Wilbur Smith. UNA VENA D'ODIO.
Titolo originale: "Gold mine". Traduzione di: Piero Anselmi. Copyright 1970 Wilbur Smith...
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Wilbur Smith. UNA VENA D'ODIO.
Titolo originale: "Gold mine". Traduzione di: Piero Anselmi. Copyright 1970 Wilbur Smith. Copyright 1982 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano. Su concessione Arnoldo Mondadori Editore.
"Questo libro è per Danielle". 1. Tutto cominciò quando il mondo si stava formando, prima della comparsa dell'uomo, prima ancora che la vita stessa si fosse evoluta su questo pianeta. La crosta terrestre era ancora molle e sottile, deformata e lacerata dalle enormi pressioni interne. Lo scudo compatto che oggi forma il continente africano, stabile e definitivamente assestato, era una serie di alte montagne, un susseguirsi di catene montuose portate in superficie e poi demolite dai movimenti del magma alle grandi profondità. L'uomo non ha mai visto montagne simili; erano così imponenti da ridicolizzare l'Himalaya, montagne di roccia fumante dai crepacci e dalle ferite aperte da cui colava il magma allo stato fuso. Questo saliva dal centro della terra lungo le spaccature e i punti più deboli della crosta, gorgogliando e ribollendo, ma raffreddandosi continuamente salendo alla superficie, così i metalli meno volatili si sedimentarono in profondità mentre quelli con una temperatura di fusione minore furono portati in superficie. A un certo punto nello smisurato trascorrere del tempo, un'altra serie di queste crepe si aprì su una delle catene montuose senza nome ma da esse sgorgarono torrenti di oro fuso. Durante il viaggio verso la superficie terrestre alcuni bizzarri fenomeni naturali avevano portato a un grezzo ma efficace processo di raffinazione. La ganga aveva un alto contenuto aurifero e in superficie si raffreddò, solidificandosi. Se le montagne allora erano così imponenti da sfidare la fantasia umana, le bufere di vento e di pioggia che le sferzavano erano altrettanto impressionanti. Era un paesaggio infernale quello che vide nascere il giacimento aurifero, montagne crudeli che spingevano i loro picchi a strapiombo tra le nubi, banchi di nubi cupe per i gas solforosi che salivano dalla terra, talmente fitte da riuscire impenetrabili ai raggi solari. L'atmosfera era satura di umidità che in seguito si sarebbe trasformata in oceani, la crosta terrestre in via di raffreddamento era percossa da un uragano continuo di pioggia; l'umidità si sollevava poi sotto forma di vapore che si condensava e tornava a cadere. Passarono milioni di anni; il vento e la pioggia intagliarono la catena di montagne senza nome, coperte da uno strato di minerale ricco d'oro, sgretolandolo e trasportandolo in torrenti impetuosi di fango e detriti nella valle sottostante. Raffreddandosi progressivamente la superficie, le acque stagnarono più a lungo sul terreno prima di evaporare, e si raccolsero in questa vallata formando un lago delle dimensioni di un mare interno.
Qui si riversarono le acque alluvionali provenienti dai monti auriferi, trasportando con sé minuscole particelle del prezioso metallo che si depositarono, frammiste ad altra sabbia e a detriti di quarzo, sul letto del lago dove si saldarono in una lastra compatta. Giorno dopo giorno tutto l'oro venne eroso dalle montagne, trascinato a valle e depositato sui fondali lacustri. Poi, come accadeva ogni dieci milioni di anni circa, la terra entrò in un altro periodo di intensa attività sismica. Tremò e sussultò, sconvolta da un susseguirsi di terremoti di proporzioni mostruose. Una furia terrificante spaccò da un capo all'altro il fondo del lago prosciugandolo e fratturando le stratificazioni sedimentarie disseminò frammenti a caso. Enormi lastre di roccia larghe molti chilometri si inclinarono e si sollevarono verticalmente. La morsa dei terremoti continuò a sconvolgere il pianeta. Le montagne vacillarono e si sgretolarono riempiendo la valle, un tempo occupata dal lago, seppellendo alcuni dei lastroni di roccia aurifera e polverizzandone altri. Anche quel ciclo di attività sismica si concluse mentre le ere si susseguivano nella loro maestosità. Le alluvioni e le grandi siccità avanzarono e si ritirarono. La miracolosa scintilla della vita si accese e bruciò luminosa. Bruciò attraverso l'era dei rettili mostruosi, proseguì tra infinite svolte e mutamenti dell'evoluzione finché, verso la metà del pleistocene, un primate, l'australopiteco, raccolse il femore di un bufalo, trovato vicino a un affioramento roccioso, per usarlo come un'arma, come un utensile. L'australopiteco si trovava al centro di un arido altopiano che si spingeva per ottocento chilometri in ogni direzione fino a raggiungere il mare. Le montagne e il letto del lago, infatti, erano stati livellati e sepolti molto tempo prima. Ottocentomila anni dopo, un lontano ma diretto discendente dell'australopiteco si trovava nello stesso posto con un utensile in mano. Quell'uomo si chiamava Harrison e l'utensile, più sofisticato di quello del suo antenato, era un piccone da cercatore. Harrison si chinò e tolse un frammento di roccia dalla vena superficiale che affiorava da quell'angolo arido e bruno di terra africana. Staccò il pezzo di minerale e si rialzò tenendolo nella mano. Lo osservò sotto il sole e grugnì disgustato. Era un pezzo di roccia del tutto privo di interesse, un conglomerato di un colore tra il nero e il grigio. Rassegnato, lo accostò alla bocca e lo leccò, inumidendone la superficie prima di osservarlo di nuovo al sole; un vecchio trucco dei cercatori per far risaltare il metallo contenuto nel minerale. Gli occhi di Harrison si socchiusero per la sorpresa, colpiti dal luccichìo delle minuscole particelle d'oro presenti nella roccia. La storia ricorda solo il suo nome; non accenna all'età, al suo passato, al colore degli occhi né a come morì; in un mese infatti Harrison vendette la sua concessione per dieci sterline e scomparve, in cerca forse di una vera, grande scoperta. Forse avrebbe fatto meglio a non cedere i diritti della concessione. Negli ottanta anni che seguirono si calcola che siano stati estratti dai giacimenti del Transvaal e dell'Orange Free State quasi 450 milioni di chili di oro puro. Questa è solo una parte del metallo che resta e che col tempo verrà estratto. Gli uomini che lavorano nei giacimenti del Sud Africa, degna genia di Vulcano, hanno infatti una tenacia e un'inventiva incredibili. Questa massa di metallo prezioso rappresenta le fondamenta su cui si basa la prosperità di una forte e giovane nazione di diciotto milioni di abitanti. Ma la terra cede il proprio tesoro con riluttanza, gli uomini devono strapparglielo lottando. 2. Anche col ventilatore che girava al massimo, nell'ufficio di Rod Ironsides faceva un caldo terribile. Rod si allungò verso il thermos color argento, contenente acqua
ghiacciata, appoggiato sul bordo della scrivania, ma si arrestò prima ancora di riuscire a toccarlo con la punta delle dita quando il contenitore cominciò a vibrare. La bottiglia di metallo sobbalzò sulla lucida superficie di legno; la scrivania stessa si mosse, facendo frusciare le carte che vi erano appoggiate. Le pareti della stanza tremarono accompagnate dal tintinnìo dei vetri delle finestre. La scossa durò quattro secondi, poi tutto ritornò immobile. «Cristo!» esclamò Rod, afferrando uno dei tre telefoni che aveva sulla scrivania. «Parla il direttore dei Lavori sotterranei. Passami il laboratorio sismico, cara. E alla svelta, per favore.» Mentre attendeva la linea, tamburellò impaziente sulla scrivania. La porta interna dell'ufficio si aprì e si affacciò la testa di Dimitri. «L'hai sentita, Rod? Era una brutta scossa.» «L'ho sentita.» Poi una voce gli arrivò dal telefono. «Parla il dottor Wessels.» «Peter, sono Rod. Hai controllato la scossa sugli strumenti?» «Devo ancora terminare di fare il punto... puoi aspettare un minuto?» «Va bene, resto in linea.» Rod dominò la propria impazienza. Sapeva che Peter era l'unica persona in grado di interpretare il gran numero di complicate attrezzature elettroniche che riempivano la sala di controllo del laboratorio sismico. Il laboratorio era un progetto di ricerca comune di quattro delle maggiori compagnie minerarie aurifere, che avevano stanziato duecentocinquantamila rand per finanziare uno studio sulle rocce e la loro attività sismica sotto sollecitazione. Come zona in cui impiantare il laboratorio avevano scelto l'area in concessione alla Compagnia mineraria aurifera di Sonder Ditch. Peter Wessels ora disponeva di microfoni posti a migliaia di metri di profondità e i suoi registratori e stilografi erano pronti a individuare con estrema precisione qualsiasi movimento sotterraneo. Trascorse un altro minuto e Rod ruotò sulla sedia osservando dalla finestra la mostruosa incastellatura d'estrazione del pozzo numero 1, alta quanto un edificio di dieci piani. «Forza Peter, forza» mormorò tra sé. «Ci sono dodicimila dei miei ragazzi là sotto.» Con il telefono ancora incollato all'orecchio, Rod diede uno sguardo all'orologio. «Le due e mezzo» mormorò. «L'ora peggiore. Saranno ancora nelle terrazze di scavo.» Sentì che dall'altro capo sollevavano il ricevitore. La voce di Peter Wessels aveva un tono quasi di scusa. «Rod?» «Sì.» «Mi spiace, Rod. C'è stata una scossa di settimo grado a duemilaottocento metri nel settore S7 C2.» «Cristo!» esclamò Rod, sbattendo il ricevitore del telefono. Con uno scatto si alzò dalla scrivania, il volto teso in un'espressione di rabbia. «Dimitri» disse, rivolgendosi seccamente al suo aiutante che sostava ancora sulla porta. «Non aspetteremo che siano loro a chiamarci, si tratta di un caso di emergenza. Era una scossa di settimo grado con epicentro proprio sulla metà del fonte di scavo orientale del livello novantacinque.» «Maledizione!» fece Dimitri, e si precipitò nel suo ufficio. Piegò la testa, coperta di neri riccioli lucenti, sul telefono e Rod lo sentì mentre iniziava la serie di chiamate a priorità assoluta. «Ospedale... squadra d'emergenza... capo del reparto Aerazione... ufficio del direttore generale.» Rod si girò, mentre la porta esterna dell'ufficio si apriva ed entrava Jimmy Paterson, il suo ingegnere elettrotecnico. «L'ho sentita, Rod. Com'era?» «Brutta» rispose lui. Poi la stanza si affollò di gente. Gli altri collaboratori entrarono parlando sottovoce, accendendosi nervosi le sigarette, tossicchiando e bilanciandosi inquieti sui piedi. Tutti però osservavano il telefono bianco sulla scrivania di Rod. I minuti si trascinarono lenti in un'attesa spasmodica. «Dimitri» chiamò Rod per spezzare la tensione. «Hai bloccato una gabbia all'imboccatura del pozzo?»
«Ci stanno aspettando con la "Mary Anne".» «Ho messo cinque uomini a controllare il cavo dell'alta tensione al livello novantacinque» disse Jimmy Paterson, ma gli altri lo ignorarono. Tutti stavano fissando il telefono bianco. «Hai rintracciato il capo, Dimitri?» chiese ancora Rod, passeggiando di fronte alla scrivania. Solo quando stava accanto a qualcuno quell'uomo spiccava in tutta la sua altezza. «E' sotto, Rod. E' sceso alle dodici e mezzo.» «Avvisa tutte le linee che mi chiami qui.» «Già fatto.» Il telefono bianco squillò. Una volta sola. Una nota stridula, lacerante, che attraversò i nervi di Rod. Sollevò subito il ricevitore. «Direttore Lavori sotterranei» disse. Seguirono lunghi istanti di silenzio e Rod sentì l'uomo dall'altro capo del filo che respirava. «Cos'è successo?» «Quella maledetta parete è crollata» rispose la voce, aspra e rauca per la paura e la polvere. «Da dove stai parlando?» chiese Rod. «Gli altri sono ancora là dentro» riprese la voce. «Sono là dentro che gridano. Sotto la roccia. Stanno gridando.» «Qual è la tua posizione?» Rod parlò freddamente, con tono duro, cercando di ottenere una risposta coerente da quell'uomo in stato di shock. «Tutta la terrazza gli è franata addosso... tutta quella dannata terrazza.» «Oh, al diavolo! Pezzo di idiota!» urlò Rod nel telefono. «Dammi la tua posizione!» Dopo un attimo di stupito silenzio, la voce dell'uomo riprese, più ferma, rabbiosa per l'insulto. «Livello novantacinque passaggio principale. Sezione quarantatre. Fronte di scavo orientale.» «Arriviamo.» Rod riappese e raccolse dalla scrivania la lampada e il casco di fibra gialla. «Sezione quarantatre. La parete sospesa è crollata» disse a Dimitri. «Morti?» chiese il piccolo greco. «Senz'altro. Ci sono dei "frignoni" là sotto.» Rod si ficcò in testa il casco. «Prendi tu le consegne, qui, Dimitri.» 3. Rod si stava ancora l'imboccatura del l'ingresso:
abbottonando la tuta bianca quando raggiunse pozzo. Automaticamente lesse l'insegna sopra
STAI SEMPRE PRONTO. TI SALVERAI LA VITA. COL TUO AIUTO QUESTA MINIERA HA SUPERATO 16 GRAVI CALAMITA'. "Dovremo cambiare ancora il numero", pensò Rod con macabro umorismo. La "Mary Anne" era in attesa. Nei suoi robusti confini metallici erano stipati il primo gruppo di soccorso e la squadra d'emergenza. La "Mary Anne" era la gabbia piccola adibita al trasporto del personale; ce n'erano altre due molto più capienti in grado di trasportare centoventi uomini alla volta, mentre quella arrivava solo a quaranta. Ma per ora era sufficiente. «Andiamo» disse Rod salendo nella gabbia, mentre l'addetto al montacarichi chiudeva le porte d'acciaio facendole scorrere con un colpo secco. Il campanello suonò una volta, due, e il pavimento parve sfuggirgli sotto i piedi, mentre la "Mary Anne" iniziava la discesa. Rod sentì l'intestino salire e comprimersi contro le costole. Scesero in una lunga interminabile corsa nell'oscurità. La gabbia vibrava rumorosa, l'odore e il gusto dell'aria cambiarono diventando via via sempre più il risultato di un processo chimico mentre il calore
continuava a crescere. Rod se ne stava con le spalle curve, appoggiato alla rete metallica della gabbia. L'altezza del vano superava di pochissimo il metro e ottanta, insufficiente a contenere il corpo di Rod munito di casco. "Così oggi ci è arrivato un altro conto del macellaio", pensò con rabbia. Era sempre furioso quando la terra riscuoteva il proprio tributo di vittime. Tutto l'ingegno umano e l'esperienza acquisita in sessant'anni di scavi in profondità nel Witwatersrand venivano impiegati nel tentativo di mantenere il livello di rischio il più basso possibile. Quando però bisogna scendere sotto i 2500 metri e da quelle profondità estrarre duecentocinquantamila tonnellate di roccia ogni mese, scavando lungo un costone inclinato che lascia un'enorme camera dal soffitto basso che si estende per migliaia di metri, allora è inevitabile rischiare perché la tensione nella roccia aumenta e i punti focali della pressione cambiano finché non si arriva al punto di rottura e tutto crolla. E allora gli uomini muoiono. Le ginocchia di Rod si piegarono mentre la gabbia frenava e sbatacchiando i suoi occupanti si fermava alle potenti luci della stazione posta al livello 66. Qui dovevano trasbordare al sottopozzo. La porta si alzò cigolando e Rod uscì dalla gabbia allontanandosi a grandi passi lungo il passaggio principale, delle dimensioni di un tunnel ferroviario. Era una galleria ricoperta di calcestruzzo e imbiancata, illuminata con efficacia da una fila di lampade sul soffitto e si allontanava descrivendo una leggera curva. La squadra di emergenza seguì Rod. Non correvano, camminavano con quell'energia nervosa repressa, tipica degli uomini che stanno andando incontro al pericolo. Rod li guidò verso il sottopozzo. Esiste un limite di profondità fino a cui si può scavare un pozzo nel terreno ed equipaggiarlo per portare degli uomini sospesi a un cavo d'acciaio in una minuscola gabbia metallica. Il limite è di circa 2.100 metri. A questa profondità bisogna ricominciare, strappare alla roccia viva una nuova camera che ospiti un'altra incastellatura di estrazione e sotto di essa partire con un nuovo pozzo, il sottopozzo. La gabbia del sottopozzo li stava aspettando e Rod li guidò dentro. All'interno stettero spalla a spalla, la porta si chiuse, e di nuovo quel tuffo nelle tenebre che attanagliava lo stomaco. Giù, giù, giù. Rod accese il proprio faretto. Ora era presente del pulviscolo nell'aria, che prima invece era stata assolutamente pura. Polvere! Uno dei nemici mortali del minatore. Polvere dello smottamento. Il sistema di aerazione non era ancora riuscito a depurare l'aria. Continuarono a scendere nel buio. Ora il caldo era opprimente, l'umidità stava crescendo e i visi attorno a Rod, visi bianchi e neri, luccicavano di sudore alla luce della sua lampada. La polvere si fece più fitta, qualcuno tossì. Le luci vivide delle stazioni guizzavano oltre la gabbia... 76, 77, 78... giù, giù. La polvere ormai era una nebbia leggera... 85, 86, 87. Nessuno aveva parlato da quando erano entrati nella gabbia... 93, 94, 95. Seguì una decelerazione, poi la gabbia si fermò. La porta si aprì, cigolando. Erano a 2.800 metri sotto la crosta terrestre. «Andiamo» disse Rod. 4. L'ingresso della stazione 95 era pieno di uomini, centocinquanta, forse duecento. Erano ancora sporchi dopo il lavoro nelle terrazze di scavo, inzuppati di sudore, ridevano e chiacchieravano con l'abbandono di chi è appena scampato a un pericolo. In uno spazio libero, al centro dell'ingresso, erano appoggiate cinque barelle, su due di esse le coperte di un rosso intenso erano distese a coprire il volto di chi vi giaceva. I visi degli altri tre uomini sembravano cosparsi di farina.
«Due, finora» borbottò Rod. Nella stazione regnava un'enorme confusione. Gli uomini si accalcavano spostandosi senza uno scopo preciso e a ogni minuto altri minatori rientravano dalle gallerie, abbandonando le terrazze che non erano state danneggiate ma che ora venivano considerate pericolanti. Rod lanciò una rapida occhiata intorno a sé e individuò il volto di uno dei suoi capi miniera. «McGee» urlò. «Prendi in mano tu la situazione. Falli sedere in fila pronti al carico. Cominceremo immediatamente a sgombrare tutto il turno. Chiama la cabina del montacarichi e di' che voglio la precedenza per i casi più gravi.» Si soffermò quel tanto che bastava per osservare McGee assumere il comando dell'operazione, poi diede un'occhiata all'orologio. Le due e cinquantasei. Si rese conto, con un certo stupore, che erano trascorsi solo ventisei minuti da quando aveva avvertito la scossa nel suo ufficio. McGee aveva riportato un po' di ordine nella stazione e stava sbraitando nel telefono della sala montacarichi chiedendo priorità assoluta nello sgombero della stazione 95. «Bene» disse Rod. «Andiamo.» E si incamminò alla testa della squadra lungo la galleria. La polvere era fitta. Tossì. La parete sospesa era più bassa in quel punto. Mentre arrancava con fatica, Rod rifletté sulla sfortunata scelta della terminologia mineraria che aveva chiamato il soffitto di uno scavo "la parete sospesa". Faceva pensare a una forca, o nel migliore dei casi sottolineava il fatto che sul capo stavano sospese milioni di tonnellate di roccia. La galleria si biforcava e Rod imboccò con sicurezza la diramazione sulla destra. Nella mente possedeva una precisa mappa tridimensionale di tutti i 280 chilometri di tunnel che formavano gli scavi di Sonder Ditch. Il passaggio giunse a un raccordo a T in cui i bracci erano ancora più bassi e stretti. A destra la sezione 42, a sinistra la 43. La polvere era così fitta da ridurre la visibilità a circa tre metri, stava sospesa nell'aria depositandosi quasi impercettibilmente. «L'aerazione è fuori uso, qui» gridò Rod dietro di sé. «Van den Bergh!» «Sì, signore.» Il capo della squadra d'emergenza sbucò alle sue spalle. «Voglio aria in questo passaggio. Forza, al lavoro. Se è necessario usate tubazioni di tela.» «Bene.» «Poi convogliate pressione nei getti d'acqua per far scendere la polvere.» «D'accordo.» Rod svoltò nel passaggio. Il pavimento, qui, era accidentato e si procedeva più lentamente. Si imbatterono in una fila di carrelli d'acciaio, pieni di minerale aurifero, abbandonati al centro del budello. «Maledizione, togliete questa roba dai piedi» ordinò Rod e proseguì. Dopo una cinquantina di passi però si fermò di colpo. Sentì i peli degli avambracci rizzarsi. Gli risultava impossibile abituarsi a quel suono, per quanto lo sentisse spesso. Nel gergo volutamente duro dei minatori li chiamavano "i frignoni". Era il lamento di qualcuno che aveva le gambe spappolate sotto centinaia di tonnellate di roccia o forse la spina dorsale spezzata, e soffocato dalla polvere, la mente sconvolta dall'orrore della situazione in cui era intrappolato, gridava aiuto, invocava il suo Dio, chiamava la moglie, i figli o la madre. Rod riprese ad avanzare mentre quel grido si faceva più intenso, un suono terrificante, quasi inumano, che si affievoliva tra singhiozzi e rumori inarticolati fino a cessare, per poi ricominciare di nuovo con urla che gelavano il sangue nelle vene. All'improvviso, nel tunnel di fronte a lui apparvero degli uomini, forme scure che si stagliavano lontane nella foschia della polvere. I loro faretti proiettavano fasci di luce gialla, immagini grottesche, deformate. «Chi è là?» chiese Rod, e quelli riconobbero la sua voce.
«Grazie al cielo. Grazie al cielo è arrivato, signor Ironsides.» «Chi sei?» «Barnard.» Era il capoturno della sezione 43. «Qual è il danno?» «Tutta la parete sospesa della terrazza è crollata.» «Quanti uomini nella terrazza?» «Quarantadue.» «Quanti ancora dentro?» «Finora ne abbiamo tirati fuori sedici illesi, dodici leggermente feriti, tre gravi e due morti.» Il "frignone" riprese a urlare, ma la voce era molto più debole. «E quello?» chiese Rod. «Ha venti tonnellate di roccia sul bacino. Gli ho fatto due iniezioni di morfina, ma non si calma.» «Si può entrare nella terrazza?» «Sì, c'è un cunicolo.» Barnard illuminò con la lampada, il cumulo di detriti di quarzite bluastra che ostruiva il passaggio come un muro di giardino diroccato, in cui si apriva uno spiraglio sufficiente al passaggio di un fox-terrier. Dal buco riverberava della luce e dall'interno giungevano debolmente i rumori dei frammenti di roccia smossi e delle voci soffocate. «Quanti uomini hai là dentro a lavorare, Barnard?» «Io...» L'uomo esitò. «Una dozzina, credo.» Rod lo afferrò per la tuta sollevandolo quasi da terra. «Tu credi!» Alla luce delle torce il viso di Rod era livido di rabbia. «Tu hai mandato degli uomini là dentro senza nemmeno controllare quanti? Hai mandato dodici dei miei ragazzi in quella trappola per cercare di salvarne nove?» Rod sollevò il capoturno e lo sbatté contro la parete della galleria tenendovelo inchiodato. «Pezzo di bastardo. Sai bene che la maggior parte di quei nove sono già ridotti a brandelli. Sai che quella terrazza è un posto infernale, eppure ne mandi dentro altri dodici a farsi maciullare e non li controlli nemmeno. Come diavolo riusciremo a sapere chi cercare se il soffitto cade ancora?» Lasciò andare il capoturno e indietreggiò. «Falli uscire, sgombra la terrazza.» «Ma, signor Ironsides, c'è il direttore generale là dentro, il signor Lemmer. Stava facendo un'ispezione nella terrazza.» Per un attimo, Rod fu colto di sorpresa, poi ringhiò: «Non me ne frega un accidenti anche se là dentro ci fosse il presidente dello Stato. Sgombra la terrazza. Ricominceremo da capo e questa volta faremo le cose nel modo giusto.» Dopo alcuni minuti i soccorritori erano stati richiamati e uscirono contorcendosi dall'apertura, bianchi di polvere come bruchi su una foglia di gelso. «Bene» disse Rod. «Rischierò quattro uomini alla volta.» Rapidamente scelse quattro di quelle sagome impolverate fra cui spiccava un uomo enorme che portava sulla spalla destra il distintivo di ottone di capo manovale. «Big King... anche tu qui?» Rod parlò in "fanilako", la lingua franca delle miniere che permetteva a uomini di una dozzina di gruppi etnici di comunicare tra loro. «Sono qui» rispose Big King. «In cerca di altri premi?» Un mese prima Big King era stato calato, con una corda, lungo un cunicolo verticale di sessanta metri per recuperare il corpo di un minatore bianco. La Compagnia aveva ricompensato quell'impresa con la somma di cento rand. «Chi parla di premi quando la terra ha mangiato la carne degli uomini?» Big King rimproverò Rod sottovoce. «Ma oggi è solo un gioco da ragazzi. Viene anche lo "Nkosi" nella terrazza?» Era una sfida. Il posto di Rod non era la terrazza. Lui era l'organizzatore, il coordinatore. Eppure non poteva ignorare la sfida. Se si fosse tirato indietro, mandando un altro a morire al suo posto, i bantu che lavoravano nella miniera avrebbero pensato che aveva paura. «Sì» rispose Rod. «Vengo anch'io.» Li guidò all'interno. Il buco era appena sufficiente per permettere al corpo di Rod di passare. Si trovò in una cavità delle dimensioni di una stanza, ma il soffitto era alto poco più di un metro. Esplorò
rapidamente con la torcia la parete sospesa. Era tutt'altro che piacevole, la roccia era pericolosamente incrinata, "un grappolo d'uva" veniva chiamata quella formazione rocciosa. «Mmm, niente male» disse Rod, e abbassò il fascio della lampada. Il "frignone" era a pochi passi. Il suo corpo sbucava dalla cintola in su, da un frammento di roccia grande quanto una Cadillac. Qualcuno lo aveva avvolto in una coperta rossa. Adesso era calmo, immobile, ma quando Rod lo illuminò sollevò il capo. Gli occhi dell'uomo erano pieni di follia, resi ciechi dal terrore e il viso grondava di sudore. Aprì la bocca con uno scatto, la spalancò, e una cavità rosa risaltò sul nero luccicante del volto. Il ferito cominciò a urlare ma subito quel suono venne sommerso da un rigurgito di sangue che gli zampillò lungo la gola, sgorgando poi dalle labbra. Rod fissò inorridito il bantu che si era bloccato in quella nuova posizione, la testa gettata all'indietro, la bocca spalancata come fosse una gargolla, la linfa vitale che lo abbandonava zampillando. La testa poi si piegò lentamente in avanti e cedette di colpo, reclinandosi. Rod strisciò verso il ferito e sollevandogli il capo glielo appoggiò sulla coperta rossa. Aveva le mani sporche di sangue e le pulì sul davanti della tuta. «Tre, finora» disse, e abbandonando il moribondo avanzò a fatica verso la parete franata. Big King strisciò accanto a lui con due spranghe di ferro e gliene passò una. Dopo un'ora si trattava ormai di una gara, di una prova di forza tra i due. Alle loro spalle gli altri tre uomini stavano puntellando il passaggio e lo liberavano dalle rocce che Rod e Big King staccavano dalla parete. Rod sapeva che si stava comportando in modo infantile; avrebbe dovuto essere nella galleria principale non solo a dirigere i soccorsi ma anche a prendere tutte le altre decisioni e a impartire le disposizioni richieste da una circostanza simile. La Compagnia lo pagava per il cervello e l'esperienza, non per i muscoli. "Al diavolo", pensò. "Anche se stasera perdiamo il brillamento, io resto qui". Lanciò un'occhiata a Big King e si allungò in avanti per afferrare uno dei detriti più grossi. Si tese sotto lo sforzo, usando prima le braccia poi scaricando nell'azione la forza di tutto il corpo, ma il masso non cedeva. Big King afferrò la roccia con le sue enormi mani nere e tirarono insieme. In una frana di frammenti più piccoli il masso si staccò e i due lo sospinsero indietro facendolo passare tra loro con un ghigno reciproco. Alle sette, Rod e Big King uscirono dalla terrazza per riposare. Mangiarono alcuni panini e bevvero un po' di caffè da un thermos. Rod nel frattempo parlò a Dimitri col telefono da campo che era stato allacciato fin lì. «Abbiamo liberato i due pozzi, Rod, gli scavi sono pronti per brillare. Manca solo la tua zona, ci sono ancora cinquantotto uomini, lì nella sezione quarantatre.» La voce di Dimitri suonava stridula nel ricevitore. «Resta in linea.» Rod valutò la situazione mentalmente. L'analizzò con una lentezza che gli era insolita perché era stanco, completamente svuotato di energia fisica e mentale. Se fermava le operazioni di brillamento in entrambi i pozzi per paura di altri crolli nella sezione 43, la Compagnia avrebbe perso un giorno di produzione, diecimila tonnellate di minerale aurifero del valore di sedici rand la tonnellata, per un totale di ben centosessantamila rand, ottantamila sterline o duecentomila dollari a seconda della moneta. Era quasi certo ormai che tutti gli uomini che si trovavano nella terrazza fossero già morti e che lo scoppio di pressione avesse sfogato le tensioni meccaniche della roccia sopra e attorno al livello 95, riducendo quasi a zero il pericolo di ulteriori scosse. Eppure non si poteva escludere che là sotto ci fosse qualcuno ancora vivo, bloccato nella calda oscurità della terrazza con un gruppo di "grappoli" pericolanti sospesi come una spada di Damocle. Premendo tutti i pulsanti di brillamento della Sonder Ditch si facevano deflagrare diciotto tonnellate di Dynagel. Era una botta notevole che avrebbe senz'altro fatto cadere quei "grappoli".
«Dimitri» decise Rod «fuoco su tutti i fronti di scavo del pozzo numero due alle sette e mezzo in punto.» Il pozzo numero due distava quasi cinque chilometri. Così la Compagnia non avrebbe perso ottantamila rand. «Poi a intervalli di cinque minuti fuoco sui fronti sud, nord e ovest qui nel pozzo numero uno.» Distribuendo le esplosioni avrebbe ridotto le perturbazioni della roccia, così nelle tasche degli azionisti sarebbero entrati altri sessantamila rand. La perdita totale causata dal disastro era di circa ventimila rand. Niente male davvero, pensò Rod sardonico, il sangue era a buon mercato. Lo si poteva comprare a tre rand alla pinta dal Servizio centrale trasfusioni. «Bene.» Rod si alzò piegando le spalle intorpidite »mentre brilliamo le mine faccio rientrare tutti al sicuro nel condotto del pozzo.» 5. Dopo la serie di scosse dell'esplosione, Rod fece rientrare tutti nella terrazza e alle nove trovarono i corpi di due trivellatori negri schiacciati contro i loro martelli pneumatici. Tre metri più avanti giaceva il capo squadra bianco, il corpo era intatto la testa invece risultava schiacciata. Alle undici fu la volta di altri due trivellatori. Rod era nella galleria quando li trascinarono fuori dalla piccola breccia. Erano entrambi irriconoscibili così a brandelli e coperti di polvere da aver perso ogni aspetto umano. Poco dopo mezzanotte Rod e Big King rientrarono ancora nella terrazza per dare il cambio alla squadra di scavo e venti minuti dopo aprirono un varco nella parete franata sbucando in un'altra cavità che era rimasta miracolosamente in piedi. L'aria all'interno, a causa del calore, era densa di umidità. Rod indietreggiò istintivamente avvertendo sul viso quella disgustosa sensazione di umido, poi si sforzò di strisciare avanti e guardare nell'apertura. A tre metri circa giaceva Frank Lemmer, direttore generale della miniera di Sonder Ditch. Era supino, il casco era stato sbalzato via dalla testa e una ferita profonda gli solcava la pelle sopra un occhio. Il sangue gli era sceso tra i capelli grigi raggrumandosi in una macchia scura. Al bagliore della lampada di Rod, l'uomo aprì gli occhi e sbatté le palpebre, abbagliato. Rapido, Rod deviò il fascio di luce. «Signor Lemmer» disse. «Che diavolo stai facendo tu qui, con la squadra di soccorso?» borbottò Frank Lemmer. «Non è compito tuo. Non hai proprio imparato niente in vent'anni di miniera?» «Tutto bene, signore?» «Fai venire un dottore» rispose Lemmer. «Per liberarmi da qui dovrete tagliare.» Rod si trascinò in avanti e capì cosa intendeva dire Lemmer. Dal gomito in giù aveva il braccio inchiodato sotto un lastrone di roccia compatta. Rod la tastò con le mani. Sì, solo dell'esplosivo avrebbe smosso quel masso. Come sempre, Frank Lemmer aveva ragione. Rod strisciò fuori dall'apertura e gridò girando il capo: «Portate qui il telefono.» Alcuni minuti dopo gli passarono il ricevitore e si mise in comunicazione con la stazione del livello 95 dove era stata impiantata una base di soccorso avanzata e un posto di riposo per i soccorritori. «Parla Ironsides, passami il dottor Stander.» «Subito.» Alcuni istanti dopo sentì: «Pronto, Rod? Sono Dan.» «Dan, abbiamo trovato il vecchio.» «Come sta, è cosciente?» «Sì, ma è inchiodato... dovrai tagliare.» «Sei sicuro?» chiese Dan. «Ma certo maledizione che sono sicuro» rispose seccamente Rod. «Ehi, ragazzo!» lo ammonì Dan. «Scusami, sono molto stanco.» «Okay, dove?» «Il braccio. Dovrai tagliare sopra il gomito.»
«Che bella prospettiva!» commentò Dan. «Ti aspetto qui.» «D'accordo. Arrivo in cinque minuti.» 6. «E' buffo, vedi gli altri fatti a brandelli un mucchio di volte ma pensi che a te non succederà mai.» La voce di Frank Lemmer era ferma e tranquilla. Il braccio non doveva procurargli dolori pensò Rod mentre gli stava accanto nella terrazza. Lemmer girò il capo verso Rod. «Perché non fai l'agricoltore, ragazzo?» «Lo sa il perché» rispose Rod. «Sì.» Lemmer abbozzò un vago sorriso, mosse appena le labbra e si passò la mano libera sulla bocca. «Sai, mi mancavano solo tre mesi per andare in pensione. Ce l'avevo quasi fatta. Farai la stessa fine, ragazzo, in mezzo allo sporco con le ossa a pezzi.» «Non è la fine del mondo» disse Rod. «Ah, no?» rispose Frank Lemmer e questa volta rise piano. «Per te non lo è?» «Cosa c'è di così divertente?» domandò Dan Stander infilando la testa nella minuscola apertura. «Cristo, ce ne hai messo di tempo ad arrivare» borbottò Frank Lemmer. «Dammi una mano, Rod.» Il dottore gli passò la borsa, poi mentre strisciava all'interno si rivolse a Lemmer. «La Union Steel ha chiuso a novantotto centesimi, stasera. L'avevo detto di comprare.» «Un sovrapprezzo, hanno gonfiato il valore nominale» sbuffò Lemmer. Dan gli si accucciò a fianco nella polvere ed estrasse i ferri. I due parlarono di azioni e di titoli. Quando Dan ebbe riempito la siringa di Pentothal cominciò a disinfettare lo scarno braccio del vecchio e Lemmer tornò a voltarsi verso Rod. «Tu e io, Rodney, abbiamo fatto un buon lavoro qui. Vorrei che lo passassero a te, adesso, ma non lo faranno. Sei ancora troppo giovane. A ogni modo, chiunque mettano al mio posto, be', tu tienilo d'occhio, tu sei pratico del terreno... non lasciare che rovini tutto.» L'ago entrò. Dan amputò il braccio in quattro minuti e mezzo, e ventisette minuti dopo Frank Lemmer morì per collasso nella "Mary Anne", mentre stava risalendo alla superficie. 7. Una volta pagati gli alimenti a Patti non restava poi molto del salario di Rod per le spese folli; una di queste era la grande Maserati color panna. Sebbene fosse un modello del 1967 e avesse già percorso 48 mila chilometri quando lui l'aveva comprata, la rata mensile si prendeva ancora una fetta considerevole del suo assegno paga. In mattine come quella, però, Rod la riteneva una spesa di cui valeva la pena. Scese serpeggiando lungo il crinale del Kraalkop e quando la statale si appiattì, allungandosi nel rettilineo finale che portava a Johannesburg, Rod lanciò la Maserati. L'auto parve schiacciarsi contro l'asfalto come un leone che inseguisse una gazzella e il rumore dello scappamento cambiò di tono facendosi più profondo, più incalzante. Normalmente dalla Sonder Ditch a Johannesburg ci voleva un'ora di macchina, ma stavolta Rod poteva guadagnare una ventina di minuti. Era sabato mattina e lui era allegro e pieno di speranze. Da quando aveva divorziato, aveva condotto un'esistenza alla Jekyll e Hyde. Per cinque giorni alla settimana lui era l'uomo della Compagnia carico di responsabilità manageriali, ma il sabato e la domenica se ne andava a Johannesburg, le mazze da golf nel bagagliaio della Maserati, le chiavi del suo lussuoso appartamento a Hillbrow in tasca, e un sorrisetto stampato sulle labbra. Quel giorno poi si annunciava migliore del solito perché, oltre alla giovane bionda pronta a dedicare la serata al divertimento di Rodney Ironsides, c'era quella misteriosa convocazione da parte del dottor Manfred Steyner.
Il giorno dopo i funerali di Frank Lemmer, una voce femminile, che si era presentata come "la segretaria del dottor Steyner", lo aveva chiamato e l'appuntamento era stato fissato per sabato mattina alle undici. Rod non aveva mai incontrato Manfred Steyner ma naturalmente sapeva di chi si trattava. Chiunque lavorasse in una delle cinquanta o sessanta compagnie che formavano il Gruppo Unificato Central Rand non poteva non aver sentito parlare di Manfred Steyner, e la Compagnia aurifera Sonder Ditch era appunto parte del gruppo! Manfred Steyner si era laureato in economia all'università di Berlino e aveva conseguito il dottorato in amministrazione a Cornell. Dodici anni prima, all'età di trent'anni, era entrato nella Central Rand e ora era in una posizione di primo piano, ai vertici dirigenziali. Hurry Hirschfeld non poteva vivere in eterno, sebbene inducesse a pensare il contrario, e quando si fosse deciso a traslocare all'altro mondo, si mormorava che il suo posto di presidente del G.U.C.R. sarebbe passato a Manfred Steyner. La presidenza del G.U.C.R. era una posizione davvero invidiabile, il titolare diventava automaticamente uno dei cinque uomini più potenti dell'Africa, inclusi i capi di Stato. I pronostici pendevano in favore del dottor Steyner per un buon numero di ragioni. Aveva un cervello che gli aveva fruttato il soprannome di "Computer"; nessuno era ancora riuscito a scoprire in lui la minima traccia di debolezza umana, senza poi dimenticare che, dieci anni prima, Steyner si era preso il disturbo di prendere in moglie l'unica nipote di Hurry Hirschfeld, appena uscita dall'università di Città del Capo. Il dottor Steyner occupava una posizione davvero solida e alla prospettiva di incontrarlo Rod si sentiva molto interessato. La Maserati segnava i duecento all'ora quando Rod passò sotto al cavalcavia della Compagnia aurifera Kloof. «Johannesburg, sto arrivando!» esclamò con una sonora risata. Erano le undici meno dieci quando Rod trovò la targa di ottone che indicava "Dr. M. K Steyner" lungo un vialetto appartato di Sandown, un lussureggiante quartiere periferico della città. La casa non era visibile dalla strada e Rod spinse la Maserati a passo a uomo attraverso le alte cancellate bianche con i loro frontoni che riproducevano lo stile afrikaan. I cancelli, pensò Rod, erano proprio di pessimo gusto ma i giardini che si stendevano al di là erano un vero paradiso. Rod era un esperto di rocce ma i fiori rappresentavano il suo punto debole. Sapeva che quei fitti grappoli rossi e gialli che spiccavano sul tappeto erboso erano calle, ma delle altre sfolgoranti bellezze disseminate intorno a lui non conosceva assolutamente il nome. «Ehi!» mormorò con un senso di soggezione. «Qualcuno qui si è dato parecchio da fare.» Dietro a una curva sul vialetto di pietrisco sorgeva la casa. Anch'essa era in stile afrikaan, e Rod perdonò al dottor Steyner l'orrenda cancellata. Lo stile afrikaan è uno dei più difficili da riprodurre in modo efficace. Basta sbagliare un solo particolare su cento perché l'effetto globale risulti rovinato. Quella casa invece era perfetta. Dava un senso di eternità, di solidità e aveva una grazia e una finezza di linea indefinibili. Rod immaginò che le persiane e le travi fossero di autentico podocarpo e le cornici di piombo alle finestre fossero lavorate a mano. Guardò la casa e sentì una punta d'invidia bruciargli dentro. Rod amava le cose belle, come la sua Maserati, ma qui si trattava di qualcosa di diverso, di un altro concetto di beni materiali. Si sentì invidioso dell'uomo che possedeva quella casa, sapendo che quel che guadagnava lui in un intero anno non sarebbe stato sufficiente a pagare in contanti nemmeno il solo appezzamento di terreno. «E così io ho il mio bell'appartamento» ghignò con una certa mestizia e fermò la macchina, parcheggiandola di fronte alla serie di garage. Non era molto chiaro quale fosse la via d'ingresso esatta, Rod scelse a caso uno dei sentieri lastricati che portavano verso l'abitazione. Dietro una curva del sentiero gli si presentò un'altra vista notevole.
Per quanto di proporzioni minori suscitò in lui un effetto più profondo della casa. Si trattava di un sedere femminile dalla linea aggraziata e fine che, fasciato da un paio di pantaloni da sci, sbucava da un grosso cespuglio esotico. Rod rimase incantato. Si fermò a osservare il cespuglio e il resto del panorama. All'improvviso, una voce femminile dal tono raffinato proruppe in un'imprecazione che non era per nulla raffinata e femminile. Il sedere scattò all'indietro e la sua proprietaria si rialzò tenendo l'indice della mano in bocca e succhiando rumorosamente. «Mi ha morsicato!» borbottò col dito sempre in bocca. «Quella dannata cimice mi ha morsicato!» «Be', dovrebbe lasciarla in pace» disse Rod. La donna si voltò a guardarlo. La prima cosa che lui notò furono i suoi occhi; grandi, decisamente sproporzionati al resto del viso. «Ma io non stavo...» incominciò lei, poi s'interruppe. Si tolse il dito dalla bocca. Istintivamente portò una mano ai capelli e con l'altra iniziò a lisciarsi la camicetta e a spazzolar via alcuni frammenti di vegetazione che vi si erano attaccati. «Lei chi è?» chiese, e quegli occhi immensi corsero a scrutare Rod. Era la normale reazione di tutte le donne tra i sedici e i sessant'anni che vedevano Rod Ironsides per la prima volta, e lui l'accettava di buon grado. «Mi chiamo Rodney Ironsides. Ho un appuntamento con il dottor Steyner.» «Oh.» La donna stava infilando frettolosamente la camicia nei pantaloni. «Mio marito la starà aspettando nello studio.» Rod l'aveva riconosciuta. Aveva visto le sue foto molte volte sul giornale del Gruppo, ma nelle foto lei di solito era in abito da sera lungo e tutta ingioiellata, non in camicetta con una manica strappata e i codini che andavano disfacendosi. Sulle fotografie aveva un trucco perfetto, ora invece ne era del tutto priva e il suo viso era arrossato e bagnato di sudore. «Devo avere un aspetto terribile. Stavo curando il giardino» disse Theresa Steyner, come per scusarsi. «Lo ha fatto tutto lei?» «Manualmente solo una piccola parte, però l'ho progettato tutto io!» rispose lei. Theresa Steyner concluse che quell'uomo era grosso e brutto... no, non proprio brutto, ma aveva un'aria sbattuta. «E' splendido» disse Rod. «Grazie.» No, non sbattuta, aveva cambiato idea. Era un'aria da duro, e dalla V della sua camicia aperta spuntavano i peli del torace. «Questa è una protea, vero?» Rod indicò il cespuglio da cui lei era appena spuntata. Stava tirando a indovinare. «"Nutans"» disse lei. Doveva essere sui quaranta quell'uomo, aveva degli spruzzi di grigio sulle tempie. «Oh, credevo fosse una protea.» «Ha ragione infatti. "Nutans" è il nome esatto. Esistono più di duecento varietà differenti di protea» rispose lei seria. No, la sua voce non era affatto intonata all'aspetto fisico, concluse. Sembrava un pugile ma parlava come un avvocato, e probabilmente lo era. Di solito erano avvocati o consulenti commerciali quelli che si incontravano con Manfred. «Davvero? Molto graziosa.» Rod toccò uno dei fiori. «Sì, vero? Ne ho più di cinquanta varietà qui.» Poi, improvvisamente si sorrisero. «Le faccio strada» disse Theresa Steyner. 8. «C'è il signor Ironsides, Manfred.» «Grazie.» Steyner sedeva dietro una scrivania di legno; tutta la stanza profumava di cera. Non accennò ad alzarsi. «Un tazza di caffè?» chiese Theresa dalla porta. «Tè?» «No, grazie» rispose Manfred Steyner senza consultare Rod che le stava accanto. «Vi lascio, allora.»
«Grazie, Theresa.» Sua moglie si allontanò. Rod non si mosse, stava studiando quell'uomo di cui aveva tanto sentito parlare. Manfred Steyner non dimostrava i suoi quarantadue anni. I capelli castano chiaro, quasi biondi, erano pettinati all'indietro. Portava un paio d'occhiali dalla pesante montatura nera; il viso era liscio, vellutato come quello di una ragazza, senza la minima traccia di barba. Le mani, appoggiate sul piano lucido della scrivania, erano anch'esse lisce, prive di peli, e Rod cominciò a chiedersi se non avesse per caso usato una crema depilante. «Entri» disse, e Rod si avvicinò alla scrivania. Steyner indossava una camicia di seta bianca, immacolata, che portava ancora i segni delle pieghe, una cravatta del Royal Johannesburg Golf Club, e ai polsi gemelli di onice. Di colpo Rod si rese conto che né la camicia né la cravatta erano mai state indossate prima. Dunque quello che aveva sentito dire a quel riguardo era vero. Steyner ordinava stock di camicie su misura e le portava una sola volta. «Si sieda, Ironsides» Steyner mangiava leggermente le vocali, una lieve traccia di accento tedesco. «Dottor Steyner» disse Rod a bassa voce «scelga. Può chiamarmi Rodney oppure signor Ironsides.» La voce e l'espressione di Steyner non mutarono. «Vorrei passare in rassegna il suo curriculum vitae, signor Ironsides, come fase preliminare della nostra discussione. Ha obiezioni in proposito?» «No, dottor Steyner.» «Lei è nato il 16 ottobre 1931 a Butterworth, nel Transkei. Suo padre era un commerciante locale; prestò servizio come capitano nella Fanteria Leggera di Durban e morì per le ferite riportate sul fiume Po, in Italia, nell'inverno del '44. Sua madre era morta nel gennaio del '39. Lei è stato allevato da uno zio materno a East London. Si è diplomato al Queen's College di Grahamstown nel '47, ma non è riuscito a ottenere una borsa di studio della Chamber of Mines per la Witwatersrand University dove intendeva laurearsi in ingegneria mineraria. Si è iscritto alla Scuola statale di Addestramento minerario ottenendo il brevetto di brillamento nel '49. Poi è entrato nella Compagnia aurifera di Blyvooruitzich come apprendista minatore.» Il dottor Steyner si alzò dalla scrivania e raggiunta la parete rivestita di pannelli premette un pulsante nascosto facendone scorrere una parte che rivelò un lavabo e un portasalviette. Continuando a parlare cominciò con estrema meticolosità a insaponarsi e lavarsi le mani. «Sempre nel '49 lei è stato promosso minatore, tre anni dopo capoturno e nel '54 capitano di miniera. Dopo cinque anni ha superato con successo l'esame per il brevetto di direttore di miniera e nel '62 è entrato nella nostra società come vicedirettore di sezione; l'anno seguente è passato direttore di sezione, nel '65 vicedirettore Lavori sotterranei e nel 1968 ha raggiunto il suo grado attuale di direttore Lavori sotterranei.» Il dottor Steyner cominciò ad asciugarsi le mani con una salvietta immacolata. «Mi sembra che abbia imparato a memoria il mio stato di servizio» commentò Rod. Il dottor Steyner appallottolò la salvietta e la gettò in un contenitore sotto il lavabo. Premette il pulsante e il pannello tornò a chiudersi, poi si diresse verso la scrivania camminando con passi misurati sul lucido pavimento di legno. Rod si accorse che quell'uomo era piccolo, alto più o meno come la moglie. «Mi pare un risultato più che lusinghiero» proseguì Steyner. «Il più giovane direttore Lavori sotterranei del Gruppo ha quarantasei anni, mentre lei deve ancora compierne trentanove.» Rod annuì. «Ora» disse Steyner sedendosi e appoggiando le mani appena lavate sul piano della scrivania «vorrei parlare brevemente della sua vita privata. Obiezioni in merito?» Rod fece cenno di no. «La ragione per cui la sua domanda di borsa di studio non venne accolta nonostante l'ottima votazione, fu l'insistenza del suo preside
presso la commissione selezionatrice sul fatto che lei era di carattere instabile e violento.» «Come diavolo l'ha saputo?» sbottò Rod. «Ho accesso ai documenti della commissione. Pare che una volta ricevuto il diploma di maturità lei abbia assalito il suddetto preside.» «Gliele ho suonate di santa ragione a quel bastardo» confermò Rod con un certo entusiasmo. «Una soddisfazione costosa, signor Ironsides. Le è costata la laurea.» Rod rimase in silenzio. «Andiamo avanti... nel 1959 lei ha sposato Patricia Anne Harvey. Dall'unione, nello stesso anno, per la precisione sette mesi e mezzo dopo le nozze, è nata una bambina.» Rod si agitò leggermente sulla sedia e il dottor Steyner proseguì tranquillo. «Questo matrimonio si concluse nel '64 con il divorzio. Sua moglie l'accusò di adulterio; ricevette la custodia della bambina e gli alimenti per una somma mensile pari a quattrocentocinquanta rand.» «Perché mi dice tutto questo?» chiese Rod. «Sto cercando di fare un quadro preciso della sua situazione economica attuale. E' necessario, glielo assicuro.» Steyner si tolse gli occhiali e iniziò a pulire le lenti con un fazzoletto bianco candido. Sul collo del naso si notavano i segni della montatura. «Vada avanti, allora.» Nonostante tutto Rod era incantato nello scoprire quante cose Steyner sapesse sul suo conto. «Nel 1968 c'è stata una causa di riconoscimento di paternità intentata contro di lei da una certa signorina Diane Johnson e la sentenza ha stabilito il pagamento mensile di centocinquanta rand.» Rod sbatté le palpebre e rimase di nuovo senza parole. «Dovrei aggiungere poi altri due procedimenti penali a suo carico per aggressione, entrambi senza seguito per il riconoscimento di legittima difesa.» «E' tutto?» chiese Rod, sarcastico. «Quasi» continuò il dottor Steyner. «C'è solo da ricordare un'altra spesa periodica sotto forma di una rata mensile di centocinquanta rand per una vettura sportiva europea, più cento rand d'affitto per un appartamento al 596 Glen Alpine Heights, Corner Lane, Hillbrow.» Rod era furioso, credeva infatti che nessuno del Gruppo Unificato Central Rand sapesse dell'appartamento. «Maledizione! Lei ha ficcato il naso nelle mie faccende private!» «Sì» ammise il dottor Steyner. «Sono colpevole, ma ho validi motivi. Se avrà la pazienza di seguirmi, capirà il perché.» Di colpo, Steyner si alzò, attraversò la stanza verso il lavabo nascosto e cominciò a lavarsi di nuovo le mani. Mentre le asciugava riprese il discorso. «I suoi impegni mensili ammontano a ottocentocinquanta rand. Lo stipendio che riceve, dedotte le tasse, non raggiunge i mille rand. Non è in possesso di una laurea e le possibilità che arrivi al gradino successivo di direttore generale senza di essa sono assai remote. E' giunto all'apice, signor Ironsides. Con le sue capacità personali non può proseguire oltre. Fra trent'anni non sarà più il direttore Lavori sotterranei più giovane del Gruppo, ma il più vecchio.» Steyner fece una breve pausa. «Sempre che i suoi gusti piuttosto dispendiosi non l'abbiano portata in prigione per debiti, e che la vivacità e la focosità del suo carattere, unite alla sua febbrile attività sessuale, non l'abbiano messa in guai davvero seri.» Steyner buttò la salvietta nel cestino e tornò a sedersi. Rimasero in assoluto silenzio, guardandosi in faccia per circa un minuto. «Mi ha fatto venir fin qui per dirmi questo?» chiese Rod. Era teso, la voce leggermente roca e sarebbe bastata ancora una pur minima provocazione perché si scagliasse sulla scrivania verso la gola di Steyner. «No.» Steyner scosse il capo. «L'ho fatta venire per dirle che userò tutta la mia influenza, che modestamente è considerevole, per ottenere la sua nomina, e parlo di nomina immediata, a direttore generale della Compagnia aurifera Sonder Ditch.» Rod ricadde all'indietro come se Steyner gli avesse sputato in faccia
e lo fissò esterefatto. «Perché?» chiese alla fine. «Cosa vuole in cambio?» «Né la sua amicizia né la sua gratitudine» rispose il dottor Steyner. «Voglio un'obbedienza assoluta alle mie disposizioni. Lei sarà il mio uomo... nel modo più assoluto.» Rod continuò a fissarlo pensando freneticamente alla situazione. Senza l'intervento di Steyner come minimo avrebbe atteso altri dieci anni per quella promozione, se mai l'avessero promosso. Lui voleva quella nomina... la voleva a ogni costo. Era una conquista, un incremento del suo reddito... e poi, il potere che gli avrebbe dato quella posizione! La sua miniera! Una miniera tutta sua a trentotto anni... e diecimila rand in più all'anno. Ma Rod non era così ingenuo da credere che il prezzo di Manfred Steyner sarebbe stato basso. Sapeva che gli ordini ai quali avrebbe dovuto ubbidire senza discutere avrebbero puzzato come un cadavere di dieci giorni. Ma una volta ottenuto l'incarico poteva sempre rifiutare di eseguirli. Prima la nomina, poi avrebbe deciso il da farsi quando gli fossero arrivati. Solo allora avrebbe deciso se ubbidire o no. «Accetto» disse. Manfred Steyner si alzò dalla scrivania. «Mi farò vivo io. Ora può andare.» 9. Rod attraversò la terrazza antistante quasi come in trance senza vedere e sentire nulla e proseguì automaticamente lungo il prato in direzione della macchina. Con la mente stava cercando di analizzare la recente conversazione, riducendola a brandelli separati come un branco di dingo alle prese con una carcassa. Per poco non andò a sbattere contro Theresa Steyner, e subito i suoi pensieri abbandonarono il problema della direzione generale. Theresa si era cambiata, truccata e aveva nascosto i codini sotto una sciarpa di seta chiara, il tutto nella mezz'ora trascorsa dal loro incontro. Stava gironzolando accanto a un'aiuola reggendo sul braccio un cesto da fiori, con la grazia di un colibrì. Rod osservò la scena divertito e lusingato, abbastanza vanitoso da capire che quel cambiamento era in suo onore, e abbastanza intenditore da apprezzare il miglioramento. «Salve.» Theresa sollevò lo sguardo, riuscendo ad assumere un'autentica espressione di sorpresa e di spontaneità. Aveva gli occhi davvero grandi e il trucco sembrava fatto apposta per sottolinearne le dimensioni. «Lei è una piccola ape indaffarata.» Rod rivolse un'esperta occhiata d'apprezzamento all'ampio abito a fiori che lei indossava e la vide arrossire sotto il suo sguardo. «E' stato un incontro proficuo?» «Moltissimo.» «Lei è avvocato?» «No. Lavoro per suo nonno.» «Cosa fa?» «Mi occupo di scavi minerari.» «In che miniera?» «Sonder Ditch.» «Qual è il suo incarico?» «Be', se suo marito mantiene la promessa, sono il nuovo direttore generale.» «Ma lei è troppo giovane!» osservò Theresa Steyner. «E quello che pensavo anch'io.» «Pops avrà qualcosa da ridire in proposito.» «Pops?» chiese Rod, stupito. «Mio nonno.» E Rod non riuscì a frenare una risata. «Cosa c'è di tanto divertente?» «Il presidente del Gruppo Unificato viene chiamato "Pops".» «Sono l'unica che lo chiama così.» «Ci posso scommettere.» Rod rise ancora. «Anzi, sono certo che lei potrebbe permettersi un mucchio di cose che nessun altro oserebbe fare.»
Improvvisamente si resero conto entrambi del doppio senso sessuale sottinteso in quest'ultima osservazione e piombarono in silenzio. Theresa abbassò lo sguardo e staccò con cura la testa di un fiore. «Non intendevo in quel senso» si scusò Rod. «Quale senso, signor Ironsides?» Lei sollevò il capo formulando la domanda con un tono malizioso di innocenza, ed entrambi risero cancellando il senso di imbarazzo. Lo accompagnò alla macchina come se fosse una cosa del tutto naturale e mentre Rod prendeva posto dietro il volante aggiunse: «Manfred e io verremo alla Sonder Ditch la prossima settimana. Deve consegnare premi di anzianità e di coraggio ad alcuni dei suoi uomini.» Theresa aveva già rifiutato l'invito di accompagnare il marito e ora doveva cercare di farsi invitare di nuovo. «Probabilmente ci vedremo allora.» «Molto volentieri» disse Rod e abbassò la frizione. Diede un'occhiata nel retrovisore. Era una donna provocante, dotata di un notevole fascino. Un tipo incauto poteva perdersi in quegli occhi. "Il dottor Manfred Steyner ha una bella gatta da pelare", concluse Rod. "Il nostro caro Manfred probabilmente è così occupato a insaponare e sfregare la sua attrezzatura che non trova mai il tempo di usarla." 10. Dai vetri, incorniciati in piombo, dello studio, il dottor Steyner colse di sfuggita la Maserati che scompariva oltre la curva del vialetto, e ascoltò il pulsare del motore che si spegneva in lontananza. Sollevò il ricevitore del telefono e lo pulì con il fazzoletto bianco prima di accostarlo all'orecchio. Compose il numero e nell'attesa controllò attentamente le unghie dell'altra mano. «Sono Steyner» disse. «Sì... sì.» Ascoltò. Poi continuò: «Sì... è appena andato... certo, tutto sistemato... No, non ci saranno difficoltà, ne sono sicuro.» Mentre parlava, si osservava il palmo della mano. Vide delle piccole gocce di sudore e strinse le labbra in una espressione di disgusto. «Sono pienamente consapevole delle conseguenze. Le dico che lo so.» Chiuse gli occhi e ascoltò per un altro minuto senza muoversi il suono acuto e stridulo della voce dall'altro capo, poi aprì gli occhi. «Sarà fatto al momento opportuno, glielo assicuro. Arrivederci.» Riappese e andò a lavarsi le mani. Ora bisognava convincere il vecchio, pensò mentre s'insaponava. 11. Era vecchio ormai, settantotto lunghi e difficili anni. I capelli e le sopracciglia erano bianco latte. La pelle raggrinzita e rugosa, macchiata di efelidi, cascava in piccole borse sotto il mento e gli occhi. Il suo corpo si era rinsecchito, la figura era spoglia e curva come un albero sotto l'impeto dei venti. Eppure nel suo portamento vi erano ancora quella foga, quell'urgenza che gli erano valse il nomignolo di "Hurry" Hirschfeld quando sessant'anni prima aveva iniziato a darsi da fare nei giacimenti auriferi. Quel lunedì mattina il vecchio stava di fronte alla vetrata del suo ufficio d'attico e volgeva lo sguardo in basso sulla città di Johannesburg. La Reef House se ne stava massiccia, spalla a spalla con lo Schlesinger Building sul crinale di Braamfontein a dominare la città. Da quell'altezza sembrava che Johannesburg si accucciasse piena di timore ai piedi di Hurry Hirschfeld, una cosa motivata del resto. Molto tempo addietro, ancora prima della grande depressione del '30, lui aveva smesso di misurare la propria ricchezza in termini di denaro. Possedeva più di un quarto del capitale azionario del Gruppo Central Rand. All'attuale prezzo di mercato di 120 rand per azione, rappresentava una somma sbalorditiva. Inoltre, tramite un complicato gioco di crediti, di diritti per procura e di interdipendenze amministrative, aveva il controllo su un ulteriore venti per cento dei voti della Compagnia.
L'interfono risuonò con un ronzio sommesso in quella stanza elegante dalle tinte tenui, e Hurry trasalì leggermente. «Sì» disse senza distogliere lo sguardo dalla finestra. «C'è qui il dottor Steyner, signor Hirschfeld» mormorò la voce della segretaria, dando un senso di irrealtà nella stanza rifinita con eccessiva ricercatezza. «Fallo entrare» ordinò Hurry. Quel maledetto interfono gli dava sempre la pelle d'oca. Tutta quella maledetta stanza gliela faceva venire. Era, come Hurry aveva più volte ribadito alzando la voce, in tutto e per tutto uguale a un bordello per finocchi. Lui aveva lavorato per cinquantacinque anni in uno squallido ufficio senza moquette, con alcune foto ingiallite di uomini e di macchinari alle pareti. Poi l'avevano spostato lì... e diede un'occhiata generale alla stanza con lo stesso disgusto che nonostante i cinque anni non accennava a lasciarlo. Ma per chi l'avevano preso, per un fottuto parrucchiere per signora? La porta a pannelli si aprì silenziosa e il dottor Manfred Steyner entrò deciso nello studio. «Buongiorno, nonno» disse. Da dieci anni, da quando Terry aveva avuto così poco cervello da sposarlo, Manfred Steyner chiamava Hurry Hirschfeld in quel modo, una cosa che il vecchio odiava. Ricordò allora che Manfred Steyner era anche responsabile del progetto e di tutti i particolari della Reef House, quindi era lui la causa della sua irritazione. «Qualunque cosa tu voglia... No!» disse il vecchio e si avvicinò ai controlli del condizionatore. Il termostato era già regolato sull'"alto", ora Hurry lo portò sul "massimo". In pochi minuti nella stanza ci sarebbe stata la temperatura ideale per coltivare le orchidee. «Come sta stamane, nonno?» Manfred sembrava non aver sentito e si accostò alla scrivania per estrarre i suoi incartamenti conservando un'espressione neutra. «Maledettamente male» rispose Hurry. Era impossibile turbare quel piccolo presuntuoso, pensò. Era come mettersi a insultare una macchina. «Mi spiace sentirglielo dire.» Manfred estrasse il fazzoletto e tamponò leggermente il collo e la fronte. «Ho i resoconti settimanali.» Hurry cedette e andò alla scrivania; ora si trattava di affari. Sedette e lesse velocemente. Le sue domande furono improvvise, secche, precise. Manfred rispondeva con pari rapidità, ma il suo fazzoletto era indaffarato adesso a tamponare e ad asciugare. Per due volte si levò gli occhiali e tolse l'umidità dalle lenti. «Posso abbassare un po' il condizionatore, nonno?» «Prova a toccarlo e ti becchi un calcio nel culo» rispose Hurry senza sollevare lo sguardo. Passarono altri cinque minuti poi Manfred Steyner si alzò di colpo. «Scusi, nonno.» Sfrecciò nella stanza scomparendo nel bagno adiacente. Hurry chinò la testa per ascoltare e quando sentì il rumore dei rubinetti ghignò soddisfatto. Il condizionatore era l'unico sistema che lui aveva scoperto per mettere a disagio Manfred Steyner, dopo che per dieci anni aveva sperimentato le tecniche più diverse. «Non usare tutto il sapone» urlò allegramente. «Sei tu quello che continua a tirare in ballo le spese d'ufficio!» A Hurry non sembrava affatto una cosa ridicola che lui, uno dei più ricchi e influenti uomini africani, dedicasse tanto tempo e tante energie a stuzzicare il proprio assistente personale. Alle undici, Manfred Steyner raccolse le sue carte e cominciò a riporle con cura nella sua valigetta di cinghiale. «Riguardo alla nomina del nuovo direttore generale per sostituire il signor Lemmer alla Sonder Ditch, ricorderà quel mio appunto in merito alla nomina di uomini più giovani per le posizioni chiave...» «Mai letto niente del genere» mentì Hurry. Entrambi sapevano che lui leggeva tutto e se ne ricordava. «Be'...» Manfred proseguì illustrando la propria tesi per un minuto, poi concluse: «Proprio per questo, il dipartimento, che gode del mio pieno appoggio, sollecita la nomina di Rodney Barry Ironsides,
l'attuale direttore Lavori sotterranei. Contavo che lei firmasse la domanda di sollecito e potessimo sistemare tutto alla riunione di venerdì.» Abilmente, Manfred fece scivolare il documento di fronte al vecchio, svitò il cappuccio della stilografica e gliela offrì. Hurry raccolse il foglio tra l'indice e il pollice come se si trattasse di un fazzoletto sporco e lo gettò nel cestino della carta straccia. «Vuoi che ti illustri nei minimi dettagli cosa potete fare tu e il tuo dipartimento di programmazione?» «Nonno» lo ammonì Manfred con gentilezza «lei non può dirigere la compagnia come un feudatario. Né ignorare quel gruppo di uomini preparati che sono i suoi consiglieri.» «Sono cinquant'anni che la dirigo così. Fammi un po' vedere chi cambierà la storia.» Hurry, soddisfatto si appoggiò allo schienale e pescò un grosso sigaro dal taschino interno. «Nonno, quel sigaro! Il dottore ha detto...» «Io invece ti dico che il posto di direttore alla Sonder Ditch lo prenderà Fred Plummer.» «Va in pensione l'anno prossimo» protestò Manfred. «Questo è vero» annuì Hurry. «Ma non vedo cosa c'entri.» «E' un vecchio malfermo» tentò ancora Manfred con una punta di disperazione nella voce. Non aveva previsto che un ghiribizzo del vecchio interferisse nei suoi piani. «Ha dodici anni meno di me» borbottò Hurry, minaccioso. «Com'è che sarebbe un vecchio malfermo?» 12. Ora che il week-end era finito, Rod trovava l'appartamento opprimente e non vedeva l'ora di uscirne. Si fece la barba, nudo davanti allo specchio, e dal soggiorno gli giunse una zaffata di portaceneri pieni e bicchieri semivuoti. La donna delle pulizie avrebbe trovato la solita accoglienza del lunedì mattina quando fosse arrivata. Dalla Louis Botha Avenue il rumore del traffico cominciava ad aumentare e Rod controllò l'orologio... le sei del mattino. Il momento buono per un esame di coscienza, pensò, e si sporse in avanti per guardarsi meglio allo specchio. «Sei troppo vecchio per questo tipo di vita» si disse serio. «Ormai sono quattro anni che va avanti così, ed è quasi ora di finirla. Ora sarebbe bello andare a letto con la stessa donna per due notti consecutive.» Sciacquò il rasoio e aprì l'acqua della doccia. «Forse potrei anche permettermelo se il nostro caro Manfred scucisse i viveri.» Rod non aveva voluto contare troppo sulla promessa di Steyner, ma durante gli ultimi due giorni sotto il suo cinismo era sempre stata presente una certa eccitazione. Entrò nella doccia e insaponandosi, aprì al massimo l'acqua fredda. Poi, boccheggiando, chiuse il rubinetto e afferrò la salvietta. Mentre si asciugava, uscì e si portò ai piedi del letto dove osservò la ragazza coricata tra le lenzuola in disordine. Era molto abbronzata e sembrava che indossasse reggiseno e mutandine bianche trasparenti nelle aree non toccate dal sole. I capelli erano di un biondo intenso e ricadevano arruffati sul viso e sul cuscino, creando un forte contrasto col nero triangolo del pube. Le labbra di un tenue color rosa, nel sonno erano piegate in una smorfia imbronciata, e lei sembrava troppo giovane. Rod dovette fare uno sforzo per ricordare il suo nome, perché non era quella la ragazza con cui aveva iniziato il week-end. «Lucille» disse sedendosi accanto a lei. «Sveglia. E' ora di andare.» Lei aprì gli occhi. «Buongiorno» disse Rod, baciandola dolcemente. «Mmm.» La ragazza sbatté le palpebre. «Che ore sono? Non voglio farmi licenziare.» «Le sei.» «Oh, bene. C'è un sacco di tempo.» E si girò dall'altra parte rannicchiandosi tra le lenzuola. «Un accidenti.» Rod la sculacciò, piano. «Muoviti, cocca. Sai
cucinare?» «No...» Sollevò il capo. «Com'è che ti chiami?» gli chiese. «Rod.» «Fiuuu... sei proprio "rodato" bene» e finì con una risatina. «Accidenti, ragazzi! Sei certo di non avere uno stantuffo a vapore?» «Quanti anni hai?» le chiese. «Diciannove. E tu?» «Trentotto.» «Ehi paparino, sei stagionato!» esclamò lei. «Sì, a volte lo penso anch'io.» Rod si alzò. «Forza, andiamo.» «Vai tu. Chiuderò io prima di andarmene.» «Niente da fare» rispose Rod. L'ultima tipa che aveva lasciato nell'appartamento glielo aveva ripulito... liquori, cibarie, bicchieri, salviette, e perfino i portaceneri. «Hai cinque minuti per vestirti.» Fortunatamente lei abitava sul suo percorso. Gli indicò un caseggiato decrepito sotto la discarica di scorie di Boyosens. «Ho tre sorelline cieche in collegio. Vuoi aiutarmi?» gli chiese poi, mentre Rod parcheggiava la Maserati. «Certo.» Tolse dal portafoglio una banconota da cinque rand e la porse alla ragazza. «Grazie mille.» Scivolò dal sedile di pelle rossa, chiuse la portiera e si allontanò. Scomparve all'interno del caseggiato senza voltarsi e Rod si sentì sommerso da una inspiegabile ondata di solitudine. Era così intensa che gli ci volle un buon minuto prima di scrollarsela di dosso. Poi, ingranò bruscamente la marcia e si staccò dal marciapiede tra uno stridìo di gomme. «La mia amichetta da cinque rand» disse. «Lei se ne frega in realtà!» Guidò ad andatura sostenuta e quando arrivò sul crinale di Kraalkop era ancora buio e la rugiada imperlava l'erba. Fermò la Maserati in una piazzuola e scese. Appoggiatosi al cofano, accese una sigaretta e assaporando con una smorfia il gusto del fumo guardò giù nella vallata. Nessun segno in superficie rivelava l'immenso tesoro racchiuso là sotto. Era in tutto uguale a uno degli altri numerosissimi pianori erbosi del Transvaal. Al centro sorgeva la città di Kitchenerville che mezzo secolo prima aveva salutato lord Kitchener, accampatosi una notte in quel punto mentre inseguiva gli scaltri boeri; un gruppo di tre dozzine di costruzioni che si era allargato fino a comprenderne tremila, attorno a uno splendido municipio e un moderno centro commerciale. La città era circondata di giardini pubblici, aveva strade ampie ed edifici nuovi, tutto questo grazie alle industrie minerarie le cui aree di concessione convergevano sulla città. Oltre il tratto brullo e roccioso intorno all'abitato le incastellature di estrazione spiccavano come monumenti colossali eretti alla fame d'oro dell'uomo. Attorno alle incastellature erano ammucchiati i laboratori e gli altri macchinari. C'erano quattordici incastellature nella vallata. L'intero giacimento era diviso in cinque concessioni, secondo i titoli d'appalto originali e veniva lavorato da cinque Compagnie differenti. La Thornfontein, la Blaaberg, la West Tweefontein, la Deep Gold Levels e la Sonder Ditch. Era a quest'ultima che Rod naturalmente pensava. «Che bellezza» mormorò. Ai suoi occhi i cumuli di roccia bluastra accatastati vicino ai pozzi erano davvero belli. Anche la complessa ma studiata disposizione degli impianti industriali e perfino le distese giallastre del bacino di drenaggio possedevano un fascino. «Dammela, Manfred» disse ad alta voce. «Voglio quella miniera. La voglio proprio.» Sui quarantacinque chilometri quadrati della Sonder Ditch vivevano quattordicimila uomini, dodicimila erano bantu reclutati in tutta l'Africa del sud. Vivevano negli ostelli a più piani, accanto alle imboccature dei pozzi, e ogni giorno scendevano attraverso due piccoli fori nella crosta terrestre fino a profondità incredibi!i per poi ritornare, sempre da quei passaggi, di nuovo in superficie. Dodicimila uomini scendevano, dodicimila salivano. Ma non era tutto: sempre da quelle due aperture uscivano giornalmente diecimila tonnellate di roccia ed entravano legname, attrezzature, tubature ed esplosivi,
tonnellate e tonnellate di materiale e di equipaggiamenti. Era un'impresa che suscitava l'orgoglio di chi vi si dedicava. Rod guardò l'orologio, le sette e trentacinque. Erano già là sotto, tutti e dodicimila. Avevano cominciato a scendere alle tre e mezzo quella mattina e ormai tutto il turno era al lavoro; la Sonder Ditch stava sgretolando la roccia ed estraendo il minerale. Rod sorrise felice. Il senso di solitudine e di depressione che aveva prima se n'era andato, inghiottito dal suo enorme senso di coinvolgimento in ciò che vedeva. Osservò le massicce ruote delle incastellature di estrazione girare, fermarsi brevemente e poi riprendere a girare. Ognuno di quei pozzi era costato cinquanta milioni di rand, le opere di superficie altrettanto. La Sonder Ditch rappresentava un investimento di centocinquanta milioni di rand, pari a duecentoventi milioni di dollari. Un'opera notevole, e sarebbe stata in mano sua. Rod gettò a terra il mozzicone. Mentre scendeva in auto lungo il crinale i suoi occhi corsero verso il limite orientale della vallata. Qualsiasi attività mineraria cessava improvvisamente seguendo una linea immaginaria nord-sud tracciata arbitrariamente lungo la distesa d'erba. In superficie non appariva alcun segno che ne indicasse il motivo, ma la ragione del fenomeno si trovava appunto in profondità. Lungo quella linea correva un'anomalia geologica, una breccia di roccia intrusiva, una dura parete di serpentino che era stata battezzata il Grande Tuffo. Affondava infatti nel giacimento come un colpo d'ascia, e più in là non vi era che terreno cattivo. Era risaputo che quel terreno conteneva minerale aurifero, ma nessuna delle cinque compagnie aveva cercato di accaparrarselo. Dopo alcune prospezioni preliminari tutti si erano tirati indietro perché i fori di trivellazione avevano fornito risultati contraddittori. Una grossa fetta dell'area di concessione della Sonder Ditch si trovava sull'altro margine del Grande Tuffo e in quella zona stava lavorando una squadra di trivellazione. Avevano già completato cinque scavi. Rod ne ricordava perfettamente i risultati: Foro di trivellazione S.D. numero 1: Abbandonato per tracce di acqua a 1200 metri. Foro di trivellazione numero 2: Abbandonato per roccia friabile a 1600 metri. Foro di trivellazione numero 3: Intersezione con filone centrale di carbonio a 2010 metri. Valvola campione: 1,36615 onciapollici. Prima deviazione: 0,3106 onciapollici. Seconda deviazione: 0,1057 onciapollici. Foro di trivellazione numero 4: Abbandonato per tracce di acqua artesiana a 1066 metri. Foro di trivellazione numero 5: Intersezione con filone centrale di carbonio a 2470 metri. Valvola campione: 28,1 onciapollici. In quel momento stavano trivellando le deviazioni di quel foro. Il problema era ricavare un quadro generale da simili risultati. Sembrava un terreno pieno di faglie e fradicio d'acqua, con il filone aurifero che in un punto si dimostrava incredibilmente ricco, per poi, quindici metri più in là, esaurirsi. Forse un giorno avrebbero iniziato a estrarre anche da lì, pensò Rod, ma si augurò di cuore di essere già in pensione in quel momento. In lontananza, oltre il bacino di drenaggio, intravide la sottile struttura triangolare dei macchinari di trivellazione staccarsi sul fondo dell'erba alta. «Dateci pur sotto, ragazzi» mormorò. «Qualunque cosa troviate laggiù, non farà una gran differenza per me.» Poi proseguì, attraversando le imponenti cancellate che delimitavano l'ingresso dell'area della miniera, si fermò al segnale di stop dove la linea ferroviaria incrociava la strada e, alzando due dita a V, fece un gesto di vittoria all'agente addetto al traffico, seminascosto dietro al cancello.
Il piedipiatti ghignò facendogli un cenno. La settimana prima stato lui a beccare Rod, quindi si sentiva ancora in testa. Rod proseguì verso l'ufficio.
era
13. Quel lunedì mattina Allen "Popeye" Worth stava preparandosi a trivellare la prima deviazione al foro di sondaggio numero 5 della Sonder Ditch. Allen veniva dal Texas, ma non era il tipico texano. Basso di statura, era però duro come la trivella d'acciaio con cui lavorava. Trent'anni prima aveva imparato il mestiere nei giacimenti petroliferi attorno a Odessa e lo aveva imparato bene. Ora riusciva a iniziare in superficie la trivellazione di un buco di otto centimetri spingendolo fino a quattromila metri attraverso la crosta terrestre, e mantenendo il foro sempre dritto, un'impresa quasi impossibile se si calcolavano la sollecitazione alla torsione e la flessibilità presenti in una barra d'acciaio piena di giunture così lunghe. Se, come talvolta accadeva, l'acciaio si spezzava a centinaia di metri di profondità, Allen era in grado di adattare un accessorio pescante all'estremità del suo macchinario, cercare pazientemente il moncone, trovarlo ed estrarlo dal foro. Quando colpiva la vena di minerale, Allen spostava di proposito l'allineamento della trivella e perforava ripetutamente la zona per sondare un'area di centinaia di metri. Queste venivano appunto chiamate deviazioni. Allen era uno dei migliori. Poteva chiedere lo stipendio che voleva e comportarsi da primadonna, e i suoi capi gli avrebbero fatto ugualmente mille inchini, perché quel che riusciva a fare con la sua punta di diamante aveva dell'incredibile. In quel momento stava calcolando l'angolo della prima deviazione. Il giorno prima aveva calato un lungo contenitore di rame sul fondo del foro, lasciandovelo tutta la notte. La bottiglia era piena a metà di acido solforico concentrato che aveva intaccato il rame del recipiente. Misurando l'angolo di corrosione Allen sapeva di quanto stava deviando dal foro originale. Nella baracca accanto alla trivella, il texano finì le operazioni di misura e si alzò dal tavolo di lavoro con un grugnito di soddisfazione. Dalla tasca sul fianco estrasse una borsa e una pipa di pannocchia. Quando l'ebbe riempita e accesa non esistevano più dubbi sul motivo del suo soprannome di "Popeye", il famoso "Braccio di ferro". Era la copia sputata del personaggio dei fumetti, mascella aggressiva, occhi piccoli e sporgenti, gualcito berretto da marinaio in testa e tutto il resto. Allen aspirò il fumo con aria compiaciuta, osservando dall'unica finestra della baracca la sua squadra intenta al noioso lavoro di far scendere la trivella nel foro. Poi si tolse la pipa di bocca e sputò fuori dalla finestra, ripose la pipa e si chinò per controllare le misure. Il suo caposquadra lo interruppe, comparendo sulla porta. «Siamo sul fondo, pronti a girare, capo.» «Huh!» "Popeye" controllò l'orologio. «Due ore e quaranta per arrivar giù. State attenti a non stancarvi troppo, mi raccomando!» «Non è male come tempo» protestò il caposquadra. «Neanche buono, per la miseria! Okay, okay, diamoci un taglio e facciamola girare.» "Popeye" balzò fuori dalla baracca e si avviò verso l'impianto di trivellazione, lanciando rapide occhiate attorno a sé. Il macchinario era formato da una torre di traverse d'acciaio alta quindici metri e all'interno era sospesa la barra perforante che compariva nel terreno. I due motori diesel da duecento cavalli che lavoravano in coppia pulsavano in attesa di fornire l'energia necessaria, i tubi di scappamento fumavano cupi nel sole delle prime ore del mattino. Accanto alla torre erano allineate numerose barre di trivellazione, mentre dietro c'era la cisterna da 45 mila litri che forniva l'acqua. Questa veniva pompata costantemente all'interno del foro per lubrificare e raffreddare la punta che perforava la roccia. «Pronti a farla girare» disse "Popeye" alla squadra, e gli uomini si
portarono ai loro posti. Indossavano tute blu, caschi di fibra colorati e guanti di cuoio, ed erano pronti e in tensione. Quello era un momento delicato per tutto il gruppo; bisognava azionare la barra di 2400 metri con una delicatezza quasi materna altrimenti si sarebbe piegata spezzandosi. "Popeye" si arrampicò agilmente sull'orlo del foro e si guardò attorno per controllare che tutto fosse a posto. Il caposquadra era ai comandi e lo fissava con espressione assorta tenendo le mani sulle leve. «Motore!» urlò "Popeye" e con la destra descrisse il solito movimento circolare. I diesel ruggirono e "Popeye" allungò la sinistra, appoggiandola sulla barra di trivellazione. Il suo sistema era quello: "sentiva" la barra con la mano nuda mentre entrava in azione, valutando la tensione del metallo con le orecchie, gli occhi e il tatto. La destra si agitò e delicatamente il caposquadra innestò la frizione. La barra si mosse sotto la mano di "Popeye"; lui fece un altro gesto e la barra ruotò lentamente. Sentì che era ormai vicina al punto di rottura e interruppe immediatamente la forza motrice, poi la fece reinserire. La sua mano destra si mosse in modo eloquente, con l'espressività di un direttore d'orchestra, e il capo di quella squadra specializzata la seguì passo passo. Lentamente la tensione degli uomini si affievolì mentre le rotazioni della barra aumentavano costanti, finché "Popeye" strinse il pugno in segno di okay e scese dal bordo del foro. Il gruppo si sciolse, gli uomini tornarono ad altre occupazioni. "Popeye" e il caposquadra rientrarono nella baracca lasciando che la trivella macinasse il terreno a quattrocento giri al minuto. «Ho qualcosa per te» disse il caposquadra mentre entravano nella baracca. «Cosa?» chiese Allen. «L'ultimo "Playboy".» «Mi stai prendendo in giro!» lo accusò "Popeye", divertito, ma l'altro pescò fuori la rivista dal cestino della colazione. «Ehi, dammela!» "Popeye" gliela strappò di mano e guardò subito il manifesto a colori che si trovava al centro del fascicolo. «Guarda che roba!» fischiò. «Questa potrebbero metterla nel recinto del bestiame e metterebbe K.O. tutti i tori con gli attributi che si ritrova!» Il caposquadra si unì alla discussione sull'anatomia della ragazza e così per un paio di minuti nessuno dei due si accorse del nuovo rumore della trivella. Poi "Popeye", pur immerso nei suoi pensieri erotici, lo sentì. Gettò a terra la rivista e corse verso la porta della baracca col volto sbiancato. La baracca distava dalla torre cinquanta metri, ma anche da quella distanza "Popeye" vide la vibrazione della barra. Sentì la nota affaticata dei diesel sotto sforzo e si precipitò nel tentativo di raggiungere i comandi e spegnere i motori prima che accadesse il peggio. Sapeva di cosa si trattava. La trivella aveva perforato una delle tante spaccature che attraversavano quel tratto di terreno, zeppo di faglie. Il liquido lubrificante del foro era defluito lasciando che la punta lavorasse a secco contro la roccia. Il calore, dato dall'attrito, era aumentato; la polvere di taglio non veniva più rimossa dall'acqua e quindi la barra si era bloccata. Mentre da una parte la barra era incastrata saldamente, dall'altra due grossi diesel si sforzavano di farla girare Ancora pochi secondi e si sarebbe spezzata. Avrebbe dovuto esserci un uomo ai comandi nel caso si fosse verificata un'emergenza del genere, ma l'addetto era a una trentina di metri e stava giusto sbucando dalla baracca delle latrine posta dietro il serbatoio. Tentava disperatamente, nello stesso tempo, di tirarsi su i calzoni, allacciarsi la cintura e correre. «Pezzo di merda che non sei altro!» ruggì "Popeye" all'uomo che correva. «Dove diavolo sei andato a rintanarti...» Le parole gli si strozzarono in gola perché giunto sulla porta della sala motori ci fu uno scoppio simile a una salva di cannone. La barra si era spezzata e subito i diesel, alleggeriti del sovraccarico,
andarono fuori giri. Troppo tardi. "Popeye" spense i magneti d'accensione e i motori si spensero, scoppiettando. Il silenzio era rotto dai singhiozzi di rabbia e di fatica di "Popeye". «La barra si è spezzata» si lamentò. «Si è spezzata in profondità. Oh no! Dio, no!» Forse sarebbero occorse due settimane per ripescare la barra rotta, pompare cemento nella spaccatura per sigillarla, e poter ricominciare di nuovo. Si tolse il cappellino e con tutte le sue forze lo scagliò sul pavimento della sala motori, saltandovi poi sopra a piedi uniti. Era la sua solita scena madre. "Popeye" saltava sul suo cappello almeno una volta la settimana e il caposquadra sapeva che una volta ultimata l'operazione avrebbe aggredito chiunque gli fosse capitato a tiro. Silenziosamente, il caposquadra s'infilò dietro il volante del camioncino Ford e il resto degli uomini si arrampicarono a bordo. Tutti quanti se la svignarono, traballando lungo la pista segnata dai solchi delle ruote. Sulla strada principale c'era un chiosco dove di solito andavano a bersi un caffè in circostanze simili. Quando la mente di "Popeye" fu abbastanza libera dai fumi dell'ira perché lui cercasse qualcuno da immolare alla sua rabbia, si guardò intorno e trovò la zona di trivellazione stranamente immobile e deserta. «Stupido branco di babbuini fifoni!» muggì deluso verso il camion che si allontanava, poi non gli restò altro che rientrare nella baracca e telefonare all'amministratore delegato. Questo distinto signore, seduto negli uffici dotati di aria condizionata della Trivellazioni e Cementazioni Hart di Rissik Street, a Johannesburg, fu colto leggermente di sorpresa nell'apprendere da "Popeye" Worth che lui, l'amministratore delegato, era il principale responsabile della rottura di una costosa trivella di diamante al foro numero 5 della Sonder Ditch. «Se avesse usato quel mucchio di segatura che passa per cervello, sarebbe stato alla larga dal fare buchi in questo colabrodo» sbraitò "Popeye" al telefono. «Preferirei infilare il mio "succhiello" in un tritacarne piuttosto che piantare una trivella in questo terreno. Fa schifo vi dico! Non invidio certo quel povero figlio di puttana che proverà a scavare là sotto!» Sbatté giù il telefono e riempì la pipa con le mani che gli tremavano. Dieci minuti dopo il respiro era tornato regolare e le mani ferme. Risollevò il ricevitore e compose il numero del chiosco. Gli rispose il proprietario. «José, dì ai miei ragazzi che tutto è a posto, possono tornare adesso» disse "Popeye". 14. Rod Ironsides sbrigò con maggiore alacrità del solito la dozzina di incartamenti sulla sua scrivania che lo avevano accolto al ritorno in ufficio. Mentre lavorava continuò a ripetersi che Manfred Steyner avrebbe potuto farlo, sì era perfettamente in grado. Forse la Sonder Ditch poteva davvero passare a lui. Sbrigò l'ultima pratica e si allungò sulla sedia girevole. La sua mente ormai era libera dagli ultimi postumi del week-end e, come sempre, Rod si sentiva purificato. "Se riesco ad averla ne farò la numero uno di tutto il settore", pensò con bramosia. "Parleranno della Sonder Ditch da Wall Street fino alla Bourse, e parleranno anche dell'uomo che la dirige. So come fare. Ridurrò i costi all'osso, la spremerò al massimo. Frank Lemmer era abbastanza in gamba, sapeva cavarsela, ma in fondo se la prendeva comoda. A lui frantumare una tonnellata di roccia costava quasi nove rand. "Bene, io ne estrarrò quanto lui ma lo farò a un costo inferiore. E' chi comanda che dà la propria impronta all'attività. Frank Lemmer parlava di costi ogni tanto, ma non faceva sul serio e noi lo sapevamo. Non guardiamo troppo agli sprechi perché siamo su una vena ricca, siamo diventati degli spendaccioni. Be', io parlerò di costi e caverò la pelle a tutti quelli che penseranno che stia scherzando. "Lo scorso anno, Hamilton della Western Holdings ha tenuto i costi di
lavoro per tonnellata frantumata a poco più di sei rand. Potrei fare lo stesso anche qui! Aumenterei così i nostri utili di dodici milioni di rand in un anno. Se mi daranno quel posto, il nome della Sonder Ditch sarà conosciuto su tutti i mercati finanziari del mondo". Il problema che Rod stava esaminando rappresentava l'incubo dell'industria mineraria aurifera. Dal 1930 il prezzo dell'oro era stato fissato a trentacinque dollari l'oncia. Da allora i costi di lavorazione erano aumentati costantemente di anno in anno. A quei tempi si riteneva che 0,2 once di oro ogni tonnellata di minerale grezzo fosse una quantità remunerativa. Ora, invece, 0,4 once rappresentavano una percentuale antieconomica. Così, nel frattempo, tutti quei milioni di tonnellate di minerale grezzo il cui valore cadeva tra 0,2 e 0,4 once non venivano toccati, in attesa che fosse aumentato il prezzo dell'oro. Erano numerose le miniere con riserve di minerale aurifero per milioni di verghe il cui valore di sfruttamento però non riusciva a raggiungere quel magico 0,4. Questi complessi minerari giacevano nel più completo abbandono, le loro incastellature di estrazione erano rossastre di ruggine, i tetti di lamiera ondulata delle opere di superficie cadevano a pezzi. L'aumento dei costi aveva dato loro il colpo di grazia, erano miniere condannate da una parola: ANTIECONOMICA. La Sonder Ditch viaggiava tra 1 e 1,25 once per tonnellata. Era produttiva ma avrebbe potuto esserlo ancor di più, decise Rod. Bussarono alla porta. «Avanti!» disse Rod, e guardò l'ora. Erano già le nove. L'orario della riunione del lunedì mattina con i suoi capitani di miniera. Entrarono, soli e in coppie, dodici uomini. Erano gli uomini di prima linea di Rod, il suo stato maggiore. Scendevano là sotto ogni giorno, ciascuno nella propria sezione, e dirigevano il vero e proprio assalto contro la roccia. Mentre chiacchieravano in attesa che la riunione iniziasse, Rod li osservò furtivamente e ricordò una frase che gli aveva detto, una volta, Hermann Koch dell'Anglo American. "Lavorare in miniera è un gioco duro, che attira uomini duri". E quelli lo erano proprio, duri, tenaci nel corpo e nella mente, e Rod si rese conto che lui era uno di loro. No, qualcosa di più. Lui era il loro capo. E con un forte senso di orgoglio e di affetto aprì la riunione. «Bene, sentiamo le vostre lagne. Chi è il primo a spezzarmi il cuore?» Ci sono individui che hanno un talento particolare nel controllare e ottenere i migliori risultati da altri uomini. Rod era uno di quelli. Non si trattava solo della sua stazza fisica, della voce decisa, della sua risata cordiale. Era un magnetismo tutto speciale, un fascino personale e una capacità infallibile di scegliere sempre il momento giusto. Le sue riunioni erano sottolineate da frasi concitate, voci aspre che si incrociavano, poi, quando Rod parlava, si placavano in risatine e cenni di assenso. Gli uomini sapevano che lui era duro quanto loro e lo rispettavano. Sapevano che quando parlava diceva cose sensate quindi lo stavano a sentire. Sapevano che quando prometteva manteneva quindi si calmavano. E sapevano che quando Rod prendeva una decisione agiva in base a quella, quindi ognuno di loro era perfettamente in grado di regolarsi. Se glielo avessero chiesto, ognuno di quei capitani di miniera avrebbe ammesso, di malavoglia, che "in Ironsides non c'era materiale di scarto". E questo valeva quanto un riconoscimento fatto dal presidente. «Benissimo, allora.» Rod concluse la riunione. «Adesso che avete passato due ore del tempo della Compagnia a sgranchirvi le gengive, immagino che sarete tanto gentili da alzare le chiappe e scendere giù a lavorare.» 15. Mentre il gruppo pianificava le operazioni della settimana i loro uomini erano al lavoro nelle viscere della terra. Al livello 87, Kowalski procedeva come un grosso orso lungo il
passaggio fiocamente illuminato. Aveva spento il faretto del suo casco e si muoveva in silenzio, con un passo leggero per un uomo della sua stazza. Non si udivano rumori di pale che affondavano nella roccia frantumata e i lineamenti neanderthaliani di Kowalski si contorsero in una smorfia minacciosa. «Bastardi!» sussurrò. «Credono che io sia nelle terrazze, eh? Pensano che non ci sia niente di male a riposarsi un po' invece di darci sotto con quella maledetta roccia.» Continuò ad avanzare, un enorme orso dal passo vellutato. «Ma fra poco si accorgeranno che è proprio tutto diverso da come la pensano loro!» fece minaccioso. Svoltò oltre l'angolo del passaggio e accese il faretto. C'erano tre uomini, quelli contro cui aveva inveito Kowalski. Il loro compito era spalare la roccia staccata su dei carrelli ribaltabili in attesa lì accanto. Due di loro sedevano contro un carrello fumando con aria soddisfatta, mentre il terzo li deliziava con il racconto di una bevuta di birra di cui era stato protagonista il Natale precedente. Le pale e le mazze erano appoggiate alla parete del passaggio. Tutti e tre rimasero come paralizzati quando il raggio della lampada di Kowalski si posò su di loro. «E' così, dunque!» La frase uscì dalla bocca di Kowalski come un'esplosione. L'uomo afferrò una mazza da sette chili con una delle sue poderose mani, la girò e batté contro il suolo la parte sporgente del manico. La testa d'acciaio della mazza cadde e Kowalski si ritrovò in mano un bastone lungo più di un metro, di noce stagionato. «Tu, capomanovale!» urlò, e la sua mano libera scattò ad agguantare per la gola il bantu più vicino. Con uno strattone lo tirò su e cominciò a trascinarlo via, lungo il passaggio. Per quanto furioso, Kowalski voleva essere certo che non vi fossero testimoni. Gli altri due rimasero seduti dov'erano, raggelati dall'orrore, mentre le grida e i lamenti del compagno si allontanavano nel buio. Poi nello spazio stretto della galleria risuonò il primo colpo, subito seguito da un grido di dolore. Un secondo colpo, un altro urlo. Le botte e i tonfi continuarono ma le urla di risposta si affievolirono progressivamente in gemiti e lamenti sussurrati fino a che il silenzio non fu assoluto. Kowalski ritornò lungo il passaggio da solo, sudava copiosamente alla luce della lampada e il manico della mazza era scuro di macchie di sangue fresco. Lo scagliò ai loro piedi. «Lavorate!» borbottò, e scomparve nell'ombra dondolando le spalle come un orso. 16. Al livello 100, Joseph M'Kati stava lavando e spazzando via i residui che si erano rovesciati sotto il nastro trasportatore. Faceva quel lavoro da cinque anni ed era un uomo soddisfatto e felice. Joseph era uno shangaan ormai sulla sessantina; la canizie cominciava a segnargli i capelli. Attorno agli occhi e agli angoli della bocca si notavano le rughe di un viso incline al sorriso. Portava il casco quasi sulla nuca, aveva la tuta abbellita da ricami, da toppe rosse e azzurre, e si muoveva con un'andatura impettita ed energica. Il nastro trasportatore era lungo parecchie centinaia di metri. Da tutti i livelli superiori il minerale aurifero scavato veniva liberato dalle terrazze di scavo e trasportato da carrelli lungo le gallerie principali. Poi, dai carrelli, veniva rovesciato nelle bocche di scarico. Si trattava di pozzi verticali che convogliavano al livello 100 il minerale, scaricandolo sul nastro trasportatore. Una serie di porte d'acciaio regolava l'afflusso di roccia sul nastro che la portava al pozzo principale per deporla in enormi silos. Da qui il minerale con un sistema automatico passava nella gabbia del grezzo e in carichi di quindici tonnellate, saliva in superficie a intervalli di quattro minuti. Joseph continuò a lavorare di buon umore sotto il nastro cigolante. I residui di roccia che cadevano erano piccoli ma importanti. L'oro si
comporta in modo strano, tende a precipitare verso il basso. Il suo alto peso specifico fa sì che riesca a depositarsi sul fondo aprendosi un varco nella materia che incontra. Avrebbe trovato così qualsiasi crepa o irregolarità nel pavimento e vi sarebbe penetrato. E se lasciato depositare per un periodo sufficiente sarebbe scomparso nel terreno stesso. Era appunto questo comportamento dell'oro il motivo della felicità di Joseph M'Kati. Era arrivato, spazzando e lavando, alla fine del nastro. Si rialzò, appoggiò la scopa lì accanto e si massaggiò le reni con entrambe le mani, guardandosi velocemente attorno per accertarsi che non ci fosse nessun altro nel tunnel. Accanto a lui c'era il silos in cui il nastro trasportatore vuotava il carico. Quel silos poteva contenere parecchie migliaia di tonnellate. Certo di essere solo, Joseph si inginocchiò e strisciò carponi sotto il silos ignorando l'incessante fragore della roccia scaricata all'interno e avanzando fino a raggiungere i buchi. A Joseph erano occorsi molti mesi per togliere, a colpi di scalpello, la testa di quattro ribattini sul fondo del silos ma una volta terminato il lavoro era riuscito a costruire un semplice ma efficace separatore di densità. L'oro allo stato libero presente nel minerale scaricato nel silos si apriva rapidamente un varco nella roccia sottostante e il suo cammino era accelerato dalle vibrazioni del nastro e del silos in seguito allo scarico continuo di minerale grezzo. Quando l'oro raggiungeva il fondo del contenitore cercava una nuova via per proseguire il suo viaggio verso il basso e trovava i quattro buchi prodotti da Joseph, sotto cui l'uomo aveva steso un foglio di politene. Le particelle aurifere formavano quattro mucchietti conici sul foglio di plastica e sembravano esattamente uguali a fuliggine polverizzata. Accovacciato sotto il silos, Joseph trasferì con cura la polvere nera nella sua borsa del tabacco, risistemò il politene per raccogliere il nuovo prodotto che sarebbe filtrato, infilò la borsa in tasca e si arrampicò uscendo nella galleria. Fischiettando un motivo tribale sul periodo della semina, Joseph raccolse la scopa e riprese il suo interminabile lavoro. Spazzare e lavare, lavare e spazzare. 17. Johnny Delange stava segnando i fori delle mine. Appoggiato su un fianco, nella bassa terrazza della sezione 27, stava calcolando a occhio l'angolo e la profondità per un taglio laterale che compensasse una lieve convessità presente nel fronte di scavo. Alla Sonder Ditch si usava far esplodere simultaneamente, ogni giorno, un'unica volata di mine. Johnny veniva pagato a cubatura, secondo la quantità di roccia spaccata ed estratta dalla sua terrazza di scavo. Quindi doveva collocare i fori delle mine in modo da ottenere la massima frantumazione possibile della parete. «Ecco, così» borbotto, e segnò la posizione del foro con della vernice rossa. «E così.» Con una pennellata decisa tracciò l'angolazione che doveva seguire il suo trivellatore. «"Shaya, madoda"!» Johnny batté la spalla del negro accanto a lui. «Forza, lì, ragazzo.» I trivellatori erano scelti tra i più robusti e resistenti, il negro cui si era rivolto era una scultura greca in ebano lucente. «"Nkosi"!» Il trivellatore rispose con un largo sorriso e con il suo aiutante trascinò il martello perforatore in posizione. L'attrezzo sembrava una versione ciclopica di un mitragliatore pesante. Quando il poderoso bantu lo accese il rumore esplose assordante nello spazio ristretto della terrazza di scavo. L'aria compressa ruggì, vibrando, nel martello perforatore, percuotendo i timpani. Johnny fece un segno di approvazione serrando il pugno e per un istante ci fu uno scambio reciproco di sorrisi, solidali nella fatica comune. Poi, Johnny arrancò lungo la terrazza per tracciare il foro successivo. Johnny Delange aveva ventisette anni ed era il miglior spaccaroccia della Sonder Ditch. La sua squadra di quarantotto uomini era un gruppo affiatatissimo di specialisti. C'era una vera e propria lotta per riuscire a lavorare nella sezione 27 perché era lì che si guadagnava.
Johnny poteva scegliere i migliori quindi ogni mese, quando arrivavano i periti per le misurazioni, Johnny Delange era sempre molto avanti con la cubatura. Si trovava nella sorprendente posizione di un uomo che pur ai gradini più bassi della gerarchia guadagnava più di chi era al vertice. Johnny Delange guadagnava più del direttore generale della Sonder Ditch. L'anno prima aveva pagato la sovrattassa su un guadagno di ventiduemila rand. Persino un minatore come Kowalski che brutalizzava la sua squadra e ora si ritrovava con la feccia della miniera, guadagnava più di novemila rand, il salario di un dirigente del grado di Ironsides. Johnny arrivò alla fine del fronte di scavo e segnò gli ultimi fori. Lungo il pendio della terrazza giungeva il fragore dei metalli in azione; Johnny si tolse il casco pulendosi la faccia e rimase un attimo a riposarsi. Era un giovane dall'aspetto insolito. I lunghi capelli neri erano pettinati all'indietro e legati a coda, i lineamenti magri e scavati ricordavano un pellerossa. Johnny aveva tagliato le maniche della tuta per scoprire le braccia, braccia possenti ma agili come il resto del corpo, e tatuate al di sotto dei gomiti. Sulla mano destra portava otto anelli, due per dito, e dalla loro forma si capiva che non avevano una funzione d'ornamento. Erano anelli d'oro massiccio a forma di teschi, teste di lupo e così via, una massa di metallo che costituiva un tirapugni permanente. A proposito degli occhi di un teschio, Rod Ironsides gli aveva chiesto una volta: «Sono rubini veri, Johnny?» E lui aveva risposto serio: «Se non lo sono vuol dire che mi hanno fregato trecentocinquanta rand, signor Ironsides.» Fino a otto mesi prima Johnny era stato proprio una testa calda, poi aveva conosciuto e sposato Hettie, e ormai stava mettendo la testa a partito... ormai erano passati dieci giorni dalla sua ultima rissa. Sdraiato nella terrazza di scavo, Johnny pensò a Hettie. Era alta quasi come lui, con uno splendido corpo e capelli rosso castano. Lui l'adorava. Quando si trattava di esprimerle il suo affetto, Johnny, che non era certo il miglior oratore di Kitchenerville, le comprava dei regali. Le aveva comprato vestiti, gioielli, un enorme e modernissimo frigorifero, una Chrysler Monaco rivestita in leopardo. Era difficile entrare in casa Delange senza inciampare in uno dei regali di Johnny, e a rendere la confusione maggiore vi era il fatto che con loro abitava anche Davy, il fratello di Johnny. «Accidenti ragazzi!» Johnny scrollò il capo. «Hettie è davvero fantastica!» Il sabato prima, in un negozio di Kitchenerville, aveva adocchiato un magnifico forno. «Le piacerà» mormorò tra sé. «Sono solo quattrocento rand. Glielo comprerò quando arriverà la paga.» Presa la decisione, si infilò il casco e scese lungo la terrazza. Era ora di andare alla stazione a prendere l'esplosivo per la volata giornaliera. Il suo capomanovale avrebbe dovuto attenderlo nella galleria principale e Johnny si infuriò scoprendo che né lui né il suo aiutante erano sul posto. «Bastardo!» imprecò, illuminando il passaggio col raggio della lampada. Il capomanovale era uno swazi dal viso butterato, un tipo piccolo ma forte e molto intelligente. Aveva un brutto carattere però; Johnny non l'aveva mai visto ridere e si trovava male con un tipo così ombroso e taciturno. Lo sopportava perché lo swazi era energico e affidabile, ma era l'unico della squadra che a Johnny non piacesse. «Bastardo! Dove diavolo si è ficcato?» Johnny cominciava a spazientirsi. «Gli cavo la pelle quando lo trovo.» Poi si ricordò della latrina. «Ecco dov'è!» E si affrettò lungo la galleria. La latrina era un cubicolo scavato nella parete di roccia chiuso da un pezzo di tela che fungeva da porta. Johnny scostò la tenda ed entrò. Il capomanovale ed il suo aiutante erano lì. Johnny li fissò sorpreso, non capendo subito cosa stessero facendo. Erano talmente assorti da non accorgersi del suo arrivo.
Improvvisamente, Johnny capì e tese il volto in un'espressione di disgusto. «Schifosi...» ringhiò, e afferrando il capomanovale per le spalle lo tirò indietro inchiodandolo alla parete. Sollevato il pugno, ricoperto di anelli, fece per colpirlo. «Picchiami e sai cosa accadrà» gli disse il negro con una espressione piatta, fissandolo negli occhi. Johnny esitò. Conosceva il regolamento della Compagnia, sapeva come la pensavano quelli della Camera del Lavoro governativa e cosa avrebbe fatto la polizia. Se lo colpiva, lo avrebbero messo in croce. «Sei un porco!» gli disse Johnny con un sibilo. «Tu hai una moglie» gli rispose l'altro. «La mia è nello Swaziland. Sono due anni che non la vedo.» Johnny abbassò il pugno. Dodicimila uomini, e nessuna donna. Era un dato di fatto. Era nauseante ma Johnny capiva perché succedessero cose simili. «Vestiti.» Indietreggiò lasciando libero il negro. «Vestitevi tutti e due. Venite alla stazione. Ci vediamo là.» 18. Da una settimana, dal crollo nella sezione 43, Big King non aveva più messo piede nelle terrazze di scavo. Era un ordine di Rod. La scusa era che il caposquadra di Big King era rimasto ucciso, quindi lui doveva attendere di essere assegnato a un'altra sezione. In realtà, Rod voleva che si riposasse, perché aveva visto lo stress fisico e mentale cui si era sottoposto durante l'opera di salvataggio. Quando, insieme, avevano ricuperato il cadavere dell'uomo con cui Big King aveva riso e lavorato, Rod aveva visto le guance del negro bagnarsi di lacrime, stringendo il corpo esanime al petto. "Hamba gahle, madoda" aveva sussurrato Big King. "Vai in pace, uomo." Big King era la leggenda della Sonder Ditch. Tutti si vantavano di lui: di quanta birra bantu riuscisse a bere, di quanta roccia potesse spezzare con una mano sola in un turno, della sua incrollabile resistenza nella danza. Big King aveva ricevuto oltre mille rand in premi di coraggio; lui faceva l'andatura, gli altri cercavano di stargli dietro. Rod gli aveva affidato una squadra di trasporto e per i primi giorni Big King era stato soddisfatto in quanto gli si presentava l'opportunità di spostarsi lungo gli scavi e di incontrare numerosi amici, ma ora Big King era stanco. Voleva tornare nelle terrazze. «Questo» disse con tono sprezzante, rivolto alla sua squadra di trasporto «è un lavoro per i vecchi e le ragazze.» E con un colpo solo sollevò un fusto di carburante da duecento litri, appoggiandolo sulla piattaforma della motrice. Quel fusto da duecento litri pesava quasi trecento chili. 19. "Tutto questo casino per 'sta roba". Dave Delange smise di comprimere il Dynagel nei fori e si piegò in avanti per esaminare il filone di carbonio che spiccava in una linea nera sulla ganga bluastra di quarzo. Lo chiamavano il Filone Guida di carbonio, uno strato sottile di carbonio profondo pochi pollici, anzi il più delle volte solo mezzo pollice. Fuliggine, ecco cos'era. Davy scrollò il capo, pensoso. Non si riusciva nemmeno a vedere una traccia d'oro lì dentro. Davy era più vecchio di due anni del fratello, e non gli assomigliava affatto, né nel fisico né nel carattere. Aveva i capelli biondo sabbia e li portava tagliati corti. Non si addobbava di gioielli ed era un tipo tranquillo e riservato. Era tarchiato e di muscolatura massiccia e, mentre Johnny spendeva senza ritegno, Davy era piuttosto spilorcio. L'unico tratto in comune tra i due era la loro eccezionale abilità nel lavoro. Se Johnny rompeva più roccia di Davy, era solo perché Davy era più prudente e si atteneva, a differenza di Johnny, alle disposizioni di sicurezza.
Davy guadagnava meno del fratello, però risparmiava ogni spicciolo che poteva perché un giorno si sarebbe comprato una fattoria. Aveva già da parte circa 49 mila rand, ancora cinque anni e avrebbe raggiunto la cifra sufficiente. Allora, dopo aver acquistato la fattoria, si sarebbe preso una moglie che lo aiutasse nel lavoro. Johnny, invece, spendeva tutto e di solito verso la fine del mese, s'indebitava sempre con Davy. «Prestaci cento rand fino al giorno di paga, Davy.» Davy gli prestava i soldi con un moto di disapprovazione, ma del resto disapprovava tutto di Johnny. Sospendendo il minuzioso esame al filone di carbonio, Davy riprese a sistemare l'esplosivo con estrema precauzione. Era un compito pericolosissimo perché i candelotti avevano i detonatori innestati; per legge, solo il minatore incaricato poteva svolgere quell'operazione, ma Davy lavorava automaticamente pensando all'ultimo torto che gli aveva fatto Johnny. Il fratello gli aveva aumentato l'affitto. «Cento rand al mese!» aveva protestato Davy. «Ho una mezza idea di andarmene e cercarmi una camera ammobiliata.» Ma sapeva che non lo avrebbe fatto. La cucina di Hettie era troppo buona, e la sua presenza femminile troppo piacevole. Davy sarebbe rimasto con loro. 20. «Rod.» La voce di Dan Stander, al telefono, era seria. «Ho una brutta notizia per te.» «Oh, grazie mille» rispose Rod con tono rassegnato. «Sto proprio uscendo per il giro sotterraneo. Non puoi aspettare?» «No. Comunque sei sulla strada. Sono qui alla stazione di soccorso all'ingresso del pozzo. Fai un salto.» «Di che si tratta?» «Aggressione. Un bianco ha percosso un bantu.» «Cristo!» Rod si rialzò di scatto sulla sedia. «E' una cosa grave ?» «Sì, un brutto affare. Lo ha picchiato col manico di una mazza. Gli ho dato quarantasette punti, ma ho paura che ci sia una frattura cranica.» «Chi è stato?» «Un caposquadra, un certo Kowalski.» «Ah, lui!» Rod ansava nervoso. «Va bene, Dan. Può parlare?» «No. Almeno per un paio di giorni.» «Sarò lì fra qualche minuto.» Rod riappese e attraversò l'ufficio. «Dimitri.» «Sì, capo?» «Fai uscire Kowalski dalle terrazze. Lo voglio qui in ufficio, il più presto possibile. Manda qualcuno al suo posto.» «Okay, Rod. Cos'è successo?» «Ha pestato uno dei suoi uomini.» Dimitri fischiò sottovoce e Rod proseguì. «Avvisa quelli del personale e di' che chiamino la polizia.» «Okay, Rod.» «Voglio qui Kowalski quando rientro dal giro.» Dan lo aspettava nella stanza del pronto soccorso. «Dai un'occhiata» e indicò la figura sulla barella. Rod gli si inginocchiò accanto, serrando la bocca in una sottile linea pallida. I punti di sutura spiccavano sulle scure lacerazioni della carne del ferito. Un orecchio gli era stato strappato e Dan aveva dovuto riattaccarglielo. Dietro le labbra tumefatte, al posto dei denti, si notava solo una cavità scura. «Coraggio, ora andrà meglio.» Rod parlò con dolcezza e gli occhi del bantu ruotarono verso di lui. «L'uomo che ti ha conciato così la pagherà.» Rod si alzò. «Fammi avere un rapporto scritto sulle ferite, Dan.» «Okay, te lo preparo. Ci vediamo al club per bere qualcosa, dopo il lavoro?» «Certo» rispose Rod, ma dentro di sé ribolliva di rabbia, una rabbia
che lo accompagnò per tutto il giro di ispezione giù nella galleria. 21. Rod scese direttamente al livello 100. Il suo compito principale era controllare l'uscita del minerale, quindi voleva dare un'occhiata alla riserva contenuta nei silos. Giunse nel tunnel sottostante alle bocche di scarico e si fermò di fronte al nastro trasportatore. Il tunnel era deserto, tranne la figura solitaria dell'operaio che puliva i residui caduti dal nastro. Era uno degli strani fenomeni di una miniera efficiente il fatto che durante un giro negli scavi non si incontrasse quasi nessun essere umano. Chilometri e chilometri di galleria si snodavano silenziosi e privi di vita, eppure vi erano dodicimila uomini là sotto. Rod si avviò verso i silos all'estremità della galleria e salutò il vecchio negro con un sorriso: «Salve, Joseph.» «"Nkosi".» Joseph piegò il capo, timidamente compiaciuto. «Tutto bene?» chiese Rod. Joseph gli era molto simpatico, sempre allegro, mai che si lamentasse; era un tipo onesto, senza doppi fini, insomma. Rod si fermava sempre a scambiare due chiacchiere con lui. «Per me tutto bene, "Nkosi". E lei?» Il sorriso di Rod svanì non appena vide sul labbro superiore di Joseph la traccia bianca della polvere. «Ah, vecchio furfante!» lo rimproverò. «Quante volte devo dirti di bagnare per terra prima di spazzare? Acqua! Devi usare l'acqua! La polvere ti corroderà i polmoni!» La silicosi era la terribile malattia professionale che incombeva sui minatori. La causa erano le particelle di roccia che, aspirate, si solidificavano nei polmoni. Joseph sorrise, vergognoso, muovendo i piedi; si sentiva sempre imbarazzato di fronte all'ossessione infantile di Rod per la polvere. Per Joseph quello era l'unico difetto di Rod Ironsides. A parte quella strana mania che la polvere fosse dannosa, per lui Rod era un buon capo. «E molto più duro scopare polvere bagnata che asciutta» spiegò il vecchio, pazientemente. Possibile che Rod non capisse un fatto così lampante e lo costringesse a ripeterglielo sempre. «Ascolta, vecchio mio, senza l'acqua la polvere ti penetrerà nel corpo.» Rod era esasperato. «Ti ucciderà!» Joseph annuì, sorridendogli per placarlo. «Molto bene, allora. Userò l'acqua.» E per dimostrarlo prese la canna e iniziò a innaffiare il pavimento di buona lena. «Così va bene!» lo incoraggiò Rod. «Usa acqua in abbondanza.» Poi s'incamminò verso i silos. Quando Rod se ne fu andato, Joseph interruppe il getto d'acqua e si appoggiò alla scopa. «La polvere ti ucciderà!» disse, imitando Rod, e rise scrollando il capo ripensando a quella fissazione così infantile. «La polvere ti ucciderà!» ripeté, e scoppiò in una sonora risata, battendosi una mano sulla coscia. Poi si abbandonò ad alcuni passi di danza. Ma si muoveva in modo impacciato perché sotto i calzoni, assicurati ai polpacci, aveva due spessi sacchetti di plastica contenenti polvere d'oro estratta dal fondo dei silos. 22. Rod scese dalla "Mary Anne" al livello 85 e si fermò a osservare Big King che caricava una traversa di legno mentre la sua squadra di trasporto se ne stava in disparte, guardandolo con aria rispettosa. Accortosi di Rod, Big King gli andò incontro. «Io ti vedo, uomo» fu il suo saluto a Rod. Big King non era il tipo che si facesse giudizi affrettati. Solo dopo le operazioni di soccorso nella sezione 43 aveva deciso che Rod era un uomo, e ora era pronto ad accettarlo come suo pari. «Anch'io ti vedo, King Nkulu.» Rod restituì il saluto. «Trovami un lavoro per uomini. Ho la nausea di questo.» «Tornerai nelle terrazze prima della fine della settimana» promise
Rod. «Tu sei mio trasporto.
padre»
lo ringraziò Big King,
e tornò alla squadra di
23. Johnny Delange vide il direttore Lavori sotterranei avanzare verso di lui; era impossibile non riconoscere quella figura dalle spalle ampie e l'andatura sciolta e spedita. «Fiuuu!» Johnny fischiò di sollievo. Infatti, chissà per quale premonizione, aveva chiuso i cartoni di Dynagel nello scomparto esplosivi del carrello, invece di impilarli a casaccio sulla piattaforma in barba alle norme di sicurezza. «Ferma!» ordinò ai due negri che stavano spingendo il carrello. «'Giorno, Johnny.» «Salve, signor Ironsides.» «Come va?» Johnny esitò prima di rispondere e subito Rod si rese conto della tensione esistente tra i tre uomini; i due swazi erano accigliati e in apprensione. "C'è stato qualche guaio", pensò. "Non è da Johnny, è troppo in gamba per permettere che la tensione si ripercuota sul suo lavoro." «Be'...» Johnny esitò ancora. «Senta, signor Ironsides, mi tolga dai piedi questo bastardo» e indicò il capomanovale. «Cos'è successo?» «Oh, niente. Solo che non riesco a lavorare con lui» Rod aggrottò la fronte incredulo, poi si rivolse al negro: «Ti trovi bene qui, o vuoi essere trasferito?» «Voglio il trasferimento» borbottò il capomanovale. «Bene.» Rod si sentì sollevato, a volte in casi simili l'interessato rifiutava il trasferimento. «Domani ti verrà assegnata la tua nuova sezione.» «"Nkosi"!» Il negro lanciò un'occhiata al suo aiutante. «E desiderio del mio amico trasferirsi con me.» "E' così, dunque", pensò Rod. "Probabilmente Johnny li ha colti sul fatto. Il solito maledetto problema contro cui siamo impotenti". «Il tuo amico ti seguirà» annuì Rod. Lo faceva solo per creare meno problemi. Se li avesse separati, il capomanovale ci avrebbe provato con qualcun altro che forse non era altrettanto d'accordo, e ne sarebbero sorti solo altri guai. «Ti troverò un rimpiazzo» disse Rod a Johnny, e improvvisamente gli venne un'idea. "Mio Dio, certo Che squadra farebbero, insieme!" «Johnny, che ne diresti di Big King?» «Big King!» I lineamenti scarni di Johnny si allargarono in un sorriso. «Questo sì che si chiama parlare, capo.» 24. Alle tre, Rod aveva ultimato il giro d'ispezione e stava risalendo in superficie. La gabbia era affollata, gli uomini pigiati in un puzzo di sudore insopportabile. Si stava sgombrando la miniera, la giornata di lavoro era finita. Le terrazze di scavo erano state liberate dalla roccia e lavate, i fori delle mine erano pieni e le micce collegate al circuito di brillamento. Gli uomini stavano raggruppandosi nelle stazioni ai vari livelli in attesa del loro turno di risalita. Rod stava rimuginando sulla miriade di problemi che gli si erano presentati durante la giornata e sulle soluzioni che aveva immaginato. Nelle pagine in fondo al suo taccuino aveva aperto una nuova sezione, intitolandola semplicemente: COSTI. Erano già due le voci registrate in quei fogli. "Lascia che mi diano quel posto", pensò, "e in un mese solleverò il mondo." «Signor Ironsides» lo chiamò una voce alle sue spalle. Rod si voltò e riconobbe l'uomo. «Salve Davy.» No, non assomigliava affatto a suo fratello. «Signor Ironsides, il mio capomanovale va a casa alla fine del mese. Potrebbe fare in modo di rimpiazzarmelo con un tipo in gamba?»
«Il capomanovale di tuo fratello ha chiesto il trasferimento. Lo vuoi?» «Sì!» annuì Davy Delange. «Lo conosco, è in gamba.» "Così un'altra faccenda era sistemata", pensò Rod uscendo dalla gabbia e respirando con piacere l'arietta del limpido pomeriggio estivo. "Ora non resta che spazzare gli ultimi mozziconi di lavoro della giornata, poi seguirò l'invito di Dan e andrò a bere qualcosa. Dimitri gli andò incontro fuori dall'ufficio. «C'è Kowalski da me.» «Bene» disse Rod con un'espressione truce. Entrò nel suo ufficio e sedette sul bordo della scrivania. «Mandalo dentro.» Kowalski entrò, poi si fermò davanti a lui. Rimase immobile, con le braccia penzoloni e la pancia che sporgeva dalla cintura. «Mi ha chiamato?» balbettò in un inglese quasi incomprensibile. Aveva una faccia rude, i lineamenti grossolani e gli occhi ottusi. Non si era rasato e la barba, ispida, era sporca di polvere. «Hai picchiato un uomo oggi?» gli chiese Rod, sottovoce. «Non lavorava» annuì Kowalski. «L'ho picchiato. Forse così la prossima volta i suoi amici non si fermeranno. Basta con queste idiozie!» «Sei licenziato» disse Rod. «Prendi la paga e sloggia.» «Licenziato?» Kowalski batté le palpebre, sorpreso. «Ci sarà un procedimento penale a tuo carico da parte della Compagnia ma nel frattempo voglio che tu te ne vada da qui.» «Polizia?» grugnì Kowalski, assumendo finalmente un'espressione sul suo viso di pietra. «Sì, polizia.» Le mani di Kowalski, che parevano due badili, si strinsero lentamente in due pugni impressionanti. «Ha chiamato la polizia, eh?» e avanzò minaccioso verso la scrivania. «Dimitri» chiamò Rod «chiudi la porta.» Dimitri che aveva seguito la conversazione con vivo interesse, scattò a chiudere la porta di comunicazione, appoggiandovi l'orecchio. Dopo alcuni secondi di grugniti e mormorii, ci fu all'improvviso un colpo sordo, un lamento, un altro colpo e per finire un crollo assordante. Dimitri si abbandonò a un sussulto melodrammatico. «Dimitri.» Era la voce di Rod. Il greco aprì la porta. Rod sedeva sul bordo della scrivania, ondeggiando con noncuranza una gamba e succhiandosi le nocche della mano destra. «Dimitri, dì che non mettano così tanta cera sul pavimento. Il nostro amico è scivolato e ha sbattuto il mento sulla scrivania.» Dimitri fece un risolino d'intesa osservando il polacco steso a terra. Kowalski respirava rumorosamente a bocca aperta. «Ha fatto una brutta caduta» disse Dimitri. «Che peccato!» 25. Il dottor Steyner continuò a lavorare tranquillamente per il resto del lunedì mattina. Preferiva usare il registratore, così evitava i contatti umani che gli risultavano vagamente repellenti. Non gli piaceva dettare a una ragazza seduta di fronte a lui con le cosce semiscoperte che dimenava il sedere e si toccava i capelli. Ma quello che non sopportava, assolutamente, era l'odore. Manfred era molto sensibile agli odori, era disgustato perfino dal sudore del proprio corpo. Le donne, poi, sotto i profumi e i cosmetici nascondevano un tanfo dolciastro, nauseante. Era questo il motivo per cui con Theresa aveva insistito per le camere separate. Naturalmente le aveva detto che lui aveva un sonno così leggero da non poter dividere la stanza con un'altra persona. Nell'ufficio bianco e azzurro ghiaccio, con l'aria fresca e pulita del condizionatore, il ronzìo smorzato del registratore e la sua voce secca e impersonale, Manfred era assorto nei suoi giochi di prestigio con cifre e capitali, una struttura tridimensionale di variabili e contingenze che solo un cervello fuori della norma era in grado di visualizzare. Inconsciamente, però, Manfred era inquieto, stava aspettando, ansioso. E il segno esteriore della sua agitazione era il modo in cui le dita della mano destra correvano su e giù lungo la
coscia in una carezza narcisistica. Poco prima di mezzogiorno il telefono della sua linea privata squillò, e la sua mano si irrigidì. Solo una persona aveva quel numero. Rimase immobile per alcuni secondi, ritardando quel momento così importante, poi spense il registratore e rispose. «Parla il dottor Manfred Steyner.» «Ha piazzato il nostro uomo?» s'informò la voce. «Non ancora, Andrew.» Dall'altro capo della linea scese il silenzio, un pericoloso silenzio. «Non c'è motivo di preoccuparsi. Non ci sono ostacoli. Solo un semplice ritardo.» «Quanto?» «Due giorni... al massimo per la fine della settimana.» «Sarete a Parigi la prossima settimana?» «Sì.» Manfred era un consigliere della équipe governativa che doveva incontrarsi con gli esperti francesi per discutere sul prezzo dell'oro. «Lui la incontrerà là. L'ideale sarebbe che per allora avesse portato a termine la parte dell'affare che la riguarda personalmente. Capisce, vero?» «Si, capisco, Andrew.» La discussione era finita, ma Manfred intervenne subito per impedire all'altro di riappendere: «Andrew!» «Si.» «Vorrebbe chiedergli se...» Il tono di Manfred era cambiato, impercettibilmente, assumendo una sfumatura servile. «Se posso giocare stasera, per favore. Grazie, Andrew.» «Aspetti.» I minuti trascorsero, poi la voce tornò all'apparecchio. «Sì, può giocare. Simon la informerà dei limiti ammessi.» «Grazie. Lo ringrazi, Andrew.» Manfred lasciò trasparire tutto il proprio sollievo deponendo il ricevitore, e mentre fissava con uno sguardo raggiante la tappezzeria azzurro ghiaccio della parete opposta, perfino i suoi occhiali parvero luccicare 26. Nella stanza riccamente arredata si trovavano cinque uomini. Uno di loro, il più giovane, attento agli umori e alle richieste degli altri, era chiaramente un servitore. Degli altri quattro, uno altrettanto chiaramente era il padrone di casa, e sedeva al centro circondato dall'attenzione generale. Era grasso, ma non in modo eccessivo, una pinguedine che gli veniva da un vivere agiato e non dalla golosità. Quest'uomo stava parlando con i suoi tre ospiti. «Avete espresso dei dubbi sull'affidabilità dello strumento che intendo usare nell'impresa imminente. Ho preparato una dimostrazione che spero vi convinca dell'infondatezza delle vostre preoccupazioni. E' questo appunto il motivo dell'invito comunicatovi da Andrew nel pomeriggio.» Il padrone di casa si rivolse al giovane. «Andrew, vorresti essere così cortese da uscire ad attendere il dottor Steyner? Quando arriva, lascia che Simon lo faccia accomodare e poi vieni a informarci.» Impartiva gli ordini con la dignità e la cortesia di un uomo abituato a comandare. «E ora signori, mentre aspettiamo, permettetemi di offrirvi un drink.» La conversazione che nacque fra i quattro, mentre sorseggiavano le bevande, mostrò che tutti avevano una conoscenza straordinaria dell'argomento in oggetto: la ricchezza. Ricchezze minerarie, industriali, della terra e del mare. Petrolio, acciaio, carbone, pesce, grano e... oro. Il rango di quei signori traspariva dal taglio e dalla qualità dei loro abiti, dallo scintillio di una pietra al dito, dal tono autoritario di una voce, dall'accennare disinvolto al nome di una personalità. «E' arrivato, signore» li interruppe Andrew dalla porta. «Oh, grazie, ragazzo mio.» Il padrone di casa si alzò. «Vi spiace
seguirmi da questa parte, signori? Grazie.» Attraversò la stanza e scostò un pesante tendone. Dietro, era nascosta una finestra. I quattro si raggrupparono attorno alla finestra e guardarono nella sala, posta oltre il vetro. Era una lussuosa sala da gioco. Uomini e donne sedevano al tavolo del baccarat, ma nessuno accennava ad alzare lo sguardo alla finestra sovrastante. «Si tratta di un finto specchio, signori» spiegò il padrone di casa agli invitati. «Quindi non preoccupatevi che qualcuno vi veda in questo covo del vizio.» Gli altri risero educatamente. «Che profitto ricava da questo posto?» domandò uno di loro. «Mio caro Robert!» Il padrone di casa si finse stupito. «Non penserà davvero che io sia in qualche modo coinvolto in una impresa illegale?» Questa volta la risata fu veramente divertita. «Ah! Eccolo!» Nella sala da gioco, un giovane alto e olivastro, che in smoking sembrava un impresario di pompe funebri, stava accompagnando a sedere il dottor Steyner. «Ho chiesto a Simon di sistemarlo in modo che possiate vederlo in faccia mentre gioca.» I quattro si piegarono in avanti, assorti, fissando l'uomo che sistemava le fiches dinanzi a sé. Manfred Steyner cominciò a giocare. Il suo volto era totalmente inespressivo ma di un pallore impressionante. A intervalli di pochi secondi la punta della lingua sporgeva dalle sue labbra e rientrava subito. Tra una mano e l'altra Steyner si irrigidiva in una immobilità da rettile, rotta soltanto da una pulsazione costante della gola, mentre gli occhiali scintillavano come le pupille di un serpente. «Posso guidare la vostra attenzione sulla sua mano destra durante questa giocata?» mormorò il padrone di casa. La destra di Manfred era appoggiata, aperta, accanto alle fiches, ma quando gli passarono la carta le dita si chiusero. «"Carte".» Sulla bocca gli si lesse la parola. Ora la mano era stretta a pugno, le nocche erano bianche, la tensione tale che il pugno tremò. Ma il viso continuava a essere imperturbabile. Il tipo che teneva il banco girò la carta. «"Sept"!» Il numero si formò sulla bocca del croupier, che scoprì la carta di Manfred e poi gli rastrellò le fiches puntate. La mano di Manfred si aprì, giacendo inerte come un pesce morto sul tappeto verde. «Lasciamolo ai suoi divertimenti» suggerì il padrone di casa e tirò il tendone sulla finestra. Tornarono alle loro sedie stranamente scossi. «Gesù» mormorò uno degli invitati. «E' stato davvero sgradevole. Mi sono sentito come un voyeur, come se stessi osservando qualcuno... sì ecco, qualcuno intento a masturbarsi.» Il padrone di casa gli lanciò un'occhiata, sorpreso dalla sua intuizione. «In effetti è proprio quello che stavate osservando» disse. «Mi scuserete se assumo un ruolo cattedratico ma sono discretamente informato su quest'uomo. Uno studio psicanalitico su di lui, svolto da uno dei nostri più illustri psichiatri, mi è costato quasi quattrocento rand.» Poi s'interruppe, assicurandosi di disporre della loro completa attenzione. «Le ragioni non sono chiare, probabilmente risalgono a un avvenimento o a una serie di fatti relativi al periodo in cui il dottor Steyner era un orfano che vagava tra le rovine dell'Europa, lacerata dalla guerra. Comunque sia, i risultati sono qui di fronte a noi. Il quoziente d'intelligenza del dottor Manfred Kurt Steyner è centocinquantotto, un punteggio da genio. Steyner non fuma e non beve. Non ha passatempi, non pratica sport, non ha mai rivolto le sue attenzioni a un'altra donna che non fosse la moglie, e sulla periodicità e la portata di queste attenzioni esistono seri dubbi. Meccanicamente, se mi si passa il termine, il dottor Steyner non è impotente né ha difetti fisici. Trova però i contatti corporei, e specialmente le secrezioni che ne possono derivare, assolutamente
ripugnanti. Come stimolante si affida al baccarat, come sfogo potrebbe sopportare un breve contatto con un membro del sesso opposto, ma più probabilmente, oh... qual era l'espressione che lei ha usato, Robert? Steyner, per essere precisi, è un maniaco del rischio. Ma è anche un perdente; fa di tutto per perdere.» Gli altri si irrigidirono, increduli. «Vuol dire che cerca di perdere?» domandò Robert. «No.» Il padrone di casa scosse il capo. «Non a livello conscio. Lui crede di impegnarsi per vincere, ma scommette contro probabilità che, col suo cervello geniale, deve per forza ammettere come suicide. Si tratta di un desiderio di perdere, di essere umiliato, radicato nel subconscio. Una forma di masochismo.» Il padrone di casa aprì un taccuino di pelle nera e controllò i dati. «Nel periodo 1958-1963 il dottor Steyner ha perso a questo tavolo un totale di duecentoventisettemila rand. Nel 1964 è riuscito a trovare un accordo col suo unico creditore per estinguere il debito e gli interessi accumulati.» Le espressioni dei presenti cambiarono mentre tutti frugavano nella memoria in cerca di una serie di eventi che si adattassero alla situazione loro esposta. Robert fu il primo a operare la deduzione corretta. Nel 1964 il loro ospite aveva venduto le azioni della North Maun Mineraria Rame che possedeva alla Central Rand, a un prezzo molto vantaggioso. Poco prima, il dottor Steyner era stato nominato capo del dipartimento Finanze e Pianificazione della società in cui lavorava. «La North Maun Mineraria» disse Robert con ammirazione. Ecco come c'era riuscito la vecchia volpe! Aveva costretto Steyner a comprare a un valore molto superiore rispetto a quello di mercato. Il padrone di casa sorrise con fare pacato, senza confermare ma senza negare. «Dal 1964 a oggi, il dottor Steyner ha continuato a frequentare abitualmente questa sala. I suoi debiti di gioco, in questo periodo, ammontano a...» consultò di nuovo il taccuino, mostrando sorpresa di fronte alla cifra «oltre trecentomila rand.» Gli ospiti sospirarono, agitandosi. Anche per uomini del loro rango quella somma era davvero cospicua. «Credo che possiamo contare su di lui.» Il padrone di casa chiuse il taccuino con un colpo secco e sorrise ai presenti. 27. Theresa era coricata, al buio. La notte era calda, silenziosa. La luna giocava tra i rami della saponaria proiettando ombre sulla parete della stanza da letto. Theresa scostò il lenzuolo e appoggiò i piedi sul pavimento. Non riusciva a dormire, faceva troppo caldo. Si alzò e in un impulso improvviso si sfilò la camicia da notte appiccicaticcia e la lanciò oltre la porta dello spogliatoio; poi, nuda, uscì sulla veranda alla luce lunare, avvertendo il freddo contatto del pavimento e il caldo tocco dell'aria sulla pelle. Si sentì improvvisamente audace, e l'assalì il desiderio di correre per il prato, di farsi sorprendere da qualcuno. Theresa rise tra se; il suo stato d'animo era ben lontano dall'idea di Manfred circa il corretto comportamento di una buona "Hausfrau" tedesca. «Sarebbe furioso» mormorò deliziata, poi sentì il motore dell'auto. Rimase bloccata dal terrore; gli abbaglianti sondarono tra gli alberi mentre l'auto risaliva il vialetto e lei si precipitò nella stanza. S'inginocchiò a cercare la camicia da notte, la trovò e si infilò a letto, sentendo al buio la portiera che si chiudeva. Poi tutto tornò silenzioso finché non udì il marito passare accanto alla sua porta. I tacchi risuonarono sul pavimento di legno, Manfred stava quasi correndo. Theresa conosceva quella situazione, il rientro a notte inoltrata, quella fretta repressa, e si irrigidì nel letto, aspettando. I minuti trascorsero lenti, poi la porta di comunicazione con la stanza di Manfred si aprì adagio. «Manfred, sei tu?» Theresa si sollevò, cercando l'interruttore della lampada.
«Non accendere.» La voce del marito era affannosa, impastata, come se avesse bevuto, ma non c'era traccia di alcool nel suo fiato quando si chinò a baciarla. Le labbra erano secche e chiuse strettamente. Manfred si sfilò la vestaglia. Pochi minuti dopo si alzò dal letto, voltando le spalle a Theresa e indossando in fretta la vestaglia di seta. «Scusami un istante, Theresa.» La voce non era più affannata. Manfred ritornò nella sua stanza e quasi subito lei udì lo sgocciolare della doccia. Theresa, supina sul letto, affondò le unghie nei palmi delle mani, tremava in preda a un misto di repulsione e di desiderio. Era stato un contatto così sfuggevole... sufficiente a eccitarla, ma così affrettato da lasciarla con la sensazione di essere stata usata, insudiciata. Sapeva che il resto della notte sarebbe trascorso con una lentezza infinita, una tensione cocente, in un alternarsi di rimorso e commiserazione e di una selvaggia euforia di fantasie erotiche. "Maledetto" urlò nella propria mente. "Maledetto! Maledetto!" Sentì che il rumore della doccia era cessato. Manfred tornò nella stanza, profumato di acqua di Colonia, e si sedette piano sulla sponda del letto. «Puoi accendere la luce, Theresa.» Con un notevole sforzo, lei aprì il pugno e si allungò verso l'interruttore. Manfred sbatté le palpebre alla luce improvvisa, aveva i capelli umidi e appena pettinati, le gote rosse come mele mature. «Spero che tu abbia trascorso una giornata interessante» le chiese, e ascoltò serio la risposta della moglie. Theresa si trovò in preda all'influsso quasi ipnotico che scaturiva da lui, quella voce monotona, il bagliore degli occhiali, il corpo fisso in un'immobilità da rettile. Come le era capitato diverse volte, pensò a se stessa come a un morbido coniglietto ipnotizzato di fronte a un cobra. «E' tardi» concluse il marito, alzandosi. Guardandola avvolta nel lenzuolo di seta bianca le chiese con un tono di assoluta normalità: «Theresa, potresti procurarti trecentomila rand senza che tuo nonno lo sapesse?» «Trecentomila!» Lei si alzò a sedere con un sussulto. «Sì. Sarebbe possibile?» «Buon Dio, Manfred, è una piccola fortuna. Sai che è tutto nel Fondo Fiduciario, be', la maggior parte. C'è la fattoria e... no, non potrei mettere insieme nemmeno la metà d'ella somma senza che Pops lo sapesse.» «Peccato» mormorò Manfred. «Manfred, non ti troverai in... difficoltà?» «No. Buon Dio, no. Seguivo un pensiero. Dimentica la mia richiesta. Buona notte, Theresa. Sogni d'oro.» Involontariamente, lei alzò le mani verso di lui, invitante. «Buona notte, Manfred.» Il marito uscì. Theresa lasciò ricadere le mani sui fianchi. Per lei la lunga notte era iniziata. 28. «Signore e signori, è nostra consuetudine che sia il direttore generale a presentare l'illustre ospite cui toccherà l'onore di consegnare i premi speciali di servizio. La scorsa settimana, in tragiche circostanze, il nostro direttore generale Frank Lemmer è rimasto ucciso mentre prestava servizio per la Compagnia, una perdita che ci colpisce tutti amaramente, e sono certo che vorrete unirvi a me nel porgere le più sentite condoglianze alla signora Eileen Lemmer.» Rod si interruppe al mormorìo di approvazione dei presenti, duecento persone che affollavano il salone di ritrovo della miniera. «Tocca dunque a me, in qualità di direttore provvisorio, presentarvi il dottor Manfred Steyner, capo del consiglio di amministrazione della Central Rand, e inoltre capo del dipartimento Finanze e Pianificazione.» Seduta accanto al marito, Theresa Steyner aveva colto l'irritazione di Manfred all'accenno a Frank Lemmer fatto da Rod. Faceva parte della
politica della Compagnia non attirare l'attenzione del pubblico sulla morte o sul ferimento accidentali di dipendenti durante il lavoro. Theresa apprezzò particolarmente Rod per quel piccolo omaggio a Frank Lemmer. Gli occhiali da sole le nascondevano gli occhi gonfi e arrossati. Aveva passato una notte insonne e l'alba, dopo un breve pianto improvviso, l'aveva lasciata con uno strano senso di leggerezza e di benessere. Theresa sedeva con le gambe pudicamente accavallate in un abito di shantung color crema; un foulard di seta nera le stringeva i capelli castano scuri, lasciandoli ricadere sulle spalle in una lucente cascata. Appoggiando il gomito sul ginocchio e il viso nel palmo della mano ascoltava con educata attenzione il discorso. Tranne il piccolo particolare degli occhiali da sole, era l'immagine perfetta della giovane moglie, padrona di sé, raffinata, fiduciosa della propria inappuntabilità. A ogni modo, i pensieri che attraversavano la mente di Theresa Steyner e le sensazioni che la solleticavano, se fossero stati di dominio pubblico, avrebbero sollevato un tumulto tra i presenti. Tutte le fantasie informi e le pulsioni emotive della notte precedente si concentravano ora su di un unico bersaglio: Rodney Ironsides. All'improvviso, trasalendo imbarazzata con un moto di sorpresa, la signora Steyner si trovò a rivivere un fenomeno che ormai non le capitava più da parecchi anni, e cambiò in fretta la posizione delle gambe. "Terry Steyner!", si rimproverò, scossa ma deliziata, e vide, con un senso di sollievo, che Rod aveva finito di parlare e Manfred si alzava per rispondere. Si unì allora, entusiasta, all'applauso per sottrarsi alle proprie fantasie. Manfred citò brevemente i sei uomini seduti in prima fila come esempio di coraggio e di attaccamento al dovere, poi si lanciò in una disquisizione sulle prospettive di un aumento del prezzo dell'oro, sottolineando i vantaggi che un evento simile avrebbe portato all'industria, alla nazione e al mondo. Fu una dissertazione erudita e convincente cui presenziava un massiccio gruppo di giornalisti. A intervalli, i fotografi arrivavano sotto il palchetto e si chinavano per scattare istantanee del dottor Steyner. Alla vigilia delle discussioni con la Francia sul prezzo dell'oro sarebbe stato un ottimo materiale da stampare; Steyner infatti era considerato il genio dell'équipe che rappresentava il Sud Africa. I sei eroi sedevano a disagio nei loro abiti migliori, tirati a lucido come scolaretti alla cerimonia di diploma, e guardavano l'oratore senza capire una sola parola di quella lingua straniera, ma mantenendo un'espressione di grave dignità. Rod incontrò lo sguardo di Big King e gli strizzò l'occhio. Il negro rispose imitandolo con fare solenne e Rod dovette girarsi per non scoppiare in una sonora risata. Il suo sguardo si posò allora sul viso di Theresa Steyner, prendendola completamente alla sprovvista. Nemmeno le lenti scure riuscivano a celare i pensieri della donna, tanto erano evidenti, e prima che lei potesse abbassare lo sguardo, Rod, con un fremito di eccitazione allo stomaco, capì la piega che avrebbero preso le cose se lui avesse voluto. La osservò con la coda dell'occhio e la vide per la prima volta come una donna raggiungibile, molto desiderabile; però era pur sempre la nipote di Hurry Hirschfeld e la moglie di Manfred Steyner. Questo la rendeva pericolosa quanto un terremoto di decimo grado. Rod lo sapeva, ma era difficile soffocare il desiderio e la tentazione, anzi il pericolo conferiva un fascino anche maggiore alla situazione. Rod la vide arrossire, toccare nervosamente l'orlo della gonna; era agitata come una scolaretta e sapeva che lui la stava osservando. Rod Ironsides, che fino a cinque minuti prima non aveva pensato ad altro che al suo discorso, si ritrovò in una dimensione del tutto nuova ed eccitante. Dopo la consegna dei premi e il rinfresco che seguì, Rod accompagnò gli Steyner attraverso la distesa del prato, fino al punto in cui l'autista era in attesa a bordo della Daimler. «Che magnifico fisico quel shangaan, com'era il suo nome... King?»
Terry camminava tra i due uomini. «King Nkulu. Noi lo chiamiamo Big King.» Rod rispose impacciato, balbettando leggermente. Tra lui e la donna si era creata una vibrazione improvvisamente irresistibile, lo spazio che li divideva sembrava carico di tensione. A meno che non fosse del tutto insensibile, Manfred Steyner non poteva non essersene accorto. «E' un tipo eccezionale. Non c'è nulla che non sappia fare. Perbacco, dovrebbe vederlo danzare.» «Danzare?» fece Terry, interessata. «Danze tribali.» «Sì, capisco.» Terry si augurò che la sua voce non tradisse il sollievo che provava. Si era lambiccata il cervello nel tentativo di trovare una scusa per tornare di nuovo alla Sonder Ditch o invitare Rod a Johannesburg. «Ho un'amica che va pazza per queste danze. Ogni volta che la vedo continua a tormentarmi.» E scelse rapidamente un nome tra l'elenco delle amiche nel caso Manfred facesse domande. «Ballano ogni sabato pomeriggio. La porti quando vuole.» Rod afferrò abilmente la palla al balzo. «Cosa ne dici di questo sabato?» Terry si rivolse al marito. «Andrebbe bene, Manfred?» «Come?» Manfred la guardò con aria assente, non stava seguendo la conversazione. Manfred Steyner era un uomo preoccupato; entro due giorni "doveva" assolutamente avere sotto controllo la direzione della Sonder Ditch. «Possiamo venire qui, sabato pomeriggio, per assistere alle danze tribali?» Terry ripeté la domanda. «Hai dimenticato che sabato mattina parto per Parigi?» «Oh, è vero.» Terry si morse un labbro, pensierosa. «Mi era proprio sfuggito di mente. Che peccato, mi sarebbe piaciuto.» Manfred si accigliò, leggermente irritato. «Mia cara Theresa, non c'è alcun motivo per cui tu non possa venire alla Sonder Ditch senza di me. Sono certo che sarai più che sicura in mano al signor Ironsides.» La scelta di quelle parole fece arrossire nuovamente Terry. 29. Dopo la cerimonia della premiazione, Big King si diresse subito all'ufficio dell'agenzia di reclutamento. Gli uomini raggruppati intorno al banco si fecero da parte per lui, e Big King ricambiò la cortesia salutandoli con generose pacche sulla schiena: «"Kunjane, madoda". Come va, ragazzi?» L'impiegato si affrettò a servirlo. A differenza del salone di ritrovo, qui Big King era come a casa sua e veniva trattato da vero re. Big King depose sul banco il denaro del premio diviso in due mucchietti ordinati. «Venticinque rand li manderai alla mia moglie anziana» spiegò all'impiegato. «E venticinque rand li metterai sul mio libretto.» Big King era scrupolosamente onesto. Metà di tutto quel che guadagnava lo mandava alla più anziana delle sue quattro mogli, l'altra metà si aggiungeva alla cospicua somma già accreditata sul suo libretto di risparmio. L'agenzia procurava la manodopera all'insaziabile fame di braccia delle miniere aurifere del Witwatersrand e dell'Orange Free State. I suoi rappresentanti operavano in quasi tutta la parte meridionale del continente. Dalle paludi che fiancheggiavano il corso dello Zambesi ai palmizi sulla costa bagnata dall'Oceano Indiano, dalle pianure arse dalla siccità che i boscimani chiamavano "la grande secca" ai monti del Basutoland e fino nelle praterie dello Swaziland e dello Zululand, l'agenzia raccoglieva i bantu. Gli indigeni percorrevano i primi settanta, ottanta chilometri a piedi. Si incontravano lungo i sentieri, si univano e proseguivano fino a un piccolo emporio nel deserto arso e brullo dove trovavano altri tre o quattro compagni in attesa. Poi, arrivava il camion di raccolta con una dozzina di uomini e relativi bagagli già a bordo, e iniziava il traballante viaggio nella boscaglia. Altre fermate, altri passeggeri che si arrampicavano sul veicolo fino a completare un carico di cinquanta, sessanta persone
che venivano poi scaricate a una linea ferroviaria di raccordo che si spingeva fino in quelle zone desolate. Da qui un torrente umano scendeva verso il primo importante centro della zona dove formava una vera e propria piena che dilagava alla volta di "Goldi". Ma una volta raggiunta Johannesburg e assegnati gli indigeni a una delle sessanta miniere d'oro, i doveri dell'agenzia nei confronti degli uomini reclutati non erano finiti. In cooperazione con la miniera, l'agenzia doveva provvedere all'addestramento, fornire consigli, dato l'altissimo indice di analfabetismo mantenere i contatti tra gli uomini e le loro famiglie, assicurarli che le capre stavano bene e la moglie era fedele, e inoltre fornire anche un servizio bancario e di risparmio. In breve, la miniera e l'agenzia dovevano assicurarsi che un uomo sradicato dal proprio ambiente, un'ambiente immutato da mille anni, e calato nel bel mezzo di una società sofisticata e tecnologica, mantenesse la propria salute, la felicità e l'integrità psichica, in modo che alla fine del contratto tornasse al luogo d'origine raccontando a tutti le meraviglie di "Goldi". Avrebbe mostrato ad amici e conoscenti il suo casco, la valigia nuova piena di vestiti, la radio a transistor e il libretto azzurro con le cifre stampate, infiammandoli di desiderio di partecipare anch'essi a quel pellegrinaggio, e mantenendo in vita la piena che si riversava alla volta di "Goldi". Big King completò il disbrigo degli affari e si avviò verso l'ostello; la perdita del turno di lavoro gli avrebbe permesso di essere tra i primi a lavarsi e a consumare la cena. Attraversò il prato e si diresse verso il proprio alloggio. Il caseggiato ospitava seimila uomini, e la Compagnia nel tentativo di renderlo attraente era approdata a una costruzione che assomigliava per una metà a un motel e per l'altra a un penitenziario modello. Come capomanovale anziano, Big King disponeva di una stanza personale. Gli altri lavoratori invece erano sistemati in camere a cinque posti. Big King spazzolò accuratamente il vestito e lo appese nell'armadio a muro, pulì le scarpe, le ripose, poi con una salvietta legata attorno ai fianchi si diresse al reparto docce che, con suo disappunto, trovò già affollato di nuove reclute del centro di acclimatazione. Big King osservò con occhio esperto i loro corpi nudi e stabilì che quel gruppo era ormai alla fine degli otto giorni necessari all'acclimatazione. Non si poteva prendere un uomo dal proprio villaggio, un uomo probabilmente malnutrito, e calarlo subito in una miniera a trivellare, spalare, e a una temperatura di trentatre gradi con una percentuale di umidità dell'84%, senza correre il rischio di ucciderlo. Ogni recluta, giudicata idonea al lavoro sotterraneo, veniva sottoposta all'acclimatazione. Per otto giorni, otto ore al giorno, centinaia di nuovi arrivati restavano, indossando solo un perizoma, in una enorme sala dove salivano e scendevano da una piattaforma comandati da un pannello luminoso che segnava il ritmo. La temperatura era mantenuta a trentatre gradi con l'84% di umidità, ogni dieci minuti alla recluta veniva data dell'acqua e la sua temperatura corporea era controllata da un gruppo di assistenti medici. Alla fine dell'ottavo giorno gli uomini uscivano dal centro in perfetta forma e in grado di sopportare senza pericolo e senza disagio un lavoro pesante ad alte temperature. «"Gwedeni"!» ringhiò Big King, e la recluta più vicina, ancora coperta di sapone, si affrettò a liberare la doccia con un rispettoso: «"Keshle!"» Big King si tolse la salvietta ed entrò, godendo del getto d'acqua calda sulla pelle e piegando i possenti muscoli delle braccia e del torace. Il messaggero lo trovò lì. «King Nkulu, ho notizie per te.» «Parla» lo invitò Big King, insaponandosi il ventre e le natiche. «L'Induna ti invita a passare da lui dopo il tuo pasto serale.» «Digli che mi atterrò ai suoi desideri» rispose Big King, alzando la testa verso il getto d'acqua calda. Indossando un camiciotto bianco e un paio di ampi calzoni azzurri, Big
King si avviò tranquillamente verso la mensa che trovò affollata ancora di reclute, ma proseguì oltre ed entrò nella porta con la scritta "Ingresso riservato al personale di servizio". La cucina era un locale enorme, scintillante di piastrelle bianche, di pentole e recipienti vari di acciaio inossidabile, in grado di servire diciottomila pasti caldi al giorno. Non appena Big King entrò, uno degli aiutanti-cuochi afferrò una ciotola gigantesca e si affrettò al contenitore più vicino. Sollevò il coperchio e gli lanciò un'occhiata d'intesa. Big King annuì e l'aiutante versò nella ciotola una cospicua porzione di fagioli in umido; poi passò al contenitore successivo, guardò di nuovo Big King, ottenendo un altro cenno di assenso, e aggiunse nel recipiente una quantità uguale di verdure miste. Si spostò quindi verso un altro aiutante che attendeva accanto a un contenitore reggendo in una mano una spatola enorme. Quest'ultimo affondò l'arnese nel recipiente ed estrasse del porridge di mais dall'aroma invitante, il piatto base dell'alimentazione bantu. «Ho fame.» Big King parlò per la prima volta, e l'inserviente aggiunse un'altra abbondantissima porzione di porridge nella ciotola. Poi si avviarono in fondo alla cucina dove un terzo aiutante scoperchiò una pentola a pressione delle dimensioni di una lavatrice, allungando una mano verso Big King, per chiedergli con aria di scusa, lo scontrino per la carne, l'unico cibo razionato. La Compagnia aveva scoperto, a proprie spese, che un bantu era capacissimo di mangiarne mensilmente l'equivalente del proprio peso. Accertato che Big King aveva diritto alla quantità giornaliera di circa mezzo chilo, l'inserviente gliene scodellò nella ciotola almeno il quadruplo. «Tu sei mio fratello» lo ringraziò Big King, dopo di che la piccola processione si avviò verso un ennesimo aiutante che stava riempiendo una caraffa da due litri abbondanti di densa birra bantu, una bevanda leggermente alcoolica. L'enorme ciotola e la caraffa furono consegnate cerimoniosamente a Big King che uscì sulla terrazza coperta per consumare il pasto al fresco. Tra i numerosi lavoratori che incominciavano ad affollare la terrazza al termine del loro turno, solo pochi privilegiati si presero la libertà di sedersi al suo tavolo. Uno di questi era Joseph M'Kati, lo spazzino del livello 100. «E' stata una buona settimana, King Nkulu.» «Questo è ciò che pensi tu. Tra poco incontrerò il Vecchio, poi vedremo» rispose Big King, cauto. Il Vecchio, l'Induna shangaan, viveva in un'abitazione indipendente fornitagli dalla Compagnia che lo pagava profumatamente, gli forniva servi, vitto e tutti gli altri annessi imposti dalla sua posizione di rilievo. Il Vecchio era il capo della comunità shangaan della Sonder Ditch; ogni gruppo tribale rappresentato nella miniera disponeva di un proprio Induna. Quegli uomini erano le guide, i giudici tribali che governavano e giudicavano in base alla legge e alla tradizione, e senza di loro la Compagnia non poteva sperare di mantenere l'ordine e l'armonia. «Baba!» Big King salutò il suo Induna dalla soglia, toccandosi la fronte, rispettoso. «Figlio mio.» L'Induna rispose al saluto sorridendo. «Vieni e siedi accanto a me.» Con un gesto congedò i servi e Big King si accovacciò ai suoi piedi. «E' vero che ora vai a lavorare con il pazzo?» Era il soprannome di Johnny Delange. Dopo una lunga conversazione in cui il Vecchio lo interrogò sulle condizioni della sua gente, i due passarono ad altro argomento. «C'è un pacco pronto, stanotte. Gamba Storpia ti aspetta.» «Andrò a prenderlo» rispose Big King. «Va' in pace, dunque, figlio mio.» Mentre attraversava i cancelli che recintavano l'ostello, Big King si fermò a chiacchierare con le guardie. Costoro avevano il diritto di perquisire chiunque entrasse o uscisse e si preoccupavano in particolare di prevenire che donne travestite da uomo o bottiglie di alcoolici entrassero nell'ostello; una simile eventualità avrebbe potuto avere ripercussioni disgreganti sulla comunità di lavoratori.
Inoltre, potevano anche perquisire, in cerca di merce rubata, chi entrava o usciva dalla concessione della miniera. Big King voleva essere certo che nessuna di quelle guardie, in nessuna circostanza, potesse pensare minimamente di doverlo perquisire. Restò ai cancelli finché non scese l'oscurità, poi si allontanò lungo la strada principale fino a una curva che lo nascose agli occhi dei sorveglianti. Qui, lasciò la strada e cominciò a risalire il pendio muovendosi come un animale notturno, rapido e sicuro dei propri passi. Oltrepassò la zona riservata al personale dirigente, un'area disseminata di villette con ampi prati e piscine, fermandosi solo una volta all'abbaiare di un cane nei paraggi, poi proseguì finché non raggiunse le rocce e le fitte erbe alte sulla cima del crinale. Scese lungo il versante opposto e scorse nel chiarore lunare la collinetta di detriti ricoperta d'erba; allora rallentò avanzando cautamente finché non trovò il filo spinato arrugginito che sbarrava l'entrata. Lo scavalcò agilmente e si avventurò nella bocca buia del tunnel. Cinquant'anni prima, una Compagnia mineraria ormai scomparsa aveva sospettato l'esistenza di un filone aurifero in quell'area e aveva iniziato la prospezione nel fianco del crinale ma, esauriti i fondi nel corso delle operazioni, aveva abbandonato definitivamente la rete di gallerie già scavate. Big King si soffermò un attimo per accendere una torcia elettrica, poi si addentrò tranquillamente, per nulla turbato dai pipistrelli che gli sfioravano la testa, fuggendo. Seguì la curva della galleria, imboccò deciso una biforcazione e, alla fine, di fronte a lui, comparve un debole bagliore di luce gialla. Big King spense la torcia e la sua voce risuonò rimbalzando sulle pareti: «Gamba Storpia!» Nessuna risposta. «Sono io, Big King!» ripeté, e immediatamente un'ombra si staccò dalla parete zoppicando verso di lui e rinfoderando un minaccioso coltello. «E' tutto pronto» disse il piccolo storpio. «Vieni, è qui.» Gamba Storpia si era guadagnato la menomazione e il soprannome una dozzina di anni prima, in una frana di roccia. Ora era il proprietario e il gestore dello studio fotografico della concessione mineraria; un'impresa fiorente dato che i bantu amavano la propria immagine su pellicola, ma non certo redditizia quanto le sue attività notturne nelle gallerie abbandonate oltre il crinale. Condusse Big King in una camera scavata nella roccia, illuminata da una lanterna antivento. L'odore dei pipistrelli era misto a quello acre dell'acido solforico ad alta concentrazione. Su un tavolo a cavalletto, che occupava quasi tutto lo spazio della cavità, vi erano barattoli di terracotta, ciotole di vetro spesso, sacchetti di politene, e una varietà di attrezzature da laboratorio, evidentemente di seconda mano. In uno spazio libero in mezzo a quella confusione era appoggiata una bottiglia chiusa da un tappo a vite. La bottiglia era piena di una polvere color giallo sporco. «Ah!» esclamò Big King compiaciuto. «Parecchio questa volta!» «Sì. E' stata una buona settimana» convenne Gamba Storpia. Big King raccolse la bottiglia, ancora una volta sorpreso per il peso incredibile del contenuto. Non si trattava di oro puro, perché i metodi di riduzione acida di Gamba Storpia erano rudimentali, ma aveva almeno sedici carati. La bottiglia rappresentava la raccolta settimanale di polvere aurifera da parte di uomini come Joseph M'Kati, che operavano in una dozzina di punti deboli lungo la linea di produzione. In alcuni casi quella polvere veniva portata fuori dagli stessi laboratori di riduzione della Compagnia, sotto il naso di sorveglianti armati fino ai denti. Tutti gli uomini impegnati in quella furtiva spremitura ai danni della Compagnia erano shangaan. C'era un unico uomo in possesso dell'autorità e del prestigio necessari a impedire che l'ingordigia e le lotte che fioriscono intorno al prezioso metallo, rovinassero l'intera operazione. Quest'uomo era l'Induna shangaan. E c'era un solo uomo in possesso della presenza fisica e della lingua portoghese indispensabile a negoziare la vendita dell'oro. Si trattava di Big King. Big King mise la bottiglia in tasca. Il peso del contenuto risaltò subito piegando la forma dei calzoni.
«Corri come una gazzella, Gamba Storpia.» Big King si allontanò nell'oscurità del tunnel. «Caccia come un leopardo, King Nkulu» rispose il piccolo zoppo ridacchiando e scomparve nell'ombra tremolante. 30. «Un pacchetto di tabacco Boxer» disse Big King. Gli occhi di José Almeida, il portoghese proprietario del chiosco-emporio della miniera, si strinsero leggermente. L'uomo prese da uno scaffale il pacchetto e lo porse al negro, ritirò i soldi e li contò nel palmo della mano. Poi seguì con lo sguardo il gigantesco bantu che si avviava lungo le scaffalature e gli espositori di merce per infilare l'entrata e scomparire nella notte. «Pensaci tu, qui» mormorò in portoghese alla piccola moglie grassoccia. La donna occupò il posto del marito dietro la cassa, e José imboccò la porta del magazzino e dell'abitazione che si trovavano sul retro dell'emporio. Big King attendeva nell'ombra. Quando la porta posteriore si aprì scivolò all'interno. José lo guidò in un cubicolo che fungeva da ufficio e prese da un armadietto una bilancia da gioielliere; poi sotto lo sguardo attento di Big King cominciò a pesare l'oro. José Almeida acquistava tutto l'oro che usciva illegalmente dalle cinque maggiori miniere del giacimento di Kitchenerville, pagandolo cinque rand l'oncia, pari a 28,35 grammi, e rivendendolo a sedici rand. Giustificava il suo largo margine di profitto sostenendo che il semplice possesso di oro non registrato, in Sud Africa, era un reato punibile con un massimo di cinque anni di detenzione. Almeida aveva circa trentacinque anni, capelli neri e lisci che scostava continuamente dalla fronte, occhi vivaci, castano chiaro, e unghie sporche. Nonostante l'aspetto logoro dei suoi abiti e i capelli scarmigliati, era un uomo ricco. Aveva pagato in contanti i 40 mila rand chiesti dalla Compagnia per ottenere il monopolio di commercio sull'area della miniera. Disponeva quindi di una clientela di dodicimila bantu ben retribuiti, e aveva coperto i 40 mila rand spesi già alla fine del primo anno d'attività. Non si trovava assolutamente nella necessità di rischiare in quel traffico d'oro. Ma l'oro è un metallo strano. Quasi tutti quelli che ne vengono a contatto sono contagiati da una bramosia sconsiderata. «Duecentosedici once» disse José. La bilancia era predisposta in modo da segnare un errore del venti per cento... in suo favore, naturalmente. «Milleottanta rand» confermò Big King in portoghese, e José si diresse alla grande cassaforte verde che stava nell'angolo.
31. Terry Steyner entrò al Grape and Gable Bar del President Hotel alle tredici e quattordici in punto, e, alzandosi per salutarla, Hurry Hirschfeld pensò che quattordici minuti non si potevano certo considerare un ritardo per una splendida donna. La nonna di Terry in un caso simile avrebbe pensato di essere in anticipo. «Sei in ritardo» borbottò Hurry, non volendo fargliela passare completamente liscia. «E tu sei un grosso, adorabile, vecchio orso brontolone» disse Terry baciandolo sulla punta del naso prima che lui riuscisse a schivare. Hurry si sedette, torvo in volto ma compiaciuto, pensando che non gliene importava un accidente se Marais e Hardy, che più in là ridevano sotto i baffi, fossero andati a raccontare l'episodio a tutti i soci del Rand Club. «Buongiorno, signora Steyner.» Il barman in giacca scarlatta la salutò, sorridendo. «Posso prepararle un Manhattan?» «Non tentarmi, Thomas. Sono a dieta. Solo un bicchiere di selz, grazie.» «Dieta» sbottò Hurry. «Sei già fin troppo pelle e ossa. Dalle un Manhattan, Thomas, e mettici anche una ciliegina. Non c'è mai stata
una Hirschfeld con l'aspetto di un ragazzo e tu non sarai certo la prima. Ah, ho ordinato anche il tuo pranzo... non ti permetterò di morire di fame quando sei in mia compagnia» soggiunse. «Sei fantastico, Pops» disse Terry, teneramente. «E adesso, mia cara, sentiamo un po' cosa hai combinato dall'ultima volta che ti ho visto.» Parlarono tra loro da amici, come amici carissimi che non si vedevano da molto tempo. L'affetto che li legava era qualcosa di più del semplice legame di sangue, era un'affinità spirituale oltre che fisica. Sedevano con le teste vicine, completamente persi nel piacere della reciproca compagnia, così assorti che Peter, il caposala, dovette andare fino al bar per attirare la loro attenzione. «Signor Hirschfeld, lo chef non aspetta che voi.» «Buon Dio.» Hurry guardò l'orologio alla parete. «Sono quasi le due. Perché qualcuno non mi ha avvisato?» Le ostriche erano arrivate in volo da Mossel Bay la mattina stessa, e Terry le gustò sospirando a una a una. «Sono stata con Manfred alla Sonder Ditch, mercoledì.» «Sì. Ho visto le foto sul giornale.» Hurry inghiottì la sua dodicesima e ultima ostrica. «Devo dire che mi piace il tuo nuovo direttore generale.» Hurry depose la forchetta e le guance gli si colorirono leggermente in un'espressione di collera. «Intendi Fred Plummer?» «Non fare lo sciocchino, Pops. Mi riferisco a Rodney Ironsides.» «Ti ha dato delle istruzioni quel tuo pesce lesso?» chiese Hurry. «Manfred?» Terry rimase davvero stupita dalla domanda, e Hurry lo notò. «Cosa c'entra lui con questo?» «Niente, lascia perdere. Perché ti piace Ironsides?» «L'hai sentito parlare?» «No.» «E molto in gamba. Secondo me deve essere un dirigente coi fiocchi.» «Lo è» annuì guardingo Hurry, senza sbilanciarsi. Terry ormai aveva capito, a differenza di quanto credeva, che Rod Ironsides non era il candidato numero uno al posto vacante, anzi intuì che Pops aveva già scelto come direttore generale il vecchio Plummer. Decise allora di ricorrere ai colpi bassi per rilanciare la candidatura di Rod. Peter, il caposala, depose di fronte a loro una portata di aragoste di roccia e quando si fu allontanato Terry alzò lo sguardo verso Hurry. Aveva spalancato i suoi occhioni già così grandi, irritandoli, e sul suo viso erano comparse le prime lacrime; la sua era una messinscena da vera artista. «Sai, Pops, mi ricorda moltissimo il babbo.» Il colonnello Bernard Hirschfeld, padre di Terry, era morto nel rogo del proprio carro armato a Sidi Rezegh. Terry vide il viso di Hurry contorcersi in una smorfia di dolore, e provò un lieve senso di colpa. Era proprio necessario ricorrere a quei mezzucci meschini per raggiungere il suo scopo? Terry sfiorò la mano del nonno che ora aveva abbassato il capo. «Pops...» Il vecchio la guardò lasciando trapelare un'eccitazione contenuta. «Sai, hai maledettamente ragione. Assomiglia veramente un po' a Bernie. Non ti ho mai raccontato di quella volta quando tuo padre e io...» Terry si sentì subito risollevata. "Non l'ho ferito", si disse. "L'idea gli piace, gli piace davvero". Con tipico intuito femminile, Terry aveva scelto l'unica forma di persuasione in grado di smuovere Hurry dalla sua decisione. 32. Manfred Steyner allacciò la cintura di sicurezza e si abbandonò sul sedile del Boeing 707; era più sollevato anche se provava un leggero senso di nausea. Ironsides era sistemato, e lui era salvo. Hurry Hirschfeld lo aveva convocato, un paio d'ore prima, per salutarlo e augurargli buona
fortuna nei colloqui. Manfred gli si era piazzato di fronte cercando disperatamente di trovare il modo per riproporgli l'argomento ma Hurry gli aveva risparmiato l'incomodo. «Ah, tra l'altro, darò la Sonder Ditch a Ironsides. Penso che ormai sia giunto il tempo di immettere un po' di sangue giovane nelle posizioni di vertice.» Era stata una cosa semplicissima. Manfred stentava ancora a credere che i pensieri minacciosi che l'avevano tenuto sveglio per quattro notti non avevano più motivo di turbarlo. Ironsides era sistemato Manfred poteva andare a Parigi e avvertirli. "Ironsides è al posto giusto. Siamo pronti per incominciare". Il Boeing cominciò a imboccare la pista; Manfred girò il capo e osservò dall'oblò in perspex, ma non riuscì a distinguere la figura di Terry tra le persone che affollavano la terrazza dell'aeroporto Jan Smuts. Il velivolo oltrepassò rullando un Boeing della Pan Am che ostruì completamente la visuale. Manfred tornò a voltarsi. Subito le sue narici si contrassero; cominciò a guardarsi intorno. Il passeggero seduto accanto a lui si era messo in maniche di camicia, era un tipo grande e grosso che evidentemente non usava deodorante. Preoccupatissimo, Manfred cercò con lo sguardo un posto libero. L'aereo era pieno, ci sarebbero state pochissime probabilità di cambiare posto. Il tipo accanto a Manfred estrasse un pacchetto di sigarette. «Non può fumare» protestò Manfred. «Stiamo decollando.» La combinazione di odore del corpo e di fumo della sigaretta sarebbe stata insopportabile. «Non sto fumando» rispose l'uomo. «Non ancora.» E infilò una sigaretta tra le labbra, l'accendino pronto in mano. Quasi tremiladuecento chilometri da Nairobi, pensò Manfred con lo stomaco che iniziava a contrarsi. 33. «Terry, mia cara, perché diavolo dovrei venire fino a Kitchenerville a vedere un mucchio di selvaggi che pestano i piedi?» «Per farmi un favore personale, Joy» implorò Terry al telefono. «Vuol dire guastarmi tutto il week-end. Ho rifilato i bambini alla nonna, ho preso una copia di "Una piccola cittadina in Germania", e avevo intenzione di mettermi tranquillamente a leggere...» «Ti prego, Joy. Sei la mia ultima speranza.» «A che ora saremo di ritorno?» Joy stava cedendo. Terry lo capì e continuò a insistere, inesorabile. «Potresti incontrare un tipo eccezionale là alla miniera e con lui...» «No, grazie.» Joy aveva divorziato da poco più di un anno. «Di tipi eccezionali ne ho avuti fin troppi.» «Oh, Joy, non puoi startene sempre lì a pulire la casa. Su, dai! Ti passo a prendere tra mezz'ora.» Joy sospirò, rassegnata. «Accidenti a te, Terry Steyner.» «Mezz'ora, d'accordo?» disse Terry e riappese prima che l'amica potesse cambiare idea. «Io gioco a golf. E' sabato e io gioco a golf» ripeté cocciuto il dottor Daniel Stander. «Ricordi quando sono corso fino a Bloemfontein per...» iniziò Rod, ma Dan l'interruppe subito. «Va bene, va bene, me lo ricordo. Non tirare più in ballo quella storia.» «Tu mi devi parecchio, Stander» gli ricordò Rod. «Ti chiedo solo uno dei tuoi schifosi sabato pomeriggio. E' troppo?» «Non posso piantare in asso i ragazzi. E' un impegno che abbiamo da molto tempo» protestò Dan, disperato. «Ho già telefonato a Ben. Per lui sarà un piacere sostituirti.» Seguirono lunghi istanti di silenzio poi Dan chiese: «Com'è questa bambola?» «E' bellissima, ricca, ninfomane, e possiede una fabbrica di birra.» «Okay! Okay!» commentò Dan, sarcastico. «Va bene vengo. Ma d'ora innanzi sia chiaro che tutti gli obblighi e i debiti che ho con te sono completamente estinti.»
«Ti darò una ricevuta scritta» annuì Rod. Dan era ancora imbronciato quando la Daimler risalì il vialetto, parcheggiando di fronte al Mine Club. Lui e Rod erano al bar delle Signore, in attesa delle loro invitate. Dan aveva appena ordinato la sua terza birra. «Arrivano» disse Rod. «Sono quelle?» La depressione di Dan scomparve come per magìa quando guardò fuori dalla vetrata. Le due signore stavano scendendo dall'auto. Entrambe portavano tailleur a fiori e occhiali da sole. «Sì, sono loro.» «Gesù!» esclamò Dan, ammirato. «Qual è la mia?» «La bionda.» «Oh oh!» Dan rise, per la prima volta. «Ehi, ma che diavolo stiamo a fare qui impalati?» «Hai ragione» disse Rod, e con una morsa che gli serrava lo stomaco si fece incontro a Terry. «Signora Steyner, sono felicissimo che sia potuta venire.» E di fronte agli occhi e al sorriso di lei, capì, esultante, che quanto aveva pensato non era frutto della sua immaginazione. No, non si era sbagliato. «Grazie, signor Ironsides.» Terry era di nuovo come una scolaretta, insicura, impacciata. «Vorrei presentarle la signora Albright. Joy, questo è Rodney Ironsides.» «Salve.» Rod le sorrise, stringendole la mano. «E' l'ora di un buon gin, credo.» Dan li stava aspettando al bar, e Rod fece le presentazioni. «Joy non sta più nella pelle dalla voglia di vedere le danze» disse Terry mentre prendevano posto sugli sgabelli. «Sono giorni che non ne vede l'ora.» Per un istante, Joy assunse un'espressione sbalordita. «Le piacerà» convenne Dan, piegandosi verso Joy. «Non perderei un avvenimento simile neanche per tutto l'oro del mondo.» Joy Albright era una ragazza alta e slanciata con lunghi capelli dorati che le ricadevano lisci sulle spalle; i suoi occhi erano verdi e freddi ma la bocca quando sorrideva era morbida e calda. Rivolse un largo sorriso a Dan guardandolo negli occhi. «Nemmeno io» disse. Con un senso di sollievo, Rod capì che avrebbe potuto dedicare tutte le sue attenzioni a Terry Steyner. Joy Albright aveva ormai chi avrebbe badato a lei in maniera più che adeguata. Ordinò da bere e ben presto tutti e quattro persero ulteriore interesse per le danze tribali. A un certo punto Rod disse a Terry Steyner: «Andrò a Johannesburg stasera. E' inutile fare aspettare il suo autista per tutto il pomeriggio. Lo lasci tornare, vi accompagnerò io a casa.» «D'accordo» annuì subito Terry. «Vuole essere così cortese da avvisarlo, per favore?» Quando Rod guardò di nuovo l'orologio erano le tre e mezzo. «Buon Dio!» esclamò. «Se non ci sbrighiamo, sarà già tutto finito.» Riluttanti, Dan e Joy, che stavano quasi "tête-à-tête", si separarono. La calca dell'anfiteatro li circondò; era una folla allegra e disordinata, ogni inibizione era scomparsa, assorbita dall'eccitazione primitiva della danza. Sembrava di essere a una corrida. Rod e Dan aprirono un varco per le donne fino ai posti riservati in prima fila; l'eccitazione che li attorniava era contagiosa e l'alcool aveva accentuato la loro sensibilità emotiva. Ci fu un mormorìo di voci. «Gli shangaan!» E tutto il pubblico allungò il collo verso l'ingresso. Da là emersero, saltellando, una dozzina di percussionisti, coi loro lunghi tamburi di legno appesi al collo, che si disposero attorno alla pista di terra battuta. Tap, tap. Tap, tap... un ritmo si levò da uno dei tamburi e il silenzio scese nell'anfiteatro. Tap, tap. Tap, tap. Nudi, tranne il perizoma, piegati sui tamburi stretti tra le ginocchia, i negri cominciarono a stendere il tappeto ritmico della danza. Era un pulsare sincopato, un battito che saltellava convulso come un nervo reciso. Un suono invitante, trascinante; era la pulsazione di un continente e di un popolo.
Poi entrarono i danzatori. Le acconciature si agitavano frusciando, i gonnellini di pelle animale ondeggiavano, sonagli di guerra ai polsi e alle caviglie, muscoli neri già lubrificati dal sudore dell'eccitazione; entrarono in file maestose, lentamente, muovendosi come se i tamburi dessero vita ai loro corpi. Echeggiò una nota stridula da un corno d'antilope e le file turbinarono come foglie secche al vento, si disposero in un nuovo assetto e da un'apertura nella schiera sbucò una figura gigantesca. «Big King!» Il nome attraversò in un sussurro le bocche di tutti i presenti e immediatamente i tamburi cambiarono ritmo. Un ritmo più serrato, trascinante, e i danzatori emisero un sibilo corale con la gola, un suono simile a una risacca furiosa tra gli scogli. Big King spalancò le braccia, piantato sulle nere colonne di marmo delle gambe, gettando il capo all'indietro. Cantò un'unica parola di comando, in un urlo, e istantaneamente, in risposta, le ginocchia di destra dei danzatori si sollevarono all'altezza del torace. Alcuni secondi di pausa, poi duecento piedi, nudi e callosi, calarono simultaneamente facendo tremare l'intero anfiteatro. Gli shangaan cominciarono a danzare e la realtà parve dissolversi in un parossismo di movimenti; le file dei danzatori ondeggiavano, caricavano, indietreggiavano. Rod distolse momentaneamente lo sguardo dallo spettacolo. Terry Steyner sedeva piegata in avanti, gli occhi sfavillanti, le labbra leggermente socchiuse, completamente immersa nel barbaro splendore e nella foga erotica della danza. Joy e Dan si tenevano per mano, i loro corpi erano vicini, e Rod avvertì una fitta d'invidia. Più tardi, una volta tornati al bar del club, i quattro non parlarono molto; erano tesi, inquieti, mossi da strani e taciti giochi reciproci, da desideri primitivi tuttora bloccati da inibizioni sociali. «Be'» disse Rod alla fine «se volete essere di ritorno a Johannesburg a un'ora decente, signore, io...» Dan e Joy intervennero all'unisono. «Non è il caso di preoccuparsi, Rod, io...» «Dan dice che mi por...» Si interruppero e risero, impacciati. «A quanto pare, Dan si è improvvisamente ricordato che anche lui deve andare a Johannesburg stasera, quindi si è offerto di darle un passaggio, vero?» chiese Rod seccamente, e i due risero confermando. «Pare che siamo rimasti soli, signora Steyner.» Rod si voltò verso Terry. «Mi fido di lei» disse Terry. «E' pazza, se lo fa» concluse Dan. All'esterno della Maserati, le ombre scendevano rapidamente. La linea dell'orizzonte si fondeva con il cielo nero, e solo poche luci isolate ammiccavano sull'altipiano roccioso circostante. Rod accese i fari; il cruscotto emanava una luce calda e tenue, trasformando l'interno della vettura in un angolo tranquillo, appartato, che li isolava dal resto del mondo. Terry Steyner sedeva accovacciata sul sedile di pelle rossiccia con le gambe piegate sotto il corpo e fissava il fascio tracciato dagli abbaglianti. Sembrava chiusa in se stessa eppure vicinissima, pronta a una reazione. Ogni tanto Rod staccava gli occhi dalla strada e studiava brevemente il suo profilo. Alla fine, Terry si girò e lo guardò apertamente. «Ti rendi conto di cosa sta accadendo?» gli chiese. «Sì» rispose Rod con pari franchezza. «Sai che per te potrebbe essere molto pericoloso?» «Anche per te.» «No, per me no. Io sono invulnerabile. Sono una Hirschfeld... tu invece... potresti uscirne distrutto.» Rod alzò le spalle. «Se prima di ogni nostra azione pensassimo alle conseguenze, chi farebbe qualcosa?» «Non hai pensato che potrei essere una ragazzina ricca e viziata che si sta divertendo?» «Può darsi» convenne Rod. Rimasero a lungo in silenzio, poi Terry
riprese. «Rod?» Era la prima volta che lo chiamava così. «Sì?» «Sai che non è vero. Faccio sul serio.» «L'avevo capito, ormai.» «Grazie.» Terry aprì la borsetta. «Ho bisogno di fumare. Mi sento come se fossi sull'orlo di un precipizio, con una voglia terribile di buttarmi.» «Accendine una anche per me, Terry.» «Anche tu hai bisogno di fumare?» «Da morire.» Fumarono in silenzio, fissando il nastro di strada, poi Terry abbassò il finestrino e lanciò il mozzicone. «Hai ottenuto il posto, sai.» Era tutto il giorno che voleva dirglielo. Lo guardò in viso e vide le sue labbra irrigidirsi, gli occhi stringersi in due piccole fessure. «Mi hai sentita?» ripeté, e Rod frenò, accostando la Maserati al ciglio della strada. Inserì il freno a mano e si voltò a guardarla. «Cosa hai detto, Terry?» «Ho detto che hai ottenuto il posto.» «Quale posto?» le domandò brusco. «Pops ha firmato la nomina stamattina. Ti verrà comunicata lunedì. Sei il nuovo direttore generale della Sonder Ditch.» Voleva proseguire, dirgli... "e sono stata io a fartelo avere, a convincere Pops a dartelo". "Non lo farò mai. Non gli rovinerò tutto", promise a se stessa. "Lui deve credere di aver vinto onestamente, non per merito mio". 34. Era sabato notte, la notte folle a "Lo scarico". La Blaauberg Mine era la più vecchia società che lavorava il giacimento di Kitchenerville. Alcuni settori della sua concessione si erano completamente esauriti e le collinette di detriti e rifiuti giacevano ora nel più completo abbandono, coperte di erbacce. Tra gli arbusti e la vegetazione spontanea, negli avvallamenti che separavano queste colline artificiali, era sorta una bidonville. Gli abitanti l'avevano battezzata "Lo scarico". Erano baracche costruite con lamiere di scarto e bidoni di petrolio appiattiti; non vi erano né fognature né acqua corrente. Lontana dalle strade principali, dai centri residenziali delle miniere vicine, nascosta tra i cumuli di detriti, accessibile soltanto a piedi e mai visitata dai membri del Corpo di polizia del Sud Africa, quella città di tuguri si adattava perfettamente agli scopi cui l'avevano destinata i suoi trecento abitanti fissi. Ognuna di quelle baracche era uno spaccio clandestino di alcoolici, un covo di ladri dove vendevano liquori a prezzi assurdi e si poteva trovare facilmente dell'"erba", un posto dove gli uomini delle miniere vicine si riunivano per divertirsi. Non andavano a "Lo scarico" per i liquori; tutti gli ostelli disponevano di un bar piuttosto fornito che vendeva a prezzi correnti. Pochissimi poi venivano per l'"erba", perché erano tutti uomini ben nutriti e soddisfatti e non ne sentivano il bisogno. Il motivo primario per cui si riversavano in quel posto erano le donne. C'erano cinque miniere nella zona e ognuna impiegava dieci o dodicimila uomini. Lì a "Lo scarico" vivevano duecento donne, le uniche disponibili in un raggio di trenta chilometri. Non era necessario per le signore della bidonville adescare i clienti. Anche le grasse, le avvizzite, le sdentate sembravano regine. Big King scendeva lungo il sentiero che costeggiava lo scarico della miniera abbandonata, seguito da una ventina dei suoi compagni di tribù, imponenti shangaan che indossavano le tipiche decorazioni e impugnavano le mazze da battaglia, ancora contratti per lo sforzo delle danze. Avanzavano trotterellando guidati da Big King e cantavano, non i delicati canti della semina o del corteggiamento né le canzoni di lavoro o di benvenuto. Intonavano i canti di battaglia, quelli che i loro antenati cantavano
quando, lancia in pugno, partivano in cerca di bestiame e di schiavi. Il ritmo eccitante, le parole ferocemente patriottiche producevano un tale effetto sulla suscettibilità dello shangaan medio che la Compagnia aveva bandito l'uso di quelle canzoni. Come uno scozzese al suono delle cornamuse, quando iniziava a intonare uno di quei canti di guerra uno shangaan entrava in un clima di violenza. La canzone terminò non appena il gruppo raggiunse la prima baracca. Big King scostò il lembo di sacco che fungeva da porta e si chinò nell'apertura mentre i compagni si assiepavano alle sue spalle. Un silenzio carico di tensione scese nell'ampio locale. L'aria era così offuscata dal fumo e la lampada antivento così fievole che era impossibile vedere la parete opposta. La stanza era affollata di uomini, quaranta o cinquanta, e l'odore dei corpi e dei liquori scadenti si poteva quasi toccare. Tra quella calca spiccavano gli abiti lucenti di una mezza dozzina di ragazze, ma incuriosite dall'avvicinarsi del canto altre donne stavano uscendo dalle porte interne; alcune erano ancora in compagnia di uomini e stavano finendo di infilarsi il vestito. Quando videro Big King e i suoi guerrieri in tenuta da battaglia, anch'esse si fecero silenziose e guardinghe. Alle spalle di Big King uno shangaan mormorò: «Basuto! Sono tutti basuto!» Aveva ragione. Big King vide che erano tutti uomini di quel piccolo Stato indipendente sulle montagne. Big King avanzò ondeggiando il gonnellino di leopardo e, facendo frusciare le piume di airone dell'acconciatura, si portò al bancone improvvisato. «Uccello Volante» disse alla vecchia megera proprietaria del locale, e quella piazzò sul banco una bottiglia di "Cognac dell'Aquila". Big King riempì per metà un bicchiere, consapevole che tutti gli occhi erano puntati su di lui, e lo scolò d un fiato. Si girò lentamente e scrutò i presenti. «Cos'è che siede in cima a una montagna e si gratta le pulci?» domandò con voce stentorea. «E' un babbuino o un basuto?» Un ruggito di gioia si levò dai suoi shangaan. «Un basuto!» urlarono accostandosi al bancone, mentre nella stanza si diffondevano mormorii e borbottii. «Cos'è che ha le piume in testa e canta su una pila di letame?» sbraitò un basuto, balzando in piedi. «E' un gallo o uno shangaan?» Quasi senza muoversi, Big King prese la bottiglia e la lanciò, colpendo il basuto in piena fronte. Il negro cadde all'indietro addosso a due suoi compatrioti. La vecchia megera afferrò la cassa e fuggì, mentre nella stanza esplodeva il caos. Big King si rese conto che non c'era spazio sufficiente per usare le mazze, così agguantò il pianale del banco e impiegandolo come una ruspa si lanciò alla carica, abbattendo qualsiasi cosa gli si parasse di fronte. Gli scricchiolii dei mobili rotti e le grida degli uomini colpiti scatenarono nel gigante shangaan una furia atavica, un'orgasmo folle. Anche i basuto erano una delle tribù guerriere del gruppo N'guni. Quei tenaci montanari si gettarono nella mischia con lo stesso entusiasmo selvaggio degli shangaan. Una delle ragazze, cui era stato strappato il vestito lasciandola solo con un paio di mutande ormai a brandelli, si era arrampicata sui resti del banco e da lì, con due grossi seni a forma di melone che ondeggiavano, si era lanciata in quello strano ululato usato dalle donne bantu per incitare i loro uomini alla lotta. Una dozzina di ragazze si unirono a lei, e quel canto divenne irresistibile per Big King. Impugnando sempre il ripiano del banco si gettò contro la parete del tugurio, sfondandola come un sacchetto di carta. Il soffitto si inclinò pesantemente e Big King proseguì la carica nella sporca stradicciola abbattendo chiunque gli attraversasse la strada, gettando lo scompiglio fra polli e cani e ruggendo come un gorilla. Giunto alla fine nell'abitato tornò indietro, sempre più infuriato nel constatare che la strada era deserta, a parte alcuni corpi che giacevano al suolo, e rientrò nella baracca attraverso lo squarcio che
vi aveva aperto. Anche lì, la rissa si era ormai spenta; solo pochi partecipanti stavano trascinandosi o lamentandosi su un tappeto di vetri rotti. Big King si guardò intorno in cerca di un ulteriore sfogo al suo furore. «King Nkulu!» La ragazza era ancora sul bancone, gli occhi le brillavano eccitati, le gambe le tremavano. Big King lanciò un altro ruggito, scagliando via il pezzo di banco che aveva ancora in mano e si avvicinò. «Sei un leone!» gridò la ragazza incoraggiandolo, e presi tra le mani i grossi seni neri li protese verso di lui come per offrirglieli. «Prendimi!» gridò mentre il gigante la sollevava dal bancone e la ghermiva, trascinandola fuori nella notte. Correndo verso i cespugli Big King si strappò il gonnellino che gli cingeva i fianchi. 35. Anche a Parigi quella sera era sabato, ma c'erano uomini ancora al lavoro; le finestre di una importante ambasciata in rue Royale, infatti, erano ancora illuminate. Il tipo grasso, che aveva recitato la parte del padrone di casa nella bisca di Johannesburg, questa volta era ospite. Sedeva tranquillamente con un'aria di dignità in una poltrona di cuoio, e il suo sguardo brillava di una luce fredda come il diamante che portava al dito. Ascoltava con attenzione un uomo della sua età che si trovava di fronte a uno schermo che occupava una parete della stanza. Dall'atteggiamento di quest'ultimo si capiva che doveva trattarsi di un tecnico. L'uomo si rivolse all'ospite indicando lo schermo al proprio fianco. «Qui, di fronte a lei, c'è la pianta degli scavi delle cinque miniere del giacimento di Kitchenerville» e toccò lo schermo con una bacchettina. «Thornfontein, Blaauberg, Tweefontein, Deep Gold Levels e Sonder Ditch.» L'uomo seduto annuì. «Ho già visto e studiato questi schemi planimetrici.» «Bene, allora saprà che la Sonder Ditch è al centro del giacimento. Ha confini comuni con le altre quattro miniere e qui» indicò nuovamente un punto dello schermo «è intersecata da un filone intrusivo di serpentino che chiamano il Grande Tuffo.» Il tipo grasso annuì di nuovo. «E' per questo che abbiamo scelto la Sonder Ditch come punto d'innesco» spiegò l'altro, poi toccò un pulsante sul pannello della parete e l'immagine proiettata cambiò. «Qui, invece, abbiamo qualcosa che lei non ha mai visto.» L'uomo sulla sedia si piegò in avanti. «Di cosa si tratta?» «E una pianta sotterranea basata sui risultati di prospezione delle cinque compagnie che hanno esplorato il terreno a est del Grande Tuffo. Questi risultati, sono stati integrati e interpretati dai migliori esperti di geologia e idrologia. Qui, di fronte a lei, c è una meticolosa ricostruzione di ciò che si trova sul lato opposto del Grande Tuffo.» Il tipo grasso si agitò sulla poltrona. «E mostruoso!» «Sì, ha ragione. Proprio dietro la faglia si nasconde un lago. No, il termine non è esatto. Chiamiamolo un mare sotterraneo, delle dimensioni del lago Eyrie. L'acqua è trattenuta in una specie di enorme spugna di roccia porosa di dolomite.» «Mio Dio!» Per la prima volta l'ascoltatore perse la compostezza abituale. «Se tutto questo è esatto, come mai le compagnie non arrivano alla medesima conclusione e si tengono a debita distanza?» Il tecnico spense il pannello e le luci della stanza si accesero. «Per la forte concorrenza che esiste, nessuna di queste compagnie ha accesso alle scoperte delle altre. Solo studiando globalmente il quadro esso ci appare in tutta la sua chiarezza.» «Come ha fatto il suo governo a entrare in possesso di tutti i risultati?» chiese il tipo grasso.
«Questo non ha importanza» rispose brusco l'altro, seccato per l'interruzione. «Abbiamo anche le conclusioni cui è pervenuto un certo dottor Peter Wessels, capo di un gruppo di ricerca sui movimenti sismici che lavora nell'area della Sonder Ditch. Sono informazioni riservate della Compagnia. Si tratta di uno studio di Wessels sulle tensioni interne della roccia e sulle linee di rottura. Le ricerche si riferiscono direttamente alla quarzite di Ventersdorp che è compresa negli scavi della Sonder Ditch.» Si interruppe raccogliendo un opuscolo dalla scrivania, poi riprese: «Non la annoierò sottoponendole una sfilza di nozioni strettamente tecniche, ma verrò subito al dunque. Secondo lo studio del dottor Wessels una colonna di quarzite di Ventersdorp spessa circa trentasei metri si spaccherà sotto una pressione laterale di settecentodieci chili per centimetro quadrato. Come saprà, per legge, le compagnie minerarie aurifere sono obbligate a lasciare una barriera rocciosa di trentasei metri di spessore lungo i confini degli scavi. Questo è tutto ciò che separa gli scavi di una miniera dalle altre... solo quella parete di roccia, Capisce?» «Certo. E' molto semplice.» «Appunto, semplicissimo! Il dottor Steyner, che lei ha in pugno, ordinerà al nuovo direttore della Sonder Ditch di scavare un tunnel nel Grande Tuffo. La galleria sbucherà nell'immenso bacino sotterraneo e l'acqua rifluirà allagando tutti gli scavi della Sonder Ditch. Una volta allagati, la pressione della massa d'acqua ai livelli inferiori supererà il limite di settecentodieci chili per centimetro quadrato facendo saltare le pareti divisorie e sommergendo la Thornfontein, la Blaauberg, la Deep Gold Levels e la Tweefontein. "L'intero giacimento di Kitchenerville risulterà inagibile in permanenza, con conseguenze catastrofiche per l'economia della Repubblica Sudafricana.» Il tipo grasso era visibilmente scosso. «Perché volete farlo?» chiese scuotendo il capo. «Il mio collega qui presente» rispose l'altro, indicando un uomo che sedeva in silenzio in un angolo «glielo spiegherà.» «Ma... la gente!» protestò il tipo grasso. «Ci sarà della gente là sotto, migliaia di persone!» L'uomo che aveva illustrato il progetto sorrise. «Se le dicessi che annegheranno seimila uomini, rifiuterebbe, perdendo così il milione di dollari che il mio governo le ha offerto?» L'altro abbassò lo sguardo imbarazzato, e mormorò con un filo di voce: «No.» «Bene! Bene! A ogni buon conto può tranquillizzare i rimorsi della sua coscienza. Abbiamo calcolato che non ci saranno più di quaranta, cinquanta vittime. Naturalmente chi lavorerà allo scavo del tunnel resterà ucciso, ma data la tremenda pressione della massa d'acqua sarà una morte istantanea e indolore. Per quanto riguarda gli altri, la miniera può essere evacuata abbastanza rapidamente da lasciare loro ottime possibilità di salvezza. Le miniere adiacenti, poi, disporranno di alcuni giorni per sgombrare gli scavi prima che la pressione faccia crollare le pareti divisorie.» Per quasi un minuto nella stanza regnò un silenzio totale. «Ha altre domande?» Il tipo grasso scosse il capo. «Molto bene. In questo caso lascerò che il mio collega completi le sue istruzioni. Le spiegherà i motivi di questa operazione, stabilirà i termini di pagamento e le clausole in base alle quali lei agirà. A me non resta che augurarle buona fortuna.» L'uomo raccolse le carte dalla scrivania e sorridendo lasciò rapidamente la stanza. Il piccoletto, che fino a quel momento era rimasto seduto in silenzio, si alzò di colpo e prese a camminare avanti e indietro sulla spessa moquette. Parlava velocemente, lanciando di tanto in tanto occhiate all'ascoltatore, mentre la sua testa calva lanciava riflessi alla luce della stanza; con una mano si tormentava di continuo i baffi, e fumava nervosamente una sigaretta. «Cercherò di essere breve, va bene? I sudafricani e questi mangiapaté di francesi si sono messi d'accordo. Sono qui a Parigi per complottare un tiro mancino. Noi sappiamo cosa stanno tramando, vogliono sferrare
un attacco in grande stile contro la valuta del mio paese. Un aumento del prezzo dell'oro, per chiarire il punto. Un brutto colpo per noi, vero? E potrebbero benissimo riuscirci... il Sud Africa è il primo produttore mondiale d'oro. Con l'aiuto della Francia è in grado di costringere gli altri a un aumento.» Si fermò di fronte al tipo grasso e puntò un dito con fare accusatore. «Dobbiamo starcene tranquilli e lasciare che facciano i loro comodi? Nossignore! Fra tre mesi il nostro Gruppo monopolistico sarà pronto a rispondere con un analogo colpo basso. In quel preciso momento taglieremo le gambe ai sudafricani dimezzando la loro produzione aurifera. Allagheremo i giacimenti di Kitchenerville e il piano che hanno predisposto finirà in fumo come un petardo bagnato, giusto?» «Tutto qui?» chiese il tipo grasso. «Tutto qui, piuttosto semplice, mi pare!» Il calvo annuì vigorosamente. «E ora non mi resta che una precisazione: il milione di dollari pattuito è "tutto" ciò che riceverete. Né lei né i suoi soci dovete imbarcarvi in qualsiasi operazione finanziaria che potrebbe rivelare, in seguito, l'esistenza di un piano accuratamente studiato, va bene?» «Certo» annuì l'altro. «Mi assicura dunque che non giocherete con le azioni delle compagnie coinvolte?» «Le do la mia parola d'onore» rispose prontamente e con tono convinto, il tipo grasso. Contemporaneamente, però, rifletté, e non era la prima volta che gli capitava, sulla facilità con cui si poteva fare una promessa senza sentire il minimo scrupolo interiore. Con la collaborazione dei tre uomini che avevano osservato Manfred Steyner, quella notte alla bisca di Johannesburg, lui intendeva lanciare un'offensiva massiccia nelle Borse valori mondiali. Il giorno che si fosse perforato il Grande Tuffo, lui e i suoi soci avrebbero venduto milioni di azioni delle cinque compagnie minerarie provocando uno dei tracolli più colossali della storia, e ricavandone così profitti enormi. «Siamo d'accordo, allora.» La testa calva si piegò a fissarlo. «Ora, a proposito del dottor Steyner abbiamo svolto uno studio dettagliato e un'analisi della sua personalità, e riteniamo che, per quanto lei lo abbia saldamente in pugno, potrebbe rifiutarsi di ordinare la perforazione del Grande Tuffo se fosse al corrente delle conseguenze. Abbiamo quindi stilato un secondo studio geologico» ed estrasse una voluminosa cartella dalla sua valigetta «in cui le prospezioni delle squadre di ricerca della Central Rand, unite a dati falsi, dimostrano l'esistenza, al di là della faglia di serpentino, di un ricchissimo filone aurifero.» Passò l'incartamento al tipo grasso e proseguì: «Prenda. La aiuterà a convincere Steyner, e a sua volta lo aiuterà a persuadere il direttore della Sonder Ditch.» «Avete fatto un lavoro davvero accurato» disse il tipo grasso. «Cerchiamo di offrire un servizio soddisfacente ai nostri clienti» fu la risposta del tipo calvo. 36. Si giocava a "stud poker". Venivano distribuite una carta coperta e quattro scoperte: a quel tavolo due uomini stavano vincendo moltissimo. Manfred Steyner e l'Algerino. Manfred aveva organizzato il suo arrivo a Parigi in modo da assicurarsi un week-end tranquillo, prima che il lunedì mattina arrivasse in volo il resto della delegazione. Era sceso, sabato pomeriggio, all'Hotel George Cinq. Dopo un bagno e un breve riposo, alle otto, con un taxi si era recato al club Chat Noir. Stava giocando ormai da cinque ore ed era riuscito ad accumulare una vincita formidabile. Di fronte a lui sedeva l'Algerino, un tipo slanciato dalla pelle scura con occhi marroni, baffi nerissimi e una dentatura candida che spiccava in contrasto con la pelle. Le sue dita affusolate continuavano a scorrere sul mazzo di banconote vinte. Sul bracciolo della sua sedia, sedeva una ragazza araba in un attillatissimo tailleur-pantalone dorato; gli splendenti capelli neri
le ricadevano sulle spalle e il suo sguardo, sorprendentemente privo d'emozioni, era fisso su Manfred. «Diecimila.» La voce di Manfred risuonò secca e decisa nel suo accento teutonico. Stava puntando sulla sua quarta carta che gli era appena stata distribuita. Lui e l'Algerino erano gli unici rimasti in gara, gli altri si erano ritirati e sedevano al tavolo, osservando l'evolversi del gioco con l'interesse distaccato di chi non è più coinvolto direttamente. L'Algerino socchiuse leggermente le palpebre e la ragazza si chinò mormorandogli qualcosa all'orecchio. L'uomo scosse il capo, seccato, e aspirò una boccata dalla sigaretta. Le sue carte scoperte erano una coppia di donne e un sei. Si chinò sul tavolo, allora, per studiare le carte di Manfred. Il croupier gli ricordò: «La puntata è diecimila franchi sul quattro, cinque e sette di fiori. Possibilità di scala reale.» «Accettare o lasciare» disse uno dei presenti. «Sta perdendo tempo, così.» L'Algerino gli lanciò un'occhiata minacciosa. «Ci sto» disse, e contò diecimila franchi, aggiungendoli al banco. «Carte.» Il croupier passò una carta coperta a entrambi. Subito l'Algerino sollevò un angolo della sua, la guardò, riappoggiandola, poi, sul tavolo. Manfred sedeva immobile, la carta era a pochi millimetri dalla sua mano destra. Era pallido, calmo, ma dentro ribolliva. La scala reale era ormai impossibile; Manfred aveva il quattro, cinque e sette di fiori e l'otto di cuori. L'unica carta che gli mancava era un sei, ma un sei lo aveva già l'Algerino. Le sue probabilità erano minime. Il suo ventre, il petto e le reni erano tesi, bloccati in una morsa di tensione. Manfred cercò di protrarla, desiderando prolungare all'infinito l'ebbrezza del rischio. «La coppia di donne deve ancora puntare» mormorò il croupier. «Diecimila.» L'Algerino spinse le banconote sul tavolo. "Ha pescato un'altra donna", pensò Manfred, "ma è incerto. Non sa se ho colore, o scala". Manfred appoggiò la mano sulla sua quinta carta e la sollevò. «Puntata massima» disse calmo, provocando un mormorìo di eccitazione tra i presenti. La ragazza strinse la manica dell'Algerino, fissando Manfred con odio. «Il signore ha eseguito una puntata massima» disse il croupier. «Regole della casa. I giocatori possono puntare l'intera somma che hanno sul tavolo.» Si allungò in avanti e iniziò a contare le banconote di Manfred, annunciando poi il totale. «Duecentododicimila franchi.» Poi si rivolse all'Algerino. «Ora sta a lei puntare.» La ragazza si affrettò a sussurrargli qualcosa, ma l'Algerino la interruppe con un secco commento. Poi si guardò attorno nella sala, quasi cercasse un'indicazione, e tornò a studiare le proprie carte. Di colpo la sua espressione si indurì e fissò Manfred. «Vedo!» disse. La mano destra di Manfred Steyner contratta in un pugno si allentò, distendendosi inerte sul tavolo. L'Algerino scoprì la carta. Tre donne. I presenti si voltarono ansiosi verso Manfred, che girò la sua. Due di quadri. Scala buca. Con un urlo di trionfo, l'Algerino balzò in piedi, cominciando a rastrellare il favoloso piatto. Manfred si alzò dal tavolo mentre la ragazza, parlando in arabo, lo derideva e si allontanò in fretta verso il guardaroba. Venti minuti dopo era di ritorno all'albergo. Mentre entrava nell'atrio vide un uomo piuttosto alto alzarsi da una delle poltrone e seguirlo verso gli ascensori. I due entrarono nella cabina e quando la porta si chiuse l'altro lo salutò. «Benvenuto a Parigi, dottor Steyner.» «Grazie, Andrew. Immagino che lei sia venuto per darmi istruzioni, vero?» «Proprio così. "Lui" desidera vederla domani, alle dieci. Passerò a prenderla.»
37. Era sabato notte a Kitchenerville e nel bar del Lord Kitchener Hotel gli uomini delle cinque miniere, freschi di paga, si accalcavano attorno al bancone. Si ballava già da tre ore. Il pubblico femminile sedeva ai tavoli della veranda, sorseggiando Porto e gazosa e tenendo costantemente d'occhio l'ingresso del bar. Quasi tutte le mogli avevano le chiavi dell'auto già al sicuro nelle loro borsette. Nella sala da pranzo, liberata dal mobilio e spruzzata abbondantemente di talco, il quartetto locale, che si chiamava Wind Dogs, si lanciò in una brillante versione di "Die Ou Kraal Liedjie", e dal bar, quasi in risposta alla musica arrivarono tutti quelli che volevano ballare, più o meno alticci. Molti uomini si erano sbarazzati della giacca, avevano allentato il nodo della cravatta e traballando leggermente sulle gambe guidavano le loro dame sulla pista per mostrare subito come sapevano cavarsela. C'era chi inforcava la dama per un braccio, quasi fosse una lancia, e partiva alla carica. All'estremo opposto stavano quelli che arrancavano risoluti lungo il perimetro della sala, non guardando né a destra né a sinistra, in religioso silenzio perfino con le loro compagne. C'erano poi i tipi comunicativi che si muovevano, paonazzi, del tutto fuori tempo rispetto alla musica, gridando verso gli amici e cercando di pizzicare qualsiasi ragazza capitasse loro a tiro, disturbando insomma lo svolgimento delle danze. Non mancavano, per finire, i patiti del ballo, che si piazzavano al centro della sala lanciandosi nel twist, una danza ormai fuori moda da anni che però, in un posto come Kitchenerville, si era radicata profondamente nel gusto del pubblico. In quella roccaforte del twist c'era comunque un campione che superava tutti. «Johnny Delange? Accidenti se ci sa fare, ragazzi!» mormoravano rispettosi gli altri. Con le movenze sinuose sfacciatamente erotiche di un cobra, Johnny stava ballando un twist con Hettie. Il suo abito di rayon lucente guizzava sotto le luci, lo jabot della camicia gli svolazzava intorno alla gola. Sul suo viso scavato da falco, era dipinta un'intensa espressione di piacere. Per quanto alta e statuaria, pure Hettie si muoveva con agilità. Aveva una vita sottile e un didietro fantastico che si dimenava sotto la gonna verde smeraldo. Mentre ballava, rideva; una risata piena e ricca di vitalità, come il suo corpo. Davy Delange li osservava dalla veranda, seminascosto nell'ombra, una figura solitaria che stringeva in mano una lattina di birra. Quando una coppia di ballerini gli copriva la vista del corpo procace di Hettie, imprecava irritato e cominciava ad agitarsi, impaziente. La musica terminò e le coppie accaldate e senza fiato, tornarono alla veranda. Gli uomini dopo aver fatto accomodare le loro dame ritornavano quasi subito al bar. «Ci vediamo tra un po'.» Johnny si congedò riluttante da Hettie. Gli sarebbe piaciuto restare con lei, ma sapeva cosa avrebbero detto i ragazzi se avesse passato tutta la serata con la moglie. Venne riassorbito dalla chiassosa folla maschile e mentre stava discutendo delle prestazioni della nuova Ford Mustang, che aveva una mezza idea di acquistare, Davy con un colpetto di gomito richiamò la sua attenzione. «C'è Constantine» gli sussurrò, e Johnny si guardò subito intorno. Constantine era un emigrato greco che lavorava alla Blaauberg. Un tipo massiccio, dai capelli neri e con il setto nasale rotto. Quello era un ricordino di Johnny che risaliva a circa dieci mesi prima. Da scapolo, Johnny si azzuffava con il greco in media una volta al mese; niente di serio, solo scazzottate quasi amichevoli. A ogni modo Constantine non riusciva a digerire che la nuova mogliettina di Johnny avesse proibito al marito quelle risse occasionali, ed, erroneamente, era giunto alla conclusione che Johnny Delange avesse paura di lui. Constantine avanzò nel bar con un'aria effeminata, e si fermò di fronte allo specchio fingendo di sistemarsi i capelli, lanciando
un'occhiata d'intesa agli amici. Quindi si avvicinò a Johnny indirizzandogli una serie di sguardi languidi, sbattendo le ciglia e dimenando i fianchi. I suoi colleghi della Blaauberg stavano sbellicandosi dalle risate. Poi sculettando, tra l'ilarità generale, Constantine entrò nella toilette, uscendone poco dopo per lanciare un bacio all'indirizzo di Johnny, per tornare infine tra i compagni di lavoro che gli offrirono da bere divertiti. Con un sorriso sforzato, Johnny riprese a parlare della Ford Mustang. Dopo venti minuti e una mezza dozzina di altri cognac, il greco replicò la sua esibizione. Evidentemente il suo repertorio era limitato. «Stai calmo, Johnny» mormorò Davy. «Andiamo a sederci in veranda.» «Sta cercando guai, ti dico, se li sta proprio cercando!» Il sorriso era scomparso dal volto del fratello. «Su, lascia stare Johnny.» «No, accidenti! Crederanno che taglio la corda. Non posso andarmene adesso.» «Sai come la prenderà Hettie, vero?» lo avvertì Davy. Johnny esitò. «Al diavolo Hettie!» Johnny serrò il pugno destro ricoperto di anelli d'oro e avanzò verso Constantine, appoggiandosi al banco di fianco al greco. «Herby» disse al barman, indicando il greco «dai un Porto con gazosa alla signora.» Mentre la gente, lì vicino, cominciava a farsi da parte, Davy si precipitò ad avvisare Hettie. «Johnny si rimette a fare a botte!» «Come?!» Hettie balzò in piedi come una furia e si aprì un varco tra la folla. La gente stava in punta di piedi per osservare meglio la scena, alcuni erano saliti addirittura sulle sedie o sui tavoli. Il rumore di mobili che andavano in pezzi era sottolineato dai ruggiti deliziati del pubblico. Raggiunta la porta del bar, Hettie si fermò. Lo scontro era al momento culminante. Tra cocci di vetro e sgabelli rovesciati, Johnny e il greco giravano l'uno attorno all'altro, scartando e abbozzando finte, concentrati al massimo. Entrambi erano segnati. Il greco aveva un labbro sanguinante, Johnny un occhio pesto e quasi chiuso. La folla attendeva in silenzio. «Johnny Delange!» La voce di Hettie risuonò secca come un colpo di fucile. Johnny sussultò con aria colpevole, abbassando la guardia e girandosi verso la moglie, e in quel momento il pugno di Constantine si abbatté sulla sua tempia. Johnny ruotò su se stesso, colpì la parete e scivolò lentamente a terra. Con un ruggito di trionfo, il greco si lanciò per affondare gli stivali nel corpo steso di Johnny, ma stramazzò in avanti, andando a fargli compagnia sul pavimento. Hettie lo aveva centrato con una bottiglia presa da un tavolo. «Per favore, aiutatemi a portare mio marito in macchina» chiese agli uomini che le stavano attorno, con un tono improvvisamente indifeso. Poco dopo, Hettie sedeva accanto a Davy sul sedile anteriore della Monaco, in preda a una rabbia incontenibile. Johnny era sdraiato dietro e russava piano. «Non prendertela, Hettie» fece Davy, tenendo un'andatura tranquilla. «Gliel'ho detto, non una, cento volte. Lo sapeva che non avrei più sopportato una cosa simile.» La voce di Hettie crepitava come una scarica elettrica. «Non è stata colpa sua. Ha cominciato il greco» spiegò Davy sottovoce, posandole una mano sulla gamba. «Tu lo difendi solo perché è tuo fratello.» «Non è vero» cercò di calmarla Davy, accarezzandole la gamba. «Sai come la penso, Hettie.» «Non ti credo.» La mano di Davy stava salendo. «Voi uomini siete tutti uguali. Vi tenete sempre bordone.» La rabbia di Hettie stava trasformandosi in un senso di rivolta e di vendetta contro Johnny Delange. Lei sapeva ormai che la mano di Davy non cercava più di calmarla. Prima di sposare Johnny aveva avuto numerose occasioni per conoscere gli uomini e le aveva sfruttate con
l'entusiasmo e l'incoscienza della gioventù. "Perché no?", pensò. "Johnny Delange se lo merita proprio! Non andrò fino in fondo, naturalmente. Solo quel tanto che basta perché io possa prendermi la mia piccola rivincita". «No, Hettie. E' vero... credimi.» La voce di Davy era roca; sentì che le ginocchia cedevano sotto la sua mano e toccò Hettie là dove finivano le calze, toccò la sua pelle vellutata. L'auto rallentò, procedendo a passo d'uomo, e passarono dieci minuti prima che raggiungessero la casa della Compagnia, nella zona periferica di Kitchenerville. Sul sedile posteriore, Johnny si lamentò. La mano di Davy scattò subito al volante e Hettie si raddrizzò, allisciandosi la gonna. «Aiutami a portarlo dentro» chiese la ragazza con voce malferma. Era accaldata in viso, e non era più in collera. 38. Erano entrambi un po' alticci. Si erano fermati a festeggiare la promozione di Rod al Sunnyside Hotel, sedendosi in un séparé, bevendo e scherzando tutti eccitati, vicini ma senza toccarsi. Terry Steyner non ricordava più quale fosse l'ultima volta in cui si era comportata così. Doveva essere stato più di dieci anni prima, finiti gli studi all'università di Città del Capo, quando aveva tracannato birra al bar del Randall's Hotel sciorinando sciocchezze a non finire. Tutta la sua dignità di donna sposata che le aveva inculcato insistentemente Manfred era sparita; si sentiva come una ragazzetta ingenua al suo primo appuntamento con il capitano della squadra di rugby. «Andiamocene di qui» disse improvvisamente Rod, e lei si alzò senza fare domande. Una volta sulla Maserati si sentì di nuovo fuori dalla realtà. «La vedi spesso tua figlia, Rod?» gli chiese mentre lui le sedeva accanto, guardandola sorpreso. «Tutte le domeniche.» «Anche domani?» «Sì.» «Quanti anni ha?» «Quasi nove.» «Cosa fai con lei?» Rod azionò il motorino d'avviamento. «In che senso?» «Dove la porti, cosa fate insieme?» «Andiamo in barca, sul lago dello zoo, o a passeggio mangiando un gelato. Se fa freddo o piove stiamo nel mio appartamento e giochiamo a tombola cinese.» Mentre l'auto si muoveva, aggiunse: «Lei bara, tra l'altro.» «L'appartamento?» «Ho un rifugio in città.» «Dove?» «Te lo mostrerò» disse Rod tranquillamente. Terry sedette sul divano dello studio e si guardò attorno, piena d'interesse. Non si era aspettata da lui una cura simile nell'arredamento. Sulla parete di fondo spiccava un paesaggio autunnale davvero stupendo che lei riconobbe come un originale di Dino Paravano. Con un leggero senso di fastidio si accorse dell'effetto romantico che Rod creava con le luci e di come lui si avvicinasse, quasi automaticamente, al mobile bar. «Dov'è il bagno?» gli chiese. «La seconda porta a sinistra, lungo il corridoio.» Terry si soffermò nel bagno, aprendo con mossa furtiva il mobiletto dei medicinali. C'erano tre spazzolini appesi nelle loro scanalature, e sotto un flacone aerosol di Bidex. Chiuse velocemente il mobiletto, turbata, incerta se si trattasse di gelosia o di senso di colpa per la propria curiosità. Tornando di là, dopo aver intravisto il letto matrimoniale dalla porta
aperta della camera da letto, si fermò di fronte al quadro. «Mi piacciono le sue opere.» «Non è troppo fotografico per i tuoi gusti?» chiese Rod. «No. E' incantevole.» Rod le diede il bicchiere e le rimase accanto, osservando il quadro. Terry agitò i cubetti di ghiaccio, si girò. La stava fissando... ancora quel senso di irrealtà. Rod le tolse il bicchiere di mano. Terry sentiva solo le sue mani, forti ed esperte. Le toccarono le spalle e scesero, lente, lungo la schiena. Un brivido la scosse per tutto il corpo, poi la bocca di Rod si posò sulla sua e il senso di irrealtà fu completo. Tutto era caldo e appannato, lei si abbandonò a quella sensazione lasciando che fosse lui ad agire. Non seppe mai quanto tempo trascorse prima di ritornare con un brivido improvviso alla realtà. Era sul divano, tra le sue braccia. Il vestito slacciato fino alla vita, il reggiseno sganciato. La testa di Rod era china su di lei, e lei tenendolo per una ciocca di capelli guidava le sue labbra verso la loro meta. «Devo essere pazza!» ansimò staccandosi violentemente da Rod. Tremava di paura, provando disgusto di sé. Non le era mai successo niente di simile, prima. «E' una follia!» I suoi occhi parevano due enormi pozze scure sul viso pallidissimo; le dita abbottonarono freneticamente il vestito. Quando l'ultimo bottone scivolò nell'asola, la paura di Terry si trasformò in collera. «Quante donne hai sedotto su questo divano, Rodney Ironsides?» Rod si alzò, allungando una mano per calmarla. «Non toccarmi! Voglio andare a casa!» gridò Terry, ritraendosi. «Ti porto subito a casa, Terry. Ma calmati. Non è successo niente.» «Non certo per colpa tua, vero?» «No» ammise Rod. «Se tu avessi avuto via libera, tu avresti...» s'interruppe. «Sì, l'avrei fatto. Ma solo se avessi voluto anche tu» annuì Rod. Terry lo fissò, cominciando a riguadagnare il controllo dei propri nervi. «Non avrei dovuto venire qui, lo so. Voleva dire solo cercare guai, ma adesso portami a casa per favore.» 39. Rod fu svegliato da uno squillo di telefono. Mentre nudo e mezzo addormentato attraversava la stanza, controllò l'ora. Le otto. «Ironsides!» disse, sbadigliando nel ricevitore, ma riconoscendo la voce della donna si svegliò di colpo. «Buongiorno, Rodney. Come vanno i postumi della bevuta?» Non si aspettava che lei si facesse ancora viva. «Appena sopportabili.» «Ti ho chiamato per ringraziarti della divertente e... istruttiva serata.» «Cambiate idea piuttosto in fretta, voi donne, eh? Ieri sera mi aspettavo una pallottola in fronte» commentò lui con un sogghigno, grattandosi il petto. «Ieri, da te, ho provato un bello spavento» ammise Terry. «E' uno shock non indifferente scoprire di colpo che si è ancora capaci di abbandonarsi alla gioia più pazza e più completa. Molte delle cose che ti ho detto, be', non le pensavo sul serio.» «Mi dispiace di aver contribuito ad angosciarti.» «Oh, figurati. Sei stato quasi commovente.» Poi rapidamente Terry passò a parlare d'altro: «Vai a prendere tua figlia, oggi?» «Sì.» «Mi piacerebbe vederla.» «E' possibile.» Rod era cauto. «Le piacciono i cavalli?» «Ne va pazza.» «Che ne diresti se andassimo tutti e tre al mio allevamento sul fiume Vaal?» Rod esitò. «Ma non è pericoloso? Cosa diranno se ci vedono insieme?» «E' la mia reputazione, quindi sono affari miei.»
«Splendido! Verremo alla tua scuderia molto volentieri.» «Ci troviamo da te. Quando?» concluse Terry. «Alle nove e mezzo.» Patti lo accolse ancora in vestaglia e con i bigodini in testa, offrendogli svogliatamente la guancia per un rapido bacio. «Ciao, stai dimagrendo. Melly è a vestirsi. Vuoi del caffè? Il tuo assegno è arrivato in ritardo anche questo mese.» Colpì con forza il piccolo spaniel che si stava accovacciando sul tappeto. «Questo maledetto cane piscia dappertutto. Melanieee! Muoviti! C'è tuo padre.» «Ciao papà!» strillò allegramente Melanie da un altra stanza. «Ciao, piccola.» «Non puoi entrare, paparino. Non ho addosso niente.» «Be', muoviti! Ho fatto un milione di chilometri per vederti.» «Un milione! Figurati!» «Hai detto che lo volevi, il caffè?» gli disse Patti. «No, nessun disturbo è già pronto.» E lo guidò nel salotto. «Grazie.» «Come vanno le cose?» gli chiese, porgendogli la tazza. «Mi hanno promosso direttore generale della Sonder Ditch.» Non poteva non dirglielo, era troppo bello. Rod sentiva il bisogno di vantarsi. Patti lo guardò, sorpresa. «Stai scherzando!» gli disse, ma Rod notò che sua moglie stava già trasformando in soldoni quella nuova carica. «No, è proprio così» rispose lui ridendo. «Mio Dio!» Patti si lasciò cadere sulla sedia. «Verrai a prendere quasi il doppio di stipendio!» Rod la guardò freddamente, felicissimo, per l'ennesima volta, di non essere più invischiato con quella donna. «Di solito si fanno le congratulazioni» le suggerì. «Non le meriti.» Ora Patti era arrabbiata. «Sei un egoista bastardo e cascamorto, Rodney Ironsides. Non meriti affatto tutti i colpi di fortuna che ti capitano.» L'aveva fregata. Patti avrebbe potuto essere la moglie del direttore generale, la "first lady" della miniera. Invece era una donna sola, divorziata, piantata in asso con la misera somma di 450 rand al mese. Prima la situazione le sembrava buona, adesso non lo era più. «Spero che tu abbia abbastanza coscienza da provvedere a un'adeguata modifica degli alimenti per me e Melanie. Abbiamo diritto a una parte.» La porta si spalancò e Melanie Ironsides arrivò di corsa, lanciandosi al collo di Rod. La bambina aveva lunghi capelli biondi e occhi verdi. «Ho preso nove in ortografia!» «Tu sei un genio, non sei brava. E sei anche bellissima.» «Mi porti sulla macchina in braccio, papà?» «Perché? Ti hanno forse ingessato le gambe?» «Dai, per favore, ti prego. Tre volte per favore.» Patti interruppe quello scambio affettuoso. «Hai preso il maglione, signorina?» Melanie volò subito in camera. «La riporto prima delle sette» disse Rod. «Non hai risposto alla mia domanda. Ce la dai questa parte, allora?» Patti aveva un tono sgarbato. «Ma certo! I soliti succulenti quattrocentocinquanta rand che vi ho sempre dato.» Erano a casa di Rod da dieci minuti quando il campanello annunciò l'arrivo di Terry. In jeans e camicetta, con i capelli raccolti in una treccia dietro il capo, sembrava una ragazzina. La bambina e la donna si studiarono a vicenda, Melanie assunse subito un atteggiamento posato e raffinato, e Rod si sentì tranquillo nel constatare che anche Terry aveva il buon senso di non soffocare la bambina con eccessive attenzioni. Erano ormai a metà strada dal villaggio di Parys sul fiume Vaal, quando Melanie ultimò il suo minuzioso esame di Terry. «Posso venire davanti a sedermi in braccio a te?» le chiese alla fine. «Sì, certo.» Terry nascose a fatica la propria soddisfazione. «Sei bella» le disse Melanie.
«Grazie. Anche tu.» «Sei l'amichetta di papà?» chiese la bambina. Terry lanciò un'occhiata a Rod e scoppiò a ridere. «Quasi» rispose, continuando a sorridere. Poco dopo l'ilarità divenne generale. Il resto della giornata fu sereno e pieno di gioia. Terry e Rod camminarono vicini lungo la riva costeggiata di salici del Vaal. Melanie li precedeva, correndo sulla distesa erbosa, lanciando grida di gioia ai bizzarri movimenti dei puledri. Salirono fino alle scuderie, dove Melanie offrì delle zollette di zucchero a un vincitore del Cape Metropolita Handicap, baciandolo poi sul muso. Nuotarono a lungo nella piscina accanto all'elegante casa colonica, in un intrecciarsi di spruzzi e di risate, e quando, la sera, rientrarono a Johannesburg, Melanie si appisolò, esausta, in braccio a Terry. Terry attese in auto che Rod riportasse la bambina addormentata dalla madre, poi, quando fu di ritorno gli mormorò: «La mia macchina è da te. Dovrai darmi un passaggio.» Nessuno dei due aprì bocca finché non furono nel salotto di Rod. Allora lui le disse: «Grazie della magnifica giornata.» E la attirò a sé, baciandola. Terry giaceva al buio, stretta al suo corpo che dormiva, vi si aggrappava quasi avesse paura che qualcuno potesse strapparglielo. Mai, in vita sua, aveva provato qualcosa di così intenso. Aveva appena scoperto un mondo di nuove sensazioni che non pensava esistessero. Le lenzuola erano ancora umide. Terry si sentiva bruciare internamente, si sentiva dolorante... una lenta, voluttuosa pulsazione dolorosa, che però possedeva un che di estatico. Sfiorò leggera il corpo di Rod, attenta a non svegliarlo, facendo scorrere le dita tra i riccioli che gli coprivano il petto, riflettendo incredula sulla differenza abissale che esisteva tra la nuova Terry e la donna delusa e frustrata prigioniera fino a poco tempo addietro di un matrimonio piatto e infelice. Rabbrividì di piacere nel ricordare la voce di Rod che le descriveva il suo stesso corpo, facendola sentire orgogliosa di possederlo per la prima volta in vita sua. E ricordò estasiata le parole che lui aveva usato per dirle quello che loro due stavano facendo assieme... ricordò il tocco delle sue mani, così delicate, sicure, così adorabilmente avide e possessive nella loro ricerca. Lui si era comportato con tanta naturalezza, con tanta gioiosa passione, che anche le ultime riserve mentali di Terry, le sue inibizioni e i suoi condizionamenti, erano state spazzate via in un solo istante, permettendole di accedere oltre il delirio dei sensi in compagnia di quell'uomo... entrando in una condizione di pace e serenità ineffabili, di totale appagamento fisico e psichico. Si accorse che Rod si stava svegliando e gli sfiorò le labbra e gli occhi. «Grazie» sussurrò. E lui le prese delicatamente il capo attirandolo sulla sua spalla. «Dormi, adesso» le disse sottovoce. Terry chiuse gli occhi e restò immobile, ma non prese sonno. Non voleva perdere un solo attimo di quell'esperienza. 40. Quando arrivò in ufficio, alle sette e mezzo del lunedì mattina, Rod notò sulla sua scrivania la lettera di nomina. Si sedette e accese una sigaretta. Poi iniziò a leggere, lentamente, assaporando ogni parola. Cominciava con "Su delibera del Consiglio di amministrazione" e "non rimane che porgerle le congratulazioni del Consiglio, esprimendo piena fiducia nella sua abilità" era la formula finale. Dimitri sbucò dal suo ufficio tutto agitato. «Accidenti, Rod! Cristo, che inizio di settimana! C'è un difetto sul cavo principale dell'alta tensione del livello novanta e...» «Non venirti a lamentare con me!» tagliò corto Rod. «Io non sono più il direttore Lavori sotterranei.» Dimitri lo fissò a bocca aperta.
«Ma che diavolo dici, ti hanno licenziato?» «Quasi» disse Rod passandogli la lettera. «Dai un'occhiata, ecco cosa mi hanno fatto quei bastardi.» Dimitri lesse e lanciò un grido di gioia. «Mio Dio, Rod! Mio Dio!» E si lanciò nel corridoio a dare la notizia agli altri assistenti. Ben presto l'ufficio fu pieno di gente che stringeva la mano a Rod. Erano quasi tutte congratulazioni sincere; solo qui e là affiorava una punta di invidia, un risentimento per una recente lavata di capo, o il panico che prova l'incompetente che sente ormai il suo posto in pericolo. Il telefono squillò. Rod rispose, cambiando subito espressione e facendo cenno agli altri di sgombrare l'ufficio. «Parla Hirschfeld.» «Buongiorno, signor Hirschfeld.» «Be', l'occasione è arrivata, Ironsides.» «Le sono molto riconoscente, signore.» «Voglio vederla. Le concedo questa giornata per sistemare le sue cose. Facciamo domani mattina. Alle nove nel mio ufficio al Reef Building.» «Ci sarò.» «Bene.» Rod riappese. La giornata si rivelò caotica. Tutte le sue attività tese a riorganizzarsi erano costantemente interrotte da una filza di congratulazioni. Rod era ancora il direttore Lavori sotterranei oltre a essere il nuovo direttore generale, e sarebbe trascorso del tempo prima che arrivasse un sostituto. Stava cercando di iniziare i preparativi per trasferirsi nel suo nuovo grande ufficio del reparto amministrativo quando arrivò un'altra visita. Si trattava della segretaria di Frank Lemmer, la signorina Lily Jordan, arcigna in un abito di flanella grigia. «Signor Ironsides, lei e io non ci siamo visti di buon occhio in passato, ed è improbabile che in futuro accada il contrario. Sono quindi venuta a rassegnare le mie dimissioni.» Il telefono squillò. Era la voce di Dan, spensierata. «Rod, sono innamorato.» «Oh Cristo, no! Non questa mattina.» «Devo ringraziarti per avermela fatta conoscere. E' la più fantastica...» «Va bene, va bene! Senti, Dan, sono occupatissimo. Telefonami in un altro momento, d'accordo?» «Oh, già, dimenticavo. Sei il nuovo direttore generale, mi dicono. Congratulazioni. Mi offrirai da bere al club. Alle sei.» «Va bene, allora ne avrò proprio bisogno.» Rod riappese e affrontò l'espressione di rigida irremovibilità della signorina Jordan. «Signorina Jordan, in passato abbiamo avuto dei conflitti. Non accadrà più in futuro. Lei è la migliore segretaria nel raggio di centocinquanta chilometri. Io ho bisogno di lei, la Compagnia ha bisogno di lei.» Fu quella la parola magica. La Jordan aveva un'anzianità di servizio di venticinque anni presso la Compagnia. Parve colpita visibilmente. «La prego, signorina Jordan. Mi offra una possibilità.» Rod sfoderò il suo sorriso più accattivante, a cui perfino la zitella più acida difficilmente avrebbe saputo resistere. «Molto bene, allora, signor Ironsides. Per il momento, mi fermerò sino alla fine del mese. Poi vedremo. Farò portare le sue cose nel nuovo ufficio.» «Grazie, signorina Jordan.» Rod tornò a sprofondarsi nell'attività frenetica del suo doppio incarico, saltò la pausa per il pasto e quando lei telefonò era esausto. «Ciao. Ci si vede stasera?» La voce di Terry era rinfrescante come la spugna passata sulla fronte del pugile tra una ripresa e l'altra. «Terry.» Rod riuscì solo a pronunciare il suo nome. «Sì o no? Se è no mi getterò dal Reef Building, capito?» «Va bene. Pops vuole vedermi domattina alle nove, quindi stasera mi fermo in città nel mio appartamento. Ti chiamo appena arrivo.» «Fantastico!» Alle cinque e mezzo Dimitri infilò la testa nell'ufficio.
«Scendo al pozzo numero uno per la volata, Rod.» «Mio Dio, che ore sono?» Rod guardò l'orologio. «Già così tardi!» «Imbrunisce presto, da queste parti. Io ho finito.» «Aspetta! La brillo io.» «Per me è lo stesso, non preoccuparti» disse Dimitri. Secondo le regole della Compagnia, al brillamento giornaliero della volata di mine doveva sovrintendere il direttore dei Lavori sotterranei o il suo assistente. «No, lo faccio io» ripeté con decisione. «Bene, allora. Ci vediamo domani.» Dimitri usci, senza insistere. Rod sorrise per il proprio sentimentalismo. Ora che la Sonder Ditch era sua voleva essere lui a comandare il primo brillamento. Sulla porta corazzata della sala di controllo brillamento lo stavano aspettando. Era una stanzetta di cemento, simile a una casamatta, e solo due persone possedevano la chiave della porta. Rod e Dimitri. Il capitano di miniera di turno e il capo elettricista aggiunsero le loro felicitazioni alle centinaia che Rod aveva già ricevuto. Poi entrarono. «Controlla gli scavi» ordinò Rod. Il capitano di miniera si mise in contatto coi sorveglianti dei due pozzi per avere la conferma che la Sonder Ditch fosse deserta, che tutti gli uomini scesi la mattina fossero risaliti. Nel frattempo il capo elettricista, impegnato al quadro comandi, alzò lo sguardo verso Rod e disse: «Pronti a chiudere i circuiti, signor Ironsides.» «Procedi» annuì Rod e l'uomo toccò un interruttore. Sul pannello apparve una luce verde. «Fronte di scavo nord del numero uno chiuso. Luce verde.» «Inserire» disse Rod, e l'elettricista premette un altro interruttore. «Fronte di scavo est del numero uno chiuso. Luce verde.» «Inserire.» La luce verde indicava che il circuito di fuoco era intatto. Una luce rossa avrebbe indicato un'interruzione e quel circuito sarebbe stato escluso da quello finale di sparo. Alla fine del controllo il capo elettricista si alzò dal quadro comandi. «E' tutto inserito.» Rod guardò il capitano di miniera. «Tutti i livelli liberi, signore. Pronti a far fuoco.» «"Cheesa"!» esclamò Rod. Era il comando tradizionale che risaliva ai giorni in cui ogni miccia veniva accesa a mano. Quella parola in bantu significava "brucia!". Il capitano di miniera si avvicinò al quadro comandi e aprì la gabbietta che proteggeva un grosso pulsante rosso. «"Cheesa"!» ripeté, e premette il pulsante col palmo della mano. Immediatamente la fila di luci verdi venne sostituita da una serie di luci rosse. Tutti i circuiti erano stati distrutti dalle esplosioni. Il terreno sotto i loro piedi cominciò a tremare. Lungo tutti gli scavi le esplosioni si susseguivano secondo schemi precisi in modo da far crollare più roccia possibile e di assestare le cavità prodotte. Dopo l'esplosione delle cariche di testa principali, scoppiavano le cariche di taglio, piazzate al centro dei fronti di scavo. Quindi era la volta delle cariche di spalla, sistemate agli angoli superiori, e delle cariche di piede, sistemate agli angoli inferiori. Per finire entravano in azione le cariche di sgrossamento, che esplodevano ai lati delle voragini apertesi nella roccia, e le cariche di sollevamento, che ammassavano il materiale grezzo ulteriormente frantumato. Rod immaginava la scena nei minimi particolari. Sebbene nessuno avesse mai assistito direttamente al brillamento, Rod sapeva con precisione cosa stava accadendo là sotto. Le vibrazioni cessarono. «Fatta. Un'esplosione completa» disse il capitano di miniera. «Grazie.» Rod, di colpo, si sentì stanco. Ora aveva voglia di quel drink, anche se sapeva che Dan probabilmente sarebbe stato insopportabile e non avrebbe fatto che parlare del suo nuovo amore. Poi, pensando a quello che l'attendeva a Johannesburg, la sera, Rod
sorrise e non si sentì più così stanco. 41. «Ci sono solo tre cose che mi preoccupano» disse Terry rivolta a Rod. «Quali?» chiese lui insaponando il guanto di spugna. «La prima è che hai le gambe troppo lunghe per questa vasca.» Rod cercò di sistemarsi meglio nell'acqua e Terry balzò per metà dalla vasca con un gridolino. «Rodney Ironsides, non potresti fare un po' più di attenzione a dove metti i piedi!» «Scusami.» Si chinò a baciarla. «Dimmi, che altro ti preoccupa, adesso.» «Be', la seconda cosa che mi preoccupa è che non sono affatto preoccupata.» «Da che parte dell'Irlanda mi hai detto che vieni? County Cork?» le chiese Rod. «Voglio dire... è terribile, ma non ho il minimo scrupolo di coscienza. Una volta pensavo che se mi fosse capitata un'esperienza simile non avrei avuto il coraggio di guardare un altro essere umano negli occhi, dalla vergogna.» Terry prese il guanto di tela e cominciò a insaponargli il petto e le spalle. «Adesso, invece di provare vergogna, vorrei mettermi nell'ora di punta in mezzo a Eloff Street e gridare "Rodney Ironsides è il mio amante".» «Brindiamo a questo.» Rod si sciacquò le mani e si sporse dalla vasca prendendo due bicchieri dal pavimento. Ne porse uno a Terry e insieme fecero tintinnare i calici che contenevano del Cape Burgundy rosso rubino. «Rodney Ironsides è il mio amante!» intonò Terry. «Rodney Ironsides è il tuo amante» ribadì Rod, poi aggiunse: «Ora tocca a me fare un brindisi.» «A cosa?» Terry tenne pronto il bicchiere. Rod si chinò in avanti e le versò il vino rosso sul seno. «Benedetta sia questa nave e chi salperà in lei» intonò solennemente. Terry rise deliziata. «Al suo comandante. La sua salda mano regga il timone.» «Che il fondo non tocchi mai le secche.» «Possa essere silurata regolarmente!» «Terry Steyner, sei proprio terribile.» «Sì, vero?» «E ora qual è l'ultima preoccupazione?» domandò lui, quando i bicchieri furono vuoti. «Manfred tornerà a casa sabato.» Smisero di ridere. Rod prese la bottiglia di Burgundy e riempi di nuovo i bicchieri. «Be', abbiamo ancora cinque giorni» disse. 42. Era stata una settimana di trionfo personale per Manfred Steyner. Il suo discorso alla conferenza era diventato la base di tutti i colloqui. Lo avevano anche invitato a chiudere il banchetto cui aveva presenziato il generale De Gaulle in persona, e in seguito il presidente francese aveva chiesto a Manfred di prendere il caffè e il cognac con lui in una sala privata, rivolgendogli domande e ascoltando con interesse le risposte di Manfred. Alla partenza gli avevano donato una decorazione, un piccolo segno di riconoscimento ufficiale. Come gran parte dei tedeschi, Manfred aveva un debole per medaglie e uniformi e già immaginava la figura che quella decorazione avrebbe fatto sul suo abito immacolato. Sia la stampa francese sia quella di casa avevano dato grande rilievo all'avvenimento; c'era perfino un articolo non troppo benevolo sul "Times", con tanto di foto. De Gaulle era chino sul piccolo Manfred e gli appoggiava una mano sulla spalla. Il titolo diceva: "Il cacciatore e il falco. Per afferrare il dollaro?". Nella piccola toilette del Boeing, Manfred si tolse, fischiettando, la camicia e la maglietta e le appallottolò, gettandole poi nel cestino
dei rifiuti. Nudo fino alla cintola, si lavò con un panno bagnato e frizionò la pelle con la sua acqua di Colonia. Poi smise di fischiettare e si preparò a radersi. Nella mente stava scorrendo pagina dopo pagina la relazione consegnatagli da Andrew quella mattina. La sua memoria visiva era eccezionale e riusciva a ricordare anche i minimi particolari. Era uno studio stupendo. Lui, non riusciva nemmeno a immaginare come gli autori avessero avuto accesso alle relazioni tecniche delle cinque compagnie. Era materiale top-secret, infatti, ma i dati che figuravano sullo studio erano autentici. Manfred aveva controllato minuziosamente la parte relativa alla Central Rand. Era esatta. Quindi dovevano esserlo anche le altre. I nomi degli autori erano quasi leggendari. Si trattava degli scienziati più illustri in quel campo e le conclusioni cui erano giunti sembravano del tutto convincenti. Scavando una galleria al livello 66 nel pozzo numero 1 della Sonder Ditch e perforando il Grande Tuffo, il tunnel sarebbe passato sotto le formazioni calcare della falda acquifera e al di là della faglia avrebbe intersecato un filone aurifero di valore incalcolabile. Anche senza le spiegazioni fornitegli dal suo corpulento creditore, Manfred aveva subito capito che chi avesse ordinato di procedere attraverso il Grande Tuffo si sarebbe assicurato tutto il merito dell'impresa. Sì, lo avrebbero certamente eletto presidente del Gruppo quando quell'incarico fosse divenuto vacante. Non bisognava poi trascurare una seconda possibilità. Una persona in possesso di un cospicuo pacchetto azionario della Sonder Ditch prima della scoperta del nuovo filone, avrebbe ricavato enormi guadagni vendendo quelle azioni in seguito. Manfred sarebbe stato così ricco da non dover più dipendere da sua moglie per mantenere il proprio tenore di vita, e avrebbe potuto dedicarsi ai suoi svaghi preferiti. Pulì il rasoio e, togliendo una camicia e una maglietta nuova dalla valigetta, cominciò a cantare: «"Heute ist der schönste Tag in meinem Leben".» Una volta sbrigate le pratiche doganali all'aeroporto Jan Smuts avrebbe telefonato a Ironsides, convocandolo a casa sua la domenica mattina per impartirgli i nuovi ordini. Manfred sapeva di trovarsi ormai sulla soglia di un mondo completamente diverso; gli eventi dei prossimi mesi lo avrebbero innalzato al di sopra dell'uomo medio. Era l'occasione per la quale aveva lavorato tutti quegli anni. 43. La situazione era completamente diversa rispetto alla sua ultima visita, rifletté Rod mentre la Maserati risaliva il vialetto di casa Steyner. Parcheggiata l'auto, rimase alcuni istanti seduto al volante riluttante all'idea di trovarsi di fronte all'uomo che gli aveva favorito la carriera e che lui aveva ricambiato con un magnifico paio di corna. «Coraggio, Ironsides!» si disse. Uscì dalla Maserati e si incamminò lungo il sentiero che attraversava il prato. Terry era in veranda, coi capelli sciolti, distesa su una poltroncina fra una confusione di giornali sparsi qui e là. «Buongiorno, signor Ironsides» lo accolse mentre saliva i gradini. «Mio marito è nello studio. Conosce già la strada, vero?» «Grazie, signora Steyner» rispose Rod con un tono amichevole ma distaccato, poi passandole accanto le sussurrò: «Ti mangerei anche senza sale.» «Ah, bestiaccia che non sei altro» mormorò Terry passandosi la punta della lingua sulle labbra. Quindici minuti dopo, Rod sedeva impietrito di fronte alla scrivania di Manfred Steyner. Quando finalmente riuscì a parlare, gli costò uno sforzo notevole. «Lei vuole che io avanzi attraverso il Grande Tuffo?» fece con voce rauca. «Non solo, signor Ironsides. Voglio che completi il lavoro in tre
mesi, e tutto deve rimanere nel più assoluto segreto. Inizierete il passaggio dal livello sessantasei del pozzo numero uno e intersecherete il filone a duemila metri circa con il foro di trivellazione numero tre, vale a dire settantacinque metri oltre l'estremità della vena intrusiva di serpentino» ribadì Steyner impettito, nell'immancabile abito scuro. «No.» Rod scosse il capo. «Non si può passare lì dentro. Nessuno può affrontare un rischio simile. Solo Dio sa cosa c'è dall'altra parte... noi sappiamo solo che è terreno cattivo. Terreno marcio e puzzolente.» «Come fa a esserne sicuro?» chiese Steyner sottovoce. «Tutti quelli del giacimento di Kitchenerville lo sanno.» «Come?» «Da piccoli particolari.» Rod trovava difficile spiegarsi. «E' una sensazione, i sintomi ci sono tutti, e quando si è del mestiere da molto tempo si sviluppa una specie di sesto senso che...» «Sciocchezze» l'interruppe bruscamente Steyner. «Non siamo più al tempo degli stregoni.» «Non è stregoneria, è esperienza. Ha visto i risultati delle trivellazioni sull'altro lato della faglia?» ribatté Rod rabbioso. «Naturalmente. Il foro numero tre ha rivelato una vena ricchissima.» «Gli altri fori, invece, sono finiti sull'asciutto, si è spezzata la trivella, o buttavano acqua come un cavallo che piscia!» Manfred si fece rosso in viso. «La prego di non usare questi termini da bettola in casa mia!» Rod fu colto in contropiede e prima che potesse replicare, Steyner proseguì. «Vorrebbe anteporre gli illustri pareri di» e citò i nomi dei tre studiosi «alle sue vaghe intuizioni, o è chiedere troppo?» «Be', certo. In questo campo sono i migliori» ammise Rod, riluttante. «Legga questo.» Manfred gettò la cartella sulla scrivania, alzandosi per poi andare a lavarsi le mani. Rod aprì l'incartamento e fu subito preso dalla lettura. Tre quarti d'ora dopo chiuse la cartella. Nel frattempo, Steyner era rimasto seduto, immobile come un serpente; unico segno di vita, il bagliore dei suoi occhi. «Come diavolo ha fatto a mettere le mani su queste relazioni?» chiese Rod, stupito. «Questo non la riguarda» rispose Manfred, riprendendo la cartella. «E' così dunque! L'acqua è nel calcare di superficie. E noi ci passiamo sotto!» Rod si alzò e cominciò a passeggiare, agitato, di fronte alla scrivania. «E' convinto?» chiese Steyner. Rod non rispose. «L'ho promossa scavalcando uomini più vecchi e con maggior esperienza» riprese Manfred sottovoce. «Se le tolgo l'incarico e dico a tutti che lei non si è dimostrato all'altezza per questo lavoro, lei, Rodney Ironsides, può considerarsi finito. Nessun altro le darebbe una possibilità, mai più!» Era vero. Rod lo sapeva. «Se invece seguirà le mie istruzioni, quando troveremo quel ricchissimo filone, parte della gloria ricadrà su di lei.» Anche questo era vero. Rod smise di camminare e si fermò, le spalle curve, l'aria terribilmente indecisa. Poteva fidarsi di quella relazione più del suo sesto senso? Quando pensava a quel terreno oltre la faglia gli veniva la pelle d'oca. Eppure forse sbagliava, e sull'altro piatto della bilancia c'era un peso notevole. I nomi illustri degli studiosi, e le minacce che certo Manfred non avrebbe esitato a mettere in atto. «Mi darà ordini scritti?» chiese bruscamente Rod. «E a che scopo? Come direttore generale la decisione di lavorare certi terreni spetta a lei. Nel caso assai improbabile che incontrasse guai al di là della faglia, non le servirebbe come difesa presentare un mio ordine scritto. Se lei uccidesse mia moglie, per esempio, non potrebbe certo difendersi presentando un documento in cui io le ho chiesto di farlo.» Anche questo era vero. Rod era in trappola. Poteva rifiutare e rovinarsi la carriera. O accettare e sopportare poi le conseguenze,
qualunque fossero. «No. Non le darò istruzioni scritte.» «Bastardo!» fece Rod sottovoce. «L'avevo avvisata che non avrebbe potuto non obbedirmi.» Così anche l'ultima briciola di rimorso da parte di Rod per la sua relazione con Terry Steyner svanì. «Mi ha dato tre mesi per bucare il Grande Tuffo. Benissimo Steyner... come vuole!» Rod si girò di scatto e uscì. Terry lo aspettava tra i cespugli di protea in fondo al prato. Vedendo il suo viso abbandonò ogni precauzione e gli andò incontro. «Rod, che c 'è ?» Gli appoggiò una mano sul braccio, fissandolo negli occhi. «Attenta!» la avvertì lui. Terry staccò la mano e fece un passo indietro. «Cos'è successo?» «Quello schifoso bastardo... Oh, scusa, Terry... sto parlando di tuo marito.» «Cos'ha fatto?» «Ora non posso dirtelo. Quando ci vediamo?» «Più tardi troverò una scusa per uscire. Aspettami a casa tua.» Qualche tempo dopo, Terry sedeva sul divano di Rod, ascoltando tutti i particolari. La relazione, le minacce e l'ordine di attraversare il Grande Tuffo. Ascoltò, ma non espresse alcun giudizio sulla decisione presa da Rod. Manfred si staccò dalla finestra e tornò alla scrivania. Anche da quella distanza non potevano esserci dubbi sulle reazioni di sua moglie. La mano tesa, gli occhi alzati, le labbra aperte in ansiosa attesa, e poi quel sussulto colpevole prima di tirarsi indietro. Per la prima volta, Manfred si trovò a considerare Rodney Ironsides come uomo e non come uno strumento. Pensò alla sua altezza, alle spalle larghe e imponenti. Qualsiasi ritorsione ai danni di Rod non poteva essere né fisica né immediata. Prima veniva lo scavo attraverso la faglia. "Posso aspettare", pensò freddamente, "ogni cosa al momento opportuno". 44. Johnny e Davy Delange sedevano di fronte alla scrivania di Rod. Si sentivano a disagio in quel grande ufficio di lusso. "Non li biasimo", ammise Rod, "anch'io devo ancora abituarmi... alla moquette, all'aria condizionata, ai quadri originali, alle pareti di legno". «Vi ho mandati a chiamare perché siete i migliori spaccaroccia della Sonder Ditch» iniziò. "Questo vuole qualcosa", pensò Davy, sospettoso. "Adesso il nostro direttore ci farà un discorsetto, prima che iniziamo il programma", rise tra sé Johnny. Rod li guardò in viso e capì subito a cosa stavano pensando. "Meglio tagliare corto con i convenevoli, Ironsides", si disse. "Questi sono due duri che non si lasciano impressionare". «Vi tolgo dalle terrazze di scavo per affidarvi uno speciale progetto di ampliamento. Lavorerete a turni, giorno e notte, e dovrete renderne conto a me personalmente. Il tutto verrà svolto nel più assoluto segreto.» «Una sola direzione? Una volata di mine al giorno?» chiese Johnny. Stava pensando alla sua paga. Calcolando la quantità di roccia abbattuta, in quel modo avrebbe guadagnato poco più della paga base. «No.» Rod scosse il capo. «Volata multipla. Procedura veloce e percentuale maggiorata.» «Volata multipla?» intervenne Davy. Significava far brillare le mine non appena erano pronti. Una buona squadra poteva far esplodere tre, quattro volate per ogni turno. «Procedura veloce?» fece Johnny. Quello era un linguaggio che faceva
per lui. Voleva dire procedura d'emergenza ed era un tacito consenso, da parte della direzione, a scavalcare le norme di sicurezza a favore della rapidità d'azione. "Cristo", esultò Johnny, "potrò brillare quattro cinque volate di mine al giorno". «Percentuale maggiorata?» chiesero infine assieme. Questo si traduceva in una gratifica del 20% sulla percentuale guadagnata nelle terrazze di scavo. Rod stava offrendo loro una fortuna. Rod annuì con fare affermativo alle loro domande e attese la reazione dei fratelli Delange. I due cominciarono a lavorare febbrilmente in cerca dell'inghippo, come due massaie insospettite dal prezzo troppo basso di un prodotto. «Quant'è lungo lo scavo?» domandò Johnny. Se si fosse trattato di poche decine di metri non ne valeva la pena. «Circa due chilometri» li rassicurò Rod. «E dov'è diretto?» Davy era giunto al punto cruciale. «Attraverseremo il Grande Tuffo per incrociare il filone a duemila metri circa.» «Gesù!» esclamò Johnny. «Il Grande Tuffo!» Quella faglia intrusiva gli ispirava soggezione ma lui non aveva paura, anzi il pericolo lo eccitava. «Il Grande Tuffo!» mormorò Davy con la mente in subbuglio. Per nulla al mondo Davy si sarebbe lasciato convincere a perforare il Grande Tuffo; nutriva nei suoi riguardi un timore quasi religioso. Bastava quel nome per evocare immagini di minacce nascoste e di orrori indicibili. Acqua, gas, terreno friabile, torrenti di fango. Un vero incubo per un minatore. No, lui non avrebbe fatto una cosa del genere... eppure quei soldi erano troppi per lasciar perdere. Poteva guadagnare dieci o undicimila rand puliti con quel lavoro. «Va bene, signor Ironsides» disse. «Comincerò io coi turni di notte. Johnny lavorerà di giorno.» Davy Delange aveva deciso. Sarebbe arrivato con la galleria fino al filone di serpentino verdastro, poi avrebbe piantato tutto e in fretta. Non si sarebbe spinto oltre il Grande Tuffo. Per il futuro non c'erano problemi, con le sue referenze. Tutte le altre miniere lo avrebbero assunto subito e lui avrebbe obbligato il fratello a seguirlo. «Ehi! Davy!» Johnny rimase felicemente sorpreso, aspettandosi un netto rifiuto da parte sua. Ora sì che poteva comprarsi una Mustang... e forse una MGB Gt per Hettie... e passare le vacanze di Natale a Durban, e... Rod rimase perplesso per il fatto che Davy avesse accettato così facilmente quel lavoro, e lo studiò un istante. "Sì, questo è un piccolo, falso bastardo", si disse, "dovrò tenerlo d'occhio". 45. Occorse un solo turno di lavoro per preparare la nuova diramazione. Rod scelse come punto di partenza una camera un tempo adibita a officina riparazioni dei carrelli, ma ormai in disuso, scavata nella roccia lungo la galleria principale del livello 66. L'ingresso fu chiuso da due grandi porte a ventola e sulla parete venne tracciata l'imboccatura del tunnel che, procedendo in linea retta per circa due chilometri, avrebbe raggiunto il Grande Tuffo per avanzare poi verso l'ignoto. Tutta l'area venne cintata con corde e disseminata di segnali. PERICOLO! BRILLAMENTO MINE PER LAVORI AUTONOMI I capitani di miniera ricevettero l'ordine di tenere i loro uomini alla larga da quella zona e tutti i trasporti furono deviati lungo un passaggio secondario. Sulla porta della camera venne affisso un altro avviso. PROCEDURA MINIERA INFIAMMABILE IN VIGORE.
LIMITE INVALICABILE DA QUALSIASI LUCE SCOPERTA. A causa di piccoli depositi di carbone e di altre sostanze organiche negli strati superiori di roccia, la Sonder Ditch era classificata come miniera infiammabile e soggetta alla legislazione governativa in proposito. Ogni fonte di scintille era vietata nelle nuove diramazioni, perché si temeva sempre la presenza di gas metano. Privo di colore, inodore, individuabile solo con una lampada di sicurezza, il metano rappresentava un pericolo tremendo; una concentrazione del nove per cento nell'aria infatti formava un composto altamente esplosivo. Trasportati tutti gli attrezzi all'imboccatura del nuovo tunnel, allacciate le tubature dell'aria e dell'acqua e riposto l'esplosivo negli armadietti di sicurezza, la sera del 23 ottobre 1968, trenta minuti dopo il brillamento generale della miniera, Davy Delange e la sua squadra si apprestarono a dare inizio ai lavori. Davy, con il piccolo capomanovale al suo fianco, si fermò di fronte alla parete su cui era tracciato il profilo del nuovo tunnel, mentre i trivellatori spingevano i massicci martelli pneumatici. «Tutti ai vostri posti.» Davy indicò a ognuno di loro il punto in cui iniziare, poi si fece da parte. «"Shaya"!» ordinò, e con un rumore assordante le macchine entrarono in azione. Completati i fori per le mine, Davy piazzò le cariche. Le micce pendevano dai buchi come minuscole code di topo; la loro lunghezza era regolata in modo da assicurare l'esatta sequenza di fuoco. «Sgombrare!» ordinò alla squadra il capomanovale, sottolineando il comando con una lunga nota lacerante del suo fischietto. Si udì un frettoloso calpestio di scarponi pesanti, poi il silenzio tornò a regnare in quell'atmosfera trattata chimicamente. «"Cheesa"!» Davy e il capomanovale diedero fuoco alle micce. Alla luce azzurrognola le ombre gigantesche dei due tremolarono in maniera grottesca sulla parete di roccia. «Tutte accese. Andiamo!» Davy e l'altro si allontanarono rapidamente raggiungendo il resto della squadra nella galleria principale. La detonazione fu assordante e lo spostamento d'aria compresse i polmoni degli uomini. Davy controllò l'ora. Per legge bisognava attendere mezz'ora prima di tornare sul luogo dell'esplosione. Poteva esserci una miccia in ritardo, pronta a far saltare le cervella a qualche imprudente. A parte questo pericolo, sul luogo dello scoppio era ancora presente la nube di gas nitrosi altamente tossica, che avrebbe intaccato il naso, e le vie respiratorie dei minatori. Trascorsi i trenta minuti, Davy si avventurò, da solo, lungo il passaggio reggendo in mano una lampada di sicurezza. La sottile fiamma azzurrognola ardeva dietro lo schermo protettivo di fine maglia d'ottone. Si fermò di fronte alla breccia circolare apertasi nella parete e fece un controllo. No, nessuna traccia di metano. Davy spense la lampada soddisfatto. «Capomanovale!» urlò, e il piccolo swazi arrivò srotolando un tubo flessibile. «Innaffia!» Solo quando l'anfratto fu grondante d'acqua, Davy ritenne che la polvere si fosse posata a sufficienza per chiamare il resto della squadra, e iniziare l'opera di consolidamento e sgombero della galleria. «Sbarristi!» gridò, e gli uomini arrivarono reggendo delle specie di palanchini di dimensioni gigantesche lunghi tre metri e mezzo circa. «Al lavoro, ragazzi! Ripulite tutto per bene!» E gli sbarristi si lanciarono all'attacco dei cumuli e degli spuntoni rocciosi sconnessi che minacciavano di franare sgretolandosi dalla parete sospesa. Impugnavano le aste d acciaio in due, e le punte metalliche cozzavano contro la roccia sprigionando spruzzi di scintille. I frammenti cominciarono a piovere sul fondo dello squarcio, e si fecero via via più radi, finché il soffitto del tunnel non fu di nuovo una massa solida e compatta. Solo allora Davy si arrampicò sul mucchio di detriti e cominciò a segnare i punti di brillamento sulla parete frontale, mentre gli
addetti allo sgombro della roccia e le squadre di perforazione si apprestavano a entrare in azione. Quella notte riuscirono a portare a termine tre brillamenti e Davy riemerse nella luce dell'alba, venata di riflessi rosa, piuttosto soddisfatto del suo lavoro. "Forse stasera riusciremo a farne quattro", pensò. Lavatosi e vestitosi in fretta si diresse al parcheggio verso la sua vecchia e scassata Ford Anglia, stanco ma felice. Era pronto a ficcarsi a letto non appena calmata la fame. Mentre raggiungeva la periferia di Kitchenerville, Davy incrociò l'auto di Johnny che sfrecciava nella direzione opposta suonandogli il clacson. «Si farà beccare un'altra volta.» Davy scosse il capo in segno di disapprovazione. «C'è un limite dei settanta su questo tratto.» Parcheggiò l'Anglia in garage ed entrò dalla porta della cucina. La cameriera bantu era ai fornelli. «Tre uova» le disse e proseguì verso la sua camera da letto. Si tolse la giacca, gettandola sul letto, poi tornò nel corridoio lanciando rapide occhiate intorno a sé. Era deserto, si sentivano solo i rumori della cameriera in cucina. Davy sgattaiolò verso la porta socchiusa della camera di Johnny trattenendo il respiro, il cuore che gli pulsava in gola per l'ansia e l'eccitazione. Sbirciò nella stanza e sussultò, lasciandosi sfuggire un rantolo strozzato. Quella mattina lo spettacolo era migliore del solito. Hettie era una che dormiva sodo, non si alzava mai prima delle dieci e mezzo. E non indossava niente a letto. Era coricata bocconi, stringendo un cuscino al petto, la massa scomposta dei suoi capelli rossicci spiccava sulle lenzuola verdi spinte da parte, in disordine, nel caldo mattino. Hettie biascicò qualcosa nel sonno, rannicchiò le ginocchia e ruotò lentamente sulla schiena, sollevando un braccio per poi lasciarlo ricadere mollemente sul viso. La sua figura slanciata, di un bianco vellutato, con quel seno rigoglioso e il triangolo di peli lucenti ramati, si contorse languidamente per poi rituffarsi nell'immobilità del sonno. «Colazione pronta, padrone» avvisò la cameriera dalla cucina. Davy sussultò con aria colpevole, e ridiscese il corridoio, accorgendosi con sorpresa che stava ansando come se avesse appena fatto una lunga corsa. 46. Johnny Delange era appoggiato alla parete della galleria principale, in attesa. Giù allo scavo iniziò la serie delle detonazioni. Johnny le riconobbe a una a una e quando lo spostamento d'aria cessò, si staccò dalla parete puntellandosi con la spalla. «Queste erano le cariche finali di assestamento» disse. «Andiamo, Big King!» Johnny Delange non era il tipo che aspettava i trenta minuti regolamentari. Assieme al negro, che portava con sé il tubo per innaffiare, avanzò lungo il tunnel. I due si proteggevano il naso e la bocca con fazzoletti. Arrivati sul luogo dell'esplosione, Johnny si piegò a controllare la lampada di sicurezza. Anch'egli nutriva un profondo rispetto per il metano. «Forza con le spranghe!» gridò, senza aspettare che Big King avesse finito di bagnare l'area. La squadra avanzò come un gruppo di fantasmi nella polvere ancora fitta. Correndo rischi calcolati Johnny riusciva a guadagnare tre quarti d'ora sul fratello a ogni brillamento. Quand'ebbe terminato di piazzare le cariche e di innescare le micce, ridiscese lo scavo e trovò il suo gruppo ancora alle prese con un enorme blocco di roccia che si era staccato dalla parete. Big King stava riprendendo i cinque uomini, aspramente. «Mi sembrate un branco di bambine che macinano il miglio. "Shaya"! Tutti insieme non riuscireste neanche a rompere il guscio di un uovo. Forza! Picchiate!» Ma uno alla volta gli uomini caddero a terra spossati, lucidi di
sudore, respirando a fatica e abbandonando le mazze. «Bene» intervenne Johnny. Quel masso impediva ai lavori di avanzare. «Lo farò saltare io.» Se un ispettore governativo avesse sentito quelle parole sarebbe impallidito. «State indietro e voltatevi dall'altra parte» ordinò Big King alla squadra; poi tolse dalla fronte di un uomo un paio di occhialoni a rete metallica, che servivano a proteggere gli occhi dalle schegge di roccia, per passarli a Johnny. Johnny li infilò e prese un candelotto di Dynagel. «Dammi il tuo coltello.» Big King gli porse un grosso coltello a serramanico. Johnny tagliò dal candelotto una fetta di esplosivo spessa poco meno di un centimetro e ordinò: «Sta' indietro.» Piazzò il pezzetto di Dynagel al centro del macigno, abbassò i grossi occhiali protettivi e impugnò una mazza da sei chili e mezzo. «Attenzione agli occhi» gridò, e sollevata la mazza la calò con forza sull'esplosivo. L'esplosione in quello spazio angusto fu assordante. La guancia di Johnny era segnata da un rivolo di sangue prodotto da una scheggia, e i polsi gli dolevano per il rinculo del pesante martello. «"Gwenyama"!» grugnì Big King con ammirazione «Quest'uomo è un leone.» L'esplosione aveva spaccato il masso in tre. Asciugandosi il sangue sulla guancia Johnny disse: «Su accidenti, togliete questa roba dai piedi.» Poi si rivolse a Big King. «Vieni. Aiutami a riempire le camere di scoppio.» I due lavorarono rapidamente, infilando i candelotti nei fori e comprimendoli all'interno. Big King non avrebbe potuto svolgere quell'operazione, non era infatti in possesso del brevetto di incaricato agli esplosivi; ma con il suo aiuto si risparmiava un buon quarto d'ora. Quel giorno Johnny e la sua squadra avevano portato a termine cinque brillamenti, ma, mentre risalivano in superficie, Delange non era soddisfatto. «Domani ne faremo sei» disse a Big King. «Forse sette» rispose il negro. Quando rientrò, Hettie lo aspettava nell'anticamera. Gli balzò incontro gettandogli le braccia al collo. «Mi hai portato un regalo?» chiese la ragazza, e Johnny le rispose con un sorrisetto stuzzicante. Era rarissimo che lui tornasse a casa a mani vuote. «Ce l'hai, allora!» esclamò, cominciando a frugargli tutte le tasche. «Eccolo!» ed estrasse dalla tasca interna della giacca di Johnny una scatoletta portagioie. «Oh!» Hettie l'aprì e mutò leggermente espressione. «Non ti piacciono?» le chiese Johnny, ansioso. «Quanto costano?» domandò lei, esaminando gli orecchini laccati che raffiguravano due pappagalli dai vivaci colori. «Be', sai Hettie, è la fine del mese, vedi... e, sono un po' a secco fino al giorno di paga, sai, e così non ho potuto...» balbettò Johnny, imbarazzato. «Quanto?» «Be', ecco... due rand e cinquanta.» «Oh, sono splendidi» disse Hettie. Ma perse subito qualsiasi interesse per gli orecchini e sbatté la scatola su una mensola, dirigendosi poi in cucina. «Ehi, Hettie. Che ne diresti se andassimo a Fochville? Là, ballano stasera. Andiamo a farci qualche twist, eh?» Hettie si voltò con l'espressione di nuovo felice. «Ma certo! Sì, sì, andiamo. Vado a cambiarmi!» e corse via. Davy uscì dalla sua stanza da letto per avviarsi al lavoro. «Ehi, Davy.» Johnny lo fermò. «Hai qualche soldo!» «Sei di nuovo al verde?» «Fino al giorno di paga.» «Porca miseria, Johnny. Hai preso più di mille rand all'inizio del mese. Già speso tutto?» «Il prossimo mese ne prenderò due o tremila. Su, dai, Davy! Prestamene cinquanta. Porto Hettie a ballare.»
47. Col trascorrere dei giorni Rod acquistava una fiducia sempre maggiore nelle proprie capacità e sapeva che la sua campagna per ridurre i costi di produzione stava dando risultati positivi anche se bisognava attendere le relazioni trimestrali per constatarne pienamente l'efficacia. Eppure non riusciva più a dormire bene, era preoccupato. Esistevano centinaia di piccoli problemi, questo rientrava nella norma; altri invece erano ben più seri. Quella mattina Herbert Innes, il direttore degli impianti di riduzione della Sonder Ditch, si era recato da lui. Rod aveva interrotto un particolareggiato resoconto di Innes sulla sua partita di golf domenicale chiedendogli di venire al sodo. «Okay, Herby. Qual è il problema?» «Abbiamo una perdita.» «Grossa?» «Abbastanza.» «Quanto, più o meno?» «Tra il lavaggio e la colata perdiamo quasi sei chili a settimana» «Sì. E' abbastanza grossa» aveva risposto Rod. Erano ventimila rand al mese. «Hai qualche idea?» «E già da un po' che va avanti questa storia, fin da quando c'era Frank Lemmer. Abbiamo provato di tutto.» Rod sapeva che il minerale, giunto in superficie, veniva pesato e campionato per stabilire una stima accurata del contenuto d'oro in base alla percentuale effettiva di recupero. Era quindi importante indagare su eventuali discrepanze. «Qual è la percentuale di recupero dell'ultimo trimestre?» aveva chiesto a Herby. «Novantasei e settantatré.» «Mi pare ottima.» Era impossibile recuperare tutto l'oro presente nel minerale grezzo ma Herby riusciva a estrarne ben il 96,73%. Il che significava che solo una minima parte dei sei chili mancanti finiva negli scarichi. «Va bene, Herby. Oggi pomeriggio verrò ai laboratori e daremo un'occhiata insieme. Forse con un paio di occhi in più riusciremo a scoprire dove sta il guaio» aveva deciso Rod. Si erano trovati alle due vicino ai silos all'imboccatura del pozzo dove il minerale grezzo veniva immagazzinato o smistato a seconda della sua classificazione in "aurifero" o "scarto". La roccia di scarto era trasportata da un nastro al lavatoio dove veniva risciacquata per staccare le poche particelle d'oro che conteneva. Herby aveva accostato le labbra all'orecchio di Rod, per farsi sentire nel frastuono continuo del minerale che veniva scaricato nei silos lungo uno scivolo di cemento. «Fin qui non mi preoccupo. Tutti sassi, e pochissimo luccichìo» aveva spiegato Herby, usando il gergo del reparto estrazione. Rod aveva annuito, seguendo Herby lungo la scaletta di acciaio. Avevano raggiunto una porta sotto i silos, ed erano entrati in un tunnel sotterraneo, molto simile alla galleria del livello 100. Anche lì c'era un enorme nastro trasportatore che riceveva costantemente un carico di minerale grezzo dai silos soprastanti. Rod ed Herby avevano proseguito lungo il nastro, fermandosi alcuni istanti presso una poderosa elettrocalamita sospesa al soffitto della galleria proprio sopra il nastro trasportatore. La calamita serviva a estrarre dal minerale tutti gli oggetti e i frammenti metallici che erano finiti accidentalmente in mezzo al contenuto dei silos. «Quanto materiale intrusivo recuperate?» aveva chiesto Rod. «La scorsa settimana, una decina di tonnellate» aveva risposto Herby, e prendendo Rod a braccetto lo aveva guidato attraverso una porta laterale. Erano usciti in un cortile che aveva tutta l'aria di essere un deposito di rottami di ferro. C'erano mucchi impressionanti di sbarre, spranghe, mazze, pale, chiavi inglesi, bulloni, punte di perforatrici, pulegge, e altri oggetti metallici contorti e irriconoscibili. Il tutto era arrugginito e ormai inutilizzabile.
Rod aveva serrato rabbiosamente le labbra. Quella era la prova inconfutabile del menefreghismo dei suoi uomini nei riguardi degli attrezzi di proprietà della compagnia mineraria. Quei cumuli di rottami rappresentavano uno spreco inutile di migliaia di rand ogni anno. «Ci penserò io a sistemare questo problema!» aveva sibilato Rod, a denti stretti. «Se uno di quegli affari finisse in un frantumatore, lo farebbe a pezzi» aveva spiegato con aria mesta Herby, riaccompagnandolo nella galleria del nastro trasportatore. Al termine del passaggio, il nastro si impennava verso l'alto, e i due ne avevano seguito il percorso lungo la passerella laterale. Erano saliti per almeno cinque minuti, e Herby sbuffava come una locomotiva. Attraverso le fessure sul fondo della passerella, Rod aveva notato che si trovavano ora a un'altezza di parecchi metri dal suolo. A questo punto, il nastro raggiungeva la cima di una torre e scaricava il minerale nelle bocche spalancate dei setacci, che provvedevano a dirottare i pezzi più grossi nei frantumatori. «Allora, vedi qualcosa?» aveva chiesto Herby, sarcastico. Rod gli aveva risposto con un largo sorriso. Avevano sceso una serie di scalette che parevano interminabili, tra il fragore assordante dei setacci e dei frantumatori, e finalmente erano arrivati a terra, per attraversare l'immensa sala delle macine, una costruzione di lamiera zincata delle dimensioni di un grosso hangar. La sala conteneva quaranta cilindri, simili alla caldaia di una locomotiva ma lunghi circa il doppio. Nel loro interno, delle sfere di acciaio polverizzavano il minerale grezzo proveniente dai setacci e dai frantumatori. Anche lì, il rumore dei macchinari era mostruoso, ed Herby e Rod non avevano tentato nemmeno di parlare, finché non avevano raggiunto la quiete relativa del primo reparto di estrazione. «Ecco, Rod. Questo è il punto in cui cominciano i problemi» aveva detto Herby indicando le tubature che provenivano dalla sala macine. «Lì dentro scorre una miscela densa di polvere e acqua, e c'è circa il quaranta per cento di oro puro.» «Immagino che sia impossibile mettere le mani in quei tubi e che abbiate già controllato se ci sono eventuali perdite, vero?» aveva chiesto Rod. L'altro aveva annuito. «E adesso dai un'occhiata qui, Rod.» Lungo una parete erano allineate delle gabbie d'acciaio a rete fitta, presso cui lavoravano alcuni inservienti bantu, addetti a regolare il flusso della preziosa miscela nelle tubature. All'interno delle gabbie, la poltiglia fangosa cadeva su una lastra inclinata di gomma nera dalla superficie ondulata. L'oro, grazie al suo peso specifico, si depositava proprio negli avvallamenti, e scendeva attraverso sottili fori in un raccoglitore. Rod aveva afferrato la parete di una gabbia, cercando di scuoterla, ma Herbie lo aveva fermato, ridendo. «No. Fatica sprecata. Sono l'unico che può entrare. Vuotiamo i raccoglitori ogni giorno.» Rod aveva dovuto ammettere che sembrava tutto assolutamente sicuro. Prima di uscire insieme a Herby aveva lanciato un'ultima occhiata ai quattro inservienti bantu assorti nel loro lavoro. No, quelli erano tipi accuratamente selezionati e controllati. «Soddisfatto?» gli aveva chiesto Herby. «Okay» aveva annuito Rod, poi era uscito con Herby dalla porta opposta, chiudendola a chiave. Non appena Rod e Herby si erano allontanati, i quattro lavoranti bantu si erano alzati dalle gabbie sostituendo l'espressione assorta con ghigni di sollievo. Uno di loro aveva detto qualcosa e tutti si erano messi a ridere, aprendo la cintura delle loro tute. Dalle due gambe dei pantaloni avevano estratto un filo di rame del diametro di circa mezzo centimetro e avevano cominciato a farlo scorrere attraverso la rete d'acciaio delle gabbie. Era occorso quasi un anno a Gamba Storpia per mettere a punto un sistema per estrarre l'oro da quei separatori così protetti. Il metodo che aveva trovato, come tutti i sistemi più efficaci e realizzabili, era estremamente semplice. Il mercurio assorbe l'oro come carta
assorbente in presenza d'acqua, e possiede anche un'altra proprietà: si può stendere sul rame con estrema facilità. E lo strato di mercurio che ricopre il rame non perde la capacità di assorbire l'oro. Così a Gamba Storpia era nata l'idea di ricoprire del filo di rame con mercurio. Il filo poteva passare facilmente attraverso le gabbie e raggiungere i separatori; e una volta ultimata l'operazione lo si poteva nascondere senza problemi nelle gambe dei pantaloni. Ogni sera Gamba Storpia ritirava i fili impregnati d'oro e ne distribuiva di nuovi ai suoi complici; poi, negli scavi abbandonati oltre il crinale, procedeva a bollire il mercurio perché liberasse il metallo prezioso. Erano passati quindi negli impianti di cianurazione, un posto finalmente tranquillo e lontano dal rumore degli altri macchinari, e Herby aveva spiegato a Rod il procedimento. «A questo punto l'oro libero è stato separato e ci resta il solfuro d'oro» aveva detto, offrendo a Rod una sigaretta, mentre s'incamminavano tra le massicce cisterne d'acciaio che occupavano una superficie di parecchi acri. «Lo pompiamo nelle vasche e aggiungiamo cianuro in modo da sciogliere l'oro formando una soluzione. Questa viene fatta passare attraverso della polvere di zinco, in cui l'oro si deposita, e alla fine dopo aver bruciato lo zinco ci resta il metallo puro.» Rod aveva chiesto: «Non è possibile rubarlo mentre è in soluzione?» Herby aveva scosso il capo. «A parte tutto il resto, devi tenere presente che il cianuro è un veleno mortale» aveva risposto, controllando l'orologio. «Le tre e venti. La colata è in corso, ormai. Che ne dici di fare una scappata fino in fonderia?» La fonderia era l'unica costruzione in muratura tra le tante di lamiera zincata, e sorgeva leggermente isolata dagli altri impianti di estrazione e riduzione. Le sue finestre erano piuttosto alte da terra, e protette da spesse sbarre. Giunti alla porta corazzata, Herby aveva suonato un campanello, e nella porta si era aperto uno spioncino. Erano stati riconosciuti immediatamente, e avevano potuto accedere in una gabbia di sbarre che si apriva solo quando la porta d'ingresso era chiusa. «Signor Ironsides, signor Innes, buongiorno» li aveva salutati la guardia, un poliziotto in pensione, con aria di scusa per le formalità imposte dal rigido sistema di sicurezza. «Firmate il registro, per favore.» I due avevano obbedito, e la guardia aveva rivolto un cenno d'assenso a un collega, che si era affrettato a far scattare l'interruttore del cancello elettronico che permetteva di entrare nella fonderia vera e propria. La parete opposta era occupata da una serie di fornaci di fusione. Il pavimento di cemento della sala era del tutto sgombro, tranne l'apparato meccanico del crogiolo automatico, e gli stampi. La mezza dozzina di tecnici addetti alla fusione non avevano nemmeno sollevato lo sguardo dal loro lavoro quando Rod e Herby si erano avvicinati. Le operazioni erano in fase avanzata; il crogiolo si era inclinato sui suoi bracci, e un rivolo di metallo liquido era colato nello stampo vuoto, sfrigolando, crepitando, sprizzando fumo e scintille rosse e azzurrognole mentre si raffreddava. C'erano già una cinquantina di lingotti pronti sul carrello accanto agli stampi. Ogni lingotto aveva le dimensioni di una scatola di sigari, forse leggermente più piccolo; ed aveva l'aspetto rugoso e un po' scabro di tutti i metalli appena fusi e non ancora lavorati. Rod si era chinato a toccarne uno. Era ancora caldo, e dava una lieve sensazione di unto al tatto; una caratteristica dell'oro nuovo. «Quanto vale?» aveva chiesto a Herby. Herby si era stretto nelle spalle. «Un milione di rand, all'incirca.» Rod aveva assunto un'espressione pensierosa. Per valere tanto, quel pezzo di metallo non aveva proprio nulla di eccezionale così a prima vista, si era detto. «E dopo la colata, qual è la procedura?» «Ogni lingotto viene pesato, marchiato e numerato» aveva risposto Herby, indicandogli quindi la massiccia porta circolare di una stanza blindata. «Stanotte l'oro verrà custodito là dentro, e domattina verrà
a prelevarlo un mezzo blindato della raffineria di Johannesburg.» Guidandolo verso l'uscita, Herby aveva soggiunto: «Il guaio, comunque, non sta qui. La perdita che ci spilla l'oro avviene prima che il minerale arrivi in fonderia.» «Lasciami riflettere sulla faccenda per qualche giorno» aveva detto Rod. «Poi ci incontreremo ancora e troveremo una soluzione.» Ripensando agli avvenimenti della giornata, Rod era incapace di prender sonno e fumava una sigaretta dopo l'altra. Sembrava proprio che esistesse un'unica soluzione. Avrebbe dovuto mettere un corpo di polizia bantu nei vari impianti di riduzione. Era un duello interminabile tra le compagnie minerarie e il loro personale addetto alla raffinazione dell'oro. Ogni volta che si scopriva una fuga del prezioso metallo iniziava una lotta destinata, a volte, a durare anche un anno. Alla fine, la Compagnia sarebbe riuscita a scoprire il trucco e ne sarebbero seguite pesanti sanzioni, in attesa che un altro cervello, ricco di inventiva, trovasse un nuovo sistema per alleggerire la miniera del prodotto lavorato. Rod spense la sigaretta e si girò su un fianco tirandosi la coperta sulle spalle. Il suo ultimo pensiero prima di addormentarsi corse al problema più grande che in quei giorni non cessava mai di assillarlo. I fratelli Delange avevano già scavato circa quattrocentocinquanta metri di galleria. Di questo passo avrebbero toccato il Grande Tuffo entro sette settimane. E allora anche l'oro che mancava sarebbe diventato una faccenda insignificante. 48. Mentre Rod Ironsides cercava di riordinare le idee prima di dormire, Big King stava bevendo in compagnia del suo socio d'affari e fratello di tribù Philemon N'gabai, alias Gamba Storpia. I due compari sedevano su un paio di poltroncine di bambù ormai scassate, in un acre odore di pipistrello, negli scavi abbandonati; di fronte a loro c'era una fiasca di "Jeripigo". Gamba Storpia riempì nuovamente il bicchiere di Big King, continuando a parlare di José Almeida, il portoghese, in termini di biasimo. «Sono già parecchi mesi, ormai, che volevo parlarti di questa faccenda» disse a Big King «ma ho atteso finché non sono stato in grado di preparare una trappola per quell'uomo. E' come un leone che depreda le nostre greggi, lo sentiamo ruggire nella notte e all'alba ne vediamo le tracce accanto alle carcasse dei nostri animali, ma non riusciamo a incontrarlo faccia a faccia. Ci ho pensato a lungo e alla fine mi sono detto: "Philemon N'gabai, non basta che tu sospetti di quell'uomo. E' necessario che tu veda coi tuoi occhi che quello sta mangiando le tue sostanze".» «Come, Gamba Storpia?» La voce di Big King era impastata, il livello della fiasca era sceso ormai a metà. «Dimmi come sorprenderemo quest'uomo. Io lo...» E mostrò un pugno che pareva un casco di banane. «No, Big King» l'interruppe Gamba Storpia, scandalizzato. «Tu non devi fargli del male. Come faremmo altrimenti a vendere il nostro oro? Dobbiamo solo dimostrare che ci sta imbrogliando e fargli capire che lo sappiamo. Poi tutto tornerà come al solito, ma in futuro lui ci pagherà fino in fondo.» Big King rimase un po' pensieroso, poi sospirò rassegnato. «Hai ragione, Gamba Storpia. Eppure mi sarebbe piaciuto...» E mostrò di nuovo il pugno. «Mi sono quindi rivolto a mio fratello che lavora per la Compagnia Bilanciai di Johannesburg, e lui mi ha procurato questo peso di precisione.» Gamba Storpia passò a Big King un cilindro metallico. «Stanotte, dopo che il portoghese avrà pesato il nostro oro, tu gli dirai: "E ora, amico mio, per favore metti questo sulla tua bilancia", e controllerai che la sua bilancia indichi il numero esatto. Poi, ogni volta che gli porteremo l'oro, prima di venderglielo, lui dovrà pesare il nostro peso.» «Ehi! Sei un tipo astuto, Gamba Storpia» disse Big King ridacchiando. Gli occhi di Big King
erano
appannati
e
iniettati
di
sangue.
Il
"Jeripigo" era un vino grezzo ma molto alcoolico e lui ne aveva scolato quasi una fiasca. Ora sedeva di fronte al portoghese nel retro dell'emporio e lo osservava versare la polvere d'oro sulla bilancia; una minuscola piramide giallognola che brillava smorta alla luce dell'unica lampadina che penzolava su di loro dal soffitto. «3487 grammi.» Almeida alzò lo sguardo verso Big King per ricevere conferma, mentre una ciocca di capelli neri e unti gli ricadeva sulla fronte di un pallore malsano. «Va bene» annuì il negro. In gola sentiva ancora il gusto acre del vino, forte quanto l'avversione che provava ora verso il portoghese. Ruttò. Almeida versò nuovamente l'oro nella bottiglia e fece per alzarsi dalla sedia. «Prendo i soldi.» «Aspetta!» disse Big King, ricevendo in risposta uno sguardo lievemente sorpreso. Tolse il peso dalla tasca e lo appoggiò sulla scrivania. «Pesalo sulla tua bilancia.» Gli occhi di Almeida osservarono il peso e corsero subito al volto di Big King. Il portoghese ricadde sulla sedia e cominciò a parlare, ma la voce gli mancò e dovette schiarirsi la gola. «Perché? C'è qualcosa che non va?» Improvvisamente si rese conto della mole del negro che gli stava di fronte, e ne avvertì il fiato che puzzava d'alcool. «Pesalo!» La voce di Big King era piatta, priva di rancore, come pure il suo viso, ma gli occhi fiammeggianti avevano un che di omicida. Di colpo, Almeida fu preda di un panico paralizzante; poteva immaginare cosa sarebbe successo una volta smascherato l'errore della sua bilancia. «Va bene» rispose, riuscendo a stento ad articolare le parole. La pistola era nel cassetto, vicino al suo ginocchio destro. C'era un colpo in canna, ed era inserita la sicura. Avrebbe impiegato un solo istante per toglierla, ma sapeva che non sarebbe stato necessario sparare, una volta trovatosi con l'arma in mano avrebbe riguadagnato il controllo della situazione. Ma se fosse stato inevitabile far fuoco, la calibro 45 sarebbe stata senz'altro in grado di fermare anche un gigante della taglia di Big King. "Legittima difesa", pensò Almeida febbrilmente. "Potrei dire che era un ladro. L'ho sorpreso e lui mi ha attaccato. Sì, legittima difesa". Avrebbe funzionato. Gli avrebbero creduto. Ma come arrivare alla pistola? Furtivamente o con una mossa improvvisa? C'era la scrivania tra di loro. Big King avrebbe impiegato alcuni secondi per capire le sue intenzioni e raggiungerlo. Sì, Almeida avrebbe avuto tutto il tempo necessario. Afferrò la maniglia del cassetto e lo aprì di scatto. La sua mano annaspò freneticamente all'interno e si chiuse, con un senso di trionfo da parte del portoghese, sul calcio dell'arma. Big King si avventò sulla scrivania come una valanga nera, rovesciando bilancia e oro sul pavimento. Ancora fermo sulla sedia, con la pistola in mano, Almeida fu rovesciato all'indietro, schiacciato dal peso del negro. Molti anni prima, Big King, lavorando in una spedizione di caccia grossa, aveva visto gli effetti delle armi da fuoco sulla carne degli animali uccisi e ora, vedendo un'arma in mano al bianco, aveva provato una paura folle come quella del portoghese. Con la sinistra afferrò il polso che impugnava la pistola, scuotendolo per farla cadere. La destra invece era stretta alla gola di Almeida. Big King scaricò istintivamente tutta la sua forza nelle due morse e a un certo punto sentì uno scricchiolìo, un rumore secco come quello di un guscio di noce spezzato. La pistola scivolò dalla mano di Almeida, afflosciatasi di colpo, e rimbalzò sul pavimento. Solo allora, Big King cominciò a riacquistare un barlume di quella lucidità che la paura aveva offuscato. Si rese conto che il portoghese era morto, giaceva immobile infatti, con il collo piegato in un angolo assurdo e gli occhi sbarrati in un'espressione di stupore. Dalle labbra gli usciva un filo di sangue. Big King indietreggiò verso la porta, lo sguardo colmo d'orrore inchiodato sul cadavere. Raggiunta la porta esitò, sopprimendo
l'impulso che lo spingeva a darsi alla fuga, e tornò alla scrivania. Per prima cosa raccolse il suo peso di controllo, poi cominciò a riunire la polvere d'oro rovesciata e i cocci della bottiglia rotta che ripose in due buste separate, trovate sulla scrivania. Dopo una decina di minuti, sgattaiolò nella notte uscendo dal retro dell'emporio. 49. Mentre Big King si affrettava verso i dormitori, Rod Ironsides continuava a girarsi nel letto già inzuppato di sudore. Rod era in preda a un incubo a cui non riusciva a sottrarsi. Era un incubo senza fine, immenso, di un colore verde, traslucido. Rod sapeva che era trattenuto solo da una barriera di vetro e si sentiva schiacciato e impotente al cospetto di quella cosa, gelida, baluginante. Improvvisamente nella parete di vetro si produsse una crepa, non più larga di un capello da cui stillò una goccia, un'unica grossa goccia a forma di perla. Splendeva come una gemma. Era la cosa più terrificante che Rod avesse mai visto in vita sua. Gridò nel sonno, cercando di avvertirli, ma la crepa si allargò e la goccia scivolò lungo il vetro seguita da un'altra e un'altra ancora... Improvvisamente dalla parete, con la repentinità di un'esplosione, si staccò una scheggia di vetro e l'acqua sgorgò in un getto spumeggiante tra le urla di Rod. Con un boato, l'intero muro crollò e un'onda gigantesca di acqua verde, increspata di bianco, si abbatté sibilando su di lui. Rod si svegliò di soprassalto, drizzandosi a sedere nel letto, con un urlo di orrore sulle labbra e il corpo madido di sudore. Gli occorsero alcuni minuti prima di calmare il battito impazzito del suo cuore, poi andò in bagno. Prese un bicchier d'acqua e lo alzò controluce. «Acqua! E' là dietro! Non mi sbaglio, è proprio là dietro!» Bevve e mentre era lì nudo col bicchiere in mano e sentiva il sudore che gli si asciugava freddo sulla pelle, gli balenò un'idea. Per quel che ne sapeva nessun altro aveva mai tentato una cosa del genere fino a quel momento, ma era pur vero che nessuno era stato così pazzo da spingersi in una trappola mortale come il Grande Tuffo. "Riempirò la parete superiore della galleria di esplosivo. Metterò subito al lavoro i due Delange. Poi, quando vorrò, potrò far saltare tutta quella maledetta roccia del soffitto per sigillare il tunnel". Rod fu stupito dall'intenso senso di sollievo che lo pervase e solo allora si rese conto di quanto quel problema lo avesse assillato. Uscì dal bagno e tornò a letto, ma sapeva che non sarebbe riuscito ad addormentarsi facilmente. Nella sua testa continuavano ad accavallarsi un'infinità di fatti e di idee, finché improvvisamente, pensò a Terry Steyner. Erano quasi due settimane che non la vedeva, da quando Manfred Steyner era tornato dall'Europa, per la precisione; solo un paio di frettolose telefonate che l'avevano lasciato con l'amaro in bocca. Cominciava a sentirne la mancanza, aveva tentato di consolarsi con un'altra ma tutto si era risolto in un fallimento. "Attento, Ironsides", si disse. "Non lasciarti rammollire, non perdere la testa per quella donna. Ricorda la tua promessa... Mai più!". Rod assestò il cuscino e si coricò. Terry aspettava, quasi immobile. Era l'una passata. Ormai lui sarebbe arrivato. Come mai le era successo in precedenza, quella notte Terry era bloccata dal terrore, una sensazione fredda e viscida che le prendeva la bocca dello stomaco. Eppure era stata fortunata. Da quando era ritornato da Parigi, Manfred non l'aveva più toccata. Due settimane... Ma non poteva durare. Sarebbe stato quella notte. Sentì il rumore dell'auto che arrivava e le venne la nausea. "Non posso farlo", decise. "Non più. Mai più. Non avrebbe dovuto essere così, ora lo so. Non è una cosa furtiva, sporca, orribile, è... è come... è come lo fa Rod". La porta della stanza si aprì piano piano. E lei si sentì disperata, braccata. «Manfred?» chiese Terry, bruscamente. «Sono io. Non preoccuparti» Manfred si avvicinò al letto slacciandosi
la vestaglia. «Manfred, mi spiace... Questo mese sono in anticipo» balbettò lei. Il marito si fermò, lasciando ricadere le braccia sui fianchi e rimanendo immobile. «Oh! Ero solo venuto a dirti» esitò cercando una scusa «che... che partirò per cinque giorni. Venerdì. Devo andare a Durban e a Città del Capo.» «Ti preparo io le valigie...» «Come? Oh, sì... grazie. Be', allora... buonanotte, Theresa» disse lui, chinandosi a baciarla frettolosamente su una guancia. «Buonanotte, Manfred.» "Cinque giorni", esultò Terry al buio. "Cinque giorni interi da sola con Rod". 50. L'ispettore Hannes Grobbelaar della polizia investigativa sudafricana stava parlando al telefono tenendo il ricevitore con un fazzoletto. Era un tipo alto, con un viso lungo dall'espressione triste, e un paio di baffi lugubri striati di grigio. «Compravendita d'oro... Sì. C'è un mucchio di polvere d'oro sparsa dappertutto, una bilancina da orefice, e un'automatica calibro 45 col caricatore pieno e la sicura ancora inserita. Sull'arma ci sono le impronte del morto... Sì, va bene, sì. Sembra che abbia il collo spezzato. Un po' di sangue su un labbro, ma nient'altro.» Un agente che rilevava le impronte si avvicinò alla scrivania e l'ispettore, continuando a parlare, si fece da parte per lasciarlo lavorare. «Impronte?... Ah, c'è pieno di impronte, ne abbiamo rilevate di almeno quaranta tipi diversi finora... No, lo prenderemo, va bene. Dev'essere un bantu che lavora alla miniera e noi abbiamo le impronte di tutti gli immigrati. E' solo questione di tempo, bisogna farle passare tutte e poi interrogare... Sì, lo prenderemo in un mese, questo è certo! Sarò di ritorno non appena avremo finito.» Riappese e guardò il corpo della vittima, sul pavimento. «Dannato bastardo» disse il sergente Hugo, accanto a Grobbelaar. «Se l'è cercata lui, comprando oro rubato.» Poi indicò una busta che aveva in mano. «Ho qui un mucchio di frammenti di vetro. Pare che sia il recipiente che conteneva l'oro. L'assassino ha cercato di far pulizia, ma non è stato un buon lavoro. Erano sotto la scrivania.» «Impronte?» «C'è solo un frammento grande a sufficienza, e porta una bella impronta. Potrebbe servire.» «Bene» annuì Grobbelaar. «Insistici sopra, allora.» Poi pensò malinconicamente a tutto il lavoro che l'attendeva. Ore, giorni, settimane di interrogatori e di controlli. Sospirò e con il pollice indicò il cadavere. «Va bene, con lui abbiamo finito. Di' ai ragazzi di venirlo a prendere.» 51. Rod aveva impiegato quasi due giorni per stendere la sua pianta di deflagrazione. L'angolo e la profondità dei fori delle mine erano studiati con estrema cura in modo da ottenere il massimo crollo possibile della parete sospesa; inoltre Rod aveva deciso di minare anche le pareti del tunnel con cariche a tempo che esplodendo dopo il crollo della parete avrebbero compresso tutti i detriti in una massa compatta. Rod era pienamente consapevole della spinta della massa d'acqua sotto pressione e sapeva che il suo progetto non avrebbe arrestato completamente l'infiltrazione. L'avrebbe ridotta comunque di quel tanto che bastasse per permettere alle squadre di cementazione di entrare in azione e sigillare definitivamente la galleria. I fratelli Delange non condivisero l'entusiasmo di Rod per quel progetto. «Ehi, ma così ci vorranno tre o quattro giorni per forare e caricare le mine» protestò Johnny quando Rod gli sottopose il piano
meticolosamente tracciato. «Un corno» borbottò Rod. «Voglio un lavoro ben fatto. Ci vorrà almeno una settimana.» «Lei aveva parlato di procedura veloce. Non di trivellare la parete sospesa come un pezzo di groviera!» «Be', ve lo dico adesso. E dopo aver fatto i buchi non li caricherete finché non verrò giù a controllarne la profondità. Non vorrei che cercaste di risparmiare sul tempo» ribadì Rod, che non si fidava assolutamente della sete di guadagno dei Delange. Non poteva correre rischi, perché se ci fossero stati degli errori lo avrebbero scoperto troppo tardi per rimediare. Davy intervenne parlando per la prima volta. «Ci accrediterà un premio di cubatura mentre noi ci sorbiamo questo lavoretto?» «Vi do sette metri di scavo d'abbuono» disse Rod. «Quattordici» ribatté Davy. «Eh no, accidenti!» esclamò Rod. Quello era proprio un furto. «Mmm, forse dovrei parlare a Duivenhage e chiedergli un parere» mormorò Davy con uno sguardo subdolo. Duivenhage faceva parte del sindacato dei minatori, era un tipo che a suo tempo aveva trascinato Frank Lemmer sull'orlo dell'esaurimento nervoso. No, l'ultima cosa che Rod desiderava era trovarsi tra i piedi Duivenhage mentre era in corso lo scavo verso il Grande Tuffo. «Dieci» disse Rod. «Be'...» Davy esitò. «Dieci mi pare giusto» intervenne Johnny, ricevendo un'occhiataccia dal fratello. «Bene, allora siamo d'accordo» concluse rapidamente Rod. «Vi metterete subito al lavoro.» Il progetto di Rod richiedeva quasi milleduecento fori in cui sarebbero state piazzate due tonnellate e mezzo di esplosivo. Il tunnel era spazioso, ben illuminato e discretamente fresco grazie all'impianto di aerazione. Tutti i lavori di scavo furono momentaneamente interrotti per concentrarsi sulla preparazione del piano di Rod. Non era un lavoro faticoso, e restava molto tempo per bere e per pensare. La mente di Davy era presa di continuo da tre pensieri fissi. Il primo era l'immagine di cinquantamila rand. Erano tutti suoi, netti di tasse, accumulati a fatica in anni di duro lavoro, e lui li vedeva in tanti mucchietti etichettati "David Delange". Poi la sua immaginazione passava automaticamente alla fattoria che avrebbe acquistato con quel denaro. Si vedeva al tramonto, seduto sotto un portico spazioso intento a guardare la mandria che rientrava. E c'era sempre una donna seduta accanto a lui. Una donna dai capelli ramati. Il quinto giorno Davy rientrò a casa all'alba senza sentirsi eccessivamente stanco. Era stata una nottata tranquilla. La porta della camera di Johnny e Hettie era chiusa. Facendo colazione, Davy diede una scorsa al giornale, concentrandosi completamente sulle avventure a fumetti di Modesty Blaise e Willie Garvin. Davy osservò il corpo di Modesty in bikini, confrontandolo mentalmente con quello di Hettie. Più tardi non riuscì a prender sonno e rimase a sognare a occhi aperti un'avventura in cui Modesty Blaise era diventata Hettie e Willy Gravin era lui. Dopo un'ora circa, Davy si alzò e cingendosi i fianchi con una salvietta si avviò verso il bagno. Allungò la mano sulla maniglia, ma la porta si aprì e lui si trovò di fronte a Hettie Delange. Lei indossava una vestaglia sottilissima di pizzo, era struccata e aveva raccolto i capelli sulla nuca con un nastro. «Oh! Mi hai fatto prendere uno spavento, Davy» esclamò sorpresa. «Mi spiace.» Lui le rivolse un largo sorriso e lei diede un rapido sguardo al suo torace nudo, muscoloso e coperto di peli ricciuti. «Ehi, non sei niente male» mormorò Hettie ammirata. «Dici?» Davy si sentì orgoglioso, e leggermente imbarazzato. «Sì.» Hettie si piegò in avanti e gli tastò un braccio. «Hai muscoli
sodi, anche!» Quel movimento aveva fatto sì che la vestaglia le si aprisse. Davy sbirciò nell'apertura arrossendo e tentò di dire qualcosa senza però riuscirci. Hettie gli si accostò lentamente. «Ti piaccio, Davy?» gli chiese con una voce roca e bassa. Davy, con un grugnito, le fu addosso, annaspando sulla vestaglia e inchiodandola al muro, con uno sguardo selvaggio e il respiro affannoso. Hettie rideva. Le piaceva da morire quando eccitava qualcuno fino a fargli perdere completamente la testa. «Davy...» disse, slacciandogli la salvietta. «Davy.» E continuò a dimenarsi per sfuggirgli, sapendo che si sarebbe eccitato ancora di più. Davy la sbilanciò, facendola scivolare sul pavimento. «No, aspetta» protestò Hettie, ansando. «Non qui... la camera da letto.» Ma ormai era troppo tardi. Davy passò il pomeriggio chiuso in camera sua, oppresso dal rimorso e dal senso di colpa. «Mio fratello» continuava a ripetere. «Johnny è mio fratello!» Arrivò perfino a piangere. «Proprio a mio fratello» scosse il capo lentamente, inorridendo incredulo. «No, non posso restare qui. Dovrò andarmene.» Mentre si risciacquava gli occhi arrossati, chino sul catino, Davy prese una decisione. "Devo dirglielo. Gli scriverò. Gli scriverò raccontandogli tutto, poi me ne andrò". Quella colpa era troppo grande per poterla sopportare da solo. Freneticamente cercò carta e penna, quasi sperasse di cancellare ciò che aveva fatto semplicemente mettendolo per iscritto. Sedette al tavolino accanto alla finestra e scrisse lentamente. Verso le tre aveva finito e si sentiva meglio. Chiuse le quattro pagine riempite di una scrittura fitta in una busta che ripose nella tasca interna della giacca; si vestì in fretta e sgattaiolò via di casa furtivo, per timore di incontrare Hettie. Salì sull'auto e partì subito alla volta della Sonder Ditch; voleva infatti raggiungere la miniera prima che Johnny smontasse dal suo turno di lavoro. Arrivato a destinazione, Davy si chiuse a chiave in un gabinetto degli spogliatoi, sedendosi abbattuto sulla tazza del water. Quando udì la voce del fratello che scherzava e rideva, mentre si cambiava insieme ai ragazzi della squadra, fu di nuovo sommerso dal senso di colpa. Tolse la lettera di confessione dalla tasca della tuta e la rilesse. «Ciao, allora. Ci vediamo domani, bastardi» fece allegramente, all'esterno, la voce di Johnny. Seguì un coro di risposta, poi la porta dello spogliatoio sbatté chiudendosi. Davy restò nel gabinetto per un'altra ventina di minuti, alla fine rimise in tasca la lettera e uscì. La sua squadra lo stava aspettando all'imbocco del tunnel in un'atmosfera quasi di festa perché sarebbe stato un altro giorno abbastanza tranquillo. Gli uomini salutarono Davy e il capomanovale gli passò la lampada di sicurezza. Lui la prese con un grugnito di ringraziamento e si incamminò con un andatura stanca e strascicata lungo la galleria, senza accorgersi di quello che faceva, la mente lontana tutta presa dal suo senso di colpa e dall'autocommiserazione. Giunto sul luogo degli scavi, Davy accese automaticamente la lampada di sicurezza. La fiammella azzurra baluginò dietro lo schermo protettivo. Davy alzò la lampada davanti agli occhi e avanzò con cautela; ma anche se i suoi occhi osservavano la fiamma, non la vedevano. Sembrava un sonnambulo. Ora, in preda all'autocommiserazione, si immaginava in un ruolo semieroico: uno dei grandi amanti della storia, vittima di circostanze tragiche. Gli occhi di Davy seguirono ciechi il solito rituale di controllo che precedeva l'inizio del turno di lavoro.
Lentamente, dietro lo schermo protettivo, la fiamma azzurra mutò forma. La punta si appiattì e sopra di essa si formò una pallida linea spettrale. Gli occhi di Davy notarono il cambiamento, ma il suo cervello si rifiutò di registrare il messaggio. La linea sopra la fiamma era chiamata "il cappuccio", e significava che il metano presente nell'aria era almeno il cinque per cento. L'ultimo foro scavato dalla squadra di Johnny era sbucato in una cavità piena di gas, e il metano si stava propagando da circa tre ore nel tunnel. L'aria intorno a Davy ne era satura, come del resto i suoi polmoni che l'avevano respirata. Bastava una sola scintilla per incendiarlo. Davy giunse in fondo alla galleria e spense la lampada. «Tutto a posto» mormorò senza accorgersi di aver parlato e tornò dai suoi uomini in attesa. «Tutto a posto» ripeté, e il gruppo avanzò di buon umore verso la zona di lavoro. Davy li seguì con aria cupa, mettendosi tra le labbra una Lexington filtro e frugando nelle tasche in cerca dell'accendino. Dispose tutti gli uomini ai propri posti e impartì le istruzioni necessarie; la sigaretta gli pendeva sempre dalle labbra, ancora spenta. Dopo venti minuti la squadra era pronta a iniziare. Davy si voltò a contemplare le coppie di corpi color ebano, piegate dietro i martelli pneumatici. Poi alzò le mani chiuse a coppa e fece scattare l'accendino. L'aria del tunnel si trasformò in una fiammata. L'esplosione divorò la pelle degli uomini, bruciò le pupille nelle orbite, li ridusse a brandelli carbonizzati di carne e di stoffa. In quell'istante, mentre la pelle gli veniva strappata dal viso e dalle mani, Davy Delange spalancò la bocca in una smorfia agonizzante, e la fiammata gli divampò in gola raggiungendo i polmoni saturi di metano. Il suo torace esplose come un sacchetto di carta e le costole sbocciarono attorno alla mostruosa ferita come i petali di un girasole. Quarantun uomini persero la vita nello stesso istante. Mezz'ora dopo, il dottor Dan Stander e Rod Ironsides furono i primi a metter piede nella galleria. Il puzzo di carne bruciata era insopportabile ed entrambi dovettero soffocare a fatica il vomito mentre proseguivano all'interno. 52. Dan Stander sedeva alla scrivania del suo studio nell'ospedale della miniera, e sembrava invecchiato di dieci anni rispetto alla sera prima. Dan invidiava i suoi colleghi per il modo distaccato con cui riuscivano a compiere il loro lavoro, cosa che a lui invece non era mai riuscita. Aveva appena finito di esaminare tutte le salme per stilare i certificati di morte. Dan lavorava alla miniera da quindici anni, quindi era abituato a trovarsi di fronte alla morte anche nelle sue forme più ripugnanti, ma questo era il caso peggiore che gli fosse mai capitato. Quarantun uomini rimasti vittime di ustioni orrende e dilaniati dall'esplosione. Si sentiva completamente svuotato da quella bruttura. Si massaggiò le tempie ed esaminò il vassoio di effetti personali che aveva di fronte. Era il contenuto delle tasche di Davy Delange. Estrarlo dagli abiti del morto era stata un'operazione disgustosa perché la stoffa si era fusa nella carne. C'era un mazzo di chiavi, un temperino con l'impugnatura d'osso, un accendino Ronson, tolto dalla mano carbonizzata della vittima, un portafogli di antilope, e una busta aperta con un angolo bruciato. Dan aveva già passato gli effetti delle vittime bantu all'agenzia di reclutamento, che avrebbe provveduto a inviarli alle rispettive famiglie. Con un sospiro di disgusto raccolse il portafogli e lo aprì. In una tasca c'erano una mezza dozzina di francobolli e cinque rand in banconote. L'altra metà era rigonfia di carte. Ricevute varie, ritagli di giornale con inserzioni di vendite di fattorie, una pagina piegata del "Farmers' Weekly" che trattava dell'allevamento del bestiame da latte, e un libretto di risparmio della Banca di Johannesburg. Dan aprì il libretto e leggendo la somma depositata si lasciò sfuggire
un fischio. Dietro la copertina di cartoncino del libretto bancario era infilata una busta gualcita. Dan guardò nell'interno e fece una smorfia di disgusto. Si trattava di una serie di fotografie. Quelle che circolavano lungo i docks del porto di Lourenço Marques. Era proprio il tipo di materiale che cercava; voleva infatti risparmiare ai parenti della vittima quella misera dimostrazione di debolezza umana. Bruciò le fotografie, andò ad aprire la finestra per lasciare uscire l'odore del fumo, quindi passò a controllare la lettera contenuta nell'altra busta. "Caro Johnny, quando il babbo è morto tu eri ancora piccolo, e io ti ho sempre considerato più un figlio che un fratello. Be', Johnny, ora credo proprio di doverti dire una cosa.... Dan lesse lentamente e non sentì entrare Joy. La donna si fermò un attimo sulla porta, poi si avvicinò, silenziosa, alla scrivania e lo baciò su un orecchio. Dan ebbe un sussulto. «Caro, che c'è di tanto interessante da non accorgerti del mio arrivo?» Dan ebbe un istante di esitazione poi disse: «Ieri notte è morto un uomo in un incidente pauroso. Aveva in tasca questa.» Diede la lettera a Joy, che lesse lentamente. «Voleva mandarla a suo fratello?» chiese lei alla fine. Dan annuì. «Che puttana!» mormorò Joy. «Chi?» fece lui, sorpreso. «La ragazza... è stata colpa sua. Le starebbe proprio bene se tu dessi la lettera a suo marito!» «Vuoi dire che non dovrei?» chiese Dan. «Non abbiamo il diritto di sostituirci a Dio.» «Ah no?» fece Joy e stracciò minutamente la lettera, gettandola poi tra la carta straccia. «Sei meravigliosa, Joy. Vuoi sposarmi?» «Ho già risposto a questa domanda, dottor Stander.» E lo baciò di nuovo. 53. Hettie Delange era agitatissima. Era cominciato tutto con la telefonata che aveva svegliato Johnny. Lui era uscito accennando a un guaio giù al pozzo della miniera, lei invece si era riaddormentata tranquillamente. Dopo alcune ore Johnny era rientrato, sedendosi sul bordo del letto con la testa china e le mani serrate sulle ginocchia. «Che c'è? Su, vieni a letto. Non startene lì seduto» aveva detto Hettie in tono brusco. «Davy è morto.» La voce di Johnny era spenta. Hettie aveva avvertito una contrazione nervosa al ventre e si era svegliata di colpo, provando subito un'ondata di intenso sollievo. Davy era morto. Tutto si era risolto nel modo più semplice! Era da quando era avvenuto quel fatto che lei era preoccupata. Non avrebbe dovuto cedere a quel momento di debolezza; ma poi, in seguito, la paura delle conseguenze l'aveva perseguitata. Hettie temeva che Davy continuasse a farle gli occhi dolci e finisse col tradirsi davanti a Johnny. No, una volta era stata più che sufficiente, anche se era stato piacevole. E lei non voleva che la cosa si ripetesse. Adesso invece era tutto sistemato. Davy era morto. «Sei sicuro?» aveva chiesto a Johnny, ansiosa. «L'ho visto!» Johnny era rabbrividito. «Oh, è terribile!» Hettie si era ricordata del suo ruolo di moglie e aveva abbracciato Johnny. «Per te dev'essere proprio terribile.» Quella notte non le era più riuscito di riaddormentarsi. Il pensiero di Davy che passava direttamente da lei alla morte aveva un che di eccitante. Come in certi film o in alcuni libri dove lui era il pilota appena abbattuto, e lei la sua ragazza. Stavano spuntando le prime luci dell'alba. Johnny si agitava nel letto, accanto a lei. Hettie lo svegliò e gli chiese: «Com'era, Johnny?» Lui fu scosso di nuovo da un brivido, poi cominciò a raccontarle
l'accaduto e le condizioni della vittima con voce rotta dall'emozione e frasi slegate. Quando ebbe finito, Hettie tremava per l'eccitazione. «Oh, ma è orribile» continuava a ripetere. «Davvero orribile!» Poi si strinse al marito e fece l'amore con lui, scoprendo che non le era mai piaciuto tanto come in quel momento. La mattinata fu un susseguirsi di telefonate e di visite da parte delle sue amiche. Vennero perfino un giornalista e un fotografo del "Johannesburg Star"; Hettie fu sempre al centro dell'attenzione e non si stancò di continuare a ripetere la tragedia in tutti i suoi macabri particolari. Dopo pranzo arrivò Johnny in compagnia di un ometto vestito di nero che reggeva in mano una valigetta diplomatica. «Hettie, questo è il signor Boart, l'avvocato di Davy. Deve dirti qualcosa.» «Signora Delange, mi permetta di porgere a lei e a suo marito le mie più sentite condoglianze per la disgrazia che vi ha colpito.» «Sì, è stata una cosa terribile, vero?» Hettie non si sentiva tranquilla. Temeva che Davy avesse detto qualcosa al suo avvocato, e che ne potessero nascere conseguenze spiacevoli. «Suo cognato ha lasciato un testamento di cui io sono l'esecutore. Il signor Delange era un uomo ricco. I suoi beni superano i cinquantamila rand. Di questo patrimonio, lei e suo marito siete i soli beneficiari.» Hettie assunse un'espressione dubbiosa. «Io non... cosa vuol dire beneficiari?» «Significa che lei e suo marito vi dividerete l'eredità.» «La metà di cinquantamila rand è per me?» chiese Hettie piacevolmente stupita. «Esattamente.» «Eh, accidenti! E' favoloso!» Hettie resistette a fatica finché l'avvocato e Johnny non furono usciti, poi telefonò subito alle amiche che tornarono a prendere un altro caffè. «Venticinquemila rand» continuarono a ripetere. «Accidenti, dovevi piacergli molto, Hettie» commentò una di loro, e Hettie abbassò lo sguardo riuscendo ad assumere un atteggiamento misterioso e afflitto. Johnny tornò a casa dopo le sei, barcollando e col fiato che puzzava d'alcool. Riluttanti, le amiche di Hettie se ne andarono, ma quasi immediatamente, quando il campanello suonò, lei ebbe il suo vero trionfo. Si trattava del direttore generale della Sonder Ditch in persona che veniva a trovarli. «Signor Ironsides è molto gentile da parte sua essere venuto.» Quando Hettie condusse Rod nel soggiorno, Johnny alzò lo sguardo ma non si mosse per salutare. «Salve, Johnny» disse Rod. «Sono venuto a dirti che mi spiace davvero per Davy e che...» «Basta con queste scemenze» sbottò Johnny. «Johnny» sussultò Hettie «non puoi parlare così al signor Ironsides!» Poi si rivolse a Rod. «Lo scusi, ma ha bevuto.» «Vattene di qui. Fila in quella maledetta cucina, è lì il tuo posto» le urlò Johnny. «Ma Johnny...» «Vattene!» ruggì il marito accennando ad alzarsi, e Hettie uscì dalla stanza. Johnny barcollò fino al mobile bar, versò un po' di whisky in due bicchieri e ne porse uno a Rod. «Dio aiuti mio fratello!» disse. «A Davy Delange, uno dei migliori spaccaroccia di Kitchenerville» brindò Rod. «Il migliore!» lo corresse Johnny. Tracannò il liquore in un solo sorso, poi si chinò in avanti fissando Rod negli occhi. «Lei è venuto per sapere se sono disposto a terminare la sua maledetta galleria o se intendo mollare. A lei non interessa nulla di Davy, né di me. C'è solo una cosa che la preoccupa... che le interessa... la sua sporca galleria.» Johnny si riempì ancora il bicchiere. «Be', ascolti attentamente cosa ho da dirle, amico. Johnny Delange non molla. Quella galleria si è presa mio fratello, ma io la fregherò.
Quindi non si preoccupi... vada a casa e dorma tranquillo, perché Johnny Delange, domani mattina, sarà di nuovo al lavoro, a spaccare la roccia.» 54. Una Rolls-Royce Silver Cloud era parcheggiata tra gli alberi nella mattina nebbiosa, accanto alla pista d'allenamento. L'autista in uniforme si allontanò dalla vettura lasciando gli occupanti nel più assoluto riserbo. I due uomini sedevano sul sedile posteriore, riparandosi dal freddo con una coperta d'angora stesa sulle ginocchia. Sul tavolino pieghevole di fronte a loro c'erano un thermos di caffè, alcune tazzine di fine porcellana e un vassoio di panini al prosciutto. Il tipo grasso mangiava di gusto, innaffiando ogni boccone con un sorso di caffè caldo; l'ometto pelato, invece, stava fumando nervosamente una sigaretta e osservava i cavalli dal finestrino. Gli stallieri li stavano facendo andare al passo in cerchio, mentre i fantini ascoltavano l'allenatore, tutto preso, che stava impartendo le istruzioni. «Un servizio davvero eccellente» disse l'ometto. «Ho apprezzato particolarmente la sosta a Rio. E' la prima volta che ho potuto visitarla.» Il tipo grasso rispose con un grugnito. Era seccato. Non avrebbe dovuto mandare quell'agente. Era un segno di sospetto e di sfiducia che avrebbe seriamente ostacolato la sua operazione. L'allenatore finì di parlare ai fantini, che montarono in sella, e si diresse verso l'auto. «Buongiorno, signore» disse attraverso il finestrino aperto. L'uomo grasso rispose con un altro grugnito. «Gli faccio fare un giro completo» riprese l'allenatore. «Emerald Isle farà l'andatura fino ai seicento, Pater Noster fino al miglio e Tiger Shark lo tirerà sulla dirittura finale.» «Molto bene.» «Forse gradisce tenere il tempo, signore.» L'allenatore gli porse un cronometro e il tipo grasso parve riacquistare le buone maniere. «Grazie, Henry. Mi sembra in buona forma, direi.» «Oh! E' una bomba! Per sabato sarà pronto e filerà come un treno.» L'allenatore si rialzò e si allontanò dicendo: «Li faccio partire, allora.» «Ha un messaggio per me?» chiese il tipo grasso all'ospite. «Naturalmente. Non sono venuto in volo fin qui per vedere un paio di ronzini trotterellare in pista.» «Vorrebbe comunicarmelo, allora?» Il tipo grasso nascose un'espressione offesa, perché quelli erano tutt'altro che ronzini, anzi appartenevano a una delle migliori razze equine dell'Africa. «Vogliono sapere qualcosa di questa esplosione di gas.» «Oh, nulla. Un incidente dovuto alla negligenza del capominatore di turno. Ci sono state alcune vittime, ma nessun danno ai lavori» rispose il tipo grasso, con un gesto disinvolto della mano. «Avrà conseguenze per il nostro piano?» «Assolutamente no!» I due cavalli intanto erano partiti. Il baio allo steccato avanzava con azione fluida mentre lo storno faticava per stargli di fianco. «I miei principali sono molto preoccupati.» «Be', non ne hanno proprio motivo» sbottò il tipo grasso. «Le ripeto che non è successo nulla.» «L'esplosione di gas è dovuta per caso a un errore di valutazione di questo Ironsides?» «No. La colpa è stata del capominatore di turno. Avrebbe dovuto rilevare la presenza di gas.» «Peccato. Speravamo si trattasse di una mancanza di Ironsides.» L'ometto calvo scosse il capo, rincresciuto. «E perché mai dovreste preoccuparvi della carriera di Ironsides?» «Ci sono giunte voci allarmanti. Quell'uomo non è una pedina da muovere a piacimento. Sta prendendo la sua funzione di direttore generale con una serietà impressionante. Le nuove fonti ci hanno
comunicato che ha già ridotto i costi di produzione della Sonder Ditch del due per cento. Pare che sia un individuo instancabile, ricco di inventiva, in poche parole uno di cui si deve tener conto.» «Benissimo» concesse l'altro. «Tuttavia non riesco ancora a capire perché i suoi... ehm... principali debbano allarmarsi. Credono forse che possa arrestare l'inondazione solo con la forza del carattere?» Nel frattempo il baio aveva staccato i primi due cavalli allenatori lasciandoli esausti, e si trovava ora alle prese con un terzo. «Io non mi intendo di cavalli» disse il tipo calvo indicando i due animali che sfrecciavano in lontananza. «Ma ho avuto modo di osservare quello» e indicò con la sigaretta il baio. «L'ho appena visto sfiancare gli altri due tranquillamente. Noi lo chiameremmo un cavallo eccezionale che non si può giudicare secondo gli standard comuni. Be', esistono anche uomini di questo tipo, uomini imprevedibili. Riteniamo che Ironsides appartenga a questa categoria, e la cosa non ci rallegra. Non ci piace trovarcelo di fronte dall'altra parte della barricata. Ironsides sarebbe capacissimo di mandare all'aria l'intera operazione, non con la sola forza della sua personalità, come avete detto voi, bensì con un'uscita inaspettata, con un comportamento particolare che non abbiamo previsto.» I due restarono in silenzio a osservare i cavalli che affrontavano l'ultima curva per lanciarsi lungo il rettilineo finale. «Guardi, adesso» disse il tipo grasso, e quasi in risposta alle sue parole il baio allungò decisamente il passo staccando l'altro e tagliando il traguardo con almeno cinque lunghezze di vantaggio. «E non si è neanche disteso al massimo!» esclamò trionfante, controllando il cronometro con una risatina soddisfatta. Poi, diede un colpetto sul finestrino e l'autista ritornò alla vettura prendendo posto al volante. «Al mio ufficio» ordinò l'uomo grasso «e alza il divisorio.» Quando il pannello di vetro isolante fu chiuso, l'uomo riprese: «E così, caro amico, considerate Ironsides un elemento imprevedibile. Cosa volete che faccia di lui?» «Se ne sbarazzi.» «Non intenderete alla lettera, vero?» chiese il tipo grasso, inarcando le ciglia. «No. Niente di così drastico. Lei ha letto troppo James Bond. Deve semplicemente fare in modo che Ironsides sia molto lontano e occupato quando perforeranno il Grande Tuffo, altrimenti esistono ottime probabilità che intervenga e vanifichi tutte le nostre buone intenzioni.» «Sì, credo che la cosa sia fattibile» rispose il tipo grasso, e prese un altro panino. 55. Come aveva promesso, Manfred prese il volo notturno di venerdì per Città del Capo. Sabato sera Rod e Terry, correndo il rischio di farsi riconoscere, passarono la serata al Kyalami Ranch Hotel dove cenarono e ballarono prima di tornare a casa di Rod verso mezzanotte. All'alba del giorno successivo, Rod svegliò Terry colpendole scherzosamente il posteriore nudo con i giornali della domenica stretti a mo' di randello, e diede l'avvio a una rissa rumorosa. Un cuscino partì in volo facendo staccare un quadro dalla parete, un tavolino si rovesciò, e le urla e le risate raggiunsero vertici così elevati che a un certo punto dall'appartamento del piano superiore provenne una serie di battiti di protesta indignati. Terry rivolse un gesto di sfida al soffitto, poi ansando lei e Rod si abbandonarono sul letto per dedicarsi a un'attività faticosa e spossante quanto la rissa, se non altrettanto chiassosa. Più tardi, molto più tardi, passarono a prendere Melanie, e trascorsero un'altra domenica insieme all'allevamento di cavalli sul fiume Vaal. Melanie provò addirittura a cavalcare; era la prima volta che lo faceva, e fu un'esperienza a dir poco traumatica. Dopo pranzo, si concessero una lunga gita in motoscafo, e Terry e Rod ne approfittarono per sciare a turno sull'acqua. Era già calata la sera quando Rod riconsegnò alla madre la bambina addormentata.
«Chi è questa Terry di cui Melanie continua a parlare?» gli chiese Patti ancora imbronciata per la sua recente promozione. «Terry?» Rod si finse stupito. «Pensavo che tu lo sapessi.» E se ne andò sotto lo sguardo infuocato della moglie. Terry era rannicchiata sul sedile della Maserati; solo la punta del naso sbucava dalla folta pelliccia che indossava. «Ironsides, sai che voglio bene a tua figlia?» mormorò. «A quanto pare la cosa è reciproca» rispose Rod. Terry gli posò una mano sul ginocchio. «Non sarebbe bello che anche noi avessimo una bambina tutta nostra, un giorno?» «Oh, sì. Veramente» annuì Rod, e quasi subito si rese conto che non lo aveva detto soltanto per non contraddire Terry, ma che lo pensava sul serio. Stava ancora pensando a questo fenomeno sorprendente quando arrivò nel garage di casa e scese dall'auto per aprire la portiera a Terry. Manfred Steyner osservò la moglie che usciva dalla vettura e alzava il viso verso Rod Ironsides. Lui si chinò a baciarla poi, chiusa la Maserati, si avviò con Terry a braccetto all'ascensore. «La Paterson Investigazioni consegna sempre la merce a domicilio» disse l'uomo al volante della Ford nera, parcheggiata in un angolo buio del garage. «Gli concederemo una mezz'ora per mettersi comodi, poi saliremo a bussare.» Manfred Steyner sedeva immobile, senza batter ciglio, accanto al detective. Era rientrato a Johannesburg da circa tre ore convocato appunto dall'agenzia investigativa. «Io scendo qui. Lei mi aspetti sull'angolo di Clarendon Circle» disse Manfred. «Ehi? Non vuole...?» Il detective rimase sorpreso. «Faccia come le dico.» Il tono di Manfred era aspro e deciso, ma l'altro insisté. «Le serviranno delle prove... in tribunale ha bisogno di me, come testimone...» «Via, se ne vada!» Manfred scese dalla Ford e, mentre l'investigatore lasciava il garage, avanzò lentamente verso la vettura sportiva di grossa cilindrata, estraendo da una tasca un temperino dalla lama larga. Sapeva che l'auto aveva un significato particolare per Rod e per il momento quella rappresentava l'unica sua fonte di rivalsa. Finché Rodney Ironsides non avesse condotto in porto lo scavo del Grande Tuffo, Manfred non poteva affrontarlo a viso aperto. Lo stesso valeva per sua moglie Terry. Anzi non poteva nemmeno lasciare che i due amanti sospettassero che lui era al corrente della relazione. Molto raramente Manfred aveva provato emozioni umane come amore, odio e gelosia; e solo nelle loro manifestazioni più lievi. Lui non amava Theresa, come non aveva mai amato nessuna donna, del resto. L'aveva sposata solo per i soldi e la sua posizione sociale. Per lui quindi non si trattava né di odio né di gelosia, ora. Si sentiva solo offeso, offeso dal fatto che quelle due persone così insignificanti cospirassero per ingannarlo. Questo era solo un anticipo della vendetta di Manfred. Per ora si sarebbe accontentato di punire Ironsides senza tante scenate, limitandosi a colpirlo anonimamente in una delle cose alle quali Ironsides teneva maggiormente. Poi, quando Rod non gli fosse più servito, l'avrebbe schiacciato come una formica. Per quel che riguardava la moglie, Manfred si sentiva invece abbastanza sollevato. Lei infatti, col proprio comportamento irresponsabile, si trovava ormai completamente alla sua mercé sia da un punto di vista legale sia morale. Non appena la faccenda del Grande Tuffo lo avesse reso economicamente tranquillo e indipendente, avrebbe gettato Terry da parte, perché allora non gli sarebbe più servita nemmeno lei. Il viaggio che Manfred aveva interrotto, rientrando affrettatamente a Johannesburg, era collegato con l'acquisto delle azioni della Sonder Ditch. Manfred stava passando in quasi tutti i principali centri accordandosi con le agenzie di cambio perché queste, a partire da un certo giorno, cominciassero ad acquistare le azioni della Sonder Ditch
disponibili sul mercato. Appena sistemata la faccenda, l'investigatore l'avrebbe condotto all'aeroporto, dove si sarebbe imbarcato sul volo notturno per Durban. Una volta là poteva continuare i preparativi al grande colpo. Finora tutto aveva funzionato alla perfezione, pensò Manfred mentre infilava il coltello nella guarnizione del deflettore della Maserati. Con gesti rapidi riuscì ad aprire il finestrino per sgattaiolare poi all'interno dell'auto. La lama era affilata come un rasoio. Manfred cominciò col sedile anteriore, ridusse il rivestimento di pelle a brandelli, poi ripeté l'operazione dietro. Quindi aprì il cassetto degli attrezzi e tolse una leva da pneumatico con cui si accanì contro i quadranti del cruscotto e il rivestimento di palissandro. Alla fine, uscì dalla Maserati e colpì ripetutamente il parabrezza infrangibile, riducendolo a una lastra opaca piena di crepe. Allora Manfred gettò la leva e riprese in mano il coltello. Si inginocchiò e vibrò un colpo al pneumatico anteriore destro. La gomma però era più dura di quanto si aspettasse. Seccato dell'inconveniente, colpì di nuovo, ma il coltello si girò e la lama, piegandosi all'interno, gli produsse un taglio profondo sul polpastrello del pollice. «"Mein Gott! Mein Gott"!» esclamò Manfred, inorridendo alla vista del suo sangue. Si strinse un fazzoletto sulla ferita e fuggì dal garage, barcollando. Non appena giunto alla Ford, parcheggiata in attesa, spalancò la portiera e si lasciò cadere sul sedile accanto all'investigatore. «Un dottore! Per l'amor del cielo, mi porti da un dottore. Sono ferito gravemente. Presto! Presto!» 56. "Il marito di Terry arriva in città oggi", pensò Rod sedendosi alla scrivania. Non era certo un pensiero incoraggiante per quella giornata di lavoro che si preannunciava frenetica. Le relazioni trimestrali sarebbero state consegnate all'ufficio centrale la mattina dopo, e di conseguenza l'intera amministrazione stava attraversando come al solito la crisi di panico dell'ultimo minuto. Nell'anticamera del suo ufficio si era già formata una vera e propria ressa e la signorina Jordan avrebbe avuto il suo daffare per mantenere il controllo della situazione. Alle tre del pomeriggio, Rod era atteso a una riunione di consulenti, sempre nell'ufficio centrale della miniera, ma prima voleva scendere a controllare lo sbarramento d'emergenza di mine che Johnny Delange aveva completato e caricato. Il telefono squillò nello stesso istante in cui la segretaria faceva accomodare nell'ufficio un tipo alto e sottile dall'aria malinconica. «Signor Ironsides?» fece la voce al telefono. «Sì.» «Parla la Porters Motors. Ho il preventivo per la riparazione della sua Maserati.» «Quanto?» Rod incrociò le dita in un gesto di scaramanzia. «Milleduecento rand.» «Fiuu!» Rod restò senza fiato. «Volete che cominciamo?» «No, prima devo sentire la mia assicurazione. Vi chiamerò io.» Riappese. Quell'assurdo atto di vandalismo gli bruciava ancora molto; Rod sarebbe stato costretto a servirsi della Volkswagen della Compagnia per un periodo di tempo indefinito. Si concentrò finalmente sull'uomo appena entrato nell'ufficio. «Ispettore Grobbelaar» si presentò l'altro. «Sto conducendo le indagini sull'assassinio di José Almeida, il proprietario dell'emporio della miniera.» I due si strinsero la mano. «Qualche idea riguardo l'assassino?» chiese Rod. «Siamo sempre pieni di idee» rispose l'ispettore, con aria triste. «Riteniamo che l'assassino lavori in una delle miniere della zona, probabilmente questa. Mi sono rivolto a lei per chiedere collaborazione nelle indagini.» «E' naturale.» «Dovrò condurre numerosi interrogatori tra i vostri dipendenti bantu. Mi auguravo che potesse trovarmi una stanza per lavorare qui, sul
posto.» Rod sollevò il telefono e mentre componeva il numero disse rivolto a Grobbelaar: «Sento il direttore degli Alloggiamenti.» Poi parlò all'apparecchio: «Qui Ironsides. Ti mando giù l'ispettore Grobbelaar. Vedi di mettergli a disposizione un ufficio e fa' in modo che riceva tutto l'aiuto possibile.» Grobbelaar si alzò e gli porse la mano. «Non le ruberò altro tempo. Grazie, signor Ironsides.» Il visitatore successivo fu Van der Bergh, l'addetto al Personale, che entrò brandendo la sua relazione come se si trattasse del biglietto vincente alla lotteria. «Tutto finito» annunciò trionfante. «Manca solo la firma.» Mentre Rod toglieva il cappuccio dalla penna il telefono squillò di nuovo. «Mio Dio» mormorò Rod, con la penna in una mano e il ricevitore nell'altra. «Ne vale proprio la pena?» Era l'una passata quando Rod uscì dall'ufficio, lasciando alla signorina Jordan il compito di tenere a freno la marea di gente. Andò direttamente al pozzo numero 1, dove venne accolto come il figliol prodigo da Dimitri e dai suoi vecchi assistenti. Erano tutti ansiosi di sapere chi lo avrebbe sostituito come direttore ai Lavori sotterranei e Rod promise loro che lo avrebbero saputo dopo la riunione pomeridiana. Alla fine riuscì a infilarsi la tuta e il casco per scendere negli scavi. Nel punto in cui era morto Davy Delange, Rod trovò una squadra che, per proteggere le micce, fissava uno schermo di rete metallica al soffitto. Il cavo che collegava il circuito di detonazione, ricoperto di isolante verde, era attaccato saldamente al soffitto della galleria con alcuni picchetti. Nella saletta di brillamento, all'imboccatura del pozzo, il tecnico di Rod aveva già predisposto per questo circuito un quadro controlli separato. Ora che poteva intervenire direttamente e far saltare il tunnel nel giro di pochi minuti, Rod si sentì le spalle libere da un grosso peso e avanzò lungo il passaggio per parlare con Johnny Delange. A metà strada incontrò Big King che veniva dalla direzione opposta, al comando di un gruppo di spalatori. Rod lo salutò e il gigante si fermò, lasciando che i suoi uomini si allontanassero. «Vorrei parlare con te.» «Dimmi pure.» Rod notò subito che il volto di Big King era scavato, gli occhi infossati, e la pelle aveva il tipico colorito grigiastro dei bantu ammalati. «Voglio tornare dalle mie mogli, in Mozambico» disse Big King. «Perché?» A Rod non piaceva affatto la prospettiva di perdere un capomanovale del suo valore. «Il mio sangue è debole.» Era la risposta più evasiva che potesse dare. In sostanza significava: "Sono faccende mie che non ho alcuna intenzione di rivelare". «Quando il tuo sangue sarà di nuovo forte, tornerai a lavorare qui?» chiese Rod. «Questo dipende solo dagli dèi.» Un'altra risposta che voleva dire ben poco, come la prima. «Non posso fermarti se vuoi andare, Big King. Rivolgiti al direttore Alloggiamenti per la richiesta.» «Gli ho già parlato. Vuole che finisca il contratto. Ancora trentatré giorni.» «E' naturale» annuì Rod. «Sai benissimo che c'è un accordo da rispettare.» «Io voglio partire subito» insisté Big King, cocciuto. «Allora devi spiegarmi il perché. Non posso lasciarti rompere il contratto se non hai delle ragioni valide.» Rod non aveva la minima intenzione di creare un precedente pericoloso come quello. «Non c'è nessuna ragione» ammise rassegnato Big King. «Finirò il mio contratto.» Poi se ne andò seguendo il suo gruppo lungo la galleria. Dalla notte in cui aveva ucciso il portoghese, Big King aveva dormito poco e mangiato ancor meno; la preoccupazione gli aveva attanagliato lo
stomaco, non aveva più ballato né cantato. Le parole di Gamba Storpia e del suo Induna non erano riuscite a confortarlo. Ormai aspettava la polizia, sapeva che sarebbe arrivata prima della scadenza del contratto. Parlare con Rod era stato l'ultimo tentativo, frutto della disperazione. Ormai era rassegnato. Presto sarebbero venuti a prenderlo, e dopo avergli stretto ai polsi quelle catene color argento, lo avrebbero condotto al cellulare. Big King aveva visto molti uomini portati via in quel modo e aveva sentito dire cosa li aspettava. La legge dell'uomo bianco era uguale a quella tribale degli shangaan. Chi prendeva una vita doveva pagare con la vita. Gli avrebbero spezzato il collo con una corda. I suoi avi invece usavano spaccare il cranio ai condannati con una mazza da guerra; in fin dei conti era la stessa cosa. Rod trovò Johnny Delange intento a bere tè freddo, mentre la sua squadra provvedeva a staccare i frammenti di roccia pericolanti prima di avanzare con lo scavo. «Come procede?» chiese Rod. «Be', ora che abbiamo finito di perder tempo con l'altro problema si ricomincia a ragionare. Da quando è morto Davy siamo andati avanti di quasi quattrocentocinquanta metri.» «Ottimo lavoro» commentò Rod, ignorando i riferimenti all'esplosione di metano e al suo progetto. «Andrebbe ancor meglio se Davy fosse ancora vivo.» A Johnny non piaceva Campbell, il sostituto del fratello nel secondo turno. «Di notte si batte la fiacca.» «Li solleciterò» promise Rod. «Sì, lo faccia.» Johnny si voltò per gridare un ordine alla squadra. Rod rimase a fissare il fondo della galleria. A meno di trecento metri, di fronte a lui, c'era il Grande Tuffo. E dietro quella roccia intrusiva...? Sentendosi accapponare la pelle Rod ricordò l'incubo di quella notte... quella cosa fredda, verde, traslucida che li aspettava là dietro. «Va bene, Johnny.» Rod riuscì a staccarsi da quell'immagine orribile. «Ormai manca poco. Appena arrivi sul filone di serpentino devi interrompere immediatamente i lavori e riferirmelo subito. Capito?» «E' meglio che lo dica anche a Campbell» fece Johnny «Potrebbe essere il turno di notte ad arrivarci per primo.» «Glielo dirò. Ma tu non dimenticartene, mi raccomando. Voglio essere giù anch'io quando si bucherà la faglia.» Rod guardò l'orologio. Erano quasi le due. Aveva un'ora di tempo prima che cominciasse la riunione all'ufficio centrale. «E' in ritardo, signor Ironsides» disse il dottor Manfred Steyner sollevando lo sguardo dall'estremità del tavolo. «Le mie scuse, signori.» Rod prese posto al lungo tavolo di quercia della sala. «E' stata una giornata campale.» Dagli uomini seduti si levò un mormorìo di comprensione. Manfred Steyner lo studiò per un istante, impassibile, poi riprese: «Le sarei grato, signor Ironsides, se dopo la riunione potessi approfittare di alcuni minuti del suo tempo.» «Naturalmente, dottor Steyner.» «Bene.» Manfred annuì. «Ora che il signor Ironsides ha onorato questo tavolo della sua presenza, possiamo iniziare.» Quando la riunione terminò, fuori era già buio. I partecipanti dopo aver infilato i soprabiti, si salutarono e lasciarono Manfred e Rod da soli, seduti al tavolo disseminato di portaceneri pieni, matite e blocchetti. Manfred Steyner attese per tre minuti buoni, dopo che la porta della sala venne chiusa. Rod era abituato a quei lunghi intermezzi silenziosi, eppure si sentiva a disagio. Ora, nell'atteggiamento di Manfred, avvertiva una nuova ostilità e cercò di mascherare la propria inquietudine accendendo l'ennesima sigaretta e sbuffando il fumo verso il ritratto di Norman Hradsky, il primo presidente della Compagnia. Il quadro di Hradsky era affiancato da altri due. Uno mostrava un uomo sottile, biondo con due occhietti azzurri, sorridenti. L'intestazione
diceva; "Dufford Charleywood. Direttore della Central Rand dal 1867 al 1872". L'altro ritratto era di un tipo dalla corporatura massiccia, con folti basettoni e lineamenti tipicamente irlandesi. L'intestazione diceva: "Sean Courtneyn, e le date erano le stesse di Charleywood. Quei tre erano i fondatori della Compagnia e Rod non ne sapeva molto di più sul loro conto. Solo che appartenevano a quella razza di masnadieri disposti a tutto che si trovano in tutte le colonie penali, e che Hradsky aveva rovinato i due soci con un colpo di mano ingegnoso, rubando praticamente ai due la loro parte di comproprietà. "Siamo diventati molto più raffinati adesso", pensò Rod. Guardò istintivamente verso l'estremità del tavolo e incrociò lo sguardo impassibile di Manfred Steyner. "O no?", si chiese allora. "Chissà che diavoleria ha in mente il nostro amico." Manfred Steyner stava esaminando Rod con una curiosità distaccata. Non provava il minimo rancore, anzi intendeva sfruttare la relazione che quell'uomo aveva con sua moglie per eseguire più facilmente le istruzioni ricevute in mattinata. «Quanto manca alla faglia intrusiva?» chiese a Rod di colpo. «Meno di trecento metri.» «Quanto occorrerà per arrivarci?» «Al massimo dieci giorni, forse meno.» «Non appena si arriverà alla faglia tutti i lavori devono immediatamente cessare. La perfetta sincronizzazione di questa fase è importante, capisce?» «Ho già dato ordine ai minatori di non proseguire fino a nuovo ordine.» «Bene.» Manfred piombò di nuovo in silenzio. Quella mattina Andrew gli aveva telefonato comunicandogli che Ironsides avrebbe dovuto trovarsi lontano dalla Sonder Ditch al momento di proseguire i lavori nella galleria. Toccava quindi a Manfred organizzare qualcosa che tenesse assente Rod. «Devo informarla, signor Ironsides, che passeranno almeno tre settimane prima che dia ordine di avanzare con gli scavi. Quando arriverete sul filone di serpentino, sarà necessario che io parta per l'Europa per sistemare alcune faccende. La mia assenza si protrarrà per una decina di giorni e nel frattempo, nella galleria, non dovrà svolgersi alcun tipo di lavoro.» «Sarà via nel periodo natalizio?» chiese Rod, sorpreso. «Sì» annuì Manfred, leggendo i pensieri di Rod. "Terry sarà sola durante le feste di Natale", pensò rapidamente Rod. "La Sonder Ditch andrà avanti solo con personale ridotto, quindi potrei andarmene e passare una settimana intera da lei". Manfred attese finché non ebbe la certezza che l'altro aveva preso la decisione verso cui l'aveva spinto, poi chiese: «Allora ha capito? Aspetterà un mio ordine, che prevedo non arriverà fino alla metà di gennaio.» «D'accordo.» «Può andare» lo congedò Steyner. «Grazie» disse Rod, con tono secco. Appena fu al pianterreno, Rod raggiunse una cabina telefonica. Non correva rischi, aveva appena lasciato Manfred. Formò il numero di Sandown. «Theresa Steyner» rispose lei. «Abbiamo una settimana, una settimana tutta per noi» le annunciò. «Quando?» fece lei, esultante. Rod le spiegò la situazione. «Dove andremo?» chiese allora Terry. «Oh, un posto lo si trova. Decideremo poi insieme.» 57. Alle undici e ventisei, la mattina del 16 dicembre, Johnny Delange fece brillare le mine sul fondo della galleria e avanzò tra il fumo e la polvere. Alla luce della lampada, la roccia staccatasi in seguito all'esplosione era completamente diversa dalla quarzite azzurrognola
di Ventersdorp. Si trattava di una pietra vetrosa, verdastra e venata di fini linee bianche, che assomigliava al marmo. «Siamo sulla faglia» disse Johnny a Big King, chinandosi a raccogliere e soppesandolo. «Ce l'abbiamo fatta, l'abbiamo beccata questa bastarda!» Big King rimase silenzioso, non partecipe dell'esultanza di Johnny. «Bene.» Johnny scagliò lontano il frammento. «Ripulisci tutto e poi uscite dalla galleria. Abbiamo terminato fino a nuovo ordine.» «Ottimo, Johnny» disse Rod soddisfatto. «Finite di pulire poi uscite dal tunnel. Non so quanto dovremo aspettare prima che arrivi l'ordine di bucare il Grande Tuffo, tu intanto prenditi una vacanza. Ti pagherò quattro cubature extra per ogni giorno d'attesa.» Rod riattaccò e compose un altro numero. «Parla Ironsides, mi passi il dottor Steyner.» Dopo alcuni secondi, Manfred fu in linea. «Siamo sul Grande Tuffo» l'informò Rod. «Bene. Io domani mattina parto per l'Europa. Lei non faccia nulla finché non sarò di ritorno.» Steyner riattaccò e premette il pulsante dell'interfono. «Cancelli tutti i miei impegni» disse alla segretaria. «Non ci sono per nessuno.» «Va bene, dottor Steyner.» Manfred sollevò il ricevitore della sua linea privata e formò un numero. «Salve, Andrew. Vuole dirgli che sono pronto a far fronte ai miei impegni, per favore. Siamo arrivati al Grande Tuffo.» Ascoltò per alcuni secondi, poi concluse. «Benissimo, attenderò la sua risposta.» Andrew depose il telefono e uscì sulla terrazza. Era una pigra giornata estiva; un sole caldo si rifletteva scintillando sull'acqua della piscina. Il tipo grasso se ne stava di fronte a un cavalletto da pittore, con un berretto azzurro in testa e un camiciotto bianco che gli penzolava sullo stomaco prominente come un abito premaman. La modella era stesa, prona, su un materassino accanto al bordo della piscina. Era una bruna graziosa con un corpo da bambola. Il suo bikini giaceva in un mucchietto bagnato a pochi passi. Le gocce d'acqua le imperlavano le natiche lisce in un luccichìo di riflessi e le conferivano un'aria paradossale di innocenza e di erotismo orientale nello stesso tempo. «Era Steyner» disse Andrew. «Dice che hanno raggiunto il Grande Tuffo.» Il tipo grasso continuò a dipingere la tela, completamente assorto. «Per favore, alza la spalla destra, mia cara. Stai coprendo il tuo delizioso seno» disse alla ragazza, che ubbidì prontamente alle sue istruzioni. Alla fine si staccò dalla tela e osservò la propria opera con occhio critico. «Ora puoi riposare» concluse. Cominciò a pulire i pennelli, e la ragazza, dopo essersi stiracchiata come un gatto, si tuffo nella piscina allontanandosi a nuoto. «Manda un cablo a New York, Parigi, Londra, Tokyo e Berlino. Trasmetti in codice la parola "Gotico"» ordinò il grasso ad Andrew. Quel termine avrebbe scatenato l'offensiva su tutti i mercati finanziari del mondo. Appena ricevuto quel messaggio, gli agenti delle principali città avrebbero iniziato la vendita delle azioni delle compagnie minerarie di Kitchenerville; ne avrebbero cedute a milioni. «Poi avvisa Steyner di togliere dai piedi Ironsides e di perforare la faglia.» Manfred ascoltò attentamente le istruzioni trasmesse da Andrew sulla sua linea telefonica privata, poi rimase immobile come una lucertola, ripassando mentalmente i suoi piani in cerca di eventuali punti deboli. No, tutto era perfetto. Era giunto il momento di iniziare l'acquisto delle azioni della Sonder Ditch. Manfred chiamò la segretaria dandole istruzioni perché chiamasse vari numeri di Città del Capo, Durban e Johannesburg.
Manfred voleva che gli acquisti provenissero da diverse agenzie in modo che non si sospettasse che l'acquirente era uno solo. Vi era poi il problema del credito. Le varie agenzie stavano acquistando per lui fidandosi solo del suo nome, della reputazione e del posto che ricopriva presso la Central Rand. Manfred non poteva inoltrare ordini d'acquisto troppo elevati, altrimenti gli avrebbero chiesto delle garanzie, e Manfred Steyner non ne aveva da offrire. Alle tre del pomeriggio era riuscito a entrare in possesso di azioni per un valore di 750 mila rand. Momentaneamente non disponeva di alcun mezzo per pagarle, ma sapeva che quando le avrebbe rivendute, entro poche settimane, il loro valore sarebbe stato doppio. Alcuni minuti dopo il suo ultimo colloquio d'affari con l'agenzia Swerling & Wright di Johannesburg, la sua segretaria lo avvisò nell'interfono. «L'S.A. Airlines ha confermato la sua prenotazione sul Boeing per Salisbury. E' il volo 126, alle nove, domani mattina. Ho prenotato anche il volo di ritorno sul Viking della Rhodesian Airways per le diciotto di domani sera.» «Grazie.» Manfred era contrariato del fatto di sprecare una giornata in quel modo, ma era assolutamente necessario che Theresa credesse che lui era partito per l'Europa. «Per favore, chiami mia moglie al telefono.» «Theresa» le disse «è successa una cosa importante. Devo partire domattina per Londra. Temo che passerò il Natale via.» Il tono sorpreso e dispiaciuto della moglie non lo ingannò. Manfred era certo che lei e Ironsides avessero organizzato ogni cosa per divertirsi durante la sua assenza. Tutto procedeva per il meglio, pensò Manfred deponendo il telefono, sì... davvero per il meglio. 58. La Daimler si fermò all'aeroporto Jan Smuts e l'autista scese ad aprire la portiera a Terry e a Manfred. Mentre il facchino toglieva i suoi bagagli dal baule della vettura, Manfred lanciò una rapida occhiata al parcheggio. A quell'ora del mattino era semideserto, ma all'estremità opposta era parcheggiata una Volkswagen color panna, targata Kitchenerville. Tutti i principali dirigenti della Sonder Ditch disponevano di vetture simili. "L'ape è corsa al miele", pensò Manfred con un sorriso freddo. Poi prese Terry per il braccio e si avviò verso l'entrata dell'aeroporto. Terry rimase ad attendere mentre il marito sbrigava le numerose pratiche d'imbarco e i controlli doganali. Esteriormente aveva l'aria di una moglie distinta e sottomessa, ma dentro di sé, dopo aver notato la Volkswagen, fremeva dall'eccitazione, e lanciava sguardi furtivi dietro le lenti scure cercando tra la folla una figura alta e dalle spalle ampie. Le parve di aver atteso una vita, quando, finalmente, si trovò sulla terrazza esterna, affacciata sulle piste di decollo. La massa affusolata del Boeing rimpicciolì in lontananza e si staccò da terra, e Terry si precipitò dentro il terminal. Rod la stava aspettando proprio dietro la porta e la afferrò al volo sollevandola dal suolo. «Presa!» Terry lo abbracciò e lo baciò sotto i sorrisi delle poche persone presenti. «Andiamo» lo esortò «non voglio perdere un minuto.» Si fermò solo un attimo per congedare l'autista, poi corse con Rod alla Volkswagen, su cui in precedenza avevano caricato i loro bagagli. Venti minuti dopo, l'auto si fermava, tra uno stridìo di freni, di fronte agli hangar di un aeroclub privato. Un bimotore Cessna era pronto sulla pista. I motori erano già al minimo e il meccanico scese dalla cabina non appena riconobbe Terry. «Salve, Terry. Puntualissima» la salutò. «Salve, Hank: L'hai già scaldato. Sei proprio un amore!» «Ho anche preparato il piano di volo. Questo e altro per la mia cliente preferita.» Il meccanico, un tipo piccolo e ben piantato,
guardò Rod con curiosità. «Vi do una mano per le valigie» gli disse. Quando ebbero finito di stivare il bagaglio, Terry era già seduta in cabina e parlava con la torre di controllo. Rod si arrampicò nell'abitacolo e prese posto accanto a lei. Terry spense la radio e si chinò per rivolgersi al meccanico. «Grazie, Hank. Senti, se qualcuno te lo chiedesse, be'... io ero sola oggi, d'accordo?» «D'accordo» rispose lui sorridendo. «Buon atterraggio.» Una volta chiusa la cabina, Terry si avviò lungo la pista. «E' tuo?» chiese Rod. «Sì, un regalo di Pops per il mio compleanno. Ti piace?» «Niente male» ammise Rod. Terry si portò controvento e, frenando, tirò al massimo i motori per provarne la risposta. Improvvisamente Rod si rese conto che era nelle mani di un pilota in gonnella. Rimase silenzioso e cominciò ad avvertire una certa tensione. «Andiamo» disse Terry e tolse i freni. Il Cessna si impennò staccandosi dal suolo e Rod si aggrappò ai braccioli con lo sguardo inchiodato di fronte a sé. «Rilassati, Ironsides. Volo da quando avevo sedici anni.» A novecento metri, Terry stabilizzò l'aereo in quota e virò dolcemente verso est. «Visto che non ti è successo niente?» gli disse sorridendo. «Da un tipo come te c'è da aspettarsi di tutto.» «Sì, sì... vedrai. Non hai ancora visto niente» lo avvertì lei. Volarono in silenzio lasciandosi alle spalle l'Highveld e attraversando la densa coltre cespugliosa del Bushveld. «Voglio divorziare» esordì improvvisamente Terry. «Bene» annuì Rod, per nulla sorpreso dal fatto che stessero vivendo quella specie di esperienza di scambio telepatico, tipica delle menti in perfetta sintonia. Anche lui infatti stava pensando al marito di Terry. «Credi che così avrei qualche possibilità con te?» «Giocando le tue carte nel modo giusto può darsi che tu abbia questa fortuna.» «Porco presuntuoso. Non so proprio perché ti amo.» «Mi ami?» «Sì.» «Anch'io» disse Rod. Ritornarono di nuovo silenziosi con un'aria felice, poi Terry lanciò l'aereo in picchiata. «Cos'è successo?» chiese Rod allarmato. «Stiamo scendendo a dare un'occhiata alla selvaggina.» Sorvolarono a bassa quota una distesa di fitti cespugli verde oliva interrotta, a tratti, da depressioni dove cresceva un'erba bruno rossiccia. «Là» disse Rod indicando di fronte a sé una linea di macchie scure che attraversava la radura. «Bufali!» «Guarda a sinistra» disse Terry. «Zebre e gnu... e c'è anche una giraffa» fece Rod riconoscendo gli animali. «Siamo arrivati.» Terry indicò due collinette di granito dalla forma tondeggiante che spiccavano sulla linea dell'orizzonte. Erano simmetriche come i seni di una ragazza, e mentre l'aereo si avvicinava, Rod scorse il tetto ricoperto di paglia di una vasta costruzione che sorgeva tra i due poggi. Oltre l'edificio si allungava la striscia di una pista d'atterraggio, ricavata abbattendo gli alberi, con la classica manica a vento simile a un'enorme salsiccia che sventolava sul sostegno. Sul prato che circondava la casa colonica, alcune minuscole figure agitarono la mano in segno di saluto verso il Cessna. Due si staccarono dalla altre e salirono su una Land Rover, dirigendosi verso la pista d'atterraggio in una nuvola di polvere. «E' Hans» spiegò Terry. «Bene, possiamo scendere.» Si allineò con la pista e lasciò scendere il velivolo riducendo la potenza dei motori. Alla fine il carrello toccò il suolo e l'aereo
proseguì per incontrarsi con la Land Rover. L'uomo che scese dal fuoristrada aveva i capelli bianchi ed era cotto dal sole; la sua pelle sembrava cuoio. «Signora Steyner!» esclamò piacevolmente sorpreso. «Ne è passato del tempo! Dove è stata?» «Ho avuto molto da fare, Hans» rispose Terry. «New York? Perché ci è andata?» fece Hans stupito. «Questo è il signor Ironsides» disse Terry rivolta all'uomo anziano. «Rod, ti presento Hans Kruger.» «Van Breda?» chiese Hans stringendo la mano a Rod. «E' parente dei Van Breda di Caledon?» «Non credo» mormorò Rod lanciando un'occhiata interrogativa a Terry. «E' sordo come una campana» gli spiegò lei. «Gli sono saltati i timpani nel 1930, per una miccia ritardata, ma lui non vuole ammetterlo.» «Mi fa piacere sentirlo» annuì Hans con aria felice. «Lei è sempre stata una ragazza sana e forte. Ricordo ancora quando era piccola così.» «Però è un tipo adorabile, e anche sua moglie. Badano alla tenuta di caccia di Pops» disse Terry rivolta a Rod. «Ottima idea!» esclamò Hans. «Carichiamo i bagagli sulla Land Rover e saliamo alla casa. Scommetto che il signor Van Breda si farebbe un goccetto, eh?» La casa aveva il tetto di paglia e legno sbozzato, i pavimenti erano di pietra grezza ricoperti di stuoie e di pelli d'animali ben curate. C'era un focolare enorme, fiancheggiato da rastrelliere di fucili in cui facevano bella mostra una cinquantina di splendidi esemplari. I mobili erano massicci e di linea maschia, le pareti adorne di trofei animali e di armi indigene. Un'ampia scala di legno portava al piano superiore, alle camere da letto. Le stanze erano dotate di aria condizionata e, dopo aver congedato Hans e sua moglie, Terry e Rod collaudarono il letto per vedere se rispondeva ai loro gusti. Dopo un'ora e mezzo di prove, che risultarono più che soddisfacenti, mentre scendevano a onorare il pranzo pantagruelico preparato dalla moglie di Hans, Terry osservò sorridendo: «Sai, Rod, sei proprio in gamba, in tutti i sensi! E rodatissimo, grazie al cielo!» Anche il pranzo risultò impegnativo e Terry, alla fine, fece notare che sarebbe stato inutile uscire prima delle quattro; gli animali infatti erano al riparo nella macchia per sfuggire al caldo pomeridiano. Quindi tornarono di sopra. Dopo l'ora fissata, Rod scelse una carabina Holland & Holland calibro 375 magnum, riempì una cartucciera e si avviò con Terry verso la Land Rover. «Quanto è grande questo posto?» le chiese mentre la vettura percorreva il sentiero che si inoltrava nella boscaglia. «Puoi guidare per più di trenta chilometri in ogni direzione. E' tutto nostro. Più in là c'è il confine con il Parco nazionale Kruger» rispose Terry. Proseguirono lungo le rive del fiume, costeggiando banchi di sabbia ricoperti di canne. L'acqua si riversava impetuosa tra massi lucenti di roccia nera per poi adagiarsi pigramente in tranquille pozze. Videro parecchie varietà di animali selvatici fermandosi in pratica ogni centinaio di metri a osservare qualche possibile preda. «Pops naturalmente non permetterà che si cacci qui» disse Rod mentre un'antilope kudu dalle lunghe corna ritorte a pochi metri da loro li studiava con i suoi grandi occhi. «Questi non sono più feroci degli animali domestici.» «E' permesso solo a quelli della famiglia» annuì Terry. «Tu comunque uno di famiglia lo sei già.» Rod scosse il capo. «No, sarebbe un delitto.» Indicò l'antilope kudu lì accanto. «Quella povera bestia verrebbe perfino a mangiarti in mano.» «Mi fa piacere sentirti parlare così» disse Terry, mentre la Land Rover proseguiva lentamente. La sera non fu abbastanza fredda da richiedere un bel fuoco nel gigantesco camino della casa. Loro lo accesero ugualmente perché Rod
aveva deciso che sarebbe stato piacevole sedere focolare scoppiettante, bevendo whisky e tenendo tra donna che amava.
di le
fronte a un braccia la
59. L'ispettore Grobbelaar depose la tazza di tè e, leccandosi i baffi per togliere una traccia di panna, guardò il sergente Hugo. «Chi è il prossimo?» gli chiese. Hugo consultò il suo taccuino. «Philemon N'gabai.» Grobbelaar sospirò. «E' il quarantottesimo, ne restano solo sedici» aggiunse il sergente. L'unica impronta presente sul frammento di vetro della bottiglia che aveva contenuto l'oro, era stata esaminata dalla scientifica, che aveva stilato una lista di sessantaquattro nomi cui poteva appartenere. Ognuna di quelle persone doveva quindi essere interrogata; un lavoro lungo e fino a quel momento senza alcun risultato. «Cosa sappiamo sul conto del caro Philemon?» chiese Grobbelaar. «E' uno shangaan del Mozambico sulla quarantina. Alto circa un metro e sessanta. Peso 66 chili. Ha la gamba destra storpia. Due precedenti penali. Nel 1956: sessanta giorni per il furto di una bicicletta. Nel 1962: novanta giorni per aver rubato una macchina fotografica da un'auto.» «Non mi sembra il tipo atletico in grado di spezzare il collo a qualcuno. Be', fallo entrare lo stesso. Parliamogli un po'» disse Grobbelaar, bevendo un altro sorso di tè. Hugo fece un cenno al sergente bantu che era alla porta. Poco dopo entrò Gamba Storpia scortato da un poliziotto di colore. Lo zoppo avanzò verso la scrivania dove sedevano Grobbelaar e Hugo. I due lo scrutarono a lungo, in silenzio, per farlo sentire il più a disagio possibile. L'ispettore si vantava di riuscire a fiutare una coscienza sporca a cinquanta passi, e Philemon N'gabai, per lui, puzzava di colpa lontano un chilometro. L'uomo continuava ad agitarsi, sudava abbondantemente e non la smetteva di lanciare occhiate dal pavimento al soffitto. Di qualcosa era senz'altro colpevole, non necessariamente di omicidio. Grobbelaar non era affatto convinto mentre scuotendo il capo con aria di rincrescimento gli chiedeva: «Perché l'hai fatto, Philemon? Abbiamo trovato le tue impronte sulla bottiglia dell'oro.» L'effetto della frase su Gamba Storpia fu improvviso e drammatico. Allargò la bocca e prese a tremare, fissando per la prima volta Grobbelaar in viso, con gli occhi sbarrati. "Ehi, ci siamo!", pensò l'ispettore drizzandosi sulla sedia, improvvisamente sul chi vive. «Sai cosa succede alla gente che uccide, Philemon? Li portano via e...» Grobbelaar non poté finire la frase. Gamba Storpia con un urlo si lanciò verso la porta, velocissimo nonostante la menomazione, ed era già riuscito ad aprirla prima che il sergente bantu potesse finalmente agguantarlo e trascinarlo dentro. «L'oro, ma non l'uomo! Non ho ucciso il portoghese» farfugliò, mentre i due investigatori si scambiavano un'occhiata d'intesa. «E' fatta!» esclamò Hugo soddisfatto. «Sì, hai ragione» convenne Grobbelaar, concedendosi uno dei suoi rarissimi sorrisi. 60. «Vede, c'è anche una piccola luce che si accende per illuminare la fessura della chiave» disse l'impiegato dell'autosalone indicando il cruscotto. «Oh! Johnny, guarda!» esclamò Hettie, ma Johnny Delange restò con la testa infilata sotto il cofano della potente Ford Mustang. «Perché non prova a sedersi?» suggerì l'uomo. Era un tipo davvero attraente, pensò Hettie, con occhi bellissimi e dei basettoni favolosi.
«Oh, sì. Mi piacerebbe provare» rispose, e si infilò nell'abitacolo della vettura sportiva, lasciando scivolare in alto la gonna, sotto gli occhi dell'impiegato. «Può regolare il sedile?» gli chiese innocentemente. «Subito, le faccio vedere.» L'uomo si chinò all'interno della Mustang, allungandosi oltre Hettie. Con la mano le sfiorò la coscia, ma lei finse di non accorgersene. «Ah, così va meglio!» mormorò Hettie e si accoccolò sul sedile con movimenti volutamente provocanti. L'impiegato, fattosi coraggio, indugiò col polso sulle gambe della ragazza. «Che rapporto di compressione ha?» chiese Johnny Delange sbucando improvvisamente da sotto il cofano. L'uomo si rialzò in fretta e lo raggiunse subito. Un'ora dopo Johnny firmò il contratto d'acquisto. «Lasciate che vi dia il mio biglietto da visita» insisté l'impiegato, ma Johnny stava già salendo sul suo nuovo giocattolo, e fu Hettie a prenderlo. «Chiamatemi se vi occorre qualcosa, d'accordo?» «Dennis Langley. Direttore delle vendite» lesse a voce alta Hettie. «Perbacco! E' giovanissimo per essere già direttore!» «Be', così giovane non direi!» Hettie si passò la punta della lingua sulle labbra. «Non lo perderò» gli promise. Poi, riposto il biglietto nella borsetta, si avviò alla Mustang, lasciandolo con una promessa stuzzicante e un ricordo di fianchi che ancheggiavano. Corsero con la nuova Mustang fino a Potchefstroom. Hettie incoraggiò il marito a sorpassare tutte le auto che incontravano e Johnny ubbidì, infischiandosene del codice stradale e dei cori di clacson che accompagnavano le sue manovre. Al ritorno lanciarono l'auto a oltre 190 chilometri l'ora. Alla fine del vialetto che portava alla loro abitazione, Johnny dovette frenare bruscamente per non tamponare una grossa Daimler nera parcheggiata proprio di fronte alla loro porta. «Cristo!» esclamò. «Ma questo è il transatlantico del dottor Steyner!» «E chi sarebbe il dottor Steyner?» chiese Hettie. «Uno dei pezzi grossi della direzione generale, accidenti!» «Stai scherzando?» «E' così, ti dico. E' proprio uno di loro.» «Più importante del signor Ironsides?» fece Hettie. «Ah, quello non è niente in confronto a questo tipo. Guarda il transatlantico che ha, è cinque volte meglio della vecchia Maserati di Ironsides.» «Gesù!» Hettie era perfettamente in grado di seguire paragoni del genere. «Cosa vorrà da noi?» «Non lo so» rispose Johnny, provando una certa ansia. «Andiamo un po' a vedere.» Il salotto dei Delange non era certo il posto più adatto perché il dottor Steyner si sentisse a suo agio. Manfred sedeva sul bordo di una poltroncina di finta pelle, di gusto pacchiano, rigido come uno dei tanti soprammobili dozzinali di cui la stanza era stipata. In contrasto con gli addobbi natalizi che ornavano il soffitto, il suo cappello nero e il soprabito con il collo di astrakan erano di un'estrema severità. «Vi prego di scusarmi» li salutò Manfred, senza alzarsi. «Non eravate in casa e la vostra cameriera mi ha permesso di accomodarmi.» «Oh, ma è il benvenuto» disse Hettie con un sorrisetto affettato. «Ma certo, dottor Steyner» aggiunse a sua volta Johnny. «Ah! Sapete chi sono, allora» osservò Manfred soddisfatto. Questo avrebbe facilitato il suo compito. «Certo che lo sappiamo» Hettie gli si avvicinò, porgendogli la mano. «Sono Hettie Delange, come sta?» Con un brivido di disgusto, Manfred notò che le ascelle della donna non erano depilate e i ciuffi di peli rossicci apparivano umidi di sudore. Manfred contrasse le narici soffocando un impulso di nausea. «Delange, vorrei parlarle da solo» disse cercando di liberarsi dell'insopportabile presenza della donna.
«Certo. Cara, perché immediatamente Johnny.
non
vai
a
preparare
un
caffè?» acconsentì
Dieci minuti dopo, Manfred si abbandonò, soddisfatto, sul sedile posteriore della Daimler, ignorando i gesti di saluto dei Delange. Era fatta. La mattina seguente Johnny avrebbe ripreso di nuovo il lavoro, proseguendo lo scavo nella verde muraglia vetrosa del Grande Tuffo. A mezzogiorno Manfred sarebbe entrato in possesso di 250 mila azioni della Sonder Ditch, e nel giro di una settimana sarebbe diventato ricco. Entro un mese avrebbe divorziato da Theresa per adulterio; lei ormai non gli serviva più. L'autista lo riportò a Johannesburg. 61. Tutto cominciò nell'emiciclo della Borsa valori di Johannesburg. Da alcuni mesi quasi tutta l'attività aveva riguardato il settore industriale, in particolare le trattative concernenti la fusione delle compagnie del gruppo di Alex Sagov. L'unico segno di vita nel settore minerario erano state le nuove emissioni dell'Anglo American Corporation e della De Beers Deferred, ma si trattava ormai di cose passate e i prezzi si erano stabilizzati ai loro nuovi livelli. Nessuno si aspettava quindi un'esplosione frenetica di contrattazioni nel campo aurifero, e fra i numerosi agenti di cambio che affollavano la Borsa valori regnava la massima tranquillità quando, all'improvviso, dal fondo della sala si levò una voce. «Compro Sonder Ditch.» «Anch'io» si aggiunse un'altra voce. La folla si agitò, le teste cominciarono a voltarsi. «Compro!» Gli agenti diventarono improvvisamente frenetici, riunendosi in gruppetti che si scioglievano non appena ultimate le operazioni commerciali. Il prezzo salì di cinquanta centesimi e uno degli operatori si allontanò in fretta dall'emiciclo per discutere con il proprio principale. In quel momento un agente batté un colpo sulla spalla di un collega per attirare la sua attenzione e la fretta che lo agitava fu contagiosa. «Compro! Compro!» «Ma che diavolo succede?» «Da che parte viene l'acquisto?» «E' locale!» Il prezzo di un'azione toccò i dieci rand e allora il panico cominciò a prendere piede. «Sono acquirenti d'Oltreoceano!» «Undici rand!» Gli agenti corsero al telefono ad avvisare i loro maggiori clienti che si stava sviluppando una corsa al rialzo. «Dodici e cinquanta. Sono solo acquisti locali.» «Comprare al meglio. Comprarne cinquemila.» Gli operatori tornarono di corsa nell'emiciclo con le istruzioni ricevute in fretta e furia per telefono e si lanciarono in trattative isteriche. «Cristo! Tredici rand, vendere adesso, intanto che il mercato è buono! Il prezzo ormai non può più salire di molto.» «Tredici e settantacinque, è un acquisto d'Oltreoceano. Comprare al meglio.» In cinquanta agenzie di cambio del paese, i professionisti che passavano la vita chini sulla telescrivente riacquistarono la calma e, maledicendosi perché si erano lasciati cogliere in contropiede, si unirono a quella corsa al rialzo. Altri, più circospetti, riconobbero i sintomi di un crollo imminente e vendettero sia azioni minerarie sia industriali. I prezzi fluttuarono impazziti. Alle dieci e un quarto, il presidente della Borsa valori di Johannesburg ricevette una chiamata urgente dal ministero delle Finanze.
«Cosa avete intenzione di fare?» «Dobbiamo ancora decidere. Se appena sarà possibile, cercheremo di evitare la chiusura delle contrattazioni.» «Non lasciate che la cosa vada troppo oltre. Tenetemi informato della situazione.» Il prezzo aveva raggiunto i sedici rand e continuava ad aumentare quando alle undici, ora del Sudafrica, entrò sul mercato anche la Borsa di Londra. Per quindici frenetici minuti il prezzo delle azioni Sonder Ditch salì alle stelle, in simpatia con la piazza di Johannesburg. Poi d'improvviso, inaspettatamente, i titoli della Sonder Ditch vennero sottoposti a una massiccia pressione di vendita, come pure le azioni di tutte le compagnie del giacimento di Kitchenerville. I prezzi oscillarono ancora per poco, poi subirono uno spaventoso collasso e caddero a cifre di gran lunga inferiori ai prezzi d'apertura. «Vendere» divenne la parola d'ordine. «Vendere al meglio!» In pochi minuti, fortune appena accumulate furono spazzate via in un sol colpo. Quando il prezzo delle azioni della Sonder Ditch toccò cinque rand e settantacinque, la Borsa valori di Johannesburg chiuse le operazioni nell'interesse del paese, impedendo ulteriori contrattazioni. Ma a New York, Parigi e Londra, l'offensiva che avrebbe segnato la rovina delle compagnie aurifere sudafricane continuò massiccia. Nell'ufficio dotato di aria condizionata del grattacielo, il tipo piccolo e calvo stava battendo con il pugno sul ripiano della scrivania del suo superiore. «L'avevo detto di non fidarvi di lui» disse con voce strozzata dalla collera. «Quell'ingorda palla di lardo! Non gli bastava un milione di dollari! No, doveva buttare all'aria tutto!» «Colonnello, per favore, si calmi» intervenne il suo capo. «Su, si controlli. Cerchiamo di valutare obiettivamente le implicazioni di questa operazione finanziaria.» Il calvo tornò ad appoggiarsi allo schienale della sedia e tentò di accendersi una sigaretta, ma le mani gli tremavano a tal punto da far spegnere la fiamma dell'accendino. «E' una cosa che puzza lontano un chilometro.» Fece scattare di nuovo l'accendisigari e aspirò rapidamente. «Le prime mosse sul mercato valori di Johannesburg erano dovute a Steyner che comprava basandosi sulla nostra finta relazione. Una reazione normale che noi ci aspettavamo, anzi che volevamo si verificasse, in modo che i sospetti si allontanassero da noi.» La sigaretta nel frattempo era già finita. L'uomo gettò il mozzicone del filtro e ne accese un'altra. «Fino a quel momento tutto procedeva alla perfezione. Il dottor Steyner aveva commesso un suicidio finanziario e noi eravamo a cavallo. Poi... il nostro grasso amico ci tira una fregatura colossale e comincia a vendere allo scoperto le azioni delle miniere di Kitchenerville. Deve essere entrato nel mercato con un giro di milioni.» «Possiamo ancora mandare a monte l'operazione a questo punto?» chiese il capo. «No, assolutamente. Ho mandato un cablo al nostro amico ordinandogli di sospendere subito i lavori nel tunnel, ma lei crede che obbedirà? No di certo, è esposto per milioni di dollari ormai, e proteggerà il suo investimento con tutti i mezzi che ha a disposizione.» «Non potremmo avvertire la direzione della Sonder Ditch?» «Così non faremmo altro che scoprirci, non le pare?» «Mmm!» annuì il capo. «Potremmo mandare un avvertimento in forma anonima.» «E chi ci crederebbe, allora?» «Sì, ha ragione» sospirò il capo. «Dovremo proprio serrare le file e prepararci a superare la tempesta, tenerci forte e negare tutto.» «Sì, non possiamo fare altro. Maledetto bastardo... porco schifoso!» imprecò sottovoce il tipo calvo. 62.
Johnny e Big King stavano risalendo spalla a spalla nella gabbia. Era stata una buona giornata e, nonostante la durezza della roccia di serpentino, che riduceva della metà i ritmi di lavoro, erano riusciti a completare cinque brillamenti durante quel turno. Johnny sapeva che ormai si erano spinti oltre la metà del Grande Tuffo, e dato che Campbell era stato tolto da quell'incarico, presto l'onore dell'impresa sarebbe toccato interamente a lui. Era una prospettiva che lo eccitava. Il giorno dopo avrebbe forato l'ultima barriera verso l'ignoto. «A domani, Big King» disse Johnny uscendo dalla gabbia che nel frattempo aveva raggiunto la superficie. I due si separarono, Big King si diresse all'ostello che ospitava i bantu, Johnny verso la Mustang nuova fiammante che lo attendeva nel parcheggio. Il gigante negro andò direttamente, senza nemmeno cambiarsi, all'abitazione dell'Induna e si fermò sulla soglia. «Che notizie ci sono, padre mio?» chiese. «Le peggiori» disse a bassa voce l'Induna. «La polizia ha preso Gamba Storpia.» «Gamba Storpia non mi tradirebbe mai» dichiarò Big King, ma non ne era troppo convinto. «Ti aspetteresti forse che morisse la tuo posto?» fece il vecchio capo. «Deve pur proteggere se stesso.» «Non volevo ucciderlo» spiegò Big King, disperato. «Non volevo uccidere il portoghese... è stata la pistola...» «Lo so, figlio mio.» La voce dell'Induna rivelava un senso di compassione per un destino inevitabile. Big King si girò e si allontanò, dirigendosi verso le docce. Il suo passo non era più scattante e vigoroso come un tempo, i piedi si trascinavano fiaccamente. 63. Manfred Steyner sedeva alla scrivania del suo ufficio, le mani immobili sul tampone di carta assorbente, un pollice avvolto in una vistosa fasciatura bianca. L'unico suo movimento era la pulsazione costante di una vena sulla gola e il contrarsi di una palpebra. Manfred era di un pallore cadaverico e il lieve sudore del viso gli conferiva l'aspetto di una statua di marmo bagnata. Il volume della radio era alto e la voce dell'annunciatore risuonava tra le pareti rivestite in legno. "Questa drammatica situazione ha raggiunto l'apice alle ore undici e quarantacinque, quando il presidente della Borsa valori di Johannesburg ha dichiarato la chiusura dell'attività e sospeso ulteriori contrattazioni. "Secondo le ultime notizie, alla Borsa valori di Tokyo le azioni della compagnia mineraria Sonder Ditch venivano trattate a un valore equivalente a quattro rand e quaranta. Ricordiamo che il prezzo di apertura delle stesse azioni, questa mattina, alla Borsa di Johannesburg, era di nove rand e quarantacinque. "Un portavoce del governo del Sudafrica ha dichiarato che, sebbene non esistano espliciti motivi cui collegare queste fluttuazioni straordinarie, il ministro dell'Industria mineraria, dottor Carel De Wet, ha formato una commissione d'inchiesta". Manfred Steyner si alzò dalla scrivania e si diresse in bagno. Per una mente come la sua non erano necessarie carta e matita per calcolare che le azioni acquistate da lui quella mattina si erano ormai deprezzate per una cifra superiore al milione di rand. Manfred si inginocchiò sul pavimento di fronte alla tazza del water e vomitò. 64. Il sole era ormai calato da parecchio dietro l'orizzonte infuocato e il cielo si oscurava rapidamente. Rod udì il battito d'ali e alzò gli occhi, sforzandosi di penetrare con lo sguardo nell'oscurità. Arrivarono veloci, in una formazione a
V, calando verso il laghetto formato dal fiume. Rod si alzò e puntò il fucile, lasciando partire entrambi i colpi. Bang! Bang! Le anatre ruppero la formazione e s'impennarono verso l'alto con un rumoroso frullìo di ali. «Maledizione!» imprecò Rod. «Cosa c'è, tiratore infallibile, hai sbagliato?» chiese Terry. «C'è una pessima luce, non si può sparare.» «Scuse! Scuse!» Terry gli si affiancò e lui la colpì scherzosamente sulla guancia con un pugno. «Adesso basta, donna. Andiamo a casa.» Con i fucili e le anitre morte, i due arrancarono lungo la sponda buia verso la Land Rover. Quando rientrarono alla casa colonica le tenebre erano ormai fitte. «E' stata proprio una giornata meravigliosa» mormorò Terry con aria sognante. «Se non altro ti sarò sempre grata per avermi insegnato come ci si gode la vita.» Una volta arrivati fecero un bagno e si cambiarono, poi cenarono con anitra, ananas e insalata di verdure fresche, provenienti dall'orto della moglie di Hans. Dopo cena si sdraiarono sulle pelli di leopardo di fronte al fuoco, osservando il ceppo che ardeva, senza parlare, completamente rilassati, stanchi ma felici. «Mio Dio, sono quasi le nove» disse Terry controllando l'orologio. «Io me ne andrei volentieri a letto, tu che ne dici signor Ironsides?» «Sentiamo il notiziario delle nove alla radio, prima.» «Oh, Rod! Qui non le ascolta mai nessuno le notizie. Questo è un posto fuori dal mondo.» Rod accese la radio e la prima parola li raggelò entrambi. Era "Sonder Ditch". Ascoltarono inorriditi, in silenzio, l'intero notiziario. Rod aveva un'espressione granitica, la sua bocca era serrata in una linea truce. Quando il giornale radio terminò, Rod spense l'apparecchio e si accese subito una sigaretta. «Ci sono dei guai» disse «Guai grossi. Mi spiace, Terry, ma dobbiamo rientrare al più presto. Devo tornare alla miniera.» «Capisco» convenne subito Terry. «Ma vedi, Rod, non posso decollare da questa pista al buio. Non c'è illuminazione.» «Partiremo alle prime luci dell'alba.» Rod dormì pochissimo quella notte. Ogni volta che si svegliava, Terry lo sentiva agitarsi al suo fianco, preoccupato. Nelle primissime ore del mattino anche lei non riuscì più a prender sonno e lo osservò, intento a fumare una sigaretta accanto alla finestra e a fissare fuori nell'oscurità. Era la prima notte che passavano insieme senza fare l'amore. All'alba Rod era disfatto e aveva gli occhi gonfi. Alle otto l'aereo si staccò dalla pista e atterrò a Johannesburg poco dopo le dieci. Rod entrò subito nell'ufficio di Hank a telefonare. Gli rispose Lily Jordan. «Signorina Jordan, che diavolo sta succedendo?» «Oh, è lei, signor Ironsides! Grazie a Dio! Grazie a Dio è arrivato, è accaduta una cosa terribile!» 65. Prima delle nove, Johnny Delange aveva fatto saltare il fondo della galleria due volte, avanzando di altri dieci metri circa nella faglia di serpentino. Johnny aveva scoperto che se i fori che accoglievano le mine erano più profondi di un metro circa, si otteneva sulla roccia di serpentino un effetto deflagrante molto maggiore che compensava abbondantemente il tempo richiesto dalla perforazione più lunga. Per la prossima carica decise di infischiarsene di tutti i regolamenti di sicurezza e di raddoppiare la quantità di esplosivo. «Big King» urlò, per farsi sentire nel frastuono dei martelli pneumatici in azione. «Vai con una squadra all'imboccatura e prendete sei casse di Dynagel.» Seguì con lo sguardo il gruppo che si allontanava, poi si accese una sigaretta e rivolse la propria attenzione ai suoi trivellatori. Erano piazzati di fronte alla
muraglia di roccia, coperti di sudore. La roccia scura della faglia assorbiva la luce delle lampadine fissate al soffitto, conferendo alla galleria un'aria tetra, lugubre, densa di sinistri presagi... E Johnny cominciò a pensare a Davy. All'improvviso si sentì preda di una strana inquietudine e avvertì distintamente, su tutto il corpo, la pelle d'oca. "Davy è qui". Johnny lo sapeva, non aveva il minimo dubbio in proposito. Agghiacciato dalla paura, si voltò rapidamente guardandosi alle spalle. Il tunnel dietro di lui era deserto e Johnny si lasciò sfuggire un debole sogghigno. «"Shaya, madoda"» ordinò ad alta voce ai suoi uomini. Con il fracasso dei martelli pneumatici, quelli non potevano certo sentirlo, eppure il suono della sua voce servì a restituirgli un po' di sicurezza. Quella sensazione strisciante non era ancora scomparsa, tuttavia. Johnny sentì che Davy era ancora lì, che cercava di dirgli qualcosa. Allora, per combattere quella sensazione, Johnny tornò in fretta accanto ai suoi trivellatori, quasi cercasse conforto nella loro presenza fisica. Era inutile. I nervi cominciavano a cedergli ormai e come reazione fisica sentiva sul corpo le prime gocce di sudore. Di colpo, il negro che azionava il martello perforatore, al centro della parete di scavo, barcollò all'indietro. «Ehi!» urlò Johnny, poi vide che attorno alla punta dell'attrezzo zampillavano sottili spruzzi d'acqua. Qualcosa stava respingendo verso il tunnel la punta d'acciaio della macchina, e lo faceva con tale forza da far barcollare anche l'addetto. «Ehi!» Johnny si avvicinò, ma in quel preciso istante il martello schizzò dal foro come fosse una palla di cannone e decapitò l'operaio negro, scagliandone il corpo lungo la galleria e inondando le pareti di sangue. Dal foro sgorgò un getto d'acqua compatto. La sua pressione era tale che l'aiutante di macchina finì con la cassa toracica sfondata, quasi fosse stato investito da un'automobile in corsa. «Fuori!» urlò Johnny. «Uscite!» Ma la parete di roccia esplose con una potenza molto maggiore che se fosse stata minata di Dynagel. Johnny Delange morì sul colpo, ridotto a un ammasso informe. Nessuno della sua squadra si salvò. Il mostruoso getto d'acqua che si riversò nella galleria dopo l'esplosione, trascinò con furia selvaggia i resti della vittime. Big King si trovava alla stazione del pozzo per prendere l'esplosivo, quando udì il ruggito dell'acqua in arrivo. Sembrava il rumore di un treno lanciato a tutta velocità in un tunnel, un lamento monotono ma di una forza irresistibile. L'acqua comprimeva l'aria sollevando folate fortissime di polvere e di sassi. Big King e il suo gruppo di uomini rimasero a fissare inorriditi il fronte della colonna liquida che si riversava schiumante dalla galleria trasportando detriti e resti umani. Scaricandosi nella diramazione a T della galleria principale del livello 66, l'impeto dell'inondazione scemò leggermente, ma proseguì verso la stazione del montacarichi in un muro compatto che arrivava alla cintola. «Da questa parte!» Big King fu il primo a reagire e balzò verso la scala d'emergenza che conduceva al livello superiore. I suoi uomini non furono altrettanto svelti e quel fiume d'acqua li travolse spiaccicandoli contro la gabbia d'acciaio che circondava il pozzo del montacarichi. La cresta dell'ondata afferrò le gambe di Big King tentando di risucchiarlo, ma il gigante negro riuscì a divincolarsi e ad arrampicarsi in salvo. Sotto di lui, l'acqua si riversò nel pozzo come fosse lo scarico di una vasca, e gorgogliò in un mostruoso vortice, allagando i livelli inferiori. 66. Lasciando Terry al campo dell'aeroclub, Rod si precipitò immediatamente alla Sonder Ditch. Arrivato alla miniera, balzò dalla Volkswagen e si aprì un varco tra la folla vociante che si assiepava attorno all'imboccatura del pozzo numero 1. Dimitri aveva gli occhi sbarrati e un'aria sconvolta; al suo fianco Big King torreggiava come un colosso.
«Cos'è successo?» chiese Rod. «Diglielo» fece Dimitri a Big King. «Ero alla stazione del pozzo con la mia squadra. Dalla bocca della galleria è balzato fuori un fiume, un grande fiume d'acqua più rapido dello Zambesi in piena, che ruggendo come un leone ha mangiato tutti gli uomini che erano con me. Solo io sono riuscito ad arrampicarmi fuori.» «Abbiamo colpito una sacca enorme, Rod» intervenne Dimitri. «L'acqua sta entrando velocissima. Di questo passo, in quattro ore tutti i livelli al di sotto del sessantasei saranno allagati.» «Avete sgombrato la miniera?» domandò Rod. «Sono tutti fuori, tranne Delange e la sua squadra. Erano in quella galleria. Ho paura che siano stati fatti a pezzi.» «Hai avvertito le altre miniere che c'è il pericolo che l'acqua rompa i confini e allaghi anche da loro?» «Sì, stanno evacuando.» «Bene.» Rod si diresse alla sala dei circuiti di brillamento, seguito a fatica da Dimitri. «Dammi le tue chiavi e trova il capo elettricista.» Dopo alcuni minuti i tre uomini si riunirono nella minuscola casamatta di cemento. «Prepara il circuito speciale» ordinò Rod. «Farò saltare la rete protettiva di mine sigillando la galleria.» L'elettricista lavorò velocemente sul quadro di controllo, poi alzò il capo guardando Rod. «Pronto!» disse. «Controllo» annuì Rod. Il tecnico fece scattare l'interruttore. I tre uomini trattennero il respiro. Fu Dimitri a parlare per primo. «Rosso!» disse. Sul pannello di controllo del circuito speciale la spia rossa occhieggiava in maniera sinistra. «Cristo!» imprecò l'elettricista. «E' saltato il circuito. L'acqua deve aver strappato i fili.» «Forse è un guasto del pannello.» «No.» L'elettricista scosse il capo con decisione. «Ecco... ci siamo» mormorò Dimitri. «Addio Sonder Ditch!» Rod si precipitò fuori dalla cabina, tra la folla che attendeva ansiosa. «Johnson!» disse a uno dei suoi capitani di miniera. «Vai giù allo Yacht Club e portami il canotto di salvataggio. Più in fretta che puoi, forza!» L'uomo partì di corsa e Rod si rivolse all'elettricista che stava uscendo dalla sala di controllo. «Procurami un esploditore manuale a batteria, filo, pinze, guanti e due rotoli di corda di nylon. Muoviti!» L'elettricista eseguì l'ordine. «Rod.» Dimitri lo prese per un braccio. «Che hai intenzione di fare?» «Scendo là sotto. Troverò l'interruzione del circuito, poi farò esplodere le mine con il dispositivo manuale.» «Cristo!» Dimitri restò a bocca aperta. «Sei pazzo, Rod. Morirai senz'altro!» Rod ignorò la protesta dell'amico. «Voglio qualcuno che venga con me. Un uomo forte. Il più forte che c'è... dovremo andare con il canotto controcorrente.» Rod si guardò intorno. Big King si trovava vicino alla baracca del sorvegliante. I due uomini erano così alti da spiccare al di sopra di tutte le teste dei presenti. «Vieni tu con me, Big King?» chiese Rod. «Sì» rispose il colosso bantu. 67. In meno di venti minuti erano pronti. Rod e Big King si erano messi in maglietta e mutandine da bagno; per proteggersi i piedi avevano calzato scarpe da tennis e i robusti caschi di fibra sul capo davano l'ultimo tocco di incongruenza al loro strano abbigliamento.
Il battello di gomma, lungo circa due metri e mezzo, era così leggero che si poteva sollevarlo con una mano. All'interno, impacchettato, giaceva l'equipaggiamento di cui avrebbero avuto bisogno per compiere l'operazione che li attendeva. Una sacca impermeabile conteneva l'esploditore a batteria, le pinze, il cavo, i guanti e una torcia elettrica. Ai fianchi dell'imbarcazione erano assicurati due rotoli di corda di nylon leggera, un'accetta, un piccolo piede di porco e un machete affilato come un rasoio, racchiuso in un fodero di cuoio. Alle estremità del canotto erano legate due gomene di nylon per il traino. «Cos'altro ti serve, Rod?» chiese Dimitri. Ironsides scosse il capo, pensieroso. «Niente, Dimitri. Questo dovrebbe bastare.» «Bene!» Il greco fece un cenno e quattro uomini caricarono il canotto nella gabbia in attesa. «Andiamo» disse Dimitri ed entrò, seguito da Big King. Rod indugiò un istante e alzò lo sguardo al cielo. Era di un azzurro brillante. Prima che l'addetto alla gabbia chiudesse la porta, una Rolls Royce Silver Cloud arrivò silenziosamente al pozzo. Dalla vettura scesero Hurry Hirschfeld e Terry Steyner. «Ironsides!» ruggì Hurry. «Che diavolo succede?» «Abbiamo bucato una sacca d'acqua» rispose Rod dalla gabbia. «Acqua? E da dove è venuta?» «Da dietro il Grande Tuffo.» «Ha scavato nel Grande Tuffo?» «Sì.» «Pezzo di bastardo... così la Sonder Ditch verrà sommersa» inveì Hurry avanzando verso la gabbia. «No, non ancora» replicò Ironsides. «Rod. Non puoi scendere laggiù» disse Terry, avvicinandosi pallidissima. Rod spinse da parte l'addetto e chiuse la porta. La donna si lanciò contro la barriera metallica del pozzo, ma ormai la gabbia era partita verso le viscere della terra. «Rod... Rod» mormorò Terry, e Hurry la circondò con un braccio accompagnandola alla Rolls Royce. Dal sedile posteriore dell'auto, Hurry Hirschfeld condusse un rapido processo improvvisato contro Rodney Ironsides. Uno per uno convocò i vari dirigenti della Sonder Ditch e li interrogò. Anche quelli fedeli a Ironsides non poterono addurre gran che in sua difesa, altri invece ne approfittarono per regolare vecchi conti che avevano con Rod. Terry sedeva accanto al nonno e ascoltò sconvolta la condanna dell'uomo che amava. Non esisteva alcun dubbio che Rodney Ironsides, senza l'autorizzazione della direzione centrale, avesse iniziato i lavori di sviluppo di una nuova galleria così rischiosa e contraria alla politica della Compagnia da risultare quasi un disegno criminale. «Perché l'ha fatto?» mormorò Hirschfeld sconcertato. «Cosa sperava di ottenere spingendosi nel Grande Tuffo? Sembra proprio un tentativo deliberato di sabotare la Sonder Ditch.» Il vecchio cominciò a fremere di rabbia. «Bastardo! Ha sommerso la miniera e ucciso decine di uomini. Gliela farò pagare! Lo farò a pezzi, lo trascinerò in tribunale. Danneggiamento pluriaggravato... omicidio colposo plurimo! Perdio, avrò le sue budella per quello che ha fatto!» Ascoltando la furia e le minacce di Hurry, Terry non riuscì più a star zitta. «Non è stata colpa sua, Pops. E' stato costretto a farlo.» «Ah!» sbuffò Hurry. «Ti ho sentita al pozzo qualche minuto fa. Dimmi un po', ragazzina... cosa rappresenta quest'uomo per te, visto che prendi le sue difese con tanta nobiltà d'animo?» «Pops, ti prego, credimi.» Gli occhi di Terry sembravano ancora più grandi su quel volto pallidissimo. «Perché dovrei crederti? Voi due dovete aver combinato qualcosa insieme, mi sembra ovvio... e tu adesso, è naturale, cerchi di proteggerlo.» «Ascoltami, almeno» supplicò lei. Hurry si frenò a fatica e respirando affannosamente si voltò verso la nipote. «Su, ma parla chiaro» la avvisò. Agitata, Terry cominciò a raccontargli i fatti, ma a un certo punto si
rese conto che non convinceva nemmeno se stessa. L'espressione del nonno divenne sempre più cupa, finché il vecchio ormai spazientito, interruppe la nipote. «Buon Dio, Theresa, questo non è da te... cercare di scaricare la colpa su tuo marito! E' una cosa spregevole! Vuoi addossare...» «Ma è vero! Dio mi è testimone.» Terry era quasi in lacrime e stava tirando, nella frenesia del momento, la manica di Hurry. «Rod è stato costretto a farlo. Non ha avuto scelta.» «Hai una prova di quello che sostieni?» le chiese seccamente il nonno. Terry rimase silenziosa, fissandolo ammutolita. Che prove poteva avere? 68. La gabbia, avvicinandosi al livello 65 cominciò a rallentare. Le luci erano ancora accese ma le gallerie si presentavano deserte. Arrivarono e scaricarono il canotto. Dal livello sottostante proveniva il rombo costante dell'acqua che, spostando enormi quantità d'aria, spingeva violente folate di vento su lungo il pozzo. «Big King e io scenderemo con la scaletta d'emergenza. Voi, dopo, ci passerete il canotto» disse Rod a Dimitri. «Assicurati che ci sia tutto l'equipaggiamento dentro.» «Va bene» annuì il greco. Tutti erano pronti. Gli uomini che erano scesi con loro nella gabbia aspettavano ansiosi. Rod non trovò alcun motivo per indugiare oltre, e sentì una gelida morsa serrargli il ventre. «Andiamo, Big King.» E si accostò alla scaletta. «Buona fortuna, Rod» gli augurò Dimitri, ma lui pensò bene di risparmiare il fiato per la fredda discesa nelle tenebre. Al livello 66 tutte le luci erano saltate; sotto il raggio della sua lampada le acque scorrevano nere e impetuose, riversandosi nella bocca del pozzo e piegando il reticolato protettivo. La rete metallica fungeva da setaccio, trattenendo detriti e rottami. Tra pezzi di legno, condutture e altri oggetti irriconoscibili, Rod intravide i corpi delle vittime gonfi d'acqua e schiacciati da quell'enorme pressione. Scese fino in fondo alla scala e guardingo si calò in acqua. Subito si sentì come afferrato da una forza spaventosa. L'acqua gli arrivava alla cintola, ma aggrappandosi alla scaletta riusciva a resistere alla corrente. Big King lo seguì e gli si affiancò. Rod dovette gridare per farsi sentire in mezzo a tutto quel rimbombo. «Tutto bene?» «Sì. Possono calare il canotto, adesso.» Rod indirizzò il fascio della torcia verso l'alto e dopo alcuni minuti l'imbarcazione di gomma scendeva verso di loro, oscillando lentamente. I due la afferrarono, raddrizzandola, poi sganciarono la corda. Il canotto fu subito risucchiato contro la rete protettiva del pozzo, e Rod controllò rapidamente il contenuto. Era tutto a posto. «Bene.» Rod si legò alla vita una corda di nylon e si arrampicò lungo la barriera protettiva finché non raggiunse il soffitto del tunnel. Dietro di lui, Big King stava allentando la corda. Rod si sporse finché non riuscì a toccare la tubatura d'aria compressa che correva lungo il soffitto della galleria. Erano tubi spessi quanto il polso di un uomo e avrebbero sostenuto facilmente il suo peso. Rod si aggrappò con forza, poi si diede lo slancio contro la barriera e rimase sull'acqua, sfiorandone la superficie con i piedi. Una mano dopo l'altra, iniziò la faticosa risalita del tunnel, con la corda che gli penzolava dietro come una lunga coda bianca. Bisognava percorrere novanta metri per raggiungere il punto in cui l'acqua si riversava dalla diramazione nella galleria principale e, una volta arrivato, Rod senti l'urlo di protesta dei muscoli delle sue spalle. Gli sembrava che gli avessero strappato le braccia dalle articolazioni, e il peso della corda di nylon, che stava trascinando nell'acqua, stava diventando insopportabile. All'incrocio con il tunnel laterale l'acqua formava un vortice. Rod, sostenendosi alla
parete del passaggio principale, si calò lentamente e riuscì a resistere al gorgo. Subito cominciò a legare la corda alle sbarre che venivano fissate nella parete per puntellare la roccia e in pochi minuti riuscì a stabilire una base sicura da cui proseguire. Big King intanto lo aveva raggiunto. Il bantu scivolò in acqua accanto a Rod e afferrò anche lui la corda. Dopo alcuni istanti di riposo Rod gli chiese: «Pronto?» Big King annuì. I due strinsero la corda cui era legato il battello e tirarono. Per un istante non accadde nulla, come se all'altra estremità fosse stata legata una montagna. «Insieme!» grugnì Rod e questa volta riuscirono a guadagnare una trentina di centimetri di corda. Poi centimetro dopo centimetro trascinarono il canotto controcorrente fino alla loro posizione e lo ancorarono alle barre della parete. Avevano le mani sanguinanti e si aggrapparono al battello esausti e senza fiato, incapaci di parlare. Alla fine Rod guardò Big King e vide i suoi stessi dubbi riflessi negli occhi del negro. La rete di mine distava trecento metri e la velocità dell'acqua nella nuova diramazione era doppia rispetto alla galleria principale. Avrebbero avuto qualche possibilità di successo di fronte a quella scatenata forza della natura? «Adesso vado io» disse Big King, e Rod annuì. Il gigante bantu si arrampicò sulla corda e raggiunse la tubatura del soffitto, poi lentamente scomparve, inghiottito dalla bocca spalancata del tunnel. Quando giunse il segnale di Big King, Rod si arrampicò lungo il tubo e riprese il cammino. Dopo un centinaio di metri raggiunse il negro che nel frattempo aveva fissato un'altra base. In quel punto la forza dell'acqua era tale che le corde che li cingevano alla vita laceravano loro la pelle. Per la seconda volta ripeterono la faticosissima operazione di recupero del canotto, poi Rod salì di nuovo e appoggiò le sue mani, ormai piene di piaghe, sul condotto dell'aria compressa. Il dolore gli riempì gli occhi di lacrime. Rod sbatté le palpebre e proseguì, rendendosi conto in modo assai vago, che se fosse caduto poteva considerarsi un uomo morto. Quel torrente d'acqua lo avrebbe trascinato, sbattacchiandolo contro le pareti di roccia, sulla barriera del pozzo... dove sarebbe arrivato a brandelli. A un certo punto fu costretto a fermarsi stremato, si agganciò a una barra della parete e iniziò ancora una volta la solita mostruosa trafila. Mentre con Big King recuperava il canotto, Rod fu sul punto di svenire un paio di volte, ma riuscì a riprendersi grazie alla forza di volontà, sostenuto anche dallo stoico esempio del compagno. Rod sapeva che finché Big King teneva duro, lui non poteva mollare e dichiararsi sconfitto. Poi, riprese ad avanzare, appeso a quella tubatura. A Rod pareva di essere aggrappato lì da una vita, ormai procedeva lentissimo tra gli spasmi di dolore dei muscoli e delle ossa che, pur sovraccarichi di fatica, continuavano a funzionare. Il sudore che gli gocciolava negli occhi gli appannava la vista, così sul primo momento Rod non credette a ciò che vide di fronte a sé nell'oscurità. Scosse la testa e, socchiudendo gli occhi, seguì il fascio di luce della sua torcia. Dal soffitto del tunnel pendeva una massiccia struttura di legno che aveva resistito all'assalto dell'inondazione. Di colpo, Rod capì che si trattava del telaio della porta a ventola. Proprio oltre quella porta iniziava la sua rete di mine. Ce l'avevano fatta! Sentì nuove forze rifluire nel suo corpo e si spinse avanti lungo il tubo. La struttura di legno offriva un ottimo ormeggio. Rod assicurò la corda e fece il segnale a Big King. Mentre riprendeva fiato illuminò i dintorni con la torcia e vide improvvisamente la causa dell'interruzione del circuito di sparo. Il cavo verde che alimentava il circuito di brillamento pendeva dal soffitto della galleria; evidentemente, impigliatosi nella porta a ventola, si era strappato quando quest'ultima era stata divelta dalla piena. L'estremità recisa del cavo dondolava sulla superficie dell'acqua e Rod fissò lo sguardo in quella direzione, provando un
immenso sollievo al pensiero che non avrebbero più dovuto continuare la loro agonizzante risalita. Quando Big King lo raggiunse, sbucando dall'oscurità, Rod gli indicò il cavo. «Là, guarda» riuscì a dire ormai senza fiato. Il gigante socchiuse gli occhi e fece cenno d'intesa, incapace di parlare. Dovettero attendere cinque minuti prima di cominciare a trascinare fin lì il canotto per ancorarlo al telaio della porta. Poi riposarono di nuovo. Ormai si muovevano con una lentezza esasperante. Nessuno dei due aveva più molto da spendere. «Prendi l'estremità del cavo» disse Rod a Big King, mentre si issava sul fianco del canotto e si abbandonava, esausto, sul fondo di legno dell'imbarcazione. Una volta a bordo, Rod iniziò a disfare goffamente la protezione impermeabile dell'esploditore. Big King, immerso fino alla cintola, si aggrappava intanto al telaio e si protendeva in avanti verso il cavo, che danzava sull'acqua appena oltre le sue dita, senza riuscire tuttavia a raggiungerlo. Al secondo tentativo, con un grugnito soddisfatto, afferrò il filo e lo passò a Rod. Lavorando con estrema cura, Rod collegò i morsetti della bobina di filo all'estremità recisa del cavo. La sua intenzione era di lasciarsi trasportare indietro sul canotto insieme a Big King, srotolando contemporaneamente la corda di nylon e la bobina di filo. Giunti a una distanza di sicurezza avrebbero fatto brillare le mine. Rod lavorò con dita gonfie e ormai insensibili. I minuti trascorsero lenti mentre il telaio della porta era continuamente sottoposto a una pressione inaudita. Alla fine Rod alzò gli occhi e si sollevò in ginocchio. «Okay, Big King, ho finito» disse e si aggrappò alla struttura di legno per tener fermo il battello. «Sali. Siamo pronti.» Big King cominciò ad avanzare a fatica nell'acqua e in quel preciso istante il telaio della porta cedette. Le travi caddero, incrociandosi come un paio di gigantesche forbici, colpendo le braccia di Rod. Le ossa si spezzarono con uno scricchiolìo secco. Con un urlo di dolore, Rod crollò di schianto, abbandonandosi sul fondo del canotto. Le sue braccia, ormai inutilizzabili erano piegate in un angolo mostruoso, Big King era ancora in acqua a mezzo metro di distanza. Aveva la bocca spalancata, gli occhi che parevano schizzargli dalle orbite, ed era perfettamente immobile come una statua di marmo nero. Sebbene soffrisse in modo pazzesco, Rod inorridì all'espressione dipinta sui lineamenti contorti del compagno. Poi capì! Sotto la superficie dell'acqua, le travi erano cadute con lo stesso movimento a forbice, imprigionando e sbriciolando il bacino di Big King. Era impossibile liberarsi da quella trappola. I due compagni di sventura si guardarono negli occhi, consapevoli che ormai erano irrimediabilmente condannati. «Le braccia» mormoro Rod con voce roca «... le braccia, non posso più usarle... Ce la fai a raggiungere l'esploditore...? Prendilo e gira la maniglia... presto, Big King!» Negli occhi del gigante, annebbiati dal dolore, affiorò lentamente uno sguardo di comprensione. «Siamo spacciati, Big King. Moriamo da uomini. Dai, fai fuoco, fai crollare la roccia! Forza prendilo!» insisté disperatamente Rod. Big King prese l'esploditore e lo strinse al petto con un braccio. «Quella maniglia!» lo incoraggiò Rod. «Girala!» Ma il negro si allungò di nuovo verso il canotto ed estrasse il machete dal fodero. «Cosa fai?» chiese Rod, e in risposta Big King calò un fendente sulla corda di nylon che ancorava il battello pneumatico. Liberato dall'ormeggio, il canotto venne trascinato via dalla corrente. Disteso sul fondo di legno, Rod sentì una voce poderosa levarsi sul fragore delle acque. «Vai in pace, amico!» Poi proseguì la folle discesa sballottato come una trottola, all'improvviso, un massiccio spostamento d'aria gli percosse i timpani, mentre in lontananza tuonava l'eco prolungato di
un'esplosione. Big King aveva fatto brillare la rete di mine. Rodney Ironsides, in quel momento, perse conoscenza e scivolò in una oscurità calda e ovattata da cui sperò di non riemergere mai più. 69. Dimitri era accovacciato accanto al pozzo, al livello 65. Stava fumando la sua decima sigaretta. Il resto dei suoi uomini attendeva con la stessa impazienza. Quasi ogni minuto, Dimitri si chinava sull'imboccatura del pozzo e puntava la torcia una trentina di metri più in basso verso il livello 66. «Da quant'è che sono andati?» chiese, e tutti controllarono il proprio orologio. «Un'ora e dieci.» «No, un'ora e quattordici» corresse un altro. «Cristo, anche i quattro minuti vai a guardare tu!» Poi tutti piombarono di nuovo nel silenzio. Improvvisamente, il telefono della stazione 65 squillò. Dimitri balzò in piedi per rispondere. «No, signor Hirschfeld. Ancora niente!» Restò in ascolto per un istante, e disse: «Benissimo, fatelo scendere, allora.» Riappese e i suoi uomini lo fissarono con aria interrogativa. «Mandano giù un poliziotto» spiegò Dimitri. «E perché?» «Vogliono Big King.» «Il motivo?» «C'è un mandato d'arresto per omicidio.» «Omicidio?» «Sì, dicono che abbia ucciso il portoghese dell'emporio.» «Cristo!» «Big King... ma davvero?» Felici di aver trovato qualcosa che permettesse loro di passare il tempo, gli uomini si lanciarono in una vivace discussione. Finalmente la gabbia scese e arrivò il poliziotto. L'uomo lasciò tutti perplessi; aveva l'aspetto di un becchino trasandato e rispose alle loro domande con uno sguardo dispiaciuto. Per la quindicesima volta, Dimitri si accostò al pozzo e sbirciò verso il livello sottostante. Poi il boato dell'esplosione scosse la terra con un rombo che durò parecchi secondi. «Ce l'hanno fatta!» urlò Dimitri e cominciò a saltellare come un pazzo. Gli uomini balzarono in piedi e presero a darsi manate sulle spalle, tra grida e risate di gioia. Solo il poliziotto non si unì a quella specie di festa. «Aspettate» ordinò Dimitri alla fine. «Zitti tutti! Silenzio! Maledizione, ascoltate!» Gli uomini smisero di chiacchierare. «Che c'è?» chiese uno di loro. «Io non sento niente.» «Appunto!» esultò Dimitri. «L'acqua! Si è fermata l'acqua!» Solo allora gli altri si resero conto che il monotono brontolìo dell'acqua cui le loro orecchie si erano ormai abituate, era cessato del tutto. Un silenzio quasi religioso era sceso nelle gallerie. Mentre gli uomini si univano di nuovo in un'allegra ovazione, Dimitri balzò verso la scaletta e scese con l'agilità di una scimmia. A una decina di metri dal livello 66, scorse il canotto tra i detriti e i rottami che circondavano la bocca del pozzo e riconobbe la figura che giaceva esanime all'interno. «Rod!» urlò, ancor prima di essere arrivato «Rod, stai bene?» Il pavimento della galleria principale era bagnato e alcuni rivoli d acqua serpeggiavano ancora verso il pozzo. Dimitri raggiunse il battello pneumatico e cominciò a girare il corpo di Rod sulla schiena. Solo allora vide le braccia dell'amico. «Oh, Cristo!» esclamò inorridendo, poi gridò subito agli uomini, che stavano di sopra: «Giù una barella, presto.» Rod riprese conoscenza e si trovò legato saldamente a una barella, avvolto in alcune coperte e con le braccia steccate e fasciate. Il familiare cigolìo metallico e la corrente d'aria gli fecero capire che si trovava nella gabbia e stava tornando in superficie.
Riconobbe la voce di Dimitri, impegnato in una vivace discussione. «Perdio, quest'uomo è svenuto e ferito gravemente! Non potete lasciarlo in pace?» «Mi spiace, ma devo svolgere il mio incarico» rispose una strana voce. «Cosa vuole, Dimitri?» domandò Rod, raucamente. «Rod, come stai?» Sentendo l'amico che si riprendeva, Dimitri gli si inginocchiò accanto, ansioso. «Malissimo» mormorò Rod. «Che vuole?» «E' della polizia. Vuole arrestare Big King per omicidio» spiegò il greco. «Be', maledizione, è arrivato in ritardo» sussurrò Rod, e, nonostante il dolore, la cosa gli parve molto buffa. Cominciò a ridere, provando fitte atroci a ogni movimento e sudando abbondantemente. La sua risata divenne incontrollata e selvaggia. «E' arrivato in ritardo» ripeté in preda a un attacco isterico. Poi il dottor Dan Stander gli infilò un ago nel braccio e gli fece un'iniezione di morfina. 70. Hurry Hirschfeld era sceso nel tunnel principale del livello 66. Intorno a lui era in corso un'attività febbrile. Gli uomini delle squadre di cementazione stavano già trasportando le loro attrezzature verso la deviazione bloccata. In breve avrebbero iniziato a pompare migliaia di tonnellate di cemento nella roccia franata che ostruiva la galleria del Grande Tuffo, sigillandola per sempre. Quell'enorme tappo di cemento sarebbe stato anche il sepolcro adatto per Big King, pensò Hurry, un monumento in onore di colui che aveva salvato la Sonder Ditch. Hurry avrebbe dato disposizioni per sistemare una targa commemorativa, all'esterno del muro di cemento, che ricordasse quell'uomo e la sua eroica impresa. Bisognava pensare anche ai vari parenti di Big King, forse sarebbe stato opportuno farli arrivare in volo in occasione della cerimonia, pensò il vecchio. Quelli, comunque, erano problemi dell'ufficio del Personale. La galleria puzzava di umidità e di fango, la roccia gocciolava e faceva freddo. Non era certo il posto più adatto alla sua lombaggine; Hurry aveva visto a sufficienza. Ritornò verso il pozzo, vagamente consapevole del rumore soffocato delle pompe che stavano prosciugando i livelli sottostanti. Le barelle, con il loro macabro carico, coperto da lenzuoli, erano allineate lungo una parete del tunnel. Passando accanto a quel triste spettacolo, l'espressione di Hurry si indurì. "Avrò le budella del responsabile di tutto questo", giurò in silenzio mentre attendeva la gabbia. Terry Steyner era sull'ambulanza accanto a Rod e stava pulendogli il viso dal fango. «E grave, Dan?» chiese. «Tra qualche giorno sarà di nuovo in piedi, vivo e vegeto. Le braccia sono conciate piuttosto male, è per questo che lo sto portando direttamente da uno specialista. A parte le fratture, ci sono solo lo shock e alcune lacerazioni superficiali alle mani. Ma stai tranquilla, si riprenderà benissimo.» Dan osservò, incuriosito, Terry che accarezzava i capelli bagnati di Rod. «Vuoi fumare?» le chiese. «Sì, grazie, accendimene una, Dan.» Le passò la sigaretta. «Non sapevo che tu e Rod foste così amici» azzardò il dottore. Terry alzò rapidamente gli occhi e lo fissò. «La tua discrezione è ammirevole Dan Stander» lo prese in giro lei. «Oh, capisco che non sono affari miei» ritrattò prontamente il dottore. «Non fare lo sciocco, Dan. Tu sei un caro amico di Rod e Joy è una mia cara amica, quindi avete diritto di sapere. Be', io... sono innamorata pazza di questa montagna d'uomo. Voglio divorziare da Manfred il più
presto possibile.» «E Rod ha intenzione di sposarti?» «Non ha ancora parlato di matrimonio, ma accidenti, adesso mi metterò a lavorarmelo per bene» rispose lei, sorridendo. «Buona fortuna a entrambi, allora. Sono sicuro che Rod riuscirà a trovarsi un altro impiego.» «Cosa vorresti dire?» fece Terry. «Be', pare che tuo nonno non lo voglia più vedere neanche dipinto.» Terry rimase in silenzio. Pops le aveva chiesto delle prove... ma che prove c'erano? «Staranno aspettando il responso dei raggi X» suggerì Joy Allbright. Dal suo fidanzamento con Dan, Joy era diventata improvvisamente un'esperta di medicina. Dopo la telefonata di Dan, si era precipitata al Central Hospital di Johnnesburg per tenere compagnia a Terry mentre lei attendeva che Rod uscisse dalla sala del pronto soccorso. Ora le due amiche sedevano l'una a fianco dell'altra. «Immagino di sì» annuì Terry. Le parole di Joy avevano solleticato qualcosa nella sua mente, qualcosa che doveva ricordare. «Ci vogliono circa venti minuti per fare le lastre e svilupparle. Poi il radiologo le esamina e stende una relazione per il chirurgo.» Ecco... Joy si era ripetuta... Terry si tese, concentrandosi sulla parola che l'aveva colpita. Improvvisamente capì. «Il responso... la relazione!» esclamò. «Ecco la prova!» Balzò in piedi. «Joy! Dammi le chiavi della tua auto» ordinò all'amica. «Ma che diavolo...?» Joy rimase stupita. «Adesso non posso spiegarti. Devo andare subito a Sandown, su, dammi le chiavi. Ti spiegherò dopo.» Joy frugò nella borsetta e pescò un portachiavi di pelle che l'amica afferrò al volo. «Dove hai l'automobile?» chiese Terry. «Vicino al cancello centrale.» «Grazie, Joy.» Terry corse via lungo il corridoio con un rapido ticchettìo di tacchi. «E' impazzita» mormorò Joy, perplessa. Dieci minuti dopo, Dan entrò nella sala d'aspetto. «Rod sta bene adesso. E Terry dov'è?» «Se n'è andata, sembrava matta...» rispose Joy e gli spiegò la partenza improvvisa dell'amica. «Credo che faremmo meglio a seguirla, Joy» disse Dan, con espressione preoccupata. «Sì, hai ragione, caro.» «Un attimo solo che prendo il soprabito.» C'era solo un posto dove Manfred avrebbe potuto custodire la relazione geologica di cui Rod le aveva parlato: la cassaforte dello studio. Dato che Terry vi depositava i suoi gioielli, anche lei aveva la chiave e ne conosceva la combinazione. Sebbene spingesse l'Alfa Romeo di Joy al massimo, non rispettando il codice della strada, le occorse più di mezz'ora per arrivare a Sandown. Erano già le cinque passate quando Terry imboccò il vialetto di casa, parcheggiando di fronte ai garage. Il parco era deserto, i giardinieri infatti smontavano alle cinque precise e anche dall'abitazione non giungeva alcun segno di vita. Tutto come previsto. Manfred era ancora in Europa e sarebbe rientrato solo tra quattro giorni. Lasciando le chiavi nel cruscotto dell'auto, Terry corse subito lungo il sentiero, salì la gradinata ed entrò dall'ingresso principale, proseguendo direttamente per lo studio del marito. Una volta dentro, fece scorrere il pannello murale e iniziò la laboriosa operazione di aprire la cassaforte, cosa di cui non era molto esperta. Dopo aver armeggiato a lungo, a ogni modo, lo sportello si aprì e Terry cominciò a passare in rassegna documenti e dossier, disponendoli ordinatamente sul pavimento. Non aveva la più pallida idea né del formato né del colore della relazione che cercava, così trascorsero
una decina di minuti prima che aprisse una cartella priva di intestazione e vi leggesse: "Rapporto riservato sulle formazioni geologiche del giacimento di Kitchenerville, con particolare riguardo alle aree situate a est del filone intrusivo chiamato Grande Tuffo". Con un improvviso senso di sollievo, Terry scorse frettolosamente le pagine, a caso. Sì, non c'erano dubbi. «E' proprio questo!» esclamò ad alta voce. «Lo prendo io, grazie.» Terry sussultò al suono di quella voce temuta e familiare, e si rialzò di scatto, girando su se stessa, stringendo la cartella al petto. Poi cominciò a indietreggiare per sfuggire all'uomo che stava sulla soglia. Riconobbe a stento il marito, non l'aveva mai visto conciato in quel modo. Manfred era in maniche di camicia, con il colletto slacciato e una macchia giallastra sul petto. A giudicare dai calzoni stropicciati, doveva aver dormito senza spogliarsi. I capelli scarmigliati gli ricadevano disordinatamente sulla fronte. Il viso non era rasato e gli occhi erano gonfi. «Dammelo.» Manfred avanzava tendendo una mano. «Manfred, cosa fai qui?» gli chiese lei, continuando a indietreggiare. «Quando sei tornato?» «Dammelo, sgualdrina!» «Perché mi parli in questo modo?» fece Terry, nel tentativo di guadagnare tempo. «Sgualdrina!» ripeté il marito e balzò in avanti. Terry lo evitò agilmente e riuscì a infilare il corridoio che dava sull'ingresso, sempre seguita da Manfred, ma inciampò in un tappetto e cadde barcollando contro la parete. «Puttana!» Manfred le fu subito addosso e lottò per strapparle l'incartamento dalle mani. Terry resistette e per un istante si trovò faccia a faccia con lui, leggendogli negli occhi un'espressione completamente folle. All'improvviso, Manfred la lasciò, si piegò all'indietro e la colpì in pieno viso con un pugno. Terry sbatté il capo contro la parete, mentre la mano del marito calava di nuovo su di lei. La donna sentì il sangue colarle dal naso, barcollò e riuscì a sgattaiolare nella sala da pranzo, cadendo contro il tavolo. Lui la raggiunse, la rovesciò sul tavolo e prese a stringerle la gola. «Ti ucciderò, puttana» le disse ansando e artigliandole il collo in una stretta sempre più potente. Con la forza della disperazione, Terry gli affondò le unghie nel viso, aprendogli lunghi sfregi rossi sulla pelle. Manfred lanciò un grido e la lasciò, portandosi le mani al volto. Per un attimo rimase immobile poi scoprì la faccia e si guardò le mani macchiate di sangue. «Ti ucciderò per questo!» Ma mentre avanzava di nuovo verso di lei, Terry scivolò giù dal tavolo e gli sfuggì. «Squadrino! Puttana!» urlò allora Manfred. Terry in quel momento afferrò, dalla credenza, una massiccia bottiglia di cristallo e la scagliò con tutte le forze che le rimanevano, verso il marito. Lui non ebbe il tempo di piegarsi. La bottiglia lo colpì in piena fronte, mandandolo a gambe levate, tramortito. Terry raccolse l'incartamento e corse fuori di casa, imboccando, ormai stremata, il vialetto che conduceva alla strada. Alle sue spalle udì, a un certo punto, il rombo di un'auto messa in moto, e ansando terribilmente si voltò a guardare. Manfred l'aveva seguita all'esterno ed era salito a bordo dell'Alfa Romeo di Joy. Con il viso striato di sangue e un'espressione selvaggia, l'uomo ingranò la marcia e l'auto balzò in avanti tra uno stridìo di pneumatici. Terry capì che lui aveva deciso di investirla e liberatasi delle scarpe uscì dal viale deviando verso il prato. Piegato sul volante, Manfred si concentrò sulla figura che correva di fronte a lui. Ormai non era più la relazione geologica che Terry cercava di sottrargli a interessarlo. No, l'unica cosa che gli importava era
distruggere quella donna. Nella sua mente furiosa e malata, Manfred vedeva in Terry il simbolo di tutte le disgrazie, le umiliazioni che aveva patito e voleva vendicarsi schiacciandola, lacerando sotto il telaio d'acciaio dell'Alfa Romeo quel corpo femminile caldo appiccicoso, ributtante. Manfred mise la seconda e sterzò bruscamente facendo slittare le ruote posteriori sul fitto tappeto erboso, poi raddrizzò l'assetto della vettura e puntò sulla figura che fuggiva. Terry aveva già raggiunto i cespugli di protea sulla parte bassa della terrazza e si voltò a guardare la vettura che scendeva con un balzo il pendio, atterrando pesantemente sulle sospensioni. Vedendo il volto pallido e rigato di lacrime della moglie, Manfred sogghignò consapevole della sua posizione di vantaggio. Tagliò direttamente attraverso una macchia di protea, tra un turbinare di foglie e di rami, e si trovò a ridosso di Terry. La donna, continuando a guardarsi alle spalle, inciampò e cadde in ginocchio. Era in suo potere ormai. Aveva il viso striato di lacrime e di sangue, i capelli sciolti e scarmigliati e sembrava aspettare, inginocchiata, il colpo di grazia. Manfred provò un improvviso senso di disappunto. Non voleva che tutto finisse così presto, senza permettergli di gustare più a fondo la sua sadica rivalsa, il suo senso di potere. All'ultimo momento sterzò sfiorando di pochi centimetri Terry e ricoprendola di terriccio. Con una sonora risata e gli occhi iniettati di furia selvaggia, Manfred descrisse una curva strettissima, abbattendo un altro cespuglio di protea. Terry intanto, si era rialzata e stava raggiungendo gli spogliatoi della piscina, tra gli alberi della terrazza erbosa più bassa, con un discreto margine di vantaggio. Forse sarebbe riuscita a eludere la sua caccia. «Puttana!» ringhiò allora Manfred e inserì la terza mandando il motore fuori giri. L'Alfa riprese, con un ruggito, l'inseguimento della vittima. Se Terry si fosse sbarazzata della voluminosa cartella avrebbe potuto raggiungere gli spogliatoi prima dell'auto; l'incartamento, invece, ostacolava e rallentava la sua fuga. Mancavano ancora venti metri quando sentì che Manfred le era ormai addosso lungo il bordo della piscina. Terry allora si tuffò lateralmente, colpendo l'acqua con un fianco. L'auto la superò e si inchiodò con un cigolìo di freni. Manfred balzò fuori e tornò indietro, lungo la piscina. Vide la moglie che cercava di avanzare, dibattendosi nell'acqua, e con una risata stridula si tuffò, piombandole a peso morto sulla schiena. Terry sentì i polmoni, già spossati, riempirsi d'acqua e riemerse tossendo e sputando, accecata dai suoi capelli fradici, ma quasi subito si sentì afferrare alle spalle e spingere di nuovo sotto. Per alcuni secondi riuscì a lottare disperatamente, poi le forze cominciarono piano piano ad abbandonarla. Manfred sentendo scemare la resistenza della moglie scoppiò di nuovo a ridere, una risata convulsa, ebete, la risata di un pazzo. «Dan!» Joy indicò tra gli alberi. «Ma quella è la mia auto, parcheggiata vicino alla piscina!» «E che diavolo ci fa laggiù?» «C'è qualcosa che non va. Terry non attraverserebbe mai il suo bel giardino, in una situazione normale!» Dan frenò bruscamente, fermandosi lungo il viale d'accesso. «Vado a dare un'occhiata.» E uscì dalla vettura affrettandosi attraverso il prato. Joy lo seguì a fatica. A un certo punto Dan vide un uomo in acqua interamente vestito e riconobbe in lui Manfred Steyner. «Ma che diavolo sta facendo?» Dan partì di corsa e, raggiunta la piscina, capì di colpo cosa stava svolgendosi sotto i suoi occhi. «Cristo! La sta affogando!» esclamò, e si gettò in acqua. Non perse tempo a lottare con Manfred. Lo colpì subito con una poderosa sventola alla tempia, facendolo barcollare di lato e costringendolo a lasciare libera Terry.
Ignorando Manfred, Dan sollevò la donna dall'acqua e salì verso i gradini, deponendola poi sul bordo della piscina. Si inginocchiò su di lei e iniziò a praticarle la respirazione artificiale. Terry si agitò, tossì e vomitò debolmente. Joy, intanto, raggiunse Dan e gli si inginocchiò vicino. «Mio Dio, Dan, cos'è successo?» «Quel bastardo stava cercando di annegarla.» Dan sollevò lo sguardo dal corpo di Terry senza interrompere il ritmo della respirazione che cominciava a far riprendere la donna. Sull'altro lato della piscina, Manfred era emerso all'asciutto, e sedeva sul bordo dondolando i piedi nell'acqua e massaggiandosi il punto in cui era stato colpito. Al petto stringeva l'incartamento ormai ridotto a un ammasso informe. «Joy, prendi tu il mio posto? Terry sta rinvenendo e io vorrei proprio mettere le mani su quel vigliacco.» Joy sostituì il fidanzato, che si alzò di scatto. «Cosa vuoi fargli?» gli domandò. «Suonargliele di santa ragione.» «Buona idea!» l'incoraggiò Joy. «Mollagliene uno anche da parte mia.» Manfred aveva sentito la discussione e, mentre Dan faceva il giro della piscina, arrivò barcollando all'Alfa, salì e partì attraverso il prato. Dan era in ritardo. «Joy, pensa tu a Terry!» disse alla fidanzata, poi raggiunse di corsa la sua Jaguar lungo il vialetto, ma, prima di aver invertito la direzione, l'Alfa Romeo era già scomparsa oltre la cancellata d'ingresso. Senza occhiali, Manfred vedeva tutto appannato e indistinto. Giunto allo stop, in fondo alla strada, frenò istintivamente e rimase per un po' indeciso, grondante d'acqua, a fissare la relazione geologica sul sedile di fianco, che cominciava a perdere qualsiasi forma compiuta. Doveva sbarazzarsi di quei fogli, costituivano infatti la sola prova della sua colpevolezza. Questo era l'unico pensiero lucido che passasse per la testa di Manfred. Per la prima volta in vita sua la limpidezza cristallina dei suoi processi mentali era svanita. Manfred era confuso, la sua mente balzava di continuo da un argomento all'altro; l'intenso piacere per i colpi inflitti a Terry si mescolava con il bruciore delle proprie ferite, ma non gli riusciva di concentrarsi né sull'una né sull'altra cosa perché sopra tutto questo regnava un senso di paura e d'incertezza. Manfred si sentiva vulnerabile, ferito, braccato. Il suo cervello baluginava a sprazzi come un computer guasto, e forniva risposte illogiche. Guardò nello specchietto retrovisivo e scorse la Jaguar che usciva dal cancello di casa, dirigendosi nella sua direzione. «Cristo!» esclamò in preda al panico. Pigiò il piede sull'acceleratore e l'Alfa, sbandando, si portò sull'altro lato della statale tagliando la strada a un autocarro che sopraggiungeva e schizzando via in direzione di Kyalami. Dan attese che il camion passasse poi imboccò la Statale, tenendosi alle spalle dell'automezzo pesante. Quando finalmente la corsia opposta fu libera lo sorpassò, lanciando la Jaguar all'inseguimento dell'Alfa Romeo, che appariva come un puntino all'orizzonte. Il ricordo del trattamento subìto da Terry rese furioso Dan che, teso al volante mentre il tachimetro segnava i centosettanta, si portò ben presto a ridosso di Manfred, che era stato costretto a rallentare da un autobus scolastico. Dan scalò una marcia, pronto a scattare in fuori e superare l'Alfa Romeo non appena gli si fosse presentata l'occasione e proprio in quell'istante vide il volto pallido di Manfred che si rifletteva nel retrovisore. Lo aveva riconosciuto e il suo viso aveva un'espressione di paura. L'Alfa schizzò in sorpasso, tra un ululare di clacson dei veicoli provenienti dalla corsia opposta che si scansarono bruscamente, poi accelerò lasciandosi alle spalle l'inseguitore. Dan allora, ignorando le urla indignate dell'autista del bus scolastico, si incuneò tra quest'ultimo e il ciglio della strada, sorpassandolo all'interno.
La Jaguar disponeva di una velocità superiore e sul lungo rettilineo della statale per Pretoria si riportò in breve tempo alle calcagna dell'Alfa. Vedendo Manfred che guardava ripetutamente nello specchietto retrovisivo, Dan ebbe un sogghigno spietato. Di fronte a loro la strada si alzava in un dosso, ed era quasi totalmente ostruita da una vecchia utilitaria che arrancava a circa quaranta chilometri all'ora nel tentativo di sorpassare un autocarro sovraccarico di verdura. Il clacson dell'Alfa lanciò un'acuta nota di avvertimento e la vettura sportiva si portò all'esterno affiancando i due lentissimi veicoli e sconfinando così abbondantemente nella corsia opposta. In quell'istante, dal dosso, sbucò una massiccia betoniera. Dan con tutta la sua forza affondò il piede sul freno e fece da spettatore al disastro. La betoniera e l'Alfa si scontrarono frontalmente. Manfred tentò, con un gesto disperato, di rientrare quando ormai era troppo tardi. L'Alfa schizzò via di traverso, lasciando miracolosamente illesi i due lenti veicoli che aveva sorpassato, saltò la banchina della strada e andò a schiantarsi contro un eucalipto tra una pioggia di foglie. Dan parcheggiò la Jaguar sul ciglio della statale, scese e s'incamminò lentamente verso la vettura. Ormai non c'era più fretta. I due guidatori scampati per miracolo stavano parlando concitatamente tra loro, felici di aver salvato la pelle. «Sono un medico» disse Dan e i due si fecero in disparte, rispettosamente. «Non gli serve un dottore» commentò uno di loro. «Ha bisogno di un funerale, adesso.» Un'occhiata fu più che sufficiente. Il dottor Manfred Steyner era morto stecchito; la sua testa coperta di sangue sbucava attraverso il parabrezza infranto. Dan, intuendo che quell'ammasso di fogli fradici dovesse essere qualcosa di importante, raccolse l'incartamento sul sedile. La sua collera, ormai, era svanita; guardando il cadavere provò un senso di pietà. Quel corpo gli sembrava così fragile, così piccolo... una cosa indifesa che non contava assolutamente più nulla. 71. Il sole splendeva sfolgorante in una miriade di riflessi abbaglianti sulle acque increspate della baia. Spirava una brezza sostenuta e i vivaci colori delle vele spiccavano sul verde cupo del tavolato che sovrastava la baia di Durban. Sotto il tendone di poppa dello yacht a motore faceva abbastanza fresco, ma il tipo grasso indossava solo un paio di calzoni di lino bianchi e delle pantofole di tela blu. Stava seduto mollemente su una sdraio e il ventre gli sporgeva dalla cintura dei pantaloni. La pelle, abbronzatissima, era coperta da fitte chiazze di peli. «Grazie, Andrew.» L'uomo porse il bicchiere vuoto al giovane e lo osservò mentre al bar gli preparava un altro Pimms. Un membro dell'equipaggio vestito di bianco scese nel frattempo dalla scaletta del ponte di comando e si fermò davanti al tipo grasso, portandosi una mano al berretto in segno di saluto. «Gli omaggi del comandante, signore. Siamo pronti a salpare non appena riceveremo il suo ordine.» «Grazie. Puoi comunicare al comandante che partiremo quando salirà a bordo la signorina du Maine.» Il marinaio si allontanò. «Ah!» Il tipo grasso sospirò allegramente mentre Andrew gli porgeva il bicchiere di Pimms. «Questa pausa me la sono proprio guadagnata. Le ultime settimane sono state snervanti» «E' vero, signore» annuì ossequioso Andrew. «Ma, come al solito, lei è riuscito a cogliere la vittoria dalle ceneri.» «Sì, ma c'è mancato poco... Il nostro giovane Ironsides ci ha fatto prendere un bello spavento con la sua rete di mine d'emergenza. Sono riuscito a intervenire appena in tempo, prima che il prezzo riprendesse a salire. Il guadagno non è stato delle dimensioni
previste, ma in fin dei conti a caval donato non si guarda in bocca...» «Un vero peccato che i nostri soci abbiano perso tutto quel denaro» azzardò Andrew. «Sì, sì, proprio un peccato... Comunque, meglio loro che noi, Andrew.» «Oh, senza dubbio, signore.» «In un certo senso sono contento che sia finita così. Ho una vena di patriottismo, sotto sotto. Mi sento sollevato se penso che non è stato necessario mandare all'aria l'economia del paese per realizzare il nostro piccolo guadagno.» Il tipo grasso si alzò di colpo, osservando interessato un taxi che avanzava lungo il molo dello Yacht Club. Dalla vettura scese una splendida fanciulla. «Oh, Andrew! La nostra ospite è arrivata. Puoi avvertire il capitano che salperemo tra pochi minuti e... manda un uomo a prenderle il bagaglio.» Poi si avviò alla passerella per dare il benvenuto alla ragazza. 72. Verso la metà dell'estate nella valle dello Zambesi il calore è una presenza concreta, bianca e sfolgorante. Di giorno non si muove nulla sotto la sferza implacabile del sole. Al centro del villaggio indigeno cresceva un baobab, un tronco gigantesco da cui si staccavano rami contorti e deformi. La base dell'albero era circondata da una decina di capanne, dietro cui si stendevano i campi coltivati a miglio. Lungo il sentiero che conduceva al villaggio, avanzava una Land Rover. Procedeva lentamente, traballando sul fondo irregolare e il motore borbottava sommessamente in prima. Sui fianchi del veicolo spiccavano in nero le lettere E.R.A., Ente di reclutamento africano. I bambini furono i primi a sentire il rumore e uscirono ad accogliere la Land Rover con grida festose e risate. L'automezzo si fermò sotto la misera ombra offerta dal baobab e dal posto di guida scese un uomo bianco, piuttosto anziano, che indossava un completo di tela color kaki e un cappello a larga tesa. Tutti si fecero di colpo silenziosi, mentre un ragazzo sistemava uno sgabello all'ombra. Il bianco sedette. Una ragazza si avvicinò, si inginocchiò davanti a lui e gli offri una zucca colma di birra di miglio. L'uomo l'accettò e bevve. Nessuno fiatò perché non si doveva disturbare un ospite prima che si fosse ristorato, ma dalle capanne cominciarono a uscire gli adulti, sbattendo le palpebre alla luce del sole e stringendosi il perizoma ai fianchi. Gli indigeni si accovacciarono in semicerchio attorno all'uomo bianco. Quest'ultimo depose la zucca e li guardò. «Io vi vedo, amici» li salutò. «Anche noi ti vediamo, vecchio bianco» risposero calorosamente gli indigeni in coro, ma l'espressione del loro ospite rimase seria. «Le mogli di Big King avanzino» disse il bianco. «Avanzino con i loro primogeniti.» Quattro donne e altrettanti adolescenti si staccarono timidamente dal resto del gruppo. Il rappresentante dell'E.R.A si alzò e avanzò posando le mani sulle spalle dei due figli più vecchi, con espressione mesta. «Vostro padre ha raggiunto i suoi avi» disse loro. Ci fu un istante di agitazione tra la folla sconcertata, poi secondo il rituale tribale la moglie più anziana iniziò il lamento funebre. Una alla volta anche le altre consorti si abbandonarono sul secco terreno polveroso accanto alla prima e si coprirono la testa con lo scialle. «Big King è morto» ripeté il bianco mentre il lamento funebre proseguiva in sottofondo. «Ma è morto con tale onore che il suo nome vivrà per sempre. La sua morte è stata così grande che le sue mogli riceveranno ogni mese la sua paga e i suoi figli avranno ad attenderli un posto all'Università affinché possano crescere forti nel sapere e nello spirito quanto lo era loro padre nel corpo. A Big King verrà
innalzata un'immagine di pietra e le sue mogli e i suoi figli verranno su una macchina volante a "Goldi", per vedere di persona la figura di pietra di colui che fu loro marito e padre.» Il bianco si fermò a riprendere fiato, in quel caldo opprimente, e si asciugò il sudore dal viso, poi concluse: «Big King era un leone!» «"Ngwenyama"!» sussurrò il robusto ragazzino dodicenne che gli stava accanto. Gli occhi cominciarono a riempirglisi di lacrime e alla fine il figlio del gigante bantu si girò e corse via verso i campi di miglio. 73. Dennis Langley, il direttore delle vendite della Kitchenerville Motors, si stiracchiò, sospirando soddisfatto. Che modo meraviglioso di passare la mattina di un giorno lavorativo! «Felice?» gli chiese Hettie Delange, coricata accanto a lui nel letto matrimoniale. Dennis rispose sorridendo e sospirò di nuovo. Hettie si sollevò a sedere lasciando cadere le lenzuola fino alla vita, scoprendo il prosperoso seno velato di sudore, e fissò con aria ammirata il torace e i bicipiti dell'uomo. «Ehi, sei ben piantato!» «Be', anche tu non sei male» rispose Dennis sorridendo. «Sei diverso dagli altri con cui sono uscita finora» gli spiegò Hettie. «Sai, parli così bene... come un vero signore, ecco.» Prima che Dennis riuscisse a trovare una risposta adatta al complimento, il campanello della porta suonò, facendolo balzare a sedere sul letto con un'espressione di paura. «Chi è?» chiese. «Probabilmente il macellaio che porta la carne.» «Potrebbe trattarsi di mia moglie!» l'avvisò Dennis. «Non aprire.» «Ma certo che devo aprire invece, sciocchino.» Hettie si alzò e restò per alcuni istanti nuda, mentre cercava la vestaglia. Quella visione d'incanto bastò per il momento a calmare le apprensioni di Dennis, che ritornarono non appena Hettie si vestì. «Sii prudente! Assicurati che non sia lei.» Hettie aprì la porta e immediatamente si strinse la vestaglia più aderente al corpo, mentre con l'altra mano cercava di sistemarsi i capelli in modo presentabile. «Salve» sussurrò. Quel giovanotto alto, fermo sull'uscio, era davvero una favola. Indossava un elegante e distinto completo scuro e portava una costosa valigetta di pelle. «La signora Delange?» le chiese. Una voce calda, armoniosa, davvero splendida, pensò lei. «Sì, sono io» rispose Hettie sfarfallando le ciglia. «Non vuole accomodarsi?» Lo accompagnò nel salotto e notò con piacere che gli occhi del giovane indugiavano sull'apertura della sua vestaglia. «Cosa posso fare per lei?» gli domandò con un tono malizioso. «Sono un agente della compagnia d'assicurazioni Sanlam, signora Delange. Sono qui a porgere le nostre condoglianze per la disgrazia che l'ha colpita di recente. Sarei venuto prima ma non intendevo turbare il suo dolore...» «Oh!» Hettie abbassò lo sguardo, prendendo subito l'aria della vedova affranta. «La nostra compagnia, comunque, si augura di portare un piccolo raggio di luce che aiuti a dissipare il buio che la circonda. Forse saprà che suo marito aveva stipulato una polizza presso di noi.» Hettie scosse il capo ma osservò con interesse l'assicuratore mentre apriva la valigetta. «Be', suo marito, due mesi fa, ha contratto un'assicurazione sulla vita a doppia indennità, a suo favore. Questo è l'assegno. Se vuole firmare, prego.» «Quant'è?» Hettie abbandonò il ruolo della vedova in gramaglie. «Con l'indennità doppia, che prevede in caso di incidente o di infortunio il raddoppio del premio, la somma ammonta a quarantottomila rand.»
Gli occhi di Hettie si spalancarono deliziati. «Caspita!» esclamò sbalordita. «Ma è favoloso!» 74. Le idee di Hurry si erano ampliate notevolmente. Invece di una targa sul muro di cemento al livello 66, si era arrivati a una statua in bronzo di dimensioni naturali in memoria di Big King. Era stata collocata su una base di marmo nero, sul prato antistante gli uffici amministrativi della Sonder Ditch. L'opera era di sicuro effetto. L'artista era riuscito a catturare nel metallo un senso di urgenza, di forza. La scritta era semplice, solo il nome "King Nkulu" e la data della morte. Ora Hurry era presente alla cerimonia in cui la statua sarebbe stata scoperta, sebbene odiasse le cerimonie e cercasse di evitarle quand'era possibile. Nella prima fila di invitati, di fronte a lui, sedevano sua nipote, il dottor Stander e la sua fresca sposina dai capelli biondi. Terry gli strizzò l'occhio e Hurry le rispose aggrottando bonariamente la fronte. Nel frattempo, Rod Ironsides, che sedeva accanto a Hurry, si alzò per presentare al pubblico il presidente della Compagnia, e il vecchio notò l'improvviso cambiamento d'espressione della nipote che concentrava tutta la sua attenzione su quell'uomo imponente dalle braccia ingessate. "Forse avrei proprio dovuto licenziarlo", pensò Hurry. "Tra poco porterà via una pecorella del mio gregge. Guardò allora con la coda dell'occhio il suo direttore generale e pensò rassegnato: "Troppo tardi. Mi pare comunque un ottimo acquisto per la mia razza. Sì, meglio che cominci a dare disposizioni perché lo trasferiscano alla direzione centrale". Sovrappensiero, Hurry estrasse dalla tasca un enorme sigaro, ma mentre lo portava alla bocca colse lo sguardo scandalizzato di Terry e lesse sulle labbra della nipote: «Il dottore!» Con aria colpevole, Hurry Hirschfeld infilò di nuovo il sigaro in tasca.