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STEPHEN KING AL CREPUSCOLO (Just After Sunset, 2008) Per Heidi Pitlor Indice Introduzione Willa Torno a prenderti Il sogno di Harvey Area di sosta Cyclette Le cose che hanno lasciato indietro Pomeriggio del diploma N. Il gatto del diavolo Il «New York Times» in offerta speciale Muto Ayana Alle strette Note al crepuscolo Introduzione Un giorno, nel 1972, tornando a casa dal lavoro trovai mia moglie seduta al tavolo della cucina davanti a un paio di cesoie da giardinaggio. Sorrideva, quindi non ero in un guaio troppo serio; d'altra parte disse che voleva il mio portafogli. Questo mi piacque meno. Glielo consegnai comunque. Lei vi frugò dentro e ne estrasse la mia carta Texaco per la benzina - a quei tempi dolci e innocenti veniva inviata automaticamente a tutti i novelli sposi - e la tranciò riducendola in tre grossi pezzi. Quando protestai sostenendo che quella carta di credito era sempre stata molto comoda e che eravamo riusciti sempre a saldare alla fine del mese (qualche volta versavamo qualcosa di più), lei scosse la testa e di-
chiarò che gli interessi che pagavamo erano più di quanto la nostra fragile economia domestica potesse sopportare. «Meglio eliminare la tentazione», disse. «Io ho già tagliato la mia.» Punto e a capo. Per due anni nessuno dei due possedette una carta di credito. Era sensato, era geniale, perché all'epoca avevamo poco più di vent'anni e due figli di cui prenderci cura; finanziariamente ci tenevamo a galla per miracolo. Io insegnavo inglese in un liceo e durante l'estate lavoravo in una lavanderia industriale dove facevo il bucato dei motel e di tanto in tanto mi occupavo anche delle consegne con il furgoncino. Durante il giorno Tabby badava ai bambini, scriveva poesie mentre facevano il sonnellino e, quando io tornavo a casa da scuola, lavorava per un intero turno al Dunkin' Donuts. Insieme guadagnavamo quanto bastava per pagare l'affitto, il mangiare e i pannolini per il nostro figlio più piccolo, ma non abbastanza da permetterci un telefono; vi rinunciammo come avevamo fatto con la carta di credito della Texaco. Troppo forte la tentazione di qualche interurbana. Avanzava qualcosa per comprare qualche libro - nessuno dei due avrebbe potuto farne a meno - e per i miei vizi (birra e sigarette), ma oltre quello restava ben poco. Di certo non avevamo di che pagare il privilegio di possedere quel comodo ma infine pericoloso rettangolo di plastica. Gli avanzi di cassa servivano di solito a cose come riparazioni all'automobile, conti del dottore o quelle che io e Tabby chiamavamo le «bambelinate»: giocattoli, un box per bambini di seconda mano, qualcuno di quegli irritanti libriccini di Richard Scarry. E quei piccoli extra giungevano spesso dai racconti che riuscivo a piazzare presso riviste maschili come Cavalier, Dude e Adam. A quei tempi, la letteratura era fuori discussione e qualunque discorso sul «valore duraturo» dei miei scritti sarebbe stato un lusso come la carta di credito. I racconti, quando riuscivo a venderli (non sempre succedeva), erano semplicemente un gradito dono giunto dal cielo. Un po' come il gioco della pentolaccia, solo che io colpivo con una macchina per scrivere invece che con un bastone. Qualche volta ne prendevo una in pieno e ci pioveva addosso qualche centinaio di dollari. Altre volte no. Per mia fortuna - e credetemi se dico che ho vissuto una vita estremamente fortunata, e per più di un verso - la mia opera era anche la mia gioia. Nella maggior parte dei casi quei racconti mi sballavano, mi procuravano un viaggio. Sgorgavano uno via l'altro, come i successi dalla stazione rock AM che, quando scrivevo, ascoltavo sempre nel locale lavanderia che era
anche il mio studio. Li scrivevo di getto, raramente ci tornavo sopra dopo la seconda stesura e mai mi sarei sognato di domandarmi da dove saltassero fuori o in che modo la struttura di un buon racconto differisca dalla struttura di un romanzo, o con quale tecnica si affrontino questioni come la psicologia di un personaggio, retroscena e cornice temporale. Mi lasciavo trasportare da puro istinto, mi facevo guidare da nient'altro che dalle mie intuizioni e da una totale, infantile fiducia in me stesso. Per me contava solo che mi venissero quelle idee. Solo di quello dovevo preoccuparmi. Di certo non riflettei mai sul fatto che scrivere racconti sia un'arte fragile, di quelle che, se non vengono esercitate con costanza, vengono presto dimenticate. Non mi sembrava fragile a quei tempi. A me quasi tutte quelle storie sembravano dei bulldozer. Molti romanzieri americani di successo non scrivono racconti. Dubito che sia una questione di soldi; gli scrittori di best-seller non hanno di queste preoccupazioni. Può essere che quando il mondo del romanziere a tempo pieno scende, diciamo, sotto le settantamila parole, spunta una sensazione di claustrofobia creativa. O forse più semplicemente con il trascorrere del tempo si perde il talento della miniaturizzazione. Molte cose nella vita sono come andare in bicicletta, ma scrivere racconti non è una di esse. Ci si può veramente dimenticare come si fa. Negli anni Ottanta e Novanta ho scritto sempre meno racconti e quelli che ho scritto erano sempre più lunghi (e ce ne sono un paio di lunghetti in questo libro). Niente di male. Ma ci sono stati anche racconti che non ho scritto perché avevo questo o quel romanzo da finire e qui del male c'è: sentivo nella mente il pianto di quelle idee che volevano essere messe nero su bianco. Alcune ce l'hanno fatta; altre, mi rattrista dirlo, sono morte e si sono dissolte in polvere. Ma le peggiori erano quelle storie che non sapevo più come scrivere. Ne sarei stato capace allora, in quello studio-lavanderia, sulla piccola Olivetti portatile di Tabby; ma ora, da uomo molto più maturo, nonostante la mia assai più affinata capacità espressiva e i miei assai più costosi strumenti per esempio questo Macintosh su cui sto scrivendo ora - a quei racconti non riuscivo a dare corpo. Ricordo, dopo averne bucato uno, di aver pensato a un anziano fabbricante di spade che guarda con aria triste una raffinata lama di Toledo e dice tra sé: «Una volta sapevo fare oggetti come questo». Poi un giorno di tre o quattro anni fa ricevetti una lettera di Katrina Kenison, che curava le edizioni annuali di The Best American Short Stories
(da allora le è succeduta Heidi Pitlor, alla quale è dedicato questo libro). La signora Kenison mi chiedeva se fossi stato disposto a editare il volume del 2006. Non ebbi bisogno di dormirci sopra e nemmeno di rifletterci durante una passeggiata pomeridiana. Risposi immediatamente di sì. Avevo cento buone ragioni, alcune persino altruistiche. Ma sarei un bugiardo spudorato se non ammettessi la concomitanza di un interesse personale. Pensavo che se avessi letto un numero sufficiente di racconti, se mi fossi immerso nel meglio che le riviste letterarie americane avevano da offrire, avrei potuto ritrovare un po' di quella scioltezza che mi stava sfuggendo. Non perché avessi bisogno di quegli assegni - modesti ma molto ben accetti quando sei alle prime armi - per comprare una nuova marmitta per una macchina usata o un regalo di compleanno per mia moglie, ma piuttosto perché perdere la mia capacità di scrivere racconti in cambio di un portafogli pieno zeppo di carte di credito non mi sembrava un baratto vantaggioso. Durante il mio anno di editor ospite lessi centinaia di racconti, ma non mi dilungherò su questo; se vi interessa, comprate il libro e andate all'introduzione (vi farete anche pregiato dono di venti ottime storie, sempre meglio di una matita in un occhio). L'aspetto importante, in relazione a questo libro, è che mi ripresero d'estro ed emozione e ricominciai a scrivere racconti alla vecchia maniera. Lo avevo sperato, ma non avevo osato credere che sarebbe accaduto. Il primo di questi «nuovi» è stato Willa, che apre la raccolta. Sono buoni questi racconti? Sì, io credo di sì. È letteratura? Non lo so e non sono sicuro che m'importi; chiedetelo a un critico. Vi aiuteranno ad ammazzare la noia di un lungo viaggio? Spero di sì, perché quando succede è come essere toccati da una bacchetta magica. Di sicuro, a me è piaciuto scriverli. E spero che a voi piacerà leggerli, anche questo so. Spero che vi portino via. E finché ricorderò come si fa, non smetterò. Ah, c'è un'altra cosa. So che a certi lettori piace sentir raccontare qualcosa su come o perché certe storie siano state scritte. Se siete tra questi, troverete i miei commenti in fondo. Ma se ci andate prima di aver letto i racconti... vergogna! E ora lasciate che mi tolga di mezzo. Ma prima di lasciarci, voglio ringraziarvi per esserci. Scriverei ancora se mi abbandonaste? La risposta è sì. Perché mi sento felice quando le parole si assommano e l'immagine si forma e le persone inventate fanno cose che mi deliziano. Però con te è
meglio, Fedele Lettore. Sempre meglio con te. Sarasota, Florida 25 febbraio 2008 Willa Non vedi al di là del naso, gli aveva detto, ma non era sempre vero. Non sentiva del tutto immeritato il suo disprezzo, ma non era neppure del tutto cieco. E nella stazione dove si trovava, mentre le scorie del tramonto si scioglievano in un arancio tetro sopra la Wind River Range, David si guardò attorno e vide che Willa non c'era più. Disse a se stesso di non esserne sicuro, ma era solo la sua testa, le sue viscere in subbuglio ne avevano la certezza. Andò in cerca di Lander. A Lander lei non dispiaceva: anzi, la reputava coraggiosa per aver dato dei pezzi di merda a quelli dell'Amtrak che li avevano piantati in quel modo. A molti di loro, piantati dall'Amtrak o no, Willa non piaceva per niente. «Puzza di cracker bagnati qui dentro!» gli gridò Helen Palmer quando David le passò davanti. Si era messa sulla panca nell'angolo, come andava sempre a finire. La Rhinehart, che al momento le stava dietro per concedere una breve tregua al marito, gli rivolse un sorriso. «Avete visto Willa?» chiese David. La Rhinehart scosse la testa, sempre sorridendo. «Abbiamo pesce per cena!» sbottò con furia la signora Palmer. Nell'incavo della tempia le pulsava un viluppo bluastro. Qualcuno si girò. «Una tira l'altra!» «Zitta, Helen», l'ammonì la Rhinehart. Forse di nome faceva Sally, ma David pensava che un nome così, lo avrebbe ricordato; erano così poche le Sally di questi tempi. Ora il mondo apparteneva alle Amber, Ashley e Tiffany. Willa era un'altra specie in pericolo di estinzione e solo pensarlo gli fece avvertire un altro nodo alle viscere. «Come cracker!» sbraitò Helen. «Quei vecchi cracker schifosi che ci davano al campo!» Henry Lander sedeva su una panca sotto l'orologio. Teneva un braccio intorno alla moglie. Prima che David potesse aprir bocca, alzò gli occhi e scosse la testa. «Non è qui. Spiacente. Se sei fortunato è andata in città. Se
non lo sei, ciao ciao e tanti saluti al secchio» e fece il gesto dell'autostop. David non credeva che la sua fidanzata avesse preso la via dell'Ovest in autostop per conto proprio, era un'idea pazzesca, credeva però che non fosse più lì. Lo aveva capito ancor prima di fare la conta, per la verità, e gli era tornato alla mente il verso di una vecchia poesia: Un grido di assenza, assenza dal cuore. La stazione era una stretta gola di legno. Lungo di essa la gente passeggiava senza meta o sedeva semplicemente sulle panche sotto le lampade fluorescenti. Le spalle di quelli seduti si incurvavano nel modo speciale che si vede solo in posti come quello, dove le persone aspettano che quello che è andato storto venga riaggiustato perché il viaggio inceppato possa riprendere. Erano pochi quelli che finivano in posti come Crowheart Springs, Wyoming, per uno scopo. «Non stare a correrle dietro, David», disse Ruth Lander. «Si sta facendo buio e là fuori è pieno di bestiacce. E non solo coyote. Il tizio che vende i libri, quello che zoppica, dice di aver visto un paio di lupi dall'altra parte dei binari, dove c'è lo scalo merci.» «Biggers», intervenne Henry. «È così che si chiama.» «O anche Jack lo Squartatore, chi se ne importa», ribatté Ruth. «Il fatto è che non sei più nel Kansas, David.» «Ma se è andata...» «È andata quando era ancora giorno», l'interruppe Henry Lander, come se la luce del giorno avrebbe trattenuto un lupo (o un orso) dall'attaccare una donna sola. Per quel che ne sapeva David, poteva anche essere. Lui era un funzionario di banca, non un etologo. Un funzionario di banca giovane, per la precisione. «Se arriva il treno e lei non è qui, lo perderà.» Non riusciva a fargli entrare in testa questo concetto così semplice. Non faceva presa, profferito nella piana lingua da scrivania delle sue parti, giù a Chicago. Henry inarcò le sopracciglia. «Mi stai dicendo che se lo perdete tutt'e due la situazione ne trarrebbe qualche giovamento?» Se lo avessero perso entrambi, avrebbero preso un autobus o aspettato il treno successivo. Doveva essere evidente anche a Henry e Ruth Lander. O forse no. Ciò che David vedeva soprattutto, quando li guardava, ciò che aveva sotto gli occhi, era la fiacchezza tipica delle persone momentaneamente bloccate nello Sconfinato West. E a chi altri importava di Willa? Se fosse scomparsa negli High Plains, chi, oltre a David Sanderson, ci avrebbe fatto caso? C'era addirittura antipatia autentica nei suoi confronti. Quel-
la strega di Ursula Davis gli aveva persino detto che se la madre di Willa non ci avesse messo quella «a», «sarebbe stato praticamente perfetto». «Io vado in città a cercarla», dichiarò. Henry sospirò. «Figliolo, questa è proprio una sciocchezza.» «Non possiamo sposarci a San Francisco se lei resta indietro a Crowheart Springs», rispose lui, cercando di buttarla sullo scherzo. Stava passando Dudley. David non sapeva se Dudley fosse il nome o il cognome, solo che era un dirigente della Staples forniture da ufficio e che era diretto a Missoula per un non meglio precisato convegno regionale. Era solitamente molto riservato, cosicché il raglio che lanciò nell'oscurità crescente fu qualcosa di più di una sorpresa: fu uno choc. «Se arriva il treno e lo perdi», disse sghignazzando, «puoi scovarti un giudice di pace da queste parti e sposarti qui. Così quando tornerai nell'Est, potrai raccontare agli amici di aver fatto un matrimonio riparatore proprio come si usa da queste parti. Yee-haw, socio.» «Non farlo», disse Henry. «Non saremo qui ancora per molto.» «Così dovrei lasciarla perdere? Sei matto.» Si allontanò prima che Lander o sua moglie potessero replicare. Georgia Andreeson, seduta su una panca poco distante, guardava la figlia scorrazzare nel suo vestitino rosso da viaggio su e giù per lo sporco pavimento piastrellato. Pammy Andreeson sembrava instancabile. David cercò di ricordare se l'avesse vista dormire da quando il treno era deragliato allo scambio di Wind River ed erano stati dirottati lì come un pacco dimenticato agli oggetti smarriti. Forse una volta, con la testa posata in grembo alla madre. Ma poteva essere un falso ricordo prodotto dalla sua convinzione che ci si aspetta che un bambino di cinque anni dorma parecchio. Pammy saltava da una piastrella all'altra, una trottola incontenibile, usando i riquadri come in un gigantesco gioco di campana. Il vestitino rosso le svolazzava intorno alle ginocchia paffute. «Conoscevo un uomo che stava andando a bere», cantilenava a voce spiegata su una sola nota. Faceva dolere le otturazioni nei denti di David. «Inciampò e cadde sul sedere. Conoscevo un uomo che stava andando a caccia. Inciampò e cadde rompendosi le braccia.» Ridacchiò e indicò David. «Smettila, Pammy», la riprese Georgia Andreeson. Sorrise a David e si ravviò i capelli sul lato del viso. Lui vide in quel gesto un'indicibile stanchezza e pensò che aveva una lunga strada da percorrere con l'effervescente Pammy, specialmente senza un signor Andreeson nei paraggi. «Ha visto Willa?» chiese.
«È andata», rispose lei e indicò la porta con la scritta: NAVETTA, TAXI, TELEFONO DI CORTESIA PER DISPONIBILITÀ ALBERGO. Stava arrivando Biggers, zoppo e dondolante. «Io eviterei di avventurarmi all'aperto se non armato di un fucile potente. Ci sono dei lupi. Li ho visti.» «Conoscevo una ragazza, il suo nome era Willa», intonò Pammy. «Aveva mal di testa e prese una pilla.» Crollò per terra ridendo come una matta. Biggers, il venditore di libri, non aveva aspettato una risposta. Era ripartito zoppicando. La sua ombra si allungava, si accorciava nella luce delle plafoniere, poi si allungava di nuovo. Phil Palmer se ne stava appoggiato allo stipite sotto il cartello della navetta e dei taxi. Era un assicuratore in pensione. Era diretto a Portland con la moglie. L'intenzione era di soggiornare per un po' a casa del figlio maggiore, ma Palmer aveva confidato a David e Willa che con tutta probabilità Helen non sarebbe più tornata indietro. Era malata di cancro, oltre che di Alzheimer. Willa l'aveva definita «due al prezzo di uno». Quando David aveva detto che gli sembrava un po' crudele, Willa lo aveva guardato, era sembrata sul punto di dire qualcosa e poi aveva scosso soltanto la testa. Ora Palmer chiese come sempre faceva: «Ehi, chicca, hai una cicca?» Al che David rispose come sempre faceva: «lo non fumo, signor Palmer». E Palmer chiuse con: «Ti mettevo alla prova, ragazzo». Quando David uscì sul marciapiede dove i passeggeri scesi dal treno aspettavano la navetta per Crowheart Springs, Palmer corrugò la fronte. «Non mi pare una buona idea, mio giovane amico.» Qualcosa - poteva essere stato un cane di grossa taglia ma probabilmente non lo era - levò un ululato sull'altro lato della stazione ferroviaria, dove salvia e ginestra crescevano fin quasi alle rotaie. Una seconda voce si unì alla prima creando un duetto armonico. Si allontanarono insieme. «Chiarito il concetto, bell'ometto?» E Palmer sorrise come se fosse stato lui a evocare quegli ululati a conferma del suo punto di vista. David si girò e scese i gradini nel venticello vivace che gli increspava la giacca leggera. Partì veloce, prima di poter cambiare idea, e solo il primo passo fu veramente difficile. Dopodiché pensò solo a Willa. «David», lo richiamò Palmer, questa volta senza scherzarci sopra. «Non farlo.» «Perché no? Willa lo ha fatto. E poi i lupi sono da quella parte.» Indicò la direzione con il pollice. «Se sono veramente lupi.»
«Certo che lo sono. E sarà anche vero che probabilmente non ti attaccheranno, dubito che in questa stagione siano particolarmente affamati. Ma non è il caso che finiate per essere in due a passare Dio solo sa quanto tempo in mezzo al nulla solo perché a lei è venuta nostalgia della grande città.» «Mi sembra che lei non capisca la situazione. È la mia ragazza.» «Ti offrirò una cruda verità, amico mio: se davvero si fosse considerata la tua ragazza, non avrebbe fatto quello che ha fatto. Ti pare?» Lì per lì David non disse niente perché non era certo di che cosa gli pareva. Forse perché spesso non vedeva al di là del suo naso. Così aveva detto Willa. Finalmente si voltò a guardare Phil Palmer appoggiato allo stipite sopra di lui. «A me pare che uno non lasci la propria fidanzata sperduta nel mezzo del nulla. Questo pare a me.» Palmer sospirò. «Quasi spero che uno di quei randagi silvestri decida di morsicarti quel tuo bel culetto da cittadino. Chissà che non ti dia una sveglia. Alla piccola Willa Stuart importa solo se stessa ed è una cosa che hanno visto tutti.» «Se trovo un Nite Owl o un 7-Eleven, vuole che le prenda un pacchetto di sigarette?». «E perché no?» ribatté Palmer. Poi, mentre David attraversava la scritta DIVIETO DI SOSTA RISERVATO TAXI dipinta sull'asfalto della strada deserta: «David!» Si girò. «La navetta tornerà solo domani e la città è a quasi cinque chilometri. È scritto allo sportello delle informazioni. Sono una decina di chilometri andata e ritorno. A piedi. Ti ci vorranno due ore e questo senza contare il tempo che potresti impiegare a cercare di rintracciarla.» David levò la mano per indicare che aveva sentito, ma continuò a camminare. Il vento arrivava dalle montagne ed era freddo ma gli piaceva il modo in cui gli increspava la giacca e gli spingeva indietro i capelli. All'inizio fece attenzione ai lupi, scrutando prima un lato della strada poi l'altro, ma quando non ne vide, i suoi pensieri tornarono a Willa. E del resto, dopo la seconda o terza volta che era stato con lei, la sua mente non aveva avuto spazio per molto altro. Le era venuta nostalgia della grande città, su questo Palmer aveva quasi certamente ragione, ma David non credeva che avesse a cuore solo se stessa. La verità era che si era stancata di aspettare in compagnia di un branco di vecchi brontoloni e tristi che non sapevano far altro che lamentarsi d'es-
sere in ritardo per questo, quello e poi quest'altro ancora. La città in questione non era probabilmente un gran che, ma nella mente di Willa doveva aver presentato una possibilità di divertimento più concreta della possibilità che l'Amtrak inviasse un convoglio speciale a prelevarli durante la sua assenza. E dove poteva essere andata a cercare di divertirsi? Era sicuro che non ci fosse niente di simile a un night club a Crowheart Springs, dove la stazione ferroviaria era un lungo capannone verde con le scritte WYOMING e LO STATO DELL'EGUAGLIANZA dipinte sul fianco in rosso, bianco e blu. Niente night club, niente discoteche, ma senza dubbio dei bar e David pensava che si sarebbe accontentata di uno di quelli. In mancanza di séparé, le andava bene un bancone. Si fece notte e da est a ovest le stelle si sparsero per il cielo come un tappeto tempestato di lustrini. Tra due vette spuntò una mezza luna che se ne rimase lì a proiettare una luce da stanza d'ospedale su quel tratto di strada e sulla campagna ai suoi lati. Sotto gli spioventi della stazione il vento fischiava ma là fuori produceva uno strano brusio che non era propriamente una vibrazione. Gli fece pensare alla cantilena in un solo tono di Pammy Andreeson. Camminava con l'orecchio teso al rumore di un treno in arrivo alle sue spalle. Non lo sentì. Quando il vento cadde, udì invece un sottile ma perfettamente chiaro clic-clic-clic. Si voltò e vide un lupo fermo a una ventina di passi dietro di lui sulla striscia tratteggiata della Route 26. Era grosso quasi quanto un vitello, con il pelo lungo e folto di un colbacco russo. Nella luce delle stelle il manto sembrava nero, gli occhi del giallo scuro dell'urina. Aveva visto che David lo guardava e si era fermato. Aprì la bocca in un ghigno e cominciò ad ansimare, il suono di un piccolo motore. Non aveva tempo per la paura. Avanzò di un passo verso l'animale, batté le mani e gridò: «Vattene! Via, sciò!» Il lupo si girò e partì al galoppo lasciando sulla Route 26 un groppo di escrementi fumanti. David sorrise, ma riuscì a evitare di ridere apertamente; gli sembrava che sarebbe stato come sfidare gli dei. Si sentiva insieme impaurito e assurdamente, totalmente tranquillo. Pensò di cambiare il proprio nome da David Sanderson in David Spaventalupi. Ottimo nome per un funzionario di banca addetto agli investimenti. Poi rise un po', non seppe evitarlo, e riprese la via per Crowheart Springs. Ora camminava guardandosi anche alle spalle, oltre che a destra e a sinistra, ma il lupo non tornò. Lo sostituì invece la certezza che avrebbe
sentito lo sferragliare del convoglio speciale inviato a raccogliere i dispersi; ormai dovevano aver sgomberato la linea dalla parte di treno che era ancora sul binario e presto quelli che aspettavano alla stazione sarebbero ripartiti: i Palmer, i Lander, Biggers lo zoppo, Pammy la ballerina e tutti gli altri. E allora? L'Amtrak avrebbe trattenuto i loro bagagli a San Francisco, ci si poteva sicuramente aspettare che avessero almeno quel minimo di buonsenso. Lui e Willa avrebbero trovato la stazione locale degli autobus. C'era da credere che la Greyhound avesse scoperto il Wyoming. S'imbatté in una lattina di Budweiser e per un po' la prese a calci. Poi sbagliò un lancio e la fece finire nei cespugli e, mentre era dibattuto se recuperarla, udì una musica in lontananza: un accompagnamento di basso e il lamento di una chitarra hawaiana, che gli faceva sempre pensare a lacrime cromate. Anche nelle canzoni allegre. Lei era là ad ascoltare quella musica. Non perché fosse il posto più vicino, ma perché era il posto giusto. Lo sapeva. Così lasciò perdere la lattina di birra e s'incamminò verso la chitarra hawaiana sollevando polvere che il vento spazzava via. Poi fu la volta del suono della batteria e poco dopo di una freccia rossa al neon sotto un semplice 26. Già, logico, no? Quella era la Route 26. Che altro nome poteva avere un honky-tonk? Il 26 aveva due parcheggi. Quello davanti era asfaltato e pieno di pickup e vetture, quasi tutte di fabbricazione americana e per la maggior parte vecchie di almeno cinque anni. Il parcheggio a sinistra era a ghiaia e lì c'erano file di lunghi semiarticolati nella brillante luce azzurrognola di lampioni ai vapori di sodio. A quel punto David sentiva anche la chitarra solista e la ritmica, mentre leggeva la locandina appesa alla porta: SOLO PER QUESTA SERA THE DERAILERS INGRESSO 5 $-SPIACENTI. I Deragliatori, pensò. Be', aveva certamente trovato la band giusta. David aveva un biglietto da cinque, ma l'atrio del 26 era deserto. Sulla grande pista da ballo in parquet ballava lentamente un esercito di coppie, quasi tutti in jeans e stivaletti da cowboy, quasi tutti ad artigliarsi le natiche l'un l'altro nel progredire di Wasted Days and Wasted Nights. Era un pezzo lacrimoso, a volume sostenuto e, per quel che David Sanderson poté giudicare, perfettamente eseguito. Gli odori di birra, sudore, dopobarba e profumo dozzinale lo colpirono come una scazzottata in faccia. Le risa e le conversazioni - persino un estemporaneo yee-haw dal fondo della pista da ballo - erano come i suoni che si sentono in un sogno ricorrente in certi momenti critici della propria vita: il sogno di presentarsi impreparati a un
esame importante, il sogno di essere nudi in pubblico, il sogno di cadere, il sogno in cui corri verso un angolo di una città sconosciuta sicuro che dietro di esso ti aspetti il destino. David considerò se riporre il biglietto da cinque nel portafogli, poi allungò il braccio nello sportello della biglietteria e lo lasciò lì, su un banco occupato solo da un pacchetto di Lucky Strike posato su un paperback di Danielle Steel. Poi entrò nella sala affollata. I Derailers passarono a qualcosa di più veloce e i danzatori più giovani cominciarono a saltare come ragazzini a un concerto rock. Alla sinistra di David una ventina di coppie più mature si presero a braccetto per un ballo in linea su due file. Guardò una seconda volta e si rese conto che di file ce n'era una sola. La parete era a specchio e faceva sembrare la pista da ballo due volte più grande. Andò in frantumi un bicchiere. «I cocci sono tuoi, socio, ma a pagamento!» esclamò il cantante mentre i Derailers eseguivano la parte strumentale e i danzatori applaudirono la battuta, che probabilmente suonava abbastanza spiritosa, rifletté David, se avevi ingranato la quinta sulla Tequila Highway. Il bar era a ferro di cavallo, dominato da una rappresentazione al neon della Wind River Range. Nei colori rosso, bianco e blu; evidentemente nel Wyoming amavano i loro rossi, bianchi e blu. Un'insegna al neon negli stessi colori proclamava che SEI NEL PAESE DI DIO SOCIO. Era affiancata dal logo della Budweiser a sinistra e da quello della Coors a destra. Una folla era assiepata al banco in attesa d'essere servita. Un terzetto di baristi in camicia bianca e gilet rosso facevano roteare shaker come rivoltelle. Il locale era vasto, vi si agitavano dentro qualcosa come cinquecento persone, ma David non temeva di non riuscire a trovare Willa. Mi sta guidando l'istinto, pensò, mentre attraversava un lembo della pista da ballo quasi danzando lui stesso mentre schivava cowboy e cowgirl gesticolanti. Oltre il bar e la pista c'era un piccolo angolo buio con séparé dagli alti schienali. Erano quasi tutti occupati da quartetti, di solito confortati da una caraffa o due, e le loro immagini riflesse nelle pareti a specchio moltiplicavano ciascun gruppetto da quattro a otto. Solo uno dei séparé non era occupato per intero. Willa sedeva tutta sola nel suo vestitino a collo alto a fiori così fuori luogo tra Levi's, gonne di jeans e camicie con i bottoni di madreperla. Non aveva nemmeno preso qualcosa da bere o mangiare: il tavolo era vuoto.
Lei non lo vide subito. Stava guardando quelli che ballavano. Era colorita in volto, con due profonde fossette agli angoli della bocca. Era totalmente sbagliata ma lui l'amò più che mai. Era Willa sulla soglia di un sorriso. «Ciao, David», lo salutò quando le si sedette accanto. «Speravo che venissi. Pensavo che lo avresti fatto. Forte questa band, vero? Sono assordanti!» Dovette quasi gridare per farsi sentire, ma David vide che le piaceva anche quello. E dopo lo sguardo iniziale che gli aveva rivolto, tornò a osservare i danzatori. «Sì, sono bravi», disse lui. E lo erano. Si sentiva contagiare dal ritmo a dispetto dell'ansia rinata. Ora che finalmente l'aveva trovata, o per meglio dire l'aveva raggiunta, era di nuovo preoccupato di poter perdere quel dannato treno di recupero. «Il cantante somiglia a Buck Owens.» «Davvero?» Lei lo guardò sorridendo. «Chi è Buck Owens?» «Non fa niente. Senti, dovremmo tornare alla stazione. Se non vuoi rimanere bloccata qui per un altro giorno ancora, s'intende.» «Potrebbe non essere poi così male. Questo posto mi pia... Ehi, attento!» Un bicchiere volò sopra la pista da ballo, per qualche attimo scintillante di riflessi verdi e dorati delle luci di scena e andò a infrangersi fuori dalla portata dei loro sguardi. Ci furono schiamazzi e qualche applauso - applaudiva anche Willa - ma David vide un paio di bisonti con la scritta SICUREZZA e SERENITÀ sulla maglietta muovere nella direzione da cui era partito il missile. «Questo è il genere di posto dove puoi far conto su quattro scazzottate nel parcheggio prima delle undici», commentò, «e su una probabile rissa generale subito prima che smettano di servire alcolici.» Willa rise puntandogli addosso gli indici come due pistole. «Bello! Voglio vederlo!» «E io voglio che torniamo indietro», rispose lui. «Se vuoi andare in qualche sala da ballo a San Francisco, ti ci porto. Promesso.» Lei spinse in fuori il labbro inferiore e buttò all'indietro i capelli color sabbia. «Non sarebbe lo stesso. Non è possibile e lo sai anche tu. A San Francisco berranno probabilmente... non so... birra macrobiotica.» Questo lo fece ridere. Come l'idea di un funzionario di banca di nome David Spaventalupi, l'idea della birra macrobiotica era semplicemente troppo forte. Ma l'ansia c'era lo stesso, dietro il sorriso; anzi, non era proprio l'ansia ad alimentarlo? «Ora facciamo una breve pausa e torniamo subito», annunciò il cantante passandosi la mano sulla fronte. «Voi bevete qualcosa e non dimenticate:
io sono Tony Villanueva e noi siamo i Derailers.» «È il momento buono per rimetterti le scarpette di cristallo e salutare la comitiva», la esortò David prendendola per mano. Lui si alzò, ma lei non lo imitò. Non gli lasciò nemmeno la mano e David tornò a sedersi sfiorato da una punta di panico. Pensò allora di aver capito come si sente un pesce quando si rende conto di non potersi sfilare l'amo dal palato; l'amo era conficcato troppo a fondo e Mister Trota era destinato alla sponda, dove avrebbe dato il suo ultimo colpo di coda. Lei lo stava guardando con quegli stessi occhi azzurri e assassini e quelle stesse fossette profonde: Willa sulla soglia di un sorriso, la sua promessa sposa che leggeva romanzi la mattina e poesie la sera e pensava che i telegiornali fossero... come li aveva definiti? Usa e getta. «Guardaci», lo invitò e girò la testa dall'altra parte. David guardò nello specchio alla loro sinistra. Vide una bella, giovane coppia della East Coast sperduta nel Wyoming. Nel suo vestitino stampato lei era messa meglio di lui, ma immaginava che sarebbe stato sempre così. Staccò lo sguardo dalla Willa riflessa per guardare quella in carne e ossa con le sopracciglia sollevate. «No, guarda di nuovo», lo incitò lei. Le fossette c'erano ancora, ma adesso era seria, quanto poteva esserlo in quell'atmosfera festaiola. «E pensa a quello che ti ho detto.» David si sentì sulla punta della lingua: «Mi hai detto molte cose e ripenso a tutte quante», ma quella era la risposta di un innamorato, graziosa e fondamentalmente priva di significato. E siccome sapeva che cosa intendeva lei, guardò di nuovo senza fiatare. Questa volta guardò davvero e nello specchio non c'era nessuno. Guardava l'unico séparé vuoto al 26. Si girò verso Willa sconcertato... eppure non proprio sorpreso. «Non ti sei chiesto come mai una femmina presentabile se ne stia seduta tutta sola in un posto dove si beve e si balla alla grande?» gli domandò. Lui scosse la testa. Non ci aveva pensato. C'erano un bel po' di cose a cui non aveva pensato, almeno finora. Quando era stata l'ultima volta che aveva mangiato o bevuto qualcosa, per esempio. O che ore fossero, o quanto tempo era passato dalle ultime luci del giorno. Non sapeva nemmeno con precisione che cosa fosse loro accaduto. Solo che il Northern Flyer era uscito dalle rotaie e ora per qualche strana coincidenza si trovavano lì ad ascoltare un gruppo country and western che si faceva chiamare... «Ho preso a calci una lattina», disse. «Venendo qui ho preso a calci una lattina.»
«Sì», rispose lei, «e la prima volta che hai guardato nello specchio ci hai visti, non è vero? La percezione non è tutto, ma percezione e aspettativa insieme?» Gli strizzò l'occhio, poi si protese verso di lui. Gli premette il seno sul braccio mentre lo baciava sulla guancia e la sensazione fu bella, certamente la sensazione di un corpo vivo. «Povero David. Mi spiace. Ma sei stato coraggioso a venire. In realtà non pensavo che l'avresti fatto, questa è la verità.» «Dobbiamo tornare indietro e dirlo agli altri.» Lei compresse le labbra. «Perché?» «Perché...» Due uomini con il cappello da cowboy condussero due ridenti donne in jeans, camicia western e coda di cavallo verso il loro séparé. Appena arrivati a destinazione sui loro visi si disegnò un'identica espressione di perplessità, non proprio paura, e tornarono invece verso il bar. Ci sentono, pensò David. Come aria fredda che li respinge, ecco cosa siamo diventati adesso. «Perché è la cosa giusta da fare.» Willa rise. Un riso stanco. «Mi ricordi quello che vendeva cereali alla TV.» «Tesoro, ma quelli pensano di stare aspettando un treno che verrà a prenderli!» «Ma può darsi che ci sia!» Il suo improvviso impeto quasi lo spaventò. «Forse quello di cui si canta sempre, il treno gospel, il treno per la gloria, quello che non trasporta né briganti né viaggiatori erranti...» «Non credo che l'Amtrak abbia corse per il Paradiso», osservò David. Sperava di farla ridere, ma lei si guardò le mani quasi imbronciata e lui ebbe un'improvvisa intuizione. «C'è qualcos'altro che sai? Qualcosa che dovremmo dire anche a loro? C'è, vero?» «Non so perché dovremmo darcene pena quando potremmo starcene tranquillamente qui», ribatté Willa e non era capriccio quello che aveva avvertito nella sua voce. Pensò di sì. Era una Willa che non aveva mai neppure sospettato. «Sarai forse un po' miope, David, ma almeno sei venuto. Ti amo per questo.» E lo baciò di nuovo. «C'era anche un lupo», la informò lui. «Ho battuto le mani e l'ho fatto scappare. Pensavo di cambiare il mio nome in David Spaventalupi.» Lei lo fissò per un momento a bocca aperta e David ebbe tempo di pensare: Ho dovuto aspettare che fossimo morti per sorprendere davvero la donna che amo. Poi lei si lasciò andare contro l'imbottitura dello schienale
e scoppiò a ridere. Una cameriera che stava passando in quel momento lasciò cadere un vassoio pieno di birre in uno schianto tremendo e con una colorita imprecazione. «David Spaventalupi!» proruppe Willa. «Voglio chiamarti così a letto! 'Oh, oh, Spaventalupi, ma come sei grosso! Come sei peloso!'» La cameriera stava contemplando il macello schiumante, ancora imprecando come un marinaio in licenza. Attenta però a tenersi ben alla larga da quel séparé vuoto. «Credi che lo possiamo ancora fare?» chiese David. «L'amore, voglio dire.» Willa si asciugò gli occhi. «Percezione e aspettativa, ricordi? Insieme possono spostare le montagne.» Gli prese nuovamente la mano. «Ti amo ancora e tu ami ancora me. Non è vero?» «Non sono forse David Spaventalupi?» ribatté lui. Poteva scherzare perché i suoi nervi non credevano che fosse morto. Guardò oltre lei, nello specchio, e li vide. Poi solo se stesso, con la sua mano che stringeva il nulla. Poi scomparvero entrambi. Eppure... respirava, sentiva l'odore di birra e whisky e profumo. Da qualche parte era sbucato uno sguattero che stava aiutando la cameriera a pulire per terra. «È stato come se mi fosse mancata la terra sotto i piedi», la sentì dire David. Era il genere di cose che si sentivano nell'aldilà? «Sono anche disposta a tornare indietro con te», disse Willa, «ma non starò in quella noiosa stazione con quella gente noiosa quando c'è un posto come questo.» «Va bene», rispose lui. «Chi è Buck Owens?» «Ti parlerò di lui», promise David. «E anche di Roy Clark. Ma prima dimmi che cos'altro sai.» «Non c'è quasi nessuno che mi sia simpatico», commentò lei. «A parte Henry Lander. E anche sua moglie.» «Anche Phil Palmer non è male.» Lei arricciò il naso. «Bah.» «Che cosa sai, Willa?» «Lo vedrai da te, se guarderai bene.» «Non sarebbe più semplice se mi dicessi semplicemente...» Evidentemente no. Willa si alzò fino a premere le cosce contro il bordo del tavolo e puntò il dito. «Guarda! Sta tornando la band!»
La luna era alta quando David e Willa tornarono in strada tenendosi per mano. David non capiva come potesse essere, erano rimasti nel locale solo per i primi due pezzi della seconda tornata, eppure eccola, lassù, nel nero scintillante. Era inquietante, ma c'era qualcosa che lo turbava anche di più. «Willa», chiese, «in che anno siamo?» Lei rifletté. Il vento sollevava il suo vestito come avrebbe fatto con il vestito di una qualunque donna viva. «Di preciso non ricordo», rispose finalmente. «Non è strano?» «Considerato che io non ricordo l'ultima volta che ho pranzato o ho bevuto un bicchier d'acqua? Non troppo strano. Tirando a indovinare, cosa diresti? Veloce, senza pensare.» «Millenovecento... ottantotto?» Lui annuì. Dal canto suo avrebbe detto millenovecentottantasette. «Là dentro c'era una ragazza con una maglietta con su scritto 'Crowheart Springs Highschool, classe '03'. E se era in età da poter entrare in un bar...» «...allora zerotre dev'essere stato almeno tre anni fa.» «È quello che pensavo anch'io.» David si fermò. «Non può essere il duemilasei, Willa, giusto? Il ventunesimo secolo, intendo.» Prima che lei potesse rispondere udirono il clic-clic-clic di unghie sull'asfalto. Questa volta di un numero superiore a quelle di un solo esemplare; questa volta dietro di loro sulla strada i lupi erano in quattro. Il più grosso, davanti agli altri, era quello che si era avvicinato a David sulla via per Crowheart Springs. Avrebbe riconosciuto dovunque quel folto manto nero. Ora i suoi occhi erano più ardenti. In entrambi galleggiava una mezza luna come una lampada inabissata. «Ci vedono!» esclamò Willa quasi estatica. «David, loro ci vedono!» S'abbassò posando un ginocchio su uno dei tratti bianchi della striscia mediana e tese la mano destra. Schioccò la lingua e disse: «Qui, vieni!» «Willa, non credo che sia una gran bell'idea.» Lei non gli diede retta, una cosa molto da Willa. Aveva le sue, di idee. Era stata lei a voler andare da Chicago a San Francisco in treno, perché, aveva spiegato, voleva sapere che effetto faceva scopare in un vagone. Specialmente su un convoglio che viaggiava veloce e dondolando un po'. «Coraggio, bel lupone, vieni dalla tua mamma!» Il grosso lupo venne avanti, seguito dalla sua compagna e dai loro due... si poteva chiamarli cuccioli? Quando protese il muso (tutti quei denti scintillanti) verso la mano affusolata che gli offriva Willa, la luna riempì per un istante i suoi occhi alla perfezione facendoli diventare
d'argento. Poi, un istante prima che il lungo muso potesse toccare la pelle di lei, il lupo emise una serie di potenti guaiti e si tirò all'indietro così bruscamente che per un momento si alzò sulle zampe posteriori agitando le altre nell'aria e mostrando il pelo bianco del ventre. Gli altri lupi si dispersero. Quello grosso fece una capriola a mezz'aria e si tuffò nei cespugli a destra della strada, sempre guaendo, con la coda tra le gambe. Gli altri lo seguirono. Willa si alzò e rivolse a David un'espressione di infinita pena che lui trovò insopportabile. Così abbassò lo sguardo e si guardò i piedi. «È per questo che mi hai portato fuori nel buio quando ero là dentro ad ascoltare la musica?» lo apostrofò lei. «Per mostrarmi che cosa sono adesso? Come se non l'avessi saputo!» «Willa, mi dispiace.» «Non ancora, ma ti dispiacerai.» Lo prese di nuovo per mano. «Vieni, David.» Ora lui si arrischiò a guardarla. «Non sei arrabbiata?» «Oh, un po' sì, ma adesso sei tutto quello che ho e non ti mollo.» Poco dopo aver visto i lupi, David scorse una lattina di Budweiser sul ciglio della strada. Era quasi certo che fosse quella che aveva preso a calci fino a quando aveva sbagliato il tiro lanciandola nei cespugli. Ora era di nuovo lì, nella sua posizione originaria... naturalmente perché non l'aveva mai presa a calci. La percezione non è tutto, aveva detto Willa, ma percezione e aspettativa insieme? Uniscile e la tua mente se ne va in sollucchero. Spedì con un calcio la lattina nella salvia e quando ebbero superato quel punto, si girò a guardare ed eccola là, precisamente dov'era stata fin da quando qualche cowboy - forse diretto al 26 - l'aveva gettata dal finestrino del suo pick-up. Ricordò che a Hee-Haw, quel vecchio show con Buck Owens e Roy Clark, chiamavano i pick-up «le Cadillac dei cowboy». «Cos'è che ti fa sorridere?» gli chiese Willa. «Te lo dico dopo. Mi sa che abbiamo tutto il tempo.» Sostarono davanti alla stazione ferroviaria di Crowheart Springs tenendosi per mano nella luce lunare come Hänsel e Gretel davanti alla casa di pandizucchero. In quella luce a David la vernice verde del capannone sembrava grigio cenere e anche se sapeva che WYOMING e LO STATO DELL'EGUAGLIANZA erano in rosso, bianco e blu, le scritte sarebbero potute essere di qualsiasi altro colore. Notò un foglio protetto dagli ele-
menti da una busta di plastica, affisso a uno dei pali che fiancheggiavano gli ampi scalini dell'ingresso. Al cui stipite era ancora appoggiato Phil Palmer. «Ehi, chicca!» gli gridò Palmer. «Hai una cicca?» «Spiacente, signor Palmer», rispose David. «Credevo che me ne avresti portato una stecca.» «Non sono passato davanti a un negozio», si giustificò David. «Non vendevano sigarette dove sei stata tu, bambola?» chiese Palmer. Era quel tipo di uomo che chiamava bambola tutte le donne di una certa età, bastava guardarlo per saperlo, come era scontato che se ci passavi insieme un pomeriggio afoso d'agosto, avrebbe spinto il cappello all'indietro e si sarebbe asciugato la testa dicendoti che non era il caldo, era l'umidità. «Sono sicura di sì», rispose Willa, «ma avrei avuto difficoltà a comprarle.» «E vorresti dirmi perché, dolcezza?» «Secondo lei?» Ma Palmer si incrociò le braccia sul petto magro e non parlò. Dall'interno giunse la voce della moglie: «Abbiamo pesce per cena! Una cosa tira l'altra! Detesto l'odore di questo posto! Cracker!» «Siamo morti, Phil», disse David. «Ecco perché. I fantasmi non possono comprare sigarette.» Palmer lo fissò per qualche secondo e, prima che ridesse, David vide che non solo gli credeva: Palmer lo aveva sempre saputo. «Ho sentito mille scuse per non portare a qualcuno quello che aveva chiesto», dichiarò, «ma credo che questa le batta tutte.» «Phil...» Da dentro: «Pesce per cena! Oh, porco schifo!» «Vogliate scusarmi, ragazzi», disse Palmer. «Il dovere mi chiama.» E rientrò. David si girò verso Willa pensando che gli avrebbe chiesto che cos'altro si fosse aspettato, ma Willa stava guardando l'avviso appeso al palo. «Guarda lì», gli disse. «Dimmi cosa vedi.» All'inizio non vide niente perché la luce della luna si rifletteva sulla plastica protettiva. Avanzò di un passo, poi ne compì uno verso sinistra, dovendo spostare Willa per farsi spazio. «In cima dice 'Vietato ai piazzisti per ordine dello sceriffo della contea di Sublette', poi c'è una scritta in piccolo, bla bla bla, e in fondo...» Lei gli diede un colpetto con il gomito. Nemmeno tanto delicato. «Pian-
tala di dire cazzate e guarda bene, David. Non ho voglia di restare qui tutta notte.» Non vedi al di là del naso. David staccò gli occhi dalla stazione e guardò la ferrovia che luccicava nella luce lunare. Dall'altra parte della strada ferrata c'era una grossa roccia bianca con la cima piatta. Quella laggiù è una mesa, socio, proprio come in quei vecchi film di John Ford. Tornò a guardare l'avviso e si chiese come avesse potuto scambiare L'ACCESSO per AI PIAZZISTI, lui, David Spaventalupi, un pezzo grosso addetto agli investimenti. «Dice 'Vietato l'accesso per ordine dello sceriffo della contea di Sublette'», lesse. «Molto bene. E sotto il bla bla bla cosa c'è?» Sulle prime non riuscì a leggere le due righe in fondo; sulle prime quelle due righe furono solo simboli incomprensibili, forse perché la sua mente, che non voleva credere a nulla di quella situazione, non trovava una traduzione neutrale. Così tornò a guardare le rotaie e non si può dire che si sorprese di vedere che non luccicavano più; ora l'acciaio era arrugginito e l'erba cresceva folta tra le traversine. Quando guardò di nuovo la stazione, vide un rudere malandato, quasi del tutto scoperchiato e con le assi alle finestre. La scritta DIVIETO DI SOSTA RISERVATO TAXI era scomparsa sull'asfalto, che era sgretolato e pieno di buche. Sulla fiancata dell'edificio c'erano ancora WYOMING e lo STATO DELL'EGUAGLIANZA ma ora le parole erano fantasmi. Come noi, pensò. «Coraggio», lo incalzò Willa: Willa, che aveva le sue personali opinioni su questo e quello, Willa che vedeva al di là del proprio naso e voleva che vedessi anche tu, anche quando vedere era crudele. «È il tuo esame finale. Leggi quelle due righe in fondo così possiamo chiudere la questione e andare avanti.» Lui sospirò. «Dice 'Edificio inagibile'. E poi 'Demolizione fissata giugno 2007'.» «Bravo, sei promosso. Adesso andiamo a vedere se ci sono altri che hanno voglia di andare in città ad ascoltare i Derailers. Dirò a Palmer di guardare il bicchiere mezzo pieno: non possiamo comprare sigarette, ma per gente come noi non c'è da pagare l'ingresso.» Ma nessuno voleva andare in città. «Come sarebbe a dire che siamo morti? Perché le viene in mente di dire
una cosa così orribile?» chiese Ruth Lander a David e a pugnalarlo a morte (per modo di dire) non fu il tono di rimprovero della sua voce, bensì l'espressione dei suoi occhi prima che premesse il viso contro la spalla della giacca di velluto a coste di Henry. Perché lo sapeva anche lei. «Ruth», rispose, «non ti sto dicendo questo per farti star male...» «Allora non farlo!» sbottò lei con la voce soffocata dalla spalla del marito. David si accorse che, tolta Helen Palmer, tutti gli altri lo stavano guardando con dispetto e ostilità. Helen annuiva e borbottava tra il proprio marito e la Rhinehart, il cui nome di battesimo era probabilmente Sally. Erano riuniti in piccoli capannelli sotto le lampade fluorescenti... solo che quando sbatté gli occhi, le lampade non c'erano più. I viaggiatori appiedati erano solo ombre negli stracci di luce della luna che riuscivano a infilarsi all'interno tra le assi che sbarravano le finestre. I Lander non sedevano su una panca, ma sul pavimento polveroso vicino a un mucchietto di fiale da crack vuote - sì, a quanto pareva il crack era riuscito ad arrivare persino laggiù, nei territori di John Ford - e c'era un cerchio scolorito su una parete non distante dall'angolo in cui Helen Palmer se ne stava accovacciata a borbottare. E David sbatté di nuovo le palpebre e le luci al neon riapparvero. Riapparve anche il grande orologio che nascose quel cerchio scolorito. «Sarà meglio che tu vada, adesso, David», disse Henry Lander. «Ascolta un momento, Henry», intervenne Willa. Henry spostò lo sguardo su di lei e David non fece fatica a notare l'antipatia nei suoi occhi. Se mai Henry avesse avuto una buona opinione di Willa Stuart, gli era passata. «Non voglio ascoltare», dichiarò. «Stai angosciando mia moglie.» «Sì», fece eco un giovane grasso con un berretto dei Mariners di Seattle. A David sembrava che si chiamasse O'Casey. Qualcosa d'irlandese con un apostrofo, in ogni caso. «Cuciti la bocca, mocciosa!» Willa si chinò su Henry e Henry si ritrasse leggermente, come se lei avesse un alito cattivo. «La sola ragione per cui ho lasciato che David mi ritrascinasse qui è perché stanno per demolire la stazione! Hai in mente quella grossa palla d'acciaio? Non credo che ti manchi quel tanto d'intelligenza da afferrare il concetto.» «Falla smettere!» esclamò Ruth con la voce soffocata. Willa si chinò ancora di più con gli occhi che le brillavano nel viso minuto e grazioso. «E quando il carro con la palla d'acciaio se ne andrà e i camion porteranno via le macerie che una volta erano questa stazione -
questa vecchia stazione - tu dove sarai?» «Lasciaci in pace, per piacere», ribatté Henry. «Henry... come disse la ballerina all'arcivescovo, la verità non si può nascondere sotto una tonaca.» Ursula Davis, che aveva preso Willa in antipatia fin dal principio, fece un passo avanti con il mento proteso. «Vaffanculo, stronza piantagrane.» Willa ruotò su se stessa. «Possibile che non vogliate capirlo? Siete morti, siamo tutti morti, e più restiamo in un posto, più difficile sarà andare da qualche altra parte!» «Ha ragione», disse David. «Già, e se ti dicesse che la luna è di formaggio, tu diresti provolone», lo apostrofò Ursula. Era sulla quarantina, alta e di straordinaria bellezza. «Scusa se te lo dico, ma te l'ha strofinata in faccia abbastanza da rimbecillirti.» Dudley sparò nuovamente quella sua risata ragliante e la Rhinehart cominciò a piagnucolare. «State seminando il panico tra i passeggeri, voi due.» Era Rattner, il piccolo controllore dalla faccia contrita. Non apriva quasi mai bocca. David sbatté le palpebre e per un momento nella stazione tornò il buio, appena rischiarato dalla luna, e allora vide che a Rattner mancava mezza testa. Quel che restava della sua faccia era carbonizzato. «Demoliranno questo posto e voi non avrete dove andare!» proruppe Willa. «Nessun altro... cazzo... di posto dove andare!» Si asciugò con i pugni chiusi le lacrime di rabbia. «Perché non venite in città con noi? Vi facciamo strada. Almeno ci sono delle persone... e luci... e musica.» «Mamma, io ho voglia di ascoltare della musica», disse Pammy Andreeson. «Zitta», l'ammonì sua madre. «Se fossimo morti, lo sapremmo», osservò Biggers. «Ti ho preso in castagna, figliolo», commentò Dudley strizzando l'occhio a David. «Cosa ci è successo? Come saremmo morti?» «Io... io non lo so», rispose David. Guardò Willa. Willa si strinse nelle spalle e scosse la testa. «Visto?» disse Rattner. «È stato solo un deragliamento. Cose che succedono... Be', stavo per aggiungere in continuazione, ma non è vero, nemmeno quaggiù dove la ferrovia avrebbe bisogno di una bella manutenzione, però di tanto in tanto, su qualche scambio...» «Siamo caduti», lo interruppe Pammy Andreeson. David la guardò, ma
bene bene, e per un momento vide un cadavere, a cui il fuoco aveva bruciato tutti i capelli, in un vestitino tutto stracciato. «Giù e giù e giù. Poi...» La bambina emise un suono gutturale, unì le manine sudice e le staccò di colpo: un'esplosione nel linguaggio dei segni di tutti i bimbi del mondo. Sembrò sul punto di aggiungere qualcosa, ma sua madre la precedette, mollandole uno schiaffo improvviso in faccia, forte abbastanza da farle mostrare i denti in un momentaneo ringhio e farle volare saliva dall'angolo della bocca. Pammy la guardò per un momento con gli occhi sbarrati, poi lasciò partire un grido stridente ancor più doloroso della sua cantilena di poco prima. «Cosa abbiamo sempre detto delle bugie?» urlò Georgia Andreeson afferrando la figlia per un braccio. Le sue dita affondarono fin quasi a scomparire. «Non è una bugia!» esclamò Willa. «Siamo usciti dalle rotaie e siamo finiti nel burrone! Adesso ricordo bene e te lo ricordi anche tu! Non è vero? Non è vero? Ce l'hai scritto in faccia! Su quella tua cazzo di faccia!» Senza guardarla, Georgia Andreeson le mostrò il dito medio. Con l'altra mano scuoteva con forza Pammy avanti e indietro. David vedeva ora una bambina, ora un cadavere carbonizzato. Che cosa aveva preso fuoco? Ora ricordava la caduta, ma che cosa aveva preso fuoco? Non gli veniva in mente, forse perché non voleva. «Che cosa abbiamo sempre detto delle bugie?» gridò Georgia Andreeson. «Che sono peccato, mamma!» biascicò la bambina. La madre trascinò nell'oscurità la figlia che continuava a strillare su quell'unica nota. Ci fu un momento di silenzio durante il quale tutti rimasero in ascolto di Pammy che veniva deportata in esilio, poi Willa si rivolse a David. «Ti basta?» «Sì», rispose lui. «Andiamo.» «Vedi di spicciarti», gli consigliò Biggers in un attacco di stravagante esuberanza a cui fecero da contrappunto le risa sguaiate di Dudley. David condusse Willa verso la porta, dove Phil era appoggiato allo stipite a braccia conserte. Poi David si staccò dalla mano di Willa e si avvicinò a Helen Palmer, seduta nell'angolo a dondolarsi. Helen lo guardò con gli occhi scuri e stralunati. «Abbiamo pesce per cena», disse con un filo di voce appena udibile. «Questo non lo so», ribatté lui, «ma sull'odore che c'è qui dentro avevi
ragione. Odore di cracker vecchi.» Vide che gli altri stavano guardando lui e Willa nel chiarore lunare che poteva essere una lampada al neon, se lo desideravi abbastanza intensamente. «Dev'essere l'odore dei posti rimasti chiusi per molto tempo», aggiunse. «Meglio che prendi il cappello, bello», lo apostrofò Phil Palmer. «Nessuno ha voglia di comprare quello che vendi.» «Ho ben visto», rispose David e seguì Willa fuori della stazione. Dietro di lui, come un triste soffio di vento, sentì Helen Palmer recitare: «Una cosa tira l'altra». Con quest'altra camminata fino al 26 misero assieme una quindicina di chilometri a piedi in una sola serata, ma David non era per niente stanco. Era probabile che i fantasmi non si stancassero, proprio come non sentivano fame o sete. E comunque era una notte diversa. Ora la luna era piena, scintillante come un dollaro d'argento in mezzo al cielo, e il parcheggio davanti al 26 era deserto. In quello a ghiaia, sul lato, c'erano ancora alcuni autocarri silenziosi; uno solo rombava sommessamente con le luci notturne accese. Ora la locandina diceva: QUESTO WEEKEND THE NIGHTHAWKS-PORTATE IL VOSTRO ZUCCHERINO, SPENDETE UN SOLDINO. «Simpatico», commentò Willa. «Mi ci porti, David Spaventalupi? Sono o non sono il tuo zuccherino?» «Sì a tutte e due», rispose David. «Qui la domanda è cosa facciamo ora? Perché il locale è chiuso.» «Entriamo comunque, naturalmente.» «Sarà chiuso a chiave.» «Non se non lo vogliamo noi. Percezione, ricordi? Percezione e aspettativa.» Ricordava e quando provò la porta, si aprì. Gli odori erano quelli di prima, ma ora a essi si mescolava l'aroma gradevole di un detergente profumato al pino. Il palco era deserto e gli sgabelli erano sul banco a gambe in su, ma la riproduzione al neon della Wind River Range era ancora accesa, o perché così era abituato a fare il padrone del locale o perché così volevano che fosse lui e Willa. Più probabile la seconda. Ora che era vuota la pista da ballo sembrava enorme, specialmente raddoppiata dalla parete a specchio. La catena montuosa al neon si rifletteva rovesciata nelle sue lucide profondità. Willa trasse un respiro profondo. «Sento odore di birra e di profumo», commentò. «Un odore che prende. È bello.»
«Tu sei bella.» Willa si girò verso di lui. «Allora baciami, cowboy.» Lui la baciò lì, ai bordi della pista da ballo, e, a giudicare da quello che sentiva, fare l'amore non era escluso. Per niente. Lei gli baciò entrambi gli angoli della bocca, poi fece un passo indietro. «Metti un quartino nel jukebox? Ho voglia di ballare.» David andò al jukebox in fondo al bar, infilò una moneta e scelse D19, Wasted Days and Wasted Nights, nella versione di Freddy Fender. Nel parcheggio, Chester Dawson, che aveva deciso di starsene sdraiato per qualche ora prima di riprendere il viaggio per Seattle con il suo carico di componenti elettronici, sollevò la testa con la sensazione d'aver sentito della musica, concluse che doveva essere parte di un sogno che stava facendo, e tornò a dormire. David e Willa girarono lentamente sulla pista da ballo deserta, qualche volta riflessi nello specchio e qualche volta no. «Willa...» «Stai zitto un po', David. La tua piccola vuole ballare.» David chiuse la bocca. Infilò la faccia tra i suoi capelli e si lasciò trasportare dalla musica. Pensava che ora sarebbero rimasti lì e che ogni tanto qualcuno li avrebbe visti. Era anche possibile che il 26 si guadagnasse la reputazione di locale stregato, ma non gli sembrava molto probabile; quando va a bere la gente non pensa ai fantasmi, se non beve da sola. Qualche volta, all'ora di chiusura, il barista e l'ultima cameriera (quella di maggior anzianità, quella che aveva la responsabilità della divisione delle mance) avrebbero avuto la scomoda sensazione di sentirsi osservati. Qualche volta avrebbero sentito della musica anche quando la musica era finita o avrebbero colto un movimento nello specchio della pista da ballo o in quello della sala. Di solito con la coda dell'occhio. David pensava che sarebbero potuti finire in un posto migliore, ma nel complesso il 26 era passabile. Fino all'ora di chiusura c'era gente. E ci sarebbe sempre stata della musica. Si domandava in effetti che cosa sarebbe stato degli altri quando la grossa palla d'acciaio avrebbe distrutto la loro illusione. E sarebbe accaduto. Presto. Pensò a Phil Palmer che cercava di sottrarre la moglie terrorizzata e urlante alle macerie che le cadevano addosso e non potevano farle del male perché, tecnicamente, non era nemmeno lì. Pensò a Pammy Andreeson raggomitolata tra le braccia della madre che strillava. Rattner, il laconico controllore, che diceva di stare calmi, signori, in una voce che nessuno po-
teva sentire nel frastuono delle grosse macchine gialle. Pensò a Biggers, il venditore di libri, che cercava di scappare trascinandosi dietro la gamba zoppa, perdeva l'equilibrio e finalmente cascava mentre la palla d'acciaio piombava sulla costruzione e i bulldozer ringhiavano e morsicavano e il mondo crollava. Gli piaceva pensare che il loro treno giungesse in tempo - che la forza della loro aspettativa comune lo facesse apparire - ma gli riusciva difficile crederlo. Considerò persino l'ipotesi che lo choc li cancellasse e che si spegnessero tutti quanti come fiammelle di candela in un forte colpo di vento, ma non credeva neppure quello. Li vedeva fin troppo bene dopo che i bulldozer e i camion se ne erano andati, fermi accanto alle vecchie rotaie arrugginite nella luce della luna nel vento che soffiava dalle alture, sibilando intorno alla mesa e scuotendo le ginestre. Li vedeva stretti l'uno all'altro sotto un miliardo di stelle del Far West, ancora ad aspettare il loro treno. «Hai freddo?» gli chiese Willa. «No... perché?» «Hai i brividi.» «Forse qualcuno è passato sopra la mia tomba», disse. Chiuse gli occhi e ballarono insieme nel locale vuoto. Ogni tanto erano nello specchio e quando svanivano c'era solo una canzone country in una sala vuota illuminata da una catena montuosa al neon. Torno a prenderti 1. Solo correre forte serviva Dopo la morte della bambina, Emily prese a correre. Prima solo fino in fondo al vialetto, dove sostava piegata in due artigliandosi le gambe appena sopra le ginocchia, poi fino in fondo all'isolato, poi giù, fino al QwikPik di Kozy al termine della discesa. Lì comprava del pane o della margarina, magari una merendina al cioccolato, un Ho Ho o un Ring Ding, se altro non le veniva in mente. All'inizio tornava indietro camminando, ma poi prese a farla di corsa anche in senso inverso. Poi venne il momento di chiudere con le merendine. Fu sorprendentemente difficile. Non si era resa conto che lo zucchero alleviava il dolore. O forse le merendine erano diventate un feticcio. Fatto sta che alla fine gli Ho Ho diventarono no no. Le bastava correre. Henry diceva che il feticcio era la corsa e forse aveva ragione.
«Che cosa ne dice la dottoressa Steiner?» le chiese. «La dottoressa Steiner dice di correre da scardinarmi, di mettere in circolo quelle endorfine.» Non aveva parlato della corsa a Susan Steiner, non l'aveva più vista dai funerali di Amy. «Dice che me lo scrive come ricetta, se vuoi.» Raggirare Henry le era sempre stato facile. Anche dopo la morte di Amy. Possiamo fare un altro bambino, gli aveva detto seduta sul letto accanto a lui, che giaceva con le caviglie incrociate e le lacrime che gli scorrevano sulle guance. Gli era stato di consolazione e andava bene così, ma non ci sarebbe stato un altro bambino, con il rischio incombente di trovarlo tutto grigio e immobile nella culla. Non ci sarebbero stati altri inutili tentativi di rianimazione, o la telefonata isterica al 911 con l'operatrice che ti raccomanda di parlare con calma, abbassi la voce, signora, non la capisco. Ma non era necessario che Henry lo sapesse e, almeno all'inizio, lei si sentiva propensa a consolarlo. Era convinta che il conforto e non il pane fosse il sostegno della vita. Forse alla lunga sarebbe stata più capace di trovarne anche per se stessa. Intanto aveva messo al mondo una bambina difettosa. Questo era il punto. Non avrebbe rischiato una seconda volta. Poi cominciarono i mal di testa. Emicranie tremende. Così andò davvero da un dottore, ma fu il dottor Mendez, il loro medico generico, non Susan Steiner. Mendez le prescrisse una cosa che si chiamava Zomeg. Prese l'autobus per recarsi all'ambulatorio di Mendez, poi andò di corsa alla farmacia. Dopodiché tornò a casa trotterellando - erano tre chilometri - e quando finalmente ci arrivò sentiva qualcosa come un forcone conficcato nel fianco, tra la prima costola e l'ascella. Si rifiutò di preoccuparsene. Quello era un dolore che sarebbe passato. E poi era sfinita e aveva voglia di dormire un po'. Lo fece, per tutto il pomeriggio. Sullo stesso letto dove Amy era stata concepita e Henry aveva pianto. Quando si svegliò vide cerchi spettrali sospesi nell'aria, un segno sicuro che stava per subire una di quelle che aveva ormai battezzato «Famose Emicranie di Em». Prese una delle sue nuove pillole e, con sua sorpresa, per non dire choc, il mal di testa batté in ritirata con la coda tra le gambe. Prima rifugiandosi alla base del cranio, poi sparendo del tutto. Pensò che sarebbe stato bello se fosse esistita una pillola come quella anche per la morte di un bambino. Pensò di dover esplorare i limiti della sua resistenza ed ebbe il sospetto che questo le avrebbe preso molto tempo. Non lontano da casa c'era un ju-
nior college con una pista di atletica in cenere. Cominciò ad andarci la mattina presto appena dopo che Henry era uscito per recarsi al lavoro. Henry non capiva la corsa. Il jogging sì, c'erano tante donne che lo facevano. Smaltire quei chiletti di troppo sul fondoschiena, impedire al girovita di aggiungere quel paio di centimetri. Ma Em non aveva chiletti di troppo sul fondoschiena e poi il jogging a lei non bastava più. Doveva correre, e forte. Solo correre forte serviva. Parcheggiava di fianco alla pista e correva finché non ce la faceva più, finché la sua canotta con la scritta FLORIDA STATE UNIVERSITY era scura di sudore davanti e dietro e lei aveva le vertigini e qualche volta vomitava per la fatica. Henry lo scoprì. Qualcuno la vide correre tutta sola alle otto del mattino e glielo riferì. Ne discussero. La discussione sfociò in un litigio di quelli che mandano a gambe all'aria un matrimonio. «È un hobby», disse lei. «Jodi Anderson ha detto che hai corso fino a cascare per terra. Ha temuto che tu avessi avuto un infarto. Questo non è un hobby, Em. Nemmeno un feticcio. È un'ossessione.» E la guardò con rimprovero. Poi gli avrebbe lanciato il libro, ma fu quello a far scattare la molla. Lo sguardo di rimprovero. Non lo sopportava più. Con quella faccia lunga, era come avere in giro per casa una pecora. Ho sposato una Dorset grigia, pensò, e adesso è un continuo bee-bee-bee. Ma tentò ancora una volta di essere ragionevole su qualcosa che in cuor suo sapeva privo di razionalità. Esisteva il pensiero magico; esisteva anche l'azione magica. Correre, per esempio. «I maratoneti corrono fino a cascare per terra», disse. «E tu hai intenzione di correre una maratona?» «Forse.» Ma guardò altrove. Dalla finestra, il vialetto. Il vialetto la chiamava. Il vialetto portava al marciapiede e il marciapiede portava al mondo. «No», disse lui. «Tu non correrai una maratona. Tu non hai nessuna intenzione di correre una maratona.» E lei concluse - con quella sensazione di folgorante rivelazione che sa offrire l'ovvietà - che quella era l'essenza di Henry, la fottuta apoteosi di Henry. Nei sei anni del loro matrimonio lui era stato sempre perfettamente consapevole di ciò che lei pensava, sentiva, progettava. Io ti ho consolato, pensò, non ancora infuriata ma cominciando a essere infuriata. Tu eri steso sul letto, a scioglierti in lacrime, e io ti ho consolato.
«La corsa è una classica reazione psicologica al dolore che provi», stava dicendo lui in quello stesso tono sapiente. «Si chiama rifiuto. Ma, tesoro, se non accetti il dolore che provi, non potrai mai...» Fu quello il momento in cui lei afferrò l'oggetto più a portata di mano, che, caso vuole, era un'edizione tascabile di Figlia del silenzio. Era un libro che lei aveva affrontato e abbandonato, e allora si era messo a leggerlo Henry ed era ormai a circa tre quarti, a giudicare dal segnalibro. Ha persino i gusti di una Dorset grigia, pensò e glielo scagliò addosso. Lo colpì alla spalla. Lui la fissò con gli occhi sgranati, stupefatto, poi si lanciò su di lei. Probabilmente solo per abbracciarla, ma chi lo sa? Chi sa mai niente? Se si fosse mosso un momento prima, l'avrebbe forse acchiappata per un braccio o un polso o anche solo per un lembo della maglietta. Ma l'istante di sbigottimento lo tradì. La mancò e lei era già in corsa, rallentando solo per raccogliere il marsupio dal tavolino nell'ingresso. Giù per il vialetto, verso il marciapiede. Poi giù per la discesa, dove per breve tempo aveva spinto una carrozzina con altre mamme che ora la evitavano. Questa volta non aveva intenzione né di fermarsi né di rallentare. Con addosso solo un paio di calzoncini, scarpe da tennis e una T-shirt con la scritta SALVATE LA CHEERLEADER, Emily corse nel mondo. Si agganciò il marsupio alla vita mentre scendeva di corsa per il pendio. E lo stato d'animo? Euforia. Yu-huu totale. Corse fino all'abitato (tre chilometri, ventidue minuti), senza fermarsi nemmeno quando aveva il semaforo rosso; se doveva aspettare, correva sul posto. All'angolo della Main con la Eastern la sorpassarono due ragazzi su una Mustang con la capottina abbassata: stava giusto cominciando la stagione da capottina abbassata. Uno dei due fischiò. Em gli mostrò il dito medio. Lui rise e applaudì mentre la Mustang accelerava giù per la Main. Non disponeva di molti contanti, ma aveva un paio di carte di credito. Il pezzo forte era l'American Express, perché con quella poteva comprare traveller's cheque. Si rese conto che non sarebbe tornata a casa, almeno per un po'. E quando quella conclusione le provocò una sensazione di sollievo - forse persino l'esaltazione che accompagna il fuggiasco - invece che dispiacere, sospettò che non fosse una cosa temporanea. Entrò al Morris Hotel per usarne il telefono, poi decise lì per lì di prendere una stanza. Avevano niente di libero per una sola notte? Ce l'avevano. Diede all'impiegato la sua AmEx. «Non sembra che abbia bisogno di un fattorino», commentò l'impiegato
osservando la sua tenuta in T-shirt e calzoncini. «Sono uscita di corsa.» «Vedo.» Detto nel tono di voce che lasciava intuire che non vedeva affatto. Em prese la chiave e attraversò veloce l'ampia hall diretta agli ascensori, dominando l'impulso di correre. 2. Mi sembra che tu stia piangendo Voleva comprare dei vestiti, un paio di gonne, un paio di maglie, due paia di jeans, un altro paio di short, ma prima di andare per negozi aveva due telefonate da fare: una a Henry e una a suo padre. Suo padre era a Tallahassee. Decise che fosse giusto chiamare prima lui. Non ricordava il numero del suo ufficio al parco macchine ma conosceva a memoria quello del suo cellulare. Le rispose al primo squillo. Sentì rombo di motori in sottofondo. «Em! Come stai?» La risposta a quella domanda sarebbe dovuta essere complessa, ma non lo fu. «Bene, papà. Ma sono al Morris Hotel. Credo di aver lasciato Henry.» «Per sempre o è solo un periodo di prova?» Non sembrava sorpreso, era uno che prendeva le cose con filosofia, una qualità che lei adorava, però il rombo dei motori prima si affievolì e poi scomparve. Lo immaginò andare in ufficio, chiudere la porta, prendere forse in mano la fotografia di sua figlia che conservava nel caos della scrivania. «Ancora non so. Al momento la prospettiva non sembra molto rosea.» «Di che si è trattato?» «Correre.» «Correre?» Lei sospirò. «Non proprio. Sai quando una cosa è in realtà tutt'altra cosa? O un sacco di altre cose?» «La bambina.» Da quando era morta suo padre non l'aveva più chiamata Amy. Adesso era sempre solo «la bambina». «E il modo in cui lo faccio. Che non è il modo in cui vorrebbe lui. Sono arrivata alla conclusione che voglio fare le cose a modo mio.» «Henry è un brav'uomo», ribatté suo padre, «ma ha il suo modo di vedere le cose. Non c'è dubbio.» Lei attese. «Cosa posso fare?»
Lei glielo disse. Lui accettò. Lei sapeva che glielo avrebbe concesso, ma non prima di aver ascoltato tutta la storia. Ascoltare era la parte più importante e in questo Rusty Jackson era bravo. Da meccanico al parco macchine era adesso una delle quattro persone più importanti di tutto il campus di Tallahassee (e non lo aveva sentito dire da lui; lui non avrebbe mai detto una cosa del genere né a lei né ad altri) e non lo sarebbe diventato senza saper ascoltare. «Manderò Mariette a dare una pulita alla casa», disse. «Non c'è bisogno, papà. Posso farlo io.» «Lo voglio», insisté lui. «Una bella ripulita da cima a fondo ci vuole. È quasi un anno che quella stamberga è chiusa. Mi capita di rado di scendere a Vermillion da quando è morta tua madre. Sembra che riesca a trovarmi sempre qualcos'altro da fare quassù.» Nemmeno la madre di Em era più Debra per lui. Dal giorno del funerale (cancro alle ovaie), era diventata semplicemente «tua madre». Sicuro che non ti. dispiaccia? quasi domandò Em, ma era una di quelle cose che si dicono a uno sconosciuto che si offre di farti un favore. O a un tipo diverso di padre. «Ci vai a correre?» chiese lui. Lei avvertì un sorriso nella sua voce. «C'è tutta la spiaggia che vuoi e un bel pezzo di strada, anche. Come ben sai. E non dovrai farti largo a gomitate. Fra ora e ottobre, Vermillion è l'angolo più tranquillo del mondo.» «Ci vado a pensare. E, credo, a mettere la parola fine al lutto.» «Allora va bene così», disse suo padre. «Vuoi che ti prenoti il volo?» «Posso farlo io.» «Ma certo. Emmy, ma stai bene?» «Sì.» «Mi sembra che tu stia piangendo.» «Un pochino», rispose lei e si asciugò il viso. «È successo tutto così in fretta.» Come la morte di Amy, avrebbe potuto aggiungere. L'aveva fatto da signorina perbene, non un solo segnale dal baby monitor. Esci senza far rumore, non sbattere la porta, le ripeteva spesso sua madre quando lei era piccola. «Non è che Henry viene lì a infastidirti all'albergo, vero?» Aveva avvertito una lieve, delicata esitazione prima di scegliere «infastidirti», e sorrise nonostante le lacrime, che comunque erano già rotolate via. «Se mi stai chiedendo se c'è il pericolo che mi insegua per picchiarmi... non è nel suo stile.»
«Alle volte un uomo cambia stile quando sua moglie lo pianta in asso... quando scappa di casa correndo.» «Non Henry», disse lei. «Non è uomo da atti violenti.» «Sicura di non voler venire prima a Tallahassee?» Esitò. Un po' lo desiderava, ma... «Ho bisogno di un po' di tempo per conto mio. Prima di qualsiasi altra cosa.» E ripeté: «È successo tutto così in fretta». Anche se sospettava che si andasse preparando da qualche tempo. Si annidava forse addirittura nel DNA del suo matrimonio. «D'accordo. Un bacio, Emmy.» «Un bacio anche a te, papà. Grazie.» Deglutì. «Di cuore.» Henry non gliela rese difficile. Henry non le chiese neppure da dove stesse chiamando. Henry disse: «Forse non sei la sola ad aver bisogno di starsene un po' per conto proprio. Forse è meglio così». Lei dominò l'impulso di ringraziarlo, che percepì insieme come normale e assurdo. Le parve più opportuno tenere la bocca chiusa. Quello che lui disse subito dopo confortò la sua scelta. «Chi hai chiamato? Il mago dei motori?» Questa volta l'impulso a cui dovette resistere fu quello di chiedergli se lui avesse già telefonato a sua madre. Il pan per focaccia non aveva mai risolto nulla. «Vado a Vermillion Key», annunciò, sperando di aver trovato un tono di voce imparziale. «Nella casa che ha mio padre laggiù.» «La baracca del pescatore.» Quasi le parve di vederlo arricciare il naso. Come le merendine, le case di soli tre locali e senza box non avevano posto nell'universo di Henry. «Ti chiamo quando sarò arrivata», disse Em. Un silenzio prolungato. Lo immaginò in cucina, la testa appoggiata al muro, la mano che stringeva il ricevitore con tanta forza da sbiancare le nocche, a lottare per respingere la collera. Per via dei sei anni per lo più belli trascorsi insieme. Sperò che ce la facesse. Se davvero aveva visto giusto. Quando lui parlò di nuovo, le sembrò calmo ma rassegnato. «Hai le carte di credito?» «Sì. E non ne abuserò. Ma voglio la mia metà dei soldi per il college della...» S'interruppe morsicandosi il labbro. Per poco non aveva detto «bambina» e non era giusto. Forse lo era per suo padre, ma non per lei. Ri-
provò. «La mia metà dei soldi per il college di Amy», disse. «Immagino che non sia molto, però...» «È più di quel che pensi», rispose lui. Cominciava a essere seccato di nuovo. Avevano iniziato a mettere via i soldi non quando era nata Amy o quando Em era rimasta incinta, ma già quando avevano cominciato a provarci. I tentativi erano durati quattro anni e quando finalmente Emily era rimasta incinta, stavano ormai parlando di procreazione assistita. O adozione. «Quegli investimenti non sono stati solo buoni, ma benedetti dal cielo, specialmente le azioni nel settore informatico. Abbiamo investito al momento giusto e ce ne siamo tirati fuori nel momento migliore. Emmy, tu non vuoi portar via le uova da quel nido.» Eccolo di nuovo a dirle che cosa lei voleva o non voleva fare. «Ti farò avere un indirizzo al più presto possibile», ribatté. «Tu con la tua metà fai pure quello che ti pare, ma fammi avere la mia con un assegno circolare.» «Corri ancora», disse lui, e sebbene quel tono da pulpito le facesse rimpiangere di non essere al suo cospetto per potergli scagliare addosso un altro libro, questa volta rilegato, tenne la bocca chiusa. Alla fine lui sospirò. «Senti, Em, io me ne sto fuori per qualche ora. Vieni a casa a prendere i tuoi vestiti o quello che ti serve. E ti lascerò del contante sul comò.» Per un momento ne fu tentata; poi ricordò che lasciare i soldi sul comò era quello che facevano gli uomini con le prostitute. «No», rispose. «Voglio cominciare da zero.» «Em.» Ci fu una lunga pausa. Intuì che era alle prese con le sue emozioni e quel pensiero le fece appannare di nuovo gli occhi. «Finisce qui tra noi due, piccola?» «Non lo so», gli disse facendo uno sforzo perché non le tremasse la voce. «Troppo presto per dirlo.» «Se dovessi dire la mia», ribatté lui, «direi di sì. Oggi ha dimostrato due cose. Una è che una donna in buona salute può correre lontano.» «Ti chiamo», disse lei. «L'altra è che i bambini vivi per un matrimonio sono un collante. Quelli morti sono un acido.» Quelle parole le fecero più male di qualsiasi altra cosa avesse potuto dire, perché riducevano Amy a una brutta similitudine. Em non l'avrebbe potuto fare. Pensava che mai ne sarebbe stata capace. «Ti chiamo», disse, e
riappese. 3. Vermillion Key giaceva stordita e semideserta Così Emily Owensby corse fino in fondo al vialetto di casa, poi giù alla discesa fino al Qwik-Pik di Kozy e poi sulla pista di atletica del Cleveland South Junior College. Corse al Morris Hotel. Corse fuori del suo matrimonio nel modo in cui una donna può saltar fuori da un paio di sandali quando decide di mollare e partire a testa bassa. Poi, con l'aiuto della Southwest Airlines, corse a Fort Myers, in Florida, dove noleggiò un'automobile e proseguì a sud verso Naples. Vermillion Key giaceva stordita e semideserta sotto la luce cocente di giugno. Tre chilometri di strada costeggiavano la spiaggia dal ponte mobile fino al vialetto d'accesso di suo padre. In fondo al vialetto si ergeva la baracca da pescatore, una costruzione dall'aria trasandata all'esterno, con un tetto blu e persiane blu scorticate, accogliente e dotata di aria condizionata all'interno. Quando spense il motore della sua Nissan a noleggio, i soli suoni che restarono furono il frangersi delle onde sulla spiaggia vuota e, nelle vicinanze, il ripetuto Uh-oh! Uh-oh! di un uccello allarmato. Em abbassò la testa sul volante e per cinque minuti pianse, sfogando tutta la tensione e tutto l'orrore di quegli ultimi sei mesi. Provandoci, quanto meno. Non c'era nessuno a portata d'orecchio salvo l'uccello uh-oh. Quand'ebbe finito, si tolse la T-shirt e asciugò via tutto, muco, sudore, lacrime. Si ripassò ben bene fino all'orlo del liscio reggiseno sportivo grigio. Poi andò alla casa accompagnata dal crepitio di conchiglie e frammenti di corallo sotto le suole delle scarpe da tennis. Mentre si chinava a prendere la chiave dalla scatoletta di mentine nascosta dietro il simpaticononostante-tutto gnomo da giardino con il suo scolorito berretto rosso, si rese conto che da più di una settimana non aveva avuto uno dei suoi mal di testa. Ed era un bene, visto che il suo Zomig era a duemila chilometri. Quindici minuti dopo, in calzoni corti e una delle vecchie maglie di suo padre, stava correndo sulla spiaggia. Nelle tre settimane successive la sua fu una vita di disarmante semplicità. Per prima colazione beveva caffè e succo d'arancia, a pranzo mangiava enormi insalate e a cena divorava piatti pronti, il più delle volte maccheroni al formaggio o carne di manzo in salsa su pane tostato, che suo padre chiamava sbobba da caserma. I carboidrati le tornavano utili. Di mattina,
quando l'aria era fresca, correva a piedi nudi in spiaggia, sul limitare dell'acqua, dove la sabbia era compatta e bagnata e quasi del tutto sgombra da conchiglie. Di pomeriggio, quando faceva caldo (con frequenti acquazzoni), correva sulla strada, che per quasi tutta la sua lunghezza era ombreggiata. Qualche volta la sorprendeva un rovescio. In quelle occasioni continuava a correre sotto la pioggia, spesso sorridendo, talvolta persino ridendo, e quando tornava a casa, si spogliava nell'ingresso e buttava gli indumenti fradici nella lavatrice che, molto opportunamente, si trovava a soli tre passi dalla doccia. Cominciò con tre chilometri di spiaggia e un chilometro e mezzo di strada. Dopo tre settimane percorreva cinque chilometri in spiaggia e tre in strada. Rusty Jackson si compiaceva di chiamare il suo rifugio Little Grass Shack, un nome preso da qualche vecchia canzone. La casetta era all'estremità settentrionale e non ce n'era un'altra uguale su tutta Vermillion; il resto era stato occupato per intero dai ricchi, i super ricchi e, all'estremità sud, dove c'erano tre volgari villoni, gli assurdamente ricchi. Durante le corse in strada le succedeva alle volte di incrociare camioncini carichi di attrezzature da giardinaggio, ma raramente un'automobile. Le case davanti alle quali passava erano tutte chiuse, con la catena all'ingresso del vialetto, e così sarebbero rimaste almeno fino a ottobre, quando alla spicciolata sarebbero arrivati i primi proprietari. Cominciò a inventarsi nomi: quella con le colonne era Tara, quella dietro l'alta cancellata di ferro era Club Fed, quella grande, nascosta dietro un brutto muro grigio di cemento, era la Casamatta. La sola altra costruzione di piccole dimensioni, a cui facevano scudo palme nane e alberi del viaggiatore, era la Troll House, dove immaginava che gli inquilini stagionali vivessero di biscottini Troll. In spiaggia vedeva alle volte i volontari della protezione delle tartarughe e in poco tempo prese à salutarli chiamandoli per nome. E loro, guardandola passare, le lanciavano un: «Ehi, Em!» in risposta. Raramente si imbatteva in altre persone, anche se una volta la sorvolò un elicottero a bassa quota. Il passeggero, un giovane, si sporse a salutarla con la mano. Em ricambiò, con il volto prudentemente nascosto dall'ombra del suo berretto della Florida University. Faceva rifornimento al supermercato, qualche chilometro a nord sull'autostrada 41. Spesso tornando a casa si fermava alla rivendita di libri usati di Bobby Trickett, che occupava una costruzione molto più ampia del piccolo rifugio di suo padre ma era lo stesso una comune baracca da pescatore. Lì acquistava vecchi gialli in edizione tascabile di Raymond Chandler e
Ed McBain, con le pagine marrone ai bordi e gialle all'interno, che profumavano di nostalgia come la vecchia Ford famigliare con i profili in legno che aveva scorto un giorno scendere per la 41 con due sedie da giardino legate al tetto e una malridotta tavola da surf che spuntava da dietro. Non aveva bisogno di comprare romanzi di John D. MacDonalds, dato che suo padre ne possedeva l'intera collezione nella sua libreria confezionata con cassette da arance. Alla fine di luglio correva ormai una decina di chilometri al giorno, con i seni ridotti a due foruncoli e il sedere quasi scomparso del tutto, e aveva riempito due degli scaffali vuoti di suo padre con thriller più recenti. La sera la TV non veniva mai accesa, nemmeno per le previsioni del tempo. Il vecchio PC di suo padre rimaneva spento. Non acquistò mai un giornale. Suo padre le telefonava ogni due giorni, ma smise di chiederle se voleva che si liberasse per andare a trovarla dopo che lei gli ebbe detto che, quando fosse stata pronta a vederlo, lo avrebbe informato. Nel frattempo, aveva dichiarato, non soffriva di tentazioni suicide (vero), non era nemmeno depressa (non vero) e mangiava. Tanto era bastato a rassicurare Rusty. Erano sempre stati franchi l'uno con l'altro. Emily sapeva poi che l'estate era per lui un periodo di lavoro più intenso: tutto quello che non si riusciva a fare quando il campus (che lui aveva sempre chiamato «lo stabilimento») brulicava di ragazzi doveva essere fatto tra il 15 giugno e il 15 settembre, quando c'erano solo gli studenti estivi e le eventuali conferenze accademiche che l'amministrazione fosse riuscita a organizzare. Inoltre aveva un'amica. Melody, si chiamava. Era un argomento che Emily evitava, la faceva sentire strana, ma sapeva che Melody rendeva felice suo padre, così non mancava mai di chiedere di lei. Bene, rispondeva invariabilmente suo padre. Ed è un vero tesoro. Una volta telefonò a Henry e una volta Henry telefonò a lei. La sera in cui la chiamò, Em fu quasi certa che fosse sbronzo. Le chiese di nuovo se tra loro fosse finita e lei gli disse di nuovo che non lo sapeva, ma era una bugia. Probabilmente una bugia. La notte dormiva come in coma. All'inizio fece brutti sogni rivivendo in continuazione la mattina in cui avevano trovato Amy morta. In alcuni dei sogni la bimba era nera come una fragola marcita. In altri, ed erano sogni peggiori, trovava Amy boccheggiante e le salvava la vita con la respirazione bocca a bocca. Erano peggiori perché al risveglio doveva constatare che Amy era ancora morta come lo era stata il giorno prima. Si ridestò da uno di questi durante un temporale e scivolò nuda dal letto sul pavimento,
piangendo con i gomiti puntati sulle ginocchia e i palmi delle mani che le spingevano le guance all'insù in un sorriso, mentre sul Golfo balenavano i fulmini disegnando sul muro fugaci composizioni blu. Mentre si impegnava sempre di più, esplorando i favoleggiati limiti della resistenza fisica, i sogni cessarono o continuarono a manifestarsi nascosti all'occhio della memoria. Cominciò a svegliarsi sentendosi non tanto riposata quanto defaticata fin nel nocciolo della propria essenza e sebbene ogni giorno fosse fondamentalmente uguale al giorno prima, ciascuno cominciò a sembrarle una cosa nuova, con un'identità propria, invece di un'estensione della cosa vecchia. Un giorno si svegliò sentendo che la morte di Amy aveva cominciato a essere qualcosa che era accaduto invece di qualcosa che stava accadendo. Decise che avrebbe chiesto a suo padre di venire a trovarla... e di portare anche Melody se lo desiderava. Avrebbe preparato loro una bella cenetta. Li avrebbe ospitati (che diamine, era di suo padre la casa). Dopodiché si sarebbe messa a riflettere su che cosa desiderava fare della sua vita reale, quella che presto avrebbe ripreso dall'altra parte del ponte mobile, che cosa desiderava conservare e che cosa voleva buttar via. Avrebbe fatto quella telefonata presto, pensò. Di lì a una settimana. Due al massimo. Non era ancora il momento giusto, ma quasi. Quasi. 4. Un tipo non molto raccomandabile Un giorno, quando da poco luglio era diventato agosto, Deke Hollis le disse che lei aveva compagnia sull'isola. Lui la chiamava «isola», mai key. Deke era un uomo stagionato dalla vita all'aria aperta, cinquant'anni o magari settanta. Era uno spilungone che girava con in testa un vecchio cappello di paglia a forma di fondina rovesciata. Dalle sette del mattino fino alle sette di sera azionava il ponte mobile tra Vermillion e la terraferma. Questo dal lunedì al venerdì. Il sabato e la domenica lo sostituiva «il ragazzo» (il quale ragazzo aveva una trentina d'anni). Certe volte, arrivando di corsa al ponte e trovando seduto nella vecchia poltrona di bambù davanti alla guardiola il ragazzo al posto di Deke, a leggere Maxim o Popular Mechanics invece del New York Times, si stupiva di scoprire che fosse di nuovo sabato. Quel pomeriggio però c'era Deke. Il canale tra Vermillion e la terraferma - che Deke chiamava qualcosa come «gola» - era deserto e buio sotto un cielo scuro. Sul parapetto del ponte, dalla parte del Golfo, era appollaiato
un airone, intento o a meditare o a perlustrare l'acqua in attesa di un pesce. «Compagnia?» domandò Em. «Io non ho nessuna compagnia.» «Non intendevo in quel senso. Pickering è tornato. Al 366. Ha portato una delle sue 'nipoti'.» E, per sottolineare quella parola, Deke alzò al cielo quei suoi occhi di un azzurro così slavato da essere quasi incolori. «Io non ho visto nessuno.» «No», convenne lui. «Ha attraversato il ponte un'ora fa sulla sua grossa Mercedes rossa, quando tu probabilmente ti stavi ancora allacciando le scarpe da tennis.» Si sporse in avanti al di sopra del giornale che crepitò contro il suo ventre piatto. Emily notò che aveva già compilato per metà il cruciverba. «Una nipote diversa ogni estate. Sempre giovani.» Fece una pausa. «Qualche volta due nipoti, una in agosto e una in settembre,» «Non lo conosco», ribatté lei. «E non ho visto nessuna Mercedes rossa.» Nemmeno sapeva quale fosse la casa corrispondente al 366. Le case, quelle le notava, ma raramente faceva caso ai numeri civici. Eccettuato naturalmente il 219. Era il numero sulla cassetta per le lettere sormontata da una fila di uccellini di legno (quella era naturalmente la Voliera). «Meglio così», disse Deke. Questa volta invece di alzare gli occhi al cielo, piegò all'ingiù gli angoli della bocca, come per un sapore cattivo. «Le porta giù con la Mercedes e poi le riporta a St. Petersburg sulla sua barca. Un grande yacht bianco. Il Play Pen. È passato per la gola stamattina.» Gli angoli della sua bocca si piegarono di nuovo. In lontananza brontolò un tuono. «Così le nipoti si fanno un giro turistico della casa e poi una piccola crociera lungo la costa e noi non rivediamo Pickering fino a gennaio, quando su a Chicagoland si mette a far freddo davvero.» Durante le sue corse mattutine in spiaggia a Em sembrava di aver visto una grande imbarcazione bianca da diporto ormeggiata a un molo, ma non ne era sicura. «Tra uno o due giorni, magari una settimana, manderà giù un paio di tizi a prendere la Mercedes per riportarla dove la tiene dalle parti sue. Vicino all'aeroporto privato di Naples, immagino.» «Dev'essere molto ricco», commentò Em. Era la conversazione più lunga che avesse mai avuto con Deke ed era interessante, ma per non sbagliare cominciò a correre sul posto. In parte perché non voleva che le si irrigidissero i muscoli, ma soprattutto perché il suo corpo glielo stava chiedendo. «Ricco come Paperon de' Paperoni, ma io ho l'impressione che Pickering spenda i suoi soldi. In maniere che forse zio Paperone non saprebbe nem-
meno immaginare. Ho sentito dire che li ha fatti con i computer.» Gli occhi si levarono. «Una vera manna per parecchia gente, eh?» «Sembrerebbe», rispose lei, continuando a saltellare. Questa volta il tuono si schiarì la gola con un po' più di autorità. «So che sei ansiosa di rimetterti in moto, ma te l'ho detto per una ragione», spiegò Deke. Ripiegò il giornale, lo posò accanto alla vecchia poltrona di canna e vi mise sopra la tazza di caffè a fare da peso. «Io non sono solito sparlare di quelli che vivono sull'isola, molti di loro sono ricchi e se lo facessi non durerei a lungo, ma tu mi sei simpatica, Emmy. Te ne stai per conto tuo, ma senza puzza sotto il naso. E poi sono affezionato a tuo padre. Ci facciamo una birra assieme di tanto in tanto.» «Grazie», disse lei. Era commossa. Poi un'idea la fece sorridere. «Mio padre ti ha chiesto di darmi un occhio?» Deke scosse la testa. «No no, non lo avrebbe mai fatto. Non è nel suo stile. Però ti direbbe la stessa cosa che ti dico ora io: Jim Pickering è un tipo non molto raccomandabile. Io ci starei alla larga. Se ti invita a bere qualcosa a casa sua o anche solo a prendere un caffè con lui e la sua nuova 'nipote', risponderei di no. E se ti invitasse a fare un giro in barca con lui, decisamente direi di no.» «Non mi interessa comunque andare in barca», disse lei. Le interessava piuttosto portare a termine il suo lavoro a Vermillion Key. Sentiva di esserci vicina. «E ora è meglio che torni a casa prima che si metta a piovere.» «Non credo che comincerà prima delle cinque almeno», ribatté Deke. «Ma se dovessi sbagliarmi, mi vien da dire che per te farebbe lo stesso.» Emily sorrise di nuovo. «Anche a me. A dispetto di quel che crede la gente, le donne non si sciolgono sotto la pioggia. Riferirò i tuoi saluti a mio padre.» «Ci conto.» Si chinò a raccogliere il giornale, poi sostò a scrutarla da sotto quel suo ridicolo copricapo. «Come sta andando, comunque?» «Meglio», rispose lei. «Ogni giorno meglio.» Si girò e cominciò la sua corsa di ritorno a Little Grass Shack. Mentre correva alzò la mano e proprio in quel momento l'airone che se ne stava appollaiato sulla ringhiera del ponte mobile la sorvolò con un pesce nel lungo becco. Il numero 366 era quello della Casamatta e, per la prima volta da quando era arrivata a Vermillion, il cancello era socchiuso. Oppure era socchiuso già quando era passata di lì diretta al ponte? Non ricordava, però è anche
vero che per cronometrarsi aveva preso l'abitudine di portare un orologio, un cipollone con un grande display digitale. Probabilmente lo stava consultando proprio mentre ci passava davanti. Quasi quasi tirava dritto - i tuoni si erano avvicinati - ma poi pensò che non indossava un costoso capo firmato, ma solo un completo sportivo di calzoncini e T-shirt con su la svirgolata della Nike. E poi che cosa aveva detto a Deke? Le donne non si sciolgono sotto la pioggia. Così rallentò, sterzò e andò a dare un'occhiata. Semplice curiosità. Le parve che la Mercedes parcheggiata davanti alla casa fosse una 450 SL, perché ne aveva una così anche suo padre, sebbene la sua fosse ormai anzianotta mentre questa era più nuova che mai. Era color rosso ciliegia candita e scintillava nonostante il cielo coperto. Il bagagliaio era aperto. Da esso pendeva un ventaglio di lunghi capelli biondi. Nei capelli c'era del sangue. Deke aveva forse detto che la ragazza di Pickering era bionda? Quella fu la sua prima domanda ed era così incredula, così maledettamente sbalordita, che non se ne sorprese. Le parve una domanda perfettamente logica e la risposta fu che Deke non lo aveva detto. Solo che era giovane. E che era una nipote. Con un'alzata d'occhi. Il tuono rombò. Quasi direttamente sopra di lei ora. Davanti alla casa c'era solo quell'automobile (e la bionda nel bagagliaio, c'era anche lei). Anche la casa sembrava deserta: chiusa e sprangata e più Casamatta che mai. Nemmeno l'ondeggiare delle palme ne addolciva l'aspetto. Era troppo grande, troppo cruda, troppo grigia. Era una brutta casa. Ebbe l'impressione di sentire un gemito. Senza nemmeno pensarci varcò il cancello e corse al bagagliaio aperto. Non era stata la ragazza nel bagagliaio a gemere. Aveva gli occhi aperti, ma era stata accoltellata in decine di posti e aveva la gola tagliata da un orecchio all'altro. Rimase lì a guardarla, troppo scioccata per muoversi, troppo scioccata persino per respirare. Poi ebbe l'idea che fosse una finta ragazza morta, un elemento scenografico. Mentre la sua mente razionale le diceva che era una scemenza, la parte di lei specializzata in razionalizzazioni annuiva freneticamente. Stava persino confezionando un retroscena a sostegno della sua ipotesi. Deke aveva in antipatia Pickering e non gli andava il genere di compagnia femminile che si sceglieva? Ebbene, pensa un po', a Pickering non piaceva Deke! Quello che aveva davanti agli occhi era solo un elaborato brutto scherzo. Pickering avrebbe riattraversato il ponte con il bagagliaio volutamente socchiuso e quei finti capelli biondi che svolazzavano
dietro la Mercedes e... Ma ora c'erano odori che uscivano dal bagagliaio. Erano odori di feci e sangue. Emily toccò con la punta delle dita la guancia sotto uno di quegli occhi sbarrati. Era fredda, ma era pelle. Oh, mio Dio, era pelle umana. Ci fu un rumore alle sue spalle. Un passo. Cominciò a voltarsi e qualcosa le calò sulla testa. Non provò dolore, ma vide solo il mondo scomparire dietro un bianco lucente. Poi fu il buio. 5. Sembrò che stesse cercando di giocare a il gatto e il topo con lei Quando si svegliò, era legata a una seggiola con del nastro adesivo in una grande cucina piena di terribili oggetti d'acciaio: lavello, frigorifero, lavastoviglie, una batteria di fornelli che sembrava più adatta alla cucina di un ristorante. Il lato posteriore della sua testa inviava lunghe e lente onde di dolore al lato anteriore e ciascuna di esse sembrava dire: Ferma tutto! Ferma tutto!! In piedi, al lavandino, c'era un uomo alto e snello in short color cachi e una vecchia maglia da golf di marca. La luce delle lampade al neon era impietosa ed Emily notò le profonde zampe di gallina all'angolo del suo occhio, la spruzzata di grigio sul lato dei capelli corti e ben curati. Lo giudicò sui cinquant'anni. Si stava lavando il braccio. Aveva un taglio poco sotto il gomito. Girò la testa di scatto. Mostrò in quel movimento una rapidità animalesca che le fece provare un vuoto allo stomaco. I suoi occhi erano di un azzurro molto più intenso di quelli di Deke Hollis. In essi non scorse nulla che riconoscesse come segno di sanità mentale e il suo cuore sprofondò ancora di più. Per terra, sul pavimento dello stesso brutto grigio della facciata della casa, ma di piastrelle invece che di cemento, c'era una striscia scura e umida larga una spanna e mezzo. Pensò che dovesse essere sangue. Era molto facile immaginare i capelli della ragazza che lasciavano quella scia mentre Pickering la trascinava per i piedi verso qualche destinazione ignota. «Sei sveglia», disse. «Bene. Pazzesco. Credi che volessi ucciderla? Io non volevo ucciderla. Aveva un coltello nascosto in un calzino! Le ho solo dato un pizzicotto su un braccio, niente di più.» Parve riflettere e, mentre lo faceva, si tamponò il taglio pieno di sangue con una manciata di tovaglioli di carta. «Be', anche a una tetta. Ma tutte le ragazze se lo aspettano.
O dovrebbero. È una fase preparatoria. Oppure in questo caso, 'preparatroia'.» Per due volte mimò le virgolette con l'indice e il medio di entrambe le mani. A lei sembrò che stesse cercando di giocare a il gatto e il topo con lei. Le sembrò anche pazzo. In verità non aveva dubbi sulle sue condizioni mentali. Un tuono squarciò il cielo sopra di loro, uno schianto assordante come un armadio che precipita. Em sussultò, per quanto le era possibile, legata com'era alla sedia, ma l'uomo davanti al lavandino in acciaio inossidabile non alzò nemmeno gli occhi. Era come se non avesse sentito. Spingeva in fuori il labbro inferiore. «Così gliel'ho portato via. E poi ho perso la testa. Lo ammetto. La gente pensa che io sia la pacatezza fatta persona e io cerco di comportarmi di conseguenza. Davvero. Ce la metto tutta. Ma a chiunque può capitare di perdere la testa. È questo che non vogliono capire. A chiunque. Date le circostanze giuste.» L'acqua venne giù a catinelle come se Dio avesse azionato il Suo sciacquone personale. «Chi può ragionevolmente presumere che tu sia qui?» «Un sacco di gente.» Questa risposta uscì senza esitazioni. Lui sfrecciò attraverso la cucina in un flash. Flash era la parola giusta. Un istante prima era al lavandino e immediatamente dopo era davanti a lei a colpirla al volto con tanta violenza da farle esplodere puntini bianchi davanti agli occhi. I puntini schizzarono in giro nell'aria disegnando sottili code di cometa. La sua testa saltò all'indietro. I capelli le volarono contro la guancia e sentì nella bocca il sapore del sangue che cominciava a scorrerle dal labbro inferiore spaccato. I denti le avevano lacerato il lato interiore del labbro, in profondità. Quasi da una parte all'altra, le sembrava. Fuori scrosciava la pioggia. Morirò mentre piove, pensò. Ma non lo credette. Forse non lo fa nessuno quando ci si trova realmente in quel momento. «Chi sa?» Era chino su di lei e le urlava in faccia. «Un sacco di persone», ripeté Em e invece di «sacco» disse «sciacco» perché le si stava gonfiando il labbro inferiore. E sentì il sangue che le gocciolava dal mento. Non le si stava però gonfiando la mente, nonostante dolore e paura. Sapeva che la sua unica speranza di sopravvivere era nel far credere a quell'uomo che, se l'avesse uccisa, lo avrebbero preso. Naturalmente lo avrebbero preso anche se l'avesse lasciata libera, ma di questo si sarebbe occupata in seguito. Un incubo per volta. «Un sciacco di gente!» disse ancora in tono di sfida.
In un lampo lui fu di nuovo al lavandino e quando tornò aveva in mano un coltello. Piccolo. Con tutta probabilità quello che la ragazza morta aveva estratto dalla calza. Applicò la punta alla palpebra inferiore di Emily e tirò verso il basso. Fu allora che la sua vescica cedette, tutt'a un tratto, in una volta sola. I lineamenti di Pickering si irrigidirono per un momento in un'espressione di moralistico disgusto, e tuttavia a lei parve anche compiaciuto. Si chiese di sfuggita come una persona potesse ospitare contemporaneamente nella mente due emozioni in così eclatante conflitto. Lui indietreggiò di mezzo passo, ma la punta del coltello non si mosse. Le pungeva ancora la pelle, tirando verso il basso la sua palpebra inferiore e simultaneamente spingendo dolcemente il globo oculare nell'orbita. «Bello», disse. «Altra schifezza da tirar su. Ma me l'aspettavo. Già. E, come disse il saggio, c'è più spazio fuori che dentro. Così disse.» Rise, un singolo ah, poi si sporse di nuovo in avanti fissando i vividi occhi azzurri in quelli nocciola di lei. «Dimmi una persona che sa che sei qui. Non esitare. Non osare. Se esiti saprò che ti stai inventando qualcosa e ti cavo l'occhio e lo butto nel lavandino. Posso farlo. Perciò parla. Ora.» «Deke Hollis», disse lei. Era una porcata, quella che stava facendo, una brutta porcata, ma era anche nient'altro che un riflesso. Non voleva perdere l'occhio. «Chi altro?» Non le venne in mente nessun nome, aveva la testa piena di un vuoto assordante, e gli aveva creduto quando lui le aveva detto che esitare le sarebbe costato l'occhio sinistro. «Nessuno, va bene?» gridò. Ma Deke sarebbe bastato. Sicuramente bastava una persona sola, a meno che fosse tanto pazzo da... Lui ritrasse il coltello e, sebbene la sua visione periferica non riuscisse a coglierlo, sentì affiorare in quel punto una minuscola perla di sangue. Non le importava. Era già contenta di avere ancora una visione periferica. «D'accordo», disse Pickering. «D'accordo, d'accordo, bene, d'accordo.» Tornò al lavello e vi lasciò cadere dentro il coltellino. Lei cominciò a sentirsi meglio. Poi lui aprì uno dei cassetti di fianco al lavello e ne estrasse uno più grande, un coltello da carni lungo e appuntito. «D'accordo.» Tornò da lei. Non aveva sangue addosso, nemmeno una macchiolina. Com'era possibile? Per quanto tempo era rimasta priva di sensi? «D'accordo, d'accordo.» Si passò la mano libera in quella sua stupida-
mente costosa acconciatura. I capelli rimbalzarono immediatamente al loro posto. «Chi è Deke Hollis?» «L'addetto al ponte», rispose lei. Le tremava la voce. «Abbiamo parlato di te. È per questo che mi sono fermata a guardare.» Ebbe un'ispirazione. «Lui ha visto la ragazza! Tua nipote, l'ha chiamata!» «Sì, certo, le ragazze tornano sempre per mare, è tutto quello che sa lui. Tutto quello che sa al mondo. Un mondo pieno di impiccioni! Dov'è la tua macchina? Rispondimi subito o avrai il mio nuovo trattamento speciale, un'amputazione del seno. Rapida, ma non indolore.» «Grass Shack!» Fu la sola cosa che le venne in mente di dire. «Cosa sarebbe?» «La casetta da pescatore in fondo alla key. È di mio padre.» Ebbe una seconda ispirazione. «Lui sa che sono qui!» «Sì, sì.» Pickering non sembrava molto interessato. «Sì, d'accordo. Bene, alla grande. Mi stai dicendo che tu vivi qui?» «Sì...» Lui guardò i suoi pantaloncini che ora erano di un blu più scuro. «Corri, vero?» Lei non rispose, ma Pickering non sembrò prendersela. «Sì, tu sei una che corre, e come se lo sei. Guarda che gambe.» Incredibilmente si piegò in due, come inchinandosi al cospetto di un'altezza reale, e le baciò con uno schiocco vibrante la coscia destra appena sotto l'orlo dei calzoncini. Quando si rialzò, lei notò con un tuffo al cuore che gii si era gonfiata la patta. Brutto segno. «Corri su e corri giù.» Disegnò un arco con la lama del coltello, come un direttore d'orchestra con la sua bacchetta. Era ipnotico. Fuori la pioggia non aveva smesso di scrosciare. Sarebbe andata avanti così per quaranta minuti, forse un'ora, poi sarebbe tornato il sole. Em si chiese se sarebbe stata ancora viva per vederlo. Pensava di no. Eppure le era difficile crederlo. Impossibile, per la verità. «Corri su e corri giù. Su e giù. Ogni tanto ti fermi a fare due chiacchiere con il vecchio con il cappello di paglia, ma nessun altro.» Emily aveva paura, ma non tanto da non rendersi conto che non stava parlando a lei. «Così. Nessun altro. Perché non c'è nessun altro. Se qualcuno dei mangiafagioli che lavorano qui a piantare alberi e tagliare l'erba ti vedesse passare nella tua corsa pomeridiana, si ricorderebbe?» La lama del coltello oscillava. Lui ne fissò la punta, quasi che la risposta al suo interrogativo fosse lì. «No», disse. «No, e ti spiego perché. Perché tu sei solo una qualsiasi
gringa ricca con la fregola della corsa. Ce ne sono dappertutto. Si vedono tutti i giorni. Maniache del fitness. Sempre tra le palle. Se non corrono a piedi, corrono in bici. Con in testa quei ridicoli caschi che sembravano vasi da notte. D'accordo? D'accordo. Di' le tue preghiere, Lady Jane, ma sbrigati. Ho fretta. Molta, molta fretta.» Alzò il coltello all'altezza della spalla. Emily vide le sue labbra tendersi nell'anticipazione del colpo mortale. Il mondo intero le diventò improvvisamente nitido; ogni cosa spiccava di limpida lucentezza. Pensò: Sto arrivando, Amy. Poi, assurdamente, qualcosa che poteva aver sentito sul canale sportivo: In campo, piccola. Ma lui si fermò. Si guardò intorno, proprio come se qualcuno avesse parlato. «Sì», disse. Poi: «Sì?» E poi: «Sì». Al centro della cucina c'era un'isola con il piano in laminato plastico. Vi lasciò cadere sopra il coltello invece di conficcarglielo in corpo. «Tu stattene seduta lì», ordinò. «Non ti ucciderò. Ho cambiato idea. Si può anche cambiare idea. Da Nicole non ho avuto altro che una ferita al braccio.» Sull'isola c'era l'avanzo di un rotolo di nastro adesivo. Lo prese. Un momento dopo era inginocchiato davanti a lei in una posizione che lo rendeva quanto mai vulnerabile, offrendole nuca e collo. In un mondo migliore, in un mondo più giusto, lei avrebbe intrecciato le dita delle mani e gliele avrebbe calate alla base della nuca, ma aveva le mani legate ai pesanti braccioli d'acero della sedia. Altro nastro adesivo le bloccò il busto contro lo schienale, strisce su strisce di nastro all'altezza della vita e appena sotto il seno. Le gambe le vennero fissate a quelle della sedia all'altezza delle ginocchia, dei polpacci (in alto e in basso) e delle caviglie. Era stato meticoloso. Le gambe della sedia furono fissate con del nastro adesivo al pavimento e ora lui vi aggiunse altri strati, davanti e dietro di lei. Quand'ebbe finito, aveva esaurito il nastro. Si rialzò e posò l'anima di cartone sull'isola. «Ecco fatto», disse. «Niente male. Bene. Tutto sistemato. Tu aspetta qui.» Doveva aver trovato qualcosa di divertente nelle proprie parole, perché piegò la testa all'indietro ed emise un'altra di quelle sue risatine mozze. «Non scapparmi via perché ti fai prendere dalla noia, eh? Devo andare a occuparmi del tuo vecchio amico ficcanaso e voglio farlo quando sta ancora piovendo.» Questa volta andò in un lampo a una porta che era quella di un ripostiglio. Tirò fuori una mantella impermeabile gialla. «Sapevo che era qui da
qualche parte. Tutti si fidano di un tizio in impermeabile. Non so perché. È uno di quei fatti misteriosi. D'accordo, ragazza mia, tu stattene lì buona.» Emise un'altra di quelle risate che somigliavano al latrato di un barboncino rabbioso e uscì. 6. Sempre le nove e un quarto Quando la porta d'ingresso si richiuse con un tonfo ed Emily fu certa che se ne fosse veramente andato, l'anomala lucentezza del giorno cominciò a ingrigire e capì di essere sul punto di perdere i sensi. Non poteva permetterselo. Se esisteva un aldilà e si fosse ritrovata a un certo momento di fronte a suo padre, come avrebbe giustificato a Rusty Jackson l'aver sprecato gli ultimi minuti di vita svenendo? Lui ne sarebbe stato deluso. Anche se si fossero incontrati in paradiso, con i piedi sprofondati tra le nuvole in mezzo agli angeli che suonavano la musica delle sfere (arrangiata per arpa), l'avrebbe deluso sapere che aveva buttato via la sua unica occasione in un mancamento vittoriano. Emily si strofinò volutamente contro i denti la lacerazione all'interno del labbro inferiore... poi si morsicò spillando sangue fresco. Il mondo ritrovò tutta la sua vividezza. Il rumore del vento e della pioggia scrosciante crebbe come una musica strana. Quanto tempo aveva? C'era meno di mezzo chilometro dalla Casamatta al ponte mobile. Per via dell'impermeabile e poiché non aveva sentito avviare il motore della Mercedes, doveva dedurre che ci fosse andato di corsa. Sapeva che la pioggia e i tuoni potevano aver celato il suono del motore, ma più che altro non credeva che avesse preso la sua macchina. Perché Hollis conosceva la Mercedes rossa e non vedeva di buon occhio l'uomo che la guidava. La Mercedes rossa avrebbe potuto mettere Deke in guardia. Emily pensava che Pickering non potesse non averlo calcolato. Pickering era pazzo - per metà del tempo aveva parlato da solo, ma almeno in qualche momento si era rivolto a qualcuno che lui vedeva ma lei no, un invisibile complice dei suoi crimini - ma non era uno stupido. Non lo era nemmeno Deke, naturalmente, ma sarebbe stato da solo nella sua piccola guardiola. Niente veicoli di passaggio, niente barche in attesa di attraversare. Non sotto quell'acquazzone. E poi aveva i suoi anni. «Avrò forse quindici minuti», disse alla cucina vuota... o forse era alla macchia di sangue sul pavimento che stava parlando. Almeno non l'aveva
imbavagliata. Perché disturbarsi? Non c'era nessuno a sentirla gridare, non in quella brutta e informe fortezza di cemento. Nemmeno mettendosi a urlare a pieni polmoni in mezzo alla strada qualcuno l'avrebbe sentita. Con un temporale così anche i giardinieri messicani si sarebbero messi al riparo, seduti nella cabina dei loro veicoli a bere caffè e a fumare sigarette. «Quindici minuti al massimo.» Sì. Probabilmente. Poi Pickering sarebbe tornato a violentarla come aveva avuto intenzione di violentare Nicole. Dopodiché l'avrebbe uccisa come già aveva ucciso Nicole. Lei e chissà quante altre «nipoti». Em non ne aveva la prova, ma era sicura che quello non fosse - come avrebbe potuto dire Rusty Jackson - il suo primo rodeo. Quindici minuti. Forse solo dieci. Si guardò i piedi. Non erano incollati al pavimento, ma lo erano le gambe della sedia. Tuttavia... Sei una che corre, e come se lo sei. Guarda che gambe. Erano gambe buone, sì, e non c'era bisogno che qualcuno gliele baciasse perché ne fosse consapevole. Meno che mai un mentecatto come Pickering. Non sapeva se fossero buone nel senso di belle o sexy, ma da un punto di vista funzionale erano molto buone. L'avevano portata lontano dalla mattina in cui lei e Henry avevano trovato Amy morta nella culla. Pickering aveva evidentemente grande fiducia nelle virtù del nastro adesivo, lo aveva probabilmente visto usare da decine di assassini psicopatici in decine di film e nessuna delle sue «nipoti» gli aveva mai dato motivo di dubitare della sua efficacia. Forse perché lui non aveva offerto loro l'occasione, forse perché erano troppo spaventate. Ma forse... specialmente in un giorno di pioggia, in una casa di aria viziata e così intrisa di umidità che quasi sentiva l'odore della muffa... Em si spinse in avanti più che poté dentro le volute di nastro adesivo e cominciò a flettere gradualmente i muscoli delle cosce e dei polpacci: quei nuovi muscoli da corridore per cui il matto aveva manifestato tanta ammirazione. Prima una piccola flessione, poi un po' più forte. Si stava avvicinando alla flessione massima e cominciava a perdere speranza, quando udì un suono di risucchio. Appena percettibile all'inizio, quasi più desiderio che realtà, ma poi si intensificò. Aveva svolto il nastro adesivo in strati sovrapposti e incrociati, era un nastro maledettamente resistente, ciononostante si stava staccando dal pavimento. Lentamente però. Dio del cielo, quanto lentamente. Si rilassò affannata, con il sudore che ora le spuntava sulla fronte, sotto
le braccia, tra i seni. Avrebbe voluto provare subito di nuovo, ma gli allenamenti sulla pista del Cleveland South le avevano insegnato che doveva aspettare che il cuore, pompando rapidamente, eliminasse l'acido lattico dai muscoli. In caso contrario il suo secondo tentativo avrebbe generato minor forza e ottenuto un risultato inferiore. Ma era difficile. Aspettare era difficile. Non sapeva da quanto tempo fosse uscito. C'era un orologio a muro, un sole raggiante in acciaio inossidabile (come apparentemente tutto quanto conteneva quell'orribile stanza senz'anima, eccetto la sedia di acero rosso alla quale era legata), ma si era fermato sulle nove e un quarto. Probabilmente andava a pile e le pile si erano esaurite. Cercò di rimanere immobile contando fino a trenta (facendo seguire un per poco che sia a ciascun numero) e riuscì a reggere solo fino a diciassette. Poi fletté di nuovo, spingendo all'ingiù con tutte le forze. Questa volta il suono di risucchio fu immediato e più forte. Sentì che la sedia cominciava a sollevarsi. Molto poco, ma si era sollevata. Sforzò, testa rovesciata all'indietro, denti scoperti, sangue fresco che le scivolava sul mento dal labbro gonfio. Le affiorarono i tendini nel collo. Il suono di risucchio diventò ancora più forte e adesso udì anche un lento rumore di strappo. All'improvviso una fitta rovente le artigliò il polpaccio destro indurendolo. Per un momento quasi continuò a sforzare - del resto la posta in gioco era alta, la posta era la sua vita - ma poi tornò a rilasciare i muscoli ansimando. E contando. «Uno, per poco che sia. Due, per poco che sia. Tre...» Perché era probabilmente in grado di staccare la sedia dal pavimento nonostante quel minaccioso preavviso muscolare. Era quasi sicura di potercela fare. Ma se ce l'avesse fatta al costo di un crampo nel polpaccio destro (ne aveva già subiti; in un paio di occasioni erano stati abbastanza violenti da trasformarle il muscolo in un sasso), sarebbe stato più il tempo perso di quello guadagnato. E si sarebbe ritrovata ancora prigioniera di quella sedia fottuta. Incollata alla sedia fottuta. Sapeva che l'orologio a muro era morto, ma lo guardò lo stesso. Era un riflesso. Sempre le nove e un quarto. Era già arrivato al ponte? Ebbe un'insensata speranza improvvisa: Deke avrebbe azionato la sirena spaventandolo. Poteva succedere? Pensò di sì. Pensò che Pickering fosse come una iena, pericoloso solo quando era sicuro di avere il coltello dalla parte del manico. E probabilmente, come una iena, non era capace di immaginare di non averlo.
Tese l'orecchio. Udì i tuoni e lo scroscio insistente della pioggia, ma non il belato della sirena montata accanto alla guardiola del ponte. Cercò di strappare nuovamente la sedia dal pavimento e, quando le gambe si staccarono quasi all'improvviso, per poco non si catapultò in avanti contro la cucina. Barcollò, vacillò, per poco non cadde, e indietreggiò contro l'isola al centro del locale in cerca di un appoggio. Ora il suo cuore correva così veloce che non era più in grado di distinguere i singoli battiti; le sembrava di avvertire un brontolio costante nel petto e in alto nel collo, subito sotto il mento. Se fosse caduta, si sarebbe ritrovata come una tartaruga rovesciata. Non avrebbe avuto la minima possibilità di rialzarsi. Va tutto bene, pensò. Non è successo. No. Ma s'immaginò lo stesso riversa sul pavimento con diabolica chiarezza. Riversa al suolo avendo per compagnia solo la striscia di sangue lasciata dai capelli di Nicole. Per terra ad aspettare che Pickering tornasse a divertirsi con lei prima di finirla. E sarebbe tornato quando? Di lì a sette minuti? Cinque? Solo tre? Guardò l'orologio. Erano le nove e un quarto. Sostava presso l'isola piegata in avanti, riprendendo fiato, una donna a cui era cresciuta una sedia dalla schiena. Sul ripiano c'era il coltello da carne, ma non poteva raggiungerlo con le mani legate ai braccioli. Anche se fosse riuscita ad afferrarlo, che cosa avrebbe potuto fare? Rimanersene lì dov'era, piegata in due, con il coltello in mano. Non c'era nessun punto che potesse raggiungere con la sua lama, niente che potesse tagliare. Guardò i fornelli e si domandò se fosse in grado di accenderne uno. Allora forse... Ebbe un'altra visione diabolica: lei che cercava di bruciare il nastro e la fiamma del fornello che le incendiava i vestiti. Il rischio era eccessivo. Se qualcuno le avesse offerto delle pillole (o anche una pallottola in testa) con cui sottrarsi alla possibilità di uno stupro, seguito da tortura e morte - probabilmente una morte lenta, preceduta da indicibili mutilazioni - avrebbe forse ignorato la voce di suo padre (Non mollare, Emmy, c'è sempre l'occasione buona dietro questo o quell'angolo) e avrebbe accettato. Ma rischiare ustioni di terzo grado su tutta la metà superiore del corpo? Giacere su quel pavimento cotta a metà in attesa che Pickering tornasse, pregando che tornasse a porre fine alle sue sofferenze? No. Non lo avrebbe fatto. Ma che cosa le restava? Sentiva il tempo fuggire via. L'orologio a muro indicava ancora le nove e un quarto, ma le sembrava che l'intensità della pioggia fosse diminuita. L'idea la riempì di
orrore. Lo respinse. Il panico sarebbe stato la sua fine. Il coltello era un non posso e i fornelli erano un non voglio. Che cosa restava? La risposta era ovvia. Restava la sedia. Non ce n'erano altre in cucina, solo tre sgabelli alti come quelli da bar. Pensò che Pickering dovesse aver trasferito la sedia da una sala da pranzo che sperava di non vedere mai. Aveva legato altre donne, altre «nipoti», a pesanti sedie di acero rosso prese da un tavolo da pranzo? Forse a quella stessa a cui era imprigionata lei? In cuor suo ne era certa. E lui se ne fidava, anche se era di legno e non di metallo. Quello che aveva funzionato una volta non poteva che funzionare di nuovo; pensava che anche in questo ragionasse come una iena. Doveva demolire la sua prigione. Era l'unico modo e aveva solo pochi minuti per farlo. 7. Probabile che faccia male Era accanto all'isola centrale. Il piano di lavoro sporgeva di qualche centimetro, creando una cornice, ma di quella non si fidava. Non avrebbe voluto muoversi, non voleva rischiare una caduta che l'avrebbe trasformata in una tartaruga rovesciata, ma, per sbatterci contro, occorreva una superficie più ampia di quella che le offriva il bordo dell'isola. Così andò verso il frigorifero, che come tutto il resto era d'acciaio inossidabile... e grande. Tutta la superficie contro cui sbattere che una ragazza poteva desiderare. Avanzò a piccoli passi striscianti con la sedia legata a schiena e sedere e gambe. Si muoveva a una lentezza esasperante. Era come cercare di camminare portandosi dietro una strana bara fabbricata su misura. E la sua bara sarebbe diventata davvero, se fosse caduta. O se, quando lui fosse tornato a casa, l'avesse trovata ancora a sbattere inutilmente la sedia contro il frigorifero. A un certo punto perse l'equilibrio e corse il rischio di cadere in avanti, sulla faccia, riuscendo a trattenersi solo con la forza della volontà. Riaffiorò il dolore al polpaccio, che minacciò nuovamente di trasformarsi in un crampo e renderle inutilizzabile la gamba destra. Scacciò anche quello con la forza di volontà, chiudendo gli occhi per concentrarsi. Il sudore che le colava sul viso lavò via il sale di lacrime che non ricordava di aver versato. Quanto tempo ci stava impiegando? Quanto? Pioveva ancora più piano. Presto avrebbe sentito solo gocciolare. Forse Deke stava reagendo. Forse aveva persino una pistola in uno dei cassetti della sua vecchia scrivania e
aveva sparato a Pickering come si fa con un cane idrofobo. Avrebbe sentito lo sparo da lì? Molto difficile, il vento soffiava ancora forte. Più probabile che Pickering, di vent'anni più giovane di Deke ed evidentemente in forma, strappasse l'eventuale pistola dalla mano di Deke e la usasse contro il vecchio. Cercò di scacciare tutti quei pensieri, ma non era facile. Non lo era sebbene fossero pensieri inutili. Avanzò strisciando i piedi con gli occhi ancora chiusi e i muscoli del viso - pallido e con la bocca gonfia - contratti per lo sforzo. Un passetto da bimbo, due passetti da bimbo. Ce la farò a fare altri sei passetti da bimbo? Sì, ce la farai. Ma al quarto le sue ginocchia, piegate quasi ad angolo retto, urtarono lo sportello del frigorifero. Aprì gli occhi, incapace di credere di avere compiuto, arrivando a destinazione sana e salva, quell'arduo safari, di aver percorso una distanza che una persona libera di muoversi avrebbe esaurito in tre semplici passi, ma che per lei era stato un safari, un maledetto trekking. Non poteva sprecare tempo congratulandosi con se stessa e non solo perché da un momento all'altro avrebbe potuto sentire aprirsi la porta d'ingresso della Casamatta. Aveva altri problemi. Camminare in una posizione semiseduta aveva messo a dura prova i suoi muscoli che ora tremavano; le sembrava d'essere una dilettante fuori forma che tenta il più cervellotico degli esercizi yoga. Se non ci si fosse messa subito, forse non ce l'avrebbe più fatta. E se la sedia era robusta come sembrava... Ma andò avanti lo stesso. «Probabile che faccia male», ansimò. «Questo lo sai, vero?» Lo sapeva, ma pensava che Pickering potesse avere in serbo per lei qualcosa di peggio. «Ti prego», disse, girandosi per mettersi di profilo rispetto al frigorifero. Se la sua era una preghiera, era possibile che la stesse rivolgendo alla figlia morta. «Ti prego», ripeté e con un colpo d'anca sbatté contro il frigorifero il parassita che portava aggrappato alla schiena. Non rimase stupita come quando la sedia si era staccata dal pavimento all'improvviso, quasi precipitandola a testa avanti contro i fornelli, ma ci andò vicino. Ci fu uno scricchiolio sonoro e sentì il sedile spostarsi da sotto le natiche. Solo le gambe ressero. «È marcia!» esclamò. «Questa maledetta è marcia!» Forse non proprio, ma di sicuro non era resistente come sembrava, e fosse benedetto Iddio per il clima della Florida. Finalmente un piccolo colpo di fortuna... e se lui fosse rientrato ora, proprio nel momento in cui stava per coglierlo, sarebbe impazzita.
Quanto tempo? Da quanto tempo era via? Non ne aveva idea. Aveva sempre potuto contare su un cronometro mentale abbastanza preciso, ma ora era inservibile come l'orologio appeso al muro. La sensazione di perdere completamente la cognizione del tempo aveva qualcosa di particolarmente orribile. Ricordò il suo grosso e inelegante orologio da polso, ma era scomparso. Le era rimasto solo un cerchio di pelle più chiara. Doveva averlo preso lui. Stava per sbattere nuovamente la sedia sul frigorifero, quando le venne un'idea migliore. Ora aveva liberato parzialmente le natiche dal sedile e questo le avrebbe consentito uno slancio maggiore. Sforzò con la schiena come aveva sforzato con cosce e polpacci quando cercava di staccare la sedia dal pavimento e questa volta, quando sentì un dolore di avvertimento all'altezza dei lombi, non rilasciò i muscoli per aspettare di smaltire la fatica. Aspettare era un privilegio che riteneva di aver consumato del tutto. Se lo immaginava sulla via del ritorno, di corsa al centro della strada deserta, sollevando spruzzi da sotto i piedi, con la mantella gialla che gli svolazzava dietro le gambe. E, in una mano, un attrezzo. Una leva per cerchioni forse, presa dal bagagliaio sporco di sangue della sua Mercedes. Sforzò all'insù. Il dolore in fondo alla schiena si acuì, acquistò un'intensità vetrosa. Ma sentì di nuovo il rumore del nastro che cedeva, non la sedia, questa volta, ma il nastro stesso. Gli strati sovrapposti di nastro adesivo. Si allentavano. Allentati non era lo stesso che strappati, ma era comunque un miglioramento. Avrebbe potuto incrementare ulteriormente la forza della propulsione. Ruotò di nuovo su se stessa scagliandosi contro il frigorifero e questa volta si lasciò sfuggire un gridolino per lo sforzo. L'impatto si riverberò in tutto il corpo. La sedia non si mosse. Le rimase appiccicata come una patella. Sbatté di nuovo, con più violenza, gridando più forte: tantra yoga e sadomaso in versione disco music. Ci fu un altro crack e questa volta la sedia scivolò sulla destra. Sbatté ancora... ancora... ancora, scagliando le anche sempre più sfinite e picchiando. Perse il conto. Stava piangendo di nuovo. Si era strappata i calzoncini sul dietro. Le erano scivolati giù da un fianco e il fianco stesso sanguinava. Doveva essersi ferita con una scheggia. Prese un respirò profondo cercando di calmare il cuore in fuga (pura illusione) e scagliò se stessa e la sua prigione di legno di nuovo contro il frigorifero, mettendoci tutte le forze che aveva. Questa volta centrò la leva dell'erogatore automatico del ghiaccio, facendo cascare per terra un ja-
ckpot di cubetti. Ci fu un altro schianto, un cedimento, e tutt'a un tratto il suo braccio sinistro fu libero. Lo guardò con gli occhi instupiditi dalla meraviglia. Il bracciolo era ancora legato al suo avambraccio, ma ora il grosso della sedia pendeva sghembo, trattenuto da lunghe strisce di nastro adesivo grigio. Era come esser presi in una ragnatela. E così era, infatti; il bastardo psicopatico in calzoncini cachi e maglia da golf era il ragno. Ancora non era libera, ma poteva usare il coltello. Non aveva che da strisciare indietro fino all'isola al centro della cucina per andare a prenderlo. «Non mettere i piedi sui cubetti», ammonì se stessa con la voce rotta. Alle sue orecchie le sembrò la voce di una studentessa secchiona che ci ha dato dentro nello studio fino ai limiti dell'esaurimento. «Non potresti scegliere un momento peggiore per metterti a pattinare.» Evitò il ghiaccio, ma quando si allungò per prendere il coltello, la sua schiena sovraffaticata emise uno scricchiolio premonitore. La sedia, che ora non le aderiva più ma le pendeva ancora dalla vita e dalle gambe, trattenuta da quelle strisce di nastro adesivo, urtò l'isola di lato. Non ci badò. Riuscì ad afferrare il coltello con la mano liberata e lo usò per tagliare il nastro che le imprigionava il braccio destro, respirando in singulti contratti e continuando a lanciare occhiate veloci alla porta a vento tra la cucina e il locale adiacente, probabilmente la sala da pranzo e poi l'anticamera; era da lì che era uscito e da lì probabilmente sarebbe rientrato. Quando ebbe liberato la mano destra, strappò via il pezzo di sedia che ancora le pendeva dal braccio sinistro e lo lasciò cadere sull'isola. «Smettila di guardare se arriva», disse a se stessa nella penombra grigia della cucina. «Fai quel che devi.» Era un buon consiglio, ma le era difficile seguirlo sapendo che da quella porta da un momento all'altro poteva entrare la sua condanna a morte. Segò le strisce di nastro che la stringevano appena sotto il seno. Era un'operazione che avrebbe dovuto eseguire con attenzione e lentezza, ma non poteva permetterselo e si ferì ripetutamente con la punta del coltello. Sentì il sangue che le scivolava sulla pelle. Il coltello era affilato. La conseguenza spiacevole erano i numerosi tagli che si praticò appena sotto lo sterno. La conseguenza positiva era che il nastro si lacerava senza opporre resistenza, strato dopo strato. Finalmente lo ebbe tagliato tutto, da cima a fondo, e la sedia s'inclinò di più verso l'esterno allontanandosi dalla sua schiena. Attaccò le strisce che le cingevano la vita. Ora poteva piegarsi meglio e lavorò più velocemente, risparmiando un po' il proprio corpo. Quando finalmente si fu liberata interamente il bu-
sto, la sedia piombò all'indietro. Le gambe, ancora legate alle sue, si inclinarono e i piedini le si conficcarono sotto i polpacci, dove i tendini d'Achille sembravano cavi a fior di pelle. Il dolore fu lancinante e le strappò un gemito penoso. Si portò la mano sinistra dietro la schiena per avvicinarsi nuovamente la sedia al dorso e alleviare l'orribile, dolorosa pressione. L'angolo era dei più scomodi, quanto di peggio per il suo braccio, ma tenne duro mentre strisciava con i piedi per girarsi nuovamente verso i fornelli. In quel modo poté appoggiarsi all'indietro lasciando che fosse l'isola a sostenere la sedia. Boccheggiando e piangendo di nuovo (non si era accorta delle lacrime), si chinò in avanti e cominciò a segare il nastro che le legava le caviglie. I continui movimenti avevano allentato le volute che le imprigionavano le gambe, di conseguenza poté operare più speditamente tagliandosi meno spesso, sebbene riuscisse a praticarsi una più che discreta lacerazione al polpaccio destro, quasi che avesse desiderato punirlo per aver tentato di farsi venire un crampo quando cercava di scollarsi dal pavimento. Stava cominciando a tagliare il nastro che le tratteneva le ginocchia l'ultimo rimasto - quando udì la porta dell'ingresso aprirsi e chiudersi. «Sono a casa, tesoro!» esclamò allegramente Pickering. «Ti sono mancato?» Emily s'impietrì, china in avanti con i capelli che le pendevano sulla faccia, e le ci volle fino all'ultimo briciolo di forza di volontà per riprendere a muoversi. Non c'era più tempo per andare per il sottile: infilò la lama sotto gli strati di nastro grigio che le imprigionavano il ginocchio destro, evitò miracolosamente di pugnalarsi la rotula, e tirò verso l'alto con tutte le energie. Dall'ingresso giunse un pesante tonfo metallico e capì che aveva appena girato la chiave in una serratura, di quelle grosse, a giudicare dal rumore. Pickering voleva evitare eventuali interruzioni, probabilmente pensava che ce ne fossero già state a sufficienza per quel giorno. Lo sentì attraversare l'ingresso. Calzava evidentemente scarpe da ginnastica (prima non ci aveva fatto caso), perché emettevano un cigolio liquido. Stava fischiettando O Susanna. Il nastro che le tratteneva il ginocchio destro si aprì, da sotto in su, e la sedia cadde contro l'isola con uno schianto sonoro, rimanendole attaccata solo al ginocchio sinistro. I passi dietro la porta a vento - molto vicini ormai - si fermarono, poi ripartirono di corsa. Dopodiché tutto avvenne molto, molto velocemente.
Investì la porta spingendola con entrambe le mani, la porta si spalancò con un colpo sordo e Pickering fece irruzione in cucina con le braccia ancora protese. Le mani erano vuote, nessuna traccia della leva da cerchioni che si era immaginata lei. Le maniche dell'impermeabile giallo gli arrivavano a metà degli avambracci ed Emily ebbe il tempo di pensare: È troppo piccolo per te, coglione, e tua moglie te l'avrebbe detto, ma tu non hai una moglie, vero? Il cappuccio della mantella era spinto all'indietro. La sua bella acconciatura era finalmente in disordine: leggero disordine, perché i capelli erano troppo corti perché potessero essere spettinati; e la pioggia gli gocciolava sulle guance e negli occhi. Prese atto della situazione in un baleno, parve capire ogni cosa. «Oh, maledetta stronza rompicoglioni!» ruggì lanciandosi verso di lei. Em lo centrò con il coltello. La lama s'infilò tra l'indice e il medio della sua mano protesa con le dita divaricate aprendo un taglio profondo all'apice della V. Sprizzò sangue. Pickering lanciò un grido di dolore e sorpresa; soprattutto sorpresa, pensò lei. Le iene non si aspettano che le loro vittime contrattacchino. Lui le afferrò il polso con la sinistra, glielo torse. Qualcosa scricchiolò. Forse si spezzò. In ogni caso il dolore che le saettò per il braccio ebbe l'intensità di una vampata. Cercò di continuare a stringere il coltello, ma non c'era più niente da fare. Volò da una parte all'altra della stanza e, quando lui le lasciò andare il polso, la sua mano destra ricadde inerte, con le dita aperte. Lui le piombò addosso e lei lo spinse all'indietro usando entrambe le mani e resistendo alla nuova fitta stridente di dolore nel polso distorto. Fu solo istinto. La mente razionale le avrebbe detto che una spinta non lo avrebbe fermato, ma la sua mente razionale era in quel momento rannicchiata in un angolino della sua testa, incapace di far altro che sperare per il meglio. Lui la sovrastava fisicamente, ma lei aveva le natiche schiacciate contro il bordo dell'isola. Pickering barcollò all'indietro con un'espressione disorientata che in altre circostanze sarebbe apparsa comica. Poi finì con i piedi su uno o più cubetti di ghiaccio. Per qualche istante sembrò imitare un personaggio dei cartoni animati, Road Runner, forse, che muove freneticamente i piedi come una girandola nel tentativo di reggersi. Ma finì su altri cubetti di ghiaccio (Emily li vide roteare e luccicare sul pavimento), cadde pesantemente a sedere e cozzò con la testa sul frigorifero ammaccato.
Alzò la mano sanguinante e se la guardò. Poi guardò lei. «Mi hai tagliato», disse. «Stupida troia, guarda qui, mi hai tagliato. Perché mi hai tagliato?» Cercò di rialzarsi, ma da sotto le scarpe schizzarono via altri cubetti di ghiaccio e ricadde sul pavimento. Si girò a posare per terra un ginocchio con l'intenzione di rialzarsi in quel modo e per un momento le offrì la schiena. Em prese dall'isola il bracciolo sinistro della sedia. Vi erano ancora incollati brandelli di nastro adesivo. Pickering si rialzò e si girò verso di lei. Emily stava aspettando. Gli calò il bracciolo sulla fronte usando entrambe le mani, costringendo a serrarsi le dita della mano destra che non volevano saperne. Un atavico istinto di sopravvivenza le rammentò di portare tutto il peso delle spalle nel colpo per imprimere nel pezzo di legno il massimo della potenza. E il massimo di potenza era necessario, perché quello che stringeva tra le mani era in fondo solo un bracciolo di sedia, non una mazza da baseball. Ci fu un tonfo. Non fu forte come quello della porta a vento quando lui l'aveva sospinta entrando in cucina, ma a lei sembrò abbastanza forte lo stesso, forse perché il sottofondo della pioggia era ulteriormente diminuito. Per un attimo non successe nient'altro, ma poi dalla sua bella acconciatura cominciò a colargli sangue sulla fronte. Em lo fissò, lo guardò negli occhi. Lui contraccambiò con un'espressione di stordita incomprensione. «No», disse debolmente e allungò la mano per prendere il bracciolo. «Sì», disse lei e lo colpì di nuovo, questa volta lateralmente: un fendente a due mani, staccando la destra all'ultimo istante, ma continuando a stringere con la sinistra. L'estremità del bracciolo, dalla parte dove si era spezzato ed era irto di schegge, raggiunse Pickering alla tempia destra. Questa volta il sangue gli esplose dalla ferita mentre contemporaneamente il contraccolpo gli piegava la testa fin quasi sulla spalla sinistra. Gocce luccicanti di sangue gli scivolarono per la guancia e inzaccherarono le piastrelle grigie del pavimento. «Ferma», biascicò lui annaspando con una mano. Sembrava un bagnante in procinto di annegare che implora aiuto. «No», disse lei e gli calò di nuovo il bracciolo sulla testa. Pickering urlò e si trascinò fuori portata strisciando con la testa incassata nelle spalle e cercando di mettersi al riparo dell'isola centrale. Finì sui cubetti di ghiaccio e slittò, ma questa volta riuscì a reggersi. Pura fortuna, ebbe a riflettere Emily, visto che era in piedi solo per miracolo. Per un momento quasi lo lasciò andare, pensando che sarebbe scappato.
Era quello che avrebbe fatto lei. Poi, calmissima, la voce di suo padre: Vuole prendere il coltello, cara. «No», esclamò, questa volta quasi ringhiando. «No, mai!» Cercò di correre intorno all'isola sull'altro lato per precederlo, ma non poteva correre, non trascinandosi dietro i resti della sedia come un detenuto con una palla al piede: ce l'aveva ancora legata con il nastro adesivo al ginocchio sinistro. Il rottame urtò l'isola, le sbatté contro il sedere, cercò di infilarlesi tra le gambe e farla inciampare. Sembrava che la sedia fosse dalla parte di lui e fu contenta di averla fracassata. Pickering arrivò al coltello - era a ridosso della porta a vento - e vi cadde sopra come un giocatore di football che blocca una palla persa. Respirando, emetteva un sibilo dal fondo della gola. Em lo raggiunse nel momento in cui cominciava a voltarsi. Lo colpì con il bracciolo, ripetutamente, strillando, rendendosi parzialmente conto che non era abbastanza pesante e che lei non stava generando nemmeno lontanamente il grado di forza che voleva generare. Vedeva il polso destro, che già cominciava a gonfiarsi, cercare di tener testa alla violenza che stava subendo proprio come se fosse convinto di poter sopravvivere. Pickering crollò sul coltello e giacque immobile. Emily indietreggiò di mezzo passo, ansimando, con gli occhi nuovamente invasi da quelle piccole comete bianche. Sentì voci maschili nella mente. Era un fenomeno per lei non insolito e non sempre sgradito. Qualche volta, ma non sempre. Henry: Prendi quel dannato coltello e piantaglielo tra le scapole. Rusty: No. Tesoro. Non ti avvicinare nemmeno. È quello che si aspetta. Sta fingendo. Henry: Nel collo. Va bene anche lì. In quel suo collo di bastardo. Rusty: Infilare una mano sotto il corpo sarebbe come infilarla in un tritacarne, Emmy. Hai solo due possibilità. Picchiarlo a morte... Henry, riluttante ma convinto: ... o scappare. Forse. Ma forse no. Su quel lato dell'isola c'era un cassetto. Lo aprì con uno strattone sperando di trovare un altro coltello, molti coltelli: da scalco e da bistecca, coltelli per disossare e coltelli seghettati da pane. Si sarebbe accontentata anche di uno stramaledetto coltellino da burro. Trovò invece soprattutto una batteria di eleganti utensili da cucina con il manico in plastica nera: un paio di spatole, un mestolo e uno di quei cucchiaioni da portata bucherellati. C'erano altri oggetti ancora, ma lo strumento più pericoloso su cui si po-
sarono i suoi occhi fu un pelapatate. «Ascoltami», disse. Aveva la voce roca, quasi gutturale. Aveva la gola secca. «Non voglio ucciderti, ma se mi costringi lo farò. Ho qui un forchettone. Se cerchi di girarti, te lo ficco nel collo e continuo a spingere finché non viene fuori dall'altra parte.» Le credeva? Questa era la domanda. Era sicura che avesse fatto sparire di proposito tutti i coltelli salvo quell'unico che nascondeva sotto il corpo, ma fino a che punto poteva credere di aver eliminato tutti gli altri utensili potenzialmente pericolosi? Di solito un uomo non ha idea di che cosa ci sia nei cassetti della sua cucina - lo aveva imparato dalla sua vita con Henry e, prima di Henry, dalla sua vita con suo padre - ma Pickering non era un uomo come tutti gli altri e quella non era una cucina come tutte le altre. Aveva il sospetto che fosse più simile a una sala operatoria. Tuttavia, stordito com'era (ma lo era?), e certamente convinto che correva il rischio di finire ammazzato solo perché non ricordava bene un particolare, le era lecito sperare che abboccasse al suo bluff. C'era però un altro interrogativo: la stava sentendo? O capiva comunque che cosa gli diceva, se la udiva? Se il destinatario non era in grado di soppesare i pro e i contro, il bluff cadeva nel vuoto. Ma non avrebbe perso tempo a dibattere la questione. Sarebbe stato quanto di peggio. Senza mai distogliere lo sguardo da Pickering, si chinò e infilò le dita sotto l'ultima striscia di nastro che la teneva legata alla sedia. Ora le dita della sua mano destra avevano ancora meno voglia di ubbidirle, ma tenne duro. E la pelle madida di sudore l'aiutò. Spinse verso il basso e il nastro cominciò a staccarsi con un nuovo fruscio di contrarietà. Immaginò che facesse male, le aveva lasciato una striscia rossa sulla rotula (per qualche ragione le passò nella mente l'espressione chirurgia del ginocchio), ma ormai era andata oltre la percezione fisica. Il nastro cedette tutt'a un tratto scivolandole fino alla caviglia, ritorto e stropicciato e incollato a se stesso. Se ne liberò agitando il piede e indietreggiò, libera. Le pulsava la testa, forse per lo sforzo o forse in conseguenza del colpo che le aveva inferto lui quando si era fermata a guardare la ragazza morta nel bagagliaio della Mercedes. «Nicole», mormorò. «Si chiamava Nicole.» Pronunciare il nome della ragazza morta ebbe l'effetto di rianimarla un po'. Ora l'idea di cercare di recuperare il coltello da sotto il suo corpo le apparve come una follia. La parte di sé che in certi momenti le parlava con la voce di suo padre aveva ragione: solo restare nella stessa stanza in cui si
trovava Pickering era una sfida alla fortuna. Il che le lasciava come unica alternativa quella di fuggire. «Ora vado», annunciò. «Mi senti?» Lui non si mosse. «Ho il forchettone. Se mi insegui, te lo ficco dentro. Ti... ti faccio saltar via gli occhi. Ti conviene restartene qui dove sei. Hai capito bene?» Lui non si mosse. Emily indietreggiò di qualche altro passo, poi si girò e lasciò la cucina attraverso la porta sull'altro lato. Stringeva ancora nella mano il bracciolo sporco di sangue. 8. Una fotografia sulla parete di fianco al letto Era la sala da pranzo. C'era un tavolo lungo con il piano in cristallo. Intorno c'erano sette sedie di acero rosso. Mancava l'ottava. Naturalmente. Mentre contemplava lo spazio vuoto in fondo al tavolo, ricordò un particolare: il sangue che le affiorava in una minuscola perla sotto l'occhio mentre Pickering diceva: d'accordo, bene, d'accordo. Le aveva creduto quando gli aveva detto che solo Deke poteva immaginare che si trovasse alla Casamatta, così aveva abbandonato il coltello piccolo, quello che lì per lì aveva pensato fosse appartenuto a Nicole, lasciandolo cadere nel lavello. Dunque c'era sempre stato un altro coltello con cui minacciarlo. C'era ancora. Nel lavello. Ma non sarebbe tornata là dentro. Mai e poi mai. Attraversò la sala da pranzo e imboccò un corridoio con cinque porte, due per parte e una in fondo. Le prime due davanti alle quali passò erano aperte, a sinistra un bagno e a destra una lavanderia. La lavatrice era di quelle che si caricano da sopra ed era aperta. Sul ripiano accanto c'era una scatola di detersivo. Dallo sportello spuntava un lembo di maglietta macchiata di sangue. La maglia di Nicole, Emily ne fu certa, anche se non aveva modo di averne conferma. E se era davvero la sua, perché Pickering aveva pensato di lavarla? Lavarla non avrebbe eliminato gli strappi. Ricordò di aver pensato che l'avesse ferita decine di volte, anche se senz'altro non era possibile. O si sbagliava? Sì, pensò di sbagliarsi: Pickering in un attacco di follia sfrenata. Aprì la porta dopo quella del bagno e trovò una stanza degli ospiti. Non era che una scatola buia e sterile, dominata da un ampio letto matrimoniale così perfetto che senza dubbio avresti potuto farci rimbalzare sopra una monetina. Era stata una cameriera a rifarlo? La nostra indagine dice di no,
pensò. La nostra indagine dice che nessuna cameriera ha mai messo piede in questa casa. Solo «nipoti». La porta dirimpetto a quella della stanza degli ospiti era di uno studio. Il locale era non meno sterile di quello di fronte. In un angolo c'erano due mobiletti. Al centro c'era una grande scrivania con un PC incappucciato da una busta di plastica trasparente. Il pavimento era di comuni assicelle di rovere. Non c'era tappeto. Non c'erano quadri. L'unica ampia finestra aveva le imposte chiuse e lasciava trapelare solo pochi e stentati fili di luce. Come la stanza degli ospiti, l'ambiente era buio e dimenticato. Qui non ci ha mai lavorato, pensò, e fu certa di aver ragione. Era scenografia. Lo era tutta la casa, compresa la stanza dalla quale era fuggita, la stanza che sembrava una cucina ma che era in realtà una sala operatoria, completa di piani di lavoro e pavimenti facilmente lavabili. La porta in fondo al corridoio era chiusa e, mentre vi si avvicinava, già sapeva che l'avrebbe trovata chiusa a chiave. Se fosse uscito anche lui da quella parte della cucina, l'avrebbe intrappolata in quel corridoio. Non avrebbe avuto dove correre ed erano giorni in cui correre era la sola cosa che sapeva fare bene... la sola cosa che sapeva fare. Cercò di risistemarsi i calzoncini - vi ballava dentro ora che si era aperta la cucitura posteriore - e afferrò il pomolo. Era così convinta della sua premonizione che lì per lì, quando il pomolo ruotò nella sua mano, non riuscì a crederlo. Spinse l'uscio ed entrò in quella che doveva essere la camera da letto di Pickering. Era quasi asettica quanto la stanza degli ospiti, ma non del tutto. Per prima cosa c'erano due guanciali e non solo uno e un lembo del copriletto (che sembrava gemello di quello della stanza degli ospiti) era stato ripiegato in un preciso triangolo, pronto ad accogliere il suo proprietario nell'abbraccio di due lenzuola fresche dopo una giornata di duro lavoro. E il pavimento era coperto da un tappeto, sebbene di economico materiale sintetico. Henry l'avrebbe senza dubbio definito uno straccio peloso, ma copriva interamente il pavimento e il blu si accordava a quello delle pareti, rendendo la stanza meno scheletrica delle altre. C'erano anche un piccolo scrittoio - sembrava un vecchio banco di scuola - e una comune seggiola di legno. E per quanto quell'angolino non reggesse il confronto con la pretenziosità dello studio con il suo finestrone (purtroppo sbarrato) e il suo costoso computer, ebbe la sensazione che quella scrivania fosse stata usata. Che Pickering vi si sedesse per scrivere a mano, curvo come un bambino in un'aula di qualche piccola scuola di campagna. A scrivere cose a cui preferiva non pensare.
Anche lì c'era una finestra grande. E a differenza di quelle dello studio e della stanza degli ospiti, non era sbarrata. Prima che Emily guardasse fuori e vedesse che cosa c'era, la sua attenzione fu attratta da una fotografia sulla parete di fianco al letto. Non proprio appesa e certamente non incorniciata, affissa solo con una puntina. Tutt'intorno c'erano altri fori minuscoli, come se nel corso degli anni vi fossero state appuntate altre foto. Era a colori, con la data 18-4-07 impressa digitalmente nell'angolo destro. Scattata con una macchina tradizionale invece di una digitale, a giudicare dalla carta, e non da qualcuno con una particolare predisposizione per la fotografia. Ma forse il fotografo era eccitato. Come potrebbe esserlo una iena, pensò, quando giunge l'ora del tramonto e ci sono prede fresche nelle vicinanze. Non era molto nitida, come se fosse stata scattata con un teleobiettivo, e il soggetto non era ben centrato. Il soggetto in questione era una giovane donna dalle gambe lunghe in calzoncini di jeans e top corto con la scritta BEER O'CLOCK BAR. Reggeva un vassoio in equilibrio sulle dita della mano sinistra come una cameriera in un allegro dipinto di Norman Rockwell. Stava ridendo. Aveva i capelli biondi. Em non poteva essere certa che fosse Nicole, non da quella foto un po' sfocata e dai pochi attimi di orrore in cui aveva avuto davanti agli occhi la ragazza morta nel bagagliaio della Mercedes... eppure ne era assolutamente sicura. Il suo cuore era sicuro. Rusty: Lascia perdere, cara. Devi uscire da qui. Devi trovarti dello spazio per correre. A riprova, la porta tra la cucina e la sala da pranzo si aprì rumorosamente: un fragore da farla saltar via dai cardini, a sentirlo. No, pensò. Dall'ombelico in giù perse d'incanto ogni sensibilità. Non pensava di essersela fatta addosso di nuovo, ma se così fosse stato, non sarebbe stata in grado di capirlo. No, non è possibile. «Ti piace il gioco duro?» gridò Pickering. Il tono era insieme divertito e frastornato. «D'accordo, so giocare duro. Nessun problema. Tranquilla, se è questo che vuoi ti accontento subito.» Arrivava. Attraversava la sala da pranzo. Udì un tonfo seguito da un rotolio sommesso. Era andato a sbattere in una delle altre sedie (forse quella all'altro capo del tavolo) e l'aveva spinta via. Il mondo le si dissolse davanti agli occhi diventando grigio sebbene la stanza fosse relativamente illuminata, ora che il temporale stava passando. Si morsicò il labbro ferito. Si fece scorrere altro sangue sul mento, ma restituì anche colore e realtà al mondo circostante. Chiuse precipitosamen-
te la porta e cercò la leva della serratura. Non c'era. Si guardò intorno e ritrovò l'umile seggiola di legno davanti all'umile scrittoio di legno. Mentre Pickering superava di corsa le porte della lavanderia e dello studio - e stringeva nella mano il coltello da carne? ma certo - afferrò la sedia, la inclinò e infilò lo schienale sotto il pomolo. Un istante dopo lui colpì la porta con entrambe le mani. Se anche lì il pavimento fosse stato in parquet, la sedia sarebbe scivolata via come un disco su una pista da hockey. Forse l'avrebbe usata per affrontarlo: Em, l'impavida domatrice di leoni. No, poco probabile. Comunque c'era quel tappeto. Di nylon, da pochi soldi, però bello folto, almeno quello. Le gambe inclinate della sedia vi sprofondarono e ressero, sebbene nel tappeto si formasse un'increspatura. Pickering lanciò un ruggito e si mise a picchiare sulla porta con i pugni. Emily sperò che lo facesse stringendo sempre il coltello tra le dita, chissà che non si tagliasse la gola per sbaglio. «Apri questa porta!» urlò lui. «Aprila! Stai solo peggiorando la tua situazione!» Come se potessi, pensò Emily indietreggiando. E guardandosi intorno. E ora? La finestra? Cos'altro? C'era solo quella porta, dunque doveva essere per forza la finestra. «Mi stai facendo arrabbiare, Lady Jane!» No, sei già arrabbiato. Peggio di un cane idrofobo. Notò che la finestra era di quelle fatte per guardar fuori e basta, non per essere aperte. Per via dell'aria condizionata. E allora? Tuffarvisi attraverso come Clint Eastwood in uno di quei vecchi spaghetti western? Sembrava anche possibile ed era certamente una delle scene che le piacevano tanto da piccola, ma aveva una mezza idea che se ci avesse provato sul serio si sarebbe ritrovata affettata come un salame. Quando si trattava di vecchie sequenze di gente che sfonda le vetrate dei saloon, Clint Eastwood e The Rock e Steven Seagal si facevano sostituire da uno stuntman. E lo stuntman poteva contare su un vetro speciale. Sentì un rumore di passi veloci. Pickering era indietreggiato per lanciarsi nuovamente sulla porta. Era di legno massiccio, ma l'uomo non stava scherzando e lei vide l'uscio vibrare nel telaio. Questa volta la sedia scivolò all'indietro di qualche centimetro prima di incastrarsi di nuovo. Peggio ancora, nel tappeto si alzò di nuovo quell'increspatura, accompagnata questa volta da un rumore di strappo simile a quello del nastro adesivo, quando aveva cominciato a cedere. Era incredibilmente arzillo, considerate le
botte che aveva ricevuto sulla testa e sulle spalle con un randello di solido acero rosso, ma naturalmente nella sua follia gli era rimasta abbastanza lucidità da sapere che, se l'avesse scampata lei, non l'avrebbe scampata lui. Come motivazione doveva essere abbastanza forte. Avrei dovuto legnarlo con tutta quanta la sedia, pensò. «Hai voglia di giocare?» ansimò lui. «Ci sto. Certo. Puoi scommetterci. Ma tu stai giocando in casa mia, capito? E adesso... arrivo!» Colpì di nuovo la porta, che oscillò tra gli stipiti sui cardini ora allentati, e la sedia retrocesse di qualche altro centimetro. Emily scorse macchie scure a forma di goccia tra le gambe inclinate della sedia e la porta: strappi nel tappeto scadente. Dalla finestra allora. Se doveva morire dissanguata da Dio solo sapeva quante ferite, preferiva infliggersele da sé. Forse... se si fosse avvolta nel copriletto. Poi il suo sguardo cadde sulla scrivania. «Signor Pickering!» gridò afferrandola per il lato corto. «Aspetti! Voglio fare un patto con lei!» «Niente patti con le puttane, capito?» rispose lui nel tono di un bambino che fa i capricci. Ma per un momento si era fermato, forse per riprendere fiato, e questo le diede tempo. Era tutto ciò che chiedeva, tempo. Era tutto quello che poteva sperare di ottenere da lui, non aveva certo bisogno che le dichiarasse di non essere il tipo di uomo che scende a patti con le puttane. «Che cosa avresti in mente? Raccontalo a papà Jim.» Al momento aveva in mente lo scrittoio. Lo sollevò quasi aspettandosi di sentire i muscoli già provati della schiena esplodere come un palloncino. Ma il mobile era leggero e si alleggerì ancora di più quando alcuni fascicoli con la copertina blu che sembravano dispense universitarie scivolarono per terra. «Cosa stai facendo?» domandò bruscamente lui e subito dopo: «Non farlo!» Emily corse alla finestra, si fermò di scatto e scagliò lo scrittoio. Lo schianto del vetro fu potente. Senza fermarsi a pensare o guardare - a quel punto pensare non le sarebbe servito a nulla e guardare, se il salto dall'altra parte fosse stato notevole, l'avrebbe solo spaventata - strappò la coperta dal letto. Pickering colpì nuovamente la porta e, sebbene la sedia reggesse anche questa volta (lo sapeva: in caso contrario lui le sarebbe piombato addosso), qualcosa emise uno scricchiolio sinistro.
Emily si avvolse nel copriletto dalla testa ai piedi come una donna indiana che si appresta a mettersi in marcia in una tempesta di neve. Poi saltò attraverso lo squarcio frastagliato che aveva aperto nel vetro della finestra nel momento stesso in cui dietro di lei la porta si spalancava con uno schianto. Alcune delle punte di vetro che sporgevano dal telaio strapparono il copriletto, ma non una toccò lei. «Oh, maledetta troia fottuta!» strepitò Pickering dietro di lei - un passo dietro di lei - e poi Emily fu in volo. 9. La gravità è la madre di tutti noi Da bambina era stata un terremoto, preferendo i giochi da maschio (il più bello di tutti si chiamava semplicemente Pistole) nel bosco dietro la loro casa nella periferia di Chicago a quelli da femminucce con Barbie e Ken in veranda. Era sempre in jeans e maglietta, i capelli raccolti in una coda di cavallo. Invece delle gemelle Olsen, lei e Becka, la sua migliore amica, guardavano i vecchi film di Clint Eastwood e Schwarzenegger e, quando vedevano Scooby-Doo, si identificavano piuttosto con il cane che con Velma o Daphne. Per due anni alle elementari la loro colazione era stata a base di Scooby Snack. E si arrampicavano sugli alberi, naturalmente. A Emily pareva di ricordare d'aver trascorso un'estate intera appesa con Becka ai rami degli alberi dei rispettivi giardini. Potevano aver avuto nove anni. A parte la lezione di suo padre su come cadere, la sola cosa che Em ricordava con chiarezza riguardo all'estate delle arrampicate sugli alberi era che tutte le mattine sua madre le metteva una misteriosa pomata bianca sul naso dicendole, nel suo tono da ubbidienza-o-morte: Guai a te se te la togli, Emmy! Un giorno Becka perse l'equilibrio e per poco non precipitò per cinque metri sul prato dei Jackson (forse solo tre, ma a quell'epoca, ai loro occhi, i metri sembravano dieci, se non quindici). Si era salvata aggrappandosi a un ramo, ma poi era rimasta appesa così, a invocare aiuto. Rusty stava falciando l'erba. Andò tranquillamente a piazzarsi sotto l'albero - sì, tranquillamente; si attardò persino a spegnere la Briggs & Stratton - e protese le braccia. «Lasciati andare», disse, e Becka, che da soli due anni aveva smesso di credere a Babbo Natale ed era ancora squisitamente fiduciosa, lo fece. Rusty l'accolse e sostenne senza difficoltà, poi disse a Em di scendere dall'albero. Fece sedere le bambine alla base del tronco. Becka piangeva un po' ed Em era preoccupata, soprattutto che le arrampi-
cate sugli alberi potessero ora diventare un gioco proibito, come scendere al negozio all'angolo da sola dopo le sette di sera. Rusty non proibì loro di salire sugli alberi (ma lo avrebbe fatto forse la madre di Emily, se avesse visto la scena dalla finestra della cucina). Ciò che fece fu insegnare loro come cadere. Dopodiché fecero pratica per quasi un'ora. Che giornata grandiosa era stata. Mentre volava dalla finestra, Emily vide che con il sottostante patio lastricato c'era un bel dislivello. Forse solo tre metri, ma mentre precipitava nello sbatacchiare del copriletto stracciato a lei sembrarono dieci. O quindici. Mollate le ginocchia, aveva detto loro Rusty sedici o diciassette anni prima, nell'Estate delle Scalate agli Alberi, nota anche come l'Estate del Naso Bianco. Non chiedete alle ginocchia di assorbire il contraccolpo. Lo faranno, in nove casi su dieci, se il salto non è troppo alto, ma potreste ritrovarvi con un osso rotto. Anca, gamba o caviglia. Più che altro la caviglia. Ricordate che la gravità è la madre di tutti noi. Abbandonatevi alla gravità. Lasciate che vi abbracci. Tenete molli le ginocchia, poi incassate la testa e rotolate. Em toccò terra sul lastricato spagnolesco in pietre rosse e rilassò le ginocchia. Diede contemporaneamente una spallata all'aria inclinandosi con tutto il peso del corpo sulla sinistra. Incassò la testa tra le spalle e rotolò. Non ci fu dolore, nessun dolore immediato, ma una possente vibrazione che la percorse da capo a piedi, come se il suo corpo fosse diventato un tubo nel quale qualcuno avesse lasciato precipitare un mobile ingombrante. Ma protese la testa evitando di picchiarla sulle pietre della pavimentazione. E pensò di non essersi nemmeno fratturata una gamba, anche se avrebbe potuto accertarlo solo quando si fosse alzata in piedi. Cozzò contro un tavolo da giardino di metallo con violenza sufficiente da ribaltarlo. Poi si alzò e non si sentì veramente sicura di essere ancora tutta intera prima di essersi raddrizzata del tutto. Guardò su e vide Pickering che si sporgeva dalla finestra infranta. Aveva il viso contratto in una smorfia e brandiva il coltello. «Ferma!» urlò. «Smettila di scappare e resta ferma lì!» Come no, pensò Emily. L'umidità dell'acquazzone pomeridiano si era trasformata in nebbia e le disseminò il viso di goccioline come di rugiada. Fu una sensazione paradisiaca. Emily gli mostrò il dito medio ed enfatizzò
il concetto agitandolo. «Non ti permettere di mandarmi a fanculo, troia!» tuonò Pickering e scagliò il coltello. La mancò di parecchio. Colpì il pavimento con un tintinnio e scivolò sotto il suo grill a gas in due pezzi, manico e lama. Quando Emily alzò di nuovo lo sguardo, la finestra con il vetro rotto era vuota. La voce di suo padre l'avvertì che Pickering stava arrivando, ma non aveva certo bisogno che fosse lui a tenerla aggiornata. Andò all'estremità del patio - camminando agilmente, senza zoppicare, anche se forse lo doveva solo alla scarica di adrenalina - e guardò giù. Un misero metro tra lei e la sabbia da cui spuntavano ciuffi di uniola. Un giochetto a confronto del salto al quale era appena sopravvissuta. Oltre il patio c'era la spiaggia sulla quale aveva compiuto tante delle sue corse mattutine. Guardò dall'altra parte, in direzione della strada, ma lì non c'era niente di buono. Il brutto muro di cemento era troppo alto. E Pickering stava arrivando. Ovviamente. Si puntellò con una mano sul muretto ornamentale e si lasciò cadere nella sabbia. I ciuffi di uniola le solleticarono le cosce. Salì a passi veloci la duna tra la Casamatta e la spiaggia vera e propria, riaggiustandosi i calzoncini stracciati e continuando a guardarsi alle spalle. Niente... ancora niente... e poi Pickering che sbucava come un proiettile dalla porta sul retro urlandole di fermarsi immediatamente dove si trovava. Si era sbarazzato dell'impermeabile giallo e si era armato di un altro oggetto affilato. Lo agitava nella sinistra correndo per il vialetto che scendeva al patio. Emily non riuscì a distinguere che cosa fosse l'oggetto, ma era meglio così. Non voleva che le si avvicinasse tanto da permetterle di vederlo bene. Era in grado di non farsi prendere. Qualcosa nella sua andatura le diceva che sarebbe stato veloce per un po' e poi avrebbe ceduto, per quanto lo sostenessero la follia e la paura di essere smascherato. È come se mi fossi sempre allenata per questo momento, pensò. Eppure per poco non commise un errore cruciale quando, arrivata alla spiaggia, fu sul punto di girarsi verso sud. Da quella parte sarebbe arrivata in fondo a Vermillion Key in non più di mezzo chilometro. Avrebbe potuto cercare soccorso alla guardiola del ponte mobile (straziarsi i polmoni urlando all'impazzata, per la precisione), ma se Pickering aveva fatto qualcosa a Deke Hollis - e temeva che fosse proprio così - per lei sarebbe stata la fine. Magari avrebbe potuto gridare a un'imbarcazione di passaggio, ma aveva il sospetto che ormai Pickering avesse perso ogni inibizione; al punto in cui era arrivato l'avrebbe probabilmente accoltellata a morte sul pal-
coscenico del Radio City Music Hall sotto gli occhi delle Rockettes. Così si girò invece verso nord, dove tra lei e Grass Shack c'erano più di tre chilometri di spiaggia deserta. Si tolse le scarpe da tennis e cominciò a correre. 10. Ciò che non si era aspettata era la bellezza Non era la prima volta che correva in spiaggia dopo uno di quei brevi ma violenti acquazzoni pomeridiani e la sensazione dell'umidità che le si accumulava su viso e braccia le era familiare. Altrettanto lo erano il rumore amplificato della risacca (la marea si stava alzando e la spiaggia si restringeva in una striscia) e l'intensità dei profumi: salmastro, alghe, fiori, persino legno bagnato. Si era aspettata di provare paura, come immaginava che avessero paura le persone su un fronte di guerra quando svolgevano operazioni pericolose che di solito (ma non sempre) si risolvevano per il meglio. Ciò che non si era aspettata era la bellezza. Dal Golfo era entrata la nebbia. L'acqua era un opaco fantasma verde che lambiva il litorale sbucando dal bianco. Doveva esserci un banco di pesci a poca profondità, perché al largo i pellicani avevano organizzato un buffet a consumazione illimitata. Lei li vedeva più che altro come ombre in picchiata, che si tuffavano nell'acqua con le ali raccolte. Alcuni galleggiavano dondolando sulle onde più vicine e, sebbene sembrassero finti come uccelli da richiamo, la tenevano d'occhio. Laggiù, a sinistra, il sole era una piccola moneta giallo-arancio dal brillio sfumato. Temeva che tornasse a farsi vivo il crampo al polpaccio e, se fosse successo, per lei era fatta, fine. Ma quello era un esercizio a cui il muscolo si era assuefatto e, anche se un po' troppo caldo, prese a lavorare con scioltezza. Più preoccupanti erano i muscoli alla base della schiena, che le spedivano un pizzicore ogni tre o quattro passi e le inviavano una saetta di dolore più consistente ogni ventina. Ma lei parlò a loro dentro la testa, li blandì, promise loro bagni caldi e massaggi shiatsu quando quell'orrore fosse finito e la feroce creatura che la inseguiva fosse stata sbattuta nella prigione della contea di Collier. Sembrò funzionare. A meno che correre fosse una sorta di massaggio in sé. Aveva motivi per pensarlo. Pickering le urlò ancora due volte di fermarsi, poi si zittì, risparmiando il fiato per l'inseguimento. Lei guardò indietro una volta e giudicò che fosse a una settantina di metri. La sola cosa che di lui risaltava nella bruma del tardo pomeriggio era la sua maglia rossa. Guardò di nuovo ed era più niti-
do; vide i suoi calzoncini cachi macchiati di sangue. Cinquanta metri. Ma con il fiato corto. Bene. Il fiato corto era cosa buona. Scavalcò con un balzo un groviglio di legni portati dalla risacca e le scivolarono gli short minacciando di ostacolarla se non addirittura farla cadere. Non aveva tempo per fermarsi e toglierseli, così li strattonò selvaggiamente tirandoli su, rimpiangendo che non avessero un cordoncino da poter stringere, magari addirittura tenere serrato tra i denti. Sentì un grido e le parve che vi si mescolassero paura e ira. Forse Pickering si stava rendendo finalmente conto che le cose sarebbero potute andare diversamente da come auspicava. Arrischiò un'altra occhiata all'indietro, sperando, e la sua speranza non fu vana. Pickering era inciampato nel groviglio di legname che lei aveva scavalcato ed era finito in ginocchio. Davanti a lui giaceva la sua nuova arma a forma di X nella sabbia. Forbici, dunque. Cesoie da cucina. Quelle che usano per tranciare cartilagini e ossa. Le recuperò convulsamente e si rialzò in piedi. Emily continuava a correre, aumentando un po' alla volta la velocità. Non stava mettendo in pratica un piano, ma nemmeno pensava che fosse il suo fisico ad agire per conto suo. C'era qualcosa tra corpo e mente, una sorta di interfaccia. Era quella la parte di lei che voleva assumere la direzione in quel momento ed Em glielo consentì. Quella parte voleva che lei accelerasse gradualmente, quasi con delicatezza, in modo che l'animale che la braccava non capisse che cosa stava facendo. Quella parte voleva provocare Pickering inducendolo ad aumentare la propria velocità per starle dietro, magari guadagnando addirittura un po' di terreno. Quella parte voleva usurarlo e farlo schiattare. Quella parte voleva sentirlo rantolare con la lingua fuori. Magari addirittura tossire, se era un fumatore (anche se in questo non riponeva una grande speranza). Solo allora avrebbe innestato quell'overdrive che fino a quel momento aveva usato solo raramente; quella marcia che le era sempre sembrata una sfida alla sorte, come munirsi di ali di cera in una giornata di sole. Ma questa volta non aveva scelta. E se aveva sfidato la sorte, era stato quando aveva deviato dalla sua rotta per guardare nel giardino della Casamatta. E che alternative avevo, dopo aver visto i suoi capelli? Forse era stato il fato a sfidare lei. Correva stampando nella sabbia le impronte dei piedi. Guardò di nuovo dietro di sé e vide Pickering a quaranta metri, ma quaranta metri andavano bene. Considerato quanto paonazza e tirata aveva la faccia, quaranta andavano benissimo.
A ovest e direttamente sopra di lei le nuvole si squarciarono con subitaneità tropicale, illuminando all'istante la nebbia dal grigio cupo di poco prima a un bianco abbacinante. Il sole a sprazzi seminò sulla spiaggia macchie di luce; Em entrò in una di esse correndo e ne uscì in una sola falcata, sentendo la temperatura salire nella zona dove l'umidità si era riscaldata e poi ridiscendere quando fu inghiottita nuovamente dalla nebbia. Era come passare davanti alla porta aperta di una lavanderia automatica in una giornata di freddo intenso. Davanti a lei si aprì una striscia di blu appannato come un lungo catarifrangente. Sopra di essa apparvero due arcobaleni gemelli dai colori nitidi e perfettamente distinguibili. Le estremità a occidente si tuffavano nello strato di nebbia in movimento e scendevano a bagnarsi nell'acqua; quelle che scendevano in direzione della terraferma sparivano tra le palme e le fronde cerose. Si toccò la caviglia sinistra con il piede destro e annaspò. Per un momento fu sul punto di cadere, ma ritrovò l'equilibrio. Ora però lui era a soli trenta metri e trenta erano troppo pochi. Basta contemplare arcobaleni. Se non avesse fatto attenzione, quelli che aveva davanti a sé sarebbero stati gli ultimi che avrebbe visto. Guardò di nuovo in avanti e laggiù c'era un uomo, con i piedi immersi nell'acqua, e li stava osservando. Indossava solo un paio di short di tela di jeans e un fradicio fazzoletto rosso intorno al collo. Aveva la pelle scura; occhi e capelli erano scuri. Era di statura bassa, ma con un corpo asciutto e muscoloso da fare invidia. Uscì dall'acqua ed Emily vide l'ansia sul suo viso. Oh, grazie a Dio, vedeva dell'ansia. «Aiuto!» gridò. «Mi aiuti!» L'apprensione sul viso di lui aumentò. «Señora? Qué ha pasado? Qué es lo que va mal?» Qualcosa di spagnolo sapeva, spizzichi e bocconi, ma sentendo il suo, quel poco che masticava le scappò dalla mente. Pazienza. Quell'uomo era certamente un giardiniere di qualcuna delle ville più grandi. Aveva approfittato della pioggia per rinfrescarsi nelle acque del Golfo. Forse non aveva nemmeno il permesso di soggiorno, ma non ne aveva bisogno per salvare la vita a lei. Era un uomo, era chiaramente robusto ed era preoccupato. Si gettò tra le sue braccia bagnandosi dell'acqua che lo ricopriva. «È pazzo!» gli gridò in faccia. Poté farlo perché erano pressoché alti uguale. E ritrovò almeno una parola in spagnolo. Una parola preziosa, pensò, in quella situazione. «Loco! Loco, loco!» Reggendola saldamente con un braccio, lui si voltò. Emily guardò nella
direzione in cui stava guardando lui e vide Pickering. Pickering che sorrideva. Era un sorriso sereno, quasi di scusa. Nemmeno il sangue sui calzoncini e la faccia tumefatta toglievano del tutto credibilità al suo sorriso. La cosa peggiore era che delle cesoie non c'era più traccia. Le sue mani - il sangue si era ormai coagulato sul taglio tra le dita della destra - erano vuote. «Es mi esposa», spiegò. Il tono era non meno contrito - e convincente del sorriso. Sembrava del tutto naturale anche il fatto che stesse ansimando. «No te preocupes. Ella tiene...» Il suo spagnolo s'inceppò o almeno così parve. Sempre sorridendo spalancò le braccia. «Problemi? Ha dei problemi?» Gli occhi dell'immigrato s'illuminarono di comprensione e sollievo. «Problemas?» «Sì», annuì Pickering. Poi si portò una mano davanti alla bocca e mimò l'atto di bere a canna da una bottiglia. «Ah!» esclamò l'immigrato annuendo. «Bere!» «No!» protestò Emily sentendo che stava per essere sospinta tra le braccia di Pickering da un uomo che preferiva sbarazzarsi di quell'inaspettato problema, di quella inaspettata señora. Soffiò alito sul suo volto per dimostrargli che non aveva bevuto. Poi ebbe un'ispirazione e si batté il dito sulla bocca gonfia. «Loco! Questo me l'ha fatto lui!» «Ma no, se lo è fatto da sé», la smentì Pickering. «Okay?» «Okay», disse l'immigrato e annuì, senza però spingere Emily verso di lui. Ora sembrava incerto. E a Emily sovvenne un'altra parola, qualcosa che aveva esumato da qualche programma educativo per bambini di quelli che guardava, probabilmente con la fedele Becka, quando non guardava Scooby-Doo. «Peligro», disse sforzandosi di non urlare. Urlare era quello che facevano le esposas ammattite. Agganciò con i propri gli occhi del lavorante latino-americano. «Peligro. Lui! Señor Peligro!» Pickering rise e allungò le mani verso di lei. Terrorizzata da quanto le era vicino (era come veder spuntare artigli a una mietitrebbia), lei lo respinse. Lui non se l'aspettava ed era ancora senza fiato. Non cadde sulla sabbia, ma indietreggiò di un passo barcollando e sgranando gli occhi. Fu allora che le cesoie gli scivolarono da dove le aveva nascoste, tra la cintola dei calzoncini e il fondo della schiena. Per qualche istante restarono tutti e tre immobili a guardarle. Le onde scrosciavano monotone. Da dentro il banco di nebbia giunsero gridi di uccelli.
11. Poi fu in piedi e di nuovo in corsa Riaffiorò il sorriso benevolo di Pickering, quello che doveva aver usato con le sue numerose «nipoti». «Posso spiegare, ma non conosco abbastanza bene la lingua. Una spiegazione del tutto naturale, okay?» Si batté il petto come Tarzan. «No Señor Loco, no Señor Peligro, okay?» E sarebbe anche riuscito a farla passare. Ma poi, sempre sorridendo e indicando Emily, aggiunse: «Ella es bobo perra». Em non aveva idea di che cosa volesse dire bobo perra, ma vide come cambiò l'espressione di Pickering mentre lo diceva. Ebbe a che fare soprattutto con il suo labbro superiore, che si arricciò e sollevò, come fa il muso di un cane quando ringhia. L'immigrato la spinse indietro di un passo. Non le fece completamente scudo con il proprio corpo, ma quasi, e il messaggio era chiaro: protezione. Poi si chinò per raccogliere le cesoie. Se lo avesse fatto prima di spingere Emily dietro di sé forse ne avrebbe avuto il tempo. Ma Pickering aveva visto che la situazione stava per sfuggirgli di mano e lo precedette. Si lasciò cadere in ginocchio, impugnò le cesoie e pugnalò il piede sinistro del latino-americano. Lui lanciò un grido spalancando gli occhi. Si protese per afferrare Pickering, ma Pickering si lasciò prima cadere nella sabbia, poi rotolò su un fianco e saltò in piedi (ancora così svelto, pensò Emily) allontanandosi con un passo di danza. Poi si fece sotto di nuovo. Passò un braccio intorno alle spalle dell'altro come si fa tra amici e gli piantò le cesoie nel petto. Il latino-americano cercò di indietreggiare, ma Pickering lo trattenne continuando a ferirlo. Nessuno dei colpi andò in profondità perché venivano inferti troppo velocemente, ma cominciò a scorrere sangue dappertutto. «No!» gridò Emily. «No, fermo!» Pickering si girò verso di lei per non più di un istante, occhi scintillanti e terribili, poi conficcò le cesoie nella bocca del latino-americano fino a far tintinnare gli anelli contro i denti. «Okay?» chiese. «Okay? Così è okay? Così ti va bene, mangiafagioli del cazzo?» Emily si guardò intorno in cerca di qualcosa, un pezzo di legno con cui colpirlo, ma non c'era niente. Quando tornò a guardare i due uomini, il latino-americano aveva le cesoie piantate in un occhio. Si accasciò lentamente, dando quasi l'impressione di abbozzare un inchino, e Pickering si piegò con lui, cercando di estrarre le cesoie.
Emily si lanciò su di lui gridando. Abbassò la spalla e lo colpì al ventre, registrando solo per metà consapevolmente che era un ventre molle, una pancia che aveva immagazzinato un buon numero di pasti succulenti. Pickering cadde sulla schiena ansimando e fissandola con odio. Quando lei cercò di ritrarsi, le afferrò il piede sinistro affondandole le unghie nella carne. Accanto a lei il latino-americano, disteso su un fianco, si contorceva coperto di sangue. L'unico particolare ancora riconoscibile, su un viso che era stato piacente fino a trenta secondi prima, era il naso. «Vieni qui, Lady Jane», disse Pickering trascinandola verso di sé. «Lascia che ti intrattenga. Vero che ne hai voglia, inutile troia?» Era forte e stava avendo il sopravvento, per quanto lei si sforzasse di aggrapparsi alla sabbia. Sentì l'alito caldo sul piede e poi i suoi denti che le entravano nel tallone fino alle gengive. Mai aveva sentito un dolore come quello: ogni singolo granello di sabbia acquistò improvvisa nitidezza davanti alle sue pupille dilatate. Urlò e sferrò un calcio con il piede destro. Lo colpì, e con violenza, più che altro per mera fortuna, non certo perché avesse potuto in qualche modo prendere la mira. Lui lanciò un grido strozzato e il dolore penetrante nel tallone sinistro cessò all'improvviso come era cominciato, lasciando solo un senso di bruciore. Qualcosa si era rotto sul volto di Pickering. Emily aveva sentito il rumore oltre che averlo avvertito sotto il piede. Pensò potesse essere uno zigomo. Forse il naso. Si girò su mani e ginocchia e il dolore di protesta che partì dal polso gonfio quasi rivaleggiò con quello al piede. Per un istante, seppure con i calzoncini strappati che di nuovo le scivolavano giù dai fianchi, sembrò un'atleta sui blocchi di partenza in attesa del colpo di pistola. Poi fu in piedi e di nuovo in corsa, ora però ostacolata da una zoppia saltellante. Scese più vicino all'acqua. Immagini incoerenti le affollavano la mente (quelle di un vicesceriffo zoppo in qualche vecchio telefilm western, per esempio: una visione che le apparve per un istante e subito svanì), ma la parte di lei che ancora rispondeva all'istinto di sopravvivenza era ancora abbastanza lucida da voler correre su sabbia compatta. Si tirò su freneticamente i calzoncini e vide che aveva le mani coperte di sabbia e sangue. Con un singhiozzo, si pulì prima l'una e poi l'altra sulla T-shirt. Lanciò una sola occhiata all'indietro, sopra la spalla destra, sperando senza speranza, e lo vide arrivare. Ce la mise tutta, corse più forte che poté, e la sabbia, che dove stava correndo era fredda e bagnata, lenì un po' il bruciore al tallone, ma in nessun
modo poté avvicinarsi alla sua andatura precedente. Guardò dietro e lo vide guadagnare terreno, impiegare tutte le energie in uno sprint finale. Davanti a lei gli arcobaleni si andavano dissolvendo nella luce sempre più intensa e più calda. Ce la mise tutta sapendo che non sarebbe bastato. Non si sarebbe lasciata raggiungere da una donna anziana, non si sarebbe lasciata raggiungere da un vecchio, non si sarebbe lasciata raggiungere dal suo povero marito, ma non avrebbe potuto tener testa al bastardo forsennato che la braccava. L'avrebbe presa. Cercò un'arma con cui colpirlo quando fosse venuto il momento, ma ancora non c'era niente. Scorse i resti semicarbonizzati del fuoco di una festa in spiaggia, ma erano troppo lontani e troppo distanti dal bagnasciuga, a ridosso della linea dove cominciavano le dune e i ciuffi di uniola. Se avesse deviato in quella direzione, dove la sabbia era morbida e infida, lui l'avrebbe raggiunta ancora prima. La sua situazione era già abbastanza disperata lì dove si trovava, lo sentiva sempre più vicino, sentiva i rantoli rochi della sua respirazione e i grugniti che faceva risucchiando il sangue che gli riempiva il naso fratturato. Sentiva persino il rapido scalpiccio delle sue suole sulla sabbia umida. A tal punto desiderò che ci fosse qualcun altro in spiaggia, che per un momento ebbe l'allucinazione di un uomo alto con i capelli bianchi, un grande naso storto e la pelle scura e ruvida. Poi si rese conto di aver involontariamente evocato suo padre, un'ultima speranza, e l'illusione svanì. Le giunse abbastanza vicino da tentare di acchiapparla. La sua mano le toccò la maglietta, quasi afferrò il tessuto e scivolò via. La prossima volta ce l'avrebbe fatta. Sterzò entrando nell'acqua, immergendosi prima fino alle caviglie, poi fino ai polpacci. Fu la sola cosa che riuscì a pensare, l'ultima cosa. Le era venuta l'idea - informe, inarticolata - o di sfuggirgli nuotando o di fronteggiarlo nell'acqua, dove il confronto sarebbe stato meno impari; se non altro l'acqua avrebbe rallentato i colpi di quelle orribili cesoie. Se fosse riuscita ad arrivare dove era abbastanza profonda. Prima di potersi tuffare per cominciare a nuotare - prima ancora d'essersi immersa fino alle cosce - lui l'afferrò per il colletto e la tirò all'indietro trascinandola di nuovo verso la spiaggia. Emily vide le cesoie apparire al di sopra della propria spalla sinistra e le ghermì. Cercò di torcerle, ma fu inutile. Pickering si era puntellato a dovere nell'acqua che gli arrivava alle ginocchia, a gambe divaricate e con i piedi fermamente piantati nella sabbia contro il risucchio delle onde. Lei inciampò in una delle sue gambe e gli cadde addosso. Piombarono nell'ac-
qua insieme. La reazione di Pickering fu immediata e rivelatrice nonostante la confusione che creò nell'acqua sguazzando e annaspando convulsamente. La verità si accese nella mente di Emily come fuochi artificiali in una notte buia. Non sapeva nuotare. Pickering non sapeva nuotare. Aveva una casa nel Golfo del Messico, ma non sapeva nuotare. Ed era assolutamente logico. Le sue visite a Vermillion Key erano dedicate a discipline indoor. Si allontanò da lui e lui non cercò di afferrarla. Era seduto immerso fino al petto nel ribollire della schiuma di onde ancora agitate dal temporale e tutti i suoi sforzi erano concentrati nel tentativo di rialzarsi in piedi e separare il più possibile il suo apparato respiratorio da un elemento con il quale non aveva mai imparato a conciliarsi. Se avesse avuto fiato da sprecare, Emily gli avrebbe parlato. Se lo avessi saputo, avrebbe detto, avremmo potuto chiudere la questione fin da subito. E quel poveretto sarebbe ancora vivo. Tornò invece da lui e lo prese per la maglia. «No!» strillò Pickering. La colpì con entrambe le mani. Erano vuote (doveva aver perso le cesoie cadendo) e lui era troppo terrorizzato e disorganizzato per pensare di chiudere i pugni. «No, no! Lasciami, bastarda!» Emily se ne guardò bene. Lo trascinò invece dove l'acqua era più profonda. Se lui fosse stato in grado di controllare il panico, si sarebbe facilmente liberato dalla sua presa, ma non ce la faceva non solo perché non sapeva nuotare: Emily ebbe la sensazione di assistere a una reazione di carattere fobico. Ma quando mai una persona con la fobia dell'acqua si prenderebbe una casa sul Golfo? Solo un mentecatto. Questa considerazione la fece ridere, per quanto lui la picchiasse, schiaffeggiandola alla cieca prima sulla guancia destra, poi sul lato sinistro della testa. Le entrò in bocca un fiotto di acqua verde che subito sputò. Lo trascinò più al largo, vide arrivare un'onda più alta, liscia e luccicante, con una piccola cresta di schiuma che si andava formando sulla cima, e lo spinse da quella parte con la faccia in avanti. Le sue grida diventarono gorgoglii strozzati che si spensero quando finì sott'acqua. Continuò a trattenerlo mentre lui sbracciava e spingeva e si dibatteva. L'onda le passò sopra e trattenne il fiato. Per un momento furono sommersi entrambi e lei vide il volto di lui deformato in una pallida maschera di terrore e orrore che lo rese disumano e per questo lo trasformava in ciò che era in realtà. Nell'acqua verde che li divideva vagava una galassia di bruscolini. Passò
sfrecciando un pesciolino disorientato. Pickering aveva gli occhi fuori delle orbite. La sua bella acconciatura si era disfatta e furono i capelli, quelli su cui si fermò lo sguardo di lei. Li osservò attentamente mentre dal naso di Pickering saliva verso la superficie un filo di bollicine d'argento. E quando i capelli cambiarono direzione girandosi per puntare verso il Texas invece che la Florida, gli inferse una spinta con tutte le forze e lo lasciò andare. Poi posò i piedi sul fondo sabbioso e si proiettò all'insù. Emerse nell'aria brillante con la bocca già spalancata. Inalò grandi boccate di quell'aria prima di tornare verso la spiaggia a passi lenti. Era difficile camminare anche così vicino alla terraferma. Il risucchio del ritirarsi delle onde che le premeva contro i fianchi e le passava tra le gambe era quasi un flutto di ritorno. Pochi metri più al largo lo sarebbe stato. Più fuori ancora e si sarebbe trasformato in corrente e anche un forte nuotatore avrebbe avuto poche possibilità a meno di nuotare in diagonale bordeggiando su un ampio angolo incidente verso la salvezza. Esitò, perse l'equilibrio, si sedette e fu travolta da un'altra onda. La sensazione fu splendida. Fu splendido il freddo dell'acqua. Per la prima volta dalla morte di Amy si sentì bene per un momento. Meglio che bene, per la verità; ogni parte di lei era ammaccata o ferita e sentiva che stava piangendo di nuovo, ma stava da dio. Si rialzò faticosamente con la T-shirt inzuppata e appiccicata al corpo. Vide qualcosa di vagamente azzurro che veniva trasportato via dalla corrente, si guardò, tornò a guardare la macchia scolorita e si rese conto di aver perso i calzoncini. «Pazienza, tanto erano da buttare», disse e cominciò a ridere mentre risaliva verso la spiaggia, prima immersa fino alle ginocchia, poi ai polpacci, infine con i soli piedi lambiti dalla schiuma. Sarebbe rimasta lì per ore. L'acqua fredda aveva spento quasi del tutto il dolore al tallone ed era sicura che il sale avesse un effetto benefico sulla ferita; non dicevano forse che non esisteva sulla terra essere vivente più infestato di germi della bocca umana? «Sì», disse e ancora rideva. «Ma chi diavolo è il...» Allora Pickering riemerse urlando. Era ora a una decina di metri dalla riva. Gesticolava all'impazzata con entrambe le braccia. «Aiuto!» urlava. «Non so nuotare!» «Lo so», disse Emily. Alzò una mano frullando le dita in un saluto di buon viaggio. «E potresti anche incontrare uno squalo. La settimana scorsa Deke Hollis mi ha detto che ce ne sono.»
«Aiuto,..» Un'onda lo seppellì. Emily pensò di non vederlo più, ma spuntò di nuovo. Ora si era allontanato di un altro paio di metri. «...Aiuto!...» La sua vitalità aveva dell'incredibile, specialmente dato che quello che stava facendo - sbatteva soprattutto le braccia sull'acqua come se credesse di poter volare via come un gabbiano - era controproducente, ma la corrente lo stava trascinando costantemente più lontano dalla spiaggia dove non c'era nessuno che potesse salvarlo. Nessun altro che lei. Non c'era per la verità modo per cui potesse tornare indietro, di questo si sentiva sicura, ciononostante raggiunse zoppicando i resti del fuoco e, giusto per non sbagliare, si armò del pezzo di legno bruciacchiato più grosso tra quelli avanzati. E lì rimase a guardare mentre l'ombra dietro di lei continuava ad allungarsi. 12. Credo che mi piaccia di più pensare così Resistette a lungo. Non aveva idea con precisione per quanto tempo perché lui le aveva portato via l'orologio. Dopo un po' smise di gridare, poi fu solo un circoletto bianco sopra la macchia rosso scuro della sua maglia da golf con un paio di braccia pallide che tentavano di spiccare il volo. E tutt'a un tratto non ci fu più. Le parve di avvistare ancora per una volta un braccio che emergeva come un periscopio e si agitava nell'aria, ma fu solo un'impressione. Era scomparso. Glub. Provò addirittura delusione. Più tardi sarebbe ridiventata del tutto se stessa, una se stessa migliore, forse, ma in quel momento voleva solo che lui continuasse a soffrire. Voleva che morisse nel terrore e non velocemente. Per Nicole e per tutte le altre nipoti che potevano esserci state prima di Nicole. Sono una nipote ora? In un certo senso lo era. L'ultima nipote. Quella che aveva corso più forte che poteva. Quella che era sopravvissuta. Si sedette sui resti del fuoco e gettò via il pezzo di legno bruciacchiato. Non sarebbe stato un gran che come arma in ogni caso; probabilmente, al primo colpo che gli avesse inferto, si sarebbe sgretolato come un carboncino da disegno. Il sole, ora di un arancione più intenso, stava innescando l'orizzonte a occidente. Presto l'orizzonte avrebbe preso fuoco. Pensò a Henry. Pensò ad Amy. Non era rimasto niente lì, ma una volta qualcosa c'era, qualcosa di straordinariamente bello come due arcobaleni
gemelli sulla spiaggia, ed era bello saperlo, bello ricordarlo. Pensò a suo padre. Di lì a non molto si sarebbe alzata e sarebbe tornata a Grass Shack, da dove gli avrebbe telefonato. Ma non ancora. Ora no. Per ora era giusto stare seduta con i piedi piantati nella sabbia e le braccia indolenzite intorno alle ginocchia. Le onde si succedevano infrangendosi sul lido. Nessun segno dei suoi calzoncini strappati o della maglia rossa di Pickering. Il Golfo se li era presi entrambi. Era annegato? Pensava che fosse l'esito più probabile, ma il modo in cui si era inabissato così improvvisamente, senza nemmeno un sussulto finale... «Mi sa che qualcosa se lo è preso», disse all'aria che si andava spegnendo. «Credo che mi piaccia di più pensare così. Dio sa perché.» Perché sei umana, tesoro, disse suo padre. Niente di più. E lei pensò che non ci fosse niente di più vero e più semplice. In un film dell'orrore ci sarebbe stato il colpo di coda di Pickering: o erompendo clamorosamente dalle onde o ricomparendo ad aspettarla, gocciolante ma ancora più vivo che mai, nell'armadio della camera da letto quando fosse tornata a casa. Ma quello non era un film dell'orrore, era la sua vita. La sua piccola vita. L'avrebbe vissuta, a cominciare dalla lunga camminata claudicante fin là dove c'erano una casa e una chiave con cui aprirla nascosta in una scatoletta sotto quel brutto gnomo con il berretto rosso stinto dal sole. L'avrebbe usata e avrebbe usato anche il telefono. Avrebbe chiamato suo padre. Poi avrebbe chiamato la polizia. Più tardi, pensava, avrebbe telefonato a Henry. Le sembrava che lui avesse ancora il diritto di sapere che stava bene, anche se non lo avrebbe avuto per sempre. O, pensò, nemmeno avrebbe voluto averlo. Sul Golfo tre pellicani scesero a sfiorare l'acqua e tornarono a levarsi guardando giù. Trattenendo il fiato, lei li guardò raggiungere un punto di equilibrio perfetto nell'aria arancione. Il suo volto - per fortuna non lo sapeva - era quello di una bambina che amava arrampicarsi sugli alberi. I tre uccelli ripiegarono le ali e si tuffarono in formazione. Anche se il polso gonfio le fece male, Emily applaudì e gridò: «Ehi, pellicani!» Poi si passò il braccio sugli occhi, spinse all'indietro i capelli, si alzò e si incamminò verso casa. Il sogno di Harvey
Janet si gira dal lavello e bum, tutt'a un tratto al tavolo della cucina c'è seduto suo marito in maglietta bianca e boxer, che la guarda. Sempre più spesso il sabato mattina ha trovato quest'uomo - che nei giorni lavorativi è un pezzo grosso di Wall Street - seduto proprio lì e vestito proprio così: spalle curve, sguardo vacuo, guance ispide di bianco, tettine maschili ad arrotondargli la maglietta, capelli dritti sopra la nuca come Alfalfa delle Piccole Canaglie, ma invecchiato e rimbambito. Di recente lei e la sua amica Hannah si sono fatte paura l'un l'altra (come bambine che si raccontano leggende di fantasmi prima di dormire) scambiandosi storie sull'Alzheimer: chi non riconosce più la moglie, chi non ricorda più il nome dei figli. Ma non crede veramente che queste silenziose apparizioni del sabato mattina abbiano qualcosa a che fare con l'incipienza dell'Alzheimer; nei giorni feriali Harvey Stevens è ancora bello sveglio e pimpante alle sette meno un quarto, un uomo di sessant'anni che ne dimostra cinquanta (be', facciamo cinquantaquattro) in uno o l'altro dei suoi due completi da battaglia, ed è ancora capace di tener testa a tutti nell'indovinare un investimento, comprare a credito o vendere allo scoperto. No, crede piuttosto che sia semplicemente far pratica di vecchiaia e non le piace per niente. Ha paura che quando andrà in pensione sarà così tutte le mattine, almeno fin quando non gli avrà portato un bicchiere di spremuta d'arancia e non gli avrà chiesto (con un'impazienza crescente che non saprà trattenere) se vuole dei cereali o solo un toast. Ha paura di girarsi interrompendo le faccende a cui si sta dedicando per trovarlo seduto lì in una lama di sole mattutino troppo brillante, Harvey di mattina, Harvey in maglietta e boxer, a gambe divaricate, così da farle vedere il modesto volume del suo pacco (come se le interessasse) e la pelle dura e gialla dei suoi alluci, che le fa sempre pensare ai versi di Wallace Stevens (se i suoi piedi callosi spunteranno...). Seduto là in silenzio, con quell'aria un po' rintronata e meditabonda, invece di mordere il freno caricandosi per la giornata. Dio, spera proprio di sbagliarsi. Fa sembrare la vita così misera, così stupida, in un certo senso. Non può fare a meno di domandarsi se è per questo che hanno tanto lottato, cresciuto e sposato le loro tre figlie, superato il suo inevitabile tradimento di mezza età, quello per cui hanno tanto faticato e qualche volta (ammettiamolo) arrancato. Se questo è il posto dove sbuchi uscendo dal folto e dal buio del bosco, pensa Janet, questo... questo parcheggio... allora perché lo fai? Ma la risposta è facile. Perché non lo sapevi. Le bugie, le hai scartate
quasi tutte lungo la via, ma ti sei tenuta ben stretta quella che dice che la vita CONTA. Hai conservato l'album dedicato alle ragazze e in quell'album erano sempre giovani e sempre interessanti nei loro futuri possibili: Trisha, la più grande, con il cilindro in testa e una bacchetta magica di carta stagnola imposta su Tim, il cocker di casa; Jenna, immortalata mentre spicca il salto nello spruzzo dell'irroratore, quando il suo debole per le droghe, le carte di credito e gli uomini maturi era ancora oltre l'orizzonte; Stephanie, la più piccola, alla gara di compitazione della contea, dove «cantalupo» era stata la sua Waterloo. In quasi tutte quelle fotografie da qualche parte (di solito in secondo piano) c'erano Janet e l'uomo che aveva sposato, sempre sorridenti. Quasi che fosse contro la legge non farlo. Poi un giorno si fa l'errore di girare la testa e scoprire che le ragazze sono cresciute e che l'uomo con il quale ti sei sforzata di rimanere sposata se ne sta seduto a gambe divaricate - a gambe divaricate con quella pelle bianco pesce -, a fissare una lama di luce, e buon Dio forse dimostra cinquantaquattro anni nell'uno o l'altro dei suoi due completi più eleganti, ma seduto lì al tavolo della cucina ne dimostra settanta. Settantacinque, diamine. Uno di quelli che gli scagnozzi dei Soprano definiscono un catorcio. Torna a girarsi verso il lavello e sternutisce con delicatezza, una volta, due, una terza. «Come va oggi?» chiede lui riferendosi alla sua sinusite, alle sue allergie. La risposta è non molto bene, ma al pari di un sorprendente numero di cose negative, le sue allergie estive hanno anche un lato positivo. Non è più costretta a dormire con lui e a lottare per la sua metà di coperta nel cuore della notte; non deve più ascoltare le sue occasionali sommesse scoregge mentre scivola in un sonno sempre più profondo. D'estate riesce a dormire quasi sempre sei, persino sette ore per notte e sono più che sufficienti. Quando viene l'autunno e lui abbandona la stanza degli ospiti, scende a quattro e sono ore per lo più tormentate e di sonno leggero. Sa che verrà l'anno in cui non tornerà in camera da letto. E anche se non glielo dice - ci resterebbe male e a lei ancora non piace ferire i suoi sentimenti, questo è ciò che ora passa per amore tra loro due, almeno da parte sua nei confronti di lui - ne sarà contenta. Sospira e affonda la mano nel tegame pieno d'acqua dentro il pozzetto. Rimesta. «Non troppo male», risponde. Poi, proprio mentre sta pensando (e non per la prima volta) che questa vita non nasconde più sorprese, nessun anfratto coniugale che non sia stato scandagliato, lui butta lì quasi sovrappensiero: «Meno male che non hai
dormito con me la notte scorsa, Jax. Ho fatto un brutto sogno. Mi sono addirittura svegliato urlando». Lei ci è rimasta un po'. Quando è stata l'ultima volta che l'ha chiamata Jax invece di Janice o Jan? A proposito, quest'ultimo è un diminutivo che odia in segreto, le ricorda quell'attrice stucchevole che, quando era piccola, vedeva in Lassie, dove c'era quel bambino (Timmy, così si chiamava) che cadeva sempre dentro il pozzo o veniva morsicato da un serpente o finiva intrappolato sotto un masso, e che razza di genitori sono quelli che mettono la vita del proprio figlio nelle mani di un cavolo di Collie? Si volta di nuovo verso di lui dimenticando il tegame con dentro ancora l'ultimo uovo nell'acqua che dopo tanto tempo dalla bollitura si è intiepidita. Ha fatto un brutto sogno? Harvey? Cerca di ricordare quando mai Harvey le abbia parlato di un sogno senza avere fortuna. Le riaffiora alla mente solo un vago ricordo dei giorni del loro fidanzamento, Harvey che le diceva qualcosa come «ti sogno». E lei era abbastanza giovane da trovarlo dolce invece che banale. «Cosa?» «Mi sono svegliato urlando», dice lui. «Non mi hai sentito?» «No.» Sempre guardandolo. Chiedendosi se non la stia prendendo in giro. Ma Harvey non è un tipo giocoso. La sua idea di spirito è raccontare a cena aneddoti dei tempi del suo servizio militare. Li ha sentiti tutti almeno cento volte. «Gridavo parole, ma non riuscivo ad articolarle davvero. Era come... non so... come se non potessi chiuderci la bocca attorno. Balbettavo come se avessi avuto un colpo. E la mia voce era più bassa. Non somigliava per niente alla mia normale.» Fa una pausa. «Mi sono sentito e mi sono forzato a smettere. Ma tremavo come una foglia e per un po' ho dovuto accendere la luce. Ho cercato di pisciare e non ci sono riuscito. In questi giorni riesco sempre a farla, almeno un po', ma non questa notte alle due e quarantasette.» S'interrompe, seduto lì nella sua lama di sole. Lei vi vede il pulviscolo danzare dentro. Sembra avvolgerlo in un alone. «Che sogno hai fatto?» gli chiede e in questo accade un fatto strano: per la prima volta da forse cinque anni, quando erano rimasti svegli fino a mezzanotte a discutere se tenere le azioni della Motorola o venderle (alla fine avevano deciso di vendere), è interessata in qualcosa che ha da dire lui. «Non so se voglio raccontartelo», le risponde, insolitamente ritroso. Si gira, prende il macinino del pepe e comincia a palleggiarselo da una mano
all'altra. «Dicono che se racconti i tuoi sogni, non si avverano», dice lei e qui c'è il Fatto Strano Numero Due: tutt'a un tratto Harvey le appare presente come non capitava da anni. Persino la sua ombra sul muro sopra il forno sembra più consistente. Pensa: è come se lui contasse, e come è possibile? Come mai, proprio quando stavo pensando che la vita è sottile, mi deve apparire densa? Questa è una mattina d'estate di fine giugno. Siamo nel Connecticut. Quando arriva giugno siamo sempre nel Connecticut. Presto uno di noi prenderà il giornale, che verrà diviso in tre parti come l'antica Gallia. «Dicono così?» Lui medita il concetto, con le sopracciglia sollevate (deve sfoltirgliele di nuovo, gli prende quell'aspetto incolto e lui manco se ne accorge). A lei piacerebbe dirgli di smetterla, la innervosisce (come l'enfatica nerezza della sua ombra sul muro, come il suo stesso cuore che batte, che per nessuna ragione ha improvvisamente accelerato il ritmo), ma non vuole distrarlo da qualunque cosa sia al lavoro nella sua testa del sabato mattina. Ma poi lui posa il macinino per conto proprio, e dovrebbe andar bene così, ma chissà perché invece no, perché anche il macinino ha un'ombra, si allunga sul tavolo come l'ombra di un ingigantito pezzo degli scacchi, persino le briciole del toast hanno ombre e lei non ha idea del perché questo debba impaurirla, eppure è così. Pensa al Gatto del Cheshire che disse ad Alice: «qui siamo tutti matti» e all'improvviso non vuole sentire lo stupido sogno di Harvey, quello dal quale si è svegliato urlando e farneticando come un uomo in preda a un colpo apoplettico. All'improvviso vuole che la vita non sia altrimenti che sottile. Sottile va bene, sottile è cosa buona, basta guardare le attrici nei film se ti viene un dubbio. Niente deve annunciare se stesso, pensa febbrilmente. Sì, febbrilmente; è come se avesse una scalmana, anche se giurerebbe che tutti quei fastidi sono finiti già da due o tre anni. Niente deve annunciare se stesso, niente deve annunciare se stesso, è sabato mattina e niente deve annunciare se stesso. Apre la bocca per dirgli che gliel'ha riferita alla rovescia, che quello che si dice in realtà è che i sogni raccontati si avverano, ma è troppo tardi, lui sta già parlando, e lei pensa che sia la sua punizione per aver voluto pretendere che la vita sia sottile. La vita è piuttosto come una canzone dei Jethro Tull, densa come un mattone, come ha potuto pensare il contrario? «Ho sognato che era mattina e che io scendevo in cucina», attacca lui. «Sabato mattina, proprio come adesso, solo che tu non eri ancora alzata.»
«Mi alzo sempre prima di te il sabato mattina», ribatte lei. «Lo so, ma questo era un sogno», dice paziente lui e lei vede i peli bianchi all'interno delle sue cosce, dove i muscoli sono magri e denutriti. Una volta giocava a tennis, ma sono tempi passati. Con un'acredine che non è minimamente nel suo carattere, pensa: Avrai un infarto, uomo bianco, sarà quello a finirti, e magari discuteranno se dedicarti un necrologio sul Times, ma se proprio quel giorno avesse a morire un'attrice di film di serie B o una semifamosa ballerina classica degli anni Quaranta, non avrai neanche quello. «Ma era come adesso», riprende lui. «Cioè, c'era il sole.» Alza una mano e scatena un sommovimento nelle particelle di polvere intorno alla testa e lei vorrebbe gridargli di non farlo, di non disturbare l'universo del cazzo in quel modo. «Vedevo la mia ombra per terra e non era mai stata così brillante o così densa.» S'interrompe, poi sorride e lei vede quanto sono screpolate le sue labbra. «Brillante è una parola buffa da usare per un'ombra, vero? Anche densa.» «Harvey...» «Sono andato alla finestra a guardare fuori», dice lui, «e ho visto che sulla fiancata della Volvo dei Friedman c'era una botta e non so come, ma sapevo che Frank era stato fuori a bere e che era successo tornando a casa.» Lei si sente svenire. Ha visto anche lei l'ammaccatura sulla fiancata della Volvo di Frank Friedman quando è andata alla porta a controllare se avevano già portato il giornale (non c'era) e aveva pensato la stessa cosa, che Frank era stato a The Gourd e aveva preso una botta nel parcheggio. Come sarà conciato quell'altro? era stata la sua precisa riflessione. Le viene il sospetto che anche Harvey abbia visto l'ammaccatura, che la stia prendendo in giro per qualche suo strano disegno. È certamente possibile; dalla stanza degli ospiti dove dorme d'estate c'è un angolo di visuale sulla strada. Solo che Harvey non è quel tipo d'uomo. Questo genere di scherzi non sono da lui. Ha del sudore sulle guance e sulla fronte e sul collo, lo sente, e il suo cuore batte più veloce che mai. C'è la sensazione reale di qualcosa in arrivo, qualcosa di grosso, e perché dovrebbe accadere ora? Ora che il mondo è tranquillo, posseggono azioni della Nextel invece di quelle della Motorola e le prospettive sono serene? Se sono stata io a chiederlo, chiedo scusa, pensa... o forse sta proprio pregando. Ritiro tutto, fai marcia indietro.
«Sono andato al frigo», sta dicendo Harvey, «ci ho guardato dentro e ho visto delle uova farcite con sopra un pezzo di pellicola. Ero felice, avevo voglia di pranzare alle sette del mattino!» Ride. Janet - ex Jax - abbassa lo sguardo sul tegame nel lavello. Sull'unico uovo sodo rimasto. Le altre uova sono state sgusciate, tagliate con precisione in due e svuotate del tuorlo. Sono nella scodella vicino allo scolapiatti. Di fianco alla scodella c'è il barattolo della maionese. Aveva intenzione di servire le uova farcite a pranzo con dell'insalata verde. «Non voglio ascoltare il resto», dice, ma a un volume di voce così basso che quasi non sente se stessa. Era nella Filodrammatica e adesso non riesce nemmeno a farsi udire da una parte all'altra della cucina. Si sente i muscoli del petto tutti molli, come sarebbero le gambe di Harvey se cercasse di giocare a tennis. «Ho pensato di mangiarne uno», dice Harvey, «poi ho pensato: No, se lo faccio me le canta. E poi ha squillato il telefono. Mi sono precipitato a rispondere perché non volevo che ti svegliasse e qui viene la parte brutta. Vuoi sentire la parte brutta?» No, pensa lei da dove si trova davanti al lavello. Non voglio sentire la parte brutta. Ma allo stesso tempo ha voglia di sentire la parte brutta, tutti vogliono sentire la parte brutta, qui siamo tutti matti, e davvero sua madre diceva che se racconti i tuoi sogni non si avverano, volendo significare con questo che bisogna raccontare gli incubi e tenersi i sogni belli per sé, nasconderli come un dentino sotto il guanciale. Hanno tre figlie, una vive poco distante, Jenna, la divorziata omosessuale, stesso nome di una delle gemelle Bush, e quanto lo odia, Jenna; ultimamente insiste per farsi chiamare Jen. Tre femmine, che significa un sacco di dentini sotto un sacco di guanciali, un sacco di spettacoli di magia nel giardino dietro casa, un sacco di ore di studio per un sacco di gare di compitazione. Per non parlare di un sacco di ansie su sconosciuti in automobile che offrono passaggi e caramelle, un sacco di precauzioni, e oh quanto spera che sua madre avesse ragione, che raccontare un brutto sogno sia come conficcare un paletto nel cuore di un vampiro. «Ho alzato il telefono», dice Harvey, «ed era Trisha.» Trisha è la loro figlia maggiore, quella che si era presa una cotta per Houdini e Blackstone prima di scoprire i ragazzi. «All'inizio ha detto una sola parola, solo 'papà', ma io sapevo che era Trisha. Sai come uno lo sa sempre?» Sì. Sapeva come uno lo sa sempre. Come si riconoscono sempre i tuoi, almeno fino a quando non crescono e diventano qualcun altro.
«Le ho detto: 'Ciao, Trish, perché chiami a quest'ora, cara? Tua mamma è ancora a letto'. E in principio non mi ha risposto. Ho pensato che fosse caduta la linea, ma poi ho sentito degli strani suoni come di bisbigli e piagnucolii. Non vere parole, ma mezze parole. Come se stesse cercando di parlare ma non riuscisse a tirar fuori niente perché non aveva abbastanza forze o abbastanza fiato. Ed è lì che ho cominciato ad aver paura.» Insomma, dico, è lento da morire, vero? Perché Janet - che era Jax alla Sarah Lawrence, Jax al Drama Club, Jax la campionessa dei baci con la lingua in bocca, Jax che fumava Gitanes e che esibiva un debole particolare per i bicchierini di tequila - Janet è impaurita ormai già da un po', ha cominciato ad aver paura ancor prima che Harvey menzionasse l'ammaccatura della Volvo di Frank Friedman. E pensandoci le torna in mente la conversazione che ha avuto nemmeno una settimana fa con l'amica Hannah, quella che poi si è messa a raccontare brutte storie sull'Alzheimer. Hannah in città, Janet raggomitolata alla finestra del soggiorno a guardare il mezzo ettaro di Westport di loro proprietà, tutte quelle belle cose che crescono e che la fanno sternutire e lacrimare e, prima che la loro conversazione prenda la via dell'Alzheimer, hanno discusso di Lucy Friedman e poi di Frank e chi di loro due lo aveva detto? Chi di loro aveva detto: «Se non si dà una regolata tra bere e guidare, finisce che ammazza qualcuno»? «E poi Trisha ha detto qualcosa come 'zia' o 'la zia', ma nel sogno sapevo che stava... elidendo? Si dice così? Elideva la prima sillaba e quello che stava cercando di dire in realtà era 'polizia'. Le ho chiesto di spiegarsi meglio, le ho chiesto cosa stava cercando di dirmi sulla polizia e mi sono seduto. Proprio lì.» Indica la sedia in quello che chiamano l'angolo del telefono. «C'è stato dell'altro silenzio, poi ancora qualche mezza parola, quelle mezze parole bisbigliate, mi stava facendo arrabbiare così tanto che ho pensato: La solita melodrammatica, ma poi lei ha detto: 'Numero', molto chiaro, quello l'ho sentito benissimo. E ho capito, giusto come avevo capito che stava cercando di dire 'polizia', che stava cercando di dirmi che la polizia aveva telefonato a lei perché non avevano il nostro numero.» Janet annuisce meccanicamente. Hanno deciso di far cancellare il loro numero dall'elenco due anni fa perché i giornalisti telefonavano in continuazione a Harvey per il pasticcio dell'Enron. Di solito all'ora di cena. Non perché lui avesse avuto qualcosa a che fare con la Enron, ma è perché le grandi società energetiche erano un po' la sua specialità professionale. Qualche anno fa è stato persino in una commissione presidenziale, ai tempi in cui Clinton era il gran capo e il mondo (nella sua umile opinione, quanto
meno) era un luogo un po' migliore, un po' più sicuro. E alla faccia delle tante cose di Harvey che non le piacciono più, se ce n'è una che sa perfettamente bene è che suo marito ha più integrità nel mignolo della mano sinistra di tutti quei mascalzoni della Enron messi insieme. Sarà anche vero che qualche volta l'integrità le viene a noia, ma sa che cos'è. Ma la polizia non ha forse i suoi sistemi per trovare i numeri privati? Mah, forse no se hanno fretta di scoprire qualcosa o di dire qualcosa a qualcuno. E poi i sogni non devono essere per forza logici, giusto? I sogni sono le poesie dell'inconscio. E ora, siccome non ce la fa più a stare ferma, va alla porta della cucina e guarda fuori nella soleggiata giornata di giugno, guarda Sewing Lane, che è la loro versione in piccolo di quello che immagina debba essere il sogno americano. Che mattinata quieta, con un miliardo di goccioline di rugiada che luccicano ancora sull'erba! Ma il cuore le martella nel petto e il sudore le scivola sul viso e vuole dirgli che deve smettere, che non deve raccontare il suo sogno, questo sogno terribile. Deve ricordargli che Jenna abita poco più giù nella stessa strada, cioè Jen, quella che lavora al Video Stop in centro e passa fin troppi weekend a bere a The Gourd con tipi come Frank Friedman, che è abbastanza vecchio da poter essere suo padre. Cosa che senza dubbio fa parte della sua attrattiva. «Tutte queste piccole mezze parole sussurrate», sta dicendo Harvey, «e non parla chiaro. Poi sento 'uccisa' e ho capito che una delle ragazze era morta. Lo sapevo con certezza. Non Trisha, perché era Trisha al telefono, ma Jenna o Stephanie. E ne sono stato terrorizzato. Ero seduto lì a chiedermi quale delle due volessi che fosse, come in La scelta di Sophie. Allora ho alzato la voce. 'Dimmi quale! Dimmi quale! Per l'amor di Dio, Trish, dimmi quale!' Solo allora il mondo reale ha cominciato a trapelare... posto sempre che una cosa simile esista...» Harvey fa una risatina e nella forte luce del mattino Janet vede che al centro dell'ammaccatura sulla fiancata della Volvo di Frank Friedman c'è una macchia rossa e al centro della macchia c'è un grumo più scuro che potrebbe essere fango ma anche un ciuffo di capelli. Vede Frank che accosta sghembo al marciapiede alle due di notte, troppo ubriaco per tentare di imboccare il vialetto d'accesso, figuriamoci il box... lunga è la storia, dritta è la via e quanto segue. Lo vede barcollare verso casa a testa bassa, respirando rumorosamente dal naso. Viva el toro. «A quel punto sapevo di essere a letto, ma sentivo questa voce bassa che non somigliava alla mia, sembrava la voce di qualche sconosciuto, e non
riuscivo a inquadrare nessuna delle parole che pronunciava. 'I-mi ua-le imi ua-le', così faceva. 'I-mi ua-le Ish!'» Dimmi quale. Dimmi quale, Trish. Harvey si zittisce e pensa. Medita. Il pulviscolo gli danza intorno al volto. Il sole rende la sua maglietta così abbagliante che quasi non riesce a guardarla; è la maglietta di una pubblicità di qualche detersivo. «Resto sdraiato lì ad aspettare che arrivi di corsa tu a vedere che cos'è successo», dice finalmente. «Resto sdraiato lì con tutta la pelle accapponata, a tremare, e mi dico che era solo un sogno, come si fa sempre, naturalmente, ma penso anche a quanto era realistico. Stupefacente, in un suo modo orribile.» S'interrompe di nuovo per pensare a come mettere in parole il seguito, senza accorgersi che sua moglie non lo ascolta più. La ex Jax sta impegnando tutta la sua mente, tutta la sua considerevole forza del pensiero, nel convincersi che quello che vede non è sangue ma solo l'imprimitura della carrozzeria della Volvo dove la vernice è venuta via. Imprimitura è una parola che il suo inconscio è stato più che sollecito nel formulare. «È fantastico fin dove può arrivare l'immaginazione, vero?» commenta finalmente lui. «Un sogno come questo è come quello che deve vedere un poeta, uno di quelli veramente grandi, nella sua poesia. Tutti i particolari così chiari e così limpidi.» Si zittisce e la cucina appartiene al sole e alla polvere che danza; fuori il mondo è sospeso. Janice guarda la Volvo parcheggiata sull'altro lato della strada; le sembra che le pulsi negli occhi, densa come un mattone. Quando il telefono squilla, se potesse trarre fiato urlerebbe, se potesse sollevare le mani si coprirebbe le orecchie. Sente Harvey che si alza e va nell'angolo del telefono che squilla di nuovo e poi una terza volta. Hanno sbagliato numero, pensa. Dev'essere così, perché se racconti i tuoi sogni, allora non si avverano. Harvey dice: «Pronto?» Area di sosta Avrebbe potuto dire che in un punto imprecisato tra Jacksonville e Sarasota era stato protagonista di una versione letteraria della leggendaria trasformazione da cabina telefonica di Clark Kent, ma non avrebbe saputo dire dove o come. Dal che si deduceva che non era un fatto molto drammatico. Ma allora contava qualcosa?
Certe volte diceva a se stesso che la risposta era no, che quel binomio Rick Hardin/John Dykstra non era altro che un artifizio, un puro espediente commerciale, niente di diverso dal signor Archibald Bloggert (o comunque si chiamasse, che recitava con il nome di Cary Grant; o di Evan Hunter (che poi si chiamava Salvatore qualcosa) che scriveva come Ed McBain. Ed entrambi erano stati la sua ispirazione... assieme a Donald E. Westlake, che scriveva romanzi hard-boiled con lo pseudonimo di Richard Stark, e K.C. Constantine, che in realtà era... Be', nessuno lo sapeva sul serio, vero? Come nel caso del misterioso signor Bruno Traven, che aveva scritto Il tesoro della Sierra Madre. Nessuno lo sapeva veramente e il divertimento stava in gran parte proprio in questo. Nome, nome, cos'è mai un nome? Chi, per esempio, era lui nel suo viaggio bisettimanale di ritorno a Sarasota? Quando usciva dal Pot o'Gold a Jax, era Hardin, su questo non ci pioveva. E certamente era Dykstra quando entrava nella sua casa sul canale di Macintosh Road. Ma chi era sulla Route 75, mentre passava da un centro abitato all'altro sotto le luci forti dell'autostrada? Hardin? Dykstra? Nessuno dei due? C'era forse un momento magico in cui il licantropo letterario che faceva i dollaroni si ritrasformava nell'inoffensivo professore di inglese specializzato in poeti e romanzieri americani del ventesimo secolo? E contava forse qualcosa finché fosse stato in buona con Dio, il fisco e i giocatori di football che occasionalmente si iscrivevano a uno dei suoi due seminari? Niente di tutto quello contava a sud di Ocala. Ciò che contava era che, chiunque fosse, aveva bisogno di pisciare peggio di un cavallo da corsa. Al Pot o'Gold aveva ingollato due birre oltre il suo limite usuale (forse tre) e sulla Jaguar aveva regolato il controllo della velocità a cento, perché non aveva nessuna voglia di veder lampeggiare luci rosse nello specchietto retrovisore. Sarà stato anche vero che aveva pagato la Jaguar con i libri scritti firmandosi come Hardin, ma era come John Andrew Dykstra che conduceva la gran parte della sua esistenza e quello era il nome che sarebbe stato illuminato dalla torcia se gli avessero chiesto la patente. E se anche era stato Hardin ad aver bevuto le birre al Pot o'Gold, se un agente della stradale della Florida avesse tirato fuori il temuto etilometro nel suo scatolotto di plastica blu, sarebbero state di Dykstra le molecole intossicate a finire nelle viscere analitiche dello strumento. E in un giovedì sera di giugno sarebbe stato un bersaglio fin troppo facile, perché tutti gli svernatori se ne erano tornati nel Michigan e sulla I-75 c'era praticamente solo lui.
Con la birra c'era comunque un problema di fondo ben noto a qualunque studente: non la potevi comprare, ma solo affittare. Per fortuna c'era un'area di sosta una decina di chilometri a sud di Ocala, e lì si sarebbe alleggerito un po'. Però nel frattempo chi era? Di certo era arrivato a Sarasota sedici anni prima come John Dykstra ed era sotto quel nome che dal 1990 aveva insegnato inglese alla sede locale dell'Università della Florida. Poi, nel 1994, aveva deciso di rinunciare ai corsi estivi e si era buttato invece nella scrittura di un thriller. L'idea non era stata sua. A New York aveva un agente, non uno di quelli di grido, ma uno abbastanza onesto con un discreto palmarès, che era stato capace di vendere quattro dei racconti del suo nuovo cliente (sotto il nome Dykstra) a varie riviste letterarie che pagavano qualche centinaio di dollari. L'agente si chiamava Jack Golden e se da una parte teneva in alta considerazione i racconti, definiva con spregio i corrispondenti assegni «soldi per le sigarette». Era stato Jack a sottolineare come tutti i racconti che John Dykstra aveva pubblicato possedevano «una forte traccia narrativa» (che, per quel che Johnny poteva intuire, doveva essere la traduzione agentese di trama) e ad affermare che il suo nuovo cliente avrebbe potuto guadagnare dai quaranta ai cinquantamila dollari a botta scrivendo thriller di centomila parole. «Potresti farlo in una sola estate se trovassi un gancio dove appendere il cappello e ti ci buttassi anima e corpo», aveva detto a Dykstra per lettera (all'epoca non erano passati all'uso di telefono e fax). «E sarebbe il doppio di quanto guadagni con tuoi corsi a giugno e agosto all'Università delle Mangrovie. Se hai voglia di provarci, amico mio, il momento giusto è adesso, prima che ti ritrovi con una moglie e due virgola cinque figli.» Non c'erano mogli all'orizzonte a quei tempi (né ce ne era una adesso), ma Dykstra aveva seguito il consiglio di Jack; invecchiando lanciare i dadi diventa sempre più difficile. E una moglie e dei figli non sono le sole responsabilità che si assumono con il lento trascorrere degli anni. C'è per esempio l'insidia delle carte di credito. Le carte di credito ti incrostano lo scafo di conchiglie e ti rallentano. Le carte di credito sono emissari della normalizzazione e nemiche dell'azzardo. Quando, nel gennaio del '94, aveva ricevuto il contratto per il corso estivo, lo aveva restituito senza firmarlo al preside del dipartimento con una breve nota giustificativa: Ho pensato di dedicare quest'estate al tentativo di scrivere un romanzo. La risposta di Eddie Wasserman era stata benevola ma ferma: Mi sta be-
nissimo, Johnny, ma non ti posso garantire che il posto sia ancora disponibile l'estate prossima. La prelazione spetta sempre al titolare in carica. Dykstra ci aveva riflettuto, ma non per molto; ormai aveva un'idea. Meglio ancora, aveva un personaggio. Il Cane, padre letterario delle varie Jaguar e case in Macintosh Road, aspettava di nascere, e benedetto sia il cuore omicida del Cane. I suoi fari illuminarono la freccia bianca in campo blu e l'asfalto dello svincolo rischiarato dai lampioni ai vapori di sodio risplendeva come un palcoscenico. Azionò il lampeggiatore, rallentò e lasciò l'Interstatale. Poco più avanti la rampa si biforcava: mezzi pesanti e camper a destra. Gente su Jaguar avanti dritto. Cinquanta metri dopo il bivio c'era l'area di sosta, una costruzione bassa di laterizi beige altrettanto scenografica sotto la luce violenta. Che cosa sarebbe stato in un film? Una centrale missilistica? Ma sì. Una centrale missilistica in aperta campagna e il tizio al comando nasconde abilmente una malattia mentale (che però è degenerativa). Vede russi dappertutto, russi che spuntano dagli scarichi dei lavandini... oppure facciamo che siano terroristi di Al Qaeda, sarebbe probabilmente più sul pezzo. Ormai i russi non funzionavano più come potenziali cattivi, a meno che trafficassero droga o prostitute adolescenti. E comunque non è molto importante chi sia il cattivo, è tutta fantasia, fatto sta che al nostro uomo prude maledettamente il dito dalla voglia di schiacciare il bottone rosso e... E hai bisogno di pisciare, perciò, fai il bravo, metti da parte per un momento l'immaginazione, per piacere. E poi in una storia come quella non c'era posto per il Cane. Il Cane era piuttosto un guerriero urbano, come aveva spiegato proprio quella sera al Pot o'Gold. (Bella definizione, peraltro.) Eppure l'idea del comandante sciroccato del silo missilistico aveva un suo fascino, no? Un bell'uomo... amato dai suoi subalterni... apparentemente del tutto normale... A quell'ora nel vasto parcheggio c'era una sola altra vettura, una di quelle PT Cruiser che non mancavano mai di divertirlo: sembravano macchine giocattolo da gangster degli anni Trenta. Parcheggiò quattro o cinque posti più in là, spense il motore, poi indugiò per una rapida ispezione del parcheggio deserto prima di scendere. Non era la prima volta che si fermava in quella particolare area di sosta tornando a casa dal Pot e una volta aveva visto, tra divertimento e orrore, un alligatore che lo attraversava diretto alla pineta sul retro, nella sua andatura dondo-
lante, simile un po' a un anziano uomo d'affari sovrappeso che va a un incontro di lavoro. Nessun alligatore quella sera, così scese dalla macchina, alzando il telecomando e premendo il tasto che bloccava le portiere. Quella sera c'erano solo lui e il signor PT Cruiser. La Jag mandò un cinguettio ubbidiente e per un momento lui vide la propria ombra nel breve lampo degli abbaglianti... e di chi era quell'ombra? Di Dykstra o di Hardin? Di Johnny Dykstra, concluse. Hardin non c'era in quel momento, lo aveva lasciato una cinquantina di chilometri più indietro. Quella sera però era toccato a lui tenere il breve (e per lo più spassoso) discorsetto del dopocena agli altri Florida Thieves, e pensava che il signor Hardin se la fosse cavata egregiamente, finendo con la promessa di sguinzagliare il Cane alle calcagna di chiunque non avesse contribuito con generosità alla beneficenza annuale. (Quella volta toccava ai Sunshine Readers, un'istituzione nonprofit che forniva saggi e articoli su audiocassette a studenti non vedenti.) I suoi stivaletti da cowboy rintoccavano sulla pavimentazione del parcheggio. John Dykstra non avrebbe mai indossato jeans stinti e stivaletti da cowboy per un'apparizione in pubblico, specialmente quando l'oratore era proprio lui, ma Hardin era di un'altra razza. A differenza di Dykstra (che non era immune dalle pignolerie), a Hardin non importava molto di che cosa pensasse il prossimo del suo aspetto. La costruzione dell'area di sosta era divisa in tre sezioni: toilette per le signore a sinistra, toilette per gli uomini a destra e un grande portico al centro, dove ti potevi rifornire di brochure su svariate mete turistiche della Florida centrale e meridionale. C'erano anche distributori di merendine, due distributori di bibite e un distributore di carte stradali che pretendeva un numero ridicolo di monete da un quarto. Entrambi i lati dell'ingresso erano tappezzati da manifesti di bambini scomparsi che gli facevano sempre provare un brivido di gelo. Quanti dei bambini di quelle foto, si domandava ogni volta, erano sepolti nel terreno umido e sabbioso o erano finiti in pasto agli alligatori delle Glades? Quanti di loro stavano diventando grandi nella convinzione che i balordi che li avevano rapiti (e che di tanto in tanto abusavano di loro sessualmente o li cedevano a noleggio) fossero le loro madri e i loro padri? A Dykstra piaceva poco guardare i loro volti aperti e innocenti o considerare la disperazione che aveva generato quelle assurde cifre di ricompensa, diecimila, ventimila, cinquantamila dollari, e in un caso centomila (quest'ultima per una sorridente bambina dai capelli di stoppa di Fort Myers che era scomparsa nel 1980 e che ora sarebbe stata una donna sulla soglia della mezza età, se fosse stata ancora viva... cosa
che quasi certamente non era. C'era anche un avviso che informava il pubblico che era proibito frugare nel bidone dell'immondizia e un altro che dichiarava che trattenersi più a lungo di un'ora in quell'area di sosta era proibito: LA POLIZIA REGISTRA EVENTUALI VIOLAZIONI. E chi ha voglia di trattenersi qui? pensò Dykstra e ascoltò il vento notturno agitare le fronde delle palme. Un matto, ecco chi. Uno che avrebbe cominciato a guardare con crescente interesse un certo bottone rosso mentre i mesi e gli anni scorrevano ronfando nel rombo di un TIR sulla corsia di sorpasso all'una di notte. Stava per entrare nella toilette degli uomini quando fu bloccato da un'inattesa voce femminile alle sue spalle, leggermente distorta dall'eco ma maledettamente vicina. «No, Lee», disse. «Caro, no.» Poi uno schiaffo, seguito da un tonfo, un tonfo soffocato di un corpo che cade. Dykstra capì che stava ascoltando l'ordinaria colonna sonora di una violenza fisica. Gli sembrò di vedere lo stampo rosso della mano sulla guancia della donna e la sua testa, solo minimamente protetta dai capelli (biondi? bruni?), sbattere e rimbalzare sulle piastrelle beige del muro. La donna cominciò a piangere. Nella luce intensa delle lampade ai vapori di sodio Dykstra vide che gli si era accapponata la pelle delle braccia. Cominciò a morsicarsi il labbro inferiore. «Lurida troia.» La voce di Lee era piatta, enfatica. Difficile spiegare come si sappia immediatamente che è la voce di un ubriaco, perché ogni parola è perfettamente articolata. Però lo si sa, perché hai già sentito uomini parlare in quel modo, allo stadio, a una fiera, qualche volta attraverso le pareti sottili di un motel (o attraverso il soffitto) a notte inoltrata, quando la luna è tramontata e i bar sono chiusi. La metà femminile della conversazione - ma si può definirla conversazione? - era forse altrettanto ubriaca, ma il tono era per lo più quello di una donna impaurita. Dykstra era immobile nel piccolo vano dell'ingresso davanti alla porta della toilette degli uomini, con la schiena rivolta alla coppia in quella delle signore. Era nell'ombra, circondato dai ritratti di bambini scomparsi che frusciavano lievi, come le fronde delle palme, nella brezza notturna. Era fermo lì ad aspettare, sperando che non ci fosse un seguito. Ma naturalmente ci fu. Gli tornarono alla mente le parole di un cantante country, illogiche e sinistre: «Quando finalmente ho scoperto di non valere niente, ero troppo ricco per smettere».
Ci fu un altro schiocco seguito da un altro grido della donna. Ci fu una pausa di silenzio e poi di nuovo la voce dell'uomo e dalla pronuncia fu chiaro che, oltre che ubriaco, era anche di modesta cultura. Erano molte le cose che si sapevano di lui, per la verità: che al liceo, durante le lezioni di inglese, sedeva in fondo all'aula, che beveva il latte direttamente dal cartone quando tornava a casa da scuola, che aveva mollato gli studi al primo o al secondo anno delle superiori, che faceva uno di quei lavori per cui bisogna indossare i guanti e portare un temperino multiuso nella tasca posteriore. Non bisognerebbe lasciarsi andare a generalizzazioni di questo genere, era come affermare che tutti gli afroamericani hanno un senso naturale del ritmo, o che tutti gli italiani piangono ascoltando un'opera lirica, ma lì, al buio e alle undici di sera, circondato dai manifesti di bambini scomparsi, chi sa poi perché sempre stampati su carta rosa, come se fosse il colore della scomparsa, sapevi che era così. «Piccola lurida troia.» Ha le lentiggini, pensò Dykstra. E si scotta facilmente al sole. La scottatura lo fa sembrare sempre incazzato e di solito lo è. Beve Kahlua quando è in grana, come si suol dire, ma soprattutto beve b... «No, Lee.» Ora lo stava implorando, piangeva, e Dykstra pensò: Non lo faccia, signora. Non sa che così peggiora solo la situazione? Non sa che lui vede il muco che le scende dal naso e s'incazza ancora di più? «Non picchiarmi più, sono...» Ciaff! Fu seguito da un altro tonfo e da un grido acuto, quasi un guaito, di dolore. Il buon signor PT Cruiser l'aveva colpita di nuovo tanto forte da farle sbattere la testa contro il muro piastrellato del bagno, e come faceva quella vecchia battuta? Perché ogni anno in America ci sono trecento casi di violenza coniugale? Perché si ostinano a non darti retta... 'ste stronze. «Lurida troia.» Tale era la sacra scrittura scelta da Lee per quella sera, direttamente tratta dal Secondo Ubriacanone e quello che faceva paura nella sua voce - quello che Dykstra trovava assolutamente terrificante - era l'assenza di emozioni. La collera sarebbe stata meglio. La collera sarebbe stata meno pericolosa per la donna. La collera era come un vapore infiammabile. S'incendia con una scintilla e si consuma in un singolo palpito rutilante, ma quell'individuo era solo... risoluto. Non l'avrebbe picchiata di nuovo per poi chiederle scusa, magari scoppiando a piangere. Forse lo aveva fatto altre volte, ma non quella sera. Quella sera tirava dritto fino in fondo. Madonna immacolata fammi vincere questa puntata.
E allora io cosa faccio? Che posto ho in questa faccenda? Ne ho uno? Poco ma sicuro non sarebbe entrato in un gabinetto per abbandonarsi a quella lunga e languida pisciata che aveva avuto in mente e pregustato; i testicoli gli si erano ritratti come due sassolini e la pressione nei lombi gli si era diffusa nel corpo salendo per la schiena e scendendo nelle gambe. Il cuore gli correva nel petto, pulsava a un ritmo di trotto veloce che sarebbe probabilmente diventato galoppo al suono del prossimo schiaffo. Sarebbe passata un'ora o più prima che potesse pisciare di nuovo, per quanto impellente fosse stato il bisogno fino a un attimo prima, e lo avrebbe fatto in una serie di piccoli zampilli insoddisfacenti. E, Dio, quanto avrebbe preferito che quell'ora fosse già trascorsa, che si trovasse già a cento chilometri da lì! Che cosa farai se la picchierà di nuovo? Poi si pose un'altra domanda: che cosa avrebbe fatto se la donna fosse scappata e il signor PT Cruiser l'avesse inseguita? C'era solo una via di uscita dalla toilette delle signore e John Dykstra era proprio nel mezzo. John Dykstra negli stivaletti da cowboy che Rick Hardin aveva calzato a Jacksonville, dove una volta ogni due settimane un gruppo di scrittori di gialli - in gran parte donne corpulente in completi giacca e pantaloni color pastello - si riunivano per discutere di tecniche, agenti e vendite, nonché per scambiarsi pettegolezzi. «Lee-Lee, non farmi del male. Ti prego, non farmi male. Non fare male al bambino.» Lee-Lee. Gesù benedetto. Oh, e un'altra ancora, segna un altro punto. Il bambino. Non fare male al bambino. Benvenuti a Vita in diretta. Sentì il cuore in corsa che gli sprofondava di mezza spanna nel petto. Gli sembrava di essere fermo in quello spazio ristretto tra la toilette degli uomini e quella delle donne da almeno una ventina di minuti, ma quando guardò l'orologio non si stupì di vedere che non erano passati nemmeno quaranta secondi dal primo schiaffo. Era la natura soggettiva del tempo in concomitanza con la velocità sovrannaturale del pensiero quando la mente veniva messa improvvisamente sotto pressione. Chissà quante volte ne aveva scritto lui stesso. Dovevano averlo fatto quasi tutti i cosiddetti scrittori di thriller. Era un elemento base. La prossima volta che fosse toccato a lui parlare ai Florida Thieves, forse lo avrebbe usato come argomento e avrebbe cominciato raccontando di quell'incidente. E di come avesse avuto modo di pensare: Secondo Ubriacanone. Ma forse era un racconto un tan-
tino pesantuccio per le loro riunioni bisettimanali, un tantino... Il corso dei suoi pensieri fu interrotto da una perfetta gragnuola di colpi. Lee-Lee aveva rotto gli argini. Dykstra ascoltò il particolare rumore di quei colpi con lo sgomento di una persona che capisce di sentire un suono che non scorderà mai, non gli effetti speciali sonori di un film, bensì il rumore di pugni che colpiscono un cuscino di piume, sorprendentemente leggero, addirittura quasi delicato. La donna gridò una volta di sorpresa e una volta di dolore. Dopodiché le sue esternazioni si ridussero a gemiti ansimanti di dolore e paura. Fuori, nel buio, Dykstra pensò ai vari spot visti in televisione su come prevenire gli atti di violenza domestica. Nessuno che avesse previsto una situazione come quella, dove sentivi il vento tra le palme da un orecchio (e il fruscio dei manifesti dei bambini scomparsi, non dimentichiamolo) e nell'altro quei lamenti sommessi di dolore e paura. Udì passi strascicati sul pavimento di piastrelle e capì che Lee (Lee-Lee, lo aveva chiamato lei, come se un vezzeggiativo avesse potuto stemperare la sua ira) si stava facendo sotto. Come Rick Hardin, Lee portava gli stivaletti. I Lee-Lee di questo mondo erano tendenzialmente uomini da Georgia Giant. Erano Dingo Man. Lei portava scarpe da ginnastica, bianche e con il collo basso. Lo sapeva. «Puttana, lurida puttana, ti ho visto che parlavi con lui, che gli sbattevi le tette in faccia, lurida troia...» «No, Lee-Lee, io non ho mai...» Lo schiocco di un altro colpo e poi un'espettorazione rauca che non era né maschio né femmina. Un conato. L'indomani chi fosse venuto a pulire quei gabinetti avrebbe trovato del vomito rappreso sul pavimento e su una delle pareti piastrellate nella toilette delle signore, quando ormai Lee e la sua consorte o fidanzata sarebbero stati ben lontani, e per l'inserviente sarebbe stata solo l'ennesima porcheria da dover tirar su, un vomito che aveva dietro di sé una storia oscura e di scarso interesse, e Dykstra che cosa doveva fare? Gesù, aveva il fegato di entrare in quel bagno? Se non lo avesse fatto, c'era il rischio che Lee la finisse a suon di botte e buonanotte al secchio, ma se si fosse intromesso uno sconosciuto... Potrebbe ammazzarci tutti e due. Ma... Il bambino. Ti prego non fare male al bambino. Dykstra serrò i pugni e pensò: Fottuta Vita in diretta! La donna stava vomitando ancora. «Piantala, Ellen.»
«Non posso!» «Ah no? Benissimo. Te la faccio piantare io. Lurida... troia.» Un altro ciaff! Un troia esclamativo. Il cuore di Dykstra sprofondò un po' più giù. Non lo avrebbe mai creduto possibile. Di lì a poco se lo sarebbe sentito pulsare nella pancia. Se solo avesse potuto evocare il Cane! In una storia avrebbe funzionato e lui si stava addirittura baloccando sulla questione delle identità prima di commettere il più grande errore della serata fermandosi in quell'area di sosta, e se non era quello che i manuali definivano presentimento, che cos'era? Sì, si sarebbe trasformato nel suo killer, sarebbe entrato in quel bagno, avrebbe pestato Lee a sangue e ripreso tranquillamente la sua strada. Come Shane in quel vecchio film con Alan Ladd. La donna vomitò di nuovo, il rumore di una macchina che riduce le pietre in ghiaia, e Dykstra capì che non avrebbe evocato il Cane. Il Cane era un personaggio di fantasia. Lui si trovava davanti alla realtà, sbattutagli in faccia come la lingua di un ebbro. «Fallo di nuovo e vedi che ti succede», la invitò Lee e adesso nella sua voce c'era qualcosa di micidiale. Si stava preparando ad andare fino in fondo. Dykstra ne fu certo. Testimonierò in tribunale. E quando mi chiederanno che cosa ho fatto per impedirglielo, risponderò che non ho fatto niente. E dirò di aver ascoltato. Di aver memorizzato. Che ero un testimone. E poi spiegherò che è così che fanno gli scrittori quando non stanno scrivendo. Pensò di tornare di corsa alla Jaguar - senza far rumore! - e usare il telefono di bordo per chiamare la polizia. *99, tutto lì. A intervalli di una quindicina di chilometri c'erano i cartelli che te lo ricordavano: IN CASO DI INCIDENTE COMPONETE *99 SUL CELLULARE. Peccato che, quando ne avevi bisogno, mai che si vedesse un distintivo. Quella sera il poliziotto più vicino sarebbe stato a Brandenton o magari a Ybor City, e ora che fosse arrivato, quel piccolo rodeo di sangue sarebbe stato bell'e che finito. Ora dalla toilette delle signore giunse una serie di singhiozzi convulsi, inframmezzati da conati repressi. La porta di uno dei box sbatté. La donna sapeva bene quanto Dykstra che Lee faceva sul serio. Probabile che se avesse vomitato di nuovo lo avrebbe spinto oltre il confine. Le si sarebbe avventato addosso come un pazzo e l'avrebbe finita. E se lo avessero preso? Secondo grado. Niente premeditazione. Sarebbe stato fuori in quindici mesi a fare la corte a sua sorella.
Torna alla macchina, John. Torna alla macchina. Mettiti al volante e fila via. Comincia a entrare nell'ordine di idee che tutto questo non è mai successo. E guardati dal leggere il giornale o seguire i notiziari per almeno un paio di giorni. Servirà. Fallo. Fallo subito. Sei uno scrittore, non un pugile. Sei alto un metro e settantacinque, pesi settantacinque chili, hai una spalla malandata e l'unica cosa che puoi fare qui è peggiorare la situazione. Perciò tornatene in macchina e invia una piccola preghiera al dio che protegge le donne come Ellen. Ed effettivamente si girò prima che gli balenasse un'idea. Il Cane non era reale. Ma Rick Hardin sì. Ellen Whitlow di Nokomis era caduta in uno dei box della toilette ed era finita sulla tazza a gambe spalancate e con la sottana sollevata, giusto da quella troia che era, e Lee era entrato con lei, con l'intenzione di prenderla per le orecchie e cominciare a sbatterle quella testa vuota contro le piastrelle. Ne aveva abbastanza. Le avrebbe impartito una lezione che non avrebbe più dimenticato. Non che questi pensieri attraversassero la sua mente con qualche coerenza. Quello che c'era in quel momento, nella sua mente, era soprattutto rosso. Sopra, sotto, e infiltrata, c'era una voce cantilenante che somigliava a quella di Steven Tyler degli Aerosmith: Non sei più il mio tesoro, non sei mio, non sei mio, non me l'appioppi a me, lurida troia. Fece tre passi e fu allora che da poco distante giunse il belato ritmico di un clacson a guastargli il ritmo, a incrinare la sua concentrazione, a risucchiarlo fuori della sua testa, a spingerlo a girarsi: Bemp! Bemp! Bemp! Bemp! Antifurto, pensò, e spostò lo sguardo dalla porta del bagno alla donna seduta nel box. Dalla porta alla troia. Indeciso, cominciò a chiudere i pugni. All'improvviso puntò su di lei l'indice sinistro, con un'unghia lunga e nera. «Muoviti e sei morta, stroma», le disse e andò alla porta. Il gabinetto era ben illuminato e quasi altrettanto bene illuminato il parcheggio, ma il vano tra le due ali era buio. Per un momento non ci vide più e fu allora che qualcosa lo colpì nella parte alta della schiena, proiettandolo in avanti in una corsa scoordinata che durò solo due passi prima che inciampasse su qualcosa - una gamba - e finisse lungo e disteso sul cemento. Non ci fu pausa, nessuna esitazione. La punta di uno stivale lo colpì alla coscia congestionandogli il muscolo più lungo e poi più su, sul sedere,
quasi all'attaccatura della schiena. Cominciò a strisciare... «Non ti girare, Lee», lo ammonì una voce. «Ho in mano una leva da cerchioni. Resta così come sei o ti spacco la testa.» Lee restò così com'era con le mani protese davanti a sé che quasi si toccavano. «Venga fuori da lì, Ellen», chiamò l'uomo che lo aveva colpito. «Non abbiamo tempo da perdere. Venga subito fuori.» Ci fu una pausa. Poi la voce della troia, tremante e impastata: «Gli ha fatto male? Non gli faccia del male!» «Sta bene, ma se non viene fuori subito, gli faccio un male della madonna. Sarò costretto.» Una pausa, poi: «E sarà colpa sua». Intanto il clacson della macchina belava insistente nella notte: Bemp! Bemp! Bemp! Bemp! Lee cominciò a girare la testa. Gli doleva. Con che cosa cazzo lo aveva colpito? Aveva parlato di una leva per cerchioni? Non ricordava bene. Lo stivale lo scalciò di nuovo nel sedere. Lee gridò e schiacciò di nuovo la faccia per terra. «Venga fuori, signora, se no gli apro la testa! Non ho scelta!» Quando lei parlò di nuovo, era più vicina. Smozzicava un po' le parole, ma ora il tono tendeva all'indignazione: «Perché lo ha fatto? Non doveva farlo!» «Ho chiamato la polizia», disse l'uomo in piedi sopra Lee. «C'era un agente della stradale al chilometro 210. Perciò abbiamo dieci minuti, forse qualcosa meno. Signor Lee-Lee, ha lei le chiavi della macchina?» Lee dovette pensarci. «Ce le ha lei», rispose alla fine. «Ha detto che ero troppo ubriaco per guidare.» «Va bene, Ellen, lei vada fuori, salga su quella PT Cruiser e se ne vada. Continui ad andare fino a Lake City e se ha anche solo quel briciolo di cervello che Dio ha regalato a un'oca, non si fermerà nemmeno lì.» «Non me ne vado senza di lui!» Ora sembrava davvero in collera. «Non finché lei ha quel coso in mano!» «Sì che va. Va subito o io questo lo riduco una poltiglia.» «Sta bluffando!» L'uomo rise e fu un suono che spaventò Lee più di quando l'aveva sentito solo parlare. «Conterò fino a trenta. Se non ha lasciato quest'area di sosta verso sud prima che abbia finito, gli stacco di netto la testa dal collo. Gliela faccio partire come una pallina da golf.»
«Non può...» «Fai come ti dice, Ellie. Fallo, tesoro.» «Ha sentito», disse l'uomo. «Il tuo amabile orsacchiotto vuole che te ne vada. Se hai voglia che finisca di massacrarti di botte domani sera, te e il bambino, a me sta bene. Domani sera io non ci sarò. Ma ora come ora mi sono rotto il cazzo di stare a discutere con te, perciò metti in moto quel culo idiota.» Quello era un ordine che comprese bene, espresso in un linguaggio che le era familiare, e Lee vide le sue gambe nude e i suoi sandali passare nel suo ridotto campo visivo. L'uomo che lo aveva atterrato cominciò a contare a voce alta: «Uno, due, tre, quattro...» «Porco cane, muoviti!» strillò Lee e si prese un'altra pedata nel culo, questa volta meno violenta, che lo fece sobbalzare senza straziarlo. Ma gli fece male lo stesso. Intanto, nella notte: Bemp! Bemp! Bemp! «Metti in moto il culo!» Al che i sandali della donna cominciarono a correre. L'ombra corse accanto a lei. L'uomo era arrivato a venti quando il piccolo motore da macchina per cucire della PT Cruiser si avviò ed era giunto a trenta quando Lee vide i fanalini di coda muoversi nel parcheggio. Aspettò che l'uomo cominciasse a spaccargli la testa e provò sollievo quando non accadde. Poi la PT Cruiser imboccò l'uscita e il motore cominciò ad affievolirsi, dopodiché l'uomo in piedi dietro di lui parlò con una certa perplessità. «Ora», disse l'uomo che lo aveva atterrato, «che cosa devo fare di te?» «Non mi faccia del male», lo pregò Lee. «Non mi faccia del male, signore.» Quando i fanalini di coda della PT Cruiser scomparvero, Hardin si passò la leva da una mano all'altra. Aveva i palmi sudati e quasi gli sfuggì dalle dita. Brutta cosa sarebbe stata. Se l'avesse lasciata cadere, avrebbe fatto un bel po' di rumore colpendo il cemento e Lee sarebbe scattato in piedi in un lampo. Non era forzuto come Dykstra aveva immaginato, ma era pericoloso. Lo aveva già dimostrato. Certo, pericoloso per le donne incinte. Ma quello non era il modo giusto di pensare. Se avesse consentito a LeeLee di alzarsi in piedi la partita da giocare sarebbe stata completamente diversa. Sentiva Dykstra che cercava di riemergere spinto dal desiderio di discutere di questa e forse alcune altre questioni. Hardin lo respinse. Non erano né tempo né luogo per un insegnante d'inglese.
«Non mi faccia male», disse l'uomo per terra. Portava gli occhiali. Quella era stata una sorpresa non da poco. Mai e poi mai né Hardin né Dykstra lo avevano visto con gli occhiali. «Non mi faccia del male, signore.» «Ho un'idea. Togliti gli occhiali e posali per terra.» «Perché?...» «Risparmia il fiato e fai come ti ho detto.» Lee, che indossava un paio di Levi's stinti e una camicia stile western (che gli si era sfilata dai calzoni e adesso gli pendeva sul sedere), cominciò a togliersi gli occhiali dalla montatura di metallo con la mano destra. «No, fallo con l'altra.» «Perché?» «Non fare domande. Ubbidisci e basta. Togliteli con la sinistra.» Lee si tolse la delicata montatura e la posò sul cemento. Immediatamente Hardin la schiacciò sotto il tacco dello stivaletto. Si udì uno schiocco e il delizioso stridio del vetro sgretolato. «Perché lo ha fatto?» esclamò Lee. «Secondo te, perché? Hai una pistola o altro del genere?» «No! Gesù, no!» E Hardin gli credette. Al limite avrebbe potuto avere uno scaccialligatori nel bagagliaio della PT Cruiser. Ma non gli sembrava probabile neppure quello. Fermo fuori della toilette delle signore, Dykstra si era immaginato un omone, un muratore tutto muscoli. Costui sembrava piuttosto un contabile che andava a sbanfare tre volte alla settimana alla Gold's Gym. «Credo che adesso io tornerò alla mia macchina», annunciò Hardin. «Spengo l'antifurto e me ne vado.» «Sì. Sì, perché non lo fai...» Hardin gli posò nuovamente sul sedere un piede di avvertimento, questa volta facendogli dondolare le natiche un po' più energicamente. «Tu perché non chiudi un po' il becco? Che cosa ti eri messo in mente di fare là dentro, comunque?» «Darle una fottuta le...» Hardin lo scalciò nel fianco mettendoci quasi tutta la forza che aveva e trattenendosi un pochino solo all'ultimo istante. Ma non più di un pochino. Lee proruppe in un grido di dolore e paura. Hardin restò sgomento per quello che aveva appena fatto e per come lo aveva fatto, assolutamente senza pensarci. A sgomentarlo ancora di più fu il desiderio di farlo di nuovo e con maggior forza. Quel grido di dolore e paura gli aveva preso bene. Gli andava di sentirlo di nuovo.
Allora, quanto era distante da Lee-Cacatoio ora che Lee-Pavimento era lungo disteso lì davanti con l'ombra del vano dell'ingresso che gli attraversava la schiena in una nitida diagonale nera? Non molto. E allora? Era una domanda noiosa, una domanda da film della settimana. Gliene sovvenne una molto più interessante. La seguente: quanto forte sarebbe stato capace di tirare un calcio all'orecchio sinistro del buon Lee-Lee senza sacrificare la precisione per la potenza? Dritto all'orecchio, ta-pum. Si chiese anche che rumore avrebbe fatto. Un rumore soddisfacente, immaginava. Naturalmente così facendo avrebbe potuto anche ucciderlo, ma sarebbe stata forse una gran perdita per il mondo? E chi lo avrebbe mai saputo? Ellen? Vada a fare in culo. «Meglio che chiudi la bocca, amico mio», lo ammonì Hardin. «Non c'è niente di meglio che potresti fare in questo momento. Tenere la bocca chiusa. E quando arriverà il poliziotto, potrai raccontargli quel cazzo che vuoi.» «Perché non va via? Perché non se ne va e mi lascia stare? Mi ha rotto gli occhiali, non le basta?» «No», rispose Hardin con sincerità. Rifletté per un secondo. «Sai una cosa?» Lee non gli chiese cosa. «Camminerò piano fino alla mia macchina. Tu alzati e vienimi dietro se ti va. Ce la vediamo faccia a faccia.» «Sì, bravo!» rise Lee con le lacrime agli occhi. «Senza occhiali non vedo un tubo!» Hardin si spinse i propri su per il naso. Non aveva più bisogno di pisciare. Ma che stranezza! «Guardati», disse. «Datti un'occhiata.» Lee doveva aver colto qualcosa nella sua voce, perché, nella luce argentea della luna, Hardin lo vide cominciare a tremare. Ma non disse niente, cosa probabilmente saggia date le circostanze. E l'uomo in piedi dietro di lui, che non era mai stato coinvolto in una rissa in tutta la sua vita, nemmeno al liceo, e nemmeno alle elementari, capì che era veramente finita. Se Lee fosse stato armato, avrebbe forse cercato di sparargli alla schiena mentre si allontanava. Altrimenti... no. Lee era... come si diceva? Impecorito. Il buon Lee-Lee era impecorito. Hardin ebbe un'ispirazione. «Ho il tuo numero di targa», disse. «E so come ti chiami. Tu e lei. Leggerò i giornali, coglione.» Niente da parte di Lee. Era disteso bocconi con gli occhiali fracassati che ammiccavano nel chiar di luna.
«Buonanotte, coglione», lo salutò Hardin. Tornò alla macchina e ripartì. Shane su una Jaguar. Guidò serafico per dieci minuti, forse quindici. Abbastanza per provare la radio e decidere poi per Lucinda Williams nel lettore di CD. Poi, tutt'a un tratto, si ritrovò lo stomaco in gola, ancora pieno del pollo e patate che aveva mangiato al Pot o'Gold. Accostò nella corsia d'emergenza, fermò la Jag, fece per scendere e si rese conto che non aveva più tempo. Così si sporse ancora trattenuto dalla cintura di sicurezza e vomitò sull'asfalto di fianco allo sportello. Tremava dalla testa ai piedi. Gli battevano i denti. Spuntarono dei fari che vennero verso di lui. Rallentarono. Il primo pensiero di Dykstra fu che fosse un poliziotto, finalmente un poliziotto. Sbucavano sempre quando non ne avevi bisogno, quando non li volevi. Il suo secondo pensiero, o per meglio dire una gelida certezza, fu che fosse la PT Cruiser, con Ellen al volante e Lee-Lee seduto accanto a lei, ora con una leva per cerchioni - lui, adesso - posata sulle ginocchia. Invece era solo una vecchia Dodge piena di giovani. Uno di loro, un ragazzo dall'aria idiota che probabilmente aveva i capelli rossi, sporse la luna brufolosa che aveva per faccia dal finestrino e urlò: «Attento a non vomitarti anche l'anima!» Ci furono delle risa e l'auto accelerò allontanandosi. Dykstra chiuse lo sportello, appoggiò la nuca allo schienale, chiuse gli occhi e aspettò che i tremiti diminuissero. Dopo un po' si sentì meglio e lo stomaco tornò al suo posto. Sentì di aver di nuovo bisogno di pisciare e lo prese come un buon segno. Ripensò alla voglia che gli aveva preso di sferrare un calcio all'orecchio di Lee-Lee - quanto forte? che rumore? - e si sforzò di scacciare l'idea dalla mente. Pensarci gli faceva tornare il voltastomaco. Il posto dove andò a rifugiarsi la sua mente (quasi sempre ubbidiente) fu quel silo missilistico laggiù a Lonesome Crow, North Dakota (o magari era Dead Wolf, Montana). A quel comandante che zitto zitto stava andando via di cervello. Vedeva terroristi sotto tutti i cespugli. Accumulava nel suo armadietto personale libelli sgrammaticati, passava troppe lunghe serate davanti al video del computer a esplorare i più reconditi vicoli paranoici del web. E forse il Cane è in viaggio per la California per un lavoretto... in macchina invece che in aereo perché nel bagagliaio del suo Plymouth Road Runner ha un paio di armi un po' speciali... e la sua macchina ha un gua-
sto... Sicuro. Sicuro, molto buono. O poteva diventarlo, a lavorarci un po'. Aveva forse dato per scontato che il vasto e deserto cuore dell'entroterra americano non fosse posto per il Cane? Siamo di vedute alquanto ristrette, eh? Perché date le circostanze giuste, chiunque può ritrovarsi dovunque a fare qualunque cosa. I tremori erano passati. Dykstra ripartì. A Lake City trovò una stazione di servizio aperta tutta notte con annesso negozietto e lì si fermò a svuotare la vescica e a fare il pieno (dopo aver controllato che non ci fosse la PT Cruiser nel parcheggio o a una delle pompe.) Poi arrivò fino a casa, pensando i suoi pensieri da Rick Hardin, ed entrò nella sua abitazione di John Dykstra sul canale. Inseriva sempre l'allarme prima di uscire - era una prudenza ragionata - e lo disattivò prima di reinserirlo per il resto della notte. Cyclette 1. Lavoratori metabolici A una settimana dal check-up che aveva rimandato per un anno (per la verità gli anni erano stati tre, come avrebbe puntualizzato sua moglie se fosse stata ancora viva), Richard Sifkitz fu invitato dal dottor Brady a visionare e discutere i risultati. Non avendo avvertito niente di apertamente sinistro nella voce del medico, il paziente accettò abbastanza volentieri. I risultati erano espressi in valori numerici su un foglio con l'intestazione METROPOLITAN HOSPITAL, New York. Definizioni e numeri erano tutti in nero eccetto che per una riga. Quella riga era in rosso e Sifkitz non si sorprese più che tanto nel constatare che stava sotto alla voce COLESTEROLO. Il numero, che spiccava davvero in quell'inchiostro rosso (e tale era indubbiamente l'intenzione) diceva 226. Quando già stava per domandare se fosse un valore brutto, Sifkitz chiese invece a se stesso se volesse dare inizio al suo colloquio con una domanda stupida. Se fosse stato un valore buono non lo avrebbero stampato in rosso, rifletté. Tutti gli altri erano senza dubbio numeri buoni, o almeno accettabili, motivo per il quale erano stampati in nero. Ma non era lì per discuterne. I medici hanno poco tempo da perdere e sono poco inclini a sprecarlo in complimenti. Così invece di qualcosa di stupido, chiese quanto brutto fosse il numero duecentoventisei. Il dottor Brady si appoggiò allo schienale della sua poltrona e si intrec-
ciò le dita sul torace dannatamente magro. «A dirle la verità», rispose, «non è affatto un numero brutto.» Alzò un dito. «Considerato quello che mangia, s'intende.» «So di pesare troppo», ribatté umilmente Sifkitz. «Avevo in mente di prendere dei provvedimenti.» Cosa che in realtà non aveva avuto in mente affatto. «Per continuare sul filo della verità», proseguì il dottor Brady, «neanche il suo peso è così malaccio. Anche questa volta in considerazione di quello che mangia. E adesso voglio che mi ascolti bene, perché questa è una conversazione che tengo con i miei pazienti una volta sola. I miei pazienti maschi, s'intende. Quando l'argomento è il peso, le mie pazienti femmine sono capaci di intontirmi di chiacchiere, se lascio fare a loro. È pronto?» «Sì», rispose Sifkitz tentando a sua volta di intrecciarsi le dita sul petto e scoprendo di non riuscirci. Ciò che scoprì - o riscoprì, per essere più precisi - fu che aveva un gran bel paio di tette. E, a quel che gli risultava, non rientravano nell'equipaggiamento standard di un uomo non ancora quarantenne. Abbandonò il tentativo di intrecciare le dita e si accontentò di posarsi una mano sull'altra. In grembo. Prima avesse avuto inizio la ramanzina, prima sarebbe finita. «Lei è alto un metro e ottantatré e ha trentotto anni», cominciò il dottor Brady. «Dovrebbe pesare ottantasei chili e il suo colesterolo dovrebbe essere a centonovanta. In passato, negli anni Settanta, le avrebbero dato per buono un valore di colesterolo di duecentoquaranta, ma naturalmente negli anni Settanta si fumava ancora nelle sale d'aspetto degli ospedali.» Scosse la testa. «No, la correlazione tra colesterolo alto e problemi cardiaci era semplicemente troppo evidente. Di conseguenza il duecentoquaranta è stato abbassato. «Lei è una di quelle persone con la fortuna di avere un buon metabolismo. Fantastico no, sia inteso, ma buono? Sì. Quante volte alla settimana va a mangiare al fast food, Richard? Due?» «Una, forse», rispose Sifkitz. Intanto pensava che mediamente, in sette giorni, ci andava dalle quattro alle sei volte. Senza contare i saltuari pranzi al ristorante al sabato o alla domenica. Il dottor Brady levò una mano come a dire: «Come preferisce...» «Comunque da qualche parte va a mangiare, come ci racconta la bilancia. Il giorno del suo check-up pesava centoun chilogrammi.» Abbozzò un sorriso alla smorfia di Sifkitz, ma almeno non fu un sorriso privo di comprensione.
«Le spiego come è andata finora nella sua vita da adulto», proseguì Brady. «In questo lasso di tempo lei ha continuato a mangiare come quando era adolescente e fino a questo punto il suo organismo, grazie a quel metabolismo buono sebbene non straordinario, ha tenuto botta. È utile a questo punto immaginare il processo metabolico come una squadra di lavoratori. Uomini in abiti da lavoro e scarpe grosse.» Sarà utile a lei, pensò Sifkitz, ma a me non dice niente. Intanto i suoi occhi continuavano a tornare a quel numero in rosso, quel 226. «Il loro compito è prendere in consegna la roba che lei incamera e smistarla. Una parte, la inviano a vari reparti di produzione. Il resto, lo bruciano. Se rifila loro più di quello che sono in grado di gestire, lei mette su peso. Cosa che in effetti ha fatto, ma a un ritmo relativamente lento. Presto però, se non opera qualche cambiamento, vedrà che quel ritmo accelera. Ci sono due ragioni. La prima è che gli impianti di produzione del suo organismo hanno bisogno di meno carburante di prima. La seconda è che la sua squadra metabolica - quei tizi in abiti da lavoro con le braccia tatuate - non stanno ringiovanendo. Non sono più così efficienti come in passato. Sono diventati più lenti nel separare quello che deve essere utilizzato e quello che bisogna bruciare. E ogni tanto mugugnano.» «Mugugnano?» chiese Sifkitz. Il dottor Brady, con le dita sempre intrecciate sul petto magro (da tisico, giudicò Sifkitz, zero tette, poco ma sicuro), annuì muovendo la testa non meno magra. Sifkitz pensò che era quasi la testa di un furetto, a punta e con gli occhietti penetranti. «Eh, già. Dicono cose come: 'Ma questo non si dà mai una calmata?' e 'Ma per chi ci ha presi, per i supereroi della Marvel?' e 'Madonna, ma questo non si ferma mai?' E uno di loro, il più lavativo, perché in tutte le squadre di lavoro ce n'è uno, dice probabilmente: 'E che cazzo volete che gliene freghi di noi? È lui che comanda, no?' «E presto o tardi faranno quello che fanno tutti i lavoratori di questo mondo quando sono costretti a tirare la carretta troppo a lungo e con un carico troppo pesante senza mai uno schifo di weekend di riposo, men che meno una vacanza pagata: sbracheranno. Cominceranno a scherzare e a prendere sottogamba il lavoro. Un giorno uno di loro non si presenterà nemmeno e poi ne arriverà un altro, se lei vivrà abbastanza a lungo, quando uno di loro non potrà presentarsi nemmeno se volesse, perché è a casa morto stecchito per un ictus o un infarto.» «Molto simpatico. Potrebbe anche usarlo per un giro di conferenze. Andare anche in TV, magari.»
Il dottor Brady aprì le dita e si sporse in avanti sulla scrivania. Fissò Richard Sifkitz senza sorridere. «Lei ha una scelta da fare», disse, «e il mio compito è farglielo presente, nient'altro. O lei cambia le sue abitudini o di qui a dieci anni si ritroverà nel mio studio con qualche problema grave, ormai in viaggio verso il quintale e mezzo, con un diabete di tipo due, vene varicose, ulcera allo stomaco e un tasso di colesterolo che si aggira sui trecento. Oggi può ancora cambiare regime senza diete da fame, addominoplastica o un infarto che richiami la sua attenzione. Più avanti diventerà più difficile. Oltre i quaranta diventa più difficile ogni anno che passa. Dopo i quaranta, Richard, la ciccia ti si incolla al culo come la cacca dei bambini al pavimento.» «Elegante», commentò Sifkitz e scoppiò a ridere. Non seppe resistere. Brady non rise, ma almeno sorrise e tornò ad appoggiarsi allo schienale. «Non c'è niente di elegante là dov'è diretto lei. I dottori di solito non ne parlano più di quanto un poliziotto della stradale parlerebbe della testa mozzata trovata nel fossato sul luogo di un incidente, o del bambino carbonizzato trovato nel ripostiglio il giorno dopo che le decorazioni dell'albero di Natale hanno preso fuoco e hanno incendiato la casa, ma sappiamo molte cose del mondo meraviglioso dell'obesità, dalle donne con la muffa nelle pieghe del grasso perché non riescono a lavarsi fino in fondo agli uomini che vanno in giro in una nuvola di puzza organica perché sono più di dieci anni che non arrivano a pulirsi il culo come si deve.» Sifkitz fece una smorfia e scacciò l'immagine con un gesto della mano. «Non sto dicendo che quello sia necessariamente il suo capolinea, Richard - la maggior parte delle persone non si riduce così, sembra che abbiano una specie di limitatore congenito - ma c'è della verità in quel vecchio detto sul tizio che scava la propria fossa con cucchiaio e forchetta. Lo terrà a mente?» «Sì.» «Bene. Questo era il discorso. O il sermone. O come preferisce. Non le dirò di andare per la sua strada e di non peccare più, mi limiterò a dirle: 'Ora tocca a lei'.» Sebbene da dodici anni a quella parte avesse compilato con le parole ARTISTA FREELANCE la casella OCCUPAZIONE sulla sua dichiarazione dei redditi, Sifkitz non si considerava dotato di particolare immaginazione e non aveva dipinto un solo quadro (e neppure un disegno, per la verità) solo per se stesso dall'anno in cui si era laureato alla De Paul. Produceva copertine di libri, qualche locandina cinematografica, un gran nu-
mero di illustrazioni per riviste, ogni tanto una brochure per qualche fiera commerciale. Aveva fatto una copertina di CD (per gli Slobberbone, un gruppo che ammirava particolarmente) ma non ne avrebbe mai più disegnata un'altra, aveva detto, perché nel prodotto finale non si riuscivano a distinguere i particolari senza una lente d'ingrandimento. Quella era stata la volta in cui era andato più vicino a mostrare quello che chiamano «temperamento artistico». Se gli avessero chiesto quale fosse la sua opera preferita, probabilmente sarebbe rimasto spaesato. Costretto a rispondere forse avrebbe detto che era il dipinto della giovane donna bionda che correva nell'erba, eseguito per un ammorbidente della Downy, ma anche quella sarebbe stata una bugia, una risposta buttata lì a caso giusto per liberarsi della domanda. In verità non era il tipo d'artista da avere (o aver bisogno di avere) dei lavori preferiti. Era trascorso molto tempo da quando aveva preso un pennello per dipingere qualcosa che non gli avessero commissionato e descritto, di solito tramite un dettagliato memo di agenzia pubblicitaria o una fotografia (come nel caso della donna che correva nell'erba, evidentemente felice di essere finalmente riuscita a sfuggire alla carica elettrostatica). Ma, come è vero che l'ispirazione colpisce i migliori di noi - i Picasso, i Van Gogh, i Salvador Dalì - prima o poi è destino che colpisca anche noi, anche se solo una o due volte nell'arco di una vita. Per tornare a casa Sifkitz prese l'autobus che attraversava la città (non possedeva un'automobile dai tempi del college) e, guardando dal finestrino (il referto medico con la sua riga scritta in rosso era ripiegato e infilato nella tasca posteriore), si ritrovò a fare particolare attenzione ai vari operai e muratori lungo il suo percorso: uomini in elmetto antinfortunistico al lavoro in qualche cantiere, qualcuno con un secchio, qualcuno con delle assi in bilico sulla spalla; operai del municipio che sporgevano per metà da tombini protetti da nastri gialli con la scritta LAVORI IN CORSO; tre uomini che montavano un ponteggio davanti alle vetrine di un grande magazzino mentre un quarto parlava al cellulare. Piano piano si rese conto che nella sua mente si andava formando un'immagine che esigeva il suo posto nel mondo. Quando fu nel suo loft di Soho che fungeva insieme da abitazione e studio, andò diritto all'angolino disordinato sotto il lucernario senza perder tempo a raccogliere la posta dal pavimento. Anzi, vi lasciò cadere sopra la giacca. Diede una scorsa a un certo numero di tele vergini appoggiate al muro e le scartò. Prese invece un rettangolo di comune cartone pressato bianco e si
mise al lavoro con un carboncino. Durante l'ora seguente il telefono squillò due volte. Lasciò che a rispondere fosse la segreteria telefonica. Lavorò a quel quadro per dieci giorni un po' sì e un po' no - ma più sì che no, specialmente nel rendersi conto con il trascorrere del tempo di quanto fosse buono - passando, quando gli parve naturale farlo, dal cartone a una tela alta un metro e larga un metro e trenta. Erano più di dieci anni che non dipingeva su una superficie così grande. Vi si vedevano quattro uomini - lavoratori in jeans, camicia di tela e vecchi e pesanti scarponcini - in piedi ai bordi di una strada di campagna che sbucava da una folta boscaglia (l'aveva resa in varie tonalità di verde scuro e colpi di grigio, applicando il colore in ampie pennellate veloci ed esuberanti). Due degli uomini erano armati di vanga; uno reggeva due secchi; il quarto era nell'atto di spingere all'indietro il berretto in un gesto che coglieva alla perfezione la sua stanchezza di fine giornata e la sua crescente consapevolezza che il lavoro non sarebbe mai finito; che in realtà alla fine di ogni giornata restava ancora più lavoro da fare di quello che c'era all'inizio. Il quarto, quello con il vecchio berretto sgualcito con la scritta LIPID sulla visiera, era il caposquadra. Stava parlando con sua moglie al cellulare. Torno a casa, cara, naa, non ho voglia di uscire, non questa sera, troppo stanco, domani voglio cominciare di buon'ora. I ragazzi me l'hanno menata su questo ma li ho convinti. Sifkitz non aveva idea di come potesse sapere tutto questo, però lo sapeva. Come sapeva che l'uomo con i secchi era Freddy e che era lui il proprietario del pick-up su cui erano arrivati tutti quanti. L'aveva parcheggiato giusto fuori del quadro, sulla destra; si vedeva un pezzetto superiore della sua ombra. Uno dei due con la vanga, Carlos, soffriva di mal di schiena e andava da un chiropratico. Non c'erano indizi sul lavoro che stavano svolgendo gli uomini che si vedevano nel quadro, il sito era appena fuori, sulla sinistra, ma si vedeva quanto fossero sfiniti. Sifkitz era sempre strato preciso nei particolari (quella macchia di foresta grigio-verde non era per niente nel suo stile) e la stanchezza di quegli uomini, la si leggeva chiaramente in ogni tratto del loro volto. Risaltava persino nelle macchie di sudore sul colletto delle loro camicie. Sopra di loro il cielo era di un insolito rosso organico. Naturalmente lui sapeva che cosa rappresentava il suo quadro e capiva perfettamente quel cielo strano. Quella era la squadra di operai di cui aveva parlato il suo medico, alla fine della loro giornata lavorativa. Nel mondo reale che esisteva al di là di quell'organico cielo rosso, Richard Sifkitz,
il loro datore di lavoro, aveva appena consumato il suo snack della buonanotte (una fetta avanzata di torta, per esempio, o una ciambella alla crema preziosamente conservata) e aveva posato la testa sul guanciale. Il che significava che loro erano finalmente liberi di tornarsene a casa. E avrebbero cenato? Sì, ma non tanto quanto lui. Sarebbero stati troppo stanchi per mangiare molto, glielo si leggeva in faccia. Invece di abbuffarsi avrebbero appoggiato i piedi, questi uomini che lavoravano per la Lipid Company, e avrebbero guardato un po' di tele. Magari si sarebbero addormentati davanti allo schermo e si sarebbero svegliati un paio d'ore dopo, quando i programmi normali erano finiti e andavano in onda le televendite. E avrebbero spento la TV con il telecomando e si sarebbero trascinati a letto, seminando stolidamente indumenti lungo il percorso. Tutto questo nel quadro c'era, anche se niente di tutto questo c'era davvero. Sifkitz non ne era ossessionato, ma capiva che era qualcosa di nuovo nella sua vita, qualcosa di buono. Non sapeva immaginare che cosa avrebbe potuto ricavarne quando fosse finito e in fondo non gli importava. Al momento si accontentava di alzarsi la mattina e guardarlo con un occhio solo mentre si pizzicava fuori del culo la cucitura dei suoi boxer. Pensava che quando lo avesse finito, gli avrebbe trovato anche un nome. Nel frattempo aveva preso in considerazione e scartato Fine giornata, Per oggi basta e Per oggi basta, dice Berkovitz. Berkowitz nel senso del boss, il capocantiere, quello con il cellulare Motorola, quello con il berretto con la scritta LIPID. Nessuno di quei titoli era quello giusto e andava bene così. Avrebbe riconosciuto il titolo perfetto per il quadro quando finalmente lo avesse azzeccato. Avrebbe prodotto un ting! preciso. Per adesso non c'era fretta. Non era nemmeno sicuro che la cosa importante fosse il quadro. Mentre dipingeva, aveva perso sei chili. Forse l'importante era quello. O forse no. 2. Cyclette Da qualche parte - forse sul cartoncino di una bustina da tè - aveva letto che, per la persona che aspira a dimagrire, l'esercizio più efficace è spingersi via dal tavolo. Sifkitz non dubitava che fosse vero, ma con il passare del tempo era sempre più convinto che perdere peso non fosse il suo obiettivo. Non lo era nemmeno scolpirsi i muscoli, anche se in entrambi i casi poteva trattarsi di effetti collaterali. Continuava a pensare agli stakanovisti metabolici del dottor Brady, comuni operai che ce la mettevano tutta per
fare bene il loro lavoro ma non trovavano nessun aiuto da parte sua. Non riusciva a non pensarci ogni giorno, quando dedicava una o due ore a dipingere loro e il loro mondo lavorativo. Quanto fantasticava su di loro. C'era Berkowitz, il caposquadra, che sognava di possedere un giorno una propria impresa edile. Freddy, il proprietario del pick-up (un Dodge Ram) che sentiva di avere dentro di sé il talento di un grande carpentiere. Carlos, quello con la schiena dolorante. E Whelan, che era fondamentalmente uno scansafatiche. Erano le persone il cui compito era di evitare che lui avesse un infarto o un ictus. Dovevano spazzare via la merda che li bombardava da quello strano cielo rosso prima che ostruisse la strada che portava nel bosco. Una settimana dopo aver cominciato il quadro (e una settimana circa prima che decidesse che era finito), andò alla Fitness Boys nella Ventinovesima Strada e, dopo aver valutato prima un tapis roulant e poi uno StairMaster (attraente ma troppo caro), comprò una cyclette. Pagò quaranta dollari extra perché gliela montassero e consegnassero a casa. «La usi tutti i giorni per sei mesi e il suo tasso di colesterolo scenderà di trenta punti», proclamò il commesso, un giovane muscolato con una maglietta della Fitness Boys. «Praticamente glielo garantisco.» Lo scantinato dell'edificio in cui abitava Sifkitz era un mezzo labirinto pieno di locali bui, rombante per via della caldaia e zeppo di ripostigli contrassegnati con i numeri degli appartamenti. In fondo però c'era una nicchia quasi magicamente vuota. Quasi che fosse lì ad aspettarlo da sempre. Sifkitz chiese ai trasportatori di piazzargli il suo nuovo attrezzo ginnico sul pavimento di cemento, girato verso un nudo muro beige. «Ha in mente di portar giù una tele?» gli chiese uno dei due. «O lei è più portato a leggere libri?» «Ancora non ho deciso», rispose Sifkitz, ma non era vero. Pedalò davanti a quello spoglio muro beige per una quindicina di minuti tutti i giorni finché non ebbe finito il quadro, sapendo che probabilmente quindici minuti non erano sufficienti (anche se certamente meglio di niente) ma sapendo anche che allo stato attuale di più non avrebbe sopportato. Non perché si stancasse, sessioni di un quarto d'ora non bastavano a stancarlo. Il fatto è che in cantina si annoiava a morte. Il cigolio delle ruote combinato con il muggito costante della caldaia cominciò fin da subito a dargli sui nervi. Era fin troppo cosciente di quello che stava facendo, vale a dire fondamentalmente andare da nessuna parte in una cantina sotto due lampadine che proiettavano la sua ombra duplicata sul muro davanti. Sa-
peva anche che tutto sarebbe migliorato dopo che il quadro di sopra fosse finito e avesse cominciato a lavorare a quello là sotto. Era lo stesso ma lo eseguì molto più velocemente. Questo era dovuto al fatto che non aveva bisogno di metterci Berkowitz, Carlos, Freddy e Whelan il lavativo. In questo gli operai se n'erano andati alla fine della giornata lavorativa e sul muro beige dipinse semplicemente la strada di campagna, ricorrendo a una prospettiva forzata in maniera che quando era sulla cyclette la strada sembrava procedere davanti a lui e scomparire nella scura macchia grigio-verde della foresta. Pedalare diventò subito meno noioso, ma dopo due o tre sessioni capì di non aver ancora finito del tutto perché quello che stava facendo era ancora solo esercizio fisico. Tanto per cominciare doveva metterci il cielo rosso, ma quello era facile, ordinaria pittura murale. Voleva aggiungere altri particolari su entrambi i cigli della strada in primo piano e anche un po' di rifiuti e scarti, ma anche quello era facile (e divertente). Il problema vero non aveva niente a che fare con il quadro. Né quello sotto, né quello sopra. Il problema era che gli mancava un obiettivo ed era sempre stato quello a mandarlo in crisi riguardo all'esercizio fisico, che era una pratica fine a se stessa. Quel genere di allenamento poteva tonificare i muscoli e migliorare lo stato di salute generale, ma mentre lo si eseguiva era essenzialmente privo di senso. Anche sul piano esistenziale. Quel genere di allenamento era mirato solo al dopo, mettiamo per esempio una bella signora titolare di una rubrica d'arte su qualche rivista che a un party ti si avvicina e ti chiede se sei dimagrito. Niente di più lontano da una motivazione vera. Non era abbastanza vanesio (o abbastanza voglioso) perché simili prospettive potessero sostenerlo a lungo. Prima o poi si sarebbe annoiato e sarebbe ricaduto nel vecchio stile di vita da ciambella alla crema. No, doveva decidere dov'era la strada e dove portava. Poi avrebbe potuto fingere di pedalare verso quella meta. L'idea lo emozionò. Forse era sciocco, persino un po' fuori di testa, ma da Sifkitz quell'emozione, sebbene lieve, fu avvertita come uno stimolo concreto. E non aveva nessun obbligo di raccontare ad altri che cosa aveva in mente, giusto? Assolutamente no. Poteva anzi procurarsi un atlante stradale e segnare su una delle cartine il tratto percorso giornalmente. Non era per natura un uomo introspettivo, ma mentre tornava a casa a piedi dalla libreria con il suo nuovo atlante sotto il braccio, si ritrovò a domandarsi che cosa esattamente lo avesse tanto galvanizzato. Un tasso di colesterolo moderatamente alto? Ne dubitava. Il solenne proclama del dottor Brady che passati i quarant'anni avrebbe trovato molto più difficile
combattere la sua battaglia? Forse in parte c'entrava, ma probabilmente non più che tanto. Era semplicemente pronto per un cambiamento? Ecco, fuocherello. Trudy era morta di un cancro del. sangue particolarmente famelico e quando si era spenta nella sua stanza d'ospedale Sifkitz era con lei. Ricordava quanto fosse stato profondo il suo ultimo respiro, come il suo petto smunto si fosse sollevato nel trarlo. Come se avesse saputo che era quello lì, il respiro dei secoli dei secoli. Ricordava il momento in cui lo aveva esalato e il rumore che aveva fatto: sciaaaah! Dopodiché il suo petto era rimasto fermo dov'era. In un certo senso, lui era vissuto per i successivi quattro anni bloccato in quel respiro sospeso. Solo ora il vento era tornato a soffiare riempiendo le sue vele. Ma c'era dell'altro, qualcosa di ancor più sostanziale: la squadra di manovali che Brady aveva evocato e a cui lui stesso aveva dato dei nomi. C'erano Berkowitz, Whelan, Carlos e Freddy. Di loro il dottor Brady non si era occupato; per Brady gli operai metabolici erano solo una metafora. Il suo compito era indurre Sifkitz a prendersi un po' più a cuore ciò che succedeva dentro di lui, nient'altro, la sua metafora non era molto diversa da quella della mamma che dice al bambino che ci sono degli «omini» al lavoro per riparare la pelle del suo ginocchio sbucciato. L'interesse di Sifkitz invece... Non era incentrato sulla mia persona, pensava mentre sceglieva la chiave che apriva il portoncino dell'ingresso. Non lo è mai stato. A me interessavano gli uomini destinati a quell'interminabile lavoro di manutenzione. E la strada. Perché dovevano sudare tanto per mantenerla pulita? Dove portava? Decise che portava a Herkimer, un borgo a ridosso della frontiera con il Canada. Sulla carta della fascia più settentrionale dello stato di New York trovò una sottile e anonima linea blu che congiungeva tortuosamente quella cittadina con Poughkeepsie, a sud della capitale statale. Tre, forse quattrocento chilometri. Trovò una carta più particolareggiata della zona e fissò con delle puntine il rettangolo dove la strada aveva inizio sul muro accanto al suo frettoloso... il suo frettoloso come-lo-vogliamo-chiamare? Affresco non era giusto. Scelse «proiezione». E quel giorno, quando montò sulla cyclette, immaginò di avere alle spalle Poughkeepsie, non il televisore del 2-G, la pila di bauli del 3-F, la moto da cross imbustata nel suo telo del 4-A, ma Poughkeepsie. Davanti a lui si allungava la strada di campagna, un miserabile filo blu per l'atlante strada-
le, ma l'antica Rhinebeck Road secondo la mappa più dettagliata. Azzerò il contachilometri della cyclette, fissò con fermezza gli occhi sulla terra che cominciava nel punto in cui il pavimento di cemento incontrava il muro e pensò: È veramente la strada verso la buona salute. Se tieni a mente questo concetto, non dovrai domandarti se dopo la morte di Trudy non ti sia forse partita qualche rotella. Ma il suo cuore stava battendo un po' troppo veloce (come se avesse già cominciato a pedalare) e si sentì come pensava si dovessero sentire in genere le persone prima di intraprendere un viaggio verso un posto nuovo, dove avrebbero incontrato persone nuove e persino nuove avventure. Sopra il rudimentale pannello di controllo della cyclette c'era un portalattine e in esso inserì una lattina di Red Bull, che si presumeva fosse una bevanda energetica. Sui calzoncini indossava una vecchia camicia, per la comodità del taschino. Lì dentro aveva messo due biscotti di farina d'avena con le uvette. Farina d'avena e uvette avevano entrambe fama di sciogliere i lipidi. E, a proposito, la Lipid Company aveva concluso la giornata. Oh, erano ancora in servizio nel quadro di sopra, quell'inutile quadro senza mercato che era così poco nel suo stile, ma laggiù erano rimontati tutti sul Dodge di Freddy per tornare a... a... «A Poughkeepsie», disse. «Stanno ascoltando Kateem al WPDH e bevono tenendo la bottiglia nel sacchetto di carta. Oggi hanno... cos'avete fatto oggi, ragazzi?» Posato un paio di scolmatori, bisbigliò una voce. Le acque di primavera per poco non hanno spazzato via la strada giù vicino a Priceville. Poi abbiamo staccato in anticipo. Bene. Ottimo. Non sarebbe stato costretto a scendere dalla cyclette per passare a piedi intorno ai tratti alluvionati. Richard Sifkitz fissò gli occhi sul muro e cominciò a pedalare. 3. Sulla strada per Herkimer Questo era nell'autunno del 2002, a un anno dal crollo delle Torri Gemelle nelle strade del Financial District, e a New York la vita stava tornando a una versione leggermente paranoica della normalità... senonché a New York il leggermente paranoico era la normalità. Richard Sifkitz non si era mai sentito più sano di mente o più felice. La sua vita scivolò in una disciplinata armonia in quattro tempi. La mattina
era dedicata all'attività con cui pagare vitto e alloggio e mai i lavori che gli venivano commissionati erano stati tanto numerosi. L'economia arrancava, così dicevano tutti i quotidiani, ma per Richard Sifkitz, disegnatore commerciale freelance, non sarebbe potuta andare meglio. Pranzava ancora al ristorantino all'isolato accanto, dove però ora consumava di solito un'insalata invece di un bisunto cheeseburger doppio, e il pomeriggio lavorava a un nuovo quadro per sé: per cominciare, una versione più particolareggiata della proiezione sul muro della cantina. Il quadro di Berkowitz e della sua squadra era stato accantonato e coperto con un vecchio telo. Con quello aveva chiuso. Ora voleva un'immagine migliore di quella che tanto lo appagava nel sottoscala, vale a dire la strada per Herkimer senza i manovali. E perché mai avrebbero dovuto esserci? Adesso non era lui stesso a fare la manutenzione di persona? Sì, e con ottimi risultati. Sul finire d'ottobre era tornato da Brady per un altro controllo del colesterolo e questa volta il numero era scritto in nero invece che in rosso: 179. Il dottor Brady aveva manifestato non solo rispetto; aveva persino tradito una punta di invidia. «È migliore del mio», commentò. «Se l'è presa veramente a cuore, vero?» «Mi sa di sì», convenne Sifkitz. «E quella sua pancetta è quasi sparita. Stiamo facendo ginnastica?» «Il più possibile», confermò Sifkitz e non aggiunse altro al riguardo. A quel punto le sue sgroppate erano diventate strane. Qualcuno le avrebbe considerate strane, in ogni caso. «Be'», disse Brady, «se ce l'hai, sfoggialo. Questo è il mio consiglio.» Sifkitz ne sorrise, ma non era il tipo di consiglio che avrebbe seguito. Le serate - il quarto tempo di una Comune Giornata Sifkitz - le trascorreva o guardando la tele o leggendo un libro, di solito sorseggiando un succo di pomodoro o un V-8 invece di una birra, sentendosi effervescente ma sereno. Andava anche a letto un'ora prima e il riposo supplementare si accordava alle sue nuove esigenze. Il cuore delle sue giornate era il terzo tempo, dalle quattro fino alle sei. Erano le due ore che trascorreva sulla sua cyclette a percorrere il ghirigoro blu tra Poughkeepsie e Herkimer. Sulle sue mappe cambiava dalla vecchia Rhinebeck Road alla Cascade Falls Road, alla Woods Road; per un tratto, a nord di Penniston, diventava persino Dump Road. Ricordava come, quando aveva cominciato, persino quindici minuti sulla cyclette gli sembravano un'eternità. Ora gli capitava talvolta di doversi obbligare a fermar-
si dopo due ore. Alla fine si munì di una sveglia, fissandola per le sei del pomeriggio. Il suo raglio aggressivo era giusto sufficiente a... be'... Appena sufficiente a svegliarlo. Gli era un po' difficile credere di dormire, giù in cantina, mentre pedalava sulla cyclette a una velocità di crociera di venticinque chilometri orari, ma non gli piaceva l'alternativa, che era quella di dover pensare di essere andato un po' via di testa sulla strada per Herkimer. O nella sua cantina di Soho, se preferite. L'idea di soffrire di allucinazioni. Una sera, mentre faceva un po' di zapping, s'imbatté in un programma sull'ipnosi. Il tizio che stavano intervistando, un ipnotista che dichiarava di chiamarsi Joe Saturn, diceva che tutti praticano quotidianamente un po' di autoipnosi. La mattina la usiamo per entrare in uno spirito orientato sul lavoro; quando leggiamo un romanzo o guardiamo un film la usiamo per «entrare nella storia»; la sera ce ne serviamo per addormentarci. Quell'ultimo era l'esempio che Joe Saturn preferiva e si dilungò nell'illustrare i vari sistemi impiegati ogni sera per assicurarsi una «bella dormita»: controllare le serrature di porte e finestre, magari, bere un bicchier d'acqua, recitare una preghierina o dedicarsi a una breve pausa di meditazione. Accostava questi rituali ai meccanismi che mette in moto l'ipnotista: contare a ritroso da dieci a zero, per esempio, o convincere il soggetto di essere colto da «una pesante sonnolenza». Sifkitz abbracciò con gratitudine le sue teorie, concludendo su due piedi che lo stato mentale in cui si trovava durante le sue quotidiane sessioni di due ore sulla cyclette era quello di un'ipnosi tra leggera e media. Perché, giunto alla terza settimana davanti alla proiezione murale, non passava più quelle due ore nella nicchia in cantina. Ora della terza settimana le passava sulla strada per Herkimer. Pedalava abbastanza di buon animo sulla sterrata che serpeggiava nel bosco, fiutando l'aroma dei pini, sentendo i richiami dei corvi o il crepitio delle foglie quando gli capitava di schiacciarne un cumulo. La cyclette era diventata la Raleigh a tre marce che aveva a dodici anni nella periferia di Manchester, New Hampshire. Senz'altro non l'unica bicicletta che aveva posseduto prima di prendere la patente di guida a diciassette anni, ma indiscutibilmente la migliore. Il portalattine di plastica si era trasformato in un rudimentale ma efficiente anello di metallo saldato a mano e sospeso sul cestino. Invece di una Red Bull, conteneva una lattina di tè della Lipton. Sulla strada per Herkimer era sempre fine ottobre e sempre un'ora prima del tramonto. Sebbene pedalasse per due ore (cosa confermata ogni volta
che finiva sia dalla sveglia, sia dal contachilometri della cyclette), il sole non cambiava mai posizione; proiettava sempre le stesse lunghe ombre attraverso la sterrata e ammiccava tra gli alberi dallo stesso quadrante di cielo al suo transito nel vento artificiale che gli spingeva all'indietro i capelli dalla fronte. Ogni tanto, dove c'erano strade che incrociavano la sua, trovava cartelli inchiodati agli alberi. CASCADE ROAD, diceva uno. HERKIMER, 190 KM, diceva un altro, quest'ultimo crivellato di vecchi fori di pallottole. I cartelli corrispondevano sempre alle informazioni della cartina affissa quel giorno al muro della nicchia. Aveva già deciso che, giunto a Herkimer, avrebbe proseguito nelle foreste canadesi senza nemmeno fermarsi a comprare souvenir. La strada si fermava lì, ma non era un problema; si era già procurato un libro intitolato Mappe del Canada orientale. Avrebbe semplicemente tracciato lui stesso la propria strada, usando una matita blu dalla punta sottile e aggiungendo un gran numero di ghirigori. Ghirigori che diventavano chilometri. Sarebbe salito fino al Circolo Artico, se avesse voluto. Una sera, risvegliato dalla sua trance dal trillo della sveglia, si avvicinò alla proiezione e la contemplò pensieroso per alcuni lunghi momenti, con la testa reclinata di lato. Chiunque altro avrebbe visto molto poco; da una distanza così ravvicinata il trucco della prospettiva esasperata non funzionava più e per l'occhio non esercitato la scena silvestre si sarebbe decomposta in insignificanti macchie di colore: il marrone chiaro della superficie stradale, quello più scuro di un cumulo di foglie cadute, l'azzurro e il grigio che screziavano il verde degli abeti, il vivo giallo chiarissimo del sole nell'angolo sinistro, pericolosamente vicino alla porta del locale caldaia. Sifkitz invece vedeva ancora perfettamente la sua immagine. Ormai ce l'aveva ben fissa nella mente e non cambiava mai. Quando non pedalava, naturalmente, ma anche allora era cosciente della sua implicita immutabilità. E andava bene così. Quell'essenziale immutabilità era una specie di punto di riferimento, un modo per assicurare a se stesso che tutto quello era ancora solo un elaborato gioco mentale, una linea diretta con il proprio inconscio che avrebbe potuto spegnere in qualsiasi momento. Aveva portato giù una scatola di colori per gli eventuali ritocchi e ora, senza pensarci su troppo, aggiunse alla strada alcune macchie marrone mescolandovi del nero perché fossero più scure di quelle che rappresentavano i cumuli di foglie. Indietreggiò di un passo, valutò l'aggiunta e annuì. Era una piccola modifica ma a suo modo perfetta.
Il giorno dopo, mentre spingeva i pedali della sua Raleigh a tre marce circondato dagli alberi del bosco (ormai era a meno di cento chilometri da Herkimer e a soli centotrenta dal confine canadese), uscì da dietro una curva e si trovò a tu per tu con un grosso cervo che, fermo in mezzo alla strada, lo guardava con un'espressione sbigottita negli scuri occhi vellutati. Agitò la bandiera bianca che aveva per coda, scaricò un fiotto di sterco e scomparve nel bosco. Sifkitz vide un altro guizzo di coda e poi più nulla. Proseguì schivando gli escrementi per non ritrovarseli nel battistrada dei copertoni. Quella sera zittì la sveglia e si avvicinò al dipinto sul muro asciugandosi il sudore dalla fronte con una bandana che si tolse dalla tasca posteriore dei jeans. Sogguardò con occhio critico la proiezione con le mani sui fianchi. Poi, con la velocità e la sicurezza che gli erano solite - in fondo erano quasi vent'anni che faceva quel mestiere - cancellò dall'immagine lo sterco del cervo sostituendolo con un crocchio di lattine da birra arrugginite, abbandonate lì senza dubbio da qualche cacciatore in cerca di fagiani o tacchini. «Te le sei lasciate scappare, Berkowitz», disse quella sera mentre scolava una birra invece di un V-8. «Le tirerò su io domani, ma che non succeda più.» Solo che l'indomani, quando scese, non ebbe bisogno di cancellare le lattine di birra dall'immagine; erano già scomparse. Per un momento avvertì sul ventre la pressione di una paura autentica come una pungolata di un bastone smussato - che cosa aveva fatto, era sceso in cantina come un sonnambulo nel cuore della notte e aveva messo mano al suo fidato barattolo di acquaragia? - ma smise subito di pensarci. Montò sulla cyclette e in pochi istanti pedalava di nuovo sulla sua vecchia Raleigh aspirando l'odore pulito della foresta e godendo del vento che gli spingeva i capelli all'indietro dalla fronte. Ma non fu proprio quello il giorno in cui le cose cominciarono a cambiare? Il giorno in cui sentì di non essere del tutto solo sulla strada per Herkimer? Su una cosa non c'erano dubbi: fu il giorno dopo la sparizione delle lattine di birra che fece quel sogno veramente terribile e dopo dipinse il garage di Carlos. 4. Uomo con fucile Un sogno così vivido non gli accadeva dall'età di quattordici anni, quando tre o quattro folgoranti episodi erotici lo avevano introdotto alla maturità fisica. Ma questo era decisamente il più orribile di tutti i tempi, niente di
paragonabile a qualsiasi altra cosa. A renderlo orribile fu il senso di tragedia incombente che lo attraversava come una trama rossa. E questo nonostante esso avesse una sua strana trasparenza: lui sapeva di sognare ma non poteva sottrarvisi. Era come se lo avessero fasciato tutto quanto in una garza terrificante. Sapeva che il suo letto era vicino e che lui ci era sopra a dibattersi - ma non riusciva a liberarsi per riprendere contatto con il Richard Sifkitz in carne e ossa, quello che tremava e sudava nei suoi short da notte. Vide un guanciale e un telefono beige con una crepa. Poi un corridoio pieno di quadri con i ritratti di sua moglie e delle sue tre figlie. Poi una cucina, con il forno a microonde che lampeggiava 16.16. Una fruttiera con delle banane (lo riempirono di angoscia e orrore) sul piano in laminato di uno dei mobiletti. Un passaggio coperto, di fuori. E lì era accucciato Pepe, il cane, con il muso sulle zampe, e Pepe non sollevò la testa ma alzò gli occhi per guardarlo passare, esponendo due raccapriccianti mezze lune bianche iniettate di sangue, e fu allora che Sifkitz cominciò a piangere nel sogno, perché aveva capito che era tutto perduto. Avrebbe pianto senza sosta per le successive sei ore, come una statua magica. Ora era nel garage. Sentiva odore di olio. Sentiva l'odore di prato rasato. In un angolo, come un dio suburbano, c'era il tosaerba. Vide la morsa fissata al banco da lavoro, vecchia e scura e punteggiata di minuscole schegge di legno. Poi uno sgabuzzino. Per terra erano impilati i pattini da ghiaccio delle sue figlie, i lacci bianchi come gelato alla vaniglia. I suoi arnesi erano appesi al muro, ordinati con cura, quasi tutti attrezzi da meccanico, un mastino nel suo lavoro era (Carlos. Io sono Carlos.) Sul ripiano più alto, dove non potevano arrivare le ragazze, c'era un fucile calibro 410, inutilizzato da anni, quasi dimenticato, e accanto c'era una scatola di cartucce così scura che si stentava a leggere la parola WINCHESTER, solo che ci si riusciva, appena appena, e fu allora che Sifkitz capì che veniva portato in giro dentro il cervello di un potenziale suicida. Ce la mise tutta o per fermare Carlos o per togliersi da lui e in entrambi i casi fu inutile, anche se sentiva il suo letto così vicino, dall'altra parte della garza che lo fasciava dalla testa ai piedi. Ora era di nuovo al banco da lavoro e il fucile era stretto nella morsa e di fianco alla morsa c'era la scatola con le cartucce ed ecco una sega, stava segando la canna del fucile perché così gli sarebbe stato più facile fare quello che doveva fare e, quando aprì la scatola delle cartucce, ce n'erano
due dozzine, grossi cilindri verdi con il fondo d'ottone, e il rumore che fece il fucile quando Carlos lo chiuse non fu cling! ma CLACK! e il sapore in bocca era di olio e polvere, olio sulla lingua e polvere sulle guance e sui denti e la schiena gli faceva male, un male DBB, era così che bollavano i palazzi abbandonati (e qualche volta anche alcuni che non erano stati abbandonati) quand'era adolescente e giocava nei Deacons a Poughkeepsie, stava per DA BESTIA BASTARDA, ed era così che gli faceva male la schiena, e adesso che era senza lavoro aveva perso l'assistenza medica, Jimmy Berkowitz non poteva permettersi di continuare a pagargliela e allora Carlos Martinez non poteva più permettersi le medicine che gli rendevano un po' più sopportabile il dolore, non poteva più permettersi il chiropratico che gli mitigava un po' il dolore, e le rate della casa: ay, carramba, dicevano sempre, scherzando, ma di certo non stava scherzando adesso, ay carramba avrebbero perso la casa, a meno di cinque anni dal traguardo gliel'avrebbero tolta da sotto i piedi, sí, sí, señor ed era tutta colpa di quella testa di cazzo di Sifkitz, lui e il suo fottuto hobby della manutenzione delle strade, e l'incurvatura del grilletto sotto il suo dito era come una mezza luna, come le terribili mezze lune degli occhi socchiusi del suo cane. Fu allora che Sifkitz si svegliò tra singhiozzi e tremiti, con le gambe ancora nel letto e la testa fuori, a sfiorare il pavimento, con i capelli penzoloni. Scivolò giù del tutto e cominciò ad attraversare carponi la stanza verso il cavalletto sotto il lucernario. A metà percorso si trovò in grado di camminare. Il quadro della strada vuota era ancora sul cavalletto, la versione migliore e più completa di quello sul muro nella nicchia della cantina. Se ne sbarazzò immediatamente e lo sostituì con un pezzo di cartone pressato sessanta per sessanta. Afferrò il primo strumento che gli capitò con cui poter lasciare un segno (caso volle che fosse una penna roller extrafine) e cominciò a disegnare. Disegnò per ore, continuando a piangere. A un certo punto (questo lo ricordava solo vagamente) ebbe bisogno di orinare e se la sentì scorrere giù per la gamba. Le lacrime non cessarono finché non ebbe finito il quadro. Poi, grazie a Dio finalmente con gli occhi asciutti, si ritrasse per guardare quello che aveva fatto. Era il garage di Carlos in un pomeriggio d'ottobre. Davanti al garage Pepe, il cane, sostava con le orecchie drizzate. L'animale era stato attirato dal rumore del fucile. Non c'era traccia di Carlos nel quadro, ma Sifkitz sapeva precisamente dove giaceva il suo corpo, a sinistra, di fianco al banco da lavoro con la morsa fissata sul bordo. Se sua moglie fosse stata a casa a-
vrebbe sentito lo sparo. Se era fuori - forse a far compere, più probabilmente al lavoro - sarebbero passate ancora un'ora o due prima che rincasasse e lo trovasse. Sotto l'immagine aveva scarabocchiato la scritta: UOMO CON FUCILE. Non ricordava di averlo fatto, ma la scrittura era la sua e il titolo era quello giusto. Non vi si vedeva nessun uomo, e neppure il fucile, ma era il titolo giusto. Sifkitz andò al divano, si sedette e si prese la testa nelle mani. Gli doleva forte la destra per aver maneggiato quello strumento da disegno insolito e troppo piccolo. Cercò di dire a se stesso che era stato solo un brutto sogno e che quell'immagine ne era la conseguenza. Che non era mai esistito nessun Carlos, non c'era mai stata una Lipid Company, che l'uno e l'altra erano solo frutti della sua immaginazione, spuntati dalla casuale metafora del dottor Brady. Ma i sogni svaniscono, mentre quelle immagini - il telefono beige con la crepa, il forno a microonde, la fruttiera con le banane, gli occhi del cane erano più nitide che mai. Di una cosa era sicuro. Con quella cyclette aveva chiuso. Stava andando un po' troppo vicino alla follia. Se avesse continuato così, presto si sarebbe tagliato un orecchio e lo avrebbe spedito per posta non alla sua ragazza (non ne aveva una), ma al dottor Brady, l'indiscutibile responsabile di tutto quello che gli stava accadendo. «Basta cyclette», disse con la testa ancora tra le mani. «Magari mi iscrivo alla Fitness Boys, o qualche altra palestra, ma di quella dannata cyclette non voglio più saperne.» Solo che non si iscrisse alla Fitness Boys e dopo una settimana senza ginnastica (camminava, ma non era la stessa cosa, c'era troppa gente sui marciapiedi e aveva nostalgia della quiete della Herkimer Road), si sentì andare in fibrillazione. Era in ritardo con il suo ultimo progetto, un'illustrazione alla maniera di Norman Rockwell per le Fritos Corn Chips e già gli avevano telefonato sia il suo agente, sia il responsabile delle campagne della Fritos all'agenzia pubblicitaria. Cosa che non gli era mai successa prima. Peggio ancora, non dormiva. Il sogno era diventato un po' meno insistente e concluse che era solo il quadro del garage di Carlos che, guardandolo dall'angolo della stanza, continuava a ricordarglielo, rinfrescando l'incubo come lo spruzzo d'acqua di un irrigatore rinfresca una pianta assetata. Non ebbe cuore di distruggere il
quadro (gli era riuscito troppo dannatamente bene), ma lo girò in maniera che avesse da guardare solo il muro. Quel pomeriggio prese l'ascensore, andò in cantina e montò di nuovo sulla cyclette. Quasi nel preciso istante in cui posò gli occhi sulla proiezione murale essa si trasformò nella sua vecchia Raleigh a tre marce. Riprese così il suo viaggio verso nord. Tentò di convincersi che la sensazione di essere seguito fosse infondata, un residuo del suo sogno e delle successive ore di frenesia creativa al cavalletto. Per un po' il trucco riuscì persino a funzionare, anche se sapeva d'ingannare se stesso. Aveva buone ragioni per voler mantener viva quell'illusione. La principale era che aveva ripreso a dormire di notte e a lavorare all'illustrazione che gli avevano commissionato. Finì il disegno dei ragazzi che consumavano insieme un sacchetto di Fritos sull'idilliaca pedana di lancio di un campo da baseball suburbano, lo spedì a destinazione per corriere e il giorno dopo ricevette un assegno di diecimiladuecento dollari con una nota di Barry Casselman, il suo agente. Mi avevi messo addosso un po' di fifa, tesoro, diceva la nota, e Sifkitz pensò: Non sei il solo. Tesoro. Più di una volta durante la settimana successiva pensò che forse avrebbe fatto bene a raccontare a qualcuno delle sue avventure sotto il cielo rosso e ogni volta scartò l'idea. Avrebbe potuto parlarne a Trudy, ma naturalmente se ci fosse stata lei non si sarebbe trovato in quella situazione fin dal principio. L'idea di raccontarle a Barry era risibile; l'idea di raccontarle al dottor Brady lo intimoriva. Il dottor Brady gli avrebbe consigliato un bravo psichiatra senza dargli tempo di pronunciare né ahi né bai. La sera del giorno in cui ricevette l'assegno, mentre stava regolando la sveglia, notò qualcosa di cambiato nel murale in cantina. Si avvicinò al muro (lattina di Red Bull in una mano, fidata piccola sveglia da tavolo nell'altra, biscotti d'avena con le uvette al sicuro nel taschino della camicia). Qualcosa era successo, senz'altro, c'era qualcosa di diverso, ma all'inizio che gli prendesse un colpo se riusciva a individuarlo. Chiuse gli occhi, contò fino a cinque (sgombrando la mente mentre contava, un vecchio trucco), poi li riapri di scatto, strabuzzandoli come nella caricatura di un grande spavento. Questa volta vide subito cos'era cambiato. La sagoma come di una pensilina color giallo vivo vicino alla porta del locale caldaia era scomparsa, né si vedevano più le lattine di birra. E il colore del cielo al di sopra degli alberi era di un rosso più intenso, più scuro. O il sole era tramontato, o ci mancava poco. Sulla strada per Herkimer stava scendendo
la notte. Devi smetterla, pensò Sifkitz, e poi pensò: Domani. Forse domani. E con questo montò in sella e cominciò a pedalare. Dal bosco che lo circondava gli giunsero i richiami degli uccelli che si posavano preparandosi per la notte. 5. Un cacciavite tanto per cominciare Nei cinque o sei giorni seguenti, il tempo che Sifkitz trascorse sulla cyclette (e la sua tre marce di quand'era ragazzino) fu insieme splendido e terribile. Splendido perché non si era mai sentito meglio; per un uomo della sua età il suo organismo funzionava con la precisione e l'efficienza di una forma smagliante e lo sapeva. Presumeva che certi atleti professionisti godessero di una forma anche migliore, ma a trentotto anni sarebbero stati sul viale del tramonto della loro carriera e il piacere che avrebbero potuto trarre dalla scattante tonicità del loro corpo sarebbe stato necessariamente offuscato dalla consapevolezza della fine imminente. Sifkitz al contrario avrebbe potuto continuare a disegnare pubblicità per altri quarant'anni, se così avesse scelto. Diamine, altri cinquanta. Cinque intere generazioni di giocatori di football e quattro di baseball si sarebbero avvicendate mentre lui se ne sarebbe stato tranquillo davanti al suo cavalletto a disegnare copertine di libri, accessori automobilistici e cinque nuovi logo per la Diet Pepsi. Solo che... Solo che quello non era il finale che si sarebbe aspettata la gente avvezza a questo genere di storia. Non era neppure il finale che si sarebbe aspettato lui stesso. La sensazione di essere seguito crebbe di sessione in sessione, specialmente dopo che ebbe sostituito l'ultima delle cartine dello stato di New York con la prima di quelle canadesi. Usando una penna blu (la stessa con cui aveva creato UOMO CON FUCILE), inserì un prolungamento della Herkimer Road sulla mappa precedentemente priva di strade, tracciando un gran numero di ghirigori. A quel punto pedalava ormai con maggior lena, guardandosi spesso alle spalle e concludendo le sue corse madido di sudore, sempre troppo sfiatato per poter smontare subito dalla sella e spegnere i ragli della sveglia. Ora... quella faccenda di guardarsi alle spalle, ecco, quello era un fatto interessante. In principio, quando lo faceva, coglieva uno scorcio della nic-
chia della cantina e l'apertura attraverso la quale si accedeva ai locali più ampi con il loro labirinto di ripostigli. Vicino alla porta vedeva la cassa delle Arance Pomona con sopra la sveglia da tavolo che contava i minuti tra le quattro e le sei del pomeriggio. Poi una specie di foschia rossa cancellava ogni cosa e, quando si diradava, si ritrovava a guardare la strada dietro di sé, gli alberi colorati d'autunno su entrambi i lati (i cui colori però erano più spenti, ora che si avvicinava il crepuscolo) e il sole di un rosso sempre più scuro. In seguito, quando si girava, non vedeva più niente della cantina, nemmeno un barlume. Solo la strada che lo aveva condotto fin lì, da Poughkeepsie prima e poi da Herkimer. Sapeva benissimo che cosa si aspettava di vedere continuando a guardare indietro: dei fari. I fari del Dodge Ram di Freddy, a voler essere specifici. Perché nell'animo di Berkowitz e degli uomini della sua squadra lo sconcertato risentimento aveva lasciato il passo alla collera. A far varcare loro quel confine era stato il suicidio di Carlos. Incolpavano lui e gli davano la caccia. E quando lo avessero preso, lo... Cosa? Lo cosa? Mi uccideranno, pensò, pedalando corrucciato nel crepuscolo, bevendo ogni tanto un sorso dalla lattina di tè (che sarebbe ridiventato Red Bull quando, al trillo della sveglia, anche quella sera quel gioco assurdo sarebbe finito). Inutile girarci intorno. Mi raggiungeranno e mi uccideranno. Ora come ora sono nel nulla più totale, non uno sputo di centro abitato in tutta quanta quella dannata mappa, nemmeno il più infimo paesello. Potrei sgolarmi da farmi saltare le tonsille e nessuno mi sentirebbe oltre a Yoghi e Bambi. Perciò se vedo quei fari (o sento il motore, perché Freddy potrebbe guidare a luci spente), sarà meglio che me ne torni dritto filato a Soho, con o senza sveglia. È già da matti essere qui. Adesso però aveva qualche difficoltà a tornare indietro. Quando trillava la sveglia la Raleigh rimaneva una Raleigh per un mezzo minuto o più, la strada davanti a lui rimaneva una strada invece di trasformarsi in chiazze di colore sul cemento e persino i trilli della sveglia erano lontani e stranamente ovattati. Aveva il sospetto che prima o poi li avrebbe sentiti come il fischio sommesso di un jet ad alta quota, un 767 dell'American Airlines partito dal Kennedy, forse, diretto all'altro lato del mondo passando sul Polo Nord. Si fermava, stringeva con forza gli occhi e li riapriva di scatto. Funzionava, ma aveva idea che non sarebbe durato a lungo. E allora? Una notte di
fame passata nella foresta a contemplare una luna piena che sembrava un occhio iniettato di sangue? No, sarebbero arrivati prima loro, pensava. La domanda era: aveva intenzione di lasciare che accadesse? Incredibilmente una parte di lui lo desiderava. Una parte di lui era in collera con loro. Una parte di lui voleva affrontare Berkowitz e i membri rimasti della sua squadra, domandare loro: Che cosa vi aspettavate che facessi, eh? Andare avanti così, farcendomi di ciambelle, scaricando rifiuti in mezzo alla strada, fregandomene dei dilavamenti quando gli scolmatori si intasavano e l'acqua traboccava? È questo che avreste voluto? Ma c'era un'altra parte di lui che sapeva che un confronto come quello sarebbe stato una follia. Era in forma perfetta, sì, ma si stava sempre parlando di tre contro uno e chi poteva assicurargli che la signora Carlos non avesse prestato ai ragazzi il fucile del marito dicendo loro, sì, prendete quel bastardo e non mancate di dirgli che il primo è da parte mia e delle mie figlie? Negli anni Ottanta Sifkitz aveva un amico con gravi problemi di droga e ricordava che costui gli aveva detto che la prima cosa da fare era sbatterla fuori di casa. Era sempre possibile comprarsene dell'altra, certo, quella merdaccia si trovava ormai dappertutto, a ogni angolo di strada, ma non era una buona scusa per tenerne una scorta quando ce la si poteva procurare in qualsiasi momento se ne avesse avuto la debolezza. Così aveva preso tutta quella che aveva e l'aveva buttata nel cesso. E, fatto quello, aveva buttato nel bidone della spazzatura anche tutta l'attrezzatura. Non era stata quella la fine del suo problema, aveva detto, ma era stato l'inizio della fine. Una sera scese in cantina con un cacciavite. Aveva tutte le intenzioni di smontare la cyclette e pazienza se aveva puntato la sveglia sulle sei, come sempre faceva, quella era solo un'abitudine. La sveglia (come i biscotti alle uvette e la lattina serale di Red Bull) facevano parte della sua attrezzatura, evidentemente; erano i suoi preliminari ipnotici, i meccanismi del suo sogno. E dopo che avesse ridotto la cyclette in pezzi impedalabili, avrebbe messo la sveglia fuori con le altre immondizie, proprio come aveva fatto il suo amico con la sua pipetta. Avrebbe provato una fitta di dolore, naturalmente, quella solida, piccola Brookstone non aveva certamente colpa della situazione idiota in cui era andato a cacciarsi, ma l'avrebbe buttata via lo stesso. Da bravo cowboy, si dicevano l'un con l'altro da bambini; piantala di frignare e fa' il bravo cowboy. Vide che la cyclette era composta da quattro parti principali e che per smontarla completamente avrebbe avuto bisogno anche di una chiave in-
glese. Niente di grave, cominciamo dal cacciavite. Lo avrebbe usato per togliere i pedali. Dopodiché avrebbe cercato una chiave regolabile nella cassetta degli attrezzi del custode. Appoggiò a terra un ginocchio, infilò la lama del cacciavite nel taglio della prima vite ed esitò. Si chiese se il suo amico si fosse fatto un'ultima pipata prima di buttare tutto nel cesso, giusto un'ultima dose in celebrazione dei bei tempi che furono. Avrebbe scommesso di sì. Un po' di coca in circolo aveva probabilmente mitigato la voglia e facilitato l'operazione distruttiva. E se si fosse concesso un'ultima pedalata per poi inginocchiarsi a staccare i pedali carico di endorfine, non si sarebbe sentito forse un po' meno depresso? Non avrebbe evitato così di immaginarsi Berkowitz, Freddy e Whelan che entravano nel primo bar lungo la strada dove avrebbero comprato prima una caraffa di Rolling Rock e poi un'altra, brindando alla memoria di Carlos e felicitandosi l'un l'altro per aver fatto fuori il bastardo? «Tu sei matto», mormorò tra sé e infilò di nuovo la punta del cacciavite nella tacca. «Falla fuori.» Arrivò anche a dare un primo giro di cacciavite (e fu facile: chiunque avesse assemblato quell'attrezzo nel magazzino della Fitness Boys non ci aveva messo evidentemente molto impegno), ma quando lo fece i biscotti che aveva nel taschino scivolarono su un lato e allora pensò a com'erano sempre tanto buoni quando li gustava pedalando. Staccavi la mano destra dal manubrio, la infilavi nel taschino, sgranocchiavi un paio di bocconi e poi li sciacquavi con un sorso di tè. Una combinazione perfetta. Era semplicemente così bello pedalare di lena consumando un piccolo picnic lungo la via e quei figli di puttana volevano rovinare tutto. Una decina di giri della vite, forse anche meno, e il pedale sarebbe caduto sul pavimento di cemento: clank. Poi sarebbe potuto passare all'altro e finalmente passare a una vita normale. Non è giusto, pensò. Un'ultima pedalata, in onore dei bei tempi andati, pensò. E, inforcando la cyclette e calando il culo sul sellino (di gran lunga più sodo e tonico di com'era stato il giorno del colesterolo scritto in rosso), pensò: È così che vanno sempre queste storie, no? È così che finiscono sempre, con il povero babbeo che dice che questa è l'ultima volta, non lo farò mai più. Assolutamente vero, pensò, ma scommetto che nella vita reale la gente la fa franca. Scommetto che la fa franca puntualmente.
Qualcosa dentro di lui mormorò che la vita reale non era mai stata così, quello che stava facendo lui (e quello che stava sperimentando) non somigliava minimamente alla vita reale come lui la concepiva. Scacciò la voce molesta, si tappò le orecchie per non sentirla. Era una serata bellissima per una pedalata nei boschi. 6. Non proprio il finale che tutti si aspettavano Eppure gli fu offerta ancora un'occasione. Quella fu la sera in cui sentì chiaramente per la prima volta dietro di sé il rombo del motore lanciato e giusto un attimo prima che suonasse la sveglia, dalla Raleigh su cui pedalava spuntò improvvisa un'ombra allungata sulla strada davanti a lui, il genere di ombra che poteva essere creata solo dai fanali di un veicolo. Poi la sveglia suonò, non un raglio ma una vibrazione lontana che aveva qualcosa di melodico. Il pick-up si avvicinava. Non aveva bisogno di girare la testa per vederlo (ma chi mai ha voglia di girarsi e vedere il temuto inseguitore ormai così a ridosso, meditò più tardi quella stessa sera Sifkitz, sdraiato sveglio e ancora avviluppato nella fredda e insieme scottante sensazione di un disastro evitato per un pelo o una frazione di secondo). Vide l'ombra diventare sempre più lunga e più scura. Fate in fretta, vi prego, signori, è ora, pensò, e chiuse con forza gli occhi. Sentiva ancora il trillo della sveglia, ma ancora non era che un ronfare quasi suadente, di certo il suo volume non era aumentato; era aumentato piuttosto quello del motore, il motore del pick-up di Freddy. Gli era quasi addosso e supponiamo che non avessero voglia di sprecare neanche un minuto newyorkese in conversazione? Supponiamo che quello che si trovava in quel momento al volante avesse semplicemente premuto l'acceleratore schiacciandolo sotto le ruote? Come un qualsiasi animale selvatico? Non perse tempo ad aprire gli occhi per avere conferma che davanti a lui c'era ancora la strada deserta e non la nicchia della cantina. Li strinse invece ancora di più, concentrando tutta la sua attenzione sul trillo della sveglia, e questa volta trasformò la voce educata del barista in un ruggito impaziente FATE PRESTO PER PIACERE SIGNORI È ORA! E all'improvviso, grazie al cielo, fu il rombo del motore a spegnersi mentre il suono della Brookstone cresceva, ridiventando il vecchio, familiare raglio dello sveglia-sveglia-sveglia-sveglia. E questa volta, quando
aprì gli occhi, vide la proiezione della strada e non la strada. Ma intanto il cielo era diventato nero, la notte aveva nascosto il suo rosso organico. La strada era ben illuminata e l'ombra della bici - una Raleigh - si disegnava nitida e nera sull'asfalto cosparso di foglie. Avrebbe potuto illudere se stesso pensando di essere sceso dalla cyclette per dipingere quei cambiamenti mentre era nella sua trance pomeridiana, ma non se la sarebbe mai bevuta e non solo perché non aveva pittura sulle mani. Questa è la mia ultima occasione, pensò. La mia ultima occasione di evitare il finale che tutti si aspettano in storie come questa. Ma era semplicemente troppo stanco, troppo scosso, per occuparsi in quel momento della cyclette. Ci avrebbe pensato l'indomani. Anzi, l'indomani mattina, per prima cosa. Ora come ora voleva solo uscire da quel luogo orribile dove la realtà si era ridotta a un velo così sottile. E con questo intento ben saldo nella mente, Sifkitz andò barcollando alla cassa di fianco alla porta (sulle gambe di gomma, coperte da una pellicola di sudore appiccicoso, l'afrore che è prodotto dalla paura più che dallo sforzo fisico) e spense la sveglia. Poi salì a sdraiarsi sul letto. Dopo moltissimo tempo arrivò il sonno. L'indomani mattina scese in cantina per le scale, rinunciando all'ascensore e camminando a passi sicuri, con la testa alta e le labbra compresse, da vero uomo in missione. Andò direttamente alla cyclette ignorando la sveglia sulla cassa per le arance, si abbassò su un ginocchio, impugnò il cacciavite. Lo infilò ancora una volta nella testa della vite, una delle quattro con cui era fissato il pedale sinistro... ... e senza sapere come filava di nuovo a velocità vertiginosa sulla strada nella luce dei fari che s'intensificava intorno a lui finché gli sembrò di essere su un palcoscenico dove il buio più fitto circoscrive quel singolo occhio di bue. Il motore del pick-up era troppo rumoroso (qualcosa di guasto nella marmitta o una crepa nel tubo di scarico), ed era anche mal regolato. Difficile che il vecchio Freddy lo avesse portato dal meccanico per l'ultima revisione. No, non con le rate della casa da pagare, il pane da mettere in tavola, i bambini che avevano ancora bisogno dell'apparecchio per i denti e niente paga settimanale. Pensò: Ho avuto la mia occasione. L'ho avuta ieri sera e non l'ho colta. Pensò: Perché l'ho fatto? Perché, quando già lo sapevo? Pensò: Perché mi ci hanno spinto loro. Sono stati loro. Pensò: Mi investiranno e morirò nel bosco. Ma il pick-up non lo investì. Lo sorpassò a destra, con le ruote che sob-
balzarono rumorosamente sulle irregolarità del ciglio ingombro di foglie, poi sterzò bruscamente davanti a lui bloccandolo. Preso dal panico, Sifkitz dimenticò la prima cosa che suo padre gli aveva insegnato quando aveva portato a casa la bicicletta nuova: quando ti fermi, Richie, gira i pedali all'indietro. Usa i freni posteriori mentre contemporaneamente schiacci la leva di quelli anteriori. Altrimenti... Quella volta fu altrimenti. Nel panico strinse entrambe le mani, schiacciando la leva di sinistra che bloccava la ruota anteriore. La bici lo disarcionò catapultandolo sul pick-up con la scritta LIPID COMPANY sullo sportello di guida. Protese le mani che ricevettero dal cassone del pick-up un colpo abbastanza violento da renderle insensibili. Poi si accartocciò su se stesso domandandosi quante ossa si fosse rotto. Gli sportelli sopra di lui si aprirono e Sifkitz sentì crepitare le foglie sotto il peso delle scarpe da lavoro degli uomini che erano scesi. Non alzò la testa. Aspettò che lo afferrassero e lo tirassero su, ma non lo fece nessuno. Le foglie avevano l'odore di vecchia cannella secca. I passi lo superarono da una parte e dall'altra, poi il crepitio cessò bruscamente. Sifkitz si alzò a sedere e si guardò le mani. Gli sanguinava il palmo destro e il polso sinistro stava già cominciando a gonfiarsi, ma non gli parve di esserselo rotto. Si guardò intorno e la prima cosa che vide - rossa nel riverbero dei fanalini di coda del Dodge - fu la sua Raleigh. Era stata bellissima quando suo padre l'aveva portata a casa dal negozio, ma non era più così. La ruota anteriore era deformata in una maniera impensabile e quella posteriore si era parzialmente staccata. Per la prima volta provò un sentimento diverso dalla paura. Questa nuova emozione era collera. Si alzò un po' traballante. Al di là della Raleigh, nella direzione da cui era arrivato, c'era uno squarcio nella realtà. Era stranamente organico, come se stesse guardando attraverso l'apertura in fondo a un tubo all'interno del proprio corpo. I bordi fremevano e si gonfiavano e si flettevano. Dall'altra parte c'erano tre uomini fermi intorno alla cyclette nella nicchia della cantina, in una posa che riconobbe per averla vista in chissà quante squadre di manovali. Quelli erano uomini con un lavoro da fare. Stavano decidendo come. E all'improvviso capì perché li aveva battezzati in quel modo. Era in effetti di una semplicità ridicola. Quello con il cappello con la scritta LIPID, Berkowitz, era David Berkowitz, il cosiddetto Figlio di Sam, il serial killer protagonista fisso del New York Post l'anno in cui Sifkitz era arrivato a Manhattan. Freddy era Freddy Albemarle, un ragazzo che aveva conosciu-
to al liceo; erano stati nella banda insieme e se erano diventati tanto amici era per una ragione molto semplice: entrambi detestavano la banda, ma i loro genitori avevano insistito. E Whelan? Un artista che aveva conosciuto non ricordava più a quale convegno. Michael Whelan? Mitchell Whelan? Il nome gli era scappato di mente, ma sapeva che era specializzato in fantasy, draghi e cose simili. Avevano passato una serata nel bar dell'albergo raccontandosi storie sui comici orrori dei cartelloni cinematografici. Poi c'era Carlos, che si era sparato nel garage di casa. Per lui si era ispirato a Carlos Delgado, noto anche come il Big Cat. Per anni Sifkitz aveva seguito le fortune dei Blue Jays di Toronto semplicemente perché non voleva essere come tutti gli altri newyorkesi appassionati di baseball e tifare per gli Yankees. Il Cat era stato uno dei pochissimi campioni della squadra di Toronto. «Siete tutte mie creature», disse con una voce quasi afona di raucedine. «Vi ho creati da ricordi e pezzi di ricambio.» Era proprio così, naturalmente. E non era la prima volta. I ragazzini sulla pedana di lancio in stile Norman Rockwell per le Fritos, per esempio: dietro sua richiesta l'agenzia pubblicitaria gli aveva fornito le fotografie di quattro ragazzi dell'età giusta e Sifkitz non aveva fatto altro che riprodurli nel suo disegno. Le madri avevano firmato le necessarie liberatorie; era stata ordinaria amministrazione. Se l'avevano sentito, Berkowitz, Freddy e Whelan non ne diedero segno. Si scambiarono tra loro alcune parole che Sifkitz non riuscì a decifrare; sembravano giungergli da una grande distanza. La conseguenza della confabulazione fu comunque che Whelan lasciò la nicchia in cantina mentre Berkowitz si inginocchiava accanto alla cyclette, proprio come aveva fatto Sifkitz. Berkowitz raccolse il cacciavite e in quattro e quattr'otto il pedale sinistro cadde sul pavimento: clank. Sifkitz, sempre sulla strada deserta, guardò attraverso quello strano buco organico Berkowitz che porgeva il cacciavite a Freddy Albemarle, quello che, con Richard Sifkitz, suonava uno strazio di tromba nella non meno straziante banda del liceo. Nella foresta canadese una civetta chiurlò, un verso di inesprimibile solitudine. Freddy si mise al lavoro sull'altro pedale. Intanto tornò Whelan armato di chiave inglese. Vedendola, Sifkitz provò una fitta al cuore. Mentre li osservava, il pensiero che formulò la mente di Sifkitz fu: Se vuoi che una cosa sia fatta bene, rivolgiti a un professionista. Di certo Berkowitz e i suoi ragazzi non persero tempo. In meno di quattro minuti la cyclette era smontata: due ruote e tre elementi separati del telaio, posati sul
cemento in un ordine così perfetto da ricordare quelle illustrazioni che si chiamano «disegni esplosi». Berkowitz intanto si lasciò cadere viti e dadi nelle tasche dei calzoni, che gli si gonfiarono come se fossero piene di spiccioli. Rivolse a Sifkitz uno sguardo eloquente, mentre lo faceva, uno sguardo che rianimò la sua collera. Quando finalmente la squadra ripassò per quell'apertura simile a un condotto (abbassando la testa come si fa per una porta troppo bassa), Sifkitz aveva stretto di nuovo i pugni, anche se la tensione gli procurava un dolore d'inferno al polso sinistro. «Sai una cosa?» domandò a Berkowitz. «Non credo che tu possa farmi del male. Io non credo che tu possa farmi niente, perché altrimenti sai che ti succede? Tu non sei nient'altro che un... un subappaltatore!» Berkowitz lo guardò senza batter ciglio da sotto la visiera storta del berretto. «Vi ho creati io!» esclamò Sifkitz puntando su ciascuno di loro l'indice destro come la canna di una pistola. «Tu sei il Figlio di Sam! Tu non sei altro che la versione adulta di un ragazzo con cui ero nella banda del liceo delle Sorelle della Misericordia! Non sapevi suonare quella tromba in mi bemolle neanche a piangere in cinese! E tu sei un grafico, specializzato in draghi e fanciulle stregate!» I membri superstiti della Lipid Company rimasero imperterriti. «E tu allora?» lo apostrofò Berkowitz. «Ci hai mai pensato? Vorresti dirmi che là fuori non potrebbe esserci un mondo molto più grande? Per quel che ne sai, tu potresti non essere altro che un pensiero che passa per caso nella testa di un ex impiegato della pubblica amministrazione disoccupato mentre se ne sta seduto sul water per la sua cacata mattutina leggendo il giornale.» Sifkitz aprì la bocca per rispondere che era ridicolo, ma qualcosa negli occhi di Berkowitz gliela fece richiudere. C'era troppa sapienza in quegli occhi. Avanti, gli dicevano. Fai una domanda. Ti dirò più di quanto avresti mai voluto sapere. Ciò che Sifkitz disse invece fu: «Che cosa vi dà il diritto di venirmi a dire che non posso rientrare in forma? Volete che schiatti a cinquant'anni? Dio santo, ma che cosa vi ha preso?» «Io non sono un filosofo, amico», ribatté Freddy. «So solo che il mio pick-up ha bisogno di una regolata che non mi posso permettere.» «E io ho un figlio che ha bisogno di scarpe ortopediche e un altro che ha bisogno di un logopedista», fece eco Whelan.
«I ragazzi che lavorano al megaprogetto del tunnel, giù a Boston, hanno un detto», intervenne Berkowitz. «'Non ammazzare il lavoro, lascialo morire da solo.' Noi non chiediamo altro, Sifkitz. Lasciaci pucciare il becco, lasciaci guadagnare da vivere.» «È pazzesco», borbottò Sifkitz. «Assolutamente...» «Non me ne frega un cazzo del tuo punto di vista, stronzo!» gridò Freddy e Sifkitz vide che era sull'orlo delle lacrime. Quel faccia a faccia era stressante per loro quanto lo era per lui. In un certo senso rendersene conto fu più traumatico di tutto il resto. «Non me ne frega un cazzo di te, tu non sei niente, tu non lavori, tu fatti le tue pedalate ma non togliere il pane di bocca ai miei figli, capito? Non ti ci provare!» Si fece avanti, chiudendo i pugni e andando a piantarsi davanti a lui in un'assurda posa alla John L. Sullivan. Berkowitz gli posò una mano sul braccio e lo tirò indietro. «Non metterla giù dura, amico», disse Whelan. «Vivi e lascia vivere, d'accordo?» «Tu lasciaci pucciare il becco», ripeté Berkowitz e naturalmente Sifkitz riconobbe la battuta, aveva letto Il padrino e aveva visto tutti i film. Era forse possibile che qualcuno di loro usasse una parola o un'allocuzione che non si trovasse nel suo vocabolario? Ne dubitava. «Lasciaci conservare la nostra dignità. Credi che potremmo metterci a disegnare per guadagnarci la pagnotta, come fai tu?» Rise. «Sarebbe da vedere. Se io disegnassi un gatto, sotto dovrei scriverci 'gatto' perché la gente possa capire che cos'è.» «Hai ucciso Carlos», disse Whelan e, se la sua voce avesse assunto un tono d'accusa, Sifkitz aveva il sospetto che sarebbe potuto montare nuovamente in collera. Ma sentì solo cordoglio. «Gli avevamo detto di tenere duro, che sarebbe passata, ma non era un uomo forte. Non è mai stato bravo a cercare di guardare più avanti. Aveva perso la speranza.» Whelan s'interruppe e guardò il cielo buio. A breve distanza il Dodge di Freddy rumoreggiava tossendo. «Ne aveva sempre avuta poca. Certa gente nasce così.» Sifkitz si rivolse a Berkowitz. «Lasciatemi capire bene. Quello che volete...» «È che non ammazzi il lavoro», disse Berkowitz. «Solo questo vogliamo. Che lasci che il lavoro muoia da solo.» Sifkitz ci pensò su e vide che probabilmente poteva accontentarlo. Anzi, forse sarebbe stato persino facile. C'era gente che, dopo aver mangiato una ciambella alla crema, non può fare a meno di finire tutta la scatola. Se lui fosse stato quel tipo d'uomo, quei ragazzi avrebbero avuto per le mani un
gran brutto problema... ma lui non lo era. «Okay», rispose. «Perché non proviamo?» E a quel punto gli venne un'idea. «Pensate che potrei avere un berretto come quello?» Indicò quello sulla testa di Berkowitz. Berkowitz sorrise. Fu un sorriso breve, ma più autentico della risata che aveva accompagnato la battuta sul gatto sotto il cui disegno avrebbe dovuto scrivere che cos'era. «Si può organizzare.» Sifkitz pensò che Berkowitz gli avrebbe teso la mano, ma il caposquadra non lo fece. Lo squadrò un'ultima volta da sotto la visiera del suo berretto e si avviò verso la cabina del pick-up. Gli altri lo seguirono. «Quanto tempo deve passare prima che decida che non è mai successo?» domandò Sifkitz. «Che ho smontato da solo la cyclette perché... non so... semplicemente perché mi ero stufato?» Berkowitz si fermò con la mano sullo sportello e si girò a guardarlo. «Tu quanto tempo vuoi che passi?» chiese. «Non lo so», rispose Sifkitz. «Ehi, ma è proprio bello da queste parti, vero?» «Lo è sempre stato», dichiarò Berkowitz. «L'abbiamo sempre curato come si deve.» C'era un sottofondo di ripicca nella sua voce che Sifkitz scelse di ignorare. Rifletté che anche una creazione della propria fantasia potesse avere il proprio orgoglio. Per qualche momento rimasero fermi così sulla strada che da qualche tempo Sifkitz aveva ribattezzato la Grande Trans-Canadian Perduta, un titolo alquanto grandioso per un'anonima sterrata in mezzo ai boschi, ma anche alquanto simpatico. Nessuno di loro aprì bocca. In lontananza la civetta chiurlò di nuovo. «Al chiuso o all'aperto, per noi fa lo stesso», disse Berkowitz. Poi aprì lo sportello e montò. «Riguardati», disse Freddy. «Ma non troppo», aggiunse Whelan. Sifkitz guardò il pick-up eseguire una magistrale inversione sulla strada stretta e ripartire nella direzione da cui era arrivato. L'apertura dall'aspetto organico era scomparsa, ma Sifkitz non se ne preoccupò. Non prevedeva di avere difficoltà a tornare indietro quando fosse giunto il momento. Berkowitz non tentò di evitare la Raleigh, ma ci passò sopra senz'altro, finendo un lavoro che era già finito. I raggi delle ruote si spezzarono in un concerto di gemiti e stridii. I fanalini di coda diventarono sempre più piccoli e finalmente sparirono dietro una curva. Sifkitz udì ancora per qualche tempo
il rombo del motore, ma poi si spense anche quello. Si sedette in strada, poi si sdraiò sulla schiena posandosi il dolorante polso sinistro sul petto. Non c'erano stelle nel cielo. Si sentiva molto stanco. Meglio non addormentarsi, si ammonì, potrebbe saltar fuori qualcosa dal bosco, magari un orso, e mangiarti vivo. Poi si addormentò lo stesso. Quando si svegliò, era sul pavimento di cemento della nicchia. Intorno a lui erano sparpagliati i pezzi della cyclette, ora privi di viti e dadi. La sveglia sulla cassa indicava le 20.43. Qualcuno l'aveva evidentemente spenta. L'ho smontata da me, pensò. Questa è la mia versione e se continuerò a ripeterla tra non molto ci crederò. Salì nell'atrio dell'edificio e decise di avere fame. Pensò di fare un salto al suo ristorantino a mangiare una fetta di torta di mele. La torta di mele non era la merenda più nociva del mondo, giusto? E quando ci arrivò, decise di ordinarla con tanto di gelato alla crema. «Che diamine», disse alla cameriera. «Si vive una volta sola, no?» «Be'», rispose lei, «non è quello che pensano gli indù, ma se è così che vuole...» Due mesi più tardi Sifkitz ricevette un pacco. Lo aspettava nell'atrio del palazzo quando rientrò da una cena con il suo agente (Sifkitz aveva mangiato pesce e verdure al vapore, ma non si era negato una crème brûlée). Sul pacco non c'era francobollo, niente Federal Express, Airborn Express o UPS, niente timbri o altro. Solo il suo nome, in uno stampatello scomposto: RICHARD SIFKITZ. Ecco uno che dovrebbe scrivere GATTO sotto il disegno di un gatto, pensò, e non riuscì a spiegarsi perché avesse avuto quel pensiero. Salì in casa e prese un coltellino dal suo tavolo da lavoro per aprire il pacco. Dentro, protetto da spessi strati di carta velina, c'era un berretto nuovo di zecca, di quelli con la fascetta di plastica regolabile sul retro. La targhetta all'interno diceva MADE IN BANGLADESH. Sulla visiera, in un rosso scuro che gli fece ricordare il sangue arterioso, c'era un'unica parola: LIPID. «Cos'è?» chiese al suo studio deserto, rigirandosi tra le mani il berretto. «Un qualche componente del sangue, vero?» Si provò il berretto. All'inizio era troppo piccolo, ma quando ebbe regolato la fascetta sul retro, aderì alla sua testa alla perfezione. Si guardò nello specchio in camera da letto e ancora non gli piacque. Lo tolse, piegò la visiera incurvandola e lo provò di nuovo. Ora era quasi giusto. Sarebbe ulteriormente migliorato quando si fosse tolto quegli abiti eleganti e infilato un paio di jeans imbrattati di colori. Allora sarebbe sembrato un vero lavora-
tore... cosa che era, alla faccia di quel che pensavano certe persone. Indossare il berretto con la scritta LIPID quando dipingeva finì per diventare un'abitudine, come concedersi una razione doppia il sabato e la domenica e una fetta di torta di mele con il gelato alla crema al ristorantino il giovedì sera. Filosofia indù o no, Richard Sifkitz era dell'opinione che si sta in gara una volta sola. In tal caso, forse è giusto concedersi un pochino di ogni cosa. Le cose che hanno lasciato indietro Le cose di cui vi voglio raccontare, quelle che hanno lasciato indietro, sono comparse a casa mia nell'agosto del 2002. Ne sono sicuro, perché le ho trovate quasi tutte poco dopo aver aiutato Paula Robeson con il suo condizionatore. Il ricordo necessita sempre di un riferimento e questo è il mio. Paula era un'illustratrice di libri per bambini, bella (diavolo, molto bella), con un marito nell'import-export. Un uomo tende a ricordare le occasioni che gli capitano di poter dare una mano a una bella signora in difficoltà (persino una che continua a ripeterti di essere «molto sposata»); sono occasioni fin troppo rare. Di questi tempi di solito i cavalieri erranti in pectore riescono solo a peggiorare la situazione. Era nell'atrio dello stabile con un'aria frustrata quando scesi per una passeggiatina pomeridiana. Le dissi Salve, come va, come si fa con le persone che abitano nel tuo stesso palazzo e lei, in un tono esasperato per non dire quasi querulo, mi chiese perché mai il custode dovesse essere in vacanza proprio adesso. Io le feci notare che anche alle cowgirl viene la malinconia e anche i custodi vanno in vacanza; quell'agosto, per di più, era un mese estremamente logico per prendersi una pausa. A New York (e a Parigi, chère amie) in agosto si avverte una tangibile carenza di psicoanalisti, artisti di tendenza e custodi di stabili. Lei non sorrise. Dubito che avesse colto il riferimento a Tom Robbins (l'allusività è la maledizione dei corsi di lettura). Rispose che agosto poteva anche essere il mese giusto per chiudere bottega e andarsene al Cape o a Fire Island, ma il suo dannato appartamento stava praticamente andando a fuoco e il suo dannato condizionatore non si degnava di fare nemmeno un rutto. Le chiesi se voleva che ci dessi un'occhiata e ricordo lo sguardo che mi lanciò, quegli occhi grigi che mi scrutavano con freddezza. E ricordo che sorrisi alla domanda che mi pose: Mi posso fidare? Mi fece tornare alla mente quel film, non Lolita (il pensiero di Lolita, verso le due di notte,
venne più tardi) ma quello in cui Lawrence Olivier fa un lavoretto improvvisato ai denti di Dustin Hoffman, continuando a chiedergli Mi posso fidare? Si può fidare, risposi. È più di un anno che non aggredisco una donna. Ne assalivo due o tre alla settimana, ma la terapia di gruppo sta funzionando. Una stravaganza, ma ero in uno stato d'animo abbastanza stravagante. Uno stato d'animo estivo. Lei mi guardò una seconda volta e poi fu lei a sorridere. Mi porse la mano. Paula Robeson, disse. Fu la mano sinistra, quella che mi offrì, una cosa non molto normale, ma era quella con la fede nuziale, una semplice fascetta d'oro. Io penso che fosse di proposito, non vi sembra? Ma fu più tardi che mi disse che suo marito era nell'importexport. Il giorno in cui toccò a me chiedere aiuto a lei. In ascensore l'avvertii di non aspettarsi troppo. Ora, se avesse voluto un uomo che scoprisse le cause alla radice dei Draft Riots di New York, o che le raccontasse qualche aneddoto divertente sull'invenzione del vaccino contro il vaiolo, o anche che le raccogliesse citazioni sulle ramificazioni sociologiche del telecomando TV (la più importante invenzione degli ultimi cinquant'anni, secondo la mia modesta opinione), io ero l'uomo giusto. Lei si occupa di ricerche, signor Staley? mi domandò mentre salivamo nell'ascensore lento e rumoroso. Lo ammisi, anche se non aggiunsi di essere ancora alle prime armi. Né la invitai a chiamarmi Scott: l'avrei messa di nuovo sul chi vive. E certamente non le confessai che stavo cercando di dimenticare tutto quello che avevo saputo un tempo sulle assicurazioni nelle zone rurali. Che, per la verità, stavo cercando di dimenticare un gran numero di cose, fra cui una ventina di facce. Vedete, io posso anche cercare di dimenticare, ma ricordo lo stesso un bel po'. Credo che sia così per tutti, quando facciamo mente locale (e qualche volta, in una maniera molto più spiacevole, quando non la facciamo). Ricordo finanche la frase che disse uno di quei romanzieri sudamericani (sapete, quelli del realismo magico). Non uno in particolare, non è importante, ma questo aforisma: Da neonati, la nostra prima vittoria sta nel tenere in pugno un pezzettino del mondo, di solito le dita di nostra madre. Più tardi scopriamo che il mondo, e le cose del mondo, stanno tenendo in pugno noi, e lo fanno fin dal principio. Borges? Sì, può essere stato Borges. O forse era Márquez. Questo, non lo ricordo. So solo che feci funzionare il suo condizionatore e quando la
macchina cominciò a soffiare aria fresca, il suo viso s'illuminò. So anche che è vero quel fenomeno per cui la percezione si ribalta e allora ci rendiamo conto che le cose che pensavamo di essere noi a tenere, stanno in realtà tenendo noi. Ci tengono prigionieri, forse - di certo così pensava Thoreau - ma ci tengono anche al nostro posto. È in questo che sta lo scambio. E quale che fosse stata l'opinione di Thoreau io credo che sia equo. O lo credevo allora; ora non ne sono altrettanto sicuro. E so che questi fatti avvennero alla fine dell'agosto del 2002, meno di un anno da quando cadde un pezzo di cielo e per noi tutti tutto cambiò. Più o meno una settimana dopo che Sir Scott Staley aveva indossato la sua armatura da Buon Samaritano e affrontato e sconfitto il temibile condizionatore, scesi per la mia passeggiata pomeridiana fino da Staples nell'Ottantatreesima Strada per comprare una confezione di dischetti e una risma di carta. C'era un tizio che aspettava da me quaranta pagine di relazione sullo sviluppo della fotocamera Polaroid (una storia molto più interessante di quanto potreste immaginare). Quando tornai a casa, sul tavolino dell'ingresso dove tengo le bollette da pagare, assegni di indennizzo, avvisi di scadenze per libri presi a prestito e cose di questa natura, c'era un paio di occhiali da sole con una montatura rossa e lenti molto particolari. Li riconobbi subito e di colpo mi vennero a mancare le forze. Non cascai, ma lasciai cadere gli oggetti che avevo in mano e mi appoggiai allo stipite, cercando di riprendere fiato mentre fissavo quegli occhiali da sole. Se non avessi avuto qualcosa contro cui sostenermi, credo che sarei svenuto come una fanciulla di un romanzo vittoriano, uno di quelli in cui allo scoccar della mezzanotte fa la sua apparizione il vampiro bramoso. Fui colto da due ondate emotive distinte ma in relazione tra loro. La prima fu la sensazione di orripilata vergogna che si prova quando si sa di essere sul punto di venir colti in un atto che non si sarà mai in grado di spiegare. Il ricordo che mi affiora alla mente a questo proposito è di un episodio che mi è accaduto, o quasi accaduto, quando avevo sedici anni. Mia madre e mia sorella erano andate a far compere a Portland e presumevo di avere la casa tutta per me fino a sera. Me ne stavo sdraiato nudo sul mio letto con l'uccello avvolto in un paio di mutandine di mia sorella. Sul letto c'erano fotografie che avevo ritagliato da riviste trovate in fondo alla rimessa, molto probabilmente la raccolta segreta di Penthouse e Gallery del proprietario precedente. Sentii lo scricchiolio della ghiaia del nostro vialetto d'accesso sotto le ruote di una macchina. Impossibile non ri-
conoscere il suono di quel motore: erano mia madre e mia sorella. Peg si era sentita male e aveva cominciato a vomitare dal finestrino. Erano arrivate fino a Poland Springs ed erano tornate indietro. Guardai le foto sparse sul letto, i miei indumenti sparsi per terra, e il fiocco di rayon rosa nella mia mano sinistra. Ricordai come mi vennero a mancare le forze, sostituite da un terribile senso di sfinitezza. Mia madre mi chiamava a gran voce - «Scott, Scott, vieni giù ad aiutarmi con tua sorella, non si sente bene» - e ricordo di aver pensato: A che serve? M'hanno beccato. Tanto vale accettarlo, m'hanno beccato e questa è la prima cosa che gli verrà in mente quando penseranno a me per il resto della mia vita: Scott, l'artista della sega. Ma in momenti come quelli il più delle volte scatta una specie di molla della sopravvivenza. È quello che accadde a me. Sarei sceso, decisi, ma non lo avrei fatto senza almeno un tentativo di salvare la mia dignità. Buttai sotto il letto le foto e le mutandine. Poi m'infilai nei miei vestiti manovrando con gran velocità e sicurezza le dita intorpidite, mentre continuavo a pensare alla gara contro il tempo, che guardavo sempre in TV in un vecchio show. Ricordo mia madre che mi toccava la guancia accaldata, quando scesi le scale, e la pensierosa preoccupazione nei suoi occhi. «Forse ti stai ammalando anche tu», disse. «Forse sì», dissi io con un buon motivo per rallegrarmi. Dovette passare mezz'ora prima che scoprissi d'essermi dimenticato la patta aperta. Per fortuna non se ne accorsero né Peg né mia madre, quando in qualsiasi altra occasione l'una o l'altra mi avrebbero chiesto se avevo la licenza per la vendita di hot dog (questo era il tipo di umorismo vigente nella casa in cui sono cresciuto). Quel giorno una di loro era troppo malata e l'altra troppo preoccupata per fare dello spirito. Così la passai totalmente liscia. Per mia fortuna. L'ondata emotiva che seguì la prima reazione in quel giorno di agosto nel mio appartamento fu molto più semplice: pensai che stessi impazzendo. Perché quegli occhiali non potevano essere lì. Mai e poi mai. No. Escluso. Poi alzai gli occhi e vidi qualcos'altro che nella maniera più assoluta non era a casa mia mezz'ora prima quando ero uscito per andare da Staples (chiudendo la porta a chiave come facevo sempre). Nell'angolo tra il cucinino e il soggiorno era appoggiata una mazza da baseball. HILLERICH &
BRADSBY, secondo l'etichetta. E anche se non potevo vedere l'altro lato, sapevo benissimo che cosa c'era inciso: LIQUIDATORE, marchiato a caldo nel frassino con una punta di ferro rovente e quindi colorato di blu scuro. Fui percorso da un'altra sensazione, una terza ondata. Era una specie di sgomento surreale. Non credo ai fantasmi, ma sono sicuro che in quel momento avevo la faccia di chi ne ha appena visto uno. E ne avevo anche lo stato d'animo. Eccome. Perché quegli occhiali da sole non dovevano esserci più, spariti da lungo tempo, come cantano le Dixie Chicks. Idem per il Liquidatore di Cleve Farrell. («Il baseball mi fa motto-motto bene», diceva ogni tanto Cleve roteando la mazza sopra la testa seduto alla sua scrivania. «Le assi-CUUURA-zioni fanno motto-motto male.») Feci la sola cosa che mi venne in mente, vale a dire prendere gli occhiali scuri di Sonja D'Amico e tornare al piccolo trotto all'ascensore, tenendoli a distanza di braccio come si fa con qualcosa di spiacevole che hai trovato sul pavimento in casa tua di ritorno da una settimana di vacanza, un pezzo di formaggio ammuffito o il cadavere di un topo avvelenato. Mi ritrovai a ricordare una conversazione che avevo avuto su Sonja con un tizio di nome Warren Anderson. Deve aver dato l'impressione di una che ha pensato di rispuntare per chiedere una Coca-Cola, avevo pensato quando mi aveva raccontato quello che aveva visto. Bevendo insieme un bicchiere al Blarney Stone Pub nella Terza Avenue, era stato, sei settimane dopo la caduta del cielo. Dopo che avevamo brindato insieme per non esser morti. Cose come quelle hanno la tendenza a restarti inculcate, che tu lo voglia o no. Come certe frasi musicali o lo stupido ritornello di una canzone pop che non riesci a toglierti dalla testa. Ti svegli alle tre di notte perché hai bisogno di fare pipì e in piedi davanti alla tazza, con l'uccello in mano e il cervello sveglio sì e no al dieci percento, ti ritorna in mente: Come se avesse pensato di rispuntare. Rispuntare e chiedere una Coca. A un certo punto durante quella conversazione Warren mi aveva chiesto se ricordavo quei suoi buffi occhiali da sole e io avevo risposto di sì. Come no. Quattro piani più giù, Pedro il portiere chiacchierava con Rafe, l'uomo della FedEx, nell'ombra del tendone dell'ingresso. Pedro era un tipo rigoroso riguardo al tempo di sosta da concedere a un fattorino davanti al suo palazzo - aveva una regola dei sette minuti, un orologio da tasca con cui farla rispettare e un'amicizia fraterna con tutti i poliziotti di quartiere - ma
aveva legato con Rafe e alle volte se ne stavano a confabulare lì davanti anche per una ventina di minuti o più, assorti nel blablablà newyorkese. Politica? Baseball? Il Vangelo secondo Henry David Thoreau? Non ne avevo idea e quel giorno proprio non poteva interessarmi di meno. Erano lì quand'ero salito in casa con i miei acquisti ed erano ancora lì quando uno Scott Staley molto meno spensierato ridiscese nell'atrio. Uno Scott Staley che aveva scoperto un piccolo ma importante buco nella colonna della realtà. Il solo fatto che fossero lì mi bastava. Mi avvicinai a loro con la mano destra protesa verso Pedro, la mano in cui reggevo gli occhiali scuri. «Lei come chiamerebbe questi?» domandai senza chiedere permesso o scusarmi, intromettendomi senza remore. Lui mi rivolse uno sguardo perplesso che diceva: Tanta maleducazione da parte sua mi sorprende, signor Staley, mi creda, poi abbassò gli occhi sulla mia mano. Per un lungo momento stette in silenzio inducendomi a una considerazione orrenda: non vedeva niente perché non c'era niente da vedere. Solo la mia mano protesa, come se fosse il giorno della festa delle parti invertite e mi aspettassi che fosse lui a dare la mancia a me. La mia mano era vuota. Per forza, perché gli occhiali da sole di Sonja D'Amico non esistevano più. Gli scherzosi occhiali scuri di Sonja erano spariti da lungo tempo. «Li chiamo occhiali da sole, signor Staley», dichiarò finalmente Pedro. «Come se no? O è una domanda trabocchetto?» Rafe, l'uomo della FedEx, chiaramente più interessato, me li prese dalla mano. Il sollievo di vederlo prendere gli occhiali e guardarli, quasi studiarli, fu quello che si prova quando qualcuno ti gratta quel punto preciso tra le scapole dove senti prurito. Uscì da sotto il tendone e li alzò verso la luce del giorno facendo sprizzare un lampo solare da ciascuna delle lenti a forma di cuore. «Sono come quelli che portava la ragazzina in quel film porno con Jeremy Irons», commentò. Mi venne da sorridere nonostante il momento difficile. A New York anche i fattorini sono critici cinematografici. È una delle cose da amare di quella città. «Infatti, Lolita», dissi io riprendendo gli occhiali. «Solo che gli occhiali scuri a forma di cuore erano nell'altro film, quello diretto da Stanley Kubrick. Quando Jeremy Irons portava ancora il pannolino.» Quella era una precisazione fuori luogo, ma non me ne importava un fico secco. Mi sentivo di nuovo stravagante... ma non in una maniera positiva. Non questa vol-
ta. «Chi faceva la parte del pervertito in quello?» volle sapere Rafe. Scossi la testa. «Ora come ora proprio non ricordo.» «Se mi è permesso», disse Pedro, «la vedo alquanto pallido, signor Staley. Non è che sta covando qualcosa? Un'influenza, forse?» No, quella era mia sorella, pensai di rispondere. Il giorno in cui fui a venti secondi dall'essere sorpreso a masturbarmi nelle sue mutandine guardando una foto di Miss Aprile. Ma non mi avevano sorpreso. Non quella volta e nemmeno l'11-9. Vi ho fregati, ho battuto di nuovo l'orologio sul tempo. Non avrei saputo dire se era così anche per Warren Anderson, che al Blarney Stone mi aveva raccontato che quella mattina si era fermato al secondo piano a parlare degli Yankees con un amico, ma per me non essere sorpreso era diventato una vera specialità. «Sto bene», rassicurai Pedro e, sebbene non fosse vero, sapere di non essere l'unico a vedere gli scherzosi occhiali di Sonja come un oggetto che esisteva veramente nel mondo mi fece sentire almeno un po' meglio. Se quegli occhiali da sole erano nel mondo, probabilmente c'era anche l'Hillerich & Bradsby di Cleve Farrell. «Ma sono proprio quelli là?» chiese all'improvviso Rafe in un tono di voce rispettoso e pronto a rimanerci di sasso. «Quelli del primo Lolita?» «No», risposi ripiegando le stanghette dietro le lenti a forma di cuore e mentre lo facevo mi tornò in mente il nome dell'attrice nella versione di Kubrick: Sue Lyon. Ancora non ricordavo chi aveva interpretato il pervertito. «Solo una scherzosa imitazione.» «Ma hanno qualcosa di speciale?» volle sapere Rafe. «È per questo che è venuto giù di corsa?» «Non so», dissi. «Qualcuno li ha dimenticati a casa mia.» Tornai di sopra prima che potessero farmi altre domande e guardai in giro nella speranza di non trovare nient'altro. Ma qualcosa c'era. Oltre agli occhiali da sole e alla mazza da baseball con LIQUIDATORE inciso a fuoco nel legno, c'erano un Cuscino Scoreggione, una conchiglia di strombo, una monetina d'acciaio sospesa in un cubo di Lucite e un fungo in ceramica (rosso con i pallini bianchi) sulla cui cappella sedeva un'Alice di ceramica. Il Cuscino Scoreggione era appartenuto a Jimmy Eagleton ed era stato protagonista di qualche momento di allegria tutti gli anni in occasione della festa di Natale. L'Alice di ceramica era stata sulla scrivania di Maureen Hannon, un regalo della nipote, mi aveva detto una volta. Maureen aveva fantastici capelli bianchi, che portava lunghi fino alla vita. È una
cosa che si vede di rado in un ambiente aziendale, ma lei ci aveva lavorato per quasi quarant'anni e riteneva di avere il diritto di portare i capelli come più le piaceva. Ricordavo sia la conchiglia, sia la monetina, ma non in quali cubicoli (o uffici) si trovavano. Forse mi sarebbe venuto in mente, forse no. Ce n'erano stati tanti di cubicoli (e uffici) alla Light and Bell Insurers. La conchiglia, il fungo e il cubo di Lucite erano sul tavolino del mio soggiorno, tutti raggruppati. Il Cuscino Scorreggione era posato - giustamente, trovai - sul serbatoio del mio water, di fianco all'ultimo numero della Spenk's Rural Insurance Newsletter. Le assicurazioni rurali erano la mia specializzazione, come mi pare di avervi detto. Conoscevo tutte le probabilità. Qui che probabilità c'erano? Quando qualcosa vi va storto e avete bisogno di parlarne, credo che per la maggior parte di noi il primo impulso è rivolgersi a un familiare. A me questa possibilità era negata. Mio padre aveva issato le vele e preso il largo quando io avevo due anni e mia sorella quattro. Mia madre, che non era tipo da mollare, si rimboccò le maniche e ci fece crescere mentre contemporaneamente gestiva da casa una clearinghouse di vendite per corrispondenza. Credo che quell'attività fosse stata una sua invenzione personale, che le garantì un adeguato tenore di vita (solo il primo anno fu davvero angosciante, mi confidò un giorno). Fumava però come una ciminiera e morì di cancro ai polmoni a quarantotto anni, sette o otto anni prima che Internet potesse farla forse diventare una milionaria dot-com. Mia sorella Peg viveva attualmente a Cleveland, dove aveva sposato la causa della Mary Kay Cosmetics, degli Indiani e del fondamentalismo cristiano, non necessariamente in quest'ordine. Se le avessi telefonato e le avessi raccontato degli oggetti che avevo trovato a casa mia, mi avrebbe consigliato di inginocchiarmi e chiedere a Gesù di entrare nella mia vita. A torto o a ragione, io non credevo che Gesù potesse aiutarmi con il problema che avevo per le mani. Ero dotato del numero standard di zii, zie e cugini, ma vivevano per lo più a ovest del Mississippi ed erano anni che non li vedevo. I Killian (il lato materno della mia famiglia) non erano mai stati parte attiva del parentado. Un biglietto di auguri di compleanno e uno per Natale erano considerati sufficienti a espletare tutti gli obblighi familiari. Un biglietto d'auguri per il giorno di san Valentino o per Pasqua erano un extra. Per le feste di Natale telefonavo a mia sorella, oppure era lei a chiamare me, borbottavamo le
solite stronzate sul ritrovarci da qualche parte «presto» e riattaccavamo con quello che immagino fosse sollievo reciproco. La seconda opzione quando sei nei guai sarebbe probabilmente quella di invitare a bere qualcosa un buon amico, spiegargli la situazione e poi chiedergli consiglio. Ma io ero un ragazzo timido che da adulto era diventato un uomo timido e nella mia attuale attività di ricerca lavoravo da solo (preferibilmente) e di conseguenza non avevo colleghi che potessero evolversi in amici. Me ne ero fatti alcuni nel mio lavoro precedente - Sonja e Cleve Farrell, per citarne due - ma naturalmente sono morti. Conclusi che quando non si ha un amico con cui parlare, l'alternativa migliore è noleggiarne uno. Potevo senz'altro permettermi una piccola terapia e mi sembrava che qualche seduta sul divano di uno psichiatra (quattro sarebbero potute bastare) mi avrebbe offerto l'occasione di spiegare che cosa era successo e di articolare le sensazioni che mi aveva arrecato. Di quanto avrebbero potuto alleggerirmi quattro sedute? Seicento dollari? Forse ottocento? Mi sembrava un prezzo equo per un po' di sollievo. E pensai che potesse anche esserci un bonus. Un outsider disinteressato sarebbe stato forse capace di vedere una spiegazione semplice e ragionevole che a me sfuggiva. Secondo il mio modo di pensare la porta chiusa a chiave tra il mio appartamento e il mondo esterno le escludeva quasi tutte, ma quello era il mio modo di pensare, in fondo. Non era questo il punto? E forse il problema? Mi ero preparato a dovere. Durante la prima sessione avrei spiegato che cosa era successo. Quando mi fossi presentato per la seconda, avrei portato con me gli oggetti in questione: occhiali da sole, cubo di Lucite, conchiglia di strombo, mazza da baseball, fungo di ceramica, lo spassosissimo Cuscino Scorreggione. Una piccola esposizione con esibizione, come si fa alle elementari. Sarebbero rimaste ancora due sessioni durante le quali il mio amico a noleggio e io avremmo potuto determinare l'origine di questo inquietante spostamento dell'asse della mia vita e raddrizzare la situazione. Un solo pomeriggio passato a sfogliare le Pagine Gialle e a comporre numeri al telefono mi bastò a dimostrarmi che, per quanto buona potesse essere in teoria, l'idea della psichiatria era in realtà impraticabile. La più concreta prospettiva di appuntamento che riuscii a trovare fu quando una segretaria mi disse che il dottor Jauss avrebbe forse potuto ricevermi nel gennaio entrante. Lasciò anche intendere che avrebbe dovuto ricorrere a qualche gioco di prestigio per infilarmi nella sua agenda. Con gli altri,
nemmeno un barlume di speranza. Tentai inutilmente cinque o sei terapeuti di Newark e quattro di White Plains, persino un ipnotista del Queens. Mohammed Atta e la sua Pattuglia Suicida avevano fatto forse mottomotto male alla città di New York (per non parlare del settore delle assiCUUURA-zioni), ma da quel singolo infruttuoso pomeriggio telefonico mi fu chiaro che erano stati una manna per la professione psichiatrica, per quanto potessero essersene dispiaciuti gli psichiatri stessi. Nell'estate del 2002, se volevi andarti a sdraiare sul divano di un terapeuta dovevi prendere il numerino e metterti in fila. Con quegli oggetti in casa potevo dormire, ma non bene. Mi bisbigliavano. Rimanevo sveglio a letto, alle volte fino alle due, pensando a Maureen Hannon, che riteneva di aver raggiunto un'età (per non parlare di un livello di indispensabilità) in cui le era consentito portare i suoi straordinari capelli come diavolo preferiva. Oppure ricordavo le varie persone che scorrazzavano al party di Natale agitando il famoso Cuscino Scorreggione che dopo due o tre bicchieri all'avvicinarsi dell'Anno Nuovo diventava uno dei numeri più richiesti e ripetuti. Ricordavo che Bruce Mason mi aveva chiesto se non mi sembrava un clistere per elfi - «elfi», aveva detto - e per associazione ricordai che la conchiglia era sua. Naturale. Bruce Mason, il Signore delle Mosche. E passando all'altro anello della catena associativa trovai il nome e il volto di James Mason, che aveva interpretato Humbert Humbert ai tempi in cui Jeremy Irons portava ancora il pannolino. La mente è una scimmia furbacchiona; certe volte lei brende banana, certe volte lei no. Motivo per il quale ero sceso con gli occhiali, anche se al momento non ero consapevole dell'esistenza di un processo deduttivo. Cercavo solo una conferma. C'è una poesia di George Seferis in cui chiede: «Sono queste le voci dei nostri amici morti o è solo il grammofono?» In certi casi è una buona domanda, una di quelle da rivolgere a qualcun altro. Oppure... ascoltate questa. Una volta, negli ultimi anni Ottanta, verso la fine di una penosa storia d'amore con l'alcol durata due anni, mi svegliai nel mio studio nel cuore della notte dopo essermi addormentato alla scrivania. Feci rotta barcollando verso la camera da letto dove, mentre allungavo la mano all'interruttore, vidi muoversi qualcuno. Mi balenò l'idea (la quasi certezza) di un tossico venuto a rubare con una .32 presa a noleggio da un banco di pegni per pochi dollari nella mano tremante e per poco non mi saltò fuori il cuore dal petto. Accesi la luce con una mano mentre prendevo qualcosa di pesante
dal comò con l'altra - qualunque cosa, mi sarebbe andata bene anche la cornice d'argento della foto di mia madre - quando vidi che l'intruso ero io. Guardavo con gli occhi sgranati me stesso nello specchio sul muro di fronte, con la camicia per metà fuori dei pantaloni e i capelli dritti in testa. Mi sentii disgustato da me stesso, ma anche risollevato. Volevo che fosse così anche questa volta. Volevo che fosse lo specchio, il grammofono, persino qualcuno che mi stesse giocando un brutto scherzo (forse qualcuno che sapeva perché quel giorno di settembre non ero in ufficio). Ma sapevo che non era così. Il Cuscino Scoreggione c'era davvero, era un ospite concreto a casa mia. Potevo far scorrere il pollice sulle fibbie delle scarpe di ceramica di Alice, o l'indice sulla scriminatura tra i gialli capelli di ceramica. Potevo leggere la data sul soldino dentro il cubo di Lucite. Una volta, in luglio, a una festa aziendale a Jones Beach, Bruce Mason, alias l'Uomo della Conchiglia, alias il Signore delle Mosche, portò la sua grossa conchiglia rosa e la suonò soffiandoci dentro per richiamare i convitati a un allegro picnic a base di hot dog e hamburger. Poi cercò di mostrare a Freddy Lounds come si faceva. Il meglio che riuscì a ricavarne Freddy fu una serie di deboli pernacchie simili... be', simili al Cuscino Scoreggione di Jimmy Eagleton. E via che si gira in tondo. In ultima analisi tutte le catene associative si chiudono in un cerchio. Alla fine di settembre ebbi un lampo di genio, una di quelle idee così semplici che non riesci a capire perché non ci hai pensato prima. Perché mi tenevo tutte quelle odiose cianfrusaglie? Perché non me ne sbarazzavo? Non è che mi fossero state affidate; le persone che le avevano possedute non sarebbero tornate un giorno o l'altro a chiedermi di restituirgliele. L'ultima volta che avevo visto la faccia di Cleve Farrell era stato su un manifesto e l'ultimo di quei manifesti era stato rimosso nel novembre del 2001. La sensazione collettiva (sebbene inespressa) era che simili omaggi casalinghi scoraggiassero i turisti, che avevano cominciato a tornare alla spicciolata a Fun City. Quello che era avvenuto era orribile, obiettavano molti newyorkesi, ma l'America c'era ancora e Matthew Broderick non sarebbe stato in The Producers in eterno. Mangiai cibo cinese quella sera, preso da un posto di mio gradimento a un paio di isolati da casa. L'idea era di consumarlo come facevo con tutti i miei pasti serali, guardando Chuck Scarborough che mi spiegava il mondo. Stavo accendendo il televisore quando ci fu l'epifania. Non mi erano stati
affidati, quegli indesiderati souvenir dell'ultimo giorno in cui il mondo era sembrato al sicuro, né erano dei reperti di prova. Un crimine c'era stato, questo sì, eravamo tutti d'accordo, ma i responsabili erano morti e coloro che li avevano spediti in quella folle missione erano latitanti. Forse in futuro ci sarebbero stati dei processi, ma Scott Staley non sarebbe stato chiamato a deporre e il Cuscino Scoreggione di Jimmy Eagleton non sarebbe mai stato classificato come Reperto A. Lasciai in cucina il mio pollo alla Generale Tso ancora chiuso nella sua vaschetta d'alluminio, presi un sacco da lavanderia dal ripiano sopra la mia quasi inutilizzata lavatrice, ci infilai gli oggetti (mentre lo facevo stentavo a credere quanto fossero leggeri o quanto tempo avessi lasciato passare prima di compiere un'operazione così semplice), e scesi in ascensore con il sacco tra i piedi. Andai all'angolo della Settantacinquesima con Park, mi guardai intorno per assicurarmi che nessuno mi stesse osservando (chissà poi perché ero così furtivo), poi mollai i rifiuti al loro posto. Mi allontanai con un'ultima occhiata alle spalle. Il manico della mazza da baseball sporgeva invitante dal cestino. Qualche passante se la sarebbe portata via, non ne dubitavo. Probabilmente prima che Chuck Scarborough lasciasse il posto a John Siegenthaler o chi altri avesse invitato quella sera Tom Brokaw. Di ritorno a casa, mi fermai al Fun Choy a ordinare un nuovo Generale Tso. «Ultimo no buono?» mi chiese Rose Ming alla cassa. Era preoccupata. «Tu dile pelché.» «No, l'ultimo era buonissimo», risposi. «Mi è solo venuta voglia di mangiarne un altro.» Rise come se fosse la cosa più buffa che avesse mai sentito e risi anch'io. Con forza. Il genere di risata che si accompagna bene alla stravaganza. Non ricordavo l'ultima volta che avevo riso così sonoramente e così naturalmente. Certo non dopo che la Light and Bell Insurers era caduta in West Street. Salii in ascensore al mio piano e compii i dodici passi fino al 4-B. Mi sentivo come devono sentirsi le persone gravemente malate quando un giorno si svegliano, si esaminano alla luce sana del giorno e scoprono di non avere più la febbre. Mi incastrai il sacchetto con il pollo sotto il braccio sinistro (una manovra complicata ma praticabile se per un periodo molto breve) e aprii con la chiave. Accesi la luce. Lì, sul tavolino dove lascio i conti da pagare, gli assegni degli indennizzi e gli avvisi dei libri da restituire, c'erano gli scherzosi occhiali da sole di Sonja D'Amico, quelli con la montatura rossa e le lenti da Lolita a forma di cuore. Sonja D'Amico che,
secondo Warren Anderson (il quale, per quanto ne sapevo, era l'unico altro sopravvissuto dei dipendenti della sede centrale della Light and Bell), era saltata dal centodecimo piano della torre colpita. Sosteneva di aver visto una foto che le era stata scattata mentre si lanciava, Sonja con le mani pudicamente premute sulla sottana perché non le scoprisse le cosce, i capelli dritti contro il fumo e il blu del cielo di quel giorno, le punte delle scarpe all'ingiù. La descrizione mi aveva fatto pensare a Falling, la poesia che James Dickey ha scritto su di un'assistente di volo risucchiata fuori dall'aereo che cerca di dirigere verso l'acqua il sasso precipitante del suo corpo, come se potesse riemergere sorridendo, scuotendosi perle d'acqua dai capelli e chiedendo una Coca-Cola. «Ho vomitato», mi disse quel giorno Warren al Blarney Stone. «Non voglio dover vedere mai più una foto come quella, Scott, ma so che non la scorderò mai. Le si vedeva la faccia e credo che credesse che non so come... già, che non so come ce l'avrebbe fatta.» Da adulto non mi è mai successo di urlare, ma ci arrivai vicino quando staccai lo sguardo dagli occhiali da sole di Sonja per posarli sul Liquidatore di Cleve Farrell, la mazza da baseball appoggiata di nuovo con nonchalance nell'angolo tra l'ingresso e il soggiorno. Qualcosa dentro di me deve aver ricordato che la porta di casa era aperta e se avessi urlato entrambi i miei vicini del quarto piano mi avrebbero sentito; poi, come si suol dire, avrei avuto qualche spiegazione da dare. Mi sbattei una mano sulla bocca per trattenere l'urlo. Il sacchetto con il pollo alla Generale Tso cadde sul parquet dell'ingresso e si aprì. Rabbrividii guardando quel che c'era per terra. Quei pezzetti scuri di carne cotta sarebbero potuti essere qualunque cosa. Crollai a sedere sull'unica sedia che tengo nell'ingresso e mi presi il volto tra le mani. Non urlai e non piansi e dopo un po' trovai la forza di pulire per terra. La mia mente tornava in continuazione agli oggetti che mi avevano preceduto di ritorno dall'angolo della Settantacinquesima con Park, ma io la ricacciavo indietro. Ogni volta che si protendeva in quella direzione, afferravo il suo guinzaglio e tiravo con forza. Quella notte, a letto, ascoltai le conversazioni. Prima parlavano gli oggetti (a voce bassa) e poi rispondevano le persone che li avevano posseduti (a un volume di voce leggermente più alto). Qualche volta parlavano del picnic a Jones Beach, dell'aroma di cocco della crema abbronzante e di Lou Bega che cantava a ripetizione Mambo Number Five dall'enorme ste-
reo di Misha Bryzinski. Oppure parlavano dei frisbee che volavano sotto il cielo inseguiti dai cani. Qualche volta discutevano dei bambini che si aggiravano sulla sabbia bagnata con il fondo dei calzoncini e dei costumi penzoloni. Madri in costumi da bagno comprati per posta dal catalogo di Land's End che li accompagnavano con un bozzolo di crema bianca sul naso. Quanti di quei bambini quel giorno avevano perso una mamma guardiana o un papà lanciatore di frisbee? Mio Dio, quello era un problema di aritmetica che non volevo risolvere. Ma le voci che sentivo in casa mia lo volevano. E calcolavano e calcolavano. Ricordai Bruce Mason che soffiava nella sua conchiglia di strombo e si proclamava Signore delle Mosche. Ricordai Maureen Hannon che mi diceva (non a Jones Beach, non quella volta) che Alice nel Paese delle Meraviglie era stato il primo romanzo psichedelico. Jimmy Eagleton che mi confidava un giorno che suo figlio, oltre alla balbuzie, aveva un problema di apprendimento, due al prezzo di uno, e che se voleva sperare di uscire dal liceo in un prevedibile futuro avrebbe avuto bisogno di lezioni private di matematica e anche di francese. «Prima che abbia diritto allo sconto per pensionati sui libri di testo» fu l'espressione usata da Jimmy. Guance pallide e un po' ruvide nella luce allungata del pomeriggio, come se quella mattina il suo rasoio non fosse stato abbastanza affilato. Mi stavo assopendo, ma quell'ultima immagine mi risvegliò del tutto di soprassalto, perché mi resi conto che quella conversazione doveva essere avvenuta non molto prima dell'11 settembre. Forse solo pochi giorni prima. Forse persino il venerdì precedente, che sarebbe diventato l'ultimo giorno in cui avrei visto Jimmy vivo. E il marmocchio con la balbuzie e i problemi di apprendimento: non è che si chiamava Jeremy, come Jeremy Irons? Sicuramente no, sicuramente quello era uno scherzo della mia mente (qualche volta lei brende banana), ma era un nome molto simile, perdio. Jason, forse. O Justin. Nelle ore piccole tutto si ingigantisce e ricordo di aver pensato che se veramente il ragazzino si chiamava Jeremy, probabilmente sarei impazzito. La goccia che fa traboccare il vaso, baby. Verso le tre di notte ricordai di chi era il cubo di Lucite con dentro la monetina d'acciaio: Roland Abelson, dell'ufficio Responsabilità Civile. Diceva che era il suo fondo pensione. Era Roland ad avere l'abitudine di dire: «Lucy, hai qualche spiegazione da dare». Una sera dell'autunno del 2001 avevo visto la sua vedova al telegiornale delle sei. Avevo chiacchierato con lei a uno dei picnic aziendali (molto probabilmente quello a Jones Beach) e l'avevo trovata graziosa, ma la vedovanza aveva aggiunto ulteriore
finezza al suo aspetto, l'aveva elevato ad autentica bellezza. Nell'intervista continuava a riferirsi a suo marito definendolo «disperso». Si rifiutava di definirlo «morto». E se fosse stato vivo, se mai fosse riapparso, avrebbe avuto delle spiegazioni da dare. Puoi scommetterci. Ma naturalmente ne avrebbe avute anche lei. Una donna che da graziosa diventa bella in conseguenza di un omicidio di massa non può non avere qualche spiegazione da dare. Restare sdraiato sul letto a fare questi pensieri - ricordando lo scroscio della risacca a Jones Beach e i frisbee che volavano sotto il cielo - mi riempì di una terribile tristezza che finalmente si sfogò in lacrime. Ma devo ammettere che fu un'esperienza da cui uscii con una lezione appresa. Fu quella la notte in cui giunsi a capire che le cose - persino quelle piccole, come una monetina da un centesimo in un cubo di Lucite - possono appesantirsi con il passare del tempo. Ma poiché è un peso della mente, non esiste una formula matematica come quelle che puoi trovare negli opuscoli delle compagnie di assicurazione, dove il costo della tua polizza sulla vita sale di x se fumi e il prezzo della copertura sui tuoi raccolti sale di y se la tua azienda agricola è in una zona di tornado. Capite cosa intendo? È un peso della mente. L'indomani mattina radunai di nuovo tutti gli oggetti e ne trovai un settimo, nascosto sotto il divano. Misha Bryzinski, quello che occupava il cubicolo di fianco al mio, teneva sulla sua scrivania una piccola coppia di bambolotti Punch e Judy. Quello che scorsi sotto il mio divano era Punch. Judy non era nei paraggi, ma Punch bastava e avanzava. Quegli occhi neri che mi fissavano dal mezzo dei bioccoli di polvere, mi fecero sprofondare nello sgomento. Tirai fuori la bambola odiando la scia di sporco che si lasciò dietro. Una cosa che lascia una scia è una cosa reale, una cosa con un peso. Non c'è scampo. Riposi Punch e tutto il resto nel piccolo ripostiglio appena oltre il cucinino e lì restarono. In principio non ne fui tanto sicuro, ma restarono. Una volta mia madre mi disse che se un uomo si pulisce il culo e vede che c'è del sangue sulla carta igienica, la sua reazione sarebbe di cacare al buio per i prossimi trenta giorni e sperare. Aveva usato questo esempio per illustrarmi il suo concetto secondo il quale la chiave di volta della filosofia maschile era: «Se lo ignori, magari sparisce». Io ignorai gli oggetti trovati in casa mia, sperai, e in effetti le cose anda-
rono un po' meglio. Sentivo solo raramente quelle voci che bisbigliavano nel ripostiglio (eccetto che a notte fonda), ma ero sempre più incline ad andare a svolgere le mie ricerche fuori casa. Verso la metà di novembre trascorrevo quasi tutte le mie giornate alla Biblioteca Pubblica. Sono sicuro che i leoni si fossero abituati a vedermi arrivare con il mio PowerBook. Poi, poco prima del Ringraziamento, un giorno mentre uscivo di casa incrociai Paula Robeson, la bella signora che avevo salvato schiacciando il pulsante del reset del suo condizionatore. Su due piedi, senza pensarci - se avessi avuto tempo di pensarci sono convinto che non avrei spiccicato una parola - le chiesi se potevo offrirle il pranzo per parlarle di una certa questione. «Il fatto è», aggiunsi, «che ho un problema. Forse lei potrebbe schiacciare il mio bottone di reset.» Eravamo nell'atrio. Pedro il portiere sedeva nell'angolo a leggere il Post (e ascoltando ogni parola, non ne dubito: per Pedro i suoi inquilini erano il dramma quotidiano più interessante al mondo). Lei mi rivolse un sorriso insieme cordiale e nervoso. «Immagino di essere in debito», commentò. «Ma... lei sa che sono sposata, vero?» «Sì», risposi, senza aggiungere che aveva scambiato con me una stretta con la mano sbagliata perché non potessi mancare di notare la fede. Annuì. «Certo... ci avrà pur visti insieme qualche volta. Ma quando ho avuto tutti quei guai con il condizionatore era in Europa ed è in Europa anche ora. Si chiama Edward. Da due anni a questa parte è più in Europa che qui e anche se non mi piace sono molto sposata lo stesso.» Poi, come per un ripensamento, soggiunse: «Edward è nell'import-export». Io invece lavoravo nelle assicurazioni, però un giorno la ditta esplose, pensai di ribattere. Ci andai anche vicino. Alla fine riuscii a tirarmi fuori qualcosa di più ragionevole. «Non voglio un appuntamento galante, signora Robeson.» Tanto quanto non desideravo che ci dessimo del tu, e fu forse una scintilla di delusione quella che le vidi balenare negli occhi? Pensai proprio che lo fosse. Ma almeno l'avevo convinta. Ero ancora affidabile. Si posò le mani sui fianchi e mi guardò con finta esasperazione. O forse non tanto finta. «Allora cosa vuole?» «Solo qualcuno con cui parlare. Ho cercato di contattare alcuni psichiatri, ma sono... presi.» «Tutti?» «A quanto pare.»
«Se ha dei problemi con la sua ex moglie o sente l'impulso di scorrazzare per la città ad ammazzare uomini con il turbante, io non voglio saperlo.» «Non è niente del genere. Non la farò arrossire, glielo prometto.» Che non era proprio come se avessi detto Le prometto di non scioccarla o Non le darò da pensare che sia pazzo. «Solo il pranzo e un piccolo consiglio, non chiedo altro. Che ne dice?» Rimasi sorpreso, per non dire esterrefatto, della mia capacità di persuasione. Se avessi preparato quella conversazione in anticipo, sono quasi sicuro che avrei mandato tutto all'aria. Immagino che fosse curiosa e sono certo che avesse colto una sufficiente dose di sincerità nella mia voce. Non escludo che abbia calcolato che, se fossi stato uno a cui piace rimorchiare, ci avrei provato in quel giorno d'agosto quando mi ero trovato da solo in casa sua mentre l'elusivo Edward era in Francia o in Germania. E non posso non chiedermi quanta reale disperazione avesse letto sul mio viso. Fatto sta che accettò di pranzare con me al Donald's Grill nella nostra strada quel venerdì. Il Donald's è forse il ristorante meno romantico di tutta Manhattan: cucina ricca, lampade al neon, camerieri che ti fanno capire di sbrigarti. E lei mi accontentò con l'aria di chi sta pagando tardivamente un debito di cui si era quasi scordata. Non era molto lusinghiero, ma a me bastava. Disse che le andava bene a mezzogiorno. Se ci fossimo dati appuntamento nell'atrio, saremmo potuti andare a piedi insieme. Accettai la sua proposta. Quella notte fu una di quelle buone per me. Mi addormentai quasi immediatamente e non sognai Sonja D'Amico che cadeva lungo la facciata del palazzo in fiamme con le mani sulle cosce, come un'assistente di volo che cerca l'acqua. Quel venerdì, mentre percorrevamo insieme l'Ottantaseiesima Strada, chiesi a Paula dove si trovava lei quando l'aveva sentito. «A San Francisco», rispose. «Nel mondo dei sogni in una suite del Wradling Hotel con Edward accanto a me, sicuramente a russare come sempre. Avevo in programma di rientrare qui il dodici settembre mentre Edward andava a Los Angeles per delle riunioni. Al nostro albergo azionarono l'allarme antincendio.» «Dev'essere stato un bello spavento.» «Lo è stato, anche se il mio primo pensiero fu che non fosse un incendio ma un terremoto. Poi si è sentita questa voce dagli altoparlanti che ci diceva che non c'era un incendio nell'albergo, ma ce n'era uno terrificante a
New York.» «Gesù.» «Sentirlo così, in un letto di una stanza sconosciuta... sentirlo venire giù dal soffitto come la voce di Dio...» Scosse la testa. Compresse le labbra con tanta forza che il suo rossetto scomparve quasi completamente. «È stato un momento di terrore. Immagino che si possa capire l'urgenza di dare una notizia come quella il più presto possibile, ma io non ho ancora perdonato del tutto la direzione del Wradling per averlo fatto in quel modo. Credo che non ci dormirò più.» «E suo marito andò alle riunioni?» «Furono annullate. Immagino che quel giorno ne furono annullate in gran numero. Restammo a letto con la tele accesa fino all'alba cercando di assimilare. Capisce cosa intendo?» «Sì.» «Parlammo di chi tra le persone di nostra conoscenza potesse essere stato nelle torri. Suppongo che non siamo stati i soli a farlo.» «Vi è venuto in mente qualcuno?» «Un broker della Shearson, Leaman, e il vicedirettore della Borders, la libreria al centro commerciale», rispose. «Uno se l'è cavata. Uno... be', sa, uno no. E lei?» Fu così che non dovetti ricorrere a sotterfugi. Non eravamo ancora al ristorante ed eccoci già al punto. «Io potevo esserci», dissi. «Io dovevo esserci. È dove lavoravo. In una compagnia di assicurazioni al centodecimo piano.» Si fermò di colpo guardandomi con gli occhi sbarrati. Immagino che alle persone che dovettero schivarci sembrassimo amanti. «Scott, no!» «Scott, sì.» E finalmente raccontai a qualcuno come l'undici settembre mi ero svegliato aspettandomi di fare tutte quelle cose che faccio nei giorni feriali, dalla tazza di caffè nero mentre mi rado fino alla tazza di cioccolata davanti al riassunto del notiziario della mezzanotte su Channel Thirteen. Un giorno come ogni altro giorno, quello avevo in mente. Credo che sia quello che gli americani sono giunti ad aspettarsi come un loro diritto. Be', ma guarda un po', c'è un aeroplano! Che finisce dentro un grattacielo! Ahah, coglione, ci sei cascato, e mezzo mondo se la ride! Le raccontai d'aver guardato fuori della finestra e di aver visto il cielo delle sette del mattino perfettamente limpido, di quel blu così profondo che ti sembra di potervi guardare attraverso fino alle stelle che ci sono al di là. Poi le dissi della voce. Credo che ognuno abbia varie voci nella propria te-
sta e ci faccia l'abitudine. A sedici anni una delle mie prese la parola e insinuò che potesse essere particolarmente eccitante masturbarmi dentro un paio di mutandine di mia sorella. Ne avrà più di mille e di sicuro non si accorgerà se gliene sparisce un paio, e dài, mi fece notare la voce. (Non raccontai a Paula Robeson di questa mia particolare avventura adolescenziale.) Dovrei definire questa, la voce dell'irresponsabilità totale, più nota come Mr. Yow, Git Down. «Mr. Yow, Git Down?» ribatté Paula dubbiosa. «In onore di James Brown, il re del soul.» «Se lo dice lei.» Mr. Yow, Git Down ha avuto via via sempre meno da dirmi, specialmente da quando ho praticamente smesso di bere, e quel giorno si ridestò dal suo sonno il tempo di pronunciare una manciata di parole, ma di quelle che cambiano la vita. Che salvano la vita. Le prime (io sono lì, seduto sul bordo del letto) furono: Yow, datti malato, e dài! Le altre (io sono lì che vado mezzo intontito a fare la doccia e mi gratto la chiappa sinistra mentre cammino) furono: Yow, fatti una giornata al Central Park! Non sto alludendo a una premonizione. Era chiaramente Mr. Yow, Git Down, non la voce di Dio. Era solo un'altra versione della mia voce naturale (come tutte le altre), in altre parole, che mi incitava a bigiare. Fai qualcosa anche per te, e dài! L'ultima volta che ricordo d'aver sentito questa versione della mia voce, era in occasione di una gara di karaoke in un bar di Amsterdam Avenue: Yow, vai a fare un duetto con Neil Diamond, e dài! Salta su quel palco e smollati! «Credo di capire che cosa intende», disse lei sorridendo un po'. «Davvero?» «Be'... una volta in un bar di Key West mi tolsi la camicetta e vinsi dieci dollari ballando su Honky-Tonk Women.» Fece una pausa. «Edward non lo sa e se lei glielo racconta, sarò costretta ad accecarle un occhio con una delle sue spille da cravatta.» «Yow, sei forte, ragazza mia», commentai e da lì prendemmo a darci del tu e il suo sorriso assunse una piega malinconica che la fece sembrare più giovane. Pensai che il mio tentativo avesse qualche possibilità di riuscita. Entrammo da Donald's. Sulla porta c'era un tacchino di cartone e c'erano pellegrini di cartone sulla parete in piastrelle verdi sopra al banco delle pietanze a vapore. «Ho dato retta a Mr. Yow, Git Down e sono qui», dissi. «Ma ci sono anche alcune altre cose che non c'entrano niente con lui. Oggetti di cui sem-
bra che io non possa disfarmi. È di questi che voglio parlare.» «Lascia che ti dica ancora che non sono uno strizzacervelli», rispose e con più che una lieve traccia di disagio. Non sorrideva più. «Sono specializzata in tedesco e ho preso storia europea come complementare.» Tu e tuo marito dovete avere parecchio di cui parlare, riflettei. A voce alta le spiegai che non avevo scelto lei per un motivo particolare, mi bastava poterne parlare con qualcuno. «Va bene. Basta che tu lo sappia.» Un cameriere venne a prendere le nostre ordinazioni, decaffeinato per lei, normale per me. Quando si fu allontanato, mi chiese di quali oggetti stessi parlando. «Questo è uno.» Mi tolsi di tasca il cubo di Lucite con il soldino d'acciaio sospeso al centro e lo posai sul tavolo. Poi le raccontai degli altri oggetti e delle persone a cui erano appartenuti. Cleve Farrell «Il baseball mi fa motto-motto bene». Maureen Hannon, che portava i capelli lunghi fino alla vita come segno della sua indispensabilità aziendale. Jimmy Eagleton, che aveva un naso divino per le richieste di risarcimento truffaldine, un figlio con difficoltà di apprendimento e un Cuscino Scoreggione che teneva nascosto in un cassetto della sua scrivania fino al giorno del party di Natale. Sonja D'Amico, la miglior contabile della Light and Bell, a cui il primo marito aveva donato gli occhiali da sole di Lolita come regalo d'addio dopo una sgradevole causa di divorzio. Bruce Mason «Signore delle Mosche», che rivedrò per sempre a torso nudo a soffiare nella sua conchiglia a Jones Beach nella schiuma delle onde che gli si scioglieva intorno ai piedi. E per finire Misha Bryzinski, con cui ero andato a vedere almeno una decina di partite dei Mets. Le raccontai di aver rovesciato tutto, eccetto il bambolotto di Misha, in un cestino dei rifiuti all'angolo di Park con la Settantacinquesima e che tutti gli oggetti erano tornati a casa prima di me, forse perché mi ero fermato a ordinare una seconda razione di pollo alla Generale Tso. Durante tutto il mio racconto il cubo di Lucite rimase sul tavolo tra noi due. Riuscimmo a consumare almeno una parte del nostro pasto a dispetto del suo profilo severo. Quand'ebbi finito di parlare, mi sentii meglio di quanto avessi osato sperare. Ma il silenzio che veniva dalla sua parte del tavolo era terribilmente pesante. «Dunque», dissi per spezzarlo. «Cosa ne pensi?» Si prese un momento per riflettere e non la biasimai. «Penso che non siamo più gli sconosciuti che eravamo», disse finalmente, «e che fare una
nuova amicizia non è mai una brutta cosa. Penso di essere contenta di sapere di Mr. Yow, Git Down e di averti confessato che cosa ho fatto.» «Anch'io.» Ed era vero. «Ora posso farti io due domande?» «Certamente.» «Fino a che punto provi quello che chiamano 'rimorso del sopravvissuto'?» «Mi sembrava che mi avessi detto che non sei uno strizzacervelli.» «Non lo sono, ma leggo le riviste e seguo Oprah. Queste sono cose di cui mio marito è a conoscenza, anche se io preferisco non rimarcarglielo. Allora... fino a che punto, Scott?» Meditai sulla sua domanda. Era di quelle buone e naturalmente era una di quelle che mi ero posto più di una volta durante quelle notti insonni. «Parecchio», risposi. «Insieme con un notevole sollievo, non ho intenzione di mentire su questo. Se Mr. Yow, Git Down fosse una persona in carne e ossa, non avrebbe da pagare mai più un conto di ristorante. Non quando ci fossi stato anch'io.» Feci una pausa. «Ne sei colpita?» Lei allungò il braccio per toccarmi per un istante la mano. «Nient'affatto.» Sentirglielo dire mi fece sentire meglio di quanto avrei creduto. Le strinsi per un istante la mano e gliela lasciai andare. «Qual è l'altra domanda?» «Quanto importante è per te che io creda alla tua storia di questi oggetti che rispuntano fuori?» Pensai che fosse una domanda eccellente, sebbene lì davanti a noi, accanto alla zuccheriera, ci fosse il cubo di Lucite. Oggetti come quello non sono rari, del resto. E pensai che se si fosse specializzata in psicologia invece che in tedesco, probabilmente non avrebbe sbagliato. «Non tanto importante quanto credevo un'ora fa», risposi. «Già parlarne è stato un aiuto.» Lei annuì e sorrise. «Bene. Ora senti la mia opinione: c'è qualcuno che ti sta facendo uno scherzo. Non molto divertente.» «Uno scherzo», ripetei. Cercai di non mostrarlo, ma raramente mi ero sentito tanto deluso. Forse in determinate circostanze sulle persone scende un velo di incredulità a proteggerle. O forse, più probabile, non ero riuscito a trasmetterle la mia sensazione personale che questo fenomeno stesse... succedendo. Stesse ancora succedendo. Come per una valanga. «Uno scherzo», confermò lei. Poi aggiunse: «Ma tu non lo credi». Altri punti guadagnati in percezione. Annuii. «Quando sono uscito ho
chiuso la porta a chiave ed era chiusa a chiave quando sono rientrato. Ho sentito i meccanismi quando ho girato la chiave. Sono rumorosi. Non puoi sbagliare.» «Tuttavia... il rimorso del sopravvissuto è un sentimento strano. E anche potente, almeno secondo le riviste.» «Non...» Non c'entra niente il rimorso del sopravvissuto era la frase che stavo per pronunciare, ma sarebbe stato uno sbaglio. Avevo una buona occasione di fare una nuova amicizia e fare una nuova amicizia sarebbe stato un bene, comunque fosse andato il nostro dibattito. Così mi corressi. «Non penso che sia rimorso del sopravvissuto.» Indicai il cubo di Lucite. «È lì, no? Come gli occhiali da sole di Sonja. Tu lo vedi. Io anche. Immagino che avrei potuto averlo comprato io stesso, ma...» Mi strinsi nelle spalle cercando di esprimere un concetto che di certo era ben presente a entrambi: tutto è possibile. «Io non credo che tu l'abbia fatto. Ma non posso nemmeno accettare l'idea che si sia aperta una botola ai confini della realtà attraverso la quale sono cascati fuori questi oggetti.» Sì, era quello il problema. Per Paula l'idea che il cubo di Lucite e gli altri oggetti apparsi in casa mia avessero un'origine soprannaturale era automaticamente esclusa, per quanto i fatti sembrassero sostenerla. A me restava da decidere se avevo bisogno di difendere la mia tesi più di quanto avessi bisogno di farmi un'amica. Decisi di no. «D'accordo», dissi. Colsi lo sguardo del cameriere e gli feci segno che desideravo il conto. «Io posso accettare la tua incapacità di accettare.» «Davvero puoi?» mi domandò guardandomi con attenzione. «Sì.» E pensai di essere sincero. «Se però possiamo bere insieme un caffè ogni tanto. O anche solo salutarci nell'atrio.» «Senz'altro.» Ma mi sembrò assente, non del tutto sintonizzata. Stava osservando il cubo di Lucite con dentro la monetina d'acciaio. Poi guardò me. Mi parve quasi di vedere una lampadina che le si accendeva nella testa, come in un fumetto. Afferrò il cubo stringendolo nella mano. Non saprei esprimere la profondità dello sgomento che provai quando lo fece, ma che cosa potrei dire? Eravamo cittadini di New York in un locale pulito e ben illuminato. Per parte sua, aveva già stabilito le regole del gioco che escludevano nella maniera più assoluta il soprannaturale. Il soprannaturale era fallo laterale. Qualunque cosa fosse finita là, andava rimessa in gioco. E c'era una luce negli occhi di Paula. Di quelle che indicano che Ms.
Yow, Git Down era in casa e so per esperienza personale che è una voce a cui difficilmente si resiste. «Dallo a me», mi propose con un sorriso negli occhi. In quel momento vidi - per la prima volta, in realtà - che oltre che bella era anche sexy. «Perché?» Come se non lo avessi saputo. «Diciamo che è il mio onorario per aver ascoltato la tua storia.» «Non so se è una buona...» «Ma lo è», tagliò corto lei. Si stava affezionando alla propria ispirazione e quando succede è raro che una persona accetti un no per risposta. «È una grande idea. Impedirò almeno a questo souvenir di tornare da te scodinzolando. Abbiamo una cassaforte in casa nostra.» Si esibì in una simpatica piccola pantomima in cui chiudeva lo sportello della cassaforte, ruotava la manopola della combinazione e si gettava la chiave dietro la spalla. «Va bene», accettai. «Prendilo come un regalo da parte mia.» E provai qualcosa che poteva essere contentezza maligna. Chiamiamola la voce di Mr. Yow, Te Ne Accorgerai. Evidentemente confessare il mio segreto non era stato abbastanza. Lei non mi aveva creduto e almeno una parte di me invece lo voleva e si era risentita per non essere stata accontentata. Quella parte sapeva che lasciarle prendere il cubo di Lucite era un'idea assolutamente tremenda, ma era contenta lo stesso di vederla metterlo nella borsetta. «Ecco fatto», esclamò allegramente, «Mamma dice ciao ciao, tutto finito. Forse quando tra una settimana non sarà tornato indietro, o anche due, immagino che dipenda tutto da quanto caparbio voglia essere il tuo inconscio, allora potrai cominciare a dar via anche gli altri oggetti.» E queste parole furono il suo vero regalo di quel giorno, anche se al momento ancora non lo sapevo. «Forse», risposi sorridendo. Grande sorriso per la nuova amica. Grande sorriso per la bella mamma. Mentre intanto pensavo: Te ne accorgerai. Yow. Se ne accorse. Tre sere dopo, mentre stavo guardando Chuck Scarborough che al telegiornale delle sei illustrava gli ultimi problemi dei trasporti della metropoli, suonarono alla mia porta. Siccome non aspettavo nessuno, pensai che si trattasse di una consegna, magari persino Rafe con qualcosa della Federal Express. Aprii e mi trovai davanti a Paula Robeson. Non era la donna con cui avevo pranzato. Chiamiamola Ms. Yow,
Quant'è Brutta la Chemio. Si era messa solo un filo di rossetto, nient'altro, e la sua carnagione aveva una preoccupante sfumatura bianco-giallastra. Per non parlare delle occhiaie violacee. Forse si era data anche un colpo di spazzola ai capelli prima di scendere dal quinto piano, ma non era servito molto. Sembravano stoppie e le sparavano da una parte e dall'altra in un modo che in altre circostanze sarebbe stato comico. Teneva il cubo di Lucite davanti al seno, permettendomi di notare che le unghie curate di quella mano non c'erano più. Se le era rosicchiate via fino a sanguinare. E il mio primo pensiero, che Dio mi perdoni, fu sì, se n'è accorta. Me lo porse. «Riprenditelo», disse. Lo feci senza fiatare. «Si chiamava Roland Abelson», disse lei. «Vero?» «Sì.» «Aveva i capelli rossi.» «Sì.» «Non era sposato ma manteneva il figlio di una donna di Rahway.» Non lo sapevo - pensavo che nessuno alla Light and Bell lo avesse saputo - ma annuii di nuovo e non solo perché non si fermasse. Ero sicuro che avesse visto giusto. «Come si chiamava lei, Paula?» Senza sapere perché glielo stessi chiedendo, non ancora, ma sicuro di doverlo sapere. «Tonya Gregson.» Sembrava in trance. C'era però qualcosa nei suoi occhi, qualcosa di così terribile che quasi non riuscivo a guardarli. Presi comunque nota del nome. Tonya Gregson, Rahway. Poi, come facendo un inventario di magazzino: Un cubo di Lucite con soldino. «Cercò di nascondersi sotto la sua scrivania, lo sapevi? No, vedo che non lo sapevi. Gli stavano bruciando i capelli e piangeva. Perché in quell'istante aveva capito che non avrebbe mai posseduto un catamarano e non avrebbe mai più tagliato l'erba del prato.» Allungò la mano e me la posò sulla guancia, un gesto così intimo che sarebbe stato traumatico se le sue dita non fossero state così fredde. «Alla fine avrebbe dato via fino all'ultimo centesimo dei suoi soldi e fino all'ultima azione dei suoi titoli solo per poter falciare di nuovo l'erba del prato. Ci credi?» «Sì.» «Urlavano tutti e lui sentiva l'odore del carburante da aereo e capì che stava per morire. Capisci questo? Capisci l'enormità di questo?» Annuii. Non riuscivo a parlare. Anche con una pistola puntata alla testa non sarei stato in grado di parlare. «I politici parlano di commemorazioni e coraggio e guerre per eliminare
il terrorismo, ma i capelli che bruciano non sono un fatto politico.» Scoprì i denti in un sorriso terribile. Durò solo un istante. «Stava cercando di nascondersi sotto la scrivania con i capelli in fiamme. Sotto la sua scrivania c'era una cosa di plastica, un...» «Tappetino...» «Sì, un tappetino, un tappetino di plastica, ci aveva messo sopra le mani e sentiva le nervature nella plastica e sentiva l'odore dei propri capelli che bruciavano. Questo lo capisci?» Annuii. Cominciai a piangere. Era di Roland Abelson che stavamo parlando, questo tizio con cui lavoravo. Lui era alla Responsabilità Civile e io non lo conoscevo molto bene. Ci si salutava, niente di più. Come facevo a sapere che aveva un figlio a Rahway? E se quel giorno io non avessi marcato visita, probabilmente anche i miei capelli sarebbero bruciati. Fino a quel momento non me ne ero veramente reso conto. «Non voglio vederti più», disse lei. Balenò ancora una volta quel sorriso raccapricciante, ma ora piangeva anche lei. «Non m'importa niente dei tuoi problemi. Non m'importa niente delle cose che hai trovato. Abbiamo chiuso. Da adesso in poi mi lasci stare.» Fece per girarsi, poi ci ripensò. «L'hanno fatto in nome di Dio», aggiunse, «ma non c'è nessun Dio. Se ci fosse un Dio, signor Staley, li avrebbe folgorati tutti e diciotto nelle loro sale d'aspetto con le loro carte d'imbarco in mano, ma nessun Dio lo ha fatto. Hanno invitato i passeggeri a imbarcarsi e quelle teste di cazzo si sono imbarcate.» La guardai tornare all'ascensore. Aveva la schiena dritta come un palo. I capelli le sparavano da una parte e dall'altra della testa come in una vignetta dell'inserto domenicale. Non voleva vedermi più e non la biasimavo. Chiusi la porta e guardai l'Abe Lincoln d'acciaio nel cubo di Lucite. Lo osservai per parecchio tempo. Pensai all'odore dei peli della sua barba se U.S. Grant vi avesse spento dentro uno dei suoi immancabili sigari. Quello sgradevole profumo di fritto. Alla TV qualcuno stava dicendo che da Sleepy's era in corso una grande svendita. Dopodiché comparve Len Berman a parlare dei Jets. Quella notte mi svegliai alle due ad ascoltare il bisbiglio delle voci. Non avevo avuto né sogni né visioni delle persone a cui erano appartenuti gli oggetti, non avevo visto nessuno con i capelli in fiamme o che saltava dalle finestre per sfuggire all'incendio del carburante, ma era giusto così. Sapevo chi erano e gli oggetti che avevano lasciato indietro erano stati lascia-
ti per me. Affidare il cubo di Lucite a Paula Robeson era stato un errore, ma solo perché era la persona sbagliata. E a proposito di Paula, una delle voci era la sua. Potrai cominciare a dar via anche gli altri oggetti, disse e poi: Immagino che dipenda tutto da quanto caparbio voglia essere il tuo inconscio. Tornai a sdraiarmi e dopo un po' riuscii a prender sonno. Sognai di essere al Central Park a dar da mangiare alle anatre quando all'improvviso ci fu un boato come per il superamento della barriera del suono e il cielo si riempì di fumo. Nel sogno il fumo aveva l'odore di capelli che bruciano. Pensai a Tonya Gregson a Rahway - Tonya e il bambino che aveva forse sì e forse no gli occhi di Roland Abelson - e pensai che quella, me la sarei dovuta studiare. Decisi di cominciare dalla vedova di Bruce Mason. Presi il treno per Dobbs Ferry e chiamai un taxi dalla stazione. Il tassista mi portò a una casa in stile Cape Cod in una via residenziale. Gli diedi dei soldi, gli chiesi di aspettare - non mi sarei trattenuto - e suonai il campanello. Avevo con me una scatola. Sembrava una di quelle in cui si confezionano le torte da pasticceria. Dovetti suonare una volta sola, perché mi ero fatto precedere da una telefonata e Janice Mason mi aspettava. Avevo preparato con cura la mia storia e la raccontai con una certa sicurezza sapendo che il taxi fermo nel vialetto d'accesso con il tassametro in funzione avrebbe scongiurato un controinterrogatorio troppo approfondito. L'otto settembre, spiegai, il venerdì precedente, avevo cercato di suonare una nota dalla conchiglia che Bruce conservava sulla sua scrivania come avevo sentito fare a Bruce stesso il giorno del picnic a Jones Beach. (Janice, la Signora delle Mosche, annuiva: c'era anche lei quella volta, naturalmente.) Fatto sta, dissi, per farla breve, che avevo convinto Bruce a cedermi la conchiglia per il fine settimana per potermi esercitare. Poi, il lunedì mattina, mi ero svegliato con una sinusite pazzesca e un mal di testa da spaccare le pietre. (Era una storia che avevo già raccontato a diverse altre persone.) Stavo bevendo una tazza di tè quando avevo sentito il boato e avevo visto alzarsi il fumo. Non avevo più pensato alla conchiglia fino a qualche giorno prima. Stavo dando una ripulita al mio ripostiglio e, dannazione, eccola lì. Così ho pensato... be', non è un gran che come ricordo, ma ho pensato che magari le sarebbe piaciuto... sa... Gli occhi le si riempirono di lacrime come era successo ai miei quando Paula era venuta a restituirmi il «fondo pensione» di Roland Abelson, sen-
za però l'espressione impaurita che sicuramente aveva assunto il mio volto al cospetto di Paula con i capelli che le sparavano dai lati della testa. Janice rispose che le avrebbe fatto immenso piacere avere qualunque ricordo di Bruce. «Non riesco a togliermi dalla testa come ci siamo salutati», disse con la scatola tra le braccia. «Usciva di casa sempre molto presto perché prendeva il treno. Mi diede un bacio sulla guancia e io aprii un occhio e gli chiesi se tornando a casa poteva passare a prendere mezzo litro di latte. Rispose di sì. È l'ultima cosa che mi disse. Quando mi chiese di sposarlo, mi sentii come Elena di Troia - stupido ma assolutamente vero - e adesso rimpiango di non aver detto qualcosa di meglio che 'prendi mezzo litro di latte'. Ma eravamo sposati da parecchio e sembrava un giorno lavorativo come tutti gli altri e... non lo sappiamo, vero?» «Sì.» «Già. Ogni separazione può essere per sempre e noi non lo sappiamo. Grazie, signor Staley. Per essere venuto fin qui a portarmi questo. È stato molto gentile.» Poi abbozzò un sorriso. «Ricorda quella volta che suonò la conchiglia a torso nudo sulla spiaggia?» «Sì», risposi e guardai il modo in cui stringeva la scatola. Più tardi si sarebbe seduta da qualche parte, avrebbe tirato fuori la conchiglia e avrebbe pianto tenendola in grembo. Sapevo che almeno quella conchiglia non sarebbe più tornata a casa mia. Era arrivata a casa sua. Tornai alla stazione e presi il treno per New York. A quell'ora del giorno, inizio pomeriggio, le carrozze erano quasi deserte e io sedetti a un finestrino striato di pioggia e polvere a guardare il fiume e il profilo dei grattacieli che mi veniva incontro. Nei giorni piovosi si ha quasi l'impressione di creare quel profilo dalla propria immaginazione, un pezzo alla volta. Domani andrò a Rahway con il cubo di Lucite. Forse il figlio - o la figlia - lo prenderà nella manina e lo osserverà con curiosità. In ogni caso io me ne sarò liberato. Pensavo che l'unico oggetto che mi avrebbe dato qualche difficoltà sarebbe stato il Cuscino Scoreggione di Jimmy Eagleton: non potevo certo raccontare alla signora Eagleton che l'avevo portato per esercitarmi durante il fine settimana, giusto? Ma la necessità è la madre dell'inventiva e confidavo nella mia capacità di escogitare prima o poi una storia abbastanza plausibile. Considerai la possibilità che con il tempo apparissero altri oggetti. E mentirei se sostenessi che la trovai totalmente sgradevole. Quando si tratta
di restituire oggetti che le persone credono di aver perso per sempre, oggetti che hanno un peso, c'è un tornaconto. Anche se si tratta di cosucce, come un paio di occhiali da sole scherzosi o un soldino d'acciaio in un cubo di Lucite... sì. Devo dire che c'è un tornaconto. Pomeriggio del diploma Janice non sa decidersi su come chiamare il posto dove vive Buddy. È troppo grande per definirlo villa con giardino, troppo piccolo per definirlo tenuta e il nome sul pilastrino all'imboccatura del viale d'accesso, HARBORLIGHTS, la fa vomitare. Sembra il nome di un ristorante di New London, di quelli dove la specialità è sempre pesce. Così si risolve quasi sempre a dire «da te», come in «andiamo da te a giocare a tennis» o «andiamo da te a fare il bagno». È un po' la stessa cosa anche con Buddy stesso, pensa, guardandolo risalire il prato verso le grida che giungono dall'altro lato della casa, dove c'è la piscina. Non vorresti dover chiamare il tuo ragazzo Buddy, ma quando ricorrere al suo nome vero significa chiamarlo Bruce, ti ritrovi a corto di alternative. O esprimere sentimenti, diciamocelo. Sapeva che lui avrebbe voluto sentirla dire che lo amava, specialmente il giorno del suo diploma - sarebbe stato certamente un regalo migliore della medaglia d'argento che gli aveva dato, anche se quella medaglia l'aveva alleggerita di una cifra da far tremare i polsi - ma proprio non poteva. Non riusciva a tirarsi fuori un: «Ti amo, Bruce». Il massimo a cui arrivava (e anche in questo caso con un tremito interiore) era: «Mi sei così caro, Buddy». E anche questa sembrava una battuta presa da una commedia musicale inglese. «Non te la sei presa per quel che ha detto, vero?» Questa era l'ultima cosa che le aveva chiesto lui prima di risalire il prato per andare a mettersi il costume. «Non è per questo che resti indietro, vero?» «No, ho solo voglia di fare ancora qualche servizio. E godermi il panorama,» Quella era una qualità indiscutibile della casa di Buddy e lei non ne era mai sazia. Perché da quella parte si vedeva tutto il profilo di New York, gli edifici ridotti a giocattoli azzurri con il sole che faceva scintillare le finestre più alte. Secondo Janice nel caso di New York si poteva godere di quella sensazione di pace squisita solo da lontano. Era una bugia che adorava. «Perché la nonna è fatta così», aggiunse lui. «Ormai la conosci. Quello
che le entra nella testa, le esce dalla bocca.» «Lo so», rispose Janice. E a lei la nonna di Buddy era simpatica, quella nonna che non faceva il minimo sforzo per nascondere il suo snobismo. Te lo sbatteva in faccia senza tanti complimenti. Loro erano gli Hope, arrivati nel Connecticut con il resto delle schiere celesti, prego non c'è di che. Lei è Janice Gandolewski, che riceverà il diploma fra due settimane, alla Fairhaven High, dopo che Buddy sarà ormai partito con i suoi tre migliori amici per una gita sull'Appalachian Trail. Si gira verso la cesta delle palline, una ragazza alta e snella in canotta, calzoncini di jeans e scarpe da tennis. Le sue gambe si flettono ogni volta che si alza sulla punta dei piedi per servire. È bella e lo sa. La sua è una consapevolezza di tipo funzionale e senza smancerie. È sveglia e lo sa. Sono molto poche le ragazze della Fairhaven che riescono ad allacciare rapporti con i ragazzi dell'Academy - tolti i soliti niente-impegni-ciascuno-alposto-suo dell'una e botta e via alla Festa d'Inverno o alla Fiera di Primavera - e lo ha fatto a dispetto di quello ski che la segue dovunque vada, come un barattolo legato al paraurti di una familiare. È riuscita in questo gioco di prestigio sociale con Bruce Hope, altrimenti noto come Buddy. E quando sono saliti dalla sala giochi nel seminterrato - quasi tutti gli altri sono ancora giù, e quasi tutti ancora con il tocco in testa - hanno sentito la nonna in salotto con gli altri adulti (perché questa è in realtà la loro festa; i giovani festeggeranno questa sera, prima all'Holy Now! sulla Route 219, affittato per l'occasione da papà e mamma di Jimmy Fredericks in conformità con la regola imperativa dell'autista predesignato, e ancora più tardi, in spiaggia, sotto una luna piena di giugno, luna portafortuna, baci sulla duna, perdiamoci per mille notti e una). «Quella era Janice-Qualcosa-Di-Impronunciabile», stava dicendo la nonna nella voce stranamente atona e stridula delle persone che non ci sentono molto. «Molto carina, vero? Una di città. L'amica di Bruce per adesso.» Non era arrivata a definire Janice la nave-scuola di Bruce, ma naturalmente era tutto nel tono. Alza le spalle e tira qualche altra pallina, gambe che si flettono, racchetta che sale in cielo. Le palline sfrecciano potenti e sicure sopra la rete, andando tutte a battere in profondità nel rettangolo del servizio. In effetti avevano imparato l'uno dall'altro e Janice sospettava che il succo di quel genere di cose fosse giusto quello. E, in verità, insegnare a Buddy non era stato difficile. Lui l'aveva rispettata fin dal principio, forse un tantino troppo. Ha dovuto insegnargli a uscirne, a liberarsi dall'impac-
cio della venerazione. E pensa che non sia stato malaccio come amante, considerato il fatto che ai ragazzi sono negate le condizioni ambientali più raffinate e il lusso del tempo quando si tratta di nutrire il corpo del cibo di cui sentono il bisogno. «Meglio di così non potevamo fare», dice e decide di andare a fare il bagno con gli altri, concedergli un'ultima occasione di farsi vanto di lei. Lui pensa che avranno tutta l'estate prima che lui vada a Princeton e lei alla Statale, ma lei non lo crede; crede che parte dello scopo dell'imminente gita sugli Appalachi sia di separarli nella maniera più indolore ma anche più totale. In questo Janice percepisce non la mano del padre gagliardo e amicone o lo snobismo a suo modo tenero della nonna - una di città, l'amica di Bruce per adesso - ma il subdolo e sorridente senso pratico della madre, il cui specifico timore (se lo portava virtualmente stampato sulla bella fronte senza rughe) è che la ragazza di città con il barattolo attaccato in fondo al nome resterà incinta e intrappolerà il suo ragazzo nel matrimonio sbagliato. «E sarebbe sbagliato davvero», mormora mentre porta la cesta delle palline nel ripostiglio e chiude il chiavistello. La sua amica Marcy le chiede continuamente che cosa veda di tanto interessante in lui: Buddy, quasi ghigna arricciando il naso. Cosa fate tutto il fine settimana? Andate ai party in giardino? Alle partite di polo? In effetti a un paio di partite di polo sono andati perché Tom Hope gioca ancora, anche se, le ha confidato Buddy, questo sarà probabilmente il suo ultimo anno se non smette di ingrassare. Ma hanno anche fatto l'amore, qualche volta amore sudato e intenso. E qualche volta lui l'ha fatta anche ridere. Meno sovente adesso - ha idea che la sua capacità di sorprenderla e divertirla sia tutt'altro che infinita - però sì, ci riesce ancora. È un ragazzo magro e con la faccia lunga che sa smentire lo stereotipo del ragazzo ricco e imbranato in modi interessanti e talvolta inattesi. E poi stravede per lei e questo non è proprio un male per l'amor proprio di una fanciulla. Comunque pensa che non resisterà per sempre al richiamo della sua vera natura. A trentacinque anni o giù di lì immagina che perderà molto se non tutto il suo entusiasmo nel leccare passere e sarà più interessato alla collezione di monete. O al restauro di sedie a dondolo coloniali, come fa suo padre giù nella - ehm - rimessa delle carrozze. Risale lentamente il lungo mezz'ettaro di erba verde con lo sguardo rivolto ai giocattoli azzurri della città che sognano in lontananza. Più vicino a lei ci sono le grida e gli scrosci che arrivano dalla piscina. In casa il pa-
dre, la madre e la nonna di Bruce e gli amici più intimi festeggiano il diploma del loro unico pulcino alla loro maniera, con un tè formale. Quella sera i ragazzi usciranno a far festa in una maniera più giusta. Alcol e non poche pasticche da mandar giù. Club music che fa pulsare i grossi altoparlanti. Nessuno suonerà la roba country con la quale Janice è cresciuta, ma non fa niente; sa ancora dove trovarla. Quando prenderà il diploma lei ci sarà una festa molto più piccola, probabilmente al ristorante di zia Kay, e naturalmente lei è destinata ad ambienti educativi assai meno grandiosi o tradizionali, ma ha in animo di spingersi più avanti di quanto sospetti Buddy riesca ad arrivare persino nei suoi sogni. Farà la giornalista. Comincerà con il giornalino del campus, poi vedrà che strade le potrà aprire. Un piolo per volta, è così che si fa. Ci sono molti pioli in una scala. Lei ha talento oltre alla bella presenza e un'intima fiducia in se stessa. Non sa quanto, ma lo scoprirà. E poi c'è la fortuna. Sì, anche quella. È abbastanza intelligente da non farci conto, ma anche abbastanza da sapere che ha la tendenza a favorire i giovani. Arriva al patio lastricato e da lassù guarda i due campi da tennis in fondo al pendio erboso. È tutto così grande e così ricco, così speciale, ma lei è abbastanza saggia da sapere di avere solo diciotto anni. Forse verrà un giorno in cui le sembrerà tutto alquanto ordinario, anche con gli occhi della memoria. Tutto piccolo. È grazie a questo senso della prospettiva che non la disturba essere Janice-Qualcosa-Di-Impronunciabile e una di città e l'amica di Bruce per adesso. Buddy, con la sua faccia lunga e il fragile talento di farla ridere in momenti inaspettati. Lui non l'ha mai fatta sentire piccola, probabilmente sa che se solo ci provasse una volta, lei lo lascerebbe. Può passare direttamente attraverso la casa per arrivare alla piscina e agli spogliatoi dall'altra parte, ma prima si gira leggermente a sinistra ancora una volta a guardare la città oltre tutti quei chilometri di azzurra lontananza pomeridiana. Ha tempo di pensare: Potrebbe essere la mia città un giorno, potrei pensarla come casa mia, prima che laggiù sì accenda una scintilla gigantesca, come se qualche Dio nei recessi dei macchinari abbia fatto improvvisamente scattare la Sua Bic. Strizza gli occhi davanti a quel baleno, che in principio sembra un forte fulmine isolato. Poi tutto il quadrante sud del cielo si accende di un silenzioso rosso fosco. Un informe bagliore sanguigno cancella gli edifici. Poi per un momento riappaiono, ma come spettri, come se visti attraverso una lente. Un secondo o un decimo di secondo dopo sono scomparsi per sem-
pre e il rosso comincia ad assumere la forma di mille cinegiornali che si sbobinano tumultuosi nel cielo. È silenzioso, silenzioso. La madre di Bruce esce nel patio e si ferma accanto a lei schermandosi gli occhi. Indossa un vestito blu nuovo. Un vestito da pomeriggio. Sfiora con la spalla quella di Janice e insieme guardano a sud il fungo rosso che cresce mangiando il blu. Tutt'intorno sale del fumo, viola scuro nella luce del sole, e poi viene risucchiato. Il rosso della palla di fuoco è troppo intenso da guardare, l'accecherà, ma Janice non riesce a distogliere lo sguardo. Sulle guance le scorre acqua in fiotti caldi, ma non riesce a distogliere lo sguardo. «Che cos'è?» chiede la madre di Bruce. «Se è una forma di pubblicità, è veramente di cattivo gusto!» «È una bomba», dice Janice. La sua voce sembra giungere da altrove. In una trasmissione dal vivo da Hartford, forse. Ora nel fungo rosso si squarciano enormi piaghe nere che gli conferiscono lineamenti mutevoli, ora un gatto, ora un cane, ora Bobo il Clown Demonio, smorfie che riempiono chilometri di cielo sopra quella che una volta era New York e ora è un altoforno. «Una bomba atomica. E delle più potenti. Non uno stupido modello in miniatura da borsetta o...» Ciak! Una vampata le si diffonde verso l'alto e verso il basso sul lato della faccia e le vola via acqua da entrambi gli occhi e le traballa la testa. La madre di Bruce le ha appena mollato uno schiaffo. Bello forte. «Non ti permettere di farci dello spirito!» l'ammonisce la madre di Bruce. «Non c'è niente da ridere!» Ora altre persone si uniscono a loro sul patio, ma sono poco più che ombre; la vista di Janice è stata ottenebrata dal riverbero della palla di fuoco oppure una nuvola ha coperto il sole. Forse entrambe le cose. «È veramente... di... cattivo... GUSTO!» Ogni parola a un volume di voce più alto. Gusto è un urlo. «Dev'essere qualche effetto speciale, per forza», dice qualcuno, «altrimenti sentiremmo...» Ma poi arriva il rumore. È come quello di un masso che rotola giù per un canalone interminabile. Fa fremere i vetri sul lato sud della casa e fa levare in volo gli uccelli dagli alberi in vorticose squadriglie. Riempie il giorno. E non smette. È come un bum ultrasonico senza fine. Janice vede la nonna di Bruce che scende lentamente per il sentiero che porta alla grande rimessa delle automobili con le mani sulle orecchie. Cammina con la testa abbassa-
ta e la schiena piegata e il sedere che sporge, come una vecchia ridotta alla miseria dalla guerra che si incammina sulla lunga via dei profughi. Qualcosa le pende dietro la schiena e dondola e Janice non è sorpresa quando si accorge (per quel poco che riesce ancora a vedere) che è il suo apparecchio acustico. «Voglio svegliarmi», dice un uomo alle sue spalle. Il tono è lamentoso, molesto. «Voglio svegliarmi. Questa volta è troppo.» Ora la nube rossa si è gonfiata in tutta la sua grandezza e occupa in tumultuoso trionfo lo spazio dove fino a novanta secondi prima c'era New York, un fungo rosso scuro e viola che ha fatto un buco attraverso questo pomeriggio e tutti i pomeriggi che seguiranno. Comincia una brezza. È un venticello caldo. Le solleva i capelli ai lati della testa, liberandole le orecchie perché sentano ancora meglio quel rombo incessante. Janice guarda e pensa alle palline da tennis da colpire una dopo l'altra, da far cadere tutte così vicine da poterle prendere in una padella. È pressoché il modo in cui scrive. È il suo talento. O lo era. Pensa alla gita che Bruce e i suoi amici non faranno. Pensa alla festa all'Holy Now! a cui quella sera non andranno. Pensa ai dischi di Jay-Z e Beyoncé e The Fray che non ascolteranno: tanto di guadagnato, in questo. E pensa alla musica country che ascolta suo padre sul suo pick-up andando e tornando dal lavoro. Qui va già meglio. Penserà a Patsy Cline o a Skeeter Davis e fra non molto forse sarà capace di insegnare a quel che resta dei suoi occhi a non guardare. N. 1. La lettera 28 maggio 2008 Caro Charlie, mi fa un effetto strano chiamarti così e insieme mi sembra del tutto naturale, anche se l'ultima volta che ti ho visto avevo quasi la metà degli anni che ho ora. Ne avevo sedici e mi ero presa una sbandata tremenda per te. (Lo sapevi? Ma certo che lo sapevi.) Ora sono una donna felicemente sposata con un bambino piccolo e ti vedo continuamente alla CNN nella rubrica medica. Sei ancora attraente (be', quasi!) come lo eri ai vecchi tempi, quando si andava tutti e tre a pescare e al cinema, al Railroad di Freeport.
Sembrano passati secoli da quelle estati, tu e Johnny inseparabili, io a rimorchio ogni volta che me lo permettevate: Che era probabilmente più spesso di quanto meritassi! Comunque il tuo biglietto di condoglianze ha resuscitato in me tanti ricordi e Dio sa quanto ho pianto. Non solo per Johnny, ma per tutti e tre noi. E, suppongo, per quanto la vita sembrasse semplice e senza complicazioni. Quanta dorata spensieratezza! Hai letto il suo necrologio, naturalmente. «Morte accidentale» è una formula che copre una moltitudine di peccati, vero? Secondo quanto hanno scritto sui giornali, Johnny è morto in seguito a una caduta e naturalmente così è, perché è caduto, in un posto che tutti noi conoscevamo bene, di cui mi aveva chiesto solo il Natale scorso, però non è stata accidentale. Aveva un bel po' di sedativi in corpo. Non certo abbastanza da ucciderlo, ma secondo il coroner la dose era sufficiente a disorientarlo, specialmente se si era affacciato a guardare oltre il parapetto. Da qui: «morte accidentale». Ma io so che è stato un suicidio. Non c'erano messaggi né a casa né su di lui, ma questa potrebbe essere stata una forma di riguardo da parte di Johnny. E tu, dottore a tua volta, saprai di certo che tra gli psichiatri c'è un tasso estremamente alto di suicidi. È come se le pene dei pazienti siano una specie di acido che corrode le difese psichiche dei loro terapeuti. Nella maggior parte dei casi queste difese sono abbastanza resistenti. Nel caso di Johnny? Credo di no... grazie a un paziente inusuale. E negli ultimi due o tre mesi non dormiva molto; aveva certe occhiaie da far spavento. E poi annullava appuntamenti a destra e a sinistra. Usciva per lunghe corse in macchina. Non diceva dove andava, ma io credo di saperlo. Questo mi porta all'allegato, che spero guarderai quando avrai finito questa lettera. So che sei preso, ma, se può essere d'aiuto, pensa a me come alla ragazza stregata d'amore che ero, con i capelli raccolti in quella coda di cavallo che si scioglieva sempre, sempre a rimorchio di voi due! Anche se lavorava in proprio, negli ultimi quattro anni della sua vita Johnny aveva avviato saltuari rapporti professionali con altri due «strizzacervelli». I casi di cui si stava ancora occupando (non molti, visto che continuava a ridurre i pazienti) sono andati a uno di questi colleghi. Le documentazioni erano nel suo studio. Ma quando mi sono trovata a riordinare le sue carte, ho trovato questo piccolo manoscritto che ho accluso. Sono gli appunti su un paziente che chiama «N.», ma siccome mi è capitato qualche volta di vedere i suoi appunti più formali (non perché ficcassi il naso, ma solo perché trovavo questa o quella cartelletta aperta sulla sua scrivania),
so che questo caso è diverso. Per prima cosa gli appunti non sono stati presi nello studio, perché non c'è intestazione come negli altri che ho avuto modo di vedere, e in fondo non c'è il timbro rosso di CONFIDENZIALE. Noterai inoltre una leggera linea verticale su tutte le pagine. È un difetto della stampante che ha a casa. Ma c'è qualcos'altro, che vedrai quando aprirai la scatola. Sulla copertina ha scritto due parole, in grande, in nero: DA BRUCIARE. E stavo quasi per farlo, senza nemmeno guardarci dentro. Ho pensato, Dio mi perdoni, che potesse esserci la sua scorta personale di droghe o le stampate di qualche bizzarria pornografica trovata in Internet. Alla fine, da quella figlia di Pandora che sono, ho ceduto alla curiosità. Rimpiango di averlo fatto. Charlie, ho il sospetto che mio fratello avesse in mente di tirarne fuori un libro, qualcosa di popolare nello stile di Oliver Sacks. A giudicare da questo manoscritto, all'inizio si era concentrato sul comportamento ossessivo-compulsivo e, quando ci aggiungo il suo suicidio (sempre che si possa definire suicidio!), mi domando se il suo interesse non fosse sbocciato da quell'antico adagio che dice: «Medico, cura te stesso!» Io comunque mi sono sentita turbata da questo N. e dagli appunti via via sempre più frammentari di mio fratello. Quanto turbata? Abbastanza da inoltrare il manoscritto - che non ho copiato, a proposito, questo è l'unico che c'è - a un amico che lui non aveva più visto da dieci anni e che io non vedo da quattordici. Sulle prime ho pensato: Magari lo si potrebbe pubblicare. Potrebbe servire da omaggio alla memoria di mio fratello. Ma adesso non lo penso più. Il fatto è che questo manoscritto sembra vivo e non in un modo buono. Conosco i luoghi che vengono citati, capisci (scommetto che alcuni li conosci anche tu, il campo di cui parla N., come annota Johnny, deve essere vicino a dove andavamo a scuola da bambini), e da quando ho letto queste pagine, provo il forte desiderio di vedere se riesco a trovarlo. Non a dispetto del turbamento che mi provoca il manoscritto, ma proprio per quello... e se questo non è ossessivo, cosa lo è?!? Non credo che trovarlo sarebbe una cosa positiva. Ma la morte di Johnny non mi dà pace e non solo perché era mio fratello. Non me ne dà neppure il manoscritto che ho accluso. Lo leggerai? Vorresti leggerlo e dirmi che cosa ne pensi? Grazie, Charlie. Spero che la mia intrusione non sia troppo inopportuna. E... se tu dovessi decidere di onorare la richiesta di Johnny e bruciarlo, da me non sentirai nemmeno un sospiro di protesta. Con affetto,
dalla «sorellina» di Johnny Bonsaint Sheila Bonsaint LeClaire 964 Lisbon Street Lewiston, Maine 04240 C-Che cotta avevo per te! 2. Gli appunti 31 maggio 2007 N. ha quarantotto anni, socio titolare di un importante studio contabile di Portland, divorziato, padre di due figlie. Una segue un corso di specializzazione in California, l'altra è al terzo anno in un college del Maine. Descrive i suoi attuali rapporti con la ex moglie come «distaccati ma amichevoli». Dice: «So di dimostrare più di quarantotto anni. È perché non dormo. Ho provato lo Stilnox e anche quell'altro, il confetto verde, ma mi intontiscono e basta». Quando gli chiedo da quanto tempo soffre di insonnia, ha bisogno di tempo per pensarci. «Dieci mesi.» Gli chiedo se è venuto da me per l'insonnia. Sorride al soffitto. La maggior parte dei pazienti sceglie la poltrona, almeno la prima volta - una donna mi disse che sdraiarsi sul divanetto l'avrebbe fatta sentire «la parodia di una nevrotica in una striscia del New Yorker» - ma N. è andato direttamente al lettino. È disteso con le dita strettamente intrecciate sul petto. «Credo che sappiamo tutti e due che non è così, dottor Bonsaint», dice. Gli chiedo che cosa intende. «Se il mio problema fosse solo quello di farmi passare queste borse sotto gli occhi, mi rivolgerei o a un chirurgo estetico o al mio medico di famiglia - il quale mi ha dato il suo nome, a proposito, dice che lei è molto bravo - e gli chiederei qualcosa di più forte dello Stilnox e delle pillole verdi. Esisterà pure qualcosa di più forte, giusto?» Io non commento. «Da quel che mi risulta l'insonnia è sempre il sintomo di qualcos'altro.» Gli rispondo che non è sempre così, ma lo è abbastanza spesso. E, ag-
giungo, se c'è un altro problema, raramente l'insonnia è l'unico sintomo. «Oh, ne ho degli altri», dice lui. «A carrettate. Guardi le mie scarpe, per esempio.» Guardo le sue scarpe. Sono scarpe classiche da uomo, con le stringhe. Quella di sinistra è allacciata in alto, ma quella di destra è allacciata in basso. Gli dico che è molto interessante. «Sì», dice lui. «Al liceo era di moda tra le ragazze allacciarsi le scarpe da tennis in basso se volevano avere una relazione fissa. O se c'era un ragazzo su cui avevano messo gli occhi e volevano filare con lui.» Gli chiedo se ha una ragazza fissa, pensando che potrebbe allentare la tensione che vedo nella sua postura - le nocche delle dita incrociate sono bianche come se temesse che, se non esercita una certa pressione per tenerle dove sono, possano volare via - ma lui non ride. Nemmeno sorride. «Ho passato da un po' la fase della ragazza fissa», dice, «però una cosa che voglio c'è.» Riflette. «Ho cercato di allacciarmi entrambe le scarpe in basso. Non è servito. Ma una in basso e una in alto... un qualche benessere me lo dà.» Libera la mano destra dalla stretta mortale con cui è imprigionata dalla sinistra e la alza avvicinando pollice e indice finché quasi si toccano. «Tanto così.» Gli chiedo che cosa vuole. «Che la mia mente torni a funzionare bene. Ma cercare di guarirla propriamente allacciandosi le stringhe secondo un codice di comunicazione dei tempi del liceo... leggermente riadattato sulla situazione attuale... è da matti, non le pare? E i matti fanno bene a cercare aiuto. Se resta in loro un briciolo di sanità mentale, cosa di cui mi compiaccio di credere nel mio caso, lo sanno. Perciò ora sono qui.» Congiunge nuovamente le mani e mi guarda con spavalderia e paura. Anche, credo, con un certo sollievo. Ha passato notti insonni a cercare di immaginare che cosa sarebbe accaduto se avesse detto a uno psichiatra che teme per la propria sanità mentale e, quando lo ha fatto, io non sono scappato urlando e non ho chiamato i camici bianchi. Certi pazienti immaginano che io tenga una squadra di uomini in camice bianco nella stanza accanto, armati di reti per farfalle e camicie di forza. Gli chiedo di fornirmi qualche esempio dei suoi attuali disturbi mentali e lui si stringe nelle spalle. «Le solite cazzate ossessivo-compulsive. Roba che avrà sentito centinaia di volte. È la causa che ci sta dietro che mi ha spinto a venire qui. Quello
che è successo nell'agosto dell'anno scorso. Ho pensato che magari mi potrebbe ipnotizzare per farmelo dimenticare.» Mi guarda con occhi colmi di speranza. Io gli rispondo che, sebbene nulla sia impossibile, l'ipnotismo dà risultati migliori quando è impiegato come sostegno della memoria piuttosto che come un blocco. «Ah», dice. «Questo non lo sapevo. Merda.» Guarda di nuovo il soffitto. I muscoli nel lato della sua faccia sono al lavoro e penso che abbia qualcos'altro da aggiungere. «Potrebbe essere pericoloso, sa.» S'interrompe, ma è solo una pausa; i muscoli della mascella continuano a contrarsi e rilasciarsi. «Quello che non va in me potrebbe essere molto pericoloso.» Un'altra pausa. «Per me.» Altra pausa. «Probabilmente anche per altri.» Ogni sessione terapeutica si snoda per scelte; bivi senza cartelli segnaletici. A questo punto potrei chiedergli che cos'è questa cosa pericolosa, ma decido di non farlo. Gli domando invece di quale sorta di cazzate ossessivo-compulsive sta parlando. A parte quella faccenda di allacciarsi una scarpa in alto e una in basso, che come esempio calza a meraviglia. (Questo non lo dico.) «Lei le conosce già tutte», dice e mi lancia un'occhiata scaltra che mi mette un po' a disagio. Non lo faccio vedere; non è il primo paziente che mi mette a disagio. In fondo gli psichiatri sono degli speleologi e qualsiasi speleologo vi dirà che le grotte sono piene di pipistrelli e scarafaggi. Ospiti non molto simpatici, ma per lo più essenzialmente inoffensivi. Lo esorto a farmi contento. E a ricordare che siamo ancora nella fase in cui cerchiamo di conoscerci. «Niente di fisso ancora, eh?» No, rispondo, ancora no. «Be', sarà meglio che ci sbrighiamo», dice, «perché ora io sono nella condizione di Allarme Giallo, dottor Bonsaint. E vado per l'Allarme Rosso.» Gli chiedo se conta le cose. «Ma certo», risponde. «Quante definizioni ci sono nel cruciverba del Times... e la domenica le conto due volte, perché quegli schemi di parole crociate sono più grandi ed è meglio ricontrollare. Necessario, per la verità. I miei passi. Gli squilli del telefono quando chiamo qualcuno. Nei giorni feriali mangio quasi sempre al Colonial Diner, a tre isolati dal mio ufficio, e andandoci conto le scarpe nere. Tornando indietro, conto quelle marrone. Una volta ho provato con quelle rosse, ma era ridicolo. Solo le donne
portano scarpe rosse e nemmeno tante. Non di giorno. Ne ho contate solo tre paia, così sono tornato indietro fino al ristorante e ho ricominciato, solo che la seconda volta ho contato le scarpe marrone.» Gli chiedo se ha bisogno di contare un certo numero di scarpe per ottenere soddisfazione. «Trenta è un buon numero», risponde. «Quindici paia. Di solito non è un problema.» E perché è necessario raggiungere un certo numero? Riflette, poi mi guarda. «Se le dicessi 'Lei lo sa', lei mi chiederebbe di spiegarle che cosa dovrebbe sapere? Voglio dire, lei ha già avuto a che fare con la disfunzione ossessivo-compulsiva e io me la sono studiata, bene bene l'ho studiata, sia nella mia testa, sia in Internet, perciò non potremmo passare oltre?» Gli dico che di solito le persone che contano ritengono che raggiungere un certo totale, conosciuto come «numero traguardo», sia necessario per mantenere l'ordine. Perché il mondo continui a girare sul suo asse, in un certo senso. Lui annuisce soddisfatto e parte in quarta. «Un giorno che stavo tornando in ufficio contando, ho incrociato un uomo con una gamba segata all'altezza del ginocchio. Si reggeva sulle stampelle con una calza sul moncherino. Se avesse calzato una scarpa nera non ci sarebbe stato nessun problema. Perché stavo tornando indietro, capisce. Ma era marrone. Questo mi ha destabilizzato per tutto il giorno e quella notte non ho potuto chiudere occhio. Perché i numeri dispari sono una brutta cosa.» Si batte la fronte con il dito. «Almeno lo sono quassù. C'è una parte razionale della mia mente che sa che sono tutte stronzate, ma c'è un'altra parte che sa che non lo sono per niente ed è la parte che comanda. Verrebbe da pensare che quando non succede niente di brutto - anzi, quel giorno è successo qualcosa di bello, è stata annullata per nessuna ragione comprensibile un'ispezione fiscale che ci preoccupava parecchio - la sensazione spiacevole dovrebbe svanire, ma non è andata così. Ho contato trentasette scarpe marrone invece di trentotto e quando non è finito il mondo, la parte irrazionale della mia mente ha detto che era perché non solo ero arrivato a trenta, ma l'avevo superato di un bel po'. «Quando carico la lavastoviglie, conto i piatti. Se ottengo un numero pari sopra il dieci, è tutto a posto. Se no, aggiungo il numero giusto di piatti puliti per arrivare al totale. Stessa storia con forchette e cucchiai. Devono essercene almeno dodici nel cestino di plastica sul davanti. E, visto che io
vivo solo, di solito vuol dire che devo aggiungerne di puliti.» Che cosa mi dice dei coltelli, domando, e lui scuote subito la testa. «Coltelli mai. Non nella lavastoviglie.» Quando gli chiedo perché no, mi dice che non lo sa. Poi, dopo una pausa, mi rivolge di traverso un'occhiata colpevole. «Lavo sempre i coltelli a mano, nel lavello.» I coltelli nel cestino delle posate turberebbero l'ordine del mondo, avanzo come ipotesi. «No!» esclama. «Lei capisce, dottor Bonsaint, ma non capisce completamente.» Allora mi deve aiutare lei, dico. «L'ordine del mondo è già turbato. L'ho turbato io l'estate scorsa, quando sono andato all'Ackerman's Field. Solo che non l'avevo capito. Non in quel momento.» E adesso sì? chiedo. «Sì. Non tutto, ma abbastanza.» Gli chiedo se sta cercando di riparare quello che definisce «l'ordine del mondo» o cerca solo di impedire che la situazione degeneri. Gli si disegna sul volto un'espressione di infinito sollievo che gli rilassa tutti i muscoli. Qualcosa che implorava d'essere esternato era finalmente stato articolato a voce alta. Questi sono i momenti per cui vivo. Non è una guarigione, tutt'altro, ma per questo momento N. ha avuto sollievo. Dubito che se l'aspettasse. Non capita quasi mai. «Non lo posso riparare», mormora. «Ma potrei essere in grado di impedire che peggiori. Sì. Questo lo posso fare. È quello che ho fatto.» Mi trovo di nuovo davanti a uno di quei bivi. Potrei domandargli che cosa è successo l'estate scorsa, in agosto, da quel che ho capito, all'Ackerman's Field, ma probabilmente è ancora troppo presto. Meglio allentare ancora un po' le radici di questo dente malato. E per la verità dubito che la causa dell'infezione sia molto recente. Più facile che quello che gli è successo l'estate scorsa sia stato solo una specie di spoletta. Gli chiedo di raccontarmi dei suoi altri sintomi. Ride. «Per questo ci vorrebbe una giornata intera e noi abbiamo solo...» Dà un'occhiata all'orologio al polso. «... ancora ventidue minuti. Ventidue è un buon numero, tra l'altro.» Perché è pari? domando. Il cenno che mi fa con il capo mi dice che spreco tempo su cose ovvie. «I miei... i miei sintomi, come li chiama lei... vengono a grappoli.» Ora
sta guardando il soffitto. «Ce ne sono tre, di questi grappoli. Mi spuntano fuori... dalla parte sana di me... come rocce... rocce, capisce... oh Dio, Dio mio... come quelle fottute rocce in quel fottuto campo...» Gli scorrono lacrime sulle guance. All'inizio sembra non accorgersene, se ne sta sdraiato sul lettino con le dita intrecciate a guardare il soffitto. Poi però allunga la mano sul tavolo vicino, dove c'è quella che Sandy, la mia receptionist, chiama L'Immancabile Scatola di Kleenex. Ne prende due, si asciuga le guance, poi li appallottola. I fazzoletti scompaiono nell'intreccio delle sue dita. «Ci sono tre grappoli», riprende con una voce che non è del tutto ferma. «Il primo è contare. È importante, ma non tanto importante quanto toccare. Ci sono certe cose che ho bisogno di toccare. I fornelli, per esempio. La mattina prima di uscire di casa o la sera prima di andare a letto. Sarà anche vero che vedo che sono spenti, tutte le manopole sono dritte, tutti gli anelli sono scuri, ma ho lo stesso bisogno di toccarli per essere matematicamente sicuro. E lo sportello del forno, naturalmente. Poi ho cominciato a toccare gli interruttori prima di uscire di casa o dall'ufficio. Un rapido colpetto doppio. Prima di salire in macchina, devo battere quattro volte sul tetto. E sei volte quando arrivo a destinazione. Quattro è un numero buono, e sei è un numero giusto, ma dieci... dieci è come...» Vedo il segno di una lacrima che gli è sfuggita e gli corre a zig-zag dall'angolo dell'occhio destro al lobo dell'orecchio. Come avere per ragazza fissa la ragazza dei tuoi sogni? suggerisco. Sorride. Ha un bel sorriso, dolce e stanco, un sorriso per cui schiudersi la mattina sta diventando sempre più difficile. «Proprio così», dice. «E si è allacciata le scarpe da tennis in basso perché tutti lo sappiano.» Tocca anche altre cose? domando conoscendo già la risposta. In cinque anni di esercizio ho visto molti casi come quello di N. Vedo alle volte questi sventurati come uomini e donne che vengono beccati a morte da uccelli predatori. Gli uccelli sono invisibili, lo sono almeno fino a quando uno psichiatra bravo o fortunato o entrambe le cose li spruzza con la sua versione professionale di Luminol e li inonda della luce giusta; ma sono lo stesso molto reali. Il fatto meraviglioso è che un numero così grande di ossessivo-compulsivi riesca a condurre lo stesso una vita produttiva. Lavorano, si nutrono (spesso non abbastanza o troppo, questo sì), vanno al cinema, fanno l'amore con le loro fidanzate e i loro fidanzati, le mogli e i mariti... mentre costantemente quegli uccelli sono lì, ad artigliarli e a strappar-
gli pezzettini di carne. «Tocco molte cose», dice e di nuovo rivolge al soffitto quel bel sorriso stanco. «Lei faccia un nome, io lo tocco.» Dunque contare è importante, dico io, ma toccare lo è di più. E più importante di toccare? «Piazzare», risponde e all'improvviso comincia a tremare dalia testa ai piedi, come un cane rimasto fuori sotto una pioggia gelida. «Oh, Dio.» Sì alza a sedere bruscamente girandosi a posare i piedi per terra. Sul tavolo vicino a lui, oltre all'Immancabile Scatola di Kleenex c'è anche un vaso di fiori. Con una mossa molto veloce, sposta la scatola e il vaso disponendoli su una linea diagonale. Poi toglie due tulipani e li posa gambo contro gambo in modo che un fiore tocchi la scatola di Kleenex e l'altro il vaso. «Adesso è a posto», dice. Esita, poi fa un cenno affermativo come se avesse trovato conferma nella mente che quello che sta pensando è giusto. «Preserva il mondo.» Esita di nuovo. «Per ora.» Io abbasso gli occhi sul mio orologio. Il tempo è scaduto e per oggi abbiamo fatto più che abbastanza. «La settimana prossima», dico. «Stessa ora, stesso canale.» Alle volte do a questa piccola battuta un'inflessione interrogativa, ma non con N. Lui deve tornare e lo sa. «Nessuna magica guarigione, vero?» chiede. Questa volta il sorriso è così triste che quasi non lo si riesce a guardare. Gli dico che potrebbe sentirsi meglio. (Questo scampolo di ottimismo non guasta mai, come ben sanno tutti gli psichiatri.) Poi gli dico di buttare via il suo Stilnox e «i confetti verdi»: Lunesta, presumo. Se non funzionano di notte, possono solo metterlo nei guai durante le ore di veglia. Addormentarsi sull'autostrada non risolverebbe nessuno dei suoi problemi. «No», ammette. «Immagino di no. Dottore, non abbiamo discusso della causa di fondo. Io so cos'è...» Potremmo arrivarci la settimana prossima, lo interrompo. Nel frattempo voglio che tracci un grafico diviso in tre sezioni: contare, toccare e piazzare. Lo farà? «Sì», risponde. Gli domando, quasi a margine, se avverte tendenze suicide. «È un pensiero che mi ha attraversato la mente, ma ho troppo da fare.» È una risposta interessante e non poco inquietante. Gli do il mio biglietto da visita e gli dico di chiamarmi, di giorno o di
notte, se l'idea del suicidio cominciasse a sembrargli più attraente. Promette che lo farà. Ma è anche vero che lo promettono quasi tutti. «Nel frattempo», gli dico alla porta, posandogli una mano sulla spalla, «continui a tenersi fissa la vita.» Lui mi guarda, pallido e senza sorridere questa volta, un uomo sbranato a pezzettini da uccelli invisibili. «Ha mai letto Il grande dio Pan, di Arthur Machen?» Scuoto la testa. «Non c'è storia più terrificante», dice lui. «C'è uno dei personaggi che dice: 'La brama vince sempre'. Ma non sta parlando della brama. Sta parlando di compulsione.» Seroxat? Forse. Ma non prima di essermi fatto un quadro più preciso di questo interessante paziente. 7 giugno 2007 14 giugno 2007 28 giugno 2007 Come mi ero pienamente aspettato, al nostro nuovo incontro N. porta i suoi «compiti». Sono molte le cose su cui in questo mondo non puoi fare conto, e sono molte le persone di cui non ti puoi fidare, ma gli ossessivocompulsivi, tranne che in fin di vita, portano quasi sempre a compimento l'incarico assegnato. Si sentono obbligati a farlo. Da una parte i suoi grafici sono comici; da un'altra, tristi; da un'altra ancora, francamente orribili. È un commercialista, del resto, e immagino che, per creare il contenuto della cartelletta che mi porge prima di andare al lettino, abbia usato uno dei suoi programmi di contabilità. Sono fogli elettronici. Solo che invece di investimenti e flussi di entrate, questi grafici descrivono in dettaglio il complesso terreno delle ossessioni di N. I primi due sono intestati CONTARE; i due successivi riguardano TOCCARE e gli ultimi sei PIAZZARE. Sfogliandoli mi riesce difficile capire come trovi il tempo per qualche altra attività. Eppure gli ossessivo-compulsivi ci riescono quasi sempre. Mi sovviene ancora l'idea degli uccelli invisibili; li vedo appollaiati su N., a strappargli con il becco brani di carne sanguinante. Quando alzo gli occhi, è sul lettino, di nuovo con le dita strettamente intrecciate sul petto. E ha spostato nuovamente il vaso e la scatola dei fazzoletti disponendoli in diagonale. Oggi i fiori sono gigli bianchi. Vederli così, posati sul tavolo, mi fa pensare a un funerale.
«La prego, non mi chieda di rimetterli a posto», dice, in tono di scusa ma con fermezza. «Piuttosto me ne vado.» Gli rispondo che non ho intenzione di chiedergli di rimetterli a posto. Gli mostro i fogli e mi complimento con lui per il loro aspetto professionale. Lui si stringe nelle spalle. Allora io gli domando se rappresentano un rendiconto generale o se coprono solo l'ultima settimana. «Solo l'ultima settimana», risponde. Come se la questione non gli riservasse il minimo interesse. Immagino che così sia. Un uomo beccato a morte dagli uccelli non può avere molto interesse negli sfregi e nelle ferite dell'ultimo anno o anche dell'ultima settimana; ha in testa oggi. E, Dio m'assista, il futuro. «Ci saranno due o tremila voci», noto. «Chiamiamoli eventi. È così che li chiamo io. Ci sono seicentoquattro eventi di conteggio, ottocentosettantotto eventi di tocco e duemiladuecentoquarantasei eventi di piazzamento. Tutti numeri pari, si sarà accorto. La somma totale è tremilasettecentoventotto, sempre numero pari. Sommando le singole cifre di quel totale, tremilasettecentoventotto, si ottiene venti, sempre pari. Un buon numero.» Annuisce come per confermarlo a se stesso. «Dividendo tremilasettecentoventotto per due si ottiene milleottocentosessantaquattro. Sommando le cifre si ottiene diciannove, un numero dispari potente. Potente e cattivo.» È addirittura percorso da un brivido. «Dev'essere molto stanco», osservo. A questo non dà una riposta verbale, neppure annuisce, eppure risponde lo stesso. Le lacrime gli scivolano per le guance verso le orecchie. Sono riluttante ad appesantire il suo fardello, ma riconosco un fatto: se non cominciamo presto questo lavoro - «bando alle frivolezze», come direbbe mia sorella Sheila - non sarà in grado di lavorare affatto. Scorgo già un deterioramento nel suo aspetto (camicia stropicciata, rasatura svogliata, capelli che hanno urgente bisogno di una regolata), e se chiedessi di lui ai suoi colleghi, vedrei quasi sicuramente quei rapidi scambi di occhiate che confermerebbero la mia impressione. A modo loro i grafici sono sorprendenti, ma è evidente che N. sta perdendo le forze. Ritengo di non avere altra scelta che puntare direttamente al cuore della questione e, finché quel cuore non sarà stato raggiunto, non ci saranno né Seroxat né Prozac né altro. Gli chiedo se è pronto a raccontarmi che cosa è successo l'agosto scorso. «Sì», dice. «È per questo che sono venuto.» Sfila alcuni fazzoletti dall'Immancabile Scatola e si asciuga le guance. Stancamente. «Ma... dottore... è
sicuro?» Non mi è mai accaduto che un paziente mi rivolgesse quella domanda o mi parlasse in quel tono di riluttante compassione. Ma gli rispondo di sì, sono sicuro. Il mio compito è aiutarlo, ma perché io lo possa fare, lui deve voler aiutare se stesso. «Anche se corresse il rischio di ritrovarsi nello stato in cui sono io ora? Perché potrebbe essere. Io sono perduto, ma penso, spero, di non essere arrivato allo stato dell'uomo che sta annegando, tanto terrorizzato da essere disposto a trascinare sott'acqua chiunque stia tentando di salvarlo.» Gli dico che non capisco bene. «Sono qui perché tutto questo potrebbe essere nella mia testa», spiega lui e si batte la tempia come a volersi assicurare che sappia bene la sua testa dov'è. «Ma potrebbe non essere così. Io non lo so. Questo intendo quando dico che sono perduto. E se non è mentale, se quello che ho visto e ho sentito all'Ackerman's Field è reale, allora sono portatore di una forma di infezione. Che potrei attaccare a lei.» Ackerman's Field. Ne prendo nota, anche se tutto verrà registrato. Da bambini io e mia sorella frequentavamo l'Ackerman School, nel piccolo borgo di Harlow, sulle sponde dell'Androscoggin. Che non è lontano da qui, una cinquantina di chilometri al massimo. Gli dico che correrò i miei rischi e aggiungo che alla fine - altro rinforzo positivo - sono sicuro che staremo bene tutti e due. Lui emette una risatina malinconica. «Che bello sarebbe», commenta. «Mi dica dell'Ackerman's Field.» Lui sospira e dice: «È a Motton. Sulla sponda est dell'Androscoggin». Motton. Il borgo dopo Chester's Mill. Mia madre andava a comprare latte e uova alla Boy Hill Farm di Motton. N. sta parlando di un posto che non può essere a più di dieci chilometri dalla fattoria dove sono cresciuto io. Quasi esclamo: Lo conoscevo! Non lo faccio ma lui mi spedisce un lampo di occhiata, quasi che avesse sorpreso il mio pensiero. Forse lo ha fatto. Non credo nei fenomeni paranormali, ma non li escludo a priori. «Non ci vada, dottore», dice. «Non lo cerchi nemmeno. Me lo prometta.» Faccio la mia promessa. In verità sono più di quindici anni che non rimetto piede in quella zona depressa del Maine. È vicina in chilometri, distante nel desiderio. Thomas Wolfe ha espresso una tipica iperbole intitolando la sua opera più importante Non puoi tornare a casa; non è così per
tutti (mia sorella Sheila ci torna spesso; è ancora molto unita ad alcune delle sue amiche d'infanzia), ma è così per me. Suppongo che intitolerei il mio libro Non tornerò a casa. Quello che ricordo io sono bulli con il labbro leporino a tiranneggiare il campo giochi, case abbandonate con finestre senza vetri come orbite svuotate, automobili sgangherate e cieli che sembravano sempre bianchi e freddi e pieni di corvi in fuga. «D'accordo», dice N. e per un momento mostra i denti al soffitto. Non in maniera aggressiva; è, ne sono certo, l'espressione di un uomo che si prepara a un esercizio di sollevamento pesi che lo lascerà dolorante per un giorno intero. «Non so se sono capace di spiegarlo bene bene, ma farò del mio meglio. L'importante da ricordare è che fino a quel giorno di agosto il sintomo più vicino a un comportamento ossessivo-compulsivo che mostravo era fare un salto in bagno prima di andare al lavoro per assicurarmi di essermi strappato tutti i peli del naso.» Forse è vero; più probabilmente non lo è. Lascio cadere l'argomento. Gli chiedo invece di raccontarmi che cosa è successo quel giorno. E lui lo fa. Per le tre sessioni successive, lo fa. In occasione della seconda di quelle sessioni, 14 giugno, mi porta un calendario. È, come si suol dire, il Reperto A. 3. La storia di N. Sono commercialista di professione, fotografo per inclinazione. Dopo il mio divorzio - e la maggiore età delle mie figlie, che è un divorzio di un altro tipo e quasi altrettanto doloroso - ho preso a trascorrere quasi sempre il fine settimana in giro a scattare foto di paesaggi con la mia Nikon. È una fotocamera a pellicola, non digitale. Alla fine di ogni anno prendo le dodici foto migliori e ne faccio un calendario. Me le faccio stampare in un posticino di Freeport che si chiama The Windhover Press. È costoso, ma lavorano molto bene. Regalo i calendari per Natale ad amici e colleghi. Anche a qualche cliente, ma non molti: i clienti che pagano fatture a cinque o sei cifre di solito apprezzano qualcosa placcato in argento. Quanto a me, sempre mille volte meglio una bella foto di paesaggio. Non ho nessuna immagine dell'Ackerman's Field. Ne ho scattata qualcuna, ma non sono mai venute. In seguito mi sono fatto prestare una digitale. Non solo le foto non sono venute, ma ho bruciato la fotocamera. Ho dovuto comprarne una nuova al tizio che me l'aveva prestata. Senza rimpianti, però. A quel punto credo che avrei comunque distrutto qualunque foto avessi scattato di quel
posto. Sempre che me lo avesse consentito, sia chiaro. [Gli domando «chi» avrebbe dovuto consentirglielo. N. mi ignora come se non mi avesse udito.] Ho scattato foto in tutto il Maine e il New Hampshire, ma tendenzialmente resto nel cortile di casa. Io vivo a Castle Rock, su al View, per la precisione, ma sono cresciuto a Harlow come lei. Non faccia quell'espressione così sorpresa, dottore, dopo che il mio medico mi ha suggerito il suo nome ho googlato, tutti googlano di questi tempi, no? Fatto sta che quella zona del Maine centrale è dove ho scattato le mie immagini più belle: Harlow, Motton, Chester's Mill, St. Ives, Castle-St.Ives, Canton, Lisbon Falls. Lungo le sponde del maestoso Androscoggin, in altre parole. Quelle immagini hanno qualcosa di più... reale, in un certo senso. Il calendario del 2005 è un buon esempio. Gliene porto uno, così potrà giudicare lei stesso. Da gennaio ad aprile e da settembre a dicembre sono state tutte scattate vicino a casa. Da maggio ad agosto sono... vediamo... Old Orchard Beach... Pemmaquid Point, il faro, naturalmente... Harrison State Park... e Thunder Hole a Bar Harbor. Pensavo di aver azzeccato veramente qualcosa a Thunder Hole, ero emozionato, ma quando ho visto i provini, è stato un gran brutto colpo. Era una qualsiasi istantanea da turista. La composizione era buona, ma sai che roba. Ne trovi così dappertutto, di calendari turistici con una buona composizione. Vuole la mia opinione da dilettante? Io credo che la fotografia sia un'arte molto più artistica di quel che pensa la gente. È logico ritenere che, avendo occhio per la composizione, senza tralasciare un minimo di bagaglio tecnico che si può acquisire in qualunque corso di fotografia, un luogo carino debba venire in fotografia quanto un altro, specialmente quando ci si occupa prevalentemente di paesaggi. Che sia Harlow nel Maine o Sarasota in Florida, basta avere il filtro giusto, puntare l'obiettivo e scattare. Solo che non è così. In fotografia il posto conta proprio come nella pittura, nella narrativa o nella poesia. Non so perché sia così, ma... [C'è una lunga pausa.] Invece lo so. Perché un artista, anche amatoriale come me, mette l'anima nelle cose che crea. Per certe persone, quelle di spirito vagabondo, immagino, l'anima è trasportabile. Nel mio caso sembra che non riesca a spingersi oltre Bar Harbor. Mentre le foto che ho scattato lungo l'Androscoggin... be', quelle mi parlano. E parlano anche agli altri. Il tizio che mi fa le stampe a Windhover dice che probabilmente a New York riuscirei a trovare un editore, così invece di pagare per i miei calendari, sarei io a trarne un
guadagno, ma è una cosa che non mi è mai interessata. Mi sembrava un po' troppo... non so... pubblica? Pretenziosa? Non lo so, qualcosa del genere. I calendari sono una cosuccia, un pensiero per gli amici. E comunque io ho un lavoro. Sono contento di snocciolare numeri. Ma sicuramente la mia vita sarebbe stata più grigia senza il mio hobby. Mi bastava sapere che c'erano alcuni miei amici con il mio calendario appeso in cucina o in soggiorno. Fosse anche stato il cesso, non fa niente. La cosa ironica è che non ho scattato più molte fotografie dopo quelle prese all'Ackerman's Field. Credo che quella fase della mia vita sia finita e ha lasciato un buco. Uno di quelli che nel cuore della notte fischiano come se laggiù tirasse vento. Un vento che cerca di riempire una cosa che non c'è più. Alle volte penso che la vita sia una faccenda triste e brutta, dottore. Lo penso davvero. L'agosto scorso, durante uno dei miei vagabondaggi, mi sono ritrovato su una sterrata di Motton che non ricordavo di aver mai visto prima. Guidavo senza meta ascoltando la radio e ho perso traccia del fiume, ma sapevo che non poteva essere distante perché ha un odore. Riesce a essere putrido e fresco allo stesso tempo. Sa che cosa intendo, ne sono sicuro. Un odore di vecchio. Fatto sta che ho imboccato quella strada. Era accidentata, in qualche punto quasi cancellata. E poi si stava facendo tardi. Dovevano essere circa le sette di sera e non mi ero fermato da nessuna parte a mangiare un boccone. Avevo fame. Quasi sono tornato indietro, ma poi la strada si è spianata e ha cominciato a salire invece di scendere. E l'odore era più forte. Quando ho spento la radio, oltre a sentirne l'odore ho sentito anche il rumore del fiume, non forte, non vicino, ma c'era. Poi sono arrivato a un albero messo di traverso sulla strada e quasi sono tornato indietro. Avrei potuto, anche se non c'era spazio per fare manovra. Ero a non più di un chilometro e mezzo dalla Route 117 e avrei potuto ripercorrere a marcia indietro quel tratto di strada in cinque minuti. Ora penso che qualcosa, una forza che esiste sul lato luminoso della nostra esistenza, mi stesse offrendo quell'opportunità. Penso che l'anno scorso sarebbe stato molto diverso se avessi semplicemente ingranato la retromarcia. Ma non lo feci. Perché quell'odore... mi ha sempre ricordato l'infanzia. E oltre la cima della salita vedevo molto più cielo. Gli alberi, che erano soprattutto betulle con qualche raro pino, lassù si diradavano, e io ho pensato: C'è un campo. L'idea che mi venne è che se c'era, probabilmente da lassù si vedeva il fiume. Mi venne anche l'idea che lassù potesse esserci un buon posto per fare manovra, ma era del tutto secondaria rispetto a quella di poter scattare una foto dell'Androscoggin al tramonto. Non so se ricorda, ma l'a-
gosto scorso abbiamo avuto alcuni tramonti spettacolari. «Rosso di sera, bel tempo si spera.» Così sono sceso e ho spostato l'albero. Era una di quelle betulle, così marcia che quasi mi si disfaceva tra le mani. Ma quando sono risalito in macchina, ancora una volta per poco non sono tornato indietro invece di andare avanti. C'è davvero una forza sul lato buono delle cose; ne sono convinto. Ma, ora che il fusto non c'era più, mi era sembrato che il rumore del fiume fosse più chiaro - una stupidaggine, lo so, ma così mi era sembrato davvero - e ho rimesso in marcia la mia piccola Toyota 4-Runner per arrivare fino in cima. Sono passato oltre un piccolo cartello inchiodato a un albero. ACKERMAN'S FIELD, DIVIETO DI CACCIA, NON ENTRARE, diceva. Poi gli alberi hanno cominciato a diradarsi, prima a sinistra, poi a destra, e finalmente eccolo. Mi ha tolto il fiato. Non ricordo nemmeno d'aver spento il motore e di essere sceso dalla macchina e non ricordo d'aver preso con me la fotocamera, ma devo averlo fatto, perché quando sono arrivato ai margini del campo ce l'avevo in mano, con la cinghia e la borsa che mi sbatteva sulla gamba. Sono stato colpito al cuore e attraverso il cuore, sbalzato dalla mia vita di tutti i giorni. La realtà è un mistero, dottor Bonsaint, e la consistenza quotidiana delle cose è la stoffa con cui ne mascheriamo luminosità e oscurità. Credo che per la stessa ragione copriamo il volto dei cadaveri. Vediamo il volto dei morti come una specie di porta. È chiusa... ma noi sappiamo che non sarà sempre chiusa. Un giorno si aprirà per ciascuno di noi e ciascuno di noi ne varcherà la soglia. Ma ci sono posti dove la stoffa è stracciata e la realtà è sottile. La faccia che c'è dietro vi sbircia attraverso... ma non è il volto di un cadavere. Quasi sarebbe meglio se lo fosse. L'Ackerman's Field è uno di quei posti e non c'è da meravigliarsi che il suo proprietario abbia affisso quel cartello con scritto NON ENTRARE. Il giorno era sul finire. Il sole era una palla di gas rosso, appiattito sopra e sotto, seduto sull'orizzonte occidentale. Nella sua luce riflessa il fiume era un lungo serpente sanguigno, lontano una quindicina di chilometri, ma il suo rumore mi giungeva lo stesso nell'aria immobile del tardo pomeriggio. La foresta blu-grigia saliva dietro di esso in una serie di sbalzi fino all'orizzonte lontano. Non si vedeva una singola casa o strada. Non un uccello che cantasse. Era come se fossi stato precipitato all'indietro di quattrocento anni. O quattro milioni. Dall'erba, che era alta e secca, già saliva-
no i primi nastri bianchi di bruma. Nessuno era stato lì a far fieno, anche se era un campo grande, e un buon pascolo. La nebbia usciva come un fiato dal verde sempre più scuro. Come se la terra stessa fosse viva. Credo di aver barcollato. Non è stata la bellezza, anche se era bellissimo; era per il modo in cui tutto quello che c'era davanti a me sembrava sottile, quasi un'allucinazione. Poi ho visto quelle dannate rocce spuntare dall'erba. Ce n'erano sette o così mi è sembrato. Le due più grosse erano alte un metro e mezzo o giù di lì, la più bassa arrivava a un metro, le altre a metà strada. Ricordo di essere sceso a quella più vicino, ma è come ricordare un sogno dopo che ha cominciato a decomporsi nella luce del mattino, sa come succede, no? Certo che lo sa, i sogni devono costituire una parte consistente del suo lavoro quotidiano. Solo che il mio non era un sogno. Sentivo gli steli strusciarsi contro i miei calzoni, sentivo il tessuto bagnarsi di bruma e appiccicarsi alle gambe sotto le ginocchia. Ogni tanto un cespuglio qua e là c'erano dei ciuffi di sommacco - tirava all'indietro la mia borsa fotografica e poi la lasciava andare e così mi colpiva la coscia più forte del solito. Sono arrivato alla roccia più vicina e mi sono fermato. Una di quelle due alte un metro e mezzo. Da principio mi è sembrato di vederci scolpite delle facce, non volti umani, ma musi di bestie e mostri, però quando ho cambiato posizione ho visto che era solo un trucco della luce serale, che addensa le ombre e le fa sembrare... be', qualunque cosa. Per la verità, dopo che mi sono trattenuto per un po' nella mia nuova posizione, ho visto facce nuove. Alcune di queste sembravano umane, ma erano lo stesso orribili. Più orribili, in verità, perché l'umano è sempre più orribile, non trova? Perché noi conosciamo l'umano, noi capiamo l'umano. O crediamo di capirlo. E queste sembravano strillare o ridere. Forse tutte e due le cose assieme. Ho pensato che fosse il silenzio a incasinarmi la fantasia e l'isolamento e la vastità di quello che avevo davanti... quanta parte di mondo vedevo distesa sotto i miei occhi. E quanto forte era la sensazione che il tempo trattenesse il respiro. Come se tutto dovesse rimanere così per l'eternità, a non più di una quarantina di minuti dal tramonto e con il sole rosso seduto sull'orizzonte e quella scolorita limpidezza dell'aria. Ho pensato che fossero queste cose a farmi vedere facce dove non c'era altro che coincidenza. Adesso la penso diversamente, ma adesso è troppo tardi. Ho scattato qualche foto. Cinque, mi pare. Un brutto numero, solo che
ancora non lo sapevo. Poi sono indietreggiato per averle tutte e sette in un'inquadratura e quando ho puntato l'obiettivo, mi sono accorto che in realtà ce n'erano otto, disposte più o meno in tondo. Si vedeva - se guardavi bene era evidente - che erano parte di una formazione geologica sotterranea affiorata dal terreno chissà quanti secoli fa, o magari erano emerse in seguito a qualche recente dilavamento (l'inclinazione del campo era abbastanza pronunciata, così ho pensato che fosse più che possibile), ma sembravano anche disposte secondo un disegno, come le pietre di un circolo druidico. Però non c'erano incisioni. Eccetto che per quelle prodotte dagli elementi. Lo so perché ci sono tornato di giorno ad assicurarmene. Screpolature e pieghe. Nient'altro. Ho scattato altre quattro fotografie - per un totale di nove, un altro numero brutto, anche se leggermente migliore del cinque - e quando ho abbassato la fotocamera per guardare di nuovo a occhio nudo, ho visto le facce che sbirciavano e sghignazzavano e grugnivano. Alcune umane, alcune bestiali. E ho contato sette rocce. Ma quando ho guardato di nuovo nel mirino, erano otto. Ho cominciato ad avere le vertigini e a provare paura. Volevo essere lontano da lì prima che facesse buio del tutto, lontano da quel campo e di nuovo sulla Route 117, con un bel pezzo rock a tutto volume alla radio. Ma non potevo andarmene. Qualcosa nel profondo di me stesso, profondo quanto l'istinto che ci fa continuare a prendere un respiro e a espellerlo, insisteva che restassi. Avevo la sensazione che se me ne fossi andato sarebbe successo qualcosa di terribile e forse non solo a me. Quella sensazione di sottigliezza mi ha preso di nuovo come se in quel posto particolare il mondo fosse fragile e una sola persona sarebbe stata sufficiente a provocare un cataclisma inimmaginabile. Se non fosse stata molto, ma molto attenta. È lì che ha avuto inizio la mia porcata ossessivo-compulsiva. Sono andato da una roccia all'altra, toccandole tutte, contandole tutte e marcandone l'ubicazione. Volevo essere lontano, disperatamente volevo non essere lì, ma l'ho fatto e senza leggerezza. Perché dovevo farlo. Lo sapevo nel modo in cui so di dover continuare a respirare se voglio continuare a vivere. Quando sono arrivato al punto da cui ero partito, tremavo ed ero madido di sudore oltre che di nebbia e rugiada. Perché toccare quelle rocce... non è stato bello. Faceva venire... delle idee. Ed evocava immagini. Brutte. Una era di fare a pezzi la mia ex moglie con una scure e ridere mentre lei urlava e alzava le mani insanguinate per parare i colpi. Ma ce n'erano otto. Otto rocce all'Ackerman's Field. Un numero buono.
Un numero sicuro. Lo sapevo. E non aveva più importanza se le guardavo attraverso il mirino della fotocamera o a occhio nudo; dopo che le avevo toccate, erano state fissate. Stava venendo buio, il sole era sceso per metà sotto l'orizzonte (devo avere impiegato venti minuti o più per compiere tutto il giro, che era di una quarantina di metri di diametro), ma vedevo abbastanza bene, l'aria era incredibilmente limpida. Sentivo ancora paura - c'era qualcosa di sbagliato lì, tutto me lo stava gridando, il silenzio stesso degli uccelli me lo gridava - ma mi sentivo anche tranquillizzato. Allo sbaglio era stato posto almeno parzialmente rimedio toccando le rocce... e guardandole di nuovo. Marcando mentalmente i punti in cui si trovavano nel campo. Questo è stato importante quanto toccarle. [Una pausa per riflettere.] No, più importante. Perché è il modo in cui vediamo il mondo a tenere a bada le tenebre che ci sono al di là. A impedire che si riversino da questa parte annegandoci. Credo che nel profondo tutti noi lo sappiamo. Così mi sono girato per andarmene ed ero quasi arrivato alla mia auto - forse stavo addirittura toccando la maniglia - quando qualcosa mi ha fatto voltare di nuovo. Ed è stato allora che ho visto. [Resta in silenzio a lungo. Noto che sta tremando. Ha cominciato a sudare. Il sudore gli brilla sulla fronte come rugiada.] C'era qualcosa in mezzo alle rocce. Al centro del cerchio, o per caso o per volontà. Qualcosa di nero, come il cielo a est, e verde come l'erba. Ruotava molto lentamente, ma senza mai staccare gli occhi da me. Sì, perché aveva gli occhi. Brutti occhi rosa. Sapevo, lo sapeva la mia mente razionale, che stavo vedendo solo la luce del cielo, ma allo stesso tempo sapevo che era qualcos'altro. Quel qualcosa stava usando la luce. Qualcosa stava usando il tramonto per vedere e quello che stava vedendo ero io. [Sta piangendo di nuovo. Io non gli porgo i Kleenex, perché non voglio rompere l'incantesimo. Anche se non sono sicuro che avrei potuto offrirglieli, perché ha incantato anche me. Quello che sta illustrando è un'allucinazione, e in certa misura lo sa anche lui - «ombre che sembravano facce» eccetera - ma è molto potente e le allucinazioni potenti viaggiano come i germi in uno starnuto.] Devo essere indietreggiato. Non ricordo di averlo fatto, ricordo solo di aver pensato che stavo vedendo la testa di un mostro grottesco sbucato dalle tenebre esterne. E che dove ce n'era uno, ce ne dovevano essere altri. Otto rocce li avrebbero tenuti prigionieri, a stento, ma se ce ne fossero state solo sette, sarebbero tracimati dalle tenebre sull'altro lato della realtà e a-
vrebbero travolto il mondo. Per quel che ne sapevo, io stavo vedendo il più piccolo e meno pericoloso. Per quel che ne sapevo, quella testa di serpente appiattita con gli occhi rosa e quelli che sembravano lunghi aculei che gli crescevano sul muso erano solo un neonato. Si è accorto che lo stavo guardando. Quel coso schifoso mi ha sorriso e i suoi denti erano teste. Teste umane vive. Poi ho messo il piede su un ramo morto. Si è spezzato con uno schiocco come di un petardo e la paralisi si è sciolta. Non credo sia impossibile che quella cosa al centro del cerchio di pietre mi stesse ipnotizzando, come si dice che sia in grado di fare un serpente con un uccello. Mi sono girato e sono scappato. La borsa continuava a battermi sulla gamba e ogni colpo sembrava dire Sveglia! Sveglia! Esci! Esci! Ho aperto lo sportello della mia 4-Runner e ho sentito il ting! quello che ti avverte che hai lasciato la chiave nell'accensione. Ho pensato a un vecchio film dove William Powell e Myrna Loy sono al banco di un elegante albergo e lui batte sul campanello per chiamare l'impiegato. Buffo cosa ti passa per la mente in momenti come quello, vero? C'è una porta anche nella nostra testa, così penso io. Una porta che impedisce alla follia che c'è in tutti noi di straripare nel nostro intelletto. E nei momenti critici si apre e ne saltano fuori le stronzate più pazzesche. Ho avviato il motore. Ho acceso la radio, ho alzato il volume e l'abitacolo si è riempito di musica rock. Erano gli Who, questo lo ricordo. E ricordo di aver acceso i fari. Quando l'ho fatto, è stato come se quelle rocce spiccassero un salto verso di me. Non so come ho fatto a non gridare. Ma erano otto, le ho contate, e otto è un numero sicuro. [Qui c'è un'altra pausa prolungata. Quasi un intero minuto.] Poi ricordo solo che ero di nuovo sulla Route 117. Non so come ci sono arrivato, se ho fatto manovra per girare la macchina o no. Non so quanto ci ho messo, ma alla radio non c'erano più gli Who e stavo ascoltando i Doors. Bontà di Dio, cantavano Break On Through to the Other Side. Così ho spento la radio. Non credo di poterle raccontare altro, dottore, non oggi. Sono sfinito. [E si vede.] (Sessione seguente) Pensavo che l'effetto che aveva avuto su di me quel posto si sarebbe dis-
solto tornando a casa - solo un brutto momento nel bosco, giusto? - e che sicuramente quando fossi stato a casa mia, con le luci e la tele accese, sarei tornato perfettamente in me. Invece no. Semmai quella sensazione di dislocazione, di aver toccato un altro universo nemico del nostro, è diventata più forte. Rimaneva la convinzione di aver visto al centro di quel cerchio di rocce una faccia, anzi, peggio ancora, l'indizio di un enorme corpo di rettile. Mi sono sentito... infettato. Infettato dai pensieri che avevo nella testa. Mi sono sentito anche pericoloso, come se solo pensandoci troppo potessi evocare quell'essere. E non sarebbe stato solo. Dall'altra parte sarebbe traboccato tutto quanto l'intero altro cosmo, come vomito attraverso il fondo bagnato di un sacchetto di carta. Ho fatto il giro per chiudere a chiave tutte le porte. Poi ho avuto la certezza di averne dimenticate un paio, così ho fatto un altro giro per ricontrollarle tutte. Questa volta le ho contate: porta d'ingresso, porta di servizio, porta della dispensa, porta della cantina, portellone del box, porta di accesso al box. Erano sei e ho pensato che sei era un numero buono. Come lo è l'otto. Sono numeri amici. Caldi. Non freddi come il cinque o... sa, il sette. Mi sono calmato un po', ma ho fatto lo stesso un ultimo giro. Sempre sei. «Sei, che bello che sei», ricordo di aver detto. Dopodiché ho pensato di poter dormire, ma non ce l'ho fatta. Nemmeno con uno Stilnox. Continuavo a vedere il sole al tramonto sull'Androscoggin, che lo trasformava in un serpente rosso. I nastri di nebbia che salivano dall'erba alta come lingue. E la cosa tra le rocce. Soprattutto quella. Mi sono alzato e ho contato tutti i libri nella mia camera da letto. Ce n'erano novantatré. Questo è un brutto numero e non solo perché è dispari. Se dividi novantatré per tre ottieni trentuno: tredici alla rovescia. Così ho preso un libro dal piccolo scaffale in corridoio. Ma il novantaquattro è solo migliore di poco, perché sommando nove e quattro si ottiene tredici. Ci sono tredici dappertutto in questo nostro mondo, dottore. Lei non lo sa. Comunque io ho aggiunto altri sei libri a quelli della camera da letto. Ho faticato a infilarli nella libreria, ma ce l'ho fatta. Cento va bene. Benissimo, anzi. Stavo per rimettermi a letto quando ho cominciato a interrogarmi sullo scaffale in corridoio. Mi chiedevo, sa, se non avessi rubato a Pietro per pagare Paolo. Così sono andato a contare i libri che c'erano lì e andava bene: cinquantasei. Le cifre danno per totale undici, che è dispari ma non è il peggiore dei dispari e dividendolo per due viene ventotto, che è un numero buono. Così ho potuto dormire. Credo di aver fatto dei brutti sogni, ma non
li ricordo. Sono passati i giorni e io continuavo a tornare con il pensiero all'Ackerman's Field. Era come se sulla mia vita fosse scesa un'ombra. Ormai contavo un po' di tutto e toccavo un po' di tutto - per essere sicuro di capire quale fosse il suo posto nel mondo, il mondo reale, il mio mondo - e avevo cominciato anche a piazzare le cose. Sempre cose in numero pari e di solito in circolo o in diagonale. Perché i cerchi e le diagonali fanno da muro. Di solito, almeno. Ma mai per sempre. Basta un piccolo incidente e il quattordici diventa tredici o l'otto diventa sette. Ai primi di settembre è venuta in visita mia figlia minore che mi ha trovato l'aria stanca. Ha voluto sapere se stessi lavorando troppo. Ha anche notato che tutti i ninnoli del soggiorno, oggetti che sua madre non aveva portato via dopo il divorzio, erano stati sistemati in quelli che ha definito «cerchi nel grano». Ha detto: «Ti stanno venendo un po' di manie con la vecchiaia, eh, papà?» Ed è stato allora che ho deciso che dovevo tornare all'Ackerman's Field, questa volta alla luce del giorno. Ho pensato che se l'avessi visto di giorno, se avessi visto solo delle rocce insignificanti che spuntavano in mezzo a un prato d'erba da fieno, mi sarei reso conto di quanto stupida fosse tutta quanta quella faccenda e le mie ossessioni se ne sarebbero volate via come un soffione in un colpo di vento. Lo volevo. Perché contare, toccare e piazzare, sono tutte cose che richiedono un sacco di lavoro. Una notevole responsabilità. Sulla strada mi sono fermato nel posto dove faccio sviluppare le mie foto e ho visto che quelle che avevo scattato quel pomeriggio all'Ackerman's Field non erano riuscite. Erano rettangoli grigi, come se fossero state annebbiate da una forte radiazione. Questo mi ha un po' trattenuto, ma non del tutto. Da uno dei ragazzi al negozio mi sono fatto prestare una fotocamera digitale, quella che ho bruciato, e sono ripartito in tutta fretta. Vuole sentire una cosa stupida? Mi sentivo come un uomo urticato dall'edera velenosa che si precipita in farmacia a prendere un unguento lenitivo. Perché la sensazione era così... di prurito. Contare e toccare e piazzare è come grattare, ma grattare dà un sollievo solo temporaneo. È più probabile che diffonda invece la causa del prurito. Quello che cercavo io era una guarigione. Tornare all'Ackerman's Field non lo era, ma io non lo sapevo, giusto? Come si dice, si impara con la pratica. E impariamo ancora di più provando e sbagliando. Era una gran bella giornata senza una sola nuvola in cielo. Le foglie era-
no ancora verdi, ma l'aria aveva la brillantezza tipica del cambio di stagione. La mia ex moglie diceva sempre che giorni come quelli sono la nostra ricompensa per aver sopportato i turisti e i villeggianti estivi per tre mesi, in coda dietro a loro mentre pagano la birra con la carta di credito. Mi sentivo bene, questo lo ricordo. Mi sentivo sicuro che stessi per mettere la parola fine a quella scemenza da fuori di testa. Ascoltavo una compilation di successi dei Queen e pensavo a quanto era straordinaria la voce di Freddy Mercury, com'era pura. Cantavo con lui. Ho attraversato l'Androscoggin a Harlow - con l'acqua su entrambi i lati del vecchio Bale Road Bridge così scintillante da farti partire gli occhi - e un pesce è guizzato in aria. Mi ha fatto ridere forte. Non ridevo così dal pomeriggio all'Ackerman's Field e mi è piaciuto tanto che ci ho rifatto. Poi ho oltrepassato la Boy Hill - scommetto che sa dov'è - e il cimitero di Serenity Ridge. Ci ho scattato delle belle immagini là dentro, anche se non ne ho mai inclusa una in qualche calendario. Sono arrivato alla sterrata meno di cinque minuti dopo. Ho fatto per imboccarla, poi ho frenato. Giusto in tempo. Solo una frazione di secondo di ritardo e avrei spaccato in due la griglia della mia 4-Runner. C'era una catena a chiudere la strada e appeso alla catena c'era un nuovo cartello: È SEVERAMENTE VIETATO L'ACCESSO. Avrei potuto dire a me stesso che era una semplice coincidenza, che il proprietario di quel bosco e di quel pascolo - non necessariamente un tizio di nome Ackerman, ma forse sì - metteva sempre la catena e il cartello all'inizio dell'autunno per scoraggiare i cacciatori. Ma la caccia al cervo apre solo il primo novembre. Persino la stagione di caccia ai volatili non comincia prima di ottobre. Io credo che qualcuno sorvegli quel campo. Con un binocolo, forse, ma forse con un sistema di avvistamento meno normale. Qualcuno sapeva che ero stato là e che sarei potuto tornare. Lascia perdere, allora! mi sono detto. A meno che voglia rischiare di farti arrestare per violazione di domicilio e finire magari con la tua foto sul Call di Castle Rock. Sai che pubblicità per lo studio, eh? Ma non c'era modo di fermarmi, non se avessi avuto la possibilità di salire fino a quel campo, non vedere niente di strano e, di conseguenza, sentirmi meglio. Perché, e prenda bene nota, mentre dicevo a me stesso che se qualcuno voleva che non mettessi piede nella sua proprietà avevo il dovere di rispettare la volontà di quella persona, stavo contando le lettere del cartello e la somma era ventitré, che è un numero terribile, molto peggio di tredici. So che è folle pensare così, ma io era così che pensavo e qualcosa
dentro di me sapeva che non era affatto folle. Ho lasciato la mia 4-Runner nel parcheggio di Serenity Ridge, poi sono tornato a piedi alla sterrata con la fotocamera presa in prestito appesa alla spalla nel suo piccolo astuccio con la zip. Ho girato intorno alla catena, cosa tutt'altro che complicata, e mi sono incamminato. Così ho scoperto che avrei dovuto camminare anche senza la catena, perché questa volta in mezzo alla strada c'era una mezza dozzina di alberi, e non più semplici betulle. Cinque erano pini di notevoli dimensioni e l'ultimo era una quercia adulta. E non erano nemmeno semplicemente cascati. Quei simpatici fuscelli erano stati abbattuti con una motosega. Ma non mi hanno minimamente rallentato. Ho scavalcato i pini e ho girato intorno alla quercia. Poi ho affrontato l'ultima salita. Non ho nemmeno guardato l'altro cartello, quello con ACKERMAN'S FIELD, DIVIETO DI CACCIA, NON ENTRARE. Ho visto gli alberi che sulla cresta si diradavano, ho visto i raggi polverosi brillare tra quelli più vicini alla cima, e ho visto ettari ed ettari di cielo blu, cielo allegro e pieno di ottimismo. Era mezzogiorno. Non ci sarebbe stato nessun gigantesco serpente di sangue in lontananza, solo l'Androscoggin sulle rive del quale ero cresciuto e che avevo sempre amato, blu e bello, come sanno esserlo le cose comuni quando le vediamo nel loro momento magico. Mi sono messo a correre. La sensazione di folle ottimismo è durata fino a che sono arrivato in cima, ma nell'istante in cui ho visto quelle rocce dritte come zanne, tutti i miei buoni sentimenti sono spariti. Sostituiti da paura e orrore. C'erano di nuovo sette rocce. Solo sette. E in mezzo - non so bene come spiegarlo in maniera che lei possa capire - c'era un posto sbiadito. Non era proprio un'ombra, ma piuttosto... sa quando con il passare del tempo il blu dei tuoi jeans preferiti si scolora? Specialmente nei punti di maggior usura come le ginocchia? Era così. Il colore dell'erba si era stinto in quello di fanghiglia oleosa e invece che blu, il cielo sopra quel cerchio di rocce era grigiastro. Ho avuto la netta sensazione che se fossi andato là dentro - e qualcosa mi spingeva a farlo - avrei potuto far scattare un pugno e passare direttamente attraverso il tessuto della realtà. E se lo avessi fatto, qualcosa mi avrebbe acchiappato. Qualcosa che c'è dall'altra parte. Ne ero sicuro. Eppure qualcosa dentro di me voleva che lo facessi. Voleva... non so... piantarla lì con i preliminari e passare direttamente alla scopata. Vedevo, o almeno mi sembrava di vedere, ancora non sono del tutto sicuro di questa parte, il punto che apparteneva all'ottava roccia e vedevo quella... quella sbiaditezza... protendersi da quella parte, cercare di passare
là dove la protezione delle rocce era sottile. Ne sono stato atterrito! Perché se fosse uscita, nel nostro mondo sarebbero apparse tutte le innominabili cose che ci sono dall'altra parte. Il cielo sarebbe diventato nero e si sarebbe riempito di nuove stelle e costellazioni pazzesche. Mi sono tolto dalla spalla la macchina fotografica, ma quando ho cercato di aprire la zip dell'astuccio, mi è caduta per terra. Le mani mi tremavano come se mi avesse preso un attacco epilettico. Ho raccolto l'astuccio e l'ho aperto e quando ho guardato di nuovo le rocce ho visto che lo spazio all'interno non era più solo sbiadito. Stava diventando nero. E dentro ci vedevo degli occhi. Spiavano da dentro le tenebre. Questa volta erano gialli, con piccole pupille nere. Come occhi di gatto. O occhi di serpente. Ho cercato di alzare la fotocamera, ma mi è scappata di nuovo. E quando ho fatto per raccoglierla, l'erba vi si è chiusa sopra e ho dovuto tirare per liberarla. No, ho dovuto strappare. Ormai ero in ginocchio a strattonare la cinghia con tutte e due le mani. E nel punto dove ci sarebbe dovuta essere l'ottava roccia ha cominciato a soffiare un vento. Mi ha alzato i capelli sulla fronte. Puzzava. Un odore di carogna. Mi sono portato la fotocamera alla faccia, ma all'inizio non ho visto niente. L'ha accecata, ho pensato, ha accecato la macchina, ma poi ho ricordato che era una Nikon digitale e che bisogna accenderla. L'ho fatto, ho sentito il bip, ma ancora non vedevo niente. Intanto il vento era diventato forte. Piegava l'erba per tutta la lunghezza del campo in grandi ondate d'ombra. L'odore era peggiorato. E la giornata si andava rabbuiando. Non c'era una sola nuvola in cielo, un cielo blu cristallino, eppure la giornata diventava buia lo stesso. Come se il sole venisse eclissato da un grande pianeta invisibile. Qualcosa parlò. Qualcosa che suonava come «Cthun, cthun, diyana, diyana». Ma poi... Cristo, poi ha fatto il mio nome. Ha detto: «Cthun, N., diyana, N.». Credo di aver urlato, ma non ne sono sicuro, perché intanto il vento era diventato un tornado che mi tuonava nelle orecchie. Avrei dovuto urlare. Avevo ogni diritto di urlare. Perché conosceva il mio nome? Quella cosa grottesca e spaventosa conosceva il mio nome. E poi... la fotocamera... sa cosa avevo fatto? [Gli chiedo se aveva lasciato il cappuccio sull'obiettivo e lui fa una risata stridula che mi si arrampica sui nervi e mi fa pensare a topi in fuga su cocci di vetro.] Sì! Bravo! Il cappuccio! Quel cazzo di cappuccio! L'ho tolto e mi sono portato la fotocamera all'occhio ed è un miracolo che non l'abbia lasciata
cadere di nuovo con le mani che mi tremavano in quel modo e, se fosse successo, l'erba non l'avrebbe più lasciata andare, perché la seconda volta sarebbe stata pronta. Ma non l'ho lasciata cadere e nel mirino l'immagine c'era e c'erano otto rocce. Otto. L'otto tiene le cose a posto. C'era quell'oscurità che roteava al centro, ma si andava ritirando. E il vento che soffiava intorno a me stava diminuendo. Ho abbassato la fotocamera e le rocce erano sette. Qualcosa spuntava dalla tenebra, qualcosa che non le so descrivere. Lo vedo bene, lo vedo nei miei sogni, ma non ci sono parole per un orrore come quello. Un elmetto di cuoio pulsante è il massimo che riesco a inventarmi. Un casco con occhialoni gialli sui lati. Solo che gli occhialoni... credo che fossero occhi e so che mi guardavano. Ho alzato di nuovo la fotocamera e ho visto otto rocce. Ho scattato sei o sette foto come per marcarle, per fissarle per sempre al loro posto, ma naturalmente non ha funzionato, sono solo riuscito a friggere la fotocamera. Un obiettivo può inquadrare quelle rocce, dottore, e sono più che sicuro che anche una persona potrebbe vederle in uno specchio o magari addirittura attraverso una semplice lastra di vetro, ma la macchina fotografica non le può registrare. La sola cosa che può registrarle e può tenerle al loro posto è la mente umana, la memoria umana. E nemmeno quella è affidabile, come ho scoperto. Contare, toccare e piazzare funziona per un po' - è ironico pensare che certi comportamenti che consideriamo nevrotici servano in effetti a tenere a posto il mondo - ma prima o poi la protezione che offrono si consuma. Ed è un lavoraccio. Un vero lavoraccio dannato. Forse potremmo smettere per oggi. So che è presto, ma sono molto stanco. [Gli dico che gli prescriverò un sedativo, se vuole, blando, ma più sicuro dello Stilnox o del Lunesta. Farà effetto se non esagera. Lui mi rivolge un sorriso di gratitudine.] Sarebbe bello, molto bello. Ma posso chiederle un favore? [Gli rispondo che naturalmente sì.] Me ne prescriva venti, quaranta o sessanta. Sono tutti numeri buoni. (Sessione seguente) [Gli dico che lo trovo meglio, anche se non è affatto vero. Ha piuttosto l'aspetto di un uomo che presto finirà in ospedale se non trova un modo
per tornare alla sua personale Route 117. Che giri la macchina o la faccia tutta a marcia indietro, non importa come, ma deve andar via da quel campo. Anch'io, se è per questo. Ho sognato il campo di N., che sono sicuro che saprei trovare se volessi. Non che lo desideri - somiglierebbe un po' troppo a condividere l'allucinazione del mio paziente - ma sono sicuro che saprei trovarlo. Qualche giorno fa, di notte, mentre io stesso avevo difficoltà ad addormentarmi, mi è venuto in mente che devo esserci passato davanti non una ma centinaia di volte. Perché ho attraversato il Bale Road Bridge centinaia di volte e sono passato davanti al cimitero di Serenity Ridge migliaia di volte; era sul percorso dell'autobus della scuola dove andavamo io e Sheila, la James Lowell Elementary. Sicurissimo che saprei trovarlo. Se volessi. Se esiste. [Gli chiedo se la medicina è stata d'aiuto, se ha dormito. Le sue occhiaie mi dicono di no, ma sono curioso di sentire come mi risponde.] Molto meglio. Grazie. E anche la sindrome ossessivo-compulsiva è migliorata un po'. [Mentre lo dice le sue mani, più inclini a dire la verità, stanno furtivamente spostando il vaso e la scatola di fazzoletti agli angoli opposti del tavolino vicino al divanetto. Questa volta Marjorie ci ha messo delle rose. Lui le sistema in maniera che congiungano la scatola al vaso. Gli chiedo che cosa è successo dopo che è stato all'Ackermans Field con la macchina presa in prestito. Lui alza le spalle.] Niente. A parte aver pagato il tizio della Nikon al negozio. Ormai la stagione della caccia era alle porte e quei boschi diventano pericolosi, anche a vestirsi tutto di arancione rifrangente dalla testa ai piedi. Anche se dubito che da quelle parti ci siano molti cervi. Immagino che si tengano alla larga. Quella rogna ossessivo-compulsiva ha allentato la morsa e io ho ripreso a dormire da sera a mattina. Be'... qualche volta. Sognavo, naturalmente. Nei sogni ero sempre in quel campo a cercare di strappare la fotocamera dall'erba e l'erba non la voleva lasciare andare. La tenebra sgorgava dal cerchio come petrolio e quando guardavo su vedevo che il cielo si era spaccato da est a ovest e che dalla crepa usciva una terribile luce nera... una luce che era viva. E famelica. A quel punto mi svegliavo tutto fradicio di sudore. Qualche volta gridando. Poi, ai primi di dicembre, mi è arrivata una busta in ufficio. Sulla busta c'era scritto PERSONALE e conteneva un piccolo oggetto. Ho strappato la busta e sulla scrivania è caduta una piccola chiave con una targhetta. Sulla
targhetta c'era scritto A.F. Sapevo che cos'era e che cosa significava. Se ci fosse stata una lettera, ci sarebbe stato scritto: «Ho cercato di tenertene fuori. Non è colpa mia e forse neanche tua, ma in ogni caso questa chiave, con tutto quello che apre, adesso è tua. Abbine cura». Quel fine settimana sono tornato a Motton, senza disturbarmi a lasciare la macchina nel parcheggio di Serenity Ridge. Non ce n'era più bisogno, capisce? A Portland e in tutti gli altri borghi che ho attraversato avevano appeso le decorazioni natalizie per le strade. Faceva un freddo cane, ma ancora niente neve. Sa come viene sempre più freddo prima che si metta a nevicare? Così era quel giorno. Ma il cielo era coperto e la neve è arrivata, una vera tormenta, quella stessa notte. Roba grossa. Se la ricorda? [Gli rispondo di sì. Ho motivo di ricordare (anche se non glielo dico). Io e Sheila siamo rimasti bloccati dalla neve nella vecchia casa dov'eravamo andati a controllare certi interventi di riparazione. Abbiamo bevuto un po' e abbiamo ballato dei vecchi dischi dei Beatles e dei Rolling Stones. È stato bello.] C'era di nuovo la catena a chiudere la strada, ma la chiave di A.F. apriva il lucchetto. E gli alberi abbattuti erano stati trascinati ai bordi. Come io già sapevo. Non serviva più bloccare la strada, perché quel campo è il mio campo, quelle rocce adesso sono le mie rocce, e qualunque cosa sia quello che tengono prigioniero, è sotto la mia responsabilità. [Gli domando se aveva paura, sicuro che la risposta debba essere positiva. Ma N. mi sorprende.] Non molto, no. Perché il posto era cambiato. Lo sapevo già dall'inizio della strada, dove sbuca nella 117. Lo sentivo. E mentre aprivo il lucchetto con la mia chiave nuova sentivo gracchiare i corvi. Di solito trovo quel verso brutto, ma quel giorno mi sembrava dolcissimo. A rischio di sembrare presuntuoso, lo consideravo un segnale di redenzione. Sapevo che nell'Ackerman's Field c'erano otto rocce e avevo ragione. Sapevo che non sarebbero sembrate disposte in un cerchio e avevo ragione anche su quello; sembravano di nuovo affioramenti scomposti, parte di uno strato roccioso sotterraneo messo a nudo da uno spostamento tettonico o dal ritiro di un ghiacciaio avvenuto ottantamila anni fa, o da un'inondazione più recente. Capivo anche altre cose. Una era che avevo attivato quel posto solo guardandolo. Gli occhi umani tolgono l'ottava roccia. L'obiettivo di una macchina fotografica ce la rimette, ma non la fissa al suo posto. Io dovevo rinnovare la protezione con atti simbolici.
[Fa una pausa, riflette, e quando riprende a parlare sembra che abbia cambiato argomento.] Sapeva che Stonehenge potrebbe essere stato la combinazione di un orologio con un calendario? [Gli dico che l'ho letto da qualche parte.] Gli uomini che hanno costruito quel posto e altri come quello non potevano non sapere che per calcolare le ore bastava una semplice meridiana e quanto al calendario, sappiamo che le popolazioni preistoriche di Europa e Asia tenevano il conto dei giorni con dei semplici segni su pareti rocciose coperte. Allora, se Stonehenge è veramente un gigantesco orologio/calendario, che significato potrebbe avere? Sarebbe, secondo come la penso io, un monumento al comportamento ossessivo-compulsivo, una gigantesca nevrosi piazzata in un campo di Salisbury. A meno che, oltre a tenere il conto delle ore e dei mesi, serva a proteggere qualcosa. Serva a tenere prigioniero un universo folle che si trova giusto a ridosso del nostro. Ci sono giorni - molti, specialmente l'inverno scorso, quando sentivo di essere tornato quasi del tutto in me stesso - in cui sono certo che siano tutte stronzate, che tutto quello che mi è parso di vedere nell'Ackerman's Field fosse solo nella mia testa. Che tutto questo pasticcio ossessivo-compulsivo sia solo uno spasmo mentale. Poi ci sono altri giorni - sono ricominciati in primavera - in cui sono certo che sia tutto vero: ho attivato qualcosa. E così facendo, ho ricevuto il testimone da una lunghissima fila, che risale forse ai tempi della preistoria. So che sembra una cosa da matti - altrimenti perché sarei qui a raccontarlo a uno psichiatra? - e ci sono giorni interi in cui sono sicuro che lo sia... Persino mentre sono lì che conto le cose, che giro per casa di notte a toccare interruttori e fornelli, sono sicuro che sia tutto solo... sa... l'effetto di processi chimici sbagliati dentro la mia testa, eliminabile con qualche pillola di quelle giuste. È una cosa che ho pensato soprattutto durante l'inverno scorso, quando le cose andavano bene. O almeno meglio. Poi, nell'aprile di quest'anno, le cose hanno cominciato ad andare male di nuovo. Contavo di più, toccavo di più e piazzavo praticamente tutto quello che non fosse inchiodato da qualche parte disponendolo in cerchi o diagonali. Mia figlia, quella che va a scuola qui vicino, ha manifestato di nuovo la sua preoccupazione per il mio aspetto e il mio nervosismo. Mi ha chiesto se era il divorzio e quando le ho risposto di no, mi ha guardato come se non mi credesse. Mi ha chiesto se avevo preso in considerazione di «farmi vedere da qualcuno», e,
buon Dio, eccomi qui. Ho ricominciato ad avere gli incubi. Una notte all'inizio di maggio mi sono svegliato sul pavimento e stavo urlando. Nel sogno avevo visto un'enorme mostruosità grigio-nera, una gargouille alata con una testa di cuoio simile a un casco. Si ergeva, alta più di un chilometro, tra le rovine di Portland e aveva sbuffi di nuvole intorno alle braccia squamose. Negli artigli stringeva esseri umani che si dibattevano strillando. E sapevo, lo sapevo nella maniera più definitiva, che era sfuggita alle rocce dell'Ackerman's Field, che era solo il primo e il meno abominevole degli esseri che sarebbero stati liberati dall'altro mondo ed era tutta colpa mia. Perché ero venuto meno alle mie responsabilità. Sono andato in giro per la casa a sistemare le cose in cerchi e a contarle per assicurarmi che i cerchi contenessero solo numeri pari, e mi sono reso conto che non ero in ritardo, che aveva solo cominciato a svegliarsi adesso. [Gli chiedo a che cosa si stia riferendo.] La forza! Ricorda Guerre stellari? «Usa la forza, Luke»? [Ride di gusto.] Solo che qui è il contrario, si tratta di non usare la forza! Fermare la forza! Imprigionare la forza! La cosa caotica che continua a spingere là dove la realtà è sottile... e in tutti gli altri posti sottili che ci sono nel mondo, immagino. Certe volte penso che dietro quella forza ci sia un'intera catena di universi guasti che risale ai limiti del tempo come una fila di orme mostruose... [Dice qualcosa sottovoce che non colgo. Gli chiedo di ripetere, ma scuote la testa.] Mi dia il suo taccuino, dottore. Glielo scrivo. Se quello che le sto dicendo è vero e non un'invenzione della mia testa andata a puttane, dire il nome a voce alta è pericoloso. [Scrive CTHUN in uno stampatello di grandi dimensioni. Me lo mostra e quando annuisco, fa a pezzetti il foglio, conta i pezzetti, immagino per accertarsi che il numero sia pari, poi li deposita nel cestino di fianco al divanetto.] La chiave, quella che mi era arrivata per posta, era nella cassaforte di casa. L'ho presa e sono tornato a Motton, ho attraversato il ponte, ho oltrepassato il cimitero e ho preso quella maledetta sterrata. Non ci ho pensato, perché non era il genere di decisione su cui uno deve riflettere. Sarebbe stato come mettersi a sedere a riflettere se spegnere o no le tende del soggiorno che, quando sei entrato, stavano andando a fuoco. No, sono andato
e basta. Però ho preso la fotocamera. Sarà bene che creda almeno a questo. L'incubo mi aveva svegliato verso le cinque, così quando sono arrivato all'Ackerman's Field erano ancora le prime ore del mattino. L'Androscoggin era stupendo, somigliava più a un lungo specchio d'argento che a un serpente, con riccioli sottili di bruma che salivano dalla superficie e si spargevano nell'aria spinti, non so, da un'inversione termica o qualcosa del genere. L'esalazione replicava perfettamente le anse del fiume, così che sembrava che nel cielo ci fosse un fiume-fantasma. Nel campo l'erba aveva ripreso a crescere e quasi tutti i cespugli di sommacco cominciavano a germogliare, ma ho visto una cosa impressionante. E le dico che, dovesse essere una creazione della mia testa anche tutto il resto (e sono più che disposto ad accettare che così sia), quello era reale. Ho le foto a dimostrarlo. Sono nebulose, ma in un paio si vedono le mutazioni nei cespugli di sommacco più vicini alle rocce. Le foglie sono nere invece che verdi e i rami sono contorti... sembra che formino delle lettere e le lettere sono quelle... sa... che formano il suo nome. [Indica il cestino dove ha gettato i pezzetti di carta.] In mezzo alle rocce c'era di nuovo l'oscurità e naturalmente ce n'erano solo sette, per questo ero stato spinto a tornare, ma non ho visto gli occhi. Grazie al cielo c'era ancora tempo. In mezzo c'era solo il buio che girava e girava e sembrava irridere la bellezza di quella quieta mattina di primavera, sembrava esultare della fragilità del nostro mondo. Attraverso vedevo l'Androscoggin dall'altra parte, ma la tenebra, che era quasi biblica, una colonna di fumo, trasformava il fiume in una schifosa macchia grigia. Ho alzato la mia fotocamera - avevo la cinghia intorno al collo, così anche se mi fosse scappata di mano non sarebbe caduta prigioniera dell'erba e ho guardato nel mirino. Otto rocce. L'ho abbassata ed erano di nuovo sette. Ho guardato nel mirino e ne ho viste otto. La seconda volta che ho abbassato la fotocamera, sono rimaste otto. Ma non era abbastanza e lo sapevo. Sapevo che cosa dovevo fare. Costringermi a scendere al cerchio di rocce è stata la cosa più difficile della mia vita. Il fruscio dell'erba sui risvolti dei miei calzoni era come una voce, bassa, rabbiosa, scontenta. Mi ammoniva a stare alla larga. L'aria ha preso un sapore malato. Pieno di cancro e cose che sono forse anche peggio, germi che nel nostro mondo non esistono. La mia pelle ha preso a ronzare e mi è venuta l'idea - per la verità ce l'ho ancora - che se fossi entrato nel cerchio passando tra due di quelle rocce, mi si sarebbe liquefatta la
carne del corpo gocciolando dalle ossa. Sentivo il vento che alle volte tira da quelle parti trasformarsi nel suo ciclone personale. E ho capito che stava arrivando. La cosa con la testa a elmetto. [Indica di nuovo i pezzetti di carta nel cestino.] Stava arrivando e se io lo avessi visto da così vicino, ne sarei impazzito. Avrei posto fine alla mia vita dentro quel cerchio, scattando fotografie che avrebbero mostrato solo nuvole di grigio. Ma qualcosa mi spingeva ad andare avanti. E quando sono arrivato... [N. si alza e gira intorno al lettino compiendo un cerchio preciso. I suoi passi, che sono solenni e impettiti, come quelli di un bambino in un girotondo, fanno impressione. Mentre gira allunga la mano per toccare sassi che non posso vedere. Uno... due... tre... quattro... cinque... sei... sette... otto. Perché l'otto tiene le cose a posto. Poi si ferma e mi guarda. Ho avuto pazienti in crisi, molti, ma non ho mai visto un'espressione così spiritata. Vedo orrore, ma non follia; vedo chiarezza piuttosto che confusione. Non può essere altro che un'allucinazione, naturalmente, ma non c'è dubbio che lui la comprenda completamente. [«Quando ci è arrivato, le ha toccate», dico.] Sì, le ho toccate, a una a una. E non posso dire di aver sentito che il mondo diventava più sicuro - più solido, più presente - a ogni pietra che toccavo, perché non sarebbe la verità. Succedeva ogni due. Solo i numeri pari, capisce? Con ogni coppia quel gorgo di tenebra recedeva e quando sono arrivato all'ottava, non c'era più. L'erba all'interno del cerchio era gialla e morta, ma il buio era scomparso. E in lontananza ho sentito cantare un uccello. Sono tornato indietro. Ormai il sole era alto e il fiume-fantasma sopra quello reale si era dissipato completamente. Le rocce sembravano di nuovo rocce. Otto affioramenti di granito in un pascolo, neppure disposte in un cerchio, a meno di lavorare d'immaginazione. E io mi sono sentito dividere. Una parte della mia mente sapeva che era tutto solo frutto della mia immaginazione e che la mia immaginazione aveva una malattia di qualche genere. L'altra parte sapeva che era tutto vero. Quella parte capiva persino perché per un po' le cose erano andate meglio. È il solstizio, capisce? Si vede lo stesso fenomeno ripetuto in tutto il mondo, non solo a Stonehenge, ma nel Sud America e in Africa, addirittura nell'Artico! Lo si vede nel Midwest, lo ha visto mia figlia, che di tutto questo non sa assolutamente niente! Cerchi nel grano, ha detto! È veramente un calendario, quello a Stonehenge e in tutti gli altri posti, che segna
non solo i giorni e i mesi ma tempi di maggiore e minore pericolo. Quella divisione nella mia mente mi stava lacerando. Mi sta lacerando. Dopo quel giorno sono tornato lassù un'altra decina di volte e il ventuno, il giorno in cui ho dovuto cancellare l'appuntamento con lei, rammenta? [Gli dico di sì, certo che sì.] Ho passato quell'intera giornata all'Ackerman's Field, a guardare e contare. Perché il ventuno era il solstizio d'estate. Il giorno di massimo pericolo. Come il solstizio d'inverno, in dicembre, è il giorno in cui il pericolo è al livello più basso. Lo era l'anno scorso, lo sarà di nuovo quest'anno, lo è stato tutti gli anni dall'inizio del tempo. E nei mesi da adesso in poi, almeno fino all'autunno, ho il mio compito già assegnato. Il ventuno... non so dirle quanto brutto è stato lassù. Con quell'ottava roccia che continuava a scomparire e ricomparire. Con la difficoltà di resuscitarla nel mondo con la forza della concentrazione. Il modo in cui il buio si consolidava e scioglieva... consolidava e scioglieva... come una marea. A un certo punto mi sono assopito e quando ho guardato di nuovo c'era un occhio disumano, uno spaventoso occhio trilobato che mi fissava. Ho cacciato un grido, ma non sono scappato. Perché il mondo era affidato a me. Dipendeva da me e nemmeno lo sapeva. Invece di scappare, ho alzato la mia macchina fotografica e ho guardato nel mirino. Otto rocce. Nessun occhio. Ma poi sono rimasto sempre sveglio. Finalmente il cerchio si è riconsolidato e ho capito che potevo andare via. Almeno per quel giorno. Ormai il sole stava scendendo come quel primo pomeriggio; una palla di fuoco seduta sull'orizzonte a trasformare l'Androscoggin in un serpente di sangue. E, dottore... che sia reale o solo un'allucinazione, il lavoro resta lo stesso duro. E la responsabilità! Sono così stanco. Quando si dice di portare sulle spalle il peso del mondo... [È di nuovo sul divanetto. È un uomo grande e grosso, ma in questo momento sembra piccolo e avvizzito. Poi sorride.] Potrò almeno tirare un po' il fiato in inverno. Se ci arrivo. E sa una cosa? Credo che abbiamo finito, io e lei. Come solevano dire alla radio: «Con questo chiudiamo il programma di oggi». Anche se... chi lo sa? Potrebbe vedermi di nuovo. O almeno avere mie notizie. [Gli dico che si sbaglia, abbiamo ancora molto lavoro da fare. Gli dico che sta veramente portando un peso; un invisibile gorilla da trecento chili sulla schiena, e che insieme possiamo persuaderlo a scendere. Gli dico che ce la possiamo fare, ma che ci vuole tempo. Gli dico tutte queste cose
e gli preparo due prescrizioni, ma in cuor mio temo che faccia sul serio, che abbia chiuso. Prende le ricette, ma ha chiuso. Forse solo con me; forse con la vita stessa.] Grazie, dottore. Di tutto. Di aver ascoltato. E quelli... [Indica il tavolino di fianco al divanetto, con gli oggetti disposti in quel modo.] ...io non li sposterei, se fossi in lei. [Gli do un biglietto con la data del prossimo appuntamento e lui lo ripone con cura in una tasca. E quando ci batte la mano sopra per accertarsi che sia al sicuro, penso che forse mi sono sbagliato e che il cinque luglio lo rivedrò. Mi sono sbagliato anche in passato. Ho preso a cuore N. e non voglio che entri in quel cerchio di sassi per sempre. Esiste solo nella sua mente, ma questo non significa che non sia reale.] [Fine dell'ultima sessione] 4. Il manoscritto del dottor Bonsaint (frammentario) 5 luglio 2007 Quando ho visto il necrologio ho chiamato il suo numero di casa. Ho parlato con C, la figlia che va a scuola qui nel Maine. Molto composta, ha detto che in cuor suo non ne è rimasta molto sorpresa. Mi ha detto di essere stata la prima ad arrivare alla casa del padre a Portland (lei ha un lavoro estivo a Camden, che non è molto distante), ma sentivo che vicino c'erano altre persone. Meglio così. La famiglia esiste per molte ragioni, ma forse la sua funzione più fondamentale è di riunirsi quando uno dei suoi membri muore e questo è particolarmente importante quando la morte è violenta e inattesa, omicidio o suicidio. Sapeva chi ero. Ha parlato apertamente. Sì, è stato un suicidio. La macchina. Nel box. Asciugamani a chiudere gli spiragli delle portiere e sono sicuro che erano in numero pari. Dieci o venti, entrambi numeri buoni secondo N. Trenta non è altrettanto buono, ma quando mai una persona, specialmente un uomo che vive solo, ha trenta asciugamani in casa? Sono sicuro che non ce li ha nessuno. Io non ce li ho. Ci sarà un'inchiesta, ha detto. Troveranno che aveva assunto delle sostanze, quelle che gli avevo prescritto io, senza dubbio, ma probabilmente non in una dose letale. Non che abbia importanza, suppongo; N. è morto
comunque, quale che sia la causa. Mi ha chiesto se sarei andato al funerale. Mi ha commosso. Al punto da piangere, per essere sincero. Le ho risposto di sì, se la famiglia voleva accettarmi. Sorpresa, ha detto sì, naturalmente... perché no? «Perché alla fine non sono stato in grado di aiutarlo», ho risposto. «Ci ha provato», ha detto lei. «Questa è la cosa importante.» E io ho sentito di nuovo il bruciore agli occhi. La sua cortesia. Prima di riattaccare, le ho chiesto se aveva lasciato un biglietto. Ha detto di sì. Tre parole. Sono così stanco. Avrebbe dovuto aggiungere il suo nome. Così sarebbero state quattro. 7 luglio 2007 In chiesa e al cimitero i parenti di N., e in particolare C, mi hanno accolto con benevolenza. Il miracolo della famiglia, che apre il suo cerchio in momenti critici come quello. Anche per accogliere uno sconosciuto. C'erano un centinaio di persone, molte appartenenti alla famiglia estesa della sua vita professionale. Davanti alla tomba ho pianto. Non mi sorprende e non me ne vergogno: l'identificazione tra analista e paziente può diventare un legame straordinariamente forte. C. mi ha preso per mano, mi ha abbracciato e mi ha ringraziato per aver cercato di aiutare suo padre. Io ho accettato volentieri, ma mi sono sentito un impostore, un fallimento. Splendida giornata estiva. Che presa in giro. Stasera ho ascoltato i nastri delle nostre sessioni. Credo che li trascriverò. C'è sicuramente da trarre almeno un articolo dalla storia di N. - un piccolo contributo alla letteratura sulla sindrome ossessivo-compulsiva - e forse qualcosa di più. Un libro. Però sono titubante. A trattenermi è la consapevolezza di dover andare a vedere quel campo per confrontare la fantasia di N. con la realtà. Il suo mondo con il mio. Che il campo esista, sono abbastanza sicuro. E le rocce? Sì, probabilmente ci sono delle rocce. Senza alcun significato al di là di quello che hanno voluto attribuirgli le sue compulsioni. Splendido tramonto rosso questa sera. «Rosso di sera, bel tempo si spera.» Come aveva ricordato N. 17 luglio 2007
Mi sono preso un giorno di libertà e sono andato a Motton. Continuavo a pensarci e alla fine non ho trovato un buon motivo per non andarci. Mi stavo «cincischiando», avrebbe detto nostra madre. Se avevo intenzione di scrivere del caso di N., questo cincischiamento doveva cessare. Nessuna scusa. Facendomi guidare dai ricordi della mia infanzia - il Bale Road Bridge (che io e Sheila, per ragioni che non rammento più, avevamo ribattezzato Fail Road Bridge, il ponte del Non può mancare), la Boy Hill e in particolare il cimitero di Serenity Ridge - pensavo che avrei trovato senza troppa difficoltà la strada di N. E così è stato. Non potevo sbagliare perché era l'unica sterrata protetta da una catena e da un cartello con il divieto di accesso. Ho lasciato la macchina nel parcheggio del cimitero, come aveva fatto N. prima di me. Sebbene fosse un luminoso e caldo mezzogiorno estivo, sentivo cantare solo pochi uccelli e tutti molto distanti. Sulla Route 117 non c'era traffico, è passato solo un camion sovraccarico di legname a cento all'ora, che mi ha sollevato i capelli in una ventata d'aria calda e oleosi fumi di scarico. Dopodiché sono rimasto solo con me stesso. Ho pensato alle tante gite fatte da bambino fino al «Fail Road Bridge» con la mia piccola canna da pesca sulla spalla come la carabina di un soldato. Non avevo mai paura allora e mi sono detto che non ne avevo nemmeno quel giorno. Sì invece. E non considero quella paura completamente irrazionale. Andare a indagare i percorsi della malattia mentale di un paziente per risalire alla loro origine non è mai una scampagnata. Davanti alla catena mi sono chiesto se davvero lo volevo fare, se volevo violare il divieto entrando non solo su un terreno che non era mio, ma in una fantasia ossessivo-compulsiva che con tutta probabilità aveva ucciso il suo possessore. (O, andando probabilmente meglio a segno, il suo posseduto.) Il proposito non mi appariva più chiaro come quella mattina, quando avevo indossato i jeans e i vecchi scarponcini rossi da trekking. Quella mattina sembrava semplice: Vai su e confronta la realtà con la fantasia di N. o rinuncia all'idea dell'articolo (o libro). Ma che cos'è la realtà? Su quali basi posso sostenere che il mondo percepito dai sensi del dottor B. sia più «reale» di quello percepito dai sensi del compianto dottore in economia e commercio N.? La risposta mi sembrava abbastanza evidente: il dottor B. è un uomo che non si è tolto la vita, un uomo che non conta, tocca o piazza, un uomo che crede che i numeri, pari o dispari, siano solo numeri. Il dottor B. è un uomo che sa mettersi in relazione con il mondo. Negli ultimi tempi il dottor
N. non era più in grado di farlo. Di conseguenza la percezione della realtà del dottor B. è tendenzialmente più affidabile di quella del dottor N. Ma quando mi sono trovato là e ho avvertito il silenzioso potere di quel posto (persino all'imbocco della strada, ancora al di qui della catena), ho riflettuto che la scelta era in realtà molto più semplice: risalire quella strada deserta fino all'Ackerman's Field o girarmi e tornare indietro sulla strada asfaltata a riprendere la mia macchina. Ripartire e andarmene. Dimenticarmi il libro da scrivere, dimenticare il molto più probabile articolo. Dimenticare N. e andare avanti con la mia vita. Solo che. Solo che. Andarmene poteva (dico solo POTEVA) indicare che a un certo livello, uno molto profondo nel mio inconscio, dove vivono ancora tutte le antiche superstizioni (mano nella mano con tutte le antiche febbrili pulsioni), avevo accettato l'idea di N. secondo cui nell'Ackerman's Field c'era un luogo sottile protetto da un magico anello di pietre e che andandoci avrei potuto riattivare qualche terribile processo, qualche terribile LOTTA, che N. ha creduto di poter fermare (almeno temporaneamente) con il suo suicidio. Poteva indicare che avevo accettato (sempre in quel luogo recondito dentro di me dove tutti noi siamo quasi come formiche che si arrabattano in un nido sotterraneo) l'idea che io dovessi diventare il nuovo guardiano. Che fossi stato chiamato. E se avessi ceduto a questo genere di considerazioni... «La mia vita non sarà più la stessa», ho detto a voce alta. «Non potrò più guardare il mondo come prima.» All'improvviso la faccenda mi è sembrata maledettamente seria. Talvolta scantoniamo, non è vero? In posti dove le scelte non sono più semplici e le conseguenze dell'aver scelto l'opzione sbagliata diventano fatali. Forse a rischio della vita o del proprio equilibrio psichico. O... e se invece non esistessero affatto delle scelte? Se SEMBRASSERO solo scelte? Ho respinto quest'idea e ho aggirato uno dei due paletti che reggevano la catena. Sono stato chiamato sciamano da pazienti e (spero per scherzo) da colleghi, ma non mi piace pensare a me stesso in quelle vesti, guardarmi nello specchio e pensare: Ecco un uomo che in un momento critico si è fatto influenzare non dai propri processi ma dall'allucinazione di un paziente defunto. Non c'erano tronchi d'albero sulla strada, ma ne ho visti alcuni, soprattutto di betulle e pini, nel fossato che vi correva accanto. Potevano essere caduti quell'anno stesso ed essere stati trascinati sul ciglio, o anche l'anno
scorso o l'anno prima ancora. Io non ero in grado di stabilirlo. Non sono un boscaiolo. Sono arrivato a una salita e ho visto che la foresta su entrambi i lati si apriva lasciando vedere un ampio tratto di torrido cielo estivo. Era come camminare dentro la testa di N. Mi sono fermato a metà della salita non perché mi mancasse il fiato, ma per chiedere per un'ultima volta a me stesso se davvero volevo farlo. Poi sono andato avanti. Rimpiango di averlo fatto. Il campo era lì e la vista che si apriva a ovest era in tutto e per tutto spettacolare come l'aveva descritta N., da lasciare a bocca aperta. Anche con il sole alto e giallo invece che rosso e seduto sull'orizzonte. E le rocce c'erano, una quarantina di metri più giù. E, sì, suggerivano VERAMENTE l'idea di una disposizione circolare, anche se nulla aveva a che vedere con il cerchio che si vede a Stonehenge. Le ho contate. Erano otto, proprio come aveva detto N. (Salvo quando diceva che erano sette.) L'erba che cresceva dentro la zona circoscritta dalle rocce era in effetti un po' malandata e gialla a confronto con il verde che riempiva il resto del pascolo fino all'altezza delle cosce (scendeva fino a un'ampia macchia di querce, abeti e betulle), ma non era assolutamente morta. A richiamare di più la mia attenzione fu un ciuffo di sommacco. Nemmeno quegli arbusti erano morti, almeno non credo, ma, invece di essere verdi e striate di rosso, le foglie erano nere e non avevano forma. Erano cose da cui si aveva voglia di distogliere lo sguardo. Offendevano l'ordine che l'occhio si attendeva. Non saprei spiegarlo meglio di così. A una decina di metri da dove mi trovavo, vidi qualcosa di bianco rimasto impigliato in uno di quegli arbusti. Sono sceso a guardare e ho visto che era una busta e sapevo che l'aveva lasciata lì N. per me. Se non il giorno del suicidio, non molto prima. Ho provato una terribile stretta alla bocca dello stomaco. La precisa sensazione che decidendo di salire lassù (se ero stato veramente io a deciderlo), avevo fatto la scelta sbagliata. Che fossi stato sicuro fin dall'inizio che la scelta era quella sbagliata per essere stato istruito a fidarmi del mio intelletto e non del mio istinto. Sciocchezze. So che non dovrei pensare così. Naturalmente (senti questa!) lo sapeva anche N. e ha continuato a pensare così lo stesso. Contando senza dubbio gli asciugamani mentre si preparava alla propria... Per essere sicuro che fossero in numero pari.
Merda. La mente gioca strani scherzi, vero? Facce che sbucano dalle ombre. La busta era protetta da un sacchetto di plastica trasparente. La scritta era nitida e ben calcata: DOTT. JOHN BONSAINT. Ho estratto la busta dal sacchetto, poi ho guardato di nuovo le rocce. Sempre otto. Naturale. Ma non un canto d'uccello, non un frinire di cicala. Il giorno tratteneva il fiato. Ogni ombra era scolpita. Ora so che cosa intendeva N. quando diceva d'essersi sentito come tornato indietro nel tempo. Nella busta c'era qualcosa; lo sentivo scivolare avanti e indietro e le mie dita capirono di che cosa si trattava prima ancora che l'aprissi e mi lasciassi cadere l'oggetto nel palmo della mano. Una chiave. E anche un messaggio. Due sole parole. Scusi, dottore. E il suo nome, naturalmente. Solo quello di battesimo. Così le parole erano tre in tutto. Non un buon numero. Almeno secondo N. Mi sono messo la chiave in tasca, fermo vicino a un cespuglio di sommacco che non sembrava affatto un cespuglio di sommacco: foglie nere, rami contorti fin quasi a somigliare a una grafia runica, o a lettere... Non CTHUN! ... e ho pensato: Ora di andare. Basta così. Se qualcosa ha mutato i cespugli, una qualche condizione ambientale che ha avvelenato il terreno, così sia. I cespugli non sono un elemento importante di questo paesaggio; l'elemento importante sono le rocce. Sono otto. Sei voluto venire a controllare e lo hai trovato come speravi che fosse, come sapevi che fosse, come è sempre stato. Se questo campo sembra troppo silenzioso - carico di tensione, in un certo senso - è senza dubbio per l'influenza residua della storia di N. sulla tua mente. Per non parlare del suo suicidio. Ora torna alla tua vita. Al diavolo il silenzio, o la sensazione - ce l'hai nella mente come l'ammassarsi di una nube tempestosa - che in quel silenzio ci sia in agguato qualcosa. Torna alla tua vita, dottor B. Torna indietro finché puoi. Sono tornato alla strada. L'alta erba verde mi frusciava contro i jeans come una voce rantolante. Il sole mi batteva su collo e spalle. Ho provato l'impulso di girarmi a guardare ancora. Un impulso forte. L'ho combattuto e ho perso. Quando mi sono voltato ho visto sette rocce. Non otto, bensì sette. Le ho contate due volte per essere sicuro. E sembrava «davvero» più buio dentro il cerchio delle rocce, come se davanti al sole fosse passata una nuvola.
Una nube così piccola da fare ombra solo in quel punto. Solo che non sembrava un'ombra. Sembrava un'oscurità PARTICOLARE, che si muoveva sull'erba ingiallita e spenta, ruotando su se stessa e poi gonfiandosi in direzione del varco dove, ne ero certo (QUASI certo; qui sta la maledizione), quand'ero arrivato c'era un'ottava roccia. Non ho una macchina fotografica attraverso cui guardare per farla ricomparire, ho pensato. Devo farla finita con questa storia finché posso ancora dire a me stesso che non è successo niente, ho pensato. Giusto o sbagliato, ero meno preoccupato del destino del mondo che della perdita di contatto con le mie personali percezioni; della perdita di contatto con la mia idea del mondo. Non avevo creduto all'allucinazione di N. neppure per un istante, ma quell'oscurità... Non volevo concederle un appiglio, capite? Non uno straccio di appiglio. Avevo riposto la chiave nella busta strappata e mi ero infilato la busta nella tasca posteriore, ma avevo ancora in mano il sacchetto trasparente. Senza veramente pensare a quello che stavo facendo, me lo sono alzato davanti agli occhi e ci ho guardato attraverso. Le rocce erano un po' distorte, un po' sbavate, anche quando ho tirato al meglio la plastica, ma le vedevo abbastanza bene. Erano di nuovo otto, come era giusto, e quell'oscurità che avevo percepito... Quell'imbuto O tunnel ... non c'era più. (Naturalmente non c'era mai stato.) Ho abbassato il sacchetto, non senza una certa trepidazione, lo ammetto, e ho guardato le rocce a occhio nudo. Otto. Solide come le fondamenta del Taj Mahal. Otto. Mi sono incamminato per la strada, combattendo con successo l'impulso a dare un'ultima occhiata. Perché guardare di nuovo? Otto è otto. Visto da sopra o da sotto. (Battutina mia.) Ho rinunciato all'articolo. Meglio gettarmi alle spalle tutta questa storia di N. La cosa importante è che ci sia andato con le mie gambe e abbia affrontato - sono più che sicuro che questo sia vero - la follia che c'è in tutti noi, quella dei dottor B. come quella dei dottor N. Come si diceva nella grande guerra prima della battaglia? «Andare a vedere l'elefante.» Sono stato a vedere l'elefante, ma questo non significa che debba disegnare l'elefante. O, nel mio caso, scrivere una descrizione dell'elefante. E se ho pensato d'aver visto qualcosa di più? Se per qualche secondo...
Sì, d'accordo. Un momento, però. Questo dimostra solo la forza dell'allucinazione che aveva catturato il povero N. Spiega il suo suicidio meglio di qualsiasi biglietto d'addio. Certe cose comunque è meglio lasciarle stare. Questo è probabilmente uno di quei casi. Quell'oscurità... Quell'imbuto-tunnel, quella PERCEZIONE... A ogni modo con N. ho chiuso. Niente libro, niente articolo. Voltiamo pagina. È chiaro che la chiave apre il lucchetto della catena all'imboccatura della strada, ma io non l'ho mai usata. L'ho buttata via. «E allora a letto», come soleva dire il grande Sammy Pepys. Sole rosso questa sera, bel tempo su quel campo si spera. Nebbia che sale dall'erba? Forse. Da erba verde che sarà fieno. Non da fieno giallo che erba fu. (Battutina mia.) Stasera l'Androscoggin sarà rosso, un lungo serpente che sanguina nel suo canale del parto. (Guarda un po'!) Mi piacerebbe vederlo. Per non so quale ragione. Lo ammetto. Questa è solo stanchezza. Domani mattina sarà passata. Domani mattina potrei persino riconsiderare l'articolo. O il libro. Ma non stasera. E allora a letto. 18 luglio 2007 Stamattina ho ripescato la chiave dall'immondizia e l'ho messa nel cassetto della mia scrivania. Gettarla via somiglia troppo all'ammissione che qualcosa potrebbe esserci. Sapete, no? Bene. E comunque: è solo una chiave. 27 luglio 2007 Va bene, sì, lo ammetto. Mi sono messo a contare questo e quello e ad assicurarmi di avere intorno a me dei numeri pari. Fermagli. Matite nel vasetto. Oggetti di questa natura. È un esercizio stranamente rasserenante. N. mi deve aver attaccato il suo raffreddore. (Battutina mia, ma non tanto da ridere.) Il mio psichiatra di riferimento è il dottor J. di Augusta, ora primario a Serenity Hill. L'ho chiamato e abbiamo discusso in via generica (nel quadro, gli ho spiegato, di una ricerca per una conferenza che potrei tenere quest'inverno al congresso di Chicago; una bugia, naturalmente, ma certe volte, lo sapete, è più facile così) della natura transitiva dei sintomi della
disfunzione ossessivo-compulsiva da paziente ad analista. J. ha confermato quanto risultava dalle mie ricerche. Il fenomeno non è comune, ma non è nemmeno una rarità assoluta. «Niente di personale, Johnny, vero?» mi ha chiesto. Bravo. Perspicace. Sempre stato. E in possesso di un bel po' di informazioni sul sottoscritto. Chi altri per esempio sa che una volta ho rubato un paio di mutandine di mia sorella e le ho usate per masturbarmi? (Nota per me stesso: tagliare questo più tardi. Non pertinente. E anche imbarazzante!) «No», ho detto. «Ma è un argomento che ha stimolato il mio interesse. Un interesse maniacale.» Abbiamo chiuso la conversazione ridendo e poi sono andato al tavolino a contare i libri che c'erano sopra. Sei. Molto bene. Sei è un dono degli dei. (Battutina mia.) Ho controllato la scrivania per vedere che ci fosse ancora la chiave e naturalmente era lì, dove altro poteva essere? Una chiave. Uno è un numero buono o cattivo? «E il formaggio restò solo», come nel gioco da bambini, sapete. Probabilmente non pertinente, ma qualcosa su cui riflettere! Stavo per uscire dalla stanza, quando ho ricordato che sul tavolino c'erano anche delle riviste insieme con i libri e ho contato anche quelle. Sette! Ho preso il People con Brad Pitt in copertina e l'ho buttato nel cestino. Senti, se mi fa stare meglio, che male c'è? E se peggiora, allora sì che parlerò chiaro a J. Questa è una promessa che faccio a me stesso. Penso che una ricettina di Neurontin potrebbe tornarmi comoda. Anche se tecnicamente è un farmaco anticonvulsivo, si sa che in casi come il mio aiuta. Naturalmente... 3 agosto 2007 Chi sto prendendo in giro? Non esistono casi come questo e il Neurontin non aiuta. Come tette per un toro. Ma aiuta contare. Stranamente confortante. E qualcos'altro. LA CHIAVE ERA DALLA PARTE SBAGLIATA NEL CASSETTO DOVE L'AVEVO MESSA! Quella era un'intuizione ma un'intuizione non si prende SOTTOGAMBA. L'ho spostata. Meglio. Poi dall'altra parte ho messo un'altra chiave (di una cassetta di sicurezza). Mi è sembrato che la bilanciasse. In due ci si sostiene a vicenda. Ottima dormita la notte scorsa.
Be', no. Incubi. L'Androscoggin al tramonto. Una ferita rossa. Un canale del parto. 10 agosto 2007 Lassù c'è qualcosa che non va. L'ottava roccia si sta indebolendo. Inutile star qui a dirmi che non è così, perché me lo sento in tutti nervi del corpo, IN OGNI CELLULA DELLA MIA PELLE! Contare i libri (e le scarpe, sì, è vero, un'intuizione di N. e non da prendere «sottogamba») aiuta, ma non risolve IL PROBLEMA DI FONDO. Nemmeno le Diagonali sono di grande aiuto, anche se certamente... Briciole di toast sul banco in cucina, per esempio. Le allinei con la lama di un coltello. Una striscia di zucchero sul tavolo, HA! Ma chi sa quante briciole? Chi sa quanti granelli di zucchero? Sono troppi da contare!! Questa storia deve finire. Vado su. Porterò una macchina fotografica. 11 agosto 2007 L'oscurità. Dio del cielo. ERA QUASI COMPLETA. E qualcos'altro. L'OSCURITÀ HA UN OCCHIO. 12 agosto Ho visto qualcosa? Sul serio? Non lo so. Io credo di sì, ma non lo so. Ci sono ventitré parole in questo appunto. Ventisei è meglio. 19 agosto Sono stato sul punto di chiamare J. per dirgli che cosa mi sta succedendo, ma poi ho rinunciato. Che cosa dovrei dirgli? E comunque: 1-207-5551863 = 11. Un brutto numero. Il Valium funziona meglio del Neurontin. Credo. Basta che non ecceda. 16 settembre
Tornato da Motton. Coperto di sudore. Tremante. Ma otto di nuovo. L'ho fermato. Io! Fermato! Lui! Dio sia ringraziato. Ma... Ma! NON POSSO ANDARE AVANTI A VIVERE COSÌ. No, ma... HO FATTO APPENA IN TEMPO. ERA SUL PUNTO DI VENIRE FUORI. La protezione dura solo per un certo periodo, poi è necessaria una visita a domicilio! (Battutina mia.) Ho visto l'occhio trilobato di cui aveva parlato N. Non appartiene a niente di questo mondo o questo universo. E STA CERCANDO DI APRIRSI UNA STRADA A MORSI. Solo che io non l'accetto. Ho permesso all'ossessione di N. di infilare un dito nella mia psiche (sta giocando a dito puzzolone con me, se vi va la mia battutina) e il dito ha continuato ad allargare il buco, per farne passare un secondo, un terzo, una mano intera. Mi ha aperto. Ha aperto la mia Ma! HO VISTO CON I MIEI OCCHI. C'è un mondo dietro questo mondo, pieno di mostri DEI DEI MALEFICI! Una cosa. Se mi uccidessi? Se non è reale, il tormento comunque finisce. Se è reale, l'ottava roccia che c'è lassù si solidifica di nuovo. Almeno finché qualcun altro, il prossimo «CUSTODE», s'avventura ignaro su per quella strada e vede... Fa sembrare il suicidio quasi una bella cosa! (Battutina mia.) 9 ottobre 2007 Ultimamente meglio. Le mie idee sembrano più mie. E l'ultima volta che sono stato all'Ackerman's Field (due giorni fa), ho visto che le mie preoccupazioni erano infondate. C'erano otto rocce. Le ho guardate, solide come monumenti, e ho visto un corvo in cielo. Ha virato per evitare lo spazio aereo sopra le rocce, «evvvero!» (battutina) ma c'era. E mentre me ne stavo lì in cima alla strada con la mia fotocamera appesa al collo (niente dia in fondo a quella via, quelle rocce non si fotografano, almeno su questo N. aveva ragione; forse radon??), mi sono chiesto come abbia mai potuto pensare che fossero solo sette. Ammetto che tornando alla mia auto ho contato i passi (e poi ne ho fatto qualcuno in più quando, una volta arrivato, mi sono ritrovato con un numero dispari), ma queste non sono cose che mollano
di punto in bianco. Sono CRAMPI della MENTE! Eppure forse.. Posso sperare che sto migliorando? 10 ottobre 2007 Naturalmente c'è un'altra possibilità, per quanto mi turbi ammetterlo: che N. avesse ragione sui solstizi. Ora ci stiamo allontanando da uno e avvicinando all'altro. L'estate è alle spalle, davanti a noi c'è l'inverno. La qual cosa, se è vera, è da prendere come una buona notizia solo a breve termine. Se la primavera prossima dovrò dibattermi in strazianti spasmi mentali come gli altri... e poi la primavera dopo ancora... Non ce la faccio, molto semplice. Come mi perseguita quell'occhio. Sospeso nell'oscurità che si addensava. Altre cose dietro di esso CTHUN! 19 novembre 2007 Otto. Sempre state. Ora sono sicuro. Oggi il campo era silenzioso, l'erba morta, gli alberi in fondo alla china spogli, l'Androscoggin acciaio grigio sotto un cielo di ferro. Il mondo sta aspettando la neve. E, Dio mio, la cosa più bella di tutte: un uccello appollaiato su una di quelle rocce! UN UCCELLO! Solo quando ero già in macchina di ritorno a Lewiston mi sono accorto di non aver contato i passi tornando indietro. Ecco qui la verità. Quella che deve essere la verità. Ho preso il raffreddore da uno dei miei pazienti, ma adesso sta passando. La tosse non c'è più, il naso ha smesso di colare. Sono stato fin dal principio il bersaglio delle mie stesse battutine. 25 dicembre 2007 Ho festeggiato il Natale con il cenone e il rituale scambio di doni con Sheila e la sua famiglia. Quando Don ha portato Seth alla funzione al lume di candela in chiesa (sono sicuro che ai bravi metodisti prenderebbe un colpo se conoscessero le radici pagane di questi riti), Sheila mi ha stretto la
mano e ha detto: «Sei tornato. È bello. Ero preoccupata». Be', non puoi ingannare chi ha il tuo stesso sangue, a quel che sembra. Il dottor J. può aver sospettato che c'era qualcosa che non andava ma Sheila lo sapeva. Cara Sheila. «Quest'estate e in autunno ho avuto una specie di crisi, una crisi dello spirito, potremmo definirla.» Anche se era piuttosto una crisi della psiche. Quando un uomo comincia a pensare che il solo scopo delle sue percezioni sia nascondere la consapevolezza dell'esistenza di terribili altri mondi, questa è una crisi della psiche. Pratica come sempre, Sheila ha risposto: «Fintanto che non era il cancro, Johnny. È di questo che avevo paura». Cara Sheila! Ho riso e l'ho abbracciata. Più tardi, mentre davamo un'ultima ripassata in cucina (bevendo eggnog), le ho chiesto se ricordava perché avevamo ribattezzato il Bale Road Bridge in Fail Road Bridge. Lei ha inclinato la testa e ha riso. «È stata una pensata di quel tuo vecchio amico. Quello per cui avevo una cotta.» «Charlie Keen», ho ricordato io. «Sarà un secolo che non lo vedo. Eccetto che in TV. Poveretto, è diventato un guru dello schermo.» Lei mi ha dato un colpo al braccio. «L'invidia non ti si confà, bello mio. Comunque, un giorno pescavamo dal ponte, sai, con quei pezzi di legno che usavamo, e Charlie ha guardato giù e ha detto: 'Sapete, uno che cadesse da quassù non potrebbe mancare di ammazzarsi'. Ci sembrò così divertente che ridemmo come matti. Ti ricordi?» In quel momento sì. Da quel giorno il Bale Road Bridge diventò il Fail Road Bridge. E il vecchio Charlie non aveva neanche tutti i torti. In quel punto le acque del Bale sono veramente molto basse. Sfocia nell'Androscoggin, naturalmente (probabilmente si vede la confluenza dall'Ackerman's Field, anche se io non l'ho mai notato), che è molto più profondo. E l'Androscoggin finisce in mare. Mondi che sfociano in altri mondi, no? Ciascuno più profondo di quello precedente; questo è un fenomeno che si ripete in tutta la terra. Don e Seth sono rientrati, il grande e il piccolo, tutti bianchi di neve. C'è stato un abbraccio di gruppo, molto New Age, quindi sono tornato a casa ascoltando canzoni di Natale. Veramente felice per la prima volta da tanto tempo. Credo che questi appunti... questo diario... questa cronaca di una follia
evitata (forse giusto per un pelo, credo di essere andato molto vicino a «cadere dal ponte»)... possa finire qui. Ringraziando Dio e augurando buon Natale a me stesso. 1° aprile 2008 È il giorno del Pesce d'aprile e la vittima sono io. Mi sono svegliato da un sogno dell'Ackerman's Field. Il cielo era blu, il fiume era di un blu più scuro nel suo alveo, la neve si stava sciogliendo, dai residui nastri di bianco cominciava a spuntare la prima erbetta verde, e di nuovo c'erano solo sette rocce. Di nuovo c'era quell'oscurità dentro il cerchio. Solo una macchia al momento, ma se non fossi intervenuto si sarebbe condensata. Quando mi sono svegliato ho contato i libri (sessantaquattro, un numero buono, pari e divisibile fino a uno, pensateci) e, quando questo non è servito, ho versato caffè sul banco in cucina e ho tracciato una diagonale. Questo ha sistemato le cose, per adesso, ma dovrò per forza salire di nuovo lassù per un'altra «visita a domicilio». Senza «cincischiarmi». Perché sta ricominciando. La neve è quasi scomparsa del tutto, il solstizio d'estate si avvicina (ancora oltre l'orizzonte ma si sta avvicinando), e sta ricominciando. Mi sento Dio m'aiuti, ma mi sento come un malato di cancro, il cui tumore era regredito, che svegliandosi una mattina si ritrova una grossa escrescenza sotto l'ascella. Non lo posso fare. Lo devo fare. (Più tardi) C'era ancora neve sulla strada, ma sono arrivato sano e salvo fino all'«AF». Ho lasciato la macchina nel parcheggio del cimitero e ho proseguito a piedi. C'erano davvero solo sette rocce, come nel mio sogno. Ho guardato nel mirino della mia fotocamera. Otto di nuovo. Otto è tosto e tiene il mondo a posto. Bell'affare. Per il mondo! NON un gran che di affare per il dottor Bonsaint. Che questa cosa debba succedere di nuovo; la mia mente soffre a questa
prospettiva. Dio, ti prego, non lasciare che accada di nuovo. 6 aprile 2008 Oggi per trasformare il sette in otto ho impiegato di più e so che mi aspetta molto lavoro «a distanza», vale a dire contare le cose e fare diagonali e - non piazzare, su questo N. si sbagliava - si tratta di BILANCIARE. È simbolico, come il cane e il pino nell'Eucaristia. Però sono stanco. E il solscaio è così lontano. Lui sta raccogliendo le sue forze e il solsempronio è così distante. Vorrei che N. fosse torto prima di venire nel mio studio. Quel bastardo egonista. 2 maggio 2008 Questa volta ho creduto che mi avrebbe ucciso. O spezzato la mente. Ho la mente spezzata? Dio mio, come faccio a saperlo? Non c'è nessun Dio, non può esserci nessun Dio di fronte a quella tenebra e l'OCCHIO che spia da dentro. E qualcos'altro. LA COSA CON LA TESTA A ELMETTO. NATA DA INSANA TENEBRA VIVENTE. C'era un canto. Da dentro il cerchio di rocce usciva un canto, dalla profondità di quella tenebra. Ma io ho trasformato di nuovo il sette in otto, anche se mi ci è voluto tanto tanto tanto tonto tanto tanto tempo. Molte volte a guardare nel micino, e poi fare cerchi e cercare passi, allargare il cerchio a sessantaquattro passi e questo ha funzionato, grazie al cielo. «AL CENTRO DELL'ABISSO»... IIIIIIIUUU! Poi ho guardato su. Ho guardato in giro. E ho visto il SUO nome imbastito in ogni singolo cespuglio di sommacco e inciso in ogni albero in fondo a quel campo infernale: CTHUN, CTHUN, CTHUN, CTHUN. Ho cercato con forza nel cielo e l'ho visto scritto dalle bubbole che attraversavano il blu: CTHUN nel cielo. Ho guardato il fiume e ho visto le sue anse formare una gigantesca C. C per Cthun. Come posso avere io la responsabilità del mondo. Come può essere? Non è busto!!!!!! 4 maggio 2008
Se posso chiudere la porta uccidendomi E la pace, anche se è solo la pece dell'obbelio Ci torno, ma questa volta non fino in cima. Solo fino al Fail Road Bridge. Lì l'acqua è bassa, il fondo è cosparso di pietre. Sarà un salto di dieci metri. Non il migliore dei numeri ma lo stesso Chiunque cada da lì non può mancare di Non può mancare Non riesco a smettere di pensare a quell'orribile occhio trilobato La cosa con la testa a elmetto Le facce urlanti nelle rocce CTHUN! [Il manoscritto del dottor Bonsaint termina qui.] 5. La seconda lettera 8 giugno 2008 Caro Charlie, non ti ho più sentito a proposito del manoscritto di Johnny ed è un bene. Ti prego di ignorare la mia ultima lettera e, se hai ancora quei fogli, bruciali. Così aveva chiesto Johnny e avrei dovuto onorare il suo desiderio io stessa. Ho detto a me stessa che sarei arrivata fino al Fail Road Bridge, a vedere il posto dove abbiamo passato tanti momenti lieti da bambini, il luogo dove lui ha posto fine alla sua vita quando il bello è finito. Ho detto a me stessa che sarebbe potuto essere un modo per giungere a una conclusione (questo è il termine che avrebbe usato Johnny). Ma naturalmente la mente sotto la mia mente - dove, sono sicura che sosterrebbe Johnny, siamo tutti molto simili - la sapeva più lunga di me. Altrimenti perché avrei preso la chiave? Perché era lì, nel suo studio. Non nello stesso cassetto dove ho trovato il manoscritto, ma in quello in cima, quello sopra la serratura. Con un'altra chiave a «bilanciarla», come aveva detto lui. Ti avrei mandato la chiave assieme al manoscritto, se avessi trovato anche quella nello stesso posto? Non lo so. Ma nel complesso sono contenta di come siano andate le cose. Perché avresti avuto forse la tentazione di
andare laggiù. Ti avrebbe attratto forse la semplice curiosità o forse qualcos'altro. Qualcosa di più potente. O forse sono tutte stupidaggini. Forse ho preso la chiave e sono andata fino a Motton e ho trovato quella strada solo perché sono quella che ho detto di essere nella mia prima lettera: una figlia di Pandora. Come faccio a saperlo? N. non ce l'ha fatta. Non ce l'ha fatta nemmeno mio fratello, nemmeno alla fine, e come soleva dire: «Io sono un professionista, voi non provatelo a casa vostra». In ogni caso non stare in pensiero per me. Sto bene. E anche se così non fosse, so fare i miei conti. Sheila LeClaire ha un marito e un figlio. Charlie Keen, secondo quello che ho letto in Wikipedia, ha una moglie e tre figli. Perciò tu hai più da perdere. E poi forse la cotta che avevo per te non mi è mai passata del tutto. Non tornare qui per nessuna ragione. Continua a condurre i tuoi programmi sull'obesità e sull'abuso di farmaci e sugli infarti in uomini sotto i cinquant'anni e cose del genere. Cose normali come queste. E se non hai letto il manoscritto (posso sperarlo, ma ne dubito; sono sicura che Pandora ha avuto anche figli maschi), ignora anche quello. Addebita tutto agli isterismi di una donna provocati dalla perdita inaspettata del fratello. Non c'è niente lassù. Solo delle rocce. Le ho viste con i miei occhi. Ti giuro che lassù non c'è niente, quindi stai alla larga. 6. L'articolo di giornale [Dal Democrat di Chester's Mill: 10 giugno 2008] DONNA SI BUTTA DAL PONTE REPLICANDO IL SUICIDIO DEL FRATELLO di Julia Shumway MOTTON - Dopo che poco più di un mese fa l'eminente psichiatra John Bonsaint si è tolto la vita saltando dal Bale River Bridge in questa piccola cittadina del Maine centrale, gli amici riferiscono che sua sorella Sheila Le-Claire era confusa e depressa. Il marito, Donald LeClaire, ha affermato che era «totalmente devastata». Nessuno, ha aggiunto, pensava che contemplasse il suicidio.
Ma così è stato. «Anche se non c'è un biglietto», ha dichiarato il coroner della contea Richard Chapman, «gli indizi ci sono tutti. La sua macchina era parcheggiata con cura e a debita distanza dalla strada sul lato di Harlow del ponte. Era stata chiusa a chiave e sul sedile del passeggero c'era la sua borsetta con sopra la patente di guida.» Ha proseguito dicendo che le scarpe della LeClaire sono state rinvenute sul parapetto, accuratamente disposte una accanto all'altra. Chapman spiega che solo un ulteriore esame ci dirà se è morta annegata o in seguito all'impatto della caduta. Oltre al marito, Sheila LeClaire lascia un figlioletto di sette anni. La data delle esequie non è stata ancora fissata. 7. La e-mail keen1981 ore 15.44 14 giugno '08 Chrissy annulla tutti i miei appuntamenti della prossima settimana, per piacere. So che ti do poco preavviso e so che ne sentirai di tutti i colori, ma non posso farci niente. C'è una questione di cui mi devo occupare a casa nel Maine. Due vecchi amici, fratello e sorella, si sono suicidati in circostanze singolari... e nello stesso e... di posto! Data l'estrema stranezza del manoscritto che la sorella mi ha spedito prima di copiare (apparentemente) il suicidio del fratello, ritengo di dover indagare. Il fratello, John Bonsaint, era il mio migliore amico quand'eravamo ragazzi; ci siamo salvati l'un l'altro da non so quanti pestaggi nel cortile della scuola! Il pezzo sullo zucchero nel sangue, può farlo Hayden. So che crede di non esserne in grado, ma si sbaglia. E anche se non può, io devo andare lo stesso. Johnny e Sheila erano quasi miei fratelli. Inoltre, non voglio fare il filisteo, ma potrebbe venirne fuori una storia. Sulla disfunzione ossessivo-compulsiva. Non un fatto eclatante come il cancro, forse, ma quelli che ne soffrono ti diranno che mette lo stesso addosso una fifa della malora. Grazie, Chrissy... Charlie
Il gatto del diavolo Guardandolo, Halston giudicò il vecchio sulla sedia a rotelle malato, terrorizzato e pronto a morire. Era un esperto in materia. La morte era il lavoro di Halston; nella sua carriera da operatore indipendente l'aveva consegnata a diciotto uomini e sei donne. Ne conosceva bene l'aspetto. La casa, un villone per la verità, era fredda e silenziosa. Gli unici suoni erano gli schiocchi sommessi del fuoco nel grande caminetto di pietra e il gemito lontano del vento novembrino, all'esterno. «Voglio che esegua un'uccisione», disse il vecchio. La sua voce era tremula e acuta, stizzosa. «Mi risulta che sia il suo mestiere.» «Con chi ha parlato?» chiese Halston. «Con un uomo di nome Saul Loggia. Dice che lei lo conosce.» Halston annuì. Se l'intermediario era Loggia, era tutto a posto. E se nella stanza c'era una microspia, qualunque cosa avesse detto il vecchio - Drogan - era una trappola. «Quale sarebbe il bersaglio?» Drogan premette un bottone sulla console inserita nel bracciolo della sedia a rotelle, facendola avanzare. Quando gli fu vicino, Halston percepì gli odori gialli di paura, vecchiaia e orina. Ne fu disgustato, ma non ne diede segno. Il suo volto rimase imperturbato. «La sua vittima è dietro di lei», disse sottovoce Drogan. Halston si mosse di scatto. I suoi riflessi erano la sua vita ed erano sempre regolati sul massimo di reattività. Scivolò giù dal divano appoggiandosi per terra su un ginocchio. Contemporaneamente si girò e la sua mano sparì all'interno della giacca sportiva appositamente confezionata ad afferrare l'impugnatura dell'ibrida .45 a canna corta nella fondina ascellare a molla, che gli faceva saltare l'arma nel palmo della mano al minimo tocco. Un istante dopo la puntava a... un gatto. Per un secondo Halston e il gatto si guardarono. Fu un momento strano per lui, uomo senza immaginazione e insensibile alle superstizioni. In quell'attimo, inginocchiato sul pavimento con la pistola spianata, ebbe la sensazione di conoscere quel gatto, anche se, se mai ne avesse visto uno con un pelo così insolito, sicuramente non l'avrebbe più dimenticato. Il muso era diviso perfettamente in due, mezzo bianco, mezzo nero. La linea di demarcazione gli correva dalla cima del cranio appiattito giù lungo il naso fino alla bocca, in linea retta. Nella penombra gli occhi erano enormi e in ciascuna delle nere pupille quasi circolari brillava un prisma ri-
flesso dalle fiamme del fuoco, come un accigliato tizzone di odio. E il pensiero echeggiò nella mente di Halston: Noi ci conosciamo, tu e io. Poi passò. Ripose la pistola e si mise in piedi. «Dovrei ammazzarla per questo, vecchio. Non mi piacciono gli scherzi.» «E io non ne faccio», ribatté Drogan. «Si sieda. Guardi qui dentro.» Da sotto il plaid che gli copriva le gambe aveva tolto una busta voluminosa. Halston si sedette. Il gatto, che era accovacciato sullo schienale del divano, gli saltò delicatamente in grembo. Lo guardò per un momento con quei grandi occhi scuri, le pupille incorniciate da sottili anelli verde-oro, poi si accucciò e cominciò a fare le fusa. Halston rivolse un'occhiata interrogativa a Drogan. «È molto socievole», disse Drogan. «All'inizio. Questo caro gattino socievole ha ammazzato tre persone in questa casa. Ora resto solo io. Sono vecchio, sono malato... ma preferisco morire per conto mio.» «Non ci posso credere», commentò Halston. «Mi ha assunto per far fuori un gatto?» «Guardi nella busta, prego.» Halston lo accontentò. Era piena di centinaia di biglietti da cinquanta, tutti vecchi. «Quanto c'è?» «Seimila dollari. Ce ne saranno altri seimila quando mi porterà la prova che il gatto è morto. Il signor Loggia mi ha detto che dodicimila sono la sua tariffa standard.» Halston annuì accarezzando automaticamente il gatto che aveva in grembo. Dormiva, continuando a fare le fusa. A Halston i gatti piacevano. Erano gli unici animali che gli piacevano, per la precisione. Conducevano un'esistenza autonoma. Dio - se ce n'era uno - li aveva creati come perfette, algide macchine per uccidere. I gatti erano i killer del mondo animale e Halston portava loro rispetto. «Non ho il dovere di spiegare niente, ma lo farò», disse Drogan. «Uomo avvisato mezzo salvato, si dice, e non vorrei che lei prendesse questo alla leggera. Sembra del resto necessario che dia una giustificazione. Perché non abbia a pensare che sono matto.» Halston annuì di nuovo. Aveva già deciso di portare a termine quella singolare missione e non c'era bisogno di sprecare altro tempo in parole. Ma se Drogan aveva voglia di parlare, lo avrebbe ascoltato. «Prima di tutto, lei sa chi sono? Da dove vengono i soldi?»
«Drogan Pharmaceuticals.» «Sì. Una delle maggiori ditte farmaceutiche del mondo. E la chiave di volta del nostro successo economico è stato questo.» Dalla tasca della vestaglia estrasse un piccolo flacone di pillole senza etichetta che porse a Halston. «Tri-Dormal-phenobarbin, composto G. Prescritto quasi esclusivamente ai malati terminali. Dà dipendenza quasi immediata, vede? È in parte antidolorifico e in parte tranquillante, con una piccola aggiunta di allucinogeno. È estremamente efficace nell'aiutare i malati terminali ad affrontare la loro condizione e adeguarvisi.» «Lei lo prende?» domandò Halston. Drogan lo ignorò. «Lo si prescrive in tutto il mondo. È una sostanza sintetica sviluppata negli anni Cinquanta nei nostri laboratori del New Jersey. I test furono effettuati quasi esclusivamente sui gatti per via della particolarità specifica del sistema nervoso felino.» «Quanti ne avete sterminati?» Drogan s'irrigidì. «Questo è un modo ingiusto e pregiudizievole di giudicare il nostro lavoro.» Halston si strinse nelle spalle. «Nei quattro anni di test che hanno portato all'approvazione del TriDormal-G da parte dell'FDA, sono... ehm... spirati... quindicimila gatti.» Halston emise un sibilo. Qualcosa come quattromila gatti l'anno. «E ora lei pensa che questo sia venuto a saldare i conti con lei, eh?» «Non mi sento minimamente colpevole», dichiarò Drogan, ma nella sua voce era ricomparsa quella nota tremula e irascibile. «Sono morti quindicimila animali da laboratorio perché fosse possibile per centinaia di migliaia di esseri umani...» «Lasci perdere», tagliò corto Halston. Le giustificazioni lo annoiavano. «Questo gatto è arrivato qui sette mesi fa. A me i gatti non sono mai piaciuti. Bestiacce piene di malattie... sempre in giro nei campi... a perlustrare i granai... a prendersi Dio solo sa quali microbi nel pelo... sempre a cercare di portare dentro casa qualcosa con le budella fuori da farti vedere... È stata mia sorella che ha voluto tenerlo. Peggio per lei. L'ha pagata.» Guardò con odio mortale la bestia che dormiva in grembo a Halston. «Ha detto che il gatto ha ucciso tre persone.» Drogan cominciò a parlare. Il gatto dormiva facendo le fusa in grembo a Halston sotto le carezze affettuose e i grattini delle dita forti ed esperte del killer. Ogni tanto nel focolare scoppiava un nodo di pino e, sotto il pelo, muscoli e tendini si contraevano come una serie di molle d'acciaio. Fuori il
vento fischiava intorno alla grande casa di pietra, isolata e solitaria nelle campagne del Connecticut. C'era inverno nella gola di quel vento. Il vecchio parlava e parlava con voce monotona. Sette mesi prima erano in quattro, Drogan, sua sorella Amanda, che a settantaquattro anni ne aveva due più di lui, la sua amica da sempre Carolyn Broadmoor («dei Broadmoor di Westchester», precisò Drogan), che era gravemente malata di enfisema, e Dick Gage, il domestico che lavorava per la famiglia Drogan da vent'anni. Gage, lui stesso ultrasessantenne, guidava la grossa Lincoln Mark IV, cucinava, serviva lo sherry serale. Nelle ore diurne veniva una cameriera. In quattro erano vissuti così per quasi due anni, un pigro terzetto di anziani e il loro fedele domestico. Il loro unico svago era il quiz serale, nell'ansiosa attesa di sapere chi sarebbe sopravvissuto a chi. Poi era arrivato il gatto. «È stato Gage a vederlo per primo, miagolava e si rintanava intorno alla casa. Cercò di scacciarlo. Gli lanciò pezzi di legno e piccoli sassi e lo colpì più di una volta. Ma non se ne voleva andare. Naturalmente era perché aveva sentito odore di cibo. Era poco più che pelle e ossa. Alla fine dell'estate la gente li molla in mezzo alle strade a lasciarli morire, capisce? Una cosa terribile, disumana.» «Meglio friggergli i nervi?» chiese Halston. Drogan lo ignorò e andò avanti. Lui odiava i gatti. Da sempre. Quando l'animale non volle saperne di andarsene, aveva ordinato a Gage di mettere fuori del cibo avvelenato. Bei piattoni succulenti di cibo per gatti condito, guarda caso, con Tri-Dormal-G. Il gatto aveva ignorato il cibo. A quel punto Amanda Drogan si era accorta della sua presenza e aveva insistito per tenerlo. Drogan aveva protestato con veemenza, ma Amanda l'aveva spuntata. Come sempre, a quanto pareva. «Ma ha imparato la lezione», proseguì Drogan. «Lo portò in casa lei stessa, in braccio. Faceva le fusa, come adesso. Ma a me non si avvicinava. Non lo ha mai fatto... finora. Gli ha versato del latte in un piattino. 'Oh, guardalo, poverino, ha tanta fame', ha cinguettato. Tutte e due a coccolarlo, lei e Carolyn. Disgustoso. Era il loro modo di vendicarsi di me, naturalmente. Sapevano come la pensavo sui felini ancora dai tempi dei test del Tri-Dormal-G di vent'anni fa. Si divertivano a stuzzicarmi, usavano il gatto per innervosirmi.» Rivolse a Halston uno sguardo tetro. «Ma hanno pagato.» Verso metà maggio Gage era andato in cucina per preparare la prima colazione e aveva trovato Amanda Drogan ai piedi della scala principale in
mezzo a cocci di scodella e Friskies, gli occhi spenti spalancati e rivolti al soffitto. Aveva sanguinato abbondantemente da naso e bocca. La sua schiena era spezzata, entrambe le gambe fratturate, e il collo letteralmente sbriciolato come un pezzo di vetro. «Il gatto dormiva in camera sua», spiegò Drogan. «Lei lo trattava come un bambino... 'Hai tanta fame, tesoruccio? Oh, hai bisogno di uscire a fare la popò?' Osceno, dalla bocca di un vecchio sergente maggiore come mia sorella. Io credo che l'abbia svegliata miagolando. Lei ha preso la sua scodella. Diceva sempre che a Sam i suoi Friskies non piacevano se non li inumidiva con una goccia di latte. Così aveva intenzione di scendere. Il gatto le si è strusciato sulle gambe. Lei era vecchia, non molto stabile. Mezzo addormentata. Sono arrivati al primo gradino e il gatto le si è messo davanti... l'ha fatta inciampare...» Sì, poteva essere andata così, pensò Halston. Nella mente vide l'anziana donna precipitare in avanti, troppo sbalordita per gridare. I Friskies che volavano via mentre lei ruzzolava giù scompostamente, la scodella che andava in frantumi. Alla fine si ferma in fondo alle scale, con tutte le ossa rotte, gli occhi sbarrati, il sangue che le cola dal naso e dalla bocca. E il gatto, ronfando, comincia a scendere piano piano, gradino per gradino, mangiandosi tutto contento i suoi Friskies... «Che cosa ha detto il coroner?» chiese a Drogan. «Che era stato un incidente, si capisce. Ma io sapevo com'era.» «Perché non si è sbarazzato allora del gatto? Dopo che Amanda non c'era più?» Perché, a quanto risultava, se lo avesse fatto Carolyn Broadmoor aveva minacciato di andarsene. Era isterica, ossessionata dal gatto. Era una donna malata con un interesse maniacale per lo spiritualismo. Una medium di Hartford le aveva detto (per soli venti dollari) che l'anima di Amanda era entrata nel corpo felino di Sam. Sam era stato di Amanda, aveva detto a Drogan, e se andava via Sam, andava via anche lei. Halston, che si era specializzato abbastanza bene nel leggere tra le righe delle vite umane, sospettava che a suo tempo Drogan e la vecchia Broadmoor fossero stati amanti e adesso il vegliardo era riluttante a separarsi da lei per colpa di un gatto. «Sarebbe stato un suicidio», sentenziò Drogan. «Lei si considerava ancora una donna facoltosa, perfettamente in grado di prender su la bestia e andarsene a New York o a Londra o addirittura a Montecarlo. In realtà era l'ultima di una grande famiglia, costretta in miseria a causa di certi pessimi
investimenti negli anni Sessanta. Abitava qui al secondo piano in una stanza monitorata e superumidificata. Aveva settant'anni, signor Halston. Fino a due anni prima era stata una forte fumatrice e il suo enfisema era parecchio grave. Io volevo che restasse qui e se doveva restare anche il gatto...» Halston annuì, poi abbassò ostentatamente gli occhi sull'orologio. «È morta in una notte degli ultimi giorni di giugno. Il dottore l'ha dato un po' per scontato, è venuto qui, ha firmato il certificato di morte e buonanotte al secchio. Ma il gatto era nella stanza. Me lo ha detto Gage.» «Tutti dobbiamo andarcene un giorno o l'altro», commentò Halston. «Naturale. È quello che disse il dottore. Ma io sapevo che non era così semplice. Ricordavo bene. Ai gatti piace prendere i neonati e i vecchi mentre dormono. Gli rubano il respiro.» «Una fantasia da vecchie comari.» «Basata sui fatti, come la gran parte delle cosiddette fantasie da vecchie comari», replicò Drogan. «Vede, ai gatti piace impastare cose soffici con le unghie. Un cuscino, un tappeto bello folto... o una coperta. Una coperta da culla o una coperta da persona anziana. Il peso supplementare su una persona che è già debole del suo...» Drogan continuò e Halston si mise a pensare. Carolyn Broadmoor addormentata in camera sua, il respiro roco dai polmoni malati, il rumore quasi perso nel sospiro degli speciali umidificatori e condizionatori d'aria. Il gatto con lo strano muso metà bianco e metà nero salta silenzioso sul letto della zitella e guarda la vecchia faccia rugosa con quei suoi brillanti occhi neri e verdi. Monta lentamente sul suo petto smagrito e piazza lì il suo peso, facendo le fusa... e il respiro rallenta... rallenta... e il gatto fa le fusa mentre la vecchia muore lentamente soffocata dal peso sul suo petto. Non era un uomo di fervida immaginazione, ma rabbrividì un po'. «Drogan», chiese continuando ad accarezzare il gatto che gli ronfava in grembo, «perché non lo fa sopprimere? Un veterinario non le prende più di venti dollari.» «Il funerale si tenne il primo di luglio», disse Drogan. «Ho fatto seppellire Carolyn nel nostro lotto vicino a mia sorella. Come avrebbe voluto lei. Il tre luglio ho chiamato Gage in questa stanza e gli ho consegnato una cesta di vimini... un paniere da picnic, come dire. Sa che cosa intendo?» Halston annuì. «Gli ho detto di metterci dentro il gatto e di portarlo da un veterinario di Milford perché lo sopprimesse. Lui ha detto: 'Sì, signore', ha preso la cesta ed è uscito. Secondo il suo stile. Non l'ho più rivisto vivo. C'è stato un in-
cidente in autostrada. La Lincoln è finita contro la spalla di un ponte a quasi cento all'ora. Dick Gage è morto sul colpo. Quando lo hanno trovato aveva la faccia graffiata.» Halston tacque mentre nella sua mente si andava formando di nuovo l'immagine di come poteva essere andata. Nessun suono nella stanza oltre al pacifico crepitare del fuoco e il pacifico ronfare del gatto sulle sue ginocchia. Lui e il gatto insieme davanti al fuoco sarebbero stati una bella illustrazione per la poesia di Edgar Guest, quella che fa: «Un gatto nel mio grembo, un bel fuoco nel caminetto/... Un uomo felice, sia presto detto». Dick Gage che corre in autostrada alla volta di Milford, superando il limite di velocità di qualche chilometro l'ora. La cesta di vimini accanto a sé, una specie di paniere da picnic. Dick tiene d'occhio il traffico, forse sta sorpassando un grosso semiarticolato e non si accorge di quello strano muso bianco da una parte e nero dall'altra che sbuca dalla cesta. Dalla parte del guidatore. Non se ne accorge perché sta superando il grosso autocarro ed è quello il momento in cui il gatto gli salta in faccia, soffiando e graffiando, e con gli artigli gli buca un occhio, glielo sgonfia, lo acceca. Novanta all'ora e il rombo del potente motore della Lincoln e l'altra zampa gli aggancia il naso, le unghie affondano in un dolore lancinante e pazzesco, magari la Lincoln comincia a sbandare a destra, dalla parte dell'autocarro, che lancia il suo allarme assordante dalle trombe, ma Gage non lo sente perché il gatto sta gnaulando, il gatto gli si è piantato a zampe aperte sulla faccia come un enorme, peloso ragno nero, orecchie all'indietro, occhi verdi che scintillano come fari dall'inferno, artigli posteriori che scavano nelle carni morbide del collo del domestico. L'automobile sbanda bruscamente dall'altra parte. Le arriva incontro la spalla del ponte. Il gatto salta giù e la Lincoln, uno scintillante siluro nero, si schianta contro il cemento e salta in aria come una bomba. Halston deglutì a vuoto e sentì uno schiocco in fondo alla gola. «E il gatto è tornato?» Drogan annuì. «Una settimana dopo. Il giorno della sepoltura di Dick Gage, per dirla tutta. Proprio come in quella vecchia canzone. E il gatto tornò...» «Era sopravvissuto a uno schianto a novanta all'ora? Stento a crederlo.» «Dicono che tutti i gatti hanno sette vite. Quando è tornato... è stato allora che ho cominciato a chiedermi se non fosse un... un...» «Un essere infernale?» gli suggerì a bassa voce Halston. «In mancanza di meglio mettiamola così. Una specie di demone manda-
to...» «A punirla.» «Non so. Ma mi fa paura. Gli do da mangiare, o per meglio dire glielo dà la donna che viene a fare i lavori domestici. Non piace neanche a lei. Dice che quel muso è una maledizione di Dio. Naturalmente lei è di qui.» Il vecchio cercò di sorridere senza riuscirci. «Voglio che lei lo uccida. Ci vivo insieme da quattro mesi. Gira furtivo nelle ombre. Mi osserva. Sembra che... stia aspettando. Io tutte le sere mi chiudo a chiave in camera e mi chiedo lo stesso se un giorno o l'altro dovrò svegliarmi e trovarlo... acciambellato sul mio petto... a fare le fusa.» Fuori il vento gemette malinconico e la canna fumaria di pietra fece uno strano rantolo gutturale. «Alla fine mi sono messo in contatto con Saul Loggia. Mi ha fatto il suo nome. L'ha definito un solitario, mi pare.» «Solista. Sono uno che lavora in proprio.» «Sì. Ha detto che non è mai stato arrestato, neppure indiziato. Ha detto che ha l'abilità di cadere sempre in piedi... come un gatto.» Halston guardò il vecchio sulla sedia a rotelle. E all'improvviso le sue mani forti dalle lunghe dita indugiavano a pochi millimetri dal collo del gatto. «Se vuole, lo faccio ora», mormorò. «Gli spezzo il collo. Non s'accorgerà neppure...» «No!» esclamò Drogan. Trasse un lungo respiro rabbrividendo. Gli si erano colorite le guance giallastre. «Non... non qui. Lo porti via.» Halston rispose con un sorriso gelido. Cominciò ad accarezzare la testa e le spalle del gatto addormentato, avanti e indietro, delicatamente. «D'accordo», disse. «Accetto il contratto. Vuole il corpo?» «No. Lo uccida. Lo seppellisca.» Fece una pausa. Si sporse in avanti dalla carrozzella come un vecchio avvoltoio. «Mi porti la coda», chiese. «In modo che possa buttarla nel fuoco e guardarla bruciare.» Halston aveva una Plymouth del 1973 con un motore Cyclone Spoiler personalizzato. Le sospensioni posteriori erano state rialzate e viaggiava con il cofano anteriore puntato verso la strada a un angolo di venti gradi. Aveva ricostruito lui stesso il differenziale e il retrotreno. Il cambio era un Pensy, l'accoppiamento un Hearst. Il telaio era sostenuto da quattro enormi Bobby Unser Wide Oval e la velocità massima superava di poco i duecentocinquanta.
Lasciò la casa di Drogan poco dopo le 21.30. Tra le nuvole stracciate di novembre si intravedeva uno spicchio di luna. Viaggiava con tutti i finestrini aperti perché aveva l'impressione che gli abiti che indossava gli si fossero intrisi del tanfo giallo della vecchiaia e del terrore e non gli piaceva. Il freddo èra intenso e tagliente, quasi da intorpidire, ma era bello. Si portava via quel puzzo giallo. Lasciò l'autostrada a Placer's Glen e attraversò a una rispettabile andatura di cinquanta all'ora la cittadina silenziosa, sorvegliata da un unico lampeggiante giallo all'incrocio principale. Fuori città, sulla statale, diede gas alla Plymouth, allentando un po' il guinzaglio. Il ben regolato Spoiler ronfava come aveva ronfato il gatto sulle sue ginocchia poco prima. La similitudine lo fece sorridere. Procedevano a poco più di ottanta all'ora tra campi novembrini bianchi di brina e pieni di scheletri di stoppie. Il gatto era in una sporta di quelle belle spesse, chiusa con un doppio giro di fil di ferro. La sporta era sul sedile accanto. Quando Halston ce l'aveva messo dentro, il gatto dormiva e faceva le fusa e aveva continuato a fare le fusa per tutto il viaggio. Forse percepiva che a Halston piaceva e con lui si sentiva a suo agio. Come lui, il gatto era un solista. Strano contratto, pensò Halston, e si sorprese di scoprire che lo stava prendendo sul serio. Forse l'aspetto più strano era che il gatto gli piaceva davvero, sentiva di avere un'affinità con lui. Se era riuscito a far fuori quei tre vecchiacci, tanto di cappello... specialmente per Gage, che lo stava portando a Milford per un appuntamento terminale con un veterinario con i capelli a spazzola che lo avrebbe allegramente ficcato in una camera a gas rivestita in ceramica, grande come un forno a microonde. Sentiva di avere un'affinità, ma non provava nessun impulso a tirarsi indietro. Gli avrebbe reso la cortesia di ucciderlo velocemente e bene. Si sarebbe fermato sul ciglio della strada davanti a uno di quei nudi campi novembrini, lo avrebbe tirato fuori, lo avrebbe accarezzato e poi gli avrebbe spezzato il collo e tagliato la coda con il coltello che aveva in tasca. E, pensò, seppellirò come si deve il corpo, sottraendolo ai mangiatori di carogne. Non gli risparmierò i vermi, ma posso risparmiargli le larve di mosca. Si diceva queste cose mentre la macchina attraversava la notte come un fantasma blu scuro e fu allora che il gatto gli si parò davanti, sul cruscotto, coda sfrontatamente dritta, faccia bianca e nera girata verso di lui, bocca che sembrava sorridergli. «Ssssstttt...» sibilò Halston. Guardò a destra e lanciò un'occhiata alla sporta di plastica ultraresistente, con uno strappo sul fianco, fatto con i
denti o con le unghie. Guardò di nuovo avanti... e il gatto sollevò una zampa in un gesto giocoso. La zampa gli sfiorò la fronte. Halston si ritrasse bruscamente e i grossi copertoni della Plymouth stridettero sulla strada in una sterzata involontaria da un lato all'altro della stretta striscia d'asfalto. Halston cercò di scacciare il gatto sul cruscotto con una manata. Gli stava togliendo la visuale. Il gatto gli soffiò saliva in faccia inarcando la schiena, ma non si mosse. Halston tirò un'altra manata e il gatto, invece di ritrarsi, gli saltò addosso. Gage, pensò. Come è successo a Gage... Piantò il piede sul pedale del freno. Aveva il gatto sulla testa, gli impediva di vedere con il ventre peloso, e intanto lo graffiava, mirava agli occhi. Halston resse con forza il volante. Colpì il gatto una volta, due, una terza. E all'improvviso la strada non c'era più, la Plymouth correva giù per la scarpata sobbalzando sulle sospensioni. Poi lo scontro che lo catapultò in avanti trattenuto dalla cintura; l'ultimo suono che udì fu lo gnaulio inumano del gatto, la voce di una donna che sta soffrendo o godendo. Lo colpì con il pugno chiuso e sentì solo l'elastica cedevolezza dei muscoli dell'animale. Poi, il secondo impatto. E buio. La luna era tramontata. Mancava un'ora all'alba. La Plymouth giaceva in un burrone in cui si coagulava il vapore che saliva da terra. Nella griglia era impigliato un groviglio di filo spinato. Il cofano si era aperto e il vapore che usciva dal radiatore crepato saliva a mescolarsi alla bruma. Nessuna sensazione nelle gambe. Abbassò lo sguardo e vide che sotto il cruscotto l'abitacolo della Plymouth era sfondato. Il grosso Cyclone Spoiler era stato sospinto all'indietro e gli aveva imprigionato le gambe schiacciandogliele. Fuori, in lontananza, il grido predatorio di una civetta che piombava su un piccolo animale in fuga. Dentro, vicino, le fusa tranquille di un gatto. Sembrava sorridere, come il Gatto del Cheshire di Alice nel Paese delle Meraviglie. Halston lo vide alzarsi, inarcare la schiena e stirarsi. Con un movimento agile e repentino, come un incresparsi di seta, gli balzò sulla spalla. Halston cercò di alzare le mani per scacciarlo. Le sue braccia non si mossero.
Trauma spinale, pensò. Paralizzato. Forse temporaneamente. Più probabilmente per sempre. Il gatto gli ronfava nell'orecchio come un tuono. «Togliti di dosso», ordinò Halston. La sua voce era roca e secca. Il gatto s'irrigidì per un momento e poi si placò. A un tratto toccò la guancia di Halston con la zampa e questa volta aveva le unghie fuori. Solchi di dolore cocente giù fino alla gola. E il gocciolare caldo del sangue. Dolore. Sensibilità. Ordinò alla testa di voltarsi verso destra e la testa ubbidì. Per un momento la sua faccia fu immersa in pelo morbido e asciutto. Halston morsicò il gatto. Il gatto emise un verso di sorpresa e irritazione dal fondo della gola e saltò sul sedile. Lo guardò contrariato, con le orecchie all'indietro. «Non t'aspettavi che facessi una cosa così, eh?» lo apostrofò Halston. Il gatto aprì la bocca e soffiò. Guardando quello strano muso schizofrenico, Halston capì perché Drogan aveva pensato che fosse salito dall'inferno. Era... I suoi pensieri furono interrotti dalla percezione di un sommesso formicolio nelle mani e lungo gli avambracci. Sensibilità. Torna. Formiche sotto la pelle. Il gatto gli saltò in faccia, artigli protesi, sputando. Il «New York Times» in offerta speciale Quando il telefono comincia a squillare, è appena uscita dalla doccia, ma anche se la casa è ancora piena di parenti - li sente al piano di sotto, sembra che non se ne andranno via più, sembra che non ne abbia mai avuti tanti - nessuno risponde. Nemmeno la segreteria telefonica, che James ha programmato perché scatti dopo il quinto squillo. Anne va all'apparecchio sul comodino avvolgendosi in un asciugamano, le ciocche fradice che le battono fastidiosamente sul collo e sulle spalle. Solleva il ricevitore, dice pronto e poi lui pronuncia il suo nome. È James. Si sono fatti trent'anni insieme e una parola è quanto le basta. Lui dice Annie come nessun altro. Da sempre. Per un momento non riesce a parlare e neppure a respirare. L'ha colta mentre espirava e si sente i polmoni piatti come fogli di carta. Poi, quando lui pronuncia di nuovo il suo nome (esitante e insicuro di sé come non è mai stato nel suo carattere), le vengono meno le gambe. Le si sciolgono in
sabbia e crolla sul letto, l'asciugamano le scivola via, il sedere umido bagna il lenzuolo. Non fosse stato per il letto, sarebbe finita per terra. Le si chiudono i denti con un tintinnio e questo la fa respirare di nuovo. «James? Ma dove sei? Cos'è successo?» Se la sua voce fosse stata normale il tono sarebbe stato forse bisbetico, quello di una madre che rimprovera il figlio undicenne scapestrato che si è presentato per l'ennesima volta in ritardo a tavola, ma invece le scaturisce dalla bocca in una specie di ringhio vibrante di orrore. Del resto i parenti che chiacchierano sotto di lei stanno organizzando il suo funerale. James ridacchia. È un suono stralunato. «Be', se devo proprio dirtelo», risponde, «non so bene dove sono.» Il suo primo pensiero confuso è che abbia perso l'aereo a Londra, anche se le aveva telefonato da Heathrow poco prima del decollo. Poi le viene un'idea più accettabile: anche se il Times e la TV hanno detto che non c'erano superstiti, almeno uno c'è stato. Suo marito era uscito strisciando dalle lamiere dell'aereo in fiamme (e dalle macerie altrettanto in fiamme del palazzo su cui si era schiantato l'apparecchio, non dimentichiamolo, altri ventiquattro morti a terra e il numero delle vittime destinato a crescere prima che il mondo passasse alla successiva tragedia) e da allora si era aggirato per Brooklyn in stato di choc. «Jimmy, stai bene? Sei... sei ustionato?» Il senso di ciò che significherebbe emerge dopo la domanda, piombando giù con il peso di un libro lasciato cadere su un piede scalzo. Comincia a piangere. «Sei in ospedale?» «Buona», dice lui e davanti alla sua tenerezza di un tempo - e al suono di quella vecchia parola, quel piccolo pezzetto del loro arredamento coniugale - si mette a piangere più forte. «Buona, tesoro.» «Ma non capisco!» «Sto bene», dice lui. «Quasi tutti noi stiamo bene.» «Quasi?... Ce ne sono degli altri?» «Il pilota no», dice lui. «Lui non tanto bene. O forse è il copilota. Continua a gridare: 'Stiamo precipitando, non abbiamo potenza, oh mio Dio'. E anche: 'Non è colpa mia, non possono dare la colpa a me'. Anche questo dice.» Lei sente freddo dalla testa ai piedi. «Ma chi è? Perché mi fai uno scherzo così orribile? Ho appena perso mio marito, pezzo di merda!» «Tesoro...» «Non chiamarmi così!» Ha una goccia trasparente di muco che le pende da una narice. Se la asciuga con il dorso della mano e poi la proietta nel
nulla, una cosa che non faceva più da quand'era bambina. «Ascolti, mister... adesso controllo da dove arriva questa chiamata e la polizia verrà a sbatterle il culo... quel suo culo ignorante e bastardo...» . Ma non riesce a proseguire. La voce è la sua. Non lo può negare. Il fatto che la chiamata sia arrivata fin di sopra, senza che nessuno l'abbia intercettata al piano di sotto, niente segreteria, indica che era una chiamata personale diretta a lei. E... buona, tesoro. Come in quella vecchia canzone. Lui è rimasto in silenzio, come per darle il tempo di elaborare questi concetti in santa pace. Ma prima che lei parli di nuovo, c'è un segnale acustico in linea. «James? Jimmy? Sei ancora lì?» «Sì, ma non posso trattenermi a lungo. Ho cercato di chiamarti mentre precipitavamo e credo che questa sia l'unica ragione per cui sono riuscito a collegarmi. Ci hanno provato anche molti altri, siamo pieni di cellulari, ma non c'è stato niente da fare.» Di nuovo quel bip. «Solo che ormai il mio telefono è quasi scarico.» «Jimmy, lo sapevi?» Questa idea è stata per lei la più difficile e la più terribile: che potesse aver saputo, anche se solo per un interminabile minuto o due. Altri si figurano forse corpi carbonizzati o smembrati, teste con tutti i denti esposti; magari persino primi soccorritori sciacalli che fanno sparire fedi nuziali e orecchini di brillanti; ma quella che ha sottratto il sonno ad Anne Driscoll è l'immagine di Jimmy che guarda dal finestrino le strade e le automobili e i palazzi di Brooklyn che gli balzano incontro. Le inutili maschere per l'ossigeno che piombano giù come cadaveri di animaletti gialli. I vani portabagagli che si spalancano, le borse che cominciano a volare, un rasoio elettrico che rotola per il corridoio. «Sapevi che stavi precipitando?» «Non proprio», risponde lui. «Tutto è sembrato normale fino all'ultimo... forse gli ultimi trenta secondi. Anche se è difficile conservare la cognizione del tempo in situazioni come quella, ho sempre pensato.» Situazioni come quella. E ancor più eloquente: come ho sempre pensato. Come se fosse stato a bordo non di uno ma di una mezza dozzina di 767 che precipitano. «A ogni modo», prosegue, «chiamavo solo per dire che siamo in anticipo, quindi vedi di scalzare dal letto quello della FedEx prima che arrivi io.» La sua assurda attrazione per il corriere della FedEx è uno scherzo che è andato avanti tra loro per anni. Ricomincia a piangere. Il suo cellulare
manda un altro di quegli avvisi acustici, come per volerla sgridare. «Credo di essere morto giusto un secondo o due prima dell'ultimo squillo. Credo che sia per questo che ho potuto mettermi in contatto con te. Ma questo aggeggio sta per tirare gli ultimi.» Ridacchia come se fosse divertente. Annie pensa che in un certo senso lo è. Un giorno forse ci vedrà anche lei il lato comico. Dammi una decina d'anni, pensa. Poi, in quel tono di chi sta parlando con se stesso che lei conosce così bene: «Perché poi ieri sera non ho messo in carica questo dannato gingillo? Perché me lo sono scordato. Semplicemente scordato». «James... caro... l'aereo è caduto due giorni fa.» Una pausa. Per fortuna senza bip a riempirla. Poi: «Davvero? La signora Corey aveva ben detto che il tempo qui è strambo. C'erano quelli d'accordo con lei e quelli no. Io ero uno di quelli in disaccordo. Ma sembra che avesse ragione». «Cuori?» domanda Annie. Adesso ha la sensazione di librarsi fuori e poco sopra il proprio corpo un po' flaccido e bagnato di donna di mezza età, ma non ha dimenticato le vecchie abitudini di Jimmy. Durante le lunghe trasvolate cercava sempre di giocare. A cribbage o a canasta, ma soprattutto a cuori, che era il suo vero amore. «Cuori», conferma lui. Il telefono fa bip, come per concordare. «Jimmy...» Esita abbastanza a lungo da chiedersi se davvero desidera avere quell'informazione, poi torna alla carica con quella domanda ancora rimasta senza una risposta. «Dove sei, per la precisione?» «Sembra la Grand Central Station», dice lui. «Solo più grande. E più vuota. Come se non fosse affatto la Grand Central ma solo... ehm... un set cinematografico della Grand Central. Capisci cosa cerco di dire?» «Credo... credo di sì...» «Di certo non ci sono treni... e non ne sentiamo in lontananza... ma ci sono porte che vanno da tutte le parti. Oh, e c'è una scala mobile, ma è guasta. Tutta polverosa e con alcuni scalini senza copertura.» S'interrompe e quando parla di nuovo lo fa a voce bassa, come per paura di essere udito. «La gente va via. Alcuni salgono la scala mobile, li ho visti, ma per lo più usano le porte. Credo che dovrò andare anch'io. Tanto per cominciare, non c'è niente da mangiare. C'è un distributore di merendine, ma è guasto anche quello.» «Hai... caro, hai fame?» «Un po'. Soprattutto vorrei dell'acqua. Ucciderei per Una bella bottiglia
fredda.» Annie si guarda con occhi colpevoli le gambe, ancora imperlate. Immagina James che lecca quelle gocce e avverte con orrore un risveglio erotico. «Però sto bene», si affretta ad aggiungere lui. «Almeno per ora. Ma non ha senso restare qui. Solo...» «Cosa? Cosa, Jimmy?» «Non so che porta prendere.» Un altro bip. «Mi piacerebbe sapere da che parte è uscita la signora Corey. Ha il mio mazzo di carte, dannazione.» «Hai...» Si passa sulla faccia l'asciugamano che si è messa addosso uscendo dalla doccia; allora era rinfrescata, adesso è tutta lacrime e muco. «Hai paura?» «Paura?» ribatte lui pensieroso. «No. Sono un po' preoccupato, ma niente di più. Soprattutto su quale porta scegliere.» Trova la via di casa, quasi gli dice lei. Trova la porta giusta e trova la via di casa. Ma se lo facesse, avrebbe voglia di vederlo? Un fantasma poteva andare, ma se avesse aperto la porta per trovarsi di fronte a un tizzone fumante con gli occhi rossi e i resti dei jeans (viaggiava sempre in jeans) fusi nella carne? E se con lui ci fosse stata la signora Corey, con il suo mazzo di carte carbonizzate nella mano deforme? Bip. «Non c'è più bisogno che ti dica di stare attenta con quello della FedEx», dice lui. «Se proprio lo vuoi, è tutto tuo.» Lei si sorprende con una risata. «Ma volevo dirti che ti amo...» «Oh, caro, anch'io ti...» «... e di non lasciare che il giovane McCormack faccia le grondaie quest'autunno, è uno che lavora sodo ma è troppo imprudente, l'anno scorso per poco non si rompe l'osso del collo. E non andare più alla panetteria la domenica. Succederà qualcosa e so che sarà di domenica, ma non so quale. È proprio vero che qui il tempo è strambo..» Il giovane McCormack di cui sta parlando dev'essere il figlio del tizio che faceva lavori di manutenzione per loro nel Vermont... solo che hanno venduto quella casa dieci anni fa e ormai il ragazzo di allora dev'essere sui venticinque anni. E la panetteria? Immagina che si stia riferendo alla Zoltan, ma cosa diavolo...
Bip. «Alcune di queste persone erano a terra, credo. Brutta storia per loro, perché non hanno idea del perché si trovino qui. E il pilota continua a gridare. O forse è il copilota. Credo che resterà qui per un pezzo. Se ne va in giro. È molto confuso.» Ora i segnali acustici si ripetono a intervalli più brevi. «Devo andare, Annie. Non posso trattenermi e comunque il telefono mi si spegnerà in faccia da un momento all'altro.» Di nuovo in quella voce di rimprovero verso se stesso (impossibile credere che dopo oggi non la sentirà più; impossibile non crederlo) brontola: «Sarebbe stato così semplice infilare... be', fa niente. Ti amo, cara». «Aspetta! Non te ne andare!» «Non...» «Ti amo anch'io! Non te ne andare!» Ma lui non c'è più. Nel suo orecchio c'è solo silenzio nero. Resta seduta lì con il telefono muto all'orecchio per un minuto o più. Poi chiude la comunicazione. La non-comunicazione. Quando rialza il ricevitore e sente il perfettamente normale segnale di libero, preme lo stesso il tasto di verifica dell'ultima chiamata. Secondo il robot che risponde alla sua richiesta, l'ultima telefonata ricevuta è stata alle nove di quella mattina. Sa chi era: sua sorella Nell che chiamava dal New Mexico. Nell telefonava per dire ad Annie che il suo aereo era in ritardo e che sarebbe arrivata soltanto quella sera. Nell le raccomandava di essere forte. Tutti i parenti che vivono lontano, suoi e di James, sono arrivati in aereo. A quanto pare pensano che almeno per il momento James abbia consumato tutti i Punti Disgrazia della famiglia. Non è stata registrata nessuna telefonata in arrivo alle - gira gli occhi sull'orologio del comodino e vede che adesso sono le 15.17 - alle tre e dieci circa del terzo pomeriggio della sua vedovanza. Qualcuno bussa brevemente alla sua porta e sente la voce di suo fratello: «Anne? Annie?» «Mi sto vestendo!» grida. La sua voce è quella di una persona che ha pianto, ma purtroppo nessuno in questa casa lo troverebbe strano. «Un po' di discrezione, per favore!» «Tutto bene?» chiede lui attraverso la porta. «Ci è sembrato di averti sentita parlare. Ed Ellie ha avuto l'impressione che stessi chiamando.» «Bene!» grida, poi si passa di nuovo l'asciugamano sulla faccia. «Arrivo subito.»
«D'accordo. Fai con calma.» Pausa. «Siamo qui per te.» Poi sente i passi che si allontanano. «Bip», mormora, poi si copre la bocca per soffocare una risata, un'emozione ancor più complicata del cordoglio, che cerca di palesarsi nell'unico modo possibile. «Bip, bip. Bip, bip, bip.» Si rovescia sul letto ridendo e al di sopra delle mani premute sulle labbra i suoi occhi sono grandi e colmi di lacrime che le traboccano sulle guance e le scorrono giù fino alle orecchie. «Bip-biribip-fanculo-fanbip.» Ride per un pezzo, poi si veste e scende a stare con i suoi parenti, che sono venuti a mescolare il loro dolore con il suo. Solo che si sentono esclusi, perché lui non ha chiamato nessuno di loro. Ha chiamato lei. Nella buona e nella cattiva sorte, ha chiamato lei. Nell'autunno di quell'anno, con le macerie annerite del palazzo su cui si è schiantato il jet ancora negate al resto del mondo dal nastro giallo della polizia (ma i graffitari ci sono entrati e uno ha lasciato un messaggio con lo spray che dice QUI SONO ATTERRATE CREATURE CROCCANTI), Annie riceve quel genere di e-sproloquio che agli assatanati del computer piace inviare a una vasta schiera di conoscenze. Questo le giunge da Gert Fisher, la bibliotecaria di Tilton, nel Vermont. Quando lei e James andavano a trascorrervi l'estate, Annie faceva sempre volontariato in biblioteca e, sebbene le due donne non avessero mai trovato un buon affiatamento, da allora Gert ha incluso Annie nella sua lista per gli aggiornamenti trimestrali. Di solito non sono molto interessanti, ma questa volta, tra annunci di matrimoni, funerali e premiazioni di scout, Annie s'imbatte in una notizia che le toglie il fiato. Jason McCormack, figlio del vecchio Hughie McCormack, è rimasto ucciso in un incidente il giorno del Labor Day. È caduto dal tetto di un cottage dov'era salito a pulire le grondaie e si è rotto l'osso del collo. «Stava solo facendo un favore al suo papà che, come ricorderete, due anni fa ha avuto un ictus», scrive Gert prima di passare all'acquazzone che ha investito la svendita all'aperto di fine estate della biblioteca e alla grande delusione generale che ne è seguita. Nelle sue tre pagine di notiziario Gert non lo dice, ma Annie è quasi sicura che Jason sia caduto dal tetto del cottage dove solevano soggiornare loro. Anzi, ne è sicura. Cinque anni dopo la morte di suo marito (e la morte di poco successiva
di Jason McCormack) Annie si risposa. E sebbene vadano a vivere a Boca Raton, fa spesso ritorno al vecchio quartiere. Craig, il suo nuovo marito, è in pensione solo per metà e il lavoro lo riporta a New York ogni tre o quattro mesi. Annie lo accompagna quasi sempre, perché ha ancora parenti a Brooklyn e a Long Island. Più di quanti sia in grado di gestire, le sembra certe volte. Ma vuol loro bene con l'affetto esasperato che è tipico, pensa, solo delle persone di cinquanta e sessant'anni. Non ha smesso di ricordare come erano accorsi tutti quanti dopo che era precipitato l'aereo su cui si trovava James e si erano adoperati per offrirle il miglior cuscino possibile. Perché non avesse a schiantarsi anche lei. Quando vanno a New York, Annie e Craig prendono l'aereo. Su questo non ha mai avuto titubanze, ma, quando è a casa, ha smesso di andare di domenica alla Zoltan's Family Bakery, anche se, lo sa, i loro bagel alle uvette sono semplicemente paradisiaci. Va invece alla Froger's. È appunto lì ad acquistare ciambelle (le ciambelle sono almeno passabili), quando sente l'esplosione. La sente chiaramente anche se Zoltan è a undici isolati di distanza. Una bombola di gas liquido. Quattro morti, inclusa la donna che le consegnava sempre i suoi bagel dopo aver ripiegato accuratamente l'orlo superiore del sacchetto di carta dicendole: «Lo tenga così finché arriva a casa se no perde la freschezza». C'è gente ferma sui marciapiede con la mano a fare da scudo agli occhi, a guardare verso est, da dove è giunto il rumore dell'esplosione e si vede levarsi il fumo. Annie li supera a passi svelti, senza alzare gli occhi. Lei non vuole vedere una colonna di fumo salire nel cielo dopo un boato; pensa già abbastanza così a James, specialmente nelle notti in cui non riesce a prender sonno. Quando arriva a casa sente squillare il telefono. O sono scesi tutti alla vendita di beneficenza organizzata poco distante dalla scuola locale, o nessuno sente quegli squilli. Salvo lei. E non fa a tempo a infilare la chiave nella serratura che gli squilli cessano. In casa però c'è Sarah, la sola delle sue sorelle che non si è mai sposata, ma non c'è bisogno di chiederle perché non abbia risposto al telefono; Sarah Bernicke, ex regina della discoteca, è in cucina con i Village People a tutto volume a ballare con lo spazzolone in una mano, come la bella di turno di uno spot televisivo. Non ha sentito nemmeno l'esplosione della panetteria, sebbene la casa sia ancora più vicina. Annie controlla la segreteria telefonica, ma sul display dei messaggi in attesa c'è un grande zero rosso. In sé questo non significa niente, molti chiamano senza lasciare un messaggio, però...
Il servizio automatico riferisce che l'ultima chiamata è stata alle «ore otto e quaranta minuti» della sera prima. Annie compone comunque il numero sperando contro ogni ragionevolezza che, uscito dallo stanzone che somiglia tanto al set cinematografico della Grand Central Station, abbia trovato un posto dove ricaricare il cellulare. A lui sembrerà forse di averle parlato solo ieri. Solo qualche minuto prima. Il tempo qui è strambo, aveva detto. Ha sognato tante di quelle volte quella telefonata che ora le sembra essa stessa un sogno, ma non ne ha mai fatto parola con nessuno. Né con Craig, né con sua madre, ora quasi novantenne ma sveglia e con la salda convinzione di una vita nell'aldilà. In cucina i Village People spiegano che non c'è bisogno di sentirsi giù. Non ce n'è e lei non si sente giù. Stringe tuttavia con grande forza il ricevitore mentre il numero che ha ascoltato al servizio automatico suona una volta, poi due. È in piedi in soggiorno con il ricevitore all'orecchio e con la mano libera tocca la spilla che ha sopra il seno sinistro, come se toccare la spilla possa calmare il tramestio del cuore che c'è sotto. Poi gli squilli cessano e una voce registrata le propone il New York Times a un'offerta che non sarà più ripetuta. Muto 1 I confessionali erano tre. La lucetta sopra la porta di quello centrale era accesa. Sui banchi non c'era nessuno. La chiesa era vuota. Dalle finestre entrava luce colorata che disegnava rettangoli nella navata centrale. Monette pensò se andarsene e rimase. Entrò allora nel confessionale in funzione. Quando ebbe chiuso la porta e si fu seduto, lo sportellino scorrevole alla sua destra si aprì. Davanti a lui, fissato alla parete con una puntina blu, c'era un cartoncino. Sul cartoncino, scritto a macchina, lesse: POICHÉ TUTTI HANNO PECCATO E HANNO MANCATO LA GLORIA DI DIO. Era passato molto tempo, ma a Monette non sembrava che fosse una frase della Chiesa di Roma. Nemmeno nella versione del catechismo di Baltimora. Il sacerdote parlò da dietro il piccolo graticcio. «Come va, figliolo?» A Monette non sembrò standard nemmeno quello. Ma andava bene lo stesso. All'inizio non riuscì comunque a rispondere. Neppure una parola. Ed era buffo, considerato quello che aveva da dire.
«Figliolo? Il gatto ti ha mangiato la lingua?» Ancora niente. Le parole erano lì, ma erano tutte bloccate. Assurdo o no, a Monette venne in mente un water ingorgato. La sagoma indistinta dietro la finestrella si mosse. «Mancavi da un po'?» «Sì», rispose Monette. Era già qualcosa. «Vuoi che ti suggerisca?» «No, ricordo. Mi benedica, padre, perché ho peccato.» «Ah... e quanto tempo è passato dall'ultima volta che ti sei confessato?» «Non ricordo. Parecchio. Ero ancora bambino.» «Be', tranquillo. È come andare in bicicletta.» Ma per un momento di nuovo non riuscì a dire niente. Guardò il messaggio affisso in cabina e la sua gola lavorò inutilmente. Si tormentava le mani, l'una nell'altra, sempre più strette, fino a diventare un grosso pugno che gli dondolava tra le cosce. «Figliolo? La giornata se ne va via e io ho compagnia per pranzo. Anzi, è la compagnia a portare il pra...» «Padre, ho commesso un peccato terribile.» Ora fu il prete a rimanere in silenzio per un po'. Muto, pensò Monette. Una parola più bianca di quella non esisteva. A scriverla su un foglio sarebbe scomparsa. Quando il sacerdote dietro lo spioncino parlò di nuovo, la sua voce era ancora bonaria ma più seria. «Qual è il tuo peccato, figliolo?» E Monette rispose: «Non lo so. Me lo deve dire lei». 2 Quando Monette giunse alla rampa d'accesso dell'autostrada in direzione nord stava cominciando a piovere. La sua valigia personale era nel bagagliaio e i suoi campionari - due valigioni come quelli che hanno gli avvocati con dentro i reperti da esibire in aula - erano sul sedile posteriore. Uno era marrone, l'altro nero. Su entrambi era goffrato il logo della Wolfe & Sons: un lupo grigio con un libro in bocca. Monette era un viaggiatore di commercio. Copriva tutto il New England settentrionale. Era un lunedì mattina. Era stato un brutto fine settimana, molto brutto. Sua moglie si era trasferita in un motel, dove probabilmente non era sola. E presto sarebbe finita in galera. Ci sarebbe stato senz'altro uno scandalo in cui l'infedeltà sarebbe stato l'elemento più marginale. Sul bavero della giacca portava un distintivo con la scritta: CHIEDIMI
DEL MIGLIOR CATALOGO D'AUTUNNO DA SEMPRE!!! Sulla rampa c'era fermo un uomo. Era vestito male e, mentre Monette si avvicinava e la pioggia diventava più insistente, gli mostrò un cartello. Tra le sudice scarpe da tennis aveva un vecchio e logoro zaino marrone. La fascetta di velcro di una delle scarpe si era staccata e se ne stava all'insù come una lingua sghemba. L'autostoppista non aveva cappello, meno che mai un ombrello. Sulle prime, del cartello Monette riuscì a decifrare solo un paio di labbra rosse attraversate da una striscia nera in diagonale. Quando fu più vicino vide che le parole sopra la bocca barrata erano: SONO MUTO! Sotto la bocca barrata c'era: MI DATE UNO STRAPPO??? Monette azionò la freccia per imboccare la rampa. L'autostoppista girò il cartello. Sul lato opposto c'era un orecchio, un disegno altrettanto rudimentale, anch'esso barrato. Sopra l'orecchio: SONO SORDO! Sotto: POTREI AVERE UNO STRAPPO??? Dai sedici anni in poi Monette aveva percorso milioni di chilometri in macchina, soprattutto nella decina di anni in cui aveva piazzato articoli per la Wolfe & Sons, vendendo un miglior catalogo d'autunno dopo l'altro, e per tutto quel periodo non aveva mai caricato a bordo un solo autostoppista. Quel giorno accostò senza esitazione e fermò la macchina. La medaglietta di san Cristoforo dondolava ancora davanti allo specchietto retrovisore quando azionò il pulsante che sbloccava gli sportelli. Quel giorno non aveva niente da perdere. L'autostoppista salì in macchina e si sistemò il piccolo zaino malconcio tra le scarpe sporche e bagnate. Guardandolo Monette aveva pensato che puzzasse e non si era sbagliato. «Dove va?» chiese. L'autostoppista si strinse nelle spalle e indicò la rampa. Poi si chinò e posò con cura il suo cartello sullo zaino. Aveva capelli sottili come filo da cucito, con dentro del grigio. «So da che parte, ma...» Monette si rese conto che non lo sentiva. Aspettò che si rialzasse. Un'automobile imboccò la rampa e li superò con uno schiamazzo di clacson sebbene Monette avesse lasciato tutto lo spazio del mondo. Mostrò al conducente il dito medio e questa era invece una cosa che aveva già fatto, ma mai per una seccatura così lieve. L'autostoppista si allacciò la cintura e guardò Monette come a chiedergli che cosa lo trattenesse. Aveva pelle rugosa e ruvida di barba. Monette non seppe nemmeno cominciare a indovinare quanti anni avesse. Qualcosa tra l'anziano e il non anziano, niente di meglio.
«Fin dove va?» domandò, questa volta scandendo bene le parole, e quando l'altro si limitò a guardarlo - statura media, magro, settanta chili al massimo - disse: «Sa leggere il labiale?» Si toccò le labbra. L'autostoppista scosse la testa e fece dei gesti con le mani. Monette teneva un taccuino nel vano portaoggetti. Mentre scriveva FINO DOVE? passò un'altra macchina che questa volta sollevò una sventagliata di umidità. Monette andava a Derry, a più di duecentocinquanta chilometri, e quelle erano le condizioni in cui soprattutto detestava guidare, seconde solo a una nevicata fitta. Ma quel giorno gli andava bene così. Quel giorno il brutto tempo - e gli autocarri pesanti che scatenavano i loro personali acquazzoni quando lo sorpassavano - lo avrebbe tenuto occupato. Per non parlare del tizio. Il suo nuovo passeggero. Che guardò la scritta e poi alzò gli occhi su di lui. In seguito gli venne il sospetto che non sapesse nemmeno leggere - imparare a leggere dev'essere tremendamente difficile per un sordomuto - ma il punto interrogativo, lo aveva capito. Indicò la rampa attraverso il parabrezza e aprì e chiuse le mani un gran numero di volte. Tra le dieci e le quindici. Cento chilometri? O centocinquanta? Posto che lo sapesse. «Waterville?» tirò a indovinare Monette. L'autostoppista lo guardò impassibile. «D'accordo», concluse Monette. «Sia dove sia. Dammi un colpetto alla spalla quando ci arriviamo.» L'autostoppista lo guardò impassibile. «Bah, immagino che lo farai comunque», si rassegnò Monette, «sempre che una qualche destinazione in mente tu ce l'abbia.» Controllò lo specchietto retrovisore e partì. «Sei parecchio tagliato fuori, eh?» L'altro lo stava ancora guardando. Si strinse nelle spalle e si schiacciò i palmi sulle orecchie. «Lo so», annuì Monette immettendosi nella corsia di destra. «Parecchio tagliato fuori. Linee telefoniche saltate. Ma oggi quasi vorrei essere al tuo posto.» Fece una pausa. «Quasi. Ti scoccia la musica?» E quando l'autostoppista girò semplicemente la testa dall'altra parte mettendosi a guardare dal finestrino, a Monette venne da ridere. Debussy, AC/DC o Rush Limbaugh, per lui era tutto lo stesso. Aveva comprato a sua figlia l'ultimo CD di Josh Ritter - di lì a una settimana compiva gli anni - ma non si era ancora ricordato di spedirglielo. In quegli ultimi giorni erano successe troppe altre cose. Passata Portland inserì il controllo automatico della velocità, tagliò la protezione di cellofan con
l'unghia del pollice e infilò il CD nel lettore. Pensò che da quel momento era diventato tecnicamente un CD usato, non il genere di cosa che si regala all'amata figlia unica. Avrebbe comunque potuto sempre comprargliene un altro. Se gli fosse rimasto qualche soldo, naturalmente. Josh Ritter si rivelò niente male. Assonanze con il Dylan delle origini, ma con un piglio migliore. Mentre ascoltava, rifletté sui soldi. Averne abbastanza da comprare un nuovo CD per il compleanno di Kelsie era l'ultimo dei suoi problemi. Non era neppure così importante che ciò che voleva veramente, ciò di cui aveva in effetti bisogno, fosse un laptop nuovo. Se Barb aveva fatto quello che aveva detto di aver fatto - quello che la direzione del DAS confermava che aveva fatto - non avrebbe saputo come far fronte alla retta della Case Western di sua figlia per l'anno entrante. Anche presumendo di aver conservato il proprio lavoro. Quello era un problema. Alzò il volume della musica per soffocare il problema e in parte funzionò, ma quando furono in vista di Gardiner si spense anche l'ultimo accordo. L'autostoppista era girato dall'altra parte a guardare dal finestrino. Monette vedeva solo il dorso del montgomery scolorito e macchiato con capelli troppo sottili che gli pendevano a ciuffi sopra il colletto. Sembrava che sul dorso del cappotto ci fosse stato scritto qualcosa, una scritta che adesso non si leggeva più. Sarà la storia della vita di questo poveraccio, pensò Monette. Sulle prime non seppe decidere se l'autostoppista si fosse assopito o stesse contemplando il panorama. Poi notò la lieve inclinazione della testa e il vetro del finestrino laterale appannato dall'alito e concluse che probabilmente dormiva. Perché no, del resto? L'unica cosa più noiosa della Maine Turnpike a sud di Augusta è la Maine Turnpike a sud di Augusta in una fredda pioggia di primavera. Monette aveva altri CD nella console centrale, ma invece di cercare là in mezzo spense il lettore. E passato il casello di Gardiner - senza fermarsi, rallentando solo un po', meraviglia e gioia del telepass - cominciò a parlare. 3 Monette s'interruppe e consultò l'orologio. Mancava un quarto a mezzogiorno e il sacerdote aveva detto di avere compagnia per pranzo. Che era proprio quella compagnia a portare il pranzo, perdipiù. «Padre, mi spiace di parlare tanto. Cercherei di stringere se sapessi co-
me, ma non riesco.» «Non ti preoccupare, figliolo. Ora sono curioso.» «La sua compagnia...» «Aspetterà che abbia finito di fare il lavoro del Signore. E di soddisfare la mia curiosità. Figliolo, quest'uomo ti ha derubato?» «No», rispose Monette. «A meno che voglia riferirsi alla mia pace interiore. Conta?» «Certo che conta. Che cosa ha fatto dunque?» «Niente. Ha guardato dal finestrino. Pensavo che dormisse ma poi ho avuto motivo di ricredermi.» «Che cosa hai fatto tu, allora?» «Gli ho parlato di mia moglie», rispose Monette. Poi s'interruppe per riflettere. «No, non è così. Ho sparlato di mia moglie. Ho inveito contro mia moglie. Ho vomitato su mia moglie. Io...» S'incartò, con le labbra compresse, guardando il grosso pugno che si contorceva tra le cosce. Finalmente sbottò: «Era sordomuto, capisce? Potevo dire qualunque cosa senza essere costretto ad ascoltarlo fare le sue analisi, illustrarmi le sue opinioni o offrirmi i suoi saggi consigli. Era sordo, era muto, diavolo, pensavo che probabilmente stesse dormendo e che potessi lasciarmi andare a sparare cazzate a volontà!» Nel confessionale con il cartoncino affisso alla parete di legno, Monette fece una smorfia. «Scusi, padre.» «Di preciso che cosa hai detto su di lei?» volle sapere il sacerdote. «Gli ho detto che aveva cinquantaquattro anni», rispose Monette. «È così che ho cominciato. Perché questa è la cosa... sa, questa è la cosa che proprio non mandavo giù.» 4 Dopo il casello di Gardiner, la Maine Turnpike è di nuovo gratuita, un nastro che attraversa cinquecento chilometri di un bel piffero di nulla: boschi, campi, l'occasionale roulotte con il disco satellitare sul tetto accanto a un camioncino posato su blocchi di cemento. Salvo che in estate, è poco battuta. Ogni veicolo diventa un piccolo mondo a se stante. Fu proprio allora che gli accadde di pensare (forse era la medaglietta di san Cristoforo che dondolava dallo specchietto, un regalo ricevuto da Barb in giorni migliori, più giusti) che era come trovarsi in un confessionale viaggiante.
Cominciò comunque lentamente, come molti di coloro che si confessano. «Sono sposato», disse. «Io ho cinquantacinque anni e mia moglie cinquantaquattro.» Meditò su questo fatto mentre le spazzole del tergicristallo ticchettavano come un metronomo. «Cinquantaquattro, Barbara ne ha cinquantaquattro. Siamo sposati da ventisei. Una sola figlia. Una figlia bella. Kesie Ann. Va a scuola a Cleveland e non so se ce la terrò, perché due settimane fa, senza preavviso, mia moglie si è trasformata in un vulcano in eruzione. Salta fuori che ha un amichetto. Ce l'ha da quasi due anni. Fa l'insegnante, be', per forza, cos'altro se no? Fa l'insegnante ma lei lo chiama Cowboy Bob. Salta fuori che quelle sere che pensavo che fosse a fare volontariato o al circolo del libro, era al Range Riders a bere tequila e ballare con Cazzone Cowboy Bob.» Era divertente. Lo avrebbe visto chiunque. Era una stronzata da sit-com se mai se n'era vista una. Ma i suoi occhi, anche se senza lacrime, bruciavano come se ci avesse sfregato delle ortiche. Lanciò un'occhiata a destra, ma l'autostoppista era ancora voltato quasi del tutto e adesso aveva appoggiato la fronte al vetro del finestrino. Senz'altro dormiva. Quasi senz'altro. Monette non aveva fatto parola del suo tradimento, Kelsie non ne sapeva niente, ma la bolla della sua ignoranza sarebbe scoppiata presto. I primi strami volavano già nel vento - prima di partire per quel viaggio aveva riappeso il telefono in faccia a tre diversi cronisti - ma ancora non c'era niente che potessero stampare o mandare in onda. La situazione era destinata a cambiare, ma Monette avrebbe tenuto duro con un passivo no comment il più a lungo possibile, più che altro per risparmiarsi l'imbarazzo. Nel frattempo tuttavia commentava senza remore, cosa che gli arrecava un sollievo immenso e rabbioso. In un certo senso era un po' come cantare sotto la doccia. O vomitarci. «Cinquantaquattro anni», ripeté. «È questo che non mi va giù. Vuol dire che si è messa con questo tizio, il cui nome vero è Robert Yandowsky, senti un po' che razza di nome per un cowboy, ci si è messa quando ne aveva cinquantadue. Cinquantadue. Non ti pare che a quell'età si dovrebbe avere un po' di buon senso? Che a quell'età uno dovrebbe aver già corso le sue cavalline, aver fatto i suoi capitomboli e aver cominciato a rigar dritto per la sua strada? Mio Dio, porta le bifocali! Le hanno tolto la cistifellea! E si spupazza questo tizio! Al Grove Motel, dove i due hanno messo su il loro nido! Le ho dato una bella casa a Buxton, un box doppio, ha una Audi
tutta sua, e lei butta via tutto per ubriacarsi il giovedì sera e poi montarsi questo tizio fino alle prime luci dell'alba, o per quanto reggono, e ha cinquantaquattro anni! Per non parlare di Cowboy Bob, che ne ha sessanta, checcazzo!» Sentì di aver cominciato a farneticare, ordinò a se stesso di contenersi, vide che l'autostoppista non si era mosso (salvo che fosse scivolato un po' più giù dentro il bavero del suo montgomery, quello poteva anche essere) e si rese conto di non doversi fermare. Era in macchina. Era sulla I-95, un po' a est del sole e a ovest di Augusta. Il suo passeggero era sordomuto. Poteva farneticare finché voleva. Farneticò. «Barb ha vuotato il sacco. Senza spavalderia e senza vergogna. Sembrava... serena. Un po' frastornata forse o ancora sperduta in un mondo di fantasia.» E aveva detto che era in parte colpa sua. «Sono spesso in viaggio, questo è vero. Più di trecento giorni l'anno scorso. Lei restava sola. Abbiamo una sola figlia, te l'ho detto, e quando ha finito il liceo ha lasciato casa. Così era colpa mia. Di Cowboy Bob e di tutto il resto.» Gli pulsavano le tempie e il naso gli si era quasi chiuso. Tirò su tanto forte da farsi comparire punticini neri davanti agli occhi e non ne ebbe sollievo. Non al naso, comunque. Nella testa si sentì finalmente meglio. Era contento di aver preso a bordo l'autostoppista. Avrebbe potuto raccontare tutte quelle cose a voce alta nell'abitacolo vuoto, ma... 5 «... ma non sarebbe stato lo stesso», disse all'ombra dietro lo spioncino del confessionale. Lo disse guardando fisso davanti a sé, con gli occhi puntati su POICHÉ TUTTI HANNO PECCATO E HANNO MANCATO LA GLORIA DI DIO. «Lo capisce questo, padre?» «Naturalmente», rispose il sacerdote... e in un tono abbastanza gioviale. «Anche se ti sei evidentemente allontanato dalla Madre Chiesa - eccetto che per qualche residuo superstizioso come la tua medaglietta di san Cristoforo - non avresti neppure dovuto chiederlo. La confessione fa bene all'anima. Sono duemila anni che lo sappiamo.» Ora Monette portava al collo la medaglietta di san Cristoforo che una volta dondolava appesa allo specchietto retrovisore. Forse era davvero solo
una superstizione, ma aveva guidato per milioni di chilometri in ogni genere di condizioni meteorologiche avendo quella medaglietta per compagna e non aveva mai nemmeno ammaccato un paraurti. «Figliolo, cos'altro ha fatto tua moglie? Oltre a peccare con Cowboy Bob.» Monette si sorprese a ridere. E dietro la finestrella rise anche il sacerdote. La differenza era nella qualità del riso. Il sacerdote vedeva il lato comico. Monette sospettava di sforzarsi ancora di tenere a bada la follia. «Be', c'era la lingerie», disse. 6 «Comprava biancheria intima», raccontò all'autostoppista, che era ancora un po' accasciato sul sedile e quasi del tutto girato dall'altra parte, con la fronte appoggiata al finestrino e il fiato che annebbiava il vetro. Zaino tra i piedi, cartello posato sopra, dalla parte con la scritta SONO MUTO! «Me l'ha mostrata. Era nell'armadio della stanza degli ospiti. Lo riempiva quasi completamente. Guêpière e sottovesti e reggiseni e calze di seta ancora sigillate a decine. Ma soprattutto mutandine, mutandine, mutandine. Ha detto che Cowboy Bob era 'un autentico mutandinomane'. Credo che sarebbe andata avanti, mi avrebbe spiegato come funzionava, ma io m'ero fatto l'idea, me l'ero fatta molto più chiara di quanto avrei desiderato. 'Per forza è un mutandinomane', ho detto io, 'uno che è cresciuto facendosi le seghe su Playboy, e adesso ha sessant'anni.'» A quel punto stavano oltrepassando il cartello di Fairfield. Verde e confuso attraverso il parabrezza, con un corvo bagnato appollaiato sopra. «Tutta roba di pregio, poi», continuò Monette. «C'era molto Victoria's Secret preso ai grandi magazzini, ma c'erano anche articoli di una costosa boutique che si chiama Sweets. Di Boston. Io non sapevo nemmeno che esistessero le boutique di biancheria intima. Ma adesso l'ho imparato. In quell'armadio ci doveva essere merce per migliaia di dollari. E poi le scarpe. Quasi tutte con il tacco alto. Tutto l'equipaggiamento giusto per fare l'erognocca. Anche se immagino che si togliesse le bifocali quando si metteva la culotte e l'ultimo modello di wonderbra. Ma...» Lo sorpassò rombando un semiarticolato. Quando l'autocarro gli fu davanti, Monette lampeggiò automaticamente con gli abbaglianti. Il camionista ammiccò un grazie con gli stop. Linguaggio dei segni sulla strada. «Ma molti di quei capi non erano stati mai indossati. Questo è il fatto.
Erano solo... solo messi via. Le ho chiesto perché diavolo avesse comprato tutta quella roba e lei o non lo sapeva o non sapeva spiegarlo. 'E diventata un'abitudine', mi ha detto. 'Come un preliminare, immagino.' Senza vergogna. Senza spavalderia. Come se stesse pensando: Questo è tutto un sogno dal quale presto mi sveglierò. Noi due lì a guardare quella montagna di sottovesti, slip e scarpe e Dio solo sa cos'altro dentro quell'armadio. Poi le ho chiesto dove avesse trovato i soldi. Voglio dire che vedevo tutti i mesi le lettere contabili delle carte di credito e non c'era niente acquistato alla Sweets di Boston. Così siamo arrivati al problema vero. Che era malversazione.» 7 «Malversazione», disse il sacerdote. Monette si domandò se quel termine potesse essere mai stato pronunciato prima in quel confessionale e concluse che probabilmente sì. Come minimo si era parlato di furto. «Lavorava per il DAS diciannove del Maine», spiegò Monette. «DAS sta per distretto amministrativo scolastico. È uno dei più grandi, subito a sud di Portland. Con sede a Dowrie peraltro, dove ci sono anche il Range Riders e lo storico Grove Motel, a pochi passi dal locale. Comodo. Vai a farti le tue sgambettate e le tue trom... i tuoi convegni amorosi restando in zona. Senza nemmeno bisogno di guidare, se magari hai alzato il gomito. Cosa che loro facevano praticamente tutte le sere. Tequila per lei, whisky per lui. Jack, naturalmente. È stata lei a dirmelo. Tutto mi ha detto.» «È insegnante anche lei?» «Oh no, gli insegnanti non hanno accesso a tutti quei soldi. Non avrebbe mai potuto portarsi via più di centoventimila dollari, se fosse stata un'insegnante. Abbiamo avuto a cena il soprintendente distrettuale e sua moglie e naturalmente io lo vedo sempre al picnic di fine anno, di solito al Dowrie Country Club. Victor McCrea. Laureato all'Università del Maine. Giocava a football. Laurea in educazione fisica. Capelli a spazzola. Probabilmente ha tirato a campare venendone fuori a suon di sufficienze regalate, ma è un brav'uomo, di quelli che conoscono cinquanta barzellette su un-tizio-entrain-un-bar. Ha in carico una decina di istituti, dalle cinque elementari alla Muskie High. Un budget annuale molto sostanzioso; lui forse arriva a fare due più due senza doverci pensar su per più di mezz'ora. Barb è stata la sua segretaria esecutiva per dodici anni.» Monette fece una pausa.
«Barb aveva il libretto degli assegni.» 8 La pioggia si appesantiva. Adesso stava quasi scrosciando. Monette rallentò senza pensarci mentre gli altri automobilisti, beati incoscienti, gli sfrecciavano accanto sorpassandolo e sollevando nuvole d'acqua. Che corressero pure. Lui aveva avuto una lunga carriera senza incidenti a vendere il miglior catalogo autunnale di sempre (per non parlare del miglior catalogo primaverile di sempre e qualche catalogo estivo a sorpresa, che consisteva soprattutto di libri di cucina, manuali dietetici e Harry Potter scontati) e voleva che continuasse così. Alla sua destra l'autostoppista si mosse. «Sei sveglio, amico?» chiese Monette. Una domanda inutile ma naturale. L'autostoppista emise un commento dall'estremità del suo corpo che apparentemente non era muta: fiiit. Piccolo, educato e soprattutto inodore. «Lo prendo per un sì», concluse Monette tornando a occuparsi della guida. «Dov'ero rimasto?» Alla biancheria intima. Giusto. Me la vedo ancora. Ammonticchiata nell'armadio come il sogno erotico di un adolescente. Poi la confessione dell'appropriazione indebita. Quella cifra da capogiro. Dopo aver riflettuto per qualche momento sulla possibilità che stesse mentendo per qualche folle motivo (ma ovviamente era tutto folle), le aveva chiesto quanto le fosse rimasto e lei, sempre in quel modo pacato e stordito, aveva risposto che non le era avanzato niente, per la verità, anche se riteneva di potersene procurare dell'altro, almeno per un po'. «'Ma fra poco salterà fuori', disse. 'Fosse solo il povero vecchio Vic, che non ci capisce niente, potrei anche andare avanti per l'eternità. Ma la settimana scorsa sono venuti gli ispettori statali. Mi hanno fatto troppe domande e hanno fotocopiato i libri contabili. Non ci vorrà molto.' «Allora le ho chiesto come avesse potuto spendere oltre centomila dollari in mutande», raccontò Monette al suo silenzioso compagno. «Non ero arrabbiato, non in quel momento, credo che in quel momento fossi troppo sbalordito, ma ero sinceramente curioso. E lei, sempre in quel modo senza vergogna o strafottenza, come una sonnambula: 'Be', ci è venuta in mente la lotteria. Suppongo che l'idea fosse di rifarci in quel modo'.» Monette s'interruppe. Guardò le spazzole andare avanti e indietro. Considerò brevemente l'eventualità di sterzare a sinistra e schiantarsi su un pi-
lastro di cemento armato del cavalcavia poco più avanti. Scartò l'idea. Al sacerdote più tardi avrebbe detto che in parte era stata l'antica proibizione del suicidio appresa da bambino, ma soprattutto aveva pensato che prima di morire gli sarebbe piaciuto ascoltare almeno una volta ancora l'album di Josh Ritter. E poi non era più solo. Invece di ammazzarsi (portando con sé il suo passeggero) transitò sotto il cavalcavia a velocità moderata (per forse un paio di secondi il parabrezza fu terso, poi le spazzole ebbero di nuovo da fare) e riprese il suo racconto. «Credo che nessuno in tutta la storia della lotteria abbia comprato tanti biglietti quanto loro.» Ci pensò su, poi scosse la testa «Be'... probabilmente. Ma loro ne hanno comprati certamente decine di migliaia. Ha detto che lo scorso novembre, quando io sono stato per quasi tutto il mese nel New Hampshire e nel Massachusetts, per non parlare del convegno nel Delaware, ne hanno comprati più di duemila. Powerball, Megabucks, Paycheck, Pick 3, Pick 4, Triple Play. Non ne hanno mancata una. All'inizio sceglievano i numeri, ma Barb ha detto che era una cosa che andava per le lunghe, così sono passati all'E-Z Pick.» Monette indicò lo scatolotto bianco di plastica fissato al parabrezza subito sotto lo stelo dello specchietto. «Tutti questi gingillini che fanno girare più in fretta il mondo. Forse è un bene, ma io ho i miei dubbi. 'Siamo passati all'E-Z Pick', mi ha detto, 'perché la gente che sta in fila dietro di te si spazientisce se impieghi troppo a scegliere i tuoi numeri, specialmente quando il jackpot è di cento milioni e più.' Ha detto che qualche volta lei e Yandowsky si dividevano i negozi e ne battevano anche venti, venticinque in una sera. Poi naturalmente si vendono biglietti anche in quei posti dove andavano a fare i loro balli da cowboy. «'La prima volta che Bob ha giocato abbiamo vinto cinquecento dollari a Pick 3', mi ha raccontato. 'E stato così romantico.'» Monette scosse la testa. «Poi ha continuato a essere romantico, ma non sono continuate le vincite. Così mi ha detto. Ha detto che una volta hanno vinto mille dollari, ma a quel punto erano ormai nel buco per trentamila. Nel buco, ha detto. «Una volta - è successo in gennaio mentre io ero in viaggio a cercare di rifarmi del costo del cappotto di cashmere che le avevo regalato a Natale ha detto che sono andati a passare un paio di giorni a Derry. Non so se da quelle parti si fanno i balli in linea, non ho mai controllato, ma c'è un posto
che si chiama Hollywood Slots. Hanno preso una suite, hanno mangiato alla grande come porci - ha detto alla grande come porci - e hanno fatto fuori settemilacinquecento dollari al videopoker. Ma, ha detto, non l'hanno trovato molto divertente. Hanno preferito giocare soprattutto alle lotterie, spendendo sempre più soldi del DAS nella speranza di rimettersi in pari prima che arrivassero gli ispettori statali e gli cascasse il soffitto sulla testa. E naturalmente intanto comprava altra biancheria intima. Una ragazza vuole sentirsi fresca ed elegante sopra e sotto mentre compra biglietti del Powerball al supermercato. «Stai bene, amico?» Non ottenne risposta dal suo passeggero, com'era da presumere, così Monette gli scosse una spalla. L'uomo staccò la testa dal finestrino (aveva lasciato sul vetro una macchia d'unto con la fronte, che in quel momento Monette archiviò come l'ultimo dei suoi problemi) e si guardò intorno sbattendo le palpebre sugli occhi arrossati come se fosse stato addormentato. Monette non pensava che avesse dormito. Nessun motivo, solo una sensazione. Unì pollice e indice in un tondo e guardò l'autostoppista con le sopracciglia inarcate. Per un momento il suo passeggero rimase imbambolato, dando a Monette il tempo di riflettere che oltre che sordomuto dovesse essere anche scemo. Poi sorrise, annuì e ricambiò il gesto. «Bene», concluse Monette. «Giusto per star tranquillo.» L'autostoppista tornò ad appoggiare la testa al finestrino. Frattanto la sua presunta destinazione, Waterville, era rimasta alle loro spalle, nella pioggia. Monette non se ne accorse. Stava ancora vivendo nel passato. «Fossero stati solo la lingerie e quei giochi che si fanno scegliendo qualche numero, il danno sarebbe stato ancora rimediabile», riprese. «Perché per giocare d'azzardo in quel modo ci vuole tempo. Hai la possibilità di ritrovare il lume della ragione, dato e non concesso che ci sia un lume da riaccendere. Devi metterti in coda per prendere il tuo tagliando e poi conservarlo nel portafogli. Poi devi star dietro ai risultati dell'estrazione, guardare la TV o guardare sul giornale. Forse sarebbe stato ancora accettabile. Se ovviamente si può accettare una moglie che ti fa le corna con un rimbambito di insegnante di storia e butta nel cesso trenta o quarantamila dollari rubati al distretto scolastico. Ma fossero stati trentamila, sarei stato forse in grado di coprirli. Avrei potuto accendere una seconda ipoteca sulla casa. Non per Barb, neanche a parlarne, ma per Kelsie Ann. Non è giusto che
una giovane donna che sta giusto cominciando la sua avventura nella vita debba partire con un macigno come quello appeso al collo. Si chiama restituzione. Avrei potuto restituire il maltolto a costo di andare a vivere in un bilocale. Lo sai?» Evidentemente l'autostoppista non lo sapeva: non delle figlie giovani e belle che cominciano la loro avventura nella vita, non di seconde ipoteche o restituzioni. Lui se ne stava al calduccio e all'asciutto nel suo mondo di silenzio mortale e probabilmente era meglio così. Probabilmente non c'era altro al mondo che gli interessasse. Ma Monette tirò innanzi lo stesso. «Il fatto è che ci sono modi più rapidi per sbattere via i propri soldi e sono legali quanto... quanto comprare mutande.» 9 «Sono passati al gratta e vinci, vero?» chiese il sacerdote. «Quello che l'ente lotterie chiama vincita istantanea.» «Ne parla come uno che si è lasciato tentare», osservò Monette. «Qualche volta», ammise il prete, e con ammirevole prontezza. «Dico sempre a me stesso che la volta che mi capitasse un vero biglietto d'oro, donerei tutti i soldi alla Chiesa. Ma non azzardo mai più di cinque dollari alla settimana.» Questa volta un'esitazione ci fu. «Qualche volta dieci.» Un'altra pausa. «E una volta ho comprato un biglietto da venti dollari, ancora quando erano una novità, appena messi in circolazione. Ma è stata una follia momentanea. Non ci sono ricascato.» «Almeno finora», notò Monette. Il sacerdote fece un risolino. «Detto da un uomo che si è veramente bruciato le dita, figliolo... Per non parlare del suo amor proprio e del suo cuore.» Sospirò. «La tua storia mi affascina, ma mi domando se non si possa andare un po' più veloci. La mia compagnia aspetterà che io faccia il lavoro del Signore, ma non per sempre. E credo che abbiamo in programma insalata di pollo, annegata nella maionese. Uno dei miei piatti preferiti.» «Non c'è più molto», ribatté Monette. «Se ha giocato, sa come funziona. I biglietti del gratta e vinci si comprano negli stessi posti dove vendono quelli del Powerball e del Megabucks, ma li trovi anche in un sacco di altri posti, comprese le stazioni di sosta dell'autostrada. Non hai nemmeno bisogno di avere a che fare con un commesso, perché ci sono le macchinette. Che sono sempre verdi, il colore dei soldi. Al momento che Barb ha deciso
di vuotare il...» «Di confessare», lo corresse il sacerdote con quello che poteva essere un pizzico di gigioneria. «Sì, certo. Al momento che ha confessato, si erano più o meno assestati sui gratta e vinci da venti dollari. Barb ha detto che lei non ne comprava mai quand'era da sola ma che ne compravano parecchi quando erano insieme. Sperando nel colpo grosso, sa? Ha detto che una volta hanno comprato cento biglietti in una sola sera. Stiamo parlando di duemila dollari. Ne hanno recuperati ottanta. Ciascuno aveva il suo piccolo grattino di plastica. Sembrano raschietti da ghiaccio in miniatura e sul manico c'è scritto MAINE-LOTTERIA. Sono verdi, lo stesso verde delle macchinette che vendono i biglietti. Mi ha mostrato il suo, era sotto il letto nella stanza degli ospiti. Si leggeva solo ERIA. Poteva essere MISERIA invece di LOTTERIA. Il sudore della sua mano aveva cancellato il resto.» «Le hai messo le mani addosso, figliolo? È per questo che sei qui?» «No», rispose Monette. «Volevo ucciderla per quel che aveva fatto, i soldi, non la storia con il suo cowboy, questa parte mi sembrava solo irreale, anche con tutta quella ca... quella biancheria intima davanti agli occhi. Ma non l'ho sfiorata nemmeno con un dito. Credo sia stato perché ero così stanco. Quella valanga di rivelazioni mi aveva spossato. Avevo solo voglia di schiacciare un pisolino. Di quelli lunghi. Magari due giorni di fila. È strano?» «No», disse il sacerdote. «Le ho chiesto come avesse potuto fare una cosa come quella. Le importava così poco? E lei ha chiesto a me...» 10 «Ha chiesto a me com'era possibile che non lo sapessi», raccontò Monette all'autostoppista. «E prima che potessi aprir bocca si è risposta da sé, quindi immagino che fosse una, come si chiama... una domanda retorica. Ha detto: 'Non lo sapevi perché non ti importava. Eri quasi sempre in viaggio e quando non eri in viaggio avresti voluto essere in viaggio. Sono dieci anni che non ti importa che biancheria intima ho indosso. E perché dovrebbe, quando non t'importa della donna che c'è dentro? Ma ti importa adesso, vero? Adesso sì'. «Dio mio, l'ho guardata senza fare niente. Ero troppo stanco per ucciderla, o anche solo prenderla a schiaffi, ma quella proprio non l'ho mandata
giù. Scioccato com'ero, ero anche incavolato nero. Stava cercando di rigirarmi la frittata. Hai capito, no? Voleva scaricare tutto sul mio lavoro. Come se avessi potuto trovarmene un altro che potesse fruttarmi anche solo la metà. Voglio dire, alla mia età che cos'altro posso fare? Immagino che potrei trovarmi un posto da vigile al passaggio pedonale della scuola, ho la fedina penale pulita, ma siamo lì, più lontano non si va.» Fece una pausa. In fondo alla strada, ancora nascosta quasi del tutto da un velo ondeggiante di pioggia, c'era un'insegna blu. Rifletté poi disse: «Ma nemmeno quello era il punto. Vuoi sentire qual era? Il suo punto? Dovevo sentirmi in colpa del fatto che il mio lavoro mi piaceva. Perché non trascinavo la mia vita da un giorno all'altro finché non avessi trovato la persona giusta con cui dare completamente fuori di cotenna!» L'autostoppista si mosse leggermente, probabilmente perché erano sobbalzati su una irregolarità del fondo stradale (o sul cadavere di un animale), ma fu grazie a quello che Monette si accorse che stava gridando. Chissà, forse quell'uomo non era sordo del tutto. Anche se lo fosse stato era comunque possibile che, una volta che i suoni superavano un certo livello di decibel, ne avvertisse le vibrazioni nelle ossa. Chi cazzo poteva dirlo? «Non l'ho seguita su quella strada», riprese Monette a un volume di voce più basso. «Mi sono rifiutato di seguirla. Credo che sapessi che se lo avessi fatto, se ci fossimo messi davvero a litigare, sarebbe potuto succedere di tutto. Io volevo andarmene da lì mentre ero in stato di choc, perché era un modo per proteggerla, vedi?» L'autostoppista non vide niente, ma Monette vide per entrambi. «'E adesso?' le ho chiesto e lei: 'Immagino che mi arresteranno'. E sai una cosa? Se in quel momento si fosse messa a piangere, forse l'avrei presa tra le braccia. Perché dopo ventisei anni di matrimonio cose come quelle diventano un riflesso. Anche quando non ci sono più sentimenti. Ma lei non ha pianto, così io me ne sono andato. Mi sono girato e sono uscito. E quando sono tornato c'era un messaggio che mi informava che era andata via lei. Questo è stato un paio di settimane fa e da allora non l'ho più vista. Le ho parlato solo qualche volta al telefono. Ho parlato anche con un avvocato. Ho congelato tutti i conti che abbiamo in comune, non che serva a niente quando si metterà in moto la macchina legale, cosa che accadrà presto. E saranno fuochi artificiali da trasformare la notte in giorno, se mi intendi. Allora immagino che la vedrò di nuovo. In tribunale. Lei e il suo Cazzone Cowboy Bob.»
Ora leggeva l'insegna blu: AREA DI SOSTA PITTSFIELD 3 KM. «Ah, merda», proruppe. «Abbiamo passato Waterville di una ventina di chilometri, amico.» E quando il sordomuto non reagì (naturalmente), Monette si rese conto di non sapere se fosse veramente diretto a Waterville. Non di sicuro. In ogni caso era ora di chiarire. L'area di sosta andava benissimo, ma per un minuto o due sarebbero stati ancora chiusi in quel confessionale itinerante e riteneva di avere ancora da aggiungere qualcosa. «È vero che da parecchio tempo non provavo più molto per lei», ammise. «Certe volte l'amore si esaurisce. Ed è anche vero che non sono stato del tutto fedele, mi sono preso qualche piccolo conforto da viaggio di tanto in tanto. Ma quello non merita questo, no? Non giustifica che una donna faccia saltare in aria una vita intera come un bambino farebbe scoppiare una mela marcia con un petardo.» Entrò nell'area di sosta. Nel parcheggio c'erano forse quattro automobili, a ridosso della palazzina con i distributori automatici schierati sul lato strada. Guardandole, Monette pensò a bambini intirizziti abbandonati sotto la pioggia. Parcheggiò. L'autostoppista gli rivolse uno sguardo interrogativo. «Dove vai?» chiese Monette sapendo che era inutile. L'autostoppista rifletté. Si guardò intorno e vide dov'erano. Guardò di nuovo Monette come per dire: Non qui. Monette puntò il dito verso sud e inarcò le sopracciglia. Il sordomuto scosse la testa e indicò a nord. Aprì e chiuse i pugni mostrando le dita otto volte... dieci... come aveva fatto prima, insomma. Ma questa volta Monette interpretò. Pensò che per quel tizio la vita sarebbe stata più semplice se qualcuno gli avesse insegnato il simbolo dell'otto coricato che significa infinito. «Fondamentalmente te ne vai a zonzo, giusto?» lo apostrofò. Il sordomuto si limitò a fissarlo. «Eh sì», annuì Monette. «Allora facciamo così. Tu hai ascoltato la mia storia, anche se non sapevi di ascoltarla, e io ti porto fino a Derry.» Gli venne un'idea. «Anzi, ti porto all'ostello di Derry. Dove ti daranno qualcosa di caldo da metterti in corpo e una branda dove dormire almeno per una notte. Io devo andare a svuotarmi. Tu hai bisogno di svuotare?» Il sordomuto lo guardò con paziente incomprensione. «Svuotare» insisté Monette. «Una pisciata.» Fece per indicarsi l'inguine e si rese conto di dov'erano. Pensò che un vagabondo avrebbe creduto che gli stesse chiedendo un pompino proprio lì, di fianco a un distributore di
snack. Gli indicò allora i disegnini sulla palazzina, un omino nero e una donnina nera. L'uomo era a gambe aperte, la donna teneva le sue unite. Più o meno la storia del genere umano nel linguaggio dei segni. E questa volta fece breccia. Il suo passeggero scosse con decisione la testa, poi per buona misura gli mostrò il segno di okay. E Monette si ritrovò alle prese con un problema delicato. Lasciare il Vagabondo Silenzioso in macchina mentre andava a sbrigare le sue necessità fisiologiche, o lasciarlo ad aspettare sotto la pioggia... nel qual caso avrebbe sicuramente capito perché gli era stato richiesto di scendere. Ma concluse che non era affatto un problema. In macchina non c'era denaro e il suo bagaglio personale era chiuso a chiave nel baule. C'erano i campionari sul sedile posteriore, ma gli riusciva proprio difficile figurarsi quel tizio che rubava due valigioni di una trentina di chili l'uno e se la batteva trotterellando dall'area di sosta. Tanto per dirne una, come avrebbe fatto a esibire il suo SONO MUTO? «Torno subito», dichiarò Monette e quando l'autostoppista si limitò a guardarlo con quegli occhi arrossati, indicò se stesso, indicò le icone della toilette e indicò nuovamente se stesso. Questa volta l'autostoppista annuì e unì di nuovo pollice con indice. Monette andò in bagno a orinare trattenendosi per un tempo che gli parve interminabile. Il sollievo fu squisito. Si sentì bene come non si era più sentito da quando Barb aveva fatto scoppiare la sua bomba. Pensò per la prima volta che ce l'avrebbe fatta. E avrebbe aiutato Kelsie a farcela. Ricordò una cosa che aveva detto un vecchio tedesco (o forse un russo, certamente c'era dentro una visione del mondo da russi): ciò che non mi uccide mi rende più forte. Tornò alla sua macchina fischiettando. Mentre passava mollò persino una pacca affettuosa alla macchinetta dei biglietti della lotteria. All'inizio pensò di non riuscire a vedere il suo passeggero perché si era sdraiato... nel qual caso avrebbe dovuto costringerlo a raddrizzarsi per potersi sedere al volante. Ma l'autostoppista non si era sdraiato. L'autostoppista se n'era andato. Aveva preso zaino e cartello e aveva tolto il disturbo. Lanciò un'occhiata al sedile posteriore e vide che i suoi campionari della Wolfe & Sons erano al loro posto. Guardò nello stipetto del cruscotto e vide che il suo esiguo contenuto - libretto di circolazione, ricevuta dell'assicurazione, tessera dell'associazione - c'era ancora. Del vagabondo restava soltanto un residuo di odore, nemmeno troppo sgradevole: sudore e pino, come se avesse dormito all'addiaccio nei boschi.
Pensò di ritrovarlo all'uscita dell'area di sosta a mostrare il suo cartello, girandolo pazientemente una volta di qui e una volta di là, in modo che il potenziale Buon Samaritano avesse l'elenco completo delle sue limitazioni. In tal caso si sarebbe fermato a caricarlo di nuovo. Aveva la sensazione di non aver portato a termine il lavoro. Consegnarlo all'ostello di Derry: quello sarebbe stato il modo giusto di completare il lavoro. Avrebbe chiuso la questione e chiuso il libro. Aveva anche cento difetti, ma quando cominciava una cosa gli piaceva finirla. All'uscita dell'area di sosta però l'autostoppista non c'era. Era svanito nel nulla. E fu solo oltrepassando il cartello che indicava Derry a dieci chilometri che alzò gli occhi allo specchietto retrovisore e vide che la sua medaglietta di san Cristoforo, compagna di tanti viaggi, non c'era più. Il sordomuto l'aveva rubata. Ma nemmeno quello incrinò l'ottimismo di Monette. Forse il sordomuto ne aveva bisogno più di lui. Monette sperò che gli portasse fortuna. Due giorni dopo - stava vendendo il miglior catalogo autunnale di sempre a Presque Isle - ricevette una telefonata dalla polizia statale del Maine. Sua moglie e Bob Yandowsky erano stati picchiati a morte al Grove Motel. L'assassino aveva usato una sezione di tubo avvolta in un asciugamano dell'albergo. 11 «Signore... Iddio!» esclamò sottovoce il sacerdote. «Sì», concordò Monette, «è pressoché quel che ho pensato io.» «Tua figlia?...» «Ha il cuore spezzato, naturalmente. È a casa con me. Ne verremo fuori, padre. Lei è ancora più forte di me. E naturalmente non sa niente dei retroscena. L'appropriazione indebita. Con un po' di fortuna non lo saprà mai. Ci arriverà un bell'assegno dalla compagnia di assicurazioni, quello che chiamano doppio indennizzo. Considerato tutto quello che è successo prima, se non avessi un alibi di ferro credo che adesso sarei in pasticci seri con la polizia. E se non ci fossero stati... degli sviluppi. Anche così sono stato interrogato non so quante volte.» «Figliolo, non è che hai pagato qualcuno perché...» «Anche questo mi hanno chiesto. Ma io ho messo a disposizione i miei conti correnti a chiunque voglia esaminarli. Posso rendere perfettamente conto di ogni singolo centesimo, sia per la parte dei miei risparmi persona-
li, sia per Barb. Economicamente era una persona più che responsabile. Almeno per il lato sano della sua vita. «Padre, potrebbe aprire un attimo? Voglio mostrarle una cosa.» Senza rispondere, il sacerdote aprì la porta dalla sua parte. Monette si sfilò dal collo la medaglietta di san Cristoforo e allungò il braccio fuori del confessionale. Le loro dita si toccarono per un istante mentre la medaglietta e il suo mucchietto di catenella passavano dall'uno all'altro. Ci fu silenzio per cinque secondi mentre il prete rifletteva. «Questa ti è stata restituita quando?» domandò alla fine. «È stato al motel dove?...» «No», lo precedette Monette. «Non al motel. Alla casa di Buxton. Sul comò di quella che una volta era la nostra camera da letto. Di fianco alla foto delle nostre nozze, per la precisione.» «Buon Dio», mormorò il prete. «Può aver preso l'indirizzo dal mio libretto di circolazione mentre io ero in gabinetto.» «E naturalmente tu avevi fatto il nome del motel... e della città...» «Dowrie», confermò Monette. Per la terza volta il sacerdote invocò il nome del suo Principale. «Dunque quell'uomo non era affatto sordomuto», concluse poi. «Sono quasi certo che fosse muto», ribatté Monette, «ma di sicuro non era sordo. C'era un messaggio accanto alla medaglietta, su un foglietto strappato dal taccuino del telefono. Tutto questo dev'essere successo mentre io e mia figlia eravamo alle pompe funebri a scegliere la cassa. La porta posteriore era aperta ma non forzata. Forse è stato abbastanza abile da far scattare la serratura senza manometterla, ma io credo di averla dimenticata aperta quando siamo usciti.» «Cosa diceva il messaggio?» «'Grazie per lo strappo'», disse Monette. «Che mi venga...» Silenzio pensieroso, poi un bussare leggero alla porta del confessionale in cui sedeva a contemplare POICHÉ TUTTI HANNO PECCATO E HANNO MANCATO LA GLORIA DI DIO. Monette prese la medaglietta. «Lo hai detto alla polizia?» «Sì, certo. Tutta quanta la storia. Credono di sapere chi è. Conoscono il cartello. Si chiama Stanley Doucette. Sono anni che gira il New England con quel cartello. Un po' come me, ora che ci penso.» «Qualche precedente di violenza?» «Qualcosa», rispose Monette. «Risse perlopiù. Una volta ha picchiato
abbastanza duramente un uomo in un bar ed è entrato e uscito da vari istituti per malattie mentali, anche Serenity Hill ad Augusta. Non credo che la polizia mi abbia raccontato tutto.» «Tu vuoi sapere tutto?» Monette rifletté, poi rispose: «No». «Non hanno preso quest'uomo.» «Dicono che è solo questione di tempo. Dicono che non è molto sveglio. Ma è stato abbastanza sveglio da prendere per il naso me.» «Ti ha veramente ingannato, figliolo? Oppure sapevi di parlare a un orecchio che ti stava ascoltando? Mi sembra che questa sia la domanda chiave.» Monette tacque per molto tempo. Non sapeva se avesse sinceramente indagato il proprio cuore prima d'allora, ma sentiva che stava indagando adesso e sotto una luce più potente. Non che gli piacesse tutto quello che ci stava trovando, però indagava, questo sì. Senza tralasciare quello che vedeva. Almeno non di proposito. «No», dichiarò. «E sei contento che tua moglie e il suo amante siano morti?» Nel proprio cuore Monette rispose immediatamente sì. A voce alta disse: «Sono risollevato. Mi spiace dirlo, padre, ma considerato il pasticcio che ha combinato... e il modo in cui ora si risolveranno le cose, senza un processo e con una restituzione in via privata grazie ai soldi dell'assicurazione... be', sono risollevato. È un peccato?» «Sì, figliolo. Desolato di doverti dare la brutta notizia, ma lo è.» «Mi può assolvere?» «Con dieci Padre Nostro e dieci Ave Maria», rispose spigliato il sacerdote. «I Padre Nostro sono per la mancanza di carità... Un peccato grave, ma non mortale.» «E le Ave Maria?» «Per il linguaggio volgare nel confessionale. Prima o poi bisognerà affrontare il problema dell'adulterio, il tuo, non il suo, per il momento...» «Ha un appuntamento a pranzo. Capisco.» «Per la verità ho perso l'appetito, anche se renderò certamente omaggio alla mia compagnia. Il fatto è che credo di essere un po' troppo... troppo scosso per occuparmi in questo momento del tuo cosiddetto conforto da viaggio.» «Comprendo.» «Bene. Ora, figliolo...»
«Sì?» «Non per ostinazione, ma sei proprio sicuro di non aver dato licenza a quell'uomo? O di non averlo in qualche modo incoraggiato? Perché in tal caso credo che si tratterebbe di peccato mortale e non veniale. Dovrei consultarmi con il mio personale padre spirituale per esserne sicuro, ma...» «No, padre. Ma lei crede... crede possibile che Dio abbia messo quell'uomo sulla mia macchina?» Nel suo cuore il sacerdote rispose immediatamente sì. A voce alta disse: «Queste sono parole blasfeme. Buone per altri dieci Padre Nostro. Non so per quanto tempo sei rimasto lontano, ma dovresti saperlo bene anche tu. Ora vuoi aggiungere qualcos'altro e accollarti qualche altra Ave Maria, o qui abbiamo finito?» «Abbiamo finito, padre.» «Allora ti assolvo nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Riprendi la tua strada e non peccare più. E abbi cura di tua figlia. I figli hanno una madre sola, comunque si sia comportata.» «Sì, padre.» Dietro la griglia l'ombra si mosse. «Posso farti un'ultima domanda?» Monette tornò a sedersi suo malgrado. Voleva andarsene. «Sì.» «Hai detto che la polizia pensa che prima o poi prenderà quest'uomo.» «Sostengono che sia solo questione di tempo.» «La mia domanda è: tu vuoi che la polizia prenda quest'uomo?» E poiché ciò che veramente voleva era andarsene e recitare le sue preghiere di pentimento nell'ancor più intimo confessionale della sua automobile tornando a casa, dove lo aspettava sua figlia, Monette rispose: «Ma certamente». In viaggio aggiunse due Ave Maria e due Padre Nostro. Ayana Pensavo che non avrei mai raccontato questa storia. Mia moglie era contraria, diceva che nessuno mi avrebbe creduto e che mi avrebbe procurato solo imbarazzo. Quello che intendeva, naturalmente, è che avrebbe imbarazzato lei. «E Ralph e Trudy allora?» le chiesi. «Loro c'erano. Hanno assistito anche loro.» «Trudy gli dirà di tenere la bocca chiusa», mi rispose Ruth. «E tuo fratello si farà convincere in fretta.» Questo ovviamente era vero. All'epoca Ralph era il soprintendente al di-
stretto amministrativo scolastico 43 del New Hampshire e l'ultima cosa al mondo che può desiderare un burocrate del dipartimento all'Educazione di un piccolo stato è finire nei notiziari di qualche TV via cavo nei brevi minuti finali riservati agli UFO avvistati nei cieli di Phoenix e ai coyote che sanno contare fino a dieci. E poi una storia di miracoli non vale molto senza quello che i miracoli li fa e Ayana non c'è più. Ora però mia moglie è morta, ha avuto un infarto mentre si recava in Colorado in aereo a dare una mano con il nostro primo nipotino ed è morta quasi sul colpo. (O così dissero quelli della compagnia aerea, ma è anche vero che di questi tempi non puoi fidarti di loro nemmeno per i bagagli.) Non c'è più nemmeno mio fratello Ralph, stroncato mentre partecipava a un torneo di golf per ultrasenior, e Trudy è andata di testa. Mio padre ci ha lasciati da tempo; se fosse ancora vivo avrebbe l'inimmaginabile età di centodieci anni. Io sono l'unico superstite e quindi, alla fine, racconterò la storia. Che è davvero incredibile. Su questo Ruth aveva ragione e in ogni caso non significa niente: i miracoli non funzionano mai, eccetto che per fortunati svitati che li vedono dappertutto. Ma è interessante. Ed è vera. L'abbiamo visto tutti. Mio padre stava morendo di cancro al pancreas. Io credo che si riesca a conoscere molto di una persona ascoltando come parla di questo tipo di situazione (e il fatto che io definisca il «cancro» come «questo tipo di situazione» vi dirà probabilmente qualcosa del vostro narratore, che ha trascorso la vita a insegnare inglese a ragazzi e ragazze i cui più gravi problemi di salute sono l'acne e gli infortuni nelle attività sportive). «Ha quasi finito il suo viaggio», disse Ralph. «Lo ha straziato», disse mia cognata Trudy. (Avevo capito «saziato» e il commento mi era sembrato dolorosamente poetico. Sapevo che non poteva essere giusto, non da lei, ma volevo che lo fosse.) «Sta andando», disse Ruth. Io non dissi: «E prima se ne va meglio è», ma lo pensai. Perché soffriva. Questo avveniva venticinque anni fa, nel 1982, e il dolore era ancora un elemento accettato nel cancro all'ultimo stadio. Ricordo di aver letto una decina di anni dopo che la maggior parte dei malati di cancro se ne va in silenzio perché è troppo debole per gridare. Riportò alla mia memoria così vivo il ricordo della stanza in cui era morto mio padre, che andai in bagno e mi inginocchiai davanti alla tazza sicuro che avrei vomitato. Invece mio padre morì quattro anni dopo, nel 1986. Ormai viveva in un
centro di assistenza per anziani e alla fine non fu il cancro al pancreas a portarselo via. Morì soffocato da un boccone di bistecca. Ve l'ho detto, è interessante. Don «Doc» Gentry e sua moglie Bernadette - mio padre e mia madre - si ritirarono a vivere in un quartiere residenziale di Ford City non lontano da Pittsburgh. Dopo la morte di sua moglie, Doc pensò per un po' di trasferirsi in Florida, concluse che non se lo poteva permettere e rimase in Pennsylvania. Quando gli fu diagnosticato il cancro, trascorse un breve periodo in ospedale, dove spiegò ripetutamente che il suo soprannome gli veniva dagli anni in cui aveva praticato da veterinario. Dopo che ebbe spiegato questa circostanza a tutti coloro che volevano prestargli orecchio, fu rispedito a morire a casa e la famiglia che gli era rimasta - Ralph, Trudy, Ruth e io - si installò a Ford City per stargli vicino negli ultimi momenti. Ricordo molto bene la sua camera sul retro. Sul muro c'era un'immagine di Cristo che chiamava a sé i pargoli. Per terra c'era un tappeto che aveva confezionato mia madre: sfumature di verde nausea, non uno dei suoi migliori. Accanto al letto c'era l'asta della flebo con una decalcomania dei Pittsburgh Steelers. Ogni giorno mi avvicinavo a quella stanza con disagio crescente e ogni giorno le ore che vi trascorrevo diventavano più lunghe. Ricordavo Doc seduto in veranda quando noi eravamo ancora piccoli, a Darby, nel Connecticut: una lattina di birra in una mano, un sigaro nell'altra, le maniche di una maglia di un bianco accecante rimboccate due volte a mettere in mostra la curva levigata dei bicipiti e la rosa tatuata subito sopra il gomito sinistro. Apparteneva a una generazione che non trovava affatto strano girare in blue-jeans scuri e non scoloriti... e che i jeans li chiamava «dungarees». Portava i capelli alla Elvis e aveva un che di leggermente pericoloso, come un marinaio dopo i due primi bicchieri di una franchigia che finirà male. Era un uomo alto che camminava come un gatto. E ricordo un ballo all'aperto d'estate a Darby quando lui e mia madre fermarono tutti esibendosi in un jitterbug sul ritmo di Pretty Little Angel Eyes interpretata da Curtis Lee e gli Halos. Credo che Ralph avesse avuto sedici anni e io undici. Guardammo i nostri genitori a bocca aperta e fu allora che capii che di notte lo facevano, lo facevano nudi e senza pensare a noi. A ottant'anni, dimesso dall'ospedale, il mio vagamente minaccioso e aggraziato genitore era solo uno scheletro in pigiama (il suo era tempestato di caschi degli Steelers). I suoi occhi erano affondati sotto i cespugli incolti
delle sopracciglia. Sudava costantemente nonostante i due ventilatori e l'odore che saliva dalla sua pelle umida mi ricordava la tappezzeria vecchia di una casa abbandonata. Il suo alito era nero dell'aroma della decomposizione. Io e Ralph eravamo tutt'altro che ricchi, ma mettendo insieme le nostre risorse con quel che restava dei risparmi di Doc potemmo assumere un'infermiera part time e una governante che veniva cinque volte alla settimana. Furono brave nel tenere il mio vecchio pulito e con indumenti sempre freschi addosso. Ma appunto quando mia cognata commentò dicendo che la malattia aveva saziato Doc (a me piace continuare a pensarla così), la Battaglia degli Odori giungeva alla resa dei conti. La vecchia, coriacea professionista Merda era in netto vantaggio sulla matricola Baby Powder Johnson; presto, pensavo, sarebbe intervenuto l'arbitro a sospendere l'incontro. Doc non era più in grado di andare in bagno (che lui invariabilmente chiamava «cesso»), così usava i pannoloni. Era ancora abbastanza lucido da saperlo e provarne vergogna. Ogni tanto dall'angolo dell'occhio gli scappava una lacrima e dalla gola che un tempo dispensava nel mondo: «Ehi, bel fiore», uscivano versi semimasticati di disperato, disgustato divertimento. Cominciò il dolore, partì dallo stomaco e da lì si irradiò dappertutto, finché cominciò a lamentarsi che gli facevano male persino le palpebre e i polpastrelli. Gli antidolorifici smisero di fare effetto. L'infermiera avrebbe potuto incrementare il dosaggio, ma così facendo avrebbe potuto anche ucciderlo e non ne volle sapere. Io ero pronto a dargliene di più anche a rischio di ucciderlo e lo avrei fatto, con il sostegno di Ruth, ma mia moglie non era tipo da rendersi complice di iniziative di quel genere. «Se ne accorgerà», disse Ruth alludendo all'infermiera, «e allora sarai nei guai.» «È mio padre», protestai io. «Non basterà a fermarla», insisté Ruth. Era sempre stata una persona da bicchiere mezzo vuoto. Non era per il modo in cui era stata cresciuta; era per come era nata. «Lo riferirà. Potresti finire in prigione.» Così non lo uccisi. Nessuno di noi lo uccise. Quello che facemmo fu ammazzare il tempo. Leggevamo a voce alta per lui senza sapere quanto capisse. Lo cambiavamo e tenevamo aggiornata la cartella farmacologica appesa al muro. Faceva un caldo malefico e spostavamo periodicamente i due ventilatori nella speranza di creare un benefico incrocio di correnti d'aria. Guardammo le amichevoli precampionato degli Steelers su un piccolo
televisore a colori che rendeva il prato viola e io gli dicevo che quell'anno gli Steelers si presentavano più forti che mai. Parlavamo tra di noi del suo profilo sempre più affilato. Lo guardavamo soffrire e aspettavamo che morisse. E un giorno, mentre dormiva russando, alzai gli occhi dalla mia antologia e vidi ferme sulla porta della stanza un donnone nero e una bambina nera con gli occhiali scuri. Quella bambina... la ricordo come fosse ieri. Credo che potesse aver avuto sette anni, anche se era estremamente piccola per la sua età. Minuta. Indossava un vestitino rosa che le si fermava sopra le ginocchia nodose. Su uno stinco altrettanto nodoso aveva un cerotto con i personaggi dei cartoon della Warner Bros.; ricordo Yosemite Sam, con i suoi baffoni rossi e una pistola per mano. Gli occhiali scuri sembravano pescati dai premi di consolazione. Erano troppo grandi e le erano scivolati sulla punta del nasino a patata, rivelando occhi fissi, con le palpebre pesanti, come avviluppati in una pellicola cerulea. I capelli erano a treccine. Appesa a un braccio aveva una borsetta rosa di plastica da bambina, con l'apertura laterale. Le scarpe da ginnastica che aveva ai piedi erano sporche. La sua pelle non era proprio nera, quanto grigiastra e liscia. Era in piedi, ma per tutto il resto sembrava malata quanto mio padre. La donna, la ricordo meno chiaramente, perché troppa della mia attenzione era stata attratta dalla bambina. La donna poteva avere quaranta o sessant'anni. Aveva un compatto taglio afro e un aspetto sereno. Oltre a questo non ricordo nulla, neppure il colore del vestito... posto che indossasse un vestito. Credo di sì, ma forse era in pantaloni. «Chi siete?» chiesi. Il tono era da imbambolato, come se invece di leggere mi fossi destato da un sonnellino, anche se naturalmente un'analogia c'è. Meno di un secondo dopo Trudy chiese la stessa cosa da dietro la donna e la bambina. La sua voce era di una persona molto sveglia. E da dietro di lei, in un tono da oh-santa-pazienza, Ruth disse: «La porta si deve essere aperta da sola, quella serratura non scatta mai a dovere. Avranno visto aperto e saranno entrate». Ralph, al fianco di Trudy, lanciò un'occhiata all'indietro. «Adesso è chiusa. L'avranno chiusa loro.» Come se fosse un punto in suo favore. «Non potete entrare qui», disse Trudy alla donna. «Abbiamo da fare. C'è una persona malata qui. Non so che cosa volete, ma dovete andare via.» «Non si può entrare così in casa altrui», fece eco Ralph. Erano tutti e tre stipati davanti alla porta della camera di mio padre.
Ruth batté la punta delle dita sulla spalla della donna e senza tanti complimenti. «Se non volete che chiamiamo la polizia, ve ne dovete andare. Volete che la chiamiamo?» La donna non le badò. Spinse avanti la bambina e disse: «Dritta per di lì. Quattro passi. C'è un paletto, attenta a non inciampare. Fammi sentire che conti». La bambina contò così: «Uno... due... ol-tre... quattro», scavalcando la gamba metallica dell'asta della flebo sull'ol-tre senza nemmeno abbassare lo sguardo. Sicuramente senza vedere niente attraverso le lenti sudice del suo sproporzionato premio di consolazione. Non da quegli occhi lattiginosi. Mi passò abbastanza vicino perché il suo vestitino mi sfiorasse l'avambraccio come un pensiero. Puzzava di sporcizia e sudore. E, come Doc, di malattia. Aveva macchie scure su entrambe le braccia. Non croste, ma ulcere. «Fermala!» mi gridò mia cognata, ma io non lo feci. Tutto questo avvenne molto velocemente. La bambina si chinò e baciò la guancia incavata e ruvida di mio padre. Un bacio grosso, non un bacino. Un bacio schioccante. Mentre lo baciava la sua borsetta di plastica oscillò toccandogli la testa e mio padre aprì gli occhi. Più tardi Trudy e Ruth sostennero che era stata la botta della borsetta a destarlo dal suo torpore. Ralph ne era meno sicuro e io non lo credevo per niente. Non aveva fatto il minimo rumore nel toccarlo, niente di niente. Non c'era nulla in quella borsettina se non forse un fazzolettino di carta. «Chi sei, piccola?» domandò mio padre nel suo rantolo da uomo in agonia. «Ayana», rispose la bambina. «Io sono Doc.» La guardò da quelle caverne scure dove ormai viveva, ma con più comprensione di quanto gli avessi visto nelle due settimane di soggiorno a Ford City. Era arrivato al punto che nemmeno un passaggio da settanta iarde di Terry Bradshaw riusciva a incrinare il vetro sempre più rigido dei suoi occhi. Trudy scostò il donnone per passare e stava per scostare anche me, con l'intenzione di andare a prendere la bimba che aveva improvvisamente reclamato le attenzioni del suocero morente, ma io l'afferrai per un braccio. «Aspetta.» «Come sarebbe aspetta? Sono entrate senza permesso!» «Sono malata, devo andare», disse la bambina. Poi lo baciò di nuovo e
indietreggiò. Questa volta inciampò nel piede dell'asta quasi rovesciandola e cadendo lei stessa. Trudy sostenne il trespolo e io sostenni la bambina. Non aveva addosso niente, solo pelle tirata su una complessa armatura di ossa. I suoi occhiali mi caddero in grembo e per un istante quegli occhi lattiginosi si fissarono nei miei. «Tu starai bene», disse Ayana e mi toccò la bocca con il palmo minuscolo. Bruciava come un tizzone ma io non mi ritrassi. «Tu starai bene.» «Vieni, Ayana», la richiamò la donna. «Dobbiamo lasciare queste persone. Due passi. Fammi sentire che conti.» «Uno... due...» contò Ayana, rimettendosi gli occhiali e quindi spingendoseli su per il naso dove non sarebbero rimasti a lungo. La donna la prese per mano. «Che per voi tutti sia una giornata benedetta», disse e guardò me. «Mi spiace per lei», aggiunse, «ma i sogni di questa bambina sono finiti.» Riattraversarono il soggiorno mano nella mano. Ralph tenne loro dietro come un cane pastore, credo per assicurarsi che non rubassero niente. Ruth e Trudy erano chine su Doc che aveva ancora gli occhi aperti. «Chi era quella bambina?» chiese lui. «Non lo so, papà», rispose Trudy. «Non ci pensare.» «Voglio che torni qui», disse lui. «Voglio un altro bacio.» Ruth si girò verso di me con la faccia brutta. «Gli ha strappato via la flebo... sanguina... e tu te ne sei rimasto seduto lì.» «Gliela rimetto», risposi e fu come se parlasse qualcun altro. Dentro di me c'era un uomo in disparte, muto e stordito. Sentivo ancora la pressione calda del suo palmo sulla mia bocca. «Oh, lascia stare! Ho già fatto io.» Tornò Ralph. «Sono uscite», annunciò «Stanno andando alla fermata dell'autobus.» Si rivolse a mia moglie. «Vuoi davvero che chiami la polizia, Ruth?» «No. Passeremmo tutto il giorno a riempire moduli e rispondere alle loro domande.» Fece una pausa. «Potremmo addirittura dover testimoniare in tribunale.» Come ho già detto, era una persona da bicchiere mezzo vuoto. «Testimoniare su cosa?» domandò Ralph. «Non so su cosa. Come faccio a saperlo? Qualcuno vuol prendere il nastro adesivo per fissare questo dannato ago? Credo che sia in cucina.» «Voglio un altro bacio», disse mio padre. «Vado io», mi offrii, ma prima andai alla porta di casa, che Ralph aveva chiuso a chiave, a guardare fuori. La piccola tettoia verde di plastica della
fermata era a un solo isolato ma non c'era nessuno accanto al cartello o sotto il riparo. Il marciapiede era deserto. Ayana e la donna, madre o tata, erano scomparse. Mi restava solo il contatto della bimba sulla bocca, ancora caldo, ma che cominciava a raffreddarsi. Ora viene la parte del miracolo. Non sarò sintetico - se devo raccontare questa storia, cercherò di raccontarla come si deve - ma nemmeno mi dilungherò. Le storie di miracoli sono sempre soddisfacenti ma raramente interessanti, perché sono tutte uguali. Alloggiavamo in uno dei motel sulla via principale di Ford City, un Ramada Inn con le pareti sottili. Ralph indispettiva mia moglie chiamandolo Trombada Inn. «Continua così e finisce che senza accorgertene lo dici davanti a un estraneo», lo rimproverò Ruth. «Poi ti ritroverai con la faccia rossa.» Le pareti erano sottili, così sentimmo Ralph e Trudy litigare nella stanza accanto su quanto stava venendo a costare loro quella trasferta. «È mio padre», disse Ralph, al che Trudy rispose: «Vallo a raccontare alla compagnia elettrica del Connecticut quando ci sarà da pagare la bolletta. O spiegalo alla commissione scolastica quando i tuoi giorni di malattia saranno finiti». Erano passate da poco le sette di una calda sera d'agosto. Presto Ralph sarebbe andato da mio padre, dove l'infermiera staccava alle otto. Io trovai i Pirates alla TV e alzai il volume per soffocare il deprimente e prevedibile battibecco che si svolgeva nella stanza attigua. Ruth ripiegava dei vestiti e mi diceva che la prossima volta che avessi comprato biancheria intima in saldo a un discount avrebbe chiesto il divorzio. O mi avrebbe mollato per mettersi con uno sconosciuto. Squillò il telefono. Era l'infermiera Chloe (così si faceva chiamare, come in: «Mandi giù un'altra cucchiaiata di questa minestra per l'infermiera Chloe, Doc»). Non perse tempo in preamboli. «Credo che fareste bene a venire subito», esordì. «Non solo Ralph per la notte. Dico tutti.» «Sta andando?» domandai. Ruth smise di ripiegare e mi si avvicinò. Mi posò una mano sulla spalla. Lo stavamo aspettando - per la verità lo speravamo - ma adesso che il momento era arrivato era così assurdo da far male. Quando avevo forse gli stessi anni della bambina cieca che si era introdotta in casa quel giorno, Doc mi aveva insegnato a usare un bolo-bouncer. Mi aveva pescato a fumare sotto la pergola e mi aveva detto, con dolcezza, senza arrabbiarsi, che era un vizio stupido e che avrei fatto bene a non la-
sciare che mi si attaccasse. L'idea che potesse non essere vivo domattina quando fosse arrivato il giornale? No, assurdo. «Non credo», rispose l'infermiera Chloe. «Sembra migliorato.» Fece una pausa. «Non ho mai visto niente di simile in vita mia.» Stava meglio. Quando arrivammo, un quarto d'ora dopo, era in soggiorno, seduto sul divano a guardare i Pirates sul televisore grande di casa, non di buona qualità, ma almeno con i colori giusti. Succhiava un frullato proteico da una cannuccia. Aveva un po' di colorito. Le sue guance sembravano un pochino più piene, forse perché si era appena sbarbato. Si era ripreso. Così pensai in quel momento e con il passare del tempo l'impressione è solo diventata più forte. E un'altra cosa sulla quale ci trovammo tutti d'accordo, persino la scettica Tommasina alla quale ero sposato: l'odore giallo che lo avvolgeva come etere fin dal giorno in cui i medici lo avevano rispedito a casa a morire non c'era più. Ci salutò tutti per nome e ci informò che Willie Stargeli aveva appena tirato un fuoricampo per i Buckos. Io e Ralph ci scambiammo un'occhiata come per confermarci a vicenda di essere veramente lì. Trudy si sedette di fianco a Doc, ma potrei meglio dire che gli piombò a sedere accanto. Ruth andò in cucina a prendersi una birra. Un miracolo in sé. «Ne berrei volentieri una anch'io, Ruthie», disse mio padre e poi, scambiando probabilmente per disapprovazione la mia smorfia di smarrimento e costernazione: «Mi sento meglio. La pancia non mi fa quasi più male». «Niente birra per lei, Doc», intervenne l'infermiera Chloe. Era seduta in poltrona davanti al divano e non dava segno di volersi preparare ad andar via, un cerimoniale che di solito aveva inizio venti minuti prima della fine del suo turno. La sua irritante autorevolezza da fallo-per-la-mamma stava vacillando. «Quand'è cominciata?» chiesi, senza sapere bene a che cosa mi stessi riferendo, visto che il miglioramento era così generale. Ma se avessi dovuto scegliere qualcosa di specifico, penso che avrei alluso alla scomparsa del cattivo odore. «Stava migliorando quando ce ne siamo andati oggi pomeriggio», mi rispose Trudy. «Solo che non ci ho creduto.» «Carpiate», sbottò Ruth. Era il massimo di imprecazione che concedeva a se stessa. Trudy non le diede retta. «È stata quella bambina», affermò. «Carpiate!» proruppe Ruth.
«Quale bambina?» volle sapere mio padre. Era l'intervallo tra due inning. In televisione un tizio senza capelli, con i denti grandi e occhi da matto, ci stava dicendo che al Juker i tappeti erano così a buon mercato che praticamente te li regalavano. Con tanto di vendita rateale a tasso zero. Prima che qualcuno di noi potesse rispondere a Ruth, Doc chiese all'infermiera Chloe se poteva avere mezza birra. Lei non glielo consentì. Ma i giorni dell'autorità dell'infermiera Chloe in quella casa erano giunti al termine e nei quattro anni seguenti, prima che un pezzo di carne malmasticato gli fermasse la gola per sempre, mio padre bevve un gran numero di birre. E se le godette tutte, spero. La birra è un miracolo in sé. Fu quella notte, mentre eravamo sdraiati insonni sul nostro letto duro al Trombada Inn ad ascoltare il fracasso del condizionatore, che Ruth mi disse di tenere la bocca chiusa sulla bambina cieca, che lei non chiamava Ayana ma «la maglietta negra» in un antipatico tono sarcastico che proprio non era da lei. «E poi non durerà», aggiunse. «Certe volte la luce di una lampadina diventa più intensa prima che il filamento bruci per sempre. Sono sicura che succede anche alle persone.» Sarà, ma il miracolo di Doc Gentry resse. Alla fine della prima settimana passeggiava nel giardino dietro casa, con me o Ralph a sostenerlo. Dopodiché tornammo tutti ai nostri ovili. La prima sera mi telefonò l'infermiera Chloe. «Non ci andiamo, dovesse stare anche peggio che da cani», protestò Ruth quasi isterica. «Diglielo.» Ma l'infermiera Chloe voleva solo informarmi di aver visto per caso Doc uscire dalla clinica veterinaria di Ford City, dove era andato a tenere un consulto con il nuovo medico su un cavallo che aveva la cenurosi. Aveva il suo bastone, disse, ma non lo stava usando. L'infermiera Chloe disse di non aver mai visto un uomo «della sua età» così arzillo. «Occhi vispi e coda dritta», disse. «Ancora non ci credo.» Un mese dopo faceva il giro dell'isolato (senza bastone) e quell'inverno prese ad andare a nuotare in piscina tutti i giorni. Sembrava un uomo di sessantacinque anni. Lo dicevano tutti. Dopo il suo recupero parlai all'intera équipe medica di mio padre. Lo feci perché quello che gli era successo mi ricordava i cosiddetti «miracoli» che erano di gran moda nei borghi rurali dell'Europa medievale. Mi dicevo
che se avessi cambiato il nome a papà, o lo avessi chiamato semplicemente signor G., avrei potuto ricavarne un articolo interessante per qualche rivista. Forse era anche vero, più o meno, ma non scrissi mai l'articolo. Il primo a sventolare la bandiera rossa era stato Stan Sloan, il medico di famiglia di Doc. Aveva mandato Doc all'istituto oncologico dell'Università di Pittsburgh, cosicché poté incolpare della successiva diagnosi sbagliata i dottori Retif e Zamachowski, che lì avevano avuto in cura mio padre. Costoro a loro volta scaricarono la responsabilità ai radiologi che avevano fornito loro immagini poco chiare. Retif dichiarò che il primario di radiologia era un incompetente, incapace di distinguere un pancreas da un fegato. Chiese di non essere citato, ma dopo venticinque anni presumo che il suo veto sia scaduto. Il dottor Zamachowski disse che si trattava di un semplice caso di malformazione organica. «Non sono mai stato molto convinto della diagnosi originale», confidò. Parlai con Retif per telefono, con Zamachowski di persona. Sotto il camice bianco aveva una maglietta rossa su cui intravedevo la scritta che mi sembrava fosse: PREFERIREI GIOCARE A GOLF. «Ho sempre pensato che fosse Von Hippel-Lindau..» «Non lo avrebbe ucciso anche quello?» domandai. Zamachowski mi rivolse il sorriso misterioso che i medici riservano agli idraulici, alle massaie e agli insegnanti d'inglese come me, che non ci capiscono niente, poi annunciò d'essere in ritardo per un appuntamento. Quando parlai al primario di radiologia, costui si strinse nelle spalle. «Qui noi siamo responsabili delle fotografie, non delle interpretazioni», si giustificò «Di qui a dieci anni useremo attrezzature grazie alle quali errori come questo saranno praticamente impossibili. Intanto perché non si rallegra del fatto che il suo babbo è ancora vivo? Se lo goda.» Da questo punto di vista feci del mio meglio. E durante la mia breve inchiesta, che io naturalmente definivo ricerca, appresi un fatto interessante: la definizione medica di «miracolo» è «diagnosi sbagliata». Il 1983 fu il mio anno sabbatico. Avevo un contratto con un editore di testi scolastici per un libro intitolato Insegnare l'ininsegnabile: Strategie di scrittura creativa, ma come il mio articolo sui miracoli medievali non fu mai scritto. In luglio, quando io e Ruth stavamo programmando un viaggetto turistico, la mia orina diventò improvvisamente rosa. Il dolore venne dopo, prima in profondità nella natica sinistra, poi, diventando sempre più intenso, migrò all'inguine. Quando alla fine iniziai a orinare sangue - credo
che fosse quattro giorni dopo le prime fitte e quando stavo ancora giocando a quel famoso gioco conosciuto in tutto il mondo come Magari Va Via Da Solo - il dolore aveva abbandonato il livello di intenso per salire a quello di lancinante. «Sono sicura che non è cancro», dichiarò Ruth, che detto da lei significava che era sicura che lo fosse. Ancora più allarmante era l'espressione che le leggevo negli occhi. L'avrebbe negato anche sul letto di morte - era orgogliosa del suo senso pratico - ma io sono certo che in quel momento le venne il sospetto che il cancro scomparso in mio padre fosse passato a me. Non era cancro. Erano calcoli renali. Il mio miracolo si chiama litotripsia extracorporale a onde d'urto, la quale, abbinata a pillole diuretiche, li dissolse. Confidai al mio medico di non aver mai sofferto un dolore così in vita mia. «E credo che mai lo soffrirà, nemmeno se fosse colpito da un attacco coronarico», rispose lui. «Le donne che hanno avuto i calcoli paragonano il dolore a quello di un parto. Di un parto difficile.» Mentre aspettavo dal mio medico per la visita di controllo, ero ancora sofferente, ma in grado di leggere una rivista, e valutavo questo fatto come un grande miglioramento. Qualcuno mi si sedette accanto e mi disse: «Venga, su, è ora». Alzai gli occhi. Non era una donna e l'uomo in giacca e cravatta non era di colore, ma capii immediatamente perché era lì. Sentii anche con assoluta certezza che se non fossi andato con lui tutta la litotripsia di questo mondo non sarebbe bastata a guarirmi. Uscimmo. La receptionist non era al suo posto, così non dovetti spiegare la mia improvvisa diserzione. Non so poi cosa avrei potuto inventarmi. Che improvvisamente non avevo più bruciore alla vescica? Assurdo tanto quanto falso. L'uomo in giacca e cravatta era un trentacinquenne ben piantato, un ex marine, forse, che non era stato capace di rinunciare al taglio a spazzola. Non parlò. Girammo intorno all'ambulatorio dove esercita il mio medico e percorremmo un tratto di isolato fino al Groves of Healing Hospital, io che camminavo un po' piegato per il dolore, che non mordeva più ma non aveva smesso di ringhiare. Salimmo in pediatria e imboccammo un corridoio con i personaggi di Disney alle pareti e la marcetta It's A Small World diffusa dagli altoparlanti applicati al soffitto. L'ex marine camminava svelto, a testa alta, come se conoscesse il posto. Io no e lo pativo. Non mi ero mai sentito tanto distante
da casa mia e dalla vita che conoscevo. Se mi fossi staccato da terra e fossi salito al soffitto come un palloncino, di quelli che si regalano ai bambini malati, con su AUGURI DI PRONTA GUARIGIONE, non mi sarei stupito. In prossimità del banco degli infermieri, il mio nuovo conoscente (non fu mai amico) mi strinse il braccio per fermarmi finché l'infermiere maschio e la sua collega che lo presidiavano non furono occupati. Solo allora entrammo in un altro padiglione dove una bambina calva su una sedia a rotelle ci guardò con occhi imploranti. Allungò una mano. «No», disse l'ex marine costringendomi a proseguire, ma non prima che io rivolgessi un altro sguardo a quei lucidi occhi morenti. Non avrei dovuto farlo. Qualcosa nel mio cuore si ruppe, quel genere di cosa che non si può più aggiustare. Mi condusse in una stanza dove c'era un bambino di forse tre anni che stava giocando con dei blocchi sotto una tenda di plastica trasparente che conteneva il letto. Ci guardò con vivo interesse. Mi sembrò molto più sano della bambina sulla sedia a rotelle - lui aveva una bella matassa di riccioli rossi - ma la sua pelle era color del piombo e quando l'ex marine mi spinse avanti rimanendo al suo posto e assumendo una posa molto simile a quella di riposo in uno schieramento militare, sentii che il bambino era veramente molto malato. Quando aprii la cerniera della tenda ignorando l'avviso che diceva QUESTO È UN AMBIENTE STERILE capii che il tempo che gli restava non era neppure nell'ordine delle settimane, ma solo dei giorni. Questa consapevolezza era inspiegabile, ma indubitabile. Mi protesi verso di lui registrando l'odore di malattia di mio padre. Era un po' meno intenso, ma fondamentalmente lo stesso. Il bambino allungò le braccia verso di me senza titubanze. Quando lo baciai sull'angolo della bocca, lui mi ricambiò con un impeto struggente che mi fece pensare che nessuno da molto tempo lo toccava, nessuno, quanto meno, che non gli facesse del male. Non vennero a chiederci che cosa stessimo facendo o a minacciare di chiamare la polizia, come aveva fatto Ruth quel giorno nella stanza di mio padre. Richiusi la tenda. Sulla soglia mi girai e lo vidi seduto dietro il suo schermo di plastica trasparente con un blocco tra le mani. Lo lasciò cadere e mi salutò, un ciao ciao da bimbo, aprendo e chiudendo le mani due volte. Io lo salutai allo stesso modo. Già mi sembrava che stesse meglio. Alla postazione degli infermieri l'ex marine mi strinse di nuovo il braccio, ma questa volta fummo scorti dall'infermiere maschio, un uomo con
quel tipo di sorriso di disapprovazione che il preside del mio dipartimento d'inglese ha elevato a espressione artistica. Mi chiese che cosa facessimo lì. «Scusi, piano sbagliato», si giustificò l'ex marine. Sulle scale dell'ospedale, qualche minuto dopo, disse: «Sai trovare la strada da solo, vero?» «Certo», risposi io, «ma dovrò prendere un altro appuntamento con il mio dottore.» «Sì, mi sa di sì.» «Ti vedrò ancora?» «Sì», rispose e si avviò verso il parcheggio. Senza voltarsi. Tornò nel 1987, mentre Ruth era fuori a fare la spesa e io tagliavo l'erba e speravo che quel doloroso pulsare dietro la testa non fosse l'inizio di un'emicrania sapendo bene che lo era. Dopo la visita al bambino al Groves of Healing ne andavo soggetto. Ma quando giacevo al buio con un impacco sugli occhi non era a lui che pensavo. Pensavo alla bambina. Quella volta andammo a trovare una donna ricoverata al St. Jude's. Quando la baciai, mi prese la mano e se la posò sul seno sinistro. Quello che le era rimasto. I medici le avevano già asportato l'altro. «Ti voglio bene, mister», disse piangendo. Non sapevo cosa rispondere. L'ex marine era fermo sulla soglia, gambe divaricate, mani dietro la schiena. Sul riposo. Passarono degli anni prima che ricomparisse, intorno alla metà del dicembre 1997. Fu l'ultima volta. Intanto il mio problema era diventato l'artrite e lo è ancora. Le setole che l'ex marine aveva su quella testa squadrata erano diventate quasi completamente grigie e agli angoli della bocca gli si erano scavati verso il basso due solchi che facevano pensare un po' ai pupazzi dei ventriloqui. Mi condusse a un'uscita dalla I-95 a nord della città, dove c'era stato un incidente. Un furgone si era scontrato con una Ford Escort. La Escort era da buttare via. I paramedici avevano legato a una lettiga il conducente, un uomo di mezza età. I poliziotti stavano parlando con il guidatore del furgone, che sembrava scosso ma illeso. I paramedici chiusero i battenti dell'ambulanza e l'ex marine disse: «Ora. Muovi il culo». Io mossi il mio culo attempato avvicinandomi all'ambulanza. L'ex marine mi sorpassò puntando un dito. «Ehi! Ehi! Quello laggiù non è uno di quei braccialetti medici?»
I lettighieri si girarono a guardare; uno di loro e uno dei poliziotti che stavano parlando con il conducente del furgone si diressero verso il punto indicato dall'ex marine. Io aprii l'ambulanza e mi issai a bordo arrivando all'altezza della testa dell'automobilista. Contemporaneamente presi l'orologio da tasca di mio padre che avevo sempre con me da quando me lo aveva regalato come dono di nozze. La sua fine catenella d'oro era agganciata a un passante dei calzoni. Non avevo tempo per le delicatezze. La liberai con uno strappo. Nella penombra dell'ambulanza l'uomo coricato mi guardò. Il collo spezzato gli sporgeva dietro la nuca come un lucido pomello foderato di pelle. «Non riesco a muovere le dita dei piedi», disse. Io gli baciai l'angolo della bocca (era il mio posto speciale, evidentemente) e stavo tornando indietro carponi quando mi sentii afferrare da uno dei lettighieri. «Lei cosa diavolo crede di fare?» mi apostrofò. Io gli mostrai l'orologio che ora era accanto alla lettiga. «C'era quello nell'erba. Ho pensato che lo volesse.» Quando fosse venuto il momento in cui il conducente della Escort sarebbe stato in grado di dire a qualcuno che quello non era il suo orologio e che per lui le iniziali incise sul coperchio non avevano alcun significato, noi saremmo stati lontani. «Avete recuperato il suo braccialetto?» Il paramedico fece una smorfia. «Era solo un pezzo di cromatura», rispose. «Fuori di qui.» Poi, non del tutto riluttante: «Grazie. Avrebbe potuto tenerselo». Molto vero. Amavo quell'orologio. Ma era la sola cosa che avevo. «Hai del sangue sul dorso della mano», mi avvertì l'ex marine mentre tornavamo a casa mia. Eravamo sulla sua macchina, un'anonima Chevrolet quattro porte. C'era un guinzaglio per cani sul sedile posteriore e una medaglietta di san Cristoforo con una catenina d'argento appesa allo specchietto retrovisore. «Meglio che te lo togli prima di entrare in casa.» Promisi che lo avrei fatto. «Non ci vedremo più», disse. Ricordai allora quello che aveva detto la donna di colore di Ayana. Non ci avevo più pensato per anni. «I miei sogni sono finiti?» chiesi. Parve non capire, poi il suo viso si distese nella sua espressione da riposo in parata. «È finito il tuo lavoro», disse. «Dei tuoi sogni non so niente.» Gli rivolsi altre tre domande prima che mi scaricasse per l'ultima volta e
scomparisse dalla mia vita. Non mi aspettavo che rispondesse, ma mi sbagliavo. «Quelle persone che ho baciato... fanno lo stesso con altre persone? Baciano la loro bua e la fanno andar via?» «Il più delle volte», mi rispose. «È così che funziona.» «Come una catena di sant'Antonio, allora.» «Alcune di loro...» Si strinse nelle spalle. «Non possono. O non vogliono.» Alzò di nuovo le spalle. «Fa lo stesso.» «Conosci una bambina di nome Ayana? Anche se immagino che adesso sia una donna fatta.» «È morta.» Provai una stretta al cuore, ma non eccessiva. Suppongo che lo sapessi. Pensai di nuovo alla bambina sulla sedia a rotelle. «A mio padre diede un bacio», dissi. «Io sono stato solo toccato. Allora perché sono stato scelto io?» «Perché sì», rispose lui fermandosi davanti a casa mia. «Eccoci.» Mi venne un'idea. Mi sembrò buona, Dio sa perché. «Vieni da noi a Natale», lo invitai. «Vieni per il cenone. Ce n'è abbastanza. Dirò a Ruth che sei un mio cugino del New Mexico.» Perché a lei non avevo mai parlato dell'ex marine. Le era già sufficiente sapere di mio padre. Più che sufficiente. L'ex marine sorrise. Non sarà stata forse l'unica volta che glielo vidi fare, ma è la sola che ricordi. «Credo che dovrò rinunciare, amico. Però ti ringrazio. Io non festeggio il Natale. Sono ateo.» E questo è tutto, penso... a parte aver baciato Trudy. Vi avevo detto che era andata via di testa, ricordate? Alzheimer. Ralph ha investito bene i suoi risparmi e non le manca niente e quando non è stata più in grado di vivere a casa sua, i ragazzi le hanno trovato un bel posticino. Io e Ruth siamo andati insieme a trovarla fino a quando Ruth ha avuto il suo infarto ed è morta mentre stava per atterrare al Denver International. Non molto tempo dopo sono andato a trovare Trudy perché mi sentivo solo e triste e volevo passare un po' di tempo con qualcuno che mi rimettesse in comunicazione con i vecchi tempi. Ma vedere Trudy com'era diventata, a guardare dalla finestra invece di guardare me, a morsicarsi il labbro inferiore con la saliva che le colava dagli angoli della bocca, mi ha fatto stare solo peggio. Come tornare al tuo paese natio a guardare la casa in cui sei cresciuto e trovare
un pezzo di terreno vuoto. Prima di andarmene le ho baciato l'angolo della bocca, ma naturalmente non è successo niente. Un miracolo non serve senza uno che faccia miracoli e i miei giorni miracolosi sono ormai acqua passata. Eccetto a tarda notte quando non riesco a dormire. Allora posso scendere da basso e guardare un film, ho una scelta illimitata, ci sono anche quelli erotici. Ho un'antenna satellitare, vedete, e quello che si chiama pacchetto Global Movie. Potrei persino guardare una partita dei Pirates, se decidessi di comprare il pacchetto Major League Baseball. Ma adesso sono un pensionato a reddito fisso e anche se vivo discretamente bene devo tenere d'occhio le mie spese superflue. Posso sempre leggere dei Pirates in Internet. Per me tutti quei film sono già abbastanza un miracolo. Alle strette Tutte le mattine Curtis Johnson si faceva otto chilometri in bicicletta. Aveva interrotto per un po' dopo la morte di Betsy, ma aveva scoperto che senza la sua pedalata mattutina era più triste che mai. Così aveva ripreso. La sola differenza è che aveva smesso di mettersi il casco. Percorreva per quattro chilometri il Gulf Boulevard, poi girava e tornava indietro. Usava sempre le piste ciclabili. Non gli importava di vivere o morire, ma rispettava la legge. Il Gulf Boulevard era l'unica strada di tutta Turtle Island. Passava davanti a molte case di milionari. Curtis non ci badava. Tanto per cominciare era un milionario anche lui. Aveva fatto i soldi alla vecchia maniera, giocando in Borsa. In secondo luogo non aveva problemi con nessuna delle persone che abitavano lì. L'unico con cui aveva un problema era Tim Grunwald, alias il Figlio di buonadonna, e Grunwald abitava nella direzione opposta. Non l'ultima tenuta di Turtle Island prima del Daylight Channel, ma la penultima. Il problema che c'era tra loro (uno dei problemi) era appunto l'ultima. Quello era il terreno più grande, con la miglior veduta del Golfo e l'unico non edificato. C'erano solo erbaccia, arbusti, uniola, piccole palme e qualche pino australiano. L'aspetto più bello, quello impagabile, delle sue pedalate mattutine, era la mancanza del telefono. In quel momento era ufficialmente fuori campo. Dall'istante in cui rientrava aveva il telefono praticamente sempre in mano, specialmente nell'orario di attività della Borsa. Era atletico; girava per la casa con il cordless, tornando di tanto in tanto nel locale-ufficio dove i
numeri scorrevano sul video del suo computer. Qualche volta usciva a passeggiare in strada e allora portava fuori il cellulare. Di solito girava a destra, in direzione dell'estremità del Gulf Boulevard. Dalla parte della casa del Figlio di buonadonna. Ma non si spingeva fino al punto da poter essere scorto da Grunwald; non gli avrebbe dato quella soddisfazione. Arrivava fino al punto da cui poteva assicurarsi che non stesse cercando di fregarlo con il Lotto Vinton. Chiaro che il Figlio di buonadonna non avrebbe potuto fargli passare macchinari e mezzi pesanti sotto il naso, nemmeno di notte: Curtis aveva il sonno leggero da quando non c'era più Betsy a dormirgli accanto. Ma controllava lo stesso, sostando di solito dietro la prima di una fila di palme ombrose. Giusto per non sbagliare. Perché sconvolgere i terreni non edificati seppellendoli sotto tonnellate di cemento era esattamente il mestiere di quel dannato Grunwald. E il Figlio di buonadonna era furbo. Fino ad allora era andato comunque tutto bene. Se Grunwald avesse veramente cercato di fregarlo, Curtis era pronto a svuotargli le buche (in senso legale). Nel frattempo Grunwald aveva da rispondere per Betsy e l'avrebbe fatto. Anche se non provava più gusto per quella contesa (a se stesso lo negava, ma sapeva che era così), avrebbe preteso che Grunwald ne rispondesse. Il Figlio di buonadonna avrebbe scoperto che Curtis Johnson aveva mascelle cromate... mascelle di acciaio cromato... e quando addentava qualcosa non lo mollava più. Quel particolare giovedì mattina, tornato a casa con dieci minuti d'anticipo sull'apertura di Wall Street, Curtis controllò come sempre se aveva messaggi sul cellulare. Ce n'erano due. Uno era della Circuit City, probabilmente qualcuno che cercava di vendergli qualcosa con la scusa di verificare la sua soddisfazione per il nuovo schermo piatto da parete acquistato il mese prima. Quando scese sul messaggio successivo, lesse questo: 383-0910 FBD. Il Figlio di buonadonna. Persino il suo Nokia sapeva chi era Grunwald, perché Curtis gli aveva insegnato a ricordarlo. La domanda era: cosa poteva voler mai da lui il Figlio di buonadonna un giovedì mattina di giugno? Forse comporre la vertenza e alle condizioni di Curtis. Si concesse di ridere a quell'ipotesi, quindi ascoltò il messaggio. Con sua grande meraviglia sentì che era precisamente quello che voleva Grunwald. O mostrava di volere. Curtis non escluse che potesse essere un tranello di qualche genere, ma non capiva quale vantaggio avrebbe potuto trarne Grunwald. E poi c'era il tono, pesante, ponderato, quasi laborioso. Forse
non era proprio dispiacere, ma ci somigliava parecchio. Era il medesimo tono in cui in quei giorni parlava al telefono Curtis stesso, mentre si sforzava di ritrovare slancio. «Johnson... Curtis...» diceva Grunwald in quel tono grave. La sua voce registrata si interruppe per qualche secondo, come se stesse riflettendo sull'opportunità di chiamare Curtis per nome, poi riprese nello stesso tono depresso di prima. «Non posso combattere una guerra su due fronti. Facciamola finita. Ho perso lo stimolo. Se mai l'ho avuto. Sono alle strette, vicino.» Sospirò. «Sono pronto a rinunciare al terreno e non per considerazioni economiche. Ti risarcirò anche per il tuo... per Betsy. Se ti interessa, mi puoi trovare al Durkin Grove Village. Ci resterò quasi tutto il giorno.» Una lunga pausa. «Adesso ci vado spesso. Da una parte non riesco a credere che la bolla finanziaria sia scoppiata e dall'altra non ne sono affatto sorpreso.» Un'altra pausa prolungata. «Forse sai cosa intendo.» Curtis riteneva di sì. Gli sembrava di aver perso il fiuto per gli affari in Borsa. Più specificamente, sembrava che non gliene importasse nulla. Si scoprì a provare per il Figlio di buonadonna qualcosa di sospettosamente simile alla compassione. Quel tono di voce così pesante. «Una volta eravamo amici», proseguì Grunwald. «Te lo ricordi? Io sì. Non credo che possiamo essere amici di nuovo, è corso troppo cattivo sangue tra noi, ho paura, ma forse potremmo essere di nuovo vicini di casa, vicino.» Un'altra di quelle pause. «Se non dovessi vederti alla Follia di Grunwald, darò istruzioni al mio legale di concordare. Alle tue condizioni. Ma...» Silenzio, eccetto che per il respiro del Figlio di buonadonna. Curtis aspettò. Ora era seduto al tavolo in cucina. Non avrebbe saputo dire cosa provava. Di lì a poco, forse, ma non in quel momento. «Ma mi piacerebbe stringerti la mano e dirti che mi dispiace per il tuo cane fottuto.» Ci fu un verso strozzato che sarebbe potuto essere - incredibile! - un singhiozzo e poi uno scatto seguito dall'avviso che non c'erano altri messaggi. Curtis si trattenne seduto dov'era ancora per qualche attimo, nell'abbagliante lama di sole della Florida che il condizionatore non riusciva a raffreddare del tutto, nemmeno a quell'ora. Quindi andò nel suo studio. La Borsa era aperta; sullo schermo del computer i numeri avevano cominciato la loro corsa incessante. Si rese conto che per lui non avevano alcun signi-
ficato. Li lasciò scorrere, ma scrisse una breve nota per la signora Wilson SONO USCITO - prima di lasciare l'abitazione. Nel box, di fianco alla sua BMW, c'era lo scooter e decise lì per lì di prendere quello. Sarebbe dovuto sgattaiolare da un lato all'altro della strada oltre il ponte, ma non sarebbe stata la prima volta. Provò una fitta di dolore e malinconia mentre staccava dal gancio la chiave dello scooter e il pendaglio tintinnò. Era una sensazione che probabilmente si sarebbe consumata con il tempo, ma al momento l'accolse quasi con piacere. Quasi come si dà il benvenuto a un amico. I guai tra Curtis e Tim Grunwald erano cominciati con Ricky Vinton, che in passato era stato vecchio e ricco e in seguito era diventato vecchio e senile. Prima di congedarsi per sempre, aveva venduto il suo terreno in fondo alla Turtle Island a Curtis Johnson per uno virgola cinque milioni di dollari, accettando il suo assegno personale da centocinquantamila come caparra e consegnandogli in cambio un atto di vendita scritto a mano sul retro di un volantino pubblicitario. Curtis si era sentito un po' sciacallo per essersi approfittato del vecchio, ma non era che Vinton, titolare della Vinton Wire and Cable, sarebbe morto di fame. E se un milione e mezzo poteva sembrare un prezzo ridicolo per un terreno di prim'ordine sul lato del Golfo, nella congiuntura attuale non lo si poteva ritenere pazzescamente basso. Be', sì, lo era. Ma tra lui e il vecchio correva simpatia sincera e Curtis era di quelli che pensano che in amore e in guerra tutto sia permesso e che gli affari siano la prima sottocategoria aggregabile al medesimo principio. A far da testimone alla firma era stata la governante del vecchio, la stessa signora Wilson che adesso si occupava della casa di Curtis. Con il senno di poi Curtis aveva concluso che era stata una leggerezza. Ma era troppo eccitato. Un mese dopo aver venduto il terreno a Curtis Johnson, Vinton lo aveva venduto a Tim Grunwald, alias Figlio di buonadonna. Quella volta il prezzo era stato un più realistico cinque virgola sei milioni e in quell'occasione Vinton - forse non poi tanto allocco, dopotutto, forse più squalo che triglia, anche se in fin di vita - si era fatto dare un milione di caparra. A far da testimone alla transazione era stato il giardiniere del Figlio di buonadonna (che guarda caso era anche il giardiniere di Vinton). Altra circostanza precaria, ma Curtis immaginava che Grunwald fosse stato eccitato quanto lo era stato lui. Solo che l'eccitazione di Curtis era nella prospet-
tiva di poter conservare quella propaggine di isola pulita, intatta e silenziosa. Proprio come piaceva a lui. Grunwald lo vedeva invece come il sito perfetto per un insediamento: un condominio o magari persino due (quando Curtis pensava a due, vedeva le costruzioni come le Torri Gemelle del Figlio di buonadonna). Curtis aveva già visto sviluppi edilizi di quel genere, in Florida spuntavano come i soffioni in un prato incolto, e sapeva chi il Figlio di buonadonna avrebbe invitato a venirci a stare: idioti che scambiavano gli ingenti fondi di pensionamento per le chiavi del regno dei cieli. Ci sarebbero stati quattro anni di cantieri, seguiti da decenni di vecchi in bicicletta con la sacchetta della piscia appesa alle cosce scarnite e vecchie in visiera che fumavano Parliament e non raccoglievano gli escrementi dopo che i loro cani griffati avevano cacato in spiaggia. Senza contare poi i chiassosi nipotini imbrattati di gelato con nomi come Lindsay e Jayson. Se avesse permesso che accadesse, Curtis sapeva che sarebbe morto con l'eco stridula delle loro lagne nelle orecchie: «Avevi detto che oggi andavamo a Disney World!» Non avrebbe lasciato che accadesse. E si era rivelato facile. Non piacevole, e il terreno non apparteneva a lui, forse non gli sarebbe mai appartenuto, ma almeno non era di Grunwald. Non apparteneva neppure ai parenti che erano spuntati (come scarafaggi in un cassonetto illuminato all'improvviso) a impugnare le firme dei testimoni su entrambi gli atti di vendita. Apparteneva agli avvocati e ai tribunali. Vale a dire a nessuno. Curtis sapeva come trattare con nessuno. La diatriba si trascinava ormai da due anni e le spese legali di Curtis si stavano avvicinando a un quarto di milione di dollari. Si sforzava di pensare che fosse un contributo a qualche iniziativa ambientale particolarmente meritevole, Johnsonpeace invece di Greenpeace, ma non era purtroppo detraibile dalle tasse. E Grunwald lo faceva incavolare. Grunwald ne aveva fatto una questione personale, in parte perché detestava perdere (lo detestava anche Curtis a quei tempi, non più tanto adesso) e in parte perché aveva dei problemi personali. Sua moglie aveva divorziato e quello era il Problema Personale Numero Uno; non era più la signora Figlio di buonadonna. Poi, Problema Personale Numero Due, Grunwald aveva dovuto sottoporsi a un non meglio precisato intervento chirurgico. Curtis non sapeva con certezza se si fosse trattato di cancro, sapeva solo che il Figlio di buonadonna era uscito dal Sarasota
Memorial più leggero di una quindicina di chili e su una sedia a rotelle. Dopo qualche tempo aveva smesso la sedia a rotelle ma non era riuscito a riprendere il peso perso. Gli si erano allungati bargigli sul collo una volta compatto. C'erano anche problemi con la sua una volta floridissima azienda. Curtis lo aveva constatato da sé sul luogo dell'attuale campagna di devastazione del Figlio di buonadonna. Si trattava del Durkin Grove Village, situato sulla terraferma, una quarantina di chilometri a est di Turtle Island. Era una città-fantasma mezzo costruita. Curtis si era fermato in macchina su un rilievo che si affacciava sui lavori in sospeso, sentendosi come un generale che contempla dall'alto le rovine di un accampamento nemico. Sentendo che, alla fin fine, a saperli cogliere, la vita sa offrirti frutti squisiti. Betsy aveva cambiato tutto. Era (era stata) una Lowchen, anziana ma ancora vispa. Quando Curtis la portava a spasso in spiaggia, aveva sempre in bocca il suo piccolo osso rosso di gomma. Quando Curtis voleva il telecomando della TV, gli basta dire: «Portami l'idiot-stick, Betsy», e lei lo prendeva dal tavolino e glielo portava tenendolo tra i denti. Era fiera di sé. E lui di lei, naturalmente. Era stata la sua migliore amica per diciassette anni. I piccoli cani leone non superavano di solito i quindici. Poi Grunwald aveva fatto installare una rete elettrificata tra la sua proprietà e quella di Curtis. Quel Figlio di buonadonna. Il voltaggio non era particolarmente alto, Grunwald sosteneva di poterlo dimostrare e Curtis gli credeva, ma era stato abbastanza alto per un vecchio cane un po' sovrappeso e con il cuore acciaccato. E poi perché una rete elettrificata? Il Figlio di buonadonna aveva blaterato un mucchio di stronzate sulla necessità di scoraggiare potenziali malintenzionati - che presumibilmente s'intrufolavano dalla proprietà di Curtis in quella da cui sporgeva la sua testa di stucco viola La Hagienda Fija de Buena Mujer ma Curtis ci credeva poco. Un rapinatore che sapesse il fatto suo sarebbe arrivato via mare, dalla parte del Golfo. Quello che credeva era che Grunwald, contrariato per la storia del Lotto Vinton, avesse fatto installare il reticolato allo scopo specifico di fare uno sgarbo a Curtis Johnson. E magari fare del male al suo amato cane. Quanto a far fuori il suo amato cane... Curtis riteneva che fosse stato un bonus. Non era incline alle lacrime, ma aveva pianto quando, prima della cremazione, aveva staccato la medaglietta dal collare di Betsy. Curtis aveva fatto causa al Figlio di buonadonna pretendendo un risar-
cimento per il cane, milleduecento dollari. Se avesse potuto querelarlo per dieci milioni - tanto era stato suppergiù il dolore che provava quando guardava l'idiot-stick sul tavolino, ora e per sempre privo di saliva di cane - lo avrebbe fatto senza pensarci due volte, ma il suo avvocato gli aveva spiegato che in una causa civile dolore e cordoglio non venivano presi in considerazione. Erano cose da divorzi, non da cani. Si sarebbe dovuto accontentare di milleduecento e aveva tutte le intenzioni di farseli dare. Gli avvocati del Figlio di buonadonna avevano risposto che la rete elettrificata era stata eretta ben dieci metri all'interno della proprietà di Grunwald e così aveva avuto inizio la battaglia. La seconda battaglia. Durava attualmente da otto mesi. Curtis riteneva che la tattica dilatoria messa in atto dai legali del Figlio di buonadonna stesse a indicare che aveva ragione lui. Riteneva anche che se non si facevano avanti con una proposta di accomodamento e se Grunwald si ostinava a tal punto a rifiutare di sganciare quei milleduecento, era perché per Grunwald era diventata una questione personale quanto lo era per lui. Anche questi avvocati gli costavano un occhio... ma ovviamente non era più una questione di soldi. Percorrendo la Route 17 tra quelli che erano un tempo pascoli ed erano ora solo campi incolti pieni di erbacce e cespugli selvatici, (Grunwald doveva essere impazzito se aveva sperato di costruirci qualcosa, pensava Curtis), il suo unico desiderio era di sentirsi un po' più felice per come si erano messe le cose. La vittoria avrebbe dovuto gonfiare il cuore, ma il suo non aveva reagito. Gli interessava piuttosto vedere Grunwald, sentire che cosa avesse effettivamente da proporre e, se l'offerta non fosse stata troppo ridicola, buttarsi tutta quella storia alle spalle. La conseguenza sarebbe stata probabilmente che il Lotto Vinton sarebbe finito ai parenti-scarafaggio, i quali avrebbero anche potuto decidere di costruirci il proprio condominio, ma gli importava qualcosa? Sembrava di no. Curtis aveva i propri problemi di cui occuparsi, sebbene i suoi fossero più mentali che coniugali (Dio lo scampasse), finanziari o fisici. Erano cominciati non molto tempo dopo aver trovato Betsy rigida e fredda nel giardino di fianco a casa. Altri avrebbero forse definito quei problemi nevrosi, ma Curtis preferiva pensare che fossero angoscia. Il suo attuale disincanto nei confronti del mercato azionario, che lo aveva affascinato senza mai un momento di esitazione fin da quando lo aveva scoperto all'età di sedici anni, era la componente più visibile di quello stato d'animo, ma senz'altro non l'unica. Aveva cominciato a contare i passi e le spazzolate ai denti. Non poteva più indossare camicie scure perché era as-
sediato dalla forfora per la prima volta dai tempi del ginnasio. Scaglie bianche di pelle morta gli ricoprivano il cuoio capelluto e gli scivolavano sulle spalle. Se si grattava con i denti di un pettine, piombava giù in raccapriccianti mulinelli di neve. Era una cosa che lo mandava in bestia, eppure si ritrovava talvolta a grattarsi seduto al computer o parlando al telefono. Una o due volte si era grattato tanto da sanguinare. Grattava e grattava, estirpava quel bianco cadaverico. Talvolta guardando l'idiot-stick sul tavolino e pensando (ovvio) a quant'era felice Betsy quando glielo portava. Quando mai occhi umani erano stati così felici, soprattutto quando l'umano in questione stava eseguendo un ordine? Una crisi di mezza età, la definì Sammy (Sammy era il suo massaggiatore settimanale). Hai bisogno di una scopata, disse, ma non offrì personalmente il servizio, notò Curtis. L'impressione era però che nella diagnosi ci fosse del vero... quanto poteva essercene in una qualunque espressione in politichese del ventunesimo secolo, presumibilmente. Se fosse stato il guazzabuglio del Lotto Vinton a provocare la crisi o se la crisi avesse provocato il casino del Lotto Vinton, non aveva idea. Sapeva però che tutte le volte che sentiva una fitta passeggera al petto invece di pensare indigestione, adesso pensava infarto; che era ossessionato dall'idea che gli cascassero i denti (anche se non gli avevano mai dato nessun fastidio particolare); e che quando in aprile aveva preso il raffreddore, aveva diagnosticato a se stesso d'essere sulla via di un totale crollo immunologico. Più quest'altro piccolo problema. Questa pulsione, di cui al suo medico non aveva parlato. E neppure a Sammy, quando a lui confidava tutto. La sentiva in quel momento, quando aveva percorso venticinque chilometri della poco battuta Route 17, una strada che non era mai stata ad alta percorrenza e adesso era stata resa praticamente obsoleta dal prolungamento della 375. Proprio lì, con la verzura a premere su entrambi i lati (Grunwald doveva essere stato matto da legare a voler costruire lì), con gli insetti che cantavano nell'erba alta che nessun armento aveva brucato da dieci anni o più e le linee dell'alta tensione che ronzavano e il sole che gli picchiava sulla testa come un martello di gomma. Sapeva che gli bastava pensare alla pulsione per evocarla, ma saperlo non gli era di particolare aiuto. Anzi, non l'aiutava affatto. Accostò nel punto in cui sulla sinistra si biforcava una pista con la scritta DURKIN GROVE VILLAGE ROAD (al centro della quale ora cresceva un costone d'erba, una freccia puntata in direzione del fiasco) e mise la Ve-
spa in folle. Quindi, mentre lo scooter ronfava tranquillo tra le sue gambe, aprì a V l'indice e il medio della mano destra e si ficcò le due dita in gola. Da due o tre mesi a quella parte l'abitudine aveva indebolito la velocità della reazione riflessa e prima che finalmente accadesse si era affondato in bocca la mano fin quasi ai braccialetti portafortuna che aveva al polso. Curtis si protese lateralmente e vomitò la prima colazione. Non si trattava di liberarsi del cibo ingerito; era molte cose, ma non bulimico. Non era nemmeno che gli piacesse vomitare. Quello che gli piaceva erano i conati: quella potente contrazione di rigetto dello stomaco, oltre alla corrispondente imbardata di bocca e gola. Il corpo partiva al contrattacco, deciso a espellere l'intruso. Gli odori - cespugli verdi, caprifoglio selvatico - furono improvvisamente più intensi. La luce più brillante. Il sole picchiò più pesante che mai; il martello non era più di gomma e sentiva la pelle sul collo sfrigolare, con le cellule che forse già abbandonavano la legalità per darsi alla macchia nel caotico territorio del melanoma. Non gli importava. Era vivo. Si affondò ancora una volta le dita divaricate in gola strofinandole sui lati. Venne su il resto della colazione. La terza volta produsse solo lunghe bave con leggere striature rosa. Solo allora si sentì soddisfatto. Solo allora poté proseguire per il Durkin Grove Village, lo Xanadu del Figlio di buonadonna rimasto incompiuto nelle ronzanti campagne sperdute della Contea di Charlotte. Gli venne da pensare, mentre procedeva a modesta velocità sul viottolo ingombro d'erba tenendosi nel solco di destra, che forse Grunwald non era il solo a trovarsi alle strette. Il Durkin Grove Village era uno sfacelo. Pozze d'acqua riempivano i solchi di strade non ancora asfaltate e gli scavi delle cantine di edifici rimasti incompleti (in certi casi a lavori appena iniziati). Lo spettacolo che si presentava a Curtis - negozi costruiti per metà, relitti di attrezzature abbandonati qua e là, scampoli afflosciati di nastro giallo a delimitare le zone di maggior pericolo - era certamente la fotocopia di una grave crisi finanziaria, forse addirittura un fallimento. Curtis non aveva modo di sapere se la preoccupazione del Figlio di buonadonna per il Lotto Vinton - oppure per l'abbandono da parte della moglie, la sua malattia o i problemi legali per la morte del suo cane - fosse la causa dell'attuale surmenage del suo rivale, ma che si trattasse di surmenage era pacifico. Ancor prima di scendere al cancello aperto e vedere l'avviso che
vi era stato appeso, ne fu sicuro. L'avviso diceva QUESTO CANTIERE È STATO CHIUSO DALL'ASSESSORATO ALL'URBANISTICA DELLA CONTEA DI CHARLOTTE UFFICIO TRIBUTARIO DELLA CONTEA DI CHARLOTTE UFFICIO TRIBUTARIO DELLA FLORIDA ERARIO DEGLI STATI UNITI PER ULTERIORI INFORMAZIONI, CHIAMARE 941 555 1800 Sotto, un tipo faceto armato di bomboletta spray: CHIAMATE L'INTERNO 69 E CHIEDETE DEL CUNNITABILE CAPO! L'asfalto finiva e cominciavano le buche dopo i soli tre edifici che sembravano finiti: due negozi su un lato della strada e un modello di costruzione abitativa sull'altro. La casa era un falso Cape Cod che fece rabbrividire Curtis. Non fidandosi di proseguire con la Vespa sul terreno accidentato, si fermò di fianco a un escavatore che sembrava parcheggiato lì da un secolo o più - dalla terra che si era incollata alla benna parzialmente sollevata spuntava dell'erba -, abbassò il cavalletto e spense il motore. Il silenzio si riversò nel vuoto poco prima occupato dal ronfo scoppiettante della Vespa. Poi gracchiò un corvo. Un altro gli rispose. Curtis alzò gli occhi e ne vide un terzetto posato sui ponteggi di una costruzione in mattoni rimasta incompleta. Forse doveva essere una banca. Adesso è la lapide di Grunwald, pensò, ma le sue labbra non cominciarono nemmeno a distendersi in un sorriso. Aveva piuttosto voglia di mettersi di nuovo le dita in gola, forse lo avrebbe anche fatto, se più giù sulla strada deserta, in fondo, per la precisione, non avesse visto un uomo fermo vicino a un'automobile bianca con una palma verde sulla fiancata. Sopra la palma: GRUNWALD. Sotto: IMPRESA EDILE. L'uomo gli faceva grandi gesti con la mano. Per qualche ragione quel giorno Grunwald era sceso lì con un veicolo della ditta invece della sua Porsche. Curtis non escluse che avesse venduto la Porsche. Non era escluso che gliel'avesse sequestrata il fisco e che si potesse impossessare anche della proprietà di Grunwald su tutta Turtle Island. Allora il Lotto Vinton sarebbe diventato l'ultimo dei suoi crucci. Spero solo che gli lascino abbastanza da pagare per il mio cane. Rispose con la mano a Grunwald, azionò il piccolo interruttore dell'anti-
furto sotto l'accensione, estrasse la chiave (queste operazioni erano semplici riflessi; non temeva che potessero rubargli la Vespa laggiù, ma gli era stato insegnato a prendersi cura delle sue cose), e ripose la chiave in tasca con il cellulare. Poi s'incamminò per la strada - una Main Street che mai fu e, ora sembrava certo, mai sarebbe stata - per andare a incontrarlo e chiudere una volta per tutte la loro vertenza, se mai fosse stato possibile. Fece attenzione a evitare le pozzanghere rimaste dall'acquazzone della sera prima. «Ehi, vicino!» lo chiamò Grunwald quando gli fu a tiro. Indossava un paio di calzoni sportivi e una maglietta con il logo della palma della sua ditta. La maglietta gli andava larga. A parte le macchie rosse sugli zigomi e le occhiaie scure, quasi nere, sotto gli occhi, il suo volto era pallido. E a dispetto del brio con cui lo chiamava, gli sembrò più malato che mai. Qualunque cosa gli abbiano tagliato via, pensò Curtis, non gliel'hanno tolta tutta. Grunwald aveva una mano dietro la schiena. Curtis pensò che la tenesse nella tasca posteriore. Risultò che non era così. Un po' più giù sulla strada piena di buche e pozzanghere, c'era una roulotte posata su blocchi di cemento. L'ufficio in loco, pensò Curtis. C'era un avviso infilato in una busta di plastica appeso a una piccola ventosa. Il testo era lungo, ma tutto ciò che Curtis riuscì a leggere (non aveva bisogno di altro) furono le parole in cima: VIETATO L'INGRESSO. Sì, il Figlio di buonadonna era caduto in disgrazia. Mal gliene incolse, come avrebbe forse detto Evelyn Waugh. «Grunwald?» Per cominciare bastava così; considerato cos'era successo a Betsy, era tutto quello che il Figlio di buonadonna meritava. Curtis si fermò a pochi metri da lui, gambe leggermente divaricate a evitare una pozzanghera. Anche Grunwald era a gambe divaricate. Una posa classica, rifletté Curtis: pistoleri alla resa dei conti nell'unica strada di una cittàfantasma. «Ehi, vicino!» ripeté Grunwald e questa volta rise. C'era qualcosa di familiare nella sua risata. E perché no? Certamente aveva già sentito ridere il Figlio di buonadonna. Non ricordava bene quando, ma doveva pur essere successo. Alle spalle di Grunwald, poco distante dalla roulotte e dall'auto della ditta con cui Grunwald era arrivato fin lì, c'era una fila di quattro Port-O-San blu. Intorno alla base delle cabine erano cresciute erbacce e dondolanti wedalie. L'acqua dei frequenti temporali di giugno (quelle collere pomeridiane erano una specialità del Golfo) aveva scavato un fosso davanti alle
porte. Quasi un ruscello. Ora era pieno d'acqua stagnante, la cui superficie polverosa e cosparsa di polline riusciva a riflettere solo una vaga imitazione blu del cielo. Le quattro latrine pendevano in avanti come vecchie lapidi minate dalle gelate. Doveva esserci stata un bel po' di gente a lavorare laggiù, perché ce n'era anche una quinta. Era cascata con la porta affondata nel fosso. Era il tocco finale, a sottolineare il fatto che quel progetto, folle fin dal principio, era ormai lettera morta. Uno dei corvi si alzò in volo dai ponteggi che imprigionavano la banca rimasta a metà e attraversò il velo di foschia che copriva il cielo azzurro gracchiando ai due uomini che si confrontavano sotto di lui. Nell'erba alta gli insetti frinivano indifferenti. A Curtis arrivò una zaffata dai Port-OSan; doveva essere da un po' che nessuno li svuotava. «Grunwald?» disse di nuovo. E poi (perché ora gli sembrava doveroso aggiungere qualcosa): «In cosa posso aiutarti? Abbiamo qualcosa da discutere?» «Be', vicino, in cosa posso aiutare io te. Questa è l'essenza del concetto.» Ricominciò a ridere, poi finì con un verso strozzato. E Curtis capì perché gli era sembrato familiare. Lo aveva già sentito al cellulare, alla fine del messaggio del Figlio di buonadonna. Dunque non era stato un singhiozzo soffocato. E l'aspetto non era quello di un uomo malato. O non solo malato. Era quello di un matto. Per forza è matto. Ha perso tutto. E tu ti sei lasciato attirare quaggiù da solo. Poco saggio, amico mio. Non ci hai pensato bene. No. Dopo la morte di Betsy aveva smesso di pensare bene a un sacco di cose. Gli era sembrato che non ne valesse la pena. Ma questa volta aveva fatto male. Grunwald stava sorridendo. O almeno mostrava i denti. «Ho notato che non hai messo il casco, vicino.» Scosse la testa, sempre con quell'allegro sorriso da matto sulle labbra. Gli sbatterono i capelli sulle orecchie. Sembrava che non si lavasse da qualche tempo. «Una moglie non ti concederebbe un'imprudenza come questa, scommetto, ma naturalmente quelli come te non hanno moglie, giusto? Hanno cani.» Calcò la pronuncia strascicata come un personaggio di Hazzard. «'Fanculo, io me ne vado», disse Curtis. Gli martellava il cuore nel petto, ma pensava che dalla voce non si capisse. Lo sperava. Tutt'a un tratto gli sembrava di estrema importanza che Grunwald non si accorgesse che era impaurito. Cominciò a girarsi per tornare da dov'era venuto. «Ho pensato che il Lotto Vinton avrebbe potuto farti venire fin qui»,
disse Grunwald, «ma ero sicuro che saresti venuto se ci avessi anche aggiunto quella tua cagnetta con la faccia come il culo. L'ho sentita guaire, sai? Quando è corsa contro la rete. La bestiaccia non sapeva stare al posto suo.» Curtis ruotò su se stesso, incredulo. Il Figlio di buonadonna stava annuendo con la pallida faccia sorridente incorniciata dai capelli flosci. «Sì», continuò. «Sono andato a vederla stramazzata per terra. Quel ciuffo di peli rognoso con gli occhi. L'ho guardata morire.» «Avevi detto che non c'eri», gli ricordò Curtis. La voce suonò esile alle sue stesse orecchie, una voce da bambino. «Be', vicino, su quello ho proprio cacciato una balla. Sono tornato a casa in anticipo dal dottore, un po' triste di averlo deluso dopo che si era dato tanto da fare per convincermi a sottopormi alla chemio, e allora ho visto quel tuo ciuffo di peli per terra in una pozzanghera del suo vomito ad ansimare, con tutte le mosche intorno, e mi è passata subito la tristezza. Ho pensato: Ah, ma allora una giustizia c'è! C'è davvero! Era un recinto elettrificato con un voltaggio veramente basso, su questo sono stato assolutamente onesto, però il suo bel lavoretto lo ha fatto lo stesso, vero?» Curtis Johnson colse appieno il senso delle sue parole dopo un primo momento di totale, forse volenterosa, incomprensione. Allora venne avanti chiudendo i pugni. Non tirava cazzotti a nessuno dai tempi della terza elementare, ma aveva seria intenzione di scazzottare qualcuno adesso. Aveva seria intenzione di suonarle al Figlio di buonadonna. Gli insetti continuavano a ronzare tranquillamente nell'erba e il sole continuava a pestare dal cielo, niente nel mondo essenziale era mutato eccetto lui. Svogliatezza e indifferenza non c'erano più. Una cosa almeno gli importava: pestare Grunwald fino a farlo piangere e raggomitolare su se stesso tutto sanguinante. E pensava di poterlo fare. Grunwald aveva vent'anni più di lui e non era in buona salute. E quando il Figlio di buonadonna fosse stato per terra sperabilmente con il naso appena spaccato affondato in una di quelle pozzanghere schifose - gli avrebbe detto: Questo per il mio rognoso ciuffo di peli. Vicino. Grunwald mantenne le distanze con un passo all'indietro. Poi fece ricomparire la mano che aveva tenuto dietro la schiena. Impugnava una grossa pistola. «Fermati dove sei, vicino, o ti apro un buco extra nella testa.» Quasi Curtis non si fermò. La pistola gli sembrava irreale. Morte da quel forellino nero? Del tutto impossibile. Ma...
«È una AMT Hardballer calibro quarantacinque», lo informò Grunwald, «caricata con proiettili a punta soffice. L'ho comprata l'ultima volta che sono stato a Vegas. A un'esposizione di armi. È stato quando Ginny mi aveva appena lasciato. Avevo pensato di ammazzarla, ma poi ho scoperto che di Ginny non me ne fregava più niente. In fondo è solo una delle tante stronze anoressiche con le tette di polistirene che bazzicano la Suncoast. Tu invece... tu sei una cosa diversa. Tu sei cattivo, Johnson. Tu sei una malefica strega omosessuale.» Curtis si fermò. Ci credeva. «Ma adesso, come si dice, sei in mio potere.» Il Figlio di buonadonna sghignazzò, soffocando di nuovo la risata all'ultimo momento così che somigliò stranamente a un singhiozzo. «Non ho neppure bisogno di mirare bene. Questa è un'arma potente, così mi hanno detto. Mi basta colpirti a una mano e sei morto, perché te la spappola. E alla pancia? Ti volerebbero via le budella a dieci metri. Allora, hai voglia di provare? Ti senti fortunato, stronzo?» Curtis non se la sentiva di provare. Non si sentiva fortunato. La verità gli giungeva tardiva ma evidente: si era lasciato raggirare da un pazzo perso e delirante. «Che cosa vuoi? Ti do quello che vuoi.» Curtis deglutì. La sua gola produsse uno schiocco come le mandibole di un insetto. «Vuoi che rinunci alla causa per Betsy?» «Non chiamarla Betsy», ribatté il Figlio di buonadonna. Teneva la pistola - la Hardballer, che nome grottesco - puntata al volto di Curtis a cui ora il foro sembrava più grande che mai. Curtis pensò che probabilmente sarebbe morto prima di sentire la detonazione, anche se forse avrebbe visto la fiamma - o l'inizio della fiamma - eruttata dalla canna. Si rese anche conto di essere pericolosamente vicino a pisciarsi addosso. «Chiamala 'il mio rognoso ciuffo di peli con la faccia come il culo'.» «Il mio rognoso ciuffo di peli con la faccia come il culo», ripeté all'istante Curtis e non si sentì minimamente sleale nei confronti di Betsy. «Adesso di': 'E come mi piaceva leccare la sua fica puzzolente'», ordinò il Figlio di buonadonna. Curtis rimase zitto. Fu contento di scoprire che esistevano ancora dei limiti. Inoltre, se avesse ubbidito, il Figlio di buonadonna lo avrebbe solo obbligato a dire qualcos'altro ancora. Grunwald non sembrò particolarmente deluso. Agitò la pistola. «Comunque stavo solo scherzando.»
Curtis tacque. Metà cervello era ottenebrato da un boato di panico e confusione, ma l'altra metà sembrava lucida come non era più stata dalla morte di Betsy. Forse da molti anni prima. Quella parte stava riflettendo sulla realistica eventualità di essere sul punto di morire. E se non avessi più a mangiare una fetta di pane? Per un momento la sua mente ritrovò unità - la metà confusa e la metà lucida - in un desiderio di vivere così forte da essere terribile. «Che cosa vuoi, Grunwald?» «Per prima cosa che tu entri in uno di quei gabinetti. Quello in fondo.» Agitò di nuovo la pistola, questa volta a sinistra. Curtis si girò a guardare sentendo nascere in sé un sottile filo di speranza. Se Grunwald aveva intenzione di chiuderlo dentro... andava bene, giusto? Forse ora che lo aveva spaventato e si era sfogato un po', Grunwald aveva intenzione di imprigionarlo e prendere il largo. O magari di andare a casa a spararsi. Affidarsi alla vecchia cura calibro 45 contro il cancro. Una celebrata terapia popolare. «Va bene», rispose. «Posso farlo.» «Ma prima ti devi vuotare le tasche. Butta tutto per terra.» Curtis si tolse di tasca il portafogli, poi, malvolentieri, il cellulare. Alcune banconote tenute da un fermaglio. Il suo pettine sporco di forfora. «C'è tutto?» «Sì.» «Rivoltami le tasche all'infuori, bellezza. Voglio vedere con i miei occhi.» Curtis rivoltò la tasca anteriore sinistra, poi la destra. Caddero per terra delle monete e la chiave dello scooter, che luccicarono nel sole appannato dalla foschia. «Bene», commentò Grunwald. «Ora le tasche dietro.» Curtis si rovesciò all'infuori le tasche posteriori. C'era un vecchio foglietto con una lista della spesa. Nient'altro. «Mandami qui il cellulare con un calcio», gli ordinò Grunwald. Curtis ci provò e mancò completamente il colpo. «Imbranato», lo apostrofò Grunwald e rise. La risata finì nello stesso verso strozzato simile a un singhiozzo e per la prima volta in vita sua Curtis capì completamente l'omicidio. La metà lucida del suo cervello registrò il fatto come un evento meraviglioso, perché l'omicidio - fino a quel momento per lui inconcepibile - gli si manifestò elementare come un'operazione di aritmetica.
«Muoviti», lo incalzò Grunwald. «Voglio andare a casa a fare un idromassaggio. Al diavolo gli antidolorifici, l'unica cosa che funziona è l'idromassaggio. Ci vivrei dentro, se potessi.» Ma non sembrava particolarmente ansioso di andarsene. Gli scintillavano gli occhi. Curtis sferrò un altro calcio e questa volta prese il telefono facendolo scivolare fino ai piedi di Grunwald. «Bel tiro!» esclamò il Figlio di buonadonna. «Goal!» si abbassò a raccogliere il Nokia (senza smettere di tenere sotto mira Curtis), poi si rialzò con un sommesso grugnito per lo sforzo. Si fece scomparire il telefonino di Curtis nella tasca destra dei calzoni. Abbassò per un attimo la canna della pistola sugli altri oggetti rimasti in strada. «Adesso raccogli l'altra roba e rimettitela in tasca. Recupera tutti gli spiccioli. Chissà che là dentro non trovi un distributore di merendine.» Curtis eseguì in silenzio, provando di nuovo un fremito nel guardare il pendaglio del portachiavi della Vespa. Certe cose non cambiano nemmeno in extremis, a quanto pareva. «Hai dimenticato la lista della spesa, stronzo. Quando dico che devi tirare su tutto, sto dicendo tutto. Quanto al tuo telefono, te lo rimetto in carica nella tua bella casetta. Dopo che avrò cancellato il messaggio che ti ho lasciato.» Curtis raccolse il foglietto - SUCCO ARANCIA, MAALOX, TRANCIO PESCE, MUFFIN, c'era scritto - e se lo ficcò in una delle tasche posteriori. «Non puoi farlo», disse. Il Figlio di buonadonna alzò le cespugliose sopracciglia da vecchio. «Ah no?» «Ho inserito l'allarme.» Curtis non ricordava se lo avesse fatto davvero. «E poi, ora che torni a Turtle, sarà già arrivata la signora Wilson.» Grunwald lo contemplò con un'espressione indulgente. Il fatto che fosse indulgenza folle la rendeva terrificante invece che solo irritante. «È giovedì, vicino. Di giovedì e venerdì la tua domestica viene solo di pomeriggio. Pensavi che non ti stessi tenendo d'occhio? Come tu tieni d'occhio me?» «Io non...» «Oh, ti vedo a spiare da dietro la tua palma preferita in strada, credevi che non me ne fossi accorto? Però tu non hai mai visto me, vero? Perché sei pigro. E i pigri sono ciechi. I pigri hanno quello che meritano.» Abbassò la voce in un tono confidenziale. «Tutti i gay sono pigri; è stato provato scientificamente. La lobby dei gay cerca di nasconderlo, ma ci sono gli
studi pubblicati in Internet.» Nel suo sgomento crescente, Curtis non si accorse di quell'ultima stoccata. Se ha preso nota dei movimenti della signora Wilson... Cristo, ma allora da quanto tempo è lì che trama e complotta? Almeno da quando Curtis lo aveva querelato per Betsy. Forse già da prima. «Quanto al codice del tuo allarme», il Figlio di buonadonna emise ancora il suo singulto di risata, «ti confiderò un piccolo segreto: il tuo impianto antintrusione è stato installato dalla Hearn Security, con cui io lavoro da quasi trent'anni. Potrei farmi dare i codici di tutte le case in cui la Hearn ha installato un impianto sull'isola, se lo volessi. Niente di più facile. Ma si dà il caso che l'unico che volevo fosse il tuo.» Tirò su con il naso, sputò per terra, poi fu scosso da una tosse turbolenta che gli saliva dal profondo del petto. L'impressione era che gli facesse male (Curtis lo sperò), ma la pistola non vacillò per un solo istante. «Comunque non credo che tu lo abbia inserito. Con la testa che hai tutta piena di pompini e sollazzi del genere.» «Grunwald, non possiamo...» «No. Non possiamo. Ti meriti tutto questo. Te lo sei guadagnato, te lo sei comprato, adesso te lo prendi. Entra in quel cesso del cazzo.» Curtis si avviò ai Port-O-San, dirigendosi però al primo di destra invece che all'ultimo a sinistra. «No no», lo riprese Grunwald. Paziente, come rivolgendosi a un bambino. «L'ultimo dall'altra parte.» «Quello pende troppo», obiettò Curtis. «Se ci entro, potrebbe cascare.» «No», ribatté Grunwald. «Quel coso è solido come il tuo amato mercato azionario. Rinforzi laterali. Ma sono sicuro che ti piacerà l'odore. Quelli come te passano un sacco di tempo nei cacatoi, è un odore che ti piace di certo. È un odore che ami.» All'improvviso la canna della pistola gli si affondò nelle natiche. Curtis si lasciò sfuggire un gridolino spaventato e Grunwald rise. Quel Figlio di buonadonna. «Adesso entra prima che decida di spalmarti per terra.» Curtis dovette sporgersi sopra il fosso di lurida acqua stagnante e, siccome la cabina pendeva, quando l'aprì, la porta gli piombò quasi in faccia. Questo suscitò un altro moto d'ilarità da parte di Grunwald e, sentendolo ridere, Curtis fu nuovamente visitato da pensieri omicidi. Ma avvertì anche la forza sorprendente dei suoi legami affettivi. Incredibile come si sentì improvvisamente innamorato dell'odore vegetale del fogliame e della volta
velata del cielo blu della Florida. Percepì struggente il desiderio di mangiare una fetta di pane, sarebbe stata una leccornia anche una fetta di quello industriale; l'avrebbe consumata con un tovagliolo in grembo e accompagnandola con un giusto vino d'annata scelto dalla sua piccola riserva. Guardava la vita da una prospettiva del tutto nuova. Sperava solo di poter vivere per goderne. E se il Figlio di buonadonna aveva solo intenzione di chiuderlo dentro, forse ci sarebbe riuscito. Un'idea vagante e spontanea come quella del pane gli balenò nella mente. Se ne vengo fuori, comincio a regalare soldi a Save the Children. «Entra là dentro, Johnson.» «Ti dico che cascherà!» «Chi è il costruttore qui? Non cascherà se starai attento. Entra.» «Non capisco perché lo stai facendo!» La risata di Grunwald era incredula. «Ficca il culo là dentro o ti spiano un'autostrada tra le chiappe, quant'è vero Iddio», gli intimò. Curtis scavalcò il fosso ed entrò nel Port-O-San. Sotto il suo peso barcollò pericolosamente all'indietro. Con un grido, si protese sul sedile con il water al centro piantando le mani sulla parete posteriore. E mentre si trovava nella posizione di un indiziato che sta per essere perquisito, la porta dietro di lui si richiuse. La luce del sole scomparve. Si ritrovò all'improvviso in un'oscurità profonda e surriscaldata. Lanciò un'occhiata alle spalle e la cabina vacillò di nuovo, in equilibrio precario. Grunwald bussò alla porta. Curtis lo immaginò là fuori, sporto al di sopra del fosso, con una mano appoggiata alla cabina e l'altra chiusa con cui bussare. «Comodo là dentro?» Curtis non rispose. Almeno ora che Grunwald si era appoggiato alla porta, quel dannato casotto stava su. «Ma sicuro. Tranquillo e beato e accoccolato.» Ci fu un altro tonfo, dopodiché la cabina dondolò di nuovo minacciando di cadere. Grunwald se ne era staccato. Curtis assunse di nuovo la posizione di prima, sulla punta dei piedi, inclinato in avanti, mettendoci tutta la sua buona volontà per reggere la cabina puzzolente. Il sudore che gli colava sulla faccia gli faceva bruciare un taglietto che si era fatto sul mento radendosi. Questo gli fece ricordare il suo bagno, lo spazio della sua esistenza di solito frequentato sovrappensiero, con amorevole nostalgia. Avrebbe dato fino all'ultimo dollaro del suo fondo pensione per esserci in quel momento, con il rasoio nella destra, a guardare il sangue affiorare nella
schiuma da barba sul lato sinistro del mento mentre la radiosveglia sul comodino diffondeva le note di qualche stupido brano pop. Qualcosa dei Carpenters oppure Don Ho. Questa volta vado giù, non c'è speranza, è quello che voleva lui fin dal principio... Ma invece di cascare, il Port-O-San si stabilizzò. Sempre comunque vicino a cedere, molto vicino. Allungato sulla punta dei piedi con le mani sulla parete posteriore e il corpo proteso al di sopra della panca, Curtis si rese conto solo allora di quanto il gabbiotto surriscaldato puzzasse, anche con il coperchio del water abbassato. C'era l'odore del disinfettante - il liquido blu, certamente - che si mescolava con il tanfo di putrefatte deiezioni umane, riuscendo chissà come a trasformarlo in un fetore ancor più insopportabile. Quando Grunwald parlò di nuovo, la sua voce arrivò da dietro. Aveva scavalcato il fosso e aveva girato intorno alla cabina. Curtis ne fu così sorpreso che per poco non indietreggiò, ma riuscì a contenersi. Non poté tuttavia reprimere un sussulto. Staccò per un attimo le mani dalla paratia. Il Port-O-San dondolò. S'affrettò ad appoggiare di nuovo le mani, sporgendosi il più possibile in avanti, e i movimenti della cabina cessarono. «Come va, vicino?» «Morto di fifa», rispose Curtis. Gli erano ricaduti i capelli sulla fronte e il sudore glieli aveva appiccicati lì, ma non osava togliere una mano per ravviarli. Anche quel solo gesto supplementare avrebbe potuto far cadere il Port-O-San. «Fammi uscire. Ormai ti sei divertito.» «Se credi che mi stia divertendo, ti sbagli della grossa», ribatté il Figlio di buonadonna in un tono pedante. «Ho meditato a lungo, vicino, e alla fine ho concluso che tutto questo era necessario, l'unica soluzione. E doveva essere ora, perché se avessi aspettato non avrei più potuto fidarmi della capacità del mio corpo di fare quello che devo.» «Grunwald, perché non sistemiamo da uomini. Giuro che possiamo.» «Giura tutto quello che ti pare, ma io non accetterò mai la parola di un uomo come te», rispose Grunwald nello stesso tono pedante di prima. «Chiunque accetti la parola di una checca, si becca quello che merita.» Poi, gridando così forte che gli si ruppe la voce: «VOIALTRI CREDETE DI ESSERE COSI FURBI! QUANTO FURBO TI SENTI ADESSO?» Curtis tacque. Ogni volta che credeva di aver fatto breccia nella follia del Figlio di buonadonna, gli si spalancavano nuove visuali davanti agli occhi.
Finalmente Grunwald riprese, in un tono più pacato. «Tu vuoi una spiegazione. Tu pensi di meritare una spiegazione. Può anche essere.» Un corvo gracchiò. A Curtis, nella sua torrida scatoletta, sembrò una risata. «Credi che stessi scherzando quando ti ho definito una strega omosessuale? Neanche per idea. Questo vuol dire che sai di essere, come dire, una malvagia forza soprannaturale spedita a mettermi alla prova? Non lo so. Davvero. Da quando mia moglie si è presa i suoi gioielli e mi ha piantato ho passato molte notti insonni a riflettere su questo interrogativo, tra gli altri, e ancora non lo so. Probabilmente non lo sai nemmeno tu.» «Grunwald, ti assicuro che non...» «Zitto. Parlo io qui. E naturalmente questo è quello che dici tu, giusto? Che tu lo sappia o no, è quello che diresti comunque. Guarda le testimonianze di varie streghe a Salem. Coraggio, guarda. Io l'ho fatto. In Internet c'è tutto. Giurarono di non essere streghe e quando pensarono che potesse salvare loro la vita giurarono di esserlo, ma a saperlo con certezza erano molto poche di loro! Questo diventa chiaro quando consideri la situazione con la giusta lucidità... come dire... lucidità... lucidità e basta. O magari lucidità mentale. Ehi, vicino, che succede quando faccio così?» All'improvviso il Figlio di buonadonna - malato ma evidentemente ancora abbastanza in forze - cominciò a far dondolare la latrina. Curtis fu quasi catapultato contro la porta, cosa che sarebbe risultata sicuramente in un disastro. «Fermo!» gridò. «Non farlo!» Grunwald rispose con una risatina indulgente. Il Port-O-San smise di dondolare. Ma Curtis ebbe l'impressione che l'inclinazione del pavimento fosse aumentata. «Che bamboccio che sei. È solido come il mercato azionario, te l'ho detto!» Una pausa. «Un fatto è certo: tutte le checche sono bugiarde, ma non tutti i bugiardi sono checche. Non è un'equazione bilanciata, se ti piace l'allusione. Io sono etero che di più non si può, sempre stato, mi scoperei la Vergine Maria senza colpo ferire, ma ho mentito per farti venire qui, lo ammetto candidamente, e può darsi che stia mentendo ora.» Di nuovo quella tosse, gutturale e cupa e quasi certamente dolorosa. «Fammi uscire, Grunwald. Ti prego. Ti sto pregando.» Una pausa prolungata, come se il Figlio di buonadonna ci stesse pensan-
do davvero. Poi riprese la sua precedente esternazione. «Alla fine, quando si tratta di streghe, non ci si può basare sulle loro confessioni», disse. «Non possiamo fidarci neppure delle testimonianze, perché potrebbero essere mistificanti. Quando abbiamo a che fare con le streghe, la soggettività ha tutto... ha tutto... lo sai anche tu. Possiamo basarci solo sulle prove. Così io ho riflettuto sulle prove del mio caso. Guardiamo ai fatti. Per prima cosa mi hai fregato con il Lotto Vinton. Questo è stato il primo atto.» «Grunwald, io non ho mai...» «Zitto, vicino. Se non vuoi che rovesci la tua bella casetta. Allora potrai parlare finché vuoi. Procedo?» «No!» «Ottima scelta. Non so di preciso perché mi hai fregato, ma credo che tu l'abbia fatto perché temevi che io volessi costruirci un paio di condomini. In tutti i casi la prova - cioè, il tuo ridicolo presunto atto di vendita - indica che si è trattato di una fregatura pura e semplice. Tu sostieni che Ricky Vinton avesse avuto intenzione di venderti quel terreno per un milione e cinquecentomila dollari. Ora, vicino, io ti chiedo: ci sono in tutto il mondo un giudice e una giuria disposti a crederlo?» Curtis non rispose. Ora aveva paura persino di schiarirsi la voce e non solo perché avrebbe potuto scatenare una reazione del Figlio di buonadonna: sarebbe potuto bastare quel poco a compromettere l'equilibrio precario della cabina. Temeva che cascasse anche se avesse staccato un solo dito dalla parete posteriore. Probabilmente era stupido, ma forse no. «Poi sono sciamati i parenti complicando una situazione che era già resa abbastanza complicata... dai tuoi maneggiamenti da finocchio! E sei stato tu a chiamarli. O tu o il tuo avvocato. È chiaro come il sole, sai, la tipica situazione come-volevasi-dimostrare. Perché a te piacciono le cose così come sono.» Curtis rimase in silenzio, lasciò che continuasse a parlare senza contraddittorio. «È lì che hai lanciato la maledizione. Non può essere altrimenti. Perché ci sono le prove a dimostrarlo. 'Non c'è bisogno di vedere Plutone per dedurre che Plutone c'è.' Così ha detto uno scienziato. Aveva intuito l'esistenza di Plutone osservando le irregolarità nell'orbita di non so quale altro pianeta, lo sapevi? Dedurre la presenza della stregoneria funziona alla stessa maniera, Johnson. Devi controllare le prove e cercare le irregolarità nell'orbita del tuo, sai, il tuo... quello che è. La tua vita. E poi lo spirito si
oscura. Si oscura. Io l'ho sentito. Come un'eclissi. Lo spirito...» Tossì di nuovo. Curtis era là dentro nella posizione dell'indiziato perquisito, sedere all'infuori, ventre sospeso al di sopra del water dove in un passato recente i carpentieri di Grunwald si erano seduti a fare i loro bisogni dopo che il caffè del mattino aveva fatto effetto. «Poi Ginny mi ha lasciato», riprese il Figlio di buonadonna. «Adesso vive a Cape Cod. Dice che è da sola, ovvio, perché vuole gli alimenti, come tutte, ma io non sono così scemo. Se quella troia in calore non avesse un cazzo su cui volteggiare un paio di volte al giorno, si farebbe di cioccolatini davanti ad American Idol fino a esplodere. «Poi quelli delle tasse. Poi sono arrivati quei bastardi, con i loro laptop e le loro domande. 'Ha fatto questo, ha fatto quello, dov'è la documentazione di quest'altro?' Era stregoneria, Johnson? O magari una fregatura di un genere, come dire, più andante? Tiri su il telefono e fai: 'Andate a fare un'ispezione da quel tizio, è molto più ricco di quel che vuol far credere'.» «Grunwald, io non ho mai chiamato...» La latrina oscillò. Curtis fu sospinto all'indietro, sicuro che questa volta... Ma il Port-O-San si stabilizzò di nuovo. Curtis cominciava a sentirsi frastornato. Frastornato e nauseato. Non era solo l'odore; era il caldo. O tutti e due. Sentiva la maglia che gli si appiccicava al petto. «Sto esponendo le prove», disse Grunwald. «Quando espongo le prove tu stai zitto. Ordine in aula, che cazzo.» Perché faceva così caldo là dentro? Curtis guardò su e non vide prese d'aria. Oppure c'erano, ma erano state ricoperte. Da quello che sembrava un pannello metallico. Vi erano stati praticati tre o quattro fori che lasciavano entrare un po' di luce ma assolutamente niente aria. I fori erano più grandi di una monetina da un quarto di dollaro, più piccoli di un dollaro d'argento. Guardò dietro di sé torcendo il collo e vide un'altra fila di fori, ma anche le due prese d'aria della porta erano completamente ostruite. «Hanno congelato i miei beni», disse Grunwald in un tono lugubre. «Prima c'è stata una revisione contabile, hanno detto che era solo prassi, ma io so come vanno queste cose e sapevo a cosa stavo andando incontro.» Per forza, perché avevi una coda di paglia lunga un chilometro. «Ma ancora prima della revisione dei conti, mi è venuta questa tosse, anche questa roba tua, ovviamente. Sono andato dal dottore. Cancro ai polmoni, vicino, e mi si è diffuso al fegato, allo stomaco e non so dove cazzo ancora. Tutte le parti molli. Giusto quelle che prenderebbe di mira
una strega. Mi meraviglia che tu non me l'abbia piazzato anche nelle palle e su per il culo, anche se sono sicuro che prima o poi ci arriva. Se glielo permetto io. Ma non sarà così. Questo perché, anche se penso di essermi messo al riparo per questa faccenduola, ed essermi, sai, parato debitamente il culo, anche se così non fosse non avrebbe molta importanza. Perché, vedi, tra non molto mi pianto una pallottola nella testa. Sparata da questa pistola, vicino. Nell'acqua calda del mio idromassaggio.» Emise un sospiro sentimentale. «Ormai è l'unico posto dove mi sento felice. Nell'acqua calda del mio idromassaggio.» Curtis giunse a una conclusione. Forse fu quando sentì il Figlio di buonadonna dire penso di essermi messo al riparo per questa faccenduola, ma più probabilmente lo aveva intuito già da un po'. Il Figlio di buonadonna aveva intenzione di rovesciare la latrina. Lo avrebbe fatto se Curtis si fosse messo a balbettare e protestare; lo avrebbe fatto se Curtis fosse rimasto tranquillo. Non faceva differenza. Ma al momento rimase comunque tranquillo. Perché voleva che il gabinetto restasse in piedi il più a lungo possibile, certo, ma anche per il fascino pervaso di orrore con cui stava ascoltando la sua versione dei fatti. Grunwald non parlava metaforicamente; Grunwald credeva davvero che Curtis Johnson fosse uno stregone. Evidentemente il suo cervello stava marcendo assieme a tutto il resto. «CANCRO AL POLMONE!» proclamò Grunwald sul palcoscenico della sua desolata, fallimentare impresa edile... poi riprese a tossire. I corvi protestarono gracchiando. «Ho smesso di fumare trent'anni fa e mi viene il cancro al polmone ADESSO?» «Sei matto», disse Curtis. «Sicuro, così direbbero tutti. Era questo il piano, no? Questo era il tuo cazzo di un PIAAAAANO. Dopodiché, ciliegina sulla torta, mi fai causa per quel tuo cane con la faccia come il culo? Il tuo dannato cane che era sulla MIA proprietà? E a quale scopo? Dopo che mi avevi preso il terreno, la moglie, il lavoro e la vita, a quale scopo? Umiliazione, ovviamente! La beffa oltre il danno! Per portar vasi a Samo! Stregoneria! E sai cosa dice la Bibbia? Tu non tollererai che una strega viva! Tutto quello che è successo a me è colpa tua e tu non tollererai che una strega... VIVA!» Grunwald spinse il Port-O-San. Questa volta doveva essere stata una bella spallata, perché non ci fu nessuna esitazione, nessun dondolio. Curtis, rimasto momentaneamente privo di peso, cadde all'indietro. La serratura si sarebbe dovuta spezzare sotto l'impatto, ma così non fu. Il Figlio di buona-
donna doveva aver manomesso anche quella. Poi Curtis ritrovò il proprio peso e si schiantò di schiena sulla porta nel momento in cui il gabbiotto piombava a terra. I denti gli si chiusero di scatto sulla lingua. Cozzò con la nuca sulla porta e vide le stelle. Il coperchio del water si aprì come una bocca. Vomitò liquido nerastro, denso come sciroppo. Una stronzo in decomposizione gli finì tra le gambe. Con un grido di raccapriccio, Curtis lo schiaffeggiò via, poi si pulì la mano sulla maglietta, lasciando una striscia marrone. Dal water aperto colava un rivolo schifoso. Scese lungo il fianco del sedile raccogliendosi intorno alle sue scarpe. In esso galleggiava l'incarto di una coppetta di burro d'arachidi. Dall'apertura pendevano strisce di carta igienica come stelle filanti. Era un Capodanno all'inferno. Non era assolutamente concepibile che stesse accadendo. Era un incubo avanzato dall'infanzia. «Com'è l'odore là dentro adesso, vicino?» lo apostrofò il Figlio di buonadonna. Rideva e tossiva. «Come a casa, vero? Immaginati una versione moderna di uno di quegli sgabelli che si usavano per tuffare sott'acqua le megere bisbetiche, riadattato per checche e finocchi. Ti ci vuole solo un senatore gay e una scorta di mutandine Victoria's Secret e potresti farti il tuo lingerie party!» Curtis aveva anche la schiena bagnata. Il gabbiotto doveva essere finito dentro o sopra il fosso. Dai fori praticati nella porta filtrava dell'acqua. «Di solito queste toilette portatili sono sagome prestampate di plastica sottile, hai in mente quelle che piazzano nelle aree di sosta delle autostrade? A mettercisi d'impegno non ci vuole molto a sfondare una parete o il soffitto. Ma nei cantieri edili, noi rinforziamo i lati con pannelli di lamiera. Si chiama incamiciatura. Se no c'è sempre qualcuno che le riempie di buchi. Vandali, giusto per divertirsi, o finocchi come te. Per farci quello che chiamano glory hole. Oh, sì, m'intendo anche di queste cose. Sono uno che si tiene informato, vicino. Oppure vengono dei monelli a prendere a sassate il tetto, solo per sentire che rumore fa. Che è poi il rumore di un botto, come quando fai scoppiare un sacchetto di carta. Così rinforziamo anche il tetto. Naturalmente la cabina diventa più calda, ma questo va a vantaggio della produttività. Nessuno ha voglia di starsene per un quarto d'ora a leggere una rivista in un cacatoio dove si frigge peggio che in una prigione turca.» Curtis si girò. Era immerso in una maleodorante pozza salmastra. Aveva un pezzo di carta igienica avvolto su un polso e se lo strappò via. Vide una macchia marrone - residuo di qualche manovale - sulla carta e cominciò a
piangere. Era affondato nella merda, bardato di carta igienica, con altra acqua che saliva ribollendo dai fori della porta, e non era un sogno. Non molto lontano da lì il suo Macintosh sfornava i numeri inviati da Wall Street e lui era lì, in una vecchia pozza di piscia annacquata con un vecchio stronzo nero arricciato nell'angolo e le fauci spalancate di un water poco sopra le scarpe, e non era un sogno. Avrebbe venduto l'anima per poter svegliarsi nel proprio letto, pulito e fresco. «Fammi uscire! GRUNWALD, TI SUPPLICO!» «Non posso. È tutto programmato», gli rispose il Figlio di buonadonna come se stesse parlando d'affari. «Sei venuto quaggiù per una visitina, per gongolarti un po'. Hai sentito il richiamo della natura e c'erano dei servizi igienici portatili. Sei entrato in quello in fondo, che è caduto. Fine della storia. Quando ti troveranno, quando finalmente ti troveranno, gli sbirri vedranno che tutte le cabine erano inclinate perché le piogge dei temporali pomeridiani avevano eroso la terra che c'era sotto. Non avranno modo di stabilire che la tua attuale dimora era un po' più inclinata delle altre. O che ti ho preso io il cellulare. Penseranno semplicemente che tu l'abbia dimenticato a casa, da quella checca stupida che sei. A loro la situazione sembrerà palese. Quando si dice, sai, l'evidenza dei fatti.» Rise. Senza tossire questa volta, una bella risata soddisfatta di un uomo che ha pensato a tutto. Ora l'acqua sporca in cui giaceva Curtis era profonda cinque centimetri, la sentiva inzuppargli la maglia e i calzoni, e desiderò che il Figlio di buonadonna morisse colpito da un infarto fulminante. 'Fanculo il cancro; che stramazzasse lì dov'era, sulla strada non asfaltata della sua stupida, fallimentare impresa edile. Preferibilmente di schiena, così che gli uccelli potessero beccargli gli occhi. Se succede, io qui dentro ci muoio. Vero, ma era quello che Grunwald aveva progettato fin dal principio, dunque che differenza faceva? «Vedranno che non c'è stata nessuna rapina, avevi ancora i tuoi soldi in tasca. Anche la chiave del tuo scooter. Che è poi un giocattolo maledettamente pericoloso, a proposito, quasi quanto un bolide fuoristrada. E senza casco! Vergogna, vicino. Ho notato che hai inserito l'antifurto, però, ed è un'ottima cosa. Un tocco finale davvero carino. Non hai neppure una penna con cui scrivere un messaggio sulle pareti di quella cabina. Se ne avessi avuta una, ti avrei portato via anche quella, ma non c'era. Sembrerà un tragico incidente.» Fece una pausa. Curtis se lo immaginava con infernale chiarezza. Là
fuori negli abiti che gli andavano larghi con le mani affondate nelle tasche e i capelli sporchi appiccicati alle orecchie. A ruminare. A parlare a lui ma anche a se stesso, ancora in cerca di eventuali sviste, anche dopo quelle che dovevano essere state settimane di notti insonni passate ad architettare la sua bella impresa. «Naturalmente non si può prevedere tutto. C'è sempre qualche jolly in un mazzo di carte. Fante e otto fa cappotto, sette rosso vince tutto. Cose così. E la possibilità che passi di qui qualcuno e ti trovi? Mentre sei ancora vivo, voglio dire? Scarsa, direi. Molto scarsa. E che cos'ho da perdere?» Rise contento di sé. «Stai nuotando nella merda, Johnson? Spero di sì.» Curtis guardò l'escremento arricciato che si era scalciato via dai calzoni e non disse niente. Sentì un brusio. Mosche. Solo poche, ma anche poche erano troppe, dal suo punto di vista. Uscivano dal water spalancato. Dovevano essere rimaste intrappolate nel collettore che sarebbe dovuto essere sotto di lui invece che all'altezza dei suoi piedi. «Io sono fottuto, vicino, ma fai questa considerazione: tu stai subendo un autentico, come dire, destino da strega. E, come si suol dire, nel cacatoio nessuno può sentirti urlare.» Grunwald s'incamminò. Curtis ne calcolò l'allontanamento sull'affievolirsi delle sue risa gutturali. «Grunwald! Torna indietro, Grunwald!» «Adesso sei tu quello alle strette», lo apostrofò Grunwald. «Alle strettissime, direi.» Poi - se lo sarebbe dovuto aspettare, e se lo era aspettato, ma fu lo stesso incredibile - sentì avviarsi il motore dell'automobile con la palma sulla fiancata. «Torna indietro, figlio di buonadonna!» Ma adesso era il rumore dell'automobile che si affievoliva, a mano a mano che Grunwald percorreva la strada non asfaltata (Curtis sentiva lo sciacquio delle pozzanghere), poi risaliva il pendio e oltrepassava il punto in cui un Curtis Johnson molto diverso aveva parcheggiato la sua Vespa. Il Figlio di buonadonna suonò il clacson una volta, un saluto crudele e gioioso, poi il rombo del motore si fuse con la voce del giorno, che non era altro che frinire d'insetti nell'erba e ronzio di mosche sfuggite al collettore del liquame e il brontolio di un aereo nell'alto dei cieli dove forse i viaggiatori in prima classe stavano mangiando formaggio brie su cracker. Una mosca gli si posò sul braccio. La scacciò. Atterrò sul ricciolo di stronzo e cominciò il suo pasto. A un tratto il fetore della cloaca molestata
sembrò una cosa viva, una mano marrone scuro che gli scendeva strisciando nella gola. Ma l'odore dello sterco putrescente non era orribile quanto quello del disinfettante. Era la roba blu. Sapeva che era la roba blu. Si alzò a sedere - aveva giusto lo spazio sufficiente - e si vomitò tra le ginocchia aperte, nella pozza d'acqua in cui galleggiavano strisce di carta igienica. Dopo i suoi ultimi exploit in rigurgitazione non gli restava più che bile. Restò seduto così, curvo in avanti, ad ansimare, con le mani dietro la schiena puntellate sulla porta su cui ora si trovava, nel bruciore pulsante del taglio che si era fatto sul mento sbarbandosi. Poi rigurgitò di nuovo, questa volta emettendo solo un rutto stridulo come il frinire di una cicala. E, per quanto strano, si sentì meglio. In un certo senso onesto. Quella era stata una vomitata guadagnata. Senza bisogno di infilarsi due dita in bocta. Quanto alla forfora, chissà... forse avrebbe potuto regalare al mondo una nuova terapia: la Lozione Orina Vecchia. Non avrebbe mancato di esaminarsi il cuoio capelluto per vedere se c'era qualche miglioramento, quando fosse uscito da lì. Se fosse uscito. Almeno star seduto non era un problema. Il caldo era spaventoso e il tanfo era terribile (non voleva pensare a che cosa fosse stato risvegliato nel collettore e contemporaneamente non riusciva a liberarsi da quei pensieri), ma almeno c'era posto per tenere la testa alta. «Devi contare i punti a tuo favore», mormorò. «Devi contare quei bastardi con molta cura.» Sì, e prenderne nota. Anche quello serviva. L'acqua in cui era seduto non si stava alzando e quello era probabilmente un altro punto a suo favore. Non sarebbe annegato. A meno che, s'intende, gli acquazzoni pomeridiani si fossero trasformati in temporali lunghi una notte intera. Cosa che aveva visto accadere. E non serviva a niente raccontare a se stesso che sarebbe stato fuori di lì prima del pomeriggio, si sarebbe senz'altro liberato, perché abbandonandosi a quelle pie illusioni avrebbe solo fatto il gioco del Figlio di buonadonna. Non poteva starsene seduto lì a ringraziare Dio di avere almeno un po' di spazio per la testa aspettando i soccorsi. Forse verrà a dare un'occhiata qualcuno dell'assessorato all'urbanistica della contea. O una squadra di cacciatori di teste del fisco. Bello immaginarlo, ma aveva il sospetto che non sarebbe andata così. Il Figlio di buonadonna aveva senz'altro preso in considerazione questa eventualità. Era sempre possibile che un burocrate o più decidessero di fare una sortita imprevista, ma affidarsi a quell'eventualità sarebbe stato stupido
come sperare che Grunwald cambiasse idea. E la signora Wilson avrebbe pensato che fosse andato al cinema a Sarasota, come faceva spesso. Batté la mano sulle pareti, prima a sinistra e poi a destra. Su entrambi i lati avvertì la presenza di lamiera rigida dietro lo strato di plastica sottile e flessibile. Incamiciatura. Si alzò sulle ginocchia e questa volta urtò con la testa, ma non se ne accorse nemmeno. Ciò che vide non era incoraggiante: l'estremità tronca delle viti che tenevano insieme il gabbiotto. Le teste erano all'esterno. Quella non era una latrina; era una bara. A quel pensiero, il momento di lucidità e calma si dissolse. Al suo posto scese il panico. Cominciò a martellare le pareti urlando di farlo uscire. Si scagliò con tutto il corpo da una parte e dall'altra come un bambino in una crisi di nervi, cercando di far rotolare il Port-O-San in maniera da liberare almeno la porta, ma non riuscì a scalzarlo neppure di un millimetro. Quel coso maledetto era pesante come un macigno. L'incamiciatura con cui era stato rinforzato lo aveva reso pesante. Pesante come una bara! strillò la sua mente. Nel panico ogni altro pensiero fu cancellato. Pesante come una bara! Come una bara! Una bara! Andò avanti così per un tempo indefinito, finché a un certo punto cercò di alzarsi in piedi, come se ora potesse prorompere dalla parete come Superman. Cozzò di nuovo con la testa, questa volta molto più violentemente. Cadde in avanti bocconi. Una mano affondò in qualcosa di melmoso, qualcosa che macchiava, e se l'asciugò sul fondo dei jeans. Lo fece senza guardare. Aveva gli occhi chiusi, li stringeva con forza. Gli scivolavano lacrime dagli angoli. Nell'oscurità dietro le palpebre sfrecciavano ed esplodevano piccole stelle. Non sanguinava - doveva prenderlo per un elemento positivo, un altro punto a suo favore da mettere in lista - ma per poco non si era tramortito. «Calmati», ordinò a se stesso. Si sollevò di nuovo sulle ginocchia. Teneva la testa bassa, con i capelli penzoloni, gli occhi chiusi. Sembrava in preghiera e forse lo era. Una mosca eseguì una toccata e fuga sul suo collo. «Perdere la testa non serve, se ti sentisse urlare e farneticare sarebbe solo felice, perciò calmati, non dargli quello che vorrebbe, vedi di calmarti e rifletti.» Cosa c'era da riflettere? Era in trappola. Curtis si sedette nuovamente sulla porta e si prese la faccia tra le mani. Il tempo passò e il mondo andò avanti. Il mondo continuò per la sua strada.
Sulla Route 17 transitarono alcuni veicoli, quasi tutti commerciali: camion che andavano a consegnare le loro merci ai mercati di Sarasota o al negozio di alimenti integrali di Nokomis; qualche trattore; il furgoncino del portalettere con le luci gialle sul tettuccio. Nessuno svoltò per il Durkin Grove Village. La signora Wilson approdò alla casa di Curtis, entrò, lesse il messaggio che il signor Johnson aveva lasciato sul tavolo in cucina e cominciò a passare l'aspirapolvere. Poi stirò indumenti davanti a una soap opera pomeridiana. Preparò dei maccheroni da fare al forno, li mise in frigo, poi buttò giù un semplice appunto su come cuocerli - FORNO 180°, 45 MIN - e lo mise sul tavolo dove Curtis aveva lasciato il messaggio per lei. Quando i tuoni cominciarono a brontolare sul Golfo del Messico, uscì in anticipo. Lo faceva spesso, quando pioveva. Da quelle parti nessuno sapeva guidare nella pioggia, tutti trattavano un normale rovescio come fosse un tornado nel Vermont. A Miami, l'ispettore del fisco assegnato al caso Grunwald consumò un sandwich cubano. Invece di giacca e cravatta, indossava una camicia tropicale con i pappagalli. Sedeva sotto un ombrellone davanti a un ristorante. A Miami non pioveva. Lui era in vacanza. Quando fosse rientrato avrebbe trovato il caso Grunwald ad aspettarlo; gli ingranaggi governativi giravano lentamente ma con estrema precisione. Grunwald si rilassò nell'idromassaggio nel patio, sonnecchiando, finché il temporale pomeridiano in arrivo non lo svegliò con i suoi tuoni. Si issò fuori ed entrò in casa. Mentre chiudeva le porte-finestre, cominciò a piovere. Grunwald sorrise. «Questo ti rinfrescherà, vicino», disse. I corvi erano tornati a occupare i ponteggi che ingabbiavano su tre lati la banca incompiuta, ma quando un tuono crepitò quasi direttamente sopra di loro e cominciò a cadere la pioggia, spiccarono il volo e cercarono rifugio nel bosco, manifestando a gran voce la loro contrarietà per essere stati disturbati. Nella latrina - dove gli sembrava di essere imprigionato da almeno tre anni - Curtis ascoltò la pioggia che picchiettava sul tetto della sua prigione. Il tetto che era stato il lato posteriore della cabina prima che il Figlio di buonadonna la buttasse giù. Il picchiettio diventò un battito, infine un boato. All'apice del temporale, fu come trovarsi in una cabina telefonica imbottita di altoparlanti. Un tuono gli esplose sopra la testa. Per un attimo immaginò di essere colpito da un fulmine e cucinato come un cappone in un microonde. Non ne fu particolarmente turbato. Sarebbe stato almeno un
modo veloce di andarsene, mentre quello che stava succedendo adesso era lento. L'acqua ricominciò a salire, ma non rapidamente. Di questo Curtis si rallegrò, ora che aveva stabilito di non correre un rischio concreto di affogare come un gatto precipitato in una tazza del cesso. Almeno quella era acqua e lui aveva molta sete. Avvicinò la testa a uno dei fori nel rivestimento di lamiere, da dove filtrava l'acqua che traboccava dal fosso. Succhiò come un cavallo a un abbeveratoio. Era acqua piena di terra, ma bevve fino a riempirsi la pancia, continuando a ricordare a se stesso che era acqua, solo e nient'altro che acqua. «Con un certo quantitativo di piscio, ma sicuramente di modesta entità», disse, e cominciò a ridere. Le risa si trasformarono in pianto e poi ridiventarono risa. La pioggia cessò verso le sei del pomeriggio, come solitamente accadeva in quella stagione. Il cielo si aprì in tempo per offrire un tramonto di prima qualità. I pochi residenti estivi di Turtle Island si ritrovarono sulla spiaggia a contemplarlo, come facevano di solito. Nessuno commentò l'assenza di Curtis Johnson. Qualche volta c'era, qualche volta no. Tim Grunwald c'era e alcuni tra gli ammiratori di tramonti notarono che quella sera sembrava eccezionalmente su di giri. Mentre tornavano a casa mano nella mano camminando sulla spiaggia, la signora Peebles disse al marito che le sembrava che il signor Grunwald si stesse finalmente riprendendo dal trauma della perdita della moglie. Il signor Peebles rispose che era una romantica. «Sì, caro», disse lei posandogli per qualche istante la testa sulla spalla, «è per questo che ti ho sposato.» Quando Curtis vide la luce che entrava dai fori nel rivestimento - dai pochi che non erano immersi nel fossato - spegnersi dal rosa al grigio, capì che avrebbe trascorso la notte in quella bara puzzolente con cinque centimetri d'acqua sul fondo e un water aperto davanti ai piedi. Sarebbe probabilmente morto là dentro, ma questa considerazione gli apparve accademica. Passarci la notte invece, ore che si ammonticchiavano su altre ore, pile di ore come pile di grandi libri neri... quello era reale e inevitabile. Il panico lo aggredì di nuovo. Ancora una volta si mise a urlare e a picchiare le pareti, ora girandosi e rigirandosi sulle ginocchia, prima pestando un lato con la spalla destra, poi pestando l'altro con la sinistra. Come un uccello imprigionato in un campanile, pensò, senza però potersi fermare. I movimenti inconsulti di un piede spedirono lo stronzo fuggiasco a inzaccherare il fondo della panca. Si strappò i calzoni. Prima si escoriò le noc-
che, poi se le lacerò. Finalmente smise e si raggomitolò in posizione fetale a piagnucolare succhiandosi le nocche ferite. Devo stare calmo. Devo conservare le forze. Per cosa? Alle otto l'aria cominciò a rinfrescarsi. Alle dieci si era raffreddata anche la pozzanghera in cui giaceva. A lui pareva fredda, per la verità, e cominciò a tremare. Si strinse le braccia intorno al corpo e si sollevò le ginocchia contro il petto. Andrà tutto bene finché non batterò i denti. Non sopporto l'idea di sentire i miei denti che battono. Alle undici, Grunwald andò a letto. In pigiama, sotto le pale del ventilatore, guardò l'oscurità e sorrise. Da mesi non si sentiva così bene. Era gratificato ma non sorpreso. «Buonanotte, vicino», disse e chiuse gli occhi. Per la prima volta in sei mesi quella notte dormì senza svegliarsi. A mezzanotte, non lontano dalla prigione di Curtis, un animale - probabilmente solo un cane inselvatichito, ma a Curtis sembrò una iena - emise un ululato lungo e stridulo. Curtis cominciò a battere i denti. Il rumore era orribile proprio come aveva temuto. Trascorso che fu un tempo inimmaginabile, dormì. Quando si svegliò, era in preda ai tremiti. Non stavano fermi neanche i piedi, che ballavano come quelli di un tossico in crisi di astinenza. Mi sto ammalando, devo andare dal dottore, ho male dappertutto. Poi aprì gli occhi. Vide dov'era, ricordò dov'era e mandò un grido forte e desolato. «Oh... no! NO!» Ma era oh sì. Quanto meno il Port-O-San non era nel buio totale. Dai fori entrava della luce, il bagliore rosa pallido del mattino. Presto si sarebbe intensificato con il progredire del giorno e la temperatura avrebbe incominciato a crescere. Di lì a non molto avrebbe ripreso a cuocere a vapore. Grunwald tornerà. Ha avuto una nottata intera per pensarci, si renderà conto della follia che ha fatto e tornerà. Mi farà uscire. Non ci credeva. Avrebbe voluto, ma non ci credeva. Aveva un bisogno maledetto di orinare, ma sarebbe morto piuttosto che pisciare nell'angolo, anche se dopo il rovesciamento del giorno prima c'erano merda e carta igienica dappertutto. Aveva la sensazione che se lo avesse fatto - una cosa così brutta - sarebbe stato come annunciare a se stesso di aver abbandonato ogni speranza. Ho abbandonato ogni speranza.
Ma non lo aveva fatto. Non del tutto. Stanco e indolenzito com'era, spaventato e demoralizzato, da qualche parte dentro di sé manteneva ancora viva una fiammella di speranza. E c'era un lato positivo: non provava l'impulso a indurre il vomito e non aveva dedicato un solo minuto di tutta la notte appena trascorsa, quasi eterna com'era stata, a tormentarsi il cuoio capelluto con il pettine. Non c'era comunque bisogno che pisciasse nell'angolo. Gli bastava sollevare il coperchio del water con una mano, prendere la mira con l'altra e lasciar partire il getto. Naturalmente, data la nuova configurazione del Port-O-San, si sarebbe trattato di pisciare in orizzontale invece che all'ingiù. La tensione che avvertiva nella vescica lo informava che non sarebbe stato di certo un problema. Naturalmente le ultime gocce sarebbero finite probabilmente per terra, ma... «Ma tali sono i casi della guerra», declamò e sorprese se stesso con una risata arrochita. «E quanto all'asse del cesso... 'fanculo tenerla su. So fare di meglio.» Non era un Ercole, ma sia l'asse del water, sia le flange che la fissavano alla panca erano di plastica, coperchio e anello neri, flange bianche. Tutta quanta quella dannata scatola non era che un comune stampo di plastica, non c'era bisogno di essere un grande imprenditore edile per vederlo, e a differenza delle pareti della porta, non c'erano incamiciature sul water e le sue giunture. Pensava di poter sradicare il water senza grandi difficoltà e, se avesse potuto lo avrebbe fatto, se non altro per sfogare collera e terrore. Curtis sollevò il coperchio, con l'idea di afferrare saldamente l'anello sottostante e strattonarlo lateralmente. Invece si fermò a guardare nello scarico circolare e nel sottostante collettore, cercando di interpretare quello che stava vedendo. Gli sembrava un filo di luce diurna. Lo osservò in uno stato di perplessità in cui la speranza cominciò a insinuarsi furtivamente, non proprio sbocciando, ma piuttosto trapelando dalla sua pelle sudata e insozzata. Da principio pensò che si trattasse di una chiazza di vernice fluorescente, se non addirittura di una banale illusione ottica. Questa seconda ipotesi venne confermata dal fatto che il filo di luce cominciò a spegnersi. Piccolo... minore... minimo... Poi, prima che scomparisse del tutto, cominciò a intensificarsi di nuovo, una linea di luce così brillante che quando chiudeva gli occhi la vedeva ancora dietro le palpebre. Quella è luce del sole. Il fondo della cabina, quello che era il fondo della
cabina prima che Grunwald la rovesciasse, è rivolto a est, dove è appena spuntato il sole. E quando si indeboliva? «È passata una nuvola», disse e con la mano con cui non reggeva il coperchio si spinse all'indietro l'ammasso dei capelli. «Adesso il sole esce di nuovo.» Esaminò la sua idea in cerca di eventuali tracce del mortale inquinamento da autoillusione e non ne trovò. L'evidenza dei fatti era davanti ai suoi occhi: luce solare che filtrava da una sottile fessura in fondo al collettore del Port-O-San. O magari una crepa. Se fosse riuscito ad arrivarci e ad allargare quell'apertura, quel varco scintillante sul mondo esterno... Non contarci. E per arrivarci, avrebbe dovuto... Impossibile. Se stai pensando di introdurti nel collettore attraverso il water come Alice in un Paese delle Meraviglie inondato di liquame, è meglio che lasci perdere. Forse se fossi stato il ragazzino pelle e ossa di una volta, ma da allora sono passati trentacinque anni. Tutto molto vero. Ma era ancora snello, le sue quotidiane corse in bicicletta ne erano in gran parte responsabili, e la verità era che pensava veramente di potersi infilare in quel buco e scendere sotto la panca. Forse non sarebbe stato neppure così difficile. E come fai a tornare fuori? Be'... se fosse riuscito a cavare qualcosa da quel filo di luce, forse non sarebbe stato costretto a tornare indietro. «Sempre che riesca ad arrivarci», disse. All'improvviso gli si riempì lo stomaco di farfalle e per la prima volta da quando era arrivato al pittoresco Durkin Grove Village, ebbe l'impulso di ficcarsi due dita in gola per vomitare. Gli sembrava che dopo una bella vomitata sarebbe stato in grado di pensare con maggiore lucidità. «No», sbottò e strattonò coperchio e anello con la sinistra. Le flange scricchiolarono ma non cedettero. Riprovò con l'ausilio dell'altra mano. Gli caddero di nuovo i capelli sulla fronte e li allontanò con un'impaziente scrollata di testa. Strattonò di nuovo. Asse e anello ressero per un momento ancora, poi saltarono via. Una delle due flange bianche di plastica cadde nel collettore. L'altra, crepata al centro, rotolò sulla porta su cui era inginocchiato Curtis. Gettò da parte coperchio e anello e, appoggiato alla panca, scrutò nel collettore. La prima zaffata dell'atmosfera venefica che c'era là sotto lo in-
dusse a ritrarsi con una smorfia. Pensava di essersi abituato all'odore (o di esserne diventato insensibile), ma non era così, almeno non quand'era così vicino alla sua origine. Si domandò di nuovo quando avessero svuotato quel coso maledetto per l'ultima volta. Guarda il lato positivo, è anche passato molto tempo dall'ultima volta che è stato usato. Forse, probabilmente, ma non era così sicuro che la situazione ne risultasse migliorata. C'è ancora un sacco di roba laggiù, un sacco di merda laggiù, a galleggiare in quel che restava dell'acqua disinfettata. Per quanto scarsa, c'era abbastanza luce per esserne sicuro. Poi c'era sempre la questione di come venirne fuori. Probabilmente ne era capace - se poteva andare in un senso, quasi certamente poteva andare nel senso opposto - ma era fin troppo facile immaginare che aspetto avrebbe avuto, una nauseante creatura partorita dal liquame, non un uomo di fango bensì un uomo di merda. La domanda era: aveva un'altra scelta? Be', sì. Poteva restarsene seduto lì a cercare di convincere se stesso che prima o poi qualcuno sarebbe venuto a salvarlo. La cavalleria, come nell'ultima sequenza di un western. Solo che riteneva più probabile che tornasse il Figlio di buonadonna ad assicurarsi che fosse ancora... come aveva detto? Tranquillo, beato e accoccolato nella sua casetta. Qualcosa del genere. Fu quello a farlo decidere. Guardò il buco nel sedile, il buco scuro con le sue malefiche esalazioni, il buco scuro con quell'unico filo di luce e speranza. Una speranza sottile come la luce. Fece i suoi calcoli. Prima il braccio destro, poi la testa. Braccio sinistro schiacciato contro il corpo finché non fosse penetrato fino alla vita. Poi, quando si fosse liberato il braccio sinistro... E se non fosse riuscito a liberarlo? Si vide incastrato, con il braccio destro dentro il collettore, il braccio sinistro inchiodato contro il fianco, il busto a bloccare l'apertura, a bloccare l'aria, a fare la fine di un cane, a rimestare la morchia sottostante mentre soffocava, vedendo come ultima cosa della sua vita l'irridente filo di luce che lo aveva adescato. Vide qualcuno che trovava il suo corpo a intasare per metà lo scarico di un cesso con il culo all'insù e le gambe aperte, tra le peste marrone che le suole delle sue scarpe avevano stampato sulle pareti di quel dannato gabbiotto con gli ultimi calci della sua agonia. Gli parve di sentire qualcuno, forse l'ispettore del fisco che in quel momento era la bête noire del Figlio di buonadonna, esclamare: «Merdaccia, dev'essergli cascato dentro qual-
cosa di veramente prezioso». Era divertente, ma Curtis non ebbe voglia di ridere. Da quanto tempo era lì inginocchiato a guardare nel buco? Non lo sapeva - il suo orologio da polso era nello studio di casa, accanto al tappetino del mouse - ma a giudicare dal dolore nelle cosce doveva essere giù da un bel pezzo e la luce era considerevolmente più forte. Ormai il sole doveva essere uscito del tutto dall'orizzonte e presto la sua prigione si sarebbe trasformata in un bagno turco. «Devo andare», disse e si asciugò con le mani il sudore sulle guance. «È l'unica.» Ma indugiò ancora, perché gli venne in mente un'altra cosa. E se là dentro ci fosse stato un serpente? Se il Figlio di buonadonna, immaginando che il suo stregonesco nemico potesse tentare la fuga proprio in quel modo, ci avesse messo un serpente? Un serpente a sonagli, magari, finora addormentato sotto uno strato di fresca fanghiglia umana? Un morso di serpente a sonagli al braccio e sarebbe morto lentamente e dolorosamente, con il braccio che gli si gonfiava mentre la temperatura saliva e la sua prigione diventava di nuovo un forno. Un morso di serpente corallo lo avrebbe mandato al creatore più velocemente ma ancor più dolorosamente: il cuore che sobbalzava, si fermava, sobbalzava di nuovo, finché finalmente si arrestava del tutto. Non ci sono serpenti là dentro. Insetti, forse, ma non serpenti. Lo hai visto, lo hai sentito. Non arrivava a pensare a tanto. Era troppo malato, troppo pazzo. Forse sì, forse no. Non c'è modo di giudicare cosa passa per il cervello di un matto, giusto? I matti sono jolly. «Fante e otto fa cappotto, sette rosso vince tutto», recitò Curtis. Il Tao del Figlio di buonadonna. Restava tuttavia la certezza che se non avesse tentato di scendere là dentro, era quasi sicuramente destinato a morire là sopra. E alla fine, un morso di serpente sarebbe stato più rapido e misericordioso. «Devo», disse, asciugandosi di nuovo le guance. «Devo.» Salvo che fosse rimasto incastrato mezzo dentro e mezzo fuori. Quello sarebbe stato un modo spaventoso di morire. «Non resterai incastrato», disse. «Guarda quant'è largo. Questo affare è stato costruito per il culo di camionisti da lunghi percorsi mangiatori di ciambelle.» Questo lo fece sghignazzare. Una serie di latrati dettati più dall'isterismo che dal divertimento. Il buco del water non gli sembrava affatto grande; gli
sembrava piccolo. Quasi minuscolo. Sapeva che quella era solo la sua percezione nervosa del suo diametro - diavolo, la sua percezione atterrita, la sua percezione spaventata a morte - ma saperlo non gli era di grande aiuto. «Lo devo fare», ripeté, «non c'è proprio nient'altro.» E alla fine davvero sarebbe stato probabilmente per niente... ma dubitava che qualcuno avesse pensato di applicare un pannello d'acciaio anche sotto il collettore dello scarico e fu questo a deciderlo. «Che Dio mi aiuti», mormorò. Era la sua prima preghiera da quasi quarant'anni. «Dio, ti prego aiutami a non restare incastrato.» Infilò il braccio destro, poi la testa (prendendo prima un respiro profondo dell'aria migliore che c'era di sopra). Si premette il braccio sinistro contro il fianco e scivolò nell'apertura. Gli si impigliò la spalla sinistra, ma prima di ritrarsi colto dal panico - quello era il momento critico, il punto del non ritorno, inconsciamente se ne rendeva conto anche lui - si divincolò contorcendosi come ballando il Watusi o The Monkey. E la spalla passò con un plop. Scivolò nel collettore puzzolente fino alla vita. Con il buco ostruito dai suoi fianchi - snelli, ma non inesistenti - ora là sotto era buio come la pece. Con quel filo di luce che gli dondolava davanti agli occhi come prendendolo in giro. Come un miraggio. Oh, Dio, fai che non sia un miraggio, ti supplico. Il collettore era profondo forse un metro e mezzo. Più grande del serbatoio di un'automobile, ma sfortunatamente non grande come il cassone di un pick-up. Non aveva modo di saperlo con certezza, ma pensava di toccare con i capelli l'acqua disinfettata e di arrivare con la cima della testa a pochi centimetri dal pantano che ne riempiva il fondo. E aveva ancora il braccio sinistro schiacciato contro il corpo. Schiacciato all'altezza del polso adesso. Non poteva liberarlo. Si divincolò da una parte e dall'altra. Il braccio rimase dov'era. Il suo incubo peggiore: incastrato. Alla fine era rimasto incastrato. Incastrato a testa in giù in una fetida tenebra. Esplose il panico. Annaspò con la mano libera, senza pensarci su, per un momento vide ancora le sue dita delineate dalla fioca luce che penetrava dal fondo del collettore, ora rivolto al sole invece che posato sul terreno. La luce c'era, era lì davanti a lui. Cercò di afferrarla. Le dita più lunghe erano troppo grosse per passare nella stretta fessura, ma riuscì ad agganciarvi il mignolo. Tirò, sentendo il bordo frastagliato - metallo o plastica, non sapeva distinguere - affondarglisi prima nella pelle del dito e poi aprendogliela. Non ci badò. Tirò più forte.
I fianchi passarono attraverso l'apertura come un tappo che esce da una bottiglia. Gli si liberò il polso, ma troppo tardi perché potesse sollevare il braccio sinistro per attutire la caduta. Piombò a testa in giù nella merda. Riemerse rantolando e gesticolando, con il naso pieno di liquido puzzolente. Tossì e sputò, consapevole di essere veramente alle strette adesso, altro che strette. Gli era sembrato che la cabina fosse stretta? Ridicolo. La cabina era uno spazio sconfinato. La cabina era il West americano, il deserto australiano, la grande nebulosa della Testa di Cavallo. E lui vi aveva rinunciato per scendere in un utero buio pieno per metà di merda marcescente. Si passò le mani sulla faccia e le scrollò. Bave scure gli si staccarono dai polpastrelli. Gli bruciavano gli occhi, non ci vedeva. Se li asciugò prima con un braccio, poi con l'altro. Aveva il naso ostruito. Vi infilò i mignoli sentì sangue scivolargli da quello destro - e si pulì le narici come meglio poteva. Se le liberò abbastanza da respirare di nuovo, ma quando lo fece il fetore del collettore gli balzò in gola e gli affondò gli artigli nello stomaco. Ebbe un conato accompagnato da un ringhio gutturale. Tieni duro. Devi tenere duro, se no non serve a niente. Si appoggiò al lato imbrattato del collettore, respirando solo dalla bocca, ma era quasi lo stesso. Sopra di lui c'era un'ampia perla ovale di luce. Lo scarico del water attraverso cui, nella sua follia, era passato. Sussultò in un altro conato. Alle proprie orecchie gli sembrò di sentire un cane rabbioso in un giorno di canicola che cerca di abbaiare strozzandosi a metà in un collare troppo stretto. E se non riesco a fermarmi? Se non riesco a smettere? Mi verranno le convulsioni. Era troppo spaventato e frastornato per pensare, così fu il suo corpo a pensare per lui. Ruotò sulle ginocchia, manovra non facile - la parete del collettore, che ora era diventata il fondo, era viscida - ma giusto possibile. Applicò la bocca alla fessura sul fondo del collettore e vi respirò attraverso. Mentre lo faceva attirò alla sua memoria una storia che aveva sentito o letto alle elementari: indiani che si nascondevano ai nemici adagiandosi sul fondo di stagni poco profondi. Sdraiandosi là sotto e respirando attraverso canne cave. Si poteva fare. Ci si riusciva se si manteneva la calma. Chiuse gli occhi. Respirò e l'aria che entrava dalla fessura era dolcissima. A poco a poco il suo cuore in fuga cominciò a rallentare i battiti. Puoi tornare su. Se puoi andare in un senso, puoi andare nel senso opposto. E tornare indietro sarà più facile, perché adesso sei...
«Adesso sono lubrificato», disse e riuscì persino a emettere una risatina tremula... anche se il suono della propria voce appiattito da quello spazio ristretto lo riempì nuovamente di terrore. Quando ritenne di essersi calmato a sufficienza, aprì gli occhi. La sua vista si era abituata all'oscurità più intensa del collettore. Vide le sue braccia sporche di escrementi, il pezzo macchiato di carta igienica che gli pendeva da quello destro. Lo staccò e lo lasciò cadere. Forse si stava abituando. Forse ci si abitua a tutto, quando non c'è alternativa. Questa considerazione non lo confortò più che tanto. Guardò la fessura. La osservò per qualche tempo cercando di dare un senso a ciò che vedeva. Gli faceva pensare al cedimento di una cucitura un po' approssimativa di un capo d'abbigliamento. Perché quella che correva là sotto era in effetti una giuntura. Il collettore del resto era di plastica, uno scatolone di plastica, ma non era un pezzo unico: era costituito da due parti. Le parti erano tenute insieme da una fila di viti che luccicavano nel buio. Luccicavano perché erano bianche. Curtis cercò di ricordare se avesse mai visto viti bianche. No. Alcune di quelle al livello inferiore si erano spezzate creando la fessura. Da allora il liquame doveva essere colato nel terreno sottostante. Lo vengono a sapere quelli della protezione ambientale e ti ritrovi anche loro sul groppone, Figlio di buonadonna, pensò Curtis. Toccò una delle viti che ancora tenevano, quella subito a sinistra del punto in cui finiva la fessura. Non ne era sicuro, ma ebbe la sensazione che fosse plastica rigida e non metallo. Lo stesso genere di plastica delle flange dell'asse del water. Dunque. Un componente in due parti. Collettori che venivano assemblati su qualche catena di montaggio di Defiance, Missouri, o Magic City, Idaho, o, chissà, What Cheer, Iowa. Le due parti giuntate con viti di plastica rigida, lungo una linea che attraversava il fondo del contenitore e saliva sui due fianchi come un sorrisone. Le viti strette con uno speciale cacciavite a stelo lungo, probabilmente ad aria compressa, come le pistole che si usano nelle officine meccaniche per allentare i bulloni dei mozzi. E perché inserire le viti con la testa all'interno? Semplice. Per impedire che qualche simpatico buontempone armato di cacciavite proprio aprisse dall'esterno un collettore pieno. Le viti erano a intervalli di cinque centimetri e la fessura che si era aperta era lunga una quindicina, perciò le viti di plastica che avevano ceduto dovevano essere tre. Scarso il materiale o il progetto? Ma forse solo un la-
voro di merda. «Tanto per restare in tema», disse e rise di nuovo. Le viti che ancora reggevano a destra e a sinistra della fessura sporgevano un po', ma non poteva né svitarle né spezzarle come aveva fatto con l'asse del water. Non aveva abbastanza presa. Quella sulla destra era un po' allentata e riteneva che se ci avesse lavorato un po' sarebbe riuscito a smuoverla di quel tanto che gli serviva per svitarne il resto. Ci avrebbe impiegato ore e si sarebbe probabilmente piagato le dita, ma che cosa ne avrebbe ricavato? Altri cinque centimetri di apertura attraverso cui respirare. Niente di più. Tutte le viti più lontane dalla fessura erano strette a dovere. Non ce la faceva più a stare in ginocchio, gli bruciavano i muscoli delle cosce. Tornò a sedersi contro la parete curva del collettore, con gli avambracci sulle ginocchia, le mani sudice penzoloni. Guardò l'ovale chiaro dello scarico del water. Quello era il Sopramondo, pensò, di cui a lui era rimasta una fettina molto piccola. L'odore però era migliorato e, quando avesse riacquistato un po' di forza nelle gambe, pensava di potersi issare nuovamente attraverso lo scarico. Se non aveva da guadagnarci niente, non c'era ragione perché rimanesse là sotto, seduto nella merda. Uno scarafaggio gigante, incoraggiato dall'immobilismo momentaneo di Curtis, gli risalì per il pantalone inzuppato di liquame. Lo scacciò con una mano e l'insetto scomparve. «Bravo», disse. «Scappa. Perché non passi attraverso quella fessura? Tu probabilmente puoi.» Si tolse i capelli che aveva davanti agli occhi sapendo di sporcarsi la fronte, senza che gliene importasse qualcosa. «Ma no, a te qui dentro piace. Probabilmente credi di essere morto e di essere finito nel paradiso delle blatte.» Si sarebbe riposato, avrebbe aspettato che le gambe indolenzite si riprendessero un po', poi si sarebbe issato fuori dal Paese delle Meraviglie per tornare nel suo pezzetto di Sopramondo grande come una cabina telefonica. Solo una breve pausa di riposo; non si sarebbe trattenuto là sotto più a lungo dell'indispensabile, poco ma sicuro. Chiuse gli occhi e cercò di risintonizzarsi. Vide scorrere i numeri sullo schermo del computer. La Borsa di New York non era ancora aperta, dunque erano numeri che arrivavano dall'estero. Probabilmente il Nikkei. I numeri erano per la maggior parte verdi. Buon segno. «Industriali e metallurgici», disse. «E la Takeda Pharmaceutical... da comprare. Lo vedono tutti che...»
Rannicchiato contro la parete in quella che era quasi una posizione fetale, con la faccia tirata e imbellettata di strisce marrone, il sedere sprofondato fin quasi alle anche nella melma, le mani inzaccherate ancora penzoloni tra le ginocchia sollevate, Curtis dormì. E sognò. Betsy era viva e Curtis era in soggiorno. Il cane era accucciato su un fianco nel suo solito posto tra il tavolino e la TV, dormiva con i resti dell'ultima pallina da tennis semimasticata a portata di mano. O di zampa, nel caso di Betsy. «Bets», chiamò. «Svegliati e portami l'idiot-stick!» Betsy si alzò faticosamente - per forza i suoi movimenti erano affaticati, ormai era anziana - e i pendagli del suo collare tintinnarono. I pendagli tintinnarono. I pendagli. Si risvegliò annaspando, inclinato a sinistra contro il fondo viscido del collettore, con una mano protesa o per prendere il telecomando o per toccare il cane morto. Si abbassò la mano sul ginocchio. Non si sorprese di scoprire che stava piangendo. Aveva probabilmente cominciato anche prima che avesse avuto inizio il suo sogno. Betsy era morta e lui era seduto nella merda. Se non bastava quello per far piangere, cos'altro ci voleva? Guardò di nuovo l'ovale illuminato che aveva sopra di sé e notò che la luce era molto più intensa. Difficile credere che avesse dormito a lungo, ma così sembrava. Almeno un'ora. Dio solo sapeva quanto veleno si stava mettendo nei polmoni, ma... «Tranquillo, sono insensibile all'aria avvelenata», disse. «Del resto sono una strega.» E, aria cattiva o no, il sogno era stato molto confortante. Molto vivido. I pendagli del collare... «Merda», mormorò e la sua mano volò alla tasca. Era terribilmente sicuro di aver perso la chiave della Vespa nella caduta ed essere costretto a doverla cercare laggiù, rimestando nella merda avendo ad assisterlo solo la scarsa luce che trapelava dalla fessura e quella che arrivava dallo scarico del water. Ma la chiave c'era ancora. C'erano anche i soldi, che però non gli sarebbero serviti a niente là sotto, e c'era il fermaglio, altrettanto inutile. Era d'oro e prezioso, ma troppo spesso per servirgli da strumento per la fuga. Altrettanto valeva per la chiave della Vespa. Ma c'era qualcos'altro ap-
peso all'anello di quella chiave. Qualcosa che, tutte le volte che lo guardava o lo sentiva tintinnare, lo faceva stare simultaneamente bene e male. Era la medaglietta identificativa di Betsy. Ne portava due, ma questa era quella che aveva sfilato dal suo collare prima dell'ultimo abbraccio d'addio, quando aveva consegnato il suo corpo al veterinario. L'altra, quella ufficiale, certificava che aveva subito tutte le vaccinazioni. Questa era più personale. Era rettangolare, come una piastrina militare. Sopra c'era scritto BETSY SE PERSA CHIAMARE 941.555.1954 CURTIS JOHNSON 19 GULF BOULEVARD TURTLE ISLAND, FLA. 34274 Non era la lama di un cacciavite, ma era sottile, era fatta d'acciaio, e Curtis pensava che sarebbe servita. Recitò un'altra preghiera - non sapeva se era vero quel che si diceva, che non ci sono atei in fin di vita, ma a quanto pare non ce n'erano in fin di water - quindi inserì la medaglietta di Betsy nella testa della vite subito a destra di dove finiva la fessura. La vite già un po' allentata. Si aspettava una certa resistenza, invece, spinta dalla medaglietta, la vite ruotò quasi all'istante. Ne fu così sorpreso che si lasciò sfuggire di mano il portachiavi e dovette cercarlo frugando. Infilò nuovamente la medaglietta di taglio nella testa della vite e la girò due volte. Il resto fu in grado di svitarlo da solo. Lo fece con un enorme sorriso incredulo sulle labbra. Prima di attaccare la vite a sinistra della fessura - che ora era lunga venti centimetri - ripulì la medaglietta sulla maglia (quanto meglio poteva; la maglia che indossava era sudicia come tutto il resto, incollata alla pelle) e la baciò con affetto. «Se andrà bene, ti metto in cornice.» Esitò, poi aggiunse: «Fai che vada bene, per piacere». Inserì la medaglietta nella testa della vite e girò. Era più stretta di quella prima... ma non troppo stretta. E quando cominciò a ruotare, venne via in un battibaleno. «Gesù», mormorò Curtis. Intanto piangeva di nuovo, stava diventando un piagnone. «Uscirò da qui, Bets? Lo dici davvero?» Tornò a destra e affrontò la vite successiva. Proseguiva così, destra-
sinistra, destra-sinistra, destra-sinistra, fermandosi a riposare quando gli si stancava la mano, flettendola e scrollandola finché ne riacquistava l'agilità. Erano quasi ventiquattr'ore che si trovava lì dentro; non si sarebbe fatto prendere dalla foga adesso. Soprattutto non voleva perdere di nuovo il portachiavi. Lo avrebbe anche ritrovato, il fondo del collettore non era così ampio, ciononostante non voleva correre quel rischio. Destra-sinistra, destra-sinistra, destra-sinistra. E lentamente, mentre la mattina trascorreva e il collettore si riscaldava rendendo l'odore sempre più penetrante e perniciosamente denso, la fessura sul fondo si allargò. Ce la stava facendo, era sempre più vicino alla liberazione, ma si rifiutava di affrettarsi. Era importante non essere precipitoso, non farsi prendere dalla foga come un cavallo spaventato. Perché avrebbe potuto rovinare tutto, sì, ma anche perché il suo amor proprio e la sua autostima - la sua fondamentale percezione di sé - avevano preso una sonora legnata. Anche se da un certo punto di vista gli aveva fatto bene. Folle pensare che potesse esserci qualcosa di positivo in una prolungata sauna in un mare di merda... ma così era. Lasciando pure da parte l'autostima, chi va piano va sano e va lontano. Destra-sinistra, destra-sinistra, destra-sinistra. Poco prima di mezzogiorno, la giuntura lungo il fondo incrostato di terra del Port-O-San si aprì, poi si chiuse, poi si aprì e si chiuse di nuovo. Ci fu una pausa. Poi si spalancò per una lunghezza di un metro abbondante e apparve la testa di Curtis Johnson. Si ritrasse e ripresero i rumori e i fruscii del suo assalto nel rimuovere altre viti: tre a sinistra, tre a destra. Quando la giuntura si aprì di nuovo, la calotta imbrattata della testa d'uomo continuò a spingere. Spinse lentamente, con le guance e la bocca tirate all'ingiù come se risucchiate da una tremenda forza di gravità, un orecchio malamente scorticato e sanguinolento. Cacciò un grido, spingendo con i piedi, terrorizzato di ritrovarsi questa volta veramente incastrato, mezzo dentro mezzo fuori. Ciononostante, malgrado la paura, sentì la squisita freschezza dell'aria: calda e umida, la migliore che avesse mai respirato. Quando fu emerso fino alle spalle, si concesse una sosta, ansimando, con lo sguardo posato su una lattina di birra schiacciata che luccicava nell'erba a non più di tre metri della sua testa sudata e sanguinante. Gli sembrava un miracolo. Poi riprese a spingere, testa sollevata, bocca contratta, tendini
che affioravano nel collo. I margini della giuntura gli strapparono la camicia sulla schiena. Non se ne accorse nemmeno. Diritto davanti a lui c'era un pino nano, alto non più di un metro e mezzo. Si protese, arrivò con una mano alla base del tronco sottile e vigoroso, poi vi si aggrappò anche con l'altra. Riposò ancora una volta per qualche istante, sentendo il sangue che gli colava dai graffi sulle scapole, poi tirò con le mani e spinse per un'ultima volta con i piedi. Temette di sradicare il piccolo pino, ma non successe. Avvertì un dolore rovente nelle natiche quando il margine della fessura attraverso la quale stava emergendo divincolandosi gli strappò i calzoni ammucchiandoglieli intorno alle scarpe. Per riuscire a uscire del tutto, dovette continuare a tirare e torcere fino a liberarsi anche delle scarpe. E quando finalmente il collettore gli lasciò andare anche il piede sinistro, gli fu quasi impossibile credere di essere veramente libero. Rotolò sulla schiena, ora solo in mutande (di sbieco, con l'elastico che pendeva come una propaggine flaccida e il fondo strappato sulle natiche rosse di sangue) e con una sola calza bianca. Alzò gli occhi al cielo blu, spalancati. E cominciò a gridare. Aveva perso quasi del tutto la voce a forza di gridare prima di accorgersi che stava gridando parole articolate: Sono vivo! Sono vivo! Sono vivo! Sono vivo! Venti minuti più tardi si alzò in piedi e zoppicando andò alla derelitta roulotte sorretta dai blocchi di cemento e affacciata su una grande pozzanghera rimasta dall'acquazzone del giorno prima e nascosta nella sua ombra. Lo sportello era chiuso a chiave, ma c'erano altri blocchi di cemento accanto agli scalini di legno grezzo. Uno era spaccato in due. Curtis raccolse il pezzo più piccolo e lo usò per fracassare la serratura finché lo sportello si aprì lasciando uscire uno sbuffo d'aria calda e viziata. Prima di entrare si voltò a contemplare per un momento i gabinetti dall'altra parte della strada, dove l'acqua che aveva riempito le buche rifletteva la luce del cielo azzurro come i cocci di uno specchio sporco. Cinque gabinetti portatili, tre in piedi, due caduti a faccia in giù nel fosso. In quello di sinistra era quasi morto e sebbene fosse lì avendo addosso solo un paio di mutande a brandelli e una calza, tutto impestato di merda e scorticato e abraso dalla testa ai piedi, già quell'idea gli sembrava irreale. Un brutto sogno. L'ufficio era parzialmente vuoto, o era stato parzialmente saccheggiato, probabilmente un giorno o due prima che il cantiere venisse posto sotto
sequestro. Non c'erano divisori, era un ambiente unico, per una parte occupato da una scrivania, due sedie e un divano, per l'altra riservato a una catasta di scatoloni pieni di scartoffie, una calcolatrice ricoperta di polvere posata sul pavimento, un piccolo frigorifero non in funzione, una radio, una poltroncina girevole con un avviso affisso allo schienale. TENERE PER JIMMY, c'era scritto. C'era anche la porta socchiusa di un ripostiglio, ma prima di andare a controllare, Curtis aprì il frigorifero. Ci trovò quattro bottiglie di acqua minerale, una delle quali vuota per tre quarti. Curtis prese una di quelle ancora sigillate e la scolò fino in fondo. Era tiepida, ma aveva il sapore dell'acqua che scorre nei fiumi del paradiso. Quando ebbe svuotato la bottiglia, gli si contrasse lo stomaco. Corse alla porta, si sporse appeso allo stipite e vomitò l'acqua di fianco agli scalini. «Guarda, mamma, senza mettermi due dita in gola!» esclamò con le lacrime che gli rotolavano nella maschera di sudiciume sulla faccia. Avrebbe anche potuto vomitare l'acqua sul pavimento della roulotte abbandonata, ma non voleva trovarsi nella stessa stanza in cui c'era qualcosa uscito dal suo corpo. Non ora, dopo quello che era successo. Anzi, ho intenzione di non cacare mai più. D'ora in avanti mi svuoterò santamente: l'immacolata evacuazione. Bevve la seconda bottiglia d'acqua più lentamente e la tenne al suo posto. Mentre sorseggiava, guardò nel ripostiglio. In un angolo erano ammonticchiate due paia di calzoni sporchi e delle camicie ugualmente sporche. C'era da immaginare che, dove ora erano accatastati gli scatoloni, ci fosse stata anche una lavatrice-asciugatrice. O forse c'era stata un'altra roulotte che poi avevano portato via. Comunque fosse. A interessarlo in quel momento erano due tute, una su un appendino di fil di ferro, l'altra appesa a un gancio. Quella sul gancio gli sembrava di gran lunga troppo grande, ma forse quella sull'appendino gli andava bene. E così fu. Più o meno. Dovette rimboccarsi due volte gli orli e alla fine aveva probabilmente più l'aria di un contadino che torna dall'aver dato da mangiare ai maiali che quella di un agente di Borsa di successo, ma non c'era di che lamentarsi. Avrebbe potuto chiamare la polizia, ma dopo quello che aveva passato, gli sembrava di avere diritto a una soddisfazione più concreta. Molto più concreta. «Le streghe non chiamano la polizia», disse. «Specialmente noialtri stregoni-finocchi.» Il suo scooter era ancora dove lo aveva lasciato, ma non aveva intenzio-
ne di ripartire subito. Per prima cosa in troppi avrebbero visto l'uomo fangoso sulla Vespa Gran Turismo rossa. Difficile che qualcuno avvertisse gli sbirri... ma quanto a ridere, questo sì. Curtis non voleva essere notato e non voleva essere deriso. Nemmeno dietro le spalle. E poi era stanco. Era stanco come mai era stato in vita sua. Si sdraiò sul divano e si sistemò uno dei cuscini dietro la testa. Aveva lasciato aperto lo sportello della roulotte, dal quale entrava un venticello che gli accarezzava la pelle sudicia con le sue dita delicate. Ora indossava solo la tuta. Prima di mettersela si era tolto le mutande e la calza che gli era rimasta sul piede. Non mi sento addosso nessun odore. Incredibile, no? Poi si addormentò, nella maniera più profonda e totale. Sognò Betsy che gli portava l'idiot-stick, con le medagliette che tintinnavano appese al collare. Lo prese e quando lo puntò verso la TV, vide il Figlio di buonadonna che spiava dalla finestra. Curtis si svegliò quattro ore più tardi, sudato e con i muscoli irrigiditi e bruciori da tutte le parti. Fuori brontolò il tuono all'avvento del temporale pomeridiano, perfettamente in orario. Scese gli scalini della roulotte di sbieco, come un vecchio artritico. Si sentiva come un vecchio artritico. Poi si sedette a guardare in alternanza il cielo sempre più scuro e la cabina igienica da cui era fuggito. Quando cominciò a piovere, si spogliò della tuta, la gettò dentro la roulotte perché non si bagnasse, poi si espose nudo alla pioggia, con la faccia rovesciata all'insù e un sorriso sulle labbra. Quel sorriso non vacillò nemmeno quando ai margini del Durkin Grove Village il cielo fu squarciato da un fulmine biforcuto che cadde abbastanza vicino da saturare l'aria dell'odore di ozono. Si sentiva perfettamente, deliziosamente al sicuro. La pioggia fredda gli sciacquò via di dosso quasi tutto il sudiciume e, quando cominciò a spiovere, risalì lentamente nella roulotte. Quando fu asciutto, indossò di nuovo la tuta. E quando il sole del tardo pomeriggio cominciò a fare capolino tra le nuvole che si diradavano, salì lentamente dove aveva lasciato lo scooter. Teneva la chiave stretta nella mano destra, con la medaglietta ora un po' storta di Betsy premuta tra indice e medio. La Vespa non era abituata a restare sotto la pioggia, ma era una brava ragazza e si avviò dopo soli due tentativi, assestandosi all'istante sul suo solito, sereno borbottio. Curtis montò in sella, scalzo e senza casco, uno spirito lieto. Tornò a Turtle Island così, con il vento che gli soffiava nei
capelli sudici e gli gonfiava i pantaloni della tuta. Vide pochi veicoli e attraversò la strada principale senza problemi. Pensava di aver bisogno di un paio di aspirine prima di andare a trovare Grunwald, ma per il resto non si era mai sentito tanto bene in vita sua. Alle sette di quella sera, l'acquazzone pomeridiano era solo un ricordo. Di lì a un'ora circa gli amanti del tramonto di Turtle Island si sarebbero ritrovati in spiaggia per il solito spettacolo di fine giornata ed era prevista anche la presenza di Grunwald. Al momento, tuttavia, era nell'acqua calda dell'idromassaggio del patio con gli occhi chiusi e un gin and tonic leggero a portata di mano. Prima di immergersi aveva preso un Percocet, sapendo che gli sarebbe stato d'aiuto quando fosse venuto il momento di percorrere il breve tragitto a piedi fino alla spiaggia, ma la sua sensazione di soddisfazione quasi sognante persisteva. Non aveva praticamente più bisogno di antidolorifici. Una situazione destinata a cambiare, ma attualmente si sentiva bene come non gli accadeva da anni. Sì, lo aspettava la rovina economica, ma aveva messo via abbastanza denaro in contanti da vivere egregiamente per il tempo che gli rimaneva. Soprattutto aveva sistemato la checca responsabile di tutte le sue sventure. Din-don, la strega cattiva è mor... «Salve, Grunwald. Salve, Figlio di buonadonna.» Grunwald spalancò di scatto gli occhi. Tra lui e il sole al tramonto si stagliava una sagoma scura, come ritagliata da un foglio di carta nera. O da una stoffa da vestito a lutto. Somigliava a Johnson, ma non poteva essere; Johnson era chiuso a chiave in una latrina rovesciata, Johnson era un topo da cacatoio, morente o morto. E poi da quell'effeminato e azzimato piccolo gagà che era, Johnson non si sarebbe mai mostrato in giro conciato come una comparsa country. Era un sogno, non poteva essere altro. Però... «Sei sveglio? Bene. Perché voglio che tu sia sveglio adesso.» «Johnson?» Solo un bisbiglio. Più di così non poteva. «Non sei veramente tu, vero?» Ma ora la sagoma si mosse, giusto quel tanto perché il sole del tramonto gli accarezzasse la faccia graffiata, e Grunwald vide che era proprio lui. E che cosa aveva in mano? Curtis vide che cosa stava guardando il Figlio di buonadonna e cortesemente si girò un po' di più, in maniera che il sole illuminasse anche quello. Era un asciugacapelli, riconobbe Grunwald. Era un asciugacapelli e lui era immerso nell'acqua fino al petto. Afferrò i bordi con l'intenzione di tirarsi su e Johnson gli pestò una mano. Grunwald gridò e s'affrettò a ritirarla. Il piede di Johnson era scalzo,
ma gli aveva calcato sulla mano il tallone e con forza. «Mi piaci lì dove sei», lo apostrofò Curtis sorridendo. «Sono sicuro che hai pensato lo stesso anche tu di me, ma io sono uscito, giusto? E ti ho persino portato un regalo. Sono passato da casa a prenderlo. Non rifiutarlo solo per quello, è stato usato poche volte e mentre venivo qui ho soffiato via tutta la polvere gay che c'era sopra. Naturalmente sono passato dal giardino sul retro. Mi è tornato comodo che la corrente in quella stupida rete elettrificata che ha ucciso il mio cane fosse spenta. Eccoti qui.» E lasciò cadere l'asciugacapelli nella vasca. Grunwald lanciò un urlo e cercò di acchiapparlo al volo, ma lo mancò. L'asciugacapelli sollevò uno spruzzo e si inabissò. Uno dei getti d'acqua sul fondo lo fece ruotare su se stesso. Andò a sbattere contro una delle gambe smagrite di Grunwald, che si ritrasse precipitosamente, continuando a strillare, sicuro d'essere folgorato. «Calma», disse Johnson. Stava ancora sorridendo. Sciolse prima l'una e poi l'altra cinghia della pettorina. La tuta gli scivolò intorno alle caviglie. Sotto era nudo, con strisce scolorite del lerciume del collettore che ancora gli macchiavano braccia e cosce. Aveva un brutto grumo marrone di qualcosa nell'ombelico. «Non è attaccato. Non so nemmeno se questa vecchia storia dell'asciugacapelli nella vasca da bagno funzioni davvero. Anche se ammetto che se avessi avuto una prolunga forse avrei fatto l'esperimento.» «Stai lontano da me», balbettò Grunwald. «No», rispose Johnson. «Non credo.» Sorridendo, sempre sorridendo. Grunwald si domandò se fosse impazzito. Lui lo sarebbe in circostanze simili a quelle in cui aveva lasciato Johnson. Ma come aveva fatto a venire fuori? Come, in nome di Dio? «L'acquazzone di questo pomeriggio ha lavato via quasi tutta la merda, ma sono ancora abbastanza sporco. Come vedi.» Johnson si guardò la materia dall'aspetto nauseante che aveva nell'ombelico, se la scalzò con il dito e la lanciò con indifferenza nella vasca come una caccola tolta dal naso. Finì sulla guancia di Grunwald. Marrone e puzzolente. E stava cominciando a sciogliersi. Buon Dio, era merda. Gridò di nuovo, questa volta di raccapriccio. «Tiro, goal», commentò Johnson sorridendo. «Poco piacevole, vero? E anche se non posso dire di sentirne più l'odore, sono stanco di vederla. Perciò, fa' il bravo vicino, e ospitami nel tuo idromassaggio.» «No! No, non puoi...» «Grazie!» ringraziò Johnson sorridendo e saltò dentro. Si alzò un grande
spruzzo. Grunwald sentì il suo odore. Il suo fetore. Grunwald annaspò verso il bordo dell'idromassaggio, lampi bianchi di braccia ossute sopra il ribollire dell'acqua, l'abbronzatura delle gambe ugualmente ossute che sembrava il velo di nylon di un paio di calze da donna. Allungò un braccio oltre il bordo della vasca. Poi Johnson lo afferrò per il collo con un braccio malamente escoriato, ma orribilmente forte e lo ritrascinò nell'acqua. «No no no no no!» lo rimproverò Johnson sorridendo. Tirò Grunwald verso di sé. Sulla superficie dell'acqua ribollente danzavano piccole scaglie scure. «Noi gay raramente facciamo il bagno da soli. Sono sicuro che l'avrai trovato anche tu nelle tue ricerche in Internet. E le streghe gay? Mai più!» «Lasciami andare!» «Forse.» Ma Johnson lo abbracciò più forte, in un amplesso orribilmente intimo, ancora maleodorante di latrina. «Prima però credo che dovresti fare conoscenza dello sgabello da immersione per i gay. Una specie di battesimo. Per mondarti dei tuoi peccati.» Il sorriso diventò un sogghigno, il sogghigno un rictus. Grunwald capì che stava per morire. Non nel suo letto, in un vago futuro farmacologico, ma proprio lì. Johnson lo stava per annegare nell'idromassaggio di casa sua e l'ultima cosa che avrebbe visto sarebbero state le particelle di escrementi che galleggiavano nell'acqua fino a poco prima pulita. Curtis lo afferrò per le nude spalle smagrite e lo spinse sotto. Grunwald lottò, scalciò, con i pochi capelli che galleggiavano in superficie, mentre piccole bolle d'argento salivano a spirale dal grosso becco che aveva per naso. La voglia di tenerlo sotto era forte... e Curtis avrebbe potuto farlo perché lui era forte. C'era stato un tempo in cui Grunwald lo avrebbe sopraffatto con una mano legata dietro la schiena, differenza d'età o no, ma erano giorni lontani. Quello di adesso era un Figlio di buonadonna malato. Motivo per il quale Curtis lo lasciò andare. Grunwald riemerse tossendo e starnazzando. «Hai ragione!» esclamò Curtis. «Questo giocattolino è veramente un toccasana per doloroni e dolorini! Ma non stiamo a perdere tempo con me, parliamo di te. Vuoi andare sotto di nuovo? L'immersione fa bene all'anima, lo dicono tutte le religioni più importanti.» Grunwald scosse furiosamente la testa. Sventagliò gocce dai pochi capelli e dalle più lussureggianti sopracciglia. «Allora stattene seduto lì», gli suggerì Curtis. «Seduto lì ad ascoltare. E non credo che avremo bisogno di questo, vero?» Affondò un braccio sotto
la gamba di Grunwald - che trasalì accartocciandosi con un gridolino di spavento - e ripescò l'asciugacapelli. Se lo gettò oltre la spalla. L'attrezzo scivolò sotto una sedia da giardino. «Tra poco me ne vado», annunciò Curtis. «Torno a casa mia. Tu puoi scendere in spiaggia a guardare il tramonto, se ti va ancora. Ti va ancora?» Grunwald fece cenno di no. «No? È quel che pensavo. Credo che non ci saranno più bei tramonti per te, vicino. Per la verità penso che non ci saranno più belle giornate per te ed è per questo che ti lascio vivere. E vuoi sapere dove sta l'ironia? Se tu mi avessi lasciato in pace, avresti avuto esattamente quello che volevi. Perché ero già chiuso a chiave nel cesso anche se ancora non lo sapevo. Non è buffo?» Grunwald tenne la bocca chiusa, limitandosi a guardarlo con gli occhi colmi di terrore. Occhi colmi di terrore e malattia. Curtis avrebbe potuto quasi provare pietà per lui, se non conservasse ancora così vivido nella memoria il ricordo di quando aveva fatto cadere il Port-O-San. L'asse del cesso che si apriva come una bocca. Lo stronzo che gli cascava in grembo come un pesce morto. «Rispondi, o ti prendi un'altra puccia battesimale.» «È buffo», gracchiò Grunwald. Poi cominciò a tossire. Curtis attese che smettesse. Non sorrideva più. «Sì, buffo davvero», ammise. «Tutta quanta questa storia è buffa, a guardarla dall'angolazione giusta. Ed è quello che sto facendo io, credo.» Si issò fuori, conscio di muoversi con un'agilità che al Figlio di buonadonna era ormai negata per sempre. Sotto la tettoia della veranda c'era un armadietto. Conteneva degli asciugamani. Curtis ne prese uno e cominciò ad asciugarsi. «Ti spiego come stanno le cose. Puoi chiamare la polizia e dire che ho cercato di annegarti nella tua tinozza, ma se lo fai, si viene a sapere tutto. Passerai il resto della vita alle prese con un'incriminazione per un reato penale oltre a tutte le altre grane che già hai. Invece, se molli la presa, è un reset. Azzeramento del contachilometri. Solo che, qui sta il punto, io mi metto a sorvegliare te. Verrà il giorno in cui puzzerai come il cesso in cui mi hai chiuso. Il giorno in cui altri ti sentiranno addosso quell'odore e te lo sentirai addosso tu stesso.» «Mi ucciderò prima», balbettò Grunwald. Curtis si stava infilando nuovamente la tuta. Aveva concluso che quell'indumento gli andava a genio. Era forse quello giusto da indossare
per seguire l'andamento dei titoli di Borsa sul computer di una certa persona nel piccolo studio accogliente di una certa persona. Aveva una mezza idea di fare un salto al supermercatino a comprarne cinque o sei. Il nuovo Curtis Johnson antimaniacale: un uomo da salopette. Si fermò mentre si stava allacciando la seconda spallina. «Puoi anche farlo. Hai la pistola, la... come l'hai chiamata? Ah, già, la Hardballer.» Finì di stringere la fibbia, poi si chinò su Grunwald, ancora a marinare nell'idromassaggio guardandolo impaurito. «Sarebbe anche accettabile. Potresti anche averne il fegato, anche se al momento di venire al dunque... potresti non averlo. In ogni caso ascolterò il bang con grande interesse.» Si congedò, andandosene però non da dove era venuto. Passò per la via. Girando a sinistra sarebbe tornato a casa sua, ma lui girò a destra, verso la spiaggia. Per la prima volta da quando era morta Betsy, aveva voglia di contemplare il tramonto. Due giorni dopo, seduto al suo computer (seguiva con particolare interesse la General Electric) Curtis udì una forte detonazione provenire dalla casa accanto. Non aveva acceso la musica e il rumore attraversò con assoluta limpidezza l'aria umida della fine di giugno. Restò seduto dov'era, testa inclinata, e continuò ad ascoltare. Anche se non ci sarebbe stato un secondo bang. Noi streghe conosciamo bene queste cacate. Arrivò di corsa la signora Wilson con un canovaccio in mano. «Quello era uno sparo!» «Sarà stato un ritorno di fiamma», ribatté lui sorridendo. Gli capitava di sorridere spesso dal giorno della sua avventura al Durkin Grove Village. Pensava che non fosse lo stesso tipo di sorriso che aveva avuto durante l'Era Betsy, ma un qualsiasi sorriso era meglio che niente. Giusto, no? La signora Wilson lo osservava dubbiosa. «Mah... può darsi.» Si girò per andarsene. «Signora Wilson?» La donna si voltò. «Se ne andrebbe se prendessi un altro cane? Un cucciolo?» «Io andarmene per un cucciolo? Ci vuole ben altro che un cucciolo per scacciare me.» «Hanno la tendenza a mordere, sa? E non è che fanno sempre...» S'interruppe per un momento rivedendo il paesaggio vomitevole e buio del collettore. Il Sottomondo.
Intanto la signora Wilson lo fissava con curiosità. «Non la fanno sempre dove devono», finì. «Basta insegnarglielo e poi andranno a farla dove sanno che possono», ribatté lei. «Specialmente in un clima caldo come quello di quaggiù. E poi lei ha bisogno di compagnia, signor Johnson. Sono... le dirò la verità, sono un po' preoccupata per lei.» Lui annuì. «Sì, per un po' sono stato, come dire, nella merda.» Rise, vide l'espressione con cui lo guardava e si costrinse a smettere. «Mi scusi.» Lei fece svolazzare il canovaccio per mostrargli che era stato scusato. «Non un cane di razza, questa volta. Pensavo di andare a dare un'occhiata al canile di Venice. Una bestiolina di quelle abbandonate.» «Sarebbe molto bello», dichiarò lei. «Mi piacerebbe sentire rumore di zampette in giro per casa.» «Bene.» «Pensa davvero che fosse un ritorno di fiamma?» Curtis si appoggiò allo schienale e finse di riflettere. «Probabile... ma sa, il signor Grunwald qui accanto è gravemente malato.» Abbassò la voce in un bisbiglio compassionevole. «Cancro.» «Oh, mamma mia», si lasciò sfuggire la signora Wilson. Curtis annuì. «Non penserà che abbia?...» I numeri che scorrevano sul monitor del suo computer si fusero nel salvaschermo: foto aeree e spiagge, tutti scorci di Turtle Island. Curtis si alzò, si avvicinò alla signora Wilson e le sfilò il canovaccio dalla mano. «No, questo no, ma potremmo andare a controllare. Se no, a che servono i vicini?» Note al crepuscolo Secondo una scuola di pensiero, le note di questo genere sono al meglio inutili, al peggio sospette. L'obiezione è che una storia che ha bisogno di una spiegazione non è probabilmente un gran che di storia. È una posizione che in parte condivido, ragione per cui ho messo questo piccolo corollario in fondo al libro (metterlo qui mi evita anche le tediose accuse di «spoiler», di rovinare cioè il gusto della sorpresa con le anticipazioni, che vengono lanciate perlopiù da persone di cattivo gusto). La ragione per cui le accludo è semplicemente che a molti lettori piacciono. Vogliono sapere che cosa ha spinto a scrivere una storia, o che cosa stava pensando l'autore
mentre la scriveva. Questo autore non sa necessariamente né l'una né l'altra cosa, ma può offrire qualche considerazione estemporanea che potrebbe essere o no di qualche interesse. Willa Probabilmente non è il migliore della raccolta, ma io ci sono particolarmente affezionato perché mi è stato di spunto per un nuovo periodo di creatività, almeno per quanto riguarda i racconti. Quasi tutti quelli presenti in questo volume sono stati scritti dopo «Willa» e in una successione abbastanza veloce (in un periodo di meno di due anni). Quanto alla storia in sé... uno degli aspetti più belli della fantasia è che offre allo scrittore la possibilità di esplorare cosa potrebbe (o non potrebbe) accadere dopo che il nostro giro di giostra finisce. La raccolta annovera anche un altro racconto di questo tenore: «Il New York Times in offerta speciale». Sono stato cresciuto da metodista ortodosso e anche se ho rinnegato da molto tempo gli aspetti strutturati della religione e la maggior parte delle sue asserzioni dogmatiche, resto fedele all'idea fondamentale che, in un modo o nell'altro, sopravviviamo alla morte. Mi è difficile accettare che esseri così complicati e qualche volta meravigliosi vengano alla fine semplicemente scartati, gettati via come rifiuti sul ciglio di una strada. (Probabilmente è solo che non voglio crederlo.) Come potrebbe essere questa sopravvivenza, però... dovrò aspettare per scoprirlo. La mia ipotesi migliore è che potremmo sentirci confusi e non del tutto disposti ad accettare la nostra nuova condizione. La mia migliore speranza è che l'amore sopravviva anche alla morte (sono un romantico, fatemi pure causa, checcazzo). Se così è, potrebbe essere un amore disorientato... e anche un po' triste. Quando nella mia mente s'incontrano amore e tristezza, ascolto musica country: gente come George Strait, BR549, Marty Stuart... e i Derailers, ovvero i Deragliatori. Sono loro a suonare in questo racconto, naturalmente, e credo che siano stati scritturati per un periodo molto lungo. Torno a prenderti Adesso io e mia moglie soggiorniamo per una parte dell'anno in Florida, vicino alle keys del Golfo del Messico. Lì ci sono alcune tenute molto grandi, alcune con ville antiche ed eleganti, alcune con abnormi costruzioni in stile nouveau. Un paio di anni fa passeggiavo con un amico su una di
queste isole. Mi indicò una fila di quegli scatoloni e disse: «Questi restano quasi tutti vuoti anche otto mesi l'anno, ci pensi?» Ci pensai... e conclusi che ne sarebbe potuta venire fuori una gran bella storia. Scaturì da una premessa molto semplice: un cattivo che rincorre una ragazza su una spiaggia deserta. Ma, riflettei, per cominciare era bene che fosse in fuga anche da qualcos'altro. Solo che presto o tardi anche i fuggitivi più veloci devono fermarsi e combattere. Inoltre mi piace quando la suspense si basa su piccoli dettagli cruciali. Qui ce ne sono parecchi. Il sogno di Harvey Su questo racconto posso dirvi una cosa sola perché è l'unica cosa che so (e forse l'unica che conta): mi è venuto in sogno. L'ho composto di getto, limitandomi praticamente a trascrivere la storia che mi aveva già raccontato il mio inconscio. C'è un'altra storia di sogno in questo libro, ma anche su quella so poco. Area di sosta Sei anni fa tenni una conferenza serale in un college di St. Petersburg. Feci tardi e mi ritrovai a percorrere in macchina la Florida Turnpike dopo la mezzanotte. Mi fermai in un'area di sosta per un cambio d'acqua al mio serbatoio personale. Se avete mai viaggiato su una grande arteria dello Stato del Sole sapete che aspetto hanno le aree di sosta: quello di una palazzina di un carcere di media sicurezza. Davanti alla toilette comunque mi fermai, perché in quella per le signore un uomo e una donna stavano litigando furiosamente. Erano entrambi molto alterati e sul punto di venire alle mani. Mi chiesi che cosa avrei mai fatto se fosse successo e pensai: Dovrei chiamare il mio Richard Bachman interiore, perché è un tipo più duro di me. Uscirono senza prendersi a botte - sebbene la signora in questione stesse piangendo - e io arrivai fino a casa senza altri incidenti. Qualche giorno più tardi scrissi questo racconto. Cyclette Se mai ne avete usata una, sapete quanto sono infinitamente noiose. E se avete mai cercato di instaurare un regime di esercizio fisico quotidiano, sapete quanto questo sia difficile (il mio motto: «Mangiare è più facile».
Però sì, faccio esercizio). Questo racconto è nato dal mio rapporto di odio/odio non solo con le cyclette, ma con tutti i tapis-roulant su cui ho sgambato e tutti gli Stairmaster su cui mi sono arrampicato. Le cose che hanno lasciato indietro Come quasi tutti i cittadini statunitensi, sono rimasto profondamente e fondamentalmente colpito dall'11 settembre. Come un gran numero di scrittori di narrativa, letteraria o popolare, ero riluttante a cercare di dire qualcosa su un evento divenuto una pietra miliare della storia americana come Pearl Harbor o l'assassinio di John Kennedy. Ma scrivere è il mio mestiere e questo racconto mi è venuto in mente un mese dopo il crollo delle Torri Gemelle. Forse lo stesso non l'avrei scritto se non avessi ricordato una conversazione avuta più di venticinque anni prima con un editor ebreo. Era scontento di un mio racconto intitolato «L'allievo». Diceva che era sbagliato che io scrivessi di campi di concentramento perché non ero ebreo. Gli avevo risposto che proprio per questo raccontare quella storia era ancora più importante: perché scrivere è un atto di conoscenza ricercata. Come tutti gli altri americani che quella mattina hanno visto bruciare lo skyline di New York, volevo capire sia l'evento sia le ferite che un evento come quello inevitabilmente avrebbe lasciato dietro di sé. Questo racconto è il mio sforzo in questo senso. Pomeriggio del diploma Dopo un incidente di cui sono stato vittima nel 1999 per anni ho preso un antidepressivo che si chiama Doxepin, non perché fossi depresso (disse lui mogio) ma perché il Doxepin aveva un effetto benefico sul dolore cronico. Funzionò, ma nel novembre del 2006, quando mi recai a Londra per la promozione del mio romanzo La storia di Lisey, ritenni che fosse venuto il momento di smettere. Non consultai il medico che me l'aveva prescritto, mi limitai a piantarla lì. La conseguenza di questa sospensione improvvisa fu... interessante.1 Per circa una settimana, quando chiudevo gli occhi la sera, vedevo vivide panoramiche come in un film: boschi, prati, catene montuose, fiumi, steccati, ferrovie, uomini che lavoravano di vanga e piccone in un cantiere stradale... poi tutto ricominciava fino a quando non mi 1
So per certo che l'effetto era dovuto all'aver sospeso il Doxepin? No. Chissà, magari era l'acqua inglese.
addormentavo. Non vi era mai abbinata una qualche storia, sempre e solo queste immagini panoramiche molto ben particolareggiate. Quando finivano mi spiaceva un po'. Feci anche una serie di vividi sogni post Doxepin. Uno di questi - una grande nuvola a forma di fungo che sbocciava su New York - diventò l'argomento di questo racconto. L'ho scritto pur sapendo che è un'immagine già sfruttata in un numero infinito di film (per non parlare della serie televisiva Jericho), perché il sogno aveva una sua attualità documentaristica; lo scrissi con il cuore che batteva forte, pensando: Questo potrebbe succedere. E presto o tardi, quasi certamente succederà. Come «Il sogno di Harvey», è più una trascrizione che un'invenzione. N. Questo è il racconto più recente della raccolta e viene pubblicato qui per la prima volta. È stato fortemente influenzato da Il grande dio Pan di Arthur Machen, un racconto che (come Dracula di Bram Stoker) trascende la sua prosa un po' goffa e penetra con inesorabile pervicacia nella «terrorzone» del lettore. Quante notti insonni ha provocato? Dio lo sa, ma alcune di esse sono mie. Credo che Pan sia quanto di più vicino alla grande balena bianca possa andare il genere horror e che prima o poi ogni scrittore che prenda questo genere con serietà debba affrontare il suo tema portante: che la realtà è sottile e che la realtà vera che c'è al di là è una tenebra sconfinata piena di mostri. La mia idea era di cercare di coniugare il tema di Machen con il concetto di disfunzione ossessivo-compulsiva... in parte perché credo che in certa misura tutti noi ne soffriamo (non è capitato a tutti di tornare almeno una volta sui propri passi per assicurarsi di aver spento il forno e i fornelli?) e in parte perché in un racconto dell'orrore, ossessione e compulsione sono quasi sempre correi inconfessati. Riuscite a farvi venire in mente una sola storia horror di successo che non contenga l'idea di fare ritorno a ciò che più detestiamo e ci spaventa? Il miglior esempio potrebbe essere La carta gialla di Charlotte Perkins Gilman. Se mai l'avete letto, vi sarà stato probabilmente insegnato che si tratta di un racconto femminista. È vero, ma è anche il racconto di una mente che crolla sotto il peso del proprio pensiero ossessivo. Questo elemento è presente anche in «N.». Il gatto del diavolo Se in questo libro ci fosse l'equivalente del brano segreto che certe volte
gli artisti nascondono nei loro CD, non potrebbe essere che «Il gatto del diavolo». Ne devo ringraziare la mia fedele assistente Marsha DeFilippo. Quando la informai che avrei preparato una nuova antologia, mi chiese se finalmente avrei incluso anche il racconto dei miei tempi delle riviste maschili. Le risposi che sicuramente avevo infilato quella storia - di cui c'è comunque una versione cinematografica ne I delitti del gatto nero nel 1990 - in una delle quattro raccolte precedenti. Marsha tirò fuori l'indice di ciascun libro a dimostrazione che non l'avevo fatto. Dunque eccola qui, finalmente in un volume, più di trent'anni dopo che fu pubblicata per la prima volta su Cavalier. Venne fuori in una maniera divertente. L'editor della fiction al Cavalier di quei tempi, un tipo simpatico di nome Nye Willden, mi inviò un primo piano fotografico di un gatto che soffia. A rendere la foto insolita, a parte la collera del gatto, era il fatto che aveva il muso equamente diviso in due, con il pelo che da una parte era bianco e dall'altra nero lucido. Nye voleva indire un concorso di racconti brevi. Mi propose di scrivere le prime cinquecento parole sul soggetto del gatto; avrebbero poi chiesto ai lettori di completarlo e il lavoro migliore sarebbe stato pubblicato. Accettai, ma mi lasciai concupire abbastanza dalla storia da scriverla fino in fondo. Non ricordo se la mia versione fu pubblicata sullo stesso numero che ospitò il racconto del vincitore del concorso o più tardi, ma è rispuntata più di una volta in altre antologie di autori vari. Il «New York Times» in offerta speciale Nell'estate del 2007 andai in Australia, noleggiai una Harley-Davidson e viaggiai da Brisbane a Perth (be'... caricai la moto su un Toyota Landcruiser per un buon tratto del Grande Deserto Australiano, dove certe strade come la Gunbarrel Highway sono come io mi immagino le autostrade dell'inferno). Fu una bella gita; ebbi molte avventure e mangiai un sacco di polvere, ma smaltire il jet-lag dopo ventun ore di volo è una rogna. E io in aereo non dormo. Proprio non riesco. Se mi si presenta l'assistente di volo con uno di quegli strampalati pigiama, mi faccio il segno della croce e le dico di andar via. Quando sbarcai nella terra dei canguri dopo la tappa da San Francisco a Brisbane, tirai le tende, mi buttai giù, dormii per dieci ore e mi svegliai tutto pimpante e pronto a partire. L'unico problema era che erano le due di notte, ora locale, non c'era niente in TV e avevo fatto fuori tutto il mio materiale da lettura in aereo. Per fortuna avevo un bloc-notes e scrissi questa storia alla piccola scrivania del mio albergo. Allo spuntar del
sole avevo finito e potei dormire per un altro paio d'ore. Un racconto dovrebbe intrattenere anche chi lo scrive: questa è la mia opinione, saremmo lieti di ascoltare la vostra. Muto Sul mio quotidiano locale lessi un articolo su una segretaria di liceo che aveva sottratto più di sessantacinquemila dollari per giocare alla lotteria. La mia prima domanda fu come l'avesse presa suo marito e ho scritto questo racconto per saperlo. Mi ricorda le caramelline avvelenate che assaggiavo settimanalmente su Alfred Hitchcock presenta. Ayana Il soggetto dell'oltrevita, come ho detto in precedenza in queste note, è sempre stato terreno fertile per gli scrittori che si trovano a loro agio con il fantastico. Dio - in tutte le Sue forme presunte - è un altro argomento per cui sono adatte le storie del fantastico. E quando ci poniamo domande su Dio, una di quelle che stanno in cima alla lista è perché certe persone vivono e certe persone muoiono; perché certe persone guariscono e certe altre no. Me lo sono chiesto anch'io in seguito agli infortuni subiti nel 1999 dopo l'incidente che avrebbe potuto facilmente costarmi la vita se mi fossi trovato in una posizione diversa per soli pochi centimetri (in altre parole, se la mia posizione fosse stata diversa per altri pochi centimetri, ne sarei potuto scampare del tutto). Se una persona vive, diciamo: «È un miracolo». Se muore diciamo: «È la volontà di Dio». Non c'è una risposta razionale ai miracoli e non c'è modo di comprendere la volontà di Dio: il quale, se c'è davvero, potrebbe non avere per noi più interesse di quello che ho io per i microbi che in questo momento vivono sulla mia pelle. Ma i miracoli avvengono, a me sembra; ogni respiro è un miracolo nuovo. La realtà è sottile ma non sempre buia. Non volevo scrivere di risposte, volevo scrivere di domande. E suggerire l'ipotesi che i miracoli possano essere un fardello oltre che una benedizione. E forse sono tutte stronzate. Però il racconto mi piace. Alle strette A tutti è capitato di usare qualche volta una di quelle toilette prefabbri-
cate che si trovano in giro, fosse anche solo in una di quelle aree di sosta sull'autostrada in cui d'estate il gestore deve installare toilette supplementari per far fronte all'incremento del flusso dei viaggiatori (mi viene da sorridere mentre lo scrivo pensando a quanto meravigliosamente escretivo deve suonare). Gulp, non c'è niente come entrare in uno di quegli oscuri gabbiotti in un infocato pomeriggio d'agosto, vero? Fa un caldo della malora e l'odore è divino. In verità non ne ho mai usato uno senza pensare a Sepolto vivo di Poe e domandarmi che fine farei io se la latrina cascasse con la porta all'ingiù. Specialmente se non ci fosse nessuno nei paraggi a tirarmi fuori. Alla fine ho scritto questo racconto per lo stesso motivo per cui ho scritto tanti altri racconti alquanto sgradevoli, Fedele Lettore: per passare a te quello che fa paura a me. Non posso chiudere senza confessare con quanto infantile divertimento l'ho scritto. Sono riuscito persino a disgustare me stesso. Be'. Un pochino. E con ciò mi accomiato, almeno per questa volta. Se i miracoli continuano ad avvenire, ci incontreremo di nuovo. Nel frattempo grazie di leggere i miei racconti. Spero che almeno uno vi tenga svegli per un po' dopo che avete spento la luce. Abbiate cura di voi stessi e... ehi! Non è che avete lasciato il forno acceso? O avete dimenticato di spegnere il gas? E la serratura della porta sul retro? Sicuri che è chiusa? Cose così sono facili da dimenticare e magari proprio in questo momento c'è qualcuno che si sta intrufolando in casa. Un matto, forse. Con un coltello. Meglio dare una controllata, no? Stephen King 8 marzo 2008 Nella loro versione originale i racconti «Willa» e «Muto» sono stati precedentemente pubblicati su Playboy, «Torno a prenderti» e «Area di sosta» su Esquire, «Il sogno di Harvey» su The New Yorker, «Cyclette» da Borderlands Press, «Le cose che hanno lasciato indietro» da Tor Books, «Pomeriggio del diploma» su Postcripts no. 10, «Il gatto del diavolo» da Putnam, «Il New York Times in offerta speciale» su Magazine of Fantasy & Science Fiction, «Ayana» su The Paris Review, «Alle strette» su McSweeney's.
FINE