tale insolenza meritava di essere castigata. Eppure, quel gesto le era apparso magnifico. Ne provava una soddisfazione segreta. Luigi XIV aveva voluto giocare al gatto con il topo. Gli piaceva provare il grado di arrendevolezza dei suoi schiavi. Ora sapeva che cosa pensare di quello del principe Ragoski. E di quello di Lauzun. Lauzun sarebbe stato arrestato? E quel Ragoski, dove poteva mai correre? Si sarebbe fatto riconoscere ovunque, con quel suo piccolo cavallo selvaggio simile a quelli degli unni giunti un tempo sotto le mura di Parigi. «Non è stata forse Santa Genoveffa a impedire agli unni di entrare in Parigi?» chiese Angelica alle signorine Gilandon. «Sì, signora,» risposero gentilmente le due fanciulle. Non si stupivano mai di nulla. E questo entrava nelle loro attribuzioni. La meschinità del loro fisico e della loro personalità poneva la loro padrona al riparo dagli spiacevoli intrighi delle damigelle d'onore troppo sfrontate o ambiziose. La loro compagnia non era delle più allegre, è vero. Angelica non se ne formalizzava. Non aveva il difetto di molte gran dame che non potevano rimanere cinque minuti senza parlare con qualcuno. Trovarsi di fronte a se stesse doveva essere il loro più grande supplizio e perciò facevano di tutto perché una così spiacevole occasione non si producesse per così dire mai, dato che una cameriera era incaricata di legger loro qualcosa sino all'orlo del sonno o di tener loro compagnia in caso d'insonnia. Angelica beneficiava del silenzio naturale delle signorine di Gilandon per consentirsi a volte qualche meditazione.
La carrozza attraversò con gran fracasso le foreste di Meudon e di SaintCloud. La notte d'inverno, fredda e nebbiosa, lasciava appena indovinare, oltre il cerchio di luce dei portatori di torce, il denso fogliame avvolto nella bruma. Dov'era Ragoski? Angelica abbandonò il capo all'indietro. Le capitava, quando era sola con se stessa, di provare un'impressione di angoscia. I nervi le dolevano fino alla punta delle unghie. Si ricordò del liquore verde che Basctiari Bey le aveva fatto bere con l'intenzione ben chiara di dissipare la sua freddezza. Doveva essere certo una medicina afrodisiaca. A quel pensiero, Angelica si persuase che le occorreva un amante, altrimenti rischiava di cader malata. Era stata davvero sciocca a non ascoltare le proposte dello splendido persiano. A quali sentimenti aveva obbedito? Per quale padrone si riserbava? Chi si preoccupava della sua vita? Non aveva dunque ancora coscienza della propria libertà?... A Parigi, come le accadeva sempre più di frequente, la solitudine del suo bel palazzo, e la sua stanza deserta, le parvero opprimenti. Preferiva vivere accampata a Versailles, e quelle notti frettolose tra la fine di un ballo e la messa all'alba, in quell'enorme palazzo appena addormentato. La notte sembrava che ancora vi ronzassero passioni e intrighi. Si faceva parte di un tutto. Nessuno vi era abbandonato alla propria sorte. «Alla sua triste sorte?» pensò Angelica girando attraverso la stanza come la tigre della Siberia nella sua gabbia. Perché non era stata invitata alla gita di Fontainebleau? Il re aveva paura di spiacere alla signora di Montespan? Che voleva il re, da lei? Verso quale destino la dirigeva con mano implacabile e misteriosa? «Per quale esistenza sei stata creata, o mia sorella Angelica?» Ferma in mezzo alla stanza, disse a voce alta: «... Il re!» Il maggiordomo Roger venne a informarsi di ciò che la signora marchesa desiderava per la cena. Ella lo guardò un po' smarrita. Non aveva fame. Anna Maria Gilandon venne a proporle una tisana. Angelica si stupì di provare una voglia irresistibile di schiaffeggiarla, come se quella innocente proposta mettesse il colmo ai suoi dispiaceri e alle sue umiliazioni. Per spirito di contraddizione, chiese una bottiglia di acquavite di prugne. Bevve due bicchierini uno dietro l'altro e si sentì meglio. Avrebbe dovuto pensarci prima. L'alcool è unico per dissipare le tristezze. Il pugnale di Ragoski era posato sulla tavola. Angelica andò allo scrittoio di ebano incrostato di madreperla, dai molti cassetti. Trasse un cofanetto e lo aprì per deporvi l'arma. In quel cofanetto conservava diversi oggetti:
un pettine di tartaruga, un anello datole dal bandito Nicola, i gioielli del tempio, il cammeo di granate che portava con gli umili vestiti della moglie di Bourgeaud, un paio di orecchini offertole da Audiger il giorno in cui avevano inaugurato insieme la vendita del cioccolato, e una penna ben tagliata, appuntita, del poetastro ch'era stato impiccato. Vi era un altro pugnale, quello di Rodogone l'egiziano. Il servitore indiscreto che avesse voluto conoscere il tesoro che la signora del Plessis-Bellière nascondeva così gelosamente in quel cofanetto, sarebbe rimasto molto stupito e deluso di non trovarvi che quegli oggettini eterocliti. Ma, per lei, avevano un altro significato: erano come conchiglie che le maree di un tenebroso mare avevano deposte sulle rive del suo passato. Molte volte avrebbe voluto liberarsene e respingerle, e mai aveva potuto decidersi. Bevve un altro bicchierino d'acquavite. La pietra azzurra che aveva al dito brillava d'una dolce luce accanto a quelle incrostate nel manico d'oro del pugnale di Ragoski. «Sono sotto il segno del turchese,» pensò. Due volti abbronzati si sovrapponevano sotto i suoi occhi. Quello del principe persiano coperto di ricchezze, e quello del principe ungherese spoglio di tutto. Desiderava rivedere Ragoski. Ciò che aveva fatto glielo rivelava. La sua follia non era ridicola ma esaltante. Come mai, sotto le sue parole, non aveva saputo discernere la profonda saggezza degli eroi? Era talmente abituata a non udire che sciocchezze da non saper più riconoscere un uomo autentico. Povero Ragoski! Dove si trovava in quel momento? Ebbe voglia di piangere, pensando a lui. Bevve un altro bicchierino. Avrebbe potuto, ora, coricarsi e dormire. Che tristezza, dormire sola! Se fosse ritornata a Suresnes, con un «sì» sulle labbra, non avrebbe forse veduto la fine dei propri tormenti? Sognò di trovare l'oblio in un delirio dei sensi, ciechi e sapientemente esacerbati. «Non sono che una donna, dopotutto. Perché lottare?» Gridò allo specchio: «Sono bella!» Si commuoveva dinanzi alla propria immagine. «Povera Angelica... Perché così sola...» Bevve ancora. «E adesso che sono del tutto ubriaca... potrò dormire.»
Poi le venne il pensiero che se Mademoiselle soffriva di un dolore molto simile al proprio, non doveva dormire neppur lei. Forse si sarebbe sentita riconfortata a ricever la visita di Angelica in piena notte. Le notti sono così lunghe, quando si è soli! Svegliò i servitori, ordinò di attaccare la vettura e si fece condurre attraverso le vie notturne al palazzo del Lussemburgo. Aveva indovinato. La Grande Mademoiselle non dormiva. Da quando aveva ricevuto il verdetto del re si era messa a letto, senza più voler bere se non del brodo e inondando il giaciglio di pianto. Le cameriere, e alcune amiche fedeli tentavano invano di calmarla. «Sarebbe qui, lui!» esclamava mostrando nel suo letto il posto vuoto che Lauzun avrebbe dovuto occupare. «Sarebbe qui... Oh! ne morirò, signore, ne morirò.» La vista di una simile disperazione fu facile pretesto per Angelica di dar sfogo alle lagrime che tratteneva da due giorni. Scoppiò in singhiozzi. La signorina di Montpensier, commossa nel vederla condividere così sinceramente la sua pena, se la strinse al cuore. Rimasero così entrambe sino al mattino a parlare delle qualità di Lauzun e della crudeltà del re, tenendosi la mano e piangendo come fontane. 12 Quando Angelica aveva spiegato al signor Colbert che Basctiari Bey non voleva andare a salutare il re perché non era ricevuto con sufficiente apparato, il ministro aveva levato le braccia al cielo. «E io che non cesso di rimproverare il re per il suo gusto del fasto e le sue spese voluttuarie!» Venendo a sapere ciò, Luigi XIV era scoppiato a ridere. «Vedete, Colbert, amico mio, quanto i vostri brontolamenti siano a volte ingiustificati. Spendere senza contare per Versailles non è un cattivo calcolo, come voi supponete. Io rendo il palazzo così considerevole da incuriosire tutti gli uomini e attrarre così verso di noi una parte delle nazioni più lontane... Ho sognato di vedere quelle nazioni passare per queste gallerie, vestite alla maniera dei loro paesi, e guardare tutte queste meraviglie a seconda del loro carattere, recandosi a vedere il grande principe la cui fama le ha incantate. Se posso esprimervi il mio pensiero mi pare che dobbiamo essere al tempo stesso umili per noi stessi e fieri, esigenti, per il posto che occupiamo.»
Il giorno in cui la prima ambasceria persiana si presentò dinanzi ai cancelli d'oro di Versailles, migliaia di fiori in vaso, tratti dalla terra e ripiantati nelle aiuole, stendevano sotto il cielo invernale un tappeto variopinto. Lungo tutta la grande galleria si camminava su petali di rose e di fiori d'arancio. Basctiari Bey avanzò tra lo splendore del mobilio in argento dorato, di cui i pezzi più belli: mensole, credenze, armadi cesellati, erano esposti in suo onore. Gli fecero visitare tutto il palazzo, le cui dorature e i cui cristalli potevano sostenere il paragone con quelli delle Mille e una Notte. La visita terminò nella sala dei bagni, dove l'immensa vasca di marmo viola destinata al re poté convincere il persiano che i francesi non disdegnavano, come egli aveva creduto, il piacere delle abluzioni. I mille getti d'acqua del parco portarono al colmo la sua ammirazione. Fu quella una giornata di gloria per Angelica, che dovette di continuo trovarsi in prima fila. Con una incoscienza che forse nascondeva una certa malizia, Basctiari Bey abbandonava la regina e le altre dame per rivolgerle tutti i propri complimenti. Il trattato sulla seta fu firmato in un'atmosfera di amicizia. La sera di quella memorabile giornata, mentre un gran numero di cortigiani partecipava a un'ultima passeggiata per ammirare ancora una volta le effimere aiuole fiorite in un giorno d'inverno, un paggio si presentò ad avvertire la signora del Plessis-Bellière che il re la desiderava nel gabinetto dei cristalli. Questo gabinetto faceva parte dei grandi appartamenti del re. Egli vi riceveva con maggior intimità che non nei salotti. Esservi invitati costituiva grande onore. Angelica vide, entrando, riflessi dai grandi specchi che ornavano le pareti, i doni di Basctiari Bey ammucchiati con una profusione da caverna di Alì Babà. Il re conversava con il signor Colbert, il cui volto oscuro si era aperte» sotto l'effetto di una profonda soddisfazione interiore. Entrambi sorridevano alla giovane donna. «È giunto il momento per voi, signora, di ricevere la vostra ricompensa,» disse il re. «Vogliate, vi prego, scegliere, tra queste meraviglie, quella che più vi piacerà.» Il re la prese per mano e la condusse dinanzi ai doni esposti. Egli si riserbava la magnifica sella rossa con due pomoli d'oro e d'argento e con le
staffe piatte, anch'esse d'oro e d'argento. La scacchiera di ebano e avorio, e il giuoco di jacquet dai pezzi d'oro e di giada andavano al tesoro reale. Ed egli non pensava che Angelica fosse tentata dalla strana pipa persiana, il narghilè d'oro cesellato. Rimanevano invece alcuni scialli del Belucistan, piatti e fondine in oro massiccio, ornati con scene di caccia alle gazzelle del deserto e con incrostazioni di turchesi, alcuni vasi in argento dorato con incrostazioni di smalto azzurro antico, un grandissimo tappeto di Meched dal pelo lungo, due tappeti da preghiera di Tauris e di Ispahan dal pelo raso, recipienti pieni di marmellate alla rosa e alla violetta, bomboniere di torrone al pistacchio, bottiglie di vetro grossolano ma piene di sottili essenze di rosa, di gelsomino e di geranio, e naturalmente, pietre preziose scelte fra le più belle del mondo. Angelica andava da una cosa all'altra, sotto il benevolo sguardo e gli occhi allegri del re. A un tratto, arrossì e chiese con voce turbata che cosa ne fosse stato fatto, della «mummia». «La mummia? Quello schifoso e fetido miscuglio?» «Sì. Vi avevo raccomandato di accoglierla con i segni della più profonda benevolenza.» «Non l'ho forse fatto? Ho dato assicurazione a sua eccellenza che nulla poteva rallegrarmi più che possedere quello straordinario elisir. Confesso che mi aspettavo di tutto, meno che trovare un liquido così nauseabondo. Ne ho fatto bere un bicchierino a Duchesne. Anche Bontemps ne ha preso un ditale da cucire. Sembra che abbia un gusto orribile. Duchesne si è sentito male. Mi ha confessato di aver vomitato e ha preso un po' di orvietano per paura di essere avvelenato. Mi domando se non vi fosse un'intenzione malefica nei miei riguardi da parte dello scia di Persia, offrendomi questo cosiddetto regalo.» «Ma no, certamente no,» disse precipitosamente Angelica che aveva finalmente riconosciuto in un angolino il cofanetto di legno di rosa incrostato di madreperla che Basctiari Bey le aveva mostrato. Lo aprì e sollevò il tappo di giada che richiudeva il vaso di porcellana azzurra. L'odore sorprendente le riempì le narici ed ella evocò suo malgrado l'atmosfera voluttuosa del salotto dell'ambasciatore persiano. «Sire, posso chiedervi il grande favore di prendere questo cofanetto? In... ricordo delle visite in cui ho avuto il grande piacere di servire la gloria di vostra maestà e... non desidero null'altro,» terminò in fretta; imbrogliandosi un poco.
Il re e il signor Colbert si guardavano con la costernazione di uomini intelligenti testimoni del capriccio di una donna. «Molte cose mi hanno incuriosito e stupito in questa ambasceria,» disse il re, «ma credo che, alla fine, la cosa più stupefacente sarà stata la scelta fatta dalla signora del Plessis come sua ricompensa.» Angelica sorrise e cercò di apparire naturale. «Questo cofanetto non è forse una meraviglia? Un vero sogno!» «Eccone altri due altrettanto belli e che contengono paste di mandorla e gomma profumata.» «A dire il vero, è proprio questo che preferisco, sire. Posso farlo portar via?» «Sarebbe vana cosa tentare di convincere una donna a mutare idea,» fece il re con un sospiro. Diede ordine ai domestici di portare il cofanetto negli appartamenti della signora del Plessis. «State bene attenti a non rovesciare il flacone,» raccomandò Angelica. Avrebbe voluto accompagnarli, ma il re la tratteneva con un cenno. Accostatosi di nuovo alle seterie persiane, scostò alcuni scialli di cachemire e sollevò un'ampia stoffa, morbida e dolce, dalle tonalità di sabbia calda. «Sua eccellenza l'ambasciatore mi ha fatto notare egli stesso la strana tessitura di questo tessuto. Lo si fabbrica, a quanto sembra, con peli di cammello e forma una stoffa chiamata "feltro" oppure "burka", su cui la pioggia scivola senza penetrare. Ë una specie di sopravestito che resiste a tutte le intemperie. Quelli dei principi sono bianchi o dorati, quelli del popolo bruni o neri. Vedete che sono diventato esperto come voi sui costumi persiani.» Con gesto lento le drappeggiò intorno il mantello. «So che siete freddolosa,» fece sottovoce sorridendo. Le sue mani si attardavano sulle spalle di lei. Entrò, tutta animata, la signora di Montespan. Anch'ella era stata invitata nel gabinetto dei cristalli per scegliervi qualcosa di suo gusto. Il suo sorriso si spense scorgendo Angelica, alla quale il re stava annodando i cordoni d'oro del sontuoso mantello. «Mi sono affrettata troppo, sire?» fece con voce che voleva essere gaia ma suo malgrado strideva. «Affatto, o mia bellissima. Ecco i vostri tesori, dove potete attingere a piacere.» «Quel che lascia la signora del Plessis-Bellière...»
«I resti sono ancora abbondanti.» Il re scoppiò a ridere. «Sareste gelosa? La signora del Plessis si è mostrata così discreta che ho dovuto di mia iniziativa aggiungere per lei questo mantello.» «L'avete però fatta scegliere per prima,» rantolò Atenaide, in cui l'ira e l'orgoglio erano sempre più forti della furberia. «La signora del Plessis è stata mia ambasciatrice presso l'ambasciatore. Sappiate che è sempre stata mia intenzione ricompensare prima di tutto i servitori del regno. Le mie favorite vengono soltanto in secondo luogo.» Il tono non ammetteva replica. La signora di Montespan fece del suo meglio per trattenersi. «Mi piace enormemente vedervi gelosa,» riprese il re afferrandola con forza alla vita, «sembra quasi che dobbiate andare in fiamme.» Le baciò golosamente la nuca e la spalla. «Posso ritirarmi, sire?» chiese Angelica abbozzando un inchino. «Ancora un istante, vi prego. Ho da farvi una raccomandazione. Promettetemi di non curarvi la pelle con quell'orribile miscuglio che vi piace tanto.» «Me ne guarderò bene, sire.» «Chissà mai quali stravaganze possono passare nella testa di una bella donna! Insomma, non avvelenatevi e non guastatevi la pelle.» Con la punta delle dita le sfiorò la guancia in una lieve carezza. «Sarebbe un peccato!» «Il re ha firmato la mia condanna a morte, con questo gesto,» pensò Angelica, che aveva sentito lo sguardo della signora di Montespan cacciarlesi come un coltello nella schiena, mentre stava uscendo. Andò a verificare che la «mummia» fosse in luogo sicuro, e che non ne avessero rovesciato né portato via una goccia. Sarebbe stata tranquilla solo quando il vecchio Savary l'avesse avuta in suo possesso. Per poter tornare a Parigi appena possibile, andò a informarsi dei festeggiamenti previsti. Seppe con soddisfazione che dopo la colazione tutti avrebbero potuto andare a coricarsi in pace e che la corte sarebbe ripartita la mattina stessa per Saint-Germain. Angelica andò a chiedere alla regina se non aveva bisogno dei suoi servigi. Questa rispose di no, secondo il suo solito. L'impiego di Angelica al suo fianco era puramente onorifico, e la sovrana preferiva vederla altrove. Angelica, con la coscienza in pace, fece portare il cofanetto nella carrozza e ordinò di attaccare. Il cocchiere brontolò un poco. Era un uomo di una
certa età, leggermente corpulento e che era entrato al servizio di Angelica quand'ella si chiamava ancora signora Morens e non era che una delle più importanti commercianti di Parigi. Ella conduceva allora la vita ben regolata delle persone che non hanno tempo da perdere e che sanno che la vita non è fatta per dormire. Il cocchiere non si era tuttavia rallegrato della rapida ascesa della propria padrona a corte. Aveva apprezzato come un dovere che «l'onore della carrozza» gli fosse accordato, cioè che la vettura avesse il diritto di penetrare e di girare nel primo cortile del castello, a Versailles. Ma da un po' di tempo deplorava di vederla sempre di qua e di là, di giorno e di notte, e di preferenza di notte. Era tanto s'egli aveva ora il tempo di curare i cavalli, di lavar loro le zampe o di pettinarli. E a volte la carrozza aveva dovuto ripartire non unta e ancora coperta di fango. Il cocchiere si sentiva disonorato. Le conversazioni che aveva avuto con i suoi colleghi quando si riunivano per bere un bicchiere di vino nelle cantine di Versailles gli avevano insegnato che quello stato di cose avrebbe potuto soltanto peggiorare, dato che la malattia dei viaggi stava divenendo endemica nelle gran dame della corte a mano a mano che avanzavano di grado. Il cocchiere, con faccia scura, fece schioccare la frusta e la carrozza si mise in moto nel grande cortile, oltrepassò i cancelli e si lanciò sulla strada di Saint-Cloud, lasciandosi dietro di sè Versailles, spruzzato dal sangue di un crepuscolo invernale degno degli splendori di Luigi XIV. Alle undici, la carrozza entrava in Parigi. Alle undici e mezzo, in via di Bourtibourg Angelica tamburellava alle imposte della bottega di padron Savary. Il farmacista non si era ancora coricato. Stava pestando certe polveri in un mortaio di ghisa. Vedendo Angelica si fece pallido e la sua barbetta prese a tremare. Con un sorriso misterioso, Angelica fece segno ai servi di porre il cofanetto sul banco. Fra il mortaio, i vasi di rame e di legno dipinto, la bilancetta e il teschio, il cofanetto di legno prezioso brillò con lo splendore dei suoi ori e delle sue madreperle. Con mano febbrile, Savary sollevò il coperchio, il tappo, fiutò l'odore del vaso. Questa volta, Angelica non poté trattenerlo dal prosternarsi dinanzi a lei. «Per tutta la vita,» gemette, «per tutta la vita mi ricorderò della vostra azione, signora. Non solamente avete salvato la "mummia" dalle mani profane, ma l'avete consegnata intiera tra le mie, che sono quelle di un sapien-
te che sapranno strapparle il suo segreto secolare. I tempi futuri vi benediranno.» «Calmatevi, mastro Savary,» disse Angelica, che per nascondere la propria emozione finse di arrabbiarsi. «Avete davvero ragione di ringraziarmi. Per voi, ho perso considerazione agli occhi del re, che mi considera un cervello farcito di chimere e di sciocchezze. E ho rinunciato a doni magnifici che mi avrebbero interessato ben diversamente.» Il farmacista non l'ascoltava più. Era corso nel retrobottega e tornava con alcune fiale, imbuti e contagocce. Angelica capì ch'era di troppo e ch'egli non la vedeva nemmeno più. Raccolse i lembi del comodo mantello che il re le aveva offerto e stava per ritirarsi quando un frastuono si levò per la via. Un corriere in stivaloni scese con un balzo i tre gradini che conducevano nella vasta sala. «Grazie a Dio, signora, ho potuto raggiungervi. Il re mi ha lanciato sulle vostre tracce. Mi precedevate di poco, sicché, informandomi presso i passanti, sono riuscito a seguirvi fin qui.» Le consegnò un plico in cui Angelica lesse che la richiedevano con la massima urgenza a Versailles. «Non potrei aspettare domani?» «Il re mi ha detto egli stesso: con la massima urgenza, mi ha raccomandato di riaccompagnarvi e di scortarvi, qualunque fosse l'ora.» «Ma la porta Saint-Honoré sarà chiusa!» «Ho un salvacondotto per farla aprire.» «Ci faremo assalire dai ladri.» «Sono armato,» disse l'uomo. «Ho due pistole e la spada.» Era un ordine del re. Non c'era che da ubbidire. Angelica riprese il cammino, stringendosi le pieghe del mantello che il re le aveva offerto così opportunamente. Giunsero per vedere il palazzo emergere come un mostro azzurro, inondato di oscurità, da un'alba rosa pallido e grigia. Alla finestra del gabinetto del re, la luce di un candeliere brillava come una perla nelle profondità marine del cortile di marmo. Piena di brividi Angelica attraversò, dietro il corriere, i lunghi atri deserti, dove le guardie svizzere sonnecchiavano, immobili come statue. Vi era invece gente nel gabinetto del re. Oltre a quest'ultimo, i signori Colbert e di Lionne, il viso stanco per l'insonnia, il cappellano del re, Bossuet, la cui bella eloquenza piaceva a Luigi XIV che chiedeva spesso i suoi
consigli e voleva averlo a corte, il signor di Louvois, che aveva il viso scuro come se fosse accaduta una catastrofe, il cavaliere di Lorraine, e alcune comparse i cui volti riflettevano religiosamente la contrarietà del sovrano. Tutti quei signori stavano in piedi dinanzi al re. ed era chiaro che dovevano aver trascorso così una parte della notte, a discutere con sua maestà, perché le candele nei candelieri erano quasi alla fine. Quando la giovane donna fu introdotta, tacquero. Il re la pregò di sedere. Vi fu un prolungato silenzio. Il re, per darsi un contegno, osservò la lettera che gli stava dinanzi. Disse infine: «La nostra ambasceria persiana è terminata in maniera molto strana, signora. Basctiari Bey ha preso la strada verso il Sud ma mi manda un urgente messaggio che vi concerne e... Ecco, leggete voi stessa.» La missiva, tradotta e scritta senza dubbio dall'armeno Agobian con la cura di un antico scriba, ringraziava ancora una volta il grande monarca d'Occidente dei suoi splendori e delle sue bontà. Seguiva un preciso elenco dei doni che sua maestà il re Luigi XIV aveva fatto all'ambasciatore persiano per il suo padrone lo scià in scià, cioè: 1 servizio di argento dorato ornato di fiori di gigli; 2 orologi rivestiti d'oro per indicare il giorno dell'anno e le stagioni; una decina di orologi a cassetta ornati di gigli; 2 grandi arazzi dei Gobelins; 1 sigillo reale con l'emblema persiano del leone e del sole levante in onice; 2 grandi ritratti del re Sole e della regina, in tenuta da parata nella sala del trono; 20 pezze di stoffa di pregio; 1 braciere in ferro lavorato coperto d'oro, con due soffietti azionati da un filo di ferro; 3 casse di palle d'argento per riscaldare il bagno dello scià in scià; 6 casse di giocattoli chiamati gioielli del tempio, che lo scià avrebbe potuto distribuire ai suoi servitori o al popolo; 3 vasi contenenti piante di geranio, da ripiantare in terra persiana; 1 sella in cuoio di Lione con cavezza d'argento.
Ma a tutti questi doni sua maestà aveva omesso di unire il preziosissimo turchese che sua eccellenza aspettava in ricompensa dei suoi leali servigi. Seguiva una descrizione di detto turchese, particolareggiata tanto da poter capire che si trattava di una donna e che questa donna non era altri che Angelica. Basctiari Bey pensava che gli usi dell'Occidente non gli consentivano di disporne prima ch'egli avesse fatto prova di buona volontà nei confronti del proprietario di un così raro tesoro. Ma ora che i trattati erano firmati con soddisfazione di tutti e del re di Francia in particolare, perché la «delicatissima marchesa», «la più intelligente donna del mondo», «il giglio di Versailles», «la stella della corte di Francia» non si era trovata tra gli ultimi doni che il signor di Lorraine e il marchese di Torcy erano andati a consegnargli al momento della partenza? Credendo che per discrezione ella lo avrebbe raggiunto durante la notte con la sua vettura e con i carri dei suoi bagagli, egli si era incamminato. Ma alla prima tappa aveva cominciato a sospettare di essere stato beffato. Lo avevano fatto marciare come l'asino al quale si porge una carota per portargliela via appena superato il ponte? Il sovrano di Occidente aveva forse due bocche? La sua furberia era forse eguale alla sua avarizia? Bisognava considerare i trattati sotto lo stesso punto di vista ingannatore? Fidarsi delle promesse?... eccetera. Questa lunga enumerazione delle domande non lasciava alcun dubbio sull'ira che animava l'irascibile Basctiari Bey, e le minacce di rompere ogni rapporto e di presentare al suo padrone sotto cattiva luce i francesi e i cristiani allorché fosse stato di ritorno a Ispahan erano appena velate. «E allora?» chiese Angelica, stupita. «E allora,» ripeté il re, «potreste dirmi quale condotta svergognata avete osato tenere a Suresnes perché ci sia fatta una proposta di simile insolenza?» «La mia condotta, sire, è stata quella di una donna che si manda da un potente con l'intenzione di ammansirlo, per non dire sedurlo, allo scopo di raddolcirne la politica e di servire il re.» «Vorreste insinuare che vi ho incoraggiato io a prostituirvi per far giungere a buon fine l'ambasceria?» «L'intenzione di vostra maestà mi è parsa evidente.» «Si può mai dire una simile sciocchezza? Una donna di spirito e di carattere come voi ha venti modi per addolcire un principe, senza per questo
condursi da p... Sicché, siete stata l'amante di quel barbaro, di un infedele, nemico della vostra religione. Avete fatto questo? Rispondete!» Angelica si morse le labbra per nascondere un sorriso, e gettò uno sguardo ai convenuti. «Sire, la vostra domanda m'imbarazza dinanzi a questi signori. Permettetemi di dirvi che ciò riguarda solo il mio confessore.» Il re si drizzò a mezzo, gli occhi che gli brillavano. Il signor Bossuet interpose la sua alta figura di borgognone e l'autorità di una mano vescovile. «Sire, permettetemi di ricordarvi, infatti, che soltanto il prete ha il diritto di conoscere il segreto delle coscienze.» «Anche il re, signor Bossuet, quando gli atti dei suoi sudditi impegnano la sua responsabilità. Basctiari Bey ha provocato il mio malcontento con le sue insolenze, ma bisogna ammettere che quando un uomo, sia persiano o no, riceve certe prove...» «Non ne ha ricevute, sire,» affermò Angelica. «Desidero crederlo,» brontolò * il re che si ripose a sedere, senza riuscire a nascondere il sollievo che provava. Il signor Bossuet dichiarò fermamente che, qualunque cosa fosse accaduta nel passato, occorreva considerare il presente. La questione si riassumeva in questo: come placare la collera di Basctiari Bey senza ottemperare ai suoi desideri? Ciascuno dei presenti prese a dire la propria opinione. Il signor Torcy era del parere che si arrestasse l'ambasciatore e lo si gettasse in fondo a una prigione, salvo ad avvertire lo scià di Persia che il suo rappresentante era morto in Francia di febbre quartana. Il signor Colbert stava per balzargli al collo. Quei militari non avevano nessuna idea dell'importanza del commercio per il buon andamento di un paese! Il signor di Lionne pensava, come il signor di Torcy, che non ci si doveva preoccupare tanto di quei musulmani, ma il signor Bossuet e il gesuita unirono la loro eloquenza per dimostrargli che l'avvenire della Chiesa in Oriente dipendeva dalla buona riuscita dell'ambasceria. Angelica, infine, propose di chiedere il parere di un vecchio pieno di saggezza che aveva molto viaggiato e che avrebbe trovato certamente la soluzione per non offendere la suscettibilità del persiano. Il re decise subito di farlo chiamare. Angelica doveva raggiungere mastro Savary, esporgli come stavan le cose e portare indietro la soluzione. «Il signor di Lorraine vi accompagnerà. Ritarderemo la partenza della corte per Saint-Germain fino a sera. A presto, signora. Aiutateci a riparare
gli errori di cui avete in parte la colpa. Signor Colbert, vogliate restare a Versailles. Devo parlarvi dopo la messa.» La carrozza incontrò le prime squadre degli operai che salivano, la pala in spalla, verso i cantieri del palazzo, di cui i camini e le grondaie, coperti da una lamina d'oro, scintillavano ai primi raggi del sole. Allorché si ritrovò, nella mattinata, da padron Savary, questi fece molta fatica a strapparsi ai suoi esperimenti. «È proprio tempo di chiamarmi al soccorso,» fece, sentenzioso. «Ê al principio che dovevano chiedermi consiglio.» Magnanimo, acconsentì tuttavia a riflettere sul problema e a far beneficiare il regno della sua dura esperienza di viaggiatore e di schiavo in Barbaria. Condotto a Versailles, non sembrò impressionato di trovarsi dinanzi a un areopago di così alti personaggi e dello stesso re. Disse che vi era un solo mezzo per comunicare un rifiuto a Basctiari Bey senza che lo prendesse come un sanguinoso affronto. Sua maestà doveva scrivere che gli dispiaceva enormemente di non poter colmare i voti del suo carissimo amico, ecc., ma che la signora del Plessis era «sultanabasci», ed egli avrebbe capito l'impossibilità per lui di aderire ai suoi desideri. «Che cosa significa "sultana-basci"?» «È la sultana preferita, sire, la donna che il re ha eletto fra tutte, alla quale ha dato il governo del suo harem, e che a volte chiama a condividere le sue preoccupazioni di monarca.» «Se questo è il significato del titolo, non pensate che Basctiari Bey sia in diritto di farmi osservare che la regina, in Occidente, rappresenta la sultana, come dite voi... basci?» «L'obiezione di vostra maestà è piena di buon senso. Ma si rassicuri. Spesso, in Oriente, un principe si vede costretto, per i bisogni della sua dinastia, a sposare una principessa di sangue reale che in genere non ha scelto. Ciò non gli impedirà di elevarne un'altra al rango di favorita, ed è quest'ultima che avrà realmente tutti i poteri.» «Strani costumi,» concluse il re. «Ma dal momento che affermate non esservi altre possibilità...» Non rimaneva che redigere la missiva. Savary volle egli stesso comporne il testo. Lo lesse quindi ad alta voce.
«... Chiedetemi tutte le altre donne del mio regno,» terminava, «sono vostre. Le più giovani, le più belle, le più bionde... scegliete, sono vostre.» «Eh là! Piano, piano, signor Savary,» disse il re. «M'impegnate in un mercato piuttosto strano.» «Sire, vostra maestà deve comprendere che non può esprimere un oltraggiante rifiuto se non offrendo compensi... dello stesso ordine di quello che delude così crudelmente.» «In fede mia, non ci avevo pensato. Ma il vostro ragionamento mi sembra giusto,» fece il re, sorridendo. Tutti si rallegrarono nel vedere che il re usciva dal suo gabinetto con il volto sereno. Per una parte della giornata, la corte si era aspettata l'esplosione di gravi avvenimenti politici: una dichiarazione di guerra, per lo meno. Per soddisfare i curiosi, il re raccontò allegramente le ultime esigenze dell'ambasciatore persiano. Non disse il nome di Angelica, ma soltanto che il principe orientale, sedotto dalla bellezza delle donne francesi, desiderava portarne via con sè un piacevole ricordo in carne ed ossa. «... Piuttosto in carne,» sottolineò Brienne, felice del suo spirito. «La difficoltà sta nella scelta di questo ricordo,» seguitò il re. «Ho proprio desiderio d'incaricare il signor di Lauzun per questo delicato reclutamento. Egli è esperto in materia.» Péguilin agitò i polsini con aria disinvolta. «Compito facile, sire. La nostra corte non manca di amabili p...» Con la punta dell'indice, sollevò il mento della signora di Montespan. «Questa non andrebbe bene? Ha già provato che poteva piacere ai principi...» «Insolente!» disse la marchesa, furibonda, tirandogli giù la mano. «Be', questa,» seguitò Péguilin indicando la principessa di Monaco, ch'era stata una delle sue amanti. «Questa mi sembra a puntino. Forse è l'unica avventura che non abbia ancora provato. Dal paggio al re, tutto va bene... e perfino le donne.» Il re intervenne, seccato: «Un po' di decenza, signore, nelle vostre parole!» «Perché decenza nelle parole, sire, quando non ve n'è negli atti?...» «Temo che Péguilin si prepari un nuovo soggiorno alla Bastiglia,» sussurrò ad Angelica la signora di Choisy. «Però, la sua risposta era bella. Che cos'è questa storia scandalosa a proposito dell'ambasciatore persiano? Sembra che vi siate mischiata anche voi.»
«Vi racconterò tutto a Saint-Germain,» disse cortesemente Angelica, omettendo tuttavia di comunicare alla duchessa che ritornava a Parigi. In un frastuono di fruste, di assali stridenti e di nitriti, le carrozze si radunavano e si mettevano in fila. Versailles, per qualche giorno, chiudeva i cancelli dorati e le alte finestre dove si rifletteva, quella sera, un crepuscolo rosso come quello del giorno innanzi. Padron Savary stringeva con gioia sul cuore una borsa ben gonfia consegnatagli dal signor di Gesvres da parte del re. «E questo servirà alle mie esperienze scientifiche. Ah! Che grande re abbiamo. Come sa ben riconoscere il merito!» Passando, il signor di Lionne si sporse dallo sportello della carrozza: «Vi potete vantare di farmi fare uno strano mestiere! Sono stato incaricato dal re di trovare... il compenso per l'ambasciatore persiano. Che dirà mia moglie?... Be'! Sto pensando a una piccola attrice della compagnia del signor Molière, molto intelligente, molto ambiziosa... Penso che si lascerà facilmente convincere.» «Tutto è bene ciò che ben finisce,» concluse Angelica con un pallido sorriso. Faticava molto a tenere gli occhi aperti. Erano esattamente ventiquattro ore che correva di continuo in carrozza. Al pensiero di risalire in vettura e di rifare una volta ancora la strada da Versailles a Parigi, si sentiva le reni spezzate. Nel cortile d'onore, il cocchiere l'aspettava, il cappello in mano. Con molta dignità avvertì la signora marchesa che quella era l'ultima volta che aveva l'onore di condurre la sua vettura. Aggiunse che aveva sempre fatto quel mestiere con buon senso, che Dio biasima la follia e ch'egli non era più giovane. Concluse dicendo che con suo grande dolore si vedeva costretto a lasciare il servizio della signora marchesa. 13 I mendicanti l'aspettavano nella retrocucina. Annodandosi un grembiule bianco, Angelica si disse che aveva trascurato troppo il suo dovere di nobildama che deve fare l'elemosina ogni settimana con le proprie mani. Con quelle pazze cavalcate tra la corte e Parigi e le perpetue feste, i suoi momenti di riposo nel palazzo del Beautreillis erano divenuti rari. Eppure, doveva trovare il modo di verificare i conti. La casa funzionava bene affidata all'amministratore Roger.
Barbara era lì per vigilare sul piccolo Carlo Enrico. L'abate di Lesdiguières e Toson d'Oro badavano a Florimondo, seguendolo alla corte. I suoi affari personali di commercio e quelli della famiglia del Plessis-Bellière scomparivano invece in una preoccupante nebbia. Era quindi andata a trovare il signor David Chaillou che sovrintendeva alle vendite di cioccolata della città, e che le amministrava con ottimi risultati. Aveva veduto anche i responsabili dei suoi depositi di prodotti delle isole. Di ritorno, trovò le cameriere e le signorine di Gilandon che preparavano i doni per i poveri, perché era il giorno delle elemosine. Ne sarebbero venuti fino a sera. Angelica prese le ceste piene di pani tondi. Anna Maria di Gilandon la seguì con un cesto in cui erano bende e medicinali. Due valletti recarono bacinelle di acqua calda. Il giorno d'inverno lasciava cadere la stessa luce grigia sui volti dei poveri, alcuni seduti su panche o sgabelli, gli altri in piedi lungo la parete. Angelica distribuì anzitutto i pani. Alle madri di famiglia che riconosceva faceva portare un piccolo prosciutto o della salsiccia che avrebbe potuto durare per alcuni giorni. Tutti avevano già bevuto una grande tazza di zuppa. Vi erano volti nuovi. Forse alcuni «vecchi» si erano stancati di venire, non vedendola mai. I mendicanti possono avere di questi sentimenti. Ella s'inginocchiò per lavare i piedi di una donna che aveva un'ulcera alla gamba e che reggeva sulle ginocchia un bimbo malaticcio. Lo sguardo della donna era duro e chiuso, ed ella stringeva le labbra in un modo che Angelica sapeva riconoscere. «Vuoi chiedermi qualche cosa?» La donna esitò. La timidezza dei cani battuti assume spesso l'espressione dell'ira. Tese il bambino con un gesto rigido. Angelica lo osservò. Aveva ascessi freddi alla base del collo, due dei quali erano aperti. «Bisogna curarlo.» La donna scosse la testa fieramente. Il vecchio Pane Secco le venne in aiuto. «Vuole farlo toccare dal re. Tu che conosci il re, spiega alla ragazza come deve fare per trovarsi sul suo passaggio.» Con la punta delle dita, Angelica accarezzò pensierosa la fronte e le tempie del bimbo: aveva un faccino da miseria con occhi da scoiattolo spaventato. Farlo toccare dal re? E perché no? Dopo Clovis, il primo re cristiano di Francia, quel bel privilegio di guarire gli scrofolosi non si era forse trasmesso ai successori? Dio aveva loro devoluto quel potere con
l'unzione dell'olio santo portato dalla colomba miracolosa in un'ampolla di vetro, il giorno della prima consacrazione. Si raccontava poi che essendo stato uno scudiero di Clovis, di nome Léonicet, colpito da tumori scrofolosi, il monarca aveva veduto in sogno un angelo che lo aveva avvertito di toccare il collo del suo servitore. Dopo averlo fatto, provò la gioia di guarire il suo fedele Léonicet. Da quei tempi lontani, i re di Francia, eredi di un così particolare dono, vedevano precipitarsi sul loro passaggio i miseri malati coperti di piaghe. Nessun sovrano si era mai sottratto a quel dovere, e Luigi XIV meno di qualsiasi altro. Quasi ogni domenica, a Versailles, a Saint-Germain, oppure ogni volta che si recava a Parigi, egli accoglieva i malati. Ne aveva toccato oltre millecinquecento nel solo anno in corso e si parlava di numerose guarigioni. Angelica disse che, secondo lei, se ne doveva parlare al medico del re. Lui e i suoi assistenti esaminavano i malati da presentare al re. Una carretta li conduceva quindi a Versailles, dove la cerimonia aveva luogo molto spesso. Consigliò alla donna di tornare a trovarla la settimana seguente. Nel frattempo avrebbe parlato al signor Vallet, medico del re che, ogni sera, assisteva in veste di raso alla cena di sua maestà. Alcuni mendicanti che avevano seguito la conversazione implorarono anch'essi: «Signora, anche noi vogliamo essere toccati dal re... Signora, intercedete per noi.» Ella promise che avrebbe fatto del suo meglio. Nell'attesa medicò il bambino con compresse di acqua verde che le erano state raccomandate da mastro Savary. Il vecchio Pane Secco era un «antico». Da molti anni si recava regolarmente al palazzo del Beautreillis. Angelica gli curava le ulcere e gli lavava i piedi. Egli non ne vedeva l'utilità, ma la lasciava fare, dal momento che lei ci teneva tanto. Brontolando nella barba grigia e ispida, faceva la cronaca dei suoi «pellegrinaggi». Non lo si doveva considerare, infatti, un volgare mendicante! Era un pellegrino delle sante reliquie, come attestavano le conchiglie che gli ornavano il cappello, i numerosi rosari e il bordone ch'egli portava. In verità, quei viaggi non lo conducevano molto lontano dall'Ile-de-France, ma in compenso egli ne conosceva i piccoli castelli, di cui, da furbo pitocco, intraprendeva il fruttuoso giro. Da quando il re non voleva più abitare a Parigi, i gran signori costruivano un po' dovunque. Ognuno voleva, a imitazione del padrone, costruire la propria residenza,
tracciare un parco, aprire viali nella foresta, ammobiliare un'arancera, e lanciare verso il cielo mille getti d'acqua. Buon affare per Pane Secco! Zoppicando, gemendo, mendicando, simile a San Rocco, col suo cane giallo e famelico che lo seguiva dovunque, se ne andava per le strade e approfittava del traffico incessante delle carrette e dei convogli di costruzioni per farsi trasportare. Non era andato sino a Fontainebleau, ma era un cliente di Versailles e di Saint-Germain. Apprezzava assai Saint-Cloud, residenza di Monsieur, perché vi era molto spreco: vi si gettavano polli arrosto appena incominciati. Egualmente a Chantilly, dal signor principe. Passava anche per Rueil, per Berny, dal signor di Lionne, un epicureo da cui si mangiava molto bene, e per Choisy, dove la Grande Mademoiselle andava a gustare i piaceri della natura. Sapeva fare i suoi conti, quella lì, ma era generosa verso i poveri. Invece, Pane Secco non sarebbe più tornato a Saint-Ouen, dove aveva la propria residenza il signor di Boisfranc. Non vi era sotto il cielo un avaro peggiore di quello scellerato, grande scudiero di Monsieur, e oltre a ciò gran ladro, gran bestemmiatore e gran libertino. Pane Secco giudicava i grandi dalla soglia della loro cucina. Era un punto di vista che valeva come molti altri, e ad Angelica piaceva udire la sua cronaca. «Che cos'hai da raccontarmi, Pane Secco?» «Stamane,» disse Pane Secco, «ritornavo da Versailles. A piedi. Un po' di cammino fa bene. Ecco che il mio cane abbaia, e un bandito esce dalla foresta. Solo a vederlo mi son detto: questo è un bandito. Ma io non temo nulla, vero? Non può prendermi niente. Lui si avvicina e mi dice: "Stai mangiando del pane, dammene un pezzo, ti darò dell'oro." "Prima fammi vedere." Mi mostra due monete d'oro. Io gli do il pane intero per quel prezzo. Dopo, mi chiede la strada per Parigi. Ci andavo anch'io, per combinazione. E siccome passava un mercante di vino con delle damigiane vuote nella carretta, ha acconsentito a prenderci su entrambi. Per la strada chiacchieriamo, ed io racconto che a Parigi conosco tutti. Soprattutto persone per bene, insomma tutte le grandi case. "Vorrei andare dalla signora del Plessis-Bellière," mi dice. "Ci vado anch'io. Guarda che caso!" "È la mia sola amica," mi dice lui.» Angelica interruppe la bendatura che stava terminando. «Esageri, Pane Secco, io non ho amici fra i banditi della foresta.» «Non lo so. Ti ripeto ciò che mi ha detto. E se non vuoi credermi non hai che da parlargli. È qui.»
«Dove?» «In quell'angolo, lì. È piuttosto un timido, mi pare. Non ha l'aria di aver voglia che lo si guardi troppo da vicino, l'amico!» L'individuo da lui indicato cercava effettivamente di nascondersi, più che non appoggiarsi, contro una delle colonne che sostenevano le volte della dispensa. Angelica non lo aveva scorto durante la distribuzione dei pani. La sua figura smagrita era avvolta in un grande mantello cencioso con cui si copriva la parte inferiore del volto. La sua vista non ispirava fiducia alla padrona del luogo, che si alzò e andò diritta verso di lui. Ma a un tratto lo riconobbe, in uno slancio di paura e di gioia: Ragoski. «Voi!» sussurrò. Lo afferrava macchinalmente per le spalle e sentiva la stoffa del mantello agitarsi intorno al suo corpo smagrito. «Da dove uscite?» sussurrò. «Quel brav'uomo ve l'ha detto: dai boschi!» I suoi occhi neri sprofondati nelle orbite brillavano sempre di un fuoco vivo, ma ella gli vedeva sul volto le labbra pallide tra la folta barba. Calcolò rapidamente. Era passato oltre un mese dal giorno dell'ambasciata moscovita. Mio Dio! Possibile! In pieno inverno!... «Non vi muovete,» disse. «Mi occuperò subito di voi.» Terminata la visita dei poveri, fece accompagnare il principe ungherese in una comoda camera, cui era unito un bagno fiorentino. Ragoski faceva mostra di scherzare; diritto e magnifico negli stracci in cui si drappeggiava con molto sussiego, s'informava della salute dell'ospite e dei suoi successi come si fosse trovato nell'anticamera del re. Ma quando si fu lavato e rasato crollò sul letto, precipitando in un sonno profondo. Angelica fece chiamare il maggiordomo. «Roger,» disse, «l'uomo che ho accolto è nostro ospite. Non posso dirvi il suo nome, ma sappiate che gli dobbiamo un asilo sicuro.» «La signora marchesa può contare sulla mia discrezione.» «Sulla vostra, sì, ma la servitù è numerosa. Roger, bisogna che facciate capire a tutta la gente, dal piccolo valletto di stalla sino all'impiegato che si occupa delle cifre, che non devono fare assolutamente caso a quell'uomo, come s'egli fosse invisibile. Non lo hanno visto. Non esiste.» «Ho capito, signora marchesa.» «Direte loro inoltre che, s'egli esce di qui sano e salvo, darò a tutti una ricompensa. Ma se dovesse capitargli una disgrazia sotto il mio tetto...»
Angelica strinse i pugni e gli occhi le scintillarono. «... Giuro che vi manderò via tutti... Tutti, dal primo all'ultimo, voi compreso. È chiaro?» Mastro Roger s'inchinò. Il servizio presso la signora del Plessis gli aveva insegnato ch'ella parlava raramente alla leggera. Per parte sua, pensava che un buon servitore il quale tenga al suo posto debba essere cieco, sordo e per quanto possibile muto, e si sforzava d'inculcare tali qualità nelle persone della servitù di cui era responsabile. Disse che si faceva garante del loro silenzio e che nessuno di loro avrebbe posto sulla bilancia il vantaggio di servire la signora marchesa con le noie che una futile chiacchiera avrebbe recato. Ella si sentì rassicurata su questo punto. Ma alloggiare Ragoski era una cosa. Aiutarlo ad evadere e a raggiungere senza difficoltà la frontiera era un'altra. Ignorava gli ordini che Luigi XIV aveva potuto dare contro il rivoluzionario. Architettò vari progetti, fece il conto del denaro e degli amici di cui disponeva per condurre a buon fine la difficile impresa. Era ancora sprofondata nei suoi progetti quando la piccola pendola della sua camera sgranò gli undici colpi della notte. Mentre si alzava per andare a letto trattenne un lieve grido. Ragoski stava sulla soglia della camera. Angelica si ripose a sedere. «Come state, signore?» «A meraviglia.» L'ungherese avanzò stirando per il piacere il lungo corpo smagrito che riempiva con difficoltà i vestiti prestatigli da mastro Roger, pur tuttavia assai poco grasso. «Mi sento meglio da quando mi sono liberato della barba. Avevo l'impressione di entrare a poco a poco nella pelle di un moscovita.» «Zitto!» fece lei ridendo. «Non si parla di corda nella casa dell'impiccato.» E a un tratto rabbrividì. Ricordava come aveva tentato di salvare un tempo il Poetastro. Non vi era riuscita. La polizia del re era stata la più forte. Il Poetastro era stato impiccato nella piazza di Grève. Ma, questa volta, possedeva altri mezzi. Era ricca, influente. Sarebbe riuscita. «Avete ancora fame?» «Sempre,» sospirò lui accarezzandosi lo stomaco, «mi sembra che avrò fame fino all'ultimo sospiro.»
Lo condusse nel salotto vicino dove aveva fatto preparare una tavola per lui. Alle due estremità, i candelieri d'oro illuminavano, deposta su un piatto anch'esso d'oro, un'enorme tacchina arrosto farcita di castagne e accompagnata da tortelle di mele. Intorno, alcune pentole contenevano legumi caldi e freddi, anguille alla marinara, insalate e, in un bacile d'oro, una profusione di frutta. Per far onore al pover'uomo dei boschi Angelica aveva messo a tavola il vasellame artistico, di cui era molto fiera. Oltre al piatto, ai candelabri e alla bacinella della frutta, possedeva ancora due tazze cesellate e due bacinelle per l'acqua, antiche e di gran valore. Ragoski emise un grido selvaggio di ammirazione che si rivolgeva assai più all'oro croccante della tacchina che non a quello delle tazze e dei piatti. Con un balzo sedette a tavola e prese a mangiare come un lupo. Solo dopo aver divorato le due ali e un fianco indicò ad Angelica, con gesto perentorio, il posto di fronte a sè. «Mangiate anche voi,» fece a bocca piena. Ella rise guardandolo con simpatia, mentre gli versava da bere vino di Borgogna nella tazza d'oro. Ne versò anche per sè e sedette come lui le chiedeva. Non si parlava neppure di assaggiare un pezzettino della tacchina. Era chiarissimo che Ragoski se la sarebbe mangiata intiera. I denti bianchi e aguzzi si cacciavano con voluttà nella carne tenera. Le ossa del volatile scricchiolavano allegramente. Ragoski si asciugava le mani, beveva, sollevava coperchi, si riempiva il piatto, arraffava con un sol colpo i tortelli alle mele, beveva ancora, attaccava a più mani e a piena bocca la carcassa della tacchina. I suoi occhi neri sempre pieni di un fuoco appassionato si sollevarono di scatto su Angelica ch'egli scorgeva al disopra dei piatti, nel raggio di luce delle candele. «Come siete bella!» disse fra un boccone e l'altro. «Vi vedevo dinanzi a me mentre erravo per la foresta. Una visione di luce e di conforto... La donna più bella... la più tenera...» «Siete stato rifugiato nella foresta?... Tutto questo tempo?» Il principe cominciava ad essere sazio. Si leccò le dita e si lisciò a lungo i baffi, che fece ricadere con cura ai lati della bocca. Era dovuto alle privazioni o alla luce delle candele? Sembrava che la sua carnagione fosse ingiallita, accentuando il carattere asiatico degli occhi a mandorla. Ma la loro espressione vivace, un po' sarcastica, era senza mistero. Egli respinse indietro i lunghi capelli neri lucidi, arricciati come quelli degli zingari.
«Sì. Dove potevo andare?... La foresta? Si è aperta dinanzi a me come l'unico rifugio intorno a Versailles. Ho avuto la fortuna di cacciarmi in una palude che mi ha condotto a uno stagno dove ho sfangato a lungo, e per questo i cani lanciati al mio inseguimento hanno perduto la traccia... Li udivo abbaiare e udivo i gridi dei servi che li eccitavano... Far da selvaggina è una parte assai poco piacevole. Ma avevo Hospadar, il mio piccolo poney. Non volle uscire dall'acqua, nonostante i ghiaccioli che gli si formavano intorno ai peli. Sapeva che sarebbe stata la nostra fine. Verso sera, capimmo che gl'inseguitori avevano rinunciato.» Angelica gli versò ancora da bere. «Ma come avete potuto vivere? Dove vi riparavate?» «Ebbi la fortuna d'incontrare alcune capanne di legnaioli abbandonate. Accesi un po' di fuoco. Dopo avervi vissuto due giorni ripresi la strada. Mentre eravamo sul punto di soccombere, scorsi un piccolo villaggio al limite degli alberi. Di notte mi ci introdussi e portai via un agnello. Vissi così abbastanza a lungo. Hospadar si nutriva di muschio, di bacche. È un cavallo delle tundre. Di notte, andavo a rubare un po' di cibo nel villaggio e di giorno mi nascondevo sotto una capanna che mi ero costruita con il coltello tagliente che porto sempre con me, tra la pelle e la maglia. La gente del villaggio non si preoccupava del fumo che talvolta scorgeva. Quanto agli animali rubati, ne accusavano i lupi... I lupi? Alcuni venivano a volte a girare intorno al nostro rifugio. Li allontanavo con rami ardenti. Un giorno, decisi di andare più lontano. Volevo scendere verso il sud e uscire dalla foresta, in una regione dove nessuno avesse udito parlare di noi... Ma... come spiegarvelo... La foresta, è una dura realtà per un uomo delle steppe. Non c'era vento, non si sentiva alcun odore che potesse guidarmi. La nebbia d'inverno, la nebbia che velava i crepuscoli e le aurore. La foresta? È un mondo chiuso come il palazzo dei sogni... Un giorno, giunsi su un'altura. Vidi la foresta intorno a me come un mare. Soltanto alberi, o i grandi spazi nudi delle paludi. Il deserto... E al centro, laggiù, un'isola... Un'isola bianca e rosa, terrificante nel suo splendore. Un'isola elevata dalla mano degli uomini.. Capii ch'ero tornato al punto di partenza. Era Versailles!» S'interruppe, la testa china, e per la prima volta ella lo vide curvo sotto il peso della stanchezza. «Rimanemmo a lungo a guardare, nel vento. Capivo che non avrei mai potuto sfuggire alla volontà di un uomo ch'era riuscito a creare Versailles! Ai piedi del palazzo c'era come un tappeto multicolore. Agli orli della foresta invernale vedevo del rosso, del viola, dell'azzurro, del giallo.»
«Erano fiori,» mormorò Angelica, «per il ricevimento dell'ambasciata persiana.» «Credetti di essere preda di un miraggio causato dalla fame... Ero senza forze e mi sentii preso dallo scoraggiamento. Perché vedevo là ciò che già pensavo: il vostro re è il più grande re del mondo.» «Eppure, avete osato sfidarlo in maniera sferzante. Che pazzia, quel gesto! Che insulto! Il vostro pugnale ai piedi del re, dinanzi a tutta la corte di Versailles!...» Ragoski si tese da sopra la tavola con un sorriso. «L'insulto rispose all'insulto. Il mio gesto non vi fece forse un po' di piacere?» «Forse... Ma vedete dove ciò vi conduce. Anche la vostra causa ne soffrirà.» «Ë vero... Ahimè! i nostri antenati orientali ci hanno tramandato la loro passione e non la loro saggezza. Quando si trova più facile morire che subire, si è pronti per i gesti più insensati e per le grandi imprese. Ma io non ho ancora finito di misurarmi nell'arena con la tirannia dei re. Allora, di colpo pensai a voi.» Scosse piano la testa. «Un proscritto non può avere fiducia che in una donna. Gli uomini a volte hanno tradito coloro che chiedevan loro asilo. Donne, mai. Feci il progetto di raggiungervi e ci sono riuscito. Ora dovete aiutarmi a fuggire. Vorrei rifugiarmi in Olanda. È una repubblica che ha saputo pagare cara la propria libertà. Offre buona accoglienza ai perseguitati.» «Che ne avete fatto di Hospadar?» «Non potevo uscire dalla foresta con lui. Significava denunciarmi. Tutti si sarebbero mostrati a dito il cavalluccio degli Unni. Non potevo neppure abbandonarlo nella foresta, ai lupi... Gli ho tagliato la carotide col mio coltello.» «No!» gridò Angelica, e gli occhi le si riempirono di lagrime. Ragoski vuotò d'un fiato la tazza d'oro che gli stava dinanzi. Si alzò e le andò accanto con passo lento. Semiseduto contro la tavola si chinò e la osservò con intensa attenzione. «Nel mio paese,» fece con tono grave, «ho veduto soldatacci gettare alle fiamme bambini sotto gli occhi delle madri. Ho veduto bimbi impiccati ai rami degli alberi per i piedi e le madri dovevano rimanere lì, assistere alla loro agonia, riempirsi gli orecchi per tutta la vita dei gridi e dei lamenti dei piccoli martiri...
«Si trattava della repressione condotta dal re d'Ungheria, aiutato dall'imperatore di Germania. È per questo che presi la torcia a mia volta e accesi altri incendi. Che cos'è la morte di un piccolo cavallo fedele rispetto a questo? Non dobbiamo avere inutili debolezze. Vedete, vi avevo detto che non possedevo più che il mio cavallo e il mio pugnale. Ma era ancor troppo. Ora, non mi resta davvero nulla!» Angelica scosse il capo, incapace di parlare. Si alzò e andò allo scrittoio. Prese nel cofanetto il pugnale ornato di turchesi e glielo porse. Il volto dell'ungherese s'illuminò. «È caduto nelle vostre mani! Ah! Dio mi ha guidato facendo di voi la mia sola stella in questo paese... Vedo in ciò un pegno della mia vittoria. Perché piangete così, mio bell'angelo?» «Non so. Tutto questo mi sembra così crudele e insieme così ineluttabile!» Il volto dello straniero le appariva dietro il velo delle lagrime come quello di un sacrificato. Ma vide la fine mano di lui contrarsi intorno al pugnale. Ragoski ritrovava un'arma di cui aveva imparato a servirsi bene e che gli sarebbe servita ancora. Se lo infilò alla cintola. «Nulla è ineluttabile, in questo mondo,» affermò, «se non la lotta dell'uomo per vivere in accordo con il proprio spirito.» Si stirò bruscamente, a gambe divaricate, a braccia tese, con intensa soddisfazione. Dopo aver subito un'incredibile prova fisica, gli erano bastate appena poche ore per recuperare la forza e l'agilità di una belva pronta a balzare. Angelica pensò che le ricordava qualcuno. Meno per il suo volto straniero che per quell'alta magra figura che sembrava esser mossa da molle di acciaio. «Ma per il momento, lo spirito è in fuga,» disse Ragoski, le labbra sollevate sui sorriso da lupo, «e non sento che il mio avido corpo.» «Avete ancora fame?» «Sì... di voi.» La osservava, teso dinanzi a lei e guardandola con occhi lucidi e penetranti. «Donna... donna bella di Francia, dovete prendere sul serio il mio amore. Io non sono un vagheggino.» «Certo, lo avete provato,» fece lei, commossa, sorridendo.
«Le mie parole sono serie come i miei atti. L'amore che ho per voi è in me con tutte le sue radici, nelle mie braccia, nelle mie gambe, in tutto il mio corpo. Se potessi abbracciarvi, vi riscalderei.» «Ma io non ho freddo!» «Sì, molto freddo. Sento il vostro cuore perduto e gelido e odo i suoi singhiozzi lontani... Venite qui.» L'abbracciò senza violenza ma con una forza che la lasciò abbandonata. Le labbra di Ragoski sulla sua nuca cercavano il punto tenero, vulnerabile, dietro l'orecchio. Era incapace di respingerlo. I loro capelli si mescolavano. Sentì i baffi serici sfiorarle i seni ch'egli baciava, chino, come se avesse bevuto a una fonte di delizia. Un'ondata profonda, quasi dolorosa a forza di dolcezza, si levò in lei e le inaridì la gola, le fece tremare le mani. Ogni attimo che passava la univa più strettamente a quel duro, invincibile corpo. Quand'egli la lasciò, Angelica vacillò, smarrita e priva d'appoggio. Gli occhi di Ragoski contenevano una preghiera esigente. Angelica si scostò e tornò nella sua camera. A un tratto, prese a svestirsi, piena d'impazienza. Strappò febbrilmente il rigido corpetto di raso, lasciò cadere le pesanti gonne. Sentì il suo corpo sprizzare, tiepido e leggero dalla camicia di pizzo. Inginocchiata sul letto, disfece i capelli. Era invasa da una passione chiara, primitiva e senza ombra. Egli aveva perduto tutto. Lei non gli avrebbe negato nulla. Con voluttà, lasciò scorrere i capelli sulla schiena nuda. Vi passava le dita, li spandeva, li disperdeva, arrovesciando il capo all'indietro, ad occhi chiusi. Dalla soglia della stanza, Ragoski la contemplava. La luce ambrata di un lumino da notte, posato al capezzale dell'alcova, metteva in evidenza la curva di un fianco dolcemente arrotondato di cui egli percepiva il fremito, e ravvivava lo splendore meraviglioso della capigliatura d'oro brunito che cadeva come un fluido mantello dalle spalle rotonde, sui seni offerti. Al collo, aveva conservato la collana di perle rosa. Lo guardò avanzare, tra le ciglia. E, colpita, seppe a un tratto a chi rassomigliava. Con la sua figura alta e magra le ricordava il primo marito, il conte di Peyrac, arso vivo nella piazza di Grève. Era solamente un po' meno alto e non zoppicava. Tese le braccia verso di lui, chiamandolo con un gemito sordo.
Egli balzò e la strinse nuovamente. Ella venne meno e si lasciò piegare, abbandonandosi tutta alla dolce costrizione delle carezze. Un piacere acuto e lucido la invadeva. «Come è buono un uomo!» pensò. 14 Era la terza notte che Angelica dormiva contro quel lungo corpo maschile, nel tepore del confortevole letto e delle cortine ben tirate. Non si stancava di assaporare la ritrovata sensazione di una presenza al suo fianco e anche nell'incoscienza godeva di sentirla lì. Quando l'alba veniva con il sonno più lieve, cercava il primo contatto di una mano immobile, la dolcezza di una capigliatura. Quando egli non fosse stato più lì, avrebbe avuto di nuovo freddo, sarebbe stata di nuovo sola. Non s'interrogava per sapere se lo amasse. Non aveva importanza. Egli si svegliò di colpo, con la prontezza di un uomo abituato a stare sul chi vive. Angelica ogni volta si stupiva di quel volto straniero: per un breve istante provava il terrore della donna di una città vinta che si desta nel letto dell'invasore. Ma egli la prese fra le braccia. Era ignuda. Non si stancava di essere ignuda e sottomessa. Il proprio corpo le sembrava assetato di carezze. E l'uomo, non pensando che così bella e corteggiata avesse potuto vivere a lungo solitaria, si stupiva nel trovarla carezzevole e appassionata, infaticabile nel piacere, reclamando e accettando l'amore con una specie di stupita timidezza. «Sei per me una continua rivelazione,» le mormorò all'orecchio, «ti pensavo fortissima, un po' dura, troppo intelligente per essere veramente sensuale. E invece, possiedi tutte le meraviglie! Vieni con me, sarai mia moglie.» «Ho due figli.» «Li porteremo con noi. Ne faremo cavalieri delle steppe ed eroi.» Angelica tentava d'immaginare l'angeletto Carlo Enrico martire della causa ungherese e rideva, sparpagliando con gesto pigro i capelli sulle spalle dolci come raso. Ragoski la stringeva selvaggiamente. «Come sei bella! Non potrò vivere senza di te. Lontano da te la mia forza scorrerà come da una ferita. Ormai, non puoi abbandonarmi...» Di colpo, si raddrizzò. «Chi viene?»
Con gesto violento tirò le cortine. Vide in fondo alla stanza la porta aprirsi e sulla soglia Péguilin di Lauzun. Dietro di questi si profilavano le figure dei moschettieri del re coi loro grandi pennacchi. Il marchese si fece avanti, salutò con la spada e disse con la massima cortesia: «Principe, in nome del re, vi arresto.» Dopo un attimo di silenzio, l'ungherese uscì dal letto senza alcun impaccio e salutò. «Il mio mantello è sulla spalliera di quella poltrona,» disse, calmissimo. «Vogliate avere la cortesia di passarmelo. Il tempo di vestirmi e vi seguirò, signore.» Angelica si chiedeva se non stesse sognando. Quella scena somigliava all'incubo che la perseguitava da tre notti. Rimaneva pietrificata, incosciente del disordine impudico che presentava. Lauzun la osservò con mimica ammirativa, le mandò sulla punta delle dita un bacio, poi, di nuovo rigido: «Signora, in nome del re, vi arresto.» 15 Bussarono alla porta della cella e qualcuno entrò con passo leggero. Angelica, seduta col volto aggrottato nell'alto seggio di legno tarlato non si volse. Un'altra di quelle monache dagli occhi chini che le recava qualche brodo di gatto con gran lusso di gesti servili. Sfregò l'una contro l'altra le mani intorpidite dall'umidità della stanza, poi riprese l'ago per lavorare agli arazzi e lo piantò rabbiosamente nel lavoro che aveva dinanzi. Una fresca risata risuonò al suo fianco facendola sobbalzare. La giovane religiosa entrata in quel momento rideva allegramente. «Maria Agnese!» esclamò Angelica alzandosi. «Oh! mia povera Angelica: sapessi com'è buffo vederti così, prigioniera, ridotta a fare lavori di arazzo!» «Mi piace moltissimo far questo lavoro. In altre circostanze, naturalmente!... Ma tu, Maria Agnese, come mai ti trovi qui? Com'è che ti hanno lasciato entrare?» «Non ho dovuto entrare, qui sono a casa mia, ti trovi nel mio convento.» «Presso le carmelitane della montagna di Santa Genoveffa?»
«Proprio così. Ringraziamo il caso che ci ha riavvicinato. Ho saputo soltanto stamattina il nome della gran dama di cui ci hanno incaricato di diventare le carceriere, e la mia superiora mi ha subito autorizzato a vederti. Naturalmente, farò del mio meglio per aiutarti.» «Non so, ahimè, se puoi fare molto per me,» disse Angelica amaramente. «Da tre giorni che son qui ho potuto rendermi conto che gli ordini più severi erano stati dati nei miei riguardi. Le religiose che mi servono sono sordomute come la servetta idiota che viene a spazzare la camera. Ho chiesto di vedere la superiora. Aspetto ancora la sua visita...» «Non è un'incombenza facile per noi soddisfare gli ordini imperativi di sua maestà quando ci affida così qualche pecora matta da tener fuori dal gregge comune.» «Ti ringrazio del termine.» «È quello di cui si sono serviti per introdurti tra noi, o pecora senza macchia.» Gli occhi verdi così simili a quelli della sorella ridevano nel volto pallido, smagrito dai digiuni. «Sei qui per espiare le tue grandi e molteplici colpe contro la morale.» «Che ipocrisia! Se io sono qui per immoralità, è da un pezzo che tutte le donne della corte dovrebbero essere sotto chiave!» «Eppure, sei stata denunciata dalla Compagnia del Santo Sacramento.» Angelica sobbalzò e guardò a lungo la sorella. «Non ignori,» riprese quest'ultima, «che la nobile Compagnia si propone di colpire la lussuria in qualsiasi luogo. È attraverso i suoi membri che il re è informato della vita privata dei suoi sudditi. Essi hanno spie dovunque e non lasciano la gente... come dire? dormire in pace.» «Vorresti dire che nella mia casa avrei domestici pagati dalla Compagnia del Santo Sacramento per tenerla al corrente della mia vita privata?» «Certo. E in questo, ti trovi nelle stesse condizioni dei grandi personaggi della corte e della città.» Con mano pensierosa, Angelica fece passare tre gugliate di lana rossa attraverso i fili del canovaccio. «Ecco dunque come il re ha saputo che ospitavo Ragoski! Maria Agnese, potresti informarti su chi si è incaricato di denunciarmi al re?» «È possibile. Abbiamo sorelle che appartengono a ogni specie di grandi famiglie e sono al corrente di mille segreti.» Tornò l'indomani, con un sorriso furbesco pieno di promesse.
«Ebbene, ecco. Secondo ogni probabilità, devi alla signora di Choisy di essere stata strappata così rapidamente alle grinfie del demonio.» «Che cosa dici? La signora di Choisy?» «Già. È lei che, da molto tempo, si è presa cura della tua anima. Pensaci bene. Quella nobile dama non ha mai cercato di raccomandarti una servente, un lacchè?...» «Signore!» sospirò Angelica amaramente, «se non si trattasse che di un servitore! Sì, tre, quattro, una mezza dozzina. Insomma, tutta la casa dei miei figli è composta da protetti della signora di Choisy.» Maria Agnese rideva da perderne il fiato. «Come sei innocente, mia povera Angelica! Ho sempre pensato ch'eri veramente troppo ingenua per vivere a corte.» «Potevo mai pensare che ci si interessasse con tanto zelo alla salvezza delle anime?...» «Ci si interessa a tutto. Ê il crogiuolo delle passioni umane. Dio ha bisogno di soldati intransigenti, e la forza della santa Compagnia risiede nel segreto. Per salvare le anime non indietreggiano dinanzi ad alcun mezzo. La purezza delle loro intenzioni santifica ciò che coscienze semplicistiche chiamerebbero villanie.» «Non dirmi che sei d'accordo con loro,» brontolò Angelica, piena di collera, «altrimenti non ti rivedrò più in vita mia!» La religiosa seguitava a sorridere con ironia, poi le palpebre le si chinarono gravemente sullo sguardo. «Soltanto Dio è giudice,» disse. Si alzò affermando che, per quanto la riguardava, avrebbe fatto di tutto per tenere la sorella al corrente della sorte che le era riservata. Non era possibile intervenire in suo favore. Tutto stava nelle mani della Compagnia del Santo Sacramento e la superiora delle carmelitane aveva grande influenza su alcuni membri di quel comitato di pii laici. «Non dimenticare che, nel mio caso, vi è anche un elemento politico,» raccomandò Angelica. «Ragoski era un rivoluzionario straniero e...» «Queste sono sciocchezze. Un amante non è che un amante agli occhi severi dei devoti. La sua personalità non può servirgli di scusa... a meno che non sia il re, evidentemente. E forse è questo che, alla fine, ti salverà.» Se ne andò, beffarda e seducente sotto gli scuri veli. Passarono i giorni. Poi Angelica ebbe la sorpresa di veder entrare nella sua cella il signor di Solignac. Quel personaggio le richiamava alla mente penosi ricordi, ma siccome sin dalle prime parole le parlò della clemenza del re nei suoi ri-
guardi e le fece intravvedere la speranza della libertà, nascose il proprio risentimento e lo ascoltò con la dovuta pazienza. Fu cosa lunga. Dovette subire un vero e proprio sermone sui disordini della carne che le parve assai sproporzionato rispetto a quelle tre disgraziate notti trascorse fra le braccia di Ragoski. Che sorte aveva avuto, quest'ultimo? Evitava di far troppe domande a suo riguardo per non perdere coraggio. «Venite in nome del re, signore?» chiese infine. «Evidentemente, signora. Soltanto una decisione di sua maestà poteva costringermi a questo passo che io giudico, per parte mia, troppo prematuro. Secondo il nostro parere, sarebbe stato necessario un periodo di tempo più lungo per consentirvi di meditare...» «E quali sono le intenzioni di sua maestà a mio riguardo?» «Siete libera,» consentì Solignac, a labbra strette. «Cioè, intendiamoci bene: siete libera di lasciare questo convento e di tornare nel vostro palazzo del Beautreillis. Ma non dovete sotto nessun pretesto ricomparire a corte prima di esservi stata invitata.» «Sono dunque stata dimessa dalle mie cariche?» «Ciò va da sè. Non ho bisogno di aggiungere che la vita che condurrete nell'attesa del vostro ritorno in grazia deve essere esemplare e che dovrete condurvi in modo da poter essere osservata senza critiche.» «Osservata da chi?» chiese Angelica, seccamente. Il signor di Solignac non si degnò di rispondere. Si alzò con condiscendenza. La giovane donna infilò una gugliata di lana e si rimise al lavoro. «Ebbene, signora,» disse Solignac sorpreso, «non avete udito quel che vi ho detto?» «Che cosa, dunque, signore?» «Siete libera.» «Ve ne ringrazio, signore.» «Sono pronto a scortarvi sino alla soglia della vostra dimora.» «Mille grazie, signore. Ma a che scopo affrettarsi? Qui non sto affatto male e gusterò la libertà quando mi farà piacere... e come mi farà piacere. Ringrazierete per me sua maestà. Mille grazie, signore, mille grazie, vi benedico.» Sconcertato da quelle soavi proteste, il signor di Solignac finì col restituirle i suoi inchini e con l'andarsene. Angelica prese il suo astuccio da toilette. Avrebbe mandato a prendere il resto il giorno dopo. Del resto, non aveva potuto portare gran che al momento dell'arresto. Ora, aveva desiderio di rientrare a piedi per persuadersi
davvero della riconquistata libertà. Il brutto scherzo era stato breve, per fortuna. Ma non avrebbe dovuto rinnovarsi troppo spesso. Vivere alla mercé di un falso passo che può mandarvi a finire i giorni dietro quelle grate è uno spiacevole affare. «Perché la Compagnia del Santo Sacramento si mostra così intransigente nei miei riguardi?» chiese a Maria Agnese che ritrovò in parlatorio per salutarla. «Non hanno abbastanza da fare con peccatrici ben più grandi di me? Ora che mi hai aperto gli occhi, mi sono accorta ch'ero di continuo spiata, seguita, e che mi si tendevano continuamente trabocchetti. Mi sono ricordata che a Fontainebleau la signora di Choisy mi comunicò l'ordine del re di abbandonare il castello. Ora, ho capito più tardi che quell'ordine non era mai stato dato e che, andandomene, avevo commesso un errore che avrebbe potuto essermi fatale. Perché quel desiderio di nuocermi in persone alle quali non ho fatto nulla, che ignoravo?...» «Vi è in te qualche cosa che desta l'odio delle persone virtuose,» disse Maria Agnese sopra pensiero. Riceveva la sorella dietro le grate di legno perché le monache non dovevano superare quel limite del parlatorio. «Che ti ha consigliato il signor di Solignac?» chiese ancora. «Di tornare a casa mia e di viverci in maniera esemplare lontana dai piaceri della corte.» «Allora, fa' il contrario, almeno per quanto concerne la prima parte di questo programma. Recati a Versailles il più presto possibile e chiedi di vedere il re.» «E se quegli ordini fossero veri, incorrerei nella collera di sua maestà.» «Puoi permettertelo,» disse Maria Agnese con tono leggero. «Nessuno ignora che il re è pazzamente innamorato di te. In verità la sua collera, attizzata dai commenti di una signora di Choisy o di un Solignac, è stata l'espressione della sua reale gelosia. Mettiti al suo posto. Dicono che lo fai sospirare, che la tua virtù resiste anche agli assalti del re Sole, ed ecco che vai a letto con uno straniero proscritto, senza il becco di un quattrino e che la polizia del regno ricerca. Delusione per il re! Delusione per i devoti. Tu inganni la gente in maniera vergognosa. Insomma, perdi in tutti i campi.» «Maria Agnese, la profondità dei tuoi giudizi mi confonde. Mi trovi idiota e hai ragione. Perché non ti ho accanto a me, a corte, per consigliarmi? Ma tu faresti il tuo proprio giuoco e lasceresti tutte le tue rivali senza fiato dietro di te, straziate dalle tue unghie aguzze. Non riesco a capire che cosa fai in questo Carmelo. Quando volesti entrare in religione ero persua-
sa che si trattasse solo di una fantasia. Ma persisti. E ogni volta che t'incontro e che ti ascolto mi stupisco nel vederti sotto questi vestiti da monaca.» «Ti stupisci?...» ripeté Maria Agnese. Sollevò il capo, e attraverso le grate, la luce gialla del grosso cero in un angolo della stanza le illuminò gli occhi spalancati. «Ho avuto un figlio, te ne ricordi, Angelica? Sono stata madre una volta, e fosti tu ad aiutarmi a non morire. Ma il figlio, mio figlio?... Lo abbandonai all'indovina Mauvoisin, quella strega sinistra. E spesso penso a quel piccolo corpo innocente, nato da me, e che i maghi segreti di Parigi forse hanno immolato sull'altare del demonio. È quello che fanno, lo so, nelle loro messe nere. Si va a chieder loro l'amore, la potenza, la fortuna, le morti che si desiderano, gli onori ai quali si aspira. Tutti gli affari del mondo, li si va a chiedere al demonio. E l'ignobile parodia si compie. Penso al mio bimbo... Con un lungo ago gli hanno trafitto il cuore per prendergli il sangue e per mescolarlo a materie immonde e farne un'ostia sacrilega. E quando penso a questo, mi dico che se, per espiare, potessi fare ancor più che dare la mia vita al chiostro, lo farei...» Angelica rabbrividiva scendendo la strada della montagna di Santa Genoveffa. Vi erano ora luci, a Parigi. Il nuovo luogotenente di polizia, il signor di La Reynie, si era ripromesso, a quanto si diceva, di fare di Parigi una città pulita e chiara dove le donne oneste avrebbero potuto uscire in sicurezza, anche a sera tarda. Di tanto in tanto, grosse lanterne sormontate da un gallo, emblema della vigilanza, spandevano un alone rossastro e rassicurante. Ma il signor di La Reynie sarebbe mai riuscito ad allontanare le dense tenebre dell'odio e del delitto sparse sulla città? Angelica pensava a quel mondo che, per anni, le era ripassato per le vene con le sue tentazioni, le sue delizie e i suoi orrori. Chi avrebbe vinto, la luce o le tenebre? E il fuoco del Cielo non si sarebbe abbattuto sulla città colpevole perché non vi si sarebbe trovato più un solo uomo giusto? L'ultima confidenza della sorella aveva fatto sorgere in lei un terrore che la schiacciava. Si sentiva minacciata da ogni parte. Nel palazzo del Beautreillis, pochi fedeli tra i servitori l'accolsero. Gli altri erano fuggiti via. Ella misurò, dall'abbandono e dal disordine della sua casa, la ventata della disgrazia reale, e per la prima volta pensò preoccupata a Florimondo. Barbara le disse che non si avevano notizie del ragazzo.
Tutto ciò ch'ella sapeva è che aveva abbandonato il servizio di paggio coppiere a Versailles. «Ne sei certa?» chiese la giovane donna, abbattuta. Se la sarebbero presa anche con Florimondo? Malbrant Colpo di Spada e l'abate di Lesdiguières non erano ricomparsi. Le signorine di Gilandon avevano abbandonato il posto. «Tanti saluti! Sono certa che sono state quelle pettegole a denunciarmi.» Il piccolo Carlo Enrico guardava la madre coi grandi occhi azzurri. Le venne voglia di prenderlo sulle ginocchia e stringerlo a sè, come l'unico bene prezioso che le rimaneva. Ma non volle commuoversi. E poi, la vista di un bimbo la deprimeva. Perché si mettono al mondo dei figli se non per moltiplicare le proprie pene e soffrire nel vedere la loro sorte minacciata per colpa vostra? . Preferì chiudersi nella sua stanza e aprire la bottiglia di acquavite che l'avrebbe aiutata a dissipare quel suo malessere morale e a riprendere forze per la lotta che si annunciava. Un po' più tardi, semiubriaca, inginocchiata ai piedi del letto, fece questa strana preghiera: «Oh Dio, se il fuoco del Cielo deve abbattersi sulla città, abbiate pietà di me. Riprendetemi e guidatemi verso i verdi pascoli dove mi aspetta il mio amore...» 16 Versailles era tutta illuminata. Un giorno di aprile, improvvisamente caldo e primaverile, circondava il castello di quel roseo e dorato vapore che sembra particolare dei paesi impregnati di acque dormienti. «Com'è bella Versailles!» disse fra sè Angelica in uno slancio d'entusiasmo. Il coraggio le era tornato, dissipate le sue mistiche angosce. Dinanzi a Versailles non si poteva che credere alla clemenza del Dio vendicatore e a quella del re che aveva edificato quelle meraviglie. Un fatto tuttavia era certo. Il signor di Solignac non aveva mentito affermando che Angelica era bandita dalla corte sino a nuovo ordine. Bontemps, cui ella riuscì a far consegnare un messaggio e che la raggiunse vicino allo stagno di Clagny, le confermò l'ostracismo che la colpiva.
«Per qualche giorno, sua maestà non poteva sopportare di udire il vostro nome. Ancora ci si guarda bene dal pronunciarlo dinanzi ad essa. Lo avete offeso gravemente, signora... Sì, sì... Non potete sapere a qual punto.» «Ne sono desolata, Bontemps. Non potrei rivedere il re?» «Non pensateci neppure, signora. Il re, ve lo ripeto, non può neppure sentir parlare di voi.» «Ma, se mi vedesse, Bontemps, se mi aiutaste a vederlo, non credete che vi sarebbe... un pochino riconoscente?» Il primo cameriere rifletté accarezzandosi la punta del naso. Conosceva l'umore del padrone meglio che non il suo confessore e sapeva sin dove poteva arrischiarsi senza incorrere nelle sue ire. La sua decisione fu presa. «D'accordo, signora. Farò del mio meglio per indurre sua maestà ad incontrarvi segretamente. Fate in modo che vi perdoni, così perdonerà anche me.» Le consigliò di andare ad aspettare nella grotta di Tetide. Il luogo, quel giorno, era deserto perché tutta la corte si trovava dalla parte del grande canale, dove s'inaugurava una flottiglia di galeotte in miniatura. «Le barche si disperderanno verso il Trianon e il re potrà allontanarsi senza attrarre troppo l'attenzione. Inoltre, può raggiungere la grotta di Tetide senza passare per il cancello. Ma non posso dire quando. Abbiate pazienza, signora.» «Ne avrò. Del resto, la grotta è un delizioso soggiorno e lì, almeno, non soffrirò il caldo. Signor Bontemps, non dimenticherò i servigi che oggi mi rendete.» Il primo cameriere s'inchinò. Lo pensava anch'egli e sperava di giocare la carta buona. Non aveva mai potuto soffrire la signora di Montespan. La grotta di Tetide si trovava a nord del castello, in un massiccio di pietra, ed era una delle più rare curiosità di Versailles. Angelica entrò da una delle tre porte a inferriata dove i raggi del sole erano riprodotti a doratura e sormontavano tre bassorilievi rappresentanti il carro di Apollo che si tuffa nelle acque, perché il sole, alla fine della sua corsa, va a riposarsi da Tetide. All'interno, era un palazzo di sogno. Le colonne di roccia, le nicchie ornate di madreperla dove alcuni tritoni soffiavano in una conca, si riflettevano all'infinito in specchi incorniciati da conchiglie e creavano immense prospettive. Angelica sedette sull'orlo di una grande conchiglia di marmo screziato. Attorno a lei, amabili Nereidi brandivano candelieri acquatici, i cui sei
bracci dorati a figura di alghe marine, lanciavano getti di acqua perlata. Il cinguettio di migliaia di uccelli animava le volte umide di rugiada e dava l'impressione di trovarsi in un boschetto. Si guardavano con stupore le graziose creaturina di perle e madreperla, uccelli di un paradiso marino, dalle piume argentate e che sembravano svolazzare intorno, creando l'illusione della vita, coi loro canti armoniosi. Era questo il risultato di un'invenzione nuovissima di Francante. Gli organi idraulici erano posti in tal modo che un'eco della grotta rispondeva loro da una parte all'altra. La giovane donna si divertì ad ascoltarli e cercò di distrarsi osservando le belle cose che la circondavano. Il raffinamento dell’'arte e della tecnica raggiungeva lì la perfezione. Si comprendeva la predilezione del re per quel luogo sontuoso e singolare. Appena veniva la buona stagione, gli piaceva condurvi le dame per ascoltarvi la musica dei violini. L'anno precedente, nell'agosto, vi aveva offerto al principe di Toscana un bel ricevimento a base di frutta e di marmellate. Angelica abbandonò la mano nell'acqua fluente dalle limpidezze di sorgente. Non voleva pensare. Era inutile, e forse nocivo, preparare in anticipo frasi che sarebbero state inopportune. Contava sulla propria spontaneità. Ma più le ore passavano, più l'ansia la vinceva. Doveva incontrare il re. E il timore che egli poteva ispirare la circondava di una specie di velo gelido. Le era capitato, a volte, quando guardava il re così tranquillo, ponderato e affabile, di esser presa dalla temibile maestà che traspariva sotto la maschera di un uomo ordinario. Quella sensazione l'attraversava come un lampo d'una specie di paura quasi paralizzante, e se in quel momento egli le avesse rivolto la parola avrebbe balbettato come tante altre, che la presenza reale sembrava colpire di stupore. Si ricordava di aver veduto sul fronte delle Fiandre un rude sottufficiale coperto di gloria e di cicatrici che, trovandosi di colpo in presenza di Luigi XIV e del suo seguito, s'era fatto pallido e incapace di rispondere se non con suoni informi alle domande che il re gli rivolgeva tuttavia con dolcezza. «Se mi lascio andare al panico, sono perduta,» disse a se stessa. «Non dovrei aver paura. La paura chiama la disfatta... Ma il re ha fra le mani la mia sorte.» Trasalì. Le era parso di udire dietro di sè un passo sul suolo pavimentato con tondi sassi a mosaico. Ma non c'era nessuno. Il suo sguardo tornò verso l'ingresso principale, aperto a ponente e che nel pomeriggio declinante cominciava a tingersi di rosa. Sopra l'architrave, vi era lo stemma del re su un fondo di conchiglie color lilla, e quello stemma era formato da coni-
gliette simili a perle. La corona al disopra era ornata di fiori di giglio in madreperla frammista ad ambra, che brillava come oro nella semioscurità. Angelica non riusciva a staccare gli occhi da quel segno. Allorché sentì accanto a sè una presenza, esitò a volgersi. Lo fece lentamente e, vedendo il re, si drizzò, poi rimase immobile, come affascinata, dimenticando perfino di eseguire la sua riverenza. Il re era entrato da una delle porticine nascoste della grotta che davano sulle aiuole al nord, e che servivano ai domestici durante i ricevimenti nella grotta di Tetide. Indossava un vestito di taffetà amaranto, con ricami semplici ma arricchiti dalla bellezza dei merletti della cravatta e dei polsini. Il suo volto non augurava nulla di buono. «Bene, signora,» disse seccamente, «non temete il mio corruccio? Non avete compreso quel che vi ho fatto comunicare dal signor di Solignac? Cercate uno scandalo? Debbo farvi notare dinanzi a testimoni che la vostra presenza è indesiderabile a corte? Sapete che la mia pazienza è all'estremo? Ebbene, rispondete...» A quelle domande, gettate come palle, Angelica rispose: «Volevo vedervi, sire.» Quale uomo, vedendo levarsi su lui, nella penombra dorata della grotta di Tetide, quello sguardo di smeraldo commovente e misterioso, avrebbe potuto resistere al suo fascino? Il re non era tipo da rimanere insensibile. Vide che l'emozione della giovane donna non era finta e ch'ella tremava in tutte le membra. La sua maschera severa s'infranse di colpo. «Perché... Oh! Perché lo avete fatto?» gridò dolorosamente. «Quell'indegno tradimento...» «Sire, un proscritto mi chiedeva asilo. Lasciate alle donne il diritto di agire secondo il loro cuore e non secondo princìpi politici inumani. Qualunque fosse stato il delitto di quello straniero, era un disgraziato che moriva di fame.» «Si tratta proprio di politica! Potevate accoglierlo, nutrirlo, aiutarlo a fuggire, che m'importa! Ma ne avete fatto il vostro amante. Vi siete condotta come una prostituta.» «Le vostre parole sono dure, sire. Mi ricordo che vostra maestà si era mostrata un tempo più indulgente nei miei riguardi, quando a Fontainebleau il signor di Lauzun era stato l'occasione di un penoso incidente tra mio marito e lui ed io ero allora più colpevole che non oggi.» «Il mio cuore, da allora, ha fatto molta strada,» disse il re.
Chinò la testa come soverchiato. «Non voglio... Non voglio che doniate ad altri ciò che mi rifiutate.» Prese a camminare in su e in giù, toccando macchinalmente col dito gli uccelli di madreperla, i tritoni dalle guance tonde. Con semplici parole di uomo geloso egli confessava la propria amarezza, la propria delusione, il proprio smacco, e quel sovrano così segreto si lasciava andare a svelare i suoi piani. «Ho voluto pazientare. Ho voluto pungervi nella vostra vanità, nella vostra ambizione. Speravo che imparaste a conoscermi meglio, che il vostro cuore avrebbe finito per commuoversi... che so? Ho cercato la strada che avrebbe potuto farvi mia; vedendo che la fretta vi dispiaceva ho voluto lasciar fare al tempo. Sono anni, sì, sono anni che vi desidero. Dal primo giorno in cui vi vidi come la dea della primavera. E voi già avevate quella vostra superba insolenza, quella vostra negligenza delle discipline mondane... Arrivavate, vi presentavate dinanzi al re, così, senza invito... Ah! Come eravate bella e audace. Seppi che sareste stata mia, che vi desideravo follemente, e la conquista mi sembrava facile. Ma con quale manovra mi avete respinto? Lo ignoro. Mi vedo qui, spogliato di tutto. I vostri baci non erano né promesse, né ammissioni. Le vostre confidenze, i vostri sorrisi, le vostre gravi parole tendevano trabocchetti in cui io ero il solo a cadere. Ho sofferto tormenti crudeli per non potervi stringere fra le braccia, per non osare farlo per tema di allontanarvi ancor più... A che tanta pazienza, tante cure? Vedete oggi in qual disprezzo ancora mi tenete, mentre andate a darvi a un miserabile selvaggio dei Carpazi. Come potrei perdonarvi questo?... Perché tremate così? Avete freddo?» «No. Ho paura.» «Di me?» «Della vostra potenza, sire.» «La vostra paura mi ferisce.» Le si avvicinò e le posò le mani dolcemente intorno alla vita. «Non temetemi, oh! Ve ne prego, Angelica. Da voi sola questo timore mi è penoso. Vorrei che non vi venisse da me se non gioia, felicità, piacere. Che cosa non vi darei per vedervi sorridere? Cerco invano ciò che potrebbe farvi felice. Non tremate, amor mio. Non vi farò male. Non posso. Il mese ora trascorso è stato un inferno. Vi cercavo dovunque con gli occhi. E di continuo vi immaginavo fra le braccia di quel Ragoski. Ah! Avrei voluto ucciderlo.» «Che avete fatto di lui, sire?»
«È la sua sorte che vi preoccupa, non è vero?» ghignò lui. «È per lui che avete avuto il coraggio di presentarvi dinanzi a me? Ebbene, rassicuratevi, il vostro Ragoski non è neppure in prigione. E vedete come mi giudicate male, perché l'ho colmato di benefici. Gli ho accordato tutto ciò che cercava di ottenere da me da molto tempo. Se n'è ritornato in Ungheria coperto d'oro, per seminarvi il disordine dal momento che lo diverte creare discordia tra l'imperatore di Germania, il re di Ungheria e gli ucraini. Questo servirà ai miei piani, perché non ho affatto bisogno di una coalizione nell'Europa centrale, per il momento. Tutto è dunque per il meglio.» Dell'ultima frase, Angelica non aveva sentito che una parola: è ripartito per l'Ungheria. Ne provò un colpo. Non sapeva se il suo attaccamento per Ragoski fosse molto profondo, ma neppure per un istante aveva pensato che avrebbe potuto non più rivederlo. Era ripartito verso quelle terre lontane e selvagge che le sembravano appartenere un po' a un altro pianeta. Il re l'aveva bruscamente spazzato via dalla sua vita ed ella non l'avrebbe più riveduto. Mai più. Le venne voglia di urlare dalla rabbia. Voleva rivedere Ragoski. Perché era il suo amico; era sano, chiaro, ardente. Aveva bisogno di lui. Non si aveva il diritto di disporre così della loro vita come se fossero state marionette. La collera le fece salire un velo rosso al volto. «Gli avete almeno dato molto denaro?» gridò. «Che possa battersi, possa scacciare i re, possa liberare il suo popolo dai tiranni che l'opprimono, che giocano e dispongono delle vite umane come burattini, che doni loro la libertà di pensare, di respirare, di amare...» «Tacete!» Il re le stringeva le spalle nelle mani di ferro. «Tacete!» Parlava con voce trattenuta. «Ve ne supplico, non m'insultate, amor mio. Non potrei assolvervi. Non mi gridate il vostro odio. Mi fate soffrire a sangue. Non si devono pronunciare le parole pericolose che ci separerebbero. Noi dobbiamo ritrovarci, Angelica. Tacete. Venite.» La trascinò e la fece sedere sull'orlo di una vasca di marmo dove l'acqua aveva trasparenze di perla. Ella ansimava, i denti stretti, la gola senza respiro. La forza del re la dominava. Le accarezzava la fronte con la mano, quella mano ch'ella amava, e le comunicava il suo dominio. «Vi prego, non lasciatevi disonorare da una crisi di nervi. La signora del Plessis-Bellière non potrebbe perdonarselo.»
Ella cedette con singhiozzi brevi. Stanca, spezzata, appoggiò il capo contro colui che le stava in piedi a fianco. Lo vedeva al di sopra di sè, che la dominava. Dall'ingresso della grotta la luce del tramonto metteva rosso e oro nella capigliatura del sovrano. Mai Angelica si era resa conto a tal punto della sua forza implacabile. Si rendeva conto che, da quando era a corte, da quella prima mattina in cui, come l'allodola affascinata, si era recata a Versailles per esservi incoronata dea della primavera, da quel giorno, senza che lo sapesse, era nelle mani del re. L'animale più restio ch'egli avesse mai domato, certo. Ma vi sarebbe riuscito. Mostrava in ogni cosa la pazienza, la furberia e la calma invincibile delle grandi belve in agguato. Le si sedette accanto. Seguitava a stringerla affettuosamente a sè, parlando con dolcezza. «È uno strano amore, il nostro, Angelica.» «Si tratta solo di una questione d'amore?» «Da parte mia sì, se non è amore, che cos'è allora?» fece con passione. «Angelica... Questo nome mi torna di continuo alla mente. Mentre il lavoro mi trattiene, a un tratto chiudo gli occhi, una dolce vertigine mi afferra e il nome è sulle mie labbra... Angelica! Non ho mai provato un tormento che mi distraesse a tal punto dal mio lavoro. A volte, sono spaventato dell'amore che ho lasciato entrare in me. La debolezza ch'esso mi cagiona è come una ferita da cui temo di non guarire. Voi sola, il vostro dono, potrebbe guarirmi. Sogno, sì, mi avviene di sognare... della sera in cui avrò la vostra pelle tiepida e profumata contro la mia, e lo sguardo sconosciuto che il mio abbraccio farà nascere nei vostri occhi... Ma sogno di cose più preziose ancora che da voi sola mi appaiono senza prezzo. Di un vostro sorriso. Lieve, amichevole, complice, che mi dedichereste tramezzo alla folla, un gran giorno d'ambasciata, mentre io non sono che il re che scende la galleria degli specchi con il greve mantello e lo scettro. Di uno sguardo che approverebbe i miei disegni. Di una smorfietta, di un musino che mi proverebbero la vostra gelosia. Di quelle cose comuni e dolci che ignoro.» «Le vostre amanti non ve le hanno già fatte conoscere?» «Erano le mie amanti e non le mie amiche. Le volevo così. Ora, è un'altra cosa...» La contemplava, divorava i tratti del suo volto con uno sguardo in cui non vi era soltanto desiderio ma un altro sentimento fatto di tenerezza, di ammirazione, di devozione, un'espressione così strana negli occhi del re che a sua volta ella non poteva staccare le sue pupille da quelle di lui. Si rendeva conto che non era se non un uomo solo, che gridava verso di lei
dalla cima della sua montagna deserta. Ardentemente, in silenzio, s'interrogavano con lo sguardo. Il sussurro dell'organo idraulico che mescolava i suoi flauti al rumore delle acque per l'eterno concerto campestre, era intorno a loro come un'irreale promessa di felicità. Angelica ebbe paura di soccombere. Ruppe l'incanto volgendosi. «Ma che cosa c'è tra noi, Angelica?» disse il re a voce bassa. «Che cosa ci divide? Qual è l'ostacolo che sento in voi, contro il quale mi ferisco invano?» La giovane donna si passò la mano sulla fronte tentando d: ridere. «Non so. Forse l'orgoglio? Forse la paura? Non mi riconosco le qualità sufficienti per il duro mestiere di amante reale.» «Duro mestiere? Avete espressioni sferzanti!» «Perdonatemi, sire. Ma lasciatemi parlare in tutta semplicità mentre siamo ancora in tempo. Brillare, apparire, sopportare il peso delle gelosie, degli intrighi, e... delle infedeltà di vostra maestà, non appartenere mai a se stessi, essere un oggetto di cui si dispone, un giocattolo che si butta via quando non piace più, ci vuole molta ambizione o molto amore per accettare tutto questo. La signorina di La Vallière vi si è spezzata in mille frantumi. E io non sono fatta del cuoio della signora di Montespan.» Si alzò con un brusco slancio. «Restatele fedele, sire. È di forza pari alla vostra. Io no. Non tentatemi più.» «Siete dunque tentata?...» Drizzatosi, l'avvolgeva con le braccia e l'attraeva a sè, appoggiandole le labbra sulla chioma d'oro. «I vostri timori sono folli, bellezza mia... Non conoscete di me che un'apparenza. Per quale donna avrei potuto mostrarmi indulgente? Le tenere sono gemebonde e sciocche. Le ambiziose hanno bisogno di sentire la sferza per non divorare tutto. Ma voi... Voi siete nata per essere sultanabasci, come diceva quell'oscuro principe che voleva portarvi via. Siete quella che domina i re... E già io ne accetto il titolo. Mi inchino. Vi amo in cento modi. Per la vostra debolezza, per la vostra tristezza che vorrei rassicurare, per il vostro splendore che vorrei possedere, per la vostra intelligenza contro cui mi ribello e che mi confonde, ma che mi è divenuta necessaria come quegli oggetti preziosi d'oro o di marmo, quasi troppo belli nella loro perfezione, che si ha bisogno di avere accanto a sè, in segno di ricchezza e di forza. Voi mi avete ispirato un sentimento sconosciuto: la fiducia.»
Le aveva preso il volto fra le mani e lo sollevava a sè, mai stanco di scrutarne il mistero. «Aspetto tutto da voi e so che, se consentite ad amarmi, non potrete deludermi. Ma sinché non sarete mia, sinché non avrò udito la vostra voce lamentarsi nell'abbandono dell'amore, vivrò trepidamente. Ho paura di un vostro tradimento. Ed è per questo che vorrei affrettare l'ora della vostra disfatta. Perché non temerei più nulla, dopo, né voi, né la terra intiera... Avete mai pensato a questo, Angelica? Voi ed io insieme... Quali disegni non potremmo realizzare? Quali grandezze non potremmo raggiungere?... Voi ed io insieme... Saremmo invincibili.» Ella non rispondeva, scossa sino in fondo all'essere da un grande, terribile vento. Ma teneva le palpebre chiuse e non offriva agli occhi del re che un volto pallido all'estremo, dove egli non poteva nulla decifrare. Capì che l'istante di grazia era passato. Sospirò. «Non volete rispondere senza aver meditato? Questa è saggezza. E siete molto in collera con me perché vi ho fatto arrestare, lo sento. Ebbene, scervellata, vi accordo un'altra settimana di penitenza per calmare il rancore e riflettere in solitudine alle mie parole. Ritornate nel vostro palazzo di Parigi fino a domenica prossima. Quel giorno, Versailles vi rivedrà più bella che mai, più amata se lo è possibile, e più trionfante sul mio cuore nonostante i vostri colpevoli errori. Ahimè! mi avete insegnato che, anche se si è re, non si comanda all'amore, non si comanda alla devozione, e neppure allo scambio del desiderio. Ma saprò essere paziente. Non dispero. Verrà un altro giorno in cui c'imbarcheremo per Citera. Sì, mia cara, verrà un giorno in cui vi condurrò al Trianon. Ho fatto costruire laggiù una casetta di porcellana per amarvi, lontano dal rumore, lontano dagli intrighi che vi spaventano, con la sola complicità dei fiori e degli alberi che la circondano. Sarete la prima a conoscerla. Ogni pietra, ogni oggetto sono stati scelti per voi. Non protestate. Lasciatemi solo la speranza. Saprò aspettare.» Tenendola per mano, la condusse sino alla soglia della grotta. «Sire, posso chiedervi notizie di mio figlio?» Il volto del re si oscurò. «Ah! ecco un'altra preoccupazione di più causata dalla vostra turbolenta famiglia. Ho dovuto rinunciare ai servigi di quel piccolo paggio.» «A causa della mia disgrazia?»
«Ma no. Non avevo intenzione di farlo patire per questo. Ma la sua condotta ha dato luogo al mio malcontento. Per ben due volte ha preteso che il signor Duchesne, mio primo maggiordomo, voleva avvelenarmi, soltanto questo! Affermava di aver veduto costui mettere una polvere nel mio cibo e lo ha accusato con molto scandalo. Dal fuoco del suo sguardo e dalla durezza della sua voce, si capisce subito che ha ricevuto in eredità l'arditezza della madre. "Sire, non mangiate questi cibi e non bevete questo vino,"» ha dichiarato con la massima chiarezza, mentre si stava terminando l'assaggio. «"Il signor Duchesne vi ha messo del veleno."» «Mio Dio!» sospirò Angelica desolata. «Sire, non so come esprimere la mia confusione. Quel fanciullo è esaltato e pieno di fantasia.» «La seconda volta, abbiamo dovuto intervenire. Non volevo punire troppo gravemente un fanciullo che m'interessa, visto l'attaccamento che vi porto. Monsieur, che era presente, lo trovò divertente e lo volle per sè. Io gliel'ho accordato. Vostro figlio è dunque attualmente a Saint-Cloud, dove mio fratello ha preso i suoi quartieri di primavera.» Angelica passò per tutti i colori dell'arcobaleno. «Avete lasciato andare mio figlio in quel covo!...» «Signora!» tuonò il re. «Un'altra delle vostre intollerabili espressioni!» Si addolcì e decise di ridere. «Siete fatta così e non ci si può far nulla. Suvvia, non ingrandite i pericoli che minacciano il vostro fanciullo in quell'assemblea piuttosto leggera, ne convengo. Il suo governante, l'abate, lo segue dovunque insieme al suo scudiero. Volevo farvi cosa gradita e mi dispiacerebbe moltissimo di esservi così mal riuscito. Naturalmente, volete correre a Saint-Cloud? Allora, chiedetemi l'autorizzazione, ch'io possa accordarvi qualche cosa,» disse riprendendola fra le braccia. «Sire, permettetemi di recarmi a Saint-Cloud.» «Farò di più. Vi affiderò un messaggio per Madame che, così, vi riceverà e vi tratterrà con sè un giorno o due. Potrete veder vostro figlio quanto vi parrà.» «Sire, vostra maestà ha per me molta bontà.» «No, amore,» disse il re gravemente. «Non dimenticatelo più, signora, e non giocate con il mio cuore...» 17 Gli occhi di Florimondo erano assolutamente limpidi.
«Vi assicuro, madre, che non mento. Il signor Duchesne avvelena il re. L'ho visto varie volte. Mette sotto l'unghia una polvere bianca che fa cadere con un buffetto nella tazza di sua maestà, nell'intervallo fra l'istante in cui egli stesso ha assaggiato il vino e quello in cui l'ha dato al re.» «Suvvia, ragazzo mio, una simile cosa è impossibile. E poi, il re non ha sofferto di alcun imbarazzo a seguito di questi cosiddetti avvelenamenti.» «Io non so. Forse si tratta di un veleno a lunga scadenza!» «Florimondo, usi termini di cui ignori il significato. Un bimbo non parla di cose così gravi. Non dimenticare che il re è circondato da servitori devoti.» «E chi lo sa!» disse Florimondo, sentenzioso. Guardava sua madre con una indulgenza un po' condiscendente che ricordava quella di Maria Agnese. Da un'ora, ella faceva di tutto perché confessasse le sue menzogne, e si sentiva sull'orlo di una crisi nervosa. Non era decisamente dotata per intraprendere l'educazione di un fanciullo pieno di fantasia. Era cresciuto lontano da lei. Ora seguiva il suo cammino, sicuro di sè. ed ella aveva troppe preoccupazioni personali per apportare nella questione la cura necessaria. «Ma insomma, chi ti ha messo in testa queste idee di veleno?» «Tutti parlano di veleno.» disse candidamente il fanciullo. «L'altro giorno, la signora duchessa di Vitry mi richiese perché le reggessi la coda del mantello. Andava dalla Voisin, a Parigi. Stetti in ascolto dietro la porta mentre lei consultava l'indovina. Ebbene, chiedeva del veleno da mettere nel brodo del vecchio marito e anche una polvere per conquistare l'amore del signor di Vivonne. E il paggio del marchese di Cessac mi ha detto che anche il suo padrone era andato a chiedere il segreto per guadagnare al giuoco e al tempo stesso per avere del veleno per il fratello, il conte di Clermont-Lodève, di cui è erede. Ebbene,» terminò trionfante Florimondo, «il conte di Clermont-Lodève è morto la settimana scorsa.» «Ragazzo mio, vi rendete conto del torto che potreste farvi divulgando alla leggera tali calunnie?» fece Angelica tentando di rimaner calma. «Nessuno vorrà al suo servizio un paggio che chiacchiera così a torto e a sproposito.» «Ma io non chiacchiero,» esclamò Florimondo battendo il piede a terra. «Cerco di spiegare, a voi. Ma credo... sì davvero, credo che siate sciocca,» concluse voltandosi con un gesto di dignità offesa.
Rimase a contemplare il cielo azzurro attraverso la finestra aperta e tentando di trattenere il tremito delle labbra. Non voleva piangere come un bambino! Lagrime d'ira gli pungevano gli occhi. Angelica non sapeva più da che parte prenderlo. Vi era in quel fanciullo qualcosa che non riusciva a capire. Egli certamente mentiva senza necessità e con una sconcertante sicurezza. A quale scopo? Non sapendo che fare, si volse all'abate di Lesdiguières e riversò su lui il proprio malcontento. «Questo fanciullo sarebbe da prendere a schiaffi, non posso certo farvi i miei complimenti.» Il giovane ecclesiastico arrossì fino all'orlo della parrucca. «Signora, io faccio del mio meglio. Florimondo, a causa del suo servizio, si trova mescolato a certi segreti ch'egli crede d'interpretare...» «Insegnategli almeno a rispettarli,» fece seccamente Angelica. Guardandolo balbettare, si ricordava ch'era uno dei protetti della signora di Choisy. In quale misura l'aveva egli spiata e denunciata? Florimondo, dopo aver ringoiato le lagrime, disse che doveva accompagnare le principessine al passeggio e chiese libertà di andar via. Uscì attraverso la porta a vetri con un passo che voleva degno, ma appena ebbe oltrepassato i gradini della scalinata, si slanciò galoppando e lo si udì cantare. Era come una farfalla, inebriato dalla bella giornata di primavera. Il parco di Saint-Cloud, dai prati stupendi, cominciava a riempirsi del canto delle cicale. «Signor di Lesdiguières, che pensate di quest'affare?» «Signora, non ho mai preso Florimondo in flagrante delitto di menzogna.» «Volete difendere il vostro allievo, ma in questo caso vi impegnate in apprezzamenti assai gravi...» «Chi lo sa?» fece il giovane abate, riprendendo l'espressione del fanciullo. Giunse le mani con forza, in un gesto ansioso. «A corte, i più profondi atti di ossequio sono soggetti a cauzione. Siamo circondati da spie...» «Spetta proprio a voi parlare di spie, signor abate, voi che siete stato pagato dalla signora di Choisy per sorvegliarmi e tradirmi!» L'abate divenne pallido come la morte. I suoi occhi di fanciulla si spalancarono. Prese a tremare e finì per crollare in ginocchio. «Signora, perdono! Ë vero. La signora di Choisy mi aveva messo accanto a voi per spiarvi, ma io non vi ho tradito. Di questo, vi faccio giuramento... Non avrei potuto causarvi il minimo torto. A voi no. Signora, perdonatemi!»
Angelica si allontanò per guardare attraverso la finestra. «Signora, credetemi!» pregò ancora il giovane. «Sì, vi credo,» fece lei con stanchezza. «Ma ditemi allora chi mi ha denunciato alla Compagnia del Santo Sacramento. È stato Malbrant Colpo di Spada? Non mi pare sia tipo da farlo.» «No, signora. Il vostro scudiero è un brav'uomo. La signora di Choisy l'ha messo da voi per rendere servigio alla sua famiglia, che è molto onorevole e della sua provincia.» «E le signorine di Gilandon?» L'abate di Lesdiguières esitava, ancora inginocchiato. «So che Anna Maria è andata a trovare la sua protettrice pochi giorni prima del vostro arresto.» «È stata dunque lei. Quella piccola cimice da acquasantiera! Bel mestiere avete accettato, signor abate. Sono certa che, seguitando, diverrete vescovo.» «Non è facile vivere, signora,» mormorò sottovoce l'abate. «Considerate quel che debbo alla signora di Choisy. Ero il cadetto di una famiglia di dodici figli, il quarto maschio. Non abbiamo sempre mangiato in modo da sfamarci, nel castello paterno. Mi sentivo attratto dalla vita ecclesiastica, avevo il gusto degli studi e del bene delle anime. La signora di Choisy mi ha pagato molti anni di seminario. Sistemandomi nella società mi ha pregato d'informarla sulle turpitudini di cui avrei potuto essere testimone per lottare contro le forze del male. Trovavo questo compito nobile ed esaltante. Ma sono entrato nella vostra casa, signora...» Sempre inginocchiato, sollevava su lei gli occhi di cerva ed ella ebbe pietà della romantica passione che aveva destato in quel candido cuore. Egli era della razza di nobilucci che crescevano nei vecchi castelli crollanti e che, senza il becco di un quattrino, partono alla ricerca del loro destino, non avendo da vendere che ciò che posseggono, l'anima o il corpo. Era di quelli fra cui Monsieur, il fratello del re, sceglieva i suoi amanti. Meglio, tutto sommato, per un cadetto di buona famiglia, darsi in affitto alla virtù. Questa riflessione la ricondusse ad altre preoccupazioni. «Rialzatevi, abate,» disse, con tono burbero. «Vi perdono perché vi credo sincero.» «Mi sono affezionato a voi, signora, e amo Florimondo come un fratello. Mi separerete da lui?» «No. Nonostante tutto, mi sento sicura quando vi so accanto a lui. La corte di Monsieur è l'ultima dove avrei voluto vederlo. Nessuno ignora i
gusti depravati di quel principe e di coloro che lo circondano. Un fanciullo così bello e vivo come Florimondo non è al sicuro.» «È proprio vero, signora,» disse l'abate che si era rialzato e si spolverava con gesto discreto le ginocchia, «ho già dovuto battermi in duello con Antonio Maurel, signor di Volone. Forse il più gran lazzarone della casa. Ruba, bestemmia, è ateo e sodomita, tiene a scuola e vende fanciulli come cavalli e va nella platea dell'Opera per fare i suoi mercati. Ha gettato gli occhi su Florimondo e ha cominciato a pervertirlo. Mi sono interposto. Ci siamo battuti in duello. Ferito al braccio, Maurel ha abbandonato la partita. Mi sono anche battuto in duello con il conte di Beuvron e con il marchese di Effiat. Ho detto ad alta voce dappertutto che il fanciullo era protetto dal re e che mi sarei lamentato con sua maestà se gli fosse capitato il minimo male. Tutti sanno che siete la madre e che la vostra influenza non è trascurabile presso il re. Ho ottenuto infine che sia nominato compagno di giuochi delle principessine. Ciò lo tiene un po' lontano da quella strana compagnia. Oh! signora, bisogna abituare gli occhi e le orecchie a molte cose. Quando Monsieur si leva dal letto, parlano di fanciulli come un gruppo di innamorati usa parlare delle fanciulle. Ma questo è ancor nulla. Le donne sono le peggiori, perché con loro non ci si può battere in duello. Le signore di Blanzac, di Espinoy, di Melun, di Grancey, perseguitano le mie notti come l'idra dalle cento teste. Non so come liberarmene.» «Non mi direte che corron dietro a Florimondo?» «No, ma sono io che vengo provocato da loro.» «Oh! mio povero piccolo,» esclamò Angelica, divisa tra la desolazione e il riso, «mio povero piccolo abate, quale compito vi è stato dato! Bisogna assolutamente che vi tragga fuori di qui!» «Non preoccupatevi, signora. Capisco la necessità per Florimondo di far carriera, ed egli non può salire che nella vicinanza dei principi. Cerco di proteggerlo e anche di fortificare la sua mente e il suo cuore per evitargli una corruzione troppo profonda. Tutto è possibile quando l'anima è ferma e quando si chiede soccorso a Dio. E penso che in ciò consista il vero significato della mia qualità di precettore; non è forse vero?» «Certo, ma non avreste dovuto accettare di condurlo qui.» «Mi era molto difficile oppormi alle decisioni del re, signora. E mi è parso che i pericoli ch'egli correva qui erano meno grandi di quelli che lo attendevano a Versailles.» «Che volete dire?»
L'abate si avvicinò, dopo essersi guardato intorno con cura. «Sono persuaso che due volte di seguito si è voluto attentare alla sua vita.» «State perdendo la testa, ora, amico mio;» fece Angelica alzando le spalle, «vi fate prendere anche voi dalla mania di persecuzione del vostro allievo. Chi potrebbe voler attentare alla vita di un bimbo di quell'età, il paggio più giovane e meno rinomato della corte?» «Un paggio la cui piccola voce chiara si è permessa di gridare un po' troppo alto verità scottanti.» «Non voglio più ascoltarvi, signor abate. Vi assicuro che state perdendo la testa e che vi lasciate influenzare da storie assolutamente ridicole. La reputazione del signor Duchesne è quella di un uomo onorabile.» «Tutti coloro che vivono a corte non sono forse di reputazione onorabile, signora? Su chi si oserebbe attaccare l'etichetta: scellerato, criminale? Come sembrerebbe fuori luogo!...» «Vi dico che vedete le cose in nero. Siete, non ne dubito, l'angelo custode di Florimondo. Ma vorrei che cercaste di calmare la sua immaginazione, e, al tempo stesso, la vostra. Fino a nuovo ordine, non crederò all'importanza del signor Florimondo, duecentesimo e ultimo paggio addetto alla tavola del re. È una cosa ridicola!» «Un paggio che è vostro figlio, signora. Ignorate di avere molti nemici? Oh! signora; ve ne supplico, non chiudete volontariamente gli occhi su terribili realtà. Si cerca di far precipitare nel pozzo oscuro anche voi. Mettete in opera qualsiasi cosa per difendervi. Se vi capitasse una qualche disgrazia, ne morrei dal dolore.» «Non mancate di eloquenza, mio piccolo abate,» disse gentilmente Angelica. «Bisognerà che parli di voi con il signor Bossuet. Un pizzico di esaltazione non nuoce all'arte della parola sacra. Sono sicura che un giorno diventerete qualcuno e io farò del mio meglio per aiutarvi.» «Oh! signora, ecco che vi lasciate vincere dal crudele cinismo delle donne di corte.» «Non sono cinica, mio caro. Ma vorrei vedervi un po' con i piedi a terra.» L'abate di Lesdiguières aprì la bocca per un'ultima protesta, ma qualcuno, entrando nel parlatorio dove stavano, li interruppe. Fece un inchino e andò in cerca del suo allievo. Angelica ritornò nei salotti. Tutte le porte erano spalancate sulla terrazza per gustare la dolcezza dell'aria. Lontano, si scorgeva Parigi.
Come il re glielo aveva lasciato presentire, Madame aveva mandato il suo maggiordomo a pregare la signora del Plessis di rimanere a SaintCloud fino all'indomani. La giovane donna accettò senza entusiasmo. L'atmosfera della corte di Monsieur era, nonostante molta grazia e molto lusso, troppo ambigua e quasi inquietante. Il principe si sceglieva amiche altrettanto poco raccomandabili degli amici. Angelica incontrava là tutti i volti ch'ella di preferenza evitava a Versailles. Donne decise, belle, la maggior parte assai cattive e anzi, più che cattive, i cui intrighi e litigi divertivano Monsieur che si gettava su tutti i pettegolezzi con l'avidità di una portinaia. Non mancava d'intelligenza e aveva dimostrato un certo coraggio nelle campagne militari, ma lo avevano pervertito a tal punto che sempre ricadeva nelle frivolezze, nelle scempiaggini e nei vizi. Angelica cercò con lo sguardo la figura della sua anima dannata, il principe di Sodoma, «bello come si dipingono gli angeli», il cavaliere di Lorraine che, da molti anni, manteneva il suo rango di favorito ed era divenuto, in realtà, il padrone del palazzo reale di Saint-Cloud. Si stupì di non vederlo. Ne parlò con la signora di Gordon Uxsley, una scozzese piuttosto simpatica che faceva parte del seguito di Madame. «Come, non sapete nulla?» esclamò costei. «Ma da dove venite?... Il signor di Lorraine è in disgrazia. Prima è stato un po' in prigione, poi lo hanno mandato in esilio a Roma. È una grande vittoria per Madame. Sono anni che si batte per vincere il suo peggiore nemico. E alla fine, il re le ha dato ascolto.» Avendo offerto ad Angelica, per la notte, l'ospitalità dell'anticamera in cui dormiva con altre dame d'onore, fece il racconto dell'ultimo parapiglia durante il quale Madame aveva finalmente ottenuto la vittoria di cui ormai disperava. Il signor di Lorraine, arrestato proprio nella camera del principe dal conte di Ayen, le guardie del corpo che circondavano l'appartamento di Monsieur, la disperazione di Monsieur che gridava, urlava, piangeva e conduceva Madame a Villers-Cotterêts per sequestrarla. Alla fine, le cose cominciarono a rimettersi un po' in ordine. Monsieur continuava a piangere, ma la posizione di Madame era saldissima. E il re era dalla sua parte. Angelica si addormentò con le orecchie che le ronzavano di particolari scabrosi, preoccupata per Florimondo, con l'impressione che mille diverse minacce le strisciassero intorno come serpenti. Fu destata all'alba da un lieve grattare alla porta contro cui si era distesa. Aprì e si trovò in presenza di Madame. La principessa, avvolta in un'ampia sciarpa di garza, le sorrise.
«Desideravo vedervi, signora del Plessis. Volete accompagnarmi nella mia passeggiata?» «Sono agli ordini di vostra altezza reale,» fece Angelica un po' stordita. Scesero la scalinata del palazzo silenzioso al quale le guardie che sonnecchiavano appoggiate alle alabarde davano l'aspetto del castello della Bella Addormentata nel bosco. L'alba sorgeva sul parco umido di rugiada. Brevi veli di bruma nascondevano Parigi, in lontananza. Non faceva caldo. Per fortuna, Angelica aveva il suo comodo mantello di feltro, regalo del re. «Mi piace passeggiare così di buon mattino,» disse la principessa inoltrandosi con passo vivace per un viale. «Dormo pochissimo. Ho letto tutta la notte e poi mi è sembrato un peccato chiudere gli occhi mentre l'aurora si destava. Vi piace leggere?» Angelica confessò che trovava raramente il tempo di consacrarsi alle belle lettere. «Neppure in prigione?» chiese Enrichetta d'Inghilterra con un risolino d'intesa. Ma la sua stoccata non era malvagia. Piuttosto disincantata. «Conosco poche persone qui che abbiano il gusto della lettura. Guardate mio cognato il re. Si arrabbierebbe se un favolista o un uomo di teatro non gli presentasse la prima edizione delle sue opere. Ma non ha il coraggio di leggerne neppure la prima parola. Io leggo per divertimento. E terrei molto volentieri la penna... Sediamoci, vi dispiace?» Presero posto sulla panchina di marmo di un rondò. La principessa non era mutata affatto da quando Angelica frequentava, al Louvre, il suo circolo di giuoco. Piccola, dotata della grazia di un elfo e di un colorito da petalo, la si sentiva di una pasta più fine che non i Borboni-Asburgo della sua famiglia. Disprezzava piuttosto apertamente il loro abbondante appetito, la loro ignoranza e quel ch'ella chiamava la loro pesantezza. Vero è che mangiava come un uccellino, che dormiva ancor meno e che il suo interesse per le lettere e le arti non era finto. Aveva, per prima, incoraggiato Molière, cominciava a interessarsi al delicato Racine. La stessa Angelica, pur avendo una certa ammirazione per l'intelligente principessa, la considerava troppo straniera. Non ci si poteva che sentire pesanti accanto a lei. La seduzione di Madame aveva tessuto intorno a lei la propria solitudine. Ella non se ne rendeva del tutto conto, ma ne soffriva. Vi era nelle sue pupille azzurre un certo smarrimento.
«Signora,» riprese dopo un istante di silenzio, «mi rivolgo a voi perché avete la reputazione d'essere una donna ricca, cortese e discreta. Potreste prestarmi quattromila pistole?» 6 Angelica dovette ricorrere al dominio mondano di sè per trattenere un sobbalzo. «Ho bisogno di questa somma per preparare il mio viaggio in Inghilterra,» seguitava la principessa Enrichetta. «Ora, sono piena di debiti, ho già una parte dei miei gioielli impegnata ed è inutile andare a gridar miseria dal re. Eppure, è per causa sua che vado in Inghilterra. La missione di cui mi ha incaricato è della massima importanza. Si tratta d'impedire a mio fratello Carlo di unirsi alla lega conclusa fra gli olandesi, gli spagnoli e i teutoni. Debbo brillare, sedurre, adescare, far amare la Francia in tutte le maniere, e la cosa non mi sarà affatto facile se arrivo laggiù stretta in un vestito troppo attillato. È un modo di dire. Voi mi capite, mia cara. Sapete quel che sono queste ambascerie. Bisogna che l'oro scorra a piene mani, bisogna comprare le coscienze, le buone volontà, le firme. Se mi mostro avara, non riuscirò. Ora, occorre che io riesca.» Era molto volubile, le guance accese, ma la sua disinvoltura nascondeva un certo imbarazzo. Fu questo, così raro in lei, che spinse Angelica a mostrarsi generosa. «Vostra altezza mi perdoni di non poter colmare tutti i suoi voti. Mi sarebbe molto difficile convertire rapidamente quattromila pistole. Ma posso prometterle con certezza la somma di tremila.» «Carissima, che sollievo mi recate!» esclamò Madame che visibilmente non aveva sperato tanto. «Potete essere certa che vi restituirò questo denaro appena di ritorno. Mio fratello mi ama, mi farà certamente dei doni. Se sapeste che importanza ciò ha per me! Ho promesso al re di riuscire. Glielo debbo, perché ha pagato in anticipo.» Aveva preso le mani di Angelica e le stringeva con riconoscenza. Le sue erano fredde ed esili. Il nervosismo la teneva sull'orlo delle lagrime. «Se fallissi, sarebbe terribile. Ho ottenuto l'esilio del cavaliere di Lorraine solo in cambio di questo. Se fallissi, egli tornerebbe. Non potrei più sopportare la vita con quel libertino occupato a regnare nella mia casa. Certo, io non sono un angelo. Ma l'abiezione di Monsieur e dei suoi oltrepassa ogni limite. Non ne posso più. L'avversione che vi era tra noi è divenuta odio. Questo stato di cose è opera del cavaliere di Lorraine. Un tempo, credevo di poterlo circuire. Sentivo il pericolo che rappresentava. Se 6
Quattro milioni.
fossi stata più ricca, forse allora vi sarei riuscita, ma Monsieur gli offriva somme enormi, appannaggi, che il re accordava volentieri. Non potevo essere la più forte.» Angelica non tentava neppure di fermare quel flutto di parole. Capiva che la principessa stava subendo una reazione nervosa. Aveva dovuto essere molto in angoscia per quel prestito, e dubitare sino all'ultimo momento di poterlo ottenere. Le sue migliori amiche l'avevano abituata più ai tradimenti e agli abbandoni che alle generosità. «Mi promettete che potrò disporre di questa somma prima della partenza?» chiese, di nuovo preoccupata. «Ve ne do la mia parola, vostra altezza. Bisognerà che consulti il mio amministratore, ma tra una settimana le tremila pistole vi saranno consegnate.» «Come siete buona! Mi restituite la speranza. Non sapevo più da che parte girarmi. Monsieur è talmente inasprito verso di me dopo la partenza del cavaliere! Mi tratta come l'ultima delle creature...» Con brevi frasi interrotte seguitò le sue confidenze. Lo avrebbe rimpianto più tardi, senza dubbio; l'esperienza le aveva insegnato che riponeva sempre male la sua fiducia. Avrebbe detto a se stessa che quella signora del Plessis era o pericolosa o sciocca. Per il momento, gustava la rara impressione di avere accanto a sè un orecchio amico. Diceva la lunga lotta sostenuta da anni per tentar di uscire ella stessa, la propria famiglia, la propria casa, dal fango in cui stavano sprofondando. Ma tutto era cominciato male. Non avrebbe mai dovuto sposare Monsieur. «È geloso del mio spirito e la sua paura che non mi si ami o non mi si stimi, mi porrà nei guai per tutta la vita.» Aveva sognato di essere regina di Francia. Ma questo non lo disse. Era una delle cose di cui più incolpava Monsieur: che non fosse il fratello. E il modo con cui parlava del re era sempre pieno di amarezza. «Senza il timore che ha di vedere mio fratello Carlo allearsi con l'Olanda, non avrei ottenuto mai nulla. I miei parenti, la mia vergogna, i miei dolori, poco gl'importano. Vede senza dispiacere la degradazione di suo fratello.» «Vostra altezza reale non esagera forse il suo risentimento? Il re non può rallegrarsi del...» «Ma sì, ma sì, lo conosco bene. È piuttosto vantaggioso per colui che regna vedere coloro che lo toccano da vicino per nascita cadere nei più bassi vizi. La sua grandezza e la sua fermezza d'animo ne hanno rilievo. Gli a-
manti del mio sposo non minacciano il potere reale. Occorre loro soltanto oro, doni, cariche lucrose. Il re accorda a piene mani. Il signor di Lorraine otteneva da lui tutto ciò che voleva. Si portava garante della fedeltà di Monsieur. Il re non aveva da temere di vederlo trasformarsi in oppositore, come suo zio Gastone d'Orléans. Ma questa volta ho parlato a chiare note. Dal momento che si doveva passare attraverso di me, si sarebbe passato per dove volevo io. Ho ricordato che sono figlia di re e che se mi si maltrattava avevo un fratello re che mi avrebbe vendicato.» Respirò profondamente e si posò la mano sul cuore per controllarne i battiti. «Sono finalmente riuscita a vincere, eppure non posso fare a meno di temere. Mi circondano tanti odi. Monsieur mi ha minacciata varie volte di avvelenarmi.» Angelica sobbalzò. «Ma signora, non lasciatevi andare a idee morbose.» «Non so se sono idee morbose o se, al contrario, si tratta di una chiara visione dei fatti. Si muore facilmente, ai nostri giorni!» Angelica pensò a Florimondo e alle esortazioni dell'abate di Lesdiguières e la paura si levò bruscamente in lei, come un gelido rettile. «Se questa è la convinzione di vostra altezza, bisognerebbe mettere tutto in opera per difendervi, e comunicare i vostri sospetti alla polizia perché vi protegga.» Madame la guardò come se avesse detto la cosa più incongruente del mondo, poi scoppiò a ridere. «Avete reazioni che mi stupiscono, da parte vostra! La polizia? Volete parlare di quei volgari personaggi che il signor di La Reynie governa, come, ad esempio, quel Desgrez che è stato incaricato di arrestare il mio consigliere Cosnac, vescovo di Valenza? Ah! mia cara, li conosco anche troppo e non sono certo loro che verranno a cacciare il lungo naso rosso nei nostri affari.» Si alzò, stirò con gesto agile il vestito di seta azzurro ghiaccio. Più bassa di Angelica, aveva un portamento da regina che la faceva apparire più alta. «Ricordatevi che non abbiamo altre risorse a corte se non difenderci da sole o... morire,» disse tranquillamente. Tornarono in silenzio. Il parco era stupendo, con i suoi prati verdi e gli alberi dalle rare essenze, che il vento scuoteva. Lì, nulla della sontuosa rigidezza dei giardini di Versailles. Madame aveva imposto il gusto inglese,
ed era forse l'unico che Monsieur condividesse con lei. Quando il re si recava a Saint-Cloud soffriva di ciò che chiamava: quel disordine. Le labbra della giovane principessa si atteggiarono a un malinconico sorriso. Nulla la distraeva più dalla confusa paura che perseguitava i suoi giorni. «Se sapeste,» aggiunse. «Vorrei talmente, talmente restare in Inghilterra, e non tornare mai più!» «Signora,» chiedevano i pitocchi, «signora, quando andremo dal re per far toccare le nostre piaghe?» Si ammucchiavano numerosi nei parlatori del palazzo del Beautreillis. Passare attraverso la mediazione di Angelica sembrava loro già un pegno di guarigione. Ella promise che la domenica seguente avrebbero partecipato alla prevista cerimonia. Se ne era informata e conosceva i passi da seguire, ma molto occupata dai preparativi per il rientro a corte, pensò alla signora Scarron e si recò da lei per chiederle di esser così cortese da accompagnare la sua piccola truppa dal medico del re. Questo le fece venire in mente che non aveva veduto la giovane vedova da molto tempo. L'ultima volta... era stato durante quella festa a Versailles, nel 1668. Due anni! Che ne era stato, da allora, di Francesca? Piena di rimorsi, Angelica fece fermare la portantina dinanzi alla porta dell'umile casa dove la signora Scarron, da molti anni, nascondeva la sua povertà. Picchiò invano. Eppure, da piccoli indizi, aveva l'impressione che qualcuno stesse in casa. Forse una servente? Ma allora, perché non apriva? Stanca, Angelica rinunciò. All'incrocio seguente, un ingombro di carrozze costrinse il portatore a fermarsi. Angelica, gettando macchinalmente lo sguardo indietro verso la via che aveva abbandonato, rimase sorpresa nel vedere la porta della casa della signora Scarron aprirsi e la giovane vedova uscire. Era mascherata e strettamente avvolta in un mantello scuro, ma l'amica riconobbe, senza alcun dubbio, la graziosa figura della bella Francesca. «Questo è un po' troppo!» esclamò Angelica balzando fuor dalla portantina. Disse ai lacchè di ritornare senza di lei al palazzo e, abbassando il cappuccio, si slanciò sulle tracce della signora Scarron. La giovane donna camminava svelta nonostante i due grandi cesti che portava sotto il mantello. Fiutando un mistero, Angelica decise di seguirla senza raggiungerla. Giunti alla Cité, la signora Scarron andò a prendere a nolo sui gradini del
Palais una di quelle modeste portantine a ruote tirate da un solo uomo e chiamate vinaigrette. Dopo aver esitato un poco, Angelica decise di continuare a piedi l'inseguimento. Una vinaigrette non andava mai molto svelta. Ebbe il tempo di pentirsi della propria decisione. La passeggiata non finiva più. Oltrepassata la Senna, attraversarono una interminabile strada che si trasformava a poco a poco in una via di campagna, dalle parti di Vaugirard. Costretta a rallentare il passo, Angelica perse per un momento di vista il veicolo e rimase delusa nel vedere la vinaigrette ripassare vuota alla svolta di un vicolo. Non era ammissibile che fosse andata così lontano inutilmente. Corse dietro l'uomo e gli mise in mano uno scudo. Per quella somma regale l'altro non esitò a indicarle la dimora dove aveva veduto entrare la cliente. Era una di quelle nuove casette che venivano costruite sempre più in periferia fra gli orti piantati a cavolfiore e i pendii riservati alle pecore. Angelica andò a sollevare il battente di bronzo. Dopo aver atteso abbastanza a lungo, una mano aprì l'usciolino e la voce di una servente chiese che cosa volessero. «Vorrei vedere la signora Scarron.» «La signora Scarron? Non è qui... Non la conosco,» rispose la donna richiudendo lo sportellino. Tutti quei misteri pungevano la curiosità di Angelica. «Mia cara, non mi conosci,» disse fra sè e sè, «se credi che abbandonerò la partita.» Vi era un solo modo per obbligare Francesca a mostrarsi e lo avrebbe usato... 18 Riprese quindi a picchiare con maggior forza, fino a che lo sportellino si riaprì di nuovo. «Vi ripeto che non c'è nessuna signora Scarron qui,» gridò la servente. «Sì, invece. Ditele che vengo da parte del re.» La mano sullo sportellino ebbe un'esitazione. Poi, dopo un lungo momento, si udì un rumore di catene e di catenacci e la porta si schiuse. Angelica scivolò dentro. Francesca Scarron, in cima alla scala, protendeva un volto ansioso. «Angelica, di grazia, che accade?» «Non sembrate molto felice di vedermi! Eppure, ho faticato un mucchio per raggiungervi. Come state?»
Salì gaiamente le scale e abbracciò l'amica. Ma questa stava sulla difensiva. «Vi manda il re? E perché proprio voi? Vi è qualcosa di mutato nelle ultime istruzioni?» «Non credo,» rispose Angelica a caso. «Ma mi ricevete molto stranamente. Forse me ne volete perché vi ho trascurata tanto a lungo? Ci spiegheremo. Entriamo.» «No, no,» esclamò vivamente la signora Scarron interponendosi, le braccia tese, dinanzi alla porta della camera dove Angelica voleva entrare, «no, prima parlate.» «Non resteremo mica qui appollaiate su questa scala, Francesca! Che vi capita, non vi riconosco più. Se avete qualche fastidio non credete ch'io possa condividerlo?» La signora Scarron non voleva ascoltare nulla. «E che cosa vi ha detto esattamente il re?» «Il re non c'entra affatto, Francesca, ve lo confesso. Volevo vedervi e il suo nome mi è servito da Sesamo.» La signora Scarron si coprì la faccia con le mani. «Mio Dio, è spaventoso! E siete entrata qui! Sono perduta...» Accorgendosi che i domestici nell'atrio sollevavano sguardi curiosi, finì con lo spingere Angelica nel salottino. «Ebbene, entrate! Al punto in cui siamo giunti...» La prima cosa che la visitatrice scorse, accanto alla finestra, fu una culla che sembrava abitata. Si avvicinò e scoprì un bimbo di pochi mesi che le fece un gentile sorriso. «Ecco dunque il vostro segreto, mia cara Francesca! È delizioso e fate assai male a preoccuparvi per me: potete contare sulla mia discrezione.» Così, dunque, l'intransigente virtù della giovane vedova aveva finito col soccombere... E lei, che aveva costruito tutta la riuscita della sua vita sulla reputazione, doveva esserne assai mortificata. «Avete dovuto passare giorni penosi! Perché non vi siete confidata con le vostre amiche? Vi avremmo aiutata.» Francesca Scarron scuoteva il capo con un pallido sorriso. «No, Angelica. Non è affatto ciò che immaginate. Guardate bene questo bambino. Capirete.» Il bimbo fissava su lei pupille d'un azzurro di zaffiro che, infatti, le parevano familiari. «Occhi azzurri come il mare,» pensò. Di colpo, aveva capito. Aveva dinanzi a lei il figlio della signora di Montespan e del re.
«Sì, è proprio così,» fece la signora Scarron scuotendo il capo. «Ecco qual è la mia situazione! Se non fosse stato il re in persona a chiedermelo, non avrei accettato. Debbo occuparmi di questo bimbo in segreto e in modo che nessuno sospetti della sua esistenza. Legalmente, il marchese di Montespan potrebbe reclamarlo. Ne sarebbe capacissimo. Potete immaginare lo scandalo che accadrebbe! Insomma, non vivo più...» Fece sedere Angelica su un canapè accanto a sè; passata la prima contrarietà, provava in fondo un certo sollievo nel poter parlare. Spiegò come Louvois l'avesse raccomandata al re allorché, al momento della nascita del bastardo reale, si era posta la questione di trovargli una governante capace e al tempo stesso discreta. A termini di legge, il re e la signora di Montespan, essendo entrambi sposati, il figlio di quest'ultima apparteneva al marito. Dato il carattere di Pardaillan, si poteva temere di tutto. Si trattava non solo di allevare quell'innocente, ma di nasconderlo e di tenerlo con la maggior cura possibile. Occorreva per quel pesante compito, una devozione totale, intelligente, sagace, inalterabile. La signora Scarron, richiestane, aveva accettato. «Il re era un po' reticente nei miei riguardi. Credo non mi ami molto. Mi ha visto troppo. Ma il signor di Louvois e Atenaide hanno insistito molto. Atenaide ed io siamo legate da molto tempo. Ella sa tutto ciò che può aspettarsi da parte mia e, dopo aver ottenuto molto da lei, sarei stata ingrata se mi fossi sottratta. Da allora, vivo più ritirata dal mondo che se avessi preso il velo. Se almeno avessi trovato la pace! Ma debbo occuparmi della casa qui, sorvegliare la nutrice e i domestici che ignorano chi io sia e chi sia il bimbo. E tuttavia debbo seguitare a comparire, a mostrarmi, a vivere in casa perché non si supponga nulla della mia nuova situazione. Entro da una porta, esco dall'altra di nascosto, e quando vado a visitare le amiche, prendo la precauzione di farmi cavar sangue per non arrossire rispondendo con menzogne alle domande che mi si rivolgono. Il Signore mi perdoni! Mentire! Non è l'ultimo dei sacrifici che il servizio del re mi richiede.» Parlava con l'umorismo abituale con cui aveva sempre saputo alleviare i suoi lamenti. Angelica pensò che, in fondo, doveva essere felicissima della propria importanza. Il posto, nonostante le difficoltà, era invidiabile, e le dava una posizione di primissimo piano nella vita del re. Il bimbo mandò un piccolo grido e Francesca si alzò per andarlo a guardare. Lisciò le coperte e il cuscino con quei gesti precisi da padrona di casa ch'ella metteva in tutte le cose. Come molte donne che hanno vissuto sole e lontano dal mondo infantile, i suoi sentimenti nei riguardi del pupillo ri-
manevano equilibrati. Non era portata a intenerirsi sul fascino del bimbo e lasciava quelle sciocchezze alla nutrice. Ma si poteva esser certi ch'egli avrebbe ricevuto da lei tutte le cure necessarie per lo sviluppo del corpo, della mente e dell'anima. Era la governante perfetta. «La sua salute lascia a desiderare,» spiegò ad Angelica. «Capite, è nato con un piede leggermente contraffatto. Si teme che più tardi diventi zoppo. Ne ho parlato con il medico del re che, anche lui, conosce il segreto. Egli pensa che le acque di Barèges potrebbero prevenire tali difformità e nella prossima estate ve lo dovrò condurre. Vedete che il mio compito non mi lascia un istante. Senza contare che non è affatto il caso di pensare che si alleggerisca, al contrario. Avrò ben presto due responsabilità da assumere, invece di una.» «Le voci di una nuova gravidanza della signora di Montespan sono dunque fondate?» «Ahimè!» «Perché ahimè?» «Atenaide me lo ha confermato disperata.» «Dovrebbe piuttosto rallegrarsene. Non è forse una nuova splendida prova del suo favore presso il re?» «Ahimè!» ripeté la signora Scarron guardando Angelica che volse via gli occhi. Francesca abbassò i propri. Vi fu un silenzio. «È in uno stato tremendo,» riprese la giovane vedova. «Viene qui per qualsiasi motivo, non per vedere il figlio, ma per confidarsi con me e per sfogare la sua ira. A Versailles, è costretta a fare buon viso. Non è un segreto per nessuno che il re ama un'altra.» La guardò di nuovo in faccia. «... Che vi ama, Angelica.» Angelica finse indifferenza. «Non è un segreto per nessuno che il re mi ha fatto arrestare e imprigionare. Bella prova d'amore, davvero!» La signora Scarron scosse il capo. Non le sarebbe dispiaciuto saperne di più. Ma, in quel momento, si udirono scricchiolare gli assali di una carrozza, al di fuori. Colpi impazienti furono battuti alla porta e poco dopo la voce imperiosa di Atenaide risuonò nel vestibolo. Pallidissima, Francesca avrebbe voluto nascondere Angelica in qualche posto. Ma quest'ultima protestò. La casa era piccola e mancava di angolini.
«Non facciamo sciocchezze. Che temete? Mi spiegherò io con lei. Del resto, tra noi non c'è mai stata un'aperta ostilità.» Si fece un po' di lato. La signora di Montespan entrava a vele spiegate. Gettò dinanzi a sè con violenza su un tavolinetto il ventaglio, la borsetta, una scatola di pastiglie, i guanti e persino l'orologio. «Questo è troppo,» disse. «Sono venuta a sapere che l'ha incontrata l'altro giorno nella grotta di Tetide...» Si volse e vide Angelica. L'immagine della sua rivale doveva essere ben chiaramente incisa nella sua mente perché, per qualche attimo, si vide che credeva d'esser vittima di un'allucinazione. Angelica ne approfittò per prendere l'offensiva. «Devo farvi mille scuse, Atenaide. Ignoravo, entrando in questa casa, che apparteneva a voi. Volevo vedere Francesca, i cui andirivieni m'incuriosivano e l'ho seguita fin qui.» La signora di Montespan si era fatta rossa. I suoi occhi lanciavano scintille. Ardeva di rabbia trattenuta. «Credetemi,» insistette Angelica, «se affermo che la signora Scarron ha fatto di tutto per impedirmi di scoprire il vostro segreto. Esso è in buone mani. La colpa è soltanto mia.» «Oh! Vi credo,» esclamò Atenaide con uno scoppio di risa metallico. «Francesca non è tanto sciocca da commettere di sua volontà errori di questo genere.» Si lasciò cadere in una poltrona e tese verso la giovane vedova i piedi calzati di raso color rosa. «Toglietemeli! Mi torturano.» La signora Scarron le si inginocchiò dinanzi. «Mi farete portare una catinella d'acqua tiepida al belzuino.» I suoi sguardi tornarono verso l'intrusa. «Quanto a voi... vi conosciamo, con le vostre arie di santarella. Curiosa come una portinaia, sino a cacciarvi dappertutto e a spiare tutto. Troppo ordinaria per pagare un lacchè addetto a queste piccole bisogne. Il mestiere di mezzana che facevate un tempo nella vostra cioccolateria vi risale al naso.» Angelica si volse e si recò alla porta. Dal momento che Atenaide giungeva subito alle ingiurie, meglio era interrompere. Non la temeva. Ma aveva un orrore morboso delle scene tra donne in cui ci si lancia in viso mille accuse vere o false che lasciano velenose ferite. «Restate!»
La voce imperiosa la fermò. Era difficile resistere a un certo tono dei Mortemart. La stessa Angelica si sentì vassalla. Ma si raddrizzò. Dal momento che l'altra voleva incrociare il ferro, ebbene, così sarebbe stato. La situazione ne sarebbe uscita chiarificata. Calmissima attese, lo sguardo verde impenetrabile fisso sulla marchesa di Montespan di cui la Scarron terminava di svolgere le calze di seta. Vi era una lieve sfumatura di disprezzo negli occhi di Angelica, e nell'atteggiamento una grazia lontana staccata da tutto, che apparteneva soltanto a lei. La signora di Montespan da rossa si fece pallida. Non le sarebbe servito a nulla, lo sapeva, umiliare la sua rivale. La sua voce si alterò. «"L'in-com-pa-ra-bi-le dignità della signora del Plessis-Bellière,"» fece sordamente. «"Così debbono camminare le regine. E quel mistero che la circonda e sembra isolarla tra noi..." ecco come il re parla di voi. "Avete notato," mi dice, "come ella sorride raramente? E tuttavia può essere allegra come una bimba. Ma la corte è un luogo triste!" La corte è un luogo triste... Ecco le sciocchezze che fate dire al re. Ecco come lo avete sedotto: con la vostra aria assente, le vostre ingenuità, i vostri atteggiamenti disgustati. Il suo mistero, gli ho detto un giorno, è di essersi trascinata non si sa dove prima del matrimonio con del Plessis e di aver venduto i suoi favori in luoghi innominabili. Sapete che cosa ha fatto? Mi ha schiaffeggiata.» Scoppiò in una risata isterica. «Era proprio il momento buono per schiaffeggiarmi. L'indomani, vi trovarono a letto con quel bandito asiatico dai lunghi baffi. Ah! Come ho riso... Ah! Ah! Ah!» Il reale bimbo, destato di soprassalto, prese ad urlare. La signora Scarron andò a toglierlo dalla culla e lo portò alla nutrice. Quando fu di ritorno, la signora di Montespan, il cui riso si era tramutato in singhiozzi, piangeva a calde lagrime nel fazzoletto. «Troppo tardi!» singhiozzò. «Il suo amore ha resistito a quel colpo, ch'io credevo fatale. Punendo voi puniva se stesso, e a me è rimasto solo da portare il contraccolpo del suo umore esecrabile. Sembrava quasi che gli affari del regno non potessero andare avanti senza di voi. "Avrei voluto chieder consiglio alla signora del Plessis," diceva di continuo. E questo è veramente intollerabile, da parte sua. Disprezza le donne, non tiene in alcun conto il loro parere... Si preoccupa al più alto grado che nessuno possa dire che abbia fatto questo o quello perché una donna glielo aveva raccomandato. Quando mi accorda un favore, un avanzamento per l'uno o l'altro dei miei protetti, mi offre questa soddisfazione come un gioiello per ripagarmi del
mio titolo di amante reale, non perché crede nel mio buon giudizio. Mentre a lei... a lei ha chiesto il suo parere su questioni politiche... di politica internazionale,» urlò la signora di Montespan come se quell'ultimo aggettivo rendesse tutto più grave. «La tratta come un uomo.» «Questo dovrebbe rassicurarvi,» fece Angelica freddamente. «No. Perché voi siete la sola donna ch'egli abbia mai trattato così.» «Sciocchezze! Madame non è stata forse incaricata di una importante missione diplomatica in Inghilterra?» «Madame è figlia di re, e sorella di Carlo II. E poi, se il re se ne serve e le è riconoscente di sostenere i suoi progetti, non prova per lei che antipatia. Madame s'immagina che potrà riguadagnare l'amicizia di lui, e forse il suo amore, con questo mezzo. Ma s'inganna grossolanamente. Il re si serve di lei, ma la disprezza sempre di più di essere così intelligente. Non ama l'intelligenza nelle donne.» La signora Scarron intervenne, con lo scopo di alleggerire l'atmosfera. «Qual è dunque l'uomo che ama l'intelligenza nelle donne?» sospirò. «Mie carissime, voi disputate veramente a torto. Il re, come tutti gli uomini, ha bisogno di varietà. Lasciategli almeno questo capriccio. Con una preferisce chiacchierare, con l'altra, tacere. Il vostro posto è invidiabile, Atenaide. Non lamentatevene. Se si vuol aver tutto si rischia di perder tutto, e vi desterete una bella mattina assai sorpresa che il re vi abbandoni... per una qualche adescatrice che non avevate previsto.» «È vero,» convenne allegramente Angelica. «Non dimentichiamo, Francesca, che un giorno il re dovrà sposare voi. Così ha predetto l'indovina. E Atenaide ed io ci dovremo pentire delle cattive parole scambiate.» Concluse con calma, sollevando il mantello per andare verso le scale: «Smettiamola, signora. Siamo state amiche, un tempo.» Atenaide di Montespan si drizzò come spinta da una molla. In due passi fu presso Angelica e le afferrò i polsi. «Non crediate che quel che ho detto sia la confessione di una sconfitta e che vi lascerò la vittoria. Il re è mio. Mi appartiene. Voi non lo avrete mai! Gli strapperò dal cuore questo amore. Se non potrò riuscirvi strapperò voi dalla vita. Non è uomo da amare il fantasma di una morta.» Cacciava le unghie nelle braccia della giovane donna e sotto la spinta di quel cocente dolore Angelica scoprì di colpo l'odio. A volte aveva veduto, intorno a sè, gli effetti distruttori di quel sentimento corrosivo. Ma non ne era mai stata preda a tal punto. L'astio che ispirava nella signora di Montespan le schizzò addosso come una lava ardente e ne provò una vergogna,
un'amarezza profonda che si trasformavano in furore. Liberando una delle braccia schiaffeggiò con tutte le forze l'amante del re. Questa si mise a urlare. La signora Scarron si gettò fra loro. «Basta!» disse, «non vi abbassate così, signore. Ricordatevi che siamo della stessa provincia, siamo tutt'e tre del Poitou.» La sua voce aveva una sorprendente autorità. Le dominava con la sua serietà, la sua saggezza e le sue pupille nere e serene. Angelica non seppe mai perché quell'allusione al luogo della loro terra natale le portasse via di colpo l'ira. Si allontanò e tremando di nervosismo corse giù per le scale. Le unghie della furia avevano lasciato nelle sue carni profonde orme violette dove cominciavano a spuntare gocce di sangue. Si fermò nell'atrio per asciugarle. La signora Scarron la raggiunse, troppo diplomatica per lasciar andar via a quel modo colei che forse domani sarebbe stata la nuova favorita di Versailles. «Angelica, quella lì vi odia!» mormorò. «State molto in guardia. E sappiate ch'io sono dalla vostra parte.» «Una pazza,» si ripeté Angelica, per calmarsi. Ma era peggio. Sapeva bene che non si trattava di una pazza, ma di una donna lucidissima, capace di tutto e che l'odiava. Non era mai stata odiata. Forse da Filippo, nei brevi istanti in cui lottava contro l'attrazione ch'ella gli ispirava, ma non mai di quell'odio soffocante, profondo, che l'avvolgeva come fiori velenosi. E nel vento che agitava le alture sabbiose di Vaugirard le sembrava udire la triste voce del paggio: La regina ha fatto fare un mazzo di fiori di bei fiori di giglio. E il profumo di quel mazzo di fiori ha fatto morire la marchesa... 19 La domenica seguente, dopo la messa, il re si recò a toccare gli scrofolosi. Il corteo, uscito dalla cappella, attraversò il salone di Diana, la grande galleria, il salone della pace e giunse nei giardini. I malati aspettavano ai piedi della scalinata dell'arancera, assistiti da medici e da qualche cappellano.
Angelica seguiva con le dame. Per fortuna, la signora di Montespan era assente. La regina anche. La signorina di La Vallière le si andò a mettere accanto e le disse il suo piacere di rivederla. La povera figliola restituiva la sua fiducia nel momento in cui tutto annunciava che non era più meritata. Nessuno aveva potuto ingannarsi sul sorriso e sullo sguardo che il re aveva dedicato alla signora del Plessis-Bellière. La corte intera aveva capito che la sua disgrazia andava di pari passo con il trionfo dell'altra... L'azzurro del vestito di Angelica era simile a quello del cielo. Un po' verdolino come lo si vede in primavera, nell'Ile-de-France. Le sue guance avevano lo splendore dorato della bella stagione. Donna toccata dall'amore del Sole, scelta, distinta da un dio, donna circondata da odio, da invidia e da gelosia, era sembrata a tutti stranamente bella e quasi intimidente. Si esitava ad abbordarla. Il re scese lentamente la scalinata di marmo, precedendo la folla dei signori e delle dame. Il castello dietro di loro elevava la sua facciata scintillante. A destra, un po' in basso, sul terrapieno dell'arancera si vedevano tremare palmizi, i cui verdi fasci esotici si alternavano con le casse d'argento degli aranci, tutti sistemati al sole, accanto a vasche di acqua trasparente, in un incanto da oasi. I poveri scrofolosi stavano sulla sinistra, accanto ai cancelli d'oro. Il sole non poteva riscaldare loro la pelle grigia e secca, e ciò rendeva ancor più laide le loro piaghe offerte e le giubbe scolorite. Quando il re fu vicinissimo, s'inginocchiarono, gli occhi pieni di gioia. Il re si tolse il guanto dalla mano destra e lo tese al gran ciambellano. Si avvicinò al primo malato, un giovane appoggiato su due grucce di cui il medico teneva ferma la testa. Descrisse sul volto una croce che andava dalla fronte al mento e da un orecchio all'altro, e disse: «Il re ti tocca, Dio ti guarisce.» Quel giorno, c'era un gran numero di malati. I cortigiani trassero i fazzoletti di pizzo per farsi vento e dissipare i miasmi e l'odore putrido. Piaceva loro assai poco, quella cerimonia. Il re, invece, vi si dedicava con cura e benevolenza. Accanto a lui, il suo medico, chiacchierone, lo intratteneva sui sintomi e le cause della malattia, dovuta, pensava lui, all'aria infetta, agli alimenti malsani ed anche alla luna piena, perché le ferite che ci si procura durante questo periodo assumono un corso maligno.
Il re non disdegnava di far domande, d'informarsi sulle condizioni di vita del paziente e sul suo nome. A coloro che venivano di lontano faceva consegnare dal ciambellano una piccola somma. Angelica riconobbe la sua poveretta con il figlio. Vide anche Pane Secco e alcuni altri clienti abituali del palazzo del Beautreillis. Sorrise loro. Avendo, il prete che li accompagnava, detto ch'erano poveri raccomandati dalla signora del Plessis-Bellière, il re subito ordinò che si desse loro il doppio della somma abituale insieme a vestiti nuovi. I protetti di Angelica intonarono un coro di ringraziamento. La madre volle baciare l'orlo del suo vestito azzurro. «Vedete, nobile dama, il mio piccino ha già un aspetto migliore. Sono sicura che guarirà. Il re l'ha toccato, il mio piccino. Il re l'ha toccato...» Il vecchio Pane Secco, coi suoi occhi cisposi che avevano veduto, sul canto delle chiese e sull'orlo delle strade, snodarsi molti destini, guardava la nobile dama nelle sue vesti meravigliose, e dal fondo del cervello annebbiato vi sovrapponeva un'altra immagine, un nome: «Marchesa degli Angeli.» Era lontano il tempo in cui la chiamavano così. Egli confondeva un poco, non si ricordava più molto bene. Era un'altra donna, di certo. Aveva i piedi nudi e un coltello alla cintola. Alla cintola ora portava gioielli, un piccolo orologio d'oro e chiavi di argento dorato. Così va la vita, dove si camminerà sempre con le stampelle in cerca di un po' di cibo, sino al giorno in cui il paradiso si aprirà con una chiave di argento dorato e Dio vi poserà sulla testa una corona principesca. Dopo alcune ore, due paggi presentarono una catinella d'oro; il re si fermò per lavarsi le mani. La cerimonia era terminata. Era durata tutto il mattino. I poveri se ne andarono zoppicando chi verso la propria tana nei sobborghi, chi verso la capanna nei campi, chiacchierando sulle meraviglie intraviste e con una nuova provvista di speranza. Il re decise di andare a visitare i frutteti. L'idea parve eccellente. I delicati sentori delle spalliere fiorite avrebbero dissipato i penosi tanfi di quella triste umanità. Il re discusse minuziosamente su ogni germoglio con i maestri giardinieri. Il signor Le Nôtre prendeva parte alla passeggiata. Ad Angelica piaceva quel grande artista di giardini che, come quelli che si curvano verso il suolo, rimaneva indifferente alle vanità. Udì il re, che voleva nobilitarlo, chiedergli che cosa desiderava come stemma e Le Nôtre rispondere ridendo: «Basterà, sire, un torsolo di cavolo con tre chiocciole.»
Ma, da uomo dei campi, aveva anche una tremenda ostinazione. L'orto e il verziere dipendevano solo indirettamente dalla sua giurisdizione. Il suo dominio era il parco. Egli insistette perché il re si recasse a dare il suo parere su un viale dove erano state piantate quattro file di tigli e dove bisognava disporre dei busti in marmo bianco. Quindi, tutta la compagnia si ritrovò sulle rive del gran canale. Il re dedicò la propria attenzione alla graziosissima flottiglia dove voleva ritrovare in miniatura le più strane navi allora in uso. Modelli orientali e fiamminghi stavano accanto a scialuppe della Biscaglia. Si stava edificando non lungi di lì un villaggio per i marinai e i carpentieri incaricati di tenerli in ordine e di guidarli. Circolò infine la voce che rinfreschi e una colazione attendevano la corte nel boschetto della palude. Tutti girarono verso il viale reale. Angelica vide giungere la signora di Montespan sotto un parasole in taffetà rosa e azzurro guarnito di merletto d'oro e d'argento che il suo negretto le reggeva da dietro. Era piena di sorrisi. Invitò tutti a seguirla. Il boschetto della palude era il suo preferito. Era lei che ne aveva inventato i particolari e guidato l'architetto. Tutti i cagnolini della regina scendevano a precipizio la scalinata di Latona con acuti gagnolii. Li seguivano i nani, tristi e brutti. Poi la regina, anch'essa triste e brutta. Era furibonda perché non aveva un parasole come quello della signora di Montespan, con quel sole cocente. Il boschetto della palude, nel cavo degli alberi primaverili, offriva una riposante penombra. Al centro si drizzava un albero di bronzo le cui foglie di metallo lasciavano ricadere un'ampia curva di getti d'acqua. Tutt'intorno, l'acqua si innalzava da mazzi di canne d'argento, in mezzo a cui riposavano quattro cigni d'oro. Nello spessore dei carpini erano disposte due grandi tavole rotonde di marmo bianco, ognuna delle quali aveva al centro un cesto di bronzo dorato pieno di tulipani, di garofani e gelsomini. Alcune credenze dai ripiani di marmo rosso e bianco completavano l'assieme, guarniti in quel momento di coppe, di bicchieri e di tazze contenenti sorbetti, frutta, vini e bevande gelate. Gli ospiti presero posto intorno alle tavole e quelli che desideravano maggior tranquillità raggiunsero le panchine nascoste fra gli alberi. Angelica vi si trovò seduta con la signorina di Brienne, che la perseguitava con le sue chiacchiere. Dal posto in cui si trovava vedeva, come allo spettacolo, la corte riunita nel cerchio di verzura. Quei boschetti, destinati ai piaceri di una società che non cessava di darsi in rappresentazione a se
stessa, sapevano organizzarsi per la messa in scena di un favoloso e ben regolato balletto. Violini e oboi si accordavano tra le fronde e la musica dolcemente accompagnò le libagioni e le risa. Il sole, filtrando attraverso i rami, poneva macchie di luce sulle vesti lussuose. Angelica cercò con lo sguardo il re. Stava chiacchierando con il marchese di La Vallière. Era una delle sue abilità saper sorridere, quando le circostanze lo imponevano, a coloro che detestava maggiormente. La signorina di La Vallière non era stata ancora ripudiata. Egli quindi trattava bene il piccolo marchese, le cui ruberie nell'esercito avevano fatto scandalo. «Dov'è Lauzun?» si stupì Angelica. «Non l'ho ancora veduto.» «Come, non sapete? È in prigione. Ha superato ogni limite con il re e con la signora di Montespan. Non so più a proposito di quale carica che gli si rifiutava e per cui aveva promesso d'intercedere, le ha detto gravi ingiurie, l'ha trattata villanamente, è andato a trovare il re e ha spezzato la spada dicendo che non voleva più servirlo.» «Conseguenza: un altro soggiorno alla Bastiglia.» «Questa volta la cosa è più grave. Si mormora che sarà mandato in una fortezza del Piemonte, a Pinerolo. Sarà in buona compagnia. Con quel famoso intendente, sapete... come si chiama?» «Fouquet,» disse il signor di Louvois che stava mangiando una piccola torta accanto a lei. «Sì... cose vecchie. Lo si comincia a dimenticare, eppure lo scoiattolo è sempre vivo nella sua gabbia.» Angelica provava un malessere ogni volta che il nome di Fouquet le risuonava agli orecchi. Non aveva mai veduto quell'uomo, eppure egli regnava come un genio malvagio sulla catastrofe della sua vita. Cose lontane, ma incancellabili. La grigia visione del vecchio Pane Secco che brontolava nella sua barba arruffata, la perseguitava. «Marchesa degli Angeli.» Così la chiamavano alla Torre di Nesle. «Marchesa degli Angeli!» sogghignava Barcarola, il nano della regina, agitando i sonagli. Era balzato su una delle tavole di marmo e si era messo a danzare tra i piatti. Faceva ridere la regina e le sue dame. La signorina di Brienne si allontanò discretamente. Il signor di Louvois, da buon cortigiano, fece lo stesso. Avevano veduto il re dirigersi verso il posto dove stava Angelica. Luigi XIV le sedette accanto, ma ella non se ne accorse. La testa all'indietro, aveva chiuso le palpebre. Rivedeva i poveri scrofolosi inginocchiati nella luce del mattino, la loro pelle color mastice
sempre rabbrividente, i loro vestiti color miseria. Anch'ella era stata una donna che, tra l'indifferenza generale, si stringeva al seno un bimbo mezzo morto. Lagrime le bagnarono il ciglio. Il re trasalì. «Bella, perché queste lagrime?» Ella scosse adagio la testa, riprese coscienza del luogo in cui si trovava. Osservati da tutti per quanto in disparte, non potevano consentirsi altri gesti che quelli della conversazione mondana. Con la cocca del fazzolettino di pizzo ella si toccò gli occhi. «Pensavo ai poveri, sire. Qual è il loro posto nel regno?» «Strana domanda! Che volete dire?» «Un giorno, vostra maestà non mi ha forse dimostrato che tutti, intorno a lei, contribuivano al sostegno della monarchia?» «Certamente. E la cosa è proprio così. Il lavoratore fornisce con il suo lavoro il nutrimento a questo grande corpo. L'artigiano dà gli oggetti che servono alla comodità del pubblico, mentre i mercanti radunano i differenti prodotti per fornirli ad ogni singolo abitante nel momento in cui ne ha bisogno. I finanzieri raccolgono i denari pubblici che servono alla sussistenza dello Stato. I giudici, applicando le leggi, mantengono la sicurezza tra gli uomini. Gli ecclesiastici, istruendo i popoli sulla religione, attirano la benedizione del cielo.» «E i poveri, sire? I poveri così numerosi... così numerosi...» La visione la riprendeva, spegneva le luci dello scenario incantatore, cancellava l'eco della pastorale che suonava fra gli alberi. «... Io sono stata trascinata nel flutto purulento. Ho attraversato il fiume d'inferno e, per non so quale miracolo, avendo approdato alla riva degli splendori terrestri, mi ricordo. «I poveri che non sanno dove andare né che fare, i poveri che le guerre creano e che le tasse e le ingiustizie moltiplicano, questo è il mio segreto, questo è il misterioso sigillo che io porto in fronte, sotto i miei gioielli. «Potrei mai dimenticare l'enorme risata dei pitocchi nelle profondità di Parigi, quella risata più temibile dei singhiozzi o dei lamenti, e che attirerà il fuoco del cielo?...» Riaprì gli occhi e vide lo sguardo del re fisso intensamente su lei. «Il vostro volto!» mormorò lui. «Non vi è nessun altro volto di donna come il vostro.» Non si muoveva, attento a non tradirsi dinanzi agli occhi acuti della corte. La sua voce misurata ne acquistava maggior commozione.
«Donde venite?... Verso qual fine andate, signora? Quante cose incise sul vostro volto! Tutta la bellezza... tutto il dolore del mondo!» I nani della regina facevano un gran chiasso. Barcarola li aveva trascinati in una grottesca sarabanda, tra i cortigiani, più o meno compiaciuti di quella mascherata. Le loro grida discordi e i loro ghigni coprivano il canto dei violini. Il re guardava Angelica, come affascinato. «Contemplarvi è a volte una gioia, a volte una sofferenza. Vedo il vostro collo bianco come la neve, dove batte una vena delicata. Vorrei posarvi le labbra, posarvi la fronte. Tutto in me reclama il calore della vostra presenza. La vostra assenza mi avvolge di solitudine come un mantello gelido. Ho bisogno del vostro silenzio, della vostra voce, della vostra forza. Eppure, vorrei vedervi cedere. Vorrei vedervi addormentata contro di me con lagrime sull'orlo delle ciglia, spezzata da una tenera lotta. E vedervi destare nel rinnovarsi di un ardore che sembra sprizzare da voi come da una fonte segreta e che vi colora il volto sotto le dita dell'aurora. Arrossite facilmente e vi si crede vulnerabile. Ma siete più dura del diamante. Ho amato a lungo la vostra violenza nascosta. Ora tremo che sia essa quella che un giorno vi strapperà da me... O mio cuore! O mia anima!» Angelica sorrise. «Perché sorridete?» «Pensavo a quel giovane poeta che piace a vostra maestà, Racine. Egli è solito dire che deve al re il meglio della sua ispirazione, e, ascoltandovi, capisco il suo pensiero...» S'interruppe perché il signor Duchesne s'inchinava dinanzi a loro, accompagnato da tre dispensieri che porsero al re e ad Angelica evanescenti meraviglie rosa, verdi e gialle punteggiate di ciliege e coronate di angurie, in fragili coppe di porcellana. Quindi si allontanarono con quattro inchini. «Parlavate di Racine,» riprese il re, «e mi facevate un sottile complimento. Ma credo sia giusto, in quanto i poeti sono tali solo perché sanno esprimere gli uomini del loro tempo e di tutti i tempi. Qualsiasi uomo porta in sè questo chiuso cenacolo dell'amore. Ma quando ci si sente circondati da creature indegne è meglio tenerlo sbarrato per tutta la vita e rifiutare a se stessi di penetrarvi. Tuttavia, per voi, Angelica, forse un giorno avrò il coraggio di schiuderlo...» Un urto violento lo interruppe. La coppa che Angelica stava portando alle labbra cadde. Il sorbetto fu rovesciato a terra, la porcellana si spezzò in
mille frantumi, il vestito azzurro fu inondato di lunghe colate di crema multicolore. Un salto mal calcolato aveva proiettato il signor Barcarola, come una palla, sulla giovane donna. «Accidenti a questi nanerottoli!» gridò il re, furibondo. Afferrò il bastone e sferrò una serie di colpi sulla schiena del malcapitato, che fuggì via mandando grida da aquila. La regina che voleva prendere la difesa del suo protetto, fu redarguita duramente. Uno dei cagnolini si precipitò per leccare i resti del sorbetto. Nel frattempo, non una ma venti dame si erano precipitate verso Angelica, con una salvietta e una catinella nelle mani, per ripulirle il vestito dalle malaugurate macchie. Il suo favore, quel giorno, era stato troppo evidente. Tutti furono d'accordo nel dire che il sole avrebbe avuto presto ragione del guaio, e la compagnia abbandonò le ombre per recarsi sulle terrazze e approfittare degli ultimi raggi del giorno. Il cagnolino agonizzò a lungo nell'erba. Barcarola, tornato sui luoghi deserti, vi aveva trascinato Angelica e si chinava sulla bestiola, agitata da terribili soprassalti. «Vedi? Ora, spero che tu abbia capito, Marchesa degli Angeli. Sta morendo perché ha mangiato la crema che ti era destinata. Oh! Non avrebbe fatto su te, certamente, un effetto così folgorante. A quest'ora, cominceresti appena a sentire qualche malessere. Ma la notte sarebbe stata atroce e, all'alba, saresti morta.» «Barcarola, dici cose tremende. La lezione che il re ti ha dato ti ha fatto girare la testa.» «Non mi credi?» chiese il nano, il cui volto assunse una espressione feroce. «Imbecille! Non hai dunque notato quel cane che leccava il sorbetto per terra?» «Confesso di no. Ero preoccupata per il vestito. E anche quando ciò fosse, il cane potrebbe essere morto per qualsiasi altra ragione.» «Non mi credi,» ripeté Barcarola agitato, «perché non vuoi credermi.» «Ma insomma, chi potrebbe attentare alla mia vita?» «Che domanda? E l'altra, quella di cui tu prendi il posto accanto al re, credi che ti porti nel cuore?» «La signora di Montespan? No, Barcarola, è impossibile. È dura, cattiva, usa la calunnia, ma non oserebbe arrivare sino a questo!» «E perché no? Quel ch'essa tiene tra le sue grinfie lo tiene con forza.»
Prese il cagnolino che aveva esalato l'ultimo respiro e lo gettò più lontano, nel folto degli alberi. «È stato Duchesne a fare il colpo. Ed è stato Naaman, il negretto della Montespan, ad avvertirmi. Lei non diffida di lui. Perché ha uno strano accento quando parla, crede che non capisca il francese. Dorme in un angolo su un cuscino, sicché lei non ne fa più caso che d'un cane. Ieri, si trovava nel salottino quando lei ha ricevuto Duchesne: è la sua anima dannata. È stata lei a metterlo come maggiordomo accanto al re. Naaman li ha uditi pronunciare il tuo nome. Ha ascoltato perché ti conosce. Sei stata tu a comprarlo per prima ed egli amava Florimondo che giocava con lui qui a Versailles e che gli dava i dolciumi. Ha detto a Duchesne: "Bisogna che sia terminato domani. Troverete l'occasione, durante la festa, di portarle voi stesso una bevanda nella quale avrete versato questo", e gli ha dato una fialetta. Duchesne ha chiesto: "È stata La Voisin a prepararlo?" La Montespan ha risposto: "Sì. E quello che essa fabbrica è molto efficace." Naaman non sapeva chi fosse La Voisin, ma io lo so. È stata la mia padrona, La Voisin. Oh! Oh! ne sa di segreti, quella, per mandare la gente all'altro mondo!» Nella testa di Angelica i pensieri turbinavano, raccogliendo i pezzi sparsi di uno spaventoso «puzzle». «Se dici la verità, Florimondo allora non ha mentito. Quella lì cercherebbe anche di avvelenare il re... A quale scopo?» Il nano fece una smorfia di dubbio. «Avvelenarlo? Non credo. Ma gli fa scivolare nel cibo polveri magiche che La Voisin le prepara per attrarlo a sè. Sembra però che non gli facciano né caldo né freddo, al re. Andrà sempre a cercare fortuna dove vorrà. Adesso, andiamo via di qui. Potrebbe darsi che Duchesne ritornasse con i suoi complici.» Fuori dal boschetto, il viale invaso dal buio si apriva in lontananza su un cielo di rame. Dalle vasche di bronzo sostenute da satirelli dai piedi forcuti, e disposti qua e là, l'acqua scorreva con un fresco mormorio. Barcarola prese a trotterellare, ombra difforme, a fianco di Angelica. «Che cosa farai, ora, marchesa?» «Non lo so.» «Spero che userai i grandi mezzi!» «Che cosa sarebbero, secondo te, i grandi mezzi?» «Difendersi allo stesso modo: occhio per occhio, dente per dente, come si dice. Quanto alla Montespan, le metti del veleno nel brodo, dal momen-
to che questo è il suo sistema. Per Duchesne, qualche spada bene arrugginita dei nostri fratellini ne avrà ragione, una sera, dalle parti del Ponte Nuovo. Non hai che da ordinare.» Angelica rimase in silenzio. I vapori del crepuscolo le cadevano sulle spalle nude facendole rabbrividire. Voleva dubitare ancora. «Non c'è altro da fare, marchesa,» sussurrò Barcarola. «Altrimenti, sei fritta. Perché quella lì vuol conservare il re e, in fede di Mortemart, come dice, il diavolo in persona l'aiuterà.» Pochi giorni dopo, una festa riunì la famiglia reale nel parco di Versailles; erano presenti la casa di Monsieur e quella di Madame. Florimondo, accompagnato dal suo precettore, si recò a salutare la madre mentre ella si intratteneva con il re, dinanzi alla vasca di Latona. Il fanciullo era perfettamente a suo agio nel salutare i grandi. Sapeva che il suo grazioso visino incorniciato da riccioli bruni, il suo chiaro sorriso, trovavano sempre grazia. Ben fatto, in un vestito di velluto cremisi, le gambe avvolte in calze nere ornate d'oro, fece un inchino dinanzi al re e baciò la mano della madre. «Ecco il transfuga,» disse il re con benevolenza. «Siete soddisfatto del vostro nuovo impiego, fanciullo mio?» «Sire, la casa di Monsieur è piacevole ma io preferivo Versailles.» «La vostra sincerità mi tocca. Potrei sapere ciò che rimpiangete maggiormente, di Versailles?» «La presenza di vostra maestà... E poi, le fontane, i getti di acqua.» La scelta era felice. Nulla stava più a cuore di Luigi XIV delle sue fontane e dell'ammirazione ch'esse suscitavano. Per quanto venuta da un paggetto di undici anni l'adulazione gli fece piacere. «Le rivedrete, un giorno, le nostre fontane, ve ne do la mia parola, quando avrete imparato a non mentire più.» «A tacere, forse,» disse Florimondo con audacia, «ma a mentire no, perché io non ho mai mentito.» Angelica e l'abate di Lesdiguières che stava modestamente a qualche passo, accennarono lo stesso movimento d'inquietudine. Il re, le sopracciglia aggrottate, osservava il piccolo volto sollevato fieramente verso di lui. «Questo fanciullo che vi somiglia così poco, è certamente vostro figlio per la sua maniera di tener testa quando ciò gli sembra opportuno. Se si dubitasse della sua filiazione, il suo mento drizzato lo denuncerebbe per
vostro. Non ci siete, in tutta la corte, che voi e lui a guardare il re in questo modo.» «Ne chiedo perdono a vostra maestà.» «È inutile. Non siete affatto contrita, né per lui, né per voi. Ma allora, che diavolo!» proseguì sopra pensiero, «non so più che cosa pensare di questa faccenda. Si dice comunemente che la verità esce dalla bocca dei fanciulli. E perché dovrei dubitare di questo? Sarà bene che interroghi Duchesne... e faccia fare un'inchiesta su lui. Mi è stato raccomandato dalla signora di Montespan, ma è sapere troppo poco di un uomo.» Angelica si ricordò più tardi che, nel momento in cui il re pronunciava quelle parole, un servitore in ginocchio gli offriva una cesta di frutta. Non perché se ne servisse, dato che il re mangiava soltanto circondato dai suoi credenzieri, ma perché l'ammirasse. Il re lodò la bellezza delle mele enormi dalla buccia rugosa verde e bruna, delle pere color miele, delle pesche color dell'aurora. Quelle meraviglie dovevano andare a prender posto sulle lunghe tavole preparate con tovaglie abbaglianti come la neve nel prato a nord. Angelica si ricordò solo più tardi di quel servitore. La giornata svolse i suoi fasti con un sole piacevole. La sera era ancora assai dolce e la folla numerosa sui prati e sulle terrazze che dominavano il castello, allorché una piccola mano si aggrappò a quella di Angelica che guardava il paesaggio e la croce d'oro che tracciava laggiù, tra le violacee praterie del crepuscolo, il gran canale terminato. «Medeme! Medeme Plessis!» Ella chinò gli occhi e riconobbe il negretto Naaman, vestito con una giubba azzurro pavone e con turbante e brache color zucca. Del suo volto, nella penombra diffusa, si vedevano solo gli occhi bianchi che giravano come palline di agata. «Medeme! Tuo figlio sta morendo! Tuo figlio sta morendo!» A causa del suo accento sussurrato ella non afferrava bene le parole di lui. «Signor Florimondo! Molto brutto per lui. Molto brutto. Morire.» Al nome di Florimondo ella aveva compreso. Prese a scuotere il negretto per le spalle. «Che succede? Che succede? Florimondo! Ma parla!» «Io non so, medeme, io non so. Molta paura per lui.» Angelica si mise a correre nella direzione del prato a nord, dove aveva scorto un istante prima l'abate di Lesdiguières. Era ancora lì, ai piedi di
uno dei grandi vasi di marmo guarniti di gerani che orlavano là terrazza e subiva eroicamente le beffe delle signore di Gramont e di Montbazon. «Abate,» gli gridò ansimando, «dov'è Florimondo?» «È passato poco fa, signora. Mi ha avvertito che lo avevano incaricato di una commissione nelle cucine e che sarà presto di ritorno. Sapete quanto gli piaccia correre e rendersi utile!» «Sì! Sì» fece Naaman affermando a lungo col turbante ornato di piume, «"lui" ha detto: "Ho mandato il giovane Florimondo per la strada che conosce. Si può essere tranquilli, ora. Il piccolo chiacchierone non parlerà più."» «Avete udito: il piccolo chiacchierone non parlerà più,» ripeté Angelica scuotendo a sua volta l'abate di Lesdiguières. «Oh, per l'amor del cielo, ditemi, da dove è passato?» «Io... mi ha detto,» balbettò il giovane, «le cucine... che sarebbe passato per la scala di Diana per fare più presto...» Naaman mandò un grido da scimmia presa in trappola, mostrando fino in fondo al palato la lingua rosa. Sollevò le mani dalle dita allargate in un gesto tragico. «La scala di Diana? Oh molto brutta! Molto brutta» Si slanciò, correndo a perdifiato verso il castello, seguito dall'abate di Lesdiguières e da Angelica. L'angoscia materna dava ali alla giovane donna perché, nonostante la veste pesante, gli scarpini con i tacchi aguzzi e il paggio che inciampava nel suo mantello, sostenne la loro velocità e li raggiunse mentre parlamentavano con una guardia nell'atrio che precedeva gli appartamenti dell'ala a mezzogiorno. «Un paggetto vestito di rosso?» diceva la guardia. «Sì, l'ho visto passare un momento fa. Anzi, mi sono stupito perché non se ne vedono più passare da quando s'è demolita la scala di mezzogiorno per incominciare i lavori di prolungamento.» «Ma, ma...» balbettò l'abate di Lesdiguières. «Un tempo, quando eravamo qui, si passava spesso per la scala di Diana. Si saliva, c'era una galleria, e poi la scala di mezzogiorno ridiscendeva proprio sulle cucine.» «Ora non più, vi ripeto. Hanno abbattuto tutta una parete per il prolungamento dell'ala. La scala di Diana è fuori servizio. Non vi sono più che delle impalcature, da quella parte.» «Florimondo non lo sapeva, Florimondo non lo sapeva,» ripeteva l'abate come una macchina.
«Non volete mica dire che il ragazzo è salito da quella parte?» esclamò la guardia con una bestemmia. «Gli ho pur gridato di fermarsi, ma correva così svelto!» Già Naaman, l'abate di Lesdiguières e Angelica si slanciavano di nuovo. La scala di Diana apparve loro elevando i suoi gradini di marmo verso un'ombra così profonda che non si potevano vedere le impalcature che la terminavano. Gli operai, a quell'ora, avevano abbandonato il cantiere. Era verso quell'ignoto tenebroso e pieno di trabocchetti che Florimondo si era slanciato col suo passo balzante. Angelica salì, con le gambe che le si piegavano. «Aspettate,» gridò la guardia, «aspettate che vi porto la fiaccola. Rischiate di cadere nel vuoto. C'è una passerella, ma bisogna saperlo.» Angelica avanzava a tentoni nell'intrico delle travi e dei rottami. La guardia la raggiunse. «Ferma!» gridò. «Guardate!» La fiamma della fiaccola illuminava a due passi una voragine aperta sull'altezza di due piani. «La passerella!» disse la guardia. «Hanno ritirato la passerella.» Le ginocchia di Angelica cedettero. Cadde a terra, china verso quell'oscurità che aveva inghiottito suo figlio. «Florimondo!» Chiamava con voce persa che non sembrava uscisse da lei. Il vuoto soffiava in su un fiato di caverna e di pietra bagnata. Rispondeva soltanto l'eco del grande palazzo in costruzione. «Florimondo!» La guardia, con la magra fiamma, tentava di sondare le tenebre. «Non si vede nulla. Se è caduto è qui sotto. Occorrerebbe andare a prendere scale e corde, e ci vorrebbe luce. Abate, trattenetela, altrimenti cadrà anche lei. Venite, signora. Non restate qui. Vi sosterremo.» Divorata da un pazzo dolore, ella ridiscese vacillando la scala maledetta. «Mi hanno ucciso il figlio... Il figlio, tutto il mio orgoglio... Il piccolo chiacchierone non parlerà più... Florimondo non sapeva...» La guardia e l'abate di Lesdiguières l'aiutarono a sedere su una panchina, nell'atrio invaso dal buio. I due negretti ululavano come uccelli annunciatori di una disgrazia. Si avvicinò una servente che recava un candeliere a sei braccia e veniva da un corridoio perpendicolare che dava sul cortile di marmo. «Vi sentite male, signora? Ho in tasca un flacone di sali.»
«Suo figlio è caduto nelle impalcature,» spiegò la guardia. «Rimanete qui con le candele, ragazza mia. Vado a chiedere soccorso.» Ma Angelica si era di scatto raddrizzata. «Ascoltate,» disse. La sua espressione era tale che persino i due negretti tacquero. Allora, in lontananza, si udì un rapido galoppo, il galoppo di piccoli tacchi rossi, che avanzavano a tutta velocità. Florimondo apparve dal corridoio donde era uscita poco prima la servente, lanciato come una palla. Sarebbe passato senza vederli se la guardia non avesse avuto la presenza di spirito d'incrociare l'alabarda. «Lasciatemi! Lasciatemi,» gridò Florimondo dibattendosi. «Sono in ritardo per il servizio di cui mi aveva incaricato il signor di Carapert per le cucine.» «Fermatevi, Florimondo!» esclamò l'abate di Lesdiguières tentando di trattenerlo con mano tremante, «la scala è pericolosa. Sareste morto se...» Impallidì e cadde accanto ad Angelica sulla panchina. Vi fu un momento di confusione in cui si temette di veder Florimondo, nel suo zelo, precipitarsi alla morte sotto i loro occhi. La guardia lo trattenne di nuovo per il colletto con solido polso. «Calma, ragazzino! Dal momento che ti diciamo che è pericoloso!» «Ma sono in ritardo!» «Non si è mai in ritardo quando si rischia d'incontrare la camusa. Sta' qui tranquillo, bamboccio, e ringrazia la Vergine e il tuo angelo custode.» Florimondo, ancora ansimante, spiegò ciò ch'era accaduto. Stava per giungere lì quando aveva incontrato... monsignore il duca di Angiò, il terzo figlio del re, che aveva soltanto diciotto mesi, con in capo la cuffietta di perle e oro, il colletto di pizzo e il gran cordone di San Luigi attraverso il vestito di velluto nero. Dopo essere sfuggito alle nutrici andava in giro, con una mela in mano, piccolo dio sperduto nel dedalo del suo grande palazzo. Florimondo, ch'era la cortesia fatta persona, sollevò fra le braccia il bimbo reale e lo riportò al suo nido. L'appartamento del Delfino e dei suoi fratelli era lontano. Nel momento in cui Angelica si chinava semisvenuta sul sinistro abisso, Florimondo riceveva i commossi ringraziamenti delle governanti e delle nutrici di monsignore. Quindi, mentre quelle seguitavano a congratularsi, si era ritirato per compiere la sua missione. Angelica se lo attirò sulle ginocchia stringendolo a sè. Pensieri incoerenti l'attraversavano:
«Se anche lui mi avesse lasciato, dopo Cantor, non avrei potuto vivere... Tutto quello che mi unisce a te, amor mio, sarebbe scomparso. Oh! quando tornerai per salvarmi?...» Non sapeva nemmeno più a chi si rivolgeva nel segreto del cuore sconvolto. Non avrebbe mai dimenticato quel crepuscolo di Versailles dalla ingannatrice dolcezza, in cui le piccole mani nere di uno schiavo si erano aggrappate al suo vestito: «Medeme, tuo figlio sta morendo...» Cercò Naaman con lo sguardo. Si era allontanato. Ora che il signorino Florimondo era sano e salvo, doveva raggiungere la sua padrona, l'altra. Certo, avrebbe pagato con qualche schiaffo di una mano inanellata la sua assenza. La servente era andata a prendere vino e bicchieri. Angelica si sforzò di bere, per quanto avesse la gola stretta da singhiozzi nervosi. «Bevete anche voi,» diss'ella. «Bevete, bravo militare. Senza di voi e senza la vostra fiaccola saremmo forse precipitati tutti anche noi.» La guardia ingollò d'un sol colpo il bicchiere di vino che gli offriva. «Accetto perché sono ancora tutto stordito. Quel che non capisco è come la passerella sia stata portata via. Bisognerà che segnali la cosa al mio capitano perché ne faccia osservazione al capo cantiere.» Angelica fece scivolare in mano a lui e alla servente tre monete d'oro. Seguita dall'abate e dal paggio e reggendo con forza Florimondo per la mano tornò al suo appartamento, dove di nuovo ebbe una crisi. «Volevano uccidere mio figlio!» Quella frase le s'imponeva. «Florimondo, chi ti ha mandato a portare un ordine alle cucine?» «Il signor di Carapert, un credenziere del re. Lo conosco bene.» La giovane donna si passò la mano sulla fronte madida. «Riuscirò mai a sapere la verità?» Nel salotto vicino udiva Renato di Lesdiguières che raccontava l'incidente con voce bassa e concitata a Malbrant Colpo di Spada, che si era presentato. «Quel signor di Carapert non ti ha detto che la scala di Diana era pericolosa, e che nessuno vi passava più da molto tempo?» «No.» «Forse ti ha avvertito ma tu non hai dato ascolto.» «No, non è vero,» protestò Florimondo offeso. «Mi ha anzi detto: "Passa per la scala di Diana. Conosci la strada; è più breve per arrivare alle cucine."»
«Chissà se mente per scusarsi!» si chiese Angelica. Ma l'ossessione rimaneva: «Volevano uccidere mio figlio. La passerella è stata ritirata...» Che fare? Che pensare? In quell'ora di dubbio e di pericolo non aveva, per guidarla e proteggerla, che i suoi servitori dalla mentalità molto semplicistica, dei negretti, un nano. Il piccolo mondo di Versailles che formicolava all'ombra dei grandi pareva destarsi per mormorare: stai in guardia! ed ella era tentata di affidarsi a quella intuizione animale. «Che fare?» chiese sollevando gli occhi verso lo scudiero Malbrant. Questi era comunque uomo in età e non privo di esperienza. I suoi capelli bianchi gli davano un'aria di saggezza che doveva aver impiegato parecchio ad acquistare. Le sue sopracciglia folte erano aggrottate da quando aveva udito il rapporto di Lesdiguières. «Dobbiamo ritornare a Saint-Cloud, signora. Nella casa di Monsieur, il piccolo è al riparo.» Angelica sogghignò con un gesto stanco. «Chi avrebbe creduto, un giorno... Insomma, così è. Credo che abbiate ragione.» «Quel che occorre è che non ricada mai tra le zampe di quel Duchesne.» «Credete che il colpo venga di lì?» «Ci metterei la mano sul fuoco. Ma non si perde nulla ad aspettare. Un giorno mi capiterà a tiro e lo farò a pezzettini!» Florimondo cominciava a capire di essere sfuggito a un attentato e ne era fiero all'estremo. «Questo è perché ho detto al re che non avevo mentito quanto al signor Duchesne. Picard, il valletto che gli presentava la frutta, forse mi ha udito ed è andato a ripeterlo al signor Duchesne.» «Ma è stato il signor di Carapert a mandarti alle cucine.» «Il signor di Carapert obbedisce a Duchesne. Ah! Comincia ad avere paura di me, il severo signor Duchesne!» «Quando dunque capirai che non devi parlare a torto e a sproposito?» chiese Angelica che, dopo averlo coperto di baci, si tratteneva dallo schiaffeggiarlo. «Ti rendi conto che in questo momento potresti trovarti sotto un'impalcatura con tutte le membra spezzate?...» «Sarei morto,» disse Florimondo, filosofo. «Be'! è una cosa che capita a tutti. Sarei andato a raggiungere Cantor.» Si riprese, dopo un istante di riflessione.
«No, perché Cantor non è morto.» Due serventi, Teresa e Javotte, entrarono recando la toilette della signora per il ballo. «Conducetelo con voi,» disse Angelica al precettore. «Ho i nervi a pezzi. Non so più dove sia. Vegliate su lui, non lo abbandonate.» Appena il fanciullo fu uscito, accompagnato dall'abate e dallo scudiero, voleva già richiamarlo. «Sto diventando pazza. Se almeno avessi una certezza...» Chiese a Teresa di versarle un bicchierino di acquavite. Esitò a bere. E se il liquido fosse avvelenato? Dopo aver bevuto le parve tuttavia che la situazione fosse più chiara. «Se avessi una qualche certezza, vi farei fronte.» Le tornavano alla mente i suggerimenti di Barcarola. Sopprimere Duchesne sarebbe stato facile. Malbrant Colpo di Spada, al caso, se ne sarebbe incaricato o, in mancanza di lui, banditi ben pagati. E se fosse riuscita ad avere dalla sua una delle accompagnatrici della signora di Montespan, sarebbe stata almeno al corrente dei pericoli che la minacciavano. Pensava a quella Desoeillet, in cui Atenaide riponeva grande fiducia, ragazza che aveva fama di essere venale e che lei stessa aveva sorpreso a barare al giuoco. Grazie a un secondo bicchierino d'acquavite poté danzare e fare bella figura, ma quando a tarda ora, dopo la cena della regina, fu tornata nel suo appartamento il senso di paura si accentuò in lei sino a diventare intollerabile. Le sembrava di non essere più sola, nella camera. Girò la testa e stava per urlare dal terrore. Due occhi nerissimi la fissavano nell'ombra di un angolino. Una forma piccola e tozza vi si teneva rannicchiata come quella di un gatto che stesse spiando. «Barcarola!» Il nano la guardava con espressione intensa e quasi crudele. «Il mago è a Versailles con la sua comare,» sussurrò con la sua voce roca. «Vieni, sorellina. Vi sono cose che devi sapere, se ci tieni alla pelle.» Angelica lo seguì attraverso la porta nascosta che un tempo le era stata rivelata da Bontemps. Barcarola non aveva candela. Vedeva nella notte, come gli animali. Angelica inciampava e urtava contro le strette pareti del corridoio clandestino. Camminava semicurva, andando a tastoni con le mani, con l'impressione di soffocare, di esser murata viva. «È qui,» disse Barcarola.
Ella udì il grattare delle dita che cercavano qualche cosa lungo la parete di legno. «Sorellina, ti mostrerò questo perché tu sei dei nostri. Ma stai attenta. Qualunque cosa accada, e qualunque cosa tu oda o veda, non devi gridare.» «Conta su me.» «Anche se sei testimone di un delitto?... Del più orribile delitto che si possa immaginare?...» «Resisterò.» «Se non resisti, è la tua morte e la mia.» Si udì un impercettibile scatto e il segno luminoso di una porta si tracciò nelle tenebre. Angelica incollò l'occhio a quell'uscio appena dischiuso. Dapprima non distinse nulla. Poi, a poco a poco, emergendo da strani vapori dall'odore penetrante, distinse il mobilio di una camera dove bruciavano tre grossi ceri. Poi udì canti che somigliavano a quelli di chiesa. Si vedevano muovere ombre. Un uomo, seduto sui tacchi, salmodiava a pochi passi da loro, con un grosso messale tra le mani, oscillando avanti e indietro. Aveva una voce da sagrestano avvinazzato. Attraversando la nube dei suffumigi di cui gli incensieri posati su fornelli facevano udire i lievi gorgoglii, un uomo di alta statura avanzò. Angelica sentì un gelido sudore incollarle la camicia. Pensò che non aveva mai veduto, in tutta la vita, un essere umano così spaventoso. Era un prete, perché indossava una specie di pianeta bianca ricamata con pigne nere. Molto anziano, nonostante l'andatura slanciata, la vecchiezza si tradiva in lui per una specie di marciume interiore che affiorava sul volto gonfio, color vinaccia, percorso da vene violacee che s'intrecciavano sulle gote, a fior di pelle. Dava l'impressione di un corpo in decomposizione tolto dalla tomba e che ancora osasse mescolarsi al mondo dei vivi. La sua voce dalle sonorità cavernose e umide si spezzava su un balbettio senile che non gli toglieva, tuttavia, una strana autorità. Era completamente guercio da un occhio; la pupilla danzante, follemente in agguato, sembrava veder tutto, penetrare tutti i segreti. Riconoscendo in una delle donne inginocchiate dinanzi a lui l'indovina Caterina La Voisin, Angelica comprese il senso della scena che aveva dinanzi. Indietreggiò e dovette appoggiarsi al muro. Barcarola le afferrò la mano e la strinse forte. Sussurrò: «Suvvia, non temere di nulla. Non possono sapere che sei qui.»
«Il demonio, lui, lo saprà: è uno spirito...» balbettò Angelica che batteva i denti. «Il demonio è partito. Vedi, la cerimonia è quasi terminata.» Un'altra donna si faceva avanti e s'inginocchiava. Sollevò il velo e Angelica riconobbe la signora di Montespan. Lo stupore le fece per un attimo dimenticare lo spavento. Come mai Atenaide, così intelligente, così orgogliosa, osava traviare il suo corpo di dea in quella sinistra parodia? Il prete le porse un libro su cui la marchesa posò le mani bianche, dagli anelli brillanti. Con voce tremante da scolara, recitò una preghiera. «In nome di Astarotte e di Asmodeo, principi dell'amicizia: chiedo l'amicizia del re e di monsignore il Delfino, che mai mi abbandoni; chiedo che la regina sia sterile, che il re rifiuti il suo letto e la sua tavola per me, che le mie rivali muoiano...» Angelica la riconosceva appena. Era una donna fuori di sè, trascinata dalla passione nei meandri di un'avventura orrenda, di cui non capiva neppure più il vero significato. I vapori azzurrini si fecero più densi, misti all'acre profumo dell'incenso, poi si dissiparono in nubi leggere che si sfilacciavano, ovattando i volti e dando loro l'inconsistenza degli incubi. Il cantore s'era taciuto. Aveva chiuso il libro e si era rialzato. Aspettava la partenza dell'assemblea grattandosi i fianchi. La voce della signora di Montespan domandò: «Avete la camicia?» «È vero, la camicia!» fece La Voisin sollevandosi. «Certo non l'abbiamo dimenticata, signora, al prezzo che l'avete pagata. Ma è un bel lavoro, me ne darete notizie. L'ho affidata a mia figlia, nel cesto. Marietta, porta il cesto.» Una bimbetta d'una dozzina d'anni venne fuori dalla nebbia, depose un cesto sul tappeto e ne trasse con mille precauzioni una camicia da notte di velo rosa ricamata finemente d'argento. «Stai attenta a non metterci troppo le dita,» disse la madre. «Serviti delle foglie di platano che ho preparato...» Angelica, nel suo nascondiglio, si morse il pugno a sangue. Aveva riconosciuto fra le mani di quella pericolosa bambina, una delle sue camicie preferite. «Teresa!» fece una voce. La servente di Angelica si presentò con l'espressione degli imbecilli che rappresentano una parte importante.
«Prendete, ragazza mia,» disse La Voisin. «Agite con precauzione. Ecco, vi do anche alcune foglie di platano per tenerla. Questo vi proteggerà... Non richiudere il cesto, Marietta, vi dobbiamo mettere... quel che sai.» Andò verso il fondo della stanza e tornò, reggendo un pacchettino di biancheria su cui si vedevano delle macchie di sangue. Angelica contrasse le palpebre, le mani strette sul petto per trattenere le grida di orrore che le salivano alle labbra: «Assassini! Miserabili! Mostruosi assassini!» Le confidenze di Maria Agnese le apparivano in lettere di fuoco dinanzi agli occhi... «Gli hanno trafitto il cuore con un lungo ago...» Non aveva più la forza di guardare. Udì che mettevano tutto a posto in un trambusto di sagrestia, ceri spenti e vasi d'argento che si urtavano tra loro. La voce sepolcrale e incrinata del prete disse: «State attenti che le sentinelle non guardino nel cesto.» Gli rispose il sogghigno della Voisin: «Nessun pericolo. Con tutte le protezioni che ho qui, mi fanno grandi inchini, le guardie, quando mi vedono passare.» Tornò di colpo il silenzio. Angelica riaprì gli occhi sull'oscurità. Barcarola aveva richiuso la porta. «Ne sappiamo abbastanza. E tu non sei in condizioni di sopportarne di più. Filiamo. Non ci mancherebbe altro che farsi pescare da quel topo di Bontemps che di notte va ficcando il naso dappertutto.» Tornati nell'appartamento di Angelica, Barcarola si issò sulla punta dei piedi per raggiungere la bottiglia di acquavite e per versarne due bicchierini. «Bevi. Sei color di luna. Non ci sei abituata come me. Caspita, io ho servito due anni da portinaio in casa della Voisin. La conosco bene. Li conosco tutti. Oh! Lei non è una donna cattiva. Ha molta scienza, soprattutto in chiromanzia e in fisiognomica; le ha studiate dall'età di nove anni. Mi ha detto che coloro che vengono a farsi leggere la mano, la maggior parte finiscono sempre per confidarle che vogliono essere sbarazzati di qualcuno. Al principio, era solita rispondere che le persone di cui volevano essere liberati sarebbero morte quando fosse piaciuto a Dio. Allora le dicevano che non era molto sapiente. Ora, ha mutato sistema. Così, è diventata ricca! Ah! Ah!» Barcarola schioccò la lingua dopo aver bevuto e si servì di nuovo. «Quel che mi preoccupa è quella storia della camicia. È tua, vero?»
«Sì.» «L'ho pensato. La vista della Teresa, la tua servente, in quel sabba, mi ha messo la pulce nell'orecchio. È sicuro e certo che la Montespan seguita a volerti mandare altrove, in un paese da cui non si ritorna. Ha nuovamente pagato La Voisin per fabbricarti un piccolo medicamento a modo suo. So che non molto tempo fa l'indovina si è recata in Alvernia e in Normandia per informarsi su segreti con i quali si potesse avvelenare senza che nessuno se ne accorga.» «Ora che sono avvertita, eviterò il trabocchetto. Del resto, so a chi chiedere consiglio.» Bevve con applicazione un secondo bicchierino. «L'altro, il prete, chi era?» «L'abate di Guibourg. Appartiene alla parrocchia di Saint-Marcel, a Saint-Denis. Fa un sacco di cose per il demonio. È lui che immola i bambini per bere loro il sangue.» Angelica raccolse tutte le sue forze per dire sottovoce: «Taci!» «In casa della Voisin c'è un forno in cui ha bruciato non meno di duemila bambini nati prima del termine o immolati.» «Taci!» «Bella gente, non e vero, marchesa? E che ha ottime relazioni! Hai veduto quegli che cantava i salmi, accanto a noi? Era Lesage, il "grande autore" della maga. Sembra che la signora di La Roche-Guyon sia la madrina di sua figlia. Uh! Uh! Uh!» «Taci!» gridò Angelica, fuor di sè. Afferrò una statuetta sulla mensola e la lanciò nella sua direzione. La statuetta si spezzò contro il muro. Barcarola fece una capriola e, seguitando a sghignazzare, si avviò alla porta. Ella udì l'ululare del suo riso allontanarsi per il corridoio. Quando, l'indomani sera, Teresa entrò nella camera portando la camicia di velo rosa, Angelica stava seduta dinanzi alla specchiera, in vestaglia. Sorvegliò la servente che posava con precauzione la camicia sul letto e preparava quindi il cuscino e le lenzuola per la notte. «Teresa!» «Signora marchesa?» «Teresa, sai che sono molto contenta dei tuoi servigi?...» La ragazza trasalì e si dondolò con un falso sorriso.
«La signora marchesa mi fa molto piacere.» «Vorrei perciò farti un piccolo dono, lo meriti. Siccome sei civettuola, ti regalerò la camicia che mi hai portato adesso. Prendila.» Vi fu un silenzio. Angelica si volse. Il volto divenuto cereo della ragazza era una terribile confessione. Un moto di collera e d'indignazione fece balzare in piedi Angelica. «Prendila,» ripeté con voce sorda, a denti stretti. «Prendila.» Le si avvicinò e i suoi occhi verdi sfolgoravano come smeraldi. «Non vuoi prenderla? Non vuoi prenderla? Io lo so il perché! Apri le mani, maledetta!» Teresa, smarrita, lasciò cadere le foglie di platano, che nascondeva strette fra le dita. «Le foglie di platano! Le foglie di platano...» urlò Angelica schiacciandole col tacco. Schiaffeggiò la ragazza di slancio, due volte, tre volte, da farle girare la testa dall'altra parte. «Vattene! Vattene! Ti scaccio. Vai a raggiungere il diavolo, il tuo padrone!» Con un gemito di terrore, Teresa, le braccia sul volto, si slanciò fuori. Angelica rimase lì, tremando in tutte le membra. Javotte, che si presentò pochi istanti dopo recando su un vassoio la colazione per la notte, la trovò, ancora in piedi in mezzo alla stanza, gli occhi perduti lontano. In silenzio, la fanciulla dispose sul tavolino da notte il vaso della marmellata, i panini e la bottiglia di sciroppo rinfrescante. «Javotte,» disse Angelica, «vuoi sempre bene a Davide Chaillou?» La fanciulla arrossì e i suoi occhi grigi e dolci si spalancarono. «È da molto tempo che non ci vediamo, signora marchesa.» «Ma tu lo ami sempre, non è vero?» Javotte chinò il capo con un sospiro. «Sì. Ma lui mi guarda appena, signora marchesa. È diventato un gran signore con il suo ristorante e la vendita di cioccolata. Si dice che sposerà la figlia di un notaio.» «La figlia di un notaio! Che bisogno ne ha, quell'imbecille? È una donna come te che gli occorre. Lo sposerai tu.» «Non sono abbastanza ricca per lui, signora.» «Lo sarai, Javotte. Ti farò io la dote. Ti darò quattrocento lire di rendita. E un corredo completo. Avrai ventisei lenzuola, camicie di batista di Cam-
brai, tovaglie damascate... Diverrai un partito così buono che quel giovane commerciante ripenserà al fascino delle tue guance rosa e del tuo grazioso nasino. So che non vi è insensibile.» La piccola servente sollevò su lei uno sguardo abbagliato. «Fareste questo per me, signora?» «Che cosa non farei per te, Javotte! Hai dato da mangiare ai miei piccini quando la nutrice di Neuilly li lasciava morire di fame.» Circondò con le braccia le spalle tonde sotto lo scialletto di mussolina e sentì un conforto nello stringere a sè quel corpo di adolescente. «Sei rimasta saggia, Javotte?» «Ho fatto del mio meglio, signora. Ho pregato la vergine Maria. Ma sapete come accade... Sì, con tutti questi lacchè insolenti o questi bei signori che vi fanno gli occhi dolci, ci sono delle volte in cui è difficile... Mi sono lasciata baciare, certo... Ma non ho mai commesso il peccato.» Angelica la strinse più forte, con un sentimento di ammirazione per il coraggio di quella orfanella sperduta nell'immensa corruzione di Versailles. «Ti ricordi, Javotte,» mormorò, «di quella sera in cui abbiamo preso possesso della casetta in via dei Franchi Borghesi? Oh! come eravamo felici. Avevo dato a Florimondo un cavallo di legno e al mio piccolo Cantor... una trottola, mi pare.» «No... un uovo di legno dipinto con altre uova dentro.» «Proprio così. Facemmo le frittelle. E quando l'annunciatore di morti passò gli lanciai un vaso d'acqua sulla testa perché non turbasse la nostra festa coi suoi lamenti.» Fece una risatina, ma i suoi occhi erano pieni di lagrime. «Per fortuna non sei stata tu, Javotte. Per fortuna non sei stata tu! Non avrei potuto sopportarlo. Ora va', piccina mia. Domani tornerò a Parigi per andare a trovare il signor David Chaillou e presto ti sposerai.» «Debbo aiutare la signora a svestirsi?» chiese Javotte con un gesto verso la camicia rosa. «No, lascia stare. Va', va', desidero restar sola.» Javotte se ne andò docilmente, non senza gettare passando uno sguardo discreto alla bottiglia d'acquavite per verificare se il contenuto non fosse troppo bruscamente calato. Capitava spesso alla signora marchesa, da qualche tempo. 20
Francesco Desgrez, luogotenente di polizia, sostituto del luogotenente generale il signor di La Reynie, non abitava più sul Piccolo Ponte, ma in un palazzo del sobborgo Saint-Germain. Angelica batté a una porta severa ma ricca, e dopo aver attraversato un cortile dove scalpitavano due cavalli sellati, fu introdotta in un salottino. Era venuta in portantina per non farsi riconoscere. Metteva a profitto, per quel passo, l'assenza della corte, recatasi in Fiandra ad accompagnare Madame che s'imbarcava per l'Inghilterra. Angelica, invitata, aveva chiesto al re di dispensarla dal viaggio. Egli era a quel punto dell'amore in cui le accordava tutto ciò che voleva, anche se avesse dovuto soffrirne. Libera, ella contava di organizzare la propria difesa. Era una lunga serata di primavera che rigava di rondini il cielo di Parigi. Nel salotto la luce declinante posava macchie d'oro. Ma la serenità della natura non riusciva a sciogliere l'ansia di Angelica. Le sue mani toccavano un pacchetto posato sulle ginocchia. Dovette attendere piuttosto a lungo. Finalmente, i visitatori che la precedevano se ne andarono. Udì voci nell'ingresso, poi, dopo un silenzio, il servitore venne a chiamarla e la fece salire fino al piano dove si trovava l'ufficio del poliziotto. Si era interrogata in anticipo sull'atteggiamento da osservare nei riguardi di quel vecchio amico ch'ella non aveva rivisto da molti anni. Nel panico che la spingeva verso di lui avrebbe voluto gettarglisi al collo, ma aveva riflettuto che un simile comportamento non conveniva al suo rango di marchesa di fronte a un uomo che aveva trascinato la sua giubba sdrucita in tutti i bassifondi di Parigi. Una cortesia un po' distante sarebbe stato l'atteggiamento migliore. Aveva curato la toilette: sobria ma costosa. Quando Desgrez si alzò, dietro il lungo tavolo da lavoro, ella capì che in realtà non si trattava di gettarsi al collo di un funzionario in parrucca, impeccabile dalla cravatta assai bene annodata sino ai nastri delle scarpe. Sotto la giacca di stoffa color tabacco appariva un po' ingrassato, ma sempre un bell'uomo, avendo perduro quella sua apparenza dinoccolata di affamato per un atteggiamento misurato, dietro il quale si sentiva tuttavia il suo vigore di un tempo. Gli tese la mano. Desgrez s'inchinò senza baciarla. Sedettero e Angelica cominciò subito a parlare sull'argomento della visita per allontanare i ricordi troppo intimi che si ostinavano a volteggiare tra loro.
Disse che un'amica l'aveva avvertita di un complotto contro di lei e che i suoi nemici avevano fatto «preparare» una camicia che doveva causare la sua morte. Non sapendo che credito accordare a tali sciocchezze, chiedeva consiglio. Desgrez aprì il pacchetto con mano rapida. Prese una specie di pinza sul tavolo e aprì la biancheria che si allargò languidamente alla calda luce delle candele. «Dovete essere deliziosa, qui dentro,» fece con il sorriso e l'antica intonazione del poliziotto Desgrez. «Preferisco non vedermici,» fece lei. «Non dev'essere il parere di tutti, questo.» «In particolare dei miei nemici.» «Non alludevo ai vostri nemici. Questa camicia mi sembra perfettamente inoffensiva.» «Vi dico che vi si nasconde un trabocchetto.» «Chiacchiere! La vostra amica deve avere molta fantasia. Se aveste veduto e udito voi stessa qualcosa, la questione sarebbe diversa.» «Ma io...» Si trattenne a tempo. Non voleva lasciarsi trascinare a fare nomi, a mettere addirittura in causa l'amante del re. Lo scandalo rischiava d'infangare troppi alti personaggi. Ella stessa non avrebbe pesato molto, di fronte a loro. Si rese conto in quel momento che la corte era un mondo chiuso, e che i poliziotti non dovevano ficcare il naso nei suoi drammi così come non dovevano ficcarlo nei regolamenti di conto della pitoccheria. Aveva fatto male a rompere quella tacita convenzione. Doveva difendersi da sola o morire. Madame glielo aveva fatto capire, una mattina a Saint-Cloud. Ma era troppo tardi per tornare indietro. La curiosità di Desgrez era stata destata. Lo capì dal particolare splendore dello sguardo sotto le palpebre abbassate. Disse con sforzo: «Ebbene! Forse avete ragione, dopo tutto. I miei timori non si basano su nulla di ben preciso. Sono davvero una sciocca.» «Ah, no! Siamo abituati a non trascurare neppure il fumo più leggero. Le indovine posseggono strani segreti. È una brutta razza di cui ci piacerebbe assai liberare Parigi. Adesso farò esaminare questa cosa incantevole.» Con l'abilità di un illusionista rimise la camicia nel suo involucro e la fece scomparire. Un sorriso indefinibile gli correva sulle labbra. «Un tempo, avevate avuto dei fastidi con la Compagnia del Santo Sacramento. La vostra vita svergognata indignava quei potenti devoti. Avevano giurato la vostra morte. Non sono dunque i vostri soli nemici?»
«C'è da crederlo.» «Insomma, avete trovato il sistema per farvi mettere in mezzo fra Dio e il diavolo?» «Proprio così.» «Non mi stupisce, da parte vostra. Ne avete sempre fatte di grosse.» Angelica si oscurò. Aveva perduto l'abitudine di vedere persone di un rango inferiore al proprio parlarle con quella familiarità. Disse: «Questo è affar mio. Tutto ciò ch'io desidero sapere è se un pericolo mi minaccia, e di quale natura.» «I desideri della signora marchesa saranno esauditi,» affermò Desgrez piegandosi in un profondo inchino. Quindici giorni dopo, le fece recare un biglietto a Versailles. Per Angelica non fu facile liberarsi. Appena lo poté, si recò all'appuntamento. «Allora,» interrogò ansiosa, «si tratta di uno scherzo?» «Forse. Ma il meno che se ne possa dire è che è un brutto scherzo.» Il poliziotto prese un rapporto sul tavolo e lo lesse: «... "Dopo essere stata indossata, è apparso che la camicia, impregnata di una sostanza venefica invisibile e sconosciuta destinata a entrare in contatto con le parti più intime del corpo, vi sviluppava una malattia di apparenza venerea che ben presto si trasmetteva al sangue, provocando su tutta la pelle piaghe purulente, quindi saliva al cervello portando delirio, incoscienza e morte. Lo sviluppo di questi sintomi è estremamente rapido, e la morte sopravviene in un lasso di tempo che non supera una decina di giorni." Firmato da uno dei medici giurati dell'ospedale di Bicêtre.» La giovane donna, a bocca aperta, gli occhi sbarrati, rimase paralizzata dallo stupore. «Volete dire che...» balbettò, «... ma come avete potuto giudicare di simili effetti? Non volete mica dire che avete fatto portare questa camicia da un essere vivente?» Desgrez, con un gesto della mano, trascurò il particolare. «Vi sono delle pazze a Bicêtre che non hanno più molto da perdere. Non ve la prendete. Sappiate soltanto che la fine di una di quelle infelici attesta della virulenza dei vostri nemici, e della sorte che vi era riservata: dovevate morire in un periodo di tempo molto rapido dopo una orribile e ignominiosa agonia.» Fece una pausa. Angelica era atterrita. Non trovava una parola da dire e del resto, a che scopo parlare? Si alzò macchinalmente. Desgrez girò intorno al tavolo per porlesi dinanzi.
«Chi è la vostra nemica oppure chi è la maga pagata da lei?» «Sinceramente, lo ignoro.» «Avete torto.» Il tono metallico e tagliente del poliziotto la offese. Era lei la vittima, non la colpevole. «Signor Desgrez, la vostra cortesia mi è stata utilissima. Naturalmente, regolerò le spese che l'inchiesta ha provocato.» Il volto di Desgrez si aprì in un sorriso caustico che non gli giungeva agli occhi. «Non so: ancora a che prezzo può valutarsi una vita umana e una settimana d'agonia. Farò i miei calcoli. Nell'attesa, dovete alla polizia, signora, un gesto di considerazione. Il signore di La Reynie mi ha incaricato di dirvi che desidera assolutamente parlare con voi.» «Quando capiterà l'occasione parlerò con lui.» «L'occasione è qui,» fece Desgrez, che con due balzi andò ad aprire una porta. Entrò il signor di La Reynie. Angelica aveva già incontrato il luogotenente generale di polizia. Stimava quel magistrato, di cui si diceva ch'era uomo di grande virtù e capacità. Non aveva raggiunto la quarantina. Il suo sguardo mostrava una intelligenza chiara, forte e ponderata. E vi era anche una certa bontà sulla sua bocca, ombreggiata da lievi baffi bruni. Ma Angelica, dato il suo tenebroso passato, aveva imparato a diffidare della bontà dei poliziotti. Era proprio di essa che diffidava maggiormente. Il signor di La Reynie le parve un avversario più pericoloso di Desgrez. Egli le baciò la mano e la condusse con modi cortesi verso la poltrona da cui si era alzata. Egli stesso sedette al posto di Desgrez che rimase in piedi, appoggiato con le mani al tavolo, senza lasciare con lo sguardo la giovane donna. «Signora,» disse il magistrato, «mi vedete profondamente sconvolto al pensiero dell'atroce attentato di cui per poco non eravate vittima. Metteremo in opera ogni mezzo per proteggervi. Se ciò è necessario, ne riferirò al re, perché mi dia pieni poteri.» «No! Per favore, non andate a seccare il re con questa storia.» «La vostra vita è in giuoco, signora. Il re se la prenderebbe con me se non riuscissi a smascherare i vostri nemici. Ditemi come si sono svolti i fatti.» Parlando in punta di labbra, Angelica fornì la spiegazione che aveva già dato a Desgrez.
«Il nome della persona che vi ha avvertito?» «Mi è impossibile nominarla.» «Ë indispensabile che l'interroghiamo.» «La signora del Plessis-Bellière non può nominarla,» fece Desgrez soavemente, «perché quella persona non esiste. La signora del Plessis è stata avvertita del pericolo perché ha visto o udito cose precise, e non vuole dirle.» «Che interesse avreste a tacere, signora?» fece La Reynie con tono ragionevole. «Potete contare sulla nostra discrezione.» «Non so nulla, signor luogotenente generale, e la persona che mi ha avvertita non sono nemmeno sicura di poterla ritrovare. Ignoro dove abiti...» «La signora marchesa mente,» disse Desgrez. «Ha la lingua secca.» Andò a prendere un vassoio con sopra due bicchieri e una bottiglia. Angelica, sconcertata, accettò tuttavia il bicchierino di alcool, perché sapeva che le era necessario per ritrovare il suo sangue freddo. Bevve senza fretta guardando in fondo al bicchiere il liquore dorato. Rifletteva. I poliziotti attendevano pazientemente. «A mia volta, signor luogotenente generale, vorrei chiedervi quale potrebbe essere il mio interesse a tacere se ne sapessi di più sul male che mi si vuole.» «Quello di non voler che si sappiano turpitudini cui voi siete mescolata e che la vostra coscienza vi rimprovera,» fece Desgrez duramente. «Signor luogotenente generale, il vostro subordinato oltrepassa i suoi diritti. Sono molto indignata dell'accoglienza che trovo presso di voi. Penso che non ignoriate il mio rango alla corte e la stima in cui mi tengono le loro maestà.» La Reynie l'osservava in silenzio e nel suo sguardo diritto si leggeva una profonda conoscenza dell'animo umano. Neppure lui le credeva. «Che cosa sapete?» ripeté dolcemente. «È il vostro mestiere quello di sapere!» gridò lei con ira. Strinse nervosamente tra le palme il bicchierino di alcool che cacciò giù d'un colpo. Desgrez subito glielo riempì. Angelica non osava ancora alzarsi, nonostante la sua agitazione. «Che prendiate le parti di questo volgare personaggio che vi assiste mi stupisce, signor di La Reynie. Mi lamenterò con il re.» Il magistrato emise un profondo sospiro. «Il re mi ha investito di un compito assai pesante, ma al quale adempirò del mio meglio. Far regnare l'ordine non solo nella città ma nel regno, sco-
vare il delitto dovunque si nasconda. Ora, vi è stato un delitto, o almeno vi è stata un'intenzione criminale. Ne ho veduto la tremenda prova. Mi sono recato io stesso a Bicêtre. Dovete aiutarci, signora, così come noi siamo pronti ad aiutarvi. Ripeto: la vostra vita è in pericolo.» «E se vi dicessi che m'importa poco?» «Non ne avete il diritto... e ancor meno, di farvi giustizia da sola.» Vi fu un breve silenzio. «Si parla davvero troppo delle streghe,» rispose La Reynie. «Sino ad ora non volevo vedere in queste indovine o maghe e in coloro che le consultano se non dei buffoni che estorcono il denaro degli sfaccendati curiosi di farsi leggere la mano, o altre sciocchezze del genere. Ma comincio a sospettare che si debba dare loro un altro nome, sia agli uni che agli altri...» Mormorò con voce sorda: «Sono forse assassini! Mostruosi assassini!» Angelica sentì un freddo sudore bagnarle le tempie. Si passò le dita tremanti sul volto, e nello sguardo patetico che gettò sui due uomini, questi lessero il riflesso di una visione atroce. «Parlate, signora,» disse con dolcezza La Reynie. «No, non dirò nulla.» «Vi è dunque qualche cosa da dire.» Ella tacque e Desgrez le riempì il bicchierino. «Non importa,» disse La Reynie severamente. «Non volete parlare voi, ma altri parleranno. Un giorno, solleveremo il velo...» Angelica abbandonò la testa all'indietro con una specie di risata metallica e disillusa. «Impossibile, signor di La Reynie, impossibile...» Un giorno, vari anni dopo, il signor di La Reynie sarebbe entrato nello studio del re e portandosi la mano agli occhi avrebbe detto: «Sire, questi delitti mi spaventano.» Avrebbe aperto la pratica di ciò che la storia chiamerà «L'affare dei veleni» e sarebbero venuti fuori tutti i grandi nomi di Francia, infangando i gradini del trono d'una lava infernale. Con mano implacabile, l'austero magistrato avrebbe spogliato della loro armatura dorata le anime feroci e i cuori guasti. Ma avrebbe dovuto tuttavia indietreggiare dinanzi a un nome, il nome che Angelica quel giorno taceva. Forse allora avrebbe riveduto quella donna un po' smarrita, dal viso deluso, che gli gridava: «Impossibile!»
Angelica si alzò vacillando. Quel liquore era terribilmente forte, ma Desgrez si era ingannato pensando che le avrebbe sciolto la lingua. L'alcool la rendeva taciturna e ostinata. Si appoggiò al tavolo. Aveva la lingua impastata. «Machiavelli ha detto, signori... sì, Machiavelli ha detto: "Se gli uomini fossero buoni tu stesso potresti essere buono e seguire in tutto i precetti della giustizia, ma siccome essi sono cattivi tu stesso devi essere cattivo."» Il luogotenente di polizia e il suo aiutante si scambiarono uno sguardo. «Lasciamo andare,» disse il signor di La Reynie sottovoce. S'inchinò dinanzi ad Angelica, che non lo vide neppure. Camminava con le gambe che le tremavano verso la porta. Desgrez la seguì e la guidò nell'ingresso oscuro dopo ch'ella ebbe inciampato contro una mensola e una porta chiusa. «State attenta alle scale, potreste cadere.» La giovane donna si aggrappò alla balaustrata e si volse a lui. «Il vostro atteggiamento è rivoltante, signor Desgrez. Sono venuta da voi come da un amico, ed ecco che mi avete fatto subire un interrogatorio insultante, come se mi giudicaste colpevole. Di che cosa?...» «Di essere solidale con quelli stessi che cercano la vostra morte. Voi pensate che la polizia non debba immischiarsi nel vostro mondo. Si paga una servente per far scivolare del veleno nella tazza di una rivale, si paga un lacchè per raggiungere all'angolo della via un nemico che vi dà fastidio...» «Mi sospettereste capace di tali gesti?» «Se non siete voi sono i vostri, come direbbe quell'amabile favolista di La Fontaine, che voi patrocinate.» «E credete che a forza di vivere tra loro diverrei come loro?» Subito rettificò mentalmente: «che sono già divenuta come loro?» Non pensava di comprare una servente per spiare la Montespan? Di mandare Malbrant Colpo di Spada ad assassinare Duchesne all'uscita dall'Opera? Lo sguardo di Desgrez era un'accusa. Si vide a un tratto così come egli la vedeva, con la sua toilette e i suoi gioielli che costavano da soli un'annata di vita di una famiglia di artigiani. Era la bellissima marchesa del Plessis, ma già forse impercettibilmente appassita per le notti di veglia e la serie febbrile dei festeggiamenti, con pupille ardenti di donna che beve troppo, il belletto e la cipria che per forza di abitudine si accentua un po' ogni giorno, sino a non avere più che una maschera artificiale da commediante, la boria che diviene naturale, la voce che s'ingrossa e indurisce...
Scese le scale, le labbra strette su un lamento. «Desgrez, amico mio Desgrez, aiuto! Aiuto, mio passato! Aiuto, mia perduta anima... Nessuno avrà pietà di me, che posseggo tutto! Non è possibile che me ne vada così, con il peso dei miei gioielli sulle mani e sulle spalle, e su questo cuore il peso mortale della solitudine...» Si girò verso il poliziotto in uno slancio di angoscia e stava per cadere all'indietro. Egli la trattenne appena in tempo. «Decisamente, siete ubriaca come una botte. Non vi lascerò scendere oltre. Arrivereste in pezzi.» Sostenendole il braccio con autorità le fece risalire i pochi gradini e l'introdusse di forza in una camera. Ella balbettò: «È colpa vostra, sudicio poliziotto, con quel torcibudella che mi avete fatto bere.» Desgrez accese due candele. Avvicinò la luce al volto di Angelica per osservarla curiosamente. Gli angoli delle sue labbra fremevano come s'egli avesse trattenuto un'improvvisa voglia di sorridere. Angelica, una mano sulla bocca, lottava contro un incoercibile singhiozzo. «Bel linguaggio, marchesa,» disse il poliziotto sottovoce, «e allora, cominciamo a ricordarci del passato?» Angelica scosse la testa furiosamente. «Non crediate di farmi parlare come quel giorno,» disse riprendendosi varie volte. «Non dirò una parola... neppure una parola.» Desgrez mise il candeliere su una mensola come se vi piantasse un pugnale. Prese a camminare su e giù con agitazione. «Lo so bene, perdinci, che non direte una parola... Sul cavalletto, sulla ruota, non direste una parola. Ma come fare, allora? ... Come fare per difendervi? Il tempo che occorre per cercare la pista, per trovarla, per preparare i trabocchetti, e voi sarete già passata nell'altro mondo. È questo almeno il primo attentato al quale sfuggite? No, non è vero?... Che cosa c'è?... Che cosa avete?» «Oh! Vorrei vomitare,» gemette Angelica, sentendosi male. Il poliziotto l'afferrò energicamente e le mantenne la fronte. «Fatelo! Vi farà bene. Tanto peggio per il tappeto.» «No,» protestò lei riuscendo a dominarsi. Si liberò e si appoggiò al muro, pallida,, gli occhi chiusi. «Oh! Vorrei vomitare!» ripeté a voce bassa, «vorrei vomitare la mia vita. Vogliono uccidermi? Ebbene! Che mi uccidano. Almeno potrò dormire, riposarmi, non pensare più a nulla.»
«Questo no,» disse Desgrez. La sua mascella si strinse fino a dargli un'aria feroce. Le si avvicinò e le prese le braccia per scuoterla. «Non farete mica questo, eh? Non vi lascerete andare? Dovete difendervi, voi. Altrimenti siete perduta, lo sapete bene.» «Me ne infischio!» «Non ne avete il diritto. Voi no. Non avete il diritto di morire. E della vostra forza, cos'è che ne avete fatto? Del vostro gusto delle battaglie, delle vostre piccole idee precise, della vostra rabbia di vivere e di trionfare. Che cosa ne avete fatto? Vi hanno preso anche questo, a corte?» La scuoteva come se avesse voluto destarla da un incubo, ma ella si lasciava fare, triste e senza reazione, a testa china. Egli indietreggiò di qualche passo per contemplarla con furore. «Buon Dio!» imprecò. «Ecco che cosa ne hanno fatto della Marchesa degli Angeli! Un bel lavoro, davvero, c'è da esserne fieri. Arrogante, testarda e inoltre nemmeno più...» La collera di Desgrez la circondava di strani effluvi che, attraverso la depressione nella quale precipitava, le recavano una corrente nuova, un'indefinibile impressione di gioia, perché dietro il magistrato duro e corretto, era l'antico Desgrez che esplodeva con la sua violenza, il suo carattere pieno d'imprevisti, quello spirito caustico e indipendente che apparteneva soltanto a lui. Egli riprese a camminare su e giù, scomparendo nell'ombra della stanza per riapparire d'un tratto alla luce, sempre fuori di sè. «E questo?» disse avvicinandosi per toccare le collane di diamanti e la croce di perle che ornavano il collo e la gola di Angelica. «Si può forse raddrizzare la testa con simile rigatteria addosso? Peserà cento libbre! Non c'è da meravigliarsi che si pieghi la schiena, che ci si trascini in ginocchio, che ci si stenda per terra... Toglietevi tutto. Non voglio più vedervi con questa roba.» Le sue mani le si posarono sulla nuca per trovare il fermaglio della collana, che gettò sul cassettone. Tolse la croce scompigliandole un po' i capelli. Le prese i polsi per toglierle i braccialetti ad uno ad uno e li buttò sul mucchietto brillante delle collane. Quell'operazione calmava la sua ira e cominciava a divertirlo. «Per il Padre Eterno protettore dei pitocchi, mi sento l'anima di un ladro di Parigi. Ce n'è di roba buona, cari miei. Avanti per la vendemmia!»
Quando sfiorò la guancia di lei per slacciarle gli orecchini ella sentì l'odore di tabacco delle sue forti mani. Le lunghe ciglia chine di Angelica fremettero. Sollevò gli occhi, vide vicinissimo lo sguardo rosso del poliziotto Desgrez che si accendeva dal fondo del passato e la riportava a quel giorno di autunno in cui, nella casetta del ponte di Notre-Dame, aveva saputo in una ben strana maniera trarla dalla disperazione e rianimare la sua speranza. Le mani maschili, calde, un po' rudi, le lisciarono a lungo le spalle nude. «Ecco! Ci sentiamo più leggeri, vero?» Angelica ebbe un brusco brivido, il fremito di un animale che si desta dopo una lunga immobilità. Le mani rafforzarono la stretta. «Non posso far nulla per difendervi,» disse Desgrez con voce bassa e roca, «ma posso almeno tentare di farvi coraggio. E credo che io solo al mondo ne sia capace. È la mia specialità, se ho buona memoria.» . «A che scopo!» ripeté lei, stanca. Era senza forze e tutto le faceva paura. «Un tempo, eravamo amici. Ora, non vi conosco e voi non mi conoscete più.» «Ci si può ri-conoscere.» La sollevò, le mani intorno alla vita, e sedette in una poltrona posandosela sulle ginocchia come una bambola nella corolla spiegata della pesante gonna. Gli occhi di lei, vaghi e che non si fissavano su nulla, gli facevano male. «Che rovina!» pensava. Tuttavia era lì, dietro lo schermo degli anni perduti, ed egli l'avrebbe ritrovata. Dietro quegli anni perduti e che non avrebbero mai dovuto interrompersi. Perché era tornata? La chiamò, sotto lo slancio del sentimento inconfessato che gonfiava il suo cuore di uomo. «Piccola mia!» Quel grido destò nuovamente Angelica, la ricondusse alla superficie ed ella raddrizzò la testa per esaminare quel volto. Desgrez si concedeva delle tenerezze, Desgrez rendeva le armi! Una cosa davvero impensabile. Ne vide lo sguardo brillante e nero accanto al proprio. «Una sola ora,» mormorò lui, «per una sola donna, in una sola vita, puoi permetterti questo, poliziotto? Essere debole e stupido un'ora sola!» «Oh! sì,» fece lei a un tratto. «Oh, sì fatelo, ve ne prego.» Gli mise le braccia al collo appoggiandogli la guancia alla sua. «Come si sta bene accanto a voi, Desgrez! Oh! come si sta bene!»
«... Sono rare le sgualdrinelle che mi hanno cantato questo ritornello,» brontolò Desgrez. «Avrei piuttosto preferito essere altrove. Ma tu, tu non sei mai stata come le altre!» Cercava tenacemente il contatto della guancia tiepida respirando ad occhi chiusi il profumo raffinato che emanava dalla sua pelle e dallo scollo del corsetto dolcemente ombreggiato. «Non mi avete dunque dimenticata, Desgrez?» «Come vi si può dimenticare?» «Avete imparato a disprezzarmi...» «Forse. E quand'anche fosse, che cosa muta? Sei sempre tu, qui, Marchesa degli Angeli, sotto la seta, il raso, sotto l'oro e i diamanti così grevi.» Ella gettò la testa all'indietro come se avesse sentito di nuovo le sue catene. Il suo malessere persisteva e respirava male, oppressa da un peso che forse non era se non quello delle lagrime che non poteva versare. Si portò la mano al duro corsetto, lamentandosi. «Anche il vestito è pesante.» «Lo toglieremo,» fece lui, rassicurante. Le braccia la racchiudevano in un cerchio di sicurezza. L'incubo si allontanava. In quel momento, nessuna poteva più colpirla. «Bisogna smettere di aver paura,» mormorò Desgrez, «la paura chiama la disfatta, tu sei forte come gli altri. Puoi tutto. Non credi che sarebbe un peccato lasciar "loro" partita vinta? Forse "loro" ne valgono la pena? Forse sono degni di offrirsi la morte di una Marchesa degli Angeli? Neanche per sogno! Mi stupirei. Carogne avvolte in merletti, ecco quello che sono e tu lo sai bene. Non ci si abbandona a nemici di tal genere.» Le parlava sottovoce, come a una bambina che si vuol far ragionare, reggendola con una mano mentre con l'altra toglieva metodicamente le spille della camicetta, snodava i lacci delle gonne. Ella ritrovava i suoi gesti sicuri di cameriera che, se rivelavano molte cose sulla varietà delle avventure amorose del poliziotto Desgrez, davano almeno alle donne la confortevole impressione di essere fra le mani di qualcuno che se ne intendeva. Cominciava appena a chiedersi, in un lampo di lucidità, se dovesse lasciarlo fare, ma già si trovava seminuda fra le sue braccia. Uno specchio sulla parete le rimandò la visione della bianchezza del suo corpo, emerso dal baluardo di velluto azzurro e di pizzi che formavano ai suoi piedi i vestiti caduti. «Ed ecco la bella di un tempo!»
«Sono dunque sempre bella, Desgrez?» «Ancora più bella, per mia disgrazia. Ma il tuo nasino è freddo, i tuoi occhi sono tristi, la tua bocca è dura. Non è stata baciata abbastanza.» Le prese le labbra per un rapido bacio. Non la trattava brutalmente sentendola spezzata, disabituata all'amore da tormenti ossessionanti; ma, a mano a mano ch'ella si rassicurava, egli accentuava l'arditezza delle carezze, ridendo nel vederla perdere la sua espressione abbattuta, mentre un sorriso esitante le affiorava sul volto. Sotto la carezza della mano ardente, incurvava le reni, si rovesciava adagio contro la spalla di lui. «Non più così fiera come poco fa, eh, marchesa? Che cosa resta, dopo tolte le belle vesti? Una gattina dagli occhi verdi e brillanti che reclamano. Una piccola quaglia grassottella, nutrita alla tavola del re... Eri più magra, un tempo. Si sentivano le ossa, sotto la pelle... Ora, sei tutta tonda. Tenera a puntino... Piccola quaglia! Piccola colomba! Tuba un pochino. Ne muori di voglia!» Desgrez era sempre Desgrez. La stoffa della sua bella giubba nascondeva in realtà lo stesso cuore, lo stesso petto vigoroso coperto dalla casacca rappezzata di un tempo. Le sue mani erano sempre le stesse, autoritarie e attente, che sapevano ciò che volevano e lo cercavano insidiosamente, fino a che la donna si trovasse contro di lui come paralizzata dalla dolce invasione del piacere. Era in realtà lo stesso sguardo di uccello da preda, un po' beffardo, che spiava la sua resa, divertendosi della sua impazienza, della sua febbre amorosa, delle balbettanti confessioni di cui avrebbe arrossito più tardi. Alla fine, la trascinò verso l'alcova, in fondo alla stanza, lontano dai candelieri, e a lei piacque l'ombra in cui la seppelliva, la freschezza del letto, l'anonimato del corpo virile che la raggiungeva. A tastoni, incontrò il petto villoso, ritrovò un odore dimenticato e, nel delirio in cui sprofondava, si ricordò che Desgrez era l'unico amante che non l'avesse rispettata e che, anche quella sera, certo non l'avrebbe rispettata. Già ne manifestava l'intenzione. Non si difese. Per un paradosso che non cercava di analizzare, si accorgeva che se l'uomo l'aveva a volte spaventata e rivoltata, l'amante le ispirava un'infinita fiducia. Con lui, si sentiva a suo agio. Egli solo possedeva l'arte inimitabile di mettere l'amore e le donne al loro posto. Un buon posto, dove le sue amanti, né disprezzate né idolatrate, si sentivano le allegre compagne di quei giuochi saporosi, di quei godimenti pagani che fanno il sangue caldo, il corpo vivo e la mente leggera.
Si abbandonò senza reticenze all'ondata di sensualità che la invadeva. Si lasciò trascinare nel flusso inebriante. Con Desgrez, ci si poteva permettere d'essere volgari. Si poteva gridare, delirare, dire qualsiasi cosa, ridere o piangere scioccamente. Egli conosceva tutti i modi per destare e stimolare il desiderio e la voluttà d'una donna, e se ne serviva da maestro. Sapeva mostrarsi esigente o incoraggiante a volta a volta. Angelica, in suo potere, perdeva la nozione del tempo. La lasciò soltanto quando non ebbe più forze, supplichevole e ubriaca al tempo stesso, un po' smarrita, un po' vergognosa, e in fondo meravigliata delle proprie risorse. «Desgrez! Desgrez!» ripeteva, con una piccola voce fioca che lo commuoveva. «Non ne posso più... Oh! Che ora è?» «Assai tardi, certamente.» «E la mia carrozza che mi aspetta di sotto!» «I miei domestici ne hanno di sicuro preso cura.» «Debbo andar via.» «No. Dovete dormire.» La trattenne contro di sè, sapendo che un breve sonno avrebbe spazzato via gli ultimi miasmi della sua paura. «Dormi! Dormi! Sei bellissima... Sai fare tutto: l'amore e le moine ai poliziotti. Sai bene che qualche cosa c'è che ti aspetta laggiù, in fondo alla vita... Non vi rinuncerai. Sai bene di essere tu la più forte...» Parlava e udiva il respiro lieve e regolare, nel profondo sonno in cui ella era precipitata, come una bimba. Si mosse allora un poco per appoggiarle la dura fronte sul petto tra i seni tiepidi e gonfi. «Una sola ora per una sola donna in una sola vita,» pensava, «puoi permetterti questo, poliziotto, essere innamorato? Sarebbe stato meglio per te che fosse morta e tu le hai reso la vita. Imbecille!...» 21 «E ora, Desgrez, che occorre fare?» «Lo sai quanto me.» L'aiutava a rivestirsi nelle prime luci dell'alba che facevano impallidire le candele. «Quel che occorre fare? Pagare la servente per avvelenare, l'accompagnatore per spiare, il lacchè per assassinare.» «Mi date strani consigli, poliziotto.»
Desgrez le fece fronte per guardarla negli occhi. Aveva il volto serio. «Perché sei tu ad aver ragione,» disse. «La giustizia non può entrare là dove tu vivi. Troppo in alto per la giustizia! Il signor di La Reynie lo sa anche lui. Quando si fa appello a noi è per una parodia, e noi saremmo piuttosto incaricati di arrestare la gente dabbene come quel buon vescovo Valence, consigliere di Madame, che bisognava punire per la sua buona influenza su Monsieur. Un giorno, arriveremo lassù e la giustizia colpirà tutti. Ma l'ora non è ancora venuta. Per questo ti dico: hai ragione. In un mondo malvagio si deve essere malvagi. Uccidi, e uccidi ancora se occorre. Non voglio che tu muoia.» La tenne stretta a sè, guardando fisso al di là della testa bionda. «Bisogna diventare come gli altri. Non hai una qualche idea di ciò che farebbe paura a quella donna? Di ciò ch'ella teme?» «Come sapete che si tratta di una donna?» chiese Angelica, gli occhi tondi dallo spavento. «La storia della camicia è un'idea da donna. E non vedo perché un uomo vorrebbe sopprimerti. Certo non è sola, ma è lei che comanda. Tu sai perché ti odia e sai ciò che quella puttana teme. Devi provarle che sei forte come lei, domarla, farle capire che deve smetterla di divertirsi con i delitti. Ë un brutto affare. Le può ricadere sullo stomaco, un giorno o l'altro.» «Credo di avere un'idea,» disse Angelica. «Brava!» Le passò dietro per fissare i nodi della terza gonna. «Ecco come si diventa una donna pericolosa,» disse con un sorriso caustico. «Ed ecco come di un uomo coriaceo si fa un agnellino. Che cosa devo fare ancora per il servizio della signora marchesa? Quale consiglio devo ancora dare? Quale sciocchezza devo commettere?» Le girava intorno con gesti da sarto mondano, facendo gonfiare con un buffetto il mantello, rettificando una piega qua e là, e la sua mimica manierata contrastava con l'espressione furiosa del volto. «Almeno, salva la tua vita. Ch'io possa perdonarmi.» Angelica lo guardò bene in faccia ed egli poté vedere, in fondo alle pupille trasparenti, accendersi una luce, il segno della sua forza di donna furba e indomabile. «La salverò, Desgrez. Ve lo prometto.» «Bene. Non avrò dunque perso interamente il mio tempo, in questo affare. Ed ora, la collana.»
Le abili mani le ripassarono intorno al collo le collane, rimisero ai polsi e alle braccia i gioielli. «Ecco fatto!» terminò mettendole gli orecchini. «Ecco la giumenta reale impennacchiata.» Angelica gli diede un colpetto con il ventaglio, rinunciando ad arrabbiarsi. «Insopportabile poliziotto!» Ma raddrizzava il busto sotto il carico sontuoso, sentendosi di nuovo gran dama. Così avrebbe affrontato la signora di Montespan. Sapeva che, quando lo voleva, il suo portamento, il suo passo, potevano essere almeno altrettanto intimidenti di quelli della Mortemart. E aveva per sè l'amore del re, e già la sottomissione premurosa di una corte che voleva piacere solo al monarca e avrebbe respinto d'un sol colpo l'idolo passato. Gli occhi azzurri sarebbero stati costretti ad abbassarsi dinanzi allo splendore degli occhi verdi. Angelica raddrizzò il mento e andò verso la porta. Desgrez la trattenne posandole pesantemente le mani brune e muscolose sulle spalle. «Ascoltami, ora,» disse. «Quel che devo dirti è serio e non te ne parlerò mai più. Non voglio più vederti... Mai più. Ho fatto tutto ciò che potevo per te. Ora spetta a te agire. Hai rifiutato l'aiuto della polizia nei tuoi affari, e forse hai ragione. Soltanto, finito di correre dietro all'amico Desgrez quando la casa brucia. Capito?» Ella lo guardò e lesse nei suoi occhi oscuri la confessione che quell'uomo indurito e buono non le avrebbe mai fatto. Un po' pallida, scosse la testa affermativamente. «Ho la mia strada tracciata ed ho bisogno della mia testa fredda per seguirla,» riprese Desgrez. «Tu mi faresti fare delle sciocchezze. Non voglio più vederti. Se un giorno avrai da fare rivelazioni alla polizia, rivolgiti al signor di La Reynie. Egli è più qualificato di me per ricevere le gran dame della corte.» Si chinò e rovesciandola fra le braccia, le applicò sulle labbra un bacio brutale, cattivo, ma che a poco a poco diventava appassionato, gustando disperatamente il sapore della bocca adorata. «Questa volta è finito. Capito,» pensò lei. «Addio, poliziotto. Addio, amico mio!» Doveva procedere sola o morire. Tuttavia, il viatico che aveva ricevuto non sarebbe stato dato invano.
I consigli di Desgrez avevano illuminato la sua lanterna. «Tenerla a sua volta con la minaccia.» Il caso la servì il giorno dopo, mentre si recava in carrozza da Parigi a Saint-Germain. Una carrozza da nolo era rovesciata nel fossato e, avvicinandosi, Angelica riconobbe nella giovane donna che aspettava impaziente sul ciglio della strada, una delle accompagnatrici della signora di Montespan, la signorina Desoeillet. Si fermò e le fece segno amichevolmente. «Ah! Signora, in quale guaio mi trovo,» esclamò la ragazza. «La signora di Montespan mi ha mandato per una commissione urgente e che non soffre ritardo ed eccomi immobilizzata da una mezz'ora. Quell'imbecille di cocchiere non ha veduto una grossa pietra in mezzo alla strada.» «Andavate a Parigi?» «Sì... cioè a dire a mezza strada. Ho appuntamento all'incrocio del Bosco Secco con una persona che doveva consegnarmi un messaggio per la signora di Montespan. E se sono troppo in ritardo quella persona rischia di ripartire. La signora di Montespan ne sarebbe terribilmente contrariata.» «Salite dunque. Faccio girare i cavalli.» «Signora, siete molto buona.» «Non posso lasciarvi nei guai, e sono lieta di fare un piacere ad Atenaide.» La signorina Desoeillet raccolse le gonne e sedette rispettosamente sull'orlo del sedile. Sembrava turbata e inquieta. Assai graziosa, aveva in tutta la sua persona quel non so che di ardito che la signora di Montespan sapeva comunicare a chi le stava intorno. Le sue accompagnatrici si riconoscevano dal modo di parlare, dallo spirito e dal gusto. Le faceva donne di mondo a propria immagine, disinvolte e prive di scrupoli. Angelica l'osservava con la coda dell'occhio. Aveva già pensato di rendersi alleata una delle compagne della sua nemica, e più particolarmente quella Desoeillet, di cui aveva notato la debolezza. Era una giocatrice impenitente e che barava. Ci voleva un occhio esercitato per accorgersene. Angelica, un tempo, aveva imparato dalle sue antiche conoscenze della Corte dei Miracoli certi accorgimenti comunemente usati nelle bische. Senza dubbio alcuno la signorina Desoeillet li metteva in opera. «Ah! eccoci giunte,» disse la fanciulla mettendo il naso al vetro. «Dio sia lodato! La bambina è ancora lì.» Abbassò il vetro mentre Angelica gridava al cocchiere di fermarsi. Staccandosi sullo schermo verdeggiante della foresta, una bimba di circa dodici anni che aspettava sul limite degli alberi avanzò verso la carrozza.
Era vestita semplicemente e con in capo una cuffietta bianca. Porse un pacchettino alla signorina Desoeillet che parlamentò un attimo con lei sottovoce, poi le consegnò una borsa tra le cui maglie brillavano alcuni scudi d'oro. L'occhio di Angelica calcolò, pressappoco, ciò ch'essa poteva contenere. Il risultato le fece aggrottare le ciglia. «Che cosa può contenere quel pacchettino per meritare un prezzo così alto?» disse fra sè e sè sogguardando l'oggetto che la signorina Desoeillet nascondeva nella borsa. Le parve scorgere una bottiglietta. «Possiamo ripartire, signora,» disse la giovane, visibilmente sollevata per aver condotto a buon fine la propria missione. Mentre la carrozza girava intorno alla croce, Angelica guardò di nuovo, macchinalmente, la bambina la cui cuffia bianca si staccava sullo schermo verde della foresta. «Dove ho già veduto quella bambina?» pensò con un certo malessere. Stette un momento in silenzio, mentre la carrozza si slanciava di nuovo verso Saint-Germain. Più passava il tempo e più si persuadeva che doveva approfittare dell'occasione per legare a sè la giovane. A un tratto, emise un piccolo grido. «Che cosa c'è signora?» s'informò la signorina Desoeillet. «Nulla! Nulla! Una spilla mi si è spostata.» «Volete che vi aiuti...». «No, no, ve ne prego, è cosa da nulla.» Angelica arrossiva e impallidiva a volta a volta. Bruscamente, si era ricordata. Il volto di quella bambina, lo aveva veduto alla luce di due ceri, in una sinistra notte. Era la figlia della Voisin, quella che portava «il cesto». «Posso aiutarvi, signora?» insisteva la giovane. «Be'! Sì, se poteste aiutarmi a slacciare la gonna.» La cameriera si affrettò. Angelica la ringraziò e le sorrise. «Siete molto gentile. Sapete che ho spesso ammirato la vostra abilità di cameriera della mia amica Atenaide... e la vostra pazienza?» La signorina Desoeillet sorrise anch'ella. Angelica pensò che se era al corrente degli odiosi progetti della padrona, la sgualdrinella doveva divertirsi dei complimenti che le venivano rivolti. Chissà, forse teneva nella borsa il veleno destinato a quella signora del Plessis-Bellière che proprio ora la riaccompagnava con tanta gentilezza! Il destino, a volte, si diverte crudelmente. C'era davvero da riderne. Ma quella lì non avrebbe perso nulla ad attendere!
«Ciò che ammiro maggiormente in voi,» proseguì soavemente Angelica, «è la vostra abilità al giuoco. Vi osservavo lunedì scorso, quando avete battuto così bene il duca di Chaulnes. Il poveruomo non si è ancora rimesso dal colpo. Dove avete imparato a barare così bene?» Il dolce sorriso della signorina Desoeillet scomparve. Toccò a lei arrossire e impallidire. «Signora, che dite mai?» balbettò. «Barare? Io? Ma è impossibile. Non mi permetterei mai...» «No, piccina mia, con me non attacca,» fece Angelica accentuando a bella posta una punta di volgarità. Le prese una mano e toccò delicatamente la punta delle dita. «Estremità con la pelle così fine, si sa a che servono. Ho veduto usarle con un pezzettino di pelle di cetaceo. È per riconoscere meglio le carte segnate, che voi adoperate. Segnate in tal modo che soltanto mani come le vostre possono riconoscerle. Certo, le grosse dita del duca di Chaulnes saprebbero ben difficilmente trovarvi qualcosa di sospetto... salvo se glielo si facesse notare.» L'inverniciatura della ragazza si staccò ed ella non fu più che una piccola avventuriera di origine oscura che vedeva crollare i suoi sogni ambiziosi. Sapeva che, a corte, le sole cose su cui non si scherzava e che potevano finire tragicamente erano l'etichetta e il giuoco. Il duca di Chaulnes, già seccato per essersi fatto battere da una donzella di bassa estrazione e di doverle mille lire, non avrebbe mai sopportato l'affronto di essere stato ingannato. La colpevole, se le sue manovre fossero state svelate, sarebbe stata ignominiosamente scacciata dalla corte. Angelica dovette trattenerla mentre scivolava in ginocchio sull'impiantito sobbalzante della carrozza per supplicarla. «Signora, mi avete veduta e potete perdermi!» «Rialzatevi. Che interesse ho a perdervi? Barate benissimo. Bisogna avere occhi avvertiti come i miei per accorgersene e credo che potrete continuare abbastanza a lungo i vostri guadagni... a condizione che, naturalmente, io chiuda gli occhi.» La ragazza passava per tutti i colori dell'iride. «Signora, che posso fare per il vostro servigio?» Aveva perduto l'accento «Mortemart» e la voce lasciava apparire la sua origine paesana. Angelica guardò freddamente al di fuori. La ragazza prese a piangere e raccontò la sua vita. Era figlia naturale di un gran signore di cui ignorava il
nome ma che, per interposta persona, si era occupato della sua educazione. Sua madre, dapprima cameriera, aveva finito come tenitrice di una casa da giuoco, donde l'altro aspetto della sua educazione. Affidata a volta a volta alle religiose di un pensionato e ai buoni esempi di una bisca, aveva saputo interessare per il suo carattere allegro, per la sua grazia, per una infarinatura di cultura, persone della buona società che l'avevano spinta innanzi. Atenaide, che eccelleva nel riconoscere i caratteri della sua tempra, se l'era presa con sè. Ora, si trovava a corte, ma non aveva potuto liberarsi completamente da certe abitudini. C'era il giuoco... «Sapete com'è quando vi riprende. E non posso permettermi di perdere. Sono troppo povera. Ora, ogni volta che gioco onestamente, perdo. Sono piena di debiti. La vincita, l'altro giorno, con il duca di Chaulnes mi ha appena permesso di far fronte, e non oso chiedere nulla alla signora di Montespan. Ha già pagato spesso per me, e mi ha detto pochi giorni fa ch'era stanca.» «Quanto dovete?» La ragazza disse una cifra volgendo via lo sguardo. Angelica le gettò una borsa sulle ginocchia. La signorina Desoeillet vi posò una mano tremante, ma il colorito le ritornava sulle guance. «Signora,» ripeté, «che posso fare per il vostro servizio?» Angelica, con il mento, indicò la borsetta. «Mostratemi quel che avete lì.» Dopo molte esitazioni, la fanciulla le tese una boccetta di colore oscuro. «Sapete se questa mistura è destinata a me?» chiese Angelica dopo averla contemplata un momento. «Che volete dire, signora?» «Penso non ignoriate che la vostra padrona ha cercato due volte di avvelenarmi. Perché non dovrebbe tentare una terza volta? E credete che non abbia riconosciuto nella piccina che ve l'ha consegnata la figlia dell'indovina La Voisin?» La cameriera gettò uno sguardo spaventato attorno a sè. Disse infine che non sapeva nulla. La signora di Montespan la incaricava di andare a prendere medicine preparate dall'indovina in gran segreto. Ma non era al corrente di nulla. «Ebbene, cercherete di esserlo,» fece Angelica duramente, «perché da ora in poi conto su voi perché mi avvertiate dei pericoli che mi aspettano al varco. Aprite le orecchie e tenetemi al corrente su tutto ciò che potrete sorprendere concernente la mia persona.»
Girava e rigirava la boccetta fra le dita. La signorina Desoeillet avanzò una mano timida per riprenderla. «No, lasciatela a me.» «Signora, è impossibile! Che dirà la mia padrona se torno senza la boccetta? Se la prenderà con La Voisin e qualunque siano le mie spiegazioni il mio tradimento finirà per venire scoperto. Se poi viene a sapere che mi avete riaccompagnato in carrozza...» «È vero... Eppure, mi occorre una prova, qualche cosa. Dovete aiutarmi,» fece cacciando le unghie nei polsi della ragazza, «oppure, ve lo prometto, distruggerò la vostra vita. Sarete scacciata, umiliata, respinta dovunque; non mi occorrerà molto tempo per questo.» Sotto quello sguardo da gatta in collera, la disgraziata Desoeillet cercava perdutamente un mezzo per giustificare l'indulgenza ch'ella chiedeva. «Credo di sapere qualche cosa...» «Be', che sapete?» «La medicina che sono andata a prendere è inoffensiva, in quanto è destinata al re. La signora di Montespan si rivolge alla Voisin anche per chiederle filtri che dovrebbero rianimare la fiamma del suo amante nei suoi riguardi...» «... e che Duchesne gli verserà nella coppa.» «Sapete dunque tutto, signora? È spaventoso. La signora di Montespan ci ha detto che vi credeva una maga. L'ho udita io, era tremendamente arrabbiata. Diceva a Duchesne: "O quella donna è una maga o La Voisin ci inganna. Fors'anche ci tradisce, se l'altra la paga di più." So che parlava di voi. "La cosa non può durare così, bisogna finirla," ha detto a Duchesne proprio questa mattina. L'aveva chiamato e ci ha fatto uscire, perché voleva parlargli in gran segreto. Ma...» «Ascoltavate alle porte?» «Sì, signora.» «Che cosa avete udito?» «Dapprima, non riuscivo ad afferrare molto. Ma a poco a poco la padrona ha alzato il tono, tanto era grande la sua collera. Fu allora che disse: "Quella donna è una maga oppure La Voisin ci inganna... Tutti i tentativi sono falliti. Sembra sia stata avvertita misteriosamente. Da chi?... Bisogna finirla. Andrete a trovare La Voisin e le direte che lo scherzo è durato abbastanza. L'ho pagata molto... Bisogna che trovi un mezzo efficace, altrimenti è lei che pagherà. Ma voglio scriverle io stessa le mie volontà, così ne rimarrà più impressionata."
«La signora di Montespan si è seduta allo scrittoio. Ha redatto una missiva per La Voisin e l'ha consegnata a Duchesne: "Le mostrerete questo biglietto. Quando lo avrà letto e sarà ben convinta del mio corruccio, brucerete il foglio alla fiamma della candela... La lascerete soltanto dopo che vi avrà dato quel che occorre... Ecco, ho qui un fazzoletto che appartiene a chi sapete. Un paggio, che l'aveva raccolto, me lo ha reso credendo che appartenesse a me... Non si possono più comprare le sue serventi dopo che quella Teresa è fuggita via come se avesse avuto il diavolo alle calcagna... Del resto lei ha poche serventi, nessuna cameriera. Una strana donna. Non so quel che il re può trovare in lei di straordinario... A parte la sua bellezza, evidentemente..." Parlava di voi, signora.» «Ho capito. E quando Duchesne deve incontrare La Voisin?» «Questa sera.» «A che ora? In quale luogo?» «A mezzanotte, al caffè del Corno d'Oro. Ë un luogo poco frequentato fra i bastioni e il quartiere Saint-Denis. La Voisin verrà a piedi dalla sua casa di Villeneuve, che è poco lontano.» «Sta bene. Mi siete stata utile, piccina. Cercherò di dimenticare per qualche tempo che avete le mani troppo abili. Eccoci giunte a SaintGermain. Scendete qui. Non voglio che ci vedano insieme. Rimettetevi un po' di rossetto e di cipria. Siete pallida da far paura.» La signorina Desoeillet cercò in fretta di ridare un po' di colore al suo volto sconvolto, e balbettando ringraziamenti e affermazioni devote si gettò fuori della carrozza e fuggì via, figurina leggera in abito rosa sotto lo splendente sole primaverile. Angelica rimase pensierosa guardandola allontanarsi. Poi, riprendendosi, sporse il capo dallo sportello e gridò al cocchiere: «A Parigi.» 22 Quand'ebbe rivestito una resistente gonna e una casacca di fustagno e dopo aver annodato sui capelli un fazzoletto di raso nero come ne portavano le piccole borghesi, Angelica fece chiamare Malbrant Colpo di Spada. Poco prima era passata per Saint-Cloud per richiedere i servigi dello scudiero. Lasciando Florimondo sotto la sorveglianza dell'abate Lesdiguières e sotto la dubbia protezione della corte di Monsieur, aveva portato a Parigi con sè Malbrant.
Questi si presentò nel suo appartamento e non vedendo che una donna di semplice aspetto si stupì nell'udirla rivolgergli la parola con la voce della signora del Plessis-Bellière. «Malbrant, dovete accompagnarmi.» «Siete ben travestita, signora.» «Dove vado, non potrei presentarmi vestita lussuosamente. Avete con voi la spada? Prendete anche la pistola. Andrete quindi a chiamare il lacchè Flipot e mi aspetterete nel vicolo dietro il palazzo. Vi raggiungerò attraverso la porta dell'arancera.» «Ai vostri ordini, signora.» Un po' più tardi, Angelica saliva in groppa dietro Malbrant Colpo di Spada e giungeva nelle vicinanze del sobborgo Saint-Denis. Flipot li aveva accompagnati correndo. Si fermarono dinanzi alla taverna dei «Tre Compagni». «Lasciate qui il cavallo, Colpo di Spada. Con uno scudo all'oste perché lo sorvegli con la coda dell'occhio, altrimenti rischiamo di non ritrovarlo. I cavalli scompaiono facilmente, da queste parti.» Lo scudiero eseguì e le andò dietro; non faceva domande, limitandosi a mordicchiare i baffi bianchi e a brontolare contro i sassi della strada e il fango che stagnava, nonostante il sole, nelle buche dei sordidi vicoli. Forse quei paraggi non erano sconosciuti all'ex valletto-gladiatore che, nella sua vita di buono a nulla e di buono a tutto, aveva vissuto un po' dovunque. Non lungi di là sorgeva nella sua nicchia di legno, dipinta in rosso, sopra un mucchio di rifiuti, la statua del Padre Eterno, protettore dei pitocchi. Flipot gli fece le sue devozioni con gioia. Si sentiva a casa sua. In fondo al suo fantastico palazzo di argilla e di pietre crollanti trovarono il grande Coesre, Cul di Legno. Troneggiava, secondo il solito, nel suo piatto. I suoi sbirri erano abbastanza numerosi per portarlo, quando ne manifestava il desiderio, in una portantina in disuso, il cui tessuto a fiorami e le dorature ancora apparivano sotto uno strato di sudiciume. Ma Cul di Legno non amava molto spostarsi. L'ombra del suo rifugio era così densa che anche in pieno giorno rimanevano accesi lumi ad olio. Cul di Legno vi si trovava a suo agio. Non amava né il chiaro, né l'agitazione. Non si arrivava a lui facilmente. Venti volte, individui dalla faccia patibolare si erano interposti dinanzi ai visitatori, informandosi con voce roca su quel che quei «borghesi venivano a fare da quelle parti». Flipot diceva la parola d'ordine.
Angelica poté finalmente trovarsi in sua presenza. Aveva recato per lui una borsa ben guarnita, ma Cul di Legno non fece che gettarle uno sguardo sdegnoso. «Mai troppo presto,» diss'egli. «Mai troppo presto!» «Non hai un'aria molto soddisfatta, Cul di Legno. Non ti ho forse fatto sempre mandare quel che occorreva? Forse i valletti non ti hanno portato il maiale da latte arrostito, a Capodanno, e il tacchino, e tre botti di vino per mezza Quaresima?» «Valletti! Valletti! Forse ho bisogno di vederli, quei cornuti di valletti? Credi che non abbia altro da fare che beccare, ingozzarmi di zuppa o masticare carne? Da rimpinzarmi, ne ho quanto voglio, e denaro ne viene sempre. Ma tu, non ti mostri spesso. Troppo occupata a far la ruota, a far la bella, eh? Ecco qua le ragazze... Non sanno quel che è il rispetto.» L'indignazione del re dei pitocchi era profonda. Accusava Angelica meno di disprezzo che di negligenza. Riteneva del tutto normale che una gran dama della corte venisse a sfangare in venti pollici d'immondizie e ad arrischiare la vita per salutarlo, così come non si sarebbe stupito nel vedere la carrozza del re di Francia fermarsi dinanzi alla sua fantasmagorica abitazione per fargli visita. Fra re, non è vero... Egli era il re di Thunes e sapeva il potere della sua terrificante sovranità. «Ci si potrebbe intendere con quel briccone, se volesse. Perché ci getta alle calcagna tutti i suoi uomini, le sue guardie? E quanta ne vuole, di polizia, con sè! La polizia va bene per i borghesi. Per gli imbecilli. Un imbecille dev'essere onesto. Lo dovrebbe capire. Noi, dobbiamo lavorare. Altrimenti, di che cosa vivremmo? La prigione! La corda! La corda! E impiccano, e rinchiudono! E le galere per i ladri, l'Ospedale Generale per i mendicanti. E che altro ancora? Vuole sterminarci, quel La Reynie dell'accidente!» Si era lanciato nel racconto dei suoi guai. I bei giorni della Corte dei Miracoli erano finiti da quando il signor di La Reynie aveva assunto il titolo di luogotenente di polizia e a Parigi si erano accese le lanterne. «E quello là,» disse infine indicando con il cannello della pipa Malbrant Colpo di Spada, «chi è?» «Un amico. Puoi stare tranquillo. Lo chiamano Colpo di Spada. Ho bisogno di lui per una piccola commedia. Ma non la può rappresentare da solo. Me ne occorrerebbero altri tre o quattro.» «Che sappiano ben rappresentare la commedia... con una spada o un bastone? Be', si possono trovare.»
Ella espose il suo piano. Un uomo aveva appuntamento con l'indovina La Voisin per recarle una lettera in un caffè dietro i bastioni di Villeneuve. Si trattava di aspettarlo quando fosse uscito dall'appuntamento con la maga. Gli spadaccini avrebbero dovuto balzargli addosso... «E quic!» disse Cul di Legno con un gesto verso il collo. «No, non voglio sangue. Non voglio delitti. Voglio soltanto che quell'uomo parli e faccia la sua confessione. Malbrant se ne incaricherà.» Lo scudiero si avvicinò, l'occhio grigio acceso. «Il nome di quest'uomo?» «Duchesne, primo credenziere del re. Lo conoscete.» Malbrant si batté il petto con soddisfazione. «Ecco un compito che mi piace assai. È da un pezzo che gli volevo dire due parole.» «Non è tutto. Mi occorre un complice in casa della Voisin, qualcuno che l'accompagni, che sia lì mentre Duchesne le consegnerà la lettera, qualcuno un po' furbo, che sia soprattutto abbastanza svelto di mano da impadronirsi di quel foglio prima che sia bruciato.» «Si può trovare,» disse ancora Cul di Legno dopo aver riflettuto. Fece chiamare un tale chiamato Fuoco Fatuo, pallido monello dai capelli di fiamma, che non aveva il suo pari per frugare nelle tasche più profonde e nascondere nelle maniche il frutto dei suoi furti. Ma la sua capigliatura rossa lo faceva individuare, e dopo vari soggiorni allo Châtelet e alcune sedute sul cavalletto del boia che lo avevano reso difforme e zoppo, non si sapeva più per che cosa usarlo. Portar via una lettera alla faccia e sotto il naso di tutta la compagnia sarebbe stato per lui un giuoco. «Mi occorre quella lettera,» insistette Angelica. «La pagherò a prezzo d'oro.» La difficoltà di raggiungere La Voisin e di accompagnarla a un appuntamento così segreto, non sembrava insormontabile per i banditi. Avevano nella casa di lei numerosi complici. Citarono Le Picard che le serviva da valletto, e il Cosacco, ch'era innamorato della figlia. Per loro mezzo Fuoco Fatuo affermava che quella sera sarebbe stato assunto per portare la torcia o la borsa. Per quanto avesse salito i gradini della società, l'indovina conservava un piede nella pitoccheria. Sapeva ch'era utile essere alleata con il Grande Coesre.
«Non l'ha capito soltanto lei, vero?» disse Cul di Legno gettando uno sguardo d'intesa ad Angelica. «Non ci abbandonano, no, pena la morte. I fratelli sleali, li facciamo fuori.» Raddrizzò il busto enorme, stretto da un giustacuore militare dagli alamari dorati, appoggiandosi ai pugni pelosi nell'atteggiamento di un gorilla, di cui aveva il volto nodoso e lo sguardo terribile. «La potenza dei pitocchi è eterna,» mugghiò. «Non riuscirai mai a distruggerla, briccone. Sempre rinascerà dal lastrico di Parigi.» Angelica si strinse il mantello intorno al corpo. Si sentiva impallidire. Nella mezza luce fumosa delle lampade ad olio, la faccia del Grande Coesre, sotto il cappello ornato di piume di struzzo, le appariva segnato da un marchio di dannazione. Vedeva chinarsi verso di lei grugni rossi, facce barbute su cui spiccava la maschera pallida del rosso Fuoco Fatuo. Conosceva la maggior parte degli spadaccini che Cul di Legno aveva fatto chiamare dalle sue guardie: «La Pivoine», l'alcolizzato, «Morte ai Topi» lo spagnolo, alcuni altri di cui aveva dimenticato il nome, e un nuovo venuto, «Testa di Morto», di cui l'intera mascella era allo scoperto, perché la Compagnia del Santo Sacramento gli aveva fatto tagliare le labbra come bestemmiatore. In realtà, non era di paura che Angelica tremava, perché aveva imparato le regole del giuoco che potevano metterla in rapporto con quel sordido mondo. La pitoccheria non perdonava ai traditori, ma non tradiva i suoi. Trionfanti o miserabili, il «fratello», la «sorella», che avevano dato prova di lealtà e che un giorno avevano fatto alla malavita di Parigi il giuramento dei mendicanti, avrebbero sempre avuto diritto all'aiuto dei loro pari. Se fossero stati poveri, sempre una scodella di zuppa sarebbe stata versata per loro, se fossero stati potenti, le spade si sarebbero levate contro i loro nemici. Il legame era indistruttibile. Barcarola lo aveva provato. Cul di Legno non si tirava indietro. No, Angelica non li temeva. La loro crudeltà di lupi dai denti lunghi le ispirava meno terrore di quella di certi personaggi raffinati, i loro cenci fetidi la rivoltavano meno che non i bei vestiti che nascondevano atroci bassezze. Ma ascoltando la voce reboante del Grande Coesre, tremendi ricordi si destavano in lei. Provava la vertigine di una caduta mortale, l'impressione di essere precipitata dalle fastose altezze cui era giunta, nella disperazione senza fine dell'inferno. «Bisognerà dunque sempre tornare qui,» pensava.
Le pareva di recare nelle pieghe del mantello l'odore indelebile della miseria del suo passato. Un mistero incancellabile. Tutti i profumi del mondo, tutti i diamanti del mondo, tutta la gloria del re su lei non avrebbero potuto cancellarlo. Volgendosi a guardare il palazzo del Grande Coesre che elevava i suoi tetti contorti e le arcate in rovina contro il cielo rosso della sera, ebbe forse la visione di quell'altro crepuscolo che avrebbe veduto il signor di La Reynie, diritto a cavallo, proprio in quel punto tra i suoi arcieri armati? I cadaveri dei pitocchi avrebbero costellato il terreno, attraverso la città eteroclita delle vecchie carrozze, delle topaie, dei chiostri abbandonati, la città per tanto tempo interdetta del sobborgo di Saint-Denis, presa d'assalto in una suprema e feroce battaglia. Dinanzi al bastione del Grande Coesre un araldo, dopo aver suonato la tromba, avrebbe svolto la pergamena per declamare: «Ascoltate tutti, malandrini che lì vi nascondete. È annunciato da parte del Re che sarà accordata la grazia a coloro che si arrenderanno. Ma gli ultimi dodici che saranno presi verranno impiccati.» Terribile alternativa. Nessuno avrebbe voluto essere tra gli ultimi dodici. Come una nube d'insetti, tutti i pitocchi sarebbero fuggiti, confondendosi con le prime ombre della sera. In fondo al suo antro, avrebbero trovato Cul di Legno, l'uomo-tronco, solo e imprecante, e con un colpo di spadone l'arciere gli avrebbe trapassato la gola. Finirà così, in una sanguinosa sera del 1680, la corte dei miracoli di Parigi, e la lotta secolare fra il re di Thunes e il re di Francia. Angelica, di ritorno a casa, si era seduta dinanzi allo scrittoio. La visita al sobborgo Saint-Denis le era stata più pesante che non il pensiero di ciò che sarebbe accaduto quella notte, nelle vicinanze della strada di Villeneuve. I particolari erano stati stabiliti, non vi era più che da aspettare, evitando per quanto possibile di pensarvi. Verso le dieci, Malbrant Colpo di Spada si recò da lei. Si era messo una mascherina grigia ed era avvolto in un mantello color muro. Gli parlò a voce bassa, come se avessero potuto udirla nel silenzio della stanza sontuosa dove un tempo aveva accolto l'amore di Ragoski. «Sapete come me quel che desidero ottenere da Duchesne. Per questo vi ho scelto. Deve svelare i progetti di colei che lo manda, deve citare i nomi di coloro che potrebbero nuocermi... Ma soprattutto quel che occorre è la
lettera. Spiate dalla finestra del caffè. Se vi pare ch'egli possa disfarsene prima che Fuoco Fatuo abbia potuto portargliela via, balzategli addosso con i vostri uomini. Cercate anche di ottenere le misture, i veleni che La Voisin gli affiderà...» Attese. Alle due dopo mezzanotte, di nuovo le giunse il rumore lontano della porticina nascosta attraverso la quale Malbrant Colpo di Spada aveva lasciato il palazzo, poi, sul pavimento dell'ingresso, il suo passo greve e rapido di mercenario. Egli entrò e andò a deporre sullo scrittoio, accanto a lei, nella luce del candeliere, alcuni oggetti. Angelica vide un fazzoletto, una bottiglietta, un sacchetto di cuoio e un quadratino di carta bianca: la lettera. La calligrafia della signora di Montespan le balzò agli occhi, mentre la invadeva una selvaggia impressione di trionfo. Le parole del biglietto erano terribili, piene di ingiurie: «... Mi avete ingannato,» scriveva la nobile marchesa con la sua bella scrittura dall'ortografia zoppicante, poiché la sua educazione era stata piuttosto trascurata. «La persona è sempre viva e il re si affeziona ogni giorno un po' più a lei... Le vostre promesse non valgono il denaro che vi ho versato. Più di 1000 scudi a tutt'oggi... per medicine che non danno né l'amore né la morte... Sappiate che posso rovinare il vostro credito e distogliere tutta la corte dal ricevervi... Affidate al mio messaggero quel che occorre. Questa volta bisogna riuscire...» «Magnifico! Meraviglioso!» gridò Angelica con voce ansimante. Fece una gran risata che a lei stessa parve di un'altra persona. «Ah! Ah! questa volta bisogna riuscire, sì, mia bella Atenaide. E infatti, riuscirò. Non varrete più molto con quest'arma fra le mie mani.» In fondo al foglietto c'era una macchia rossa che volgeva al bruno, ma posandovi il dito Angelica la trovò ancora umida. La sua eccitazione cadde ed ella sollevò uno sguardo interrogativo verso lo scudiero. «E di Duchesne, che cosa ne avete fatto?» chiese con voce soffocata. «Dove si trova?» Malbrant Colpo di Spada volse via gli occhi. «In fede mia, se la corrente è forte, deve trovarsi giù a valle, dalla parte di Grenelle.» «Malbrant, che avete fatto! Vi avevo detto che non volevo delitti.»
«Bisogna pur liberarsi d'una fetida carogna,» disse l'uomo, tenendo le palpebre chine. Bruscamente, la guardò in faccia col suo sguardo scuro che contrastava così stranamente con i lunghi capelli bianchi. «Ascoltate, signora,» disse chinandosi verso di lei. «Ascoltatemi: quel che debbo dirvi vi sembrerà molto strano da parte di un vecchio indurito, libertino e buono a nulla come me. Ma a quel piccino, a vostro figlio, mi sono affezionato. È così. Ho fatto di tutto nella mia vita, molte cose inutili, cose brutte, sia per me che per gli altri. Le armi è tutto ciò che conosco, a forza di averle maneggiate. Ma non ho mai saputo riempire le mie tasche. Passano gli anni, la carcassa comincia ad essere stanca e la signora di Choisy, che conosce la mia santa zia, la mia pia sorella e mio fratello canonico, mi dice: "Malbrant, brutto tipaccio, che ne direste di guadagnare da dormire e da mangiare insegnando il mestiere delle armi a due ricchi signorini?" Io mi dico: "E perché no? Riposa un po' le tue vecchie cicatrici, Malbrant." Ed entrai al vostro servizio, signora, e a quello dei vostri figli... Di figli, forse ne ho avuti. È probabile, ma la cosa non mi ha mai interessato, lo confesso. Ma per Florimondo è stato diverso. Forse non lo sapete, signora, per quanto siate sua madre, ma quel fanciullo è nato con la spada nella mano destra. Regge il ferro proprio come l'arcangelo Michele. E quando un vecchio spadaccino come me trova questo dono delle armi, questo genio, questa forza, ebbene, allora... Fu allora che seppi di aver fallito la mia vita e di essere solo al mondo, signora. E in quel piccino vedevo mio figlio che forse ho da qualche parte, che non conoscerò mai e al quale non insegnerò a tenere le armi. Vi sono cose così, che si ignoravano e che si mettono a vivere dentro di noi.» Si chinò ancor più, fino a soffiarle in volto il suo acre fiato di fumatore di pipa. «E quel Duchesne, voleva ammazzarcelo, il nostro Florimondo.» Angelica chiuse gli occhi e si sentì impallidire. «Perché prima,» riprese lo scudiero, «ci si poteva dire: non è certo. Ma ora è certo. Lo ha confessato, lo ha mugghiato quando ha avuto i piedi sul fuoco. "Certo che volevo sbarazzarmi di quella piccola canaglia," gridava, "mi perdeva agli occhi del re, destava i sospetti... rovinava i nostri progetti. La signora di Montespan minacciava di allontanarmi per aver mancato di abilità."» «È dunque vero che gettava polveri nelle bevande del re?»
«Era la favorita a incaricarlo di ciò. Tutto è vero. E che minacciò Florimondo di ucciderlo se seguitava a denunciarlo. E che versò il veleno in un sorbetto che vi era destinato. E che la Montespan vedeva La Voisin per trovare un mezzo di farvi morire. Carapert, uno dei dispensieri, era loro complice. Fu lui a mandare il fanciullo a portare un ordine nelle cucine passando attraverso l'ala in costruzione. "Quindici tese di impalcature," gli ho gridato, "quindici metri di impalcature sopra un suolo di pietra nell'oscurità! Ebbene, fa' dunque il salto a tua volta, sozzura, tu che volevi prendere la vita di un fanciullo!..."» Malbrant Colpo di Spada si arrestò e si asciugò la fronte. L'ira lo riscaldava. Ammiccò verso Angelica, la cui espressione rimaneva fissa. «Bisognava pure liberarsi di una fetida carogna,» ripeté più adagio. «Comunque, non era bello da vedere. E se anche gli avessimo lasciata la vita salva? Un nemico di più, accanito contro di voi. Ve n'è già a sufficienza, credetemi. In queste cose, signora, quando s'incomincia, bisogna andare fino in fondo.» «Lo so.» «Anche gli altri erano d'accordo. Non ci sono due modi per terminare un affare. Bravi compagni e che hanno lavorato bene. Il rosso Fuoco Fatuo si era messo d'accordo con il valletto dell'indovina per farsi assumere quale portatore di fiaccola. Il valletto lo aveva presentato come idiota e sordomuto. Lei se l'è tenuto vicino durante il colloquio. Le faceva comodo. A volte dice che preferisce non andare sola agli appuntamenti che le vengono dati in segreto. Un giovanotto sordomuto ma capace di maneggiare il coltello, se è il caso; ecco ciò che cercava, lo ha detto al suo servitore. Insomma. Fuoco Fatuo le è andato bene e se lo è portato con sè. Noi, stavamo spiando fuori. A un certo momento, ho visto che le cose cominciavano a guastarsi fra Duchesne e La Voisin. Non trovavano più la lettera. Allora, siamo entrati in giuoco. La Voisin è scappata via senza chiedere il resto. Fuoco Fatuo ha fatto finta di difenderla, per la commedia. Poi ci siamo occupati del brav'uomo. Mica facile... Coriaceo. Ecco tutto ciò che ne abbiamo potuto tirar fuori, con mezzi persuasivi: questo fazzoletto, questa piccola borsa in cui vi sono, a quanto sembra, polveri magiche, e poi le poche confidenze di cui vi ho già detto...» «Sta bene.» Angelica si alzò per andare allo scrittoio; ne aprì il cassetto e vi prese una borsa di monete d'oro. «Questa per voi, Malbrant. Mi avete ben servito.»
Lo scudiero fece scomparire la borsa con gesto veloce. «Non dico mai di no agli scudi. Grazie, signora. Ma credetemi se vi dico che un giorno avrei finito per farlo gratuitamente. Il piccolo abate lo sapeva bene. Ci chiedevamo: che fare? Voi siete sola nella vita, non è vero? Avete avuto ragione ad aver fiducia in me.» Angelica chinava la testa. Era venuta l'ora di comprare complicità, di pagare silenzi che avrebbero dovuto durare tutta la vita. Tra lei e quell'avventuriero ch'ella conosceva appena vi sarebbero stati sempre i gridi di un Duchesne assassinato, il «pluf» di un corpo gettato nella Senna. «Il mio silenzio? L'ho conservato con molte persone che non lo meritavano come voi. Neppure in fondo a una bottiglia ritrovo quel che ho voluto una volta per sempre dimenticare. Vi è una pietra sopra. Ecco tutto.» «Vi ringrazio, Malbrant. Domani, vi manderò di nuovo al sobborgo Saint-Denis con il denaro convenuto. Poi ritornerete a Saint-Cloud. Desidero che Florimondo sia sotto la vostra guardia. Ora potete andare. Riposatevi.» L'uomo salutò, come sapeva fare assai bene, alla moschettiera. I resti di un'educazione signorile si mescolavano nei suoi modi alla burbera noncuranza ch'egli aveva acquisito di osteria in osteria, di duello in duello, nel corso di un'esistenza in cui non aveva saputo trovare il proprio posto. Uomo di guerra mancato, gioioso compagno che non vedeva fuggire gli anni, vivendo di colpi di spada e di bicchieri di vino, non mai del tutto bandito né del tutto onesto, in una parola: pigro, ecco che si volgeva a riguardare il tempo passato. Che ne rimaneva? Nulla! Sapeva meglio ciò che non voleva perdere: la presenza di un fanciullo che sollevava su lui gli occhi neri dicendo: «Malbrant, mostrami come si fa», e l'egida di quella bellissima dama che sapeva mostrarsi né sdegnosa, né familiare, proprio quel che occorreva perché si sentisse dinanzi a lei un uomo e non un servitore. Prima di girare la maniglia della porta per ritirarsi, la guardò con un misto di ammirazione e di timore. Non ch'ella gli facesse paura. Piuttosto il contrario. È per lei che aveva paura. Temeva di vederla cedere. Vi sono sgualdrine che camminerebbero su un materasso di cadaveri senza batter ciglio. Ne conosceva. «L'altra», ad esempio. Ma questa non era della stessa specie, per quanto sapesse battersi bene. Vide che prendeva il mantello dopo aver rinchiuso in un cofanetto gli oggetti e la lettera ch'egli le aveva consegnato poco prima. «Signora, dove andate?» «Debbo uscire.»
«Pericoloso. La signora marchesa mi permetta di accompagnarla.» Ella fece un gesto di assenso. Fuori, era ancora buio, ancor più buio che nelle altre ore della notte, poiché le grosse candele dette delle ore cinque non ardevano più e le lanterne erano spente. Angelica non dovette andare molto lontano. Poco dopo sollevava il battente di bronzo di un alto portone in via di Queronalle e quando lo svizzero addormentato ebbe messo il naso alla finestra fornita di sbarre della sua abitazione, chiese del signor di La Reynie. 23 Il re non era ancora uscito dalla messa quando Angelica si mescolò alla folla dei cortigiani che aspettavano i sovrani nel salone di Mercurio a Versailles, dove erano giunti la sera innanzi. Nei mutamenti di residenza fra Saint-Germain e Versailles, Angelica sperava che la sua assenza sarebbe passata inosservata. Si trovava lì a un'ora conveniente. E nulla si leggeva sul suo viso accuratamente imbellettato delle fatiche e delle angosce della notte. Cominciava ad acquistare l'incredibile resistenza delle donne di mondo che si avvicina assai a quella delle attrici, consentendo loro di «passare in un'altra pelle» senza sforzo, e che di una donna spezzata da una notte insonne e da quattro ore di carrozza, fa una dama dalla pelle liscia, dagli occhi appena cerchiati, dal sorriso splendente. Salutò a destra e a sinistra, s'informò di questi e di quelli. Si parlava ancora molto delle meraviglie del viaggio in Fiandra durante il quale Madame era andata in Inghilterra a trovare il fratello Carlo II. Alcune buone lingue si stupivano che Angelica non vi avesse partecipato. Si diceva anche che Madame sarebbe stata presto di ritorno e che i suoi negoziati erano sulla strada buona. Le abbondanti grazie della bretone signorina di Kerouaille che la principessa aveva portato con sè, non erano certo l'ultimo dei mezzi politici destinati a convincere il giovane Carlo II a liberarsi della Triplice Alleanza e a tendere una mano amichevole al cognato Luigi XIV. Si rideva un po' ricordando che se la signorina di Kerouaille aveva bei lineamenti, la sua abbondanza avrebbe potuto non a tutti piacere. Madame, però, conosceva bene i gusti del monarca inglese che, a quanto sembrava, non faceva sfoggio di delicatezza e preferiva la sostanza al sentimento.
Passarono alcuni credenzieri del re, recando in quattro marmitte di argento dorato quattro recipienti di biscotti e tre di frutta, quel che veniva chiamato «la piccola colazione di caccia del re». Angelica udì uno di essi stupirsi dell'assenza del signor Duchesne, primo controllore della tavola reale. Si allontanò dai gruppi e andò ad appoggiarsi a una delle finestre della grande galleria. La giornata era bella. Dai prati saliva il rumore dei mille rastrelli maneggiati dai giardinieri, ed ella si ricordò di quel primo mattino in cui aveva veduto, a fianco di Barcarola, sorgere l'alba su Versailles, dove ognuno è più solo e minacciato che in alcun altro luogo della terra. Raddrizzò la testa e con passo sicuro attraversò la grande galleria per raggiungere l'ala di mezzogiorno. Dopo aver aperto varie porte entrò in un appartamento la cui vista dava sui prati. La signora di Montespan era seduta dinanzi allo specchio, nell'incantevole scenario che Angelica aveva veduto elaborarsi sotto le dita del fratello Gontrano, il pittore. Le cameriere si davan da fare intorno a lei chiocciando. Tacquero alla vista di Angelica. «Mia cara Atenaide, buongiorno,» disse questa gaiamente. La favorita si volse di scatto sullo sgabello di seta ricamata. «Oh! sì,» disse, «che vi prende, mia cara?» Da un certo tempo avevano entrambe superato lo stadio della pace armata. Né l'una, né l'altra si davan più la pena di fingere, neppure in pubblico. L'occhio azzurro di Atenaide di Montespan perforò la rivale. L'improvvisa amabilità di questa nascondeva a colpo sicuro qualche cosa d'inusitato. Angelica sedette, facendo sbuffare le gonne, su un piccolo divano della stessa seta di quella dello sgabello e della liseuse. I mobili erano graziosi ma ella si disse che i loro fiori azzurri erano male assortiti con le grandi canne d'oro verde che coprivano le pareti. Si sarebbe dovuto mutare tutto. «Ho per voi notizie interessanti.» «Davvero?» La signorina Desoeillet si faceva pallida. Il gran pettine di tartaruga incrostato di perle ch'ella teneva in mano incominciava a tremare sopra la chioma bionda della padrona. Le altre ragazze gettavano sguardi curiosi. La signora di Montespan si volse verso lo specchio. «Vi ascoltiamo,» fece seccamente. «È troppo. Basterebbe che mi ascoltaste voi.» «Volete che allontani le mie dame? Impossibile.» «Forse. Ma è preferibile.»
La signora di Montespan si volse vivamente. Dovette vedere sul volto di Angelica qualche cosa che non avrebbe mai sospettato di trovare, perché la sua voce esitò. «Non sono né imbellettata né pettinata, e il re mi aspetta per la passeggiata nel giardino.» «Non importa! Posso seguitare a pettinarvi e nel frattempo vi inciprierete,» disse Angelica alzandosi. Si mise cortesemente dietro la signora di Montespan e prese con mano abile la pesante chioma color del grano maturo. «Vi comporrò l'ultima creazione di Binet, vi andrà certamente a meraviglia. Datemi il pettine, piccina,» disse prendendo con soave sorriso il pettine dalle mani della signorina Desoeillet, immobile. Atenaide congedò il seguito. «Andate, signore!» Angelica, con gesti lenti, allargò il manto serico della chioma dal profumo sottile, vi passò il pettine per separarlo in due, poi con mano sicura torse una spessa treccia, colata nell'oro puro, e la riportò verso il sommo del capo. Che meraviglia! I suoi capelli sembravano bruni in confronto a quella capigliatura. Lucifero, nel suo tempio celeste, doveva possederne di simili. «Passatemi due spille, vi prego.» La signora di Montespan, nello specchio, osservava la sua rivale, sempre più bella e di una bellezza pericolosa perché inusitata. La sua pelle bruna, senza fragilità, la metteva al riparo dalle piccole noie che perseguitano gli incarnati di giglio e di rose: foruncoletti, macchie di rossore. Aveva sempre l'aria d'essere incipriata e il suo nasino perfetto resisteva alla generosità dei buoni vini e al calore delle carni. Quella pelle, che avrebbe potuto renderla meno bella, era invece la sua forza e sembrava creata per i suoi occhi verdi come l'oro è creato per accompagnare le pietre preziose. I suoi capelli, ch'ella avrebbe potuto trovare meno biondi, si abbellivano per ondulazioni spontanee, per sfumature ricche e vive come di una pelliccia animale. «Nessun uomo può guardare i suoi capelli senza avere desiderio di accarezzarli,» si disse Atenaide, piena di gelosia. Nello specchio, Angelica incontrò lo sguardo azzurro della nemica. Senza lasciarla con gli occhi si chinò e disse sottovoce: «Il signor Duchesne, primo credenziere alla tavola del re è morto questa notte, assassinato.»
Ammirò che la signora di Montespan trasalisse appena e sapesse conservare la sua espressione insolente e tranquilla. «Ma guarda! Nessuno mi aveva ancora portato questa notizia.» «Nessuno la conosce ancora. Io sola. V'interessa udire come sono andate le cose?» Con le dita divaricate divideva le ciocche evanescenti e luminose e prendendole ad una ad una le avvolgeva su un bastoncino di avorio. «Usciva dalla casa dell'indovina La Voisin cui aveva portato un messaggio e dalla quale aveva ricevuto in cambio un pacchettino, con una boccettina... Questo nessuno lo saprà mai... a meno che voi non ci teniate assolutamente... State attenta, mia cara, vi mettete il rossetto di traverso.» «Sgualdrinella!» disse la Montespan, a denti stretti. «Piccola p...! Piccola sozzura!... Avete osato... Avete osato giungere a questo!» «E voi?» Con gesto vivace Angelica gettò il pettine e il bastoncino d'avorio sulla pettiniera. Le sue mani si contrassero sulle spalle bianche, un po' abbondanti, che il re amava baciare e vi cacciò le unghie sotto l'effetto di una collera tremenda. «E voi, che cosa non avete osato? Volevate uccidere mio figlio...» Entrambe ansimanti si affrontarono nel riflesso dello specchio veneziano. «Volevate farmi morire in modo atroce e ignominioso!... Avete chiamato su me i malefici del demonio! Ma il demonio si volge contro di voi. Ascoltate bene. Duchesne è morto. Non parlerà più. Nessuno saprà mai da chi andava questa notte, quello che voleva e di chi era la lettera che ha consegnato alla Voisin.» La signora di Montespan cedette di colpo. «La lettera,» fece con voce mutata, «la lettera, l'ha bruciata?...» «No!» Recitò sottovoce: «"La persona è sempre ben viva e il re si affeziona ogni giorno di più a lei. Le vostre promesse non valgono il denaro che già vi ho versato... Più di 1000 scudi fino ad ora per medicine che non danno né l'amore né la morte..."» Atenaide divenne livida ma reagì con la spietata forza che la governava e si liberò fieramente dalle grinfie di Angelica. «Lasciatemi, furia!... Mi state massacrando.»
Angelica riprese il pettine. La signora di Montespan, afferrato un piumino, s'incipriava le spalle ammaccate sollevando grandi nubi. «Che cosa debbo fare perché mi restituiate la lettera?» «Non ve la restituirò mai,» disse Angelica. «Mi credete dunque l'ultima delle sciocche? Quella lettera e le altre piccolezze di cui vi ho parlato sono tra le mani di un alto magistrato. Perdonatemi se non vi dico il suo nome ma sappiate ch'egli ha spesso occasione di avvicinare il re... Volete avere la cortesia di passarmi le spille con la testa di perle, perché vi fermi i capelli?» La signora di Montespan gliele porse. «Il giorno della mia morte,» riprese Angelica, «appena la triste notizia della fine improvvisa e strana della signora del Plessis-Bellière sarà giunta agli orecchi di questo magistrato, egli si recherà dal re e gli consegnerà gli oggetti e la lettera ch'io ho depositato presso di lui. Sono certa che sua maestà riconoscerà la vostra scrittura e la vostra brillante ortografia...» La favorita non cercava più di fingere. Soffocava, il petto sollevato da singulti spasmodici. Le sue mani febbrili aprivano vasi e flaconi, stemperavano belletti a casaccio sulle tempie, sulle guance e le palpebre. «E se il vostro ricatto non mi interessasse,» gridò a un tratto, «se preferissi arrischiare tutto ma vedervi... morta!» Si drizzò, schizzando fiamme di odio, i pugni stretti. «Morta,» ripeté. «È questa l'unica cosa che conta, per me. Vedervi morta! Perché, voi viva, mi prenderete il re. Lo so. Oppure, è il re che vi prenderà. La cosa è uguale. Egli vi desidera con tutte le sue forze. Le vostre manovre da civetta che si rifiuta gli travagliano il sangue, gli fanno perdere la testa. Io non conto più. Tra poco, mi odierà perché vorrebbe avere voi al mio posto, qui, in questo appartamento che ha fatto sistemare per me. Dal momento che la mia disgrazia è certa, che voi siate morta o viva... allora, almeno, che moriate, che moriate!...» Angelica, dinanzi a quello scatenamento, rimaneva impassibile. «Fra una disgrazia passeggera, di cui il re avrebbe un certo rimorso nei vostri riguardi, e che vi lascerebbe - chissà? - la speranza di riconquistarlo, e l'orrore che gli ispirereste se fosse al corrente dei vostri delitti, l'esilio o la prigionia che vi infliggerebbe fino alla fine dei vostri giorni, vi è una grande differenza e non dubito che una Mortemart sappia fare la scelta buona.» Atenaide si torse le mani. La rabbia e l'impotenza così manifeste raggiungevano una certa ingenuità, impetuose com'erano.
«La speranza di riconquistarlo,» ripeté. «No. Se voi lo tenete sotto il vostro dominio, sarà per tutta la vita. Lo so. Non lo conoscete come lo conosco io. Ero onnipossente sui suoi sensi. Ma voi, voi siete onnipossente sul suo cuore. Ed è qualche cosa, credetemi, essere onnipossente sul cuore di un uomo che non ne ha per così dire affatto.» Guardò la rivale come se la vedesse per la prima volta e scorgesse attraverso la sua pericolosa e serena bellezza un'arma sconosciuta che non aveva sospettato. E quella orgogliosa ebbe una frase stupefacente: «Non sono alla vostra altezza.» «Non fate la vittima, Atenaide. Non è nel vostro carattere. Piuttosto rimettetevi a sedere, così termino di pettinarvi.» La signora di Montespan balzò di colpo, come una gatta in collera. «Non mi toccate, mi fate orrore.» «Avete torto. La pettinatura vi sta benissimo ma sarebbe un peccato lasciarla con i riccioli da una parte e le ciocche dall'altra.» Come a una servente, Atenaide, non potendone più, le gettò il pettine. «Terminate! E spicciatevi.» Angelica si avvolse sul dito un lungo ricciolo d'oro e lo fece scendere con movimento agile lungo il collo perché riposasse sulla gola di madreperla, all'inizio del corsetto. Guardava nello specchio l'effetto di quel movimento e incontrò gli occhi carichi d'uragano della nemica. Domata! Ma per quanto tempo? «Lasciatemi il re,» disse bruscamente Atenaide con voce sorda. «Lasciatemi il re. Voi non lo amate.» «E voi?» «Io? Mi appartiene. Ero creata per essere regina.» Angelica avvolse altri due riccioli e portò sulla tempia una ciocca lieve più bionda delle altre, simile a un truciolo di seta pallida. Binet non avrebbe fatto meglio. «Mia cara Atenaide,» disse infine, «invano farete appello ai miei buoni sentimenti. Non ne ho per voi. Vi ho proposto il mercato. Se mi lasciate in pace e la smettete di voler attentare ai miei giorni, potete contare sulla mia discrezione per quanto concerne le vostre relazioni con indovine e stregoni. Se invece mi perseguitate con la vostra vendetta, sarete voi stessa a scatenare le folgori che dovranno distruggervi. Non pensate neppure di poter girare la questione cercando di nuocermi in un altro modo, minando la mia reputazione, rovinando il mio credito, sollevando intorno a me i mille ostacoli di una piccola guerra che mi renderebbe l'esistenza intollerabile.
Saprò sempre da dove provengono i colpi bassi, e credete che aspetterò di essere morta per liberarmi di voi? Il re mi ama, dite? Meditate sulla sua collera quando verrà a sapere che avete tentato di farmi morire. L'alto magistrato che possiede i miei segreti, ha esaminato egli stesso la camicia che avevate fatto preparare per me. Sarà testimone dinanzi al re del torto che mi si è voluto causare. Un altro consiglio, mia cara. Siete pettinata a meraviglia ma imbellettata proprio male. Un vero disastro. Al vostro posto, ricomincerei.» Dopo che fu uscita, rientrarono le damigelle di compagnia, ansiose, e circondarono con cautela la padrona seduta dinanzi allo specchio. «Signora, state piangendo!» «Eh! sì, sciocche, non vedete come sono imbellettata?» Inghiottendo i singhiozzi la signora di Montespan contemplò nello specchio il proprio volto macchiato di rosso, di bianco, di nero che le lagrime stemperavano. Le sfuggì un profondo sospiro. «Ha ragione, quella sgualdrina,» mormorò. «È un vero disastro. Tutto da ricominciare.» Durante la passeggiata del re, non sfuggì a nessuno la nuova espressione che vi era sul volto della signora del Plessis-Bellière. Una luce emanava da lei, e nel modo in cui raddrizzava il capo si sentiva una forza quasi intimidente. Si comunicò a tutti l'impressione che poco prima aveva provato la signora di Montespan. Erano stati tutti ingannati. Quella piccola marchesa, certamente bella, aveva diverse maschere di ricambio. Bisognava arrendersi all'evidenza e aspettarsi qualsiasi cosa. Coloro che avevano creduto facile conquistarsi le sue buone grazie capirono che non sarebbe stata una La Vallière. Quelli che puntavano sulla signora di Montespan per allontanare «la provinciale» sentirono la loro fede vacillare dinanzi allo sguardo altezzoso ch'ella gettò loro, e al sorriso ch'ebbe per il re. L'atteggiamento di quest'ultimo completò la disfatta. Egli non cercava nemmeno più di fingere. Non aveva occhi che per lei. La signora di Montespan era assente. Nessuno se ne formalizzò e si trovò del tutto naturale vedere Angelica scendere a fianco del re il viale di Minerva fino al boschetto della Colonna e, dopo aver oltrepassato i portici di marmo bianco, risalire verso il castello, ammirando le meraviglie del Viale d'Acqua.
Al ritorno, il re fece chiamare la giovane donna nel suo gabinetto di lavoro: lo faceva a volte quando aveva bisogno del suo parere per le questioni commerciali che stava trattando con i ministri. Ma, questa volta, ella trovò lo studio vuoto e, appena la porta si fu richiusa, il re le andò incontro e la prese fra le braccia. «Bella,» disse, «non ne posso più! Quando dunque farete cessare il mio supplizio? Questa mattina mi avete soggiogato, ammaliato. Non vedevo più che voi. Eravate per me come il sole, l'astro ch'io non potevo raggiungere, l'acqua fresca verso cui non posso chinarmi. Siete qui, mi circondate del vostro splendore, del vostro profumo, e non posso posare la mano su voi. Perché? Perché tanta crudeltà?» La stringeva, ardendo di un desiderio che non riusciva più a dominare e che si trasformava in collera. «Non crediate di poter giocare a lungo con me in questo modo. Bisognerà pure che finiate col cedermi. Se occorre, vi costringerò. Credete che la mia forza non potrebbe avere ragione di voi?» Ella sentiva i suoi muscoli da cacciatore spezzarla, appiattirla contro un petto duro come pietra. «Fareste di me la vostra nemica.» «Non ne sono così sicuro. Ho fatto male a credere che il vostro cuore si sarebbe svegliato per me se mi fossi mostrato paziente. Non siete una sentimentale. Chiedete di conoscere il vostro padrone prima di affezionarvi a lui. Ve ne innamorate perché vi ha fatto sua. Quando avrò penetrato la vostra carne, penetrerò anche il vostro cuore.» Disse sottovoce, come un lamento: «Ah! I segreti del vostro corpo mi tormentano.» Angelica tremò. Sentì una languida vertigine afferrarla dai piedi alla testa. «Anch'io non ne posso più,» si disse, abbandonandosi a una specie di sfinimento. «Quando sarete mia,» diceva il re, «quando vi avrò presa per amore o per forza, so che non mi abbandonerete più perché voi ed io siamo fatti per essere uniti e per regnare sul mondo come Adamo ed Eva.» «La signora di Montespan esprime qualche certezza di tal genere,» fece notare Angelica con un pallido sorriso. «La signora di Montespan! Che cosa crede? Di avere un dominio su me? Crede ch'io sia cieco? Che ignori il suo animo malvagio, i suoi intrighi da portinaia, il suo orgoglio smisurato e stucchevole? La prendo per quello che è: bella... e all'occasione divertente. È forse la sua presenza che vi fa
paura? Sappiate che spazzerò via dinanzi a voi coloro che vi sono indesiderabili. Se oggi mi chiedete di allontanare la signora di Montespan, domani avrà abbandonato il palazzo.» Angelica finse di prender la cosa ridendo. «Sire, questo eccesso di potere mi sgomenta.» «Non dovete temerlo. Vi consegno il mio scettro. So che è in mani degne. Ecco, siete ancora una volta riuscita a mutare il corso della mia violenza e di nuovo mi affido alla vostra saggezza per scegliere il giorno e l'ora in cui mi farete grazia. Lascerò al tempo la cura di calmare le vostre apprensioni a mio riguardo. Non credete tuttavia che potremmo intenderci, noi due?» La sua voce era umile, mentre teneva le mani di lei nelle proprie. «Sì, lo credo, sire.» «Un giorno, allora, o mia bellezza, mi consentirete di portarvi verso Citera, l'isola degli amori? Un giorno... promettetemelo.» Vinta sotto i suoi baci, ella disse in un sospiro: «Lo prometto.» Un giorno, si sarebbe inginocchiata dinanzi a lui e gli avrebbe detto: «Eccomi...» E avrebbe posato la fronte sulle mani reali. Sapeva che avanzava verso quell'istante in maniera ineluttabile, e ora che aveva allontanato i pericoli che minacciavano la sua vita, quell'attesa dell'amore le pesava e la riempiva, a volta a volta di terrore e di trionfo. Sarebbe stato domani? Sarebbe stato più tardi? Dipendeva da lei la risposta, eppure aspettava, come per lasciare la scelta al destino. E il destino si pronunciò. Un avvenimento terribile, che metteva in lutto la corte di Francia e terrificava il mondo, doveva affrettare la resa di Angelica. Aveva trascorso tre giorni a Parigi per trattarvi affari con il signor Colbert, ed essendosi attardata quella sera in casa del ministro, tornava alla sua dimora. Dinanzi al palazzo del Beautreillis zoppicava nell'ombra azzurra della notte illune di giugno la sagoma di un mendicante. Quando questi si avvicinò allo sportello, riconobbe Pane Secco. «Va' a Saint-Cloud! Va' a Saint-Cloud,» fece con la sua voce roca. Voleva aprire lo sportello ma egli la respinse. «Va' a Saint-Cloud, ti dico. Laggiù stanno avvenendo certe cose... Io stesso vengo di lì con la carretta del vinaio... C'è distrazione laggiù, questa notte. Vacci dunque...» «Non sono invitata a Saint-Cloud, mio vecchio Pane Secco.»
«Ce n'è un'altra che non è invitata e che pure è lì... La Camusa... E anzi è proprio in suo onore che si fa la festa. Va' dunque a vedere...» Angelica pensò di colpo a Florimondo e il sangue le diede un tuffo. «Che accade? Che cosa sai?» Ma il vecchio vagabondo già si allontanava brontolando. Angelica, indecisa e perdendo la testa gridò al cocchiere di partire per Saint-Cloud. Il nuovo cocchiere aveva servito in casa della duchessa di Chevreuse, e possedeva assai maggior filosofia del suo predecessore. Sobbalzò tuttavia leggermente e fece notare che senza scorta attraverso i boschi a quell'ora della notte rappresentava un pericolo. Senza scendere dalla carrozza ella mandò a svegliare tre lacchè e il maggiordomo Roger. Salirono a cavallo e, bene armati, affiancarono la carrozza che girò in direzione della porta Saint-Honoré. 24 Il grido delle cicale saliva stridulo attraverso l'ombra del parco surriscaldato. I nervi esasperati di Angelica ne soffrivano. Quel grido lungo e continuo aveva qualche cosa di crudele, di forsennato. Si turò le orecchie. A un tratto, alla svolta di un viale, apparve la casa di campagna di Monsieur d'Orléans con tutte le finestre illuminate, dietro cui correvano fiaccole. Numerose carrozze stazionavano sul prato; le porte erano spalancate. Doveva effettivamente accadere qualche cosa, ma non era una festa. Tremante, Angelica balzò dalla carrozza e corse al portone. Nessun paggio si presentò per reggerle il mantello o per chiederle che cosa desiderasse a quell'ora. L'ingresso era tuttavia pieno di gente che andava e veniva con aria stravolta, parlando sottovoce. Angelica scorse la signora di GordonHuxley che passava. «Che cosa accade?» le gridò. La scozzese fece un gesto vago e sgomento. «Madame sta morendo,» rispose. Scomparve dietro una tenda. Angelica fermò per il braccio un valletto. «Madame sta morendo?... È impossibile. Ancora ieri era in perfetta salute. L'ho veduta danzare a Versailles.» «Ahimè! Anche oggi, alle quattro, sua altezza rideva e chiacchierava allegramente. Poi ha bevuto un bicchiere di acqua di cicoria e subito è stata presa da malessere.»
In un salottino, la signora Desbordes, cameriera della principessa, distesa su un sofà, respirava dei sali. Stava appena riprendendosi da uno svenimento. «È il sesto da oggi, poveretta,» disse la signora di Gamaches. «Ma che cos'ha? Avrebbe anch'essa bevuto quell'acqua di cicoria?» «No, ma è stata lei a prepararla e si accusa di essere causa dell'orribile incidente.» La signora Desbordes stava rinvenendo. Si mise ad emettere grida isteriche. «Calmatevi,» la supplicò la signora di Gamaches, «non siete colpevole di nulla. Pensate che se voi avete preparato l'acqua, sono stata io a portargliela e la signora di Gordon gliel'ha presentata nella sua tazza personale.» Ma la povera cameriera non voleva udir nulla e si dondolava mandando gemiti lamentosi. «Madame muore! Madame muore...» «L'hanno visitata tutti,» disse la signora Desbordes, «il re ha mandato il medico personale. Sono tutti lì. Mademoiselle è lì. Monsieur è lì. La regina...» «È presto detto,» protestò Angelica, «ma Madame è stata visitata da un medico?» «Oh! di grazia,» l'interruppe la signora di Gamaches che stava per avere una crisi di nervi. Nel frattempo, si scorse Monsieur che proveniva dall'appartamento di Madame, accompagnato dalla signorina di Montpensier, la quale parlava con violenza. «Cugino, è tempo di pensare che Madame sta per morire e che le si dovrebbe parlare di Dio...» «Ma ha il suo confessore,» protestò mollemente Filippo d'Orléans. Rettificò annoiato una piega della cravatta. Di tutti i presenti, era certamente quegli che sembrava meno addolorato. Ma il suo carattere lo abbandonava senza difese all'energia della Grande Mademoiselle, ed era costretto ad ascoltarla. Quest'ultima alzò le spalle furiosamente. «Il suo confessore! Mi troverei ben imbarazzata se dovessi presentarmi dinanzi a Dio munita di una simile nullità. Il suo confessore! Era buono soltanto a farle onore in una carrozza perché il pubblico vedesse che ne aveva uno. Sapete come me che quel cappuccino si raccomanda soltanto per una delle più belle barbe del regno. Questo è tutto... Ma per morire... Avete mai riflettuto a quel che sia morire, cugino?»
Monsieur si guardò le unghie emettendo un sospiro spazientito. «Ebbene, sappiate che anche voi ci passerete,» gridò la Grande Mademoiselle scoppiando in singhiozzi, «e avrete tempo per curarvi le unghie! Ah! povera cara,» riprese scorgendo Angelica e attirandola a sè con un gesto desolato. Si lasciò cadere su una panca. «Se sapeste che spettacolo doloroso, tutte quelle persone che vanno e vengono intorno a Madame chiacchierando e cicalando come se aspettassero la commedia! E il suo confessore che non sa fare altro che accarezzarsi la barba dicendo sciocchezze...» «Cugina mia, calmatevi,» disse Filippo d'Orléans, conciliante. «Suvvia, vediamo, chi si potrebbe trovare che faccia buona figura nominare nella Gazzetta per avere assistito Madame negli ultimi momenti?... Ah! ho trovato: l'abate Bossuet. Madame a volte s'intratteneva con lui, ed egli è precettore del Delfino. Lo mandiamo a chiamare.» Dette subito ordini perché si mandasse un corriere in cerca dell'abate Bossuet. «Nell'attesa, il tempo incalza: chissà se Madame sarà ancora viva quando giungerà il signor Bossuet! Non c'è nessuno a Saint-Cloud?» «Siete insaziabile, parola mia!» Una delle dame d'onore raccomandò il reverendo padre Feuillet, canonico di Saint-Cloud, il cui merito era conosciuto. «E il suo cattivo carattere anche,» rispose il fratello del re con tono secco. «Chiamatelo se vi pare, ma io me ne vado. Del resto, ho fatto i miei addii a Madame.» Si girò sui tacchi alti dirigendosi verso le scale con le persone del seguito. Florimondo, ch'era fra esse, scorse la madre e andò a baciarle la mano. «È un affare triste, non è vero, madre mia?» disse con tono compassato. «Hanno avvelenato Madame.» «Florimondo, te ne supplico, smettila di vedere dappertutto avvelenamenti!» «Ma sì, ma sì, è stata avvelenata. Tutti lo dicono e del resto io stesso ero lì. Monsieur voleva andare a Parigi ed eravamo scesi nel cortile con lui. In quel momento, abbiamo incontrato la signora di Mecklembourg che giungeva. Monsieur l'ha salutata e si è diretto con lei verso Madame che gli veniva anch'essa incontro. In quel momento, la signora Gordon le ha presentato la tazza di cicoria fredda ch'ella beve sempre a quell'ora. Appena ha bevuto, s'è portata la mano al fianco gridando: "Ah! che dolore! Ah! che
male! Non ne posso più!" Dapprima era tutta rossa, poi tutta pallida. Ha detto: "Portatemi via, non posso più reggermi..." Camminava tutta curva... L'ho vista io.» «Il paggio ha ragione,» aggiunse una delle giovani cameriere della principessa Enrichetta. «Appena Madame è stata messa a letto ci ha detto che era convinta di essere stata avvelenata e ha chiesto un controveleno. Il primo cameriere di Monsieur le ha portato polvere di vipera ma i suoi dolori sono rimasti orribili e non hanno fatto che aumentare. Certamente si tratta di un veleno tremendo e sconosciuto.» «Ah! Non dite sciocchezze,» tagliò corto la Grande Mademoiselle. «E chi avrebbe avuto mai interesse ad avvelenare una giovane donna così graziosa? Madame non aveva nemici.» Tutti tacquero, ma non mutarono idea, e la signorina di Montpensier per prima. Un nome era su tutte le labbra: quello del marito della vittima, oppure, del suo favorito spodestato. Mademoiselle si dette da fare febbrilmente, poi si slanciò incontro al padre Feuillet, che stavano introducendo. «Senza di me, signor abate, la povera principessa se ne andava all'altro mondo come un'eretica. Venite, vi accompagno.» La signora di Gamaches raccontò sottovoce perché Monsieur non amava il padre Feuillet. Era questi un religioso diritto e rude al quale si applicava volentieri il versetto di uno dei salmi: «Parlavo dei tuoi comandamenti dinanzi ai re e non ne arrossivo.» Invitato a una colazione durante la Quaresima in casa del fratello del re, questi aveva preso un biscottino chiedendogli: «Non significa rompere il digiuno, non è vero?» Al che il canonico aveva risposto: «Mangiate un bue e siate cristiano.» La giovane cameriera frenò a stento il riso. Un chiasso che veniva dall'appartamento della principessa fece balzare in piedi le dame con volti di circostanza. Il re se ne andava, accompagnato dai medici, con i quali stava chiacchierando. La regina li seguiva soffiando il naso, poi la contessa di Soissons, la signorina di La Vallière, la signora di Montespan e la signorina di Montpensier. Mentre passava, il re vide Angelica. Subito tornò sui suoi passi e senza preoccuparsi degli sguardi che lo seguivano l'attrasse, da solo a sola, nel riquadro di una finestra. «Mia cognata è perduta,» disse. Aveva un volto umano, sconvolto, uno sguardo che cercava una parola di conforto.
«Sire, non c'è davvero più nessuna speranza? I medici...» «I medici hanno ripetuto per ore che si trattava di un malessere senza importanza, poi a un tratto hanno perduto la testa e non sapevano più quel che facessero. Ho cercato di rimetter loro la mente a posto. Non sono medico, ma ho proposto almeno trenta rimedi: hanno risposto che bisognava aspettare. Sono degli asini,» concluse lanciando uno sguardo scuro nella direzione dei medici che si raggruppavano ancora per discutere a voce bassa. «Ma come è potuto accadere? Madame sembrava in ottima salute. Era tornata dall'Inghilterra così felice...» Egli la guardò profondamente, in silenzio, ed ella lesse nei suoi occhi il dubbio tremendo che lo attanagliava. Chinò il capo; avrebbe voluto prendergli la mano, ma non osava. «Vorrei chiedervi un favore, Angelica,» mormorò. «Rimanete qui sino... sino alla fine e poi venite ad avvertirmi a Versailles. Verrete, non è vero? Ho bisogno di voi... mia cara.» «Verrò, sire.» Luigi XIV emise un profondo sospiro. «Ora debbo partire. I principi non devono veder morire. Ë la regola. Quando anch'io morirò, la mia famiglia diserterà il palazzo ed io resterò solo... Sono contento che Madame abbia accanto a sè quel religioso di gran merito, l'abate Feuillet. Non è più ora per le parole cortigiane e rassicuranti dei confessori mondani. Ah! Ecco il vescovo di Condom, il signor Bossuet. Madame lo apprezzava molto.» Gli andò incontro e si trattenne con lui un momento. Poi la famiglia reale se ne andò e il signor Bossuet raggiunse la stanza dell'agonizzante. Si udì lo sbattere di sportelli e lo scalpitar di cavalli. Angelica sedette sulla panca per aspettare. Florimondo correva dappertutto, con l'eccitazione dei bambini mescolati a un dramma che non li colpisce. Le confidò che Monsieur era coricato e dormiva beatamente. Poco prima di mezzanotte la signora di La Fayette, che stava presso la principessa, venne ad avvertire Angelica che Madame aveva saputo della sua presenza a Saint-Cloud e desiderava vederla. La stanza era piena di gente, ma la venuta del padre Feuillet e del signor Bossuet vi aveva stabilito un po' di decenza. Si parlava a voce bassa. Al capezzale del letto i due ecclesiastici si fecero di lato per lasciar avvicinare Angelica. Ella credette dapprima che un'altra persona, sconosciuta,
riposasse lì tanto il cambiamento sopravvenuto in Madame la rendeva irriconoscibile. La camicia, aperta sul collo e sulle braccia, lasciava apparire un corpo cereo la cui magrezza pareva essersi accentuata sino a divenire scheletrica in poche ore. Gli zigomi apparivano sotto la pelle, e il naso era affilato. Un profondo cerchio le scavava lo sguardo, ingrandito da indicibili tormenti. «Madame,» disse Angelica sottovoce, «come soffrite! Che pietà vedervi soffrire così!» «Siete buona a dirmelo. Tutti ripetono che io esagero la mia condizione. Eppure, se non fossi cristiana, mi ucciderei tanto i dolori che provo sono forti.» Respirò con difficoltà e riprese: «Ma è bene ch'io soffra, altrimenti non avrei nulla da presentare a Dio se non un'esistenza assai vana. Signora del Plessis, sono lieta che siate venuta. Non dimentico il servigio che mi avete reso e il debito che vi debbo. Ho portato dall'Inghilterra...» Fece un lieve segno al signor di Montaigu, ambasciatore d'Inghilterra, che si avvicinò. La principessa parlò con lui in inglese e Angelica capì che lo incaricava di consegnarle, dopo la sua morte, le 3000 pistole che le doveva. L'inglese era addoloratissimo. Sapeva la disperazione che avrebbe provato il suo signore, Carlo II, apprendendo la morte della sorella, della sua Ninetta, ch'egli aveva sempre teneramente amato. Dovette chiedere alla morente se sospettava un'intenzione criminale, perché si capì la parola veleno, che si pronunzia pressappoco allo stesso modo nelle due lingue. Il padre Feuillet intervenne: «Madame, non accusate nessuno. Offrite la vostra morte in sacrificio a Dio.» La principessa accennò di sì con le palpebre e, gli occhi chiusi, rimase a lungo in silenzio. Angelica pensava di ritirarsi, ma la mano gelida di Enrichetta d'Inghilterra teneva ancora la sua con una stretta lievissima ed ella non osava sottrarvisi. Madame aprì di nuovo gli occhi. Le sue pupille così azzurre erano come scolorite, ma fissava il volto di Angelica chino su lei con attenzione profonda, perspicace. «Il re è venuto,» fece. «È venuto con la regina, con la signora di Soissons, con la signorina di La Vallière e con la signora di Montespan...» «Sì.»
Madame tacque. Seguitava a guardarla intensamente. Angelica pensò a un tratto che Madame aveva amato il re. Il «flirt» era andato così lontano che, per sviare i sospetti della regina madre, ancora viva a quel tempo, i due complici avevano avuto l'idea di mettere come paravento una delle damigelle d'onore di Madame. Questa damigella d'onore non era altro che Luisa di La Vallière. Il seguito era troppo noto. La fiera principessa detronizzata per l'umile servente. Troppo orgogliosa, non aveva pianto che in segreto e fra le braccia della sua migliore amica, la signora di Montespan... che, a sua volta, aveva preso il posto. Poco prima, al suo capezzale, aveva veduto il re, sua moglie e le sue tre amanti, le due antiche e la nuova, in uno strano compendio del suo ambizioso sogno d'amore, invano inseguito e destinato a umilianti fallimenti. «Sì,» ripeté dolcemente Angelica. E le sorrise con tristezza. Madame non aveva avuto soltanto virtù. Ma i suoi difetti non erano meschini ed ella si era sempre mostrata graziosa, ardente e intelligente. Troppo intelligente. Moriva circondata da nemici o da indifferenti. Lo sguardo le si velò. Fece con voce impercettibile: «Desidererei, per lui, che vi amasse... amasse voi... perché...» Non riuscì a terminare, fece un gesto stanco. La mano le ricadde sul lenzuolo. Angelica si scostò. Uscì dalla camera, tornò a sedersi sulla panca nell'ingresso, dove riprese ad aspettare, sforzandosi di dire preghiere. Verso le due del mattino, il signor Bossuet lasciò un momento la principessa e sedette in disparte per riposarsi un poco. Un servitore gli recò una tazza di cioccolata. Florimondo, correndo come una rondine, andò ad abbattersi accanto ad Angelica per sussurrarle che Madame era entrata in coma. Udendo ciò, il signor Bossuet posò la tazza e tornò al capezzale della penitente. Quindi passò la signora di Gordon-Huxley gridando: «Madame è morta!» Come aveva promesso al re, subito Angelica si preparò per raggiungere Versailles. Avrebbe voluto condurre con sè Florimondo per strapparlo a quell'andirivieni funebre, ma trovò che il ragazzetto, seduto su una cassa nell'ingresso, teneva per mano una bambina di nove anni. «È la piccola Mademoiselle,» spiegò lui. «Nessuno si occupa di lei, e bisogna perciò che le faccia compagnia. Non si rende ancora conto che sua
madre è morta. Perché era una principessa, ma era comunque sua madre, non è vero? Quando capirà, piangerà. Debbo rimanere per consolarla.» Angelica lo felicitò, carezzandogli i folti capelli. Era di un buon vassallo condividere la pena dei propri principi e sostenerli nei momenti di dolore. Ella stessa si recava dal re. Con le lagrime agli occhi, baciò la principessina che, in realtà, non sembrava molto colpita per la perdita della madre che conosceva poco e che non si era affatto occupata di lei. Altre carrozze già correvano sulla strada di Versailles. Angelica le fece superare a gran galoppo. Quando giunse al palazzo il buio era ancora profondo. Fu introdotta nel gabinetto del re, dove questi vegliava. «Allora?» «È finita, sire, Madame è morta.» Egli chinò il capo, non lasciando trasparire nulla dei sentimenti che l'agitavano. «Credete che sia stata avvelenata?» chiese infine. Angelica fece un gesto vago. «Tutti lo credono,» riprese il re. «Ma voi che possedete uno spirito più sensato, ditemi il vostro parere.» «Madame temeva da molto tempo di morire avvelenata. Me lo aveva confidato.» «Lo temeva? Chi temeva? Ha fatto qualche nome?» «Sapeva che il cavaliere di Lorraine la odiava e non le perdonava il suo esilio.» «E poi?... Parlate... Parlate dunque. Se non parlate voi, chi dunque mi parlerà mai sinceramente?» «Madame diceva che Monsieur l'aveva spesso minacciata, nella sua collera.» Il re sospirò profondamente. «Se mio fratello...» mormorò. Rialzò la testa. «Ho dato ordine che mi si conduca il maggiordomo di Saint-Cloud, Maurel. Penso che costui non tarderà. Ecco, odo dei passi. Sono senza dubbio loro. Vorrei che assisteste al nostro colloquio. Rimanete dietro quella tenda.» Angelica scivolò dietro un tendaggio ch'egli le indicava. La porta si aprì e, introdotto da Bontemps e da un luogotenente delle guardie, il nominato Maurel entrò. Era un uomo dai lineamenti duri che, nonostante una accentuata servilità professionale, non mancava di arroganza. Nonostante l'arre-
sto di cui era oggetto, si mostrava sicuro del fatto suo. Con un cenno, il re ordinò al cameriere di rimanere. Il luogotenente si ritirò. «Guardatemi,» disse gravemente il re a Maurel, «e, se sarete sincero, avrete salva la vita.» «Sire, dirò la più esatta verità.» «Ricordatevi di questa promessa: se non la manterrete, il vostro supplizio è pronto... Dipende da voi uscire da questo castello vivo o morto.» «Sire,» riprese calmo il maggiordomo, «dopo la vostra sacra parola, sarei un imbecille se osassi mentire.» «Bene... ora rispondete. Madame muore avvelenata?» «Sì, sire.» «Chi l'ha avvelenata?» «Il marchese di Effiat ed io.» Il re esitò. «Chi vi ha dato questa orrenda missione, e da chi avevate avuto il veleno?» «Il cavaliere di Lorraine è la causa e il primo strumento di questo attentato; è stato lui a mandarci da Roma la droga velenosa ch'io ho preparato e che d'Effiat ha messo nella bevanda di sua altezza reale.» La voce del re si smorzò di colpo. «E mio fratello...» Fece uno sforzo per parlare con tono fermo. «Mio fratello era a conoscenza del complotto?» «No, sire.» «Potreste affermarlo con giuramento?» «Sire, lo giuro dinanzi a Dio che ho offeso... Monsieur non era a conoscenza del segreto... Non potevamo contare su lui... ci avrebbe perduti.» Luigi XIV si raddrizzò. «Questo era ciò che mi interessava sapere... Andate, miserabile, vi lascio la vita, ma uscite dal mio regno e sappiate che, se ne ripasserete di nuovo le frontiere, sarete un uomo morto.» Maurel uscì, accompagnato da Bontemps. Il re si alzò e lasciò il tavolo da lavoro. «Angelica!» Udì il suo grido come quello di un uomo ferito che vacilla. Gli corse incontro. La prese sul petto e la strinse da spezzarla. Ella sentiva sulla spalla il peso di quella fronte reale piena di dolore. «Angelica, angelo mio!...» «Sono qui.»
«Che orrori,» mormorò lui, «che anime vili e ignobili!» E tuttavia, non sapeva tutto. Un giorno, avrebbe saputo. «Un giorno, solleveremo il velo,» aveva detto La Reynie. Ed egli si sarebbe drizzato solo, in un mare di obbrobrio, di inconcepibili delitti. «Non lasciatemi solo.» «Sono qui!» «Da qualunque parte giro lo sguardo, non vi è nessuno in cui possa avere fiducia.» «Sono qui...» Egli parve finalmente udirla e sollevando il capo la guardò a lungo, con aria di smarrita interrogazione. «È vero? Angelica, non mi lascerete più?» «No.» «Sarete la mia amica... Sarete mia?» Ella fece «sì» col capo e sollevò adagio la mano per posarla su quella guancia, su quella tempia che l'ora mattiniera faceva rugosa. «È vero?» ripeté lui. «Oh! È come...» Cercò le parole per dire la propria felicità; vide l'alba che posava un segno rosa sull'orlo dei tendaggi. «È come l'aurora... Un pegno di vita, di forza... che mi date dopo questa terribile notte in cui la morte ha colpito. Oh! anima mia... Sarete mia! Mia! Possiederò questo tesoro...» La strinse con violenta passione. Ella sentiva l'intrepida forza di lui comunicarlesi e, come lui, aveva la certezza che la loro unione li avrebbe resi invincibili di fronte al mondo. I nemici sarebbero fuggiti, i demoni si sarebbero allontanati. Dopo una lunga lotta vedevano il problema risolversi e i loro spiriti avviliti e feriti ne provavano una pace improvvisa e vivificante. Bontemps dovette battere a varie riprese alla porta. «Sire, è l'ora.» Angelica si liberò dalle braccia vigorose che rifiutavano di lasciarla. «Sire, è l'ora,» ripeté. «Sì. Devo ridiventare re. Ma temo, se vi lascio andare, che mi sfuggiate ancora una volta.» Ella scosse la testa con un triste e stanco sorriso. La fatica di quella notte angosciosa le ammaccava le palpebre e il lieve disordine della capigliatura le faceva un volto di amante sfinita. Il re impallidì.
«Vi amo,» fece con voce sorda. «Oh! angelo mio, vi amo, non lasciatemi più!» Dopo il solito cerimoniale che accompagnava l'alzarsi da letto del re, i cortigiani si recarono, come ogni mattina, alla messa reale. Luigi XIV, il volto impassibile, raggiunse il suo posto. Si udivano singhiozzi soffocati. Il signor Bossuet salì lentamente sul pulpito. Nella luce dorata che scendeva dalle vetrate, si vide levarsi il suo volto solido, colorito, e la sua alta figura in mantellina nera e cotta di pizzo. Lasciò cadere un lungo silenzio, poi la sua mano si abbassò pesantemente, mentre la sua forte voce si levava con ampiezza sotto la vòlta della cappella reale: «O notte disastrosa! O notte spaventosa in cui a un tratto risuonò come lo scoppio di un tuono questa stupefacente notizia: Madame muore! Madame è morta!... Madame è passata dal mattino alla sera come l'erba dei campi. Al mattino fioriva, con quali grazie, voi lo sapete. La sera, la vedemmo disseccata... quale solerzia! In nove ore l'opera è compiuta... O vanità delle vanità...» 25 Ancorato nella vasca in mezzo all'agitazione delle scialuppe, a fianco di due piccole navi inglesi, di una feluca napoletana e di una galera biscaglina, il grande vascello oscillava come una farfalla posata sull'erba. Era una fregata in miniatura, guarnita di piccoli cannoni di bronzo, il cui scafo, ornato di fiori di giglio, di mazzi di fiori, di conchiglie e di divinità marine scintillava d'oro. I cordami erano in seta gialla o cremisi, le bandiere e i tendaggi di damasco e di broccato, guarniti di frange d'oro e d'argento. Agli attrezzi e agli alberi, dipinti in azzurro e oro, sventolavano le bandiere, gli orifiamma, le banderuole, in un'allegra sinfonia colorata dove brillavano ovunque, d'oro e d'argento, gli stemmi e le iniziali del re. Quel giorno, Luigi XIV presentava alla corte quel gioiello, quello scintillante giocattolo. Con un piede appoggiato sullo scalino di legno dorato, si volse alle dame. Quale sarebbe stata scelta per inaugurare la passeggiata verso i campi del Trianon?... Vestito di raso azzurro pavone, il re si era adeguato alla bellezza di quel giorno estivo. Sorrise e tese la mano ad Angelica. Dinanzi agli occhi di tutta la corte ella salì i gradini e si accomodò sotto la piccola tenda di broccato. Il re le si sedette a fianco. Dopo di loro,
prendevano posto gli invitati, fra cui non c'era la signora di Montespan. Ella presiedeva - onore di cui non si era illusa e che la rendeva pallida di rabbia - l'assemblea dei passeggeri della grande galera. La regina si trovava nella feluca napoletana. Il resto dei cortigiani si divideva le scialuppe. La musica del re prese posto su una barca coperta di damasco a righe rosse e bianche. E pian piano, al suono dei violini e degli oboe, la piccola flottiglia scivolò sulla tranquilla superficie del grande canale. La crociera sembrò troppo breve. Si godeva la frescura delle acque, in quel giorno di canicola. Grosse nubi di un bianco denso cominciavano ad invadere il cielo troppo azzurro. «È tempo da uragano,» fece notare Angelica, cercando nella più banale delle conversazioni d'ingannare la sua confusa apprensione. «Temereste forse di far naufragio?» chiese il re, osservandola con passione. «Forse...» La compagnia sbarcò su verdi prati dov'erano state elevate tende e tavole per rinfresco. Si danzò, si chiacchierò, si giocò. Ma durante una partita a mosca cieca, Angelica si vide bendare gli occhi e trascinare dal signor di Saint-Aignan in un turbine destinato a farle perdere il senso dell'orientamento. Quand'egli si fermò e la lasciò, allontanandosi quindi in punta di piedi, il silenzio che regnava intorno a lei le sembrò insolito. «Non mi abbandonate!» gridò ridendo. Attese un poco, spiando i rumori attorno a sè. Un passo si avvicinò nell'erba, e una mano le sciolse la benda. «Oh!» fece lei, abbagliata. Non si trovava più nel prato dove si divertiva la corte le cui risate giungevano ora lontane, ma al limite di un filare di carpini. Sulla cima di un poggio formato da tre terrazzi fioriti che si elevavano con un dolce pendio, era sorto un piccolo sconosciuto palazzo. Costruito in maiolica bianca e preceduto da un peristilio in marmo rosa, spiccava sul fondo verde di un bosco di acacia il cui odore inebriante profumava l'aria surriscaldata. «È Trianon,» disse il re. Era solo, al fianco di lei. Le prese la vita e lentamente salirono verso la casa. «Bisognava pure che, tra noi, venisse quest'ora, non è vero Angelica,» disse il re a voce bassissima. «Bisognava pure che finissimo col raggiungerci.»
La sua voce era oppressa ed ella sentiva contro il proprio fianco tremare le dita autoritarie. Egli non aveva potuto mai liberarsi del tutto della sua timidezza verso le donne. Nell'istante di completare una conquista, sempre il timore lo invadeva. «Mio amore troppo bello! Mio amore troppo bello!...» Angelica non lottava più. Il piccolo palazzo offriva il riparo del suo silenzio. La forza che la trascinava non era di quelle che si potevano respingere. Nulla poteva spezzare il cerchio che li imprigionava, un cerchio fatto di fiori, d'isolamento, di penombra. Una porta a vetri si era richiusa su loro. La stanza ammobiliata in broccato fiorito era di gusto raffinato. Angelica, turbata, vedeva soltanto ch'era bellissima e che in una alcova stava un gran letto dalle cortine sollevate. «Ho paura!» mormorò. «Non temete di nulla, amor mio.» Con la testa perduta contro la spalla di lui Angelica lasciò ch'egli le prendesse le labbra, lo lasciò slacciare il corsetto, scoprire le tenere rotondità dei seni, inebriarsi al contatto della carne tiepida e segreta, rivelata. Pian piano la trascinava, commovente e come ferito dalla violenza del proprio desiderio. «Vieni, vieni!» supplicava a voce bassa. La sua sensualità era selvaggia e primitiva. Un torrente, una tempesta lo trascinava verso la donna ch'egli desiderava e quello slancio cieco dell'uomo lasciava in realtà sgomenti quando si pensava al sereno dominio del monarca. Angelica, contro il letto, aprì gli occhi. Il re si sarebbe abbandonato a lei, senza pensiero, ed ella si sentiva abbastanza forte, e materna e sapiente per riceverlo fra le braccia e placare con le sue carezze l'ineffabile tormento di quel corpo vigoroso. Ma fu solo un lampo. Si irrigidì tutta, le pupille dilatate nell'ombra calante. «Il temporale!» mormorò. Un lontano brontolio rotolava fuori. Il re vide la sua aria smarrita. «Non è nulla. Che cosa temete?» Ma non sentiva più fra le braccia che una forma dura e restia. Ella gli sfuggì e corse alla finestra, dove appoggiò la fronte ardente contro la freschezza dei vetri. «Che c'è ancora?» chiese lui. La sua voce vibrava di collera contenuta.
«Questa volta non si tratta più di pudore. Le vostre esitazioni rivelano ciò che sospettavo da molto tempo. Vi è un uomo fra noi!...» «Sì.» «Il suo nome?» tuonò lui. Ella si volse, di colpo trasformata, i pugni stretti, gli occhi verdi fiammeggianti come carbonchi. «Goffredo di Peyrac, mio marito, che avete fatto bruciare vivo in piazza di Grève.» Lentamente, le mani di Angelica risalirono verso il suo volto. La bocca dischiusa sembrava cercare l'aria che le mancava. «Goffredo di Peyrac,» ripeté. Le gambe non la ressero ed ella cadde in ginocchio, parlando a mezza voce con frasi incoerenti. «Che ne avete fatto di quel cantore, di quel genio, di quel grande pazzo zoppo che teneva Tolosa sotto la sua innocente magia? Come potrei mai dimenticare Tolosa! Vi si canta, vi si maledice. Vi si gettano fiori e anatemi. Tolosa, la più severa e la più tenera città, la città di Goffredo di Peyrac che voi avete fatto bruciare vivo nella piazza di Grève!...» Non aveva più che quella visione, l'enorme fiore rosso di un braciere che si spegneva in un crepuscolo invernale. Non vi erano più dinanzi a lei che il fuoco e la notte. Singhiozzò brevemente, fuor di sè, e gli occhi le si fecero tristi. «Hanno disperso le sue ceneri al vento della Senna, i suoi figli non hanno più nome, i suoi palazzi sono stati rasi al suolo, i suoi amici si sono allontanati da lui, i suoi nemici l'hanno dimenticato. Nulla rimane del Gaio Sapere, dove conduceva così allegra esistenza. Gli avete preso tutto... Ma non avrete tutto! Non avrete me, sua moglie...» Fuori, la pioggia si era messa a scrosciare. Il temporale continuava ad appesantire sulla natura una notte breve e sconvolta da burrasche. «Forse non ve ne ricordate più,» riprese Angelica sottovoce. «Che cos'è un uomo, dopotutto, per un monarca potente come voi? Polvere, la cui cenere fu portata via dalla Senna. Ma io ricordo sempre e per sempre. Venni a supplicarvi al Louvre, ma mi respingeste. Sapevate che era innocente, ma volevate che fosse condannato; perché temevate la sua influenza sulla Linguadoca. Perché era più ricco di voi!... Perché non si trascinava bassamente ai vostri piedi. Pagaste i giudici perché il verdetto fosse contro di lui. Faceste assassinare l'unico testimone che avrebbe potuto salvarlo. Lo lasciaste torturare. Lo lasciaste morire. Ed io... lasciaste l'abbandono e la mi-
seria inghiottirmi, con i miei due figli... Come potrei dimenticare tutto ciò!» Piangeva singhiozzando senza lagrime, rivivendo terrori senza nome, dolori indimenticabili, pietosa e fuor di sè nel vestito lussuoso come la povera Angelica dei bassifondi di Parigi. Il re, a pochi passi da lei, sembrava colpito dalla folgore. Interminabili, i minuti trascorsero. Parlare? Tacere? Né le parole né il silenzio avevano più il potere di allontanare il passato. Pesantemente, con un sordo rumore di sprofondamento, il passato ammucchiava fra essi un muro insuperabile. Quando il sole riapparve ai vetri, il re gettò uno sguardo verso i giardini. Con passo misurato andò a riprendersi il cappello e se lo pose in capo. Poi si girò verso Angelica, immobile. «Venite, signora. La corte certo ci aspetta.» Siccome ella non si muoveva, insistette: «Venite. Non è necessario attardarci. Abbiamo detto anche troppo.» La giovane donna scosse il capo. «Non troppo. Bisognava che ciò fosse detto.» Si sentiva spezzata, ma fece uno sforzo per imitare la dignità del re. Risollevandosi si recò dinanzi allo specchio, rimise in ordine i capelli e i vestiti. Vi era in lei un gran vuoto. I loro passi, sotto il peristilio di marmo rosa, risuonarono l'uno a fianco all'altro e tuttavia estranei divisi per sempre! 26 «E ora, che cosa accadrà?» si chiedeva Angelica. La giornata aveva seguito il suo corso, come al solito. Ritorno a Versailles dopo l'intermezzo del temporale. Ballo, cena, giuoco. Angelica s'interrogava. Doveva allontanarsi, fuggire, o aspettare un segno del re? Era impossibile ch'egli non facesse qualcosa. Ma quando e in che modo avrebbe reagito? Tornato il mattino, le ore di nuovo svolsero i loro diversi piaceri. Il re non si mostrò. Lavorava. Angelica era molto circondata. La sua assenza il giorno innanzi, e quella del re, non erano passate inosservate ed erano sembrate a tutti significative. La signora di Montespan si era assentata da Versailles per nascondere la propria ira. Angelica dimenticava i pericoli che le faceva correre la rivale, nel timore di un pericolo più imme-
diato. Se il re la faceva cadere in disgrazia, che cosa sarebbe accaduto di Florimondo, che cosa sarebbe divenuto Carlo Enrico? Accettò di dividere un tavolo di giuoco e perse in un'ora mille pistole. Quella sfortuna le parve l'immagine del disordine ch'ella aveva seminato intorno a sè. Respingendo l'amore del re aveva gettato tutte le sue carte, abbandonato tutte le sue possibilità. Mille pistole!... Ecco a che cosa conduceva la stupida mania di vivere con in mano un bossolo per i dadi. Non aveva alcuna passione per il giuoco, ma non passava giorno a corte in cui non fosse costretta a partecipare a una partita. Ecco come ci si trova a poco a poco ridotti a mendicare favori e cariche per riempire una borsa sempre a secco! Da un'obbligazione all'altra, si passa il tempo a rovinarsi e a rifarsi una posizione, a impegnare i propri gioielli per partecipare a un viaggio, a disimpegnarli per brillare a un ballo, a calcolare le possibilità di questa o quella carica lucrativa, a comporre suppliche. Meglio era che scuotesse da sè il dominio della vita di corte, dal momento che avrebbe abbandonato Versailles. Di ciò era ormai certa! Viveva a Versailles le sue ultime ore!... In piedi dinanzi ad una delle finestre della grande galleria si ricordò della prima mattina in cui aveva veduto, a fianco di Barcarola, destarsi il parco di Versailles di cui avrebbe potuto essere la regina, Versailles e le sue fontane, i suoi viali, i suoi carpini, il suo popolo di statue e i suoi boschetti che nascondevano adorabili feste. Laggiù, all'estremità del viale reale, si profilavano all'orizzonte le alberature, le vele e i cordami della piccola flottiglia che sembrava misteriosamente invitare in mezzo ai campi e ai boschi dell'Ile-de-France, a lontane e favolose partenze... Bontemps la trovò sprofondata in un sogno. Le mormorò che il re desiderava vederla e l'attendeva. L'ora era suonata. Il re era calmo, secondo il solito. Non traspariva sui suoi lineamenti nulla dell'emozione che lo agitò quando la vide entrare. Eppure, sapeva che si stava per giocare una partita il cui risultato era, ai suoi occhi, senza prezzo. Non aveva desiderato con tanta violenza nessuna vittoria. E mai aveva conosciuto in anticipo una così deludente certezza di sconfitta. «Se ne andrà,» pensò, «e coprirà il mio cuore di cenere.» «Signora,» fece a voce alta allorché Angelica fu seduta, «ieri avete proferito, contro di me, dolorose e ingiuste accuse. Ho trascorso una parte della notte e di questo giorno a rivedere la pratica di quel processo già vecchio, e a farmene mandare tutte le parti. È vero che molti particolari si erano cancellati dalla mia memoria. Ma non l'affare in sè. Come la maggior
parte degli atti definitivi ch'io dovetti compiere agli inizi del mio regno, questo rimane bene inciso nel mio ricordo. Ha preso posto sulla scacchiera dove conducevo allora una partita difficile da cui dipendevano la mia corona e il mio potere...» «Mio marito non minacciò mai la vostra corona e il vostro potere. Soltanto la gelosia...» «Non ricominciate a dirmi cose ingiuriose,» fece egli con tristezza ma con tono che la gelò. «E risolviamo subito la disputa ponendo i dati del problema. Sì, lo affermo, il conte di Peyrac minacciava la mia corona e il mio potere perché era uno dei miei più potenti vassalli. Ora, i grandi erano e rimanevano ancora i miei peggiori nemici. Angelica, voi non siete una sciocca. Non vi è nessuna passione che possa cancellare del tutto il vostro buon senso. Non metto avanti delle scuse, ma delle ragioni, per raddrizzare il vostro giudizio. Dovete rappresentarvi lo stato delle cose com'erano allora: temibili agitazioni in tutto il regno prima e dopo la mia maggiore età, una guerra con un paese straniero durante la quale le discordie domestiche avevano fatto perdere alla Francia mille vantaggi, un principe del mio sangue, e il fratello di mio padre: Gastone d'Orléans, alla testa dei miei nemici! Un grandissimo nome: il principe di Condé che si alleava con lui; molti intrighi nello Stato. Parlamentari in rivolta contro il loro re. Nella mia corte, pochissime fedeltà disinteressate, per cui i miei sudditi più sottomessi in apparenza, erano da temere e costavano come i ribelli. Soli fedeli sostegni, mia madre, disprezzata e calunniata, e il cardinale Mazarino, universalmente odiato. Entrambi, del resto, stranieri: il cardinale era italiano, come voi ben sapete. Mia madre era rimasta molto spagnola di cuore e di costumi. I francesi meglio intenzionati mal sopportavano i loro modi. Si capisce facilmente che cosa facessero i male intenzionati. In mezzo a tutto ciò, un fanciullo, io, investito di un potere schiacciante, che si sentiva troppo debole, e minacciato da ogni parte.» «Non eravate un fanciullo quando faceste arrestare mio marito.» «Lasciate andare quell'aria ostinata, di grazia! Sareste anche voi, come tutte le donne, incapace di osservare un problema nel suo insieme? Per quanto dolorose siano per voi le conseguenze dell'arresto e della morte del conte di Peyrac, non è che un piccolo episodio nel vasto quadro di ribellione e di lotte che sto tentando di esporvi...» «Il conte di Peyrac era mio marito, permettete che la sua sorte mi appaia un particolare più importante di tutto l'assieme del vostro quadro.»
«La storia non sa che farsene delle opinioni della signora di Peyrac,» disse ironicamente il re, «e il "mio" quadro è quello del mondo intero.» «La signora di Peyrac non sa che farsene della storia del mondo intero,» rispose lei, scura in volto. Il re la contemplò, semidrizzata, un fuoco di ribellione alle guance, e sorrise con tristezza. «Una sera, non tanto tempo fa, in questa stessa stanza, avete posato le mani sulla mia e avete rinnovato l'antico giuramento dei vassalli al re di Francia. Parole che ho udito molte volte seguite dagli stessi effetti di tradimento, di abbandono. La razza dei grandi nobili resterà sempre pronta a raddrizzare la testa, a rivendicare, ad abbandonare un padrone per un altro. Ecco perché io li voglio tutti a Versailles, sotto i miei occhi. Ciò ferma l'ascesso e caccia via le febbri cattive. Quanto a me, non ho più alcuna illusione. Nemmeno nei vostri riguardi. Dunque,» fece Luigi XIV, «ho sempre sentito in voi, nonostante l'attrazione che vi ispiravo, qualche cosa di irriducibile verso di me. Era questo.» Riprese, dopo un istante di meditazione: «Non cercherò d'ispirarvi pietà per il piccolo re in miseria che allora io ero. È proprio così. Mi sono ripromesso di ispirare timore ed obbedienza. Fra la mia nullità di un tempo e il mio potere di oggi, il cammino è stato lungo e tormentoso. Ho veduto il mio Parlamento mettere un esercito contro di me e Turenne accettarne il comando, il duca di Beaufort e il principe di Condé organizzare la Fronda, la duchessa di Chevreuse darsi da fare per portare a Parigi gli eserciti stranieri dell'arciduca d'Austria e del duca di Lorena. Ho veduto Condé, dopo essere stato il mio salvatore, partire sbattendo la porta, proferendo basse minacce. Mazarino lo faceva arrestare. Allora, la duchessa di Longueville, sua sorella, sollevava la Normandia, la principessa di Condé la Guienna, mentre la duchessa di Chevreuse invitava questa volta gli spagnoli a invadere la Francia. Ho veduto il mio primo ministro, vinto, fuggirsene, i francesi battersi fra loro sotto le mura di Parigi, e mia cugina, la Grande Mademoiselle, far sparare il cannone dalla Bastiglia sulle mie truppe. Accordatemi almeno le circostanze attenuanti di essere stato allevato alla scuola della totale diffidenza e del tradimento. Ho saputo certamente dimenticare quando occorreva, ma non le lezioni di una così amara esperienza!» Angelica lo lasciava parlare, le mani giunte, lo sguardo perduto. Egli la sentiva lontana. E quella defezione gli era più sensibile di tutte quelle che aveva sin là subito. Ella disse, tuttavia, a fior di labbra:
«Insomma, perché vi difendete? A che scopo?» Luigi XIV la osservò con fierezza. «Per la mia reputazione! La conoscenza incompleta che avete degli avvenimenti che mi hanno guidato vi ha trascinato a tracciare del re un'immagine insultante e falsa. Un re che abusasse del proprio potere per soddisfare i sentimenti più meschini non è degno del titolo sacro ricevuto da Dio in persona e dai suoi grandi antenati. Rovinare la vita di un uomo unicamente per invidia e gelosia era un atto disprezzabile e inconcepibile da parte di un vero sovrano. Agire ugualmente con la convinzione che la condanna di uno solo avrebbe risparmiato i più grandi disordini a un popolo sfinito che aveva già sopportato anche troppo, era un atto di saggezza.» «Quando mai mio marito aveva minacciato l'ordine del vostro regno?» «Con la sola presenza.» «Con la sola presenza?» «Ma ascoltate, dunque! Mi trovavo finalmente in età maggiore, di quella maggiorità dei re che non è quella in cui i semplici individui cominciano ad amministrare liberamente i loro affari. Io avevo quindici anni! Non conoscevo intieramente che la grandezza del fardello, senza poter ben conoscere le mie proprie forze. Mi facevo coraggio dicendomi che non ero stato messo e conservato sul trono con una così grande passione di ben fare senza doverne trovare i mezzi. Questi mi furono dati. Il mio primo atto di maggiorità fu di fare arrestare il cardinale di Retz. Cominciavo il "repulisti" della mia casa. In pochi anni, decisi il destino di coloro che per tanto tempo avevano intralciato il mio. Lo zio Gastone d'Orléans fu relegato a Troyes. Altri furono amnistiati, fra cui Beaufort e La Rochefoucauld. Il principe di Condé era passato agli spagnoli. Lo condannai a morte in contumacia. All'epoca del mio matrimonio, gli spagnoli negoziarono il suo perdono. Glielo accordai. Il tempo era passato. Altre preoccupazioni mi chiamavano: da una parte, la preponderanza sempre maggiore del mio sovrintendente Fouquet; dall'altra, l'irrigidimento di una provincia per lungo tempo rivale del feudo dell'Ile-de-France, l'Aquitania. Ne eravate allora la regina, mia carissima. Si parlava delle meraviglie di Tolosa e di come la vostra bellezza avrebbe resuscitato la bella Eleonora di Aquitania. Mi rendevo conto che quella provincia era di una civiltà differente, quasi straniera. Domata crudelmente dalla crociata degli Albigesi, più tardi a lungo inglese e quasi intieramente dominata dalle credenze eretiche, sopportava solo costrettavi la tutela della corona di Francia. Soltanto il titolo di conte di Tolosa faceva di vostro marito un pericoloso suddito, senza neppure tener
conto della personalità dell'uomo. Ora, oltre a tutto, quale uomo sotto quel titolo! un essere di una grandiosa intelligenza, un carattere eccentrico e seducente, ricco, influente e sapiente. Lo vidi e ne rimasi ossessionato e inquieto. Sì, egli era più ricco di me, e ciò non potevo ammettere, perché nel nostro secolo il denaro subordina la potenza e presto o tardi questa potenza sarebbe stata portata a misurarsi con la mia. «Non ebbi più, da allora, che un pensiero: spezzare quella forza che si sviluppava al di fuori di me, creando al mio fianco un altro Stato, forse ben presto un altro regno. Credetemi se vi affermo che, dapprima, non volevo prendermela con l'uomo, ma soltanto diminuire le prerogative del conte, spezzettare il suo potere. Ma, pensandoci, scoprii una falla nell'esistenza del conte di Peyrac, che mi permetteva d'incaricare un altro della difficile bisogna di re, guardiano vigile del trono. Vostro marito aveva un nemico. Non ho mai potuto sapere per quale motivo, ma Fouquet, l'onnipotente Fouquet, aveva anche lui giurato la sua morte,» Angelica ascoltava torcendosi le mani. Soffriva sino al fondo del cuore, rivivendo il passato che aveva seppellito la sua brillante felicità. Fu sul punto di spiegare al re la causa dell'odio di Fouquet, ma che importava, ormai! Le chiacchiere non potevano ricostruire ciò ch'era stato distrutto. Scosse varie volte la testa. Aveva le tempie madide. «Vi faccio del male,» disse il re sottovoce, «amor mio, mio povero amore!» Tacque, oppresso un attimo dal peso di un destino che, dopo averli messi l'uno di fronte all'altra come nemici, li aveva riavvicinati sino all'orlo della passione. Sospirò profondamente. «Da quel momento, affidai l'affare a Fouquet,» riprese. «Ero certo che sarebbe stato ben condotto e lo fu. Seppe servirsi, il furbo, della vendetta dell'arcivescovo di Tolosa. Confesso di aver osservato con interesse i sistemi del mio sovrintendente. Anch'egli aveva per sè il denaro, l'influenza. Anch'egli non era lungi dal credersi il padrone del paese. Pazienza! sarebbe venuta la sua volta e non mi dispiaceva di vederlo, prima, occuparsi a ridurre i miei nemici con lo stesso procedimento indiretto ch'io avrei usato più tardi contro di lui. Rileggendo poco fa i documenti del processo ho capito meglio il senso della vostra indignazione. Parlavate dell'assassinio di uno dei testimoni a difesa, il reverendo padre Kirchner. Ahimè! È esatto. Tutto era fra le mani di Fouquet e dei suoi agenti, e Fouquet voleva la morte del conte di Peyrac. Certo, era andare un po' lontano. Quando l'ottenne, intervenni...»
Il re rimase un momento sopra pensiero. «Eravate venuta a supplicarmi al Louvre. Anche di questo mi ricordo. Come del giorno in cui vi vidi per la prima volta, abbagliante in un vestito d'oro. Non crediate ch'io dimentichi troppo facilmente. I volti mi restano impressi, e i vostri occhi non sono di quelli che si dimenticano facilmente. Quando, alcuni anni più tardi, appariste a Versailles, vi riconobbi subito. Ho sempre saputo chi eravate. Ma vi presentavate al braccio del vostro secondo marito, il marchese del Plessis-Bellière, ed eravate desiderosa che non fosse fatta allusione al passato. Credetti allora di rispondere ai vostri desideri accettando l'amnistia che mi chiedevate. Ebbi torto?» «No, sire. Ve ne ringrazio,» fece Angelica, triste. «Devo pensare che già allora avevate in mente il progetto di una crudele e raffinata vendetta? Farmi pagare con i tormenti del cuore che mi infliggete oggi quelli che il re vi aveva inflitto un tempo?» «No, sire, no, non crediate che sia capace di una simile bassezza, talmente inutile, oltretutto,» disse Angelica, le cui guance erano tornate a colorirsi. Il re sorrise lievemente. «Vi riconosco bene in questa esclamazione. La vendetta è infatti sterile, e voi non siete donna da perdere i vostri sforzi per un vano scopo. Ma lo avete egualmente raggiunto: mi lasciate cento volte ferito, cento volte punito.» Angelica volse via lo sguardo. «Che posso fare contro il destino?» disse debolmente. «Avrei voluto - sì, lo confesso a voce bassa - avrei voluto dimenticare. Amavo tanto la vita. Mi sentivo troppo giovane per legarmi a un morto. L'avvenire mi sorrideva e mi attraeva con mille seduzioni. Ma gli anni sono passati e mi accorgo che non posso far nulla, che non potrò mai far nulla contro questa realtà. Era mio marito! Lo amavo con tutto il mio essere, con il cuore e con la mente, e voi lo avete fatto bruciare vivo nella piazza di Grève.» «No!» fece il re scuro in volto. «È stato bruciato nella fornace,» ripeté Angelica ferocemente. «Che voi l'abbiate voluto o no. Per tutta la vita udrò gli scricchiolii del braciere che lo consumò dietro vostro ordine.» «No,» ripeté la voce di Luigi, come fosse stato il suo bastone a colpire il legno del pavimento. Questa volta ella lo udì e lo guardò sgomenta.
«No,» ripeté il re per la terza volta, quasi in un soffio. «Non è stato bruciato. Non è lui che è stato consumato sul rogo quella fine di gennaio 1661, ma il cadavere di un condannato, che gli era stato sostituito. Dietro mio ordine,» calcò l'accento sulle parole, «dietro mio ordine il conte Goffredo di Peyrac, all'ultimo momento fu sottratto alla morte ignominiosa. Presi io stesso cura di istruire il boia dei miei progetti così come dei particolari pratici per conservare lo stretto segreto, perché non era nei miei progetti accordargli una grazia spettacolare. Se volevo salvare Goffredo di Peyrac, non condannavo meno, per questo, il conte di Tolosa. Il carattere clandestino della mia impresa offerse mille difficoltà. Si finì per attenersi a un piano che rendeva possibile la situazione particolare di una bottega della piazza di Grève. Quell'osteria possedeva una cantina che corrispondeva attraverso un sotterraneo con la Senna. La mattina dell'esecuzione, i miei agenti mascherati vi si organizzarono e portarono il cadavere, vestito di bianco. Poco dopo, giunse il corteo. Il boia fece entrare per alcuni istanti il condannato nell'osteria col pretesto di dargli un cordiale, e la sostituzione poté avvenire lontano dagli occhi della folla. Mentre il fuoco consumava un cadavere anonimo coperto da un cappuccio, il conte di Peyrac veniva condotto, attraverso il sotterraneo, fino al fiume, dove una barca lo aspettava...» Sicché, era dunque vero. Le voci, i presentimenti, la leggenda che si era formata a poco a poco intorno alla morte del conte di Peyrac, le straordinarie confidenze del salumiere della piazza di Grève, le speranze e i sogni confusi di Angelica... Dinanzi al suo volto bianco e pietrificato, il re aggrottò le ciglia. «Non ho detto per questo ch'egli sia vivo. Bandite questa speranza, signora. Il conte è morto e ben morto, ma non nelle condizioni di cui mi rendete responsabile. Vi dirò anzi che è morto per colpa sua. Gli avevo restituito la vita ma non la libertà. Alcuni moschettieri dovevano accompagnarlo in una fortezza dove sarebbe stato imprigionato, ma durante il viaggio, una notte, egli evase. Folle imprudenza! Troppo debole per lottare contro la corrente, annegò, e il suo corpo, respinto dal fiume, fu ritrovato e riconosciuto poche ore più tardi. «Ecco i documenti che attestano ciò che vi affermo. I rapporti del luogotenente dei moschettieri, fra gli altri, quelli che parlano della sua evasione e del riconoscimento del corpo... Signora! Non mi guardate con quell'espressione sconvolta. Potevo mai pensare che lo amaste ancora a tal punto?
Non si ama più un uomo scomparso, morto da anni. Ecco come sono le donne. Sempre imbarcate su chimere! Ma avete mai pensato al trascorrer del tempo? Se lo ritrovaste oggi, non lo riconoscereste, come lui non riconoscerebbe voi. Siete diventata un'altra donna, come lui sarebbe diventato un altro uomo. Non potevo immaginarvi così irragionevole...» «L'amore è sempre irragionevole, sire, posso chiedervi una grazia? Affidatemi questi documenti che riguardano il suo imprigionamento e la sua evasione.» «Che volete farne?» «Rileggerli a mio agio per placare il dolore.» «Non mi lascio ingannare dalla vostra ipocrisia... Avete in mente qualche nuova follia. Ascoltatemi bene: vi proibisco, mi capite? Vi proibisco di lasciare Parigi sino a nuovo ordine, altrimenti incorrerete nella mia ira.» Angelica chinò la testa. Stringeva sul cuore come un tesoro quel fascio di carte. «Mi lasciate libera di esaminarli, sire? M'impegno a farveli riconsegnare tra pochi giorni.» «Sta bene. Dopo tutto, teneteveli. È vostro diritto, dal momento che io ho, per primo, parlato di ciò. Possa la loro lettura farvi capire che il passato non può resuscitare. Guardare l'avvenire è un atteggiamento più sereno. Piangerete, vi lamenterete, poi ritornerete alla ragione... Forse questa crisi vi sarà salutare.» Ella sembrava assente e le sue lunghe ciglia le proiettavano sulle guance un'ombra. «Come siete donna!» mormorò lui. «Con quel lato puerile e testardo delle innamorate, e quella potenza d'amore insondabile come l'oceano. Perché mai non siete stata creata per me? Andate a sognare, carissima. Addio. Lasciatemi, ora.» Angelica si alzò e uscì dimenticando di fare l'inchino e senza vedere ch'egli si levava in piedi e si tratteneva dal tendere verso di lei le mani, mentre un appello soffocato gli moriva fra le labbra: «Angelica!» Attraversò il parco nell'ora del crepuscolo. Doveva camminare per placare la propria agitazione. Camminava, i documenti stretti al cuore, parlando sottovoce, e quelli che incontrò, e che procedevano a coppie nella luce sulfurea dei viali, la credettero pazza o ebbra. Salutarono però egualmente con profondi inchini la signora del Plessis-Bellière, la nuova favorita. Ella non li vedeva, né vedeva gli alberi, le statue, i fiori. Camminava
rapida, in cerca del silenzio e della solitudine. In un boschetto dove bolle d'acqua fiorivano come ninfee sulla superficie di una nera vasca, si fermò infine. Era senza fiato perché il cuore le batteva irregolarmente. Sedette su una panchina di marmo. Aveva intenzione di leggere i documenti consegnatile dal re, ma non c'era più luce sufficiente. Sollevò gli occhi verso il cielo oscurato dove i grandi alberi muovevano dolcemente le cime, come alghe trascinate dalle correnti notturne. L'istinto profondo che è nel cuore delle donne destava in lei una certezza. Dal momento che egli non era morto sul rogo, significava ch'era ancora vivo! Se la sorte lo aveva strappato così miracolosamente al fuoco, non poteva essere che per restituirlo ad Angelica, e non per riprendergli la vita, pochi giorni dopo. Non poteva crederlo. In qualche parte di quel vasto mondo, in un punto sconosciuto della terra egli esisteva, egli l'aspettava, e avesse dovuto anche percorrere ogni pezzettino della terra coi piedi sanguinanti, lo avrebbe cercato e lo avrebbe ritrovato. L'avevano divisa da lui, ma la sua vita non era terminata. Sarebbe venuto il giorno in cui lo avrebbe raggiunto, sfinita, in cui sarebbe caduta piangendo sul cuore di lui, e sarebbero stati di nuovo due. Non evocava né il suo volto, né la sua voce, e neppure il suo nome, ma tendeva le braccia verso di lui attraverso le tenebre dell'assenza e dell'oblio. E con gli occhi sollevati verso il cielo oscurato dove i grandi alberi muovevano le cime come alghe trascinate dalle correnti notturne, gridò delirante, esaltata: «Non è morto. Non è morto!» FINE