TANITH LEE VINO DI ZAFFIRO (Drinking Sapphire Wine, 1977) PREMESSA Gli avvenimenti narrati in questa seconda parte dell'...
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TANITH LEE VINO DI ZAFFIRO (Drinking Sapphire Wine, 1977) PREMESSA Gli avvenimenti narrati in questa seconda parte dell'autobiografia iniziata con il volume intitolato «Non mordere il sole» possono essere letti anche indipendentemente dalla prima parte: è comunque consigliabile, per una precisa comprensione e per un migliore apprezzamento dell'opera, conoscere «Non mordere il sole», prima e individuale parte dell'opera. Sono comunque forniti, nel corso della vicenda, e nella nota iniziale, oltre che nell'appendice finale, tutti gli elementi necessari a familiarizzare con il mondo delle Quattro e con le realtà della società umana descrìtta nell'opera. GLOSSARIO DELLO SLANG JANG attlevey dalika derisann droad drumdik farathoom floop groshing insumatt onk ooma selt soolka thalldrap tosky V....n zaradann
Salve Discussione violenta. Incantevole, bello. Annoiato terribilmente. Assolutamente orribile, la cosa più orrenda. Maledetto, schifoso inferno. Fesso. Vedasi anche thalldrap. Favoloso, meraviglioso. Insuperabile. Esclamazione blanda, per esempio «che seccatura!» Tesoro, amore. Tardo di comprendonio. Ben curato. Riferito dai Jang solo ai non Jang. Vedasi floop. Neurotico. Parola che non viene mai scritta per esteso dall'autrice dell'autobiografia. Evidentemente oscena. Matto, pazzo.
TERMINI GENERALI
Glar
midvrek rorl split unit vrek
Antico titolo Quattro Bee, simile a «professore». Il termine è rimasto come titolo di cortesia per gli insegnanti Q-R delle ipnoscuole, ma altrimenti è estinto. Mezzo periodo di qualunque vrek, della durata di quaranta unit. Equivalente Quattro BEE di un secolo. Minuto Quattro BEE. Giorno Quattro BEE. Periodo di cento unit. PARTE PRIMA 1.
«Hergal,» dissi, «se lo ripeti un'altra volta, ti scaravento con le mie mani dall'altra parte di quella parete.» Hergal mi guardò con aria seria, frastornata. «D'accordo,» fece: e lo ripeté. Non si mostrò neppure sorpreso quando io mi alzai e feci esattamente ciò che avevo promesso. Forse ci teneva soltanto ad assecondarmi. E mentre lui giaceva dall'altra parte della parete, circondato da frammenti sgretolati di seta-di-cristallo, aggiunsi: «Immagino che tu sia troppo ignorante per sapere che cosa viene poi.» «Assolutamente,» disse Hergal, togliendosi schegge scintillanti dai lunghi capelli arancione e strizzandosi le maniche intrise di vino dello stesso colore. «Con le spade, all'alba,» dissi io. «O con le pistole. A te la scelta. Sono stato io a sfidarti, quindi scegliere spetta a te.» «Sei stato di nuovo all'Archivio Storico,» fece Hergal, «e come avevo osservato prima della nostra piccola dalika, essere maschio per metà del tempo ti scombina completamente, vecchio ooma. Sei prevalentemente femmina, quindi perché non...» Non riuscì a finire la frase. Lo scaraventai di nuovo con le spalle a terra. Mi guardò, addolorato. «Spade?» domandai io. «O pistole?» «Graks,» disse Hergal. «Se vuoi giocare alla grandezza antica, fallo nel Palazzo dell'Avventura, come tutti gli altri.» E così, piantati saldamente sui piedi calzati d'oro, ci guardammo per un
momento negli occhi, minacciosamente, e poi lui uscì nel mattino, fischiettando uno dei motivi preferiti in quei giorni dai Jang: «Voglio far l'amore solo con te, perché sei così derisann.» Venti robot e Q-R, di varii tipi ma unanimemente poco amichevoli, stavano puntando verso di me, e perciò uscii anch'io dal piccolo ristorante della Terrazza di Cristallo e mi avviai per la Passeggiata di Cristallo, nella direzione opposta al mio amico, compagno, Hergal lo Stronzo. Per essere sincero, quello che mi mandava in bestia era la logica pura delle deduzioni di Hergal. Era vero: ero stato all'Archivio Storico... di nuovo. Era vero: io, prevalentemente femmina com'ero, da quasi tre vrek ero maschio senza interruzioni. Naturalmente, avevo avuto una quantità di corpi assortiti, ma erano quasi tutti identici. C'erano molti come Zirk che, quand'era maschio, tendeva ai tipi eroici, robusti, con spalle larghe quanto il portone del Palazzo delle Commissioni, guizzante muscolatura bronzea e personalità chiassosa, che compensava, quand'era femmina, con una figuretta alta sì e no un metro, delicata come una porcellana, e timida come un coniglio delle sabbie di Quattro BOO. Poi c'erano quelli come Kley che, quand'era maschio, era una nullità tranquilla e beneducata, e diventava una peste infuriata quando assumeva forma femminile. Io, però, rimanevo più o meno lo stesso in entrambi gli aspetti. Ero sempre incline alla violenza, alla cavalleria e al malumore, e le dimensioni dei miei seni o degli apparati alternativi che mi capitava d'avere, in realtà non modificavano in misura sensibile la situazione... o almeno non credo. Ma il mio circolo, che si era allargato, come fanno quasi tutti i circoli Jang, negli ultimi dodici vrek, era divenuto piuttosto sensibile alla mia «mascolinità eterna», come amava chiamarla Hergal. Ero pervenuto alla conclusione che Hergal, essendo prevalentemente maschio, si risentiva della mia intrusione nella sua riserva. Io e lui andavamo abbastanza d'accordo, quando io ero femmina e lui maschio. Ma con il passare del tempo, avevo notato che quando eravamo entrambi dello stesso genere, volavano le penne. Un'altra cosa nel me maschile che dava fastidio all'Hergal maschile era forse il mio maggiore successo con la parte femminile del gruppo. Thinta, anzi, stava diventando un'angoscia. «Hai bisogno di qualcuno che ti curi,» diceva. «Qualcuno che ti tenga d'occhio. Ricorda quello che è successo. Io non l'ho dimenticato. E non l'ha dimenticato neppure la Commissione, puoi star certo.» E poi, fissandomi
con quei suoi occhi di gatta: «Ci sposeremo per un mid-vrek, e tu verrai a vivere a casa mia, e tutto sarà molto groshing.» La casa di Thinta era uno degli onnipresenti palazzi di Quattro BEE, con sette torri di smeraldo, ognuna piena zeppa di gatti verdipallidi. Thinta aveva sempre avuto la mania dei gatti, e di unit in unit sembrava peggiorare. Aprivi una porta, in casa sua, e ne balzava fuori un gatto; ti sdraiavi su un divano, e un gatto ti saltava addosso. Far l'amore con Thinta, là dentro, poteva diventare una specie di tortura. La prima volta, avevo pensato che fosse Thinta a gemere, a farmi scorrere per la schiena quei lunghi brividi argentei, incandescenti. Ma non era Thinta: erano tre dei suoi gatti. «No, grazie, Thinta,» avevo detto. «Possiamo sposarci per un unit, sì. Ma andremo sui fluttuanti.» Ma Thinta amava ancora tenermi d'occhio. Mi chiamava nel cuore della notte, svegliandomi dal sonno più profondo, e mi chiedeva: «Come stai?» Arrivava con il suo roseo avioplano di sicurezza alle ore più impossibili del giorno, e chiedeva: «Sei sicuro?» Intanto Zirk, quand'era un coniglio delle sabbie, compariva timorosamente alle tavole dei ristoranti dove io stavo mangiando, o sulla superficie delle piscine per il pattinaggio acquatico, e sussurrava trepida: «Oh, attlevey, ooma. È meraviglioso vederti!» E Mirri, l'ultimo amore di Hergal, che lui aveva fatto entrare personalmente nel nostro circolo, e con cui trascorreva tante ore segrete, adesso mi perseguitava su e giù per le passatoie mobili, le passeggiate e le corsie celesti di Quattro BEE, con i capelli sventolanti come una bandiera iridata, il volto acceso da istinti predatori. Ricordo vagamente persino Hergal, che arrivava a mezzanotte in forma femminile, e diceva in tono affascinato e calcolatore: «Sai, credo finalmente di cominciare a capirti.» La scena con Hergal all'Aria di Cristallo, comunque, c'era stata perché avevamo saputo che Danor stava per tornare da Quattro BAA. Io e Danor. Era una storia lontana. Io e Danor e quella sciocca, agghiacciante sequenza di tanti vrek prima, quando lei mi aveva detto — allora era un lui, ed io una lei — che non poteva far l'amore godendone. Danor che si buttava da una finestra delle nubi del fluttuante, e precipitava per centinaia di metri, giù nella città... un gesto inutile, poiché i robot gli erano corsi intorno e l'avevano trasferito in un
corpo nuovo: eppure, era stato come se lui avesse fatto sul serio... Per me, adesso, quell'evento segnava l'inizio di quanto mi era accaduto, di tutte le cose che mi erano accadute dodici vrek prima. La mia lotta contro il mondo, i morsi di un animale selvatico che cercava di addentare il sole. Mi volgevo indietro, e vedevo, tra le rovine, la lotta per trovare una sfida, il folle tentativo di mettere al mondo un figlio e l'errore fatale che aveva ucciso la creaturina nella sua penombra di cristallyze; l'assurda tenerezza — l'unico rapporto che avesse mai avuto un significato per me — il mio affetto e la mia comunicazione con quel bestiolino, cui non avevo dato un nome se non quando era stato troppo tardi. Il mio bestiolino che era morto. Morte, morte dovunque, morte in questa società dove nessuno muore... «Chissà di che sesso sarà Danor, quando tornerà a casa,» disse Hergal, guardandomi obliquamente tra le ciglia color albicocca. «Femmina,» dissi io. «Sì, ormai lo è da un pezzo,» disse Hergal. Forse aveva anche intuito il perché: perché Danor aveva detto che in quel modo era più facile simulare la passione. Per fortuna, lei non aveva mai letto i Documenti Storici come avevo fatto io, trovando tra gli altri piccoli orrori un ironico saggio sulla frigidità, vecchio di circa dieci rorl. «Comunque,» disse Hergal, «è stata a BAA abbastanza a lungo per superare la sua eterna femminilità. Così, nel circolo, di eccentrici ne resterebbero due: tu e Hatta.» Mi offendeva, lo ammetto, venir classificato insieme a Hatta, che avevamo appena visto passare rimbalzando là fuori, simile a un pallone scarlatto con tre gambe, colpito simultaneamente dal fulmine e dalla peste. Anche Hatta mi aveva piantato coltelli nel cuore, ma era avvenuto nel passato, come il resto. Adesso aveva l'aria di insistere nella sua bruttezza ossessiva con uno spirito di velenosità inventiva che era quasi accattivante. Ogni corpo era peggio del precedente, il che avrebbe dovuto essere impossibile. Forse sperava che vomitassimo il quarto pasto nel vederlo, quando sogghignò, guardandoci, attraverso la vetrina di cristallo. «Hai visto Mirri, ultimamente?» chiesi a Hergal in tono distratto. Anch'io avevo un armamento. «L'ho vista con te,» disse Hergal. «Ma non conto di farmi Danor. Danor ha perso la testa quando l'hai persa tu, e ha lasciato BEE per allontanarsi da te. Ecco perché questa è la prima volta che ritorna, da allora.» «Molto lusinghiero,» dissi io, «fare un effetto tanto profondo.» «Ascolta,» disse Hergal, «tu te ne stai là, seduto sulla tua coda nella Tor-
re della Storia, tra la polvere, in compagnia di un paio di robot arrugginiti che non sanno neppure in quale rorl siamo. Leggi di cose che non esistono e non esisteranno mai più. Avventure, guerre, malattie, modelli di comportamento sociale obsoleti... poeti.» Quell'ultima parola era una frecciata per il mio aspetto, che avevo modellato su una specie di amalgama dei giovani pallidi, romantici che, con masse di capelli scuri e ricciuti, figure snelle ed eleganti, lineamenti aquilini ed opali azzurri, grandi ed ombrati, per occhi, venivano evocati tridimensionalmente sulle pareti della Torre della Storia, da antichi disegni di un mondo intellettuale svanito. Tutti quegli esseri, tradizionalmente, morivano giovani, di antiche, inaudite malattie polmonari, in mare, nelle battaglie, negli incendi e in incidenti inaspettati. Sembrava che fosse loro dovere, e non posso dire di non aver mai riso delle loro belle facce tragiche. Quel genere di morte era difficile da immaginare, persino per me, in quel luogo dove la morte non minacciava mai permanentemente la vita umana. Immaginate le espressioni di quei poeti, recuperati dai robot di Quattro BEE, e usciti dalla vasca del Limbo, nuovamente rivestiti di carne. «Vuoi dire che debbo scrivere altri versi del mio maledetto poema, dopotutto? È enormemente drumdik.» «Ascolta,» insistette astutamente Hergal, «tu non hai più cambiato corpo da intere ere geologiche. Vai al Limbo e fattene fare un altro, e ci vedremo. Ricordi quel tuo corpo con la pelle color cannella e i capelli color limone? Era davvero insumatt.» «Il corpo femminile, vuoi dire?» «Oh, sì,» disse Hergal. «perché non dici loro di ritrovarlo e di ordinarlo ancora? Allora io e te potremo stare insieme per un paio di unit.» «Dunque sai per certo,» dissi io, «che Danor torna qui femmina.» Hergal mi guardò. Io aggiunsi: «Danor ed io abbiamo un'intesa, da molto tempo. Non vorrei deluderla. Forse potresti convincere Mirri. Le dirò che ho qualcosa d'altro per le mani.» «Tu riesci ad averle,» disse Hergal, «solo perché per sette ottavi sei ancora come loro. È cannibalismo.» «Che erudizione,» feci io. «Possibile che anche tu sia stato alla Torre della Storia? Con tanto tempo a disposizione, in questi giorni...» «Sei uno spostato,» disse Hergal. «Lo sei sempre stato. Non vai alle Stanze del Sogno perché non sei capace neppure di arrivare in fondo a un sogno senza impasticciarlo. Stai cercando di vivere ottanta rorl fa, nel passato, perché non sai adattarti alla realtà del presente.» «Tu invece sì,» dissi io. «Hai smesso di andare a sbattere contro il Mo-
numento a Zeefahr, e un mid-vrek fa ti sei impiccato nel Parco dei Lecci a un albero di giada, dove potevano vederti tutti i bambini dell'ipno-scuola. Come sei ben adattato.» «Almeno,» disse Hergal, «quando io smetterò di essere un Jang, potrò fare un bambino che andrà all'ipno-scuola, poiché non ne ho ancora annientato uno.» Senza dubbio, era andato a curiosare nella Torre della Storia. Le sue parole erano arcaiche, come ormai lo erano in gran parte le mie. Ma non importa. Era stato quello, il momento in cui lo avevo scaraventato attraverso la parete, e poco dopo ci eravamo separati. Nonostante la mia sfida, comunque, avrei dovuto sapere che non era adatto per un duello, anche se aveva letto qualcosa in proposito. Immaginatevi Hergal che spara, all'altezza della spalla, a dieci passi di distanza... all'alba. Gli sbadigli avrebbero rovinato la mira. 2. «Attlevey,» disse una tagliente voce metallica. Riconobbi chi era prima ancora di voltarmi. «Bene, bene, ecco Kley,» dissi. Kley era femmina, adesso, il che significava che era meglio stare in guardia: ma quando la guardai, vidi che aveva un corpo nuovo. Abbagliante. Capelli di lava, occhi d'oro grezzo, pelle di bronzo levigato, e vestita da stordire in un abito trasparente a motivi di pugnali d'oro, e con un antico capolavoro, un teschio di bronzo, che ghignava sul suo parainguine. «Debbo dire,» fece lei, «che mi sembri pallido.» «Deve essere così, Kley. Il mio corpo è stato progettato per essere pallido.» «Oh, sì. Sei un poeta consumato, no?» «Consumato, ooma, consumato dalla tisi,» dissi io. «Osceno,» fece lei. «Le tue idee sono assolutamente malsane.» «Malsane come tutto il resto,» ammisi io. «Malsane come tre Jang in una fabbrica di pane degli angeli.» «E il tuo vocabolario!» gridò lei. «Che parole! Fabbrica? Che cos'è?» «Un posto dove fanno gli auricolari radio,» dissi io. Eravamo sulla vecchia passeggiata non mobile che sale dietro il Palazzo delle Commissioni del Terzo Settore, e conduce alla Torre della Storia. Era un percorso remoto, non molto frequentato, perché pochi visitavano la
Torre, e perciò l'arrivo di Kley alle mie calcagna era inaspettato quanto sgradito. «Dovresti rimetterti un po' in sesto,» gridò lei, e la sua voce rimbalzava contro le statue d'acciaio che fiancheggiavano il viale. «Tutta la città parla della tua dalika con Hergal. L'hanno segnalata persino i notiziari lampo.» «Evviva,» dissi. Mi ero voltato e stavo già proseguendo, ma lei mi venne dietro, arrivò persino ad afferrarmi saldamente il braccio con la mano guantata d'oro. «Danor torna con il battello celeste, al tramonto.» «Sì, lo so.» «E vai a prenderla?» «Kley,» dissi, «in questo momento sto andando alla Torre della Storia.» «Oh, no,» fece lei. «Tu vieni con me. Ho letto l'ultimo manuale erotico per Jang, il Culmine Purpureo. Devi sposarmi per questo pomeriggio, e faremo insieme tutto quello che dice, compreso il Trapezio con la Frusta Stellata arroventata e...» «Kley,» le dissi, «guardami. Ti sembro abbastanza forte per una cosa del genere?» «Certo che no,» scattò lei. «È così che hai fatto confezionare il tuo corpo, no? Ma se ti conosco bene...» «Kley,» dissi io, «tu non mi conosci.» A differenza del Museo della Storia, fulgido e brunito, dove venivano conservati un paio di rorl di Documenti Lampo e altro ciarpame, la Torre della Storia, Sede dell'Arcano, era adeguatamente nera, vecchia, torva e scostante. E l'apparenza funzionava benissimo. Quanta gente vi entrava? Per due volte, mentre stavo rimuginando su alcune videolastre, avevo sentito il movimento lontano di qualcun altro in un'altra parte dell'edificio, il sibilo di un pavimento volante che andava su e giù. E una volta una Persona Adulta, femmina e scostante, era arrivata a passo di carica per controllare l'origine del motto di una Commissione per un trattato che stava scrivendo... o almeno lei diceva così. Allora io non avevo quel corpo poetico, e lei mi aveva rivolto una smorfia, vedendomi lì ozioso e robusto. Più tardi, l'avevo sentita mormorare, ai vecchi robot che si aggiravano sferragliando nella Torre, che i Jang non avrebbero dovuto venire ammessi lì dentro. E quando avevo varcato per la prima volta quella porta? Circa venti unit dopo essere uscito dal Limbo, quella volta, dodici vrek prima, quando ave-
vo fatto storia io stessa, cadendo svenuta, ed ero stata risistemata d'ufficio. Thinta era venuta a trovarmi, oh, sì, lo ricordo bene. Thinta, tutta allusioni: «Rammenti quella strana parola...» L'avevo pronunciata io, a quanto pareva, mentre svenivo. La parola strana era «Dio». Thinta aveva detto che l'aveva cercata negli Archivi Storici. Aveva detto che doveva essere una sorta di computer speciale, grandissimo. Aveva detto che se ne era preoccupata, perciò era venuta da me, in modo che me ne preoccupassi anch'io perché lei potesse sentirsi meglio. Non avevo mai risolto il mistero. Più si risaliva nel passato, e più gli Archivi erano frammentari... e questo era dovuto, credo, ai tempi in cui l'incertezza regnava sovrana. Comunque, l'intimità della Torre mi era piaciuta, e avevo cominciato a frugare tra i Documenti, frammentari o no, perché m'interessavano. Le cose che insegnano all'ipnoscuola sono soltanto un graffio alla superficie. Ed era anche un surrogato, diciamolo, per le attività cui avevo rinunciato, come le Stanze del Sogno, poiché anche i sogni programmati più meticolosamente, pieni di spade, di draghi e così via, si trasformavano invariabilmente in incubi imprecisi. L'ultima volta che c'ero andata mi ero svegliata urlando, e avevo fatto di nuovo storia, a Quattro BEE. Avevo sognato di combattere un grande mostro di fuoco che bruciava le carni, e non voleva morire, per quanto io gli recidessi la testa o gli trapassassi il cuore. Era un sogno cui in seguito avevo fatto l'abitudine: ma almeno non dovevo più pagare una Stanza del Sogno perché me lo propinasse. Nella Torre, si fece avanti un robot scassato. Sembrava molto compiaciuto di vedermi, e le sue luci facevano una gran bella mostra. Le sale odoravano di metallo e di polvere e anche di una specie d'aroma d'incenso, esalato da alcuni dei libri antichissimi, conservati in speciali contenitori sotto vuoto e sfogliati da getti d'aria, non da una macchina, per impedire che si sgretolassero. Per la verità, in quella particolare visita non feci molte ricerche. Sedetti nel mio scomparto, facendo suonare una vecchia musica (di circa dieci rorl prima), e cominciai a nutrire pensieri piuttosto romantici su Danor. Naturalmente, lei avrebbe potuto rivelarsi come la delusione del vrek. Oppure, poteva essersi trasformata in un orrore alla Hatta, anche se mi pareva improbabile. Povera, frigida Danor. Le mie letture, lassù, mi avevano dato qualche idea. Osservata con calma, Danor era una specie di esperimento scientifico: ma prova a infilarti nella pelle di un poeta, accorgiti di aver proteso le braccia verso una macchina, e di aver cominciato a comporre poesie intonate alla circostanza. Una poesia d'amore Jang per Danor, ele-
gante, incantevole e vuota come una stanza non arredata. Lei doveva aver abbandonato Quattro Bee all'incirca quando io ero uscita dal Limbo, portando sotto il braccio l'astuccio di nastri metallici... la deprimente saga che avevo composto là. Forse le chiacchiere di Hergal erano vere: lei era fuggita per paura di me, poiché le nostre discese nell'infelicità si erano verificate contemporaneamente. Ma perché tornava? Alla fine spensi la musica e abbandonai lo scomparto. Oltre le finestre trasparentizzate, il sole di Quattro BEE scendeva pesantemente nel cielo. E lì, su una panca d'acciaio, oziava Kley, fumando un ilare sigaro d'oro. «Ancora più pallido,» osservò acida. Aprì un bracciale e mi offrì una pillola d'energia, che io rifiutai. «Hai intenzione di svenire ai piedi di Danor?» Sì, qualcuno avrebbe finito per scoprirlo. «Non dovrebbe essere necessario,» dissi io. «Bene, andiamo,» fece lei, energicamente. Le sue unghie lunghissime lampeggiarono nel sole. «Tutto il circolo andrà al portello stagno per riceverla. Probabilmente anche qualche altro circolo, ricordando la sua vecchia abitudine di fare la difficile.» «Avanti, Kley,» dissi io. «Sforzati: diventa anche tu difficile da conquistare.» Per poco non mi centrò con una sventagliata di quelle unghie, e cinque robot accorsero a precipizio e ci fecero uscire tra cigolii di protesta. 3. Suonarono i campanelli. Un'esplosione sommessa segnò la chiusura dei portelli stagni della cupola, e il battello celeste di Danor scese dal tramonto turgido e perfetto di Quattro BEE, come un grande uccello d'argento. Si capiva subito che il battello proveniva da BAA, la città del favoloso. I rubini balenavano sugli spazi coperti dei finestrini che, come sempre, proteggevano i passeggeri dalla vista del deserto che regna e impazza intorno alle cupole. E quando i portelli d'uscita si aprirono, riversarono una folla dai lunghi mantelli di fuoco incombustibile e simili squisitezze, con inquietanti androidi come animali da compagnia, e casse di bagagli straordinari, per non parlare poi di uno sciame d'api. Io non mi servivo più di un'ape. Quando mi prendevo la briga di portare qualcosa, la portavo da solo. La vecchia ape che mi cadeva sempre addosso, in parte con la mia connivenza, adesso giaceva in quel mucchio di relitti dimenticati che riempivano
le stanze superiori di casa mia. Hergal stava oziando sul bordo della Pista d'Arrivo, insieme a Zirk nella sua incarnazione eroica. Entrambi mi lanciarono di soppiatto occhiate apprensive, e Zirk fletté i bicipiti, in una trasparente avvertimento. Per fortuna, non c'era traccia di Hatta, e non era venuta neppure Mirri. Thinta, comunque, materializzandosi con blanda frenesia, arrivò sfrecciando e lanciò a Kley una di quelle sue tipiche occhiate tremende, che in realtà sono minacciose quanto un lecca-lecca. «Attlevey,» disse Kley, dandomi una ditata nelle costole, come punto fermo. «È ancora arrivata? O posso dire finalmente 'arrivato'?» «Ti senti bene?» mi chiese Thinta. «Sei così sciupato. (Danor? No, o almeno non sappiamo.) Ti sei ricordato di farti un'iniezione nutriente?» Nessuno sapeva con che corpo sarebbe arrivata Danor. Zirk stava scommettendo con un Jang di un altro circolo che Danor era quella cosina graziosa vestita di rosa, e il Jang, che si chiamava Doval, stava dicendo che secondo lui era l'altra, quella cosina ancora più graziosa vestita di rosso. «Sì, Thinta,» dissi io. «Ma sei sicuro?» insistette lei. «Perché ho portato qualche pillola nutriente, caso mai ti servisse.» Proprio in quell'istante vidi Danor. Era molto facile individuarla... sì, era femmina. Aveva ancora quell'aria ardita, lo si vedeva chiaramente, splendeva come una luce attraverso un vetro colorato. Ma bisognava guardare bene. Gli altri erano ancora intenti a rigirarsi e ad agitare le braccia ai quattro punti cardinali. E all'improvviso, Kley gridò che forse Danor era passata alla condizioni di Anziana, e batté la mano sulla spalla di una femmina dignitosa, che immediatamente cominciò a lagnarsene con il robot più vicino. In mezzo alla confusione, mi sottrassi alle mie guardie — Kley e Thinta —, andai verso l'area d'arrivo, e vi giunsi proprio nell'istante in cui Danor se ne allontanava. Una chioma come un'azzurra nube piovosa, e un abito di stile BAA, fatto di fulmini trasparenti. Teneva, con una catena di zaffiri, una specie di cigno che camminava elegantemente a zampe rigide ed aveva il piumaggio della stessa sfumatura dei suoi occhi di lavanda. «Ciao, Danor.» Lei alzò gli occhi verso di me, con aria interrogativa. «Mi conosci? Che derisann. E tu?» Glielo dissi.
«Oh...» fece lei, come se stesse per aggiungere qualcosa d'altro, poi esitò. Ma i suoi occhi, quegli occhi di lavanda, erano spalancati, come due porte su una specie di tumulto... allarme, piacere, vigliaccheria, ricordo. Era ritornata al tempo in cui lei-lui si era buttato dal fluttuante, lo capivo: era tornata al Segreto. Nessun altro lo sapeva, sicuramente? Nessun altro, oltre me. «Mi hai sigillato le labbra con un bacio, ricordi?» dissi io. «Davvero? Oh, sì,» fece lei. Poi aggrottò la fronte, turbata. Apparentemente, era progredita oltre quel bacio, oltre la Spedizione Archeologica, fino alla parte in cui io, balbettando gemiti incomprensibili su Dio e la noia, ero caduta prona sul pavimento del Museo della Robotica. Poi, ritornando dal Limbo, avevo saputo che se ne era andata, altrimenti avrei pensato a Danor già allora. «Sei felice?» mi chiese, gentilmente. «È questo che mi rende famoso,» dissi. Lei distolse lo sguardo. «E tu? Com'è stato a BAA, per tutti questi vrek?» «Insumatt,» disse lei. «Naturalmente.» Nel frattempo, il suo cigno aveva alzato una zampa rigida e immacolata e aveva fatto pipì contro una colonna: e questo mi sorprese, perché gli animali androidi di BAA, in generale, non avevano funzioni corporee. Due Q-R stavano spargendo disinfettante addosso a tutti noi, mancando soltanto il cigno. Anche Zirk si era avvicinato a grandi passi, e osservava la scena: il suo volto erculeo era diventato violaceo per l'emozione esplosiva. Finalmente sbottò: «Tu devi essere Danor!» «Danor?» feci io. «Questa non è Danor. Danor è quella cosina graziosa in rosa.» Danor tacque. Zirk si afflosciò e i suoi muscoli pettorali si sgonfiarono, incerti. «Be', l'avevo immaginato che quella in rosa fosse... Ma allora, questa chi è?» «Che cosa importa?» dissi io. «Tu bada ai tuoi interessi ed io bado ai miei.» Mi girai per mormorargli all'orecchio: «Dopotutto, ho rinunciato all'idea di Danor, quando ho visto te e Hergal che vi mettevate all'opera. Io terrei d'occhio Hergal,» aggiunsi. Zirk si girò di scatto, controllò la posizione di Hergal, e poi galoppò verso il battello per subissare la ragazza in rosa di galanterie secondo lo stile di Quattro BEE. Kley e Thinta mi fissavano a bocca aperta, e negli occhi di Kley c'era un bagliore leopardesco.
«Danor,» dissi, «c'è un avioplano robot da nolo, a dieci passi, sulla nostra sinistra. Non hai protestato un momento fa, quindi penso che non lo farai neppure ora.» La presi per mano; io, lei e il cigno corremmo verso l'avioplano e balzammo a bordo. Il cigno atterrò sulla plancia: il suo becco emise un suono gaio e le ali sbatterono a destra e a sinistra. Premetti il pulsante «PAGAMENTO ALL'ATTERRAGGIO», feci scattare l'interruttore dell'accensione, e c'innalzammo nell'aria vellutata della città. Anche il cigno prese il volo e starnazzò intorno alle nostre teste. Danor rise, tirando la catena di zaffiro. Il cigno si posò bruscamente, e l'avioplano piombò verso babordo. «Che sciocco,» disse Danor. «Stai buono,» mormorò al cigno; e a me: «È stato un errore genetico. L'avevano segnalato i notiziari lampo di BAA. Era uscito sbagliato dalla vasca e stavano per smantellarlo. Ma ho chiesto a Kam se potevo prenderlo io, e lui ha detto di sì e ha sistemato tutto.» «Molto bello da parte di Kam,» dissi io. «Kam era un Anziano,» fece Danor. Intrecciò le mani in grembo, sopra al cigno. Disse, con grande serenità: «Abbiamo vissuto insieme per otto vrek. Sì, ooma, una ragazza Jang con un maschio adulto. Attento ai pulsanti,» disse sottovoce, mentre io, inavvertitamente, facevo roteare l'apparecchio in una picchiata alla Hergal... il vecchio Hergal. «Alla fine, la Commissione ci ha consigliato di separarci. Ci hanno detto, molto gentilmente, che non andava, non faceva per noi, non era una cosa sana. Hanno detto a Kam che rovinava la mia vita, e lui mi ha fatta partire.» Il cigno cominciò a cantare con voce acuta: «Voglio fare l'amore solo con te, perché tu sei così insumatt.» Trasbordammo a bordo di una sfera, e ci avviammo per la Via d'Acqua Peridoto, verso casa. Non pagai l'avioplano — lo facevo di rado, quando potevo evitarlo — ma pensai che dovevo farlo per la sfera, poiché il cigno, evidentemente un essere dalle abitudini irregolari, aveva sporcato letargicamente dappertutto. Danor non si scusò per il cigno, ed io l'ammirai per questo. A casa, andammo nell'appartamento che usavo ancora, di tanto in tanto. Subito una macchina uscì dalla parete e si accostò a Danor, implorandola di accettare qualche meringa topazio o un puré di mele di fuoco. Danor rifiutò e questo mi stupì: un tempo le piaceva mangiare, a tutte le ore del giorno e della notte. Chiese invece se il cigno poteva avere un po' di succo di frutta sintetico. Accondiscesi, in preda a sentimenti contrastanti. Sedemmo insieme in giardino, accanto alla piscina, sotto le enormi stelle
artificiali di Quattro BEE... Danor, il cigno ed io. «Sa nuotare?» chiesi. «Oh, no,» disse Danor. Il cigno era, evidentemente, un fallimento completo, ed era per questo che lei lo amava. Non avevamo più parlato di Kam. Almeno, io non avevo chiesto nulla, e Danor non aveva aggiunto altro. Ma adesso, istintivamente, lei riprese a parlare. Capivo dalla sua voce, serena e priva d'amarezza, che la vicenda le aveva causato un grande dolore, ma era un dolore che aveva dominato. Me lo diceva, non perché fosse necessario, ma per un senso di equità. Perché per lei, come per me, il breve, strano episodio del passato aveva acquisito importanza con il trascorrere dei vrek. Danor ed io non eravamo mai stati vicini. A quei tempi, mi era più vicino Hergal, persino Thinta, in quel suo modo irritante. Ma ora, sotto la luce monotona delle stelle, era come se fossimo figli degli stessi fattori: fratello e sorella. «Quando sono andata a BAA,» disse lei, «per un po' sono ritornata maschio. Un paio di Jang di altri circoli mi aveva seguito: l'ho fatto per liberarmene, ed è servito. Poi, un'unit, ho incontrato quel maschio Anziano nei Giardini Meteorologici... sai, dove ci sono gli effetti meteorologici speciali, temporali e nevicate e tutto il resto. Ero in mezzo alla folla, e guardavo una valanga... la fanno solo due volte ogni unit, ed è piuttosto impressionante. Poi questo maschio mi si è avvicinato e ha detto, in tono di rimprovero: 'Se venivi qui, perché non mi hai avvertito?' Gli ho risposto che non capivo cosa intendesse. Allora lui mi ha guardato bene, ed è arrossito. Quante volte si incontra qualcuno che arrossisce? «Era piuttosto insolito, e attraente. Lui si era progettato molto bene, e non aveva neppure quell'aria pomposa, anti-Jang. Mi ha detto: 'Chiedo scusa. Credevo che fossi mio figlio. È prevalentemente maschio, e il suo corpo più recente somiglia molto al tuo. Ma che stupido sono stato. Chissà cosa penserai.' Gli ho detto che mi sembrava naturale, e che non ero irritato: ed era lui il tutore? Lui ha sorriso, ma non era un vero sorriso. 'No, il tutore è l'altro fattore. Non li vedo spesso'. Ormai la valanga era finita. Mentre lui la guardava, prima, i suoi occhi erano lontani, sfocati. Non sembrava felice, entusiasta. Hai notato, ooma, immagino l'avrai notato, come quasi tutti sono sempre felici ed entusiasti, e corrono di qua e di là, ridendo e gridando? Lui era molto riposante, e immagino che abbia pensato che ero riposante anch'io, perché tutti e due eravamo taciturni e mesti. Poi mi ha detto che si chiamava Kam, e mi ha chiesto se avrei gradito un po' di vino d'opale, o un po' di Gaiezza, o qualche altra cosa. Penso che in
quel momento volesse fingere che io fossi suo figlio, che fossi andato a trovarlo. Poco a poco, mi ha detto che lui e l'altro fattore non andavano più molto d'accordo, e l'altro, prevalentemente femmina, aveva preteso di essere la tutrice del figlio, e sembra che si fosse scatenata contro Kam. Questo Kam non me lo ha detto apertamente. Cercava di essere imparziale, perché si sentiva incollerito, e sapeva che non poteva esserlo. Mi è parso simpatico. Gli ho detto che avrei voluto che fosse lui il mio fattore, poiché il mio l'avevo visto forse due volte, da quando avevo finito l'ipnoscuola. «E questo è stato l'inizio. Abbiamo cominciato ad andarcene in giro come fattore e figlio. Allora ero ancora maschio. Lui era molto gentile. Pagava tutto, e mi portava a vedere le cose più interessanti, di cui non avevo mai sentito parlare. E poi mi ha presentato ai suoi amici, anche se molti erano piuttosto 'anti', come al solito; e mi ha fatto addirittura conoscere un paio di circoli Jang, i figli dei suoi coetanei. Un giorno, nel suo palazzo c'erano due affascinanti ragazze Jang. Mi avevano visto e mi trovavano simpatico, a quanto sembrava, e Kam le aveva incoraggiate. Lui è entrato, tutto allegro e paterno. Pensava che volessi sposarne una per quell'unit, ma naturalmente non lo volevo. E non era la vecchia faccenda... il... il far l'amore. Allora ho capito. Quando hanno visto che non abboccavo, le due ragazze se ne sono andate. Ho detto a Kam che ero prevalentemente femmina, e che presto avrei cambiato. Lui mi è parso un po' sconcertato. E anche... nervoso, e non solo questo: anche lieto. Allora ho capito, e penso che abbia capito anche lui. Sono andato al Limbo, quella sera. Lui non mi ha accompagnato. Questo è il corpo con cui sono uscita. Adesso non lo cambierei più e, se dovessi farlo, lo rivorrei eguale... per fortuna tu hai lanciato la moda, ooma. L'ho ordinato in questi colori dolci perché avevo visto che gli piacevano. La sua casa era tutta toni d'azzurro e di malva, come un cielo serotino. Ti sembra che Kam fosse floopy, ooma? Non lo era. Ma era molto buono. Sono tornata all'alba, e mi sono chiesta se dormiva ancora. Ma era rimasto alzato tutta la notte. Camminava avanti e indietro sul tetto, e mi ha visto ed è sceso. All'inizio mi sono spaventata: sembrava così sbigottito. Mi guadava e basta. E poi si è scusato e ha mormorato che con i Jang proprio non si sa mai, avrei potuto diventare del colore di un fulmine, con un coltello su ogni fianco. Io gli ho preso la mano. Non so cosa volessi, in realtà. Non analizzavo, non razionalizzavo, e non avevo paura. Non ricordavo neppure che i Jang non devono aver mai relazioni con gli Anziani. Voglio dire, non ne hanno mai, no? Immagino, forse, che possa essere accaduto, una volta o due, ma solo per un unit, e tutto di nascosto, con tutti
gli interessati che si vergognano e scappano a suicidarsi o qualcosa del genere. «Lui ha detto: 'Tesoro, sono almeno di un rorl più vecchio di te, e sai che non posso seguire l'usanza Jang e sposarti... gli Anziani non si sposano. Te ne rendi conto?' E io ho detto: 'Non importa'. Lui era turbato, per me, perché ero una Jang, e infrangevo la legge non scritta... e forse probabilmente è anche scritta. Allora l'ho baciato. Non ne avevo avuto l'intenzione, mi ero rassegnata, ere geologiche prima, all'idea che far l'amore, per me, fosse un non evento, e lo sarebbe sempre stato. Vedi, non avevo immaginato che con lui sarebbe stato differente. Volevo solo farlo felice, perché per me lui era diverso. Ero disposta a stare al gioco e a fingere qualunque cosa». Gli occhi di Danor scintillavano. In modo sublime, maestoso, lei compì un gesto sessuale Jang particolarmente chiaro. «Bene, bene... non mi è capitata una sorpresa?» «Sì,» dissi io. «Avevo immaginato anche questo.» Cercai di non aver l'aria troppo imbronciata. Kam mi aveva rubato la folgore, ma non importava: almeno la sua storia era originale. «Tutta quella faccenda dei matrimoni,» disse Danor, risplendendo. «Tutti quegli indugi. Una parte di me aveva sempre saputo che sono spontanea. È lui me l'ha insegnato. Oh, ooma,» disse all'improvviso, mentre la luce le svaniva dal volto. «Lo amavo. Capisci che cosa significa?» «Sì, so che cos'è l'amore,» dissi io. «Come Dio, sembra che non funzioni più.» «Non gli permettono di funzionare. Sai cos'è accaduto? Una notte è venuto suo figlio... che ironia. Era una sorta di maschio tutto d'ambra, con gli occhi freddi. Mi ha dato un'occhiata, ed è corso dal suo tutore, e tre split dopo era arrivata un'ape messaggera della Commissione. Hanno parlato a tutti e due, insieme e individualmente. Sono stati molto gentili, ed è questo che ha reso tutto più sciocco. Hanno spiegato che l'età e la diversa esperienza non potevano andar bene. Che Kam per me era una figura di fattore e che per lui ero una figura di figlia. Io ho detto: che cosa importa, se siamo felici? Ma loro hanno convinto Kam, e quell'unit mi ha detto che dovevo andarmene. Era molto deciso. Mi ha ordinato di andarmene, e aveva gli occhi pieni di lacrime.» La guardai. Era ancora calma, perfettamente padrona di sé. Era molto bella, molto desiderabile nella luce fredda delle stelle che, nonostante la sua idiozia artificiale, è efficace. Ma cosa puoi fare con un'amica che soffre stoicamente, accanto alla tua piscina, per un amante perduto che non
sei tu? Proprio in quel momento il cigno, probabilmente ubriaco di succo di frutta sintetico, si avvicinò barcollando al bordo della piscina, e vi cadde dentro. Per un momento sperai che recuperasse un istinto perduto e cominciasse a nuotare, ma andò a fondo come un sasso: solo il becco affiorò per un istante, strombettando un brano d'una canzone: «Tu sei il sole meraviglioso del mio cielo!» Era, presumibilmente, l'unico modo in cui sapeva invocare aiuto. Sospetto che il cigno mi avesse fatto ricordare il bestiolino, anche se il bestiolino aveva avuto un'intelligenza acutissima, benché fosse tanto zaradann, mentre il cigno era senza dubbio un deficiente. Senza indugiare a riflettere, mi tuffai nella piscina per recuperare quell'idiota, e poco dopo riemersi stringendo il suo corpo piumato e fradicio e convulso, e lo depositai sul bordo, nonostante la sua violenta opposizione. Rigurgitò prontamente l'acqua che aveva trangugiato su metà dei fiori di seta e poi si accovacciò sull'altra metà, con un'aria di blanda soddisfazione. Uscii dalla piscina, con il mio abito di velluto-cactus nero, da poeta, appicciccato alla pelle, i miei capelli ricciuti aggrovigliati tanto che, ne ebbi la certezza, mi sarei fatto a pezzi il cranio quando avessi tentato di pettinarli. Danor si era messa a piangere, silenziosamente. «Povero cigno,» mormorò. Ma io sapevo a chi si riferiva. Mi inginocchiai accanto a lei e, sebbene fossi bagnato fradicio, si aggrappò a me. Conoscevo quella scena: io stesso l'avevo recitata, nella parte di Danor. La tenni stretta, e poi la sollevai e la portai dentro. Sulla porta mi soffermai per legare il cigno, e mandai alcune macchine casalinghe munite di asciugamani ad occuparsi di lui. Danor mi ringraziò tra i singhiozzi. La deposi sul grande letto dorato. «Non ci siamo sposati,» disse lei, seccamente. «Tradizione Jang.» «Vixaxn la tradizione Jang.» dissi io, sottovoce, e la sua bocca rideva, lagrimosamente, quando io la trovai. 4. Danor dormiva come un sogno azzurro; ma fuori, nel giardino assolato, il cigno, dopo aver spezzato il guinzaglio, stava zampettando in giro, starnutendo come un clacson vivace. Comunque, a svegliarmi era stato il se-
gnale del portico. Feci comparire l'immagine. Ed ecco là uno Zirk tridimensionale, che fletteva e defletteva torvo i deltoidi, e aveva la faccia quasi violacea. «Attlevey, Zirk,» lo salutai gaiamente. «Attlevey!» ruggì lui. «Attlevey! Bugiardo, impostore, spostato, thalldrap! Lurido promok, tosky, saresti capace di fartela con il tuo fattore! Tu...» «Attlevey ancora, Zirk. Ricominciamo daccapo, ti spiace? Che cosa vuoi? «Ti sei pappato Danor,» fece Zirk in tono d'accusa. «Danor è qui, sì.» «Dunque era veramente uno sporco trucco, perpetrato di proposito. Tutti quelli del circolo che stavano lì come scemi a gridare 'Bentornata, Danor!' a un'altra femmina. E intanto te la sei trascinata via. E lei è rimasta qui tutta la notte, e non vi siete sposati. Ascolta,» ringhiò, «molti Jang vengono esclusi dai loro circoli per aver fatto la metà di quel che hai fatto tu.» «Pussa via, Zirk,» lo invitai, cordialmente, e feci scattare l'interruttore dell'isolamento. Fuori, il cigno aveva abbattuto a starnuti un paio di minuscoli alberelli di rame, e sembrava intenzionato a finire di nuovo nella piscina. Uscii, lo abbrancai e lo portai dentro. Una macchina sfrecciò fuori di sotto il letto e legò il cigno, poi gli diede un piatto di non so cosa, che quello ingozzò con entusiasmo. Danor si era svegliata. Probabilmente aveva ascoltato la mia conversazione con Zirk, ma disse soltanto: «Credi che dovremmo chiamare qualcuno, Hergal o Kley? Oppure Thinta.» «Ho l'impressione che non sarà necessario,» dissi io. Invece fu Hatta a comunicare per primo con noi, ma non dal portico. Danor ed io eravamo in bagno, ma non facevamo precisamente il bagno. Non so che macchina, molto fiera della casa, aveva cercato di prevenire i miei desideri, ed aveva disattivato l'interruttore dell'isolamento. Annunciato solo dalla luce del segnale, Hatta, simile ad un pallone scarlatto, si materializzò in mezzo a noi. «Ehm,» disse Hatta. Forse arrossì, ma era impossibile capirlo. L'immagine sparì, ma ricomparve circa trenta split più tardi, in un momento più appropriato. «Chiedo scusa,» disse Hatta. Si schiarì la gola e disse:«Ciao, Danor.»
«Attlevey, Hatta,» disse Danor. «Come va?» «Oh, non posso lamentarmi,» fece Hatta. «Perché no?» domandai io. «Con l'aspetto che ti ritrovi, direi che ne hai tutto il diritto.» Lui mi sbirciò, mestamente. «Non sei stato molto morale,» disse. «E poi, coinvolgere Danor...» «Mi ci sono coinvolta da sola,» disse Danor. «Vi vogliono buttar fuori dal circolo.» «Splendido,» dissi io. «E non aspettarti lacrime.» «Zirk è andato alla Torre della Storia,» disse guardingo Hatta. «Lo sapevi? È rimasto lì tutta la notte. Ricordi quello stupido scherzo che hai combinato con Hergal... la storia di un dvello?» «Cosa? Un duello?» «Duello, si dice? Sì. Be', credo che Zirk sia andato a informarsi.» Il cigno starnutì, lì vicino. Hatta sbatté le palpebre, impacciato. «Non dirlo,» mi avvertì. «Non è una faccenda da ridere.» Incontrai Zirk davanti alla Montagna d'Argento, due unit più tardi. Danor era dentro, a comprare vitamine per il cigno, e un Q-R addetto alla manutenzione degli animali domestici gli stava facendo un'iniezione per farlo smettere di starnutire. Zirk mi arrivò dietro, mi batté la mano sulla spalla, e quando mi voltai, mi sferrò un pugno, scaraventandomi sei isolati più avanti. Non ricordo tutti i particolari. Mi svegliai lungo disteso sul dorso, o quasi, poiché una sconosciuta Jang mi sorreggeva la testa sulle ginocchia. Il cielo era pieno di aerei robot in picchiata: credevano che qualcuno si fosse suicidato, come la gente continuava a fare in ogni secondo della giornata. Si era raccolta una piccola folla, come sempre quando accade qualcosa di vagamente fuori dell'ordinario. E Zirk stava là a braccia conserte, mostrando i grossi denti bianchi in un ghigno. «Sta bene,» annunciò. «Ti ho sfidato. Accetti?» La ragazza Jang, mi guardò, oltre la curva dei bei seni, e mi accarezzò la fronte. «Su, su,» fece, suadente. Io le sorrisi, ma Zirk urlò: «Non sprecare uno split per lui. Sta per essere escluso e fatto a pezzi, nell'ordine. Ha fatto l'amore con metà dei membri del circolo, senza sposarli.» La ragazza Jang assunse un'espressione scandalizzata, e anche la folla, e
i robot che uscivano brulicando dagli aerei. Mi alzai: avevo la testa intronata e barcollavo, ma stavolta nessuno mi aiutò. «Allora, accetti?» Ormai, io mi ero abituato all'idea, in generale. «Sta bene, spaccone, accetto.» Zirk era raggiante. Avrei dovuto prevederlo che gli Archivi Storici avrebbero avuto un effetto peggiore su di lui che su di me. Era tutto denti e niente cervello. «Ti farò a pezzetti,» promise. «Ti vanno bene le spade?» I presenti, soprattutto gli Anziani si chiesero l'un l'altro cos'erano le «spade». Alcuni Jang lo sapevano, grazie alle loro fantasie nelle Stanze dei Sogni e al Palazzo dell'Avventura. «Ti sei esercitato?» m'informai. «Accetti le spade?» gracchiò Zirk. «Sì, se serve a farti star zitto.» Zirk girò lo sguardo sulla folla, e fletté tutti i muscoli che aveva. «Poiché il mio corpo è di una spanna abbondante più alto del tuo,» disse, «ti permetto di procurartene uno nuovo, più grande.» «Oh, grazie,» feci io. «Domani all'alba, al Parco dei Lecci, angolo ovest.» Mi accorsi che la folla ne prendeva nota, mentalmente. Avremmo attirato un pubblico notevole. In quel momento Danor e il cigno uscirono dalla Montagna d'Argento. Il cigno aveva smesso di starnutire ma, a giudicare dall'aroma di disinfettante, aveva fatto qualcosa d'altro. Danor si fermò, quando vide tutta quella gente. Zirk le si inchinò, gonfiando i muscoli. «Tutti si rendono conto,» disse, in tono penetrante, «che tu non ne hai affatto colpa. Non ho nulla contro di te, Danor. Anzi...» Ammiccò con aria d'intesa, poi girò sui tacchi e se ne andò. Gli aerei robot che erano accorsi lì inutilmente stavano risalendo verso il cielo; ma arrivarono due api del Centro Lampo, perciò presi per mano Danor e mi affrettai a condurre via lei ed il cigno. «È successo,» disse lei, con un filo di voce. «Sicuro. Scommetto che i comunicati lampo non parleranno d'altro, stanotte.» «Fatti cambiare il corpo,» disse Danor. «Ridiventa femmina. Allora Zirk non avrà il coraggio di battersi con te.»
«E cosa importa?» feci io. «È colpa mia: sono stato io a cominciare tutto con Hergal. E comunque, se anche Zirk m'infilza con quello stupido fioretto di pseudoacciaio, la vasca del Limbo mi rimetterà subito in piedi, giusto?» «Ma, ooma,» cominciò lei. «Non capisci...» «Sì,» dissi. Capivo. Se Zirk aveva intenzione di fare sul serio, e se mi avesse melodrammaticamente trapassato il cuore, sarebbe stato il primo omicidio intenzionale commesso sul pianeta dopo più di sessanta rorl. 5. Più o meno in quel momento presi una decisione. Decisi che se io e Zirk dovevamo veramente arrivare a quell'estremo — un'uccisione — sarebbe stato lui a uccidere me. Era una decisione razionale, ed era strano, perché io ho sempre avuto un carattere emotivo e impulsivo. Sono capace di pensare in modo lineare, ma al momento buono, mi ritrovo come sempre a correre in cerchio. Comunque, in quella faccenda, se qualcuno doveva trovarsi appicciccata adosso l'etichetta «assassino», non sarei stato io. Zirk, dopotutto, aveva precedenti di Jang irreprensibile — un eccesso di suicidi e di cambiamenti di corpo, qualche sabotaggio alla cupola, e un paio di esaurimenti nervosi — ma per quanto riguardava la Commissione, era tutto perfettamente normale. Io, invece... Oh, no, non intendevo correre rischi. Eppure c'era qualcosa che lavorava contro di me, qualcosa di cui avrei dovuto tener conto. Avevo dimenticato che, dopo l'ultimo cambiamento forzato, dodici vrek prima, in seguito allo storico svenimento, non mi ero suicidato neppure una volta. Già in se stessa era una cosa atipica, soprattutto perché in precedenza ero stato uno dei peggiori: continuavo ad annegarmi per acquisire un aspetto esteriore nuovo. Ma il suicidio, per me, aveva perso ogni fascino, dopo quell'episodio traumatizzante: adesso aspettavo i trenta unit prescritti, tra un cambio e l'altro, e comunque non cambiavo quasi mai. Qual era la ragione? Possibile che io, persino nelle città ben protette, avessi acquisito un'antica, obsoleta paura della morte? O forse in qualche modo, in qualche momento, lungo il duro sentiero della mia patetica esistenza di Jang, avevo acquisito, nonostante tutto, un desiderio di vivere? E tanto per la cronaca, per un vrek mi ero esercitato di tanto in tanto a tirare di scherma, al Palazzo dell'Avventura. Presumibilmente, anche Zirk
aveva fatto un corso: ma in verità, con quella sua taglia, un'ascia sarebbe stata più adatta a lui, assai più di una spada sottile e poetica, l'arma dei principi emaciati e dei sognatori. L'alba si presenta sempre allo stesso split, tutti i giorni, sempre preannunciata dalle stesse striature di rosa e di brace, e dall'identico canto degli uccelli meccanici che reagiscono alla luce, sistemati qua e là nei parchi e nei giardini. Gli uccelli veri, importati da BOO, ignorano l'alba nella cupola con altero disdegno; e poiché io avevo visto alcune autentiche aurore del deserto, non potevo biasimarli. Le foglie degli alberi di giada, nel Parco dei Lecci, splendevano e lampeggiavano sotto il cielo rosato. Le lunghe ombre verdecupe scendevano i pendii, e un po' di nebbia artificiale, molto bassa e molto artistica, saliva fumigando dalle grotte e dai boschetti. Ma quando mi avvicinai all'angolo ovest, cominciai a udire il chiasso. Non dirò che mi si strinse il cuore. Lo sentivo già stretto da diverse ore, per la depressione che vi si era insinuata al pensiero di lasciarmi trafiggere da quell'idiota di Zirk. Ma una sensazione criogenica saliva pigramente nelle mie viscere, come un freddo serpe che passeggiasse. Naturalmente, era probabile che ci fosse una folla, dopo che Zirk aveva annunciato in pubblico le nostre intenzioni. Ma a giudicare dal chiasso, si sarebbe detto che mezza città si fosse data convegno nel parco, e io non ero dell'umore più adatto per dare spettacolo davanti a quaranta milioni di thalldrap a caccia di sensazioni. Raggiunsi il viale minuziosamente scolpito che porta verso ovest, con il sole alle mie spalle. E dagli alberi uscì fuori Doval, l'amico extra-circolo di Zirk, acceso d'entusiasmo e d'importanza. «Attlevey,» disse con voce strascicata. «Hai la tua sbata?» «Spada. Sì, ce l'ho.» «E i tuoi secondi?» Lo guardai, acido. Zirk aveva letto veramente parecchie cose. «No.» «Be', dovresti averli,» disse Doval. «Zirk li ha.» «Lasciami indovinare,» dissi. «Tu e Hergal.» «Kley e Hergal,» annunciò Doval, altezzosamente. «Di norma, non sono ammessi secondi di sesso femminile,» dissi io. «Se Zirk ci tiene a seguire scrupolosamente le vecchie consuetudini. Oppure Kley ha cambiato?» «No,» disse Doval. «Ha solo una gran voglia di vederti sbudellato.»
«Che cara,» dissi io. Percorremmo insieme il viale; Doval sbirciava la mia spada di argentoacciaio, affilatissima, con un disprezzo che non riusciva a mascherare la curiosità. I robot casalinghi, che possono diventare molto versatili con un po' di riprogrammazione qua e là, avevano fabbricato la spada il giorno prima. Da due vrek mi preparavano gli abiti e il resto. «Danor non è con te?» chiese Doval. «Non ci vedi bene, Doval?» Danor era troppo tesa e pallida, e perciò la sera prima avevo aggiunto di nascosto un po' di narcotico nella sua neve-in-oro, e l'avevo lasciata addormentata. Il cigno era saldamente ancorato al letto, con il becco immerso in un piatto di cibo per cigni. Il frastuono della folla era impressionante, ormai, e quando uscimmo dagli alberi, nella radura che Zirk aveva scelto per il nostro duello, quasi tutte le mie paure si realizzarono. In maggioranza, gli astanti erano Jang. Splendevano, ridacchiavano, si scambiavano spintoni, inghiottivano le pillole: formavano un quadro incantevole. L'aria era piena delle loro api, che portavano loro specchi e profumi e sigari e vini e pasti e animali domestici. Spesso le api si scontravano, e allora sulla calca sottostante piovevano estasi e scalcianti animaletti azzurri. Zirk, Hergal, Doval e Kley avevano incaricato le loro api di erigere una barriera temporanea, per tenere la gente lontana dalla radura. Ma c'erano terrazze che salivano a nord a ad est, e quindi tutti avrebbero goduto di un'ottima visuale, accidenti a loro. Zirk troneggiava su un gran seggio di platino, ed era nudo fino alla cintola. Si era lasciato fuorviare dalle letture, perché portava un elmo piuttosto strano, schinieri di bronzo e così via. Devo aggiungere che era magnifico? Lo era, lo era: ma era anche un perfetto idiota. Kley, vestita d'oro spinoso, con teste dorate di drago incollate sopra i capezzoli, era intenta ad affilare personalmente la spada di Zirk, tra voli di scintille. Hergal oziava nell'ombra, elegantemente annoiato. Capivo che era già seccato di essersi dovuto scomodare... io valevo proprio tanto disturbo? C'erano anche gli altri del circolo. Thinta, in abito trasparente verdechiaro, con un paio di gatti addosso; Mirri, che una volta tanto era maschio, era evidentemente sposato con Thinta e si dava da fare perché me ne accorgessi. Scorsi persino Hatta, un guizzo scarlatto tra gli arbusti di vetro. Doval si avvicinò a Zirk e disse qualcosa. Zirk sogghignò, Hergal sbadigliò. Tutti i membri del circolo si radunarono e mi guardarono dall'alto
della loro serena solidarietà. Poi Mirri si staccò dal gruppo e mi si accostò. «Ho detto che sarò io il tuo secondo, visto che non ce l'hai, thalldrap.» Hatta ci venne alle spalle, balzellando su tre piedi e disse: «Anch'io. Potresti avere bisogno di noi.» «Davvero?» «Zirk ti farà a pezzi,» disse Mirri, torcendosi scherzosamente i baffi. «Quindi passerai momenti dolorosi, prima di arrivare al Limbo.» Sembravano tutti così certi che Zirk mi avrebbe finito che, immagino, avrei dovuto rilassarmi con un sospiro di gioia, lasciando che gli eventi seguissero il loro corso. Comunque, non avevo mai amato il dolore — anzi, sono un vigliacco piagnucoloso — e mi sembrava di vedere me stesso morire lentamente, atrocemente dissanguato sull'erbaseta, mentre Kley o qualcun altro forniva indicazioni sbagliate agli aerei robot accorsi al salvataggio, per assicurarsi che soffrissi a lungo. Naturalmente, era impossibile imbrogliarli, e alla fine mi avrebbero salvato: lo fanno sempre. Ma per qualcuno che ha l'abitudine di correre al distributore di unguenti medicinali anche per un giradito, era una prospettiva sgradevole. «Non sei un po' pallido?» fece Mirri. «Spaventato?» «Stai zitto,» disse Hatta. «Se sei il suo secondo, devi stare dalla sua parte.» Non posso dire che la lealtà di Hatta mi commuovesse: ma il suo senso di equanimità aggiunse una nota di humor a quella scena così drumdik. Nel frattempo, la folla dei Jang stava lanciando un ululato, per spingerci a cominciare. Zirk si alzò e fece crocchiare sonoramente i muscoli. Doval, istruito nelle formalità, venne a offrirmi del vino, che rifiutai. Zirk si riempì la bocca e sputò, brutalmente, sui fiori di quarzo. Poi raggiunse a passo di marcia il centro della radura, e Kley gli portò la spada. Era una sorta di mannaia, intaccata qua e là per alludere a precedenti duelli inesistenti. Zirk aveva assorbito a dovere lo spirito della situazione. Io lo raggiunsi, con la mia modesta spada in pugno. «Bene,» disse Zirk. «A morte. D'accordo?» Era due volte me e, per un paio di split, mi rammaricai di non aver fatto ciò che mi aveva suggerito; farmi fornire dal Limbo un nuovo corpo di proporzioni eroiche. La sua spada era decisamente minacciosa, e negli occhi gli brillava la sete di sangue. E là c'erano gli amabili membri del mio circolo, che attendevano speranzosi di assistere alla mia dipartita. Mi sentii rovesciare lo stomaco, un sudore gelido mi spuntò sulla fronte, ma annuii e sorrisi, in modo veramente istrionico.
«Pronto quando lo sei tu, floop.» E le spade cozzarono una contro l'altra, come si usa dire. Cozzarono anche con l'aria e con i tronchi degli alberi... la spada di Zirk, cioè. Io avevo temporaneamente dimenticato che, snello e poetico, ero anche assai più agile di quella massa di muscoli. Inoltre, conoscevo un po' l'arte della scherma, mentre lui evidentemente credeva che gli sarebbe bastato avventare fendenti furiosi per tagliarmi in due dalla testa all'inguine. E avrebbe finito per riuscirci, se l'avessi lasciato fare. Ma non lo lasciavo fare, non del tutto. Erano accadute due cose. Un po' dell'abilità che avevo imparato in vari vrek di esercizi schermistici sì affermò automaticamente. Mi accorsi di parare e rispondere in modo adeguato e in tutte le direzioni, per puro riflesso. Inoltre, la mia incomparabile vigliaccheria si era trasformata in una furia rosseggiante, che continuava a crescere e a sfolgorare via via che mi battevo con lui. Non era uno di quei nobili sogni di duelli che avevo programmato per me stesso. Tremavo e ringhiavo di furore per la loro banalità, per il modo in cui mi avevano scaricato adosso le loro piccole, stupide sacche di veleno. E forse c'era in me anche qualcosa della vecchia rabbia, la rabbia contro il nostro modo di vivere, le nostre consuetudini, i nostri codici superficiali. Ormai si era fatto caldo, e sentivo appena gli squittii e gli strilli della folla dei Jang al di là della barriera, intenti a vivere il duello di seconda mano, come noi usiamo fare con tutti gli eventi: ma sembrava che quei suoni mi giungessero da molto lontano. Proprio in quell'istante, il filo della mannaia di Zirk tranciò un fendente diagonale sul mio petto, lacerò il velluto e la camicia di raso d'acciaio, e mi trafisse. Per un momento non provai dolore, come se il mio corpo non si rendesse conto di ciò che gli era accaduto. Poi la sofferenza venne, un dolore abbagliante, stridente, dalla spalla alle costole. Sembrava che Zirk avesse messo allo scoperto tessuti ed ossa, ma fortunatamente non avevo la possibilità di guardare. Il sangue, il mio sangue, scorreva esuberante dalla ferita, come se da ere geologiche attendesse solo l'occasione di liberarsi dell'involucro della pelle e adesso, gorgogliando tra sé, fuggisse via come i bambini dell'ipnoscuola durante l'intervallo. Sapevo che, più perdevo sangue, e meno possibilità mi restavano di colpire Zirk. Ed era splendido, no? Proprio ciò che io volevo? Poi vidi la faccia di Zirk. Era contratta, convulsa. Aveva un'espressione allarmata, quasi impauri-
ta. Era uno specchio. Guardandolo, sapevo che cos'ero diventato io. E allora compresi che l'avrei ucciso. Per quanto mi sforzassi, non sarei riuscito a trattenermi. Non so quanto tempo impiegai. Non molto, credo. Dal momento in cui riconobbi i miei desideri, mi parve di schiudermi, d'infiammarmi. Non lo sentivo più come un pericolo. Poi mi accorsi che mi aveva ferito ancora un paio di volte, ma non come la prima. Ormai lo incalzavo, così come si costringe ad arretrare e ad arretrare una riluttante macchina casalinga. All'improvviso, Zirk andò a urtare contro un albero. Spalancò le braccia, mi sferrò un colpo furibondo e mi mancò, e io mi insinuai al di sotto del suo braccio, colpendolo forte alla coscia. Zirk urlò di dolore, un urlo profondo, belluino, degno della sua mole. Sembrava veramente un grido uscito dalla preistoria: parve far ammutolire l'intera città, non solo la folla raccolta nel Parco dei Lecci. Avrei potuto lasciarlo lì a perdere lentamente la vita, come pensavo che lui avrebbe fatto con me. Ma l'istinto che mi aveva invasato era troppo totale, troppo nitido. Mentre Zirk cadeva, roteando gli occhi, le labbra stirate sui denti, lo colpii al cuore. Non emise altri suoni: crollò come un colosso abbattuto sull'erbaseta, e il suo peso mi strappò la spada dalla mano. Non avrei mai potuto colpirlo vicino al cuore, a meno che lui stesse per cadere: era troppo alto. 6. Volarono tutti insieme verso di me, all'unisono. «Che duello!» disse Mirri, stringendomi il braccio, e vidi i suoi occhi maschili già perduti nella prossima incarnazione femminile che pregustava insieme a me. «Che duello!» Thinta e i suoi gatti mi miagolarono nelle orecchie, che cominciavano a ronzare: «Ooma, come ti senti?» «È straordinario,» disse Kley. «Quel cretino tutto muscoli non poteva farcela.» Persino Doval sogghignava: «Sempre in gamba.» Mancava solo Hergal... verde in faccia, era sparito dietro un albero. Potevo immaginare come si sentiva. Non provavo trionfo, adesso, soltanto un orrore viscido e tetro, acuito dall'atteggiamento straordinario dei miei amici, per non parlare della folla, che in gran parte si abbandonava all'isteria
della nausea o della gioia. Risentivo anche del sangue perduto, e capivo che da uno split all'altro avrei ripetuto la mia famosa azione di dodici vrek prima, sarei svenuto ai loro piedi stellati. Lassù, in cielo, udii vagamente gli ululati delle sirene dei robot, mentre la squadra salvataggio puntava verso Zirk. Quelle sirene parevano riempirmi i polmoni, spingermeli fuori dalle tempie. Poi una massa solida si inserì tra me e il precipizio nero in cui stavo per sprofondare, riverso. Una mano forte mi afferrò e, tra le brulicanti stelle nere che m'invadevano gli occhi, mi accorsi di una presenza scarlatta alla mia sinistra. «Aggrappati a me,» disse Hatta, in tono così cospiratorio che una fiacca risata scosse il mio corpo straziato. «O vuoi che portino anche te al Limbo, insieme all'ultimo corpo di Zirk?» «No, grazie. Hatta, sei sorprendente.» Hatta mi fece girare, mi guidò verso il viale, lontano dalla radura. Neppure Thinta, mi pare, cercò di fermarci; forse erano tutti affascinati dall'arrivo della squadra del Limbo... io stavo troppo male per vedere e per curarmene. Hatta, sebbene fosse un mostro a tre gambe, riuscì a guidarmi abbastanza bene: ma non so dove, lungo il viale, immagino, dovetti crollare al suolo, perché poi mi ritrovai a ballonzolare sulla sua irrequieta spalla rotonda, e lui procedeva ad andatura precipitosa. «Hatta,» mormorai, «è necessario che tu corra tanto? Due gambe sarebbero già un guaio sufficiente.» «È evidente,» disse Hatta, «che non ti rendi conto di ciò che hai fatto, vero?» «Credo di saperlo.» «E allora, se lo sai, sai anche perché corro.» Mi girava la testa, per il movimento. Non sentivo più la ferita inferta dalla spada di Zirk. Probabilmente lo dissi. Perché Hatta ansimò: «Vi ho spalmato sopra qualcosa, naturalmente. Ora stai zitto.» Il silenzio venne, nero come le montagne del deserto, morbido come i capelli di Danor. 7. Mi svegliai, e trovai il cigno seduto sul mio ventre: cantava sdolcinato: «Tu sei il sole meraviglioso del mio cielo.» In un primo momento, lo scambiai per un gesto sentimentale di premura per me da parte del cigno, e
mi sentii commosso, ma poi ricordai che quella canzoncina era il suo modo d'invocare aiuto. Mi alzai, a fatica, e scoprii che aveva strappato ancora il guinzaglio, lo aveva ingarbugliato intorno ai piedi del letto, e si stava strangolando lentamente. Lo liberai, con una certa difficoltà, e lui andò in cerca di Danor o del cibo, o dell'una o dell'altro. Le finestre si erano offuscate. Le schiarii. Fuori era notte, e il cielo brillava di stelle e di comunicati lampo. Mi sentivo quasi normale, e la ferita era guarita completamente grazie all'unguento ad azione rapida di Hatta. Forse era stata una ferita superficiale, dopotutto, anche se piuttosto brutta. A quanto pareva, Hatta mi aveva anche riportato a casa. Un gesto generoso: o forse l'aveva fatto solo per curiosità e/o arrivare a Danor. Non c'era traccia di nessuno dei due ma, dopo un paio di split che impiegai a scacciare i piatti robot carichi di vivande ed a notare che il pulsante dell'isolamento era abbassato, captai il suono delle loro voci, in giardino. Non so perché (o forse era ovvio) immaginai che stessero parlando di me: perciò sgattaiolai fino alla porta e mi fermai lì. Era uno spettacolo strano, un angelo celeste in conversazione con un pallone rosso; e a metà strada, fra loro, il cigno fissava la cupola del cielo con aria meditabonda e creativa, come se cercasse di sondare i segreti dell'universo. «È tutto così sciocco,» stava dicendo Danor, con veemenza. «Così stupido, così sciocco, come tutto il resto.» «Può darsi,» rispose Hatta, «ma resta il fatto che è un ordine della Commissione.» «Deve essere già accaduto prima,» disse Danor. «Qualche volta.» «Mai, dicono. Almeno, negli archivi della città non figura. La nozione di reato è stato abolita da molti rorl, quindi non sanno che fare. Vuol dire che inventeranno qualcosa, e questo significa un imbroglio colossale.» Stordito dalla percezione, dal rancore e dalla scelta colorita delle parole di Hatta, uscii sul terrazzo di marmo, e Danor trasalì con aria colpevole. «Quale ordine della Commissione?» domandai. Ma loro due proruppero. Danor: «Come hai potuto lasciarmi qui?» E Hatta: «Da quanto eri lì ad ascoltare?» Io dissi: «Tu eri già abbastanza inguaiata, Danor. Circa uno split, Hatta. Ripeto:
quale ordine della Commissione?» «Mentre dormivi, è arrivata un'ape messaggera della Commissione,» disse Danor. «Vogliono che domani, per prima cosa, andiamo tutti al Palazzo delle Commissioni del Secondo Settore.» «Sorpresa, sorpresa,» feci io. Mi sembrava anche troppo familiare. «E come sta Zirk?» «Lo hanno trattenuto al Limbo in osservazione,» disse Danor. «Molto gentile da parte loro.» «Dovresti prenderlo sul serio,» disse Hatta. «Servirebbe a qualcosa?» Ci sedemmo a fissare la piscina. Il cigno pencolava sul bordo, ma Hatta lo scacciò con quelle sue braccia bizzarre. «Tu... ehm... tu sai che non ti abbandonerò,» disse Hatta. «Per favore,» dissi io. «Ho già abbastanza problemi anche senza che ti ci metta anche tu.» «Oh, ooma...» disse Danor. «Oh, ooma niente. Se mi resta al fianco nel Palazzo, con quell'aspetto, gli affibbieranno fin dal primo momento un'etichetta di Disadattato di Prima Classe, e a cosa mi gioverà, posso saperlo?» «Sei un bastardo,» disse Hatta, sorprendendomi ancora una volta, perché il linguaggio forte, anche quand'era antiquato, non era il suo genere. «I bastardi non esistono, Hatta, non esistono più. Anche tu sei stato alla Torre della Storia?» «Sono stato più o meno dovunque sei stato tu, e sai benissimo perché,» disse Hatta. Sì, sapevo perché. Hatta mi amava, e una volta, quando io ero completamente a pezzi, e lui era comparso sotto il mio portico con i capelli color miele e un corpo bello come il mattino... Mi bastava riesumare la mia saga su nastro metallico di dodici vrek prima, per ritrovare quella triste storia. «Vattene, Hatta,» dissi. E Hatta, come sempre, obbedì. «Sei molto scortese con lui,» disse Danor. «Immagino che Kam si sarebbe comportato in un modo diverso.» Lei mi guardò. «Sì.» «Ma Kam non era un Jang,» dissi. «Jang... maledetti Jang.» Rimanemmo per un po' seduti in silenzio nel giardino, mentre il cigno correva tra i fiori, e di tanto in tanto cadeva o cantava: «La folle magia
bianca dei tuoi capelli, la calda magia malva dei tuoi occhi, mi fanno diventare zaradann.» Mi chiesi se avrei rivisto il mio vecchio Q-R dal tappeto d'acqua, il povero scemo che mi aveva seguito attraverso le mie successive ambizioni... il cambiamento anti-Jang, la ricerca di un lavoro, e il mio piano per fare un figlio, che era finito nell'orrore e nella desolazione. Tuttavia, di lui non c'era traccia. Forse era stato smantellato, dopo aver avuto a che fare con me... la tensione doveva essere stata considerevole. O forse preferiva starmi alla larga... come sopra. Danor venne con me, e io ne avrei fatto volentieri a meno. Prevedevo che sarebbe stata una sequenza spiacevole. Passammo per il solito percorso del Palazzo delle Commissioni, per gallerie, pavimenti volanti, aree di attesa, e uscimmo finalmente in una sala bianca, circolare, con i sedili disposti a gradinate, quasi tutti vuoti, e un podio centrale, quasi completamente pieno. Su questo erano stipati Q-R dalle facce austere e infelici, con le unità di memoria, o quel che erano, sferraglianti senza dubbio nelle loro giunture. Le persone sedute sulle gradinate erano tutte Anziani, ed evidentemente avevano una qualche posizione sociale — senza dubbio soltanto nominale — nella direzione degli affari della Commissione della città. Lungo i bordi del podio, come un'aiuola sgargiante, sedevano più o meno tutti i Jang che conoscevo, anche di vista, a Quattro BEE. Per non parlare del mio circolo. Kley, femmina; Mirri, femmina... aveva fatto in fretta, doveva aver esagerato di nuovo con le iniezioni nutrienti; Thinta, naturalmente femmina, ma senza gatti... probabilmente glieli avevano tolti d'autorità all'ingresso; persino Hergal, maschio, e neurotico al pensiero di trovarsi lì, abbandonato in pose di sfida disinvolta, per mascherarlo; e proprio in fondo, una creatura minuscola, delicata, piccante, tintinnante di cristalli, con boccioli di loto di raso rosapallido tra i capelli, dell'esatto, squisito colore dei capezzoli... Zirk! Sconvolto com'ero, scoppiai egualmente in una rauca risata! dovettero calmarmi. Danor mi tirò il braccio, le api scesero in picchiata, i Q-R agitarono le mani, e gli Anziani mormorarono con aria di disapprovazione. Un Jang maschio mi apparve al fianco. «Cerca di controllarti,» disse. «Controllati i tuoi graks,» feci io. Non era niente di speciale, grigio e grossolano, un corpo scelto a casaccio, senza fantasia, ma almeno senza arti e teste di troppo, e non scarlatto: era Hatta, che tornava per farmi corag-
gio. «È Hatta,» disse Danor. «Lo so. Chi altri poteva essere? Come hai fatto a cambiare così in fretta? I tuoi trenta unit non erano scaduti.» «Lascia perdere,» disse Hatta, imbarazzato dal suo gesto altruista... detestava il suicidio. «Ieri sera ho capito quel che intendevi.» Avevamo raggiunto il podio, e venimmo separati. Mi trovai esattamente al centro di tutto... la sala, i Q-R i Jang, tutto quanto. Una posizione invidiabile. Cercai di rilassarmi, ma era difficile. I muscoli si tesero e la pelle fremette, sotto i miei ombrosi occhi di poeta. Tutti si agitavano e bisbigliavano. Nessuno se ne venne fuori con una frase diretta. Volsi lo sguardo su di loro, con aria benigna e raggiante. «Be', non è divertente?» feci a voce alta. Questo attirò l'attenzione dei Q-R, come avevo previsto. Uno, al centro, un essere d'oro dall'aria importante, bussò sul tavolino che gli stava davanti. «Abbi la cortesia di non mettere in mostra tanta leggerezza. È una situazione veramente terribile,» disse. «Oh, terribile,» riconobbi io. «Il povero Zirk falciato nel fiore degli anni, e reintegrato dopo cinque split, come un fiore di seta refrigerato.» Zirk balzò in piedi e cominciò a squittire qualcosa contro di me, malevolmente, mentre lacrime di cristallo le scendevano dagli occhi crepuscolari. Altri Jang le fecero coro, e il Q-R dorato batté e batté fino a quando un gong risuonò, da qualche parte, e tutti smisero di gridare, sbalorditi. «L'inchiesta verrà condotta con proprietà,» tuonò il Q-R, con notevole ottimismo. Si rivolse a me. «Ora ci esporrai esattamente ciò che ha portato a questo sciagurato evento, di cui ben pochi di voi, è chiaro, comprendono il significato.» «Sta bene,» dissi io. «Un giorno, mentre ero davanti alla Montagna d'Argento, Zirk... maschio, e grande all'incirca quanto un piccolo museo, mi ha colpito scaraventandomi lontano e mi ha sfidato a duello. Si tratta di...» «Sì,» disse il Q-R. «Abbiamo consultato gli archivi e sappiamo cos'è un duello.» «Io ho accettato la sfida, e ci siamo incontrati nel Parco dei Lecci; io ho vinto grazie all'abilità superiore e ad un maggiore esercizio. Ora Zirk è felicemente installato in un corpo nuovo e tutto, direi, è insumattamente de-
risann.» Queste parole suscitarono alcune risate, che il Q-R ignorò. «Non lo è,» disse. «E il resoconto non è completo.» «Oh, be', chiedo scusa. Credevo che lo fosse. Naturalmente, ho omesso di dire che il Parco dei Lecci, in quel momento, era come al solito di un banale verde-giada e che il sole della cupola stava sorgendo nel suo solito modo sciocco, e il ghiaccio secco alitava graziosamente intorno a noi. Così va meglio?» «Stai zitto,» disse il Q-R. «Non ci contare.» «O stai zitto,» proseguì il Q-R, «o verrai ridotto al silenzio con l'ipnospray. Cosa preferisci?» «Sto zitto,» feci. «Jang Zirk,» disse il Q-R, «dovresti fornirci la tua versione.» Zirk tornò ad alzarsi, tenendosi in equilibrio precario sui piedini calzati di pantofole d'argento. Si asciugò gli occhi e disse, con voce lamentosa: «Mi rendo conto che è stato molto selt... ehm... molto sciocco da parte mia. Ma... uhm... avevo perso la testa.» Cinguettò come un tintinnio di campanelli. Pensare che quella Zirk potesse perdere la testa, ooh! Che stranezza! «Chiedo il permesso di parlare,» dissi io. Mi guardarono. «Se Zirk continua così, vomiterò tanto da rovinare la vostra bella sala bianca.» Non avrei dovuto arrischiarmi, ma non ragionavo più. Mille risolini riempirono l'aria, Zirk pestò un piede e per poco non cadde. Dopo un secondo, un'ape in volo mi innaffiò con una pioggerella finissima, e io divenni doverosamente inerte e ammutolito: restarono in funzione solo gli orecchi e gli occhi ed il cervello, e ne avrei fatto volentieri a meno. E Zirk continuava a parlare. «È stato il modo in cui lui ha mentito a noi e si è portato via Danor. Voglio dire, eravamo tutti così spaventosamente ansiosi di vederla! E poi, senza sposarsi! È scandaloso, sottrarsi così a una tradizione Jang. Ecco, io ho preso una tale rabbia...» Le ciglia sbatterono, la bocca si atteggiò a broncio. «E quando l'ho incontrato, non ho saputo trattenermi. Oh povera me. Eppure in passato eravamo stati così affezionati. Non saprei neppure dire quante volte siamo stati sposati e abbiamo fatto l'amore. Oh, ma ecco che sto divagando. Be', volevo dire che io pensavo solo a una zuffa tra amici. Ma lui è diventato zaradann... zaradann, vi dico. Non avevo mai visto una cosa simile.» Zirk si torse le mani dalle unghiette rosee e sospirò, terrorizzata. «Mi ha trafitto senza misericordia.»
8. Dopo Zirk, ognuno ebbe qualcosa da dire. Thinta affermò che ero sempre stato instabile, ma era il mio temperamento, e non ero cattivo. Sperava che la Commissione si rendesse conto che lei aveva esercitato su di me una buona influenza, ed aveva sempre cercato di tenermi lontano dai guai. Kley disse che meritavo di venir frustato, e si offrì di farlo personalmente. Mirri disse che Zirk mi aveva ferito, e che mi ero battuto lealmente. Disse che ero matto, ma che a lei non dispiaceva. Disse che Danor mi aveva costretto ad agire avventatamente, e che il Comitato avrebbe dovuto rispedirla a BAA. Hergal disse che avevo ucciso volutamente Zirk (fu il primo ad usare la parola «uccidere»). Aggiunse che Zirk se l'era cercata e mi avrebbe fatto fuori, se ne fosse stato capace. Poi la Commissione interrogò Hergal sulla sfida che in precedenza avevo lanciato a lui, e Hergal spiegò, dettagliatamente. Disse che io ero prevalentemente femmina, e che avevo bisogno di cambiar sesso, e che quella era l'unica cosa che non andava in me, e poi chiese se poteva andarsene perché era già stufo di star lì. La Commissione disse di no. Danor era pallida quanto mi ero autoprogettato io; ed era affascinante. Disse con calma che avevamo deciso insieme di andarcene e di far l'amore senza sposarci. Non avevamo avuto intenzione di scandalizzare nessuno. La Commissione le chiese se non aveva trascorso parecchio tempo a BAA con un Anziano, senza sposarlo: e la Commissione di BAA non li aveva consigliati di dividersi? Vidi che le tremavano le mani mentre rispondeva che sì, era così: e li guardava in faccia, senza abbassare la voce. I Jang lanciarono esclamazioni soffocate, di fronte a tanta spudorata oscenità, e vennero zittiti dal gong. La Commissione disse che il comportamento di Danor era bizzarro e denotava tendenze insolitamente antisociali. Danor non rispose, ma quando tornò a sedere chiuse gli occhi come se fosse molto stanca. Hatta disse che la mia prima sfida, lanciata a Hergal, era stato uno scherzo, e che Zirk era uno sciocco. Disse che Zirk aveva avuto intenzione di uccidermi (altri Jang poi lo confermarono, ricordando le minacce che Zirk mi aveva rivolto davanti alla Montagna d'Argento). Hatta sostenne che io
non avevo mai avuto intenzione di uccidere Zirk, solo di ferirlo, ma Zirk era caduto sulla mia spada. Queste parole furono accolte da un grande clamore. Doval disse che ero uno schermitore formidabile, e che avevo saputo perfettamente quello che facevo, quando mi ero avventato su Zirk. Si augurava, disse, che la Commissione autorizzasse i duelli nei parchi, come passatempi regolari, e si levò un ruggito d'entusiasmo che soverchiò persino il suono del gong. Parecchie ragazze Jang che non erano del mio circolo dissero che ero meraviglioso, e parecchi maschi Jang dissero che quand'ero femmina ero perfettamente a posto. Un maschio disse che, se mai mi fossi avvicinato al suo circolo, mi avrebbe sfidato nel Parco dei Lecci e avrebbe fatto meglio di Zirk. Nel complesso, tutti dissero più o meno cose diverse, e non ce ne furono due che affermassero la stessa cosa, sul mio conto o su ciò che avevo fatto. Erano passati all'incirca novemila orari dei pasti, e i Jang stavano chiedendo rumorosamente da mangiare. Persino gli Anziani pomposi com'erano, sembravano a disagio. Finalmente il Q.R. dorato annunciò che, se ci fossimo trasferiti nella sala accanto, avremmo trovato di che nutrirci; ma dovevamo rientrare tra un'ora, al segnale del gong. All'inizio pensai che mi avrebbero lasciato lì in preda all'ipnospray, solo e senza cibo, ma poi arrivò un'ape e mi iniettò qualcosa, e io mi alzai, in pieno possesso di tutte le mie facoltà. Mentre la folla ci precedeva brulicando, presi per mano Danor. «Non so dirti quanto mi dispiaccia,» feci. «E allora non dirlo,» rispose lei, sottovoce, sorridendo. Il grigio Hatta si avvicinò. «Avresti dovuto fare quello che ti hanno detto loro,» commentò, com'era prevedibile. Entrammo in una gaia sala tutta gialla, dove i Jang si stavano buttando con grida stridule sulle bistecche di noci i dolci al vino e le ciliegie di roccia. Gli Anziani erano andati a mangiare in qualche posto più tranquillo. «Cosa vuoi, Danor?» chiese educatamente Hatta. «Oh, niente, grazie.» «Anch'io, niente,» dissi. «Dovete mangiare qualcosa,» insistette Hatta. Zirk si avvicinò, fluttuando, seguita da un paio di maschi premurosi. Entrambi somigliavano notevolmente ai corpi maschili di Zirk, uno strano fe-
nomeno che avevo notato, di tanto in tanto. Forse, in realtà, ognuno vuole fare l'amore con se stesso. «Attlevey,» mi disse Zirk, abbassando le palpebre dalle sfumature di pastello. «Spero tanto che non pensassi davvero tutte quelle cose drumdik che hai detto sul mio conto, ooma. Quando questa faccenda incresciosa sarà finita, dovremmo proprio incontrarci e parlare di tutto, eh, cosa ne dici?» «Zirk,» dissi io, «puoi essere satura di profumi e coperta di prismi, con un vitino sottile quanto il mio polso, ma se non te la squagli, prendo quella bottiglia di cordiale d'argento e te la infilo nella fessurina.» «Ehi, basta,» tuonarono con voce di basso le due scorte di Zirk. Stavano alzando quei pugni da dieci tonnellate quando Mirri si insinuò in mezzo a loro. «Tu!» gridò a Zirk. «Tu sei peggio di lei!» E indicò Danor. «Secondo me, hai una faccia tosta assolutamente farathoom!» Scagliò una fruttiera di ciliege di roccia contro la faccia incipriata di Zirk, e cominciò a strapparle a manciate i capelli color lino, mentre Zirk strillava da far pietà. I due campioni di Zirk cercarono di salvarla, e qualcuno cui piaceva Mirri arrivò per salvare lei. Poco dopo, regnava il caos. Danor, Hatta ed io, una volta tanto d'accordo, ci tirammo in disparte mentre in ogni direzione si scatenava un'incredibile rissa Jang. Alcuni si erano schierati dalla parte di Mirri, altri con Zirk. Molti si azzuffavano solo per divertirsi. Noci, dolci e liquori gorgoglianti volavano nell'aria, tra grida e schianti. All'improvviso, una sirena risuonò più forte di quel frastuono. Una voce di Q-R, attraverso gli altoparlanti, tuonò: «Smettetela immediatamente di azzuffarvi, o verrete spruzzati con l'ipnospray.» La violenza si placò, abbastanza lentamente. I Jang si guardarono intorno, con gli abiti laceri e i volti segnati dai lividi e dalla polpa d'arancio. «Ritornate ordinatamente nella Sala delle Inchieste. Sedetevi e rimanete in silenzio. Era esattamente come all'ipnoscuola. Non c'era da meravigliarsene, considerando il caos di poco prima. Tutti sfilarono, docili, e andarono a sedersi, ripulendosi alla meglio gli abiti trasparenti e i gioielli. I Q-R erano ancora sul podio, ma sui loro visi era apparsa un'espressione di profondo orrore. Erano veramente spaventati... non per se stessi, perché la programmazione non glielo avrebbe permesso: ma per noi, per ciò che avremmo potuto farci l'un l'altro.
Quando vi fu abbastanza silenzio da poter sentire gli assorbipolvere in funzione sul soffitto, il Q-R dorato si alzò in piedi e fissò lo sguardo su di me. «Siamo pervenuti a una decisione,» disse. Fino a quel momento, nonostante gli avvertimenti — che avevo ignorato — non avevo attribuito eccessiva importanza alla situazione. Era insopportabile solo per la sua pomposità. Le città dirette dai robot e dagli androidi programmati per servire la comunità non intimidiscono troppo: Non avevo previsto che decidessero veramente qualcosa, a parte un altro scomodo punto nero a mio carico, e una specie di reprimenda, magari una restituzione, come vietarmi l'accesso ai parchi per cinquanta unit o cose del genere. Le punizioni non venivano mai usate, le multe erano estinte. Il solo potere che veniva esercitato, per quanto esasperante, doveva avere come fine il nostro bene. Ma nel tono serio del Q-R c'era qualcosa che mi fece zampillare scintille incandescenti nelle viscere. «Vogliamo che tutti se ne rendano ben conto,» disse il Q-R, volgendo lo sguardo sui Jang testimoni. «La nozione di reato è stata abolita ormai da moltissimo tempo, e perciò non è stato facile, per noi, stabilire ciò che dovevamo fare. Abbiamo capito che in questo particolare caso l'aggressore è stato il Jang Zirk e che, se le circostanze si fossero invertite, ora sarebbe lui al posto in cui si trova l'Accusato.» A quella parola, «Accusato», si levò un mormorio. Il Q-R continuò: «Tuttavia, ai sensi delle antiche leggi che hanno preceduto i dati attuali, è l'Uccisore che deve pagare.» Nessun mormorio accolse quella seconda parola. Aveva colpito troppo profondamente, come la lama che io avevo usato. Uccisore. Ho uccìso, quindi sono un... «Inoltre, esaminando certe riprese a distanza registrate al Centro Lampo, abbiamo osservato la faccia dell'Accusato durante il duello. Inequivocabilmente, c'era l'intenzione di uccidere.» Il Q-R si rivolse di nuovo a me. «È un evento molto raro. O almeno lo era. Poiché la morte non esiste più, il desiderio di uccidere, in quanto basato sull'idea di sbarazzarsi di qualcosa, si è atrofizzato. Quando non lo è, le Stanze del Sogno e i Palazzi dell'Avventura dirottano quell'emozione in canali innocui. Ora, però, uno di voi ha ucciso... non se stesso, com'è nel suo diritto, ma un altro, contro la volontà di questi, e può darsi che molte menti ne siano state colpite, e che si crei una moda. Pensate alla violenza già scatenata, pensate a voi stessi. Sebbene chiunque venga ucciso nella città possa venire immediatamente
portato al Limbo come un suicida, resta l'orrore per l'atto dell'Omicidio in se stesso, ed è in base a tale premessa che abbiamo pronunciato la sentenza. Faresti meglio a restare seduto,» aggiunse, rivolgendosi a me in tono compassionevole; probabilmente stavo cercando di alzarmi, ma mi sentivo le gambe molli, e non ce la facevo. «Hai una possibilità di scelta,» disse il Q-R. «Ti prego di riflettere attentamente. Avrai a disposizione tre unit per decidere. Prima possibilità: potrai andare al Limbo e sottoporti alla Dissoluzione della Personalità. Come sai, questo significa che la tua coscienza verrà oscurata e la tua memoria cancellata. Come al solito, riemergerai fra tre rorl e riprenderai a vivere nelle città, non più intralciato dalla colpa passata e dagli impulsi antisociali che si sono sviluppati in te (quest'ultimo episodio è stato semplicemente il culmine di molti comportamenti sospetti, uno dei quali, te lo rammentiamo, è stato la distruzione della tua creatura non ancora nata a causa della tua follia). Quando lascerai la DP, il tuo ego sarà completamente cambiato. Ricomincerai dallo stadio infantile, secondo la consuetudine, con un adeguato tutore Q-R: saprai solo di essere ritornato, ma non ricorderai nulla, né dell'epoca attuale, né della tua presente personalità. Normalmente, la DP viene compiuta per coloro che hanno vissuto molti rorl e sentono la necessità di scaricarsi dell'accumulazione mentale causata dal tempo. Nel tuo caso, è ritenuta una condizione essenziale, se devi restare cittadino delle Quattro.» Nella grande sala circolare non si udiva il minimo suono. Non sentivo neppure il battito del mio cuore. Se pure batteva. Il Q-R socchiuse gli occhi, come se ciò che mi stava dicendo lo facesse soffrire. «L'alternativa alla perdita prematura della tua identità e della tua personalità è la seguente: lasciare la cupola tra quattro unit, e successivamente esistere nel deserto, in esilio, senza più avere accesso a Quattro BEE, Quattro BAA e Quattro BOO, per l'intero periodo indefinito della tua esistenza umana naturale... che potrebbe continuare fino a un rorl. Naturalmente, ti verranno forniti tutti gli aiuti e le comodità che chiederai, entro limiti ragionevoli. Inoltre, prima della partenza, ti verrà accordata una scelta finale del corpo, affinché tu possa progettarlo nel modo più adatto alle tue esigenze e alla tua situazione. Inoltre, il luogo in cui ti troverai verrà sorvegliato e, se avrai bisogno di assistenza, medica o funzionale, ti verrà fornita. Non ti verrà permesso altro contatto con le città e con i cittadini. Gli svantaggi di questa alternativa sono numerosi, come puoi ben capire. La solitudine e la paura sono rischi gravi. Inoltre, con il tempo il tuo corpo
invecchierà, ed è un processo spiacevole e sconsigliabile. Alla fine, se non ti suiciderai prima, una morte naturale porrà termine alla tua vita, dopodiché la città ti recupererà e la DP verrà compiuta in ogni caso, affinché tu possa venire reintegrato nella struttura sociale di Quattro BEE.» Il Q-R giunse le mani. «In entrambi i casi, ognuno dei tuoi attuali rapporti, intimi o no, è finito per sempre. Alla tua ricomparsa, fra tre rorl o più i tuoi coetanei potranno essere passati volontariamente alla Dissoluzione della Personalità; e anche se non l'avranno fatto, tu non li ricorderai, e loro non ti riconosceranno nella forma ridestata. Nessuno di coloro che sono ora qui con te, verosimilmente, ti chiamerà più amante o amico nel futuro.» Il pesante silenzio si spezzò di colpo. Una ragazza Jang stava urlando che non potevano farmi una cosa simile, era orribile, impensabile. Mi sembra che fossi stato sposato con lei soltanto un'unit, circa un vrek prima. «Questa scelta,» continuò il Q-R, azzittendola, «è la sola che ti venga proposta. Non ci sono altre soluzioni. Devi rassegnarti, e decidere. Nei rorl passati, saresti andato incontro alla morte... la morte totale, definitiva. La cancellazione... quale punizione per il tuo reato. Noi abbiamo cercato di agire nel tuo interesse, oltre che nell'interesse della comunità in generale, e questo ci è costato molta energia e molto tempo. Hai a disposizione tre unit, né più, né meno. Sistema i tuoi affari e considera meticolosamente i tuoi progetti. In quanto a tutti gli altri Jang presenti in questa sala, ci auguriamo che non dimenticheranno l'avvertimento. Ora potete tornare a casa.» Si allontanarono tutti da me, come se fossi appestato. Lo ero. Thinta e Mirri piangevano, e piangeva persino Kley. Hergal era in preda alla nausea, come al parco. Anche Zirk. Senza dubbio stava pensando che, se io non fossi stato uno schermitore così abile, ora sarebbe spettato a lei compiere la scelta, non a me. Anche i Q-R se ne andarono alla chetichella, e gli Anziani. Alla fine, rimasi solo con Hatta e Danor. Mi chiesi, intontito, se Hatta mi avrebbe rinfacciato: «Te l'avevo detto.» Ma stette zitto. Guardava nel vuoto. Avevo dimenticato che mi amava, o credeva di amarmi. In un certo senso, per lui il colpo era altrettanto grave, perché mi avrebbe perduto per sempre. Danor appoggiò il volto al mio. Non c'erano lacrime, sulle sue guance, ma l'angoscia la circondava come una nuvola di mesto profumo.
«Danor,» dissi io. «Tienimi stretto. Non lasciarmi.» 9. Voi scommetterete che diedi una festa. Era inevitabile. Era la reazione estrema, imposta da una situazione estrema. Inoltre, tutti avevano predetto che avrei dato una festa. Avevano predetto anche che al culmine della festa e dell'abbandono, mi sarei gettato da un tetto o mi sarei tuffato in una piscina senza un'iniezione d'ossigeno e senza nuotare; o magari, se loro avessero avuto fortuna, mi sarei innaffiato di Estasi e mi sarei fatto scattare un accensore nell'orecchio. Dopotutto, quello era l'unico modo possibile di comportarsi. Perché l'alternativa imponeva in realtà una sola scelta: morire, e lasciare che il Limbo distruggesse la mia anima, o almeno la ripulisse, rendendola immacolata e priva di carattere. Tre rorl di oblio, seguiti da una nuova infanzia e dall'amnesia permanente, erano un destino tremendo per un Jang, un colpo devastante di cui nessuno parlava, ma cui tutti pensavano: lo si poteva capire vedendo il colore defluire dalle loro guance. Ma l'altra possibilità, l'esilio e la disperazione tra le dune, senza alcuna compagnia fino alla fine dei miei giorni, mentre diventavo arido come la sabbia, vizzo e screpolato come i cactus, assediato dall'agorafobia... mai, mai! Se, in una crisi di pazzia, avessi accettato una cosa simile, avrei comunque ceduto entro un quarto di vrek. Quindi, doveva essere un suicidio glorioso e tumultuoso, subito. Andarmene con un'esplosione pirotecnica, far vedere a tutti di che stoffa ero... Erano tutti così interessati a ciò che avrei fatto, così affascinati dall'idea della mia macabra festa di addio, che dimenticarono o accantonarono la ripugnanza per il mio destino contaminante, e si intrupparono intorno a me dall'alba all'alba. Mi chiesi se uno dei miei fattori, o tutti e due (li avevo visti per l'ultima volta parecchie lune prima) mi avrebbero chiamato per dirmi addio o qualcosa di simile. Ma non mi chiamarono. Probabilmente erano tutti e due a BOO o a BAA; e non vennero a saperlo o non si resero conto che si trattava di me se non quando fu troppo tardi. Con quella sentenza che mi gravava sulla testa, mi sentivo svuotato, snervato. La prima e la seconda unit che mi avevano accordato, mi svegliai in preda a un terrore cieco, graffiante. La seconda unit piansi, e Danor pianse con me. Mi chiese se doveva andarsene, ma le dissi di restare; avevo bisogno di
lei, o pensavo di averne bisogno; non so perché, dato che non serviva a nulla, sebbene lei fosse coraggiosa e tenera. Il cigno vagabondava facendo pipì su tutto e rovesciando gli oggetti. Il cigno ci salvò un poco, ma appena un poco. Diedi disposizioni perché la mia casa toccasse a Danor quando io non fossi più stato lì. Un particolare fortunato: tutto ciò che compravo era gratuito, comprese le novità per la festa. La Commissione, immagino, si rendeva conto che, date le circostanze, ero incapace di sdilinquirmi in ringraziamenti nella cabina del pagamento. Alla festa dovevano essere venuti quasi tutti i Jang di Bee, o almeno così sembrava. Era la mia ultima notte al mondo, e avevo già preso abbastanza pillole dell'estasi da lanciare nello spazio un piccolo razzo. Ero assolutamente intontito, e non sentivo niente: persino la prospettiva che mi si spalancava appariva priva d'importanza, quasi sopportabile. Che cos'erano tre rorl? Ci sarebbero state altre Danor. L'ipno-scuola andava bene, in pratica non te ne accorgevi neanche, e io avrei fatto fare al mio tutore Q-R la figura del promok. Il mio ego sarebbe riaffiorato nonostante il lavaggio del cervello e l'oscuramento della coscienza, in un modo o nell'altro. Ero incorreggibile, no? Quindi bevi e inghiotti le belle pillole, e addio Danor, sentirò la mancanza della tua bella... meglio dimenticarlo, amico mio, fra tre rorl ricomincerai ad essere un bambino o una bambina. La festa si svolse nei Giardini della Luna, al Secondo Settore. Sfere verdi e azzurre di fuoco freddo rischiaravano i boschetti d'alberi di filigrana. Le fontane gettavano vino azzurro, e qua e là luccicava qualche drago proveniente da BAA, ed androidi femmina di BAA cantavano dolcemente, mentre le piante sbocciavano sulle loro teste. Il cielo era pieno di Jang a bordo di uccelli stellati, e di arcobaleni, e di pioggia profumata d'oro. Cantavamo anche noi, seduti ai lunghi tavoli, quasi tutte le vomitevoli canzoni di gran moda tra i Jang, e le cantavamo con passione e sincerità. Io mi baloccavo con l'idea di tagliarmi i polsi secondo l'antica usanza dei principi suicidi durante i banchetti, ma conclusi che ero troppo stordito dall'estasi per riuscirci bene, e abbandonai la fantasia. Poi venne il Masque della Morte... un piccolo svago che avevo escogitato quella sera per fare venire la colica a tutti gli invitati. L'avevo progettato per mezzo di uno schermo sensibile al pensiero, un po' come nelle Stanze del Sogno e nella Quadrovisione. Il montaggio risultante venne irradiato tridimensionalmente nei Giardini della Luna; ed era
macabro e grandioso. Sei coppie di danzatori, tre di maschi e tre di femmine, in velluto smeraldo e scarlatto, con capelli ornati di nappe d'oro. Danzavano e si abbracciavano, si scambiavano doni e sorrisi. Poi venne la Morte... la Morte dell'Ego nella DP del Limbo. Era un verme smaltato di nero, e la sua testa era un teschio bianco. Si insinuò tra loro e li avvolse nelle sue spire. I danzatori giacquero sull'erba come fiori spezzati e il verme rise, e cantò una breve canzone composta da me, dicendo che la Morte dell'Ego era la cosa migliore, per loro e per la comunità. Dovevo essere già abbastanza estatico, quando avevo inventato quella canzone. Era sciocca, ingarbugliata e straordinariamente amara e terribile, e si vedevano i Jang sbiancare in volto a una distanza di cinquanta passi. Poi squillarono le campane e i danzatori caduti si rialzarono. Si inchinarono al verme, e continuarono a inchinarsi fino a quando rimpicciolirono, raggiungendo le dimensioni di bambini. Non sapevano chi erano né chi erano gli altri, i loro amici ed amanti, ma inseguivano il verme, baciandogli la coda oleosa, e avevano gli occhi coperti da bende. «È proprio così,» mi disse Hergal. Lui e Mirri si stavano consolando a vicenda. «È proprio così, vecchio ooma. Bende sugli occhi e vermi thalldrap.» Thinta giaceva in una fontana di Gaiezza, miagolando, e Kley era comparso, ridiventato maschio, patetico e inibito, con gli occhi rossi. Hatta continuava a versarmi vino, vino color zaffiro. «Su, bevi,» diceva ogni volta che mi vedeva vacillare. «Prendi un'altra pillola.» Se anche Zirk era presente, non la vidi, o non lo vidi. All'improvviso fu molto tardi: mancavano circa due ore all'alba, e io avevo deluso i Jang non suicidandomi, e questo mi diede una sorta di amara allegria. «Danor,» dissi, «torniamo a casa. Per l'ultima volta.» Andammo a casa. Percorremmo la Via d'Acqua Peridoto in una barca scoperta, salimmo la scalinata luminosa, passammo sotto l'anemone del portico che si richiuse. Per l'ultima volta. Ero così stordito dalle bevande e dalle droghe che non sapevo se sarei riuscito a far qualcosa, ma certe pillole di Quattro BEE sono miracolose, e il cielo cominciava a impallidire quando noi giacemmo, immoti e silenziosi, l'uno nelle braccia dell'altra. E ricordai quella notte di tanto tempo prima, quando l'impotenza ci aveva straziati, ed era stato così importante.
Danor disse, sottovoce: «Mi è piaciuto, questa volta. Dopo Kam, ha significato molto per me. Ma mi addolora, mi addolora tanto...» «Non parlarne,» dissi io. «Ormai manca poco.» E poi mi addormentai, di colpo, come se potessi sottrarmi in quel modo a ciò che si faceva più vicino ad ogni split. Ero ritto accanto alla tomba del bestiolino. Il mio bestiolino di tanti vrek prima. Il mio bestiolino che era morto contro la muraglia d'energia, il giorno dopo la grande pioggia, quand'era fiorito il deserto. I robot cittadini venuti dal Limbo l'avevano sepolto, dietro mia richiesta, nella sabbia al di fuori della cupola, perché non potevo permettere che incenerissero quel corpo bianco come la neve in un igienico, lindo crematorio per animali domestici. Non avevo mai saputo dove fosse la tomba; non ero andata con i robot. Eppure adesso ero lì. Tutto intorno a me era il deserto, e il vento carico di polvere soffiava dolcemente, ma io quasi non me ne accorgevo. Perché sulla tomba stava seduto il bestiolino, intento a lavarsi con una concentrazione totale, esasperante. Poi alzò il musetto verso di me, un paio delle sue sei zampette bianche ancora agganciate ad angoli sorprendenti intorno alla testa, e mi guardò con i suoi occhi arancione. «Tu sei morto,» dissi al bestiolino. «La morte vera. La cancellazione.» «Il mio corpo è morto,» disse disinvolto il bestiolino. «Ma chi ti ha detto che con il corpo muore tutto il resto? E quella cosa che usano al Limbo, la cosa che gli androidi non hanno, la scintilla vitale, l'anima? Oh, oh, tu ti sei fatto menare per il naso.» Naturalmente, il bestiolino non aveva mai saputo parlare... era stata una delle sue virtù, forse. Anche adesso sembrava che non parlasse, eppure inspiegabilmente io udivo le parole, e immaginavo che provenissero da lui. «Perché sono qui?» domandai. «Già, perché? Evidentemente, avresti preferito restare in città e farti praticare il lavaggio del cervello, o quello che è.» «Oh, ti sbagli. Ho paura di svegliarmi, perché allora dovrò andare e lasciare che facciano proprio questo.» «E perché? Quelli sono solo un branco di quasi-robot scemi che cercano di trovare tutte le soluzioni, e si ingarbugliano nei loro stessi circuiti. In quanto a te, hai dimenticato tutto?» «E come avrei potuto tirare avanti, se non dimenticando?» dissi, e in un primo momento non capii ciò che intendevo.
«Finalmente puoi tirare avanti ricordando. Guarda.» Ed eravamo lassù, a bordo di un avioplano, ma intorno era completamente aperto, e si poteva vedere da tutte le parti, e sentire il vento graffiante e l'odore della sabbia e delle rocce, e il profumo del cielo immenso. Un cielo scuro, anche a mezzogiorno, un cielo verde e indaco, con un sole accecante, bruciante, un sole nello spazio, non un meccanismo che girava dentro una cupola, come un giocattolo per bambini. Laggiù il suolo, le dune pallide, le montagne nere che avevano forma di lance, di torri, di fortezze. All'orizzonte un vulcano che levava nell'aria la sua piuma cremisi, ardente, intransigente e reale. Una terra selvaggia, una terra crudele, una terra capace di afferrarti e di seppellirti in una tempesta di sabbia, di arrostirti al sole, di congelarti sotto le spalle, di disidratarti e di soffocarti nel calore, con il suo basso contenuto d'ossigeno. Una terra che ti sbalordiva e ti umiliava nell'unità dopo la pioggia, quando tutta la sabbia spoglia si ammanta di verde, e le felci salgono verso le montagne e ne coprono i fianchi come un antico mare ondeggiante. «Eccomi!» gridava il deserto, risonante di vita, perché lì c'era ancora la vita, in attesa, appartata come un seme. «Eccomi. Mi hai dimenticato? Mi hai dimenticato nonostante i tuoi sogni, i sogni del sole e della pioggia e delle antiche tribù che vagavano un tempo su di me con le loro mandrie e i loro bizzarri costumi? Tu, che gemevi e piangevi, coprendo il nastro metallico di grida e di desiderio, tu, thalldrap decadente? Ora hai l'occasione di dimostrare che sai fare qualcosa di più che startene seduto ad autocommiserarti ed a bere il vino di zaffiro misto alle lacrime di pietà per te stesso. Vieni, vieni a lottare con me, vieni a combattermi: sono un avversario degno di te. Ti divorerò, se posso, ma lo farò in modo aperto, pulito, non con le parole e le piccole vasche buie del Limbo. Non aver paura della morte umana e dell'umana vecchiaia. Io ho visto tutto, e lo so. È soltanto polvere portata dal vento sulle rocce. Guardami, come sembro vecchio e morto: eppure guardami crescere, guardami vivere. Vieni. Vieni da me. Ti aspetto.» «Bestiolino,» dissi io, «ho dimenticato il tuo nome.» «I nomi,» disse il bestiolino. «Sono la sola cosa che t'interessa?» E mi morsicò, forte, così forte che mi svegliai con un grido. 10. Entrai nell'atrio del Palazzo delle Commissioni del Secondo Settore, e
c'era una grande folla silenziosa, in attesa. C'erano anche le api messaggere, e le macchine da ripresa arrivate dal più vicino Centro Lampo, poiché io ed il mio destino facevamo notizia, il primo dramma da più di sessanta rorl o quel che erano. «Seguimi, prego,» disse con molto tatto un Q-R. «Sono sicuro che preferisci farlo in privato.» «No, grazie,» dissi io. «Annuncerò pubblicamente la mia decisione, qui fuori. Sono tutti così ansiosi ed emozionati.» Era un'occasione grandiosa e lugubre. Il Q-R si allontanò lentamente, e poco dopo gli altri che avevano partecipato all'Inchiesta uscirono a frotte, guidati dal portavoce dorato. Non dirò che non stavo tremando: anzi non dirò nulla delle condizioni della mia mente e dei miei nervi, perché erano piuttosto allarmanti. Ma dentro di me c'era una specie di sbarra di ferro, alla quale mi aggrappavo. Avevo avuto una visione, valida come quelle concesse ai poeti, ai saggi o ai profeti del passato. Non ero euforico, non ero neppure fiducioso: ma in qualche modo sapevo, e con la fine del dubbio era venuta la morte della disperazione. «Magnifico,» dissi, quando vidi le loro facce depresse da carnefici. «Spero che tutti possano udirmi, e spero che mi riceva anche il Centro Lampo, perché ciò che voglio dire è importante, ed è tempo che qualcuno lo dica. Mi infastidisce soltanto che ci sia voluto questo pseudo-processo per indurmi a muovermi.» I Q-R cominciarono ad apparire sconvolti. Stavo per creare un'altra perturbazione? Proseguii rapidamente, prima che cominciassero ad ordinare l'ipnospray. «Ecco la mia decisione: andrò nel deserto.» A questo punto vi fu un'interruzione. La folla rumoreggiò, persino i Q-R sembravano emettere ronzii dal collo. Poi tutti cominciarono a zittire i loro vicini, perché si rendevano conto che non avevo finito. Perciò m'inchinai, e proseguii. «Voi pensate che io sia impazzito, e da parte vostra può essere una deduzione logica. Ciò che sto per fare, lo ammetto, mi spaventa. Ma vi dico che qui viviamo come una folla di embrioni in una vasca d'allevamento. Ogni esigenza viene soddisfatta. La Commissione ci soffia il naso e ci rimette in piedi quando cadiamo. Fuori dalle cupole abbiamo un pianeta che ci appartiene, che metà di noi non ha mai visto e preferirebbe non vedere mai. Io l'ho visto, e lo preferisco al modo di vivere e di giudicare che esiste a Quattro BEE.» Alzai gli occhi verso i Q-R. «Perciò ho preparato l'elenco
di quanto mi occorre, ed è lungo, non fatevi illusioni. E sono pronto, se lo siete anche voi, signori Q-R.» Il Q-R dorato disse, con estrema chiarezza, come se fornisse spiegazioni a un imbecille: «Ci auguriamo che tu non sia stato troppo frettoloso. È una cosa seria.» «Non lo so. Come ho detto, la mia scelta l'ho fatta. Se voialtri pensate di aver avuto il diritto di impormi un'alternativa come quella che mi avete assegnato, io credo di avere il diritto di scegliere ciò che preferisco. Scelgo il deserto, e voi potete prendervi la vostra DP del Limbo e infilarvela nelle valvole elettroniche.» Sentivo di essere ingiusto nei confronti di quei Q-R che servivano ciecamente la comunità, o almeno cercavano di farlo, secondo la loro programmazione. Ma come potevano pretendere che mi comportassi diversamente? Nessuno si aspetta che il condannato abbracci la mannaia. Ma nessuno si aspetttava neppure (almeno non credo che loro se lo aspettassero, io certamente no) l'acclamazione che si levò dalla folla presente nel Palazzo. Persino coloro che applaudivano sembravano sgomenti. Applaudivano me. Non tanto per il mio discorso, ma proprio per la stessa ragione che di solito li spaventava. Perché io avevo sfidato il Sistema, avevo morso di nuovo il sole bruciante. Le acclamazioni svanirono. Seguì un vuoto sconcertato. E io parlai in quel vuoto. «Muoviamoci, allora. Ecco il mio elenco: è lunghissimo. Non stiamo qui a grakkare.» PARTE SECONDA 1. Riuscii a strappar loro una nave delle sabbie, e non fu una cosa facile. Se ti esiliavano nel deserto, pensavano loro, ti creavano un piccolo, grazioso palazzo con tutte le comodità moderne, e tu dovevi startene lì, vrek dopo vrek, a fissare il soffitto vitreo o lo scarico a vuoto o qualcosa del genere, fino a quando la noia ti vinceva, e tu sceglievi una bella finestra abbastanza alta, e ti buttavi giù. Non dirò che facevano di tutto per indurti al suicidio e farla finita in fretta (per riportarti alla DP in modo civile): ma l'idea che dalla situazione fosse possibile strappare la sopravvivenza e addirittura uno scopo, chiaramente non la digerivano.
Perché volevo una nave delle sabbie? Per potermi muovere? Be', sì. Ma, ragionai, avrebbe fatto risparmiare loro un viaggio in avioplano per portarmi lontano dalla cupola, e anche tempo, energia e materiale da costruzione. Una nave delle sabbie era necessariamente già attrezzata con tutti i sistemi per mantenere in vita gli esseri umani: pompa d'ossigeno, distributore di provviste, miscelatore d'acqua, magazzino freezer, unità di riscaldamento e di raffreddamento, stabilizzatori (essenziali, poiché per due terzi il deserto è zona di terremoti), meccanismi di difesa, e persino robot di servizio e manutenzione. E dovevano esserci navi in abbondanza. Con quale frequenza circolavano? E anche quando viaggiavano, di solito non portavano passeggeri: i cittadini preferivano gli aerei e i battelli del cielo che li tenevano a distanza di sicurezza dell'agorafobia del deserto. Pensate, continuavo a ripetere, ai fastidi che la Commissione si sarebbe risparmiata fornendomi una nave delle sabbie; e alla fine, con riluttanza, acconsentirono. Naturalmente, io agivo d'impulso. Ero già stato a bordo di una nave delle sabbie, due volte, e avevo visto ciò che avevano da offrire; ma la loro mobilità figurava in testa al mio elenco dei requisiti. Avevo l'idea pazza di sfrecciare nel deserto di giorno e di notte; il Reietto, rischio pericoloso per il traffico autorizzato, intento a gridare rabbiose minacce al sole e alle stelle. Il mio futuro mi appariva fosco, perciò l'avevo ammantato di coloriti isterismi: in quel modo, sembrava quasi tollerabile. Per la fine del quarto unit, io dovevo essere fuori dalla città. Dopo la festa non avevo più visto i miei «amici», e non avevo visto Danor dopo il nostro commiato all'alba, quando mi ero svegliato dal sogno e, pazzamente, le avevo balbettato nelle orecchie le mie intenzioni. Avevo il terrore che lei cercasse di dissuadermi, e magari ci riuscisse... ma lei si limitò ad annuire: «Sì,» disse. «Credo che abbia ragione tu. Sì; sì. Vai a dirglielo, ooma.» L'ultimo abbraccio fu doloroso, ed è meglio non descriverlo. Non volevo che nessuno venisse ad assistere alla mia partenza. Perciò, dal momento in cui ero uscito di casa, ero già interamente isolato, già in esilio, anche se non me ne accorgevo, tra la folla acclamante, il Palazzo delle Commissioni e il Limbo che brulicavano di Q-R. Poi venne l'ultima traversata di Quattro BEE, fino al portello stagno della cupola. Ero ridiventata femmina, nel frattempo, e dal punto di vista ormonale questo peggiorava tutto. Ma avevo dovuto optare per un cambiamento di sesso... Hergal probabilmente si era rallegrato, nel venirne a conoscenza. Era l'ultimo corpo che avrei potuto avere fino alla «morte naturale», lonta-
na magari un intero rorl. Ero prevalentemente femmina, e non potevo correre il rischio che questa realtà si facesse sentire nel deserto, quando io non sarei più stata in grado di cambiare la situazione. Inoltre, avevo avuto una porzione generosa di mascolinità, e pensavo che per un po' di tempo quella parte della mia personalità doveva esserne sazia. Tuttavia, non mi sentivo a mio agio nel tornare ad essere donna quando, in circostanze normali, non ero pronta a ridiventarlo. Continuavo a dimenticare che la mia fisionomia era diversa, il che era piuttosto imbarazzante: e quando mi vedevo negli specchi, mi sentivo frastornata e demoralizzata, sebbene il corpo che avevo ordinato al Limbo, com'era mio diritto, fosse una bellezza. Ero bellissima. Era il corpo più bello che avessi mai progettato. Avrei dovuto vivere in esso, alla lettera, e vederlo invecchiare. Perciò, aveva una bellezza che non era perfetta, ma che traeva il suo fascino da un certo squilibrio, e poteva includere qualche pecca, sminuendola, almeno per qualche tempo. Un corpo agile, snello, per attraversare regioni difficili, un eccellente tono muscolare, gambe lunghe, dita lunghe, seni piuttosto piccoli... capaci di resistere al tremolio che sarebbe venuto dopo vrek e vrek di gravità. Una bella struttura ossea in un viso luminoso e versatile, per mantenere tesa la pelle fino alla fine (quale fine?). Oh, sì, avevo pensato a tutto, non è vero? Perché, nelle mie letture alla Torre della Storia, avevo imparato molte cose sul mito della Vecchiaia e sulle vie che percorreva. La carnagione era abbronzata, per resistere al sole sferzante, i capelli d'una sfumatura un poco più chiara della pelle, lisci e luminosi come fiamme bronzee. Conservai gli occhi da poeta, i grandi opali azzurri orlati d'ombra. Almeno potevo riconoscerne gli sguardi negli specchi sparsi per la città che stavo lasciando per sempre. L'avioplano era anonimo. Due Q-R viaggiarono con me: due guardie innocue. Non avevo mai provato molto per Quattro BEE, oltre ad una sorta di sprezzante familiarità. Adesso non mi appariva cara né preziosa: eppure era così nota, così sicura. Non avrei viaggiato mai più sulla Via d'Acqua Peridoto, non avrei più visto il tragico drago spruzzare il suo fuoco verde davanti alla Torre di Giada, non avrei mai più vagato per i marciapiedi mobili sotto le stelle artificiali, non avrei più bevuto neve-in-oro al Cielo Azzurro, non mi sarei più adagiata in compagnia di un innamorato sui fluttuanti di nubi plastiche, né... Gli occhi del poeta versavano lacrime sul mio viso estraneo di fanciulla, e con le mani abbronzate, snelle e sconosciute, compivo gesti oscuri, come
se cercassi di reprimere le mie emozioni. Alla porta stagna, chissà perché, non c'era una folla. Evidentemente, erano stati usati la segretezza e l'intrigo per fuorviare la popolazione. La nave delle sabbie mi stava aspettando. La guardai con gelida paura, come se mi minacciasse: eppure doveva diventare la mia casa. Tutta la mia bellicosità, tutti i miei atteggiamenti di sfida si erano dileguati. Il sogno era immateriale come fumo. Avrei voluto supplicarli, perché mi permettessero di restare, ma sapevo che non l'avrebbero mai fatto, perciò riuscii a tenere la bocca chiusa. Mi scortarono a bordo della nave, i miei due Q-R. I robot erano già al lavoro: i motori automatici ronzavano, pronti alla partenza. Non avrei dovuto guidare personalmente, né stabilire la rotta. La nave avrebbe fatto tutto da sé, seguendo le mie istruzioni. Non era molto grande: ma per me sola era enorme. I Q-R mi mostrarono il raggio monitor che avevano installato: avrei potuto servirmene per mettermi in contatto con la città, per chiedere rifornimenti o assistenza medica. La comunicazione sarebbe passata attraverso un computer, naturalmente; ed era un sistema molto efficiente. Ma questo voleva dire che neppure in quel modo avrei potuto comunicare con un altro essere umano. Finché avessi continuato ad essere me stessa, non avrei mai più udito un'altra vera voce umana. E anche se avrei potuto vedere gli avioplani passare sopra la mia testa, o altre navi gemelle scivolare all'orizzonte tra le dune non avrei mai più rivisto un vero volto umano. «Sta bene,» dissi ai Q-R. «Ho capito tutto.» Non avevo dovuto pagare: non avrei più dovuto pagare nulla, d'ora in avanti. Era un vantaggio dell'esilio. Mi tersi le lacrime dalle guance e guardai severamente i miei accompagnatori. «E adesso, fuori dalla mia nave.» I Q-R se ne andarono immediatamente, e appena le porte si chiusero, feci scattare l'interruttore della guida automatica. Gli spazi-finestra erano coperti, ma poco dopo si udì il bang delle porte stagne della cupola che si chiudevano per l'ultima volta dietro di me. Rimasi seduta, immobile e rigida, sul divanetto di velluto: sentivo il deserto invisibile serrarsi intorno a me. Sola, finalmente. 2. Quante volte, in città, avevo desiderato l'intimità, l'avevo cercata e conquistata, con un sospiro di sollievo. L'intimità è una cosa piacevole, quan-
do intorno si ammassano le folle e gli amici premono, inascoltati, il segnale del portico. Alla fine mi alzai, e feci il giro della nave. Provvedeva a se stessa, e non aveva bisogno della mia supervisione. Salda sui cuscini d'aria, avrebbe deviato a babordo o a tribordo per evitare le rocce, i crepacci, le esplosioni vulcaniche. Una nave intelligente. Prevedevo che prima o poi avrei finito per parlare con lei, per darle un nomignolo; avrei parlato probabilmente anche con i robot, programmandoli perché mi rivolgessero la parola con le loro inutili voci registrate o mostrassero di riconoscermi quando mi vedevano. Senza dubbio avrei mormorato frasi affettuose alla macchina dell'amore, fingendo che fosse Danor, Lorun, Hergal... Oh, potevo vedere tutto ciò che mi attendeva, come immagini dipinte sulla mia mente. Scelsi un posto per dormire, una delle numerose cabine della nave. Era tutta color panna e azzurro. Almeno avrei avuto la possibilità di vedere la Quadrovisione, corpi umani di permacelluloide. Canzoni da suonare, e riviste mobili, nel magazzino della nave. E dopotutto, c'era estasi in abbondanza. Se avessi pianificato tutto scrupolosamente, avrei potuto restare in estasi per dieci unit filati, prima di dovermi riposare. Perché anche allora, sapevo che non mi sarei suicidata. Oh, no. Per quanto potesse mettersi male (e si sarebbe messa male, no?) quella soddisfazione, a loro, non l'avrei data. Restai seduta per un'ora o più nel salone d'oro pallido, sotto il lampadario, davanti a un pasto delizioso che i robot avevano servito e che io non avevo assaggiato. Avevo già ispezionato le macchine automatiche del cibo e dell'acqua, esprimendo la mia meraviglia a voce alta per le loro complicate attività autosufficienti, fino a quando mi ero trattenuta. La nave stava ancora correndo: verso nord, est, ovest, sud, oppure in cerchio... che importanza aveva? Batterie solari durante il giorno, circuiti a frizione durante la notte o durante la ricarica. Si potevano sentire i sistemi che cambiavano, passando da uno all'altro, se si ascoltava attentamente. Portai un robot in una delle sale gioco, e giocammo per un po' a pallastella, ma sentivo la mancanza delle parolacce, dei mugolii di protesta o di sprezzante vittoria degli avversari umani. Anche quando la palla andò a sbattergli in piena faccia, non disse neppure una parola. Immagina Hergal... no, no. Non immaginare nessuno. Intanto, c'era una piccola parte di me che ero riuscita a mantenere segreta. La parte che pensava al deserto. Durante il mio primo viaggio a bordo
di una nave delle sabbie, ero corsa alla Torre Trasparente, a poppa, per osservare il panorama, e mi ero abbandonata all'euforia. Ora non ci sarei andata. Avevo paura. Paura di vedere e di confrontare la mia reazione con quella di allora. Non appena lo compresi, qualcosa cominciò a tormentarmi. Rodi, rodi. La vigliaccheria ti si addice, ooma. Su, su, vai a guardare. Hai paura di affrontare la crudeltà del deserto. Rodi, rodi, rodi. Alla fine mi alzai, cinsi per così dire la spada, e mi avviai per il corridoio. Durante i tragitti delle navi delle sabbie, il videoglacia delle torri si oscura e si schiarisce a scatti, per attenuare il trauma. Molti passeggeri impazziscono, si riducono con la bava alla bocca quando vedono il deserto. A me non era capitato, e il mio orgoglio non aveva avuto limiti. Ma stavolta avevo sperato, credo, che il videoglacia fosse opaco. Comunque, fuori era notte, e le torri restano trasparenti, allora, presumibilmente perché tutti sono a letto. La notte del deserto. Sì, l'avevo dimenticata. Pallide colline di sabbia, mari di sabbia sotto le stelle, picchi neri che sorreggono il cielo nero. A occidente, una delle eruzioni onnipresenti, ma così lontana da apparire solo come una grande pagliuzza dorata nelle tenebre. E sì, era possente, bellissimo: ma era ostile, crudele, immenso, sconfinato. E io avevo paura. Non era come nel sogno. Ormai non avevo più un luogo dove rifugiarmi, tranne quella terra inospitale. Rivolgiti alla sabbia e di': Aiutami. Rivolgiti alla roccia e chiedile amore e bontà. Le stelle guardano dall'alto, le ossa del pianeta si protendono verso il cielo, e io sono bloccata, come sulle punte di due pugnali. La torre, trasparente ai lati e in alto, pareva ruotare intorno a me in una confusione di tenebra e di pallore. In preda al panico mi aggrappai agli oggetti, come per evitare di precipitare da una grande altezza, e per caso attivai una sirena che cominciò ad ululare dal soffitto. Questo mi salvò, appena in tempo, da qualcosa cui non sapevo dare un nome, forse la demenza completa. Mi buttai sui pulsanti, e la sirena tornò a tacere. Poi fuggii via dalla torre, nella mia cabina, al sicuro, con gli spazi delle finestre rivestiti di compatto broccato azzurro.
Mi distesi tra i velo del letto fluttuante ancorato, piangendo in silenzio. Ero venuta per combattere il deserto, ma non potevo neppure fronteggiarlo, io che tanto tempo prima avevo danzato, insieme al bestiolino, tra le dune rinverdite dalla pioggia. La nave ed io corremmo per tre unit e per tre notti. Io giacevo nel mio letto e il macchinario mi cullava, e mi dava pillole per farmi dormire, e mi faceva iniezioni nutrienti, e mi asciugava le lacrime con spugne anodine. «Come sei gentile,» dicevo, piagnucolando, dimenticando di essere stata io a regolare gli interruttori: volevo dimenticarlo. La terza notte sognai di essere in un grande palazzo. Fuori stava molta gente: non era venuta dalle città ma dal deserto. Erano gli spettri dei nomadi che avevano vagabondato in quelle zone molti eoni addietro. La sala aveva molti finestroni, tutti coperti da tendaggi pesanti. Ma le tende continuavano ad aprirsi, Finalmente anche i miei occhi si aprirono, e mi svegliai. Uno dei robot aveva messo in moto un cronometro di cristallyze sulla parete, secondo la normale procedura a bordo delle navi delle sabbie. Non indicava l'ora della città, ma quella del deserto, e mi annunciava che, fuori, era venuta l'alba. Balzai dal letto e mi precipitai nel bagno, diguazzai sotto i getti brutali d'acqua gelata, venni asciugata e spalmata di creme, cosparsa di ciprie e di profumi da macchine scatenate che mi balzavano addosso dalle pareti. Nella mia cabina, un'iniezione nutriente, e quattro compresse d'ossigeno trangugiate in mezzo litro circa di fuoco-e-ghiaccio. Mi diressi verso la prua della nave. Quando arrivai al quadro degli interruttori, quasi vacillai: ma il sogno mi aveva fatta infuriare. Con uno scatto feci ruotare un quadrante, indicando alla nave di fermarsi. Un sospiro immediato tra i motori. Un lungo fremito sommesso. Poi l'immobilità e il silenzio, spezzati soltanto dai lievi rumori dell'assestamento. Io rimasi lì in piedi, come se aspettassi il tuono della fine. Su, avanti, la fine non è qui. Immagina, mi dissi, immagina che io mi sia fermata sopra un vulcano in eruzione. Ma naturalmente la nave avrebbe corretto un simile errore, ignorando il mio ordine, e si sarebbe precipitata in un posto più sicuro. Non serviva a niente cercare di venirne fuori in quel modo. Gli sportelli si aprirono con un sibilo sottile, come se cercassero di attirare la mia attenzione.
Non era necessario. Ero già presa all'amo. Guardai fuori, e sentii le mie gambe sciogliersi: ma mi aggrappai allo stipite e continuai a guardare. «Avanti, ooma,» farfugliavo, rivolta a me stessa, «prima non avevi paura, prima ti piaceva. Com'è derisann, dicevi. Osserva la maestà delle montagne, tutte nere e tormentate contro lo sfondo del cielo turchese. Concentrati sull'orizzonte, che ha il colore dei dolcetti rosa tanto cari a Thinta. E la sabbia. Scendi a toccare la sabbia. Com'è groshing, no? Avanti, vai.» Scesi vacillando la rampa e per poco non mi lasciai cadere in ginocchio, priva di forze. La sabbia era arida e fragile, ogni granello era separato, individuale, premuto contro la mia pelle. Anche l'atmosfera era arida e fragile, già riscaldata dalla fornace del sole, e le rocce scottavano. «No, non guardare il sole. Ricorda, non puoi, non è come il sole di una cupola. Adesso, un po' alla volta. Comincia dalla sabbia.» L'aria mi sibilava intorno. Il pianeta sembrava girare in lenti cerchi che io potevo veramente vedere e sentire. Quando levai verso gli orizzonti gli occhi lacrimosi e sfocati, le montagne parvero inclinarsi, per precipitarmi addosso. La sabbia mi scorreva fra le dita. Il suolo roccioso sotto di me, almeno, sembrava quasi stabile. Respira leggermente, ricorda, non sforzarti per riempirti i polmoni: all'ossigeno provvederanno le compresse. No, le montagne non precipitano, e neppure il cielo. Non mi lascerò sconfiggere. No, no. Poi rialzai di nuovo la testa, lentamente, e gridai. Era là, su una roccia, con le sue otto zampe. Non era uno spettacolo da pietrificarmi, chiaramente spaventato com'era. Poteva arrivarmi all'altezza del ginocchio, ed era di un color limone chiaro, il pelame irto come una spazzola, per la paura e lo stupore. Due occhi grigi incredibilmente innocenti e una gorgiera color cioccolato completavano quel quadro incantevole. Il cuore mi si gonfiò. Avevo dimenticato la popolazione animale del deserto. A BOO catturano con le trappole le bestie del deserto, cercano di addomesticarle e di addestrarle, e poi le vendono nelle Quattro come animali domestici. Era stato così anche il mio bestiolino. Più interessanti e turbolenti di un animale androide, spesso si scatenano per le strade della città, mordendo tutti coloro che capitano loro a tiro. «Attlevey, bestiola,» dissi io, in tono di saccarina. Stavo tremando a quel contatto, per la presenza viva tanto vicina a me, quando avevo pensato che non avrei più visto e toccato niente di vivo in tutta la mia esistenza. Sma-
niavo dal desiderio di stringere quel ridicolo, peloso corpo vero. «Hai fame, bestiola? Ti va uno spuntino? Aspetta qui, bella bestiola. Non andar via.» Rivolgendogli i gesti più assurdi di pazienza e di supplica, risalii a ritroso la rampa e rientrai a bordo, poi corsi come una pazza al distributore di viveri. Cosa poteva piacergli? Paté di noci? Insalata-su-ghiaccio? Caricai un piatto di squisitezze impasticciate, preparate in fretta, e tornai furtivamente al portello. Chissà se se ne era andato? In un primo momento non riuscii a vederlo, e lacrime di desolazione mi bruciarono le palpebre. Poi scorsi la sua sagoma color limone, rovesciata sul dorso sopra una roccia vicina a scaldarsi lo stomaco al sole: mi guardava con occhi che parevano schizzargli dalla testa. «Qui, bello, bello. Vieni ad assaggiare il buon primo pasto che ti ha portato il tuo fattore.» Ricordo, con nausea e vergogna, le mie moine. Come camminavo adagio sulla sabbia, sperando di avvicinarlo. Come quello balzò ritto, con le otto zampe pronte alla fuga. Indietreggiai, scusandomi. Finalmente posai il piatto a circa dieci passi dalla nave, e mi trasferii sulla soglia, poiché la mia presenza evidentemente era indesiderata. E mi sedetti lì, immobile, a guardare. Occhigrigi, con la sua pelliccia color limone, rimase ritto per circa mezz'ora, con il naso appuntito levato in aria. Poi, con movimenti alteri e orgogliosi, si avvicinò al piatto e cominciò a mangiare. Si interruppe una volta soltanto, quando mi azzardai a fargli un complimento; mi lanciò un'occhiata di sdegnosa ammonizione: Stai zitta, o me ne vado. Vedere Occhigrigi che s'ingozzava mi mise appetito; ma non osavo allontanarmi dal portello, per timore di non trovarlo più al mio ritorno. Presto il piatto rimase vuoto, e Occhigrigi, dopo averlo leccato a lucido e averlo rivoltato per assicurarsi che dall'altra parte non ci fosse qualche boccone saporito, sedette e cominciò a lavarsi. Era uno spettacolo affascinante, soprattutto perché nessuna delle sue otto zampe sembrava ben coordinata con le altre. Forse Occhigrigi era molto giovane, o forse se ne infischiava. Quando si rotolò al suolo per la nona volta, io risi, e non avrei dovuto farlo. Occhigrigi si rizzò in tutta la sua altezza — sessanta centimetri — fece una specie di agghiacciante parata di minaccia, con le gengive snudate, le
orecchie ributtate all'indietro, la gorgiera irta — e valorosamente fuggì per mettersi in salvo. Il rammarico per la sua fuga era misto all'ilarità. Non avrei dovuto ridere, lo sapevo. Ma, oh, ridere era un gran sollievo. Solo quando scesi a riprendere il piatto (lucido di saliva, e un po' mordicchiato) mi accorsi che il deserto aveva smesso di roteare, le montagne di inclinarsi. Levai lo sguardo verso il cielo, la bellissima volta di cielo lassù. L'agorafobia era scomparsa, insieme alla crema di cactus, tra i dentini di Occhigrigi. C'era qualcosa che desideravo dire a qualcuno. Non sapevo che cosa, né a chi. Forse uno di quegli antichi rituali... si chiamavano preghiere? Ma mentre rientravo, urtando il piede dolorosamente contro una pietra, dissi ben altro. 3. Così incominciò il mio amore con Occhigrigi: ed era destinato ad essere un amore tempestoso. Avevo avuto intenzione di fermarmi solo per combattere la mia fobia, e avevo scelto a casaccio quel posto, alla cieca, girando rabbiosamente un quadrante. È strano, come possono rivelarsi importanti le decisioni più avventate e banali. Naturalmente, dopo aver stabilito un contatto con il mio visitatore, pensai di trattenermi un po' più a lungo. Volevo conquistarmi l'interesse e l'affetto di quel piccolo thalldrap rimpinzandolo di cibo, fino a quando fosse diventato troppo grasso per aver voglia di ritornare alla Vita Dura. E se non ci fossi riuscita, ero pronta a rapirlo. Chi è solo si riduce ad azioni subdole. Per tutto quel primo unit mi aggirai per la veranda regolabile che avevo fatto costruire lungo il «portico» della nave, oppure oziai distesa sul soffice divano che avevo fatto installare accanto agli sportelli. Un robot, programmato apposta per portarmi dal salone i vassoi tentatori per Occhigrigi, correva avanti e indietro. Assorta nel mio piano, e probabilmente anche mezza zaradann, anch'io mi ingozzavo di cibo, guardavo le riviste, e spesso mi rivolgevo in toni invitanti al deserto: «Su, vieni, non hai fame?» Non mi passò mai per la mente (anche se avrebbe dovuto, data la mia precedente esperienza sul luogo degli scavi archeologici), che avrebbe potuto comparire qualcosa di diverso dall'ospite atteso, attratto dall'odore dei
viveri portato dalla brezza. Per fortuna non arrivò nulla, perché nelle condizioni in cui ero io sarei stata capace di accordare a qualunque cosa un trattamento altrettanto amichevole, finendo sbranata, divorata e digerita insieme al pasto, per tutta ricompensa. In realtà, non avevo osservato molto bene il panorama: era già stato anche troppo superare la mia paura per gli spazi aperti. Nel deserto, all'inizio, tutti i luoghi sono eguali... cielo, sabbia, montagne. Fino a quel momento, era quanto avevo veduto dalla mia postazione involontaria. Poi il giorno cominciò a declinare, il mondo divenne di topazio e d'oro, e il colore del cielo parve riassorbito dal disco del sole. Allora mi accorsi che potevo toccarne la bellezza, come era avvenuto tanto tempo prima, quando ero libera di viaggiare come volevo, e appartenevo ancora alla città. Adesso, sfumato dalla mia angoscia, l'incanto era dolceamaro, ma forte come un vino. La nave era appollaiata su un rialzo roccioso, che scendeva ripido verso una valle di dune, cinta a est, a nord e a sud dai picchi favolosi, stranamente modellati. Nessuna di quelle vette pareva particolarmente violenta, e le tracce di lava che riuscivo ancora a scorgere, più o meno a prima vista, erano assenti dai loro fianchi esili e tormentati. L'odore del deserto cambia, al tramonto, come cambia all'alba. L'avevo dimenticato, forse soltanto perché non avevo potuto ricordarlo nella sterilizzata Quattro BEE. A prima sera è un profumo voluttuoso, di fumo, come di una bacchetta d'incenso che brucia: ma poi cambia, via via che l'aria si oscura e spuntano le stelle, e diventa un aroma di vuoto, scavato, quasi spirituale. Dopo le piogge, il profumo dell'ossigeno verde riempie ogni spazio, ed inebria. Lasciai la veranda e vagai tra le dune: era una sciocchezza, come molte delle cose che io faccio, ammettiamolo. E se qualcosa fosse balzato fuori... Qualcosa balzò fuori. Occhigrigi. «Occhigrigi!» gridai; e Dio, come mi diede sui nervi quell'acuta voce femminile, dopo tre vrek di voci baritonali, alternate ad altre tenorili. Evidentemente, diede sui nervi anche ad Occhigrigi perché fuggì via, abbandonando il piatto fumante che avevo deposto per lui meno di dieci split prima. Mi strappai i capelli e mi precipitai verso la veranda, gridando ai robot di portare altro cibo. Era insopportabile, perdere la bestiola dopo averla attesa tutto il giorno. Comunque, era inutile che mi abbandonassi a una crisi del genere. Infatti, mi ero appena lasciata cadere sul divano quando Occhi-
grigi ricomparve, quasi dal nulla, balzò sul piatto e si rimise all'opera. La sua estremità posteriore, però, era notevolmente tesa. «Ti sto facendo un favore,» disse quell'estremità posteriore. «Voglio dire, non è che mi piaccia questa sbobba, ma non voglio essere scortese. Comunque, bada a quel che fai. Non ci metto molto, io, a sfrecciare via.» Mi acquattai in silenzio, divorando Occhigrigi con lo sguardo. Mi era caro ogni fremito, ogni movimento. Smaniavo dalla voglia di cullarlo tra le braccia. Parliamoci chiaro, ooma, pensai, è l'unico surrogato di figlio che potrai mai avere, un povero animaletto che hai attirato dalle dune allettandolo con quella schifosa pappa di noci sintetiche. Una delle ragioni per cui ero rimasta maschio tanto a lungo era stata la faccenda del figlio. Avevo ucciso la mia creatura, no? Per pura follia, come avevano detto i Q-R. Non avrebbero permesso mai, mai, che io facessi un'altra creatura, anche quando non fossi stata più Jang. Non si fidavano di me, sebbene dopo quel mio errore non avrei più commesso imprudenze in quel campo. (La loro era una valutazione stupida, no? I Q-R agivano in base ai fatti, non in base alla psicologia, all'idea che tu potevi avere imparato.) Quand'ero maschio, il mio impulso paterno era all'incirca del dieci per cento, molto basso. Ma quando ero femmina, sia pure soltanto ad intervalli, l'istinto diventava fortissimo. E adesso ero lì nel deserto, femmina e senza figli, e desideravo averne. Perciò stai attento, piccolo Occhigrigi dalla pelliccia color limone: ti trasformerò in un animaletto domestico. E questa volta non ci sarà la muraglia elettrificata, non ci sarà la morte, per te. Ti avvolgerò nell'ovatta delle nuvole, se sarà necessario: ti difenderò con tutte le mie forze. 4. Per parecchi unit corteggiai Occhigrigi offrendogli banchetti sontuosi. Alba, meriggio e tramonto divennero gli orari fissi dei pasti... era stato Occhigrigi, naturalmente, a stabilirli. Dopo aver mangiato, si lavava meticolosamente, forse per profumarsi tutto con l'odore della gelatina-bistecca sintetica e della radice-di-fegato. Durante quelle abluzioni, io avevo cura di mantenere un rispettoso silenzio. Finalmente, l'ospite si sdraiava sul pendio roccioso, un po' più in basso della nave, con le otto zampette puntate al cielo, la pancia piena, e mi guardava dal basso in alto. E allora io commettevo sempre l'errore fatale: tentavo di avvicinarlo.
Talvolta Occhigrigi mi lasciava arrivare alla distanza d'un braccio, prima di sfrecciare via tra le dune... o di scavarsi una tana, perché lo perdevo quasi subito di vista. Durante il giorno, anche troppo consapevole della necessità di riempire quelle ore, andavo a fare brevi passeggiate nella valle sabbiosa. Avevo recuperato un minimo di prudenza, e non mi allontanavo mai troppo dalla nave, non la perdevo mai di vista, e portavo sempre un robot con me. Non sapevo cosa avrebbe potuto fare, in caso d'emergenza, dato che ovviamente, i robot non sono armati. Ma forse, avrebbe potuto prendere a pugni sulle fauci un mostro famelico. La mia conoscenza della fauna locale era più o meno nulla. Il mio precedente incontro più pericoloso, dovevo ammetterlo, era stato quello con i piedi-a-sci, il cui torto più grave, forse, era che ti calpestavano per assaggiarti gli orecchini. Ma i robot non erano stati creati per vivere all'aperto; la polvere e la sabbia iridata tendevano a infilarsi nelle loro valvole, ed erano capaci di fermarsi in mezzo al nulla per ripararsi con cigolii martirizzati, carichi di rimprovero. Per fortuna, nessuno mi aggrediva. Anzi, a parte Occhigrigi e, forse, altri suoi simili, la valle appariva disabitata: c'erano soltanto gli strani, pallidi serpenti pelosi, che strisciavano torpidamente da una duna all'altra. I corsi d'acqua, nel deserto, erano profondamente incassati e molto rari, e sembrava che nei dintorni non ve ne fossero: questo spiegava perché la zona era spopolata. Tuttavia, le passeggiate mi facevano piacere... anche se spesso cadevo lungo i pendii sabbiosi, tra le rocce, nei piccoli crepacci. L'aria ronzava per il calore, e alcuni minuscoli insetti dal guscio durissimo, che volteggiavano sulle ali di latta, emettevano strani fruscii fievoli. Sembravano indigeni, perché non ricordavo di averne mai visti altrove. Ma, d'altra parte, che cosa avevo visto veramente, prima? Di notte veniva il fresco. Il cielo era nero, ma stranamente fosforescente, oltre il profilo delle montagne. Le stelle erano abbaglianti. Avevo già stabilito alcuni punti di riferimento: un picco settentrionale che mi ricordava una mela-di-fuoco (tondeggiante e bucherellato, con una sorta di picciolo); un altro, a oriente, simile ad una coppa enorme, dai fianchi erosi dal vento, dal sole e dalle piogge, la cima che si allargava come una grande bordura liscia e che prima o poi, indubbiamente, si sarebbe staccata sgretolandosi, gettandomi in un parossismo di terrore... se io fossi stata ancora lì. Poi, circa tre ore dopo il tramonto, quasi esattamente, al sud le Sorelle esplodevano come due grandi cannoni.
Non avevo saputo resistere alla tentazione di chiamarle così. Sorelle e fratelli erano concezioni della storia antica. Nelle città, nessuno era autorizzato a mettere al mondo più di una creatura per ogni Vita-Ego — cioè tra una DP e l'altra — e quindi nessuno aveva una sorella o un fratello. La supposizione di avere parenti tramite il legame dei propri fattori mi aveva affascinato e sgomentato, quando l'avevo letto nella Torre della Storia. Di giorno, le Sorelle erano lontanissime, azzurre e vaghe nella distanza, come due colonne di fumo quasi disperso separate da circa un miglio, e apparentemente identiche. Al buio, rischiarate dal loro bagliore rosso, gettavano vapore e fontane di pomice fusa, e facevano pensare a due protagoniste aggressive e snelle di un antico romanzo, che squassassero le loro chiome di rubino. Per mia fortuna erano troppo lontane per devastare una valle. Comunque, la loro rappresentazione notturna durava soltanto dieci split. Questa sera ti catturerò, Occhigrigi. Il cielo stava diventando cannella e verde, mentre io mi ponevo in agguato sulla veranda, con un piatto di leccornie in mano. «Qua, Occhigrigi,» modulai. «Vieni a prendere il tuo bel settimo pasto!» Occhigrigi, potete scommetterci, ne aveva tutte le intenzioni, e arrivò correndo dal crepuscolo rosato. Tuttavia, il piatto non era sulla sabbia. Il piatto l'avevo io, io, il cattivo fattore di Occhigrigi. Rivolgendogli suoni d'incoraggiamento, protesi il piatto in direzione di Occhigrigi. Probabilmente quel piccolo floop se la sarebbe data a gambe. E invece no. Occhigrigi avanzò furtivo verso di me, con un movimento ansioso, obliquo. «So che mi ucciderai,» dicevano le sue occhiate tragiche. «Ma non ho scelta, dato che la pelle mi aderisce alle costole.» Belle costole. Era già così grasso che faticava a camminare. Più tardi avrei dovuto mettere a dieta quel poverino, perché non scoppiasse. Forse il distributore avrebbe potuto preparargli polpette di rognone a basso contenuto d'amidi. Adesso Occhigrigi era sulla veranda. Indietreggiai lentamente, rientrando nella nave, e deposi il piatto sul pavimento dell'ingresso, tra le colonne d'acciaio. Poi andai furtivamente a sedermi su una poltrona di velluto, posando la mano sull'interruttore che avrebbe chiuso i portelli. Occhigrigi entrò nella nave con aria indifferente e sicura. Evidentemente, a tempo perso lottava con i draghi ed espugnava cittadelle: io ero l'unica
cosa che gli dava gli incubi. Occhigrigi raggiunse il piatto e si buttò a divorare. E allora la coscienza mi bloccò. Adesso che avevo a portata di mano la possibilità di catturarlo, mi sentii un verme, e staccai le dita dall'interruttore. Oh, che se ne andasse pure libero. L'immaginai, prigioniero, fradicio di paura, rannicchiato pateticamente sotto un tavolo del salone, mentre rifiutava di mangiare, rifiutava di muoversi, e moriva di stenti. Sarebbe stata una lezione terribile per me. Poco dopo, sterminato il settimo pasto, Occhigrigi si piazzò sul pavimento di mosaico e cominciò a lavarsi. Il rito, tuttavia, mi parve più breve del solito: si concluse molto presto. Poi Ochigrigi si alzò, e si guardò intorno per la prima volta. Stralunava gli occhi molto spesso, perciò era difficile capire se era davvero profondamente interessato quanto sembrava. Ma, dopo aver fiutato un po' in giro, e sempre ad occhi spalancati, si diresse verso l'interno della nave, e il mio umore si rasserenò di colpo. Adagio adagio, per non causargli panico, lo seguii. Poi Occhigrigi arrivò in salone. E lì incominciò tutto. Un robot mi stava apparecchiando il settimo pasto alla tavola centrale: era tutto molto bello. Piatti gemmati, calici di cristallo. Forse fu quello scintillio ad attirare Occhigrigi, o la possibilità di altri rinfreschi. Comunque, si dimostrò un opportunista. I piatti volarono da una parte, i calici dall'altra, e i sottopiatti d'argento schizzarono come dischi in tutte le direzioni. Uno colpì il robot al torace, e presumibilmente attivò un riflesso metafisico secondo il quale, se c'erano difficoltà, lui doveva risolverle. Si voltò di scatto, registrò la posizione di Occhigrigi, che in quel momento stava sul tappeto, cercando senza riuscirci di divorare una forchetta, e cercò di abbrancarlo. Occhigrigi risputò la forchetta, mandandola a sbattere contro una gamba del tavolo, e si esibì nella parata di minaccia, naturalmente invano. Poi balzò verso i drappeggi che coprivano le pareti e si arrampicò a unghiate, si aggrappò alla grande grata del soffitto, e raggiunse inevitabilmente il grande, decorativo lampadario che pendeva sopra di noi, ardente di fiamme chimiche. «No, Occhigrigi,» gli gridai. «Cattivo.» I lampadari delle navi mi erano sempre piaciuti: ma non adesso che quello dondolava in archi immensi, con le fiamme (che per fortuna non scottavano) grandinanti su di me e sul robot e su tutto il resto, e Occhigrigi
freneticamente aggrappato al centro. «Vieni giù, Occhigrigi,» lo supplicai. Spinsi il robot in un punto dove avrebbe potuto afferrare quel fagottino giallo limone, ma Occhigrigi ci evitò con cura e si lasciò invece cadere, dibattendosi pazzamente, lungo altri drappi, finendo davanti all'arcata dove stava la cucina robotica, discretamente celata da porte automatiche di cristallyze. «No!» urlai. Persino il robot fece udire un rumore... involontariamente, credo: una giuntura troppo forzata che protestava. Ma fu tutto inutile. Trascinandosi dietro brandelli di tende lacerate e costellato di goccioline di fuoco chimico, Occhigrigi si avventò come un uragano verso i battenti, che si aprirono con automatica premura, e scomparve in quella giungla metallica. Dopodiché i battenti si bloccarono. Alcuni drappi devastati di raso d'oro si erano aggrovigliati, senza dubbio, causando quella difficoltà: ma le cause dell'incidente erano ciò che meno m'importava. Urlai ordini vari al robot cameriere ed all'altro che era arrivato sferragliando per aiutarci. Stavano cercando di abbattere i battenti, poiché non erano abituati a simili catastrofi; e nonostante il baccano che facevano potevo sentire lo scroscio delle rastrelliere metalliche che cadevano, i cuscinetti a sfere e non so che altro, probabilmente Occhigrigi, che stavano rotolando, e poi un silenzio terrificante. Proprio in quell'istante, i battenti si sbloccarono e i due robot si precipitarono in cucina. Non mi fermai a rimetterli in piedi: erano finiti sul pavimento, a dibattersi debolmente tra le macerie lasciate dal passaggio di Occhigrigi. L'animaletto era ritto, in equilibrio precario e con aria letargica, sull'orlo del pozzo che porta nelle viscere del distributore viveri. Attraversai la cucina in un balzo, ma non fui abbastanza svelta. Con uno sbadiglio noncurante, Occhigrigi scomparve alla mia vista. Laggiù, in un vortice di... che cosa? Non lo sapevo, ma la mia mente immaginò un amalgama di mannaie d'acciaio, di polverizzatori, tritatutto, pestelli e mortai. Gemendo, mi avventai sul macchinario. C'era un piccolo pulsante che avevo visto prima, un pulsante nero con un'enorme avvertenza stampata sopra, in rosso: PER ARRESTARE IL MECCANISMO, PREMERE UNA VOLTA SOLA. AVVERTENZA: DA USARE SOLTANTO IN CASO DI ESTREMA EMERGENZA.
Premetti il bottone con tutte e due le mani, e dopo un attimo il mondo impazzì. Per prima cosa, la macchina rigurgitò Occhigrigi, coperto del menu previsto per quella sera... ananas-cactus, torta di formaggio, tutto quanto. L'oggetto, scaraventato attraverso la porta della cucina, che adesso si era bloccata aperta, cadde a terra con un tonfo, e sfrecciò via fulmineamente (come potei dedurre più tardi, vedendo fuori, sulle rocce, le impronte all'ananas). Dopo Occhigrigi, eruppero dal distributore viveri chilometri e chilometri di nastro trasportatore d'acciaio, poi quattro o cinque ettolitri di brodo freddo che allagarono la cucina e si riversarono nel salone ed oltre, tra gorgoglii di liberazione. Tuttavia, questo fu solo uno scherzo, in confronto a ciò che seguì. Avevo appena avuto il tempo di lanciare un'imprecazione quando un'esplosione imprecò ancora più forte dalle viscere della nave, dove le tubature inferiori del distributore condividevano lo spazio della stiva con i serbatoi del miscelatore d'acqua. L'intera nave, adombrandosi, sobbalzò e fremette, quasi cercasse di racchiudersi in se stessa, come una tartaruga. Gli oggetti che prima erano rimasti illesi mi piovvero intorno alle orecchie: il pavimento ondeggiava, peggio che un terremoto. Tappeti, robot, mobili, io stessa, venimmo sbatacchiati tra i flutti di brodo. Poi la nemesi. Un ululato orrendo, un'ondata di caldo e un'ondata di freddo, il ringhio minaccioso di una energia rattenuta... seguito dal ruggito devastante dello schianto liberatore. Infine, uno scoppio immane, mentre parte del tetto della nave delle sabbie volava nella notte, l'ossigeno decompresso di colpo usciva sibilando, e un getto misto di viveri semisintetizzati e di acqua già pronta sfrecciava verso nord, in direzione delle stelle, le mancava, e ricadeva esausto sul deserto addormentato. 5. «Aiuto!» urlai nel raggio del monitor. «Aiuto! Aiuto!» Lontano, a Quattro BEE, i circuiti addormentati presumibilmente si attivarono, e il collegamento si stabilì. Un energico sfrigolio sulla sequenza, seguito dalla voce serena e severa del computer, che mi interrogava da lontano. «Di cosa hai bisogno?» Era inutile cercare di essere lirica, immersa com'ero fino alle ginocchia
nel brodo, con mezza nave sfasciata a metà degli allarmi che suonavano tutto intorno a me... invano, potrei aggiungere. «Bisogno? Bisogno? Ma non senti?» «Sento perfettamente. Di cosa hai bisogno?» «Di aiuto, te l'ho detto.» «Che genere di aiuto?» «Un paio di casse di materiale per il tetto, un nuovo distributore di viveri e... oh, maledizione, di un udito nuovo, se questo baccano infernale continua.» Scatti e ronzii accolsero il mio appello. «Purtroppo non abbiamo capito bene la tua richiesta.» «Stai a sentire, stupido,» feci, furibonda, «attiva i registratori e registra questo. Un animale del deserto è caduto nel pozzo del distributore di viveri, e quando l'ho spento... il distributore, intendo, qualcosa è diventato zaradann, è esploso e ha aperto una falla nel tetto della nave. L'ossigeno sta ancora pompando, ma la concentrazione è nulla, perché esce tutto dal tetto... dalla falla di cui ho parlato. E l'esplosione ha vomitato viveri e acqua, quindi desumo che tanto il distributore quanto il miscelatore d'acqua siano completamente grakkati. E siccome sono situati a prua, può darsi che anche i motori siano grakkati. Quindi, se non ti affretti a darmi amichevolmente una mano, morirò di fame, di disidratazione e di carenza d'ossigeno. Senza potermi muovere. Cosa ne dici?» «Dov'è l'animale del deserto?» chiese il computer. Questo mi sbalordì. Forse aveva tutti i miei dati nel minuscolo cervellino, o forse la curiosità aveva avuto la meglio sui suoi riflessi. «L'animale del deserto è fuggito nella sua tana, completamente coperto di torta al formaggio,» dissi io. Il computer ticchettò e sferragliò a lungo. Poi, in tono ragionevole, disse: «Ti è ancora aperta l'altra possibilità. Desideri suicidarti e ritornare alla DP?» «E risparmiarti il fastidio di salvarmi? No, proprio no. Di' ai Q-R che mantengano gli impegni presi e che si sbrighino a...» «Qui c'è un attivatore robot d'emergenza. I tuoi robot sono in funzione?» I miei tre robot, per la verità, stavano ancora diguazzando sul pavimento, ma pensai che si sarebbero ripresi, perciò dissi di sì: arrivò il segnale in codice, tutto squittii, ululati e strombettii, che insieme alle sirene e ai campanelli d'allarme e ai cicalini, mi rese definitivamente audiofoba. Tuttavia a qualcosa servì. Dieci split più tardi i robot, riprogrammati per
operare alla massima efficienza e con ordini specifici di rimediare al disastro, stavano trafficando da prua a poppa della nave, rimettendo tutto a posto. Persino gli allarmi vennero spenti gradualmente, e il brodo cominciò a ritirarsi, lasciando qua e là soltanto qualche lenticchia sperduta, distribuita con arte. «Abbiamo localizzato la tua posizione, e un avioplano automatico veloce da riparazioni dovrebbe raggiungerti entro un unit. Ti consiglio di attenderne l'arrivo. Fino a quel momento, i robot hanno ricevuto istruzioni per quanto concerne il razionamento dei viveri e dell'acqua e l'isolamento stagno temporaneo della nave. I meccanismi difensivi ed altri funzioneranno normalmente.» Vi fu una brevissima pausa, poi il computer aggiunse: «Ci auguriamo che tali fatti non si ripetano. Non si dovrebbero ammettere animali del deserto a bordo delle navi.» «Balle.» 6. Una notte affascinante. Un'altra compressa di ossigeno da prendere (ero sicura di non averne bisogno, ma l'aveva ordinato il robot) e uno stabilizzatore della temperatura installato nella mia cabina, intento a ronzare convulsamente tra sé. La compressa mi aveva vivacizzata, sebbene mi sentissi esausta, e quindi non riuscivo a dormire. Il rumore dello stabilizzatore non mi aiutava di certo, e neppure i robot che sferragliavano e sbatacchiavano sul tetto. Dopo un paio d'ore erano riusciti ad arrestare il getto d'acqua. L'odore del brodo stava evaporando, ma non abbastanza rapidamente per le macchine pulitrici, che irrompevano dalle pareti a intervalli irregolari, spruzzavano la nave di deodorante profumato, e cacciavano in tutti gli angoli stracci e scope disinfettate. Cominciavo a preferire l'odore del brodo. Almeno non faceva baccano. Alla fine mi rifugiai nella Torre Trasparente che adesso era gelata, dato che la temperatura era destabilizzata. Ma almeno lì ero abbastanza lontana dal chiasso. Guardai il deserto, domandandomi dove poteva essere Occhigrigi. Probabilmente era ancora intento a leccarsi per togliersi di dosso la torta al formaggio, magari con la collaborazione di qualche amico, e raccontava agli altri dell'orchessa dalla strana casa mobile, che aveva catturato il nostro eroe (o eroina?) in un tritatutto, da cui era fuggito solo grazie alla sua astuzia e al suo coraggio. Senza dubbio, tra non molto sarebbe ri-
comparso con aria famelica: e allora io avrei preso un piatto colmo di leccornie e glielo avrei tirato in faccia. Sinceramente, pensavo che la nave delle sabbie assegnatami dalla generosità della Commissione fosse un po' fuori squadra, perché sono sicura che di tanto in tanto anche sulle altre si rendeva necessario fermare il distributore dei viveri, e senza risultati così disastrosi. Dunque, se mi avevano truffata rifilandomi merce di scarto, gli stava bene che fossero costretti a mandarmi i soccorsi attraverso il deserto ardente. Finii per addormentarmi sulla poltrona nella torre, e feci vari sogni, ispirati dallo sfinimento e dall'iperossigenazione. In uno di essi, dal cielo piovevano aerei robot, che atterravano con scoppi assordanti. In un altro, un maschio bellissimo veniva dal deserto, un maschio di una delle tribù antiche, con la carnagione bronzea e gli occhi color mezzanotte, e sveniva ai miei piedi implorando lamentosamente un po' d'acqua. Ed io, con una luce calcolatrice negli occhi, correvo a prendere l'acqua, e naturalmente il miscelatore era esploso, e l'acqua non c'era. Stavo cercando di infilare compresse antidisidratazione fra i denti contratti dello sventurato, quando il sole del deserto si levò, svegliandomi. E due secondi dopo che la luce mi sfiorò il viso, la Torre Trasparente divenne freneticamente opaca, e così non potei vedere la terribile aurora. E tuttavia era là fuori: mi aspettava? Be', almeno c'era sempre l'aurora, pensai, in una crisi di sentimentalismo. L'aurora bella, sempre bella, così rosseggiante, così smeraldina, così dorata, e inondava il cielo dietro i contorni irregolari delle montagne orientali, e la vetta che chiamavo «la Coppa» sembrava proprio una coppa, da cui traboccavano nubi ribollenti, simili alla Gaiezza. E così, senza stare a rimettermi in ordine, senza andare a vedere cosa avevano concluso i robot, perché il loro drammatico martellare era cessato, andai al portello esterno, l'aprii, ed uscii incontro al mattino. Il sole stava splendendo sul mio portico: sotto le rocce la sabbia intatta pareva un tappeto di gemme pallide, tranne forse verso prua, dall'altra parte della nave, dove ieri era caduto il getto di liquido e di cibo. La fontana disgustosa era stata orientata verso nord-ovest, e non potevo vedere l'area disastrata dalla mia veranda rivolta verso sud-est, per fortuna. Stavo guardando il cielo sfolgorante, chiedendomi se l'avioplano robot superveloce sarebbe arrivato presto, quando ebbi la rivelazione. Girò serpeggiando intorno alla fiancata della nave, portata dal vento dell'alba. Venne come una fune d'argento nell'aria. Verdargento. Per un secondo restai stordita, ammutolita, cercando di identificare quell'odore uni-
co, magico. Poi compresi. Mi lanciai a corsa intorno alla nave, evitando per miracolo di scontrarmi con un pacifico robot intento ad effettuare le riparazioni. Feci il giro e poi cercai di frenarmi di colpo e caddi prona. Ed era appropriato, perché fra le tribù nomadi estinte c'era l'uso di prostrarsi per venerare gli dei. Il diluvio d'acqua e di cibo semipronto aveva coperto circa un quarto di miglio quadrato di dune. Non era durato molto, forse tre ore al massimo. Naturalmente le piogge, che cadono solo ogni trecento giorni, e non sempre a quella scadenza, durano almeno un'intera, splendida notte di diluvio. Dopo le piogge si può comprendere, pur meravigliandosene, la straordinaria reazione del deserto. Ma quello... Germogli verdi che ondeggiavano come finissimi capelli verdi nel vento mattutino. Germogli verdi ammassati fitti fitti su mezzo miglio quadrato, come esili soldatini di una favola. E il loro odore, l'odore della linfa, e l'ossigeno che trasudavano. Alcuni in fiore... piccoli fiori o boccioli che potevano diventare chissà cosa, ma non ne avrebbero avuto il tempo. La vita generata dalle sabbie, addormentata, fatta sbocciare prematuramente e per caso. E tra un'ora, il sole avrebbe rubato l'anima a tutte quelle piante. Al tramonto, sarebbero state nere e avvizzite, in quel luogo privo d'acqua. All'alba di domani, si poteva tranquillamente offrire un premio a chiunque fosse in grado di distinguere la loro polvere tra le altre polveri del deserto. Restai lì, a imprecare. Sentivo di aver tradito quei germogli, di averli attirati con una falsa promessa, senza neppure una notte di pioggia per alimentarli, vendendoli al sole crudele. L'aurora, farathoom, l'aurora. E mentre stavo lì, ringhiando, arrivò un robot coscienzioso con un vassoio, e sul vassoio un'iniezione nutriente (grande), un bicchiere di cordiale argenteo (piccolo) sei compresse antidisidratazione, quattro compresse d'ossigeno, e molto spazio vuoto. «Che groshing,» commentai, respingendo alcuni di quegli oggetti, arraffando gli altri ferocemente. Rifiutai solo l'ossigeno. «Guarda quel prato, là fuori. Non ho bisogno di questa roba. Almeno, non di tutto.» Il robot ronzò preoccupato, e si lanciò in una sorta di monologo disumanizzato che sottolineava la solitudine invece di alleviarla... dicendo che dovevo prendere tutte le compresse, tutte le compresse. Perciò dovetti affrettarmi a riprogrammarlo, per stare un po' in pace. Quando il robot se ne fu andato, sedetti sulle rocce già calde, digerendo il mio orribile primo pasto, e fissando la vegetazione. L'idea arrivò subito, perfettamente semplice. Senza dubbio, chiunque altro ci avrebbe pensato
ottanta vrek prima di me. «Ehilà, sono ancora io,» dissi giovialmente al monitor. Probabilmente, gli saltò un circuito d'acciaio, almeno a giudicare dal rumore. «Aspetta. Aspetta,» blaterò, e un clangore pazzesco si scatenò per un intero split, prima che riuscisse a calmarsi, o che venisse calmato. Poi: «Non c'è bisogno di abbandonarsi al panico,» disse. «L'avioplano per le riparazioni è in viaggio e ti raggiungerà... click... click... al tramonto, orario del deserto.» «E chi è che si abbandona al panico?» chiesi io, molto seria, sperando di fargli capire che era lui, non io. «Ho stabilito il collegamento perché ho un'altra richiesta.» «Nessuna nuova richiesta è accettabile fino a quando non è stata espletata la prima.» «Sciocchezze,» dissi io. «E se mi fossi rotta un femore?» «Sono estinti,» disse il computer. O aveva sentito male, o era privo di un vocabolario preciso, e tirava a indovinare nella sua ignoranza. «Stammi bene a sentire, tu,» dissi. «Sono in esilio. E sta bene. Ma sono certa che, finché decido di restare in vita, la Commissione deve aiutarmi a restarci. Quindi, se dico che ho bisogno urgente di qualcosa, tu me lo devi mandare.» «Non possiamo mandarti neanche un femore,» gemette il computer. «Non voglio un drumdik femore, per amor di Dio.» Il computer pensava probabilmente che fosse stato un femore a cadere nel distributore di viveri, ma adesso era saltato fuori qualcosa di peggio. «Diodiodio,» si chiese, frugando freneticamente nel labirinto del proprio cervello. «Diodio? Diodio? Diodio?» «Stai zitto. Annullato. Stai buono,» gridai. «Dimentica Dio. È una sensazione, una credenza, non so... lascia perdere anche i femori. Non sono animali. Comunque ne ho un paio, e credimi, se mai me ne romperò uno, mi sentirai urlare in città senza bisogno di un raggio monitor. Quel che voglio è questo: un miscelatore d'acqua in più piuttosto grande, diciamo quanto la nave, e attrezzato per l'adattamento, e anche una struttura per sistemarlo, e ovviamente anche l'attrezzatura per la manutenzione. E farai bene ad usare un trasferitore perché mi serve per mezzogiorno al massimo.» A questo punto ci fu veramente una sorta di sovraccarico. Ma il compu-
ter lo superò. «Perché lo richiedi?» «Perché, mio caro amico di perma-acciaio, ho intenzione di far fiorire il deserto!» Il silenzio che seguì era prevedibile e tutt'altro che piacevole. Ma io resistetti, sapendo che dovevano ascoltare, non potevano piantarmi lì; tenevo in pugno la Commissione dei Q-R, la tenevo stretta per il ciuffo della programmazione al servizio dell'umanità. Sebbene costituissi una minaccia, io ero umana, e avevo un'esigenza, e quindi... La macchina trasferitrice era stata un'ispirazione. Era un trasferitore di corpi, naturalmente, destinato all'uso da parte delle persone; ma poiché quasi nessuno li usa, data la nausea violenta che generano quasi sempre, talvolta vengono utilizzati per spedire materiale ingombrante da una città all'altra. (Smaterializzare sulla Passeggiata degli Angeli a BAA, rimaterializzare proprio dentro alla Via d'Acqua Peridoto a BEE, ma un errore del genere non capita spesso, solo quando un Anziano Lavoratore preme il pulsante sbagliato.) Se fossi riuscita a far accettare la mia richiesta, BEE poteva trasferire quel miscelatore d'acqua nella mia valle entro mezz'ora, e poiché i miscelatori d'acqua sono dovunque d'importanza vitale, non doveva essere difficile trovarne uno, o fabbricarlo, entro mezzogiorno. Poi... oh, poi... sarebbe caduta una pioggia nutriente, e il mio giardino — sì, per me era già il Mio Giardino — avrebbe potuto continuare a crescere, avrebbe potuto continuare e continuare ad esistere. Se il deserto diventava così verdeggiante dopo una notte di pioggia, che cosa non poteva accadere lì? Ero accesa dall'entusiasmo. Dovevo sconfiggere il computer... e i Q-R che ormai, immaginavo, gli si erano radunati intorno. «Non posso mai vedere un amico, neppure parlare con un amico,» piagnucolai, istrionicamente. «Sola, tra la sabbia, e voglio soltanto un po' d'acqua per creare un piccolo giardino vero.» (Boo-hoo). Poi vi fu un lungo, lungo silenzio. Da quel silenzio, compresi che avevo vinto. Il computer parlò. «Per questo oggetto c'è un prezzo. Dovrai pagare.» In quel momento ero così sovraccarica che probabilmente si resero conto di poter ottenere da me una quantità di energia utilizzabile, persino in una registrazione su nastro. «Sì. Collegatemi e pagherò.»
E pagai. Diedi loro il valore del miscelatore d'acqua, e anche di più. Singhiozzai e risi e li benedissi, e invocai sulla città tutte le gioie del firmamento. Ne valeva la pena; e allora non sapevo neppure fino a che punto ne valesse la pena. 7. Il miscelatore d'acqua pagato in anticipo arrivò nel pomeriggio, con il tonfo sordo dello spostamento d'aria. L'avevano trasferito in un punto a metà del Mio Giardino, spostato a sud quanto bastava perché non schiacciasse neppure un tratto della vegetazione. Il trasferimento fu così perfetto che pensai avessero commesso un errore. Molto probabilmente avrebbero preferito far materializzare il miscelatore proprio in mezzo a tutto, magari anche addosso a me. Era molto grande, per giunta, come avevo sperato, elegantemente installato sotto una bella cupola bianco-ghiaccio, con colonne e vetro-acciaio, alla base, e porte regolate in modo che si aprissero solo davanti a me ed ai miei robot. Se non altro, non avrei dovuto vedere qualche piccolo, caro animale del deserto che vi faceva irruzione. Anche gli adattatori erano eccellenti, e obbedirono in modo miracoloso alle mie istruzioni. Poi, per un'ora, dentro la cupola vi furono ronzii e sfrigoli lontani: e finalmente... Gli sportelli si spalancarono, tubi madreperlacei si protesero come proboscidi curiose, e ampi spruzzi finissimi di acqua già pronta cominciarono a cadere, non soltanto sul Mio Giardino, ma anche sul lato arido a sud-ovest del miscelatore d'acqua: così, forse, anche là avrei visto prima o poi spuntare un altro giardino. Non sapevo quanta umidità fosse necessaria, ma poiché doveva essere una cosa duratura, mi pareva che fosse meglio innaffiare poco e spesso, con un intervallo durante la notte, in modo che la macchina preparasse una nuova scorta. (I miscelatori d'acqua sintetizzano il necessario partendo da tutto ciò che c'è alla loro portata, e raffinano e mescolano gli elementi, abilmente, creando l'antica formula dell'acqua che era nota persino agli antichi. In questo modo si può produrre di tutto, ed è un peccato che nessuno se ne fosse reso conto, prima di esaurire completamente i mari ed il suolo.) Non provavo orgoglio, mentre mi aggiravo tra le rocce intorno alla nave, osservando la «Pioggia». Vedi, mio ooma Giardino, dopotutto il mio non era un tradimento. Ormai doveva essere circa un miglio, da ovest verso nord, oltre ad e-
stendersi per mezzo miglio dalla nave. E poi cominciarono ad arrivare le grandi idee. Perché non di più? Perché il Mio Giardino non poteva estendersi tutto intorno, perché non poteva esserci un'intera valle piena di Miei Giardini? Avrei potuto ottenere altri miscelatori d'acqua dalla città, se fossi riuscita a disorientare a sufficienza il computer; o almeno avrei potuto far diventare mobile quello che avevo, e mandarlo in giro a fare i turni... due ore nella zona occidentale, due ore ad est, due ore a sud, e così via. Forse non sarebbe spuntato nulla. Non tutte le dune potevano essere tanto fertili. (Non sbagliare: ricordi le piogge? Verde dappertutto.) E quant'era grande la valle? Un ovale, approssimativamente, circa sedici chilometri da nord a sud, tredici da ovest ad est. Un programma un po' pesante per un solo miscelatore d'acqua. Ma se alla fine fosse diventata davvero tutta fertile, tutta verde... L'interruzione della mia fantasticheria fu improvvisa e inaspettata, anche se non avrebbe dovuto esserlo. Era uno spettacolo ridicolo e terrificante. Dall'area oscurata dietro la nave, e diretta senza alcun dubbio verso il Mio Giardino e la struttura del miscelatore d'acqua, stava arrivando quella che posso descrivere soltanto come una tribù di Occhigrigi. Erano all'incirca una ventina, tutti fisicamente eguali, a parte le dimensioni grottescamente diverse: parecchi erano piccoli come i pugni d'una ragazza Jang, due o tre erano grossi come un letto fluttuante a due piazze. Il contegno sembrava in armonia con le proporzioni. I piccoletti saltavano e rimbalzavano, e talvolta si fermavano per fare a pugni tra loro, fino a che qualche, adulto (?) li richiamava all'ordine. I grandi avevano un'aria solenne, quasi minacciosa. Quelli intermedi si abbandonavano a crisi ora dell'uno ed ora dell'altro umore: per un po' erano austeri, per un po' pazzerelloni: si prendevano a sberle, e poi procedevano con dignità regale e il naso all'aria. Erano venuti per me? Cosa aveva raccontato loro Occhigrigi Numero Uno? Tuttavia mi ignorarono, benché si fossero accorti della mia presenza. (Era impossibile non notare il modo impettito con cui fiutavano l'aria sopravvento: mi mettevano addosso l'impulso di riprecipitarmi a fare il bagno.) Come avevo temuto fin dal primo momento, a loro interessava soprattutto il verde che stava spuntando. E adesso, che dovevo fare? Correre sulla Torre Trasparente e attivare un
meccanismo difensivo, come la muraglia elettrica che aveva ucciso il mio bestiolino? Vedere quei corpi color limone piombare in una morte estatica, prima che riuscissero a strappare i preziosi germogli? No: non potevo fare una cosa simile. Non potevo; non potevo e non volevo. Sentendomi enormemente coraggiosa nella mia vigliaccheria, balzai giù dalle rocce, verso la processione, agitando le braccia e gridando: «Sciò! Via, fuori dai grak! Andatevene!» Ottenni una sorprendente reazione di totale disinteresse. Ormai ero quasi addosso agli Occhigrigi, e assurdamente raccolsi manciate di sabbia, gliele gettai contro. Questo provocò effettivamente una reazione. Alcuni dei più piccoli — i più giovani? — arrivarono correndo e cominciarono a far capriole tra i miei piedi; questo, nonostante tutto, quasi annullò la mia decisione di mostrarmi intransigente e incrollabile. E poi uno dei grossi si voltò indietro, notò la scena, e tornò con aria decisa nella mia direzione. Adesso lui, o lei, avrebbe pensato che io stavo massacrando la sua prole, o quello che era, e mi avrebbe atterrata con una zampa enorme. «Aiuto?» chiesi, incerta. Non c'erano robot in vista, naturalmente. «Senti,» dissi con voce tremula all'avversario avanzante, «secondo me la tua famigliola è proprio derisann, ma tenete le zampe lontano dal mio deserto in fiore, d'accordo? E non stavo affatto facendo quello che pensi tu.» Mi raggiunse. Adesso potevo valutare esattamente le sue proporzioni. Era più alto di me di tutta la testa, e parecchio più grosso. Gli occhi di un profondo grigio acquoso fissavano i miei. Alzò le due zampe superiori, bilanciandosi con molta efficienza sulle altre sei... le alzò sopra le mie spalle. Stordita dallo spavento, non mi mossi. Erano leggerissime, quelle zampe. Almeno, l'Occhigrigi non stava facendo la parata di minaccia. «Ehm,» feci io. «Volevo soltanto...» Aprì la bocca e sporse la lingua rosachiaro, sana come un fiore. Mi leccò. Mi stava abbracciando, o si limitava semplicemente a usarmi come puntello per tenersi in equilibrio? Perché mi leccava con tanto impegno? La lingua era molto morbida, ma non ci tenevo che mi lavasse la faccia. Cercava di sentire il mio sapore? «Molto gentile... groshing... grazie...» balbettai in un nauseante tentativo d'accattivarmelo. Poi l'Occhigrigi smise di leccarmi. Aprii gli occhi e l'accarezzai gentilmente. Mi tolse le zampe dalle spalle. Con un'occhiata ammonitrice, spin-
gendosi davanti i piccoletti, il grosso Occhigrigi andò a raggiungere i suoi compagni. Scossa dalla tensione e dall'ilarità, mi lasciai cadere seduta per terra. Ormai era inutile; avrebbero raggiunto il Mio Giardino, e tutto era perduto. Ma forse non avrebbero devastato tutto... «Idiota,» dissi allora. «Stupida.» Certo, avevo visto cosa intendevano fare. Ma avrei dovuto immaginarlo molto prima. Non avrebbero mai devastato insensatamente la vegetazione, tranne le piante veramente stabili del deserto, che usavano come cibo e, per giunta, con molta sobrietà. Avevano un profondo rispetto per i vegetali: era innato, in loro, e questo non era sorprendente. Dopo le piogge, non avevano toccato nulla, avevano soltanto danzato nei tratti più lussureggianti, giocando, abbandonandosi alle orge. Ed era ciò che intendevano fare ora: celebrare un rito postpluviale. Perché erano convinti che fosse veramente piovuto, e che in qualche modo non se ne fossero accorti. Il Mio Giardino doveva essere la scena di un festeggiamento. Non avrebbero causato molti danni, probabilmente avrebbero aggiunto un po' di concime casalingo qua e là. Sarebbero riusciti ad adattarsi? Cosa sarebbe accaduto, quando si fossero resi conto che le «piogge» e la crescita della vegetazione erano destinate a durare all'infinito? Avevo turbato il loro equilibrio ecologico? Oh, be'. Ormai era tardi. Arrivarono altri Occhigrigi, e alcuni insetti, e un paio di serpenti. Mi sentii un nodo alla gola, grosso come una montagnola. Fu l'avioplano robot di soccorso, scendendo in picchiata e infrangendo la barriera del suono, a interrompere il rito. Occhigrigi e compagni si scrollarono, corsero via in tutte le direzioni, e sparirono tra le dune come per magia. Il portello dell'aereo si aprì e ne rotolò fuori una macchina: l'altoparlante annunciò, in tono protettivo: «Aiuto a disposizione.» O qualcosa del genere. Cercai di non lanciarle occhiatacce, mentre cominciava a riparare la mia nave. Cosa posso dire? Come posso rendere il sogno che si realizzava tutto intorno a me, renderlo e nel contempo serbarlo intatto? Potrei esporre ogni evento, così come si produsse, ogni piccolo evento meraviglioso.
Il primo bocciolo che si schiudeva, le prime grandi felci che si protendevano verso il cielo, verdenere o verdazzurre. E io che gorgogliavo come una thalldrap ad uno dei miei robot sempre al lavoro, continuamente riprogrammati: «Credo che questo diventerà un albero, un albero vero.» Oppure il mattino in cui venne la tempesta di sabbia, dapprima con un velo aureo sulle montagne remote, e io, stupida, che stavo lì ad ammirarla, «Oh, com'è bella,» fino a quando ci piombò addosso, bam!, e aggredì tutto, tutto. Io e i robot, avvolti in teli di stoffa trasparente per proteggerci gli occhi-circuiti ottici e i polmoni-valvole pettorali, correvamo tra i sottili canaletti d'irrigazione che avevamo appena terminato di scavare. Un'idea geniale presa a prestito da antichi manoscritti custoditi nella Torre della Storia: sono canali che portano l'acqua anche nei punti più lontani d'una piantagione. Dovrebbero essere alimentati dai fiumi, credo, ma noi dovevamo riempirli per mezzo del miscelatore d'acqua. A scavarli ci si spezzava la schiena: per dieci unit avevo sentito dolori a muscoli che non avevo mai saputo di possedere. Anche i robot si erano irrigiditi, e avevano bisogno di oliarsi.) Per circa un'ora corremmo in giro, legando quelle piante, fissando queste altre, e per cinque o sei volte dovetti correre alla nave e strillare al raggio del monitor perché mi mandasse un protettore a rete d'onde, ma senza ottenere né applausi né successo. Per fortuna le piante, almeno per la maggior parte, erano ben nutrite di liquido, e resistettero alla tempesta. Debbo ricordare gli unit in cui mi limitai a starmene seduta, a contemplare il verde ondeggiante, o ad aggirarmi là in mezzo, talvolta seguendo la «Pioggia» ambulante? Il miscelatore d'acqua, con la relativa incastellatura, adesso era stato adattato per muoversi, e seguiva il percorso obbligato: era straordinario e spettacoloso e, visto da lontano, sembrava un mostro da favola. Una grande cupola bianca, scintillante, sottili zampe trasparenti di vetro-acciaio, tubi madreperlacei che ondeggiavano sulla cima, spruzzando delicate nebbie d'acqua, soffermandosi nelle aree più recenti per innaffiarle più a lungo, e poi procedendo, inesorabilmente. Di notte tornava a riposare accanto alla nave, ronzando tra sé mentre riempiva di nuovo i serbatoi. Anche il miscelatore lavorava troppo. Nonostante i miei progetti, riusciva a innaffiare soltanto un breve tratto a nord, ovest, est e sud rispetto alla nave: un giro di circa sette chilometri. Avrei avuto bisogno di altri otto o nove miscelatori d'acqua per innaffiare decentemente quelle distese aride: e non avevo cercato forse di procurarmeli? «La tua richiesta non può venire accolta,» disse il computer. E lo ripeté. E lo ripeté. E...
«Hai ancora scoperto che cos'è un femore, cretino?» gli chiedevo io, per esasperarlo, e sentivo quel poveraccio che cominciava a sferragliare tra sé. La scena non cambiava mai, e io non riuscivo mai ad avere i miscelatori. Una volta provai a fingere che al primo fosse accaduto un incidente... che fosse caduto in un crepaccio o fosse precipitato da una montagna, non ricordo bene. Ma quelli controllarono per mezzo del sistema monitor, e scoprirono che il miscelatore si stava aggirando allegramente sul perimetro orientale del Mio Giardino, e innaffiava con molta efficienza. Quindi, non servì a nulla neppure quel trucco. Ma già quei pochi chilometri... vederli, sentirne l'odore. Dovunque cadeva l'acqua, cresceva la vegetazione. A oriente stava spuntando una giovane foresta e proprio sotto la nave, estendendosi per quattrocento metri, sorgevano alberi alti, alti e snelli, dai tronchi costolati del colore della giada scura, con le foglie sottili come fruste, protese nel cielo come strisce di vetro verde, a creare motivi ornamentali incredibili, intrecciandosi nella brezza. E anche fiori, di tutte le tinte, di tutte le sfumature, come usavano dire i vecchi libri. Alcuni si stavano arrampicando intorno ai sostegni della veranda, e tra poco non avrei più potuto far muovere la nave delle sabbie, anche se avessi voluto. Tredici unit dopo che l'avioplano robot era venuto a restaurare la mia casa-vascello, vi fu una piccola frana, sulle pendici orientali delle montagne, e un lieve tremore scosse il terreno. Gli allarmi cominciarono a suonare, e la nave cercò di precipitarsi al sicuro e non ci riuscì, perché io avevo disattivato il motore automatico. Quando ebbi messo a tacere le sirene, dovetti affrontare un paio di problemi riguardanti quel territorio così esposto alle scosse sismiche. Potevo stabilizzare la nave, mobile o statica che fosse: ma il Giardino? Ormai stavamo diventando abili ed esperti, io ed i robot. (Nel frattempo, avevo dato loro dei nomi, come avevo previsto fin dall'inizio, e li avevo programmati in modo che reagissero sentendosi chiamare, e avevo anche preso l'abitudine di parlare con loro, proprio come avevo temuto. Comunque, era più eccentricità che disperazione, la mia, ed aveva una sua praticità, perché i robot arrivavano quando gridavo i loro nomi, e se dicevo ad uno di preparare la cena potevo specificare, e gli altri due, che magari stavano zappando insieme a me, non mollavano gli utensili per precipitarsi anche loro a bordo. Li avevo chiamati Jaska, Borss e Yay, i nomi di tre antichi capitribù di cui aveva parlato una volta Assule durante la Spedizione Archeologica. Assule era stato di una noia mortale, ma i nomi mi erano
rimasti impressi, forse proprio a causa della noia: e così, Jaska fai questo e Borss fai quello, e Yay fai quell'altro. Mi pare che i capitribù fossero stati imparentati tra loro, o sepolti insieme, non mi ricordo.) Comunque io, Jaska, Borss e Jay, insieme ai macchinari presi a prestito dalla nave, cominciammo a cercare di costruire stabilizzatori servendoci del materiale ottenuto da Quattro BEE con falsi pretesti. Dissi al raggio del monitor che ero tanto triste e droad, e che avevo intenzione di progettare, come passatempo, una piccola, incantevole torre. Potevano fornirmi un po' d'acciaio e un po' di seta? Oh, e qualche piccolo elemento, niente d'importante. Avevo capito che, fino a quando quelli erano convinti che fossi impegnata a combinare qualcosa di inutile e di inconsistente, mi avrebbero lasciata fare: e avevo ragione, perché di volta in volta mi arrivarono grandi casse di materiale per la mia «torre». Avevano concluso, immagino, che quando diventavo decisa, diventavo anche violenta, e scatenavo il finimondo; e probabilmente avevano ragione. Comunque, io, Jaska, Borss e Yay ci mettemmo al lavoro con il materiale, usando come modello uno stabilizzatore smontato della nave; e qualche unit più tardi, cominciammo a scavare buche e a impiantare nel suolo i primi prodotti delle nostre fatiche. Solo al momento del disastro avrei potuto sapere se avevamo azzeccato esattamente la formula: ma all'apparenza sembrava tutto a posto. Mi chiedevo addirittura se non avremmo potuto costruirci da soli alcuni miscelatori d'acqua, ma era difficile che la favola della torre reggesse fino a quel punto. E per giunta avremmo dovuto smantellare il miscelatore esistente, per usarlo come modello: e se avessimo sbagliato qualcosa, saremmo rimasti senza. Quindi, per il momento, il territorio verdeggiante aveva sette chilometri di circonferenza e così doveva restare. Comunque, era piuttosto faticoso. Molto spesso uscivo con J, B e Y, e insieme rivoltavamo le zolle — ormai somigliavano davvero a zolle — e ispezionavamo le piante, e legavamo quelle più deboli a bastoncelli d'acciaio, e prendevamo nota dei tratti più aridi, perché il miscelatore provvedesse a un'innaffiatura supplementare. Sebbene l'ossigeno servisse a rinvigorirmi anche sotto quell'ombra adolescente, era molto caldo, e dopo una mattinata di lavoro andavo a rifugiarmi barcollando da qualche parte e crollavo addormentata per un'ora. Qualche volta trovavo un Occhigrigi già sdraiato sul posto. Non seppi mai se avevo rivisto l'Occhigrigi Numero Uno: alla nave non era più tornato, questo è certo, e senza dubbio era un bene. Ero troppo indaffarata per rattristarmi o allietarmi della sua assenza, troppo presa dal mio progetto per
sentirmi sola. Il mio bel corpo si era abbronzato ancora di più. Adesso ero di miele scuro, ed i miei capelli biondi si erano schiariti in un color d'ambra lattescente, dalle striature fiammeggianti, simili a decorative catenelle d'argento. Gli occhi del poeta erano due laghetti iridescenti, di un azzurro quasi incolore, in quel volto scurito. Gli specchi mi facevano trasalire ancora più del solito, anche se qualche rara volta, di sera, me ne stavo sdraiata esausta sulla veranda a guardarmi in uno di essi, nel rosso di brace del crepuscolo. La sessualità non era ancora diventata un problema, ero troppo sfinita. La macchina dell'amore era coperta di ragnatele, o meglio lo sarebbe stata se i pulitori della nave non avessero tirato tutto a lucido. Tuttavia, l'immagine della bella, giovane donna con gli occhi del bel giovane che ero stata un tempo, suscitava in me una sorta di eccitazione sinuosa, da cui avrei dovuto guardarmi. Grazie all'acqua, ogni giorno il verde cresceva e cresceva, sempre più forte. Le foglie della foresta bussavano alle finestre della mia cabina, che adesso guardavano l'esterno, poiché avevo sostituito ai broccati il videoglacia. La mia finestra era rivolta verso sud-est, come la veranda. Vedevo l'aurora spuntare, color rubino e tiglio, dietro gli alberi serpentini. E se mi addormentavo sul divano, le Sorelle di solito mi svegliavano con i loro rombi di cannone e le loro perfide acconciature rosse, lontano, dall'altra parte della valle. Che cosa posso dire? Forse niente. È una specie di rappresaglia, vero?, nei confronti di quella mia filastrocca, composta al Limbo dodici vrek prima, nell'angoscia e nell'ansia di ricerca? Quella... era la domanda. Questa... è la risposta. O parte della risposta, perché tutta la mia vita sarà una risposta, a me stessa ed al mio mondo. Forse, comunque, dovrei dire soltanto che sulla mia valle passò un vrek, cento unit. E che un giorno uscii dalla nave, e vidi tutto con una sorta di inaspettata chiarezza, come se non l'avessi visto prima, come se non avessi contribuito a farlo crescere. Il sole stava già sfolgorando alto nel cielo, quel sole crudele che non si poteva mordere. Le montagne nere cingevano la valle, e una bordura di sabbia scintillante. Ed entro quella cerchia, il Mio Giardino, come un fumo verde che veniva più vicino, e avvicinandosi sembrava una città vegetale, con cupole e torri, viali e portici, palazzi e gallerie, e un paio di Occhigrigi correvano qua e là, attenti a non calpestare nulla. Io stavo per mettermi a piangere, perché come ho detto sono sentimenta-
le e floop. Ma proprio in quel momento il raggio del monitor mi chiamò, un avvenimento raro, perciò repressi l'emozione e andai a indagare. Avevo corrotto anche il computer, questo era evidente. Disse soltanto tre parole, ma con un tono di trionfo che era quasi osceno: «Ossa della coscia.» 8. Primo unit del mio secondo vrek nella valle. Io, sulla veranda, intenta a mangiare dolci al melone e a pensare pigramente al lavoro che avremmo fatto quel giorno, Jaska, Borss, Yay ed io. Il miscelatore d'acqua in movimento, vagamente visibile attraverso la foschia, nascosto di tanto in tanto da alberi, felci, arbusti. Un serpente frastornato che faceva la corte a se stesso, tra l'erba, a tre metri da me. Il naso diceva alla coda: «Su, diamoci un bacio.» La coda, timidamente, rifiutava. Poi un suono sconosciuto-conosciuto nel cielo, il serpente che si irrigidiva come un bastone, ed io che uscivo e alzavo lo sguardo. Talvolta gli avioplani erano passati in volo da quelle parti, ma per la verità più lontano, verso occidente. Di rado si captava il rumore. Per puro caso, avevo creato il mio rifugio ben lontano dalle rotte delle navi delle sabbie e degli aerei. Ma quell'abominazione era proprio sopra la mia testa, e stava scendendo verso terra. Farathoom, e imprecazioni affini. Fai attenzione agli alberi di porpora. (Avevo dato un nome ad ogni cosa... generalmente erano analogie. Così mi risparmiavo di confondermi. Qualche volta.) No, gli alberi di porpora si erano salvati dalla rasatura. L'avioplano stava per atterrare proprio tra le rose-cactus. E infatti vi atterrò. Con il dolce ancora in mano, scesi a precipizio dal portico e corsi verso l'aereo. Era tutto sgargiante, e irradiava luci colorate al neon, ma non mi intimidiva per niente. «Vattene dai miei fiori, accidenti a te! Guarda che cosa hai fatto!» Come previsto, la voce del robot uscì melodiosa dal portello che si apriva. «Non è il caso di allarmarsi.» «Io non sono allarmata. Ma lo sarai tu, se non sposti quella tua baganrola.» Proprio in quell'istante uscì il visitatore: una macchina tonda tonda che pareva irradiare ampi sorrisi, agitava i fili, accendeva e spegneva tutte le
sue luci. Sembrava portasse scritto addosso «Centro Lampo.» «Non dirmelo,» feci io. «Qualche promok dal cervello di pappa ha avvistato una felce nel deserto, e ne ha parlato a qualche altro promok Anziano a un Centro Lampo, e adesso hanno mandato una macchina cronista a raccogliere qualche affascinante comunicato lampo da trasmettere affascinantemente a tutta quella floop di Quattro BEE. Giusto?» «Oh, sì,» gorgogliò la macchina, che qualche idiota incorreggibile aveva programmato in modo che parlasse come il tipo peggiore di buontempone umano. Probabilmente pensavano che l'infelice Reietta sarebbe stata lieta di chiacchierare a perdifiato con qualcosa dalla voce umana, sia pure insopportabile. «Bene, vecchio ooma, puoi pure saltartene a bordo del tuo avioplano e andartene,» dissi, «prima che ti punti addosso il miscelatore d'acqua.» La macchina riuscì ad assumere un atteggiamento inquieto. Forse non era antiruggine. «Oh, ti prego. Sono tutti così interessati. Ci sarà persino un'interruzione speciale della Quadrovisione, e verrà trasmesso un permafilm di tutto questo, per cinque interi split. L'annuncio mi sconvolse. L'ultima volta che era accaduto era stato quando... quando... già, quando? Non era mai successo? Sicuramente questo non l'aveva inventato la Commissione. Forse il pubblico era davvero interessato, almeno in parte. Forse Danor ci teneva a sapere come me la cavavo. Oppure Hergal. Sì, mi pareva di vedere Hergal, sdraiato da qualche parte, semiestatico, con le snelle membra auree elegantemente distese come uno dei gatti di Thinta. Magari si sarebbe lasciato prendere da sentimenti romantici per me, per mezzo split, adesso che ero in forma femminea, non concorrenziale. Thinta, d'altra parte, provava minor simpatia per me, quand'ero femmina. Probabilmente avrebbe mormorato qualcosa come: «Ho provato e RIPROVATO, con lei. Ho fatto tutto ciò che potevo. Ma lei non voleva ascoltarmi.» Mi faceva soffrire, pensare a loro, ma era una sofferenza cui avrei dovuto abituarmi. Non potevo sempre rinchiudermi in me stessa ogni volta che mi raggiungeva qualche immagine della città. Prima o poi avrei dovuto affrontarla. Ma una parte della mia mente si era riscaldata. Guardai la macchina in modo diverso. «Bene,» dissi, «se sposti un po' quell'avioplano, e lasci che sia io a parlare.» «Ma naturalmente!» «E puoi regolarti in modo da parlare con quel tono gelido e un po' sde-
gnoso cui mi sono abituata, con le macchine? Oh... e mi occorre mezz'ora per prepararmi.» Vanità. Oh, bene, era la prima occasione di essere vanitosa che avevo da più di un vrek. E poteva anche darsi che fosse l'ultima. Una macchina efficiente è capace di fornirti l'abbigliamento in quindici split, se sai ispirarla. A BEE avevo smesso da un pezzo di indossare i tradizionali abiti trasparenti di stile Jang, e quindi avevo una notevole pratica, in quell'arte. La macchina dell'abbigliamento che era a bordo, lasciata fino a quel momento nella parete, per poco non diventò zaradann, e sfornò un abito lungo di sintoseta color neve appena caduta, ricamata di zirconi. Anche il dispensatore di cosmetici ebbe da divertirsi, e mi lanciò boccette ingemmate di questo e di quello, con una gioia infantile e disarmante. La mia indole femminile si era riaffermata, con uno slancio vendicativo. Uscii di nuovo all'aperto, incredibilmente affascinante e sicura di me, con le palpebre smaltate, i lobi delle orecchie stellati, persino i calli eliminati dalle mie dita ingemmate per mezzo di un unguento medicinale. Così mi avrebbero vista Danor e Hergal e gli altri, se davvero dovevano vedermi. Prospera, fortunata, desiderabile, felice. E lontana dalla loro portata. «Ci hai messo tre mezze ore, anziché una sola,» dichiarò la macchina. «Oh, bene. Ti sei riprogrammata per usare un tono antipatico. Che sollievo.» «No, non mi sono riprogrammata, ma le mie batterie si scaricheranno se...» «Se sprechiamo altro tempo, quindi diamoci da fare.» Il giro completo. Tutto quanto. Dopo, tanto, avrebbero tagliato. Cinque split. Cosa potevano mostrare, in cinque split? Forse quanto bastava. Alberi in una stasi di verde onnipresente, canali di irrigazione che scintillavano come cristallo, il mostruoso miscelatore d'acqua che si sollevava sulle zampe e si avviava, un Occhigrigi solitario sorpreso a dormicchiare tra le felci. Io, elegante e disinvolta. Jaska e Borss che scavavano. Yay che si era scaricato. («Questo farete meglio a tagliarlo.» C'era da scommettere che non l'avrebbero fatto.) Frutta che maturava... no, non sapevo che cos'era, ma poiché era cresciuta lì, sul lato nord, dove era eruttato il primo getto d'acqua e di viveri, poteva darsi che un po' del cibo semipronto avesse messo radici, o qualcosa del genere. Presto avrei cercato di scoprire se era frutta commestibile.
Alla fine la macchina chiese un discorsetto. Pensai di dire «Vixaxn la Commissione,» succinto e sincero; ma decisi che se davvero volevo che qualche vecchio amico vedesse il documentario, avrei dovuto escogitare qualcosa di diverso. Quindi: «Desidero ringraziare la Commissione,» dissi, con gli occhi umidi, «per le sue premure. Ho commesso un terribile errore, come tutti sanno, ma sebbene mi abbia esiliata, la Commissione ha dimostrato tutta la buona volontà e la delicatezza di questo mondo.» «E la solitudine?» chiese la macchina, brutalmente. «E l'imminente vecchiaia?» «Ci si può sentire soli in mezzo alla folla,» dissi io, «più ancora che qui. E gli antichi erano abituati ad affrontare la vecchiaia, perciò posso affrontarla anch'io, no? Inoltre, ho a disposizione un buon mezzo rorl o più, prima di cominciare a preoccuparmene. Sono fatta per durare.» Quando la macchina del Centro Lampo se ne fu andata, per un po' ci fu un gran silenzio. Rimisi in ordine le rose-cactus: ma erano robuste, e ben presto risollevarono le teste scarlatte. Anche la mia testa schiarita dal sole era tenuta ben alta. Finalmente attivai il raggio del monitor e chiesi al computer se avrebbero trasmesso il documentario anche sulla mia Quadrovisione. Dopo una pausa, il computer rispose di sì, e poi: «Attualmente, le ossa vengono rinforzate mentre il bimbo cresce nelle vasche di cristallyze,» disse il computer. «E così pure i denti e le unghie. Non si rompono più.» «È un vero sollievo,» dissi io. «Ti decidi a lasciar perdere questa storia dei femori, adesso?» Il computer rombò. «Che cos'è Dio?» «Non posso dirtelo. Non chiedermelo più.» «Questa parola non figura nel mio vocabolario.» «E neppure nel mio. Non preoccupartene. Di' che cancellino il nastro, o qualcosa del genere». Rattle, pattle, ping. Il filmato non era male. Allora non capivo (e come potevo? Ma forse avrei potuto, avrei dovuto) quanto fosse bello. Il Giardino appariva meraviglioso. Incredibile. Che effetto avrebbe pro-
dotto, dopo i fiori di seta di vetro e i lecci di giada della città? Ed io, be', apparivo proprio come avevo voluto: radiosa. C'era anche il mio discorsetto, persino la sfumatura d'ironia diabolica che non avevo notato, e che si era insinuata nell'accenno alla «buona volontà» e alla «delicatezza». Eppure, molto probabilmente i cittadini di Quattro BEE si sarebbero limitati a strillare: «Oh, che orrendi alberi veri e rozzi, con quei rampicanti che danno i brividi, e quell'orribile assassina Jang in esilio, troppo abbronzata, e mai fidarsi della gente che si sceglie gli occhi chiari, ugh!» E si sarebbero precipitati verso la loro sfera per vomitare. La pace sia con voi. 9. Trascorsero dieci giorni, dopo la trasmissione del filmato. Allora non avevo motivo di contarli. Continuai a zappare e a sorvegliare e a ispezionare, e nel fresco della sera mi sdraiavo esausta sulla veranda, e oliavo J, B ed Y, e guardavo le stelle sbocciare nel buio della notte e le ombre azzurre e porpora lungo la foresta. Gli alberi avevano continuato a crescere, ed ormai erano alti quasi sei metri. Il sole tramontò come al solito, l'undicesimo giorno, e il crepuscolo incavò il cielo, e il miscelatore d'acqua ritornò a casa, ripiegò le zampe e si acquattò. «Guarda quel cielo,» dissi a Yay, mentre gli davo l'olio e mi sentivo un po' imbarazzata di quel gesto intimo. (Il cielo mi salvi dal prendermi una cotta per un robot, nella mia solitudine. Già li considero dei «lui».) Guardando il cielo, comunque, vidi un grappolo di stelle in movimento, e udii ancora quel suono fastidioso che poteva essere prodotto soltanto da un avioplano. Fuori rotta, presumibilmente. Passò oltre, diretto verso sud, molto basso. Poi, all'improvviso, atterrò appena oltre il perimetro del Giardino, a circa ottocento metri di distanza. Balzai in piedi, un po' turbata e un po' euforica. Altri documentari del Centro Lampo da girare? O forse il rifornimento viveri arrivava in anticipo? Mi aveva colpito molto il fatto che non si fosse posato sulla vegetazione. Sopra il portico ardeva una glacialampada di fuoco chimico color malva. La sganciai e, attirata da quella diversione, mi avviai verso il mio visitatore meccanico. Non fu una camminata lunga, per i piccoli, utili sentieri d'acciaio che io, J, B ed Y avevamo sistemato qua e là. Ma il visitatore mi venne incontro a
metà strada. Un ciuffo di felci piumate, alte tre metri, si aprì con un fruscio. Le ombre guizzarono. Era difficile scorgere la forma, nonostante le stelle e la mia lampada. Intimai: «Non ti muovere, robot, soprattutto se hai un carico pesante. Lascia che ti guidi io, o andrai a cadere in un canale d'irrigazione, come l'ultima volta.» «Attlevey,» disse qualcuno, sommessamente, come se fossero state le felci a parlare. Per poco non schizzai fuori di me. La lampada cadde sul sentiero e rimbalzò tra gli arbusti, come una rana lilla delle dune. Così non potei vederla, sebbene sapessi che era Danor. PARTE TERZA 1. «Ti chiedo scusa, ooma,» disse Danor. «Non volevo sconvolgerti. Ma non sapevo che altro potevo fare.» Cercai di dire qualcosa, ma i denti mi battevano troppo forte. «Mi sono ricordata che non sei più maschio,» continuò Danor, in tono accattivante. «E noi... io non voglio darti fastidio.» «D-D-D...» tentai, febbrilmente. Oh, Dio, calmati. «Danor.» Feci una smorfia. «Sì?» «Danor, non dovresti essere... cosa ci fai, qui? La Commissione non ha vietato di farmi visita?» «Oh, sì,» disse lei, così sommessamente che solo il grande silenzio del deserto mi permetteva di udirla. «Secondo i loro ordini, nessun umano deve far visita a un esule. Se lo fa, rinuncia al diritto di ritornare nelle città. Dopo la tua partenza, lo hanno spiegato a tutti.» «Le mie tendenze pericolose che si attaccano, contagiose come una malattia... rinuncia al diritto di ritornare... cosa vorresti dire? Vuoi dire...?» «Voglio dire,» fece Danor, «abbiamo preso contatto con te di nostra spontanea volontà. Perché non intendiamo ritornare nelle città.» Con molta femminilità e senza volgarità, aggiunse: «E possono andare a quel paese.» Non sapevo bene se la sensazione che provavo nel petto e nella gola fosse dovuta alla nausea, alle lacrime, o all'asma nervosa.
«Oh, Danor, che idiota. Risali sul tuo aereo e vattene. Va tutto bene, sto realizzando la mia ambizione, qui. Ma la solitudine è ancora tremenda. Oh, risali sul tuo avioplano. Di' che funzionava male, che tu non avevi nessuna intenzione di atterrare. Di' che mi hai sputato in faccia... perché sono un orrido mostro antisociale.» «Non dire sciocchezze, ooma,» disse Danor. «Non mi sognerei mai di dire una cosa simile. E non lo farebbe neppure...» S'interruppe, e nonostante il mio panico mi resi conto che già prima si era interrotta più volte, e che aveva usato spesso il plurale. «E neppure chi? Non sei venuta da sola.» «No,» disse Danor. «Lui ha un avioplano privato. Possiamo vivere a bordo, se è necessario. Non vogliamo darti fastidio, né farti sentire in obbligo nei nostri confronti. Abbiamo deciso di venire qui. Se preferisci, possiamo trasferirci tra le montagne.» «Non mi hai ancora detto chi è,» insistetti. «Kam,» disse lei. «E chi, se no?» Pronunciò il nome, non come glielo avevo sentito dire prima, quando pensava di averlo perduto per sempre e aveva imparato a sopravvivere egualmente. Lo pronunciò con una specie di esultanza, non in tono possessivo: ma piuttosto come io avevo detto, solo mezz'ora prima: «Guarda quel cielo.» E poi, nonostante la situazione senza precedenti, e tutto il suo carico emotivo, nonostante il fatto che, da femmina, non provavo nessun impulso sessuale e neppure romantico nei confronti di Danor, avvertii una fitta bruciante di gelosia. Era un miscuglio di molte cose, senza dubbio: il ricordo dell'orgoglio maschile, quando avevo fatto l'amore con lei, con lo spettro di Kam che aleggiava nell'aria; il fatto, anche, che nessun maschio prediletto avesse seguito me nel deserto, che nessuno mi fosse stato tanto vicino e tanto caro da offrirsi o da venir preso in considerazione. «Vogliamo andare all'aereo?» chiese Danor. «Vuoi venire a conoscerlo? Sono uscita da sola, per farti prendere meno paura. Come va, ooma?» «Semplicemente derisann,» gracchiai. «Groshimamente, insumattamente meraviglioso.» Lei abbassò gli occhi... gli occhi color lavanda, ideati apposta per piacere a Kam. «Mi dispiace,» disse ancora. «Ci giudicherai importuni. Abbiamo visto il filmato. Credo che l'abbiano visto tutti. Ma davvero, ooma, ci avevo pensato già prima. E non resteremo, se tu non vuoi. Anche se hai reso incante-
vole questo posto.» Un impulso mi diceva di rinnovare l'invito ad andarsene, non solo per premura, adesso, ma per una malignità irrazionale. Eppure, tremando fino in fondo all'anima, di fronte all'idea di essere gelosa di due persone — due persone — dissi, con voce rauca: «Sì, sta bene. Vengo a conoscerlo.» Gli insetti sussurranti della valle si erano insediati già da tempo nel verde, e di notte il loro ronzio secco riempiva i viali del Giardino. La luce delle stelle chiazzava i sentieri e faceva brillare tra le foglie tormaline inesistenti. Ad un certo momento gli occhi di Danor si inondarono di lacrime... aveva visto qualcosa di molto bello, c'era da giurarci. Non disse altro, temendo che avrei criticato la sua vigliaccheria perché non aveva rischiato tutto, prima di aver visto ciò che era possibile creare fra le dune. Parcheggiato sul perimetro meridionale, con i fari accesi, l'avioplano era azzurro e modesto. Danor salì la rampa, precedendomi. Non lo chiamò, si fermò lì, semplicemente, poi si voltò e mi sorrise. Quel sorriso. Sarebbe apparso sciocco e zuccheroso in un'altra, ma Danor gli conferiva una sorta di splendore autentico... o forse glielo conferivano le sue autentiche passioni. L'aereo, sebbene più piccolo, somigliava un po' a quello di Lorun, che era stato il mio amante di Quattro BOO: era tutto in miniatura, letto fluttuante, bagno, distributore di viveri. Naturalmente, io mi guardavo intorno, evitando di sbirciare la zona d'ombra del quadro dei comandi, dove era seduto l'Anziano di Danor. «Questo è Kam,» disse lei, presentandoci educatamente. E allora lo guardai. Come ho detto, mi sentivo sproporzionatamente irritata. Quella faccenda mi aveva stesa. «Attlevey, Kam,» dissi, usando apposta il gergo dei Jang... Danor ed io, dolci giovani Jang, lui un maschio Anziano, decrepito. Non era decrepito, naturalmente. Non sembrava più vecchio di noi, poiché tutti i corpi vengono prodotti con aspetto giovanile, a meno che l'Anziano interessato lo richieda espressamente. Solo negli occhi e nelle espressioni si potevano vedere gli anni in più, l'Esperienza della Vita. Ed era un bel bastardo, nel vero senso della parola, con i capelli scuri come fumo, gli occhi di un azzurro fumoso, abbronzato come una statua splendidamente lucidata. E questo peggiorava tutto. Era il primo maschio che vedevo da cento e passa giorni e apparteneva alla mia amica Danor... tutto quanto, su questo era impossibile equivocare.
Quindi ero gelosa di entrambi. Evviva. «Allora hai visto il filmato, vero?» domandai. Lui non aveva detto ancora nulla. Sorrise a sua volta... e che sorriso. Forse non aveva potuto fare a meno di progettarsi così attraente, ma almeno avrebbe potuto cercare di usare un po' la sordina, per riguardo nei miei confronti. «Sì. Abbiamo visto il filmato insieme.» «Oh, insieme. Mi sorprende che abbiate avuto tempo di vederlo.» Kam rise. Non di me: con me. Per farmi capire che aveva apprezzato la mia battuta e che se avessi rinunciato alla mia arroganza sarei stata una compagnia meravigliosa. Aggrottai la fronte, sgarbatamente. «Dopo che tu hai lasciato Quattro BEE,» intervenne Danor, «ci siamo disgregati.» «Poverini. Deve essere stato assolutamente spaventoso per tutti, essere bloccati lì nella cupola, mentre io ero qui in mezzo al niente, senza niente e nessuno...» M'interruppi appena in tempo, prima che l'autocommiserazione, emergendo da un manto di furia, mi arrivasse fino alle orecchie. «Sì, siamo stati egoisti,» disse Danor. «Ed eravamo anche molto, molto spaventati. Fino al momento in cui te ne sei andata, tutti erano rabbiosi, e facevano pazzie... come alla festa. Ma il quinto unit...» Si interruppe: il suo volto era pallido, così pallido che mi riportò in quella sala della Commissione, quando lei aveva risposto alle domande indiscrete sul conto suo e di Kam, con le mani che le tremavano. Lei non avrebbe voluto andare là a rispondere, ma non le erano rimaste possibilità di scelta, dopo che io avevo fatto fuori Zirk nel parco. Dopo tutto, era stata colpa mia, no? Me ne ero andato in giro a lanciare sfide, a mostrarmi violento, a dare la colpa a tutti, tranne che a me stesso. Sedetti su uno dei graziosi divanetti blu notte. Danor non riprese a parlare. Sentivo che Kam la guardava, e lei guardava Kam, e tra loro passavano grandi slanci di comprensione per me. Siamo sinceri: Kam non mi era saltato alla gola perché avevo sbattuto la sua amante mentre lui era costretto dalla Commissione di BAA a voltare le spalle. E aveva più diritti di me, che ero una sciocca, prevalentemente femmina. «Ehm, vorresti qualcosa?» chiese Kam, sottovoce. «Non essere così gentile,» dissi io, «oppure inonderò di lacrime l'imbottitura del divano. Forse Danor potrebbe continuare quello che stava dicen-
do, e io cercherò di tener chiuso il becco.» «Oh, ooma...» disse Danor; ma Kam doveva aver scosso telepaticamente la testa, per consigliarla di fare ciò che avevo chiesto io. Erano davvero una coppia, come gli innamorati dei libri antichi... una mente, un cuore, e così via. Sarebbero stati rivoltanti, se non vi fosse stata la sensazione che c'era qualcosa di splendente e di infrangibile, alla base del loro idillio. Danor continuò, in tono leggero e disinvolto: «Per prima cosa, Hergal è andato a precipitare di nuovo sul monumento a Zeefahr. Credevamo che ci avesse rinunciato per sempre, ed è stata una grossa sorpresa. Lei... Hergal è ritornata come femmina, ed è scappata a BAA con un maschio di un altro circolo Jang: era in uno stato spaventoso. Il maschio somigliava al tuo ultimo corpo, ooma. Era una cosa ridicola e triste. Thinta si è semplicemente chiusa nel suo palazzo verde, insieme ad orde di gatti. Mirri e Kley erano in condizioni penose. Mirri, alla fine, ha prenotato la Distorsione dei Sensi. In quanto a Zirk, è stata esclusa dal circolo. Se ne andava in giro per tutta la città, sempre femmina, con un codazzo di sei enormi maschi di altri circoli, e quasi sempre sosteneva di essere qualcun altro. Quindi adesso la Commissione ce l'ha con lei; l'accusa di Evasione, perché pagare per la casa e varie altre cose in nome di un altro non conta, a quanto sembra. E Hatta era incredibile, l'ultima volta che ci siamo incontrati.» «Completamente drumdik,» riuscii a dire. «Me l'immagino. Otto occhi neri, quattro orecchie gialle e la coda.» «No,» fece Danor. «È proprio questa, la cosa più sconvolgente. Femmina, e bellissima.» Il colpo arrivò a segno, anche in quel mio stato d'animo. Hatta... una volta sola l'avevo visto bello: e mai femmina. Avevo alzato la testa, dando segno d'animazione incipiente. Kam aveva premuto un pulsante, ed erano comparsi bicchieri di una bevanda bianca alcolica, non Jang. Bevvi con cautela quel liquore sconosciuto ma gustoso, insieme a loro. Stavo per perdonare il loro arrivo ingenuo e crudele, scintillante del loro amore? «Sì,» continuò Danor. «Hatta, come femmina, è affascinante. Non so cosa provasse lei: non ne parlava mai. Ma evidentemente cercava di rifarsi del tempo perduto. Sposava un maschio dopo l'altro... in genere, due o tre per unit.» «Oh, bene,» dissi: mi sentivo di nuovo oppressa dalla mia solitudine. «Buon per Hatta. E tu?»
«Sono rimasta nel tuo palazzo,» disse lei. «Continuavo a pensare a te. Sapevo di essere stupida e inutile ed egoista. Non ero stata esiliata io, ma tu. Eppure non potevo farne a meno, ooma. Tutti dicevano che ti saresti suicidata e saresti tornata alla DP, ma io sapevo che non l'avresti fatto, dopo ciò che mi avevi detto... quel sogno. Il deserto era... parte di te? Inspiegabilmente, l'avevo saputo fin dal primo momento. Ricordi la Spedizione Archeologica? L'avevo pensato già allora. Avevo pensato che tu avresti trovato qualche meravigliosa fortezza sepolta, e saresti rimasta tra le dune, oh, per molti vrek. Quando ne parlavi, mi sembrava di vedere la sabbia che volava dietro i tuoi occhi.» «Non ti crederà, se lo dici così,» fece Kam. Forse anche lui aveva letto nei miei pensieri... sebbene io non avessi sussultato alle sue parole come avrei fatto se fosse stato un altro a pronunciarle. Danor non era artificiale. Se aveva detto di aver visto la sabbia volare dietro i miei occhi, lo pensava davvero. E per la verità, anch'io capii ciò che intendeva. Mi sconvolse, mi spaventò, mi mise addosso la voglia di scappare a zappare od a scavare un altro canale d'irrigazione. «Le credo,» dissi. «E senza dubbio tu capisci perché credo a lei.» Kam annuì: all'improvviso era un po' imbarazzato, probabilmente si accorgeva che ostentavano i loro sentimenti, senza volerlo, senza riuscire a fare altro. «Ma poi,» fece Danor, «Kam mi ha chiamata.» «Ah-ah,» dissi io. «Proprio come in un antico romanzo. Avrei dovuto indovinarlo.» Tutti e due sbatterono le palpebre: ma adesso che li avevo colti di sorpresa, non mi sentivo più indispettita... anzi, ero piuttosto protettiva. Anche se loro non avevano bisogno della mia protezione. «Immagino,» disse Kam, «che tu sappia della storia precedente.» «Credo che sappiamo entrambi l'uno la storia dell'altra, per quanto riguarda Danor.» «Ah. Be'. Forse.» «Per ricapitolare,» dissi io, «La Commissione di BAA vi ha rifilato un sacco di fandonie inaccettabili sul fatto che non eravate adatti l'uno per l'altra.» A Kam brillarono gli occhi. «Non essere così delicata,» disse, «oppure inonderò di lacrime l'imbottitura del divano.» Danor ridacchiò. Mi accorsi di aver riso anch'io. Oh, be'. «In effetti, la Commissione diceva che io ero pericoloso per Danor, e per-
ciò ho tolto dalla sua strada la mia carcassa malsana.» «E poi, nonostante molte sperimentali scene d'amore con groshing dame adulte, la sofferenza tormentosa continuava nel tuo cuore,» dissi io. Mi fissarono tutti e due. «E intanto, a Quattro BEE, Danor vagava pallida intorno alla mia piscina, nel palazzo deserto. E poi. Ecco! Un segnale di chiamata che ammicca. Danor accende mestamente l'immagine, e là, o lì, c'è il suo amante. Si salutano con grida di gioia. Bene,» aggiunsi, ironicamente, «sei stato tu a dirmi di non essere delicata.» «Va benissimo,» disse generosamente Kam. «Non hai sbagliato di molto la tua ricostruzione. Le grida da parte mia sono state un po' più. profonde. Per il resto... le ho chiesto di venirmi ad aspettare alle porte stagne di BEE: la mia barca sarebbe arrivata tra quattro unit.» «Quando ci siamo incontrati,» continuò Danor, «siamo tornati dov'eravamo stati prima, ma piuttosto furtivamente. Kam fingeva quasi sempre di essere il mio fattore. Credo che Hergal l'avesse intuito. Poco prima di fuggire con l'ultimo Jang che aveva sposato, continuava a parlare di te quand'eri maschio. Penso che Hergal fosse più depresso di tutti. Non è strano?» «Stranissimo,» ammisi io. Seppi che l'idea, alla fine, era venuta a Danor: ignorare le Commissioni e fuggire dalle città, e vivere per amore nel deserto. Erano arrivati a quella conclusione quando il Centro Lampo aveva trasmesso il mio filmato. Aveva fatto sensazione... il che non era previsto, almeno non in quel modo. Forse la Commissione aveva permesso di trasmettere il servizio nella speranza che io, emaciata e dolente e straziata, avrei offerto un bell'esempio delle conseguenze delle tendenze antisociali. O forse sperava che, se io apparivo abbastanza sana e allegra, la gente smettesse di preoccuparsi per me e di discutere, e continuasse la solita vita droad della città. Ma... «Subito dopo, metà dei Jang hanno cominciato a correre un po' dappertutto con le monorotaie,» disse Danor, «urlando e gridando. Ci sono stati sessantotto sabotaggi della cupola, quella notte, e sono passati sabbia e ceneri vulcaniche e un paio di terremoti. Anche parecchi Anziani, una quarantina, hanno perso la testa e si sono ubriacati in tuo onore, e hanno fatto impazzire i Q-R della Torre d'Avorio dicendo che volevano sposarsi tra di loro.» «Una serata storica,» disse Kam. «La mattina dopo, la Commissione ha chiamato Danor, l'ha informata che io e lei eravamo stati osservati di nuovo insieme, e che dovevamo dividerci, per il nostro bene.» «E allora abbiamo detto che ce ne saremmo andati,» fece Danor.
«La Commissione,» disse Kam, «ci ha acccusati, in tono veramente straordinario, di avere l'intenzione di unirci a te in attività pericolose, extra-cupola ed anticittà; e ci ha detto che se ce ne fossimo andati, sarebbe rimasto inteso che volevamo l'esilio permanente. Come te, potevamo aspettarci aiuto e rifornimenti; e come te, saremmo rimasti esiliati fino a che la morte naturale ci avrebbe messi nelle mani delle Commissioni per la DP.» «Dio,» feci. Kam mi guardò. «È un concetto molto antico.» «Lo è anche il concetto degli androidi che agiscono contro gli esseri umani. Ma a me sembra che l'intera Commissione stia letteralmente ribollendo in tutti i suoi cervelli elettronici.» «Infatti,» disse Kam. «E allora, perché siete venuti?» chiesi io, senza fiato (senza fiato, e molto infantile, sotto lo sguardo di quegli occhi affascinanti che avrei dovuto accettare per paterni o fraterni). «Sapendo... quello che sarebbe accaduto.» «Ho detto che potevano andarsene all'inferno,» mi spiegò Kam. «E Danor ha detto più o meno la stessa cosa, con l'aggiunta di alcuni aggettivi Jang molto coloriti. Poiché io la voglio con me, e lei mi vuole, e se l'unico modo per restare insieme consiste nel vivere una vita che, dopotutto, un tempo era perfettamente normale, allora così sarà. Se ci accogli come amici, avrai a tua disposizione un paio di mani volonterose per la tua vegetazione: anzi, due paia di mani. Altrimenti, e ci rendiamo conto che magari non ci vorrai, andremo a cercare di creare qualcosa da qualche altra parte, come hai fatto tu. Il ritmo di crescita delle vegetazioni nel deserto è fenomenale: è un fatto che è stato sempre noto ed accettato, e completamente ignorato da tutti, te eccettuata.» Aveva preso lo slancio. Mi faceva piacere guardarlo. Era meglio prendermi una cotta per il Kam di Danor che per un floop robot. «Ammiro molto il modo in cui hai organizzato tutto,» mi disse lui, e io mi illuminai, dimenticando che mi era venuto in mente per puro caso, per un'idiozia da parte mia. «Mi piacerebbe aiutarti, e anche a Danor piacerebbe. E ti dirò un'altra cosa. Quattro BEE è letteralmente esplosa, la sera che hanno trasmesso il filmato. Qui verranno altri. E parecchi.» 2. Naturalmente, dissi loro di andare. Andate, dissi: chi desidera la compa-
gnia di dolci fanciulle e di simpatici maschi, che mi lodano e mi offrono aiuto per il mio focolare e la mia terra, e mi promettono l'arrivo di altri compagni, e che mi fanno ridere e mi mettono addosso la voglia di abbracciarli? Be', ovviamente, non feci niente di tanto zaradann. Restammo seduti ancora un po' davanti ai bicchieri di alcol bianco, nell'avioplano di Kam. Ci ubriacammo un po', e facemmo progetti da ubriachi. Dissi che dovevano venire a vivere nella nave, almeno per il momento. C'erano cabine in abbondanza, dissi. Di tutti i colori dell'arcobaleno — gialle, scarlatte, albicocca — ma forse avrebbero fatto meglio a scegliere quella viola, si sarebbe intonata di più a Danor. E avrebbero potuto insistere con Quattro BEE per avere un miscelatore d'acqua. Anzi due. Uno per la casa, e uno per creare la vegetazione. La Commissione, se non l'aveva negato all'Esule Assassina, senza dubbio non poteva negarlo a loro. Naturalmente, avrebbero dovuto spostarsi temporaneamente dalla mia zona, nel caso che la Commissione sorvegliasse la loro posizione. (Era stato installato obbligatoriamente un raggio sull'aereo, in modo che loro potessero chiedere aiuto eccetera... oppure era per spiare le loro attività?) Finché eravamo vicini, i Q-R ci avrebbero detto di arrangiarci con i miei miscelatori d'acqua, ma se Danor e Kam si trovavano oltre le montagne, la città doveva accontentarli. Poi, dopo la consegna, i miei ospiti potevano tornare, con i miscelatori, e avremmo avuto tre lotti di «Pioggia» per il Giardino. Sembrava un piano molto logico, e piuttosto astuto. Kam si congratulò nuovamente con me per la mia furbizia. Si fece piuttosto tardi, e all'improvviso le Sorelle fecero udire la solita esplosione, e le finestre, che non erano opache, pulsarono di quel rosseggiare lontano. Le finestre mi avevano colpita, e anche la mancanza di fobia dei due nuovi arrivati. Era l'amore che li sosteneva? Non trasalirono molto, neppure adesso. Comunque, la reazione al comportamento delle Sorelle venne espressa da tutta un'altra direzione. Dall'alto piombò il cigno di Danor. Io avevo dimenticato il cigno, e a quanto sembrava l'avevano dimenticato anche loro. Forse gli avevano dato qualcosa per tenerlo tranquillo durante il viaggio. Ma adesso, sveglissimo, si precipitò verso l'uscita, e fuggì dall'aereo. Appena fuori, proruppe in starnuti da clacson. Probabilmente era allergico al polline. Danor era preoccupata, e Kam rideva tanto che quasi non ce la faceva a muoversi: il mio stato d'animo era una via di mezzo. Sembrava che il cigno fosse un po' un surrogato di figlio per Danor, poiché lei e Kam non avreb-
bero mai potuto diventare fattori, nella città. Rammentando il mio bestiolino, e l'orrenda avventura con il diavolo del distributore viveri, alla fine seguii Danor giù per la rampa, nella notte. Danor chiamò il cigno, nello spazio buio del Giardino mormorante, illuminato a intermittenza dai vulcani. In risposta, dagli angoli più impensati, scintillavano occhi grigi (gli Occhigrigi, ovviamente) o dorati (i serpenti). Intanto, si sentiva vagamente il cigno che strombettava sulla sinistra, e zampettava stolidamente su tutto ciò che cresceva a livello del suolo, a giudicare dal rumore. Ricordai la mia vecchia paura... che i veri animali del deserto potessero aggredire una versione androide, infuriati dalle sue rassomiglianze e dalle sue differenze bizzarre. «Danor,» dissi, «vado a prenderlo io; conosco i sentieri.» E mi lanciai nel sottobosco. Procedevo molto svelta, nonostante l'alcol di Kam, quando il clacson s'interruppe di colpo; ma proprio in quell'istante vidi il cigno. Era lungo disteso a terra, come usano i cigni e, per un secondo, pensai che fosse morto, e quasi mi lasciai sfuggire un urlo di sofferenza primordiale, come era già avvenuto una volta, tanto tempo prima, ed era chiaro come se fosse accaduto ieri. Più chiaro. Il bestiolino morto, ed io... Ma no, il cigno non era morto. Stava sollevando l'elegante testa senza cervello, e strusciava il collo sullo stelo di un alto cactus fiorito... per fortuna, non della varietà spinosa. Poi prese a rotolarsi sul suolo fresco, inumidito dal miscelatore d'acqua. Il suo piumaggio era già sudicio, e c'erano petali appicciccati sul suo becco. Ma appariva inequivocabilmente felice, in preda alle convulsioni di un autentico piacere. Lo raccolsi, me lo misi sotto un braccio, senza difficoltà, e lo riportai a Danor. Un'ora dopo, io e lei eravamo nel bagno, e cercavamo di tenerlo fermo mentre quello sbatacchiava le ali, e tergevamo il nostro futuro dalle sue piume color lavanda. 3. L'avioplano ripartì al mattino. Mentre lo seguivo con lo sguardo, benché sapessi che sarebbero ritornati, provai un brivido. Ma scacciai la paura. Non sarei stata sola. Danor e Kam, ed altri, molti altri, così aveva detto lui. Avevo la testa intronata per l'euforia. Avevano deciso di atterrare appena oltre la più vicina catena, ad est, per
poi chiamare BEE con il raggio del monitor, e chiedere i miscelatori d'acqua. Poi Kam li avrebbe adattati, come avevo fatto io: si trattava semplicemente di riprogrammarli. Allora l'avioplano sarebbe tornato, seguito da uno o due miscelatori d'acqua, che marciavano come bestie terrificanti uscite da un mito, scendendo dalle montagne della valle. Se Kam fosse riuscito, come avevo fatto io, a convincere il computer ad usare una macchina trasferitrice per la consegna, l'intera faccenda poteva essere chiusa quel giorno stesso, al tramonto. Quella sera mi sarei vestita per stare in compagnia. Perciò durante il secondo pasto trascorsi quasi un'ora con la macchina dell'abbigliamento, optando per un raso-di-vetro color ambra affumicata, con frange d'ametista. Molto bello. La macchina dei cosmetici poteva anche acconciarmi i capelli, a riccioli e trecce con perle e tutto il resto. Il cigno era partito con Danor, per fortuna. La notte precedente si era rotolato su alcuni teneri germogli in fiore, che comunque erano sopravvissuti. Io e Yay facemmo il nostro solito giro, seguendo il miscelatore d'acqua. Arrivammo sul lato nord, esaminando i curiosi frutti, che ormai erano pronti per venire colti e sottoposti all'esame dell'attrezzatura viveri, per scoprire se erano commestibili. Naturalmente, potevano essere velenosi, oppure non tossici ma schifosi. Comunque, avevano un bell'aspetto, rossi e gialli succulenti, e certi ciuffi di foglioline verdi, una specie di lattuga delle sabbie, per non parlare dei bizzarri tuberi scuri punteggiati d'oro che crescevano all'ombra. Borss e Jaska andarono alla nave, carichi di bracciate di frutta da sottoporre alle analisi. Ormai il sole era alto e caldissimo, e il cielo aveva l'aspro, cupo turchese del meriggio. Le montagne sembravano ritagliate dalla notte e abbandonate là all'alba, e le bordure di sabbia parevano polvere d'argento. E lì la luce pioveva a sprazzi d'oro verde tra gli alberi più alti. Le piante crescevano formando viali: c'erano radure e aiuole di fiori, come se il Giardino fosse stato progettato, come se qualcuno avesse lasciato i semi già pronti, sepolti nelle dune, ben distribuiti, conservati in aride capsule del tempo fino a quando vi fosse stata acqua sufficiente per spezzare l'incantesimo e ridestarli. Che idea. Era stato davvero così? Qualche antico, geniale, eccentrico antenato delle città, addirittura molto tempo prima che i nomadi percorressero il deserto con la loro violenza? Mentre riflettevo, sporca di terra fino agli occhi dopo aver raccolto i frutti, udii all'improvviso il rombo di un avioplano, e guardai verso il cielo.
Danor e Kam erano già di ritorno? No. Questo arrivava dall'ovest. Arrivava approssimativamente, forse, dalla direzione di Quattro BEE. Era fuori rotta, o forse faceva acrobazie aeree. Sarebbe passato oltre. Era un puntolino nero nell'ardente cielo azzurro-verde, ma poi ingrandì rapidamente, mostrando la parte inferiore, e scendendo a scatti convulsi. Io mi chinai, sebbene non ne avessi motivo, mentre fendeva l'atmosfera sopra gli alberi. Stava per precipitare? E sui miei arbusti di fuocospini? All'ultimo istante, l'aereo si raddrizzò e balzellò in un atterraggio disinvolto nel boschetto degli alberi di porpora, un centinaio di metri verso est. Io stavo appoggiata ad uno degli oggetti metallici che i robot avevano scovato per utilizzarli come zappe. Ed ora, con la zappa in mano, la faccia e i capelli sporchi di terricio, e un'espressione mista di curiosità, di allarme e di ferocia, mi diressi verso l'avioplano. Aveva piegato alcuni rami, notai, infuriata come un fattore il cui figlio si è buscato un pugno sul naso. Non ditemelo... adesso il Giardino è diventato un surrogato di figlio, per me. L'aereo, comunque, appariva intatto: il portello era aperto, e ne usciva un baccano incredibile, un baccano che in effetti non si udiva. Musica per l'Orecchio Superiore. Nastri di musica Jang, ad alta tonalità. Vacillai, inondata da una delizia vertiginosa, e facendo smorfie salii correndo la rampa e feci irruzione a bordo, senza guardare né a destra né a sinistra. Trovai immediatamente il comando del nastro, e con l'esperienza di molti vrek, premetti il pulsante per ottenere silenzio. L'orrore che mi sconvolgeva la mente si dileguò. Scrollandomi come un Occhigrigi rotolato accidentalmente tra i cactus, mi guardai intorno, severamente. «Attlevey,» mormorarono alcune voci, soavi e gioiose. Il minuscolo avioplano, costruito per trasportare due persone, tre al massimo, era carico di cinque Jang. Avevano le chiome di varie sfumature gialle, giacinto, verde veronese, orchidea rosata; le due femmine avevano unghie lunghissime, ma le unghie dei maschi erano più lunghe ancora. Portavano abiti trasparenti, catene, anelli, bracciali ai polsi e alle caviglie. Fumavano incenso attraverso cannucce snodate, aspirandolo da una piccola sfera di vetro fissata al soffitto; avevano gli occhi oscurati dall'estasi, e nelle mani graziose stringevano fiasche piene di Gaiezza. Mi sorrisero, restandosene semisdraiati sui divani o l'uno sull'altro, e le loro facce tempestate di lustrini erano piene di visioni e di misteri, e brillavano di quella radiosità pura che solo l'imbecillità totale può generare.
Oh. Bellissimo. «Attlevey,» ripeterono. Un maschio dalle fluenti chiome verdescuro agitò la mano. «Io sono Naz. Questo è Felainnillaloxiephy.» «Oh, sì,» dissi io. «Sappiamo chi sei tu,» disse lui. «Lo sapete.» «Oh, ooma-kasma, lo sappiamo.» Rabbrividii. Stronzo espansivo. «Be', ooma-kasma,» dissi, «credo proprio che in effetti non lo sappiate, altrimenti non sareste qui.» Una rabbia fredda, sfumata di panico cieco, s'era insinuata nelle mie ossa rinforzate. «Ditemi una cosa: avete informato la Commissione che venivate qui?» «Ooma-kasma,» fece Naz, con voce strascicata, gettandosi in gola un'altra pillola, «siamo andati al Palazzo della Commissione, e poi, oh, infinito, abbiamo detto quello che ci sentivamo. State a sentire, voi thalldrap,» continuò Naz, per darmi una dimostrazione, «potete saltare tutti quanti nella sfera a vuoto. Noi andiamo dove tutto è vero. Potete scommetterci.» «Dunque sanno che siete qui. Che cos'hanno detto?» «Hanno detto: Se andate non potrete più tornare... oh... se andate non potrete più tornare... oh..» Naz si accorse di essersi lanciato in una cantilena involontaria; ma evidentemente gli piaceva, perciò continuò. Gli altri quattro, Felainnillaloxiephy gli fecero coro. Ed eccoli lì, un branchetto di inutili idioti Jang, completamente irretiti dalle consuetudini e dalle tradizioni dei Jang, intenti a molestare il mio deserto. Si rendevano veramente conto di ciò che avevano fatto? Capivano di essere stati esiliati? «Davvero. Ci puoi scommettere.» «Avete qualche legame con la città?» «Quattro BEE? Oh, già, già, ooma, ooma mia. Hanno installato un raggio monitor, nel caso che abbiamo bisogno di rifornimenti di estasi o d'incenso.» Naz interruppe la cantilena per tranquillizzarmi. «Ehi, ooma, vuoi una pillola?» «No. Attiva il raggio e di' al computer che non facevate sul serio. Che volete tornare.» Naz s'interruppe di nuovo. Qualcosa delle mie parole era arrivato a segno. «Ma noi facciamo sul serio, ooma-kasma. E non vogliamo ritornare.» «Sì che lo volete. Avete ancora guardato fuori?» I loro finestrini erano
opachi quanto i loro cervelli. Forse sarebbero stati colti dall'agorafobia e avrebbero vomitato in tutto il boschetto, ma almeno dopo se ne sarebbero andati. Come poteva, la Commissione, rifiutare di riammetterli? Dopotutto, a me sembravano cittadini modello. Ispirati dal mio suggerimento, si misero in moto, agili e luminosi, e per poco non mi travolsero sotto i piedi luccicanti per precipitarsi all'aperto. Fu peggio, molto peggio di quanto avessi immaginato. Neppure l'ombra dell'insicurezza o della paura. Stavano vagando da un albero all'altro, da un fiore all'altro. «Oh, ooma-kasma,» si dicevano l'un l'altro, «ma guarda questo, e questo. Infinito, è tutto così groshing.» E calpestavano le gemme e coglievano fiori appena sbocciati per infilarseli in quelle chiome abissali. Forse gli Occhigrigi li avrebbero divorati. Forse i serpenti li avrebbero strangolati. Forse le analisi alimentari avrebbero dimostrato che i frutti erano velenosi, e io li avrei dati da mangiare ai Jang. «Computer? Purtroppo ho qui cinque Jang suicidi, pronti per la DP.» E quelli si avviavano vacillando e barcollando in direzione della nave delle sabbie, tenendosi per mano e strappando le foglie per poterle ammirare meglio. «Ooma-kasma-maa!» mi gridarono, melodiosamente. «Arrivo,» risposi io, torva. 4. Si innamorarono della nave. Non ne avevano mai vista una. Si precipitavano nelle cabine e ne uscivano. Spalancarono le porte della piscina e vi si tuffarono e ne uscirono sgocciolanti. Le due femmine — Felainnilla — si impadronirono di Yay e cercarono di smontarlo tra gridolini di gioia, memori di passati sabotaggi alla cupola della città. Quando riuscii a farle smettere, scoprii che gli altri due maschi — Loxiephy — avevano programmato una macchina perché producesse una vernice luminosa color malva, e se ne servivano per dipingere su tutte le pareti dei OOMA, oppure CACTUS, VIENI A DIVORARE LA MIA ANIMA. Non fu troppo difficile dirottarli: erano completamente sconvolti fino agli angoletti più remoti delle loro menti piccine. Finalmente piombarono al gran completo nel salone, e io diedi l'avvio alle operazioni di pulizia. Diedi un'occhiata all'analisi alimentare, speran-
zosa, ma l'esame dei veleni non era completo e, del resto, prometteva di risultare negativo. Forse avrei potuto aggiungere qualche veleno sintetico al loro quinto pasto. Infatti, avevano ordinato a Borss il quinto pasto, ed erano stati serviti. Mentre mangiavano d'ottimo appetito, continuavano a ciarlare e a ripetere che era meravigliosa, la vita rude del deserto, così pulito, così poco affollato, così genuino, ooma-kasma. Poi un maschio dai lunghi capelli color giacinto (Loxi) e la femmina dai riccioli color ananas (Felain) se ne andarono a stonare orrendamente con le tinte della cabina scarlatta che avevano scelta. Sapevo che si erano scrupolosamente sposati prima di lasciare BEE. Incapaci di resistere alla tentazione di far l'amore in quell'ambiente bucolico, la rosa-polvere Nilla e Phy, una tetra, macabra creatura di cobalto con gioielli in tinta, si precipitarono nella cabina gialla. Naz restò sdraiato tra i resti delle bistecche-di-noce-su-fuoco e sorrise con aria laconica. «Be', ooma-kasma, so che tu non ritieni necessario il matrimonio, quindi cosa ne dici?» Io avevo ancora in mano la zappa d'acciaio e gliela mostrai. «Sono stata maschio abbastanza spesso per sapere dove debbo mirare perché faccia più male,» dissi. «Finché non riuscirò a sbarazzarmi di voi, e mi rendo conto che dovrò sopportarvi, ma non approfittatene troppo.» Non ero disperata fino a quel punto. «Ooma, ooma,» intonò accattivante Naz, come se avessi ferito il suo id. «Come mi deludi. Tu, la stella splendente dei Jang di Quattro BEE, e in un corpo così bello.» «Stai bene a sentire,» dissi io, «so che abbiamo i denti rinforzati, ma se non la smetti, farò del mio meglio per cercare di farti inghiottire i tuoi.» Attivai il raggio del monitor, ma il computer ci mise parecchio a rispondere. «C'è stato un errore,» l'informai. «Cinque Jang sono arrivati qui senza averne l'intenzione... l'avioplano funzionava male. Puoi mandare qualcuno a riprenderli? Non credo che da soli ce la farebbero.» Il computer sferragliò, poi: «Dopo aver preso contatto con te, debbono essere considerati in esilio.» La voce registrata, metallica, sembrava piuttosto alterata, anche meno abbordabile del solito. «Dio!» gli gridai, per vedere cosa sarebbe accaduto. «Dio è un'invenzione primitiva e insostenibile,» mi rispose prontamente.
Qualcuno l'aveva riprogrammato. Non era più un avversario affascinato, era un nemico gelido che non avrebbe accettato di stare al gioco. A partire da quel momento, in ogni senso la sua risposta sarebbe stata «no». «Sta bene,» dissi io, «sei ingiusto e stupido, ma non mi aspettavo di meglio. Vai a farti friggere con i tuoi accumulatori.» Non fremette neppure. E allora? Eccomi lì, con cinque esseri spaventosi che avrebbero rovinato il mio sogno con la loro mancanza di personalità. Oppure anche loro erano esiliati. E se li avessi uccisi (assassina, perché sei stata scacciata dalla tua casa e dalla cupola?), sarebbero finiti nella DP. E magari, anche loro erano affezionati a quei loro piccoli, sterili ego. Se almeno ci fosse stato lì Kam. Kam e Danor. Ma non c'erano, e sarebbero tornati non prima del tramonto, e non avevo possibilità di comunicare con loro. Dovevo arrangiarmi da sola. C'era una vaga possibilità. Tornai nel salone, dove Naz giaceva sdraiato a mezz'aria su un materasso fluttuante che si era fatto gonfiare da uno dei robot. «Hai cambiato idea, ooma-kasma?» «Naz,» dissi io, «penso che dovremo parlare. Mi rendo conto che sei la colonna portante del tuo circolo. Gli altri si affidano a te, non è vero? Sei stato tu a decidere di lasciare la città?» Avevo centrato in pieno il bersaglio. Sorrise, indulgente. L'estasi presumibilmente si era un po' dissipata, poiché aveva sentito parte di ciò che avevo detto. «Lo hai capito, ooma-kasma, lo hai capito. Bene, quelli hanno bisogno di qualcuno. Io sono più forte... lo pensi davvero? E poi Phy... è l'altro prevalentemente maschio. Loxi è sempre sulle lune. Nilla è una femmina e nient'altro. Ultrafemmina, sai? Tutta pruriti. Felain, è prevalentemente confusa. Si è suicidata tutti i giorni per un intero vrek, si è ridotta al punto che persino i Q-R pensavano che l'avesse fatto per sbaglio. Allora l'hanno messa in frigorifero per trenta unit. Adesso lei vuole soltanto andare con Nilla, ma Nilla non vuol essere maschio, e Felain non vuole essere maschio neanche lei, ed è uno spettacolo veramente floop, ooma.» Mi sedetti. Mentre raccontava tutto, sul suo volto era trapelato un minuscolo barlume di compassione intelligente e turbata. «Mi sembra una brutta faccenda,» dissi io. «Oh, si,» fece lui. «Ti ho detto che Loxi si è lasciato morire di fame, e BAA? Ci ha messo novanta unit. E a Phy prendono le crisi di malinconia,
al buio. Di notte piange.» «Sarà interessante,» dissi io. Ma il cuore mi straziava con i suoi artigli. «In quanto a me,» disse Naz, «non ho problemi. La vita è una nuvola grigiorosa da un'alba grakata all'altra.» E prima che potessi fermarlo, si era cacciato in gola altre manciate d'estasi; poco dopo, cominciò a fluttuare in tutte le direzioni, cantando: «Oh, è magnifico, ooma-kasma. Il soffitto è pieno di minuscoli lampadari... uno, due, tre, uno, due, tre...» Da quel momento, ogni tentativo di comunicare con lui fu un esercizio vano. Era stato solo perché l'avevo sorpreso nella fase declinante dell'estasi che ero riuscita ad ottenere quella strana ripercussione, con la mia domanda volutamente astuta. Ma capivo benissimo che l'intero circolo era scombinato: non erano cittadini modello, solo tipi normali, allegria e delizia sulla pelle, e nevrastenia nelle giunture. Ancora istinti da fattore? Cinque surrogati di figli? Nel corridoio, fuori dalle cabine, grida. Oltre la porta gialla chiusa, una voce maschile, gemente, supplichevole: «Nilla, Nilla, fallo ancora.» Accanto alla porta gialla, chiusa, Felain dai riccioli color ananas che stringeva i pugni e strillava, e Loxi che diceva: «Oh, uhm, senti, ooma, ti prego...» Ora che l'effetto dell'estasi si attenuava, trasparivano i loro veri tratti umani, le debolezze, i nervosismi, l'infelicità. Felain era un fuoco elettrico malamente isolato, Loxi, compagno tutt'altro che ideale, era una pozzanghera tepida, che non poteva spegnere quel fuoco. Ritornai nel temporale che avevo perduto con Naz. «Voi due,» gridai, rabbiosa, «se volete vivere sulla mia terra e nella mia nave, dovete abituarvi a prendere ordini da me.» «Squagliati,» disse Felain, e perciò l'afferrai con una mano, facendola girare su se stessa, e le schiaffeggiai il musino delicato. Non mi piace picchiare gli altri: potrebbero reagire. E poi, non volevo rovinare l'aspetto che ormai sarebbe stata costretta a tenersi, e l'unguento era tutto quel che c'era fino a quando fosse arrivato un robot di soccorso per risistemarle il naso. Sulla guancia di rosa damascena apparve un segno rosso; e quando mi accorsi che lei non avrebbe reagito, mi sentii piena di vergogna fino alle ossa. Ma ormai era tardi, e poi non era niente di grave: il rossore sarebbe sbiadito entro mezz'ora. «Adesso state bene a sentire, e cacciatevelo in mente. Siete usciti in
branco dall'avioplano, avete calpestato gli arbusti, strappato foglie e fiori. Quindi adesso verrete con me a lavorare un po' per rimediare ai danni. Tu, Loxi, senza le catene e i campanelli, e tu, Felain, con addosso qualcosa che i rovi non ti strappino in tre split.» Felain abbassò le ciglia e mi lanciò un'occhiata inequivocabile, e per un momento quasi ebbi l'impressione di essere ritornata nel mio corpo di poeta. «Sì, ooma,» fece lei, graziosamente. «Bene. Provvedete a vestirvi e uscite,» aggiunsi, in tono burbero, risentita per la confusione che stava creando nei miei ormoni. Loxi si precipitò ad obbedire, e Felain si avviò ancheggiando, provocante. Dentro la cabina, grida e gemiti raggiunsero un crescendo e poi si affievolirono. «Voi due,» dissi attraverso la porta, «trovatevi sulla veranda fra dodici split, vestiti per lavorare sodo.» «Stai scherzando,» borbottò Phy. «Ho già lavorato abbastanza.» Ma nella sua voce c'era il gemito del vigliacco. Nilla, il gingillo rosapolvere, che ovviamente dominava tanto Phy quanto Felain, chiamò dolcemente: «Dodici split sono troppo pochi, ooma-kasma. Vieni dentro e ti mostrerò perché.» Perciò aprii la porta ed entrai, per dimostrare che non mi lasciavo intimidire. E fu anche molto istruttivo, per una con i miei gusti relativamente pudichi. «Molto artistico,» commentai, «ma potete fare egualmente in tempo. Altrimenti i miei robot, che ho programmato perché prendano ordini solo da me, verranno qui e vi porteranno fuori come siete, accessorii e tutto.» In effetti non avevo riprogrammato i robot e, quando uscii con aria maestosa, mi precipitai a provvedere. Aggiunsi anche un ordine ad esclusione, nel caso che qualcuno cercasse di bloccare il mio blocco. Yay, Borss e Jaska subirono con pazienza, ticchettando sommessamente. Dopo venticinque split, Felainnillaloxiephy stavano sotto il portico, incerti e ridacchianti, mentre Naz, per la troppa estasi, aveva perso conoscenza nel salone. Dovevo insegnare loro a curare il giardino, poiché non sapevo che altro fare. Almeno scattavano, quando parlavo. Persino Nilla si mostrava cauta. Felain mi arpeggiava intorno, ma io mi ero calmata. Non ero più il poe-
ta. Affrontavo la realtà, da femmina, ed era Hergal che volevo: adesso ammettevo la realtà che mi rodeva. Non importava. Avrei avuto la meglio con quel branchetto, almeno per un po'. E fra due ore circa il sole sarebbe tramontato, e i miei amici sarebbero tornati, per salvarmi dal collasso completo. 5. Il sole scese come una gemma dietro l'orizzonte, a occidente. Là le montagne parevano sprofondare tra le sabbie, lasciando aperto il varco verso le città, da cui ero arrivata io, semipazza, fuggendo. L'orizzonte formato da alte dune saliva sulle rocce basse, formando dune più elevate, dopo la tempesta di sabbia: forse dopo la prossima, sarebbero rimaste solo le rocce nude. Poi il residuo bagliore color ambra, nel cielo. I Jang erano sparsi sulla veranda, e si lagnavano di avere le ossa slogate, i muscoli disfatti, la pelle bruciata dal sole. Per fortuna le loro carnagioni (nessuno si era progettato un corpo veramente adatto al deserto) non avevano reagito troppo male. Nilla, che era la meno scottata di tutti, miagolava di esserlo più degli altri. Felain la cospargeva d'unguento con aria sognante. Avevano lavorato duramente. Troppo duramente, per loro, più di quanto ne avessero avuto intenzione. Soltanto Nilla aveva colto ancora i fiori. L'avevo vista. Proprio come una bambina dell'ipnoscuola che ruba qualcosa sotto il naso di un Q-R. Nilla poteva costituire un problema. Ero quasi sicura che sostenesse di essere prevalentemente femmina solo per sconvolgere tutto il circolo, soprattutto l'infelice Felain. Comunque, adesso dovevano tenersi una Nilla femmina, tutti quanti... inclusa la stessa Nilla. Persino Naz si era trascinato sulla veranda. Giaceva sul morbido divano, e canticchiava. Avevo dovuto avvertirli di non guardare il sole. E adesso il sole era tramontato. Ero stata così sicura che Danor e Kam sarebbero tornati a quell'ora che per parecchi split ero rimasta in ascolto, guardandomi intorno, in attesa del loro avioplano. Una volta mi parve di udirlo, ma mi sbagliavo, contavo sul loro aiuto per tenere a freno quell'orda: avevo l'impressione che quelli non fossero Jang da molto tempo. Danor aveva all'incirca la mia età, e Kam, naturalmente, era più vecchio.
Ma l'avioplano non era arrivato. E non arrivò. Il cielo si svuotò, divenne di un indaco pallidissimo. Le stelle cominciarono ad accendersi. I Jang, dimenticando di lamentarsi, ammiravano in silenzio quei fenomeni, senza prendere pillole d'estasi e senza gridare «Ecco, ecco, ooma-kasma» o cose simili. Persino Naz si riempiva di quello spettacolo gli occhi ombreggiati dalle droghe. «Non c'è la luna,» si lagnò Nilla. «E allora vai e fattene una,» le disse Phy. Lui non piangeva di malinconia: se mai l'aveva fatto. Poi fu l'ora di un pasto, e loro andarono a mangiare, un po' intontiti, da bravi bambini. Avevo detto loro, cercando di intimidirli, che più tardi sarebbero arrivati Danor e Kam, ma se ne erano dimenticati. Io rimasi fuori, a guardare, ad attendere. Il cielo si oscurò. A circa un chilometro e mezzo di distanza vi fu il serico fruscio della sabbia che si assestava, il suono del suo ruscellare negli spazi silenziosi. Quella giornata mi aveva sfinita. Mi svegliarono le Sorelle, puntuali come sempre. Svegliarono anche i Jang, che erano crollati in coma, esausti, nel salone. Uscirono a balzi per vedere i fuochi d'artificio vulcanici, per metà spaventati, per metà pieni d'ammirazione. «I tuoi amici sono in ritardo,» disse Naz. «Hai un po' d'estasi? Io ho preso tutta quella che avevo, e le macchine non vogliono darmene: dicono che hai programmato i robot in modo che le programmassero così.» «Infatti,» dissi io. «Puoi rinunciare all'estasi: altrimenti domani non sarai in grado di lavorare.» Imprecando torpidamente contro di me, Naz se ne andò barcollando. Niente Danor, niente Kam. Mi sentivo le viscere diacce. Irrazionale. Qualcosa poteva averli trattenuti. Molto probabilmente, qualche difficoltà con il computer del monitor, regolato in quel modo nuovo. Eppure, eppure. «Oh-weeh!» strillò Nilla alle Sorelle, più o meno nel mio orecchio. Mi alzai. Dovevo controllare con quel maledetto computer, anche a costo di rivelare il trucco dei miscelatori d'acqua. «Voglio notizie di certi miei compagni d'esilio,» dissi. «Danor, corpo femminile, di BEE; Kam, maschio Anziano, di BAA. Sono scesi oltre le montagne, non lontano da me, verso est. Non so esattamente dove. Si sono messi in contatto con te con il loro raggio monitor?»
Uno sferragliare. (Anche lo sferragliare sembrava più efficiente, più risoluto.) «Sì.» «Quando?» Click. «Mezzogiorno, orario del deserto.» «Mezzogiorno?» «Mezzogiorno.» Evidentemente, non sarei riuscita ad ottenere niente gratis, e quindi arrischiai. «Cosa volevano?» «Due miscelatori d'acqua.» «Oh... ah... che strano!» Io, falsamente stupita. «La richiesta non è stata accolta,» disse il computer. «Al loro avioplano sono state date le tue coordinate, ed è stato detto loro di raggiungerti e di utilizzare il tuo miscelatore d'acqua.» «Hanno discusso?» «Approssimativamente per un'ora.» Bravo Kam. Potevo immaginarlo. «Ma non è servito a nulla, vero?» «No,» disse il computer, senza neppure uno scatto metallico di soddisfazione. L'oscurità fredda e pesante si addensava intorno a me, e non solo a causa della notte scesa oltre le finestre. «Dunque, se sono diretti qui, potrei aspettarli abbastanza presto.» Click, click. Nessuna risposta. «Sì o no? Oppure dovevano arrivare prima? Circa sette ore fa, anzi.» «A meno che abbiano deciso di attenersi ai suggerimenti della Commissione e di ordinare la costruzione di una casa dove si trovano attualmente, senza far crescere nulla.» «Non cercare d'imbrogliarmi. Tu ed io sappiamo benissimo che era un trucco per procurarci un miscelatore d'acqua da usare qui, nella valle. E sai che ormai dovrebbero essere ritornati. Si sono più messi in collegamento con te?» «No.» Rattle, rattle. «Forse si sono resi conto dell'enormità di ciò che hanno fatto, e hanno optato per il suicidio e la Dissoluzione della Personalità.» Un'ondata mi travolse. Interruppi il collegamento e restai lì, trattenendo
il respiro per la tensione. Suicidarsi? Loro due? No di certo. Quindi, cos'era accaduto? Ci fu un rumore sulla veranda, grida, tonfi eccitati. I Jang avevano evidentemente avvistato qualcosa. Poteva essere l'avioplano. Corsi alla veranda, e mi trovai in mezzo a un vortice plaudente di Felainnillaloxiephy. Qualcosa era sopraggiunto dalle montagne orientali ed era piombato tra la vegetazione a circa tre metri dal portico. «Oh, guarda, un uccello del deserto,» strillavano tutti quanti. «Fuori dai piedi, floop, è un androide, e lo conosco.» Era il cigno di Danor. Mi inginocchiai accanto al cigno che, esausto ma apparentemente intero, si stava riprendendo in mezzo all'erba. «Oh, Dio, cigno, cos'è successo?» E il cigno gorgheggiò: «Tu sei il sole meraviglioso del mio cielo!» Quegli idioti di Jang andarono in estasi. Ma io no. Era il canto d'allarme, l'invocazione d'aiuto. Quando videro la mia faccia, i Jang smisero di far chiasso. «Naz,» dissi io, vedendolo lungo disteso sul divano. «Sicuro, sono sveglio,» disse Naz. «Hai intenzione di darmi un po' d'estasi, ooma, mia ooma, oppure il tuo bel corpo abbronzato?» «Naz,» dissi io, «credo che tu abbia vissuto più a lungo degli altri membri del tuo circolo, e credo che sotto quella tua pelle torpida ci sia una scintilla d'intelligenza. Tu ed i tuoi amici mi siete piombati addosso, e io debbo sopportare voi, e voi dovete sopportare me. Oltre quelle montagne laggiù, quelle basse, ci sono due miei amici nei guai. Non so di che si tratti, ma deve essere qualcosa di serio. E probabilmente il loro raggio monitor non funziona, quindi non possono chiedere soccorso alla città, e possono sperare solo nel mio aiuto. Adesso ascoltami bene. Prendo Yay, il robot, e il vostro avioplano, e vado ad est a cercare i miei amici. Durante la mia assenza, Naz, sarai responsabile del tuo circolo. E se, quando torno, scopro che avete rovinato la mia nave o il mio giardino, ti farò a pezzi e ti seppellirò nella sabbia. È chiaro?» «Non è chiaro come ci riuscirai,» fece Naz, con voce strascicata. «Non credo che tu abbia il diritto di prendere il nostro avioplano,» disse Nilla. «Il diritto!» urlai. «Quando voi credete di avere diritti sulla mia casa e sulla mia terra e fate a pezzi le mie piante! Mentre io perdo tempo qui con voi, due persone, là fuori, possono essere in agonia, o morte senza il bene-
ficio del Limbo.» Questo li calmò. Nilla abbassò lo sguardo. Naz disse: «Allora vai. Ci penserò io. Potrei avere un po' d'estasi, prima che tu parta?» Ma io stavo già correndo, con Yay, che sferragliava alle mie calcagna, verso l'avioplano nel boschetto degli alberi di porpora, e quindi, senza dubbio, Naz non poté udire la mia risposta oscena. Yay perse un'eternità ai comandi, prima di decollare. Gli avevo detto di controllarli, ricordando il modo pazzesco con cui erano atterrati i Jang, e naturalmente c'era qualcosa che non andava, e bisognava rimediare prima di prendere il volo. Alla fine ci innalzammo in un cielo di marmo nero, venato da nuvole lievi. Non sapevo esattamente dove si fosse diretto Kam... da qualunque parte, oltre la catena montuosa, in modo che tra loro e me vi fossero solo pochi chilometri di rocce. So che già allora stavo pensando che fossero precipitati, e mi sembrava così illogico che un avioplano funzionasse male, e le parole del computer continuavano a ritornarmi alla mente. Forse il deserto li aveva assaliti all'improvviso, immenso e terribile, con una fobia ritardata, togliendo loro il coraggio, il buon senso, persino l'amore. Forse il suicidio, o il panico, aveva spinto l'aereo azzurro di Kam a tuffarsi verso l'oblio. Ma no, non potevo crederlo. Non volevo. C'erano ancora quattro ore abbondanti di oscurità, mentre noi cercavamo lungo la catena orientale, frugando con i fari ventrali dell'avioplano. Passammo due volte sopra la Coppa, e oltre l'orlo scorsi un immenso cratere vulcanico spento: era davvero una coppa, anche all'interno, e un tempo quella conca era stata traboccante di fuoco. Verso l'alba atterrammo per ricaricare le batterie a frizione, che crepitavano convulsamente; e poi, dopo mezz'ora, ripartimmo. I primi, pallidi preannunci dell'imminente arrivo del sole, nel cielo, laggiù. Con la luce del giorno, sarebbe stato più facile individuare... qualunque cosa che non appartenesse al deserto. Vidi il relitto un'ora dopo l'aurora. Giaceva accanto a un ripiano sabbioso, ed esalava fumo impolverato.
L'ombra e la notte l'avevano nascosto, perché avevamo già sorvolato quella zona. A giudicare dalla posizione, dovevano essere in viaggio per ritornare alla nave delle sabbie, quand'era accaduto, mentre arrivavano dalle dune, oltre i pendii delle montagne orientali. Chiusi gli occhi ed i sensi, quando vidi il relitto. Non provavo angoscia, né nausea, né rabbia: solo un vuoto immenso. Ma dissi a Yay di fare atterrare il nostro avioplano. Dovevo accertarmi che fossero morti, e poi tornare alla nave e mettermi in contatto con il Limbo. La morte dell'Ego era sempre meglio della morte assoluta, o almeno così credevamo tutti. Danor e Kam non sarebbero più stati Danor e Kam, ma tra molti rorl sarebbero ritornati vivi dalla DP. Non mi allettava l'idea di ciò che avrei trovato pezzi straziati di corpi umani, sangue... L'aereo compì un atterraggio perfetto sulle rocce. Aprii il portello e uscii. Poi udii il nuovo rumore, la pulsazione di motori nel cielo che avevo appena abbandonato. Alzai gli occhi. Un minuscolo punto nero che volava in cerchio, verso ovest. Limbo... persino da quella distanza sapeva di Limbo. I robot che accorrevano per salvare le scintille vitali di Danor e Kam. Sì, si stava avvicinando. Adesso potevo vedere che era un apparecchio del Limbo. Volava in cerchio, sempre più vicino, per controllare con i suoi raggi la presenza della vita o della morte, quaggiù: volava in cerchio, ma senza atterrare. Non atterrava. Quindi... Guardai oltre il relitto, là dove la roccia saliva in un'arcata cava, nascondendo una sorta di grotta dalla vista del cielo. E vidi Danor, ritta, che mi guardava, e Kam a meno di un metro da lei. Mi misi a correre, e loro corsero, ansimando nell'aria rarefatta. Più o meno, ci scontrammo. Ci aggrappammo l'uno agli altri, sulla roccia, mormorando frasi prive di senso, e lassù, lo scuro messaggero della città si allontanò ronzando. «Hanno soltanto della Gaiezza, sul loro stupido avioplano da Jang,» dissi io, «ma se non vi dispiace un po' d'estasi, non è male.» «Dopo ieri,» disse Kam, «l'estasi sarebbe un cambiamento piacevole.» Quindi bevemmo Gaiezza e mangiammo pane degli angeli tostato, che era l'unica cosa concessa dal pulsante del distributore dei primi pasti (molto tipico). E poi seppi come erano andate le cose. Il racconto di Kam e di Danor.
Mi piacerebbe scriverlo alla vecchia maniera, con inchiostro e penna, e incorniciarlo d'oro, e appenderlo nel salone della nave, affinché tutti possano vederlo. Dopo aver chiesto a Quattro BEE il miscelatore d'acqua, e dopo aver discusso invano, avevano regolato i comandi per ritornare alla mia nave ed erano partiti. Dopo un po', dal quadro era uscito una specie di schiocco. Kam aveva controllato, e ordinato al quadro di controllarsi. Il quadro aveva risposto che aveva funzionato male, ed era troppo tardi per riassestarsi, perché qualcosa si era rotto da qualche parte ed aveva versato l'olio nelle batterie. Dopo circa due split, le batterie si erano spente. Danor disse che era rimasta lì, esangue e inutile, in attesa di prenderlo per mano e di dirgli addio. Ma Kam aveva sventrato il letto fluttuante, e si erano buttati fuori sull'imbottitura. Era stata un'idea geniale e rischiosa, ma era stata anche l'unica possibilità. Avevano avuto fortuna, e il gas galleggiante dell'imbottitura li aveva sorretti, e se l'erano cavata con poche scalfitture, cadendo sulle rocce una quindicina di metri sotto il punto in cui s'era sfasciato l'aereo, poi erano risaliti lentamente... un'impresa non facile, senza le compresse d'ossigeno. Il raggio del monitor s'era guastato, ma loro avevano pensato che la cosa sarebbe risultata a Quattro BEE, e un aereo di soccorso sarebbe arrivato a vedere in che situazione si trovavano, a curare le loro ferite, e probabilmente a scaricarli di nuovo nella mia valle. Verso il tramonto avevano udito il rombo dei motori; erano usciti dalla grotta dove si erano rifugiati per sottrarsi al sole, ed avevano agitato le braccia e pezzi di stoffa. L'aereo si era fatto più vicino. Ben presto avevano potuto vedere che era un apparecchio del Limbo. Sicuramente, l'aereo li aveva visti. Nell'adderisarsi dell'oscurità avevano visto il lampo dei suoi raggi che gli segnalavano. Ma non era atterrato. Aveva continuato a volare in cerchio per circa dieci split, e poi se ne era andato. Fa freddo, la notte, nel deserto, soprattutto tra le montagne; le stelle percutono la roccia e fanno scaturire il gelo. Kam aveva frugato il relitto, ed era riuscito a strappare un po' di tepore da un paio di batterie quasi esaurite. Era stato sufficiente per far superare loro la notte, senza margini. Poco prima dell'alba, l'aereo del Limbo era ritornato. Era stato un miracolo che io non fossi andata a sbattergli contro, ma dovevamo esserci sfiorati nell'oscurità, e il rombo dei miei motori mi aveva nascosto il suo. Li aveva sorvolati un'altra volta e poi se ne era andato. E loro avevano com-
preso. Un tempo nel deserto viveva un uccello, ma credo che ormai sia estinto. Si nutriva di carogne e, quando scorgeva dall'alto un animale morente, lo sorvolava volteggiando in cerchio, fino a quando si spegneva l'ultima scintilla di vita. Allora scendeva e divorava il cadavere. L'aereo del Limbo aveva fatto altrettanto. Aveva atteso che Kam e Danor morissero. Avevano un'ampia scelta di possibili morti, quelle naturali, per il troppo sole o per il freddo, per fame, per disidratazione o per deficienza d'ossigeno. Oppure potevano buttarsi dall'alto delle rocce, o trovare un pezzo di metallo tra i rottami e tagliarsi le vene. Appena morti, l'aereo del Limbo sarebbe sceso a raccoglierli ed a portarli in città, alla DP. Immagino che con me, la prima esule, colei che la stessa Commissione aveva scacciato, si sentissero in obbligo di rispettare le regole. Ma per gli esuli volontari, ovviamente la soluzione migliore era la DP, e prima ci arrivavano e meglio era. Perciò la Commissione era così gentile da aiutarli a prendere la decisione. Era orribile. Era la paura vera, senza maschera. Era ancora possibile che quei Q-R tanto pietosi, programmati tanto tempo fa per servire l'umanità, si illudessero di agire nell'interesse degli umani, proteggendoci da noi stessi? Oppure l'antica ingiustizia si era finalmente riaffermata, l'ingiustizia che dodici vrek prima si era rivelata al mio istinto? Persino nelle vasche, non si può generare un umano senza le necessarie cellule di altri due umani; tuttavia, se queste cellule ci sono, il bimbo diviene vivo e cresce. Ma un Q-R, generato da metalli e carne — uomo all'esterno, e dentro macchine — nasce da un progetto nella grande fattoria di BAA, e viene portato in vita dall'energia di una carica elettronica. Non hanno una vera scintilla di vita, un'«anima», come la chiamavano gli antichi. Possibile che avessero finito per risentirsi di quella carenza? O forse il modello non andava più bene? Quando si erano lanciati, Kam aveva preso il cigno, ma il fluttuante non poteva sopportare anche il peso dell'animale androide che scalciava, e allora Kam lo aveva spinto lontano, sperando si ricordasse di avere già volato... una delle poche cose che sapeva fare. E dopo essere precipitato come un sasso per circa un metro, il cigno aveva aperto le ali e si era salvato da solo, con molta efficienza. Quando erano arrivati al suolo, aveva cominciato ad aggirarsi insoddisfatto, evidentemente convinto che Danor avesse organizzato apposta l'incidente per qualche motivo incomprensibile. Alla fine era sparito, e non erano riusciti a trovarlo. Date le circostanze, di fronte
al rischio della fine, avevano pensato che forse era un bene, se il cigno li aveva abbandonati. Forse si era diretto nel deserto, forse sarebbe tornato addirittura alla valle. Anche loro avevano preso in esame quella eventualità: ma senza abiti adatti, senza ossigeno e senz'acqua, non sarebbero sopravvissuti un'ora, su quei pendii pericolosi. Danor era estasiata per l'intelligenza che il cigno aveva dimostrato precipitandosi da me. Accennai solo brevemente ai Jang. Sarebbe già stato un guaio trovarceli fra i piedi al ritorno, e i problemi non ci mancavano. La pompa ad ossigeno dell'avioplano Jang stava facendo miracoli per Kam e Danor; e sorprendentemente, ne facevano anche la Gaiezza e il pane degli angeli. Erano tutti e due abbronzatissimi, quasi neri, naturalmente; ma sembravano in buone condizioni. Solo i loro occhi conservavano la cupezza, la certezza del destino che il Comitato aveva cercato di imporre loro. A parte i fatti nudi e crudi, non ne avevamo parlato molto. Alla fine diedi un ordine a Yay e l'avioplano, di nuovo sovraccarico, s'innalzò nel cielo e si diresse verso casa. Era una mattinata splendida. 6. Nel momento stesso in cui arrivammo in vista della valle, capii che c'era guai. Non sapevo perché, a meno che fosse la densa colonna di fumo nero che saliva snodandosi nell'etere. Il mio primo pensiero fu che i Jang avessero raso al suolo la mia nave delle sabbie e metà del Giardino. Ma poi mi accorsi che il fumo saliva da un punto poco oltre il perimetro occidentale del Giardino, e che le mie colture e la mia casa erano intatte. Atterrammo nel boschetto d'alberi di porpora: perché no? L'erba era già stata schiacciata dal primo arrivo e Yay, più prudente dei Jang, non danneggiò ulteriormente i rami. Scesi per prima, e me li trovai subito addosso... Nillaloxiephy. «Ooma, ooma,» gridarono. «Altri tre, altri tre esuli!» «Derisann,» feci io. Non si erano presi il disturbo di chiedermi se avevo trovato i miei amici, vivi o morti. Nilla aggiunse: «Quella specie di cigno mi ha beccato.» Non c'è mai una nube che non abbia un riflesso d'argento. Naz arrivò, tranquillo. Si appoggiò pigramente a un albero.
«È successo di tutto,» disse. «Hai visto il fumo? Il loro aereo è sfuggito al controllo, ma sono usciti prima che scoppiasse. E pensa, ooma-kasma, sono Anziani. Hai ritrovato il tuo circolo, oltre le montagne?» «Sì, grazie. Ma Kam e Danor non sono il mio circolo. I circoli non esistono più, dal momento in cui si lascia la città. Dove sono i tre nuovi arrivati?» Erano sulla veranda, e sorseggiavano Gaiezza, per niente preoccupati. Un maschio, due femmine. Avevano tutti le chiome color granata, bei corpi sani e abbronzati e grandi sorrisi. Ebbi il tempo di notare Felain seduta accanto ad una delle donne, affascinata e affascinante, con il cigno tranquillamente addormentato sulle ginocchia, quando il maschio balzò in piedi, avanzò verso di me e mi strinse in una sorta di abbraccio appassionatamente platonico. «Mia cara!» esclamò. «Siamo sbalorditi dai tuoi trionfi. Stiamo ripetendo da due rorl che i giovani possiedono quel tipo perfetto di volontà ostinata necessario per dare alle Quattro un bel calcio nel didietro. Spero che perdonerai la nostra invasione. Non abbiamo intenzione di vivere sulla porta di casa tua, per così dire, ma nelle vicinanze, se lo permetterai.» «Ma non vi daranno un miscelatore d'acqua,» dissi io. Ero confusa e stanchissima, e quei tre sembravano così identici. «Allora ce lo costruiremo da soli,» disse il maschio Anziano. «Che cosa vi costruirete?» «Il miscelatore d'acqua, mia cara. Ho sprecato molti vrek noiosissimi nell'esercito degli Anziani impiegati dalla Commissione, a pasticciare con una quantità di pulsanti che tanto sarebbero scattati egualmente da soli: ma in questo modo, involontariamente, ho imparato un po' la tecnica meccanica. Vedo che ridi, e hai ragione. Di cosa sta blaterando questo vecchio rimbecillito? Giusto. Non bisogna rispettare gli anni, ma solo le azioni.» «Non ridevo di te. È che ho visto alcuni Anziani al lavoro, e sono d'accordo con te; ma non avevo mai capito che si rendevano conto loro stessi...» Mi interruppi, perché non sapevo come andare avanti, ma lui aveva afferrato ciò che intendevo dire. Aveva gli occhi molto lucidi e un po' pazzi, ma mi sembrava... non so come, consolante. La femmina di sinistra stava accarezzando i capelli color ananas di Felain con una sensualità gentile, dolce ed aperta, che mi stupì e mi ispirò simpatia. «Ah, sì,» disse il maschio pazzo. «Lascia che ti spieghi. Noi tre, in gioventù, facevamo parte di un grande circolo Jang, un rorl addietro. Siamo molto vecchi, vedi, e non abbiamo mai avuto una DP. Come adulti, più che
maturare siamo fermentati. A BAA tiravamo avanti, ma questo sembra molto più interessante. Spesso facevamo gite nel deserto, per mezzo vrek. Hai mai conosciuto quell'idiota di Assule... quello che si fa chiamare Glar? Bene, bene. Allora saprai che razza di peste è. Abbiamo passato ottanta unit con lui, tra certe rovine che aveva dissotterrato, e lui che inorridiva all'idea di frugare nel terreno, al posto di un robot. Io avevo estratto un vaso intero, a mani nude. C'era dipinto un branco di ponka al galoppo. Ma poi quel maledetto scocciatore è arrivato furtivamente e mi ha urlato all'orecchio: 'Ah! Lo hai toccato!' E io ho lasciato cadere il vaso, naturalmente.» Risi fin quasi a star male. Quel maschio pazzo sembrava soddisfatto. «Mi chiamo Moddik,» disse. «Le signore sono Talsi, e Glis con quella graziosa ragazza dai capelli color ananas. Ora, per il miscelatore d'acqua...» «Aspetta, aspetta,» gridai. Tutto procedeva troppo rapidamente. «Quei due miei amici sono rimasti sperduti per tutta la notte su una montagna, e io quasi non mi reggo più. Vuoi perdonarci se scompariamo fino a stasera? Penso che dovremo tenere una specie di riunione, tutti insieme, per cercare di chiarire un po' le cose. Dovremo fare una specie di ammasso di tutto quel che sappiamo, e via di seguito, e in questo momento sono incretinita.» «Assurdo,» disse Moddik. «Non ci credo. Comunque, per noi va benissimo; esploreremo le possibilità potenziali della tua splendida valle. Sapevi di avere dei binnimast?» Mi diedi un'occhiata, nervosamente, temendo di essere stata colpita da una rara malattia cutanea. «Ehm, no...» «Ma sì, che li hai. Una colonia intera. Guarda, eccone là uno!» Mi voltai e vidi un oggetto color limone che si rotolava al sole. «Oh, sono binnimast, dunque? Io li chiamavo Occhigrigi.» «Davvero? Ed è un nome più bello. Grak ai binnimast. Adesso sono Occhigrigi.» 7. Sprofondai nel sonno e sognai Moddik, il maschio pazzo, con una lunga barba bianca: sembrava vecchissimo e tuttavia scattante ed energico, perché il suo corpo giovane smentiva quei toni antichi. Si aggirava a balzi tra gli scavi archeologici, con una scorta inesauribile di caraffe di vino di zaf-
firo, e di tanto in tanto ne lasciava cadere una con spicinii tonanti. Da una colonna vicina pendeva la pelle scuoiata del Glar Assule, un fatto che mi riempiva di gioia, anziché di apprensione. In alto, su una nuvola, sedeva una Commissione di Q-R Scagliavano folgori contro Moddik, e lui le schivava agilmente. Quando toccavano il suolo, i fulmini si trasformavano in relitti di avioplani, da ogni rottame uscivano ridendo persone bellissime, allegre. «Non riuscirete a fregarci in questo modo, bastardi dal deretano d'acciaio,» esclamava Moddik. E non ci riuscivano proprio. Danor mi svegliò dolcemente, poco prima del tramonto. In compenso, l'annuncio che aveva da farmi non era gradevole. La brigata Nillaloxiephy aveva acceso la Quadrovisione, e c'era stata una trasmissione lampo... proprio come la volta che avevano trasmesso il filmato di Me nel Deserto. Io dormivo, ma Kam, quando aveva sentito il baccano fatto dagli altri, era andato a vedere ed aveva assistito alla parte finale, Moddik e Talsi erano nel Giardino, Glis e Felain, pareva, in una delle cabine, e non avevano risposto, quindi neppure loro l'avevano visto. Un tempo tanto rare, le interruzioni lampo nelle tramissioni della Quadrovisione sembravano diventate piuttosto frequenti. E normalmente, non venivano irradiate fuori dalla cupola. Sembrava che la Commissione avesse fatto apposta a inviarcela. E dicevano che l'avrebbero ripetuta. L'ora indicata corrispondeva cronologicamente al tramonto nel deserto. Mi agitai, stordita, e abbrancai il primo capo di vestiario che mi capitò a tiro: era l'abito per la festa, che avevo fatto preparare per il giorno innanzi. Assurdamente affascinante nella veste d'ambra con scintille d'ametista, e con un cipiglio nervoso, arrivai appena in tempo nella sala della Quadrovisione. Non c'era molto spazio, dato che ci si stipavano i Jang ed i tre esuli Anziani. Il cigno di Danor s'era piazzato su una sedia e non voleva muoversi: aveva beccato di nuovo Nilla, quando lei aveva tentato di sloggiarlo. Danor ed io ci sistemammo accanto alla parete, insieme a Kam. Poco dopo le orge floreali svanirono dallo schermo, e apparve un Q-R dall'aria solenne. I Jang prontamente lanciarono versacci e poi si zittirono a vicenda. Il Q-R blaterò un discorsetto per dire che non voleva allarmare nessuno, e che gli dispiaceva moltissimo per la situazione e per i provvedimenti che era necessario prendere. Poi fece un breve riassunto degli eventi che avevano portato al mio esilio — un riassunto esatto, dovetti ammettere, anche se con qualche preconcetto — e poi parlò del filmato che avevano trasmesso. Parecchi cittadini, purtroppo, mi avevano seguita. Naturalmente, rappresentavano una minoranza di pazzi, e forse era meglio
che fossero in esilio. Tuttavia, adesso la valle era un centro di attività squilibrate ed anticittà. Per scoraggiare gli sconsigliati cittadini intenzionati ad abbandonare la cupola per unirsi alla banda di misantropi, la Commissione teneva a far sapere che per il futuro, gli aiuti e i rifornimenti per gli esuli sarebbero stati limitati al minimo assoluto. Avrebbero ricevuto ossigeno, vitamine, generi alimentari fondamentali, ma niente lussi: il meglio che potevamo sperare di ottenere dal distributore viveri sarebbe stato una specie di zuppa di proteine, quando avessimo esaurito la nostra scorta di sostanze sintetiche: e niente bevande, estasi, energia e simili. Avevamo i miscelatori d'acqua, e dovevamo usare quelli, razionando in casi di emergenza; ma potevamo chiedere droghe analgesiche e unguenti medicinali, se ne avessimo avuto bisogno. Ma niente di più. (Grazie a Dio, pensai, grazie a Dio Danor e Kam non avevano ferite gravi.) Ci sarebbe stato spedito materiale da costruzione, dietro nostra richiesta, ma in forma specifica: niente che potessimo modellare secondo le nostre esigenze. In pratica, non avremmo ricevuto niente che, secondo loro, poteva servirci a scopi pericolosamente creativi. Dovevamo arrangiarci da soli. E sarebbe continuato così. Nessun altro ci avrebbe più raggiunti. Non sarebbero stati consegnati avioplani, né navi delle sabbie, né altri veicoli, a coloro che notoriamente simpatizzavano per noi. A quelli che possedevano aerei personali sarebbe stata ritirata la licenza. I voli privati fuori dalle cupole erano per l'innanzi proibiti fino a nuovo ordine, e il traffico intercittà sarebbe stato limitato. I cittadini erano invitati a sopportare questi disagi nell'interesse dell'armonia comunitaria. Infine, disse il Q-R, guardandoci dallo schermo, con un'espressione priva di malizia e di arroganza, esclusivamente rattristata e convinta, «La malsana follia che ha investito le città svanirà ben presto. Gli esiliati verranno lasciati a se stessi. Poiché hanno sfidato l'ordine e le leggi dell'ordine, non possono pretendere che la Commissione li faccia vivere come se fossero ancora nelle cupole, e per giunta gratuitamente. La loro situazione è dolorosa e patetica, e verrà presto risolta con un suicidio collettivo e la DP, che è tuttora consentita loro, e lo sarà sempre fino a quando saranno pronti a farvi ritorno.» L'immagine si girò, e dallo schermo piovvero rose. Il comunicato lampo era finito. Spegnemmo e restammo seduti in silenzio. Poi Kam disse, senza alzare la voce: «Questa volta hanno aggiunto un paio di frasi. E usavano le tonalità sovracute per creare un'atmosfera deprimente.»
Questo io non l'avevo notato: fu un sollievo saperlo, perché la depressione si era impadronita di me, ed avevo pensato che fosse spontanea. I Jang, evidentemente sollevati a loro volta, rumoreggiarono e gridarono con spirito militante. Moddik si alzò in piedi di scatto. «Un mucchio di fesserie,» disse, veemente. «Stupidi non umani.» Mi lanciò un'occhiata. «Hai l'aria d'essere d'accordo. Benissimo. Basta che tu mi consegni gli elementi nutritivi fondamentali, quando arriveranno, e io ci pasticcerò un poco. I pasti dovrebbero essere addirittura meglio che adesso. Inoltre, metà della roba può venire semplicemente riprogrammata partendo dagli avanzi. Basta un atomo infinitesimale di mela di fuoco, e si può produrre di continuo, fino a quando il sole precipiterà. Le macchine del cibo non hanno bisogno di campioni ingenti per effettuare un'analisi. I nostri cari androidi stanno cercando semplicemente di intimidire noi e tutti quanti, e non servirà a nulla. In quanto alle loro costruzioni, vorrei vederli rifilare a me uno dei loro palazzi prefabbricati. E so come si fa a procurarsi i progetti per i miscelatori d'acqua e più o meno per tutto il resto: basta collegare uno dei tuoi robot al modello originale per un paio d'ore.» Lo guardammo a bocca aperta, tra la speranza e l'incredulità. «Avanti, non state lì sbalorditi,» disse lui. E a me: «Dove si tiene la riunione di cui parlavi prima, e quando?» «In salone,» dissi io. «Subito.» Non fu una riunione molto ordinata. Tanto per cominciare, Loxi si mise a palpare la frangia del mio vestito e «Oh, ooma, ne ho avuto anch'io uno così, una volta, quand'ero una ragazza... a BAA... era tutto fiamme...» Naz mugolò qualcosa a proposito dell'estasi, e Phy proruppe all'improvviso in torrenti di lacrime, finalmente in preda alla sua malinconia serale, o semplicemente alla paura della nostra situazione. Talsi, la donna Anziana che non correva dietro a Felain, lo consolò con aria da fattore... no, per essere precisa, da madre: uno spettacolo molto commovente. Danor e Kam sedevano vicini, calmissimi, sicuri del loro legame. Non mi sentivo più gelosa, ma avevo un vuoto nel cuore, e sulla sua sabbia spoglia c'erano cartelli che annunciavano: «Vacante, ormai non più colmabile.» «Bene,» dissi io, quando si ristabilì un po' di calma, «sappiamo abbastanza bene chi siamo, e quali saranno i nostri problemi, quindi forse non è necessario occuparcene in questo preciso split. In totale siamo undici; non
è un numero enorme, e le nostre inclinazioni sessuali, nonostante i corpi attuali, sembrano abbastanza fluide, quindi preferisco non affibbiare etichette a nessuno. Dovremo fronteggiare la situazione meglio che potremo, dato che probabilmente non avremo occasione di cambiare per tutto il resto delle nostre vite.» Il lieve brusio che si era levato si spense al suono di questa tromba del giudizio. «Comunque,» dissi, banalmente «Le situazioni tendono a modificarsi in modo inaspettato. Chi sa cosa può portare il domani?» «Le pulci delle sabbie?» fece Nilla. «A partire da questo momento,» continuai, decisa, «dobbiamo lavorare insieme, nei limiti del possibile, e cercare di non farci diventare zaradann a vicenda. Propongo quindi che ci dividiamo, che non viviamo tutti insieme qui sulla nave. Se Moddik può provvedere agli adattamenti, come ha detto...» «Posso fare anche più di ciò che ho detto,» interruppe laconico lui. «Già, già,» fece Naz. «È ancora da vedere, mio vecchio soolka ooma.» «Bene,» disse Moddik. «Una sana opposizione. Non lasciarti sgomentare dalle mie eventuali reazioni, giovanotto. Quanti miscelatori d'acqua vi servono?» Il suo sguardo fulgido balenò verso di me, e fu come se due animali d'acciaio si fossero rizzati sulle zampe posteriori, pronti a scantenare il caos. «Nove, credo,» dissi io, per valutare la sua reazione. «Ma solo per la valle. Ne occorreranno altri per le varie case, se le costruiremo.» Moddik annuì, si alzò ed uscì. Pensavo che l'avessimo offeso, ma Glis mi sorrise e disse: «È veramente geniale, lui. Collegherà il tuo terzo robot... Borss, non è vero?... per ottenere il progetto del miscelatore d'acqua che sta fuori. E userà il raggio del monitor per richiedere materiali da costruzione. E quando arriveranno, si metterà al lavoro. Basta comprendere il principio, e poi si può modificare in pratica qualunque sostanza, per sopperire alle proprie esigenze.» «E Moddik sa come fare,» dissi io. «Oh, sì.» «Mi sembra impossibile.» «Oh, no. Dopotutto, possono farlo quasi tutte le macchine, e quando si afferrano i principi fondamentali del cervello meccanico, come ha fatto Moddik, è molto facile.» «Oh, sì?»
«Quando eravamo all'ipnoscuola, due rorl fa,» intervenne Talsi, che stava cullando l'ormai sorridente Phy sul suo seno di raso color noce, «qualche volta assegnavano premi a chi dimostrava di essere un genio. In quelle unità era addirittura possibile crearsi una specie di carriera, se si voleva e se si era abbastanza in gamba. Moddik vinceva tutti i premi. Glis era un bambino prodigio, da piccola e anche lei era molto dotata. La stupida sono io. Ma come vedi, ho forti tendenze di fattore incorporate nei miei impulsi sessuali, quindi sarò molto utile.» Si guardò intorno, raggiante, e riuscì ad attirare lo sguardo di Naz, lo sguardo di Loxi, e persino il mio. Non aveva bisogno di attirare quello di Phy. Proprio in quel momento rientrò Moddik: aveva fatto appunto ciò che aveva spiegato Glis. «Sono lieta che abbia potuto metterti in contatto con il computer,» dissi io. «Non ero sicura che il collegamento fosse ancora operante.» E dopo questa introduzione, dissi loro ciò che era accaduto a Kam e a Danor: e tutti e due vennero tempestati di domande dagli isterici Jang, e interrogati sobriamente e razionalmente dal pazzo Moddik. Dopo aver chiarito la situazione, con grande orrore di tutti, pensai che fosse il caso di aggiungere il lugubre epilogo... o era il prologo? «Poco a poco, mi sono resa chiaramente conto di una verità piuttosto macabra. Dei tre avioplani che sono arrivati qui, non ce n'era uno che non avesse un'avaria. L'aereo di Moddik, Glis e Talsi è sfuggito al controllo durante l'atterraggio, e subito dopo è esploso. L'aereo di Danor e Kam è arrivato qui benissimo, ma al secondo volo ha versato l'olio nelle batterie ed è precipitato. L'aereo dei Jang ha compiuto un atterraggio schifoso, e perciò ho incaricato il mio robot Yay di controllarlo e sistemarlo; e se non l'avessi fatto, immagino che in questo momento il mio corpo adornerebbe elegantemente le montagne in vari stadi d'incompletezza. Mi sembra una coincidenza piuttosto strana. Anche la mia nave delle sabbie non era delle migliori, e il distributore dei viveri è esploso alla prima occasione.» Nel salone scese un silenzio pesante come una tenda di velluto. Si poteva sentire il vento notturno del deserto che avvolgeva la nave. «Quante volte gli avioplani funzionano male, nelle città? Mai? Forse una volta ogni rorl. Ora, non sto dicendo che la Commissione abbia combinato qualcosa, ma credo che abbia permesso ai suoi robot di diventare volutamente trascurati, abbia dimenticato di far riparare le macchine, qualcosa del genere. Non so bene come abbiano fatto, i Q-R, dato che dovrebbero essere eternamente programmati per proteggere le vite umane. Forse hanno aggirato l'ostacolo ricordando che quando noi moria-
mo non moriamo veramente, e cos'è per un androide la semplice Morte dell'Ego? La nostra scintilla vitale continua ad esistere, a questo provvedono loro. Non so. Le mie teorie sono embrionali, e questa storia mi spaventa. Ma so una cosa. In un modo o nell'altro, sottilmente, forse addirittura inconsciamente, intendono ucciderci. Vogliono sbarazzare il deserto della nostra presenza e delle nostre idee contrarie al sistema delle città. Temono che sovvertiamo l'armonioso regno della legge e dell'ordine, causiamo un crollo della civiltà, l'anarchia, la distruzione... Dio sa come, ma questo è il nocciolo della questione. Perciò dovremo stare in guardia, d'ora innanzi. Controlleremo tutti i rifornimenti che arriveranno dalla città, caso mai qualcuno avesse omesso qualcosa, e che qualche edificio prefabbricato vada in combustione automatica e ci spedisca tutti alla DP.» Feci una pausa sufficiente per tirare il fiato. «Potrei aggiungere che qui, sul lato nordovest, crescono piante commestibili, e che il controllo della tossicità è risultato negativo. Stasera, per il mio ottavo pasto, assaggerò prodotti coltivati da me. Se saranno gradevoli, potremo insistere. L'autosufficienza non è un fine disdicevole da proporci, soprattutto sistemati come siamo.» Tutti mi fissarono. Persino il trauma causato dal tradimento dei Q-Pv era stato un po' sminuito dalla sorpresa di quell'annuncio. «Io non voglio mangiare quella roba,» dichiarò Nilla, com'era prevedibile. «Scommetto che è assolutamente drumdik.» «Nessuno ti chiede di farlo,» dissi. «Ho spiegato che lo farò io.» «Splendido atteggiamento eroico,» disse Moddik. «Probabilmente il cibo sarà delizioso. Ma debbo fare un'osservazione. Il vitto sintetico delle città contiene certi addtivi. Se introduci nel tuo organismo sostanze che ne sono prive, la tua biochimica può cambiare.» «Sì, me ne rendo conto,» dissi io. «Ma credo che mi acclimatizzerò. Altrimenti, nessun altro ci si proverà, ecco tutto.» Felain e Loxi mi guardavano con aria di venerazione. Danor sembrava un po' turbata. Kam disse: «Mi piacerebbe offfrirmi volontario. Tu sei la fondatrice di questa organizzazione. È un compito che non dovrebbe ricadere su di te.» «È proprio per questo che tocca a me,» ribattei. Ero lieta della loro ammirazione e della loro preoccupazione. In effetti, avevo una fiducia totale nella mia capacità di sopravvivere a qualche frutto roseo e un paio di fette di tuberi, altrimenti non l'avrei tentato. Dopotutto, era stato inizialmente cibo della città, mescolato alle proprietà delle piante selvatiche. Dato che avevo subito tanti traumi, nel deserto, ed ero so-
pravvissuta, avevo finito per convincermi di non aver più nulla da temere, da parte sua. Era un avversario da rispettare e da combattere, ma non era meschino, né subdolo. Se ti assaliva, lo faceva frontalmente, con una tempesta o un'eruzione, o una tribù di piedi-a-sci. Non astutamente, con un frutto succoso i cui semi, germogliando nelle viscere, avrebbero reso verde e scagliosa la mia pelle, o trasformato la mia voce in un latrato. E inoltre, le analisi negative dimostravano che gli eventuali effetti sarebbero stati trascurabili e facili da eliminare. Non si può trasformare una vigliacca come me in un'eroina, se c'è in circolazione un drago vero. In tal caso, io appendo la spada alla parete e mi nascondo sotto il letto fluttuante, ooma. 8. Che notte. Nessuno andò a dormire. Credo che Nilla ci facesse restare alzati per vedere se io avrei avuto una crisi dopo il mio ottavo pasto a base di cibo naturale. Mi pareva di vederla, ritta con aria interessata sul mio corpo scosso da spasimi, mentre diceva: «È freneticamente drumdik, ooma-kasma. Che cosa floop.» In effetti, l'unico sintomo che quel cibo produsse in me fu il desiderio di mangiarne ancora. Era meraviglioso... i frutti sembravano nettare, i tuberi erano piccanti e succulenti. Tutti gli altri, al gran completo, mi guardarono mangiare, e poi mi seguirono impacciati qua e là, evidentemente in attesa che cadessi stecchita, nonostante i controlli della tossicità. Persino Kam mi chiese un paio di volte se mi sentivo bene. Gli Anziani vecchi di due rorl erano meno turbati, e verso l'ora in cui le Sorelle esplodevano, sorpresi Moddik nel salone a mangiucchiare un frutto. «Mi pareva che fossimo d'accordo diversamente,» dissi io. «Non ho saputo resistere,» rispose Moddik. «Più tardi, potremo confrontare le nostre dermatosi. Mia giovane amica, non è che non mi affidi completamente alla tua autorità.» «Io non sono l'autorità, qui,» dissi, un po' irritata. «Davvero? Aspetta fino alla prossima crisi e correremo tutti ai tuoi piedi a belare, invocando istruzioni.» «Allora abdicherò.» «Non abdicherai, lo sai bene. Come molti individui solitari,» disse Moddik, «porti in te i semi dell'autorità violenta. I solitari debbono essere auto-
ritari. Imparano in fretta che è l'unico metodo per togliersi la gente di torno.» Questa conversazione mi restò sul gozzo, soprattutto perché era troppo logica. Poi, mentre guardavamo dalla veranda la duplice eruzione notturna a sud, Moddik mi informò di aver notato alcune altre piante commestibili che crescevano qua e là, verso occidente. Sembrava che sapesse proprio tutto: peschesole, grasse radici verdi, un noce che non avrebbe dato frutti ancora per un vrek, e forse avrebbe avuto bisogno di acqua in più, e viti dalle quali avremmo potuto ricavare un vino fatto esclusivamente di frutti. «Moddik,» dissi io, «tu sei già stato qui altre volte, no? Voglio dire, avevi già fatto qualcosa del genere?» Lui ridacchiò come un vecchietto maligno, di quelli di cui parlano i libri, e il suo giovane volto abbronzato si aggrinzi, come le dune, di una velenosità quasi innocua. «Non proprio. In gioventù, avevo pasticciato un po' con un orto idroponico.» «Ci sarai veramente prezioso, Moddik,» dissi io. «È una fortuna che tu sia venuto. Perché lo hai fatto?» «E tu, perché lo hai fatto?» chiese Moddik. Poco dopo, se ne andò a precipizio e ritornò trionfante insieme a Borss, che appariva orribile, con tutti i fili scoperti e le piastre svitate. A quanto pareva, avevamo il progetto del miscelatore d'acqua. Poco dopo, tutti quanti dovemmo prendere le lampade a fuoco chimico e seguire il nostro mago verso occidente, dov'era esploso il suo aereo. E lì, sferzati dalle sue istruzioni, frugammo e cercammo tra la sabbia e il fumo, stanando pezzi di metallo bruciato, plastiche e videoglacia. «Vi sorprenderebbe sapere in che modo posso utilizzare questa roba,» disse lui. «Io non mi sorprenderei,» sibilò Nilla. Moddik proruppe in una risata fragorosa, e poi afferrò Nilla e la sollevò in aria: era forte come un robot, e pazzo come un pazzo. Nilla si dibatteva debolmente: aveva l'aria impaurita e compiaciuta. «Dunque, piccola prevalentemente femmina che però non lo sei, credi che il vecchio, cattivo Moddik si diverta così, vero? Preferisco di gran lunga ridurre in poltiglia i deboli e gli indifesi.» Dopo questo episodio, Nilla cominciò a guardarlo con un interesse ardente e risentito.
Alla fine, Moddik ci ricondusse alla nave, e io restai sbalordita nel vedere che Yay e Jaska gli avevano montato una specie di capannone in una radura, presso il boschetto degli alberi di porpora. Ricordavo di aver regolato i robot in modo che prendessero ordini soltanto da me: ma naturalmente, quando c'era di mezzo un tipo abile come Moddik, questo voleva dire ben poco. «La mia officina,» disse Moddik. Entrò, insieme a Borss con i fili scoperti. Poco dopo, nell'aria fragrante eruppe un baccano spaventoso di colpi, di tonfi e di trapani in funzione. Il sole schizzò su dietro i picchi, ad oriente, mentre sedevo tutta sola sulla veranda, nel mio bell'abito ormai piuttosto sporco e lacero. I Jang si erano finalmente ritirati in ordine sparso: Felain con Glis, Loxiephy con la sorridente, voluttuosa Talsi, Nilla dispettosamente sola (ah!), Naz euforico con varie manciate d'estasi che Moddik, generosamente, gli aveva procurato, dopo che io avevo detto «oh, va bene, va bene,» di fronte ai suoi lamenti incessanti. Danor e Kam, tenendosi a braccetto, vicini come due foglie del nostro Giardino, vicini più che mai dopo la notte sulla montagna quando la morte era stata ancora più vicina; vicina come il mondo. Io, che li avevo salvati, mi ero accostata alla periferia della loro cittadella, ma non di più. Come poteva essere di più? Era un po' come in quelle commedie antiche che, a quanto diceva Moddik, venivano ancora rappresentante durante la sua gioventù; tutti i personaggi lasciano la scena, tranne uno. Ecco dunque il mio soliloquio. Non ero del tutto sola, comunque. Il cigno, avventurosamente, era volato sul tetto della nave e si era fatto un nido sopra i tubi dell'impianto di raffreddamento, e probabilmente avrebbe finito per intasarli con le sue penne. E dallo strano capannone dove stava ancora Moddik giungeva un pallido ronzio operoso. Il miscelatore d'acqua — sapeva di essere stato copiato, di non essere più un esemplare unico? — si alzò sulle lunghe zampe e si allontanò, lanciando spruzzi dai tubi rosachiari. La luce del sole accese i viali della foresta di un verde incredibile, ardente. Oltre il Giardino, il deserto dipingeva arcobaleni. Mi prese una sorta di lieta tristezza. Era così bella, l'aurora, e la speranza era come l'ossigeno, fulgida nell'aria, ed io ero sola. Sì, c'era il cigno, silenzioso sul tetto, e il ronzio nel capannone di Moddik diveniva fievole come il ronzio degli insetti che si destavano tra gli arbusti.
Ora avrei dovuto chiudere gli occhi. E diventare la principessa sulla porta della sua torre d'argento, in attesa che il suo innamorato, il cavaliere tenebroso sul suo animale stellato, arrivi traversando la scintillante distesa di sabbia. Avevo chiuso gli occhi. Me li fece riaprire la ripugnanza che provavo per me stessa. E qualcosa scintillava, laggiù, Guardai oltre la foresta, oltre il pendio del Giardino, lontano, verso le dune ai piedi dello sfondo nero delle montagne occidentali. Qualcosa. Ma cosa? Le navi e gli aerei non avrebbero preso quella strada, almeno per molti vrek. Una macchina allo stato brado? Ma da dove veniva? Forse c'era una spiegazione molto semplice: per esempio, io ero ammattita. «Moddik!» gridai. «Moddik! Ehi! Aiuto!» Uscì nella radura, con le mani piene di bulloni, rivetti, e lastre di videoglacia che non sapevo neppure che possedessimo. «Mi dispiace interrompere le attività del tuo genio, ma vuoi salire quassù e dirmi se soffro di allucinazioni?» Moddik salì, guardò. Poi, da una tasca ingemmata della tunica estrasse una lente, e guardò con quella. «Ah,» disse. «Avrei dovuto indovinarlo. Non possono tenere tutti in riga, neppure nelle Quattro.» Mi porse la lente, e anch'io guardai, attraverso il mirino telescopico. I particolari non si distinguevano bene, la distanza era ancora troppo grande: ma bastò per darmi i brividi, per costringermi a voltarmi, ad accertare che non ci fosse davvero la porta di una torre d'argento, dietro di me. La figura, laggiù, era un profilo nero nel sole: ma era un maschio, e cavalcava una bestia stellata. Una vera bestia stellata... un drago di diamanti dagli occhi d'oro, alto quattro metri dal suolo sulle enormi zampe prismatiche. «Credo che sia un animale androide di BAA,» disse Moddik, in tono d'ammirazione. «Il ragazzo deve averlo rubato. Un giovane diavolo intraprendente. Avevo immaginato che le scemenze dei Q-R non avrebbero impedito ad altri, veramente decisi, di venire qui.» Mi tremavano le gambe e non sapevo bene perché «Grazie, Moddik,» dissi «Sarà meglio che io gli vada incontro.» Moddik sogghignò ed io aggiunsi, per giustificarmi: «Prima che quella specie di drago mi calpesti metà del Giardino.»
9. Persino le ombre erano verdi, nel Giardino. Prima mi ero sentita stanca; adesso ero perfettamente sveglia. Solo perché stavo andando a raccattare sulle dune un cretino di maschio Jang, probabilmente intento a ingozzarsi d'estasi e a ululare «Attlevey, ooma-kasma, è insumattamente derisann, credimi, e io sono alle stelle, puoi scommetterci.» Il Termine del Giardino distava ancora ottocento metri, anche se il perimetro sembrava ampliarsi un poco: piccole erbe aride che spuntavano dai semi, fiori di cardo, giallopastello, che si aggrappavano alla sabbia. Quando si esce dall'ombra, il sole stordisce come un colpo sul cranio. Pensai, per la tremillesima volta, che avrei dovuto ordinare alle macchine di farmi uno di quei vecchi cappelli tribali da sole, un oopsa od oosha o quello che è. Ma stavo rimuginando su dettagli pratici, terra-terra, perché le mie fantasie non si inerpicassero su per la spina dorsale, dilagando nel mio cervello come un'orda d'invasori. Il drago avanzava a grandi passi verso la nave delle sabbie e me, ormai a poche centinaia di metri, sulle dune. Fu quasi un ritorno della mia agorafobia, in quei pochi split che impiegai camminando sulla sabbia scoperta. Avevo quasi paura di alzare gli occhi, anche quando l'ombra nero-inchiostro dell'animale gemmato cadde fortunatamente intorno a me. Tuttavia, schermandomi gli occhi con un braccio dal cui gomito sgocciolavano ancora le frange di ametiste, levai gli occhi e guardai il cavaliere del drago. «Tempo magnifico,» osservò lui, insolente. «Un po' caldo. Ma magnifico.» Molte cose mi colpirono nello stesso istante, e non ero preparata a nessuna. «Chi sei?» domandai, digrignando i denti, mentre mi pareva che una lava incandescente mi scorresse nelle vene. «Mi chiamo Esten,» disse lui. «È derisann conoscerti.» «Accidenti a te, hai una faccia tosta del farathoom. Cos'hai in mente, bastardo? Cos'è questo gioco dei graks, specie di...» «Esten,» disse lui, garbatamente, come se io l'avessi dimenticato, e mi limitassi a snocciolare gli insulti solo per colmare il vuoto. «Balle, Esten,» dissi io. «Come hai fatto? Dove l'hai preso? Perché sei venuto qui con quello?»
«Oh, questo? Vuoi dire il mio corpo, vero?» «E che altro, specie di floop dimenticato da Dio, thalldrap di un Jang?» «Oh, be',» disse lui, agitando vagamente la mano, e sorrise. Era una mano artistica, dalle dita lunghe, e il sorriso era inaspettatamente affascinante, il sorriso di un poeta per una bella fanciulla, il saluto dolceamaro di chi ama la vita nonostante la morte tragica che lentamente, inevitabilmente lo divora. Lo conoscevo bene, e non era un fatto sorprendente. Lui era nel mio corpo. L'ultimo, quello del poeta, snello ed elegante, con i lineamenti aquilini, la criniera di riccioli scuri, i grandi occhi d'opale azzurro chiazzati d'ombra e tutto il resto. Non aveva trascurato niente. Proprio niente. Persino i suoi gesti erano i miei. Solo l'abbronzatura era diversa, progettata per affrontare il sole. Il poeta poteva anche morire di consunzione, ma non ci teneva alle scottature. «Bene,» dissi io. «Sto aspettando.» «E sei incantevole,» disse lui, galante. In realtà, dovevo sembrare un circuito elettrico sul punto di farsi saltare le valvole. Tentai di calmarmi. «O mi dici,» feci, con voce d'acciaio, misurata, un po' incandescente, comunque, «perché hai deciso di arrivare qui in questo modo, oppure puoi far girare quel tuo... quel tuo quello-che-è, e ritornartene a BAA.» «Questo non posso farlo,» disse lui. «Lo sai.» «E allora spiegami la tua condotta. In fretta.» Lui batté leggermente la mano sul drago di BAA e quello si inginocchiò con grazia. Lui scese con altrettanta grazia, appoggiandosi al suo fianco, immacolato e fragile. Oh, conoscevo bene quella posa. Lui dovette capire che il calderone aveva ripreso a bollire, perché alzò una di quelle mani da poeta-spadaccino e disse: «È molto semplice e assolutamente terreno. Se te lo dico ti verrà la nausea.» «Mi verrà ancora di più se non me lo dici.» «Benissimo, mia dama dei Jang. Ho visto il magico filmato, il documentario dell'incantatrice nel deserto con il suo giardino verdeggiante. E ho perduto mente, anima e cuore. Per te.» «Scemenze,» risposi cortesemente io. «Può darsi. Te l'avevo detto che ti avrei nauseato. Ma hai insistito per conoscere le mie ragioni, quindi la colpa è tua. C'è qualcosa, nella tua versione assolutamente unica di arrogante stupidità, che mi ha incantato. Così avventurosa, così cinica, una mescolanza così strana di valore e di vigliac-
cheria, d'idiozia e d'intelligenza. Il tuo bel visino che sorride, mentre tu lecchi i piedi alla Commissione e scritte oscene lampeggiano nei tuoi occhi come insegne al neon. Ho compreso immediatamente che non avrei voluto mai un'altra femmina, per tutta la mia vita. Perciò sono andato a BAA con l'ultima corsa autorizzata di una nave delle sabbie, mi sono insinuato con l'intrigo nelle cupole delle vasche d'allevamento degli animali androidi fuori dalla città, ho convinto una floop di femmina Anziana a lasciarmi provare una breve corsa nel deserto su di un drago, e non mi sono mai preso il disturbo di ritornare.» «E l'ossigeno?» chiesi. «Ne tengono scorte nelle fattorie fuori città, nel caso che debbano abbandonare le cupole in fretta e furia. Ossigeno, compresse antidisidratazione, iniezioni nutrienti, tutto quanto. Ho prelevato quanto mi serviva mentre la dama Adulta riposava, dopo la nostra piccola... ehm... conversazione.» «Affascinante,» dissi io. «Ma non hai ancora parlato del mio... del tuo corpo.» «Ossessionato com'ero da te, che altro potevo fare, nel momento in cui sono arrivato a BAA, se non ordinare un duplicato? Mi sembrava, inoltre, un sistema eccellente di seduzione immediata. Immagino tu conosca la teoria, secondo cui molti di noi desiderano solo fare l'amore con se stessi? Ecco la tua occasione, ooma. Un'offerta che non si ripeterà mai più.» Tuttavia non si mosse: continuò a guardarmi e basta. Conoscevo benissimo quella teoria: un'altra cosa che lui mi aveva rubato. Ma c'era qualcosa di vero, a giudicare dalle mie reazioni. Il cuore mi batteva in gola, e le altre reazioni... gli ormoni, rinnegati per tanto tempo, balzavano e saltavano come ossessi. Quindi, naturalmente, ero risentita. Il suo intrigo astuto, la mia ebbrezza fisica. E non mi fidavo di lui, era troppo furbo. «Sei troppo furbo, non mi fido di te. E non sono neppure sicura di crederti.» «Stanotte ho esaurito l'ossigeno,» disse lui. «Questo lieve ansito asmatico non fa parte della scena, è autentico. Se crollo ai tuoi piedi, mi raccoglierai fra le tue braccia?» «Scordatelo,» dissi io. «Hai trascurato un particolare. Conosco la battuta: è logico, l'ho inventata io. Risali sul tuo animale e seguimi. Immagino che dovrò sopportarti, come sono costretta a sopportare tutti gli altri.» «Non vuoi salire con me sul drago?» «No, mille grazie.»
E così lui risalì sul dorso dell'animale, e il drago si alzò, e mi seguirono sull'ultimo tratto sabbioso, e poi lungo i sentieri d'acciaio del Giardino, fino alla nave. Non era un piacere guardarlo. Credo che una piccola parte di me fosse color smeraldo per l'invidia. Dopotutto, ero uscita da quella pelle progettata in modo eccellente prima di essere veramente disposta ad abbandonarla. E adesso lui era lì, e si abbandonava poeticamente qua e là sulla mia veranda, e Nilla era ricomparsa e si precipitava a portargli cibi, bevande e cuscini, e persino Felain e Glis erano uscite fuori: Glis incaricava le macchine mediche di tastargli il polso e Felain gli tubava nelle orecchie. Io stavo ritta all'altra estremità della veranda, imbronciatissima, a lanciare intorno occhiatacce, con un'aria di rabbioso interesse per le condizioni delle piante rampicanti, del cielo, della giornata. Quando Felain gli baciò la mano, mi precipitai giù dalla veranda e mi diressi verso l'officina di Moddik. Il drago si era assopito, enorme, sull'erba, al limitare della foresta. Era un androide completo, non aveva bisogno di cibo né d'acqua. Piccoli riccioli di fumo profumato gli uscivano dalle nari. Era veramente piuttosto carino ma, ingiustamente, prima non mi era parso molto simpatico. Cosa ne avrebbero pensato gli Occhigrigi (binnimast)? E il cigno? Così andava meglio. Mi stavo raffreddando un po'. Bussai alla porta dello strano capannone di Moddik. Seguì un bizzarro sferragliare. Poi la porta si aprì e mi mostrò Moddik in mezzo a un confuso sottobosco di fili, intelaiature metalliche e reti trasparenti. Cominciai a credere ciò che lui e Glis avevano detto della sua capacità di ricavare qualunque cosa da qualunque altra, come fanno le macchine. Nel caso di Moddik, i rorl erano stati spesi bene. Dovunque c'erano vere macchine che ticchettavano e rumoreggiavano, e Borss era stato puntellato in un angolo, come un ubriaco demoralizzato. «Il nuovo arrivato è simpatico?» chiese Moddik, con rude tatto. «La nostra giovane autorità è con tenta?» «No, la nostra giovane autorità non è contenta. Il nuovo arrivato è uno Jang, e ha avuto l'abissale facciatosta di presentarsi qui con il mio ultimo corpo maschile... o un duplicato.» «Ah!» fece Moddik. «Avevo detto che era intraprendente, no? Forse un tuo conoscente di Quattro BEE?» «Sai, non ci ho mai pensato. Lui dice di chiamarsi Esten, e a quanto ri-
cordo, non ho mai conosciuto un Esten. Non si comporta come quelli che conoscevo. Né in bene né in male.» «Il suo contegno potrebbe essere assunto apposta, scrupolosamente calcolato in anticipo per essere fuorviante. Anche il suo nome può essere falso dato che, fuori dalle cupole, non ha più importanza.» Mi sedetti per riflettere, e poi mi alzai di scatto, con uno strillo. Moddik tolse dalla sedia le cinque o sei bacchette appuntite, e cominciò a infilarle in uno straordinario apparecchio che sembrava crescere, come una gelatina grigia, al centro dello stanzone. «Potrei chiederlo a Danor,» dissi. «Lei era del mio circolo. Ma può darsi che quello non sia mai stato nel mio circolo.» E mentre dicevo questo, il cuore mi batteva in gola così forte che dovetti deglutire. «E lui, oh, lui ha detto di essersi procurato il corpo a BAA, attraverso BEE. Immagino abbia pensato che in quel modo, anche se BEE s'insospettiva, non sarebbe riuscita a fermarlo in tempo.» «Un ragazzo sveglio,» disse Moddik. «Non vedo l'ora di conoscerlo. Il mio orrore prefabbricato dovrebbe arrivare, per cortese concessione della Commissione, verso mezzogiorno,» aggiunse. «Ho fornito le istruzioni, in modo che non compaia sulle radici-di-fuoco o roba simile. Poi mi serve l'altra macchina della nave, di cui ho parlato e... con un po' di fortuna, per domani al tramonto, il nostro primo miscelatore d'acqua dovrebbe entrare in servizio. Non sarà bello come quello là fuori, solo vecchi tubi d'acciaio snodato e una cupola di videoglacia, ma innaffierà la terra, e questo è l'importante, no?» «Cosa posso dire?» gli chiesi. «Mi sento sopraffatta.» «Allora vai a studiarti il tuo doppio e lasciami in pace, disastro d'una ragazza Jang,» ruggì Moddik, agitando le maniche e i tubi d'acciaio e un'invisibile, inesistente barba bianca da vecchio stregone. «Salve, ooma, posso?» chiese Danor, entrando nel salone dove Yay e Jaska stavano ripulendo i resti caotici del pasto dell'alba consumato dai Jang. Io stavo mangiando le peschesole cresciute nel Giardino. Le porsi il piatto, con qualche triste presentimento. «Sono bellissime, e sembrano innocue, ma sei sicura di volerle? Magari comincerò a coprirmi di peli, o qualcosa del genere.» «Potrebbe essere grazioso,» disse Danor. «Lunghi peli fiammanti d'oro bruno che spuntano... uhm... dappertutto.» Ridemmo, con quell'aria di complicità delle femmine che hanno condi-
viso molte e svariate esperienze. Essere appartenute allo stesso circolo contava qualcosa, nonostante la mia continua propaganda contraria. «Oh, be', tanto, quel matto di Moddik ieri sera era qui a ingozzarsi di questi frutti rosei, quindi tanto vale che ci facciamo venire l'eczema tutti insieme.» Per un po' mangiammo in silenzio. Poi, mentre versavo il fuoco-eghiaccio, le raccontai l'arrivo di Esten, e cosa aveva detto, e cosa aveva detto Moddik, e anche i miei sentimenti al riguardo. Danor sembrava sbalordita. Egoista e stupida com'ero, non avevo pensato a ciò che significava la presenza di un altro me-maschio, un duplicato di quello con cui lei aveva trascorso le ore senza Kam. Ma, per la verità, questo Sembrava turbarla ben poco: accolse con calma i miei goffi balbettii. «No, ooma,» disse. «Stavo solo pensando a ciò che ha detto Moddik: potrebbe essere qualcuno che tu conosci. Io non l'ho ancora visto, ma... ricordi quel che ti ho detto del nostro circolo, quando sono arrivata qui?» «Sì,» dissi, ed alzai elegantemente la mano (il suo gesto... il mio gesto... me l'ero ripreso). «Davvero, ci ho pensato. Ma come avrebbe potuto osare?» «Oh, non credo che il problema fosse osare,» disse Danor. Hergal, femmina, con un maschio simile al mìo corpo precedente, che se ne andava a BAA... guardai il mio vino e non lo dissi. Non sapevo, davvero, cosa dovevo dire, o pensare. O fare. Ma naturalmente, non potevo far nulla. 10. L'unità passò, anche se «passò» non è la parola più adatta. Mi pareva che l'intera struttura organizzata (?) della comunità stesse andando a rotoli. O almeno, adesso fuori c'eravamo solo io e Yay, a zappare, a legare le pianticelle, ad assegnare le innaffiature supplementari, a potare le viti e gli alberi da frutto e a convincere le felci a crescita rapida ad andarsene a sud, a sud, accidenti, ed a lasciare in pace i tuberi. Nel frattempo Borss era diventato l'assistente di Moddik nell'officina, e non potevo offendermene (dicevo offesissima a me stessa), perché stavano fabbricando un miscelatore d'acqua, un'impresa destinata al benessere collettivo. Comunque, gli altri membri del benessere collettivo... Danor e Kam erano nella zona occidentale del Giardino. Moddik aveva detto di aver visto crescere da quelle parti frutti di gerkalli, o qualcosa di
altrettanto inverosimile. Eravamo andati a vedere, e i frutti di gerkalli c'erano proprio. Kam si era offerto di restare a sarchiarli... l'erba del deserto è molto simpatica, e la si può far crescere vistosamente sui bordi dei canali d'irrigazione, in modo che stia lontana dalle colture, dato che per fortuna preferisce sporgersi sull'acqua, piuttosto che strangolare le altre piante. Kam e Danor, poi, avevano intenzione di prolungare uno dei canali fino a farlo congiungere con un altro: perciò diedi loro Jaska e la mia benedizione, pensando quanto erano preziosi, visto che aiutavano e lavoravano così spontaneamente. Quando mi rimisi all'opera con Yay, però, dovetti continuare a scacciare dalla mente pensieri stupidi, tipo «Mi sento sola e stufa». Le mie imprecazioni erano piacevolissime da udire. Se pure qualcuno le udiva. Naz giaceva sulla veranda in un'estasi permanente, e sorrideva ai rami verdi, sopra la sua testa. Il cigno giaceva tra i rami verdi, e sorrideva a Naz. Il drago di Esten, che stava diventando un peso, era stato legato a guinzaglio sul bordo di una radura, dopo che aveva sradicato un alberello facendolo a pezzi con i denti, tra grida di innocente felicità. Nilla stava facendo il Suo Giardino. Glielo aveva consigliato Moddik, probabilmente perché si tenesse occupato il cervellino inesistente. Requisiva i fiori e li ripiantava nel Suo Giardino, dove per fortuna mettevano filosoficamente le radici. Senza eccezione, erano tutti fiori rosei, come Nilla, con la sua pelle di magnolia e i suoi capelli color fragola al crepuscolo, e lei stava facendo, come monumento centrale, una scultura astratta Jang con gli avanzi del videoglacia di Moddik. Tutto questo, di sicuro, sarebbe stato straordinariamente utile. Il materiale atteso da Moddik arrivò a mezzogiorno, come aveva detto lui. Chissà come, era riuscito a convincere i Q-R ad usare una macchina trasferitrice, per fare più in fretta. Nella radura, perciò, erano comparse casse di atroci oggetti metallici incomprensibili e lastre di plastica; il drago di Esten si era spaventato e aveva fatto a pezzi un altro albero. Moddik controllò personalmente le casse per risparmiarmi il fastidio. Gli altri erano ubicati così: Glis e Felain nel segreto della cabina gialla. Quando ero passata davanti alla porta, mi era sembrato che fosse in corso una specie di recital di musica e poesia, anziché quello che ci si poteva aspettare. Talsi, nel frattempo, si dava sfacciatamente alla pazza gioia nei boschetti insieme a Phy e a Loxi. Dalla loro direzione — più o meno il sud — arrivavano con monotona regolarità grida eloquenti. In quanto a Esten, era stato invitato nel boschetto di Talsi ed aveva gar-
batamente rifiutato; era stato invitato nella cabina di Glis e Felain e aveva rifiutato con garbo anche maggiore. Nilla aveva cercato di attirarlo nel Suo Giardino, ma lui aveva risposto ragionevolmente che si sentiva esausto e aveva intenzione di dormire per dieci ore filate. Io avevo cercato di stargli lontano, soprattutto perché avrei voluto buttarmi sul letto vicino a lui. «Prendi la cabina verde,» gli dissi. «È l'ultima rimasta libera, e forse dovrai dividerla con Naz, se mai riacquisterà la lucidità sufficiente per arrivarci.» Prima che Esten sparisse per andare a dormire, comunque, l'avevo visto in conversazione con Moddik sulla porta dell'officina. Sembravano molto seri ed animati. Moddik gli stava spiegando i circuiti intervalvolari delle pompe, o qualcosa del genere? Mi aggirai tra la vegetazione in uno stato furioso di totale irrazionalità, e nel corso del pomeriggio scoprii quattro coppie di Occhigrigi che se la spassavano, un serpente che scavava una buca e dissotterrava uno degli stabilizzatori antiterremoto che avevo piazzato con tanta fatica, e un nuovo animale color malva che nuotava in un canale d'irrigazione: mi lanciò una sola occhiata e fuggì gemendo nel sottobosco. Poco a poco, stavano arrivando molti nuovi esemplari faunistici. Uno o due conigli delle sabbie saltellavano fra le felci, e le rane delle dune si gracidavano messaggi nelle notti del deserto. Gli insetti stavano acquisendo altri colori molto derisann, sulle ali lucenti, e apparivano molto groshing. Passai dallo stupore all'irritazione e dall'irritazione allo stupore almeno venti volte, e all'improvviso venne il tramonto, prima che fossi pronta. Al tramonto, Moddik ci mostrò il miscelatore d'acqua: gli occhi gli brillavano, intenti, come le piccole ruote lucenti che giravano sulla cupola della macchina. Non era molto bella, come lui aveva predetto. Era più bassa del gigante originale di panna montata e madreperla, e la cupola semiopaca di videoglagia sembrava quasi indecente. Il corpo tozzo, montato su gambe metalliche e tuttavia ingombranti, aveva un aspetto eccentrico, demoniaco. Ma quando Moddik toccò l'attivatore, l'acqua ne sprizzò come in un sogno dolcissimo. Il miscelatore si avviò, rombando deciso, proprio mentre tornava il colosso ambulante. S'incrociarono, scavalcando imperiosamente gli alberi più piccoli; sembravano un bellissimo fattore e il suo brutto figlio che rifiutassero di parlarsi a causa di divergenze insanabili. Ringraziai profusamente Moddik. I Jang erano impressionati.
Nilla disse: «Che aspetto drumdik. Non è per niente decorativo. Mi fa diventare decisamente tosky.» Cercava di indurre Moddik a malmenarla. Lei si era messa il suo abito trasparente più ricamato, e aveva colto altri fiori per adornarsi i capelli. Moddik le accarezzò la testa con un'aria perversa d'indulgenza senile, e Nilla s'infuriò. Dovevamo andare a consumare il sesto o il settimo pasto, ma Moddik disse che si era fatto un'iniezione nutriente e non sarebbe venuto con noi. «E posso stare in piedi senza difficoltà tutta la notte, con qualche pillola per star sveglio, mia cara giovane autorità, e presentarti all'alba otto o nove miscelatori d'acqua, non decorativi ma utili. Ora che ho gli stampi, è solo una produzione in serie.» «Pillole per star svegli,» dissi io. «Iniezioni nutrienti.» «Non devi credere che voi Jang abbiate il monopolio dell'abuso del corpo,» mi rimproverò. «Non temere, domani russerò per tutto l'unit.» «Che delusione per Nilla.» I Jang stavano facendo cagnara nel salore. Perché no? Danor e Kam, stanchi per l'onesto lavoro, come lo ero io, parlavano sottovoce con me, Naz galleggiava sopra le nostre teste su un materassino fluttuante. Dove si procurava tutta quell'estasi? Doveva avergliela fornita Moddik, per tenerlo buono. Loxi venne ad invitarmi all'interminabile orgia di Talsi, e io dissi qualcosa di abbastanza cattivo per indurre l'intero ménage a correre in fretta verso i letti fluttuanti. Mi avviai per il corridoio con i piedi bruciati dal terreno e un'espressione indispettita. Cabina gialla: Felain e Glis, niente musica, adesso. Cabina albicocca: Loxiephy, più Talsi. Sembrava che ci fosse in corso una battaglia, là dentro, cosa diavolo... Oh, graks. Cabina viola: Danor e Kam. Niente cattivi pensieri. Buon riposo, o quello che è, cari, simpatici amici. Cabina scarlatta: Nilla, chi altro? La rosea Nilla sul letto scarlatto, la chioma rosea sparsa sul cuscino scarlatto. Nilla che preparava un piano d'azione... come arraffare Moddik. Brutti sogni a te, ooma, e se ti azzardi a cogliere altri fiori, ti seppellisco fino al collo nel fertilizzante naturale degli Occhigrigi. Cabina verde: Esten, sdraiato per un sonno di dieci ore. Estenmestesso. Il corpo del poeta, acciaio agile in un guanto marmoreo. Snello e forte come un frustino, non lo sapevo, forse? Occhi ombrati, chiusi, le ciglia
come nere frange d'aghi. Pianure bianche, valli scure, capelli simili e felci ricciute... Accidenti, accidenti e accidenti. Ebbene? Perché non entrare? Dunque hai perduto mente, anima e cuore per me, eh? Eccomi qui. Fammi vedere. Hergal, dissi, quasi a voce alta. È proprio il tipo di scherzo carogna e maligno che mi faresti tu, Hergal, amico mio, amante mio, che ho scaraventato attraverso quella parete a Quattro BEE, segnando così il principio della fine. Ero passato oltre. Avevo raggiunto la mia cabina, quella azzurra. 11. Le luci smorzate della cabina non si accesero. Qualche altra avaria della mia nave tutt'altro che perfetta. Non mi sembrava un guasto pericoloso, comunque. Avrei provveduto l'indomani mattina. Non c'erano le luci neppure nel bagno, ma l'acqua profumata funzionava, e l'aria calda e gli asciugamani volarono dalla parete verso di me con la solita, terrificante alacrità. Era molto buio, solo la luce fioca delle stelle filtrava, fumosamente, dalla finestra attraverso il velo azzurro... avevo dimenticato di aprire la tenda, ed era strano, perché mi pareva di averlo fatto. Forse la mia povera mente troppo indaffarata stava per cedere. Trovai il letto, non troppo facilmente, stanca e impensierita com'ero, sbatacchiando la mia anatomia svestita contro i mobili, e proferendo imprecazioni splendenti d'inventiva e di squallore. Mi lasciai cadere sul letto, con il corpo e la testa che cantavano come corde allentate di colpo. E subito due mani mi afferrarono, mi girarono. Mi sentii afferrare e tenere, con fermezza ma non dolorosamente, vicina in tutta la lunghezza ad un corpo maschile, vicina come la terra si tiene vicino tutto ciò che cresce da essa. Lo riconobbi subito. E come no. Quel corpo era stato il mio. Fu un contatto così vitale e istantaneo, così prevedibilmente elettrico, che non avrei saputo respingerlo, come non avrei potuto resistere a un potente gas anestetico indolore. Pelle contro pelle. Lui era nudo come me. Non mi accarezzò e non mi parlò, mi tenne stretta, semplicemente, lasciando che il mio corpo lo trovasse, anche se il mio cervello rifiutava di farlo. Ma il mio cervello, sommerso, travolto dalla mia carne, ricordava; e ri-
cordando le evocò da se stesso fino a quando sembrò che fossimo una cosa sola, indivisibile. Lui comprese la mia resa prima ancora che lo cingessi con le braccia, prima ancora che gli chiedessi: «Dimmi chi sei veramente.» «Tu,» disse lui, sulla mia bocca... la sua bocca, la mia bocca. «Chi altro?» Più tardi, lui rise di me. Lo vedevo ridere, perché aveva lasciato accendere la lampada piccola (aveva chiesto a Moddik come regolare le luci). I suoi occhi erano di zaffiro in quel bagliore fioco, come dovevano esserlo anche i miei, perché i miei erano ancora gli occhi del poeta, gli occhi di Esten. Quegli occhi, anche se tutto il resto era diverso, ci avrebbero fatti apparire come figli di un unico fattore, di un unico grembo. «Ebbene, dunque,» disse lui, «sono stato efficiente come lo eri tu, quando eri me?» 12. L'alba penetrò, aurea e verde, attraverso le fronde della foresta, il videoglacia, il velo azzurro, e ci svegliò. «Carissima ooma,» disse lui, «cos'è questo baccano?» «Rane? Binni-quel-che-sono? Che baccano? Il mio cuore, forse, scosso dalla tua vicinanza.» «Il mio, scosso dalla tua? No. Una specie di ronzio.» «Nilla nel bagno?» «Sciocca dei miei sogni. Un suono metallico. I robot?» «Yay in bagno? Si arrugginirà.» «Diventi sempre così sciocca, dopo aver fatto l'amore?» mi chiese lui. «Non lo sai, ooma?» «Stai ancora cercando d'indovinare la mia identità, quando ti dico che non ci eravamo mai incontrati?» «Sto ancora tentando. Lo indovinerò. Forse ho già indovinato.» «Non credo,» disse lui, serio, con quella tristezza che strappava il cuore e accendeva le viscere, incisa sulla sua bella faccia, come un tempo si era incisa sulla mia bella faccia. «Vedi, a parte tutto il resto, inevitabilmente ti sentirai confusa dalla nozione subconscia permenente che io sono realmente te. Ti disorienta e ti invischia, non è vero?» «Sì. Credo che sia una perversione morbosa, e noi siamo una coppia di
pervertiti, tu perché lo pensi, io perché lo accetto. E non continuare a guardarmi così, o chiederò altre prove, e tu sei ovviamente troppo fragile per fronteggiare una simile libido, con quella consunzione e il resto.» «Balle,» disse il mio amante. «Proprio,» dissi io, e scesi dal letto. Adesso lo potevo sentire molto chiaramente, quel ronzio. Guardai fuori dalla finestra, ma il sole e le foglie e la stanchezza della concupiscenza mi impedivano di vedere bene. «Vado a indagare,» dissi. «Sei sempre stata una ficcanaso.» «Ehi,» feci io. «'Sei sempre stata.' Si fanno sentire i tuoi precedenti rapporti con me.» Naturalmente, uscimmo solo dopo un'ora. E quando uscimmo, con i nostri occhi d'opali azzurri romanticamente cerchiati di scuro, la terrazza era animatissima. C'erano tutti, e stavano consumando il primo pasto. Danor levò lo sguardo sopra di noi, senza sorridere. O meglio, tutto il suo corpo sorrideva, irradiando un'approvazione assoluta: ma non la sua bocca, che conservava un'espressione scrupolosamente seria. Kam, d'altra parte, sfoggiò un gran sorriso, e sottovoce disse qualcosa che suonava come «Evviva». I Jang erano troppo indaffarati a fare i Jang per notarci veramente; solo Nilla ci lanciò un'occhiata maligna, ed Esten le rispose con un inchino. Poi mi risuonò all'orecchio una voce calda e mormorante che mi sorprese: Talsi. «Moddik ci ha pregato di raggiungerlo al più presto possibile, oltre gli alberi di porpora.» «Vuoi dire che ha costruito veramente nove miscelatori d'acqua?» chiesi. Talsi rispose: «Naturalmente. Penso che quella cara creatura ci tenga a mostrarli.» «Perché no?» esclamai, prelevando un frutto dal tavolo... sembrava che adesso li mangiassero tutti, tranne Nilla. Persino Naz aveva in mano una pescasole, ma probabilmente era troppo drogato per capire che cos'era, forse credeva che fosse un sintodolce o qualcosa del genere. «Andiamo,» dissi. «Andiamo a vedere i miscelatori d'acqua di Moddik.» I Jang gemettero e si staccarono dal pane degli angeli. Era una prospettiva consolante: quando il distributore dei viveri sarebbe passato a fornire solo le sostanze sintetiche basilari, sulla mia nave non si sarebbe più servita quella robaccia.
Io, Esten, Danor e Kam andammo per primi, seguiti dai Jang. Glis e Felain avevano convinto Naz a venire anche lui. Talsi veniva per ultima, come una pastora che mandasse avanti il gregge. Era ancora il suo impulso sessuale materno? Esten ed io avevamo dimenticato il ronzio, ormai ci eravamo abituati. Ma ora me lo ricordai, perché la fonte di quel suono era proprio lì. «Buongiorno,» disse Moddik, quando ci avventurammo sul prato erboso oltre il boschetto, e ci trovammo di fronte ad un semicerchio di miscelatori d'acqua. «Moddik!» esclamai. «Sono dodici! Funzionano tutti?» «Certamente. Dubiti del maestro?» «Attivali,» supplicai. «Facciamoci bagnare dalla pioggia. Oppure l'avviamento debbo premerlo io?» Moddik mi fissò, e di colpo non fu più lo stesso. In un certo senso, era portentoso. Forse il suo trionfo lo aveva commosso. «Un momento,» disse. «Prima di fare qualcosa, vorrei che ascoltaste tutti ciò che ho da dire.» Non sfuggì a nessuno di noi. Una specie di cambiamento nell'aria, come quello che si impara a riconoscere nell'atmosfera prima di una tempesta di sabbia o delle grandi piogge. Nel silenzio assoluto, io dissi: «Moddik, è successo qualcosa di brutto? In tal caso, puoi dircelo in fretta? Perché forse contano anche i secondi.» «Niente di brutto,» disse Moddik. «Potrà sembrarlo, solo per uno split. Ma se la prendiamo con calma, credo che riusciremo a capire.» Ero così tesa che sussultai, quando Esten parlò. «I miscelatori d'acqua funzionano veramente?» «Oh, sì. Sono veri miscelatori d'acqua. Hai già intuito, Jang Esten, ciò che ho fatto?» «No. Non ne sono sicuro. Comunque, faresti meglio a dircelo.» «Sì, faresti meglio,» disse Kam, alla mia destra. «E in fretta.» 13. L'espressione del volto di Moddik aveva una familiarità sgradevole. Non mi veniva in mente cosa mi ricordasse. Lui disse: «Ecco, allora. Ridotto al nocciolo, per così dire. La Commissione di Quattro BEE non ha rancori personali nei confronti di nessuno di voi, contrariamente a ciò che voi immaginate nel vostro egoismo. I suoi compo-
nenti sono allarmati perché temono che voi possiate rovinarvi emotivamente in modo irreparabile, e rovinare anche altri, su scala più ampia e terribile. Anche se forse non comprendete esattamente il termine, voi siete anarchici. Perciò, considerando in particolare la forza relativa del vostro numero, o la forza che potreste raggiungere, dato che tanti, nelle città, sembrano simpatizzare con voi e tendere verso il vostro modo di esistere e i vostri ideali... perciò, ripeto, siete molto, molto pericolosi. Per il vostro bene e per il bene di coloro che sconsideratamente potrebbero seguirvi, vi chiediamo di arrendervi a noi, subito, e di ritornare volontariamente alla DP. Nessuno intende farvi del male. Noi agiamo nel vostro interesse.» «Noi?» dissi io. Non so bene come riuscissi a parlare. «Noi?» «Io, Talsi, Glis,» disse Moddik. In quel momento Talsi e Glis uscirono dal nostro gruppo e si portarono al suo fianco. Allora ricordai dove avevo già visto quell'espressione. Il Palazzo della Commissione. «Voi siete Q-R. Siete androidi,» dissi. Nilla urlò. Anche in quella situazione, pensai che era tipico, quel suo comportamento. «Pensavo che fosse troppo bello per essere vero,» disse Esten. «Ma non ho capito in tempo.» «Eri troppo occupato a sedurre la tua autorità,» disse Moddik. «Sì,» dissi, «e io ero troppo occupata con lui. E Danor e Kam erano troppo presi l'uno dall'altra e dai frutti che tu hai trovato così opportunamente verso ovest. E Nilla e il suo giardino. E Felain troppo indaffarata con Glis, e Loxi e Phy con Talsi. E Naz pieno d'estasi fino agli occhi. Magnifica organizzazione, androide. Proprio derisann, stronzo di un Q-R. Avrei dovuto capirlo prima, no? Assaggiare quel frutto in salone... un gesto così umano. Oppure volevi scoprire se veramente potevamo vivere nutrendocene? E quella storia delle pillole per restare sveglio. Tu non hai mai avuto bisogno di dormire, nella tua breve esistenza fatta di tubi e valvole. Oh, è troppo classico per fare commenti. Il tuo avioplano è addirittura precipitato, no? Per fare in modo che non vi scacciassi? La tua splendida recita mi lascia senza fiato. E sei stato così abile a superare il blocco che avevo imposto ai robot... mi chiedevo come c'eri riuscito. Mi chiedevo come avevi indotto il computer del monitor a fare esattamente quel che tu dicevi. Adesso lo so, vero? E tutta quella pseudostoria di cui parlavate tu e quelle due; il vostro circolo Jang di due rorl addietro... conoscevi persino Assule, naturalmente, e hai detto che era un cretino perché sapevi che me ne sarei entusiasmata. Come ti hanno programmato bene. Ehi, Glis, avevi proprio
ragione, no? Lui può veramente capire il cervello di una macchina. È logico, e vale anche per te. Siete tutti macchine.» «Non esattamente,» mi disse Moddik. «Non è necessaria una scintilla vitale per creare un androide, poiché siamo motivati elettronicamente, ma cresciamo partendo da cellule e siamo di carne come voi, anche se per tenerci in vita servono alcuni meccanismi superiori. Per esempio, Esule Jang, se volessi potrei sollevare la tua nave delle sabbie e trasportarla attaverso le dune. Fammi vedere se tu lo puoi fare, umana dalla scintilla vitale.» Ero nauseata, un po' perché l'avevo giudicato simpatico, mi ero fidata di lui, l'avevo ammirato. Ma anche perché erano finalmente allo scoperto le realtà crude della loro rivalità, che avevo sempre intuito istintivamente. Erano programmati per servire le esigenze umane; ma nei recessi più bui della loro personalità, ci odiavano e ci disprezzavano. Basta offrire loro il pretesto per una rappresaglia, e si sarebbero rivoltati contro di noi. Buon Dio, e adesso? «E allora che cosa hai fatto, superandroide?» chiesi sottovoce. «Deve esserci qualche minaccia che ci incombe addosso, no? Tu sai che altrimenti non accetteremmo la tua proposta.» «Ha manomesso qualcosa,» disse Esten. «Probabilmente i miscelatori d'acqua.» «Non occorre che tiriate a indovinare,» disse Moddik, il Q-R. «Ve lo dirò io. Sono i miscelatori d'acqua, e anche la mia officina dietro il boschetto, e anche il robot Borss, che in questo momento è a bordo della nave delle sabbie... debbo continuare l'elenco? Ho usato bene il materiale inviatomi dalla Commissione. I miscelatori d'acqua sono particolarmente carini... veri miscelatori d'acqua, che funzionano veramente: però al momento stanno miscelando qualcosa d'altro. Questo particolare mi ha divertito. Vedete, noi siamo capaci di umorismo. Basterebbe modificarli un po' per restituirli alla loro funzione originaria, naturalmente, ma non credo che nessuno di voi sia in grado di provvedere.» «Lascia perdere i fronzoli,» disse Kam. La sua voce era sommessa come la mia, come quella di Esten... come se avessimo tutti timore di parlare normalmente, per non precipitare la catastrofe. «Cosa c'è nei miscelatori d'acqua, nell'officina, nel robot... e dovunque tu hai messo le mani?» «Bombe,» disse il Q-R. «E ognuna è abbastanza grossa per far volare in cielo questa piccola area. Tutte insieme, formerebbero un vasto spettacolo pirotecnico. Resterà ben poco della vostra piantagione e della vostra nave.
O di voi, amici umani. Anche se vi metteste a correre subito, non riuscirete a portarvi lontano a sufficienza dall'esplosione, e credetemi, il perimetro di una deflagrazione del genere è peggio che il centro.» «Mente,» disse Kam. «Tu menti. Attiva i miscelatori, e salti anche tu. Non è così?» «Infatti,» disse il Q-R. «Ma io non ho... uhm... anima. La cosa che vi turba tanto, la cosa che voi chiamate 'morte', per me non conta nulla. Avrò aiutato la Commissione e l'umanità in generale. Gli aerei del Limbo raccoglieranno i vostri resti, e voi entrerete nella DP come prestabilito. E tutto sarà come deve essere.» «Aspetta,» dissi io. «Tu non puoi fare del male agli esseri umani, vero? O la tua programmazione è sbagliata?» «Oh, no,» fece lui, sorridendo. «Ho potuto sistemare le bombe, certo, poiché quando non sono attive sono innocue, e lo sarebbero in eterno. Tuttavia, non potrei premere un pulsante che causasse perdite di vite umane... sarebbe omicidio. Ma vedete, a Quattro BEE sono stato sottoposto ad una manutenzione trascurata, di proposito, in modo che alla fine, in un momento che poteva venire calcolato esattamente, io funzionassi male. E la mia avaria attiverà le bombe, per mezzo dei normali segnali d'allarme sovracuti emessi dai miei circuiti interni. Capite? È perfetto. La Commissione è responsabile solo dell'errore della mia manutenzione, non delle bombe. Io sono responsabile solo di aver piazzato le bombe, non della mia avaria. La mano destra non sa ciò che fa la sinistra, quindi nessuna delle due è colpevole. Due parti di un tutto, indipendenti l'una dall'altra: eppure agiscono perfettamente come una cosa sola. Ma sto divagando. Forse dovrei spiegare che il momento della mia avaria è trascorso da diversi split, e che i segnali vengono già irradiati. Occorreranno esattamente ancora dodici split, prima che penetrino nei rivestimenti dell'esplosivo e attivino il nervo vitale. Poi ci sarà un bel bum.» Mi guardò: i suoi occhi danzavano, scintillavano, danzavano. «Se correte in fretta, l'avioplano Jang che è nel boschetto dietro di voi vi porterà via in tempo, anche sovraccarico. Debbo farvi osservare, comunque, che i comandi sono regolati per portarvi al Limbo di Quattro BEE. E la regolazione è irreversibile.» «Se accettassimo di andare,» disse Kam, bruscamente, «arresteresti i segnali, impediresti alle bombe di esplodere?» «Io non ho il potere di arrestare l'emissione del mio segnale. Dovrei venire smantellato.» Nilla urlò di nuovo.
«Io vado,» strillò. «Non voglio che mi succeda qualcosa di male.» E fuggì verso il boschetto e l'aereo. «Sì,» disse Esten. «Andremo tutti, no? Ma senti,» e si avviò ansiosamente verso il Q-R. «Ho lasciato qualcosa nella nave. Potrei andare a prenderlo prima...» Avvenne troppo rapidamente per me. Esten si buttò addosso a Moddik. Troppo rapidamente anche per Moddik. Un androide è costruito fisicamente come un umano, almeno all'esterno, perciò il pugno sferrato contro il suo torace sconvolse il meccanismo dei polmoni e del cuore, e l'altro pugno, centrando la mascella, scardinò quelle ossa durissime intontendo temporaneamente il cervello d'acciaio che ronzava dentro il cranio di plastica. Moddik cadde lungo disteso, e nello stesso istante caddero anche Talsi e Glis. Esten si curvò sul Q-R, stravolto, disperato, grigio in viso sotto l'abbronzatura. «Nella sua officina,» mi gridò. «Coltelli elettronici... un pezzo di videoglacia... qualcosa di appuntito...» Corsi. Non avevo mai corso così veloce, con gambe fatte interamente d'acqua tiepida. Il capannone era una confusione di pezzi d'ogni genere. Afferrai un coltello ad ago molecolare e mi precipitai di nuovo fuori. «Ecco.» Mi buttai giù, accanto ad Esten, poi girai la testa: non ero pronta a vedere quello che lui fece con il coltello, il getto di sangue che sembrava completamente umano. «Sarà uno schifo,» disse lui. Sembrava più nauseato di me, ma si controllava meglio. «Sai cosa stai facendo?» proruppi. Sentivo Nilla e Felain che urlavano, sullo sfondo. Gli altri si limitavano a guardare. «In parte,» disse Esten. «Ho letto qualcosa sugli elementi fondamentali degli androidi e dei robot... alla Torre della Storia. Avevo idea che potessero tentare un tiro del genere... ma non così subito...» «Cosa posso fare?» «Prendi uno dei robot. Abbiamo bisogno di un getto liquido... acqua, olio, qualunque cosa, per pulire questo maledetto plasma metallico rosso. Debbo tagliare tutti gli organi che non sono formati di tessuti, per arrestare il segnale.» Mi alzai per avviarmi, ma Kam disse: «Vado io.» Corse via, come avevo fatto prima, verso il tratto della foresta dove i robot stavano zappando. Le mani di Esten frugavano il cadavere. Glis e Talsi sembravano morte.
Moddik era finito, e le sue «donne», essendo sue estensioni, presumibilmente si erano fermate come cronometri, quando lui aveva cessato di esistere. Kam tornò correndo, seguito dai robot sferraglianti. «Bene,» disse Esten. «Adesso posso farcela da solo; voi andate, e portate via quelle sciocche che urlano.» «Noi restiamo,» disse Kam. «Tanto, se ci fosse l'esplosione, non potremmo salvarci.» «Potreste. Allontanatevi il più possibile dalla nave, e scendete in uno dei canali d'irrigazione, al momento giusto. Respirate profondamente e immergetevi con la testa sott'acqua, e state fermi. Potrebbe servire. Adesso muovetevi, per amor di Dio.» Il coltello sfrigolava e sibilava nel liquido, affondando più lentamente tra le fibre d'acciaio e la dura gommaplastica. I motori vitali dell'androide erano spasmodicamente scoperti tra i getti di plasma e gli spruzzi d'olio di Jaska e Yay. Era un olio dorato, scuro. Quando si mescolava al «sangue», assumeva il colore delle chiome granata di Moddik. «Andate,» disse Esten, con fredda rabbia, senza guardarci. «Avete circa tre split.» «Sta bene,» disse Kam. Li sentii muoversi, per fare ciò che lui aveva detto, ma non li vidi. Anche Nilla e Felain erano state trascinate via, gementi. Anche Loxi aveva cominciato a ululare. Sarebbero riusciti a togliere il cigno dal tetto, o dovunque fosse? E gli Occhigrigi? E... «Anche tu, via,» disse Esten. Io non avevo fatto il minimo rumore, ma sapeva che non me ne ero andata. Non so perché fossi rimasta. Ero mezza morta di paura. Avrei voluto fuggire urlando come le ragazze Jang, fuggire senza fermarmi. Ma inspiegabilmente mi sentivo più al sicuro lì, ritta dietro di lui. «Io...» dissi, ma Esten m'interruppe come se mi odiasse. «Pussa via. Sto cercando di salvare la tua lurida terra e la tua stupida pelle. Lasciamelo fare.» Perciò feci ciò che mi aveva detto. Fuggii. Ma non arrivai molto lontano. C'era un canale, vicinissimo... troppo vicino, ma non ero in grado di ragionare, e quasi vi caddi dentro. L'acqua era poco profonda, mi arrivava appena alle caviglie. Mi sdraiai, cercando di tirarmi l'acqua addosso. Piangevo, in aspri rantoli gutturali, e cercavo di contare. Ma non contavo. Pregavo. Come mi era accaduto già un'altra volta. Una
specie di preghiera. Anche se quella volta non era stata esaudita. «No, ti prego, no, non lasciare che... Oh, ti prego, no, oh no, oh no...» Non c'era silenzio. C'erano molti rumori. Animali, brezze tra le canne, e i fiori e le foglie. Come se ognuno parlasse per l'ultima volta, affrettandosi a sfogarsi nel suo canto di vita, prima che l'esplosione facesse tutto a pezzi. Poi udii qualcuno urlare, lontano, verso ovest. Nilla, forse. Era venuto il momento, e là lo sapevano? Ecco, ora accade. Ecco, ora viene. Il vento rosso, il suono nero. Dolore e silenzio per sempre. Non voglio morire. Non sono pronta. Nessuno di noi è pronto. Non voglio che questo muoia, tutto questo intorno a me. Io voglio l'indolenzimento nei muscoli dopo una giornata di lavoro, voglio il dolore nel mio cuore per la collera o la disperazione. Voglio tutte le infelicità e le gioie che ho conosciuto, e che conoscerò. Le voglio tutte. Sono tutte preziose. E gli alberi, e la terra, e il cielo... Perché non succede? Mi sono morsa a sangue una mano. Debbo cominciare con l'altra? Deve succedere, quindi, che succeda subito. Non Accadde Nulla. Kam mi stava trascinando su per la proda del canale, tra la bella erba. «Kam, siamo morti?» «No,» disse lui, ragionevolmente, come se io avessi detto qualcosa d'intelligente e d'insolito che meritava la risposta di un uomo pensante. «Siamo salvi. Non è successo. Felain aveva un cronometro... il cronometro di Glis, che ironia... e ho controllato. Sono passati quindici split da quando sarebbe dovuto accadere. Tutto a posto.» «Allora dov'è Esten?» Balzai su, tutta coperta di fango, di erbe, di tutti i detriti che mi si erano appiccicati addosso, e mi avventai oltre gli alberi di porpora, sul prato. Praticamente. Lui era ancora vicino al cadavere del Q-R, il coltello silenzioso e immobile nella mano. Sembrava esausto, letteralmente, come se una struttura interiore avesse ceduto. Ma era un'altra complicazione delle sindromi di quel corpo di poeta?
«Esten...» chiamai, e lui gridò: «Aspetta... stai indietro.» «Ma è finito,» dissi io. «Sono passati quindici split da quando...» «Li ho trovati tutti,» disse. «Tutti, tranne uno. Ho bloccato anche quello, quando l'ho trovato, ma ormai ero fuori tempo. Potrebbe essere tutto a posto. O forse no. Qualcosa può ancora...» S'interruppe, fissandomi, e poi gridò con tutte le sue forze: «Giù, buttati giù!» Kam era alle mie spalle e mi spinse. Cademmo insieme, come amanti disperati, in mezzo all'erba, e la terra verde si sollevò con violenza e ci investì. Il rumore fu un non-rumore, un'esplosione così enorme che superò il suono, in un rombo di sordità. Dal cielo piovvero fuoco e detriti. Le foglie caddero a masse e ci coprirono. Poi finì. Era stato solo un miscelatore d'acqua, il settimo, il più lontano da noi, al centro del semicerchio. Esten aveva isolato tutti i segnali in tempo, tranne l'ultimo; e quell'ultimo era continuato abbastanza a lungo per insinuarsi nel rivestimento della bomba, prima di estinguersi. Il nervo della bomba aveva guizzato, esitato, chiedendosi se doveva detonare o no. Se lo era chiesto per quindici split. Poi aveva optato per il sì, ed era esploso. Il fumo si schiariva, a tratti. Ero illesa, ma ero così fuori di me che riuscivo solo a trascinarmi sulle mani e sulle ginocchia. Kam, illeso a sua volta, mi mormorava qualcosa, ma io non gli badavo. Raggiunsi in fretta Esten, anche in quel modo. Pensavo che sarebbe morto, ma dovevo raggiungerlo lo stesso. Non era morto. Respirava, sembrava semplicemente un bel poeta svenuto su un prato romantico. Dal lato sinistro. Quando girai dall'altra parte, la parte dell'esplosione, vidi che non sarebbe mai più stato bello, non sarebbe stato mai più come ero stata io, mai più. 14. Sapevo benissimo quale sarebbe stata la risposta, ma dovevo tentare. Tentai per ore, per giorni. Provai a urlare, a supplicare, a parlare in modo estremamente sereno e razionale. Piansi e bestemmiai. Il computer si limitava a ripetere il suo messaggio. Dovevamo usare le
droghe analgesiche che avevamo a disposizione, gli antibiodermici, gli unguenti. Ci avrebbero mandato altri rifornimenti. «L'unguento non basta,» continuavo a ripetere. «Non può guarire una simile ferita... non adeguatamente.» Il computer diceva che il dolore poteva venire alleviato, e l'infezione prevenuta, e che questo era il massimo cui avevamo diritto, noi esiliati. Sapevamo che non ci erano più concessi nuovi corpi, e nessuna forma di chirurgia o di trapianto. «Ma la pelle è... la cicatrice sarà...» Rattle click. Rattle click. Click. «Accidenti a te,» urlai. «È colpa tua!» Rattle, rattle. «È colpa vostra... la vostra congiura... è fallita! I vostri fetenti Q-R sono fusi, sparsi là fuori sull'erba come...» Kam tolse il collegamento prima che potessi diffondermi in spiegazioni. «È inutile,» disse. «Riceve soltanto. Non otterrai altre reazioni.» «Qualunque cosa ci mandino... medicinali, rifornimenti... come possiamo fidarci?» «Controlleremo tutto quel che mandano,» disse lui. «Come avevi suggerito tu stessa. Ma non credo che ritenteranno. Quel dettaglio della loro programmazione rimane valido... sono potuti arrivare fin dove si sono spinti solo rendendosi ciechi. Ma adesso è tutto allo scoperto. La prossima volta, lo saprebbero. Quindi, non lo faranno più.» «Oh, che cosa importa, tanto?» C'era un gran silenzio, nella nave. Erano quasi tutti seduti in salone. Nilla e Felain piangevano a intermittenza, ma sommessamente, tenendosi strette l'una all'altra. Naz, di solito, camminava avanti e indietro nel corridoio; ogni volta che si girava, le gocce di topazio fissate all'orlo dei suoi calzoni emettevano un lieve freddo tintinnio. Stavamo andando avanti così, con poche variazioni, da cinque unit. Aprii la porta della mia cabina. Danor era seduta accanto a lui. Era immobile, e anche lui era immobile, ma finalmente era sveglio. Io avevo sperato che non si svegliasse per un tempo indefinibile, anche se, naturalmente, non soffriva, grazie alle droghe miracolose, così facili da usare, così comode. Tutto il lato destro del viso e del collo era protetto da
una fasciatura di seta-di-ghiaccio, e sotto c'era la barriera di schiuma anestetica, che impediva alla stoffa di toccare la carne devastata. L'esplosione gli aveva squarciato la metà sinistra del volto, staccando a strati i tessuti... ma chissà come, incredibilmente, aveva risparmiato la bocca, la narice, l'occhio. E quindi fu con tutti e due gli occhi, quegli occhi che erano ancora i miei, che poté guardarmi mentre mi avvicinavo. «Ciao, Esten,» dissi. «Ciao,» disse lui. Il timpano destro era rimasto lesionato gravemente, ma questo non aveva molta importanza. I robot e le macchine avevano già preparato e installato una specie di apparecchietto miniaturizzato che avrebbe svolto le funzioni dell'orecchio... era un processo che conoscevano bene, poiché faceva parte della loro tecnica di autoripazione. Danor si alzò e uscì. Non volevo che se ne andasse. Non volevo la responsabilità di stare sola con lui, adesso che era cosciente. Quando era privo di sensi, ero rimasta a vegliarlo per quattro giorni e quattro notti, a parte il tempo preso dai miei dialoghi con il computer del monitor, quando mi dava il cambio Danor o Kam. Già allora mi ero sentita impotente, inutile. Ma adesso... Non sapevo cosa potevo dirgli. Soprattutto perché... «Siediti,» disse lui, gentilmente. «Propongo che parliamo un po'.» «Te la senti di parlare? Io credo...» «Io credo che tu preferisca non parlare, e che scarichi l'onere su di me. Ma io dico che dobbiamo parlare, e mi sento benissimo, quindi avvicina una fluttuosedia e accomodati.» «Benissimo.» Sedetti e lo guardai. Avevo voglia di piangere. Lui disse: «Non c'è bisogno che mi fissi coraggiosamente, sai.» E io abbassai gli occhi che mi bruciavano, vergognandomi. «Debbo essere spaventoso, immagino,» disse lui, con calma, «e quando questa eccellente fasciatura sparirà, sarà sedici volte peggio. Non è così?» «Non necessariamente. Vedi, l'unguento è sempre molto efficace. E se continui ad usarlo... forse ci vorrà un po' di tempo, ma...» «Zitta, ooma,» disse lui. «Non hai mai saputo mentire, nelle cose che t'importavano veramente. Ascoltami, e chiariremo tutto. Ero venuto qui per averti, e ti ho avuta, e non lo rimpiango. E non rimpiango di aver salvato la tua vegetazione. Tuttavia, mi rendo conto che come tuo compagno di letto, con questa faccia, ho i giorni contati. Quindi, tra un po', Naz mi porterà
tutta la scorta di estasi cui ha rinunciato, e alcune altre cose, e io prenderò beatamente una dose eccessiva, abbandonando questa Vita dell'Ego per passare alla DP.» Balzai... su dalla sedia, all'indietro... «No!» gridai. «La DP è fuori causa. Il suicidio è fuori causa. Daresti loro la soddisfazione di fare volontariamente quello che cercavano di costringerci a fare... dopo questo?» «Ooma, la vita è mia, o almeno quello che ne resta. Spetta a me decidere.» «No, non spetta più a te.» «Ti prego, non seppellirmi sotto un torrente di proteste insincere di affetto eterno, e non cominciare a urlare che la mia bruttezza irrimediabile non farà per te nessuna differenza. In futuro te ne pentiresti ed io, tanto, non ne crederei una sillaba.» Non so come, tornai alla sedia e mi lasciai cadere come se fossi inseguita da un orco. Forse era proprio così. «Lasciami fare quel che voglio,» disse lui. «Arriveranno altri maschi, puoi starne certa. La prossima volta, controlla per accertarti che siano umani.» «Stai zitto,» dissi io. Cercai di riprendere fiato, e mi accorsi che non ci sarei riuscita, quindi avrei dovuto spiegargli tutto senza respirare. «Innanzi tutto, so che costituisce una differenza. Perché non dovrebbe? Ogni volta che guarderò la cicatrice... oh, sì, sarà una cicatrice spaventosa... mi si annoderanno le viscere, come un nido di cobra d'acciaio rinforzato. Non per la ripugnanza: per la collera. Rabbia perché è successo a te. Che altra differenza dovrebbe esserci? Tu sei ancora tu... sei ancora me, bastardo, che hai rubato il mio corpo. Se i tuoi capelli imbiancassero, smetterei di provare qualcosa per te? Che cosa importa, del resto? A Quattro BEE e BAA e BOO, l'aspetto fisico era comunque uno scherzo, no? Se ti innamoravi di qualcuno ti innamoravi della personalità... del... dell'io... qualunque cosa sia... non della carne che quello aveva indossato per caso in quell'unit. Ed è per questo che il sentimento vero era così raro. Oh, sì, il corpo con cui sei comparso, identico al mio e tutto il resto... ma sei tu che sei arrivato a me, sciocco. E quello che ti è accaduto... è qualcosa che è stato fatto a te. Ma tu sei sempre tu.» A questo punto riuscii a tirare il fiato, e gli lanciai le ultime parole come un colpo gelido, per riportarlo alla ragione ed a me. «Sei sempre tu, Hergal.» «Oh,» disse lui, incerto, Sembrava sul punto di mettersi a ridere.
«Certo,» aggiunsi io, «magari sei così decadente che non te la senti di vivere ridotto così. Magari non te ne importa niente di me. Vuoi soltanto correre alla bella DP, e lasciarmi qui sola per il resto dei miei giorni, con la tua lurida creaturina da allevare.» «Cosa?» fece lui. Mi ripresi, proprio in quell'attimo. «Ehm... non avevo intenzione di dirtelo così. Oh, non sono neppure assolutamente sicura. Effettivamente. Quindi, uhm. Sì.» «Be', credo che faresti meglio a dirmelo. Ancora. Con calma. Dettagliatamente.» Mi alzai, sedetti sul bordo del letto. «Vedi,» mormorai, imbarazzata per qualche ragione che non capivo, «Kam e io eravamo vicini all'esplosione, perciò abbiamo fatto controlli su noi stessi per accertarci di essere fisicamente in perfetto ordine. Era tutto a posto. Ma la mia macchina ha avuto una piccola crisi e mi ha sputato addosso pezzetti di nastro blu e ha detto che ero... è una parola antica... incinta. Questo significa che tu ed io abbiamo fatto quello che non ci sarebbe stato permesso nelle città: e cioè, fare un figlio. Solo che invece di crescere nelle vasche di cristallyze, così igieniche e sicure e tutto il resto, quel povero piccolo idiota dovrà crescere dentro di me. Sono incinta, gravida, feconda, eccetera. Non sono riuscita a capire il perché, all'inizio, ma poi lo ha capito la macchina. È il cibo 'coltivato in casa' che ho divorato così avidamente. I tuberi e le peschesole e la lattuga. Hanno modificato la mia biochimica, annullato le proprietà contraccettive che evidentemente allignano nella nostra dieta cittadina. E così, tac, diventeremo fattori, Hergal, e se tu te ne vai e mi pianti qui, non te lo perdonerò mai.» Lui restò lì disteso, impassibile. Mi chiesi se aveva afferrato quanto avevo detto. Io stessa quasi non ci riuscivo. Poi mi prese la mano e disse: «Se tu vuoi che io rimanga, resterò. Ma c'è una cosa che dobbiamo chiarire. Non sono Hergal.» Lo guardai, e pazzamente snocciolai un elenco di maschi che in un'epoca o nell'altra mi erano stati vicini: Drar? Rannik? Lorun? «No,» disse lui. Mi guardò e poi me lo disse. E io non gli credetti. «Dodici vrek addietro,» disse lui, «è stata l'ultima volta che ti sei accorta veramente di me, e non è sorprendente. Non sapevo esprimermi, allora, soprattutto non con te. Eri come una muraglia di metallo solido, splendente. Quando ero con te, il calore e il fulgore mi incartapecorivano. Diventa-
vo tutte le cose che tu odiavi di più, per pura autodifesa. Non potevo dirti una frase che non sembrasse uscita da un tritatutto arrugginito. Alla fine, mi sono inventato una specie di gioco. Sapevo che mi vedevi come un idiota opaco, reazionario, con un sacco di luoghi comuni al posto del cervello... una specie di promok devoto, che ti seguiva come un cane, e si tirava in disparte quanto ti annoiava. Perché non sarei mai riuscito a fare in modo che i miei veri pensieri superassero quella muraglia di fulgida indifferenza, mi ero abituato a recitare la parte che tu mi avevi assegnato. Arrivavo con l'aspetto del Mostro della Notte e ti fissavo con un paio dei miei occhi, e vedevo i circuiti che entravano in azione nella tua mente, formando lo schema esatto. Una specie di insegna al neon ti si accendeva in faccia: Ecco che arriva quel maledetto scemo di Hatta. Naturalmente, non era il metodo giusto da adottare con te, ma io sono un uomo difensivo, ipersensibile. Non posso fare a meno: ho bisogno di un guscio. Ridevo amaramente del modo in cui mi giudicavi ogni volta, ma stavo al gioco. Potevo dire a me stesso: Lei non mi capisce, perché sono io che non le permetto di vedermi veramente. «Poi ti hanno buttata fuori da Quattro BEE, ed allora... Ho capito che ti avrei seguita perché eri la sola cosa che dava valore alla mia vita. Ero stato sempre troppo nervoso, troppo spaventato per mettermi sulla tua strada. L'unica volta che mi sono messo sul tuo livello, mi hai ricacciato in gola il mio ego. Ma qui non c'era altro modo. Essere un mostro offre una certa compensazione, ma non quando non si può essere nient'altro. «All'inizio, sono stato femmina per un po' di tempo. Cercavo di scoprire qualcosa sul tuo conto, di superare quello che mi faceva paura in te. E ci sono riuscito. Era un tipo di terapia che pensavo potesse riuscire, ed è riuscita. Essere femmina non fa per me. Sono maschio all'ottanta per cento, e non c'è niente da fare. Ma ho capito cosa fa funzionare l'orologio: ed era ora. Rubare il tuo ultimo corpo maschile è stata un'ispirazione. Potrei aggiungere che è stato molto inquietante. Più per me, forse, che per te quando mi hai visto. Era la prima volta, o quasi, che ti mettevo in una situazione di svantaggio. In quell'occasione, non si è accesa nessuna scritta al neon. Eri completamente sbigottita, là, ferma, avvolta nei resti di quell'abito ingioiellato, e mi guardavi. Avevo cercato di acquisire i tuoi modi, le tue qualità estroverse, per ingannarti. La cosa più strana è che li ho assimilati facilmente, non appena ho superato la paura di uscire allo scoperto, senza nascondermi dietro sei occhi rossi ed otto gambe.» Il suo sguardo non aveva mai lasciato il mio volto, mentre parlava.
Quando s'interruppe, io dissi: «Be', a quanto pare, l'unico vero floop di noi due sono io.» Lui disse: «Ora che sai chi sono, vuoi ancora che rimanga?» «Hatta...» cominciai, ma lui disse: «No, Esten. Continuiamo così: Hatta è tempo passato.» «Bene, Esten, allora. Quando eri Hatta l'Orrore, dicevi sempre che mi amavi.» «Non è cambiato niente,» disse lui. «Ecco tutto.» «Bene... Esten... non so se ti amo. Ma se mi lasci, una parte di me se ne andrà insieme a te. Forse è solo il trucco più ingegnoso che hai combinato, ma mi sembri davvero una parte di me stessa. E ho in me il tuo seme che cresce, e voglio quella creatura, e voglio te, che altro posso dire?» «Conoscendoti,» disse lui, «è anche troppo.» EPILOGO E così siamo qui sedute sulla veranda, Danor ed io, come due Occhigrigi feconde. Nelle nostre condizioni non siamo in grado di zappare o di scavare molto Anzi, non credo che riusciremmo a vedere la zappa, al di sopra delle nostre pance. Danor ha scoperto di aver raddoppiato anche lei il suo conto dell'ego pochi giorni dopo di me, ma non ha avuto l'aria di dispiacersene. È dolcemente incantevole e brilla di salute, come me. Immagino sia una fortuna, per noi, che le città facciano strutture corporee di prima classe. Partorire solo con la conoscenza che si può ricavare da una macchina e dalla sua biblioteca, senza un aiuto esperto, a parte quello che possono dare due maschi pallidi e terrorizzati, è una prospettiva abbastanza disastrosa, ma credo che siamo entrambe costruite perfettamente e che possiamo farcela, e comunque dovremo farcela, vigliaccheria o no. E poi, ne varrà la pena. «Il mio sarà un maschio,» dice Danor. Credo che voglia sostituire il figlio ingrato di Kam, quello di BAA. Ma come possiamo sapere di che sesso saranno i nostri marmocchi? Tutto sommato, questa nostra vita è piuttosto affidata al caso. Non abbiamo più avuto guai dalle città, nonostante una specie di sistema d'allarme che abbiamo organizzato, per individuare gli avioplani nemici e così via. Ma finora, durante l'ultimo vrek e mezzo, sono comparsi sulla scena venti nuovi arrivati, tutti controllati e risultati umani... Solo sei sono femmine, e questo potrà creare qualche difficoltà, in seguito, e quasi vorrei
che avessimo ancora intorno quella sgualdrina androide di Talsi. Arrivano con aerei rubati, con barche celesti rubate... Tre hanno dirottato una nave delle sabbie, e cinque passeggeri hanno deciso di venire con loro dopo aver visto la valle. Lavorano con l'impegno, anche se fanno cose diverse. Cominciamo a riconoscere le nostre capacità particolari, e le sfruttiamo. Per esempio, abbiamo quattro cuochi fantastici, che sanno fare prodigi con la sbobba del distributore di viveri (sì, siamo alla sbobba, e sbobba controllata, se è per questo), e prodigi ancora più grandi con i cibi naturali. Per fortuna, altri hanno capacità meccaniche, non come Moddik, ma questo non è sorprendente. Con il loro aiuto abbiamo in fase di realizzazione un completo piano di costruzione d'alloggi, per non parlare poi di un contraccettivo sicuro per le ragazze che non vogliono finire come me e Danor, pur mangiando i prodotti delle nostre colture. E poi c'è una muraglia protettiva, quasi completa, capace di discriminare tra animali, umani e androidi. Gli undici miscelatori d'acqua superstiti di Moddik, risistemati a dovere da Esten, che leggeva queste cose mentre io assorbivo poesie nella Torre della Storia, adesso si aggirano orgogliosamente nel Giardino, sulle orme del gigante di madreperla che è venuto per primo. Ed è per questo che la valle è tutta verde, da orlo ad orlo. Verde, anche là dove il cratere nero aperto dalla bomba di Moddik è stato guarito dall'erba, come un simbolo di ogni guarigione, del corpo, della mente, del cuore. Star qui seduta, a guardare quel panorama di casette bianche semifinite, le colonne degli alberi, i prati e i pendii dai colori diversi, screziati di ombra e di sole; e sentire il profumo che sale dalla terra e dai fiori... La città da cui sono venuta sembra irreale e ammutolita per sempre. Contro lo sfondo di quelle montagne nere, contro la volta di quel cielo sfolgorante che si specchia nei canali, le grida degli animali, gli insetti, il frastuono degli esseri umani che lavorano o discutono o fanno l'amore o cantano là sotto le ombre verdi... non sono solo il grembo di Danor ed il mio che hanno preso vita, ma è anche il grembo di tutto il nostro mondo. Tra poco Nilla e Felain torneranno dalla foresta, dove hanno cominciato a dedicarsi alla scultura. Quelle due, almeno, non avranno bisogno di contraccettivi, poiché per il momento stanno bene insieme... con grande dispiacere di parecchi maschi. Un giovanotto dagli istinti d'artista le ha già dipinte in un Idillio. Credo che poi intenda ritrarre anche me e Danor come due principesse tribali gravide. Uhm. Naz sta coltivando non so che varietà di grano sul lato ovest, e ne è entusiasta. Phy e Loxi sono da qualche parte con due ragazze. Nei momenti liberi hanno cominciato a costruire un alve-
are per gli insetti, che a quanto pare faranno il miele (prima o poi). Il drago di Esten è stato aggiogato a un aratro antiquato, fabbricato dai robot, e la cosa non gli piace molto. In quanto alle mie teorie sui rapporti tra animali e androidi, il cigno è stato adottato da una famiglia di serpenti, e vive con loro. Il loro pelo lo fa sternutire, ma sembra che questo non lo preoccupi. Kam tornerà a casa fra poco. Cingerà Danor con le braccia come se lei portasse l'etichetta MANEGGIARE CON CURA ESTREMA, ma lei glielo farà dimenticare più tardi, nella loro cabina. Poi verrà Esten, color mogano, di ritorno dalla foresta. Visto da sinistra sembrerà un poeta, o una giovane divinità primitiva uscita dalle radure. Da destra, si vede la mezza maschera di raso polarizzato. E quando penso che quasi gli ho citato, senza rendermene conto, le parole che lui stesso aveva detto tanto tempo fa, quel giorno in cui l'ho indotto a restare vivo insieme a me... che il corpo è uno scherzo, che era il quid interiore ad avere importanza... bene, ho imparato il tuo nuovo nome, Esten, e ho imparato che, se ami qualcuno, è tuo il nome che ha dato a se stesso. Bestiolino, lo senti, mio bestiolino bianco, sepolto chissà dove laggiù, oltre le montagne, sotto la sabbia? Senti il chiasso che stiamo facendo? L'uva verrà vendemmiata presto, e preparata al modo antico. Forse dovrei mandare una fiasca del nostro vino a Quattro BEE, con i nostri omaggi. Per quanto possa essere una bevanda scadente, sarà sempre meglio di quel loro schifoso vino di zaffiro. APPENDICE GLOSSARIO DELLE CONVENZIONI, DELLE ISTITUZIONI E DELLE MACCHINE Anziani. Stadio finale, il più lungo, della vita nelle città, che può continuare più o meno indefinitamente, fino a quando l'interessato, stanco della vita e dei ricordi, cerca volontariamente la Dissoluzione della Personalità, nella quale il suo ego attuale viene cancellato e la sua mente conscia ripulita di tutti i ricordi. Poi l'individuo ritorna allo stadio di bambino, questa volta con un tutore Q-R. androide. Vedasi Q-R.
ape. Una sorta di «borsa» elettronica, autospostantesi, usata da entrambi i sessi. Può contenere di tutto, da una bottiglia di vino fino a uno specchio a figura intera; inoltre, sbriga commissioni e porta messaggi. cambiamento di corpo e cambiamento di sesso. L'elemento essenziale — «scintilla vitale» o coscienza — può venire prelevato da un corpo e trasferito in un corpo nuovo, specificatamente progettato dal futuro occupante, per mezzo della Vasca del Limbo. Il corpo prescelto può essere maschile o femminile, a seconda dell'umore dell'umano in questione. Nella prima parte dell'autobiografia, l'autrice precisa che l'intervallo stabilito ufficialmente tra due cambiamenti è di trenta unit, ma questo limite viene continuamente abbreviato per mezzo del ricorso al suicidio. circolo. Consuetudine Jang. Un circolo è un gruppo di amici che stanno più o meno insieme, e che fanno insieme molte cose. L'amissione di membri nuovi in un circolo è un rituale complesso, sebbene l'autrice non ne parli. Escluderne i membri, invece, è facile, e secondo la tradizione ci si aspetta che l'escluso si sciolga in lacrime. fattori. Genitori. Vengono prelevate le cellule pertinenti di un maschio e di una femmina che desiderano diventare fattori; le cellule vengono unite in una vasca di cristallyze per formare una creatura. Questo dovrebbe creare un legame tra i fattori, ma evidentemente ciò non si protrae per molto tempo. Un solo fattore è tenuto a rimanere come tutore del figlio, ma solo fino al termine dell'ipnoscuola. Jang. Secondo stadio della vita cittadina. L'adolescenza è divenuta una parte obbligatoria della crescita e dura fino a mezzo rorl o anche più, ed è chiamata Jang. I Jang hanno costumi, cultura, modi di comportamento loro esclusivi (l'estasi, il matrimonio, ecc.) e hanno virtualmente un loro linguaggio (il gergo Jang). Coloro che si discostano dalla norma sono riprovati da tutti gli strati sociali. lampi. Bollettini, notiziari, che appaiono come scritte proiettate elettricamente nel cielo, sulle pareti, ecc. Possono venire anche captati nelle case. Sembra che nelle città non accada più niente d'importante, perciò qualunque cosa insolita viene segnalata, e le telecamere e le api del Centro Lampo sono costantemente in allarme. Vi è un Centro Lampo in ognuno dei
quattro settori di ogni città. matrimonio. Usanza Jang. I Jang, tradizionalmente, si sposano sempre prima di «fare l'amore»... l'atto sessuale. Talvolta si sposano per un periodo consistente — un vrek, un mid-vrek, ecc. — talvolta solo per un pomeriggio o un unit, e in questi casi il matrimonio deve essere pagato sia prima che dopo. La «cerimonia» nuziale consiste soprattutto di un discorso: «Prometto di far l'amore con te e con nessun altro per il periodo predetto, a meno che io chieda l'annullamento, che può venire accordato ad unit alternati per tutto il periodo del matrimonio, e che deve essere pagato». Gli Anziani non sono tenuti a sposarsi. pagamento. Non esiste un sistema monetario a Quattro BEE, ecc. Tuttavia, poiché le città funzionano grazie all'energia, l'energia emotiva viene presa a chi paga e immessa nelle banche energetiche della città. Lo strano processo si compie così; il pagatore entra in un'apposita cabina e si abbandona ad una crisi isterica di gratitudine. Vengono generalmente usate l'estasi o altre droghe stimolanti per assicurare il successo di questo bizzarro rito. Quadrovisione. Una specie di trasmissione televisiva ininterrotta di scene stravaganti bellissime ed erotiche, senza una trama. Quattro BEE, Quattro BAA, Quattro BOO. Le tre grandi città a cupola. Ovviamente di dimensioni gigantesche, sono situate sotto schermi d'onde elettriche stabilizzate (le cupole) che le proteggono da tutti i pericoli del pianeta, eruzioni, tempeste, terremoti, eccetera. Interamente autosufficienti, hanno condizioni il più possibile «naturali», che includono parchi e giardini, giorni e notti, sole, luna e stelle artficiali. Fuori Quattro BAA vi sono le cupole più piccole, che contengono le fattorie delle vasche d'allevamento per la creazione dei Q-R e di affascinanti animali androidi, ideali per la gioia della popolazione. Quattro BOO è famosa per la cattura di veri animali del deserto, destinati all'addomesticamento, e inoltre per le pellicce ed altri prodotti animali, come i profumi. Q-R. Quasi-robot, o androide. Cresciuto nella vasche di BAA, partendo da cellule chimiche, un Q-R assomiglia esteriormente a un umano. Tuttavia, in essi sono incorporati utili circuiti, e persino il loro «sangue» è una forma di plasma metallico. Non essendo creati partendo da tessuti maschili e
femminili, ed essendo quindi privi di coscienza — o «scintilla vitale» — i Q-R vengono portati alla vita da una carica elettrica di potenza colossale. sabotaggio. Viene compiuto dai Jang, ed è un'altra delle loro consuetudini, benché non ufficialmente. Consiste nel fare irruzione negli avamposti delle città, danneggiando il macchinario e perturbando così le onde protettive della cupola per il tempo sufficiente a lasciar entrare il maltempo o peggio. Le difese della cupola bloccano prontamente il sabotaggio, e non si producono mai danni di proporzioni significative. Stanze del Sogno. Luoghi in cui i cittadini possono comprare e vivere sogni precedentemente progettati da loro stessi... una sorta di Palazzo dell'Avventura cerebrale. suicidio. Uccisione del corpo, ma senza le connotazioni normali, poiché significa solo ottenere una sostituzione immediata del corpo prima della scadenza del termine ufficiale di trenta unit. I robot del Limbo accorrono immediatamente, in caso di suicidio o di morte e portano la «vittima» al Limbo, dove recuperano la scintilla vitale e la ricollocano in un corpo nuovo. trasferitore. Destinato in origine ai viaggi umani, e basato sul principio disintegrazione-reintegrazione, è risultato impopolare, poiché il processo tendeva a far vomitare i passeggeri, secondo l'autrice. FINE