La vecchiaia
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Il sogno di Scipione Il fato
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Difesa di Milone
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Difesa dell’attore Roscio Della divinazione...
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La vecchiaia
3
Il sogno di Scipione Il fato
23
30
Difesa di Milone
43
Difesa dell’attore Roscio Della divinazione De officiis
69
83
151
Contro L.Catilina
227
Interrogatorio contro Vatinio Difesa di Archia Amicizia
269
278
Commentariolum petitionis
Le leggi
256
312
299
2
LA VECCHIAIA
I 1 «O Tito, se ti aiuto e ti libero dell'angoscia che ora, confitta nel cuore, ti brucia e ti tormenta, che ricompensa avrò?» Posso davvero rivolgermi a te, Attico, con gli stessi versi con cui a Flaminino si rivolge «quell'uomo non di grandi ricchezze, ma pieno di lealtà» anche se sono sicuro che, diversamente da Flaminino, non «ti agiti così, Tito, giorno e notte». Conosco la misura e l'equilibrio del tuo animo e so che da Atene non hai riportato solo il tuo soprannome, ma anche cultura e saggezza. E tuttavia sospetto che, talvolta, ti assillino molto gravemente i problemi che travagliano anche me. Consolarsi da essi è impresa assai ardua e da differirsi ad altro momento. Ora, invece, mi è sembrato opportuno comporre per te qualcosa sulla vecchiaia. 2 Del peso, comune a entrambi, della vecchiaia che già abbiamo addosso o almeno si avvicina a grandi passi intendo alleviare me e te, benché sia sicuro che, come ogni evento, la sopporti e la sopporterai con equilibrio e ragionevolezza. Ma quando avvertivo il desiderio di scrivere qualcosa sulla vecchiaia, eri tu che ti presentavi alla mia mente, degno di un dono che potesse giovare all'uno e all'altro di noi, in comune. Davvero la stesura di questo libro è stata per me così piacevole che non solo ha cancellato tutte le noie della vecchiaia, ma ha reso la vecchiaia persino dolce e piacevole. Mai, dunque, si potrà lodare abbastanza degnamente la filosofia che permette, a chi la segue, di vivere ogni stagione della vita senza noie. 3 Su altri argomenti molto ho detto e molto dirò. Questo libro sulla vecchiaia lo dedico a te. Ho attribuito l'intero discorso non a Titono, come fa Aristone di Ceo ci sarebbe del resto poca autorità in una leggenda -, ma a Marco Catone il vecchio, per dare maggiore autorità alla dissertazione. Vicino a lui immaginiamo Lelio e Scipione pieni di stupore perché sopporta la vecchiaia con tanta serenità e Catone intento a rispondere loro. Se ti sembrerà che discuta con più cultura di quanto non sia solito fare nei suoi libri, attribuiscilo alla letteratura greca di cui, com'è noto, fu accanito studioso da vecchio. Ma perché dilungarmi? Ormai il discorso di Catone in persona illustrerà appieno la mia idea della vecchiaia. II 4 SCIPIONE. Spesso mi sono stupito insieme a Caio Lelio, qui con me, della tua saggezza eccellente in tutte le cose, o Marco Catone, e perfetta, ma soprattutto del fatto che non mi hai mai dato la sensazione di vivere la vecchiaia come un peso. Eppure essa risulta così odiosa alla maggior parte dei vecchi che, a sentirli, sosterrebbero un carico più pesante dell'Etna. 3
CATONE. Non è davvero un'impresa difficile, cari Scipione e Lelio, quella di cui sembrate stupirvi. Chi infatti non abbia dentro di sé risorse per vivere bene e felice subisce il peso di tutte le età; chi invece trae da se stesso ogni bene non può considerare un male quel che necessità di natura impone. La vecchiaia fa parte di queste cose più delle altre. Tutti desiderano raggiungerla, ma, una volta raggiunta, la investono di accuse: tanta è l'incoerenza e l'assurdità della stoltezza! Dicono che si insinui prima di quanto pensassero. Primo: chi li ha indotti a credere il falso? Forse che la vecchiaia subentra furtiva alla giovinezza più rapidamente di quanto la giovinezza subentri furtiva all'infanzia? Secondo: come può la vecchiaia essere per loro meno pesante se avessero ottocento anni anziché ottanta? Quando infatti gli anni passati, per lunghi che siano, sono volati via, non c'è consolazione che possa mitigare la vecchiaia degli stolti. 5 Perciò, se siete soliti stupirvi della mia saggezza - possa essere degna del vostro giudizio e del mio soprannome! - sono saggio in questo: seguo la natura, ottima guida, come se fosse un dio e le obbedisco; non è verosimile che essa abbia descritto bene tutte le altre parti della vita per poi buttare giù l'ultimo atto, come un poeta senz'arte. Ma era pur necessario che esistesse qualcosa di ultimo, qualcosa, per così dire, di vizzo e sul punto di cadere, per maturità compiuta, come accade ai frutti degli alberi e ai prodotti della terra. Il saggio deve sopportare questa realtà con condiscendenza: la lotta dei Giganti contro gli dèi che altro è se non una ribellione contro la natura? 6 LELIO. Ebbene, Catone, sarà per noi un grandissimo piacere - e lo dico anche a nome di Scipione - se impareremo da te, molto tempo prima, come poter affrontare nel migliore dei modi il peso crescente degli anni, poiché speriamo, o almeno ci auguriamo, di diventare vecchi. CATONE. Va bene, lo farò, Lelio, soprattutto se, come dici, sarà un piacere per tutt'e due. LELIO. Vorremmo davvero vedere, se non ti rincresce, Catone, come sia questo luogo cui sei giunto, dopo aver percorso, per così dire, una lunga strada, la stessa che si dovrà intraprendere anche noi. III 7 CATONE. Farò del mio meglio, Lelio. Spesso, infatti, mi sono trovato in mezzo alle lamentele dei miei coetanei - come dice un antico proverbio «il simile si accompagna più facilmente al simile» - . Come Caio Salinatore, come Spurio Albinio, ex consoli, più o meno miei coetanei, si lamentavano ora perché non provavano più quei piaceri senza i quali la vita, secondo loro, non era vita, ora perché erano disprezzati da chi, prima, li trattava con abituale deferenza! Secondo me non accusavano quel che si doveva accusare. Se infatti la vecchiaia fosse responsabile di ciò, gli stessi mali patirei io e tutti gli altri anziani; invece ho conosciuto molti che non si lamentano di esser vecchi, perché considerano tutt'altro che un dispiacere l'essersi liberati dai vincoli delle passioni e non sono guardati dall'alto in basso da amici e parenti. Ma responsabile di tutte queste lagnanze è il carattere, non l'età: i vecchi equilibrati, che non sono difficili né scontrosi, trascorrono una vecchiaia sopportabile. L'intrattabilità e la mancanza di cortesia, invece, sono un peso a tutte le età. 8 LELIO. Hai ragione, Catone. Ma forse qualcuno potrebbe ribattere che la vecchiaia ti risulta più sopportabile perché hai potere, ricchezza e prestigio, privilegi che non possono toccare a molti. CATONE. Eh sì, caro Lelio, questi privilegi valgono qualcosa, ma non sono certamente tutto. Per esempio, si racconta che Temistocle, in un litigio, abbia 4
risposto a uno di Serifo che gli rimproverava di aver raggiunto lo splendore per gloria non sua, ma della patria: «Mai, perdio, disse, sarei diventato famoso se fossi di Serifo, ma nemmeno tu, se fossi di Atene». Altrettanto si può dire della vecchiaia: nella più grande povertà non può essere leggera neppure per il saggio, per lo stolto non può essere pesante anche nella più grande ricchezza. 9 Le armi in assoluto più idonee alla vecchiaia, cari Scipione e Lelio, sono la conoscenza e la pratica delle virtù che, coltivate in ogni età, dopo una vita lunga e intensa, producono frutti meravigliosi non solo perché non vengono mai meno, neppure al limite estremo della vita - cosa di per sé importantissima -, ma anche perché la coscienza di una vita spesa bene e il ricordo di molte buone azioni sono una grandissima soddisfazione. IV 10 Come a un coetaneo, volli bene, io giovane lui vecchio, a Quinto Massimo, il riconquistatore di Taranto. C'era in quell'uomo grande una severità condita dall'affabilità e la vecchiaia non aveva cambiato il suo carattere. Veramente, iniziai a rendergli onore quando non era molto anziano, ma tuttavia già avanti negli anni: era stato console per la prima volta l'anno successivo alla mia nascita e, quando lo fu per la quarta volta, partii con lui - ero un giovincello - come soldato semplice per Capua e cinque anni dopo per Taranto. Divenuto questore, esercitai tale magistratura sotto il consolato di Tuditano e Cetego quando lui, ormai molto vecchio, sosteneva la legge Cincia «sui doni e le ricompense». Sapeva al tempo stesso combattere come un ragazzo nonostante l'età molto avanzata e fiaccare con la pazienza un Annibale pieno di ardore giovanile. Di lui scrisse magnificamente il mio amico Ennio: «Un solo uomo, temporeggiando, salvò la nostra patria; non anteponeva il mormorar della gente al bene pubblico. Così, risplende e sempre più risplenderà la sua gloria.» 11 E Taranto, con che instancabilità, con che intelligenza la riprese! In tale occasione con le mie orecchie lo sentii ribattere a Salinatore che, persa la città, si era rifugiato nella rocca e si gloriava con queste parole: «Per opera mia, Quinto Fabio, hai ripreso Taranto!» «Certo!» rispose ridendo. «Se tu non l'avessi persa io non l'avrei mai ripresa!» E davvero non fu più eccellente nelle armi che in toga: console per la seconda volta, sebbene il suo collega Spurio Carvilio non prendesse posizione, si oppose finché poté al tribuno della plebe Caio Flaminio che, contro il volere del senato, intendeva procedere a una distribuzione fra i singoli individui del territorio piceno e gallico. Quando fu augure osò dire che hanno i migliori auspici le iniziative intraprese a vantaggio dello stato mentre le proposte avanzate a suo danno hanno auspici sfavorevoli. 12 Ebbi modo di apprezzare in lui molte eccellenti qualità, ma nessuna più ammirevole del modo in cui sopportò la morte del figlio, uomo illustre ed ex console. Il suo elogio funebre è nelle mani di tutti; quando lo leggiamo, quale filosofo non ne esce sminuito? E non solo si rivelò grande alla luce del sole e agli occhi dei suoi concittadini, ma ancora più notevole nell'intimità e in casa. Che modo di esprimersi, che insegnamenti, che conoscenza dell'antichità, che competenza nel diritto augurale! E vasta era la sua cultura letteraria, per essere un romano: ricordava non solo tutte le vicende interne, ma anche quelle estere. Godevo del suo conversare con tanta avidità come se già presagissi quanto si sarebbe avverato in seguito: morto lui, non avrei avuto più nessuno da cui imparare. 5
V 13 Allora, perché tante parole su Massimo? Per farvi capire bene che sarebbe un'empietà dire infelice una simile vecchiaia. È pur vero che non tutti possono essere degli Scipione o dei Massimi per ricordarsi città espugnate, battaglie terrestri e navali, guerre da loro condotte, trionfi. Ma anche la vecchiaia di una vita trascorsa nella calma, nell'onestà e nella distinzione è tranquilla e dolce, come fu, secondo la tradizione, quella di Platone, che mori a ottantun anni mentre era impegnato a scrivere, e quella di Isocrate, che dice di aver composto, novantaquattrenne, l'opera intitolata Panatenaico e visse ancora cinque anni; il suo maestro, Gorgia di Leontini, compì centosette anni senza smettere mai di studiare e lavorare; quest'ultimo, a chi gli chiedeva perché volesse vivere così a lungo, rispondeva: «Non ho niente da rimproverare alla vecchiaia!» Risposta eccezionale e degna di un uomo colto! 14 Sono infatti gli ignoranti a imputare alla vecchiaia vizi e colpe loro, diversamente da chi ho menzionato poco fa, Ennio: «Come destriero impetuoso, che spesso nel tratto finale vinse a Olimpia, ora, dalla vecchiaia stremato, riposa ...» Paragona la sua vecchiaia a quella di un cavallo impetuoso e vincitore. Lo potete ricordare bene: diciannove anni dopo la sua morte sono stati eletti i consoli ora in carica, Tito Flaminino e Manlio Acilio; mori l'anno in cui erano consoli Cepione e, per la seconda volta, Filippo, quando io, allora sessantacinquenne, sostenevo la legge Voconia con gran voce e buoni polmoni. Ebbene, a settant'anni tanto visse Ennio - sopportava così bene i due pesi considerati più gravi, povertà e vecchiaia, da sembrare quasi compiacersene. 15 In realtà, quando esamino il problema sotto tutti gli aspetti, trovo quattro motivi che fanno sembrare la vecchiaia infelice. Primo: allontana dalle attività. Secondo: indebolisce il corpo. Terzo: priva di [quasi] tutti i piaceri. Quarto: è a un passo dalla morte. Analizziamo, se siete d'accordo, la portata e il valore di ciascun motivo. VI La vecchiaia ci porta via dalle attività. - Da quali? Da quelle che si compiono con le energie della giovinezza? Non ci sono forse occupazioni che gli anziani possano svolgere con la mente, anche senza forze fisiche? Allora non faceva niente Quinto Massimo, niente Lucio Paolo, tuo padre, suocero di quell'uomo eccellente che era mio figlio? E gli altri vecchi, i Fabrizi, i Curi, i Coruncani, quando difendevano lo stato con senno e autorità non facevano niente? 16 Alla vecchiaia di Appio Claudio si aggiungeva la cecità. Eppure, quando il senato era incline a stipulare il trattato di pace con Pirro, non esitò a dire quel che Ennio trascrisse in versi: «Dove piegano le vostre menti, dementi, che sin qui solevano proceder rettè?» e così via con stile molto solenne. Vi è nota l'opera e, del resto, esiste ancora il discorso di Appio. Ebbene, parlò così diciassette anni dopo il suo secondo consolato, quando erano trascorsi dieci anni tra il suo primo e secondo mandato ed era già stato censore prima del consolato iniziale. Da ciò si capisce che durante la guerra di Pirro era molto avanti con gli anni; e tuttavia così ci hanno tramandato i Padri. 17 Non adduce quindi nessuna valida ragione chi sostiene che la vecchiaia non abbia parte 6
attiva nella vita pubblica; è come se dicesse che il timoniere, nel corso della navigazione, non fa niente perché, mentre gli altri salgono sugli alberi, corrono su e giù per i ponti e svuotano la sentina, lui invece siede tranquillo a poppa a reggere il timone. Il vecchio non fa le stesse cose dei giovani, ma molto di più e meglio: le grandi azioni non sono frutto della forza, della velocità o dell'agilità fisica, ma del senno, dell'autorità, della capacità di giudizio, qualità di cui la vecchiaia, di solito, non solo non si priva, ma anzi si arricchisce. 18 A meno che, dopo aver partecipato a ogni tipo di guerra come soldato semplice, tribuno, luogotenente e console, non vi dia l'impressione di stare con le mani in mano perché ho smesso di combattere. Ma consiglio al senato che politica seguire e con quali strategie: molto in anticipo dichiaro guerra a Cartagine che da tempo trama contro di noi; non smetterò di temerla finché non la saprò rasa al suolo. 19 Gli dèi immortali ti riservino questa palma, o Scipione, e ti concedano di portare a termine l'impresa lasciata incompiuta da tuo nonno! Sono passati trentatré anni dalla sua morte, ma tutti gli anni a venire manterranno vivo il ricordo di quel grande. Morì l'anno prima della mia censura, nove anni dopo il mio consolato durante il quale fu eletto console per la seconda volta. Ebbene, se fosse vissuto sino a cento anni, sarebbe forse scontento della propria vecchiaia? Certo non potrebbe fare incursioni, saltare, combattere da lontano con la lancia o da vicino con il gladio, ma farebbe valere il senno, la ragione, la capacità di giudizio. Se tali qualità non fossero nei vecchi, i nostri antenati non avrebbero chiamato «senato» il consiglio supremo. 20 A Sparta, appunto, chi esercita la magistratura più alta ha l'età e quindi il nome di «vecchio». Se poi volete leggere o ascoltare la storia delle nazioni straniere, scoprirete che sono stati i giovani a mandare in rovina gli stati più forti, i vecchi a sostenerli e a rimetterli in piedi. «Dite, come perdeste in così poco tempo il vostro stato, tanto potente?» A tale domanda, formulata nel Ludo del poeta Nevio, si risponde, tra le altre cose, in primo luogo così: «Spuntavano nuovi oratori, stupidi sbarbatelli.» Naturale: la temerarietà è tipica dell'età in fiore, la saggezza dell'età declinante. VII 21 Ma la memoria diminuisce. È vero, se non la eserciti o se per natura sei un po' tardo. Temistocle sapeva a memoria il nome di tutti i suoi concittadini; credete forse che, arrivato a una certa età, si sia messo a salutare Aristide chiamandolo Lisimaco? Da parte mia, non solo conosco le persone vive ai giorni nostri, ma anche i loro padri e i loro avi, e quando leggo le iscrizioni sepolcrali non ho paura, come si dice, di perdere la memoria: anzi, nel leggerle, rinnovo il ricordo dei morti. In realtà non ho mai sentito dire che uno da vecchio si sia dimenticato del luogo in cui aveva nascosto il tesoro; i vecchi ricordano quanto hanno a cuore, le malleverie prestate, i debitori, i creditori. 22 E i giureconsulti? E i pontefici? E gli àuguri? E i filosofi? Sono vecchi, ma quante cose ricordano! I vecchi conservano le capacità intellettuali purché preservino interessi e dinamismo; e questo non solo negli uomini famosi e insigniti di cariche, ma anche nella tranquilla vita privata. Sofocle compose tragedie sino all'estremo limite della vecchiaia; poiché, per questa 7
sua passione, sembrava trascurare il patrimonio familiare, fu chiamato in giudizio dai figli: volevano che, allo stesso modo in cui, da noi, si è soliti interdire quei padri che gestiscono male le loro sostanze, così i giudici lo rimuovessero dal controllo del patrimonio familiare come se fosse un rimbambito. Allora il vecchio, così si racconta, declamò ai giudici la tragedia che, da poco composta, aveva tra le mani, l'Edipo a Colono, e chiese se quell'opera sembrava scritta da un rimbambito; finita la declamazione, i giudici decisero di proscioglierlo. 23 Ebbene, forse Sofocle e forse Omero, Esiodo, Simonide, Stesicoro e quelli prima nominati, Isocrate e Gorgia, e i primi filosofi, Pitagora, Democrito, Platone, Senocrate, e successivamente Zenone e Cleante o colui che voi stessi avete visto a Roma, Diogene lo stoico, vennero ridotti al silenzio nei loro interessi dalla vecchiaia? O in tutti loro il fervore intellettuale non durò quanto la vita? 24 Orbene, per tralasciare questi studi divini, potrei menzionare i contadini romani della Sabina, miei vicini e amici, senza i quali non si eseguono mai lavori agricoli di una certa importanza, non si semina, non si raccolgono i frutti e non si ripongono. Ma, nel loro caso, c'è meno da stupirsi: nessuno, infatti, è così vecchio da non pensare di poter vivere almeno un altr'anno; eppure si danno un gran da fare anche in lavori che - lo sanno bene - non presentano per loro nessuna utilità: «Pianta alberi che daranno frutti alla generazione successiva.» come dice il nostro Stazio nei Sinefebi. 25 L'agricoltore, in realtà, per quanto vecchio sia, se gli viene chiesto per chi pianta, non esita a rispondere: «Per gli dèi immortali, i quali vollero che non solo ricevessi tali doni dai miei antenati, ma li trasmettessi anche ai posteri.» VIII E meglio si esprime Cecilio a proposito del vecchio che provvede alla generazione futura rispetto a quando dice: «Perdio, vecchiaia, se non portassi al tuo arrivo nessun altro male, questo solo basterebbe: vedere, vivendo a lungo, molte cose che non si vorrebbero.» e forse molte che si vorrebbero! Anzi, anche la giovinezza si imbatte spesso in quel che non vuole. Ma ecco un passo di Cecilio ancora peggiore: «Della vecchiezza questo reputo il male più grande: sentire che, da vecchi, si è odiosi agli altri.» 26 - benvoluti, non odiosi! Come i ragazzi di indole onesta piacciono ai vecchi saggi e la vecchiaia di chi è onorato e amato dai giovani diventa più leggera, così i ragazzi ricevono con gioia i precetti dei vecchi dai quali son condotti all'amore della virtù; e so di piacere a voi non meno di quanto voi piacciate a me. Vedete dunque come la vecchiaia, lungi dall'essere fiacca e inerte, sia invece attiva e sempre impegnata a fare e meditare qualcosa, in relazione, s'intende, alle attitudini che ciascuno aveva negli anni precedenti. E le persone che si aggiornano sempre? Per esempio, vediamo Solone vantarsi, nei suoi versi, quando dice di invecchiare imparando ogni giorno qualcosa di nuovo. L'ho fatto pure io, che da vecchio ho studiato la letteratura greca. L'ho abbordata con tanta avidità, come se 8
desiderassi spegnere una lunga sete, da riuscire ad apprendere le nozioni che ora mi vedete usare a mo' di esempio. E quando sento dire che Socrate fece lo stesso con la lira, vorrei imitarlo anch'io - gli antichi, infatti, studiavano la lira -, ma almeno mi sono dedicato anima e corpo alle lettere. IX 27 E ora non rimpiango davvero la forza di un giovane - ecco il secondo punto sui difetti della vecchiaia - più di quanto, da giovane, non desiderassi la forza di un toro o di un elefante. Conviene valersi di quel che si ha e, qualunque cosa si faccia, farla secondo le proprie forze. Si possono immaginare parole più spregevoli di quelle di Milone di Crotone? Si racconta che, mentre assisteva, ormai vecchio, a un allenamento di atleti nello stadio, si guardò i bicipiti ed esclamò in lacrime: «Ahimè, sono belli e morti!» Non tanto loro, quanto te stesso, cialtrone, perché sei diventato famoso, non per merito tuo, ma dei tuoi polmoni e dei tuoi bicipiti! Niente del genere Sestio Elio, né, molti anni prima, Tiberio Coruncanio, né, di recente, Publio Crasso, che fornivano consulenze ai loro concittadini in materia giuridica; sino all'ultimo respiro conservarono la loro competenza. 28 L'oratore, temo, perde vigore con la vecchiaia; la sua professione, infatti, non dipende solo dall'intelletto, ma anche dai polmoni e dalla forza fisica. È vero che la sonorità della voce continua a spiccare, non so come, anche in vecchiaia; io non l'ho ancora persa e vedete gli anni che ho. Tuttavia il conversare calmo e disteso si addice a un vecchio e i suoi discorsi eleganti e dolci si conciliano da soli l'attenzione del pubblico. Se non ci riuscissi più, potresti sempre fornire precetti a Scipione o a Lelio: infatti, cosa c'è di più bello di una vecchiaia circondata dal fervore dei giovani? 29 O non vogliamo lasciare alla vecchiaia neppure forze sufficienti per istruire i giovani, per formarli e prepararli a tutti i compiti imposti dal dovere? Può esistere missione più nobile di questa? Davvero fortunati mi sembravano Cornelio e Publio Scipione, e i tuoi due nonni, Lucio Emilio e Publio Africano, per il loro séguito di giovani; e non c'è maestro di arti liberali che non sia da considerar felice nonostante il declino e il venir meno delle forze fisiche. Del resto, proprio questa defezione delle forze dipende più spesso dai vizi della giovinezza che dai difetti della vecchiaia: una giovinezza sfrenata e intemperante, infatti, consegna alla vecchiaia un corpo esaurito. 30 Ciro appunto, nel discorso che tenne in punto di morte quando era molto vecchio, come scrive Senofonte, dice di non essersi mai accorto di esser diventato, da anziano, più debole di quanto lo fosse da giovane. Mi ricordo di Lucio Metello - ero allora un ragazzo che, eletto pontefice massimo quattro anni dopo il suo secondo consolato, esercitò quel sacerdozio per ventidue anni: ebbene, conservò sino alla fine forze così prospere da non rimpiangere la giovinezza. Non è necessario che parli di me, benché questo sia un comportamento senile e lo si perdoni alla nostra età. X 31 Non vedete come Nestore, in Omero, vanti molto spesso le proprie virtù? Vedeva ormai la terza generazione di uomini e non aveva da temere, vantandosi a ragione, di sembrare troppo presuntuoso o troppo loquace: come dice Omero, «dalla sua lingua la parola fluiva più dolce del miele». E non aveva bisogno della forza del corpo per ottenere questa soavità; tuttavia il grande condottiero della Grecia non si augura mai di avere dieci uomini come Aiace, ma come Nestore sì; nel qual caso non ha dubbi: Troia cadrebbe in poco tempo. 32 Ma ritorno a me. Vado per gli ottantaquattro anni e vorrei davvero vantarmi come Ciro: ma almeno posso dire questo, che, anche se non ho più le forze di quando ero soldato semplice nella guerra punica o questore nella stessa guerra o console in Spagna o, quattro anni dopo, di quando ho combattuto strenuamente alle 9
Termopili come tribuno militare sotto il console Manlio Acilio Glabrione, nonostante ciò, come vedete, la vecchiaia non mi ha tolto il nerbo, non mi ha messo a terra, e non lamentano l'assenza delle mie forze il senato, i rostri, i clienti, gli ospiti. Mai, infatti, ho approvato l'antico e lodato proverbio che consiglia di invecchiare prematuramente se si voglia restare vecchi a lungo; per quanto mi riguarda, preferirei esser vecchio meno a lungo che diventarlo prima del tempo. E così, finora, nessuno che abbia voluto un appuntamento con me non è stato ricevuto perché ero occupato. 33 Ma ho meno forze di ciascuno di voi due. - Neppure voi, però, avete le forze del centurione Tito Ponzio: averle, lo rende superiore? L'importante è che ciascuno usi le forze con moderazione e si sforzi quel tanto che può: non ne sentirà così una grande mancanza. Si racconta che Milone abbia attraversato lo stadio di Olimpia con un bue sulle spalle. Ebbene, preferiresti avere le forze fisiche di Milone o le forze intellettuali di Pitagora? Insomma, usa questa risorsa finché c'è, quando non ci sarà più non rimpiangerla, a meno che i giovani non debbano rimpiangere l'infanzia e, più avanti negli anni, la giovinezza. La vita ha un corso determinato, la natura segue una via unica e questa è semplice; ogni fase dell'esistenza ha ricevuto una fisionomia tale che la fragilità dei bambini, la spavalderia dei giovani, la serietà dell'età adulta e la maturità della vecchiaia corrispondono a una predisposizione naturale da cogliersi a tempo opportuno. 34 Credo che tu sappia, Scipione, cosa fa oggi a novant'anni Massinissa, ospite di tuo nonno: quando inizia un viaggio a piedi non sale mai a cavallo, quando invece lo inizia a cavallo non smonta mai; non c'è pioggia, non c'è vento che lo inducano a coprirsi il capo; il suo fisico è asciuttissimo; in questo modo adempie a tutti i doveri e gli obblighi di un re. L'esercizio e la temperanza permettono dunque di conservare parte dell'antica forza anche da vecchi. XI Non ci sono forze in vecchiaia? - Ma dalla vecchiaia non si richiede neppure la forza fisica! Tant'è vero che le leggi e le consuetudini dispensano la nostra età da quei compiti non assolvibili senza vigore fisico. Così non solo non siamo tenuti a fare ciò che non possiamo, ma nemmeno quel tanto che potremmo. 35 Molti vecchi, però, sono così deboli da non poter attendere a nessun compito imposto dal dovere o addirittura dalla vita. Sì, ma non è un difetto tipico della vecchiaia quanto in generale della salute. Com'era debole il figlio di Publio Africano, tuo padre adottivo! Che salute cagionevole o addirittura inesistente! In caso contrario si sarebbe levato come secondo faro della città: alla grandezza d'animo paterna, infatti, si aggiungeva una cultura più ricca. Allora, che c'è di strano se talvolta i vecchi sono malati quando neppure i giovani possono evitarlo? Bisogna affrontare la vecchiaia con coraggio, cari Lelio e Scipione, e compensare i suoi difetti con le cure, bisogna combattere contro di essa come contro una malattia, aver riguardo della salute, 36 praticare esercizi con moderazione, mangiare e bere quel tanto da ricostituire le energie, non da schiacciarle. Non bisogna provvedere solo al corpo, ma molto di più alla mente e all'animo: come se in una lampada non versassi più olio, la vecchiaia li spegne; ma mentre il corpo per lo sforzo degli esercizi si sente pesante, l'animo esercitandosi si fa più leggero. Quando Cecilio dice «stupidi vecchi da commedia» intende i creduloni, gli smemorati, gli scapestrati; e questi non son difetti di ogni vecchiaia, ma di una vecchiaia inerte, imbelle e sonnacchiosa. Come l'insolenza, come il piacere dei sensi è più dei giovani che dei vecchi, e non di tutti i giovani ma di quelli che non sono perbene, così la demenza senile chiamata di solito rimbambimento è dei vecchi poveri di spirito, non di tutti. 37 Quattro figli nel fiore 10
degli anni, cinque figlie, una grande casa, una numerosa clientela: ecco su chi dominava Appio Claudio, ed era cieco e vecchio. Teneva infatti l'animo teso come un arco e non soccombeva alla vecchiaia cedendo all'inerzia. Conservava non solo l'autorità, ma anche il comando sui suoi; i servi lo temevano, i figli lo rispettavano, tutti lo avevano caro; in quella casa vigeva la tradizione e la disciplina dei Padri. 38 La vecchiaia è infatti rispettata soltanto se sa difendersi da sola, se mantiene inalterati i propri diritti, se non si rende schiava di nessuno, se sino all'ultimo respiro esercita il dominio sui suoi. Come infatti approvo il giovane in cui ci sia qualcosa di senile, così il vecchio in cui ci sia qualcosa di giovanile; chi si attiene a tale norma potrà essere vecchio di corpo, ma non lo sarà mai di spirito. Sto lavorando al settimo libro delle Origini, sto raccogliendo tutti i documenti storici e proprio ora do l'ultimo ritocco alle orazioni di tutte le cause famose che ho difeso, mi occupo di diritto augurale, pontificale e civile, dedico molto tempo anche alle lettere greche e, come i Pitagorici, per esercitare la memoria, ricordo di sera ciò che ho detto, ascoltato, fatto ogni giorno. Questi sono gli esercizi dell'intelligenza, questa la palestra della mente, in questi sudo e mi sforzo senza sentire una grande mancanza del vigore fisico. Assisto gli amici, vado spesso in senato, di mia iniziativa vi porto idee meditate a fondo e a lungo e le difendo con le forze dell'animo, non del corpo. Se non riuscissi ad adempiere a tutto ciò, troverei ugualmente conforto nel mio caro divano dove farei rivivere con il pensiero quelle attività per me non più accessibili; ma a renderle accessibili contribuisce la mia vita passata: chi infatti dedica tutta l'esistenza a studi e a fatiche di questo genere, non avverte l'insinuarsi della vecchiaia. Così, a poco a poco e senza farsene accorgere, la vita invecchia, non si interrompe di colpo, ma si spegne col tempo. XII 39 Segue la terza critica: la vecchiaia, dicono, è priva dei piaceri dei sensi. O magnifico dono dell'età se ci strappa il male più dannoso della giovinezza! Ascoltate, nobili giovani, le antiche parole di Archita di Taranto, uomo tra i più grandi ed eminenti, parole che mi furono riferite quando, da giovane, mi trovavo a Taranto con Quinto Massimo. La natura non ha dato agli uomini peste più esiziale del piacere sensuale, diceva Archita, e le voglie, ingorde di tal piacere e sfrenate, si lanciano ciecamente a conquistarlo. 40 Da qui i tradimenti della patria, da qui i colpi di stato, da qui nascono le collusioni segrete con il nemico, insomma, non c'è delitto, non c'è crimine che la brama del piacere non spinga a commettere; e poi stupri, adulteri e ogni infamia del genere non sono provocati da altro incitamento se non dal piacere dei sensi. Se è vero che la natura o un dio non ha dato all'uomo niente di più bello dell'intelligenza, è altresi vero che niente, come il piacere, è nemico di questo munifico dono divino. 41 Infatti, dove domina la passione non c'è posto per la temperanza e nel regno del piacere non può certo resistere la virtù. Per rendere il concetto più comprensibile, consigliava di immaginare un uomo eccitato dal piacere sensuale più grande che si possa provare: secondo Archita, nessuno avrebbe dubitato che costui, finché fosse immerso in un godere così intenso, potesse pensare, giudicare, intendere qualcosa. Perciò nulla è così detestabile e pestilenziale come il piacere, se è vero che, quanto più è intenso e prolungato, tanto più spegne ogni lume della ragione. Queste le parole di Archita al sannita Caio Ponzio, padre di colui che sconfisse i consoli Spurio Postumio e Tito Veturio nella battaglia di Caudio, e Nearco di Taranto, mio ospite e incrollabile amico del popolo romano, diceva di averle apprese dai suoi vecchi; avrebbe assistito alla conversazione l'ateniese Platone 11
che, come mi risulta, si era recato a Taranto all'epoca del consolato di Lucio Camillo e Appio Claudio. 42 Cosa si propone questo racconto? Vuole farvi capire che, se non fossimo in grado di respingere il piacere con la ragione e la saggezza, molto dovremmo esser grati alla vecchiaia capace di non farci desiderare quel che non si deve. Il piacere, infatti, ostacola la capacità di giudizio, è nemico della ragione, abbaglia, per così dire, gli occhi della mente e non ha niente a che vedere con la virtù. A malincuore feci espellere dal senato, sette anni dopo il suo consolato, Lucio Flaminino, fratello del valorosissimo Tito Flaminino, ma credetti mio dovere bollarne la dissolutezza. Quando si trovava in Gallia come console, durante un banchetto si lasciò persuadere dalle preghiere di una prostituta a giustiziare personalmente uno dei prigionieri che erano condannati a morte. Finché fu censore suo fratello Tito - che esercitò tale carica subito prima di me - se la cavò; ma né io né Flacco potemmo ammettere in alcun modo una dissolutezza tanto scandalosa e depravata, che associava alla vergogna privata il disonore della carica. XIII 43 Spesso ho sentito dire dai più anziani, i quali lo avrebbero appreso nella loro infanzia dai loro vecchi, che Caio Fabrizio non finiva di meravigliarsi del discorso che, all'epoca della sua ambasceria presso il re Pirro, aveva sentito dal tessalo Cinea: ad Atene viveva un tale che si professava saggio e nonostante ciò sosteneva che tutte le nostre azioni devono tendere al piacere. Alle parole di Fabrizio, Manlio Curio e Tiberio Coruncanio si auguravano che i Sanniti e lo stesso Pirro si persuadessero di tale teoria perché sarebbe stato più facile vincerli se si fossero dati ai piaceri. Manlio Curio era stato compagno di Publio Decio, l'uomo che, quando era console per la quarta volta, cinque anni prima del consolato di Curio, si era sacrificato per la patria. Lo aveva conosciuto anche Fabrizio, lo aveva conosciuto Coruncanio. Entrambi, a giudicare sia dalla loro vita sia dal gesto del Decio di cui parlo, credevano fermamente nell'esistenza di qualcosa di bello e nobile per natura, tale da essere ricercato per il suo valore intrinseco ed essere seguito da tutti i migliori nel disprezzo e nella condanna del piacere. 44 Perché insisto tanto sul piacere? Perché la vecchiaia, lungi dal meritare rimproveri, è degna invece della massima lode in quanto non sente molto la mancanza di nessun piacere. Ignora i festini, le tavole imbandite e le coppe una dietro l'altra; ignora perciò l'ubriachezza, le indigestioni e i sonni agitati. Ma se bisogna concedere qualcosa al piacere, ché non resistiamo facilmente alle sue tentazioni, - Platone lo definisce in modo divino «esca dei mali» proprio perché gli uomini vi abboccano come pesci - la vecchiaia, pur ignorando i bagordi, può sempre godere di conviti moderati. Da bambino vedevo spesso tornarsene da cena il vecchio Caio Duilio, figlio di Marco, il primo a sconfiggere i Cartaginesi sul mare: gli procuravano diletto una torcia di cera e un suonatore di flauto, lusso che, ormai privato cittadino, si era preso senza precedenti.Tanta libertà gli concedeva la gloria! Ma perché parlare degli altri? 45 Ritorno subito a me. In primo luogo ho sempre avuto compagni di sodalizio; i sodalizi si costituirono durante la mia questura quando fu introdotto il culto ideo della Gran Madre. Banchettavo, dunque, con i miei compagni con moderazione, è vero, ma si faceva sentire un certo ardore giovanile; col passare degli anni, poi, di giorno in giorno tutto si calma. E infatti misuravo il diletto di questi conviti non tanto dal piacere dei sensi quanto dalla compagnia e dal conversare tra amici. Bene i nostri antenati chiamarono «con-vivio» lo stare insieme degli amici a banchetto poiché comporta una comunione di vita, 12
meglio dei Greci che lo definiscono ora «bere in compagnia» ora «mangiare in compagnia», mostrando così di apprezzare di più ciò che, in questi casi, vale molto di meno. XIV 46 In realtà, proprio per il piacere della conversazione amo anche i lunghi banchetti e non solamente in compagnia dei miei coetanei - ormai ne restano ben pochi -, ma anche delle persone della vostra età e di voi, e sono molto riconoscente alla vecchiaia di aver accresciuto in me il desiderio di conversare e di aver eliminato quello di mangiare e bere. Se poi c'è chi si diverte anche a mangiare e bere - non si pensi che ho dichiarato, senza mezzi termini, guerra al piacere, di cui forse esiste un limite naturale - credo che la vecchiaia, anche nei confronti di simili piaceri, non sia insensibile. A me, anzi, piacciono i magisteri conviviali, istituiti dagli antenati, e quel conversare con le coppe in mano che, secondo tradizione, parte dall'ospite d'onore, e mi piacciono le coppe, come nel Simposio di Senofonte, «piccole e stillanti», e il fresco d'estate e, al contrario, il sole o il fuoco d'inverno, tutte soddisfazioni che ho l'abitudine di prendermi in Sabina dove, ogni giorno, riempio di vicini il convito che prolunghiamo, più che si può, sino a notte fonda con discorsi di vario genere. 47 Nei vecchi, però, quel «titillamento» dei piaceri non è un granché. - È vero, ma non ne sentono neppure la mancanza: del resto non pesa quel che non si rimpiange. Bene rispose Sofocle a chi gli chiedeva se, alla sua età, godesse ancora dei piaceri di Venere: «Gli dèi me ne guardino!» esclamò. «Sono felice di esserne scampato come a un padrone zotico e furioso.» Per chi desidera simili cose, risulta forse odioso e pesante esserne privo, ma per chi se ne è tolto completamente la voglia è più piacevole esserne privo che goderne. Tuttavia non si può dire che ne sia privo chi non ne sente la mancanza. Quindi, sostengo, il non sentir mancanza è condizione più piacevole. 48 Se la verde età gusta di più questi piaceri, primo gode di inezie, come ho detto, secondo gode di cose di cui la vecchiaia, pur non avendone in eccesso, non è priva del tutto. Come chi siede in prima fila si diverte di più allo spettacolo di Turpione Ambivio, ma si diverte anche chi siede in ultima, così la giovinezza, che guarda i piaceri da vicino, gode più intensamente, ma anche la vecchiaia, che li contempla da lontano, si diletta quanto basta. 49 Invece com'è prezioso per l'animo che ha preso congedo, per così dire, dal piacere dei sensi, dall'ambizione, dalle rivalità, dalle inimicizie, da tutte le passioni, starsene con se stesso e, come si dice, vivere con se stesso! Se poi trova, diciamo così, di che alimentarsi nello studio e nella cultura, niente è più piacevole di una vecchiaia libera da impegni. Vedevamo Caio Galo, amico di tuo padre, Scipione, struggersi nello sforzo di misurare quasi il cielo e la terra. Quante volte la luce del giorno lo sorprese a tracciare disegni iniziati di notte, quante volte la notte quando aveva iniziato al mattino! Come gli piaceva predirci con largo anticipo le eclissi di sole e di luna! 50 E non è lo stesso per interessi più leggeri, ma pur sempre profondi? Che gioia provava Nevio per la sua Guerra Punica! Che gioia Plauto per il Truculento e per lo Pseudolo! Ho visto anche Livio, ormai vecchio: allestì un dramma sei anni prima della mia nascita, quando erano consoli Centone e Tuditano, e visse sino alla mia giovinezza. E la passione per il diritto pontificale e civile mostrata da Publio Licinio Crasso o dal nostro Publio Scipione, eletto pontefice massimo proprio in questi giorni? Tutti gli uomini che ho ricordato li abbiamo visti, da vecchi, accendersi per queste attività. Prendiamo Marco Cetego, a ragione definito da Ennio «midollo della Persuasione», con che passione lo vedevamo esercitarsi nell'eloquenza anche da vecchio! E allora, quali piaceri procurati da festini, giochi e prostitute sono 13
paragonabili a questi piaceri? Voglio dire, appunto, all'amore del sapere che cresce di pari passo con l'età nelle persone di senno e di cultura? Ecco perché è degno di lode il versetto, che ho già citato, in cui Solone afferma di invecchiare imparando ogni giorno molte cose. Non può esistere piacere più grande di quello intellettuale. XV 51 Vengo ora ai piaceri dei contadini, per me fonte di incredibile diletto, piaceri che, per nulla ostacolati dalla vecchiaia, mi sembrano particolarmente conformi alla vita del saggio. I contadini hanno un conto aperto con la terra che mai ricusa il loro dominio e mai restituisce senza interessi il capitale ricevuto, ma lo rende talvolta a un tasso minore, per lo più maggiore. È vero che mi delizia non solo il profitto, ma anche la forza e l'essenza della terra stessa: quando ha accolto nel suo grembo ammorbidito e smosso il seme gettato, prima lo racchiude al buio, come accecato, da cui occatio è detta l'operazione dell'erpicatura, poi, scaldatolo col suo fiato e con il suo abbraccio, lo dilata e fa germogliare da esso un qualcosa di verde, un'erbetta che, salda sulle fibre delle radici, cresce poco a poco e, ergendosi sullo stelo nodoso, è stretta in pellicole come se giungesse a pubertà; quando se ne libera, dischiude un frutto disposto a mo' di spiga e contro le beccate degli uccelli più piccoli si difende con il baluardo delle reste. 52 E dovrei ricordare come nasce, si pianta e cresce la vite? Non posso saziarmi di questo piacere - ve lo dico perché conosciate la pace e il divertimento della mia vecchiaia -: non parlerò della forza intrinseca di tutti i prodotti della terra, forza capace di generare tronchi e rami così grandi da un così piccolo grano di fico o dal vinacciolo del chicco d'uva o dai minuscoli semi delle altre piante e alberi; magliuoli, talee, tralci, barbatelle, polloni non riempiono chiunque di piacere e di ammirazione? Prendiamo la vite che per natura tende a cadere e, se non viene sostenuta, si abbatte a terra, ebbene, per reggersi, si intreccia con i suoi viticci, come fossero mani, a tutto ciò che trova; se poi serpeggia in un tortuoso ed erratico propagarsi, l'agricoltore, potandola col falcetto, la frena per impedirle di metter su una foresta di tralci e di spandersi troppo in ogni direzione. 53 E così, all'inizio della primavera, nelle parti risparmiate spunta, quasi alle giunture dei tralci, la cosiddetta gemma da cui nascendo si mostra il grappolo che, ingrossandosi con l'umore della terra e il calore del sole, dapprima è molto aspro al gusto poi, con la maturazione, si addolcisce; rivestito di pampini, non manca del giusto calore e al tempo stesso si difende dall'eccessiva vampa del sole. Cosa può essere più ricco di profitto, cosa più bello a vedersi di questa pianta? Della vite non solo l'utilità, come ho già detto, ma anche la semplice coltivazione e la natura mi danno gioia: e poi le file dei pali di sostegno, fissarne le cime, legare e propagginare le viti, potare alcuni tralci, come ho detto, lasciar crescere gli altri. Perché dovrei ricordare irrigazioni, sterri e rivangature dei campi con cui si accresce la fertilità del suolo? Perché dovrei trattare dell'utilità della concimazione? 54 Ne ho parlato nel libro che ho scritto sull'agricoltura; il dotto Esiodo non ne ha fatto parola scrivendo sulla coltivazione dei campi, ma Omero, vissuto, credo, molte generazioni prima, rappresenta Laerte intento a coltivare e concimare il suo campo per tentare di lenire il dolore dovuto alla mancanza del figlio. La campagna, del resto, non solo è rigogliosa di messi, prati, vigneti e alberi, ma anche di giardini, frutteti, pascoli per il bestiame, sciami di api e ogni varietà di fiori. E al piacere di piantare si aggiunge quello di innestare, l'invenzione più ingegnosa dell'agricoltura. XVI 55 Potrei proseguire parlando delle numerosissime gioie della campagna; credo però di essermi dilungato troppo. Vorrete con tutto ciò perdonarmi: mi sono lasciato prendere dalla passione per la vita contadina e poi la vecchiaia è per 14
costituzione una buona chiacchierona - lo confesso perché non sembri che la scuso di ogni difetto. Ecco perché Manlio Curio, dopo aver trionfato sui Sanniti, sui Sabini e su Pirro, scelse per i suoi ultimi anni questo stile di vita. E quando contemplo la sua villa, che non dista molto dalla mia, non mi stanco mai di ammirare la continenza dell'uomo e la severità dei tempi. Curio sedeva al focolare quando vennero i Sanniti a portargli una gran quantità d'oro. Li cacciò via perché, disse, non gli sembrava onesto possedere l'oro, ma comandare su chi ne possedeva. 56 Un animo così grande poteva forse non rendergli piacevole la vecchiaia? Ma vengo ai contadini per non allontanarmi da me stesso. In quel tempo i senatori, cioè dei vecchi, passavano la vita in campagna se è vero che Lucio Quinzio Cincinnato stava arando quando ricevette la notizia della sua nomina a dittatore; per ordine di Cincinnato, dittatore, il comandante della cavalleria Caio Servilio Ahala prevenne il complotto di Spurio Melio che aspirava alla tirannide e lo uccise. Curio e gli altri vecchi venivano convocati in senato dalle loro case di campagna; per cui furono detti «corrieri» i messi che li andavano a chiamare. Allora, era forse da compatire la vecchiaia di uomini che passavano il tempo a coltivar la terra? Personalmente, dubito che esista vecchiaia più felice: non solo per la funzione che svolge, in quanto l'agricoltura è utile a tutto il genere umano, ma anche perché procura il diletto, di cui ho parlato, e la profusione di tutto quel che serve al sostentamento degli uomini e anche al culto degli dèi e, dal momento che alcuni non riescono proprio a fare a meno di questi beni, eccoci riconciliati con il piacere. In realtà, un padrone abile e attivo ha sempre rifornite la cantina, l'orciaia e la dispensa, tutta la sua villa è ricca e ha in abbondanza maiali, capretti, agnelli, galline, latte, formaggio e miele. E poi c'è l'orto che i contadini stessi chiamano seconda dispensa. A rendere più piacevole questa vita anche nel tempo libero contribuisce la caccia agli uccelli e all'altra selvaggina. 57 E dovrei ricordare ancora il verde dei prati, le file degli alberi, la bellezza delle vigne o degli oliveti? Taglierò corto: niente può essere più ricco di profitto o più bello a vedersi di un campo ben coltivato. E a goderne, la vecchiaia non solo non è un ostacolo, ma anzi uno stimolo e un incitamento: dove, infatti, questa età può scaldarsi meglio al sole o al fuoco, oppure, viceversa, prendere il fresco salutare dell'ombra o dell'acqua? 58 I giovani si tengano pure armi, cavalli, lance, clava e palla, cacce e corse; a noi vecchi lascino, tra molti giochi, gli astragali e i dadi, e dei due quelli che vogliono, perché la vecchiaia non ne ha bisogno per essere felice. XVII 59 I libri di Senofonte sono utilissimi sotto molti aspetti: leggeteli con attenzione, vi prego, come state già facendo. Con quanti argomenti loda l'agricoltura nel libro relativo all'amministrazione del patrimonio intitolato Economico! E, perché capiate che nulla gli sembrava degno di un re quanto l'agricoltura, Socrate, in quel libro, racconta a Critobulo un episodio. Quando lo spartano Lisandro, uomo di eccezionale valore, si recò a Sardi a portare a Ciro i doni degli alleati, Ciro il giovane, re dei Persiani di straordinaria intelligenza e gloria militare, lo trattò con grande affabilità e cortesia e, tra le altre cose, gli mostrò un parco coltivato con cura. Lisandro apprezzava molto l'altezza degli alberi, la loro disposizione a scacchiera, la terra lavorata e ripulita, la soavità dei profumi che esalavano dai fiori e disse di ammirare non solo la cura ma anche la maestria dell'uomo che aveva disegnato e disposto ogni cosa. Ciro rispose: «Ma sono stato io a disegnare tutto! Mie sono le file, mia la disposizione, addirittura molti di questi alberi li ho piantati di mia mano». Al che Lisandro guardò la porpora, l'eleganza della persona e l'abbigliamento 15
persiano, prezioso di oro e gemme, ed esclamò: «Hanno ragione, Ciro, a dirti felice, perché la tua fortuna si congiunge alla virtù.» 60 Questa è dunque la fortuna di cui possono godere i vecchi; l'età non ci impedisce di conservare sino all'ultima ora della vecchiaia il gusto di svolgere altre attività e soprattutto l'agricoltura. Sappiamo che Marco Valerio Corvino continuò a occuparsene sino a cento anni vivendo nei campi e coltivandoli in età già avanzata; tra il suo primo e il suo sesto consolato trascorsero quarantasei anni; così, tutto lo spazio di tempo fissato dai nostri antenati per raggiungere l'inizio della vecchiaia fu da lui impiegato nella carriera politica; e l'ultimo periodo della sua esistenza fu più felice di quello di mezzo perché maggiore era la sua autorità, ma minori gli impegni gravosi. Il coronamento della vecchiaia è proprio l'autorità. 61 Quanta ne aveva Lucio Cecilio Metello, quanta Aulo Attilio Calatino a cui è dedicato l'epitaffio: «I più convengono nel dire che quest'uomo fu il primo del suo popolo.» Conoscete tutti il carme inciso sul sepolcro. Era a buon diritto influente, dunque, uno sui cui meriti l'opinione pubblica concordava. Che uomo abbiamo visto, poco tempo fa, in Publio Crasso, il pontefice massimo, che uomo, dopo, in Marco Lepido, investito dello stesso sacerdozio! Che dire di Paolo o dell'Africano o, come ho già fatto prima, di Massimo? La loro autorità si manifestava non solo nella parola, ma anche in un cenno. La vecchiaia, specie di chi ha ricoperto cariche pubbliche, ha un'autorità così grande da superare tutti i piaceri della giovinezza. XVIII 62 Ricordatevi però che, in tutto il mio discorso, intendo lodare solo la vecchiaia che poggia sulle fondamenta della giovinezza. Ne consegue che, come ho avuto occasione di dire con il consenso di tutti, la vecchiaia costretta a difendersi a parole è infelice; non sono i capelli bianchi o le rughe che riescono a conquistare di colpo l'autorità, ma è la vita passata, vissuta con onore, a raccogliere alla fine i frutti dell'autorità. 63 Sono infatti un'attestazione di rispetto gesti in apparenza insignificanti e comuni come ricevere il saluto, essere cercati, vedere che ti cedono il passo o che si alzano in piedi, essere accompagnati e riaccompagnati, essere consultati, abitudini che da noi e in altri paesi si osservano con tanto più riguardo quanto più i costumi sono giusti. Dicono che lo spartano Lisandro, di cui ho appena fatto menzione, ripetesse che Sparta era la più nobile dimora degli anziani: in nessun altro paese, infatti, si dà tanta importanza all'età, in nessun altro paese la vecchiaia riceve più onori. Anzi, a proposito, si tramanda un episodio. Ad Atene, in occasione dei giochi, un uomo di una certa età era entrato nel teatro gremito di folla, ma i suoi concittadini non gli lasciarono il posto in nessun settore. Quando si avvicinò agli Spartani, che, in qualità di ambasciatori, sedevano in posti riservati, si alzarono tutti, così si racconta, e lo fecero sedere tra di loro. 64 Tutto il pubblico decretò loro un lungo applauso. Allora uno Spartano disse che gli Ateniesi sapevano quel che era bene, ma non lo volevano fare. Nel vostro collegio vigono molte e nobili consuetudini, ma la migliore, e fa al caso nostro, è questa: si ha diritto di precedenza nel voto in base all'età e gli àuguri più anziani non solo hanno la priorità rispetto a chi ricopre magistrature più alte, ma anche rispetto a chi detiene il potere supremo. E allora, quali piaceri del corpo si possono paragonare ai privilegi dell'autorità? Chi 16
ne ha goduto magnificamente, secondo me ha recitato bene sino alla fine la propria parte sulla scena della vita senza fare fiasco all'ultimo atto come un guitto inesperto. 65 Ma i vecchi sono intrattabili, inquieti, irascibili e difficili; a dire il vero, anche avari. - Sì, ma si tratta di difetti del carattere, non della vecchiaia. E poi l'intrattabilità e le altre mancanze di cui ho parlato hanno una scusa, non voglio dire legittima, ma almeno in un certo senso ammissibile: i vecchi si sentono trascurati, guardati dall'alto in basso, presi in giro; aggiungiamo che ogni offesa risulta insopportabile in un corpo fragile. Tutti questi difetti, però, si attenuano vuoi con le buone abitudini vuoi con l'educazione. Come nella vita, lo si può vedere in teatro nei fratelli che sono protagonisti degli Adelfi: quanta asprezza in uno e quanta gentilezza nell'altro! Così vanno le cose: come non tutti i vini, non tutti i caratteri inacidiscono col tempo. Approvo la severità nei vecchi, ma in giusta misura, come in ogni situazione; l'asprezza nient'affatto. 66 Quanto all'avarizia senile non capisco a cosa miri: ci può essere comportamento più assurdo che voler aumentare le provviste da viaggio quando si è quasi arrivati? XIX Rimane il quarto motivo che, più degli altri, sembra angosciare e tenere in affanno la nostra età: l'avvicinarsi della morte, che certamente non è lontana dalla vecchiaia. Infelice il vecchio che, in un'esistenza tanto lunga, non è riuscito a capire che la morte va disprezzata! Bisogna tenerla in nessun conto, se porta all'annientamento dell'anima, o addirittura desiderarla, se conduce l'anima in un luogo di vita eterna. È proprio impossibile trovare una terza possibilità. 67 Allora, perché dovrei temere se, dopo morto, non sarò infelice o se sarò persino beato? E poi chi è così folle, per quanto giovane sia, da avere l'assoluta certezza di vivere sino a sera? Anzi, è proprio la giovinezza a essere esposta al pericolo di morire molto più della vecchiaia: i ragazzi contraggono malattie più facilmente, si ammalano in modo più grave, vengono curati con maggior difficoltà; quindi in pochi arrivano alla vecchiaia. Se così non fosse, si vivrebbe meglio e con più saggezza, perché riflessione, ragione e buon senso sono prerogative dei vecchi e senza i vecchi non sarebbe mai esistito lo stato. Ma ritorno alla morte incombente: perché farne un capo d'accusa della vecchiaia quando vedete che la condivide con la giovinezza? 68 Ho capito con la perdita del mio ottimo figlio e tu, Scipione, con la morte dei tuoi fratelli destinati agli onori più alti, che la morte è comune a ogni età. Ma il giovane spera di vivere a lungo, mentre il vecchio non può sperare la stessa cosa. - Folle speranza, la sua: cosa c'è di più stupido di prendere l'incerto per certo, il falso per vero? - Ma il vecchio non ha nemmeno di che sperare. Ecco perché si trova in una condizione migliore del giovane! Quel che il giovane spera, lui lo ha già ottenuto; il giovane vuole vivere a lungo, lui ha vissuto a lungo. 69 Anche se, o buon dio, cosa significa «a lungo» nella natura umana? Prendi l'esistenza più lunga che ci sia, aspettiamoci di vivere quanto il re dei Tartessi - a Cadice ci fu un certo Argantonio che, come leggo, regnò ottant'anni e ne visse centoventi -; non mi sembra però nemmeno duraturo quel che presenta una fine. Quando la fine arriva, allora il passato è volato via; rimane solo quanto hai conseguito con la virtù e le azioni giuste. Se ne vanno le ore, i giorni, i mesi, gli anni: non torna più indietro il tempo passato ed è impossibile conoscere il futuro. Ciascuno deve accontentarsi del tempo che gli è concesso di vivere. 70 L'attore, del resto, per aver successo, non ha bisogno di recitare il dramma sino alla fine: gli basta suscitare l'applauso in qualunque scena appaia; così i saggi non devono necessariamente arrivare all'«applaudite». Il breve tempo dell'esistenza è lungo abbastanza per vivere bene e 17
con dignità; se poi si prolungasse, non bisogna affliggersi più di quanto i contadini si affliggono perché, passata la dolcezza della primavera, arriva l'estate e l'autunno. La primavera rappresenta quasi la giovinezza e mostra i frutti del domani, le altre stagioni invece sono fatte per la mietitura e la raccolta dei frutti. 71 Il frutto della vecchiaia, come ho detto più volte, è il ricordo e l'abbondanza dei beni conseguiti in passato. Tutto quel che avviene secondo natura, poi, va riposto tra i beni: e cosa c'è di più naturale, per i vecchi, della morte? Anche ai giovani capita di morire, ma allora la natura si oppone alla morte con una strenua resistenza. Quando muoiono i giovani, secondo me è come se la forza di una fiamma venisse domata da un gran getto d'acqua, ma quando muoiono i vecchi, allora è come se un fuoco, già consumato, si spegnesse da solo senza l'intervento di nessuna forza esterna. E come i frutti, se acerbi, si strappano a fatica dagli alberi, ma se sono maturi e cotti dal sole cadono da soli, così è una forza esterna a strappare la vita ai giovani, ai vecchi è la maturità. E io amo tanto questa maturità che, più mi avvicino alla morte, e più mi sembra quasi di veder terra e di dover entrare finalmente in porto dopo lungo navigare. XX 72 La vecchiaia, poi, non ha un termine preciso, e da vecchi si vive bene finché si possa adempiere e far fronte ai propri doveri nel disprezzo della morte. Ecco perché la vecchiaia è più coraggiosa della giovinezza e più forte, come disse del resto Solone in risposta al tiranno Pisistrato, che gli aveva chiesto in cosa confidasse per opporsi a lui con tanta audacia: «Nella vecchiaia», avrebbe risposto. Ma la fine migliore della vita si ha quando, sana la mente e attivi i sensi, è la natura stessa a disfare l'opera che ha messo insieme. Come una nave, come un edificio vengono demoliti più facilmente da chi li ha costruiti, così l'uomo viene disfatto meglio dalla medesima natura che lo ha composto; ogni composizione si disgrega a fatica se nuova, ma con facilità se antica. Per questo i vecchi non devono attaccarsi avidamente a quel breve residuo di vita, né abbandonarlo senza motivo. 73 Pitagora vieta che si diserti dal proprio posto di guardia nella vita senza un ordine del comandante, cioè del dio. C'è un distico di Solone il sapiente in cui dice di non volere una morte priva del dolore e del pianto degli amici; vuole, credo, esser caro ai suoi. Ma forse si esprime meglio Ennio: «Nessuno mi onori con le lacrime e celebri le mie esequie con il pianto.» Ritiene che non si debba piangere la morte perché è seguita dall'immortalità. 74 Può darsi che ci sia una sensazione di morire, ma dura poco, specie in un vecchio. Dopo la morte, comunque, la capacità di sentire o è desiderabile o non esiste affatto. Ma si deve riflettere fin da giovani su questo: non dobbiamo preoccuparci della morte. Senza tale riflessione nessuno può vivere sereno. Che si debba morire, infatti, è sicuro, non è sicuro se proprio oggi. Come potrà colui che teme la morte, che incombe a ogni istante, mantenere la propria fermezza di spirito? 75 Non è il caso di spendere, credo, troppe parole sull'argomento: mi basta ricordare non dico Lucio Bruto, che fu ucciso nel liberare la patria, non i due Deci, che spronarono i cavalli a morte volontaria, non Marco Attilio, che andò al supplizio per non tradire la parola data al nemico, non i due Scipioni, che vollero sbarrare la strada ai Cartaginesi persino con il proprio corpo, non tuo nonno, Lucio Paolo, che nella vergogna di Canne pagò con la morte la temerarietà del collega, non Marco 18
Marcello, la cui vita neppure il più crudele dei nemici osò privare dell'onore della sepoltura, ma le nostre legioni, come ho scritto nelle Origini, spesso partite con animo acceso e fiero per una meta da cui pensavano di non tornare mai più. Allora, quel che disprezzano i giovani, non solo ignoranti, ma anche zotici, spaventerà dei vecchi pieni di cultura? 76 In conclusione, come almeno mi sembra, la sazietà di tutte le inclinazioni porta alla sazietà della vita. L'infanzia ne ha di precise: le rimpiangono forse i ragazzi? Anche la giovinezza ne ha: le ricerca forse l'età adulta, detta di mezzo? E poi ci sono quelle dell'età adulta: anch'esse non si cercano più in vecchiaia. Ci sono infine certe inclinazioni della vecchiaia: dunque, come tramontano le inclinazioni delle età precedenti, così tramontano anche le inclinazioni senili; arrivato questo momento, la sazietà della vita porta con sé il tempo maturo della morte. XXI 77 Non vedo perché dovrei tacervi la mia idea della morte dal momento che mi sembra di giudicare meglio quanto più mi avvicino a essa. Credo che i vostri padri, il tuo, Scipione, e il tuo, Lelio, uomini molto in vista e miei cari amici, vivano ancora, e addirittura l'unica vita degna di chiamarsi tale. Infatti, finché siamo oppressi dalla prigione del corpo, adempiamo a un dovere di necessità, a una pesante incombenza: questo perché l'anima, celeste, dalla sua dimora altissima è stata sprofondata e quasi sepolta in terra, luogo contrario alla natura divina e all'eternità. Ma, secondo me, gli dèi immortali hanno disseminato le anime nei corpi umani perché ci fossero dei custodi della terra che, contemplando l'ordine delle cose celesti, lo imitassero vivendo con misura e coerenza. E non solo la logica del ragionamento mi ha indotto a crederlo, ma anche la riconosciuta autorità dei maggiori filosofi. 78 Apprendevo che Pitagora e i pitagorici - quasi nostri conterranei, tant'è vero che un tempo erano chiamati «filosofi italici» - non misero mai in dubbio che le nostre anime emanassero dalla mente divina universale. Mi venivano illustrati anche i discorsi sull'immortalità che Socrate, giudicato dall'oracolo di Apollo l'uomo più saggio, fece l'ultimo giorno della sua vita. Perché tante parole? Ecco di cosa sono convinto, ecco come la penso: così grande è la velocità del pensiero, così potente il ricordo del passato e la preveggenza del futuro, così numerose le arti, così vasto il campo delle scienze, così grande il numero delle invenzioni che la natura, capace di contenere tutto questo, non può essere mortale. E siccome l'anima è sempre attiva e il suo movimento non ha principio, poiché essa si muove da sé, il movimento non avrà neppure fine, poiché l'anima non potrà mai sottrarsi alla propria natura. E siccome la natura dell'anima è semplice e non contiene mescolanza di elementi diversi per quantità e qualità, non può dividersi; non potendo dividersi, non può morire. Ecco una grande prova del fatto che gli uomini conoscono moltissime cose prima di nascere: fin da bambini, quando imparano discipline difficili, afferrano con tanta rapidità un gran numero di nozioni che sembrano non acquisirle per la prima volta, ma ricordarle. Questo è, all'incirca, il pensiero di Platone. XXII 79 In Senofonte, Ciro il vecchio pronuncia queste parole in punto di morte: «Non pensiate, o figli carissimi, che, quando me ne sarò andato da voi, non sarò da nessuna parte o non esisterò più. Mentre ero con voi, infatti, non vedevate la mia anima, ma, sulla base delle mie azioni, pensavate che si trovasse in questo mio corpo. Dovete credere allora che sarà sempre la stessa, anche se non la vedrete più. 80 Gli uomini illustri non continuerebbero a ricevere onori dopo la morte se non fossero le loro anime a rinnovare in noi il loro ricordo. Quanto a me, non sono mai riuscito a convincermi che le anime, finché si trovano nei corpi mortali, vivano, ma, 19
una volta uscite, muoiano, né che l'anima perda il senno quando si stacca dal corpo che senno non ha, ma sono convinto che quando l'anima, liberatasi da ogni contatto fisico, incomincia a essere pura e incorrotta, allora acquisisca il senno. Inoltre, una volta che l'organismo umano si disfa con la morte, si vede bene dove si disperdono gli altri elementi: vanno tutti a finire là da dove sono sorti; soltanto l'anima non appare né quando c'è, né quando se n'è andata. 81 E ancora vedete che niente assomiglia alla morte come il sonno: ebbene, l'anima di chi dorme manifesta nel modo migliore la sua natura divina: rilassata e libera, infatti, prevede molte cose future. Da ciò si capisce come sarà l'anima una volta che si sia liberata dai legami con il corpo. Perciò, se le cose stanno così, onoratemi», afferma, «come un dio. Se invece l'anima deve perire con il corpo, voi, tuttavia, rispettosi degli dèi che custodiscono e reggono tutto questo splendore, conserverete il ricordo di me con devozione e rispetto.» Così Ciro prima di morire. Se siete d'accordo, guardiamo agli esempi di casa nostra. XXIII 82 Nessuno mi convincerà mai, Scipione, che tuo padre, Paolo, i tuoi due nonni, Paolo e l'Africano, il padre dell'Africano, suo zio o molti uomini di spicco, che non è il caso di enumerare, intrapresero azioni così grandi da mirare al ricordo della posterità senza pensare che la posterità potesse riguardar loro. O forse pensi che, per vantarmi un po' come fanno i vecchi, mi sarei accollato tante incombenze di giorno e di notte, in pace e in guerra, se avessi dovuto circoscrivere la mia gloria entro gli angusti confini della vita? Non sarebbe stato molto meglio passar la vita nella calma e nel riposo, al di fuori di fatiche e di lotte? Ma, non so come, il mio animo, levandosi in alto, si affacciava sempre sulla posterità come se, una volta dipartitosi dalla vita, avesse dovuto finalmente vivere. Se poi non fosse vero che le anime sono immortali, le anime di tutti i migliori non aspirerebbero quanto più possono all'immortalità e alla gloria. 83 E poi, dal fatto che quanto più uno è saggio tanto più muore serenamente, invece quanto più è stolto tanto più muore nell'angoscia, non vi sembra forse che l'anima del primo, capace di guardare meglio e più lontano, vede di partire per un mondo migliore, mentre l'anima del secondo, dalla vista meno acuta, non lo vede? Da parte mia, ardo dal desiderio di vedere i vostri padri, che onorai e amai, e non vedo l'ora di incontrare non solo chi ho conosciuto personalmente, ma anche gli uomini di cui ho sentito parlare, ho letto e ho scritto di mio pugno. E quando partirò, nessuno potrà facilmente tirarmi indietro o ricuocermi come Pelia. Se poi un dio mi concedesse di ritornar bambino, da vecchio che sono, e di vagire nella culla, direi decisamente di no e non vorrei proprio esser richiamato dalla meta al punto di partenza dopo aver quasi finito la corsa. 84 Infatti, che vantaggi offre la vita? Non presenta piuttosto dei problemi? Ma ammettiamo pure che dei vantaggi ci siano: tuttavia comportano o la sazietà o un limite. Non mi piace deplorare la vita, come hanno fatto spesso molti, persino saggi, e non mi pento di aver vissuto perché ho vissuto in modo tale che credo di non essere nato invano. E lascio la vita come un albergo, non come una casa: la natura, infatti, ha messo a nostra disposizione un alloggio per farvi una sosta, non per abitarvi. O splendido il giorno in cui partirò per quel divino consesso di anime e taglierò i ponti con questa immonda confusione! Me ne andrò non solo per unirmi a quegli uomini, di cui ho parlato prima, ma soprattutto al mio Catone, del quale non è mai nato uomo migliore o superiore per amore filiale. Ho cremato il suo corpo, quando lui avrebbe dovuto cremare il mio, ma la sua anima non mi ha abbandonato: volgendosi a guardarmi, se ne andava in quel mondo che, come sapeva, avrei raggiunto anch'io. Se 20
vi è parso che sopportassi con coraggio questa mia disgrazia, sappiate che in me non c'era indifferenza, ma intimamente mi consolavo al pensiero che il nostro distacco e la nostra separazione non sarebbero durati a lungo. 85 Ecco perché, Scipione - hai detto, infatti, che tu e Lelio vi stupite di solito di questo - la vecchiaia è per me leggera, per nulla fastidiosa, ma anzi piacevole. Se però mi sbaglio nel credere che le anime degli uomini siano immortali, sbaglio volentieri e non voglio, finché vivo, che mi si strappi questo errore capace di darmi gioia; se poi, da morto, come credono alcuni filosofi di poco valore, non sentirò nulla, non temo che dei filosofi morti deridano il mio errore. Se invece non siamo destinati all'immortalità, è sempre augurabile per l'uomo spegnersi al momento giusto: la natura infatti fissa la misura dell'esistenza come di tutte tutte le cose. La vecchiaia è come l'ultimo atto sulla scena della vita: dobbiamo evitarne la stanchezza, specie se abbiamo raggiunto la sazietà. Ecco che cosa avevo da dire sulla vecchiaia. Voglia il cielo che possiate giungervi così da poter confermare le mie parole con la vostra esperienza.
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IL SOGNO DI SCIPIONE
I 9 (Scipione): Quando giunsi in Africa in qualità di tribuno militare, come sapete, presentandomi agli ordini del console Manio Manilio alla quarta legione, non chiedevo altro che di incontrare Massinissa, un re molto amico della nostra famiglia, per fondati motivi. Non appena mi trovai al suo cospetto, il vecchio, abbracciandomi, scoppiò in lacrime; poi, dopo qualche attimo, levò gli occhi al cielo e disse: «Sono grato a te, Sole eccelso, come pure a voi, altri dèi celesti, perché, prima di migrare da questa vita, vedo nel mio regno e sotto il mio tetto Publio Cornelio Scipione, al cui nome mi sento rinascere; a tal punto non è mai svanito dal mio cuore il ricordo di quell'uomo eccezionale e davvero invitto». Quindi io gli chiesi notizie del suo regno, egli mi domandò della nostra repubblica: così, tra le tante parole spese da parte mia e sua, trascorse quella nostra giornata. 10 Poi, dopo essere stati accolti con un banchetto regale, prolungammo la nostra conversazione fino a tarda notte, mentre il vecchio non parlava di altro che dell'Africano e ricordava non solo tutte le sue imprese, ma anche i suoi detti. In séguito, quando ci congedammo per andare a dormire, un sonno più profondo del solito s'impadronì di me, stanco sia per il viaggio sia per la veglia fino a notte fonda. Quand'ecco che (credo, a dire il vero, che dipendesse dall'argomento della nostra discussione: accade infatti generalmente che i nostri pensieri e le conversazioni producano durante il sonno un qualcosa di simile a ciò che Ennio dice a proposito di Omero, al quale, è evidente, di solito pensava da sveglio e del quale discuteva) m'apparve l'Africano, nell'aspetto che mi era noto più dal suo ritratto che dalle sue fattezze reali; non appena lo riconobbi, un brivido davvero mi percorse; ma quello disse: «Sta' sereno, deponi il tuo timore, Scipione, e tramanda alla memoria le parole che ti dirò». II 11 «Vedi, laggiù, la città che, costretta per mio tramite a ubbidire al popolo romano, rinnova le guerre d'un tempo e non riesce a rimanere in pace?». (Mi indicava Cartagine dall'alto di un luogo elevatissimo e pieno di stelle, luminoso e nitido.) «Tu adesso vieni ad assediarla quasi come soldato semplice, ma entro i prossimi due anni la abbatterai come console e ne otterrai, per tuo personale merito, quel soprannome che fino a oggi hai ereditato da noi. Quando poi avrai distrutto Cartagine, celebrato il trionfo, rivestito la carica di censore e percorso, in qualità di legato, l'Egitto, la Siria, l'Asia, la Grecia, verrai scelto, benché assente, come console per la seconda volta e porterai a termine una guerra importantissima: raderai al suolo Numanzia. Ma, dopo che su un carro trionfale sarai giunto al Campidoglio, troverai la repubblica sconvolta dai piani di mio nipote». 12 «Allora occorrerà che tu, Africano, mostri alla patria la luce del tuo coraggio, della tua indole, del tuo senno. Ma per quel frangente vedo un bivio, per così dire, sulla strada del tuo destino. Quando la tua età avrà infatti compiuto per otto volte sette giri di andata e ritorno del sole e questi due numeri - ciascuno dei quali, per ragioni diverse, è considerato perfetto - avranno segnato, nel volgere naturale del tempo, la somma d'anni per te fatale, tutta la città a te solo e al tuo nome si rivolgerà, su di te il senato, su di te tutti gli uomini perbene, su di te gli 23
alleati, su di te i Latini poseranno lo sguardo, tu sarai il solo nel quale possa trovare sostegno la salvezza della città; insomma, tu dovrai, nelle vesti di dittatore, rendere stabile lo Stato, a patto che tu riesca a sottrarti alle empie mani dei tuoi parenti». A questo punto, poiché Lelio aveva levato un grido e tutti gli altri avevano cominciato a gemere più vivamente, Scipione, sorridendo: «St! Vi prego», disse, «non risvegliatemi dal mio sonno e ascoltate ancora per un momento il resto». III 13 «Ma perché tu, Africano, sia più sollecito nel difendere lo Stato, tieni ben presente quanto segue: per tutti gli uomini che abbiano conservato gli ordinamenti della patria, si siano adoperati per essa, l'abbiano resa potente, è assicurato in cielo un luogo ben definito, dove da beati fruiscono di una vita sempiterna. A quel sommo dio che regge tutto l'universo, nulla di ciò che accade in terra è infatti più caro delle unioni e aggregazioni di uomini, associate sulla base del diritto, che vanno sotto il nome di città: coloro che le reggono e ne custodiscono gli ordinamenti partono da questa zona del cielo e poi vi ritornano». 14 A questo punto io, anche se ero rimasto atterrito non tanto dal timore della morte, quanto dall'idea del tradimento dei miei, gli chiesi tuttavia se fosse ancora in vita egli stesso e mio padre Paolo e gli altri che noi riteniamo estinti. «Al contrario», disse, «sono costoro i vivi, costoro che sono volati via dalle catene del corpo come da una prigione, mentre la vostra, che ha nome vita, è in realtà una morte. Non scorgi tuo padre Paolo, che ti viene incontro?». Non appena lo vidi, versai davvero un fiume di lacrime, mentre egli, abbracciandomi e baciandomi, cercava di frenare il mio pianto. 15 E io, non appena riuscii a trattenere le lacrime e potei riprendere a parlare: «Ti prego», dissi, «padre mio santissimo e ottimo: se questa è la vera vita, a quanto sento dire dall'Africano, come mai indugio sulla terra? Perché non mi affretto a raggiungervi qui?». «No», rispose. «Se non ti avrà liberato dal carcere del corpo quel dio cui appartiene tutto lo spazio celeste che vedi, non può accadere che per te sia praticabile l'accesso a questo luogo. Gli uomini sono stati infatti generati col seguente impegno, di custodire quella sfera là, chiamata terra, che tu scorgi al centro di questo spazio celeste; a loro viene fornita l'anima dai fuochi sempiterni cui voi date nome di costellazioni e stelle, quei globi sferici che, animati da menti divine, compiono le loro circonvoluzioni e orbite con velocità sorprendente. Anche tu, dunque, Publio, come tutti gli uomini pii, devi tenere l'anima sotto la sorveglianza del corpo, né sei tenuto a migrare dalla vita degli uomini senza il consenso del dio da cui l'avete ricevuta, perché non sembri che intendiate esimervi dal compito umano assegnato dalla divinità. 16 Ma allo stesso modo, Scipione, sull'esempio di questo tuo avo e come me che ti ho generato, coltiva la giustizia e il rispetto, valori che, già grandi se nutriti verso i genitori e i parenti, giungono al vertice quando riguardano la patria; una vita simile è la via che conduce al cielo e a questa adunanza di uomini che hanno già terminato la propria esistenza terrena e che, liberatisi del corpo, abitano il luogo che vedi» - si trattava, appunto, di una fascia risplendente tra le fiamme, dal candore abbagliante -, «che voi, come avete appreso dai Greci, denominate Via Lattea». Da qui, a me che contemplavo l'universo, tutto pareva magnifico e meraviglioso. C'erano, tra l'altro, stelle che non vediamo mai dalle nostre regioni terrene; inoltre, le dimensioni di tutti i corpi celesti erano maggiori di quanto avessimo mai creduto; tra di essi, il più piccolo era l'astro che, essendo il più lontano dalla volta celeste e il più vicino alla terra, brillava di luce riflessa. I volumi delle stelle, poi, superavano 24
nettamente le dimensioni della terra. Anzi, a dire il vero, perfino la terra mi sembrò così piccola, che provai vergogna del nostro dominio, con il quale occupiamo, per così dire, solo un punto del globo. IV 17 Poiché guardavo la terra con più attenzione, l'Africano mi disse: «Posso sapere fino a quando la tua mente rimarrà fissa a terra? Non ti rendi conto a quali spazi celesti sei giunto? Eccoti sotto gli occhi tutto l'universo compaginato in nove orbite, anzi, in nove sfere. Una sola di esse è celeste, la più esterna, che abbraccia tutte le altre: è il dio sommo che racchiude e contiene in sé le restanti. In essa sono confitte le sempiterne orbite circolari delle stelle, cui sottostanno sette sfere che ruotano in direzione opposta, con moto contrario all'orbita del cielo. Di tali sfere una è occupata dal pianeta chiamato, sulla terra, Saturno. Quindi si trova quel fulgido astro - propizio e apportatore di salute per il genere umano - che è detto Giove. Poi, in quei bagliori rossastri che tanto fanno tremare la terra, c'è il pianeta che chiamate Marte. Sotto, quindi, il Sole occupa la regione all'incirca centrale: è guida, sovrano e regolatore degli altri astri, mente e misura dell'universo, di tale grandezza, che illumina e avvolge con la sua luce tutti gli altri corpi celesti. Lo seguono, come compagni di viaggio, ciascuno secondo il proprio corso, Venere e Mercurio, mentre nell'orbita più bassa ruota la Luna, infiammata dai raggi del Sole. Al di sotto, poi, non c'è ormai più nulla, se non mortale e caduco, eccetto le anime, assegnate per dono degli dèi al genere umano; al di sopra della Luna tutto è eterno. La sfera che è centrale e nona, ossia la Terra, non è infatti soggetta a movimento, rappresenta la zona più bassa e verso di essa sono attratti tutti i pesi, per una forza che è loro propria». V 18 Dopo aver osservato questo spettacolo, non appena mi riebbi, esclamai: «Ma che suono è questo, così intenso e armonioso, che riempie le mie orecchie?». «È il suono», rispose, «che sull'accordo di intervalli regolari, eppure distinti da una razionale proporzione, risulta dalla spinta e dal movimento delle orbite stesse e, equilibrando i toni acuti con i gravi, crea accordi uniformemente variati; del resto, movimenti così grandiosi non potrebbero svolgersi in silenzio e la natura richiede che le due estremità risuonino, di toni gravi l'una, acuti l'altra. Ecco perché l'orbita stellare suprema, la cui rotazione è la più rapida, si muove con suono più acuto e concitato, mentre questa sfera lunare, la più bassa, emette un suono estremamente grave; la Terra infatti, nona, poiché resta immobile, rimane sempre fissa in un'unica sede, racchiudendo in sé il centro dell'universo. Le otto orbite, poi, all'interno delle quali due hanno la stessa velocità, producono sette suoni distinti da intervalli, il cui numero è, possiamo dire, il nodo di tutte le cose; imitandolo, gli uomini esperti di strumenti a corde e di canto si sono aperti la via per ritornare qui, come gli altri che, grazie all'eccellenza dei loro ingegni, durante la loro esistenza terrena hanno coltivato gli studi divini. 19 Le orecchie degli uomini, riempite da tale suono, sono diventate sorde. Nessun organo di senso, in voi mortali, è più debole: allo stesso modo, là dove il Nilo, da monti altissimi, si getta a precipizio nella regione chiamata Catadupa, abita un popolo che, per l'intensità del rumore, manca dell'udito. Il suono, per la rotazione vorticosa di tutto l'universo, è talmente forte, che le orecchie umane non hanno la capacità di coglierlo, allo stesso modo in cui non potete fissare il sole, perché la vostra percezione visiva è vinta dai suoi raggi». VI 20 Io, pur osservando stupito tali meraviglie, volgevo tuttavia a più riprese gli occhi verso la terra. Allora l'Africano disse: «Mi accorgo che contempli 25
ancora la sede e la dimora degli uomini; ma se davvero ti sembra così piccola, quale in effetti è, non smettere mai di tenere il tuo sguardo fisso sul mondo celeste e non dar conto alle vicende umane. Tu infatti quale celebrità puoi mai raggiungere nei discorsi della gente, quale gloria che valga la pena di essere ricercata? Vedi che sulla terra si abita in zone sparse e ristrette e che questa sorta di macchie in cui si risiede è inframmezzata da enormi deserti; inoltre, gli abitanti della terra non solo sono separati al punto che, tra di loro, nulla può diffondersi dagli uni agli altri, ma alcuni sono disposti, rispetto a voi, in senso obliquo, altri trasversalmente, altri ancora si trovano addirittura agli antipodi. Da essi, gloria non potete di certo attendervene. 21 Nota, inoltre, che la terra è in un certo senso incoronata e avvolta da fasce: due di esse, diametralmente opposte e appoggiate, sui rispettivi lati, ai vertici stessi del cielo, s'irrigidiscono per la brina, mentre la fascia centrale, laggiù, la più estesa, è arsa dalla vampa del sole. Al suo interno, due sono le zone abitabili: la regione australe, là, nella quale gli abitanti lasciano impronte opposte alle vostre, non ha nulla a che fare con la vostra razza; quanto a quest'altra, invece, che abitate voi, esposta ad aquilone, guarda come vi tocchi solo in misura minima. Nel suo complesso infatti la terra che è da voi abitata, stretta ai vertici, più larga ai lati, è, come dire, una piccola isola circondata da quel mare che sulla terra chiamate Atlantico, Mare Magno, Oceano, ma che, a dispetto del nome altisonante, vedi bene quanto sia minuscolo. 22 Forse che da queste stesse terre abitate e conosciute il nome tuo o di qualcun altro di noi ha potuto valicare il Caucaso, che scorgi qui, oppure oltrepassare il Gange, laggiù? Chi udirà il tuo nome nelle restanti, remote regioni dell'oriente e dell'occidente oppure a settentrione o a meridione? Se le escludi, ti accorgi senz'altro di quanto sia angusto lo spazio in cui la vostra gloria vuole espandersi. E la gente che parla di noi, fino a quando ne parlerà? VII 23 E anche nel caso che quella progenie di uomini futuri desideri tramandare, di generazione in generazione, gli elogi di ciascuno di noi dopo averli appresi dai padri, tuttavia, a causa delle inondazioni e degli incendi che devono inevitabilmente prodursi sulla terra in un tempo determinato, non siamo in grado di conseguire una gloria non dico eterna, ma neppure duratura. Cosa importa, dunque, che discuta sul tuo conto chi nascerà dopo di te, se riguardo a te non parlava la gente nata prima? E questi uomini furono non meno numerosi e, senza dubbio, migliori. 24 A maggior ragione accade ciò, se è vero che perfino tra la gente in grado di udire il nostro nome, nessuno può lasciare di sé un ricordo che duri più di un anno. Gli uomini, a dire il vero, misurano ordinariamente l'anno solo con il volgere ciclico del sole, cioè con il ritorno di un'unica stella; quando, invece, tutti quanti gli astri saranno ritornati nell'identico punto da cui sono partiti e avranno nuovamente tracciato, dopo lunghi intervalli di tempo, il disegno di tutta la volta celeste, solo allora lo si potrà definire, a ragione, il volgere di un anno; a fatica oserei dire quante generazioni di uomini siano in esso contenute. Come un tempo il sole sembrò agli uomini venir meno e spegnersi, allorché l'anima di Romolo entrò in questi stessi spazi celesti, così, quando per la seconda volta, dalla stessa parte del cielo e nel medesimo istante, il sole verrà meno, in quell'istante, una volta che saranno ricondotte al punto di partenza tutte le costellazioni e le stelle, considera compiuto l'anno; sappi, comunque, che non ne è ancora trascorsa la ventesima parte. 25 Di conseguenza, se perderai la speranza di tornare in questo luogo, verso cui tendono le aspirazioni degli uomini grandi e illustri, quale valore ha mai la 26
vostra gloria umana, che a mala pena può riguardare una minima parte di un solo anno? Se intendi, pertanto, mirare in alto e fissare il tuo sguardo su questa sede e dimora eterna, non concederti alla mentalità comune e non riporre le speranze della tua vita nelle ricompense umane: la virtù stessa, con le sue attrattive, deve condurti verso il vero onore. Quali parole gli altri pronunceranno su di te non ti riguarda, eppure parleranno; ogni discorso, comunque, è delimitato dallo spazio ristretto delle regioni che vedi e non è stato mai, sul conto di nessuno, durevole negli anni: è sepolto con la morte degli uomini e si spegne con l'oblio dei posteri». VIII 26 Dopo che ebbe così parlato, gli dissi: «Allora, o Africano, se davvero per chi vanta dei meriti verso la patria si apre una sorta di sentiero per l'accesso al cielo, io, sebbene fin dall'infanzia, calcando le orme di mio padre e le tue, non sia mai venuto meno al vostro decoro, adesso tuttavia, di fronte a una ricompensa così grande, mi impegnerò con attenzione molto maggiore». Ed egli: «Sì, impegnati e tieni sempre per certo che non tu sei mortale, ma lo è questo tuo corpo: non rappresenti infatti ciò che la tua figura esterna manifesta, ma l'essere di ciascuno di noi è la mente, non certo l'aspetto esteriore che si può indicare col dito. Sappi, dunque, che tu sei un dio, se davvero è un dio colui che vive, percepisce, ricorda, prevede, regge e regola e muove il corpo cui è preposto, negli stessi termini in cui quel dio sommo governa questo universo; e come quel dio eterno dà movimento all'universo, mortale sotto un certo aspetto, così l'anima sempiterna muove il fragile corpo. 27 Ciò che muove se stesso incessantemente, è eterno; ciò che, invece, trasmette il moto ad altro e a sua volta trae impulso da una forza esterna, poiché ha un termine del movimento, deve avere necessariamente un termine della vita. Pertanto, solo ciò che muove se stesso, in quanto da se stesso non viene mai abbandonato, non cessa mai neppure di muoversi; anzi, per tutte le altre cose che si muovono è la fonte, è il principio del moto. Non vi è origine per tale principio; dal principio si genera ogni cosa, ma esso non può nascere da null'altro; se fosse generato dall'esterno non potrebbe infatti essere il principio; e come non è mai nato, così non muore mai. Il principio infatti, una volta estinto, non rinascerà da altro né creerà altro da sé, se è vero che da un principio deve nascere ogni cosa. Ne consegue che il principio del moto deriva da ciò che si muove da sé; non può, quindi, né nascere né morire, altrimenti è inevitabile che tutto il cielo crolli e che tutta la natura, da un lato, si fermi e, dall'altro, non trovi alcuna forza da cui ricevere l'impulso iniziale per il movimento. IX 28 Siccome, quindi, risulta evidente che è eterno ciò che si muove da sé, chi potrebbe sostenere che questa natura non è stata attribuita all'anima? È inanimato infatti tutto ciò che trae impulso da un urto esterno; ciò che è animato, invece, viene sospinto da un moto interiore e proprio; tale è infatti la natura peculiare dell'anima, la sua essenza; se, dunque, tra tutte le cose l'anima è l'unica a muoversi da sé, significa certamente che non è nata ed è eterna. 29 Tu esercitala nelle attività più nobili. Ora, le occupazioni più nobili riguardano il bene della patria: se la tua anima trarrà stimolo ed esercizio da esse, volerà più rapidamente verso questa sede e dimora a lei propria; e lo farà con velocità ancor maggiore, se, già da quando si troverà chiusa nel corpo, si eleverà al di fuori e, mediante la contemplazione della realtà esterna, si distaccherà il più possibile dal corpo. Quanto agli uomini che si sono dati ai piaceri del corpo, che si sono offerti, per così dire, come loro mezzani e che hanno violato le leggi divine e umane sotto la spinta delle 27
passioni schiave dei piaceri, la loro anima, abbandonato il corpo, si aggira in volo attorno alla terra, e non ritorna in questo luogo, se non dopo aver vagato tra i travagli per molte generazioni». Se ne andò; io mi riscossi dal sonno.
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IL FATO
I 1 ... perché riguarda i costumi, che i Greci chiamano etica, mentre noi siamo soliti denominare tale partizione come filosofia dei costumi, ma a chi si prefigge di elevare la lingua latina si addice di definirla filosofia morale. Bisogna inoltre spiegare l'essenza e la natura delle proposizioni, che i Greci chiamano assiomi; stabilire quale significato abbiano quando si esprimono sul futuro e su ciò che è possibile o che non lo è, rappresenta un problema complesso, che i filosofi definiscono sul possibile: nel suo insieme costituisce la logica, che io chiamo arte del ragionamento. Negli altri libri Sulla natura degli dèi, come pure nei libri che ho pubblicato Sulla divinazione, ho adottato un criterio ben preciso: il discorso si svolgeva sistematicamente attraverso argomentazioni prima a favore e poi contrarie, perché con maggior facilità ciascuno comprovasse la tesi che gli pareva più verosimile; nella presente dissertazione sul fato, una circostanza mi ha invece impedito di attenermi a tale criterio. 2 Ero infatti nella mia tenuta di Pozzuoli e nei dintorni si trovava pure il nostro Irzio, console designato, persona a me legata da saldissimi vincoli d'amicizia e dedita agli stessi studi in cui sono cresciuto fin dall'infanzia: trascorrevamo insieme molto tempo, esaminando in particolare le misure che miravano alla pace e alla concordia tra i cittadini. Dopo la morte di Cesare sembrava infatti che si cercassero pretesti per nuovi disordini e ritenevamo di dover porre rimedio a una situazione del genere, per cui quasi tutti i nostri discorsi venivano spesi su tali argomenti. Era accaduto spesso in altre circostanze, ma ne discutemmo in particolare un giorno ben preciso, in cui avevamo più tempo del solito e meno visitatori; non appena Irzio giunse da me, prima trattammo degli argomenti che erano quotidianamente al centro dei nostri interessi e, starei per dire, d'obbligo per noi: la pace e la tranquillità pubblica. II 3 Dopo aver parlato di ciò, mi disse: «Allora, siccome non hai certo abbandonato, spero, gli esercizi oratori, ma li hai senz'altro posposti alla filosofia, potrei forse sentire un saggio della tua eloquenza?». «Ma certo: è tua facoltà», risposi, «tanto l'ascoltare quanto l'intervenire. Sì, è come tu ritieni: non ho abbandonato quegli studi oratori grazie ai quali ho infiammato anche te - ma già ardevi d'entusiasmo quando ti accolsi -, né i miei interessi attuali diminuiscono le capacità espressive, anzi le potenziano. Con il genere di filosofia che seguiamo, l'oratore ha infatti un'intima affinità: dall'Accademia prende a prestito la sottigliezza dell'argomentazione e in cambio restituisce alla filosofia la dovizia dell'arte oratoria e gli ornamenti retorici. Perciò», continuai, «dal momento che padroneggiamo entrambi i campi, oggi lascio a te la scelta, se preferisci trattare dell'uno o dell'altro». Allora Irzio: «È una cortesia squisita da parte tua», disse, «com'è tipico di ogni tuo gesto: la tua benevolenza non ha mai opposto un rifiuto ai miei desideri. 4 Allora, considerando che le vostre finezze retoriche mi sono note e che ti abbiamo ascoltato più volte e ancora ti ascolteremo impegnato in esse, e poiché le Discussioni di Tuscolo dimostrano che hai adottato la tecnica degli Accademici di disquisire e respingere ogni tesi proposta, vorrei suggerire un tema, per ascoltare il tuo parere, se non ti spiace». «Potrebbe forse spiacermi», ribattei, «ciò che a te sarà gradito? Allora mi 30
ascolterai tenendo presente che parla un Romano, un uomo che timidamente si affaccia a questo genere di disputa e che ritorna a tali studi dopo un lungo intervallo di tempo». «Ti ascolterò discettare», disse, «nello stesso modo in cui leggo i tuoi scritti. Inizia dunque. Sediamoci qui». III 5 ... in alcuni dei quali, come nel caso del poeta Antipatro, delle persone nate nel giorno del solstizio d'inverno, dei fratelli che si ammalano contemporaneamente, dell'urina, delle unghie e di tutti i rimanenti esempi del genere, vale la solidarietà naturale, che io non nego, ma non vi è alcun influsso del fato; in altri casi possono invece verificarsi alcune circostanze fortuite, ad esempio per quel naufrago, oppure per Icadio o Dafita; sembra che anche Posidonio - sia detto con buona pace del maestro - abbia escogitato qualche esempio fittizio: palesi assurdità. Ebbene? Se il fato di Dafita era che dovesse cadere da cavallo e così morire, doveva forse cadere da quel determinato cavallo che, non essendo affatto un cavallo, di esso non aveva altro che il nome? E poi, era proprio la piccola quadriga incisa sull'elsa della spada quella da cui, secondo gli avvertimenti, Filippo doveva guardarsi? Quasi fosse stato ucciso dall'elsa! Che importanza ha, poi, se quel naufrago, che non ha nemmeno nome, è caduto in un ruscello? Eppure il nostro autore scrive che a costui era stata predetta una morte nell'acqua. E neanche nel caso del predone Icadio, insomma, vedo alcun intervento del fato: Posidonio non scrive infatti che qualcosa era stato predetto a Icadio. 6 Cosa c'è di straordinario dunque, se dalla volta della grotta gli è caduto un masso sulle gambe? Penso che, se anche Icadio non fosse stato in quell'istante nella grotta, il masso sarebbe comunque caduto. O non si concede affatto la possibilità di una circostanza fortuita, oppure la vicenda di Icadio ha potuto aver luogo per caso. Allora mi domando - e la questione riguarderà un campo ben ampio: se il fato non avesse un nome, una natura, un'essenza e se la maggior parte degli eventi, o addirittura tutti, si determinassero in modo fortuito, arbitrario o casuale, avrebbero forse uno svolgimento diverso rispetto ad ora? Che scopo ha dunque insistere sul concetto di fato, quando, anche senza ricorrervi, si può far risalire l'ordine universale alla natura o al caso? IV 7 Ma congediamo con buona grazia, com'è giusto, Posidonio e ritorniamo ai lacci di Crisippo: rispondiamogli, come primo punto, sulla questione della solidarietà naturale, quindi tratteremo i restanti problemi. Abbiamo dinnanzi agli occhi quali differenze intercorrano tra le nature dei vari luoghi: gli uni sono salubri, gli altri malsani; in alcune zone ci sono abitanti che sono ricchi di linfa e che, oserei dire, ne hanno in eccesso, mentre in altre si trovano persone disseccate e inaridite; molti altri fattori, poi, concorrono a differenziare nettamente luoghi e luoghi. Ad Atene l'aria è fine, motivo per cui gli Attici sono considerati anche più fini d'intelletto; a Tebe invece è densa, perciò i Tebani sono grossi e robusti. Eppure, quell'aria fine non sarà la causa per cui si diventa discepoli di Zenone o di Arcesila o di Teofrasto, né l'aria densa avrà l'effetto di far cercare una vittoria alle Nemee piuttosto che ai giochi istmici. 8 Distingui ulteriormente: quale influsso può avere la natura del luogo, se passeggio nel Portico di Pompeo piuttosto che nel Campo Marzio? In tua compagnia anziché con un altro? Alle idi piuttosto che alle calende? Quindi, come la natura del luogo ha una qualche incidenza per certi aspetti, ma nessuna per altri, così l'influsso degli astri può aver valore, se vuoi, in alcuni casi, ma certamente non in tutti. Ed è ovvio, perché nell'indole degli uomini ci sono differenze, tant'è vero che agli uni piace il dolce, ad altri un pizzico d'amaro, alcuni sono schiavi della passione, altri iracondi o crudeli o superbi, ma ci sono persone che 31
rifuggono da difetti del genere: considerando dunque, afferma Crisippo, che tanto dista un'indole dall'altra, ci sarebbe forse da stupirsi, se queste differenze fossero provocate da cause diverse? V 9 Mentre svolge la propria discussione, Crisippo perde di vista l'essenza del problema e le basi su cui esso poggia. Se ognuno ha infatti una certa propensione dovuta a cause naturali e precedenti, non ne deriva che, a loro volta, le cause dei nostri sentimenti e desideri siano naturali e precedenti. Se così fosse, nulla sarebbe in nostro potere. Ora invece ammettiamo che non dipende da noi essere intelligenti o stupidi, forti o deboli. Ma chi pensa di poter concludere che neppure sedersi o camminare rientri nella sfera della volontà, non si rende conto di quale sia il rapporto tra causa ed effetto. Se è vero infatti che le persone intelligenti o ritardate nascono tali per cause precedenti, come pure i forti e i deboli, non ne consegue, tuttavia, che anche il loro star seduti o camminare o svolgere una qualche attività sia definito e fissato per cause principali. 10 Abbiamo appreso che Stilpone, il filosofo megarico, era persona davvero fine d'intelletto e godeva di ottima fama ai suoi tempi. I suoi amici scrivono che aveva un debole per il vino e le donne; non lo riportano a motivo di biasimo, ma semmai a suo elogio: i difetti naturali erano stati da lui domati e tenuti a freno grazie al sapere filosofico, tanto che nessuno lo vide mai ubriaco, nessuno scorse in lui traccia di insana passione. Ebbene? Non abbiamo letto in quale modo Socrate sia stato bollato da Zopiro, l'esperto di fisiognomica, che asseriva di saper riconoscere il carattere e l'indole di un uomo sulla base del corpo, degli occhi, del viso, della fronte? Affermò che Socrate era sciocco e tardo di mente, perché non aveva l'infossatura concava alla base del collo: diceva che quella parte del corpo era ostruita e chiusa; aggiunse anche che perdeva la testa per le donne, al che, si racconta, Alcibiade scoppiò in una sonora risata. 11 Tali difetti possono nascere da cause naturali, ma estirparli ed eliminarli alla radice - per cui chi prima inclinava a tanti difetti, poi se ne allontana - dipende non da cause naturali, ma dalla forza di volontà, dall'impegno, dal metodo. Sono tutte considerazioni che vengono meno, se, sulla base del principio della divinazione, sarà ribadita l'essenza e la natura del fato. VI Dunque, se esiste una divinazione, da quali verità di esperienza mai deriva? Definisco verità di esperienza quel complesso di norme che in greco ha nome teoremi. Senza di esse non credo infatti che le persone dotate di competenza tecnica possano svolgere la propria attività specifica, né che sia in grado di predire il futuro chi si occupa di arte divinatoria. 12 Poniamo che le verità di esperienza degli astrologhi siano del seguente tenore: «Se una persona è nata, per esempio, al sorgere della Canicola, non morirà in mare». Sta' in guardia, Crisippo, se non vuoi arrenderti nella contesa che ti vede opposto, in serrato confronto, a Diodoro, sottile dialettico. Se risulta vera la deduzione che così si pone: «Se una persona è nata al sorgere della Canicola, non morirà in mare», è vero anche: «Se Fabio è nato al sorgere della Canicola, non morirà in mare». Dire che Fabio è nato al sorgere della Canicola e che Fabio morirà in mare, risulta in contraddizione; e siccome, per quanto riguarda Fabio, è dato come certo che sia nato al sorgere della Canicola, anche la seguente affermazione è contraddittoria: Fabio esiste e morirà in mare. Ne consegue che anche tale relazione è composta da membri in reciproco contrasto: «Fabio esiste e Fabio morirà in mare». Il che, secondo quanto si è posto come premessa, non può neppure accadere. L'affermazione «Fabio morirà in mare» rientra, quindi, nel novero degli eventi impossibili. Tutto ciò che è infatti definito falso nel futuro, è impossibile. 32
VII 13 Ma si tratta di una conclusione, o Crisippo, che non accetti assolutamente, e proprio su questo punto verte la tua contesa con Diodoro. Egli sostiene infatti che sia possibile solo ciò che è vero o sarà vero; inoltre afferma che tutto quanto si avvererà è anche necessario, mentre quanto non si avvererà non è, sostiene, neppure possibile. Tu invece dici che anche ciò che non accadrà rientra nel possibile, come il caso che questa gemma venga spezzata, anche se ciò non avverrà mai; mentre non consideri necessario che Cipselo regnasse a Corinto, benché mille anni prima l'oracolo di Apollo avesse predetto il suo regno. Eppure, se darai il tuo assenso a predizioni divine di tal sorta, da un lato finirai per annoverare le false affermazioni riguardanti il futuro tra gli eventi impossibili [come se si dicesse che l'Africano non conquisterà Cartagine]; dall'altro, qualora si dicesse qualcosa di vero riguardante il futuro e che in effetti così si realizzerà, lo dovresti definire necessario: è una tesi di Diodoro che vi è radicalmente avversa. 14 Dunque, se si deduce correttamente: «Se sei nato al sorgere della Canicola, non morirai in mare», il primo termine della relazione - «sei nato al sorgere della Canicola» - è necessario (tutto quanto risulta vero nel passato è infatti anche necessario, come ammette Crisippo in dissenso con il maestro Cleante, poiché il passato è immutabile né può convertirsi da vero in falso); se, insomma, il primo termine è necessario, anche la conseguenza risulta necessaria. Crisippo, tuttavia, non sembra ritenere valida tale argomentazione in tutti i casi. Comunque, se c'è una causa naturale per cui Fabio non debba morire in mare, non è possibile che Fabio muoia in mare. VIII 15 Su questo punto Crisippo ondeggia nell'incertezza e spera che i Caldei e gli altri indovini si lascino ingannare e che in futuro non ricorrano a deduzioni, formulando le loro verità di esperienza nel modo seguente: «Se qualcuno è nato al sorgere della Canicola, non morirà in mare»; ma spera, piuttosto, che si esprimano così: «Non c'è uomo che sia nato al sorgere della Canicola e che debba morire in mare». Ma che simpatico arbitrio! Per non cadere nella tesi di Diodoro, Crisippo insegna ai Caldei in che modo debbano esporre le loro verità di esperienza. Mi chiedo allora: se i Caldei si esprimono in maniera da negare proposizioni d'ordine assoluto piuttosto che porre deduzioni generali, perché i medici, i geometri, gli altri non dovrebbero seguirne l'esempio? Un medico, innanzi tutto, ciò che avrà riconosciuto nel proprio campo, non lo esporrà nel modo seguente: «Se qualcuno ha le vene che pulsano in questa maniera, ha la febbre»; ma semmai così: «Nessuno, al quale le vene pulsino in questo modo, è immune da febbre». Allo stesso modo un geometra non dirà: «In una sfera i diametri si intersecano a metà»; si esprimerà, piuttosto, come segue: «In una sfera non ci sono diametri che non si intersechino a metà». 16 Che cosa impedirebbe di passare in tal modo da una deduzione alla negazione di proposizioni? Anzi, a dire il vero, possiamo esporre in altri termini gli stessi concetti. Poco fa ho detto: «In una sfera i diametri si intersecano a metà»; potrei dire: «Se in una sfera ci saranno diametri», oppure: «Poiché in una sfera ci saranno diametri». Varie sono le forme di enunciazione, ma nessuna è più distorta di quella cui Crisippo spera che si attengano i Caldei per fare un piacere agli stoici. IX 17 Nessuno di essi, però, si esprime così; sarebbe infatti più impegnativo imparare alla perfezione queste contorsioni verbali che non il sorgere e il tramontare delle costellazioni. Ma ritorniamo alla disputa di Diodoro che viene definita sul possibile, nella quale si indaga sul significato del possibile. Diodoro dunque stabilisce che è possibile solo ciò che è vero o che sarà vero. Il punto riguarda la seguente questione: nulla si verifica se non è necessario; tutto ciò che è possibile, o già è o 33
necessariamente sarà; inoltre, non si possono mutare da veri in falsi gli eventi futuri, non meno che gli eventi passati; ma mentre negli eventi passati appare evidente il loro carattere immutabile, in quelli futuri, poiché esso non appare con altrettanta evidenza, sembra che non sia neppure ad essi intrinseco, per cui, in riferimento a una persona colpita da una malattia mortale, corrisponde al vero affermare: «Costui morirà a causa di questa malattia»; ma la stessa affermazione, se risulta detta in modo veritiero per un uomo in cui la gravità del morbo non sia altrettanto evidente, non di meno si realizzerà. Ne consegue che non può aver luogo nessun passaggio dal vero al falso, neppure in relazione al futuro. La frase «Scipione morirà» ha valore tale, per cui, sebbene si parli del futuro, non si può tramutare in falsa: ci si riferisce infatti a un uomo che deve necessariamente morire. 18 Se si dicesse: «Scipione morirà durante la notte, di morte violenta, nella sua stanza da letto», risulterebbe un'affermazione vera, perché si verrebbe a sostenere che si realizzerà quanto doveva realizzarsi, e la prova di ciò deve essere arguita dal fatto che si è effettivamente realizzato. Non sarebbe stato più veritiero dire: «Scipione morirà» rispetto ad affermare: «Morirà in quel modo», né per Scipione sarebbe stato necessario morire più che morire in quel modo, né avrebbe potuto mutarsi da vera in falsa la frase: «Scipione è stato ucciso» più che la proposizione: «Scipione sarà ucciso». Se le cose stanno nei termini sopra indicati, non c'è motivo per cui Epicuro debba temere il fato e cercare una difesa nella teoria degli atomi, sostenendo che deviano dal loro asse e facendosi carico, a un tempo, di due difficoltà insolubili: l'una, secondo cui un evento si viene a creare senza una causa che lo determini, per cui si genererebbe dal nulla tesi che né Epicuro stesso né alcun filosofo naturalista condivide -; l'altra, secondo cui, quando due atomi si muovono nel vuoto, l'uno procede perpendicolarmente, mentre l'altro devia dal proprio asse. 19 Epicuro, insomma, anche se ammettesse che ogni proposizione è o vera o falsa, può non temere che tutto avvenga necessariamente per opera del fato; non per cause eterne, che provengono da necessità di natura, è infatti vero quanto viene espresso come segue: «Carneade scende all'Accademia», il che comunque non avviene senza cause; ma c'è una differenza tra le cause accidentali pregresse e le cause che contengono in sé la capacità di determinare gli eventi. Così, è sempre stato vero affermare: «Epicuro morirà, dopo aver vissuto settantadue anni, durante l'arcontato di Pitarato», eppure non c'erano cause fatali per cui dovesse così accadere; ma, poiché è accaduto, è fuor di dubbio che dovesse accadere come è accaduto. 20 Chi sostiene, quindi, che gli eventi che si realizzeranno sono immutabili e nega la possibilità che il vero nel futuro si converta in falso, non dimostra la necessità del fato: non fa che rendere esplicito il significato racchiuso nelle parole. Chi, poi, introduce una serie eterna di cause, incatena alla necessità del fato l'anima degli uomini, spogliata del libero arbitrio. X Su questo punto basta così; passiamo ad altro. Crisippo giunge alla seguente conclusione: «Se esiste un moto senza causa, non tutte le proposizioni, che i dialettici definiscono assiomi, saranno vere o false; quanto sarà privo di cause efficienti, non sarà né vero né falso; eppure, ogni proposizione è o vera o falsa; perciò non si dà moto senza una causa. 21 Se le cose stanno nei termini sopra indicati, tutto ciò che accade, accade per cause pregresse; se ciò è vero, tutto accade per volere del fato; dunque, tutto ciò che accade, accade per volere del fato». Innanzi tutto, se volessi accordare il mio consenso a Epicuro e sostenere che non tutte le proposizioni sono o vere o false, sarei disposto a subire un colpo del genere piuttosto che ammettere che 34
tutto accade per volere del fato: la prima tesi offre infatti materia di discussione, mentre l'altra è inaccettabile. Ecco il motivo per cui Crisippo ricorre a tutte le sue energie per convincere che ogni assioma è o vero o falso. Alla stregua di Epicuro, il quale teme che, una volta ammesso tale principio, si debba anche concedere che tutto accade per volere del fato (se una delle due proposizioni è vera dall'eternità, significa anche che è determinata e, se è determinata, che è anche necessaria: in tal modo egli ritiene che vengano dimostrati i princìpi di necessità e fato), così pure Crisippo, nel caso in cui non fosse riuscito a dimostrare che ogni proposizione è o vera o falsa, ha avuto paura di non poter avvalorare la tesi secondo cui tutto avviene per volere del fato e per cause eterne di eventi futuri. 22 Epicuro, però, ritiene che si possa evitare la necessità del fato con la teoria della deviazione degli atomi. Nasce così un terzo tipo di moto, che prescinde dal peso e dall'urto, quando l'atomo devia dal proprio asse di un piccolissimo grado (lo chiama minimo). Ed Epicuro è costretto ad ammettere, nei fatti se non a parole, che questa deviazione avviene senza causa. L'atomo muta infatti corso senza essere stato colpito da un altro atomo. Ma come possono urtarsi l'un l'altro gli atomi, se si muovono per forza di gravità, perpendicolarmente, lungo linee rette, come pretende Epicuro? Se un atomo non viene mai colpito da un altro, ne consegue che neppure si toccano reciprocamente. Da ciò deriva che l'atomo, ammesso che davvero esista e si sposti dal proprio asse, devia senza una causa. 23 Epicuro ha introdotto tale teoria in quanto a noi uomini, temeva, non sarebbe rimasto alcun margine di libertà, se l'atomo fosse costretto a muoversi sempre per forza di gravità naturale e necessaria, perché l'anima si regola a seconda di come è indotta dal movimento degli atomi. Democrito, il primo a formulalare la teoria degli atomi, preferì ammettere che tutto accade per necessità piuttosto che privare gli atomi del loro moto naturale. XI Più acutamente argomentava Carneade, il quale spiegava che gli epicurei avrebbero potuto sostenere una difesa senza questa fittizia deviazione degli atomi. Se avessero infatti spiegato che sussiste un moto volontario dell'anima, sarebbe stato più semplice difendere questa tesi piuttosto che introdurre la deviazione degli atomi, tenendo soprattutto conto che, per quest'ultima, non sono in grado di trovare una causa: difeso questo punto, avrebbero potuto facilmente resistere a Crisippo. Pur avendo ammesso che non si dà moto senza causa, non vorrebbero concedere che tutto ciò che accade, accade per cause precedenti: non si danno infatti cause esterne e precedenti della nostra volontà. 24 Ci serviamo, pertanto, di un luogo comune nel parlare, quando diciamo che qualcuno vuole o non vuole qualcosa senza causa. Diciamo dunque «senza causa», come se dicessimo: senza una causa esterna e precedente, e non senza una causa in assoluto; allo stesso modo, quando definiamo un vaso vuoto, non ci esprimiamo nel senso inteso dai filosofi naturalisti, che non ammettono l'esistenza del vuoto, ma intendiamo un vaso, per esempio, senz'acqua, senza vino, senza olio; così, quando affermiamo che l'anima si muove senza una causa, vogliamo dire che il suo movimento prescinde da una causa precedente ed esterna, non che manchi in assoluto di una causa. Dell'atomo stesso si può dire che, quando procede nel vuoto per gravità e peso, procede senza una causa, poiché non gliene sopravviene alcuna dall'esterno. 25 Inoltre, per non essere derisi da tutti i filosofi naturalisti, se sosteniamo che nulla accade senza causa, dobbiamo distinguere ed esprimerci nei termini seguenti: ovvero dire che rientra nella natura dell'atomo stesso muoversi per peso e gravità e che tale è la causa stessa per cui esso così si sposta. In modo analogo, non bisogna ricercare una causa esterna per i moti 35
volontari dell'anima: un moto volontario infatti racchiude in sé quella natura per cui esso è in nostro potere e a noi subordinato, e non senza causa, perché la natura stessa ne è causa. 26 Se le cose stanno in questi termini, perché ogni proposizione non dovrebbe essere o vera o falsa, se non avremo concesso che tutto quanto accade, accade per volere del fato? «Perché», risponde Crisippo, «non possono essere veri nel futuro gli eventi che non abbiano cause per cui debbano realizzarsi; ciò che è vero presuppone dunque necessariamente delle cause; così, una volta accaduto, sarà accaduto per volere del fato». XII La questione è chiusa, se davvero bisogna convenire con te o che tutto accade per volere del fato o che nulla può accadere senza una causa. 27 Forse che l'affermazione: «Scipione prenderà Numanzia» non può essere vera, se non nel caso in cui una causa, connettendosi a un'altra dall'eternità, verrà a produrre tale effetto? Oppure avrebbe potuto essere falsa, se fosse stata detta seicento secoli prima? Se allora non fosse vera la frase: «Scipione prenderà Numanzia», neppure quest'altra sarebbe vera: «Scipione ha preso Numanzia». Può dunque essersi verificato nel passato un evento, la cui realizzazione nel futuro non sia vera? Come definiamo veri gli eventi del passato, la cui imminenza sia stata vera in un tempo ad essi precedente, così definiremo veri gli eventi del futuro, la cui imminenza sarà vera nel tempo a venire. 28 Se, poi, ogni proposizione è o vera o falsa, non ne consegue immediatamente che sussistano cause immutabili, eterne, che impediscono a qualche evento di prodursi diversamente da come avrebbe dovuto. Ci sono cause fortuite, che rendono vere affermazioni del tipo: «Catone verrà in senato», che non rientrano nell'ordine universale della natura. Eppure dire «verrà», quando è vero, risulta tanto immutabile quanto dire «è venuto». Non è, però, un valido motivo per aver paura del fato o della necessità. Bisognerà ammettere che, se l'affermazione: «Ortensio verrà nella villa di Tuscolo» non è vera, ne deriva che è falsa. Gli epicurei non accettano né l'una né l'altra soluzione, il che non è possibile. Né ci lasceremo condizionare dal cosiddetto «argomento pigro»: dai filosofi è infatti definito ragionamento pigro l'argomento in base al quale, se noi lo seguissimo, non faremmo assolutamente niente nella vita. Ragionano così: «Se è stabilito per te dal fato che tu guarisca da questa malattia, che tu mandi a chiamare o meno un medico, guarirai; 29 allo stesso modo, se per te è stabilito dal fato che tu non guarisca da questa malattia, sia che tu mandi a chiamare o meno un medico, non guarirai; una delle due possibilità è stabilita dal fato: quindi, chiamare un medico non influisce per nulla». XIII Questo genere di argomentazione è definito giustamente pigro e inerte, perché, sulla base dello stesso principio, alla vita verrebbe meno ogni attività. È anche possibile modificare l'enunciazione, non usando il termine «fato», ma mantenendo lo stesso concetto: «Se dall'eternità è stata vera la proposizione: «guarirai da questa malattia», sia che tu mandi a chiamare un medico sia che non lo mandi a chiamare, guarirai; allo stesso modo, se dall'eternità è stata falsa la proposizione: «guarirai da questa malattia», sia che tu mandi a chiamare un medico sia che non lo mandi a chiamare, non guarirai», e via dicendo. Tale ragionamento viene contestato da Crisippo. 30 Nella realtà alcune azioni sono semplici, altre congiunte. Semplice è l'azione: «Socrate morirà in quel determinato giorno»: per costui, che faccia o meno qualcosa, è fissato il giorno della morte. Ma se è stabilito dal fato che «Edipo nascerà da Laio», non si potrà dire: «che Laio si unisca o meno con una donna», perché l'azione è congiunta e confatale: così appunto la definisce 36
Crisippo, perché è stabilito dal fato tanto che Laio giaccia con la propria moglie, quanto che da lei abbia come figlio Edipo. Per cui, posto di dire: «Milone lotterà ad Olimpia», se qualcuno ribattesse: «dunque lotterà, che abbia o meno un avversario», sbaglierebbe; «lotterà» è un'azione congiunta, perché senza avversario non si dà alcuna lotta. Quindi, tutti i sofismi di tal genere vengono confutati nello stesso modo. «Che tu mandi a chiamare o meno un medico, guarirai» è un ragionamento capzioso: è infatti stabilito dal fato tanto chiamare il medico, quanto guarire. Sono azioni che, come ho detto, Crisippo definisce confatali. XIV 31 Carneade non approvava tutto questo complesso di argomentazioni e riteneva che tale ragionamento giungesse a conclusione in maniera troppo dissennata. Pertanto, incalzava in altro modo, senza ricorrere ad alcun cavillo; la sua conclusione era la seguente: «Se tutto accade per cause precedenti significa che tutto accade secondo una naturale concatenazione, in modo collegato e connesso; se le cose stanno in questi termini, è la necessità a produrre tutto; e se ciò è vero, nulla è in nostro potere; eppure qualcosa è in nostro potere; ma se tutto avviene per volere del fato, tutto accade per cause precedenti; quindi, non tutto ciò che accade, accade per volere del fato». 32 Il ragionamento non potrebbe risultare più serrato e stringente. Se qualcuno volesse infatti respingere tale tesi e affermare: «Se tutti gli avvenimenti futuri sono veri dall'eternità, al punto che si verificano senz'altro nel modo in cui devono realizzarsi, è necessario che tutto accada secondo una naturale concatenazione, in modo collegato e connesso», non direbbe nulla. C'è una netta differenza tra il fatto che una causa naturale renda vere dall'eternità le cose a venire e il fatto che possano essere concepite come vere le cose future anche senza un'eternità naturale. Pertanto, sosteneva Carneade, neppure Apollo può predire l'avvenire, eccetto quegli eventi la cui natura reca in sé cause tali, per cui essi debbano verificarsi necessariamente. 33 Che cosa teneva infatti presente il dio stesso, quando annunciava che quel famoso Marcello, colui che fu tre volte console, sarebbe perito in mare? Ciò era, in effetti, vero dall'eternità, ma non aveva cause efficienti. Così, Carneade era dell'avviso che ad Apollo non fosse noto neppure il passato, quando non ne rimanessero tracce, quasi come orme: figuriamoci il futuro! Solo conoscendo le cause efficienti di ciascun fatto, si può, in sostanza, conoscere che cosa accadrà. Nemmeno riguardo a Edipo, quindi, Apollo avrebbe potuto prevedere niente, perché nella natura non ci sono cause preordinate, sulla cui base il padre dovesse necessariamente essere ucciso dal figlio, né altro del genere. XV Di conseguenza, se per gli stoici, i quali sostengono che tutto avviene per volere del fato, è coerente approvare oracoli di tal sorta e tutti gli altri esiti che si traggono dalla divinazione, non è invece d'obbligo la stessa ammissione per coloro i quali affermano che sono vere dall'eternità le cose a venire: sta' però attento che la posizione di questi ultimi non sia la stessa degli stoici: gli uni argomentano infatti su un campo più ristretto, mentre il ragionamento degli altri è sciolto e libero. 34 Se si ammettesse che nulla può accadere se non per una causa precedente, quale vantaggio si ricaverebbe, se ritenessimo quella causa non risultante da cause eterne? Causa è quanto produce l'evento di cui è causa: per esempio, la ferita è causa della morte, l'indigestione della malattia, il fuoco del calore. Perciò, non si deve intendere nel senso che la causa sia quanto precede ogni fenomeno, ma ciò che lo precede determinandolo. Il fatto che io sia sceso nel Campo Marzio non è la causa per cui ho giocato a palla, né Ecuba è stata la causa della rovina dei Troiani per aver partorito Alessandro, né Tindaro per Agamennone avendo generato Clitemnestra. In tal 37
modo si dirà che perfino un viandante ben vestito è stato, rispetto al brigante, la causa per cui è stato da quello depredato. 35 Di tale tenore sono quei ben noti versi di Ennio: O se nel bosco del Pelio, dalle scuri abbattuti, non fossero mai caduti al suolo i tronchi [d'abete! Si sarebbe potuto risalire addirittura più indietro: «O se sul Pelio non fosse mai nato un albero!», o ancora prima: «O se non fosse mai esistito un monte Pelio!» e si potrebbe, seguitando identicamente a ritroso nel tempo, procedere all'infinito. Se da lì la costruzione di una nave non avesse avuto principio! A che scopo ripercorre il tempo trascorso? Segue infatti quel celebre passo: Giammai la mia signora, Medea, vagando, avrebbe [lasciato la casa, con l'animo afflitto, ferita da fiera passione, ma non perché quei fatti comportassero la causa della sua passione. XVI 36 Inoltre affermano che c'è una differenza tra un evento senza il quale nulla può aver luogo e un evento con il quale è necessario che qualcosa sia. Nessuno dunque dei motivi sopra indicati risulta essere una causa, perché nessuno di essi produce da sé ciò di cui è detto causa. Causa non è ciò senza cui nulla accade, ma piuttosto ciò che, quando interviene, produce necessariamente ciò di cui è causa. Quando Filottete non era stato ancora ferito dal morso del serpente, quale causa era contenuta nell'ordine universale, per cui dovesse essere abbandonato sull'isola di Lemno? In séguito, però, vi fu una causa più stretta e legata al suo effetto. 37 La natura dell'evento svela dunque la causa. Comunque, dall'eternità è stata vera quest'affermazione: «Filottete sarà abbandonato su un'isola», né si poteva mutare da vera in falsa. È necessario che, tra due concetti contrari (definisco, in questo caso, contrari due concetti di cui uno afferma, l'altro nega), pur a dispetto di Epicuro è necessario - dicevamo - che l'uno sia vero e l'altro sia falso; quindi, la frase «Filottete verrà ferito» è stata vera per tutti i secoli precedenti, «non sarà ferito» falsa. A meno che per caso non si voglia seguire l'opinione degli epicurei, i quali sostengono che affermazioni del genere non sono né vere né false o, quando se ne vergognano, propugnano una tesi ancor più impudente: le contrapposizioni dei contrari sono vere, ma nessuna delle due tesi enunciate in esse è vera. 38 Ma che straordinario arbitrio e che miserevole ignoranza dell'arte dialettica! Se nell'espressione qualcosa non è né vero né falso, risulta senz'altro non vero; ciò che non è vero, poi, in che modo potrebbe non essere falso? Oppure, ciò che non è falso, in che modo potrebbe non essere vero? Ci si atterrà, insomma, alla tesi difesa da Crisippo, ovvero che ogni affermazione è o vera o falsa; la logica stessa ci costringerà ad ammettere, inoltre, che alcune cose sono vere dall'eternità, non vincolate a cause eterne e libere dalla necessità del fato. XVII 39 A dire il vero, tra le due posizioni dei filosofi antichi (la prima di chi riteneva che tutto si verificasse per volere del fato, al punto che il fato comportava la forza della necessità, posizione nella quale rientravano Democrito, Eraclito, Empedocle, Aristotele; la seconda di chi pensava che ci fossero moti volontari dell'anima senza alcun intervento del fato), mi sembra che Crisippo, quale arbitro onorario, abbia voluto seguire la via mediana, anche se si avvicina di più a coloro che propendono per i moti dell'anima affrancati dalla necessità; ma, mentre fa uso della 38
terminologia che gli è propria, scivola in difficoltà tali, da dover ribadire, suo malgrado, la necessità del fato. 40 Vediamo, se mi è concesso, quale ne sia la natura nella teoria dell'assenso, che ho trattato nella prima parte della mia esposizione. Quegli antichi filosofi, i quali pensavano che tutto accadesse per volere del fato, sostenevano che l'assenso si produceva per forza di necessità. Chi dissentiva da loro, affrancava l'assenso dal fato e asseriva che, se si attribuiva un carattere fatale all'assenso, non si poteva salvaguardare quest'ultimo dal concetto di necessità. Così argomentavano: «Se tutto accade per volere del fato, tutto accade per una causa precedente; se ciò vale per la tendenza, vale anche per quanto la segue, quindi anche per l'assenso; ma, se la causa della tendenza non è in nostro potere, neppure la tendenza lo è; quindi, neppure gli effetti prodotti dalla tendenza sono in nostro potere; non sono dunque in nostro potere né l'assenso né le azioni. Ne deriva che non sono giusti né gli elogi né i biasimi, né i premi né i castighi». Poiché la conclusione è difettosa, ritengono di poter ricavare, per via probabilistica, che non tutto ciò che accade, accade per volere del fato. XVIII 41 Crisippo, però, respingendo il concetto di necessità e pretendendo che nulla possa accadere senza cause preordinate, distingue i diversi tipi di cause, per sfuggire alla necessità e mantenere, al tempo stesso, il concetto di fato. «Tra le cause», sostiene, «alcune sono compiute e principali, altre mediate e immediate. Per cui, quando diciamo che tutto avviene per cause precedenti, non vogliamo intendere per cause compiute e principali, bensì per cause mediate [precedenti] e immediate». Pertanto, al ragionamento che poco fa ho portato a conclusione, Crisippo così si oppone: se tutto accade per volere del fato, ne consegue che tutto avviene per cause precedenti, ovvero per cause non tanto principali e compiute, quanto piuttosto mediate e immediate. Se tali cause non sono in nostro potere, non ne deriva che neppure la tendenza non sia in nostro potere. Una conseguenza del genere deriverebbe, se affermassimo che tutto accade per cause compiute e principali, di modo che, non essendo tali cause in nostro potere, neppure la tendenza lo sarebbe. 42 Perciò tale conclusione avrà valore contro chi introduce il concetto di fato in modo da coniugarlo con la necessità; non varrà invece nei confronti di chi non definirà né compiute né principali le cause precedenti. Quanto all'affermare che l'assenso deriva da cause precedenti, Crisippo ritiene che si spieghi con facilità, da sé, di qual genere esso sia. Sebbene l'assenso non possa aver luogo se non dietro l'impulso di una rappresentazione, tuttavia, dal momento che tale rappresentazione ha una causa immediata, e non principale, esso trova, secondo Crisippo, la spiegazione che abbiamo or ora proposto; non che l'assenso possa aver luogo a prescindere da una forza che lo solleciti dall'esterno (è infatti necessario che l'assenso tragga impulso da una rappresentazione), ma Crisippo ritorna all'esempio, a lui caro, del cilindro e della trottola, che non possono iniziare a muoversi se non colpiti. Ma una volta ricevuto l'impulso esterno, ritiene che successivamente, per la propria intrinseca natura, il cilindro continui a rotolare e la trottola a ruotare. XIX 43 «Dunque, chi ha spinto il cilindro», prosegue Crisippo, «ha dato inizio al moto, ma non ne ha determinato il movimento rotatorio; analogamente, la rappresentazione che si offre imprimerà la sua immagine e, per così dire, lascerà la sua impronta nell'anima, ma l'assenso sarà in nostro potere e, colpito dall'esterno, alla stregua di quanto si è detto per il cilindro, successivamente si muoverà in virtù di una forza naturale intrinseca. Se qualche fenomeno si verificasse senza una causa precedente, l'affermazione che tutto avviene per volere del fato sarebbe falsa; ma se 39
tutto quanto accade è verosimilmente preceduto da una causa, quale argomentazione si potrà addurre per non ammettere che tutto avviene per volere del fato? A patto che s'intenda qual è la distinzione e la diversità delle cause». 44 Dopo tale spiegazione di Crisippo, se chi nega che l'assenso avviene per volere del fato concedesse almeno che esso non ha luogo senza una rappresentazione precedente, diverso sarebbe il ragionamento; se invece ammette che le rappresentazioni sono precedenti, senza però concedere che l'assenso avviene per volere del fato, perché non sarebbe la causa immediata ed essenziale sopra ricordata a muovere l'assenso, bada che non finiscano per sostenere la stessa tesi. Crisippo infatti, non concedendo che la causa immediata ed essenziale dell'assenso riposi nella rappresentazione, non ammetterà nemmeno che tale causa sia necessaria per il nostro assenso, in modo che, se tutto avviene per volere del fato, tutto avviene per cause precedenti e necessarie; parimenti, coloro che dissentono da tale tesi, riconoscendo che non si dà l'assenso senza che lo preceda la rappresentazione, sosterranno che, se tutto accade per volere del fato di modo che nulla avviene se non per il precedere di una causa, è inevitabile ammettere che tutto accade per volere del fato; da ciò è facile comprendere come costoro dissentano a parole e non nei fatti, poiché entrambi, chiarita e sviluppata la loro tesi, giungono a una conclusione identica. 45 In sintesi, la distinzione è la seguente: in alcuni casi si può affermare giustamente che, essendosi verificate cause pregresse, non dipende da noi che accadano gli eventi di cui sussistevano le cause; in altri casi invece, pur essendoci cause pregresse, è comunque in nostro potere che gli eventi vadano diversamente. Entrambi approvano tale distinzione: gli uni, però, ritengono che accadano per volere del fato quegli eventi, per i quali, essendosi verificate anteriormente le cause, non è in nostro potere che vadano diversamente; invece, per gli eventi che sono in nostro potere, ritengono che il fato ne rimanga escluso ... XX 46 Occorre discutere la questione sotto tale ottica, senza cercare una difesa negli atomi che vagano nel vuoto e deviano dal proprio asse. «L'atomo», sostiene Epicuro, «devia». Primo: perché? A parere di Democrito avevano, in effetti, una qualche altra forza di movimento, l'impulso, che egli chiama colpo, mentre secondo te, o Epicuro, si muovono in virtù della gravità e del peso. Quale nuova causa si trova dunque nella natura, per cui l'atomo dovrebbe deviare? Forse traggono a sorte tra di loro quale atomo debba deviare e quale no? O perché deviare di uno scarto minimo, e non maggiore? O ancora, perché di un solo scarto minimo e non di due o di tre? Questo significa esprimere desideri, non argomentare. 47 A tuo dire, né l'atomo si sposta dal proprio asse e devia perché colpito dall'esterno, né c'è nel vuoto, in cui l'atomo si muove, una qualche causa per cui l'atomo stesso non debba procedere perpendicolarmente, né nell'atomo stesso è intervenuto mutamento di sorta, per cui non possa mantenere il movimento naturale dovuto al peso. Così, senza aver addotto alcuna causa capace di produrre tale deviazione, Epicuro presume di aver fornito una spiegazione di rilievo, quando invece sostiene una tesi che il buon senso di ognuno rifiuta e respinge. 48 Anzi, nessuno, mi pare, ribadisce in maniera più netta non solo il concetto di fato, ma addirittura la necessità coartante dell'ordine universale, come pure la negazione dei moti volontari dell'anima, nessuno più di Epicuro, il quale riconosce che non avrebbe potuto opporsi al concetto di fato, se non avesse cercato rifugio in queste fittizie deviazioni. Anche ammettendo l'esistenza degli atomi, che comunque non mi possono provare in alcun modo, tuttavia queste deviazioni dall'asse non potrebbero mai trovare una spiegazione. Se è 40
stato infatti assegnato agli atomi dalla necessità di natura il procedere per forza di gravità, perché è inevitabile che ogni peso, se non incontra ostacoli, si muova e si sposti, ne consegue necessariamente anche che deviino, o alcuni atomi o, se vogliono, tutti secondo natura ...
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DIFESA DI MILONE
I 1 Sebbene, giudici, io tema che non mi faccia onore essere qui pronto a parlare in difesa di un uomo molto coraggioso, e avere la voce paralizzata dalla paura, e che, mentre Tito Annio è più preoccupato del benessere della repubblica che del suo, sia per me disdicevole non mostrare nella causa la stessa grandezza d'animo, tuttavia questa nuova e particolare procedura giuridica inquieta i miei occhi che si volgono ovunque a ricercare nel foro l'atmosfera di un tempo e il consueto modo di fare processi. 2 Voi giudici non siete circondati, come al solito, da una cerchia di uditori e noi avvocati non siamo stretti dalla folla consueta; quei soldati, poi, che vedete dinanzi a tutti i templi, sebbene siano stati schierati per contrastare la violenza, incutono tuttavia un po' di paura all'oratore. E così, sebbene noi siamo protetti nel foro e nel tribunale da salutari e indispensabili presidi armati, non posso non essere in apprensione. Se sapessi che si è allestito tutto questo schieramento per contrastare Milone, mi arrenderei all'evidenza dei fatti, giudici; non reputerei che vi sia spazio per un'orazione di difesa in mezzo a così tante armi. Ma mi risolleva e mi conforta un po' il progetto di Gneo Pompeo, uomo molto saggio e giusto: egli non riterrebbe consono ai suoi principi di giustizia consegnare alle armi dei soldati l'imputato che aveva affidato alle decisioni dei giudici; inoltre considererebbe cosa indegna della sua saggezza armare, con la sua autorità di uomo pubblico, il furore della folla esagitata. 3 Ecco perché la presenza di tutte quelle armi, dei centurioni e delle coorti non costituisce un pericolo per noi, ma, al contrario, ci tutela, ci induce a star tranquilli e ad avere coraggio, e garantisce appoggio e silenzio alla mia difesa. Quanto al resto della folla, composto di cittadini, esso è tutto dalla nostra parte; sin dove può estendersi lo sguardo su una qualunque parte del foro, voi potete leggere sui loro visi la trepida attesa di un equo responso da parte di questa giuria e il vivo interesse per le varie fasi del processo: in effetti, sanno bene quanto valga Milone e considerano questa una buona occasione per meglio assicurarsi, lottando, la propria salvaguardia, quella dei figli, della patria e dei propri beni. II Esiste poi una genia che ci è contraria e ostile: quella che la follia di Publio Clodio ha nutrito di rapine, incendi e pubbliche sciagure. Questi uomini, anche nel corso dell'assemblea preliminare al processo, che si è tenuta ieri, sono stati istigati a imporre con le loro grida il verdetto che voi dovete emettere. Ma le loro urla, se si leveranno, dovranno esservi più che mai di monito a non scacciare da Roma questo cittadino che non si è mai lasciato intimorire da quella gentaglia e dalle loro alte grida, a garanzia della vostra salvezza. 4 Quindi, non preoccupatevi, giudici, e abbandonate ogni timore, se ne avete. D'altra parte, se mai vi è capitato di giudicare uomini buoni e coraggiosi e cittadini che hanno ben meritato la vostra stima, se mai a persone scelte tra i ceti più autorevoli è stata offerta l'occasione di confermare a fatti e a parole tutta la simpatia, più volte già trapelata da sguardi e discorsi, per quegli stessi cittadini forti e valenti, ebbene, in questa circostanza avete il potere di decidere se noi, che siamo sempre stati rispettosi della vostra autorità, saremo costretti a un'infelicità eterna o se, grazie a voi, alla vostra lealtà, al vostro coraggio e alla vostra saggezza, potremo sentirci rinati, dopo tante vessazioni da parte di 43
gente senza scrupoli. 5 Che si potrebbe dire o inventare, giudici, di più molesto, infelice o doloroso per noi due che, attratti alla vita politica dalla speranza dei più alti riconoscimenti, non possiamo liberarci dal terrore delle più crudeli vendette? Certo, io ho sempre pensato che destino di Milone fosse di affrontare tempeste e uragani, almeno quelli che si scatenano in mezzo ai flutti delle assemblee popolari, perché si era sempre schierato dalla parte dei cittadini onesti contro i soprusi dei prepotenti. Ma non ho mai pensato che all'interno del tribunale, nell'ambito di un processo dove a giudicare sono gli esponenti più autorevoli dei vari ordini romani, i nemici di Milone avessero qualche speranza, attraverso uomini come voi, di mettere in pericolo la sua vita o di sminuire la sua fama. 6 Del resto, in questa causa non mi avvarrò, giudici, del tribunato di Tito Annio e di quanto ha fatto per la salvezza della repubblica, per difenderlo. Se non vi apparirà chiaro che è stato Clodio a tendere un tranello ai danni di Milone io non insisterò affatto che ci assolviate da questo assassinio in virtù delle nostre numerose ed eccezionali benemerenze nei riguardi dello stato; né, sebbene la morte di Publio Clodio sia stata per voi la salvezza, vi chiederò di attribuirla al coraggio di Milone anziché alla fortuna del popolo romano. Se però l'agguato di Clodio risulterà evidente e più chiaro di questa luce, allora diventerò insistente e vi supplicherò - anche se avrò perso ogni altro diritto - di lasciarci almeno difendere la nostra vita dalla prepotenza e dalle armi degli avversari, senza per questo correre il rischio di essere puniti dalla legge. III 7 Ma prima di passare alla parte della mia orazione attinente alla vostra accusa, credo di dover confutare certe affermazioni avanzate in senato a più riprese dai nostri nemici, poi ripetute nel corso dell'assemblea popolare da gente senza scrupoli e infine poco fa ribadite dalla parte civile, perché, cancellato ogni equivoco, possiate esaminare con chiarezza la causa su cui dovete pronunciarvi. Gli accusatori sostengono che la legge divina non consente che contempli la luce del sole chi confessa di aver ucciso un uomo. Ma, mi domando, in quale città asseriscono una cosa del genere uomini tanto stupidi? Proprio a Roma, che vide quel primo processo che prevedeva la pena capitale per il grande Marco Orazio, uomo valorosissimo; egli, però, quando la città non era ancora stata liberata, fu assolto dal popolo romano raccolto in assemblea, sebbene ammettesse di aver ucciso di propria mano la sorella. 8 C'è forse tra voi qualcuno che non sappia come, quando si celebra un processo per omicidio, l'imputato sia solito o negare di aver commesso il fatto o sostenere di averlo commesso con ragione e secondo una legge? A meno che giudichiate pazzo Publio Africano, quando, interrogato provocatoriamente in assemblea dal tribuno della plebe Caio Carbone su cosa pensasse della morte di Tiberio Gracco, rispose che gli sembrava un'uccisione legittima. D'altra parte, non si potrebbero non considerare colpevoli il famoso Servilio Ahala, Publio Nasica, Lucio Opimio, Caio Mario o il senato stesso ai tempi del mio consolato, se fosse contro ogni diritto uccidere cittadini scellerati. Non senza ragione, giudici, uomini dottissimi hanno affidato al ricordo, attraverso le loro invenzioni, Oreste, che, accusato di aver ucciso la madre per vendicare il padre, quando il giudizio degli uomini non era concorde, fu dichiarato innocente dagli dèi, anzi, dalla dea più saggia. 9 Anche le dodici Tavole hanno stabilito che si può uccidere in qualunque modo, senza timore di incorrere in sanzioni penali, il ladro sorpreso a rubare di notte; quello che, invece, agisce in piena luce del sole, solo se prova a difendersi con un'arma. C'è ancora qualcuno, quindi, che continua a esser convinto della punibilità di ogni omicidio, in qualunque circostanza commesso, quando sono proprio le leggi 44
che talvolta ci forniscono l'arma per agire? IV Comunque, tra le tante occasioni in cui ci può capitare di uccidere un uomo ed avere la ragione dalla nostra parte, una è davvero giusta e ineluttabile: la legittima difesa, quando, cioè, si risponde alla violenza con la violenza. Un tribuno militare, che prestava servizio nell'esercito del comandante Caio Mario, di cui, per altro, era nipote, aveva tentato di fare violenza sessuale su un semplice soldato. L'onesto giovane, ribellatosi, lo uccise, preferendo reagire a proprio rischio e pericolo piuttosto che rassegnarsi a subire le voglie altrui. E Mario, mosso da un vivo senso di giustizia, lo scagionò da ogni colpa e lo lasciò libero. 10 Ma come si può chiamare ingiusta la morte inferta a chi ci tende insidie e ruba le nostre sostanze? E, ditemi, come si spiegano queste nostre scorte armate di pugnali? È ovvio che, se non fosse permesso in alcun caso di usarle, non sarebbe permesso nemmeno di tenerle. Esiste, dunque, giudici, questa legge non scritta, ma insita in noi, che non abbiamo letto o imparato sui banchi di scuola né ereditato dai padri: al contrario, l'abbiamo desunta dalla natura, assimilata completamente e fatta nostra: non ce l'hanno insegnata, ce la siamo presa ed è ormai connaturata in noi. Così, se dovessimo subire un agguato, una violenza, magari anche armata, per opera di un brigante da strada o di un avversario politico, ogni mezzo per salvare la nostra vita sarebbe lecito. 11 Le leggi, infatti, tacciono in mezzo alle armi e non prescrivono di affidarsi a loro, perché chi decidesse in tal senso dovrebbe comunque subire una pena immeritata prima di avere giustizia. Se vogliamo, c'è una legge che tutela la legittima difesa: essa, nella sua oculatezza, seppure implicitamente, non proibisce di uccidere un uomo, ma vieta che si vada in giro armati con l'intenzione di uccidere. E dunque, quando si indaga sulle cause e non sull'arma del delitto, chi ha usato un'arma solo per difendersi, non deve essere imputato di avere avuto con sé l'arma con l'intenzione di uccidere. Perciò, giudici, vorrei che questa mia riflessione restasse un punto fermo nel corso del dibattito; infatti, sono sicuro di convincervi con le mie parole di difesa, a patto che teniate sempre presente un dato che non si può dimenticare: si può legittimamente uccidere chi tende insidie. V 12 E passiamo ora a un altro argomento. Gli avversari di Milone hanno più volte ripetuto che il senato avrebbe giudicato come un attentato contro la repubblica la rissa in cui fu ucciso Clodio. Al contrario, il senato si è dichiarato favorevole a questa azione non solo a parole, ma anche con manifestazioni di simpatia. Io, poi, lo so bene perché in più occasioni ho discusso quella causa nella curia e sempre ho riscosso palesi consensi da parte di tutti i senatori. Anzi, vi dirò di più: mai, nemmeno durante le riunioni più affollate, sono riuscito a trovare quattro, cinque persone che non fossero dalla parte di Milone! Lo attestano i discorsi, peraltro non conclusi, di questo bruciacchiato tribuno della plebe, nei quali puntualmente ogni giorno si scagliava con astio contro di me, invidioso del mio potere, e sosteneva che il senato non decideva secondo le proprie convinzioni, ma secondo la mia volontà. Certo, se si vuole chiamare potere, piuttosto che modesta autorità nelle giuste cause, quello che mi sono guadagnato per i miei meriti politici nei confronti della repubblica, o la simpatia che ispiro agli uomini probi per la mia faticosa attività, comunque sia, al di là delle definizioni, la cosa importante è che io me ne possa servire nell'interesse di chi è onesto e contro la follia dei malvagi. 13 Il senato, tuttavia, non ha mai deliberato di adottare questo tipo di tribunale, per altro conforme alla legge. Esistevano già provvedimenti, esistevano commissioni d'inchiesta preposti a indagare sulle stragi e sui fatti di violenza; oltre a ciò, la morte di Clodio non era stata per il senato così dolorosa da indurlo a istituire un nuovo 45
tipo di procedura. Chi potrebbe pensare che il senato abbia ritenuto necessario istituire una procedura straordinaria per la morte di Clodio quando gli era stata strappata la facoltà di creare un tribunale per giudicarlo in merito a quella odiosa violazione ? Perché, quindi, il senato stabilì che si era agito contro la repubblica incendiando la curia, facendo incursione nella casa di Marco Lepido e assassinando Clodio? La risposta è una sola: in una città libera non ci può essere scontro tra cittadini senza che lo stato non ne rimanga coinvolto. 14 Sì, lo so, non si dovrebbe mai rispondere alla violenza con la violenza, ma a volte è necessario; a meno che il giorno dell'uccisione di Tiberio Gracco, di Caio, o quello in cui fu repressa la rivolta armata di Saturnino, benché utili alla repubblica, siano stati a essa dannosi. VI E così, quando iniziò a circolare la voce della strage della via Appia, io ritenni che chi si era difeso non avesse agito contro l'ordine costituito; tuttavia, poiché c'erano state premeditazione e ferocia, io biasimai il fatto e ne rimandai ai giudici l'accertamento. E se il senato non fosse stato ostacolato nell'attuazione dei suoi piani da quel tribuno della plebe completamente pazzo, adesso non ci ritroveremmo con una nuova procedura da seguire. Il senato ha fatto il possibile perché il processo si svolgesse secondo le antiche leggi, proponendo solo di discutere subito la causa. La decisione fu presa votando separatamente i due articoli, perché così aveva preteso qualcuno, non so chi: non è richiesto in questa sede che io sia troppo esplicito sulle gravi responsabilità dei singoli. Così, grazie a un'opposizione prezzolata, la seconda parte della proposta del senato decadde. 15 Ma ecco che Gneo Pompeo avanzò una proposta di legge relativa al fatto in questione e alle cause che lo avevano determinato. Parlò infatti del massacro avvenuto lungo la via Appia, in cui trovò la morte Clodio. Qual è stato lo scopo del suo intervento? Evidentemente dare inizio all'inchiesta. Ma cosa c'era da scoprire? Se il fatto sia avvenuto? Ma tutti lo sanno. Forse il nome del responsabile? Anche questo è noto. Pompeo, però, è dell'idea che il reo, benché confesso, abbia la possibilità di difendersi. Se non la pensasse così, non avrebbe permesso di istruire un processo, che prevede anche la possibile assoluzione di Milone, nonostante questi abbia ammesso tutto, come, e lui lo sa, faccio io; e neanche vi avrebbe consegnato questa tavoletta che rappresenta per l'imputato la salvezza o la condanna. Quindi, mi pare che Pompeo per primo non sia troppo maldisposto o prevenuto nei confronti di Milone, ma vi abbia indicato ciò che dovete valutare per esprimere il vostro giudizio. Infatti, Pompeo non ha punito il reo confesso, ma gli ha concesso una difesa e ha creduto che si dovessero vagliare le cause dell'omicidio, non l'omicidio in sé. 16 Ma sarà Milone stesso che, tra poco, ci dirà se pensa che la responsabilità di ciò che ha fatto vada attribuita a Publio Clodio o alle circostanze. VII Qualche tempo fa, un uomo di nobili natali, che sempre si era schierato a difesa del senato e quasi ne era diventato un patrono, fu barbaramente ucciso in casa propria durante l'anno del suo tribunato. Sto parlando di Druso, zio dell'illustre Marco Catone, presente tra noi in qualità di giudice. In occasione della sua morte il popolo non venne consultato né, tanto meno, il senato aprì un'inchiesta. Dai nostri padri abbiamo saputo quanto dolore abbia provocato in questa città la tragica scomparsa dell'Africano, ucciso in piena notte mentre dormiva tranquillo nel suo letto! Chi dinanzi a un simile atto di violenza non pianse, chi non fu fortemente colpito vedendo che non si era atteso che morisse per cause naturali quell'uomo che tutti, se fosse stato possibile, avrebbero desiderato immortale? Si è forse avviata un'istruttoria sull'uccisione di Publio Africano? No, nel modo più assoluto. 17 E perché mai? Perché nessuna differenza intercorre tra la morte di un nobile e quella 46
di un comune cittadino. È evidente che, finché si è vivi, la condizione di chi ha potere e di chi non ne ha non è la stessa: però, quando c'è di mezzo un delitto, è giusto che lo si sottoponga alle medesime leggi e, di conseguenza, alle medesime pene. A meno che voi non vogliate considerare un po' più assassino chi ha ucciso un padre ex console rispetto a chi ha tolto la vita a un padre oscuro! Oppure, come qualcuno afferma con insistenza, riteniate la morte di Clodio più atroce perché avvenuta lungo la via Appia, che è la testimonianza dell'operato dei suoi antenati. Come se l'ideatore della strada, il famoso Appio Claudio Cieco, la avesse costruita non pensando all'utilità pubblica, ma perché i suoi discendenti vi potessero tendere agguati impunemente! 18 Forse per questo, quando Publio Clodio ha ucciso lungo la via Appia un illustre cavaliere romano, Marco Papirio, si è pensato bene di non punirlo per il delitto commesso, perché lui, un nobile aveva sì ucciso un cavaliere, ma lo aveva fatto sulla strada degli antenati! Ora, invece, basta pronunciare il nome della via ed ecco che subito si scatena una tragedia degna del miglior teatro greco! Quante scene patetiche quando si parla di questa via Appia - e non si fa altro, ultimamente -, bagnata del sangue di un assassino, sovvertitore dello stato! Niente, invece, neanche una parola, quando era insanguinata per l'uccisione di un uomo onesto e innocente! Ma probabilmente non è il caso che io torni tanto indietro con la memoria: poco tempo fa è stato catturato nel tempio di Castore un servo di Clodio, inviato dal suo padrone per uccidere Pompeo; sorpreso con un pugnale in mano, ha confessato tutto. Ecco perché Pompeo, da quel momento, ha preferito tenersi lontano dal foro, dal senato, dai luoghi pubblici. Barricato in casa sua, si è dovuto difendere con le spranghe alle porte, non con l'autorità della legge e del tribunale. 19 Tuttavia, si è forse avanzata qualche proposta di legge particolare? Si è stabilita una nuova procedura? Niente affatto. Eppure, erano presenti tutti i requisiti richiesti per giustificare un'istruttoria straordinaria: il fatto, l'uomo, l'occasione, insomma gli elementi fondamentali di una causa giuridica. Quel servo stava in agguato nel foro, anzi proprio nella sala d'ingresso del senato, pronto a dare la morte a un uomo, sulla vita del quale poggiava la salvezza di questa città: e per di più in un momento tanto delicato per la repubblica che la sua morte avrebbe significato la fine per Roma e per tutte le sue genti! A meno che non si dovesse punire quel crimine perché non era stato portato a termine, come se le leggi punissero soltanto la riuscita degli atti criminosi e non le intenzioni degli uomini. Certo, buon per noi che il crimine non sia stato commesso: una punizione, nondimeno, sarebbe stata necessaria. 20 Quante volte io stesso, giudici, sono sfuggito alle armi e alle mani lorde di sangue di Publio Clodio! E se la mia buona stella, o quella dello stato, non mi avesse sempre salvato, chi avrebbe istruito il processo per la mia morte? VIII Ma noi siamo proprio pazzi: abbiamo il coraggio di mettere a confronto Druso, l'Africano, Pompeo, me stesso, con Publio Clodio! Tutti quei misfatti furono tollerati, ma nessuno rimane insensibile pensando alla morte di Clodio: il senato è addolorato, l'ordine equestre versa lacrime amare, la cittadinanza intera è in preda alla disperazione; i municipi sono in lutto, le colonie afflitte e persino le campagne si struggono nel rimpianto di quell'uomo tanto incline al bene, indispensabile per lo stato, dall'indole tanto mite! 21 Non fu certo quello il motivo, giudici, perché Pompeo stabilisse di dover istituire un processo, ma quell'uomo saggio e dotato di una mente acutissima, addirittura divina, considerò molti aspetti: che Clodio gli era stato nemico, Milone, invece, amico; ebbe timore che, se anche lui nell'euforia generale si fosse rallegrato, sembrasse troppo incerta la sincerità della sua riconciliazione. Fece molte altre 47
riflessioni, ma si preoccupò in modo particolare della severità con cui avreste giudicato, per quanto egli stesso avesse aperto l'inchiesta con inflessibilità. E così dalle classi sociali più alte scelse persone eminenti, e non è affatto vero che nella scelta dei giudici abbia escluso, come alcuni vanno dicendo, i miei amici. Infatti, non pensò a questo un uomo così giusto, e scegliendo tra persone perbene, non sarebbe riuscito, anche se lo avesse voluto. Infatti il favore di cui godo non è limitato entro l'ambito dei miei amici più intimi, che non possono essere numerosi, visto che è impossibile avere dimestichezza con molte persone; ma, se ho un qualche potere, lo devo al fatto che mi ha unito agli onesti la mia attività politica. Pompeo, scegliendo tra loro gli uomini migliori, e credendo che soprattutto tale dovere riguardasse la sua lealtà, non poté scegliere uomini che non fossero ammiratori del mio operato. 22 Ma, quanto al fatto che volle a tutti i costi che tu, Lucio Domizio, fossi presidente di questo processo, non chiese nient'altro se non giustizia, serietà, bontà d'animo e lealtà. Io credo che Pompeo ritenne necessario un ex console, perché stimava che dovere dei cittadini più autorevoli fosse opporsi alla mutevolezza della folla e alla temerarietà di gente senza scrupoli. Tra tutti gli ex consoli ha eletto te; infatti, già da ragazzo avevi fornito esemplari testimonianze del tuo disprezzo per il furore popolare. IX 23 Perciò, per giungere finalmente alla discussione del capo d'accusa, giudici, se è vero che non è inconsueto confessare un delitto e se, a proposito della nostra causa, il senato espresse un giudizio non diverso da quello che noi avremmo voluto; se, infine, l'autore stesso della legge, pur non essendovi alcuna contestazione del fatto, tuttavia volle che ci fosse una discussione, e si scelsero tali giudici e si prepose un tale presidente, perché decidessero con giustizia e oculatezza, non vi resta, giudici, che stabilire chi tra Clodio e Milone tese l'agguato. Pertanto, affinché attraverso la mia argomentazione possiate più facilmente comprendere, vi prego di prestare attenzione mentre vi espongo brevemente i fatti. 24 Publio Clodio, deciso a sovvertire lo stato con qualunque mezzo illecito durante la pretura, vedendo che nel corso dell'anno precedente i comizi erano stati differiti e che perciò non avrebbe potuto esercitare la pretura per molti mesi, e dato che non aspirava alla carica, come gli altri, ma voleva evitare di avere come collega Lucio Paolo, cittadino di straordinario valore, e aveva bisogno di un anno intero per rovesciare il sistema repubblicano, con mossa improvvisa rinunciò alla candidatura per quell'anno e si ripropose per il successivo; e ciò non, come accade, per una qualche credenza superstiziosa, ma, stando alle sue parole, per avere a disposizione un anno tutto intero in cui esercitare la carica di pretore - cioè, sovvertire lo stato. 25 Gli veniva il pensiero che la sua pretura sarebbe stata molto indebolita se Milone fosse stato eletto console; vedeva infatti che stava per diventare console con il pieno consenso del popolo romano. Si schierò allora dalla parte degli avversari politici di Milone, ma in modo da organizzare da solo, e anche senza il loro consenso, tutta la campagna elettorale, e in modo da reggere sulle sue spalle, come ripeteva, tutti i comizi. Radunava le tribù, faceva da tramite, istituiva una seconda tribù Collina arruolando masse di disperati. Ma quanto più Clodio fomentava disordini, tanto più Milone prendeva forza di giorno in giorno. Quando quell'uomo, dispostissimo a compiere ogni atto illecito, si accorse che il suo irriducibile nemico, dotato di grandissimo coraggio, sarebbe divenuto sicuramente console, e vide che veniva considerato tale non solo a parole, ma anche era stato spesso designato dai voti del popolo romano, iniziò ad agire apertamente e a dichiarare senza alcuna remora che 48
occorreva eliminare Milone. 26 Aveva fatto scendere dall'Appennino schiavi rozzi e incivili, che anche voi avete conosciuto, con i quali aveva devastato i boschi di proprietà dello stato e aveva saccheggiato l'Etruria. Lo scopo non era per nulla oscuro: andava infatti dicendo che a Milone non si poteva certo portar via la sua carica di console, ma la vita sì. Lo fece capire spesso in senato, lo disse durante le assemblee del popolo; addirittura, quando Marco Favonio, un uomo dotato di grande coraggio, gli chiese con quale speranza infuriasse così finché Milone era in vita, gli rispose che Milone sarebbe morto nell'arco di tre, quattro giorni al massimo; Favonio allora riferì immediatamente queste sue parole al qui presente Marco Catone. X 27 Intanto quando Clodio venne a sapere, e non era difficile saperlo, che, secondo la legge, Milone entro il 18 gennaio doveva necessariamente compiere il viaggio annuale a Lanuvio, poiché ne era supremo magistrato, per eleggere il flàmine, partì immediatamente da Roma il giorno innanzi con l'intenzione, come si capì dallo svolgimento dei fatti, di tendere un agguato a Milone davanti al proprio podere. E partì così in fretta da abbandonare una riunione assai animata, che si stava svolgendo proprio in quel giorno, nel corso della quale si sentì la mancanza del suo vigore polemico; non l'avrebbe mai lasciata se non avesse voluto approfittare del momento e dell'occasione opportune per il suo piano criminoso. 28 Milone, dal canto suo, dopo essere stato quel giorno in senato finché l'assemblea fu sciolta, tornò a casa, cambiò i calzari e gli abiti, poi aspettò un poco mentre la moglie, come accade, terminava di prepararsi, infine partì a un'ora tale che Clodio avrebbe potuto già essere di ritorno, se mai in quel giorno avesse voluto tornare a Roma. Gli si fa incontro, libero da ogni impaccio, Clodio a cavallo: niente carrozza, né bagagli, neanche, come era solito, i compagni di viaggio di origine greca, non c'era neppure la moglie, cosa che non capitava quasi mai. Questo assalitore, invece, che avrebbe organizzato quel viaggio con il solo scopo di fare una strage, procedeva sul carro in compagnia della moglie, avvolto in un mantello, impacciato da un grande e lento séguito femminile di ancelle e giovinetti. 29 Si imbatte in Clodio dinanzi al suo podere all'incirca alle cinque del pomeriggio e immediatamente da una collinetta parecchi uomini armati di pugnale si slanciano contro di lui; altri, attaccando di fronte uccidono il conducente del carro. Milone, allora, gettato dietro le spalle il mantello, salta giù dalla vettura e si difende accanitamente; quelli che stavano con Clodio, sguainate le spade, in parte tornano di corsa alla carrozza per assalire Milone alle spalle, altri, invece, poiché lo credevano già morto, incominciano ad ammazzare i suoi schiavi, che chiudevano la fila. E di costoro, che erano stati d'animo coraggioso e fedele nei confronti del padrone, una parte fu trucidata; altri, invece, vedendo che era scoppiata una rissa intorno al carro, ma si impediva loro di portare aiuto al loro signore, convinti che Milone fosse stato ucciso davvero - lo avevano sentito dire da Clodio in persona -, questi servi di Milone dunque, (parlerò in tutta franchezza, non per eludere l'accusa, ma secondo i fatti), senza che il padrone lo ordinasse, senza che fosse presente, senza che lo sapesse, fecero quanto ciascuno avrebbe desiderato dai suoi uomini in una simile circostanza. XI 30 Le cose sono andate così come le ho raccontate, giudici: chi ha teso insidie fu sconfitto, la violenza fu vinta dalla violenza, o meglio un atto oltraggioso fu schiacciato da uno di valore. Non dico nulla sui vantaggi che ne ricavò la repubblica, nulla sui vostri e su quelli degli onesti cittadini. A Milone non ha giovato; egli nacque con questo destino: non poter salvare la sua vita senza salvare al tempo stesso voi e la repubblica. Se ciò non poté accadere secondo la legge, è 49
inutile che io lo difenda. Se invece la ragione agli uomini colti, la necessità ai barbari, la consuetudine agli uomini civili, l'istinto agli animali, prescrissero di respingere con qualunque mezzo la violenza dal loro corpo, dalla loro testa, dalla loro vita, non potete giudicare criminoso il fatto in questione, senza al tempo stesso decretare morte certa, o di mano dell'aggressore o con verdetto vostro, per tutti quelli che si siano imbattuti in un malintenzionato. 31 Ché se Milone avesse ragionato così, sarebbe stato per lui preferibile offrire la gola a Publio Clodio, che la desiderava da tempo, e non era quella la prima volta che lo dimostrava, piuttosto che venire ucciso da voi, perché non si era consegnato al nemico per farsi ammazzare! Se nessuno di voi la pensa così, la cosa da stabilire in questo giudizio non è se sia stato ucciso, cosa che riconosciamo, ma se sia stato ucciso a torto o a ragione - cosa che spesso è stato oggetto di discussione in molti processi. Che ci sia stato un agguato è cosa certa e il senato lo ha considerato un vero e proprio attacco allo stato; non è chiaro chi dei due avversari lo abbia teso. Ecco perché si propose di istruire un processo; così il senato mise sotto accusa l'episodio, non l'uomo, e Pompeo ha voluto che si accertasse la legalità del fatto, non il fatto in sé. XII Che cosa vi è, dunque, da definire se non chi dei due tese quell'imboscata all'altro? Niente, ne sono certo; se risulterà che responsabile è il qui presente Milone, che sia punito; in caso contrario, assolviamolo. 32 In che modo si può quindi provare che è stato Clodio a tendere un agguato a Milone? Basta riuscire a dimostrare che quella belva tanto sfrenata e irriverente aveva un valido motivo e una grande speranza nella morte di Milone, da cui gli sarebbero venuti grandi vantaggi. Valga per questi personaggi il famoso detto di Cassio «a chi fu di vantaggio», anche se chi è onesto non è spinto all'inganno da alcun tornaconto, mentre i delinquenti spesso si accontentano di uno piccolo. Ebbene, se Milone fosse stato ucciso, Clodio avrebbe ottenuto questi vantaggi: non solo sarebbe stato pretore senza quel console, con cui non avrebbe potuto commettere alcuna scelleratezza, ma pretore sarebbe diventato con dei consoli che, se non lo avessero proprio appoggiato, certamente l'avrebbero lasciato fare, e gli consentivano di sperare nella realizzazione dei suoi folli progetti. Quei due, secondo il suo punto di vista, non avrebbero desiderato soffocare i suoi tentativi, pur potendolo fare, poiché ritenevano di essergli debitori di un così grande favore, ma se anche avessero voluto, si sarebbe forse rivelato quasi impossibile domare la spregiudicatezza, rafforzata ormai dal passare degli anni, di un uomo così scellerato. 33 O forse solo voi, giudici, non siete al corrente e vivete in questa città come stranieri? La vostra attenzione vaga altrove e non si sofferma su quanto in città si va dicendo sulle leggi - se leggi si devono chiamare e non fiamme incendiarie della città, peste della repubblica -, quelle che Clodio stava per imporre e marchiare a fuoco su noi tutti? Ti prego, Sesto Clodio, mostra, mostra la cassettina delle vostre leggi, perché dicono che te la sei portata via da casa e che l'hai messa in salvo, quasi fosse il Palladio, dal baccano notturno delle armi, per poterla consegnare come preziosissimo dono e strumento del tribunato, se per caso ti fossi imbattuto in uno disposto a condurre il tribunato seguendo i tuoi desideri. Ecco che mi ha lanciato un'occhiata delle sue solite di un tempo, quando minacciava tutti di ogni sorta di mali. Che paura mi fa, questo splendore della curia! XIII Ma come? Tu pensi che io sia adirato con te, Sesto, che hai anche inferto al mio più grande nemico una punizione ben più crudele di quella che, data la mia umanità, avrei osato chiedere? Tu hai trascinato fuori di casa il cadavere insanguinato di Publio Clodio, tu lo hai buttato tra la gente, tu lo hai spogliato delle immagini degli antenati, delle esequie, 50
del corteo, dell'elogio, e, già mezzo bruciacchiato da un incendio funesto, lo hai lasciato in pasto ai notturni cani randagi. Perciò, se anche ti sei comportato empiamente, tuttavia, considerando che hai scatenato la tua ferocia contro un mio nemico, non posso complimentarmi, ma non devo affatto prendermela con te. 34 Avete sentito, giudici, quanto vantaggio avesse Clodio dall'uccisione di Milone; rivolgete ora il vostro animo a Milone. Che interesse poteva avere che Clodio fosse ucciso? Quale ragione c'era perché non dico commettesse il fatto, ma lo desiderasse? «Per Milone Clodio costituiva un ostacolo alla sua speranza di divenire console». Ma, nonostante l'opposizione di Clodio, Milone sarebbe diventato console, anzi, per questa lo sarebbe diventato più facilmente; e non si serviva di me come sostenitore migliore di Clodio. Grande efficacia su di voi aveva, giudici, il ricordo dei meriti di Milone nei confronti miei e della repubblica; grande efficacia avevano le mie preghiere e le mie lacrime, da cui allora mi accorgevo che vi lasciavate sinceramente commuovere, ma molto più valeva la paura dei pericoli sovrastanti. Quale cittadino c'era, infatti, che pensasse alla pretura sfrenata di Publio Clodio, e non provasse una terribile paura di sconvolgenti novità? Eravate consapevoli che sarebbe stata senza freni, se non ci fosse stato un console che avesse osato e potuto tenerlo a bada. Siccome tutto il popolo romano riteneva che solo Milone potesse essere quel console, chi avrebbe esitato con il suo voto a liberare se stesso dal timore e lo stato dal pericolo? Ora, invece, che Clodio è uscito di scena, per salvaguardare la dignità della sua posizione, Milone deve ricorrere ai soliti espedienti; ormai con la morte di Clodio è finita quella gloria particolare che giorno dopo giorno aumentava e che era concessa a lui solo perché lui domava i furori dei Clodiani. Voi avete ottenuto di non temere di alcun cittadino; costui ha perso la possibilità di esercitare il suo valore e l'appoggio che lo avrebbe portato al consolato, fonte per lui di gloria eterna. E così il consolato di Milone, che non poteva essere indebolito finché Clodio era vivo, ora che è morto, ha incominciato a vacillare. Quindi, la morte di Clodio non solo a Milone non è servita a niente, ma gli crea problemi. 35 «Ma fu l'odio a prendere il sopravvento, agì in preda all'ira, si comportò da nemico, vendicò i torti, sfogò il proprio risentimento». E allora? Se questi sentimenti furono, non dico più vivi in Clodio che in Milone, ma fortissimi nell'uno e completamente assenti nell'altro, cosa volete ancora? Perché mai Milone avrebbe dovuto avere avversione per Clodio, nutrimento e mezzo della sua gloria, se non a causa di quell'odio civile che ci spinge a odiare tutti i malvagi? Clodio sì che aveva motivi per detestarlo: innanzitutto era stato difensore della mia salvezza, poi persecutore della sua furia, vincitore di scontri armati, infine, anche suo accusatore; infatti, per tutto il tempo che visse, Clodio fu accusato da Milone secondo la legge Plauzia. Con quale animo pensate che abbia sopportato tutto ciò quel despota? Quanto odio - odio giustificato, dal punto di vista di un uomo ingiusto - credete che avesse maturato? XIV 36 Resta un argomento: a difendere Clodio intervengono la sua natura e il suo modo di vivere, e questi stessi elementi accusano invece Milone! «Clodio non ha mai fatto nulla con la violenza, Milone, al contrario, se ne è sempre servito per tutto!». Cosa? Quando nel cordoglio generale, giudici, mi sono allontanato dalla città ho avuto forse paura di un processo? o di schiavi, di armi, di reazioni violente? Quale giusto motivo per farmi tornare si sarebbe trovato, se quello della mia espulsione non fosse stato ingiusto? Lui, credo, mi aveva fissato il giorno, mi aveva inflitto una multa, aveva intentato un processo di alto tradimento e io avrei dovuto temere il processo in una causa così malvagia o fatta apposta per me, e non illustre e diretta a 51
tutti voi! Non volli che al posto mio i miei concittadini, salvati con pericolo dai miei consigli, fossero esposti alle armi di schiavi, di miserabili, di scellerati. 37 Io ho visto, ho visto davanti a me Quinto Ortensio qui presente, faro e onore dello stato, che a momenti veniva trucidato da una schiera di servi, perché prendeva le mie parti; in quella confusione il senatore Caio Vibieno, ottimo uomo, dato che si trovava con lui fu conciato talmente male che morì. Quando dunque, dopo di allora si riposò quel suo pugnale, che aveva ereditato da Catilina? Contro di me fu puntato, - ma non ho permesso che veniste coinvolti voi al posto mio -, fu rivolto contro Pompeo, macchiò di sangue con la strage di Papirio questa famosa via Appia, ricordo del nome di Clodio, infine, dopo un lungo intervallo di tempo, fu di nuovo puntato contro la mia persona; recentemente quasi mi uccise, come sapete, nei pressi della reggia. 38 Si può dire lo stesso di Milone? Lui ha speso sempre ogni energia per impedire a Publio Clodio di tenere questa città schiacciata con la violenza, visto che non lo si poteva trarre in giudizio. Ma se avesse voluto ucciderlo, quali e quante splendide occasioni ci sarebbero state! Forse non avrebbe potuto a buon diritto vendicarsi, nel tentativo di difendere la sua casa e gli dèi penati, quella volta in cui Clodio fece irruzione in casa sua? Non avrebbe potuto farlo quando fu ferito un cittadino illustre e uomo fortissimo, il suo collega Publio Sestio? E la volta in cui Quinto Fabrizio, persona irreprensibile, fu cacciato durante una ferocissima rissa nel foro, poiché proponeva una legge circa il mio ritorno? E quando fu assalita la casa di Lucio Cecilio, valorosissimo e integerrimo pretore? Non avrebbe potuto farlo nel giorno in cui fu presentata la legge relativa al mio rientro, quando la gente, accorsa da ogni parte d'Italia, spinta dalla volontà di salvarmi, avrebbe appreso con gioia la notizia di tale azione, al punto che tutta la cittadinanza, se anche l'avesse fatto Milone, avrebbe rivendicato come sua quella gloria? XV 39 Ma quali erano le circostanze? Vi era un console, [Publio Lentulo], molto forte e famoso, nemico di Clodio, vendicatore di quella scellerata proposta di legge, sostenitore del senato, difensore della vostra volontà, protettore della concordia pubblica, mio salvatore; c'erano i sette pretori e gli otto tribuni della plebe, avversari politici di Clodio, schierati a mia difesa; c'era Gneo Pompeo, artefice e promotore del mio rientro, a lui ostile; le sue parole in favore della mia salvezza, assai ponderate ed eleganti, tutto il senato le approvò: proprio Pompeo, che si rivolse al popolo romano, che, quando a Capua emanò il provvedimento sul mio ritorno, a tutta l'Italia che desiderava e implorava la sua fiducia, diede in prima persona il segnale di accorrere in folla a Roma a votare perché fossi ripristinato nei miei diritti. Nei confronti di Clodio, infatti, ardeva l'odio di tutti i cittadini per il rimpianto che avevano di me, al punto che se qualcuno allora lo avesse ucciso, non si sarebbe discusso della sua impunità, ma del premio da dargli. 40 Milone, in quella occasione, si trattenne e citò Publio Clodio in giudizio due volte, senza provocarlo mai al combattimento. E allora? Quando Milone ritornò a essere un privato cittadino e Publio Clodio gli scagliò contro accuse davanti al popolo, quando fu assalito Gneo Pompeo che parlava in difesa dell'amico, allora sarebbe stata non solo una splendida occasione, ma anche un ragionevole motivo per eliminarlo! Qualche tempo fa, poi, quando Marco Antonio rappresentò la più grande speranza di salvezza per tutte le persone oneste, e, giovane dai nobilissimi natali, si assunse con tanta risolutezza una gravissima responsabilità nei confronti dello stato, e già teneva nelle reti quella belva, che tentava di sfuggire ai lacci di un'azione giudiziaria, quale opportunità, dèi immortali, quale occasione favorevole fu quella! Quando Clodio, fuggendo, riuscì a nascondersi nel buio di un sottoscala, sarebbe 52
stato molto facile per Milone uccidere quel flagello di uomo senza attirare su di sé alcuna inimicizia, ma anzi attirando grande gloria su Marco Antonio! 41 Ma come? Quante volte Milone avrebbe potuto ucciderlo durante i comizi in campo Marzio, quando lui aveva fatto irruzione nei recinti e aveva creato l'occasione per sguainare le spade e scagliar sassi; ma, all'improvviso, terrorizzato dallo sguardo di Milone, si era dato alla fuga verso il Tevere, mentre voi e tutta la gente onesta facevate voti perché a Milone piacesse servirsi del suo coraggio. XVI Quell'uomo che non volle uccidere con l'approvazione di tutti, è logico, forse, che l'abbia voluto con la disapprovazione di alcuni? Lui, che non osò farlo a buon diritto, in luogo favorevole, in una circostanza idonea e godendo dell'impunità, non avrebbe esitato a uccidere a torto, in luogo sfavorevole, in tempo inopportuno, col rischio della propria vita? 42 Oltretutto, giudici, quando si avvicinava il momento della lotta per la più alta carica ed erano imminenti i giorni dei comizi, nel tempo in cui - so infatti quanto inquieta sia la brama di popolarità e quanto grande e ansiosa sia la voglia di diventar console -, abbiamo paura di tutto, non solo di poter essere criticati apertamente, ma anche di ciò che può essere pensato in segreto, ci spaventiamo per vaghe chiacchiere sciocche, per false storielle, scrutiamo le espressioni e gli sguardi di tutti. Non esiste, infatti, niente di così instabile e aleatorio, di fragile e incostante come la disposizione d'animo e il sentimento dei cittadini nei nostri confronti - cittadini che non solo tuonano contro il degrado morale dei candidati, ma trovano spesso anche da ridire su comportamenti onesti. 43 Quindi Milone, che teneva fisso davanti agli occhi il giorno dei comizi, desiderato e rincorso, poteva presentarsi con le mani sporche di sangue ai sacri auspici delle centurie, ostentando e per nulla celando un'azione delittuosa? Quanto non è credibile in lui questo comportamento, quanto, invece, lo stesso fatto non deve creare alcun dubbio nel caso di Clodio, che pensava, una volta ucciso Milone, di spadroneggiare come un re. E che? O giudici, nel compiere atti temerari è di capitale importanza chi non lo sa? - la speranza di rimanere impuniti. Chi dei due poté nutrire, quindi, questa speranza? Milone, che è chiamato a rispondere anche ora di un'azione giusta, gloriosa, di certo inevitabile? O Clodio, che aveva disprezzato processi e punizioni al punto da amare solo ciò che non è consentito dalla natura o non è lecito per le leggi? 44 Ma perché devo addurre delle prove, perché devo discutere ancora? Mi rivolgo a te, Quinto Petilio, validissimo e ottimo cittadino, e a te, Marco Catone, chiedo testimonianza, a voi che la sorte veramente divina concesse a me in qualità di giudici. Avete ascoltato da Marco Favonio le parole di Clodio e avete sentito, quando Clodio era vivo, che Milone sarebbe morto da lì a tre giorni; il fatto avvenne tre giorni dopo che egli aveva parlato. Poiché egli non esitò a svelare il suo piano, potete avere dei dubbi sulla sua azione? XVII 45 Come mai, dunque, non sbagliò il giorno? L'ho già spiegato poco fa. Non era affatto difficile conoscere i giorni stabiliti per i sacrifici del dittatore di Lanuvio. Si rese conto che Milone doveva partire per Lanuvio proprio in quella data in cui se ne andò, e così lo precedette. E che giorno era? Proprio quello, come ho detto prima, in cui si svolse un'assemblea popolare tra le più turbolente, agitata da un tribuno della plebe, pagato da Clodio; e quel giorno Clodio, se non avesse avuto fretta di portare a termine il suo piano, calcolato nei particolari, non avrebbe mai lasciato quella riunione e quei clamori. Egli non ebbe un motivo per andare, ebbe, anzi, un motivo per rimanere; Milone, invece, non ebbe alcuna possibilità di restare: non solo aveva un motivo, addirittura era obbligato a lasciare la città. E che direste se io vi convincessi che, come Clodio sapeva che quel 53
giorno Milone sarebbe passato per quella via, così Milone non poteva proprio sospettarlo? 46 In primo luogo vi domando come potesse esserne al corrente obiezione che non potete muovere a Clodio. Anche se non l'avesse chiesto ad altri tranne che al suo grande amico Tito Patina, avrebbe potuto sapere che in quel preciso giorno a Lanuvio il dittatore Milone doveva necessariamente eleggere il flàmine. Ma c'erano molti altri da cui informarsi con estrema facilità, a cominciare da tutti gli abitanti di Lanuvio. A chi Milone avrebbe potuto chiedere notizie a proposito del ritorno di Clodio? Poniamo che abbia pure interpellato qualcuno vedete quanto vi concedo -, o che abbia persino corrotto un servo, come ha detto il mio amico Quinto Arrio. Leggete le deposizioni dei vostri testimoni. Caio Causinio Scola di Interamna, vicinissimo a Clodio e suo compagno d'avventure - secondo la cui testimonianza tempo fa Clodio si trovava alla stessa ora sia a Interamna che a Roma -, ha dichiarato che in quel famoso giorno Publio Clodio aveva tutte le intenzioni di fermarsi nella sua villa albana; ma all'improvviso gli venne annunciata la morte dell'architetto Ciro, e così decise di tornare subito a Roma. La stessa versione dei fatti ci è stata fornita da Caio Clodio, un altro compagno di Publio Clodio. XVIII 47 Vedete, giudici, quanto siano importanti le precisazioni di questi testimoni. In primo luogo, scagionano certamente Milone dall'accusa di essere partito con la chiara intenzione di far cadere Clodio in un'imboscata lungo la strada: incontrarlo non era affatto prevedibile. Inoltre, - non vedo infatti perché non debba trattare anche la mia causa - voi sapete, giudici, che c'è stato chi, parlando in favore di questa procedura legale, ha detto che la strage è stata compiuta per mano di Milone, ma su istigazione di qualcuno più importante. Evidentemente questi uomini spregevoli e corrotti alludevano a me come brigante e assassino. Eccoli inchiodati dalle loro testimonianze, le quali negano che Clodio avrebbe fatto ritorno a Roma quel giorno, se non avesse appreso la notizia di Ciro. Ho tirato un sospiro di sollievo, libero dal sospetto; non temo più che mi si accusi di aver ideato quello che neppure potevo sospettare. 48 Proseguirò ora con i rimanenti argomenti, poiché mi si può fare la seguente obiezione: «Quindi neanche Clodio meditò sul suo piano insidioso, perché intendeva rimanere nella villa di Alba!». D'accordo, se la sua intenzione non fosse stata quella di uscire dalla villa per compiere la carneficina! Credo infatti che il messo, il quale si dice gli abbia annunziato la morte di Ciro, non gli abbia riferito ciò, ma che Milone si stava avvicinando. In effetti, cosa avrebbe dovuto annunziare a proposito di Ciro, che Clodio, partendo da Roma, aveva lasciato più morto che vivo? Fui insieme con lui, sigillai il testamento di Ciro insieme con Clodio, perché aveva fatto pubblicamente testamento e aveva designato come eredi lui e me. Il giorno prima, alle nove, Clodio lo aveva lasciato che era lì lì per andarsene: il giorno dopo, alle quattro del pomeriggio, gli si annunciava che era morto? XIX 49 D'accordo, ammettiamo pure che le cose siano andate così: per quale motivo, però, si affrettò a tornare a Roma, perché si avventurò per la strada in piena notte? Quale causa poteva addurre per la sua fretta? Il fatto che fosse un erede? Innanzitutto, non c'era motivo che rendesse necessaria tanta fretta; inoltre, se ce ne fosse stato uno, cosa vi era, insomma, che egli potesse guadagnare in quella notte e che potesse perdere, se fosse giunto a Roma la mattina del giorno dopo? E come Clodio, invece di tentare quel viaggio, avrebbe dovuto evitare di arrivare di notte in città, così Milone, ammesso che volesse tendere un agguato, se sapeva che Clodio stava per arrivare in città di notte, avrebbe dovuto appostarsi e aspettare. Lo avrebbe ucciso di notte. Chiunque gli avrebbe creduto, se avesse negato. Lo avrebbe ucciso in un luogo pericoloso e 54
pieno di briganti. 50 Chiunque gli avrebbe creduto, se avesse negato: tutti lo vogliono salvo, persino adesso che confessa. Sarebbe stato incolpato del delitto anzitutto quel luogo, riparo di sbandati: quindi né la muta solitudine né la notte scura avrebbero tradito Milone. In séguito, si sarebbero concentrati i sospetti su molti che erano stati da Clodio offesi, derubati, privati dei loro beni, su molti che anche solo lo temevano, infine si sarebbero citati in giudizio tutti gli abitanti dell'Etruria. 51 E quel giorno Clodio, di ritorno da Aricia, si fermò certamente nella sua villa di Alba. Ebbene: se davvero Milone sapeva che quello era stato ad Aricia, doveva tuttavia immaginare che Clodio, pur volendo tornare a Roma quel giorno, si sarebbe concesso una sosta nella sua abitazione, che si trovava sulla strada. Perché non gli andò incontro prima, per impedirgli di fermarsi nella villa, e perché non si appostò nel luogo dove sarebbe giunto a notte fonda? 52 Fin qui vedo che è tutto chiaro, giudici; Milone aveva ogni interesse che Clodio fosse vivo, l'altro non desiderava altro che la morte di Milone per realizzare i progetti a cui aspirava ardentemente; lo odiava, quindi, con tutte le sue forze, mentre in Milone non c'era odio per lui; Clodio aveva la costante abitudine di agire con violenza, Milone, invece, soltanto di respingerla; a Milone la morte era stata da lui annunciata e apertamente resa nota, nulla di simile fu mai udito per bocca di Milone; Clodio, inoltre, conosceva il giorno di quella partenza, mentre Milone non era al corrente del suo ritorno; per lui il viaggio era necessario, ma per Clodio era piuttosto fuori luogo; Milone aveva annunciato a tutti che quel giorno avrebbe lasciato Roma, Clodio aveva nascosto che quel giorno sarebbe tornato; uno non mutò la decisione presa in nessun particolare, l'altro inventò un pretesto per motivare il suo cambiamento di programma; infine, se Milone avesse voluto tendere un agguato, avrebbe dovuto aspettare la notte nei pressi della città; Clodio, se anche non avesse temuto Milone, avrebbe dovuto tuttavia provare un po' di paura ad avvicinarsi in piena notte alla città! XX 53 Vediamo ora un punto di capitale importanza: a quale dei due sia stato più favorevole il luogo dell'agguato, quello dove vennero alle mani. Ma davvero vi sembra, giudici, che su questo si debba dubitare e discutere? Davanti alla proprietà di Clodio, nella proprietà dove, grazie a sotterranei costruiti con il criterio di un pazzo, potevano comodamente stare mille uomini pronti a tutto, vale a dire in un luogo alto ed elevato appartenente all'avversario, Milone poteva pensare di riuscire vincitore e scegliere perciò quel luogo come il più adatto per combattere? O non fu invece atteso proprio lì da Clodio, che aveva architettato di tendere un agguato confidando proprio in quel luogo? I fatti parlano da soli e nulla conta di più. 54 Se voi queste azioni non le sentiste narrare, ma le vedeste dipinte, apparirebbe chiaro chi dei due tese l'imboscata, chi, invece, non ebbe alcuna cattiva intenzione: perché uno viaggiava sul carro, avvolto nel mantello, e con lui sedeva la moglie: quale di queste condizioni non è tale da creare ostacoli, l'abbigliamento, il mezzo di trasporto o la compagnia? Quale delle tre è meno consona a una battaglia, il fatto che fosse impedito nei movimenti dalla veste, svantaggiato dal veicolo o che fosse trattenuto dalla moglie ? Vedete ora l'altro che esce dalla villa, all'improvviso perché? - di sera - è così necessario? - con lentezza - gli conviene, soprattutto considerando l'ora ? Si dirige verso la villa di Pompeo. Per incontrare Pompeo? Sapeva che era nel suo podere di Alsio. Per visitare la villa? - Ma se c'era già stato migliaia di volte! E allora, qual era il motivo? Perder tempo e tergiversare: fino al passaggio di Milone non ha voluto abbandonare il luogo. 55
XXI 55 Avanti, fate ora un confronto tra il viaggio di quel bandito, libero di agire, e gli impedimenti di Milone. In precedenza Clodio era sempre accompagnato dalla moglie, allora era senza di lei; non si spostava se non in carrozza, ma quel giorno era a cavallo; quanto ai giovinetti greci che lo seguivano, ovunque andasse, persino quando si recava di fretta nei suoi possedimenti etruschi - niente di frivolo, quel giorno, nella sua scorta. Milone, che non aveva mai séguito, quella volta per puro caso recava con sé alcuni giovani musici schiavi della moglie e un gruppo di ancelle. L'altro, che invece conduceva sempre con sé sgualdrine, prostitute e ragazzetti, allora non aveva nessuno, se non uomini che avresti detto scelti a uno a uno. Perché dunque fu vinto? Perché non sempre chi viaggia viene ucciso dal brigante che lo assale, talvolta è il brigante a cadere per mano del viaggiatore; e poi perché Clodio, per quanto pronto ad assalire chi proprio non se l'aspettava, era come una femminuccia che si fosse imbattuta in uomini pieni di coraggio. 56 D'altronde Milone era preparato quasi a sufficienza a incontrarlo anche quando era impreparato. Sapeva bene quanto Publio Clodio ci tenesse a vederlo morto e quanto lo odiasse e di che cosa fosse capace. Per questo non esponeva mai al pericolo, senza una scorta o una guardia del corpo, la sua vita, che sapeva messa all'incanto con premi vantaggiosissimi e quasi aggiudicata. Si aggiunga il capriccio del destino, si aggiungano la sorte incerta delle battaglie e l'imparzialità di Marte, che spesso fa abbattere e colpire da chi era già caduto chi sta già spogliando il vinto ed esulta per la gioia; si aggiunga la mancanza di buon senso di un comandante che, insonnolito dal cibo e dal vino, dopo aver lasciato il nemico tagliato fuori alle spalle, non si preoccupò minimamente dei suoi compagni che chiudevano la fila: quando poi si imbatté in questi uomini che, accecati dalla rabbia, disperavano per la vita del loro padrone, incappò in quelle pene che servi fedeli gli fecero pagare in cambio della vita del loro signore. 57 Allora perché poi lì affrancò? Temeva di essere denunciato, è evidente, temeva che non potessero sopportare il dolore fisico, che fossero costretti dagli strumenti di tortura a confessare di avere ucciso loro, servi di Milone, Publio Clodio lungo la via Appia. Che bisogno c'è di un carnefice? Cosa vuoi sapere? Se Milone ha ucciso? Sì, l'ha fatto; a torto o a ragione? Non sono affari che riguardino il boia; l'indagine sull'accaduto va svolta sul tavolaccio delle torture, quella sul diritto spetta ai giudici. XXII Quanto, dunque, si deve ricercare in una causa, lo si cerchi qui; quanto si vuole trovare servendosi della tortura, lo dichiariamo noi. Se uno mi domanda perché Milone ha reso liberi i suoi servi anziché colmarli di doni più generosi, non sa criticare il gesto del suo nemico. 58 Lo stesso Marco Catone qui presente, che ha sempre parlato in modo coerente e coraggioso, ha già espresso il suo parere, e ha asserito, durante una turbolenta assemblea popolare, resa tuttavia tranquilla dal suo autorevole intervento, che erano assolutamente degni non solo della libertà, ma anche di regali di ogni genere, gli schiavi che avessero difeso la vita del loro padrone. Quale ricompensa, infatti, è abbastanza generosa per servi così devoti, così virtuosi, così fedeli, ai quali deve la sua vita? Del resto, essere scampato alla morte non è così rilevante come, grazie a loro, il non aver saziato con il suo sangue e con le sue ferite l'animo e gli occhi di un nemico estremamente crudele. Se Milone non li avesse affrancati, si sarebbero dovuti sottoporre alle torture quelli che avevano salvato il loro padrone e, vendicando un atto delittuoso, tenuta lontana da lui la morte. Ma costui, nelle sue disgrazie, almeno una cosa non sopporta a malincuore: il pensiero che, indipendentemente da quello che gli accadrà, ha pagato il premio che 56
loro si sono meritati. 59 Eppure, gli interrogatori che si stanno svolgendo adesso nel palazzo della Libertà, aggravano la posizione di Milone. Di quali schiavi si tratta? E me lo chiedi? Di quelli di Publio Clodio. Chi ha richiesto il loro interrogatorio? Appio. Chi li ha accompagnati a testimoniare? Appio. E da dove venivano? Dalla casa di Appio. Bontà degli dèi! Quale procedura più rigorosa si potrebbe seguire? [Non è per nulla legale far domande ai servi a proposito del loro padrone: a meno che non si tratti di un atto sacrilego come quello di Clodio.] Ecco Clodio a un passo dagli dèi, a loro più vicino di quanto lo fosse allora, quando penetrò sino a loro: si indaga sulla sua morte come se si fossero violate cerimonie sacre. Tuttavia i nostri predecessori non vollero che si indagasse sul padrone, non perché non si potesse giungere alla verità, ma perché sembrava una cosa ignobile e più triste della morte stessa del padrone: quando contro l'accusato si interroga un servo dell'accusatore, si può giungere alla verità? 60 Su, avanti, di che tenore poteva essere l'interrogatorio? Facciamo un esempio: «Ehi tu, Rufione! Stai attento a non mentire. È stato Clodio a tendere un'imboscata a Milone?» - «Sì»: gli tocca certamente la forca. - «No»: ed è sua la sospirata libertà. Che cosa esiste di più serio di questo interrogatorio? Loro, quelli tratti a testimoniare, in quattro e quattr'otto sono separati dai compagni, gettati in cella perché nessuno possa parlare con loro. Dopo essere stati per cento giorni a disposizione dell'accusatore, da quello stesso vengono presentati come suoi testimoni in tribunale. C'è un interrogatorio più imparziale e più onesto? XXIII 61 Se non vedete ancora ben chiaro, con mente limpida e imparziale, e nonostante tante prove e indizi illuminanti, che Milone, senza essere macchiato da alcun delitto, senza provare alcuna paura, per nulla tormentato dal rimorso, se ne tornò a Roma, non dimenticate, in nome degli dèi immortali, con quanta fretta rientrò, quale fu il suo ingresso nel foro mentre la curia andava a fuoco, quali la grandezza del suo animo, l'espressione del volto e le parole. E si consegnò non solo al popolo, ma anche al senato, non solo al senato, ma anche alle scorte armate che presiedono all'ordine pubblico, e poi non solo a queste, ma anche al potere di colui al quale il senato aveva affidato tutta la repubblica, tutta la gioventù italica, tutto il potere militare romano. Certamente Milone, se non avesse confidato nella sua causa, non si sarebbe mai consegnato a Pompeo, tanto più che Pompeo ascoltava ogni chiacchiera, era pieno di timori, era molto sospettoso, e talvolta gli piaceva credere a quel che gli si raccontava. Grande è la forza della coscienza, giudici, grande per il colpevole e per l'innocente, così chi non ha commesso nulla non ha da temer nulla, e chi si è reso colpevole crede che gli si presenti sempre davanti agli occhi la punizione. 62 Il senato, inoltre, appoggiò sempre la causa di Milone e non senza una valida ragione. Erano, infatti, uomini molto saggi e coglievano il motivo della sua azione, la prontezza d'animo e la determinatezza nel difendersi. Non avrete dimenticato, giudici, i discorsi e le opinioni non solo degli avversari politici di Milone, ma anche di alcuni male informati, non appena fu annunciata la morte di Clodio? Dicevano che non si sarebbe più fatto vedere a Roma. 63 Se, infatti, per l'ira e la disperazione avesse agito così, se accecato dall'odio avesse massacrato il nemico, avrebbe dato alla morte di Publio Clodio - essi pensavano così importanza da privarsi, dopo aver saziato il suo odio col sangue nemico, serenamente della patria; se avesse voluto con quella morte liberare la patria, dopo aver salvato a suo rischio il popolo romano, non avrebbe esitato a rimettersi alla legge con animo sereno, a portar via con sé una fama eterna, a lasciare a noi la possibilità di godere dei beni da lui messi al sicuro. Molti parlavano anche di Catilina 57
e delle sue atrocità: «Piomberà qua all'improvviso, si impadronirà di qualche punto strategico, dichiarerà guerra alla patria». Come sono sfortunati, a volte, i cittadini che hanno ben meritato dello stato: gli uomini non solo dimenticano le loro azioni più nobili, ma anche nutrono nei loro confronti sospetti infamanti! 64 Sospetti che, per altro, si rivelarono infondati; ma che sarebbero, invece, stati veri, se Milone avesse fatto qualcosa che non poteva difendere con onestà e sincerità. XXIV E poi? Con quanto ardore, dèi immortali, tenne fronte a quelle accuse che gli fecero ricadere addosso, accuse che avrebbero schiacciato anche chi avesse avuto sulla coscienza colpe da nulla. Le respinse? No, anzi, le disdegnò e non diede alcuna importanza a quelle accuse che né un delinquente incallito né un innocente, se non fosse stato un uomo forte e coraggioso, avrebbero potuto ignorare. Si denunciava l'esistenza di una gran quantità di scudi, di spade, di giavellotti, persino di catene, che gli si sarebbero potuti sequestrare; correva voce che non ci fosse un solo quartiere o vicolo in tutta la città in cui non fosse stata affittata una casa per Milone; si sosteneva che armi fossero state trasportate lungo il Tevere sino alla villa di Ocricoli, che la sua casa alle pendici del Capitolino fosse stipata di scudi e traboccante di ogni sorta di proiettili incendiari fabbricati apposta per dar fuoco alla città. Cose del genere non solo furono riferite, ma quasi credute, e non furono respinte prima di aver indagato. 65 Io lodavo il comportamento estremamente scrupoloso di Gneo Pompeo, ma ora parlerò in tutta franchezza, giudici. Troppe voci sono costretti ad ascoltare, e non possono fare diversamente, quelli a cui si è affidata tutta la repubblica. Egli dovette persino ascoltare la deposizione di un popa, un non so quale Licinio della zona del Circo Massimo, secondo cui nella sua taverna alcuni servi di Milone, completamente ubriachi, avevano confessato di avere ordito una congiura per uccidere Gneo Pompeo; in séguito, uno di loro lo avrebbe accoltellato perché non andasse a denunciarli. Pompeo viene informato della cosa nei suoi giardini; tra i primi sono convocato io: su consiglio degli amici riferisce la faccenda al senato. Di fronte a un sospetto così grave, da parte dell'uomo che vegliava sulla sicurezza mia e della patria, non potevo non essere paralizzato dalla paura; nondimeno ero meravigliato che si prestasse fede a un popa, si ascoltasse la confessione di servi, si considerasse una ferita nel fianco, che sembrava una puntura d'ago, come fosse il colpo di un gladiatore. 66 In realtà, credo, Pompeo più che avere timore, prendeva delle precauzioni non solo nei confronti di ciò che si doveva temere, ma nei confronti di tutto, per evitare che a dover temere qualcosa foste voi. Si sparse la notizia che per molte ore della notte si era presa d'assalto la casa di Caio Cesare, uomo famoso e di grandissimo coraggio. Nessuno aveva sentito, pur trattandosi di un luogo tanto frequentato, nessuno se ne era accorto; tuttavia, vi si prestava ascolto. Io non potevo immaginare che Gneo Pompeo, uomo di così grande coraggio, fosse pavido; non consideravo per nulla esagerati i suoi scrupoli, anche perché le sorti dell'intera repubblica dipendevano da lui. Poco tempo fa, in una seduta del senato assai affollata, tenutasi sul Campidoglio, fu trovato un senatore il quale sosteneva che Milone aveva un pugnale; si spogliò nel bel mezzo del tempio sacro, e, dato che la condotta di vita di un tale cittadino e di un tale uomo non era una sufficiente garanzia, tacque e furono i fatti a parlare. XXV 67 Tutte le dicerie si rivelarono false e perfidamente inventate. Se, tuttavia, oggi si teme Milone, non è perché è accusato di avere ucciso Clodio: per i tuoi sospetti proviamo orrore, Gneo Pompeo, - parlo con te, e ad alta voce, perché tu possa udirmi distintamente sì, per i tuoi sospetti. Se hai paura di Milone, se credi che 58
lui ora mediti qualche azione funesta per la tua vita o che abbia un tempo tramato qualche gesto inconsulto, se hai armato contro l'attacco di Milone le leve arruolate in tutta Italia, come andavano dicendo alcuni tuoi incaricati, questi uomini, le coorti di stanza al Campidoglio, le sentinelle notturne e diurne e uno scelto gruppo di giovani, che sorveglia la tua casa e te stesso, se hai allestito, disposto e diretto contro lui solo tutto ciò, allora certamente si attribuiscono a costui una grande energia, un incredibile coraggio, forze e mezzi non di un solo uomo; non può essere che così se si è scelto il miglior comandante e si sono fornite armi all'intero stato contro di lui solo. 68 Ma, chi non capisce che tutte le parti della repubblica indebolite e traballanti ti sono state affidate, perché le risanassi e le consolidassi anche con queste armi? Se, però, tu avessi dato a Milone la possibilità, ti avrebbe sicuramente dimostrato che mai nessun uomo fu più caro a un altro uomo di quanto tu lo sei a lui; che non fuggì mai alcun rischio pur di guadagnarsi la tua stima; che per difendere la tua gloria più e più volte lottò contro quella terribile piaga; che il suo tribunato fu guidato dai tuoi consigli per la mia salvezza, che ti era carissima; che successivamente fu da te difeso quando in gioco c'era la sua vita, e aiutato durante la campagna elettorale per la pretura; che aveva sperato di poter contare per sempre su due solide amicizie, la tua per i benefici tuoi, la mia per i suoi. Se, comunque, non fosse riuscito a convincerti, se questo sospetto si fosse così profondamente radicato in te, da non poterlo in alcun modo smuovere, se infine l'Italia non avesse mai trovato pace dagli arruolamenti e la città dalle armi senza la rovina di Milone, allora sì che Milone non avrebbe esitato a lasciare la sua patria, lui che così è nato e così fu solito vivere; ma prima avrebbe chiamato te, Magno, come testimone, cosa che fa anche ora. XXVI 69 Vedi quanto sia varia e mutevole l'essenza stessa della vita, quanto capricciosa e instabile la sorte, quanto grandi le infedeltà nelle amicizie, quante le ipocrisie dovute alle circostanze, quante le fughe delle persone più intime nel pericolo, quanti i gesti vigliacchi. Ma verrà, verrà certo il tempo e spunterà prima o poi il giorno in cui tu, ti auguro senza danno per le tue cose, forse per un certo mutamento della situazione generale, - e con quanta frequenza ciò accada dovremmo per esperienza saperlo -, sentirai la mancanza della devozione di un vero amico, della fedeltà di una persona molto seria, e della grandezza d'animo dell'uomo più coraggioso che si conosca. 70 Del resto, chi potrebbe credere che Gneo Pompeo, fine conoscitore del diritto pubblico, delle tradizioni degli antichi e degli affari di stato, ricevuto dal senato il compito di fare in modo che la repubblica non andasse in rovina -, e sulla base di questa formula concisa, i consoli furono sempre sufficientemente armati, senza dar loro altre armi -, ricevuto un esercito e il potere di fare arruolamenti, sarebbe ricorso a un processo per punire i disegni di chi con la sua violenza impediva i processi stessi? Pompeo si è poi pronunciato in modo sufficientemente chiaro sulla falsità delle accuse contro Milone; ha avanzato una proposta di legge con cui, da quanto capisco, vi obbliga ad assolvere Milone, e voi sono tutti concordi nell'ammetterlo - lo potete fare. 71 Il fatto che Pompeo se ne stia seduto là, circondato da un pubblico presidio, dimostra ampiamente che non vuole spaventarvi, - non sarebbe indegno di lui costringervi a condannare voi Milone, che egli stesso potrebbe punire secondo la tradizione dei nostri antenati e in virtù dei suoi poteri? -, ma vuole difendervi e aiutarvi a capire che siete liberi di esprimere le vostre opinioni, opponendovi all'assemblea popolare di ieri. XXVII 72 Quanto a me, giudici, tutto il trambusto fatto dai Clodiani non mi scompone affatto, e non sono così folle, così all'oscuro ed estraneo alle vostre idee da 59
ignorare la vostra opinione sulla morte di Clodio. Se già non avessi confutato l'accusa, come ho fatto, a Milone sarebbe tuttavia lecito, senza temere punizioni, proclamare davanti a tutti questa gloriosa menzogna: «Sono stato io, sono stato io a uccidere non Spurio Melio, che, facendo calare il prezzo del grano e sperperando il patrimonio familiare, venne sospettato di aspirare al potere assoluto perché sembrava abbracciare un po' troppo la causa della plebe romana; non Tiberio Gracco, che privò il suo collega della carica di tribuno per mezzo di una rivolta, e i cui assassini riempirono il mondo della gloria del loro nome, ma colui» - non avrebbe, infatti, vergogna a dirlo, perché ha liberato la patria a suo rischio e pericolo - «il cui nefando adulterio, consumato sui pulvinari votati agli dèi, fu scoperto dalle più nobili matrone; 73 colui, con la cui condanna il senato spesso ritenne che si dovessero espiare le solenni cerimonie violate; colui, che Lucio Lucullo, fatte le debite ricerche, denunciò sotto giuramento, dicendo di avere scoperto che si era unito carnalmente in uno scandaloso incesto con la sorella; colui, che cacciò dalla patria con le armi dei suoi servi un cittadino, ritenuto dal senato, dal popolo romano, da tutte le genti salvatore della città di Roma e della vita dei suoi abitanti; colui, che diede, tolse, spartì regni e terre con chi volle; colui, che, dopo innumerevoli stragi nel foro, con la forza delle armi fece barricare in casa un uomo di particolare valore e fama; colui, per il quale non vi fu mai cosa illecita, né nei suoi delitti, né nelle sue passioni; colui, che diede fuoco al tempio delle Ninfe per distruggere l'elenco ufficiale del censo, trascritto nei registri pubblici; 74 colui, per cui, infine, non esisteva alcuna legge, alcuna norma fondamentale del diritto civile, nessuna delimitazione di confine dei suoi possedimenti; colui, che cercava di avere i terreni altrui non con pretestuosi cavilli, non con ingiuste rivendicazioni e querele, ma muovendo l'accampamento, l'esercito e le insegne; colui, che tentò di scacciare dai loro possedimenti, sempre con l'impiego delle armi, non solo gli abitanti dell'Etruria infatti provava per loro un profondo disprezzo, ma anche il qui presente Publio Vario, ottimo e fortissimo cittadino, nostro giudice; colui, che percorreva in lungo e in largo ville e giardini non suoi con architetti e pertiche di dieci piedi; colui, che aveva la speranza di coprire presto con i suoi possedimenti tutta l'area che va dal Gianicolo alle Alpi; colui, che, non avendo ottenuto dall'illustre e forte cavaliere romano Marco Paconio di vendergli l'isolotto nel lago Prilio in un battibaleno, con delle barchette, trasportò su quel pezzo di terra legname, calce, pietre, sabbia e non esitò a costruirsi una casa sul suolo altrui, sotto gli occhi del legittimo proprietario che guardava dall'altra riva; 75 colui, che a questo Tito Furfanio, a quale uomo, dèi immortali! (ma che dire di Scanzia, una povera donna, e del giovane Publio Apinio? minacciò entrambi di morte, se non gli avessero lasciato il possesso dei loro giardini), a Tito Furfanio, appunto, ebbe il coraggio di dire che, se non gli avesse dato tutto il denaro che chiedeva, gli avrebbe messo in casa un cadavere, per suscitare l'odio contro di lui, contro un tale uomo; colui, che privò di un fondo di sua proprietà il fratello Appio, mio fedelissimo amico, mentre era lontano; colui, che incominciò ad alzare un muro attraverso il vestibolo della sorella, ne gettò le fondamenta, così da privarla non solo del vestibolo, ma anche di ogni entrata e della soglia». XXVIII 76 Questa situazione sembrava ormai tollerabile, anche se in egual modo attaccava violentemente la repubblica, i cittadini privati, gli stranieri, i parenti, gli estranei, gli intimi; non so come, lo spirito di sopportazione della città, davvero incredibile, sembrava divenuto indifferente e insensibile per l'abitudine. Come 60
avreste potuto sopportare o neutralizzare gli atti di prepotenza di allora o quelli che già ci minacciavano? Se egli avesse ottenuto la carica di pretore - tralascio gli alleati, i paesi stranieri, i re, i tetrarchi; infatti avreste fatto dei voti perché scatenasse la sua ira contro quelli, piuttosto che contro i vostri possedimenti, le vostre case, il vostro denaro - denaro, dico? Non avrebbe mai tenuto a freno i più bassi istinti verso i vostri figli, Dio ci assista, e verso le vostre mogli! Vi sembrano immaginarie cose che sono evidenti, che sono note a tutti, che si possono toccare con mano, e, cioè che avrebbe arruolato un esercito di servi in città, con cui entrare in possesso dell'intero stato e dei beni privati di tutti? 77 Pertanto, se Tito Annio, tenendo in mano un pugnale grondante di sangue, gridasse: «Prestate attenzione, vi prego, e ascoltatemi, cittadini! Io ho ucciso Publio Clodio, io ho respinto dalle vostre teste, con questo coltello e con questa destra, i suoi gesti inconsulti, che non potevamo frenare né con leggi, né con tribunali, così che per solo mio merito in questa città regneranno il diritto, la giustizia, le leggi, la libertà, l'onestà e il rispetto reciproco», si dovrebbe davvero temere la reazione della gente? Chi ora, infatti, non esprimerebbe la sua approvazione, chi non si complimenterebbe, chi non direbbe e non sentirebbe nell'animo che a memoria d'uomo Tito Annio è stato il più utile allo stato, e ha recato la più grande gioia al popolo di Roma, all'Italia intera e a tutte le genti? Non posso valutare l'intensità delle antiche gioie del popolo romano; eppure il nostro tempo ne ha viste di vittorie a opera di comandanti eccezionali, una più famosa dell'altra, ma nessuna di queste ha portato un'allegria così intensa e profonda. Ricordatevelo, giudici. 78 Io spero che voi e i vostri figli assisterete a molti avvenimenti felici nella repubblica; in ognuna di quelle gioiose circostanze, sempre penserete che, vivo Publio Clodio, non avreste avuto nessuna di quelle gioie. Visto che quest'uomo eccezionale sarà console, che è stata frenata la dissolutezza degli uomini, che si sono infrante le loro passioni, che si sono creati leggi e tribunali, abbiamo una speranza grandissima e, io credo, fondata che questo stesso anno sarà salutare per la città. C'è forse qualcuno tanto stupido da credere che sarebbe stato lo stesso se Publio Clodio fosse ancora vivo? E che? Quale certezza di continuare a possedere i beni, strettamente personali e vostri, avreste potuto avere, con un pazzo furioso come lui a fare il bello e il cattivo tempo? XXIX Io non temo, giudici, di sembrare uno che, acceso dal risentimento per inimicizie personali, vomita parole di fuoco contro di lui, più per soddisfazione mia che per amore della verità. Infatti, anche se in me era l'odio personale a prevalere, egli era comunque un nemico di tutti, tanto che i miei sentimenti ostili si riflettevano, quasi con la stessa intensità, nell'odio comune. Non è possibile spiegare a parole con sufficiente chiarezza, neppure immaginare, quanta scelleratezza fosse in lui, quanta capacità distruttiva. 79 Quindi, fate attenzione, giudici. Questa è l'inchiesta a proposito della morte di Publio Clodio. Immaginate - le nostre fantasie, infatti, non hanno freni, e si concentrano su ciò che vogliono, così come noi vediamo nella realtà gli oggetti che abbiamo davanti agli occhi -, immaginate, dunque, che lo abbia questa proposta: voi assolvete Milone, ma a patto che Publio Clodio risorga. Perché siete impalliditi in volto? Quale impressione vi farebbe da vivo, se, ora che è morto, il vano pensiero che risorga è riuscito a terrorizzarvi? Ma come! Se lo stesso Gneo Pompeo, che è tanto valoroso e fortunato da riuscire sempre là dove tutti, tranne lui, falliscono, se costui, ripeto, avesse avuto l'opportunità o di istituire un processo per indagare sulla morte di Publio Clodio o di richiamarlo dagli inferi, quale delle due cose credete che avrebbe preferito? Se anche, a titolo di amicizia 61
avesse voluto evocarlo dall'aldilà, per il bene della repubblica non lo avrebbe fatto. Quindi, voi giudici sedete qui per vendicare la morte di un individuo a cui non restituireste la vita anche se vi credeste in grado di farlo; è stato aperto un procedimento sulla sua morte, in virtù di una legge che, se avesse avuto il potere di riportarlo in vita, non sarebbe mai stata approvata. Se Milone lo avesse ucciso con premeditazione, confessandolo, dovrebbe temere una punizione da parte di chi ha liberato da un incubo? 80 I Greci conferiscono onori divini agli uccisori dei tiranni. - Quali riconoscimenti ho visto in Atene, quali in altre città della Grecia! Cerimonie religiose, canti, opere in poesia sono riservate a uomini del genere! Attraverso il culto e la memoria essi diventano quasi immortali. Voi, invece, non solo non conferirete alcun onore a chi ha salvato il popolo di Roma, a chi ha punito un misfatto tanto grave, ma permetterete anche che venga condannato? Lui, però, se fosse responsabile del fatto, confesserebbe, dico, confesserebbe di aver compiuto con grande coraggio e con piacere, in nome della comune libertà, ciò che non dovrebbe soltanto confessare, ma di cui dovrebbe andare fiero. XXX 81 E quindi, se non nega un'azione da cui non può chiedere nulla, se non di essere perdonato, esiterebbe a confessare la paternità di un gesto da cui si dovrebbero anche esigere premi e riconoscimenti? A meno che non sia convinto di esservi più gradito come difensore della propria incolumità che della vostra; tanto più che, confessando ciò, nel caso che voleste essergli grati, potrebbe ottenere le più alte cariche. Se invece il suo gesto non vi trovasse d'accordo - ma come potrebbe a qualcuno non riuscire gradita la propria salvezza? -, tuttavia, se l'azione di valore di un uomo tanto coraggioso non avesse trovato consenso da parte dei suoi concittadini, egli se ne andrebbe con coraggio e determinazione da una città ingrata. Quale ingratitudine sarebbe più grande del fatto che, mentre tutti si rallegrano, solo lui, al quale si deve questa allegria, debba dolersi? 82 Eppure, quando si trattava di reprimere i traditori della patria, ci siamo sempre trovati tutti d'accordo, così pensavamo che, se nostra sarebbe stata la gloria, nostro era anche il pericolo e l'impopolarità. Infatti, quale riconoscimento mi si dovrebbe tributare se, quando nell'anno del mio consolato ho osato tanto per voi e i vostri figli, avessi creduto di poter realizzare il mio scopo senza rischiare nulla? Quale donna non avrebbe il coraggio di uccidere un cittadino malvagio e pericoloso, se non temesse il pericolo? Ma chi, avendo ben chiaro cosa significhino impopolarità, morte, castigo, difende lo stato con non minore energia, costui lo si deve considerare un vero uomo. Dovere del popolo riconoscente è premiare i cittadini che hanno ben meritato della repubblica, quello dell'uomo forte non lasciarsi indurre, nemmeno dai supplizi, a pentirsi di avere agito con coraggio. 83 Per questo Tito Annio potrebbe servirsi della stessa confessione di Ahala, di Nasica, di Opimio, di Mario, persino della nostra, e sarebbe contento se lo stato gliene fosse grato; se, invece, non lo fosse, si sentirebbe tuttavia a posto con la sua coscienza, pur in gravi circostanze. La Fortuna del popolo romano, la vostra buona stella, e gli dèi immortali esigono che si riconosca loro il merito di questo beneficio. Nessuno potrebbe pensare diversamente, se non chi vive nella convinzione che non esista alcuna forza superiore o volontà divina, che non è convinto nemmeno dalla grandezza della nostra potenza, né dal sole, dal movimento del cielo e degli astri, né dall'avvicendarsi ben ordinato dei casi umani e, peggio ancora, neppure dalla saggia devozione dei nostri antenati che tramandarono a noi, loro successori, i riti, le cerimonie sacre e gli auspici, da loro venerati in prima persona con estrema scrupolosità. XXXI 84 C'è, c'è 62
senz'altro quella forza divina, e in questi nostri corpi, in questa nostra imperfezione non esiste niente di umano che sia così pieno d'energia e di sentimento, né esiste nello splendido e possente moto degli eventi di natura. A meno che non credano per il semplice fatto che questa forza non appare, non si riconosce; ma è un po' come se potessimo vedere e cogliere a pieno l'essenza e l'ubicazione della nostra stessa mente, che ci permette di essere intelligenti, di prendere decisioni, di agire e di usare la parola. Dunque, quella stessa forza, che più volte ha regalato a questa città successo e ricchezze inenarrabili, ha distrutto e neutralizzato quel pericolo pubblico, a cui prima ha infuso il coraggio necessario per irritare con la violenza e provocare con le armi il più valoroso degli uomini, poi ha fatto in modo che fosse vinto da lui, perché se Clodio avesse vinto, avrebbe ottenuto perpetua impunità e licenza di agire. 85 No, giudici, l'uccisione di Clodio non è avvenuta per la semplice volontà di un uomo, e nemmeno per un intervento poco convinto da parte degli dèi immortali. In verità, persino i luoghi che hanno visto quella belva cadere, sembra che si siano turbati e che abbiano reclamato la loro parte di diritto su di lui. Voi, boscose collinette albane, sì, voi, dico, chiamo a testimoni e imploro, e voi, altari sepolti, già oggetto di venerazione presso gli Albani e associati poi al culto del popolo romano, che quello, in preda alla follia, tagliati e abbattuti tutti gli alberi dei boschi sacri, aveva schiacciato con le fondamenta per chissà quali assurde costruzioni. Fu allora che deste prova di tutto il vostro potere, fu allora che prevalse la vostra forza, che lui aveva calpestato con ogni sorta di crimine; e tu, dall'alto del tuo colle, santo Giove Laziare, i cui laghi, i cui boschi, i cui territori aveva spesso infangato con i più turpi atti di violenza, hai finalmente aperto gli occhi per punirlo; ma, per voi, sì, e davanti a voi sono state espiate le colpe, in modo giusto e dovuto, per quanto tardivo. 86 A meno che non si voglia attribuire al caso la prima ferita, quella che lo portò a morire atrocemente, dinanzi al tempietto della Bona dea - che si trova nel campo di Tito Serto Gallo, giovane veramente onesto e distinto -, sì, davanti alla dea Bona, là dove Clodio diede inizio allo scontro, appare evidente che, lungi dall'aver evitato il castigo in séguito a una sentenza scandalosa, gli era stata riservata una pena esemplare. XXXII E in realtà l'ira degli dèi sconvolse la mente ai suoi partigiani, al punto che lo gettarono in mezzo alla piazza e gli diedero fuoco, senza immagini, senza canti né giochi, senza esequie, senza lamenti, senza discorsi elogiativi, senza corteo funebre, tutto lordo di sangue e di fango, privato della pompa di quel giorno supremo durante il quale persino i nemici, di solito, sentono il dovere di inchinarsi. Non credo che gli dèi avrebbero gradito che i ritratti degli uomini più illustri rendessero qualche onore a quell'odioso assassino, sempre ostile alla patria: per far scempio del suo cadavere non c'era posto migliore di quello dove si era decisa la sua condanna. 87 In nome di Giove Fidio, a me sembrava che la Fortuna del popolo romano fosse stata dura e crudele, perché per tanti anni permise a Clodio di insultare questa repubblica. Aveva infranto il mistero di una sacra cerimonia con un atto sacrilego; non aveva rispettato i provvedimenti più importanti del senato; aveva pubblicamente corrotto i giudici; quand'era tribuno, aveva preso di mira il senato; aveva cancellato con un colpo di spugna quanto si era fatto con il consenso di tutti gli ordini per il bene dello stato; aveva scacciato me dalla patria, aveva confiscato i miei beni, aveva incendiato la mia casa, maltrattato i miei figli e mia moglie; a Gneo Pompeo aveva sfacciatamente dichiarato guerra; aveva fatto strage di magistrati e privati cittadini; aveva dato fuoco all'abitazione di mio fratello, messo sottosopra l'Etruria con le sue incursioni, privato molti di case e ricchezze; ci stava addosso, ci premeva; la città, 63
l'Italia, le province e i regni non potevano porre un freno alla sua devastante follia; già nella sua casa si incidevano leggi che ci avrebbero resi schiavi della nostra servitù; non c'era proprietà di chicchessia a cui egli non mirasse e che non pensasse di far sua nell'arco dell'anno. 88 Nessuno, tranne Milone, si opponeva ai suoi piani. Clodio era convinto che perfino colui che era capace di tenergli testa, fosse in qualche modo vincolato dalla recente riconciliazione; andava dicendo di poter disporre anche del potere di Cesare; le persone che si erano interessate alla mia causa le aveva messe brutalmente a tacere. Solo Milone lo incalzava. XXXIII A questo punto gli dèi immortali, come ho già detto, suggerirono a quel pazzo perverso l'idea di tendere un agguato a Milone. Quella peste non avrebbe potuto finire in modo diverso; lo stato non ce l'avrebbe mai fatta a punirlo, rispettando la legge. E senato, almeno credo, avrebbe potuto limitare la sua autorità, se fosse diventato pretore; ma analoghi sforzi non avevano ottenuto risultati neppure quando costui era privato cittadino. 89 E i consoli avrebbero avuto la forza necessaria per porre il veto a lui, pretore? Anzitutto, ucciso Milone, avrebbe avuto consoli a lui devoti; e poi quale console avrebbe avuto il coraggio di sfidare un pretore come lui, ricordando che da tribuno si era accanito contro un rappresentante dell'istituzione consolare? Avrebbe schiacciato, posseduto, tenuto stretto tutto; secondo una nuova legge, ritrovata in casa sua insieme alle altre leggi clodiane, avrebbe reso i nostri schiavi suoi liberti. Quindi, se gli dèi immortali non avessero indotto quell'effeminato a tentare di uccidere un uomo fortissimo, oggi non avreste nessuna repubblica. 90 Forse che da vivo e da pretore, anzi da console - ammesso che questi templi e queste stesse mura fossero rimasti in piedi tanto a lungo da vederlo rivestire la toga consolare -, non avrebbe fatto niente di male, lui che è riuscito da morto a dar fuoco alla Curia per mano di uno dei suoi uomini? Che cosa abbiamo visto di più vigliacco, meschino o doloroso di questa azione? Il tempio dell'inviolabilità, delle più alte cariche, dell'intelligenza, del senno di tutti, il punto di riferimento della città, l'ara dei nostri alleati, il rifugio di tutte le genti, la sede affidata all'unanimità al solo ordine senatorio, l'abbiamo vista bruciata, distrutta, profanata, e ciò non è accaduto per colpa di una folla impazzita - per quanto il gesto sarebbe già deprecabile di per sé -, ma per la responsabilità di uno solo. Colui, che ha avuto l'ardire di fare il becchino di Clodio cadavere, che cosa non avrebbe osato come suo braccio destro, finché era vivo? Preferì gettarlo nella curia, perché da morto la riducesse a un rogo, mentre da vivo l'aveva messa sottosopra. 91 E c'è gente che si lamenta di quanto è accaduto sulla via Appia, ma non spende una parola sulla curia, convinta che si sarebbe potuto difendere il foro dalle ingerenze di Clodio vivo, mentre nemmeno al suo cadavere la curia è riuscita a resistere! Se ne siete in grado, provate, provate a resuscitarlo; saprete contenere la furia di un uomo il cui cadavere insepolto quasi non siete riusciti a fermare? Siete forse riusciti a trattenere chi accorreva alla curia e al tempio di Castore con torce o falci in mano, e gli altri che, armati di spada, si agitavano per tutto il foro. Siete stati testimoni del massacro del popolo romano e di un'assemblea sciolta a colpi di spada, mentre in silenzio ascoltava il discorso del tribuno della plebe Marco Celio, uomo importantissimo nella repubblica, coerente fino all'eccesso in ogni causa da lui abbracciata, dedito ad assecondare le richieste della gente onesta e l'autorità del senato, legato a Milone, sia nella malasorte sia al culmine della fortuna, da una fedeltà incredibile, divina. XXXIV 92 Ma ormai ho speso già fiumi di parole per questa causa, anzi forse ho parlato fin troppo e non sempre a proposito. Che cosa mi resta da fare se non 64
pregare e scongiurare voi, giudici, perché concediate a un uomo tanto coraggioso quella pietà che lui non implora, ma che io imploro e richiedo, anche se egli non ne vuol sapere? Se in mezzo alla commozione generale non avete scorto la benché minima lacrima sul volto di Milone, se vedete l'espressione di sempre, fermi e impassibili il timbro della voce e le parole, non vogliate per questo non perdonarlo; non so se questa non sia una ragione per aiutarlo di più. E infatti, se durante gli scontri tra i gladiatori - dunque tra uomini infimi per condizione e fortuna - di solito detestiamo quelli che hanno paura e vengono a implorare supplici il diritto alla vita, mentre desideriamo salvare i forti e i coraggiosi, che si dimostrano disposti ad affrontare con audacia la morte, e proviamo maggior compassione per quelli che non chiedono la nostra pietà, rispetto a chi insiste per ottenerla, altrettanto dovremmo fare nei confronti di cittadini che mostrano di avere coraggio. 93 Dilaniano e spezzano il mio cuore, giudici, le parole di Milone, che ascolto ripetutamente e con le quali ho quotidiana familiarità. Ecco cosa dice: «Stiano bene, stiano bene i miei concittadini; siano sani e salvi, fiorenti, felici; questa mia città, a me patria carissima, sia famosa, qualunque sia il giudizio che esprimerà sul mio conto; possano i miei concittadini godere di una repubblica serena, anche senza di me, poiché non mi spetta di gioire con loro, ma per merito mio. Me ne andrò in esilio. Se proprio non potrò cogliere i frutti di una sana amministrazione, almeno mi sarò liberato dell'incubo di una tirannide e, non appena avrò trovato una città ben governata e libera, vi stabilirò la mia dimora». 94 E poi aggiunge: «Quanta fatica per niente, quante illusorie speranze, quanti pensieri inutili! Quando io, mentre lo stato era oppresso, mi dedicai, in qualità di tribuno della plebe, alla causa del senato, che avevo trovato privo ormai di ogni potere, ai cavalieri romani, le cui forze andavano spegnendosi, alla gente perbene, che si era spogliata di tutti i suoi diritti di fronte alle armi dei Clodiani, avrei mai potuto immaginare che mi sarebbe venuto a mancare il sostegno dei cittadini onesti? E quando io», questo me lo ripete molto spesso, «ti ho restituito alla patria, avrei potuto credere che in patria non ci sarebbe stato un posto per me? Dove sono andati a finire ora il senato che ho sempre appoggiato, cavalieri romani a te devoti, dove sono gli abitanti dei municipi a me favorevoli e le voci che si alzavano da tutta Italia, dove, infine, le tue parole di difesa, Marco Tullio, che a moltissimi furono d'aiuto? Solo a me, che per te ho rischiato più di una volta di morire, il tuo intervento non servirà a nulla?». XXXV 95 A dire il vero, mi fa queste confidenze e non versa una lacrima, al contrario di me ora, giudici, ma parla con la medesima espressione che vedete adesso sul suo volto. Nega, infatti, nega di aver fatto quel che ha fatto per cittadini ingrati, ma non nega di averlo fatto per gente spaventata e timorosa di ogni pericolo. Quanto alla plebe e alla volgarissima gentaglia, che, capitanata da Publio Clodio, attentava alle vostre ricchezze, ricorda di averla tratta a sé, per tutelare la vostra vita, non solo piegandola con i suoi atti di valore, ma anche ingraziandosela con denaro attinto dalle sue tre eredità familiari; Milone è, quindi, abbastanza tranquillo: ha placato la plebe allestendo i ludi gladiatorii, ha guadagnato la vostra stima con le sue eccezionali benemerenze nei confronti dello stato. Sostiene poi che spesso in questi ultimi tempi il senato ha palesato nei suoi confronti una certa benevolenza, e che, qualunque sia il corso che la sorte imprimerà agli eventi, porterà via con sé la cordialità, le dimostrazioni d'affetto e le parole di conforto con cui è stato sostenuto da voi e da quelli del vostro rango. 96 Gli torna anche alla memoria che, sebbene gli 65
sia mancata la proclamazione del banditore, a cui non teneva affatto, era stato dichiarato console con l'approvazione di tutto il popolo, e questo sì che lo desiderava! Ora, infine, se queste armi gli si rivolteranno contro, avremo la prova che grava su di lui il sospetto di sedizione, non l'accusa di omicidio. Aggiunge poi una considerazione che è certamente vera: e cioè che gli uomini dotati di coraggio e saggezza, di solito hanno come scopo non tanto le ricompense delle loro buone imprese, quanto invece la riuscita dell'impresa in sé; nella sua vita Milone non ha mai fatto nulla se non nel migliore dei modi, poiché certamente la massima soddisfazione per l'uomo è liberare la patria dai pericoli. 97 Sono fortunati quelli che a causa delle loro gesta ottennero riconoscimenti e onore dai loro concittadini, ma non sono infelici quelli che hanno superato i concittadini in generosità. Comunque, tra tutti i riconoscimenti al valore, se si dovesse stabilire una gerarchia di preferenze, il premio più ambito è la gloria: essa è l'unica capace di compensare una vita tanto breve con il ricordo dei posteri, di farci presenti anche se lontani, di farci vivere anche se morti: sui suoi gradini sembra che gli uomini salgano al cielo. 98 «Il popolo romano», dice Milone, «e tutte le genti parleranno per sempre di me, nessun tempo, per quanto il mondo invecchi, potrà fare a meno di nominarmi. Persino ora, mentre i miei nemici scagliano contro di me gli strali dell'odio, io vengo complimentato, ringraziato, esaltato in ogni riunione e in ogni discorso. Non parlo dei giorni festivi organizzati e istituiti in Etruria: sono già trascorsi centodue giorni, mi sembra, dalla morte di Publio Clodio. Sin dove si estendono i confini del potere romano, non solo si è sparsa ormai la notizia, ma si è anche diffusa la gioia. È anche per tale motivo» conclude, «che non mi preoccupo di dove si trovi questo mio corpo, giacché ormai in tutte le terre già vive e sempre vivrà la gloria del mio nome». XXXVI 99 Tu mi ripeti spesso queste parole, e loro non ci sono; ma ora, mentre questi ascoltano, io ti rispondo, Milone: «Certamente tale è il tuo coraggio che non posso tessere a sufficienza le tue lodi, ma, poiché sei simile per valore agli dèi, con grandissimo dolore mi separo da te. Se mi sarai strappato, non mi resta neanche la consolazione di potermela prendere con chi ha provocato in me una ferita tanto profonda. A portarti via da me, infatti, non saranno i miei avversari, ma gli amici più fedeli, che non si sono mai comportati male verso di me, anzi sempre ottimamente». No, giudici, non mi infliggerete mai un dolore così grande - quale potrebbe essere altrettanto grande? -, ma neppure questo mi induce a non ricordare quanto mi avete sempre stimato. Se ve ne siete dimenticati o magari avete qualche motivo di irritazione nei miei riguardi, perché non ve la prendete con me, anziché con Milone? Sarò vissuto gloriosamente, se mi accadrà qualcosa prima di assistere a un'ingiustizia tanto grande. 100 Al momento, mi sostiene un'unica consolazione: la consapevolezza che non ti sono venuti a mancare, Tiro Annio, il mio affetto, la mia attenzione, la mia riconoscenza. Per te mi sono tirato addosso l'odio di gente potente, per te ho esposto più volte alle armi dei tuoi avversari il mio corpo e la mia vita, per te mi sono gettato supplice ai piedi di moltissime persone, e ho associato alle tue sventure ogni bene e ricchezza miei e dei miei figli. Infine, in questo frangente, se si è predisposto qualche atto di forza e ci sarà da combattere per aver salva la vita, chiedo di questo una parte. Che altro mi resta, ormai? Che altro posso fare in ricompensa dei tuoi benefici verso di me, se non considerare anche mia la sorte, qualunque essa sia, che tra poco ti toccherà? Non la sfuggo, non la rifiuto, e vi prego, giudici, o di accrescere con la salvezza di costui i benefici di cui mi avete colmato, oppure di porvi fine se decreterete per lui la rovina. 66
XXXVII 101 Milone non si lascia commuovere da queste lacrime - è dotato di straordinaria forza d'animo -; crede che dove non c'è posto per la virtù, ivi sia l'esilio; la morte, per lui, è la fine di un ciclo naturale, non un castigo. Mantenga tale carattere con cui è nato. E allora? Ma come vi comporterete voi, giudici? Serberete il ricordo di Milone, ma lo caccerete di qui? E ci sarà un posto sulla faccia della terra più di questo che gli ha dato i natali, degno di ospitare un tale esempio di virtù? Mi appello a voi, sì, a voi, uomini fortissimi, che avete versato il vostro sangue in difesa dello stato; a voi, dico, centurioni, mi appello e a voi soldati, perché qui c'è un cittadino indomabile che corre un grave pericolo! Sarà scacciato, bandito, gettato fuori da questa città un uomo così valoroso, mentre voi non solo guardate, ma anche presidiate armati questo processo? Ah, me misero, me infelice! 102 Tu, Milone, grazie a costoro hai potuto richiamarmi in patria, mentre a me non sarà possibile farti restare, servendomi del loro aiuto? Che risponderò ai miei figli, che ti considerano un secondo padre? E a te, Quinto, fratello mio, che ora sei lontano, ma hai condiviso con me quelle vicende ? Potrò risponderti che non sono riuscito ad assicurare la salvezza a Milone con l'aiuto di quegli stessi uomini che gli hanno consentito di garantire la mia? In che genere di causa ho fallito? In una causa che aveva il sostegno di tutti. E chi è stato a impedire il nostro successo? Soprattutto chi, con la morte di Publio Clodio, ha ritrovato la serenità. E chi è stato a implorare? Io! 103 Quale delitto così grave ho concepito, giudici, o quale così grande scelleratezza ho compiuto, quando mi misi alla ricerca, smascherai, denunciai, neutralizzai i germi della rovina di tutti? Ecco, è stata quella la fonte da cui derivano tutte le sofferenze per me e i miei cari. Perché avete voluto che tornassi? Perché sotto i miei occhi venissero esiliati gli artefici del mio rientro? Vi prego, non permettete che il mio ritorno si trasformi per me in un peso più difficile da sopportare della mia partenza. Come potrei, infatti, credere di essere stato reso alla patria, se vivessi lontano da chi mi ha fatto tornare? XXXVIII Oh, se gli dèi immortali avessero fatto in modo che (con tua pace, patria, mi sia permesso di dirlo; temo, infatti, di parlare in maniera offensiva nei tuoi confronti, parlando con equità in favore di Milone) Publio Clodio non solo vivesse ancora, ma fosse anche pretore, console, dittatore, piuttosto che assistere a uno spettacolo del genere! 104 O dèi immortali, che uomo eccezionale è questo, e quanto degno di essere da voi assolto, giudici! «Assolutamente no» interviene lui; «anzi, è giusto, invece, che Clodio abbia subìto il castigo meritato; noi, se è necessario, subiamo, anche se non ne abbiamo colpa». Vi sembra possibile che un uomo simile, fatto apposta per la patria, debba morire in un qualunque altro luogo che non sia la patria, e, forse, non per la patria? Conserverete il ricordo del suo grande animo e tollererete che non ci sia in Italia un sepolcro per il suo corpo? Ci sarà qualcuno che vorrà scacciare da questa città chi, una volta uscito da qui, sarà conteso da tutte le città? 105 Fortunata quella terra che accoglierà un simile eroe! Ingrata e sventurata, invece, questa nostra patria, se deciderà di allontanarlo e perderlo così per sempre. Ma è giunta la fine; il pianto mi impedisce di parlare, e costui vieta che io lo difenda con le lacrime. Io vi supplico e vi scongiuro, giudici: abbiate il coraggio di esprimere la vostra intima convinzione, quando si tratterà di formulare la sentenza. Credete a me: chi, nella scelta dei giudici, ha preferito uomini molto coraggiosi, saggi e forti, soprattutto saprà apprezzare il valore, il senso di giustizia e la fedeltà che vi contraddistinguono. 67
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DIFESA DELL'ATTORE ROSCIO
I 1 E così quest'uomo, persona tanto squisita e straordinariamente fidata, sta provando a servirsi dei suoi registri, quale testimonianza a suo favore nel processo che è stato intentato. Generalmente sono queste le parole di quelli che hanno sborsato soldi in prestito, passando attraverso i registri di un onest'uomo: «E io avrei mai potuto corrompere un uomo di tal pasta per indurlo a registrare il falso sul suo libro, esclusivamente per il mio interesse?». Mi aspetto solo che da un momento all'altro Cherea se ne venga fuori con le seguenti parole: «Avrei mai avuto la faccia di costringere questa mia mano scellerata ad annotare un nome falso?». Certo che se lui tirerà fuori i suoi registri, farà lo stesso anche Roscio. Nelle scartoffie di quello comparirà il credito verso Roscio, ma niente del genere nei documenti del mio cliente. 2 Perché mai si dovrebbe prestare maggior fede a quello che non a questo? «Ma lui avrebbe messo per iscritto il credito, se non avesse avuto il beneplacito di costui a registrare la somma versata?». Non avrebbe messo nero su bianco quanto lui stesso, per suo esplicito volere, era disposto a sborsare? Infatti, così come è un atto disonesto annotare a proprio credito una somma che non è dovuta, è altrettanto vergognoso non trascrivere il proprio debito. Lo prova il fatto che sono ugualmente soggetti a condanna i registri di chi non ha riportato la verità e quelli di chi ha registrato il falso. Ma ora guarda fino a che punto mi spingo, tanto sono fiducioso nelle mie numerose possibilità di vincere questa causa. Se Caio Fannio tira fuori i suoi papiri, quelli del dare e dell'avere, da lui scritti nel suo interesse in maniera del tutto arbitraria, io non mi oppongo a che lo giudichiate con animo favorevole. 3 Quale fratello è mai stato così accondiscendente con il fratello, quale padre con il figlio, da considerarne valida la testimonianza, qualunque essa fosse stata? Roscio lo confermerà; avanti, mostraci i registri; tutto quello di cui sarai convinto convincerà anche lui, ciò che ti parrà giusto sarà così anche per Roscio. Poco fa chiedevamo di vedere i libri dei conti di Marco Perpenna e Publio Saturio, ora, invece, abbiamo urgenza di consultare solamente i tuoi, Caio Fannio Cherea, e non ci opponiamo a che la lite dia loro ragione; perché, dunque, non li esibisci? 4 Non tiene i registri? No, anzi, lo fa con estrema diligenza. Non trascrive ogni minimo debito in questi suoi libri? Certo, tutte quante le somme. E qui si tratta di una cifretta da niente? Beh, sono centomila sesterzi. Coma fa, allora, a passarti inosservata un'entrata così straordinaria? Sono centomila sesterzi: come possono non esser registrati nel libro dei debiti e dei crediti? In nome degli dèi immortali! Può esistere un uomo tanto sfrontato da avere la faccia di pretendere per sé quel denaro, che, però, evita di trascrivere sul suo registro?! Uno che davanti ad una corte riunita non esita a giurare ciò che non ha voluto annotare sul suo libro, senza che in questo fosse vincolato dal giuramento?! E tenta per di più di convincere gli altri di quanto nemmeno lui è in grado di dimostrare?! II Subito incalza dicendo che me la prendo troppo per questi registri; 5 per forza: ammette di non aver trascritto il debito sul libro del dare e dell'avere, ma poi pretende che tornino quei conti fatti su brogliacci. Certo devi volerti molto bene ed 69
avere un'altissima considerazione di te per esigere la riscossione di un debito che non risulta dai documenti ufficiali, ma dagli scartafacci! Già è un comportamento da presuntuoso leggere ad alta voce il proprio registro, servendosene come testimonianza; ma addirittura esibire un taccuinetto, tutto conti e cancellature, non è semplicemente folle? 6 Se le due cose avessero lo stesso valore e fornissero le medesime garanzie, perché informate secondo uguali principi di attendibilità e precisione, che bisogno ci sarebbe di creare un registro, di compilarlo, di tenerlo in ordine e di conservarlo, anche per i documenti più antichi? Se invece abbiamo deciso di tenere un libro dei conti proprio perché non prestiamo alcuna fiducia ad un brogliaccio qualunque, si vorrà investire di peso e inviolabilità, per di più alla presenza di un giudice, ciò che per opinione comune non ha alcun valore e importanza? 7 Perché mai siamo così disordinati nel prendere i nostri appunti e invece così precisi nel redigere un registro? Quale il motivo? Perché quelli valgono un mese, questi una vita; i primi, poi, si cancellano subito, i secondi, invece, vanno religiosamente conservati, perché gli uni testimoniano il lavoro di poco, gli altri contemplano un'attività scrupolosa e attendibile, frutto di un'esistenza da sempre onorata e rispettabile; si tratta, infatti, di documenti stilati secondo un ordine ben preciso, mentre questi non sono altro che appunti sparpagliati. Ecco perché nessuno si è mai sognato di presentarli in tribunale, preferendo, invece, esibire i registri e leggerli ad alta voce. III Tu stesso, Caio Pisone, investito di grande autorità e degno di ogni stima per onestà e valore, non oseresti esigere del denaro, avvalendoti del tuo brogliaccio dei conti. 8 Non c'è bisogno che io insista troppo a lungo su quanto è comunemente noto a tutti; piuttosto voglio avanzare una domanda, che riguarda strettamente l'argomento: da quanto tempo hai trascritto questo debito sul tuo taccuino degli appunti, Fannio? Sta arrossendo, non sa che rispondere, non ha niente da inventare sul momento. Poniamo l'ipotesi che tu dica che sono ormai due mesi: in questo caso si sarebbe già dovuto trascrivere sul libro dei conti. Ma i mesi potrebbero essere più di sei. Perché, allora, il nome in questione resta tanto a lungo trascurato nel tuo brogliaccio? E se, alla fine, fossero addirittura più di tre anni? Come si spiega che, mentre tutti quelli che tengono un registro si affannano a trasferirvi sopra i conti quasi mese per mese, tu, invece, non ti preoccupi di lasciarlo in brutta copia per tutto questo tempo? 9 Li hai o non li hai gli altri nomi ben ordinati sul tuo libro dei conti? Se la risposta è no, mi spieghi con che criterio organizzi i tuoi registri? Ma se anche mi dici di sì, perché, allora, quando trascrivevi di seguito tutti gli altri debiti, non ricopiavi questo, certamente tra i più consistenti, abbandonato da oltre tre anni nei tuoi appunti? Forse non volevi che si sapesse in giro che Roscio ti era debitore; perché scriverlo, allora? O magari ti era stato chiesto di non farlo; nel caso, come mai lo avevi ugualmente annotato, anche se in brutta copia? Comunque, pur essendo certo di come si siano svolte le cose, non mi posso ancora ritenere del tutto soddisfatto, almeno finché non riesco a strappare dalla bocca di Caio Fannio la testimonianza che non gli è dovuto alcun denaro. È un'impresa grande quella che tento, difficile l'impegno che assumo; ma io voglio che Roscio esca vincitore solo se al tempo stesso avrà fatto dell'accusatore il suo testimone. IV 10 Ti era dovuta una somma ben determinata, quella di cui si fa ora richiesta alla presenza di un giudice, e per la quale le parti, come vuole la legge, si sono impegnate reciprocamente circa le spese da sostenere in caso di giudizio negativo. Se tu qui hai domandato un solo sesterzio in più di quello che ti è dovuto, 70
hai già perso la causa: infatti, una cosa è il giudizio, un'altra l'arbitrato. Il giudizio si fonda su una cifra stabilita, l'arbitrato no; in giudizio, poi, ci si presenta con lo stato d'animo o di vincere o di perdere completamente la causa; invece, si affronta un arbitrato nella convinzione di ottenere certo qualcosa, ma non tanto quanto ci si era proposti. 11 Sono le parole stesse contenute nella formula a testimoniarcelo. Che c'è nell'istanza sottoposta a giudizio? Termini diretti, inflessibili, assoluti: «se risulta che sono dovuti cinquantamila sesterzi». In un caso del genere, se uno non riesce a dimostrare che gli spettano quei cinquantamila sesterzi fino all'ultimo soldo, perde la causa. E in un arbitrato che cosa c'è? Un che di rilassato, di accomodante: «che si conceda quanto è più giusto e più vantaggioso». Il querelante ammette di avanzare una richiesta superiore al dovuto, ma sostiene che gli basterà, anzi sarà anche troppo ciò che il giudice vorrà accordargli. E così uno ha piena fiducia nella causa, l'altro ne diffida. 12 Stando così le cose, ti domando perché mai hai fatto un compromesso a proposito di questo denaro, di questi benedetti cinquantamila sesterzi, dell'attendibilità dei tuoi registri, e hai preteso l'intervento di un arbitro, chiedendo appunto «quanto di più giusto e di più vantaggioso ti si voglia concedere e promettere, se la ragione sta dalla tua parte». Chi è stato arbitro di questa situazione? Magari fosse uno di Roma! Ma è di Roma. Che fortuna se fosse presente in tribunale! Sì, è qui tra noi. Oh, se se ne stesse seduto in quel gruppetto presieduto da Caio Pisone! È lui, è proprio Caio Pisone. E tu hai scelto la stessa persona, perché ti fosse prima arbitro e poi giudice? Hai permesso al medesimo cittadino di agire a sua totale discrezione e poi lo hai vincolato ad una procedura giuridica così rigidamente strutturata? Chi è mai riuscito a strappare ad un arbitro l'esatta cifra da lui proposta? Nessuno; infatti, la richiesta era sempre la stessa, che gli venisse cioè accordato quanto fosse più giusto. Tu ti sei rivolto prima ad un arbitro e poi a un giudice sempre per lo stesso credito! 13 Di norma, quando ci si accorge che le possibilità di vincere una causa in presenza di un giudice cominciano a vacillare, si cerca scampo in un arbitro; costui, invece, ha avuto il coraggio di fare esattamente il contrario, di passare cioè da un arbitro a un giudice! Ma una mossa del genere, l'avere scelto un arbitro che desse credito ai registri e al denaro richiesto, ha pregiudicato la situazione, dimostrando che non gli si doveva proprio un bel niente. E con questo due terzi della causa son risolti; costui sostiene di non aver pagato in contanti, ma al tempo stesso, visto che si rifiuta di leggere i suoi documenti ufficiali, non attesta neanche di aver registrato la somma. Gli resta solo da dire che ha fatto una stipulazione; non vedo, infatti, per lui altra possibilità per poter avanzare richiesta di una somma di denaro ben determinata. V 14 Bene, la stipulazione l'hai fatta - dove, però? Quali il giorno e la circostanza? Chi c'era presente? C'è qualcuno disposto a dire che io ne debba rispondere? Nessuno. A questo punto, se io ponessi fine al mio discorso, salterebbe agli occhi che ho dato soddisfacente prova di buon senso e di scrupolosità, occupandomi egregiamente della causa e della controversia che l'ha generata, della formula, della multa da pagare in caso di sconfitta, persino del giudice, perché il suo verdetto sia necessariamente favorevole a Roscio. È stata richiesta una somma di denaro ben precisa, la cui terza parte è quanto deve versare chi perde. Ne consegue necessariamente che questi soldi o li si è pagati in contanti o li si è registrati come debito o li si è stipulati. Fannio asserisce che nessuno gli ha dato niente, i suoi libri dei conti confermano che la cifra non è stata trascritta, il silenzio dei testimoni fa logicamente supporre l'inesistenza di una stipulazione. Come si spiega, allora, la 71
faccenda? 15 Ora, visto che il qui convenuto Roscio è uno di quelli a cui non è mai importato nulla dei soldi, ma si è sempre preoccupato di godere di ottima reputazione; che, a proposito del giudice, noi vorremmo tanto ci stimasse con benevolenza non meno che si esprimesse con parere a noi favorevole; e per ultimo, che l'uditorio è tale da meritare tutta la nostra riverenza, quasi fosse un giudice, tanto è nobile e dignitoso, discuteremo la causa come se in questa formula fossero racchiusi e compresi tutti i possibili casi regolamentati da una legge, tutte le decisioni dell'arbitro scelto dalle parti, tutti i doveri della vita privata. Prima ho tenuto banco perché così esige il mio lavoro, ora invece mi esprimerò in tutta libertà, rivolgendomi non più, come in precedenza, al giudice, ma a Caio Pisone e prenderò le difese non dell'imputato, ma dell'amico Roscio: fino a poco fa mi interessava vincere, adesso il mio unico scopo sarà salvare la buona reputazione del mio cliente. VI 16 Tu, Fannio, chiedi a Roscio dei soldi. Ma che genere di soldi? Rispondi pure con la massima sincerità. È denaro che ti si deve secondo un accordo ben preciso o ti è stato promesso e poi offerto quale gesto di grande generosità? Perché di queste due situazioni una è alquanto grave e anche un po' antipatica, l'altra già più sopportabile e semplice da risolversi. Ti spettano, dunque, dei soldi per via della vostra società? Che dici? Sai, in un caso del genere non c'è mica tanto da scherzare né si può argomentare la difesa con due parolette raffazzonate. Se è vero che esistono cause private estremamente delicate, dove in gioco c'è non solo la faccia, ma direi quasi la vita, è bene ricordare che tali cause sono tre: di fiducia, di tutela, di società. Infatti, viene considerato ugualmente sleale, addirittura empio, tradire la fiducia, che è poi ciò che dà senso alla vita, o frodare il pupillo sotto nostra tutela, o truffare il socio che si è unito a noi in affari. 17 Ad ogni modo, comunque stiano le cose, noi ci limiteremo a giudicare chi dei due si è preso gioco dell'altro e lo ha ingannato; sarà così la disamina del comportamento delle due parti in causa ad offrirci indirettamente una testimonianza sicura e decisiva. Tu pensi che la responsabilità sia di Quinto Roscio? Ma cosa dici? Non credi piuttosto che, come il fuoco si spegne immediatamente a contatto con l'acqua e perde il suo vigore, allo stesso modo ha davvero vita breve una bruciante calunnia scagliata contro un'esistenza trascorsa in assoluta onestà? Roscio che ha ingannato il socio! Ma come può una colpa tanto grave far presa su un uomo del genere? Per Giove! Uno che - e lo dico senza difficoltà - possiede in sé un'onestà innata, superiore alla sua arte, amante com'è della verità più che del suo mestiere; uno che il popolo Romano considera migliore come uomo che come attore e che in virtù del lavoro che fa è così adatto a calcare la scena che potrebbe con altrettanta dignità far parte del senato per il suo totale disinteresse. 18 Ma perché sto qui a parlare di Roscio alla presenza di Pisone, facendo la figura dello sciocco? Sembra che mi stia affannando a cercar parole per descrivere l'identità di uno sconosciuto. Esiste sulla faccia della terra un solo uomo che tu apprezzi di più? C'è qualcuno che ti sembra rappresentare meglio l'onestà, la modestia, un'indole mite, un radicato senso del dovere e una grande umanità? Che c'è, Saturio? La pensi diversamente, tu che pure esprimi opinioni contrarie all'imputato? Perché non pensi che ogniqualvolta, nel corso della causa, ti è capitato di pronunciare il suo nome, lo hai costantemente definito una brava persona e lo hai trattato con particolare riguardo? Eppure, nessuno di solito fa altrettanto, a meno che non si tratti di un uomo davvero superiore o di un amico sincero. 19 Comportandoti così, ti sei fatto ridere dietro e mi sei sembrato un po' indeciso, tu che gli hai rivolto parole d'offesa e poi lo hai sommerso di complimenti, 72
definendolo al tempo stesso uomo dabbene e pezzo da galera. Come potevi rivolgerti a lui con tanto rispetto e chiamarlo primo fra tutti i cittadini, accusandolo contemporaneamente di avere imbrogliato il socio in affari? Credo piuttosto che le lodi che gli hai tessuto trovino una giustificazione nel semplice rispetto della verità, mentre puntando il dito contro di lui cercavi soltanto un po' di pubblicità; a proposito dell'imputato avresti, quindi, semplicemente espresso il tuo parere, ma saresti stato costretto dal volere di Cherea a perorare la sua causa. VII Roscio colpevole di frode! Suona come una cosa inconcepibile agli orecchi e agli animi di tutti. E se fosse incappato in un uomo ricco sì, ma pauroso, debole, un po' svanito e incapace di chiedere l'aiuto della legge? Beh, la vicenda avrebbe ancora dell'incredibile. 20 Cerchiamo comunque di capire chi Roscio avrebbe ingannato. Cosa? Caio Fannio Cherea? Mi rivolgo a voi che li conoscete bene e vi prego con tutta l'anima di mettere a confronto la vita dell'uno e dell'altro; chi invece non li ha mai visti li guardi dritto in faccia. Non sembra forse anche a voi che quelle sopracciglia completamente rase tradiscano la sua malizia e rivelino quanto è scaltro? Se è vero che guardando l'aspetto fisico di una persona ci si può già fare un'idea del carattere, senza bisogno di parole, costui non vi dà l'impressione di essere tutto, dalla testa ai piedi, un essere ingannevole, bugiardo, estremamente furbo? Va sempre in giro con capo e sopracciglia tagliate a zero, perché non si possa dire che ha anche un solo pelo in comune con chi è onesto; e di un personaggio del genere Roscio ha sempre offerto una magistrale interpretazione sulla scena, mentre ora non sembra proprio che gli si stia ricambiando il favore con altrettanta cortesia. Quando, infatti, riveste i panni di Ballione, gran delinquente e bugiardo d'un ruffiano, fa il verso a Cherea; quella maschera abietta, odiosa e corrotta è la copia perfetta dell'indole, dei costumi, del modo di vivere dell'uomo qui presente. Non riesco quasi a spiegarmi per quale motivo costui abbia potuto stimare Roscio simile a sé in astuzia e in inganno: l'unica spiegazione plausibile è che si sia reso conto della sua estrema abilità nell'imitarlo a teatro sotto le spoglie di un lenone. 21 Quindi, Caio Pisone, valuta con attenzione da chi e contro chi è stata rivolta l'accusa di avere frodato il compagno. Roscio che ha ingannato Fannio! Ma che storia è questa? Come può chi è onesto, costumato, leale, privo di esperienza e generoso, nuocere in qualche modo a un disonesto, a uno senza vergogna, a uno spergiuro, a un furbastro, a un tirchio? È inaudito. Se si affermasse che è stato Fannio a truffare Roscio, considerando la loro personalità, la cosa sembrerebbe verosimile per entrambe le parti: Fannio, cioè, avrebbe agito spinto dalla sua malvagità, mentre Roscio si sarebbe lasciato ingannare per inesperienza; analogamente, quando si lancia contro Roscio l'accusa di avere turlupinato Fannio, ci si rende conto che ciò non può essere vero in tutti e due i casi: né che Roscio abbia messo le mani sul denaro per avidità, né che Fannio lo abbia perso perché troppo buono d'animo. VIII E questo è solo l'inizio; occupiamoci ora del resto. 22 Quinto Roscio avrebbe frodato Fannio della somma di cinquantamila sesterzi. Il motivo? Saturio, che si crede una vecchia volpe, ride sotto i baffi; per lui sono proprio questi benedetti cinquantamila sesterzi la causa. Capisco; ciononostante domando perché avrebbe dovuto desiderare tanto ardentemente tutto questo denaro; sono infatti certo che per uomini come te, Marco Perpenna, o te, Caio Pisone, i soldi non avrebbero mai assunto un'importanza tale da indurvi ad ingannare il socio. Esigo, quindi, conoscere il motivo per cui Roscio avrebbe dato alla somma un valore tanto grande. Seri problemi economici? No, anzi, era ricco sfondato. Qualche debito, allora? Al 73
contrario, se la passava bene con i suoi soldi. Forse era avaro! Niente affatto: anche prima di diventare ricco, si distinse sempre per la sua estrema generosità. 23 Mi siano testimoni gli dèi e gli uomini! Un uomo che ha rifiutato affari da centocinquantamila sesterzi - e ne avrebbe tranquillamente avuto la possibilità, direi quasi il dovere, se Dionisia ne riesce a guadagnare duecentomila -, può aver desiderato tanto quei cinquantamila sesterzi al punto da ordire un inganno, frutto della sua malizia e della sua perfidia? Nel primo caso, poi, si trattava di una cifra da capogiro: questa, al confronto, fa ridere; là erano soldi puliti, soldi che gli garantivano benessere e che erano sicuramente suoi: qua invece si parla di denaro sporco, una preoccupazione, legato com'è alle sorti del processo. In questi ultimi dieci anni avrebbe potuto guadagnare onestamente sei milioni di sesterzi; ma non ha voluto. Ha faticato come si fatica quando si vogliono guadagnare tutti quei soldi, ma ha rifiutato il compenso di tanto sforzo; fino ad oggi non ha smesso un solo attimo di servire il popolo romano, ma già da lungo tempo non lo fa più con se stesso. 24 E tu, Fannio, faresti mai una cosa del genere? Se ti si offrisse la possibilità di intascare tanto denaro, non metteresti in gioco le tue capacità di attore e, al tempo stesso, persino la tua vita? Prova a dire ora che sei stato imbrogliato per cinquantamila sesterzi da Roscio, che ha sempre rifiutato guadagni altissimi, incommensurabili, non perché gli mancasse la voglia di lavorare, ma per puro disinteresse! Per quale motivo dovrei ora aggiungere ciò che vi sta venendo in mente, ne sono certo? Roscio ti truffava mentre eravate in società! Esistono leggi, esistono formule stabilite caso per caso per evitare che ci si possa sbagliare nel definire l'ingiustizia subita o nello scegliere il tipo di procedura. Il pretore, infatti, considerando la triste condizione di chi soffre un danno, il suo disagio, la sfortuna che lo colpisce per il torto patito, ha redatto alcune regole, rese pubbliche, a cui si conforma la controversia tra privati. IX 25 E allora, visto che le cose stanno così, ti domando perché mai tu non abbia citato Quinto Roscio davanti all'arbitro per discutere della vostra società. Ignoravi l'esistenza della formula? Eppure era arcinota. Non volevi affrontare una causa dai risvolti delicati e dalle conseguenze tanto gravi? Come mai? In nome dell'antica amicizia? Ma dunque perché lo offendi? Perché ti irrita un uomo tanto disinteressato? E ancora, perché lo accusi? Perché ne ha combinata una davvero grossa? È sul serio così? Com'è che vuoi condannarlo tramite l'intervento di un giudice che non ha alcun potere discrezionale al proposito, quando non ci riuscivi neanche con un arbitro, che non può possedere un vero e proprio metro di giudizio sul fatto in questione? Piuttosto, muovi questa accusa dove ti è consentito farlo, e non insistere nel luogo meno opportuno. Anzi, è proprio questo tuo comportamento a testimoniare che non esiste capo d'imputazione. Infatti, nel momento stesso in cui ti sei rifiutato di servirti della formula specifica, hai scagionato Roscio dall'accusa di averti frodato mentre eravate soci. Avanti, parla: li hai questi registri o no? Se non li hai, come puoi chiamarlo contratto? Ma in caso contrario, perché non li nomini? 26 Prova un po' a dire ora che Roscio ti ha chiesto di scegliere come arbitro un suo amico! No, non lo ha fatto. Di', allora, che per essere prosciolto ha stretto con te un patto! No, non ha stipulato un bel niente. Sai perché lo hanno assolto? Perché era un uomo onestissimo e disinteressato. Cosa è successo in realtà? Ti sei recato spontaneamente a casa di Roscio e gli hai fatto le tue scuse; quindi lo hai pregato di perdonarti per avere agito in maniera sconsiderata, denunciandolo alla presenza del giudice; hai detto che non ti saresti presentato e che avresti addirittura gridato che, secondo gli accordi presi in società, non ti doveva nulla. Roscio ha riferito la cosa al 74
giudice e ne è uscito assolto. Tu, però, osi ancora parlare di frode e di furto? Quanto a sfacciataggine sei veramente un campione. «Certo», aggiunge, «era sceso a patti con me». Evidentemente per non essere condannato. E quale era il motivo che lo avrebbe spinto a temere ciò? «La situazione era palese, si trattava chiaramente di furto». 27 Sì, ma che cosa era stato rubato? Dopo averci tenuto con il fiato sospeso in trepida attesa, con arte consumata da vecchio istrione, inizia a parlarci della società. X «Panurgo», esordisce, «apparteneva a Fannio, che a un certo punto se lo spartì con Roscio». Il fatto ha suscitato gravi lamentele da parte del qui presente Saturio, il quale rimarcava che Roscio ne era diventato comproprietario senza versare un soldo, mentre Fannio se lo era comprato a caro prezzo. Sicuramente Fannio, rispettando la sua natura generosa, altruista, tutta bontà ha voluto fare un regalo a Roscio. Io ne sono convinto. 28 Visto che a questo punto il mio avversario si è preso un attimo di pausa, anche per me diventa necessario fare altrettanto. Tu, Saturio, insisti nel dire che Panurgo era di Fannio. Io, invece, ti rispondo che apparteneva tutto a Roscio. Che parte di lui, infatti, poteva definirsi proprietà di Fannio? Il corpo. E a Roscio cosa toccava? La formazione artistica. Ma qui non era importante l'aspetto fisico, bensì la sua arte nel recitare, e questa, che costituiva patrimonio di Roscio, valeva più di centocinquantamila sesterzi, mentre la parte che spettava a Fannio non ammontava nemmeno a mille sesterzi; nessuno, infatti, lo considerava per la prestanza fisica, ma lo si stimava per le sue spiccate capacità drammatiche; se fosse stato per il suo corpo, non avrebbe potuto guadagnare più di dodici assi, ma grazie agli insegnamenti impartitigli dal mio cliente trovava lavoro a non meno di centocinquantamila sesterzi. 29 Che genere di società indegna e fraudolenta, dove c'è chi apporta mille e chi centocinquantamila nella cassa comune! A meno che, per questo motivo, non ti procuri un certo fastidio aver dovuto sborsare dalla saccoccia mille sesterzi, mentre Roscio ne guadagnava ben centocinquantamila grazie alla sua scuola e alla professione di quello. Che attesa, che curiosità, quale desiderio e quanta simpatia portò con sé in scena Panurgo, solo per avere avuto Roscio come guida! Chi amava il maestro guardava al suo discepolo con benevolenza, chi ammirava l'uno apprezzava l'altro, chi, infine, aveva anche solo sentito nominare il nome di Roscio, reputava Panurgo un giovane estremamente preparato. Così è il volgo: di rado fonda il suo giudizio sull'osservazione del dato reale, basandosi piuttosto sull'opinione comune. 30 Erano davvero pochi quelli che sapevano distinguere le sue reali conoscenze, tutti, però, si preoccupavano di conoscere il nome della scuola a cui aveva appreso; non ammettevano, infatti, che da uno bravo come Roscio potesse venir fuori un attore scarso e di infime capacità. Se fosse uscito dalla scuola di Statilio e se anche si fosse rivelato più bravo dello stesso Roscio, non avrebbe avuto alcun successo di pubblico; nessuno, infatti, penserebbe mai che da un pessimo istrione possa derivare un buon professionista, così come da un padre degenere non può proprio nascere un figlio onesto. E per il fatto che era allievo di Roscio, dava l'impressione di conoscere ancora più cose di quelle che in realtà sapeva. XI Una situazione del genere si è verificata qualche tempo fa con il comico Erote; scacciato dalla scena a suon di fischi e di pesanti offese, cercò rifugio, quasi fosse un altare, nella casa di Roscio, appellandosi al suo insegnamento, alla sua protezione, al suo nome: e così, in men che non si dica, chi nemmeno era degno di stare con istrioni da strapazzo, fu annoverato tra gli attori più celebri e importanti. 31 Che cosa provocò questo improvviso cambiamento? Una semplice parola di raccomandazione da parte 75
di Roscio; e così, alla fin fine, non solo si prese in casa il nostro Panurgo perché si dicesse che era stato un suo allievo, ma anche gli insegnò un mestiere che gli costò un impegno non indifferente, sia fisico che mentale. Infatti, quanto più qualcuno è brillante e pieno di talento, tanto più si spazientisce di niente e fa una gran fatica nell'insegnare, perché lo irrita e lo tormenta vedere che il suo allievo è lento nell'apprendere quanto lui stesso aveva capito in un batter d'occhio. Ho tirato un po' più per le lunghe il mio discorso proprio perché poteste avere ben chiara la natura di questa società. 32 E dopo cos'è successo? «Panurgo, lo schiavo che avevamo in comune, è stato ucciso da uno, un tal Quinto Flavio di Tarquinia. Nella causa che ne è seguita», continua, «mi hai scelto come tuo rappresentante. Ma una volta avviato il processo e stabilita la sanzione di risarcimento al danno, te la sei vista con Flavio, senza più interpellarmi». Ma mi sono accordato per la mia metà o per il valore intero della cosa? Voglio essere ancora più esplicito: ho agito nell'interesse comune o esclusivamente nel mio? Nel mio e basta, ma mi sono basato sull'esempio di molti; è una procedura lecita; una quantità di persone l'ha già fatto e ha avuto la ragione dalla sua parte; comportandomi così, non ti ho fatto alcun torto. Reclama pure la tua parte, esigi il dovuto e portatelo via; è giusto che ciascuno rivendichi il suo e faccia il possibile per ottenerlo. «Non per nulla te li sei gestiti bene i tuoi affari». E tu prova a fare altrettanto. «Per quella tua metà hai stabilito un accordo economicamente molto vantaggioso». Avanza anche tu una pari richiesta. «Ne hai portati via, di sesterzi, a Quinto». E va bene: portagliene via anche tu. XII 33 Comunque, per quanto adesso sembri da questo discorso e dall'opinione comune che la transazione operata da Roscio sia qualcosa di eccezionale, vi renderete presto conto che nella realtà dei fatti è stata ben poca cosa. Gli toccò, infatti, un podere in pieno periodo di inflazione, quando cioè il prezzo dei beni immobili era sceso notevolmente; quella tenuta, poi, non comprendeva neppure una abitazione: anzi, non era neanche coltivata; oggi vale molto di più di quel che valeva allora. Ma non c'è da meravigliarsi. In quel periodo, infatti, a causa della crisi politica, i possedimenti di ciascuno erano in forse, mentre adesso - e ringraziamo la benevolenza degli dèi immortali - possiamo star tranquilli circa le ricchezze di noi tutti; su quel terreno non cresceva neanche un filo d'erba, non c'era nemmeno una cascina, ora è curato come un giardino e c'è una fattoria che è uno splendore. 34 Tuttavia, visto che sei tanto cattivo d'animo, non potrò certo liberarti da questo pensiero fisso che ti fa star male. D'accordo, Roscio ha fatto un affarone e ne ha ricavato un appezzamento che è una vera miniera d'oro; ma a te che importa? Cerca di concordare la metà che ti spetta nel modo che più ti aggrada. No, lui preferisce spostare il problema, nel tentativo di inventare ciò che non può dimostrare. «Ti sei fatto risarcire per l'intero valore della cosa», dice Fannio tra i denti. Ecco a cosa si riduce l'intera causa: stabilire se Roscio ha preso accordi con Flavio solo per la sua parte o per tutta quanta la società. 35 Io riconosco che se Roscio è entrato in possesso di qualcosa in nome appunto della società, deve restituirlo alla società stessa. Si dice che, accettando quel terreno da Flavio, ha messo fine ad una lite non sua propria, ma comune a due persone. Perché allora non ha dato garanzia che nessuno avrebbe più richiesto un solo asse? Chi, infatti, scende a patti solo per la propria parte, lascia agli altri il pieno diritto di perseguire giuridicamente l'imputato; ma se uno transige a nome dei suoi soci, si fa garante che nessuno di loro vada in seguito a reclamare. Come mai, allora, non è venuto in 76
mente a Flavio di farsi dare cauzione? Evidentemente non sapeva che Panurgo era spartito in società tra due persone. Invece lo sapeva. Allora era all'oscuro del fatto che Fannio fosse socio di Roscio. - No, ne era al corrente perché era stato proprio Fannio a intentare una lite contro di lui. 36 Perché, dunque, stringe un accordo e non stipula che non ci saranno rivendicazioni di sorta da parte dei soci di Roscio? Perché rinuncia al suo podere senza preoccuparsi di uscire assolto dalla lite in corso? Perché compie l'errore madornale di non vincolare Roscio con un contratto e di non liberarsi della presenza di Fannio con il processo in questione? 37 Ecco la mia prima prova, la più certa e la più autorevole, se si considera la natura della controversia e la procedura giuridica che sottende una cauzione; e vi spenderei volentieri più di due parole se non avessi altri argomenti ancora più convincenti e di maggiore effetto per vincere la causa. XIII E perché tu non dica in giro che ho promesso a vanvera, farò alzare te, sì proprio te, Fannio, dal tuo sgabelletto e ti indurrò a testimoniare contro te stesso. Quale è la tua accusa? Che Roscio si è accordato con Flavio per conto della società. Quando? Quindici anni fa. La mia difesa che cosa dice? Che Roscio ha concluso la transazione con Flavio solo per la sua parte. Sono già tre anni che hai fatto a Roscio una promessa. Quale? Ripetine bene il contenuto a voce alta. Stai attento, Pisone, te ne prego; sto per costringere a deporre contro se stesso un Fannio recalcitrante, che cerca scappatoie in tutti i sensi. Allora, che cosa dice questo patto? «Prometto solennemente di pagare a Roscio la metà di ciò che otterrò da Flavio». Sono parole tue, Fannio. 38 Ma che puoi pretendere da Flavio, se Flavio non ti deve nulla? Come è possibile che Roscio si faccia promettere ora ciò che sempre lui ha già ottenuto qualche tempo fa? Perché mai, poi, Flavio ti dovrebbe dei soldi, visto che ha già saldato il suo debito con Roscio? Per quale motivo salta fuori questo nuovo accordo quando si ha a che fare con una storia tanto vecchia, con un problema ormai risolto, con una società che si è sciolta? Chi ha stilato questo patto reciproco e se ne è fatto testimone e arbitro? Tu, Pisone; sei stato proprio tu a pregare Quinto Roscio che per tutto l'impegno e la fatica compiuta da Fannio, che si era fatto garante ed era comparso in giudizio, gli desse centomila sesterzi, ma a una condizione: se mai avesse ottenuto qualcosa da Flavio, ne avrebbe dovuto lasciare a Roscio l'esatta metà. Non ti sembra parlar chiaro questa stipulazione e confermare che Roscio era sì sceso a patti, ma solo per sé? 39 Può darsi che ti torni alla memoria un piccolo particolare e cioè che Fannio si era legato a Roscio con la promessa di fare a metà della somma ricavata da Flavio: peccato, però, che non gli avanzò nessuna richiesta. E con questo? Ti devi preoccupare della promessa in sé, non dell'eventuale risultato positivo della riscossione. Se anche avesse deciso di non insistere a inseguire quei soldi - e avrebbe potuto farlo, perché dipendeva solo da lui -, non avrebbe però negato che Roscio aveva risolto un problema suo e non della società. Che cosa si potrà aggiungere se ora finalmente vi dimostro che, dopo il vecchio accordo di Roscio e questo più recente di Fannio, il nostro amico si è intascato centomila sesterzi da Quinto Flavio, adducendo come scusa Panurgo? Tu credi, Quinto Roscio, che, nonostante tutto, Fannio avrà il coraggio di continuare a prendersi gioco della reputazione di un uomo perbene? XIV 40 Poco fa mi sono posto una domanda molto pertinente all'intera vicenda: mi sono chiesto, cioè, perché mai Flavio, pur risolvendo la controversia con un accordo, non ha preteso da Roscio una cauzione né ha cercato l'assoluzione da parte di Fannio nel corso del processo; ciò che intendo ora sapere riguarda un aspetto di questa storia che ha dell'assurdo, dell'incredibile: 77
come si spiega che Flavio avrebbe versato a Fannio in via del tutto privata centomila sesterzi, pur essendo sceso a patti con Roscio per l'intera faccenda? A questo proposito vorrei proprio sapere che cosa ti prepari a rispondere, Saturio: forse che non è vero che Fannio ha ricevuto da Flavio centomila sesterzi o che magari lo ha fatto, ma per un motivo diverso da questo, addirittura chissà in nome di cosa. 41 Se la causa è un'altra, che genere di rapporto ti aveva mai legato a lui? Nessuno. Forse Flavio ti era stato consegnato per via del suo delitto? No. E allora è inutile, sto perdendo il mio tempo. «Ma Fannio non ha mai ricevuto centomila sesterzi da Flavio, né a nome di Panurgo né di chiunque altro», risponde Saturio. Se ora io riesco a dimostrare che dopo questo ultimo accordo di Roscio tu hai intascato quei centomila sesterzi da Flavio, sussisterà ancora qualche motivo per cui tu non debba uscirtene da questo tribunale coperto di vergogna? 42 Di quale testimonianza mi servirò per raggiungere il mio scopo? La faccenda era già finita in tribunale, almeno credo. Sì, ne sono certo. Chi era l'attore? Fannio. E l'imputato? Flavio. Chi faceva da giudice? Cluvio. Fra questi ce n'è uno soltanto che sono obbligato a chiamare in aiuto, perché è l'unico che può testimoniare che la somma è stata pagata. Chi sarà il mio uomo decisivo? Senza dubbio quello investito all'unanimità del potere di giudice. Tu chi ti aspetti che sia tra questi tre il mio testimone? L'attore? Ma si tratta di Fannio; non deporrà mai contro se stesso. Allora l'accusato! Peccato che Flavio sia morto già da un pezzo; altrimenti, se fosse vivo, ne ascoltereste le parole. Il giudice? Sì, Cluvio. Cosa dice? Conferma che Flavio ha versato a Fannio centomila sesterzi in nome di Panurgo. Ora, se tu vuoi giudicare Cluvio in base al censo, sappi che è un cavaliere romano; se lo vuoi fare fondandoti sulla sua condotta di vita, essa è del tutto trasparente e il credito di cui gode ha fatto sì che tu lo scegliessi come giudice; la sincerità, poi, è il suo forte perché ha detto tutto quello che poteva e doveva sapere. 43 Coraggio, prova un po'_ora a sostenere che non bisogna prestar fede a quell'onesto cavaliere romano che ti ha fatto da giudice! Si guarda nervosamente intorno, è agitato, annaspa nel dire che non possiamo produrre la testimonianza di Cluvio. Invece noi lo faremo. Ti sbagli di grosso; ti stai crogiolando in una vuota e debole speranza. Su, leggi le parole di Tito Manilio e di Caio Luscio Ocrea, due senatori tra i più stimati, che hanno ascoltato con le loro orecchie quanto Cluvio avesse da dire. [Testimonianza di Tito Manilio e Caio Luscio Ocrea.] Tu sostieni che non si deve credere a Luscio e a Manilio, né tantomeno a Cluvio? Per dirtela in modo più esplicito e diretto: XV secondo te, a proposito dei centomila sesterzi, Luscio e Manilio non avrebbero udito una sola parola dalla bocca di Cluvio, o Cluvio li avrebbe ingannati dichiarando il falso? A questo punto mi sento tranquillo, non ho il minimo dubbio, e non mi preoccupo più di tanto dove vada a parare la tua risposta; la causa di Roscio, infatti, è resa ancor più solida da testimonianze attendibilissime e puntuali di uomini moralmente integerrimi. 44 Se hai già deciso a quali persone togliere il credito che comporta un giuramento, rispondi. Pensi davvero che non si debba credere a Manilio e a Luscio? Parla, abbi un po' di coraggio; dà voce alla tua alterigia, alla tua arroganza e a tutto il tuo modo di vivere. Perché aspettare quando, tra pochissimo, farò notare che Luscio e Manilio appartengono all'ordine senatorio, hanno da tempo raggiunta l'età matura, sono scrupolosi ed onesti di carattere, provengono da famiglie benestanti e sanno amministrare le loro fortune? Non lo farò; non mi abbasserò a tanto, concedendo loro il frutto più che meritato di una vita trascorsa con rigore e serietà. È la mia giovinezza che ha bisogno della loro stima, molto più di quanto la loro austera vecchiaia senta la mancanza delle mie parole 78
d'encomio. 45 Piuttosto, s'impone che tu, Pisone, rifletta a lungo e con ponderazione se prestar fede a Cherea, che non ha voluto vincolarsi ad un giuramento benché avesse intentato lui la lite, o a Manilio e a Luscio, che invece hanno giurato pur trattandosi di una causa altrui. Ci manca solo che si metta a sostenere che Cluvio abbia dichiarato il falso a Luscio e a Manilio. Ma se lo fa, tocca veramente il fondo della sua spudoratezza: come potrà non prestar fede a quel testimone che, in altra occasione, ha ben gradito come giudice? Avrà il coraggio di negare che gli si deve credere? Ma se lui stesso gli ha creduto un tempo!? E poi, davanti al giudice, metterà in dubbio la fede delle sue parole? Ma se è proprio grazie alla fiducia e alla scrupolosità che lo contraddistinsero a capo del tribunale che Fannio gli presentò i suoi testimoni! Avrà, quindi, il coraggio di non accettare se adesso io produco come teste chi, nei panni di giudice, non potrebbe rifiutare? XVI 46 E ancora Fannio controbatte: «D'accordo, ma quando si confidò con Luscio e con Manilio non era sotto il vincolo del giuramento». Perché, se lo fosse stato gli crederesti? Che differenza c'è tra uno spergiuro e un bugiardo? Chi di solito ha la bugia facile, non si fa problemi a dichiarare il falso. Un uomo che posso indurre a mentire, non ci metterò molto a convincerlo a fare altrettanto, anche se sotto giuramento. Basta scostarsi una sola volta dalla verità e poi diventa un'abitudine lasciarsi persuadere allo spergiuro, senza neanche provare uno scrupolo maggiore che a raccontare una bugia. C'è qualcuno che si preoccupa della maledizione divina invocata contro se stesso e non della lealtà della propria coscienza? È per questo motivo che gli dèi immortali hanno stabilito la medesima punizione sia per lo spergiuro, sia per il bugiardo; non è, infatti, di solito il carattere legale che permea il giuramento ad accendere d'ira i numi celesti, ma la perfidia e la malizia con cui si tenta di ingannare gli altri, tendendo loro insidie. 47 Io, invece, vedo le cose da un punto di vista opposto e sostengo che l'autorevolezza delle parole di Cluvio potrebbe eventualmente essere messa in discussione più se Cluvio avesse deposto sotto giuramento, di quanto non accada ora che parla libero da ogni vincolo. In un caso del genere, infatti, a certa gente malpensante potrebbe sembrare un po' troppo desideroso di fare da testimone a una causa di cui era già stato giudice; ora, invece, non può che esser ritenuto uomo assai leale e coerente da parte di tutte le persone perbene, anche se semplicemente confida agli amici più cari ciò che sa. 48 Su, parla: se puoi, se le circostanze e la causa te lo consentono, dillo, adesso, che Cluvio ha mentito! Cluvio, quindi, avrebbe mentito? Ah, deve essere proprio la verità in persona che mi ha tenuto per un braccio, costringendomi per un attimo a prender fiato e a darmi una calmata! Come si spiegherebbe, dunque, questa bugia? Quale sarebbe la sua origine? Dovremmo supporre che Roscio sia un tipo astuto, sempre pronto a tirarsi fuori dai guai. All'inizio di tutta questa storia si sarebbe fatto un piano ben preciso in testa: «Visto che Fannio esige da me cinquantamila sesterzi, chiederò a Caio Cluvio, cavaliere romano di tutto rispetto, di non essere sincero nel corso del processo intentatomi e di raccontare che si è stretto un accordo, quando un accordo non c'è mai stato, e che Flavio ha dato a Fannio centomila sesterzi, anche se le cose non sono andate per questo verso». Ma così può ragionare uno che ha l'animo perverso, un povero di spirito, senza un minimo di cervello. 49 E poi, cosa sarebbe successo? Dopo essersi ben ben convinto del suo proposito, si sarebbe recato da Cluvio. Che tipo di uomo era Cluvio? Leggero? Al contrario, molto serio. Uno volubile? No, uno fermo nei suoi propositi. Un amico? Anzi, un perfetto estraneo. Dopo aver scambiato i soliti convenevoli, avrebbe 79
iniziato ad avanzare richieste con voce suadente e flautata, più o meno così: «Racconta una bugia a mio favore: di' a tutta la gente rispettabile, ai tuoi amici, a quelli, insomma, che saranno presenti, che Flavio, anche se non è vero, è sceso a un accordo con Fannio a proposito di Panurgo; insisti sul fatto che a dare centomila sesterzi è stato proprio chi, in realtà, non ha versato un soldo». E lui che cosa avrebbe risposto? «Certo che mentirò per farti un piacere e lo farò anche volentieri, direi quasi con entusiasmo; e se un giorno vorrai che io giuri il falso perché tu possa guadagnarci qualcosa, sappi che sarò pronto a farlo; ma non era il caso che te la prendessi tanto a cuore e venissi di persona fin da me; potevi tranquillamente risolvere una cosa così stupida mandandomi un tuo messo». XVII 50 Mi siano testimoni gli dèi e gli uomini! Avrebbe mai potuto Roscio chiedere a Cluvio un favore del genere, anche se in ballo ci fosse stata una cifra mille volte superiore a questa? E Cluvio avrebbe mai dato ascolto alle richieste di Roscio, se anche gli fosse stato concesso di spartire l'intero bottino? Per Giove! Tu, Fannio, non ce l'avresti il coraggio di domandare questo neanche a un Ballione o ad uno della sua risma, anzi non ne potresti cavare nulla. Logicamente parlando, quindi, ciò che tu sostieni non è credibile, proprio come risulta falso se si guarda in faccia la realtà; voglio, quindi, dimenticare che Roscio e Cluvio siano uomini di tutto rispetto e fingere che, per l'occasione, abbiano animo malvagio. 51 Va bene, Roscio ha corrotto Cluvio, il suo testimone! Perché, però, così tardi? Come mai lo ha fatto quando c'era da pagare la seconda rata, e non al momento del saldo della prima? Infatti, aveva già versato cinquantamila sesterzi. E poi, dato che Cluvio si era ormai convinto a mentire, perché, invece di parlare di centomila sesterzi, non ha tirato fuori la storia che i soldi pagati da Flavio a Fannio sono - che so? - trecentomila? Tanto più che, secondo i patti, a Roscio ne sarebbe toccata la metà esatta. Ormai, Caio Pisone, hai sicuramente già capito che Roscio non ha avanzato alcuna richiesta per la società, ma solo per se stesso. E se ne è reso conto anche Saturio: consapevole che la cosa non ha più segreti, non se la sente di continuare a contrastare la verità dei fatti, ma, anche se si è messo sulla buona strada, sta inventando un'altra scappatoia per mettere a segno il suo piano fondato sulla frode e sull'inganno. 52 Sentiamo cosa ha da dire: «Ammetto che Roscio ha chiesto a Flavio solo la sua parte e sono anche disposto ad aggiungere che non ha allungato le mani su quella di Fannio, ma l'ha lasciata intatta; sono, però, più che convinto che quanto pretese ed ottenne, diventò automaticamente patrimonio comune alla società». Rispetto ad un'affermazione del genere non si può essere più pignoli o semplicemente più disonesti. È per questo che mi domando se Roscio ebbe o meno la facoltà di reclamare la sua parte in base agli accordi presi con la società. Poniamo l'ipotesi che questa facoltà non ce l'avesse: come avrebbe fatto, allora, a portarsi via quei soldi? In caso contrario, invece, come avrebbe potuto non riscuotere per sé? Se, infatti, uno avanza una richiesta di denaro nel suo interesse, non lo fa certo per conto di un altro. 53 Ma forse le cose non stanno proprio così: se avesse preteso una cifra ad appannaggio dell'intera società, tutti i soci si sarebbero spartiti il ricavato in maniera equa ed equilibrata; ma, visto che ha chiesto unicamente ciò che spettava a lui, avrebbe forse non dovuto tenere soltanto per sé la somma che gli è stata pagata? XVIII Che differenza passa tra chi ha in ballo una causa per difendere i propri interessi e chi, invece, è stato designato rappresentante? Chi intenta un processo a nome suo, ha il diritto di avanzare richieste esclusivamente a proprio interesse, cosa che nessuno può fare per un altro, a meno che non ne sia stato eletto difensore. Ma è 80
davvero così? E se invece fosse stato il tuo rappresentante e avesse riportato una splendida vittoria in tribunale, tu ne godresti i frutti; ma, visto che ha agito esclusivamente a suo nome, ha riscosso quel che è riuscito ad ottenere anche per te, e non per sé solo? 54 Se invece si potessero tutelare gli interessi di un altro anche senza esserne ufficialmente rappresentante, allora ti domando come mai, quando fu ucciso Panurgo e il processo intentato con Flavio era di quelli per danni, tu, per l'occasione, sia stato eletto rappresentante di Roscio: tanto più che, stando alle tue parole, tutto quello che tu avessi chiesto per te, lo avresti fatto anche nel suo interesse; allo stesso modo, qualunque fosse stata la riscossione, si sarebbe versata nella cassa comune della società. Ma considerando che a Roscio non sarebbe entrato in tasca niente di quanto Flavio ti avesse pagato, se non ti avesse scelto come suo rappresentante nel processo, ora non ti spetta neanche un soldo della somma versata a Roscio per soddisfare la sua parte: e sai perché? Perché nessuno lo ha nominato tuo rappresentante. 55 Che cosa puoi controbattere, Fannio, alla mia argomentazione? Dato che Roscio è giunto a una transazione con Flavio solo per la parte che gli spettava, non ti ha forse lasciato piena libertà d'azione? Dici di no? Come hai potuto, allora, riscuotere da lui qualche tempo dopo la bellezza di centomila sesterzi? Ma se mi rispondi di sì, che quella libertà te l'ha lasciata, perché ti ostini a chiedere a lui ciò che per te solo hai il dovere di esigere e di farti pagare? La società è in tutto e per tutto simile all'eredità, potrei dirle gemelle; come, infatti, in una società ogni socio ha la sua parte, così in un'eredità ad ogni erede spetta il suo. Se un erede, poi, intenta un'azione giudiziaria, lo fa esclusivamente per sé e non a nome di quelli che spartiscono con lui le ricchezze; è ovvio che anche un socio, in un caso del genere, si comporta allo stesso modo. Socio o erede che sia, se reclama giustizia in tribunale per avere soddisfazione della sua parte, vuole essere saldato solo per la sua parte: se è un erede, per quel che gli spetta in base alla volontà del defunto, se è un socio, secondo i patti stretti in società. 56 Roscio avrebbe potuto condonare a Flavio per suo conto la parte di debito che gli era dovuta, per evitare così che tu avanzassi delle pretese; allo stesso modo, visto che ha trattato solo per la sua parte e ha lasciato intatta la tua, non ha proprio niente da spartire con te, a meno che tu non riesca a dimostrare, con chissà quale assurdo ragionamento, di potergli tranquillamente estorcere il denaro che non sei riuscito ad ottenere da altri. Saturio, intanto, rimane sulla sua posizione: qualunque sia la richiesta avanzata dal socio, è sempre a nome della società. Se le cose stanno così, Roscio fu davvero tanto stupido, maledizione, da stipulare puntualmente con Fannio - ed erano presenti autorevolissimi giureconsulti - che gli venisse versata l'esatta metà di quanto avesse riscosso da Flavio? Ma non si è appena detto che Fannio, senza bisogno di garanzie o promesse, sarebbe stato comunque debitore nei confronti della società, vale a dire di Roscio?
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DELLA DIVINAZIONE
LIBRO PRIMO I 1 È un'opinione antica, risalente ai tempi leggendari e corroborata dal consenso del popolo romano e di tutte le genti, che vi siano uomini dotati di una sorta di divinazione - chiamata dai greci mantiké -, cioè capaci di presentire il futuro e di acquisirne la conoscenza. Capacità magnifica e salutare, se davvero esiste, grazie alla quale la natura di noi mortali si avvicinerebbe il più possibile alla potenza degli dèi! E come in altri casi noi romani ci esprimiamo molto meglio dei greci, così anche a questa straordinaria dote i nostri antenati dettero un nome tratto dalle divinità, mentre i greci, come spiega Platone, derivarono il nome corrispondente dalla follìa. 2 Non conosco, in verità, alcun popolo, dai più civili e colti fino ai più efferati e barbari, che non creda che il futuro si manifesti con segni premonitori, e che esistano persone capaci di comprenderli e di spiegarli in anticipo. Incominciamo dalle testimonianze più antiche: per primi gli assiri, abitando vasti territori pianeggianti e potendo perciò vedere il cielo aperto fino all'orizzonte in ogni direzione, osservarono assiduamente i passaggi e i moti delle stelle, e, quando li ebbero registrati, tramandarono ai posteri quale presagio costituissero per ciascun individuo. Tra gli assiri, si ritiene che in particolare i caldèi - nome di una gente, non della loro arte con l'incessante osservazione delle stelle abbiano fondato una scienza che permetteva di predire che cosa sarebbe accaduto a ciascuno e con quale destino ciascuno era nato. La stessa maestria si crede che abbiano raggiunto anche gli egiziani, nel corso di un tempo lunghissimo, durante secoli pressoché innumerevoli. Ancora: gli abitanti della Cilicia e della Pisidia e quelli, confinanti con loro, della Panfilia (genti, tutte, che io ho governato) credono che il volo e il canto degli uccelli servano a predire con la massima certezza il futuro. 3 E la Grecia inviò mai dei propri abitanti a fondar colonie in Eolia, in Ionia, in Asia, in Sicilia, in Italia senza aver prima consultato l'oracolo di Delfi o quello di Dodona o quello di Ammone? E quale guerra fu intrapresa dai greci senza aver consultato gli dèi? II Né è stato praticato un solo genere di divinazione, sia per affari di Stato sia per prendere decisioni private. Anche a prescindere dagli altri popoli, il nostro a quanti tipi di divinazione è ricorso! Innanzi tutto il padre della nostra città, Romolo, non solo fondò Roma dopo aver preso gli auspicii, ma, a quanto si narra, fu egli stesso un ottimo àugure. Dopo di lui, gli altri re consultarono sempre gli àuguri; e dopo la cacciata dei re nessuna decisione riguardante lo Stato, in pace come in guerra, si prendeva senza essere prima ricorsi agli auspicii. E siccome credevano che la scienza degli arùspici avesse grande importanza sia nel cercar di ottenere buoni eventi e nel ricevere buoni consigli, sia nell'interpretare i prodìgi e nello stornare con espiazioni la loro forza malefica, attingevano tutta questa dottrina dall'Etruria, perché nessun genere di divinazione venisse trascurato. 4 E poiché le anime umane, quando non le governano la ragione e il sapere, sono eccitate spontaneamente in due 83
modi, negli accessi di follìa e nei sogni, i nostri antenati, ritenendo che la divinazione manifestantesi nella follìa fosse interpretata soprattutto nei versi sibillini, istituirono un collegio di dieci interpreti di tali libri, scelti fra i cittadini. Riguardo a questo genere di divinazione, credettero spesso di dover dare ascolto anche alle profezie gridate in stato di esaltazione dagl'indovini e dai vati: per esempio, a quelle di Cornelio Culleolo nella guerra di Gneo Ottavio contro Cinna. Né il sommo consesso, il senato, trascurò i sogni, se per la loro importanza sembravano necessari a prender decisioni riguardanti lo Stato. Ancora ai nostri tempi Lucio Giulio, console insieme con Publio Rutilio, per decreto del senato restaurò il tempio di Giunone Sòspita in séguito a un sogno di Cecilia, figlia di Cecilio Baliarico. III 5 Gli antichi, a mio parere, credettero alla verità della divinazione più perché impressionati dall'avverarsi delle profezie che per argomentazioni razionali. Ma quanto ai filosofi, sono stati raccolti i loro sottili ragionamenti per dimostrare che la divinazione corrisponde al vero. Tra essi (mi rifaccio dai più antichi), Senofane di Colofone fu il solo che, pur credendo all'esistenza degli dèi, negò ogni fede nella divinazione. Tutti gli altri, eccettuato Epicuro che sulla natura degli dèi disse cose assurde, approvarono la divinazione, ma non nella stessa misura. Socrate e tutti i socratici, Zenone stoico e i suoi seguaci, si attennero alla dottrina dei filosofi più antichi, e dello stesso parere furono l'Accademia antica e i peripatetici; già prima di essi, Pitagora aveva attribuito alla divinazione grande autorità (egli stesso, anzi, si considerava un àugure), e Democrito, filosofo di grande valore, in molti passi delle sue opere dichiarò di credere ai presentimenti del futuro. Invece il peripatetico Dicearco considerò veritieri soltanto i sogni e le profezie gridate in accessi di follìa, negò fede a ogni altro genere di divinazione e il mio intimo amico Cratippo, che io considero pari ai peripatetici più grandi, egualmente credette a quei due tipi di profezie, ripudiò tutti gli altri. 6 Ma avendo gli stoici difeso in generale ogni divinazione (poiché Zenone nelle sue opere aveva, per così dire, sparso qua e là i semi di questa dottrina e Cleante li aveva sviluppati alquanto), ecco sopraggiungere un uomo d'ingegno acutissimo, Crisippo, il quale espose tutta la dottrina della divinazione in due libri, e poi in un altro libro trattò degli oracoli, in un altro ancora dei sogni; dopo di lui scrisse un libro sulla divinazione Diogene di Babilonia suo discepolo, due Antipatro, cinque il mio Posidonio. Ma dagli stoici si discostò il maggior pensatore di quella scuola, Panezio, maestro di Posidonio, scolaro di Antipatro; tuttavia egli non si spinse fino a negare la validità della divinazione, ma dichiarò di dubitarne. Ciò che fu lecito di fare fino a un certo punto a lui, stoico, contro l'aspro dissenso degli altri stoici, gli stoici non concederanno di farlo a noi fino in fondo? Tanto più che ciò di cui Panezio dubita, è considerato più chiaro della luce del sole dagli altri della stessa scuola. 7 Ma questo titolo di merito dell'Accademia ha la conferma del giudizio e della testimonianza di un filosofo di gran valore. IV Io stesso mi sono chiesto quale giudizio si debba dare sulla divinazione, poiché Carneade aveva discusso a lungo contro gli stoici con acutezza e facondia, e ho temuto di dare il mio assenso con troppa facilità a una dottrina falsa o non sufficientemente approfondita. Mi sembra dunque che il meglio sia mettere a confronto più e più volte, con attenzione, gli argomenti a favore e contro, come ho fatto nei tre libri Sulla natura degli dèi. In effetti, se in ogni questione è disonorevole la precipitosità nell'aderire a una tesi e l'uscire dalla retta via, tanto più lo è dove si tratta di giudicare quanta autorità dobbiamo attribuire agli auspicii, ai riti, alla 84
religione. C'è infatti il pericolo di cadere o in un'empia aberrazione, se trascuriamo queste cose, o in una superstizione da vecchierelle, se le accettiamo. V 8 Di questi problemi ho discusso spesso, ma con particolare impegno recentemente, quando mi trovavo con mio fratello Quinto nella mia villa di Tusculo. Eravamo saliti al Liceo per passeggiare (così son solito chiamare il piano superiore del ginnasio). Egli mi disse: «Ho letto per intero, poco tempo addietro, il terzo libro del tuo Sulla natura degli dèi, nel quale la polemica che tu fai pronunciare a Cotta ha scosso la mia opinione, non l'ha tuttavia completamente annientata.» «Giustissimo,» risposi; «in verità Cotta svolge la sua discussione in modo da confutare gli argomenti degli stoici, senza per questo distruggere la religione degli uomini.» E Quinto: «Cotta lo dichiara, anzi lo ripete più volte, allo scopo, credo, di non esser preso per un trasgressore dei principii comuni a tutti; ma a me sembra che, per troppo zelo di polemizzare contro gli stoici, finisca col negare completamente gli dèi. 9 Beninteso, non sento il bisogno di replicare al suo discorso: la religione è già stata difesa a sufficienza nel secondo libro da Lucilio Balbo, la cui trattazione tu stesso consideri più vicina alla verità, come dichiari alla fine del terzo libro. Ma c'è un argomento che è stato tralasciato in quei tre libri, perché, suppongo, hai ritenuto che fosse più opportuno indagarlo e discuterne a parte: la divinazione, cioè la predizione e il presentimento di quelle cose che si considerano effetto del caso. Se sei d'accordo, vediamo quale potere essa abbia e quale natura. Io sono di questa opinione: se sono veritieri quei generi di divinazione che ci sono stati tramandati e che pratichiamo, allora gli dèi esistono; e se, a loro volta, gli dèi esistono, vi sono persone capaci di predire il futuro.» VI 10 «Tu difendi la roccaforte degli stoici, Quinto,» io risposi, «se davvero c'è reciproca implicazione tra questi due enunciati: se c'è la divinazione, ci sono gli dèi, e se gli dèi ci sono, c'è la divinazione. Ma né l'uno né l'altro enunciato vien dato per vero con tanta facilità quanto tu credi. Da un lato, il futuro può essere indicato da eventi naturali, senza l'intervento della divinità; dall'altro, anche ammesso che gli dèi esistano, può darsi che essi non abbiano concesso al genere umano alcuna capacità di divinazione. » E Quinto: «Ma per me il fatto stesso che vi siano, a mio giudizio, generi di divinazione chiari ed evidenti costituisce una prova sufficiente dell'esistenza degli dèi e della loro provvidenza nei riguardi delle cose umane. Ti esporrò volentieri il mio parere su tutto ciò, a patto che tu sia libero da altre occupazioni e non abbia qualcosa da anteporre a questa nostra conversazione.» 11 «Per la filosofia,» risposi, «io ho sempre l'animo disposto, caro Quinto; e poiché adesso non ho nient'altro a cui possa dedicarmi volentieri, tanto più son desideroso di sentire il tuo parere sulla divinazione.» «Non dirò nulla di nuovo,» incominciò Quinto, «né opinioni mie divergenti da quelle altrui: io seguo una dottrina antichissima e, per di più, confermata dal consenso di tutti i popoli e di tutte le genti. Due sono i generi di divinazione, l'uno che riguarda l'arte, l'altro la natura. 12 Quale popolo c'è, d'altronde, o quale città, che non rimanga impressionata dalla predizione degli indagatori delle viscere di animali o degli interpreti dei prodìgi e dei lampi o degli àuguri o degli astrologi o di coloro che estraggono le "sorti" (questi che ho enumerato si riferiscono all'arte), ovvero dai presagi dei sogni e delle grida profetiche (questi due si considerano naturali)? Di tutto ciò io credo che vadano indagati i risultati piuttosto che le cause. C'è, difatti, una dote naturale che, o dopo lunga osservazione degl'indizi profetici, o per qualche istinto e ispirazione di origine divina, preannuncia il futuro. 85
VII La smetta perciò Carneade di incalzarci (come faceva anche Panezio) chiedendo se è stato Giove a ordinare alla cornacchia di gracidare da sinistra, al corvo da destra. Questi fenomeni sono stati osservati da tempo infinito, si è tenuto conto di ciò che accadeva dopo che si erano manifestati certi segni. Del resto, non c'è nulla che, nel lungo scorrere del tempo, non possa essere chiarito e messo in evidenza mediante il ricordo dei fatti e la consultazione dei documenti scritti. 13 È lecito constatare con lieta meraviglia quali specie di erbe e di radici atte a curare le morsicature delle bestie, le malattie degli occhi, le ferite, siano state scoperte dai medici, senza che la ragione abbia mai spiegato il motivo della loro efficacia: eppure la loro utilità ha dato credito all'arte medica e allo scopritore. Osserviamo un po' quei fenomeni che, pur appartenendo a un genere diverso, sono tuttavia alquanto affini alla divinazione: «E anche il mare gonfio indica spesso l'appressarsi dei venti, quando all'improvviso e fin dal profondo si solleva, e gli scogli biancheggianti, battuti dalla spuma nivea dell'acqua salata, gareggiano con Nettuno nel mandar lugubri voci, o quando un fitto stridore, proveniente dall'alta vetta d'un monte, si accresce, ripercosso dalla barriera degli scogli.» VIII Di questi presagi sono pieni i tuoi Prognostici. Ebbene, chi potrebbe scoprire le cause dei presagi? Vero è che lo ha tentato, a quel che vedo, lo stoico Boeto, il quale riuscì in parte a spiegare i fenomeni marini e celesti. 14 Ma chi saprebbe dire con qualche probabilità perché avvengano questi altri fatti? "Del pari la grigia fòlaga, fuggendo dal gorgo profondo del mare, col suo grido annunzia che incombono orribili tempeste, ed effonde dalla tremula gola alte voci. Spesso anche l'acrèdula fa sgorgare dal petto una nenia tristissima e persiste nel suo canto mattutino: persiste nel suo canto e lancia dalla bocca continui lamenti, appena l'aurora fa cadere la fredda rugiada. E non di rado la nera cornacchia, scorrazzando per la spiaggia, immerge la testa e fa spruzzare i flutti sul collo." IX 15 Vediamo che questi indizi non mentono quasi mai, eppure non vediamo perché ciò accada. "Anche voi, nutrite di acqua dolce, vedete i segni della tempesta, quando vi apprestate a lanciare vani richiami a gran voce, e con stridule grida turbate le fonti e gli stagni." Chi potrebbe immaginare che le ranocchie prevedano la tempesta? Ma è insito nelle ranocchie un potere di presagire qualcosa: un potere difficilmente negabile in quanto tale, anche se non ben comprensibile alla ragione umana. "E i bovi che incedono lenti, con lo sguardo rivolto al cielo luminoso, aspirano dalle narici l'umido vapore dell'aria." Non domando il perché, dal momento che constato che il presagio si avvera. "Inoltre, sempre verde e sempre carico di bacche, il lentisco, che suole arricchirsi di un triplice frutto, tre volte effondendo la sua messe preannuncia i tre tempi dell'aratura." 16 Nemmeno questo chiedo, perché quel solo albero fiorisca tre volte o perché con la fioritura indichi che è tempo di arare; mi accontento di sapere che cosa accada, pur ignorando perché accada. In difesa di ogni genere di divinazione, dunque, darò la stessa risposta che ho dato per quei presagi che ho menzionato. X Quale utilità ha la radice del convolvolo come purgante, quale efficacia ha l'aristolochia contro il morso dei serpenti? (questa pianta si chiama così dal nome del suo scopritore, il quale la trovò in seguito a un sogno); io vedo che ciò è possibile, e mi basta; perché sia possibile, non so. Allo stesso modo non sono in grado di capir 86
bene a quale legge razionale obbediscano i segni annunciatori dei venti e delle piogge, di cui ho parlato prima; ma riconosco, so, constato il loro potere e il risultato che ne consegue. Parimenti, so che significato abbia la fenditura nelle viscere degli animali sacrificati, o la fibra; la causa di questi presagi, non la so. E in tutta la nostra vita ci troviamo in questa condizione: poiché quasi tutti credono agli indizi delle viscere. E possiamo forse dubitare del valore profetico dei fulmini? Fra i tanti esempi di tali miracoli, questo è soprattutto degno di ricordo: l'immagine di Summano, che allora era di argilla, posta in cima al tempio di Giove Ottimo Massimo, fu colpita da un fulmine, né si riusciva a ritrovare in alcun luogo la testa della statua. Gli arùspici dissero che era caduta nel Tevere, e fu trovata nel punto che da essi era stato indicato. XI 17 Ma di quale autorità, di quale testimone migliore di te potrei servirmi? Ricordo anche a memoria - e li ricordo con gioia - i versi che la musa Urania dice nel secondo libro del tuo Consolato: "Innanzi tutto Giove, infiammato dal fuoco etereo, ruota e rischiara con la sua luce tutto il mondo, e mira a penetrare il cielo e la terra con la sua mente divina che, chiusa e celata nelle cavità dell'etere eterno, preserva fin nell'intimo i sensi e la vita degli uomini. E se vuoi conoscere i movimenti e i percorsi vaganti delle stelle che si trovano nella zona delle costellazioni, e che, a quanto dicono ingannevolmente i greci e secondo il nome che essi han loro attribuito, vanno errando, ma in realtà si muovono con velocità regolare entro un'orbita determinata, vedrai che tutto ciò ha il contrassegno della mente divina. 18 Giacché, in primo luogo, sotto il tuo consolato, quando compisti i riti lustrali sulle alture nevose del monte Albano e con copioso latte onorasti le Ferie latine, tu stesso vedesti movimenti alati di astri e congiunzioni male auguranti di stelle che splendevano ardendo; vedesti le comete tremolanti di splendente fuoco. E pensasti a grandi sconvolgimenti in una strage notturna, poiché le Ferie latine erano cadute press'a poco in quel tempo nefasto in cui la luna, addensando la sua luce, aveva nascosto il suo volto splendente e tutt'a un tratto era scomparsa nella notte cosparsa di stelle. E che dire della fiaccola di Febo, annunziatrice di triste guerra, che volava con ardore di fuoco a guisa di immane colonna, dirigendosi verso la parte dove il cielo precipita, verso il tramonto? O quando un cittadino, colpito dal terribile fulmine a ciel sereno, abbandonò la luce della vita, o quando la terra tremò col corpo gravido di vapori? E già nelle ore della notte si vedevano vari spettri terribili, e annunziavano guerra e sommosse, e gl'indovini qua e là effondevano dal petto invasato molte profezie che minacciavano tristi eventi; 19 e quei fatti che, dopo lungo trascorrere di tempo alfine accaddero, il padre degli dèi, egli stesso, li preannunziava al cielo e alla terra, ripetendo l'annunzio con segni continui ed evidenti. XII Ed ecco che tutti gli eventi che un tempo, sotto il consolato di Torquato e di Cotta, aveva profetato l'arùspice lidio della gente etrusca, tutti insieme, stabiliti dal fato, li porta a termine l'anno del tuo consolato. Ché il Padre altitonante, ergendosi sull'Olimpo stellato, colpì col fulmine il colle una volta a lui caro e il suo tempio, e appiccò il fuoco alla sua dimora sul Campidoglio. Allora l'antica e venerata effigie bronzea di Natta si abbatté al suolo, e scomparvero le tavole delle leggi di vetusta, sacra autorità, e la vampa del fulmine annientò le immagini degli dèi. 20 Qui c'era la silvestre nutrice marzia della gente romana, che con le turgide mammelle alimentava di rugiada vitale i piccoli nati dalla stirpe di Marte: essa allora, colpita insieme coi fanciulli dal fulmine fiammeggiante, cadde e, divelta dalla 87
base, vi lasciò l'impronta dei piedi. Chi in quel tempo, leggendo e rileggendo gli scritti e i documenti dell'arte divinatoria, non ricavava dalle carte etrusche lugubri presagi? Tutti avvertivano che una grande sciagura per tutta la città, un flagello stava per scatenarsi, per opera di una famiglia nobile; e annunziavano anche, con parole sempre ripetute, la rovina delle leggi e ordinavano soprattutto di sottrarre dalle fiamme i templi degli dèi e la città, e di guardarsi da una strage e da un massacro orribile. Dicevano che queste cose erano immutabilmente fissate da un tremendo destino, a meno che, prima, una sacra immagine di Giove, fatta con arte, collocata su un'alta colonna, fosse rivolta verso la chiara luce d'oriente. Soltanto allora il popolo e il santo senato avrebbero potuto scoprire queste mene occulte, se la statua di Giove, rivolta verso il sorgere del sole, avesse potuto di lì vedere le sedi dei senatori e del popolo. 21 Questa effigie, eseguita con gran ritardo e attesa per molto tempo, finalmente sotto il tuo consolato fu collocata sulla sua alta sede; e in uno stesso momento, stabilito e fissato dal destino, Giove faceva risplendere il suo scettro in cima alla colonna, e la rovina della patria, preparata col ferro e col fuoco, veniva rivelata dalle parole degli Allobrogi ai senatori e al popolo. XIII A ragione, dunque, gli antichi, dei quali voi custodite gli insegnamenti, e che con moderazione e virtù governavano popoli e città, - a ragione anche i vostri compatrioti, la cui religiosità e il cui ossequio ai numi superò tutti e di gran lunga li vinse la loro sapienza, onorarono più che mai gli dèi insigni per potenza. Questi insegnamenti, d'altronde, li intesero a fondo, con indagine sagace, coloro che lieti trascorsero in nobili studi il tempo libero da fatiche quotidiane, 22 e che, nell'ombrosa Accademia e nel luminoso Liceo, diffusero le splendide dottrine del loro ingegno fecondo. Strappato ad essi fin dal primo fiorire della giovinezza, tu fosti collocato dalla patria in mezzo al faticoso mondo delle virtù attive. E tuttavia, dando un po' di tregua alle ansiose preoccupazioni della vita civile, hai consacrato a quegli studi e a noi il tempo che la patria ti lascia libero." Tu dunque, che hai fatto quel che hai fatto e hai scritto con la massima esattezza i versi che or ora ho recitato, hai il coraggio di opporti a ciò che io dico sulla divinazione? 23 Perché stai a domandare, Carneade, per qual motivo queste cose avvengano o con quale arte possano essere comprese? Io confesso di non saperlo, ma affermo che tu stesso devi riconoscere che avvengono. "Per caso", dici tu. Ma davvero può accadere per caso ciò che ha in sé tutti i caratteri della verità? Quattro dadi, lanciati a caso, dànno il "colpo di Venere"; ma se lancerai quattrocento dadi, e otterrai il colpo di Venere per tutte e cento le volte, crederai che ciò sia dovuto al caso? Dei colori schizzati a caso su una tavola possono produrre i lineamenti di un volto; ma crederai che schizzando colori a caso si possa ottenere la bellezza della Venere di Coo? Se una scrofa col suo grifo avrà tracciato sul terreno la lettera A, la crederai per questo capace di scrivere l'Andromaca di Ennio? Carneade immaginava che nelle cave di pietra di Chio, in seguito alla spaccatura di un macigno, fosse venuta in luce per caso la testa di un piccolo Pan: sono disposto a credere che si trattasse di una qualche forma somigliante, ma certamente non tale da potere essere giudicata opera di Scopa. Le cose, non c'è dubbio, stanno così: il caso non può mai imitare perfettamente la verità. XIV 24 "Ma," si obietta, "talvolta cose che sono state predette non accadono." Rispondo: "Quale arte è immune da questa eventualità?" Mi riferisco, s'intende, a quelle arti che si basano su congetture e sono opinabili. Forse non si deve considerare come un'arte la medicina? Eppure in molti casi cade in errore. E 88
quelli che guidano le navi, non sbagliano mai? Non accadde forse che le truppe achee, con tanti comandanti di navi, ripartissero da Ilio "guardando, lieti per la partenza, i pesci guizzanti in mare," come dice Pacuvio, "né venissero presi da sazietà di godersi lo spettacolo?". Ma "frattanto, quando il sole già sta per calare, il mare incomincia ad agitarsi, il buio si raddoppia, il nero della notte e quello dei nembi acciecano lo sguardo..." Dunque il naufragio di tanti famosissimi condottieri e sovrani ha tolto ogni credito all'arte di pilotare le navi? Oppure l'arte militare non val niente, per il fatto che poco tempo fa un comandante supremo è fuggito lasciando l'esercito sconfitto? O la capacità e l'avvedutezza nel governare lo Stato non esistono, perché in molti errori incorse Gneo Pompeo, in parecchi Marco Catone, in qualcuno anche tu? Uguale è il caso dei responsi degli arùspici, e ogni genere di divinazione è opinabile: si basano su congetture, oltre le quali non è possibile spingersi. 25 Può darsi che talvolta la congettura sia ingannevole, ma spessissimo conduce alla verità: il suo inizio, difatti, si perde nella notte dei tempi, e siccome innumerevoli volte, dopo che si erano manifestati gli stessi presagi, accadevano quasi sempre gli stessi eventi, si è costituita l'arte divinatoria con l'osservare e col registrare più volte le stesse cose. XV Quale valore, poi, hanno i vostri auspicii! 1 quali, invero, attualmente vengono ignorati dagli àuguri romani (non te ne avere a male se lo dico), mentre sono ancora in vigore presso gli abitanti della Cilicia, della Panfilia, della Pisidia, della Licia. 26 Non ho bisogno di rammentare il nostro ospite, il re Deiòtaro, uomo insigne ed eccellente, il quale non fa mai nulla se non dopo aver preso gli auspicii. Una volta egli aveva progettato e iniziato un viaggio. Ammonito dal volo sfavorevole di un'aquila, tornò indietro; ebbene, la stanza nella quale avrebbe sostato se avesse proseguito il suo percorso, crollò la notte seguente. 27 Da lui stesso ho sentito dire che più volte ritornò sui suoi passi dopo aver già compiuto un percorso di molti giorni. E di Deiòtaro è particolarmente splendido ciò che ora dirò. Dopo essere stato punito da Cesare con la perdita della tetrarchia, del regno, di un'ingente somma di denaro, continua a dire che non si lagna di quegli auspicii che gli si rivelarono favorevoli quando partì per unirsi all'esercito di Pompeo: ché le sue armi difesero l'autorità del senato, la libertà del popolo romano, la dignità del suo comando, e perciò gli uccelli per ammonimento dei quali egli seguì la via del dovere e della lealtà gli dettero un buon consiglio: la sua gloria doveva valere di più che i suoi possessi. Lui sì che, a mio parere, ha seguito con spirito di verità l'arte augurale! I nostri magistrati, invece, praticano auspicii forzati: è inevitabile che, offerto il cibo, un pezzetto di esso cada giù dalla bocca del pollo mentre sta mangiando. 28 Ma quanto alla prescrizione dei vostri libri, che è favorevole l'auspicio se dalla bocca dell'uccello cade a terra un pezzo del cibo, voi considerate particolarmente favorevole anche questo auspicio che ho chiamato forzato. Perciò molti augurii, molti auspicii sono stati del tutto obliati o trascurati per negligenza del collegio: di ciò si duole Catone, il nostro saggio antico. XVI Nemmeno quanto agli affari privati, se avevano qualche importanza, si soleva fare alcunché, nei tempi andati, senza ricorrere agli auspicii. Tuttora ciò è indicato dagli "àuspici delle nozze", i quali, andato in disuso il loro còmpito, mantengono solo il nome. Come ora all'osservazione delle viscere (sebbene anche questa pratica sia alquanto meno in vigore che un tempo), così allora eran soliti, in cose importanti, chiedere consiglio al volo degli uccelli. Perciò, se non ricerchiamo con cura i presagi favorevoli, andiamo soggetti a quelli malauguranti e infausti. 29 89
Per esempio Publio Claudio, figlio di Appio il cieco, e il suo collega Lucio Giunio persero ingenti flotte, perché avevano preso il mare con auspicii contrari. Parimenti ciò accadde ad Agamennone, il quale, poiché gli Achei avevano incominciato "a schiamazzare tra loro e a denigrare apertamente l'arte degli scrutatori di viscere, ordina di salpare col plauso delle truppe e con l'ostilità dei presagi." Ma a che scopo rievocare fatti remoti? Che cosa sia accaduto a Marco Crasso lo sappiamo, per avere spregiato il divieto dei presagi infausti. In questa circostanza Appio, tuo collega e bravo àugure (come spesso mi hai detto), con scarsa cognizione di causa, in qualità di censore, inflisse un biasimo a Gaio Ateio, ottimo uomo ed egregio cittadino, perché (questa la motivazione) aveva annunziato auspicii falsi. Sia pure, ammettiamo che quello fosse il suo dovere di censore, se giudicava che Ateio avesse trasgredito quel divieto; ma non fece il suo dovere di àugure, dal momento che aggiunse per iscritto che per quella causa il popolo romano aveva subìto una gravissima sciagura. Se, infatti, fu quella la causa della sciagura, la colpa non va attribuita a chi la predisse, ma a chi non obbedì alla dissuasione. Che la dissuasione fosse giusta, come disse Appio, àugure e censore nello stesso tempo, fu dimostrato dagli eventi; se fosse stata falsa, Appio non avrebbe saputo addurre alcuna altra causa della sciagura. E in realtà le predizioni infauste, come gli altri auspicii, presagi, segni, non ci dicono le cause per cui qualcosa avverrà, ma ci annunziano che qualcosa di male avverrà se non correrai ai ripari. 30 La premonizione di Ateio, dunque, non creò la causa della sventura, ma, mostrando il segno infausto, avvertì Crasso di che cosa sarebbe avvenuto se egli non avesse rinunciato ai suoi progetti. Dunque o quell'ammonimento non valeva niente, o, se valeva (e di ciò Appio era persuaso), la colpa doveva essere non di chi aveva ammonito, ma di chi non aveva obbedito. XVII E quel vostro lituo, che è la più cospicua insegna degli àuguri, donde vi è stato tramandato? Fu con esso che Romolo tracciò le regioni del cielo quando fondò la città. Questo lituo di Romolo - cioè un bastoncino curvo e leggermente piegato nella parte superiore, che derivò questo suo nome dalla somiglianza col lituo, tromba di guerra - era conservato nella curia dei Salii, sul Palatino, e, quando essa fu distrutta dalle fiamme, fu ritrovato intatto. 31 E ancora: c'è qualche scrittore antico che non racconti come, molti anni dopo Romolo, sotto il regno di Tarquinio Prisco, sia stata fatta da Atto Navio una ripartizione delle regioni celesti mediante il lituo? Costui era un povero ragazzo che menava al pascolo le scrofe. Si dice che, avendone perduta una, fece voto a un dio che, se l'avesse ritrovata, gli avrebbe offerto la più bella uva di una vigna che c'era lì. Trovata la scrofa, dicono, sostò in mezzo alla vigna, rivolto verso sud, e divise la vigna in quattro parti. Tre parti ricevettero dagli uccelli segni sfavorevoli; avendo allora distribuita in regioni la quarta parte restante, trovò (lo tramandano gli scrittori) dell'uva di meravigliosa grandezza. La cosa si seppe: tutto il vicinato si rivolgeva a lui per chieder consigli; aveva acquistato grande rinomanza e prestigio. 32 Avvenne quindi che il re Tarquinio Prisco lo mandasse a chiamare. Desideroso di mettere alla prova le sue doti di àugure, il re gli disse che stava pensando a una cosa: gli chiese se questa cosa si poteva fare. Atto, dopo avere compiuto il rito augurale, gli rispose che era possibile. Tarquinio allora disse che aveva pensato alla possibilità di tagliare una cote con un rasoio, e ordinò ad Atto di provare a far ciò. Ed ecco che una pietra, portata nel comizio, alla presenza del re e del popolo fu spaccata con un rasoio. In seguito a ciò Tarquinio assunse Atto Navio come àugure, e il popolo andava a 90
chiedergli consiglio per il da farsi. 33 Quanto a quella pietra e al rasoio, furono deposti in una fossa scavata nel comizio, e tutt'intorno fu innalzato un parapetto: così si narra. Neghiamo pure tutto ciò, bruciamo gli annali, diciamo che son tutte finzioni, dichiariamo che tutto è possibile tranne che gli dèi si curino delle cose umane. Ma ciò che tu stesso hai scritto quanto a Tiberio Gracco non conferma la dottrina degli àuguri e degli arùspici? Egli per sbadataggine aveva posto la tenda augurale violando le leggi divine, perché aveva attraversato il pomerio senza prendere gli auspicii; e presiedette i comizi per eleggere i nuovi consoli. Che cosa accadde allora, è noto e tu stesso lo hai tramandato nella tua opera. Ma Tiberio Gracco, àugure egli stesso, avvalorò l'autorità degli auspicii confessando il proprio errore, e ne risultò molto accresciuto il prestigio della dottrina degli arùspici, i quali, fatti venire in senato poco dopo che si erano iniziati i comizi, dichiararono che colui che aveva presieduto i comizi non aveva agito secondo le regole. XVIII 34 Io sono dunque d'accordo con quelli che hanno sostenuto l'esistenza di due generi di divinazione, l'uno partecipe dell'arte, l'altro estraneo all'arte. Si attengono all'arte coloro che interpretano per congettura i fatti nuovi, conoscono quelli vecchi per le osservazioni del passato. Sono invece privi d'arte coloro che presagiscono il futuro non con ragionamenti e congetture, in base ai segni osservati e registrati, ma in seguito a non so quale eccitazione psichica, per un moto dell'animo libero e sciolto dal raziocinio: ciò accade spesso in sogno, talvolta a quelli che gridano profezie in stato di esaltazione, come Bacide in Beozia, come Epimenide a Creta, come la Sibilla eritrea. Di questo genere sono da considerare anche i responsi degli oracoli, non quelli che vengono dati mediante sorti "pareggiate", ma quelli che vengono pronunciati per ispirazione e afflato divino. Tuttavia nemmeno le sorti sono da disprezzare, se sono anche autorevoli per la loro antichità, come quelle che, a quanto ci assicurano, sono state estratte dal terreno; se poi, tratte a caso, accade che formino un discorso di senso compiuto, credo che ciò possa attribuirsi a intervento divino. Gli interpreti di tali sorti, come i filologi interpreti dei poeti, sembrano, più di tutti, vicini alla natura di quegli dèi che essi interpretano. 35 Che malizia è questa, dunque, di volere infirmare con cavilli cose che attingono forza dalla loro antichità? "Non trovo una causa di questi fatti," ripetono. Probabilmente la causa è ascosa, sepolta nell'oscurità della Natura: ché la divinità non ha voluto che io sapessi queste cose, ma soltanto che me ne servissi. Dunque me ne servirò, e non mi lascerò indurre a credere che, quanto ai presagi delle viscere, l'Etruria tutta sragioni, né che quel popolo si sbagli riguardo ai fulmini, né che interpreti falsamente i prodigi, poiché tante volte i rumori e i boati sotterranei e i terremoti hanno predetto al nostro Stato e alle altre genti molti fatti gravi e veri. 36 E ancora: questo famoso parto di una muta, che viene deriso, non è stato dichiarato dagli arùspici eccezionale parto di sventure, proprio perché in un organo genitale sterile si era formato un feto? E Tiberio Gracco figlio di Publio, che fu due volte console e censore e àugure di grande autorità e uomo saggio e cittadino esemplare, non chiamò forse gli arùspici perché aveva trovato in casa sua una coppia di serpenti? Ce ne ha lasciato notizia scritta suo figlio Gaio Gracco. Gli arùspici risposero che, se avesse lasciato andar via il serpente maschio, entro breve tempo sarebbe morta sua moglie; se la femmina, sarebbe morto lui, Considerò più giusto morire lui, già arrivato vicino al termine della vita, piuttosto che sua moglie, figlia 91
ancor giovane di Publio Scipione Africano: lasciò andar via il serpente femmina, e pochi giorni dopo morì. XIX Deridiamo pure gli arùspici, chiamiamoli ciurmadori e sciocchi, spregiamo la loro dottrina che pur fu dimostrata vera da un uomo di somma sapienza e da ciò che in effetti gli accadde. Condanniamo anche i Babilonesi e coloro che, osservando gli astri dall'alto del Caucaso, coi loro calcoli indagano i movimenti delle stelle. Condanniamoli, dico, per stoltezza o leggerezza o malafede, essi che, per loro stessa dichiarazione, conservano le registrazioni scritte riguardanti 470.000 anni, e sentenziamo che mentiscono e non temono il giudizio che su di loro pronunceranno i secoli futuri. 37 Ma, si dirà, i barbari sono infidi e mentitori. È intessuta di menzogna anche la storia dei greci? Chi non sa - parlo della divinazione naturale - i responsi dati da Apollo delfico a Creso, e poi ancora agli ateniesi, agli spartani, ai tegeati, agli argivi, ai corinzi? Crisippo raccolse innumerevoli oracoli, ciascuno con copiose testimonianze e documenti. Poiché li conosci, non sto a enumerarli. Questa cosa sola voglio asserire: l'oracolo di Delfi non sarebbe mai stato così frequentato e così famoso, né arricchito di così splendidi doni di tutti i popoli e i re, se in ogni tempo non si fosse sperimentata la veridicità dei suoi responsi. 38 "Ma," dicono, "già da tempo non si comporta più così." Ebbene, come adesso gode minore fama perché la verità delle sue profezie è meno insigne, così allora non avrebbe raggiunto una fama così grande se non in virtù della sua somma veridicità. Può darsi, del resto, che quella potenza, emanante dalla terra, che investiva di afflato divino la mente della sacerdotessa, si sia affievolita col passare del tempo, allo stesso modo in cui vediamo che certi fiumi sono svaporati e si sono inariditi, o hanno cambiato direzione e si sono avviati per un itinerario diverso dal precedente. Scegli pure l'ipotesi che preferisci (poiché si tratta di una questione molto incerta), a condizione che rimanga fermo ciò che non può esser negato se non vogliamo sovvertire tutta la storia: per molti secoli quell'oracolo fu verace. XX 39 Ma lasciamo stare gli oracoli, veniamo ai sogni. Nel trattare di essi Crisippo, raccogliendo molti sogni anche di scarsa importanza, segue lo stesso sistema a cui si è attenuto poi Antipatro, cioè indaga quelli che, spiegati mediante l'interpretazione di Antifonte, rivelano, certo, l'acume dell'Interprete; ma meglio sarebbe stato ricorrere a esempi di maggior rilievo. La madre di Dionisio, di quello che fu tiranno di Siracusa, a quanto si legge in Filisto, uomo dotto e accurato e vissuto in quegli stessi tempi, mentre era appunto incinta di Dionisio sognò di aver partorito un satiretto. Gli interpreti dei prodigi, che allora in Sicilia si chiamavano Galeoti, le dissero (ce lo testimonia ancora Filisto) che il figlio che essa stava per dare alla luce sarebbe stato l'uomo più famoso della Grecia e avrebbe avuto una fortuna costante 40 Vuoi che ti rammenti le leggende narrate dai poeti nostri o dai greci? Anche in Ennio quella famosa vestale narra: "E appena la vecchia, frettolosa, ebbe portato una lucerna con mani tremanti, essa così dice piangendo, svegliatasi spaurita dal sonno: 'O figlia di Euridice, che nostro padre amò, io sento tutto il mio corpo privo di forza e di spirito vitale. Mi pareva, in sogno, che un uomo bello mi rapisse portandomi per ameni filari di salici e per rive e per luoghi mai visti. E così, poi, sola mi sembrava di vagare, sorella mia cara, e di avanzare a passi incerti e di cercare te, ma di non poter raggiungerti nella mia mente: nessun sentiero guidava sicuro il mio piede. 41 Poco dopo, ecco, mi sembra che il padre mi rivolga queste parole: - O figlia, dapprima dovrai sopportare affanni, poi la tua fortuna riemergerà da un fiume -. Come ebbe detto ciò, sorella mia, 92
il padre scomparve d'un tratto, né si mostrò al mio sguardo benché nel mio cuore lo desiderassi: a nulla valse che più volte io tendessi le mani all'azzurra volta del cielo e lo invocassi con tenere parole. Or ora il sonno mi ha abbandonato lasciando il mio cuore afflitto.'" XXI 42 Anche se tutto ciò è invenzione poetica, non si discosta da tanti altri tipi di sogni realmente accaduti. Ammettiamo pure che sia inventato quel sogno dal quale Priamo rimase turbato, perché "la madre, Ecuba, mentre era incinta, sognò che partoriva una fiaccola ardente. In seguito a ciò il padre, il re Priamo in persona, preso da timore in cuor suo per questo sogno, afflitto da ansie che si effondevano in sospiri, compiva sacrifici di vittime belanti. Quindi, implorando pace, chiede un responso, scongiura Apollo di fargli sapere a che cosa accennino presagi di sogni così gravi. Allora con voce divina Apollo rispose dall'oracolo: il bambino che per primo nascesse tra breve a Priamo, si guardasse bene dall'allevarlo: sarebbe stato rovina a Troia, sciagura a Pergamo." 43 Ammettiamo pure, ripeto, che queste siano leggende immaginarie, e a esse aggiungiamo anche il sogno di Enea, che, come ben sai, negli Annali scritti in greco da Fabio Pittore è narrato in modo che tutto ciò che fu poi compiuto da Enea e che gli accadde corrisponda esattamente alle cose a lui apparse mentre era immerso nel sonno. XXII Ma vediamo eventi meno remoti. Che dire del sogno di Tarquinio il Superbo, che egli stesso narra nel Bruto di Accio? 44 "Dopo che, al cadere della notte, ebbi abbandonato il corpo al sonno, rilasciando nel sopore le membra stanche, mi apparve in sogno un pastore che spingeva verso di me un gregge lanoso di straordinaria bellezza; mi pareva che da quel gregge venissero scelti due arieti consanguinei e che io immolassi il più imponente dei due; poi il fratello dell'ucciso puntava le corna, si avventava per colpirmi e con quell'urto mi abbatteva. Io allora, prostrato a terra, gravemente ferito, alzavo supino gli occhi al cielo e vedevo un fatto immenso e straordinario: il disco fiammeggiante del sole, effondendo i suoi raggi, si dileguava verso destra invertendo il suo cammino nel cielo." 45 Ebbene, vediamo quale fu l'interpretazione di quel sogno da parte degl'indovini: "O re, le cose che nella vita gli uomini sogliono fare, le cose che pensano, curano, vedono, e che da svegli compiono e alle quali s'affaccendano, non c'è da meravigliarsi se accadono a qualcuno in sogno; ma in una circostanza così straordinaria non senza motivo le visioni si presentano. Sta dunque attento, che colui che tu stimi sciocco al pari di una bestia, non abbia una mente munita di ingegno, al di sopra del gregge, e non ti sbalzi dal trono. Ché quello che ti è apparso riguardo al sole, dimostra che avverrà per il popolo un mutamento assai vicino nel tempo. Possa tutto ciò volgersi in bene per il popolo! Il fatto che l'astro più potente abbia intrapreso il suo corso verso destra da sinistra, è un faustissimo augurio che lo Stato romano sarà eccelso." XXIII 46 Suvvia, torniamo ora a fatti di paesi stranieri. Eraclìde Pontico, uomo dotto, uditore e scolaro di Platone, scrive che alla madre di Falàride sembrò di vedere in sogno le immagini degli dèi che essa stessa aveva consacrato nella sua casa. Una di queste, l'immagine di Mercurio, sembrava versasse del sangue dalla coppa che teneva con la mano destra; appena aveva toccato terra, il sangue ribolliva, sì che tutta la casa era un lago di sangue. Questo sogno della madre fu confermato 93
dall'efferata crudeltà del figlio. C'è bisogno che io citi dai Libri persiani di Dinone la profezia che i maghi rivelarono a Ciro, quel famoso antico re? Scrive Dinone che, in sogno, parve a Ciro che il sole gli si posasse ai piedi; tre volte Ciro cercò di toccarlo con le mani, ma invano: il sole, girando su se stesso, gli sfuggiva e si allontanava. I maghi - venerati in Persia come una stirpe di sapienti e di dotti - da questo triplice tentativo di afferrare il sole trassero la profezia che Ciro avrebbe regnato per trent'anni. E così avvenne: giunse fino all'età di settant'anni, e il suo regno incominciò quando ne aveva quaranta. 47 C'è senza dubbio anche nei popoli barbari una capacità di presentimento e di divinazione. L'indiano Callano, recandosi alla morte, nell'atto di salire sul rogo ardente, esclamò: "Oh, splendida separazione dalla vita! Come accadde a Ercole, dopo che sarà incenerito questo corpo mortale, la mia anima ascenderà al regno della luce." E siccome Alessandro gli chiese di dire se desiderava qualcosa prima di morire, egli rispose: "Grazie: fra poco ti rivedrò." E così avvenne: pochi giorni dopo Alessandro morì a Babilonia. Mi sto allontanando per un poco dai sogni, ai quali presto ritornerò. Si sa che, nella stessa notte in cui fu distrutto dalle fiamme il tempio di Diana Efesia, Olimpiade diede alla luce Alessandro, e appena si fece giorno i maghi si misero a gridare che nella notte allora trascorsa era nata la rovina, la sciagura per l'Asia. XXIV 48 Basti ciò quanto agli indiani e ai maghi; ritorniamo ai sogni. Celio Antipatro scrive che Annibale, desideroso di portar via una colonna d'oro che si trovava nel tempio di Giunone Lacinia, ma dubbioso se fosse d'oro massiccio o soltanto dorata all'esterno, la fece trapanare e, accertatosi che era tutta d'oro, decise di asportarla. Durante il sonno gli apparve Giunone e lo ammonì a non farlo, minacciandolo che, se l'avesse fatto, essa gli avrebbe fatto perdere anche l'unico occhio con cui vedeva bene. Quell'uomo sagace non trascurò l'ammonimento e, con quella parte d'oro che era stata tolta nella trapanazione, fece fare una piccola effigie d'una giovenca e la fece collocare in cima alla colonna. 49 Un altro episodio è riferito nella storia, scritta in greco, di Sileno, da cui lo attinse Celio (Sileno narrò con grande accuratezza le imprese di Annibale). Dopo la presa di Sagunto, Annibale sognò che era chiamato da Giove nel concilio degli dèi. Giunto là, si sentì ordinare da Giove di portar guerra all'Italia, e gli venne dato come guida un dio del concilio. Seguendo le indicazioni di costui, incominciò a mettersi in marcia con l'esercito. Quel dio, allora, gli ordinò di non voltarsi a guardare indietro. Ma Annibale non riuscì a resistere a lungo, e, cedendo alla bramosia di vedere, si voltò. Vide una belva enorme e orrenda, cinta da serpenti, la quale, dove passava, abbatteva ogni albero, ogni virgulto, ogni casa. Annibale, stupefatto, chiese al dio che lo guidava che cos'era mai un mostro di quella sorta; e il dio rispose che quella era la devastazione dell'Italia e gli ordinò di continuare il cammino, senza curarsi di ciò che avveniva dietro, alle sue spalle. 50 Nella Storia di Agatocle si legge che ad Amilcare cartaginese, mentre assediava Siracusa, parve di udire una voce che gli diceva: "Domani cenerai a Siracusa." Appena spuntata l'alba del giorno dopo, nel suo accampamento sorse una grande rissa fra i soldati cartaginesi e quelli siculi. I siracusani se ne accorsero, fecero un'irruzione improvvisa nell'accampamento e presero vivo Amilcare: così i fatti confermarono la verità del sogno. Di esempi analoghi è piena la storia, è addirittura ricolma la vita quotidiana. 51 Esempio più illustre che mai, Publio Decio figlio di Quinto, il primo della famiglia dei Decii che fu eletto console, quando era tribuno militare sotto i consoli Marco Valerio e Aulo 94
Cornelio e il nostro esercito era incalzato dai sanniti, poiché affrontava con eccessiva temerità i pericoli del combattimento e lo ammonivano a esser più prudente, disse lo narrano le storie - che in sogno gli era parso di morire gloriosissimamente nel folto della mischia. E quella volta rimase incolume e liberò l'esercito dalla morsa dei sanniti; ma tre anni dopo, quando fu console, offri se stesso in sacrifizio agli dèi e, indossate le armi, si lanciò contro l'esercito dei latini. Grazie al suo impeto, i latini furono sconfitti e annientati; e la sua morte fu così gloriosa, che suo figlio volle ottenerne una uguale. XXV 52 Ma, se sei d'accordo, passiamo ai sogni dei filosofi. Si legge in Platone che Socrate, trovandosi in carcere, disse al suo amico Critone che gli sarebbe toccato di morire tre giorni dopo: aveva visto in sogno una donna bellissima che, chiamatolo per nome, gli aveva detto un verso press'a poco così, simile a uno di Omero: "Il terzo giorno di bel tempo ti farà giungere a Ftia." E si trova scritto che ciò accadde proprio come era stato detto. Senofonte, discepolo di Socrate (quale uomo e di quanto valore!), nel racconto dell'impresa militare che compì sotto Ciro il giovane, riferisce i suoi sogni, che mirabilmente si avverarono. 53 Diremo che Senofonte dice il falso o è fuor di senno? E Aristotele, uomo d'ingegno eccezionale e direi quasi divino, s'inganna o vuole ingannare gli altri quando narra l'episodio che ora riferirò? Eudemo di Cipro, suo intimo amico, durante un viaggio verso la Macedonia, arrivò a Fere, città della Tessaglia, assai rinomata a quei tempi, ma oppressa dalla feroce tirannide di Alessandro. In quella città, dunque, Eudemo si ammalò così gravemente, che tutti i medici disperarono della sua salvezza. Gli apparve in sogno un giovane di bellissimo aspetto, e gli disse che fra breve sarebbe guarito, che entro pochi giorni il tiranno Alessandro sarebbe morto, e che lui, Eudemo, sarebbe ritornato in patria dopo cinque anni. Scrive Aristotele che i primi eventi accaddero subito: Eudemo guarì, il tiranno fu ucciso dai fratelli di sua moglie. Verso la fine del quinto anno, poi, quando quel sogno dava a Eudemo la speranza che dalla Sicilia sarebbe ritornato a Cipro, egli cadde in combattimento sotto le mura di Siracusa. Il sogno, quindi, fu interpretato nel senso che l'anima di Eudemo, liberatasi dal corpo, era ritornata alla sua vera patria. 54 Ai filosofi aggiungiamo un uomo dottissimo, Sofocle, poeta davvero divino. Era stata sottratta dal tempio di Ercole una coppa d'oro massiccio. Sofocle, in sogno, vide proprio Ercole che gli disse chi aveva commesso il furto. Una prima e una seconda volta non si curò del sogno. Ma poiché la stessa apparizione si ripeteva, salì all'Areòpago, denunciò il fatto. Gli Areopagiti ordinano che sia arrestato quel tale di cui Sofocle aveva fatto il nome; costui, sottoposto a interrogatorio, confessò e restituì la coppa. In seguito a ciò quel tempio fu chiamato il tempio di Ercole Rivelatore. XXVI 55 Ma a che scopo dilungarsi sui greci? Non so perché, mi piacciono di più le cose nostre. Questo episodio lo raccontano tutti gli storici, come Fabio, come Gellio, ma per ultimo Celio: durante la guerra latina, mentre avvenivano per la prima volta i ludi votivi massimi, improvvisamente tutti i cittadini furono chiamati alle armi; perciò, essendo stati interrotti quei ludi, furono celebrati i "ludi sostitutivi". Prima che essi incominciassero, quando già gli spettatori si erano seduti, uno schiavo fu strascinato per il circo, costretto a portar la forca, mentre intanto lo si percuoteva con le verghe, Poco dopo un romano del contado vide in sogno presentarglisi un tale che gli disse che nei ludi il capo dei danzatori sacri non gli era stato ben accetto, e gli ordinava di far noto ciò al senato. Quel tale non osò obbedire al sogno. Una seconda volta egli ricevette in sogno quest'ordine e fu ammonito a 95
non sfidare la potenza di colui che gli appariva; ma nemmeno allora osò obbedire. Dopo di ciò suo figlio morì, e in sogno per la terza volta si ripeté quell'ammonizione. Allora egli, già indebolito, riferì il fatto agli amici, e per loro consiglio fu portato in lettiga nella Curia; e dopo che ebbe raccontato ai senatori il sogno, poté tornarsene a casa a piedi sano e salvo. Accertata la veridicità del sogno, il senato indisse da capo quei ludi: così si narra. 56 Un altro esempio: Gaio Gracco raccontò a molti - lo riferisce il medesimo Celio - che nel periodo in cui aspirava alla questura gli apparve in sogno il fratello Tiberio e gli disse che indugiasse pure quanto voleva, ma sarebbe morto della stessa morte che era toccata a lui. Celio scrive che, prima che Gaio Gracco fosse eletto tribuno della plebe, egli aveva sentito dire ciò da lui stesso, e che lo aveva detto a molti altri. Che sogno si può citare più sicuro di questo? XXVII Chi, poi, può negar fede a quei due sogni che sono tante volte citati dagli stoici? Il primo riguarda Simonide: egli vide il cadavere di uno sconosciuto abbandonato a terra, lo seppellì, e si proponeva poi d'imbarcarsi; quel tale a cui egli aveva dato sepoltura gli apparve in sogno e lo dissuase dal suo proposito: se si fosse imbarcato, sarebbe perito in un naufragio. Simonide allora tornò indietro, gli altri che si erano imbarcati perirono. 57 L'altro sogno, famosissimo, è il seguente: due àrcadi, amici intimi, viaggiavano insieme e arrivarono a Mègara. Uno dei due prese alloggio in casa d'un taverniere, l'altro presso un suo ospite. Cenarono e andarono a dormire. A notte già inoltrata quello dei due che dormiva presso l'ospite vide in sogno l'altro che lo pregava di recargli soccorso, perché il taverniere si apprestava a ucciderlo. In un primo momento egli balzò su, atterrito dal sogno; poi, riavutosi dallo spavento, pensò che a quell'apparizione non si dovesse dar peso, e tornò a letto. Di nuovo, allora, gli apparve in sogno l'amico, e lo pregò che, non avendogli recato aiuto quando era ancora vivo, almeno non lasciasse invendicata la sua morte; il suo cadavere era stato buttato dal taverniere su un carro, e vi era stato sparso sopra del letame; gli chiedeva di trovarsi alla porta della città all'alba, prima che il carro uscisse verso la campagna. Emozionato da questo sogno, egli si recò di buon mattino alla porta, fermò il carrettiere, gli domandò che cosa c'era nel carro. Quello, atterrito, scappò via; il morto fu tratto fuori; il taverniere, venuto in luce il suo delitto, fu condannato a morte. Quale sogno si può considerare più profetico di questo? XXVIII 58 Ma a che scopo continuare con altri esempi, ed esempi antichi? Spesso io ti ho raccontato un mio sogno, spesso me ne hai raccontato uno tuo. Io, quando ero, come proconsole, governatore della provincia d'Asia, vidi in sogno te che andavi a cavallo verso la riva di un gran fiume, ti slanciavi d'un tratto e, scivolato giù nel fiume, non ricomparivi più, mentre io, atterrito, ero preso da tremore. Poi, all'improvviso, tu riemergevi con aspetto lieto e, su quello stesso cavallo, risalivi l'altra sponda del fiume, e noi ci abbracciavamo. Era facile l'interpretazione di questo sogno, e in Asia gli esperti mi predissero ciò che poi in effetti accadde. 59 Ed eccomi al tuo sogno: l'ho udito da te direttamente, ma ancor più spesso me l'ha narrato il nostro Sallustio. Quando, in quell'esilio glorioso per noi, rovinoso per la patria, tu ti trovavi in una casa di campagna del territorio di Atina e per gran parte della notte eri rimasto sveglio, verso l'alba, finalmente, ti abbandonasti ad un sonno greve e profondo. E sebbene il tempo stringesse, tuttavia Sallustio ordinò che si facesse silenzio e non permise che ti svegliassero. Quando poi ti svegliasti verso le otto del mattino, gli narrasti un sogno: ti era sembrato che, mentre vagavi mestamente in un luogo deserto, Gaio Mario, coi fasci ornati di 96
alloro, ti domandasse perché eri addolorato; e avendogli tu detto che eri stato con la violenza cacciato via dalla patria, egli ti strinse la mano, ti esortò a star di buon animo, ordinò al littore più vicino a lui di condurti al tempio da lui fatto costruire e ti disse che in quello avresti trovato la salvezza. Sallustio narra di avere allora esclamato che il destino ti riserbava un ritorno prossimo e glorioso, mentre tu stesso apparivi rasserenato da quel sogno. Anche a me fu ben presto riferito che tu, quando apprendesti che nel tempio edificato da Mario era stata presa quella splendida decisione del senato sul tuo richiamo dall'esilio su proposta del console di allora, uomo eccellente e ragguardevolissimo, e che il decreto era stato accolto con incredibili grida di gioia e applausi dal popolo assiepato nel teatro, dicesti che nulla avrebbe potuto accadere di più presàgo di quel sogno che avevi avuto presso Atina. XXIX 60 "Ma molti sogni son falsi." Piuttosto, forse, sono per noi di difficile comprensione. Ma ammettiamo che ve ne siano di falsi: contro quelli veri che cosa diremo? E risulterebbero veri molto più spesso se ci disponessimo al sonno in perfette condizioni. Ora, ripieni di cibo e di vino, vediamo in sogno cose alterate e confuse. Rammenta le parole di Socrate nella Repubblica di Platone. Egli dice: "Poiché nel sonno quella parte dell'anima che appartiene alla sfera razionale è assopita e debole, quella invece in cui risiede un istinto ferino e una rozza violenza è abbrutita dal bere e dal cibo eccessivo, questa si sfrena e si esalta smoderatamente mentre dormiamo. Ad essa, perciò, si presentano visioni d'ogni genere, prive di senno e di ragionevolezza: si ha l'impressione di unirsi carnalmente con la propria madre o con qualsiasi altro essere umano o divino, spesso con una bestia; di trucidare addirittura qualcuno e di macchiarsi empiamente le mani di sangue; di fare molte altre cose impure e orrende, senza ritegno né pudore. 61 Ma chi, conducendo una vita e una dieta salubre e moderata, si lascia andare al sonno quando quella parte dell'anima che partecipa della ragione è attiva e vigorosa e saziata dal cibo dei buoni pensieri, e l'altra parte dell'anima che è alimentata dai piaceri non è né sfinita dalla fame né gravata da troppa sazietà (l'una e l'altra di queste due condizioni, o che l'organismo sia privo di qualcosa o che ne sovrabbondi, suole offuscare l'acutezza della mente), e infine anche la terza parte dell'anima, nella quale risiede l'ardore delle passioni, è calma e smorzata, - allora accadrà che, essendo tenute a freno le due parti intemperanti dell'anima, la terza parte, quella del senno e della ragionevolezza, rifulga e si disponga a sognare piena di vigore e di acume: quel tale, allora, avrà nel sonno apparizioni tranquille e veritiere." Ho tradotto proprio le parole di Platone. XXX 62 Daremo retta, dunque, piuttosto a Epicuro? Ché Carneade, per il gusto di polemizzare contro tutti, dice ora questo, ora quello. Epicuro no, dice quel che pensa; ma non pensa mai niente di bello, niente di onorevole. Costui, dunque, lo anteporrai a Platone e a Socrate? I quali, anche se non dimostrassero appieno le loro dottrine, egualmente supererebbero per autorità quei filosofucci. Platone, dunque, prescrive che ci si abbandoni al sonno col corpo in condizioni tali da non arrecare nessun motivo di errore o di turbamento all'anima. Per la stessa ragione si ritiene che anche ai pitagorici fosse vietato di mangiar fave, poiché questo cibo produce una grande flatulenza, dannosa alla tranquillità della mente che ricerca la verità. 63 Quando, dunque, nel sonno l'anima è sottratta all'unione col corpo e al contagio che ne deriva, allora si ricorda del passato, scorge il presente, prevede il futuro: ché il corpo del dormiente giace come quello d'un morto, mentre l'anima è desta e viva. E in questa condizione si troverà tanto più dopo la morte, quando sarà del tutto uscita dal corpo. Perciò, all'approssimarsi della morte, è molto più dotata di virtù profetica. 97
Quelli che sono affetti da malattia grave e mortale questo anzitutto prevedono, l'imminenza della loro morte. A essi di solito appaiono le immagini dei morti, e in quei momenti più che mai desiderano di meritarsi lode, e se sono vissuti in modo sconveniente, allora soprattutto si pentono. 64 Che i morenti abbiano capacità divinatoria lo dimostra anche Posidonio adducendo quel famoso caso: uno di Rodi, in punto di morte, fece i nomi di sei coetanei e disse quale di essi sarebbe morto per primo, quale per secondo, e così di seguito tutti gli altri. In tre modi, del resto, Posidonio ritiene che gli uomini sognino per impulso divino: nel primo, perché l'anima prevede da sé, essendo unita da parentela con gli dèi; nel secondo, perché l'aria è piena di anime immortali, nelle quali i segni della verità appaiono, per così dire, chiaramente impressi; nel terzo, perché gli dèi stessi parlano coi dormienti. E che le anime predicano il futuro avviene più facilmente all'appressarsi della morte, come ho detto or ora. 65 Si comprende così quell'episodio di Callano, a cui ho accennato prima, e quello dell'Ettore omerico, che, morente, predice ad Achille la morte vicina. XXXI Né l'uso avrebbe consacrato a caso quella parola "presagire", se a essa non corrispondesse proprio alcuna realtà: "Me lo presagiva il cuore, uscendo di casa, che sarei venuto inutilmente." Sagire, difatti, significa aver buon fiuto; donde si chiamano sagae le vecchie fattucchiere, perché pretendono di saper molto, e "sagaci" son detti i cani. Perciò chi ha la sensazione (sagit) di qualcosa prima che accada, si dice che "pre-sagisce", ossia sente in anticipo il futuro. 66 C'è dunque nelle anime una capacità di presagire infusa dall'esterno e penetrata per opera della divinità. Se questa capacità s'infiamma con più veemenza, si chiama "follìa profetica", quando l'anima svincolatasi dal corpo è eccitata da un impulso divino: (Ecuba) "Ma come mai, d'un tratto, sei apparsa in preda al furore, con gli occhi fiammeggianti? Dov'è più quella saggia, virginale modestia di poco prima?" (Cassandra): "Madre mia, di gran lunga la migliore donna delle nobili donne troiane, io sono assalita da deliri profetici, e Apollo mi istiga a dire, folle, contro la mia volontà, il futuro. Mi vergogno dinanzi alle fanciulle mie coetanee; ho rossore di ciò che faccio perché disonoro mio padre, uomo eccelso; di te, madre mia, ho compassione; di me stessa mi dolgo. Tu hai partorito a Priamo figli eccellenti, tranne me: è questo che mi addolora: che io sia di danno, essi di aiuto, io riottosa, essi obbedienti!" Oh, brano di poesia dolce, espressivo, delicato! 67 Ma esso non riguarda da vicino il nostro argomento; quello che c'interessa il poeta l'ha espresso in quest'altro passo: come la follìa, di solito, predìca il vero: "Eccola, eccola la torcia avvolta nel sangue e nelle fiamme! Per molti anni rimase occulta. Cittadini, recate soccorso e spegnetela!" Non è più Cassandra che parla, ma il dio che è penetrato in un corpo umano. "E già nel vasto mare una flotta veloce vien costruita; essa trascina uno sciame di sciagure; arriverà, feroce, un esercito su navi volanti con le vele, riempirà le nostre spiagge." XXXII 68 Può sembrare che io spacci per verità finzioni sceniche. Ma proprio da te ho udito un fatto dello stesso genere, non inventato ma effettivamente avvenuto. Gaio Coponio, uomo eminente per saggezza e Cultura, nel tempo in cui comandava la flotta di Rodi con la carica di pretore, venne da te a Durazzo e ti disse che un rematore di una quinquireme dei rodii aveva vaticinato che entro meno di trenta giorni la Grecia sarebbe stata immersa in un bagno di sangue, sarebbero 98
avvenute rapine a Durazzo, molti marinai avrebbero dovuto imbarcarsi e fuggire per mare e, nell'allontanarsi, si sarebbero volti a guardare il tristissimo spettacolo degli incendi; soltanto alla flotta rodia sarebbe stato concesso un prossimo ritorno e rimpatrio. Neppure tu sfuggisti a un grave turbamento, e Marco Varrone e Marco Catone, uomini dotti, che si trovavano lì anch'essi, rimasero gravemente atterriti. Pochissimi giorni dopo arrivò Labieno fuggiasco da Farsàlo, e dopo che ebbe recato l'annunzio della disfatta dell'esercito, in breve tempo si avverarono le altre cose che erano state vaticinate. 69 Il grano sottratto ai depositi e sparso qua e là aveva ricoperto tutte le strade e i vicoli, e voi, atterriti, vi imbarcaste senza indugio, e nella notte, guardando verso la città, vedevate le navi da carico in preda alle fiamme, incendiate dai soldati perché non avevano voluto seguirvi. Quando, infine, foste abbandonati dalla flotta rodia, vi accorgeste che l'indovino aveva detto il vero. 70 Ho esposto il più brevemente che ho potuto le predizioni del sogno e dell'eccitazione divina, che, come avevo detto, sono estranee all'"arte". Di entrambi questi tipi di divinazione unica è la motivazione, alla quale suole richiamarsi il nostro Cratippo: le anime umane derivano e sono tratte in parte dall'esterno - e da ciò si comprende come vi sia al di fuori di noi un'anima divina, dalla quale è derivata l'umana -; ma quella parte dell'anima umana che consiste in sensazione, in movimento, in appetizione non è separata dall'influsso del corpo; quella, invece, che è partecipe della razionalità e dell'intelligenza è più che mai vivida quando è distanziata il più possibile dal corpo. 71 Pertanto, dopo avere citato esempi di vaticinii e sogni veridici, Cratippo suole argomentare in questo modo: "Se senza occhi non può svolgersi la funzione e il còmpito degli occhi, e tuttavia può accadere talvolta che gli occhi non adempiano bene al loro còmpito, chi anche una volta sola ha usato gli occhi in modo da scorgere le cose come sono in realtà, possiede il senso della vista capace di percepire la realtà. Allo stesso modo, dunque, se, non esistendo la divinazione, non può svolgersi né la funzione né il còmpito della divinazione stessa, e tuttavia può accadere talvolta che qualcuno, pur dotato di capacità divinatorie, erri e non veda la realtà, è sufficiente a dimostrare l'esistenza della divinazione che anche una volta sola un fatto sia stato divinato in circostanze tali da non sembrare che ciò possa in alcun modo attribuirsi al caso. Ma ci sono esempi innumerevoli di questo genere: bisogna dunque ammettere che la divinazione esiste." XXXIII 72 Quanto a quei segni profetici che vengono spiegati mediante interpretazione oppure risultano osservati e registrati in coincidenza con ciò che accade in séguito, essi, come ho detto sopra, vengono chiamati non naturali ma artificiali; in questo campo si annoverano gli arùspici, gli àuguri, gli altri interpreti. Questi generi di divinazione sono negati dai peripatetici, difesi dagli stoici. Alcuni sono basati sui documenti e sulla dottrina, quale è esposta nei libri aruspicini, fulgorali e rituali degli etruschi, nonché nei vostri libri augurali; altri invece vengono spiegati dagli indovini sull'istante, per interpretazione immediata, come in Omero Calcante, che dal numero dei passeri aveva predetto il numero degli anni della guerra di Troia, o come leggiamo nelle Memorie di Silla - e tu stesso fosti presente al fatto - : mentre egli nel territorio di Nola compiva un sacrificio dinanzi al pretorio, dal di sotto dell'altare sbucò all'improvviso un serpente, e allora l'arùspice Gaio Postumio lo esortò a muovere all'offensiva con l'esercito. Silla gli diede ascolto, e dinanzi alla città di Nola espugnò l'accampamento dei sanniti, ben fornito di armi e vettovaglie. 73 Anche a proposito di Dionisio fu fatta una profezia poco prima che 99
salisse al trono. Viaggiava per il territorio di Lentini e fece scendere in un fiume il suo cavallo; travolto dai gorghi, questo sprofondò nelle acque. Dionisio, dopo lunghi e vani sforzi di farlo venir su, si allontanò amareggiato, come narra Filisto. Ma dopo aver camminato per un poco, a un tratto udì un nitrito e si allietò vedendo il cavallo vivo e fremente, sulla cui criniera si era posato uno sciame d'api. L'effetto di questo prodigio fu che Dionisio divenne tiranno di Siracusa pochi giorni dopo. XXXIV 74 E ancora: quale presagio toccò agli spartani poco prima della battaglia di Leuttra, quando nel tempio di Ercole le armi risonarono e la statua di Ercole si coprì tutta di sudore! E contemporaneamente, come narra Callistene, a Tebe nel tempio di Ercole i battenti delle porte, chiusi da sbarre, si aprirono da sé all'improvviso, e le armi che erano appese alle pareti furon trovate sul pavimento. E ancora nel medesimo tempo, mentre presso Lebadìa si svolgeva un rito in onore di Trofonio, i galli in tutta quella contrada incominciano a cantare così insistentemente da non smetterla più. Gli àuguri della Beozia dissero allora che la vittoria sarebbe spettata ai tebani, perché i galli sogliono tacere quando son vinti, cantare quando hanno vinto. 75 Frattanto gli spartani ricevevano molti preannunci del disastro nella battaglia di Leuttra. C'era a Delfi una statua di Lisandro, il più famoso degli spartani; sulla testa della statua comparve all'improvviso una corona di erbe spinose e selvatiche; e le stelle d'oro che erano state poste a Delfi dagli spartani dopo la famosa vittoria navale riportata da Lisandro, che segnò la rovina degli ateniesi, giacché si diceva che in quella battaglia Càstore e Pollùce erano apparsi dalla parte della flotta spartana, - le stelle d'oro che ho detto, dunque, poste a Delfi come insegne di quegli dèi, caddero giù poco prima della battaglia di Leuttra e non si ritrovarono più. 76 Ma il prodigio più grave, ancora a danno degli spartani, fu quest'altro: quando chiesero un responso a Giove dodonèo per sapere se avrebbero vinto, e i messi ebbero collocato al suo posto il recipiente in cui si trovavano le sorti, una scimmia, che il re dei molossi aveva molto cara, scompigliò e buttò qua e là le sorti e tutti gli altri oggetti che erano stati portati per compiere il sorteggio. Si narra che allora la sacerdotessa preposta all'oracolo disse che gli spartani avrebbero dovuto pensare alla loro salvezza, non alla vittoria. XXXV 77 E nella seconda guerra punica Gaio Flaminio, console per la seconda volta, non trascurò i presagi del futuro, con grande sventura della repubblica? Dopo che ebbe compiuto la cerimonia di purificazione dell'esercito, avendo intrapreso la marcia in direzione di Arezzo per condurre le sue legioni contro Annibale, ecco che egli stesso e il suo cavallo caddero tutt'a un tratto senza alcuna causa dinanzi alla statua di Giove Statore; gli esperti giudicarono che questo segno doveva dissuaderlo dal dare battaglia, ma egli non si fece alcuno scrupolo di ciò. Poi, quando prese gli auspicii mediante il tripudium, fu consigliato dal pullario a rimandare il giorno del combattimento. Flaminio allora gli domandò: "Se nemmeno in seguito i polli avranno voglia di mangiare, che cosa ritieni che si dovrà fare?" Il pullario rispose che si sarebbe dovuto stare ancora fermi. E Flaminio: "Belli davvero questi auspicii! Quando i polli avranno fame si potrà dar battaglia, quando saranno sazi non si potrà far più nulla." Ordinò dunque che si svellessero dal suolo le insegne e lo si seguisse. Il portatore dell'insegna del primo manipolo di astati non riuscì a smuovere l'insegna, nemmeno con l'aiuto di parecchi altri; Flaminio, quando ciò gli fu annunziato, secondo il. suo solito non si curò del prodigio. E così in quelle tre terribili ore l'esercito fu trucidato e Flaminio stesso fu ucciso. 78 È importante anche quello che aggiunge Celio: proprio nel tempo in cui si svolgeva quella 100
disastrosa battaglia, vi furono in Liguria, in Gallia, in parecchie isole e in tutta l'Italia terremoti così forti che molte città furono distrutte, in molte località avvennero frane e sprofondamenti del suolo, i fiumi invertirono il loro corso, il mare penetrò nei corsi d'acqua. XXXVI Gli esperti sono capaci di prevedere spesso con certezza il futuro. A quel famoso Mida frigio, ancora bambino, delle formiche ammucchiarono in bocca, mentre dormiva, chicchi di grano. Fu predetto che sarebbe divenuto ricchissimo; e la predizione si avverò. Ma a Platone, da piccolo, delle api si posarono sulle labbra mentre dormiva in culla. Gli indovini dettero il responso che egli sarebbe stato dotato di straordinaria dolcezza di eloquio: così la sua eloquenza futura fu prevista quando era ancora un neonato. 79 E Roscio, da te tanto amato e ammirato, mentiva egli stesso o mentiva per lui tutta Lanuvio? Era ancora in culla ed era allevato nel Solonio, che è una località campestre presso Lanuvio. Di notte, la sua nutrice si svegliò (una lampada accanto faceva luce), e vide che il bambino addormentato era avvolto entro le spire di un serpente. Atterrita da quella vista, lanciò un grido. Il padre di Roscio riferì la cosa agli arùspici, i quali risposero che nulla al mondo sarebbe stato più insigne, più famoso di quel bambino. E questa scena Pasitele la cesellò in argento e il nostro Archia la narrò in poesia. Che cosa aspettiamo, dunque? Che gli dèi immortali s'intrattengano con noi nel fòro, per la strada, in casa? Certo, essi non si presentano a noi direttamente, ma diffondono per lungo e per largo il loro influsso; e ora lo immettono negli antri sotterranei, ora lo infondono in anime umane. La forza della terra ispirava la Pizia a Delfi, la forza della sua stessa indole incitava la Sibilla. E non vediamo dunque quanto varii siano i tipi di terra? Ve ne sono di mortiferi, come Ampsancto in Irpinia e i Plutonia che io ho visto in Asia; vi sono plaghe, alcune pestifere, altre salubri; in alcune nascono uomini di ingegno acuto, in altre ottuso; tutto ciò dipende sia dalla diversità dei climi, sia dalle differenti esalazioni dei terreni. 80 Avviene anche che spesso per qualche apparizione, spesso per voci profonde o canti, l'animo umano subisca una particolare eccitazione; spesso anche per ansia e timore, come quella "con l'animo sconvolto, come invasata o scossa dal furore dei riti bacchici, su per i colli, invocando il suo Teucro". XXXVII E anche quell'esaltazione dimostra che nell'anima c'è una forza divina. Democrito, in effetti, sostiene che nessuno può essere un grande poeta senza una specie di follìa, e la stessa cosa dice Platone. La chiami pure follia, purché ne venga fatto un elogio come nel Fedro. D'altronde, i discorsi di voi oratori nei processi, i vostri gesti stessi, possono essere veementi, elevati, eloquenti, se anche l'animo di chi parla non è alquanto commosso? In verità, spesso ho veduto in te, o, per passare a un genere meno solenne, nel tuo amico Esopo un tale ardore di espressioni del volto e di movimento, che si sarebbe detto che una forza misteriosa lo avesse tratto fuori dalla piena consapevolezza di sé. 81 Spesso anche si presentano alla vista delle immagini che non hanno realtà alcuna, ma ne hanno l'apparenza. Ciò, si narra, accadde a Brenno e ai Galli suoi soldati, quando quel re scatenò un'empia guerra contro il tempio di Apollo delfico. Dicono che allora la Pizia parlò solennemente così dall'oracolo: "A questo provvederò io, e con me le bianche vergini." Accadde allora che delle vergini sembrassero avanzarsi armate, e che in realtà l'esercito dei Galli fosse sepolto sotto la neve. 101
XXXVIII Aristotele riteneva che anche i veri e propri ammalati di pazzia furiosa e i cosiddetti atrabiliari avessero nelle loro anime qualcosa di profetico e divinatorio. Ma io non direi che questa qualità vada attribuita ai biliosi e ai frenetici: la divinazione è dote di anime integre, non di corpi ammalati. 82 Che davvero la divinazione esista si dimostra con questa argomentazione degli stoici: "Se gli dèi esistono e non fanno sapere in anticipo agli uomini il futuro, o non amano gli uomini, o ignorano ciò che accadrà, o ritengono che non giovi affatto agli uomini sapere il futuro, o stimano indegno della loro maestà preavvertire gli uomini delle cose che avverranno, o nemmeno gli dèi stessi sono in grado di farle sapere. Ma non è vero che non ci amino (sono, infatti, benèfici e amici del genere umano), né è possibile che ignorino ciò che essi stessi hanno stabilito e predisposto, né si può Ammettere che non ci giovi sapere ciò che accadrà (ché, se lo sapremo, saremo più prudenti), né essi ritengono che CIò non si confaccia alla loro maestà (niente è, difatti, più glorioso che fare il bene), né possono essere incapaci di prevedere il futuro. 83 Dunque, dovremmo concludere, gli dèi non esistono e non predìcono il futuro. Ma gli dèi esistono; dunque predìcono. E se dànno indizi, non è ammissibile che ci precludano ogni mezzo di interpretare tali indizi (ché darebbero gli indizi senza alcun frutto), né, se essi ci forniscono quei mezzi d'interpretazione, è possibile che non vi sia la divinazione. Dunque c'è la divinazione." XXXIX 84 Di questa argomentazione si servono Crisippo, Diogene e Antipatro. Che motivo c'è, dunque, di rimanere incerti sull'assoluta verità di ciò che ho esposto, se dalla mia parte stanno la ragione, l'avverarsi dei presagi, i popoli, le genti, i greci, i barbari, i nostri stessi antenati, se insomma a queste cose si è sempre creduto, se vi hanno creduto i più grandi filosofi, i poeti, i saggissimi uomini che istituirono gli stati e fondarono le città? Forse, non bastandoci la concorde autorità degli uomini, aspettiamo che parlino le bestie? 85 Del resto, chi sostiene che i generi di divinazione di cui parlo non hanno alcun valore, obietta soltanto questo: che appare difficile dire quale sia il procedimento razionale, quale la causa di ciascuna divinazione. Che motivo può addurre l'arùspice per cui un polmone che presenta una fenditura, anche se le viscere sono in complesso di buon augurio, debba far sospendere il tempo di un'azione e farla rinviare a un altro giorno? Che motivo ha l'àugure di sentenziare che un corvo che gràcida da destra, una cornacchia da sinistra, sono di buon augurio? Che motivo ha l'astrologo di dire che l'astro di Giove o di Venere in congiunzione con la luna è di buon auspicio per la nascita dei bambini, mentre gli astri di Saturno o di Marte sono infausti? E ancora, perché la divinità ci ammonisce mentre dormiamo, non si cura di noi quando siamo svegli? Che ragione c'è per cui Cassandra veda il futuro in stato di folle esaltazione, e non sia in grado di far ciò Priamo trovandosi perfettamente in senno? 86 Tu chiedi perché ciascuna di queste cose avvenga. Curiosità del tutto legittima; ma qui non di questo si tratta: si discute se quei fatti avvengano o no. Sarebbe come se, dicendo io che la calamita è una pietra che alletta e attrae a sé il ferro ma non sapendo dire perché ciò avvenga, tu negassi senz'altro il fatto. È ciò che fai riguardo alla divinazione, che constatiamo di persona, di cui sentiamo parlare e leggiamo, la cui dottrina ci è giunta dai nostri antenati. E già prima dell'inizio della filosofia, che risale a tempi recenti, l'opinione comune non ebbe alcun dubbio quanto a ciò; e quando si fece avanti la filosofia, nessun filosofo dotato di un minimo di autorità la pensò altrimenti. 87 Ho menzionato Pitagora, Democrito, Socrate; tra i più antichi non ho dovuto far eccezioni per nessuno tranne per Senofane. Ho aggiunto l'Accademia antica, i 102
peripatetici, gli stoici. Dissente solo Epicuro; ma che cosa c'è di più turpe del fatto che il medesimo Epicuro sostiene che non esiste alcuna virtù disinteressata? XL Chi, d'altra parte, non rimane impressionato dall'antichità dei fatti testimoniati e garantiti da documenti di gran valore? Omero dice che Calcante fu l'àugure di gran lunga migliore di tutti, e che guidò le navi greche fino a Ilio, grazie alla sua conoscenza degli auspicii, credo bene, non a quella dei luoghi. 88 Anfiloco e Mopso furono re degli argivi, ma anche àuguri, e fondarono città greche sulla costa della Cilicia. E ciò fecero prima di loro Anfiarao e Tiresia, non gente bassa e ignota, non simili a quelli di cui parla Ennio, "che per bisogno di guadagnare inventano false profezie", ma uomini famosi e valenti, che interpretando il volo degli uccelli e i segni premonitori dicevano il futuro. Del secondo di essi Omero dice che anche negl'inferi è l'unico ad aver senno, gli altri errano al pari di ombre; quanto poi ad Anfiarao, la fama acquistatasi presso i greci gli procurò tanto onore, che fu considerato un dio e gli si chiedevano oracoli che emanassero dal suo suolo, là dove era stato sotterrato. 89 E Priamo, il re dell'Asia, non aveva due figli capaci di divinazione, Eleno e Cassandra, il primo mediante gli augurii, l'altra per esaltazione e follìa divina? Profeti di questo secondo genere furono presso di noi in tempi antichi (ne abbiamo menzione scritta) certi fratelli Marcii, di famiglia nobile. E Poliido corinzio, non predisse la morte - lo narra Omero - al figlio che partiva per la guerra di Troia, e molte altre cose ad altri? In generale, nei tempi antichi i sovrani erano anche maestri di arte augurale: consideravano come una dote regale la divinazione al pari della sapienza nel governare. Ne è testimone la nostra città, nella quale dapprima furono àuguri i re, poi alcuni privati cittadini, muniti di questa stessa carica sacerdotale, governarono la repubblica con l'autorità promanante dalle credenze religiose. XLI 90 Questi procedimenti divinatorii non sono trascurati nemmeno dai barbari. In Gallia vi sono i Druidi: ne ho conosciuto uno anch'io, l'èduo Divizíaco, tuo ospite e ammiratore, il quale dichiarava che gli era nota la scienza della natura, chiamata dai greci physiología, e in parte con gli augurii, in parte con l'interpretazione dei sogni, diceva il futuro. Tra i persiani, interpretano gli augurii e profetano i maghi, i quali si riuniscono in un luogo sacro per meditare sulla loro arte e per scambiarsi idee, il che anche voi eravate soliti fare nel giorno delle None; 91 né alcuno può essere re dei persiani se non ha prima appreso la pratica e la scienza dei maghi. È facile, d'altronde, vedere famiglie e genti dedite alla divinazione. In Caria c'è la città di Telmesso, nella quale l'arte degli arùspici si distingue particolarmente; così pure Èlide nel Peloponneso ha due determinate famiglie, quella degli Iàmidi e quella dei Clìtidi, famose più di tutte per l'aruspicìna. In Siria i Caldei eccellono per conoscenza degli astri e per acutezza d'interpretazione. 92 L'Etruria conosce profondamente i presagi tratti dai luoghi colpiti dal fulmine, e sa interpretare il significato di ciascun prodigio e di ciascuna apparizione portentosa. Giustamente, perciò, al tempo dei nostri antenati, quando il nostro Stato era in pieno fiore, il senato decretò che dieci figli di famiglie eminenti, scelti ciascuno da una delle genti etrusche, fossero fatti istruire nell'aruspicìna, per evitare che un'arte di tale importanza, a causa della povertà di quelli che la praticavano, scadesse da autorevole disciplina religiosa a oggetto di traffico e di guadagno. Quanto, poi, ai frigi, ai pisidii, ai cilici, al popolo arabo, essi obbediscono scrupolosamente ai segni profetici dati dagli uccelli; e sappiamo che lo stesso è avvenuto per lungo tempo in Umbria. XLII 93 E a me sembra che l'opportunità di praticare i diversi generi di divinazione sia derivata anche dai luoghi che erano abitati dai vari popoli. Gli 103
egiziani e i babilonesi, che abitavano in distese di campi pianeggianti, poiché nessuna altura poteva ostacolare la contemplazione del cielo, posero tutto il loro studio nella conoscenza degli astri. Gli etruschi, poiché, sommamente religiosi, immolavano vittime con zelo e frequenza particolare, si dedicarono soprattutto all'indagine delle viscere; e siccome, per l'aria pregna di vapori, erano frequenti nella loro patria i fulmini, e per lo stesso motivo si verificavano molti fatti straordinari provenienti in parte dal cielo, altri dalla terra, taluni anche in seguito al concepimento e alla generazione degli esseri umani e delle bestie, acquistarono una grandissima perizia nell'interpretare i prodigi. Il cui significato, come tu sei solito dire, è dimostrato dalle parole stesse foggiate sapientemente dai nostri antenati: poiché fanno vedere (ostendunt), prognosticano (portendunt), mostrano (monstrant), predicono (praedicunt), vengono chiamati apparizioni miracolose (ostenta), portenti (portenta), mostri (monstra), prodìgi (prodigia). 94 Gli arabi, i frigi e i cilici, poiché sono soprattutto dediti alla pastorizia, percorrendo le pianure d'inverno e le montagne d'estate, hanno perciò notato più agevolmente i diversi canti e voli degli uccelli; e per lo stesso motivo hanno fatto ciò gli abitanti della Pisidia e quelli di questa nostra Umbria. E ancora, tutti i carii e in particolare gli abitanti di Telmesso, di cui ho detto sopra, siccome vivono in plaghe ricchissime ed estremamente fertili, nelle quali per la fecondità del terreno molte piante e animali possono formarsi e generarsi, osservarono con accuratezza gli esseri abnormi. XLIII 95 Chi, del resto, non vede che in ogni Stato bene ordinato gli auspicii e gli altri tipi di divinazione hanno sempre goduto altissimo credito? Quale re c'è mai stato, quale popolo che non ricorresse alle predizioni divine? E questo non solo in tempo di pace, ma anche, molto di più, in guerra, perché tanto maggiore era la posta in giuoco e in più grave rischio la salvezza. Lascio da parte i nostri, i quali non intraprendono nulla in guerra senza aver esaminato le viscere, nulla fanno in pace senza aver preso gli auspicii; vediamo gli stranieri. Gli ateniesi in tutte le pubbliche deliberazioni ricorsero sempre a certi sacerdoti divinatori che essi chiamano mánteis, e gli spartani posero a fianco dei loro re un àugure come consigliere, e vollero, parimenti, che un àugure partecipasse alle riunioni degli anziani (così chiamano il consiglio statale); e così pure, in tutte le questioni importanti, chiedevano sempre responsi a Delfi o ad Ammone o a Dodona. 96 Licurgo, che dette la costituzione allo Stato spartano, volle confermare le proprie leggi con l'approvazione di Apollo delfico; e quando Lisandro le volle riformare, ne fu impedito dal divieto del medesimo oracolo. Non basta: i governanti degli spartani, non ritenendo sufficienti le cure che davano al governo durante il giorno, andavano a giacere, per procurarsi dei sogni, nel tempio di Pasifae, situato nella campagna vicina a Sparta, perché consideravano veritiere le profezie avute nel sonno. 97 Ecco, ritorno alle cose nostre. Quante volte il senato ordinò ai decemviri di consultare i libri sibillini! In quanto importanti e numerose occasioni obbedì ai responsi degli arùspici! Ogni volta che si videro due soli, e tre lune, e fiamme nell'aria; ogni volta che il sole apparve di notte, e giù dal cielo si sentirono dei rumori sordi e sembrò che la volta celeste si fendesse, e in essa apparvero dei globi. Fu anche annunziato al senato il franamento del territorio di Priverno, quando la terra s'abbassò fino ad una profondità immensa e la Puglia fu squassata da violentissimi terremoti. E da questi portenti erano preannunciate al popolo romano grandi guerre e rovinose sedizioni, e in tutti questi casi i responsi degli arùspici concordavano coi versi della Sibilla. 98 E ancora, quando a Cuma sudò la statua di 104
Apollo, a Capua quella della Vittoria? E la nascita di un andrògino non fu un prodigio funesto? E quando le acque del fiume Atrato si tinsero di sangue? E che dire del fatto che più volte cadde giù una pioggia di pietre, spesso di sangue, talvolta di terra, una volta anche di latte? E quando sul Campidoglio fu colpita dal fulmine la statua di un Centauro, sull'Aventino porte delle mura e uomini, a Tùsculo il tempio di Càstore e Pollùce, a Roma il tempio della Pietà? In tutte queste circostanze gli arùspici non dettero responsi conformi a ciò che poi accadde, e nei libri sibillini non furono trovate le stesse profezie? XLIV 99 Non molto tempo fa, durante la guerra màrsica, in seguito a un sogno di Cecilia, figlia di Quinto, il tempio dedicato a Giunone Sospita fu fatto ricostruire dal senato. Sisenna aveva dimostrato che quel sogno corrispondeva mirabilmente, alla lettera, coi fatti; poi, inaspettatamente, credo per influsso di qualche epicureo, si mette a sostenere che non bisogna credere ai sogni. Eppure contro i prodìgi non obietta nulla, e narra che all'inizio della guerra màrsica le statue degli dèi sudarono, e scorsero fiumi rossi di sangue, e che il cielo si spaccò, e si udirono voci misteriose che annunziavano pericoli di guerra, e a Lanuvio alcuni scudi furono rosicchiati dai topi: agli arùspici questo parve un presagio funestissimo. 100 E che dire di ciò che leggiamo negli annali? Durante la guerra contro Veio, essendo cresciute oltre misura le acque del lago Albano, un nobile di Veio passò dalla nostra parte e disse che, secondo i libri profetici che i veienti conservavano, Veio non poteva esser presa finché il lago non fosse giunto a traboccare; ma se le acque, fuoriuscendo, si fossero scaricate in mare secondo il loro deflusso spontaneo, sarebbe stata una rovina per il popolo romano; se invece fossero state incanalate in modo da non poter raggiungere il mare, sarebbe stata la vittoria per i nostri. In seguito a ciò i nostri antenati scavarono quel mirabile canale di scarico dell'acqua del lago Albano. Ma quando i veienti, spossati dalla guerra, mandarono ambasciatori al senato per trattare la resa, allora uno di essi - si narra - disse che quel disertore non aveva avuto il coraggio di dire tutto al senato: ché in quegli stessi libri profetici posseduti dai veienti si diceva che tra breve Roma sarebbe stata conquistata dai Galli: e in effetti, come sappiamo, ciò avvenne sei anni dopo la presa di Veio. XLV 101 Spesso anche si narra che nelle battaglie si udirono le voci dei Fauni, e, nel corso di tumulti, parole che predicevano il vero, provenienti chissà da dove. Tra i molti esempi di questo genere, bastino due soli, ma di gran rilievo. Non molto prima che la città fosse presa dai Galli, si udì una voce proveniente dal bosco sacro a Vesta, che dai piedi del Palatino scende verso la Via Nuova: la voce ammoniva che si ricostruissero le mura e le porte; se non si provvedeva, Roma sarebbe stata presa dai nemici. Di questo ammonimento, che fu trascurato allora, quando si era in tempo a evitare il danno, fu fatta espiazione dopo quella terribile disfatta: dirimpetto a quel luogo, fu consacrato ad Aio Loquente un altare, che tuttora vediamo protetto da un recinto. L'altro esempio: molti hanno scritto che, dopo un terremoto, una voce proveniente dal tempio di Giunone sul Campidoglio ammonì che si sacrificasse in segno di espiazione una scrofa gravida: perciò la Giunone a cui era dedicato quel tempio fu chiamata Moneta. Questi fatti, dunque, annunciati dagli dèi e sanzionati dai nostri antenati, li disprezziamo? 102 Ma i pitagorici consideravano assiduamente non solo le voci degli dèi, ma anche quelle degli uomini, chiamate òmina. E siccome i nostri antenati ritenevano che esse avessero valore profetico, ogni volta che dovevano compiere un atto importante incominciavano col dire: "Sia questa cosa buona, fausta, felice e 105
fortunata"; e nelle pubbliche cerimonie religiose si ordinava che i presenti "facessero silenzio", e, nel proclamare le ferie, che "si astenessero da liti e risse". Così pure, nel fondare con un rito di purificazione una colonia, colui che la fondava sceglieva, perché conducessero le vittime al sacrificio, persone dai nomi di buon augurio; e così faceva il comandante quando purificava l'esercito, il censore quando purificava il popolo. Alla stessa norma si attengono i consoli nella leva: che il primo soldato arruolato abbia un nome di buon augurio. 103 Tu sai bene che, quando sei stato console e comandante militare, hai osservato queste norme con grande scrupolo. Anche riguardo alla centuria che votava per prima nei comizi, i nostri antenati ritennero che per il suo nome essa costituisse un buon auspicio di elezioni conformi alla legge. XLVI Ed io ti rammenterò ben noti esempi di òmina. Lucio Paolo, console per la seconda volta, essendogli toccato l'incarico di condurre la guerra contro il re Perse, quando in quello stesso giorno, sull'imbrunire, ritornò a casa, nel dare un bacio alla sua bambina Terzia, ancora molto piccola a quel tempo, si accorse che era un po' triste. "Che è successo, Terzia?" le chiese; "perché sei triste?." E lei: "Babbo," disse, "è morto Persa." Egli allora, abbracciandola forte, disse: "Accetto il presagio, figlia mia." Era morto un cagnolino che si chiamava così. 104 Ho udito raccontare io stesso da Lucio Flacco, flàmine marziale, che Cecilia, moglie di Metello, volendo far sposare la figlia di sua sorella, si recò in un tempietto per ricevere un presagio, secondo l'uso degli antichi. La nipote stava in piedi, Cecilia era seduta; per molto tempo non si sentì nessuna voce; allora la ragazza, stanca, chiese alla zia che le permettesse di riposarsi un poco sulla sua sedia. E Cecilia: "Certo, bambina mia, ti lascio il mio posto." E il detto si avverò: Cecilia morì poco dopo, e la ragazza sposò colui che era stato il marito di Cecilia. Lo capisco fin troppo bene: queste cose si possono disprezzare o si può anche riderne; ma disprezzare i segni inviati dagli dèi e negare la loro esistenza, è tutt'uno. XLVII 105 E degli àuguri, che dire? È materia di tua pertinenza; a te, dico, deve spettare la difesa degli auspicii. Quando eri console, l'àugure Appio Claudio ti annunziò - avendo giudicato ambiguo l'"augurio della salvezza" - che vi sarebbe stata una guerra civile funesta e tempestosa. E pochi mesi dopo scoppiò, e tu la soffocasti in ancor più pochi giorni. Quell'àugure io lo stimo altamente, perché egli solo, dopo molti anni, non si limitò a ripetere le solite formule augurali, ma mantenne in vita l'arte della divinazione. I tuoi colleghi lo deridevano, lo chiamavano àugure di Pisidia o di Sora: essi credevano che negli augurii non vi fosse nessun presentimento, nessuna conoscenza della realtà futura; erano stati accorti, dicevano, quelli che avevano inventato le credenze religiose per darle a intendere agli ignoranti! Ma la realtà è ben diversa: né quei pastori di cui Romolo fu il re, né Romolo in persona poterono essere tanto smaliziati da inventare delle parvenze di religione per trarre in errore la moltitudine. Ma la difficoltà e la fatica d'imparare hanno reso eloquenti i fannulloni: meglio fare forbiti discorsi sul valore nullo degli auspicii, che apprenderne con cura l'essenza. 106 Che c'è di più profetico di quell'auspicio che si legge nel tuo Mario? Della tua testimonianza mi piace servirmi più che di ogni altra: "Allora, d'improvviso, l'alata ministra di Gìove altitonante, ferita dal morso del serpente, lo strappa a sua volta dal tronco dell'albero, trafiggendo con gli artigli spietati il rettile semivivo, guizzante a gran forza col collo variegato. Essa dilania e insanguina col becco il serpente che si divincola; poi, ormai saziata l'ira, ormai 106
vendicato l'aspro dolore, lo lascia cader giù spirante, lo fa precipitare nelle onde già ridotto a brani; ed essa si rivolge dal lato dove il sole tramonta verso il lato donde sorge splendente. Appena Mario, àugure della volontà divina, ebbe visto l'aquila che volava scorrendo per il cielo con le ali veloci, ed ebbe inteso il fausto presagio della propria gloria e del proprio ritorno, ecco che il Padre stesso degli dèi tuonò dalla parte sinistra del cielo. Così Giove confermò lo splendido presagio dell'aquila." XLVIII 107 E quell'augurio ottenuto da Romolo fu un augurio da pastore, non da esperto cittadino, non inventato per dar soddisfazione alle credenze degli ignoranti, ma ricevuto da persone fededegne e tramandato ai posteri. Or bene, Romolo àugure, come leggiamo in Ennio, e suo fratello àugure anche lui, "procedendo con gran cura, e desiderosi di regnare, si accingono all'auspicio e all'augurio. +Sul monte+ **** Remo si dedica all'auspicio e da solo attende che appaia qualche uccello; dal canto suo, Romolo dall'aspetto divino osserva il cielo sull'alto Aventino, attende la stirpe degli altovolanti. Gareggiavano per decidere se dovessero chiamare la città Roma o Rémora; tutti attendevano ansiosamente chi sarebbe stato il sovrano. Aspettano, come quando il console sta per dare il segnale nella corsa dei carri, tutti guardano avidamente le aperture dei cancelli, 108 attenti al momento in cui lascerà uscire dalle dipinte imboccature i carri: allo stesso modo il popolo aspettava coi volti pallidi nell'attesa degli eventi, chiedendosi a quale dei due sarebbe toccata la vittoria nella gara per il gran regno. Frattanto il sole lucente si calò nelle profondità della notte. Ed ecco, la fulgida luce riapparve raggiante, spinta fuori nel cielo; e nello stesso tempo, lontano, dall'alto, volò un uccello bellissimo, di buon augurio, da sinistra. Appena sorge l'aureo sole, scendono dal cielo dodici corpi sacri di uccelli, si posano su luoghi fausti e bene auguranti. Da ciò Romolo comprese che a lui era stata data la preferenza, che in seguito all'auspicio gli era assicurato il seggio regale e il territorio." XLIX 109 Ma, per ritornare al punto da cui ha preso le mosse il mio discorso, anche se io non fossi per nulla in grado di spiegare perché avviene ciascuno di questi fatti, e dimostrassi soltanto che i fatti che ho menzionato avvengono, sarebbe debole la mia replica a Epicuro e a Carneade? Ebbene, che diremo se esiste anche la spiegazione, facile quella delle profezie ottenute mediante l'arte, alquanto più oscura, in verità, quella delle profezie derivanti da esaltazione divina? Le profezie ricavate dalle viscere, dai fulmini, dai portenti, dagli astri si basano sulla registrazione di osservazioni costanti; e in ogni campo la lunga durata, accompagnata da lunga osservazione, ci procura straordinarie conoscenze. Queste si possono ottenere anche senza l'intervento e l'impulso degli dèi, quando, con frequenti esperienze, si arriva a capire che cosa accada in conseguenza di ciascun segno e quale sia il valore di premonizione di ciascun fenomeno. 110 L'altra forma di divinazione, l'ho già detto, è quella naturale. Essa, con sottili ragionamenti riguardanti la scienza della natura, va riferita all'essenza degli dèi, dalla quale, secondo i pensatori più dotti e sapienti, noi abbiamo tratto le nostre anime, come se le avessimo aspirate o bevute; e poiché il Tutto è compenetrato e riempito di spirito eterno e di intelligenza divina, avviene necessariamente che le anime umane subiscano l'effetto della loro affinità con le anime divine. Ma, nello stato di veglia, le nostre anime devono occuparsi delle necessità della vita, e quindi si disgiungono dalla comunanza con la divinità, impedite come sono dai legami corporei. 111 Soltanto poche persone sono capaci di astrarsi dal corpo e di innalzarsi, mettendo in opera tutte le loro energie, fino alla conoscenza delle cose divine. Le profezie di 107
costoro non dipendono da afflato divino, ma da ragionamento umano: essi prevedono i fenomeni che avverranno per cause naturali, come le alluvioni o quella deflagrazione del cielo e della terra che un giorno avverrà; altri fra costoro, avendo pratica di cose politiche, sanno prevedere con molto anticipo il sorgere di una tirannide, come sappiamo che fece l'ateniese Solone. Questi li possiamo chiamare "prudenti", cioè "preveggenti", ma certamente non dotati di divinazione. Lo stesso si può dire di Talete di Mileto, il quale, per mettere a tacere i suoi denigratori e per mostrar loro che anche un filosofo, se gli aggrada, può far guadagni, comprò - si racconta - tutti gli olivi del territorio di Mileto prima che incominciassero a fiorire. 112 Si era forse accorto, per certe sue osservazioni scientifiche, che gli olivi avrebbero dato un ottimo raccolto. Fu anche Talete che, a quanto si dice, previde per primo un'eclissi di sole, che in effetti avvenne sotto il regno di Astiage. L Molte previsioni giuste le fanno i medici, molte i naviganti, molte anche i contadini, ma nessuna di esse io chiamo divinazione: nemmeno quella famosa previsione con cui il filosofo della natura Anassimandro avvertì gli spartani di lasciare la città e le case e vegliare armati nei campi, poiché era imminente un terremoto: e in realtà tutta la città fu rasa al suolo e il contrafforte estremo del monte Taigeto fu divelto come la poppa di una nave. Nemmeno Ferècide, il famoso maestro di Pitagora, dovrà essere considerato come un profeta anziché come un filosofo della natura, per aver detto che erano imminenti dei terremoti dopo che ebbe esaminato dell'acqua attinta da un pozzo perenne. 113 La divinazione naturale, l'anima umana non la compie se non quando è talmente sciolta e libera da non avere assolutamente alcun legame col corpo. Ciò accade soltanto ai vaticinanti e ai dormienti. Perciò questi due generi di divinazione sono ammessi da Dicearco e dal nostro Cratippo, come ho detto. Se essi li ammettono perché derivano dalla natura, diciamo pure che sono i più importanti, purché non gli unici; ma se ritengono che l'osservazione dei segni profetici non valga nulla, sopprimono molti indizi utili per la condotta della vita. Ma poiché concedono qualcosa e non di poco conto [le profezie in stato di esaltazione e i sogni], non c'è alcun motivo, per noi, di discutere violentemente con essi, tanto più che vi sono quelli che non ammettono alcuna divinazione! 114 Dunque quelli le cui anime, sprezzando il corpo, volano via e trascorrono fuori, infiammati ed eccitati da una sorta di ardore, vedono senza dubbio le cose che dicono nei loro vaticinii. Anime di questo genere, capaci di non rimanere attaccate ai corpi, sono infiammate da molte cause. Vi sono, per esempio, quelle che subiscono l'eccitazione di qualche voce melodiosa o dei canti frigi. Molte sono esaltate dalla vista dei boschi e delle foreste, molte dai fiumi o dai mari; e la loro mente, in un accesso di follia, vede il futuro molto prima che accada. A questo tipo di divinazione si riferiscono quei famosi versi: "Ahimè, guardate! Qualcuno ha giudicato un giudizio memorabile fra tre dèe; e per quel giudizio arriverà una donna spartana, una delle Furie." Allo stesso modo molte profezie sono state spesso fatte da vaticinanti, e non solo in prosa, ma anche "coi versi che un tempo cantavano i Fauni e i vati." 115 Similmente i vati Marcio e Publicio cantarono oracoli, a quanto si dice; e allo stesso modo furono profferiti gli enigmi di Apollo. Credo anche che dalle fenditure della terra uscissero esalazioni che inebriavano le menti e le inducevano a effondere oracoli. 108
LI E questo è il modo di profetare dei vati, non dissimile, invero, da quello dei sogni. Ciò che accade ai vari da svegli, accade a noi quando dormiamo. Nel sonno l'anima è in pieno vigore, libera dai sensi e da ogni preoccupazione che la frastorni, poiché il corpo giace come se fosse morto. E poiché l'anima esiste da sempre e ha avuto rapporti con altre innumerevoli anime, vede tutto ciò che esiste nell'universo, purché, grazie a un cibo leggero e a bevande modiche, si trovi nella condizione di essere essa desta mentre il corpo è immerso nel sonno. Questo è il genere di divinazione di chi sogna. 116 E qui si fa valere un'importante interpretazione dei sogni [dovuta ad Antifonte], e anche degli oracoli e dei vaticinii: un'interpretazione basata non sulla natura, ma sull'arte: ché vi sono interpreti di queste profezie, come i filologi sono interpreti dei poeti. Giacché, come la natura divina avrebbe creato invano l'oro e l'argento, il rame, il ferro, senza poi insegnare il modo di arrivare ai loro giacimenti, e senza alcuna utilità avrebbe dato al genere umano le messi della terra e i frutti degli alberi, se non ne avesse insegnato la coltivazione e la conservazione, e a nulla servirebbe il legname, se non sapessimo l'arte di fabbricare con esso tante cose, allo stesso modo con ogni beneficio che gli dèi hanno dato agli uomini è stata congiunta un'arte grazie alla quale quel beneficio potesse essere goduto. Dunque anche ai sogni, ai vaticinii, agli oracoli, poiché presentavano molte oscurità e ambiguità, furono fornite le spiegazioni degli interpreti. 117 In qual modo, poi, i vati o quelli che sognano vedano le cose che ancora non esistono in alcun luogo, è oggetto di un'ardua discussione. Ma se indaghiamo ciò che dovrà essere discusso preliminarmente, la soluzione diverrà più facile. Tutto questo problema, difatti, fa parte di quel più vasto argomento riguardante la natura degli dèi, che tu hai spiegato con gran chiarezza nel libro secondo della tua opera. Se ci atterremo a quei princìpi, rimarrà accertato ciò di cui fa parte la questione che stiamo indagando adesso. Si trattava di questo: gli dèi esistono; il mondo è governato dalla loro provvidenza; essi si curano delle cose umane, non solo nel loro insieme, ma anche per ciò che riguarda i singoli individui. Se teniamo fermi questi punti, che a me non sembrano confutabili, senz'altro è necessario che gli dèi facciano sapere il futuro agli uomini. LII 118 Ma bisogna precisare in che modo ciò avvenga. Gli stoici non ammettono che la divinità si occupi delle singole fenditure del fegato delle tante vittime o dei singoli canti degli uccelli (ciò non sarebbe decoroso né degno degli dèi né possibile in alcun modo), ma ritengono che il mondo sia stato formato fin dall'inizio in modo che determinati eventi fossero precorsi da determinati segni, alcuni nelle viscere, altri nel volo degli uccelli, altri nei fulmini, altri nei prodigi, altri negli astri, altri nelle visioni in sogno, altri ancora nelle grida degli invasati. Coloro che sanno comprendere bene questi segni, di rado s'ingannano; le profezie e le interpretazioni compiute inesattamente vanno a vuoto non per difetto della realtà, ma per imperizia degli interpreti. Posto e concesso questo principio, che esiste una forza divina la quale dà regola alla vita umana, non è difficile supporre in che modo avvengano quelle cose che, come vediamo, avvengono senza dubbio. Per esempio, a scegliere una vittima può esserci guida un intelletto divino che pervade tutto il mondo; e proprio nell'istante in cui stai per immolare la vittima può avvenire nelle sue viscere un mutamento, in modo che qualcosa manchi o sia di troppo: bastano alla natura pochi istanti per aggiungere o mutare o togliere qualcosa. 119 A impedirci di dubitare di ciò, una prova decisiva è data da quel che accadde poco prima della 109
morte di Cesare. Quando compi un sacrificio in quel giorno in cui per la prima volta sedette su un seggio dorato e si mostrò in pubblico con una veste purpurea, tra le viscere della vittima, che era un bove ben pasciuto, non si trovò il cuore. Credi dunque che possa esistere un animale dotato di sangue che non abbia il cuore? Dalla stranezza di questo fatto egli ‹non fu› sbigottito, sebbene Spurinna gli dicesse che c'era da temere che egli perdesse il senno e la vita: l'uno e l'altra, infatti, hanno origine dal cuore. Il giorno dopo, in un'altra vittima non si trovò la parte superiore del fegato. Questi segni gli erano mandati dagli dèi immortali. perché prevedesse la propria morte, non perché la evitasse. Dunque, quando nelle viscere non si trovano quelle parti senza le quali l'animale destinato al sacrificio non avrebbe potuto vivere, bisogna concluderne che le parti mancanti sono scomparse nel momento stesso in cui vien compiuto il sacrificio. LIII 120 E lo spirito divino produce analoghi effetti sugli uccelli, in modo che gli "alati" volino ora in una direzione ora in un'altra, si nascondano ora in un luogo ora in un altro, e gli "uccelli profetici" cantino ora da destra ora da sinistra. Ché se ogni animale muove il proprio corpo a suo piacimento, mettendosi ora prono, ora di fianco, ora supino, e piega, contorce, stende, contrae le membra in ogni direzione da lui voluta, e spesso esegue questi movimenti, si può dire, prima ancora di averci pensato, quanto più facile dev'essere ciò alla divinità, al cui volere tutto obbedisce! 121 È anche la divinità quella che ci invia quei segni che in grandissimo numero ci tramanda la storia. Ad esempio leggiamo profezie come queste: se la luna avesse avuto un'eclissi poco prima che il sole sorgesse nella costellazione del Leone, Dario e i persiani sarebbero stati sconfitti in guerra da Alessandro coi suoi macedoni e Dario sarebbe morto; se fosse nata una bambina con due teste, vi sarebbero state sommosse popolari, corruzioni e adulteri nelle famiglie; se una donna avesse sognato di partorire un leone, lo Stato in cui ciò fosse avvenuto avrebbe subìto una sconfitta da un popolo straniero. Dello stesso tipo è anche il fatto narrato da Erodoto, che il figlio di Creso si mise a parlare mentre prima era muto: per il qual prodigio il regno di suo padre e la dinastia andarono del tutto in rovina. Che a Servio Tullio, mentre dormiva, brillò una fiamma sulla testa, quale storia non lo racconta? Come, dunque, chi si abbandona al sonno con animo ben preparato sia da buoni pensieri, sia da cibi che predispongono alla tranquillità, vede in sogno cose certe e vere, così l'anima di chi, nella veglia, si mantiene casto e puro è meglio disposta a cogliere la verità insita negli astri, nel volo degli uccelli e negli altri segni, nonché nelle viscere degli animali. LIV 122 Questo è appunto ciò che sappiamo riguardo a Socrate e che egli stesso dice in tanti passi delle opere dei suoi discepoli: che in lui c'era qualcosa di divino, da lui chiamato dèmone, al quale egli sempre obbediva, e che non lo sospingeva mai a fare qualcosa, ma spesso lo distoglieva. E proprio Socrate (della cui autorità quale altra potrebb'essere migliore?), quando Senofonte gli chiese se dovesse andare in guerra al seguito di Ciro, gli espose prima la propria opinione, e poi aggiunse: "Il mio è il consiglio di un uomo; ma, trattandosi di cose oscure e incerte, ritengo che si debba ricorrere all'oracolo di Apollo," al quale, anche gli ateniesi ricorrevano sempre per le questioni statali più importanti. 123 Di Socrate si legge anche che, avendo visto un giorno il suo amico Critone con un occhio bendato, gli chiese che cosa gli era successo. Critone gli disse che, mentre passeggiava in campagna, un ramoscello da lui scostato e poi lasciato libero gli era andato a colpire l'occhio. E Socrate: "Ecco, non mi hai dato retta quando ti dicevo di non andare in 110
campagna, e te lo dicevo per quell'ammonimento divino che spesso mi viene in aiuto." Ancora Socrate, quando gli ateniesi guidati da Lachete avevano subìto una sconfitta presso Delio, ed egli batteva in ritirata insieme con Lachete, allorché furono giunti a un trivio, non volle prender la strada che prendevano gli altri. E siccome quelli gli chiesero perché non seguitava per il loro stesso cammino, rispose che il dèmone lo sconsigliava. E in effetti quelli che avevano proseguito la fuga per l'altra strada si trovarono alle prese con la cavalleria nemica. Antipatro ha raccolto moltissimi casi in cui Socrate dette mirabile prova della sua capacità di prevedere il futuro; io li tralascerò: tu li conosci, io non ho bisogno di rammentarli per il mio scopo. 124 Ma un detto solo, splendido e, direi, divino, voglio ricordare di quel filosofo: condannato da un'empia sentenza, disse che moriva con piena serenità, perché, né quando era uscito di casa, né quando era salito sulla tribuna dalla quale aveva pronunciato la sua difesa, aveva ricevuto dal dèmone alcuno dei soliti segni premonitori di qualche male. LV Questo è, in verità, il mio parere: sebbene molte volte coloro che hanno fama di indovini esperti nell'osservazione dei segni o nella previsione del futuro cadano in errore, tuttavia la divinazione esiste; gli uomini, del resto, possono sbagliarsi in quest'arte, come in tutte le altre. Può accadere che un segno dato come dubbio sia interpretato come sicuro; può rimanere inosservato un segno, o un altro contrastante col primo. Ma per dimostrare la tesi che io sostengo è sufficiente che si accerti l'esistenza, nemmeno di una maggioranza di previsioni e predizioni avveratesi ma anche solo di una minoranza. 125 Anzi, non esiterei a dire che, se un unico fatto qualsiasi è stato predetto e presentito in modo che, venuti al punto, si verifichi con esatta conformità alla predizione, né in questa coincidenza alcunché possa apparire dovuto al caso, la divinazione esiste senz'altro, e tutti devono ammetterlo. Perciò mi sembra che, come fa Posidonio, ogni capacità e maniera di divinare debba essere fatta risalire innanzi tutto alla divinità (riguardo alla quale abbiamo già detto abbastanza), in secondo luogo al fato, in terzo luogo alla natura. Che tutto avvenga per determinazione del fato, la ragione ci costringe ad ammetterlo. Chiamo fato quello che i greci chiamano heimarménè, cioè l'ordine e la serie delle cause, tale che ogni causa concatenata con un'altra precedente produca a sua volta un effetto. Questa è la verità sempiterna, svolgentesi da tutta l'eternità. Stando così le cose, nulla è accaduto che non dovesse accadere, e del pari nulla accadrà le cui cause, destinate a produrre appunto quell'effetto, non siano già presenti nella natura. 126 Da ciò si comprende che il fato è da concepire, non superstiziosamente ma scientificamente, come la causa eterna in virtù della quale le cose passate sono avvenute, le presenti avvengono, le future avverranno. Per questo, grazie all'osservazione, da un lato si può nella maggior parte dei casi indicare quale effetto risulterà da una data causa (nella maggior parte dei casi, non sempre, poiché un'affermazione così perentoria sarebbe arrischiata); d'altro lato, è verosimile che le medesime cause degli eventi futuri siano scòrte da coloro che hanno visioni in stato di esaltazione o in sogno. LVI 127 Inoltre, siccome tutto avviene per determinazione del fato, come dimostreremo altrove, se potesse esservi un uomo capace di abbracciare col proprio intelletto l'intera concatenazione delle cause, costui saprebbe certamente tutto. Chi, infatti, conoscesse le cause degli avvenimenti futuri, necessariamente conoscerebbe tutto il futuro. Ma poiché nessuno può far questo tranne la divinità, bisogna che 111
l'uomo si accontenti di prevedere il futuro in base ad alcuni segni che gli indicano ciò che da essi conseguirà. Il futuro non sorge all'improvviso: come lo sdipanarsi di una gomena, tale è lo scorrere del tempo che non produce nulla di nuovo e ritorna sempre al punto da cui mosse. Questo lo vedono sia coloro che hanno avuto in dote la divinazione naturale, sia coloro che con l'osservazione hanno compreso il corso degli eventi. Costoro, anche se non scorgono le cause vere e proprie, scorgono però i segni e gli indizi delle cause; per di più, con l'aiuto della memoria, dell'attenzione e di ciò che ci è stato tramandato dagli scritti dei nostri antenati, ecco che si forma quella divinazione che è chiamata artificiale, basata sull'esame delle viscere, dei fulmini, dei prodigi e dei segni provenienti dal cielo. 128 Non c'è dunque motivo di meravigliarsi del fatto che gli indovini prevedano ciò che non vi è ancora in nessun luogo; tutte queste cose vi sono, ma sono ancora lontane nel tempo. E come nei semi è ìnsita la potenza generativa delle future piante, così nelle cause sono racchiusi gli eventi futuri; il loro avvento, lo prevede la mente invasata o immersa nel sonno, o anche il ragionamento e l'interpretazione. E come quelli che conoscono il sorgere, il tramontare, i moti del sole, della luna e degli altri astri sono in grado di predire con molto anticipo in quale tempo ciascuno di quei fenomeni avverrà, così quelli che con lunghe osservazioni hanno notato lo svolgersi dei fatti e il rapporto tra segni ed eventi comprendono il futuro, o sempre, o, se ciò può sembrare arrischiato, nella maggior parte dei casi, o, se neppur questo mi si vuol concedere, almeno parecchie volte. Questi argomenti, dunque, e altri dello stesso genere a favore della divinazione, sono tratti dall'esistenza del fato. LVII 129 Un altro argomento, poi, si desume dalla natura che ci insegna quanto sia grande il potere dell'anima separato dalle sensazioni corporee; e ciò avviene soprattutto a chi dorme o a chi è invasato. Difatti, come le anime degli dèi, senza bisogno di avere occhi, né orecchi, né lingua, intendono reciprocamente ciò che ciascuno intende (cosicché gli uomini, anche quando esprimono tacitamente un desiderio o un voto, possono essere sicuri che gli dèi li odono), così le anime umane, quando, immerse nel sonno, sono sciolte dal corpo oppure, essendo invasate, si muovono da sé, libere, con tutto il loro vigore, vedono ciò che non possono vedere quando sono commiste al corpo. 130 Questo argomento tratto dalla natura , forse, non è facile riferirlo a quel genere di divinazione che, come si è detto, deriva dall'arte; e tuttavia Posidonio, per quanto può, scruta anche questo campo. Egli ritiene che vi siano in natura dei segni premonitori del futuro. Sappiamo, ad esempio, che gli abitanti di Ceo sono soliti, ogni anno, osservare attentamente il sorgere della Canicola e da ciò prevedere se l'annata sarà salubre o malsana, come riferisce Eraclìde Pontico: se l'astro sorgerà alquanto velato e quasi caliginoso, l'aria sarà densa e piena di vapori, sicché la respirazione risulterà penosa e nociva; se invece la costellazione apparirà chiara e lucente, vorrà dire che l'aria sarà sottile e pura, e quindi salubre. 131 Democrito, a sua volta, ritiene che gli antichi saggiamente prescrissero di osservare le viscere delle vittime immolate: dalla loro forma e dal loro colore, egli dice, si possono trarre indizi sia di salubrità dell'aria sia di pestilenza, qualche volta anche di sterilità o di fertilità dei campi. E se l'osservazione e la pratica dei fenomeni naturali è in grado di prevedere queste cose, molte altre si possono, col lungo trascorrere del tempo, scrutare e annotare. Sicché non sembra che conosca affatto la natura quello scienziato che nel Crise di Pacuvio viene introdotto a dire: "Costoro che intendono il linguaggio degli uccelli e traggono la 112
loro sapienza più dal fegato degli animali che dal proprio, io ritengo che sia meglio starli a sentire che dar loro retta." Perché, dimmi un poco, parli così, dal momento che tu stesso, pochi versi dopo, dici in modo eccellente: "Qualunque sia questo essere, esso anima, forma, nutre, accresce, crea; seppellisce e accoglie in sé tutto, e di tutto, al tempo stesso, è padre; e le medesime cose sorgono da esso di nuovo e in esso si dissolvono." Perché, dunque, se la sede di tutti gli esseri è unica e a tutti comune, e se le anime umane sono sempre esistite e sempre esisteranno, perché, dico, non dovrebbero essere in grado di intendere quale effetto risulti da ogni singola causa e quale segno preannunci ciascun evento? Questo", concluse Quinto, "è ciò che avevo da dire sulla divinazione. LVIII 132 Ora, però, dichiarerò solennemente che io non do credito ai volgari estrattori di sorti, né a quelli che fanno gl'indovini per trarne guadagno, né alle evocazioni delle anime dei morti, alle quali ricorreva il tuo amico Appio. Non stimo un bel nulla gli àuguri marsi, né gli arùspici di strada, né gli astrologi che fan quattrini presso il Circo, né i profeti d'Iside, né i ciarlatani interpreti di sogni. Essi non sono indovini per scienza ed esperienza, ma sono "vati superstiziosi e impudenti spacciatori di frottole, incapaci o pazzi o schiavi del bisogno: gente che non sa andare per il proprio sentieruccio e pretenderebbe d'indicare la strada al prossimo. Da quelli a cui promettono ricchezze, chiedono un soldo. Da quelle ricchezze prendano per sé un soldo di ricompensa, e ci dìano, come è dovuto, tutto il resto!" E questo lo dice Ennio, che pochi versi prima afferma che gli dèi esistono, ma ritiene che non si curino delle cose umane. Io invece, che ritengo che gli dèi non solo se ne curino ma anche ci ammoniscano e ci predicano molte cose, credo nella divinazione, quando se ne siano escluse le forme sciocche, mendaci, fraudolente." Dopo che Quinto ebbe così finito di parlare, io dissi: "Tu hai davvero sostenuto con bellissimi argomenti la tua tesi ****
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LIBRO SECONDO I 1 Mi sono chiesto e ho molto e lungamente riflettuto come avrei potuto giovare alla maggior parte dei miei concittadini, per non essere costretto in nessun caso a smettere di agire a vantaggio dello Stato. La soluzione migliore che mi venne in mente fu di render note ad essi le vie per raggiungere le più elevate attività dello spirito. Credo di aver già ottenuto questo scopo con molti miei libri. Nell'opera intitolata Ortensio ho esortato i lettori, quanto più ho potuto, allo studio della filosofia; nei quattro Libri Accademici ho mostrato quale sia, a mio parere, l'indirizzo filosofico meno arrogante e più coerente ed elegante. 2 E poiché la base della filosofia consiste nello stabilire qual è il sommo bene e il sommo male, ho chiarito a fondo questo argomento in un'opera composta di cinque libri, in modo da far comprendere che cosa ciascun filosofo sostenesse e che cosa gli obiettassero i suoi avversari. Nei libri delle Discussioni Tusculane, venuti sùbito dopo, altrettanti di numero, ho esposto ciò che soprattutto è necessario a raggiungere la felicità. Il primo di essi tratta del disprezzo della morte; il secondo del modo di sopportare il dolore fisico; il terzo del mitigare le afflizioni dello spirito; il quarto di tutte le altre perturbazioni dell'anima; il quinto affronta quell'argomento che più di tutti dà splendore alla filosofia, giacché dimostra che la virtù basta a se stessa per ottenere la felicità. 3 Esposti quegli argomenti, ho portato a termine i tre libri Sulla natura degli dèi, nei quali questo problema è discusso da ogni punto di vista. E perché l'esposizione fosse completa e del tutto esauriente, ho intrapreso a scrivere questi due libri Sulla divinazione. Se ad essi aggiungerò, come mi riprometto, un'opera Sul fato, tutto questo problema sarà stato trattato in modo da soddisfare anche i più esigenti. A questi libri, inoltre, vanno aggiunti i sei Sulla Repubblica, che scrissi quando reggevo il timone dello Stato: argomento fondamentale e appartenente anch'esso alla filosofia, già trattato amplissimamente da Platone, Aristotele, Teofrasto e da tutta la schiera dei Peripatetici. E che dire della Consolazione? Anche a me essa arreca qualche conforto; agli altri, del pari, credo che gioverà molto. Poco fa ho inserito il, libro Sulla vecchiezza, che ho dedicato al mio Attico; e siccome più che mai la filosofia rende l'uomo buono e forte, il mio Catone è da annoverare fra i libri filosofici. 4 E se Aristotele e con lui Teofrasto, eccellenti sia per acume d'ingegno sia per facondia, aggregarono alla filosofia anche i precetti dell'arte del dire, ne risulta che le mie opere retoriche devono appartenere anch'esse alla schiera dei miei libri filosofici: vi apparterranno, dunque, i tre libri Dell'oratore, per quarto il Bruto, per quinto l'Oratore. II A questo punto ero arrivato; al resto del lavoro mi accingevo, con animo alacre, col fermo proposito di non tralasciate alcun argomento filosofico la cui esposizione io non rendessi accessibile in lingua latina, a meno che qualche motivo più importante non si fosse frapposto. Quale servizio maggiore o migliore, in effetti, io potrei rendere alla mia patria, che istruire e formare la gioventù, specialmente in questi tempi di corruzione morale in cui è talmente sprofondata da rendere necessario lo sforzo di tutti per frenarla e ridarle il senso dei dovere? 5 Non m'illudo, beninteso, di poter raggiungere lo scopo, che non si può nemmeno pretendere, di indurre tutti i giovani a questi studi. Potessi indurvene anche pochi! La loro attività potrà pur sempre espandersi largamente entro lo Stato. Del resto, io mi considero remunerato della mia fatica anche da quelli che, già avanti negli anni, 114
trovano conforto nei miei libri. Dal loro desiderio di leggere trae sempre maggior ardore, di giorno in giorno, il mio desiderio di scrivere; e ho saputo che essi sono più numerosi di quanto io pensassi. È anche una cosa magnifica, e un motivo di orgoglio per i romani, il non aver bisogno, per la filosofia, di opere scritte in greco; 6 e questo risultato lo raggiungerò certamente, se riuscirò a portare a termine il mio progetto. A dire il vero, l'impulso a dedicarmi alla divulgazione della filosofia mi venne da un doloroso evento della patria: nella guerra civile non potevo né difendere lo Stato secondo il mio solito, né stare senza far nulla; e nemmeno trovavo qualcosa di meglio da fare, che fosse degno di me. Mi perdoneranno, dunque, i miei concittadini, o meglio mi saranno grati, se io, nel tempo in cui lo Stato era in potere di uno solo, non mi sono tenuto nascosto né mi sono perduto d'animo né mi son lasciato abbattere, né mi sono comportato come se fossi preso da ira verso l'uomo o verso i tempi, né, d'altra parte, ho adulato o ammirato la sorte altrui, in modo da sembrare pentito della sfortuna che mi ero procurato. Proprio questo, infatti, avevo imparato da Platone e dalla filosofia: che vi sono dei mutamenti naturali delle istituzioni politiche, per cui esse sono dominate talvolta da un gruppo di oligarchi, talaltra dalla parte popolare, in certe circostanze da un solo uomo. 7 E poiché quest'ultimo caso era accaduto al nostro Stato, io, reso privo delle mansioni politiche di un tempo, ritornai a questi studi, sia per sollevare il più possibile l'animo dall'angoscia in cui mi trovavo, sia per rendermi utile ai miei concittadini in tutto ciò che potevo. Nei miei libri facevo le mie dichiarazioni di voto, pronunciavo i miei pubblici discorsi, consideravo la filosofia come un sostituto di quella che per me era stata l'amministrazione dello Stato. Ora, poiché si ricomincia a chiedere il mio parere su questioni politiche, è doveroso occuparsi di politica, anzi, ad essa bisogna rivolgere ogni pensiero ed ogni attività, riservando allo studio della filosofia solo il tempo che rimarrà libero dai compiti e dai doveri pubblici. Ma di questo parleremo più a lungo un'altra volta; ora ritorniamo alla discussione che avevamo intrapreso. III 8 Dopo che mio fratello Quinto ebbe detto sulla divinazione ciò che ho riferito nel libro precedente, e ci parve di aver passeggiato abbastanza, ci mettemmo a sedere nella biblioteca che vi è nel Liceo. E io dissi: "Con impegno, Quinto, e da vero stoico hai difeso la dottrina degli stoici; e, con mio grandissimo piacere, ti sei servito di moltissimi esempi tratti da cose romane: esempi famosi e gloriosi. Io devo dunque rispondere alle cose che hai detto; ma in modo da non affermare nulla dogmaticamente, da porre sempre dei problemi, esponendo per lo più dei dubbi e diffidando di me stesso. Se, infatti, avessi da dire qualcosa di sicuro, anch'io, che nego l'esistenza della divinazione, mi comporterei come un indovino! 9 E in verità mi fa impressione ciò che soprattutto era solito domandare Carneade: a quali oggetti si riferisce la divinazione. A quelli che si percepiscono coi sensi? Ma questi noi li vediamo, li udiamo, li gustiamo, ne sentiamo l'odore, li tocchiamo. C'è dunque in questi oggetti qualcosa che riusciamo a intuire mediante la previsione o l'esaltazione della mente anziché con le sole nostre facoltà naturali? O forse codesto presunto indovino, se fosse cieco come fu Tiresia, potrebbe dire quali cose sono bianche, quali nere? o, se fosse sordo, saprebbe distinguere le varie voci o le tonalità del canto? Dunque la divinazione non è applicabile a nessuna di quelle cose che sono oggetto di sensazione. D'altra parte, non c'è bisogno della divinazione nemmeno in ciò che è còmpito dell'attività intellettuale e pratica. Al capezzale dei malati non siamo soliti chiamare profeti o indovini, ma medici. Né quelli che vogliono imparare a suonare la 115
cetra o il flauto ne apprendono la tecnica degli arùspici, ma dai musicisti. 10 Lo stesso ragionamento vale per le lettere e per tutte le altre materie che sono oggetto d'insegnamento. Credi forse che quelli che hanno fama di essere indovini siano capaci di dire se il sole sia più grande della terra o tanto grande quanto lo vediamo, e se la luna risplenda di luce propria o riflessa dal sole? quale movimento abbiano il sole e la luna? quali le cinque stelle che chiamiamo erranti? Quegli stessi che son ritenuti indovini non presumono di saper dire queste cose, né di pronunciarsi sulla verità o falsità delle nozioni acquisite mediante figure geometriche: queste son cose di pertinenza dei matematici, non dei profeti. IV Quanto, poi, alle questioni filosofiche, ce n'è forse qualcuna a cui qualsiasi indovino sia solito dare una risposta, o per cui venga consultato allo scopo di sapere che cosa sia bene, che cosa male, che cosa indifferente? No, sono questioni proprie dei filosofi. 11 E ancora: c'è qualcuno che consulta un arùspice su un dovere da compiere, quanto al modo di comportarsi coi genitori, coi fratelli, con gli amici, di usare il proprio denaro, di gestire una carica pubblica, di esercitare una funzione di comando? Per tali problemi ci si rivolge ai saggi, non agl'indovini. E ancora: tra gli argomenti che sono trattati dai dialettici o dai filosofi della natura - se vi sia un mondo solo o più, quali siano i primi principii dell'universo dai quali ogni cosa deriva -, ce n'è qualcuno che possa essere risolto mediante la divinazione? No, la competenza in codeste cose spetta ai filosofi della natura. Come, poi, tu possa confutare il sofisma del "mentitore", che in greco chiamano pseudómenos, o come possa controbattere il sorìte (che, se fosse necessario, si potrebbe chiamare in latino "acervàle"; ma non ce n'è bisogno: come la parola stessa "filosofia" e molte altre tratte dal greco, così "sorìte" è un termine divenuto abbastanza usuale in latino), anche queste cose, dunque, te le insegneranno i dialettici, non gli indovini. E poi? Quando si discute sulla migliore, costituzione politica, su quali leggi e quali usanze siano utili o inutili, si faranno venire dall'Etruria gli arùspici, o la decisione spetterà a personaggi politici di alto grado e a uomini scelti, esperti di scienza dello Stato? 12 Ché se non esiste alcuna capacità divinatoria né riguardo alle cose sensibili, né a quelle di pertinenza delle varie tecniche, né a quelle che sono argomento di discussione filosofica, né a quelle che rientrano nell'ambito della politica, quale sia l'oggetto della divinazione non lo capisco proprio affatto. Una delle due: o la divinazione deve riguardare ogni cosa, o bisogna attribuirle un campo specifico di sua competenza. Ma né la divinazione riguarda ogni cosa (il ragionamento ce lo ha dimostrato), né si riesce a trovare un campo o un argomento di cui possiamo assegnarle la giurisdizione. V Sta attento, dunque, se per caso non esista divinazione alcuna. C'è un verso greco assai diffuso che, quanto al significato, dice così: "Chi prevederà bene, lo chiamerò il migliore indovino." Dunque un indovino sarà più bravo di un navigatore nelle previsioni del tempo, o diagnosticherà una malattia con più perspicacia di un medico, o deciderà in anticipo il modo di condurre una guerra meglio di un comandante? 13 Ma ho notato, Quinto, che tu accortamente separi la divinazione sia dalle previsioni che potrebbero dipendere dall'abilità e dall'intelligenza, sia da tutto ciò che si potrebbe percepire mediante la sensazione o qualche tecnica particolare, e la definisci così: la predizione e il presentimento di quelle cose che sono dovute al caso. Ma, innanzi tutto, torni a imbatterti nelle stesse difficoltà: ché la previsione del medico, del navigante, del comandante di eserciti riguarda appunto eventi casuali. 116
Dunque un arùspice o un àugure o un vaticinante o uno che ha fatto un sogno saprà prevedere la guarigione d'un ammalato, o la salvezza di una nave dal naufragio, o di un esercito da un agguato, meglio di un medico, di un navigatore, di un comandante? 14 Eppure tu dicevi che non appartiene alle prerogative del divinatore nemmeno il prevedere, in base a certi indizi, l'imminenza dei venti o delle piogge (e a questo proposito hai recitato, mostrando buona memoria, alcuni brani dei miei Aratea),sebbene anche tali eventi siano casuali: si avverano, difatti, per lo più, non sempre. Qual è, dunque, o in che campo si esplica il presentimento degli eventi casuali, che tu chiami divinazione? Tutto ciò che si può prevedere con la pratica o col ragionamento o con l'esperienza o con l'ipotesi ritieni di doverlo attribuire non agli indovini, ma agli esperti. Non rimane, quindi, alla divinazione nient'altro che la profezia di quegli eventi fortuiti che non possono essere preveduti con alcuna pratica o con alcuna scienza. Per esempio, se qualcuno avesse detto con molti anni di anticipo che Marco Marcello, quegli che fu console per tre volte, sarebbe perito in un naufragio avrebbe senza dubbio compiuto un atto di divinazione: ché non lo avrebbe potuto sapere per mezzo di alcun'altra pratica o scienza. La divinazione è dunque il presentimento di eventi di questo genere, dipendenti solamente dalla sorte. VI 15 Può dunque esservi una previsione di quegli eventi riguardo ai quali non c'è nessuna ragione per cui debbano accadere? Che altro è, in realtà, la sorte, la fortuna, il caso, l'accadimento, se non il capitare, l'accadere di qualcosa che avrebbe anche potuto capitare e accadere altrimenti? Ma in che modo, dunque, si può presentire e predire quel che avviene alla ventura, per cieco caso e per volubilità della sorte? 16 Il medico prevede l'aggravarsi di una malattia seguendo il filo di un ragionamento; e allo stesso modo il comandante prevede un agguato, il navigatore le tempeste; eppure anch'essi, non di rado, si sbagliano, pur non formandosi alcuna opinione senza una ragione ben precisa; così come il contadino, quando vede un olivo in fiore, ritiene che vedrà anche i frutti, non senza ragione; e tuttavia qualche volta si sbaglia. E se si sbagliano coloro che nulla dicono senza aver fatto qualche ipotesi e qualche ragionamento probabile, che cosa dobbiamo pensare delle profezie di quelli che predicono il futuro in base alle viscere, agli uccelli, ai prodigi, agli oracoli, ai sogni? Non voglio ancora dire quanto sia nullo il valore di questi segni: delle fenditure nel fegato delle vittime, del canto d'un corvo, del volo di un'aquila, del cader di una stella, delle grida degli invasati, delle sorti, dei sogni. Di tutte queste singole cose parlerò a suo tempo; ora discuto il problema in generale. 17 Come si può prevedere che avverrà qualcosa che non ha alcuna causa né alcun sintomo che denoti il motivo per cui avverrà? Le eclissi di sole e di luna vengono predette con anticipo di molti anni da coloro che con calcoli matematici prendono nota del moto degli astri: essi predicono ciò che la necessità delle leggi di natura attuerà. In base al movimento regolarissimo della luna, comprendono in quale momento essa, trovandosi in opposizione al sole, entri nell'ombra della terra, che è un cono di oscurità, sicché è inevitabile che essa scompaia alla nostra vista, e in quale altro momento la luna medesima, passando sotto il sole e frapponendosi tra esso e la terra, oscuri la luce del sole ai nostri occhi, e in quale costellazione ciascuno dei pianeti si troverà in ciascun tempo, e, in ciascun giorno, quale sarà il sorgere e il tramonto di una costellazione. Coloro che prevedono tutti questi fenomeni, tu sai quali ragionamenti compiano. 117
VII 18 Ma quelli che predicono a qualcuno che scoprirà un tesoro o che avrà un'eredità, quali indizi seguono? In quale legge di natura è insito che ciò avverrà? E se anche questi eventi e gli altri dello stesso genere sono soggetti a una necessità di natura, che cosa c'è, in fin dei conti, che si debba credere che avvenga per caso o per mero giuoco della sorte? Nulla è tanto contrario alla razionalità e alla regolarità quanto il caso, fino al punto che mi sembra che nemmeno la divinità abbia il privilegio di sapere che cosa accadrà per caso e fortuitamente. Se, infatti, la divinità lo sa, il fatto avverrà certamente; ma se avverrà certamente, il caso non esiste. Il caso, invece, esiste; non è dunque possibile alcuna previsione di eventi fortuiti. 19 Se poi neghi l'esistenza del caso, e dici che tutto ciò che avviene e che avverrà è fatalmente determinato ab aeterno, devi mutare la tua definizione della divinazione, che, a quanto dicevi, è il presentimento delle cose fortuite. Se nulla può avvenire, nulla capitare, nulla attuarsi tranne ciò che da tutta l'eternità è stato decretato che avverrà in un dato tempo, a che cosa si riduce il caso? E, tolto di mezzo il caso, quale spazio rimane alla divinazione, che, tu l'hai detto, è il presentimento delle cose fortuite? È vero che dicevi anche che tutte le cose che avvengono o avverranno sono predeterminate dal destino. Certo, la parola stessa "destino" è una parola da vecchierelle, piena di spirito superstizioso; tuttavia tra gli stoici si parla spesso di codesto destino. Di esso discuteremo un'altra volta; ora limitiamoci allo stretto necessario. VIII 20 Se tutto avviene per decreto del fato, a che mi serve la divinazione? Ciò che l'indovino predice, avverrà senza dubbio; sicché non so nemmeno che valore abbia il fatto che un'aquila distolse il nostro amico Deiòtaro dal proseguite un viaggio; se non fosse tornato indietro, tu dici, avrebbe dovuto dormire in quella stanza che nella notte seguente crollò, ed egli sarebbe morto sotto le macerie. Ma se era destinato che ciò accadesse, non sarebbe sfuggito a quella sciagura; se non era destinato, non vi sarebbe incorso. Quale aiuto, dunque, dà la divinazione, quale avviso utile possono darmi le sorti, le viscere, qualsiasi presagio? Se era destinato che nella prima guerra punica le due flotte romane andassero perdute, l'una per un naufragio, l'altra affondata dai cartaginesi, anche se i polli avessero dato ai consoli Lucio Giunio e Publio Claudio l'auspicio più favorevole di tutti, le flotte sarebbero egualmente andate perdute. Se invece, qualora si fosse obbedito agli auspicii, le flotte non sarebbero andate perdute, non è a causa del fato che andarono perdute. Ma voi volete che tutto avvenga per decreto del fato; e allora la divinazione non vale nulla. 21 E se era destinato che nella seconda guerra punica l'esercito romano fosse distrutto presso il lago Trasimeno, si sarebbe forse potuto evitare ciò, qualora il console Flaminio avesse dato retta a quei segni e a quegli auspicii che gli vietavano di attaccar battaglia? Dunque o l'esercito andò distrutto non per decreto del fato (ché il fato non si può mutare), o, se ciò avvenne per fato (e voi dovete certamente sostenere questa tesi), anche se Flaminio avesse obbedito agli auspicii, la sciagura sarebbe egualmente accaduta. Dov'è, dunque, codesta divinazione degli stoici? Se tutto accade per decreto del fato, essa non può in nessun modo consigliarci di essere più prudenti: ché, in qualsiasi modo avremo agito, accadrà, ciò nonostante, quel che deve accadere. Se invece il corso degli eventi può essere deviato, il. fato si riduce a nulla; e allora si riduce a nulla anche la divinazione, poiché riguarda gli eventi futuri; ma nessun evento futuro accadrà con certezza, se con qualche espiazione si può fare in modo che non accada. 118
IX 22 D'altronde, io credo che la conoscenza del futuro non ci sia nemmeno utile. Che vita sarebbe stata quella di Priamo, se fin da giovane avesse saputo che cosa gli sarebbe toccato da vecchio? Lasciamo da parte le leggende, vediamo fatti più vicini a noi. Nella Consolazione ho raccolto i più gravi casi di morte dei personaggi più famosi della nostra patria. Ebbene, omettiamo i più antichi. Ma credi che a Marco Crasso sarebbe stato utile, quando era al colmo della ricchezza e della fortuna, sapere che, dopo aver assistito all'uccisione di suo figlio Publio e alla distruzione del suo esercito, avrebbe dovuto egli stesso morire, al di là dell'Eufrate, con ignominia e disonore? O ritieni che Gneo Pompeo si sarebbe allietato dei suoi tre consolati, dei tre trionfi, della gloria acquistatasi con le più grandi imprese, se avesse saputo che, abbandonato da tutti in terra egiziana, sarebbe stato trucidato dopo la disfatta del suo esercito, e che dopo la sua morte sarebbero accadute cose che non riesco a rammentare senza piangere? 23 E Cesare? Se mediante la divinazione avesse saputo che in quel senato che per la maggior parte aveva riempito di suoi fedeli da lui nominati, nella curia di Pompeo, proprio dinanzi alla statua di Pompeo, sotto gli occhi dei suoi centurioni, sarebbe stato trucidato da eminentissimi cittadini, alcuni dei quali egli stesso aveva colmato di onori d'ogni sorta, e sarebbe rimasto lì al suolo, senza che al suo corpo non si avvicinasse non solo nessuno dei suoi amici, ma nemmeno dei suoi schiavi, - con quale angoscia avrebbe trascorso tutta la vita? Dunque il non sapere i mali futuri è certamente più utile che il saperli. 24 Ché in nessun modo si può dire, e meno che mai lo possono gli stoici: "Pompeo non avrebbe preso le armi, Crasso non avrebbe attraversato l'Eufrate, Cesare non avrebbe scatenato la guerra civile." Ciò vorrebbe dire che le loro morti non erano fissate dal fato. Ma voi sostenete che tutto accade secondo il fato: a niente, dunque, sarebbe servita ad essi la divinazione, e per di più avrebbero perduto ogni gioia nella loro vita anteriore alle disgrazie; che cosa, infatti, avrebbe potuto essere motivo di letizia per essi, al pensiero di come sarebbero morti? Sicché, da qualunque parte si rivolgano gli stoici, è inevitabile che tutta la loro abilità giaccia sconfitta. Se ciò che avverrà potrà avvenire in modi diversi, al caso bisogna riconoscere la supremazia; ma ciò che è casuale non può esser saputo in anticipo. Se invece è già stabilito ciò che avverrà riguardo a ogni cosa in ogni tempo, che sorta d'aiuto possono darmi gli arùspici, ‹i quali›, dopo aver detto che mi incombono eventi funestissimi, X 25 aggiungono, alla fine, che tutto potrà andar meglio se si compiranno riti di espiazione? Se nulla può accadere contro i decreti del fato, nulla può essere alleviato con cerimonie religiose. Lo ha inteso bene Omero, là dove ci mostra Giove che si lamenta di non poter strappare alla morte suo figlio Sarpedonte contro i decreti del fato. Uguale è il significato di quel verso greco che, quanto al significato, dice: "Ciò che è decretato dal destino è più forte di Giove, il dio sommo." Il destino in generale mi sembra che sia giustamente deriso anche da un verso di un'Atellana; ma in faccende così serie non è il caso di scherzare. Concludiamo dunque la nostra argomentazione: se nessuno degli eventi che accadono per caso può essere previsto, poiché non possono avvenire sicuramente, non esiste alcuna divinazione; se invece gli eventi si possono prevedere, perché sono certi e predestinati, ancora una volta non esiste alcuna divinazione: l'hai detto tu, che la divinazione riguarda gli eventi casuali. 26 Ma questa io la considero come la prima sortita del mio ragionamento, come quella delle truppe armate alla leggera; ora veniamo ai ferri corti e proviamo se ci riesce di attaccare alle ali la tua argomentazione. 119
XI Dicevi che vi sono due tipi di divinazione, l'uno artificiale, l'altro naturale; che il tipo artificiale consiste in parte nell'interpretazione, in parte nell'osservazione assidua; che il tipo naturale è quello che l'anima afferra o riceve dal di fuori, dalla divinità, dalla quale tutte le nostre anime attingono, ricevono, libano una parte. 1 generi di divinazione artificiale li consideravi press'a poco questi: le predizioni degli scrutatori di viscere e di quelli che interpretano il futuro dai fulmini e dai prodigi, inoltre quelle degli àuguri e di chi spiega segni e òmina, e insomma collocavi a un dipresso in questa categoria tutte le profezie fatte mediante interpretazione 27 Il genere naturale, invece, opinavi che fosse prodotto e, per così dire, prorompesse o dall'esaltazione della mente o dall'anima svincolata dai sensi e dalle preoccupazioni durante il sonno. Hai poi fatto derivare la divinazione in generale da tre principii: dalla divinità, dal fato, dalla natura. Ma, non riuscendo a spiegare nulla di tutto ciò, ti sei difeso adducendo una mirabile quantità di esempi immaginarii. Quanto a questo modo di procedere, voglio anzitutto dirti che non ritengo degno di un filosofo avvalersi di testimonianze che possono essere o vere per puro caso, o false e inventate in mala fede. Con argomentazioni e con ragionamenti bisogna dimostrare per qual motivo ciascuna cosa è quello che è: non in base a meri eventi, e soprattutto a eventi ai quali mi è lecito non prestar fede. XII 28 Incominciamo dall'aruspicìna, che io ritengo si debba osservare per il bene dello Stato e della religione professata da tutti - ma qui siamo soli, e possiamo ricercare la verità senza procurarci l'odio di alcuno, io specialmente che dubito riguardo alla maggior parte delle cose -. Esaminiamo, se sei d'accordo, innanzi tutto le viscere. È dunque possibile convincere qualcuno che quei presagi, che, dicono, sono indicati dalle viscere, siano stati appresi dagli arùspici con assidua osservazione? Quanto assidua è stata codesta osservazione? Per quanto tempo la si è potuta fare? O in che modo le singole osservazioni furono confrontate tra l'uno e l'altro arùspice, per stabilire quale parte delle viscere fosse nemica, quale "familiare", quale fenditura denotasse un pericolo, quale un beneficio? Forse gli arùspici etruschi, quelli di Elide, gli egizi, i cartaginesi confrontarono tra loro queste osservazioni? Ma una cosa simile, a parte il fatto che non è potuta accadere, non si può nemmeno immaginare. Vediamo, infatti, che gli uni interpretano gli indizi delle viscere in un modo, gli altri in un altro: non esiste una dottrina comune a tutti. 29 E certamente, se nelle viscere c'è qualche potere che sia in grado di rivelarci il futuro, questo potere dev'essere necessariamente collegato con la natura, o determinato in qualche modo dalla volontà degli dèi e da una forza divina . Ma con la natura, così immensa e splendida, che pervade tutto l'universo e ne regola tutti i movimenti, che cosa può avere in comune non dico il fiele di un pollo (eppure non manca chi dice che i fegati dei polli forniscono i presagi più ingegnosi!), - ma il fegato o il cuore o il polmone di un toro ben pasciuto che cos'ha di congiunto con la natura, sì da poter indicare il futuro?' XIII 30 Democrito, tuttavia, molto spiritosamente vuol prenderci in giro, da filosofo della natura quale è; nulla di più arrogante di questa gente: "Nessuno bada a ciò che ha davanti ai piedi; scrutano le plaghe del cielo!" E intanto, anche Democrito ritiene che l'aspetto e il colore delle viscere ci indichino almeno la qualità di un pascolo e l'abbondanza o la scarsità di un raccolto; crede anche che le viscere denotino la salubrità dell'aria o il sopraggiungere di una pestilenza. Fortunato mortale, a cui, ne sono sicuro, non mancò mai la voglia di scherzare! È mai possibile che un tale uomo si sia divertito a spacciare sciocchezze 120
così grosse, fino al punto da non vedere che quella asserzione sarebbe stata verosimile soltanto se le viscere di tutti gli animali avessero assunto contemporaneamente lo stesso aspetto e lo stesso colore? Ma se nello stesso momento il fegato di un animale è nitido e tondeggiante, quello di un altro è grinzoso e minuscolo, che cosa si può prevedere in base all'aspetto e al colore delle viscere? 31 O forse questo modo di divinazione è analogo a quello di Ferecide da te ricordato, il quale, avendo osservato un po' d'acqua attinta da un pozzo, disse che vi sarebbe stato un terremoto? È ancora troppo poco sfacciato, credo, il comportamento di quelli che, a terremoto già avvenuto, osano dire quale forza naturale lo abbia provocato; costoro prevedono addirittura un terremoto futuro, in base al colore di una sorgente d'acqua perenne? Molte cose di questo genere si insegnano nelle scuole, ma ti consiglierei di riflettere se sia il caso di credere a tutte. 32 Ma ammettiamo pure che quelle asserzioni di Democrito siano vere: quando mai noi investighiamo quelle cose mediante le viscere? o quando abbiamo sentito dire che un presagio di quel genere sia stato annunciato da un arùspice dopo aver osservato le viscere? Essi ammoniscono su pericoli derivanti dall'acqua o dal fuoco; predicono talvolta delle eredità, talaltra dei dissesti finanziari; esaminano le fenditure "familiari" e "vitali" delle viscere; osservano da ogni parte con la massima attenzione la "testa" del fegato; se, poi, notano che essa è mancante, ritengono che nulla possa accadere di più nefasto. XIV 33 Tutte queste cose non hanno potuto essere osservate con costanza, come ho dimostrato sopra. Sono dunque ritrovati della tecnica, non dell'antichità, se pure esiste una tecnica riguardante cose sconosciute. Con la natura, poi, quale legame hanno? Anche ammettendo che la natura sia tutta unita da un comune consenso e formi un tutto continuo (so che questa concezione è gradita ai filosofi della natura, e specialmente a quelli che hanno sostenuto l'unità di tutto l'essere), che connessione può esserci tra il mondo e il ritrovamento di un tesoro? Se l'esame delle viscere mi fa sperare un aumento del mio patrimonio e ciò avviene per effetto della natura, in primo luogo quelle viscere sono connesse con tutto l'universo, in secondo luogo il mio guadagno è incluso nella natura. Questi filosofi della natura non si vergognano di dire cose simili? Anche se nella natura vi è una connessione di tutte le parti, cosa che io sono disposto a riconoscere (gli stoici, in effetti, hanno raccolto molti esempi a favore di questa tesi: dicono che i fegatini dei topolini aumentano di volume nell'inverno; che il puleggio arido fiorisce proprio nel giorno del solstizio d'inverno e che le vescichette si gonfiano e si rompono, e che i semi delle mele, racchiusi nell'interno dei frutti, si rivolgono verso direzioni opposte gli uni agli altri; che, inoltre, se si pizzicano alcune corde della cetra, altre risuonano anch'esse; che alle ostriche e a tutti i molluschi accade di ingrossarsi e di diminuire di volume contemporaneamente al crescere e al calare della luna; che si ritiene adatta per il taglio degli alberi la stagione invernale, nel periodo in cui la luna è calante, perché il loro legno è allora ben secco; 34 e che dire ancora degli stretti marini e delle maree, il cui flusso e riflusso è determinato dai moti della luna? Si possono citare innumerevoli esempi da cui risulta l'affinità naturale di cose distanti tra loro) concediamo, dunque, tutto ciò, ché non ne risulta ostacolata la mia discussione; ma si può forse anche sostenere che, se una fenditura d'un certo tipo si nota in un fegato, ciò è presagio di un guadagno? In base a quale connessione naturale, a quale armonia e, per così dire, a quale consenso (che i greci chiamano sympátheia) vi può 121
essere una relazione fra una fenditura d'un fegato e un mio guadagnuccio, fra un mio meschino lucro e il cielo, la terra, la natura tutta quanta? XV E, se vuoi, ammettiamo anche questo, sebbene la mia causa risulterà assai indebolita quando avrò concesso l'esistenza di una qualsiasi connessione della natura con le viscere degli animali. 35 Ma anche dopo averla ammessa, come mai, domando, càpita che un tale, volendo ottenere un auspicio favorevole, sacrifichi un animale adatto al suo scopo? Questa era la difficoltà che io credevo insuperabile. E invece, con quale allegra disinvoltura viene superata! Mi vergogno non per te (anzi ammiro la tua capacità di ricordare tutte queste dottrine), ma per Crisippo, Antìpatro, Posidonio, i quali dicono precisamente quel che hai detto tu: una forza cosciente e divina, diffusa per tutto l'universo, ci guida nella scelta della vittima! Ma ancor più bella è l'idea che tu hai esposto e che viene enunciata da quei filosofi: quando uno sta per eseguire il sacrificio, proprio allora avviene un mutamento delle viscere, di modo che qualche parte di esse scompare o si aggiunge: ché tutto obbedisce al volere degli dèi. 36 Queste, crédimi, son cose a cui non prestan fede più nemmeno le vecchierelle. Pensi davvero che il medesimo vitello, se lo sceglierà un tale, lo troverà privo della "testa" del fegato; se lo sceglierà un altro, lo troverà col fegato tutto intero? Questa scomparsa o questa aggiunta della testa del fegato può avvenire repentinamente, in modo che le viscere si prestino ad assecondare la buona sorte del sacrificatore? Non vi accorgete che nella scelta delle vittime entra in giuoco un fattore casuale, tanto più che i fatti stessi lo dimostrano? Difatti, quando si sono trovate delle viscere estremamente malauguranti, senza la testa del fegato (niente di più infausto, dicono), la vittima che viene sacrificata subito dopo presenta indizi ottimi. E allora, dove sono andati a finire i presagi minacciosi delle viscere precedenti? O come mai, all'improvviso, gli dèi si sono così interamente placati? XVI Ma tu dici che tra le viscere di un toro ben pasciuto, quando Cesare lo immolò, non si rinvenne il cuore; e siccome sarebbe stato impossibile che, prima del sacrificio, quell'animale fosse vissuto privo del cuore, bisogna, a tuo avviso, ritenere che il cuore scomparve nel momento stesso in cui il toro veniva sacrifìcato. 37 Come mai tu capisci una delle due cose, cioè che un bovino non avrebbe potuto vivere senza avere il cuore, ma non comprendi l'altra, che il cuore non avrebbe potuto tutt'a un tratto volar via non so dove? Io potrei o non sapere qual è la funzione vitale del cuore, o supporre che il cuore del bove, rimpiccolito da qualche malattia, fosse esile, minuscolo, flaccido, non più simile a un cuore normale; ma tu che motivi hai di credere che, se poco prima il cuore c'era nel corpo di un toro ben pasciuto, all'improvviso sia venuto meno, proprio mentre immolavano la bestia? Forse, avendo visto Cesare che, uscito di senno, aveva indossato una veste purpurea, il toro rimase anch'esso privo di cuore? Credi a me, voi abbandonate al nemico la capitale della filosofia, mentre perdete il tempo a difendere qualche piccolo fortilizio: ostinandovi a sostenere la verità dell'aruspicina, sovvertite tutta la fisiologia. Nel fegato c'è la "testa", tra le viscere c'è il cuore: ecco, scomparirà all'improvviso, appena avrai cosparso la vittima di farro e di vino; un dio lo sottrarrà, una forza misteriosa lo consumerà o lo divorerà. Non sarà dunque la natura quella che regolerà la morte e la nascita di tutti gli esseri, ma ci sarà qualcosa che o sorgerà dal nulla o cadrà improvvisamente nel nulla. Quale filosofo della natura ha mai detto questo? Lo dicono gli arùspici: a costoro, dunque, credi che si debba prestar fede più che ai filosofi della natura? 122
XVII 38 E ancora: quando si fa un sacrificio in onore di più dèi, come mai può accadere che per alcuni il sacrificio riesca propizio, per altri no? E cos'è questa volubilità degli dèi, tale da minacciarci con le viscere del primo sacrificio, da farci sperar bene con quelle del secondo? O c'è fra loro tanta discordia, spesso anche tra divinità imparentate, sì che le viscere delle bestie immolate ad Apollo risultano gradite, quelle a Diana sgradite? Che cosa può essere così evidente come il fatto che, essendo scelte a caso le vittime condotte al sacrifizio, le viscere saranno per ciascun sacrificante tali quale sarà la vittima che gli capiterà? "Ma," tu risponderai, "il fatto stesso che a ciascuno tocchi una determinata vittima ha in sé qualcosa di profetico, come, a proposito delle sorti, il fatto che a ciascuno ne càpiti una determinata." Delle sorti parleremo in seguito, anche se, in verità, tu non rafforzi la causa dei sacrifici con l'analogia delle sorti, ma svaluti le sorti paragonandole ai sacrifici. 39 O forse, se ho mandato a prendere all'Equimelio un agnello da immolare, mi vien portato proprio quell'agnello che ha le viscere adatte al mio proposito, e lo schiavo che ho mandato è attratto verso quell'agnello non dal caso, ma da una divinità che lo guida? Ché se tu mi dici che anche in questa circostanza il caso è una specie di sorte collegata con la volontà degli dèi, mi dispiace che i nostri stoici abbiano offerto agli epicurei una così ampia possibilità di prenderli in giro; sai certamente quanto gli epicurei deridano codeste teorie. 40 E certo essi possono farlo con più facilità degli altri: giacché Epicuro si è divertito a immaginare gli dèi trasparenti e attraversabili dai soffi d'aria e abitanti tra due mondi, come "tra i due boschi", per paura che uno dei mondi crolli loro addosso; e dice che hanno le stesse nostre membra, ma senza alcuna occasione di usarle. Egli perciò, togliendo di mezzo gli dèi con una sorta di raggiro, coerentemente non esita a toglier di mezzo anche la divinazione; ma se egli è d'accordo con se stesso, non lo sono altrettanto gli stoici. La divinità di Epicuro, non avendo niente da fare né per se stessa né per gli altri, non può concedere agli uomini la divinazione. La vostra divinità, invece, può non concederla, senza per questo rinunciare a governare il mondo e a prendersi cura degli uomini. 41 Perché, dunque, vi intricate in quei cavilli, che non sarete mai capaci di risolvere? Quando vogliono sbrigarsela più in fretta, gli stoici argomentano così: "se gli dèi esistono, esiste la divinazione; ma gli dèi esistono; dunque esiste la divinazione". Senonché riesce molto più convincente il dire: "ma non esiste la divinazione; dunque non esistono gli dèi". Guarda con quale avventatezza si espongono al pericolo che, se la divinazione si riduce a nulla, si riducano a nulla anche gli dèi. Ché la divinazione si elimina con tutta facilità, mentre l'esistenza degli dèi dev'essere tenuta ferma. XVIII 42 E quando si sia eliminata questa divinazione degli scrutatori di viscere, è eliminata tutta l'aruspicìna. Vengono poi i prodigi e i fulmini o i lampi. Quanto a questi si fa valere l'osservazione assidua, quanto ai prodigi si usa per lo più la previsione basata sul ragionamento. Che osservazioni, dunque, si sono fatte riguardo ai fulmini e ai lampi? Gli etruschi divisero il cielo in sedici parti. Fu cosa facile raddoppiare le quattro parti a cui noi ci atteniamo, poi eseguire un ulteriore raddoppiamento, in modo da poter dire, sulla base di questa ripartizione, da quale parte venisse il fulmine. Ma, in primo luogo, che cosa importa ciò? e in secondo luogo, che cosa significa? Non è evidente che in seguito alla meraviglia degli uomini primitivi, poiché temevano i tuoni e il precipitare dei fulmini, sorse in loro la credenza che ne fosse autore Giove, assoluto dominatore di tutto l'universo? Perciò nei nostri libri si trova scritto: "Quando Giove tuona e fulmina, è contrario alle leggi divine tenere i comizi." 43 Forse ciò fu stabilito nell'interesse dello Stato, poiché i 123
nostri antenati vollero avere dei pretesti per non tenere i comizi. Quindi solo per i comizi il fulmine è un segno sfavorevole: per tutto il resto lo consideriamo un ottimo auspicio, se è caduto a sinistra. Ma degli auspicii parleremo in seguito; ora proseguiamo sui fulmini e sui lampi. XIX Che cosa, dunque, gli studiosi della natura hanno il dovere di astenersi soprattutto dal dire, se non questa, che fenomeni certi siano preannunciati da segni incerti? Non credo, infatti, che tu sia capace di credere che i Ciclopi foggiarono il fulmine per Giove nei recessi dell'Etna: 44 sarebbe davvero strano che Giove lo scagliasse tante volte, avendone a disposizione uno solo; né egli potrebbe, mediante i fulmini, ammonire gli uomini su ciò che devono fare o non fare. Gli stoici affermano che quelle esalazioni della terra che sono fredde, quando incominciano a fluire, costituiscono i venti; quando poi penetrano in una nube e incominciano a scindere e a squarciare le sue parti meno dense, e fanno ciò con particolare frequenza e violenza, allora ecco che sorgono i lampi e i tuoni; se, poi, un fuoco prodotto dal cozzo delle nubi si sprigiona, ecco il fulmine. Dunque da ciò che vediamo prodursi per forza di natura, senza alcuna regolarità, in nessun tempo determinato, ricaveremo un presagio di necessari avvenimenti futuri? Sta a vedere che, se Giove volesse dare simili preannunci, scaglierebbe inutilmente tanti fulmini! 45 Che cosa ottiene quando scaglia un fulmine in alto mare? O su monti altissimi, ciò che avviene molto spesso? O in sterminati deserti? O nelle terre abitate da quei popoli che non osservano nemmeno questi presagi? XX "Ma la testa di quella statua fu rinvenuta nel Tevere." Come se io negassi che codesti osservatori di fulmini abbiano una qualche perizia! È la divinazione che io nego. La ripartizione in zone del cielo, a cui ho accennato sopra, e l'esame di determinati fatti permettono di capire donde un fulmine sia provenuto, dove sia andato a finire; quale significato profetico abbia, però, nessuna dottrina sa spiegarcelo. Ma tu mi vuoi mettere alle strette coi miei versi: "Ché il Padre altitonante, ergendosi sull'Olimpo stellato, colpì col fulmine il colle una volta a lui caro e il suo tempio, e appiccò il fuoco alla sua dimora sul Campidoglio." Allora la statua di Natta, allora le immagini degli dèi e Romolo e Remo con la belva che li allattò precipitarono colpiti dall'impeto del fulmine, e riguardo a questi fatti furono pronunciati dagli arùspici responsi esattissimi. 46 Un fatto straordinario fu anche quello, che proprio quando avvenne la denuncia della congiura in senato, la statua di Giove fu collocata in Campidoglio, due anni dopo che era stata commissionata. "Tu dunque avrai il coraggio" così dicevi in polemica con me "di difendere codesta tua causa contro quello che hai fatto e che hai scritto?" Sei mio fratello; per questo ti devo rispettare. Ma in questo caso che cosa, insomma, ti ferisce? La realtà delle cose, che è quella che ho detto, o io, che voglio che la verità sia dimostrata? Io, a ogni modo, non dico niente contro di te: chiedo conto a te di tutta l'aruspicina. Ma tu ti sei rifugiato in un magnifico nascondiglio: siccome capivi che saresti stato incalzato da presso quando io ti avessi chiesto le cause di ciascun tipo di divinazione, hai detto e ridetto che, poiché vedevi i fatti, non ti curavi di indagare la causa e il procedimento razionale; che l'importante era l'accaduto, non il perché dell'accaduto; come se io ammettessi che queste cose accadono, o come se fosse degno d'un filosofo non ricercare la causa per cui ogni singolo fenomeno avviene! 47 E a questo proposito hai recitato dei passi dei miei Prognostici e hai menzionato certe specie di erbe, la scammonia e la radice dell'aristolochia, delle quali constatavi l'effetto e il potere medicinale, pur ignorandone la causa. 124
XXI Ma la differenza è totale. Le cause dei pronostici le hanno indagate lo stoico Boeto, da te rammentato, e anche il nostro Posidonio; e anche se le cause di questi fatti non si fossero rintracciate, i fatti in quanto tali si sono potuti osservare e registrare. Ma gli episodi della statua di Natta o delle tavole delle Leggi colpite dal fulmine che cos'hanno che sia stato osservato più volte e da gran tempo? "I Pinarii Natta sono nobili: dalla nobiltà, dunque, veniva il pericolo." Davvero ingegnoso questo presagio escogitato da Giove! "Romolo ancora lattante fu colpito dal fulmine: questo è dunque un presagio del pericolo che correva quella città che da lui fu fondata." Con quanta abilità Giove ci avverte mediante simili indizi! "Ma la statua di Giove veniva collocata nello stesso tempo in cui veniva denunciata la congiura." E tu, s'intende, preferisci credere che ciò sia accaduto per volontà degli dèi anziché per caso; e l'appaltatore che aveva ricevuto da Cotta e da Torquato l'incarico di erigere quella colonna, non fu più lento del previsto per pigrizia o per mancanza di denaro, ma fu fatto indugiare dagli dèi immortali fino a quel preciso momento! 48 Non mi manca del tutto la speranza che cose di questo genere siano vere; ma non ne so nulla e voglio una dimostrazione da te. Siccome mi sembrava che per puro caso alcuni fatti fossero avvenuti così com'erano stati predetti dagl'indovini, tu hai parlato a lungo del caso, e hai detto, per esempio, che si può ottenere il "colpo di Venere" lanciando a caso quattro dadi, ma, su quattrocento lanci, non può capitare cento volte quel colpo. Innanzi tutto non saprei perché ciò sia impossibile, ma su questo non mi soffermo a discutere, poiché hai una collezione di esempi simili. Puoi citare i colori schizzati a caso, il grifo della scrofa, tante altre cose. Dici che Carneade ricorre anch'egli al caso quanto alla testa del piccolo Pan: come se ciò non sia potuto davvero accadere per caso, e sia necessario che in ogni blocco di marmo non siano ascose perfino teste degne di un Prassitele! Quelle sculture, difatti, si eseguono anch'esse per detrazione di pezzi di marmo, e nemmeno un Prassitele vi aggiunge alcunché; ma quando molto materiale è stato eliminato dallo scalpello e si è arrivati ai lineamenti di un volto, allora si può capire che quella statua, ormai perfettamente levigata, si trovava dentro il blocco. 49 Dunque qualcosa del genere può essere avvenuto anche spontaneamente nelle cave di pietra di Chio. Ma ammettiamo pure che questo sia un esempio inventato: non hai mai visto nubi che avevano assunto le forme di leoni o di Ippocentauri? Dunque può accadere ciò che poco fa negavi: che il caso imiti la realtà. XXII Ma poiché abbiamo discusso a sufficienza quanto alle viscere e ai lampi, per portare a termine la trattazione di tutta l'aruspicìna rimangono i prodigi. Hai rammentato il parto di una mula. È un fatto straordinario, perché non accade spesso; ma se non fosse potuto accadere, non sarebbe accaduto. E questo argomento valga contro tutti i prodigi: ciò che non sarebbe potuto accadere non è mai accaduto; se invece è potuto accadere, non c'è motivo di stupirsi. L'ignoranza delle cause produce meraviglia dinanzi a un fatto nuovo; se la medesima ignoranza riguarda fatti consueti, non ci meravigliamo. Colui che si meraviglia che una mula abbia partorito, ignora egualmente in che modo partorisca una cavalla e, in generale, quale processo naturale produca il parto di qualsiasi essere vivente. Ma siccome vede che questi fatti avvengono di frequente, non si meraviglia, pur non sapendone il perché; se invece avviene una cosa che egli non ha ancora visto, ritiene che sia un prodigio. Il prodigio si è dunque verificato quando la mula ha concepito, o quando ha partorito? 50 Il concepimento potrebb'essere contro natura, forse; ma il parto è pressoché necessario. XXIII Ma a che scopo dilungarci? Vediamo l'origine dell'aruspicìna; così giudicheremo nel modo più facile quale autorità essa abbia. Si dice che un contadino, 125
mentre arava la terra nel territorio di Tarquinia, fece un solco più profondo del solito; da esso balzò su all'improvviso, un certo Tagete e rivolse la parola all'aratore. Questo Tagete, a quanto si legge nei libri degli etruschi, aveva l'aspetto di un bambino, ma il senno di un vecchio. Essendo rimasto stupito da questa apparizione il contadino, e avendo levato un alto grido di meraviglia, accorse molta gente, e in poco tempo tutta l'Etruria si radunò colà. Allora Tagete parlò a lungo dinanzi alla folla degli ascoltatori, i quali stettero a sentire con attenzione tutte le sue parole e le misero poi per iscritto. L'intero suo discorso fu quello in cui era contenuta la scienza dell'aruspicìna; essa poi si accrebbe con la conoscenza di altre cose che furono ricondotte a quegli stessi principi. Ciò abbiamo appreso dagli etruschi stessi, quegli scritti essi conservano, quelli considerano come la fonte della loro dottrina. 51 C'è dunque bisogno di Carneade per confutare cose del genere? O c'è bisogno di Epicuro? Può esserci qualcuno tanto insensato da credere che un essere vivente, non saprei dire se dio o uomo, sia stato tratto di sotterra da un aratro? Se devo considerarlo un dio, perché, contro la natura degli dèi, si era nascosto sotterra, sì da veder la luce solo quando fu messo allo scoperto da un aratro? Non poteva, essendo un dio, esporre agli uomini la sua dottrina dall'alto? Se, d'altra parte, quel Tagete era un uomo, come poté vivere soffocato dalla terra? Da chi, inoltre, poté aver appreso egli stesso ciò che andava insegnando agli altri? Ma sono io più sciocco di quelli che credono a queste cose, io che perdo tanto tempo a discutere contro di loro! XXIV È molto spiritoso quel vecchio motto di Catone, il quale diceva di meravigliarsi che un arùspice non si mettesse a ridere quando vedeva un altro arùspice. 52 Quante delle cose predette da costoro si sono verificate? E se qualche evento si è verificato, quali prove si possono addurre contro l'eventualità che ciò sia accaduto per caso? Il re Prusia, quando Annibale, esule presso di lui, lo esortava a far guerra a oltranza, diceva di non volersi arrischiare, perché l'esame delle viscere lo dissuadeva. "Dici sul serio?" esclamò Annibale; "preferisci dar retta a un pezzetto di carne di vitella che a un vecchio condottiero?" E Cesare stesso, dissuaso dal sommo arùspice dall'imbarcarsi per l'Africa prima del solstizio d'inverno, non s'imbarcò egualmente? Se non l'avesse fatto, tutte le truppe dei suoi avversari avrebbero avuto il tempo di concentrarsi in un solo luogo. Devo mettermi a fare l'elenco (e potrei fare un elenco davvero interminabile) dei responsi degli aruspici che non hanno avuto alcun effetto o lo hanno avuto contrario alle previsioni? 53 In quest'ultima guerra civile, quante predizioni, per gli dèi immortali!, ci delusero! Quali responsi di arùspici ci furono trasmessi da Roma in Grecia! Quali cose furono predette a Pompeo! E in verità egli credeva moltissimo alle viscere e ai prodigi. Non ho voglia di rammentare queste cose, e non ce n'è bisogno, meno che mai a te, che eri presente; vedi bene, tuttavia, che quasi tutto è accaduto al contrario di quel che ci era stato predetto. Ma di ciò non parliamo più; ritorniamo ai prodigi. XXV 54 Molti versi hai recitato, scritti da me, riguardanti l'anno del mio consolato; molte cose avvenute prima della guerra màrsica, riferite da Sisenna, hai rammentato; molte altre, narrate da Callistene, hai citato, che sarebbero accadute prima della sconfitta subìta dagli spartani a Leuttra. Di questi singoli fatti dirò qualcosa in seguito, entro i limiti che mi sembreranno opportuni; ma bisogna discutere anche la questione nel suo insieme. Che cos'è codesta indicazione e, direi, codesta minaccia di sventure, inviata dagli dèi? E che cosa vogliono gli dèi immortali, innanzi tutto col mandarci dei segni che non possiamo capire senza interpreti, in secondo luogo col predirci sventure che non possiamo evitare? Ma 126
questo non lo fanno neppure gli uomini onesti, di preannunciare agli amici sciagure incombenti alle quali essi non possono sfuggire in alcun modo; per esempio i medici, pur rendendosene conto spesso, tuttavia non dicono mai agli ammalati che la loro malattia li condurrà certamente a morte: ché ogni predizione di un pericolo grave è da approvarsi soltanto quando alla predizione si aggiunge l'indicazione dei mezzi per poter guarire. 55 Che giovamento arrecarono i prodigi e i loro interpreti agli spartani in quei tempi remoti, ai nostri poco tempo addietro? Se dobbiamo ritenerli segnali divini, perché erano così oscuri? Se erano mandati dagli dèi perché comprendessimo che cosa sarebbe successo, bisognava che le predizioni fossero chiare; oppure, se gli dèi non volevano che noi sapessimo, non dovevano mandarci nessun segno, nemmeno occulto. XXVI E in effetti ogni interpretazione, sulla quale la divinazione si basa, spesso dalle diverse mentalità degli uomini è trascinata in direzioni diverse o addirittura opposte. Come nei processi una è l'interpretazione dell'accusatore, un'altra quella del difensore, e nondimeno entrambe sono plausibili, così in tutti gli argomenti che sembra si debbano investigare mediante interpretazioni congetturali si nota la possibilità di discorsi dal significato ambiguo. D'altra parte, di fronte a eventi prodotti talvolta dalla natura, talaltra dal caso (e spesso anche la somiglianza tra effetti della natura e del caso è fonte di errore), rivela una grande stoltezza chi li attribuisce all'azione degli dèi, senza ricercarne le cause. 56 Tu credi che a Lebadia gl'indovini della Beozia abbiano compreso, in base al canto dei galli, che la vittoria sarebbe spettata ai tebani, perché i galli son soliti tacere quando sono vinti, cantare quando sono vincitori. Dunque a una città di quella fatta Giove avrebbe dato il segnale della vittoria servendosi di miserabili galline? O forse quegli uccelli non sogliono cantare se non in caso di vittoria? "Ma in quel caso cantavano, eppure non avevano ancora vinto: in questo," tu dirai, "consiste il prodigio." Gran prodigio davvero, come se avessero cantato non i galli, ma i pesci! E qual tempo c'è in cui i galli non cantino, sia di notte sia di giorno? Se, quando sono vincitori, si sentono spinti a cantare per una sorta di gioiosa eccitazione, avrebbe potuto accadere lo stesso anche per un altro motivo di allegrezza, che li incitasse al canto. 57 Democrito spiega con parole molto appropriate la ragione per cui i galli cantano prima dello spuntare dell'alba: una volta che il cibo sia stato smaltito dallo stomaco e distribuito per tutto il corpo e assimilato, essi cantano dopo aver raggiunto un riposo ristoratore. Nel silenzio della notte, come dice Ennio, "cantano di gioia con le rosse gole e starnazzano battendo le ali". Poiché, dunque, questa specie di animali è tanto canora per istinto, come è venuto in mente a Callistene di dire che gli dèi hanno fatto cantare i galli come segno profetico, dal momento che la natura o il caso avrebbero potuto ottenere quello stesso effetto? XXVII 58 Fu riferito al senato che era piovuto sangue, che anche le acque del fiume Atrato si erano tinte di sangue, che le statue degli dèi avevano sudato. Ritieni che Talete o Anassagora o qualsiasi altro filosofo della natura avrebbe prestato fede a simili notizie? Non c'è né sangue né sudore che non fuoriesca da un corpo vivente. Ma un mutamento di colore, provocato da qualche commistione con terra, può render l'acqua estremamente simile a sangue; e l'umidità proveniente dall'esterno, come vediamo sugli intonachi dei muri quando soffia lo scirocco, può rassomigliare al sudore. Questi fatti, del resto, appaiono più numerosi e più gravi in tempo di guerra, quando c'è uno stato di paura; in tempo di pace non ci si bada altrettanto. Si 127
aggiunga anche un'altra cosa: in momenti di terrore e di pericolo non solo ci si crede con più facilità, ma si inventano più impunemente. 59 Ma noi siamo così leggeri e sconsiderati che, se i topi han rosicchiato qualcosa (e questo è l'unico lavoro al quale si dedicano!), lo consideriamo un prodigio. Prima della guerra màrsica, siccome i topi, come hai rammentato, avevano rosicchiato degli scudi a Lanuvio, gli arùspici dissero che questo era un prodigio dei più terribili: come se ci fosse qualche differenza a seconda che i topi, i quali giorno e notte rodono qualcosa, avessero rosicchiato degli scudi o degli stacci! Se ci mettiamo per questa strada, dovrei disperare delle sorti dello Stato per il fatto che, poco tempo fa, i topi hanno rosicchiato in casa mia la Repubblica di Platone, oppure, se mi avessero rosicchiato il libro di Epicuro Sul piacere, avrei dovuto prevedere che al mercato i prezzi sarebbero rincarati. XXVIII 60 O ci spaventeremo se talvolta ci dicono che qualche creatura mostruosa è nata da un animale o da un essere umano? Di tutti questi fenomeni (non voglio dilungarmi troppo) una sola è la spiegazione. Tutto ciò che nasce, di qualunque genere sia, ha necessariamente origine dalla natura, di modo che, anche se risulta inconsueto, non può tuttavia essere sorto al di fuori della natura. Ricercane dunque la causa, se ci riuscirai, in qualcosa di insolito e di strano; se non ne troverai alcuna, tieni per fermo in ogni caso che nulla può avvenire senza causa, e scaccia via dal tuo animo, senza ricorrere al soprannaturale, quel terrore che ti avrà arrecato la stranezza del fatto. Così né i boati sotterranei né il fendersi della volta celeste né la pioggia di pietre o di sangue né una stella cadente né l'apparire di fiamme nel cielo ti spaventeranno. 61 Se io chiedessi a Crisippo le cause di tutti questi fenomeni, anche lui, quel famoso sostenitore della divinazione, non direbbe mai che sono avvenuti a caso, e di tutti indicherebbe una causa naturale. Nulla, infatti, può avvenire senza causa; né avviene cosa alcuna che non possa avvenire; né, se è avvenuto ciò che poteva avvenire, si può considerarlo un prodigio; dunque non esistono prodigi. Ché se si deve considerare come un prodigio ciò che avviene di rado, un uomo saggio è un prodigio: credo, in effetti, che una mula abbia partorito più spesso di quanto sia esistito un uomo saggio. Si compie, dunque, questa argomentazione: né ciò che non può essere esistito è giammai esistito, né ciò che può essere esistito è un prodigio: pertanto, non esiste alcun prodigio. 62 Una risposta di questo genere si dice che la desse, con molta arguzia, un interprete di prodigi a un tale che gli aveva riferito, come se si trattasse di un prodigio, che in casa sua un serpente si era avvolto intorno alla sbarra di chiusura d'una porta: "Sarebbe stato un prodigio se la sbarra si fosse attorcigliata intorno al serpente!" Con questa risposta fece intendere chiaramente che nulla, che possa accadere, dev'essere considerato un prodigio. XXIX Gaio Gracco scrisse a Marco Pomponio che suo padre aveva chiamato gli arùspici perché in casa sua erano stati presi due serpenti. Come mai tanto trambusto per dei serpenti e non per delle lucertole, per dei topi? Perché questi sono animali che càpita di vedere tutti i giorni, i serpenti no. Come se, dal momento che un evento può accadere, abbia importanza il considerare quanto spesso accada! Ma io non capisco una cosa: se il lasciare andar via il serpente femmina era causa di morte per Tiberio Gracco padre, il lasciare andar via il maschio era invece letale per Cornelia, perché egli lasciò andar via uno dei due serpenti? Per quel che scrive Gaio Gracco, gli arùspici non dissero affatto che cosa sarebbe avvenuto se nessuno dei due animali fosse stato lasciato andare. "Ma" tu dirai, "sta di fatto che sùbito dopo avvenne la morte del vecchio Gracco." Morì, credo, a causa di qualche malattia 128
particolarmente grave, non per aver lasciato andar via un serpente; poiché gli arùspici non sono sfortunati fino al punto che non possa accadere nemmeno una volta per caso ciò che essi hanno predetto. XXX 63 Di quest'altra cosa, sì, mi meraviglierei, se ci credessi, cioè del fatto che, come hai ricordato, Calcante, secondo Omero, predisse il numero degli anni della guerra di Troia in base al numero dei passeri. Su quella sua profezia così parla Agamennone in Omero (te ne do la traduzione che ho fatto in un momento di riposo): "Non cedete, o guerrieri, e sopportate con coraggio i duri travagli, in modo che possiamo sapere se le profezie del nostro indovino Calcante abbiano una fonte d'ispirazione veridica o siano invece vane. Ché tutti quelli che non hanno abbandonato la luce per un funesto destino serbano bene nella memoria quel portento. Appena Aulide si era ricoperta di navi argoliche, che recavano rovina e sterminio a Priamo e a Troia, noi, mentre vicino a gelide acque ci propiziavamo la volontà degli dèi col sacrificio di tori dalle corna dorate sulle are fumanti, al riparo di un platano ombroso, donde sgorgava una sorgente d'acqua, vedemmo un drago dall'aspetto feroce e dalle spire gigantesche, come se per volere di Giove uscisse da sotto l'ara. Esso ghermì degli uccellini nascosti da fitte foglie, su un ramo del platano; mentre ne divorava otto, il nono - la madre degli altri - volava lì sopra con tremule strida; e anche a lei la belva dilaniò le viscere con un orrendo morso. 64 Quando poi ebbe ucciso gli uccellini così teneri e la loro madre, lo stesso padre Saturnio che lo aveva fatto uscire alla luce, lo nascose alla nostra vista e lo irrigidì ricoprendolo di una dura scorza di pietra della stessa sua forma. Noi, paralizzati dal terrore, avevamo visto l'immane mostro aggirarsi frammezzo alle are degli dèi. Allora Calcante disse con voce fiduciosa: 'Come mai, o achivi, siete rimasti d'un tratto intorpiditi dal terrore? Il creatore stesso degli dèi ci ha mandato questo prodigio, lento ad avverarsi e di esito tardivo fin troppo, ma segno di fama e di gloria perenne. Giacché, per quanti uccelli voi avete visti uccisi dall'orribile dente, per altrettanti anni di guerra noi soffriremo sotto le mura di Troia; nel decimo anno essa cadrà e pagando il fio sazierà gli achivi'. Queste cose disse Calcante; vedete che ormai sono prossime a compiersi." 65 Ma che sorta di augurio è questo, che dal numero dei passeri deduce per l'appunto il numero degli anni piuttosto che quello dei mesi o dei giorni? E perché basa la sua profezia sui passerotti, che non costituivano nulla di prodigioso, mentre non fa parola del drago, il quale, cosa che non poté accadere, divenne, a quanto si legge, di pietra? E infine, che analogia c'è tra un passero e un susseguirsi di anni? Giacché, quanto a quel serpente che apparve a Silla mentre compiva un sacrificio, mi ricordo di tutt'e due le cose: l'una, che Silla, in procinto di iniziare la spedizione militare, fece un sacrificio, e un serpente sbucò da sotto l'altare; l'altra, che in quello stesso giorno fu riportata una brillante vittoria, per l'accortezza non dell'arùspice, ma del comandante. XXXI 66 Questi tipi di prodigi non hanno niente di strano. Una volta accaduti gli eventi, vengono utilizzati come profezia mediante qualche interpretazione, sicché quei chicchi di grano ammucchiati in bocca a Mida, o le api che, come hai detto, si posarono sulle labbra di Platone bambino, non sono prodigi, ma piuttosto oggetto di previsione felicemente riuscita. Del resto, fatti simili possono essere di per sé falsi, oppure le predizioni che se ne trassero possono essersi verificate per caso. Anche quanto a Roscio può essere falso che sia stato avvolto nelle 129
spire di un serpente, ma che nella sua culla vi fosse un serpente non è tanto strano, specialmente nel Solonio, dove i serpenti sogliono radunarsi presso il focolare, come noi al mercato. Quanto, poi, al responso degli arùspici - che non vi sarebbe stato nessuno più famoso, nessuno più insigne di lui - mi meraviglio che gli dèi immortali abbiano predetto la gloria a un futuro attore, non l'abbiano minimamente predetta a Scipione l'Africano. 67 Hai anche enumerato i prodigi riguardanti Flaminio. Che egli e il suo cavallo siano caduti tutt'a un tratto, non è davvero un gran miracolo. Quanto al fatto che l'insegna del primo manipolo di astati non poté essere divelta da terra, può darsi che il portatore dell'insegna desse prova di una certa timidezza nel divellerla, mentre l'aveva infissa di buona lena! Quanto al cavallo di Dionisio, c'era tanto da meravigliarsi per il fatto che emerse dal fiume e che delle api si posarono sulla sua criniera? Ma siccome poco dopo divenne re, ciò che era accaduto per caso assunse il valore d'un prodigio. "Ma," dirai ancora, "agli spartani accadde che le armi appese nel tempio di Ercole risonassero e che a Tebe le porte del tempio di questo stesso dio, che eran chiuse, si spalancassero all'improvviso e gli scudi, che erano infissi tanto in alto nelle pareti, venissero trovati a terra." Siccome nulla di tutto ciò poté avvenire senza qualche scossa, che ragione c'è di dire che quegli eventi accaddero per volere della divinità anziché per caso? XXXII 68 "Ma a Delfi, sulla testa della statua di Lisandro, comparve una corona di erbe selvatiche, e, per di più, improvvisamente." Davvero? Pensi che una corona d'erba possa essere sorta prima che ne sia stato concepito il seme? Del resto, io credo che dell'erba selvatica non sia stata seminata da uomini, ma ammucchiata da uccelli; d'altronde, tutto ciò che si trova su una testa può apparire simile a una corona. Quanto poi al fatto che le stelle d'oro, insegne di Càstore e Pollùce, poste a Delfi, caddero e non si trovarono più in nessun luogo, come hai rammentato, questa mi pare un'impresa di ladri piuttosto che di dèi. Che, poi, la dispettosità di una scimmia di Dodona sia stata tramandata dagli storici greci, è cosa che non finisce di stupirmi. 69 Che c'è di strano in questo, che quella bruttissima bestia abbia rovesciato l'urna e sparpagliato qua e là le sorti? E gli storici dicono che agli spartani non accadde alcun prodigio più malaugurante di questo! Quanto a quelle predizioni fatte ai veienti, che, se il lago Albano fosse traboccato e si fosse riversato in mare, Roma sarebbe andata incontro alla rovina; se invece l'acqua fosse stata trattenuta, la rovina sarebbe toccata a Veio, ‹io credo che› l'acqua del lago Albano fu incanalata per irrigare la campagna attorno a Roma, non per salvare la roccaforte e la città. "Ma poco dopo fu udita una voce che ammoniva i romani di provvedere perché Roma non fosse presa dai Galli; perciò fu consacrata nella Via Nuova un'ara in onore di Aio Loquente. Ma che dire del fatto che Aio Loquente, finché nessuno lo conosceva, parlava e discorreva e in seguito a ciò ebbe questo nome; quando però ottenne la sua ara e il suo nome, ammutolì? La stessa cosa si può dire della dea Moneta; dalla quale, eccettuata l'esortazione a sacrificare una scrofa gravida, quale ammonimento abbiamo mai ricevuto? XXXIII 70 Dei prodigi ho parlato anche troppo; rimangono gli auspicii e le sorti: intendo le sorti che vengono estratte a caso, non quelle che vengono largite durante un vaticinio, le quali più appropriatamente si chiamano responsi di oracoli; di questi parleremo quando saremo arrivati alla divinazione naturale. Rimane da dire qualcosa anche sui Caldei; ma innanzi tutto prendiamo in esame gli auspicii. "È un compito imbarazzante, per un àugure, polemizzare su questo argomento!" Per un àugure marso forse sì, ma per un romano è facilissimo. Noi non siamo di quegli 130
àuguri che predicono il futuro in base all'osservazione degli uccelli e degli altri indizi. E tuttavia credo che Romolo, il quale fondò la città prendendo gli auspicii, abbia creduto che esistesse una scienza augurale capace di prevedere il futuro (su molte cose gli antichi erravano): una scienza che, come vediamo, ha subito ormai dei mutamenti o, per l'uso stesso che se ne è fatto, o per nuove dottrine, o per il lungo tempo trascorso; si conservano però - per non urtare le credenze popolari e per il grande vantaggio che ne deriva allo Stato - le pratiche, l'osservanza dei riti, le regole, il diritto augurale e l'autorità del collegio. 71 Né io nego che siano stati meritevoli di ogni più grave pena i consoli Publio Claudio e Lucio Giunio, i quali presero il mare contro gli auspicii: era doveroso obbedire alle prescrizioni religiose e non si doveva contravvenire alle usanze patrie in modo così arrogante. Giustamente, dunque, l'uno fu condannato per giudizio del popolo, l'altro si dette egli stesso la morte. "Flaminio", tu ancora ricordi, "non obbedì agli auspicii, e perciò morì, lui e il suo esercito." Ma l'anno dopo Paolo obbedì: e forse per questo scampò alla morte con tutto l'esercito nella battaglia di Canne? E invero, anche se gli auspicii valessero (e invece non valgono affatto), certamente quelli ai quali ricorriamo noi, siano il "tripudio" o i segni provenienti dal cielo, sono simulacri di auspicii, auspicii no di certo. XXXIV "Quinto Fabio, voglio che tu mi assista nell'auspicio." Quello risponde: "Ho udito." Al tempo dei nostri antenati, per questa funzione ci si valeva d'un esperto; oggi si prende uno qualsiasi. L'esperto dev'essere uno che sappia che cos'è il "silenzio"; chiamiamo "silenzio", nel cerimoniale degli auspicii, la situazione in cui niente turba la cerimonia. 72 Rendersi conto di ciò è còmpito del perfetto àugure; ma quello a cui viene affidata al giorno d'oggi questa mansione, quando il magistrato che prende gli auspicii ordina: "Dimmi quando ti sembrerà che vi sia il 'silenzio'", non perde tempo né a guardare in alto né attorno; risponde sùbito che gli sembra che il "silenzio" ci sia. Allora l'altro: "Di' quando gli uccelli mangeranno". "Stanno mangiando." Ma quali uccelli? E dove? Ha portato, dicono, i polli rinchiusi in una gabbia colui che, per questo suo ufficio, viene chiamato pullario. Questi, dunque, sono gli uccelli messaggeri di Giove! Se essi mangino o no, che valore ha? Ciò non ha alcun rapporto con gli auspicii. Ma siccome, quando mangiano, è inevitabile che qualche pezzetto di cibo caschi loro fuori dalla bocca e percuota la terra (ciò fu detto dapprima "terripavio", poi "terripudio"; ora è chiamato "tripudio"), - quando dunque un pezzo di farina impastata cade dalla bocca del pollo, ecco che a colui che prende gli auspicii viene annunziato il "tripudio solìstimo". XXXV 73 Può dunque aver qualcosa di divinatorio questo auspicio, così coatto e tratto a forza? Che i più antichi àuguri non siano ricorsi a esso, lo dimostra il fatto che conserviamo tuttora un vecchio decreto del nostro collegio, secondo il quale da ogni uccello si può ottenere il "tripudio". Allora, sì, sarebbe un vero auspicio, a condizione che l'uccello fosse libero di mostrarsi; allora quell'uccello potrebbe sembrare un interprete e ministro di Giove; ora invece, chiuso in gabbia e stremato dalla fame, se si butta a divorare un pastone di farina, e se un pezzetto di cibo gli cade di bocca, credi che questo sia un auspicio o che in questo modo Romolo fosse solito trarre gli auspicii? 74 Non credi, inoltre, che coloro che un tempo prendevano gli auspicii compissero da sé l'osservazione di ciò che veniva dal cielo? Ora la fanno fare al pullario: quegli riferisce che è caduto un fulmine proveniente da sinistra, che consideriamo come il migliore auspicio, tranne per i comizi; questa eccezione fu stabilita per motivi politici, perché i più potenti nello Stato fossero gli 131
interpreti dei comizi nei processi popolari o nell'approvazione delle leggi o nell'elezione dei magistrati. "Ma," tu obietterai, "in séguito a una lettera inviata da Tiberio Gracco i consoli Scipione e Figulo dovettero rinunciare alla carica, perché gli àuguri avevano sentenziato che erano stati eletti con una procedura irregolare." Ma chi nega l'esistenza di una dottrina degli àuguri? È la divinazione che io nego "Ma gli arùspici sono indovini; quando Tiberio Gracco, a causa della morte improvvisa di colui che era stramazzato al suolo mentre raccoglieva i voti della centuria che votava per prima, li convocò in senato, essi dissero che il 'rogatore' non si era uniformato alle regole." 75 Innanzi tutto rifletti se non si siano voluti riferire a colui che era stato il "rogatore" della prima centuria; quello, difatti, era morto, e che ciò costituisse un'irregolarità potevano dirlo senza avere doti divinatorie, per semplice interpretazione delle regole. In secondo luogo, forse dissero così per caso, e il caso non si può mai escludere in fatti di questo genere. E in effetti, che cosa potevano sapere degli arùspici etruschi quanto al modo giusto di erigere la tenda o alle leggi sull'attraversamento del pomerio? In verità, io mi trovo d'accordo con Gaio Marcello piuttosto che con Appio Claudio - entrambi furono miei colleghi come àuguri - e ritengo che il diritto augurale, sebbene all'inizio sia stato costituito in base alla credenza nella divinazione, sia stato poi conservato e rispettato per utilità politica. XXXVI 76 Ma, su ciò, più a lungo altrove: ora basta. Esaminiamo piuttosto gli augurii stranieri, che non appartengono tanto alla divinazione artificiale, quanto alla superstizione. Gli stranieri, per lo più, badano a tutti gli uccelli, noi a pochissimi. Alcuni augurii sono considerati favorevoli da loro, altri dai nostri. Deiòtaro era solito chiedermi notizie sulla nostra dottrina augurale, io sulla loro. Per gli dèi immortali, quante differenze!, fino al punto che alcuni precetti erano addirittura opposti. Ed egli ricorreva agli auspicii sempre: noi, tranne nel periodo in cui abbiamo il diritto di trarre gli auspicii, ricevuto dal popolo, in qual misura vi ricorriamo? I nostri antenati stabilirono che non si procedesse ad alcuna azione di guerra senza aver prima tratto gli auspicii; ma da quanti anni ormai vengono condotte guerre da proconsoli e propretori, che non hanno diritto agli auspicii? 77 Perciò, né prendono gli auspicii prima di attraversare corsi d'acqua, né ricorrono al "tripudio". Dov'è andata a finire, dunque, la divinazione tratta dagli uccelli? Dal momento che le guerre sono condotte da chi non ha alcun diritto agli auspicii, sembra che tale divinazione sia stata mantenuta in vigore da chi si occupa del governo civile, soppressa nelle azioni militari. Ché quanto all'auspicio tratto dalle punte delle lance, che è esclusivamente di carattere militare, già Marco Marcello, quello che fu console cinque volte, lo trascurò del tutto: eppure fu ottimo comandante, ottimo àugure. E invero egli diceva che se talvolta voleva portare a compimento una spedizione militare, era solito viaggiare in una lettiga coperta, per non essere impedito dagli auspicii. A questo comportamento somiglia ciò che noi àuguri raccomandiamo, di far togliere dal giogo i giumenti, perché non càpiti un "auspicio aggiogato". 78 Che cos'altro è, questo non voler essere avvertiti da Giove, se non fare in modo che un auspicio non possa avvenire o, qualora avvenga, non sia veduto? XXXVII Quell'altra cosa, poi, è estremamente ridicola: che, secondo te, Deiòtaro non si è pentito di aver dato retta agli auspicii che ricevette al momento di partire per il campo di Pompeo, poiché, tenendo fede alla lealtà e all'amicizia col popolo romano, compì il suo dovere, e considerò più importante l'onore e la gloria che il mantenimento del suo regno e dei suoi possessi. Questo io lo credo senz'altro, 132
ma non ha niente a che vedere con gli auspicii: non fu certo una cornacchia che col suo gracchiare poté insegnargli che faceva bene a battersi per la libertà del popolo romano: era lui che ne era convinto, come dimostrò coi fatti. 79 Gli uccelli predicono eventi sfavorevoli o favorevoli; Deiòtaro, io vedo che ricorse agli auspicii della virtù, la quale vieta di badare alla fortuna, quando si deve tener fede alla parola data. Ché se gli uccelli gli predissero eventi favorevoli, lo ingannarono senza dubbio. Fu sconfitto in battaglia e costretto alla fuga al pari di Pompeo: tempi terribili! Si separò da lui: evento luttuoso! Accolse Cesare nello stesso tempo come nemico e come ospite: quale situazione più umiliante di questa? Cesare, dopo avergli strappato la tetrarchia dei Trocmi per darla a non so quale suo servitorello di Pergamo, dopo avergli tolto l'Armenia datagli dal senato, dopo essere stato da lui accolto con ospitalità suntuosissima, lasciò ridotto in miseria e l'ospite e il re. Ma sto divagando un po' troppo: ritornerò al mio argomento. Se badiamo agli eventi, che si cerca di prevedere in base al volo degli uccelli, gli eventi non furono in alcun modo favorevoli a Deiòtaro; se invece badiamo al compimento del dovere, esso fu suggerito a quel re dalla sua virtù, non dagli auspicii. XXXVIII 80 Lascia da parte, dunque, il lituo di Romolo, che, a quanto dici, non bruciò nemmeno in quel grandissimo incendio; non tener conto della cote di Atto Navio. Nella filosofia non dev'esserci spazio per storielle inventate. Un'altra cosa, piuttosto, sarebbe stata compito di un vero filosofo: innanzi tutto indagare la natura di tutta la teoria augurale, poi rintracciarne l'origine, infine vedere se abbia una coerenza interna. Qual è, dunque, la legge di natura che fa volare gli uccelli da ogni parte, di qua e di là, allo scopo di dare dei segni e di vietare talvolta di far qualcosa, di comandarlo talaltra, o col canto o col volo? E perché ad alcuni uccelli è stato dato il potere di fornire un auspicio valido dalla parte sinistra, ad altri da destra? E come, quando, da chi diremo che siano state scoperte queste cose? Gli Etruschi, almeno, considerano come fondatore della loro dottrina quel bimbetto spuntato su dal solco durante un'aratura; noi a chi ci appelleremo? Ad Atto Navio? Ma furono più antichi di vari anni Romolo e Remo, ambedue àuguri, come ci è tramandato. Oppure diremo che queste dottrine sono state scoperte dai pisidii o dai cilici o dai frigi? Ammetteremo dunque che genti prive di civiltà umana siano state autrici di una scienza divina? XXXIX 81 "Ma tutti i re, i popoli, le genti ricorrono agli auspicii. Come se ci fosse qualcosa di tanto diffuso quanto il non capir nulla, o come se anche tu, nel giudicare su qualche problema, ti attenessi all'opinione della moltitudine! Quanti sono quelli che negano che il piacere sia un bene? secondo i più, è addirittura il sommo bene. Dunque il loro gran numero induce gli stoici ad abbandonare la loro dottrina? O, d'altra parte, la moltitudine segue per lo più, nel modo di comportarsi, l'autorità degli stoici? Qual meraviglia, dunque, se a proposito degli auspicii e di ogni genere di divinazione le menti deboli accolgono tutte queste credenze superstiziose e non sono capaci di scorgere la verità? 82 Quale coerenza, poi, basata su accordo e comunanza di idee, c'è fra gli àuguri? Uniformandosi all'usanza della nostra pratica augurale, Ennio disse: "Allora tuonò da sinistra nel cielo perfettamente sereno." Ma l'Aiace omerico, lamentandosi con Achille della combattività dei troiani, si esprime press'a poco così: "Ad essi Giove diede presagi favorevoli con lampi inviati da destra." Dunque, a noi i segni da sinistra sembrano più propizi, ai greci e ai barbari quelli da destra. Beninteso, non ignoro che i presagi favorevoli li chiamiamo talvolta "sinistri", anche se vengono da destra; ma 133
certamente i nostri chiamarono sinistro l'auspicio e gli stranieri lo chiamarono destro, perché nella maggior parte dei casi esso sembrava loro migliore. Che grave discordanza! 83 E che dire del fatto che dànno valore a uccelli diversi, a segni diversi, seguono metodi d'osservazione diversi, pronunciano responsi diversi? Non bisognerà ammettere che una parte di queste divergenze derivi da errori, un'altra da superstizione, molte da volontà d'imbrogliare? XL E a queste superstizioni non hai esitato ad aggiungere anche i presagi tratti da certe frasi pronunciate senza intenzione: Emilia disse a Paolo che Persa era morto, e il padre intese la frase come un presagio; Cecilia disse alla figlia di sua sorella che le cedeva il proprio posto. E poi quelle altre frasi: "Fate silenzio" e "la centuria prerogativa, presagio dei comizi". Questa è proprio un voler essere eloquente e facondo contro se stesso. Se ti metti a fare attenzione a codeste cose, quando potrai aver l'animo tranquillo e sgombro da ansietà, in modo da avere come guida nell'agire non la superstizione, ma la ragione? Ma davvero, se un tale dirà qualcosa appartenente ai suoi affari e a un suo discorso, e una sua parola si potrà adattare per caso a quel che farai o penserai tu, questa coincidenza ti spaventerà o ti incoraggerà? 84 Quando Marco Crasso faceva imbarcare il proprio esercito a Brindisi, un tale che, nel porto, vendeva fichi secchi di Caria provenienti da Cauno, andava gridando: "Cauneas!" Diciamo pure, se ti fa piacere, che quel tale ammoniva Crasso di guardarsi dal partire, e che Crasso non sarebbe morto se avesse dato retta al presagio involontario. Ma se accettiamo idee di questo genere, dovremo stare attenti a tutte le volte che inciampiamo, che ci si rompe la stringa d'una scarpa, che starnutiamo. XLI 85 Rimangono ancora le sorti e i Caldei, per passare poi ai profeti invasati e ai sogni. Credi dunque che ci si debba soffermare sulle sorti? Che cos'è una sorte? È press'a poco lo stesso che giocare alla morra, ai dadi, alle "tessere": cose nelle quali vale l'azzardo e il caso, non il ragionamento o la riflessione. Tutta questa faccenda è un'invenzione ingannatrice, allo scopo di far quattrini o di fomentare la superstizione o di trarre in errore la gente. E, come abbiamo fatto a proposito dell'aruspicina, vediamo un po' la tradizione sull'origine delle sorti più famose. Gli annali di Preneste raccontano che Numerio Suffustio, uomo onesto e bennato, ricevé in frequenti sogni, all'ultimo anche minacciosi, l'ordine di spaccare una roccia in una determinata località. Atterrito da queste visioni, nonostante che i suoi concittadini lo deridessero, si accinse a fare quel lavoro. Dalla roccia infranta caddero giù delle sorti incise in legno di quercia, con segni di scrittura antica. Quel luogo è oggi circondato da un recinto, in segno di venerazione, presso il tempio di Giove bambino, il quale, effigiato ancora lattante, seduto insieme con Giunone in grembo alla dea Fortuna mentre ne ricerca la mammella, è adorato con grande devozione dalle madri. 86 E dicono che in quel medesimo tempo, là dove ora si trova il tempio della Fortuna, fluì miele da un olivo, e gli arùspici dissero che quelle sorti avrebbero goduto grande fama, e per loro ordine col legno di quell'olivo fu fabbricata un'urna, e lì furono riposte le sorti, le quali oggidì vengono estratte, si dice, per ispirazione della dea Fortuna. Che cosa di sicuro può esserci dunque in queste sorti, che per ispirazione della Fortuna, per mano di un bambino vengono mescolate e tratte su? E in che modo codeste sorti furono poste entro quella rupe? Chi tagliò, chi squadrò quel legno di quercia, chi vi incise quelle scritture? "Non c'è nulla," rispondono, "che la divinità non possa fare." Magari la divinità avesse elargito la saggezza agli stoici, per evitare che prestassero fede a tutto con superstiziosa ansia e infelicità! Ma ormai 134
l'opinione pubblica non dà più credito a questo genere di divinazione: la bellezza e l'antichità del tempio mantiene ancora in vita la fama delle sorti prenestine, e soltanto tra il popolino. 87 Quale magistrato, oggi, o quale uomo di un certo prestigio ricorre a quelle sorti? In tutti gli altri luoghi, poi, l'interesse per le sorti si è raffreddato completamente. Ciò appare dal detto di Carneade, riferito da Clitomaco, che non aveva visto in nessun luogo una Fortuna più fortunata di quella di Preneste. Lasciamo perdere, dunque, questa forma di divinazione, (XLII) veniamo alle mostruose immaginazioni dei Caldei. Eudosso, seguace di Platone, superiore a tutti nell'astronomia per concorde giudizio dei più dotti, ritiene, e lo ha scritto, che non bisogna minimamente credere ai Caldei quanto alla predizione e alla determinazione della vita di ciascuno in base ai segni del giorno della nascita. 88 Anche Panezio, l'unico degli stoici che negò fede alle predizioni astrologiche, ricorda Anchialo e Cassandro, i maggiori astronomi suoi contemporanei, i quali, mentre eccellevano in tutte le altre branche dell'astronomia, non vollero servirsi di questo genere di predizioni. Scilace di Alicarnasso, amico intimo di Panezio, astronomo eccellente e capo eminente della sua città, ripudiò tutto questo genere caldàico di predizione. 89 Ma lasciamo da parte gli autori e ricorriamo al ragionamento. Codesti difensori delle "predizioni natalizie" dei Caldei argomentano così: è insita, dicono, nel cerchio delle costellazioni che in greco si chiama "zodiaco", una forza di tal natura, che ciascuna parte di quel cerchio influenza e trasforma il cielo in un modo diverso, a seconda delle diverse stelle che si trovano in quelle parti e nelle parti finitime in un dato tempo; e quella forza viene variamente modificata da quelle stelle che son chiamate erranti; e quando le costellazioni sono venute in quella parte dello zodiaco coincidente con la nascita di colui che viene alla luce, oppure in una che abbia qualche contiguità o affinità con quella, le figure che allora si formano sono chiamate dagli astrologi triangoli e quadrati. Inoltre, poiché nel corso di un anno e delle varie stagioni avvengono così notevoli rivolgimenti e mutamenti del cielo per l'avvicinarsi e l'allontanarsi delle stelle, e poiché questi fenomeni che vediamo sono causati dall'influsso del sole, gli astrologi ritengono non solo verosimile, ma vero, che, a seconda della composizione dell'aria, i bambini che nascono siano animati e conformati in un certo modo, e che da essa risultino plasmati i caratteri, le qualità morali, l'anima, il corpo, lo svolgersi della vita, i casi e gli eventi di ciascuno. XLIII 90 Oh delirio incredibile! (ché non ogni errore può esser chiamato semplicemente "stoltezza"). E ad essi anche Diogene stoico concede qualcosa, cioè che sappiano predire soltanto quale carattere avrà ciascun singolo nato e a quale attività sarà particolarmente idoneo; nega, invece, che si possa in alcun modo sapere tutto il resto che essi pretendono di determinare: difatti, egli dice, i gemelli hanno costituzione fisica eguale, ma vita e sorte quasi sempre differenti. Procle ed Euristene, entrambi re di Sparta, furono fratelli gemelli; ma non vissero lo stesso numero di anni (Procle morì un anno prima di suo fratello) e Procle fu molto superiore al fratello per la gloria delle imprese compiute. 91 Ma io sostengo che è impossibile sapere anche quelle cose che l'ottimo Diogene concede ai Caldei per una specie di accordo sottobanco. Se la luna, come essi stessi dicono, regola le nascite dei bambini, e i Caldei osservano e prendono nota di quelle costellazioni che influiscono sulle nascite e che appaiono in congiunzione con la luna, allora essi giudicano con l'ingannevolissima sensazione della vista ciò che avrebbero dovuto vedere col ragionamento e con l'intelletto. I calcoli degli astronomi, che costoro avrebbero 135
dovuto conoscere, mostrano quanto sia bassa l'orbita della luna, tanto da sfiorare quasi quella della terra, quanto la luna sia lontana da Mercurio, che è la stella più vicina, e molto più lontana da Venere, e ancora un grande intervallo la separi dal sole, dalla cui luce si ritiene che sia illuminata; gli altri tre intervalli, poi, sono infiniti ed immensi: dal sole a Marte, da Marte a Giove, da Giove a Saturno; e di qui alla volta celeste, che è il limite estremo e ultimo dell'universo. 92 Quale influsso, dunque, vi può essere da una distanza pressoché infinita fino alla luna, o, piuttosto, alla terra? XLIV E ancora: quando dicono - e devono dirlo per forza - che tutte le nascite di tutti coloro che son generati in ogni parte della terra abitata sono identiche, e che necessariamente accadranno le stesse cose a tutti quelli che siano nati sotto la stessa posizione del cielo e degli astri, non rivelano, codesti interpreti del cielo, di non conoscerne neanche la struttura? Poiché quelle circonferenze che dividono, per così dire, il cielo a metà e limitano la nostra visuale (i greci le chiamano horízontes, noi possiamo con tutta esattezza chiamarle "limitanti") hanno la massima varietà e sono diverse da un luogo all'altro, ne consegue che la nascita e il tramonto delle costellazioni non può avvenire dappertutto nello stesso tempo. 93 E se per il loro influsso il cielo assume ora una, ora un'altra composizione, come possono quelli che nascono ricevere una medesima impronta, dal momento che tanto grande è la dissimiglianza del cielo? In questa parte del mondo che noi abitiamo la Canicola sorge dopo il solstizio d'estate, anzi parecchi giorni dopo; ma nel paese dei trogloditi, a quanto si legge, sorge prima del solstizio; cosicché, se anche ammettiamo che l'influsso del cielo si esplichi in qualche modo su coloro che nascono in terra, gli astrologi dovrebbero pur riconoscere che coloro che nascono contemporaneamente possono avere caratteri diversi per la dissimiglianza del cielo. Ma non hanno alcuna voglia di riconoscerlo: pretendono che tutti i nati nel medesimo tempo, qualunque sia il luogo della loro nascita, siano votati alla stessa sorte. XLV 94 Ma che follìa è questa, di credere che, mentre si prendono in considerazione i più grandi movimenti e mutamenti del cielo, non importino nulla le differenze tra i venti, le piogge, i climi di ciascun luogo? Perfino in località vicine tra loro tante sono le disparità tra questi fenomeni, che spesso le condizioni meteorologiche a Tuscolo sono diverse da quelle di Roma. I naviganti se ne accorgono più che mai quando, nel doppiare un promontorio, avvertono spesso un grandissimo cambiamento del vento. Perciò, se il clima è così variabile, ora sereno, ora perturbato, si può considerare sano di mente chi non dice che ciò influisca sulle nascite dei bambini (e in verità non vi influisce), ma sostiene poi che eserciti un influsso sulle nascite stesse quel non so che di evanescente, che non può in alcun modo essere oggetto di sensazione, a mala pena anche di attività pensante, cioè la composizione del cielo prodotta dalla luna e dagli altri astri? E il non capire che, ragionando così, si riduce a nulla l'influsso dei semi generativi, che ha un'importanza decisiva nel concepimento e nella procreazione, è forse un errore di poco conto? Chi, infatti, non vede che i figli ritraggono dai genitori la complessione fisica, il carattere, tanti modi di atteggiarsi da fermi e di muoversi? Ciò non accadrebbe se queste caratteristiche non provenissero dall'influsso e dall'efficacia dei generanti, ma dal potere della luna e dalla composizione del cielo. 95 E il fatto che i nati nell'identico istante hanno caratteri e vicende della vita dissimili, è forse una prova di poco conto a favore della tesi che il tempo della nascita non c'entra nulla con lo svolgimento 136
successivo della vita? A meno che, forse, riteniamo che nessuno sia stato concepito e sia nato nello stesso momento di Scipione l'Africano. C'è stato, in effetti, qualcuno da mettergli a confronto? XLVI 96 Può esser messo in dubbio, poi, che molti, nati con qualche parte del corpo deforme e anormale, siano stati guariti e riportati alla normalità dalla Natura, che ha corretto se stessa, o dalla chirurgia e dalla medicina? Per esempio, ad alcuni, che avevano la lingua attaccata al palato così da non poter parlare, quell'organo è stato reso libero con un taglio di bisturi. Molti altri eliminarono un difetto di natura mediante la continua applicazione e l'esercizio, come Demetrio Falereo riferisce quanto a Demostene, il quale, non essendo in grado di pronunciare la lettera erre, col continuo esercizio riuscì a pronunciarla perfettamente. Se quei difetti fossero stati prodotti e trasmessi da un influsso astrale, niente li avrebbe potuti correggere. E la differenza dei luoghi non produce differenti tipi umani? Di tali differenze è facile dare esempi, mostrare quanto son diversi nel corpo e nel carattere gli indiani e i persiani, gli etìopi e i siri, a tal punto che le varietà e le dissimiglianze sono addirittura incredibili. 97 Da ciò si comprende che, riguardo alle nascite, le diverse località della terra valgono più dei contatti della luna. E quanto a ciò che si dice, che i babilonesi continuarono a osservare e a sperimentare tutti i bambini che via via nascevano per la durata di 470.000 anni, è una menzogna: se lo avessero fatto davvero per tanto tempo, non avrebbero smesso. Non abbiamo, d'altronde, alcun testimone autorevole che ci assicuri che ciò venga fatto o sappia che sia stato fatto in passato. XLVII Come vedi, non riferisco le argomentazioni di Carneade, ma quelle di Panezio, il più eminente degli stoici. Io, poi, domando anche se tutti quelli che caddero nella battaglia di Canne erano nati sotto la stessa costellazione: poiché certo ebbero tutti una morte uguale. E quelli che hanno in dote un ingegno e una virtù eccezionali, nascono anche loro sotto la stessa costellazione? Quale istante c'è, in cui non nascono innumerevoli bambini? Eppure nessuno di loro è stato all'altezza di Omero. 98 E se ha importanza sapere sotto quale composizione del cielo e congiunzione delle stelle ciascun essere vivente nasca, bisogna che ciò valga non solo a proposito degli uomini, ma anche delle bestie. Si potrebbe dire una cosa più assurda di questa? Lucio Taruzio di Fermo, mio intimo amico, perfetto conoscitore della dottrina caldèa, faceva risalire anche il giorno natalizio della nostra città a quelle feste di Pale, in concomitanza delle quali si dice che essa fu fondata da Romolo, e diceva che Roma era nata mentre la luna si trovava nella costellazione della Libra, e non esitava a cantarne i destini. 99 Oh straordinaria potenza dell'errore! Anche il giorno natalizio d'una città dipendeva dall'influsso delle stelle e della luna? Ammetti pure che, riguardo a un bambino, abbia qualche importanza lo stato del cielo nel quale egli abbia tratto il primo respiro; ma la stessa cosa avrebbe potuto valere anche per i mattoni o per le pietre con cui Roma fu costruita? Ma a che scopo dilungarsi? Ogni giorno simili profezie risultano smentite. Quante cose mi ricordo che furono predette dai caldei a Pompeo, quante a Crasso, quante a Cesare stesso, poc'anzi ucciso! Nessuno di loro sarebbe morto se non da vecchio, se non nel suo letto, se non nel pieno splendore della sua gloria. Cosicché mi sembra estremamente strano che vi sia qualcuno che ancora creda a costoro, le cui predizioni egli stesso, ogni giorno, vede che sono confutate dalla realtà e dagli avvenimenti. XLVIII 100 Rimangono due forme di divinazione, che, a quanto si dice, ci provengono dalla natura, non dall'arte: i vaticinii e i sogni. Discutiamone," dissi, 137
"Quinto, se ti piace." Rispose Quinto: "Certo che mi piace. In effetti io mi sento del tutto d'accordo con quel che hai sostenuto finora e, per esser sincero, quantunque le tue parole abbiano rafforzato la mia opinione, tuttavia anche prima, dentro di me, consideravo troppo superstiziosa la dottrina stoica sulla divinazione. Mi seduceva di più quest'altra teoria, quella dei peripatetici: del vecchio Dicearco e di Cratippo che attualmente è nel pieno fiore della sua fama. Essi ritengono che vi sia nelle menti degli uomini una sorta di oracolo che faccia presentire il futuro, quando l'anima o è esaltata da una divina follìa o, rilassatasi nel sonno, può muoversi liberamente e senza vincoli corporei. Sarei davvero desideroso di sentire che cosa pensi di queste forme di divinazione e con quali argomenti le confuti." XLIX 101 Quando egli ebbe detto ciò, io a mia volta, quasi rifacendomi di nuovo dall'inizio, così presi a dire: "Non ignoro, Quinto, che tu hai sempre pensato così: sei stato dubbioso sulle altre forme di divinazione, hai ritenuto vere soltanto queste due, dell'esaltazione profetica e del sogno, che sembrano derivate dalla mente libera dal gravame del corpo. Dirò, dunque, il mio parere anche su questi due generi di divinazione; ma prima cercherò di esaminare il valore dell'argomentazione logica degli stoici e del nostro Cratippo. Hai detto che Crisippo, Diogene stoico e Antipatro argomentano così: "Se gli dèi esistono e non fanno sapere in anticipo agli uomini il futuro, o non amano gli uomini, o ignorano ciò che accadrà, o ritengono che non giovi affatto agli uomini sapere il futuro, o stimano indegno della loro maestà preavvertire gli uomini delle cose che avverranno, o nemmeno gli dèi stessi sono in grado di farle sapere. 102 Ma non è vero che non ci amino (sono, infatti, benèfici e amici del genere umano), né è possibile che ignorino ciò che essi stessi hanno stabilito e predisposto, né si può ammettere che non ci giovi sapere il futuro (ché, se lo sapremo, saremo più prudenti), né essi ritengono che ciò non si confaccia alla loro maestà (niente è, difatti, più glorioso che fare il bene), né possono essere incapaci di prevedere il futuro. Dunque, dovremmo concludere, non esistono gli dèi e non ci predìcono il futuro. Ma gli dèi esistono; dunque predìcono. E se dànno indizi del futuro, non è ammissibile che ci precludano ogni mezzo di interpretare tali indizi (ché darebbero gli indizi senza alcun frutto), né, se essi ci forniscono quei mezzi d'interpretazione, è possibile che non vi sia la divinazione. Dunque c'è la divinazione." 103 Oh, uomini acuti! Come credono che in poche parole l'affare sia bell'e sbrigato! Per giungere alla loro conclusione, dànno per accettate delle premesse nessuna delle quali vien data loro per buona. Si deve approvare la conclusione di un ragionamento solo se il problema controverso viene risolto partendo da premesse sicure. L Guarda un po' come Epicuro, che gli stoici sogliono considerare sciocco e rozzo, ha dimostrato che quello che nella natura chiamiamo "il tutto" è infinito. "Ciò che è finito" egli dice "ha un'estremità." Chi non è disposto ad ammettere questo? "Ciò che ha un'estremità si può vedere da un punto che si trovi al di fuori." Anche questo bisogna ammetterlo. "Ma ciò che è il tutto non può essere veduto da un punto che si trovi al di fuori del tutto." Nemmeno questo si può negare. "Non avendo, dunque, alcuna estremità, è necessariamente infinito." 104 Vedi come, prendendo le mosse da premesse che tutti ammettono, giunge a dimostrare una cosa di cui si dubitava? Non così procedete voi dialettici; e non solo non partite, per svolgere le vostre argomentazioni, da premesse che tutti concedono, ma presupponete cose che, anche se vi venissero concesse, egualmente non vi farebbero raggiungere la conclusione da voi voluta. Incominciate, difatti, con questo 138
presupposto: "Se gli dèi esistono, sono benèfici verso gli uomini." Chi ve lo darà per sicuro? Forse Epicuro, il quale nega che gli dèi abbiano alcuna preoccupazione sia per gli altri, sia per se stessi? Oppure il nostro Ennio, il quale fa dire a un suo personaggio, mentre la folla degli spettatori dimostra il proprio assenso con grandi applausi: "Io ho sempre detto e sempre dirò che esiste la stirpe degli dèi celesti, ma credo che essi non si curino di quel che fa il genere umano." E aggiunge sùbito il motivo di questa sua opinione; ma non è necessario che io reciti il seguito; basta solamente che si capisca che costoro presuppongono come certo ciò che è dubbio e controverso. LI 105 Segue quest'altro assunto: che gli dèi non ignorano niente, perché tutto è stato stabilito da loro. Ma su questo punto quanta polemica c'è da parte di uomini dottissimi, i quali non ammettono che questa realtà sia stata stabilita dagli dèi! 106 "Ma è nel nostro interesse sapere il futuro." C'è un'ampia opera di Dicearco che sostiene che è meglio ignorare il futuro che saperlo. Ancora, gli stoici negano che sia alieno dalla maestà degli dèi.... certo, andare a spiare dentro le casupole di tutti noi mortali, per giudicare che cosa sia utile a ciascuno! "Né possono essere incapaci di prevedere il futuro." E invece ciò è contestato da quei pensatori che ritengono che il futuro non sia predeterminato con certezza. Vedi, dunque, che i punti dubbi sono dati per certi e per ammessi da tutti? Poi rovesciano l'argomentazione e ragionano così: "Dunque, dovremmo concludere, gli dèi non esistono né indicano il futuro": credono che non sia ammissibile altra possibilità. Poi soggiungono: "Ma gli dèi esistono"; e anche questo non è ammesso da tutti. "Dunque predìcono"; nemmeno questa è una conseguenza necessaria: potrebbero non darci alcuna predizione e tuttavia esistere. Aggiungono anche che, se inviano segni premonitori, non è possibile che non ci forniscano qualche mezzo per interpretarli. Ma invece anche questo è possibile, che conoscano questi mezzi, ma non li forniscano agli uomini; perché, in effetti, li avrebbero dati agli etruschi più che ai romani? "Né, se essi ci forniscono quei mezzi d'interpretazione, è possibile che non esista la divinazione." Ammetti pure che gli dèi ce li forniscano, il che è già assurdo: a che serve, se noi non possiamo comprenderli? Ed ecco il finale: "Dunque la divinazione esiste." Sia pure il finale, ma non è il raggiungimento della dimostrazione: ché da false premesse, come abbiamo appreso proprio da loro, non si può giungere alla verità. Tutta l'argomentazione, dunque, giace a terra. LII 107 Veniamo ora al nostro amico e ottimo uomo, Cratippo. Dice: "Se senza occhi non può svolgersi la funzione e il còmpito degli occhi, e tuttavia può accadere talvolta che gli occhi non adempiano bene al loro còmpito, chi anche una volta sola ha usato gli occhi in modo da scorgere le cose come sono in realtà, possiede il senso della vista capace di percepire la realtà. Allo stesso modo, dunque, se, non esistendo la divinazione, non può svolgersi la funzione e il còmpito della divinazione stessa, e tuttavia può accadere talvolta che qualcuno, pur dotato di capacità divinatorie, erri e non veda la realtà, è sufficiente a dimostrare l'esistenza della divinazione che anche una volta sola un fatto sia stato divinato in modo tale da non sembrare che ciò possa in alcun modo attribuirsi al caso. Ma ci sono esempi innumerevoli di questo genere: bisogna dunque ammettere che la divinazione esiste." Arguto e conciso! Ma dopo che per due volte ha enunciato un presupposto arbitrario, per quanto possa aver trovato in noi degli amici disposti a concedergli molto, non è tuttavia assolutamente possibile concedergli ciò che vuole "aggiungere" nella sua argomentazione. 108 Egli dice, dunque: "Se qualche volta 139
gli occhi vedono male, tuttavia, siccome qualche volta hanno visto bene, sono forniti della capacità di vedere; del pari, se uno ha detto anche una volta sola qualcosa di giusto nel divinare, sebbene altre volte si sbagli, dev'essere ritenuto dotato della capacità di divinare." LIII Guarda un po', ti prego, caro Cratippo, quale somiglianza ci sia tra queste due argomentazioni; poiché io non riesco a vederla. Gli occhi, quando vedono giusto, si servono di una sensazione dataci dalla natura; le anime, se qualche volta o nell'esaltazione o nel sogno han visto cose che poi si avverano, hanno avuto dalla loro la fortuna e il caso; a meno che tu non creda che quelli che considerano i sogni nient'altro che sogni, ti concederanno che, se talvolta un sogno si avvera, ciò non sia accaduto fortuitamente. Ma concediamoti pure quei due presupposti (che i dialettici chiamano "lemmi" con parola greca, ma io preferisco parlar latino); in ogni caso l'"aggiunta" (che quelli chiamano próslepsis) non ti sarà concessa. 109 L'aggiunta di Cratippo è questa: "Vi sono innumerevoli presentimenti non casuali". Io, invece, dico che non ce n'è nemmeno uno: vedi quanto è grande il dissenso; e, una volta che quell'aggiunta non viene concessa, nessuna conclusione si può raggiungere. Ma, secondo lui, sono io uno sfrontato, nel non voler ammettere quell'aggiunta, mentre è tanto evidente. Che cosa è evidente? "Che molte predizioni risultano vere," risponde. E che dire allora del fatto che molte di più risultano false? Proprio questa incostanza di risultati, che è caratteristica del caso, non dovrà dimostrarci che dal caso, noti da una legge di natura, essi dipendono? Inoltre, se codesta tua argomentazione è vera, caro Cratippo (dal momento che è con te che sto attualmente discutendo), non ti accorgi che di essa possono servirsi egualmente gli arùspici, gli interpreti dei fulmini e dei prodìgi, gli àuguri, gli estrattori di sorti, i caldei? Di tutte queste forme di divinazione non ce n'è nemmeno una in base a cui, una volta su tante, l'evento non sia stato conforme alla predizione. Dunque o anche queste forme di divinazione, che tu giustissimamente ripudii, sono valide, o, se non lo sono, non capisco perché lo siano quelle due sole che tu ammetti. Grazie allo stesso ragionamento con cui tu dài il benestare a quelle, possono avere il diritto di esistere anche quelle che neghi. LIV 110 Quale autorità, d'altronde, può avere codesto stato di folle eccitazione che chiamate divino, in virtù del quale ciò che il savio non vede, lo vedrebbe il pazzo, e colui che ha perduto le facoltà sensoriali umane avrebbe acquisito quelle divine? Noi crediamo ai carmi della Sibilla, che essa, si dice, pronunciò in stato di esaltazione. Si credeva poco tempo fa, per una dicerìa infondata diffusasi tra la gente, che un interprete di tali carmi si apprestasse a dire in senato che colui che di fatto era già nostro re avrebbe dovuto anche ricevere il titolo regale, se volevamo esser salvi. Se questo è scritto nei libri sibillini, a quale uomo e a quale tempo si riferisce? Colui che aveva scritto quei versi aveva agito furbescamente: omettendo ogni precisazione di persona e di tempo, aveva fatto in modo che, qualunque cosa accadesse, sembrasse l'avveramento di una profezia. 111 Aveva aggiunto anche l'oscurità dell'espressione, perché gli stessi versi potessero adattarsi ora ad una cosa, ora a un'altra in diverse circostanze. Che quel carme, poi, non sia il parto di uno spirito invasato, lo rivela sia la fattura dei versi stessi (che sono un prodotto di arte raffinata e accurata, non di eccitazione e di impeto), sia quel tipo di composizione che si suol chiamare "acrostico", nella quale, leggendo di séguito le prime lettere di ciascun verso, si mette insieme un'espressione di senso compiuto, come in alcune poesie di Ennio: "QUINTO ENNIO FECE". Un simile artifizio è certamente caratteristico di una mente attenta, non furente! 112 E nei libri sibillini, 140
l'intero carme risulta dal primo verso di ciascuna frase, mettendo di séguito le prime lettere di quella frase. Questo è il modo di procedere di uno scrittore, non di un invasato; di uno che lavora con minuta accuratezza, non di un folle. Perciò teniamo ben appartata e segregata la Sibilla, in modo che, come ci è stato tramandato dai nostri antenati, senza un ordine esplicito del senato non vengano nemmeno letti i suoi libri, e servano a far abbandonare i timori superstiziosi anziché a farli sorgere. Coi sacerdoti addetti all'interpretazione di quei carmi facciamo un patto: che da quei libri tirino fuori qualsiasi cosa tranne un re, poiché d'ora in poi né gli dèi né gli uomini permetteranno che un re vi sia a Roma. LV "Ma" obietterai, "molti hanno spesso vaticinato il vero, come Cassandra: 'E già nel vasto mare...', e poco dopo: 'Ahimè, guardate!'" 113 Mi costringi dunque anche a credere alle invenzioni delle tragedie? Esse arrecheranno diletto artistico quanto vorrai, si faranno ammirare per le parole, per le frasi, per i ritmi, per la musica; ma nessuna autorità né credibilità dobbiamo attribuire a cose inventate. E allo stesso modo io sostengo che non si debba credere né a quel tale ignoto Publilio né ai vati Marcii né agli enigmi di Apollo: alcune di queste profezie sono chiaramente delle invenzioni, altre sono state proferite senza discernimento; nessuno, neanche di mediocre levatura, vi ha creduto, meno ancora le persone dotate d'ingegno. 114 "Ma come," dirai, "quel rematore della flotta di Coponio non predisse appunto ciò che poi avvenne?" Certo! Predisse appunto ciò che tutti, allora, temevano che accadesse. Sentivamo dire che in Tessaglia gli accampamenti dei due eserciti erano ormai l'uno di fronte all'altro; ritenevamo che l'esercito di Cesare avesse più sfrenato ardire, poiché aveva preso le armi contro la patria, e più forza per la lunga esperienza nel guerreggiare; l'esito della battaglia, nessuno di noi c'era che non lo temesse; ma, come si conveniva a persone dotate di fermezza d'animo, non davamo segni di timore. Quel greco invece, che c'è di strano se per un eccesso di paura, come tante volte accade, perse il controllo e il senno e uscì fuori di sé? In séguito a questa perturbazione d'animo, quelle cose che, finché era sano di mente, temeva, andava dicendo che sarebbero avvenute quand'ebbe perso la ragione. Ma, per tutti gli dèi e gli uomini, è più verosimile che la volontà degli dèi immortali sia stata prevista da un rematore impazzito o da qualcuno di noi che allora eravamo lì, da me, da Catone, da Varrone, da Coponio stesso? LVI 115 Ma eccomi giunto a te, "O venerando Apollo, che occupi il vero ombelico del mondo, donde primamente uscì la profetica voce orrida, terribile." Dei tuoi oracoli Crisippo ha riempito un intero libro: alcuni falsi, a mio parere, altri avveratisi per caso, come spessissimo avviene in qualsiasi discorso, altri tortuosi e oscuri (cosicché l'interprete ha, a sua volta, bisogno di un interprete, e la sorte stessa va indagata ricorrendo alle sorti), altri ancora a doppio senso e bisognosi dell'indagine di un dialettico. Quando fu dato quel famoso responso al più ricco dei re d'Asia: "Creso attraversando l'Halys manderà in rovina una grande potenza" egli credette che avrebbe mandato in rovina la potenza dei nemici, mandò invece in rovina la propria: 116 si fosse verificata l'una o l'altra delle due possibilità, l'oracolo sarebbe egualmente apparso vero. Perché, d'altra parte, dovrei credere che Creso abbia mai ricevuto realmente questo responso? O perché dovrei considerare Erodoto più verace di Ennio? Erodoto non poté forse essere stato meno fantasioso a proposito di Creso di quanto lo fu Ennio a proposito di Pirro? Chi è disposto a credere che Pirro ricevé dall'oracolo di Apollo il responso: "Dico te, Eacide, poter vincere i romani"? Innanzi tutto, Apollo non parlò mai in latino; poi, di questo 141
responso gli autori greci non sanno nulla; inoltre, al tempo di Pirro Apollo aveva già smesso di far versi; e infine, sebbene sia sempre stata, come Ennio dice, "Stolta la stirpe degli Eacidi - son potenti in guerra più che nella saggezza -", tuttavia Pirro avrebbe potuto capire che il doppio senso contenuto in quel verso, "te vincere i romani", non era per nulla più favorevole a lui che ai romani. Ché quel doppio senso che ingannò Creso avrebbe potuto ingannare anche un Crisippo, ma questo, relativo a Pirro, non avrebbe ingannato neanche Epicuro. LVII 117 Ma, e questa è la cosa principale, come mai a Delfi non vengono più pronunciati oracoli di questo genere, e non solo ai nostri tempi, ma già da molto, di modo che niente può essere ormai oggetto di maggior disprezzo? Quando vengono messi alle strette su questo punto, rispondono che per l'antichità è svanita la forza di quel luogo, la quale produceva quelle esalazioni che esaltavano l'anima della Pizia e le facevano proferire gli oracoli. Diresti che costoro parlino del vino o della salamoia, che perdono sapore col tempo. Si tratta della. forza sprigionantesi da un luogo, e di una forza non meramente naturale, ma addirittura divina; come mai, dunque, essa è potuta svanire? "Per il lungo tempo trascorso," tu dirai. Ma quale durata di tempo può essere in grado di esaurire una forza divina? E, d'altra parte, che cosa può esserci di tanto divino quanto un afflato prorompente dalla terra, capace di eccitare la mente umana in modo da renderla presàga del futuro, in modo che la mente non solo lo veda con grande anticipo, ma anche lo reciti in versi ben ritmati? E quando codesta forza è svanita? Forse quando gli uomini incominciarono a essere meno crèduli? 118 Demostene, che visse circa trecento anni fa, già allora diceva che la Pizia "filippeggiava", cioè, per così dire, prendeva le parti di Filippo. Questa frase mirava a far intendere che la Pizia era stata corrotta da Filippo. È dunque lecito credere che anche in altri responsi dell'oracolo di Delfi vi sia stato qualcosa di non veritiero. Ma, non so come, sembra che questi filosofi superstiziosi e, starei per dire, fanatici vogliano a tutti i costi far la figura degli sciocchi. Vi ostinate a sostenere che è svanita ed estinta una forza che, se mai vi fosse stata, sarebbe senza dubbio eterna, piuttosto che rinunciare a credere cose incredibili. LVIII 119 Un errore analogo si commette a proposito dei sogni. Da quanto lontano prendono le mosse nel difenderli! Sostengono che le nostre anime siano divine, e derivino dal di fuori di noi, e che il mondo sia pieno di una moltitudine di anime "consenzienti": quindi, in virtù della natura divina dell'anima in quanto tale e della sua connessione con le anime che riempiono l'universo, sarebbe possibile vedere il futuro. Zenone ritiene che l'anima si contragga e, in certo senso, scivoli giù e giaccia, e che appunto in ciò consista il sonno. Già Pitagora e Platone, autori di sommo valore, consigliano di andare a dormire predisposti da un regime di vita e da un'alimentazione appropriata, allo scopo di vedere in sogno cose più rispondenti al vero; i pitagorici prescrivono di astenersi assolutamente dal mangiar fave, come se quel cibo gonfiasse l'anima, non il ventre. Ma, non so come, non si può immaginare nulla di tanto assurdo che non sia sostenuto da qualche filosofo. 120 Riteniamo dunque che le anime dei dormienti si muovano da sé mentre sognano, oppure che, come sostiene Democrito, siano colpite da visioni esterne ed estranee? Sia vera questa opinione o quell'altra, rimane il fatto che moltissime cose false possono apparir vere a chi sogna. Anche ai naviganti sembra che si muovano cose che stanno ferme; e, per una sensazione degli occhi deviati, l'unica luce di una lucerna può apparire doppia. E che dire dei pazzi, o degli ubriachi? Quante visioni fallaci essi hanno! Ma se non si deve credere a visioni di questo genere, non capisco perché si 142
debba credere ai sogni. Giacché, se volessimo, potremmo sostenere a proposito di questi errori visivi le stesse cose che si sostengono a proposito dei sogni, e, di conseguenza, potremmo dire che le cose ferme, qualora sembrino in movimento, siano il segno premonitore di un terremoto o di una qualche sconfitta improvvisa, e che il veder doppia la fiamma di una lucerna sia presagio di discordie civili e di sedizioni. LIX 121 E ancora, dalle visioni dei pazzi o degli ubriachi si potrebbero, con l'arte congetturale, dedurre innumerevoli cose che dovrebbero accadere in futuro. Chi, in effetti, tirando l'arco per una giornata intera, non finirà col far centro una buona volta? Noi sogniamo per notti intere, e non c'è quasi nessuna notte nella quale non dormiamo; e ci meravigliamo che una volta o l'altra ciò che abbiamo sognato si avveri? Che c'è di tanto incerto quanto un colpo di dadi? Eppure non c'è nessuno che, lanciandoli più volte, ottenga una volta il "colpo di Venere", talora anche due, anche tre volte. Diremo allora, come gli sciocchi, che ciò avviene per un intervento di Venere, non per caso? E se nelle altre ore del giorno non bisogna credere alle visioni false, non vedo quale condizione privilegiata abbia il sonno, tale che in esso le cose valgano per vere. 122 E se la natura avesse predisposto le cose in modo che i dormienti dovessero fare ciò che sognano, bisognerebbe legare tutti quelli che vanno a dormire: ché durante il sogno si abbandonerebbero ad atti più inconsulti di quelli di qualsiasi pazzo. Se, d'altra parte, non dobbiamo prestar fede alle visioni dei pazzi perché sono false, non capisco perché si creda alle visioni di quelli che sognano, le quali sono molto più confuse; forse perché i pazzi non narrano le loro visioni all'interprete, mentre le narrano quelli che han fatto un sogno? Domando anche: se io voglio scrivere o leggere qualcosa, o cantare o sonare la cetra, o risolvere un problema di geometria, di fisica, di dialettica, dovrò aspettare l'ispirazione dàtami da un sogno, o sarà meglio che usi le mie cognizioni, senza le quali non si può fare né portare a soluzione nessuna di quelle attività? E ancora: nemmeno se volessi navigare, reggerei il timone basandomi su precetti ricevuti in sogno; ché ne pagherei sùbito un duro prezzo! 123 Come, dunque, è plausibile che gli ammalati chiedano la cura all'interprete di sogni anziché al medico? Forse Esculapio, forse Serapide ci può prescrivere durante il sonno la cura per recuperare la salute, e invece Nettuno non può dare egli stesso i precetti ai naviganti? E se Minerva prescriverà la medicina senza bisogno del medico, le Muse non daranno in sogno la capacità di scrivere, di leggere, di esercitare tutte le altre arti? Ma se ci venisse concessa in questo modo la facoltà di curarci la salute, ci verrebbero concesse anche le altre doti a cui ho accennato; e siccome quelle non ci sono concesse, non ci è concessa l'arte medica; esclusa la quale, risulta confutata ogni autorità dei sogni. LX 124 Ma ammettiamo che anche queste siano osservazioni superficiali; scaviamo ora più a fondo. O un potere divino che si prende cura di noi ci dà direttamente i precetti per mezzo dei sogni, o gli interpreti, basandosi su una coerenza e concordanza della natura, che chiamano sympátheia, comprendono che cosa, nei sogni, corrisponda a un determinato evento e quale ulteriore risultato consegua da ciascun evento; o nessuna di queste due cose è vera, e tutto si fonda su un'osservazione lunga e costante di ciò che suole avvenire come conseguenza di una visione avvenuta durante il sonno. In primo luogo, dunque, bisogna comprendere che non esiste alcuna forza divina produttrice dei sogni. E questo, in effetti, è evidente: che nessuna visione apparsa nel sonno proviene dalla volontà degli dèi. Per il nostro bene, infatti, gli dèi farebbero sì che noi potessimo prevedere il futuro. 125 143
Ma quanti sono quelli che davvero obbediscono ai sogni, li comprendono, li ricordano? Quanto più numerosi, invece, quelli che li disprezzano e li considerano una superstizione degna di un animo debole, da vecchierelle? Quale motivo c'è, dunque, per cui la divinità, premurosa verso tutti costoro, li avverta mediante sogni, mentre essi non ritengono quei sogni meritevoli non dico di attenzione, ma nemmeno di ricordo? Ché da un lato la divinità non può ignorare come la pensa ciascuno di noi, dall'altro non è degno della divinità fare qualcosa inutilmente e senza motivo; perfino gli uomini che agissero così si mostrerebbero poco seri! Perciò, se la maggior parte dei sogni sono ignorati o trascurati, una delle due: o la divinità non sa che le cose stanno così, o ricorre senza frutto agli avvertimenti dei sogni; ma né l'una né l'altra cosa si addice alla divinità; bisogna quindi riconoscere che la divinità non ci dà alcun segno premonitore mediante i sogni. LXI 126 Un'altra cosa vorrei sapere: se la divinità ci manda queste visioni per il nostro bene, perché non ce le manda mentre siamo svegli, non mentre dormiamo. O che un impulso esterno ed estraneo ecciti le anime dei dormienti, o che le anime si eccitino da sé, o che vi sia qualunque altra causa che ci dia l'impressione di vedere, udire, fare qualcosa durante il sonno, la medesima causa poteva valere riguardo a noi durante la veglia; e se gli dèi facessero ciò per il nostro bene mentre dormiamo, farebbero altrettanto mentre siamo svegli, tanto più in quanto Crisippo, polemizzando contro gli accademici, dice che sono molto più chiare e sicure le cose da noi viste in stato di veglia che quelle che ci appaiono in sogno. Sarebbe stato quindi più degno della bontà divina - se davvero gli dèi intendessero con questo mezzo curarsi di noi - inviare visioni più chiare a chi è sveglio, non più oscure a chi dorme. Ma siccome ciò non accade, i sogni non sono da considerare di origine divina. 127 E insomma, che bisogno ci sarebbe di tortuosità e di raggiri, tali da costringerci a ricorrere agli interpreti dei sogni? La divinità, se voleva davvero giovarci, non poteva dirci senza intermediari "Fa' questo, non fare quest'altro", e apparirci mentre eravamo svegli, non mentre dormivamo? LXII Del resto, chi oserebbe dire che tutti i sogni sono veri? "Alcuni sogni sono veri," dice Ennio, "ma tutti veri non è necessario che siano." Ma che distinzione è mai questa? Quali sogni dovremo annoverare fra i veri, quali fra i falsi? E se i veri sono inviati dalla divinità, i falsi donde nascono? Se anch'essi sono divini, che cosa c'è di più incoerente della divinità? E che cosa di più sciocco che turbare le menti dei mortali con visioni false e menzognere? Se poi le visioni vere sono divine, le false e inconsistenti umane, che cos'è codesta arbitraria facoltà di attribuzione, tale che un sogno sarebbe prodotto dalla divinità, un altro dalla natura, e non piuttosto o tutti dalla divinità (ma voi dite di no), o tutti dalla natura? Dal momento che negate la prima alternativa, è necessario ammettere la seconda. 128 Chiamo natura quella condizione per cui l'anima, non mai ferma, non può essere esente da agitazione e da moto. Quando, per la stanchezza del corpo, l'anima non può fare uso né delle membra né dei sensi, incorre in visioni varie e confuse, derivanti, come dice Aristotele, dalla persistenza delle tracce di ciò che ha fatto o ha pensato durante la veglia. Dal mescolarsi incoerente di questi ricordi sorgono talvolta stranissime immagini di sogni; se alcuni di questi sogni sono falsi, altri veri, sarei davvero curioso di sapere con quale criterio si possano discernere gli uni dagli altri. Se un tale criterio non c'è, a che pro andiamo a consultare quegli interpreti? Se invece ce n'è uno, bramerei di sapere qual è; ma rimarranno in imbarazzo. 144
LXIII 129 È venuto ormai il momento di discutere quale di queste alternative sia più probabile: che gli dèi immortali, superiori a qualsiasi altro essere, scorrazzino e vadano a visitare non solo i letti ma anche i miseri giacigli di tutti i mortali, dovunque essi si trovino, e, ogni qual volta vedono uno che russa, gli ispirino delle visioni confuse e oscure, che quel tale, svegliatosi in preda al terrore, la mattina dopo riferisca all'interprete, oppure che per un fenomeno naturale l'anima, continuamente mossa, abbia l'impressione di vedere mentre dorme ciò che ha visto da sveglia. Che cosa si addice di più alla filosofia, interpretare questi fatti ricorrendo alla superstizione delle fattucchiere o alla spiegazione secondo la natura? Sicché, se pur potesse esistere una verace interpretazione dei sogni, costoro, che la professano, non sarebbero capaci di compierla: sono infatti gente del tutto priva di serietà e ignorantissima. I tuoi stoici, d'altra parte, dicono che nessuno, tranne il sapiente, può essere indovino. 130 Crisippo definisce la divinazione con queste parole: "Una facoltà di conoscere, ravvisare e spiegare i segni che vengono mostrati dagli dèi agli uomini"; e aggiunge che il còmpito della divinazione è di sapere in precedenza quali predisposizioni abbiano gli dèi verso gli uomini, di che cosa li avvisino con quei segni, in che modo si possa ovviare ai cattivi presagi ed espiarli. Ancora Crisippo definisce così l'interpretazione dei sogni: una capacità di scorgere e di spiegare che cosa gli dèi intendono presagire agli uomini nei sogni. E che, dunque? Per raggiungere un simile scopo basta un'intelligenza mediocre o ci vuole un ingegno eccezionale e un sapere perfetto? Ma un interprete fornito di tali doti non l'ho conosciuto mai. LXIV 131 Attento, dunque: anche se un giorno ti avrò concesso che la divinazione esiste - ma non lo farò mai -, rischieremo di non trovare nessun vero indovino. Di che sorta è, poi, codesta provvidenza degli dèi, dal momento che nei sogni non ci indicano né cose che siamo capaci di comprendere da noi, né cose per le quali possiamo ricorrere a un interprete degno di fede? Se gli dèi ci mettono innanzi dei segni dei quali non abbiamo né conoscenza né qualcuno che ce li spieghi, si comportano come cartaginesi o spagnoli i quali venissero a parlare nel nostro senato senza interprete. 132 E insomma, a che servono le oscurità e gli enigmi dei sogni? Gli dèì avrebbero dovuto volere che noi comprendessimo ciò di cui ci preavvisavano per il nostro bene. "Ma," tu dirai, "forse nessun poeta, nessun filosofo della Natura è oscuro?" 133 Certo, quel famoso Euforione è oscuro anche troppo; ma non lo è Omero: quale dei due è miglior poeta? È estremamente oscuro Eraclìto, non lo è per nulla Democrito: si può fare tra loro un paragone? Per il mio bene mi dai un avvertimento che io non sono in grado di capire: con che frutto, dunque, mi avverti? Sarebbe come se un medico prescrivesse a un malato di prender come cibo "la nata dalla terra, strisciante sull'erba, portatrice della propria casa, priva di sangue" invece di dire, come diciamo tutti, "lumaca". E dopo che l'Anfione della tragedia di Pacuvio ha detto in modo assai oscuro: "Una bestia quadrupede, dal cammino lento, selvatica, bassa di statura, ruvida, dalla testa corta, dal collo simile a quello d'un serpente, dall'aspetto truce, privata delle viscere, inanimata eppure capace di emettere un suono come un essere animato," gli attici replicano: "Non comprendiamo, se non lo dici apertamente." E quegli, allora, con una sola parola: "una tartaruga." Non avresti dunque potuto, o citaredo, dire ciò fin dal principio? LXV 134 Un tale riferisce all'interprete di aver sognato che un uovo era appeso a una fascia del suo letto (il sogno è narrato da Crisippo nel suo libro). L'interprete risponde che sotto il letto è seppellito un tesoro. Quello scava, trova una certa quantità d'oro, circondata d'argento. Manda come compenso all'interprete un 145
pochino di argento, non più di quanto gli sembrava bastante. Allora l'interprete: "E del tuorlo dell'uovo non mi dài niente?"; poiché riteneva che questa parte dell'uovo designasse l'oro, il resto l'argento. Nessun altro, dunque, sognò mai un uovo? Perché, allora, soltanto questo tale trovò un tesoro? Quanti poveri, meritevoli d'un aiuto degli dèi, non sono indotti da alcun sogno a trovare un tesoro! E per qual motivo quel tale fu messo sull'avviso da un sogno così difficile, in modo che dall'immagine dell'uovo sorgesse per analogia l'idea del tesoro, e non gli si consigliò apertamente di cercare un tesoro, come apertamente Simonide fu ammonito a non imbarcarsi? 135 I sogni oscuri, dunque, non si addicono affatto alla maestà degli dèi. LXVI Eccoci ai sogni chiari e palesi, come quello riguardante l'amico ucciso dall'oste a Megara, come quello toccato a Simonide, il quale fu sconsigliato di imbarcarsi da quel tale che egli aveva seppellito, come anche quello concernente Alessandro, che mi meraviglio tu abbia omesso. Un suo amico intimo, Tolomeo, era stato colpito in battaglia da una freccia avvelenata e a causa di quella ferita, con sommo dolore di Alessandro, stava morendo. Mentre gli sedeva accanto, a un certo momento Alessandro fu vinto dal sopore. Allora, si narra, gli apparve in sogno quel serpente che sua madre Olimpiade teneva con sé: esso recava in bocca una piccola radice, e nello stesso tempo disse ad Alessandro in quale luogo nasceva (era non molto distante da dove si trovavano allora); tale era il potere di quella radice, da guarire facilmente Tolomeo. Alessandro, svegliatosi, narrò agli amici il sogno; furono mandati in giro degli uomini a cercare la radice; fu trovata, e si dice che da essa furono guariti sia Tolomeo, sia molti soldati che erano stati feriti da frecce intinte in quel medesimo veleno. 136 Tu hai menzionato anche molti altri sogni tratti da narrazioni storiche: della madre di Falaride, di Ciro il vecchio, della madre di Dionisio, del cartaginese Amilcare, di Annibale, di Publio Decio; notissimo è inoltre quel sogno riguardante il prèsule, e così pure quello di Gaio Gracco e l'altro, recente, di Cecilia figlia di Metello Balearico. Ma questi sogni sono estranei a noi e perciò ci rimangono ignoti; alcuni forse sono anche inventati: chi ne è il garante? Quanto ai nostri sogni, che cosa possiamo dire? Tu puoi menzionare quello riguardante me e il mio cavallo che vedesti riemergere e venire a riva, io quello di Mario, che, coi fasci ornati d'alloro, ordinava che io fossi condotto nel tempio da lui edificato. LXVII Di tutti i sogni, caro Quinto, una sola è la causa; e noi, per gli dèi immortali, stiamo attenti a non oscurarla con la nostra superstizione e con le nostre idee distorte. 137 Quale Mario tu pensi che io abbia visto in sogno? Una sua sembianza, credo, una sua immagine, come ritiene Democrito. Donde sarebbe provenuta codesta immagine? Democrito sostiene che dai corpi solidi e da oggetti ben delimitati si emanano le immagini; a che cosa si era, dunque, ridotto ormai il corpo di Mario? "L'immagine," replicherà un democriteo, "provenne da quello che era stato il corpo di Mario." Era dunque codesta l'immagine di Mario che mi si fece incontro nella pianura di Atina? "Tutto lo spazio è pieno d'immagini: nessuna percezione è concepibile senza che qualche immagine colpisca la nostra vista." 138 Ma, dunque, codeste immagini sono talmente obbedienti ai nostri ordini da accorrere appena noi lo vogliamo? Anche le immagini di quelle cose che non esistono? Ma quale figura c'è, tanto giammai veduta, tanto inesistente, che l'anima non possa costruirsi con la fantasia, di modo che noi possiamo rappresentarci dentro di noi cose che non abbiamo mai visto, città collocate in una data posizione, sembianze di uomini? 139 Quando, dunque, penso alle mura di Babilonia o al volto di Omero, è forse una loro immagine che viene a colpirmi? In tal caso, tutto ciò che 146
vogliamo può esserci noto, poiché non c'è niente a cui non possiamo pensare; nessuna immagine, dunque, s'insinua dal di fuori nelle anime dei dormienti, né, in generale, si distacca dai corpi solidi; e io non ho avuto notizia di alcuno che con maggiore autorità dicesse cose senza senso. Alle anime appartiene il potere e la caratteristica di essere sempre attive e vigilanti, non per un impulso esterno, ma per il proprio movimento straordinariamente veloce. Quando le anime hanno al loro servizio le membra, il corpo, i sensi, vedono, pensano, percepiscono tutto con più nitidezza. Quando questi ausilii vengono meno e l'anima rimane sola per il sopore del corpo, rimane da sola in stato di attività. Perciò in essa si presentano visioni e azioni, e all'anima sembra di ascoltare molte cose, di dirne molte. 140 Queste numerose impressioni, confuse e modificate in ogni maniera, si agitano nell'anima indebolita e abbandonata a se stessa; e quelli che soprattutto si muovono e agiscono nelle anime sono i resti di ciò che abbiamo pensato o fatto quando eravamo svegli. Per esempio, in quell'epoca io pensavo molto a Mario, ricordando con quale grandezza d'animo, con quale fermezza aveva affrontato la sua grave sventura. Questa, credo, fu la ragione per cui io lo sognai. LXVIII In un periodo, poi, in cui tu pensavi a me con preoccupazione, ti apparii in un sogno, improvvisamente emerso da un fiume. Nell'anima tua come nella mia, dunque, c'erano tracce di pensieri che avevamo avuto da svegli. Ma nei nostri sogni si aggiunse qualcosa in più: nel mio sogno il tempio fatto edificare da Mario, nel tuo il fatto che il cavallo sul quale io viaggiavo, sommerso insieme a me, riemerse anch'esso all'improvviso. 141 O tu credi che ci sarebbe mai stata anche una sola vecchierella tanto svanita di mente da credere ai sogni, se non capitasse qualche volta che essi, per puro caso, corrispondessero alla realtà? Ad Alessandro sembrò che un serpente parlasse. La cosa può essere completamente falsa, può essere anche vera; ma, anche ammesso che sia vera, non è prodigiosa: Alessandro non sentì parlare il serpente, ma gli parve di sentirlo; e, perché il fatto sembri ancor più straordinario, parlò tenendo in bocca una radice; ma nulla è straordinario per chi sogna! Vorrei sapere, poi, perché ad Alessandro capitò un sogno così chiaro, così sicuro, ma egli stesso non ne ebbe mai in altre circostanze, e non ne ebbero molti di questa sorta le altre persone. A me, certo, tranne quel sogno di Mario, non ne sono capitati altri, che io ricordi. Invano, dunque, ho consumato tante notti, in una vita così lunga! 142 Adesso, per l'interruzione dell'attività forense, ho eliminato le veglie trascorse nel preparare i discorsi e mi sono concesso dei sonnellini pomeridiani, ai quali prima non ero abituato; e, pur dormendo tanto, non sono stato preavvisato da alcun sogno, nonostante tutto quel che è accaduto; quando vedo i magistrati nel foro o il senato nella Curia, allora sì, mi sembra di sognare come non mai. LXIX Inoltre (passiamo, secondo la nostra ripartizione, al secondo punto) che cos'è questa compattezza e concordia generale della natura, che, come ho detto, chiamano sympátheia, tale che un uovo debba essere il segno di un tesoro nascosto? I medici comprendono, in base a certi sintomi, l'approssimarsi e l'aggravarsi di una malattia; dicono anche che alcuni tipi di sogni possono fornire certe indicazioni sullo stato di salute, per esempio anche questa, se siamo ben pasciuti o denutriti. Ma un tesoro, un'eredità, un conseguimento d'una carica, una vittoria in battaglia, e molte altre cose di questo genere, da quale affinità naturale sono collegate ai sogni? 143 Si narra che un tale, mentre sognava di congiungersi sessualmente con una donna, emise dei calcoli dalla vescica. Qui vedo la sympátheia: in sogno gli apparve una visione tale che l'evento realmente accaduto fu prodotto da un impulso della natura, 147
non da un'illusione erronea. Ma quale forza naturale fece apparire a Simonide quel sogno dal quale fu sconsigliato di imbarcarsi? O quale connessione con la natura può aver avuto il sogno che, a quanto si tramanda, fece Alcibiade? Egli, poco prima di morire, sognò di essere ravvolto nel mantello della sua amante. Quando il suo cadavere giacque buttato a terra con spregio, insepolto e abbandonato da tutti, l'amante lo ricoprì col suo mantello. Ciò dunque era stato determinato in precedenza e aveva cause naturali, oppure per un mero caso avvennero sia il sogno, sia l'evento? LXX 144 Del resto, le previsioni degli interpreti non indicano anch'esse le varie sottigliezze di costoro anziché il potere e l'interconnessione della natura? Un corridore che si riprometteva di andare alle Olimpiadi sognò di esser trasportato da una quadriga. La mattina dopo, eccolo dall'interprete. "Vincerai," gli disse costui; "la velocità e l'impeto dei cavalli hanno questo significato." Poi si recò da Antifonte. "È destinato" gli rispose "che tu perda; non capisci che nel sogno quattro corridori ti precedevano?" Ecco un altro corridore (e di questi sogni e di altri della stessa specie è pieno il libro di Crisippo, pieno quello di Antipatro; ma ritorniamo al nostro corridore): riferì a un interprete che aveva sognato di essere trasformato in un'aquila. E quello: "Hai bell'e vinto; ché nessun uccello vola con più impeto di questo." Ma Antifonte: "Stupido! Non capisci che sei già sconfitto? Quest'uccello, l'aquila, poiché insegue e dà la caccia agli altri uccelli, vola sempre per ultima rispetto a loro." 145 Una matrona che desiderava aver figli, incerta se fosse o no incinta, sognò di aver la natura sigillata. Lo disse a un interprete. Quello rispose che, poiché era sigillata, non aveva potuto concepire. Ma un altro le disse che era incinta, perché non si usa sigillare alcun recipiente vuoto. Che razza d'arte è questa, dell'interprete che con le sue sottigliezze si fa beffe della gente? Gli esempi che ho citato, e gli innumerevoli altri che gli stoici hanno raccolto, dimostrano forse qualche altra cosa se non l'acume di uomini che, in base a una certa analogia, rivolgono la loro interpretazione ora in un senso, ora in un altro? I medici conoscono certi sintomi tratti dalle pulsazioni delle vene e dal respiro del malato, e in base a molti altri indizi prevedono l'andamento della malattia; i navigatori, quando vedono i tòtani guizzare a fior d'acqua o i delfini affrettarsi verso il porto, capiscono che è indizio di burrasca. Questi fatti possono essere spiegati razionalmente ed essere ricondotti a cause naturali; ma quelli che ho citato poco fa non lo possono in alcun modo. LXXI 146 "Ma l'assidua osservazione, con la registrazione dei fatti, creò l'arte divinatoria": questa è l'ultima difesa che resta. da prendere in esame. Ma lo credi davvero? "I sogni si possono osservare." In che modo? Ve ne sono innumerevoli varietà. Non si può immaginare niente di così assurdo, incoerente, mostruoso che non possa apparirci in sogno: in che modo queste visioni infinite e sempre nuove si possono ricordare o registrare mediante l'osservazione? Gli astronomi hanno potuto notare i movimenti dei pianeti: nei loro movimenti, infatti, si è scoperta una regolarità di cui prima non si aveva alcuna idea. Ma dimmi un po' quale è l'ordine o la coincidenza dei sogni; in che modo, poi, si possono distinguere i sogni veri dai falsi, poiché gli stessi sogni dànno luogo a risultati diversi per le diverse persone, e nemmeno per la stessa persona l'evento è sempre uguale? Sicché mi sembra stranissimo che, mentre a un bugiardo siamo soliti non credere nemmeno quando dice la verità, codesti fautori dei sogni, se una volta tanto un sogno si è avverato, non neghino fede a quell'unico fra tanti, invece di legittimarne innumerevoli sul fondamento di uno solo. 148
147 Se, dunque, né la divinità è causa dei sogni, né vi è alcuna connessione fra la natura e i sogni, né la scienza dei sogni si è potuta stabilire mediante l'osservazione, la conclusione è che ai sogni non si deve attribuire assolutamente alcun valore, tanto più che quelli che fanno sogni non sanno prevedere nulla in base a essi, quelli che li interpretano ricorrono a spiegazioni vaghe, non a leggi naturali, e il caso, nel volgere di innumerevoli secoli, ha prodotto in ogni campo più effetti mirabili che nelle visioni dei sogni, e niente è più incerto dell'interpretazione, la quale si può trascinare in varie direzioni, spesso in direzioni addirittura opposte. LXXII 148 Si cacci via, ‹dunque,› anche la divinazione basata sui sogni, al pari delle altre. Ché, per parlare veracemente, la superstizione, diffusa tra gli uomini, ha oppresso gli animi di quasi tutti e ha tratto profitto dalla debolezza umana. L'ho detto nell'opera Della natura degli dèi e ne ho trattato più particolarmente in questa discussione. Ho pensato che avrei arrecato grande giovamento a me stesso e ai miei concittadini se avessi distrutto dalle fondamenta la superstizione. Né, d'altra parte (questo voglio che sia compreso e ben ponderato), con l'eliminare la superstizione si elimina la religione. Innanzi tutto è doveroso per chiunque sia saggio difendere le istituzioni dei nostri antenati mantenendo in vigore i riti e le cerimonie; inoltre, la bellezza dell'universo e la regolarità dei fenomeni celesti ci obbliga a riconoscere che vi è una possente ed eterna natura, e che il genere umano deve alzare a essa lo sguardo con venerazione e ammirarla. 149 Perciò, come bisogna addirittura adoprarsi per diffondere la religione che è connessa con la conoscenza della natura, così bisogna svellere tutte le radici della superstizione. Essa incalza e preme e, dovunque tu ti volga, ti perseguita, sia che tu abbia dato ascolto a un indovino, sia a un detto casuale, sia che abbia compiuto un sacrificio o abbia veduto un uccello, o abbia appena scòrto un caldeo, un arùspice, o abbia visto lampi o udito tuoni, o un luogo sia stato colpito dal fulmine, o sia nato o si sia prodotto qualcosa di simile a un prodigio. Qualcuno di questi eventi è inevitabile che spesso accada, cosicché non è mai possibile sostare con animo pacato. 150 Può sembrare che lo scampo da tutti i travagli e le ansie sia il sonno. Ma anche da esso sorgono in gran copia affanni e timori, i quali, di per se stessi, avrebbero minor forza e si potrebbero più facilmente trascurare, se i filosofi non avessero assunto il còmpito di avvocati difensori dei sogni. E non parlo di quei filosofi disprezzati da tutti, ma di quelli particolarmente acuti e capaci di vedere le coerenze e le contraddizioni, di quelli che sono ormai ritenuti perfetti e superiori a tutti. Se alla loro arroganza non avesse fatto fronte Carneade, forse sarebbero ormai considerati gli unici filosofi degni di questo nome. Contro di essi è rivolta quasi tutta questa mia veemente discussione, non perché io li disprezzi più degli altri, ma perché può sembrare che essi difendano le loro idee con più acume e dottrina di tutti. Siccome, d'altra parte, è un principio basilare dell'Accademia non imporre mai alcun proprio giudizio, dare il proprio assenso a quelle tesi che più appaiono vicine alla verità, mettere a confronto le ragioni di ciascuno ed esporre ciò che si può dire contro ciascuna opinione, lasciare agli uditori il loro giudizio libero e illeso senza far pesare in alcun modo su di essi la propria autorità, manterremo questa consuetudine ereditata da Socrate e la metteremo in pratica tra di noi - se a te, fratello mio Quinto, piacerà - il più spesso possibile." «Per me,» rispose Quinto, «nulla può essere più piacevole.» E, detto ciò, ci alzammo.
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DE OFFICIIS
LIBRO I È vero che tu, o figlio Marco, già da un anno scolaro di Cratippo, ed in Atene, devi essere di gran lunga fornito di precetti a principi filosofici per la grande rinomanza del maestro a della città, 1'uno dei quali ti può arricchire col suo sapere, 1'altra con i suoi esempi. Tuttavia, come io congiunsi sempre per mio profitto le lettere latine alle greche, non solo nello studio della filosofia, ma anche nell'esercizio dell'eloquenza, così penso che lo debba fare la stessa cosa, per essere ugualmente esperto nell'uso dell'una a dell'altra lingua. Nel che penso di avere arrecato grande giovamento ai nostri connazionali, così che non solo gli inesperti del greco, ma anche gli esperti ritengono d'avere conseguito un qualche profitto nel parlare a nel pensare. 2 Tu apprenderai dunque dal principe dei filosofi contemporanei, e apprenderai fintanto che vorrai; e dovrai volerlo fintanto che non sarai scontento del tuo profitto; ma tuttavia, leggendo le cose mie, che non discordano gran che dai Peripatetici, giacché gli uni e gli altri vogliamo essere Socraticí e Platonici, tu, quanto alle dottrine, userai liberamente del tuo giudizio (io non voglio impedirtelo affatto), ma, leggendo le cose mie, renderai certamente più forte e più ricco il tuo stile latino. E non vorrei che questa mia affermazione ti suonasse arrogante. Pur concedendo a molti la scienza del filosofare, se io rivendico a me ciò che è proprio dell'oratore, cioè il parlare con proprietà, con chiarezza, con eleganza, credo di poterlo fare in certo qual modo con pieno diritto, giacché, in quello studio, io ho consumato tutta la mia vita. 3 Perciò, mio Cicerone, ti esorto vivamente a leggere con attenzione non solo le mie orazioni, ma anche questi libri di filosofia, che quasi a quelle sono pari per numero: in quelle v'è maggior vigore oratorio, ma deve essere anche coltivato questo modo di parlare uniforme a temperato. E mi sembra che a nessuno dei Greci sia finora riuscito di ottenere buon successo nell'uno e nell'altro genere, coltivando il genere forense a la discussione piana; a meno che non mettiamo in questo numero Demetrio Falereo, ragionatore sottile, oratore di poco nerbo, garbato tuttavia, così che puoi riconoscere in lui il discepolo di Teofrasto5. Altri giudichi quali progressi io abbia fatto nell'uno a nell'altro genere: ma li ho coltivati entrambi. 4 Per parte mia, io credo che Platone, se avesse voluto trattare il genere forense, sarebbe diventato un potentissimo ed eloquentissimo oratore, e che Demostene se avesse ritenuto le dottrine apprese da Platone, e avesse voluto esporle, l'avrebbe fatto con molta eleganza e splendore; e lo stesso giudizio io faccio di Aristotele e di Isocrate; se non che l'uno e l'altro, innamorato della propria disciplina, tenne in poco conto quella dell'altro. Avendo ora deliberato di scrivere per lo alcune cose, e 2 molte altre in seguito, ho voluto innanzi tutto cominciare da ciò che fosse maggiormente conveniente alla tua età ed alla mia autorità. Sebbene infatti molte siano le questioni filosofiche importanti ed utili accuratamente ed ampiamente discusse dai filosofi, credo che abbiano grandissima estensione i precetti tramandati da quelli intorno ai doveri. Nessuna azione della nostra vita, si tratti di atti pubblici a privati, forensi a domestici, di rapporti con noi stessi a con altri, è 151
esente dal dovere; anzi nell'osservanza a nella trascuratezza di questo si pone tutta 1'onorevolezza a la infamia della vita. 5 Anzi, come nell'adempimento del dovere consiste tutta l'onestà della vita, cosi nell'inosservanza di che ardisca chiamarsi filosofo, senza dare alcun precetto d'ordine morale? Ma ci sono alcune scuole che, con la loro definizione del sommo bene e del sommo male, sovvertono ogni moralità. Chi definisce il sommo bene come affatto disgiunto dalla virtù, e lo misura non col criterio dell'onestà, ma con quello del proprio vantaggio, costui, se vuol esser coerente a se stesso, e non è vinto talora dalla bontà della propria indole, non potrà coltivare né l'amicizia, né la giustizia, né la liberalità: certo non può essere in alcun modo forte, giudicando sommo male il dolore, né temperante, ponendo come sommo bene il piacere. 6 Le quali cose altrove ho trattato, sebbene esse siano chiare a non abbiano bisogno d'essere discusse.Queste filosofie dunque, se vogliono essere coerenti a se stesse, non ragionino intorno al dovere; sul quale non si possono dare precetti saldi, stabili, conformi alla natura, se non da quelli che dicono che solo ciò che è moralmente onorevole deve essere ricercato, per se stesso a sopra ogni altra cosa. Agli stoici, agli accademici, ai peripatetici spetta di diritto il dare precetti sui doveri, poiché già da tempo è stata confutata 1'opinione di Aristone, di Pirrone a di Erillo. Anche questi tuttavia avrebbero diritto di parlare sui doveri, se avessero mantenuto un qualche criterio di scelta fra le cose che lasciasse adito a determinare 1'idea del dovere. Seguirò dunque in questa circostanza ed in questo argomento soprattutto gli stoici, non come espositore, ma attingerò, come sono solito, alle loro fonti, liberamente quanto a come riterrò opportuno. 7 Ora, poiché tutto il mio ragionamento si aggirerà intorno al dovere, mi piace definir prima l'essenza del dovere; e mi meraviglio che Panezio abbia trascurato questo punto. Ogni trattazione, infatti, che s'imprenda metodicamente su qualche argomento, deve partire dalla definizione, perché ben si comprenda qual è l'oggetto di cui si discute. La dottrina del dovere abbraccia due punti: uno riguarda teoricamente il sommo bene, 1'altro i precetti, con i quali si può regolare praticamente la vita. Appartengono al primo queste questioni: se vi sono doveri assoluti, se ve ne sono più importanti di altri, ed altre questioni del medesimo genere. Sebbene questi doveri, dei quali si danno precetti, riguardino anch'essi il sommo bene, tuttavia ciò non appare chiaro, perché sembra the essi abbiano attinenza piuttosto alla condotta pratica della vita: a di questo secondo punto io tratterò in questi libri. 8 Ma c'è anche un'altra divisione del dovere. C'è infatti il cosi detto dovere mezzano o comune e c'è quello che si chiama assoluto. Il dovere assoluto possiamo anche chiamarlo, se non erro, perfetto, poiché i Greci lo chiamano Katorthoma, mentre chiamano Kathekon il dovere comune. E dei due doveri danno questa definizione: definiscono 3 dovere assoluto l'assoluta rettitudine, mentre chiamano dovere mezzano quello del cui adempimento si può dare una plausibile ragione. 9 Tre dunque, secondo Panezio, sono i casi che si presentano, quando si deve prendere una deliberazione. Riflettere cioè se sia onorevole o turpe a farsi ciò che è argomento di deliberazione: nella quale considerazione spesso gli animi ondeggiano in opposti pensieri. Ricercare poi ed esaminare se 1'argomento preso in considerazione possa arrecare o no le comodità a le giocondità della vita, gli averi, il benessere, il credito a il potere, con i quali portiamo giovamento a noi stessi ed ai nostri; la quale deliberazione rientra nel campo dell'utile. Si è infine incerti nel deliberare, quando ciò the sembra utile contrasta con ciò che è moralmente onorevole: mentre infatti 1'utilità ci trascina verso di sé a 1'onestà anche ci chiama a sé, avviene che il nostro animo vacilli nel 152
prendere una decisione a rimanga perplesso fra opposti pensieri. 10 Ora, questa divisione, benché sia gravissimo difetto trascurar qualche cosa nel dividere un argomento, trascura ben due elementi. Giacché non si suol già deliberare soltanto se un partito sia onesto o disonesto, ma anche, postici innanzi due partiti onesti, quale dei due sia più onesto; e, allo stesso modo, postici innanzi due partiti utili, quale dei due sia più utile. Si trova cosi che quella materia, che Panezio reputò triplice, deve invece distribuirsi in cinque parti. Prima di tutto, adunque, si dovrà ragionare dell'onestà, ma sotto due aspetti; poi, con lo stesso metodo, dell'utile; infine si dovranno confrontare tra loro questi due principi. 11 Anzitutto a tutti gli esseri viventi la natura ha dato l'istinto di conservare se stessi, la vita ed il corpo, di evitare tutto ciò che può nuocere, a di ricercare a procacciare le cose necessarie al sostentamento della vita, come il cibo, il ricovero ed altre cose dello stesso genere. Ugualmente comune a tutti è l'istinto di procreare a la cura della prole. Ma fra 1'uomo a la bestia v'è grandissima differenza. La bestia, solo in quanto è stimolata dal senso, conforma le sue attitudini a ciò che è vicino a presente, poco affatto curandosi del passato o del futuro. L'uomo invece, poiché è dotato di ragione a per mezzo di quella è in grado di cogliere le concatenazioni, vede le cause delle cose, non ne ignora i prodromi a per così dire gli antecedenti, confronta le cose simili a congiunge intimamente le cose future alle presenti, può facilmente vedere tutto il corso della vita a preparare le cose necessarie per viverla. 12 Oltre a ciò la natura, con la forza della ragione, concilia l'uomo all'uomo in comunione di linguaggio e di vita; soprattutto genera in lui un singolare e meraviglioso amore per le proprie creature; spinge la sua volontà a creare e a godere associazioni e consorzi umani, e sollecita il suo ardore a procacciarsi tutto ciò che occorre al sostentamento e all'affinamento della vita, non solo per sé, ma anche per la moglie, per i figli e per tutti gli altri a cui porta affetto e a cui deve protezione. Ed è appunto questa sollecitudine che rinfranca pur lo spirito e lo fa più forte e più pronto all'azione. 13 Ed è soprattutto propria dell'uomo la diligente ricerca del vero. Tanto che, non appena siamo liberi da faccende ed occupazioni, allora desideriamo vedere, ascoltare, conoscere cose nuove e, per condurre una vita piena di soddisfazioni, riteniamo necessaria anche la conoscenza dei fatti segreti a delle meraviglie della natura. Da ciò si comprende che ciò che è vero, semplice a sincero, è soprattutto conveniente alla natura dell'uomo. Una certa brama di preminenza è congiunta al desiderio di conoscere il vero, in modo che un animo ben nato a nessuno vuole essere soggetto, se non a chi dà precetti, a chi insegna, e a chi nell'interesse comune è investito di giusta e legittima autorità; dal che nasce la grandezza d'animo e il disprezzo delle cose umane. 14 E non è davvero piccolo privilegio della ragionevole natura umana il fatto che l'uomo, unico fra tutti gli esseri viventi, sente quale sia il valore dell'ordine, della decenza e della misura negli atti e nei detti. Ecco perché, perfino in quelle cose che cadono sotto il senso della vista, nessun altro animale sente la bellezza, la grazia, l'armonia; solo la ragionevole natura dell'uomo, trasferendo per analogia questo sentimento dagli occhi allo spirito, pensa che a maggior ragione la bellezza, la costanza e l'ordine si abbiano a conservare nei disegni e nelle azioni; e mentre essa si guarda dal commettere cosa contraria al decoro e alla dignità dell'uomo, anche si studia, in ogni pensiero e in ogni azione, di non fare e di non pensare nulla obbedendo al capriccio. Ora, dall'intrinseca unione di questi quattro elementi sorge quello che andiamo cercando, cioè l'onesto, il quale, anche se non gode di molta fama tra gli uomini, non cessa pertanto d'esser onesto; e anche se nessuno lo loda, noi 153
diciamo con verità che esso, per sua propria virtù, è ben degno di lode. 15 Tu vedi appunto, o figlio Marco, la immagine a quasi il vero sembiante dell'onesto, il quale, come dice Platone, se si potesse vedere con gli occhi, susciterebbe un ardente amore del sapere. Ma tutto 1'onesto nasce da una di queste quattro fonti: o si trova infatti nella diligente ricerca del vero; o nel proteggere la società umana, nel dare a ciascuno il suo a nell'attenersi agli impegni assunti; o nella grandezza a fortezza di un animo sublime ed invitto; o nell'ordine a nella misura di tutte le cose che si fanno a si dicono, nella moderazione quindi a nella temperanza. Queste quattro parti sono collegate fra di loro e sono unite l’una all'altra. Ma da ciascuna di esse si originano determinate categorie di doveri: così la ricerca a la conoscenza del vero è propriamente ufficio di quella parte, che nella nostra divisione abbiamo trattata per prima, e nella quale facciamo consistere la sapienza a 1'accortezza. 16 Difatti, chi più si addentra con gli occhi della mente nella segreta verità delle cose; chi con più acume e con più prontezza può non solo penetrarne, ma anche spiegarne le intime ragioni, questi di solito e giustamente tenuto per più prudente e per più sapiente. Costui perciò ha in suo potere la verità, quasi come materia ch'egli debba trattare e foggiare col suo lavoro. 17 Le altre tre virtù si propongono di provvedere a conservare le cose che riguardano la vita pratica, affinché si tuteli il vincolo della umana società, a risplenda la sublimità a la grandezza dell'animo nell'accrescimento delle ricchezze a dei vantaggi a per noi stessi a per i nostri, a molto più nel disprezzo di tali cose. Ugualmente l'ordine, la 4 costanza a la moderazione ed altre simili virtù sono tali, che richiedono azione pratica a non soltanto attività della mente. Usando infatti una certa misura ed ordine nella condotta della vita conserveremo 1'onestà ed il decoro. 18 Delle quattro parti, nelle quali abbiamo suddiviso la natura a 1'essenza dell'onesto, la prima, che consiste nella cognizione del vero, è quella che più da presso riguarda la natura umana. Tutti infatti siamo tratti a guidati dal desiderio di conoscere a di sapere, nel che riteniamo sia bello eccellere sugli altri; giudichiamo invece turpe e vergognoso parlare a sproposito, errare, ignorare ed illudersi. Ma in questo naturale ed onorevole desiderio bisogna evitare due difetti: uno, di credere di sapere quello che non sappiamo a di accettarlo alla leggera: chi vorrà evitare questo errore (e tutti debbono volerlo) dovrà usare tempo a diligenza nel considerare le cose. 19 Un altro difetto è che taluni pongono troppo studio e troppa fatica in cose oscure e astruse, e, per giunta, non necessarie. Scansati questi due difetti, tutto lo sforzo e tutta la cura che si porrà in questioni oneste e proficue, avrà giusta e meritata lode: così fece, per esempio, nell'astronomia come ho sentito raccontare Gaio Sulpicio; nella matematica come so di mia scienza Sesto Pompeo; e così fecero molti nella dialettica, più altri ancora nel diritto civile: discipline tutte che hanno per oggetto la ricerca del vero. Ma se l'ardore di questa ricerca ci distoglie dai pubblici affari, noi manchiamo al nostro dovere: tutto il pregio della virtù consiste nell'azione. Un azione tuttavia ci consente spesso qualche svago, e molte occasioni ci si offrono per tornare ai nostri studi; inoltre, l'attività della mente, che non conosce riposo, vale di per sé a trattenerci nelle indagini speculative, anche senza nostro deliberato proposito. Ma ogni atto della mente, ogni moto dell'animo deve avere per oggetto, o le sagge e oneste deliberazioni che conferiscono alla moralità e felicità della vita, o gli studi scientifici e speculativi. E così ho parlato della prima fonte del dovere. 20 Delle altre tre quella che opera più estesamente riguarda 1'umana società a quasi il consorzio sociale. Due sono le sue parti: la giustizia, nella quale massimamente risplende la virtù, per cui gli uomini sono chiamati buoni ed a cui è 154
congiunta la beneficenza, che possiamo anche chiamare generosità a liberalità. Primo dovere della giustizia è di non offendere alcuno, se non si è provocati da ingiuria; poi di usare delle cose comuni come comuni e delle cose private come proprie. 21 Beni privati, poi, non esistono per natura, ma tali diventano, o per antica occupazione, come nel caso di coloro che un tempo vennero a stabilirsi in luoghi disabitati, o per diritto di conquista, come nel caso di coloro che s'impadronirono di un territorio per forza d'armi, o infine per legge, per convenzione, per contratto, per sorteggio. Per questo noi diciamo che il paese d'Arpino è degli Arpinati, e quel di Tuscolo, dei Tusculani; e allo stesso modo avviene la ripartizione dei possessi privati. Ora, poiché diventa proprietà individuale di ciascuno una parte dei beni naturalmente comuni, quella parte che a ciascuno toccò in sorte, ciascuno tenga per sua; e se qualcuno vi stenderà la mano per impadronirsene, violerà la legge della convivenza umana. 22 Ma egregiamente Platone ha scritto che noi non siamo nati soltanto per noi soli, ma che della nostra esistenza una parte richiede la patria, una parte gli amici; ed egregiamente ritengono gli stoici che i prodotti della terra sono stati tutti creati ad uso degli uomini, a questi sono stati generati per gli uomini, perché possano giovarsi 1'un 1'altro. Dobbiamo seguire come guida la natura, mettere a beneficio comune ciò che è utile a tutti con lo scambio dei servigi, col dare a col ricevere, stringere fra gli uomini i legami sociali con i prodotti delle arti, la nostra attività e le nostre risorse. 23 Fondamento poi della giustizia è la fede, cioè la scrupolosa e sincera osservanza delle promesse e dei patti. Perciò, ma forse la cosa parrà a taluni alquanto forzata, oserei imitare gli Stoici, che cercano con tanto zelo l'etimologia delle parole, e vorrei credere che fides (fede) sia stata chiamata così perché fit (si fa) quel che è stato promesso. Vi sono, poi, due maniere d'ingiustizia: l'una è di quelli che fanno ingiuria; l'altra, di quelli che, pur potendo, non la respingono da coloro che la patiscono. Invero, colui che, spinto dall'ira o da qualche altra passione, assale ingiustamente qualcuno, fa come chi mette le mani addosso a un suo compagno; ma chi, pur potendo, non ributta e non contrasta l'ingiuria, non è meno colpevole di chi abbandonasse senza difesa i suoi genitori, i suoi amici, la sua patria. 24 Ed è ben vero che quelle ingiurie che si fanno per deliberato proposito di nuocere, hanno spesso origine dalla paura, quando, cioè, colui che medita di recare danno a un altro, teme che, non facendo così, abbia a subire lui qualche malanno. Ma la maggior parte degli uomini si accinge a fare ingiuria per conquistare ciò che l'infiamma di desiderio. E in questa colpa ha grandissima parte l'avidità del denaro. 25 Le ricchezze si desiderano per le necessità della vita e per godere i piaceri. Ma quelli il cui animo mira a grandi cose, le desiderano per divenire potenti ed acquistare popolarità tramite le elargizioni. Marco Crasso diceva che non è abbastanza ricco colui che, volendo primeggiare nello Stato, non può mantenere un esercito a sue spese. Piacciono anche il lusso a le raffinatezze della vita elegante ed agiata: da cui si origina un insaziabile desiderio di denaro. In verità non è da riprovare l'accrescimento del patrimonio familiare, quando non si nuoce ad alcuno; ma si deve sempre evitare di commettere ingiustizia. 26 Ma i più perdono ogni senso e ogni ricordo della giustizia, quando incappano nel desiderio dei comandi, degli onori e della gloria. Certo, quella sentenza di Ennio: “La brama del regno non conosce né santità di affetti né integrità di fede”, ha un suo ben più vasto dominio. In verità, ogni stato e ogni grado che non ammetta supremazia di più persone, diventa per lo più il campo di così aspre contese che è assai difficile osservare “la santità degli affetti”. Chiara dimostrazione ne ha dato di recente il temerario ardire di Gaio Cesare, che sovverti tutte le leggi divine e 155
umane per quel folle ideale di supremazia che egli s'era foggiato nella mente. E a questo riguardo è assai penoso vedere che sono gli animi più grandi e gl'ingegni più splendidi quelli in cui per lo più si accendono desideri d'onore, di comando, di potenza e di gloria. Tanto maggior cautela bisogna dunque usare per non commettere errori a questo riguardo. 27 Ma in ogni ingiustizia è molto importante considerare se 1'ingiuria nasce da un qualche turbamento dell'animo, che per lo più è breve a passeggero, o è a bella posta premeditata. Più Nevi sono infatti le offese causate da un improvviso eccitamento, di quelle studiate e meditate. Ma sul fare offesa ho già detto abbastanza. 28 Diversi sono poi i motivi per cui si tralascia la difesa e si manca al proprio dovere. C'è infatti chi non vuole attirarsi inimicizie a sobbarcarsi a fatiche ed a spese; oppure chi è impedito dalla trascuratezza, pigrizia ed indolenza, così da sopportare che siano abbandonati quelli che dovrebbe aiutare. Non può quindi soddisfare quanto dice Platone a proposito dei filosofi, che sono giusti in quanto si occupano della ricerca del vero a disprezzano e per nulla stimano quelle cose che i più desiderano ardentemente, disputandosele con accanimento. Mentre infatti adempiono il primo dovere della giustizia, col non fare male ad alcuno, trascurano 1'altro: attirati infatti dall'amore della ricerca, non curano quelli che dovrebbero proteggere. Del resto Platone pensa che essi non dovrebbero neppure accedere alle cariche dello Stato, se non costretti. Sarebbe più giusto che ciò si facesse spontaneamente: poiché ciò che si fa rettamente, allora è giusto, quando è volontario. 29 Vi sono anche di quelli che, o per desiderio di ben custodire le proprie sostanze, o per una tal quale avversione contro gli uomini, dichiarano di attendere soltanto ai loro affari, senza credere perciò di far torto ad alcuno. Costoro, se sono esenti da una specie d'ingiustizia, incorrono però nell'altra; disertano l'umana società, perché non conferiscono ad essa né amore, né attività, né denaro. 30 È vero che Cremete, personaggio di Terenzio, “non ritiene estraneo a sé niente di quanto è umano”; ma poiché comprendiamo a sentiamo le fortune a le sventure che capitano a noi più di quelle che capitano agli altri, a consideriamo le cose altrui da una grande distanza, noi giudichiamo diversamente su noi a sugli altri. Perciò insegnano bene quelli che sconsigliano di intraprendere una azione, quando non si sa se sia giusta o ingiusta. La giustizia infatti riluce per se stessa; il dubbio lascia trapelare 1'ingiustizia. 31 Ma vi sono determinate circostanze in cui le cose che sembrano soprattutto degne di un uomo giusto, di un uomo saggio, si mutano a diventano anzi l'opposto; come restituire un deposito o adempiere una promessa a ciò che attiene alla verità a alla buona fede: talvolta è giusto trasgredirle a non darsene pensiero. Bisogna infatti sempre attenersi a quelle massime fondamentali della giustizia che ho prima stabilito: non nuocere ad alcuno, a contribuire all'utilità comune. Cambiando le circostanze, cambiano i doveri che non possono essere sempre gli stessi. 32 Può darsi infatti che qualche promessa o convenzione sia di tal natura che il mandarla ad effetto rechi danno, o a chi è stata fatta o a chi l'ha fatta. In verità, se Nettuno, come raccontano le favole, non avesse mantenuto la promessa fatta a Teseo, Teseo non avrebbe perduto il figlio Ippolito. Di quelle tre grazie che il dio, come si narra, gli aveva promesse, gliene restava a chiedere una, la terza, ed ecco che, accecato dall'ira, chiese la morte d'Ippolito: ottenuta la grazia, egli piombò nei più atroci dolori. Dunque non si debbono mantenere quelle promesse che son dannose alle persone a cui son fatte; e se quelle promesse recano maggior danno a chi le ha fatte che vantaggio a chi le ha ricevute, non è contrario al dovere anteporre il più al meno. Così, per esempio, se tu avevi promesso a qualcuno di recarti in tribunale per 156
assisterlo in giudizio, e nel frattempo un tuo figliolo fosse caduto gravemente malato, non sarebbe contrario al dovere non mantenere la parola, anzi mancherebbe ben di più l'altro al dover suo, se si lamentasse d'abbandono. Inoltre, chi non vede che non si deve stare a quelle promesse che si son fatte o costretti da paura o tratti in inganno? E appunto la maggior parte di queste obbligazioni è annullata dal diritto pretorio; alcune di esse anche dalle leggi. 33 Vi sono poi ingiustizie che traggono origine da una certa cavillosità a da una troppo sottile, ma maliziosa, interpretazione delle leggi. Di qui quel proverbio sulla bocca di tutti: giustizia ferrea, ingiustizia somma. Sotto questo aspetto si commettono ingiustizie anche nella vita politica; come colui che, avendo patteggiato col nemico una tregua di trenta giorni, saccheggiava di notte le campagne, perché la tregua era stata pattuita per il giorno e non per la notte. Né deve essere elogiato quel nostro concittadino, Quinto Fabio Labeone, se la cosa è vera, o qualche altro (ne parlo solo per averlo sentito), nominato dal Senato arbitro per i Nolani a Napoletani sulla controversia dei confini. Giunto sul luogo, parlò separatamente con gli uni a con gli altri, perché non si comportassero da avidi a preferissero piuttosto retrocedere che avanzare. Avendo questo fatto gli uni a gli altri, restò nel mezzo un pezzo di terreno. E così egli fissò i loro confini come essi avevano detto; a aggiudicò al popolo romano lo spazio rimasto in mezzo. Ma questo è ingannare, non giudicare. In ogni atto, quindi, bisogna evitare tale sottigliezza. Devono essere rispettati certi doveri anche verso coloro che ci abbiano offesi. V'é infatti una misura nella vendetta a nel castigo: direi anzi che debba bastare che 1'offensore si penta d'avere agito male, perché egli stesso non faccia più la stessa cosa a gli altri siano meno pronti all'ingiustizia. 34. Ma quando si tratta degli interessi dello Stato bisogna scrupolosamente rispettare le leggi di guerra. Poiché due sono i modi di combattere, 1'uno per via di discussione, 1'altro con la forza, ed il primo è proprio dell'uomo, il secondo delle bestie; bisogna ricorrere a questo se non è possibile usare il primo. 35 Si devono perciò intraprendere le guerre al solo scopo di vivere in sicura e tranquilla pace; ma, conseguita la vittoria, si devono risparmiare coloro che, durante la guerra, non furono né crudeli né spietati. Cosi, i nostri padri concessero perfino la cittadinanza ai Tusculani, agli Equi, ai Volsci, ai Sabini, agli Ernici; ma distrussero dalle fondamenta Cartagine e Numanzia; non avrei voluto la distruzione di Corinto; ma forse essi ebbero le loro buone ragioni, soprattutto la felice posizione del luogo, temendo che appunto il luogo fosse, o prima o poi, occasione e stimolo a nuove guerre. A mio parere, bisogna procurare sempre una pace che non nasconda insidie. E se in ciò mi si fosse dato ascolto, noi avremmo, se non un ottimo Stato, almeno uno Stato, mentre ora non ne abbiamo nessuno. E se bisogna provvedere a quei popoli che sono stati pienamente sconfitti, tanto più si devono accogliere e proteggere quelli che, deposte le armi, ricorreranno alla fede dei capitani, anche se l'ariete abbia già percosso le loro mura. E a questo riguardo 6 i Romani furono cosi rigidi osservatori della giustizia che quegli stessi capitani che avevano accolto sotto la loro protezione città o nazioni da loro sconfitte, ne divenivano poi patroni, secondo il costume dei nostri maggiori. 36 La giustizia poi della guerra è stata religiosamente prescritta dal diritto feziale del popolo romano. Ne deriva quindi che nessuna guerra è giusta se non quella che si intraprenda dopo regolare domanda di soddisfazione a sia stata prima minacciata a dichiarata.Il generale Popilio occupava una provincia a nel suo esercito militava il figlio di Catone. Avendo Popilio giudicato opportuno di congedare una legione, congedò anche il figlio di Catone che militava 157
in quella. E poiché egli, per desiderio di combattere, era rimasto nell'esercito, Catone scrisse a Popilio che, se gli permetteva di trattenersi nell'esercito, gli facesse prestare un secondo giuramento poiché sciolto il primo non poteva combattere legittimamente col nemico. 37 Tanto rigorosa era l'osservanza del diritto anche nella condotta della guerra].C'è una lettera del vecchio Catone al figlio Marco, nella quale scrive d'aver saputo che egli era stato congedato dal console, mentre si trovava come soldato in Macedonia, nella guerra contro Perseo. Ammonisce dunque di guardarsi bene dall'entrar in battaglia: “Non è giusto”, dice, “che chi non è soldato, combatta col nemico”. E vorrei anche osservare che colui, che con vocabolo appropriato dovrebbe chiamarsi perduellis [nemico di guerra], mitigandosi con parola più dolce la gravità della cosa, fu chiamato hostis [forestiero]. Presso i nostri antenati infatti era detto hostis quello che noi oggi chiamiamo forestiero. Lo dicono le dodici tavole: “Il giorno stabilito con un forestiero”, a così: “Contro un forestiero c'è sempre il diritto di azione giuridica”. Quale maggiore dolcezza, chiamare con nome così mite colui col quale si è in guerra? II trascorrere del tempo ha ormai dato un significato più ingrato a tale nome. La parola si è allontanata dal significato di forestiero ed è rimasta per colui che porta guerra. 38 E' ben vero che ormai il lungo tempo trascorso ha reso questo vocabolo assai più duro: esso ha perduto il significato di forestiero per indicare propriamente colui che ti viene contro con le armi in pugno. Quando, poi, si combatte per la supremazia, e con la guerra si cerca la gloria, occorre che anche allora il conflitto sia promosso da quelle stesse ragioni che, come ho detto poc'anzi, sono giuste ragioni di guerra. Queste guerre, però, che hanno per scopo la gloria del primato, si devono condurre con meno asprezza. Come, con un cittadino, si contende in un modo, se è un nemico personale, in un altro, se è un competitore politico (con questo la lotta è per l'onore e la dignità, con quello per la vita e il buon nome), così coi Celtiberi e coi Cimbri si guerreggiava come con veri nemici, non per il primato, ma per Pesistenza; per contro, coi Latini, coi Sabini, coi Sanniti, coi Cartaginesi, con Pirro si combatteva per il primato. Fedifraghi e spergiuri furono i Cartaginesi, crudele fu Annibale; più giusti gli altri. Splendida fu davvero la risposta che Pirro diede ai nostri legati sul riscatto dei prigionieri: “Io non chiedo oro per me, e voi a me non offrirete riscatto. Noi non facciamo la guerra da mercanti, ma da soldati Non con l'oro, ma col ferro decidiamo della nostra vita e della nostra sorte. Sperimentiamo col valore se la Fortuna, arbitra delle cose umane, conceda a voi o a me l'impero; o vediamo che altro ci arrechi la sorte. E ascolta anche queste altre parole: è mio fermo proposito lasciar la libertà a tutti quelli, al cui valore la fortuna delle armi lasciò la vita. Ecco, riprendeteli con voi: io ve li do in dono col favore del cielo”. 39 Parole veramente regali e degne di un Eacida. Chi poi, costretto dalle circostanze, ha fatto promesse al nemico, deve anche mantenervi fede. Così nella prima guerra punica Regolo, catturato dai Cartaginesi ed inviato a Roma per trattare dello scambio dei prigionieri, appena arrivò, disse in Senato che non si dovevano consegnare i prigionieri; poi, sebbene trattenuto da parenti ed amici, preferì andare al supplizio piuttosto che mancare alla parola data al nemico. 40 Nella seconda guerra punica, poi, dopo la battaglia di Canne, quei dieci giovani che Annibale mandò a Roma, vincolati dal giuramento che avrebbero fatto ritorno, se non avessero ottenuto il riscatto dei prigionieri, tutti, finché ciascuno di loro visse, furono lasciati dai censori, appunto perché spergiuri, fra i tributari; e non meno degli altri, colui che era caduto in colpa di eluso giuramento. Uscito questi dal campo col permesso di Annibale, vi ritornò poco dopo, col pretesto d'aver dimenticato non so 158
che cosa; poi, uscito di nuovo dal campo, si teneva prosciolto dal giuramento; e lo era, a parole, ma non di fatto. Quando si tratta di lealtà, bisogna guardar sempre, non alla lettera, ma allo spirito della parola. Il più grande esempio di lealtà verso il nemico fu dato dai nostri padri, quando un disertore di Pirro offri al senato di uccidere A re col veleno. Il senato e Gaio Fabrizio consegnarono il disertore a Pirro. Così, neppure di un nemico potente e aggressore si approvò la morte, se questa doveva comportare un delitto. E dei doveri di guerra ho parlato abbastanza. 41 Ma sui doveri di guerra ho detto abbastanza. Dobbiamo poi ricordare che bisogna osservare la giustizia anche verso gli infimi. Certamente la condizione e la sorte più umile è quella degli schiavi, che alcuni giustamente propongono di considerare come mercenari, esigendo il lavoro a ridando loro in cambio il giusto. Due poi sono i modi con i quali si fa ingiustizia: con la violenza a con la frode; la frode è propria della volpe, la violenza del leone; sia l'una che l'altra è contraria alla natura umana, ma la frode desta maggior repulsione. Ma di tutte le ingiustizie nessuna è più deprecabile di quella di coloro, i quali, quando più ti ingannano, allora appunto fanno in modo di sembrare uomini onesti. Ma sulla giustizia basti ormai. 7 42 Come mi ero proposto, parlerò ora della beneficenza e della liberalità, della quale nulla è più consentaneo alla natura umana; vuole però parecchie cautele. Bisogna infatti fare attenzione che la liberalità non riesca dannosa a quelli che si vorrà beneficare, ed agli altri; poi, che essa non sia superiore ai nostri mezzi; infine, che sia corrispondente ai meriti di ciascuno: questo è infatti il fondamento della giustizia, alla quale si devono riferire questi precetti. Coloro infatti che donano ciò che è dannoso a chi essi vogliono beneficare, non devono essere considerati né benefici né liberali, ma pericolosi adulatori. Quelli poi che danneggiano gli uni per essere liberali con altri commettono la stessa ingiustizia di chi si appropria delle cose altrui a proprio vantaggio. 43 Ci sono poi molti, e proprio fra quelli più avidi di onore e di gloria, i quali tolgono agli uni per largheggiare con altri; e credono di passare per benefici verso i loro amici, se li arricchiscono in qualunque maniera. Ma ciò è tanto lontano dal dovere che nulla è più contrario al dovere. Si cerchi dunque di usare quella liberalità che giova agli amici e non nuoce a nessuno. Perciò l'atto con cui Lucio Silla e Gaio Cesare tolsero ai legittimi possessori i loro beni per trasferirli ad altri, non deve sembrare liberale: non c'è liberalità dove non è giustizia. 44 La seconda cautela da prendere in considerazione è che la liberalità non sia superiore ai nostri mezzi; poiché quelli, che vogliono essere più benefici di quanto possono, commettono in primo luogo ingiustizia verso i familiari: trasferiscono infatti ad altri quelle sostanze, che sarebbe più giusto concedere a lasciare a quelli della propria famiglia. In tale liberalità c'è inoltre la cupidigia di rapire a di togliere 1'altrui per avere modo di fare elargizioni. Si può anche osservare come i più non sono liberali per natura ma per amore della gloria; e, per sembrare benefici, fanno molte cose che sembrano derivate da ostentazione più che da sincerità. Tale ostentazione poi è più vicina alla impostura che alla liberalità o alla onestà. 45 Terza cautela da osservare è che, nella beneficenza, si faccia un'avveduta scelta dei meriti; bisogna, cioè, considerare bene il carattere della persona che si vuol beneficare, la disposizione dell'animo suo verso di noi, i rapporti sociali che tra noi intercedono e, infine, i servigi che essa ci ha resi: è desiderabile che tutte queste ragioni concorrano insieme; se no, le più numerose e le più importanti dovranno prevalere. 46 E poiché si vive non già con uomini perfetti e del tutto saggi, ma con gente in cui è già molto se c'è un'ombra di virtù, bisogna anche persuadersi (io credo) che non si deve assolutamente trascurare nessuno, da 159
cui trasparisca un qualche indizio di virtù; anzi, con tanta maggior cura si deve coltivare una persona, quanto più essa è adorna di certe virtù più miti, come la moderazione, la temperanza e questa stessa giustizia di cui si è già tanto parlato. Invero, un animo forte e grande, in un uomo non perfetto e non saggio, è per lo più troppo fervido; quelle virtù, invece, sembrano convenire piuttosto al comune uomo dabbene. E questo valga per ciò che riguarda il carattere. 47 Venendo poi a parlare della benevolenza che altri può avere verso di noi, è nostro primo dovere che doniamo di più a colui che più ci ama, valutando però la benevolenza non da un affetto passeggero, come possono fare i ragazzetti, ma dalla stabilità a costanza dell'affetto. Se invece saremo stati obbligati, in modo che non si tratti di beneficare, ma di essere riconoscenti, dovremo usare maggiore impegno. Nessun dovere infatti è più necessario della gratitudine. 48 E se Esiodo consiglia di rendere in maggior misura, solo che tu possa, quello che hai avuto in prestito, che cosa non dobbiamo noi fare se altri ci previene nel beneficio? Non dobbiamo forse imitare i campi fertili, che rendono assai più di quel che ricevono? Invero, se non esitiamo a prestare i nostri servigi a coloro dai quali ci ripromettiamo vantaggi futuri, quale riconoscenza non dobbiamo avere verso coloro che vantaggi ce n'hanno già dati? Ci sono due maniere di liberalità: quella che fa e quella che rende il beneficio. Ora, se il farlo o il non farlo è in nostra facoltà, il non renderlo non è lecito a un uomo dabbene, pur che possa far ciò senza commettere un'ingiustizia. 49 Fra i benefici ricevuti bisogna poi fare delle distinzioni ed è fuori di dubbio che tanto più dobbiamo essere riconoscenti, quanto più grande è stato il beneficio ricevuto. E prima di tutto bisogna considerare quale fu 1'animo, 1'inclinazione, 1'affetto del benefattore. Molti infatti operano alla leggera, senza discernimento, spinti verso gli altri come da una malattia o da improvviso impeto dell'animo, come da una raffica di vento: questi benefici non debbono essere considerati alla pari con quelli che si fanno a ragion veduta, con ponderazione a costanza. Inoltre, nel fare a ricambiare un beneficio, è nostro dovere, a condizioni pari, soccorrere soprattutto chi ha più bisogno. Spesso invece accade il contrario: tanto più gli uomini si mostrano servizievoli con alcuni, anche se questi non ha bisogno di loro, quarto più sperano di trarne vantaggio. 50 Manterremo più saldi i legami sociali se saremo soprattutto generosi verso chi ci è più strettamente legato. Ma bisogna rifarsi più da lontano, per esaminare quali sono i principi naturali della comunità umana. Il primo è quello che appare nella stessa universale famiglia degli uomini collegati dalla ragione a dal linguaggio, che con 1'insegnare avvicinano fra loro gli uomini tutti riunendoli in un'associazione naturale. Né per altro ci differenziamo maggiormente dalle bestie, nelle quali spesso diciamo di trovare il coraggio, come nei cavalli a nei leoni, ma non troviamo la giustizia, 1'equità a la bontà, poiché sono privi di ragione a di linguaggio. 51 Questa, dunque, è la più ampia forma di società che esista, in quanto comprende e unisce tutti gli uomini con tutti gli uomini: in essa, quei beni che le leggi e il diritto civile assegnano ai privati, siano dai privati tenuti e goduti come appunto le leggi dispongono; ma tutti quegli altri beni che la natura produce per il comune vantaggio degli uomini siano tenuti e goduti dagli uomini come patrimonio di tutti e di ciascuno, così come raccomanda il proverbio greco: “Gli amici hanno tutto in comune con gli amici”. E comuni a tutti gli uomini sono evidentemente quei beni che appartengono a quel genere che, simboleggiato da Ennio in un singolo esempio, può facilmente estendersi a moltissimi altri casi: 8 “L'uomo che mostra cortesemente la via a un viandante smarrito, fa come se dal suo lume accendesse un altro lume. La sua fiaccola non gli 160
risplende meno, dopo che ha acceso quella dell'altro”. Con un solo ed unico esempio il poeta ci insegna che, quanto possiamo concedere senza nostro danno, tutto dobbiamo accordare anche a uno conosciuto. 52 Di qui le massime: non vietare ad alcuno di attingere acqua dal fiume, permettere di prendere il fuoco dal fuoco, dare un buon consiglio a chi deve decidere: cose che sono utili a chi le riceve, a non dannose a chi le dà. Dobbiamo perciò attenerci a questi principi e contribuire al comune benessere. Ma poiché i mezzi dei singoli sono modesti ed infinita è la moltitudine di quelli che hanno bisogno, la liberalità verso gli altri deve restringersi a quel termine indicato da Ennio, “né il suo lume splende meno”, perché vi sia modo di esser liberali verso chi ci è più vicino. 53 Diversi sono poi i gradi della società umana. Per non parlare infatti di quella società universale che unisce tutti gli uomini, ci riguarda più da vicino quella costituita fra gli uomini della stessa stirpe, nazione a lingua, che sono i vincoli più importanti. Ancora più intima è quella fra uomini dello stesso Stato; poiché i cittadini hanno molte cose in comune, le piazze, i templi, i portici, le leggi, i diritti, i tribunali, i voti, le consuetudini inoltre a le amicizie, i molteplici impegni ed i contratti d'affari. Società più stretta è poi quella della propria famiglia: infatti dalla grande società del genere umano si restringe ad un cerchio più piccolo. 54 In verità, tutti gli esseri viventi tendono per naturale istinto alla procreazione, e perciò la prima forma di società si attua nell'accoppiamento sessuale; la seconda, nella prole, e quindi nell'unita della casa e nella comunanza di tutti i beni. Ed è questo il primo principio della città e, direi quasi, il semenzaio dello Stato. Seguono le unioni tra fratelli e sorelle, poi tra cugini e biscugini, i quali, quando una sola casa non può più contenerli, escono a fondare nuove case, quasi come colonie. Seguono i matrimoni e le affinità, per cui si moltiplicano le parentele; e in questo propagarsi e pullulare della prole è appunto l'origine degli Stati. Or bene, la comunanza del sangue avvince gli uomini di benevolenza e d'amore. 55 Ed è proprio gran cosa avere gli stessi ricordi di famiglia, le cerimonie religiose agli stessi sepolcri. Ma di tutte le società nessuna è più apprezzabile a più sicura di quella fra gli uomini simili nei costumi a legati da amicizia; poiché 1'onesto, come spesso ho detto, quando lo vediamo anche in altri, allora ci fa impressione a ci rende amici di colui nel quale crediamo di vederlo. 56 E benché ogni virtù ci attragga a sé e ci faccia amare coloro nei quali sembra che essa risieda, tuttavia la giustizia e la liberalità producono più specialmente questo effetto. E niente è più atto a destare amore e a stringere i cuori che la somiglianza dei costumi nelle persone dabbene: quando due uomini hanno le stesse inclinazioni e le stesse aspirazioni, allora avviene che ciascuno dei due prende piacere dell'altro come di se stesso, e si avvera quello che Pitagora vuole nell'amicizia, che, cioè, di più anime si faccia un'anima sola. Grande è ancora quella unione che nasce da vicendevole scambio di benefici: finché questi sono reciproci e graditi, una salda alleanza avvince tra loro benefattori e beneficati. 57 Ma quando avrai ben considerato ogni cosa con la mente e col cuore, vedrai che fra tutte le forme di società la più importante e la più cara è quella che lega ciascuno di noi allo Stato. Cari sono i genitori, cari i figlioli, cari i parenti e gli amici; ma la patria da sola comprende in sé tutti gli affetti di tutti. E quale buon cittadino esiterebbe ad affrontare la morte per lei, se il suo sacrificio dovesse giovarle? Tanto più esecrabile, dunque, è la crudeltà di codesti facinorosi che, con ogni sorta di scelleratezze, fecero strazio della loro patria, e a nient'altro furono e sono intenti che a distruggerà dalle fondamenta. 58 Ma, se si vuole far questione e confronto per sapere a chi dobbiamo 161
rendere maggior ossequio e miglior servigio, abbiamo il primo posto la patria e i genitori, ai quali noi dobbiamo i più grandi benefici; vengano subito dopo i figlioli e tutta la famiglia, che tiene fisso lo sguardo in noi soli e in noi soli trova il suo unico rifugio; seguano poi i parenti che sono in buona armonia con noi, i parenti coi quali noi abbiamo per lo più in comune anche la sorte. Perciò gli aiuti necessari a sostentare la vita si devono principalmente a questi che ho nominato; ma la comunanza e l'intimità del vivere, i consigli, i colloqui, le esortazioni, i conforti, talora anche, rimproveri, hanno il loro massimo vigore e valore nell'amicizia, e amicizia dolcissima è quella che conformità di carattere annoda. 59 Ma nell'adempimento di tutti questi doveri bisogna avere riguardo a ciò di cui uno ha soprattutto bisogno ed a quello che può ottenere o no senza di noi. Perciò non identici sono i gradi delle relazioni a delle circostanze a vi sono riguardi che si debbono più agli uni che agli altri; e così nella raccolta dei prodotti dovrai aiutare con più sollecitudine il vicino che non il fratello o 1'amico; ma, se vi è un processo, aiuterai il parente a 1'amico piuttosto del vicino. In ogni dovere dunque bisogna considerare tali cose ed acquistare senso pratico per poter essere buoni contabili dei doveri e, sommando a sottraendo, vedere dal risultato quanto si debba a ciascuno. 60 Ancora. Come i medici, i generali, gli oratori, per bene imparate che abbiano le regole della teoria, non possono conseguire nulla che meriti gran lode senza l'esperienza e la pratica, così, regole e precetti, sulla rigorosa osservanza dei doveri, se ne impartiscono di certo, come appunto sto facendo io, ma la vastità e la varietà della cosa richiedono anche esperienza e pratica. E così credo d'aver chiarito abbastanza in che modo, da quei principi che si fondano sul diritto dell'umana convivenza, deriva l'onesto, da cui dipende a sua volta il dovere. 61 Bisogna comprendere, una volta proposti i quattro generi da cui scaturiscono ciò che è moralmente onorevole a il dovere, che ad apparire il più splendido è quello che comporta un animo grande ed elevato, che disprezza le cose umane. Perciò negli insulti ciò che è più a portata di mano è dire, se è possibile, qualche cosa come: “Voi, o giovani, avete un animo di donna, a quella fanciulla ha un animo da eroe” ; ed anche: “O Salmacide, spoglie senza sudore a sangue”. Al contrario, lodiamo con voce, non si sa come, quasi più piena a più forte le azioni compiute da un animo 9 valoroso a fermo. Di qui nascono i luoghi comuni dei retori su Maratona, Salamina, Platea, Leuttra, sulle Termopili, e, fra i nostri, ecco Coclite, i Decii, Gneo a Publio Scipione, Marcello a tanti altri; a soprattutto lo stesso popolo romano eccelle per magnanimità. L'entusiasmo per la gloria militare si rivela anche dal vedere non generalmente le statue in tenuta militare. 62 Ma questa elevazione d'animo, che si fa notare nei pericoli a nelle fatiche, se è disgiunta dalla giustizia a non combatte per la comune prosperità, ma per il proprio vantaggio, è colpevole; non solo infatti non è virtù, ma è proprio contraria ad ogni sentimento di umanità. Molto bene quindi gli stoici definiscono la fortezza come virtù che lotta per 1'equità. Perciò nessuno che meritò la fama di forte con malizie a con insidie, s'acquistò mai la lode: poiché nulla che sia contrario alla giustizia può essere onesto. 63 Bellissima, dunque, quella sentenza di Platone: “Non solo quel sapere, che è disgiunto da giustizia, va chiamato furfanteria piuttosto che sapienza, ma anche il coraggio che affronta i pericoli, se è mosso non dal bene comune, ma da un suo proprio interesse, abbia il nome di audacia piuttosto che di fortezza”. Noi vogliamo pertanto che gli uomini forti e coraggiosi siano, nel medesimo tempo, buoni e schietti, amanti della verità e alieni da ogni impostura: qualità queste che scaturiscono dall'intima essenza della 162
giustizia. 64. Ma ciò che è veramente biasimevole è che in questa elevatezza e grandezza d'animo facilmente nascono le caparbietà allo smodato desiderio di predominio. Si legge in Platone che lo spirito degli Spartani era sempre infiammato dal desiderio di vincere”; a così, quanto più uno eccelle per grandezza d'animo, tanto più vuole essere il primo fra tutti o piuttosto il solo. È difficile poi che, chi desidera a tutti sovrastare, rispetti la equità, che è praticamente inseparabile dalla giustizia. Per cui avviene che non si lascia vincere né dal confronto di idee né dall'autorità del diritto a delle leggi; ed ecco sorgere allora nello Stato corruttori a faziosi per poter raggiungere la massima potenza ed essere superiori con la forza piuttosto che pari con la giustizia. Ma quanto più conservare 1'equità è difficile, tanto più è apprezzabile: non v'è infatti nessuna circostanza, nella quale non si debba operare secondo giustizia. 65 Forti e magnanimi, adunque, si devono stimare non quelli che fanno, ma quelli che respingono l'ingiustizia. E la vera e sapiente grandezza d'animo giudica che quell'onestà, a cui tende sopra tutto la natura umana, sia riposta non nella rinomanza, bensì nelle azioni, e perciò non tanto vuol parere quanto essere superiore agli altri. In verità, chi dipende dal capriccio d'una folla ignorante, non deve annoverarsi fra gli uomini grandi. D'altra parte, l'animo umano, quanto più è elevato, tanto più facilmente è spinto a commettere azioni ingiuste dal desiderio della gloria; ma questo è un terreno assai sdrucciolevole, perché è difficile trovare uno che, dopo aver sostenuto fatiche e affrontato pencoli, non desideri, come ricompensa delle sue imprese, la gloria. 66 La fortezza e la magnanimità si manifestano soprattutto in due cose: nel disprezzo dei beni terreni, persuaso che uno sia che 1'uomo non deve ammirare o ricercare nulla che non sia 1'onesto a il decoro a che non deve lasciarsi vincere dalle passioni a dalla fortuna. Poi, dato uno stato d'animo così disposto, nell'intraprendere cose grandi a massimamente utili, ma che siano piene di difficoltà, di fatiche a di pericoli a mettano a rischio la vita stessa a molte cose che interessano la vita. 67 Di questi due modi, tutto lo splendore e tutta la magnificenza, aggiungo anche tutta l'utilità, è nel secondo; ma la vera causa efficiente della grandezza d'animo è nel primo: in questo risiede l'intima ragione che fa gli animi veramente grandi e superiori alle cose umane. E appunto questa forza morale si riconosce, dicevo, per due contrassegni: lo stimare buono solo ciò che è onesto e l'esser liberi da ogni passione. In verità, se il giudicare meschine quelle cose che ai più sembrano straordinarie e magnifiche, e perciò il disprezzarle con fermo e costante proposito, è proprio d'un animo forte e grande, senza dubbio il sopportare quelle cose che sembrano penose, quelle che, molte e varie, accadono nella travagliata e tempestosa vita umana, in modo che tu non ti discosti per nulla dallo stato naturale dell'uomo, per nulla dalla dignità del sapiente, questo è proprio di un animo vigoroso e di una grande fermezza. 68 Non è coerente che chi non si lascia vincere dal timore, si faccia vincere dalla cupidigia;a che chi non cede alle fatiche, ceda ai piaceri. Perciò bisogna tener conto di queste cose a rifuggire dalla avidità del denaro; niente è tanto indizio di un animo meschino a gretto quanto 1'amore delle ricchezze; niente al contrario è più bello a più nobile che disprezzare il denaro, se non ce n'è, o impiegarlo in beneficenza a liberalità, se ce n'è. Bisogna anche guardarsi dal desiderio della gloria, come già ho detto: sopprime infatti la libertà, per ottenere la quale gli uomini magnanimi devono affrontare ogni sforzo. Né si devono desiderare i comandi militari o, piuttosto, bisognerà ogni tanto non accettarli. 69 Sia l'animo tuo sgombro da ogni passione, non solo dalla cupidigia e dalla paura, ma anche, e specialmente, dalla tristezza, dalla soverchia allegria e dalla collera, perché 163
tu abbia quella tranquilla serenità che porta con sé fermezza e soprattutto dignitosa coscienza. Molti sono e molti furono quelli che, aspirando a questa tranquillità di cui parlo, rinunziarono ai pubblici uffici per cercare un rifugio nella pace d'una vita appartata: fra questi troviamo celebratissimi filosofi, veri principi del sapere, e certi uomini austeri e autorevoli che non seppero acconciarsi ai capricci del popolo o dei potenti; e non pochi di essi passarono la vita in campagna, trovando il loro piacere nell'attendere ai loro privati interessi. 70 Tutti costoro non ebbero altro ideale che questo: “vivere da re”, vale a dire, non aver bisogno di nulla, non obbedire a nessuno e godere di quella libertà, che consiste nel vivere come si vuole. Questi si prefissero il medesimo scopo dei re: non avere bisogno di nulla, non obbedire a nessuno, a godere della libertà, che consiste essenzialmente nel vivere secondo i propri desideri. Questo scopo è comune a quelli che desiderano il potere a quelli che desiderano la vita tranquilla; ma gli uni ritengono di poterlo conseguire con molte ricchezze, gli altri accontentandosi del poco che possiedono. Non si può dare torto né agli uni né agli altri, con la differenza che la vita 10 dei secondi è più tranquilla, più sicura, meno fastidiosa a molesta agli altri; mentre la vita di coloro che si dedicano alla vita pubblica a alle imprese di guerra è più utile al genere umano a più adatta a dare splendore e dignità. 71 Perciò si può forse concedere di non occuparsi dello Stato a quelli che, dotati di singolare ingegno, si dedicano agli studi, e a quelli che, impediti o dalla malferma salute o da qualche altra più grave cagione, si ritraggono dalle cure dello Stato, cedendo ad altri il potere e la gloria di amministrarlo; ma a quelli che non hanno nessun motivo di tal genere, credo che non si debba ascrivere a lode, bensì a colpa, se adducono il pretesto d'avere in dispetto quelle cose che i più ammirano, cioè i comandi militari e le cariche civili. E' vero che sarebbe difficile non approvare il loro proposito, in quanto dichiarano di non tenere in nessun conto la gloria; ma il male è che essi hanno tutta l'aria di temere, nonché le fatiche e le noie, anche i contrasti e gl'insuccessi, come una specie di disonore e d'infamia. Ci sono alcuni che, in casi del tutto opposti, non eccellono per troppa coerenza: disprezzano con estremo vigore il piacere e nel dolore si accasciano: non si curano della gloria e si fiaccano per l'infamia e anche nell'incoerenza sono incoerenti. 72 Ma quelli che hanno per natura le qualità necessarie per svolgere le attività politiche, senza alcuna esitazione devono cercare di ottenere le magistrature a amministrare lo stato; altrimenti né la società può essere retta, né la grandezza d'animo essere manifesta. Quelli poi che si dedicano alla vita politica, non meno che i filosofi, a forse più, devono essere forti d'animo ed avere disprezzo per le cose umane, a sicurezza a tranquillità, se vogliono non essere ansiosi per 1'avvenire a vivere con fermezza a costanza. 73 Il che riesce tanto più facile ai filosofi, quanto meno essi, nella loro vita, offrono aperto il fianco ai colpi di fortuna, e quanto minori sono i loro bisogni; e anche perché, se qualche avversità li assale, non possono cadere con tanta rovina. Perciò, non senza ragione, più vigorosi slanci dell'animo e più generoso desiderio d'operare si accendono in colui che sta al governo che non negli uomini appartati e tranquilli; e perciò tanto più l'uomo di Stato deve armarsi di grandezza d'animo e serbarsi libero da ogni affanno. D'altra parte, chiunque s'accosta agli affari pubblici, si guardi bene dal considerare soltanto l'onore che gliene possa derivare, ma guardi anche d'aver le forze adatte a eseguire i suoi disegni. E anche in questa considerazione, si guardi da due pericoli: dal disperare senza ragione per fiacchezza d'animo e dall'aver troppa fiducia in se stesso per smaniosa ambizione. Del resto, in ogni sorta d'impresa, prima di mettersi all'opera, occorre una diligente preparazione. 164
74. Nonostante il fatto che molti ritengono che le imprese militari abbiano maggiore importanza delle civili, bisogna combattere questa opinione. Molti infatti ricercano le guerre per desiderio di gloria; a questo avviene per lo più in animi forti a grandi ingegni, a tanto più se sono adatti alle imprese di guerra a desiderosi di guidare eserciti. Ma se vogliamo giudicare rettamente, molte azioni civili sono più importanti a più onorevoli delle imprese di guerra. 75 Si lodi pure a buon diritto Temistocle; sia pure il suo nome più radioso che quel di Solone, e si chiami Salamina a testimonianza d'una splendidissima vittoria, per anteporla al provvedimento col quale Solone per la prima volta istituì l'Areòpago; ma questo provvedimento è da giudicarsi non meno luminoso di quella vittoria: questa non giovò che una sol volta, quello invece gioverà in ogni tempo allo Stato. E' questo consesso che custodisce le leggi d'Atene; è questo che preserva le istituzioni degli avi. E mentre Temistocle non potrebbe vantarsi d'aver giovato in nulla all'Areòpago, Solone avrebbe invece ogni ragion di dire che egli giovo a Temistocle, in quanto la guerra fu condotta per consiglio di quel senato che Solone aveva istituito. 76 Si potrebbero dire le stesse cose di Pausania a di Lisandro perché, sebbene si ritenga che con le loro opere la potenza degli Spartani sia aumentata, tuttavia queste non sono minimamente da paragonarsi con le leggi a gli ordinamenti di Licurgo; anzi proprio grazie a questi ebbero eserciti più preparati a più forti. Secondo poi il mio parere, né al tempo della mia fanciullezza Marco Scauro era inferiore a Gaio Mario, né al tempo della mia partecipazione alla vita politica Quinto Catulo a Gneo Pompeo; poco infatti contano le armi al di fuori dei confini, se non v'è saggezza in patria. Né 1'Africano, uomo a generale eccellente, giovò più alla sua patria con la distruzione di Numanzia, the in quello stesso tempo il privato cittadino Publio Nasica, quando fece uccidere Tiberio Gracco; quel fatto, si potrà dire, non piu' soltanto civile, ma anche militare, poiché fu compiuto con la forza a con le armi; ma tuttavia fu un atto di politica interna senza intervento dell'esercito. 77 Ottima è quella mia sentenza, contro la quale, a quel ch'io sento, si scagliano di solito i maligni e gl'invidiosi: “Cedano l'armi alla toga, ceda l'alloro del capitano alla gloria del cittadino”. E invero, per tacere d'altri, quando io reggevo il timone dello Stato, non cedettero forse le armi alla toga? Mai lo Stato corse più grave pericolo e mai godette più sicura pace. Con tanta prontezza, in virtù dei miei provvedimenti e della mia vigilanza, caddero da se stesse le armi dalle mani di temerari e facinorosi cittadini. Quale impresa dunque fu mai compiuta così grande in guerra? Quale trionfo di capitano può paragonarsi con questo di magistrato? 78 Lascia, Marco, lascia, figliolo mio, che io me ne vanti con te, poi che a te spetta di ereditare questa mia gloria e di emulare queste mie azioni. Certo è che un uomo, colmo di gloria militare, Cneo Pompeo, mi fece l'onore di affermare alla presenza di molti che invano egli avrebbe riportato il suo terzo trionfo, se, per le mie benemerenze patriottiche, egli non avesse avuto una patria, ove trionfare. Le prove di fortezza che si danno in pace non sono dunque inferiori alle prove che si danno in guerra; ché anzi quelle richiedono maggior lavoro e maggior zelo di queste. 79. Insomma quell'onesto, che noi cerchiamo in un animo nobile a grande, proviene dalle forze dell'animo a non del corpo. Anche il corpo tuttavia deve essere esercitato ad obbedire alla saggezza a alla ragione nel compimento delle attività a nel sopportare le fatiche. L'onesto dunque, che noi cerchiamo, consiste nell'attività dell'animo e nella riflessione; ed in questo riguardo non minore utilità apportano quelli che in tempo di pace governano lo stato di quelli che fanno la guerra. Spesso infatti per i Toro consigli le guerre non furono intraprese, o vennero condotte a 165
termine, 11 talvolta anche dichiarate; come fu la terza guerra punica, deliberata per consiglio di Marco Catone, la cui autorità anche dopo la morte fu grandissima. 80 Si preferisca, dunque, la saggezza di un buon decreto alla prodezza di una fiera battaglia; con questa riserva però, che si anteponga il deliberare al combattere non già per paura della guerra, ma solo per riguardo dell'utile comune. A ogni modo, quando è necessaria, si intraprenda pure una guerra, ma sempre e solo con l'evidente scopo di procurare la pace. In verità, l'uomo forte e costante si riconosce in questo: le avversità non lo turbano, la lotta non lo sgomenta e non l'abbatte; sempre presente a se stesso e sempre padrone del suo spirito, egli non si discosta mai dalla ragione che lo guida. 81 E se questo è privilegio d'un animo forte, è poi segno di grande ingegno presagire con la forza del pensiero le cose future, a anche all'occorrenza stabilire quello che può accadere in bene ed in male, a che cosa si debba fare, quando qualcosa sia accaduto, né fare in modo che poi si debba dire: “Non lo credevo”. Queste sono le opere di un animo grande ed elevato a che fa affidamento nella assennatezza a nella riflessione: gettarsi invece alla cieca nel combattimento e combattere corpo a corpo col nemico è selvaggio e brutale. Ma quando la circostanza a la necessità lo richiedono bisogna prendere le armi a preferire la morte alla schiavitù a al disonore. 82 Quanto poi alla distruzione a al sacco delle città non si proceda a caso a con crudeltà. È dovere di un uomo grande punire i colpevoli nelle agitazioni, rispettare la moltitudine, non allontanarsi mai in qualsiasi condizione dalla rettitudine a dall'onestà. E come vi sono molti, 1'ho già detto, che antepongono le azioni militari alle civili, cosi si trovano molti, ai quali le risoluzioni affrettate e pericolose sembrano più nobili a più splendide di quelle tranquille e meditate. 83 E' ben vero che noi, col fuggire il pericolo, non dobbiamo mai correre il rischio di passare da imbelli e da codardi; ma è anche vero che dobbiamo rifuggire dal buttarci allo sbaraglio senza ragione, che è la cosa più dissennata del mondo. Perciò, nell'affrontare i pericoli, dobbiamo seguire il metodo dei medici, che, ai malati leggeri, porgono blandi rimedi, riservando di necessità alle malattie più gravi le cure pericolose e incerte. Nella bonaccia, pertanto, invocare la tempesta è gran demenza; ma superare la tempesta in qualunque modo, è vera saggezza, tanto più se il vantaggio di una pronta risoluzione supera il danno di un'incerta e dubbiosa esecuzione! D'altra parte, le pubbliche imprese sono pericolose tanto per coloro che le affrontano, quanto per lo Stato. 84 Vi sono poi molti i quali non esitano a sacrificare per la patria non solo le ricchezze, ma anche la vita, ma non farebbero il minimo sacrificio della loro fama, neppure se lo riehiedesse lo stato. Cosi Callicratida che, comandante degli Spartani nella guerra del Peloponneso, dopo molte egregie imprese, alla fine mandò tutto in rovina, non volendo obbedire all'ordine di quelli the volevano fosse richiamata la flotta dalle Arginuse a non si combattesse con gli Ateniesi". Ad essi Callicratida rispose che gli Spartani, perduta una flotta, potevano allestirne un'altra ma che egli non poteva fuggire, senza suo disonore. Questo poi non fu un colpo troppo grave per gli Spartani, ma fu molto grande quello ricevuto per colpa di Cleombroto che, temendo 1'impopolarità, diede temerariamente battaglia ad Epaminonda; a la potenza degli Spartani fu travolta. Quanto si comportò meglio Quinto Massimo, del quale Ennio disse: “Un sol uomo temporeggiando ha rimesso in piedi lo stato. Non anteponeva le dicerie alla salvezza della patria. Perciò sempre e ora più che mai rifulge la sua gloria”. Questo errore deve essere evitato anche nelle azioni civili. Vi sono infatti di quelli che, per timore della impopolarità, non osano dire ciò che pensano, anche se è giusto. 85 In generale 166
coloro che si dispongono a reggere lo stato abbiano sempre presenti questi due precetti di Platone: primo, salvaguardare il bene dei cittadini, di modo che, qualunque cosa facciano, quello soprattutto abbiano di mira, dimentichi del loro utile; poi, curare tutto il corpo dello stato, per non trascurare le altre parti, mentre ne curano una. Infatti 1'amministrazione dello stato, come la tutela privata, deve avere di mira 1'utilità di quelli che sono stati affidati, non di quelli ai quali è stata affidata. Quelli che curano soltanto una parte dei cittadini, ed una parte ne trascurano, introducono nello stato un gravissimo malanno: la sedizione a la discordia; ed avviene che alcuni parteggiano per il popolo, altri per gli ottimati e pochi per tutti quanti. 86 Di qui nacquero in Atene grandi discordie; di qui scoppiarono nella nostra repubblica, non solo sedizioni, ma anche rovinose guerre civili; mali, questi, che un cittadino austero e forte, degno di primeggiare nello Stato, fuggirà con orrore: consacrandosi interamente allo Stato, senza cercare per sé né ricchezze né potenza, egli lo custodirà e lo proteggerà tutto quanto, in modo da provvedere al bene di tutti i cittadini. Inoltre, con false accuse, egli non ecciterà né odio né disprezzo contro alcuno; anzi si atterrà così strettamente alla giustizia e all'onestà che, pur di mantenerle ferme e salde, affronterà i più gravi insuccessi e incontrerà anche la morte, piuttosto che tradire quelle norme che ho detto. 87 Biasimevole è poi 1'ambizione a la caccia agli onori, sulla quale molto bene ha detto Platone: quelli che lottano fra di loro per avere l'amministrazione dello stato fanno come dei nocchieri che si contendessero il comando della nave”. Ed anche ci consiglia di giudicare nostri nemici quelli che portano le armi contro di noi, non quelli che vogliono avere cura dello stato secondo il loro senso politico: sia d'esempio il disaccordo, senza alcuna asprezza, fra Publio Africano e Quinto Metello. 88 E invero non bisogna dare ascolto a coloro i quali credono che dobbiamo adirarci fieramente coi nostri nemici, e anzi vedono appunto nell'adirarsi il carattere distintivo dell'uomo magnanimo e forte: no, la virtù più bella, la virtù più degna di un uomo grande e nobile è la pacata e mansueta clemenza. Invero, negli Stati liberi, ove regna l'eguaglianza del diritto, bisogna anche dar prova di una certa arrendevolezza, e di quella che suol chiamarsi padronanza di sé, per non incorrere nella taccia d'inutile e odiosa scontrosità, se ci accada di adirarci con importuni visitatori o con sfrontati sollecitatori. E tuttavia la mite e mansueta clemenza merita lode solo a patto che, per il bene superiore dello Stato, si adoperi anche la severità, senza la quale nessun governo è possibile. Ogni punizione e ogni riprensione, però, 12 dev'essere scevra d'oltraggio, e mirare, non alla soddisfazione del punitore o del riprensore, ma solo al vantaggio dello Stato. 89 Anche bisogna cercare che la pena non sia maggiore della colpa, e non avvenga che, per le medesime cagioni, alcuni siano duramente colpiti, altri né pur richiamati al dovere. Soprattutto è da schivare la collera nell'atto stesso del punire: chi si accinge al castigo in preda alla collera, non terrà mai quella giusta via di mezzo, che corre fra il troppo e il poco, via che piace tanto ai Peripatetici, e a ragione piace, solo che poi non dovrebbero lodare l'ira, dicendo che essa è un utile dono della natura. No, l'ira è da tenere lontana in tutte le cose, e bisogna far voti che i reggitori dello Stato assomiglino alle leggi, le quali s'inducono a punire non per impeto d'ira, ma per dovere di giustizia. 90 Anche nella prosperità a nella fortuna favorevole procuriamo di evitare la superbia, 1'alterigia a 1'arroganza. È segno di leggerezza infatti il non sapere essere moderati nella prospera a nella avversa sorte; è lodevolissima invece la serenità in ogni contingenza della vita ed il non mutare mai il volto a la fronte, come si racconta di Socrate a di 167
Gaio Lelio. È vero che Filippo, re dei Macedonia, fu superato dal figlio nelle imprese a nella gloria; ma nella affabilità a socievolezza gli fu superiore; così 1'uno fu sempre grande, l'altro spesso fu turpissimo: giustissimo è quel detto che ci ammonisce ad essere tanto più miti, quanto più siamo in alto. Racconta Panezio che 1'Africano, discepolo ed amico suo, soleva dire: “ Come i cavalli esuberanti a focosi per il tumulto di troppe battaglie si sogliono affidare a domatori, perché diventino più docili, così è necessario che gli uomini, resi superbi dalla buona fortuna a troppo fiduciosi in se stessi, siano disciplinati a guidati dalla ragione, per rendersi conto della debolezza delle cose umane a della instabilità della fortuna”. 91 Anzi, quanto più sono favorevoli le nostre sorti, tanto più noi dobbiamo ricorrere al consiglio degli amici, concedendo loro anche maggiore autorità che nel passato. E in tale stato felice, guardiamo di non prestare l'orecchio agli adulatori e di non lasciarci lusingare da essi: bevendo le loro parole, è facile cadere in inganno, perché noi ci crediamo cosi brave persone da meritare ogni più alta lode. E da questo smarrimento, nascono innumerevoli guai, quando gli uomini, gonfi della lor presunzione, si avvolgono nei più grandi errori e restano infine col danno e con le beffe. Ma di ciò basti. 92 Bisogna poi considerare che le cose di più grande importanza a di gran conto sono compiute da quelli che reggono lo stato, perché 1'amministrazione dello stato ha un campo vastissimo a si estende a moltissimi; a che vi sono a vi furono uomini di grande animo anche nella vita privata, i quali o si sono dedicati agli studi o hanno intrapreso qualcosa di grande mantenendosi sempre nei limiti delle proprie occupazioni; o, in posizione intermedia tra i filosofi a gli uomini di stato, si sono occupati delle proprie sostanze, non aumentandole con ogni mezzo, né tenendole solo per sé, ma favorendo anzi gli amici allo stato, qualora fosse necessario. Le sostanze devono essere in primo luogo bene acquistate, non provenire da turpe a disonesto guadagno; poi siano accresciute con 1'operosità, la diligenza e la parsimonia; infine siano utili a molti, purché degni, né servano ai capricci, ma alla liberalità ed alla beneficenza. Osservando questi precetti si potrà vivere con magnificenza, dignità a fierezza ed al tempo stesso con franchezza, sincerità a vera amicizia verso gli altri uomini. 93 Resta a trattare 1'ultima parte dell'onestà, nella quale consiste il rispetto e, quasi come ornamenti della vita, la temperanza, la modestia, la padronanza sui moti dell'animo a la giusta misura di ogni cosa. In questa parte è compreso anche quello che in latino si chiama decorum e che in greco si dice prepon. 94 Essa è tale per sua intima natura che non può separarsi dall'onesto: poiché ciò che è decoroso è onesto e ciò che è onesto è decoroso; e la differenza che passa tra l'onestà e il decoro, è più facile a intendere che a spiegare. In verità, tutto ciò che ha il carattere del decoro, non appare se non quando lo precede l'onestà. Ecco perché, non solo in questa parte dell'onestà, della quale dobbiamo ora trattare, ma anche nelle tre precedenti si manifesta il decoro. Invero, il far sapiente uso della ragione e della parola, il meditare ogni azione, e in ogni cosa cercare e osservare la verità, e ad essa attenersi, è decoroso, mentre al contrario l'ingannarsi e l'errare, il cadere in fallo e il lasciarsi gabbare è altrettanto indecoroso quanto l'uscir di strada e l'essere fuor di senno; e così ogni azione giusta è decorosa, e ogni azione ingiusta, com'è disonesta, così è anche indecorosa. Allo stesso modo si comporta la fortezza: tutte le azioni generose e magnanime appaiono degne dell'uomo e informate al decoro; le azioni contrarie, invece, come sono disoneste, così offendono il decoro. 95 Quindi questo decoro riguarda tutte le parti dell'onestà e le riguarda in modo che non si vede solo per via di ragionamenti reconditi, ma balza agli occhi. Vi 168
è un qualche cosa di decoroso che si presuppone in ogni virtù; ma questo può essere separato dalla virtù più in teoria che in pratica. Allo stesso modo che la grazia a la bellezza del corpo non possono essere disgiunte dalla buona salute, così il decoro è strettamente congiunto con 1a virtù, a può esserne disgiunto solo per astrazione a teoricamente. 96 Ora, il decoro è di due specie, giacché per decoro intendiamo tanto un carattere generale che risiede in tutto l'onesto, quanto un carattere particolare, a quello subordinato, che appartiene alle singole parti dell'onesto. Del primo si suol dare pressappoco questa definizione: “E' decoro ciò che è conforme all'eccellenza dell'uomo, in quanto la sua natura differisce da quella degli altri esseri viventi”; la parte speciale, invece, è definita così: “Decoro è ciò che è conforme alla particolare natura di ciascuno, sempre che in esso appaia moderazione e temperanza con un certo aspetto di nobiltà”. 97 E che così debba intendersi lo possiamo rilevare dal decoro poetico, del quale è consuetudine trattare più ampiamente altrove. E noi diciamo che i poeti osservano il decoro, quando ciò che avviene a che si dice corrisponde al carattere dei singoli personaggi. Così se Eaco o Minosse dicesse: “ Mi odino, purché mi temano”, oppure: “ Il padre stesso è tomba ai figli”, sembrerebbe indecoroso, poiché sappiamo che quelli furono giusti; male stesse cose dette da 13 Atreo sollevano il plauso, perché il discorso è degno del personaggio. Ma i poeti vedranno, secondo il personaggio, ciò che a ciascuno è appropriato; a noi la natura stessa ha assegnato una pane, dotandoci di superiorità a preminenza sugli altri esseri viventi. 98 Perciò i poeti, nella grande varietà dei caratteri, vedranno essi quale condotta e quale linguaggio convengano propriamente anche ai personaggi viziosi; noi, invece, non dobbiamo che osservare la legge della natura; la natura ci assegna le parti della coerenza, della moderazione, della temperanza e della discrezione; e ancora e sempre la natura ci insegna a considerare attentamente come dobbiamo comportarci in rapporto agli altri uomini; ebbene, da tutto questo appare in chiara luce quanto vasto sia il campo su cui si estende il decoro, sia quello generale che riguarda l'onestà tutta quanta, sia quello particolare che si manifesta in ogni singola virtù. Invero, come la bellezza del corpo, per l'armonica disposizione delle membra, attira gli sguardi e infonde piacere, appunto perché tutte le parti si accordano tra loro con una tal qual leggiadria, così quel decoro, che risplende nella vita, suscita l'approvazione di coloro coi quali viviamo, in virtù dell'ordine, della coerenza e della temperanza che informano ogni nostro detto e ogni nostro atto. 99 Si deve dunque avere un certo rispetto non solo per gli uomini migliori, ma anche per tutti gli altri. È infatti proprio dell'uomo non solo arrogante ma anche completamente trascurato il non tener conto dell'opinione altrui intorno a loro. Vi è poi una certa differenza, sotto questo riguardo, fra giustizia a rispetto: è ufficio della giustizia non danneggiare gli uomini; è dovere del rispetto non urtarne la sensibilità; ed in questo è soprattutto riposta la natura del decoro. E da quanto ho detto, credo che si possa ormai capire cosa sia il decoro. 100 Ora la prima strada che si presenta al dovere derivante dal decoro, è quella che conduce a una piena e stabile armonia con le leggi della natura: poiché, se prenderemo la natura per guida, noi non ci partiremo mai dalla retta via, e conseguiremo quelle tre virtù che abbiamo già esaminate: la naturale perspicacia ed acutezza della mente, una condotta adeguata alla convivenza civile, la forza e il vigore del carattere. Ma la maggior forza del decoro risiede in questa parte della quale ragioniamo, cioè nella temperanza. Perché, se sono da lodare i movimenti del corpo, quando sono conformi a natura, tanto più sono da lodare quelli dell'animo, quando egualmente si accordano con la natura. 101 Due sono, 169
invero, le potenze naturali dell'animo: l'una è riposta nell'istinto (i Greci la chiamano orme = impulso), e trascina ciecamente l'uomo qua e là; l'altra risiede nella ragione, che insegna e dimostra quello che è da fare e quello che è da evitare. Onde avviene che la ragione comanda e l'istinto obbedisce. 101. Due sono gli elementi naturali dell'animo: 1'uno è posto nell'istinto, detto dai Greci óp~t~ ~ [impulso], che trascina l'uomo qua a là; 1'altro è posto nella ragione, che insegna a rivela all'uomo cosa si debba fare ed evitare. In tal modo la ragione comanda a 1'istinto obbedisce. Ogni azione deve andare esente da temerità a negligenza, né si deve fare alcuna cosa di cui non si possa dare motivo plausibile: questa è press' a poco la definizione del dovere. 102 Anzitutto bisogna fare in modo che gl'istinti obbediscano alla ragione: non le corrano innanzi e non disertino da essa per fiacchezza o per viltà, ma se ne stiano tranquilli, liberi e franchi da ogni turbamento. Per tal modo risplenderanno in tutta la loro luce la fermezza e la temperanza. Difatti, quegl'istinti che vanno fuor di strada e, come cavalli imbizzarriti per eccesso di bramosia o di paura, non sono tenuti abbastanza a freno dalla ragione, oltrepassano senza dubbio il limite e la misura: abbandonano e rigettano l' obbedienza, ribellandosi alla ragione, a cui sono pure sottoposti per legge di natura; si che questi sfrenati istinti turbano non solo l'animo, ma anche il corpo. Basta osservare l'aspetto degli uomini adirati, o di quelli che sono sconvolti da qualche passione o da qualche timore, o di quelli che si esaltano per soverchio piacere: tutto in loro si muta il volto, la voce, l'andare, lo stare. 103 Si comprende quindi, per tornare al concetto di dovere, che si devono frenare e sedare tutti gli appetiti, a tenere desta 1'attenzione a la solerzia per non fare niente a caso a temerariamente, con sconsideratezza a negligenza. Noi non siamo stati generati dalla natura per dedicarci ai divertimenti a agli scherzi, ma per dedicarci a cose serie, ad occupazioni più gravi e più importanti. È lecito divertirsi a celiare ma, come per il sonno a per gli altri riposi, quando avremo soddisfatto alle nostre serie ed importanti occupazioni. Il modo stesso poi di celiare non deve essere né eccessivo, né sguaiato, ma degno di persona ammodo, a garbato. Allo stesso modo come non diamo ai fanciulli licenza sconfinata nei giochi, ma quella che non offenda l'onestà, così nelle stesse celie deve trasparire la rettitudine dell'animo. 104 Ci sono, insomma, due specie di scherzi: l'uno volgare, aggressivo, scandaloso, turpe; l'altro elegante, garbato, ingegnoso, fine. Di questa seconda specie sono pieni non solo il nostro Plauto e l'antica commedia degli Attíci, ma anche i libri dei filosofi socratici; e di questa specie sono molte facezie di molti, come, per esempio, quelle che furono raccolte dal vecchio Catone e che vanno sotto il titolo di apophthegmata. E' facile, dunque, distinguere lo scherzo nobile dal volgare. Uno è degno anche dell'uomo più austero, se è fatto a tempo debito, come, per esempio, quando lo spirito si allenta; l'altro non è né pur degno di un uomo libero, se all'indecenza dei pensieri si aggiunge l'oscenità delle parole. Anche nei divertimenti, dobbiamo osservare una certa misura, per non prorompere in eccessi e, inebriati dal piacere, scivolare in qualche sconcezza. Offrono esempi di onesti divertimenti il nostro Campo di Marte e gli esercizi della caccia. 105 In qualsiasi investigazione sul dovere, si deve tenere presente quanto la natura dell'uomo è superiore a quella degli animali domestici a di tutte le altre bestie. Queste non sentono che il piacere a verso di quello si lasciano trascinare con forza irresistibile; la mente dell'uomo invece si nutre con 1'imparare a con il pensare, a sempre ricerca a medita ed è guidata dal diletto di vedere a di udire. Anzi, se uno è alquanto incline ai piaceri, purché non sia simile agli animali (vi sono infatti uomini solo di nome a non di fatto), ma sa andare con la testa un po' più alta, 170
se anche si lascia prendere dal piacere, nasconde e dissimula per pudore questi suoi istinti. 106 Da ciò si comprende che il piacere dei sensi non è troppo degno della nobiltà umana e che anzi conviene disprezzarlo e rigettarlo; se c'è però qualcuno che conceda qualche cosa al piacere, ponga ogni cura nell'usare con 14 sapiente moderazione. Perciò il vitto e la cura della persona abbiano per fine non il piacere, ma la buona salute e il buon vigore. Anzi, sol che vogliamo riflettere un poco sopra l'eccellenza e la dignità della natura umana, comprenderemo (-111antO Síá tUF1)C Una \Ita C13C IMOta FM ILISSO e si sprofonda nelle mollezze, e per contro quanto sia bella una vita modesta e Ci-ii(,ale, austera e sobria. 107 Bisogna anche considerare che la natura ci ha quasi assegnato due ruoli: 1'uno è comune a tutti, in quanto tutti siamo partecipi della ragione a di quella superiorità, per la quale ci distinguiamo dalle bestie; da cui deriva 1'onesto a il decoro ed al quale risale la conoscenza del dovere; 1'altro è attribuito a ciascuno in modo particolare. Come infatti nei corpi ci sono grandi differenze (alcuni sono valenti nella corsa, altri nella lotta, in certe fattezze vi è dignità, in altre leggiadria), così negli animi vi sono varietà anche maggiori. 108 Lucio Crasso e Lucio Filippo avevano molto spirito; anche più spirito, e più raffinato, aveva Gaio Cesare, figlio di Lucio; d'altra parte, nel medesimo tempo, Marco Scauro e il giovane Marco Druso avevano una straordinaria serietà, Gaio Lelio molta festevolezza, l'intimo amico suo Scipione più grande ambizione e più austera vita. Fra i Greci, poi, sappiamo che Socrate era affabile e gioviale e piacevole conversatore, e, in ogni discorso, maestro in quella particolare finzione che i Greci chiamano eirona, per contro, Pitagora e Pericle conseguirono somma autorità, pur senz'ombra di buon umore. Astuto fu (com'è noto) tra i capitani cartaginesi Annibale, tra i nostri Quinto Massimo: aperti entrambi nell'arte di celare, tacere, dissimulare, tendere insidie, prevenire e sventare i disegni del nemico. Per questo rispetto i Greci antepongono Temistocle e Giàsone di Fere a tutti gli altri; ed esaltano in particolar modo lo scaltro e ingegnoso espediente di Solone, il quale, per meglio tutelare la sua vita e per più giovare alla sua patria, si finse pazzo. 109 Ben diversi da costoro vi sono altri, candidi e schietti, i quali credono che non si debba far nulla di nascosto, nulla per inganno, amanti della verità, nemici della frode; e altri ancora vi sono, disposti a sopportare qualunque affronto e a inchinare qualunque persona, pur di raggiungere il proprio intento, come vedevamo fare a Silla e a Marco Crasso. Per questo rispetto, insigne per scaltrezza e per pazienza fu (com'è noto) lo spartano Lísandro;' tutto l'opposto fu Callicratída, che successe a Lisandro nel comando dell'armata. Similmente, nel conversare familiare, taluno, per potente che sia, non ottiene altro effetto che di sembrare uno dei tanti. Abbiamo notato nei due Catuli, padre e figlio, e anche in Quinto Mucio Mancia. Ho sentito dire dai nostri vecchi che la stessa disinvoltura l'ebbe Publio Scipione Nasica;' al contrario, il padre di lui, quello che represse gli scellerati tentativi di Tiberio Gracco, non ebbe neppure un tratto di parlar cortese; come non l'ebbe neanche Senocrate, il più rigido e burbero dei filosofi, il quale, appunto per questa mancanza di affabilità, fu grande e famoso. Ci sono poi innumerevoli altre differenze psicologiche e morali, non però meritevoli di biasimo alcuno. 110 Ogni uomo deve accuratamente coltivare le sue qualità naturali (le buone, s'intende, non le cattive), per poter più facilmente conservare quel decoro di cui andiamo parlando. E il modo da tenere è questo: non dobbiamo far nulla contro l'universale natura umana e, nel pieno rispetto di essa, dobbiamo seguire la nostra particolare, in modo che, anche se altri abbiano altre attitudini maggiori e migliori, 171
noi misuriamo le nostre alla stregua della nostra natura: non giova, invero, contrastare alla propria natura o inseguire quello che non si può raggiungere. Da ciò emerge più evidente la vera essenza del decoro, appunto perché nulla è decoroso a dispetto, come suol dirsi, di Minerva, cioè, nel caso nostro, della natura. 111 In generale, se c'è al mondo cosa decorosa, nessuna certamente è tale più della coerenza, così nella vita intera come nelle singole azioni; coerenza che noi non potremmo conservare a pieno, se, imitando l'altrui natura, ci spogliassimo della nostra. Invero, come noi dobbiamo far uso di quella lingua che ci è materna, per non essere giustamente derisi, come accade a taluni che vi cacciano dentro parole greche, così non dobbiamo introdurre nessuna dissonanza nelle nostre azioni e nella nostra vita. 112 Ora, questa diversità di nature ha in sé tanta forza che talvolta un uomo deve darsi la morte, mentre un altro, nelle stesse condizioni, non deve. Forse che Marco Catone si trovò in condizione diversa da quella di coloro che in Africa si arresero a Cesare? Eppure, mentre a costoro si sarebbe forse imputato a colpa se si fossero uccisi, perché meno austera era stata la loro vita e meno rigidi i loro costumi, a Catone, invece, che aveva avuto in dono dalla natura una straordinaria austerità, da lui rafforzata con una incessante fermezza, a Catone, ch'era sempre rimasto incrollabilmente fermo nel suo proposito, il dovere impose di morire piuttosto che veder la faccia del tiranno. 113 Quanti travagli sopportò Ulisse nelle sue lunghe avventure, quando fu costretto a servire delle donne, se donne si possono chiamare Circe a Calipso, e a mostrarsi affabile con tutti in ogni suo discorso! Nella sua casa sopportò perfino le ingiurie dei servi a delle ancelle per raggiungere una buona volta ciò che desiderava. Aiace invece, con quel carattere che gli viene attribuito, avrebbe mine volte preferito darsi la morte piuttosto che sopportare quelle offese. Consideriamo questi esempi; sarà opportuno che ciascuno esamini quali sono le sue naturali tendenze a quelle indirizzi a buon fine, senza sperimentare quanto le tendenze altrui gli si addicano; a ciascuno infatti conviene di più ciò che gli è proprio. 114 Ciascuno, adunque, ben conosca la propria indole, facendosi giudice attento e oculato delle sue virtù e dei suoi difetti, perché non sembri che gli attori hanno più discernimento di noi. Gli attori, infatti, scelgono non i drammi migliori, ma quelli più adatti alle loro forze: coloro che confidano nella voce, preferiscono gli Epigoni e il Medo, coloro che confidano nella mimica, la Melanippa e la Clitemestra; Rupílio, ben lo ricordo, recitava sempre l'Antiope, Esopo di rado l'Aiace. Un istrione, dunque, vedrà ciò che gli conviene sulla scena, e il sapiente non lo vedrà nella vita? Applichiamoci adunque con ogni maggior cura a quelle cose alle quali siamo più specialmente adatti. Che se talora la necessità, sviandoci dal nostro cammino, ci spingerà a cose non conformi all'indole nostra, ci converrà adoprare ogni 15 cura, ogni più meditata diligenza per poterle fare, se non proprio con decoro, almeno col minor disdoro possibile. Non tanto dobbiamo sforzarci di conseguire quelle doti che la natura ci ha negato, quanto piuttosto di fuggire quei difetti che essa ci ha dato. 115 Ma a questi due ruoli, dei quali ho parlato, se ne aggiunge un terzo, imposto dalle circostanze dal caso; ce n'è poi un quarto the noi ci scegliamo liberamente. Infatti i regni, i comandi, 1'appartenenza alla nobiltà, le ricchezze, gli onori la potenza tutte le cose a queste contrarie sono rette guidate dalle circostanze dal caso; ma lo scegliere il ruolo che vogliamo interpretare dipende dalla nostra volontà. E così alcuni si dedicano alla filosofia, altri al diritto civile, altri ancora all'eloquenza e, quanto alle stesse virtù, c'è chi preferisce distinguersi nell'una, chi nell'altra. 116 In verità, quelli i cui padri o antenati si segnalarono in qualche genere di gloria, si 172
studiano per lo più di emergere in quel medesimo genere, come, per esempio, Quinto Mucio, figlio di Pubbo, nel diritto civile, e l'Africano, figlio di Paolo, nell'arte della guerra. Certuni, però, alle glorie ereditate dai padri, ne aggiunsero qualcuna tutta loro, come, per esempio, il medesimo Africano coronò la gloria dell'armi con quella dell'eloquenza; e lo stesso fece Tímoteo, figlio di Conone, il quale, non inferiore al padre nella gloria militare, vi aggiunse quella della cultura e dell'ingegno. Del resto, accade talvolta che alcuni, lasciando da parte l'imitazione dei loro maggiori, perseguano un loro particolare proposito, e per lo più pongono in ciò ogni diligenza soprattutto coloro che, nati da parenti oscuri, si prefiggono un alto e nobile ideale. 117 Quando cerchiamo in che cosa consiste il decoro dobbiamo tenere presenti tutte queste cose. Prima di tutto stabiliremo chi a quali noi vogliamo essere a quale genere di vita seguire, deliberazione fra tutte difficilissima. Nella età giovanile, infatti, quando minore è 1'assennatezza, ognuno decide di seguire quel genere di vita, che più gli piace; a si trova impegnato in un genere di vita a modo di vivere prima ancora di poter giudicare quale sia il migliore. 118 Racconta Prodico, come si legge in Senofonte, che Ercole, nella prima giovinezza, che è il temp o assegnato dalla natura per la scelta del cammino che ognuno percorrerà nella vita, giunse in un luogo solitario e che ivi sedendo (si aprivano innanzi a lui due Strade, una del Piacere, l'altra della Virtù) stette lungamente e intensamente riflettendo tra sé in quale delle due fosse meglio entrare. Ebbene, questa consapevole e libera elezione del proprio stato poté forse toccare in sorte a un Ercole, “nato dal seme di Giove”, ma non può certo capitare egualmente a noi, che di solito imitiamo coloro che attraggono il nostro spirito e che ci inducono a seguire ciecamente le loro occupazioni e il loro tenore di vita. Il più delle volte, poi, imbevuti dei precetti dei nostri genitori, noi siamo dolcemente condotti a prendere i loro costumi e le loro abitudini. Altri si lasciano trascinare dal giudizio della moltitudine e vagheggiano con più acceso desiderio quelle cose che alla maggior parte degli uomini sembrano infinitamente belle. Solo pochi, o per felicità di fortuna o per bontà di natura, seguono il retto cammino della vita, pur senza la scuola e la guida dei genitori. 119 Rarissimi sono poi quelli i quali, forniti di eccellente e grande ingegno o di vasta erudizione a dottrina, o del1'uno a dell'altra insieme, hanno avuto anche il tempo di deliberare quale genere di vita dovessero seguire: nella quale deliberazione ognuno deve regolarsi secondo le proprie disposizioni naturali. Se infatti in tutte le azioni deduciamo dalle attitudini naturali ciò che è conveniente, come abbiamo detto, con tanto maggior cura dovremo fissare la regola della vita, per poter esser coerenti nel corso di questa a non mancare a nessun dovere. 120 Poiché, in questa determinazione, la natura ha il maggior potere, e subito dopo viene la fortuna, dell'una e dell'altra bisogna certamente tener conto nella scelta dello stato, ma più della natura, che è molto più salda e costante, sì che talvolta pare che la fortuna, come mortale, venga a conflitto con l'immortale natura. Chi dunque avrà conformato il proprio tenore di vita alla propria natura, purché non viziosa, si mantenga ad esso coerente (in ciò consiste il maggior decoro), tranne che non s'accorga d'avere errato nella scelta della carriera. In questo caso, che facilmente può darsi, bisogna cambiare sistema di vita. E questo cambiamento sarà tanto più facile e agevole quando le circostanze aiutano; se no, lo si faccia a poco a poco e a passo a passo, a quel modo che le amicizie, che non ci garbano e non ci soddisfano, conviene, a giudizio dei savi, scucirle a poco a poco anziché troncarle d'un tratto. 121 Mutato poi il genere di vita, dobbiamo adoperarci in tutti i modi perché si possa dire che abbiamo agito con 173
giusta ragione. Ma poiché poco prima ho detto che bisogna imitare i nostri antenati, si faccia prima questa limitazione, di non imitarne i difetti. Può darsi che la natura non ci permetta di imitare certe qualità, allo stesso modo che il figlio dell'Africano Maggiore, il quale adottò il figlio di Paolo, non poté per la malferma salute essere tanto simile al padre, quanto quegli era stato al proprio; se dunque uno non potrà difendere cause, tenere adunanze, fare guerre, dovrà tuttavia dar prova di quelle virtù che saranno in suo potere, come la giustizia, la fede, la liberalità, la modestia, la temperanza, perché si senta meno la mancanza di ciò che gli fa difetto. L'eredità migliore, che si possa trasmettere da padre in figlio, più preziosa di qualunque patrimonio, è la gloria delle virtù e delle azioni; a il macchiarla è colpevole empietà. 122 Siccome però i doveri che si assegnano alle diverse età non sono gli stessi, ma alcuni s'addicono ai giovani, altri ai vecchi, conviene dire qualcosa su tale distinzione. È compito dei giovani rispettare i più anziani, scegliere fra questi i migliori e i più stimati, ed essere guidati dal loro consiglio a dalla loro autorità; poiché 1'inesperienza della giovinezza dev'essere consolidata a governata dal senno degli anziani. Gli adolescenti devono soprattutto tenersi lontano dalle passioni, esercitarsi a tollerare le fatiche dell'animo come del corpo perché la loro operosità sia valida nell'assolvere i compiti di guerra a di pace. E quando vorranno ricreare 1'animo a concedersi degli svaghi, non siano intemperanti a non perdano di vista la verecondia; il che sarà tanto più facile, se non ricuseranno la presenza di qualche anziano. 123 Quanto ai vecchi, essi dovranno diminuire le fatiche del corpo e aumentare gli esercizi della mente; e dovranno adoperarsi ad aumentar di consiglio e di saggezza quanto più è possibile gli amici, la gioventù e, sopra tutto, la patria. D'altra parte, non c'è cosa da cui la vecchiezza debba più rifuggire che dall'abbandonarsi a una torpida inerzia; 16 e la lussuria, se è brutta in ogni età, nella vecchiezza è suprema vergogna; se poi vi si aggiunge anche l'intemperanza nel piaceri, doppio è il malanno, perché la vecchiezza, mentre disonora se stessa, rende più sfacciata l'intemperanza dei giovani. 124 Non è neppure fuori luogo parlare dei doveri dei magistrati, dei cittadini privati a dei forestieri. È precipuo dovere del magistrato rendersi conto che egli impersona lo stato, a deve sostenerne il prestigio a 1'onore, salvaguardarne le leggi, fissare le norme a ricordare che tutte queste cose sono affidate alla sua lealtà. È poi giusto che il privato viva a eguaglianza di diritti con gli altri cittadini, né sottomesso ed umile, né ostentando alterigia, e che desideri nello stato 1'ordine a la moralità; così noi siamo soliti concepire il buon cittadino. 125 Dovere, poi, del forestiere, o di passaggio o residente, è di badare soltanto ai fatti suoi, non immischiandosi negli affari degli altri e non ficcando il naso nella politica di uno Stato che non è il suo. Questi sono press'a poco i doveri che si ritrovano indagando quale sia l'essenza del decoro in rapporto alle persone, alle circostanze e alle età. Ma il sommo del decoro consiste pur sempre nel serbare la coerenza in ogni azione e in ogni risoluzione. 130 Due sono i generi di bellezza, 1'uno consiste nella grazia, 1'altro nella dignità; dobbiamo dedurre che la grazia é propria della donna a la dignità dell'uomo. Si allontani dunque dalla bellezza virile ogni ornamento che non sia degno dell'uomo a si eviti ogni vezzo nei gesti e nei movimenti. Poiché i movimenti imparati dal maestro dì ginnastica riescono spesso alquanto spiacevoli, ed alcuni gesti degli attori non sono privi di leziosaggine; in ambedue i casi meritano approvazione quegli atti che sono semplici a naturali. La dignità dell'aspetto deve essere conservata con la freschezza del colorito ed il colorito con le esercitazioni fisiche. Bisogna inoltre curare la pulizia, in modo che sia 174
non troppo affettata a ricercata, ma tale che eviti la trascuratezza dei villani. La stessa norma si deve seguire nell'abbigliamento, dove, come nella maggior parte delle cose, la giusta misura é la migliore. 131 Anche nel camminare ci vuol misura: quando si va a diporto, non si tenga un passo troppo lento e molle, come chi va in processione, e quando si ha fretta, non si prenda la corsa, perché il respiro diventa affannoso, il volto si altera e la bocca si storce: segni evidenti che non c'è in noi fermezza di carattere. Ma assai più ancora dobbiamo studiarci che non discordino dalla natura i moti dell'animo; il che ci verrà fatto, se ci guarderemo dal cadere in turbamenti e smarrimenti, e se terremo l'animo sempre vigile e attento a conservare il decoro. 132 I movimenti dell'animo sono di due specie a consistono nel pensiero a nell'appetito: il pensiero si applica soprattutto alla ricerca del vero; l'appetito spinge all'azione. Faremo in modo dunque di rivolgere il pensiero alle cose migliori a di rendere 1'appetito obbediente alla ragione. Grande è 1'efficacia del discorso, che è di due tipi, il discorso oratorio a la conversazione: del primo si fa uso nei dibattiti processuali, nelle riunioni del popolo a del senato; la seconda si usa in società, nelle discussioni, nei colloqui con i familiari ed anche nei conviti. Vi sono precetti dei retori sul discorso oratorio, a non ve ne sono sulla conversazione, sebbene io creda che anche in questo campo se ne possono dare. Il fatto è che si trovano maestri, quando vi sono persone desiderose di apprendere: ma qui non vi sono scolari, mentre grande è la moltitudine dei retori; sebbene i precetti intorno alle parole ed alle idee si adattino anche alla conversazione. 133 Come strumento del discorso abbiamo la voce e nella voce dobbiamo cercare due pregi: la chiarezza e la dolcezza. L'uno e l'altro pregio lo si deve chiedere alla natura; ma l'uno si accrescerà cori l'esercizio e l'altro con l'imitazione di coloro che parlano con pronunzia scolpita e pacata. Non c'era nulla nei Càtulí che li facesse giudicare dotati di uno squisito gusto letterario; erano colti, sì, ma come tanti altri; eppure essi avevano fama di parlar magnificamente il latino: il tono della loro voce era dolce; le sillabe non erano né strascicate né smozzicate, sì che non c'era neppure un'ombra né di affettazione, né di oscurità; la voce usciva dalla loro bocca senza sforzo, né languida né cantante. Più ricco, e non meno piacevole, era il discorrere di Lucio Crasso; ma non minor fama di ben parlare ebbero i Càtuli. Nelle arguzie e nelle facezie, poi, Cesare, fratello di Càtulo padre, superò tutti, si che perfino nella eloquenza forense egli, col suo parlar familiare, vinceva il solenne parlare degli altri. In tutte queste cose, adunque, noi dobbiamo porre ogni studio, e vogliamo conseguire in tutto e per tutto il decoro. 134 Sia dunque il linguaggio della conversazione, nel quale soprattutto eccellono i socratici, piacevole a per niente polemico; abbia in sé dell'arguzia. Né colui che parla escluda gli altri dalla conversazione, quasi faccia da padrone; ma, come in tutte le altre cose, creda giusto che ognuno parli alla sua volta. Consideri in primo luogo quale sia l'argomento del discorso: se di cose serie, sia grave; se di cose scherzo se, sia spiritoso; badi massimamente che il discorso non riveli qualche difetto morale, il che avviene specialmente quando a bella posta si parla degli assenti per metterne in evidenza i difetti con maldicenze a calunnie, o per ischerzo o sul serio. 135 Offrono per lo più materia al conversare familiare gli affari privati, la politica, l'arte, la scienza. Se il discorso comincia a sviarsi verso altri argomenti, si cerchi di ricondurlo al tema, ma sempre in armonia col gusto dei presenti: poiché noi non ci compiaciamo né in ogni momento né in egual modo delle stesse cose. Anche bisogna osservare fino a qual punto il discorso riesca dilettevole e interessante, e, come ci fu una buona ragione per cominciarlo, così si trovi una bella maniera per finirlo. 136 E come 175
giustamente si insegna che in tutte le circostanze della vita dobbiamo fuggire le perturbazioni, cioè i moti eccessivi dell'animo che non obbediscono alla ragione, così il nostro discorso deve evitare tali alterazioni, perché non non ne prorompa l'ira, o qualche altra passione, la accidia o 1'indolenza, o qualche cosa del genere non vi si manifesti; è specialmente degno di lode il mostrarsi deferenti a rispettosi verso quelli con i quali parliamo. Talvolta appaiono necessari anche i rimproveri, nei quali conviene forse alzare un po' la voce a usare una certa gravità di parole; a dobbiamo anche fare in modo di apparire adirati. Ma poiché solo nei casi estremi si ricorre alle cauterizzazioni a alle amputazioni, così noi ricorreremo a questo genere di reprimenda raramente e malvolentieri, a solo quando sarà 17 necessario, e non si sarà trovato altro rimedio; ma da noi sia lontana l'ira, con la quale non si può far nulla rettamente a ponderatamente. 137 Nella maggior parte dei casi basta fare un dolce rimprovero, non disgiunto da una certa sostenutezza, di modo che si adoperi la severità senza abbandonarsi all'ingiuria. E anche quel tanto di amaro che il rimprovero comporta, bisogna far capire che l'abbiamo adoperato per amor di colui che si rimprovera. E anche in quei contrasti, che sorgono tra noi e i nostri più fieri nemici, se pure ci accada di sentir cose indegne di noi, dobbiamo serbare tuttavia una dignitosa compostezza, reprimendo lo sdegno. Tutto ciò che si fa nell'impeto d'una passione, non può né informarsi alla coerenza né ottenere lode dai presenti. Gran brutta cosa è anche il decantare i propri meriti, soprattutto non veri, e imitare il soldato millantatore, provocando le risa di chi ci ascolta. 138 E poiché non vogliamo dimenticare nulla, questa è almeno la nostra intenzione, diremo anche quale debba essere la casa di un uomo che abbia una posizione elevata ed importante. Lo scopo della casa è 1'utilità pratica, alla quale deve corrispondere la disposizione delle parti, badando però anche alle comodità ed al prestigio. Sappiamo che a Gneo Ottavio, il primo della sua famiglia che fosse stato console, fu di grande onore 1'essersi costruito sul Palatino una casa imponente a signorile; ed essendo questa visitata da tutti, si riteneva che essa avesse giovato al padrone, uomo nuovo, per ottenere il consolato. Scauro la fece demolire a ne aggiunse 1'area alla propria casa. Pertanto quegli portò primo nella sua casa il consolato; questi, figlio di un uomo ragguardevole a famoso, portò nella propria, in tal modo ingrandita, non solo 1'insuccesso nelle elezioni, ma anche il disonore a la sventura. 139 E giustamente: poiché la dignità della persona deve trovare nella casa il suo ornamento, ma non deve cercare in essa la sua prima ed ultima ragione. Non la casa deve conferire decoro al padrone, ma il padrone alla casa. E come in tutte le cose si deve tener conto non solo di sé, ma anche degli altri, così trattandosi della casa di un personaggio illustre, nella quale bisogna ricevere molti ospiti e ammettere molta gente d'ogni sorta, si procuri che essa abbia una giusta ampiezza; se no, una casa troppo vasta, se rimane vuota e deserta, torna a disdoro del padrone, tanto più se, in altro tempo e con altro padrone, era di solito molto frequentata. Fa pena sentir dire dai passanti: “0 casa antica, in quali man cadesti!”. Cosa che in questi tempi si può dire a proposito di molti. 140 Bisogna poi badare, specialmente se fabbrichi la casa del tuo, di non esagerare nel lusso a nello sfarzo: in questo anche 1'esempio danneggia molto. Molti sono coloro i quali si studiano d'imitare particolarmente in questo campo gli atti dei grandi: chi, per esempio, imitò le virtù di Lucio Lucullo, uomo insigne? ma quanti ne imitarono il fasto delle ville! In questo campo ci vuole senz'altro misura a bisogna tenere presente il giusto mezzo, che deve essere applicato a tutte le necessità a comodità della vita. Ma di ciò basta. 141 176
Nell'intraprendere un'azione, qualunque sia, bisogna osservare costantemente tre norme: prima, che il sentimento obbedisca alla ragione (e questo è il miglior modo per adempiere i nostri doveri) poi, che si determini esattamente l'importanza della cosa che si vuole effettuare, per non assumersi cura e fatica maggiore o minore di quel che la cosa richiede; infine, procurare che tutto ciò che riguarda l'aspetto e la dignità di un uomo libero, non passi la giusta misura. E misura perfetta è mantenere rigorosamente quel decoro, del quale ho parlato innanzi, senz'andar tropp'oltre. Di queste tre norme, per altro, la più importante è che il sentimento obbedisca alla ragione. 142 Parleremo poi dell'ordine delle nostre azioni a del tempo opportuno per compierle. Queste qualità sono contenute in quella facoltà che i Greci chiamano aútaeía [buon ordine], non nel senso di “misura”, ov'è incluso il concetto di misurare, ma nell'altro senso di “opportunità”, con il quale si esprime la osservanza dell'ordine. A chiamarla anche moderazione ci autorizzano gli stoici, i quali la definis cono come la facoltà di collocare a tempo opportuno le cose che si fanno a che si dicono: a così sembra che i due termini, ordine a collocazione, si identifichino. In questo modo essi definiscono 1'ordine: disposizione delle cose in luogo adatto a appropriato; ora, il luogo dell'azione è, come essi dicono, 1'opportunità del momento: il tempo opportuno dell'azione si chiama in greco eúxaipía [opportunità], in latino occasio. In tal modo avviene che questa moderazione, giacché 1'ho chiamata così, è 1'arte di conoscere il momento opportuno per compiere un'azione. 143 Ma tale definizione può convenire anche a quella prudenza della quale abbiamo parlato nel principio del libro, mentre qui, in questo punto, noi andiamo esaminando la moderazione, temperanza e altre simili virtù. Perciò, se i caratteri e le proprietà della prudenza sono stati descritti al loro luogo, ora dobbiamo descrivere i caratteri e le proprietà di queste virtù delle quali già da tempo parliamo e che hanno attinenza con la verecondia e mirano ad ottenere l'approvazione di quelle persone con le quali viviamo. 144 Nelle nostre azioni 1'ordine deve essere tale che, come in un discorso ben concatenato, così nella vita gli atti siano armonicamente concordi. Sarebbe cosa turpe e oltremodo spiacevole mischiare in argomenti seri lazzi degni dei conviti, o discorsi frivoli. Bella fu la risposta di Pericle. Avendo egli per collega nella pretura il poeta Sofocle, si erano riuniti per le necessità del loro comune ufficio. Passando per caso un bel fanciullo, Sofocle disse: “Che bel ragazzo, o Pericle!”. E quello: “Un pretore, Sofocle, deve tenere a posto non solo le mani, ma anche gli occhi”. Eppure se Sofocle avesse detto questo in un esame d'atleti non sarebbe stato rimproverato. Tanta è l'importanza del luogo a del tempo. Così, se chi sta per trattare una causa, meditasse seco in viaggio o durante la passeggiata, o si concentrasse con grande attenzione su qualche altra cosa, non potrebbe essere biasimato; ma, se così facesse in un convito, apparirebbe ineducato per 1'ignoranza dell'opportunità. 145 Se non che quegli atti che discordano molto dalla buona educazione (come, per esempio, se uno si mettesse a cantare in piazza, o commettesse qualche altra grave sconcezza) saltano subito agli occhi, e non hanno gran bisogno di ammonimenti e di precetti; dobbiamo invece guardarci con maggior cura da quelle sconvenienze che sembrano piccole 18 e sono percepite da pochi. Come nel suono delle cetre o dei flauti, anche la più piccola stonatura è di solito avvertita dal buon intenditore, così noi dobbiamo cercare che nella nostra vita non vi sia mai dissonanza alcuna, anzi tanto più ne abbiamo il dovere quanto l'accordo delle azioni è più importante e più bello che non quello dei suoni. 146 E come nell''accordo della lira 1'orecchio dei musici avverte anche le più piccole sfumature, così noi, se vogliamo essere cauti a diligenti giudici 177
ed osservatori dei difetti, sapremo spesso da piccoli indizi trarre importanti deduzioni. Dallo sguardo degli occhi, dalle sopracciglia spianate o contratte, dalla mestizia, dalla atletica, dal riso, dai discorsi, dai silenzi, dalla voce alta o bassa, a da altri atti simili facilmente potremo giudicare quale di questi atteggiamenti sia conveniente a quale invece discordante con il dovere a con la natura. E sotto questo aspetto non sarà inopportuno giudicare dagli altri quale valore abbiano questi atti, per evitarli noi stessi, se in essi vi è qualcosa di sconveniente; poiché non so come avviene che vediamo più facilmente i difetti altrui che i nostri. 147 E non è inopportuno, per fare una buona scelta tra casi dubbi, ricorrere al consiglio di persone dotte, o anche solo esperte della vita, cercando di conoscere il loro giudizio su ogni particolar dovere. [La maggior parte degli uomini, infatti, ha per guida il proprio naturale istinto.] In tutti costoro, dunque, giova osservare non solo le parole, ma anche i sentimenti di ciascuno, e, di questi sentimenti, le specifiche ragioni. Invero, come i pittori e gli scultori, e in realtà anche i poeti, sottopongono ciascuno l'opera sua al giudizio del volgo, nell'intento di correggere quei tratti in cui si accordano le critiche di molti, riservandosi d'esaminare poi tra sé e con altri in che consista il notato errore, cosi ci sono moltissime cose che noi dobbiamo fare o non fare, e anche mutare o correggere secondo il giudizio degli altri. 148 Non si possono invero dare precetti su queste cose che si fanno per consuetudine a secondo le istituzioni della città: esse sono di per se stesse precetti, né alcuno sarà tratto dalla falsa idea di credere che, se Socrate o Aristippo dissero o fecero qualche cosa contro il costume a gli usi cittadini, gli sia lecito fare altrettanto. Tali libertà essi si permettevano per le grandi e superiori loro qualità. Respingeremo quindi 1'opinione dei cinici; essa è infatti contraria al pudore, senza il quale non vi può essere nulla di retto ed onesto. 149 Quelli, poi, la cui vita si è rispecchiata in oneste e grandi azioni; quelli che sono animati da un vero amor di patria, e hanno acquistato e acquistano tuttora benemerenze, tutti questi noi li dobbiamo rispettare e riverire non meno che se fossero investiti di qualche carica militare o civile. Anche dobbiamo rendere omaggio alla vecchiezza, mostrare deferenza verso i magistrati, far distinzione tra cittadino e forestiero e, nel forestiero stesso, guardare se sia venuto come privato o in veste ufficiale. In una parola, per non entrare in troppi particolari, noi dobbiamo rispettare, difendere e mantenere tutto ciò che promuove e aiuta la fratellanza e l'armonia di tutto il genere umano. 150 Ed infine intorno alle professioni a alle fonti di guadagno, quali debbano ritenersi onorevoli a quali sordide, questa è più o meno la tradizione che abbiamo ricevuto. In primo luogo sono riprovevoli quei guadagni che attirano l'odio degli uomini, come quelli degli esattori a degli usurai. Indegni di un uomo libero a sordidi sono anche i guadagni di tutti i salariati, dei quali si compra il lavoro manuale, a non 1'abilità; poiché in essi il salario stesso è quasi prezzo di servitù. Sono poi uomini sordidi coloro che comprano dai commercianti all'ingrosso a rivendono subito: essi infatti guadagnano a furia di menzogne; né v'è alcuna cosa più turpe della menzogna. Anche gli artigiani tutti esercitano un mestiere sordido; una bottega infatti non può avere nulla di degno di un uomo libero. Del tutto ignobili sono poi quei mestieri, che servono a soddisfare i piaceri: “i venditori di pesce, i macellai, i cuochi, i pollaioli, i pescatori”, come dice Terenzio. Si possono anche aggiungere i profumieri, i ballerini, a coloro che dànno luogo ad ogni sorta di spettacoli poco decenti. 151 Tutte quelle professioni, invece, che richiedono maggior sapere e che arrecano inestimabile profitto, come la medicina, l'architettura e l'insegnamento delle arti liberali, sono onorevoli per coloro al cui ceto si addicono. 178
Quanto al commercio, se è in piccolo, è da tenersi a vile; ma se è in grande, importando esso da ogni parte molte merci e distribuendole a molti senza frode, non e poi tanto da biasimarsi. Anzi, se il mercante, sazio o, per dir meglio, contento dei suoi guadagni, come spesso dall'alto mare si condusse in porto, così ora dal porto si ritira nei suoi possessi in campagna, merita evidentemente ogni lode. Ma fra tutte le occupazioni, da cui si può trarre qualche profitto, la più nobile, la più feconda, la più dilettevole, la più degna di un vero uomo e di un libero cittadino è l'agricoltura. Di essa ho parlato abbastanza nel mio Catone Maggiore; e tu potrai prendere da quel libro ciò che riguarda questo argomento. 152 Mi sembra di avere a sufficienza spiegato in qual modo i doveri derivino dalle quattro fonti dell'onesto. Fra le stesse cose oneste può spesse volte nascere un conflitto ed un confronto per stabilire quale fra due cose oneste sia più onesta: questo punto non è stato trattato da Panezio. Infatti, poiché ogni azione moralmente onorevole deriva da quattro elementi, dalla conoscenza, dalla socialità, dalla grandezza d'animo a dalla temperanza, è necessario che queste, nella scelta del dovere, siano spesso paragonate fra di loro. 153 Ora appunto io credo che siano più conformi alla natura quei doveri che derivano dalla socievolezza che non quelli che derivano dalla sapienza; e lo si può comprovare con quest'argomento, che, se il sapiente avesse in sorte una tal vita che, affluendogli in grande abbondanza ogni bene, potesse meditare e contemplare tra sé in santa pace le più alte e nobili verità, tuttavia, se la solitudine fosse cosi grande da non veder mai faccia d'uomo, finirebbe col rinunziare alla vita. Poi, quella sapienza, signora di tutte le virtù, che i Greci chiamano sophian (da non confondersi con la prudenza, che i Greci chiamano phronesin e che io definirei la conoscenza di ciò che si deve cercare o fuggire); quella sapienza, dunque, che ho chiamato signora, altro non è che la scienza delle cose divine e umane e in se comprende gli scambievoli rapporti tra gli dei e gli uomini e le relazioni degli uomini tra di loro. Ora, se questa virtù è, com'è senza dubbio, la maggiore fra tutte, ne viene di necessità che il dovere, che dall'umana convivenza deriva, è fra tutti il maggiore. E invero la conoscenza e la contemplazione dell'universo è, in certo qual modo, manchevole e imperfetta se 19 nessun'azione pratica la segue. Ma l'azione pratica si esplica soprattutto nella difesa dei beni comuni a tutti gli uomini; riguarda, dunque, la convivenza del genere umano. L'azione, pertanto, è da anteporre alla scelta. 154 Ogni uomo perbene pensa così dimostra col fatto. Chi è infatti cosi innamorato dello studio della natura che, annunziandogli, mentre è intento a studiare cose importantissime, che un gravissimo pericolo minaccia la patria, alla quale egli può portare soccorso, non trascuri a abbandoni ogni cosa, anche se pensi di poter numerare tutte le stelle a misurare la grandezza della terra? Ed altrettanto sarebbe, trattandosi del1'interesse o del pericolo del padre suo, o di un amico. 155 Da tutto ciò si comprende che agli studi e ai doveri della scienza si devono anteporre i doveri della giustizia, i quali hanno per fine la fratellanza umana, che dev'essere il supremo ideale dell'uomo. Nemmeno coloro che dedicarono la vita a gli studi alla scienza si disinteressarono della utilità a della felicità degli uomini; poiché insegnarono a molti a divenire cittadini migliori a più utili alla patria, come il pitagorico Liside al tebano Epaminonda, Platone a Dione di Siracusa e così molti altri; quanto a me, tutto il contributo che io ho recato allo stato, qualunque esso sia, è dovuto all'essere io entrato nella vita politica, indirizzato a preparato da dei maestri a dal loro insegnamento. 156 E questi uomini, non solo finché son vivi e presenti, istruiscono e ammaestrano gli spiriti avidi di sapere, ma anche dopo morti ottengono il medesimo effetto con le loro immortali scritture. E 179
invero essi non tralasciarono nessuna questione che riguardasse le leggi, la morale, il buon governo dello Stato, sì che può dirsi che consacrarono i loro studi privati al bene della nostra vita pubblica. Così anche quei sapienti, dediti agli studi scientifici e filosofici, arrecano principalmente al bene comune il contributo del loro ingegno e della loro saggezza. E per la stessa ragione, anche l'eloquenza, purché illuminata dal pensiero, val più di una speculazione quanto mai acuta, ma che non sa esprimersi; perché la speculazione si chiude in se stessa, mentre l'eloquenza abbraccia tutti coloro che un comune vincolo unisce e affratella. 157 E come gli sciami delle api non si uniscono fra loro per formare favi, ma li costruiscono perché sono per natura portati a radunarsi, così gli uomini, e a maggior ragione, riuniti per natura con vincoli socievoli, impiegano la loro ingegnosità di pensiero a di azione. La conoscenza quindi, se non è congiunta alla virtù costituita dall'obbligo di proteggere gli uomini, cioè da quella che risulta dalla socialità del genere umano, sarà cosa povera a fine a se stessa; allo stesso modo che la grandezza d'animo, che non si proponga il bene dell'umanità, sembra quasi bestialità a mostruosità. Così avviene che i doveri verso la società umana sono superiori all'amore del sapere. 158 E non è vero quel che dicono certi filosofi: “La società umana ha avuto origine dalle necessità della vita, perché noi, senza l'aiuto degli altri, non potremmo né ottenere né provvedere quel che la natura richiede. E se, come suol dirsi, una bacchetta magica ci procurasse tutte quelle cose che servono ai bisogni e agli agi della vita, ogni uomo di più felice ingegno lascerebbe da parte ogni altro affare per dedicarsi tutto alla speculazione e alla scienza”. Ma no, non è così: costui fuggirebbe la solitudine e si cercherebbe un compagno di studio; vorrebbe insegnare e imparare, vorrebbe ascoltare e parlare. Ogni dovere, adunque, che valga a preservare la società e la fratellanza degli uomini è da anteporsi a quel dovere che è inerente all'attività del pensiero. 159 Si potrebbe forse chiedere se questa comunità sociale che è massimamente conforme alla natura, sia sempre da anteporsi anche alla misura a alla moderazione. Non potrei ammetterlo: poiché vi sono certe azioni in parte cosi turpi, in parte così infamanti, che il saggio non le farebbe neppure per salvare la patria. Di esse Posidonio raccolse molti esempi, ma alcuni sono così ripugnanti o obbrobriosi, che è turpe anche parlarne. Queste cose il saggio dunque non commetterà neppure per amore della patria, a nemmeno la patria vorrà che per lei siano commesse. Ma 1'argomento non presenta difficoltà, perché non può mai darsi il caso che giovi alla patria che il saggio faccia qualcuna di queste azioni. 160 Resti perciò ben fermo questo principio: nella scelta dei doveri, prevalga quella specie di doveri che è intrinseca alla società umana. [E razionale sarà quell'azione che seguirà conoscenza e saggezza; solo così avverrà che l'azione razionale valga più dell'accorto pensiero]. Ma di ciò basta. Il punto essenziale è chiarito, sì che non è difficile, indagando la legge morale, vedere la gerarchia dei doveri. Ma anche nell'ambito della convivenza umana c'è una gradazione di doveri, dalla quale si può comprendere la loro rispettiva preminenza. Così, i primi doveri sono verso gli dei immortali, i secondi verso la patria, i terzi verso i genitori, e gli altri, a grado a grado, verso gli altri. 161 Da questa breve trattazione si può comprendere che gli uomini non sono soliti soltanto dubitare se un'azione è onesta o turpe, ma anche quale fra due azioni oneste sia la più onesta. Questo punto, come già dissi, è stato trascurato da Panezìo. Ma passiamo ormai a ciò che segue.
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LIBRO II Marco, figliolo mio, io credo d'aver spiegato con sufficiente chiarezza nel libro precedente in che modo i singoli doveri derivino dall'onesto o, meglio, da ognuna di quelle virtù onde l'onesto è formato. Tratterò ora, seguitando, di quei doveri che riguardano il raffinamento della vita, cioè il modo di procacciarsi non soltanto quelle cose di cui l'uomo ha stretto bisogno, ma anche la potenza e la ricchezza; e a questo proposito ho già detto che si pongono due problemi: prima, che cosa sia l'utile e il dannoso, poi, fra dite o più cose utili, quale sia la più utile. Ma prima di cominciare a svolgere il mio tema, credo opportuno dir qualche cosa dei miei propositi e dei miei criteri. 2 I miei libri hanno acceso in molti, è vero, il desiderio non solo di leggere, ma anche di scrivere; tuttavia, mi prende qualche volta il timore che certa brava gente, a cui non suona gradito il nome di filosofia, si meravigli forte che io spenda in essa tanta fatica e tanto tempo. Ma io, a mia volta, rispondo che, fino a quando la repubblica fu amministrata da coloro ai quali ella s'era liberamente affidata, io dedicavo ad essa tutte le mie cure e tutti i miei pensieri; ma quando vidi che il dispotismo di un uomo signoreggiava su tutto, e non c'era più luogo ad autorevole consiglio (intanto, avevo perduto quei grandi e nobili amici che m'erano stati compagni nella difesa dello Stato), non mi abbandonai né alla malinconia, che m'avrebbe distrutto, se non vi avessi opposto resistenza, né ai piaceri, indegni di un uomo colto. 3 E volesse il cielo che la nostra repubblica fosse rimasta diritta e salda come s'era atteggiata da principio, e non fosse caduta in balia di uomini ansiosi non tanto di riformare quanto di sovvertire lo Stato! Prima di tutto, io, com'ero solito fare quando la repubblica era ancora in piedi, darei più attività all'operare che allo scrivere; poi, anche alla scrittura affiderei non già questa materia filosofica, ma, come spesso facevo nel passato, le mie orazioni. Se non che lo Stato, a cui si volgeva per solito ogni mia sollecitudine, ogni mio pensiero, ogni mia fatica, non esisteva più; onde quella mia eloquenza, che risuonò nel senato e nel foro, si ridusse pur troppo al silenzio. 4 Ma lo spirito non conosce riposo. Innamorato, fin dalla prima giovinezza, di questi studi, ho creduto che il modo più dignitoso per deporre ogni tristezza fosse di ricondurre l'animo alla filosofia. A questa, adolescente, io dedicai molto tempo, per amor del sapere; ma quando cominciai a sollecitare gli onori e mi consacrai tutto alla vita pubblica, per la filosofia non c'era altro tempo se non quel poco che mi avanzava dalla tutela degli amici e dello Stato; e anche quel poco mi si consumava tutto nel leggere: agio di scrivere, io non ne avevo alcuno. 5 Ora, in mezzo a tante e così gravi sciagure, mi sembra d'aver raggiunto almeno quest'unico bene: affidare alla scrittura quelle dottrine che, non abbastanza note ai miei concittadini, erano pur degnissime d'esser conosciute. In verità, che cosa c'è al mondo di più desiderabile e di più nobile che la sapienza? Che cosa c'è di più utile all'uomo e di più degno dell'uomo? Ora, quelli che aspirano a questa sapienza, si chiamano appunto filosofi; e la filosofia, se vuoi tradurre esattamente il vocabolo, altro non è che amor di sapienza. E la sapienza, come fu ben definita dagli antichi filosofi, è la scienza delle cose divine e umane, e delle loro ultime cagioni. Perciò, chi biasima lo studio di questa scienza, io non comprendo davvero a che cosa riservi la sua lode. 6 In verità, se si cerca il diletto dello spirito e il conforto degli affanni, quale diletto e quale conforto può paragonarsi con quelli di coloro i quali con assiduo fervore ricercano qualche cosa che tenda e valga a raggiungere la suprema felicità della vita? E se si vagheggia 181
l'incrollabile fermezza nei propositi, cioè la virtù, o è questa la via per conseguirla, o non ce n'è alcun'altra. Il dire che non c'è nessun metodo per i problemi maggiori, quando non c'è problema minore che non abbia un metodo suo, è da gente che parla senza riflettere e che si smarrisce nelle questioni più importanti. Ora, se c'è una scienza che insegna la virtù, dove andrai a cercarla, quando ti sarai allontanato dallo studio della filosofia? Ma questi argomenti, noi li discutiamo per solito con più accurata diligenza quando esortiamo allo studio della filosofia; cosa che ho fatto anch'io in un altro mio libro. Li questo momento io dovevo soltanto spiegare le ragioni per cui, spogliato dei pubblici uffici, ho cercato un rifugio principalmente in questa disciplina. 7 Se non che mi si muove un'obiezione, e questa volta da gente colta e dotta, la quale mi domanda: “Credi tu di dar prova di piena coerenza, tu che affermi non potersi avere assoluta certezza di nulla, e poi discorri continuamente di tante e tante questioni, e in questo stesso momento, vai snocciolando precetti morali?”. Rispondo: “Vorrei che aveste voi una così piena conoscenza della nostra dottrina! ”. Ma no, noi non siamo di quelli il cui pensiero va vagando smarrito e confuso, senza una meta a cui tendere. Quale intelletto, o piuttosto quale vita sarebbe la nostra, se mancasse non solo un metodo nel ragionare, ma anche una norma nel vivere? No, questo non è il caso nostro: come gli altri dicono: “Questo è certo, questo è incerto”, così noi, dissentendo da loro, diciamo: “Questo è probabile, questo è improbabile”. Che cosa c'è dunque che m'impedisca di perseguire ciò che mi par probabile e di rigettare il suo contrario? 8 E così, mentre io cerco di evitare quell'affermare reciso che è segno d'arroganza, che cosa mi vieta di fuggire quel parlare avventato, che tanto discorda dalla vera sapienza? E se la nostra scuola affronta e discute ogni opinione, è perché appunto questo probabile non potrebbe apparire in chiara luce se non si facesse un rigoroso confronto fra le opposte ragioni. Ma questi principi sono stati da me esposti con assai diligenza, credo, nei miei Accademici. Tu, figliolo mio, hai la fortuna di spaziare in un'antica e gloriosa filosofia, sotto la sapiente guida di un Cratippo,' tanto simile a coloro che fondarono codesta nobilissima scuola; tuttavia, ho voluto che questi nostri principi, così vicini ai vostri, non ti fossero ignoti. Ma ormai è tempo di tornare al nostro argomento. 9 Una compiuta trattazione del dovere implica, come ho detto al principio dell'opera, l'esame di cinque questioni, due delle quali riguardano il decoro e l'onestà, due le comodità della vita, gli agi, la potenza, gli averi, e una, la quinta, 21 contempla una giudiziosa scelta nel caso che i sopra detti principi sembrino contrastare fra loro. Ebbene, la parte dell'onestà, quella appunto che io desidero ti sia scolpita nell'animo, è del tutto terminata. L'argomento, del quale ora trattiamo, è per l'appunto quel principio che si chiama l'utile. E, a proposito di questo vocabolo, il parlar comune, sdrucciolando, deviò dal retto sentiero, e a poco a poco discese a tal punto che, separando l'onesto dall'utile, stabilì esservi cose oneste che non sono utili, e cose utili che non sono oneste; che è la più gran disgrazia che potesse capitare alla vita umana. 10 E' vero che filosofi di grande autorità, a stretto rigor di logica e in perfetta buona fede, distinguono in astratto questi tre momenti, i quali, nella concreta realtà, sono tra loro intimamente congiunti. In verità, essi credono che tutto ciò che è giusto sia anche utile, e, allo stesso modo, ciò che è onesto sia anche giusto; onde segue che tutto ciò che è onesto è anche utile. Ma coloro che non scorgono il carattere puramente teorico di questa distinzione, ammirando uomini astuti e scaltri, scambiano spesso la malizia per la saggezza. Ora, bisogna estirpare dalle loro menti quest'errore, e rivolgere ogni loro pensiero alla speranza e alla certezza che essi 182
potranno conseguire il loro intento, non con la frode e con la malizia, ma con onesti propositi e con virtuose azioni. 11 Le cose, adunque, che servono a sostentare la vita umana, in parte sono inanimate, come l'oro, l'argento, i frutti della terra e altre di tal genere; in parte sono animate e hanno in sé i loro propri istinti e appetiti. Di queste, poi, alcune sono irragionevoli, altre ragionevoli. Irragionevoli sono i cavalli, i buoi, gli altri animali domestici e le api, il cui lavoro produce qualche cosa a vantaggio della vita umana. Gli esseri dotati di ragione si dividono in due classi: quella degli dei e quella degli uomini. Quanto agli dei, ce li renderanno propizi il sentimento religioso e la purezza dei costumi; subito dopo gli dei, sono gli uomini che possono recare maggior vantaggio agli uomini. 12 Analoga divisione si può far delle cose che sono nocive e dannose. Ma poiché non si crede che gli dei possano nuocere, esclusi gli dei, si giudica che siano gli uomini a recare il maggior danno agli uomini. In verità, anche quelle cose che abbiamo chiamato inanimate sono per la maggior parte il prodotto del lavoro umano: noi non le avremmo, senza l'opera del braccio e dalla mente; e noi non ce ne serviremmo, senza l'aiuto dell'uomo. Infatti, senza l'opera dell'uomo, non sarebbe stata possibile né la medicina, né la navigazione, né l'agricoltura, né la raccolta e la conservazione delle biade e degli altri prodotti. 13 Inoltre, non vi sarebbe né esportazione di quelle cose di cui abbiamo abbondanza, né importazione di quelle di cui abbiamo penuria, se non ci fossero uomini che attendono a questo ufficio. E allo stesso modo, senza l'operosa mano dell'uomo, non si caverebbero dai fianchi delle montagne le pietre necessarie ai nostri bisogni, e non si estrarrebbero dalle viscere della terra "il ferro, il rame, l'oro, l'argento, tesoro sepolto nel profondo". E le case, che ci permettono di rintuzzare gli assalti del freddo e di alleviare le molestie del caldo, come avrebbero potuto essere fornite da principio al genere umano o di poi riparate, quando per violenza di tempesta o per terremoto o per vecchiezza fossero cadute in rovina, se la convivenza civile non avesse imparato a chiedere all'opera dell'uomo aiuto e soccorso contro tali accidenti? 14 Aggiungi gli acquedotti, i canali derivati dai fiumi, i sistemi d'irrigazione dei campi, le dighe alzate a riparo contro i flutti, i porti artificiali, tutte cose che noi non potremmo avere senza il lavoro dell'uomo. Da questi e di molti altri esempi appare evidente che quei frutti e quei vantaggi che si ritraggono dalle cose inanimate, noi non avremmo potuto in nessun modo averli senza l'operosa fatica dell'uomo. Infine, qual frutto o qual vantaggio si potrebbe ricavare dalle bestie, se non ci fossero uomini che prestano l'opera loro? Invero, coloro che trovarono per primi quale utile profitto può ritrarsi da ciascuna bestia, furono certamente uomini; e così oggi, senza l'opera dell'uomo, noi non potremmo né pascolarle, né domarle, né custodirle, né coglierne a tempo debito i frutti; e sono gli uomini ancora che uccidono le bestie dannose e catturano le utili. 15 Perché dovrei enumerare le molte arti, senza le quali non sarebbe stata possibile nessuna forma di vita? Quale soccorso si potrebbe portare agl'infermi, qual gioia di vivere proverebbero i sani, quale sarebbe il nostro tenor di vita, se tante arti non fossero al nostro servizio e non ci recassero quei doni per cui la vita umana, affinata e incivilita, tanto discorda dal tenor delle bestie? Le città, poi, senza la convivenza umana, non si sarebbero potute né edificare né popolare; di qui la costituzione delle leggi e dei costumi; di qui l'equa ripartizione dei diritti e dei doveri, e una sicura norma di vita. Da tutto ciò, ne consegui la gentilezza degli animi e il rispetto reciproco. Onde avvenne che la vita fu più sicura, e noi, col dare e col ricevere, cioè con lo scambiarci a vicenda i nostri averi e i nostri poteri, non sentimmo mancanza di nulla. 16 Mi sono dilungato su questo punto più del 183
necessario. Infatti, chi c'è che non veda chiara e lampante la verità di quanto Panezio espone con tante parole, che, cioè, nessuno, né condottiero in guerra né uomo di Stato in pace, può compiere grandi ed utili imprese senza la cooperazione d'altri uomini? Egli ricorda Temistocle, Pericle, Ciro, Agesilao, Alessandro, affermando che essi, senza l'aiuto di altri uomini, non avrebbero potuto condurre a termine le loro grandi imprese. In cosa tanto evidente, non occorreva chiamar testimoni. Ma, d'altra parte, come si ottengono grandi vantaggi dalla concorde collaborazione degli uomini, così non c'è nessuna tanto esecrabile rovina che non provenga all'uomo dall'uomo. Vi è, sulla mortalità degli uomini, un libro di Dicearco, valente ed eloquente peripatetico, il quale, dopo aver raccolto tutte le cause accidentali, come alluvioni, pestilenze, rovine, anche improvvise irruzioni di bestie (il cui assalto stermina talvolta, com'egli informa, intere popolazioni), passa a dimostrare, per via di confronto, come l'impetuosa violenza degli uomini, cioè le guerre e le sedizioni, abbia menato ancor più larga strage fra gli uomini che non tutte quelle calamità naturali. 17 Non c'è dunque il minimo dubbio che l'uomo può recare all'uomo, come i più grandi beni, così i più grandi mali; io credo perciò fermamente che la virtù abbia come suo particolare ufficio quello di conciliarsi l'animo degli 22 uomini e di avvincerli a sé per i propri vantaggi. Pertanto, mentre alle arti manuali si assegna il compito di ritrarre dalle cose inanimate o dall'uso e dal governo delle bestie tutto ciò che può tornar utile alla vita umana, alla virtù e alla saggezza degli uomini grandi, invece, spetta il compito di stimolare negli altri uomini le loro naturali attitudini, pronte e disposte ad accrescere il benessere e la felicità comune. 18 Invero, la virtù in generale si esplica press'a poco in tre forme: la prima consiste nel penetrare con la mente la pura e schietta essenza delle cose, le loro proprietà e i loro effetti, la loro origine e le loro cause; la seconda consiste nel frenare le turbolente passioni dell'animo, che i Greci chiamano pathe e nel sottoporre all'impero della ragione gl'istinti, a cui quelli danno il nome di hormas; la terza consiste nel trattare con moderazione e con accorgimento coloro coi quali viviamo socialmente uniti, affinché, con la loro cooperazione, possiamo avere assai e d'avanzo quelle cose che la natura richiede, e affinché, col loro aiuto, possiamo respingere da noi le eventuali offese e prendere vendetta di coloro che tentino di farci del male, infliggendo ad essi quella giusta pena che l'equità e l'umanità comportano. 19 Dirò fra poco quali sono le varie maniere con cui possiamo conquistare e conservare l'affetto degli uomini; ma prima mi conviene fare una breve osservazione. Chi non sa che la fortuna ha un gran potere tanto nelle prosperità, quanto nelle avversità della vita? In vero, quand'ella spira favorevole, noi giungiamo al porto desiderato; ma quand'ella si volge contraria, noi facciamo naufragio. Orbene, questa fortuna, per se stessa, cioè senza il concorso dell'uomo, cagiona accidenti piuttosto rari, anzitutto per mezzo delle cose inanimate, come, per esempio, le procelle, le tempeste, i naufragi, le rovine, gl'incendi; poi per mezzo degli animali, come i colpi, i morsi, gli assalti; tutti casi, ripeto, piuttosto rari. 20 Ma, per contro, gli stermini di eserciti, come recentemente di tre e nel passato di molti; le disfatte di capitani, come poco fa di un grande e insigne personaggio; inoltre gli odi della moltitudine, e, per effetto di questi, le frequenti espulsioni, le condanne, gli esili di benemeriti cittadini; e, all'opposto, le prosperità, gli onori, i comandi, le vittorie; per quanto, in tutti questi eventi, vi abbia gran parte la fortuna, tuttavia essi non possono compiersi, né propizi né avversi, senza le forze e le passioni dell'uomo. Chiarito bene questo punto, io devo ora spiegare in che modo noi possiamo risvegliare e allettare a nostro utile profitto i sentimenti e le inclinazioni 184
degli uomini. E se il mio discorso parrà un po' troppo lungo, lo si confronti con la grandezza e con l'importanza dell'utilità: in tal modo esso parrà forse anche troppo breve. 21 Tutti i servigi che gli uomini prestano a un uomo per dargli grandezza e splendore, li prestano o per mostrargli la loro benevolenza, quando, per qualche ragione, gli portano affetto, o per rendergli omaggio, quando ne ammirano la virtù e lo stimano degno dei più alti onori, o perché ripongono fiducia in lui e credono che egli ben provveda ai loro interessi, o perché ne temono la potenza, o all'incontro perché ne aspettano qualche vantaggio, come avviene quando i re e i demagoghi promettono qualche elargizione, o infine perché si lasciano guidare dalla speranza del lucro e della mercede; e questa purtroppo è la maniera più abietta e più vergognosa, sia per coloro che vi si lasciano prendere, sia per coloro che vi fanno ricorso. 22 Gran brutta cosa, quando si cerca di ottenere col denaro ciò che si dovrebbe conseguire col solo merito. Ma, poiché qualche volta codesto espediente è pur necessario, dirò in qual modo vi si debba ricorrere, dopo che avrò parlato degli altri motivi che sono più vicini e più conformi alla virtù. [Ma c'è anche il caso che gli uomini si sottomettano senz'altro al volere e al potere di un altro uomo. Anche in questo caso i motivi impellenti sono parecchi: o l'intima benevolenza, non che la grandezza dei benefizi ricevuti, o l'eccellenza dell'altrui dignità, o la speranza di ricavare dalla propria sottomissione un gran vantaggio, o il timore d'esser costretti a obbedire per forza, o l'allettamento di una promessa o sperata elargizione, o, infine, come spesso accade nella nostra repubblica, l'aver venduto la propria coscienza.] 23 Ma il miglior modo, fra lutti, per proteggere e conservare il potere è quello di farsi amare, il peggiore è quello di farsi temere. Dice molto bene Ennio:“Odiano colui che temono; e a colui che odiano, imprecano la morte”! Proprio in questi giorni, si è visto chiaramente, se già prima non si fosse saputo, che nessuna potenza può resistere all'odio dei molti. E invero, non solo la morte di questo tiranno, che la nostra città, sopraffatta dalle sue armi, dove sopportare e al quale, ora che è morto, più che mai obbedisce, dimostra quanto sia fatale l'odio degli uomini, ma lo dimostra anche la fine non dissimile degli altri tiranni: quasi nessuno di essi scampò a un tal genere di morte. Cattivo custode è il timore per mantenere a lungo il potere; buona guardia è invece la benevolenza, anche per conservarlo finché dura la vita. 24 Coloro che esercitano il loro comando su uomini sottomessi con la forza, adoprino pure severità e durezza, come fanno i padroni coi servi, se non c'è altro modo per tenerli a freno; ma coloro che, in un libero Stato, si circondano di terrore, commettono la più grande delle follie. Siano pur conculcate quanto si vuole le leggi dalla prepotenza di un uomo; sia pur soffocata quanto si vuole la libertà; tuttavia la libertà e le leggi una volta o l'altra rialzano il capo, o per via di tacite manifestazioni, o nel segreto dell'urna. Più mordente è l'amore della libertà perduta che non quello della libertà costantemente goduta. Atteniamoci, dunque, a questo principio, che ha la più vasta applicazione e che più d'ogni altro conferisce non solo all'incolumità, ma anche alla ricchezza e alla potenza: vada in bando il timore e resti saldo l'amore. Questa è la via più facile per raggiungere il nostro intento, sia nella vita privata, sia nella vita pubblica. Coloro che vogliono esser temuti, dovranno necessariamente temere appunto quelli ai quali ispirano timore. 25 Qual tormentosa paura non dovette angustiare il famoso Dionisio il Vecchio, il quale, temendo i rasoi del barbiere, si bruciava da sé la barba con dei carboni accesi? E con quale angoscia dovette vivere Alessandro di Fere?' Costui, come si narra, pur amando oltre misura la sua sposa, Tebe, tuttavia, quando dal convito si recava nella camera di lei, voleva che un 185
barbaro e, per giunta, tatuato all'uso dei Traci, lo precedesse con la spada sguainata; e mandava anche innanzi alcuni dei suoi sgherri perché rovistassero negli armadietti muliebri, cercando se per caso si nascondesse 23 qualche arma tra le vesti. 0 infelice, che stimava più fedele un barbaro marchiato a fuoco che non la propria consorte! E non s'ingannò davvero: ché proprio lei, per sospetto d'infedeltà, l'uccise. No, non c'è potenza d'impero che, premuta dal timore, possa resistere a lungo. 26 Ne è testimone Falàride,' la cui crudeltà è rimasta sopra ogni altra famosa: costui non fu ucciso a tradimento, come quell'Alessandro di cui ho parlato ora, non cadde per mano di pochi, come questo nostro tiranno, ma tutto il popolo d'Agrigento si levò a furore contro di lui. E i Macedoni non abbandonarono forse Demetrio per passare tutti insieme dalla parte di Pirro? E gli Spartani, che esercitavano con tracotanza la loro supremazia, non furono abbandonati all'improvviso da quasi tutti gli alleati, che se ne stettero poi inerti spettatori della catastrofe di Leuttra? Parlando di tiranni, io prendo più volentieri gli esempi dalle vicende straniere che dalle nostre. Tuttavia, io non posso tacere che, finché l'impero del popolo romano si sostenne col ben fare e non col mal fare; finché le guerre si facevano o a difesa degli alleati o a conquista della supremazia, l'esito delle guerre era o ispirato da mitezza o imposto da necessità, e il senato era il porto e il rifugio di re, di popoli, di nazioni. I nostri magistrati e i nostri condottieri cercavano di conseguire la maggior gloria con un solo ed unico mezzo: proteggere gli alleati con giustizia e con lealtà. 27 Sì che quello ben poteva chiamarsi patrocinio del mondo piuttosto che impero. Già da tempo questo antico ed eccellente sistema si logorava nelle nostre mani; dopo la vittoria di Silla, andò interamente perduto. Ogni maggiore iniquità commessa contro gli alleati cessò di apparir tale, dopo che tanta crudeltà si commise contro i cittadini. Con Silla, dunque, a un onesto proposito seguì una disonesta vittoria. Quando, piantata l'asta in mezzo al foro, egli vendeva i belli di uomini onesti e ricchi e, a ogni modo, cittadini, ebbe il coraggio di dire: “lo vendo il mio bottino”. Venne poi colui che, con empio proposito, dopo una ancor più scellerata vittoria, non confiscò i beni di singoli cittadini, ma coinvolse in un solo ed unico diritto di sciagura intere provincie e regioni. 28 Travagliate e devastate le nazioni straniere, noi vedemmo, a riprova del perduto impero, portare nel mezzo del trionfo l'effigie di Marsiglia; vedemmo trionfare di una città, senza l'aiuto della quale i nostri generali non tornarono mai trionfatori dalle guerre transalpine. Molte altre infamie commesse contro gli alleati io potrei ricordare, se il sole avesse mai visto nulla di più scellerato che questa infamia. Giustamente, adunque, noi siamo percossi. Perché, se non avessimo lasciate impunite le scelleratezze di molti, non sarebbe mai pervenuta una cosi sfacciata licenza nel cuore di un sol uomo; il quale appunto lasciò in eredità il suo patrimonio domestico a pochi, ma le sue triste passioni a molti malvagi. 29 E invero, non mancheranno mai cause e pretesti alle guerre civili, finché vi saranno uomini perversi che ricordano e sperano quell'asta sanguinosa. L'aveva brandita Publio Silla, quand'era dittatore un suo congiunto; e, trentasei anni dopo, lo stesso Publio Silla non rifuggì dal brandire un'asta ancor più scellerata. E quell'altro Silla, che in quella dittatura era stato semplice scrivano, in questa nuova dittatura fu questore urbano. Da ciò si deve comprendere che, col miraggio di tali premi, non verranno mai meno le guerre civili. Ecco perché rimangono in piedi soltanto i muri della nostra città, pur temendo ormai anch'essi l'estrema rovina; ma la repubblica, la nostra repubblica è interamente perduta. Ebbene, noi siamo piombati in tali sciagure (è tempo ormai di tornare all'argomento), appunto perché vogliamo esser temuti piuttosto che amati. 186
Ma di questi malanni poterono accadere al popolo romano per colpa di un'ingiusta dominazione, che cosa non dovranno aspettarsi i singoli cittadini? Ora, essendo chiaro e manifesto che grande è la forza della benevolenza e assai piccola quella del timore, resta a vedere con quali mezzi noi possiamo più facilmente conseguire quell'affetto a cui aspiriamo, formato su la stima e su la fiducia. 30 Ma di quest'affetto non tutti ne abbiamo bisogno in egual misura: ciascuno, in armonia col suo tenor di vita, deve risolvere se gli occorra l'amore di molti o gli basti l'amore di pochi. Resti dunque ben fermo questo supremo e assoluto principio: aver la fedele e sicura dimestichezza di amici che ci amino di cuore e che ci tengano in grande stima. Questa e certamente fra tutte la sola cosa che non comporta differenza tra gli uomini grandi e gli uomini modesti: gli uni e gli altri hanno bisogno di procurarsi l'amicizia quasi nella stessa misura. 31 Forse non tutti hanno bisogno in egual modo dell'onore, della gloria e della benevolenza dei loro concittadini; ma tuttavia, e uno è largamente provvisto di questi beni, essi gli sono di non piccolo aiuto per procurarsi, oltre le altre cose, anche le buone amicizie. Ma dell'amicizia noi abbiamo già parlato in un altro libro, che s'intitola Lelio. Parliamo, ora, della gloria, sebbene anche su quest'argomento ci siano due miei libri; ma giova dame qui un breve cenno, dal momento che la gloria è di grandissimo aiuto nel compimento delle maggiori imprese. La suprema e perfetta gloria, dunque, si afferma quando si adempiono queste tre condizioni: se la moltitudine ci porta amore; se ripone in noi fiducia; se, professandoci una particolare ammirazione, ci stima degni dei più alti onori. Ora, questi buoni sentimenti, per parlar semplice e breve, noi possiamo inspirarli alla moltitudine quasi con gli stessi mezzi con cui li inspiriamo alle singole persone. Ma c'è anche un altro modo che ci consente di accostarci alla moltitudine e di riversarci, per così dire, nell'animo di tutti quanti. 32 Ebbene, di quelle tre condizioni che ho detto ora, vediamo, anzitutto, in qual modo possiamo conseguire la prima, cioè la benevolenza. Questa, per l'appunto, la si acquista principalmente coi benefici; in secondo luogo la si inspira pur con la sola volontà di far del bene, anche se per caso i mezzi non corrispondono al bisogno; ma un grande e fervido amore si desta nella moltitudine anche solo con la fama e con la reputazione di liberalità, di beneficenza, di giustizia, di lealtà, e insomma di tutte quelle doti che riguardano la mitezza dei costumi e la gentilezza dell'animo. In verità, quella mirabile essenza, che noi chiamiamo onestà e decoro, ci affascina per virtù propria; commuove l'animo di tutti con la sua intima bellezza e col suo nobile aspetto; e sopra tutto s'irradia, per così dire, da quelle virtù che io ho illustrate altrove ad una ad una. Appunto per queste ragioni la natura stessa ci costringe ad amare coloro nei quali 24 crediamo che quelle virtù siano riposte. Queste, dunque, sono le fonti principali che alimentano la benevolenza; ma ve ne possono essere anche altre di minore importanza. 33 Per conquistare poi l'altrui fiducia, bisogna dar prova di possedere congiunte due virtù: la prudenza e la giustizia. In verità, noi abbiamo fiducia in coloro che stimiamo più intelligenti di noi e che crediamo capaci non solo di prevedere il futuro, ma anche di trarsi d'impaccio, prendendo consiglio dalle circostanze, quando l'azione è in atto e la decisione incalza. Questa infatti è, nel concetto degli uomini, la vera ed utile prudenza. Ma negli uomini giusti e leali, cioè nei veri galantuomini, si ripone tanta fiducia che non si sospetta in loro neppur l'ombra della frode e dell'ingiustizia. Ecco perché noi con tranquilla e sicura coscienza affidiamo a costoro la nostra salvezza, le nostre fortune, i nostri figlioli. 34 Ebbene, di queste due virtù, allo scopo di ispirar fiducia, ha maggior efficacia la giustizia, perché la giustizia, anche senza la prudenza, 187
ha sufficiente prestigio, ma la prudenza, senza la giustizia, non ha alcun valore, allo scopo, s'intende, d'ispirar fiducia. Infatti, quanto più uno è astuto e scaltro, tanto più è malvisto e sospetto, se non gode reputazione di uomo onesto. Per questa ragione la giustizia, accoppiata all'intelligenza, avrà tutta la forza che vorrà, allo scopo, ripeto, di ispirar fiducia: giustizia, senza prudenza, avrà ancora molto potere; prudenza, senza giustizia, non avrà più alcun valore. 35 Qualcuno potrebbe stupirsi del fatto che, mentre tutti i filosofi sono concordi nell'affermare (e anch'io l'ho dichiarato più volte nei miei ragionamenti) che chi possiede una virtù, le possiede tutte, ora io le separo l'una dall'altra, come se un uomo potesse esse giusto senz'essere anche prudente; se non che altra è la precisione che si adopera quando, in una discussione filosofica, si ricerca sottilmente la verità in se stessa, e altra è quella che si adopera quando tutto il discorso deve conformarsi all'opinione e al senso comune. Ecco perché io, in questo momento, parlando come parla il volgo, affermo che alcuni uomini sono forti, altri sono giusti, altri sono prudenti. Dobbiamo far uso di un linguaggio popolare e comune, quando parliamo dell'opinione del popolo. E così ha fatto anche Panezio.' Ma torniamo al nostro argomento. 36 Ho detto poc'anzi che, delle tre condizioni necessarie al conseguimento della gloria, la terza si adempie quando gli uomini, professandoci la loro ammirazione, ci stimano degni dei più alti onori. Ebbene, gli uomini ammirano generalmente tutte quelle qualità che ai loro occhi appaiono grandi e straordinarie; ma riservano la loro particolare ammirazione a quelle buone qualità che, inaspettate e insospettate, si rivelano nelle singole persone. Pertanto, essi guardano reverenti e innalzano al cielo quegli uomini nei quali credono di scorgere certe eminenti e singolari virtù; guardano invece dall'alto al basso e tengono in gran dispregio coloro nei quali, secondo la loro opinione, non c'è ombra né di valore. né di coraggio, né di energia. Perché essi non disprezzano già tutti coloro dei quali fanno mala stima. Infatti, quelli che, a loro giudizio, sono malvagi, maledici, fraudolenti e pronti a fare oltraggio, essi non li disprezzano affatto; eppure ne fanno mala stima. Perciò, come ho detto ora, sono oggetto di disprezzo soltanto coloro che, come suol dirsi, non sono buoni “né per sé né per gli altri”, coloro, cioè, che non hanno nessun amore al lavoro, nessuna attività operosa, nessun interesse per nulla. 37 Sono invece grandemente ammirati quelli che, nel comune giudizio, vanno innanzi agli altri per valore e che sono puri e netti d'ogni bruttura morale, come anche di quelle debolezze alle quali gli altri uomini non sanno facilmente resistere. In verità, i piaceri, lusinghevoli tiranni, distolgono e sviano dalla virtù l'animo della maggior parte; e quando avanzano le fiaccole del dolore, i più si sgomentano oltre misura; la vita e la morte, le ricchezze e la povertà turbano profondamente tutti gli uomini. Ma quando si vede che alcuni, dotati di animo nobile e grande, disprezzano tutte quelle cose, indifferenti alla gioia e al dolore, e se si offre loro qualche onorevole e gloriosa impresa, a quella si volgono e si consacrano con tutto l'ardore, chi, allora, non ammira lo splendore e la bellezza della virtù? 38 Ora, questo superbo e nobile disprezzo suscita grande ammirazione; ma sopra tutto la giustizia, virtù che basta da sola a definire il galantuomo, appare straordinariamente meravigliosa alla moltitudine. E non a torto. Non può essere giusto chi teme la morte, il dolore, l'esilio, la povertà; non può essere giusto chi antepone il contrario di queste cose alla giustizia. Ma specialmente si ammira colui che non si lascia corrompere dal denaro. Se in un uomo riscontriamo questa virtù, lo giudichiamo saggiato a prova di fuoco. Quelle tre condizioni pertanto, che, come ho detto innanzi, sono il presupposto della gloria, la giustizia le riassume e le adempie tutte: la 188
benevolenza, perché vuol giovare a quanti più è possibile; la fiducia, per la stessa ragione; l'ammirazione, perché trascura e disprezza quelle cose alle quali i più sono trascinati da impetuoso e irresistibile desiderio. 39 Io credo che ogni maniera e ogni ordine di vita abbia bisogno dell'aiuto degli uomini, e soprattutto d'aver qualcuno con cui intrattenersi e discorrere familiarmente: cosa assai difficile se tu non hai l'aspetto di galantuomo. Perciò, anche un uomo solitario e che viva in campagna ha necessità d'una riputazione di giustizia; e tanto più perché, senza di quella, sprovvisto com'è d'ogni difesa, sarebbe facile bersaglio di molte offese. 40 Ma non basta. Anche coloro che vendono e comprano, che danno e prendono in affitto; coloro, insomma, che s'ingolfano negli affari, hanno necessità di giustizia per sbrigare le loro faccende. Ed è così grande il potere della giustizia che perfino coloro che si pascono di misfatti e di scelleratezze non possono vivere senza almeno un'ombra di giustizia. Difatti, se uno rubasse o rapisse qualche cosa a un suo compagno di brigantaggio, costui perderebbe il suo posto anche nella banda; e un capo di pirati, se non ripartisse equamente la preda, sarebbe ucciso o abbandonato dai suoi compagni. Dicono anzi che pur tra i ladroni vi siano leggi da osservare e da rispettare. Appunto per l'equa ripartizione della preda, Bàrduli, il brigante illirico di cui parla Teopompo, ebbe grande potenza; e molto più grande ancora l'ebbe il lusitano Viriato, dinanzi al quale dovettero cedere i nostri eserciti e i nostri capitani, finché Gaio Lelio, soprannominato il Sapiente, quand'era pretore, lo fiaccò e lo vinse, rintuzzando quella sua selvaggia fierezza in modo da 25 lasciare ai suoi successori una facile guerra. Ora, se la giustizia ha sì gran potere che rinforza e rinsalda la potenza perfino dei ladroni, quale e quanto non dovrà essere il poter suo tra le leggi e i tribunali e, insomma, in una bene ordinata repubblica? La via più facile e più sicura per parer quello che siamo, consiste appunto nell'essere quello che vogliamo parere; giova tuttavia dar qualche consiglio. Se qualcuno, fin dalla prima giovinezza, ha qualche titolo alla celebrità e alla gloria, o ricevuto dal padre (come credo sia toccato a te, figliuol mio), o per qualche fortunato evento, costui attira su di sé gli occhi di tutti; si scrutano attentamente le sue azioni e il suo tenore di vita, e, come se egli vivesse nella piena luce del sole, nessun detto e nessun atto di lui può restare nell'ombra. 45 Ma quelli la cui fanciullezza, per l'umiltà e l'oscurità dei natali, passa ignorata e inosservata, non appena entrano nell'adolescenza, devono proporsi una nobile meta e tendere ad essa con fermo e costante proposito. E lo faranno con tanto più animoso coraggio, perché a quell'età non solo non si porta nessuna invidia, ma anzi si presta largo favore. Ora, per un giovane, il primo passo verso la gloria è quello d'i farsi onore nelle imprese militari. In questo genere di gloria molti si segnalarono al tempo del nostri padri: ché allora s'era quasi sempre in guerra. Ma la tua adolescenza si imbatté in una guerra in cui, se una parte si macchiò di troppa infamia, l'altra ebbe troppo poca fortuna. Ciononostante tu, in questa guerra, avuto da Pompeo il comando di uno squadrone, ti procacciasti molta lode sia da quel sommo capitano, sia da tutto l'esercito, combattendo a cavallo, lanciando dardi, sopportando tutte le fatiche della guerra. E' ben vero che quella tua gloria cadde insieme con la repubblica; ma io ho intrapreso questo discorso non soltanto per te, ma in generale per tutti. Ritorniamo perciò al nostro argomento. 46 Come le opere dello spirito sono per ogni rispetto superiori a quelle del corpo, così quelle cose che noi ci studiamo di ottenere con l'intelletto e con la ragione incontrano maggior favore di quelle che le compiono con le sole forze fisiche. Il primo passo, dunque, verso la gloria muove dalla temperanza, dall'amor filiale e dall'affetto verso i 189
congiunti; ma la via più facile e più sicura che conduce i giovani a rivelar se stessi, è quella di affidarsi a illustri e sapienti personaggi, assertori e promotori del pubblico bene. Se frequentano assiduamente la loro compagnia, infondono nel popolo la persuasione che essi riusciranno in tutto simili a coloro che si sono proposti per modelli. 47 La casa di Publio Mucio raccomandò la giovinezza di Publio Rutilio alla reputazione d'integrità morale e di sapienza giuridica. Fa eccezione alla regola Lucio Crasso, il quale, giovanissimo ancora, non cercò a prestito da altri, ma si procacciò da se stesso la più alta lode con quel celebrato e glorioso atto d'accusa. In quell'età in cui coloro che studiano e si esercitano nell'arte del dire sono comunemente oggetto di lode, come sappiamo che fu per Demostene,' in quell'età appunto Lucio Crasso mostrò di saper già fare a meraviglia nel foro quello che egli poteva ancora studiare con lode nel segreto della sua casa. Vi sono due specie di discorso: il familiare e l'oratorio; ma non c'è dubbio che l'oratorio (quello appunto che noi chiamiamo eloquenza), ha maggior efficacia per l'acquisto della gloria. Pur tuttavia e straordinariamente grande il fascino che esercitano sugli animi anche la cortesia e l'affabilità del parlar familiare. Ci restano lettere di Filippo ad Alessandro, di Antìpatro a Cassandro e di Antigono a Filippo (tre uomini, com'è noto, di gran saggezza), nelle quali i padri raccomandano ai figli di conciliarsi la benevolenza della moltitudine con amorevole linguaggio, e di ammansire l'animo dei soldati rivolgendo loro lusinghiere parole. Se non che un discorso appassionato e veemente che si tenga in pubblico suscita spesso l'entusiasmo di un'intera moltitudine. Grande ammirazione desta colui che parla con facondia e con sapienza, infondendo negli uditori la persuasione ch'egli sia più intelligente e più sapiente degli altri; se poi il discorso ha in sé elevatezza e moderazione a un tempo, non si può immaginare cosa più ammirevole, soprattutto se queste doti si riscontrano in un giovane. 49 Ora, vi sono più specie di cause che richiedono eloquenza, e molti giovani, nella nostra repubblica, hanno acquistato gloria parlando davanti ai giudici, davanti al popolo, davanti al senato; la più grande ammirazione si conquista tuttavia nelle cause forensi. E queste sono di due sorta: l'una consiste nell'accusare, l'altra nel difendere. Fra di esse, la difesa procura certamente più onore; ma anche l'accusa ottiene assai spesso gran lode. Ho ricordato poc'anzi Crasso; ebbene, come Crasso, fece, ancor giovane, Marco Antonio. Anche l'eloquenza di Publio Sulpicio sfolgorò in un'accusa, quando chiamò in giudizio un sedizioso e pernicioso cittadino, Gaio Norbano. 50 Quest'atto però non si deve compiere troppo spesso, ma soltanto o nell'interesse dello Stato, come fecero i sopraddetti oratori, o per giusta vendetta, come fecero i due Luculli, o per legittimo patrocinio, come feci io in favore dei Siculi e come fece Giulio Strabone, nel processo d'Albucio, in favore dei Sardi. Anche il valore di Lucio Fufio si rivelò intero nell'accusare Manio Aquilio.' Una sol volta, dunque, si accusi o, almeno, non troppo spesso. Ma se c'è qualcuno che debba farlo più volte, renda pure un tal servigio alla patria: punire più volte i nemici della patria non merita biasimo; ma ci vuol discrezione. Perché si passa da uomini crudeli, o, piuttosto, da uomini disumani, mettendo a repentaglio la vita e l'onore di molti. Colui che fa questo, non solo mette in pericolo se stesso, ma anche contamina la sua riputazione, attirandosi la triste nomea di accusatore di mestiere: infamia che toccò a Marco Bruto, nato da nobile schiatta, figlio di colui che fu primo fra tutti nel diritto civile. 51 Dobbiamo inoltre osservare scrupolosamente questo precetto morale: non trascinare mai un innocente in un giudizio capitale. Una simile azione non può assolutamente compiersi senza una scellerata perfidia. In verità, quale opera più disumana di 190
questa: volgere a danno e a rovina dei buoni quella eloquenza che la natura ci diede per la difesa e per la salvezza degli uomini? E tuttavia, se dobbiamo fuggire questo eccesso, noli dobbiamo però farci scrupolo di difendere talvolta un colpevole, purché non si tratti di uno scellerato e di un empio: lo esige il popolo, lo permette la consuetudine, lo richiede anche il sentimento umano. Il giudice, nelle cause, deve perseguire sempre la verità; il patrono 26 può sostenere talvolta il verosimile, anche se non è del tutto vero. lo non oserei scrivere quelle cose, specialmente trattando di principi filosofici, e non sostenesse la medesima opinione Panezio,' il più austero degli Stoici. Ma soprattutto in virtù delle difese si acquistano gloria e favore, e tanto più grandi, quando ci venga fatto di portare aiuto a qualcuno che ci sembri assediato e sopraffatto dalle forze di un potente; come ho fatto tante volte io in altri tempi, ma specialmente quando, ancor giovane, difesi Sesto Roscio Amerino contro la tirannica potenza di Lucio Silla; e questa orazione, come tu sai, resta tuttora. 52 Esposti i doveri che i giovani devono adempiere per conseguir la gloria, veniamo ora a parlare della beneficenza e della liberalità. Questa virtù si esercita in due modi: ché si può far del bene a chi ne ha bisogno o con l'opera o col denaro. Più facile è il secondo modo, specialmente per chi è ricco; ma il primo è più bello, più splendido e più degno di un uomo nobile e virtuoso. Nell'uno e nell'altro modo, invero, c'è una generosa volontà di far del bene; se non che, l'uno attinge dal forziere, l'altro dalla virtù; e le larghezze che si fanno a spese del patrimonio inaridiscono la fonte stessa della liberalità. Così la liberalità uccide la liberalità: più persone avrai beneficato e meno ne potrai beneficare. 53 Ma coloro che saranno benefici e liberali con l'opera, cioè con la virtù e con l'ingegno, in primo luogo, più persone aiutano e più collaboratori avranno nel fare il bene; poi, per la consuetudine della beneficenza, saranno più pronti e, per così dire, più alienati a ben meritare di molti. Egregiamente Filippo, in una sua lettera, rimprovera il figlio Alessandro perché cercava d'acquistarsi la benevolenza dei Macedoni col donar largamente. “Quale cattiva idea t'ha indotto a codesta speranza? Credere che ti saranno fedeli quelli che tu hai corrotto col denaro? 0 ti adoperi forse perché i Macedoni sperino di trovare un giorno in te non il loro sovrano, ma il loro dispensiere e il loro fornitore?” Ben detto “dispensiere e fornitore”, perché la cosa fa vergogna a un sovrano; ma meglio ancora quando dice che il donar largamente è “corruzione”. Infatti, chi riceve, diventa peggiore, e sempre più disposto ad aspettar dell'altro. 54 Questo precetto, Filippo lo dava al suo figliolo, ma noi immaginiamolo come dato a tutti. Non c'è dubbio, dunque, che quella generosità che consta di fervido e operoso zelo è più onorevole, si esercita su più vasto campo e può giovare a un maggior numero di persone; qualche volta, però, bisogna pur largheggiare col denaro. Questa specie di generosità non è da rigettarsi del tutto; anzi, spesso, conviene far parte del proprio patrimonio a persone dabbene, che si trovino in grande bisogno; sempre però con discrezione e con misura: ché molti, a furia d'inconsulte largizioni, sperperano il loro patrimonio. E che cosa c'è di più stolto che far di tutto per non poter fare più a lungo quello che si fa volentieri? Ma c'è di peggio: spesso alle elargizioni tengono dietro le estorsioni: giacché, quando gli uomini, per il troppo dare, sentono il morso del bisogno, devono per forza metter le mani negli averi altrui. Così, mentre vogliono esser benefici per acquistarsi benevolenza, non ottengono tanto affetto da coloro a cui diedero, quanto odio da coloro a cui tolsero. 55 Concludendo: tu non devi chiudere il tuo forziere in modo che la generosità non possa aprirlo, né schiuderlo in modo che sia aperto a tutti: ci vuol discrezione, e questa commisurata alle tue sostanze. Insomma, noi dobbiamo 191
tener bene in mente ciò che, ripetuto tante volte dai nostri antichi, è passato in proverbio: “La prodigalità è un pozzo senza fondo”. Invero, qual misura può esserci, quando, chi ha avuto, vuol avere ancora, e chi non ha avuto, vuol avere anch'esso? Due sono le specie dei donatori: i prodighi e i liberali. Prodighi sono quelli che, con pubblici banchetti, con distribuzioni di carni., con spettacoli di gladiatori e con l'allestimento di rappresentazioni sceniche o di combattimenti di fiere, profondono tesori in cose che lasceranno un breve ricordo, o non ne lasceranno alcuno. Liberali, invece, sono quelli che, con le proprie sostanze, o riscattano persone catturate dai predoni, o si accollano i debiti degli amici, o li aiutano nel collocar le figliole, o li sovvengono nell'acquistare o nell'aumentare il loro patrimonio. 56 Mi domando perciò stupito che diamine sia venuto in mente a Teofrasto in quel libro che egli scrisse sulla ricchezza. In questo libro, tra molte cose belle e buone, ce n'è una fuor di proposito: egli si diffonde un po' troppo nel lodare la sfarzosa magnificenza degli spettacoli popolari, credendo che l'allestimento di così dispendiose feste sia il maggior frutto della ricchezza. Io credo invece che sia molto più grande e più sicuro il frutto di quella liberalità della quale ho già dato qualche esempio. Con quanta maggior serietà e verità ci rimprovera Aristotele, perché non deploriamo abbastanza tutti quegli sperperi di denaro, che si fanno per lusingare e adescare il popolo! Egli dice: “Se gli abitanti d'una città assediata fossero costretti a comprare un quartuccio d'acqua per cento dramme, la cosa dapprima ci parrebbe incredibile e faremmo tutti le più gran meraviglie; poi, ripensandoci su, perdoneremmo alla necessità; mentre invece, davanti a questi enormi sprechi e a queste smisurate spese, noi non ce ne meravigliamo troppo, con tutto che in tal modo non si provveda ad alcuna necessità e non si accresca la dignità del donatore. Anche quel gran diletto della moltitudine è breve e passeggero, e per di più lo prova la gente più volgare e meschina; e anche in essa tuttavia, al colmo della sazietà, muore anche il ricordo del piacere”. 57 E felicemente conclude: “Queste cose sono gradite ai fanciulli, alle donnicciole, ai servi e a quegli uomini liberi che hanno stretta somiglianza coi servi; ma non possono piacere in alcun modo all'uomo serio, che giudica con sicuro criterio gli eventi”. Del resto, io non ignoro che, nella nostra città, fin dal buon tempo antico, invalse l'uso di pretendere che i migliori cittadini esercitassero splendidamente l'ufficio di edili. Ecco perché Publio Crasso, ricco di nome e di fatto, adempì il suo ufficio di edile col massimo splendore; e, poco dopo, Lucio Crasso, insieme con Quinto Mucio, uomo quant'altri mai moderato, esercitò la sua edilità con grandiosa magnificenza; poi Gaio Claudio, figlio di Appio; poi molti altri: i Luculli,' Ortensío, Silano. Ma Publio Lentulo, durante il mio consolato, superò tutti i suoi predecessori. Ne imitò l'esempio Marco Scauro. Magnifici poi sopra tutti furono gli spettacoli che il nostro Pompeo diede al popolo nel suo secondo consolato. Ma in tutte queste cose, quale sia il mio pensiero, tu lo vedi da te. 27 58 Bisogna per altro evitare anche il sospetto di avarizia. Al ricchissimo Mamerco il rifiuto dell'edilità costò la sconfitta nelle elezioni consolari. Perciò, quando il popolo reclama un'elargizione (i buoni cittadini, anche se non la desiderano, tuttavia l'approvano), bisogna concederla, ma sempre in proporzione dei propri averi, come ho fatto anch'io; e tanto più bisogna concederla quando, in tal modo, si acquista una cosa molto importante ed utile, come, or non è molto, i banchetti imbanditi lungo le strade, a titolo di decima, fruttarono grande onore a Oreste. Né pure a Marco Seio s'imputò a biasimo il fatto che, in tempo di carestia, vendé al popolo il grano a un asse il moggio: egli si liberò cosi da un grande e antico odio popolare con una spesa né indecorosa (egli era appunto edile), né 192
troppo grave. Ma un altissimo onore s'acquistò, or non è molto, il nostro Milone, il quale, per la salvezza della patria che dipendeva tutta dalla mia salvezza, assoldò dei gladiatori per rintuzzare tutti i furibondi assalti di Publio Clodio. 59 Causa delle largizioni dev'essere, dunque, o la necessità o l'utilità. E nel mandarle a effetto, la regola migliore è sempre la giusta misura. Lucio Filippo, figlio di Quinto, uomo di grande ingegno e di chiarissima fama, era solito vantarsi d'aver conseguito tutti i più alti e splendidi onori, senza pagare alcun tributo al popolo. Altrettanto dicevano Cotta e Curione. Anch'io posso in qualche modo gloriarmi della stessa cosa: se si tiene conto della grandezza degli onori che ho ottenuti a pieni voti, proprio nell'anno stabilito dalla legge (sorte che non toccò a nessuno di coloro che ho nominati or ora), la carica di edile mi costò ben poco. 60 Ma ci sono ancora altre spese assai più degne: quelle appunto che si sostengono per opere di pubblica utilità, come le mura, gli arsenali, i porti, gli acquedotti. E' ben vero che quello che si dà lì per lì, e quasi alla mano, riesce più gradito; ma queste opere pubbliche ci acquistano maggior favore per l'avvenire. Quanto ai teatri, ai portici, ai templi nuovi, io, per un riguardo a Pompeo, li biasimo con una certa riluttanza; ma è sicuro che i più illustri filosofi non li approvano, come non li approva né il nostro Panezio, che io, in questi libri, ho seguito da vicino, senza però tradurlo, né Demetrio Falèreo,` il quale biasima perfino Pericle, il più grande dei Greci, per aver profuso tanto denaro in quei magnifici Propilèi. Ma di tutta questa materia io ho trattato diffusamente nel miei libri sulla Repubblica. Concludo: tutto il sistema delle largizioni, come principio generale, è manchevole, ma all'atto pratico e in certe circostanze, è necessario; tuttavia, anche in questi casi esso deve adeguarsi all'entità dei mezzi e osservare la legge della giusta misura. 61 Quanto a quell'altra maniera di largheggiare, che nasce dalla liberalità, è chiaro che noi non dobbiamo comportarci allo stesso modo nelle diverse circostanze. Altra è la condizione di colui che è oppresso dalla sventura, e altra è quella di colui che, pur non avendo la fortuna contraria, vuol migliorare il proprio stato. 62 La liberalità dovrà svolgersi più pronta e più sollecita verso gli sventurati, salvo che essi non siano degni della loro sventura. Tuttavia, con quelli che chiedono il nostro aiuto, non già per non cadere nell'estrema rovina, ma per salire più in alto, noi non dobbiamo essere assolutamente gretti e avari; ma piuttosto dobbiamo usare la più accorta diligenza nella scelta dei meritevoli. Egregiamente dice Ennio: “Benefici mal collocati, io li giudico malefici”. 63 Ma quando si fa del bene a un uomo onesto e riconoscente, doppio frutto se ne ricava: da lui e anche dagli altri. Perché la liberalità, usata con giusto criterio, acquista gran favore, e i più la lodano con tanto maggior entusiasmo, in quanto la bontà dei più grandi cittadini è un comune rifugio aperto a tutti. Dobbiamo dunque studiarci di rendere a quanti più è possibile tali benefizi che se ne trasmetta il ricordo ai figli e ai figli dei figli, si che questi non possano sottrarsi al dovere della gratitudine. Invero, tutti odiano l'ingrato, pensando che l'ingratitudine, in quanto scoraggia la liberalità, sia un'offesa fatta anche a loro, e che l'ingrato sia il comune nemico dei poveri e degli umili. Ma c'è un'altra liberalità che torna utile anche allo Stato: riscattare i prigionieri dalla schiavitù e sollevare i poveri dalla miseria. E appunto questa nobile larghezza fu generalmente praticata dal nostro ordine senatorio, come vediamo ampiamente dimostrato in un'orazione di Crasso. Ora, questa consuetudine di generosità, io l'antepongo di gran lunga all'allestimento dei pubblici spettacoli: quella è propria di uomini autorevoli e grandi, questa invece è propria d'una sorta di adulatori, i quali, con l'esca del piacere, solleticano, per così dire, i bassi istinti del popolo. 64 Come nel dare conviene essere 193
splendidi, così nell'esigere il nostro giova non esser troppo rigidi; anzi, in ogni sorta d'affari, nel vendere e nel comprare, nel prendere e nel dare in affitto, nei rapporti di vicinato e di confini, dobbiamo essere giusti e remissivi, cedendo molto, e a molti, del nostro diritto, e rifuggendo dalle liti, quanto è possibile e forse anche un po' più del possibile. Rinunziare talvolta un poco al proprio diritto, è un atto non solo generoso, ma spesso anche vantaggioso. Certo, bisogna avere molta cura del proprio patrimonio (e gran vergogna lasciarlo andar in malora), ma bisogna fare in modo che sia lontano da noi il sospetto di meschinità e d'avarizia. Saper esercitare la liberalità, senza spogliarsi del patrimonio, è senza dubbio il maggior frutto e il maggior godimento del denaro. Giustamente Teofrasto loda anche l'ospitalità. Sì, è molto bello, a parer mio, che le case degli uomini illustri siano aperte ad ospiti illustri; torna, anzi, a onor dello Stato che i forestieri nella nostra città godano largamente di questa specie di liberalità. Ed è anche molto utile a coloro che vogliono acquistare onestamente molto potere, procurarsi credito e favore presso gli stranieri trattando generosamente gli ospiti loro. Racconta Teofrasto che Cimone,' in Atene, era ospitale anche verso i suoi compaesani di Lacio: egli aveva dato tali istruzioni e tali ordini ai suoi castaldi che, qualunque Lacìade capitasse alla sua villa, era servito di tutto il suo bisogno. Quei benefizi che noi facciamo, non col donar largamente, ma col prestar l'opera nostra, tornano a vantaggio, ora di tutto lo Stato, ora dei singoli cittadini. In verità, il dar consiglio, tutela, aiuto con la scienza del diritto al maggior numero di persone, conferisce grandemente ad aumentare la nostra potenza e il nostro prestigio. Ecco perché, tra le più nobili istituzioni dei nostri padri, c'era anche questa nobilissima, che la conoscenza e l'interpretazione del nostro cosi bene ordinato diritto civile fu sempre tenuta in altissimo onore. E appunto questa conoscenza e questa interpretazione fu patrimonio e privilegio dei principali cittadini, avanti lo sconvolgimento di questi nostri tempi. Oggi, come i pubblici onori, come tutti i gradi della dignità, così anche lo splendore di questa dottrina si è spento; e, per suprema vergogna, 28 questo evento s'è compiuto proprio nel tempo in cui viveva un uomo che, pari ai suoi predecessori per dignità civile, li superava di gran lunga tutti per sapienza giuridica. Questa particolare assistenza, dunque, è mirabilmente opportuna ad acquistarci il favore e a conciliarci l'affetto degli uomini col vincolo del beneficio. 66 Con la scienza del diritto confina l'arte del dire, più efficace, più affascinante, più splendida. Invero, che cosa c'è che superi l'eloquenza, sia per l'ammirazione che desta in chi ascolta, sia per la speranza che infonde in chi ne ha bisogno, sia per la gratitudine che suscita in chi è stato difeso? Giustamente i nostri padri assegnarono alla eloquenza il posto d'onore fra le arti della pace. Un uomo eloquente, che non si sottragga alla fatica e che, secondo l'usanza degli avi, difenda di buon grado e senza compenso le cause di molti, ha davanti a sé un vasto campo per beneficare e per proteggere. 67 L'argomento mi suggerirebbe di deplorare ancora una volta la decadenza, per non dire la morte, della eloquenza; ma temo che il mio lamento possa sembrar dettato da un mio personale rancore. Del resto, è chiaro come la luce: scomparsi i grandi oratori, pochi lasciano sperare bene di sé, ancor più pochi hanno vere attitudini, molti, troppi rivelano temerità e sfrontatezza. E' vero che non tutti, anzi neppur molti, possono essere buoni giureconsulti o buoni oratori, ma è anche vero che si può far del bene a molti con l'opera, chiedendo per loro benefizi e favori, raccomandandoli ai giudici o ai magistrati, vegliando sui loro privati interessi, sollecitando per loro l'assistenza dei giureconsulti e degli avvocati. Coloro che seguono questa via, ottengono moltissimo 194
favore, e hanno aperto davanti a sé un vastissimo campo di attività benefica. 68 E non c'è bisogno di ammonirli, tanto la cosa è evidente, di star bene attenti che, per voler giovare ad alcuni, non abbiano a nuocere ad altri. Spesso offendono, o quelli che non dovrebbero, o quelli che non converrebbe: se lo fanno inavvertitamente, è segno di negligenza, se consapevolmente, di leggerezza. Anzi, se tu, tuo malgrado, offendi qualcuno, devi scusarti con lui nel miglior modo possibile, mostrandogli che sei stato costretto a far così e che non potevi fare altrimenti; e anche dovrai compensarlo del torto o del danno patito, con ogni altra sorta di favori e di servigi. 69 Di solito, nel beneficare il prossimo, si guarda o al carattere o alla fortuna; ma, a parole, non c'è nessuno che non dica (costa così poco il dirlo) che lui, nel collocare i benefizi, non guarda alla fortuna, bensì al carattere. Onesto parlare in vero; ma poi chi c'è, di grazia, che, nell'atto di prestar l'opera sua, non anteponga il favore di un uomo fortunato e potente alla causa di un uomo povero, se pure ottimo? In generale, la nostra volontà è più ben disposta verso colui dal quale speriamo più pronta e più rapida la ricompensa. Se non che bisogna considerare più attentamente la vera essenza delle cose. Senza dubbio quel povero bisognoso, se è un galantuomo, anche se non può ricambiare il benefizio, può certamente serbar gratitudine. Disse bene colui che disse: “Chi ha denaro in prestito, finché l'ha, non l'ha reso, e quando l'ha reso, non l'ha più; la gratitudine, invece, è tal moneta che, chi la rende, l'ha ancora, e chi l'ha ancora, la rende”. All'opposto, coloro che si credono ricchi, onorati, prediletti dalla fortuna, non vogliono neppur sentirsi obbligati da un benefizio ricevuto; credono, anzi, di fare essi un benefizio nell'atto stesso che ne ricevono uno, per quanto grande; e anche sospettano che ci sia sotto un secondo fine, o una richiesta o una speranza di favori; il far ricorso, poi, all'altrui protezione o il passar per clienti, questo li sgomenta più della morte. 70 Al contrario, quel poveretto, qualunque benefizio riceva, crede che l'autore di esso abbia guardato non già alla sua fortuna, ma alla sua persona; si studia perciò di mostrarsi grato e amorevole non solo verso chi l'ha beneficato, ma anche, poiché ha bisogno di molti, verso tutti coloro da cui si ripromette del bene; e invero, se per caso gli vien fatto di rendere al suo benefattore un servigio, non esalta l'opera sua, ma anzi l'attenua. Ma c'è anche un'altra considerazione da fare: se tu difendi un uomo ricco e fortunato, la riconoscenza perdura in lui solo o, tutt'al più, nei suoi figli; ma se tu difendi un uomo povero e bisognoso, che per altro sia onesto e modesto, tutti gli umili che non siano malvagi (e sono la gran maggioranza del popolo) vedono in te una pronta e sicura difesa. 71 Io credo perciò che sia meglio collocare il benefizio presso i buoni che presso i fortunati. In generale, noi dobbiamo cercare di porgere aiuto a ogni specie di persone; ma se la sorte ci impone un confronto e una scelta, ci sia senz'altro maestro e guida Temistocle. Un tale gli domandò se avrebbe dato in sposa la figlia a un uomo onesto, ma povero, o piuttosto a un uomo poco stimato, ma ricco; e quegli rispose: “No, no: io voglio un uomo senza denari, piuttosto che denari senza un uomo”. Ma purtroppo la smodata ammirazione delle ricchezze ha profondamente corrotto i costumi. Se non che, la grandezza delle altrui ricchezze che cosa importa a ciascuno di noi? Potrà forse recar vantaggio, e neanche sempre, a chi le possiede, ma supponiamo che rechi vantaggio; egli sarà certamente più largo nello spendere, ma come potrà essere più onesto e più degno di onore? Certo, se egli, oltre che ricco, sarà anche un galantuomo, le sue ricchezze non dovranno impedirci di fargli del bene, purché non siano esse la ragione di fargli del bene. In ogni caso, noi non dobbiamo domandarci quanto un uomo sia ricco, ma piuttosto quale sia il suo intimo 195
pregio. Un ultimo consiglio a proposito dei benefizi che si prestano con l'opera: non far mai nulla contro la giustizia, non far mai nulla a favore dell'ingiustizia. La giustizia è il fondamento di una onorevole e durevole fama. Senza giustizia non c'è nulla che meriti lode. 72 Ho parlato di quella specie di benefizi che provengono dalle singole persone; tratterò ora di quelli che provengono da tutti quanti i cittadini e particolarmente dallo Stato. Anche questi benefizi sono di due maniere: alcuni tornano a vantaggio di tutti quanti i cittadini, altri a vantaggio delle singole persone; e questi ispirano anche maggior riconoscenza. In generale, bisogna cercare di provvedere, se è possibile, agli uni e agli altri, e non meno a questi che a quelli; ma sempre a patto che la cosa giovi, o almeno non nuoccia, allo Stato. Gaio Gracco vendeva a buon prezzo il grano, ma vuotava il pubblico erario. Marco Ottavio invece conciliò le necessità della plebe con le possibilità dello Stato, e fu cosi la salvezza dei cittadini e della patria. 29 73 Il primo dovere di chi amministra la cosa pubblica è di fare in modo che ciascuno conservi i suoi beni, e che per pubblico decreto non si intacchi la proprietà privata. Perniciosa fu la condotta di Filippo, quando, tribuno della plebe, propose la sua legge agraria (è vero che poi la lasciò facilmente cadere, mostrandosi in questo assai moderato); ma allora, nei suoi pubblici discorsi, tra le altre intemperanze demagogiche, si lasciò sfuggire questa perfida dichiarazione: “In tutta Roma non ci son neppure duemila possidenti”. Questo è un parlar criminoso, che conduce diritto al comunismo, che è il più gran flagello del genere umano. Soprattutto per garantire la sicurezza della proprietà privata, si costituirono le città e gli Stati. E' vero che gli uomini si unirono in società per naturale impulso, ma è anche vero che essi, nella sicurezza delle città, cercarono la difesa e la custodia dei loro beni. 74 Ma non basta: bisogna anche procurare che i cittadini non debbano pagar tributi, come spesso accadeva al tempo dei nostri padri per la povertà dell'erario e per la frequenza delle guerre; e perché questa iattura non avvenga, si dovrà provvedere assai per tempo. Ma se qualche volta la necessità di tali contributi si imporrà a uno Stato (preferisco parlar così, per non fare un tristo augurio al nostro; d'altra parte, qui, io non parlo del nostro, ma dello Stato in generale), bisognerà fare in modo che tutti si persuadano che, se vogliono salvarsi, devono sottomettersi alla necessità. E non basta ancora: tutti coloro che governeranno lo Stato, dovranno provvedere a che abbondino tutte quelle cose che sono indispensabili alla vita. Quali siano i modi con cui si vuole e si deve procacciarle, qui non occorre spiegare, ché sono evidenti: a me basta avervi accennato. 75 Nel disbrigo d'ogni pubblico affare e d'ogni pubblico ufficio è di capitale importanza tener lontano da sé anche il più lieve sospetto d'ingorda avarizia. Disse una volta il sannita Gaio Ponzio.' “Oh, se la fortuna mi avesse riservato di nascere in quei tempi in cui i Romani avessero cominciato ad accettar doni! Io non avrei tollerato più a lungo l'esistenza del loro impero”. Certamente, egli avrebbe dovuto aspettare un bel pezzo: ché solo da poco tempo questo malanno ha invaso la nostra repubblica. Pertanto, buon per noi che Ponzio è vissuto piuttosto allora, se è vero ch'egli ebbe un così straordinario vigore. Non sono ancora passati cento e dieci anni dacché Lucio Pisone presentò la sua legge contro i delitti di concussione, e prima non ce n'era stata alcuna. Ma dopo, ahimè, vennero tante leggi, e via via sempre più dure, tanti processi, tante condanne; e poi scoppiò una così fiera guerra italica, provocata dalla paura dei processi; e infine, abolite le leggi e i tribunali, seguì una così rapace spogliazione degli alleati, che, se noi siamo ancora in piedi, lo dobbiamo non già al nostro valore, ma alla debolezza degli altri. 76 Panezio loda l'Africano per il suo 196
straordinario disinteresse. E ha ben ragione di lodarlo. Ma l'Africano ebbe altri e più grandi meriti; e il pregio del disinteresse non è soltanto di quell'uomo, ma anche di quei tempi. Emilio Paolo s'impadronì di tutto il tesoro dei Macedoni, che era immenso, e versò nel pubblico erario tanto denaro che il bottino di un solo capitano pose un termine al pagamento dei tributi. Ma egli non portò nulla a casa sua, se non la gloria eterna del suo nome. L'Africano imitò l'esempio del padre: abbattuta Cartagine, non fu per nulla più ricco di prima. E Lucio Mummio,' che gli fu collega nella censura, diventò forse più ricco dopo aver distrutto dalle fondamenta una città colma d'ogni ricchezza? Piuttosto che la sua casa, egli volle adornare e abbellire l'Italia; tuttavia, nell'accresciuto splendore dell'Italia, anche la sua casa mi appare più splendida. 77 Nessun vizio, dunque (è tempo che il mio discorso ritorni al punto da cui s'è allontanato), nessun vizio è più abominevole che l'avidità del denaro, soprattutto nei più autorevoli cittadini e negli uomini che reggono lo Stato. Invero, considerare lo Stato come una fonte di lucro, non solo è disonesto, ma anche delittuoso e sacrilego. Perciò, quel responso che diede Apollo Pizio: “Sparta non perirà per nessun altro motivo se non per il troppo amor del denaro”, si può intendere come un monito rivolto non solo agli Spartani, ma anche a tutti i popoli che vivono nell'opulenza. Disinteresse e moderazione, ecco la via più facile per cui i reggitori degli Stati possono conciliarsi la benevolenza del popolo. 78 Orbene, coloro che si atteggiano a protettori del popolo, e perciò promuovono la riforma agraria, per scacciare i proprietari dalle loro terre, o propongono il condono dei debiti ai debitori, scalzano le fondamenta dello Stato, cioè, in primo luogo, la concordia, che non può sussistere quando si toglie il denaro agli uni per donarlo agli altri; in secondo luogo, la giustizia, che è del tutto soppressa, quanto il diritto di proprietà è manomesso. Invero, come sopra ho detto, il compito essenziale di uno Stato e di una città è quello di assicurare a ciascuno il libero e tranquillo possesso delle proprie cose. 79 Anzi costoro, pur mandando in rovina lo Stato, non riescono neanche ad ottenere quella popolarità che si ripromettono. In verità, chi è stato spogliato dei suoi beni, gli è nemico; chi li ha ricevuti in dono, finge perfino di non averli mai desiderati; e soprattutto nel condono dei debiti egli nasconde la sua gioia, perché non si creda che non era in grado di pagarli. All'incontro, chi ha patito l'ingiustizia, ben la ricorda e porta scritto in fronte suo rancore; e anche se quelli indegnamente favoriti sono più numerosi di quelli ingiustamente spogliati, non per questo hanno essi maggior forza e potere: in queste cose ciò che conta non è la quantità, ma la qualità. E poi, che giustizia è mai questa, che un campo, posseduto già da molti anni e perfino da molte generazioni, lo abbia chi non l'ha mai avuto, e chi l'ha sempre avuto, lo perda? 80 Appunto per un'ingiustizia di questo genere gli Spartani cacciarono l'èforo Lisandro e uccisero il loro re Agide, cosa che non era mai accaduta per l'innanzi presso di loro; e, dopo quel tempo, seguirono così grandi discordie che sorsero i tiranni, gli ottimati furono cacciati in bando e quello Stato così sapientemente costituito andò in rovina. E non soltanto esso cadde, ma sconvolse anche il resto della Grecia per il contagioso propagarsi del male, che, partito da Sparta, si diffuse per ampio tratto. E i nostri Gracchi, figli del grande Tiberio Gracco e nipoti dell'Africano, non furono forse travolti dalle contese delle leggi agrarie? 30 81 All'incontro, si loda giustamente Arato di Sicione, il quale, vedendo la sua città da ben cinquant'anni oppressa dai tiranni, partì da Argo ed entrato segretamente in Sicione, s'impadronì della città; poi, sopraffatto all'improvviso il tiranno Nicocle, richiamò seicento esuli, ch'erano stati i più ricchi 197
della città; e così, col suo provvido arrivo, restituì la libertà alla patria. Ma, incontrando grandi difficoltà riguardo al possesso dei beni, perché gli pareva sommamente ingiusto che vivessero nella miseria coloro ch'egli stesso aveva richiamati dall'esilio e i cui beni erano stati occupati da altri, e perché gli sembrava non troppo giusto sconvolgere dei possessi di cinquant'anni, dato che in cosi lungo spazio di tempo molti di essi erano tenuti legittimamente o per eredità o per compre o per doti; per queste ragioni egli giudicò opportuno non toglierli ai nuovi possessori e dare un'adeguata indennità agli antichi. 82 Fermamente persuaso, dunque, che, per assestar bene ogni cosa, occorreva molto denaro, disse che intendeva recarsi ad Alessandria e ordinò di lasciar la questione impregiudicata fino al suo ritorno; poi, senza perder tempo, andò da Tolomeo, che era stato suo ospite e che allora era re, il secondo dopo la fondazione di Alessandria. Gli espose il suo disegno di liberare la sua patria e lo informò dello stato delle cose. E così quel grand'uomo ottenne facilmente che il ricchissimo monarca l'aiutasse con una forte somma di denaro. Portata questa somma a Sicione, chiamò a consiglio quindici tra i più ragguardevoli cittadini, coi quali prese in esame le diverse condizioni e ragioni, sia di quelli che occupavano l'altrui, sia di quelli che avevano perduto il proprio. In tal modo, facendo la stima dei possedimenti, riuscì a persuadere o i nuovi occupanti ad accettare una somma di denaro, abbandonando i loro possessi, o i vecchi proprietari a credere più vantaggioso il ricevere in contanti il prezzo della stima, anziché il ricuperare l'antica proprietà. Ne conseguì che, ristabilita la concordia, tutti rimasero soddisfatti e contenti. 83 0 uomo grande e degno d'esser nato nella nostra repubblica! Questo è il modo equo ed onesto di comportarsi coi propri concittadini, non già, come noi abbiamo visto far due volte, piantar l'asta nel foro e vender all'incanto i loro beni. Ma quel greco, da uomo grande e sapiente, stimò suo sacrosanto dovere promuovere il bene di tutti; e invero il sommo della prudenza e della sapienza di un buon cittadino consiste appunto non nel mettere a contrasto e a conflitto gli interessi dei cittadini, ma nel trattarli tutti con la stessa legge di equità e di giustizia. “Abitino gratis in casa d'altri! ” E perché? io ho comprato e costruito, io ci spendo cure e denari, e tu dovrai goderti, a mio dispetto, la roba mia? 0 che altro è questo, se non un togliere ad uno il suo, per dare a un altro l'altrui? 84 E le nuove tavole dei debiti che altro scopo hanno se non questo, che tu possa comprarti un fondo col mio denaro, e poi, mentre tu ti godi il fondo, io non mi goda più il denaro? Bisogna dunque fare in modo che non si contraggano debiti che abbiano a danneggiare lo Stato, e questo pericolo si può evitare in molti modi; ma se debiti se ne sono contratti, non ne dovrà seguire che i creditori perdano il loro denaro e i debitori si avvantaggino del denaro altrui. E invero nessuna cosa è più efficace della fiducia a mantenere saldo lo Stato; ma questa fiducia non può affatto sussistere se non è assolutamente obbligatorio A pagamento dei debiti. Mai non s'è lottato con tanto accanimento per non pagarli, come sotto il mio consolato; si tentarono tutte le vie e tutti i mezzi da cittadini d'ogni sorta e d'ogni classe; ma io tenni fronte a tutti, si che estirpai interamente dalla repubblica questo grave malanno. Mai non ci furono debiti maggiori e mai non furono più agevolmente pagati: tolta la speranza di frodare, ne segui la necessità di pagare. Ma colui che oggi è il vincitore e che allora fu il vinto, quei tristi disegni che aveva concepiti, quando la cosa importava a lui, li mandò ad effetto, quando a lui non importava più nulla. Egli aveva una così perversa volontà di far il male, che trovava il suo piacere appunto nel far il male, così, senza ragione. 85 Pertanto, da questo genere di larghezze, che consiste nel dare agli uni e 198
nel togliere agli altri, si tengano ben lontani coloro che sono al governo dello Stato: il loro primo pensiero sia che, nella piena eguaglianza delle leggi e dei tribunali, ciascuno conservi il suo, e non avvenga che i poveri, per la loro umile condizione, siano sopraffatti, e che i ricchi, per l'astiosa invidia dei poveri, non possano conservare o ricuperare il loro; inoltre, con tutti i mezzi possibili, così in pace come in guerra, accrescano lo Stato di potenza, di territorio, di entrate. Queste sono le opere degli uomini grandi, queste furono le arti dei nostri padri; coloro che adempiono scrupolosamente tutti questi doveri, procurano alla patria le maggiori fortune e ottengono per sé grande favore e gloria. 86 In questi precetti, che riguardano l'utile, Antípatro di Tiro, filosofo stoico morto da poco tempo in Atene, pensa che Panezio abbia tralasciato due punti: il modo di conservar la salute e quello di procacciarsi una fortuna. Io credo che quel grande filosofo li abbia tralasciati perché molto facili a comprendersi; ché utili son certamente. Ma, ciò nonostante, ne dirò qualche cosa. La salute si conserva col conoscere a pieno la natura del proprio corpo, con l'osservare ciò che di solito gli giova o gli nuoce, con la temperanza nel vitto e nelle altre cure della persona, con l'astenersi dai piaceri; infine, col ricorrere all'arte del medico. 87 Quanto al patrimonio, bisogna procacciarselo con mezzi assolutamente onesti e conservarlo con la diligenza e con la parsimonia; con queste stesse virtù si deve anche aumentarlo. Di queste cose trattò egregiamente il socratico Senofonte in quel libro che s'intitola L'economico, e che io, quand'avevo press' a poco la tua età, tradussi dal greco in latino. Ma di tutta questa materia, cioè del modo di acquistare il denaro e di farlo fruttare (volesse il cielo anche del farne buon uso!), ragionano meglio di qualunque filosofo di qualunque scuola certe brave persone che siedono presso il Gíano di mezzo. Son cose tuttavia che giova conoscere, perché appartengono all'utile, di cui s'è trattato in questo libro. 88 Se non che spesso è necessario istituire un confronto tra due o più cose utili; ed è questo, come ho detto in principio, il quarto punto della mia trattazione, punto tralasciato da Panezio. In verità, si confrontano comunemente i beni corporali coi beni esterni, i beni esterni coi beni corporali, i corporali coi corporali e gli esterni con gli esterni. I beni corporali si confrontano coi beni esterni quando, per esempio, si domanda: “Val più la salute o la ricchezza?”; i beni esterni si confrontano coi corporali quando si domanda: “E' meglio la ricchezza o una grande forza fisica?”; e similmente si mettono a confronto i corporali fra di loro in questo modo: “E' preferibile la buona salute o il piacere? La forza o l'agilità?”; e infine si confrontano gli esterni fra di loro cosi: A meglio la gloria o la ricchezza? Sono più fruttuose le rendite di città o le rendite di campagna?”. 89 A questo genere di confronti appartiene quel detto di Catone. Un tale gli domanda che cosa giovi di più all'azienda domestica, e quello risponde: “Allevar bene il bestiame”; e poi?: “Allevarlo benino”; e poi?: “Allevarlo male”; e poi?: “Coltivar la terra”. Allora quel tale incalza: “E che ne pensi del prestar denaro a usura?”; e Catone pronto: “E che ne pensi dell'ammazzare un uomo?”. Da questo e da molti altri esempi si deve concludere che in ogni momento della vita si fanno confronti tra due o più cose utili, e che perciò con ragione abbiamo aggiunto questa quarta parte alla nostra discussione sui doveri. 90. Ma passiamo a trattare il resto.
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LIBRO III Marco, figliuol mio, Publio Scipione, quello che per primo ebbe il soprannome di Africano, era solito dire (come racconta Catone, che gli fu quasi coetaneo), che egli non era mai meno ozioso che quando era ozioso, e non mai meno solo che quando era tutto solo. Parole veramente magnifiche, e degne di un uomo grande e sapiente; parole che dimostrano che egli, lontano dai pubblici affari, pensava ai pubblici affari, e nella solitudine usava parlar con se stesso, sì che non era mai disoccupato, e spesso non sentiva il bisogno di conversar con altri. Così l'ozio e la solitudine, le due cose che agli altri portano fiacchezza, ritempravano il suo spirito. Oh, io vorrei poter dire con verità altrettanto di me; ma se, anche imitandolo, non posso raggiungere tanta altezza d'ingegno, tuttavia, almeno col desiderio, io mi accosto più da vicino a lui. In verità, escluso dalla vita pubblica e dall'attività forense per colpa di un'armata e scellerata violenza, io sono costretto a vivere in un ozio continuo e umiliante, e perciò, abbandonata Roma, trascorrendo di villa in villa, io mi trovo spesso tutto solo. 2 Ma questo mio ozio e questa mia solitudine non sono da paragonarsi con l'ozio e con la solitudine dell'Africano. Egli, infatti, solo per riposarsi dai più alti uffici dello Stato, si concedeva talvolta un po' di svago, e dalla numerosa e faticosa compagnia degli uomini si rifugiava talora nella solitudine come in un porto; il mio ozio, invece, è imposto, non già dal desiderio di quiete, ma dal non aver più nulla da fare. Spento il senato e distrutta la giustizia, che cosa c'è che lo possa fare degna di me nella curia o nel foro? 3 Così io, che vissi un tempo in mezzo a tanto affluir di gente e sotto gli occhi dei miei concittadini, ora, fuggendo la vista di quegli scellerati, onde ogni luogo trabocca, mi nascondo quanto più un è possibile e spesso mi trovo in tristissima solitudine. Ma, poiché ho imparato dai filosofi che, fra due mali, non solo bisogna scegliere il minore, ma anche ricavar da esso quel po' di bene che può racchiudere, io approfitto di questa mia pace (che non è certo quella a cui avrebbe diritto un uomo che un tempo procurò pace alla sua patria), e non permetto che trascorra languida e sterile questa solitudine a cui non la mia volontà, ma la necessità mi condanna. 4 Veramente, l'Africano conseguì, a mio parere, una gloria ben maggiore. Non ci resta nessun ricordo, affidato agli scritti, del suo ingegno, nessun'opera del suo riposo, nessun frutto della sua solitudine. Da ciò si deve arguire che quel grande, per l'attività dello spirito e per la ricerca di quelle cose che egli conquistava per forza di pensiero, non era mai né veramente ozioso né veramente solo; io, invece, che non ho tanto vigor d'intelletto da astrarmi dalla solitudine in una tacita meditazione, ho rivolto tutte le mie cure e tutti i miei pensieri a quest'opera dello scrivere. Ecco perché, caduta la repubblica, ho scritto in breve tempo assai più che in molti anni, quando la repubblica era ancora diritta e salda. 5 E' ben vero, figliuol mio, che tutta la filosofia è ricca di messi e di frutti, e che nessuna parte di essa è incolta e deserta; ma è anche vero che, nella filosofia, nessun luogo è più fertile e più ubertoso di quello che tratta dei doveri, dai quali derivano le norme di una vita informata a coerenza e onestà. Perciò, benché lo mi tenga sicuro che tu ascolti e apprendi con indefesso zelo questi principi dal nostro Cratippo,' il più grande dei filosofi contemporanei, tuttavia io credo utile che i tuoi orecchi siano come intronati d'ogni intorno da tali voci e che essi non odano, se è possibile, nessun'altra cosa. 6 E se devono conoscere la teoria e la pratica del dovere tutti coloro che hanno in animo d'incamminarsi per una vita onesta, non c'è forse nessuno 200
che più di te debba averne perfetta conoscenza. Tu porti sulle tue spalle il peso d'una grande aspettazione: si spera non poco che tu imiterai la mia operosità, si spera molto che tu raggiungerai i miei onori, si spera fors'anche un poco che tu conseguirai la mia fama. Per di più, tu ti sei addossato il carico d'una responsabilità verso Atene e verso Cratippo; e, poiché tu sei andato ad essi come a un grande emporio di nobili discipline, gran vergogna sarebbe che tu te ne tornassi a mani vuote, recando onta al prestigio di tale città e di tal maestro. Perciò tu, adoperando ogni sforzo dell'animo e sostenendo ogni fatica (se quella dell'apprendere è fatica e non piuttosto diletto), procura di riuscir nell'intento, e di non dar motivo di credere che, mentre io t'ho largamente fornito d'ogni aiuto, tu sei mancato a te stesso. Ma di ciò basta: ché sovente e a lungo io t'ho scritto per darti incitamenti e consigli; ora devo ritornare all'ultima delle parti in cui ho diviso il mio lavoro. 7 Orbene, Panezio,' che, senza contrasto, ragionò dei doveri con più accuratezza d'ogni altro, e che io ho particolarmente seguito, permettendomi solo qualche correzione, propose tre questioni, nelle quali gli uomini sogliono consultarsi e deliberare intorno al dovere: prima, quando si domanda: “Quest'azione è onesta o disonesta?”; seconda, quando si domanda: “Quest'azione è utile o dannosa?”; terza, quando, essendoci conflitto fra ciò che ha l'aspetto dell'onesto e ciò che ha l'aspetto dell'utile, si domanda: “In che modo si deve risolver la cosa?”. Se non che, mentre egli trattò delle due prime questioni in tre libri, della terza disse che ne avrebbe parlato di poi; ma non mantenne la promessa. 8 E la cosa tanto più mi stupisce, perché Posidonio,' suo discepolo, lasciò scritto che Panezio visse altri trent'anni dopo la pubblicazione di quei libri. E mi stupisce ancora che Posidonio, in certe sue memorie, abbia toccato di sfuggita questo argomento, tanto più che egli scrive che in tutta la filosofia non c'è una questione più importante di questa. 9 Io però non sono affatto d'accordo con coloro i quali affermano che Panezio non dimenticò questo punto, ma lo tralasciò a bella posta, e che anzi non se ne doveva per nulla trattare, perché l'utile non può mai venire a conflitto con l'onesto. Ora, su questo punto, si potrà dubitare se si doveva porre quel problema, che nella ripartizione di Panezio occupa il terzo posto, o se invece si doveva trascurarlo del tutto; ma non si può mettere in dubbio che Panezio si sia impegnato a trattarlo, mai poi l'abbia abbandonato. In verità, se uno divide la sua materia in tre parti e ne svolge due, è 33 naturale che gli resti da svolgere la terza; oltre a ciò, sulla fine del terzo libro, egli promette di trattar più tardi anche questa terza parte. 10 A ciò si aggiunge l'autorevole testimonianza di Posidonio, il quale, in una sua lettera, scrive per l'appunto che Publio Rutilio Rufo,' che era stato scolaro di Panezio, era solito dire che, per la grande eccellenza di quella parte che Panezio aveva compiuto, nessuno aveva osato condurre a termine quell'altra che egli aveva tralasciata, così come non s'era trovato nessun pittore che, nella Venere di Coo, portasse a compimento quella parte che Apelle aveva lasciato incompiuta, perché la bellezza del volto toglieva la speranza di poterla adeguare nel resto del corpo. 11 Pertanto non si può mettere in dubbio l'intenzione di Panezio; tutt'al più si potrà discutere se egli abbia avuto ragione o torto di proporsi anche questa terza questione, allo scopo di trattare a fondo il dovere. In verità, o che l'onesto sia l'unico bene, come vogliono gli Stoici, o che, come credono i vostri Peripatetici, l'onesto sia il massimo bene, sì che tutti gli altri beni, posti nell'altro piatto della bilancia, abbiano appena un lievissimo peso, una cosa è certa: l'utile non può mai venir a conflitto con l'onesto. Ecco perché Socrate, com'è noto, era solito imprecare contro coloro che, per un erroneo giudizio della mente, avevano per primi separato questi 201
due concetti che sono per natura indissolubilmente congiunti. E gli Stoici consentirono cosi pienamente con Socrate da tener per certo che tutto ciò che è onesto, è anche utile, e non è utile se non ciò che è onesto. 12 Che se Panezio fosse tal uomo da dire che si deve praticare la virtù, appunto perché essa è produttrice di utilità, come affermano quelli che misurano l'appetibilità delle cose o dal piacere o dall'assenza del dolore, potrebbe ben dire che l'utile qualche volta viene a conflitto con l'onesto. Egli, invece, è tal uomo che giudica buono solo ciò che è onesto, e pensa che tutte quelle cose che, pur con una certa parvenza d'utile, contrastano con l'onesto, esse, né aggiunte rendano migliore la vita, né sottratte la rendano peggiore; sembra perciò che un tal uomo non avrebbe dovuto introdurre una discussione di tal genere, in cui ciò che è apparentemente utile si confronta con ciò che è realmente onesto. 13 Infatti, ciò che gli Stoici chiamano sommo bene, cioè il vivere secondo natura, non ha, io credo, altro significato che questo: vivere sempre in perfetta armonia con la virtù, e quelle altre cose, che appartengono all'ordine materiale, sceglierle con tal criterio che esse non siano in contrasto con le virtù. Stando così le cose, alcuni credono che Panezio sia stato illogico a introdurre questo confronto; e che anzi, in tale materia, non si possa e non si debba dare assolutamente alcun precetto. Se non che l'onestà, nella sua purezza ideale, si trova soltanto nei sapienti e non può essere mai disgiunta dalla virtù; coloro, invece, che non hanno perfetta sapienza, non possono avere in alcun modo quella perfetta onestà, ma solo una pallida immagine di essa. 14 Questi doveri appunto, di cui vado trattando in questi libri, sono quelli che gli Stoici chiamano mezzani: doveri di specie comune e di larga applicazione, che molti uomini raggiungono o per naturale bontà d'indole o per progressiva educazione morale. Quel dovere, invece, che gli Stoici chiamano retto, è assoluto e perfetto, e, come dicono essi, ha in sé tutti i requisiti e non può riscontrarsi in nessuno se non nel vero sapiente. 15 Quando però si compie qualche azione in cui si mostrano attuati i doveri mezzani, essa appare veramente perfetta, appunto perché il volgo, generalmente, non comprende quanto essa sia lontana dalla somma perfezione; fin dove arriva la sua intelligenza, egli crede che nulla vi manchi. Lo stesso accade ogni giorno in fatto di poesie, di pitture e di molte altre opere: i profani ne prendono diletto, e lodano proprio quello che non è da lodare, appunto perché, io credo, esse racchiudono qualcosa di buono che affascina gl'inesperti; i quali, poi, non sanno giudicare qual difetto si nasconda in ogni particolare. Ecco perché, quando sono illuminati dai competenti, mutano facilmente parere. Questi doveri, adunque, di cui vado trattando in questi libri, sono, come dicono gli Stoici, quasi virtù di second'ordine e non soltanto proprie dei sapienti, ma comuni a ogni sorta di persone. Ecco perché ne sono fortemente attratti tutti coloro che hanno in sé una naturale inclinazione alla virtù. 16 Invero, quando si esaltano come uomini forti i due Decii o i due Scipioni,' o quando si dà il nome di giusto a un Fabrizio o a un Aristide, non si pretende da quelli una fortezza esemplare né da questi un'esemplare giustizia, come si richiede da un perfetto sapiente: nessuno di costoro fu sapiente secondo il rigoroso concetto che noi abbiamo della sapienza; e Marco Catone e Gaio Lelio, che ebbero fama e nome di sapienti, non furono veramente tali, e tali veramente non furono nemmeno quei sette famosi sapienti della Grecia; ma, per l'abituale osservanza dei doveri mezzani, essi avevano tutta l'apparenza di veri sapienti. 17 Ciò premesso, quel che è perfettamente onesto non deve venire a paragone e a contrasto con quello che è utile; e così, ciò che noi chiamiamo comunemente onesto e che è praticato da coloro che vogliono esser tenuti per 202
uomini dabbene non deve esser mai paragonato coi vantaggi derivanti dalle singole azioni; anzi, noi dobbiamo scrupolosamente osservare quell'onestà che è alla portata della nostra intelligenza, così come i sapienti osservano la vera e perfetta onestà; se no, non si può conservare quel progresso che per avventura si sia fatto sul cammino della virtù. Ma questi avvertimenti valgono per coloro che sono stimati uomini dabbene perché adempiono i loro doveri. 18 D'altra parte, coloro che misurano tutte le cose dai vantaggi materiali e non vogliono che l'onestà abbia maggior peso e valore di quelli, sono soliti, nelle loro deliberazioni, paragonar l'onesto con ciò che essi credono utile; cosa che non fanno mai le persone dabbene. Credo perciò che Panezio, quando disse che gli uomini in questo confronto sogliono rimaner perplessi, abbia inteso per l'appunto ciò che suonano queste sue parole: sogliono e non già devono. Invero, è gran vergogna, non solo tenere in maggior conto ciò che sembra utile, di quel che è onesto, ma anche solo il paragonar fra di loro questi due termini e il nutrire a questo proposito il benché minimo dubbio. Ma che cos'è dunque ciò che talvolta ci rende perplessi e sembra richiedere da noi un attento esame? E' che qualche volta, credo, ci assale un dubbio: qual è la vera natura dell'atto che noi volgiamo e rivolgiamo nella mente? 34 19 Spesso, infatti, ciò che si suol tenere comunemente per disonesto, col variar delle circostanze, non si reputa più disonesto. A titolo d'esempio, si supponga un caso che valga per tutti: qual maggior delitto può esserci che uccidere un uomo e per di più amico? Ebbene, commette forse un delitto chi uccide un tiranno, sia pure intimo amico? Il popolo romano risponde di no: fra tutte le nobili azioni, nessuna gli par più bella di questa. Dunque l'utile ha vinto l'onesto? No; anzi è l'onesto che s'accompagna all'utile. Ora, perché noi possiamo ben giudicare e ben deliberare senz'ombra di errore, quando per caso ciò che chiamiamo utile sembra contrastare con ciò che intendiamo per onesto, dobbiamo stabilire una regola generale; e se noi seguiremo questa regola, nel confronto e nel contrasto delle azioni, non ci scosteremo mai dal dovere. 20 E questa regola sarà pienamente conforme al sistema filosofico degli Stoici, al quale appunto io mi attengo in questi libri per questa semplice ragione: è vero che gli antichi Accademici e i vostri Peripatetici, i quali un tempo furono tutt'uno con gli Accademici, antepongono ciò che è onesto a ciò che sembra utile; ma è pur vero che gli Stoici, i quali affermano che tutto ciò che è onesto è anche utile, e che non è utile se non ciò che è onesto, trattano questa materia assai più nobilmente degli Accademici e dei Peripatetici, i quali ammettono l'esistenza di cose oneste non utili e di cose utili non oneste. Quanto a me, la mia Accademia mi dà ampia facoltà di sostenere con pieno diritto tutto ciò che ci si presenta come più probabile. Ma ora ritorno alla regola generale. 21 Orbene, che un uomo sottragga qualche cosa a un altro uomo e che a danno altrui accresca il proprio vantaggio, è cosa più contraria alla natura che non la morte, la povertà, il dolore, e tutti quegli altri mali che possono colpire o il corpo o i beni esterni. Anzitutto, un tal modo d'agire distrugge dalle fondamenta la società umana. Invero, se noi siamo così disposti nell'animo da spogliare o far violenza ad altri per il nostro particolare vantaggio, è inevitabile che s'infranga quell'umana convivenza in cui più fedelmente si rispecchia e si adempie la legge della natura. 22 A quel modo che, se ciascun membro del nostro corpo immaginasse di poter essere sano e forte attirando a sé la sanità e il vigore del membro vicino, necessariamente l'organismo intero s'indebolirebbe e perirebbe, così, se ciascuno di noi si appropriasse i beni altrui, sottraendo a ciascuno quanto più può per il proprio vantaggio, necessariamente la società umana andrebbe in rovina. In verità, che ciascun uomo 203
preferisca acquistar per sé anziché per altri ciò che serve ai bisogni della vita, è cosa perfettamente legittima e naturale; solo che la natura non tollera assolutamente che noi accresciamo le nostre sostanze, i nostri agi e la nostra potenza con le spoglie degli altri. 23 E invero, non solo le leggi di natura, cioè il diritto delle genti, ma anche le leggi dei vari popoli, sulle quali si fonda la costituzione dei singoli Stati, stabiliscono allo stesso modo il principio che non è lecito nuocere ad altri per provvedere al proprio vantaggio. A questo mirano e questo vogliono le leggi positive: che la convivenza civile si mantenga intatta e salda; e puniscono di multe, di carcere, d'esilio, di morte coloro che tentano di spezzarla. Anzi, questo principio trova una ancor più valida conferma nella ragione universale, che è legge divina e umana: chi a questa legge obbedisce di buon grado (e obbediranno tutti coloro che vorranno vivere secondo natura), non avrà mai tanto ardire da stendere la mano verso le cose altrui e da appropriarsi ciò che avrà tolto ad altri. 24 In verità, l'elevatezza e la grandezza dell'animo, come pure la cortesia, la giustizia, la liberalità, sono molto più conformi alla natura che non il piacere, la vita, le ricchezze; il guardar con disprezzo tutte queste cose e il non farne alcuna stima, in confronto della comune utilità, è indizio d'animo grande ed elevato. [ Il sottrarre invece ad altri per il proprio vantaggio è più contrario alla natura che non la morte, il dolore e gli altri mali dello stesso genere.] 25 Allo stesso modo, il prender sopra di sé le più gravi molestie e i più duri travagli per giovare e per salvare, se è possibile, tutte le genti umane, imitando l'esempio di quell'Ercole, che la fama degli uomini, memore dei suoi benefizi, collocò nel concilio degli dei; il far tutto questo, dico, è più conforme all'ordine naturale che non il vivere in solitudine, non solo senz'alcuna molestia, ma anche in mezzo ai più grandi piaceri, straordinariamente ricco di tutti gli agi, e per di più splendente di bellezza e di forza. Perciò, quanto più uno è fornito di nobile e generosa natura, tanto più preferisce quella vita a questa. Da ciò consegue che l'uomo, il quale obbedisca alla suprema legge della natura, non può recar danno a un altro uomo. 26 Infine, colui che fa violenza a un altro per conseguire un suo proprio vantaggio, o crede in buona fede di non far nulla contro la natura, o giudica che il fare oltraggio a qualcuno sia bensì un male, ma assai minore di quanto non siano il dolore, la povertà, la morte, e, soprattutto, la perdita degli amici, dei parenti, dei figli. Se crede che, facendo violenza agli uomini, non si operi contro natura, a che pro discutere con uno che sopprime interamente l'umanità nell'uomo? Se pensa, invece, che il fare oltraggio a qualcuno sia bensì un atto da evitare, ma che la morte, la povertà, il dolore siano malanni molto peggiori, commette un grand'errore, in quanto crede che i mali del corpo e i colpi della fortuna siano più gravi che le triste passioni dell'animo. Sia dunque ben presente a tutti questo principio supremo: l'utile individuale s'identifica con l'utile universale; e se i singoli individui usurpano l'utile universale, tutta l'umana società si dissolve d'un tratto. 27 Ancora. Se la legge naturale prescrive che l'uomo provveda volenterosamente al bene d'un altro uomo, chiunque egli sia, per la sola ragione che è un uomo, ne viene di necessità, secondo la stessa legge naturale, che l'utilità dei singoli è nell'utilità di tutti. Ora, se questo è vero, siamo tutti sottoposti a una sola e identica legge; e se anche questo è vero, certamente la legge naturale ci vieta di far violenza agli altri: vera la premessa, vera la conseguenza. 28 E' veramente assurdo ciò che affermano alcuni: “Ai miei genitori o a mio fratello, io non toglierei mai nulla per il mio proprio vantaggio; ma, quanto agli altri concittadini, oh, questa è tutt'altra cosa”. Costoro presumono di non avere nessun legame giuridico, nessun rapporto 204
sociale con gli altri concittadini per promuovere il bene comune; principio che disgrega ogni convivenza civile. Quelli, poi, che dicono: “Bisogna aver riguardo dei concittadini, ma non dei forestieri”, costoro dissolvono l'universale convivenza umana; e, distrutta questa, anche la beneficenza, la liberalità, 35 la bontà e la giustizia van distrutte sin dalle fondamenta; e chi distrugge queste virtù dev'essere giudicato empio anche verso gli dei immortali. Perché appunto gli dei hanno costituito fra gli uomini quella società che essi abbattono; società il cui più saldo vincolo è in questo principio: quando un uomo reca danno a un altro uomo per il proprio vantaggio, egli va contro natura assai più che quando patisce ogni sorta di malanni esteriori o corporei o anche moralii, che siano intrinsecamente ingiusti, cioè immeritati. In verità, la giustizia è signora e regina di tutte le virtù. 29 Dirà forse qualcuno: “Non potrà dunque un vero sapiente, che si senta morir di fame, togliere il cibo a un altro uomo perfettamente inutile? [No davvero: perché la mia vita non è a me più utile di quel che sia una tale disposizione dell'animo che mi vieti di recar danno ad alcuno per mio vantaggio.] E se un uomo dabbene, per non morir di freddo, potesse spogliar delle vesti un crudele e mostruoso tiranno come Falaride,' non dovrebbe egli farlo?”. 30 A queste domande è molto facile rispondere. Ecco: se tu, per il tuo particolar vantaggio, togli qualche cosa a un uomo, sia pure perfettamente inutile, tu commetti un'azione inumana e contraria alla legge di natura; ma se, invece, tu sei uno che, rimanendo in vita, può recare gran giovamento alla sua patria e alla società umana, non meriti alcun biasimo se, appunto per quello scopo, togli un po' di cibo a un altro. Ma, se non c'è questa giustificazione ideale, oh, allora ciascuno sopporti in pace i suoi propri disagi piuttosto che toglier qualcosa all'agiatezza di un altro. Non pertanto le malattie, la povertà e gli altri malanni di tal genere non sono più contrari alla natura che l'usurpare o anche solo il desiderare la roba degli altri; ma il trascurare la pubblica utilità, questo, sì, è contrario alla natura, perché offende la giustizia. 31 Ecco perché anche la legge naturale, che conserva e assicura il benessere comune, ordina in modo categorico che le cose necessarie alla vita passino da un uomo dappoco e inutile a un uomo sapiente, buono e valoroso, la cui morte potrebbe recar grave danno all'utilità comune; ma con questa riserva, che egli non tragga motivo a commettere atti ingiusti dalla troppa stima e dal troppo amor di se stesso. Entro questi limiti, egli adempirà sempre il suo dovere, provvedendo alla felicità degli uomini e a quella società umana, che io vado così spesso ricordando. 32 Per ciò che riguarda Falaride, la risposta è molto facile. Fra noi e i tiranni non c'è nessun rapporto sociale, ma piuttosto un incolmabile abisso; e non è contro natura spogliare, se è possibile, colui che sarebbe onesto uccidere; anzi, tutta questa scellerata ed empia genia dovrebbe essere sterminata dal consorzio umano. In verità, come si amputano certe membra, quando esse cominciano a mancar di sangue e quasi di vita e nuocciono alle altre parti del corpo, così codesta mostruosa crudeltà di belva in sembianza d'uomo dev'essere estirpata dalla pura e schietta umanità del consorzio civile. Di tal genere sono tutte quelle questioni nelle quali si studia il comportamento del dovere nelle varie circostanze. 33 Io credo, dunque, che Panezio avrebbe trattato simili questioni, se qualche accidente o qualche occupazione non gli avesse impedito di condurre a termine il suo disegno. E appunto per risolvere tali questioni, i miei due libri precedenti offrono molti consigli, che permettono di veder chiaro quali azioni si debbano fuggire per la loro intrinseca disonestà e quali invece non si debbano fuggire, appunto perché non sono in tutto e per tutto disoneste. Ma, poiché io mi accingo a coronare l'opera incominciata, anzi 205
quasi compiuta, farò come fanno i matematici: essi, di solito, non dimostrano tutto, ma si fanno concedere alcuni postulati per poter poi più facilmente spiegare il loro assunto; e così io chiedo a te, figliolo mio, di concedermi, se puoi, questo postulato: nulla è desiderabile per se stesso fuorché l'onesto. Ma se non puoi concedermi tanto, per riguardo a Cratippo, concedimi almeno quest'altro: ciò che è onesto, è per se stesso desiderabile sopra ogni altra cosa. A me basta o l'uno o l'altro dei due postulati; e invero ora l'uno, ora l'altro a me par più probabile; e, oltre questi due, nessun altro mi par probabile. 34 E, innanzi tutto, bisogna, a difesa di Panezio, chiarire questo punto: egli non disse (e non poteva assolutamente dirlo) che l'utile, il vero utile, qualche volta viene a conflitto con l'onesto: disse e intese l'utile apparente. In verità, egli afferma recisamente più d'una volta che non c'è cosa utile che non sia onesta, e non c'è cosa onesta che non sia anche utile; e dichiara che nessuna maggior calamità ha percosso la vita umana che il pregiudizio di coloro che hanno separato questi due concetti. Concludendo: Panezio introdusse quest'apparente e non reale contrasto fra l'onesto e l' utile, non perché qualche volta noi dobbiamo anteporre l'utile all'onesto, ma perché possiamo con retto criterio ben discernere e ben giudicare quelle cose, quando intervenga il dubbio. Ora io compirò questa parte, da lui tralasciata, senza alcun aiuto, ma, come suol dirsi, con le sole mie armi. Fra tutte le opere, che hanno trattato questo argomento dopo Panezio, nessuna, che sia venuta al35 Quando, adunque, ci si presenta qualche apparenza d'utile, naturalmente ne siamo attratti; ma se, considerando attentamente la cosa, vediamo che la disonestà è intrinsecamente congiunta a quell'azione che ha l'aspetto dell'utile, allora, pur senza rinnegare il concetto dell'utile, dobbiamo persuaderci che, dove c'è la disonestà, non può esserci l'utilità. Che se nulla è tanto contrario alla natura quanto la disonestà (la natura, infatti, esige rettitudine, armonia, coerenza, e disdegna il loro contrario), e se nulla è tanto conforme a natura quanto l'utile, ne consegue che l'utilità e la disonestà non possono coesistere nella medesima azione. E, allo stesso modo, se noi siamo nati per l'onestà, e questa o è l'unica cosa per se stessa desiderabile, come parve a Zenone,' o almeno deve aver l'assoluta prevalenza su tutte le altre cose, come vuole Aristotele, ne viene di necessità che l'onesto o è l'unico bene o è il massimo bene; ma ciò che è bene, è certamente anche utile; e di conseguenza tutto ciò che è onesto è utile. 36 Perciò, solo il falso apprezzamento di uomini malvagi, non appena afferra qualche cosa che gli sembri utile, immediatamente la separa dell'onesto. Di qui nascono i pugnali, i veleni, i falsi testamenti; di qui i furti, i peculati, le rapaci spogliazioni degli alleati e dei cittadini; di qui sorge la cupidigia di soverchie ricchezze e d'intollerabile potenza, e, infine, anche la bramosia di regnare nelle libere repubbliche: tutte cose che sono le più orrende e le più abominevoli che si possano immaginare. Vedono, nel loro fallace giudizio, i particolari vantaggi, ma non vedono il castigo; non dico 36 quello stabilito dalle leggi, che essi tante volte riescono a eludere, ma quello, che è pur tanto amaro, inflitto dalla disonestà stessa. 37 Via, dunque, dal consorzio umano questa dubbiosa e perplessa genia, che è tutta scellerata ed empia; via questi uomini che stan lì a pensare se devono seguir ciò che riconoscono onesto, o se devono consapevolmente contaminarsi di scelleratezza: perché, pur il solo dubitare è già una colpa anche se poi questi dubbiosi non la traducono in atto. Non bisogna perciò assolutamente deliberare tra sé e sé quelle cose, che anche il solo pensarle è vergogna. 38 Dirò di più: da ogni deliberazione interiore si tenga lontana la speranza e anche solo il pensiero di tener segreto e occulto il misfatto. Noi dobbiamo essere intimamente persuasi, per poco che abbiamo 206
appreso dalla filosofia, che, quand'anche potessimo celarlo a tutti gli dei e a tutti gli uomini, non dobbiamo assolutamente commettere nessun atto né d'ingordigia, né d'ingiustizia, né di dissolutezza, né d'intemperanza. Qui cade a proposito il famoso aneddoto di Gige, narrato da Platone. Gige, adunque, essendosi aperta e sprofondata la terra per effetto di grandi e continue piogge, discese in quella voragine, e lì scorse (così raccontano le favole) un cavallo di bronzo, nei fianchi del quale c'era una porticina. Aperta questa, vide il cadavere di un uomo di straordinaria grandezza, con un anello d'oro al dito. Gli tolse l'anello e se l'infilò nel suo; poi, siccome era un pastore del re, si recò all'adunanza dei pastori. Quivi, ogni volta che rivolgeva il castone dell'anello verso la palma della mano, non era veduto da alcuno, mentre egli vedeva tutto; tornava poi ad esser veduto, ogni volta che, rigirando l'anello, lo rimetteva al suo posto. Allora, cogliendo l'opportunità che l'anello gli offriva, fece violenza alla regina, e così, con l'aiuto di lei, uccise il re suo signore e tolse di mezzo tutti coloro che credeva d'ostacolo ai suoi disegni; e nessuno poté mai vederlo nell'atto di compiere questi delitti. Così, a un tratto, per virtù dell'anello, egli diventò re della Lidia. Orbene, il sapiente, anche se avesse questo magico anello, non crederebbe che gli fosse lecito di fare il male più che se non l'avesse: gli uomini dabbene cercano l'onestà, non l'impunità. 39 E, a questo proposito, certi filosofi per verità nient'affatto malvagi, ma non abbastanza accorti, dicono che Platone ha inventato un racconto immaginario e fantastico; come se egli sostenesse che la cosa è avvenuta o poteva avvenire. Ecco il vero significato di quest'anello e di quest'esempio: se fosse assolutamente certo che, se tu commetti una mala azione per amor di ricchezza, di potenza, di dominio, di piacere, nessuno verrà a saperlo, nessuno ne avrà il più lieve sospetto; se fosse stabilito dai fati che la cosa rimarrà eternamente ignota agli dei e agli uomini, la faresti tu? Dicono che la cosa è impossibile. Veramente, impossibile non è; ma io domando che cosa farebbero, se ciò che affermano impossibile, fosse invece possibile. Insistono con la testardaggine dei villani: “No, non è possibile”; e si ostinano a non capire il significato della mia ipotesi. Quando noi domandiamo che cosa farebbero se potessero tener nascoste le loro malefatte, non domandiamo già se realmente possano tenerle nascoste, ma li mettiamo, per così dire, con le spalle al muro, di modo che, se rispondono che, assicurata l'impunità, farebbero il comodo loro, confessino così che sono dei furfanti; se invece rispondono di no, ammettano in tal modo che tutte le azioni disoneste si devono fuggire per se stesse. Ma ormai è tempo di ritornare al nostro proposito. 40 Avvengono spesso molti casi che confondono la mente con l'apparenza dell'utile. Non già quando ci si domanda se si debba voltar le spalle all'onesto per la singolare grandezza dell'utile (ciò che è disonestà vera e propria), ma quando ci si domanda se si possa compiere senza vergogna ciò che ha l'aspetto dell'utile. Quando Bruto toglieva il comando al collega Collatino,' poteva sembrare che egli facesse una cosa ingiusta: Collatino era stato il suo compagno di consiglio e d'azione nella cacciata dei re. Ma, poiché i più ragguardevoli cittadini avevan deliberato di toglier di mezzo la parentela del Superbo, di sopprimere il nome dei Tárquinii e di cancellare anche il ricordo della monarchia, l'utile reale, cioè il supremo interesse della patria, coincideva a tal punto con l'onestà che esso non poteva non essere approvato anche da Collatino. E così l'utilità prevalse in virtù dell'onestà, senza la quale anche l'utilità non sarebbe stata possibile. 41 Non così avvenne per quel re che fondò la nostra città. Fu l'apparenza dell'utile che vinse l'animo suo. Credendo assai più utile regnar da solo che dividere il potere con un altro, uccise il fratello. Egli calpestò l'amor 207
fraterno e il sentimento umano, pur di raggiungere quello scopo che gli pareva utile, ma utile non era. E tuttavia, a sua discolpa, allegò il pretesto delle mura, giustificazione né plausibile né convincente. Egli, dunque, commise un vero delitto: sia detto con buona pace di Quirino o di Romolo. 42 Non si creda, però, che noi dobbiamo trascurare i nostri personali vantaggi a benefizio degli altri, quando noi stessi ne abbiamo stretto bisogno; anzi, ciascuno deve provvedere con sollecitudine al proprio vantaggio, purché ciò avvenga senza danno altrui. Bella e saggia, come tante altre, questa sentenza di Crisippo: “Chi corre nello stadio, deve accanitamente lottare con tutte le sue forze per riportar la vittoria; ma non deve in nessun modo dar lo sgambetto a quello con cui gareggia, né ricacciarlo indietro con la mano. Così, nella vita, non è ingiusto che un uomo cerchi di procurarsi quanto gli abbisogna, ma non è giusto che egli lo sottragga ad altri”. 43 Ma soprattutto nelle amicizie si confondono i doveri, perché, tanto il non concedere agli amici quello che onestamente si può, quanto il concedere quello che non è lecito, è un venir meno al proprio dovere. Se non che tutta questa materia è regolata da una breve e non difficile norma. E' vero che tutto ciò che sembra utile, cioè gli onori, le ricchezze, i piaceri e le altre cose di simil genere, non devono mai anteporsi all'amicizia; ma è altrettanto vero che l'uomo dabbene, per amor dell'amico, non farà mai nulla né contro la patria né contro il giuramento e la fede, nemmeno se si troverà a esser giudice in una causa che riguardi l'amico: quando indossa la veste di giudice, egli depone quella d'amico. Una sola cosa egli concederà all'amicizia: preferirà che la causa dell'amico sia giusta, e all'amico accorderà, perché difenda la sua causa, tutto il tempo che la legge gli consente. 37 44 Ma quando, prestato il giuramento, si accinge a pronunziar la sentenza, ricordi ch'egli ha per testimone Iddio, cioè, come io penso, la propria coscienza, che è la cosa più divina che Iddio abbia concesso all'uomo. Bello, per tanto, quel costume tramandatoci dai nostri padri (oh, se noi lo conservassimo ancora), di pregare il giudice con questa formula: “Fa per me tutto quello che puoi, purché sia salva la tua coscienza”. Questa preghiera non va oltre quei favori che, come ho detto poc'anzi, un giudice può onestamente concedere all'amico; perché se si dovesse fare tutto ciò che gli amici vogliono, tali amicizie non sarebbero da reputarsi amicizie, ma cospirazioni. 45 Parlo, s'intende, delle amicizie comuni; poiché, negli uomini sapienti e quindi perfetti, non può esserci nulla di simile. Si racconta che Damone e Finzia, seguaci di Pitagora, si amavano l'un l'altro di grande amore. Or avvenne che il tiranno Dionisio condannò a morte un di loro e fissò il giorno del supplizio. Allora, avendo questi domandato alcuni giorni per salutare i suoi cari e per raccomandarli agli amici, l'altro si offrì mallevadore del suo tempestivo ritorno, obbligandosi a morir lui, se l'amico non fosse tornato. Ma ecco, nel giorno stabilito, l'amico ritornò. Allora il tiranno, ammirato della loro lealtà, chiese che l'accogliessero come terzo nella loro amicizia. 46 Quando, dunque, nell'amicizia, ciò che sembra utile si mette a confronto con ciò che è onesto, soccomba l'apparenza dell'utile e trionfi la realtà dell'onesto; quando, invece, nell'amicizia, si pretendono cose non oneste, allora, sull'amicizia, prevalga la scrupolosa osservanza del dovere. Si avrà così quella giusta scelta tra i vari doveri che è appunto l'oggetto della nostra ricerca. Se non che, per l'apparenza dell'utile, si commettono spesso molti e gravi errori anche nella vita politica degli Stati. Sbagliarono gravemente i Romani quando distrussero Corinto; sbagliarono ancor più gravemente gli Ateniesi, quando decretarono che si mozzassero i pollici agli Egineti, che erano potenti sul mare. Questo provvedimento parve utile, perché 208
Egina, per la sua vicinanza, dominava minacciosa il Pireo. Ma nessun atto, che sia crudele, può esser utile: la crudeltà è mortale nemica di quell'innato sentimento umano, che noi dobbiamo fedelmente seguire. 47 Male si comportano anche coloro che vietano agli stranieri di usufruire delle nostre città e li cacciano in bando, come fece Penno al tempo dei nostri padri e come ha fatto Papio or non è molto. In verità, è giusto che non si permetta di arrogarsi il diritto di cittadino a chi cittadino non è (e, a questo proposito, promu lgarono una legge due sapientissimi consoli, Crasso e Scevola);' ma è addirittura disumano che si vieti agli stranieri di soggiornare nella nostra città. Nobilissimi, invece, sono quei casi in cui l'apparente utilità pubblica cede di fronte all'onestà. Ricca di tali esempi è la nostra repubblica, come in ogni tempo, così specialmente nella seconda guerra punica, quand'essa, dopo la disfatta di Canne, mostrò un così alto e fermo coraggio come non aveva mostrato mai nella prospera fortuna: nessun indizio di sgomento, nessuna menzione di pace. Tanta è la potenza dell'onesto che offusca lo splendore dell'utile. 48 Gli Ateniesi, non potendo in alcun modo sostenere l'impetuoso assalto dei Persiani, stabilirono che gli uomini validi, abbandonata la città e poste in salvo le mogli e i figli a Trezene, montassero sulle navi e difendessero sul mare con la flotta la libertà della Grecia. In quel frangente, essi lapidarono un tal Círsilo che li consigliava di rimanersene in città e di aprir le porte a Serse. Eppure, evidentemente, Círsilo non mirava che all'utile; ma l'utile non aveva alcun valore di fronte all'onesto. 49 Temistocle, dopo la vittoria riportata nella guerra contro i Persiani, affermò in piena assemblea ch'egli aveva un disegno assai vantaggioso per la patria, ma che era opportuno non fosse conosciuto da tutti; chiese che il popolo gli desse qualcuno a cui confidarlo; gli fu dato Aristide. E ad Aristide egli disse che si poteva incendiar di nascosto la flotta degli Spartani, la quale era tirata in secco a Gizío:' questo fatto avrebbe inevitabilmente abbattuto la potenza di Sparta. Udita questa proposta, Arístide, tra la più grande aspettazione, ritornò all'assemblea e li dichiarò che il consiglio di Temistocle era bensì utilissimo, ma nient'affatto onesto. Allora gli Ateniesi, giudicando che quello che non è onesto non è neanche utile, rigettarono sdegnosamente, sulla parola di Aristíde, tutto quell'affare che non avevano neppure udito. Quanto meglio si comportarono gli Ateniesi di noi, che affranchiamo da ogni gravezza i pirati e carichiamo di tributi i nostri alleati! Rimanga, dunque, ben fermo questo principio, che ciò che è disonesto non è mai utile, neanche nel momento stesso in cui si riesca a ottenere ciò che si presume utile: il solo pensare che sia utile ciò che è disonesto è già di per sé una gran colpa. 50 Ma spesso, come ho già detto, avvengono casi in cui può sembrare che l'utile contrasti con l'onesto; allora bisogna ben considerare se l'utile contrasti realmente con l'onesto, o se in qualche modo possa conciliarsi con esso. Ecco, per esempio, alcune questioni di tal genere. Un onest'uomo trasporta da Alessandria a Rodi un grosso carico di grano, mentre i Rodiesi son travagliati dalla miseria e dalla fame, e, insomma, da una spaventosa carestia. Egli sa ancora che molti altri mercanti hanno salpato da Alessandria, e anzi, durante la rotta, ha veduto le loro navi cariche di grano far vela alla volta di Rodi. Ora si domanda: dovrà egli dir tutto ai Rodiesi, oppure, serbando il silenzio, vendere il suo grano al più alto prezzo possibile? Noi immaginiamo il caso di un uomo saggio e onesto; noi supponiamo l'attenta e coscienziosa riflessione di un uomo che certamente non terrebbe nascosta la cosa ai Rodiesi, se giudicasse ciò disonesto, ma che propende a credere che ciò disonesto non sia. 51 In simili casi, per solito, Diogene di Babilonía, grande e austero filosofo stoico, la pensa in un modo e in un altro modo la pensa il suo discepolo Antípatro,' 209
uomo d'acutissimo ingegno. Antípatro è del parere che si debba sudare ogni cosa, perché il compratore non ignori assolutamente nulla di ciò che il venditore conosce; Rogene, invece, sostiene che il venditore ha bensì l'obbligo di dire i difetti della sua merce, in quanto è stabilito dal diritto civile, ma che, nel resto, purché agisca senza frode, può, come venditore, cercar di vendere col maggior profitto possibile. “Ho portato fin qua la mia merce, l'ho messa in mostra, la vendo a un prezzo non maggiore degli altri e forse anche minore, dato che io avrei una maggiore possibilità di guadagno. A chi faccio torto?” 38 52 Sorge dall'altra parte l'opposto ragionamento di Antípatro: “Che cosa dici? Tu che devi provvedere al bene degli uomini e servire alla società umana; tu che sei nato con questa missione e hai avuto in sorte da natura questa imperiosa e sublime vocazione, di fare in modo che l'utile tuo sia l'utile comune e, viceversa, l'utile comune sia l'utile tuo; tu, dunque, terrai nascosto agli uomini quell'eventuale vantaggio che può esserci per loro?”. Diogene forse risponderà così: “Altro è il nascondere, altro è il tacere: e così, ora, io non ti nascondo nulla, se non ti dico qual è la natura degli dei o qual è il sommo bene; tutte cose la cui conoscenza ti sarebbe ben più utile che il buon prezzo del grano. Ma io non ho il dovere di dirti tutto ciò che a te sarebbe utile sapere”. 53 “No; anzi ne hai il sacrosanto dovere, solo che tu ricordi che è la natura che ha creato questa grande famiglia umana.” “Me ne ricordo”, ribatterà l'altro; “ma è forse tale, codesta famiglia, che nessuno possa dire: "Questo è mio"? Se veramente è così, non si dovrebbe neppur vendere nulla, ma soltanto regalare.” Tu vedi, chiunque, che in tutta questa animata discussione non si dice mai: “Per quanto la cosa sia disonesta, io la farò egualmente, perché mi torna utile”; ma, da una parte, si dice: “E' cosa utile senz'esser disonesta”; e dall'altra parte: “No; appunto perché è cosa disonesta, non deve farsi”. 54 Supponiamo ora che un uomo dabbene venda una sua casa per alcuni difetti, che egli conosce e che gli altri ignorano: per esempio, sia malsana e la si creda salubre; non si sappia che in ogni camera fari capolino le serpi; sia costruita di cattivo materiale e minacci rovina; ma tutto questo sia ignoto a tutti fuorché al padrone. Ora io domando: se il venditore non dirà nulla di nulla ai compratori, anzi venderà la casa a un prezzo molto più alto di quel che avrebbe pensato, peccherà costui contro la giustizia e l'onestà? “Sì certo”, risponde Antípatro; “il lasciar che il compratore corra alla cieca e, sbagliando strada, precipiti in un rovinoso inganno, che altro è questo se non una scellerata perfidia, come il rifiutarsi di mostrar la via al viandante smarrito, cosa che in Atene era condannata alla pubblica esecrazione? Anzi, è ben peggio che il non mostrar la via: è un trarre consapevolmente altri in errore”. 55 E Diogene di rimando: “T'ha forse costretto a comprare, lui che non t'ha neppure sollecitato? Egli ha messo in vendita ciò che non gli piaceva; tu hai comprato ciò che ti piaceva. Se non sono considerati imbroglioni quelli che mettono tanto di cartello: "Si vende una villa bella e ben costruita", sebbene essa non sia né bella né costruita a regola d'arte, tanto meno sarà tenuto per tale chi non ha punto lodato la sua casa. Dove la decisione del compratore è libera, come può esserci frode da parte del venditore? Orbene, se non si è tenuti a dar garanzia di tutto ciò che si dice espressamente, credi tu che si debba dar garanzia di ciò che non si dice affatto? E quale stoltezza maggiore di questa, che il venditore esponga per filo e per segno i difetti di ciò che vende? E quale assurdità maggiore di quest'altra, che un banditore, per ordine del padrone”, vada proclamando a gran voce: "Si vende una casa malsana ... ?"”. 56 Così, dunque, in certi casi dubbi, una parte difende a spada tratta l'onesto, l'altra difende a oltranza l'utile, in tal modo che non solo è onesto il fare, ma è 210
disonesto il non fare ciò che sembra utile. Ecco il gran dissidio che sembra spesso insorgere tra l'utile e l'onesto. Ora, questi punti controversi vogliono essere ben definiti: giacché io li ho esposti, non per proporre questioni, ma per risolverle. 57 Io credo, adunque, che né quel mercante di grano avrebbe dovuto nasconder nulla ai Rodiesi, né questo venditor di case ai compratori. Perché il nascondere non consiste già nel tacere una cosa qualsiasi, ma nel volere che, per tuo esclusivo vantaggio, quello che tu sai sia ignorato da coloro ai quali tornerebbe utile il saperlo. E chi non vede di qual natura sia e a quale specie d'uomini si addica una tal maniera di nasconder le cose? Non certo a un uomo leale, schietto, nobile, giusto, dabbene, ma piuttosto a un uomo falso, ipocrita, astuto, ingannatore, maligno, scaltro, furbo matricolato, trappolone. E' forse una cosa utile tirarsi addosso tanti titoli d'infamia e molti altri ancora? 58 Se sono da biasimarsi coloro che tacciono quello che dovrebbero dire, che cosa pensar di coloro che ricorrono a impudenti menzogne? Gaio Canio, cavaliere romano, uomo non privo di spirito e abbastanza colto, si era recato a Siracusa, com'egli era solito dire, non per affari, ma per diporto. Egli andava dicendo che voleva comprarsi una villetta, dove invitar gli amici e dove godersela in pace, lontano dai seccatori. Essendosi sparsa questa voce, un certo Pizio, che faceva il banchiere a Siracusa, gli disse che ville da vendere non ne aveva, ma che egli, volendo, poteva usar liberamente della sua come di cosa propria; e intanto l'invitò a cena per il giorno dopo. Canio accettò l'invito. Allora Pizio, il quale, come banchiere, godeva molto credito presso ogni classe di persone, convocò a casa sua i pescatori, chiese loro che il giorno dopo pescassero davanti alla sua villetta, e diede le opportune istruzioni sul da farsi. All'ora fissata, ecco venir Canio per la cena. Magnifico e sontuoso il banchetto preparato da Pizio; gran numero di barche, là, davanti agli occhi; ogni pescatore portava lì tutto ciò che pescava; e i pesci venivan buttati ai piedi di Pizio. 59 Allora Canio: “Di grazia, Pizio, che cosa è questo? Tanti pesci? Tante barche?”. E quello: “Che meraviglia? In questo tratto di mare, c'è tutto il pesce di Siracusa; qui vengono tutti a prender l'acqua; di questa villa, i pescatori non possono farne a meno”. Canio, infiammato dal desiderio, prega e scongiura Pizio che gliela venda. Quello, dapprima, nicchia; poi, a farla breve, si arrende. Pieno di voglia e ricco di denaro, il buon Canio comprò la villa al prezzo che Pizio volle, e per giunta con tutto l'arredamento: segna la partita a libro e l'affare è concluso. Il giorno dopo, Canio invita i suoi amici. Egli è là di buon'ora. Di barche, non ne vede nessuna. Chiede a un vicino se per caso quello fosse un giorno di festa per i pescatori, perché non ne vedeva nemmeno uno. “No, ch'io sappia”, risponde quello; “ma qui, per solito, non vien mai nessuno a pescare; anzi, ieri, mi stupivo molto di quella strana novità”. 60 Canio si sentì montar la bile; ma che farci? Il mio collega ed amico Gaio Aquilio non aveva ancora promulgato quelle sue norme sulla frode. A proposito delle quali, quando gli si domandava che cosa intendesse precisamente per frode, egli rispondeva: “Per frode, intendo il fingere una cosa e il farne un'altra”. Risposta mirabilmente chiara, degna di un uomo tanto esperto nel definire. Quindi Pizio e tutti gli altri che fingono una cosa e ne fanno un'altra, sono perfidi, malvagi, imbroglioni. Nessuna loro azione, inquinata da tanti vizi, può tornar utile. 39 61 Ora, se la definizione di Aquilio è vera, la simulazione e la dissimulazione devono essere bandite da ogni atto della vita. Così, l'uomo dabbene non deve né simulare né dissimular nulla, né per comprare né per vendere a miglior patto. E invero, codesta frode era contemplata anche dalle leggi (per esempio, la tutela male esercitata, dalle Dodici Tavole; il raggiramento dei minorenni, dalla legge Pletoria), ed è punita dai 211
procedimenti giudiziari non regolati da leggi, nei quali si applica la formula: “Secondo la retta coscienza”. Negli altri processi di tal genere, poi, spiccano soprattutto queste formule: negli arbitrati che riguardano i beni della moglie, “nel modo più giusto e più equo”; nella cessione fiduciaria di pegni, “come tra persone oneste si deve onestamente agire”. Ebbene, può esserci pur l'ombra della frode quando si dice all'arbitro: “Fa ciò che è più giusto e più equo”? 0 può compiersi alcun atto di frode o di malizia, quando si dice: “Come tra persone oneste si deve onestamente agire”? Ma la frode consiste, come afferma Aquilio, nella simulazione. Bisogna, dunque, bandire dai contratti ogni forma di menzogna; il venditore non deve metter avanti un falso offerente che giochi al rialzo; il compratore non deve metter avanti un falso offerente che giochi al ribasso; l'uno e l'altro, quando vengono alla domanda e all'offerta del prezzo, lo dichiarino apertamente una volta per tutte. 62 Quinto Scevola, figlio di Publio, volendo comprare un fondo, chiese che il venditore gliene dicesse subito il prezzo ristretto. Questi così fece. Allora Scevola disse che egli lo stimava di più e aggiunse centomila sesterzi. Tutti dicono: “Questo è un atto da uomo onesto”; ma poi soggiungono: “Non però da uomo saggio; come non sarebbe da uomo saggio, se vendesse per meno di quello che potrebbe”.Eccola, dunque, la perniciosa dottrina che disgiunge e contrappone l'onestà e la saggezza. Onde Ennio, dice: “Savio non è colui che a sé non giova”. Sentenza perfettamente vera, se io fossi d'accordo col poeta sul significato del verbo “giovare”. 63 Io vedo che Ecatone da Rodi, discepolo di Panezio, in quei libri che scrisse intorno al dovere e che dedicò a Quinto Tuberone, dice: à dovere dell'uomo saggio aver molta cura delle proprie sostanze, purché non faccia nulla contro i costumi, le leggi e le istituzioni del suo paese. E invero noi non vogliamo esser ricchi soltanto per noi, ma anche per i figli, per i parenti, per gli amici e soprattutto per la patria. Le sostanze e gli agi dei singoli sono anche ricchezza dello Stato”. A Ecatone l'atto di Scevola, di cui ho parlato díanzi, non può assolutamente piacere; e in realtà egli si restringe a dire che, per suo proprio vantaggio, non farà mai ciò che non è lecito. 64 Ecatone non merita certo né gran lode né gran riconoscenza. Ma purtroppo è così: se la simulazione e la dissimulazione sono frode, pochissime sono le azioni in cui codesta frode non entri; e se uomo dabbene è colui che giova a quanti più può e non nuoce a nessuno, non è certo facile incontrar sulla terra codesto uomo dabbene. Concludendo: il mal fare non è mai utile, poiché è sempre disonesto; e il ben fare, poiché è sempre onesto, è sempre utile. 65 Passando alle norme giuridiche che riguardano la compra e vendita dei beni immobili, dirò che il nostro diritto civile fa obbligo al venditore di dichiarare tutti quei difetti dei quali ha conoscenza. In verità, mentre le Dodici Tavole si restringevano a chiedere che il venditore si assumesse la responsabilità di quello che aveva espressamente dichiarato al compratore, con la clausola che, chi rinnegava la parola data, pagasse due volte tanto, i giureconsulti stabilirono una pena anche per i reticenti, decretando che il venditore è responsabile dei difetti che siano nel fondo, nel caso che egli li conosca e non li abbia esplicitamente dichiarati. Ne darò un esempio. 66 Dovendo gli àuguri trar gli auspici sulla rocca del Campidoglio, intimarono a Tiberio Claudio Centumalo, che aveva una casa sul Celio, di demolire quelle parti dell'edificio, che, per la loro altezza, impedivano l'osservazione degli auspici. Claudio, allora, mis e in vendita la casa, che fu comprata da Publio Calpurnio Lanario. Gli àuguri fecero a Calpurnio la stessa intimazione. Calpurnio la demolì; ma poi, venuto a sapere che Claudio aveva messo in vendita la casa dopo che gli àuguri gli avevano imposto di demolirla, lo citò 212
davanti al giudice, “perché gli fossero rifusi i danni, o in denaro o in opere, secondo la retta coscienza”. La sentenza fu pronunziata da Marco Catone, padre del nostro indimenticabile Catone (come gli altri prendono nome dal padre, così questo, che generò un così vivo splendore, merita di prender nome dal figlio); Catone, dunque, come giudice, pronunziò questa sentenza: “Poiché Claudio, nell'atto di vendere, era a conoscenza della cosa e non la dichiarò apertamente, è obbligato a rifondere i danni al compratore”. 67 Stabilì, dunque, che la “retta coscienza” impone al venditore l'obbligo di render noti al compratore tutti quei difetti che egli conosce. Orbene, se la sentenza di Catone fu giusta, non fu giusto il tacere né di quel mercante di grano, né di quel venditore di case malsane. E' ben vero che simili casi di reticenza non possono essere contemplati ad uno ad uno dal diritto civile: ma quelli che possono esservi contemplati, incorrono in una severa sanzione penale. Marco Mario Gratidiano io parente, aveva rivenduto a Gaio Sergio Orata quella stessa casa che egli, pochi anni prima, aveva da lui comprata. La casa era gravata di una servitù, ma, nel contratto di vendita, Mario non l'aveva dichiarato. La cosa fu portata in giudizio. Orata era difeso da Crasso, Gratidiano da Antonio. Crasso si atteneva strettamente alla legge: “Il venditore deve rispondere di quei difetti che egli conosceva e non ha dichiarato”; Antonio, invece, si faceva forte dell'equità: “Poiché quel difetto era ben noto a Sergio, che aveva già venduto quella casa, Mario non aveva nessun obbligo di dichiararlo; e perciò non può dirsi ingannato uno che ben conosceva la condizione giuridica di ciò che comprava”. A che scopo adduco questi esempi? Perché tu ti persuada che ai nostri padri non andarono mai a genio gli uomini astuti e disonesti. 68 Se non che le leggi reprimono le disoneste astuzie in un modo e i filosofi in un altro: le leggi le reprimono, in quanto possono colpirle con la forza; i filosofi, in quanto possono scoprirle con l'avveduta e perspicace ragione. La ragione, adunque, impone un assoluto dovere: nessun'insidia, nessuna simulazione, nessun inganno. Non è forse un'insidia il tender le reti, anche se poi tu non intendi scovare e inseguire le fiere? Si sa che spesso le fiere ci cascano da sé nella rete, anche se nessuno le insegue. Allo stesso modo, tu metti in vendita una casa e vi appendi un cartello a guisa di rete: qualcuno, senz'avvedersene, finirà con l'incapparvi. 40 69 Vedo bene che questa sorta d'inganni, per la profonda corruttela dei costumi, non è considerata moralmente disonesta, né cade sotto la sanzione della legge o del diritto civile; è vietata e condannata, però, dalla legge di natura. Invero, la società che ha più vasti confini (l'ho detto più volte, ma giova ripeterlo più volte ancora) e quella che lega tutti gli uomini con tutti gli uomini; più ristretta è quella che abbraccia gli uomini di una stessa nazione; più intima ancora è quella che stringe fra di loro gli abitanti d'una stessa città. Ecco perché i nostri padri vollero che altro fosse il diritto delle genti e altro il diritto civile: il diritto civile non è senz'altro il diritto delle genti, ma il diritto delle genti dev'essere anche il diritto civile. Ma noi purtroppo del vero diritto e della schietta e genuina giustizia non possediamo una concreta e scolpita immagine; quello di cui ci serviamo non ne è che un vago e pallido abbozzo. E volesse il cielo che almeno ci attenessimo a questo! Perché esso deriva pur sempre dagli eterni e perfetti esemplari della natura e del vero. 70 Infatti, che preziose parole son queste: “A patto che io, per cagion tua e per la tua fede, non sia ingannato e frodato”! E quanto belle queste altre: “Come, tra persone oneste, bisogna onestamente e schiettamente agire”. Ma chi sono poi queste “persone oneste”? E che significa “agire onestamente”? Qui sta il nodo della questione. Tant'è vero che Quinto Scevola,' il pontefice massimo, diceva che la maggior forza vincolante risiede 213
in tutti quei giudizi arbitrali, in cui si applica la formula: “Secondo la buona coscienza”; e pensava che il concetto di buona coscienza avesse la più ampia estensione, e si applicasse perciò alle tutele, alle associazioni, ai depositi, alle procure, alle compre e vendite, alle conduzioni e locazioni; tutte cose che sono il fondamento della vita sociale. “In questi giudizi” egli aggiungeva “si richiede un giudice illuminato e sapiente, che determini i rispettivi obblighi delle due parti, tanto più che, nella maggior parte dei casi, insorgono le controquerele”. 71 Bisogna, perciò, metter in bando ogni sorta di astuzie, e specialmente quella malizia che si ammanta bensì di prudenza, ma che, dalla vera prudenza, ne è lontana le mille miglia. La vera prudenza, infatti, consiste in un'avveduta scelta tra il bene e il male; la malizia, invece, se è vero che tutto ciò che è disonesto è male, antepone il male al bene. E non solo nella compra e vendita degli immobili il diritto civile, che deriva dalla legge naturale, punisce la malizia e la frode, ma anche nella vendita degli schiavi proibisce rigorosamente ogni frode da parte del venditore. Dice, infatti, l'editto degli edili: “Chi vende uno schiavo è tenuto a conoscerne i difetti, e resta garante al compratore della salute, delle diserzioni e dei furti di esso”. Diverso è il caso di chi venda uno schiavo avuto in eredità. 72 Concludendo: poiché la natura è la vera fonte del diritto, la natura stessa comanda che nessuno agisca in modo da trar profitto dall'altrui ignoranza. E non si può immaginar cosa tanto funesta alla vita civile quanto la malizia mascherata di prudenza; onde nascono tutti quegli innumerevoli casi in cui sembra che l'utile contrasti con l'onesto. Quanti sono coloro che, perfettamente sicuri dell'impunità e del segreto, hanno la forza di astenersi dal commettere il male? 73 Mettiamo, ora, alla prova, se non ti dispiace, la verità della mia asserzione, esaminando appunto alcuni di quei casi in cui la maggior parte degli uomini forse non crede che si commetta alcun male. Perché, in questo punto, io non devo parlare di assassini, di avvelenatori, di falsificatori di testamenti, di ladri, di concussionari, tutta gente che si deve perseguitare e fiaccare, non con le sottili disquisizioni dei filosofi, ma con le catene e col carcere; io voglio, invece, considerarle azioni di coloro che hanno fama di uomini dabbene. Certi galantuomini portarono dalla Grecia a Roma un falso testamento del ricchissimo Lucio Minucio Bàsilo. E perché il testamento fosse più facilmente convalidato, nominarono coeredi Marco Crasso e Quinto Ortensio,' uomini tra i più potenti di quel tempo. Costoro sospettavano, sì, che il testamento fosse falso, ma, poiché la loro coscienza non li rimordeva di nessuna colpa, non disdegnarono il piccolo dono dell'altrui ribalderia. Orbene, basta questo a farli apparire esenti d'ogni colpa? A me par di no: benché io abbia amato l'uno, mentre viveva, e non porti odio all'altro, ora che è morto. 74 Ma, poiché Bàsilo aveva voluto che Marco Satrio, figlio di una sua sorella, portasse il suo nome e perciò l'aveva fatto suo erede (parlo di colui che ai nostri giorni fu patrono del Piceno e della Sabina; o gran vergogna di quei tempi quel nome!), non era giusto che quei due autorevoli cittadini avessero le sostanze e a Satrio non toccasse altro che il nome. In verità, se opera ingiustamente, come ho dimostrato nel primo libro, colui che, potendo, non impedisce e non combatte l'ingiustizia, in che concetto deve tenersi colui che, non solo non respinge l'ingiustizia, ma anzi la seconda? A mio parere, son disoneste anche le eredità legittime, quando sono carpite con perfide lusinghe, non con sinceri, ma con simulati servigi. Si obietterà: “Ma in simili casi, talvolta, altro suol parere l'utile e altro l'onesto”. A torto, perché l'utile e l'onesto obbediscono sempre a una stessa e medesima legge. 75 Chi non è fermamente convinto di questa verità, non rifugge da nessuna frode e da nessun delitto. Perché, 214
ragionando così: “Questo, che tu dici, è certamente onesto, ma quest'altro mi torna utile”, egli avrà il coraggio, per un'illusione della mente, di separare due cose che la natura ha congiunte; e questa appunto è la fonte di tutte le frodi, di tutti i misfatti, di tutte le scelleratezze. Pertanto, se un uomo onesto avesse un tal potere che, a un lieve schioccar delle dita, il suo nome potesse furtivamente insinuarsi nel testamento dei ricchi, egli non si varrebbe di un tal potere, neanche se avesse l'assoluta certezza che nessuno ne avrebbe mai il benché minimo sospetto. Ma se tu dessi a Marco Crasso questo magico potere, che, con un semplice schioccar delle dita, potesse esser nominato erede, egli che in realtà erede non è, oh, credimi, egli farebbe gran salti in piazza. L'uomo giusto, invece, quello che noi giudichiamo vero uomo dabbene, non toglierà mai nulla a nessuno per appropriarselo. E chi si meraviglia di ciò, confessi di non sapere che cosa sia un uomo dabbene. 76 Ma chi vorrà svolgere quel concetto che giace confuso nell'animo suo, imparerà facilmente da sé che l'uomo dabbene è colui che giova a quanti più può e noti nuoce a nessuno, se non provocato da ingiusta offesa. Orbene, non nuoce forse colui che, con una specie di malia, riesce a soppiantare i veri eredi e a prendere il loro posto? Dirà taluno: “Dunque, un uomo non deve fare quel che gli torna utile, quel che gli giova?”. No; anzi, si imprima nella mente questo 41 concetto, che tutto ciò che è ingiusto non può né giovare né tornar utile; chi non è convinto di questa verità, non potrà esser mai un uomo onesto. 77 Quando io ero un fanciullo, sentivo raccontare da mio padre che Gaio Fimbria,' uomo consolare, si trovò a esser giudice in una causa in cui Marco Lutazío Pintía, cavaliere romano veramente ragguardevole, s'era impegnato a pagare una certa somma nel caso che “egli non fosse giudicato uomo onesto”. Fimbria, dunque, gli disse ch'egli non si sarebbe mai pronunziato in simile questione, perché non voleva né spogliare della sua reputazione un uomo tanto stimato, se avesse dovuto dar sentenza contraria, né aver l'aria di decretare che un uomo è onesto, quando un tale attributo dipende da un'infinità di doveri e di meriti. Ora, a quest'uomo dabbene, di cui aveva un così chiaro concetto non solo Socrate, ma anche Fimbria, non può assolutamente sembrar utile cosa alcuna che non sia anche onesta. Per ciò, un tal uomo non solo non oserà fare, ma neppur pensare cosa alcuna che poi non ardisca proclamare in pubblico. 0 non è vergogna che i filosofi abbiano a dubitare d'una verità di cui non dubitano neppure i campagnoli? Da questi è nato l'antico proverbio trito e ritrito. Quando essi vogliono lodare la lealtà e l'onestà di un uomo, dicono: “E' un uomo da potercisi giocare alla mora anche al buio”. E che altro significa questo detto se non che non è utile se non ciò che è onesto, anche se tu possa conseguir quell'utile senza che alcuno ti colga in fallo? 78 0 non vedi che, a norma di questo proverbio, non si può giustificare né quel Gíge, di cui ho parlato più sopra, né quell'altro che, come poc'anzi immaginavo, con un solo schioccar delle dita, può arraffare l'eredità di tutti? La verità è una sola: ciò che è disonesto, per quanto lo si occulti, non può assolutamente diventare onesto; e così, ciò che non è onesto, non può assolutamente diventare utile, perché vi si oppone con tutte le sue forze la natura. 79 Si dirà: “Ma quando i vantaggi sono molto grandi, allora inette conto di peccare”. Gaio Mario era molto lontano dalla speranza del consolato. Sette anni dopo la pretura, egli era prostrato e deluso. Pareva che non avrebbe chiesto mai la dignità di console. Ma ecco: mandato a Roma da Lucio Metello, grand'uomo e gran cittadino, del quale egli era luogotenente, accusò davanti al popolo romano il suo comandante di tirare in lungo la guerra, e disse che, se avessero fatto console lui, in breve tempo avrebbe consegnato Giugurta, o vivo o morto, nelle mani del popolo 215
romano. E così Mario fu bensì console ma calpestò la lealtà e la giustizia, poiché, con una falsa accusa, suscitò l'odio del popolo contro un ottimo e nobilissimo cittadino, del quale egli era luogotenente e dal quale era stato mandato a Roma. 80 Neppure il nostro Gratídiano adempì il suo dovere di galantuomo, quand'egli era pretore e i tribuni della plebe convocarono a consiglio il collegio dei pretori per risolvere di comune accordo la questione monetaria: perché la moneta, a quei tempi, era cosi fluttuante che nessuno poteva sapere a quanto ammontasse il suo patrimonio. Compilarono in comune un editto, determinando le pene e la procedura; e stabilirono che, nel pomeriggio, sarebbero saliti tutti insieme sui rostri per la proclamazione. Se non che, mentre gli altri se ne andarono ciascuno per i fatti suoi, Gratidiano, dalla sala del consiglio, si recò difilato sui rostri, e lì, da solo, proclamò l'editto che era stato elaborato in comune. E questo fatto, se vuoi saperlo, gli tornò a grande onore: in ogni quartiere della città, gli furono erette statue; e davanti ogni statua, si bruciarono incensi e si accesero fiaccole. A che farla lunga? Nessuno mai fu più popolare di lui. 81 Queste sono le ragioni che qualche volta ci turbano nelle nostre deliberazioni, quando, cioè, la violazione della giustizia non è tanto grande, mentre invece grandissimo ci sembra il vantaggio che se ne ricava. A Gratidiano, per esempio, non pareva tanto brutto il carpire ai colleghi e ai tribuni della plebe le primizie del favor popolare; gli pareva invece molto utile il diventar per questa via console, che era allora la sua massima aspirazione. Ma per tutti questi casi c'è una regola sola, che io desidero ti sia sempre viva e presente: ciò che sembra utile, non sia disonesto, e ciò che è disonesto, non sembri utile. Ora, possiamo noi giudicare uomo onesto o quel Gaio Mario, o questo Gratídiano? Apri e scuoti il tuo intelletto, per vedere quale idea e quale nozione dell'uomo onesto siano riposte in esso. Orbene, si addice a un uomo onesto il mentire, il calunniare, il carpir privilegi, il tramare inganni per proprio vantaggio? No, certamente. 82 C'è dunque cosa di tanto valore, c'è dunque vantaggio tanto desiderabile da indurti a perdere il nobile splendore e il bel nome di galantuomo? E questa così detta utilità quale sì gran vantaggio può recarci, che adegui e compensi il danno che essa ci reca, quando ci strappi il nome di galantuomo e ci tolga ogni sentimento di lealtà e di giustizia? E qual differenza c'è fra uno che si trasforma da uomo in belva e uno che porta in sé ferocia di belva in sembianza umana? E coloro che calpestano la rettitudine e l'onestà, pur di conseguir la potenza, non agiscono forse come colui che volle avere perfino come suocero un uomo la cui audacia gli fosse strumento a diventar potente? Gli pareva utile salire in gran potenza sfruttando l'odiosità dell'altro; e non vedeva quale offesa recasse alla patria e alla morale questo suo ambizioso e pernicioso disegno. E appunto il suocero aveva sempre in bocca quei versi greci delle Fenicie, che io tradurrò alla meglio; rozzamente forse, ma tuttavia in modo che se ne possa intendere il significato profondo: “Se si deve calpestar la giustizia, la si calpesti pure per acquistarsi un regno, ma, nel resto, si osservino le grandi leggi”. Scellerato Etèocle, o piuttosto Euripide, che sottrasse all'impero della legge morale proprio quell'azione che è la più scellerata di tutte! 83 Ma perché vado raccogliendo queste minuzie, come eredità, traffici, vendite frodolente? Eccoti colui che agognò di farsi re del popolo romano e signore di tutte le genti, e che riuscì nel suo intento. Se qualcuno chiama onesta questa bramosia è un pazzo: egli approva la morte delle leggi e della libertà, e giudica gloriosa la loro abominevole ed esecrabile soppressione. Se poi qualcuno riconosce che non è cosa onesta il farsi re di una città che fu libera e che libera deve restare, ma poi sostiene che è utile a colui che può riuscirci, con quale rimprovero, o, 216
piuttosto, con quale acerba rampogna, cercherò io di strappar costui da un così grand'errore? Ma può essere utile a qualcuno, o dei immortali!, quest'orribile ed esecrando parricidio della patria, anche se colui che si macchia di un simile delitto è chiamato padre dai 42 concittadini oppressi? L'utilità, dunque, deve prender norma dall'onestà, e appunto in tal maniera che questi due concetti, che paiono discordar nel nome, concordino perfettamente nella sostanza. 84 Se guardo all'opinione del volgo, io non vedo utilità maggiore che quella di esser re; e, all'opposto, non appena richiamo la ragione alla vera realtà delle cose, io trovo che non c'è nulla di più dannoso per colui che ha conseguito un tal potere in onta alla giustizia. Possono forse esser utili ad alcuno le angosce, gli affanni, il trepidar giorno e notte? Può giovargli una vita tutta piena d'insidie e di pericoli? “Molti sono avversi e infedeli al regno; pochi sono benevoli” dice Accio. Ma a qual regno? A quel regno che, trasmesso da Tàntalo e da Pelope, era legittimamente posseduto da Atreo. Ma quanti più nemici non dovette avere quel re, che con l'esercito del popolo romano oppresse appunto il popolo romano, e costrinse ad esser sua schiava una città non solo libera, ma anche signora del mondo? 85 Quali tormenti nella coscienza, quali ferite nell'animo non dovette avere costui? A qual uomo può tornar utile la propria vita, quando la propria vita è sottoposta a tal legge che chi gliela toglie, è destinato a godere la più grande riconoscenza e la più alta gloria? Che se quelle cose, che sembrano maggiormente utili, non sono utili, perché piene di disonestà e d'infamia, noi dobbiamo essere abbastanza persuasi che non è utile se non ciò che è onesto. 86 Del resto, questa verità, confermata tante volte dai fatti, ottenne la sua più alta conferma, durante la guerra tarentina, per virtù di Gaio Fabrizio, console per la seconda volta, e del senato romano. Re Pirro,' non provocato, aveva portato guerra al popolo romano. Si combatteva, per la supremazia, con un re di nobile stirpe e di gran potenza. Or avvenne che un disertore di Pirro, venuto nell'accampamento romano, offrì a Fabrizio che, se gli avesse promesso un premio, com'era venuto di nascosto, così di nascosto sarebbe ritornato all'accampamento greco e avrebbe ucciso il re col veleno. Fabrizio, senz'altro, fece ricondurre quel ribaldo a Pirro; e questo suo atto ebbe l'encomio del senato. Eppure, se noi giudichiamo la cosa secondo l'apparenza dell'utile e secondo la comune opinione, vediamo che un solo disertore avrebbe troncato d'un tratto quella grande guerra e quel pericoloso avversario del nostro impero; ma sarebbe stato un gran disonore e una gran vergogna vincere non col valore, ma con la scelleratezza un avversario col quale si gareggiava in gloria. 87 Ebbene, fu più utile o a Fabrizio, che fu in Roma quel che Aristide fu in Atene, o al senato romano, che non separò mai l'utilità dall'onore; fu più utile dico, il combattere il nemico con le armi o coi veleni? Se dobbiamo aspirare all'impero per amor della gloria, lungi da noi la scelleratezza, nella quale non può esserci gloria; ma se cerchiamo la potenza per se stessa in qualunque modo, questa non potrà esserci utile se porta con sé il disonore. Non fu utile, dunque, quella proposta di Lucio Fílippo, figlio di Quinto: che quelle città che Lucio Silla, dietro versamento d'una somma, aveva affrancato, in forza d'un decreto del senato, tornassero di nuovo tributarie, senza che noi restituissimo loro il denaro che esse avevano pagato per il proprio riscatto. Il senato accolse e approvò la proposta. Oh, gran vergogna del nostro impero! La lealtà dei pirati val più di quella del senato. Ma si dirà: “Si accrebbero così le pubbliche entrate; quindi il provvedimento fu utile”. E fino a quando si avrà l'ardire di chiamar utile ciò che non è onesto? 88 Possono forse l'odio e l'infamia tornar utili ad un impero che deve reggersi sulla sua gloria e sulla benevolenza degli 217
alleati? Io mi sono trovato più volte in disaccordo anche col mio Catone. A me pareva ch'egli difendesse con troppa rigidezza l'erario e i tributi, negando tutto agli appaltatori e negando molto agli alleati; mentre noi avremmo dovuto essere generosi con gli alleati e comportarci con gli appaltatori come ci comportiamo per solito coi nostri fittaiuoli; e tanto più avevamo questo dovere perché quel buon accordo dei due ordini era di suprema importanza per la salvezza dello Stato. E mal si comportava anche Curíone,' quando diceva che la causa dei Transpadani era giusta, ma poi conchiudeva sempre: “Vinca l'utilità!”. Avrebbe invece dovuto dire: “Quella causa non è giusta perché non è utile allo Stato”, piuttosto che: “Confesso che è giusta, ma affermo che non è utile”. 89 Il sesto libro di Ecatone Sui doveri è pieno di questioni di questo genere: “In tempo di grandissima carestia, è lecito a un uomo onesto tagliare i viveri alla sua servitù?”. Egli discute il pro e il contro; ma tuttavia, alla fine, determina il dovere col criterio dell'utilità (così egli s'illude), anziché col criterio della umanità. Ancora: “Se in mare occorre far getto di qualche cosa, si sacrificherà un prezioso cavallo o piuttosto uno schiavetto di poco valore?”. In questo caso l'interesse ci spinge da una parte, l'umanità da un'altra. “Se uno stolto, in un naufragio, riesce ad afferrare una tavola, gliela strapperà forse a viva forza un uomo saggio, potendo?” Ecatone risponde di no, perché la cosa sarebbe ingiusta. “E il padron della nave potrà portargliela via come cosa sua?” “Nient'affatto; come non potrebbe pretendere di gettar giù dalla nave in alto mare un viaggiatore, col pretesto che la nave è sua. Finché non si è arrivati al luogo per cui s'è noleggiata la nave, la nave non è del padrone, ma dei viaggiatori.” 90 “E se la tavola è una sola e i naufraghi son due, e tutti e due sapienti, dovranno strapparsela a vicenda, o l'uno dovrà cederla all'altro?” “Sì, dovrà cederla, ma a colui al quale sia più proficuo il vivere, o per sé o per la patria.” “E se queste condizioni sono uguali in entrambi?” “Non ci sarà nessun contrasto fra di loro; ma, o levando, per così dire, a sorte, o giocando a pari e caffo, chi perde la cederà all'altro.” “E se un padre spogliasse i templi o scavasse cunicoli per raggiungere le casse dello Stato, dovrà suo figlio denunziar la cosa ai magistrati?” “No; un tale atto offenderebbe la legge divina e umana; anzi egli dovrebbe difendere il padre, se questi fosse accusato.” “Non è dunque la patria ad di sopra di tutti i doveri?” “Sì, certo; ma giova anche alla patria aver cittadini amorosi e rispettosi verso i genitori.” “E se un padre tenterà di farsi tiranno, di tradir la sua patria, dovrà a figlio tacere?” “No, anzi scongiurerà il padre a non farlo. Se non approda a nulla, l'ammonirà, lo minaccerà anche; infine, se la cosa comporta la rovina della patria, anteporrà la salvezza della patria alla salvezza del padre.” 91 Ecatone domanda ancora: “Se un uomo saggio riceve, senz'accorgersene, monete false per buone, potrà egli, dopo che se ne sia accorto, darle per buone al suo creditore in pagamento di un suo debito?”. Diogene risponde di sì, 43 Antípatro risponde di no; e io consento piuttosto con Antípatro. “Se uno vende del vino, sapendo che va a male, deve dirlo?” Diogene non lo crede necessario, Antípatro pensa che il dirlo sia dovere di galantuomo. Ecco, ora, alcune controverse questioni, per dir così, giuridiche, discusse dagli Stoici. “Nella vendita d'uno schiavo, se ne devono dichiarare tutti i difetti, non solo quelli per cui, se tu non li dichiari, ti ritorna indietro lo schiavo in forza del diritto civile, ma anche altri come questo: è bugiardo, giocatore, ladro, ubriacone?” L'uno crede di sì, l'altro crede di no. 92 “Se uno vende oro, credendo di vendere ottone, dovrà l'uomo onesto avvertirlo che quello è oro o comprerà per un denaro ciò che vale mille denari?” Ormai è ben chiaro quale sia la mia opinione e quale contrasto di pareri ci sia tra i due sopraddetti 218
filosofi. Ora si domanda: “Si devono osservar sempre i patti e le promesse, che, come suona l'editto dei pretori, "non siano state estorte né con la violenza né con la frode"?”. Un tale, supponiamo, dà a un altro una medicina contro l'idropisia, col patto che, se in virtù di quella medicina egli riacquista la salute, in avvenire non farà mai più uso di quella medicina. Ora, in virtù di quella medicina, egli guarisce; ma poi, dopo qualche anno, ricade nella stessa infermità, e da colui, col quale ha stretto il patto, non ottiene il permesso di poterne far uso un'altra volta. Si domanda: “Che dovrà egli fare?”. Considerando che quell'uomo, in quanto non concede il permesso, è un disumano e che a lui non si fa né ingiuria né danno alcuno, si conclude che l'infermo deve provvedere alla propria salute e alla propria vita. 93 Supponiamo ancora che un uomo saggio sia stato richiesto da un tale che vuol farlo suo erede, lasciandogli per testamento cento milioni di sesterzi, di ballare in pieno giorno in piazza, davanti a tutti, prima d'entrare in possesso dell'eredità; e che quello abbia promesso, perché altrimenti quel tale non l'avrebbe fatto suo erede. Dovrà egli mantener la promessa, o no? Preferirei che non avesse promesso, e credo che così avrebbe meglio tutelato la sua dignità; ma, poiché ha promesso, e giudicherà indecoroso il ballare in piazza, mancherà più onestamente alla promessa, non prendendo nulla di quella eredità, anziché accettandola; salvo che non impieghi quel denaro per qualche grave necessità dello Stato: quando si vuol provvedere al bene della patria, anche il ballare in piazza non è più indecoroso. 94 Ma non si devono mantener neppure quelle promesse che non tornano utili alle persone stesse a cui son fatte. Il Sole - per ritornare ai miti - promise al figlio Fetonte che avrebbe soddisfatto ogni suo desiderio. Fetonte desiderò di salire sul cocchio del padre; e fu accontentato. Ma ecco, non s'era ancora seduto, che, colpito da un fulmine, fu ridotto in cenere. Quanto meglio sarebbe stato, in questo caso, che il padre non avesse mantenuto la promessa! E che dire di Teseo che volle adempita la promessa di Nettuno? Nettuno gli aveva concesso la facoltà di chiedere tre grazie; egli chiese la morte del figlio Ippolito, che il padre sospettava avesse attentato all'onore della matrigna; ma, ottenuta la grazia, Teseo piombò nei più atroci dolori. 95 E che dire di Agamennone? Avendo egli promesso in voto a Diana la più bella cosa che nascesse in quell'anno nel suo regno, immolò Ifigenia, che era la più bella creatura nata appunto in quell'anno. Egli avrebbe dovuto non mantener la promessa, piuttosto che commettere un così esecrabile misfatto. Qualche volta, dunque, non si devono mantener le promesse; e così non sempre si devono restituir le cose ricevute in deposito. Se Lino, per esempio, sano di mente, ti consegna una spada, e poi, uscito di senno, te la richiede, il restituirla sarebbe un delitto, il non restituirla è un dovere. E se uno depositasse presso di te una somma di denaro, e poi si apprestasse a portar guerra alla tua patria, gli renderesti tu il deposito? Non credo, perché tu agiresti contro la tua patria, che dev'esserti cara sopra ogni altra cosa. Così molte azioni che sembrano per se stesse oneste, in certe speciali circostanze diventano disoneste: il mantener le promesse, l'osservare i patti, il restituire i depositi, quando l'utilità si converte in danno, diventano azioni disoneste. E così io credo d'aver parlato abbastanza di quelle utilità, le quali non sono che apparenti, e sotto la maschera della prudenza contravvengono alla giustizia. 96 Se non che io, nel primo libro, ho derivato i doveri dalle quattro virtù cardinali, come da quattro fonti; io devo perciò attenermi ad esse, volendo dimostrare quanto siano nemiche della virtù quelle azioni che sembrano utili, ma che utili non sono. Ho già trattato della prudenza, che la malizia si studia di contraffare, e così pure della giustizia, che è sempre utile. 219
Restano le altre due parti dell'onestà, l'una delle quali si manifesta nella grandezza e nella elevatezza d'un animo nobile, l'altra nella ordinatrice e moderatrice virtù della continenza e della temperanza. 97 Sembrava utile ad Ulisse il sottrarsi alla guerra (così almeno raccontano i poeti tragici; ché in Omero, scrittore degnissimo di fede, non c'è nulla che faccia sospettare Ulisse capace d'una simile azione); ma, insomma, le tragedie l'accusano d'aver tentato di sottrarsi alla guerra simulando la pazzia. Dirà forse taluno: “Proposito non onesto; ma certamente utile: regnare e vivere tranquillamente in Itaca, coi genitori, con la moglie, col figlio. Credi tu che una gloria, acquistata a prezzo di quotidiane fatiche e pericoli, possa paragonarsi con questa vita placida e serena?”. No, io credo che codesta vita sia da rigettare sdegnosamente, poiché quella vita che non è onesta, non è neanche utile. 98 Quali rampogne non avrebbe dovuto udire Ulisse, se avesse perseverato in quella simulazione? Egli che, pur avendo compiuto in guerra così grandi imprese, deve tuttavia sentirsi dire da Aiace: “Egli solo tradì la fede di quel giuramento che egli stesso, come tutti sapete, aveva consigliato e promosso; si ostinò a simular la pazzia, per non andar in guerra insieme con gli altri; e se la sagace avvedutezza di Palamede non avesse intuito la maliziosa impudenza di costui, egli avrebbe per sempre eluso il sacro giuramento”. 99 Meglio sarebbe stato per lui combattere non solo coi nemici, ma anche, come poi realmente fece, con le tempeste marine, piuttosto che disertar la Grecia congiurata a portar guerra ai barbari. Ma tralasciamo le favole e gli esempi stranieri; e veniamo a un fatto reale e nostro. Marco Atilio Regolo, console per la seconda volta, essendo stato fatto prigioniero in un agguato, in Africa, quand'era duce lo spartano Santippo e comandante supremo Amilcare, padre d'Annibale, fu mandato al senato romano, 44 sotto giuramento che, se non fossero stati restituiti ai Cartaginesi certi nobili prigionieri, egli sarebbe ritornato a Cartagine. Venuto a Roma, egli ben vedeva l'apparenza dell'utile, ma, come il fatto dimostra, lo giudicò fallace; e sì che si trattava di questo: restarsene in patria, vivere nella propria casa con la moglie e coi figli, conservare il grado della dignità consolare, pensando in cuor suo che quella sconfitta, ricevuta in guerra, era una delle tante fortunose vicende della guerra. Chi può negare che tutto questo non sia utile? Chi pensi tu che lo neghi? La grandezza e la fortezza dell'animo lo negano. 100 Cerchi forse più autorevoli testimonianze? No, perché è proprio di queste virtù non aver paura di nulla, guardar con disprezzo tutte le miserie umane, non credere insopportabile cosa alcuna che possa accadere all'uomo. Che fece Regolo allora? Andò in senato ed espose il mandato ricevuto; e rifiutò di esprimere il proprio parere, dicendo che, fin quando era vincolato dal giuramento fatto ai nemici, egli non era più senatore. Ma poi fece anche di più (“0 uomo stolto”, dirà qualcuno, “e nemico del proprio bene!”): affermò che non era utile restituire i prigionieri, perché quelli erano giovani e capitani valenti, lui ormai affranto dalla vecchiaia. Vinse così il suo autorevole consiglio: i prigionieri non furono restituiti ed egli ritornò a Cartagine; né valse a trattenerlo l'amor della patria e dei suoi. Eppure, egli non ignorava allora che andava incontro a un crudele nemico e a raffinati supplizi; ma credeva suo primo dovere osservare il giuramento. Ecco perché, nell'atto stesso che era ucciso a furia di atrocissime veglie, egli rappresentava una causa ben più nobile che se fosse rimasto a casa sua, vecchio prigioniero e consolare spergiuro. 101 “Ma operò da stolto, egli che, non solo non approvò, ma anzi sconsigliò la restituzione dei prigionieri.” Operò da stolto? Anche se quel suo atto tornava utile alla patria? E può esser utile a un singolo cittadino ciò che è dannoso alla patria? Gli uomini, quando disgiungono 220
l'utile dall'onesto, sovvertono i fondamenti naturali della vita civile. E' vero che tutti desideriamo avidamente l'utile, e ci lanciamo alla sua conquista, e non possiamo assolutamente comportarci in altro modo. Chi c'è al mondo che rifugga dalle cose utili? 0 piuttosto chi c'è che non le persegua con tutto l'ardore? Ma, poiché non possiamo ritrovar l'utile in nessuna cosa fuorché nell'onore, nel decoro e nell'onestà, ne consegue che, mentre teniamo questi valori come i più alti e i più nobili della vita, stimiamo che il concetto dell'utile risponda non tanto a una nobiltà morale quanto a una necessità materiale. 102 Dirà taluno: “Che c'è dunque di straordinario in un giuramento? Temiamo forse l'ira di Giove? Ma che la divinità non si adiri mai e mai non faccia male ad alcuno, è concorde opinione di tutti i filosofi, non soltanto di coloro i quali affermano che la divinità, come non soffre essa nessuna molestia, così nessuna molestia arreca agli altri, ma anche di coloro i quali vogliono che la divinità, coi suoi disegni e con le sue opere, intervenga sempre nel governo del mondo. E poi, come avrebbe potuto l'ira di Giove nuocere a Regolo più di quello che egli nocque a sé da se stesso? Non c'era dunque nessuna forza religiosa che convertisse in danno quel così grande vantaggio.“0 ebbe forse timore di commettere un'azione immorale? Prima di tutto, fra due mali, si deve scegliere il minore; e allora, codesta infamia non aveva in sé tanto male quanto ne avevano quegli orribili tormenti. Poi, anche quel detto che troviamo in Accio: - Non hai tu tradito la fede? - Io non ho dato e non darò la mia fede a uno sleale malvagio, benché messo in bocca a un empio tiranno, è tuttavia luminosamente vero.” 103 Aggiungono ancora: “Come voi dite che certe cose sembrano utili, ma utili non sono, così noi diciamo che certe cose sembrano oneste, ma oneste non sono. Così, per esempio, il fatto stesso ch'egli sia tornato ad affrontare il supplizio per mantener la fede giurata, sembra un atto onesto; ma poi diventa disonesto, perché non doveva esser mantenuto ciò che il nemico aveva estorto con la forza”. E aggiungono infine: “Tutto ciò che è molto utile, diventa di per sé onesto, anche se prima non pareva tale”. Queste sono, presso a poco, le obiezioni che si fanno alla condotta di Regolo. Ma cominciamo a esaminar la prima. 104 “Non si doveva temere che Giove, adirato, avesse a nuocere, egli che per solito né si adira né nuoce.” Veramente, questo modo di ragionare vale non tanto contro il giuramento di Regolo, quanto contro ogni giuramento. Se non che bisogna ben comprendere non quale timore, ma quale valore racchiuda in sé un giuramento. Perché il giuramento è un'affermazione religiosa; e ciò che si promette solennemente, quasi davanti alla maestà del dio, dev'essere poi scrupolosamente mantenuto. Il giuramento, infatti, non si richiama all'ira divina, che non esiste, ma alla tutela della giustizia e della fede. Egregiamente disse Ennio: “O alma Fede alata! O giuramento sacro a Giove!”. Orbene, chi viola il giuramento, viola quella Fede, che i nostri maggiori, come si legge in un discorso di Catone, vollero alta sul Campidoglio “vicina a Giove Ottimo Massimo”. 105 Ma si dirà che Giove, anche adirato, non avrebbe potuto nuocere a Regolo più di quello che Regolo nocque a se stesso. Certo, se non ci fosse al mo ndo altro male che il dolore. Ma il dolore non solo non è il sommo male, ma non è neppure un male, come attestano filosofi d'indiscussa autorità. E non vogliate, di grazia, biasimar quel Regolo, che, appunto di quei filosofi, è, non un modesto, ma forse il più splendido testimone. Invero, qual più autorevole testimone può esserci di questo nobile cittadino romano, che, per non venir meno al dovere, affrontò volontariamente il supplizio? Quanto poi al detto: “Tra due mali, si deve scegliere il minore”, è come dire: “Meglio il disonore che la sventura”; ma c'è forse un male più grande del disonore? Che se la deformità del 221
corpo desta in noi un senso di ribrezzo, quanto maggior ribrezzo non deve destare in noi l'orribile e spaventosa bruttura di un animo corrotto! 106 Ecco perché coloro che trattano questi problemi con più rigidezza, affermano coraggiosamente che è male solo ciò che è disonesto; coloro, invece, che trattano questi problemi con più indulgenza non esitano tuttavia a riconoscere in ciò che è disonesto il sommo male. Ché certo quel detto di Accio: “Io non ho dato e non darò la mia fede a uno sleale malvagio”, 45 non disdice affatto, appunto perché il poeta, portando sulla scena un Atreo, doveva conformarsi al carattere del suo personaggio. Ma se si assumeranno le responsabilità di questo principio, che la fede data a un uomo sleale non ha alcun valore, badano di non offrir così una comoda scappatoia allo spergiuro. 107 Se non che esiste anche un diritto di guerra, e spesso bisogna fedelmente osservare il giuramento prestato al nemico. Spesso, non sempre. Ecco il criterio distintivo: se il giuramento è pronunciato con retta intenzione e con piena coscienza, esso dev'essere scrupolosamente mantenuto; in caso diverso, anche il violarlo non implica spergiuro. Così, per esempio, se tu non pagherai ai pirati il prezzo pattuito per aver salva la vita, non commetterai frode alcuna, anche se tu non farai quello che hai giurato di fare; perché il pirata non è compreso nel numero del legittimi nemici di guerra, ma è il comune nemico del genere umano: col pirata, non dobbiamo avere in comune nessun vincolo né di fede né di giuramento. 108 Giurare il falso non è spergiurare; ma non fare ciò che hai giurato “con piena e intera coscienza”, come suona la formula che si usa da noi, questo, sì, è spergiuro. Onde ben dice Euripide: “Giurò la lingua, non giurò la mente”. Regolo, invece, non aveva il diritto di violare con uno spergiuro le convenzioni di guerra e i patti conchiusi col nemico. Perché si combatteva con un nemico regolare e legittimo, col quale noi avevamo in comune tutto il diritto feciale e molti altri diritti. Che se così non fosse, il nostro senato non si sarebbe mai indotto a consegnare in catene al nemico cittadini illustri. 109 Sta di fatto che Tiro Veturio e Spurio Postumio, consoli per la seconda volta, furono consegnati ai Sanniti, perché, dopo l'infausta giornata di Caudio e dopo che le nostre legioni furono fatte passare sotto il giogo, avevano conchiuso la pace col nemico, senza il consenso del popolo e del senato romano., E nel medesimo tempo, perché la pace coi Sanniti fosse rigettata, furono consegnati al nemico Tiberio Numicio e Quinto Melio, tribuni della plebe, i quali, con la loro autorità, avevano convalidato quella pace. E di tale consegna fu promotore e assertore proprio Postumio, che pur doveva essere consegnato. Altrettanto fece, molti anni dopo, Gaio Mancino, il quale, per farsi consegnare ai Numantini, coi quali aveva conchiuso un patto senza l'approvazione del senato, sostenne quella proposta che i nuovi consoli, Lucio Furio e Sesto Atilio, in virtù di un decreto del senato, portarono innanzi al popolo; e, convalidata la proposta, egli fu consegnato ai nemici. Costui si comportò ben più nobilmente di Quinto Pompeo, il quale, pur trovandosi nella stessa condizione, riuscì, pregando e scongiurando, a far respingere una simile proposta. In questo caso l'utilità apparente prevalse sulla vera onestà; nei casi precedenti, invece, la falsa apparenza dell'utile fu vinta dal prestigio dell'onestà. 110 “Ma non si doveva tener per valido ciò che il nemico aveva strappato con la violenza.” Come se si potesse usar violenza a un animo forte. “Perché, allora, Regolo partiva per presentarsi al senato, dal momento che era fermamente risoluto a sconsigliare la scambio dei prigionieri?” Voi biasimate proprio quello che è il suo più alto merito. Egli, infatti, non si appagò del proprio giudizio, ma si assunse la responsabilità di rimettere la decisione al giudizio del senato; e se, presso il senato, non l'avesse egli medesimo propugnata, certamente i prigionieri sarebbero stati 222
restituiti ai Cartaginesi. E così, Regolo sarebbe rimasto sano e salvo in patria. Ma appunto perché giudicò quell'atto dannoso alla patria credette suo debito d'onore esporre quel parere e patirne le conseguenze. Quanto poi all'ultima obiezione: “Ciò che è molto utile diventa onesto”, dovrebbero più giustamente dire: “Ciò che è onesto diventa molto utile”, anzi, è, non diventa. In verità, non è utile se non ciò che è anche onesto; e non è onesto perché è utile, ma è utile perché è onesto. Per queste ragioni, dunque, fra tanti mirabili esempi, non è facile trovarne un'altro che sia più glorioso e più nobile di questo. 111 Se non che, in tutto questo lodevole comportamento di Regolo, ciò che merita la più alta ammirazione è che egli sconsigliò il riscatto dei prigionieri. Il fatto che egli ritornò a Cartagine, par cosa meravigliosa a noi, oggi; ma, a quei tempi, egli non avrebbe potuto condursi in altro modo. Per ciò, questo merito non è tanto dell'uomo, quanto dei tempi. In verità, i nostri padri vollero che, per obbligar la fede, nessun vincolo fosse più saldo del giuramento. Lo dimostrano le leggi delle Dodici Tavole, lo dimostrano le leggi sacre, lo dimostrano i trattati coi quali s'impegna la fede perfin col nemico, lo dimostrano le note di biasimo e d'infamia dei censori, i quali di nessun'altra cosa giudicavano con più accurata diligenza che del giuramento. 112 Marco Pomponio, tribuno della plebe, chiamò in giudizio Lucio Manlio, figlio di Aulo, perché, come dittatore, aveva arbitrariamente aggiunto pochi giorni al tempo della sua dittatura; anche l'accusava d'aver segregato dal consorzio umano e costretto a vivere in campagna il figliuolo Tito, quello che ebbe poi il soprannome di Torquato. Si racconta che il figlio giovinetto, avendo sentito che si recava molestia al padre, corse a Roma e sul far del giorno fu alla casa di Pomponio. Questi, informato della cosa, credendo che il figlio, mosso da rancore, gli portasse qualche nuovo argomento d'accusa contro il padre, balzò dal letto e, allontanati i testimoni, ammise alla sua presenza il giovane. Ma questi, come fu entrato, sguainò d'un tratto la spada e giurò che l'avrebbe ammazzato sull'istante se non gli avesse giurato di desistere dall'accusa e di mandar libero il padre. Pomponio, costretto dalla terribile minaccia, giurò; portò la cosa davanti al popolo; spiegò la ragione che l'obbligava a desistere dall'accusa e mandò libero Manlio. Tanta era la forza del giuramento in quei tempi. E questo giovane è quel Tito Manlio che, presso il fiume Aniene, uccise un Gallo che l'aveva provocato, e, toltagli la collana ( torquis ), ebbe da questa il soprannome di Torquato; quel medesimo Tito Manlio, che, console per la terza volta, sbaragliò e sgominò i Latini presso il fiume Vèseri:' uomo grande fra i grandi, egli che, tanto indulgente verso il padre, fu poi spietatamente severo verso il figlio. 113 Ma, quanto è da lodare Atilio Regolo per la sua eroica fedeltà al giuramento, altrettanto son da biasimare quei dieci romani che, dopo la battaglia di Canne, furono mandati da Annibale al senato, sotto giuramento che, se non avessero ottenuto il riscatto dei prigionieri, sarebbero ritornati in quegli accampamenti di cui s'erano impadroniti i 46 Cartaginesi; son da biasimare, dico, se è proprio vero che non ritornarono. Intorno ad essi, non tutti gli storici sono d'accordo: Polibio,' infatti, storico autorevole fra tutti, dice che di quei dieci nobilissimi giovani mandati a Roma, nove ritornarono indietro, non avendo ottenuto nulla dal senato; uno solo, il quale, poco dopo ch'era uscito dal campo, v'era rientrato col pretesto d'aver dimenticato qualche cosa, se ne rimase a Roma. Egli presumeva, infatti, che quel suo breve ritorno al campo l'avesse prosciolto dal giuramento. A torto: la frode, non che attenuare, aggrava lo spergiuro. Quella fu dunque una stolta malizia, che ignobilmente contraffece la prudenza. Perciò il senato ordinò che quel grand'imbroglione fosse 223
ricondotto in catene ad Annibale. 114 Ma più glorioso ancora è un altro fatto. Annibale teneva prigionieri ottomila uomini: non li aveva presi sul campo di battaglia; non erano disertori fuggiti qua e là nel pericolo della morte; ma erano quelli che i consoli Paolo e Varrone avevano lasciati negli accampamenti. Poteva il senato riscattarli con poca spesa; ma non volle, perché fosse saldamente radicato nel cuore dei nostri soldati il principio: “0 vincere o morire”. E appunto all'udir questa cosa, Annibale - come scrive lo stesso Polibio - si perse di coraggio, perché il senato e il popolo romano avevano mostrato, in così grave frangente, tanta grandezza d'animo. Così, nel confronto con l'onesto, l'apparenza dell'utile soggiace vinta. 115 Gaio Acilio, che scrisse in greco la storia di Roma, afferma, invece, che furono più d'uno quelli che ritornarono all'accampamento, per sciogliersi, con la medesima frode, dal giuramento; e che poi furono tutti colpiti dai censori con ogni sorta d'infamia. Ma ormai si ponga fine a questo argomento. E' chiaro, infatti, che quelle azioni che si compiono con animo pavido, umile, accasciato, prostrato non sono utili perché sono vergognose, ripugnanti, immorali; così come sarebbe stata la condotta di Regolo, se egli, nella questione dei prigionieri, avesse consigliato non ciò che era utile alla patria, ma ciò che pareva utile a lui stesso, oppure se egli avesse voluto restarsene a casa. 116 Resta, ora, da trattare, in relazione all'utile, la quarta parte dell'onesto, la quale consiste nel decoro, nella moderazione, nella convenienza, nella continenza, nella temperanza. Ebbene, può esser utile cosa alcuna che sia contraria a questo coro di così belle virtù? Eppure, i filosofi Cirenaici, che discendono da Aristippo, e gli Annicerii, che prendon nome da Anniceride, riposero ogni bene nel piacere, e stimarono che la virtù meriti lode solo in quanto è produttrice di piacere. Scaduti di pregio costoro, ecco fiorire Epicuro, quasi fautore e assertore della medesima dottrina. Contro questi filosofi noi dobbiamo scendere in campo, come suol dirsi, armati di tutto punto, se vogliamo proteggere e preservare l'onestà. 117 Perché, se non soltanto l'utilità, ma anche la compiuta felicità della vita consiste, come scrive Metrodoro, in una vigorosa costituzione fisica e nella ferma speranza che essa abbia a durar costante, senza dubbio questa utilità, che, nel loro concetto, supera ogni altra, verrà a conflitto con l'onestà. E, anzitutto, nel loro sistema, dove troverà posto la prudenza? Forse là, donde possa andar cercando da ogni parte voluttà e delizie? Che triste servaggio è quello d'una virtù che deve servire al piacere! E quale sarà il compito della prudenza? Forse quello di fare un'avveduta scelta dei piaceri? Ammettiamo pure che non ci sia nulla di più piacevole che questo; ma che cosa può immaginarsi di più vergognoso? E poi, chi afferma che il dolore è il maggior male, qual posto assegna, nel suo pensiero, alla fortezza, che consiste appunto nel disprezzare i dolori e i travagli? Giacché, sebbene Epicuro, in molti luoghi, ragioni, come effettivamente ragiona, con notevole fortezza d'animo del dolore, tuttavia convien badare non tanto a ciò che suonano le sue parole, quanto a ciò che esse logicamente importano in un filosofo che circoscrive il bene al piacere e il male al dolore. Così pure, se vogliamo dargli ascolto, egli dice in verità molte e belle cose intorno alla continenza e alla temperanza; ma qui, come suol dirsi, inciampa in un grande ostacolo: chi ripone il sommo bene nel piacere, come può lodare la temperanza? La temperanza è la nemica delle passioni, e le passioni sono le fedeli e ferventi zelatrici del piacere. 118 E tuttavia, rispetto a queste tre virtù, gli Epicurei, come meglio possono, si vanno destreggiando non senza abilità. Introducono, nel loro sistema, la prudenza, come arte che procura i piaceri e scaccia i dolori. Anche per la fortezza, in qualche modo, se la cavano, presentandola come un 224
espediente per disprezzar la morte e sopportare il dolore. Anche la temperanza ve la caccian dentro, non certo con molta facilità, Ma, insomma, come meglio possono. Dicono, infatti, che il limite supremo del piacere è segnato dalla mancanza del dolore. Barcolla, invece, o, per dir meglio, giace a terra la giustizia e, con essa, tutte quelle virtù che si manifestano nella fraterna convivenza del genere umano. E invero la bontà, la generosità, la gentilezza, non possono esistere, come non può esistere l'amicizia, se queste virtù noi non le cerchiamo per se stesse, ma le riportiamo al piacere o all'utilità. 119 Riassumiamo, dunque, in breve. Come abbiamo dimostrato che non esiste utilità che sia contraria all'onestà, così affermiamo che ogni piacere è contrario all'onestà. Tanto più sono per ciò da biasimare, a mio giudizio, Callifonte e Dinòmaco, i quali s'illusero di risolvere la controversia accoppiando il piacere con l'onestà, cioè, per dir così, la bestia con l'uomo. L'onestà non ammette, anzi disdegna e respinge codesta unione. E invero il sommo bene, che dev'essere semplice, non può risultare dalla mescolanza e dal contemperamento di cose tanto diverse. Ma di questo argomento, che è di tanta importanza, ho ragionato diffusamente altrove; torniamo, ora, al nostro proposito e concludiamo. 120 In che maniera noi dobbiamo comportarci ogni volta che l'utile apparente viene a conflitto con l'onesto, io l'ho già dimostrato abbastanza. Se poi si dirà che anche il piacere ha una parvenza d'utile, risponderò che esso non può avere nessuna intrinseca relazione con l'onesto. In verità, il piacere, se dobbiamo pur concedergli qualche cosa, potrà forse offrire un qualche condimento della vita, ma non può certo recare nessuna sostanziale utilità. 121 Eccoti, Marco, figliuol mio, eccoti il dono di tuo padre, dono, a parer mio, grande, ma che avrà maggiore o minor pregio dall'accoglienza che tu gli farai. E' ben vero che questi tre libri dovranno essere accolti come ospiti fra i quaderni di Cratíppo; ma, a quel modo che, se io fossi venuto in persona ad Atene (e ciò sarebbe certamente avvenuto, se la patria non mi avesse richiamato a gran voce in mezzo al viaggio), tu avresti finalmente ascoltato anche me, così poiché con questi volumi giunge a te la mia voce, tu dedicherai ad essi quanto tempo potrai, e tanto ne potrai quanto ne vorrai. Quando poi avrò compreso che tu ti compiaci di questo genere di studi, allora io parlerò con te, o da vicino, come spero, tra pochi giorni, o, finché tu sarai lontano, da lontano. Addio, dunque, figliuol mio, e tieni per certo che tu mi sei carissimo, ma che mi sarai tanto più caro se farai tesoro di tali ammonimenti e di tali precetti.
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CONTRO L. CATILINA I
I 1 Fino a che punto, Catilina, approfitterai della nostra pazienza? Per quanto tempo ancora la tua pazzia si farà beffe di noi? A che limiti si spingerà una temerarietà che ha rotto i freni? Non ti hanno turbato il presidio notturno sul Palatino, le ronde che vigilano in città, la paura della gente, l'accorrere di tutti gli onesti, il riunirsi del Senato in questo luogo sorvegliatissimo, l'espressione, il volto dei presenti? Non ti accorgi che il tuo piano è stato scoperto? Non vedi che tutti sono a conoscenza della tua congiura, che la tengono sotto controllo? O ti illudi che qualcuno di noi ignori cos'hai fatto ieri notte e la notte ancora precedente, dove sei stato, chi hai convocato, che decisioni hai preso? 2 Questi i tempi! Questo il malcostume! Il Senato conosce l'affare, il console lo vede, ma lui è vivo. È vivo? Addirittura si presenta in Senato, prende parte alla seduta, indica e marchia con lo sguardo chi ha destinato alla morte. E noi, uomini di coraggio, crediamo di fare abbastanza per lo Stato se riusciamo a schivare i pugnali di un pazzo! A morte, Catilina, già da tempo dovevamo condannarti per ordine del console e ritorcerti addosso la rovina che da tempo prepari contro noi tutti! 3 Ma come? Un uomo della massima autorità come Publio Scipione, il pontefice massimo, fece uccidere senza mandato pubblico Tiberio Gracco, che minacciava solo in parte la stabilità dello Stato, e noi consoli dovremo continuare a sopportare Catilina, smanioso di distruggere, di mettere a ferro e a fuoco il mondo intero? Non voglio ricordare il passato, episodi come quello di Caio Servilio Ahala che uccise con le sue mani Spurio Melio, il rivoluzionario. Ci fu, ci fu un tempo tanto valore nello Stato che uomini impavidi punivano il concittadino ribelle con maggiore severità del più implacabile dei nemici! Abbiamo un decreto senatoriale contro di te: è di estrema durezza. Allo Stato non mancano né l'intelligenza né la fermezza dell'ordine senatorio: manchiamo noi, noi, i consoli, lo dico apertamente. II 4 Decretò un tempo il Senato di affidare al console Lucio Opimio il compito di vigilare sulla sicurezza dello Stato. Non passò una notte e fu soppresso Caio Gracco, per quanto suo padre, suo nonno e i suoi avi fossero stati uomini gloriosi, solo perché era sospettato di sovversione; anche l'ex console Marco Fulvio fu ucciso insieme ai figli. Con un analogo decreto senatoriale furono affidati i pieni poteri ai consoli Caio Mario e Lucio Valerio. Si ritardò forse di un solo giorno l'esecuzione del tribuno della plebe Lucio Saturnino e del pretore Caio Servilio? Eppure da venti giorni lasciamo che si spunti la lama del potere senatoriale. Anche noi disponiamo di un decreto del Senato, ma è chiuso in archivio, come una spada nel fodero. In applicazione a questo decreto dovresti essere già morto, Catilina. Invece sei vivo. Sei vivo non per rinunciare alla tua folle impresa, ma per portarla avanti! Desidero, padri coscritti, esser clemente. Ma non desidero che si pensi che sottovaluto la situazione di estremo pericolo in cui versa lo Stato: perciò, sono il primo ad accusarmi di inerzia e di debolezza. 5 In Italia, nelle gole dell'Etruria, c'è un esercito accampato contro il popolo romano. Cresce di giorno in giorno il numero dei nemici. Ma il capo di quell'esercito, il comandante dei nemici lo vediamo dentro le nostre mura, anzi, eccolo qui in Senato a preparare, giorno dopo giorno, la rovina interna 227
dello Stato. Se, Catilina, subito ordinassi il tuo arresto e la tua condanna a morte, probabilmente dovrei temere di essere criticato da tutti gli onesti per i miei indugi, non per la mia inflessibilità. Se, però, non mi decido ancora a fare quel che già da tempo era necessario, ho le mie buone ragioni. Morirai solo quando non ci sarà un uomo così corrotto, così perduto, così simile a te da non ammettere che ho agito secondo la legge. 6 Finché esisterà qualcuno che avrà il coraggio di difenderti, vivrai, sì, ma così come stai vivendo adesso: assediato dalle mie guardie, forti e numerose, che ti impediranno di attentare allo Stato. E poi, gli occhi, le orecchie di molti ti spieranno, ti sorveglieranno così come hanno fatto finora. E tu non te ne accorgerai. III Allora, Catilina, cosa aspetti ancora se il buio della notte non può nascondere le tue empie riunioni, se neppure le pareti di un'abitazione privata possono contenere le voci della congiura, se tutto emerge, viene alla luce? Cambia idea ormai, dammi retta; dimentica massacri e incendi. Sei braccato da ogni parte. Tutto il tuo piano ci è più chiaro della luce del sole. Se vuoi, ripercorriamolo insieme. 7 Ricordi? Il 21 ottobre ho dichiarato in Senato che in un giorno ben preciso, cioè il 27 ottobre, Caio Manlio, tuo complice e collaboratore in questa pazzia, avrebbe dato inizio alla rivolta armata. Mi sono forse sbagliato, Catilina, non dico su un'azione di tali proporzioni, così atroce e incredibile, ma, cosa molto più sorprendente, sulla sua data? Sono stato sempre io a denunciare in Senato che avevi stabilito di massacrare gli aristocratici il 28 ottobre, giorno in cui molti dei principali cittadini sono fuggiti da Roma non per cercare scampo, ma per fermare i tuoi piani. Puoi forse negare che proprio quel giorno, bloccato dalle mie misure difensive, non hai potuto attentare allo Stato? E quel giorno non dicevi che ti saresti accontentato di uccidere me, che ero rimasto, mentre tutti gli altri erano partiti? 8 E quando eri convinto di occupare Preneste di notte, con un colpo di mano, il 1° novembre, non ti sei accorto che, su mio ordine, quella colonia aveva ricevuto i rinforzi della mia guarnigione, delle mie guardie, delle mie sentinelle? Nulla di quanto fai, ordisci, mediti, sfugge alle mie orecchie e ai miei occhi, tanto meno alla mia mente. IV Rievochiamo insieme i fatti dell'altra notte: capirai subito che sono più risoluto io nel vegliare sulla sicurezza dello Stato che tu sulla sua rovina. Denuncio che l'altra notte ti sei recato in via dei Falcarii (non lascerò nulla nell'ombra) in casa di Marco Leca, dove si erano riuniti molti complici della tua pazzia, della tua scelleratezza. Osi negarlo? Perché taci? Te lo dimostrerò, se neghi. Vedo, infatti, che sono qui in Senato alcuni uomini che erano con te. 9 O dèi immortali! In che parte del mondo ci troviamo? Che governo è il nostro? In che città viviamo? Qui, sono qui in mezzo a noi, padri coscritti, in questa assemblea che è la più sacra, la più autorevole della terra, individui che meditano la morte di tutti noi, la fine di questa città o piuttosto del mondo intero. Io, il console, li vedo e chiedo il loro parere su questioni politiche: uomini che bisognava fare a pezzi con la spada, non li ferisco nemmeno con la parola. Così, Catilina, sei stato da Leca, quella notte. Hai diviso l'Italia tra i tuoi; hai stabilito la destinazione di ciascuno; hai scelto chi lasciare a Roma e chi condurre con te; hai fissato quali quartieri della città dovevate incendiare; hai confermato la tua partenza imminente; hai detto che avresti aspettato ancora un po' perché ero vivo. Sono stati trovati due cavalieri disposti a liberarti di questa incombenza e a prometterti di uccidermi nel mio letto, quella notte stessa, poco prima dell'alba. 10 228
Ho saputo tutto non appena avete sciolto la riunione. Allora ho protetto, difeso casa mia con misure più efficaci; non ho fatto entrare chi, al mattino, avevi inviato a salutarmi: avevo del resto preannunciato a molti autorevoli cittadini che, per quell'ora, costoro si sarebbero recati da me. V Se le cose stanno così, Catilina, porta a termine quanto hai cominciato! Lascia una buona volta la città! Le porte sono aperte. Vattene! L'accampamento di Manlio, il tuo accampamento, da troppo tempo aspetta te, suo generale. Porta via anche tutti i tuoi; se non tutti, quanti più puoi. Purifica la città! Mi libererai da una grande paura quando ci sarà un muro tra me e te. Non puoi più stare in mezzo a noi! Non intendo sopportarlo, tollerarlo, permetterlo. 11 Dobbiamo grande riconoscenza agli dèi immortali e a Giove Statore, antichissimo custode della nostra città, per essere sfuggiti ormai molte volte a un flagello così spaventoso, orribile, abominevole per lo Stato. Un solo individuo non dovrà più metterne a repentaglio l'esistenza. Finché, Catilina, hai attentato alla mia vita, quando ero console designato, mi sono difeso ricorrendo a misure private, non alla forza pubblica. Quando poi, in occasione degli ultimi comizi consolari, in pieno Campo Marzio hai cercato di uccidere me, il console, e i tuoi competitori, ho sventato i tuoi tentativi criminali con la protezione e la forza di amici, senza suscitare disordini pubblici. Infine, tutte le volte che hai sferrato un colpo contro di me, l'ho parato con le mie forze: eppure vedevo che la mia fine avrebbe comportato una grave calamità per lo Stato. 12 Ma ormai attacchi apertamente tutto lo Stato; vuoi portare alla totale distruzione i templi degli dèi immortali, gli edifici di Roma, la vita di tutti i cittadini, l'Italia intera. Perciò, dal momento che non oso ancora fare quel che sarebbe urgente e rientrerebbe nei poteri della mia carica e nella tradizione degli antenati, prenderò un provvedimento meno severo, ma più utile alla sicurezza comune. Se infatti ti condannerò a morte, rimarrà nello Stato il gruppo dei congiurati. Ma se tu, come ti esorto da tempo, te ne andrai, la città si libererà dei tuoi numerosi e infami complici, fogna dello Stato. 13 E allora, Catilina? Esiti a fare su mio ordine quel che stavi per fare di tua volontà? Il console ingiunge al nemico di lasciare la città. «È esilio», mi chiedi? No, non te lo posso ordinare, ma, se vuoi il mio parere, te lo suggerisco. VI Del resto, Catilina, cosa può ancora piacerti in questa città, dove non c'è nessuno che non ti tema, nessuno che non ti detesti, tranne gli uomini perduti che aderiscono alla tua congiura? Quale marchio di degradazione morale non è impresso a fuoco sulla tua vita? Quali scandali privati non si legano al tuo nome? Quale oscenità si è mai tenuta lontana dai tuoi occhi, quale delitto dalle tue mani, quale indecenza dal tuo corpo? C'è giovane, da te irretito nei piaceri della depravazione, a cui tu non abbia consegnato il pugnale dell'omicidio o la fiaccola di amori perversi? 14 E ancora: poco tempo fa, quando ti sei sbarazzato della tua prima moglie per poterti risposare, non hai forse aggiunto a questo un secondo inconcepibile delitto? Non intendo soffermarmi; preferisco tacere perché non sembri che nella nostra città è stato commesso un crimine tanto immane ed è rimasto impunito. Non intendo parlare del tuo dissesto finanziario, che sentirai pesarti addosso alla prossima scadenza dei debiti. Vengo piuttosto a fatti che non riguardano i vergognosi vizi della tua vita privata, né le tue difficoltà economiche, né la tua immoralità, ma gli interessi superiori dello Stato, la vita e la sicurezza di tutti noi. 15 Come puoi apprezzare, Catilina, la luce o l'aria di questo cielo quando sai che nessuno dei presenti ignora che il 31 dicembre dell'anno del consolato di Lepido 229
e Tullo ti sei presentato armato nel comizio, che avevi predisposto un gran numero di uomini per uccidere i consoli e i maggiori esponenti della città e che alla tua folle impresa non si è opposto un tuo ripensamento o una tua paura, ma la Fortuna del popolo romano? Ebbene, sorvolo anche su questi fatti: non sono ignoti e in seguito ne hai commessi molti altri. Quante volte hai attentato alla mia vita quando ero console designato! Quante volte quando ero entrato in carica! A quanti attacchi sono sfuggito con un leggero scarto del corpo, come si dice, ed erano diretti in modo da sembrare infallibili! Non concludi nulla, non ottieni nulla, eppure non desisti dal tentare e dal volere. 16 Quante volte ormai questo pugnale ti è stato strappato dalle mani! Quante volte, per caso, ti è caduto, ti è scivolato a terra! [ma non te ne stacchi neppure un momento] A quali misteri tu lo abbia consacrato e dedicato io non so, dal momento che ritieni inevitabile piantarlo nel corpo del console. VII Dimmi: che vita è adesso la tua? Ti parlerò, ormai, non come se fossi mosso dall'odio, eppure dovrei, ma da una compassione di cui non sei affatto degno. Poco fai sei venuto in Senato. In un'assemblea così affollata, tra tanti amici e conoscenti, chi ti ha salutato? Se, a memoria d'uomo, nessuno è stato mai trattato così, ti aspetti forse parole di ingiuria quando già sei schiacciato dal durissimo giudizio del silenzio? Che dire di più? Al tuo arrivo questi seggi si sono svuotati. Non appena hai preso posto, tutti gli ex consoli, che tu hai condannato a morte tante volte, hanno lasciato vuoto, deserto questo settore dei banchi. Insomma, con che animo pensi di sopportare? 17 Se, ai miei servi, incutessi tanta paura quanta tu ne incuti alla cittadinanza intera, riterrei inevitabile lasciare la mia casa. E tu non pensi di dover lasciare la città? Se poi mi accorgessi di essere, anche a torto, gravemente sospettato e disprezzato dai miei concittadini, preferirei sottrarmi alla loro vista piuttosto che essere oggetto di sguardi di disapprovazione. Tu, invece, che sei consapevole dei tuoi crimini e riconosci che l'odio di tutti è giusto e meritato da tempo, esiti a sottrarti alla vista, alla presenza di chi ferisci nella mente e nel cuore? Se i tuoi genitori provassero paura di te e ti odiassero, se tu non potessi in alcun modo riconciliarti con loro, scompariresti dalla loro vista, immagino. Ora a odiarti e ad aver paura di te è la patria, madre comune di tutti noi, e già da tempo ritiene che tu non mediti altro che la sua morte. E tu non rispetterai la sua autorità, non seguirai il suo giudizio, non avrai paura della sua forza? 18 Catilina! La patria ti si presenta innanzi e, senza bisogno di parole, ti dice: «Da anni, ormai, non c'è delitto che non sia stato commesso se non da te, non c'è scandalo senza di te. Per te soltanto il massacro di molti cittadini, per te ruberie e soprusi a danno degli alleati sono state azioni libere e impunite. Tu non solo sei stato capace di trasgredire alla legge e alla giustizia, ma addirittura di sovvertirle, di annientarle. Sono cose del passato. Benché non fossero tollerabili, tuttavia le ho sopportate, come ho potuto. Ora, però, che io sia completamente terrorizzata solo a causa tua, che si tema Catilina al minimo rumore, che si abbia l'impressione che qualsiasi complotto contro di me non sia alieno dalla tua mente criminale, ebbene non intendo sopportarlo! Perciò vattene e liberami da questa paura, perché non ne sia schiacciata, se è vera, o smetta di temere, se è infondata!». VIII 19 Se la patria, come ho detto, ti parlasse così, non dovresti obbedirle anche se non potesse ricorrere alla forza? Cosa dici? Ti sei consegnato agli arresti domiciliari? Hai chiesto di andare ad abitare da Lepido per evitare i sospetti? Respinto da Lepido, hai osato venire addirittura da me e mi hai pregato di tenerti agli arresti in casa mia. Ma anche da me 230
hai ricevuto la stessa risposta: non mi sarei sentito per nulla al sicuro a dividere con te le stesse pareti domestiche, quando già corriamo gravi pericoli dentro le mura della stessa città. Ti sei rivolto allora al pretore Quinto Metello. Rifiutato pure da lui, ti sei rivolto al tuo amico Marco Metello, un uomo davvero eccellente, che tu giudicavi, evidentemente, il più scrupoloso nel sorvegliarti, il più acuto nel sospettarti, il più severo nel punirti. Ma chi ritiene di dover meritare gli arresti, non sembra ben lontano dal dover essere condannato al carcere? 20 Poiché le cose stanno così, Catilina, se non sai rassegnarti a morire, cosa aspetti a espatriare, a consegnare all'esilio e alla solitudine una vita sottratta a molte, giuste, meritate pene? «Fai un rapporto al Senato», dici. È questo che chiedi e ti dichiari pronto a obbedire se il Senato decidesse di esiliarti. Non lo presenterò: sarebbe incompatibile col mio carattere. Tuttavia ti farò capire cosa pensano di te i presenti. Vattene dalla città, Catilina! Libera lo Stato dal terrore! Se non aspetti che questa parola, parti in esilio! E allora? Non vedi, non ti accorgi del loro silenzio? Sopportano, tacciono. Perché attendi la conferma della parola, quando ti è chiaro il significato del loro silenzio? 21 Se avessi rivolto le stesse parole a un giovane perbene come Publio Sestio, qui presente, o a un uomo così valoroso come Marco Marcello, il Senato, a ragione, mi avrebbe subito attaccato, assalito con la forza, benché sia console, anche in un luogo sacro come questo. Ma nel tuo caso, Catilina, la loro calma è un'approvazione, la loro sopportazione un giudizio, il loro silenzio un grido. Il che vale per i senatori, la cui autorità ti è certamente cara, ma della cui vita non hai il minimo rispetto, ma vale anche per i cavalieri, uomini del massimo onore e valore, e per tutti gli altri coraggiosi cittadini che circondano il Senato. Hai potuto vedere quanti sono, capirne le intenzioni e, poco fa, udirne le voci. A stento trattengo da te le loro mani e le loro armi, ma facilmente li convincerei ad accompagnarti sino alle porte della città se ti decidessi a lasciare questi luoghi che da tempo vuoi distruggere. IX 22 Ma a che servono le mie parole? A piegarti, in qualche modo? A farti ricredere? A indurti a preparare la fuga, a pensare all'esilio? Potessero gli dèi immortali ispirarti tali propositi! Ma non mi illudo: se tu decidessi di andare in esilio spaventato dal mio discorso, una tremenda tempesta di impopolarità si abbatterebbe su di me, se non subito, essendo vivo il ricordo dei tuoi crimini, certamente in futuro! Ma è il prezzo da pagare, purché tale calamità ricada su me solo e non comporti pericoli per lo Stato. Non è il caso di chiederti di provar rimorso per i tuoi vizi, di temere le pene previste dalla legge, di avere dei ripensamenti di fronte alle difficoltà in cui versa lo Stato. Non sei infatti il tipo, Catilina, da astenerti dall'infamia per pudore, dal pericolo per paura, dalla follia per ragionevolezza. 23 Perciò parti, te l'ho ripetuto più volte, e se vuoi scatenarmi contro la disapprovazione pubblica, perché sono un tuo nemico, come affermi, vattene dritto in esilio! Non mi sarà facile sopportare le critiche della gente, se lo farai; non mi sarà facile sostenere il peso dell'impopolarità, se andrai in esilio per ordine del console. Ma se preferisci contribuire alla mia lode e gloria, vattene con quell'infame branco di scellerati, raggiungi Manlio, chiama alla rivolta i cittadini disperati, sepàrati dagli onesti, dichiara guerra alla patria, esulta nel tuo empio banditismo! Non sembrerà, allora, che io ti abbia cacciato tra stranieri, ma che ti abbia invitato a raggiungere i tuoi. 24 Invitarti? E perché dovrei farlo, quando so che hai già mandato alcuni ad aspettarti armati a Foro Aurelio? E che hai stabilito con Manlio la data del vostro 231
incontro? E che hai inviato anche quell'aquila d'argento che mi auguro porti la rovina, la morte a te e a tutti i tuoi, quell'aquila cui hai eretto un sacello scellerato in casa tua? Puoi privartene per un po' tu che avevi l'abitudine di adorarla prima di andare ad ammazzare qualcuno, tu che muovevi la destra sacrilega dal suo altare per abbatterla su un cittadino? X 25 Raggiungerai una buona volta il luogo dove da tempo ti spinge questa tua smania sfrenata e assurda! Il che non ti arreca dispiacere, ma una sorta di incredibile voluttà. A una tale follia ti ha generato la natura, ti ha esercitato la volontà, ti ha preservato la sorte! Non hai mai desiderato la pace, ma neppure la guerra, a meno che non fosse illecita. Hai trovato per caso un gruppo di delinquenti, gente perduta, dimenticata non solo dal destino, ma anche dalla speranza. 26 Che gioia proverai con loro! Di quale piacere sarai pervaso! Quale delirante ebbrezza ti prenderà quando, tra tanti complici, non sentirai né vedrai un solo uomo onesto! In ossequio a questa vita si produssero gli sforzi di cui si parla: giacere sulla nuda terra per preparare una violenza, anzi, per commettere un delitto, passare la notte a insidiare il sonno dei mariti, anzi, i beni dei pacifici cittadini. Hai l'occasione di mostrare la tua famosa resistenza alla fame, al freddo, alle privazioni che tra poco, te ne accorgerai, ti stroncheranno. 27 Ho ottenuto almeno questi due risultati, impedendo la tua elezione a console: puoi, attaccare lo Stato da esule, ma non puoi sovvertirlo da console; il tuo tentativo scellerato è chiamato banditismo, non guerra. XIOra, padri coscritti, ascoltate con attenzione le mie parole, vi prego, e fissatele nel profondo del vostro animo, perché io possa stornare da me il rimprovero, giusto in un certo senso, che la patria potrebbe rivolgermi. Se la patria, che mi è molto più cara della vita, se l'Italia intera, se la repubblica mi dicessero: «Marco Tullio, che fai? Hai scoperto che costui è un nemico, intuisci che sarà lui a condurre la guerra, sai che è atteso come comandante supremo nel campo nemico, che è l'ideatore del crimine, il capo della congiura, l'istigatore degli schiavi e l'agitatore dei cittadini perduti. Lo lascerai partire? Darai l'impressione di non averlo espulso da Roma, ma di averlo spinto contro Roma? Non darai l'ordine di arrestarlo, di trascinarlo al supplizio, di punirlo con la morte? 28 Che cosa te lo impedisce? La tradizione degli avi? Eppure più volte, in questo Stato, sono stati condannati a morte dei cittadini pericolosi senza mandato pubblico. O te lo impediscono le leggi sull'esecuzione capitale dei cittadini romani? Eppure, a Roma, i ribelli non hanno mai conservato i diritti civili! O temi la disapprovazione dei posteri? Dimostri davvero profonda riconoscenza verso il popolo romano - che, magistratura dopo magistratura, ben presto ha elevato al consolato te, un uomo che si distingueva solo per i suoi meriti, ma era privo della garanzia di una famiglia nobile - se per paura di diventare impopolare o di correre dei rischi trascuri la salvezza dei tuoi concittadini. 29 Ma se il timore di subire una tale impopolarità è fondato, devi forse temere di esser criticato più per la tua inflessibilità che per la tua debolezza? O ti illudi di sottrarti alle fiamme dell'impopolarità quando l'Italia sarà devastata dalla guerra, le città sconvolte, le case bruciate?». XII Alle autorevolissime parole della repubblica e agli uomini che condividono queste idee risponderò brevemente. Io, padri coscritti, se avessi pensato che la scelta migliore da farsi fosse di mandare a morte Catilina, non avrei permesso a un delinquente come lui di vivere un'ora di più. Se infatti i cittadini più autorevoli e illustri non si sono macchiati del sangue di Saturnino, dei Gracchi, di Flacco e di tanti altri in passato, se, al contrario, si sono coperti di onore, certamente non avrei dovuto temere che la 232
disapprovazione dei posteri ricadesse su di me per aver eliminato uno che assassina i suoi concittadini. E se anche corressi un tale pericolo, non cambierei idea: l'impopolarità nata dal valore è gloria, non impopolarità. 30 Eppure ci sono alcuni, qui in Senato, che non vedono cosa sta per abbattersi su di noi oppure fingono di non vedere quel che hanno sotto gli occhi; alcuni che hanno alimentato con la condiscendenza le aspettative di Catilina e rafforzato con l'incredulità una congiura nascente! Facendosi scudo dell'autorità di questi, molti, non solo disonesti, ma anche ingenui, avrebbero detto che agivo con la crudeltà di un tiranno se lo avessi punito. Ma ora mi rendo conto che se Catilina raggiungerà l'accampamento di Manlio, dove intende dirigersi, nessuno sarà così stupido da non capire che è stata organizzata una congiura, nessuno sarà così disonesto da non ammetterlo. E se lui solo verrà ucciso, mi rendo conto che riusciremo a contenere questo flagello per un po', ma non a debellarlo per sempre. Se invece partirà, se si porterà dietro i suoi, se riunirà nella stessa località tutti gli altri disperati che ha raccolto da ogni dove, non solo verrà completamente estirpato il flagello che è tanto cresciuto nello Stato, ma pure la radice e il seme di ogni male. XIII 31 Da molto tempo, padri coscritti, siamo in balia dei pericoli e delle insidie della congiura, ma, non so come, il culmine di ogni scelleratezza, di antiche e folli ribellioni è stato raggiunto nel periodo del mio consolato. Se, di questa banda, soltanto lui verrà eliminato, forse per qualche tempo crederemo di esserci liberati dall'angoscia e dalla paura; ma il pericolo rimarrà, nascosto nelle vene e nelle viscere dello Stato. Come spesso i malati gravi, quando sono assaliti dalle vampate della febbre, credono di trovar ristoro bevendo acqua gelida, ma finiscono per aggravarsi, così la malattia che colpisce lo Stato sarà alleviata con la condanna di Catilina, ma si aggraverà se sarà concessa agli altri la vita. 32 Perciò se ne vadano i colpevoli! Si separino dagli onesti! Si raccolgano in uno stesso luogo! Un muro, infine, li divida da noi, come ho detto più volte! Smettano di attentare alla vita del console nella sua casa, di accalcarsi intorno al palco del pretore urbano, di assediare, armi un pugno, la Curia, di preparare proiettili e torce per incendiare la città! Insomma, ciascuno porti scritta in fronte la sua opinione politica! Questo vi prometto, padri coscritti: ci sarà tanto impegno in noi consoli, tanta autorità in voi senatori, tanto valore nei cavalieri, tanta unanimità in tutti i cittadini onesti che, con la partenza di Catilina, vedrete ogni cosa svelata, messa in luce, repressa, punita. 33 Con questi presagi, Catilina, per la salvezza suprema dello Stato, perché tu e coloro che si sono legati a te in ogni crimine e omicidio andiate incontro alla morte più orrenda, parti per la tua guerra empia e nefasta! Tu, Giove, il cui culto fu istituito da Romolo con gli stessi auspici con cui fondò Roma, tu che a ragione sei chiamato protettore di questa città e dell'impero, difendi da questo individuo e dai suoi complici i templi tuoi e degli altri dèi, le case e le mura della città, la vita e i beni di tutti i cittadini! Punisci con supplizi eterni, nella vita e nella morte, questi uomini avversari degli onesti, nemici della patria, predoni dell'Italia, che un patto criminoso e una complicità di morte hanno legato insieme!
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CONTRO L. CATILINA II
I 1 Finalmente, Quiriti, Lucio Catilina, pazzo nella sua audacia, ansante nel suo crimine, empiamente teso a ordire la rovina della patria, a minacciare col ferro e col fuoco voi e questa città, lo abbiamo cacciato da Roma, o, se volete, lo abbiamo lasciato partire, o, meglio ancora, lo abbiamo accompagnato alla partenza con i nostri saluti. È andato, partito, fuggito, sparito. Quell'essere spaventoso non provocherà più alcuna catastrofe dentro le mura contro le stesse mura! Lui, il solo capo della guerra civile, lo abbiamo vinto: non ci sono dubbi. Il suo pugnale non ci insidierà più al fianco. Nel Campo Marzio, nel Foro, nella Curia, tra le pareti domestiche non saremo più in preda al terrore. Cacciandolo dalla città, gli abbiamo fatto perdere la sua posizione. Apertamente, ormai, combatteremo contro il nemico una guerra regolare: nessuno ce lo impedirà. È indiscutibile che lo abbiamo annientato con una vittoria strepitosa, costringendolo a uscire da trame occulte e a portare allo scoperto la sua azione di bandito. 2 Non ha levato in alto una spada lorda di sangue, come voleva. Se n'è andato e noi siamo vivi. Gli abbiamo strappato il ferro dalle mani. Ha lasciato incolumi i cittadini e in piedi la città. Vi rendete conto di come sia abbattuto, prostrato da questa delusione? Ora è a terra vinto, Quiriti, si sente colpito e annientato e di certo volge spesso gli occhi a questa città che gli è stata strappata dalle fauci e se ne dispera. Ma la città mi sembra lieta di aver vomitato un male così grande, di averlo espulso da sé. II 3 Se, poi, a proposito del motivo per cui le mie parole_ esultano e trionfano, qualcuno, spinto da sentimenti che dovrebbero essere unanimi, mi accusasse duramente di non aver fatto arrestare un nemico così mortale, ma di averlo lasciato partire, gli risponderei che la responsabilità non è mia, Quiriti, ma delle circostanze. Da tempo si doveva eliminare Lucio Catilina, condannarlo alla pena capitale: me lo chiedevano la tradizione avita, l'autorità dei miei poteri e l'interesse dello Stato. Ma quanti non avrebbero creduto ai fatti che denunciavo? Provate a pensarlo! Quanti li avrebbero persino giustificati? [Quanti li avrebbero sottovalutati per stoltezza?] [Quanti li avrebbero favoriti per disonestà?] Ma se, eliminato lui, mi fossi convinto di stornare da voi ogni pericolo, da tempo avrei ucciso Lucio Catilina non solo a rischio di suscitare la vostra disapprovazione, ma anche a rischio della mia vita. 4 Mi rendevo conto, però, che se lo avessi condannato a morte, come meritava, quando neppure per tutti voi il fatto era provato, non avrei potuto perseguire i suoi complici sotto il peso dell'impopolarità. Allora ho agito in modo che voi poteste combatterlo apertamente, perché vi era chiaro chi fosse il nemico. E quanto io ritenga temibile un nemico che non è più qui, potete capirlo, Quiriti, dal dispiacere che provo nel constatare che è partito dalla città con pochi uomini. Magari avesse portato con sé tutte le forze! Invece mi ha portato via Tongilio, che indossava ancora la pretesta quando si invaghì di lui, Publicio e Minucio, indebitati a tal punto nelle bettole da non poter scatenare nessuna rivoluzione! Che uomini ha lasciato! Con che debiti! Che nomi autorevoli e illustri! III 5 E così, se confronto il suo esercito con le nostre legioni stanziate in Gallia, con gli uomini arruolati da Quinto Metello nel Piceno e in Gallia, con le truppe che addestriamo ogni giorno, non nutro che profondo disprezzo per quell'accozzaglia di vecchi disperati, di spacconi di campagna, di falliti di provincia, 234
di gente che ha preferito disertare il tribunale per debiti piuttosto che un simile esercito. Basterà che li metta di fronte non dico ai nostri soldati, ma all'editto del pretore, e crolleranno tutti. Questi qui, invece, che vedo aggirarsi nel Foro, stare davanti alla Curia o addirittura presentarsi in Senato, che brillano di unguenti e sono smaglianti nella loro porpora, avrei preferito che se li fosse portati dietro come soldati. Se rimangono qui, ricordatevelo, questi che hanno disertato l'esercito saranno ben più temibili dell'esercito stesso di Catilina! E bisogna temerli in misura maggiore perché non ignorano che io sono a conoscenza dei loro complotti, ma restano imperturbabili. 6 So a chi è stata assegnata la Puglia, chi controlla l'Etruria, chi il Piceno, chi la Gallia, chi ha richiesto per sé l'organizzazione degli attentati in città, cioè stragi e incendi. Sanno che mi sono stati riferiti tutti i loro programmi dell'altra notte: li ho denunciati in Senato, ieri. Persino Catilina è stato preso dal panico, è fuggito. E loro, che cosa aspettano? Sbagliano davvero se si illudono che l'indulgenza che ho mostrato in passato sia eterna! IV Quel che mi ero proposto, ormai l'ho conseguito: avete perfettamente chiaro che è stata organizzata una congiura contro lo Stato. O qualcuno ritiene che gli amici di Catilina nutrano altri propositi? Ormai non c'è più posto per l'indulgenza! È la situazione a richiedere fermezza. Farò solo una concessione: se ne vadano, partano, non lascino che Catilina si strugga nella loro mancanza! Mostrerò la strada. È partito per la via Aurelia; se si sbrigano, lo raggiungeranno verso sera. 7 Che fortuna per lo Stato, se si libererà da questa fogna! Gli è bastato ripulirsi solo di Catilina e mi sembra abbia acquistato serenità, fiducia. Quale delitto, quale crimine è possibile pensare, immaginare che Catilina non abbia compiuto? C'è, in tutt'Italia, avvelenatore, assassino, bandito, sicario, omicida, falsificatore di testamenti, truffatore, dissoluto, scialacquatore, adultero, prostituta, corruttore della gioventù, corrotto, vizioso che non ammetta di essere stato intimo amico di Catilina? Quale assassinio, in questi anni, è stato compiuto senza di lui? Quale nefanda violenza se non per mano sua? 8 Chi mai ha esercitato un simile potere di seduzione sulla gioventù? Amava gli uni nel modo più turpe, serviva gli altri in ignominiosi desideri, prometteva agli uni il frutto delle passioni, agli altri la morte dei genitori: lo faceva non solo con la promessa, ma anche con l'aiuto materiale. E adesso, con che rapidità è riuscito a raccogliere un gran numero di disperati dalla città e addirittura dalla campagna! Chiunque fosse oberato di debiti, a Roma come in ogni angolo d'Italia, lui lo ha fatto entrare in questa inaudita congrega di criminali. V 9 E perché possiate farvi un'idea della sua versatilità in campi diversi, nelle palestre non c'è gladiatore un po' più temerario nell'azione che non confessi di essere amico di Catilina; sulla scena, non c'è attore un po' più infido e depravato che non affermi di essere quasi un suo compagno. E lui, abituato dalla pratica di violenze e crimini a sopportare freddo, fame, sete e veglie, si è conquistato la fama di duro proprio tra questi individui, consumando le risorse della sua intraprendenza e le sue forze interiori nel sesso e nel delitto. 10 Se i suoi complici lo avessero seguito, se le infami schiere di questi disperati avessero lasciato Roma, che gioia per noi, che fortuna per lo Stato e che magnifica gloria per il mio consolato! Le loro passioni, infatti, superano ormai la misura. La loro sfrontatezza non è umana, non è sopportabile. Stragi, incendi, rapine sono il loro unico pensiero. Hanno sperperato patrimoni, hanno ipotecato beni; da tempo hanno perso le sostanze, ora iniziano a perdere il credito; ma rimane in loro quella smania di godere che avevano 235
nell'abbondanza. Se nel vino e nel gioco non cercassero che baldorie e prostitute, sarebbero dei casi disperati, eppure sopportabili. Ma chi potrebbe sopportare che degli inetti complottino contro gli uomini più validi, i più stupidi contro i più savi, gli ubriachi contro i sobri, gli storditi contro gli svegli? Individui che bivaccano nei conviti, che stanno allacciati a donne svergognate, che illanguidiscono nel vino, pieni di cibo, incoronati di serti, cosparsi di unguenti, debilitati dalla copula, vomitano a parole che bisogna far strage dei cittadini onesti e incendiare la città. 11 Sono sicuro che sul loro capo incombe un funesto destino e che sia imminente o per lo meno si stia avvicinando quel castigo che da tempo hanno meritato per la loro disonestà, dissolutezza, delinquenza e depravazione. Se il mio consolato, dal momento che non può farli ravvedere, li eliminerà, prolungherà la vita dello Stato non di qualche giorno, ma di molti secoli. Non c'è infatti nazione che temiamo, non c'è re che sia in grado di muovere guerra al popolo romano; all'estero tutto è in pace, per terra e per mare, grazie al valore di un solo uomo. Rimane la guerra civile: è all'interno che stanno i complotti, è all'interno, nel profondo, che sta il pericolo; è all'interno che sta il nemico. Bisogna combattere contro il vizio, contro la follia, contro il delitto. È questa guerra, Quiriti, che mi impegno a condurre, esponendomi all'odio di uomini perduti; risanerò in qualunque modo quel che potrà essere risanato; non permetterò che rimanga a danno della comunità quel che va reciso di netto. Perciò, se ne vadano oppure se ne stiano tranquilli, o, se rimangono in città e non mutano proposito, si aspettino quel che si meritano! VI 12 Ma c'è anche chi sostiene, Quiriti, che sono stato io a mandare in esilio Catilina. Se potessi ottenere un simile risultato con la parola, manderei in esilio proprio chi avanza simili insinuazioni. Un uomo così timoroso, così pieno di moderazione come Catilina non ha saputo sopportare la voce del console! Non appena gli è stato ordinato di andare in esilio, ha obbedito. Ma ascoltate: ieri, dopo aver rischiato la vita in casa mia, ho convocato il Senato nel tempio di Giove Statore e ho illustrato tutta la situazione ai senatori. Quando Catilina si è presentato, quale senatore gli ha rivolto la parola? Chi lo ha salutato? Chi non lo ha guardato come si guarda un cittadino corrotto, che dico, il peggior nemico? Non solo: i principali esponenti dell'ordine senatorio hanno lasciato completamente sgombro il settore dei seggi a cui lui si era avvicinato. 13 Allora io, il console famoso per la sua veemenza, io che con una parola esilio i cittadini, ho chiesto a Catilina se avesse partecipato alla riunione notturna in casa di Marco Leca o no. Poiché lui, che non ha eguali per sfrontatezza, ma era colpevole di fronte a se stesso, dapprima taceva, ho reso pubblico tutto il resto; ho denunciato che cosa avesse fatto quella notte, cosa avesse stabilito per la notte seguente, come avesse programmato tutta la guerra. Lui esitava, era confuso: allora gli ho chiesto perché non si decideva a raggiungere il luogo dove già da tempo aveva stabilito di recarsi, dove, come sapevo, si era fatto precedere da armi, scuri, fasci consolari, trombe, insegne militari e quell'aquila d'argento cui aveva dedicato un sacello in casa sua. 14 Ho esiliato chi vedevo già muovere guerra? Ma sì, non ci sono dubbi! Questo centurione, Manlio, che ha accampato l'esercito presso Fiesole, a suo nome ha dichiarato guerra al popolo romano! E questo famoso accampamento non sta aspettando Catilina a comandarlo! E Catilina, condannato all'esilio, si sta dirigendo a Marsiglia, come dicono, e non a Fiesole! VII Compito ingrato governare lo Stato, ma anche salvarlo! Ora, se Lucio Catilina, sentendosi braccato, ridotto all'impotenza dai miei provvedimenti, dai miei 236
sforzi e dai rischi che corro, avrà di colpo paura, muterà avviso, lascerà i suoi, rinuncerà all'idea di far guerra, abbandonerà la strada del crimine e del conflitto per darsi alla fuga, all'esilio, non si dirà che sono stato io a strappargli le armi di un'impresa folle, che sono stato io, con la mia sorveglianza, ad atterrirlo, a paralizzarlo, che sono stato io a vanificare le sue speranze e i suoi tentativi, ma si dirà che non ha avuto un regolare processo, che è innocente, che il console, con la violenza e le minacce, l'ha mandato in esilio. E se farà così, non mancherà chi lo giudicherà una vittima, non un colpevole, e giudicherà me il più crudele dei tiranni, non il più solerte dei consoli. 15 Eppure, Quiriti, credo che valga la pena di subire la tempesta di un'impopolarità falsa e ingiusta, purché sia allontanato da voi il pericolo di una guerra orribile e sacrilega. Si dica pure che sono stato io a scacciarlo, purché vada in esilio. Ma, credetemi, non ci andrà. Quiriti, non chiederò mai agli dèi immortali, per liberarmi dall'impopolarità, che voi veniate a sapere che Lucio Catilina è alla testa dell'esercito nemico e si aggira armato. Eppure nell'arco di tre giorni vi giungerà questa notizia. Una cosa, tuttavia, temo molto di più: di incontrare un giorno lo sfavore pubblico perché ho permesso che partisse, non perché l'ho esiliato. Ma se c'è gente capace di dire che io l'ho bandito, mentre è partito liberamente, cosa direbbe se fosse stato ucciso? 16 Del resto, chi sostiene che Catilina è diretto a Marsiglia è più preoccupato che dispiaciuto. Nessuno di loro prova tanta pietà da preferire che vada a Marsiglia piuttosto che da Manlio! Quanto a lui, anche se non avesse mai premeditato quel che sta compiendo, preferirebbe certo morire da bandito che vivere da esiliato. Ma in questo momento, poiché finora non gli è accaduto nulla che fosse in contrasto con le sue intenzioni e i suoi progetti, se non partire da Roma lasciandomi vivo, auguriamoci che vada dritto in esilio e non lamentiamocene! VIII 17 Ma perché parliamo tanto di un solo nemico, per giunta un nemico che si dichiara ormai tale e che non temo, dal momento che, come ho sempre desiderato, ci tiene separati un muro? E perché, invece, non diciamo nulla di questi altri che dissimulano, che restano a Roma, che stanno in mezzo a noi? Se ci fosse una possibilità, vorrei guarirli, riconciliarli con lo Stato, non punirli. E credo che ce la farei, se solo volessero ascoltarmi. Vi mostrerò allora, Quiriti, da quali categorie di persone si compongono le forze di Catilina; poi, nei limiti del possibile, somministrerò a ciascuna la medicina del mio pensiero e della mia parola. 18 La prima categoria è costituita da uomini che, pur gravati da ingenti debiti, dispongono di proprietà ancora più grandi da cui non possono assolutamente separarsi per un attaccamento morboso. Rientrano in questo gruppo gli uomini più rispettabili (si tratta dei possidenti, infatti), ma le loro pretese e la loro causa sono le più abiette. Tu sei ricco, sei pieno di terre, tu di case, tu di argento, tu di schiavi, tu di beni di ogni sorta ed esiti a sottrarre un nonnulla dal tuo patrimonio per guadagnare credibilità? Che cosa aspetti? Una guerra? Che cosa, allora? Pensi che nella devastazione generale i tuoi possedimenti si salveranno? O aspetti una cancellazione dei debiti? È uno sbaglio aspettarla da Catilina; sarà compito mio stabilire nuovi registri, ma con vendite all'asta. È questo, del resto, l'unico modo per salvare i possidenti. Se si fossero decisi a ricorrere a queste misure in tempo, evitando di far fronte agli usurai con il ricavato delle rendite fondiarie - che pazzia! -, avremmo in loro cittadini più ricchi e più onesti. Ma credo che questi uomini rappresentino il pericolo minore, perché è possibile farli ricredere oppure, se 237
persistono, mi sembrano capaci di augurarsi la rovina dello Stato, ma non di prendere le armi. IX 19 La seconda categoria si compone di individui che, per quanto oberati dai debiti, mirano al potere, vogliono arrivare in alto e si illudono di poter conquistare con la rivoluzione quelle cariche cui non aspirerebbero in una situazione di pace interna. È mio dovere dar loro un consiglio, lo stesso che, naturalmente, darei a tutti gli altri: non sperino di poter realizzare la loro impresa. Per prima cosa, ci sono io a vigilare, a intervenire, a provvedere allo Stato. In secondo luogo, nei cittadini onesti è grande il coraggio, grande l'unanimità, grandissimo il loro numero e grandi, inoltre, le milizie. Infine, gli dèi immortali verranno in aiuto di questo popolo invitto, di questo impero glorioso, di questa città straordinaria contro l'immane violenza del male presente. Se poi riuscissero a ottenere quel che desiderano in un'estrema esaltazione, sperano forse di diventar consoli, dittatori o addirittura re sulle ceneri di Roma e sul sangue dei cittadini, come hanno bramato nella loro mente scellerata e perversa? Non si accorgono di aspirare a un potere che, se lo ottenessero, dovrebbero inevitabilmente cedere a un qualsiasi schiavo fuggitivo o a un gladiatore? 20 La terza categoria è formata da uomini ormai anziani, ma robusti per la continua attività. Appartiene a questa categoria Manlio, cui ora subentra nel comando Catilina. Sono uomini che provengono dalle colonie fondate da Silla, abitate in prevalenza, come mi risulta, dai cittadini migliori e dagli uomini più validi; ma i coloni di cui parlo, trovandosi in un benessere insperato e improvviso, si sono dati allo sperpero e all'arroganza. Costruiscono come se fossero dei ricconi, si danno alla bella vita in proprietà modello, tra un gran numero di schiavi e in conviti sfarzosi; così, si sono riempiti di debiti al punto che, se volessero risollevarsi, dovrebbe chiamare Silla dall'aldilà! Hanno spinto anche dei contadini, gente semplice e squattrinata, a sperare in rapine come quelle del passato. Entrambi li annovero nella categoria dei ladri e dei rapinatori. Ma li avverto: smettano di delirare e di pensare a proscrizioni e dittature. Il dolore di quei giorni ha inciso così profondamente sulla collettività che non solo gli esseri umani, ma neppure le bestie, credo, ne sopporterebbero il ritorno! X 21 La quarta categoria è davvero varia, composita e confusa, gente da tempo rovinata che non si risolleva mai, che sotto il peso di antichi debiti vacilla per inettitudine, per incapacità di gestire i propri interessi, anche per spreco. Si dice che, stanchi di citazioni, processi, confische, affluiscano in gran numero nell'accampamento di Catilina dalla città e dalla campagna. Più che soldati coraggiosi, li considero, per i loro debiti, delle nullità. Questi individui, se non sono in grado di reggersi con le proprie forze, cadano a terra quanto prima, ma senza recar il minimo disturbo alla cittadinanza e ai loro più stretti vicini! Non capisco perché, se non sono capaci di vivere con onestà, vogliano morire nella vergogna, né perché considerino meno doloroso morire in tanti piuttosto che da soli. 22 La quinta categoria è degli assassini, dei sicari, in una parola di tutti i delinquenti. Non li voglio staccare da Catilina, perché non sanno separarsi da lui. E allora muoiano da banditi! Sono in troppi perché il carcere possa contenerli tutti! L'ultima categoria, poi, non solo nell'ordine, ma anche nello stile di vita, è quella cui appartiene Catilina e comprende uomini scelti da lui, diciamo meglio i suoi fidi. Li avete sotto gli occhi: senza un capello fuori posto, cosparsi di unguenti, imberbi o con la barba ben tagliata, vestiti di tuniche sino alla caviglia e con le 238
maniche lunghe, avvolti da veli e non dalla toga. Tutta la loro energia, tutto lo sforzo di stare svegli li impiegano in bagordi notturni. 23 In questa masnada annovero tutti i giocatori d'azzardo, tutti i dissoluti e gli svergognati. Questi «fanciulli» così graziosi e delicati hanno imparato non solo ad amare e a essere amati, a danzare e cantare, ma anche a brandire pugnali e somministrare veleni. Se non se ne vanno, se non muoiono, sappiate che, anche nel caso in cui Catilina dovesse morire, rimarranno loro, i Catilina in erba! Ma, in fondo, che cosa vogliono questi pusillanimi? Portarsi dietro nell'accampamento le loro donnine? Come potranno rinunciarvi in notti così lunghe? E come affronteranno l'Appennino, con il suo gelo e la sua neve? A meno che non siano convinti di resistere all'inverno meglio degli altri perché sanno danzare nudi nei festini! XI 24 Che terrore di questa guerra, se Catilina disporrà di una simile coorte pretoria! Ora, Quiriti, schierate le vostre guarnigioni e i vostri eserciti contro le intrepide milizie di Catilina e, per prima cosa, opponete i vostri consoli e comandanti a quel gladiatore stremato e ferito! Fate scendere in campo il fior fiore, il nerbo dell'Italia intera contro quel pugno di naufraghi esausti, sbattuti dalle onde! Colonie e municipi sapranno senz'altro rispondere alle imboscate di Catilina! Non è il caso, poi, che confronti tutte le forze di cui disponete, i vostri equipaggiamenti e le vostre risorse alla mancanza di mezzi, alla miseria di quel bandito. 25 Ma se, tralasciando tutto ciò di cui siamo provvisti e di cui lui è privo, intendo dire il Senato, i cavalieri, la città, il tesoro pubblico, le rendite statali, l'Italia intera, tutte le province, gli stati esteri, se, tralasciando tutto ciò, volessimo confrontare semplicemente le due cause avverse, solo questo sarebbe sufficiente a farci capire quanto siano a terra! Dalla nostra parte combatte la moderazione, dalla loro l'insolenza; qui la pudicizia, là la vergogna; qui la lealtà, là l'inganno; qui il timore degli dèi, là l'empietà; qui la coerenza, là la follia; qui l'onore, là l'infamia; qui la moderazione, là la sfrenatezza; infine l'equità, la temperanza, il coraggio, la saggezza, insomma tutte le virtù combattono contro l'ingiustizia, la sfrenatezza, la viltà, la temerarietà, insomma contro tutti i vizi. Infine, la ricchezza si oppone alla povertà, l'ordine alla rivoluzione, la ragione alla pazzia e, per concludere, la speranza a una generale disperazione. In un tale conflitto, in un tale scontro, se gli sforzi umani fossero insufficienti, non interverrebbero forse gli dèi immortali a far trionfare le più nobili virtù su tanti e tali vizi? XII 26 Questa è la situazione, Quiriti: difendete, come avete fatto finora, le vostre case con turni di guardia. Io ho disposto misure sufficienti a tutelare la sicurezza in città: non avrete nulla da temere; non ci sarà nessun disordine. Tutte le colonie e i municipi sono stati da me informati della partenza notturna di Catilina: difenderanno senza difficoltà le loro città e i loro territori. I gladiatori, una schiera su cui Catilina contava moltissimo, saranno controllati dalle nostre forze, benché siano più coraggiosi di certi patrizi. Quinto Metello, che ho inviato in Gallia e nel Piceno prevedendo questa situazione, schiaccerà Catilina o renderà vano ogni suo movimento e ogni sua azione. Quanto alle altre decisioni da prendere, da preparare, da eseguire ne riferirò al Senato, che, come vedete, ho proceduto a convocare. 27 Ora, a coloro che sono rimasti in città, anzi a coloro che Catilina ha lasciato in città a minacciare la città stessa e la vita di tutti voi, voglio dare ancora una volta un avvertimento; sono nemici, è vero, ma cittadini di nascita. L'indulgenza che ho mostrato finora, se poteva sembrare debolezza, era finalizzata a smascherare quel che stava nascosto. Ma ormai non posso più dimenticare che questa è la mia patria, 239
che io sono il vostro console, che devo vivere con voi o morire per voi. Non ci sono guardie alle porte, non ci sono insidie per strada: se vogliono partire, posso far finta di niente. Ma se qualcuno creerà disordini in città, se lo scoprirò non solo ad attuare, ma solo a tentare un'azione eversiva, imparerà a sue spese che a Roma ci sono consoli attenti, magistrati egregi, un Senato forte, armi, un carcere voluto dai nostri antenati per punire gli empi reati che siano stati colti in flagrante. XIII 28 Tutti questi provvedimenti saranno presi in modo che la peggiore delle crisi sarà risolta con il minimo intervento, i pericoli più gravi superati senza disordini e la guerra civile più feroce e più vasta a memoria d'uomo sedata da me solo, unico generale in toga. Controllerò la situazione, Quiriti, in modo che, se mi sarà possibile, nessun colpevole sconti qui a Roma la pena del suo reato. Ma se la flagranza di un attentato o l'incombere di un pericolo pubblico mi costringessero ad abbandonare la mia indulgenza, otterrò senza dubbio un risultato difficilmente auspicabile in un conflitto tanto vasto e insidioso: nessun uomo onesto morirà, tutti sarete salvi a prezzo del supplizio di pochi. 29 Vi prometto simili risultati non perché io confidi nella mia capacità di previsione o nell'intelligenza umana, Quiriti, ma perché gli dèi immortali con molti e inequivocabili segni mi hanno ispirato questa speranza e questa opinione. Gli dèi, con il loro potere divino, difendono i templi e le case di Roma non da lontano, come solevano fare un tempo contro nemici esterni, ma standoci accanto. Pregateli, Quiriti, adorateli e implorateli perché proteggano dal crimine scellerato dei cittadini più abietti questa città, che hanno voluto la più bella, rigogliosa e potente, oggi che tutti gli eserciti nemici, per terra e per mare, sono stati schiacciati.
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CONTRO L. CATILINA III
I 1 È lo Stato, Quiriti, è la vita di voi tutti, sono i beni, le proprietà, le vostre mogli e i vostri figli, è la capitale di un impero al culmine della gloria, è Roma, città che gode della massima fortuna e prosperità, è tutto questo che, oggi, vedete strappato al fuoco e al ferro, quasi alle fauci di un destino funesto, che vedete salvo e a voi restituito grazie alla suprema benevolenza che gli dèi immortali vi concedono e grazie ai miei sforzi, alle mie iniziative, ai pericoli che ho affrontato. 2 E se il giorno in cui abbiamo salva la vita non ci è meno caro e prezioso del giorno in cui nasciamo, perché è certa la gioia della salvezza, ma incerta la condizione del nascere, e perché nasciamo senza averne consapevolezza, ma ci salviamo con soddisfazione, dal momento che, per riconoscenza, abbiamo elevato al rango degli dèi immortali il fondatore di questa città, sarà doveroso, per voi e i vostri posteri, onorare chi ha salvato questa stessa città, una città che è cresciuta dai tempi della sua fondazione. Avevano quasi ormai appiccato i fuochi tutt'intorno a Roma, nei templi, nei santuari, nelle case, alle mura: li abbiamo spenti. Avevano sguainato le spade contro lo Stato: le abbiamo respinte. Avevano puntato i pugnali alla vostra gola: li abbiamo abbattuti. 3 Io ho scoperto, messo in luce, illustrato ogni cosa in Senato. Ora, non mi resta che esporvi brevemente i fatti: voi, che ne siete all'oscuro e desiderate esserne informati, potrete così valutarne l'entità, l'evidenza e in che modo siano stati investigati e controllati. Per prima cosa, non appena Catilina, pochi giorni fa, è sparito lasciando a Roma i complici della sua azione criminale, i capi più feroci di questa guerra nefasta, io, Quiriti, ho sempre vigilato e provveduto alla nostra salvezza, pur tra insidie tremende e oscure. II Infatti, quando cercavo di esiliare Catilina (non temo più di suscitare disapprovazione nel dire «esiliare»; anzi, mi rimprovero che Catilina se ne sia andato vivo), dunque, quando volevo bandirlo, pensavo che tutto il gruppo dei congiurati lo avrebbe seguito oppure che chi rimaneva in città, senza di lui, avrebbe perso forza e sicurezza. 4 Ma, non appena ho visto che stavano in mezzo a noi, che erano rimasti a Roma gli individui più fanatici e più violenti, come sapevo bene, ho trascorso giorni e notti a spiare cosa facessero, cosa preparassero. Certo che l'enormità del loro crimine vi avrebbe impedito di credere alle mie parole, ho dovuto coglierli sul fatto perché voi, vedendo con i vostri occhi il loro delitto, avreste finalmente provveduto a salvarvi. Così, non appena sono stato informato che Publio Lentulo aveva cercato di corrompere gli ambasciatori degli Allobrogi perché provocassero una guerra al di là delle Alpi e dei tumulti in Gallia Cisalpina; che questi ambasciatori, con lettere e indicazioni a voce, venivano rimandati dal loro popolo in Gallia, sì, ma per la stessa strada che conduce da Catilina; che li accompagnava Tito Volturcio portando con sé lettere per Catilina, ho pensato che mi fosse offerta un'occasione difficilissima a ripetersi, ma che ho sempre chiesto agli dèi immortali: che tutto il complotto fosse colto sul fatto non solo da me, ma anche da voi e dal Senato. 5 Così, ieri ho convocato i pretori Lucio Flacco e Caio Pomptino, uomini di provato valore e della massima devozione allo Stato. Ho esposto loro la situazione. Li ho messi al corrente del mio piano. Subito, senza indugio, senza alcuna obiezione, 241
perché nutrono per lo Stato i sentimenti più nobili, hanno accettato l'incarico e, sul far della sera, si sono recati segretamente al ponte Milvio. Lì, nascondendosi nelle case vicine, si sono divisi in due gruppi in modo da avere in mezzo il Tevere e il ponte. Senza generare il minimo sospetto, avevano portato con sé molti uomini intrepidi ed io avevo inviato dalla prefettura di Rieti un gruppo di giovani armati, ragazzi scelti della cui opera mi avvalgo spesso per difendere lo Stato. 6 Erano quasi le tre del mattino, quand'ecco arrivare al ponte Milvio gli ambasciatori degli Allobrogi, con grande seguito, e Volturcio. Vengono subito attaccati. Da entrambe le parti si snudano le spade. Solo i pretori erano al corrente di tutta la vicenda, gli altri la ignoravano. III Allora, per intervento di Pomptino e Flacco, cessa lo scontro [che era iniziato]. Tutte le lettere trovate in possesso degli uomini del seguito sono consegnate ai pretori con i sigilli intatti. Gli arrestati vengono condotti da me all'alba. Io mando a chiamare immediatamente il perverso ideatore di tutti questi crimini, Cimbro Gabinio, che non sospettava nulla. Poi convoco anche Lucio Statilio e, dopo di lui, Cetego. Per ultimo viene Lentulo forse perché, la notte prima, diversamente dalle sue abitudini, era stato sveglio per scrivere la sua lettera. 7 Al mattino, i più autorevoli esponenti della nostra città, venuti a conoscenza dell'accaduto, accorrono numerosi a casa mia e mi consigliano di aprire le lettere prima di portarle in Senato: se non avessero rivelato nulla di importante, avremmo evitato di creare inutili agitazioni in città. Mi sono rifiutato: era mio dovere, in una situazione di pericolo pubblico, rimettere la faccenda impregiudicata al Senato. E infatti, Quiriti, anche se non si fosse rivelato esatto quanto mi era stato riferito, ritenevo di non dover temere l'accusa di eccessiva scrupolosità trattandosi di seri pericoli per lo Stato. Ho convocato subito una seduta del Senato che, come avete visto, è stata affollata. 8 Nel contempo, su consiglio degli Allobrogi, ho mandato in casa di Cetego il pretore Caio Sulpicio, uomo di una certa tempra, a sequestrare le armi che avesse trovato. Ha requisito pugnali e spade a non finire. IV Introduco Volturcio senza i Galli. Col permesso del Senato, gli garantisco l'impunità. Lo esorto a rivelare senza paura quanto sa. Allora lui, riprendendosi a stento da una gran paura, dice di aver ricevuto da Publio Lentulo delle indicazioni e una lettera per Catilina in cui gli si diceva di ricorrere agli schiavi e dirigersi al più presto a Roma con l'esercito. La loro intenzione era di incendiare la città in ogni zona, come era stato stabilito in partenza, e di procedere al massacro della cittadinanza intera: Catilina doveva trovarsi sul posto per catturare i fuggiaschi e unirsi ai capi rimasti a Roma. 9 Dopo Volturcio è la volta dei Galli. Affermano che Publio Lentulo, Cetego e Statilio avevano prestato giuramento e consegnato loro delle lettere indirizzate al popolo allobrogico. Insieme a Lucio Cassio chiedevano ai Galli di inviare al più presto la cavalleria in Italia; la fanteria non sarebbe mancata. Lentulo, poi, aveva assicurato che, secondo gli oracoli sibillini e i responsi degli aruspici, era lui il terzo Cornelio destinato ad avere il supremo potere civile e militare su Roma: prima era toccato a Cinna e a Silla. Lentulo aveva pure aggiunto che, nell'anno in corso, il decimo dall'assoluzione delle Vestali e il ventesimo dall'incendio del Campidoglio, si sarebbe consumata l'ineluttabile caduta di Roma e dell'impero. 10 I Galli riferiscono anche di una discussione sorta tra Cetego e gli altri congiurati: questi ultimi e Lentulo proponevano di fissare il massacro e l'incendio della città per i Saturnali, Cetego trovava questa data troppo lontana. V Per non dilungarmi troppo, Quiriti, facciamo portare le tavolette che ciascun congiurato avrebbe scritto. Il primo a cui mostriamo il sigillo è Cetego: lo 242
riconosce. Tagliamo lo spago, leggiamo. Aveva scritto di sua mano al Senato e al popolo degli Allobrogi che avrebbe mantenuto le promesse fatte agli ambasciatori; chiedeva agli Allobrogi di adempiere, a loro volta, agli obblighi presi dai loro rappresentanti. Allora Cetego, che sino a poco prima era riuscito a fornire spiegazioni sul rinvenimento in casa sua di spade e di pugnali, dichiarando di essere sempre stato un collezionista di armi pregiate, non appena leggiamo la sua lettera, tace di colpo, schiacciato, stroncato dalla consapevolezza del suo crimine. Viene introdotto Statilio che riconosce il suo sigillo e la sua scrittura. Gli sono lette le tavolette che presentano quasi il medesimo contenuto delle precedenti. Confessa. Allora mostro le tavolette a Lentulo e gli chiedo se riconosce il sigillo. Annuisce. «Lo riconosci certamente», gli dico. «Presenta l'effigie del tuo avo, uomo di grande valore che amò unicamente la patria e i suoi concittadini. Anche muta, questa effigie avrebbe dovuto trattenerti da un crimine così mostruoso!». 11 Gli viene letta la lettera, di analoga ispirazione, rivolta al Senato e al popolo degli Allobrogi. Gli concedo di parlare, se intende aggiungere qualcosa. Dapprima risponde di no, ma, poco dopo, quando la deposizione viene messa a verbale e letta, si alza in piedi. Chiede ai Galli di chiarire quali legami intercorressero tra di loro e perché fossero venuti a casa sua. Lo stesso fa con Volturcio. I Galli gli rispondono con brevità e con decisione, rivelando il nome di chi li aveva condotti da lui e il numero degli incontri. Gli chiedono, a loro volta, se non abbia niente da dire a proposito degli oracoli sibillini. Allora Lentulo, di colpo, perde la testa di fronte al suo crimine, mostrando quanto sia devastante averne coscienza. Poteva negare l'accusa. Invece confessa, all'improvviso, contro l'opinione di tutti. Così, non solo gli venne a mancare l'acume e l'abilità oratoria, da sempre suoi punti di forza, ma, per la gravità e l'evidenza del suo crimine, lo abbandonarono anche quella protervia e quella mancanza di scrupoli che lo rendevano unico. 12 A un tratto Volturcio ci chiede di portare la lettera che Lentulo gli avrebbe consegnato per Catilina e di aprirla. Lentulo, anche se profondamente sconvolto, riconosce il suo sigillo e la sua scrittura. La lettera non recava nomi, ma diceva così: «Saprai chi sono da chi ti ho inviato. Cerca di essere uomo e considera sino a che punto ti sei spinto. Ti è chiaro ormai cosa devi fare. Assicùrati l'appoggio di tutti, anche dei più umili». Poi viene convocato Gabinio, che inizia a rispondere con arroganza, ma alla fine non nega nessuna delle accuse dei Galli. 13 Del resto, Quiriti, se tavolette, sigilli, scritture e infine la confessione di ciascuno mi sembravano prove inconfutabili, molto più lo erano il pallore, gli occhi, l'espressione, il silenzio di questi uomini. Erano così sbalorditi, gli occhi piantati a terra, gli sguardi furtivi da uno all'altro, che le accuse sembravano muovere da loro stessi più che dagli altri. VI Messe a verbale e lette le deposizioni, Quiriti, ho chiesto al Senato che decisioni intendesse prendere nell'interesse dello Stato. I primi a intervenire si sono espressi con la massima durezza e la loro posizione è stata approvata all'unanimità dal Senato. Dal momento che non è stato ancora redatto il verbale, Quiriti, vi riporterò a memoria come si è svolta la seduta. 14 Per prima cosa, mi vengono rivolti i più vivi ringraziamenti perché con coraggio, intelligenza e lungimiranza ho liberato lo Stato da pericoli gravissimi. Ricevono meritate lodi anche i pretori Lucio Flacco e Caio Pomptino per aver collaborato alla mia azione con forza e lealtà. Si elogia anche il mio eccellente collega, per aver troncato ogni rapporto pubblico e privato con i congiurati. Si decide inoltre di mettere agli arresti domiciliari Publio Lentulo, dimessosi dalla carica di pretore, e pure Caio Cetego, Lucio Statilio e Publio 243
Gabinio, che erano tutti presenti. Lo stesso provvedimento è deciso per Lucio Cassio, che si era assunto l'incarico di incendiare la città; per Marco Cepario, accusato di aver ricevuto il compito di portare alla rivolta i pastori della Puglia; per Publio Furio, uno dei coloni insediati da Silla nelle terre di Fiesole; per Quinto Annio Chilone, che, insieme a Furio, si era sempre prodigato nella collusione con gli Allobrogi; per Publio Umbreno, il liberto, che per la prima volta avrebbe accompagnato i Galli da Gabinio. Il Senato ha agito con indulgenza, Quiriti. Ha ritenuto infatti che condannare solo i nove uomini più corrotti, quando la congiura è così estesa e i nemici interni così numerosi, avrebbe potuto far ricredere tutti gli altri, una volta assicurata la salvezza dello Stato. 15 E, in mio onore, è stata anche decretata una cerimonia di ringraziamento agli dèi immortali per il loro aiuto decisivo: è la prima volta dalla fondazione di Roma che viene tributata a un civile. La motivazione è la seguente: «Per aver salvato la città dall'incendio, i cittadini dal massacro, l'Italia dalla guerra». Se confrontiamo questo ringraziamento con quelli del passato, la differenza è che gli altri vennero decretati per vittorie militari, questo, ed è l'unico, per la salvezza dello Stato. È stato fatto quello che prima di tutto bisognava fare. Publio Lentulo, benché, a seguito di prove inconfutabili, della sua confessione e della sentenza del Senato, avesse già perso non solo la carica di pretore, ma anche i diritti civili, si è dimesso. Ci siamo liberati così, nel punirlo come privato cittadino, di quello scrupolo che non aveva comunque impedito al glorioso Caio Mario di uccidere un pretore, Caio Glaucia, contro il quale non era stata pronunciata nessuna sentenza. VII 16 Ora che avete catturato e messo agli arresti gli ignobili capi della più scellerata e pericolosa delle guerre, potete convincervi, Quiriti, che tutte le truppe di Catilina, tutte le sue speranze e risorse sono crollate, una volta rimossi questi pericoli della città. Quando lo cacciavo da Roma, prevedevo, Quiriti, che con Catilina lontano non avrei dovuto temere quell'infingardo di Lentulo o quel grassone di Cassio o quel pazzo temerario di Cetego. Tra tutti questi solo Catilina dovevamo temere, ma finché fosse rimasto dentro le mura cittadine. Conosceva tutto. Si insinuava ovunque. Sapeva chiamare a sé, tentare, corrompere e osava farlo. Per indole era portato al male e all'indole univa la forza e l'eloquenza. Disponeva di uomini fidati, selezionati per missioni speciali. Se affidava un incarico ad altri, lo considerava come non attuato: non c'era niente cui non intervenisse direttamente, cui non fosse presente, cui non vigilasse senza risparmio. Sapeva sopportare il freddo, la sete, la fame. 17 Era così risoluto, temerario, spregiudicato, astuto, prudente nei delitti e cauto nelle azioni disperate che, se non lo avessi tenuto lontano dagli intrighi interni e costretto a una guerra da banditi (sarò sincero, Quiriti), difficilmente avrei allontanato dal vostro capo una tal mole di mali! Lui non ci avrebbe condannati per il giorno dei Saturnali, non avrebbe reso nota con tanto anticipo la data della fine dello Stato, non avrebbe fatto cadere in mano nostra sigilli e lettere a prova inconfutabile del suo crimine! Ora che non è qui, la crisi è stata controllata in modo tale che in una casa privata non abbiamo mai scoperto un furto con tanta evidenza come è stata scoperta e colta in flagrante questa pericolosa congiura contro lo Stato. Se Catilina fosse rimasto a Roma sino a oggi, benché io sia intervenuto a oppormi a tutti i suoi piani, finché era qui, avremmo dovuto comunque affrontarlo, a dir poco, e non avremmo liberato lo Stato da enormi pericoli con tanta tranquillità, calma, silenzio, avendolo come nemico dentro la città. 244
VIII 18 Eppure, Quiriti, da come ho condotto la vicenda sembra che siano intervenuti gli dèi immortali a disporla e a risolverla con la loro volontà e saggezza. Se ci riflettiamo possiamo convincercene, perché sembra davvero difficile che la mente umana sia in grado di governare fatti tanto complessi. Ma gli dèi, standoci accanto in tali circostanze, ci hanno offerto aiuto e protezione al punto che potevamo quasi vederli con i nostri occhi. Non intendo parlarvi di fenomeni come meteore apparse di notte a illuminare a occidente il cielo; non voglio ricordare fulmini e terremoti, né parlare di altri fatti che si sono verificati con frequenza durante il mio consolato e che sembravano quasi il preannuncio divino degli eventi capitati ora. Un episodio, Quiriti, non va taciuto né dimenticato. Ve lo racconto. 19 Ricordate sicuramente che, durante il consolato di Cotta e di Torquato, alcuni fulmini hanno colpito vari monumenti sul Campidoglio, le immagini degli dèi sono state rovesciate, le statue degli antichi eroi abbattute, le tavole bronzee delle leggi fuse ed è stata danneggiata, sul Campidoglio, anche la stuata d'oro del fondatore della nostra città, Romolo, che, come rammentate, è raffigurato bambino mentre tende le labbra alle mammelle della lupa. In quell'occasione gli aruspici, fatti venire dall'intera Etruria, ci dissero che stavano per verificarsi stragi, incendi, la fine delle leggi, una guerra civile, la caduta di Roma e dell'impero, a meno che gli dèi immortali, placati in ogni modo, non avessero interceduto a piegare con la loro potenza quasi il destino stesso. 20 In seguito alle loro profezie, abbiamo celebrato giochi per dieci giorni senza trascurare niente che potesse placare gli dèi. Gli aruspici ci consigliarono anche di costruire una statua di Giove di dimensioni maggiori e di collocarla in alto e, contrariamente al passato, di volgerla a oriente. Speravano che se la statua, che vedete, avesse guardato verso il sorgere del sole, verso il Foro e la Curia, le manovre ordite nell'ombra contro Roma e l'impero sarebbero state messe in luce così chiaramente da risultar visibili al Senato e al popolo di Roma. Quei consoli hanno disposto così l'erezione della nuova statua, ma i lavori sono stati così lenti che essa non è stata collocata né dai consoli che mi hanno preceduto né da me prima di oggi. IX 21 Chi dunque, Quiriti, può essere tanto lontano dal vero, tanto sconsiderato, tanto insensato da negare che tutto ciò che cade sotto la nostra vista e in particolare Roma siano governati dalla volontà, dalla potenza degli dèi immortali? Quando, infatti, si prediceva che venivano preparate stragi, incendi, la fine della repubblica, e questo per iniziativa di cittadini, ad alcuni tali crimini apparivano troppo grandi per essere credibili. Ma ora avete appurato che tali delitti sono stati non solo ideati da cittadini esecrabili, ma addirittura messi in opera! E non è un segno così evidente, da sembrare un'espressione della volontà di Giove Ottimo Massimo, il fatto che questa mattina, mentre i congiurati e i loro accusatori venivano tradotti al tempio della Concordia per il Foro, come avevo ordinato, in quel momento veniva posta la statua? Non appena è stata collocata e rivolta verso di voi e il Senato, avete visto che tutti gli intrighi orditi contro il bene della collettività sono stati scoperti e messi in luce. 22 Ecco perché meritano ancor più l'odio e la morte questi individui che non solo hanno cercato di appiccare fiamme empie e funeste alle vostre case, alle vostre abitazioni, ma anche ai templi, ai santuari degli dèi. Se dicessi di averli fermati io, sarei presuntuoso, atteggiamento imperdonabile. È stato Giove a fermarli, lui solo! Giove ha voluto salvare il Campidoglio, i templi, la città intera, voi tutti! Guidato dagli dèi immortali, io mi sono limitato a prendere decisioni e sono arrivato a disporre di prove schiaccianti. In verità, la corruzione degli Allobrogi non sarebbe stata tentata, né Lentulo e gli altri nemici dello Stato 245
avrebbero dato con tanta sconsideratezza informazioni della massima importanza a degli sconosciuti, a dei barbari, e consegnato loro delle lettere, se gli dèi immortali non avessero privato del senno uomini così temerari. Che dire di più? Se dei Galli appartenenti a un popolo non del tutto sottomesso (l'unico rimasto che è forse in grado di dichiarare guerra ai Romani e non sembra escluderlo) hanno rinunciato a sperare nell'indipendenza e in altri considerevoli vantaggi offerti loro dai patrizi e hanno anteposto la vostra salvezza ai loro interessi, ebbene, non credete forse che questo sia avvenuto per volontà divina, quando invece avrebbero potuto vincerci senza combattere, solo tacendo? X 23 E allora, Quiriti, festeggiate questi giorni con le vostre mogli e i vostri figli, dal momento che sono state decise cerimonie di ringraziamento in ogni tempio! Spesso abbiamo tributato onoranze agli dèi immortali, giustamente, sì, ma mai come ora. Infatti, siete stati strappati alla fine più crudele e più orribile, strappati senza morti, senza sangue, senza eserciti, senza combattimenti. Con la toga avete vinto, grazie a uno solo, a me, comandante in toga. 24 Ricordate infatti, Quiriti, tutte le guerre civili, non solo quelle di cui avete sentito parlare, ma anche quelle di cui voi stessi serbate memoria e cui avete assistito. Lucio Silla uccise Publio Sulpicio, [cacciò da Roma] Caio Mario, il difensore di Roma, molti uomini valorosi in parte li bandì e in parte li eliminò. Il console Cneo Ottavio espulse dalla città, con la forza delle armi, il suo collega; tutto lo spazio che avete sotto gli occhi fu pieno di cadaveri ammassati uno sull'altro e del sangue dei cittadini. Poi Cinna ebbe il potere con Mario; allora, davvero, furono eliminati gli uomini più in vista, furono spente le luci della città. In seguito Silla si vendicò della ferocia di questa vittoria. Non starò a dire con quante perdite tra i cittadini e con quanta rovina per lo Stato. Marco Lepido entrò in conflitto con Quinto Catulo, uomo che si distingueva per fama e valore; non fu tanto la sua morte ad arrecar dolore allo Stato, quanto quella dei suoi. 25 Eppure, tutte queste lotte non miravano a distruggere lo Stato, ma a cambiarlo. Non si voleva abbatterlo, ma primeggiare in uno Stato vivo, non si voleva dare alle fiamme Roma, ma distinguersi in Roma. [E tutte queste lotte, di cui nessuna intendeva annientare lo Stato, furono tali da risolversi non con il ristabilimento della concordia sociale, ma con l'uccisione dei cittadini.] Invece, in questa guerra, l'unica a memoria d'uomo ad essere così vasta e feroce e tale che nessun popolo barbaro l'ha mai mossa contro la sua gente, una guerra in cui Lentulo, Catilina, Cetego e Cassio hanno stabilito di annoverare tra i nemici tutti gli uomini la cui salvezza avrebbe consentito di salvare lo Stato, ebbene, Quiriti, in questa guerra io mi sono mosso per assicurare a voi tutti la salvezza. E anche se i vostri nemici pensavano che sarebbero sopravvissuti solo quei cittadini che fossero scampati a una strage infinita e quella parte di città che si fosse sottratta alle fiamme, io ho salvato Roma, io ho salvato la cittadinanza! XI 26 A ricompensa della mia opera, Quiriti, non vi chiedo nessun premio al valore, nessuna dimostrazione di onore, nessuna testimonianza di lode, ma solo che sia eterno il ricordo di questa giornata. È dentro il vostro cuore che desidero che siano riposti e conservati i miei trionfi, tutte le attestazioni di onore, le testimonianze di gloria, i riconoscimenti di stima! Nessuna cosa che sia muta, priva di parola può darmi gioia, insomma niente che uomini anche meno degni potrebbero ottenere. Sarà il vostro ricordo, Quiriti, ad alimentare la mia impresa, la parola a farla crescere, le opere letterarie ad accompagnarla negli anni e a renderla grande. Penso che l'esistenza di Roma e il ricordo del mio consolato vivranno insieme per lo 246
stesso tempo, spero per l'eternità. E penso altresì che siano vissuti nel nostro Stato, nella stessa epoca, due uomini dei quali uno ha esteso i confini del vostro impero non sulla terra, ma nelle regioni celesti, l'altro ha salvato la sede dell'impero. XII 27 Ma dal momento che, dopo tutto quello che ho fatto, la mia posizione è ben diversa da chi ha combattuto all'estero, perché io devo vivere a fianco di coloro che ho vinto e domato e non mi lascio alle spalle nemici morti o ridotti all'impotenza, è vostro dovere, Quiriti, provvedere affinché un domani il mio operato non si ritorca contro di me, quando gli altri traggono profitto dalle loro imprese. Io ho provveduto perché non vi nuocessero i piani scellerati e nefandi degli individui più temerari. Ora sta a voi provvedere alla mia incolumità. È pur vero, Quiriti, che nessuno di costoro è in grado di nuocermi. Perché è grande la protezione che viene dagli onesti: me la garantiranno in ogni momento. Grande è l'autorità dello Stato: tacita, mi difenderà per sempre. Grande è la forza della coscienza: chi la trascurerà volendo nuocermi, denuncerà se stesso. 28 Non sono abituato a cedere di fronte alla temerarietà di nessuno, Quiriti: al contrario sono io che sfido incessantemente chiunque sia colpevole. E se l'attacco dei nemici interni, che ho stornato da voi, dovesse ricadere su me solo, starà a voi, Quiriti, decidere quale sorte volete riservare a chi si è esposto all'impopolarità e a pericoli di ogni sorta per la vostra salvezza. Quanto a me, quali vantaggi potrei ancora conseguire se nelle cariche pubbliche, che siete voi a concedere, e nella gloria, che dipende dal merito personale, non c'è nulla di più alto cui io possa aspirare? 29 Il mio obiettivo, Quiriti, quando tornerò ad essere un privato cittadino, sarà di difendere e di consolidare il mio operato di console in modo che se, nel tutelare le istituzioni, mi sono attirato dell'impopolarità, questa ricada sui miei oppositori e arrechi a me gloria. Per finire, la mia condotta politica sarà tesa a non smentire la mia impresa: cercherò di non farla sembrare casuale, ma frutto del mio valore. Cala la notte, Quiriti. Dopo aver pregato Giove, protettore vostro e di questa città, tornate alle vostre case e continuate a difenderle con turni di guardia come la notte passata, anche se il pericolo è ormai scongiurato. Che non dobbiate farlo troppo a lungo e che possiate vivere per sempre in pace, sarà compito mio, Quiriti.
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CONTRO L. CATILINA IV
I 1 Vedo, padri coscritti, che il volto, gli sguardi di voi tutti si sono rivolti a me. Vedo che siete preoccupati non solo del pericolo che minaccia voi e lo Stato, ma, se questo è stato scongiurato, del pericolo che corro io. La simpatia che mi mostrate mi è cara, nei mali, e gradita, nel dolore. Ma, per gli dèi immortali, rinunciatevi! Dimenticate la mia salvezza! Pensate a voi e ai vostri figli! Se mi è stata affidata la carica di console perché sopportassi sino in fondo ogni amarezza, ogni dolore, ogni strazio, vi farò fronte con coraggio, ma addirittura con gioia, purché i miei sforzi procurino prestigio e salvezza a voi e al popolo romano. 2 Io, padri coscritti, sono quel console per il quale né il Foro, sede suprema della giustizia, né il Campo Marzio, consacrato dagli auspici consolari, né la Curia, protezione sovrana di tutti i popoli, né la casa, rifugio di ogni essere umano, né il letto, destinato al riposo, e neppure, infine, questa [sedia curule] prerogativa della mia carica, sono stati mai esenti da pericoli e da insidie mortali. Ho taciuto molto. Ho sopportato molto. Ho concesso molto. Ho risanato molto col mio dolore, mentre voi vivevate nella paura. Ora, se gli dèi immortali hanno voluto che portassi a termine il consolato strappando voi e il popolo romano a un orrendo massacro, le vostre mogli, i vostri figli e le vergini Vestali a oltraggi inauditi, i templi, i santuari e questa nostra patria bellissima alle fiamme più deleterie, l'Italia intera alle devastazioni della guerra, ebbene, affronterò tutto quel che la sorte vorrà riservarmi! Se infatti Publio Lentulo, credendo ai vati, ha ritenuto che il suo nome fosse predestinato alla rovina dello Stato, perché non dovrei compiacermi del fatto che il mio consolato sia stato, per così dire, predestinato alla salvezza del popolo romano? II 3 Quindi, padri coscritti, provvedete a voi stessi! Pensate al futuro della patria! Salvate la vostra vita, quella delle vostre mogli, dei vostri figli, salvate le vostre proprietà! Difendete la gloria e il futuro del popolo romano! Smettete di preoccuparvi, di darvi pensiero per me! In primo luogo, infatti, voglio sperare che tutti gli dèi che proteggono Roma mi ricompenseranno secondo i miei meriti. Poi, se dovesse capitarmi qualcosa, saprò morire con animo preparato e sereno: la morte non può essere vergognosa per il valoroso, né prematura per chi è stato console, né triste per il saggio. Tuttavia non sono così di ferro da restare insensibile all'angoscia del mio caro e affezionato fratello, qui presente, e alle lacrime di tutti coloro che mi vedete intorno. Né la mia mente si astiene dal tornare spesso a casa, richiamata da mia moglie, completamente prostrata, da mia figlia, sconvolta dalla paura, dal mio piccolo figlio, che mi sembra stretto tra le braccia della repubblica come ostaggio per il mio operato di console, e infine da mio genero, che sta qui davanti ad aspettare l'esito di questa giornata. Tutto ciò mi procura ansia, un'ansia che mi spinge però a voler salvare tutti loro insieme a voi, anche a costo della mia vita, piuttosto che morire noi e loro nella distruzione dello Stato. 4 Allora, padri coscritti, date tutto il vostro appoggio alla salvezza dello Stato! Guardate quali tempeste si abbatteranno su di voi, se non correrete ai ripari! Non è chiamato in causa, non è sottoposto alla severità del vostro giudizio un Tiberio Gracco, per aver aspirato alla rielezione di tribuno della plebe, né un Caio Gracco, per aver cercato di portare alla rivolta gli agrari, né un Lucio Saturnino, per aver ucciso Caio Memmio. Nelle nostre mani ci sono uomini che sono rimasti a Roma per 248
scatenare incendi, per uccidervi tutti, per accogliere Catilina. Nelle nostre mani ci sono lettere, sigilli, scritture, infine la confessione di ciascuno di loro. Qui si tratta di collusione con gli Allobrogi e di rivolte servili; si richiama Catilina, si decide di eliminarvi tutti perché non rimanga nessuno a piangere il nome del popolo romano e a compatire le sventure di un impero così vasto. III 5 Tutto questo è stato riferito dagli informatori, ammesso dagli accusati, giudicato da voi con molte deliberazioni, in un primo momento quando mi avete manifestato la vostra gratitudine con straordinari elogi e avete dichiarato che, grazie alle mie capacità e alla mia solerzia, era stata scoperta la congiura di questi uomini perduti; poi, quando avete costretto Publio Lentulo a dimettersi dalla carica di pretore; in seguito, quando avete deciso di arrestare Lentulo e gli altri che avete giudicato colpevoli; ma, soprattutto, quando avete decretato una cerimonia di ringraziamento a mio nome, onore che nessun civile aveva ricevuto prima di me; infine ieri, quando avete dato ingenti ricompense agli ambasciatori degli Allobrogi e a Tito Volturcio. In seguito a tali iniziative, l'impressione è che gli uomini nominatamente messi agli arresti siano già stati condannati da voi senza esitazione. 6 Tuttavia ho deciso di riferire a voi, padri coscritti, come se la questione fosse ancora impregiudicata e chiedervi di pronunciarvi sul reato e di stabilire la pena. Premetterò solo quel che è di pertinenza a un console. Già da tempo vedevo che nello Stato si agitavano ampi fermenti, si andavano preparando rivolte e covavano sciagure. Ma che fossero dei cittadini a tramare una congiura così estesa, così esiziale, non l'avrei mai creduto! Ora, qualunque cosa accada, qualunque sia l'orientamento del vostro pensiero e del vostro giudizio, dovete decidere prima di notte. Vedete l'enormità del crimine su cui dovete esprimervi. Se credete che i complici siano pochi, commettete un grave errore. Il male si è propagato più di quanto si pensi. Si è diffuso non solo in Italia, ma addirittura ha valicato le Alpi e, serpeggiando nell'ombra, ha invaso già molte province. Sarebbe assolutamente impossibile schiacciarlo con ulteriori rinvii. Qualunque misura decidiate, dovete far giustizia presto! IV 7 Vedo che, sinora, sono due le proposte avanzate. Decimo Silano sostiene che bisogna condannare a morte chi ha cercato di distruggere lo Stato. Caio Cesare, invece, respinge la pena di morte e propone tutta la durezza di ogni altro castigo. Entrambi, come conviene alla loro carica e alla gravità dei reati in causa, fanno appello al massimo rigore. Il primo ritiene che neppure per un istante devono vivere e respirare la nostra stessa aria individui che hanno cercato di eliminare tutti noi, di cancellare l'impero, di estinguere il nome del popolo romano e ricorda che questo tipo di pena fu spesso comminata, nel nostro Stato, a cittadini colpevoli. Il secondo è dell'opinione che gli dèi immortali hanno creato la morte non perché fosse una punizione, ma una necessità naturale e una cessazione di travagli e miserie. Per questo i saggi l'hanno sempre affrontata senza rimpianto e i valorosi spesso con gioia. Il carcere, invece, in particolare l'ergastolo, è stato istituito come pena eccezionale per i reati più empi. Cesare suggerisce che i colpevoli siano confinati in municipi diversi. Tale proposta comporta tuttavia un'ingiustizia, se la imponiamo ai municipi, e una difficoltà, se chiediamo il loro consenso. Ma qualora ne siate convinti, approvatela. 8 Da parte mia cercherò e, come spero, troverò chi non ritenga incompatibile con la sua dignità accogliere provvedimenti presi per il bene comune. Cesare aggiunge pesanti sanzioni contro i municipi nel caso in cui uno dei prigionieri riesca a fuggire; circonda così i rei di una sorveglianza spietata, degna di 249
un reato commesso da uomini perduti; suggerisce poi che né il Senato, né il popolo romano possano mitigare la pena dei condannati. Li priva così anche della speranza, la sola che, di solito, consola l'uomo nelle sciagure. Propone inoltre la confisca dei beni: solo la vita lascia a questi criminali. Se gliel'avesse tolta, in un attimo li avrebbe liberati da molte sofferenze morali e fisiche e da tutti i castighi per i loro delitti. È proprio per suscitare nei malvagi una sorta di terrore, finché fossero vivi, che i nostri antenati hanno voluto che nell'aldilà ci fossero supplizi per i colpevoli, perché si rendevano conto che non si avrebbe avuto paura di una morte senza punizioni. V 9 Ora, padri coscritti, so bene cosa mi convenga. Se seguirete il parere di Caio Cesare, per il fatto che egli segue il gruppo politico detto democratico, probabilmente dovrò aver meno timore degli attacchi dei democratici, essendo lui il promotore e il sostenitore di questa proposta. Se invece voterete la proposta di Silano, potrei andare incontro a difficoltà maggiori. Ma l'importante è che l'interesse dello Stato prevalga sulla considerazione dei pericoli personali. Abbiamo infatti da parte di Cesare, così come richiede il suo rango e la nobiltà dei suoi antenati, una proposta che è garanzia della sua incrollabile devozione allo Stato. È evidente quale differenza intercorra tra la superficialità dei demagoghi e uno spirito davvero democratico, tutto teso al bene del popolo. 10 Vedo, comunque, che non pochi di coloro che si spacciano per democratici sono assenti, evidentemente per evitare di dare un giudizio sulla condanna a morte di cittadini romani. Eppure, questi «democratici» solo l'altro ieri hanno fatto arrestare dei cittadini romani, hanno approvato una cerimonia di ringraziamento in mio onore e, ieri, hanno ricompensato con la massima generosità i nostri informatori. Chi ha approvato l'arresto dei colpevoli, il rito di ringraziamento per il magistrato istruttore e le ricompense per gli accusatori si è già espresso su tutta la vicenda e sulla causa, nessuno può dubitarne! Ma Cesare sa che la legge Sempronia è stata promulgata a riguardo dei cittadini romani e che chi è nemico dello Stato perde completamente i diritti civili; sa, infine, che il promotore della legge Sempronia è stato condannato, per reati politici, senza appello al popolo. E non pensa che lo stesso Lentulo, nonostante la sua straordinaria generosità, possa ancora chiamarsi "democratico" dal momento che ha meditato con tanta ferocia, con tanta crudeltà la rovina del popolo romano e la fine di Roma. E allora Cesare, da uomo così mite e indulgente, non esita a gettare Publio Lentulo nel buio eterno di una prigione e impone che, in futuro, nessuno possa vantarsi di aver mitigato il supplizio di Lentulo e farsi chiamare ancora "democratico", quando si tratta della rovina del popolo romano. Propone inoltre la confisca dei beni, perché a ogni sofferenza fisica e morale sopraggiunga la miseria. VI 11 Perciò, se accoglierete questa proposta, mi darete come alleato in assemblea un uomo che gode del massimo favore popolare. Se, al contrario, preferirete seguire il parere di Silano, il popolo romano ci libererà facilmente dall'accusa di crudeltà ed io dimostrerò che è la decisione di gran lunga più mite. Del resto, padri coscritti, si può essere crudeli nel punire un crimine tanto feroce? Io giudico sulla base di quel che sento. Che io possa, allora, gioire con voi della salvezza dello Stato se è vero che, in questa vicenda in cui mi mostro così impetuoso, non sono mosso da spietatezza (chi è più mite di me?), ma da un profondo senso di umanità e di pietà! Mi sembra infatti di vedere questa città, luce del mondo e scudo di ogni popolo, crollare di colpo in mezzo alle fiamme; nell'animo mi raffiguro, in una patria sepolta, miseri e insepolti cadaveri di cittadini buttati uno sull'altro; ho davanti agli occhi la figura di Cetego e il suo delirio di forsennato sui vostri corpi. 250
12 Ma quando immagino Lentulo signore assoluto di Roma (lui stesso ha confessato di aspettarselo dal destino) e Gabinio suo dignitario, quando immagino Catilina qui, in città col suo esercito, allora sono sconvolto di fronte ai lamenti delle madri, alla fuga di fanciulle e bambini, alla violenza sulle vergini Vestali! Lo strazio, la pietà di queste immagini mi ispirano un comportamento duro, inflessibile verso chi avrebbe voluto tradurle in realtà! Del resto mi chiedo: se un padre scopre che un servo gli ha ucciso i figli, trucidato la moglie, bruciato la casa, se questo padre non condanna il servo alla pena più severa, vi sembrerebbe clemente e pietoso o l'essere più disumano e crudele? Per me, in verità, è inclemente e duro come il ferro chi non cerca di lenire il proprio dolore e il proprio tormento con il dolore e il tormento di chi è colpevole. Allo stesso modo saremo considerati pietosi solo se in noi non ci sarà ombra di cedevolezza verso questi uomini che hanno voluto trucidare noi, le nostre mogli e i nostri figli, che hanno tentato di radere al suolo le case di ciascuno di noi e la sede di tutto lo Stato, che si sono proposti di insediare gli Allobrogi sui resti della nostra città e sulla cenere di un impero annientato. Ma se vorremo mostrarci troppo indulgenti, saremo inevitabilmente accusati di essere oltremodo crudeli, perché è in ballo la sopravvivenza della patria e della cittadinanza. 13 O forse qualcuno, l'altro ieri, ha giudicato troppo crudele un uomo così coraggioso e devoto allo Stato come Lucio Cesare quando ha affermato, in presenza del marito di sua sorella, donna della massima rispettabilità, che bisognava condannarlo a morte e ha ricordato che era stata giusta la morte, ordinata dal console, di un suo avo e quella, in prigione, del giovane figlio di questi, inviato dal padre a trattare? Avevano compiuto azioni paragonabili alle attuali? Volevano distruggere lo Stato? Allora si trattava di richieste di largizioni e di conflitti tra le parti. E in quel tempo, l'antenato di Lentulo, un uomo del massimo prestigio, combatté Gracco e restò gravemente ferito perché lo Stato non venisse minimamente danneggiato. Lentulo, invece, per scalzare le fondamenta dello Stato ricorre ai Galli, chiama gli schiavi alla rivolta, fa venire Catilina, ordina a Cetego di trucidarci e a Gabinio di eliminare tutto il resto della cittadinanza, a Cassio di incendiare la città, a Catilina di devastare e di saccheggiare l'Italia intera! Quel che dovete temere, a mio giudizio, è che le vostre disposizioni appaiano troppo blande in presenza di un crimine così immane e mostruoso! Ma molto di più dobbiamo temere di apparire crudeli verso la patria se saremo miti nella condanna, piuttosto che duri verso i nostri peggiori nemici se saremo inflessibili! VII 14 Tuttavia, padri coscritti, non posso nascondere quanto sento dire. Ci sono in giro voci che arrivano sino a me: a quanto pare, alcuni temono che io non disponga di mezzi sufficienti per eseguire quanto voi deciderete oggi. Ogni cosa è stata prevista, disposta, sistemata, padri coscritti, non solo con tutto l'impegno e lo zelo di cui sono capace, ma soprattutto grazie al desiderio del popolo romano di difendere la sua sovranità e di conservare i beni comuni. Tutti sono venuti qui, uomini di ogni classe, condizione, età! Pieno è il Foro, pieni i templi intorno al Foro, piena ogni strada che porta a questo tempio. Dai tempi della fondazione di Roma, è questa l'unica circostanza in cui tutti nutrono gli stessi intendimenti, a eccezione di chi, accorgendosi di essere a un passo dalla fine, ha deciso di morire insieme a tutti gli altri piuttosto che da solo. 15 Questi individui ben volentieri li metto a parte, li separo; per me, non vanno annoverati tra i cittadini colpevoli, ma tra i peggiori nemici! Ma gli altri, o dèi immortali!, con che affluenza, con che impeto, con che coraggio sono uniti in nome della salvezza e del prestigio comune! Dovrei ricordare i cavalieri? Se cedono a voi senatori il primato del grado e dell'autorità, non vi sono 251
certo inferiori per devozione allo Stato! Dopo un dissenso durato molti anni hanno ritrovato l'unione e la concordia con voi: la giornata di oggi e la causa presente li rendono vostri alleati! Se riusciremo a conservare per sempre l'unione politica che si è rafforzata sotto il mio consolato, vi assicuro che in futuro nessuna crisi politica colpirà lo Stato in nessuna delle sue parti. Con lo stesso impeto vedo che sono accorsi per difendere lo Stato i tribuni dell'erario, uomini di straordinario valore. In modo analogo tutti gli scribi, che oggi si trovavano per caso nell'erario, hanno tralasciato le operazioni di sorteggio per votarsi alla salvezza comune. 16 Sono presenti in massa tutti i liberi, anche i più umili. C'è qualcuno a cui questi templi, il volto della città, il possesso della libertà e infine questa stessa luce e il suolo comune della patria non ispirino piacere, ma soprattutto un sentimento di dolcezza e di gioia? VIII È importante conoscere, padri coscritti, la devozione dei liberti i quali, guadagnandosi un posto nella nostra comunità con il loro valore, considerano questa la loro vera patria, una patria che chi è nato qui e nelle famiglie più altolocate non ha considerato tale, ma alla stregua di una città nemica. Ma perché menziono queste classi e questi uomini che le proprietà, l'interesse comune e infine il bene più dolce che c'è, la libertà, hanno spinto qui a difendere la vita della patria? Non c'è schiavo, purché viva in condizioni tollerabili, che non inorridisca di fronte alla pazzia dei nostri concittadini, che non aspiri al mantenimento della situazione attuale, che non contribuisca alla salvezza comune, per quanto osi, per quanto possa. 17 Perciò, se qualcuno di voi rimane sconcertato sentendo che un intermediario di Lentulo si aggira per negozi con l'intenzione di far proseliti tra i bisognosi e gli sprovveduti, a prezzo di denaro, ebbene, anche questo è stato tentato, ma non è stato trovato nessuno che fosse di condizione così misera o di propositi così disperati da mettere a repentaglio il posto dove siede al lavoro, dove si guadagna da vivere, la sua stanza e il suo lettuccio, insomma da voler compromettere il tranquillo corso della sua esistenza. In verità, la stragrande maggioranza di chi ha un'attività in proprio, diciamo meglio tutta questa categoria, apprezza la pace come nessun'altra. Infatti, ogni mestiere, ogni lavoro, ogni attività si basa sull'affluenza di clienti e si alimenta con la pace. Se l'attività diminuisce con la chiusura dei negozi, che cosa accadrebbe se venissero incendiati? 18 In queste condizioni, padri coscritti, l'appoggio del popolo romano non vi manca. Fate in modo che non sembri che manchiate voi al popolo. IX Avete un console che si è salvato da innumerevoli pericoli e insidie, addirittura dalla stretta della morte, non in nome della sua vita, ma della vostra salvezza! Tutte le classi sono unanimi nel pensiero, nella volontà, nella parola: vogliono conservare questo Stato. Assediata dalle torce e dai dardi di un'empia congiura, la patria comune vi tende, supplice, le mani. A voi si affida, a voi affida la vita di tutta la collettività, a voi la rocca e il Campidoglio, a voi gli altari dei Penati, a voi il fuoco eterno di Vesta, a voi i templi e i santuari di tutti gli dèi, a voi le mura e le case della città. Inoltre, è sulla vostra vita, sull'esistenza delle vostre mogli e dei vostri figli, sulle proprietà di tutti, sulle case e sui focolari che oggi dovete esprimere il vostro giudizio! 19 Avete come capo un uomo memore di voi e dimentico di sé, facoltà che non sempre è data. Avete tutte le classi, tutti gli uomini, l'intero popolo romano in condizioni di completa unanimità, cosa che vediamo oggi per la prima volta in una questione di politica interna. Pensate con quanti sforzi è stato fondato l'impero, con quanto valore è stata assicurata la libertà, con quanta benevolenza divina sono prosperati i nostri averi. Tutte cose che una sola notte avrebbe potuto distruggere. Oggi 252
dobbiamo prendere provvedimenti perché un simile tentativo non solo non possa essere attuato, ma neppure concepito da dei cittadini. E queste parole non le ho dette per accendervi (il vostro ardore supera del resto il mio), ma perché la mia voce, che dev'essere ascoltata per prima negli affari di Stato, sembri aver assolto i doveri di console. X 20 Adesso, prima di ritornare al voto, dirò poche cose su di me. So di essermi procurato tanti nemici quanti sono i congiurati: e sono moltissimi, lo sapete bene. Ma è gente ignobile, vile, abietta, così li considero. Se un giorno, aizzati dai folli disegni di un criminale, dovessero prevalere sulla vostra autorità e su quella dello Stato, neppure allora mi pentirò delle mie azioni e delle mie decisioni, padri coscritti. Perché la morte, di cui essi forse ci minacciano, è stabilita per tutti, ma nessuno ha mai ottenuto tanta gloria quanta ne avete concessa a me con i vostri decreti. Ad altri avete tributato ringraziamenti per azioni militari, a me per aver salvato lo Stato. 21 Sia gloria a Scipione, che con intelligenza e valore costrinse Annibale a ritornare in Africa e a lasciare l'Italia! Riceva lodi eccelse il secondo Africano, che cancellò le due città più ostili al nostro impero, Cartagine e Numanzia! Abbia fama l'illustre Paolo, il cui carro trionfale fu nobilitato dalla presenza di Perseo, il re un tempo più potente e nobile! Sia gloria eterna a Mario, che liberò due volte l'Italia dal pericolo di invasioni e dalla paura della schiavitù! A tutti sia anteposto Pompeo, le cui imprese, i cui meriti si estendono fino alle regioni e ai confini tracciati dall'orbita del sole! Tra le lodi di questi eroi avrà senz'altro un posto anche la mia gloria, a meno che non sia ritenuta impresa più ardua conquistare nuove province in cui possiamo espanderci, che non tutelare, per chi è lontano, un luogo in cui possa tornare vincitore. 22 È pur vero che sotto un certo aspetto la vittoria all'estero è migliore della vittoria politica: i nemici stranieri, quando sono vinti, sono asserviti, oppure, quando ricevono dei favori, si sentono obbligati; invece chi appartiene al novero dei cittadini, se viene fuorviato da qualche idea insensata e diventa un nemico della patria, è impossibile piegarlo con la forza o ammansirlo con dei favori, sempre che gli sia stato impedito di nuocere allo Stato. Ecco perché so di aver intrapreso contro dei cittadini perduti un conflitto che non avrà fine. Ma l'aiuto vostro e di tutti gli onesti e il ricordo di pericoli così gravi - ricordo che vivrà per sempre non solo nel nostro popolo, ormai salvo, ma nelle parole e nella mente di tutte le genti - difenderanno me e i miei cari da questa guerra, ne sono sicuro. Non ci sarà certamente una forza così grande da spezzare e dissolvere la vostra unione con i cavalieri romani e un così unanime accordo tra tutti gli onesti. XI 23 A questo punto, in cambio del comando supremo, dell'esercito e della provincia che non ho voluto, in cambio del trionfo e di altre dimostrazioni di onore cui ho rinunciato per provvedere alla vostra salvezza e a quella di Roma, in cambio dei rapporti di clientela e di ospitalità nelle province, rapporti che, con le mie risorse in città tutelo con la stessa fatica con cui li amplio, insomma, in cambio di tutti questi vantaggi, in cambio della singolare devozione che vi ho dimostrato e della mia solerzia nel salvare lo Stato, di cui avete testimonianza, non vi chiedo altro se non di ricordare questo momento e tutto il mio consolato. Finché questo ricordo rimarrà fisso nella vostra mente, riterrò di essere protetto dal muro più saldo. E se la forza dei sovversivi riuscisse a tradire le mie aspettative e ad avere la meglio, vi raccomando il mio figlioletto, cui non mancherà certo la vostra protezione nella vita e nella carriera politica, se rammenterete che è figlio di colui che ha salvato tutto questo a rischio della sua sola esistenza. 24 Sta a voi, adesso, prendere una 253
decisione con la stessa solerzia e con la stessa fermezza con cui avete iniziato: è in discussione la sicurezza vostra e del popolo romano, la vita delle vostre mogli e dei vostri figli, gli altari e i focolari sacri, i templi e i santuari, le case e le abitazioni dell'intera città, l'impero e la libertà, la vita dell'Italia, lo Stato nel suo complesso. Avete un console che non esiterà a eseguire i vostri decreti e a difendere quanto stabilirete, finché vivrà. Egli potrà garantire di persona.
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INTERROGATORIO CONTRO VATINIO
I 1 Se io avessi esclusivamente considerato, Vatinio, il tuo modo di essere tanto spregevole, avrei fatto una cosa che avrebbe mandato in visibilio tutti i presenti: ti avrei lasciato andare senza una parola, te e le tue testimonianze che non valgono niente, inficiate, quali sono, da una vita sporca e sregolata; tra il pubblico, infatti, non ci sarebbe stato nessuno disposto a credere che tu meritassi di venire confutato come un pericoloso avversario o interrogato come il più attendibile dei testi. O forse poco fa non ce l'ho proprio fatta a trattenermi e probabilmente ho anche esagerato; ma io ti odio, Vatinio, e non sono il solo: quanto a sentimenti ostili nei tuoi confronti dovrei battere tutti, perché contro di me hai agito da delinquente, eppure sono tra i tuoi detrattori più tiepidi, quasi tutti ti odiano più di me. E così, visto che in me il disprezzo è pari all'odio, non mi è piaciuta l'idea di vederti andar via tra i fischi e le minacce, senza averti dato una bella lezione. 2 Perciò non ti stupire che io ti conceda l'onore di interrogarti, abbassandomi al livello di chi nessuno reputa degno di un po' di compagnia, di due parole dette in confidenza, del diritto di voto e di cittadinanza, della luce stessa del sole: non l'avrei mai fatto, niente e nessuno sarebbe riuscito a convincermi se non mi fossi imposto di soffocare questa tua arroganza e di spezzare la tua sfrontatezza, arginando la fiumana delle tue parole con poche mie domande. Ora poniamo il caso che Publio Sestio abbia a torto sospettato di te: tu, però, Vatinio, non puoi assolutamente prendertela con me se in una circostanza tanto critica per un uomo che si è sempre comportato più che bene con me, io ho voluto mettermi in gioco, assecondando il suo volere e cedendo alla difficoltà del momento. 3 Poco fa, senza neanche accorgertene, sei caduto in palese contraddizione, dimostrando così di avere testimoniato il falso quando ieri hai affermato di non aver mai scambiato neppure una parola con Albinovano su nessun argomento, tanto meno sull'accusa di Sestio; hai, infatti, detto che Tito Claudio ti ha cercato e ti ha chiesto un consiglio sulla querela mossa a Publio Sestio; Albinovano, poi, che, stando alla tua precedente testimonianza, tu quasi non conoscevi, si è presentato a casa tua e tu gli hai consegnato copia di quei discorsi di Publio Sestio, introvabili e sconosciuti per lui, che sono stati letti poco fa in questo tribunale. Da una parte, quindi, hai ammesso di esserti procacciato gente senza scrupoli, disposta ad accusare, e di averla corrotta; dall'altra, hai fornito ulteriore prova della tua leggerezza, aggravata per di più da un comportamento superficiale e spergiuro. Come? Raccontando che chi avevi definito un perfetto estraneo, è stato a casa tua; all'inizio del processo lo avevi giudicato un prevaricatore, ma ora si è saputo che gli hai fornito su sua richiesta documenti indispensabili per accusare Sestio. II 4 Sei troppo violento, troppo arrogante: tu non credi che si possano pronunciare parole sul tuo conto che giungano sgradite e disdicevoli alle tue orecchie. Sei entrato in questa aula in collera con il mondo intero, me ne sono accorto subito, non appena ti ho guardato, anzi avevo quasi previsto una reazione del genere, prima ancora che tu iniziassi a parlare: in quel momento, infatti, stava testimoniando Gellio, balia di tutti i faziosi. Ecco che all'improvviso sei strisciato dentro tu, tale quale un serpente che sbuca dal suo nascondiglio: gli occhi fuori dalle 256
orbite, il collo gonfio dalla rabbia, la nuca tumefatta, tanto che mi [è sembrato] rinnovarsi quel tuo [...] 5 [... Mi rimproveri] per avere assunto la difesa di un mio vecchio amico, che è, poi, un tuo familiare: ma in questa città solitamente ci si scaglia contro atti d'accusa come il tuo (e non è la prima volta che te ne servi), mai contro la difesa. Ti domando, piuttosto, perché non avrei dovuto prendere le parti di Caio Cornelio: ha proposto qualche legge contro il volere degli auspici? Non ha tenuto conto delle leggi Elia e Fufia? Ha forse fatto violenza ad un console, occupato un tempio con uomini armati, eliminato un oppositore con le maniere forti, insozzato le sacre cerimonie, ripulito l'erario o saccheggiato le fortune dello Stato? No, sono tue, sono tutte tue queste belle bravate: a Cornelio non si può rinfacciare niente del genere. Correva voce che fosse stato lui a pronunciare a voce alta la sua proposta di legge: ma si giustificava - e gli erano testimoni i suoi colleghi - dicendo di averlo fatto non per declamare alla folla, bensì per rivedere il testo ed eventualmente emendare. Tuttavia, l'unico dato certo era che in quel giorno Cornelio aveva sciolto l'assemblea, obbedendo al veto dei tribuni. Tu, piuttosto, a cui dà tanto fastidio che io abbia difeso Cornelio, che genere di causa presenterai ai tuoi avvocati e soprattutto con quale faccia? Stai già dimostrando di quanta vergogna si dovranno coprire se capiterà loro di prendere le tue parti, visto che, secondo la tua opinione, la mia difesa di Cornelio equivale in tutto e per tutto a un'ingiuria. 6 Ma tieni bene in mente ciò che sto per dirti, Vatinio: poco tempo dopo questo mio discorso in difesa di Cornelio, che, stando alle tue parole, non sarebbe piaciuto alle persone perbene, nel corso di una cerimonia solenne che passerà alla storia, mi hanno eletto console: e non lo ha voluto ad ogni costo solo l'intero popolo romano, ma si è anche esaudito l'intimo desiderio dei cittadini migliori; e così, vivendo secondo sani principi, ho raggiunto tutto ciò che, come hai avuto più volte occasione di dire nei tuoi sciocchi vaticini, speri di conseguire al più presto. III Mi hai rinfacciato la mia partenza per l'esilio; hai voluto mettere il dito in quella che è una profonda piaga per chi considerò terribile quel giorno, lo stesso che fu per te lieto come una festa. Ebbene, in risposta voglio dirti una cosa soltanto: tu e quei disgraziati dei tuoi amici, flagello dello Stato, non chiedevate altro che un pretesto per attaccar battaglia; ardevate dal desiderio di mettere le mani sui beni dei più ricchi e io ero un'ottima scusa; volevate ubriacarvi del sangue dei cittadini più in vista, dando sfogo alla vostra crudeltà e a un viscerale odio contro gli onesti, maturato per anni nel profondo. Non ve l'ho data questa soddisfazione e alla resistenza ho preferito la fuga, nella speranza di porre un freno alla vostra delittuosa rabbia. 7 Perciò ti chiedo di perdonarmi, Vatinio, se ho avuto riguardo di quella patria che avevo salvato: considerami pure un protettore, quasi un custode di questa repubblica, esattamente come io reputo te il suo flagello, la sua disperazione. E, quasi non bastasse, hai l'ardire di far sentire colpevole del suo distacco dalla città quell'uomo che - lo sai benissimo - è stato poi richiamato per desiderio di tutti i cittadini e per il lutto della stessa Roma. Tu, invece, hai detto che, se ci si è impegnati per farmi rientrare, lo si è fatto esclusivamente per l'interesse dello Stato e non per farmi un piacere personale: d'accordo, ma non mi dirai che per un uomo di alto sentire che entra in politica esista desiderio più intenso dell'essere apprezzato dai suoi concittadini perché ritenuto utile alla repubblica! 8 Sì, lo so, ho un carattere difficile, difficile è avvicinarmi perché il mio sguardo è severo, la mia risposta superba, alieno da ogni regola il mio regime di vita; a nessuno, quindi, importava 257
della mia amicizia, nessuno guardava a me come a un esempio nella speranza di un consiglio, di un aiuto; eppure, per raccontare solo la minima parte dell'accaduto, si sentì tanto la mia mancanza che sul foro e sulla curia piombò un silenzio di tomba e tacquero abbandonate anche tutte le arti liberali e il fervore intellettuale che le accompagnava. D'accordo, ammettiamo pure che io, come persona, non abbia nulla a che fare con la situazione verificatasi in Roma: proviamo a supporre che non per me, ma per l'interesse dello Stato siano passati tutti quei senatoconsulti, si sia dato ascolto al volere del popolo, si siano approvati i decreti dell'Italia intera, delle sue associazioni e di ogni corporazione. Poteva capitarmi sorte migliore? Rispondi, uomo tanto ignorante da non saper riconoscere la gloria quando è vera e il merito quando è sincero! Se io aspiro a una fama immortale e a un ricordo della mia persona che vinca il tempo, che altro dovrei desiderare se non che i miei concittadini crescano nella convinzione che la salvezza di Roma e la mia sono un'unica cosa? 9 Eccoci alla resa dei conti: tu hai affermato che io sono caro al senato e al popolo romano non certo per meriti personali, ma perché così torna utile allo Stato; lo stesso vale per te: benché tu sia un pericolo pubblico - e puoi ringraziare la tua indole barbara e crudele -, io, tuttavia, sostengo che se la città ti odia tanto, non è perché ti chiami Vatinio, ma perché questa si chiama patria. IV E per poter tornare una buona volta a parlare di te, ti dirò quest'ultima verità sul mio conto. Non ci si deve affatto preoccupare di cosa ciascuno di noi dica in giro di se stesso: quel che importa davvero, quello che lascia il segno, è il giudizio delle persone perbene. 10 E sono due le occasioni che mi permettono di capire cosa pensino di me i miei concittadini: quando in gioco è una carica politica o l'incolumità personale. Nel primo caso, infatti, a ben pochi il popolo romano ha voluto tributare onori con tanto entusiasmo come ha fatto con me; con nessuno, poi, ci si è impegnati così a fondo per garantire il rientro in patria e il ripristino degli antichi privilegi. Quanto a te, invece, abbiamo già avuto modo di osservare il trattamento che ti è stato riservato quando aspiravi a una carica: aspettiamo solo che in gioco ci sia la tua salvezza per vedere cosa farà la gente. Non ho, tuttavia, la benché minima intenzione di paragonarmi ai cittadini più illustri presenti in tribunale per assistere Publio Sestio; piuttosto, voglio farlo con te, misurandomi con un uomo che nemmeno sa cosa sia la vergogna, perché appartiene alla peggior feccia. Ed è proprio all'arrogante Vatinio, mio acerrimo nemico, che voglio rivolgere una domanda: per questa nazione, per questo Stato, per questa città, per questi templi, per l'erario, per la curia, per tutti gli uomini che qui vedi e per le loro sostanze, per i loro figli, per il resto dei cittadini e infine per i santuari, gli auspici, le sacre cerimonie degli dèi immortali, cosa credi sia stato di maggior vantaggio: che la fortuna di nascere cittadino romano sia capitata a me o a te? Parla, coraggio, e quando ti sarai espresso con tanta insolenza da farti quasi mettere le mani addosso, o con gli occhi così pieni di lacrime che le tue belle parole ispirate esploderanno, tanto le hai gonfiate, rispondi allora - e sii preciso - alle domande che ti porrò sul tuo conto. V 11 Preferisco stendere un velo pietoso su quelli che sono i primissimi anni bui della tua vita. Per me, puoi anche avere impunemente perforato pareti, depredato vicini, picchiato tua madre: su un comportamento sicuramente tanto infame cali un silenzio che sa di morte e di vergogna e sia questo il premio per un'adolescenza sbandata come la tua. Ti sei candidato alla questura insieme a Publio Sestio, che non ha mai fatto mistero dei suoi reali propositi, mentre tu andavi farneticando di un tuo secondo 258
consolato. Ma - lascia che te lo domandi - ti ricordi che Sestio divenne questore a pieni voti, mentre tu arrivasti a stento ultimo degli eletti e non per favore del popolo - nessuno ti voleva -, ma del console? 12 Durante quella magistratura ti toccò di sovrintendere al controllo delle acque costiere e la cosa suscitò grande scalpore; era l'anno del mio consolato: rammenti che ti inviai a Pozzuoli perché impedissi l'esportazione di oro e argento dalla città? Ebbene: forte di quell'incarico, equivocasti sul significato della tua missione, credendo di essere stato mandato non per custodire le merci, ma per appropriartene quasi fossi un doganiere; e così, come il più scaltro dei ladri, rovistavi nelle case, nei magazzini, nelle stive delle navi; attiravi nella tua rete chi era dedito agli affari per poi trascinarlo in tribunale, accusato ingiustamente; vessavi con intimidazioni i mercanti appena sbarcati e impedivi ad altri di salire sulle navi. Ma ti ricordi che gli abitanti di Pozzuoli, durante un'assemblea, prima ti hanno conciato per le feste, poi mi hanno sepolto di lettere di protesta, visto che il console ero io? E, dopo la questura, non ti trasferisti come legato nella Spagna Ulteriore al seguito del proconsole Caio Cosconio? Il viaggio per la Spagna di solito si fa via terra e se uno proprio vuole navigare, deve seguire una rotta ben precisa: tu non passasti prima in Sardegna e da lì in Africa? Non ti sei fermato nel regno di Iempsale, contravvenendo così a una specifica disposizione del senato? E in quello di Mastanesoso? Non sei addirittura giunto allo stretto, passando per la Mauritania? Sai se per caso qualche altro legato destinato alla Spagna sia mai giunto in quella provincia seguendo un itinerario come il tuo? 13 Preferisco non indagare con te sulle ruberie e i crimini che ti hanno coperto di vergogna mentre eri in Spagna; parliamo piuttosto di quando ti hanno eletto tribuno della plebe. La prima domanda che intendo rivolgerti è di ordine generale: di che misfatto, di quale scellerataggine non ti sei macchiato nel corso di quella magistratura? No, Vatinio, non mescolare le carte in tavola, insozzando il buon nome di illustri personaggi con il racconto delle tue bassezze. Qualunque sarà la natura delle mie domande, è a te solo che mi rivolgerò: ti costringerò ad uscire dal tuo oscuro nascondiglio e non ti permetterò di farti scudo dell'appoggio di qualche politico importante; tutti i miei dardi pioveranno addosso a te in modo che nessun altro rimanga ferito anche solo di riflesso (insinuazione, questa, che sei solito fare): nei tuoi polmoni e nelle tue viscere si conficcheranno le mie frecce avvelenate. VI 14 E visto che motore di tutte le cose importanti sono gli dèi immortali, voglio che tu, che hai l'abitudine di professarti pitagoreo e di giustificare col nome del grande filosofo i tuoi barbari e crudeli costumi, risponda a questa mia domanda: quale strana perversione mentale, quale accesa follia spinsero te, che ami evocare le anime dei morti e placare gli dèi Mani con viscere di bambini, a disprezzare gli auspici che permisero la fondazione di questa città e ancora oggi tutelano l'intero Stato e la sua autorità? Perché, appena eletto tribuno, hai informato il senato che non sarebbero stati d'ostacolo alle tue azioni i responsi degli auguri e la presunzione che, secondo te, è propria di quel collegio? 15 Ne consegue una seconda domanda: hai poi mantenuto la parola? Ti è capitato qualche volta di dover posticipare la convocazione di un'assemblea o la presentazione di una proposta di legge, perché sapevi che proprio in quel giorno si scrutava il cielo per trarne auspici? No, sicuramente no. E per di più insisti nel dire che questo tuo atteggiamento è l'unico che hai in comune con Cesare: io, però, opererò una precisa distinzione, non solo nell'interesse dello Stato, ma anche per il buon nome di Cesare, per evitare cioè che la sua reputazione, accomunata, anche solo per un attimo, alla tua infima bassezza 259
appaia infangata. Anzitutto, Vatinio, vuoi affidare la tua causa al senato, seguendo l'esempio di Cesare? Ma di che credito può godere uno che si difende avvalendosi del sudore altrui e non del proprio? No, non riesco più a stare zitto, sento scoppiarmi dentro la verità, quindi dirò, senza esitare, il mio pensiero: d'accordo, in qualche occasione Caio Cesare può anche essere stato un po' troppo violento, possono averlo indotto ad un determinato comportamento la smania di contesa, un bruciante desiderio di gloria, un temperamento eccezionale, una nobiltà di stirpe davvero fuori del comune; ma ciò cui si lasciò andare poteva trovare giustificazione in un uomo tanto unico, e oggi, al solo pensiero di cosa è riuscito a compiere in seguito, siamo obbligati a cancellarlo dalla memoria. E tu, pendaglio da forca, pretenderai per te un simile trattamento di favore? Ci toccherà ascoltare un qualunque Vatinio ladrone e sacrilego, che si arroga diritti concessi solo ad un Cesare? VII 16 Aspetto da te una risposta. Sei stato tribuno della plebe - tienti lontano dal console -: come colleghi hai avuto nove uomini in gamba. Tra loro ce n'erano tre incaricati di scrutare ogni giorno il cielo per trarne auspici: tu lo sapevi e li deridevi, dicendo che erano solo dei privati cittadini. Due di questi li vedi ora seduti con tanto di toga pretesta, quella stessa che ti eri fatto confezionare invano per la carica di edile e che poi sei stato costretto a vendere; quanto al terzo, sei certo al corrente che, dopo un burrascoso e tormentato anno in veste di tribuno, ha ottenuto, benché molto giovane, il credito di cui gode un ex console. Dei rimanenti sei alcuni la pensavano esattamente come te, altri mantenevano una via di mezzo: ma tutti ebbero la soddisfazione di vedere pubblicate le loro proposte di legge, soprattutto un mio amico, Caio Cosconio, qui presente in veste di giudice, che dovette il suo successo anche alla mia approvazione; è per lui che ti rodi il fegato quando ripensi alla sua elezione a edile. 17 Ma dimmi ed esigo che tu mi risponda -: di tutto il collegio dei tribuni chi osò, poi, mettere ai voti le proprie proposte, se si esclude te solo? Quale arroganza, quale cieco furore ti spinsero, uomo nato dal fango, al disprezzo, tu ultimo di tutte le cose, al rifiuto, allo scherno di ciò che ai tuoi nove colleghi incuteva un religioso timore? Dal giorno della fondazione di Roma ad oggi, ti sfido a trovare un solo tribuno della plebe che abbia parlato al popolo raccolto in assemblea, pur nella consapevolezza che in cielo si erano presi gli auspici! 18 Ma c'è un'altra cosa che voglio sapere da te. Quando eri tribuno della plebe, vigevano ancora nello Stato due leggi, la Elia e la Fufia, che in più di un'occasione indebolirono, sino ad annullarle, eventuali ingerenze da parte dei tribuni e nessuno mai, tranne te, tentò di boicottarle (l'anno dopo, mentre si trovavano seduti nel foro due figuri, consoli no di certo, ma traditori e rovina della città, queste leggi presero fuoco insieme con gli auspici, con il veto dei tribuni, con ogni provvedimento del sistema legislativo romano): quando mai ti sei fatto scrupolo di quelle leggi e hai esitato a tener banco davanti al popolo, dopo averlo raccolto in assemblea? Di tribuni faziosi ce ne sono stati; ma tra tutti hai mai sentito parlare di uno tanto sfrontato da fare altrettanto, contravvenendo così alle leggi Elia e Fufia? VIII 19 Chiariscimi ora un altro particolare. C'è un episodio nella tua vita che, al solo pensarci, susciterebbe in chiunque la voglia di torturarti senza pietà: non è forse vero che durante la tua insopportabile ascesa non a tiranno - ti piacerebbe sentirtelo dire! -, ma a brigante, hai tentato, voluto, architettato di sostituirti nell'incarico a Quinto Metello, di professione augure? Così, chi t'avesse osservato alle prese con il tuo nuovo impegno, avrebbe sentito stringersi il cuore in una morsa di sincero dolore per due motivi ben precisi: il rimpianto di un onesto cittadino giustamente famoso e la rabbia nel vedere al suo posto il più scellerato e perverso 260
degli uomini. Non ti bastava avere sconvolto lo Stato e distrutto un'intera cittadinanza, approfittando del potere di tribuno? Ci credevi così succubi e disorientati da poter sopportare un Vatinio con funzioni di augure? 20 A questo proposito vorrei sapere una cosa. Poniamo l'ipotesi che si fosse realizzato il tuo massimo desiderio e ti avessero eletto augure (prospettiva, questa, che accendeva in noi, carichi d'odio, uno sdegno quasi insostenibile, ma faceva sbellicare dalle risate persino quelli a cui eri tanto simpatico): se, oltre a tutti gli altri duri colpi sotto cui lo Stato doveva soccombere, perché così avevi decretato, gli avessi inflitto anche la ferita mortale rappresentata dalla tua nomina ad augure, ti saresti conformato alle decisioni prese da tutti gli auguri prima di te fin dai tempi di Romolo? Avresti cioè considerato illecito parlare in assemblea con il cielo rischiarato dai fulmini o, anche da augure, te ne saresti tranquillamente disinteressato, come hai sempre fatto? IX 21 Non ho certo intenzione di aggiungere altro sulla tua folle aspirazione a divenire un sacro indovino: anzitutto, è un argomento che tratto malvolentieri e solo per rievocare le disgrazie dello Stato; inoltre, neanche tu hai mai veramente creduto possibile che ti nominassero augure, almeno finché non fosse crollata la maestà del popolo romano e con essa la nostra città. Quindi, lasciamo stare le tue assurde fantasie ed occupiamoci piuttosto dei misfatti. Rispondimi, per favore. Mi riferisco a Marco Bibulo, che allora era console: non dirò che dimostrasse nei confronti dello Stato un attaccamento filiale (non vorrei suscitare le ire di un uomo potente come te e di idee politiche così diverse dalle sue), ma almeno restava al suo posto, non prendeva iniziative politiche, provava solo un gran disappunto se ripensava al tuo operato. E tu cosa hai fatto? Benché fosse console, ne ordinasti la carcerazione: e stavi già trascinandolo in carcere quando i tuoi colleghi dal dipinto di Valerio ne ordinarono il rilascio. Non ti sei, allora, creato una scappatoia, allineando davanti ai rostri i seggi dei tribunali messi in fila? E attraverso questo passaggio un console del popolo romano, uno dei più coerenti ed equilibrati, aizzatagli contro la rabbia di gente senza scrupoli, negatogli ogni aiuto e tenuti lontani i suoi amici, non fu forse condotto non in carcere, ma - spettacolo triste e vergognoso - direttamente al supplizio e di lì a morte certa? 22 Sai dirmi se prima di te è esistito uomo tanto infame da fare altrettanto? In altre parole, mi piacerebbe sapere se ti limiti semplicemente a riproporre antichi misfatti o se ti diverti a inventarne di nuovi; quando, ad esempio, facendoti scudo del nome di Caio Cesare (proprio il più buono e il più mite!) per macchiarti di questi o siffatti crimini, frutto, invece, della tua mente contorta e di un animo sfrontato, cacciasti Marco Bibulo dal foro, dalla curia, dai templi, da tutti i luoghi pubblici, costringendolo a relegarsi in casa, quando, cioè, la vita di un console era protetta non dall'autorità conferitagli dalla carica né dalla forza della legge, ma da porte e pareti robuste, non inviasti un messo per trascinare a forza Bibulo via dalla sua casa? E così, sotto il tuo tribunato, un console non poté neanche più usufruire di un privilegio concesso da sempre persino ai semplici privati: fare, cioè, della propria abitazione la terra dove trascorrere l'esilio. 23 Avanti, dammi una risposta tu che ci chiami tiranni, anche se siamo sempre concordi quando di mezzo c'è la comune salvezza: tiranno, piuttosto, fosti tu, insopportabile creatura emersa dal fango e dalle tenebre, non tribuno della plebe, tu che fin da subito tentavi, invalidando gli auspici, di rovesciare uno Stato che agli auspici doveva il proprio fondamento; quelle due sacrosante leggi, poi, intendo la Elia e la Fufia, che sopravvissero alla ferocia dei Gracchi, alla temerarietà di Saturnino, al caos creato da Druso, alla lotta di Sulpicio, alla strage di Cinna, persino agli scontri armati di Silla, 261
tu solo hai saputo calpestarle e considerarle nulla; sempre tu hai offerto un console in pasto alla morte e lo hai letteralmente assediato dopo averlo costretto a chiudersi in casa, per poi provare a farlo uscire con la violenza. Non ti è bastato servirti della carica di tribuno per tirarti fuori dalla miseria in cui vivevi? Devi anche terrorizzarci ora con lo spauracchio delle tue ricchezze? X 24 E non sei stato così spietato da avanzare una proposta di legge nel tentativo di neutralizzare e poi annientare il fior fiore dei cittadini onesti a capo della città? Sto parlando di Lucio Vettio: visto che davanti al senato riunito aveva confessato di aver teso un agguato a quel sant'uomo di Gneo Pompeo (chi non lo conosce?), perché voleva pugnalarlo con le sue mani, tu lo hai condotto alla presenza del popolo, facendo così penetrare in mezzo ai Rostri, in un luogo e in un tempio consacrati dagli auspici, nient'altro che un bugiardo prezzolato. È vero, anche tutti gli altri tribuni della plebe hanno l'abitudine di convocare lì i personaggi più illustri della città, ma lo fanno per accrescere la loro autorità, guadagnandone in prestigio; tu, invece, hai voluto che Vettio, la spia, desse parola e voce ai tuoi propositi folli e scellerati. Non raccontava, infatti, nell'assemblea da te convocata, pilotato dalle tue domande tendenziose, di avere avuto quali ideatori, istigatori e complici del tentato omicidio proprio quegli uomini senza cui la città sembrava destinata a crollare (in realtà, il tuo progetto di massima a quei tempi)? Marco Bibulo, ad esempio: non ti bastava averlo incarcerato, lo avevi addirittura voluto morto, spogliato della carica di console, e desideravi privarlo della patria; o Lucio Lucullo, di cui invidiavi un po' troppo le nobili imprese, perché evidentemente fin da piccolo anche tu aspiravi agli onori di supremo comandante; l'altro grande che volevi danneggiare era Caio Curione, eterno nemico di tutti i farabutti, solido punto di riferimento delle sedute del senato, soprattutto quando da proteggere c'era la libertà comune e quella dei figli: e te la sei presa proprio con il suo, principe della gioventù romana, che dimostrava nei confronti dello Stato un attaccamento superiore a quel che si poteva pretendere da un ragazzo della sua età; 25 e poi Lucio Domizio, che ricopriva una posizione talmente splendida da abbagliare, credo, la vista di Vatinio: tu lo odiavi perché odiavi tutte le persone oneste, ma, quando si rafforzò la speranza di riscatto che nutrivamo e nutriamo ancora in lui, il tuo odio si trasformò in paura ed incertezza per il futuro; Lucio Lentulo, uno dei giudici qui presenti, flamine di Marte: a quei tempi contendeva la carica di console al tuo amato Gabinio e tu, grazie a una soffiata di Vettio, la spia, lo hai rovinato: se non fosse stato per la tua scelleratezza che glielo ha impedito, allora ce l'avrebbe fatta a debellare quel flagello pestilenziale e lo Stato ne sarebbe uscito in piedi. E ancora, sull'onda di quella delazione e del tuo crimine, hai voluto unire il figlio al padre nella morte. Inoltre, hai fatto rientrare nella falsa testimonianza di Vettio e nel numero dei condannati Lucio Paolo, a quei tempi questore in Macedonia: che esempio per tutti di uomo e cittadino! Lui che, nato per salvaguardare il sistema repubblicano, con la semplice applicazione delle leggi preposte aveva bandito due infami traditori della patria, nemici in casa nostra! 26 A ben vedere, dunque, di che cosa mi dovrei lamentare? Anzi, posso solo ringraziarti per non avermi voluto escludere dall'elenco dei Romani più degni di rispetto. XI Ma si può sapere che ti è preso quando Vettio era ormai già sceso dai Rostri? Aveva raccontato ogni cosa secondo la tua volontà, bollato d'infamia i cittadini più illustri ed ecco che tu improvvisamente lo richiami, confabuli con lui sotto gli occhi del popolo e poi gli domandi a voce alta se c'è ancora qualcuno di cui può fare il nome. Non gli hai forse suggerito di accusare mio genero, Caio Pisone, che tra tutti i 262
numerosi giovani di buoni costumi non ebbe uguali per moderazione, valore e senso del dovere? E medesima sorte non subì Marco Laterense, che vive giorno e notte in funzione del buon nome dello Stato? Non fosti tu, nemico sciagurato della patria, a proporre di aprire un'inchiesta su uomini di tale stoffa e a pattuire per Vettio l'impunità e una lauta ricompensa in denaro? Non ci fu seguito alle tue richieste, ma non per un semplice rifiuto di massa, quasi scoppiò una rivolta generale: tu, allora, non facesti strangolare lo stesso Vettio chiuso in carcere per cancellare ogni prova della sua falsa denuncia ed evitare così che l'inchiesta si aprisse, sì, ma su di te e l'assassinio di quello? 27 E visto che ripeti con fastidiosa insistenza di avere tu proposto la legge che permette alle due parti di rifiutare alternativamente i giudici estratti a sorte, voglio rivolgerti una domanda per far capire a tutti che non ti è possibile muovere neanche un dito senza esiti nefasti: quando, all'inizio della tua magistratura, hai pubblicato una legge finalmente equa, ne avevi già proposte diverse altre all'attenzione del popolo; ma per questa non hai forse aspettato che venisse incriminato Caio Antonio davanti a Cneo Lentulo Clodiano? Quindi, una volta mossa tale accusa, in quattro e quattr'otto hai re-_so ufficiale la tua legge, aggiungendo che divenisse esecutiva per "chi fosse stato accusato dopo la sua approvazione". E così, tagliato fuori ingiustamente per questione di attimi, un consolare non poté beneficiare dei favorevoli vantaggi del tuo provvedimento. 28 Sostieni, poi, di essere stato amico di Quinto Massimo. Bel modo di discolparti! Massimo sì che ha accettato le conseguenze del suo odio per Antonio, lui sì che si è assunto in prima persona la responsabilità della causa; poi si sono scelti il giudice istruttore e un tribunale: quindi, torna a suo onore e gloria non aver voluto concedere al nemico una troppo facile opportunità di rifiutare la giuria! Massimo non ha mai agito se non conformemente alla sua innata virtù o a quella di uomini altrettanto famosi quali i Paoli, i Massimi, gli Africani; e noi viviamo nella speranza, anzi già nella certezza che con i suoi meriti si rinnovi la loro gloria; il tuo crimine, invece, la tua scellerataggine, la colpa di cui ti sei macchiato consiste nell'aver voluto rinviare l'applicazione di una legge promulgata in nome della pietà ad un'occasione in cui dar prova della tua cattiveria. Ed ora il povero Caio Antonio trova magra consolazione alla sua sventura pensando ad una cosa soltanto: la nipote, da quando si è sposata, è finita in un carcere, non in una famiglia, e con lei i ritratti del padre e del fratello; ma lui ha preferito venirlo a sapere in esilio che vedere con i suoi occhi. XII 29 E dato che i soldi degli altri ti danno quasi la nausea, ma in compenso fai un gran dire delle tue ricchezze, rendendoti insopportabile, dimmi una cosa: quando ancora eri tribuno della plebe, non hai forse concluso patti vantaggiosi con città, re e tetrarchi? Non hai prelevato dalle casse dello Stato, nascondendoti dietro le tue leggi? E non hai sottratto in parte a Cesare, in parte ai pubblicani i loro introiti, aspettando che il loro valore salisse alle stelle? Ma, comunque stiano le cose, è ancora un'altra la curiosità che mi devi togliere: non ti sei arricchito, da pezzente che eri, in quello stesso anno in cui fu proposta la legge "castigamatti" sulle concussioni? Certo che lo hai fatto e hai così dimostrato al mondo intero tutto il tuo disprezzo per gli atti di chi chiami tiranno, ma in particolare per la legge del tuo migliore amico, quello stesso a cui di solito sporgi denuncia contro chi gli è più affezionato, cioè noi: sei tu, piuttosto, che lo offendi gravemente ogni volta che sostieni di essergli parente. 263
30 Ancora, vorrei tanto sapere con che criterio o seguendo quale istinto hai preso posto al banchetto funebre offerto dal mio amico Quinto Arrio con la toga nera da lutto. A chi lo avevi visto fare, da chi lo avevi sentito? Chi ti ha fornito l'esempio, suggerito il costume? Risponderai che non ti sono mai piaciute quelle solenni preghiere pubbliche. Benissimo: ti concedo anche che potessero non valere nulla. Fai attenzione: non ti sto interrogando sulla situazione di quel preciso anno, né sulle qualità che ti sembra di avere in comune con le persone valide e degne di rispetto, ma è il tuo agire criminoso, solo quello, che mi interessa. Ammettiamo, quindi, che le suddette preghiere contassero davvero poco. Ma dimmi: chi si è mai presentato a un pranzo vestito come un corvo? D'accordo, il banchetto si definisce funebre perché costituisce un'offerta votiva al morto, ma è pur sempre un pranzo e ci si deve accedere in maniera presentabile e decorosa. XIII 31 Non voglio, tuttavia, insistere sulla solennità di questo convito del popolo romano, sulla festa che esso rappresenta, sugli argenti, i vestiti, la magnificenza, gli splendidi ornamenti: chi mai, però, in lutto per la scomparsa di un amico o durante un funerale di famiglia ha osato sedersi a tavola con indosso una toga scura? A chi mai, eccetto te, ne fu offerta una all'uscita dai bagni? C'erano migliaia di invitati seduti al loro posto, persino l'anfitrione, Quinto Arrio, era vestito di bianco: ed ecco che nel tempio di Castore entri tu, uccellaccio del malaugurio, accompagnato da Caio Fibulo, anche lui bardato a lutto, e tutto il codazzo delle tue furie. A chi non scappò un gemito, chi non si dolse per le sorti dello Stato? Non si parlò d'altro nel corso di quel banchetto: questa nostra città tanto importante e autorevole era ormai in balia delle tue pazzie, ma anche vittima del tuo scherno. 32 Non sapevi come usa qua a Roma? Non avevi mai visto un pranzo ufficiale? Non ti sei mai trovato da bambino o già un po' più grandicello in mezzo ai cuochi? Non avevi poco prima saziato la tua fame remota al fastosissimo banchetto offerto da Fausto, giovane di nobili natali? Avevi forse notato qualche presente vestito di nero? Che so, il padrone di casa e suoi amici sfilare con la tunica scura sotto gli occhi degli invitati? Quale folle istinto ti spinse a comportarti così? Forse la convinzione che se non fossi stato trasgressivo e non avessi offeso il tempio di Castore, una festa solenne, la vista dei cittadini, un'antica usanza, il prestigio di chi t'aveva invitato, sarebbe sembrato poco credibile il tuo disprezzo per quelle pubbliche preghiere? XIV 33 Vorrei ora avere da te qualche delucidazione a proposito di un fatto che appartiene alla tua vita privata - e questa volta non potrai certamente sostenere che la tua causa è legata a eminenti uomini politici -: non sei stato citato in giudizio secondo la legge Licinia e Giunia? E sempre attenendosi ad essa, il pretore Caio Memmio non ti intimò di presentarti in tribunale entro trenta giorni? Scaduto poi il termine, non facesti ciò che mai in questo Stato altri osò fare prima e di cui addirittura non si serba ricordo a memoria d'uomo? Non ti appellasti ai tribuni della plebe per non dovere difendere la tua causa? Sono stato fin troppo delicato, anche se quello che hai combinato non ha precedenti ed è davvero insopportabile: infatti, ti rivolgesti, chiamandolo per nome, alla peste di quegli anni, rovina della patria, calamità della repubblica: Clodio. E lui ricorse alla legge, alle usanze, all'autorità conferitagli dalla carica, ma inutili furono tutti i suoi tentativi di ostacolare il regolare svolgimento del processo; si rifugiò, allora, nella sua cieca violenza e si mise a capo del tuo piccolo esercito. Non intendo darti l'impressione di volerti accusare anziché interrogare e per questo non mi accollerò il gravoso impegno di una testimonianza: terrò per me quanto tra poco so di dover rivelare dal posto stesso che 264
tu occupi ora. Per adesso non ti incriminerò, ma mi limiterò, come ho sempre fatto sin qua, a rivolgerti alcune domande. 34 Dimmi, Vatinio: chi mai in questa città, da che è stata fondata, osò appellarsi ai tribuni della plebe per evitare di perorare la propria causa? Quale imputato salì sul palco del giudice istruttore e gettò lui di sotto con un atto di forza, chi sparse qua e là gli scanni e rovesciò le urne, chi insomma provocò in un processo tutto quello scompiglio contro cui furono appunto istituiti i tribunali? Lo sai che in quel trambusto Memmio prese la fuga, mentre i tuoi accusatori venivano strappati a forza dalle mani tue e dei tuoi uomini e i giudici allontanati dai vicini tribunali? In pieno foro, alla luce del giorno, sotto gli occhi del popolo romano, si è voluto distruggere tutto: processo, magistrati, usanza dei padri, leggi, giudici, pena e accusato! Non sei forse al corrente che lo scrupoloso Caio Memmio ha annotato a una a una, diligentemente, tutte queste imprese e le ha raccontate per filo e per segno su pubblici documenti? Ti domando un'altra cosa ancora. Dopo essere stato incriminato, rientrasti dalla tua missione di legato, perché non volevi si pensasse che intendessi evitare il processo; e andavi spargendo la voce di aver preferito difenderti in tribunale, benché ti si presentasse la possibilità di scegliere. Ma fu logico, allora, non volere approfittare dell'ottima scusa del tuo incarico all'estero e ricorrere piuttosto, con un deplorevolissimo appello, all'aiuto di un ribaldo? XV 35 Visto che si è fatta menzione del tuo ufficio di legato, vorrei tanto sapere grazie a quale decreto del senato ti è stata affidata la carica. Dal tuo gesto intuisco la risposta: «È una mia legge», asserisci. Non sei, dunque, il nemico giurato della patria? Non aspiravi ad eliminare definitivamente dalla repubblica l'ordine senatorio? Neppure intendevi lasciargli la sola prerogativa di cui nessuno mai osò privarlo, nominare, cioè, i legati secondo il proprio autorevole parere? Ti è sembrata tanto spregevole l'assemblea pubblica, il senato così a terra, lo Stato talmente misero e degradato che il senato non era in grado di scegliere, secondo il costume degli antichi, messaggeri di pace e di guerra, ambasciatori, mediatori delle sue decisioni, consiglieri militari, esattori delle imposte provinciali? 36 Avevi strappato al senato il potere di assegnare le province, il diritto di eleggere il capo dell'esercito e di gestire l'amministrazione del tesoro pubblico: funzioni, queste, che il popolo romano in nessuna occasione si arrogò, il popolo romano che mai tentò di sottrarre al senato la gestione dei più alti affari e delle più importanti decisioni. È vero, è già capitato che si verificassero ingerenze di potere: raramente, però, come quando il popolo si è scelto il generale; chi ha mai sentito dire, invece, di legati eletti senza l'autorizzazione del senato? Prima di te nessuno, subito dopo ha fatto lo stesso Clodio per aiutare due flagelli dello Stato; ecco perché ti si deve infliggere una punizione ancora più grave: per ben due volte sei riuscito a danneggiare la repubblica, non solo agendo in prima persona, ma anche servendo d'esempio: un criminale, dunque, per di più maestro dei tuoi crimini. Sai o non sai che per tutte le tue imprese sei stato bollato d'infamia dai Sabini, gente molto austera nelle abitudini, e dai coraggiosissimi Marsi e Peligni, tuoi compagni di tribù? E che, da quando Roma esiste, nessuno, tranne te, ha perso il diritto di appartenere alla tribù Sergia? 37 Soddisfa ancora un'altra mia curiosità sul tuo conto: perché non vuoi considerare una vera e propria legge quella sui brogli elettorali da me proposta con l'approvazione del senato, senza impiego di forza, nel pieno rispetto degli auspici e della legge Elia e Fufia? Io, però, mi attengo alle tue, senza preoccuparmi degli espedienti da te usati per farle approvare! La mia legge vieta chiaramente di offrire 265
spettacoli gladiatorii nel biennio in cui ci si candidi a una carica o se ne abbia l'intenzione, a meno che il giorno non sia stato fissato secondo disposizioni testamentarie: quale follia, allora, ti spinge ad organizzare proprio questi giochi nel bel mezzo della tua candidatura? Credi forse che si possa trovare un tribuno della plebe del tutto simile a Clodio, il tuo gladiatore più fidato, disposto, cioè, a porre il proprio veto per impedire che tu venga accusato in base alla mia legge? XVI 38 Certo, non te ne importa niente, ti reputi nettamente superiore perché ormai sei più che convinto - e non ne fai mistero con la gente - di poter esaudire ogni tuo desiderio, a dispetto degli dèi e degli uomini, grazie allo straordinario attaccamento che Caio Cesare dimostra nei tuoi confronti; ma ti è giunta voce? Qualcuno ti ha detto che non molto tempo fa ad Aquileia, mentre si parlava di non so chi, Cesare ha dato sfogo al suo dispiacere per la triste sorte di Caio Alfio, di cui ben conosceva l'estrema lealtà e l'animo onesto? Ti hanno riferito che gli ha dato molto fastidio l'elezione a pretore di uno che aveva contrastato le sue decisioni? Uno tra i presenti, allora, gli avrebbe chiesto quale sarebbe stata la sua reazione se una sorte del genere fosse toccata a Vatinio; e Cesare avrebbe risposto che nel corso del suo tribunato Vatinio non aveva fatto nulla gratuitamente ed era dunque logico che si dovesse rassegnare a rimanere privo di cariche, lui che aveva sempre dato la priorità al denaro. 39 Se, quindi, persino chi, per accrescere il suo prestigio, ti aveva lasciato tranquillamente correre a briglie sciolte (a tuo rischio e pericolo, però, e senza infrangere mai la legge), oggi ti giudica assolutamente indegno di ogni onore; se i vicini, i parenti, i compagni di tribù ti odiano al punto da considerare come un trionfo personale ogni tuo insuccesso in politica; se nessuno ti guarda senza gemere, ti menziona senza maledirti; se ti evitano, ti sfuggono, non vogliono nemmeno sentir parlare di te e, quando ti vedono, ti respingono come fossi un uccello del malaugurio; se i congiunti ti rifiutano, quelli della tua tribù ti detestano, i vicini ti temono, i consanguinei arrossiscono per la vergogna, persino le scrofole hanno lasciato quel tuo sporco muso e sono già rifiorite in altre parti del corpo; se, insomma, risulti pubblicamente antipatico al popolo romano, al senato e a tutti gli abitanti della campagna, qual è il motivo che ti fa preferire la pretura alla morte? Soprattutto se si considera che tu ci tieni tanto ad essere popolare! Non potresti davvero fare cosa più gradita al popolo! 40 Ma vorrei finalmente sentire con quanta facondia hai da rispondere alle mie domande; perciò concluderò il mio interrogatorio ponendoti poche ultime questioni sempre relative alla causa. XVII Ad esempio: mi vuoi spiegare quale falsità, quale leggerezza ti hanno spinto a tessere gli elogi di Tito Annio in questo processo, utilizzando le stesse parole con cui di solito lo lodano le persone dabbene e i cittadini onesti? Tu, proprio tu che qualche tempo fa, portato davanti al popolo da quella medesima pericolosissima furia di Clodio, con tanto entusiasmo fornisti una falsa testimonianza proprio contro Milone? In questo modo, quando vedrai i mercenari di Clodio, banda di uomini facinorosi e corrotti, sarai libero di ripetere quanto già affermasti davanti a un'intera assemblea riunita: che Milone aveva letteralmente assediato lo Stato con l'aiuto di gladiatori e lottatori da circo; giunto, però, alla presenza di uomini come questi, non hai più il coraggio di criticare un cittadino dotato di particolare virtù, di lealtà, di fermezza? 41 È vero, sono lodi sperticate quelle che tessi ora a Tito Annio, ma macchiano comunque la reputazione di un uomo tanto famoso: Milone, te lo garantisco, preferirebbe essere nel numero di quelli che disprezzi. Intendo, tuttavia, chiederti una cosa. C'è un punto su cui tutti, 266
onesti e disonesti, si sono trovati d'accordo, ed è il seguente: nell'amministrazione dello Stato è sempre esistito un ottimo rapporto di collaborazione tra Tito Annio e Publio Sestio. Oggi, infatti, entrambi si ritrovano sotto accusa per via dello stesso motivo, schiacciati dal medesimo capo d'imputazione: il primo portato in giudizio da quel Clodio che, come sei solito affermare, è l'unico ad essere risultato talvolta peggio di te; l'altro incastrato dalle tue manovre, ma anche dall'aiuto del tuo degno compare. E allora come puoi separare nella testimonianza chi unisci nella colpa? Ed ora la mia ultimissima domanda, a cui pretenderei una risposta: tra le tante cose che hai detto contro Albinovano a proposito della sua collusione, non hai anche precisato che non conveniva accusare Sestio di violenza, che tu non eri d'accordo e che bisognava piuttosto incriminarlo di qualunque altra colpa, fondandosi su qualunque altra legge? Non hai poi aggiunto di considerare legata a lui la causa di Milone, uomo di estrema energia? E che risultava gradito alle persone dabbene tutto quanto Sestio aveva fatto per me? Non intendo evidenziare l'incoerenza del tuo discorso e della tua testimonianza - è lampante -: ora sostieni che il suo comportamento è stato apprezzato dagli onesti cittadini, prima, però, in qualità di teste, ti sei pronunciato contro; e ancora hai esaltato con le più grandi lodi chi poi gli associ quando si tratta di una causa, di un processo. Ma dimmi: ti sembra conveniente condannare Publio Sestio in base a quella legge secondo cui (e sono parole tue) non lo si doveva neanche incriminare? Se non vuoi che si ricorra a un testimone (sembrerei concederti un po' di autorità), rispondimi: non ti sei scagliato contro Sestio, accusandolo di violenza, quando prima lo avevi difeso, insistendo che non era giusto imputargli questa colpa?
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DIFESA DI ARCHIA
I 1 Giudici, se è in me qualche talento, - e so quanto esso sia limitato -, se ho qualche pratica in campo oratorio, e non nego di esservi moderatamente versato, se in questo settore possiedo un qualche metodo che devo allo studio delle migliori teorie, e ai loro precetti da cui nemmeno per un attimo della mia vita, lo confesso, mi sono discostato, il qui presente Aulo Licinio più di ogni altro ha il diritto di reclamarne il frutto. Infatti, sin dove la mia mente può giungere volgendosi al lontano passato e rievocando i più remoti ricordi della puerizia, lo rivedo sempre accanto a me, che mi invoglia e mi avvia a questo genere di studi. Se questa mia arte, modellata dal suo incoraggiamento e dai suoi consigli, è stata talvolta di salvezza a qualcuno, io, per quanto sta in me, ho il dovere di portare aiuto a quest'uomo, dal quale ho ricevuto i mezzi per aiutare gli altri e in qualche caso per salvarli. 2 E perché nessuno si stupisca che io parli così di un uomo il cui ingegno ha attitudini diverse dalle mie, estranee, cioè, all'arte e all'esercizio dell'eloquenza, sappiate che neanche io mi sono sempre unicamente interessato a questa sola disciplina. Infatti, tutte le scienze che interessano l'uomo sono intimamente connesse e unite tra loro da una sorta di affinità. II 3 Ma perché a nessuno di voi sembri strano che in una questione di diritto, nel corso di un processo pubblico, svolto davanti al pretore del popolo romano, uomo esemplare, e agli integerrimi giudici e alla presenza di un pubblico così numeroso, io mi serva di un genere di eloquenza tanto lontano dalla consuetudine giudiziaria ma anche dal linguaggio del foro, vi chiedo, in questa causa, di concedermi tale licenza, utile all'imputato e, spero, non spiacevole per voi: permettete che parlando in difesa di un eccellente poeta e uomo dotto, confidando nella presenza di uomini tanto amanti delle lettere, nella vostra cultura e nell'autorità del pretore che presiede il tribunale, io tratti liberamente, seppur in modo conciso, degli studi letterari, e che, per una tale personalità, la quale, grazie a una vita tutta dedita al sapere, non ebbe mai problemi con la legge, io possa valermi di un genere di eloquenza insolito e quasi nuovo. 4 Pertanto, se capirò che questa facoltà mi è data e concessa, cercherò di convincervi non solo a non cancellare dal numero dei cittadini il qui presente Aulo Licinio, ché già gode dei diritti politici, ma anche che bisognerebbe includerlo tra i cittadini, se già non lo fosse . III Intorno ai quindici anni, Archia, di nobili origini abbandonò quelle materie di studio utili solitamente ad avvicinare i più piccoli alla cultura e incominciò a scrivere poesie; dapprima, grazie al suo talento, riscosse su tutti un immediato successo nella natia Antiochia, città a quel tempo famosa, ricca e sede di vivaci scambi culturali . In seguito, in ogni regione dell'Asia e in tutta la Grecia il suo arrivo era accolto con grande entusiasmo: l'aspettativa superava la fama del suo ingegno, ma poi, al suo arrivo, l'ammirazione superava ogni attesa. 5 A quel tempo in Italia si coltivava con passione la cultura greca: nelle città del Lazio ci si dedicava a quello studio con maggiore dedizione di quanto si faccia oggi nelle stesse località, e anche qui a Roma, città allora tranquilla sotto il profilo 269
politico. Ecco perché gli abitanti di Taranto, Reggio e Napoli concessero ad Archia il diritto di cittadinanza e altri riconoscimenti: chiunque fosse in grado di apprezzare le persone di talento, desiderava vivamente conoscerlo e ospitarlo in casa sua. Con questa fama che si era diffusa ovunque, anche in luoghi da lui mai visitati, arrivò a Roma al tempo del consolato di Mario e Catulo. Strinse subito amicizia con questi due uomini politici che, con il racconto delle loro gesta, gli potevano suggerire materiale utile per comporre; per di più, Catulo rivelava anche interesse e predisposizione per la poesia. Poco dopo, quando ancora Archia era adolescente, entrò a far parte della cerchia dei Luculli. Anche in questa circostanza dimostrò talento e cultura, ma si distinse soprattutto per le buone qualità del suo carattere: non per nulla questa famiglia, a lui così vicina durante la giovinezza, gli è ancora oggi assai legata, benché siano trascorsi parecchi anni. 6 Sempre a quei tempi godeva dell'amicizia del famoso Metello Numidico e del figlio Pio; godeva della stima di Marco Emilio; si intratteneva con Quinto Catulo, sia padre che figlio; era trattato con riguardo da Lucio Crasso; aveva grande confidenza, oltre che con i Luculli, con Druso, gli Ottavi, Catone e tutta la famiglia degli Ortensi. Gli veniva tributata la massima considerazione: e a onorarlo non erano solo quelli desiderosi di ascoltarlo e di imparare da lui, ma anche chi trovava conveniente comportarsi così. IV Intanto, era trascorso già un po' di tempo e Archia era partito per la Sicilia in compagnia di Marco Lucullo; sempre insieme a lui, poi, di ritorno da quella provincia, si era fermato a Eraclea, città che, a condizioni molto vantaggiose, era alleata e fedele alle leggi di Roma. Il poeta, che aspirava ad averne la cittadinanza, fu accontentato dai cittadini di Eraclea per i suoi meriti personali, ma soprattutto per l'autorevole interessamento di Lucullo. 7 Secondo la legge di Silvano e Carbone la cittadinanza era concessa: «a quelli che fossero iscritti a una città federata, che avessero avuto domicilio in Italia all'atto della presentazione della legge e che si fossero fatti registrare dal pretore entro sessanta giorni». Archia, che risiedeva a Roma ormai da molti anni, si recò dal pretore Quinto Metello, suo caro amico, perché lo registrasse. 8 Se non devo parlare di altro che del diritto di cittadinanza e della legge, non dirò di più: il mio compito è terminato. Quale delle prove da me addotte puoi confutare, Grazio? Avresti il coraggio di negare che l'imputato è cittadino di Erclea? Per fortuna è qui presente un testimone davvero attendibile, probo e leale: Marco Lucullo. Egli afferma non di ritenere ma di sapere, non di aver sentito dire ma di aver visto con i suoi occhi, di essere stato non comparsa, ma protagonista. Sono presenti anche gli inviati di Eraclea, uomini nobilissimi giunti col mandato di testimoniare pubblicamente a questo processo: essi dichiarano che Archia è loro concittadino. Tu, però, vuoi vedere i registri ufficiali della città che, come tutti sanno, sono bruciati insieme con l'archivio durante la guerra italica. È davvero ridicolo non tener conto delle prove che possediamo e smaniare per ciò che non possiamo avere; passare sotto silenzio le testimonianze di questi uomini e insistere per un pezzo di carta; sono a tua disposizione le testimonianze di un personaggio illustre e attendibile e di un municipio leale e fedele, che non si possono proprio manipolare, e tu le rifiuti e desideri i registri che - sei tu il primo a dirlo solitamente sono falsificati! 9 Non ebbe forse domicilio a Roma Archia, che trasferì in città ogni suo bene, anche il patrimonio, molto prima di ottenere la cittadinanza? Non si presentò al 270
pretore per farsi registrare? Certo che lo fece: e proprio su quei registri che, fra quanti servono per la dichiarazione presso il collegio dei pretori, sono gli unici a valere come registri ufficiali. V D'altra parte, è voce comune che l'archivio di Appio sia stato custodito in modo assai negligente; Gabinio, successivamente, fece perdere ogni residua fiducia in questi registri: in un primo tempo, finché non ebbe guai con la legge, fu solo impreciso e superficiale, poi, dopo la condanna, ne rovinò del tutto la reputazione. Invece, Metello, sicuramente il più onesto e scrupoloso fra tutti, si comportò sempre con coscienza; addirittura, una volta si presentò allarmato ai giudici e al pretore Lucio Lentulo per segnalare la cancellatura di un nome. Su questi documenti, però, non c'è traccia di manomissione al nome Aulo Licinio. 10 E allora, visto che la situazione è questa, perché dovreste ancora mettere in dubbio la sua cittadinanza, dato che ottenne anche quella di altre località? Mentre in Grecia la si accordava a gente di scarso valore, a volte neppure dotata del minimo ingegno, è ovvio che gli abitanti di Reggio, Locri, Napoli e Taranto non abbiano rifiutato ad Archia, ricchissimo di talento, un beneficio concesso solitamente agli attori di teatro! Ci sono state poi persone che, non solo dopo l'estensione della cittadinanza agli Italici, ma anche in séguito alla legge Papia, sono riuscite a intrufolarsi con qualche espediente nei registri di quei municipi; Archia, invece, che non si serve neanche di quelli in cui è regolarmente iscritto e ci teneva a essere considerato cittadino di Eraclea, si vedrà da voi rifiutato? 11 Ma tu insisti per vedere i nostri registri del censo. Puoi aver ragione: infatti, non lo sa nessuno che durante la scorsa censura Archia si trovava presso l'esercito con il ben noto comandante Lucio Lucullo; in quella precedente, invece, era in Asia sempre con lo stesso questore; ancor prima, sotto i censori Giulio e Crasso, non si procedette ad alcun censimento. D'altra parte, poi, questa procedura non dimostra né garantisce il diritto di cittadinanza, ma indica soltanto che chi è stato registrato nelle liste del censo si è comportato da vero cittadino romano. Ai tempi in cui tu lo accusi di non aver goduto, secondo la sua stessa confessione, del diritto di cittadinanza, egli fece più volte testamento avvalendosi delle nostre leggi, entrò in possesso di eredità di cittadini romani e, grazie al proconsole Lucio Lucullo, fu registrato tra coloro che ricevevano gratifiche dall'erario. VI Procurati dunque altre prove, se sei capace: Archia non potrà essere smentito, a giudizio suo e degli amici. 12 Grazio, tu mi chiederai perché io tenga tanto a quest'uomo. Perché è sempre disponibile a due chiacchiere quando, dopo una giornata trascorsa in mezzo al chiasso e alla folla del foro, voglio riprendere fiato e star tranquillo. Non penserai che potrei parlare tutti i giorni degli argomenti più disparati, se non coltivassi l'animo con la poesia! O credi forse che potrei sopportare una tensione così intensa, se non mi rilassassi con la poesia?! Ebbene sì, confesso di essermi dedicato a questo genere di studi. Si vergogni piuttosto chi si immerge a tal punto nello studio delle lettere da non far nulla di utile alla società, e da non produrre alcunché! Ma perché dovrei vergognarmi io che da tanti anni ho scelto di vivere, giudici, sacrificando nell'interesse e per la difesa del cliente i miei momenti liberi, il divertimento e persino il sonno? 13 Nessuno, quindi, potrà rimproverarmi o prendersela a ragione con me, se il tempo che alcuni utilizzano per sbrigare i loro affari, per celebrare nel circo i giorni di festa, o semplicemente per divertirsi e riposare corpo e mente o che altri dedicano 271
a interminabili banchetti, al tavolo da gioco alla palla, io lo spendo per ampliare i miei studi. E a maggior ragione me lo si deve concedere: infatti, grazie a questi studi, cresce la mia padronanza di linguaggio che, grande o piccola non importa, non è mai mancata agli amici in difficoltà. Qualcuno, forse, può giudicarla cosa di scarsa importanza: ma io so che è importantissirna e so da quale fonte attingerla. 14 Se fin dall'adolescenza, grazie all'insegnamento di numerosi maestri e ad approfonditi studi, non mi fossi persuaso che nella vita nulla si deve desiderare con forza, quasi fosse un dovere, tranne la fama e la virtù, e che per ottenerle si deve essere disposti a tenere in poco conto tutti i tormenti fisici, la morte e l'esilio, non mi sarei mai esposto per la vostra salvezza a tante gravose contese e agli attacchi quotidiani di gente senza scrupoli. Ma di questi ragionamenti sono zeppi i libri, i discorsi degli uomini di buon senso e gli esempi antichi: ma sarebbero tutte cose immerse nelle tenebre più fitte, se non fosse la letteratura a illuminarle. Quanti ritratti di personaggi illustri da ammirare e imitare ci hanno lasciato gli scrittori greci e latini! E io, tutte le volte che rivestivo una carica della repubblica, conformavo il mio cuore e la mia mente al pensiero dei grandi del passato. VII 15 Qualcuno chiederà: «E con questo? Vuoi dire che tutti quei grandi uomini, del cui valore rimane testimonianza nelle opere letterarie, furono forse eruditi in questa scienza, che tu tanto lodi?». Non è facile esserne certi per tutti, ma so cosa rispondere: molti di questi uomini, lo riconosco, pur nella loro ignoranza, ebbero qualità straordinarie e rivelarono un grande equilibrio per una disposizione naturale, che oserei dire divina. Anzi, potrei aggiungere che più spesso, per arrivare al successo, si sono dimostrate maggiormente efficaci le doti naturali senza cultura, che la cultura senza doti naturali. Di una cosa, però, sono proprio convinto: quando a un'indole nobile e ricca di talento si aggiunge un metodico indirizzo scientifico, allora il vero genio si manifesta. 16 Mi riferisco a tutta una serie di uomini del passato, ben noti ai nostri padri: l'Africano, unico nel suo genere; Caio Lelio e Lucio Furio, famosi per il loro esemplare equilibrio; e quell'uomo tanto energico e, per quei tempi, così dotto, Marco Catone. Ebbene, se costoro avessero ritenuto lo studio della poesia del tutto inutile per comprendere e mettere in pratica la virtù, non si sarebbero dedicati a esso con tanto fervore. Ma quand'anche non si manifestassero frutti tanto preziosi e a questi studi si richiedesse solo il piacere, anche in questo caso, come credo, dovreste giudicare questo passatempo dello spirito il più nobile e degno dell'uomo. Infatti, gli altri tipi di svago non sono adatti a tutte le circostanze, a tutte le età e a tutti i luoghi; questi studi, invece, aiutano i giovani a crescere, dilettano gli anziani, celebrano gli eventi favorevoli, offrono aiuto e conforto durante le avversità, rallegrano entro le mura domestiche, non sono d'impaccio fuori, ci tengono compagnia durante la notte, in viaggio e in vacanza. VIII 17 Se poi non potessimo in prima persona attendere a questi studi, né gustarli con la nostra sensibilità, quantomeno dovremmo ammirarli vedendo che altri vi attendono. Chi di noi ebbe un animo così insensibile e rozzo da non commuoversi qualche tempo fa per la scomparsa di Roscio? Egli, morto in età avanzata, per la sua arte straordinaria e per la sua eleganza, dava tuttavia l'impressione che non sarebbe dovuto morire mai. Roscio si era accattivato l'affetto e l'ammirazione di tutti noi semplicemente con i movimenti del suo corpo: e noi non dovremmo forse tenere in considerazione gli illimitati movimenti dello spirito e l'agilità della mente? 272
18 Quante volte io ho visto Archia, qui presente, o giudici - e considerando che mi ascoltate con tanta attenzione mentre sperimento una nuova tecnica oratoria, approfitterò della vostra benevolenza - quante volte, dicevo, l'ho visto improvvisare un gran numero di versi incredibilmente belli su vari argomenti d'attualità, senza aver scritto una sola riga! E quante volte l'ho sentito ripetere lo stesso discorso con parole ed espressioni completamente differenti! Inoltre, ho potuto constatare che le poesie da lui messe per iscritto dopo attenta riflessione, sono giudicate degne di essere equiparate alle più famose e lodate opere degli antichi scrittori. Quindi, non dovrei apprezzare quest'uomo? Non dovrei ammirarlo e ritenere che lo si deve difendere a ogni costo? Inoltre, noi siamo venuti a conoscenza dal pensiero di personalità autorevoli e di grandissima cultura che l'apprendimento di qualunque altra disciplina si fonda sulla teoria, sugli insegnamenti e sul talento personale; il poeta invece si avvale del suo stesso modo di essere ed è spinto a comporre dalle forti capacità della sua mente, come animato da una sorta di ispirazione divina. Per questo motivo ben a ragione il nostro Ennio definisce «sacri» i poeti, in quanto sembra che ci siano stati concessi quasi come un prezioso dono degli dèi. 19 Quindi, o giudici, poiché siete estremamente civili, considerate sacrosanto questo titolo di poeta, che mai nessun uomo, neanche barbaro, osò profanare. Le montagne e i deserti rispondono alla sua voce, persino gli animali più feroci diventano mansueti e si fermano al suo canto: e noi, che siamo stati educati esemplarmente, non dovremmo essere colpiti dalle parole dei poeti? Gli abitanti di Colofone sostengono che Omero sia loro compatriota, quelli di Chio lo rivendicano a sé, i cittadini di Salamina insistono di avergli dato i natali; quelli di Smirne, poi, ne sono così convinti che gli hanno persino dedicato un tempietto in città; numerosi altri se lo contendono con accanimento. IX Dunque tante persone reclamano, anche dopo la morte, uno straniero, per il semplice fatto che fu un poeta; e noi rifiuteremo Archia, che è vivo e già ci appartiene, per sua scelta e per la legge? Non dimentichiamo che Archia ha messo più volte la sua arte e il suo talento al servizio del popolo romano, per celebrarne la grandezza e il prestigio. Quando infatti era ancora un ragazzo, trattò delle campagne contro i Cimbri e piacque persino a Caio Mario, che pure sembrava alquanto insensibile alla poesia. 20 D'altra parte, nessuno è così ostile alle Muse da non sopportare che l'eterna lode delle sue imprese sia affidata alla poesia. Si dice che il famoso Temistocle, il sommo ateniese, interrogato su quale voce ascoltasse più volentieri declamare, abbia risposto: «Quella del più bravo a esaltare le mie gesta». Allo stesso modo Mario fu molto legato a Lucio Plozio dal cui ingegno credeva potessero essere celebrate le sue imprese. 21 Archia ha già raccontato tutta la grande, difficile guerra contro Mitridate, svoltasi, tra alterne vicende, per terra e per mare. Il libro pone in ottima luce non solo Lucio Lucullo, uomo molto forte e famoso, ma anche il nome del popolo romano. È stato infatti l'esercito di Roma agli ordini di Lucullo ad aprire la via del Ponto, un tempo difeso dalla natura stessa dei luoghi e dalle forze armate del re; guidato dallo stesso comandante, è stato l'esercito del popolo romano a sbaragliare con poche truppe le innumerevoli forze degli Armeni; è vanto del popolo romano avere salvato dagli attacchi del re la città amica di Cizico per l'avvedutezza dello stesso Lucullo, e averla strappata dalle fauci insaziabili di una guerra feroce; sempre sarà detta nostra e sarà celebrata quella incredibile battaglia navale presso Tenedo 273
anche là combatteva Lucio Lucullo - nella quale la flotta nemica fu affondata e uccisi tutti i comandanti. Nostri sono i trofei, nostri i monumenti, nostri i trionfi. E quelli che con la loro arte esaltano queste imprese, celebrano la gloria del popolo romano. 22 Ennio fu molto caro all'Africano Maggiore e si racconta che gli fu dedicata una statua di marmo, posta nella tomba di famiglia degli Scipioni. D'altra parte, è vero che il poeta, tessendo gli elogi di un uomo, celebra indirettamente anche il nome dell'intero popolo romano. Catone, antenato del suo omonimo qui presente, ha un posto tutto suo in cielo: questo è un grande onore che va ad aggiungersi alle gesta del popolo romano. E infine, i lusinghieri appellativi con cui sono definiti i membri delle famiglie dei Massimi, dei Marcelli, dei Fulvi danno gloria a tutti noi. X I nostri padri hanno concesso la cittadinanza all'uomo di Rudie, autore di quei canti; e noi scacceremo quest'uomo di Eraclea, conteso da numerose città che si è stabilito legalmente in Roma? 23 Se poi qualcuno crede che si ricavi minor gloria dai versi greci che da quelli latini sbaglia di grosso, perché le opere scritte in greco si leggono quasi ovunque, mentre le latine sono contenute nei loro assai ristretti confini. Perciò, se è vero che le nostre imprese sono delimitate dalle estreme regioni della terra, dovremmo desiderare che, dove giunsero le armi impugnate dalle nostre mani, là si spingano anche la nostra fama e la nostra gloria; giacché, come queste opere recano onore ai popoli di cui si narrano le gesta, così sono d'incitamento ad affrontare pericoli e fatiche per chi rischia la vita in nome della gloria. 24 Quanti scrittori delle sue imprese si dice abbia avuto al suo séguito Alessandro Magno! Eppure, quando si fermò davanti al sepolcro di Achille nel Sigeo, disse: «Fortunato, giovane, che trovasti Omero come cantore del tuo valore!». E aveva ragione: senza l'Iliade, infatti, la tomba che ricopriva il suo corpo avrebbe sepolto anche la sua fama. Questo esempio non vi basta? Aggiungerò allora che il nostro Pompeo Magno, valoroso quanto fortunato, durante un'adunata militare, fece dono della cittadinanza al suo biografo Teofane di Mitilene; e i nostri soldati, forti certo, ma rozzi, eccitati dall'ebrezza della gloria come se fossero stati partecipi dello stesso riconoscimento, approvarono quel gesto con alte grida. 25 Ecco perché io credo che se Archia non fosse legalmente un cittadino romano, nessun comandante gli avrebbe negato un tale privilegio. E Silla, che concedeva la cittadinanza a Spagnoli e Galli, penso che lo avrebbe accontentato se l'avesse richiesta; una volta, durante un'assemblea - e io ne fui testimone -, un poeta da due soldi, uno del popolo, gli aveva mostrato un breve epigramma in suo onore, che aveva il solo pregio di essere scritto in distici; Silla, allora, scelse uno fra gli oggetti che stava vendendo all'asta, e glielo donò, a patto che non componesse più un solo verso. Vi sembra possibile che un uomo capace di reputare degno di un premio l'impegno di un poeta da nulla, si sarebbe lasciato sfuggire il talento, l'abilità nello scrivere e la vena di costui? 26 Figuriamoci! Archia non avrebbe forse potuto ottenere la cittadinanza da Quinto Metello Pio, suo intimo amico che l'aveva concessa a molti, sia per i suoi meriti, sia per l'appoggio dei Luculli? Metello, inoltre, era arso dal desiderio che si scrivesse delle sue imprese, al punto che prestava orecchio persino ai poeti di Cordova, dallo stile ridondante ed esotico. XI Non si deve passare sotto silenzio l'evidenza dei fatti, ma dire come stanno davvero le cose: tutti quanti siamo presi dal desiderio di successo, anzi più uno è bravo, più è innamorato della gloria. Persino i filosofi pongono il loro nome su quei 274
libri nei quali vanno predicando il disprezzo della gloria: laddove tuonano contro l'encomio e la celebrità vogliono essere encomiati e celebrati. 27 Anche Decimo Bruto, grandissimo uomo e generale, si servì dei versi del suo caro amico Accio per fregiare gli ingressi dei templi e dei monumenti da lui fatti costruire. E quel famoso comandante che combattè assieme a Ennio contro gli Etoli, Fulvio intendo dire, senza esitare consacrò il bottino di guerra alle Muse. Perciò, nella città dove i generali ancora in armi onorarono il nome dei poeti e i templi delle Muse, i giudici togati non dovrebbero rifiutarsi di onorare le dee della poesia e difendere i poeti. 28 E perché, giudici, facciate ciò più volentieri, vi parlerò in tutta sincerità; vi confesserò il desiderio di gloria, che forse in me è troppo acuto, ma che tuttavia è onorevole. Quest'uomo cominciò a scrivere in versi le azioni che insieme con voi, durante il mio consolato, io feci per la salvaguardia del prestigio di questa città, per la vita stessa dei suoi abitanti e per tutto lo stato. Ascoltati quei versi, lo esortai a portare a termine la sua opera che a me sembrò importante e bella. Infatti il valore non chiede altro compenso delle fatiche e dei pericoli, fuorché il riconoscimento e la gloria, tolta la quale, giudici, che cosa rimane per cui dovremmo affannarci, in questa vita così breve? 29 Certo, se l'animo non avesse qualche speranza nel futuro e se limitasse tutti i pensieri entro lo spazio in cui è circoscritta la nostra vita, non si logorerebbe in così grandi fatiche, non si tormenterebbe in tanti affanni e veglie, non rischierebbe tante volte la vita. Ma per fortuna negli animi migliori è radicato un impulso che notte e giorno sprona con lo stimolo della gloria e impone di non limitare la memoria del nostro nome al tempo della vita, ma di estenderla alla posterità. XII 30 Ma noi, che ci occupiamo della politica dello stato, con tutti i pericoli e gli inconvenienti che questo mestiere comporta, dovremo mostrarci di animo così ristretto da credere che quanto ci circonda morirà con noi, mentre fino all'ultima ora non abbiamo avuto un momento di tranquillità e riposo? I grandi del passato si preoccuparono di lasciare di sé statue e ritratti, ma tutti erano l'immagine dei corpi, non degli animi; noi, invece, non dobbiamo piuttosto desiderare che ci sopravviva l'immagine dei nostri pensieri e delle nostre virtù mirabilmente espressa dalle opere degli ingegni superiori? Io, nel momento in cui compivo le azioni che ho compiuto, ero convinto che avrebbero contribuito a spargere e disseminare per il mondo l'eterna memoria di me. La quale memoria, o che dopo la morte non sia più percepibile dai miei sensi, o che, come pensano alcuni filosofi, possa ancora in qualche modo interessare il mio animo ora comunque mi dà piacere quando ci penso e quando spero che si realizzi. 31 Assolvete, dunque, o giudici, un uomo di tale onorabilità, che, vedete, gode da lunga data della stima di amici autorevoli; un uomo il cui ingegno è così vasto, da suscitare grande ammirazione e da essere ricercato dalle menti più acute; inoltre sono dalla sua parte la legge, l'autorità di un municipio, la testimonianza di Lucullo e i registri di Metello. Stando così le cose, se così alti ingegni hanno diritto alla raccomandazione non solo degli uomini ma anche degli dèi, vi chiedo, o giudici, che a costui - che ha sempre fatto le lodi vostre, dei vostri condottieri e del popolo romano e sta per dare un'eterna testimonianza dei recenti pericoli interni corsi da me e da voi, ed è tra quelli che sono sempre stati ritenuti e chiamati sacri -, a costui, dicevo, sia accordata la vostra protezione, così che appaia che egli sia stato aiutato dalla vostra bontà piuttosto che offeso dalla vostra intransigenza. 275
32 Tutto quello che nel merito della causa ho argomentato, come mia consuetudine, in modo chiaro e conciso, spero abbia trovato l'approvazione di tutti, o giudici; quanto poi ho esposto fuori dalla consuetudine forense e giudiziaria, intorno all'ingegno di quest'uomo e alla sua arte in generale, spero sia stato accolto con buon animo da voi: della benevolenza di chi ha diretto il dibattito, non ho dubbi.
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L'AMICIZIA
I 1 Quinto Mucio l'augure raccontava spesso, a memoria e in modo piacevole, molti episodi della vita di Caio Lelio, suo suocero, e in ogni discorso non esitava a chiamarlo «il Saggio». A Scevola ero stato affidato da mio padre, quando presi la toga virile, perché non mi staccassi mai dal fianco del vecchio, nei limiti del possibile e del consentito. Perciò, fissavo nella mente molti dei suoi accorti ragionamenti e anche molte delle sue massime secche e gustose, e cercavo di migliorare la mia educazione facendo tesoro della sua esperienza di vita. Quando morì, passai alla scuola di Scevola il pontefice, l'uomo che oserei definire il più grande della nostra città per intelligenza e senso di giustizia. Ne parlerò un'altra volta: ora ritorno all'augure. 2 Di lui ricordo spesso molti episodi, ma in particolare uno: era a casa sua e sedeva, come al solito, nell'emiciclo: c'ero io pure e pochi intimi, quando gli capitò di raccontare un fatto che proprio allora era sulla bocca di molti. Ti ricordi certamente, Attico, tu che eri così vicino a Publio Sulpicio, quanta sorpresa o piuttosto quanta amarezza si diffuse tra la gente quando Sulpicio, tribuno della plebe, con odio mortale si staccò da Quinto Pompeo, allora console, insieme al quale era vissuto in un rapporto di grande intimità e affetto. 3 Quel giorno Scevola menzionò casualmente il fatto e ci riferì il discorso che Lelio aveva tenuto sull'amicizia in presenza dello stesso Scevola e dell'altro suo genero, Caio Fannio, figlio di Marco, pochi giorni dopo la morte dell'Africano. Ho fissato nella mente i punti principali della discussione e li ho riportati in questo libro a mio modo: per così dire, ho messo in scena i personaggi stessi per evitare di ripetere troppi «dico» o «dice» e per dar l'idea che il discorso si sviluppi tra persone presenti, qui davanti a noi. 4 Siccome, infatti, mi hai invitato spesso a scrivere qualcosa sull'amicizia, il discorso di Lelio mi è sembrato degno non solo di una divulgazione, ma soprattutto della nostra amicizia: così, ben volentieri ho cercato di esser utile a molti, su tua richiesta. Nel Catone il Vecchio, l'opera sulla vecchiaia a te dedicata, ho messo in scena un vecchio, Catone, perché a parlare della senilità nessun altro personaggio mi sembrava più adatto di colui che era stato vecchio per moltissimo tempo e proprio in vecchiaia era fiorito distinguendosi su tutti. Allo stesso modo, poiché so per tradizione avita che l'amicizia tra Scipione e Lelio fu più di ogni altra memorabile, il personaggio di Lelio mi è sembrato indicato a esporre, sull'amicizia, la conversazione che aveva già tenuto e di cui Scevola serbava il ricordo. Non so come, ma discorsi del genere, quando poggiano sull'autorità di uomini del passato, e per di più illustri, mi sembrano avere un peso maggiore. Così, nel leggere le mie parole ho talvolta l'impressione che sia Catone a parlare, non io. 5 Ma se allora, da vecchio, dedicavo a un vecchio un libro sulla vecchiaia, adesso, da vero amico, dedico a un amico questo trattato sull'amicizia. In quel libro era Catone a parlare, l'uomo più anziano e più ricco di esperienza dei suoi tempi, in questo sarà Lelio a esprimersi sull'amicizia, «il Saggio» - tale era considerato -, il più grande per la gloria della sua amicizia. Per qualche minuto, te ne prego, non pensare più a me, ma immagina che sia proprio 278
Lelio a raccontare. Caio Fannio e Quinto Mucio vanno a trovare il loro suocero dopo la morte dell'Africano. Da loro ha inizio la conversazione, Lelio risponde e sua è l'intera trattazione dell'amicizia. Leggendola, riconoscerai te stesso. II 6 FANNIO. Sì, Lelio. Non ci fu uomo migliore dell'Africano, né più illustre. Devi tener presente, però, che gli occhi di tutti sono puntati su di te: sei l'unico che chiamino e giudichino saggio. Sino a poco tempo fa si attribuiva l'appellativo a Marco Catone e sappiamo che, all'epoca dei nostri padri, Lucio Acilio era chiamato «il Saggio». Ma entrambi in modo diverso da te: Acilio perché era considerato competente nel diritto civile, Catone perché aveva esperienza in molti campi ed era ricordato per il buon senso dei provvedimenti, per il coraggio delle azioni, per l'acutezza delle risposte di cui aveva dato prova più volte in senato o al foro. Perciò, in vecchiaia, il titolo di «Saggio» era diventato per lui una sorta di soprannome. 7 Ma, nel tuo caso, è diverso. Ti dicono saggio non solo per le tue qualità naturali e morali, ma anche per i tuoi studi e per la tua cultura, saggio, quindi, non come lo intende la gente, ma come lo intendono gli intellettuali. In tal senso sappiamo che non ci fu nessuno nel resto della Grecia (i critici più sottili non annoverano nella categoria i cosiddetti Sette Sapienti), tranne ad Atene uno solo: e fu lui a essere giudicato «il più saggio» anche dall'oracolo di Apollo. Si pensa che la tua saggezza consista nel saper considerare ogni tuo bene un fatto interiore e nel giudicare le vicende umane subordinate alla virtù. Ecco perché vengono a chiedere a me, e anche a Scevola, penso, come sopporti la morte dell'Africano, tanto più che, alle ultime none, quando ci siamo riuniti nei giardini dell'augure Decimo Bruto per l'abituale seduta, non sei venuto, mentre hai sempre rispettato scrupolosamente quella scadenza e quell'impegno. 8 SCEVOLA. Sì, Caio Lelio, molti mi rivolgono la domanda di cui parla Fannio. Ma io rispondo, sulla base di quanto ho osservato, che con equilibrio sopporti il dolore per la morte di un uomo così straordinario, soprattutto di un così caro amico. E aggiungo che non potevi rimanere indifferente, che sarebbe stato contrario alla tua sensibilità. La tua assenza nel nostro collegio delle none, quindi, dipese da ragioni di salute, così rispondo, non di lutto. LELIO. La tua risposta è ottima e corretta, Scevola: una disgrazia privata non avrebbe dovuto impedirmi di adempiere al dovere di cui parli, da me sempre assolto quando stavo bene; del resto, in nessun caso, credo, può capitare a un uomo coerente di trascurare i propri doveri. 9 Quanto a te, Farinio, quando dici che mi attribuiscono meriti che non mi riconosco né pretendo di avere, ti comporti da amico, ma, a mio parere, sbagli nel giudicare Catone: infatti o nessuno è mai stato saggio - come credo più probabile - o, se ve n'è stato uno, quello fu Catone. Come ha saputo affrontare la morte del figlio, per tralasciare il resto! Mi ricordavo di Emilio Paolo, avevo visto Galo: ma essi persero dei figli in tenera età, Catone perse un uomo maturo e affermato. 10 Perciò non preferire a Catone neppure colui che, come dici, Apollo ha giudicato «il più saggio», perché dell'uno si lodano i fatti, dell'altro le parole. Quanto a me, per parlare ormai a tutt'e due, ecco cosa ne penso. III Se dicessi di non soffrire per la morte di Scipione, giudichino i saggi quanto sia nel giusto. Ma mentirei, senza dubbio. Soffro, è vero, perché ho perso un amico che, come immagino, non avrà eguali in futuro, che, come posso dimostrare, non ne ha avuti in passato. Ma non ho bisogno di medicine. So consolarmi da solo, sostenuto in particolare dalla convinzione di non cadere nell'errore che fa soffrire i più quando muore un amico. Penso che nessun male si sia abbattuto su Scipione: se 279
qualcuno ne è stato colpito, quello sono io. Ma affliggersi profondamente per le proprie disgrazie è tipico di chi ama se stesso, non l'amico. 11 Quanto a Scipione, chi può dire che la sorte non gli abbia arriso? A meno che non aspirasse all'immortalità, cosa a cui non pensava affatto, quali sono tra i desideri concessi all'uomo quelli che non è riuscito a realizzare? Appena adolescente, grazie al suo eccezionale valore, superò le enormi aspettative che i suoi concittadini avevano riposto in lui sin da bambino. Non si candidò mai al consolato, ma due volte fu eletto console, la prima quando non aveva ancora l'età prescritta, la seconda a tempo debito per lui, ma forse troppo tardi, ormai, per lo stato. Con la distruzione delle due città più ostili al nostro impero, pose fine alle guerre del suo tempo e scongiurò le future. E che dire della sua disponibilità, dell'amore per la madre, della generosità verso le sorelle, della benevolenza verso i suoi, del senso di giustizia verso tutti? Sapete di cosa parlo. Quanto poi fosse amato dalla città, lo si è visto dal pianto generale ai suoi funerali. A cosa gli sarebbe servito vivere qualche anno di più? A niente, perché la vecchiaia, sebbene non sia un peso (ricordo che Catone, un anno prima di morire, lo sostenne discutendo con me e Scipione), non di meno porta via quel vigore che Scipione aveva ancora. 12 Perciò la sua vita fu tale, quanto a fortuna e a gloria, che nulla di più le si poteva aggiungere. La morte, poi, arrivò così improvvisa da impedirgli di accorgersene. Come morì, è difficile dirlo: sapete quali sospetti circolano. Ma una cosa si può affermare con sicurezza: dei tanti giorni di grande festa e felicità che Scipione vide nella sua vita, il più bello fu quello in cui, dopo lo scioglimento della seduta senatoriale, venne accompagnato a casa, verso sera, dai padri coscritti, dal popolo romano, dagli alleati e dai Latini. Era il giorno precedente la sua morte. Sembrerebbe che da un così alto grado di dignità sia salito agli dèi superni piuttosto che sceso agli inferi. IV 13 No, non sono d'accordo con chi, da qualche tempo, si è messo a sostenere che l'anima muore insieme al corpo e tutto viene distrutto dalla morte. Per me vale di più l'autorità degli antichi: quella dei nostri antenati, che non avrebbero sicuramente tributato ai morti diritti così sacri se avessero pensato che i morti ne fossero indifferenti; oppure l'autorità di coloro che abitarono il nostro paese e diedero istituzioni e norme di vita alla Magna Grecia, che oggi è certamente distrutta, ma allora era fiorente; o l'autorità di colui che, giudicato «il più saggio» dall'oracolo di Apollo, non disse sull'argomento ora questo ora quello, come fanno i più, ma sempre la stessa cosa: l'anima dell'uomo è divina e, quando si stacca dal corpo, ha schiuso di fronte il ritorno al cielo, ritorno tanto più veloce quanto più si è buoni e giusti. 14 Ed era anche l'idea di Scipione. Egli, appunto, come se avesse un presentimento, pochissimi giorni prima di morire, in presenza di Filo, di Manilio, di molti altri e anche di te, Scevola, che mi avevi accompagnato, discusse per tre giorni sullo stato. Dedicò la parte finale del discorso essenzialmente al problema dell'immortalità dell'anima, raccontando quanto diceva di aver udito dall'Africano, apparsogli in sogno. Se è vero che, dopo morti, l'anima dei migliori vola via più facilmente come dalla prigione e dalle catene del corpo, chi, secondo noi, avrà avuto un cammino verso gli dèi più facile che Scipione? Ecco perché piangerne la sorte si addice piuttosto all'invidioso, temo, non all'amico. Se invece è più fondata la teoria secondo cui la morte è la stessa per l'anima e per il corpo e non sopravvive nessuna forma di sensibilità, allora come nella morte non c'è alcun bene, così certamente non c'è alcun male. Quando si perde la sensibilità, infatti, è come se non si fosse mai nati. Ma del fatto che Scipione sia nato ci rallegriamo noi e sempre esulterà, finché vive, la nostra città. 15 A lui, dunque, come ho appena 280
detto, la sorte ha arriso. Non altrettanto a me che, entrato prima nella vita, prima avrei dovuto uscirne. Tuttavia mi sento così appagato nel ricordare la nostra amicizia che mi sembra di aver vissuto un'esistenza felice solo perché l'ho vissuta insieme a Scipione. Con lui ho condiviso l'impegno della politica e degli affari privati, con lui ho vissuto in tempo di pace e di guerra , con lui - ecco la vera essenza dell'amicizia - ho avuto un'intesa perfetta di intenzioni, di aspirazioni e di opinioni. Perciò, non mi compiaccio tanto della fama di saggezza, oltretutto falsa, cui Fannio ha appena accennato, quanto della speranza che il ricordo della nostra amicizia sarà eterno. È una speranza che mi sta a cuore perché, di tutti i secoli passati, si ricordano a mala pena tre o quattro coppie di amici. Ma credo di poter sperare che l'amicizia tra Scipione e Lelio sarà nota ai posteri come una di queste. 16 FANNIO. Non può essere altrimenti, Lelio. Ma, siccome hai menzionato l'amicizia e noi abbiamo del tempo libero, mi farai un grandissimo piacere - e anche a Scevola, spero - se vorrai parlarci dell'amicizia come sei solito discutere gli altri problemi che ti vengono proposti, dicendoci cosa ne pensi, quale essenza le attribuisci, che regole le assegni. SCEVOLA. Sì, sarà per me un piacere. Anzi, stavo proprio per chiedertelo quando Fannio mi ha preceduto. Le tue parole, quindi, a entrambi saranno molto gradite. V 17 LELIO. Da parte mia, non farei certo difficoltà se confidassi nelle mie forze: l'argomento è bellissimo e, come ha detto Fannio, abbiamo del tempo libero. Ma chi sono io? E quale capacità oratoria ho? È un'abitudine dei dotti, e più precisamente di quelli greci, improvvisare su un tema loro proposto: è una fatica notevole ed esige un addestramento non superficiale. Perciò, tutti i discorsi che si possono tenere sull'amicizia, andateli a chiedere, per favore, agli improvvisatori di professione. Io posso soltanto esortarvi ad anteporre l'amicizia a ogni altro valore umano, perché niente è tanto conveniente alla natura dell'uomo, niente così opportuno nella buona o nella cattiva sorte. 18 Innanzi tutto la mia opinione è questa: l'amicizia può sussistere solo tra persone virtuose. E non taglio la questione sul vivo, come fanno coloro che discutono con troppa sottigliezza. Forse hanno ragione, ma non forniscono un grande contributo all'utilità comune. Dicono che nessuno, tranne il saggio, è un uomo virtuoso. Ammettiamo pure che sia così. Ma per saggezza intendono quella che nessun mortale, finora, ha mai raggiunto. Noi, invece, dobbiamo guardare alla pratica e alla vita di tutti i giorni, non alle fantasticherie o ai desideri. Non potrei mai dire che Caio Fabrizio, Manlio Curio e Tiberio Coruncanio, considerati saggi dai nostri antenati, lo fossero secondo il parametro di costoro. Perciò si tengano pure il loro nome fastidioso e incomprensibile di sapienti; ammettano almeno che i nostri compatrioti sono stati virtuosi. Ma non faranno neppure questo. Diranno che tale concessione si può fare solo al filosofo. 19 Ragioniamo allora, come si dice, con l'aiuto della «grassa Minerva». Uomini che si comportano, che vivono dimostrando lealtà, integrità morale, senso di equità, generosità, senza nutrire passioni sfrenate, dissolutezza, temerarietà, ma possedendo invece una grande coerenza (come i personaggi ora nominati), sono reputati virtuosi. Allora diamo loro anche il nome di virtuosi, perché seguono, nei limiti delle possibilità umane, la migliore guida per vivere bene, la natura. Mi sembra chiaro, infatti, che siamo nati perché si instauri tra tutti gli uomini un vincolo sociale, tanto più stretto quanto più si è vicini. Così agli stranieri preferiamo i concittadini, agli estranei i parenti. L'amicizia tra parenti, 281
infatti, deriva dalla natura, ma difetta di sufficiente stabilità. Ecco perché l'amicizia è superiore alla parentela: dalla parentela può venir meno l'affetto, dall'amicizia no. Senza l'affetto, l'amicizia perde il suo nome, alla parentela rimane. 20 Tutta la forza dell'amicizia emerge soprattutto dal fatto che, a partire dall'infinita società del genere umano, messa insieme dalla stessa natura, il legame si fa così stretto e così chiuso che tutto l'affetto si concentra tra due o poche persone. VI L'amicizia non è altro che un'intesa sul divino e sull'umano congiunta a un profondo affetto. Eccetto la saggezza, forse è questo il dono più grande degli dèi all'uomo. C'è chi preferisce la ricchezza, chi la salute, chi il potere, chi ancora le cariche pubbliche, molti anche il piacere. Ma se i piaceri sono degni delle bestie, gli altri beni sono caduchi e incerti perché dipendono non tanto dalla nostra volontà quanto dai capricci della sorte. C'è poi chi ripone il bene supremo nella virtù: cosa meravigliosa, non c'è dubbio, ma è proprio la virtù a generare e a preservare l'amicizia e senza virtù l'amicizia è assolutamente impossibile. 21 Diamo allora alla virtù il significato che ha nella vita quotidiana e nel parlar comune, senza misurarla, come fanno alcuni filosofi, dalla sonorità delle parole. E annoveriamo tra i virtuosi chi è considerato tale, i Paoli, i Catoni, i Galo, gli Scipioni, i Filo, di cui la vita di tutti i giorni si accontenta. E mettiamo da parte le utopie. 22 Quando gli uomini sono tali, l'amicizia presenta vantaggi così grandi che a mala pena posso dirli. In primo luogo, come può essere «vivibile una vita», per usare le parole di Ennio, che non trovi sollievo nel reciproco affetto di un amico? Cosa c'è di più dolce che avere una persona cui confidare tutto, senza timori, come a te stesso? E quale frutto ci sarebbe nella prosperità se non avessi qualcuno capace di goderne al par tuo? Con difficoltà, poi, potresti affrontare le sventure senza un amico che ne soffra anche più di te. Infine, tutti gli altri beni a cui l'uomo aspira, se presi uno a uno, presentano un solo lato vantaggioso - la ricchezza per spenderla, la potenza per essere riveriti, le cariche per ricever lodi, i piaceri per goderne, la salute per non provar dolore e per disporre delle forze fisiche. L'amicizia, invece, comporta moltissimi vantaggi. Dovunque tu vada è a tua disposizione, non è esclusa da nessun luogo, non è mai inopportuna, non è mai un peso. Insomma, non sono l'acqua e il fuoco, come dicono, a esser utili in tante situazioni, è l'amicizia. E non mi sto riferendo all'amicizia volgare e mediocre, capace tuttavia di procurare diletto e utilità, ma all'amicizia vera e perfetta, come fu quella che legò quei pochi che ancor oggi sono ricordati. L'amicizia, infatti, conferisce più vivo splendore al successo e allevia il peso delle avversità, condividendole e partecipandovi. VII 23 L'amicizia, dunque, comporta moltissimi e grandissimi vantaggi, ma ne presenta uno nettamente superiore agli altri: alimenta buone speranze che rischiarano il futuro e non permette all'animo di deprimersi e di abbattersi. Chi guarda un vero amico, in realtà, è come se si guardasse in uno specchio. E così gli assenti diventano presenti, i poveri ricchi, i deboli forti e, quel che è più difficile a dirsi, i morti vivi; tanto intensamente ne prolunga l'esistenza il rispetto, la memoria e il rimpianto degli amici. Ecco perché degli uni sembra felice la morte, degli altri lodevole la vita. Se poi privi la natura dei legami affettivi, nessuna casa, nessuna città potrà restare in piedi, neppure l'agricoltura sopravviverà. Se il concetto non è chiaro, basta osservare dissensi e discordie per capire quanto sia grande la forza dell'amicizia e della concordia. Quale casa è così stabile, quale città è così resistente da impedire a odi e divisioni interne di sconvolgerla da cima a fondo? Dal che si può giudicare quanto ci 282
sia di buono nell'amicizia. 24 Dicono che un filosofo di Agrigento abbia profetizzato, in versi greci, che tutte le cose immobili o in movimento nella natura e nell'universo debbano la loro coesione all'amicizia, la loro divisione alla discordia. È un'idea che tutti i mortali non solo intendono, ma anche comprovano nella realtà. Tant'è vero che, se talvolta si adempie al proprio dovere di amico affrontando o condividendo un pericolo, chi non è pronto a esaltare un simile gesto con le lodi più alte? Che applausi ha decretato, poco tempo fa, l'intero teatro al nuovo dramma di Marco Pacuvio, mio ospite e amico, nella scena in cui Pilade, davanti al re che ignorava l'identità di Oreste, si spacciava per Oreste, volendo morire al posto dell'amico, ma Oreste, ed era la verità, insisteva nel dire che Oreste era lui! In piedi gli spettatori applaudivano pur trattandosi di una finzione. Come pensiamo che si sarebbero comportati di fronte a una situazione reale? Certo, era la natura a rivelare la sua forza, perché degli uomini riconoscevano in altri il valore di un'azione di cui erano incapaci. Fin qui mi sembra di esser riuscito a esprimere il mio punto di vista. Se resta ancora qualcosa da dire, e penso che ne resti ancora molto, chiedetelo, se credete, ai filosofi di professione. 25 FANNIO. No, preferiamo chiederlo a te. Del resto, ho interrogato spesso anche questi «filosofi» e li ho ascoltati con un certo piacere, è vero, ma altra è la stoffa delle tue parole! SCEVOLA. E lo diresti a maggior ragione, Fannio, se qualche tempo fa avessi assistito alla discussione sullo stato che si tenne nei giardini di Scipione. Che difensore della giustizia si dimostrò, allora, Lelio contro la forbita arringa di Filo! FANNIO. È stato senz'altro facile per un uomo tanto giusto difendere la giustizia. SCEVOLA. E allora? Non sarà facile parlare dell'amicizia per un uomo che si è guadagnato gloria immensa conservando un legame con tanta lealtà, coerenza e giustizia? VIII 26 LELIO. Mi mettete proprio alle strette! Che importa con quali mezzi mi costringete? Certo è che lo fate. Ma resistere alle insistenze dei miei generi, specie se il motivo è valido, non solo è difficile, ma anche ingiusto. Dunque: quando molto spesso rifletto sull'amicizia, mi sembra che occorra soffermarsi soprattutto su un punto: ricerchiamo forse l'amicizia spinti dalla debolezza o dal bisogno perché, seguendo la logica del dare e dell'avere, speriamo di ottenere dagli altri quel che da soli non riusciamo a procurarci per poi restituirlo a nostra volta? Oppure, fermo restando che questa sia una caratteristica dell'amicizia, la causa è un'altra, più nobile, più bella, più naturale? L'amore, infatti, da cui l'amicizia trae il nome, dà il primo impulso al legame affettivo. È vero che si ottengono spesso vantaggi anche da chi riceve l'onore di un'amicizia simulata e gli ossequi dell'opportunismo. Nella vera amicizia, al contrario, nulla è finto, nulla è simulato, tutto è vero e spontaneo. 27 Perciò, secondo me, l'amicizia deriva dalla natura più che dal bisogno, da un'inclinazione dell'animo mista a un sentimento di amore, più che da calcoli utilitaristici. Che le cose stiano così lo si può vedere anche in alcuni animali: l'amore che, fino a un certo periodo, riversano sui loro piccoli e l'amore che da essi ricevono rivela chiaramente il loro sentimento. Nell'uomo è molto più evidente. Primo, nell'affetto tra genitori e figli, che solo un crimine abominevole può distruggere. Secondo, in un analogo sentimento di amore che ci nasce dentro quando incontriamo una persona simile a noi per abitudini e carattere, perché crediamo di vedere in lei, 283
per così dire, una luce di onestà e di virtù. 28 Niente è più amabile della virtù, niente spinge di più a voler bene, se è vero che proprio per la loro virtù e moralità ci sono care, in un certo senso, anche persone che non abbiamo mai visto. Chi non si ricorda con stima e affetto di Caio Fabrizio e Manlio Curio, pur non avendoli mai visti? Chi, invece, non odia Tarquinio il Superbo, Spurio Cassio e Spurio Melio? Contro due condottieri abbiamo combattuto per la supremazia in Italia: Pirro e Annibale. Il primo, per la sua onestà, non lo detestiamo sino in fondo, ma il secondo, per la sua crudeltà, Roma lo odierà in eterno. IX 29 Se, dunque, tanta è la forza dell'onestà da venir apprezzata in chi non abbiamo mai visto o, cosa ancor più notevole, addirittura in un nemico, perché stupirsi se l'animo umano rimane turbato quando crede di scorgere virtù e bontà in persone con cui si può legare nei rapporti della vita? È pur vero che l'amore si rafforza quando riceviamo un beneficio o ci manifestano simpatia o quando ancora si instaura l'intimità. Se a ciò si accompagna un'immediata attrazione, ecco allora accendersi un meraviglioso e intenso affetto. Se alcuni pensano che l'amicizia derivi dalla debolezza e dalla necessità di cercare qualcuno in grado di procurarci quel che ci manca, è perché attribuiscono all'amicizia, se così posso esprimermi, un'origine davvero bassa e ignobile, volendola figlia del bisogno e dell'indigenza. Se così fosse, quanto più uno si sentisse insicuro, tanto più sarebbe adatto all'amicizia. Ma la verità è un'altra! 30 Infatti quanto più uno ha fiducia in sé, quanto più è armato di virtù e di saggezza, in modo da non avere bisogno di nessuno e da considerare ogni suo bene un fatto interiore, tanto più eccelle nel cercare e nel coltivare le amicizie. Cosa? L'Africano aveva bisogno di me? Figuriamoci! E nemmeno io avevo bisogno di lui! Ma gli ho voluto bene perché ammiravo molto il suo valore, e lui, a sua volta, perché aveva una certa considerazione della mia persona. La confidenza accrebbe il nostro affetto. È vero, ne conseguirono molti e grandi vantaggi, ma la speranza di ottenerli non fu il presupposto del nostro attaccamento. 31 Come siamo generosi e liberali non per riscuotere una ricompensa - non diamo i nostri benefici a usura, ma per natura siamo propensi alla generosità -, così dobbiamo credere che si debba ricercare l'amicizia non nella speranza di un contraccambio, ma nella convinzione che il suo intero guadagno consista unicamente nell'amore. 32 Dissente radicalmente da tale opinione chi riporta tutto al piacere, come le bestie. Niente di strano, perché chi ha abbassato ogni pensiero a un livello così terra terra e spregevole non può levare lo sguardo a nulla di alto, di magnifico, di divino. Perciò teniamo questa gente al di fuori dal nostro discorso e cerchiamo di capire, da parte nostra, che il sentimento di affetto e stima deriva dalla natura, ogni volta che appaia un segno di onestà. Chi vi aspira, si avvicina e si stringe sempre più per godere della presenza e del carattere di colui che ha iniziato ad amare: vuole rendere il proprio affetto in tutto reciproco, essere propenso a rendere servigi più che a richiederne, competere in una gara di virtù. Così l'amicizia procurerà i maggiori vantaggi e, derivando dalla natura e non dalla debolezza, avrà un'origine più nobile e più vera. Infatti, se fosse la convenienza il cemento delle amicizie, cambiati interessi il legame si scioglierebbe. Ma, dal momento che la natura è immutabile, ne consegue che le amicizie vere sono eterne. Ecco l'origine dell'amicizia, a meno che non abbiate qualche obiezione da fare. FANNIO. No, continua tu, Lelio. A nome di Scevola, che è più giovane, rispondo io a buon diritto. 33 SCEVOLA. Certamente. Ascoltiamo, dunque. 284
X LELIO. Sì, ascoltate, uomini egregi, gli argomenti molte volte affrontati da me e Scipione nelle nostre discussioni sull'amicizia. Nonostante tutto, diceva che nulla è più difficile che mantenere un'amicizia sino alla morte. Spesso si verificano o divergenze di interessi o disaccordi in politica; l'uomo, poi, non di rado cambia carattere sia nei momenti difficili sia per il peso degli anni. Come esempio di tali cambiamenti prendeva l'adolescenza, quando con la toga pretesta si accantonano spesso anche i profondissimi affetti dell'infanzia. 34 Se invece durano sino alla giovinezza, vengono infranti dalle rivalità per un partito matrimoniale oppure per un interesse che i due amici non possono ottenere nello stesso tempo. Ma se l'amicizia si spinge oltre, eccola vacillare quando si accende la lotta per le cariche pubbliche. La peste più esiziale dell'amicizia è, nella maggior parte degli uomini, la sete di denaro, nei migliori, la lotta per il potere e per la gloria. Ecco perché dagli amici più cari sorgono spesso gli odi più feroci. 35 Gravi disaccordi, e per lo più legittimi, nascono anche quando si chiede all'amico un favore immorale come, ad esempio, farsi strumento di piacere o complice in una violenza. Chi si rifiuta agisce con onore, ma dalla persona che non vuole compiacere è accusato di tradire il codice dell'amicizia. Invece chi osa chiedere all'amico qualsiasi favore, con la sua stessa richiesta ammette di esser pronto a tutto per l'altro. Di solito le sue recriminazioni non solo distruggono antiche amicizie, ma suscitano anche odi eterni. Ecco le tante, per così dire, fatalità che incombono sull'amicizia: secondo Scipione per evitarle tutte non basta la saggezza, occorre anche la fortuna. XI 36 Perciò, se siete d'accordo, vediamo innanzi tutto fino a che punto deve spingersi l'amore per un amico. Gli amici di Coriolano, se mai ne ebbe, avrebbero dovuto impugnare le armi contro la patria insieme a lui? E quando Vecellino e Melio aspiravano alla tirannide, gli amici avrebbero dovuto seguirli? 37 Tiberio Gracco fomentava disordini contro lo stato: Quinto Tuberone e gli altri amici suoi coetanei lo abbandonarono, come si è visto. Invece Caio Blossio di Cuma, ospite della vostra famiglia, Scevola, quando venne da me a chiedere perdono, perché ero membro della commissione d'inchiesta con i consoli Lenate e Rupilio, per giustificarsi diceva di aver stimato tanto Tiberio Gracco da credere suo dovere l'esaudire ogni sua decisione. Allora io: «Anche se ti avesse chiesto di dare alle fiamme il Campidoglio?» «Non mi avrebbe mai chiesto una cosa simile!» rispose. «In quel caso, però, avrei ubbidito.» Vedete che parole infami! E, perdio, lo fece davvero. Anzi, superò quanto aveva detto: non obbedì alla temerarietà di Tiberio Gracco, ma la istigò, non si offrì come complice della sua follia, ma come guida. E così, persa completamente la testa, per paura dell'inchiesta straordinaria, riparò in Asia, passò al nemico e pagò allo stato una pena dura, ma giusta. Perciò, dire di aver commesso un reato per un amico non è un'attenuante. Se infatti è stata la tua fede nella virtù a conciliarti l'amicizia, difficilmente l'amicizia resisterà se rinunci alla virtù. 38 Se decidessimo che è giusto concedere agli amici qualsiasi cosa vogliano, oppure ottenere da loro qualsiasi cosa vogliamo, dovremmo essere proprio dei saggi provetti per riuscirvi senza inconvenienti! Ma mi sto riferendo agli amici che abbiamo sotto gli occhi, che vediamo o di cui ci è giunto il ricordo, che incontriamo nella vita quotidiana. È da loro che dobbiamo prendere esempio e, in particolare, da chi è più vicino alla saggezza. 39 Sappiamo che Emilio Papo fu intimo amico di Luscino - lo abbiamo appreso dai Padri. Furono due volte consoli insieme e colleghi nella censura. È stato tramandato, inoltre, che un'intima amicizia li legava a Manlio Curio e a Tiberio Coruncanio, anch'essi grandi amici. Ebbene, non possiamo neppure sospettare che 285
uno di loro abbia preteso dall'amico un favore contrario alla parola data, al giuramento, allo stato. È inutile dire che, trattandosi di uomini simili, se lo avesse preteso non lo avrebbe ottenuto, perché erano persone della massima integrità morale, perché cedere a una richiesta del genere o avanzarla va comunque contro ogni legge. Invece, Tiberio Gracco trovò dei seguaci in Caio Carbone, in Caio Catone e in suo fratello Caio, che allora non era così violento come oggi. XII 40 Si stabilisca dunque la seguente legge dell'amicizia: non avanzare richieste immorali né esaudirle se richieste. È una scusa davvero vergognosa e assolutamente inaccettabile confessare di aver commesso un reato, specie contro lo stato, in nome dell'amicizia. In verità, cari Fannio e Scevola, siamo arrivati a un punto che dobbiamo prevedere con largo anticipo quali mali si abbatteranno sullo stato. Ormai deviamo non poco dalla retta via tracciata dai Padri. 41 Tiberio Gracco ha cercato di arrogarsi un potere regale o, piuttosto, è stato re per pochi mesi. Il popolo romano aveva mai sentito o visto qualcosa del genere? Anche dopo la morte di Tiberio Gracco i suoi amici e parenti ne seguirono l'esempio: e quel che fecero a Publio Scipione non posso dirlo senza piangere. Quanto a Carbone lo abbiamo sopportato quanto ci è stato possibile solo perché da poco era stata inflitta una punizione a Tiberio Gracco. Che cosa mi aspetto poi dal tribunato di Caio Gracco, è meglio non prevederlo. Ormai serpeggia un male che, una volta risvegliato, scivola giù a seminar rovina. Vedete, a proposito delle norme di votazione, che marcio si è creato prima con la legge Gabinia e due anni dopo con la legge Cassia. Mi sembra già di vedere il popolo opporsi al senato e le più importanti questioni risolversi secondo i capricci della folla. E la gente imparerà a fomentar rivoluzioni piuttosto che a porvi rimedio. 42 Perché parlo così? Perché senza complici nessuno tenta simili imprese. Bisogna quindi esortare i virtuosi, se per caso e senza accorgersene si imbattono in amicizie del genere, a non credersi obbligati a non staccarsi da amici che si macchiano di gravi reati politici. Contro i corrotti si deve stabilire una pena non inferiore per i seguaci che per gli ideatori del crimine. Chi fu più illustre, in Grecia, di Temistocle? Chi più potente? Lui che, stratega della guerra contro i Persiani, aveva liberato la Grecia dalla servitù ed era stato esiliato per invidia, non seppe sopportare, come avrebbe dovuto, l'ingiustizia della sua patria ingrata. Compì lo stesso gesto che, vent'anni prima, da noi, era stato di Coriolano. Non trovarono nessuno che li aiutasse contro la patria: perciò, entrambi, si suicidarono. 43 Non solo non bisogna coprire con il pretesto dell'amicizia un simile complotto di gente corrotta, ma piuttosto punirlo con le sanzioni più gravi, perché nessuno si creda autorizzato a seguire l'amico anche quando attenta allo stato. E, da come vanno le cose, non è detto che un domani non accada. Nel mio caso, poi, il pensiero di come sarà la situazione politica dopo la mia morte desta in me preoccupazioni non meno gravi di quelle per il presente. XIII 44 Si stabilisca dunque la prima legge dell'amicizia: bisogna rivolgere agli amici solo richieste oneste, compiere per gli amici solo azioni oneste senza aspettare di esserne richiesti, mostrarsi sempre disponibili e mai esitanti, avere il coraggio di dare liberamente il proprio parere. Valga soprattutto nell'amicizia l'autorità degli amici che danno buoni consigli; tale autorità serva ad ammonire non solo con sincerità ma, se la situazione lo richiede, anche con asprezza e, in tal caso, le si obbedisca. 45 Alcuni che, a quanto sento dire, vennero considerati sapienti in Grecia, hanno sostenuto tesi a mio giudizio paradossali (ma non esiste argomento su cui non cavillino). Una parte afferma che dobbiamo rifuggire dalle amicizie eccessive, per 286
evitare che uno solo si tormenti per molti; a ciascuno bastano e avanzano i propri problemi e farsi carico di quelli altrui è una bella noia. La cosa migliore, secondo loro, è allentare più che si può le briglie dell'amicizia, tirandole o lasciandole andare a proprio piacere; essenziale per vivere bene è la tranquillità, di cui l'animo non può godere se, per così dire, fosse uno solo a sopportare il travaglio per tutti. 46 Altri, invece, a quanto si dice, sostengono una tesi ancora più disumana; l'ho brevemente accennata poco fa: le amicizie andrebbero ricercate in vista di protezione e appoggi, non per un sentimento di affetto e stima; insomma, quanto meno uno è deciso e forte, tanto più aspira all'amicizia; ecco perché sono le donnicciole a chiedere la protezione dell'amicizia più degli uomini, i poveri più dei ricchi e gli sventurati più di chi è considerato felice. 47 Ma che bella saggezza! È come se privasse l'universo del sole chi priva la vita dell'amicizia: e niente di più bello, niente di più gradito dell'amicizia abbiamo ricevuto dagli dèi immortali. Allora, che cos'è mai questa tranquillità, in apparenza seducente, ma in realtà da ripudiare per molti aspetti? No, non ha senso rifiutarsi di intraprendere una cosa o un'azione onesta, oppure abbandonarla dopo averla intrapresa, per evitare noie. Ma se fuggiamo le preoccupazioni, dobbiamo fuggire la virtù che, all'inevitabile prezzo di qualche apprensione, ci porta a disprezzare e odiare il suo contrario, come fa la bontà con la cattiveria, la temperanza con le passioni, il coraggio con l'ignavia. Ecco perché si vedono soprattutto i giusti soffrire per le ingiustizie, i coraggiosi per la viltà, i moderati per gli eccessi. E proprio di un animo ben educato, quindi, rallegrarsi per il bene e affliggersi per il male. 48 Perciò, se anche l'animo del saggio è sensibile al dolore - e lo è di sicuro, se non vogliamo ammettere che gli è stata strappata l'umanità -, perché dovremmo sradicare dalla vita l'amicizia, per evitare di provar fastidi a causa sua? Se si elimina il sentimento, che differenza c'è non dico tra l'uomo e una bestia, ma tra l'uomo e un tronco o un sasso o qualcosa del genere? No, non bisogna dare ascolto a chi pretende che la virtù sia dura e, per così dire, di ferro, quando invece in molte circostanze, ma soprattutto nell'amicizia, è così tenera ed elastica da aprirsi, se posso esprimermi così, alla fortuna dell'amico e da chiudersi di fronte alle sue avversità. Ecco perché l'angoscia, che spesso si deve patire per un amico, non è così forte da escludere l'amicizia dalla vita, non più di quanto siamo disposti a rinunciare alle virtù perché comportano preoccupazioni e fastidi. XIV Poiché quello che induce a stringere un rapporto di amicizia, come ho detto prima, è il balenare di qualche segno di virtù, che induce un animo affine ad accostarsi e legarsi ad essa, quando ciò accade, allora sorge inevitabile l'amore. 49 Siamo appagati da molte cose vane: onori, gloria, casa, vestiti, forma fisica, ma non apprezziamo affatto l'animo virtuoso, capace di amare e, per così dire, di ricambiare l'amore. C'è follia più grande? Niente, infatti, è più piacevole del reciproco affetto e della corrispondenza di attenzioni e cortesie. 50 E se poi aggiungiamo - come si può fare a buon diritto - che niente affascina e attira qualcosa a sé quanto la somiglianza affascina e attira gli uomini all'amicizia, si finirà con l'ammettere che i buoni amano i buoni e li attraggono a sé come se li sentissero legati dalla parentela o dalla natura. Niente brama tanto il suo simile e ne è avido quanto la natura. Ecco perché possiamo ritenere certo, cari Fannio e Scevola, che i buoni hanno per i buoni un affetto in un certo senso ineluttabile: è la natura ad averlo posto come fonte dell'amicizia. Ma la bontà, in sé e per sé, può sussistere anche tra molte persone. La virtù, infatti, non è inumana, egoista e superba, ma suole proteggere interi popoli e provvedere nel modo migliore a essi. E non lo farebbe di sicuro se aborrisse dall'amore per la gente. 287
51 Anzi, a mio parere, chi basa l'amicizia sull'interesse distrugge tra i vincoli dell'amicizia quello che è più vicino all'amore. In realtà, non ci è caro tanto ricavare un guadagno dall'amico, quanto il suo stesso amore, e quel che ci proviene dall'amico risulta piacevole solo se accompagnato dall'affetto. E credere che le amicizie si coltivino per indigenza è tanto lontano dal vero che si rivelano più generose e magnanime proprio le persone che, forti del loro prestigio, delle loro ricchezze e soprattutto della loro virtù, nella quale trovano la maggiore risorsa, hanno meno bisogno degli altri. Anzi, sono portato a credere che non è neppure necessario che agli amici non manchi mai assolutamente nulla. Quando avrei potuto dimostrare tutto il mio affetto se Scipione non avesse avuto bisogno mai del mio consiglio, mai della mia collaborazione in pace o in guerra? Non è stata pertanto l'amicizia a seguire il vantaggio, ma è il vantaggio che si è accompagnato all'amicizia. XV 52 Non bisognerà allora dar retta a chi sguazza nei piaceri se talvolta discute sull'amicizia senza averla conosciuta né in teoria né in pratica. Chi, infatti, in nome degli dèi e degli uomini, vorrebbe annegare in un mare di ricchezze e vivere nella più grande abbondanza a patto di non amare nessuno e di non essere amato da nessuno? Non c'è dubbio: questa è la vita dei tiranni, vita che ignora completamente lealtà, affetto e fiducia in un legame durevole. Tutto desta sospetti e angosce, non vi è spazio per l'amicizia. 53 Chi, allora, potrebbe amare una persona di cui ha paura o a cui pensa di ispirarne? Eppure i tiranni sono riveriti, ma da chi finge, e solo per un tempo limitato. Se mai cadono, come succede generalmente, allora viene a galla quanto fossero poveri di amici. È quello che, secondo la tradizione, ammise Tarquinio il giorno dell'esilio: riconobbe gli amici fedeli e quelli infedeli solo nel momento in cui non poteva più ripagare né gli uni né gli altri. 54 È strano, comunque, che abbia potuto avere un solo amico, con la sua superbia e crudeltà! Ma se il suo carattere non poté procurargli veri amici, allo stesso modo le ricchezze impediscono a molti potenti di avere amicizie fedeli. La Fortuna, infatti, non solo è cieca, ma acceca spesso anche le persone cui ha concesso i propri favori. Ecco perché, di solito, si lasciano prendere dall'arroganza e dall'alterigia, e niente risulta più insopportabile di uno stupido fortunato. Si può poi osservare che uomini, il cui carattere era affabile, cambiano con un comando militare, una carica pubblica o un successo, disprezzano le vecchie amicizie e assecondano in tutto le nuove. 55 Ma la vera follia, quando dispongono di ricchezze, possibilità e prestigio, è che si procurano tutto ciò che il denaro può offrire - cavalli, servi, vestiti di lusso, vasi preziosi -, ma non gli amici, il migliore, per così dire il più prezioso corredo della vita. Quando acquistano tutti quei beni, non sanno né per chi li comprano, né per chi si danno tanto da fare. Sono oggetti, infatti, che appartengono al più forte, mentre il possesso dell'amicizia è in ogni uomo stabile e sicuro. Di conseguenza, anche se conservassero quei beni, che sono come doni della Fortuna, una vita di solitudine, priva di amicizie non potrebbe dar la felicità. Ma sull'argomento ho detto abbastanza. XVI 56 Bisogna ora fissare i limiti dell'amicizia e, per così dire, la linea di confine dell'affetto. Vedo che sull'argomento circolano tre teorie, e nessuna mi sembra accettabile. La prima sostiene che dobbiamo nutrire per gli amici gli stessi sentimenti che proviamo per noi; la seconda che il nostro affetto per gli amici deve corrispondere in tutto e per tutto al loro affetto per noi; la terza che quanto uno stima se stesso, tanto deve essere stimato dagli amici. 57 Non sono affatto d'accordo con nessuna delle tre. Non è vera la prima, secondo cui si deve esser disposti verso 288
l'amico come si è disposti verso se stessi. Quante cose che non faremmo mai per noi, le facciamo invece per gli amici! Pregare uomini indegni, supplicare, scagliarsi contro un altro con troppa durezza e con troppa veemenza attaccarlo, tutti comportamenti che, quando si tratta di noi, risultano poco dignitosi, ma quando si tratta degli amici, diventano il massimo della dignità. In numerose circostanze, poi, gli uomini virtuosi sacrificano molti dei propri privilegi o tollerano di sacrificarli perché siano gli amici a goderne più di loro stessi. 58 La seconda teoria considera l'amicizia come la reciprocità dei doveri e dei sentimenti. Ma significa ridurla a conti troppo gretti e meschini, per vedere se il bilancio è in pari! La vera amicizia, secondo me, è più ricca, più generosa e non bada con pignoleria a non rendere più di quanto abbia ricevuto. Non bisogna temere di perdere qualcosa, di lasciar cadere a terra una goccia o di fare troppo buon peso. 59 Eppure la peggiore di tutte è la terza definizione: quanto uno stima se stesso, tanto deve essere stimato dagli amici. Spesso alcuni si sentono troppo depressi oppure nutrono un'esigua speranza di migliorare il proprio destino. Non è dunque da amico essere verso l'altro come egli è verso se stesso, ma è da amico fare di tutto per dare una scrollata a chi si sente giù spingendolo a nutrire speranze e pensieri migliori. Bisogna quindi stabilire un diverso limite alla vera amicizia. Prima, però, voglio riferire a cosa, in particolare, si indirizzasse la condanna di Scipione. A suo dire, non si potevano trovare parole più ostili all'amicizia di quelle pronunciate da chi si espresse così: «Bisogna amare come se in futuro si dovesse odiare». Non riusciva a capacitarsi che l'autore, come generalmente si pensa, fosse Biante, dal momento che viene annoverato tra i Sette Sapienti. No, quella era l'affermazione di un immorale, di un arrivista, di chi subordina tutto al potere. Come possiamo essere amici di chi consideriamo un potenziale nemico? Ma allora sarà inevitabile desiderare e augurarci che l'amico commetta il maggior numero di colpe possibili per offrirci più occasioni di rimprovero; al contrario, le sue buone azioni e i suoi successi finiranno col destare in noi tensione, dolore e invidia. 60 Ecco perché tale precetto, di chiunque sia, serve solo a distruggere l'amicizia. Bisognerebbe piuttosto proporne un altro: quando stringiamo le amicizie, dobbiamo stare attenti a non iniziare ad amare chi, un giorno, potremmo odiare. Anzi, secondo Scipione, qualora la scelta degli amici non si rivelasse felice, dovremmo sopportarli piuttosto che pensare al momento giusto per aprire le ostilità. XVII 61 Ecco, dunque, a mio giudizio, i limiti dell'amicizia: quando gli amici hanno un comportamento irreprensibile, allora mettiamo in comune ogni azione, pensiero, proposito senza eccezione alcuna. Se poi il caso vuole che dobbiamo assecondare gli amici in propositi non del tutto giusti, in cui siano in gioco la loro vita e la loro reputazione, allora si deve fare uno strappo alla regola, purché non ne consegua un gravissimo disonore. Sino a un certo limite, infatti, possiamo usare indulgenza all'amicizia, senza però trascurare la nostra reputazione o sottovalutare il favore dell'opinione pubblica come se fosse una piccola arma nella vita politica, benché accattivarselo con la lusinga e la piaggeria sia una vergogna; quanto alla virtù, da cui sorge l'affetto, non dobbiamo mai rinnegarla. 62 Ma Scipione - ritorno spesso a lui perché suo era l'intero discorso sull'amicizia - si lamentava che gli uomini in tutto usino più attenzione che nell'amicizia. Tutti sanno dirti quante capre o pecore possiedono, ma quanti amici no. Nel procurarsi un gregge usano ogni riguardo, ma nello scegliere gli amici sono 289
distratti né hanno, per così dire, segni particolari e marchi che li aiutino a giudicare coloro che sono idonei all'amicizia. Dobbiamo scegliere amici dotati di fermezza, stabilità e coerenza - e di tali caratteristiche vi è grande penuria! E giudicare una persona senza metterla alla prova è davvero difficile, ma la prova è fattibile solo se si è instaurato il legame. Così, l'amicizia precorre il giudizio e finisce con eliminare la possibilità di fare una verifica. 63 È indice di saggezza, quindi, saper frenare l'impeto dell'affetto come si frena un cocchio, per poter usare dell'amicizia solo dopo aver sperimentato, in qualche modo, il carattere degli amici, così come si provano i cavalli. Spesso alcuni rivelano tutta la loro leggerezza di fronte a pochi soldi; altri, invece, irremovibili davanti a una piccola somma, si tradiscono di fronte a una grande. Ma se pure troveremo chi si vergogna di preferire il denaro all'amicizia, dove troveremo chi non antepone all'amicizia onori, cariche pubbliche e militari, potere, prestigio, e chi, avendo la possibilità di scegliere tra tutti questi beni e le prerogative dell'amicizia, non preferisce di gran lunga i primi? La natura umana è troppo debole per disprezzare il potere; e se si raggiunge il potere a prezzo dell'amicizia, si pensa che su ciò calerà un'ombra, perché non senza una valida ragione l'amicizia è stata trascurata. 64 E così, è difficilissimo trovare vere amicizie in chi vede nella carriera politica una ragione di vita. Dove trovare chi preferisca alla propria affermazione quella dell'amico? E, per passare ad altro, come risulta gravoso e difficile, ai più, condividere gli insuccessi altrui! Non è facile trovare persone disposte ad abbassarsi a tanto. E benché Ennio abbia ragione nel dire: L'amico certo si scopre nella sorte incerta tuttavia due sono le situazioni che dimostrano la leggerezza e l'incostanza dei più: se disprezzano gli amici nel momento del successo o se li abbandonano nelle difficoltà. Chi, in entrambi i casi, si mostrerà amico serio, coerente e stabile, dobbiamo considerarlo di una stirpe umana rarissima, quasi divina! XVIII 65 Base della stabilità e della coerenza, che cerchiamo nell'amicizia, è la lealtà. Nulla è stabile senza lealtà. Conviene inoltre scegliere una persona semplice, socievole e di sensibilità affine, cioè che reagisca alle situazioni come noi. Tutto ciò contribuisce alla fedeltà. Non può essere leale un carattere complesso e tortuoso, e neppure chi non reagisce come noi e ha una sensibilità diversa può essere leale e stabile. Bisogna poi aggiungere che l'amico non deve provar gusto nel calunniare o nel prestar fede a calunnie mosse da altri. Tutto ciò contribuisce alla coerenza, di cui sto trattando già da un po'. Ed ecco avverarsi la premessa del mio discorso: l'amicizia può esistere solo tra i virtuosi. Solo l'uomo virtuoso, che si può chiamare anche saggio, sa osservare due norme dell'amicizia. Prima: evitare tutto ciò che è finto o simulato; persino l'odio dichiarato è più nobile che nascondere il proprio pensiero dietro un'espressione del volto. Seconda: non solo respingere le accuse lanciate da altri, ma neppure nutrire sospetti, supponendo che l'amico si sia comportato male. 66 Conviene aggiungere, infine, la dolcezza di parola e di modi, condimento per nulla trascurabile dell'amicizia. Il cattivo umore e la continua serietà comportano sì un tono di sostenutezza, ma l'amicizia deve essere più rilassata, più libera, più dolce, più incline a ogni forma di amabilità e di cortesia. XIX 67 Sorge a questo punto un problema di una certa difficoltà: a volte, dobbiamo forse preferire i nuovi amici, purché degni della nostra amicizia, ai vecchi, 290
così come di solito preferiamo ai cavalli di una certa età quelli giovani? Dubbio indegno di un uomo! Nell'amicizia non deve esistere sazietà come nelle altre cose! Quanto più un'amicizia è antica, tanto più deve piacere, come quei vini che reggono bene l'invecchiamento. Ed è vero il proverbio che dice: bisogna mangiare insieme molti moggi di sale perché si possa dire assolto il dovere di amico. 68 Quanto alle nuove amicizie, se lasciano sperare nella nascita di un frutto, come giovani piante che non ingannano l'attesa, non sono certo da rifiutare, ma l'anzianità deve rimanere al posto che le spetta, perché è grandissima la forza dell'anzianità e dell'intima conoscenza. Anzi, ritornando all'esempio del cavallo appena menzionato, se niente lo impedisce, non c'è nessuno che preferisca al cavallo cui è abituato uno mai montato e nuovo per lui. In realtà, è un'abitudine valida non solo per gli esseri animati, ma anche per quelli inanimati, tant'è vero che ci piacciono dei luoghi, anche se montuosi e selvaggi, se vi abbiamo dimorato per un certo periodo di tempo. 69 Ma il presupposto fondamentale dell'amicizia è mettersi al livello di chi è inferiore. Spesso ci sono uomini di levatura superiore, come Scipione nel nostro gruppo. Eppure non fece pesare mai la sua posizione a Filo, mai a Rupilio, mai a Mummio, mai agli amici di rango inferiore. Anzi, onorava come un superiore, perché più vecchio di lui, suo fratello Quinto Massimo, uomo sì di grandi capacità, ma non del suo livello, e voleva offrire a ogni amico la possibilità di innalzare la propria posizione. 70 Ecco cosa dovrebbero fare tutti, imitando Scipione: se sono riusciti a distinguersi per virtù, intelligenza e fortuna, rendano partecipi gli amici della propria superiorità, la condividano con chi hanno più vicino; se, per esempio, i loro genitori sono di umile condizione, se i loro parenti non sono molto dotati di spirito e di sostanze, ne accrescano le risorse e li aiutino a ottenere onori e dignità. È quel che accade in teatro, dove personaggi vissuti a lungo in stato di servitù, perché se ne ignorava la stirpe e l'origine, una volta riconosciuti come figli di dèi o re, mantengono intatto il loro affetto nei riguardi dei pastori che per molti anni hanno considerato loro padri. A maggior ragione bisogna comportarsi così nei confronti dei veri e sicuri genitori. Cogliamo infatti il maggior frutto dell'intelligenza, della virtù, di ogni tipo di superiorità quando ne diamo una parte a chi ci è più vicino. XX 71 Come, dunque, nei legami di amicizia o nelle relazioni vincolanti i superiori devono mettersi al livello degli inferiori, così gli inferiori non devono affliggersi nel vedersi superati per intelligenza, fortuna e dignità. Invece, la maggior parte di questi è sempre pronta a lamentarsi o a rinfacciare qualcosa, soprattutto se pensa di poter ricordare un favore reso che ne attesti la premura, l'amicizia e anche un certo disturbo. Che gente odiosa! È sempre pronta a rinfacciare quel che ha fatto, mentre dei favori dovrebbe ricordarsi chi li ha ricevuti e non parlarne chi li ha resi. 72 Perciò, nei rapporti di amicizia come coloro che sono superiori devono abbassarsi, così, in un certo senso, devono elevare gli inferiori. Ci sono persone, infatti, che tolgono il piacere dell'amicizia perché si credono disprezzate; capita generalmente solo a chi non si considera degno della stima altrui. È doveroso, quindi, liberarli di tale pregiudizio non solo a parole, ma anche con i fatti. 73 Devi inoltre dare all'amico in primo luogo quanto sei in grado di dare, in secondo luogo quanto la persona che ami e vuoi aiutare è in grado di sostenere. Per quanto tu stia in alto non potresti condurre gli amici ai vertici delle cariche pubbliche. Scipione, per esempio, riuscì a far eleggere console Publio Rupilio, ma non il fratello di costui, Lucio. Ma se anche potessi conferire a un altro una carica qualsiasi, devi sempre vedere se sia capace di sostenerla. 74 In generale, si devono giudicare le amicizie quando il carattere si è 291
formato e l'età è matura. Se, da giovani, siamo stati appassionati di caccia o del gioco della palla, non dobbiamo considerare necessariamente amici i compagni che allora prediligevamo perché accomunati dalla stessa passione. In questo modo, nutrici e pedagoghi si sentiranno in dovere di esigere il massimo dell'affetto per diritto di anzianità! Noi non dobbiamo dimenticarli, ma amarli in un altro modo. Diversamente, le amicizie non possono durare in maniera stabile. Caratteri diversi comportano interessi diversi ed è questa diversità a separare gli amici; se i virtuosi non possono essere amici dei malvagi e i malvagi dei virtuosi è solo perché la loro differenza di carattere e di interessi è la più grande che ci sia. 75 A ragione si può prescrivere un'altra regola nell'amicizia: un affetto incontrollato non deve ostacolare l'amico, come molto spesso accade, nel conseguimento di importanti successi. Per ritornare ai drammi, Neottolemo non avrebbe potuto conquistare Troia se avesse voluto dar retta a Licomede, presso il quale era stato allevato, che piangendo a dirotto cercava di impedirne la partenza. Spesso, poi, capitano gravi eventi che impongono un distacco: chi vi si oppone, perché incapace di sopportare la mancanza dell'amico è debole, senza carattere, e, proprio per questo, ingiusto nei confronti dell'amico. 76 Insomma, in ogni circostanza devi valutare attentamente cosa chiedi all'amico e cosa sei disposto a concedergli. XXI Incombe sulle amicizie una calamità, e non sempre è possibile evitarla: la rottura. Il mio discorso si abbassa ormai dall'amicizia tra saggi alle amicizie comuni. I difetti degli amici, infatti, molte volte si manifestano all'improvviso, ora a danno degli stessi amici, ora degli estranei, ma in modo che il disonore ricada sempre sugli amici. Bisogna frequentare tali amicizie sempre meno, sino ad arrivare allo scioglimento definitivo. Come ho sentito dire da Catone, dobbiamo scucirle, non strapparle, a meno che non divampi un motivo di risentimento davvero insopportabile; in tal caso non sarebbe giusto, né dignitoso, né possibile non troncare una volta per tutte il rapporto. 77 Ma se il carattere o gli interessi cambieranno, come avviene di solito, o se il diverso orientamento politico diventerà motivo di contrasto (non mi sto riferendo, come ho appena detto, alle amicizie dei saggi, ma alle comuni), dovremo evitare di far credere che abbiamo fatto morire un'amicizia per concepire un odio. Niente è più indegno che aprire le ostilità contro la persona con cui hai vissuto in intimità. Scipione, lo sapete, a causa mia aveva rinunciato all'amicizia di Quinto Pompeo; per dissensi politici si staccò dal nostro collega Metello: in entrambi i casi agì dignitosamente, cioè con autorità, ma senza nutrire aspri rancori. 78 Per prima cosa, dunque, bisogna cercare di impedire tra amici le lacerazioni, ma, se si verificano, bisogna comportarsi in modo che la fiamma dell'amicizia sembri essersi consumata da sola, e non che sia stata soffocata. Occorre poi evitare che le amicizie si convertano in odi feroci, da cui nascono liti, maldicenze e insulti. Se però sono tollerabili, bisogna sopportarle e tributare questo onore all'amicizia di un tempo, in modo che la colpa ricada su chi commette il torto, non su chi lo subisce. In generale, il solo mezzo per prevenire e impedire questi guai e queste molestie è non iniziare ad amare troppo presto o persone indegne. 79 Degno di amicizia è chi ha dentro di sé la ragione di essere amato. Specie rara! Davvero, tutto ciò che è bello è raro; niente è più difficile che trovare una cosa perfetta, nel suo genere, sotto ogni aspetto. Ma i più riconoscono come buono, nella vita umana, solo ciò che comporta un profitto e scelgono gli amici come le bestie, preferendo chi offre loro la speranza del massimo guadagno. 80 Si privano così dell'amicizia più bella e più naturale, quella che si ricerca in sé e per sé, e non imparano dalla diretta 292
esperienza quale sia l'essenza e l'importanza dell'amicizia. Ciascuno, infatti, ama se stesso, non perché pretende di ricavare da sé il compenso del proprio affetto, ma perché amarsi è fine a se stesso. Se non si trasferisce tale mentalità nell'amicizia, non si troverà mai un vero amico. E il vero amico è come un altro te stesso. 81 Ora, se è evidente negli animali - dell'aria, dell'acqua, della terra, domestici e selvatici - che, primo, si amano (è un istinto «innato» in ogni essere vivente), e, secondo, cercano ardentemente un animale della stessa specie cui accoppiarsi (e lo fanno con slancio, con qualcosa che assomiglia all'amore umano), quanto tale sentimento è più naturale nell'uomo, che ama se stesso e cerca un altro con cui mescolare la sua anima, per farne di due quasi una sola! XXII 82 Ma i più assurdamente, per non dire con impudenza, vogliono avere amici come loro stessi non possono essere e quel che essi non danno agli amici lo pretendono da loro. Invece è giusto prima di tutto essere uomini virtuosi e poi cercare altri simili a noi. Solo tra virtuosi può rafforzarsi la stabilità dell'amicizia, di cui sto trattando già da un po', quando cioè gli uomini, legati dall'affetto, sapranno in primo luogo dominare le passioni, di cui gli altri sono schiavi, e poi ameranno l'equità e la giustizia, si sobbarcheranno a ogni sacrificio l'uno per l'altro, non chiederanno mai nulla che contravvenga alla morale e al diritto, e instaureranno così non solo un rapporto di stima e amore, ma anche di rispetto. In verità, priva l'amicizia del suo più bell'ornamento chi la priva del rispetto. 83 Ecco perché chi considera l'amicizia un terreno aperto a voglie e colpe di ogni sorta cade in un pernicioso errore. La natura, invece, ci ha dato l'amicizia come ausilio della virtù, non come complice dei vizi, e lo ha fatto perché la virtù, incapace da sola di raggiungere il bene supremo, vi pervenisse congiunta e associata a un'altra virtù. E se tra gli uomini c'è, c'è stata o ci sarà una simile unione, bisogna considerarla la migliore e la più felice alleanza sulla via del supremo bene naturale. 84 È un'unione, dico io, in cui risiedono tutti i beni che gli uomini considerano desiderabili: l'onore, la gloria, la serenità e la gioia interiore; se li possiedono la vita è felice, ma se non li hanno, non può esserlo. E siccome questo è il bene supremo, se vogliamo raggiungerlo dobbiamo consacrarci alla virtù, senza la quale non possiamo ottenere né l'amicizia né alcun bene desiderabile. Ma le persone che credono di avere degli amici pur calpestando la virtù, si accorgono alla fine di aver sbagliato, quando una grave circostanza li costringe a metterli alla prova. 85 Ecco perché, e non bisogna stancarsi di ripeterlo, prima devi giudicare, poi voler bene, e non il contrario. Scontiamo la nostra negligenza in molte circostanze, ma soprattutto quando scegliamo e coltiviamo le amicizie. Questo perché prendiamo le decisioni quando ormai è troppo tardi e, benché ce lo vieti un antico proverbio, tentiamo di cambiar l'ineluttabile. Ci facciamo strettamente vincolare agli altri o da una lunga relazione o anche dagli obblighi; poi, all'improvviso, sorge un ostacolo e sfasciamo l'amicizia, nel bel mezzo della navigazione. XXIII 86 A maggior ragione, quindi, dobbiamo condannare tale indifferenza nei confronti di una cosa estremamente necessaria. Di tutti i beni della vita umana l'amicizia è l'unico sulla cui utilità gli uomini siano unanimemente d'accordo. È vero che molti disprezzano la virtù e la considerano uno sfoggio, un'ostentazione; molti, che si accontentano di poco e amano un tenore di vita semplice, spregiano invece le ricchezze; e le cariche politiche, il desiderio delle quali infiamma alcuni, quanto sono numerosi quelli che le disprezzano, al punto da considerarle il culmine della vanità e della frivolezza! Allo stesso modo, quel che per gli uni è meraviglioso, per moltissimi non vale niente. Ma sull'amicizia tutti, dal primo all'ultimo, sono d'accordo, da chi fa della politica una ragione di vita a chi si 293
diletta di scienza e filosofia, da chi, al di fuori della vita pubblica, si occupa dei propri affari a chi, infine, si dà anima e corpo ai piaceri. Tutti sanno che la vita non è vita senza amicizia, se almeno in parte si vuole vivere da uomini liberi. 87 L'amicizia, infatti, si insinua, non so come, nella vita di tutti e non permette a nessuna esistenza di trascorrere senza di lei. Anzi, se un uomo fosse di indole tanto aspra e selvaggia da rifuggire da ogni contatto umano e da detestarlo - un certo Timone, ad Atene, dicono che fosse così -, non potrebbe tuttavia fare a meno di cercare qualcuno cui vomitare addosso il veleno della sua acredine. Giudicheremmo meglio un tale comportamento se ci capitasse una cosa del genere: un dio ci strappa dal consorzio umano e ci isola in qualche luogo; qui, fornendoci senza risparmio ogni cosa necessaria alla natura umana, ci priva completamente della possibilità di vedere un altro essere umano. Chi sarebbe così duro da sopportare una vita simile? A chi la solitudine non toglierebbe il frutto di ogni piacere? 88 Allora è vero quanto ripeteva, se non erro, Archita di Taranto (l'ho sentito ricordare dai nostri vecchi che, a loro volta, riportavano il racconto di altri vecchi): «Se un uomo salisse in cielo e contemplasse la natura dell'universo e la bellezza degli astri, la meraviglia di tale visione non gli darebbe la gioia più intensa, come dovrebbe, ma quasi un dispiacere, perché non avrebbe nessuno cui comunicarla.» Così la natura non ama affatto l'isolamento e cerca sempre di appoggiarsi, per così dire, a un sostegno, che è tanto più dolce quanto più caro è l'amico. XXIV È vero: la natura stessa ci dichiara con tanti segni cosa vuole, cosa ricerca ed esige, ma noi diventiamo sordi, chissà perché, e non diamo ascolto ai suoi avvertimenti. In realtà, i rapporti di amicizia sono vari e complessi e si presentano molti motivi di sospetto e di attrito; saperli ora evitare, ora attenuare, ora sopportare è indice di saggezza. Un motivo di risentimento in particolare non va inasprito, per poter conservare nell'amicizia vantaggi e lealtà: bisogna avvertire e rimproverare spesso gli amici e, con spirito amichevole, bisogna accettare da loro gli stessi rimproveri se sono ispirati dall'affetto. 89 Invece, chissà perché, ha ragione il mio amico Terenzio quando dice nell'Andria: L'ossequio genera amici, la verità odio. Sgradita verità, se produce odio, il veleno dell'amicizia, ma molto più sgradito l'ossequio, perché, indulgente verso le colpe, non impedisce all'amico di cadervi! Ma è soprattutto colpevole chi rinnega la verità facendosi trascinare in inganno dall'ossequio. In tutto ciò bisogna usare raziocinio e accortezza, in primo luogo perché il monito non suoni aspro, in secondo luogo perché il rimprovero non risulti offensivo; si accompagni poi all'«ossequio» - mi piace usare il termine terenziano - la gentilezza, senza però far ricorso all'adulazione, complice dei vizi, indegna non solo di un amico, ma anche di un uomo libero. Perché in un modo si vive con il tiranno, in un altro si vive con l'amico. 90 Se poi uno ha le orecchie chiuse alla verità e non può ascoltare dall'amico il vero, è il caso di disperare della sua salvezza. Acuto, come molti altri, è un detto di Catone: «Talvolta fanno del bene più i nemici irriducibili degli amici che sembrano compiacenti: i primi dicono spesso il vero, i secondi mai.» Ed ecco un'altra assurdità: chi è rimproverato non prova il dispiacere che dovrebbe provare, ma si dispiace per quello che invece non dovrebbe toccarlo: infatti non si addolora per aver sbagliato, ma si irrita di venir ripreso. Invece dovrebbe provare il contrario: dolore per la colpa e gioia per la correzione. XXV 91 Se, dunque, è 294
indice di vera amicizia ammonire ed essere ammoniti - e ammonire con sincerità, ma senza durezza, e accettare i rimproveri con pazienza, ma senza rancore -, allora dobbiamo ammettere che la peste più esiziale dell'amicizia è l'adulazione, la lusinga e il servilismo. Dàgli tutti i nomi che vuoi: sarà sempre un vizio da condannare, un vizio di chi è falso e bugiardo, di chi è sempre pronto a dire qualsiasi cosa per compiacere, ma la verità mai. 92 D'altronde, se la simulazione in ogni circostanza è un male, perché impedisce il giudizio del vero e lo adultera, allora è assolutamente incompatibile con l'amicizia. Cancella infatti la verità senza la quale non ha più senso la parola amicizia. Se infatti l'essenza dell'amicizia consiste, per così dire, nel fondere in una sola anima più anime, come sarà possibile se nemmeno nell'anima del singolo individuo ci sarà sempre unità e identità, ma diversità, mutevolezza e ambiguità? 93 Esiste qualcosa di tanto flessibile, di tanto sviato quanto l'anima di chi si trasforma non solo sulla base dell'umore e della volontà di un altro, ma anche della sua espressione o di un suo cenno? Se dice no, io dico no. Se dice sì, io dico sì. Insomma, mi sono imposto di esser sempre d'accordo, come afferma ancora Terenzio, ma per bocca di Gnatone. Avere un amico del genere è davvero indice di stoltezza! 94 Ma siccome molti sono gli Gnatoni, e spesso superiori per condizione sociale, fortuna e fama, la loro piaggeria è pericolosa, perché alla menzogna si aggiunge l'autorità. 95 Ma, stando bene attenti, è possibile distinguere e riconoscere l'amico adulatore dal vero amico, così come si riconosce ciò che è contraffatto e falso da ciò che è autentico e genuino. L'assemblea popolare, composta da persone molto ignoranti, è capace tuttavia di vedere, di solito, la differenza tra il demagogo, cioè il cittadino adulatore e infido, e il cittadino coerente, serio e ponderato. 96 Con quali lusinghe Caio Papirio cercava di insinuarsi nelle orecchie dell'assemblea popolare poco tempo fa, quando presentava il disegno di legge sulla rielezione dei tribuni della plebe! Ci siamo opposti alla sua proposta. Ma non è di me, è di Scipione che preferisco parlare. Dèi immortali, che solennità, che maestà risuonò nelle sue parole! Non avresti esitato a chiamarlo guida del popolo romano, non semplice cittadino! Ma eravate presenti ed è in circolazione il suo discorso. Così, una legge di ispirazione popolare è stata respinta dai voti dei popolo. E, per ritornare a me, vi ricordate senz'altro di quanto apparisse popolare la legge sui sacerdozi presentata da Caio Licinio Crasso nell'anno del consolato di Quinto Massimo, fratello di Scipione, e di Lucio Mancino! L'elezione dei membri dei collegi sacerdotali veniva trasferita al popolo. E fu lui il primo a parlare al popolo con la faccia rivolta al foro. Nonostante ciò, il rispetto degli dèi immortali, da me difeso, sconfisse senza difficoltà il suo discorso demagogico. L'episodio risale alla mia pretura, cinque anni prima del mio consolato. Così, fu il suo significato intrinseco la migliore difesa di quella causa, e non la suprema autorità del suo oratore. XXVI 97 Se, dunque, in quel teatro che è l'assemblea popolare, dove finzioni e apparenze giocano un ruolo di primo piano, il vero comunque prevale, purché sia svelato e messo nella giusta luce, che cosa deve accadere nell'amicizia, che si misura tutta sul metro della verità? Se nell'amicizia non vedessi, come si dice, che l'amico ti apre il suo cuore e tu gli mostri il tuo, non avresti nulla di cui fidarti, nulla di cui esser certo, neppure di amare e di essere 295
amato, perché non sapresti quanto ci sia di vero in tutto ciò. Del resto l'adulazione, per quanto sia pericolosa, nuoce soltanto a chi l'ammette e se ne compiace. Ecco perché è proprio l'uomo pieno di sé e tutto preso dalla propria persona a spalancare le orecchie agli adulatori. 98 Certo, la virtù ama se stessa: si conosce alla perfezione e sa quanto sia amabile. Però, non mi sto riferendo alla virtù, ma all'apparenza di virtù. La maggior parte degli uomini, infatti, preferisce l'apparenza di virtù al reale possesso della stessa. E sono loro a compiacersi dell'adulazione: quando ci si rivolge a queste persone con parole dette ad arte per rispondere alle loro aspettative, vedono in quel vano discorso un'attestazione dei loro meriti. Perciò non esiste amicizia tra due uomini quando uno non vuole sentire il vero e l'altro è pronto a mentire. L'adulazione dei parassiti non risulterebbe comica, nelle commedie, se non ci fossero i soldati fanfaroni: Davvero Taide mi manda mille grazie? Bastava rispondere: «Sì, mille grazie.» Invece dice: «Milioni di grazie!». L'adulatore aumenta sempre, per compiacere, quei «molto» che l'altro vuol sentirsi dire. 99 Perciò, anche se le menzogne dettate dall'ossequio funzionano su chi le attira a sé e le provoca, bisogna ugualmente avvertire le persone serie e coerenti a non diventare vittime di un'adulazione ben congegnata. Tutti, tranne il perfetto imbecille, riconoscono l'adulatore smaccato. Ma è da quello astuto e coperto che dobbiamo guardarci perché non si insinui in noi. Non è molto facile riconoscerlo. Spesso, infatti, adula anche contraddicendo: per compiacere finge di litigare, ma alla fine si arrende, si dà per vinto regalando all'altro l'illusione, con l'inganno, di esser stato più intelligente di lui. Cosa c'è di più vergognoso che farsi ingannare? A maggior ragione dobbiamo evitare che accada. Come mi hai raggirato e menato ben bene per il naso, oggi, più di tutti gli stupidi vecchi delle commedie! 100 Anche a teatro il personaggio più stupido è quello dei vecchio sprovveduto e credulone. Non so come, ma il discorso è scivolato dalle amicizie tra uomini perfetti, cioè saggi ( mi riferisco alla saggezza che sembra accessibile all'uomo), alle amicizie di poco conto. Ritorniamo allora al punto di partenza e cerchiamo di concludere. XXVII È la virtù, sì è la virtù, o Caio Fannio e tu, mio Quinto Mucio, a procurare e a conservare le amicizie. In essa c'è armonia, stabilità e coerenza. Quando sorge e mostra la sua luce, quando vede e riconosce la stessa luce in altri, vi si avvicina per ricevere, a sua volta, la luce che brilla nell'altro. Si accende così l'amore, o l'amicizia (entrambi i termini derivano infatti da amare). E amare altro non è che provare per chi si ama un affetto fine a se stesso, indipendente dal bisogno e dalla ricerca di vantaggi. I vantaggi, tuttavia, sbocciano dall'amicizia, anche se non sei andato a cercarli. 101 È l'affetto con cui abbiamo amato, da giovani, i vecchi di allora, Lucio Paolo, Marco Catone, Caio Galo, Publio Nasica, Tiberio Gracco, suocero del nostro Scipione. È l'affetto che rifulge più vivo tra noi coetanei, come tra me e Scipione, Lucio Furio, Publio Rupilio e Spurio Mummio. E adesso, a nostra volta, ormai vecchi, troviamo sollievo nell'affetto per i giovani, come voi e come Quinto Tuberone. Dal canto mio, mi compiaccio molto anche dell'amicizia con i 296
giovani Publio Rutilio e Aulo Verginio. E poiché la legge della vita e della natura vuole che a una generazione ne segua un'altra, dobbiamo augurarci sopra ogni cosa di poter arrivare, come si dice, al traguardo insieme ai coetanei con cui ci siamo mossi dalla linea di partenza. 102 Ma dal momento che la fragilità e la caducità sono componenti della vita umana, dobbiamo sempre cercare persone a cui dare amore e da cui riceverne: senza amore e affetto la vita perde ogni gioia. Per me Scipione, anche se mi è stato strappato all'improvviso, vive ancora e sempre vivrà, perché ho amato in questo uomo eccezionale la virtù, che non si è spenta. Non sono l'unico a conservarne il ricordo, io che l'ho sempre avuta a portata di mano; anche per i posteri sarà un luminoso punto di riferimento. Nessuno potrà concepire ideali e speranze un po' elevate se non assumerà come modello il ricordo e l'immagine di lui. 103 Quanto a me, di tutti i beni ricevuti dalla sorte o dalla natura, nessuno è paragonabile all'amicizia di Scipione. In essa ho trovato un perfetto accordo di vedute politiche, consigli negli affari privati e una piacevolissima tranquillità. Non mi sono mai scontrato con lui, per quanto me ne sia accorto, neppure nelle minime cose; non ho mai sentito da lui una parola che non avessi voluto udire. Avevamo la stessa casa, lo stesso tenore di vita, e questo ci univa; eravamo sempre insieme non solo sotto le armi, ma anche in viaggio o in campagna. 104 E che dire della nostra passione di conoscere e di scoprire sempre qualcosa di nuovo, passione che ci allontanava dagli occhi della gente e divorava tutto il nostro tempo libero? Se il ricordo, se la memoria di quei tempi fossero scomparsi con lui, non potrei in alcun modo sopportare la perdita di un uomo che mi era così legato, che mi amava tanto. Ma il passato non è morto. Anzi, si alimenta ed è reso più vivo dal mio pensiero e dal mio ricordo, e, anche se ne fossi interamente privato, l'età mi garantirebbe ugualmente un grande conforto. Ormai non posso vivere ancora per molto con il mio rimpianto. Tutto ciò che è breve, del resto, anche se molto doloroso, è sopportabile. Ecco cosa avevo da dire sull'amicizia. Vi esorto dunque a collocare tanto in alto la virtù, senza la quale l'amicizia non può esistere, da pensare che nulla è più nobile dell'amicizia, eccetto la virtù.
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Commentariolum petitionis Piccolo manuale di campagna elettorale
Traduzione di Vittorio Todisco
Quinto saluta il fratello Marco I.1. Benché tu sia sufficientemente dotato di tutto ciò che gli uomini possono raggiungere con il loro talento o con l'esperienza o con l'applicazione costante, tuttavia, in nome del nostro affetto, non ho ritenuto fuori luogo scriverti quanto mi veniva in mente, pensando giorno e notte alla tua candidatura. Non pretendo che tu vi tragga qualche nuovo insegnamento, ma ho ritenuto opportuno presentarti in uno sguardo d'insieme ed in un'organica sistemazione delle idee che, in realtà, apparivano sparse ed confuse. Benché la natura eserciti una forza notevole, sembra tuttavia che, in una questione della durata di pochi mesi, essa possa cedere il passo a qualche artificio particolare. 2. Considera quale sia la tua città, che cosa tu richiedi, chi tu sia. Quasi ogni giorno, percorrendo la strada che porta al foro, devi riflettere su questo: 'Sono un uomo nuovo, aspiro al consolato, si tratta di Roma'. Alla novità del nome potrai dare un sostegno soprattutto con la tua fama di oratore; l'eloquenza ha sempre riscosso una grandissima considerazione: non può essere ritenuto indegno del consolato chi è ritenuto degno patrocinatore di uomini consolari. Perciò, dal momento che prendi le mosse da questa fama, e tutto ciò che sei lo devi all'eloquenza, presentati a parlare con una preparazione tale, come se in ogni causa si dovesse dare un giudizio complessivo sul tuo ingegno. 3. Preoccupati che siano sempre pronti e a portata di mano tutti i trucchi del mestiere favorevoli a quest'arte, che, lo so bene, tu tieni in serbo; ricordati sempre quanto scrisse Demetrio sull'applicazione e sul modo di esercitarsi di Demostene. In secondo luogo, accertati che sia ben chiaro il gran numero dei tuoi amici e la classe a cui appartengono, poiché tu hai dalla tua parte ciò che nessun uomo nuovo ha mai avuto: tutti i pubblicani, quasi tutto l'ordine equestre, molti municipi a te devoti, molti uomini di tutti gli ordini da te difesi, un certo numero di collegi, e infine parecchi giovani, il cui appoggio ti è assicurato dall'interesse per l'eloquenza, amici che ogni giorno ti stanno vicini numerosi. 4. Cerca di mantenere questi vantaggi ricordando e facendo capire con preghiere e con ogni mezzo, a quanti ti devono riconoscenza, che non avranno più altra occasione di provartela, a quanti la desiderano, che non vi sarà per loro altra occasione di renderti obbligato ad essi. C'è anche un altro motivo che sembra possa essere di grande aiuto ad un uomo nuovo, il consenso dei nobili e soprattutto dei consolari; è utile che quelle stesse persone, al cui rango ed alla cui classe tu ambisci pervenire, ti ritengano degno di quel rango e di quella classe. 299
5. Bisognerebbe pregarli tutti con discrezione, inviare loro persone e persuaderli che noi abbiamo sempre nutrito nei confronti dello Stato gli stessi sentimenti degli ottimati, e non siamo mai stati favorevoli alla classe popolare; che, se sembra che noi abbiamo parlato in modo affine ai rappresentanti della classe popolare, l'abbiamo fatto con l'intento di attrarre a noi Gneo Pompeo, al fine di avere quell'uomo assai potente come amico nella candidatura. o almeno non ostile. 6. Oltre a ciò fai di tutto per attrarre dalla tua parte giovani della classe nobiliare, o per conservare quelli che già sono a te affezionati; essi ti procureranno molta considerazione. Tu ne hai moltissimi; fa' che essi sappiano quanto tu li ritieni importanti. Se riuscirai a far sì che desiderino sostenere la tua causa quanti non ti sono contrari, essi ti saranno di validissimo aiuto. II. 1. E' anche di grande vantaggio alla tua condizione di uomo nuovo il fatto che aspirino al consolato nobili di tal genere, e che non esiste nessuno, il quale osi affermare che la nobiltà debba loro giovare più che a te i meriti. Chi potrebbe pensare che aspirino al consolato Publio Galba e Lucio Cassio, uomini di nobilissima famiglia? Tu riesci a vedere dunque come non possano stare al tuo livello uomini di famiglie ragguardevolissime, per il fatto che sono privi di vigore. 2. Ma Antonio e Catilina sono avversari difficili: eppure un uomo attivo, solerte, integerrimo, buon parlatore, che gode credito presso i giudici, deve augurarsi come concorrenti due assassini fin dall'infanzia, due uomini dissoluti e caduti molto in basso. Del primo di loro noi abbiamo visto la confisca dei beni, e l'abbiamo poi udito giurare che egli a Roma non poteva competere da pari a pari in tribunale con un Greco; sappiamo che è stato cacciato dal Senato in seguito alla giusta valutazione di ottimi censori; l'abbiamo avuto come concorrente nella pretura, e suoi amici erano Sabidio e Pantera quando non possedeva più schiavi da far vendere (e tuttavia, nel periodo in cui esercitò la sua carica acquistò al mercato degli schiavi un'amante che teneva a casa sua, davanti agli occhi di tutti); in qualità di candidato al consolato preferì derubare tutti gli osti, nel corso di una vergognosa ambasceria piuttosto che restare a Roma ed implorare il popolo romano. 3. E qual è, o dèi buoni, la considerazione di cui gode l'altro? In primo luogo è nobile quanto Catilina. Forse lo è di più? No, è superiore soltanto per le sue doti. Per quale motivo? Perché Antonio è solito aver timore anche della sua ombra, questo invece non teme neppure le leggi, nato in un periodo di estrema povertà paterna, educato in mezzo agli stupri della sorella, indurito dall'eccidio di concittadini; il suo ingresso nella vita pubblica fu segnato dalla uccisione di cavalieri romani (poiché noi ci ricordiamo di quei Galli, che allora troncavano le teste dei Titinii, dei Nannii, dei Tanusii; Silla aveva messo loro a capo il solo Catilina); tra quelli egli uccise con le proprie mani un uomo assai onesto, Quinto Cecilio, marito di sua sorella, cavaliere romano, seguace di nessun partito, il quale se ne era stato sempre tranquillo per dote naturale e lo era allora anche per l'età. III. 1. E perché non potrei ora dire che aspira con te al consolato un uomo che, sotto lo sguardo del popolo romano ha battuto con le verghe, trascinandolo per tutta la città un persona assai cara al popolo romano, Marco Mario, lo ha condotto accanto ad un monumento funebre, straziandolo con ogni genere di supplizi e, mentre era vivo ed opponeva resistenza, l'ha decapitato con la sua destra, tenendolo per i capelli 300
con la sinistra. ed ha portato via la testa con la sua mano, mentre scorrevano tra le.sue dita rivoli. di sangue? Egli, che successivamente fu in tale comunanza di vita con istrioni e gladiatori da trovare nei primi compagni di lussuria, nei secondi complici di delitti; egli che non potè entrare in alcun luogo tanto sacro e venerabile, in cui, pur rimanendo assenti colpe altrui, la sua dissolutezza non lasciasse un sospetto di infamia; egli che si prese come intimi amici, nel Senato, i Curii e gli Annii, nelle sale di vendita i Sapala ed i Carvilii, nell'ordine equestre i Pompilii ed ì Vezzii; egli che è così audace e perverso, cosi abile infine e capace di raggiungere il proprio scopo nella lussuria da riuscire a far violenza ai figli vestiti di pretesta quasi fin nelle braccia dei loro genitori? Che bisogno c'è che io ti scriva dell'Africa, delle parole dei testimoni. Sono cose ben note, e tu leggile più e più volte. Queste cose tuttavia non ritengo di dover passare sotto silenzio: in primo luogo il fatto che sia uscito da quel processo tanto povero, quanto alcuni dei suoi giudici prima del processo e, in secondo luogo, che sia divenuto talmente impopolare, che ogni giorno si chiede un altro processo contro di lui. E' tale la sua situazione che essi lo temono anche se è tranquillo, più che trascurarlo se è in fermento. 2. Quanto sono migliori le condizioni della tua candidatura, rispetto a quelle presentatesi, recentemente, ad un altro uomo nuovo, Gaio Celio! Egli aspirava al consolato assieme a due uomini che erano assai nobili, ma che avevano tutte qualità superiori alla stessa nobiltà: grandissima intelligenza, altissimo senso morale, innumerevoli benemerenze, estrema accortezza e scrupolo estremo nel condurre la campagna elettorale. E tuttavia Celio ebbe ragione di uno di loro, pur essendo molto inferiore per nascita e pur non superandolo quasi in nessun campo. 3. Perció tu, se metterai in azione i mezzi che ti elargiscono la tua disposizione naturale e gli studi che hai sempre praticato, se farai ciò che richiedono le circostanze attuali, ciò che puoi, ciò che devi, non avrai da sostenere una lotta difficile con quegli avversari, che sono più famosi per i loro vizi che per la loro origine illustre. Ed infatti si può trovare un cittadino tanto disonesto che voglia puntare, con un unico voto, due pugnali contro lo Stato? IV. 1. Dal momento che ho esposto i rimedi che tu hai e puoi avere per quanto concerne la novità del tuo nome, mi sembra che ora si debba parlare della importanza di ciò cui tu aspiri. Tu aspiri al consolato, carica di cui tutti ti giudicano degno; ma vi sono molti che nutrono invidia nei tuoi confronti poiché tu, appartenente alla classe dei cavalieri, aspiri alla massima carica dello Stato, ed è una carica così elevata che conferisce ad un uomo coraggioso, eloquente, onesto, molto più prestigio che ad altri. Non credere che quanti hanno rivestito questa carica non vedano il prestigio che tu avrai, una volta ottenutala anche tu. Per quanto riguarda poi quelli che sono di famiglia consolare, e non hanno raggiunto la carica dei loro antenati, io suppongo che provino astio nei tuoi confronti, a meno che non ti vogliano molto bene. Sono convinto che anche gli uomini nuovi che hanno esercitato la pretura, tranne quanti ti sono legati per riconoscenza, non vogliano essere da te superati nella carriera consolare. 2. So con certezza che ti rendi conto di quante persone invidiose verso di te si trovino in mezzo al popolo, di quanti siano mal disposti verso gli uomini nuovi per le note vicende di questi anni; è inevitabile che ti sia attirato il rancore di parecchi con le cause da te trattate. Rifletti infine attentamente se tu ritenga che l'impegno con 301
cui ti sei dedicato ad accrescere la gloria di Gneo Pompeo, ti abbia procurato inimicizia. 3. Pertanto, dal momento che aspiri alla massima carica statale e vedi che esistono degli interessi a te contrari, devi necessariamente usare ogni attenzione, vigilanza, impegno scrupoloso. V. 1. L'aspirazione alle cariche civili comporta due tipi d'attività; l'uno consiste nell'assicurarsi la benevolenza degli amici, l'altro nell'assicurarsi il favore popolare. Bisogna che la buona propensione degli amici sia originata da benemerenze, da sentimenti di stima, da antichità di rapporti, da affabilità ed amabilità di carattere. Ma il nome di amici, quando si è candidati, ha un valore più ampio che nel resto della vita. Infatti, chiunque mostri una qualche simpatia nei tuoi confronti, chiunque ti ossequi, o venga spesso a casa tua, deve essere posto nel novero degli amici; tuttavia è un grandissimo vantaggio l'esser cari e graditi a quanti ci sono amici per motivi più autentici di parentela, o di affinità, o di associazione, o di qualche altro legame. 2. Successivamente, quanto più un uomo ti è intimamente legato e più è di casa, tanto più bisogna che tu ti adoperi anzitutto perché egli ti voglia bene e desideri che tu raggiunga le più alte cariche; e poi perchè lo facciano quelli della tua tribù, i tuoi vicini, i tuoi clienti, i tuoi liberti ed infine anche i tuoi schiavi. Infatti generalmente tutto quanto costituisce la nostra pubblica stima deriva dai nostri familiari. 3. Poi bisogna crearsi amici di ogni tipo: per l'apparenza, uomini illustri per cariche e per nome, i quali, anche se non si danno premura di raccomandare il candidato, gli conferiscono tuttavia un certo decoro; per avere l'appoggio della legge, magistrati, e tra essi prin cipalmente i consoli e poi i tribuni della plebe; per ottenere il voto delle centurie, uomini che godono di un favore considerevole. Quanti hanno o sperano di avere per merito tuo i voti di una tribù, o di una centuria, o un qualche favore, tu devi in modo particolare accaparrarteli e tenerteli vicini. Durante questi anni, infatti, uomini avidi di onori si sono dati da fare con tutte le loro forze per ottenere dai cittadini della loro tribù tutto ciò che essi chiedevano. Cerca, con tutti i mezzi possibili, che questi uomini ti siano affezionati con tutto il loro animo e con la massima sincerità. 4. Chè se gli uomini fossero sufficientemente riconoscenti, tutto ciò dovrebbe essere per te a portata di mano, come io confido che lo sia. Infatti in questi due anni ti sei legato a quattro associazioni. di cui fanno parte uomini assai influenti nell'ambito elettorale, Gaio Pundanio, Quinto Gallio, Gaio Cornelio, Gaio Archivio. Quali condizioni i rappresentanti delle loro associazioni abbiano accettato e sottoscritto nell'affidarti la causa di questi personaggi, io le conosco, essendomi trovato presente. Pertanto tu devi adoperarti per esigere presentemente da loro ciò di cui ti sono debitori, ammonendoli, pregandoli, incoraggiandoli, facendo in modo che capiscano che non avranno più un'altra occasione di dimostrarti la loro gratitudine. Indubbiamente la speranza di altri servigi da parte tua, unita ai favori che di recente hai loro accordato, sarà loro di stimolo a dedicarsi a te con zelo. 5. E poiché indubbiamente rappresentano il massimo sostegno della tua candidatura le amicizie di tal genere, che tu ti sei procurato patrocinando cause, fa' in modo che a ciascuno di coloro che ti sono obbligati sia assegnato un compito preciso e ben 302
definito. E, come tu non hai mai dato loro fastidio in alcuna occasione, così procura che comprendano come tu abbia riservato per questa occasione tutto quello che, secondo te, essi ti debbono. VI. 1. Ma poiché tre cose in modo particolare conducono gli uomini alla benevolenza ed a questo interessamento elettorale, i benefici, la speranza, la simpatia disinteressata, occorre considerare in qual modo sia necessario curare ognuno di questi tre aspetti. Gli uomini sono indotti, anche da benefici di pochissimo valore, a ritenere che ci sia motivo sufficiente per sostenere un candidato; a maggior ragione quanti tu hai salvato - e sono moltissimi - dovrebbero capire che, se essi non verranno incontro alle tue esigenze in una simile circostanza, non saranno mai ben visti da altre persone. Stando così le cose, bisogna tuttavia esercitare opera di convinzione e portarli a pensare che noi, a nostra volta, possiamo divenire obbligati nei confronti di coloro che fino ad oggi lo sono stati verso di noi. 2. Per quanto riguarda quelli che sono a te legati dalla speranza, ed è un tipo di uomini ancor più zelante e servizievole, fa' in modo che il tuo appoggio sembri a loro completa disposizione, e fa' loro comprendere che tu consideri attentamente i loro servigi; fa' che sia palese il fatto che tu vedi perfettamente e tieni nella dovuta considerazione quanto ti venga da ciascuno. 3. Il terzo genere di zelo elettorale, è la simpatia spontanea, e sarà opportuno rafforzarla dimostrandoti riconoscente, adattando i tuoi discorsi alle ragioni che sembreranno conciliarti la simpatia di ognuno, manifestando sentimenti del tutto corrispondenti ai loro, facendo loro sperare che l'amicizia possa divenire un'intima consuetudine. E, relativamente a tutti questi generi, tu dovrai giudicare e valutare accuratamente le possibilità di ognuno, in modo da sapere come tu possa venire incontro a ciascuno, e quanto devi attenderti da ciascuno e da ciascuno pretendere. 4. Vi sono effettivamente taluni uomini influenti nei loro quartieri e nei loro municipi. Vi sono uomini attivi e largamente dotati, i quali, anche se in passato non si sono curati di essere elettoralmente influenti, possono tuttavia facilmente darsi da fare all'improvviso in favore di una persona verso cui siano in debito o a cui vogliano essere graditi. Occorre dedicare attenzione agli uomini di tal genere in modo che essi capiscano che tu vedi ciò che puoi attenderti da ognuno di loro, che ti rendi conto di ciò che ricevi, che ti ricordi di ciò che hai ricevuto. Ma vi sono altri che non hanno alcun potere, o sono odiosi persino ai compagni di tribù, nè hanno vigore e mezzi tali da adoperarsi senza preparazione per una campagna elettorale. Vedi di tenerli d'occhio, in modo che, una volta riposta una speranza troppo grande in qualcuno di loro, non ne derivi uno scarso aiuto. VII. 1. E benchè sia necessario fidarsi e farsi scudo di amicizie solidamente acquisite, tuttavia nella stessa campagna elettorale si ottengono numerosissime e utilissime amicizie. Infatti, tra i vari fastidi, una candidatura offre tuttavia questo vantaggio: tu potrai, cosa che non ti sarebbe consentita nel resto dell'esistenza, onestamente ammettere gli uomini che tu vuoi alla tua amicizia, mentre se in altre circostanze tu cercherai di farteli amici, sembrerai agire dissennatamente; se invece non lo facessi con molti e con accortezza in una campagna elettorale, non sembreresti assolutanente un candidato. 303
2. Io poi ti dico questo, che non esiste persona (tranne che tu non abbia qualche legame con i tuoi rivali, da cui non possa ottenere con facilità, se te ne preoccuperai), la quale, rendendoti servigi si meriti la tua amicizia e la tua gratitudine; questo purché capisca che tu la tieni in gran conto, che ti comporti sinceramente, che ha fatto un buon affare, che nascerà di lì un'amicizia non breve ed elettorale, ma stabile e duratura. 3. Non vi sarà uomo, credimi, purché abbia un minimo di buonsenso, capace di trascurare l'occasione che gli si offre di stabilire vincoli di amicizia con te; e questo in particolar modo poiché il caso ha posto come tuoi concorrenti uomini la cui amicizia deve essere disprezzata o evitata, e che non possono non soltanto mettere in pratica, ma neppure iniziare quanto io ti consiglio. 4. Ed infatti, come potrebbe Antonio spingersi fino ad associarsi con uomini e ad attrarre nella propria amicizia persone che egli non riesce a chiamare con il loro nome? In realtà io ritengo che nulla sia più stolto del pensare che ci sia devoto un uomo che non si conosce. Deve possedere necessariamente una fama e un prestigio straordinari, oltre a rinomanza di imprese, un candidato che sia innalzato agli onori da sconosciuti, senza che nessuno richieda i loro voti; ma non può accadere, senza che ci si renda colpevoli di una grande negligenza, che un uomo disonesto, apatico, privo del senso del dovere, senza talento, senza buona reputazione, senza amici, superi un uomo circondato dalla devozione dei più e dalla stima di tutti. VIII. 1. Procura perciò che ti sia assicurato, con molte e svariate amicizie, l'appoggio di tutte le centurie. Ed in primo luogo, cosa evidente, tu devi darti cura dei senatori e dei cavalieri romani e, per quanto riguarda tutti gli altri ordini, delle persone attive ed influenti. Molti cittadini sono capaci di darsi da fare, molti affrancati hanno influenza nel foro e possono aiutarti attivamente. Quelli che tu potrai raggiungere sia da solo sia per mezzo di amici comuni, fa' sì , con la massima attenzione, che diventino tuoi accaniti sostenitori, va' da loro, invia loro dei messi, mostra loro che i servigi che ti accordano sono di grandissimo valore. 2. In seguito interessati dell'intera città, di tutti i collegi, dei distretti, dei quartieri; se saprai accattivarti l'amicizia dei loro principali rappresentanti, potrai, tramite loro, conquistare con facilità la massa restante. Poi cerca di tenere l'intera Italia, divisa tribù per tribù, presente nel tuo animo e nella tua memoria, in modo da non permettere che esista un municipio, una colonia, una prefettura, un luogo infine dell'Italia in cui tu non abbia un appoggio sufficiente; 3. ricerca e scopri uomini in ogni regione, conoscili, va' a trovarli, assicurati la loro fedeltà, preoccupati che ti appoggino nella campagna elettorale presso quanti sono loro vicini, e siano quasi candidati per tuo conto. Essi desidereranno la tua amicizia se vedranno che tu desideri la loro; riuscirai a far capire loro questo, tenendo un linguaggio adeguato. Gli abitanti dei municipi e della campagna ritengono di esser nostri amici pur essendoci noti solo di nome; ma se ritengono di crearsi anche una qualche difesa, non perdono l'occasione di acquistar merito. Gli altri candidati, e specialmente i tuoi concorrenti, non 1i conoscono neppure; tu invece non li ignori e facilmente li conoscerai: condizione indispensabíle per 1'amicizia.
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4. Né ciò è sufficiente, pur essendo importante, se non ne consegue la speranza di un'amicizia che rechi vantaggi, affinché tu non appaia soltanto un semplice schiavo nomenclatore, ma anche un buon amico. Così, quando avrai ottenuto l'appoggio nelle centurie di questi stessi, che per la loro ambizione hanno acquistato una grande influenza presso i cittadini della loro tribù, e quando ti sarai assicurato la simpatia degli altri, che hanno un qualche potere su una parte della loro tribù a causa della loro posizione nel municipio, nel quartiere o nel collegio, dovrai nutrire la massima speranza. 5. Mi sembra che si possa molto più facilmente avere l'appoggio delle centurie dei cavalieri prendendosene cura. In primo luogo è necessario che si conoscano i cavalieri (perché essi sono pochi), in secondo luogo che si faccia loro visita (infatti la loro età gìovanile li fa molto più facilmente unire con i vincoli dell'amicizia); hai poi con te, tra i giovani, tutti i migliori e tutti quelli che nutrono più passione per la cultura. Inoltre, poichè tu appartieni all'ordine equestre, essi seguiranno la volontà del loro ordine, se tu avrai cura di basare l'attaccamento di quelle centurie non solo sulla propensione favorevole dell'ordine equestre, ma anche su amicizie particolari. Lo zelo dei giovani nel procurar voti, nel far visita agli elettori, nel portare in giro le notizie, nell'accompagnare il candidato, è grande ed anche motivo di orgoglio straordinario. IX. 1.E poiché ho parlato di accompagnamento, anche di questo devi preoccuparti, cioè di avere ogni giorno un seguito di ogni categoria, di ogni ordine, di ogni età; infatti proprio da quella affluenza si potrà congetturare la quantità delle tue forze e dei tuoi mezzi nel Campo Marzio. Da questo punto di vista vi sono tre tipi di persone: quelli che vengono a salutarvi quando vengono a casa vostra, quelli che vi accompagnano al foro, quelli che vi scortano ovunque. 2. Tra i primi, per quanto riguarda quelli che sono maggiormente a disposizione di tutti e, secondo le usanze d'oggi, vanno ad ossequiare píù d'una persona, tu devi fare in modo che questo loro atto di deferenza, per quanto piccolo esso sia, sembri a te assai gradito. Per quanto riguarda quelli che verranno a casa tua, fa' loro capire che tu te ne accorgi; mostralo ai loro amici, perché lo riferiscano, dillo spesso a loro stessi. Così di frequente accade che questi uomini, quando vanno a visitare parecchi concorrenti, e vedono che ce n'è uno che apprezza in modo particolare le dimostrazioni di omaggio, si affidano a lui, abbandonando gli altri, e, passando a poco a poco da clienti di tutti a clienti di un'unica persona, diventano votanti non più incerti, ma sicuri. Devi poi prestare una particolare attenzione, se hai sentito dire, o ti sei accorto che colui che ti ha promesso il voto fa il doppio giuoco, a fingere che tu non l'abbia udito o ne sia a conoscenza; se qualcuno, ritenendosi sospetto, vuole giustificarsi, afferma che tu non hai mai dubitato dei suoi sentlmenti, né c'è motivo che ne dubiti. Chi pensa che non si è soddisfatti di lui non può essere in alcun modo un amico. Ma è necessario che tu conosca le intenzioni di ciascuno, perché tu sia in grado di stabilire quanta fiducia possa riporre in ciascuno. 3. L'omaggio di coloro che accompagnano è maggiore dell'omaggio di quelli che vengono a salutare; fa' capire e dimostra che esso ti è più gradito, e per quanto ti sarà consentito, scendi al foro ad ore fisse. L'avere ogni giorno un numeroso accompagnamento, quando scende al foro procura al candidato grande reputazione e grande rispetto. 305
4. La terza categoria è quella delle persone che accompagnano i candidati continuamente. Procura che quanti di loro lo fanno volontariamente capiscano che tu ti senti per sempre obbligato per il loro grandissimo servigio; per quanto riguarda quelli che hanno un debito nei tuoi confronti, esigi chiaramente da loro se l'età e gli affari glielo consentiranno, che stiano assiduamente con te; e se alcuni non potranno accompagnarti, che affidino questo incarico a loro parenti. Io desidero vivamente, e lo ritengo di importanza essenziale, che tu sia sempre circondato di persone. 5. E' fonte inoltre di grande reputazione e di grandissima stima l'avere accanto a te quanti tu hai difeso, salvato e liberato nei processi. Dal momento che, senza spese per merito tuo, alcuni hanno mantenuto le sostanze, altri l'onorabilità, altri la loro vita e tutti i loro beni, né si presenterà un'altra circostanza in cui essi potranno dimostrarti la loro gratitudine, chiedi loro con chiarezza che ti ricompensino con questo servigio. X. 1.Poiché questo mio discorso si svolge completamente intorno alla devozione deglí amici, non mi sembra di dover tralasciare quanto in una tale questione richiede cautela: ovunque si trovano inganni, tranelli, perfidia. Qui è fuori luogo l'eterna discussione sugli indizi che permettono di distinguere l'amico affettuoso ed il falso amico; basta qui soltanto metterti in guardia. I tuoi grandissimi meriti hanno spinto uomini a fingere di esserti amici e nello stesso tempo a provare invidia nei tuoi confronti. Ricordati perciò di quel ben noto detto di Epicarmo, che i nervi e le articolazioni della saggezza consistono nel non fidarsi alla leggera e, dopo esserti assicurato l'interessamento dei tuoi amici, chiedi anche notizie delle ragioni e delle caratteristiche dei calunniatori e degli avversari. 2. Ne esistono tre tipi: Il primo, costituito da quelli che tu hai danneggiato, il secondo, da quelli che non ti sono amici senza motivo, il terzo, da quelli che sono intimi amici degli altri concorrenti. Per quanto riguarda quelli che hai danneggiato pronunciando un'orazione contro di loro per difendere un amico, scusati con loro chiaramente. Ricorda gli obblighi dell'amicizia, portali a sperare che tu ti occuperai con uguale zelo servizievole dei loro affari, se ti diverranno amici. Per quanto concerne quelli che non ti sono amici senza motivo, procura di allontanarli da quel loro deprecabíle comportamento rendendo loro servigi, o infondendo loro speranza di servigi o manifestando il tuo interessamento nel loro confronti. Per quanto riguarda quelli che hanno una certa avversione nei tuoi confronti a causa della loro amicizia con i tuoi avversari, cerca di accattivarteli con lo stesso metodo dei precedenti, e se potrai farlo credere, mostra di avere un atteggiamento benevolo nei confronti di quegli stessi tuoi avversari. XI. 1.Dal momento che ho parlato abbastanza sul modo di crearsi amicizie, occorre parlare dell'altro aspetto della campagna elettorale, che consiste nell'accattivarsi il favore popolare: esso esige che si conosca il nome degli elettori, che li si blandisca, che li si frequenti, che ci si comporti in modo benevolo nei loro confronti, che si divenga famosi, che la nostra attività sia svolta con magnificenza. 2. In primo luogo procura che sia a tutti evidente l'impegno che ti assumi di conoscere i cittadini, ed accrescilo e perfezionalo giorno per giorno; mi sembra che niente renda tanto popolari e tanto ben accetti. In secondo luogo imprimiti nella mente che, quanto non è in te per natura lo devi simulare, così che tu sembri farlo 306
naturalmente. Non ti manca l'affabilità, quella che si addice ad un uomo di carattere buono e dolce, ma in modo particolare ti è necessaria la lusinga, che, anche se nel resto della vita rappresenta un difetto vergognoso, è tuttavia indispensabile in una candidatura. In effetti essa è una colpa, quando adulando rende qualcuno peggiore, ma se lo rende più amico non deve esser tanto biasimata, ed è veramente inevitabile per un candidato, il cui atteggiamento, il cui volto ed il cui linguaggio devono essere mutevoli e devono adattarsi a tutti coloro che incontra. 3. Per quanto riguarda l'assiduità, non esistono precetti; la parola stessa dimostra in che cosa consista. E' certo di grande giovamento il non allontanarsi, tuttavia il vantaggio dell'assiduità non consiste soltanto nell'essere a Roma e nel foro, ma nel comportarsi assiduamente da candidato, nel rivolgersi di frequente alle stesse persone, nel non correre il rischio, per quanto lo si possa fare, che qualcuno possa dire di non essere stato pregato da te, e pregato con insistenza e cura. 4. La generosità, poi, ha un largo campo d'azione: si manifesta nell'uso del nostro patrimonio che, pur non potendo giungere fino alla massa, tuttavia, se è apprezzata dagli amici, riesce gradita alla massa; essa si manifesta nei banchetti, e procura di darli tu e di farli dare ai tuoi amici, sia per invitati presi qua e là che tribù per tribù; si manifesta anche nel modo di rendere servigi, che tu devi estendere a tutti rendendoli tutti partecipi. Procura anche che si possa accedere a te giorno e notte, e che siano aperte non solo le porte della tua casa, ma anche le porte del tuo animo, e cioè il volto e l'aspetto; se esse fanno vedere che il tuo animo si cela e si occulta, importa poco che sia spalancata la porta di casa: gli uomini infatti non desiderano soltanto che vengano fatto loro delle promesse, soprattutto rivolgendosi ad un candidato, ma che siano promesse generose ed onorevoli. 5. Pertanto ecco un precetto di facile attuazione: ciò che tu dovrai fare, dimostra che lo farai con zelo e di buon grado; un altro precetto è di più difficile attuazione, e più adatto alle circostanze che a1 tuo carattere: ciò che tu non puoi fare, rifiutalo in modo affabile oppure non lo rifiutare; la prima è una caratteristica di un uomo buono, la seconda di un buon candidato. Infatti quando ci è richiesto ciò che non possiamo promettere seguendo l'onestà o senza nostro danno (come se qualcuno ci pregasse di intraprendere un processo contro un nostro amico), bisogna dire di no cortesemente, dimostrando gli obblighi dell'amicizia, e quanto ci sia di peso il rifiutare, convincendo che si porrà riparo a ciò in altre circostanze. XII. 1.Io ho sentito uno raccontare, a proposito di certi oratori ai quali voleva affidare la sua causa, che gli era riuscito più gradito il discorso di chi gli aveva rifiutato il patrocinio, del discorso di chi l'aveva assunto. Così gli uomini si lasciano attrarre più dall'atteggiamento e dai discorsi che dalla realtà dello stesso beneficio. Ma questo precetto può ottenere la tua approvazione, l'altro è alquanto difficile farlo ammettere ad un Platonico quale tu sei; tuttavia provvederò a ciò che richiede la tua situazione. In effetti le persone, alle quali hai negato la tua assistenza per un qualche dovere di amicizia, possono tuttavia allontanarsi da te tranquille e serene; ma quelle a cui tu hai detto di no, dichiarando di essere impedito o dagli affari degli amici o da cause più importanti, o da cause assunte in precedenza, se ne vanno adirate, e tutte sono in una tale disposizione d'animo da preferire che tu dica il falso piuttosto che rifiutare la tua assistenza. 307
2. Gaio Cotta, un maestro nel brigare, era solito dire che egli prometteva a tutti i suoi servigì, purché non fossero contrari ai suoi doveri, e che li dedicava a quanti, secondo lui, lo potessero ricompensare nel modo migliore; egli per questo non diceva di no a nessuno, perché di frequente si presentava un motivo che impediva alla persona, alla quale aveva fatto una promessa, di approfittarne, di frequente accadeva che egli stesso fosse più libero di quanto pensasse. Diceva anche che non può avere la casa piena chi accetta soltanto quegli impegni che vede di poter attuare; che il caso può far sì che un affare su cui non contavamo risponda alla nostra aspettativa, e che un altro, che credevamo di avere nelle nostre mani, resti in sospeso per un qualche motivo; peraltro l'ultima cosa da temere è che si adiri la persona a cui si è mentito. 3. Questo rischio, se si fa una promessa, è incerto, lontano, limitato a pochi casi; se invece si dà un rifiuto, si possono creare con certezza inimicizie subito ed in gran numero; infatti sono molto più numerosi quanti chiedono di poter usufruire dei servigi altrui di quanti ne usufruiscono in realtà. E' pertanto preferibile che talvolta qualcuno di loro si adiri con te nel foro che tutti immediatamente dopo a casa tua, soprattutto perché ci si irrita molto di più con quanti oppongono un rifiuto, piuttosto che con un uomo chiaramente impedito da un motivo tale, che nondimeno desidera compiere quanto ha promesso, se ha una qualche possibilità di compierlo. 4. E perché non sembri che io abbia deviato dallo sviluppo degli argomenti, discutendo di ciò in una parte riservata al favore popolare nella campagna elettorale, io sono convinto che tutto ciò riguarda non tanto l'interesse degli amici, quanto la fama che si acquista presso il popolo; anche se qualche precetto si ricollega e quel genere di atteggiamento, come il rispondere amabilmente, il dedicarsi con zelo agli affari ed ai rischi degli amici, tuttavia io tratto a questo punto dei mezzi con cui poter attrarre la massa, perché la tua casa sia piena nel cuore della notte, perché molti siano a te attratti dalla speranza di un tuo aiuto, perché si allontanino da te più amici di quanti si sono avvicinati a te, perché le orecchie del massimo numero di persone siano colpite dagli elogi. XIII. 1.E' ora la volta di parlare dell'opinione pubblica, di cui bisogna preoccuparsi in massimo grado. Ma quanto ho detto nella parte precedente della mia esposizione vale anche a divulgare la tua reputazione: la fama nell'eloquenza, l'attaccamento dei pubblicani e dell'ordine equestre, la simpatia dei nobili, la continua presenza dei giovani, l'assiduità di quelli che tu hai difeso, la folla proveniente dai municipi di persone chiaramente venute per te, i cittadini che dicono e pensano che tu li conosca bene, che ti rivolgi loro amichevolmente, che richiedi assiduamente i loro suffragi, che sei benevolo e generoso; la casa piena nel cuore della notte, l'assidua presenza di cittadini di ogni classe, la soddisfazione di tutti per le tue parole, di molti per la tua attività pratica, la tua opera abile ed incessante, tendente ad ottenere, nei 1imiti del possibile, non che la tua reputazione giunga attraverso queste persone al popolo, ma che il popolo per conto suo nutra i loro stessi sentimenti nel tuoi confronti. 2. Già ti sei conquistata la massa degli elettori urbani e l'attaccamento di quelli che tengono le assemblee popolari. riempiendo di onori Pompeo, accettando la causa di Manilio, difendendo Cornelio; bisogna che noi destiamo quella popolarità che sinora non ha avuto nessuno, senza ottenere nello stesso tempo la simpatia dei pìù illustri personaggi. Bisogna anche fare in modo che tutti sappiano che Gneo Pompeo ti è 308
assai favorevole e che ha una grandissima importanza per la sua causa il conseguimento di quanto tu desideri. 3. Infine abbi cura che tutta la tua campagna elettorale si svolga splendidamente, che sia brillante, grandiosa, popolare, che abbia un aspetto ed un decoro straordinari, che anche, se è in qualche modo possibile, sorga nei confronti dei tuoi avversari un sospetto, appropriato al loro comportamento, o di colpa, o di lusso o di sperpero. 4. Ed in questa candidatura bisogna anche avere la massima preoccupazione che si nutrano buone speranze sulla tua politica ed un onorevole concetto della tua persona; e tuttavia, nella campagna elettorale, tu non devi intervenire negli affari dello Stato, né in Senato, né nell'assemblea, ma devi frenare questi disegni politici, perché il senato giudichi, sulla base del comportamento da te tenuto in passato, che tu difenderai la sua autorità, i cavalieri romani e gli uomini onesti e benestanti; dalla tua vita trascorsa, che difenderai il loro riposo e la loro tranquillità; la massa, poi, basandosi sul fatto che, limitatamente al discorsi, sei stato favorevole al popolo nelle assemblee ed in tribunale, che tu non sarai contrario ai suoi interessi. XIV. 1.E' questo ciò che mi viene in mente a proposito di quelle due meditazioni mattutine, che ti ho detto di fare ogni giorno scendendo al foro: 'Sono un uomo nuovo, aspiro al consolato. Resta la terza: 'Si tratta di Roma', una città formata dal concorso delle nazioni, una città piena di tranelli, di inganni, di vizi di ogni genere, nella quale bisogna sopportare l'insolenza, l'astio, la tracotanza, l'odio ed il fastidio di molti. Io mi rendo conto che occorrono molta saggezza e molta abilità, vivendo in mezzo a tanti e tali vizi di uomini di ogni tipo, per evitare l'odio, la calunnia, i tranelli, e per essere l'unico uomo adatto ad una tale diversità di costumi, di discorsi e di voleri. 2. Perciò continua senza sosta a percorrere la via su cui ti sei incamminato, la supremazia nell'eloquenza: è questo che concilia a Roma la simpatia degli uomini, che li attrae, che li distoglie dal frapporre ostacoli o dal procurare danni. E considerato che è questo il difetto maggiore della nostra città, la quale, mentre si fa strada la corruzione suole dimenticarsi delle sue virtù e del suo dignità, sforzati di conoscerti bene a questo proposito, cioè di capire che tu sei uomo tale da poter suscitare negli avversari un timore grandissimo di un processo e dei rischi che esso comporta. Fa' che essi sappiano che tu li sorvegli e li osservi; essi temeranno, oltre alla tua solerzia, oltre al tuo prestigio ed al vigore della tua parola, certamente anche l'attaccamento a te dell'ordine equestre. 3. Io non voglio che tu presenti ciò dinanzi ai loro occhi in modo che tu già dia l'impressione di preparare un'accusa, ma in modo da poter conseguire più facilmente lo scopo che ti prefiggi, servendoti di questo spauracchio. Adoperati veramente con tutto il tuo vigore e tutte le tue possibilità, perché riusciamo ad ottenere quello a cui aspiriamo. Io vedo che non esistono assemblee tanto infangate dalla corruzione, in cui alcune centurìe non votino gratuitamente per i candidati ai quali esse sono particolarmente legate. 4. Perciò, se dedichiamo alla questione l'attenzione che merita, se sappiamo suscitare il massimo impegno in quelli che ci sono affezionati, se riusciamo a distribuire dei compiti precisi tra gli uomini che ci appoggiano ed hanno influenza, se poniamo di 309
fronte agli occhi degli avversari la prospettiva di un processo, se incutiamo paura ai compratori di voti ed in qualche modo freniamo i distributori di doni, può accadere che non vi sia più corruzione o che essa non sia più tanto sfrenata. 5. Questo è quanto io ho creduto, non di sapere meglio di te, ma di potere con maggiore facilità, a causa dei tuoi impegni, riunire in un tutt'uno ed inviarti, dopo averlo messo per iscritto. Anche se ciò è stato scritto in modo tale da non valere per tutti quelli che aspirano ad una carriera prestigiosa, ma per te in particolare e per questa tua campagna elettorale, tuttavia, se ti sembrerà necessario cambiare qualche cosa o toglierla del tutto, o se troverai delle dimenticanze, vorrei che tu me lo dicessi; io mi auguro infatti che questo sia ritenuto un manualetto di campagna elettorale esemplare sotto tutti i punti di vista.
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LE LEGGI
LIBRO I I. [1] Attico: - Riconosco il bosco e questa quercia ben nota agli Arpinati, di cui spesso ho letto nel Mario. Se tale quercia è ancora in piedi, non può essere che questa; infatti è molto vecchia. Quinto: - Essa è ancora in piedi, mio caro Attico, e lo rimarrà sempre; perché è stata piantata dal genio. Infatti da nessuna cura di agricoltore può essere seminata una pianta tanto duratura quanto dal verso del poeta. Attico: - Ma sino a quando può durare, Quinto? O di quale natura è mai ciò che piantano i poeti? Infatti mi sembri, nel lodare tuo fratello, che tu stia facendo le lodi di te stesso. Quinto: - E sia pure così; tuttavia, finché potrà avere spazio la letteratura latina, questo luogo non sarà privo di una quercia che venga denominata Mariana, ed essa, come dice Scevola del Mario di mio fratello, [2]
"Per infiniti secoli diverrà canuta"
se è vero che la tua Atene potè conservare sull'Acropoli un olivo immortale, o se ancora oggi viene mostrata quella medesima palma, per il fatto che l'omerico Ulisse disse di averla vista in Delo, slanciata e giovane; e inoltre è noto che molti oggetti nel ricordo sopravvivono in molti luoghi più durevolmente di quanto non sarebbero potuti sussistere per natura. Per questa ragione quella "ghiandifera" quercia, dalla quale un tempo prese il volo "La messaggera fulva di Giove apparsagli in mirabile aspetto", può ora essere esattamente questa. Ma nonostante tempo e vecchiaia l'abbiano consumata, resterà in questi luoghi quella quercia, che chiameranno Mariana. [3] Attico: - Non ne dubito affatto; ma questo non lo chiedo a te uomo, Quinto, ma a te come poeta, se davvero i tuoi versi abbiano contribuito a piantare questa quercia, ovvero se tu abbia avuto notizia che ciò fu fatto da Mario, come è scritto. Marco: - Ti risponderò, Attico, ma non prima che tu mi abbia risposto se sia certo che, passeggiando non lontano dalla tua casa dopo la propria morte, Romolo abbia detto a Giulio Proculo di essere un dio e di chiamarsi Quirino e che abbia ordinato di dedicargli un tempio in quel luogo, e se sia vero che ad Atene, proprio lì, non lontano da quella tua vecchia casa, Aquilone abbia rapito Orizia; è questo che si racconta. [4] Attico: - Ma qual è il tuo obiettivo e perché mi fai questa domanda? Marco: - Per nessun altro fine se non perché tu non ti metta ad indagare con troppo impegno tradizioni di questo genere. 312
Attico: - Eppure di molti fatti nel Mario si domanda se siano reali o inventati, e da parte di parecchi ti si chiede la verità, dal momento che sei interessato ai fatti recenti e ad un personaggio di Arpino. Marco: - Per Ercole, io non vorrei essere considerato un bugiardo; eppure codesti "parecchi", mio Tito, si comportano da ingenui sprovveduti, pretendendo la verità in questo mio tentativo, non come se fossi un poeta, ma addirittura un testimone; e non dubito che questi stessi crederebbero che Numa avesse davvero dei colloqui con Egeria e che un'aquila abbia incoronato Tarquinio. [5] Quinto: - Capisco, fratello, che le leggi della poesia e quelle della storia tu le giudichi del tutto diverse. Marco: - Naturalmente, dal momento che in questa tutto si riconduce alla verità, ed in quella soprattutto al godimento dello spirito; per quanto anche in Erodoto, il padre della storia, ed in Teopompo vi siano numerose leggende. II. Attico: - Ecco qui l'occasione che non mi lascerò sfuggire. Marco: - Quale, Tito? Attico: - Già da tempo ti viene richiesta, o meglio si esige da te una storia. Si ritiene infatti che se tu la trattassi, probabilmente anche in questo genere non riusciremmo assolutamente inferiori alla Grecia. E perché tu sappia quale sia la mia opinione personale, mi sembra che questo tuo impegno risponderebbe non soltanto al desiderio di coloro che trovano godimento nei tuoi scritti, ma anche alla stessa patria, perché essa, che già da te fu salvata, grazie alla tua opera debba essere celebrata; manca infatti alla nostra letteratura la storia, come vedo bene da me e sento spessissimo dire da te. E tu senza dubbio sei in grado di soddisfarci in questo campo, dal momento che appunto essa, secondo il tuo pensiero, è l'unico genere di scrittura più congeniale all'oratoria. [6] Perciò, ti preghiamo, incomincia una buona volta e dedica parte del tuo tempo ad un campo che dai nostri conterranei rimane fino ad oggi o ignorato o trascurato. Infatti se iniziamo dagli annali dei pontefici massimi, dei quali nulla si potrebbe citare di più arido, veniamo a Fabio o a quel Catone, che hai sempre sulla bocca, o a Pisone, o a Fannio o a Vennonio, pur avendo costoro l'uno più vigore dell'altro, tuttavia cosa troveremmo di così modesto, come l'opera di tutti questi? Vicino poi all'epoca di Fannio, Antipatro vi mise un po' più di forza ed ebbe in verità una vitalità rozza ed aspra, pur in mancanza di quella chiarezza che deriva dall'esercizio; ciò tuttavia potè servire da incoraggiamento agli altri, perché scrivessero con più cura. Ecco poi tenergli dietro quei gradevoli scrittori come un Clodio o un Asellione, neppure paragonabili a Celio, ma piuttosto alla incertezza ed alla rozzezza, degli antichi. [7] A che scopo infatti dovrei citare, per esempio, Macro? La sua loquacità presenta qualche spunto di arguzia, non già derivante dalla colta facondia dei Greci, ma dai copisti latini, e nei pezzi oratori vi sono certamente molte qualità che fanno parte della lingua latina. Il suo amico Sisenna ha superato facilmente tutti i nostri scrittori almeno fino al giorno d'oggi, salvo forse quelli che non hanno ancora pubblicato nulla e dei quali non possiamo dare un giudizio. Ma costui mai è stato ricordato da 313
voi nella vostra famiglia come oratore, e nella storia egli si compiace di banalità tali da sembrare che egli abbia letto soltanto Clitarco e, al di fuori di lui, nessuno dei Greci, e tuttavia pare voglia imitare esclusivamente quello; e se pur potesse raggiungerlo, credo, rimarrebbe sicuramente alquanto distante dalla sua perfezione. Per questo un tale compito spetta a te, lo si attende da te, a meno che Quinto non la pensi diversamente. III. [8] Quinto: - Per nulla, anzi abbiamo spesso parlato di questo argomento. Ma tra di noi c'è una piccola divergenza di vedute. Attico: - Quale? Quinto: -Da quale periodo incominciare la stesura della storia. Io penso dagli anni più lontani, dal momento che se ne è scritto in maniera tale da non invogliare nemmeno alla lettura; egli invece insiste sulla memoria dell'epoca a lui contemporanea, per abbracciare tutti quegli avvenimenti cui ha partecipato egli stesso personalmente. Attico: - Ed io darei ragione piuttosto a lui. In questa nostra epoca e nei nostri ricordi vi sono infatti degli eventi importantissimi; quindi egli potrà illustrare le glorie di Cn. Pompeo suo intimo amico e si incontrerà anche in quel*... proprio suo e memorabile anno; e preferirei che da lui fossero celebrati questi avvenimenti, anziché personaggi quali Romolo e Remo. Marco: - Riconosco, Attico, che già da tempo mi si richiede quest'impresa; ed io non la rifiuterei, se mi fosse concesso un pò di tempo libero e tranquillo; infatti non si può intraprendere un così grande lavoro quando si è occupati in un'altra attività o con la mente poco serena; vi sarebbe bisogno di ambedue: essere liberi da preoccupazioni e da impegni. [9] Attico: - Perché mai? Per tutto ciò che tu hai scritto in quantità maggiore in confronto a chiunque di noi, quale tempo libero ti fu concesso? Marco: - A me capitano certi ritagli di tempo, che io non permetto che vada sprecato, in modo che se mi rimane libero qualche giorno per andare in campagna, lo sfrutto nello stendere ciò che ho abbozzato. Ma un'opera storica non si può incominciare senza un tempo libero ben determinato, né può essere portata a termine in breve tempo; inoltre normalmente io mi trovo a disagio se devo spostarmi ogni volta che abbia messo mano a qualche cosa, né così facilmente riprendo i lavori interrotti come invece riesco a condurre a termine senza interruzioni quelli già sviluppati. [10] Attico: - Senza dubbio questo tuo impegno esigerebbe un qualche incarico ufficiale o un'analoga sorta di pausa che ti mettesse a disposizione del tempo libero. Marco: - Io pensavo piuttosto ad un esonero per motivi di età, tanto più che non mi rifiuterei, secondo il patrio costume, di starmene seduto in poltrona e dare consigli legali a quelli che mi interpellassero, e di assolvere così il compito gradito e dignitoso di una vecchiaia affatto inerte. Così io potrei dedicarmi in piena libertà sia a questo lavoro, che tu desideri, sia a molti altri di maggiore utilità ed importanza. 314
IV. [11] Attico: - Eppure temo che nessuno ti riconosca questa motivazione, e che tu dovrai sempre pronunziare arringhe, tanto più che hai operato un cambiamento adottando una nuova forma di oratoria; ed a quel modo che il tuo amico Roscio nella vecchiaia aveva moderato le armonie nelle sue cantate, ed aveva fatto rallentare il ritmo dei flauti, così tu ora di giorno in giorno stai moderando alquanto le tue discussioni, che invece eri solito sostenere con estrema vivacità, sicché ormai la tua eloquenza non è molto lontana dalla pacatezza dei filosofi; e poiché pare che una tensione tale possa essere sostenuta anche dalla vecchiaia più avanzata, mi è facile capire che non ti è concesso alcun disimpegno dalle cause. [12] Quinto: - Per Ercole, io pensavo che potessi riscuotere l'approvazione del nostro popolo se ti dedicassi alla consulenza legale. Ritengo quindi che dovresti metterti alla prova, quando ne avrai voglia. Marco: - Certamente, Quinto, se nel farne la prova non vi fossero inconvenienti; ma temo che, mentre vorrei diminuire i miei impegni, al contrario li aumenterei, e a quella trattazione delle cause, alla quale io non mi accingo mai se non dopo una attenta preparazione e meditazione, si aggiungerebbe questa interpretazione della legge, che non mi riuscirebbe tanto molesta per la fatica, quanto perché mi impedirebbe di pensare alle arringhe da pronunziare; non ho mai avuto la presunzione di presentarmi ad un processo di una certa importanza senza questa preparazione. [13] Attico: - E perché allora in questi ritagli di tempo non ci chiarisci tutto ciò, e non ti metti a scrivere di diritto civile con maggior profondità di quanto non abbiano fatto gli altri? Ricordo infatti che fin dalla prima giovinezza ti occupavi di diritto, quando anch'io frequentavo Scevola, né ho mai avuto l'impressione che tu ti fossi dato all'oratoria, al punto da disprezzare il diritto civile. Marco: - Mi inviti ad un lungo discorso, Attico; ma tuttavia lo affronterò, a meno che Quinto non preferisca che trattiamo qualche altra questione; e, considerato che non abbiamo altro da fare, ne parlerò. Quinto: - Io ti ascolterò ben volentieri; infatti che cosa potrei preferire di fare, o come potrei trascorrere meglio questa giornata? [14] Marco: - Perché allora non ci avviamo alla nostra passeggiata ed a quei sedili? In quel posto ci potremo riposare dopo aver passeggiato abbastanza, e non ci mancherà certo l'occasione di essere soddisfatti affrontando svariate questioni. Attico: - Noi siamo pienamente d'accordo, ed anzi da questa parte andiamo verso il Liri, se vi sta bene, lungo la riva ed all'ombra. Ma incomincia ora a spiegare, ti prego, il tuo pensiero sul diritto civile. Marco: - Devo farlo proprio io? Penso che già ci furono nella nostra città grandissimi uomini, che erano soliti spiegarlo al popolo e facevano i consulenti legali; ma essi, pur promettendo grandi cose, si occuparono di argomenti poco importanti. Che c'è infatti di così importante come il diritto pubblico? E che cosa tanto modesto come il compito di quelli che danno consulenze, anche se esso è necessario al pubblico? Io non credo affatto che quanti si segnalarono in tale professione siano stati ignoranti di diritto generale, ma si occuparono di quello, così 315
detto civile, entro i limiti in cui vollero fare cosa utile al popolo. E questo, per quanto concerne la dottrina, è un fatto di poco conto, sebbene necessario nella vita pratica. Perciò a che m'inviti o a che cosa mi esorti? A confezionare libercoli sugli stillicidi di acqua o sui diritti connessi ai muri? O che metta insieme formule di contratti e di sentenze? Tutte cose di cui molti hanno scritto diligentemente e che sono di portata minore rispetto a quelle che penso si debba attendere da noi. V. [15] Attico: - Eppure se tu mi chiedessi che cosa io mi aspetti, visto che tu già hai scritto della miglior forma di governo, mi sembra conseguente che tu debba ancora scrivere, cioè sulle leggi; cosi infatti vedo che fece quel tuo Platone, che tu ammiri, che poni davanti a tutti, che ami più d'ogni altro. Marco: - Allora tu vorresti che facessimo come quella persona in compagnia del cretese Clinia e lo spartano Megillo in un giorno d'estate, a quanto egli stesso scrive, il quale, soffermandosi spesso durante una passeggiata nel bosco fra i cipresseti di Cnosso, e di tanto in tanto sedendosi a riposare, discorreva delle istituzioni politiche e delle migliori legislazioni; e così noi, passeggiando fra questi altissimi pioppi su una riva verdeggiante ed ombrosa, e poi mettendoci anche a sedere, dovremmo ricercare intorno a questi medesimi argomenti qualcosa di più stimolante di quello che esige la pratica forense? [16] Attico: - Sono esattamente questi i temi che io desidero ascoltare. Marco: - E tu che ne dici, Quinto? Quinto: - A nessun altro tema sono interessato di più. Marco: - Ed è giusto che sia così. Infatti tenete bene in mente questo principio, che in nessun genere di discussione si può manifestare con maggiore evidenza che cosa sia stato attribuito all'uomo dalla natura, quanta abbondanza di ottime doti contenga l'animo umano, per assolvere e realizzare quale compito siamo nati e venuti alla luce, quale sia il legame tra gli uomini, quale la naturale associazione tra i medesimi. Una volta spiegati questi princìpi, si può ritrovare la fonte delle leggi e del diritto. [17] Attico: - Allora tu pensi che la dottrina giuridica non debba essere attinta dagli editti del pretore, come i più credono ora, né dalle dodici tavole, come i nostri antenati, ma dalle radici più profonde della filosofia? Marco: - Infatti in questa conversazione non indaghiamo questo, Pomponio, cioè delle cautele che dobbiamo prendere in una causa o della risposta che dobbiamo dare a ciascun quesito legale. Sia pure questa un'importante occupazione, come difatti lo è, che già un tempo fu praticata da molti autorevoli personaggi, ed ora da un solo personaggio è mantenuta con grande autorità e conoscenza di causa. Ma in questa discussione dovremo abbracciare nella sua interezza l'argomento del diritto generale e delle leggi, in modo che questo che chiamiamo diritto civile sia circoscritto in un ambito modesto e ben delimitato. Dobbiamo infatti spiegare la natura del diritto ed essa deve essere fatta derivare dalla natura umana, dobbiamo considerare le leggi con le quali si debbano governare gli Stati, e poi dobbiamo trattare di quelle leggi e di quegli ordinamenti dei popoli che sono stati codificati e distinti, e fra di essi non ci sfuggiranno certo quelli del nostro popolo, che sono chiamati diritti civili. 316
VI. [18] Quinto: - Tu riprendi proprio dall'alto e, com'è opportuno, fratello, dalla stessa sorgente, ciò che noi chiediamo; e quelli che insegnano diversamente il diritto civile, non insegnano tanto le vie della giustizia quanto quelle del litigare. Marco: - Non è così, Quinto; è fonte di liti piuttosto l'ignoranza del diritto anziché la sua conoscenza . Ma di ciò si discuterà in seguito; ora vediamo i fondamenti del diritto. Piacque dunque agli uomini più dotti nella materia di partire dalla legge, non so se con buone ragioni, a condizione che, secondo la loro stessa definizione, la legge consista nella norma suprema insita nella natura, la quale ordina ciò che si deve fare, e proibisce il contrario. Questa norma medesima, quando è resa certa, ed impressa nella mente umana, è la legge. [19] Pertanto questi giudicano che legge sia la saggezza, la cui forza è che essa comanda di agire rettamente, vieta di commettere colpa, e ritengono che essa, in base al suo nome greco, sia stata chiamata dall'attribuire a ciascuno il suo, io invece in base al suo nome latino da "scegliere"; infatti come quelli attribuiscono al termine "legge " il significato di equità, così noi vi attribuiamo quello di scelta, ma tuttavia ambedue i significati sono propri della legge. Se questo ragionamento è esatto, e certo a me in linea di massima sembra tale, la fonte del diritto è da desumersi dalla legge; essa infatti è la forza vitale della natura, essa è mente e ragione del saggio, essa criterio del giusto e dell'ingiusto. Ma poichè ogni nostro discorso mira alla comprensione delle masse, sarà necessario parlare talvolta in forma popolare e chiamare legge quella che, scritta, sancisce ciò che vuole o comandando o vietando secondo la definizione corrente. Riallacciamoci dunque, nello stabilire la definizione del diritto, a quella legge suprema, che è nata tanti secoli prima che una legge sia mai stata scritta o che qualche Stato sia mai stato del costituito. [20] Quinto: - Tutto esposto con molta chiarezza e saggezza, in verità. Marco: - Vuoi dunque che ripercorriamo l'origine del diritto rifacendoci alla sua fonte stessa? Una volta scopertala non vi è dubbio che dobbiamo riportare ad essa quanto stiamo indagando. Quinto: - Ritengo che così si debba fare. Attico: - Considera anche me della stessa opinione di tuo fratello. Marco: - Dal momento dunque che dobbiamo mantenere e conservare inalterate le condizioni di quello Stato, la cui forma Scipione ci dimostrò essere la migliore, in quei famosi sei libri, e poiché tutte le leggi dovranno essere adattate a quel genere di costituzione, e bisogna anche inserirvi i princìpi morali senza sancire ogni cosa per scritto, trarrò fuori la radice del diritto dalla natura, sotto la cui guida dobbiamo svolgere tutta questa discussione. Attico: - Benissimo, e certo con tale guida non si potrà sbagliare in alcun modo. VII.[21] Marco: - Ci concedi dunque questo, Pomponio - infatti già conosco perfettamente il pensiero di Quinto -, che tutto l'universo è governato dal volere degli dei immortali, dalla ragione, dall'autorità, dall'intelletto, dalla potenza, o con qualunque altro termine con cui significare più chiaramente ciò che intendo? Infatti 317
se tu non lo ammettessi, proprio da ciò dovremmo incominciare la nostra discussione. Attico: - Te lo concedo, se me lo chiedi; intanto per questo concerto di uccelli ed il fragore dei fiumi non temo che mi senta alcuno dei miei condiscepoli. Marco: - Ed è necessario essere cauti; infatti essi come tutti i galantuomini, sono soliti dare in escandescenze, e non tollereranno certo se sentiranno dire che proprio tu hai pubblicato il primo capitolo di quell'ottima persona, in cui egli scrisse che il dio di nulla si cura, né delle cose proprie né delle cose altrui. [22] Attico: - Continua, ti prego; che sto aspettando di sentire quale attinenza abbia ciò che ti ho concesso. Marco: - Non mi dilungherò; riguarda infatti questo, che quell'essere previdente, sagace, multiforme, acuto, memore, pieno di ragione e di senno, che denominiamo uomo, è stato generato dal sommo dio in una certa condizione privilegiata; fra tanti generi e specie di esseri animati è infatti l'unico partecipe della ragione e del pensiero, mentre tutti gli altri ne sono privi. Che cosa infatti vi è, non dirò nell'uomo, ma in tutto il cielo e la terra di più divino della ragione? Essa, quando è cresciuta ed è diventata perfetta, giustamente si chiama saggezza. [23] Esiste dunque, dal momento dunque che nulla vi è di meglio della ragione ed essa si trova sia nell'uomo sia nella divinità, come primo legame tra l'uomo e dio. E tra quelli fra i quali è comune la ragione, lo è pure la retta ragione; costituendo essa la legge, noi uomini ci dobbiamo ritenere accomunati agli dèi anche dalla legge. Tra coloro i quali vi è comunione di legge, vi è pure comunione di diritto; e quelli che hanno fra di loro questi vincoli comuni, sono da ritenersi partecipi dello stesso Stato; se essi obbediscono ai medesimi poteri ed alle medesime autorità, ancor più essi obbediscono a questa disposizione celeste ed alla mente divina ed a dio onnipotente; sicché senza dubbio questo mondo intero è da considerare come un'unica città comune agli dèi ed agli uomini. Se negli Stati le classi si distinguono secondo un determinato criterio di cui si parlerà a suo luogo, in base ai rapporti di parentela, nell'ambito naturale ciò risulta tanto più straordinario e meraviglioso, in quanto gli uomini sono tenuti insieme dalla parentela e dalla stirpe degli dèi. VIII.[24] Quando infatti s'indaga sulla natura umana, si è soliti spiegare - e senza dubbio è così, come vien dimostrato - che negli etemi corsi e rivoluzioni degli astri si verificò una certa situazione favorevole alla procreazione del genere umano, il quale, sparso e diffuso sulla terra, sarebbe stato accresciuto del divino dono dell'anima; e mentre tutti gli elementi di cui sono composti gli uomini, derivano dalla loro natura mortale, perché sono elementi fragili e caduchi, l'anima invece fu generata da dio. Per questo in verità la nostra parentela con i celesti può essere chiamata o discendenza o stirpe. Fra così numerose specie non c'è alcun essere vivente oltre l'uomo, che abbia qualche conoscenza di dio, né fra gli uomini stessi esiste alcun popolo né tanto mite né tanto selvaggio, il quale, pur ignorando quale dio convenga avere, tuttavia non sappia che sia necessario averlo. [25] Da ciò deriva che conosce il dio colui il quale quasi ricordi e riconosca dove egli nacque. Dunque la virtù è la medesima nell'uomo e nella divinità, ed al di fuori di essi non sussiste in alcun'altra specie. Inoltre la virtù altro non è se non la natura 318
stessa portata al massimo della perfezione; esiste infatti una somiglianza tra l'uomo ed il dio. Così stando le cose, in definitiva quale parentela vi potrebbe essere più stretta e più certa? Di conseguenza la natura elargì per le comodità ed i pratici vantaggi dell'uomo tanta abbondanza di beni, che queste creature sembrano donateci deliberatamente, e non nate per caso, e non citiamo soltanto quelle ricchezze che vengono profuse dalla fecondità della terra con messi e con frutti, ma anche gli animali, essendo evidente che parte di essi sono stati procreati per l'utilità dell'uomo, parte affinchè egli li sfrutti, parte per nutrirlo. [26] Ed anche innumerevoli procedimenti tecnici, furono escogitati grazie agli insegnamenti della natura; la ragione, imitandola attivamente, ottenne le cose necessarie alla vita. IX. La stessa natura poi fornì all'uomo non soltanto l'agilità del pensiero, ma gli attribuì i sensi quasi come guide e messaggeri ed abbozzò la comprensione di moltissime cose, ancora oscura e non sufficientemente sviluppata, quasi come base della conoscenza, e gli diede una figura fisica flessibile e corrispondente all'umano ingegno. Avendo infatti tenuto gli altri animali rivolti in basso per cibarsi, soltanto all'uomo diede la posizione eretta e lo spinse quasi alla contemplazione del cielo, della sua parentela e della sua sede originaria; fu allora che ne conformò l'aspetto del volto, in modo tale da riprodurre l'abito morale riposto nel suo interno. [27] Infatti gli occhi assai espressivi rivelano quali siano i sentimenti dell'animo, e quello che si chiama volto, che non può esistere in nessun essere vivente se non nell'uomo, indica il carattere, la cui forza è nota ai Greci, ma essi non hanno un termine preciso. Tralascio le attitudini ed i servizi delle restanti parti del corpo, la modulazione della voce, la forza della parola, che è il principale elemento di unione dell'umana società. Non tutto sarà oggetto di discussione in questo nostro incontro, e tale argomento fu già sufficientemente svolto, come sembra, da Scipione in quei libri che hai letto. Ora, poiché dio generò l'uomo arricchendolo di doti, perché egli volle che fosse il principio di tutto il resto, sia ben chiaro questo, al fine di non trattare tutto dettagliatamente, che la stessa natura progredisce di per sé; essa, anche senza alcun insegnamento, partendo da quei princìpi di cui conobbe le varie specie dalla prima ed iniziale nozione, ne rafforza e perfeziona autonomamente la razionalità. X.[28] Attico: - O dèi immortali, quanto lontano tu risali sino alla fonte originaria del diritto! Così io non soltanto non correrò dietro quello che mi attendevo da te intorno al diritto civile, ma sopporterò tranquillamente che tu trascorra questa giornata anche tutta intera in tale conversazione; infatti questi argomenti che intendi sviluppare forse per dimostrarne altri, sono più importanti di quelli per i quali tu prepari queste premesse. Marco: - Senza dubbio sono importanti quelli che ora vengono toccati brevemente. Ma di tutto ciò di cui si occupano le discussioni dei dotti, nulla è certamente più importante del capire chiaramente che noi siamo nati per la giustizia, e che il diritto non è stato fondato per una convenzione, ma dalla natura stessa. E ciò sarà del tutto chiaro, se analizzerai la società ed il legame reciproco tra gli stessi uomini.
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[29] Non esiste una sola cosa infatti tanto simile all'altra, tanto uguale, come siamo noi fra noi stessi. Che se la corruzione dei costumi o la varietà delle opinioni non deformasse e piegasse la debolezza degli animi, ovunque questa si indirizzasse, nessuno sarebbe tanto eguale a se stesso quanto lo sono tutti fra di loro. Di conseguenza, qualunque sia la definizione di uomo, una sola è valida per tutti. [30] Questa è la prova sufficiente del fatto che non sia presente alcuna differenza nella specie, poiché se essa vi fosse, un'unica definizione non comprenderebbe tutti. Del resto la ragione, con la quale ci differenziamo dai bruti, per mezzo della quale possiamo congetturare, argomentare, controbattere, discutere, eseguire qualsiasi cosa, è certamente comune a tutti gli uomini, differente per costituzione, ma eguale quanto a capacità di apprendere. Infatti gli oggetti in maniera identica per tutti vengono afferrati dai sensi, e quelle cose che colpiscono i sensi, allo stesso modo sollecitano i sensi di tutti; inoltre quelle nozioni iniziali, di cui ho già parlato, e che si imprimono negli animi, in egual modo si imprimono in tutti. Infine il linguaggio, interprete dell'intelletto, differisce quanto alle parole, ma concorda nei concetti; né vi è qualcuno tra gli individui, che, una volta assunta la natura quale guida, non possa giungere alla virtù. XI. [31] E non soltanto nelle azioni oneste, ma anche nelle perversioni la somiglianza degli esseri umani è sorprendente. Tutti infatti si lasciano prendere dal piacere, il quale pur essendo un allettamento per l'immoralità, tuttavia ha qualche somiglianza con un bene naturale; infatti poiché offre godimento con la sua leggerezza e piacevolezza, in tal maniera è accolto dalla mente malata come un qualcosa di salutare; e per analoga ignoranza si evita la morte, quasi fosse un dissolvimento della natura, e si desidera la vita, perché ci mantiene nello stato in cui siamo nati; il dolore è annoverato tra i mali più gravi, sia per la sua asprezza, sia perché si ha l'impressione che da esso derivi la distruzione della natura; [32] e per analogia con la stima e la gloria sono ritenuti felici quelli che vengono onorati, e al contrario infelici quelli che sono degli sconosciuti. Le afflizioni e le gioie, le brame ed i timori in maniera identica si aggirano nella mente di tutti, mentre questi, se le opinioni sono diverse dagli uni agli altri, come per esempio quelli che venerano un cane e un gatto come dèi, non sono afflitti da un pregiudizio uguale a quello degli altri popoli. Quale gente, poi, non ama l'affabilità, la benevolenza, la gratitudine e il ricordo di un beneficio? E quale non odia e disprezza i superbi, i malvagi, i crudeli, gli ingrati? Dunque poiché il genere umano comprende di essere reciprocamente accomunato da questi sentimenti, la conclusione finale è che la norma di una vita retta rende migliori. Se siete d'accordo su questo punto, andiamo pure avanti con le altre questioni; ma se avete qualcosa da chiedere, spieghiamola prima. Attico: - Per rispondere per tutti e due, non avremmo alcuna domanda. XII. [33] Marco: - Ne consegue che siamo così fatti dalla natura, per essere partecipi del diritto e comunicarcelo tra tutti, gli uni con gli altri. E questo, nel corso di tutta questa discussione, vorrei che si intendesse in questo senso, quando dico che si tratta della natura stessa; e che la corruzione derivante dal cattivo comportamento è così grande che si estinguono quelle scintille dateci dalla natura, e invece sorgono e si rafforzano i vizi contrari. Che se gli uomini nel loro giudizio agissero tutti 320
secondo il principio che la natura è comune in tutti, e, come dice il poeta, " nulla di umano ritenessero loro estraneo", il diritto sarebbe rispettato in eguale misura da tutti. A quegli stessi individui infatti, che dalla natura fu concessa la ragione, fu pure data la retta ragione, cioè la legge, che è retta ragione nel comandare e nel vietare; e se è loro data la legge, lo è anche il diritto.Quindi il diritto è dato a tutti, e giustamente Socrate insisteva nell'esecrare colui che per primo aveva disgiunto l'utilità dal diritto; lamentava infatti che ciò era l'origine di ogni rovina. Di qui quel detto pitagorico, [un passo sull'amicizia]: [perché uno solo emerga fra i più]. [34] … dal che si vede che, quando una persona saggia riversi questa benevolenza, che è tanto diffusa, su qualcuno dotato di pari qualità, si verifica allora - cosa che ad alcuni può apparire incredibile, ma è inevitabile - che egli non ami affatto se stesso più dell'altro; che differenza rimarrebbe, se esistesse una assoluta eguaglianza di tutto? Che se nell' amicizia potesse sussistere una benché minima differenza, sparirebbe il nome stesso dell'amicizia, la cui natura è tale, che essa si annulla del tutto non appena uno dei due preferisca per sé qualcosa di diverso dall'altro. Ometto tutti i dettagli che anticipano questa conversazione e discussione, mediante i quali si potrebbe più facilmente intendere che il diritto è insito nella natura. Ed appena avrò dette pochissime parole su di ciò, verrò a quel diritto civile, da cui è nato tutto questo discorso. XIII [35] Quinto: - Certamente pochissime cose avrai ormai da aggiungere. Da quanto infatti hai detto, [non so se Attico la pensi diversamente], a me in verità sembra con certezza che il diritto sia originato dalla natura. Attico: - Ed a me potrebbe forse sembrare diversamente, dal momento che questi principii si sono radicati compiutamente, in primo luogo che noi siamo stati quasi forniti e arricchiti dei doni degli dèi, secondariamente che un'unica uguale e comune norma di vita vi è tra gli uomini, e inoltre, che tutti sono tenuti insieme tra di loro da una certa naturale comprensione e benevolenza, ed anche dal vincolo associativo del diritto? Ed avendo già ammesso giustamente, ci sembra, la verità di queste premesse, come potremmo ormai legittimamente separare le leggi ed i diritti dalla natura? [36] Marco: - Dici bene, e la cosa sta appunto così. Ma alla maniera dei filosofi, non già di quelli antichi; di coloro i quali attrezzarono quasi dei laboratori della sapienza, si trattano ora punto per punto quegli argomenti che un tempo venivano discussi senza ordine e liberamente. Nè essi ritengono che si possa soddisfacentemente trattare quell'argomento, cui ora ci stiamo dedicando, senza esaminare analiticamente questo principio, che cioè il diritto sussiste per natura. Attico: - Ed allora anche la tua libertà di discutere è andata perduta, o meglio, tu non segui il tuo personale giudizio nella discussione, ma obbedisci all'autorità degli altri! [37] Marco: - Non sempre, Tito; ma tu vedi qual è l'andamento di questa conversazione: tutto il nostro discorso tende a rafforzare gli Stati, a consolidarne i costumi ed a risanare i popoli. Per questo, appunto, temo di far sì che si pongano delle premesse non esattamente valutate e diligentemente esaminate, né tuttavia spero che esse siano accettate da tutti - infatti ciò sarebbe impossibile -, ma da da parte di coloro i quali ritennero che tutto ciò che è giusto ed onesto dovesse essere 321
perseguito di per se stesso, e che o non si dovesse affatto annoverare tra i beni, se non ciò che di per se stesso sia degno di lode. [38] Inoltre, spero siano accettate da tutti quelli che o rimasero nell'antica Accademia con Speusippo, Senocrate, Polemone, ovvero dai seguaci di Aristotele e di Teofrasto che sostanzialmente concordano con i primi, nonostante qualche lieve differenza nel modo d'insegnarlo, ovvero da quanti, come sembrò a Zenone, lasciando immutate le cose cambiarono i termini, ovvero da coloro che seguirono quell'astrusa e difficile scuola di Aristone, che tuttavia è già in crisi e confutata, ponendo essa tutto sul medesimo piano, eccezion fatta delle virtù e dei vizi: da tutti quelli vorrei che venissero accettate queste idee che io ho esposto. [39] Quanto poi a quelli che sono indulgenti con se stessi e che sono schiavi del proprio corpo, e che tutto ciò, che cerchino o fuggano in questa vita, valutano col metro del piacere e del dolore, anche ammesso che dicano delle verità- infatti non c'è bisogno di polemiche su questo argomento -, lasciamoli predicare nei loro giardinetti ed anche preghiamoli di farsi un poco da parte da ogni sorta di associazione politica, di cui né conoscono un partito né mai vollero conoscerne uno. E preghiamo anche di tacere questa nuova Accademia, fondata da Arcesilao e Carneade, creatrice di confusione in tutti questi argomenti; che se facesse irruzione tra questi temi, che ci pare siano stati da noi preparati ed ordinati abbastanza saggiamente, provocherebbe grandi disatri. Ma io desidero solamente placarla, non oserei spazzarla via... XIV [40] Infatti anche in ciò ci siamo purificati senza i suoi suffumigi; ma delle colpe contro gli uomini e delle empietà contro gli dèi non c'è espiazione che valga. Così ne pagano la pena non tanto con processi - che un tempo non esistevano neppure, oggi poi non esistono sotto molti aspetti, e là dove vi sono, sono assai spesso fittizi -, ma li perseguitano e li incalzano le furie non già con fiaccole ardenti, come nelle tragedie, ma con i rimorsi della coscienza ed il tormento della colpa. Se non fosse la natura, ma invece la pena a dover tenere gli uomini lontani dalla colpa, quale inquietudine tormenterebbe i malvagi una volta eliminato il timore della punizione? Eppure non vi fu mai tra quelle persone qualcuno tanto sfrontato da negare d'aver egli commesso una colpa o da inventare un pretesto qualsiasi per un suo legittimo risentimento oppure ricercare una difesa della sua colpa in qualche diritto naturale. Se a questo osano far ricorso i disonesti, con quale ardore non sarà allora rispettato dagli onesti? Che se la punizione, il terrore del supplizio, e non la vergogna in se stessa allontanasse dalla vita scellerata e colpevole, nessuno più sarebbe ingiusto, o meglio essi dovrebbero essere considerati piuttosto imprudenti che disonesti. [41] Inoltre, quando non siamo indottii dall'onestà in sé stessa ad essere onesti, ma da qualche vantaggio e guadagno, siamo furbi, ma non buoni; che cosa infatti sarebbe in grado di fare nell'oscurità quell'individuo che non teme altro, tranne i testimoni ed i giudici? Che cosa succederebbe, se in un luogo deserto si imbattesse in una persona sola e debole, cui possa rapinare una grossa quantità di oro? Ma questo nostro uomo giusto e buono per natura gli rivolgerà la parola, lo aiuterà, lo metterà sulla strada buona; mentre colui che non farebbe nulla a vantaggio di un altro e misurerebbe tutto in base al proprio tornaconto, voi capite bene, credo, che cosa sarebbe pronto a fare. Del resto, anche se dirà che non gli toglierebbe la vita, né gli porterebbe via l'oro, non lo dirà certo mai per il fatto che la natura stessa giudica ciò 322
una cosa vergognosa, ma perché non ne scaturisca ciò che teme, cioè di subirne un danno. Oh magnifico argomento, degno di far arrossire non soltanto i filosofi, ma i persino contadini! XV. [42] Ed ancora una tra le maggiori sciocchezze è il considerare giusto tutto quanto si ritrova nel costume e nelle leggi dei popoli. Forse vi sarebbe lo stesso atteggiamento anche se alcune leggi fossero quelle dei tiranni? Se quei famosi trenta personaggi avessero voluto imporre ad Atene delle leggi, o se tutti gli Ateniesi fossero stati soddisfatti di leggi tiranniche, forse per questo quelle leggi sarebbero considerate giuste? Non più giuste, credo, di quella che fu presentata da quel nostro interré, in virtù della quale il dittatore potesse impunemente mettere a morte chiunque volesse dei cittadini senza che fosse stato condannato o processato. Unico infatti è il diritto dal quale è unita la società umana, ed unica la legge che lo fonda, legge che corrisponde alla retta norma del comandare e del vietare. Colui che la ignora, è ingiusto, sia essa quella scritta in qualche testo oppure no. Infatti se la giustizia consistesse nell'ottemperanza alle leggi scritte ed ai costumi dei popoli, e se, come dicono sempre quei medesimi dotti citati, tutto dovesse misurarsi in base all'utilità, ignorerà quelle leggi e le infrangerà, se gli sarà possibile, colui il quale giudicherà una tale situazione vantaggiosa per lui. Ne consegue così che non sussiste affatto giustizia, ove essa non sussista per natura; e quella che viene costituita a scopo di utilità, dall'utilità essa viene completamente sradicata. [43] E se la natura non fosse pronta a dar forza al diritto, tutti i valori sarebbero annullati. Dove infatti potrebbe ancora esistere la generosità, l'amor di patria, la pietà, dove il desiderio di rendersi benemerito verso qualcuno o di dimostrare gratitudine? E' chiaro che questi sentimenti nascono dal fatto che siamo naturalmente inclini ad amare gli uomini, e questo costituisce il fondamento del diritto. E non soltanto si eliminerebbe il rispetto verso gli uomini, ma anche il culto ed i riti verso gli dèi, che penso debbano essere conservati non già per timore, ma per quel legame che unisce l'uomo alla divinità. XVI. Se infatti il diritto fosse costituito sulla base dei decreti del popolo, degli editti dei prìncipi, delle sentenze dei giudici, sarebbe un diritto il rubare, commettere adulterio, falsificare testamenti, ove tali azioni venissero approvate dal voto o dal decreto della massa. [44] Se tanto grande è il potere delle decisioni e degli ordini degli incompetenti, da sovvertire la natura stessa con i loro voti, perché non sanciscono che vengano ritenute per buone e salutari quelle cose che sono cattive e dannose? O perché, mentre la legge può trasformare in diritto l'ingiustizia, non potrebbe essa stessa trasformare il male in bene? Purtroppo noi non possiamo distinguere la legge buona dalla cattiva secondo nessuna altra norma se non quella di natura; e la natura non discrimina soltanto ciò che è giusto dall'ingiusto, ma in generale tutto quanto è onesto e disonesto. Dal momento infatti che la comune intelligenza umana ci ha fatto conoscere le cose e le ha abbozzate nel nostro animo, si annoverino tra le virtù le azioni oneste e tra i vizi le disoneste. [45]Ritenere che esse dipendono dall'opinione e non dalla natura, è da pazzi. Infatti né quella che si può chiamare, pur abusando del nome, la virtù di una pianta né quella di un cavallo, sta nella opinione degli uomini, ma nella natura; e se così è, 323
anche l'onesto ed il disonesto dovranno essere distinti per natura. Se infatti la virtù in generale fosse considerata in base all'opinione, in base alla medesima lo sarebbero anche le sue parti. Ma chi dunque giudicherebbe un individuo prudente e, per così dire, accorto, non in base al suo intrinseco carattere, ma da qualche elemento esteriore? Infatti è la virtù la ragione assolutamente perfetta, il che sussiste certamente in natura; e dunque lo stesso accade per l'onestà in generale. XVII. Come infatti il vero e il falso, ciò che è logico ed il suo contrario, vengono giudicati per sé stessi e non per ragioni esterne, così quella norma coerente ed eterna di vita, che è la virtù, e del pari l'incoerenza, che è il vizio, la loro stessa natura li definisce; e forse noi non giudicheremo in egual modo l'indole delle persone ? [46] Forse si giudicheranno le indoli in base alla loro natura, ed in altro modo le virtù ed i vizi, che provengono dalle indoli? Oppure non altrimenti che in base alla natura, sarà necessario rapportare ad essa le azioni oneste e le disoneste? Ciò che è un bene apprezzabile, di necessità avrà in sé di che essere apprezzato; il bene in sè stesso non sta nelle opinioni, ma nella natura, perché se non fosse così, si sarebbe felici anche soltanto per opinione; ma quale sciocchezza più si potrebbe dire? Quindi essendo il bene ed il male giudicati in base alla natura, ed essendo essi principi fondamentali della natura, senza dubbio anche l'onesto ed il disonesto devono essere giudicati con un criterio analogo e riferiti alla natura. [47] Ma ciò che ci mette in difficoltà è la varietà di opinioni ed il disaccordo tra gli uomini, e poiché lo stesso non accade per i sensi, questi li consideriamo naturalmente sicuri, mentre chiamiamo immaginario quanto appare agli uni in un modo, agli altri in un altro, ed ai medesimi non sempre nella stessa maniera. Cosa in realtà ben diversa. Né il padre, infatti, né la balia, né il maestro, né il poeta, né il teatro corrompono i nostri sensi, né li allontana dal vero il consenso della folla; ma all'anima si tendono ogni sorta di insidie o da parte di coloro che ho menzionato poco fa, che dopo averci ricevuti ancor teneri e inesperti, ci formano e piegano come vogliono, o da parte di quel plagiatore del bene, ma padre di tutti i mali, il piacere, che se ne sta profondamente avvolto in mezzo a tutti i sensi; corrotti dalle cui blandizie che per natura sono beni, poiché sono privi di questo dolce male, noi non li scorgiamo interamente. XVIII. [48] Giunto ormai alla fine ormai tutto questo discorso, ne consegue quello che già è stato messo in evidenza da quanto abbiamo detto, cioè che il giusto e tutto ciò che è onesto deve essere perseguito spontaneamente. Infatti tutti i galantuomini amano l'equità e il diritto di per se stessi e non si addice alla persona dabbene sbagliare ed amare ciò che di per sé non sarebbe da amare. Si deve quindi ricercare e rispettare il diritto di per se stesso. Se così è per il diritto, lo è anche per la giustizia; e se lo è per essa, pure tutte le altre virtù sono da coltivare di per se stesse. Perché mai? La generosità è gratuita o a pagamento? Se è senza ricompensa, essa allora è benevola e gratuita; se a pagamento è una prestazione comperata, e non vi è dubbio che colui che è detto generoso e benevolo, abbia di mira il proprio dovere, e non il proprio vantaggio. Pertanto la giustizia non aspira a ricompensa, né a prezzo; essa dunque è ricercata di per se stessa. Identico è il movente ed il senso di tutte le virtù. [49] Ed anche se la virtù fosse perseguita non per il suo valore intrinseco, ma per una ricompensa, una sola sarà la virtù e la chiameremo con ottima ragione furbizia; quanto più uno, infatti, riporta al proprio vantaggio tutto ciò che fa, tanto meno è 324
buono, di modo che coloro i quali misurano la virtù dalla ricompensa, non pensano esservi altra virtù che la furbizia. Dove infatti si troverà un individuo benefico se nessuno agisce benevolmente a vantaggio di un altro? Dove si troverà una persona riconoscente, se non si riesce a scorgere colui [cui mostrarsi] grati? Dove quel sacro sentimento dell'amicizia, se l'amico stesso, come si dice, non è amato di per se stesso con tutta l'anima? Anzi lo si dovrebbe abbandonare e lasciar perdere, una volta persa la speranza di guadagni e di vantaggi; ma si potrebbe fare un'affermazione più disumana di questa? Che se l'amicizia deve essere coltivata per se stessa, anche l'umana società, l'eguaglianza e la giustizia devono essere ricercate per se stesse; e se non è così, non esiste assolutamente giustizia; questa appunto è la cosa più ingiusta, il pretendere una ricompensa per la giustizia. XIX. [50] Che dovremo dire della moderazione, della temperanza, dell'equilibrio, della vergogna, della riservatezza e della pudicizia? Che forse non si è sfrontati per timore del disonore, o delle leggi e dei processi? Allora sono persone oneste e morigerate per sentire parlare bene di sé, e allo scopo di raccogliere commenti amichevoli, arrossiscono nel dire cose indecenti. Tuttavia io mi vergogno di codesti filosofi, che vogliono evitare di essere giudicati, né pensano di essersi messi in vista proprio per un'azione colpevole. [51] Ed allora, possiamo quindi chiamare virtuosi coloro che si trattengono dalla violenza carnale per timore del disonore, dal momento che il disonore stesso è una conseguenza della dell'azione disonesta? Che cosa infatti potrebbe essere legittimamente lodata o biasimata, se si prescinde dalla natura di ciò che puoi pensare degno di lode o di biasimo? Forse le deformità del corpo, se saranno evidentissime, avranno alcunché di ripugnante, e nulla invece la bassezza dell'animo? E questa si può scorgere facilmente dai vizi medesimi. Infatti quale vizio si potrebbe dire più vergognoso dell'avarizia, più bestiale della sensualità, più riprovevole della timidezza, più umiliante dell'ottusità e della stupidità? E allora diciamo che coloro i quali si distinguono per uno di questi vizi o anche per parecchi tutti insieme, sono dei disgraziati per alcuni svantaggi o danni o sofferenze e non piuttosto per la natura stessa e la bruttezza dei vizi? E la stessa cosa si potrebbe dire della virtù, riferendoci agli opposti pregi. [52] Infine, se alla virtù si aspira per altri motivi, necessariamente sarà meglio che vi sia qualcosa di diverso dalla virtù stessa; forse il danaro, gli onori o la bellezza o la salute? Tutti beni che, quando ci sono, valgono pressoché niente, e non si può sapere in alcun modo per quanto tempo ancora possano esserci. O forse, cosa assai vergognosa a dirsi, il piacere? Ma soprattutto allora si scorge la virtù, nel disprezzarla e nel respingerla. Ma vedete quanto è lunga la successione degli argomenti e delle idee, e come una cosa si connetta all'altra? Anzi sarei andato molto più lontano, se non mi fossi trattenuto. XX. Quinto: - E fin dove? Io, fratello, mi lascerei andare volentieri con te dove cerchi di approdare con questo discorso. Marco: - Fino al sommo bene, al quale si riporta ogni cosa, e per raggiungere il quale si deve fare tutto, argomento controverso e pieno di divergenze fra i massimi filosofi, ma che ormai dovrebbe essere definitivamente chiarito. 325
[53] Attico: - E come si potrebbe verificare ciò, dopo la morte di L. Gellio? Marco: - Ma che attinenza ha questo con l'argomento? Attico: - Mi ricordo d'aver sentito dire ad Atene dal mio Fedro che il tuo amico Gellio, quando venne in Grecia col grado di proconsole dopo la pretura, trovandosi in Atene, convocò tutti i filosofi che si trovavano allora tutti insieme e insistentemente propose loro di porre una buona volta un qualche limite alle loro polemiche, in quanto, se avevano intenzione di non passare tutta la loro vita in liti, potevano mettersi d'accordo. Egli al tempo stesso promise il suo appoggio, se fosse possibile un accordo fra di loro. Marco: - È stato certo uno scherzo, questo, Pomponio, che fu spesso per molti oggetto di derisione; eppure vorrei essere designato io come arbitro fra l'antica Accademia e Zenone. Attico: - Perché mai? Marco: - Perché dissentono su un argomento soltanto, mentre per tutto il resto sono meravigliosamente d'accordo. Attico: - Dici sul serio? è proprio una divergenza intorno ad argomento soltanto? [54] Marco: - Per quanto riguarda l'argomento centrale, una sola la divergenza, perché mentre quelli dell'antica Accademia stabilirono che fosse un bene tutto ciò che è secondo natura e da cui ricaviamo giovamento nella nostra vita, questi invece non considerò un bene se non ciò che è onesto. Attico: - Ma tu mi esponi un dibattito di importanza minima, e non certo tale da risolvere tutte le questioni. Marco: - Avresti ragione, se la loro divergenza fosse sui fatti, e non sulle parole. XXI. Attico: - Allora tu sei d'accordo con il mio amico Antioco - che non oso chiamare tuo maestro- col quale ho trascorso un po' di tempo, che stava quasi per sradicarmi dai nostri giardini e mi avrebbe portato in pochissimi passi nell'Accademia. Marco: - Quello è stato certamente un uomo saggio, lucido e, nel suo genere, perfetto, ed anche, come ben sai, mio amico; però vedremo in seguito se io vado d'accordo con lui in tutto oppure no; ma io sono convinto che si possa appianare tutto questo contrasto di idee. [55] Attico: - Dunque, tu come giudichi questa questione? Marco: - Se, come disse Aristone di Chio, unico bene fosse ciò che è onesto, e male, ciò che è disonesto, e tutto il resto è sullo stesso piano, senza alcuna importanza se vi sia o no, sarebbe assai notevole la differenza da Senocrate e da Aristotele e dalla scuola platonica; peraltro divergerebbe su una questione fondamentale e sulla stessa norma generale del vivere. Ma ora affermando questi (Zenone) che l'unico bene è quell'onore che gli antichi Accademici avevano definito il bene principale, e del pari sommo male il disonore, e quello invece l'unico, e poiché chiama vantaggi, e non beni, la salute, la bellezza, mentre chiama svantaggi e non mali, la povertà, 326
l'infermità, il dolore, il suo pensiero è identico a quello di Senocrate, di quello di Aristotele, ma parla in modo diverso. Pertanto da questa divergenza non di pensiero, ma di parole, nacque il dibattito intorno al sommo bene ed al sommo male, nel quale, poiché le dodici tavole vietarono che la presa di possesso di un bene rientrasse nei limiti di cinque piedi, non permetteremo che questo sagace filosofo venga a pascolare nell'antica proprietà dell'Accademia, e non già uno alla volta secondo la legge Mamilia, ma in tre arbitri, secondo il disposto delle XII tavole, sosterremo la regolarità dei nostri confini. [56] Quinto: - E quale sentenza dobbiamo pronunziare? Marco: -Che si decida di ritrovare i confini stabiliti da Socrate, ed attenersi ad essi. Quinto: - Benissimo, fratello, ormai tu ora prendi in prestito la terminologia giuridica e delle leggi, ed intorno a questo argomento appunto attendo la tua discussione. In sostanza si tratta di una decisione molto importante, come spesso ho appreso dalle tue parole stesse. Ma certamente la questione sta in questi termini, che il sommo bene è vivere secondo natura, vale a dire condurre una vita regolata e conforme a virtù, ovvero seguire la natura e vivere come sotto la sua legge, cioè non tralasciare alcuna cosa, per quanto sta nell'individuo, onde conseguire ciò che la natura esige... il che tra l'altro esige che si viva secondo virtù come secondo una legge. Perciò non saprei se mai possa esser decisa questa questione, ma certo non sarà possibile in questa conversazione, se stiamo per condurre a termine quanto abbiamo già avviato. XXII. [57] Attico: - Ma io invece ero propenso a questo, e molto volentieri. Quinto: - Ne avrai la possibilità in un'altra occasione; ora continuiamo ciò che abbiamo incominciato, tanto più che non ha nessun rapporto questa polemica sul sommo bene e sul sommo male. Marco: - Parli con grandissima saggezza, Quinto; infatti tutto ciò che finora è stato detto da me... Quinto: - …non voglio sentir parlare né delle leggi di Licurgo, né di quelle di Solone e di Zaleuco e di Caronda, né delle nostre XII tavole né dei decreti popolari, ma penso che nella conversazione di oggi hai intenzione di dare leggi e un norma di vita sia ai popoli, sia ai singoli individui. [58] Marco:- Quello che tu t'aspetti, Quinto, è appunto inerente a questa discussione, e volesse il cielo che fosse anche in mio potere! Comunque la cosa sta certo in modo tale che, dovendo essere la legge fonte di correzione dei vizi e stimolo per le virtù, da essa venga derivata questa scienza del vivere. Succede così che la sapienza è madre di ogni bene, e dal suo amore trasse la sua denominazione in greco la filosofia, della quale nulla di più fecondo, di più florido, di più stabile venne concesso dagli dèi alla vita umana. Questa sola infatti, insieme a tutte le altre, ci insegnò pure quella che è la cosa più difficile, cioè conoscere noi stessi; ed è tale la forza ed il valore di questo insegnamento, che esso venne attribuito non già ad un uomo qualsiasi, ma al dio di Delfi.
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[59] Chi infatti conosce se stesso, sentirà in primo luogo d'avere in sé qualcosa di divino e considererà il proprio ingegno come una sorta di immagine divina consacrata dentro di lui, e penserà e farà sempre qualcosa di degno di un così gran dono degli dèi. Quando poi avrà esaminato a fondo e messo alla prova sé stesso, comprenderà in qual modo attrezzato dalla natura sia venuto alla vita e quanti strumenti egli abbia, atti a conseguire e conservare la sapienza. Fin dal principio egli ha concepito nella mente e nell'animo una sorta quasi di adombrata nozione di tutti gli oggetti, e dopo che li avrà chiariti sotto la guida della sapienza, s'accorgerà d'essere un uomo buono e per questa ragione stessa sarà anche felice. XXIII. [60] Infatti allorché l'animo dopo aver conosciuto e approfondito le virtù si sarà sottratto alla soggezione e all'indulgenza verso il corpo, ed avrà schiacciato il piacere come un disonorevole contagio, e si sarà affrancato da ogni timore della morte e del dolore; e allorché avrà stabilito con i suoi simili un rapporto sociale fondato sull'amore ed avrà considerato tutti i suoi simili congiunti per natura, e avrà dato inizio al culto degli dèi, ad una pura concezione religiosa, avrà reso acuta al pari di quella degli occhi quella vista dell'intelletto onde scegliere il bene e respingere il contrario, virtù che dal prevedere prese il nome di prudenza, che cosa mai si potrà dire o pensare di più felice di lui? [61] E ancora quel medesimo, quando avrà spinto lo sguardo attraverso il cielo, la terra, i mari e tutta la natura dell'universo, ed avrà visto donde sia stata generata, dove essa dovrà un giorno ritornare, in qual modo dovrà perire e che cosa fra questi oggetti vi sia di mortale e caduco e che cosa di divino e di etemo; insomma, quando avrà compreso che dio stesso è colui che la regola e quasi la governa e che non è solo circondato dalle mura, come cittadino di un qualche luogo limitato, ma avrà riconosciuto di essere cittadino di tutto il mondo, come quasi di una unica città, allora egli, in mezzo a così grande splendore ed in questa visione e conoscenza della natura, per gli dèi immortali, quale conoscenza potrà attingere di se stesso! [Questo è il precetto di Apollo Pizio] Quanto disprezzerà, quanto terrà in poco conto tutto ciò che dalla massa viene considerato come di grandissimo valore! XXIV. [62] E tutto ciò egli circonderà, quasi come un argine, col metodo della discussione, con la scienza del distinguere il vero ed il falso e con una certa abilità di capire che cosa consegua a ciascun fatto e che cosa sia a ciascuno contrario. E quando si accorgerà di essere nato per una società civile, riterrà non soltanto di sfruttare quel sottile modo di discutere, ma anche una forma di discorso esteso con maggiore ampiezza ed ininterrotto, con cui possa governare i popoli, stabilire le leggi, punire i malvagi, proteggere i buoni, lodare gli uomini insigni, dare ai propri concittadini in maniera adatta a convincerli avvertimenti di salute e di encomio, esortare all'onestà, trattenere dalla colpa, consolare gli afflitti, tramandare in monumenti etemi le decisioni dei forti e dei saggi e le bassezze dei disonesti. E di questi così grandi e numerosi pregi, che si scorgono esistenti nell'uomo da parte di coloro che intendono conoscere se stessi, madre ed educatrice è la sapienza. Attico: -E di essa tu hai tessuto un elogio severo e rispondente al vero; ma a che mira questo discorso? [63] Marco: - In primo luogo, Pomponio, esso si ricollega agli argomenti di cui fra poco tratteremo, ed essi, appunto, desideriamo che abbiano una notevole importanza; 328
infatti non sarebbero tali, se non fossero importantissimi i princìpi donde essi scaturiscono. Aggiungo inoltre che lo faccio di buon grado e, credo, anche con buoni motivi, non potendo passare sotto silenzio colei, la cui passione tutto mi ha preso e che tale mi fece, quale io sono attualmente. Attico: - E davvero agisci com'essa merita, con rispetto, ed è giusto che in questa conversazione si faccia ciò, come tu dici, .
Libro II
I. [1] Attico: - Dal momento che già abbiamo passeggiato abbastanza e tu devi iniziare un altro discorso, vuoi che cambiamo posto e nell'isola che è nel Fibreno credo sia questo il nome di quell'altro braccio del fiume - proseguiamo la conversazione, mettendoci a sedere ? Marco: - Certamente; molto volentieri infatti io mi fermo in quel posto, sia quando sono intento ad elaborare qualche progetto solo con me stesso, sia quando scrivo o leggo qualcosa. [2] Attico: - Quanto a me, che sono venuto qui proprio in questa stagione, non sono stanco di saziarmene, ed al confronto mi sembrano un nulla le magnificenze delle ville ed i pavimenti di marmo ed i soffitti a cassettoni, come pure quei canali d'acqua che questa gente chiama Nili ed Euripi. Chi non sorriderebbe soddisfatto dopo aver visto questo paesaggio? Come tu poco fa discutendo di legge e di diritto riconducevi tutto alla natura, così anche in queste cose, che sono apprezzate per la distensione ed la gioia dell'animo, quella che domina è la natura. Per questo io prima mi stupivo, pensando che in questi luoghi non vi fossero altro che rocce e montagne, ed a ciò mi spingevano le tue orazioni ed i tuoi versi. Mi stupivo, come ho detto, che tu provassi tanto godimento in questi luoghi; ora invece mi stupisco che durante le tue assenze da Roma tu possa stare in qualche altra località. [3] Marco: - Ma io, quando posso assentarmi per parecchi giorni, specialmente in questa stagione, vengo sempre a cercare l'amenità e la salubrità di questi posti, e purtroppo ciò mi è consentito molto raramente. Comunque mi dà motivo di allegria un'altra ragione ancora, che non ti riguarda da vicino, Tito. Attico: - E qual è mai questa ragione? Marco: - A dire il vero, questa è la patria comune mia e di mio fratello; infatti noi qui discendiamo da un antichissimo ceppo, sono qui le tradizioni religiose, qui la stirpe, qui molte tracce dei nostri antenati. Cos'altro? Ebbene, guarda questa villa, così com'è adesso, ristrutturata più riccamente per l'interessamento di nostro padre, ìl quale, a causa della salute malferma, qui trascorse quasi tutta la sua vita nelle occupazioni letterarie. Sappi che io sono nato proprio qui, quando era ancora in vita mio nonno e la villa era piuttosto piccola, secondo l'usanza antica, come quella di 329
Curio in Sabina. Per questo c'è, nascosto nel profondo del mio animo e dei miei sentimenti, qualcosa di indefinibile, per cui questo luogo mi è ancora più caro, se è vero che anche quel famoso eroe molto saggio, per rivedere Itaca, è scritto che abbia rinunziato all'immortalità. II. [4] Attico: - Io prendo per buono questo motivo, perché tu vieni qui più volentieri e prediligi questi posti; anzi, a dirti la verità, anch'io ora sono diventato più affezionato a quella villa e a tutta questa terra, in cui tu sei stato procreato e sei venuto alla luce. Noi infatti, non so perché, siamo commossi da quei luoghi, i quali conservano le tracce di coloro che amiamo o ammiriamo. Quella nostra stessa Atene ci allieta non tanto per le opere magnifiche e deliziose degli antichi quanto per il ricordo di grandissimi personaggi, e del luogo dove ciascuno era solito abitare, soffermarsi, discutere; con grande affetto io ne contemplo anche i sepolcri. Perciò d'ora in poi amerò ancora di più questo luogo dove sei nato. Marco: - Sono lieto di averti mostrato quella che è quasi la mia culla. [5] Attico: - Ed io sono molto contento di averne fatta la conoscenza. Ma come sta tuttavia il fatto, cui accennavi poco fa, cioè che questo luogo, Arpino, sarebbe la vostra patria naturale? Forse ne avete due, di patrie o è quella sola la patria comune? A meno che quel saggio Catone non abbia avuto come patria non Roma, ma Tuscolo. Marco: - Per Ercole, io penso che tanto egli come tutti i municipali abbiano due patrie, una quella naturale, l'altra quella giuridica; e come quel famoso Catone, pur essendo nato a Tuscolo, fu accolto nella cittadinanza romana, così, essendo Tuscolano di nascita, e Romano per diritto di cittadinanza, ebbe l'una come patria naturale, l'altra di diritto. E per quanto riguarda i vostri Attici, prima che Teseo li costringesse a trasferirsi dai campi ed a riunirsi tutti in quella che si chiama città, essi erano nello stesso tempo ciascuno cittadino del proprio borgo ed anche Attici, così noi consideriamo patria sia quella in cui siamo nati, sia quella da cui fummo accolti. Ma è necessario dedicare il proprio amore soprattutto a quella, in virtù della quale il nome dello Stato è comune a tutti i cittadini, per la quale dobbiamo morire ed alla quale dedicarci interamente ed in cui riporre tutti i nostri interessi e quasi consacrarveli. Ma quella che ci ha generato è poi cara in misura non molto diversa da quella che ci ha accolto. Perciò io non negherò mai che questa è davvero la mia patria, pur essendo maggiore di essa quell'altra, e questa sia compresa in quell'altra [dalla quale ciascun municipale riceve il diritto] di una seconda cittadinanza e che considera l'unica patria. III. [6] Attico: - Aveva ragione allora quel nostro Magno, quando affermò in tribunale, e lo sentii anch'io con le mie orecchie, mentre insieme a te difendeva Ampio, che il nostro Stato poteva essere assai riconoscente a questo municipio, perché da esso erano venuti fuori i suoi due salvatori, tanto che già mi sembra di essere convinto che anche questa che ti ha generato sia una tua patria. Ma siamo arrivati all'isola. Davvero nulla vi potrebbe essere di più ameno. Infatti il Fibreno è tagliato quasi come da un rostro e, diviso in due rami eguali, lambisce questi fianchi e scorrendo velocemente in un attimo confluisce in un unico braccio, abbracciando tanto di quel terreno che sarebbe sufficiente per una palestra di medie dimensioni. Subito dopo, come se questo fosse suo compito e dovere, di costruirci cioè un posto per la nostra discussione, si getta nel Liri, e, quasi come se fosse entrato in una 330
famiglia patrizia, abbandona il suo nome piuttosto oscuro, e rende il Liri molto più fresco. Infatti io non ho mai toccato acqua più fresca di questa, pur avendone provate molte, al punto che a mala pena posso provarla col piede, come fa Socrate nel Fedro di Platone. [7] Marco: - E' proprio così; eppure quel tuo Thyami in Epiro, come spesso sento dire da Quinto, non avrebbe nulla da invidiare all'amenità di questo luogo. Quinto: - Sì; ma guardati bene dal credere che vi possa essere qualcosa di meglio della tenuta di Amalthio e di quei platani del nostro Attico. Ma, se così pare, sediamoci qui all'ombra, e ritorniamo a quella parte della discussione, da cui abbiamo divagato. Marco: - La tua richiesta è giusta, Quinto - ma io già pensavo d'essermela cavata -, e nessuno di questi tuoi desideri può restare insoddisfatto. Quinto: - Allora incomincia; infatti ti stiamo dedicando tutta l'intera giornata. Marco: - "Da Giove il principio delle Muse", come ho esordito nel carme arateo. Quinto: - E perché questo? Marco: - Perché nello stesso modo adesso bisogna dare inizio alla trattazione partendo dal medesimo e dagli dèi immortali. Quinto: - Benissimo, fratello, e ben conviene che così si faccia. IV. [8] Marco: - Dunque, prima di passare alle singole leggi, vediamo di nuovo l'efficacia e la natura della legge, ad evitare che, dovendo riportare tutto ad essa, si scivoli talvolta in qualche errore di linguaggio e si trascuri l'importanza di quel metodo in base al quale dobbiamo definire i princìpi giuridici. Quinto: - Bene per Ercole, ed è questa la via giusta dell'insegnamento. Marco: - Vedo che questa fu l'opinione degli uomini più sapienti, cioè che la legge non è stata elaborata dagli umani intelletti, né essa sia un qualche decreto dei popoli, ma qualcosa di etemo, che governa l'universo con la saggezza nel comandare e nell'obbedire. Dicevano esattamente così, che prima e suprema legge era la mente del dio che tutto razionalmente o impone o vieta. Con tali presupposti fu esaltata quella legge che gli dèi diedero al genere umano; essa infatti è la ragione e la mente del saggio, atta a comandare e a distogliere. [9] Quinto: - Già più volte hai toccato questo argomento. Ma prima di venire alle leggi relative ai popoli, spiegaci, per favore, la natura di questa legge celeste, affinchè l'onda dell'abitudine non ci travolga e ci spinga sulla strada di una comune conversazione. Marco: - Fin da fanciulli, Quinto, ci è stato insegnato a chiamare leggi il " Se chiama in giudizio " ed altre espressioni di tal genere. Ma così occorre intendere, cioè che questi ed altri analoghi precetti e divieti dei popoli hanno la forza di invitare alle azioni corrette e di allontanare dalle colpe, forza che non soltanto è più antica dell'età stessa dei popoli e degli Stati, ma è coeva di quel dio che protegge e governa il cielo e le terre. 331
[10] Non può infatti esserci un intelletto divino senza raziocinio, né ragione divina che non abbia il potere di stabilire per legge il giusto e l'ingiusto; e poiché in nessun luogo stava scritto che egli da solo dovesse resistere a tutte le forze dei nemici su di un ponte, e dare ordine che il ponte venisse tagliato alle sue spalle, tanto meno per questo crederemo che quel Coclite abbia compiuto una impresa tanto grande sotto l'imperativo d'una legge; e neppure che, se sotto il regno di L. Tarquinio non vi era in Roma alcuna legge scritta circa la violenza carnale, in contrasto con quella legge etema, Sesto Tarquinio non abbia recato violenza a Lucrezia, figlia di Tricipitino. Vi era infatti una norma, derivata dalla stessa natura, che spinge al ben fare e tiene lontani dal delitto, la quale non incomincia ad essere legge solo nel momento in cui viene scritta, ma fin da quando è nata. E precisamente essa ebbe origine insieme all'intelletto divino. Motivo per cui la prima e vera legge, efficace nel comandare e nel proibire, è la retta ragione del sommo Giove. V. [11] Quinto: - Sono d'accordo, fratello, che quanto è giusto e vero debba essere [anche etemo], e non debba sorgere o perire con i segni, con cui si scrivono i decreti. Marco: - Dunque, come quella mente divina è la legge suprema, allo stesso modo, quando è portata alla perfezione nell'uomo, [risiede] nella mente del saggio.Ma quelle che variamente e secondo l'occasione vengono sancite per i popoli, assumono il nome di leggi più per un privilegio che per la sostanza. Alcuni esperti insegnano infatti, con una serie di argomentazioni simili, che ogni legge che veramente si possa chiamare legge, è degna di lode. E' noto a tutti che le leggi furono elaborate per la salvezza dei cittadini e l'incolumità degli Stati, nonché per una vita tranquilla e felice dell'umanità; e quelli che per primi stabilirono norme del genere, dimostrarono ai popoli che essi avrebbero scritto e proposto norme che, se riconosciute ed accettate, avrebbero loro permesso di vivere rettamente e felicemente. Tutte le norme a tal fine composte e promulgate le chiamarono leggi. Dal che è facilmente comprensibile che, coloro i quali prescrissero ai loro popoli regolamenti dannosi ed ingiusti, e avendo fatto l'opposto di quanto avevano promesso e dichiarato, promulgarono qualunque cosa, ma non delle vere leggi, quindi è chiaro che nella stessa interpretazione del nome di legge è insita la sostanza ed il criterio della scelta del giusto e del vero. [12 ] Perciò, nello stesso modo in cui ancora si comportano di solito quegli studiosi, ti chiedo, Quinto, è forse da annoverarsi tra i beni quell'elemento che, se mancasse ad uno Stato, proprio per fatto che manchi dovrebbe essere considerato come per nulla esistente? Quinto: - Sì, e tra i più importanti. Marco: -Ed uno Stato che sia privo di legge non è forse proprio per questo motivo da considerarsi come inesistente? Quinto: - Non si potrebbe dire altrimenti. Marco: - Dunque la legge deve essere considerata tra le cose migliori. Quinto: - Sono ancora pienamente d'accordo. 332
[13] Marco: - E che dire del fatto che vengono sancite molte disposizioni dannose nei confronti dei popoli, molte persino esiziali, ma ciò nonostante queste non portano il nome di legge, peggio che se dei furfanti le avessero stabilite nelle loro bande? Infatti non si possono chiamare realmente prescrizioni dei medici nel caso che essi, per ignoranza ed imperizia, abbiano prescritto sostanze letali in luogo di salutari, e nemmeno una legge relativa a un popolo, qualunque essa sia, può essere detta legge, posto che il popolo ne abbia ricevuto qualche danno. La legge pertanto è la distinzione del giusto e dell'ingiusto manifestata in conformità alla natura, che è il più antico e principale di tutti gli elementi a cui fanno riferimento le leggi umane, che colpiscono con pene i malvagi, e difendono e proteggono gli onesti. VI. Quinto: - Capisco perfettamente e penso che ormai non solo non si dovrebbe considerare tale alcuna altra legge, ma nemmeno denominarla così. [14] Marco: - Allora tu non consideri affatto leggi le Tizie e le Apuleie ? Quinto: - Io francamente nemmeno le Livie. Marco: - Ed hai ragione, dal momento che esse furono abrogate in un solo istante e con un'unico tratto di penna del senato. Invece quella legge, di cui ho spiegato l'efficacia, non può essere soppressa né abrogata. Quinto: - Tu allora presenterai delle leggi tali, che non possano mai essere abrogate. Marco: - Certamente, purché vengano accettate da voi due. Ma come ha fatto il sapientissimo Platone, peraltro il più autorevole di tutti i filosofi, il quale per primo scrisse su lo Stato, e poi, a parte, sulle sue Leggi, credo che anch' io dovrò fare la stessa cosa, cioè, prima enunciare la legge, quindi farne le lodi. E questo, a quel che vedo, è quanto hanno fatto anche Zaleuco e Caronda, pur avendo essi scritto le loro leggi per le città non già per esercizio scolastico o per passatempo, ma per il bene del loro Stato. E dietro il loro esempio, Platone certamente ritenne che anche questa fosse una caratteristica specifica della legge, di convincere di qualche cosa, e non imporre tutto costringendo con le minacce e con la forza. [15] Quinto: - Ma che importanza ha questo, dal momento che Timeo afferma che codesto Zaleuco non è mai esistito? Marco: - Ma [lo afferma] invece Teofrasto, autore per nulla inferiore a mio parere molti anzi lo dicono migliore- , e poi lo ricordano i suoi stessi concittadini, i miei clienti locresi. Ma che egli sia esistito oppure no, non importa per il nostro tema: noi riferiamo ciò che è stato tramandato. VII. Sia dunque chiaro ai cittadini questo fin dall'inizio, che gli dèi sono padroni e reggitori di tutto l'universo, e che tutto quello che viene compiuto, è compiuto con il loro giudizio e la loro volontà, e che essi medesimi sono i maggiori benefattori del genere umano. Essi scorgono quale ciascun uomo sia, che cosa faccia, che cosa abbia nel suo intimo, con quale animo e quale pietà coltivi la religione, e inoltre essi tengono conto dei pii e degli empi; [16] e se gli animi assorbiranno questi principii, è certo che non si allontaneranno mai da idee valide e veraci. Cosa vi è infatti di più vero del fatto che nessuno debba essere superbo in una forma tanto sciocca, da credere di avere dentro di sé intelletto e ragione, e negarlo nel cielo e nel mondo? O 333
da pensare che [nessuna] mente governi il movimento di quegli oggetti che a mala pena [possono essere conosciuti da una mente] sia pure di grandissima capacità? Perché mai conviene includere tra gli uomini uno che non si senta costretto alla gratitudine dall'ordine degli astri, dall'altemarsi dei giorni e delle notti, dal variare della temperatura e da tutto ciò che nasce per il nostro vantaggio? In fondo, poiché tutto ciò che è fornito di ragione è superiore a ciò che è privo della ragione, e non è lecito affermare che una singola individualità sia superiore all'universale, si dovrebbe aver fiducia che esista in questa universale natura l'esistenza di una ragione. E chi negherebbe che queste idee siano valide, se ci rendiamo conto di quanti patti si rafforzano con un giuramento, quanto vantaggio apportino gli accordi solenni, quanti siano quelli allontanatisi dalla colpa per il timore della punizione divina, e quanto sia sacra l'unione dei cittadini, quando fra di loro si inseriscono gli stessi dèi immortali, talora come giudici, talora come testimoni? Ecco qui il fondamento della legge; così infatti lo definisce Platone. [17] Quinto: - Giusto, fratello, e mi rallegro moltissimo che tu segua argomenti e concetti diversi dai suoi. Non vi è nulla infatti di tanto diverso da quanto hai detto o dalla stessa introduzione sulle divinità; questo soltanto mi sembra che tu voglia imitare, cioè il genere del discorso. Marco: - Forse lo vorrei; ma chi potrebbe, o potrà mai imitarlo? Infatti è facilissimo tradurre i concetti; cosa che vorrei fare, se non preferissi essere del tutto originale. Quale difficoltà infatti vi sarebbe ad esprimere le stesse cose, tradotte pressoché con le stesse parole? Quinto: - Sono completamente d'accordo; però, come appunto tu hai affermato, preferisco che tu sia te stesso. Ma ormai, se ti fa piacere, esponi pure queste leggi sulla religione. [18] Marco: - Le esporrò certo, secondo le mie capacità, e dal momento che il luogo e la conversazione mi sono familiari, proporrò le leggi con la forma tipica delle leggi. Quinto: - Che significa questo? Marco: - Vi sono determinate espressioni legali, Quinto, non così antiquate come nelle vecchie XII tavole e nelle leggi sacrate, e pur tuttavia un po' più arcaicizzanti di questa nostra conversazione, tali da assumere una maggiore autorità. E, se mi sarà possibile, cercherò di accompagnare questo stile con la brevità. Infatti non riporterò delle leggi complete - cosa che andrebbe per le lunghe -, ma solo il sommario ed il contenuto dei vari paragrafi. Quinto: - E' necessario procedere così; e allora ascoltiamo. VIIl [19] Marco: - "Si accostino castamente agli dèi, facciano uso della pietà, allontanino lo sfarzo. Se qualcuno agisse in maniera diversa, dio stesso lo punirà. Nessuno abbia dèi particolari, né nuovi né forestieri, se non pubblicamente riconosciuti; in privato coltivino i [culti che ricevettero ] secondo il rito dei loro padri. - Vi siano templi [nelle città]; vi siano boschi sacri nelle campagne e sedi dei Lari. - Conservino i riti della famiglia e dei padri. - Onorino gli dèi, sia quelli da sempre ritenuti celesti, sia quelli che i loro meriti abbiano posti in cielo, Ercole, Libero, Esculapio, Castoro, Polluce, Quirino, cosi quelle Virtù, per cui è concesso 334
all'uomo l'ascesa al cielo, Mente, Valore, Pietà filiale, Fede, e di queste virtù vi siano templi, nemmeno un'ombra dei vizi . - Celebrino solenni sacrifici. - Dalle feste tengano lontani i litigi, e le osservino per i servi, una volta terminate i lavori, e sia stabilito in modo che ciò cada negli intervalli dell'anno. Determinati frutti e determinate messi, i sacerdoti le offrano pubblicamente. Questo sia compiuto in sacrifici e giorni fissati; [20] e parimenti riservino ad altri giorni una quantità di latte e di animali appena nati; perché ciò non possa essere trascurato, i sacerdoti determinino norma e annue ricorrenze; e provvedano quelle vittime che siano a ogni dio belle e gradite. - Vi sia per ogni dio un sacerdote, per tutti il pontefice, ai singoli i flamini. E le vergini Vestali nella città custodiscano il fuoco perenne del focolare pubblico. - In quale modo e secondo quale rito questo si faccia in pubblico ed in privato, lo apprendano i profani dai pubblici sacerdoti. Di questi, tre siano i tipi, uno che presieda le cerimonie ed i sacrifici, l'altro interpreti le oscure risposte degli indovini e dei vati, che saranno approvate dal senato e dal popolo; inoltre gli interpreti di Giove Ottimo Massimo, i pubblici àuguri, facciano previsioni dai presagi e dagli auspici, osservino la regola, [21] i sacerdoti, facciano pronostici per i vigneti, i vincheti e la salute del popolo, e quelli che si occuperanno di duelli o deliberazioni per il popolo, consultino gli auspici e li osservino. Prevedano le ire degli dèi e obbediscano, e distinguano le folgori, determinate le regioni del cielo; tengano purificati e consacrati la città, le campagne, i templi. Tutto ciò che l'augure avrà dichiarato iniquo, nefasto, irrituale, di cattivo augurio, sia privo di effetto e come non fatto; e chi non l'osservi, a morte sia condannato". IX. " Della ratifica degli atti di pace, di guerra, di tregua siano i feziali giudici, messaggeri, discutano della guerra. -Riferiscano i prodigi, i portenti ad aruspici etruschi, se il senato lo comandò, e l'Etruria ammaestri nella disciplina gli ottimati. Agli dèi cui sia stato attribuito per decreto, facciano sacrifici ed i medesimi facciano espiazioni delle folgori e delle cose folgorate. - Non vi siano riti notturni di donne, salvo quelli che legalmente si faranno secondo decreto del popolo; né inizino alcuno secondo il rito greco, se non a Cerere, come consentito dall'usanza. [22]- Un sacrilegio commesso che non potrà essere espiato, sia come una empietà commessa; quello che potrà essere espiato, lo espiino i pubblici sacerdoti. - Nei pubblici giochi, ove avvengano, sia con corse, sia con gare ginniche, moderino la popolare letizia nel canto e nelle cetre e nei flauti, e questa uniscano alle onoranze agli dèi. - Dei patrii riti coltivino gli ottimi. - Eccetto i servi della madre Idea, e questi in giorni fissati per legge, nessuno faccia collette. -Chi ruberà o rapirà cosa sacra o consacrata, sia parricida. - Dello spergiuro pena divina sia la morte, quella umana l'infamia. - I pontefici puniscano con la pena massima l'incesto. - L'empio non osi placare l'ira divina con doni. - Vi sia cautela nel fare voti; vi sia una pena per un diritto violato. Perciò nessuno consacri campagne. Vi sia un limite nel consacrare oro, argento, avorio. - I riti privati siano perpetui. - Inviolabili siano i diritti degli dèi Mani. Considerino dèi i buoni deceduti; per essi siano ridotti la spesa ed il lutto".
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X. [23] Attico: - Hai sintetizzato una grande legge nella forma più breve! Ma, a parere mio, questa costituzione religiosa non differisce molto dalle leggi di Numa e dalle nostre usanze. Marco: - Poiché in quei libri sullo Stato sembra che l'Africano dichiari, di tutti gli ordinamenti civili, che quello nostro antico è stato il migliore, forse non ritieni che si debbano attribuire leggi adeguate ad un ottimo Stato? Attico: - In realtà la penso esattamente così. Marco: - Ed allora aspettatevi delle leggi che governino quel tipo ottimo di Stato, e se per caso io oggi ne proporrò alcune che non esistono né esisteranno nel nostro Stato, esse tuttavia sono esistite più o meno come consuetudine degli antenati, che aveva allora forza di legge. [24] Attico: - Illustra dunque, se credi, proprio codesta legge, affinchè io possa pronunziare il " Sia come proponi". Marco: - Questo tu dici? Non hai intenzione di dire qualcosa di diverso, Attico? Attico: - Certamente non mi pronunzierò mai diversamente sulle questioni più importanti, ed in quelle di minor importanza, se vuoi, mi rimetterò a te. Quinto: - Sono anch'io dello [stesso] avviso. Marco: - Ma badate che non diventi cosa lunga. Attico: - Magari fosse così! Che cosa infatti potremmo preferire di fare? Marco: - La legge ordina di accostarsi con purezza agli dèi, purezza d'animo naturalmente, poiché in essa tutto è compreso; non esclude però la purezza del corpo, ma occorre che si capisca questo, cioè che, essendo l'anima considerata superiore al corpo, se ci si deve presentare con purezza di corpo, questo principio sarebbe molto più necessario osservarlo nell'anima. Quello infatti può essere purificato o con lustrazioni o col trascorrere di un certo numero di giorni; ma la macchia dell'anima non può né svanire col tempo né detergersi con l' acqua di un fiume. [25] Il fatto poi che essa imponga di usare la pietà e di eliminare il fasto, significa che l'onestà è gradita a dio, e che il lusso deve essere tenuto lontano. Quindi, anche tra gli uomini vogliamo che povertà e ricchezza si equivalgano; e perché allora vorremmo tener lontana la prima dall'accostamento agli dèi, aggiungendo lusso al culto? tanto più che nulla sarebbe meno gradito al dio di questo, che la via per placarlo e onorarlo non fosse aperta a tutti. E che non un giudice, ma il dio stesso si è costituito vindice, è dovuto al fatto che il sentimento religioso sembra essere rafforzato dal timore di una punizione immediata. Venerare poi gli dèi personali, o nuovi o forestieri, comporterebbe la confusione dei culti e dei riti sconosciuti ai nostri sacerdoti. [26] Si stabilisce infatti che siano venerati gli dèi tramandati dai padri, a condizione che i padri stessi abbiano seguito questa legge. Io ritengo che nelle città vi debbano essere dei templi, e non concordo con i magi dei Persiani, per consiglio dei quali si 336
dice che Serse bruciò i templi della Grecia, perché rinchiudevano entro pareti quegli dèi ai quali tutto dovrebbe essere aperto e libero, e dei quali tutto questo mondo è tempio e sede. XI. Meglio si comportarono invece gli Elleni ed i nostri padri, i quali vollero che essi abitassero le stesse città nostre, affinché aumentasse la pietà verso gli dèi; questa credenza sostiene infatti che il culto sia utile alle città, se, come disse il dottissimo Pitagora, proprio allora la pietà ed il culto maggiormente si radicano negli animi, cioè quando ci dedichiamo alle cose divine; e ricordiamo il detto di Talete, uno dei sette sapienti, che gli uomini sono convinti che tutto [quanto] vedono debba essere pieno di dèi; tutti saranno infatti più puri, come se si trovassero in templi che ispirano la massima religiosità . Secondo questo concezione infatti, si presenta una certa immagine degli dèi non soltanto negli animi, ma anche innanzi agli occhi. [27] Identica giustificazione hanno nelle campagne i boschi sacri. Né si deve ripudiare il culto tramandato dagli antenati tanto per i padroni quanto per i servi, quello dei Lari, la cui sede sta di fronte alla villa e al podere. Quindi osservare i riti della famiglia e degli antenati significa questo, conservare un culto quasi tramandato dagli stessi dèi, perché gli antichi vengono a trovarsi assai vicino agli dèi. La legge prescrive poi di onorare quanti tra gli uomini vennero divinizzati, come Ercole e gli altri, indicando così che le anime di tutti sono immortali, ma divine soltanto quelle dei forti e dei buoni. [28] Ed è bene che siano consacrate la Ragione, la Pietà, la Virtù, la Fede; a tutte queste sono dedicati in Roma dei templi in maniera tale che, tutti quelli che le posseggono - e le posseggono tutti i buoni - pensino di avere nel loro animo gli dèi stessi. Colpevole azione fu, in realtà quella degli Ateniesi; per espiare il delitto commesso contro Cilene, dietro consiglio del cretese Epimenide essi innalzarono un tempio all'Offesa ed all'Impudenza, [e per di più grande, e fece consacrare nei ginnasi le statue degli Amorini e dei Cupidi, consiglio audace che la Grecia accettò]. Sarebbe logico infatti consacrare le virtù, non i vizi. E l'antico altare alla Febbre sul Palatino e l'altro sull'Esquilino alla Cattiva Fortuna e tutte le opere di questo genere per noi esecrabili sono da ripudiare. Infatti, se sarà necessario personificare dei nomi, lo saranno piuttosto quello di Vica Pota, da vincere ed impadronirsi, di Stata da conservare, di Giove Statore ed Invitto e di quante altri beni sono desiderabili, della Salute, dell'Onore, dell'Abbondanza, della Vittoria. E poiché l'animo si conforta nell'attesa dei beni, giustamente fu consacrata da Calatino anche la Speranza. E sia divinizzata anche la Fortuna, o Quella del giorno - infatti vale per tutti i giorni -, o Quella che guarda indietro per recar aiuto, o la Fortuita, con cui si rappresentano piuttosto gli avvenimenti incerti, o la Primigenia, la prima nascita, compagna ora nel momento del concepimento...* XII. [29] L'osservanza delle ferie, cioè dei giorni festivi, comporta per gli uomini liberi la tregua delle liti e delle contese, per i servi quella dei lavori e delle fatiche; ed il calendario annuale deve metterle in relazione con il termine dei lavori agricoli. Bisogna stare attenti ai giorni intercalari per il periodo in cui vengono presentate le offerte sacrificali ed i nati del bestiame, secondo le norme della legge; tale regola, stabilita egregiamente da Numa, venne poi vanificata dalla negligenza dei pontefici successivi. Ed ancora, delle prescrizioni dei pontefici e degli aruspici non bisogna mutare nulla di quanto concerne la scelta delle vittime da sacrificare a ciascun dio, a 337
chi offrire le adulte ed a chi le lattanti, a chi i maschi ed a chi le femmine. Inoltre parecchi sacerdoti per tutti gli dèi ed uno particolare per ciascuno, danno la possibilità di interpretare le norme giuridiche e di celebrare i riti. Poiché Vesta, come fu chiamata con un nome greco - che noi mantenemmo quasi tale e quale senza tradurlo -, presiede al focolare della città, sia circondata, le stiano accanto sei fanciulle per vigilare più facilmente la custodia del fuoco e perché le donne sappiano che anche la natura femminile può affrontare l'assoluta castità. [30] Quanto segue, non riguarda soltanto la religione, ma anche la costituzione civile, col precetto che non si possa attendere ai culti privati senza la presenza di coloro i quali presiedono pubblicamente al culto; tale norma significa infatti che lo Stato ed il popolo hanno sempre bisogno del consiglio e dell'autorità degli ottimati. La distinzione dei sacerdoti non trascura alcun genere di culto legittimo. Gli uni infatti sono stabiliti per placare gli dèi, per presiedere le cerimonie solenni, gli altri per interpretare i responsi dei vati, e non già di molti, che non si finirebbe più; questo perchè nessun estraneo al collegio possa venire a conoscenza delle profezie riconosciute dai pubblici poteri. [31] Grandissimi ed importantissimi sono infatti nello Stato i diritti e l'autorità degli àuguri. Tuttavia io non la penso così, perché sono anch'io augure, ma perché pensarla così è una necessità. Se infatti ci interessiamo al diritto, quale facoltà esiste maggiore del poter troncare se incominciate, o annullare se già tenute, le assemblee e le adunanze convocate dalle più alte autorità militari e dai più alti poteri dello Stato? Che c'è di più serio dell'interrompere un affare incominciato, se un augure ha detto" ad altro giorno "? E cosa c'è più straordinaria della facoltà di decidere che i consoli rinuncino alla loro carica? o cosa più solenne del concedere o rifiutare il diritto di trattare col popolo, con la plebe? Che cosa, dunque? Annullare una legge proposta illegalmente, come nel caso della Tizia, per decreto del collegio; come nel caso delle Livie, su proposta del console ed augure Filippo ? Il poter dimostrare a ciascuno che nulla si può fare per mezzo dei magistrati senza la loro autorità, né in pace, né in guerra? XIII. [32] Attico: - Sì, osservo e ammetto che tutto ciò è importante; ma esiste un grave dissenso nel vostro collegio tra gli àuguri migliori, Marcello ed Appio - infatti anch'io mi sono imbattuto nei loro libri -, sostenendo l'uno che gli auspici furono studiati per vantaggio dello Stato, mentre all'altro sembra che con la vostra scienza si possa quasi aver la conoscenza del futuro. Ti prego di esprimere il tuo pensiero su tale questione. Marco: - Io? Personalmente ritengo che effettivamente esista la divinazione, che i Greci chiamano "mantica", ed in particolare quella sua parte che riguarda i presagi degli uccelli e quegli altri segni che fanno parte della nostra scienza. Se ammettiamo infatti che esistano gli dèi, e che il mondo sia governato dal loro intelletto, e che essi stessi provvedano al genere umano e abbiano il potere di mostrarci i presagi degli eventi futuri, non vedo perché dovrei negare l'esistenza della divinazione. [33] Esiste dunque ciò che ho detto nella premessa, dal che si conclude necessariamente quanto vogliamo. Certamente la storia del nostro paese è ormai piena di moltissimi esempi, e tutti i regni ed i popoli e le nazioni (testimoniano) che molti fatti incredibili ma veri accaddero secondo le profezie degli àuguri. Non 338
sarebbe stata così grande la fama di Poliidio né di Melampo né di Mopso né di Amfiarao né di Calcante né di Eleno, né tante nazioni avrebbero perpetuato quest'arte fino ad oggi, come quella dei Frigi, dei Licaoni, dei Cilici e soprattutto dei Pisidi, se gli antichi non avessero attestato la veridicità di quelle profezie. Nemmeno il nostro Romolo avrebbe rispettato gli auspici per fondare la città, né il nome di Atto Navio sarebbe rimasto tanto a lungo nel nostro ricordo, se tutti costoro non avessero pronunziato molti sorprendenti vaticini conformi a verità. Ma non c'è alcun dubbio che tutto il complesso di questa scienza ed arte augurale sia ormai svanita per vetustà e trascuratezza. Non sono quindi d'accordo né con chi afferma che non è mai esistita una simile scienza nel nostro collegio, né con chi la ritiene tuttora esistente. A me pare che questa scienza ed arte abbia avuto due aspetti presso i nostri antenati, sì da coinvolgere talvolta circostanze politiche, ma molto spesso da dettare norme di comportamento. [34] Attico: - Per Ercole, credo che sia proprio così e soprattutto approvo questa tua interpretazione. Ma esponi tutto il resto. XIV. Marco: - Lo esporrò; e, se mi sarà possibile, anche in breve. Il seguito infatti riguarda il diritto di guerra; nell'intraprenderla e condurla a termine abbiamo sancito per legge che si desse la massima importanza al diritto ed alla lealtà, e che di tali aspetti vi fossero degli interpreti pubblici. Quanto poi al rito degli aruspici, alle espiazioni ed alle purificazioni credo che se ne parli con sufficiente chiarezza nel testo stesso della legge. Attico: - Per me va bene, poiché tutto questo discorso è incentrato sul culto. Marco: - Però su ciò che segue vorrei chiederti, Tito, in qual modo tu saresti d'accordo [o] io potrei riprendere la discussione. Attico: - Su quale punto in particolare? [35] Marco: - Sui riti notturni delle donne. Attico: - Ma io sono d'accordo, considerato che nella stessa legge si fa eccezione per i riti solenni e pubblici. Marco: - Ma allora che ne sarà di Bacco e de nostri Eumolpidi e di quegli augusti misteri, se eliminiamo le cerimonie notturne? Noi non stiamo dando leggi al solo popolo romano, ma a tutti i popoli civili e in possesso di ordinamenti stabili. [36] Attico: - Fai un'eccezione, credo, per quei riti ai quali siamo stati iniziati. Marco: - Li escluderò, non ho dubbi in proposito; infatti la tua Atene mi sembra abbia dato origine a molti ed egregi principii umani e religiosi, e li abbia introdotti nella vita umana, ma poi non vi fu nulla di meglio di quei misteri, dai quali, venuti fuori da vita rozza ed inumana, siamo stati educati e addolciti alla civiltà, e, quindi si chiamano iniziazioni, perché abbiamo conosciuto i princìpi della vita nella loro vera essenza; e non soltanto abbiamo appreso il modo di vivere con gioia, ma anche quello di morire con una speranza migliore. Quello però che a me potrebbe dispiacere nelle celebrazioni notturne ce lo indicano i commediografi. Se tale concessione fosse fatta in Roma, che mai avrebbe compiuto quel tale, che introdusse con premeditazione la 339
sua libidine in un rito sacro, dove non era lecito gettare uno sguardo neppure involontario? Attico: - Tu proponi dunque questa legge particolare per Roma; ma non togliere a noi le nostre. XV. [37] Marco: - Allora ritorno alle nostre leggi; e queste certamente dovranno sancire con la massima cautela che una chiara luce custodisca con gli occhi di molti la reputazione delle donne e che esse vengano iniziate a Cerere con quel rito con cui vengono iniziate in Roma. Intorno a quest'argomento l'antica legislazione del senato sui Baccanali ed il processo e la punizione messa in atto anche con l'impiego dell'esercito consolare, testimoniano la severità dei nostri antenati. Proprio nel centro della Grecia, - tanto per non dare l'impressione che noi siamo troppo intransigenti -, il tebano Pagonda soppresse tutte le cerimonie notturne con una legge irrevocabile. Aristofane, il più brillante poeta della commedia antica, sferza tanto le nuove divinità e le prolungate veglie notturne usate nei loro culti, da rappresentarci nella sua opera Sabazio e altre divinità forestiere cacciate dalla città. Un pubblico sacerdote poi deve liberare da ogni timore la colpa involontaria espiata deliberatamente, deve invece condannare e giudicare empia la sfrontatezza nelle [cerimonie] e nell'introdurre riti sconci. [38] I giochi pubblici, poiché si tengono separatamente nel teatro e nel Circo, siano gare ginniche consistenti in corse, pugilato, lotta e corse di cavalli stabilite per il Circo fino a vittoria sicura, e il teatro invece si dedichi al canto e al suono delle cetre e dei flauti, purché con quella moderazione che la legge prescrive. Ritengo infatti con Platone, che nulla suggestiona di più gli animi sensibili e plasmabili che i varii suoni musicali, dei quali difficilmente si potrebbe dire quanto grande sia l'efficacia in entrambi i sensi: infatti la musica eccita i languidi ed illanguidisce gli eccitati, ed ora distende gli animi, ora li mette su, e interessò a molte città della Grecia conservare l'antico stile musicale. Infatti i loro costumi, rammollitisi, si mutarono insieme con la musica, o corrotti dalla sdolcinatezza e dall'involuzione di essa, come ritengono alcuni, ovvero in seguito alla decadenza della sua severità per causa di altri difetti, anche tale mutamento abbia potuto trovare allora accoglienza in orecchie ed animi già di per sé cambiati. [39] Perciò quel sapientissimo e dottissimo uomo Greco teme assai questo contagio. Egli afferma infatti che le leggi della musica non si possono cambiare senza un cambiamento parallelo delle leggi dello Stato. Io poi penso che non ci sia ragione per un così grave timore, ma neppure di tenerne pochissimo conto; certamente vedo bene come quelle teatri, che una volta di solito risonavano della lieta compostezza dei ritmi liviani e neviani, adesso si esaltino distorcendo teste ed occhi insieme alle modulazioni dei suoni. Queste mode un tempo erano represse pesantemente da quella Grecia antica, che vedeva già come quella tara, penetrata a poco a poco nell'animo dei cittadini, con cattive tendenze e nefaste dottrine avrebbe improvvisamente sconvolto intere città, se è vero che la severa Sparta fece tagliar via dalla cetra di Timoteo le corde superiori a sette. XVI. [40] Segue poi nel testo della legge, che dei culti patrii si osservino i migliori; in merito a questo gli Ateniesi consultarono Apollo Pizio, per sapere quali culti cioè si dovessero assolutamente mantenere, e l'oracolo rispose: " Quelli che già fossero 340
nell'usanza degli antenati ". E dopo essersi recati una seconda volta, dicendo che le usanze dei padri erano spesso mutate, essi chiesero quale usanza fra le tante così varie dovessero seguire in particolare, l'oracolo rispose: " La migliore ". E senza dubbio è così, che debba esser considerato più antico e più vicino al dio ciò che è il meglio. Abbiamo soppresso le collette, salvo quella che si fa per pochi giorni in onore della Madre Idea; esse infatti di solito riempiono gli animi di superstizioni e svuotano le case di danaro. Una punizione è stabilita per il sacrilego, e non per quello solo che abbia trafugato un oggetto sacro, ma anche per chi abbia sottratto oggetti affidati a luoghi sacri. [41] E' un deposito che ancora oggi si fa in molti santuari. Si dice che una volta Alessandro depositò il suo tesoro in Cilicia in un tempio dei Solensi, e che l'ateniese Clistene, cittadino illustre, poiché temeva per i suoi beni, affidò la dote delle figlie al tempio di Giunone Samia. Ora non è affatto il caso di discutere degli spergiuri, né dell'incesto. Gli empi non abbiano il coraggio di placare gli dèi con doni, ascoltino piuttosto Platone, il quale proibisce tassativamente di nutrire dubbi circa l'atteggiamento del dio, dal momento che neppure uno, che sia onesto, vuol ricevere doni da un malvagio. E' sufficientemente detto nella legge circa la scrupolosità dei voti e la promessa da cui, per mezzo del voto, siamo vincolati verso la divinità. Ma la punizione per la profanazione di una cerimonia sacra non ammette eccezione legittima. A che scopo infatti dovrei citare qui esempi di empi, di cui sono piene le tragedie? Toccherò piuttosto quei fatti che stanno innanzi agli occhi di tutti. Pur temendo che il ricordare tali vicende possa sembrare cosa superiore alla condizione umana, tuttavia, parlando con voi, non tacerò nulla, e vorrei che quanto dico riuscisse gradito agli dèi immortali, piuttosto che offensivo. XVII. [42] Alla mia partenza, dal delitto di cittadini scellerati furono contaminate tutte le leggi sacre, profanati i nostri Lari familiari, al loro posto fu edificato un tempio alla Licenza, e dagli altari fu scacciato colui che li aveva salvati; considerate rapidamente - non è infatti il caso di fare il nome di alcuno- quali siano state le conseguenze. Noi, che non avevamo permesso che quella custode della città fosse violata dai sacrileghi, pur in mezzo alla distruzione ed alla dispersione dei nostri beni, e l'avevamo trasferita dalla casa nostra in quella del suo genitore, ci siamo meritati il riconoscimento da parte del senato, dell'Italia, ed infine di tutti i popoli, d'avere salvato la patria e che cosa di più eccezionale sarebbe potuta accadere ad un uomo? Coloro invece, per il cui delitto la religione era allora stata calpestata e profanata, in parte se ne stanno dispersi e sbandati; e quanti fra loro erano stati i principali responsabili di questi delitti ed empi più d'ogni altro verso ogni culto, non solo patirono in vita [ tormenti] e disonore, ma furono privi di sepoltura e di onoranze funebri. [43] Quinto: - So tutto questo, fratello, e ne ringrazio gli dèi perché lo meritano; ma mi sembra che troppo spesso stiamo divagando un po'. Marco: - Infatti non sappiamo valutare esattamente, Quinto, quale sia il castigo divino, ma dalle opinioni del popolino siamo indotti in errore e non vediamo il vero; noi misuriamo le miserie umane o in base alla morte o al dolore fisico o alla tristezza spirituale o all'onta di un processo; tutti fatti che ammetto essere inerenti alla natura umana e che sono accaduti a molti uomini dabbene. Ma la punizione di un delitto è triste, e, pur prescindendo dalle conseguenze, è già gravissima di per se stessa. 341
Vediamo coloro, i quali mai avrei avuto come avversari se non avessero odiato la patria, ora bruciati da cupidigia, ora da timore, ora da rimorso, ora dubbiosi, qualunque cosa facciano, e d'altra parte sprezzanti della religione; i processi inquinati da costoro, per disonestà di uomini, non per volontà degli dèi. [44] Ma ora devo trattenermi ormai, e non potrei continuare oltre, tanto più che essi subirono punizioni maggiori di quanto io ne avessi richieste; soltanto vorrei affermare in poche parole questo, che duplice è la punizione divina, in quanto consiste nel tormentarne l'animo mentre gli uomini sono in vita, e la loro reputazione dopo morti è tale che la loro rovina è accolta dal giudizio e dalla gioia dei viventi. XVIII. [45] Inoltre mi trovo d'accordo con Platone, che non si debbano consacrare i terreni; infatti, se pure sarò capace di interpretarlo, si esprime press'a poco in questi termini: "La terra dunque, come il focolare domestico, è sacra a tutti gli dèi; perciò nessuno la consacri una seconda volta. L'oro e l'argento, poi, nelle città e nei tempietti privati e nei santuari pubblici suscitano invidia. L'avorio, estratto da un corpo senz'anima, non è dono sufficientemente puro per il dio; ed il bronzo ed il ferro sono materiali da guerra, non da templi. Quanto al legno poi, se ne dedichi quello che uno vuole, e del pari per gli oggetti di pietra nei templi pubblici, ma i tessuti non ricamati più di quanto ne possa fare il lavoro d'una donna in un mese. Il color bianco poi è il più adatto alla divinità anche per i manufatti in altro materiale, ma specialmente per quelli di tessuto; non si impieghino tinture se non nelle insegne militari. I doni più degni della divinità sono gli uccelli ed i quadri composti da un solo pittore in un sol giorno di lavoro; e così gli altri doni siano pur essi di tal fatta". Questi sono quanti piacciono a lui; ma per tutto il resto io non porrei limiti così ristretti, indottovi dai difetti umani o dal progresso dei tempi; penso però che la coltivazione della terra diventerebbe più trascurata, se si aggiungesse qualche superstizione nello sfruttarla e nel sottometterla al vomere. Attico: - Mi sono reso conto di tutto; resta ora da parlare dei culti perpetui e del diritto dei Mani. Marco: - Che memoria meravigliosa la tua, Pomponio! A me, purtroppo, erano passati di mente. [46] Attico: - Ne sono convinto. Però mi sono ricordato, e sono in attesa di questi argomenti per il fatto che hanno pertinenza col diritto pontificale e col diritto civile. Marco: - Certamente molti giudizi e scritti sono stati lasciati dai più competenti in queste materie; ed in tutta questa nostra conversazione, a qualunque specie di legge ci avrà portati la discussione, tratterò entro i limiti del possibile il nostro diritto civile appunto per quel che riguarda quel genere di leggi, ma in modo tale che sia nota la fonte onde emana ogni parte del diritto, affinchè non riesca difficile, anche con un minimo d'intelligenza , qualunque nuova causa o richiesta di parere si presenti, sostenerla sotto l'aspetto giuridico, una volta che si sappia da quale principio occorre partire. XIX. [47] Ma i giuristi, o per sottolineare un errore, al fine di sembrare d'avere una preparazione più vasta e sottile, oppure, il che è più verisimile, per ignoranza di metodo - infatti non soltanto conoscere qualcosa appartiene alla scienza, ma [vi è] 342
pure una scienza dell'insegnare -, spesso dividono all'infinito ciò che si riferisce ad un unico concetto, come appunto in questa materia ampliandola in misura tanto estesa come fanno i due Scevola, entrambi pontefici ed espertissimi di diritto. Dice il figlio di Publio: " Ho spesso sentito dire da mio padre che nessuno può essere un buon pontefice, se non conosce il diritto civile". Ma parla forse di una conoscenza completa? E perché? Quanto può importare ad un pontefice del diritto dei muri comuni o delle acque o delle luminarie, se non che abbia attinenza con le faccende del culto? E questo punto quanto è limitato come importanza! Consiste nelle cerimonie, nei voti, nelle feste, nei sepolcri, e se in ciò che vi sia qualcosa di analogo. Perché allora diamo loro tanta importanza? Essendo le altre questioni d'interesse assolutamente limitato, circa le cerimonie del culto, argomento questo più esteso, l'unico principio sia il seguente, che i riti si conservino sempre e si tramandino nelle famiglie, e, come ho esposto nella legge, siano perpetui. Ciò posto, questo diritto per l'autorità dei pontefici fece sì che nemmeno alla morte del capo famiglia venisse a cadere la memoria del culto familiare, ed esso fosse attribuito a coloro che, per la morte del padre, fossero eredi di un patrimonio. [48] Stabilito questo soltanto, che è sufficiente per la conoscenza della materia, ne nascono innumerevoli corollari, dei quali sono pieni i libri dei giuristi; essi infatti si pongono la questione di chi sia tenuto a provvedere al culto. La posizione di eredi è la più legittima; non vi è infatti persona che subentri più direttamente a1 posto di chi se ne è andato da questa vita. In secondo luogo, colui che a séguito di una morte e di un testamento venga in possesso di una quota pari a quella di tutti gli eredi messi insieme. Anche questo nell'ordine è conforme al principio che abbiamo enunciato. In terzo luogo, se non esiste alcun erede, colui che avrà fatto sua di fatto la maggior parte dei beni appartenenti al defunto al momento della morte. In quarto luogo, ove non vi sia alcuno che sia venuto in possesso di qualcosa, quello dei creditori che conservi nelle sue mani la maggior parte della sua sostanza. [49] Ultimo rimane colui che, essendo debitore del defunto e non avendo liquidato a nessuno il suo debito, venga considerato come se fosse venuto in possesso di quella somma. XX. Tutto questo, che imparammo da Scevola, non era stato oggetto di tante distinzioni da parte degli antichi. Quelli infatti insegnavano con queste parole: in tre modi si è obbligati al culto, o per eredità, o se si viene in possesso della maggior parte del patrimonio, o, se questa è stata lasciata per testamento come lascito, colui che ne abbia preso solo una parte. [50] Ma continuiamo a tener dietro al pontefice. Vedete dunque che tutto deriva da quell'unico principio, secondo il quale i pontefici vogliono che il culto vada connesso al patrimonio ed ai medesimi eredi ritengono che si debba attribuire la celebrazione delle festività e dei riti. E gli Scevola stabiliscono anche questo, che, quando si fa la divisione dei beni, come nel caso in cui non è dichiarata per iscritto nel testamento la somma da dedursi in lascito, se i legatari hanno preso di meno del totale dell'asse ereditario, non siano tenuti al mantenimento del culto. Però quelli medesimi seguono un'altra interpretazione per le donazioni, e quello che il capo famiglia approvò nella donazione di colui che è sotto la sua tutela diventa esecutivo; ciò che invece si fece a sua insaputa, se egli non lo approva, non è esecutivo. 343
[51] Da queste premesse nascono molte piccole questioni; e chi non ne avrà compreso l'essenza, non potrà forse averne piena conoscenza, risalendo al principio fondamentale. Così nel caso di uno che avesse preso meno dello spettante per non esser tenuto al carico del culto, ed in seguito uno dei suoi eredi pretendesse come sua parte ciò cui aveva rinunziato colui del quale è erede, e questi beni con la parte prelevata prima divenissero non inferiori a quelli lasciati globalmente a tutti gli eredi; colui il quale pretendesse tale parte del patrimonio sarebbe tenuto a provvedere al culto da solo, senza concorso dei coeredi. Anzi gli Scevola provvedono a che colui, il quale abbia ricevuto un lascito maggiore di quanto gli sarebbe lecito senza accollarsi il carico del culto, questi possa riscattare in contanti gli eredi testamentari dall'obbligo del culto, per questo fatto in tal modo il patrimonio viene liberato dagli obblighi derivanti dall'eredità, quasi che quel denaro non fosse stato trasmesso per testamento. XXI. [52] Su questa questione, e su molte altre io chiedo a voi Scevola, pontefici massimi e, a mio giudizio, sottilissimi giuristi, per qual ragione aggiungiate al diritto pontificale quello civile; con la conoscenza del diritto civile venite infatti in un certo senso ad annullare quello pontificale. Infatti il culto è connesso col patrimonio soltanto in virtù della vostra autorità di pontefici, ma assolutamente da nessuna legge. Pertanto, se voi foste soltanto pontefici, resterebbe l'autorità pontificale, ma dal momento che siete pure espertissimi di diritto civile, con questa conoscenza vi fate gioco di quella. P. Scevola e T. Coruncanio, pontefici massimi, e così tutti gli altri stabilirono che fossero vincolati al culto quelli che avessero ricevuto tanto quanto tutti gli eredi globalmente. Questo il diritto pontificale. [53] A questo cosa si aggiunse del diritto civile? Una clausola stesa con cautela che provvede a dedurne cento sesterzi; ed ecco trovato l'espediente per liberare il patrimonio dal molesto peso del culto. Che se colui il quale redigeva il testamento non avesse voluto ricorrervi, questo giureconsulto Mucio, pontefice egli stesso, consiglia di prendere meno di quanto venga lasciato globalmente agli eredi. I precedenti giuristi affermavano che, qualunque cosa avesse preso, l'erede era tenuto al culto; ed ora invece se ne liberano nuovamente. Ma questo non ha nessuna attinenza col diritto pontificio, ma è derivato dal bel mezzo del diritto civile, cioè che si riscatti in contanti l'erede testamentari, e che a tale condizione il patrimonio rimanga tale come se non fosse stato trasmesso per testamento, a condizione che colui, che ricevette un lascito, abbia fatto oggetto di contratto proprio ciò che gli veniva per eredità, in modo che questa parte di patrimonio gli sia dovuta in forza di contratto e non resti più [gravata dal culto]...* [54, ... uomo certamente di grande dottrina, che fu intimo di Accio, ma questi considerava, credo, come l'ultimo mese dell'anno il mese di dicembre, gli antichi invece febbraio. Riteneva poi che fosse dovere di pietà aggiungere alle cerimonie funebri una grandissima offerta sacrificale. XXII. [55] Il rispetto per le sepolture è tanto grande, che si afferma non essere lecito seppellire nello stesso luogo defunti estranei agli stessi riti ed alla famiglia, e ciò stabili al tempo dei nostri antenati A. Torquato in una causa contro la gente Popilia. Né infatti si chiamerebbero ferie tanto i giorni delle commemorazioni funebri, detti denicali da "nece", perché ne deriva riposo ai trapassati, quanto i giorni di riposo festivo dedicati agli altri dèi celesti, se i nostri antenati non avessero voluto 344
che si annoverassero tra gli dèi coloro che erano usciti di questa vita. Si è stabilito di riunire queste ferie in quei giorni in cui non ne cadano altre, né dello stessa famiglia né pubbliche; e tutta intera la costituzione di questo diritto pontificale rivela una scrupolosa osservanza della religione e del culto. E non è necessario che siamo noi a spiegare, quali siano i termini del lutto di famiglia, che genere di sacrificio si debba fare ai Lari con dei montoni, come si debba ricoprire di terra l'osso reciso, quali siano le norme stabilite per il sacrificio della scrofa, in quale momento il sepolcro incominci ad essere tale e ad essere oggetto di venerazione religiosa. [56] Ma a me personalmente sembra che la più antica specie di sepoltura sia stata quella di cui si serve Ciro in Senofonte; infatti il corpo viene restituito alla terra e così collocato e deposto da essere quasi ricoperto tutt'intorno da sua madre. Ci è stato tramandato che nella stessa maniera fu seppellito il nostro re Numa in quel sepolcro che non è lontano dall'altare del dio Fonte, e sappiamo che la famiglia Cornelia si servì di tal genere di sepoltura fino ad epoca di cui abbiamo ancora il ricordo. Silla, da vincitore, diede ordine che fossero dispersi i resti di Mario seppelliti presso l'Aniene, spinto da un odio più crudele del normale se fosse stato tanto saggio quanto fu violento. [57] E non so bene se temendo che lo stesso potesse accadere al suo corpo, che per primo fra i patrizi della famiglia Cornelia egli volle essere cremato. Dice infatti Ennio dell'Africano: " Qui egli è sepolto ", ed è esatto, poiché si dicono sepolti quelli che sono stati inumati. Eppure non è ancora un sepolcro, se prima non sono celebrate le esequie e sacrificato un maiale. E quello che ora comunemente si dice per tutti i sepolti, che sono detti inumati, questo allora si riferiva in modo specifico a quelli che erano stati ricoperti con la terra gettatavi sopra, ed il diritto pontificale conferma questa usanza. Prima infatti che venga buttata la terra sull'osso, il luogo ove il corpo è stato cremato non ha alcun significato religioso; ma buttatavi sopra la terra, allora dalla terra prende il nome di tumulo il luogo dove è inumato, e soltanto allora diventa soggetto di molti diritti religiosi. Così P. Mucio stabilì che la famiglia di colui che sia stato ucciso su di una nave ed il cui corpo sia stato gettato in mare, sia da considerarsi pura, perché non ne resta l'osso insepolto; che l' erede debba soltanto sacrificare la scrofa, che si celebrino le ferie per tre giorni e che si faccia un sacrificio espiatorio con una scrofa; ma se il defunto fosse morto in acqua, non si procede all'espiazione né alle ferie. XXIII. [58] Attico: - Mi rendo conto di ciò che è compreso nel diritto pontificale, ma ti chiedo, che cosa venga stabilito nelle leggi. Marco: - Poche disposizioni, Tito, e, come credo, non ignote a voi; ma esse riguardano non tanto il culto, quanto i diritti relativi ai sepolcri. La legge dice nelle dodici tavole: " Non si seppellisca né si cremi in città il cadavere ", penso a causa del pericolo di incendio. E poiché aggiunge " non si cremi ", chiarisce che non è seppellito colui che viene cremato, ma colui che è inumato. Attico: - Ma come è possibile, se dopo la promulgazione delle dodici tavole si seppellirono in città gli uomini illustri? Marco: - Credo, Tito, che si sia trattato di quelli cui tal privilegio fu conferito prima di questa legge in riconoscimento del loro valore, come a Publicola ed a Tuberto, 345
privilegio che i loro discendenti conservarono per diritto, o di quelli che lo conseguirono come G. Fabrizio, essendo stati esonerati dall'osservanza della legge a causa dei loro meriti. Ma come la legge fa divieto di seppellire in città, così il collegio dei pontefici stabilì che non fosse lecito che si costruissero sepolcri in luogo pubblico. Tu conosci il tempio dell'Onore fuori porta Collina; si tramanda che in quel luogo ci fosse un altare; e che, essendosi trovata presso di essa una lamina con su scritto "lamina dell'Onore ", tale fu il motivo della dedica di questo tempio. Ma poiché in quel luogo si trovavano molti sepolcri, vi fu passato sopra l'aratro; infatti il collegio stabilì che un luogo pubblico non poteva essere usato per riti di culto privato. [59] Le altre norme delle dodici tavole poi, relative alla diminuzione delle spese ed al compianto funebre, furono quasi tradotte dalla legislazione di Solone. E' detto: " Non si faccia più questo: non si levighi con l'ascia la legna del rogo ". Tu sai quel che segue, che da fanciulli imparavamo a memoria le dodici tavole come un carme obbligatorio; ma ormai quasi più nessuno le studia. Limitata dunque la spesa a tre pezze di stoffa, ad una tunichetta di porpora ed a dieci flautisti, elimina anche il lamento funebre: " Le donne non si graffino le guance e di conseguenza non intonino la nenia per il funerale ". Gli antichi interpreti Sesto Elio e L. Acilio dissero di non riuscire a comprenderlo, ma s'immaginava un qualche genere di abito da lutto, e L. Elio affermava che quelle nenie sono quasi un lugubre pianto, secondo il significato del termine stesso; e tanto più credo essere vera questa interpretazione, in quanto la legge di Solone contiene esattamente tale divieto. Queste lodevoli disposizioni sono per lo più comuni ai ricchi ed al popolo; ed è assolutamente un fatto naturale che davanti alla morte venga meno ogni distinzione di fortuna. XXIV. [60]. Le dodici tavole con lo stesso criterio soppressero le altre usanze funebri intese ad accrescere il lutto. " Non si raccolgano le ossa del cadavere", dicono, "per fargli in seguito un altro funerale". Si fa eccezione per la morte avvenuta in guerra e lontano dal proprio paese. Inoltre vi sono nelle leggi queste disposizioni: "viene abolita l'unzione del cadavere ad opera di servi, ed ogni simposio funebre". Manifestazioni che giustamente vengono soppresse e che non lo sarebbero se non fossero state in uso. Ed i divieti quali " Non si facciano libagioni troppo costosa, non si portino innanzi al defunto grandi corone né incensieri". Che tali ornamenti spettino ai defunti è già una indice di lode, poiché la legge stabilisce che "la corona acquisita col valore" possa essere legittimamente imposta ed a colui che se l'è guadagnata ed a suo padre. Credo che anche sia stato imposto il divieto di celebrare per una sola persona più di un funerale e di apprestare più di un letto funebre, e ciò venne sancito dalla legge. Ed essendovi in questa legge il divieto di "non aggiungere oro", osservate quanto umanamente il secondo comma della legge stabilisca una eccezione: " ma colui che avrà i denti legati in oro, e se quest'oro verrà seppellito o cremato con lui, ciò sia legittimo". E nello stesso tempo osservate questo, che fu considerato diverso il seppellire ed il cremare. [61] Inoltre esistono due leggi sui sepolcri, delle quali una riguarda gli edifici dei privati, l'altra i sepolcri stessi. Infatti il testo "è vietato che si eriga un rogo od una tomba a meno di sessanta piedi dalle abitazioni altrui senza il consenso del proprietario" sembra imporre il divieto per timore di un incendio. In quanto poi all'espressione " è vietato prendere possesso di fatto del foro", cioè del vestibolo della 346
tomba, "o del luogo dove fu arso il cadavere", si tutela il diritto dei sepolcreti. Queste disposizioni esistono nelle dodici tavole, assolutamente secondo natura, la quale è norma di legge; il resto è contemplato dalla consuetudine: venga celebrato il funerale come è annunziato, se sia accompagnato da giochi, e che il direttore del corteo si serva di un sostituto e dei littori, [62] si ricordino in un discorso commemorativo i meriti dei defunti insigni, e che questi siano seguiti da un canto accompagnato dai flautisti, detto nenia, nome col quale anche [presso] i Greci vengono denominate le cantilene da lutto. XXV. Attico: - Sono contento che le nostre leggi si accordino con la natura, e sono oltremodo soddisfatto della saggezza dei nostri antenati. Tuttavia mi aspetterei, come per le altre spese, così anche una limitazione per quella dei sepolcri. Marco: - Giusta esigenza, la tua; a quale sperpero di denaro infatti si sia ormai giunti, credo che te ne sarai fatta un'idea dal sepolcro di G. Figulo. Molti esempi dei nostri antenati testimoniano che un tempo non ci fu alcuna ambizione di questa portata. Infatti gli interpreti della nostra legge, in quel paragrafo dove si dispone di allontanare dal diritto degli dèi Mani le spese ed il lutto, questo dovrebbero capire soprattutto, che si dovrebbe limitare il lusso delle tombe. [63] Ciò non fu dimenticato dai più saggi legislatori. Infatti anche nella consuetudine degli Ateniesi, fin dai tempi di quel primo suo re Cecrope, rimase questa norma di seppellire nella terra; ed una volta che i parenti avevano adempiuto questa disposizione e la terra era stata gettata sul cadavere, veniva seminata a grano, quasi per dare al morto il seno ed il grembo della madre, e perché il suolo purificato dalle messi venisse restituito ai vivi. Seguiva un banchetto, cui i parenti intervenivano col capo incoronato, e presso di essi si esaltavano, se ve n'erano infatti era ritenuto empio il mentire -, i meriti del morto, [e] le cerimonie erano finite. [64] In seguito, come scrive Demetrio Falereo, quando i funerali incominciarono a diventare dispendiosi e pieni di lamentazioni, furono soppressi dalla legge di Solone; la quale dai nostri decemviri fu inserita nella decima tavola quasi con le stesse parole. Infatti quanto riguarda le tre pezze e la maggior parte di quelle disposizioni sono di Solone; circa le lamentazioni esse sono espresse con le sue stesse parole: " Le donne non si graffino le guance né intonino la nenia per il funerale". XXVI. Sui sepolcri poi in Solone non si dice nulla di più che: " nessuno rechi loro danno né vi seppellisca un estraneo ", e vi è una punizione " se qualcuno avrà violato, danneggiato, rotto un tumulo - infatti credo che questo sia il significato di tu'mbon". Ma qualche tempo dopo, a causa di quella ampiezza delle tombe, che vediamo nel Ceramico, si stabilì per legge " che nessuno costruisca un sepolcro che comporti di più di tre giornate lavorative per dieci uomini"; [65] e non era permesso abbellirlo con affreschi, né mettervi sopra quelle che chiamano erme, né pronunziare l'elogio del morto se non nei pubblici funerali, né ad opera di chi non fosse designato a tale ufficio per incarico pubblico. Era stato soppresso anche l'affollamento di uomini e di donne, per diminuire le lamentazioni; l'intervento di molta gente, si sa, [aumenta] il lutto. 347
[66] Per questo motivo Pittaco fa assoluto divieto a chiunque di partecipare ai funerali di estranei. Ma ancora il già citato Demetrio attesta che la magnificenza dei funerali e delle tombe aumentò, quasi come quella che ora si ha in Roma; consuetudine che egli stesso limitò per legge. Egli fu un uomo, come sapete, non soltanto coltissimo, ma anche insigne politico ed espertissimo nel governo dello Stato. Egli dunque limitò le spese non solo fissando un'ammenda, ma anche il tempo; sancì infatti che il trasporto funebre dovesse avvenire prima di giorno. Pose norme restrittive anche per i sepolcri di nuova costruzione: vietò infatti che si collocasse sopra il tumulo di terra nient'altro che una colonnetta non più alta di tre cubiti, o una lapide orizzontale o una piccola conca, ed a tale incarico aveva preposto un apposito magistrato. XXVII. [67] Queste le misure adottate dai tuoi Ateniesi. Ma vediamo Platone, che assegna le cerimonie funebri alla competenza dei ministri del culto, usanza che osserviamo anche noi. E, sui sepolcri, egli dice questo: è vietato riservare alla sepoltura una parte di terreno coltivato o coltivabile; ma soltanto quella parte, che per la natura del suolo possa accogliere i corpi dei morti senza detrimento per i vivi, questa sola venga pure riempita; mentre quella terra che può produrre raccolti e, come una madre, offrirci nutrimento, non deve esserci sottratta da nessuno, né vivo né morto. [68]Fa poi divieto che si costruisca un sepolcro più alto di quanto non possa essere condotto a termine in cinque giornate [da cinque uomini], né che vi sia messa sopra una lapide più grande di quanto necessario a contenere l'elogio del morto in non più di quattro esametri dattilici, quelli che Ennio chiama "lunghi". Abbiamo dunque anche l'autorità di un uomo eminente circa i sepolcri, da cui viene posto ancora un limite alle spese dei funerali a seconda del censo, da una a cinque mine. Di seguito dice quel che già sappiamo sull'immortalità dell'anima e di quanto ci attende dopo morte, della pace dei buoni e della punizione degli empi. [69] Eccovi, dunque, esposto del tutto, come credo, l'argomento del culto. Quinto: - Certo, fratello, ed anche con ricchezza di dettagli; ma continua con tutti gli altri. Marco: - Continuerò senz'altro, e dal momento che vi ha fatto piacere incoraggiarmi, concluderò col presente discorso, spero, soprattutto in una giornata come questa; vedo infatti che anche Platone ha fatto la stessa cosa, e in una sola giornata d'estate fu portato a termine tutto il suo discorso sulle leggi. Farò dunque cosi e parlerò dei magistrati; questo infatti è indubbiamente il punto che, una volta sistemata la questione del culto, è il più essenziale per mantenere in piedi lo Stato. Attico: - Parla pure, e prosegui con il metodo con il quale hai iniziato.
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LIBRO III
I. [1] Marco: - Seguirò dunque, come ho incominciato, quell'autore quasi divino che io, mosso dall'ammirazione, cito forse più spesso di quanto sarebbe necessario. Attico: - Vuoi dire Platone. Marco: - E' appunto a lui, che mi riferisco, Attico. Attico: - Eppure non viene citato mai abbastanza e né abbastanza spesso; infatti anche quei miei amici studiosi che non permettono mai di citare qualcuno se non è il loro maestro, mi consentono di amare il mio maestro come voglio. Marco: - E fanno bene, per Ercole. Che c'è infatti di più degno della tua finezza? Il tuo stile di vita e di linguaggio mi sembra che sia riuscito a raggiungere quel difficilissimo equilibrio tra autorevolezza e gentilezza. Attico: - Sono contento d'averti interrotto, dal momento che mi hai dato una così preziosa testimonianza del tuo senso critico. Ma continua quello che avevi iniziato. [2] Marco: - Facciamo allora precedere l'elogio della legge stessa citando i pregi ad essa connessi? Attico: - Benissimo, come hai già fatto per la legge sul culto. Marco: - Voi vi rendete dunque conto che questa è l'essenza del magistrato, di sovraintendere e dare prescrizioni giuste ed utili, nonché in armonia con le leggi. Come infatti le leggi stanno al di sopra dei magistrati, così i magistrati stanno al di sopra del popolo, e si può dire veramente che il magistrato è una legge parlante, la legge invece è un magistrato muto. [3] Nulla inoltre è tanto conforme al diritto ed alla disposizione della natura - e dicendo ciò, intendo dire la legge - quanto il potere; senza di esso infatti né la famiglia, né lo Stato, né la nazione, né il genere umano, né tutta la natura, né il mondo stesso potrebbero sussistere; questo infatti obbedisce al dio, ed a questo obbediscono i mari e le terre, e la vita umana ottempera alle norme di una legge suprema. II. [4] E per venire a questi argomenti più vicini e più noti a noi, tutti i popoli antichi un tempo obbedirono a dei re. Questo genere di potere era originariamente conferito agli uomini più giusti e più saggi - e tale regola ebbe larghissima applicazione soprattutto nel nostro Stato, finché esso fu governato dalla potestà regia -, e dopo si trasferiva di volta in volta ai discendenti, principio che ancora oggi resta valido per coloro che regnano. Quelli poi, cui non andò più a genio la potestà regia, non dico che non vollero obbedire più a nessuno, ma piuttosto non sempre obbedirono ad un solo individuo. Infine, poiché noi diamo leggi a dei popoli liberi, e già ho espresso il mio pensiero intorno alla forma migliore di ordinamento dello Stato in sei libri, ora adatterò le nostre leggi a quel tipo di Stato che suscitò il mio interesse. 349
[5] C'è dunque necessità di magistrati, perché senza la loro saggezza e diligenza non potrebbe sussistere uno Stato, e sulla loro distribuzione si fonda tutta la gestione dello Stato. E occorrerà stabilire non soltanto per essi un limite al loro potere, ma anche per i cittadini un limite all'obbedienza. Infatti chi ben comanda, dovrà un giorno o l'altro obbedire, e chi obbedisce con giudizio, può sembrare degno di assumere un giorno il potere. E' necessario pertanto che chi obbedisce abbia la speranza di poter un giorno comandare, e colui che comanda rifletta che tra breve dovrà obbedire. Ma non solo prescriviamo che i cittadini siano sottomessi e obbediscano ai magistrati, ma anche che li onorino e li amino, come fece Caronda nella sua costituzione; d'altra parte il nostro Platone affermò che appartengono alla stirpe dei Titani coloro i quali resistano ai magistrati, così come già quelli resistettero agli dèi celesti. Stando così le cose, veniamo ora, se volete, alle leggi vere e proprie. Attico: - Sono perfettamente d'accordo su questo criterio e sulla successione degli argomenti. III. [6] Marco: - " I supremi poteri siano legali, ed i cittadini vi obbediscano con sottomissione e senza opporvisi; il magistrato punisca il cittadino disobbediente e colpevole con una ammenda, con il carcere o con la fustigazione, a meno che non faccia opposizione un'autorità pari o maggiore o il popolo stesso, cui poter appellarsi. Quando il magistrato avrà giudicato o condannato, sia discussa dal popolo l'ammenda o la pena. I militari non abbiano diritto di appello contro il proprio comandante, e quello che avrà ordinato il responsabile delle operazioni di guerra, sia considerato legittimo ed messo in atto." "I magistrati minori, con giurisdizioni distinte, siano diversi secondo gli uffici. Quelli che ne avranno il mandato, comandino l'esercito e siano presenti i loro tribuni. In pace siano depositari del tesoro pubblico, tengano in prigione i delinquenti, reprimano i delitti capitali, coniino pubblicamente monete di bronzo, argento ed oro, giudichino le liti insorte, eseguano qualsiasi decreto del senato." [7] "Siano gli edili curatori della città, dell'annona, dei giochi solenni, e per essi sia questo il primo gradino verso le magistrature maggiori." "I censori censiscano l'età della popolazione, i figli a carico, gli schiavi ed il bestiame; tutelino gli edifici pubblici, i templi, le strade, le acque, l'erario, le entrate finanziarie; distribuiscano i cittadini nelle tribù, dividano le centurie in base al patrimonio ed all'età, prendano nota dei figli dei cavalieri e dei fanti, vietino il celibato, sorveglino la morale del popolo, non lascino una persona indegna in senato; siano in due, tengano la magistratura per un quinquennio; gli altri magistrati siano annuali, e quella loro potestà sia perpetua." [8] "Interprete della legge, che giudichi e dia mandato di giudicare le cause private, sia il pretore. Egli sia depositario del diritto civile; a questo magistrato siano pari in potere quanti ne avrà decretato il senato ed ordinato il popolo ." "Vi siano due che esercitino il potere regio, e per procedere, giudicare, provvedere siano chiamati pretori, giudici, consoli; essi abbiano il supremo potere militare, a nessuno siano soggetti; sia loro suprema legge la salute del popolo. " 350
[9] "Nessuno assuma la stessa carica se non sono passati dieci anni; si osservino i limiti di età stabiliti dalla legge degli Annali." "Ma quando vi sarà una guerra piuttosto grave, oppure discordie civili, uno solo, se il senato lo avrà decretato, abbia il potere dei due consoli, per non più di sei mesi e, nominato conforme ad auspicio favorevole, sia maestro del popolo. Chi comanda la cavalleria abbia autorità pari all'interprete del diritto, chiunque quello sia. Tutti gli altri magistrati non esistano." "Ma nel momento in cui non vi saranno consoli né maestro del popolo, gli auspici spettino ai senatori, ed essi delegheranno fra loro quelli che possano convocare i comizi e nominare legalmente i consoli." "Le autorità militari e civili, gli ambasciatori, per decreto del senato e dietro ordine del popolo, escano di città, conducano guerre legittime legalmente, risparmino gli alleati, frenino se stessi ed i loro amici, accrescano la gloria del loro popolo, tornino a casa con dei meriti." "A nessuno sia conferita qualità di ambasciatore per interesse privato." " Abbia la plebe come suoi tribuni i dieci creati a sua difesa contro la violenza, e quello che essi vietino e quel che sarà ordinato dalla plebe, sia irrevocabile; essi siano sacri ed inviolabili, né la plebe sia mai lasciata priva dei tribuni." [10]" Tutti i magistrati abbiano potere di trarre auspici e di giudicare, ed il senato sia costituito da questi; i suoi decreti siano irrevocabili; ma in caso di opposizione di un potere pari o maggiore, vengano conservati per iscritto." "L'ordine senatorio sia esente da difetti, sia di esempio agli altri." "L'elezione dei magistrati, le deliberazioni del popolo, i precetti e i divieti quando sono confermabili con voto, siano noti agli ottimati e liberi alla plebe." IV." Ma se vi sarà qualcosa che sia utile curare al di fuori dei magistrati, il popolo nomini chi se ne curi e gliene conferisca il diritto." "Il console, il pretore, il maestro del popolo e dei cavalieri e colui che i senatori presenteranno per la nomina dei consoli, abbiano il diritto di trattare col popolo e col senato; ed i tribuni che la plebe ha creato per sé, abbiano diritto di trattare col senato; ed i medesimi riferiscano alla plebe ciò che sarà necessario." "Le proposte fatte al popolo ed ai senatori siano moderate." [11] "II senatore che non si presenti si giustifichi o sia colpevole; il senatore parli quando è il suo turno e con misura, sostenga la causa del popolo." "II popolo si astenga dalla violenza. L'autorità pari o maggiore valga di più. Ma se qualche fermento turberà la discussione, la colpa sia dell'oratore. Chi si oppone ad una cattiva deliberazione sia considerato cittadino benemerito dello Stato." "Quelli che convocheranno assemblee osservino gli auspici, obbediscano al pubblico augure, le proposte siano rese note pubblicandole nel Foro, procedano ad una sola 351
deliberazione per volta sui singoli casi, informino il popolo dell'argomento, consentano che il popolo sia messo al corrente dai magistrati e dai privati." "Non si facciano leggi particolari per i privati; non prendano decisioni sulla vita di un cittadino se non attraverso i massimi comizi e per mezzo di quelli che i censori registrarono nelle classi del popolo." "Non accettino né offrano doni, né presentandosi come candidati, né quando ricoprono né dopo aver ricoperto cariche. Chi avrà violato qualcuna di queste norme abbia pena commisurata alla colpa." "I censori siano i custodi dell'autenticità delle leggi; i privati rispondano dinanzi a loro dei propri atti, né per questo siano svincolati dalla legge". "La legge è stata esposta. Ora separatevi e vi farò dare le schede." V. [12] Quinto: - In forma molto succinta, fratello, ci è stata posta sotto gli occhi la distribuzione di tutti i magistrati, ma essa è quasi quella della nostra città, anche se da te è stato aggiunto poco di nuovo. Marco: - Hai fatto una osservazione molto giusta, Quinto; questo infatti è quel moderato ordinamento dello Stato, che Scipione loda e soprattutto approva in quei libri famosi, né esso si potrebbe ottenere senza tale distinzione di magistrati. Infatti è bene tener presente che lo Stato è tenuto insieme dalle magistrature e da coloro che le presiedono, e che dal loro ordinamento si può capire quale sia la qualità di ogni Stato. E poiché i nostri antenati a ciò hanno provveduto con grande saggezza e moderazione, non hanno avuto assolutamente alcun motivo per le innovazioni, ed io ritengo che oggettivamente non vi fosse molto da innovare nelle leggi. [13] Attico: - Ed allora, come già hai fatto a proposito della legge sul culto, dietro mio consiglio e richiesta, vorrai spiegarci così anche riguardo ai magistrati, per quali ragioni specifiche si debba fare questa distinzione. Marco: - Farò come vuoi, Attico, e esporrò per intero tutto questo argomento come fu studiato e discusso dai più dotti Greci e, come ho già programmato, mi occuperò delle nostre leggi. Attico: - Mi aspetto proprio un tal genere di esposizione. Marco: - Eppure il più già è stato esposto in quei libri, cosa che pur doveva essere fatta, quando si indagava sulla forma migliore di Stato; ma alcune questioni su questo argomento dei magistrati furono studiate con molta sottigliezza prima da Teofrasto, poi dallo stoico Diogene. VI. [14] Attico: - Davvero? Anche dagli Stoici fu trattato questo? Marco: - Non del tutto, salvo da colui che ho menzionato poco fa, e poi soprattutto da quel grande e coltissimo uomo, che fu Panezio. Gli antichi, sia pure con parole piene di finezza, erano soliti discutere, sì, ma non per l'utilità pratica del popolo e dello Stato. Queste dottrine derivarono prevalentemente da questa Accademia e in primo luogo da Platone. Successivamente Aristotele illustrò nei suoi trattati tutta questa materia politica, ed Eraclide Pontico, muovendo sempre da Platone. 352
Teofrasto, dal canto suo, discepolo di Aristotele, pose il suo principale studio, come sapete, in mezzo a tal genere di problemi, ed anche Dicearco, istruito dallo stesso Aristotele, non mancò d'applicarsi a questo genere di studi. Quindi, sulla scia di Teofrasto, quel Demetrio Falereo già da me citato, trasse in maniera ammirevole questa scienza non solo dalla quiete tranquilla dei dotti al sole ed alla polvere, ma addirittura nei pericoli della lotta politica. Possiamo infatti ricordare molti grandi uomini politici pur di mediocre cultura e molti uomini coltissimi non molto interessati alla vita pubblica; ma al di fuori di questi, chi potremmo facilmente individuare che eccellesse in ambedue le attività, e fosse il più grande sia negli studi scientifici sia nella gestione dello Stato? Attico: - Penso che lo si possa trovare, e precisamente qualcuno di noi tre; ma continua come avevi iniziato. VII. [15] Marco: - Da quegli studiosi fu posto dunque il quesito, se in uno Stato potrebbe avere successo la presenza di un solo magistrato cui gli altri fossero sottoposti. Il che, lo capisco, piacque ai nostri antenati dopo la cacciata dei re. Ma poiché l'ordinamento monarchico, un tempo apprezzato, venne in seguito ripudiato non per difetto del regno in sé, ma per i difetti del re, sembrerà che sia stato ripudiato il nome soltanto di re, ne resterà invece la sostanza, se uno solo avrà giurisdizione su tutti gli altri magistrati. [16] Perciò non a caso a Sparta Teopompo contrappose ai re gli efori, e noi i tribuni ai consoli. Infatti il console ha appunto quello che gli è riconosciuto di diritto, la facoltà di farsi obbedire da tutti gli altri magistrati ad eccezione del tribuno, il quale venne istituito in un secondo tempo affinché non vi fossero più quegli inconvenienti che si erano verificati in passato. E questo evento, in primo luogo, la nascita di una magistratura non soggetta ad esso, sminuì il potere consolare, e secondariamente il fatto che essa recò appoggio non soltanto agli altri magistrati, ma anche ai privati che non obbedissero al console. [17] Quinto: - Tu parli di un grande male; infatti con la nascita di questo potere, il prestigio degli ottimati decadde e si rafforzò la violenza della folla. Marco: - Non è così, Quinto. Infatti non solo quella potestà consolare doveva sembrare al popolo troppo superba, ma anche prepotente. Ma quando si fece strada un moderato e saggio temperamento*... la legge deve essere eguale per tutti. VIII. [18] " Ritornino a casa con le lodi ". Nulla di più, infatti, al di fuori della lode, i cittadini onesti ed integerrimi dovrebbero riportare sia dai nemici sia dagli alleati. Ed è certamente evidente questo ormai, che non c'è nulla di più vergognoso che farsi mandare in missione, se non sia per pubblica utilità. Tralascio di ricordare come si comportino e si siano comportati coloro che si servono di un incarico per stare dietro alle loro eredità o ai loro crediti. Questo è forse un difetto tipico dell'uomo; ma mi domando che cosa vi può essere di più squallido di un senatore investito d'un incarico senza alcun obbligo, senza mandato, senza alcun compito di pubblico interesse? Questo genere di missioni io l'avrei soppresso nella mia veste di console, con l'approvazione unanime del senato, sebbene ciò sembrasse strettamente pertinente i senatori, se un tribuno della plebe, un tipo bizzarro, non mi avesse posto il veto. Riuscii tuttavia a limitarne la durata, e ciò che era a tempo indeterminato, lo 353
feci ridurre ad annuale. Rimane così questa macchia, però quanto meno è stata eliminata la durata. A questo punto ormai, se volete, lasciamo le province e ritorniamo a Roma. Attico: - A noi sta bene così, ma non lo vorranno affatto i funzionari provinciali. [19] Marco: - Però, Tito, se i governanti obbediranno a queste leggi, per loro nulla sarà più dolce della città, della loro casa, e nulla di più faticoso e fastidioso della provincia. Ma ora viene di seguito la legge che stabilisce quella potestà dei tribuni della plebe, la quale già è nel nostro Stato; e di essa non sarebbe necessario discutere. Quinto: - Ma, per Ercole, ti chiedo, fratello, che ne pensi di questa magistratura. A me infatti sembra persino pestifera, poiché nacque nella rivoluzione e per la rivoluzione; se vogliamo ricordarne le fasi iniziali, vediamo che esse presero corpo tra le guerre civili e mentre i quartieri della città erano invasi ed assediati. In seguito, essendo essa stata subito soppressa , secondo il testo delle XII tavole, come un bambino colpito da malformazione, in breve e non so come, fu ristabilita e rinacque molto più deforme e ripugnante di prima. IX. Quali leggi infatti quel magistrato non tirò fuori? E in primo luogo, come ben si addiceva ad un empio, quello sottrasse ogni titolo di merito ai senatori, pareggiò gli infimi gradi ai massimi, tutto sconvolse creando confusione; e, dopo avere scosso il prestigio dei principali funzionari, non rimase affatto tranquillo. [20] E, per tacere di C. Flaminio e di quegli episodi che ormai già sembrano remoti per la loro antichità, il tribunato di Tiberio Gracco quale diritto lasciò intatto ai galantuomini ? Eppure cinque anni prima un uomo d'infima origine e spregevole quanto mai, il tribuno della plebe C. Curiazio, aveva mandato in prigione D. Bruto e P. Scipione - che uomini, e quanto grandi !-, fatto questo mai verificatosi in passato. Ma il tribunato di C. Gracco con le turbolenze e con quei pugnali, che egli stesso affermò d'aver gettato nel Foro, affinchè con essi i cittadini si sgozzassero fra di loro, non sconvolse forse del tutto le condizioni dello Stato? E che altro dovrei dire ormai di Saturnino, di Sulpicio, di tutti gli altri? E questi lo Stato non potè allontanare da sé senza l'uso delle armi. [21] E perché poi dovrei ricordare o fatti antichi o estranei anziché i nostri e per di più recenti? Chi, io dico, avrebbe potuto mai essere tanto temerario, tanto nemico nei nostri confronti, da pensare di farci precipitare giù dalla nostra posizione, se non avesse puntato contro di noi il pugnale di qualche tribuno? Ma poiché questi uomini scellerati e disperati non poterono trovarlo in nessuna casa, né in nessuna famiglia, credettero di poter sconvolgere le masse nelle zone tenebrose dello Stato. Notevole e degno d'immortale ricordo è per noi il fatto che per nessun compenso si potè trovare alcun tribuno contro di noi, se non uno per il quale non sarebbe stato neppure legale essere tribuno. [22] Ma quello quali stragi compì! Esse furono tali, quali solo la furia di una belva impura, accesa dal furore di molti avrebbe potuto provocare, senza una ragione e senza alcuna onesta speranza. Ed è per questo motivo che io apprezzo vivamente Silla, che con la sua legge tolse ai tribuni della plebe la possibilità di nuocere, lasciando loro quella di portare aiuto alla plebe; ed io sempre esalto con grandi e ampi riconoscimenti il nostro Pompeo per tutto il resto, preferisco tacere per quanto 354
conceme la potestà tribunizia. Infatti non mi farebbe piacere criticarlo, ma nemmeno potrei lodarlo. X. [23] Marco: - Tu scorgi molto bene i difetti del tribunato, Quinto, ma in ogni accusa sarebbe ingiusto dare risalto ai difetti ed enumerare i mali, dimenticando gli aspetti positivi; è ovvio che in questo modo si può rimproverare anche il consolato, col raccogliere le colpe di quei consoli, che non sto ad elencare. Anch'io infatti ammetto che in questa magistratura c'è qualcosa di negativo; ma senza questo male non avremmo nemmeno i vantaggi che ne sono derivati. "Eccessivo è il potere dei tribuni della plebe." E chi lo nega? Ma è molto più crudele e sfrenata la violenza della plebe, eppure questa, quando trova una guida, è talvolta più docile che se non ne avesse alcuna. Un capo infatti sa bene di procedere a proprio rischio e pericolo, ma l'irruenza della folla non sempre ha consapevolezza del proprio pericolo. [24] "Ma qualche volta sì infiamma." E in verità spesso si calma. Quale organo collegiale potrebbe essere così disperato, da non avere fra dieci suoi componenti qualcuno sano di mente? Che anzi proprio un oppositore, che era stato non solo trascurato, ma addirittura soppresso, condusse alla rovina lo stesso Tiberio Gracco. Che altro infatti lo abbattè, se non il fatto di avere annullato il potere al collega che gli si opponeva ? Ma tu scorgi in quell'episodio la saggezza dei nostri antenati: dopo che dai patrizi fu concessa alla plebe questa magistratura le armi caddero, la rivoluzione fu spenta, si trovò un compromesso, per cui gli individui delle classi più umili potessero credere di essere equiparati agli ottimati; ed in questo solo provvedimento vi fu la salvezza dello Stato. " Ma i Gracchi furono due." Ed oltre a quelli, sebbene si possano contarne molti, dal momento che erano nominati a dieci per volta, troverai vari tribuni assolutamente funesti nel ricordo di tutti, ed anche di avventati, di non buoni forse di più: la classe alta non è più malvista, la plebe non fa più azioni di lotta per i suoi diritti. [25] Perciò o non si sarebbero dovuti cacciare i re, o si doveva concedere alla plebe una libertà concreta, non a parole. Questa tuttavia fu concessa in modo tale da cedere all'autorità dei più ragguardevoli cittadini, grazie numerose ottime istituzioni. XI. La mia attività politica la quale, ottimo e caro fratello, si scontrò con l'autorità tribunizia, non ebbe alcuna contesa col tribunato in sé.Non fu infatti la plebe eccitata a scagliarsi contro i nostri beni, ma furono aperte le prigioni e furono aizzati gli schiavi, aggiungendovi per di più il terrore militare. Ed io allora non ebbi alcuno scontro con quell'uomo pestifero, ma con la gravissima situazione politica, per cui se io non mi fossi piegato, la mia patria non avrebbe conseguito un duraturo frutto del beneficio da me fattole. E questo fu confermato dalla conclusione degli avvenimenti: chi vi fu, non solo di libera condizione, ma anche schiavo degno di libertà, al quale non stesse a cuore la nostra salvezza? [26] Al punto che, se il risultato di quanto feci per la salvezza della patria fosse stato tale da non essere gradito a tutti, e se invece l' odio fiammeggiante della moltitudine infuriata mi avesse cacciato via e la violenza dei tribuni avesse scagliato contro di me il popolo, così come Gracco contro Lenate, Saturnino contro Metello, l'avremmo sopportato, fratello mio Quinto, e ci avrebbero dato conforto non tanto quei filosofi vissuti ad Atene,- il cui compito era appunto questo-, quanto piuttosto 355
quegli illustri personaggi che, scacciati da quella città, preferirono essere privati di una città ingrata che rimanere in una disonesta. Tu non approvi molto Pompeo appunto per questa sola circostanza, e ciò mi fa credere che tu non hai seguito con sufficiente attenzione che egli dovette valutare non soltanto quella che era meglio, ma anche ciò che era necessario. S'accorse infatti che non si poteva negare alla cittadinanza il diritto di questa magistratura; considerato che il nostro popolo aveva desiderato tanto ardentemente una autorità ancora ignota, come avrebbe potuto farne a meno dopo averlo conosciuta? Fu dunque da saggio cittadino il non abbandonare ad un altro cittadino pericolosamente popolare una causa di per sé non pericolosa e già così popolare da non potervisi opporre. Tu, fratello, sai che in questo tipo di discussioni, per poter passare ad altro, si è soliti " dire " sta bene " oppure " è proprio così ". Quinto: - Io invece non sono d'accordo; desidererei però che tu continuassi, passando al resto. Marco: - Tu dunque persisti e resti della tua precedente opinione. Attico: - Neppure io, per Ercole, mi trovo in disaccordo col nostro Quinto; ma ascoltiamo quel che rimane. XII. [27] Marco: - In seguito si attribuisce a tutti i magistrati la facoltà di trarre auspici e di giudicare: i giudizi, affinchè vi fosse un'autorità popolare alla quale appellarsi, gli auspici, affinchè ragionevoli dilazioni impedissero molti comizi inutili; infatti non di rado gli dèi immortali repressero con gli auspici la foga ingiustificata del popolo. Tra quelli vi furono coloro i quali tennero la magistratura, e questi sono i soggetti che compongono il senato; sarebbe gradito al popolo che nessuno pervenisse alla massima carica se non per elezione popolare, una volta eliminata l'integrazione del senato per opera dei censori. Ma si trova a portata di mano uno strumento che attenua questo difetto, per il fatto che l'autorità del senato viene rafforzata dalla nostra legge. [28] Essa infatti aggiunge: " I suoi decreti siano irrevocabili ". Infatti le cose stanno in questi termini , cioè, se il senato è arbitro delle pubbliche decisioni, tutti sostengano quanto esso ha stabilito, e se le altre classi vogliono che lo Stato sia governato dal consiglio di questa classe di ottimati, è possibile, mediante il giusto equilibrio dei diritti, risiedendo il potere nel popolo e l'autorità nel senato, mantenere lo Stato in condizioni di normalità e di concordia, soprattutto se viene osservata la legge successiva, la quale afferma: " Questo ordine sia esente da difetti, sia di esempio agli altri". Quinto: - Davvero magnifica, questa legge, fratello, ma è anche del tutto chiaro che quest'ordine sia del tutto esente da difetti, ed inoltre esige l'intervento del censore per la sua interpretazione. [29] Attico: - Ma quest'ordine, sebbene sia tutto tuo e conservi il ricordo riconoscente del tuo consolato, potrebbe stancare, con tua buona pace, consentimi di dirlo, non solo i censori, ma anche tutti i giudici. XIII. Marco: - Lascia stare questi argomenti, Attico; questa discussione non riguarderà questo senato né questi uomini che vi sono oggi, ma quelli futuri, se 356
alcuni per caso vorranno obbedire a queste leggi. Infatti poiché la legge impone che quest'assemblea sia esente da ogni difetto, non sarà nemmeno ammesso in quest'ordine alcuno partecipe di azioni indegne. E ciò in pratica è difficile da attuarsi, se non grazie ad una certa educazione e disciplina; delle quali forse diremo qualcosa, se rimarrà un po' di tempo e l'occasione. [30] Attico: - L'occasione certo non mancherà, poiché tu stai seguendo l'ordinata successione delle leggi; il tempo, poi, ce lo dà la lunghezza della giornata. Ed anche se ti passasse dalla mente, sarò io a rammentarti questo punto della educazione e della disciplina. Marco: - E tu chiedimi liberamente, Attico, sia questo sia qualunque altro argomento su cui sarò passato oltre. " Sia di esempio agli altri ". Se [abbiamo] questo, abbiamo tutto. Come infatti l'intera città è di solito contaminata dalle passioni e dai vizi dei principali esponenti, così essa viene risanata e corretta dal loro equilibrio. Si raccontava che quel grande uomo ed amico di noi tutti, L. Lucullo, al rimprovero che gli era stato mosso circa la magnificenza della sua villa di Tuscolo, avesse risposto molto garbatamente, di avere due vicini, un cavaliere romano quello di ceto più elevato, e un liberto di ceto inferiore; avendo costoro delle ville magnifiche, si doveva pur concedere a lui quanto era lecito a coloro che appartenevano ad una classe inferiore. Ma non vedi, Lucullo, che da te nacque appunto quel problema, cioè che essi desiderassero ciò che a loro non sarebbe stato lecito, se tu non l'avessi fatto? [31] E chi mai avrebbe potuto sopportare tali uomini, vedendo le loro ville zeppe di statue e di quadri, in parte appartenenti allo Stato, in parte perfino ad enti religiosi e luoghi sacri? Chi non metterebbe fine alle loro brame, se appunto coloro che dovrebbero frenarle, non fossero succubi della stessa cupidigia? XIV. Ma i difetti degli ottimati non sono tanto un male in sé, sebbene questo sia già un grande male di per sé stesso, quanto per il fatto che degli ottimati spuntino fuori moltissimi imitatori. È possibile vedere infatti che, volendo andare indietro nel tempo, a seconda di quali siano stati i maggiori esponenti della città, tale fu pure la città; e qualunque cambiamento morale si sia manifestato negli ottimati, il medesimo cambiamento ne è seguito nel popolo. [32] E questo è molto più vero di quanto ritiene il nostro Platone. Egli afferma che le condizioni dello Stato mutano col mutare degli stili musicali; io invece penso che i costumi delle città cambino dopo che è cambiato il tenore di vita dei nobili. Per questo appunto i maggiori responsabili della rovina dello Stato sono i nobili corrotti, in quanto non soltanto nutrono in sé i propri vizi, ma li trasmettono ai cittadini, e sono di danno non soltanto per la loro stessa corruzione, ma anche perché essi corrompono, e nuocciono più con il cattivo esempio che con la loro colpa. E questa legge, estesa a tutta una categoria, può avere un'applicazione anche più ristretta; pochi infatti, molto pochi sono quelli che, ingranditisi per onori e per gloria, possono o corrompere o correggere i costumi dei cittadini. Ma di ciò si è detto abbastanza anche ora, e se ne è già trattato in altri libri in maniera più approfondita. Perciò passiamo al resto.
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XV. [33] II prossimo argomento riguarda le votazioni, di cui vorrei che gli ottimati fossero informati, e libere al popolo. Attico: - Così ho inteso, ma non mi è stato abbastanza chiaro che cosa volesse dire questa legge o queste parole. Marco: - Lo dirò, Tito, e dovrò trattenermi su un argomento difficile, molto e spesso dibattuto, se sia meglio cioè il voto segreto o quello pubblico nell'elezione di un magistrato o nel giudicare un imputato e nel proporre o decretare una legge. Quinto: - Ma c'è da dubitarne? Temo di non essere nuovamente d'accordo con te. Marco: - Non lo sarai, Quinto. Infatti io ho quest'opinione che so essere sempre stata condivisa da te, cioè che nelle votazioni nulla vi sarebbe di meglio della dichiarazione verbale; ma occorre che si accerti se sussistano le condizioni perché si possa fare. [34] Quinto: - Eppure, fratello, con tua buona pace, oserei dire, quest'opinione in particolare ed inganna gli inesperti ed assai spesso nuoce al pubblico interesse, quando si dice che qualcosa è vera e giusta, ma si afferma che non si può ottenere, cioè che non è possibile opporsi al popolo. Ci si oppone infatti in primo luogo agendo con severità, e secondariamente subire violenza per una causa buona è meglio che assecondarne una cattiva. Chi non s'accorge infatti che la legge tabellaria ha annullato tutta l'influenza degli ottimati? Legge che il popolo libero mai aveva desiderato, ma che chiese con insistenza invece quando fu oppresso dalla dominazione e dal potere dei capi. Pertanto quando si debbono giudicare i personaggi più potenti, risultano più severi i giudizi dati a voce di quelli della scheda. Per tal motivo si sarebbe dovuto impedire ai potenti l'eccessiva voglia di racimolare voti in cause non oneste, piuttosto che offrire al popolo un rifugio, nel quale mentre i galantuomini ignorano ciò che ciascuno di loro pensa, con la scheda esso nasconde un voto riprovevole. Pertanto non si trovò mai una persona retta che volesse suggerire o presentare un tale progetto di legge. XVI. [35] Quattro sono infatti le leggi tabellari la prima delle quali riguarda l'elezione dei magistrati; essa è la Gabinia, presentata da un uomo di estrazione sociale bassa e volgare. Due anni dopo arrivò la legge Cassia sui processi popolari, proposta da L. Cassio, nobile ma, con buona pace della sua famiglia, in disaccordo con i galantuomini, e bramoso di monopolizzare ogni minimo accenno di favore accarezzando il popolo. La terza è quella di Carbone, riguardante l'approvazione o il rigetto delle leggi; cittadino, questo, turbolento e disonesto, al quale non potè procurargli sicurezza da parte dei galantuomini nemmeno l'aver fatto ritomo fra di loro. [36] In un solo genere di dichiarazioni, per il quale aveva fatto eccezione lo stesso Cassio, sembrava essere lasciato il voto verbale, quello di alto tradimento. Ma anche a questa sorte di processi C. Celio impose la scheda, e finché visse si rammaricò di avere procurato un danno allo Stato pur di far condannare G. Popilio. Anche il nostro nonno, eccezionalmente probo tra i cittadini di questo municipio, finché visse, si oppose a M. Gratidio che proponeva una legge tabellaria, quantunque ne avesse sposato la sorella, che era nostra nonna; infatti Gratidio, com'egli era solito dire, sollevava tempeste in un bicchiere, quelle che poi suo figlio Mario sollevò nel mare 358
Egeo. Ed a nostro nonno il console M. Scauro, informato della cosa, disse: " Dio volesse, M. Cicerone, che con questo tuo carattere e questo tuo rigore morale tu avessi preferito occuparti di tutto lo Stato insieme a noi, anziché di questo tuo municipio!" [37] Per questo dunque, poiché non stiamo ora passando in rassegna le leggi del popolo romano, ma o rievochiamo quelle abolite o ne scriviamo di nuove, credo che tu dovresti dire non quello che si possa ottenere con questo popolo, ma quello che di per se è ottimo. Infatti il tuo Scipione, che si dice appunto ne sia stato il suggeritore, porta la colpa della legge Cassia; tu invece risponderai di persona, se proporrai una legge tabellaria. Essa infatti non piacerebbe né a me né, a giudicare dalla sua faccia, al nostro Attico. XVII. Attico: - Ma a me non è mai piaciuta alcuna forma di istituzione democratica, e sostengo che la miglior forma di Stato è quella che costui aveva stabilito durante il suo consolato, che si basa sul potere degli ottimati. [38] Marco: - Anche voi, da quel che vedo, avete re spinto la legge senza l'uso della scheda. Ma, pur avendo parlato abbastanza Scipione in sua difesa in quei libri, nonostante tutto io concederei al popolo questa libertà, in modo che i migliori godano di autorità e di prestigio. Infatti la legge sulle votazioni è stata così enunciata da me: " Siano a conoscenza degli ottimati e liberi alla plebe ". Una tale legge contiene questo concetto, in maniera tale da annullare tutte le leggi che furono proposte in seguito, le quali con ogni trucco nascondono il voto, affinchè nessuno veda sulla scheda, nessuno solleciti il voto, nessuno faccia degli appelli. La legge Maria fece stretti anche i ponti. [39] E se tutte queste norme si oppongono agli ambiziosi, come effettivamente lo sono per lo più, io non le critico; ma se le leggi avessero efficacia per eliminare i brogli elettorali, il popolo abbia pure la scheda, quasi garanzia di libertà, purché questa scheda possa essere mostrata a tutti i migliori e più seri cittadini e venga esposta spontaneamente; in tal modo con questo stesso atto si manifesti la libertà per cui si dà al popolo la facoltà di rendere onestamente un servigio ai galantuomini. Perciò ora accade quello che tu poco fa hai detto, Quinto, che la scheda ne condanna molto meno di quanti di solito ne condannasse il voto verbale, poiché il popolo è soddisfatto di averne la facoltà. Ottenuto ciò, egli affida gli altri suoi voleri al prestigio o alla riconoscenza. E così, per non parlare delle votazioni corrotte dall'elargizione di danaro, non vedi che, allorché tace l'intrigo, ci si informa durante le votazioni cosa ne pensino i miglioi cittadini? Ecco dunque che con la nostra legge si concede l'apparenza della libertà, si mantiene il prestigio dei galantuomini, si elimina una causa di contrasti. XVIII. [40] Segue poi l'articolo relativo a chi debba avere la facoltà di trattare col popolo o col senato. Legge severa, a quel che penso, ed eccellente: " [Le proposte fatte al popolo] ed ai senatori siano misurate ", cioè, equilibrate e ponderate. Il presentatore infatti governa e plasma non soltanto le menti e la volontà, ma quasi il volto stesso di coloro ai quali si rivolge. Il che non è difficile tranne che in senato, poiché il senatore è appunto tale da non lasciar trasportare il proprio animo dall'oratore, ma da voler capire tutto da se stesso. Per questo esistono tre precetti: che intervenga; infatti la discussione acquista in serietà quando l'assemblea è al 359
completo; che parli quando è il suo turno, cioè quando è interpellato; che non sia prolisso. Infatti la concisione nell'esporre il proprio pensiero è un grande pregio non soltanto del senatore, ma anche dell'oratore. Né ci si dovrebbe mai servire di un lungo discorso, - il che accade spessissimo per gli intrighi - se non nel caso in cui per colpa del senato sia utile far perdere un giorno senza l' intervento propizio di un magistrato, oppure quando l'argomento è di tale importanza, che sia necessaria la facondia dell'oratore per esortare o per dimostrare; ed in ambedue questi generi è grande il nostro Catone. [41] E quanto poi all'aggiunta della frase " sostenete la causa del popolo", è necessario al senatore conoscere a fondo le condizioni dello Stato - e questo è più che chiaro: quanti soldati vi siano sotto le armi, quale la consistenza del tesoro, quali siano gli alleati dello Stato, quali gli amici, quali i popoli tributari, quali siano le leggi, le condizioni ed i trattati d'alleanza di ciascuno, - avere pronte le formule dei decreti, conoscere gli esempi degli antichi. Voi potete ormai scorgere in questo un genere di conoscenza, di preparazione, di memoria, senza del quale un senatore non può in nessun modo essere preparato. [42] Inoltre vi sono i rapporti col popolo, fra i quali la prima e più importante norma è " stia lontana la violenza ". Nulla infatti è più dannoso per gli Stati, nulla tanto contrario al diritto ed alle leggi, nulla meno civile e più disumano che affrontare dei problemi con la forza in uno Stato ben ordinato e strutturato. Si impone poi di obbedire a chi si presenta come oppositore, di cui nulla vi è di più importante: è infatti meglio bloccare una iniziativa buona anziché avviarne una cattiva. XIX. In quanto al punto dove stabilisco che "la colpa sia del presidente ", tutto ciò l'ho detto in base al pensiero di Crasso, uomo di grandissima saggezza; il senato lo approvò, e questo in occasione della relazione del console C. Claudio sulla sommossa di Cn. Carbone, dopo aver decretato che nessuna sommossa poteva mai verificarsi contro la volontà di chi aveva convocato il popolo, potendo egli sciogliere l'assemblea non appena si facesse opposizione e s'incominciasse a creare torbidi. Chi persiste nelle agitazioni, quando non si può decidere nulla, va in cerca di violenza, per la quale non può rimanere impunito in base a questa legge. [43]Segue il comma " chi si oppone ad una cattiva deliberazione sia considerato cittadino benemerito dello Stato". E chi non s'impegnerebbe a soccorrere lo Stato, se viene lodato dalla voce di una legge così esemplare? Seguono quindi le norme che abbiamo anche nelle nostre pubbliche istituzioni e leggi: "osservino gli auspici, obbediscano all'augure". È dovere dell'augure coscienzioso ricordarsi che deve essere d'aiuto nelle più gravi circostanze dello Stato, e che egli è stato assegnato a Giove Ottimo Massimo quale sacerdote e annunciatore dei suoi consigli, così come per lui sono quelli cui egli abbia ordinato di assisterlo negli auspici; a lui sono state assegnate porzioni definite di cielo, dalle quali spesso egli porti soccorso alla cittàdinanza. Seguono poi le norme circa la promulgazione delle leggi, del trattare un affare per volta, del dare ascolto ai privati ed ai magistrati. [44] Ed ecco due magnifiche leggi dedotte dalle dodici tavole, delle quali la prima sopprime i privilegi, e l'altra fa divieto che si decida della vita di un cittadino al di fuori dei comizi centuriati. Ed è veramente cosa degna d'ammirazione che, quando 360
non si erano ancora inventati i tribuni della plebe, anzi non si era ancora neppure pensato ad ciò, i nostri antenati abbiano dato saggio di tanta previdenza per il futuro. Essi non vollero che si promulgassero leggi a favore di privati cittadini; non vollero, cioè privilegi, dei quali che cosa vi è di più ingiusto, dal momento che questa è la forza della legge: l'essere un decreto ed un ordine valido per tutti. Non vollero proposte riguardanti una persona sola, se non nei comizi centuriati; infatti il popolo diviso per censo, per classi, per età, nel dare il suo voto usa maggior ponderazione di quando è convocato disordinatamente nelle tribù. [45] Per la qual cosa con maggior verità L. Cotta, uomo di grandissima intelligenza e saggezza, era solito dire che nulla era stato fatto contro di noi nella causa che ci riguardava; perché, oltre al fatto che quei comizi erano stati tenuti sotto la minaccia di schiavi armati, i comizi tributi non potevano essere competenti in cause penali e nessun comizio poteva deliberare circa una persona privata; pertanto noi non avevamo bisogno di alcuna legge, poiché nulla era stato condotto legalmente nei nostri riguardi. Ma da voi due e dagli uomini più illustri fu visto molto bene come tutta l'Italia dimostrò il proprio pensiero intomo a quella stessa persona contro la quale una masnada di schiavi e di briganti diceva di aver espresso una condanna. XX. [46] Seguono gli articoli circa l'accettazione di doni in denaro e circa i brogli elettorali. E poiché le leggi devono essere rese efficaci più con i processi che con le parole, si aggiunge: "Vi sia una pena pari alla colpa", affinchè ciascuno sia colpito secondo la sua colpa, la violenza con la morte, l'avidità con un'ammenda, l'ambizione sfrenata per gli onori con l'infamia. Le ultime leggi non sono in vigore presso di noi, eppure necessarie allo Stato. Non abbiamo alcun depositario della legge; pertanto le leggi sono quali le vogliono i nostri cancellieri; le andiamo a chiedere ai copisti, non abbiamo nessun documento pubblico inserito in atti pubblici. I Greci agirono con maggiore diligenza; presso di loro si nominavano dei " custodi delle leggi ", ed essi non solo custodivano il testo autentico - il che si faceva anche presso i nostri antenati -, ma essi osservavano anche le azioni degli individui e li richiamavano all'osservanza delle leggi. [47] Questo incarico dovrebbe essere affidato ai censori, dal momento che noi vogliamo che essi siano sempre presenti nel nostro Stato. Coloro i quali escono da una magistratura dichiarino ed espongano presso i medesimi ciò che essi hanno compiuto durante tutta la carica ricoperta, ed i censori ne diano un giudizio preliminare. Questo in Grecia lo si fa nominando dei pubblici accusatori, i quali non possono agire con severità se non sono volontari. Per questo è meglio che si dia conto ai censori e si espongano loro le giustificazioni, e che tuttavia resti immune da pregiudizi l'azione della legge, dell'accusatore e dell'autorità giudiziaria. Ma ormai abbiamo discusso abbastanza dei magistrati, a meno che non vogliate sapere qualcosa di più. Attico: - Perché? Se noi ce ne stiamo zitti, l'argomento stesso non te lo richiama in mente. Che cos'altro dovresti dirci? Marco: - Io? Credo qualcosa sui processi, Pomponio; questo infatti è connesso con i magistrati.
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[48] Attico: - Dunque, pensi di non doverci dire nulla delle leggi del popolo romano, così come hai incominciato? Marco: - Su questo argomento che cosa hai da chiedere? Attico: - Io? quello appunto che ritengo vergognosissimo sia ignorato dagli uomini politici. Come infatti hai detto poco fa, che noi andiamo a chiedere le leggi ai copisti, così ho l'impressione che i più dei magistrati, per ignoranza delle norme giuridiche che li interessano, capiscono solo quel tanto che gli scrivani gli permettono. Per cui, se hai ritenuto opportuno parlare del passaggio dele cerimonie private, quando hai proposto le leggi sul culto, dovresti ora trovare il modo, dopo aver predisposto per legge le magistrature, di discorrere della giurisdizione delle singole autorità. [49] Marco: - Lo farò rapidamente, se mi sarà possibile; infatti l'amico M. Giunio ne scrisse diffusamente a tuo padre, con periziaa, a mio avviso, e con diligenza. Ma noi dobbiamo ragionare e parlare del diritto naturale secondo il nostro criterio, mentre del diritto del popolo romano dovremmo esporre ciò che è rimasto valido e che ci è stato tramandato. Attico: - Credo anch'io così, e mi aspetto appunto ciò che dici.
FRAMMENTI
1. E dovremmo congratularci con noi stessi, poiché la morte ci apporterà una condizione o migliore di quella che abbiamo in vita, o certamente almeno non peggiore; infatti divina è una vita senza corpo col pieno vigore dell'anima, e nulla certamente vi sarebbe di male laddove venisse meno la sensazione del medesimo. 2. Come il mondo è connesso e si sostiene perché tutte le sue parti concordano per la comunanza di un'unica natura, così gli uomini mescolati tra di loro per natura, discordano per errore di giudizio e non capiscono di essere consanguinei e soggetti ad un'unica e medesima tutela; ma se questo principio fosse fissato bene, gli uomini vivrebbero certamente una vita da dèi. 3. Grave ed audace deliberazione prese la Grecia per aver consacrato nei ginnasi le statue dei Cupidi e degli Amori. 4. Chi potrà proteggere gli alleati, se non saprà scegliere fra le cose utili e le inutili? 5. Poiché il sole pare essersi ormai abbassato un poco dalla posizione del mezzogiorno e tutto questo posto non è più sufficientemente ombreggiato da queste piante novelle, non vorresti che scendessimo al Liri, e continuassimo ciò che resta all'ombra di quegli ontani?
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