JAMES PATTERSON ULTIMO AVVERTIMENTO (London Bridges, 2004) Per Larry Kirshbaum. Brindiamo al decimo Alex Cross. Nulla di...
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JAMES PATTERSON ULTIMO AVVERTIMENTO (London Bridges, 2004) Per Larry Kirshbaum. Brindiamo al decimo Alex Cross. Nulla di tutto questo sarebbe stato possibile senza il tuo impegno, i tuoi saggi consigli e la tua amicizia. PROLOGO Che bella sorpresa, è tornata la Donnola 1 Al colonnello Geoffrey Shafer piaceva moltissimo la nuova vita che conduceva a Salvador de Bahia, che era la terza città del Brasile per numero di abitanti e, secondo alcuni, la più interessante. Di sicuro era quella in cui ci si divertiva di più. Aveva affittato una lussuosa villa con sei camere da letto proprio davanti alla spiaggia di Guarajuba, dove passava le sue giornate a bere caipirinha e birra Brahma gelata oppure, a volte, a giocare a tennis. Di notte invece il colonnello Shafer - il killer psicopatico meglio noto come la Donnola - era tornato alle sue vecchie abitudini e batteva le strade buie e tortuose del centro storico. Aveva perso il conto delle vittime fatte in Brasile. Del resto sembrava che a Salvador nessuno se ne preoccupasse minimamente. Non era uscito un solo articolo di giornale sulle giovani prostitute scomparse. Nemmeno uno. Forse quel che si diceva della gente di quelle parti era vero: quando non stavano facendo festa, era perché preparavano la festa successiva. Pochi minuti dopo le due del mattino, Shafer tornò alla villa in compagnia di una lucciola giovane e bellissima che si faceva chiamare Maria. Aveva un viso stupendo e un corpo straordinario, soprattutto considerato che diceva di avere tredici anni. La Donnola staccò una grossa banana da uno degli alberi del giardino. In quel periodo dell'anno poteva scegliere tra noci di cocco, guava, mango e pinha, cioè mela cannella. Mentre coglieva la banana, rifletté che a Salvador de Bahia c'era sempre frutta matura a disposizione. Il paradiso terre-
stre. O forse è l'inferno e io sono il diavolo, pensò subito dopo, ridacchiando tra sé. «Ecco, è per te, Maria», disse porgendo la banana alla ragazza. «Ne faremo buon uso.» La ragazza sorrise maliziosa e la Donnola notò che aveva due occhi castani bellissimi, perfetti. E adesso sono miei, come tutto il resto: occhi, labbra, seno... Proprio in quel momento vide un mico, una piccola scimmia brasiliana, che cercava di infilarsi in un buco tra la zanzariera e la finestra per entrare nella villa. «Via, ladruncolo bastardo!» gridò. «Vattene via! Sciò, sciò!» Qualcosa si mosse rapidamente fra i cespugli e balzarono fuori tre uomini che gli si avventarono addosso. La Donnola pensò che doveva essere la polizia. Saranno gli americani. Alex Cross? I poliziotti intanto lo avevano immobilizzato e lo strattonavano e malmenavano. Lo colpirono alla testa con una mazza, o forse con un pezzo di tubo di piombo, lo afferrarono per i capelli e lo picchiarono finché non perse conoscenza. «L'abbiamo preso! Abbiamo preso la Donnola al primo tentativo. Non è stato difficile», esclamò il capo del commando. «Portiamolo dentro.» Poi guardò la ragazza - giovane, bellissima e visibilmente, oltre che giustamente, spaventata - e disse: «Brava, Maria. Ottimo lavoro». A uno dei suoi uomini disse invece: «Uccidila». Nel silenzio del giardino davanti alla villa riecheggiò uno sparo, ma a Salvador nessuno se ne accorse o se ne preoccupò. 2 L'unico desiderio della Donnola in quel momento era morire. Era appeso a testa in giù al soffitto della sua camera da letto, che era tappezzata di specchi in cui si vedeva riflesso più volte. Sembrava già morto. Era nudo, pieno di lividi, e sanguinava. Aveva le mani legate strette dietro la schiena e un laccio intorno alle caviglie che gli bloccava la circolazione. Tutto il sangue gli stava affluendo alla testa. Appesa accanto a lui c'era Maria, che però era morta ormai da parecchie ore, forse addirittura da un giorno, a giudicare dalla puzza che emanava. Era girata verso di lui, ma i suoi occhi bruni non lo vedevano più. Il capo dei sequestratori, un uomo con la barba che giocherellava continuamente con una pallina di gomma nera, strizzandola nel pugno, si ac-
cucciò in modo da trovarsi a un palmo dalla sua faccia e gli disse sottovoce, quasi in un sussurro: «Vuoi sapere che cosa facevamo a certi prigionieri quando ero in servizio? Li facevamo sedere tranquillamente, con le buone maniere, e poi gli inchiodavamo la lingua al tavolo. Ti giuro che è vero, mio caro. E sai cos'altro gli facevamo? Gli strappavamo semplicemente i peli, dalle narici, dal petto, dalla pancia, dai genitali. Fastidioso, eh?» E intanto strappava peli dal corpo nudo di Shafer. «Ma ti racconterò quella che, almeno secondo me, era la tortura peggiore. Peggio di quel che avresti fatto tu alla povera Maria. Si prende il prigioniero per le spalle e lo si scuote energicamente finché non gli vengono le convulsioni. Gli si shakera letteralmente il cervello dentro la scatola cranica. Il poveraccio ha la sensazione che gli si stacchi la testa dal collo, che gli voli via. Si sente bruciare dalla testa ai piedi. Non esagero. Aspetta: ora ti mostro come si fa.» Sempre appeso a testa in giù, Geoffrey Shafer fu scosso con incredibile violenza per quasi un'ora. Alla fine lo staccarono dal soffitto. «Chi siete? Che cosa volete da me?» gridò. Il capo dei sequestratori alzò le spalle. «Sei un duro, ma ricordati che ti ho trovato. E ti troverò di nuovo, se necessario. Capito?» Geoffrey Shafer aveva la vista annebbiata, ma alzò lo sguardo nella direzione da cui era giunta la voce e mormorò: «Che... cosa... volete? Vi prego...» L'uomo con la barba si chinò fino ad avvicinare la faccia alla sua e, con un mezzo sorriso, disse: «Ho un lavoro per te. Un lavoro incredibile. Credimi, sei nato per una missione del genere». «Chi sei?» chiese di nuovo la Donnola con un filo di voce, le labbra riarse e insanguinate. Era la domanda che aveva ripetuto centinaia di volte mentre lo torturavano. «Sono il Lupo», rispose lo sconosciuto con la barba. «Forse mi hai già sentito nominare.» PARTE PRIMA L'inconcepibile 3 Nello splendido pomeriggio di sole in cui uno di loro era destinato a morire improvvisamente e inutilmente, Frances e Dougie Puslowski stende-
vano ad asciugare lenzuola e federe, oltre ai vestiti che le bambine mettevano per giocare. Tutto a un tratto ad Azure Views, il campo di caravan e roulotte in cui vivevano a Sunrise Valley, nel Nevada, arrivarono i soldati dell'esercito americano. Erano tantissimi. Una colonna di jeep e camion militari percorse la strada sterrata e si fermò di colpo nei pressi del campo. Dai veicoli cominciarono a scendere soldati armati fino ai denti, con l'aria serissima. «Santo cielo, cosa succede?» esclamò Dougie. Aveva lavorato come minatore alla Cortey Mine nei pressi di Wells e da poco era in pensione per invalidità. Stava cercando di abituarsi alla vita in famiglia, ma faceva fatica: era depresso, cupo, maldisposto, e aveva poca pazienza con la povera Frances e le bambine. Dougie notò che i soldati, sia uomini che donne, erano giovanissimi e in tenuta da combattimento: stivali di cuoio, pantaloni mimetici, maglietta verde militare e tutto il resto. Manco fossero stati in Iraq... Armati di fucili M-16, corsero verso i caravan più vicini con le armi puntate. Alcuni avevano addirittura la faccia spaventata. C'era vento e le loro voci arrivavano fino alla corda da stendere dei Puslowski. Frances e Dougie udirono distintamente: «Bisogna evacuare il paese! Si tratta di un'emergenza. Dovete abbandonare le case subito! Forza, sbrigatevi!» Frances Puslowski ebbe la presenza di spirito di notare che tutti i militari ripetevano più o meno gli stessi ordini, come se se li fossero preparati. Gli si leggeva in faccia che non erano ammesse discussioni. E infatti, sia pur protestando, le circa trecento persone che vivevano nella stessa comunità dei Puslowski - alcune delle quali erano veramente strane - abbandonarono caravan e roulotte. La loro vicina di caravan, Delta Shore, corse da Frances. «Cosa succede? Che cosa ci fanno qui tutti questi soldati? O Signore Onnipotente! Devono venire da Nellis o Fallon o qualche altra base militare. Che spavento, Frances. Tu non hai paura?» A Frances cadde la molletta da bucato che stringeva fra le labbra, quando rispose a Delta: «Dicono che bisogna evacuare. Devo andare a prendere le bambine». Poi corse come un razzo nel caravan, sorpresa lei stessa dalla propria velocità, visto che pesava più di cento chili ed era un pezzo che non correva e non faceva sport. «Madison, Brett, venite subito qui. Non abbiate paura, dobbiamo solo
andare via per un po'. Ci divertiremo. È come un film. Sbrigatevi, su!» Le bambine, rispettivamente di quattro e due anni, comparvero sulla soglia della cameretta dove stavano guardando i cartoni animati su Disney Channel. Madison, la più grande, rispose con il solito: «Perché? Perché dobbiamo andare via? Io non vengo. Non voglio. Adesso no, mamma». Frances prese il cellulare dal bancone della cucina per chiamare la polizia e si accorse della seconda cosa strana di quel pomeriggio: non c'era segnale. Si sentiva solo un forte fruscio molto fastidioso, che non aveva mai sentito prima. Che fosse scoppiata la guerra? Che ci fosse stato un incidente nucleare? «Merda!» esclamò rivolgendosi al telefono, quasi in lacrime. «Che cosa sta succedendo?» «Hai detto una parolaccia», saltò su Brett ridendo. Le parolacce, sotto sotto, le piacevano. Aveva colto in fallo sua madre e questo la divertiva moltissimo. «Prendete Mrs Summerkin e Oink», disse Frances ben sapendo che, senza le loro bambole, le figlie non sarebbero uscite nemmeno se sulla casa si fosse abbattuta una delle piaghe d'Egitto. E in cuor suo pregò che non si trattasse di nulla di così grave. Ma che cosa poteva mai essere successo? Perché i militari avevano praticamente invaso il campo e puntavano i fucili in faccia alla gente terrorizzata? Da fuori giungevano le voci dei vicini che, spaventati, gridavano le stesse cose che stava pensando anche lei. «Che cosa è successo?» «Chi dice che dobbiamo andarcene?» «Spiegateci perché!» «Io da qui non mi muovo, chiaro? Dovrete passare sul mio cadavere!» Quell'ultima frase era stata pronunciata da Dougie. Che cosa gli era preso? Frances lo chiamò: «Dougie, vieni qui! Vieni a darmi una mano con le bambine! Dougie, ho bisogno di te qui!» In quel momento udì uno sparo. Fortissimo, improvviso. Doveva essere venuto da uno dei fucili dei militari. Frances corse verso la porta - ecco che, senza nemmeno rendersene conto, stava di nuovo correndo - e vide due soldati dello U.S. Army in piedi accanto a Dougie, che era disteso per terra. Oh mio Dio, non si muove. Oh mio Dio, mio Dio, Dougie! I soldati gli avevano sparato come a un cane rabbioso. Lo avevano ammazzato così, senza motivo. Frances cominciò a tremare, sempre più forte, poi vomitò tutto quel che aveva mangiato a pranzo.
Le bambine esclamarono: «Che schifo, mamma! Hai vomitato dappertutto!» Un militare con la barba lunga spalancò la porta del caravan con un calcio, le si parò davanti e gridò: «Fuori da questo caravan! Subito! Sbrigati, se non vuoi morire anche tu!» Puntandole contro il fucile, continuò: «Dico sul serio, donna! Preferirei spararti subito, piuttosto che stare qui a parlare». 4 Il lavoro - l'operazione, la missione - consisteva nel cancellare dalla faccia della terra un villaggio negli Stati Uniti. In pieno giorno. Una cosa da pazzi, stranissima. Peggio di La notte dei morti viventi, Zombie e Il ritorno degli zombie messi insieme. Sunrise Valley era una località del Nevada popolata da 315 anime, che ben presto si sarebbero ridotte a zero. Roba da non credere. Ma nel giro di tre minuti ci avrebbero creduto tutti. Nessuno degli uomini a bordo del piccolo aereo sapeva per quale motivo Sunrise Valley fosse stata scelta per essere distrutta né sapevano altro sulla missione, a parte il fatto che era estremamente remunerativa e pagata anticipatamente. Che diavolo, non si conoscevano neppure tra loro. A ognuno era stata comunicata solo la parte della missione che lo riguardava e nient'altro. Un solo pezzo del puzzle per uno. E così lo chiamavano: il mio pezzo. Michael Costa, di Los Angeles, era l'artificiere di bordo. Era stato incaricato di confezionare clandestinamente una «bomba a combustibile-aria con una potenza di fuoco che si rispetti». Okay, era una cosa che sapeva fare. Il modello cui si era ispirato era la BLU-96, spiritosamente detta anche Daisy Cutter, ovvero «taglia-margherite», dati gli effetti che produceva. Costa sapeva che in origine quegli ordigni erano stati inventati per sgomberare i campi minati o per disboscare giungle e foreste e preparare piste di atterraggio. Poi a qualche malato di mente doveva essere venuta l'idea che la Daisy Cutter poteva essere usata non solo per abbattere alberi e massi, ma anche persone. Così, adesso, Costa si trovava a bordo di un vecchio aereo da carico piuttosto ammaccato, in volo sulle Tuscarora Mountains e diretto a Sunrise Valley, nel Nevada. Erano ormai molto vicini al bersaglio.
Insieme con i suoi nuovi amici, stava assemblando l'ordigno. Avevano addirittura un foglio di istruzioni. Manco fossero dei principianti. La vera BLU-96 era un'arma militare semisegreta. Era molto difficile procurarsela, come Costa ben sapeva, ma purtroppo per tutti coloro che vivevano, amavano, mangiavano, dormivano e facevano i loro bisogni a Sunrise Valley, le Daisy Cutter si potevano anche fare «in casa» con ingredienti molto semplici. Costa aveva comprato un serbatoio per carburante in tessuto gommato da 3700 litri, lo aveva riempito di benzina ad alto numero di ottani, vi aveva montato un dispositivo di dispersione e, come innesco detonante, aveva predisposto alcuni candelotti di dinamite. Poi da un paracadute aveva ricavato un apparato frenante e un dispositivo di sgancio. Un giochetto da ragazzi. Fatto questo, come aveva spiegato al resto dell'equipaggio: «Si sorvola il bersaglio, si spinge la bomba giù dal portellone e si scappa più in fretta che si può. Datemi retta, la Daisy Cutter si lascia dietro solo terra bruciata. Di Sunrise Valley resterà solo una macchia carbonizzata in mezzo al deserto. Solo il ricordo. Vedrete». 5 «Piano, piano, signori. Non vogliamo morti né feriti. Per questa volta non deve farsi male nessuno.» A circa 1300 chilometri di distanza, il Lupo osservava in tempo reale ciò che stava succedendo nel deserto. Che film! C'erano quattro telecamere a Sunrise Valley, le cui immagini giungevano a quattro schermi nella casa di Bel Air, a Los Angeles, dove il Lupo era temporaneamente ospite. Guardò attentamente gli abitanti del campo di caravan e roulotte che, scortati dai militari, venivano fatti salire sui camion da trasporto. La qualità delle immagini era ottima. Si leggevano persino le scritte sulle maniche dei soldati: NEVADA ARMY GUARD UNIT 72ND. Tutto a un tratto esclamò ad alta voce: «Merda! No!» E cominciò a strizzare ripetutamente e rapidamente nel palmo della mano una pallina di gomma nera, come faceva sempre quando era nervoso o arrabbiato, o tutte e due le cose insieme. Uno dei civili aveva estratto una pistola e la stava puntando contro uno dei soldati. Un errore imperdonabile! «Cretino!» gridò il Lupo seguendo la scena sullo schermo. Un attimo dopo l'uomo armato di pistola era steso a faccia in giù nella
polvere del deserto, morto. L'unico vantaggio fu che così risultò molto più facile far salire sui camion gli altri mentecatti di Sunrise Valley. Avrei dovuto metterlo in conto fin dall'inizio, rifletté tra sé il Lupo. Invece non l'aveva previsto e adesso quel morto diventava un problemino. Una delle telecamere a spalla inquadrò un aereo da trasporto che si avvicinava al centro abitato e cominciava a girare in tondo. Uno spettacolo magnifico! La telecamera doveva essere a bordo di uno dei camion militari che a quell'ora erano già ripartiti a tutta velocità da Sunrise Valley. Erano immagini veramente straordinarie, in bianco e nero, e questo in un certo senso le rendeva ancora più efficaci. Il bianco e nero era più realistico, no? Sì, decisamente. La telecamera seguiva l'aereo che si abbassava sui caravan. «Angeli della morte», mormorò il Lupo. «Che inquadratura! Sono proprio un artista.» Dovettero mettercisi in due per riuscire a spingere l'ordigno giù dal portellone. Poi il pilota fece una virata secca a sinistra, diede gas ai motori e riprese quota più in fretta che poteva. Aveva svolto con grande bravura il suo compito, il suo pezzo del puzzle. «Tu sopravvivrai», decretò il Lupo guardando il video. L'inquadratura si allargò e la telecamera riprese la bomba che lentamente scendeva sul bersaglio. Anche quelle erano immagini di grande effetto. Facevano quasi paura anche a lui. A una trentina di metri dal suolo, la bomba esplose. «Per la miseria!» esclamò il Lupo, che pure era uno che non si emozionava mai. Incapace di staccare gli occhi dalla scena, guardava la Daisy Cutter radere al suolo tutto ciò che incontrava nel raggio di circa cinquecento metri dal punto di impatto, uccidendo tutto ciò che trovava sulla propria strada. Una devastazione totale. Nel raggio di una quindicina di chilometri andarono in frantumi i vetri delle finestre; la terra e tutti gli edifici tremarono fino a Elko, che era a una cinquantina di chilometri di distanza. Il boato fu udito fin oltre i confini del Nevada. E l'eco arrivò ancora più lontano. Fino a Los Angeles, per esempio. Perché quella di Sunrise Valley, Nevada, era solo una prova. «Questo è solo un assaggio», disse il Lupo. «Un piccolo inizio in preparazione di qualcosa di molto più grosso. Il mio capolavoro. La mia vendetta.» 6
Quando tutto ebbe inizio, per fortuna non ero in servizio. Avevo quattro giorni di ferie e avevo deciso di trascorrerli sulla West Coast. Era la prima vacanza che mi prendevo da oltre un anno. Prima tappa: Seattle, nello Stato di Washington. Seattle è una città bellissima e piena di vita che, almeno secondo me, ha trovato il giusto equilibrio tra vecchio e nuovo, tra pittoresco e cibernetica, forse con un briciolo di Microsoft di troppo. Normalmente sarei stato curioso e felice di visitarla. Stavo attraversando un periodo delicato, però, e bastava che guardassi il bambino che tenevo per mano mentre attraversavamo Wallingford Avenue North per ricordarmi il perché. Bastava che dessi ascolto al mio cuore. Il bambino era mio figlio Alex e non lo vedevo da quattro mesi. Viveva con la madre a Seattle, adesso, mentre io ero rimasto a Washington, dove lavoravo per l'FBI. La mamma di Alex e io eravamo giunti al punto in cui, dopo alcuni scontri molto burrascosi, ci contendevamo l'affidamento «amichevolmente». Almeno in via ufficiale. «Ti diverti?» chiesi al piccolo Alex che si era portato dietro Mu, la mucca pezzata bianca e nera che, quando viveva ancora con me a Washington, era il suo pupazzo preferito. Ormai aveva quasi tre anni, e parlava molto bene ed era sveglissimo. Gli volevo un bene dell'anima. Sua madre Christine era convinta che fosse particolarmente dotato - molto più intelligente e più creativo dei suoi coetanei - e, dal momento che era una stimata insegnante di scuola elementare, probabilmente aveva ragione. Christine abitava nella zona di Wallingford, dove si possono fare belle passeggiate, per cui Alex e io avevamo deciso di rimanere nelle vicinanze di casa. Avevamo cominciato giocando un po' nel giardino, che era molto grande, circondato da abeti e con una bella vista sulle Cascade Mountains. Gli feci parecchie foto, perché Nana me lo aveva raccomandato, poi Alex insistette per mostrarmi l'orto della sua mamma che, come immaginavo, era molto ben curato, pieno di pomodori, insalata e zucchine. L'erba era stata tagliata da poco e c'erano vasi di rosmarino e menta sui davanzali della cucina. Scattai altre foto a mio figlio. Dopo il giro dell'orto e del giardino, andammo al parco giochi di Wallingford a fare un po' di lanci con una palla da baseball e quindi allo zoo. Al ritorno costeggiammo il vicino Green Lake, sempre tenendoci per mano. Alex era gasatissimo per l'imminente Seafair Kiddies Parade e non ca-
piva perché io non potessi fermarmi per assistere. Mi preparai all'inevitabile domanda successiva: «Perché te ne devi sempre andare?» Non avevo nessuna risposta convincente da dargli. Solo un improvviso, terribile, senso di angoscia nel petto, che conoscevo fin troppo bene. Voglio stare con te sempre, tutti i giorni che Dio manda, avrei voluto dirgli. «Purtroppo devo andare», risposi invece. «Ma ti prometto che tornerò presto, e lo sai che mantengo sempre le promesse che faccio.» «Le mantieni perché sei un poliziotto?» domandò. E subito dopo: «Ma perché devi andare via?» «Sì, mantengo le promesse anche per via del mio lavoro. E devo lavorare, per comprare videoregistratori e merendine e tutto il necessario.» «Perché non cambi lavoro?» suggerì Alex. «Ci penserò», risposi. Non era una bugia: ci stavo davvero pensando. Soprattutto negli ultimi tempi avevo riflettuto parecchio sulla mia carriera di poliziotto. Ne avevo parlato addirittura con il mio strizzacervelli. Alla fine, verso le due e mezzo, tornammo a casa. Era una villetta in stile vittoriano, azzurra con infissi e rifiniture bianchi, in ottime condizioni. Era accogliente e luminosa e, devo ammetterlo, molto adatta per tirare su un bambino, così come lo era la città di Seattle. Il piccolo Alex aveva addirittura una camera con vista sulle Cascade Mountains. Che cosa può desiderare di più un bambino? Un padre che sia presente più di un giorno ogni due o tre mesi, forse? Che ne direste? Christine ci aspettava sulla porta e ci accolse affettuosamente. Il suo atteggiamento era talmente diverso dall'ultima volta che ci eravamo visti a Washington che mi chiesi se potevo fidarmi di lei. Subito dopo mi resi conto che dovevo fidarmi. Baciai e abbracciai ancora una volta Alex davanti a casa, gli scattai ancora qualche foto per Nana e per i ragazzi a Washington, poi lui entrò in casa con Christine e io mi ritrovai fuori da solo. Tornai a piedi all'auto che avevo noleggiato con le mani in tasca, meditabondo e già pieno di nostalgia per mio figlio. Mi chiesi se salutarlo sarebbe stato ogni volta così straziante. Ma sapevo già che la risposta era sì. 7 Dopo la visita ad Alex a Seattle, presi un volo per San Francisco, dove intendevo trascorrere un paio di giorni con Jam. Jamilla Hughes era un'i-
spettrice della squadra Omicidi di San Francisco, che frequentavo da circa un anno. Avevo voglia di vederla, avevo bisogno di stare un po' con lei. Jamilla riusciva sempre a farmi stare bene. Per quasi tutto il viaggio ascoltai la bella voce di Erykah Badu e poi Calvin Richardson. Anche la musica mi fa sempre stare bene. Meno peggio, perlomeno. Mentre l'aereo si avvicinava a San Francisco, ebbi la fortuna di vedere insolitamente nitidi il Golden Gate Bridge e lo skyline della città. Riconobbi l'Embarcadero e il grattacielo Transamerica e fui sopraffatto dall'emozione. Non vedevo l'ora di riabbracciare Jamilla. Ci eravamo conosciuti e innamorati mentre indagavamo su una serie di omicidi. L'unico problema era che io vivevo a Washington e lei a San Francisco e, per il momento, nessuno dei due poteva o voleva abbandonare il proprio lavoro e la propria città. Non sapevamo come fare. A parte questo, stavamo molto bene insieme. Jamilla mi aspettava con un'espressione felice vicino a una delle uscite del San Francisco International Airport, davanti a un North Beach Deli. Sorrideva e si sbracciava e saltava dalla gioia: è fatta così, non si vergogna di mostrare quello che prova. Non appena la vidi, sorrisi e mi sentii meglio. Mi fa sempre questo effetto. Indossava una giacca di pelle morbida come un guanto, una maglietta azzurra e un paio di jeans neri. Probabilmente era venuta a prendermi direttamente dall'ufficio, ma era bellissima. Si era data il rossetto e anche il profumo, come sentii abbracciandola. «Quanto mi sei mancata!» esclamai. «Allora abbracciami, baciami, stringimi forte», disse lei. «Come sta il piccino? Raccontami di Alex.» «Cresce. È più grande, più furbo e più spiritoso. Proprio in gamba. Gli voglio un gran bene e sento già la sua mancanza, Jamilla.» «Lo so, lo so, amore. Su, abbracciami ancora.» La sollevai di peso e la feci girare su se stessa. Jamilla è alta uno e settantacinque e piuttosto robusta e a me piace moltissimo prenderla in braccio. Mi accorsi che parecchie persone ci guardavano: quasi tutte, naturalmente, sorridevano. Poi due degli spettatori delle nostre effusioni, un uomo e una donna vestiti di scuro, si avvicinarono. Che cosa volevano? La donna mi mostrò un tesserino: FBI. Oh, no, no! Non fatemi questo!
8 Gemetti e posai delicatamente a terra Jamilla con aria colpevole, come se fossimo stati sorpresi a fare qualcosa di male, anziché qualcosa di molto bello e giusto. Tutte le mie speranze svanirono in una frazione di secondo: avevo tanto bisogno di un po' di relax, ma evidentemente non era destino. «Sono l'agente Jean Matthews e questo è l'agente John Thompson», disse la donna indicando un biondo sulla trentina che mangiava una tavoletta di cioccolato Ghirardelli. «Scusi l'interruzione, e l'intromissione, ma ci hanno mandato a prenderla qui all'aeroporto. Lei è Alex Cross, vero?» chiese, ricordandosi in extremis di verificare se ero davvero la persona che cercavano. «Sì, sono io. Vi presento l'ispettore Jamilla Hughes del dipartimento di polizia di San Francisco. Potete parlare davanti a lei», dissi. L'agente Matthews scosse la testa. «No, temo di no.» Jamilla mi posò una mano sul braccio e disse: «Nessun problema». Poi si allontanò, lasciandomi con i due agenti, facendo esattamente il contrario di ciò che avrei voluto. Avrei voluto che se ne andassero loro, e il più lontano possibile. «Cosa c'è?» domandai all'agente Matthews. Sapevo già che doveva trattarsi di qualcosa di grave. Succedeva sempre, da quando facevo quel lavoro. Burns, il direttore dell'FBI, era al corrente dei miei orari e dei miei spostamenti anche quando non ero in servizio, il che significava che ero praticamente sempre in servizio. «Come le ho detto, dottor Cross, ci hanno mandato a prenderla. Abbiamo istruzioni di metterla su un aereo per il Nevada. Si tratta di un'emergenza. È stato bombardato un paese. Bombardato è dir poco: è stato cancellato dalla faccia della terra. Il direttore vuole che lei si rechi sul posto al più presto. È un disastro di enormi proporzioni.» Scuotevo la testa in preda a una delusione e un senso di frustrazione incredibili. Andai verso Jamilla, che mi aspettava in disparte. Mi sentivo completamente svuotato. «C'è stato un attentato nel Nevada. Dicono che la notizia è già arrivata ai media. Devo andare», le dissi. «Cercherò di tornare il prima possibile. Scusami. Non sai quanto mi dispiace.» L'espressione di Jamilla era più che eloquente. «Capisco. Naturalmente. Devi andare. Be', se puoi torna.» Feci per baciarla, ma lei si ritrasse. Mi salutò con un cenno della mano e
lo sguardo triste, poi si voltò e se ne andò senza dire una parola. Capii che avevo perso anche lei. 9 Ero in azione, ma le circostanze erano più che frustranti per me: erano surreali. Mi portarono con un jet privato da San Francisco a una cittadina del Nevada e da lì, con un elicottero dell'FBI, in quella che un tempo era stata Sunrise Valley. Cercavo di non pensare né al piccolo Alex né a Jamilla, ma mi riusciva veramente difficile. Forse ci sarei riuscito meglio una volta arrivato sul posto, quando mi fossi trovato sul luogo dell'attentato, in mezzo al casino... Dal modo rispettoso e sollecito in cui mi trattavano gli agenti' del posto capii che la mia reputazione, o forse semplicemente il fatto che venissi dalla sede di Washington, li intimidiva e li preoccupava. Il direttore Burns aveva fatto capire chiaramente che ero uno degli agenti su cui il Bureau contava nelle situazioni particolarmente delicate. Anzi, che ero quello su cui lui personalmente contava di più. Il fatto che io rispondessi a lui non significava che gli raccontassi tutto, ma gli agenti delle sedi distaccate naturalmente non lo sapevano. Il viaggio in elicottero durò solo una decina di minuti. Dall'alto vidi le luci lampeggianti dei veicoli di emergenza tutto intorno a Sunrise Valley, o a quello che un tempo era stato Sunrise Valley. Del paese non restavano che poche macerie. Dall'alto si vedeva del fumo, ma non fiamme: probabilmente non c'era più nulla da bruciare. Erano appena passate le otto. Che cosa era successo? E perché mai qualcuno si era preso la briga di distruggere un paesino sperduto come quello? Durante il volo ero stato aggiornato sulla situazione, ma le informazioni erano davvero scarse. Alle quattro di quel pomeriggio tutti gli abitanti del campo - tranne uno, un uomo a cui avevano sparato - erano stati «evacuati» da sedicenti militari della Guardia Nazionale. Erano stati portati a una sessantina di chilometri di distanza, a metà strada tra Sunrise Valley e la città più vicina, Elko. La loro posizione era stata segnalata alla polizia di Stato del Nevada e, quando erano arrivate le pattuglie per assistere i poveri sfollati spaventatissimi, i camion e le jeep militari non c'erano più. E non c'era più nemmeno il paese di Sunrise Valley, cancellato da una violentissima esplosione. Letteralmente cancellato: nella valle erano rimaste solo sabbia, salvia
selvatica e arbusti. Vidi camion dei pompieri, fuoristrada, cinque o sei elicotteri e, quando anche il nostro cominciò ad abbassarsi, riconobbi dei tecnici in tuta protettiva. Gesù, cos'era successo? Armi chimiche? Una guerra? Possibile? Al giorno d'oggi, negli Stati Uniti? Sì, purtroppo era possibile. 10 Credo fosse la scena più spaventosa che avessi mai visto in tanti anni di carriera nella polizia: una desolazione totale, apparentemente immotivata. Non appena toccammo terra e io scesi dall'elicottero, mi fecero indossare una tuta protettiva con tanto di maschera antigas e accessori vari contro gli agenti chimici. La maschera era molto tecnologica, a pieno facciale, con lenti separate e un tubo per bere. Mi sembrava di essere un personaggio di una delle inquietanti storie di Philip K. Dick. Ma durò poco: appena vidi due ufficiali dell'esercito che giravano senza maschera, me la tolsi anch'io. Poco dopo il mio arrivo fummo informati di una possibile pista su cui indirizzare le indagini. Due escursionisti avevano visto un uomo che filmava l'esplosione con una telecamera. Siccome aveva l'aria sospetta, uno di loro lo aveva fotografato con un apparecchio digitale. I due gitanti avevano anche scattato foto dell'evacuazione del paese. In quel momento erano insieme a un paio di nostri agenti, che li stavano interrogando. Anch'io volevo parlare con loro, non appena avessero finito. Purtroppo la macchina fotografica era stata sequestrata dalla polizia del Nevada, che si rifiutava di consegnarcela finché non fosse arrivato il loro capo, che stava rientrando in fretta e furia da una battuta di caccia. Quando finalmente arrivò, al volante di una vecchia Dodge Polaris nera, gli corsi incontro e cominciai a parlare prima ancora che fosse sceso dall'auto. «Capo, i suoi uomini hanno in mano prove importanti e si rifiutano di consegnarcele. Ne abbiamo bisogno», dissi senza alzare la voce, ma accertandomi che capisse bene il messaggio. «Questa è un'indagine federale, ormai. Io sono qui in rappresentanza dell'FBI e del Dipartimento della Si-
curezza Nazionale. Abbiamo perso tempo prezioso, per colpa dei suoi uomini.» Devo ammettere che il capo della polizia locale, un sessantenne panciuto, era arrabbiatissimo. Si mise a gridare ai due agenti: «Portate qui le prove, cretini! Cosa diavolo credevate di fare? A cosa pensavate? Ma già, siete in grado di pensare? Forza, portate subito qui le prove». I due arrivarono di corsa e il più alto, che in seguito scoprii essere suo genero, gli porse la macchina fotografica. Era una Canon PowerShot e sapevo come funzionava. Vediamo un po' che cosa c'è qui dentro, mi dissi. Le prime erano foto naturalistiche molto belle, senza persone, sia primi piani che panorami scattati con il grandangolo. Poi venivano le foto dell'evacuazione. Incredibili. Dopo ancora, finalmente, vidi l'uomo che aveva filmato l'esplosione. Aveva le spalle rivolte all'obiettivo e nella prima foto era in piedi, mentre nelle successive aveva posato un ginocchio a terra, probabilmente per riprendere da un'angolazione migliore. Non so che cosa avesse spinto l'escursionista a cominciare a fotografare lo sconosciuto, ma lo aveva fatto con notevole intuito. L'uomo misterioso filmava il paese abbandonato, dal quale poco dopo si levavano fiamme altissime. Era abbastanza evidente che lo sconosciuto sapeva che cosa stava avvenendo. Nella foto successiva il tizio si voltava verso i due escursionisti e andava verso di loro, o perlomeno così sembrava dalle foto. Mi chiesi se si era accorto di essere stato fotografato. Sembrava che guardasse verso di loro. Quando lo vidi in faccia, stentai a credere ai miei occhi. Lo conoscevo! Gli avevo dato la caccia per anni. Era ricercato per almeno una decina di omicidi, sia negli Stati Uniti che in Europa. Era un feroce psicopatico, uno degli assassini a piede libero più pericolosi del mondo. Si chiamava Geoffrey Shafer, meglio noto con il soprannome di Donnola. Che cosa ci faceva nel Nevada? 11 C'erano altre due o tre foto chiarissime della Donnola che si avvicinava all'obiettivo. Al solo vedere quell'essere detestabile mi sentii salire il sangue alla testa
e provai un leggero senso di nausea. Avevo la bocca secca e continuavo a leccarmi le labbra. Perché Shafer era stato lì? Che cosa aveva a che fare con l'ordigno che aveva raso al suolo Sunrise Valley? Era pura follia! Mi sembrava di vivere un brutto sogno, di essere completamente fuori della realtà. Il mio primo incontro/scontro con il colonnello Geoffrey Shafer risaliva a tre anni prima. Benché non fossimo mai riusciti a dimostrarlo, aveva ucciso una quindicina di persone a Washington. Si travestiva da taxista, di solito nel quartiere dove vivevo io, il Southeast, e sceglieva prede facili. Sapeva che le indagini della polizia di Washington non erano mai molto approfondite, quando le vittime erano neri e poveracci. Di giorno, lavorava all'ambasciata britannica a Washington. Colonnello, era apparentemente un personaggio di tutto rispetto, ma in realtà era uno degli assassini più spietati che mi fossero mai capitati, un serial killer della peggior specie. Un agente del Nevada di nome Fred Wade mi venne incontro. Ero accanto all'elicottero con il quale ero arrivato e stavo ancora esaminando le foto scattate dai due gitanti. Wade mi disse che voleva sapere che cosa stava succedendo. Non potevo biasimarlo: anche a me sarebbe piaciuto tanto saperlo! «L'uomo che ha filmato l'esplosione si chiama Geoffrey Shafer», gli dissi. «Lo conosco. È un serial killer che uccise diverse persone a Washington quando io lavoravo ancora nella Omicidi. Le ultime notizie che avevo di lui erano queste: era fuggito a Londra, dove aveva ucciso la moglie in un supermercato, davanti alle figlie. Poi sembrava essere scomparso nel nulla. A quanto pare adesso è tornato. Non so perché, ma mi viene mal di testa al solo pensarci.» Tirai fuori il cellulare e chiamai Washington. Mentre descrivevo ciò che avevo scoperto, guardai le ultime foto del colonnello Shafer. In una lo si vedeva salire su una Ford Bronco rossa. Nella successiva la Bronco si allontanava. La targa si leggeva chiaramente. La cosa più strana era proprio quella: la Donnola aveva commesso un errore. La Donnola che conoscevo io, invece, non sbagliava mai. Perciò, forse, non si trattava di un errore. Forse faceva parte di un piano. 12
Il Lupo era ancora a Los Angeles, ma riceveva regolarmente notizie dal deserto del Nevada. A Sunrise Valley erano arrivati i poliziotti... poi gli elicotteri... l'esercito... e infine l'FBI. Adesso c'era anche il suo vecchio amico Alex Cross. Bravo, Cross. Tu sì che sei un bravo soldato. Nessuno ci si raccapezzava, naturalmente. Nessuno aveva una teoria che potesse spiegare in maniera coerente quel che era accaduto nel deserto. Era logico, del resto. Il caos era totale: il bello era proprio quello. Non c'è nulla che faccia più paura di ciò che non si riesce a capire. Fedya Abramtsov e sua moglie Liza, per esempio. Fedya era uno stronzo pieno di sé che voleva essere un grande boss della Mafia russa a Los Angeles e nello stesso tempo vivere come una star del cinema a Beverly Hills. La casa dove si trovava in quel momento era di Fedya e Liza, ma il Lupo la considerava come propria: in fondo, i loro soldi erano suoi. Senza di lui quei due non erano altro che delinquenti da strapazzo, con troppe ambizioni. Fedya e Liza non sapevano neppure che il Lupo fosse lì. Erano stati nella loro casa di Aspen ed erano rientrati a Los Angeles quella sera poco dopo le dieci e - sorpresa! - si erano trovati un uomo dall'aria imponente seduto in salotto. Era lì, solo, tranquillo. E stringeva ritmicamente nella mano destra una pallina di gomma. Non l'avevano mai visto prima. «Chi diavolo sei?» chiese Liza. «Che cosa ci fai qui?» Il Lupo allargò le braccia. «Io sono quello che vi ha regalato tutta questa bella roba. E voi che cosa mi date in cambio? Mi mancate di rispetto in questo modo? Io sono il Lupo.» Fedya non ebbe bisogno di chiedere altro. Sapeva che, se il Lupo era lì e si lasciava vedere in faccia, lui e Liza erano spacciati. Doveva scappare, sperando che il Lupo fosse solo. Ma era poco probabile. Fece un passo. Il Lupo tirò fuori da sotto il cuscino una pistola. Aveva buona mira. Sparò a Fedya Abramtsov un colpo alla schiena e un altro alla nuca. «È morto», disse con calma a Liza. Sapeva che era un diminutivo. «Preferisco Yelizaveta. È meno comune. E meno americanizzato. Vieni a sederti qui. Vieni. Fammi questo favore.»
Il Lupo si batté una mano sulle ginocchia. «Vieni. Non mi piace ripetermi.» La ragazza era carina, con gli occhi castani, ed era intelligente. E infida come una serpe. Si avvicinò e gli si sedette sulle ginocchia, come lui le aveva ordinato. Brava. «Mi piaci, Yelizaveta. Ma non ho scelta. Mi avete disubbidito. Tu e Fedya mi avete rubato dei soldi. Non dire di no: lo so.» La guardò negli occhi. «Sai che cosa vuol dire zamočit'? Spaccare le ossa.» Evidentemente Yelizaveta lo sapeva, perché lanciò un grido con tutto il fiato che aveva. «Bene», disse il Lupo afferrandole il polso sinistro. «Oggi tutto sembra andare a gonfie vele.» E cominciò dal dito mignolo. 13 Era scoppiata una guerra? E, se sì, chi era il nemico? Nel deserto era buio e faceva un freddo cane. La notte disorientava, metteva paura. Non c'era luna. Che anche questo facesse parte del piano? Che cosa stava per succedere? E dove? A chi? Perché? Cercai di ritrovare un po' di lucidità e capire come affrontare le successive ore in maniera non troppo disorganizzata. Era un'impresa ardua, se non addirittura impossibile. Stavamo cercando un piccolo convoglio di camion e jeep militari che pareva essere scomparso nel nulla, inghiottito dal deserto. Ma anche una Ford Bronco targata Nevada 322JBP con un tramonto disegnato sopra. Stavamo cercando Geoffrey Shafer. Ma perché mai la Donnola era lì? Mentre aspettavamo un segnale, un avvertimento, feci un giro a piedi. Dove era detonata la bomba, costruzioni e veicoli non si erano solo appiattiti, ma erano stati come vaporizzati e nell'aria volteggiavano ancora cenere e scintille a testimoniare la morte e la devastazione. Il cielo notturno era nascosto da una nuvola di fumo scuro e oleoso. Riflettei, perplesso, sul fatto che solo l'uomo è capace di fare una cosa del genere. E che solo l'uomo riesce a desiderare una cosa del genere. Mentre camminavo fra le macerie, parlai con alcuni tecnici e agenti impegnati nelle indagini e presi una serie di appunti mentali. Del campo di caravan restavano soltanto rottami sparsi un po' dappertutto.
I sopravvissuti dicevano di aver visto cadere dal cielo dei contenitori lanciati da un aereo a elica. Uno di questi stava per colpire un caravan, ma era scoppiato ancora in volo sul campo. L'esplosione era stata descritta come una massa gelatinosa bianca che aveva improvvisamente preso fuoco. Si erano scatenate correnti d'aria caldissime e vorticose, che erano durate parecchi minuti. Fino a quel punto avevamo trovato soltanto un corpo fra le macerie. Ci chiedevamo tutti la stessa cosa: perché uno solo? Perché gli altri erano stati risparmiati? Perché far saltare in aria l'intero campo di caravan per una persona sola? Non aveva senso. Nulla aveva senso. Meno che mai la presenza di Shafer. Uno degli agenti dell'FBI locale, Ginny Moriarity, mi chiamò. Mi voltai e vidi che mi faceva segno di raggiungerla. Cos'era successo? Corsi da lei, che era insieme con un gruppo di poliziotti. Sembravano tutti eccitati. «Abbiamo trovato la Ford», mi disse la Moriarity. «I camion no, ma la macchina sì. A Wells.» «Cosa c'è a Wells?» le chiesi. «L'aeroporto.» 14 «Andiamo!» Ero di nuovo sull'elicottero dell'FBI, diretto a Wells, e speravo tanto di riuscire a raggiungere la Donnola. Le probabilità non erano altissime, ma non avevamo altro in mano. Gli agenti Wade e Moriarity viaggiavano con me. Non volevano perdersi nulla, qualsiasi cosa ci stesse aspettando. Mentre ci levavamo in volo sopra ciò che restava di Sunrise Valley, mi resi conto che l'ex campo di caravan era a un'altezza di oltre mille metri sul livello del mare. Poi smisi di guardare fuori e mi concentrai su Shafer, cercando di capire che cosa potesse legarlo a quel disastro. Tre anni prima, Shafer aveva rapito Christine Johnson, la donna con cui stavo per sposarmi, mentre eravamo in vacanza alle Bermuda. All'epoca non lo sapevamo, ma Christine era già incinta di Alex. Dopo quel sequestro, non ritornammo mai più come pri-
ma. John Sampson, il mio migliore amico, e io l'avevamo ritrovata in Giamaica, sotto shock. Non potevo darle torto. In seguito si era trasferita a Seattle, dove da qualche tempo viveva con il piccolo Alex. Era colpa di Shafer, se le cose erano finite così. Ma con chi lavorava la Donnola? Una cosa era ovvia, e probabilmente utile alle indagini: all'attentato di Sunrise Valley dovevano aver collaborato molte persone. Non avevamo ancora scoperto l'identità di quelli che si erano fatti passare per militari americani, ma sapevamo che non lo erano: il Pentagono ce lo aveva confermato. Poi c'era da affrontare il problema dell'ordigno che aveva cancellato un intero paese dalla faccia della terra. Chi l'aveva costruito? Qualcuno che aveva esperienza militare, probabilmente. Shafer era stato colonnello nell'esercito britannico e aveva anche fatto il mercenario. I possibili collegamenti erano tanti e interessanti, ma ancora molto vaghi. Il pilota dell'elicottero si rivolse a me: «Dovremmo vedere Wells appena avremo superato quelle montagne. Vedremo le luci, in ogni caso. Ma anche loro ci avvisteranno. Non è possibile avvicinarsi senza essere visti, nel deserto». Annuii. «Cerchi di atterrare il più vicino possibile all'aeroporto. Ci coordineremo con la polizia di Stato. Forse dovremo ricorrere all'uso delle armi.» «Capito», disse il pilota. Cominciai a vagliare diverse possibilità con Wade e Moriarity. Dovevamo provare ad atterrare dentro l'aeroporto o era meglio fuori? Avevano mai sparato? Qualcuno aveva mai sparato a loro? No, nessuno dei due era mai stato coinvolto in una sparatoria. Fantastico. Il pilota si voltò verso di noi. «Ci siamo. L'aeroporto dovrebbe apparire sulla destra. Eccolo.» Vidi un piccolo aeroporto con un edificio di due piani e due piste. Individuai una fila di macchine, ma non la Ford Bronco. Poi vidi un piccolo velivolo privato che si preparava al decollo. Che fosse Shafer? Mi sembrava poco probabile, ma in quella storia non c'era nulla di prevedibile. «Pensavo che l'aeroporto fosse stato chiuso», dissi al pilota. «Anch'io. Ma forse quello è l'uomo che cerchiamo. Se è così, non c'è più niente da fare. Ha un Learjet 55 e lo sta pilotando piuttosto bene.» Non potemmo fare altro che stare a guardare. Il Learjet prese la rincorsa
sulla pista e decollò, dirigendosi dalla parte opposta rispetto a noi. Mi vedevo già Geoffrey Shafer a bordo che ci faceva ciao ciao. O qualche gestaccio. All'elicottero dell'FBI o a me personalmente? Sapeva che io ero a bordo? Atterrammo pochi minuti dopo su una delle due piste e venimmo subito informati che il Learjet era fuori dai radar. «Cosa significa?» chiesi ai due ufficiali nella torre di controllo. Mi rispose il più anziano. «Che sembra sparito dalla faccia della terra. Come se non fosse mai stato qua.» Invece la Donnola era stata là: io l'avevo vista. E avevo le foto a dimostrarlo. 15 Geoffrey Shafer guidava una Oldsmobile Cutlass blu a tutta velocità nel deserto. Non era a bordo del Learjet decollato da Wells, Nevada. Sarebbe stato troppo semplice. No, la Donnola aveva sempre diversi piani di fuga fra cui scegliere. Mentre guidava, pensava che quel piano davvero geniale aveva funzionato e che di certo in caso di problemi ci sarebbero state diverse variazioni possibili. Aveva anche scoperto che Alex Cross, adesso dell'FBI, era stato visto in Nevada. Fa anche lui parte del quadro generale? Sì, probabilmente era così. Ma perché proprio Cross? Che cosa aveva in mente per lui il Lupo? Si fermò finalmente a Fallon, Nevada, dove era previsto il contatto successivo. Non sapeva esattamente con chi o perché, né a cosa fosse finalizzata quell'operazione. Sapeva solo quello che doveva fare lui. Gli era stato specificatamente ordinato di recarsi a Fallon per ricevere nuove istruzioni. E così, ubbidendo agli ordini, prese una stanza al Best Inn Fallon e si chiuse in camera. Usò un cellulare che gli era stato raccomandato di distruggere subito dopo aver effettuato la chiamata. Niente convenevoli, non una parola inutile. Il minimo indispensabile. «Sono il Lupo», disse la voce che gli rispose e Shafer si chiese se fosse vero o no. Si vociferava che il Lupo si avvalesse di un certo numero di controfigure. Tutte armate, di questo era certo. Il Lupo aveva notizie preoccupanti da dargli. «È stato visto, colonnello Shafer. È stato fotografato e identificato a Sunrise Valley. Lo sapeva?» Shafer cercò di negare, ma il Lupo lo interruppe.
«Abbiamo le foto qui, sotto il naso. E non a caso la Ford Bronco è stata seguita fino a Wells e le abbiamo dovuto ordinare di cambiare auto per arrivare a Fallon. Nel caso fosse andato storto qualcosa.» Shafer non sapeva che cosa dire. Come potevano averlo visto nel bel mezzo del deserto? Perché Cross era lì? Il Lupo alla fine scoppiò a ridere. «Non si preoccupi eccessivamente, colonnello. Era giusto così. Tutto previsto: il fotografo lavora per noi. Domattina si rechi dove le è stato ordinato. Si diverta, stasera. Si conceda una notte brava. Voglio che faccia un macello, lì a Fallon. Ammazzi qualcuno: è un ordine.» 16 Il mio senso di frustrazione e l'agitazione crescevano di ora in ora, insieme alla tensione generale. Non avevo mai visto una confusione simile propagarsi tanto in fretta. Erano passate quasi ventiquattr'ore dall'esplosione e noi non avevamo che un buco nel deserto del Nevada e un paio di piste molto vaghe. Avevamo parlato ai circa trecento residenti di Sunrise Valley, nessuno dei quali aveva idea di che cosa potesse essere successo. Non era accaduto nulla di insolito nei giorni precedenti, non si erano visti sconosciuti in giro. Non avevamo ritrovato i veicoli militari, né scoperto da dove venissero. L'attentato rimaneva un mistero. Come pure la presenza sul posto del colonnello Geoffrey Shafer, che ci turbava moltissimo. Non era arrivata nessuna rivendicazione. Dopo due giorni, decisi che non mi restava niente da fare nel deserto e tornai a Washington. Nana, i ragazzi e persino la gatta Rosie mi aspettavano nella veranda. Casa, dolce casa. Perché non imparavo la lezione una buona volta e non me ne restavo lì? «Che bello», esclamai salendo la scaletta. «Un vero e proprio comitato di accoglienza! Immagino abbiate sentito la mia mancanza. Da quanto siete qui ad aspettarmi?» Nana e i ragazzi scossero la testa quasi simultaneamente e io capii che si erano messi d'accordo. Nana rispose: «Certo che siamo felici di vederti, Alex». Sorrise. Anche i ragazzi sorrisero. Sì, c'era sotto qualcosa. «Beccato!» esclamò Jannie, che aveva dieci anni e le treccine che spuntavano da sotto un berretto all'uncinetto. «Siamo il tuo comitato di acco-
glienza. Certo che abbiamo sentito la tua mancanza, papà. Come avremmo fatto a non sentirla?» «Beccato, sì!» le fece eco Damon, che era seduto sulla ringhiera. Aveva dodici anni e si vestiva di conseguenza: indossava una maglietta Sean John e jeans larghi. Gli puntai contro il dito indice. «T'ho beccato io! Scendi di lì o romperai la ringhiera.» Sorrisi. Dovetti rispondere alle loro domande riguardo al piccolo Alex e mostrare le foto che gli avevo fatto. Ridevamo tutti, ed era bellissimo. Ero felice di essere tornato a casa, anche se solo in attesa di novità riguardo all'attentato nel Nevada e al ruolo di Shafer. Nana aveva preparato pollo arrosto con aglio e limone, con contorno di zucchine, funghi e cipolle. Delizioso. Dopo cena, andammo tutti in cucina a rigovernare e mangiare il gelato. Jannie mi mostrò un bel disegno che aveva fatto delle sue eroine, Venus e Serena Williams. Guardammo i Washington Wizards in TV e, prima di andare a dormire, ci scambiammo baci e abbracci. Sì, era proprio bello. Stavo molto meglio del giorno prima. Sperai che l'indomani fosse ancora migliore. 17 Verso le undici, salii nel mio studio all'ultimo piano, rilessi i miei appunti sull'attentato a Sunrise Valley per una ventina di minuti e poi telefonai a Jamilla a San Francisco. Negli ultimi giorni l'avevo sentita solo un paio di volte, perché avevo avuto troppo da fare. Immaginavo fosse a casa, dopo il lavoro. Invece trovai la segreteria. Non mi piace lasciare messaggi. E mi dispiaceva lasciarne un altro a Jamilla, dopo quelli che già le avevo lasciato dal Nevada. Alla fine, però, dissi: «Ciao, sono Alex. Speravo potessi perdonarmi per quello che è successo all'aeroporto. Se vuoi venire a Washington, ti compro il biglietto aereo. Mi manchi. Ho voglia di sentirti presto. Ciao, Jam». Chiusi la comunicazione e sospirai, chiedendomi se avessi rovinato tutto anche quella volta. Sì, stavo di nuovo mandando in malora una relazione. Ma perché? Scesi e mangiai due fette della torta di farina gialla che Nana aveva preparato per l'indomani. Servì solo a farmi star peggio, perché fui assalito dai
sensi di colpa. Mentre ero seduto in cucina, Rosie mi si venne a sedere in grembo. La accarezzai. «Mi vuoi bene, Rosie? Non sono una cattiva persona, vero?» La giornata non era finita: poco dopo mezzanotte ricevetti una telefonata da Fred Wade, uno degli agenti con cui avevo lavorato in Nevada. Aveva scoperto una cosa che pensava potesse interessarmi. «Siamo appena stati informati di un omicidio avvenuto a Fallon due sere fa», mi annunciò. «La vittima è una receptionist del Best Inn, che è stata violentata e uccisa. Il cadavere era vicino al parcheggio dell'albergo, come se l'assassino avesse voluto farcelo ritrovare. Uno degli ospiti del Best Inn corrisponde alla descrizione del tuo colonnello Shafer. Che, naturalmente, nel frattempo è ripartito.» Il mio colonnello Shafer? Che, naturalmente, nel frattempo è ripartito... Chissà dov'era finito. 18 Quella notte dormii pochissimo. Sognavo continuamente la Donnola. E la tragedia di Sunrise Valley. I ragazzi dovevano andare in gita con la scuola a visitare l'acquario di Baltimora. Firmai i permessi alle quattro e mezzo, mentre la casa era ancora buia e tutti dormivano. Uscii cercando di non fare rumore. Lasciai un bigliettino per Jannie e Damon dicendo che gli volevo bene, da bravo papà. Mentre guidavo, ascoltai un CD di Alicia Keys e Calvin Richardson, che mi tennero buona compagnia. In quel periodo alla sede dell'FBI il Major Threats Center era operativo ventiquattr'ore su ventiquattro: dopo l'11 settembre si era trasformato da un semplice ufficio investigativo in un organismo efficientissimo e proattivo. Poco tempo prima allo Hoover Building era arrivato anche un software da sei milioni di dollari, con un database di quaranta milioni di pagine sul terrorismo, dall'attentato al World Trade Center del 1993 in avanti. Avevamo un mare di informazioni: era giunto il momento di vedere se servivano a qualcosa. Quella mattina ci fu una riunione sull'attentato di Sunrise Valley allo Strategic Information and Operations Center, al quinto piano. Eravamo una decina. Visto che era stato raso al suolo un intero paese, l'attentato era assurto al rango di «major threat». In realtà non sapevamo quanto fosse
grave la minaccia: non sapevamo niente di niente. L'attentato non era neppure stato rivendicato. Era una situazione assurda. E, per questo, probabilmente ancor più spaventosa. La sala in cui si teneva la riunione era una delle più comode ed eleganti, con poltroncine azzurre e un grande tavolo di legno scuro su un tappeto color vinaccia, due bandiere - quella americana e quella del dipartimento di Giustizia - e un sacco di uomini in giacca e cravatta. Io avevo un paio di jeans e una giacca a vento con la scritta FBI TERRORISM TASK FORCE e mi sembrava di essere l'unico vestito in modo adeguato. Quello che avevamo per le mani non era un caso da gestire a tavolino. C'era un sacco di gente importante, primo fra tutti Burt Manning, uno dei cinque vicedirettori del Bureau, ma anche diversi alti funzionari della National Joint Terrorism Task Force e gli analisti di punta del nuovo Office of Intelligence, che comprendeva esperti della CIA e dell'FBI. Io ero insieme con Monnie Donnelley, analista della squadra Anticrimine e mia cara amica. «Vedo che hai ricevuto anche tu l'invito ufficiale», dissi, sedendomi vicino a lei. «Benvenuta alla festa.» «Non me la sarei persa per tutto l'oro del mondo. Mi sembra un film, Alex. È tutto così strano...» «Lo so.» Sullo schermo della sala si vedeva il responsabile delle indagini di Las Vegas, che spiegava le attività svolte dal laboratorio mobile della Scientifica che era stato allestito in quello che un tempo era il paesino di Sunrise Valley. Non disse nulla di nuovo e la discussione si spostò ben presto su un argomento molto più interessante. La valutazione della gravità della minaccia. Ci fu una breve introduzione sui gruppi terroristici americani, come National Alliance e Aryan Nations. Nessuno riteneva però che a compiere un'azione così sofisticata potessero essere stati quei bamboccioni. Passammo poi ad al-Qaeda e Hezbollah, il movimento radicale della Jihad. La discussione fu accesa e durò due ore. Potevano benissimo essere stati loro. Manning distribuì poi i compiti. Io non venni neppure nominato e la cosa mi fece pensare che forse sarei stato convocato dal direttore Burns. Non mi faceva particolarmente piacere, per la verità. Non avevo voglia di ripartire da Washington, e meno che
mai di andare in Nevada. A un certo punto, scoppiò il finimondo. Tutti i cercapersone dei presenti in sala si misero a squillare contemporaneamente. Nel giro di pochi secondi, tutti controllammo chi ci stava chiamando. Da parecchi mesi venivano segnalate in quel modo tutte le minacce terroristiche, dal pacco sospetto nella metropolitana di New York alla minaccia di diffondere l'antrace a Los Angeles. Il mio messaggio diceva: RUBATI DUE MISSILI TERRA-ARIA DALLA BASE AERONAUTICA DI KIRTLAND AD ALBUQUERQUE. POSSIBILE LEGAME CON SUNRISE VALLEY. AGGIORNAMENTO A BREVE. 19 «La guerra contro il male non finisce mai», diceva una targa sul muro vicino ai distributori di bevande della mensa. Alle sei meno dieci, quel pomeriggio, ci fu un'altra riunione al quinto piano. Eravamo gli stessi della mattina. Molti immaginarono che l'attentato fosse stato finalmente rivendicato, altri temettero che fosse stato appurato il collegamento con la sparizione dei missili di Kirtland. Arrivarono cinque o sei agenti della CIA, in giacca e cravatta, valigetta ventiquattrore in mano. Ahi ahi. Subito dopo, giunsero una mezza dozzina di pezzi grossi del Dipartimento della Sicurezza Nazionale. Evidentemente la cosa si era fatta seria. «Sono preoccupata», mi bisbigliò Monnie Donnelley. «Un conto è parlare di cooperazione interforze, ma quando le alte sfere della CIA si muovono veramente...» Le sorrisi. «Sei di ottimo umore, vedo.» Mi rispose con una scrollata di spalle. «Come diceva il generale Patton sul campo di battaglia: 'Che Iddio mi perdoni, mi piace un casino!'» Alle sei in punto fece il proprio ingresso il direttore Burns. Entrò nella sala accompagnato da Thomas Weir, il capo della CIA, e Stephen Bowen, della Sicurezza Nazionale. Sembravano profondamente a disagio, forse per il fatto di trovarsi lì tutti e tre assieme, ma anche tutti noi entrammo in agitazione nel vederli. Monnie e io ci scambiammo un'altra occhiata. Mentre i tre prendevano posto, qualcuno dei più anziani continuò a parlottare: volevano dimostrare
che non erano affatto impressionati. Ma era vero? Ne dubitavo. «Posso avere la vostra attenzione?» esordì il direttore Burns. Nella sala scese il silenzio. Tutti gli occhi erano fissi su di lui. Burns aspettò un istante, prima di cominciare. «Desidero aggiornarvi sulla situazione. Le prime informazioni riguardo al caso in oggetto sono state ricevute due giorni prima dei fatti di Sunrise Valley, nel Nevada. Il messaggio si concludeva con l'auspicio che l'attentato non causasse morti o feriti. La natura dell'attentato non veniva specificata, né in alcun modo lasciata intravedere. Veniva inoltre raccomandato di non far parola dell'avvertimento con nessuno, pena gravissime ripercussioni. Quali potessero essere non veniva spiegato.» Burns si interruppe per guardare il pubblico in sala. Incrociò il mio sguardo, mi fece un lieve cenno del capo e proseguì. Mi chiesi che cosa sapesse che tutti noi ignoravamo. Chi altri era al corrente? La Casa Bianca? Era molto probabile. «Da allora siamo stati contattati quotidianamente dagli attentatori. In un caso il messaggio è arrivato a Bowen, in uno a Weir e in uno a me. Finora, essi non contenevano informazioni di rilievo. Stamattina, invece, ciascuno di noi ha ricevuto un filmato dell'attentato nel Nevada. È un montaggio di sequenze, che adesso vi mostrerò.» A un suo cenno, su una mezza dozzina di monitor disposti intorno alla sala cominciarono a scorrere immagini in bianco e nero, molto sgranate. Sembravano le riprese di una telecamera a spalla. Un po' come un filmato di guerra, insomma. Guardammo il video in silenzio. Si vedevano arrivare camion e jeep militari, a un paio di chilometri di distanza. Poco dopo, gli abitanti del campo venivano fatti uscire dai loro caravan e scortati a bordo dei veicoli. Un uomo tirava fuori una pistola e veniva ucciso in mezzo alla strada. Douglas Puslowski. Il convoglio si allontanava rapidamente alzando nuvole di polvere. La scena successiva mostrava un grosso oggetto scuro che cadeva dal cielo. Mentre era a mezz'aria, esplodeva. Il filmato era stato montato, ma le riprese erano state fatte da un'unica telecamera. Semplice, ma efficace. L'esplosione pareva durare un'eternità. L'aereo che aveva sganciato l'ordigno non veniva mai ripreso. «Hanno filmato tutto», disse Burns. «Volevano che sapessimo che erano presenti e che sono stati loro a radere al suolo Sunrise Valley. Fra pochi
minuti ci spiegheranno anche perché. Stiamo aspettando una loro telefonata. La persona che ci ha contattati finora ha usato schede telefoniche e telefoni pubblici. Un metodo primitivo, ma non privo di efficacia. Ci ha chiamato da supermercati, cinema, sale da bowling: molto difficile da rintracciare, quindi.» Restammo seduti in silenzio un minuto o due. Solo pochi bisbigliavano fra loro. Poi il telefono vicino ai tre direttori cominciò a suonare. 20 «Useremo il vivavoce in maniera che possiate sentire tutti», annunciò Burns. «Non ci è stato vietato di farvi ascoltare la chiamata. Anzi, ci è stato raccomandato. In altre parole, gli attentatori si aspettano un pubblico. Come vedrete, dettano regole molto precise.» «Ma chi sono?» mi chiese Monnie in un orecchio. «Te lo dicevo: sembra un film. Magari sono gli alieni. Scommettiamo?» «Lo sapremo fra un attimo. Io con te non scommetto.» Burns premette un pulsante e dagli altoparlanti arrivò una voce, filtrata in maniera da risultare irriconoscibile. «Buonasera. Sono il Lupo», disse. Mi si rizzarono i capelli: conoscevo il Lupo, gli stavo dando la caccia da un anno. Era l'assassino più spietato con cui avessi mai avuto a che fare. «Sono stato io a distruggere Sunrise Valley. Vorrei dare alcune spiegazioni, non più di quante meritiate. Vi dirò solo ciò che desidero sappiate per il momento.» Monnie mi guardò, scuotendo la testa. Anche lei conosceva il Lupo. Se la telefonata fosse arrivata direttamente dall'inferno, ci avrebbe fatto meno paura. «Sono lieto di poter parlare a voi tutti, che vi credete tanto importanti ma siete lì riuniti ad ascoltarmi e pendete dalle mie labbra. FBI, CIA, Sicurezza Nazionale: sono molto impressionato», continuò il Lupo. «Mi sento quasi in imbarazzo.» «Vuole che interloquiamo o che ascoltiamo soltanto?» domandò Burns. «Chi ha parlato? Chi è? Si presenti, per cortesia.» «Sono Burns, il direttore dell'FBI. Sono qui con il direttore della CIA, Weir, e con Stephen Bowen della Sicurezza Nazionale.» Il suono che seguì doveva essere un'aspra risata. «Quale onore, signor
Burns! Credevo mi avreste fatto parlare con un portaborse, almeno all'inizio. Il dottor Cross, per esempio. Ma è meglio, se ci parliamo direttamente. È sempre meglio dialogare fra potenti, le pare?» Weir, della CIA, disse: «Ha chiesto specificatamente di parlare con 'la dirigenza'. E noi siamo 'la dirigenza'. Stiamo prendendo molto sul serio l'attentato nel Nevada». «Mi avete dato ascolto, dunque. Molto bene. Ho sentito parlare di lei, direttore Weir. Anche se prevedo problemi tra noi, in futuro.» «E perché mai?» «Lei è della CIA e io non mi fido della CIA. Nemmeno per un secondo... Non ha letto Graham Greene? Chi altro mi sta ascoltando?» chiese poi. «Presentatevi.» Burns elencò i presenti, omettendo un paio di agenti. Mi chiesi perché. «Ottima scelta, mi congratulo», disse il Lupo, non appena Burns ebbe concluso. «Sono certo che sapete di chi fidarvi e di chi invece diffidare. In fondo, ne va della vostra vita. Personalmente, nutro una certa diffidenza nei confronti della CIA, ma è un mio punto di vista. Li trovo bugiardi e inutilmente pericolosi. C'è qualcuno che non è d'accordo con me?» Nessuno rispose e dagli altoparlanti uscì un'altra risata. «Interessante, non trovate? Neppure la CIA si dichiara contraria alle mie affermazioni poco lusinghiere.» Poi il tono cambiò di colpo. «Adesso statemi bene a sentire, buoni a nulla che non siete altro. La cosa principale è che mi stiate a sentire. E facciate quel che vi dico. Avete capito? Statemi a sentire e fate quel che vi dico. Voglio sentirvi, per favore. Mi avete capito, cretini?» Rispondemmo tutti insieme, benché fosse assurdo e infantile. Era chiaro che il Lupo ci aveva in pugno. Ci controllava totalmente. Burns a un certo punto disse: «Ha chiuso la comunicazione! Quel figlio di puttana ha riattaccato». 21 Aspettammo come pedine nel suo gioco, ma il boss russo non si fece più sentire. Conoscevo bene quel bastardo e presentivo che non avrebbe richiamato. Ci stava trattando come burattini. Tornai nel mio ufficio e Monnie Donnelley rientrò in Virginia. Non ero ancora stato assegnato al caso, perlomeno ufficialmente, ma il Lupo sapeva che ero anch'io in quella sala riunioni. Aveva fatto il mio nome solo per
insultarmi, com'era nel suo stile. Che cosa aveva in mente? Era un mafioso: perché usava tattiche terroristiche? Voleva far scoppiare una guerra? Se ci riusciva un gruppo di pazzi nel deserto, sicuramente poteva farcela anche la Mafia russa. Bastava avere un boss particolarmente spietato e soldi a sufficienza. Mi chiedevo se la terribile incertezza che provavo facesse parte del piano del russo per tenerci sotto pressione e stressarci. Voleva controllarci? Mettere a dura prova la nostra pazienza? Naturalmente, riflettei anche su Geoffrey Shafer e sul suo ruolo nella vicenda. Cosa c'entrava? Avevo già scaricato tutti i dati più recenti su Shafer. Una sua ex, nonché psicoterapeuta, era stata messa sotto sorveglianza. Si chiamava Elizabeth Cassady e stavo cercando di ottenere i suoi appunti sulle sedute con Shafer. Più tardi chiamai casa e parlai con Nana, che mi accusò di aver mangiato la sua torta. Diedi la colpa a Damon e lei scoppiò a ridere. «Devi prenderti la responsabilità delle cose che fai», mi rimproverò. «Me la prendo, me la prendo», risposi. «Sì, l'ho mangiata io. E ne sono felice: era squisita.» Appena finita la telefonata venni convocato per un'altra riunione. Tony Woods, della direzione, parlò alla sala gremita. «Ci sono nuovi sviluppi», annunciò solenne. «In Europa è scoppiato il finimondo.» Dopo un attimo di pausa, riprese: «Un'ora fa si sono verificati altri due attentati gravissimi. Entrambi sono avvenuti nell'Europa occidentale: il primo in Inghilterra, nel Northumberland, al confine con la Scozia. Il paesino di Middleton Hall, quattrocento e passa anime, è stato cancellato dalla faccia della terra». Si interruppe. «Questa volta la popolazione non era stata fatta evacuare. Non sappiamo perché. Le vittime sono un centinaio. È stato un bagno di sangue. Sono morte intere famiglie: uomini, donne e bambini. Abbiamo ricevuto un filmato da Scotland Yard, girato da un poliziotto del luogo dalle alture circostanti. Ora ve lo mostro.» Rimanemmo seduti in silenzio assoluto a guardare il breve filmato. Alla fine, l'autore delle riprese diceva: «Sono Robert Wilson e sono nato e cresciuto a Middleton Hall, che ormai non esiste più. Nel paese c'erano una via principale, un paio di pub, negozi, abitazioni. Vi si accedeva da un ponte che adesso è crollato. Anche il nostro pub è andato completamente distrutto. Di fronte a questa desolazione, capisco perché sono cristiano. E sono sgomento per come sta andando il mondo». Dopo quel video commovente, Tony Woods passò a illustrarci il secon-
do attentato. Era avvenuto in Germania e non era documentato con filmati. «I danni, a Lubecca, non sono stati così ingenti, ma sono comunque gravi. Pare che alcuni studenti universitari abbiano cercato di opporre resistenza e siano stati uccisi. Lubecca si trova nella regione SchleswigHolstein, vicino al confine danese. È una zona prevalentemente agricola. Il Lupo non ci ha contattato né prima, né dopo gli attentati. È possibile che questo sia il segnale di un'escalation.» 22 Che cosa stava per succedere? Quanto tempo avevamo? La tensione era fortissima. Un pazzo radeva al suolo interi paesi in tutto il mondo e noi non sapevamo perché. Quanto sarebbe andata avanti questa storia? Sarebbe stato sempre peggio? Mi concentrai sulla Donnola, leggendo e rileggendo tutto il materiale che avevamo su di lui. Vedere la sua faccia e ascoltare la sua voce mi metteva i brividi. Volevo catturarlo. Lessi gli appunti della psicoterapeuta che aveva avuto in cura quel folle quando abitava a Washington. Elizabeth Cassady non era stata soltanto la sua terapeuta, ma anche sua amante. Era una lettura incredibile, tenuto conto dei rapporti complessi che la Cassady aveva avuto con il suo paziente. Leggendo, presi appunti. PRIMO INCONTRO Maschio, XX anni, si presenta di propria iniziativa, causa «Faccio fatica a concentrarmi sul mio lavoro». Dichiara di svolgere mansioni top secret. Riferisce che i colleghi sostengono che negli ultimi tempi si comporta «in maniera strana». Ha detto di essere sposato, con tre figli: due gemelle e un maschietto. Sostiene di essere felice con la moglie. IMPRESSIONI Ben vestito, molto attraente, parla con proprietà di linguaggio. Irrequieto, con considerevole presenza. Descrive il passato con una certa grandiosità. ESCLUDERE Disturbi schizoaffettivi Sintomi maniacali Disturbi dell'umore dovuti ad abuso di sostanze (alcol o droghe leggere)
Disturbo da deficit di attenzione/iperattività Disturbo della personalità borderline Depressione unipolare SEDUTA N. 3 Arriva in ritardo di dieci minuti. Quando gli chiedo il motivo, dà segni di irritabilità. Dichiara di sentirsi «benissimo», ma nel corso di tutta la seduta manifesta ansia e disagio. SEDUTA N. 6 Gli chiedo della sua vita familiare, riferendomi a una precedente discussione su problemi sessuali, e assume un comportamento inappropriato: ridacchia, si mette a camminare per la stanza, fa battutine oscene, mi pone domande personali. Dichiara che quando è con la moglie ha fantasie riguardo a me e questo gli causa eiaculazione precoce. SEDUTA N. 9 Taciturno, atteggiamento anaffettivo, nega di essere depresso. Ha la sensazione che «nessuno lo capisca». Continua a parlare di problemi sessuali con la moglie. Riferisce un episodio di impotenza la scorsa settimana, nonostante le fantasie erotiche su di me. Me le ha descritte dettagliatamente e ha continuato quando io gli ho chiesto di tagliar corto. Ammette di essere «ossessionato» da me. SEDUTA N. 11 Marcato cambiamento affettivo. Energico, euforico, carismatico in maniera quasi travolgente (possibile disturbo di socializzazione). Alla domanda se ritiene di aver bisogno di continuare le sedute risponde «Mi sento in ottima forma». Riguardo alla moglie dichiara «Le cose non potrebbero andare meglio. Mi adora, sa». Riferisce un episodio di comportamento a rischio la settimana scorsa: andava in auto a velocità eccessiva e ha intenzionalmente provocato un inseguimento da parte della polizia. Ha alluso a rapporti sessuali con un'altra donna, forse una prostituta, e ha parlato di «sesso selvaggio». È stato seduttivo tutta la seduta, in maniera quasi aperta. Si dichiara convinto che io «lo voglio». SEDUTA N. 14
Non si è presentato la seduta precedente, senza avvertire. Oggi si è scusato, ma era arrabbiato e irrequieto. Sostiene di volersi «gratificare». Riferisce aumento della libido e di aver chiamato un'agenzia di accompagnatrici per sfogarla. Ammette di desiderare rapporti sado-maso. Sostiene di non essere «probabilmente» innamorato di me. Lo ha riferito senza la minima emozione. Sono rimasta sbigottita. Sembra che il colonnello Shafer venga da me al solo scopo di sedurmi. E, sfortunatamente, ci sta riuscendo. 23 Dopo aver letto gli appunti della dottoressa Cassady, ero sgomento anch'io. La psicoterapeuta cominciava a prendere le parti di Shafer dalla sedicesima seduta in avanti. Non c'erano più considerazioni personali. A un certo punto, la dottoressa aveva addirittura smesso di scrivere. Era un comportamento strano, molto poco professionale. Immaginavo che la relazione fosse cominciata lì. In ogni caso, se avevo bisogno di una conferma del fatto che Shafer era psicopatico, l'avevo trovata nelle note della sua terapeuta. Quella sera, sul tardi, mi chiamarono di nuovo in sala riunioni. Sembrava che il Lupo stesse per ritelefonarci. Doveva essere successo qualcosa. Forse il conto alla rovescia stava per cominciare. La telefonata iniziò in tono sommesso. «Grazie di esservi di nuovo riuniti per me. Cercherò di non deludervi e di non farvi perdere altro tempo prezioso. Direttori Burns, Bowen, Weir, volete dire qualcosa prima che io cominci?» «La ascoltiamo, esattamente come ci ha chiesto», replicò Burns. Il Lupo scoppiò a ridere. «Mi piace, signor Burns. Sarà un degno avversario, penso. A proposito: è presente il signor Mahoney?» Il capo della HRT, l'unità Antisequestri, guardò negli occhi Ron Burns, che gli fece cenno di parlare. Il mio amico Ned si protese in avanti e fece un gestaccio. «Sì, sono qui. La ascolto.» Continuava a mostrargli il dito medio. «Che cosa posso fare per lei?» «Andarsene immediatamente. Non abbiamo bisogno di lei. La trovo un po' troppo instabile, per i miei gusti. Pericoloso. E sì, sto dicendo sul serio.» Burns fece cenno a Mahoney di andare.
«L'Antisequestri non ci servirà», dichiarò il Lupo. «Se arriveremo a quel punto, per voi sarà tutto perduto, ve lo assicuro. Forse state iniziando a capire come ragiono. Non voglio la HRT e non voglio ulteriori indagini. Richiamate indietro i cani. Mi sentite? Nessuno di voi scoprirà chi sono. Anzi, chi siamo. È chiaro? Rispondetemi.» Dicemmo in coro: «Sì». Era chiarissimo. Il Lupo ci metteva in una posizione infantile, godeva a umiliare FBI, CIA e Sicurezza Nazionale. «Chi non ha detto sì, esca immediatamente», ordinò il Lupo. «Anzi no, restate pure. Mi divertirò alle vostre spalle. Sono un tipo creativo, sapete. Riguardo a Mahoney però dicevo sul serio. E anche sulla sospensione delle indagini. Prendetemi alla lettera. E adesso passiamo all'ordine del giorno. Ho da dire cose molto interessanti. Spero che qualcuno prenderà appunti.» Fece una pausa di quindici secondi, poi riprese: «Voglio che prendiate nota delle prossime città. È giunto il momento. Sono quattro e il mio consiglio è di prepararsi al peggio. Verranno completamente rase al suolo». Dopo un'altra pausa, dichiarò: «New York, Londra, Washington, Francoforte. Queste città si devono preparare alla catastrofe più disastrosa di tutta la storia. E non una parola riguardo a ciò che ho detto, mi raccomando. Altrimenti il mio attacco sarà immediato». Buttò giù. Non aveva detto niente riguardo alle date. 24 Alle cinque e mezzo di quella mattina il presidente degli Stati Uniti era in piedi. Anzi, era reduce da una riunione di due ore e stava bevendo la sua quarta tazza di caffè. I membri del Consiglio di Sicurezza Nazionale erano arrivati nel suo ufficio alle tre e mezzo, insieme con alcuni esponenti di CIA e FBI e un certo numero di esperti di intelligence. Tutti prendevano molto sul serio le minacce del Lupo. Il presidente si sentiva abbastanza pronto alla riunione successiva, ma non si poteva mai dire, soprattutto quando la politica si mescolava a situazioni di reale emergenza. «Diamo inizio alle danze. Forza», disse al capo del suo staff. Pochi minuti dopo parlava in teleconferenza con il cancelliere tedesco e il primo ministro britannico. Apparivano tutti e tre sullo schermo, lievemente asincroni. Sembrava strano, ma l'intelligence di nessuno dei tre Paesi aveva infor-
mazioni affidabili riguardo al Lupo. Non sapevano dove fosse o dove abitasse. Il presidente lo spiegò agli altri. «Finalmente, siamo d'accordo su qualcosa», disse il cancelliere tedesco. «Sappiamo che esiste, ma non dove si nasconde», confermò il primo ministro britannico. «Noi supponiamo che abbia fatto parte del KGB e che sia fra i quarantacinque e i cinquant'anni. Sappiamo per certo soltanto che è molto in gamba. Terribilmente arrogante.» Anche su questo erano tutti d'accordo. Concordavano inoltre su un aspetto ancor più importante: con i terroristi non bisogna trattare. Il Lupo andava fermato. A qualsiasi costo. PARTE SECONDA Vicoli ciechi 25 Per il Lupo le grandi città stavano diventando tutte uguali, noiose e anonime. Era un effetto della diffusione del capitalismo e delle multinazionali. Anche la criminalità stava diventando globale. Il russo passò parte della notte a camminare in una di queste grandi città. Non aveva importanza quale: si sentiva ugualmente a disagio in tutte. Nel caso specifico, comunque, si trovava a Washington per preparare le fasi successive del suo piano. Si sentiva incompreso: nessuno lo capiva, nessuno al mondo. Del resto, tutti gli esseri razionali sanno che non è facile essere capiti. Ma nessuno avrebbe potuto comprendere la sua paranoia, il dolore, il rancore che covava da moltissimi anni, dalla tragedia di Parigi. Era una sensazione quasi fisica, una sorta di intossicazione del sangue. Il suo tallone d'Achille. E la sua paranoia, la certezza di essere destinato a una morte prematura, gli ispirava una passione che, pur non potendosi definire amore per la vita, lo spingeva a vivere il più intensamente possibile, a voler vincere sempre e a tutti i costi. O, perlomeno, a non voler mai perdere. Così il Lupo camminava per le strade del centro di Washington e intanto pianificava altri omicidi. Solo. Sempre solo. Strizzando velocemente la pallina di gomma nera nel pugno. Un amuleto? Un portafortuna? Non proprio. Paradossalmente, però, quella pallina di gomma nera era la chiave della sua personalità.
Prenditi il tempo per riflettere, pianificare e poi eseguire, si disse, camminando. Era certo che i governi non avrebbero accolto le sue richieste. Non potevano cedere. Non ancora, non così facilmente. Bisognava dargli un'altra lezione, forse anche più di una. Per questo il Lupo salì in macchina e, nella notte, andò fino alla casa del direttore dell'FBI Burns, nei sobborghi di Washington. Che vita desiderabile sembrava condurre quell'uomo con la sua famiglia! Il Lupo lo pensava sinceramente. La casa era bella e ben tenuta, a un piano soltanto: relativamente modesta, nonostante rappresentasse l'incarnazione del sogno americano. Nel vialetto era parcheggiata una Mercury azzurra con il portabiciclette e tre bici. Nel giardino c'era un canestro con il tabellone trasparente. Doveva sterminare quella famiglia? Sarebbe stata un'impresa abbastanza facile, e in un certo senso piacevole. Una morte ampiamente meritata. Ma sarebbe stata una lezione efficace? Siccome non ne era sicuro, giunse alla conclusione che la risposta molto probabilmente era no. A parte il fatto che aveva un altro bersaglio che non riusciva a dimenticare. Un vecchio conto da saldare. Che cosa poteva esserci di meglio? La vendetta è un piatto che va servito freddo, pensò continuando a strizzare la pallina di gomma nera. 26 Benvenuto nel mondo del governo federale, dove le procedure contano più di ogni altra cosa e la burocrazia costringe a lavorare nei modi più strani. Ultimamente il mio mantra era quello, e me lo ripetevo quasi ogni volta che entravo nello Hoover Building. Mai mi era sembrato vero come in quegli ultimi giorni. Anche in quell'occasione tutto si svolse secondo il protocollo, ai sensi di recenti direttive presidenziali che riguardavano anche il Bureau. La risposta alle minacce del Lupo rientrava in due categorie diverse: «indagini» e «gestione delle conseguenze». L'FBI era incaricato delle indagini, mentre la Federal Emergency Management Agency (FEMA) era competente in materia di gestione delle conseguenze. Tutto molto razionale e ordinato, ma assolutamente impraticabile. Per-
lomeno secondo il mio modesto parere. Dal momento che la minaccia era stata rivolta a un'area metropolitana degli Stati Uniti - anzi, due, New York e Washington - fu convocata l'Unità di Supporto Emergenze Nazionali. Dovevamo riunirci al quinto piano dello Hoover Building. Se da una parte mi piaceva essere coinvolto nelle attività dell'unità di crisi, in realtà quelle riunioni erano una noia mortale. Il primo argomento all'ordine del giorno era la valutazione della gravità della situazione. Alla luce dei tre attentati già avvenuti, naturalmente i «terroristi» venivano presi sul serio. Il moderatore della discussione era il nuovo vicedirettore dell'FBI, un certo Robert Campbell McIllvaine Jr che il direttore aveva recentemente convinto a rientrare in servizio. Ormai in pensione, viveva in California, ma era troppo in gamba per fare il pensionato. McIllvaine parlò brevemente dei falsi allarmi che si erano moltiplicati negli ultimi due o tre anni, ma alla fine giungemmo alla conclusione che questo non rientrava nella categoria. Bob McIllvaine ne era sicuro, e ciò alla maggior parte dei presenti bastava. Il secondo argomento era la gestione delle conseguenze, quindi la discussione fu presieduta dalla FEMA. Si affrontò la questione dei soccorsi sanitari in caso ci fosse stata una grossa esplosione a Washington, a New York o in entrambe le città contemporaneamente. Tentare di evacuare la popolazione era impensabile, soprattutto a New York, perché nel panico sarebbero morte migliaia di persone. La discussione, tutta ipotetica ma molto franca, fu una delle più spaventose cui io avessi mai assistito. Più andava avanti, più paura metteva. Dopo mezz'ora di pausa per il pranzo - per i pochi cui la gravità della situazione non aveva fatto passare l'appetito - e per qualche telefonata, affrontammo la valutazione dei sospetti. Chi è il responsabile? Il lupo? La Mafia russa? Potrebbe trattarsi di qualcun altro? Che cosa vogliono esattamente? L'elenco iniziale era molto lungo, ma in breve tempo si restrinse ad alQaeda, Hezbollah, la Jihad islamica egiziana e, forse, un gruppo che agiva per lucro in collaborazione con il terrorismo organizzato. Alla fine passammo a parlare di misure e contromisure da prendere sotto la direzione del Bureau. Fu deciso di mettere sotto sorveglianza una serie di individui sospetti negli Stati Uniti, in Europa e nel Medio Oriente, nell'ambito di indagini già in corso che rappresentavano l'operazione più vasta mai organizzata nella storia. Tutto questo, ovviamente, andava contro gli ordini espliciti e minaccio-
sissimi del Lupo. Quella sera tardi mi ritrovai ancora al lavoro, a esaminare le ultime informazioni raccolte su Geoffrey Shafer negli Stati Uniti e in Europa. In Europa?'mi chiesi. Questo complotto è nato in Europa? In Inghilterra, magari, dove Shafer ha vissuto tanti anni? O in Russia? O in una delle comunità di russi emigrati negli Stati Uniti? Lessi alcuni rapporti sugli anni in cui Shafer aveva fatto il trafficante di mercenari in Africa. All'improvviso mi venne un'idea. L'ultima volta che era stato in Inghilterra, Shafer aveva usato un trucco: era entrato nel Paese su una sedia a rotelle, che pareva avesse usato anche per girare per Londra. Dubitavo sapesse che noi ne eravamo al corrente. Era una possibile pista, che immisi immediatamente nel database, evidenziandola come importante. Forse la Donnola usava una sedia a rotelle anche a Washington. E forse adesso eravamo un passo più avanti di lui, anziché due indietro come prima. Con quella considerazione, decisi di smettere di lavorare, sperando che la giornata fosse finalmente finita. 27 L'indomani mattina molto presto la Donnola attraversò Union Square, piena di gente e di rumore, su una carrozzella nera pieghevole, immerso in ameni pensieri. Gli piaceva vincere e stava vincendo su tutti i fronti. Geoffrey Shafer aveva ottimi contatti nel settore militare a Washington e ciò lo rendeva particolarmente prezioso per quella missione. Aveva contatti anche in un'altra delle città prese di mira dal piano, Londra, ma per il Lupo questo era meno importante. Comunque, era di nuovo in gioco e gli faceva piacere sentirsi qualcuno. Inoltre aveva una gran voglia di far del male a quanta più gente possibile in America, perché odiava gli americani, e il Lupo gli aveva offerto l'occasione di fare danni notevoli. Zamočit'. Spaccare le ossa. Una strage. Ultimamente Shafer portava i capelli molto corti e se li era tinti di nero. Non poteva nascondere il fatto di essere alto quasi un metro e novanta, ma aveva trovato una soluzione geniale. In realtà era un'idea che aveva preso da un ex collaboratore. Perlomeno durante il giorno, si spostava per Washington su una sedia a rotelle. Un modello nuovissimo, che poteva como-
damente caricare nel bagagliaio della sua Saab station wagon. Se di tanto in tanto veniva notato - e succedeva spesso - era sempre per le ragioni sbagliate. Alle sei e venti di quel mattino Shafer incontrò il suo contatto alla Union Station. Si misero entrambi in coda - il contatto dietro di lui - alla cassa di uno Starbucks e scambiarono qualche parola come per caso. «Si stanno muovendo», disse il contatto, che era l'assistente di un pezzo grosso dell'FBI. «Nessuno ha preso sul serio l'ordine di non indagare. Hanno già iniziato le operazioni di sorveglianza nelle città bersaglio. La cercano qui, naturalmente. L'agente Cross è stato incaricato di occuparsi di lei.» «Proprio ciò che desideravo», commentò Shafer facendo uno dei suoi mezzi sorrisi. Non lo sorprendeva che lo tenessero d'occhio. Anche il Lupo l'aveva previsto, come lui. Rimase in coda e pagò un latte macchiato, poi premette un pulsante e la carrozzella lo portò a una fila di telefoni pubblici vicino alla biglietteria della stazione. Fece una telefonata, sorseggiando la sua bevanda calda. «Ho un lavoretto per te. Facile facile e ben pagato», disse alla donna che gli rispose. «Cinquantamila dollari per un impegno di un'oretta.» «Bene. Ci sto», rispose lei, che era uno dei tiratori scelti migliori del mondo. 28 L'incontro con l'«esecutore» avvenne poco prima di mezzogiorno nella zona ristorazione del centro commerciale di Tysons Corner. Il colonnello Shafer e il capitano Nicole Williams avevano appuntamento davanti a un Burger King. Si sedettero a un tavolino con hamburger e bibite davanti, ma nessuno dei due assaggiò quelli che Shafer definì «disgustosi tappa-arterie yankee». «Bella sedia», commentò divertita il capitano Williams quando lo vide arrivare sulla sedia a rotelle. «Non ti vergogni di niente, eh?» «Purché funzioni, Nikki», replicò lui sorridendo a sua volta. «Ormai dovresti conoscermi abbastanza bene, no? Quel che bisogna fare, faccio.» «Sì, ti conosco, colonnello. In ogni caso, grazie di aver pensato a me per questo lavoro.» «Aspetta di aver sentito di che cosa si tratta, prima di ringraziarmi.» «Sono qui apposta. Sentiamo.»
Per la verità Shafer era un po' sorpreso e preoccupato: Nikki Williams si era lasciata parecchio andare, dall'ultima volta che avevano lavorato insieme. Alta meno di uno e settanta, doveva pesare a dir poco novanta chili. Ciononostante aveva ancora l'aria sicura di sé della professionista che era sempre stata e che Shafer ricordava. Avevano combattuto assieme per sei mesi in Angola e il capitano Williams era molto in gamba e portava sempre a termine con successo i compiti che le venivano affidati. Shafer le spiegò soltanto la parte della missione che la riguardava e le ripeté che il compenso era cinquantamila dollari per meno di un'ora di lavoro. La cosa che più gli piaceva di Nikki era che non si lamentava mai della difficoltà o dei rischi del suo mestiere. Le uniche due domande che fece quando le ebbe spiegato l'indispensabile, senza specificare esattamente il bersaglio, furono: «Da dove devo cominciare? Quando si parte?» «Domani all'una devi trovarti al Manassas Regional Airport in Virginia. All'una e cinque atterrerà un elicottero MD-530. A bordo ci sarà un HK PSG-1 per te.» Nikki Williams aggrottò la fronte e scosse la testa. «Mm mm. Se non ti dispiace, mi porto il mio. Preferisco il Winchester M-70 con proiettili a punta cava rastremati 300 Win Magnum. Li ho provati sul campo e secondo me sono i migliori, per un lavoro come questo. Hai detto che c'è un vetro da sfondare, giusto?» «Sì, esatto. Devi sparare in un ufficio.» Shafer non fece obiezioni riguardo al cambio di arma. Aveva lavorato con molti cecchini e sapeva che avevano le loro fissazioni, il loro modo di lavorare. Si aspettava che Nikki Williams proponesse delle modifiche, anzi, era sorpreso che non ne avesse chieste di più. «Allora, chi deve morire domani?» domandò alla fine. «Ho bisogno di saperlo, naturalmente.» Shafer le disse chi era il bersaglio e, a suo merito, va detto che il capitano Williams non batté ciglio. La sua unica reazione fu: «Allora il prezzo sale. Voglio il doppio». Shafer annuì lentamente. «Va bene. Non c'è nessun problema.» Nikki Williams sorrise: «Mi sono accontentata di troppo poco?» Shafer annuì di nuovo. «Sì. Te ne darò centocinquantamila, comunque. L'importante è che tu non manchi il bersaglio.» 29
Forse eravamo arrivati a una svolta nelle indagini: finalmente avevamo scoperto qualcosa, e grazie a un mio suggerimento: la sedia a rotelle. Avevamo una pista da seguire! Alle dieci del mattino mi precipitai in Cathedral Avenue, dall'altra parte di Washington. Tre anni prima una mia collega di nome Patsy Hampton era stata ammazzata nel garage del Farragut, un condominio di quella via. Era stato Geoffrey Shafer a ucciderla e il Farragut era il palazzo dove abitava la sua ex psicoterapeuta. Avevamo messo sotto sorveglianza la dottoressa Elizabeth Cassady e, dopo trentasei ore, sembrava che quella decisione avesse dato i suoi frutti. La Donnola era stata avvistata. Aveva lasciato la macchina nel garage sotterraneo, poco lontano dal punto in cui aveva brutalmente assassinato Patsy, quindi era salito all'interno 10D, la mansarda dove viveva tuttora la dottoressa Cassady. Era arrivato su una sedia a rotelle. Presi l'ascensore insieme con altri quattro agenti. Avevamo tutti la pistola in pugno, pronti a sparare. «È molto pericoloso. Vi prego di credermi», dissi mentre uscivamo dall'ascensore, al piano della psicoterapeuta. Dall'ultima volta che c'ero stato, le pareti erano state ridipinte. Tutto mi era familiare e mi risvegliava ricordi sinistri. Sentii salire di nuovo la rabbia contro la Donnola, e in particolare per la morte di Patsy Hampton. Suonai il campanello dell'interno 10D e gridai: «FBI! Apra, dottoressa Cassady». La porta si aprì e mi trovai di fronte a una bella donna bionda, che riconobbi subito. Anche Elizabeth Cassady mi riconobbe. «Dottor Cross, che sorpresa! Anzi, no, veramente no.» Mentre parlava sentii il rumore di una sedia a rotelle che si avvicinava. Alzai la pistola e spinsi da una parte la terapeuta. Presi la mira e gridai: «Fermo! Fermo lì!» La sedia a rotelle e l'uomo che vi era seduto sopra nel frattempo erano giunti in piena vista. Scossi la testa e riabbassai lentamente la pistola, trattenendomi dall'imprecare. Qui gatta ci cova, pensai. Anzi, no, donnola. L'uomo disse: «Ovviamente io non sono il colonnello Geoffrey Shafer. Non lo conosco neppure. Sono un attore, mi chiamo Francis Nicolo e sono veramente disabile, quindi la prego di trattarmi con la dovuta cautela. Mi è stato detto di venire qui, dietro pagamento di una lauta somma, e di riferir-
le quanto segue: il colonnello le porge i suoi saluti e dice che avreste fatto meglio a seguire le istruzioni che vi sono state date. Dal momento che siete qui, è chiaro che non le avete seguite». A quel punto l'invalido abbozzò un inchino e concluse: «Questa era la mia parte, il mio pezzo. Non so altro. Che ve ne pare? Ho recitato bene? Non volete farmi un bell'applauso?» «Lei è in arresto», gli dissi. Poi mi voltai verso Elizabeth Cassady. «E lei anche. Dov'è Shafer? Dov'è andato?» La psicoterapeuta scosse la testa con infinita tristezza. «Sono anni che non vedo Geoffrey. Mi ha manipolato. Come ha manipolato lei, del resto. Solo che per me è peggio, perché lo amavo. Le consiglio di rassegnarsi. Geoffrey è fatto così. Se non lo so io...» Anch'io lo so, pensai. Lo so benissimo. 30 Straordinario, pensò il capitano Nikki Williams. E non si riferiva solo all'aeroporto, ma all'audacia del piano. Il Manassas Regional era un aeroporto piccolo, anonimo, con una superficie di circa trecento ettari e due sole piste parallele, un terminal e una torre di controllo della FAA. Era il posto ideale per una missione del genere. Chi ha programmato questa operazione, lo ha fatto con cura estrema. Andrà tutto bene. Pochi minuti dopo essere arrivata all'aeroporto, il capitano Williams vide posarsi l'elicottero. Non poté fare a meno di chiedersi come avessero fatto gli autori del piano a procurarsi un MD-530, che era il mezzo più adatto per l'incarico che le era stato affidato. Sì, sarebbe andato tutto bene. E forse non sarebbe stato nemmeno troppo difficile. Si diresse velocemente verso l'elicottero, con il suo Winchester in una sacca di tela. Il pilota le fornì i pezzi del puzzle che le mancavano. A quanto pareva, lui era al corrente dell'intero piano. «Ho fatto rifornimento. Andremo a nord-est, lungo la Route 28. Mi fermerò per mezzo minuto circa a Rock Creek Park», le disse. «Rock Creek Park? Non capisco. Che senso ha atterrare di nuovo appena partiti?» «Mi fermerò il tempo necessario perché lei si sistemi sul pattino. È da lì
che dovrà sparare. Va bene?» «Perfetto. Ora capisco.» Il piano era azzardato, ma non assurdo. Avevano previsto tutto. Avevano persino scelto una giornata nuvolosa, con poco vento. L'MD-530 era veloce, molto maneggevole e anche abbastanza stabile da consentire di sparare in volo. Quando era nell'esercito, Nikki Williams aveva sparato migliaia di volte da elicotteri come quello, in tutte le condizioni atmosferiche possibili, e non c'è niente di meglio della pratica per arrivare ad avere una mira infallibile. «Pronta?» le gridò il pilota quando fu a bordo. «Andremo e torneremo da Washington in meno di nove minuti.» Nikki Williams gli mostrò il pollice alzato e l'MD-530 si sollevò, partì in direzione nord-est e poco dopo sorvolò il Potomac. Senza mai alzarsi a più di una decina di metri da terra, viaggiava a circa 80 nodi. A Rock Creek Park si posò per non più di quaranta secondi. Il capitano Williams prese posizione sul pattino destro, leggermente arretrata rispetto al pilota sopra di lei, e quindi gli fece segno di ripartire. «Andiamo, forza.» Non solo è geniale, è anche uno sballo, non poté fare a meno di pensare mentre l'elicottero riprendeva quota e si avvicinava al bersaglio. Andata e ritorno in meno di nove minuti. La vittima non si accorgerà di niente. 31 A mezzogiorno ero di nuovo alla mia scrivania, teso ed esausto, a consultare il database del National Crime Information Center e a bere litri e litri di caffè nero, pur sapendo che mi faceva male. Maledetta Donnola: sapeva che avevamo scoperto il trucco della sedia a rotelle. Come aveva fatto? Doveva avere un complice all'interno delle forze dell'ordine: qualcuno l'aveva avvertito. Verso l'una ero ancora alla mia scrivania quando nel palazzo cominciò a suonare fortissimo un allarme. Nello stesso momento squillò anche il mio cercapersone, segnalando una nuova emergenza. Sentii voci che gridavano nei corridoi. «Andate alla finestra, presto! Guardate dalla finestra!» «Oh mio Dio! Che cosa diavolo fanno laggiù?» Guardai fuori anch'io e vidi, esterrefatto, due uomini in uniforme di fatica che attraversavano di corsa il cortile interno, pavimentato di ciottoli di
granito rosa. In quel momento stavano passando davanti alla statua di bronzo con il motto dell'FBI, «Fedeltà, coraggio, integrità». Il mio primo pensiero fu che i due fossero kamikaze imbottiti di esplosivo. Quale modo migliore per causare danni all'edificio e ai suoi occupanti? L'agente dell'ufficio accanto al mio, Charlie Kilvert, si affacciò sulla porta. «Hai visto che roba, Alex? Non è incredibile?» «Ho visto. Sì, assolutamente incredibile.» Non riuscivo a staccare gli occhi dalla scena che si stava svolgendo nel cortile. Nel giro di pochi secondi erano comparsi vari agenti armati, dapprima tre, poi almeno una decina. Arrivarono di corsa anche gli uomini di guardia all'ingresso principale. Tutti avevano la pistola puntata sui due in uniforme di fatica, che si erano fermati e sembravano pronti ad arrendersi. Gli agenti però non si avvicinavano. Forse anche loro come me pensavano che potesse trattarsi di kamikaze, o più probabilmente stavano seguendo la procedura. I sospetti avevano le mani in alto, sopra la testa. Poi con gesti lenti e deliberati si sdraiarono sulla pancia. Che diavolo stava succedendo? In quel momento vidi un elicottero spuntare da dietro la facciata sud dello Hoover Building. Si scorgevano appena il muso e il rotore. L'elicottero volava a punto fisso e la sua presenza minacciosa indusse gli agenti nel cortile a puntare verso l'alto le armi, gridando e agitandosi. In quella zona era vietato il sorvolo. Poi l'elicottero virò di colpo, si allontanò dall'edificio e scomparve. Pochi secondi dopo Charlie Kilvert era di nuovo sulla soglia del mio ufficio. «Hanno sparato a qualcuno al piano di sopra!» Mi precipitai fuori dalla stanza così veloce che per un pelo non lo feci cadere. 32 L'MD-530 andava come una scheggia, quando arrivò a Washington. Il pilota sfrecciava tra i palazzi, usandoli come riparo, in una sorta di folle gimkana. Quella tattica di volo doveva servire sia a evitare i radar che a confondere gli spettatori casuali, immaginò Nikki Williams. Stava avvenendo tutto così in fretta che nessuno sarebbe riuscito a reagire, a parte il fatto che un aereo dell'aviazione non sarebbe mai potuto passare così basso tra i gratta-
cieli. Erano giunti in vista del bersaglio. Caspita! Era stata organizzata un'azione di disturbo a terra e c'erano un sacco di persone alle finestre dell'edificio bersaglio che - Nikki lo aveva riconosciuto - era la sede dell'FBI. Straordinario! Nikki era al settimo cielo. Aveva assistito ad alcune operazioni di vasta portata quando era nell'esercito, ma non molte. E poi c'erano sempre un sacco di regole da rispettare. Invece adesso la regola era una sola: sparare a quel tizio e tagliare la corda prima che qualcuno potesse muovere un dito. Il pilota aveva le coordinate della finestra dietro cui doveva trovarsi il bersaglio e, infatti, c'erano due uomini in giacca e cravatta che osservavano l'azione di disturbo organizzata giù in basso. Nikki Williams sapeva che faccia aveva il bersaglio ed era sicura che sarebbe morto prima ancora di vedere il fucile, a una trentina di metri di distanza. A quell'ora, lei sarebbe stata già sulla via del ritorno. Uno degli uomini alla finestra lanciò un grido di avvertimento e cercò di spingere l'altro al riparo. Un vero eroe. Niente da fare: Nikki premette il grilletto. Ecco fatto, facilissimo. Poi, la fuga! Il pilota adottò la stessa strategia di volo anche al ritorno e, uscito dalla città, puntò dritto verso la zona prevista per l'atterraggio in Virginia. Impiegarono solo tre minuti e mezzo per arrivarci. Nikki Williams era tutta eccitata per aver fatto centro e per il grosso compenso che l'aspettava. Tariffa tripla, e se l'era meritata. L'elicottero si posò senza problemi e Nikki saltò giù dal pattino e salutò il pilota con un cenno. Anche il pilota sollevò il braccio destro e... le sparò: un colpo alla gola e uno in fronte. Non lo fece volentieri, ma doveva farlo. Gli ordini erano quelli e sapeva che non gli conveniva disubbidire. A quanto pareva, la tiratrice scelta aveva parlato della missione con qualcuno. Il pilota non sapeva altro. Solo il suo pezzo del puzzle. 33 Qualcosa avevamo scoperto. I due uomini catturati nel cortile erano stati portati dentro e adesso erano in stato di arresto al secondo piano. Ma chi diavolo erano? Girava la voce preoccupante che avessero sparato a Ron Burns e che il
mio capo, nonché amico, fosse morto. Pareva che alcuni tiratori scelti avessero preso di mira il suo ufficio. Mi tornò in mente quando, all'inizio di quello stesso anno, era stata assassinata Stacy Pollack. Il Lupo non aveva mai rivendicato ufficialmente l'omicidio della direttrice del SIOC, lo Strategic Information Operations Center, ma sapevamo che il mandante era lui. Burns aveva giurato vendetta ma, che io sapessi, non era stato fatto più nulla. Circa mezz'ora dopo la sparatoria, mi telefonarono di scendere al secondo piano. Me ne rallegrai: avevo bisogno di fare qualcosa. Sarei impazzito, se fossi rimasto chiuso nel mio ufficio. «Novità sulla sparatoria?» domandai al collega che mi aveva chiamato. «Che io sappia, no. Anche noi abbiamo sentito dire che la vittima potrebbe essere Burns, ma nessuno conferma o smentisce nulla. Ho parlato con Tony Woods, dell'ufficio del direttore, e non mi ha voluto dire niente. Nessuno parla, Alex, mi dispiace.» «È successo qualcosa, però, vero? Hanno sparato a qualcuno?» «Sì, hanno sparato a qualcuno ai piani alti.» Preoccupato e disgustato per tutto quello che era successo negli ultimi giorni, corsi giù al secondo piano, dove una guardia mi accompagnò in un corridoio di celle di cui non conoscevo neppure l'esistenza. L'agente che mi aspettava mi spiegò che voleva che interrogassi i prigionieri senza essere stato informato di nulla, in modo da poter dare il mio parere spassionato sulla situazione. Entrai in una delle stanzette e mi trovai davanti due neri dall'aria spaventata, in tuta mimetica. Terroristi? Ne dubitavo. Dovevano essere fra i trentacinque e i quarant'anni, ma era difficile dar loro un'età: erano mal rasati, con i capelli arruffati, i vestiti sporchi e stropicciati. Nella stanza c'era puzza di sudore, e anche di peggio. «Abbiamo già raccontato tutto», protestò uno dei due facendo una smorfia appena mi vide entrare. «Quante volte dobbiamo ripetervi la stessa storia?» Mi sedetti di fronte a loro ed esordii così: «Stiamo indagando su un omicidio. In questo palazzo è morta una persona». Non sapevo se ne erano stati informati, ma io volevo cominciare da lì. Quello che era stato zitto fino a quel momento si nascose la faccia tra le mani e cominciò a gemere e a dondolare da una parte e dall'altra. «Oh no, oh no, oh mio Dio no!» «Togliti le mani dalla faccia e ascoltami!» gli gridai.
Entrambi mi guardarono e si zittirono. Se non altro adesso mi avrebbero ascoltato. «Voglio sentire la vostra storia. Dovete dirmi tutto quello che sapete, fin nei minimi dettagli. E non mi interessa se l'avete già raccontata a chi vi ha interrogato prima di me, chiaro? Avete capito? Non mi importa quante volte l'avete già raccontata. Al momento siete sospettati di omicidio, quindi voglio sentire la vostra versione dei fatti. Parlatemi. Io sono la vostra ancora di salvezza, l'unica che vi resta. Forza, parlate.» Ubbidirono tutti e due. In maniera sconnessa, ma parlarono per più di due ore. Alla fine uscii dalla cella con la sensazione che mi avessero detto la verità, per quanto frammentaria. Ron Frazier e Leonard Pickett erano due vagabondi e vivevano nei pressi della Union Station. Entrambi erano veterani dell'esercito. Erano stati abbordati per strada e pagati per andare a correre intorno alla sede dell'FBI come due pazzi, il che probabilmente corrispondeva a quello che erano veramente nella vita. Le tute mimetiche erano le loro. Mi spiegarono che erano le stesse che si mettevano tutti i giorni per andare al parco e a mendicare nelle strade di Washington. Subito dopo entrai in un'altra saletta dove riferii tutto quanto a due agenti. A giudicare dalla faccia che avevano, dovevano essere tesi e preoccupati quanto me. Mi chiesi se avessero notizie aggiornate su Ron Burns. «Secondo me, quei due non sanno niente», dissi. «Potrebbero essere stati abbordati da Geoffrey Shafer, perché lo sconosciuto che li ha pagati per venire a correre qui aveva l'accento inglese, e anche la descrizione fisica corrisponde. Gli ha dato duecento dollari. Duecento.» Guardai i due agenti. «Ora tocca a voi. Raccontatemi che cosa è successo di sopra. A chi hanno sparato? A Ron Burns?» Uno dei due, Millard, prese fiato e rispose: «La notizia non deve uscire da questa stanza, Alex, finché non te lo diremo noi. Chiaro?» Annuii con fare solenne. «Il direttore è morto?» «No, è morto Thomas Weir. È a Weir che hanno sparato», disse l'agente Millard. Mi sentivo male: avevano sparato al direttore della CIA. 34 Caos. Non appena si sparse la voce che Thomas Weir era stato assassinato, lo
Hoover Building fu preso d'assedio dalle reti televisive e dal carrozzone dei media. Naturalmente nessuno poteva dire loro come pensavamo fossero andate veramente le cose e tutti i giornalisti, d'istinto, capirono che stavamo nascondendo qualcosa. Nel pomeriggio avevamo appreso che nei boschi della Virginia settentrionale era stato ritrovato il cadavere di una donna che molto probabilmente era il cecchino che aveva ucciso Tom Weir: insieme al cadavere era stato trovato un fucile Winchester che era quasi sicuramente l'arma del delitto. Alle cinque, il Lupo si fece di nuovo vivo. Nella sala dell'unità di crisi squillò il telefono. Rispose Ron Burns. Non lo avevo mai visto con l'aria così vulnerabile e cupa. Thomas Weir era suo amico. D'estate passavano le vacanze a Nantucket insieme, con le rispettive famiglie. Il Lupo esordì: «Lei è veramente molto fortunato, direttore. Quei proiettili erano diretti a lei e io non sono uno che sbaglia facilmente. Anche se so che in un'operazione militare complessa come questa non si può sperare di non sbagliare. Devo ammettere che qualche errore è inevitabile, in guerra. C'est la vie». Burns non disse nulla. Rimase impassibile, pallido e indecifrabile come una maschera. Il Lupo continuò: «Capisco come si sente, capisco come vi dovete sentire tutti quanti. Il signor Weir aveva famiglia, vero? E siccome era un uomo perbene, voi ora mi odiate. Vorreste abbattermi come un cane rabbioso. Provate a vedere le cose dal mio punto di vista, però. Vi ho detto chiaro e tondo quali erano le regole, ma voi avete voluto fare di testa vostra. E, facendo di testa vostra, avete causato morte e disastri. Ci saranno altri morti e disastri, inevitabilmente. La posta in gioco non è la vita di un uomo solo. Le lancette dell'orologio girano inesorabili. Sapete, è difficile oggi trovare gente capace di ascoltare. Sono tutti così egocentrici, così pieni di sé. Prendiamo la nostra killer, per esempio, il capitano Williams: le era stato raccomandato di non dire niente a nessuno della missione che le era stata affidata, ma lei ne ha parlato al marito. Così adesso è morta. Avete trovato il cadavere, mi risulta. Notizia dell'ultim'ora: è morto anche il marito. Se volete recuperare il cadavere, lo troverete nella loro casa di Denton, nel Maryland. Vi serve l'indirizzo? Ve lo do volentieri». Burns ribatté: «Lo abbiamo già trovato, grazie. Qual è lo scopo di questa telefonata? Che cosa vuole da noi?»
«Mi sembra ovvio, signor direttore: voglio che vi rendiate conto che parlo sul serio. Mi aspetto collaborazione da parte vostra e intendo ottenerla. In un modo o nell'altro, otterrò quello che voglio. Come sempre. Detto questo, andiamo al sodo. Parliamo della somma che chiediamo per lasciarvi in pace. Spero che qualcuno abbia carta e penna.» «Dica», intervenne Burns. «Bene, allora. Le cifre sono queste: New York, seicentocinquanta milioni di dollari. Londra, seicento milioni. Di dollari. Washington, quattrocentocinquanta milioni. Francoforte, quattrocentocinquanta milioni. Per un totale di due miliardi centocinquanta milioni di dollari USA. Inoltre, voglio che vengano liberati cinquantasette prigionieri politici. L'elenco completo vi verrà fornito fra un'ora. Per il momento vi dico solo che si tratta di individui originari del Medio Oriente. Trovate voi la soluzione di questo bel rompicapo. Interessante, no? Avete quattro giorni per consegnare il denaro e i prigionieri. Mi sembra un tempo più che sufficiente. Ragionevolissimo, direi. Il come e il dove della consegna vi verranno comunicati in seguito. Allora: avete quattro giorni da questo preciso momento. Non sto scherzando. Mi rendo conto che la cifra che chiedo è ingente e che vi diranno che è 'impossibile' raccoglierla. Mi aspetto già le obiezioni, ma non sprecate il fiato in scuse e proteste.» Ci fu un breve silenzio. «Lo scopo della mia telefonata è questo, signor Burns. Sganciate i soldi. Liberate i prigionieri. Non fate altre cazzate. Ah, ancora una cosa: io non dimentico e non perdono. Prima della fine di questa vicenda lei morirà, direttore. Si guardi le spalle, perché un giorno di questi ci incontreremo, e sarà la fine. Per il momento, comunque, avete quattro giorni.» E con questo il Lupo riattaccò. Ron Burns, lo sguardo fisso davanti a sé, disse a denti stretti: «Già, ci incontreremo e sarà la fine. Ma la tua, stronzo!» Poi fece lentamente il giro della stanza con lo sguardo e posò gli occhi su di me. «È cominciato il conto alla rovescia, Alex.» 35 Burns continuò: «Vorrei che il dottor Cross ci comunicasse le sue impressioni su questo russo psicopatico, dal momento che lo conosce. Per chi di voi non l'avesse mai sentito nominare, Alex Cross è una nostra recente acquisizione. Viene dal dipartimento di polizia di Washington, con nostra
grande gioia. È lui che ci ha permesso di catturare Kyle Craig». «E che si è lasciato scappare Geoffrey Shafer un paio di volte», intervenni io da dove ero seduto. «Volete le mie impressioni fino a questo momento? Be', non mi dilungherò sulle ovvietà, ossia sul fatto che quest'uomo cerca il potere e il controllo assoluto sull'avversario. Vi posso dire questo: vuole agire su vasta scala, avere una visibilità globale. È creativo ed estremamente meticoloso nell'organizzare i suoi colpi. Ha una spiccata personalità manageriale, nel senso che organizza, sa delegare, non ha problemi a prendere decisioni difficili. Ma, soprattutto, è crudele. Gli piace far soffrire il prossimo e gli piace vederlo soffrire. Ci sta dando tutto il tempo di riflettere sulle possibili conseguenze delle nostre decisioni, in parte perché sa che non vogliamo e non possiamo pagare, in parte perché vuole logorarci psicologicamente. Sa che non ci sarà facile catturarlo. In fondo Bin Laden è ancora libero, no? C'è una cosa che non mi torna, però, ed è il tentativo di uccidere il direttore. Non riesco a collocarlo nel suo modus operandi. Perlomeno non in questa fase del gioco. E, soprattutto, mi lascia perplesso il fatto che abbia mancato il bersaglio, che abbia commesso un errore.» Mi resi conto di essermi espresso male e guardai Burns, il quale però mi fece cenno di continuare, limitandosi a chiedere: «Pensa che abbia sbagliato mira o che il vero bersaglio fosse Tom Weir?» «Penso che il bersaglio fosse Weir. Non credo che il Lupo abbia commesso un errore tanto marchiano. Penso che abbia mentito.» «Perché? Qualcuno ha qualche suggerimento?» replicò Burns guardandosi intorno. Siccome nessuno prese la parola, continuai: «Se il bersaglio era davvero Thomas Weir, è l'indizio migliore che abbiamo. Per quale motivo il direttore della CIA rappresentava un pericolo per il Lupo? Che cosa sapeva? Non mi sorprenderebbe che Weir e il Lupo si conoscessero, che si fossero incontrati in passato da qualche parte, anche se magari Weir non sapeva che era il Lupo. Weir è un personaggio di rilievo. Dove potrebbe aver conosciuto il russo? È una domanda che dobbiamo porci». «E di cui dobbiamo trovare rapidamente la risposta», disse Burns. «Forza, mettiamoci al lavoro. Tutto il Bureau deve impegnarsi al massimo.» 36 L'uomo che aveva fatto le ultime telefonate per conto del Lupo aveva ri-
cevuto tutte le istruzioni del caso e sapeva di doverle seguire scrupolosamente. Doveva farsi vedere a Washington. Il suo «pezzo» era quello. Il Lupo doveva essere visto, in maniera da suscitare un comprensibile allarme. Entro breve si sarebbe scoperto che le telefonate alla sede dell'FBI e non solo erano state fatte dal Four Seasons Hotel di Pennsylvania Avenue. Faceva parte del piano, che fino a quel momento aveva funzionato quasi alla perfezione. Si incamminò perciò tranquillamente verso la hall dell'albergo, facendo in modo di essere notato dal personale alla reception e anche dai due portieri all'ingresso. Il fatto che fosse alto, biondo, barbuto e che portasse un lungo cappotto di cammello non guastava. Faceva anche questo parte del piano. Uscito dall'albergo, fece una passeggiata in M Street, leggendo il menu di vari ristoranti e guardando le vetrine all'ultima moda di Georgetown. Trovò leggermente ridicolo che, mentre lui passeggiava tranquillamente, pattuglie della polizia e auto dell'FBI convergessero a tutta velocità verso il Four Seasons da varie direzioni. Dopo un po' salì su un pulmino Chevrolet bianco che lo aspettava all'angolo tra M Street e Thomas Jefferson Street. Il pulmino partì a tutta velocità in direzione dell'aeroporto. Oltre all'autista, c'era anche un altro uomo, seduto dietro, vicino al biondo che aveva fatto le telefonate dal Four Seasons. «Com'è andata?» chiese l'autista quando furono a qualche chilometro da M Street e dalla confusione che vi regnava. Il biondo alzò le spalle. «Benissimo, naturalmente. Adesso hanno una descrizione precisa, qualcosa su cui lavorare. Una speranza, se vogliamo chiamarla così. È andato tutto bene. Ho fatto quel che mi era stato chiesto.» «Perfetto», disse il secondo uomo. Poi estrasse una Beretta e gli sparò alla tempia. Il biondo morì sul colpo, senza nemmeno accorgersene. Adesso la polizia e l'FBI avevano una descrizione fisica del Lupo, ma nessuno vivo che vi corrispondesse. 37 Quel pomeriggio ci furono altri misteri, o perlomeno altra confusione. Secondo i nostri esperti di telecomunicazioni, il Lupo ci aveva chiamato
dal Four Seasons Hotel di Washington, dove era stato anche avvistato. La descrizione che avevamo di lui era già stata diffusa in tutto il mondo. Poteva darsi che avesse commesso un passo falso, ma io non ne ero del tutto convinto. In passato aveva sempre usato telefoni cellulari. Come mai questa volta era andato a telefonare in un albergo? Verso le nove e mezzo, rientrando a casa, trovai una sorpresa. In salotto, insieme a Nana, c'era la dottoressa Kayla Coles. Erano sedute vicine, sul divano, a tramare chissà che cosa. Il fatto che la dottoressa di Nana fosse lì a quell'ora tarda mi preoccupò un po'. «Tutto bene? Che succede?» dissi. «Kayla era da queste parti ed è passata a salutarmi», rispose Nana. «Giusto, dottoressa? Nessun problema, che io sappia. A parte il fatto che tu hai saltato la cena.» Intervenne Kayla: «Be', veramente Nana ha avuto di nuovo un leggero calo di pressione, così sono passata a trovarla per precauzione». «Non esageriamo, Kayla. Per favore: non è il caso», la rimproverò come al solito Nana. «Sto bene. Sentirsi un po' deboli è normale alla mia età.» Kayla annuì e sorrise, poi fece un gran sospiro e si appoggiò allo schienale. «Mi scusi, Nana. Parli lei.» «La settimana scorsa mi sentivo un po' debole. Come tu ben sai, Alex. Niente di grave. Se ci fosse ancora il piccolo Alex da accudire, magari mi sarei preoccupata di più.» «Be', io sono preoccupato comunque», ribattei. Kayla sorrise scuotendo la testa. «Giusto. Come ha detto Nana, ero in zona e sono passata a farle una visitina. Di pura cortesia. Ma le ho misurato la pressione. Sembra tutto a posto. Vorrei però che facesse gli esami del sangue.» «Va bene, farò le analisi», disse Nana. «Adesso parliamo del tempo.» Scossi la testa a tutte e due, poi chiesi alla dottoressa: «E tu continui a lavorare troppo?» «Da che pulpito...» replicò lei piccata, ma subito fece un bel sorriso. Kayla aveva un gran senso dell'umorismo e riusciva sempre ad alleggerire l'atmosfera. «Purtroppo c'è troppo da fare in questo quartiere. Non fatemi parlare del numero di persone che, nella capitale di questo nostro Paese così ricco, non possono permettersi una visita da un buon medico o devono aspettare ore e ore al St. Anthony e in vari altri ospedali della città.» Kayla mi era sempre piaciuta. Per essere sinceri, mi intimidiva anche un po'. Come mai? mi chiesi mentre parlavamo. Notai che era dimagrita, a fu-
ria di correre a destra e a sinistra per far del bene nel nostro quartiere. La verità era che la trovavo più bella che mai e mi vergognavo un po' di essermene accorto. «Che cosa fai lì impalato a guardare?» mi disse Nana. «Su, siediti qui con noi.» «Devo andare. È tardi anche per me», disse Kayla alzandosi. «No, no, non voglio disturbarvi», protestai. Tutto a un tratto, mi dispiaceva che Kayla se ne andasse. Avevo voglia di parlare di qualcosa che non fosse il Lupo e le sue minacce di attacchi terroristici. «Non ci disturbi, Alex, tutt'altro. Ma ho ancora due visite domiciliari da fare.» Guardai l'orologio. «Ancora due visite a quest'ora? Sei una donna eccezionale. Anzi, no, devi essere matta!» esclamai sorridendo. «Forse sì. Probabile», rispose Kayla con un'alzata di spalle. Poi baciò affettuosamente Nana e le disse: «Arrivederci. E mi raccomando: le analisi del sangue!» «La memoria mi funziona ancora.» Quando la dottoressa se ne fu andata, Nana mi disse: «Kayla Coles è una donna eccezionale, Alex. E vuoi sapere una cosa? Secondo me, uno dei motivi per cui viene a trovarmi è per vedere te. La mia teoria è questa e, per quanto strampalata, credo che sia giusta». Ci avevo pensato anch'io. «Ma allora perché scappa come un razzo appena arrivo?» Nana si adombrò, poi inarcò un sopracciglio e disse: «Forse perché non la inviti mai a restare. Forse perché te ne stai lì impalato a guardarla in quel modo. Perché non fai qualcosa? Potrebbe essere la donna giusta per te, sai? Non mi contraddire. Hai paura di lei, e questo potrebbe essere un bene». Ci pensai su e non riuscii a trovare nulla da ribattere. Ero reduce da una lunga giornata e non avevo i riflessi molto pronti. «Allora, ti senti bene? Sei sicura di star bene?» chiesi. «Alex, ho ottantatré anni, più o meno. Quanto bene posso stare?» ribatté. Poi mi diede un bacio su una guancia e si alzò per andare a dormire. «Nemmeno tu ringiovanisci, sai», aggiunse voltandosi. Hai ragione, Nana. 38
Non tutti stavano andando a dormire quella sera. Per qualcuno la notte era ancora giovane. La Donnola non era mai stata molto abile a controllare i cosiddetti bassi istinti e i bisogni fisici. Questo a volte preoccupava Geoffrey Shafer, perché costituiva un'innegabile debolezza, una vulnerabilità. Tuttavia, era anche eccitante. E Shafer amava il pericolo, la scarica di adrenalina: era la cosa che lo faceva sentire più vivo di tutte. Quando usciva in caccia, per uccidere, si sentiva così bene e così potente da dimenticare tutto il resto. Conosceva bene Washington, avendo lavorato all'ambasciata britannica. Conosceva anche i quartieri più poveri perché era lì che, in passato, andava a caccia più spesso. Anche quella sera era in caccia, e si sentiva di nuovo vivo, sentiva che la sua vita aveva uno scopo. Al volante di una Mercury Cougar nera percorse South Capitol. Piovigginava e c'erano poche ragazze a battere il marciapiede, ma una di esse attirò la sua attenzione. Fece il giro dell'isolato un paio di volte osservandola in modo sfacciato, recitando la parte del cliente. Poi rallentò e fermò la macchina. La ragazza era nera, minuta, e metteva in mostra la sua merce davanti al famoso night-club Nation. Portava bustier e minigonna argentati e scarpe con suola e tacco altissimi. Ma la cosa più bella era che gli era stato ordinato di uscire per una notte brava a Washington. La Donnola stava eseguendo gli ordini del Lupo, stava semplicemente facendo il suo lavoro. Quando si chinò verso il finestrino del passeggero per parlarle, la ragazza si sporse in avanti con fare provocatorio. Era giovanissima. Probabilmente pensava che le sue tette sode e i capezzoli turgidi le dessero il controllo della situazione. Sarà un incontro interessante, pensava intanto Shafer, che si era messo una parrucca e si era tinto di nero il viso e le mani. In testa gli riecheggiava lo stupido ritornello di una canzone rock: The name of the song is I like it like that. «Sono vere?» chiese alla ragazza, che si era avvicinata. «Verissime. Vuoi controllare di persona? Ti piacerebbe toccarle? Lo puoi fare, sai. Vorresti l'esclusiva per un po', tesoro?» Shafer sorrise amabilmente, stando al gioco. Se la ragazza si era accorta che aveva la faccia tinta, non lo diede a vedere. Nulla la smuove, eh? Vedremo. «Sali in macchina», le disse. «Vorrei darti una controllatina. Dalle tette
ai piedi, diciamo.» «Sono cento dollari», disse lei, indietreggiando di colpo. «Va bene? Perché se non ti va...» Shafer continuò a sorridere. «Se sono vere, d'accordo per cento dollari. Nessun problema.» La ragazza aprì la portiera e salì in macchina. Si era data troppo profumo. «Controlla pure, caro. Sono un po' piccole, ma sono molto belle. E sono tutte tue.» Shafer rise. «Sai che mi piaci proprio? Ricordati quello che hai appena detto, però. Mi aspetto che tu mantenga la parola.» Sono tutte mie. 39 A mezzanotte ero di nuovo in servizio e mi sembrava di essere tornato ai tempi della Omicidi. Arrivai in una zona del Southeast che conoscevo bene, New Jersey Avenue, tante modeste case a schiera bianche perlopiù abbandonate. Sulla scena del delitto si era già radunata una folla, tra cui vari teppisti del quartiere e ragazzini in bicicletta che a quell'ora avrebbero dovuto essere a dormire. Un uomo con le treccine e un berretto da rasta gridava con voce rauca, da squilibrato, alla polizia. Era dietro il nastro giallo che delimitava la scena del delitto. «Ehi, la sentite questa musica? Vi piace? È la musica della mia gente!» Davanti a una delle case più malandate mi venne incontro Sampson. Entrammo insieme. «Proprio come ai vecchi tempi, eh?» mi disse scuotendo la testa. «È per questo che sei qui, Dragonslayer? Hai nostalgia dei vecchi tempi? Vorresti tornare al dipartimento di polizia?» Annuii e indicai con un gesto la scena. «Sì, avevo nostalgia di un bell'omicidio in piena notte come questo.» «Ti capisco, mancherebbe anche a me.» La casa dove era stata trovata la ragazza aveva le finestre sul davanti chiuse con assi, ma non avemmo difficoltà a entrare: la porta non c'era più. «Questo è Alex Cross», disse Sampson ai poliziotti di guardia sulla soglia. «Lo conoscete? Ecco a voi il famoso Alex Cross, in carne e ossa.» «Dottor Cross», disse rispettosamente uno degli agenti, facendosi da parte per lasciarci passare. «C'è chi se ne va, ma non viene dimenticato», commentò John Sampson.
Dentro trovammo il solito squallore: spazzatura sparsa un po' dappertutto e un odore di marcio e di urina che mi parve insopportabile. Forse era perché non mettevo piede in una di quelle topaie abbandonate da un pezzo. Da più di un anno, per la precisione. Ci dissero che il cadavere era al terzo piano, l'ultimo, e Sampson e io ci avviammo su per le scale. «Il posto ideale per liberarsi di un morto», borbottò lui. «Già. Quante volte ci è capitato...» «Be', se non altro non dobbiamo scendere in cantina», borbottò ancora Sampson. Poi chiese: «Allora, come mai sei qui? Non hai risposto alla mia domanda». «Avevo nostalgia di te. Nessuno mi chiama più Sugar.» «Oh... Voi federali non usate soprannomi? Allora, come mai sei qui, Sugar?» Nel frattempo eravamo arrivati al terzo piano, che pullulava di agenti del dipartimento di polizia di Washington. Ebbi un altro déjà vu. Sia io che Sampson ci infilammo i guanti di plastica. Avevo davvero nostalgia dei tempi in cui lavoravamo insieme e, tristemente, quei gesti mi risvegliavano un sacco di ricordi, sia belli che brutti. Ci fermammo davanti alla seconda porta sulla destra proprio mentre un giovane agente nero usciva, con una mano avvolta in un fazzoletto bianco davanti alla bocca. Credo che stesse per vomitare. Non era proprio cambiato niente, allora. «Speriamo che non abbia vomitato su tutta la scena del delitto», disse Sampson. «'Sti pivelli!» Entrammo. «Oh, Signore», mormorai. Nella Omicidi si vedono spettacoli come quello uno dopo l'altro, ma non ci si abitua mai e non si dimenticano i particolari, le sensazioni, gli odori, il sapore che resta in bocca. «Sono qui perché lui ha chiamato prima noi», spiegai a Sampson. «Lui chi?» chiese il mio amico. «Dimmelo tu», ribattei. Ci avvicinammo al cadavere, che era steso sul pavimento di legno. Era una ragazza, probabilmente non ancora ventenne. Minuta, piuttosto bella. Nuda, a parte una scarpa con il tacco alto che le pendeva dal piede sinistro. Alla caviglia destra aveva una catenina d'oro. Aveva le mani legate dietro la schiena con una corda di plastica. Le avevano ficcato in bocca un sacchetto di plastica nera. Avevo già visto omicidi come quello, esattamente identici. E Sampson
anche. «Una prostituta», disse Sampson con un sospiro. «Gli agenti l'avevano notata dalle parti di South Capitol. Diciotto, diciannove anni, forse anche meno. Chi è?» L'assassino le aveva tagliato via i seni e anche il viso era devastato. Mi vidi sfilare davanti agli occhi un elenco completo di comportamenti devianti a cui non pensavo da un po': aggressività espressiva (sì), sadismo (sì), sessualizzazione (sì), violenza premeditata e strategica (sì). Sì, sì, sì. «È Shafer, John. È la Donnola. È di nuovo a Washington. Ma il peggio deve ancora arrivare, purtroppo.» 40 Conoscevamo un bar che era ancora aperto e, venendo via dalla scena del delitto in New Jersey Avenue, Sampson e io ci fermammo a bere una birra. Ufficialmente non eravamo più in servizio, ma tutti e due avevamo il cercapersone acceso. Nel locale c'erano solo altri due clienti, quindi avevamo una certa privacy. Ero contento di stare un po' con John. Avevo bisogno di parlargli. Dovevo chiedergli una cosa. «Sei sicuro che sia Shafer?» mi chiese quando ci trovammo davanti a due birre e a una ciotola di noccioline. Gli raccontai dell'inquietante registrazione video dei fatti di Sunrise Valley, ma non delle altre minacce né del ricatto del Lupo. Non potevo, e questo mi disturbava parecchio, perché non gli avevo mai mentito e la sensazione che avevo in quel momento era proprio di mentirgli. «È lui. Non c'è dubbio.» «Che casino», commentò John. «La Donnola... Perché Shafer è tornato a Washington? L'ultima volta siamo stati lì lì per beccarlo.» «Forse è tornato proprio per questo. Per il brivido, la sfida.» «Sì, certo. Magari gli manchiamo. Questa volta però non lo manco io: gli sparo dritto in mezzo agli occhi.» Bevvi un sorso. «Non dovresti essere a casa con Billie?» «Sa che stasera lavoro, e non fa storie. E poi sua sorella è da noi per un po'. A quest'ora dormiranno tutte e due.» «Come va la vita da sposato? E come mai la sorella di Billie è da voi?» «Trina è simpatica, quindi non c'è problema. È strano, ci sono cose a cui non avrei mai immaginato di potermi abituare e che invece non sono affat-
to un problema. Sono felice. Per la prima volta, credo. Mi sembra di volare a un palmo da terra, sai.» Sorrisi. «L'amore non è una cosa meravigliosa?» «Sì. Dovresti riprovarci anche tu, prima o poi.» «Sono pronto», dissi sorridendo. «Dici? Me lo sono chiesto, a volte. Sei davvero pronto?» «Senti, John, c'è una cosa che ti devo dire.» «Questo l'avevo già capito. Riguarda quell'attentato. E poi la morte di Thomas Weir. Shafer è tornato in azione.» Mi guardò negli occhi. «Allora, che cosa c'è?» «Tutto questo è strettamente confidenziale, John. Minacciano un attentato contro Washington, ed è una cosa seria. Siamo stati avvertiti che sarà una catastrofe. Hanno chiesto un riscatto, una somma stratosferica.» «Che non può essere pagata, perché gli Stati Uniti non trattano con i terroristi, giusto?» replicò Sampson. «Non lo so e credo che non lo sappia nessuno, a parte forse il presidente. Non sono così addentro. Insomma, adesso tu ne sai quanto me.» «E dovrei comportarmi di conseguenza.» «Sì, te lo consiglio. Ma non parlarne con nessuno, nemmeno con Billie. Mi raccomando.» Sampson mi strinse la mano. «Ho capito. Grazie.» 41 Quella notte, tornando a casa con la mia vecchia Porsche, fui assalito dai sensi di colpa per aver parlato con Sampson. In realtà, avevo l'impressione di non poter fare diversamente. Forse ero così scosso anche per via della stanchezza: lavoravamo ormai diciotto-venti ore al giorno e cominciavo a sentire le conseguenze dello stress. Dietro le quinte si parlava molto di gestione dell'emergenza, ma nessuno sembrava sapere a che punto eravamo con la richiesta di riscatto. Avevamo tutti i nervi tesi: erano già passate quasi dodici ore dall'inizio del conto alla rovescia. Avevo anche altri interrogativi che mi frullavano per la testa. Era stato Shafer a uccidere e mutilare la ragazza che avevamo trovato in New Jersey Avenue? Ne ero quasi sicuro e Sampson era d'accordo con me, ma che senso aveva compiere un omicidio così sanguinoso in quel momento? Perché correre un rischio simile? Dubitavo fortemente che il cadavere della ragazza fosse stato abbandonato a meno di tre chilometri da casa mia per
puro caso. Era tardi e avevo voglia di pensare a qualcos'altro, qualsiasi cosa, ma non riuscivo a scacciare il pensiero delle indagini. Premetti sull'acceleratore e attraversai la città deserta a velocità più alta del necessario per cercare di concentrarmi sulla guida, ma nemmeno quel trucco funzionò. Arrivato davanti a casa, rimasi alcuni minuti seduto in macchina a cercare di svuotarmi la mente prima di entrare. Cose da fare. Dovevo telefonare a Jamilla: sulla West Coast erano solo le undici. Mi sentivo scoppiare la testa e ricordavo benissimo l'ultima volta che avevo avuto quella stessa sensazione: nel periodo in cui Shafer aveva commesso una serie di efferati delitti a Washington. Ma questa volta era molto peggio. Alla fine entrai in casa. Passando davanti al pianoforte nella veranda pensai di sedermi e suonare un po'. Un blues? La canzone di un musical? Alle due del mattino? Certo, perché no? Tanto non sarei riuscito a dormire. Squillò il telefono. Corsi a rispondere. Chi diavolo poteva essere a quell'ora? Sollevai il ricevitore dell'apparecchio a muro in cucina, vicino al frigorifero. «Pronto, Cross.» Silenzio. Poi riagganciarono. Pochi secondi dopo, un altro squillo. Risposi immediatamente. E di nuovo riattaccarono. E poi ancora una volta. Staccai il telefono e lo posai sul bancone dentro un guanto da forno di Nana per non sentire il bip bip. Udii un rumore alle mie spalle. Mi voltai di scatto. Nana era in piedi sulla soglia, con il suo metro e cinquantadue di statura e i suoi quarantaquattro chili di peso. Aveva una luce furibonda negli occhi. «Che cosa c'è, Alex? Che cosa fai alzato? Non va bene. Chi telefona in casa a quest'ora?» Mi sedetti al tavolo della cucina e, davanti a una tisana calda, le raccontai tutto ciò che potevo. 42
Il giorno successivo lavorai in coppia con Monnie Donnelley, il che era un bene per entrambi. Avevamo il compito di raccogliere informazioni sul colonnello Shafer e sui mercenari che avevano partecipato all'attentato. Dovevamo fare in fretta: il tempo stringeva. Monnie, come al solito, era preparatissima. Mentre raccoglievamo dati, mi parlò a raffica. Una volta che inizia, non si ferma più. È convinta che per arrivare alla verità bisogna partire dai fatti. «I mercenari, cosiddetti 'mastini della guerra', sono prevalentemente ex militari delle Forze speciali: Delta Force, Army Ranger, SEAL, SAS se sono britannici. La maggioranza opera ai confini della legalità, nel senso che non sono soggetti agli statuti militari e neppure alla legge americana. Tecnicamente, sono soggetti alle leggi dei Paesi in cui operano, che però spesso hanno un sistema giudiziario che fa schifo, ammesso che ce l'abbiano.» «Dunque sono cani sciolti. Una soluzione adatta a Shafer. Lavorano per agenzie private?» Monnie annuì. «Sì. Compagnie militari private. Guadagnano fino a ventimila dollari al mese, ma la media è intorno ai trequattromila. Le compagnie più grandi dispongono di un'artiglieria propria, con carri armati e caccia. Ci crederesti?» «Sì. Ormai non mi stupisce più nulla. Credo persino nel Lupo Cattivo.» Monnie voltò le spalle allo schermo del computer e mi guardò. Capii che stava per snocciolarmi una delle sue serie di dati statistici. «Alex, il ministero della Difesa ha oltre tremila contratti con compagnie private militari americane, per più di trecento miliardi di dollari. Credi anche a questo?» Fischiai. «Be', questo mette in una prospettiva diversa le richieste del Lupo, no?» «Diamogli i soldi, e poi lo becchiamo», disse Monnie. «Non sta a me decidere, ma sono abbastanza d'accordo con te. Potrebbe essere un piano sensato.» Monnie tornò a guardare lo schermo del computer. «Qui c'è un'informazione a proposito della Donnola: ha lavorato con un ente che si chiama Mainforce International. Che ha sedi a Londra, Washington e Francoforte.» Rimasi colpito. «Tre delle città nel mirino del Lupo. Cos'altro sai di questa Mainforce?» «Vediamo... Fra i clienti ci sono istituzioni finanziarie; petrolio, naturalmente; pietre preziose...»
«Diamanti?» «I migliori amici dei mercenari. Shafer usava il nome Timothy Heath. Ha lavorato in Guinea per 'liberare' alcuni minatori presi in ostaggio dalla 'popolazione'. Fu arrestato con l'accusa di tentata corruzione di funzionari locali. Al momento dell'arresto, aveva con sé un milione di sterline in contanti.» «Come ha fatto a tirarsene fuori?» «Pare che sia fuggito. Non entrano nei dettagli, però. E le informazioni si fermano qui, senza follow-up. Strano.» «In questo la Donnola è sempre stata bravissima. Riesce a farla franca anche nelle situazioni più intricate. Forse il Lupo ha voluto Shafer per questo.» «Non credo», ribatté Monnie, guardandomi negli occhi. «Secondo me l'ha voluto per dare addosso a te. Che sei vicino al direttore dell'FBI.» 43 Alle due di quel pomeriggio ero in viaggio per Cuba. Dovevo andare a Guantánamo Bay, Gitmo per gli amici. Mi ci avevano mandato Burns e il presidente degli Stati Uniti. Ultimamente la base aveva fatto scalpore per via dei settecento e passa «detenuti» che vi erano rinchiusi per motivi legati al terrorismo. Un luogo interessante, non c'era dubbio. Che aveva fatto la Storia, nel bene e nel male. Appena atterrai, venni scortato al Campo Delta, che ospitava la maggior parte dei detenuti. Era circondato da una recinzione di filo spinato con diverse torrette di guardia. Avevo sentito dire che un'azienda americana veniva pagata oltre cento milioni di dollari per i servizi forniti a Guantánamo. Ero lì per parlare con un uomo di origine saudita, che era nel piccolo reparto psichiatrico, in una costruzione a parte. Non mi era stato dato il suo nome e non sapevo quasi nulla di lui, a parte che aveva informazioni importanti riguardo al Lupo. Lo incontrai in una cella di isolamento con pareti imbottite e niente finestre. Per l'occasione, vi erano state portate due sedie. «Ho già detto agli altri tutto quello che so», esordì l'uomo, che parlava molto bene inglese. «Pensavo fosse possibile trattare la mia liberazione. Così mi è stato fatto capire due giorni fa. Ma qui tutti mentono. Chi è lei?» «Vengo da Washington appositamente per ascoltare cos'ha da dire. Può
ripetermelo, per favore? Male non può farle. Magari ci ricava qualcosa.» L'uomo annuì, grave. «Male ormai non mi farà più nulla. Davvero. Sono qui da duecentoventisette giorni senza aver mai fatto niente di male. Niente di niente, le assicuro. Insegnavo in un liceo di Newark, nel New Jersey. Non mi sono state rivolte accuse. Che cosa ne pensa?» «Penso che adesso ha la possibilità di uscire. Mi dica solo che cosa sa del russo che si fa chiamare Lupo.» «E perché dovrei? Non capisco. Non mi ha ancora detto chi è lei.» Mi strinsi nelle spalle. Mi era stato ordinato di non dirgli chi ero. «Le ripeto: ha solo da guadagnarci. Nulla da perdere. Se vuole uscire di qui, io posso darle una mano.» «E lo farà?» «Se posso, sì.» E così si convinse a parlare. Il suo racconto durò un'ora e mezzo. Aveva condotto una vita interessante. Aveva lavorato nel servizio di protezione della famiglia reale in Arabia Saudita ed era venuto diverse volte negli USA al suo seguito. L'America gli era piaciuta e aveva deciso di rimanerci, ma aveva degli amici che lavoravano nei servizi sauditi. «Mi hanno parlato di un russo che ha contattato alcuni dissidenti all'interno della famiglia reale, che non sono pochi. Voleva che finanziassero un'importante operazione che avrebbe messo in ginocchio gli Stati Uniti e alcuni Paesi dell'Europa occidentale. So che si trattava di un'impresa spettacolare, ma non conosco i particolari.» «Sa come si chiamava il russo? Di dov'era? Di quale Paese, quale città?» «La cosa più interessante è proprio questa», mi rispose. «L'impressione che ho avuto era che fosse una donna, non un uomo. Ne sono abbastanza sicuro. Il nome in codice, comunque, era Lupo.» Alla fine del racconto mi chiese: «E adesso? Cosa ha intenzione di fare?» «Adesso lei mi ripete tutta la storia», dissi. «Da cima a fondo.» «Sarà uguale identica», replicò. «Perché è vera.» Lasciai Guantánamo quella sera tardi per fare ritorno a Washington. Nonostante l'ora, dovevo riferire il colloquio avuto con il prigioniero. Incontrai Ron Burns e Tony Woods nella piccola sala riunioni del direttore. Burns voleva sapere quanto ritenevo credibile il saudita e se mi aveva dato informazioni utili. Il Lupo stava negoziando anche in Medio Oriente? «Dovremmo liberarlo», dissi a Burns. «Dunque gli crede.»
Scossi la testa. «Ha ricevuto quelle informazioni, per un motivo o per l'altro. Non so quanto valgano e non lo sa neppure lui. Ma o lo accusiamo di qualcosa, oppure lo lasciamo andare.» «Il Lupo è stato davvero in Arabia Saudita? Possibile che sia una donna, Alex?» Ripetei: «Io penso che il prigioniero ci abbia riferito quello che era stato riferito a lui. Lasciamolo tornare al suo liceo di Newark». Burns sbottò: «Ho capito come la pensa in proposito, Alex. Ora basta». Sospirò. «Oggi ho parlato con il presidente e i suoi consulenti. Non vedono come possiamo trattare con questi criminali. Ritengono di non doverlo fare.» Mi guardò in faccia. «Dobbiamo trovare il Lupo. Nel giro di due o tre giorni al massimo.» 44 È orribile sapere che sta per succedere una catastrofe e non poter fare nient'altro che aspettare. Ero sveglio alle cinque, la mattina dopo. Feci colazione con Nana. «Dobbiamo parlare di te e dei ragazzi», dissi, mentre bevevo il caffè e mangiavo una fetta di pane alla cannella. «Sei abbastanza sveglia?» «Sono sveglissima, Alex. E tu?» mi fece. «Sei pronto a sentire cos'ho da dirti io?» Annui, mordendomi la lingua. Di fronte a genitori e nonni, si resta sempre bambini. A me, con Nana, succedeva ogni volta. «Prontissimo. Spara.» «Le ragioni per cui non intendo andarmene da Washington sono due. Mi segui?» fece lei. «La prima è che ci abito da ottantatré anni. Regina Hope è nata qui e intende morire qui. Sarà una sciocchezza, ma ci tengo. Mi piace Washington, mi piace questo quartiere e soprattutto mi piace questa vecchia casa, in cui sono successe tante cose. Se se ne va la casa, me ne vado anch'io. È triste, ma è cosi.» Dovetti sorridere alla mia nonnina. «Sai che hai parlato con la tua voce da maestra? Te ne sei resa conto?» «Può darsi. Ma che importanza ha? È una questione seria.» Aggiunse: «Sono stata sveglia quasi tutta la notte. Me ne stavo lì, al buio, e pensavo alle cose che ti volevo dire. Ma vorrei sapere anche come la pensi tu. Vuoi che ce ne andiamo, vero?» «Nana, se ai ragazzi succede qualcosa, non potrei mai perdonarmelo.»
«Neanch'io», disse lei. «Non c'è neanche bisogno di dirlo.» Sembrava inflessibile e pensai che era davvero una donna tosta. Mi guardò negli occhi e io mi augurai che ci stesse ripensando. «Io sono sempre vissuta qui, Alex, e ci voglio restare. Se pensi che sia meglio allontanare i ragazzi, mandali dalla zia Tia. Ma adesso... Mangi così poco? Una fetta di pane tostato e basta? Ti preparo qualcosa io, dai! Hai una giornata lunga e faticosa davanti: ti devi nutrire.» 45 Il Lupo era in Medio Oriente, quindi almeno alcune delle informazioni su di lui erano corrette. L'incontro che il Lupo diceva essere «per la raccolta di fondi» si tenne in un accampamento di tende nel deserto, a un centinaio di chilometri da Riyadh, in Arabia Saudita. Erano presenti personalità del mondo arabo e asiatico e il Lupo, che amava definirsi «cittadino del mondo, viaggiatore senza patria». Ma era veramente il Lupo o una controfigura? Nessuno lo sapeva con certezza. Non si diceva che fosse una donna? Quella voce si ripresentava con insistenza, ma l'uomo nel deserto era alto, con i capelli scuri, lunghi, e la barba. Tutti i presenti pensarono che con un aspetto così il Lupo non poteva passare inosservato. Ma ciò contribuiva ad accrescere l'alone di mistero che lo circondava, la sua fama di genio del male. Neanche il suo comportamento durante la mezz'ora che precedette i colloqui passò inosservato. Mentre gli altri chiacchieravano bevendo whisky o tè alla menta, il Lupo se ne stette per conto suo, in silenzio, scacciando spazientito con una mano tutti quelli che tentavano di avvicinarsi. Sembrava al di sopra di tutto. Il tempo era bello e decisero di parlare fuori, all'aria aperta. Lasciarono la tenda e presero posto, a seconda del loro Paese d'origine. Venne ufficialmente aperta la seduta e il Lupo cominciò a parlare. In inglese, sapendo che lo parlavano tutti, o perlomeno lo capivano. «Sono qui per riferirvi che tutto sta procedendo bene, secondo i piani. Dovremmo rallegrarci e rendere grazie.» «Come facciamo a saperlo? Questo è ciò che dice lei», intervenne uno degli astanti. Il Lupo sapeva che era un mujahidin, un guerriero dell'Islam. Sorrise, affabile. «Infatti. Avete la mia parola. Forse non voi, ma la
maggior parte del mondo ha televisioni, giornali e radio che confermano che abbiamo creato non pochi problemi ad americani, inglesi e tedeschi. Nella tenda c'è un televisore sintonizzato sulla CNN, se volete accertarvene di persona.» I suoi occhi scuri si allontanarono dal mujahidin, che era arrossito per la vergogna e la collera. «Il piano sta funzionando, ma è tempo che facciate un'altra donazione, per poter mantenere in moto la macchina che abbiamo fatto partire. Ditemi, uno per uno, se siete d'accordo. Bisogna spendere, per poter guadagnare. È un concetto occidentale, ma è giusto.» Guardò tutti i presenti, che fecero un cenno di assenso o alzarono la mano. Tutti, tranne l'arabo che poco prima aveva sollevato obiezioni, il quale incrociò le braccia e dichiarò in tono di sfida: «Io voglio saperne di più. La sua parola non mi basta». «Capisco», replicò il Lupo. «Ho recepito il messaggio. Ma anch'io ho un messaggio per lei, guerriero.» Come dal nulla, nella sua mano si materializzò una pistola. Si udì uno sparo e il saudita barbuto cadde a terra stecchito, gli occhi senza vita rivolti verso il cielo. «A voi la mia parola basta?» domandò. «Possiamo passare alla prossima fase della nostra guerra contro l'Occidente?» Nessuno fiatò. «Molto bene. Andiamo avanti, allora», disse il Lupo. «È eccitante, no? Fidatevi di me: stiamo vincendo. Allah Akbar.» Dio è grande. E io anche. 46 Erano le sette meno un quarto del mattino e stavo guidando lungo Independence Avenue con un caffè in mano e Jill Scott che cantava dall'autoradio. Mi sentivo quasi in pace. Poi mi suonò il cellulare e capii che la pace era finita. Era Kurt Crawford e sembrava emozionato. Non mi diede il tempo di dire una parola. «Alex, Geoffrey Shafer è stato ripreso dalle telecamere di un impianto di sorveglianza a New York. È andato in un appartamento che tenevamo sotto controllo da prima che scoppiasse il caos. Potremmo aver trovato la cellula che doveva colpire a Manhattan. Sono di al-Qaeda. Che cosa significa, Alex? Devi venire subito a New York. Vai subito alla base di Andrews.»
Presi il lampeggiatore dal sedile del passeggero e lo misi sul tetto della macchina. Mi sembrava di essere tornato ai tempi in cui lavoravo nella polizia di Washington. Corsi alla base dell'aeronautica di Andrews e meno di mezz'ora dopo ero a bordo di un Bell nero come l'inchiostro, diretto all'eliporto di Manhattan, sull'East River. Mentre sorvolavamo la città, immaginai New York nel panico. Il problema principale era che era fisicamente impossibile evacuare le città bersaglio. Erano troppo grandi e poi il Lupo ci aveva avvertiti: se avessimo aperto bocca, l'attacco sarebbe stato immediato. Fino a quel momento i media non erano venuti a sapere nulla, ma gli attentati nel Nevada, in Inghilterra e in Germania avevano messo in allarme tutti. Non appena arrivai all'eliporto, venni accompagnato nella sede dell'FBI di Manhattan. Era in subbuglio, da quando qualcuno, controllando i filmati, aveva riconosciuto Shafer. Che cosa faceva a New York? Era legato ad al-Qaeda? Allora era vero che il Lupo era stato in Medio Oriente... Ma che cosa stava succedendo? Venni aggiornato brevemente sulla cellula di terroristi che si nascondeva in un palazzo di mattoni nella zona di TriBeCa, vicino all'imbocco dello Holland Tunnel. Non si capiva se Shafer fosse ancora dentro. Era arrivato alle nove della sera prima e nessuno lo aveva visto uscire. «Sono chiaramente della Jihad», mi disse Angela Bell, l'analista dell'Antiterrorismo di New York. Secondo lei, la vecchia costruzione in cui si nascondeva la cellula era occupata da una ditta di import-export coreana, da un'agenzia di traduzioni e da una sedicente associazione di beneficenza a favore dei bambini afghani. Sulla base dei rapporti degli agenti di sorveglianza, sembrava che i terroristi stessero preparando un attentato nella zona di New York. In un magazzino di Long Island erano state ritrovate varie apparecchiature e sostanze chimiche. Il contratto di affitto era intestato a uno degli individui che si trovavano nella casa vicino allo Holland Tunnel e un camioncino, appartenente a uno dei membri della cellula, era stato modificato in maniera da poter trasportare carichi pesanti. Un ordigno? E di che tipo? Ci stavamo preparando a fare irruzione nella casa vicino allo Holland Tunnel e nel magazzino di Long Island. Le due operazioni procedevano in parallelo. Finalmente, alle quattro del pomeriggio, mi accompagnarono dalla squadra che si preparava a entrare in azione a TriBeCa.
47 Ci aveva avvertiti di non farlo. Ma come potevamo ubbidire? Chi si aspettava che ubbidissimo, con tante vite in pericolo? Avremmo sempre potuto dire che il nostro obiettivo era al-Qaeda e che ignoravamo il collegamento con il Lupo. Ma non era vero. L'appartamento in cui erano nascosti i terroristi e forse anche Geoffrey Shafer era abbastanza facile da controllare. C'era un unico ingresso, sul davanti. L'uscita antincendio sul retro dava in un vicolo stretto dove avevamo installato telecamere wireless collegate a un impianto a circuito chiuso. Su un lato, c'era una tipografia. Sull'altro, un piccolo posteggio. La Donnola era ancora lì? Una squadra d'assalto dell'Antisequestri e una delle squadre speciali del dipartimento di polizia di New York erano appostate al piano superiore di uno stabilimento di lavorazione carni di TriBeCa, a un paio di isolati dallo Holland Tunnel. Ci andammo anche noi, per mettere a punto gli ultimi dettagli, in attesa di ricevere l'ordine di partire. Gli uomini della HRT erano impazienti e premevano perché facessimo irruzione nella casa fra le due e le tre del mattino. Io non sapevo che cosa avrei deciso, fosse toccato a me. Avevamo per le mani una cellula di noti terroristi e forse anche Shafer. Ma eravamo stati avvertiti delle possibili conseguenze di un nostro intervento. Inoltre, era possibile che si trattasse soltanto di una messinscena, una sorta di test. Appena prima di mezzanotte cominciò a girare voce che la HRT aveva scoperto qualcos'altro. Verso l'una mi convocarono nell'ufficio contabilità della ditta di import-export, che era stato adibito a quartier generale dell'operazione. Si stava avvicinando il momento di prendere una decisione. Michael Ainslie, della sede di New York, era a capo delle operazioni. Era un bell'uomo, alto e magro, e aveva una grandissima esperienza. La mia impressione, tuttavia, fu che sarebbe stato più a suo agio su un campo da tennis. «Ecco cosa abbiamo ottenuto dalla squadra di sorveglianza», ci disse. «Uno dei tiratori scelti della HRT ha raccolto qualche immagine e noi ne abbiamo prese altre. Mi sembrano positive. Guardate anche voi.» Le immagini erano state scaricate su un portatile e Ainslie le richiamò sullo schermo. Si riferivano a sei finestre sul lato orientale della palazzina. «Ci preoccupava il fatto che non fossero state coperte», disse Ainslie. «Questa è gente che dovrebbe essere esperta, giusto? Be', abbiamo identi-
ficato cinque maschi e due femmine. Il colonnello Shafer non appare in nessuno dei filmati. Finora, perlomeno. Non l'abbiamo visto neppure uscire, peraltro. Stiamo controllando con l'imaging a infrarossi se ce ne siamo persi qualcuno.» A Washington il dipartimento non se lo poteva permettere, ma avevo visto usare quel sistema al Bureau. Rilevava le variazioni di temperatura, consentendo di «vedere» le sagome anche attraverso i muri. Ainslie indicò le immagini ravvicinate che scorrevano sullo schermo del portatile. «Qui la cosa diventa interessante», dichiarò. Fermò l'immagine e ci indicò due uomini seduti al piccolo tavolo della cucina. «Quello sulla sinistra è Karim al-Lilyas, al quattordicesimo posto nell'elenco della Sicurezza Nazionale. Fa parte di al-Qaeda. Sospettiamo che abbia partecipato agli attentati del '98 contro le nostre ambasciate di Dar es Salaam e Nairobi. Non sappiamo quando sia arrivato o perché, ma è certo che in questo momento è a New York. L'altro è Ahmed el-Masry, l'ottavo della lista. Un pezzo grosso. Ingegnere. Nessuno dei due appariva nelle registrazioni precedenti: devono essere arrivati a New York da poco. Perché? In circostanze normali, saremmo già entrati in quella cucina e staremmo facendo tè alla menta per tutti, preparandoci a una lunga chiacchierata. Anche in sede e a Washington stanno guardando queste immagini. Ci diranno qualcosa al più presto, presumo.» Si guardò intorno e sorrise. «Per la cronaca, io mi sono espresso a favore di un'irruzione. Vorrei tanto bermi un tè alla menta con quei due.» Nella stanza si alzò un applauso. Per un attimo, ci parve quasi di divertirci. 48 I più spericolati e tosti della HRT, ovvero quasi la maggioranza dei suoi componenti, definiscono quel genere di operazione «cinque minuti di panico e di brivido. Panico loro, brivido nostro». L'unico brivido che provavo io era di piacere, al pensiero di catturare Geoffrey Shafer. Gli uomini della HRT e delle squadre speciali erano pronti al raid. Anzi, scalpitavano. Armati fino ai denti, preparatissimi, passeggiavano per lo stabilimento, pompati al massimo e sicuri di saper condurre la missione presto e bene. Guardandoli - ed era impossibile non farlo - non si poteva che essere d'accordo. Il problema era che, se davvero avessero condotto la missione presto e
bene, la cosa ci si sarebbe potuta ritorcere contro. Il Lupo ci aveva avvertito e sapevamo per esperienza di che cosa era capace, quando i suoi ordini non venivano rispettati. D'altro canto, magari contava proprio sugli uomini che stavamo sorvegliando per sferrare il colpo a New York. Insomma, era una decisione difficile. Conoscevo l'operazione nei minimi dettagli. Per prendere la palazzina occorreva dispiegare tutti gli uomini delle squadre. C'erano sei unità di assalto e sei di tiratori scelti. Secondo la HRT, due di troppo: non volevano l'aiuto delle squadre speciali. Le unità di tiratori scelti della HRT si chiamavano X-Ray, Whisky, Yankee e Zulu. Ciascuna constava di sette uomini ed era assegnata a un lato dell'edificio. Gli uomini delle squadre speciali li avrebbero supportati sul davanti e sul retro. Ero colpito dal fatto che gli agenti dell'Antisequestri si sentissero così superiori a tutti gli altri. Era il contrario di quello che pensavo quando ero nel dipartimento di polizia di Washington. I cecchini della squadra erano mimetizzati nell'ambiente, vestiti di scuro. Ciascuno di loro aveva un bersaglio. Ogni porta e finestra dell'edificio era coperta. Rimaneva solo da decidere se partire all'attacco oppure no. Shafer era là dentro? Stavamo davvero per prendere la Donnola? Alle due e mezzo del mattino raggiunsi due tiratori scelti appostati nell'edificio di fronte. La tensione era alle stelle. Erano in una stanzetta di tre metri per tre e avevano montato una tenda nera a pochi centimetri dalla finestra chiusa. Mi spiegarono perché. «Appena riceviamo il segnale, rompiamo il vetro con un tubo di piombo. Sembra una soluzione primitiva, ma non ci è venuto in mente nulla di meglio.» Nella stanza angusta e asfittica l'atmosfera non invitava alle chiacchiere. Guardai per mezz'ora la casa dei terroristi dal mirino di un fucile di riserva. Avevo il batticuore. Stavo cercando Shafer. E se l'avessi visto? Sarei riuscito a trattenermi? I secondi passavano lenti e l'agitazione cresceva sempre di più. La squadra d'assalto era pronta: aspettava soltanto un segnale dal Comando di New York. Via! Oppure: Lasciamo perdere. Alla fine ruppi il silenzio. «Scendo in strada. Preferisco stare giù.» 49
Era meglio così. Mi unii a una squadra della HRT dietro l'angolo. Teoricamente, non sarei dovuto stare lì e infatti ufficialmente non c'ero. Ma chiamai Ned Mahoney e gli chiesi di spianarmi la strada. Erano le tre del mattino e il tempo scorreva lentissimo, senza una parola né da parte del Comando di New York né dallo Hoover Building di Washington. Cosa pensavano? Come si poteva incaricare qualcuno di prendere una decisione simile? Partire o non partire? Ubbidire al Lupo o disubbidire e andare incontro alle conseguenze? Arrivarono le tre e mezzo, poi le quattro. Dal quartier generale sempre silenzio. Mi misi una tuta da pilota con giubbotto antiproiettile e imbracciai un MP-5. Quelli della HRT sapevano di Shafer e dei miei trascorsi con lui. Il capo della squadra si sedette per terra vicino a me. «Allora? Tutto okay?» «Sono stato nella Omicidi, a Washington. Sono andato in un sacco di posti, per un sacco di azioni.» «Lo so. Se Shafer è là dentro, non ci sfuggirà. Magari lo prendi proprio tu.» Sì, così magari lo ammazzo. Poi, inaspettatamente, arrivò l'ordine di partire. Via libera all'operazione. Cinque minuti di panico e di brivido. Per prima cosa sentii i tiratori scelti che rompevano i vetri dall'altra parte della strada. Poi corremmo verso il covo, in assetto di guerra, tuta nera, armati fino ai denti. Apparvero di colpo due Bell da otto posti, che si avvicinarono al tetto della palazzina e si fermarono, volando a punto fisso, per far scendere alcuni uomini che si calarono dall'alto con delle funi. Nel frattempo un gruppo di quattro persone si arrampicava invece sulla parete dell'edificio. Spettacolare! Mi venne in mente lo slogan dell'Antisequestri: velocità e sorpresa. Mai slogan fu più azzeccato. Sentii abbattere le porte con l'esplosivo, tre o quattro detonazioni nel giro di pochi secondi. In un'operazione del genere, non c'è negoziazione. Eravamo dentro la casa. C'ero anch'io. Nei corridoi riecheggiavano spari e fuoco di mitraglia. Salii al primo piano. Sulla porta spuntò un uomo con i capelli scompigliati e un fucile in mano.
«Mani in alto!» gli gridai. «Mani in alto!» Capiva l'inglese, perché mollò il fucile e alzò le mani. «Dov'è il colonnello Shafer? Dov'è Shafer?» gli urlai. L'uomo scosse la testa, confuso, spaventato. Lo lasciai con gli altri e corsi al secondo piano. Volevo la Donnola. Ma era lì oppure no? Vidi correre da una parte all'altra di un ampio soggiorno in cima alle scale una donna vestita di nero. «Fermati», urlai. Ma lei non mi ubbidì. Continuò a correre e saltò dalla finestra. La sentii gridare, poi più nulla. Una scena drammatica. Finalmente sentii gridare: «Siete circondati. Il palazzo è circondato!» Di Geoffrey Shafer neppure l'ombra, però. 50 Tutti gli uomini delle squadre speciali e della HRT si precipitarono verso la palazzina. Le porte erano state abbattute, alcune finestre mandate in frantumi. Non avevamo bussato prima di entrare, come prevedeva il galateo, ma l'operazione, almeno a quel che potevo vedere, mi sembrava perfettamente riuscita. A parte il fatto che non avevamo trovato Shafer. Dove si era cacciato? Non era la prima volta che quel bastardo mi sfuggiva proprio quando ero lì lì per prenderlo. La donna che si era lanciata dalla finestra dell'ultimo piano era morta, come prevedibile. Mi congratulai con i ragazzi della HRT mentre salivo le scale e loro si congratularono con me. Incontrai Michael Ainslie. «Quelli di Washington vogliono che tu prenda parte agli interrogatori», mi annunciò, un po' scontento. «Sono sei. Come li vuoi gestire?» «E Shafer?» gli chiesi. «Non sappiamo niente di lui?» «Dicono che non c'è. Non sappiamo se credergli o meno. Lo stiamo cercando.» Non riuscivo a non sentirmi scoraggiato, ma cercai di farmi forza. Entrai in un ex laboratorio trasformato in abitazione. C'erano sacchi a pelo sparsi per terra e cinque uomini e una donna seduti sul pavimento di legno, ammanettati come prigionieri di guerra. Ma forse lo erano. Li guardai in silenzio. Poi indicai quello che mi parve il più giovane: era piccolo, magro, con
occhialini di metallo e una barbetta poco curata. «Lui», dissi. E feci per uscire. «Cominciamo con lui. Portatemelo di là!» Quando il ragazzo venne trasferito nella camera adiacente, che era più piccola, mi guardai di nuovo intorno e indicai un altro ragazzo, con lunghi capelli mossi e una barba folta. «Quello.» Anche lui venne scortato fuori, senza spiegazioni. Mi presentarono l'interprete, un uomo che si chiamava Wasid e parlava arabo, farsi e pashtu. Ci trasferimmo nella camera vicina insieme. «Penso che sia saudita. Forse lo sono tutti», mi disse. Non sapevamo di dove fosse, ma il giovane era evidentemente agitato. A volte i terroristi islamici preferiscono morire piuttosto che venire catturati e interrogati dal diavolo. Era quello il mio punto di forza: ero il diavolo. Incoraggiai l'interprete a chiacchierare con il terrorista del suo Paese natale e delle difficoltà che aveva incontrato a New York, la tana del diavolo. Gli chiesi di accennare al fatto che ero una brava persona, uno dei pochi agenti dell'FBI che non fosse intrinsecamente malvagio. «Gli dica che leggo il Corano e che lo trovo un gran bel libro.» Nel frattempo, mi sedetti e cercai di capire il comportamento del terrorista e di mimarlo in maniera velata. Stava piegato in avanti sulla sedia. Lo imitai. Se fossi riuscito a ispirargli un minimo di fiducia, forse sarei riuscito anche a farmi dire qualcosa. All'inizio non funzionò granché bene, ma rispose a una o due domande sulla sua provenienza. Sosteneva di essere entrato negli Stati Uniti con un visto da studente, ma io sapevo che non aveva il passaporto. Non sapeva neppure dove si trovasse la New York University, né nessun'altra università newyorkese. Alla fine mi alzai in piedi e me ne andai con fare arrabbiato. Andai dal secondo sospettato e ripetei la stessa manfrina. Quindi tornai dal ragazzo magro e buttai per terra un fascio di dossier, facendo un gran fracasso. Lo vidi fare un salto sulla sedia. «Digli che mi ha mentito!» urlai all'interprete. «E io che mi fidavo di lui... La CIA e l'FBI non sono una massa di cretini, diglielo. Fallo parlare. Se urli è anche meglio. Non lasciargli aprire bocca finché non ha qualcosa da dirci. E poi, appena incomincia a parlare, mettiti a urlargli di tutto. Digli che morirà, che andremo a cercare i suoi in Arabia Saudita.» Per un paio d'ore continuai a passare da una camera all'altra. Avendo fatto il terapeuta per anni, ero abbastanza bravo a capire il mio prossimo, specie in uno stato alterato. Presi la donna e la aggiunsi al cocktail. Ogni volta
che io uscivo, i funzionari della CIA interrogavano il sospettato. Non era tortura, ma l'effetto non era dissimile. Ai corsi di formazione, a Quantico, dicono che gli interrogatori vanno condotti con la regola dell'RPM: razionalizzare, proiettare e minimizzare. Io razionalizzai: «Sei una brava persona, Ahmed. Credi nei principi giusti. Vorrei avere una fede solida come la tua». Proiettai la colpa: «Non è colpa tua. Sei giovane, tu. Le autorità statunitensi sanno essere spietate, a volte. A volte anch'io penso che esagerino». Minimizzai le conseguenze: «Finora non hai commesso reati, qui in America. Il nostro sistema giudiziario ti può proteggere». E andai dritto al punto: «Dimmi dell'inglese. Sappiamo che si chiama Geoffrey Shafer ma si fa chiamare la Donnola. Ieri era qui: abbiamo filmati, fotografie, registrazioni audio. Sappiamo che era qui. Dov'è andato? È lui che cerchiamo». Continuai a ripetere sempre la stessa solfa. «Che cosa vi ha chiesto di fare l'inglese? È lui il colpevole, non tu. E neppure i tuoi amici. Lo sappiamo, questo. Vogliamo solo che ci colmi due o tre lacune. Poi te ne puoi tornare a casa.» E ripetei le stesse domande a proposito del Lupo. Ma non funzionò con nessuno di loro, nemmeno con i più giovani. Erano dei duri, più disciplinati ed esperti di quanto sembrassero a prima vista. Erano intelligenti e chiaramente molto motivati. Giustamente, peraltro: ci credevano. Forse avremmo dovuto imparare da loro. 51 Il terrorista che scelsi subito dopo era un po' meno giovane, piuttosto bello, rubizzo, con folti baffoni e denti bianchissimi. Parlava inglese e mi disse con una punta di orgoglio che aveva studiato a Berkeley e a Oxford. «Biochimica e ingegneria. La sorprende?» Si chiamava Ahmed el-Masry ed era all'ottavo posto dell'elenco della Sicurezza Nazionale. Aveva molta voglia di parlare di Geoffrey Shafer. «Sì, l'inglese è venuto qui. Su questo ha ragione. Peraltro le registrazioni non mentono quasi mai. Sosteneva di avere cose importanti da dirci.» «E ve le ha dette?» El-Masry si accigliò. «No. Pensavamo fosse un vostro agente.» «Perché è venuto qui, allora?» gli chiesi. «Perché avete acconsentito a vederlo?» El-Masry mi rispose con un'alzata di spalle. «Curiosità. Diceva di avere
accesso a ordigni nucleari tattici.» Trasalii. Mi venne il batticuore. Ordigni nucleari nel cuore di New York? «Ed era vero?» «Abbiamo deciso di parlargli. Pensavamo si riferisse a ordigni di piccole dimensioni. Le cosiddette valigie nucleari, ha presente? Difficili da ottenere, ma non impossibili. Come lei certamente sa, furono prodotte in Unione Sovietica durante la Guerra Fredda. Nessuno sa quante siano, né che fine abbiano fatto. La Mafia russa cerca di venderle, da qualche anno. O almeno così si vocifera. Io non lo so. Sono venuto negli Stati Uniti per lavorare. Volevo un posto da insegnante.» Avevo la pelle d'oca. Al contrario delle testate convenzionali, le «valigie nucleari» erano progettate per esplodere a terra. Erano delle dimensioni di un grosso bagaglio e potevano essere azionate senza problemi da un semplice soldato di fanteria. Erano anche facilissime da nascondere e potevano essere tranquillamente trasportate a piedi per New York, Washington, Londra e Francoforte. «L'inglese aveva accesso alle valigie nucleari?» domandai. El-Masry fece spallucce. «Noi siamo studenti e insegnanti. Cosa ne sappiamo di ordigni nucleari?» Capii che cosa stava cercando di fare: voleva arrivare a un accordo per sé e i suoi compagni. «E come mai la sua studentessa si è buttata dalla finestra?» gli chiesi. El-Masry assunse un'espressione addolorata. «Da quando era a New York, viveva nella paura. Aveva perso i genitori in una guerra ingiusta voluta dagli americani.» Annuii lentamente, come se avesse tutta la mia comprensione. «Okay. Dunque non siete colpevoli di nessun reato. Vi teniamo d'occhio da settimane. Ma, mi dica: il colonnello Shafer aveva davvero accesso alle valigie nucleari?» ripetei. «È questa la cosa che mi interessa. È importante per lei e i suoi amici. Mi segue?» «Sì, penso di sì. Mi sta dicendo che se collaboriamo ci manderete a casa. Perché non abbiamo commesso reati. Dico bene?» El-Masry stava cercando di mettere bene in chiaro le cose. «Alcuni di voi sono colpevoli di reati molto gravi, hanno ucciso delle persone. Gli altri verranno sottoposti a un interrogatorio e rispediti a casa.» L'uomo annuì. «Va bene. La mia impressione è che Shafer fosse in possesso di armi nucleari. Lei ha detto che ci tenevate d'occhio: magari anche lui lo sapeva. Acquista un senso la sua visita qui, allora? È possibile che
volesse tendervi una trappola? Io non lo so, dico per dire. Ma, mentre parlavamo, mi è venuta in mente questa possibilità.» Purtroppo la sua teoria aveva un senso. Anzi, temevo proprio che fosse giusta. Shafer voleva tenderci una trappola, metterci alla prova. Fino a quel momento il Lupo non aveva fatto altro. «Come ha fatto a uscire senza che noi lo vedessimo?» «C'è un passaggio sotterraneo che collega la casa a un palazzo più a sud. Il colonnello lo sapeva. Sapeva un sacco di cose su di noi.» Quando me ne andai, erano le nove del mattino ed ero esausto. Crollavo dal sonno. I sospetti sarebbero stati mandati via e la zona sarebbe stata chiusa al traffico, compreso lo Holland Tunnel, che temevamo potesse essere un obiettivo primario. Eravamo davvero caduti in una trappola? 52 Le stranezze non erano finite, comunque. Fuori della palazzina si era radunata una piccola folla. Mentre mi facevo largo per passare, mi sentii chiamare. «Dottor Cross?» Chi poteva essere? Un ragazzo con una giacca a vento rossa e marrone mi salutò con la mano. «Dottor Cross! Venga qui, presto! Le devo parlare.» Mi avvicinai. «Come fai a sapere come mi chiamo?» chiesi al ragazzo, che dimostrava meno di vent'anni. Quello scosse la testa e fece un passo indietro. «Eravate stati avvertiti», disse. «Il Lupo vi aveva avvertiti.» Appena ebbe pronunciato queste parole, lo afferrai per la giacca e per i capelli e lo feci cadere a terra, bloccandolo con il mio peso. Rosso in viso, il ragazzo si divincolava, urlando. «Ehi, cazzo! Mi hanno pagato per recapitarle un messaggio. Mi levi quelle mani di dosso. Ambasciator non porta pena. Uno mi ha dato cento dollari per dirle 'sta cosa. Un inglese mi ha detto che lei era il dottor Alex Cross.» Mi guardò negli occhi e aggiunse: «Non mi sembra un dottore per un cazzo». 53
Il Lupo era a New York. Non poteva perdersi il gran giorno. Non se lo sarebbe lasciato sfuggire per tutto l'oro del mondo. Sarebbe stato uno spettacolo imperdibile. Le trattative stavano per giungere a una svolta. Il presidente degli Stati Uniti, il primo ministro britannico e il cancelliere tedesco, naturalmente, non volevano negoziare, non volevano far vedere la propria debolezza. Non si tratta con i terroristi, non si creano pericolosi precedenti, pensavano. Avevano bisogno di pressioni ancora più forti, di uno stress ancora maggiore per cedere. E il Lupo era pronto ad accontentarli. Anzi, tormentare quegli sciocchi gli piaceva, lo divertiva. Era tutto così prevedibile... Almeno per lui. Andò a fare una passeggiata nell'East Side di Manhattan. Per tenersi in forma. Si sentiva potente. Come poteva un capo di Stato competere con lui? Era troppo avvantaggiato: non doveva stare a pensare ai media, alla burocrazia, alla legge, alla morale. Insomma, era imbattibile. Tornò in una delle numerose case che possedeva in tutto il mondo, un attico con vista mozzafiato sull'East River, e fece una telefonata. Strizzando leggermente la sua pallina di gomma nera, parlò con un funzionario della sede dell'FBI di New York. Era una donna piuttosto in alto nella scala gerarchica. Gli disse tutto quello che il Bureau sapeva e come si stavano muovendo per prenderlo. Nulla di preoccupante, peraltro. Avevano più chance di prendere Bin Laden che lui. Gridò: «E io dovrei pagarti per queste stronzate? Per dirmi cose che già so? Ti faccio ammazzare, piuttosto». Ma poi scoppiò a ridere. «Scherzavo, cara. Mi porti buone notizie. Anch'io devo dirti una cosa, però: presto a New York ci sarà uno spiacevole incidente. Sta' lontana dai ponti. I ponti sono luoghi molto pericolosi. Lo so per esperienza.» 54 Bill Capistran aveva un piano, e anche un atteggiamento, piuttosto pericoloso. Faceva fatica a gestire la collera, ma presto avrebbe avuto duecentocinquantamila dollari sul suo conto alle Isole Cayman. Doveva soltanto fare un lavoretto. Non particolarmente difficile. Ce la posso fare senza problemi. Era di Raleigh, nel North Carolina, aveva ventinove anni ed era in otti-
ma forma fisica. Aveva giocato a lacrosse per un anno alla North Carolina State University e quindi era entrato nei Marine. Dopo tre anni, era stato reclutato da un'agenzia di mercenari nei pressi di Washington. Due settimane prima era stato contattato da un tizio che conosceva dai tempi di Washington, Geoffrey Shafer, che gli aveva proposto il lavoro meglio pagato della sua carriera. Duecentocinquantamila dollari. E lui aveva accettato. Alle sette del mattino percorse Fifty-seventh Street a bordo del suo furgoncino Ford nero, svoltò in First Avenue e parcheggiò vicino al Queensboro Bridge, detto anche Fifty-ninth Street Bridge. Conosceva quel ponte molto bene, ormai. Costruito novantacinque anni prima, aveva una struttura a travi e capriate, aperta e flessibile. Era l'unico ponte sull'East River a non essere sospeso. Il che significava che per farlo crollare occorreva una bomba speciale. Quella che lui aveva nel furgone. Roba dell'altro mondo! pensò, trasportando il materiale verso il ponte con i suoi complici. New York. L'East Side, pieno di imprenditori con la puzza sotto il naso e di principesse bionde che camminavano come se al mondo ci fossero solo loro. A parte il nervosismo, era quasi divertente e si ritrovò a canticchiare The 59th Street Bridge Song di Simon e Garfunkel, che considerava due tipici coglioni newyorkesi. Sia l'uno che l'altro. Negli ultimi giorni aveva lavorato fino a tarda notte con degli studenti di ingegneria della Stony Brook University di Long Island. Uno era un geniaccio iraniano, l'altro veniva dall'Afghanistan. Anche loro trovavano la cosa divertente: avevano studiato a New York e adesso cercavano di farla saltare in aria. La terra della libertà, giusto? Avevano chiamato l'operazione «Progetto Manhattan». Divertente. All'inizio avevano pensato all'ANFO, però era un tipo di esplosivo che avrebbe aperto un cratere in una strada, ma difficilmente sarebbe riuscito ad abbattere un ponte grosso come il Queensboro. I due cervelloni avevano detto a Capistran che i danni che poteva fare l'ANFO in una strada di città erano paragonabili a quelli di un fuoco d'artificio. L'esplosione sarebbe stata caratterizzata da «forze codarde che cercano sempre la via della minore resistenza». In altre parole, avrebbe bruciacchiato un po' l'asfalto, ma il suo potere distruttivo si sarebbe disperso per aria. Troppo poco per quel che dobbiamo fare. Ci serve qualcosa di molto più potente. E avevano escogitato un metodo molto più efficace per far crollare il ponte. Avevano spiegato a Capistran dove e come fissare un certo numero
di piccole cariche in diversi punti delle fondamenta. Un po' come facevano le ditte di demolizione, insomma. Sarebbe stata un'operazione da manuale. Non volendo farsi beccare, Capistran aveva preso in considerazione l'idea di mandare dei sub nell'East River a piazzare l'esplosivo. Poi aveva fatto un sopralluogo e si era stupito del fatto che non ci fossero praticamente controlli. Neanche quella mattina. Lui e i suoi complici scesero sul basamento del ponte senza che nessuno gli dicesse niente. Da lontano, la struttura di metallo argenteo del vecchio ponte sembrava delicata, ma da vicino le travi erano gigantesche e i rivetti erano grossi come la rotula di un uomo. Sembrava una follia, ma avrebbe funzionato. Capistran era sicuro che la sua parte del piano avrebbe funzionato. A volte si chiedeva che cosa l'avesse reso così scontento di tutto, amareggiato e arrabbiato. Be', diversi anni prima, quando era nei Marine, aveva fatto parte della squadra che recuperava i piloti abbattuti in territorio nemico come Scott O'Grady in Bosnia. Ora però non era più un eroe di guerra. Era solo una delle tante pedine del capitalismo, all'interno del sistema, giusto? Ma quanto meno, al contrario di tanti altri, lui se ne rendeva conto. Mentre camminava sulla struttura di sostegno del ponte, canticchiava «Groovy. Feeling very groovy». 55 Poi accadde una cosa stranissima, incomprensibile. Arrivò il giorno della scadenza dell'ultimatum e non successe niente. Nessun messaggio da parte del Lupo, nessun attentato. Niente. Silenzio assoluto. La cosa aveva un che di sinistro e incredibilmente spaventoso. Ormai solo il Lupo sapeva che cosa stava per succedere. Forse insieme con il presidente degli Stati Uniti e pochi altri capi di Stato. Si diceva che il presidente fosse partito da Washington con il vicepresidente e i membri del gabinetto. Sarebbe finito tutto molto presto, vero? Gli articoli, però, continuavano a uscire. Post, New York Times, USA Today, CNN e tutte le altre reti televisive strombazzavano quel che sapevano a proposito delle minacce di attentati in alcune grandi città. Nessuno sapeva che tipo di attentati o quali città, ma dopo anni di allarmi rossi e gialli, la gente sembrava non prendere
troppo sul serio tali notizie. Quella guerra di nervi, quell'incertezza doveva essere una scelta deliberata da parte del Lupo. Ero a Washington per il Memorial Day e stavo dormendo, quando mi telefonarono che dovevo recarmi immediatamente allo Hoover Building. Guardai la sveglia e, incredulo, mi accorsi che segnava le tre del mattino. Cosa sarà successo? Ci saranno state rappresaglie? Se mai, non me l'avrebbero detto per telefono. «Arrivo subito», dissi. Mi buttai giù dal letto, imprecando fra me e me. Feci una doccia scozzese, alternando acqua bollente e acqua gelida, mi asciugai, mi infilai le prime cose che trovai sottomano e presi la macchina. Attraversai Washington con una gran confusione in testa. L'unica cosa che sapevo era che il Lupo si sarebbe fatto sentire nel giro di mezz'ora. Alle tre e mezzo del mattino, dopo un ponte festivo e una scadenza passata senza che fosse successo niente. Il Lupo non era soltanto un maniaco del controllo, era anche sadico. Quando arrivai nella sala del quinto piano, trovai già una decina di persone. Ci salutammo come vecchi amici a una veglia funebre. Continuavano ad arrivare persone, una più insonnolita dell'altra. Quando finalmente portarono il caffè, si formò una lunga coda. Eravamo tutti tesi, nervosi. «E da mangiare? Niente? Nessuno ci vuole bene», disse uno. Ma la battuta cadde nel vuoto. Il direttore Burns arrivò poco dopo le tre e mezzo, in giacca e cravatta. Era un abbigliamento piuttosto formale, per lui, specie a quell'ora del mattino. Avevo la sensazione che neanche lui sapesse che cosa stava per succedere. A comandare era il Lupo, non noi. «E io che credevo di essere un capo esigente», disse, nel silenzio generale. Qualcuno rise. «Grazie di essere venuti», aggiunse Burns. Il Lupo si mise in comunicazione con noi alle 3:43. La sua voce pesantemente distorta dai filtri era sdegnosa e supponente. «Vi chiederete come mai ho indetto una riunione a quest'ora inconsulta», esordì. «Perché posso farlo. Vi piace, come risposta? Posso farlo e lo faccio. Caso mai non ve ne foste accorti, non mi piacete molto. Anzi, non mi piacete per niente. Ho i miei buoni motivi, credetemi. Detesto tutto ciò che l'America rappresenta. Quindi forse la mia è sete di vendetta. Magari mi avete fatto un torto in passato, a me o alla mia famiglia. Chissà. Fa parte del mistero. La vendetta è un di più, per me. Ma torniamo a noi. Correggetemi se sbaglio: mi sembra di avervi detto chiaramente di interrompere le
indagini e smetterla di cercarmi. E voi irrompete nella casa di sei poveracci a Manhattan perché sospettate che lavorino per me? Una ragazza si è spaventata talmente che si è buttata giù dalla finestra. Ho assistito al suo schianto, poverina. Immagino pensaste che, se aveste fermato i miei uomini, New York sarebbe stata salva. Ah, quasi dimenticavo. La scadenza mancata. Pensavate forse che mi fossi dimenticato? No, non è così. E non mi è sfuggito neppure che voi non avete fatto niente. Adesso vedrete di che cosa sono capace.» 56 Alle tre e quaranta del mattino, secondo le istruzioni, la Donnola prese posto su una panchina sul lungofiume, nel parco vicino a Sutton Place e Fifty-seventh Street. Nutriva non poche perplessità riguardo al lavoro che doveva svolgere, ma i contro erano compensati da due aspetti fortemente positivi: era di nuovo in azione, e pagato profumatamente. Gesù, quanto mi piace essere nel cuore della battaglia. Guardava il fiume scuro, la corrente forte, il rimorchiatore rosso con la scritta MCALLISTER BROTHERS che guidava una portacontainer. Siamo o non siamo nella città che non dorme mai? I bar in First e Second Avenue si accingevano a chiudere. Poco prima era passato davanti a un ambulatorio veterinario aperto per le emergenze. Che strana città era New York! E che strano Paese l'America... Molti newyorkesi stavano per venire svegliati di soprassalto. Avrebbero faticato a riprendere sonno. Ci sarebbero stati pianto e stridore di denti. Il Lupo voleva così. Shafer guardava i secondi scorrere verso le 3:43 sul suo orologio da polso, senza smettere di tenere d'occhio il Queensboro Bridge e il fiume nero. Sul ponte stavano passando macchine, taxi e alcuni camion, nonostante l'ora. Dovevano esserci un centinaio di veicoli, forse anche di più. Poveri cristi! Alle 3:43 premette un tasto del cellulare. Il semplice segnale codificato venne trasmesso a una piccola antenna sulla sponda del fiume e il circuito cominciò a chiudersi... Partì l'innesco e... Una frazione di secondo dopo agli abitanti di New York e del resto del mondo arrivò un messaggio direttamente dall'inferno. Un messaggio simbolico.
Un altro avvertimento. L'esplosione fece tremare le travi del Fifty-ninth Street Bridge, spezzandone i giunti e le vecchie strutture di acciaio come fossero grissini. Grossi rivetti vennero proiettati nelle acque scure nel fiume. L'asfalto cominciò a sbriciolarsi, il cemento armato si lacerò come un foglio di carta. Le corsie superiori si ruppero in due e grossi spezzoni caddero come bombe su quelle sottostanti, che si spaccarono a loro volta, precipitando nel fiume. C'erano macchine che volavano di qua e di là; un camion carico di quotidiani scivolò all'indietro e quindi cadde piroettando nell'East River, seguito da un turbine di auto e furgoni, che precipitavano come pallini di piombo. I cavi elettrici mandavano scintille per tutta la lunghezza del ponte. Nel fiume continuavano a inabissarsi automobili. Alcuni cercavano di uscire dalle vetture e si gettavano nel vuoto, andando incontro a morte certa. Shafer sentiva le loro grida. Nelle case cominciarono ad accendersi le luci: gli abitanti di New York si collegavano a Internet e accendevano la televisione per sentire le prime notizie riguardo al terribile disastro che aveva colpito la loro città. Una tragedia che fino a pochi anni prima sarebbe stata incredibile, inconcepibile. Terminato il suo compito, Geoffrey Shafer si alzò dalla panchina e andò a coricarsi. Se solo fosse riuscito a dormire un po'... Aveva capito una cosa: l'operazione era cominciata. Adesso si sarebbe dovuto recare a Londra. Il prossimo sarà il London Bridge, pensò. Crolleranno tutti i ponti della terra. La società moderna si sfalderà. Il Lupo è folle, ma è anche un genio. Un genio del male. PARTE TERZA Sulle tracce del Lupo 57 Il Lupo, al volante di una potente Lotus nera, ridusse la velocità a circa centosessanta chilometri all'ora mentre parlava al cellulare, uno dei sei che aveva con sé in macchina. Era diretto a Montauk, sulla punta di Long Island, ma aveva alcune questioni importanti da risolvere durante il viaggio, nonostante fosse l'una di notte. Aveva in linea il presidente degli Stati Uniti, il cancelliere tedesco e il primo ministro britannico. La dirigenza mondiale. Chi poteva chiedere di più?
«Questa telefonata non può essere rintracciata, quindi non perdete tempo a cercare di scoprire da dove vi chiamo. I miei tecnici sono più in gamba dei vostri», annunciò. «Allora, che intenzioni avete? Sono passate otto ore dalla scadenza dell'ultimatum. Che si fa?» «Abbiamo bisogno di più tempo», rispose per tutti il primo ministro britannico. Buon per lui. Era lui, dei tre, a comandare? Sorprendente. Il Lupo lo aveva immaginato più nei panni del gregario. «Lei non si rende conto...» cominciò a dire il presidente americano, ma il Lupo lo interruppe, sorridendo tra sé per la soddisfazione di poter mancare di rispetto a un leader mondiale. «Ora basta! Sono stufo di sentirmi raccontare balle!» urlò al telefono. «Ascolti quel che abbiamo da dire», intervenne il cancelliere tedesco. «Ci dia la possibilità di...» Il Lupo chiuse la conversazione. Si accese un sigaro per festeggiare, aspirò soddisfatto due boccate di fumo, quindi lo posò nel portacenere e, con un altro cellulare, richiamò i tre governanti. Erano ancora lì ad aspettare un suo cenno. Il Lupo era consapevole del loro potere, non li sottovalutava. Tuttavia... che cosa potevano fare, a parte aspettare le sue telefonate? «Volete che attacchi tutte e quattro le città? È questo che devo fare per dimostrarvi che faccio sul serio? Ci vuole un attimo, sapete. Lo posso fare anche ora, posso dare l'ordine in questo stesso momento. Ma non ditemi che avete bisogno di più tempo. Non è vero! I Paesi in cui sono detenuti i prigionieri sono ai vostri ordini, per la miseria! Il problema è che non potete permettervi di mostrare al mondo che siete deboli e impotenti. Ma è la verità! Cos'è successo? Come avete fatto a ridurvi così? Chi vi ha messo in una posizione di potere? Chi vi ha eletto? Fuori il denaro e i prigionieri politici. Addio.» Prima che il Lupo riattaccasse, il leader britannico intervenne dicendo: «Non è vero! È lei che deve scegliere, non noi! Ci rendiamo conto che lei è in una indubbia posizione di vantaggio, ma non possiamo mettere insieme ciò che ci chiede in così poco tempo. È materialmente impossibile e, secondo me, lei lo sa. Naturalmente noi non vogliamo scendere a patti, ma lo faremo, perché siamo costretti. Le chiediamo solo un po' più di tempo. Le daremo quello che richiede. Ha la nostra parola.» Il Lupo alzò le spalle. Tuttavia il primo ministro britannico lo aveva sorpreso: era chiaro, conciso e coraggioso. «Ci penserò», disse. Poi chiuse la conversazione, riprese il sigaro e me-
ditò con gusto sul fatto che, in quel momento, era l'uomo più potente del mondo. E, a differenza di quegli altri, aveva tutte le competenze necessarie per quel compito. 58 Un passeggero di business class, di nome Randolph Wohler, sbarcò dal volo British Airways da New York alle 6:05 del mattino. Il passaporto e tutti gli altri documenti confermavano la sua identità. È bello essere di nuovo a casa, pensò. In realtà Wohler era Geoffrey Shafer. E sarà ancora più bello se riuscirò a far saltare in aria Londra. Era un distinto signore sulla settantina e passò la dogana senza problemi, pensando già alla sua prossima tappa: una visita ai figli. Il suo pezzo era quello. Strano, bizzarro. Ma sapeva bene che non era il caso di discutere gli ordini del Lupo. A parte il fatto che aveva voglia di andare a trovare i bambini: era troppo tempo che non vedevano il loro papà. Aveva una parte da recitare, un'altra missione, un altro pezzo del puzzle da sistemare. I marmocchi vivevano con la zia, la sorella della sua defunta moglie, vicino a Hyde Park. Ripensò a quella casa, mentre si avvicinava alla guida di una Jaguar S-Type presa a noleggio. Ormai aveva solo ricordi estremamente spiacevoli della moglie, Lucy Rhys-Cousins, una donna fredda e calcolatrice, dalla mentalità ristretta. L'aveva uccisa in un supermercato Safeway di Chelsea, davanti alle figlie. Quel gesto autenticamente pietoso aveva lasciato orfane le due gemelle, Tricia ed Erica, che adesso avevano sei o sette anni, e Robert, che doveva averne quindici. Shafer era convinto che stessero molto meglio senza quella lagna della madre. Bussò al portone, si accorse che non era chiuso a chiave ed entrò senza avvertire. Trovò la cognata, Judy, intenta a giocare a Monopoli con le gemelle sul pavimento del salotto. Un gioco in cui tutte e tre sapevano soltanto perdere, pensò Shafer, profondamente convinto che fossero tutte delle perdenti. «È tornato papà!» esclamò. Sfoderò un sorriso assolutamente terrificante e puntò una Beretta al petto della cara zia Judy. «Non fiatare, Judy. Non voglio sentire una sola parola. Non darmi la minima scusa per premere il grilletto. Sarebbe troppo facile e troppo divertente perché sì, odio anche te. Sembri una versione in grasso della tua amata sorella. Salve, bambine! Su, da brave, salutate il papà. Ho fatto un sacco di strada per venirvi a trovare, sono venuto direttamente dagli Stati Uniti.»
Le gemelle si misero a piangere e Shafer fece l'unica cosa che gli venne in mente per ristabilire l'ordine: puntò la pistola in faccia a Judy, che piangeva anche lei, e le si avvicinò. «Falle smettere di frignare. Subito! Dimostrami che sei degna di occuparti di loro.» La zia si chinò e strinse a sé le due bambine in modo che, anche se non smisero del tutto di piangere, facessero meno rumore. «Adesso stammi bene a sentire, Judy», disse poi Shafer spostandosi alle sue spalle e puntandole la canna della pistola alla nuca. «Lo farei con gran piacere, ma non sono venuto qui per scoparti e ammazzarti. Ho da darti un messaggio che devi riferire al ministro dell'Interno. Per un paradossale scherzo del destino, la tua miserabile vita adesso conta qualcosa. L'avresti mai detto? Io stento a crederlo.» Judy, con l'aria confusa che Shafer peraltro le aveva sempre visto, balbettò: «E come dovrei fare?» «Chiamare la polizia, no? Adesso taci e ascoltami bene: devi dire alla polizia che sono venuto a trovarti e che ti ho detto che nessuno può più considerarsi al sicuro, ormai. Nemmeno i poliziotti e le loro famiglie. Possiamo andare a casa loro quando vogliamo, così come oggi sono venuto qui da te.» Per essere sicuro che avesse capito bene, Shafer le ripeté il messaggio altre due volte. Poi si voltò a guardare Tricia ed Erica, che gli interessavano più o meno quanto le ridicole bambole di porcellana sulla mensola del caminetto. Aveva sempre odiato quegli stupidi balocchi di porcellana che un tempo erano stati di sua moglie. Lei sembrava esserci affezionata come se fossero persone vere. «Come sta Robert?» chiese alle gemelle, senza ottenere alcuna risposta. Le bambine erano ormai grandi abbastanza per riuscire ad avere la stessa espressione irrimediabilmente sperduta e confusa della madre e di quella cretina della zia, e non spiccicarono parola. «Robert è vostro fratello!» gridò Shafer. Le gemelle ricominciarono a singhiozzare. «Dov'è? Dov'è mio figlio? Raccontatemi qualcosa su vostro fratello! Gli sono spuntate due teste? Ditemi qualcosa, qualsiasi cosa!» «Sta bene», piagnucolò finalmente Tricia. «Sì, sta bene», ripeté Erica, seguendo l'esempio della sorella. «Ah sì, sta bene? Mi fa piacere», rispose Shafer con il massimo disprezzo per quei due cloni della madre. In effetti Robert gli mancava davvero. A volte il ragazzino lo divertiva, con la sua leggera vena di perversione. «Bene, date un bacio a vostro pa-
dre», disse poi. «Sono vostro padre, imbecilli! In caso ve lo foste dimenticato.» Le bambine non lo volevano baciare e Shafer non era autorizzato a ucciderle, per cui dovette andarsene da quella casa schifosa. Uscendo, buttò giù dalla mensola tutte le bambole, mandandole in mille pezzi. «In ricordo di vostra madre!» si gridò dietro le spalle allontanandosi. 59 La cosa di cui più si lamentano i soldati in Iraq è di trovarsi in una situazione totalmente assurda, priva di senso. È così che funziona la guerra moderna, e anch'io ho la stessa sensazione. L'ultimatum era scaduto e noi eravamo ancora vivi. Mi sembrava inspiegabile. Erano giorni e giorni che correvo senza mai prendere fiato e adesso stavo andando a Londra con due agenti della nostra International Terrorism Section. Geoffrey Shafer era in Inghilterra e, cosa ancora più folle, voleva che noi sapessimo che si trovava lì. O forse non era lui a volerlo, ma qualcun altro. Il nostro volo arrivò a Heathrow poco prima delle sei del mattino. Dall'aeroporto andai direttamente in un albergo nei pressi di Victoria Street e dormii fino alle dieci. Poi mi alzai e andai a New Scotland Yard, che era poco lontano, su Broadway. Che bellezza, essere così vicino a Buckingham Palace, all'abbazia di Westminster e al Parlamento! Appena arrivato, fui accompagnato nell'ufficio del sovrintendente Martin Lodge della Metropolitan Police il quale mi spiegò, con sufficiente modestia, che era responsabile dell'Anti Terrorist Branch, noto come SO13. Mentre andavamo alla riunione prevista per quel mattino, mi fece una breve descrizione della propria carriera. «Anch'io vengo dalla gavetta. Sono stato undici anni nella Metropolitan Police, dopo un breve periodo con il SIS in Europa. Prima ancora avevo fatto l'addestramento a Hendon e anche servizio di pattuglia. Poi ho scelto il ramo investigativo e sono stato trasferito all'SO13 perché conosco un po' le lingue.» Si interruppe e io approfittai di quella prima pausa per dire: «Ho sentito parlare della vostra squadra antiterrorismo. È la migliore d'Europa, dicono. Anni di pratica con l'IRA».
Lodge fece un sorriso a denti stretti, da veterano. «Sbagliando s'impara, e noi di errori in Irlanda ne abbiamo fatti un sacco. Eccoci, Alex, siamo arrivati. Ci aspettano: vogliono tutti conoscerla. La avverto, però, si prepari a sentire un sacco di fesserie. Alla riunione ci saranno anche l'MI5 e l'MI6, che litigano sempre su tutto. Non si lasci impressionare. Alla fine si risolve sempre ogni cosa. Quasi sempre.» Annuii. «Come l'FBI e la CIA da noi. Sono sicuro che è uguale.» In effetti il sovrintendente Lodge aveva ragione sulle guerre intestine fra servizi. Immaginai che lo svolgimento delle indagini a Londra ne venisse rallentato persino in circostanze critiche come quella. Alla riunione erano presenti anche alcuni rappresentanti dello Special Branch, il capo di gabinetto del primo ministro e numerosi funzionari dei servizi di emergenza londinesi. Mentre mi sedevo, protestai in cuor mio: l'ennesima riunione di burocrati! L'ultima cosa di cui avevo bisogno. L'ultimatum è scaduto. Quelli faranno saltare in aria tutto quanto! avrei voluto gridare. 60 La grande villa sul mare nei pressi di Montauk, a Long Island, non era del Lupo. L'aveva presa in affitto per quarantamila dollari alla settimana, nonostante fosse bassa stagione. Si rendeva conto che era un autentico furto, ma non gli importava. Non quel giorno, perlomeno. Era molto bella, in stile georgiano, tre piani, accesso diretto alla spiaggia e una piscina enorme riparata dal vento. Lungo il viale coperto di ghiaia erano parcheggiate varie auto. Gli autisti delle limousine vestiti di scuro chiacchieravano tra loro. E tutto questo è pagato con i miei soldi, con il sudore della mia fronte, con le mie idee! pensò il Lupo con un certo rancore. Lo stavano aspettando. In una biblioteca che fungeva anche da salotto con vista sulla spiaggia deserta e sull'Atlantico erano riuniti vari suoi collaboratori della Mafia russa. Quando entrò nella stanza, finsero di essere i suoi amici più cari e più intimi, stringendogli la mano, dandogli pacche sulle spalle, mormorando falsamente che era un piacere rivederlo. I pochi eletti che mi conoscono di persona. La mia cerchia ristretta di persone fidate. Il pranzo era stato servito prima del suo arrivo e tutto il personale era stato congedato. Il Lupo aveva lasciato la macchina sul retro ed era entrato
dalla cucina. Nessuno lo aveva visto, tranne i nove uomini riuniti in quella stanza. Si fermò al centro della sala e accese un sigaro. Per festeggiare la vittoria. «Hanno chiesto una proroga. Ci credereste?» annunciò emettendo sbuffi di fumo con aria soddisfatta. I russi riuniti intorno al tavolo risero. Come lui, disprezzavano gli attuali governi e i leader mondiali, uomini deboli per natura o, nel caso dei pochi forti che venivano eletti a una carica pubblica, subito indeboliti dall'esercizio del potere. Era sempre stato così. «Bisogna alzare la posta», gridò uno degli uomini. Il Lupo sorrise. «È vero, dovrei. Ma su un punto non hanno torto, sapete: se agiamo adesso, anche noi perdiamo. Ora li chiamo. Stanno aspettando una risposta. Interessante, vero? Siamo arrivati a negoziare con gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e la Germania. Come se fossimo anche noi una potenza mondiale.» Il Lupo fece segno di tacere mentre componeva il numero. «Si aspettano una mia chiamata...» «Siete tutti in linea?» disse poi al telefono. Risposero di sì. «Allora bando alle ciance. La mia decisione è la seguente: avete altri due giorni, fino alle diciannove, ora della East Coast, ma... il prezzo è raddoppiato!» Chiuse la telefonata, poi si guardò intorno e disse ai suoi uomini: «Allora, siete d'accordo? Sapete quanti soldi vi ho appena fatto guadagnare?» Tutti applaudirono. Il Lupo trascorse con loro il resto del pomeriggio. Ascoltò i loro falsi convenevoli, le richieste goffamente mascherate da suggerimenti. Poi, siccome aveva altre faccende da sbrigare a New York, li lasciò di nuovo soli a godersi la villa sul mare e tutto il resto. «Tra poco arriveranno le signore», promise. «Modelle e miss di New York. Le fiche più belle del mondo, dicono. Divertitevi.» Con i miei soldi, il sudore della mia fronte, la mia genialità. Risalì sulla Lotus e partì in direzione della Long Island Expressway strizzando nel palmo della mano la pallina di gomma nera. Poi la posò e riprese il cellulare. Premette alcuni tasti. Il cellulare trasmise un codice. Un circuito si chiuse. Un innesco si accese. Nonostante la distanza, udì il boato della villa che saltava in aria con tut-
ti i suoi occupanti. Non aveva più bisogno né di loro, né di nessuno. Zamočit'! Le bombe avevano spezzato tutte le ossa dei loro inutili corpi schifosi. Vendetta, tremenda vendetta. Era una cosa meravigliosa. 61 Ci giunse notizia, a Londra, che la scadenza era stata prorogata di quarantott'ore e tutti provammo un enorme sollievo, per quanto momentaneo. Nel giro di un'ora fummo informati anche dell'esplosione avvenuta a Long Island, in cui erano morti diversi boss della Mafia russa. Che cosa significava? Il Lupo aveva colpito di nuovo? Aveva ucciso i suoi stessi uomini? Dopo una lunga serie di riunioni a Scotland Yard, non mi restava nulla di utile da fare. Poco dopo le dieci di quella sera mi incontrai con un'amica dell'Interpol in un ristorante di Great Smith Street, il Cinnamon Club, che si trovava nell'edificio dove un tempo aveva sede la Old Westminster Library. Ero talmente spossato che non sentivo neppure più la stanchezza, a parte il fatto che mi faceva sempre piacere vedere Sandy Greenberg, una delle colleghe più in gamba con cui avessi mai lavorato. Speravo che avesse qualche idea nuova sul Lupo, o sulla Donnola. In ogni caso, nessuno meglio di lei conosceva il mondo della malavita europea. Sandy in realtà si chiamava Sondra e solo pochi intimi avevano il permesso di chiamarla con quel diminutivo. Io avevo la fortuna di essere uno di loro. Era alta, bella, molto chic, a volte un po' goffa, ma sempre molto spiritosa. Mi accolse con un abbraccio affettuoso e due baci sulle guance. «È questo l'unico modo per vederti, Alex? Ci vuole un'emergenza internazionale? Che fine ha fatto il valore dell'amicizia?» «Puoi sempre venire a trovarmi a Washington, se ti manco tanto», dissi. Mi scostai lievemente per guardarla meglio. «Ti trovo benissimo.» «Ah sì? Grazie», replicò Sandy. «Vieni, ho prenotato un tavolo in fondo. Mi sei mancato tantissimo. Che piacere vederti! Anche tu sei in gran forma, nonostante tutto questo casino. Qual è il tuo segreto?» La cucina del locale era un misto di indiano ed europeo che negli Stati Uniti sicuramente non si trovava, perlomeno dalle parti di Washington. Sandy e io parlammo per più di un'ora del caso ma, arrivati al caffè, ci rilassammo e affrontammo argomenti un po' più personali. Notai che porta-
va un anello d'oro con sigillo e una fedina al mignolo. «Che splendore!» esclamai. «Regalo di Katherine», spiegò con un sorriso. Sandy e Katherine Grant vivevano insieme da circa dieci anni ed erano una delle coppie più felici che avessi mai conosciuto. Sicuramente ci sarebbe stato qualcosa da imparare da loro, ma chi era in grado di farlo? Io no di sicuro. Non ero neppure padrone del mio tempo. «Vedo che tu non ti sei ancora sposato», osservò Sandy. «Te ne sei accorta.» «Faccio la detective, sai. Sono una grande investigatrice. Su, raccontami tutto, Alex.» «Non c'è molto da dire», risposi, con una reticenza di cui mi resi conto da solo. «Frequento una persona che mi piace molto...» Sandy mi interruppe. «Chi è che non ti piace molto, Alex? Sei fatto così. Ti piaceva persino Kyle Craig. Riuscivi a trovare qualcosa di buono persino in quello stronzo psicopatico che avrebbe fatto accapponare la pelle a chiunque.» «Sì, forse hai ragione. Ma Kyle non mi piace più, te l'assicuro. E neppure il colonnello Geoffrey Shafer mi piace. Proprio per niente. E meno che mai il Lupo.» «Io ho sempre ragione, caro. Allora sentiamo, chi è questa donna incredibile che ti piace molto e a cui spezzerai il cuore, o che lo spezzerà a te, perché so già che andrà a finire così? Perché continui a farti del male?» Non potei fare a meno di sorridere. «Un'altra detective. Per la precisione, un'ispettrice di polizia di San Francisco.» «San Francisco? Ma bene! Quanto c'è da San Francisco a Washington? Tremila chilometri? Ogni quanto vi vedete, una volta ogni due mesi?» Risi di nuovo. «Vedo che hai sempre la battuta pronta.» «Questione di esercizio, amico mio. Così non hai ancora trovato la donna giusta, eh? Peccato, un vero peccato. Avrei un paio di amiche. Ma no, lasciamo perdere. Vorrei farti due domande personali, però. Sei sicuro di non essere ancora innamorato di Maria?» La bravura di Sandy, come investigatrice, è che le vengono idee cui gli altri non penserebbero mai. Sandy indaga anche in settori spesso trascurati. Mia moglie Maria era stata uccisa dieci anni prima in una sparatoria. Non ero mai riuscito a scoprire il colpevole e forse, sì, ero ancora innamorato di lei. Forse, ma solo forse, non sarei riuscito a concludere nulla con nessun'altra finché non avessi risolto quel caso, che era ancora aperto. Il ricor-
do della morte di Maria mi tormentava da anni e mi faceva ancora soffrire ogni volta che ci pensavo. «Sono cotto di Jamilla Hughes», dichiarai. «Al momento so solo questo. Stiamo bene insieme. Che male c'è?» Sandy sorrise. «Ho capito, Alex. Jamilla ti piace molto. Ma non mi hai detto che sei perdutamente innamorato di lei e non sei il tipo di uomo che si accontenta di una 'cotta'. Sbaglio? No, non sbaglio. Anzi, ho sempre ragione.» «Ti voglio bene», le dissi. Sandy rise. «Bene, allora siamo d'accordo. Stasera ti fermi da me.» «Okay», risposi. Scoppiammo a ridere tutti e due e, mezz'ora più tardi, Sandy mi lasciò davanti al mio albergo in Victoria Street. «Ti è venuta qualche idea?» le chiesi scendendo dal taxi. «Ci sto pensando», rispose. Avevo la certezza di poter contare sul suo aiuto. E ne avevo davvero bisogno, in Europa. 62 Henry Seymour viveva poco lontano dal nascondiglio della Donnola in Edgware Road, nella zona tra Marble Arch e Paddington che alcuni chiamano Little Lebanon. Quella mattina il colonnello Shafer uscì per andare dall'ex membro del SAS e, mentre camminava, si domandò che cosa era successo alla sua città, e all'Inghilterra intera. Che triste spettacolo! Le strade erano piene di caffetterie, ristoranti e negozi di alimentari mediorientali. Alle otto del mattino già si sentivano profumi di piatti esotici: taboulé, zuppa di lenticchie, bstilla. Davanti a un'edicola, due uomini anziani fumavano tabacco in una pipa ad acqua. E che cazzo! Dove sta andando a finire il mio Paese? L'appartamento di Henry Seymour era sopra un negozio di abbigliamento maschile. La Donnola salì direttamente al terzo piano. Bussò una volta e Seymour gli aprì. Appena lo vide, però, Shafer si preoccupò. Henry Seymour aveva perso quindici o venti chili dall'ultima volta che si erano visti, ed era passato solo qualche mese. I capelli, neri e ricci, gli erano caduti quasi del tutto e gli restavano solo pochi ciuffi brizzolati. Shafer fece veramente fatica a riconoscere in quell'uomo il suo ex commilitone, il miglior esperto di demolizioni che avesse mai visto. Avevano
combattuto insieme durante l'operazione Desert Storm e poi ancora come mercenari nella Sierra Leone. Durante Desert Storm, Shafer e Seymour facevano parte delle truppe mobili del ventiduesimo reggimento SAS. Il compito principale delle truppe mobili era infiltrarsi oltre le linee nemiche e compiere azioni di disturbo. Nessuno ci riusciva meglio di Shafer e Henry Seymour. Il povero Henry non sembrava in grado di causare molti danni al momento, ma a volte l'apparenza inganna. O almeno così Shafer sperava. «Allora, sei pronto per il lavoro di cui ti ho parlato? È una missione importante», chiese Shafer. Henry Seymour sorrise. Gli mancavano un paio di denti davanti. «Suicida, spero», rispose. «In effetti... Non è una cattiva idea», replicò la Donnola. Si sedette di fronte a Henry e gli spiegò il suo pezzo del piano. Alla fine Henry batté addirittura le mani. «Ho sempre desiderato far saltare in aria Londra», disse. «Sono l'uomo giusto per quest'impresa.» «Lo so», disse la Donnola. 63 Il dottor Stanley Bergen, di Scotland Yard, stava parlando a diverse centinaia di persone riunite in una sala piena zeppa di funzionari governativi e forze dell'ordine. Aveva una sessantina di anni, era alto un metro e sessanta scarso, pesava almeno cento chili, ma sprizzava autorevolezza da tutti i pori. Parlava a braccio e nessuno di noi si distrasse neppure per un secondo, durante il suo intervento. Il tempo stringeva e tutti ne eravamo consapevoli. «Siamo in un momento critico e occorre che adottiamo misure di emergenza per Londra», disse Bergen. «La responsabilità è del London Resilience Forum, di cui mi fido ciecamente. Vi esorto ad avere anche voi la massima fiducia in questo organo. La nostra reazione sarà la seguente: se verremo avvisati dell'imminenza dell'attentato, radio e TV sospenderanno le trasmissioni per lasciarci libere le frequenze. L'allarme verrà diffuso anche attraverso SMS a cellulari e cercapersone. Saranno usati inoltre mezzi meno efficaci, quali megafoni fissi e mobili. Insomma, se sapremo quando avverrà l'attentato, lo comunicheremo alla popolazione. A renderlo noto
per televisione saranno il capo della Metropolitan Police o il ministro degli Interni. Nell'eventualità di bombe o armi chimiche, interverranno sul posto polizia e vigili del fuoco che, dopo gli opportuni accertamenti, isoleranno la zona, stabilendo quindi tre fasce di pericolosità: alta, media e bassa. Chi si troverà nella fascia di alta pericolosità sarà trattenuto sul posto fino alla decontaminazione, ove possibile. Nella fascia di media pericolosità convergeranno vigili del fuoco, soccorsi medici e unità di decontaminazione. La fascia di bassa pericolosità sarà accessibile ai mezzi necessari per le indagini e i soccorsi.» Il dottor Bergen si interruppe per guardare gli astanti. Sembrava turbato e molto preoccupato per la sua città. «Avrete notato che non ho usato la parola 'evacuazione'. Non è possibile evacuare una città come Londra, a meno che non si inizi immediatamente. Se lo facessimo, tuttavia, il Lupo attaccherebbe subito, come ha detto chiaramente.» Vennero distribuiti cartine e materiale di emergenza. Il morale di tutti sembrava bassissimo. Mentre leggevo i documenti che mi erano stati dati, mi venne vicino Martin Lodge. «Il Lupo ha chiamato», mi sussurrò. «Apprezzerai, credo. Dice che il nostro piano è di suo gradimento. Ed è d'accordo che l'evacuazione di Londra non è fattibile...» Di punto in bianco, una terribile esplosione fece tremare il palazzo. 64 Quando riuscii finalmente a uscire dall'edificio, rimasi sconcertato dalla confusione che mi circondava. La famosa insegna SCOTLAND YARD era stata distrutta e l'ingresso su Broadway era ridotto a un cumulo di macerie da cui si alzava un filo di fumo. Nella strada c'era ciò che restava di un furgone nero. Era già stato deciso che non dovevamo abbandonare l'edificio, ma restare impavidi sul posto. Mi sembrava giusto, e molto coraggioso. Quando arrivai all'unità di crisi, una ventina di persone stavano visionando un filmato nella penombra. Fra di esse c'era anche Martin Lodge. Mi sedetti in fondo e guardai anch'io il video. Mi tremavano le mani. Le immagini mostravano Broadway quella mattina, con i soliti poliziotti di guardia fuori del grande palazzo. Da Caxton Street, di fronte all'ingresso principale di Scotland Yard, arrivava a gran velocità un furgone nero, contromano. Attraversava Broadway e si lanciava contro la barriera davanti
all'entrata, scatenando una terribile esplosione. Il filmato era muto, ma una forte luce illuminava l'intero palazzo. Sentii qualcuno davanti che parlava. Era Martin Lodge. «Il nostro nemico è certamente un terrorista, che agisce da solo. Vuole farci sentire vulnerabili. E ci è riuscito, direi. È interessante che l'esplosione non abbia causato vittime, a parte l'autista del furgone. Forse anche il Lupo ha un cuore.» Gli rispose una voce dal fondo della sala. «Non credo. Ha solo un piano.» Anche se quasi irriconoscibile, quella voce era mia. 65 Restai a Scotland Yard per tutto il resto della giornata e la sera mi fermai anche a dormire lì. Mi svegliai alle tre del mattino e mi rimisi subito al lavoro. Il secondo ultimatum scadeva quella sera a mezzanotte. Non riuscivo a immaginare che cosa sarebbe potuto accadere. Alle sette ero a bordo di un furgone della polizia diretto a Feltham, vicino all'aeroporto di Heathrow. Ero insieme con Martin Lodge e tre ispettori della Metropolitan Police. Ci era stato dato il permesso di uscire armati. Era la cosa migliore. Lodge ci spiegò la situazione durante il viaggio. «I nostri uomini, insieme con quelli dello Special Branch, sono presenti in maniera massiccia sia a Heathrow che nella zona circostante. Anche la polizia aeroportuale partecipa all'operazione. Uno dei nostri ha intercettato un uomo con un lanciamissili sul tetto di una casa. L'edificio è sotto sorveglianza. Non possiamo entrarci, per ovvie ragioni che ci sono state chiarite fin troppo bene ieri. Immagino che tengano d'occhio il quartiere: mi stupirei del contrario.» Uno degli ispettori domandò: «Sappiamo chi c'è dentro la casa? Abbiamo scoperto qualcosa?» «La casa è di proprietà di un'agenzia immobiliare, che la affitta. I proprietari dell'agenzia sono pakistani. Non so se voglia dire qualcosa. Degli affittuari non sappiamo ancora niente, invece. La casa si trova a poche centinaia di metri dalle piste dell'aeroporto. Non so se mi spiego.» Guardai Lodge, che teneva le braccia conserte. «Gran brutta faccenda», disse. «E il mio è un understatement. Vero, Alex?» «Anch'io ho questa sensazione, fin dalla prima volta che ho avuto a che fare con il Lupo. È un sadico.» «Non hai la minima idea di chi possa essere e di come mai si comporti
così, vero?» «Sembra cambiare regolarmente identità. Non sappiamo neppure se sia un uomo o una donna. In un paio di occasioni siamo stati lì lì per prenderlo. Chissà che questa non sia la volta buona.» «Speriamo.» Arrivammo a destinazione pochi minuti dopo. Lodge e io avevamo appuntamento con la squadra dell'SO19, Specialist Operations, che avrebbe condotto il raid. Nei palazzi vicini erano stati installati monitor collegati a una mezza dozzina di telecamere diverse. «Sembra di guardare un film. Siamo spettatori passivi», disse Lodge dopo aver guardato le immagini per qualche minuto. Era una situazione impossibile. Non avremmo dovuto essere lì. Eravamo stati avvertiti. Ma come potevamo andarcene? Lodge aveva l'elenco dei voli in arrivo a Heathrow quella mattina. Nella mezz'ora successiva ne erano previsti più di trenta, di cui uno da Eindhoven, tre da Edimburgo, due da Aberdeen e un British Airways da New York. Si era parlato della possibilità di dirottare su altri aeroporti tutti i voli in arrivo a Heathrow e Gatwick, ma per il momento non era stata presa alcuna decisione. L'arrivo del volo da New York era previsto diciannove minuti dopo. Un poliziotto fece un cenno. «C'è qualcuno sul tetto!» I monitor che mostravano il tetto erano due, con due diverse angolazioni. Si vedeva un uomo vestito di scuro. Poco dopo da una botola ne apparve un secondo che portava un piccolo lanciamissili terra-aria. «Oh, cazzo», imprecò uno. La tensione era alle stelle. «Dirottate tutti i voli in arrivo!» urlò Lodge. «Non abbiamo scelta, ormai. I tiratori scelti sono appostati?» Ci venne comunicato che l'SO19 teneva sotto tiro i due uomini. Li vedemmo prendere posizione. Non avevamo dubbi sul fatto che intendessero abbattere un aereo. Guardavamo quelle immagini spaventose senza poter fare niente. «Bastardi!» esclamò Lodge, con gli occhi fissi su un monitor. «Fra poco non avrete niente su cui lanciare quei vostri cazzo di missili. Cosa farete, allora?» «Mi sembrano mediorientali», disse un ispettore. «Di certo non russi.» «Non abbiamo l'autorizzazione a sparare», annunciò un uomo con le cuffie. «Siamo in attesa del via libera.»
«Ma cosa cazzo succede?» protestò Lodge, con voce stridula. «Dobbiamo fermarli!» Di punto in bianco sentimmo degli spari, che riecheggiarono anche dai due monitor. L'uomo con il lanciamissili sulla spalla cadde a terra e non si mosse più. Poi anche il secondo si accasciò. Erano stati centrati al primo colpo. «Ma cosa...?» urlò qualcuno nel furgone, mentre noi guardavamo le immagini. Si alzò un coro di imprecazioni e di grida. «Chi ha dato l'ordine di sparare? Cos'è successo?» gridò Lodge. Quando arrivò la risposta, nessuno ci poteva credere: non erano stati i nostri tiratori scelti a sparare. Gli uomini sul tetto erano stati ammazzati da qualcun altro. Follia. Era pura follia. 66 Era una follia, una situazione inimmaginabile. Si sapeva che ci sarebbe stato un attentato entro poche ore, ma nessuno capiva che cosa stesse succedendo. Forse il primo ministro era al corrente di qualcosa. Oppure il presidente degli Stati Uniti. O il cancelliere tedesco. La nostra sofferenza aumentava di ora in ora. Poi di minuto in minuto. Non potevamo fare niente, salvo pregare che le richieste del Lupo venissero accolte. Siamo come i soldati in Iraq, non potevo fare a meno di pensare. Spettatori di un'assurdità. A un certo punto, nel tardo pomeriggio, decisi di andare a piedi fino a Westminster. Quella parte di Londra era un monumento al passato glorioso dell'Inghilterra. Intorno a Parliament Square le strade non erano propriamente deserte, ma molto poco trafficate e c'erano pochissimi pedoni e turisti. I londinesi non sapevano che cosa stesse per succedere, ma per prudenza se ne stavano tappati in casa. Chiamai casa, a Washington, diverse volte, ma nessuno mi rispose. Che Nana alla fine avesse deciso di partire? Parlai con i ragazzi, che erano dalla zia Tia, nel Maryland. Nessuno sapeva dove si fosse cacciata Nana. Così adesso avevo anche quella preoccupazione, come se non fossero bastate quelle che avevo già. Non potevo fare altro che aspettare, ma l'attesa era frustrante, esasperante. Nessuno sapeva niente. E non solo a Londra, ma anche a New York,
Washington e Francoforte. Non erano stati fatti annunci, ma si vociferava che le richieste del Lupo non sarebbero state accolte. I capi di Stato non erano intenzionati a trattare. Non potevano arrendersi così, senza nemmeno combattere. Era questo che ci aspettava: una guerra? Passò l'ora della scadenza dell'ultimatum e io mi sentii come se stessi giocando alla roulette russa. Non ci furono attentati né a Londra, né a New York, Washington o Francoforte, quella notte. Il Lupo non agì immediatamente: ci lasciò cuocere a fuoco lento. Parlai con i miei figli e, finalmente, anche con Nana. A Washington fino a quel momento non era successo nulla. Nana era andata a fare un giro con Kayla. Era tutto tranquillo, mi assicurò. Una bella passeggiata è proprio quello che ci vuole, vero, Nana? Alle cinque del mattino, andammo finalmente a riposare. Non credevo che nessuno sarebbe riuscito a dormire, però. Mi ero appena assopito, quando squillò il telefono. Era Martin Lodge. «Che cosa è successo?» chiesi, tirandomi su a sedere nella mia camera d'albergo. «Che cosa ha combinato?» 67 «Niente, Alex. Sta' tranquillo. Sono nell'atrio dell'albergo. Non è successo niente, forse era un bluff. Speriamo. Senti, ti aspetto qui. Andiamo a fare colazione a casa mia: mia moglie ti vuole conoscere. Hai bisogno di staccare un po', Alex. Ne abbiamo bisogno tutti.» Come potevo dirgli di no, dopo quello che avevamo passato negli ultimi giorni? Mezz'ora dopo ero sulla sua Volvo, diretto a Battersea, non distante da Westminster. Lungo la strada, mi parlò della sua famiglia. Avevamo entrambi il cercapersone, ma non avevamo nessuna voglia di parlare del Lupo e delle sue minacce. Almeno per un'oretta. «Mia moglie è ceca. Si chiama Klara Cernohosska ed è nata a Praga, ma è diventata inglese che più inglese non si può. Ascolta Virgin Radio e XFM e non si perde un talk show sulla BBC. Però cucina alla ceca. Stamattina ti preparerà una colazione alla sua maniera. Spero che apprezzerai. Anzi, ne sono sicuro.» Anch'io lo ero. Martin, sorridendo, mi parlò dei suoi figli. «La maggiore si chiama Hana. Indovina chi ha scelto i nomi dei ragazzi? Ti do un piccolo aiuto: si chiamano Hana, Daniela e Jozef. Che importanza hanno i nomi,
però? Hana adora Trinny e Susannah di What not to Wear, il reality. Ma ha quattordici anni, possiamo perdonarla. Dany, quella di mezzo, gioca a hockey e adora la danza classica. E Joe va pazzo per il football, lo skateboard e la PlayStation. Be', cos'altro? Ah, ti ho detto che mangeremo specialità ceche, stamattina?» Arrivammo pochi minuti dopo. I Lodge abitavano in una casa vittoriana con il tetto di ardesia e un bel giardino. Una bella villetta ordinata, come tutte le altre del quartiere. Il giardino era pieno di colore e ben tenuto, a dimostrare che qualcuno non perdeva di vista le cose importanti. Ci aspettavano tutti in sala da pranzo. La tavola era apparecchiata e la colazione pronta. Venni presentato a tutti, compreso il gatto Tigger, e mi sentii subito a casa. Mi mancavano i miei, con un'intensità che non mi lasciò per un bel po'. La moglie di Martin, Klara, mi illustrò ogni piatto, a mano a mano che lo metteva in tavola. «Alex, questi sono kolace, dolci ripieni di formaggio cremoso. Rohliky, panini. Turka, caffè alla turca. Parek, due tipi di salsicce molto buone. Specialità della casa.» Lanciò un'occhiata alla figlia maggiore, Hana, che assomigliava sia alla mamma che al papà. Era alta e graziosa, ma aveva il naso aquilino di Martin. «Hana?» La ragazzina mi sorrise. «Come preferisce le uova, signor Alex? Vejce na mekko, michana vejce o smazena vejce. Omeleta, forse?» Con un'alzata di spalle, risposi: «Michana vejce». «Ottima scelta», disse Klara. «E complimenti per la pronuncia. Lei è un vero linguista.» «Davvero? Che cosa ho ordinato? Non lo so.» Hana scoppiò a ridere. «Uova strapazzate. Perfette con rohliky e parek.» «Panini e salsicce», dissi. La ragazzina batté le mani. Passammo un'oretta serena, con Klara che mi faceva molte domande sulla mia vita in America e mi diceva quali gialli americani preferiva. Mi parlò anche del romanzo che aveva vinto il Booker Prize, Vernon God Little, che definì «divertentissimo». «Descrive la follia del vostro Paese un po' come Il tamburo di latta di Giinther Grass fa con la Germania. Deve leggerlo, Alex.» «Io nella follia ci sguazzo», risposi. Alla fine della colazione scoprii che i nomi delle pietanze erano le uniche parole di ceco che conoscevano i ragazzi. Cominciarono a sparecchiare e andarono a lavare i piatti.
«Ah, ty vejce jsou hnusny», disse Jozef, detto anche Joe, che aveva otto anni. «Ho paura a chiedere che cosa mi ha detto.» «Che le uova facevano schifo», tradusse Joe. E scoppiò a ridere della sua battuta. 68 Quando salutai Martin e Klara, mi resi conto che non avevo nulla da fare, a parte arrovellarmi sul Lupo e sugli attentati che aveva minacciato nel caso non fossero state soddisfatte le sue richieste. Tornai in hotel e dormii un po'. Poi decisi fare una passeggiata. Avevo bisogno di camminare. Mentre percorrevo Broadway, tuttavia, mi accadde qualcosa di strano. Mi sembrava di essere pedinato. Non credevo di essere paranoico. Cercai di capire chi mi seguiva, ma o il mio inseguitore era bravissimo, o io quel giorno ero particolarmente imbranato: fatto sta che non riuscii a vedere nessuno. Se fossi stato a Washington, anziché a Londra, magari... Ma lì era difficile per me cogliere i particolari anomali. Feci un salto a Scotland Yard, ma del Lupo non si erano più avute notizie. Fino a quel momento, era tutto fermo. Nessuna delle città nel mirino era stata colpita. Che fosse la quiete prima della tempesta? Dopo un'ora di cammino e un lungo giro per Whitehall, oltre il numero 10 di Downing Street, fino a Trafalgar Square e ritorno, mi sentivo meglio. Mi diressi verso l'albergo e di nuovo ebbi la sensazione di essere seguito. Mi sentivo osservato. Ma da chi? Non vedevo nessuno. Tornai in camera e chiamai i ragazzi dalla zia Tia. Quindi parlai con Nana, che era rimasta da sola in Fifth Street. «Stranamente, è tutto tranquillo», mi disse sfottendomi un po'. «Questa casa è troppo vuota, però. Mi mancano i ragazzi.» «Anche a me, Nana.» Mi addormentai vestito e mi svegliai solo quando squillò il telefono. Non avevo tirato le tende e mi accorsi subito che era buio. Guardai l'orologio: Gesù, erano le quattro del mattino! Evidentemente, avevo un bel po' di sonno arretrato da smaltire. «Alex Cross», risposi. «Ciao, Alex. Sono Martin. Sono partito da casa adesso. Dobbiamo andare in Parlamento. Abbiamo appuntamento fuori dall'ingresso per i visitatori. Ti passo a prendere.»
«No, faccio prima se vado a piedi. Ci vediamo direttamente là.» Al Parlamento? A quell'ora del mattino? Non si preannunciava nulla di buono. Cinque minuti dopo ero per strada e percorrevo Victoria Street verso l'abbazia di Westminster. Ero certo che il Lupo stesse per combinare qualcosa di grosso. Possibile che volesse radere al suolo quattro città? Sì, era possibile. A quel punto, tutto era possibile. «Buongiorno, Alex. Ma guarda chi si vede.» Una figura spuntò dall'ombra. Non l'avevo nemmeno notata. Ero troppo distratto, forse ancora un po' assonnato. Un po' incosciente. Si materializzò davanti a me e vidi che era armato. Mi puntava la pistola al cuore. «A quest'ora non dovrei essere ancora qui in Inghilterra, ma non potevo partire prima di aver portato a termine anche questo compito. Ucciderti. Volevo che te ne accorgessi, sai? Sono anni che sogno questo momento. Immagino che tu mi capisca bene.» Era Geoffrey Shafer. Arrogante, sicuro di sé, chiaramente in posizione di vantaggio. Forse fu per questo che non ebbi bisogno di pensare nemmeno per un attimo a quello che dovevo fare e non ebbi la minima esitazione. Mi lanciai contro di lui e aspettai lo sparo. Arrivò, come prevedevo. Ma non colpì me. Perlomeno, non mi parve. Probabilmente era stato deviato da qualcosa. Non importava. Bloccai Shafer contro il muro e gli lessi negli occhi sorpresa e raccapriccio. Aveva perso la pistola nel corso della colluttazione. Gli mollai un pugno potente nella pancia, probabilmente sotto la cintura. Un colpo basso. Lo speravo proprio. Lui emise un gemito e capii di avergli fatto male sul serio. Volevo fargliene di più, però, per mille e una ragione. Volevo ammazzarlo lì, in mezzo alla strada. Lo colpii di nuovo allo stomaco e mi accorsi che gli stavano cedendo le gambe. A quel punto, mirai alla testa. Gli sferrai un destro alla tempia, un sinistro alla mascella. Dovevo avergli fatto un gran male, ma quel bastardo non cedeva. «Tutto qui, Cross? Ho qualcosa per te», disse maligno. Tirò fuori un coltello a serramanico e io indietreggiai. Poi però mi resi conto che Shafer era ferito e non mi lasciai sfuggire l'occasione. Gli mollai un pugno sul naso e glielo ruppi. Ma Shafer non si arrendeva: mi diede una coltellata nel braccio. In quel momento capii che ero stato un pazzo e mi era andata bene: Shafer avrebbe potuto ferirmi gravemente, o addirittura ammazzarmi. Presi la pistola dalla fondina dietro la schiena.
Shafer mi si gettò addosso. Forse non aveva visto che avevo preso la pistola. Forse non pensava che potessi girare armato, a Londra. «No!» gridai. Non ebbi il tempo di dire altro. Gli sparai al petto, da distanza ravvicinata. Shafer cadde contro il muro e scivolò lentamente a terra. Aveva un'espressione sbigottita, quasi si fosse reso conto solo in quel momento di essere anche lui mortale. «Fanculo, Cross», mormorò. «Sei uno stronzo.» Mi chinai su di lui. «Chi è il Lupo? Dove si nasconde?» «Va' all'inferno», furono le sue ultime parole. Poi morì, e all'inferno ci andò lui. 69 London Bridge is falling down, falling down, falling down, recita la famosa filastrocca. Pochi minuti dopo la morte di Shafer, il suo ex compagno d'armi, Henry Seymour, alla guida del suo vecchio furgone bianco, pensava che non aveva nessuna paura di morire. Anzi, l'idea di andarsene al Creatore non gli dispiaceva. Erano passate da poco le quattro e mezzo e il traffico sul Westminster Bridge era abbastanza intenso. Seymour parcheggiò più vicino possibile al ponte, poi tornò indietro, si appoggiò al parapetto e guardò verso ponente. Gli piaceva la vista sul Big Ben e il Parlamento che si godeva da quell'antico ponte. Gli era sempre piaciuta, sin dalla prima volta che era stato a Londra, da bambino, in gita da Manchester, dove era cresciuto. Quella mattina gli pareva di notare ogni particolare. Sulla riva opposta del Tamigi vedeva il London Eye, la ruota panoramica che detestava. Il fiume era scuro come il cielo. L'aria odorava di sale e di pesce. File di pullman color prugna aspettavano i turisti: sarebbero cominciati ad arrivare nel giro di un'ora. Non succederà, però, pensava. Non oggi. Non se le cose vanno come dico io. Il poeta Wordsworth aveva celebrato la vista dal Westminster Bridge. O, perlomeno, gli sembrava che fosse Wordsworth. «La terra non ha niente di più bello da mostrare.» Henry Seymour ricordava quella poesia a memoria, benché non amasse granché i poeti né quel che avevano da dire. Scrivere una poesia su questa roba. Che qualcuno scriva una poesia su
di me. Sul ponte e sul povero Henry Seymour e gli altri poveracci che sono qui con me stamattina. Andò a riprendere il furgone. Alle 5:34 il ponte parve prendere fuoco al centro. Era il furgone di Henry Seymour che esplodeva. L'asfalto sottostante si alzò e si spaccò in due, i sostegni del ponte vacillarono e i lampioni saltarono in aria come fiori sradicati da un vento impetuoso. Ci fu un attimo di silenzio mortale e lo spirito di Seymour si alzò verso il cielo, poi le sirene cominciarono a suonare in tutta Londra. Il Lupo chiamò Scotland Yard per prendersi il merito di quel piccolo capolavoro. «Al contrario di voi, io mantengo le promesse», dichiarò. «Volevo gettare un ponte fra me e voi, ma l'avete abbattuto. Avete capito, adesso? Avete capito che cosa vi sto dicendo? Il ponte di Londra è crollato, e siamo soltanto agli inizi. È troppo bello perché finisca qui. Voglio che vada avanti ancora per un po'.» Vendetta, tremenda vendetta. PARTE QUARTA Parigi, scena del crimine 70 Il circuito, sessanta chilometri a sud di Parigi, gli era familiare. Il Lupo vi si era recato per provare un'auto da corsa, un prototipo, e aveva portato con sé come compagnia un ex agente del KGB che per molti anni aveva curato i suoi interessi in Francia e Spagna. Si chiamava Ilya Frolov e conosceva il Lupo di vista. Era uno dei pochi ancora in vita che lo avevano visto in faccia e, nonostante si ritenesse uno dei rari amici del Lupo, ciò lo riempiva di apprensione. «Che meraviglia!» esclamò il Lupo mentre si avvicinavano a un prototipo Fabcar rosso motorizzato Porsche, un modello che aveva gareggiato nella Rolex Sports Car Series. «Le belle macchine ti sono sempre piaciute», commentò Ilya. «Da piccolo, quando vivevo fuori Mosca, non immaginavo neppure che un giorno avrei posseduto una macchina. Adesso ne ho talmente tante che a volte perdo il conto. Voglio farti fare un giro. Vieni, amico mio.» Ilya Frolov scosse la testa e alzò entrambe le mani in segno di protesta. «No, no, grazie. Non mi piacciono il rumore, la velocità, niente.»
«Insisto», disse il Lupo sollevando la portiera del lato passeggero. «Tranquillo, non morde. Sarà un giro indimenticabile, Ilya.» Il russo si sforzò di ridere, poi si mise a tossire. «È proprio quello che temo.» «Quando avremo finito, ti parlerò delle prossime mosse. Stiamo per incassare. Si stanno indebolendo ogni giorno di più. Ho un piano. Diventerai ricco, Ilya.» Il Lupo si mise al posto di guida, che era a destra. Premette un pulsante, il cruscotto si accese e con un rombo il motore prese vita. Il Lupo vide che Ilya Frolov impallidiva e scoppiò in un'allegra risata. A modo suo, gli era affezionato. «Siamo seduti sul motore. Fra poco farà molto caldo qui dentro. Cinquanta, cinquantacinque gradi. Per questo ci siamo dovuti mettere la tuta ignifuga. Ci sarà anche parecchio rumore. Mettiti il casco, Ilya. Questo è il mio ultimo avvertimento.» E partirono. Il Lupo viveva per momenti come quello, per l'esaltazione, il senso di potere che davano le auto da corsa più belle del mondo. A quella velocità bisognava concentrarsi sulla guida: nient'altro aveva importanza. Mentre girava sulla pista, non esisteva nient'altro. Tutto su quell'auto era dettato dalla potenza: il rumore, perché nell'abitacolo non c'era isolamento acustico; le vibrazioni, perché più le sospensioni erano rigide, più velocemente l'auto poteva affrontare le curve; la forza G, che in alcune curve poteva creare una pressione equivalente a quasi 300 chili. Dio, che macchina favolosa! Assolutamente perfetta. Chi l'aveva costruita era sicuramente un genio. Non sono solo, pensò. Qualche genio come me esiste ancora al mondo. Poi rallentò e portò il bolide fuori dalla pista. Scese, si tolse il casco, scosse i capelli e lanciò un grido rivolto al cielo. «Che meraviglia! Mio Dio, che esperienza! Meglio di una scopata! Ho montato sia donne che automobili e, be', preferisco le automobili da corsa!» Guardò Ilya Frolov e vide che era ancora pallido e tremava. Povero Ilya. «Mi dispiace, amico mio», gli disse sottovoce. «Temo che tu non abbia le palle per fare anche il prossimo giro. A parte il fatto che sai che cosa è successo a Parigi.» Il Lupo sparò al suo amico a bruciapelo, ai margini del circuito di prova, quindi si allontanò senza neppure voltarsi indietro. I morti non gli interes-
savano. 71 Quello stesso pomeriggio il Lupo andò in una casa di campagna a una cinquantina di chilometri a sud-est del circuito. Arrivò per primo e si sistemò nella cucina buia come una cripta, senza accendere la luce. Ad Artur Nikitin era stato ordinato di presentarsi da solo, e così fece. Era un ex agente del KGB ed era sempre stato un servitore leale. Lavorava per Ilya Frolov, prevalentemente come trafficante d'armi. Il Lupo udì i passi di Artur sui gradini della porta di servizio. «Niente luci. Entra», gli gridò. Artur Nikitin aprì la porta ed entrò. Era alto, con una folta barba bianca e un fisico possente. Non molto diverso dal Lupo. «Prego. Prendi una sedia e accomodati», disse il Lupo. Nikitin ubbidì senza dare segno di timore. In effetti non aveva paura di morire. «Hai sempre lavorato bene per me in passato. Questo sarà l'ultimo lavoro che faremo insieme. Guadagnerai abbastanza da poter smettere di fare questa vita. Potrai fare quello che vuoi. Che ne dici?» «Benissimo. Ogni tuo desiderio è un ordine. Il segreto del mio successo è sempre stato questo.» «Parigi è un posto speciale per me», riprese il Lupo. «In una vita precedente, ci abitai per due anni. Adesso sono di nuovo qui. Non è un caso, Artur. Ho bisogno del tuo aiuto, e non solo: ho bisogno della tua lealtà. Posso contare su di te?» «Certo, senza il minimo dubbio. Sono qui, no?» «Ho intenzione di far esplodere una bomba potentissima a Parigi, causare un sacco di danni e fare soldi a palate. Posso ancora contare su di te?» Nikitin si sorprese a sorridere. «Assolutamente sì. I francesi non mi sono mai stati simpatici. A chi sono simpatici, del resto? Sarà un piacere. E soprattutto non vedo l'ora di avere la mia parte delle 'palate' di soldi di cui dicevi.» Il Lupo aveva trovato l'uomo giusto per quella missione. Gli spiegò qual era il suo pezzo del puzzle. 72
Due giorni dopo il crollo del Westminster Bridge, tornai a Washington. Durante le lunghe ore di volo mi sforzai di mettere nero su bianco tutte le ipotesi possibili. Quali sarebbero state le prossime mosse del Lupo? Che cosa avrebbe fatto? Avrebbe colpito di nuovo, continuando a compiere attentati finché le sue richieste non fossero state esaudite? E che significato avevano per lui i ponti? Una sola cosa mi pareva chiara: il Lupo non si sarebbe dileguato tanto facilmente. Le cose non sarebbero mai più tornate come prima. L'aereo non era ancora arrivato a Washington che ricevetti un messaggio dall'ufficio di Ron Burns. Dovevo presentarmi in sede appena atterrato. Però, anziché precipitarmi allo Hoover Building, andai a casa. Come Bartleby lo scrivano, declinai rispettosamente la richiesta del mio datore di lavoro. Senza pensarci su due volte. Il Lupo poteva aspettare fino all'indomani mattina. I ragazzi erano tornati a Washington insieme alla zia Tia, e anche Nana era in Fifth Street, nella casa in cui era nata. Passammo la serata insieme, in famiglia. La mattina dopo i ragazzi sarebbero tornati nel Maryland con la zia, mentre Nana e io saremmo rimasti lì. Forse ci assomigliavamo più di quanto fossi disposto ad ammettere. Verso le undici bussarono alla porta. Ero nella veranda a suonare il pianoforte, a pochi passi dalla porta. Andai ad aprire e mi trovai davanti Ron Burns con due agenti dell'FBI. Ordinò loro di attenderlo alla macchina ed entrò in casa senza aspettare che io lo invitassi ad accomodarsi. «Devo parlarle. È cambiato tutto», disse. Mi feci da parte per lasciarlo passare. Così mi ritrovai seduto nella veranda insieme al direttore dell'FBI e non per suonargli il pianoforte, ma per ascoltare quel che aveva da dirmi. Prima di tutto mi parlò di Thomas Weir. «Siamo sicuri che ebbe dei contatti con il Lupo, quando questi fuggì dalla Russia. Forse sapeva chi era. Stiamo indagando, Alex, e anche la CIA sta svolgendo le sue indagini, ma naturalmente non è un mistero di facile soluzione.» «Tutti collaborano, però», osservai corrucciato. «È una bella cosa.» Burns mi fissò. «So che per lei è stato un cambiamento difficile e mi rendo conto che questo lavoro non la soddisfa, perché è abituato a essere più attivo. E a stare più vicino alla sua famiglia.» Non potei negare nulla di tutto ciò che Burns aveva detto fino a quel punto. «Vada avanti, direttore. La ascolto.» «In Francia successe qualcosa, Alex, qualcosa che riguardava Tom Weir
e il Lupo. Molti anni fa. Fu commesso un errore, un grave errore.» «Quale errore?» domandai. Stavamo finalmente per trovare qualche risposta? «La smetta di farmi questi giochetti. Si chiede come mai ho dei ripensamenti riguardo a questo lavoro?» «Mi creda, neppure noi sappiamo con precisione che cosa accadde, ma ci stiamo avvicinando a una risposta. In queste ultime ore sono successe molte cose. Il Lupo si è rifatto vivo, Alex.» Sospirai ma, siccome l'avevo promesso, continuai ad ascoltare. «Lei ha detto fin dall'inizio che il Lupo è un sadico e che è intenzionato a spezzarci la schiena. Ora questo psicopatico dice che le regole sono cambiate e che è lui a stabilirle. Solo lui conosce la soluzione di questo mistero. Ma solo lei, Alex, può aiutarci a capire che cosa ha in testa quest'uomo.» Dovetti interromperlo. «Ron, che cosa sta cercando di dirmi? Parli chiaro, per piacere. O mi fate partecipare fino in fondo, oppure mi tiro indietro.» «Il Lupo ci ha dato altre novantasei ore, dopodiché ha promesso scenari apocalittici. Ha cambiato alcune delle città nel mirino. Washington e Londra sono sempre sulla sua lista, ma adesso vi ha aggiunto anche Parigi e Tel Aviv. Non ha voluto spiegarci perché. Chiede quattro miliardi di dollari e, come prima, la liberazione dei prigionieri politici, ma non ci ha voluto dare nessuna spiegazione.» «Tutto qui?» replicai. «Attentati in quattro città, qualche miliardo di riscatto e la liberazione di un pugno di prigionieri?» Burns scosse la testa. «No, non è tutto qui. Questa volta ha informato i media. Si scatenerà il panico in tutto il mondo, ma soprattutto nelle quattro città: Londra, Parigi, Tel Aviv e qui a Washington. Il Lupo ha reso pubbliche le sue minacce.» 73 La domenica mattina, dopo aver fatto colazione con Nana, partii alla volta di Parigi. Ron Burns voleva che andassi in Francia. Punto e basta. Esausto e probabilmente depresso dormii per buona parte del volo, poi lessi vari dossier della CIA su un agente del KGB che undici anni prima aveva vissuto a Parigi e forse aveva lavorato con Thomas Weir. Presumibilmente si trattava del Lupo. A un certo punto, però, era successo qualcosa di strano. C'era stato un «errore». Un grosso errore, a quanto pareva.
Non saprei dire che genere di accoglienza mi aspettassi dai francesi, soprattutto dati i rapporti tra i nostri due Paesi negli ultimi tempi, ma al mio arrivo andò tutto abbastanza liscio. Mi parve anzi che il comando operativo di Parigi funzionasse meglio di quelli di Londra e Washington. Il motivo saltava subito agli occhi. A Parigi l'infrastruttura era più semplice, l'organizzazione più piccola. Un funzionario mi disse: «Qui è facile comunicare, perché le informazioni di cui si ha bisogno sono nell'ufficio accanto o al massimo in fondo al corridoio». Dopo un rapido briefing, fui catapultato nel bel mezzo di una riunione ad alto livello. Un generale dell'esercito mi guardò e mi disse, in inglese: «Dottor Cross, per la verità non abbiamo ancora escluso la possibilità che questi atti di violenza siano da ricondurre alla Jihad, ovvero che siano attacchi terroristici di matrice islamica. La prego di credermi, quella è gente abbastanza in gamba per escogitare un piano bizzarro come questo, e abbastanza infida da potersi essere inventata il Lupo. Questo spiegherebbe la richiesta di liberazione degli ostaggi, no?» Non dissi nulla. Come potevo? Al-Qaeda? I francesi erano convinti che dietro a tutto quel che era successo ci fosse al-Qaeda? Dietro al Lupo? Era per questo che ero stato mandato in Francia? «Come lei sa, i nostri due Paesi sono su posizioni diverse riguardo ai rapporti tra le reti terroristiche islamiche e l'attuale situazione nel Medio Oriente. Noi riteniamo che la Jihad non sia una guerra contro i valori occidentali, bensì una reazione complessa contro i leader dei Paesi musulmani che non hanno adottato l'Islam radicale.» «Tuttavia i quattro bersagli principali dell'Islam radicale sono gli Stati Uniti, Israele, la Francia e l'Inghilterra», replicai senza alzarmi. «E gli attuali bersagli del presunto Lupo quali sono? Washington, Tel Aviv, Parigi e Londra.» «La prego di non avere preclusioni mentali al riguardo. Inoltre, deve sapere che numerosi ex funzionari del KGB avevano rapporti con Saddam Hussein ed esercitavano una notevole influenza in Iraq. Come le ho detto, cerchi di non avere preclusioni.» Annuii. «Io non ho preclusioni, ma devo dirle che non vedo prove della presenza di terroristi islamici dietro queste minacce. Ho avuto a che fare con il Lupo in precedenza. Mi creda, non crede nei valori dell'Islam. Non è un uomo di fede.»
74 Quella sera cenai da solo a Parigi. Feci anche una passeggiata per rendermi conto di persona della situazione in città. C'erano soldati in assetto di guerra ovunque, carri armati e jeep militari nelle strade e pochissima gente in giro. Le rare persone che per qualche ragione si erano avventurate fuori di casa avevano l'aria preoccupata. Mangiai in uno dei pochi ristoranti che trovai aperti, Les Olivades, in avenue de Ségur. L'atmosfera era tranquilla, ed era proprio quello che mi ci voleva, dato il jet lag e la confusione, per non parlare dello stato di assedio in cui si trovava la città. Dopo cena passeggiai ancora un po', riflettendo sul Lupo e su Thomas Weir. Dunque il Lupo aveva ucciso Weir deliberatamente. E aveva preso di mira Parigi con uno scopo. Perché? E perché aveva la fissazione dei ponti? Era un indizio per noi? I ponti avevano un valore simbolico? Ma quale? Era strano e inquietante camminare per Parigi sapendo che da un momento all'altro poteva scatenarsi un attacco micidiale. Ero lì per cercare di sventarlo, ma sinceramente nessuno di noi sapeva da che parte cominciare. Fino a quel momento non era stato trovato un solo indizio capace di rivelarci chi fosse il Lupo o dove si trovasse. Non sapevamo nemmeno in quale Paese fosse. Aveva vissuto in Francia undici anni prima e lì gli era successo qualcosa di brutto, ma cosa? Quella zona di Parigi era splendida, con ampi viali fiancheggiati da palazzi di pietra molto ben tenuti e comodi marciapiedi. Passavano macchine con i fari accesi in entrambe le direzioni. Gente che lasciava la città per paura dell'attentato? Sì, perché rischiavamo di saltare in aria tutti da un momento all'altro. La cosa che mi spaventava di più era che la minaccia sembrava ogni volta più grave. Sarebbe andato distrutto soltanto un ponte anche a Parigi, o no? Il Lupo ci aveva veramente incastrati. Ormai comandava lui. In un modo o nell'altro dovevamo riuscire a rovesciare la situazione. Tornai in albergo e telefonai ai miei figli. Nel Maryland erano le sei di sera. Molto probabilmente la zia Tia stava preparando la cena, mentre loro si lamentavano di avere troppo da fare per aiutarla. Rispose Jannie: «Bonsoir, Monsieur Cross». Come aveva fatto a indovinare? Poi Jannie mi tempestò di tutte le domande che si era preparata. Nel frat-
tempo Damon sollevò l'altro telefono e anche lui cominciò a farmi un sacco di domande. Credo volessero allentare così la tensione che tutti quanti provavamo. Ero stato alla cattedrale di Notre Dame? Avevo incontrato il Gobbo (ah ah ah)? Avevo visto i famosi gargoyle? Anche quello che se ne mangia un altro? Riuscii a malapena a dire un paio di frasi. «Non ho avuto il tempo di salire fino in cima alla cattedrale. Sono qui per lavorare.» «Lo sappiamo, papà», disse Jannie. «Stiamo solo cercando di tirarti un po' su. Mi manchi tanto», mormorò. «Anche a me», disse Damon. «Je t'aime», aggiunse Jannie. Pochi minuti dopo mi ritrovai solo in una camera d'albergo in un Paese straniero, in una città minacciata di morte. Je t'aime aussi. 75 Le ore e i minuti scorrevano inesorabili. Mi sembrava addirittura di sentire il ticchettio dell'orologio più forte del solito. O era solo il mio cuore che si preparava a esplodere? L'indomani mattina presto mi affiancarono un collega francese, Etienne Marteau, ispettore della polizia nazionale. Era un uomo piccolo e instancabile, collaborativo e a prima vista competente, ma avevo l'impressione che fosse lì più per tenermi d'occhio che per lavorare con me. Era una mossa così idiota e così controproducente che mi fece perdere la testa. Nel pomeriggio chiamai l'ufficio di Ron Burns e dissi che volevo tornare a casa. La mia richiesta venne respinta. Da Tony Woods, che non si prese neppure la briga di riferirla al direttore! Si limitò a ripetermi che Thomas Weir e il Lupo probabilmente si erano conosciuti a Parigi. «Me lo ricordo», replicai e buttai giù il telefono. Cominciai così a consultare la marea di rapporti e dati della polizia nazionale francese, alla ricerca di qualcosa che avesse a che fare con Thomas Weir o, più in generale, con la CIA. Cercai persino di non avere preclusioni riguardo alla pista del terrorismo islamico. L'ispettore Marteau mi diede una mano, ma il lavoro procedeva a rilento. Il francese aveva bisogno di frequenti pause per caffè e sigarette. Di quel passo non saremmo arrivati da nessuna parte ed ebbi nuovamente la sensa-
zione che i miei sforzi fossero sprecati. Mi stava venendo anche un gran mal di testa. Verso le sei ci riunimmo presso l'unità di crisi. Le lancette dell'orologio continuavano a girare inesorabili! Scoprii che il Lupo stava per richiamare. L'atmosfera nella sala era tesa e decisamente cupa: sapevamo tutti che saremmo stati ulteriormente manipolati e insultati. Ero sicuro che tirasse la stessa aria anche a Washington, Londra e Tel Aviv. Tutto a un tratto dall'altoparlante venne la solita voce amplificata e deformata. Da far accapponare la pelle. «Scusate se vi ho fatto aspettare», esordì. Non rise, ma il tono era di totale derisione. Avrei voluto urlargli di tutto. «D'altra parte anche voi avete fatto aspettare me, no? Lo so, lo so, è perché i vostri governi non vogliono creare un precedente. Cercano di salvare la faccia. Capisco, capisco. Ma anche voi dovete capire una cosa. Questo è davvero il mio ultimo avvertimento. L'unica concessione che vi faccio è la seguente: se può servire a farvi star meglio, provate pure a cercarmi. Svolgete pure le vostre indagini alla luce del sole. Provate a prendermi, se ne siete capaci. Ma tenete presente una cosa: questa volta la somma deve essere versata in tempo, e per intero. I prigionieri politici devono essere rilasciati, tutti. Non ci saranno altre proroghe. Questo è davvero il mio ultimo avvertimento. Se lasciate passare la scadenza, anche solo di pochi minuti, ci saranno decine di migliaia di morti nelle quattro città. Sì, avete sentito bene. Ho detto morti. Credetemi, darò l'ordine e farò una strage come il mondo raramente ne ha viste. Soprattutto a Parigi. Au revoir, mes amis.» 76 A un certo punto quella sera Etienne Marteau e io credemmo di aver scoperto qualcosa di utile, se non addirittura di importante. Ormai ogni indizio poteva rivelarsi cruciale. La polizia nazionale francese aveva intercettato vari messaggi partiti dal telefono di un noto trafficante di armi con base a Marsiglia. Costui era specializzato in materiale dell'Armata Rossa, armi di contrabbando che finivano un po' in tutta Europa, ma soprattutto in Germania, Francia e Italia. In passato aveva venduto armi di contrabbando anche a gruppi estremisti islamici. Marteau e io leggemmo e rileggemmo più volte la trascrizione di una conversazione telefonica tra il trafficante e un terrorista sospettato di ap-
partenere ad al-Qaeda. La conversazione era in codice, ma la polizia francese l'aveva quasi interamente decifrata. TRAFFICANTE DI ARMI: Caro cugino, come vanno gli affari di questi tempi? [Sei pronto per la missione?] Verrai a trovarmi presto? [Puoi spostarti?] TERRORISTA: Oh, sai, ho una moglie e troppi figli. A volte queste cose sono complicate. [Dispongo di un gruppo numeroso.] TRAFFICANTE DI ARMI: Santo Cielo, te l'ho già detto: porta con te moglie e figli. Dovresti venire subito. [Porta tutto il gruppo subito.] TERRORISTA: Siamo molto stanchi. [Siamo sorvegliati.] TRAFFICANTE DI ARMI: Siamo tutti stanchi, ma qui vi piacerà, venite. [Non c'è pericolo.] Te lo garantisco. TERRORISTA: D'accordo, allora. Comincerò a fare i bagagli. TRAFFICANTE DI ARMI: Ho la collezione di francobolli pronta per te. [Probabilmente speciali armi tattiche.] «Che cos'è 'la collezione di francobolli'? È un'informazione fondamentale, vero?» chiesi. «Non lo sanno esattamente, Alex. Pensano che si tratti di armi, ma chissà di che tipo. Qualcosa di serio, probabilmente.» «Fermeranno il gruppo terroristico adesso, o li lasceranno entrare in Francia e li terranno sotto sorveglianza?» «Credo che l'intenzione sia di lasciarli entrare nella speranza di poter risalire tramite loro ai livelli superiori dell'organizzazione. Le cose si stanno muovendo in fretta, tranquillo.» «A me sembrate un po' troppo tranquilli, veramente», osservai. «Lavoriamo in modo diverso. La prego di cercare di accettarlo. Provi a capire.» Annuii. «Etienne, non credo che nessuno abbia contatti con i livelli superiori dell'organizzazione. Non è così che opera il Lupo. Ogni pedina ha un suo ruolo da svolgere e non sa niente del piano generale.» Il collega francese mi guardò dritto negli occhi. «Riferirò.» Ma dubitavo fortemente che lo facesse. Mi ero reso conto di una cosa che trovavo difficile da mandare giù. Sono solo, assolutamente solo. Qui sono l'americano brutto e cattivo. 77
Rientrai in albergo alle due del mattino e alle sei e mezzo ero di nuovo in piedi. La guerra contro il male non finisce mai. A costo di rendersi ridicoli. Il Lupo non intendeva darci tregua. Ci voleva stressati, esausti, spaventati e in condizioni di sbagliare. Mi avviai a piedi verso la Préfecture de Police continuando a rimuginare sulla mente malata che aveva architettato quel piano diabolico. Perché tanta crudeltà? Si presumeva che il Lupo fosse stato un agente del KGB prima di trasferirsi in America, dove era diventato un potentissimo boss della Mafia russa. Aveva vissuto anche in Inghilterra e in Francia. Era talmente astuto che ancora non ne conoscevamo l'identità. Lungi dal conoscere la sua storia, non sapevamo neppure come si chiamava. Pensava in grande. Ma perché si sarebbe dovuto alleare con i gruppi terroristici islamici? A meno che non avesse fatto parte di al-Qaeda fin da principio... Era possibile? Trovavo questa eventualità terrificante, ma anche inconcepibile, assurda. Eppure nel mondo stavano succedendo molte cose assurde. Con la coda dell'occhio vidi lampeggiare qualcosa. Una motocicletta nera e argento stava venendo verso di me sul marciapiede! Il cuore mi si fermò. Mi precipitai giù dal marciapiede e allargai braccia e gambe per non perdere l'equilibrio, pronto a spostarmi in fretta a sinistra o a destra, a seconda di dove fosse andata la moto. Poi mi accorsi che nessuno dei pedoni intorno a me sembrava preoccupato e sorrisi nel ricordare che Etienne aveva accennato al fatto che le moto di grossa cilindrata erano molto di moda a Parigi e che i motociclisti le guidavano come se si trattasse di motorini o scooter molto più piccoli, a volte salendo addirittura sui marciapiedi per evitare gli ingorghi. Il motociclista, in giacca blu e pantaloni beige, era un uomo d'affari parigino, non un killer. Mi passò accanto senza battere ciglio. Sto perdendo la testa, vero? Era comprensibile, del resto. Chi non l'avrebbe persa in simili condizioni di stress? Alle nove meno un quarto mi accingevo a prendere la parola davanti a una sala gremita, piena di pezzi grossi della polizia e dell'esercito francese. Eravamo nel palazzo Beauveau, sede dei Ministère de l'Intérieur. Mancavano poco più di trentatré ore allo scadere dell'ultimatum. Nella sala c'era uno strano misto di mobili rococò che sembravano molto costosi e di tecnologia moderna che lo era sicuramente. Sugli schermi TV alle pareti scorrevano immagini provenienti da Londra, Parigi, Washington e Tel
Aviv. Strade quasi deserte, soldati e polizia ovunque. Siamo in guerra, pensai. In guerra contro un folle. Mi avevano detto che potevo parlare inglese, purché avessi parlato lentamente e scandendo bene le parole. Probabilmente temevano che tenessi il mio discorso in uno slang assolutamente incomprensibile. «Mi chiamo Alex Cross e sono uno psicologo forense», esordii. «Prima di entrare all'FBI, sono stato investigatore nella squadra Omicidi di Washington. Meno di un anno fa ho indagato su un caso che mi ha portato a conoscere la Mafia russa e, in particolare, un ex agente del KGB noto solo come 'il Lupo'. Ed è di lui che vi parlerò questa mattina.» Avrei potuto tenere il resto della mia relazione anche dormendo. Parlai del Lupo per una ventina di minuti, ma quando arrivai alle conclusioni e alle domande del pubblico avevo chiaro che, pur essendo disposti ad ascoltare quel che avevo da dire, i francesi restavano saldi nella loro convinzione che la vera fonte delle minacce contro le quattro città fossero i terroristi islamici. O il Lupo faceva parte di al-Qaeda, o lavorava con al-Qaeda. Cercavo di non avere preclusioni, ma sarei rimasto veramente sbalordito se la teoria dei francesi si fosse rivelata giusta. Non ci potevo credere. Il Lupo faceva parte della Mafia russa. Verso le undici tornai alla mia scrivania e scoprii che mi era stato affiancato un nuovo collega. 78 Un avvicendamento? Adesso? Tutto avveniva molto in fretta, spesso in maniera per me incomprensibile. Immaginai che l'FBI avesse contattato qualcuno e manovrato dietro le quinte. Il mio nuovo collega era una donna, un agent de police di nome Maud Boulard, che mi informò che avremmo lavorato «con il metodo della polizia francese». Chissà cosa voleva dire. Fisicamente era molto simile a Etienne Marteau: magra, con il naso aquilino e i lineamenti marcati, ma aveva i capelli rossi. Mi fece capire con una certa insistenza che era stata a New York e a Los Angeles e che nessuna delle due città le era piaciuta particolarmente. «La scadenza dell'ultimatum è vicina», le dissi. «Lo so, dottor Cross. Lo sanno tutti. Ma lavorare in fretta non significa lavorare in maniera intelligente.» Quella che Maud Boulard definì «la nostra sorveglianza sulla Mafia rus-
sa» cominciò lungo il Parc Monceau nell'ottavo arrondissement. Contrariamente agli Stati Uniti, dove i russi vivevano soprattutto in quartieri popolari tipo Brighton Beach a New York, lì a quanto pareva i boss prediligevano zone più chic. «Forse perché conoscono meglio Parigi e sono attivi qui da più tempo», suggerì Maud. «Secondo me è così. Conosco la malavita russa da molti anni. A proposito, i russi non credono al vostro fantomatico Lupo. Mi creda, ho fatto qualche ricerca.» Il nostro compito consisteva in quello: per circa un'ora chiedemmo notizie del Lupo ai malavitosi russi che Maud Boulard conosceva. L'unica consolazione fu che era una mattinata splendida, con un cielo limpidissimo. La mia sofferenza aumentava: che cosa stavo facendo lì? All'una e mezzo Maud annunciò allegramente: «Andiamo a pranzo. Con i russi, naturalmente. Conosco il posto adatto». Mi portò in quello che definì «uno dei più vecchi ristoranti russi di Parigi», Le Daru. Nella sala principale, che aveva le pareti rivestite di caldo legno di pino, sembrava di essere nella dacia di un ricco moscovita. Cercavo di non darlo a vedere, ma ero furibondo: non avevamo tempo per pranzare comodamente seduti al ristorante. Ciononostante pranzammo. Avrei strozzato Maud, il cameriere ossequioso e chiunque mi fossi trovato tra le mani. Sono sicuro che lei non si rendesse conto di quanto ero arrabbiato. Altro che intuito da detective! Finito di mangiare, notai che due uomini a un tavolo vicino ci guardavano. O forse guardavano Maud, con la sua gran testa di capelli rossi. Glielo dissi, ma lei alzò le spalle dicendo che gli uomini a Parigi erano tutti così. «Porci.» «Vediamo se ci seguono», disse poi alzandosi. «Ne dubito. Non li ho mai visti. E io conosco tutti, qui. Tranne il suo Lupo.» «Stanno uscendo dal ristorante anche loro», le dissi quando fummo per strada. «Giusto. L'uscita è quella.» La breve rue Daru portava nel Faubourg Saint-Honoré. Maud mi spiegò che era una zona di bei negozi, dove la gente andava a guardare le vetrine. Avevamo percorso poche decine di metri quando una limousine bianca Lincoln accostò al marciapiede alla nostra altezza. Un uomo dalla barba nera aprì la portiera posteriore e guardò fuori. «Salite in macchina, per favore. Senza fare scene», disse in inglese con accento russo. «In fretta. Non sto scherzando.»
«No», rispose Maud. «Non saliamo sulla sua macchina. Se vuole parlare con noi, scenda lei. Chi si crede di essere?» Il barbuto estrasse una pistola e le sparò due colpi a bruciapelo. Lì, in una strada nel pieno centro di Parigi. Non riuscivo a credere ai miei occhi. Maud Boulard stramazzò a terra. Ero certo che fosse morta. Aveva un'orrenda ferita in mezzo alla fronte da cui sgorgava sangue a fiotti, i capelli rossi sparsi sul marciapiede e gli occhi sbarrati rivolti al cielo azzurro. Nella caduta aveva perso una scarpa, che era finita in mezzo alla strada. «Salga in macchina, dottor Cross. Non se lo faccia ripetere. Sono stufo di usare le buone maniere», disse il russo tenendomi la pistola puntata in faccia. «Salga, o sparo in testa anche a lei. Lo farei con sommo piacere.» 79 «È giunta l'ora di 'show and tell'», disse il russo con la barba nera quando fui sulla limousine con lui. «Non è così che dite a scuola in America, quando i bambini devono portare a lezione qualcosa da mostrare ai compagni e spiegare di che cosa si tratta? Lei ha due figli che vanno a scuola, no? Allora, adesso le mostro alcune cose importanti e poi le spiego che cosa vogliono dire. Ho detto alla sua collega di salire in macchina, ma lei si è rifiutata. Si chiamava Maud Boulard, giusto? Maud Boulard voleva fare la dura e adesso è morta. Non ci ha guadagnato un granché.» La limousine si allontanò a gran velocità dalla scena del delitto, lasciando l'ispettrice della polizia francese morta sul marciapiede. A pochi isolati dal luogo dell'omicidio cambiammo auto, trasferendoci su una molto meno vistosa Peugeot grigia. Per quel che poteva servire, memorizzai la targa di entrambe le auto. «Adesso andiamo a fare un giretto in campagna», annunciò il russo. Sembrava divertito. «Chi è lei? Che cosa vuole da me?» gli domandai. Era piuttosto alto, probabilmente più di uno e novanta, e robusto. Assomigliava molto alle descrizioni del Lupo. Impugnava una Beretta e me la teneva puntata alla tempia. Aveva la mano fermissima ed era chiaro che sapeva usare le armi. «Non importa chi sono io, non ha la minima importanza. Lei sta cercando il Lupo, giusto? La porterò da lui.» Mi lanciò un'occhiata torva e mi porse un sacco di tela. «Si metta questo sopra la testa e faccia esattamente quello che le dico. Ricordi che fine ha fatto la sua collega francese.»
«Pensa che possa dimenticarmelo?» Mi misi il cappuccio. Non avrei mai dimenticato l'omicidio a sangue freddo di Maud Boulard. Il Lupo e i suoi avevano il grilletto facile, non c'è che dire. Che cosa significava questo per le quattro città minacciate? Erano pronti a uccidere con la stessa facilità migliaia e migliaia di persone? Il loro piano era dimostrare che erano potenti e potevano controllare il mondo? Oppure vendicarsi di qualche misterioso crimine del passato? Non so per quanto tempo restai in quella Peugeot, ma sono certo che il viaggio durò molto più di un'ora. Dapprima ci muovemmo nel traffico cittadino, poi proseguimmo a più forte velocità, in quella che doveva essere un'autostrada. Verso la fine, rallentammo di nuovo. Forse eravamo su uno sterrato, perché procedevamo con forti scossoni. Il russo con la barba nera mi rivolse di nuovo la parola. «Adesso può togliersi il cappuccio, dottor Cross. Siamo quasi arrivati. Non c'è molto da vedere qui intorno, in ogni caso.» Mi tolsi il sacchetto dalla testa e vidi che eravamo in mezzo alla campagna, su una strada sterrata che attraversava campi ondulati di erba alta. Non c'erano cartelli né indicazioni di alcun genere. «Il Lupo sta qui?» domandai. Ero dubbioso sul fatto che mi stessero davvero portando da lui. Perché mai avrebbero dovuto farlo? «Solo temporaneamente. Ripartirà presto. Come lei ben sa, dottor Cross, è un uomo che viaggia molto. È un fantasma, un'apparizione. Tra poco capirà che cosa intendo dire.» La Peugeot si fermò davanti a una piccola casa colonica in pietra. Dalla porta uscirono immediatamente due uomini armati, che ci vennero incontro puntandomi le automatiche al petto e alla testa. «Entri», ordinò uno dei due. Aveva la barba bianca, ma era alto e robusto come quello che mi aveva accompagnato fin lì. Dal suo atteggiamento capii che era più importante di lui. «Entri!» mi ripeté. «Si sbrighi! È sordo, dottor Cross?» «È un animale», continuò poi, sempre rivolto a me. «Non doveva ammazzare quella donna. Io sono il Lupo, dottor Cross. Piacere di conoscerla. Finalmente.» 80 «Non cerchi di fare l'eroe, mi raccomando, perché altrimenti sarò co-
stretto a ucciderla e a trovare un altro ambasciatore», disse mentre entravamo nella casa. «Adesso sono un ambasciatore? E di cosa?» domandai. Per tutta risposta il russo agitò una mano, come se volesse scacciare una mosca fastidiosa che gli ronzava intorno alla barba. «Il tempo vola. Non è a questo che pensava quando era a pranzo con la Boulard? I francesi stavano solo cercando di tenerla alla larga dalle indagini, non le sembra?» «In effetti ci ho pensato», ammisi. Nel frattempo non riuscivo a capacitarmi di essere in compagnia del Lupo. Non ci credevo. Ma, se non era il Lupo, chi era? E perché mi avevano portato fin lì? «Lo sapevo. Lei non è uno stupido», disse il russo. Eravamo entrati in una stanzetta molto buia, con un caminetto di pietra spento. Era ingombra di pesanti mobili in legno, pile di riviste, giornali ingialliti. Finestre e persiane erano sbarrate. L'unica fonte di luce era una lampada a stelo. Mi mancava l'aria. «Perché mi avete portato qui? Perché si fa vedere da me?» chiesi. «Si sieda.» «D'accordo. Sono un ambasciatore», dissi, sedendomi su una sedia. Il russo annuì. «Sì, un ambasciatore. È importante che vi rendiate conto tutti della gravità della situazione. Questa è la vostra ultima chance.» «Ce ne rendiamo conto», dissi. Senza lasciarmi il tempo di finire, mi si avventò addosso e mi diede un pugno in faccia. Caddi all'indietro, rovesciando la sedia e battendo la testa sul pavimento di pietra. Forse persi i sensi per un paio di secondi. Due degli uomini presenti nella stanza mi tirarono subito su. Mi girava la testa e avevo del sangue in bocca. «Voglio essere chiaro», continuò il russo come se il pugno che mi aveva dato fosse stato una semplice pausa nel discorso. «Lei è un ambasciatore. Siete dei cretini, perché non avete ancora capito la gravità della situazione. Così come nessuno capisce veramente di non essere immortale e che cosa significa morire finché non tocca a lui... Prenda quella stupida donna di oggi a Parigi. Pensa che avesse capito qualcosa, finché una pallottola non le ha spappolato il cervello? Questa volta i soldi devono essere consegnati, dottor Cross. Tutti. In tutte e quattro le città. I prigionieri devono essere liberati.» «Perché vuole la liberazione di quei prigionieri?» domandai.
Mi diede un altro pugno, ma questa volta non caddi. Poi si voltò e se ne andò. «Perché sì!» Un attimo dopo tornò con una pesante valigetta nera e me la posò davanti, per terra. «Questa è la faccia nascosta della luna», disse. Poi la aprì, per mostrarmi cosa c'era dentro. «È un ordigno nucleare tattico. O, più semplicemente, una valigia nucleare. Produce un'esplosione spaventosa. A differenza delle testate convenzionali, non richiede di essere sganciata dall'alto, è facile da nascondere e da trasportare. Praticissima. Ha visto immagini di Hiroshima, penso. Le hanno viste tutti.» «Cosa c'entra Hiroshima?» «Questa valigia ha pressappoco la stessa potenza. Nella vecchia Unione Sovietica ne producevamo vagonate. Vuole sapere dove sono finite alcune di esse? Be', ce n'è una - o più di una - a Washington, Tel Aviv, Parigi e Londra. Quindi, come vede, è entrato un nuovo socio nell'esclusivo 'club nucleare' mondiale. E quel nuovo socio siamo noi.» Cominciai a sudare freddo. C'era davvero un ordigno nucleare in quella valigia? «È questo il messaggio che vuole che riferisca?» «Gli altri ordigni sono già a destinazione. Per dimostrare la mia buona fede, può portare questo con sé. Lo faccia esaminare dai vostri esperti. Ma dica loro di sbrigarsi, mi raccomando. Così capirete, una buona volta. O no? Adesso vada. Lei per me è un insetto. Un misero insetto, ma sempre meglio che niente. Si porti via la valigia nucleare: la consideri un regalo. E non dite che non vi avevo avvertito. Ora vada, dottor Cross. Si sbrighi.» 81 Ho solo un vago ricordo di quel che successe dopo, quel pomeriggio. Il cappuccio di tela nera doveva essere stato un di più, un modo per impressionarmi, perché non venni bendato durante il viaggio di ritorno a Parigi, che mi parve molto più breve rispetto a quello di andata. Chiesi più volte ai miei sequestratori dove mi avrebbero portato con la valigia nucleare, ma nessuno dei due uomini che erano in macchina con me rispose. Non mi rivolsero la parola durante tutto il viaggio. E tra di loro parlarono solo russo. Lei per me è un insetto, un misero insetto... Si porti via la valigia nucle-
are. Poco dopo essere entrati a Parigi, la Peugeot si fermò nel parcheggio affollato di un centro commerciale. Tenendomi la pistola puntata alla testa, i miei rapitori mi ammanettarono alla valigia. «Cosa fate?» chiesi, ma non mi risposero. Poco più avanti la Peugeot si fermò di nuovo, in Place Igor Stravinsky, in una delle zone più animate della città, che però quel giorno era semideserta. «Scendi!» mi dissero. Fu la prima parola inglese che sentivo da circa un'ora. Lentamente, scesi dalla berlina con la bomba, usando la massima cautela. Mi girava la testa. La Peugeot ripartì a tutta velocità. Mi parve di percepire una sorta di liquidità nell'aria, un fluire di particelle, quasi sentissi la presenza degli atomi. Rimasi immobile vicino alla grande piazza del Centre Pompidou, ammanettato a una valigetta nera che pesava come minimo venti chili, ma probabilmente anche di più. E che conteneva una bomba atomica di potenza equivalente a quelle che Harry Truman aveva fatto sganciare sul Giappone. Sudavo freddo e mi sembrava di osservarmi da fuori, come succede a volte nei sogni. Era così che doveva finire, per me? Possibile. Non era più tempo di scommettere, soprattutto non sulla mia vita. Stavo per saltare in aria? E, anche se l'ordigno non fosse esploso, sarei stato contaminato dalle radiazioni? Davanti a un negozio di dischi della Virgin c'erano due poliziotti. Mi avvicinai e spiegai chi ero, poi chiesi loro di chiamare, per piacere, il directeur de la sécurité publique. Ai due poliziotti non dissi che cosa conteneva la valigetta nera, ma appena mi passarono il direttore gli raccontai tutto. «È un ordigno autentico, dottor Cross? La bomba è innescata?» mi chiese. «Non lo so. Come faccio a saperlo? Ma lei faccia conto che lo sia. Come sto facendo io.» Mandi subito gli artificieri! Subito! Butti giù il telefono e faccia qualcosa! Pochi minuti dopo tutta la popolazione della zona del Beaubourg venne evacuata, tranne una decina di agenti, la polizia militare e alcuni esperti della sezione artificieri. Speravo con tutte le mie forze che fossero davvero esperti. Anzi, che fossero i migliori di tutta la Francia. Mi fecero sedere per terra. Accanto alla valigetta nera, naturalmente. Feci tutto quello che mi dicevano, perché non avevo scelta. Avevo la nausea. Da seduto mi sentii un po' meglio, ma non molto. Per fortuna, però, mi
stava passando il giramento di testa. Per prima cosa portarono un chien explo, un cane appositamente addestrato, e gli fecero annusare sia me che la valigia. Era un bel pastore tedesco, giovane, femmina. Mi si avvicinò con cautela, occhieggiando la valigia come se fosse un cane rivale, un nemico. Si fermò a cinque metri da me e cominciò a ringhiare, con i peli ritti. Oh merda. Oh mio Dio, pensai. Il pastore tedesco continuò a ringhiare, certo che il contenuto della valigia fosse radioattivo. Dopo un po' tornò dai poliziotti, da cane saggio e prudente qual era. E io rimasi di nuovo da solo. Non avevo mai avuto tanta paura in vita mia. L'idea di essere lì lì per saltare in aria non è piacevole. Non è facile abituarcisi. Dopo quella che mi sembrò un'eternità, nonostante dovessero essere passati soltanto pochi minuti, due artificieri bardati come due astronauti vennero verso di me. Vidi che uno dei due aveva in mano un tagliabulloni. Che Dio lo benedica! pensai. Fu un momento surreale, incredibile. L'artificiere con il tagliabulloni mi si inginocchiò vicino e sussurrò: «Tranquillo, va tutto bene». Poi, con cautela, mi liberò dalle manette. «Può andare, ora. Si alzi lentamente», mi consigliò. Mi alzai piano piano, sfregandomi il polso e indietreggiando. Insieme ai miei due soccorritori con il look spaziale mi allontanai in fretta dalla valigia. Mi diressi verso due furgoni neri della squadra artificieri, che erano ancora nella zona ad alta pericolosità. Se l'ordigno nucleare fosse esploso, avrebbe disintegrato all'istante tutto quanto nel raggio di almeno un chilometro. Da dentro uno dei furgoni osservai gli artificieri al lavoro per cercare di disinnescare la bomba. Non mi passò neppure per la mente di andarmene subito. I minuti che seguirono furono i più lunghi della mia vita. Sul furgone nessuno parlava. Tutti trattenevamo il respiro. L'idea di poter morire così, da un momento all'altro, era quasi inconcepibile. I tecnici francesi mandarono a dire: «La valigia è aperta». Poi, dopo neanche un minuto: «Il materiale fissile c'è. È vero. Sembra anche in grado di funzionare, purtroppo». La bomba era vera. Non si trattava di vuote minacce. Il Lupo continuava a mantenere le promesse. Sì, era uno stronzo sadico. Proprio come diceva di essere. Dopo un po' vidi uno dei tecnici agitare un braccio in segno di vittoria e nel furgone si levarono grida di giubilo. Non sapevo con precisione che
cosa avessero scoperto, ma doveva essere per forza qualcosa di buono. Nessuno mi spiegò nulla. «Che cosa è successo?» chiesi dopo un po' in francese. Uno dei tecnici si voltò a guardarmi. «Manca il detonatore. L'ordigno non può esplodere. Non volevano che esplodesse, grazie a Dio. Volevano solo farcela fare addosso dalla paura.» «E ci sono riusciti, gliel'assicuro», risposi. 82 Nelle ore successive fu accertato che la valigia nucleare conteneva tutto il necessario per provocare una catastrofe tranne un pezzo, l'emettitore a impulsi di neutroni che funge da detonatore. Tutti i pezzi più complicati c'erano. Quella sera non riuscii a mangiare, perché mi veniva da vomitare, né a concentrarmi. Mi avevano sottoposto a tutti gli esami del caso, ma non riuscivo a togliermi dalla testa la paura di essere stato contaminato dalle radiazioni. Non riuscivo nemmeno a non pensare a Maud Boulard: rivedevo la sua faccia, risentivo il timbro della sua voce, ripensavo al nostro pranzo assurdo e alla sua ostinazione e ingenuità, ai capelli rossi sparsi sul marciapiede, alla violenza bruta del Lupo e dei suoi uomini. Continuavo a rivedere il russo che mi aveva preso a pugni nella casa colonica. Era il Lupo? E, se lo era, perché si era lasciato vedere da me? D'altronde, perché non avrebbe dovuto farsi vedere? Tornai in albergo e mi pentii di aver chiesto una camera con vista. Ero esausto, tutto indolenzito, ma non riuscivo a rilassarmi. La mia mente continuava ad arrovellarsi incessantemente e il rumore della strada mi risultava intollerabile. Hanno armi nucleari. Non è un bluff. Succederà davvero. Sarà un'ecatombe. Quando sulla East Coast erano le sei di sera telefonai ai miei figli e raccontai loro tutte le cose di Parigi che non avevo visto quel giorno. Parlai di tutto tranne di quel che era successo veramente. Per il momento i media erano all'oscuro di tutto, ma non sarebbe durato molto. Poi telefonai a Nana e le dissi la verità. Le descrissi quel che avevo provato, seduto per terra con una bomba incatenata al polso. A lei racconto sempre le cose più brutte che mi capitano, e quella probabilmente era stata la peggiore della mia vita.
83 Quando arrivai nel piccolo ufficio che mi era stato assegnato alla Prefecture trovai un'altra sorpresa. Martin Lodge mi stava aspettando. Erano le 7:15. Mancavano dieci ore e quarantacinque minuti alla catastrofe. Gli strinsi la mano e gli dissi quanto mi faceva piacere vederlo. «Non resta molto tempo. Come mai sei qui?» «Per scambiarci le nostre ultime volontà, forse. Devo dare l'ultimo aggiornamento sulla situazione a Londra e Tel Aviv. Dal nostro punto di vista, perlomeno.» «E allora?» Martin scosse la testa. «Non credo ti piacerà sentire due volte la stessa storia.» «Sì, invece. Sentiamo.» «No, ti assicuro che non è affatto una bella storia. Che casino, Alex. Ho paura che il Lupo dovrà veramente far saltare in aria una città per convincerli ad agire. Siamo a questo punto. La situazione peggiore è a Tel Aviv. Israele con i terroristi non tratta. Se è questo che volevi sapere.» Il briefing quella mattina cominciò alle otto in punto con un breve resoconto sulla valigia nucleare da parte dei tecnici che l'avevano smontata. Spiegarono che l'ordigno era autentico, ma privo di emettitore di neutroni, ovvero di detonatore. Aggiunsero inoltre di non essere certi che il materiale radioattivo fosse sufficiente. Un generale dell'esercito illustrò la situazione a Parigi: la popolazione era spaventata e usciva di casa il meno possibile, ma solo pochi erano effettivamente fuggiti. L'esercito era pronto a intervenire e dichiarare la legge marziale poco prima della scadenza dell'ultimatum, prevista per le sei del pomeriggio. Poi toccò a Martin. Si alzò e parlò francese. «Buongiorno. Non sono incredibili le cose che possono succedere quando ci adattiamo a una nuova realtà? I londinesi si sono comportati magnificamente, per la maggior parte. Ci sono stati dei disordini, è vero, ma estremamente circoscritti. Quelli che avrebbero potuto darci più problemi probabilmente sono andati via per primi. Quanto a Tel Aviv, la gente è talmente abituata a vivere in condizioni di emergenza... diciamo semplicemente che stanno reggendo molto bene. E queste erano le buone notizie. Le cattive sono che abbiamo raccolto molti fondi, ma non l'intera somma. Questo a Londra. E a Tel Aviv? A quanto ci risulta, non hanno nessuna intenzione di scendere a patti. Gli i-
sraeliani non si sbottonano, però, quindi non siamo sicuri di che cosa sappiano esattamente. Stiamo facendo pressioni, tuttavia, sia da Londra che da Washington. So che sono stati contattati alcuni privati cittadini cui è stato chiesto di contribuire a finanziare il pagamento del riscatto, ed è una strada ancora aperta, ma non è chiaro se il governo sia disposto ad accettare il denaro. Le autorità non vogliono andare incontro alle richieste dei terroristi. Mancano meno di dieci ore alla scadenza. Parliamoci chiaro: non abbiamo tempo da perdere. Bisogna che qualcuno faccia la voce grossa per convincere chi ancora si rifiuta di pagare.» Mentre Martin parlava, un poliziotto mi si avvicinò e mi bisbigliò all'orecchio: «Mi scusi, dottor Cross. C'è bisogno di lei». «Che cosa c'è?» bisbigliai a mia volta. Volevo sentire tutto quello che veniva detto durante il briefing. «Si tratta di un'emergenza. Mi segua, per piacere.» 84 Paradossalmente, a quel punto un'emergenza andava considerata una buona cosa. Alle otto e mezzo mi ritrovai a bordo di un'auto della polizia che viaggiava a sirene spiegate nella città silenziosa. L'atmosfera era cupa, le strade deserte, a parte i militari e la polizia. Durante il tragitto mi fu spiegato che dovevo partecipare a un interrogatorio. «Abbiamo arrestato un trafficante di armi. Abbiamo motivo di credere che abbia contribuito a procurare gli ordigni esplosivi. Potrebbe essere uno degli uomini che lei ha visto in quella casa in campagna. È russo e ha la barba bianca.» Pochi minuti dopo arrivammo davanti alla sede della Brigade Criminelle, un edificio scuro, ottocentesco, in una zona tranquilla lungo la Senna. Si trattava della famigerata «Crim» di tanti polizieschi francesi, compresi quelli di Maigret che avevo letto da piccolo insieme con Nana. La vita imita l'arte, o qualcosa del genere. Una volta arrivati a «la Crim», salii a piedi fino all'ultimo piano, il quarto, dove era in corso l'interrogatorio. Mi accompagnarono in fondo a uno stretto corridoio, nella stanza 414. Il brigadiere che mi faceva strada bussò una volta. Appena entrammo, riconobbi immediatamente il trafficante di armi. Era il russo con la barba bianca che mi aveva detto di essere il Lupo.
85 La stanza era piccola e c'era poco spazio per muoversi perché era nel sottotetto. Il soffitto basso e inclinato, macchiato di umidità, aveva un piccolissimo lucernario. Guardai l'orologio: erano le otto e quarantacinque. Tic tac, i minuti passavano. Mi presentarono velocemente i due francesi che stavano interrogando il trafficante di armi russo di nome Artur Nikitin, il capitano Coridon e il tenente Leroux. Conoscevo già Nikitin, naturalmente. Era a torso nudo, senza scarpe, con le mani legate dietro la schiena, e sudava profusamente. Era proprio il russo con la barba bianca che avevo visto nella casa colonica. In macchina mi avevano spiegato che aveva guadagnato milioni fornendo armi ad al-Qaeda. Commerciava anche in valigie nucleari e sapeva quante ne erano state vendute e a chi. «Vigliacchi!» stava gridando ai poliziotti francesi quando entrai nella stanza. «Maledetti vigliacchi! Non potete trattarmi così: non ho fatto un cazzo! Voi francesi sostenete di essere tanto democratici, ma non è vero!» Mi guardò e fece finta di non conoscermi, ma recitava così male che non potei fare a meno di sorridere. Il capitano Coridon gli disse: «Avrai notato che ti abbiamo portato alla Crim anziché negli uffici della Direction de la Surveillance du Territoire. Questo perché non sei accusato di 'traffico clandestino di armi', ma di omicidio. Noi siamo ispettori della Omicidi. Credi a me, nessuno in questa stanza è democratico. A meno che non lo sia tu, naturalmente.» Nikitin aveva gli occhi sbarrati per la collera, ma vi lessi anche una certa confusione dovuta alla mia presenza. «Stronzate! Non ci credo. Non ho fatto niente di male. Sono un imprenditore! Un cittadino francese. Voglio il mio avvocato!» Coridon mi guardò e disse: «Ci provi lei». Mi feci avanti e colpii il russo con un uppercut alla mascella. «Non illuderti che con questo siamo pari», gli dissi. «Nessuno sa che sei qui. Verrai processato per terrorismo. Verrai condannato a morte e nessuno muoverà un dito per aiutarti, soprattutto dopo che le tue bombe avranno contribuito a distruggere Parigi e uccidere migliaia di persone.» Il russo si mise a gridare. «Ve l'ho già detto e ve lo ripeto: non ho fatto niente! Non potete farmi nulla. Quali armi? Quali bombe? Per chi mi avete preso? Per Saddam Hussein? Non potete farmi questo.» «Possiamo, e ti condanneremo a morte», urlò il capitano Coridon, che si
era messo in disparte. «Esci da questa stanza e sei un uomo morto, Nikitin. Abbiamo altre carogne da interrogare. Il primo che ci aiuta, lo aiutiamo.» Poi ordinò: «Portatelo via! Stiamo sprecando del tempo con questo stronzo!» Il brigadiere afferrò Nikitin per i capelli e per la cintola e lo sbatté dall'altra parte della stanza. Il russo picchiò la testa contro il muro, ma riuscì a non cadere. Adesso aveva lo sguardo spaventato. Forse stava cominciando a capire che le regole dell'interrogatorio erano cambiate. Era cambiato tutto. «È la tua ultima occasione per parlare», dissi. «Ricordati che per noi sei solo un misero insetto.» «Non ho venduto niente a nessuno qui in Francia! Io vendo in Angola e mi faccio pagare in diamanti!» disse Nikitin. «Non mi interessa. E non ci credo!» gridò il capitano Coridon con tutto il fiato che aveva in corpo. «Portatelo via di qui.» «So una cosa sulle valigie nucleari!» sputò finalmente Nikitin. «So che sono quattro. E che dietro c'è al-Qaeda. Il piano è opera di al-Qaeda! Sono loro che decidono. I prigionieri politici e tutto.» Guardai i poliziotti francesi e scossi la testa. «Il Lupo ha voluto che lo prendessimo e non sarà contento della sua 'performance'. Lo ucciderà lui. Non credo a una sola parola di quel che ha detto.» Nikitin ci guardò e ripeté: «Al-Qaeda! Andate affanculo, se non ci credete». Anch'io lo guardai in faccia e dissi: «Dimostracelo. Dacci una ragione per crederti. Convincimi, perché così non ci credo». «Va bene», disse Nikitin. «Posso dirvi la ragione per cui dovete credermi. Vi convincerò.» 86 Appena fui di ritorno alla Préfecture, Martin Lodge mi raggiunse, mi prese per un braccio e cominciò a trascinarmi. «Andiamo!» «Cosa? Dove?» Guardai l'orologio, cosa che ormai facevo ogni due o tre minuti. Erano le dieci e venticinque. «Fra pochi minuti ci sarà un'incursione nel covo che ci ha indicato il russo. Era la verità.» Salimmo di corsa nella sala dell'unità operativa. Il mio vecchio amico Etienne Marteau ci venne incontro e ci accompagnò davanti a una serie di
schermi da dove avremmo potuto seguire l'operazione. Contrariamente al solito, stava avvenendo tutto molto in fretta. Troppo, forse. Ma non avevamo scelta. Marteau disse: «Siamo ottimisti, Alex. Siamo d'accordo con l'EDF-GDF, la società elettrica. Nella zona verrà tolta la corrente e la squadra farà irruzione nel covo». Annuii e mi misi a guardare gli schermi. Faceva uno strano effetto assistere all'operazione senza parteciparvi. Tutto a un tratto i francesi entrarono in azione. Come dal nulla comparvero decine di militari con la scritta RAID sulla giacca: Recherche, Assistance, Intervention e Dissuasion. Erano armati di fucili d'assalto. I soldati corsero verso una palazzina dall'aria innocua e abbatterono il portone. Fu questione di secondi. Comparve anche un UBL, la versione francese di un Hummer, che sfondò un cancello di legno sul retro della casa. Scesero di corsa alcuni soldati. «Vediamo», dissi a Martin. «Gli uomini della RAID sono in gamba?» «Sì, sono specializzati nel distruggere e uccidere.» Alcuni dei poliziotti francesi avevano microfono e telecamera, per cui potevamo vedere e sentire gran parte di quel che succedeva in tempo reale. Spalancarono una porta, da dentro qualcuno sparò un colpo, poi si vide una fiammata: gli incursori avevano risposto al fuoco. Si udì un grido acutissimo e un corpo cadde pesantemente sul pavimento di legno. Due uomini armati di pistola uscirono di corsa dalla stanza in un corridoio stretto. Erano in mutande. Stramazzarono immediatamente, colpiti dai proiettili della polizia. C'era anche una donna seminuda con una pistola: le spararono alla gola. «Non ammazzateli tutti», protestai sottovoce, guardando gli schermi. Un elicottero Cougar atterrò vicino alla palazzina e ne scesero altri commando. Nel frattempo, dentro, i soldati entrarono in una camera da letto e immobilizzarono un uomo sdraiato su una branda. Lo presero vivo, per fortuna. Altri terroristi alzarono le mani e si arresero. Poi si udirono altri spari, in rapida successione, questa volta fuori dall'inquadratura. Un uomo venne fatto uscire dalla casa con una pistola puntata alla testa. Era anziano. Il Lupo? Lo avevano catturato? Il poliziotto con la pistola sorrideva come se avesse messo a segno un colpo grosso. L'incursione si sta-
va svolgendo in modo davvero rapido ed efficiente. Di colpo le immagini cessarono. Aspettammo. Le telecamere sul posto erano state spente. Aspettammo ancora un po'. Alla fine, verso le tre del pomeriggio, un colonnello dell'esercito si presentò nella sala affollatissima dell'unità di crisi. Tutte le sedie erano occupate e non c'era più posto nemmeno in piedi. La tensione era altissima. Il colonnello esordì: «Abbiamo identificato i prigionieri vivi. Un iraniano, un saudita, un marocchino, due egiziani. Una cellula. Al-Qaeda. Sappiamo chi sono. Dubitiamo che uno di loro sia il Lupo. Dubitiamo anche che abbiano a che fare con la minaccia di attentati a Parigi. Mi dispiace dovervi dare questa cattiva notizia così tardi. Abbiamo fatto del nostro meglio, ma il Lupo resta un passo avanti a noi. Mi dispiace». 87 La terribile scadenza «definitiva» era ormai vicinissima, ma nessuno sapeva che cosa sarebbe successo e non avevamo più speranza di riuscire a fermare il Lupo. Alle sei meno un quarto mi ritrovai davanti agli alti cancelli di ferro del Ministère de l'Intérieur. Molti uomini e donne con l'aria grave scendevano da macchine scure e si avviavano a passo svelto verso la sala dove era in programma una riunione con la DGSE, che è l'equivalente francese della CIA. Davanti a quei cancelli enormi, sembravamo tutti piccolissimi e insignificanti, come supplici che entrano in una cattedrale. O, perlomeno, io mi sentivo piccolo, insignificante e alla mercé di forze più grandi di me. Non solo di Dio. Oltre i cancelli c'era un grande cortile acciottolato che un tempo doveva essere stato attraversato da carrozze e cavalli. Dove ci aveva portato il progresso? Non mi sembrava che il mondo di oggi andasse tanto meglio, in fondo. Insieme con altri funzionari di polizia, ministri e dirigenti entrai in un atrio sontuoso, con un pavimento di piastrelle marezzate bianche e rosa. Lungo lo scalone erano allineate guardie armate. Quasi nessuno parlava: salendo si sentiva solo il rumore dei nostri passi e ogni tanto qualche colpo di tosse nervosa. Nel giro di un quarto d'ora Parigi, Londra, Washington e Tel Aviv rischiavano di venire devastate da esplosioni che avrebbero causato migliaia di morti e centinaia di migliaia di feriti. E il responsabile di tutto questo sarebbe un gangster russo misteriosa-
mente legato ad al-Qaeda? Noi siamo in balia di questo pazzo? Che strano... Incredibile. La riunione era stata indetta nella Salle des Fêtes. Per l'ennesima volta mi ritrovai a chiedermi perché fossi lì. Rappresentavo gli Stati Uniti, mandato dall'FBI, perché con la mia esperienza di psicologo e detective forse avrei potuto dare una mano a catturare il Lupo, che tanto tempo prima a Parigi doveva aver avuto un'esperienza particolarmente traumatica. Qualcosa che non eravamo ancora riusciti a scoprire. Nella sala erano stati sistemati dei tavoli disposti a ferro di cavallo e coperti di semplice stoffa bianca. Su alcuni cavalletti erano esposte carte geografiche laminate dell'Europa, del Medio Oriente e degli Stati Uniti. Le zone prese di mira dal Lupo erano state circolettate di rosso con un pennarello. Un metodo rudimentale, ma efficace. C'erano anche una quindicina di schermi televisivi accesi e un sofisticato impianto per teleconferenze. C'erano più uomini in giacca grigia o blu del solito, più pezzi grossi, più rappresentanti ufficiali del potere. Non so perché notai che parecchi portavano occhiali al titanio: sempre all'ultima moda, i francesi! Sugli schermi montati alle pareti scorrevano immagini trasmesse in diretta da Londra, Washington, Parigi e Tel Aviv. Le città erano semideserte, silenziose. In giro si vedevano persino pochi militari e poliziotti. Etienne Marteau venne a sedersi vicino a me. Martin Lodge era già tornato a Londra. «Secondo lei, quante chance abbiamo qui a Parigi, realisticamente, Alex?» mi chiese Etienne. «Etienne, non so che cosa stia succedendo. Non lo sa nessuno. Forse stamattina abbiamo fermato la principale cellula terroristica. Penso che tutto quello che è successo finora sia stato pianificato con cura. Il Lupo voleva metterci in difficoltà. Deve essergli successo qualcosa qui a Parigi, ma ancora non sappiamo che cosa. Cosa posso dire? Ormai è troppo tardi. Ce l'abbiamo in quel posto.» Di colpo Etienne si raddrizzò sulla sedia. «Oh mio Dio, c'è il presidente Debauney.» 88 Il presidente francese, Aramis Debauney, era un uomo tra i cinquanta e i sessanta ed era molto ben vestito per l'occasione, molto formale. Aveva un
fisico asciutto, capelli grigi lisciati all'indietro, baffi sottili e occhiali dalla montatura di metallo. Pareva piuttosto calmo e controllato. Entrò a passo svelto e cominciò subito a parlare. Nel silenzio si sarebbe sentita volare una mosca. «Come sapete, sono stato in prima linea nelle forze dell'ordine per molti anni anch'io. Per questo ho voluto parlarvi in questo momento. Voglio passare con voi i pochi minuti che mancano allo scadere dell'ultimatum. Ho alcune notizie da comunicarvi. La somma del riscatto è stata raccolta. A Parigi, a Londra e Washington. E anche a Tel Aviv, con l'aiuto di molti amici di Israele sparsi in tutto il mondo. L'importo verrà versato fra tre minuti e mezzo, circa cinque minuti prima dell'ora stabilita. Vorrei ringraziare tutti coloro che sono presenti in questa sala e coloro che essi rappresentano per le innumerevoli ore di lavoro indefesso, per i sacrifici personali che non andrebbero mai chiesti a nessuno, per lo sforzo eroico e l'incredibile coraggio. Abbiamo fatto il possibile. Ma la cosa più importante è che sopravvivremo alla crisi e prima o poi arresteremo questi criminali disumani, tutti, dal primo all'ultimo! Prenderemo anche il più disumano, il fantomatico Lupo.» Alle spalle del presidente c'era un orologio dorato in stile impero che tutti guardavano intensamente. Come avremmo potuto ignorarlo? Alle 17:55, ora di Parigi, il presidente Debauney disse: «Il denaro viene trasferito in questo momento. È questione di secondi... Ecco fatto. La transazione è stata completata. Andrà tutto bene. Congratulazioni a tutti voi. E ancora grazie». Nella grande sala si levò un sospiro di sollievo collettivo, ci furono sorrisi, strette di mano, qualche abbraccio. Poi, per un riflesso quasi condizionato, ricominciammo ad aspettare. Che il Lupo si mettesse in contatto. Che arrivassero notizie dalle altre città coinvolte: Washington, Londra, Tel Aviv. Gli ultimi sessanta secondi prima dello scadere dell'ultimatum furono incredibilmente drammatici e carichi di tensione, nonostante il riscatto fosse stato pagato. Non potei fare a meno di seguire con il fiato sospeso la lancetta dei secondi. Dissi addirittura una preghiera per la mia famiglia, per gli abitanti delle quattro città, per il mondo in cui viviamo. Scoccarono le diciotto a Parigi, le diciassette a Londra, le dodici a Washington, le diciannove a Tel Aviv. L'ora X era passata. Ma che cosa voleva dire? Eravamo davvero al sicu-
ro? Non ci furono cambiamenti degni di nota sugli schermi che trasmettevano in diretta, nulla di anomalo, nessuna esplosione. Nulla. E nessuna telefonata da parte del Lupo. Passarono altri due minuti. Dieci minuti. Poi un'esplosione spaventosa fece tremare la sala, e tutto il mondo. PARTE QUINTA Liberaci dal male 89 La bomba, o le bombe, non nucleari ma abbastanza potenti da provocare danni ingentissimi, esplosero nel primo arrondissement, vicino al Louvre. L'intera zona, un dedalo di vicoli e strade senza uscita, fu praticamente rasa al suolo. Quasi mille persone morirono sul colpo, o nell'arco di pochi secondi. Il boato e le vibrazioni furono sentiti in tutta Parigi. Il Louvre subì solo lievi danni, ma i tre isolati di rue de Marengo, rue de l'Oratoire e rue Bailleul andarono quasi completamente distrutti. Anche un piccolo ponte nelle vicinanze crollò. Un altro ponte. Questa volta sulla Senna, a Parigi. Dal Lupo non giunse neppure una parola di spiegazione, né per rivendicare l'attentato né per smentirlo. Ma perché avrebbe dovuto dare spiegazioni, in fondo? Quell'uomo era convinto di essere Dio in terra. Ci sono persone estremamente arroganti all'interno del governo degli Stati Uniti e nei media nazionali, che sono convinte di poter prevedere esattamente ciò che accadrà in futuro solo perché sanno, o credono di sapere, che cosa è accaduto in passato. Immagino che lo stesso valga per Parigi, Londra, Tel Aviv e tutto il resto del mondo. Dappertutto ci sono persone fondamentalmente intelligenti, magari anche ben intenzionate, che dichiarano: «Non può succedere». Oppure: «Nella realtà, succederebbe questo e quest'altro». Come se lo sapessero veramente. Invece non lo sanno. Nessuno sa nulla. Al giorno d'oggi non ci sono più certezze. Tutto può succedere e, prima o poi, molto probabilmente succederà. La specie umana non sembra avviata a diventare più saggia ma, se mai, più folle ancora. E più pericolosa. In-
credibilmente, intollerabilmente pericolosa. Ma forse era solo il mio umore a dettarmi quelle considerazioni durante il volo di ritorno. A Parigi era successa una tragedia terribile, spaventosa. Il Lupo aveva vinto, ammesso che il suo folle gesto potesse essere considerato una vittoria. E non aveva fatto nemmeno troppa fatica. Un mafioso russo cui il potere aveva dato alla testa aveva adottato le tattiche dei terroristi ed era molto più in gamba di noi: più organizzato, più astuto e più brutale. Non riuscivo nemmeno a ricordare l'ultima volta in cui avevamo messo a segno una vittoria nella battaglia contro il Lupo e le sue forze. Era più furbo di noi. Mi auguravo soltanto che adesso fosse tutto finito. Forse, invece, quella che stavamo vivendo era la classica calma prima della tempesta. Non volevo nemmeno pensarci. Arrivai a casa poco prima delle tre, il giovedì pomeriggio. I ragazzi erano tornati in Fifth Street, dove Nana era rimasta tutto il tempo. Annunciai che quella sera avrei cucinato io. Preparare una buona cenetta, parlare con Nana e i ragazzi di quello che ci passava per la testa era quello che mi ci voleva. Avevo bisogno di farmi coccolare un po', senza pensare all'attentato di Parigi, al Lupo o al lavoro. Così preparai una mia libera interpretazione di una cena francese, parlando francese con Damon e Jannie mentre cucinavo. Jannie apparecchiò la tavola con una tovaglia di pizzo che usavamo soltanto nelle occasioni speciali, tovaglioli di stoffa e posate d'argento. Il menu prevedeva langoustines rôties avec brunoise de papaye, poivrons et oignons doux, cioè scampi con papaia, peperoni e cipolle come antipasto, seguiti da pollo in casseruola con salsa al vino rosso, il tutto accompagnato da un delizioso Minervois. Mangiammo con entusiasmo. Come dessert, però, gustammo brownies e gelato: ero tornato in America. Grazie a Dio, ero a casa. 90 Ero a casa, ero a casa. L'indomani non andai a lavorare e i ragazzi non andarono a scuola. Questo parve soddisfare le esigenze di tutti, compresa Nana, che ci incoraggiò a restare a casa. Telefonai un paio di volte a Jamilla e, come sempre, parlare con lei mi fece bene, anche se c'era qualcosa che non funzionava più tra noi.
Per festeggiare la giornata di inaspettata vacanza, portai i ragazzi nel Maryland, a St. Michaels, una vivace cittadina sulla baia di Chesapeake dove si respira ancora l'atmosfera tipica dei villaggi di pescatori di un tempo. C'erano un porticciolo e un paio di alberghetti con sedie a dondolo sulla veranda e persino un faro. Al Chesapeake Bay Maritime Museum potemmo ammirare veri maestri d'ascia impegnati nel restauro di uno skipjack, la tradizionale imbarcazione a vela del Maryland per la pesca delle ostriche. Sembrava di essere tornati nell'Ottocento: non una cattiva idea, in fondo. Pranzammo al Crab Claw Restaurant e poi ci imbarcammo su un vero skipjack per una breve escursione. Nana aveva portato molte volte i suoi scolari in gita a St. Michaels, ma quel giorno era rimasta a Washington sostenendo di aver troppo da fare in casa. Mi augurai che stesse bene e, siccome ricordavo le cose che spiegava ai suoi alunni durante quelle gite, mi sostituii a lei nei panni di guida turistica. «Jannie e Damon, questa è l'ultima flotta di barche a vela da lavoro ancora in attività nel Nord America. Ci credereste? Queste barche non hanno verricelli. Si usano solo paranchi, rinvii e forza di muscoli», spiegai loro, come faceva un tempo Nana alle sue classi. Poi il Mary Merchant salpò per una crociera di due ore e mezzo nel passato. Il comandante e il suo secondo ci mostrarono come si issa una vela con un paranco e ben presto trovammo il vento, che ci portò con il ritmico sciabordio delle onde contro lo scafo. Fu un pomeriggio favoloso. Ammirammo l'albero maestro alto diciotto metri, ricavato da un unico tronco fatto venire appositamente dall'Oregon, fra l'odore di salmastro, olio di semi di lino e ostriche. Mi godetti la vicinanza dei miei due figli maggiori, che mi guardavano con occhi sempre pieni di fiducia e di amore. Sempre, o quasi. Passammo davanti a pinete, campi aperti dove i contadini coltivavano mais e soia e a grandi ville bianche che un tempo erano state case padronali delle piantagioni. Mi sembrava quasi di essere tornato in un altro secolo. Avevo proprio bisogno di una giornata di totale riposo e relax. Solo una o due volte mi ritrovai a pensare al lavoro, ma subito mi ripresi. Ascoltavo con un orecchio solo il comandante che spiegava che la pesca delle ostriche è permessa «solo alle barche a vela» tranne due giorni alla settimana, in cui anche i pescherecci a motore sono autorizzati a pescare nella baia. Immaginai che si trattasse di un oculato provvedimento per co-
stringere i pescatori a faticare di più e proteggere le risorse naturali. Che bella giornata! Lo skipjack si inclinò a dritta, il boma si spostò sottovento, la randa e il genoa si gonfiarono con uno schiocco e Jannie, Damon e io ci ritrovammo davanti il sole che stava per tramontare. Ci rendemmo conto, almeno per un attimo, che forse era così che bisognava vivere e che momenti come quelli andavano apprezzati e ricordati con gratitudine. «È stata la giornata più bella della mia vita», dichiarò Jannie. «Non esagero neanche tanto.» «Anche per me», dissi. «E non esagero affatto.» 91 Quando rientrammo alla base, quella sera, vidi un furgoncino bianco piuttosto malandato fermo davanti a casa. Riconobbi subito il logo verde sulla portiera: HOMECARE HEALTH PROJECT - ASSISTENZA SANITARIA DOMICILIARE. Come mai? Che cosa faceva lì la dottoressa Coles? Fui assalito dal terrore che mentre io ero fuori con i ragazzi Nana si fosse sentita male. Ultimamente la sua salute cagionevole mi preoccupava sempre di più. La verità era che aveva passato da un po' gli ottanta, anche se si rifiutava di dire quanti anni aveva esattamente o, meglio, mentiva sull'età. Scesi di corsa dalla macchina ed entrai in casa precedendo di qualche passo i ragazzi. «Sono qui con Kayla», gridò Nana mentre aprivo la porta e Damon e Jannie si infilavano in casa di corsa passandomi accanto uno da una parte e l'altro dall'altra. «Ci stiamo prendendo cinque minuti di relax, Alex. Non preoccuparti. Fai con calma.» «Perché? Chi è preoccupato?» risposi rallentando. Entrai in salotto e le vidi che si prendevano «cinque minuti di relax» sul divano. «Tu eri preoccupato, Mister Ansia. Hai visto il furgone dell'assistenza sanitaria fuori e che cos'hai pensato? Tragedia!» disse Nana. Rise di cuore, insieme con Kayla, e anch'io non potei fare a meno di sorridere, ma di me stesso. Protestai poco convinto: «Niente affatto». «Allora perché sei corso in casa come se avessi il diavolo alle calcagna? Su, lascia perdere, Alex!» mi prese in giro Nana ridendo. Poi agitò una mano come per scacciare tutti i pensieri negativi e disse: «Vieni. Siediti un momento qui con noi. Hai tempo? Raccontami tutto.
Com'è andata a St. Michaels? È cambiata molto?» «Oh, credo che sia ancora esattamente com'era cent'anni fa.» «E questo è un bene», commentò Nana. «Ringraziamo il Cielo.» Mi avvicinai al divano e salutai Kayla con un bacio su una guancia. Aveva aiutato molto Nana quando era stata malata tempo prima e adesso passava a trovarla regolarmente. In realtà ci conoscevamo sin da quando eravamo piccoli. Era andata a studiare fuori e, quando era tornata nel quartiere in cui eravamo cresciuti, si era resa utile. Lo Homecare Health Project assicurava assistenza medica domiciliare ai malati nel Southeast. Kayla lo aveva lanciato e lo teneva in funzione con grandissimo impegno, sia come medico sia occupandosi praticamente da sola della raccolta fondi. «Ti trovo in splendida forma», le dissi d'impulso. «Sì, ho perso qualche chilo, Alex», rispose inarcando un sopracciglio. «A furia di correre di qua e di là, anche se faccio di tutto per ingrassare un po', non c'è niente da fare: dimagrisco.» Me n'ero accorto. Kayla è quasi uno e ottanta, ma non l'avevo mai vista così snella, così in forma, nemmeno da ragazza. Ha sempre avuto un viso dolce e sorridente, e un bellissimo carattere. «È un modo per dare il buon esempio alla gente del quartiere», continuò. «Ci sono troppe persone sovrappeso o addirittura obese, anche giovani. Penso che sia ereditario.» Scoppiò a ridere. «E poi devo ammettere che è stato un bene per la mia vita sociale, il mio modo di vedere le cose, come lo vogliamo chiamare. Comunque sia.» «Per me, sei ancora molto bella», dissi senza volere, goffamente. Kayla alzò gli occhi al cielo e disse a Nana: «È così bravo a mentire. Gli riesce proprio bene». E tutte e due scoppiarono di nuovo a ridere. «Comunque sia, grazie del complimento, Alex», riprese Kayla. «Lo prenderò per quello che vale. Non lo considererò nemmeno troppo paternalista, non so se mi spiego.» Decisi che era meglio cambiare argomento. «Allora Nana sta bene e camperà fino a cent'anni?» «Direi proprio di sì», rispose Kayla. Ma Nana si rabbuiò e disse: «Perché vuoi sbarazzarti di me così presto? Che cos'ho fatto per meritarmi un simile trattamento?» Risi. «Forse sarà perché mi rompi sempre le scatole. Lo sai, vero?» «Certo che lo so», ribatté Nana. «È il mio compito in questa vita. Tormentare te è la mia ragion d'essere. Non l'avevi ancora capito?» Con quello scambio di battute ebbi finalmente la sensazione di essere
davvero a casa, di essere tornato definitivamente dalla guerra. Portai Kayla e Nana nella veranda e suonai per loro Un americano a Parigi. Anch'io ero stato un americano a Parigi fino a pochi giorni prima, ma per fortuna ero tornato. Verso le undici mi alzai per accompagnare Kayla al suo furgone. Sulla porta ci fermammo a parlare ancora un po'. «Grazie di essere passata a trovarla», dissi. «Non occorre che mi ringrazi. Lo faccio volentieri, perché sono affezionata a tua nonna. Le voglio un gran bene. È una maestra di vita per me, una guida, lo è stata per anni.» Poi si sporse velocemente verso di me e mi baciò, soffermandosi per qualche secondo. Quando si staccò da me, rideva. «Era un sacco di tempo che volevo farlo.» «E adesso?» chiesi, a dir poco sorpreso da quel gesto. «Adesso sono contenta di averlo fatto. È stato interessante.» «Interessante?» «Ora devo andare. Devo scappare.» Pudendo tra sé, Kayla corse verso il suo furgone. Interessante. 92 Dopo quella meritata pausa di riposo tornai a lavorare e appresi che ero ancora ufficialmente assegnato alle indagini sullo stesso caso di estorsione e terrorismo. A quanto pareva, adesso erano volte a individuare e catturare i responsabili e, soprattutto, a recuperare il denaro. Mi dissero che ero stato scelto per la mia implacabilità. In un certo senso ero contento che la storia non fosse finita. Ero ancora in contatto con numerosi colleghi con cui avevo collaborato per quel caso: Martin Lodge in Inghilterra, Sandy Greenberg dell'Interpol, Etienne Marteau a Parigi e altri funzionari di polizia e agenti segreti di Tel Aviv e Francoforte. Tutti coloro con cui parlai stavano seguendo diverse piste, ma nessuno aveva scoperto niente di importante. O anche solo di interessante. Il Lupo, o forse al-Qaeda o qualche altro assassino efferato e geniale, adesso aveva qualche miliardo di dollari in saccoccia. Una parte del centro di Parigi era stata completamente rasa al suolo. Cinquantasette prigionieri politici erano di nuovo a piede libero. Non poteva non essere stato commesso neanche un errore, una piccola svista: doveva esserci un modo per
arrestare il colpevole, o almeno per scoprire chi era. Il secondo giorno, lavorando con Monnie Donnelley, trovai una pista cartacea che mi parve valesse la pena approfondire. Così presi la macchina e andai fino a Lexington, in Virginia. Arrivai davanti a una moderna casa a due piani in una strada isolata che si chiamava Red Hawk Lane. Nel vialetto era parcheggiato un Dodge Durango e in un recinto poco lontano c'erano due cavalli al pascolo. L'ex agente della CIA Joe Cahill mi venne ad aprire sorridente come lo ricordavo dalle riunioni congiunte di CIA e FBI riguardo al Lupo. Al telefono mi aveva dato la massima disponibilità a collaborare alle indagini. Mi fece accomodare nel soggiorno, dove ci aspettavano caffè e una torta comperata. Le finestre davano su un pascolo in lontananza, un laghetto e, all'orizzonte, le Blue Ridge Mountains. «Immagino avrai capito che ho nostalgia dei tempi in cui lavoravo ancora», esordì Joe. «Di certi, perlomeno. Dopo un po' anche la caccia e la pesca ti stufano. Tu vai a pesca, Alex? A caccia?» «Ho portato i ragazzi a pescare, qualche volta», dissi. «E vado un po' a caccia, sì. Al momento più che altro spero di prendere il Lupo. Ma ho bisogno del tuo aiuto, Joe. Vorrei rivedere con te alcune vecchie informazioni. Qualcosa dovrà pur saltare fuori.» 93 «Ho capito, vuoi parlare di nuovo di lui. Come abbiamo fatto a far uscire il Lupo dalla Russia? Cosa è successo quando è arrivato in America? Come è riuscito a scomparire? È una storia triste ma ben documentata, Alex. Hai letto i dossier, lo so. È stata quasi la fine della mia carriera.» «Joe, mi sembra impossibile che nessuno sappia chi è, che faccia ha o come si chiama veramente. È un anno che indago e non riesco a scoprire niente: com'è possibile? Come abbiamo potuto collaborare con gli inglesi per portar via un personaggio tanto importante al KGB e adesso non sapere nemmeno come si chiama? So che a Parigi successe qualcosa. Una cosa grave, presumo, di cui però nessuno sembra saper niente. Non mi pare possibile, Joe. Mi sfugge qualcosa? Che cosa ci sta sfuggendo? Che cosa nessuno riesce a vedere?» Joe Cahill allargò le braccia mostrandomi i palmi callosi delle mani. «Senti, ovviamente nemmeno io so tutta la storia. Mi risulta però che quando era in Russia lavorasse per noi sotto copertura e che fosse molto
astuto e molto giovane, per cui adesso dovrebbe essere sulla quarantina. Ma ho letto anche rapporti secondo cui avrebbe cinquant'anni suonati, o addirittura più di sessanta. Pare fosse piuttosto in alto nella gerarchia del KGB, quando disertò. Ho sentito dire anche che sarebbe una donna. Secondo me sono voci che sparge lui stesso. Ci scommetterei.» «Joe, il Lupo faceva riferimento a te e al tuo collega, quando arrivò in America.» «Il nostro capo era Tom Weir, che non era ancora direttore. Per la precisione, la nostra squadra comprendeva anche altri tre agenti: Maddock, Boykin e Graebner. Forse dovresti parlare con loro.» Cahill si alzò dalla poltrona e andò ad aprire la portafinestra che dava su un patio lastricato. Nella stanza entrò una piacevole brezza fresca. «Non l'ho mai incontrato di persona, Alex. Né io né il mio collega Corky Hancock. E il resto della squadra - Jay, Sam, Clark - nemmeno. Fu deciso così fin dall'inizio. Erano le condizioni che il Lupo pattuì quando venne via dalla Russia: si impegnò ad aiutarci ad abbattere il vecchio KGB, a farci dei nomi sia là che qui, ma a condizione che nessuno lo vedesse in faccia. Credimi, ci procurò nomi e informazioni che contribuirono non poco al crollo dell'impero del male.» Annuii. «Okay, è un uomo di parola. Ma adesso ha messo su una sua rete criminale, e non solo. Ed è uccel di bosco.» Cahill mangiò un pezzo di torta e, con la bocca piena, rispose: «Sì, pare proprio che sia così. Ma noi non potevamo sapere che sarebbe finita a questo modo e gli inglesi nemmeno. Forse lo sapeva Tom Weir. Non so». Avevo bisogno di prendere una boccata d'aria. Mi alzai e andai verso la finestra. Due cavalli camminavano rasente uno steccato di legno bianco all'ombra delle querce. Mi voltai a guardare in faccia Joe Cahill. «Okay, allora per quanto riguarda il Lupo non puoi aiutarmi. In che cosa mi puoi aiutare, Joe?» Cahill aggrottò la fronte, confuso. «Mi dispiace, Alex, non posso far molto. Sono un vecchio cavallo da tiro, non sono più buono a niente. La torta almeno è discreta, no?» Scossi la testa. «Insomma. Le torte comperate non sono mai come quelle fatte in casa.» Cahill fece una faccia triste. Poi sorrise, ma lo sguardo rimase serio. «Dai, parliamoci chiaro: perché sei venuto a trovarmi? Che cosa vuoi da me? Volevi soltanto confidarti con lo zio Joe? Non capisco. Cosa c'è? Ho la sensazione che tu mi stia usando.»
Tornai dentro la stanza. «Sono venuto per via del Lupo, Joe. Perché ho la netta sensazione che tu e il tuo ex collega possiate aiutarci molto, anche se non lo avete mai incontrato di persona. Ammesso e non concesso che sia vero.» Cahill alzò le braccia in segno di frustrazione. «Alex, mi sembra una follia, sai. Continuiamo a girare in tondo. Sono troppo vecchio per queste stronzate.» «Le ultime due settimane sono state dure per tutti. Sono successe un sacco di cose brutte, non hai idea.» Mi ero stufato delle balle che mi raccontava lo «zio» Joe Cahill. Tirai fuori una fotografia. «Dai un'occhiata a questa. È la donna che ha sparato al direttore della CIA, Weir, allo Hoover Building.» Cahill scosse la testa. «Okay. E allora?» «Si chiamava Nikki Williams ed è una ex militare. Per un po' ha fatto anche la mercenaria. Un'ottima tiratrice. Lavorava per moltissimi privati. So già cosa stai per dire, Joe. Allora?» «Appunto. Allora?» «Molto tempo fa, lavorò anche per te e per il tuo collega Hancock. La CIA e l'FBI adesso si scambiano i dati, Joe. È iniziata una nuova era di cooperazione. Ma il dato sorprendente è questo, Joe: ho il sospetto che sia stato tu ad assoldarla perché uccidesse Weir. Forse lo hai fatto tramite Geoffrey Shafer, ma sei stato tu. Secondo me, tu lavori per il Lupo. E da un bel po', temo. Forse anche questo faceva parte delle condizioni che pose per venire via dalla Russia.» «Tu sei pazzo! Non è vero niente!» Joe Cahill si alzò di scatto e scosse via le briciole di torta dai pantaloni. «Sai una cosa? Sarà meglio che tu te ne vada subito. Sono amaramente pentito di averti fatto entrare in casa mia. La nostra chiacchierata è finita.» «No, Joe, è appena cominciata», ribattei. 94 Feci una telefonata con il cellulare e pochi minuti dopo arrivarono gli agenti da Langley e da Quantico e arrestarono Joe Cahill. Lo ammanettarono e lo trascinarono via dalla sua bella casa in campagna. Adesso avevamo una pista, e forse era valida. Joe Cahill venne trasferito in una casa sicura della CIA in una località segreta sulle Allegheny Mountains. Era una casa abbastanza anonima: co-
lonica, a due piani, di pietra, con un glicine all'ingresso, circondata da vigne e frutteti. Per lo zio Joe non si sarebbe rivelata abbastanza sicura, tuttavia. L'ex agente fu lasciato solo in una stanza per parecchie ore, legato e imbavagliato. A meditare sul futuro, e sul passato. Arrivò un medico della CIA: alto, panciuto, prossimo ai quaranta, con faccia cavallina e look da WASP. Si chiamava Jay O'Connell. Ci disse di essere stato autorizzato a somministrare a Cahill un nuovo siero della verità. Altre varianti dello stesso farmaco erano in fase di sperimentazione su terroristi detenuti in varie carceri. «È un barbiturico, come l'amobarbitale sodico e il metoexitale», spiegò. «Il soggetto si sentirà di colpo leggermente ubriaco, perderà lucidità e non sarà più in grado di difendersi dalle domande che gli farete. Questo è ciò che speriamo, perlomeno: non tutti i soggetti reagiscono allo stesso modo. Vedremo come risponderà. È anziano, quindi sono abbastanza sicuro che riusciremo a inchiodarlo.» «Qual è la conseguenza peggiore che si può verificare?» chiesi a O'Connell. «L'arresto cardiaco. Ma no, non è vero... Invece sì.» All'alba Joe Cahill venne fatto uscire dalla stanza in cui era rinchiuso e trasferito in una più grande, in cantina, senza finestre. Gli furono tolti la benda sugli occhi e il bavaglio, ma non le manette. Lo facemmo sedere su una sedia dallo schienale dritto. Cahill sbatté gli occhi varie volte prima di capire dove si trovava e chi altri era con lui nella stanza. «Le vostre tecniche di disorientamento con me non serviranno a un cazzo», disse. «Tutte balle. Stronzate.» «Sì, anche secondo noi non funzionano», disse il dottor O'Connell. Poi si rivolse a uno degli agenti, Larry Ladove. «Tiragli su la manica, per favore. Ecco fatto. Sentirai pizzicare la pelle, poi una puntura e vuoterai il sacco.» 95 Per le successive tre ore e mezzo, Cahill continuò a biascicare e a comportarsi come uno che ha bevuto troppo e non intende smettere. «So che cosa state facendo», disse lo zio Joe, scuotendo il dito con fare ammonitore a noi tre, che eravamo nella stanza con lui.
«Anche noi sappiamo che cosa stai facendo tu», disse Ladove, quello della CIA. «E cosa hai già fatto.» «Non ho fatto un fico secco. Sono innocente, fino a prova contraria. E poi, se sapete già tutto, com'è che stiamo parlando?» «Dov'è il Lupo, Joe?» gli domandai. «In quale Paese? Dicci qualcosa.» «Non lo so», rispose Cahill. Poi rise, come se avesse appena fatto una battuta. «In tanti anni, non ho mai saputo niente. Zero assoluto.» «L'hai visto, però?» chiesi. «Mai, neppure agli inizi. È furbo, scaltro. Un tantino paranoico, forse. Non gli sfugge niente. L'Interpol potrebbe averlo visto durante il trasporto. Tom Weir? Gli inglesi, magari. L'hanno tenuto un po', prima che arrivassimo noi.» Avevamo già contattato Londra, che però pareva non avere niente di significativo riguardo alla defezione. Gli inglesi non sapevano niente neppure del misterioso «errore» commesso a Parigi. «Da quanto tempo lavoravi con lui?» domandai. Cahill sembrò cercare la risposta sul soffitto. «Per lui, vorrai dire.» «Sì. Da quanto?» «Tanto. Mi sono venduto presto. Gesù, un sacco di tempo.» Scoppiò di nuovo a ridere. «Eravamo tanti. Della CIA, dell'FBI, della DEA. O almeno così diceva lui. Io gli credo.» «Sei stato tu a dare l'ordine di uccidere Thomas Weir», dissi. «Lo hai già ammesso.» Non era vero. «Okay», disse. «Se l'ho fatto, l'ho fatto. Come dici tu.» «Perché il Lupo voleva uccidere Thomas Weir?» continuai. «Perché proprio lui? Ce l'aveva con lui per qualcosa?» «Non funziona così. Si porta a termine il proprio compito. Stop. Non si conosce il piano generale. Però, sì: fra lui e Weir non correva buon sangue. Io non sono mai stato contattato, comunque. Parlava sempre con il mio collega, Hancock. Fu lui a far uscire dalla Russia il Lupo. Corky, i tedeschi, gli inglesi. Ve l'ho detto, no?» Cahill strizzò l'occhio. «Buona, 'sta roba. Il siero della verità. Bevetene un po' anche voi, ragazzi.» Guardò O'Connell. «Anche lei, dottor Mengele. Beva: la verità la renderà libero.» 96 Eravamo riusciti a farci dire la verità da Joe Cahill? C'era qualcosa di significativo nelle sue farneticazioni? Corky Hancock, i tedeschi, gli inglesi... Thomas Weir...
Qualcuno doveva pur sapere qualcosa a proposito del Lupo. Dov'era, chi era, che cosa aveva intenzione di fare... Ero di nuovo on the road, a dare la caccia al Lupo. Il collega di Joe Cahill si era trasferito nell'Idaho quando era andato in pensione e abitava nei pressi di Hailey, nella Wood River Valley, una ventina di chilometri a sud di Sun Valley. Bel posto, per un'ex spia. Per andare dall'aeroporto a Hailey attraversammo quello che il nostro autista chiamò «il deserto alto». Evidentemente Hancock, come Joe Cahill, amava la caccia e la pesca. La famosa riserva di Silver Creek era poco distante da lì. «Non irromperemo in casa sua. Lo sorveglieremo per un po', per vedere cosa fa. In questo preciso momento è a pescare in montagna. Passiamo da casa sua, così date un'occhiata», disse l'agente, che era un giovane intraprendente di nome Ned Rust. «Hancock è un ottimo tiratore, a proposito. Meglio che lo sappiate.» Salimmo sulle alture, dove c'erano villette con ampi giardini intorno. Alcuni avevano prati verdissimi, in contrasto con la vegetazione desertica circostante. «Recentemente ci sono state diverse valanghe», ci spiegò Rust. Era una miniera di informazioni. «Potremmo vedere cavalli selvaggi. O Bruce Willis, con Demi e Ashton e i bambini. Ecco, la casa di Hancock è là. Quella con la facciata in pietre di fiume. Va molto, da queste parti. Una villetta niente male, per un agente in pensione senza famiglia.» «Avrà più soldi da spendere per sé», gli feci notare. La villa era grande e molto bella, con una vista stupenda su tre lati. La stalla era più grossa di casa mia. Poco lontano c'erano due cavalli. Corky Hancock non c'era, invece. Era andato a caccia. Be', anch'io ero a caccia. Nei giorni successivi a Hailey successe poco o niente. L'agente William Koch mi fece un breve aggiornamento. La CIA aveva mandato un pezzo grosso da Washington, Bridget Rooney. Hancock tornò dalla sua battuta di caccia e noi controllammo ogni sua mossa. A occuparsi della sorveglianza statica era una squadra mandata apposta da Quantico, mentre un'altra seguiva Hancock ovunque andasse. Stavamo prendendo la cosa molto sul serio. Dopo tutto il Lupo era a piede libero, con alcuni miliardi di dollari a disposizione. Forse avevamo finalmente trovato una persona che poteva portarci a lui: l'agente della CIA che l'aveva aiutato a espatriare. E che forse sapeva qual-
cosa sul mistero che legava il Lupo e Thomas Weir. L'errore di Parigi. 97 Non sarebbe successo quella notte, e neppure l'indomani. Avremmo dovuto aspettare un po'. Il venerdì venni autorizzato ad andare a trovare mio figlio a Seattle. Chiamai Christine, che mi disse che andava bene. Alex sarebbe stato contento di vedermi, e lei pure. Notai che non aveva più la voce tesa, quando mi parlava. A volte mi ricordavo persino che eravamo stati bene assieme. Non era necessariamente una buona cosa, tuttavia. Arrivai da lei nella tarda mattinata e rimasi colpito di nuovo da quanto fosse bello il posto. Sia la casa che il giardino erano tipici di Christine: accoglienti e tranquilli. Normalissima staccionata bianca, scalini di pietra davanti alla porta, rosmarino, timo e menta nel giardino. Tutto molto grazioso. Venne ad aprirmi con Alex in braccio. Anche se cercavo di trattenermi, non riuscivo a smettere di pensare che le cose tra noi sarebbero potute andare diversamente, se io avessi fatto un lavoro diverso. Ero sorpreso di trovarla a casa e lei se ne accorse. «Non mordo, Alex, sta' tranquillo. Sono andata a prendere Alex a scuola prima perché potesse essere qui al tuo arrivo», spiegò. Mi diede il piccolo e io mi concentrai su di lui. «Ciao papi», mi disse, ridendo un po' timido. Sorrisi. Conosco una donna che mi chiama «il santo», e non lo intende come un complimento. No, sono tutt'altro che un santo, ma cerco di cogliere il meglio dalle cose. Al contrario di lei, forse. «Ma come sei cresciuto!» esclamai sorpreso, ma anche orgoglioso e felice. «Quanti anni hai adesso? Sei? Otto? Dodici?» gli chiesi. «Due. Quasi tre», mi rispose. E rise della mia battuta. Mi inteneriva da morire. «È tutta la mattina che non parla altro che di te. Oggi viene papà. Oggi viene papà'», disse Christine. «Divertitevi.» Poi fece una cosa che mi stupì grandemente: mi diede un bacio su una guancia. Mi sciolsi. Sono un uomo prudente al limite della paranoia, ma non sono di ghiaccio. Prima Kayla Coles, adesso Christine... Dovevo proprio avere l'aria di quello che ha un estremo bisogno d'affetto.
Be', io e Alex ci divertimmo davvero. Io mi comportai come se vivessimo insieme a Seattle. Prima di tutto andammo a Fremont, dove qualche anno prima ero andato a trovare un mio amico, un ispettore in pensione. Fremont era una zona molto caratteristica, piena di edifici storici, negozietti di antiquariato e di vestiti d'epoca. Entrammo nella Touchstone Bakery a mangiare uno scone con burro e marmellata di more e poi riprendemmo la passeggiata. Osservammo per bene il Fremont Rocket, la ricostruzione di un razzo degli anni Cinquanta che si ergeva alto sedici metri all'angolo di un negozio. Poi comprai ad Alex un aquilone, che andammo a far volare al Gas Works Park, da dove si godeva una splendida vista su Lake Union e Seattle. A Seattle c'è un sacco di verde ed è una delle cose che mi piacciono di più di quella città. Mi chiesi come fosse viverci. Mi chiesi anche perché me lo stavo chiedendo: solo perché Christine mi aveva dato un castissimo bacio sulla guancia? Ero davvero così bisognoso di affetto? Mi facevo pena da solo. Andammo ancora un po' in giro a guardare le bizzarre sculture nel parco e ammirammo il gigantesco Fremont Troll. Facemmo un picnic. Naturalmente a base di alimenti biologici: insalata, pane, burro e gelatina di frutta. Paese che vai... dicono. «Si vive bene qui, vero?» dissi ad Alex mentre mangiavamo. «Si sta d'incanto.» Alex annuì, contento. Poi mi guardò con gli occhioni spalancati e mi chiese: «Quando torni a casa, papà?» Oddio! Quando sarei mai tornato a casa? 98 Christine mi aveva chiesto di riportare Alex a casa prima delle sei e io fui puntuale. Sono così responsabile, così Alex, che a volte mi faccio rabbia da solo. Ci aspettava in veranda, vestita di azzurro e con i tacchi alti. Gestì tutto nel migliore dei modi, come mi aspettavo. Sorrise nel vederci e si lasciò abbracciare dal piccolo Alex, che le corse incontro lanciando gridolini di gioia. «Mamma!» «Vi siete divertiti, vedo», disse, accarezzandogli la testa. «Mi fa piacere. Sapevo che avreste passato una bella giornata. Alex, adesso papà deve andare a casa sua. Deve tornare a Washington. E io e te dobbiamo andare a cena da Theo.» Ad Alex venne da piangere. «Non voglio. Non andare via, papà!»
«Deve andare, tesoro. Ha tanto da fare. Salutalo, ora. Verrà di nuovo a trovarti presto.» «Certo», dissi, chiedendomi chi fosse Theo. «Prestissimo.» Alex mi buttò le braccia al collo e io lo strinsi forte forte, riluttante a lasciarlo andare. Mi piaceva il suo profumo, la sua pelle liscia, il fatto di sentirgli battere il cuore contro il mio. Ma non volevo che si accorgesse di quanto mi addolorasse separarmi da lui. «Torno presto», ripetei. «Appena posso vengo di nuovo. Non crescere troppo nel frattempo, mi raccomando.» Alex mi implorò sottovoce: «Non te ne andare, papà. Per favore». Continuò a ripeterlo anche mentre io salivo in macchina e andavo via, facendogli ciao con la mano. Diventò sempre più piccolo e, quando svoltai dietro l'angolo, scomparve. Mi sembrava di sentirlo ancora abbracciato a me. E mi sembra lo stesso tuttora. 99 Quella sera, poco prima delle otto, ero seduto da solo al Kingfish Café di Nineteenth Street, a Seattle. Nella penombra del bar, pensavo a mio figlio Alex. E anche agli altri miei figli. Arrivò Jamilla. Aveva un giaccone di pelle nera, una gonna nera e una camicetta scura e mi fece un sorriso non appena mi vide seduto al bar. Forse le sembravo bello quanto lei sembrava bella a me. Chissà. Jamilla è una bella donna, ma non si rende conto di esserlo. O forse non ci crede. Le avevo detto che pensavo di fare una puntata a Seattle e lei mi aveva proposto di raggiungermi, per cenare insieme. All'inizio ero stato titubante, ma era stato un errore: ero felicissimo di vederla. Soprattutto dopo l'addio ad Alex. «Ti trovo in gran forma», mi sussurrò nell'orecchio. «Un po' stanco, forse. Lavori troppo. Ti verrà l'esaurimento.» «Mi sento molto meglio, adesso che ci sei tu», le dissi. «Sei molto più in forma di me.» «Dici? Grazie. Avevo bisogno di sentirmelo dire.» Il Kingfish era un ristorante estremamente democratico, che non accettava prenotazioni. Tuttavia, senza farci aspettare, ci diedero un bel tavolo tranquillo. Ordinammo, tenendoci per mano e chiacchierando. «Venire a trovare Alex è una tortura ogni volta», dissi a Jamilla mentre cenavamo. «Va contro me stesso, e tutto quello che Nana mi ha insegnato.
Non sopporto di lasciarlo qui.» Jamilla si incupì. Forse si era arrabbiata. «Non lo tratta bene?» «No, non è questo: Christine è una brava mamma. È la lontananza che mi addolora. Voglio bene ad Alex e mi manca da morire. Vorrei vederlo camminare, parlare, fare gli scherzetti tutti i giorni. Andiamo così d'accordo...» «Quindi, per esorcizzare il dolore, ti rifugi nel lavoro», disse Jamilla guardandomi negli occhi. «Sì, è vero.» Annuii. «Ma questa è un'altra storia. Andiamo, dai.» «Che cosa ha in mente, dottor Cross?» «Nulla di illegale, ispettore Hughes.» «Davvero? Mi spiace.» 100 Avevo preso una camera al Fairmont Olympic Hotel in University Street, di fronte a Ranier Square, e non vedevo l'ora di arrivarci. Anche Jamilla sembrava piuttosto impaziente di chiudercisi dentro. Entrammo nella sontuosa hall dell'albergo e Jamilla alzò gli occhi a guardare il soffitto altissimo. C'era silenzio quando arrivammo, alle dieci passate. «Stile Rinascimento italiano, antichi lampadari in cristallo: sono molto impressionata», disse, sorridendo. Il suo entusiasmo mi contagiava. «Nella vita bisogna concedersi qualche lusso ogni tanto», dissi. «Be', lusso è la parola giusta», disse lei, dandomi un rapido bacio. «Sono contenta che tu sia qui. E soprattutto di esserci anch'io. Stiamo bene insieme.» E continuammo a stare bene. La nostra camera era al decimo piano e aveva tutto ciò che ci serviva: era luminosa, ariosa, bene arredata e aveva un letto enorme. C'era persino la vista su Bainbridge Island, con un traghetto che si allontanava lentamente dalla riva. Non avrei potuto scegliere un panorama migliore. Dovevo farmi perdonare. Il letto era coperto da una trapunta a righe verdi e dorate. Non mi premurai di toglierla. Ci lasciammo cadere sopra ridendo e chiacchierando, felici di essere lì insieme. Non ci eravamo resi conto di quanta nostalgia avevamo l'uno dell'altra. «Non vuoi metterti comodo, Alex?» mi sussurrò Jamilla, tirandomi la camicia fuori dai pantaloni. «Non va meglio, così?» «Molto meglio. Adesso tocca a te», le dissi. «Un pezzo per uno non fa
male a nessuno.» Cominciai a sbottonarle la camicetta e lei a sbottonare la mia. Non avevamo fretta: sapevamo che era meglio andare piano. Volevamo che durasse, facendo attenzione a ogni dettaglio, ogni bottone, assaporando la morbidezza della stoffa e della pelle, il respiro sempre più ansimante, il brivido di eccitazione, l'elettricità, le scintille e tutto quello che la notte insieme ci avrebbe riservato. «Mi sembri allenato», mi sussurrò, ansante. Mi piaceva sentire la sua eccitazione. Risi. «Sono allenato a sognarti», risposi. «Slaccio anche questo bottone?» domandò. «Meraviglioso.» «E il prossimo?» «Non so quanto ancora posso aspettare, Jamilla. Non sto scherzando.» «Vedremo, vedremo. Neanch'io scherzo, sai?» Quando ci fummo tolti le rispettive camicie, continuammo a baciarci e ad accarezzarci. Sentii che indossava Calèche Eau Delicate: sapeva che quel profumo mi piaceva. Siccome adorava farsi grattare, lo feci. Le spalle, poi la schiena, e quindi le braccia, il viso, le lunghe gambe, i piedi e di nuovo su lungo le gambe. «Sei sempre più caldo», sospirò, e rise. Scendemmo dal letto e ci abbracciammo, in piedi, dondolando e accarezzandoci. Poi le tolsi il reggiseno e le presi i seni fra le mani. «Non so quanto riesco ancora ad aspettare, ti ripeto.» Era vero. Ero eccitatissimo, talmente turgido che mi faceva male. Scivolai in ginocchio sul tappeto persiano e le baciai il sesso. Era una donna forte e sicura e forse mi piaceva inginocchiarmi davanti a lei per questo. Ammirazione? Rispetto? Qualcosa del genere. Mi rialzai in piedi. «Okay?» le sussurrai. «Okay. Come vuoi tu: sono la tua schiava. O preferisci che sia la tua padrona? Facciamo tutte e due.» La penetrai mentre eravamo ancora in piedi, ma poi ci lasciammo cadere sul letto. Ero perduto dentro di lei, in quel momento dolcissimo, dove era giusto che fossi. Lei ansimava e gemeva, proprio come piaceva a me. «Mi sei mancata», le sussurrai. «Avevo voglia di vederti sorridere, di sentire la tua voce. Tutto.» «Anch'io», mi rispose. E rise. «Ma soprattutto, mi mancava questo.» Una decina di minuti dopo il telefono cominciò a squillare.
Per una volta, feci la cosa giusta: lo sbattei per terra, coprendolo con un guanciale. Se anche era il Lupo, che richiamasse la mattina dopo. 101 L'indomani mattina tornai nell'Idaho. Jamilla e io andammo all'aeroporto insieme, ma poi prendemmo voli diversi per destinazioni diverse. «Sbaglio enorme. Mossa stupida», mi disse, quando ci salutammo. «Dovresti venire a San Francisco con me. Hai bisogno di un po' di relax.» Aveva ragione. Ma non era possibile. Corky Hancock era la pista migliore che avevamo e lo stavamo tenendo d'occhio: non c'era posto in tutto lo Stato in cui non potessimo vederlo e sentirlo. Sorvegliavamo continuamente la sua casa, il giardino e persino la stalla. Quattro unità mobili lo seguivano, supportate da altre quattro. Da quando ero partito, si era aggiunta anche la sorveglianza aerea. Partecipai a una riunione con i quasi trenta agenti impegnati nell'operazione. Ci riunimmo in un piccolo cinema di Sun Valley. La sera era in programmazione Ventun grammi con Sean Penn e Naomi Watts, ma durante il giorno non c'erano spettacoli. L'agente William Koch prese la parola per primo. Alto e dinoccolato, abbastanza imponente, indossava una camicia di cotone, jeans e vecchi stivali da cowboy. Faceva l'ingenuo provinciale, ma non ingannava nessuno. Lo stesso valeva anche per Bridget Rooney, una mora molto intelligente e sicura di sé. «Parliamoci chiaro: o Hancock sa che lo teniamo d'occhio, oppure è un uomo straordinariamente prudente», disse Koch. «Non ha rivolto la parola a nessuno da quando è qui. Si è collegato a Internet: è andato su e-Bay a controllare le canne da pesca, è entrato in un paio di siti porno e in uno di fantabaseball. Ha una donna che si chiama Coral Lee e che abita a Ketchum. Di origini asiatiche, molto graziosa. Corky però è un cesso, quindi abbiamo pensato che le facesse dei gran bei regali. Abbiamo controllato ed è vero. Finora la ragazza gli è costata poco meno di duecentomila dollari in un anno. Viaggi, gioielli, una spider di quelle che piacciono tanto alle ragazze.» Si interruppe e si guardò intorno. «Nient'altro. Ma sappiamo per certo che Hancock è legato al Lupo e che ha ricevuto un sacco di soldi per i servizi che gli ha fornito. Perciò a mezzanotte entreremo in casa sua a dare un'occhiata. Sono stufo di aspettare», concluse.
Qualcuno sorrise. Mi sentii dare una pacca sulla spalla, come se la decisione di entrare in azione fosse dipesa da me. «Io non c'entro», dissi all'agente che si stava congratulando con me. «Sono un soldato semplice, qui.» La squadra incaricata di entrare nella villa di Hancock era formata in prevalenza da agenti FBI, ma c'era anche qualcuno della CIA. Responsabile dell'operazione sarebbe stata Bridget Rooney. La CIA era nell'Idaho per dovere di cortesia, in virtù della nuova collaborazione fra le due agenzie, ma anche perché Hancock era legato all'omicidio di Thomas Weir. Tuttavia dubitavo che quelli della CIA desiderassero prendere quel bastardo più di quanto lo volevo io. Volevo arrivare al Lupo e, prima o poi, l'avrei beccato. Dovevo continuare a crederci. 102 Koch e la Rooney, che comandavano l'operazione, finalmente ci diedero l'okay e all'ora prestabilita circondammo la casa di Hancock. Ovunque girassi gli occhi, c'erano giacche a vento e maglie con l'emblema dell'FBI. Probabilmente spaventammo qualche lepre o qualche cervo, ma non sparammo neppure un colpo. Hancock era a letto con la fidanzata. Aveva sessantaquattro anni, mentre Coral risultava averne ventisei. Aveva un fisico da modella, lunghi capelli corvini, lucentissimi, e molti anelli e monili. Dormiva nuda, sulla schiena. Hancock aveva avuto la decenza di infilarsi una felpa degli Utah Jazz e dormiva raggomitolato in posizione fetale. Ci gridò di tutto, cosa che fu piuttosto divertente. «Cosa cazzo fate? Uscite da casa mia!» Ma si dimenticò di fare la faccia sorpresa, o forse era un pessimo attore. Fatto sta che ebbi la netta sensazione che si aspettasse il nostro arrivo. Ci aveva forse visto nei giorni precedenti? Oppure aveva ricevuto una soffiata da qualcuno all'interno delle forze dell'ordine? Il Lupo sapeva che tenevamo d'occhio Hancock? Durante le prime ore di interrogatori, provammo su Hancock il siero della verità del dottor O'Connell. Non funzionò bene come su Joe Cahill. Hancock divenne tutto allegro, ma si appoggiò allo schienale e non disse quasi niente. Non confermò neppure le cose che Cahill aveva già confessato. Nel frattempo perquisimmo la casa, le stalle e il giardino. Hancock pos-
sedeva un'Aston Martin decappottabile, e sapevamo che il Lupo amava le macchine veloci; a parte questo, non trovammo nulla di sospetto. La perquisizione andò avanti per tre giorni interi, nel corso dei quali un centinaio di agenti controllarono accuratamente tutta la proprietà, centimetro per centimetro. La squadra dei tecnici informatici, che comprendeva alcuni esperti dell'Intel e dell'lBM, cercò di entrare nei due computer di Hancock. Alla fine stabilirono che Hancock si era avvalso dell'aiuto di esperti per proteggere il contenuto dei suoi computer. Non ci restava che aspettare. Lessi tutte le riviste e i quotidiani che trovai in casa di Hancock, compresi alcuni vecchi numeri dell'Idaho Mountain Express, andai a fare lunghe passeggiate e riflettei su cosa fare della mia vita. Non conclusi nulla, ma l'aria di montagna mi fece bene. Quando finalmente i tecnici riuscirono a superare le barriere di sicurezza dei computer di Hancock, scoprimmo che non contenevano nulla di utile. Non c'era niente che potesse farci arrivare al Lupo o agli altri sospettati. O perlomeno non sembrava. Il giorno successivo, invece, un informatico della sede di Austin, nel Texas, trovò un file all'interno di un altro file criptato, che conteneva una serie di comunicazioni regolari con una banca di Zurigo. Anzi, con un paio di banche svizzere. A quel punto avevamo la conferma del fatto che Hancock era molto, molto ricco. Disponeva di oltre sei milioni di dollari. Come minimo. Era la notizia migliore che ricevevamo da molto tempo a quella parte. E così partimmo per Zurigo. Non mi aspettavo di trovarci il Lupo. Non si sa mai, però. E comunque non ero mai stato in Svizzera. Jannie mi pregò di portarle un vagone di cioccolata e io le dissi di sì. Te ne porto una valigia piena, tesoro. È il minimo che io possa fare, non essendo stato con te quasi per niente, nell'ultimo anno. 103 Nei panni del Lupo, sarei andato a vivere a Zurigo. È una città bellissima e pulitissima, sull'omonimo lago, con tanto verde, bei sentieri panoramici e l'aria buona. Quando arrivai, minacciava un temporale e l'aria odorava di ottone. I palazzi erano tinteggiati di chiaro, sui toni del beige e del bianco. Molti avevano bandiere svizzere che sventolavano nella brezza che soffiava dal lago. Mentre giravo in macchina per la città, notai binari del tram dappertutto.
La potenza dei vecchi tempi! C'erano anche mucche in fibra di vetro di dimensioni naturali ovunque, dipinte con scene alpine, che mi fecero venire in mente Mu, il pupazzo preferito del piccolo Alex. Che cosa avrei fatto con lui? Che cosa potevo fare? La banca di Zurigo era in un edificio anni Sessanta tutto acciaio e cristalli, vicinissimo al lago. Sandy Greenberg mi aveva dato appuntamento davanti al portone. Indossava un tailleur grigio, aveva una borsa nera a tracolla e sembrava un'impiegata della banca, più che un agente dell'Interpol. «È la prima volta che vieni a Zurigo, Alex?» mi chiese, abbracciandomi e baciandomi. «Sì. Ma ho avuto un coltellino svizzero, da piccolo.» «Dobbiamo mangiare insieme: promettimelo. Adesso andiamo perché ci aspettano e gli svizzeri sono un popolo puntuale. Specie i banchieri.» Gli interni della banca erano lussuosissimi, lucidissimi e più puliti di una sala operatoria. Gli sportelli erano di marmo e legno, i cassieri efficienti e gentili e parlavano sottovoce. Mi sfuggiva il branding, finché non vidi una serie di opere d'arte contemporanea alle pareti e capii che l'immagine della banca era quella. «Zurigo è un paradiso per gli intellettuali e la cultura d'avanguardia», mi spiegò Sandy, senza abbassare la voce. «Il dadaismo è nato qui. E Wagner, Strauss e Jung ci hanno vissuto.» «James Joyce ci ha scritto l'Ulisse», dissi, strizzandole l'occhio. Sandy scoppiò a ridere. «Mi ero dimenticata che sotto sotto sei un intellettuale pure tu.» Ci accompagnarono nell'ufficio del presidente della banca, che era sobrio e perfettamente in ordine: sulla scrivania c'era un'unica pratica. Tutte le altre erano archiviate in appositi classificatori. Sandy porse al signor Delmar Pomeroy una busta. «È un mandato», spiegò. «Per esaminare il vostro conto corrente numero 616479Q.» «Abbiamo già predisposto tutto», disse Pomeroy. E ci congedò. Il suo assistente ci mostrò tutte le operazioni del conto, entrate e uscite. E meno male che le banche svizzere erano famose per la loro riservatezza: era già stato predisposto tutto. 104 Le indagini sembravano procedere in maniera efficiente e ordinata, a quel punto. Peccato che io sapessi che non era propriamente così. Con
Sandy e altri due agenti dell'Interpol esaminai tutte le operazioni sul conto di Corky Hancock in una saletta senza finestre nei sotterranei della banca. Il saldo dell'ex agente della CIA era salito da duecentomila dollari a poco più di sei milioni. Però. I quattro versamenti più consistenti, per un totale di tre milioni e mezzo, erano stati effettuati tutti quell'anno. Provenivano da un conto intestato a tal Y. Jikhomirov. Impiegammo un paio d'ore per ricostruire tutto. Erano oltre cento pagine di documenti, dal 1991. Che era l'anno in cui il Lupo era espatriato dalla Russia. Una semplice coincidenza? Non ci credevo. Non più. Analizzammo con cura le uscite del conto di Jikhomirov. C'erano bonifici a favore di una ditta che noleggiava jet privati, pagamenti di biglietti aerei della British Airways e dell'Air France, di conti alberghieri presso il Claridge's e il Bel-Air a Los Angeles, lo Sherry-Netherland a New York, il Four Seasons a Chicago e Maui. E poi bonifici in America, Sudafrica, Australia, Parigi e Tel Aviv. Che dietro ci fosse il Lupo? Un'operazione mi incuriosì particolarmente. Riguardava l'acquisto di quattro fuoriserie da un concessionario di Nizza, la Riviera Motors. Una Lotus, una Jaguar Special Edition e due Aston Martin. «Il Lupo ama le macchine da corsa», dissi a Sandy. «Forse questo acquisto vuole dire qualcosa. Magari siamo più vicini di quanto ci aspettiamo. Che cosa ne pensi?» Sandy assentì. «Già. Penso che dovremmo fare una visitina alla Riviera Motors. Nizza è una bella città. Prima, però, andiamo a pranzo. Me l'hai promesso, Alex.» «Me l'hai fatto promettere tu», precisai. «Dopo la mia pietosa battuta a proposito del coltellino svizzero.» Avevo fame, in ogni caso, e quindi l'idea di andare a pranzo mi allettava. Sandy scelse uno dei suoi locali preferiti, il Veltliner Keller, che secondo lei avrei apprezzato. Entrando, mi spiegò che quel ristorante esisteva dal 1551, che era un bel record, per un esercizio commerciale. Per un'ora e mezzo ci dimenticammo del lavoro e gustammo una zuppa d'orzo tipica dell'Engadina, un gratin della casa e un ottimo vino. Era tutto molto curato, a cominciare dalle tovaglie candide fino alle rose nei vasi d'argento e alle saliere di cristallo. «Hai avuto un'idea fantastica», dissi a Sandy quando stavamo finendo di mangiare. «Ci voleva proprio una piccola pausa.» «Si chiama pranzo, Alex. Dovresti farlo più spesso. Dovresti venire in
Europa con la tua fidanzata Jamilla. Lavori troppo.» «Si vede?» «No, a dire la verità sembri in ottima forma. Sei meglio di Denzel, sai? Negli ultimi film mi è sembrato un po' invecchiato. Tu invece sei sempre uguale. Non so come fai. Ma ho la sensazione che tu sia tormentato dentro. Be', ora finiamo di mangiare tranquilli e andiamo a Nizza a controllare quel concessionario. Ci faremo una piccola vacanza e chissà che nel frattempo non prendiamo anche l'assassino. Finisci il vino, dai.» «Okay», dissi. «Ma prima devo comprare del cioccolato per Jannie. Le ho promesso che gliene avrei portato una valigia piena.» «Hai promesso anche di catturare il Lupo?» chiese Sandy. «Sì, certo.» 105 Prossima tappa, Nizza. La Riviera Motors, «concessionaire exclusif Jaguar, Aston Martin, Lotus». Mi sembrava di essere in un film di Hitchcock. Nella showroom erano allineati macchinoni neri e lucenti, visibili dalla strada attraverso enormi vetrine. Il pavimento era bianco, a dare maggior risalto a quelle auto da sogno. «Che cosa ne pensi?» chiese Sandy scendendo dalla Peugeot che avevamo noleggiato e lasciato di fronte all'autosalone. «Penso che dovrei comprare una macchina nuova», risposi. «E che è noto che il Lupo ama le auto di grossa cilindrata.» Entrammo e ci fermammo al banco della reception, dove una signorina molto elegante, abbronzata e con una coda di cavallo biondo platino, ci soppesò. Alti, lui nero e lei bianca: chi mai saranno 'sti due? «Vorremmo parlare con Monsieur Garnier», disse Sandy in francese. «Avete un appuntamento, Madame?» «Sì. Siamo rispettivamente dell'Interpol e dell'FBI. Monsieur Garnier ci sta aspettando, penso. Dobbiamo parlare di alcune cose molto importanti.» Mentre aspettavamo, ci demmo un'occhiata in giro. Le auto erano sistemate a spina di pesce e intervallate da piante in vaso. Nell'officina adiacente, alcuni meccanici in tuta verde Jaguar lavoravano con attrezzi di una pulizia impeccabile. Il concessionario si fece attendere soltanto qualche minuto. Indossava un elegante completo grigio, piuttosto sobrio ma evidentemente firmato, che
gli stava a pennello. «Siete qui per due Aston Martin, una Jaguar e una Lotus?» «Esattamente», disse Sandy. «Possiamo andare a parlare nel suo ufficio? Non vorremmo spaventarle i clienti.» L'uomo sorrise. «Mi creda, Madame, la nostra reputazione è a prova di bomba.» «Vedremo», replicai io, in francese. «Stiamo indagando su un assassino.» 106 Monsieur Garnier divenne subito più gentile e collaborativo. Le quattro automobili in questione erano state acquistate da un certo M. Aglionby, che apparentemente aveva una casa a Cap Ferrat. «Sulla Basse Comiche, la strada lungo la costa che porta a Monaco», ci spiegò. «Non potete sbagliare. State tranquilli, non è una residenza che passi inosservata.» «Caccia al ladro», disse Sandy, mentre andavamo verso Cap Ferrat, due ore dopo. Avevamo perso un po' di tempo ad aspettare rinforzi. «Le scene più memorabili di quel film sono state girate lassù», proseguì Sandy, indicandomi la strada parallela alla nostra, ma un centinaio di metri più in alto. Sembrava molto pericolosa. «Caccia all'assassino senza scrupoli», dissi io. «Molto meno spiritoso e affascinante di Cary Grant.» «Giusto», fece Sandy. «Non lasciarmi perdere la concentrazione: questo luogo tende a distrarmi.» Ma io sapevo perfettamente che invece era concentratissima. Lo era sempre: per questo andavamo d'accordo. La villa di Aglionby era a ovest del capo, a Villefranche-sur-Mer. Dietro a muri di pietra imbiancati si intravedevano ville e parchi lungo tutto il Boulevard Circulaire. Avevamo dietro una decina di macchine e furgoni. Anche loro si godevano il panorama, senza dubbio: la Rolls-Royce decappottabile blu, lucidissima, che stava uscendo da una delle proprietà con al volante una bionda con un foulard e occhiali scuri; i turisti che prendevano il sole sulla terrazza del Grand-Hotel du Cap-Ferrat, la piscina scavata nella roccia dello stabilimento Piscine de Sun Beach. «Pensi che sarà un viaggio a vuoto, Alex?» mi chiese Sandy. «È possibile. Per una che se ne azzecca, se ne fanno un sacco inutili. Ma questa volta il mio istinto mi dice che andrà bene. Ho la sensazione che Monsieur Aglionby sia coinvolto in questa sporca faccenda.»
Lo speravo, comunque. Sul conto svizzero di Corky Hancock c'erano un sacco di soldi, la maggior parte dei quali erano stati versati di recente. Che cosa poteva sapere lui del Lupo, però? Chi ne sapeva qualcosa? Vedemmo subito la villa che cercavamo. Sandy passò oltre. «Ti abbiamo beccato!» disse. «Aglionby? Il Lupo? E perché no?» «Per abitare in una villa così, deve avere un sacco di soldi. Gesù, quanto costerà?» «Per un miliardario è abbastanza modesta, Alex. Non è tanto questa villa: chissà quante altre ne avrà... In Costa Azzurra, a Londra, Parigi, Aspen.» «Se lo dici tu. Non sono mai stato miliardario, quindi non lo so. Né ho mai posseduto una villa in riviera.» Era in stile mediterraneo, beige e bianca, esposta benissimo, con terrazzi e porticati e le persiane chiuse per ripararsi dal sole di mezzogiorno. O forse per non farsi vedere da fuori... Quattro piani, trenta e passa stanze: una piccola reggia. A noi, per il momento, bastava darle un'occhiata. Come avevamo programmato poco prima, incontrammo alcuni esponenti della polizia locale in un vicino albergo sul mare. Il piano era di entrare nella proprietà di Aglionby dal giardino dei vicini, sul lato sud. In quel momento i padroni non c'erano e la proprietà era presidiata solo dalla numerosa servitù. L'idea era di vestirsi da giardinieri e cuochi e di colpire il giorno dopo. Sandy e io ascoltammo attentamente, scuotendo la testa. No, stavolta no. Intervenni: «Noi entriamo stanotte. Con o senza il vostro aiuto». 107 La decisione di entrare subito in azione venne appoggiata con entusiasmo dall'Interpol e persino da Parigi, che era in contatto con Washington e voleva fermare il Lupo come tutto il resto del mondo, se non di più. Tutto accadde in fretta, quel pomeriggio. Anch'io facevo parte della squadra. E Sandy pure. Avevamo pianificato il raid come se nella villa ci fosse il Lupo. Sette squadre di due tiratori scelti ciascuna erano appostate sui quattro lati della proprietà, che erano stati denominati bianco (nord), rosso (est), nero (sud) e verde (ovest). Porte e finestre erano tutte sotto tiro. I tiratori, ciascuno con un determinato numero di obiettivi, erano i più vicini alla villa: erano i nostri occhi e le nostre orecchie.
Fino a quel momento, non sembrava che fossimo stati visti. Mentre i tiratori scelti prendevano posizione, noi di Interpol, FBI, polizia ed esercito francese ci attrezzavamo con tute nere e giubbotti antiproiettile, pistole e mitragliatrici MP-5. A circa un chilometro di distanza erano pronti gli elicotteri che ci avrebbero affiancato durante l'assalto. Stavamo aspettando il via, ma c'erano alcuni di noi che temevano che all'ultimo minuto potesse succedere qualcosa: ripensamenti politici, paura nelle alte sfere, un imprevisto qualsiasi. Ero sdraiato sulla pancia accanto a Sandy Greenberg, a meno di cento metri dalla villa, e cominciavo a sentir crescere l'agitazione. In quella casa poteva esserci il Lupo. Forse era Aglionby. In casa le luci erano accese, ma dopo mezzanotte non vedemmo più nessuno passare davanti alle finestre illuminate. La sorveglianza era scarsa: soltanto un paio di guardie. «Che silenzio», disse Sandy. «Non so se questa cosa mi piace, Alex. Troppo poche guardie del corpo.» «Sono le due del mattino.» «Avresti mai più detto che avremmo fatto un raid?» domandò Sandy. Sorrisi. «Perché? Stiamo facendo un raid? No, non mi sorprende. Ricordati che i francesi vogliono prendere il Lupo almeno quanto noi.» Arrivò il segnale: potevamo partire. Sandy e io facevamo parte della seconda squadra d'assalto e cominciammo a correre verso la villa quarantacinque secondi dopo la prima. Entrammo dal retro. Era tutto buio. Ci ritrovammo in cucina, dove qualcuno aveva acceso le luci e per terra c'era una guardia, ammanettata. La stanza era tutta marmi, con quattro fornelli al centro. Notai una grossa ciotola di cristallo sul tavolo e diedi un'occhiata a ciò che conteneva. Sembravano nasi neri, ma erano fichi. Sorrisi fra me. Poi imboccai con Sandy il lungo corridoio. Fino a quel momento non si erano sentiti spari. Un sacco di altri rumori, ma nessuna sparatoria. Arrivammo a un salotto di proporzioni diplomatiche, con lampadari di cristallo che pendevano dal soffitto e pavimento in marmo. Alle pareti, quadri scuri e solenni di artisti francesi e fiamminghi. Ma del Lupo neanche l'ombra. «Ci prendono l'aperitivo o ci firmano dei trattati, qua dentro?» domandò Sandy. «Perché non reagiscono, Alex? Che cosa succede? Il russo è qui o no?» Salimmo di sopra, dove i militari francesi stavano facendo uscire dalle
camere da letto alcuni uomini e donne più o meno svestiti. Nessuno era particolarmente sexy, però. In compenso erano tutti spaventati. Non vidi nessuno che potesse essere il Lupo. D'altra parte, che cosa ne sapevo io di com'era fatto il Lupo? Nessuno l'aveva mai visto. Cominciammo subito gli interrogatori. Dov'è il Lupo? Chi è Aglionby? Perquisimmo la casa due volte, e poi anche una terza. Marcel Aglionby non c'era, ci venne ripetuto da diversi ospiti. Era a New York per lavoro. C'era una delle figlie, che aveva dato una festa, invitato degli amici. Alcuni, tuttavia, dimostravano il doppio dei suoi anni. Suo padre era un banchiere rispettabile, giurò e spergiurò la ragazza. Non era assolutamente un criminale. Figuriamoci se era il Lupo. Che fosse il banchiere del Lupo, allora? Avrebbe saputo dirci qualcosa? Mi scocciava ammetterlo, ma era innegabile: il Lupo ci aveva battuti di nuovo. 108 Perquisimmo la villa un'ultima volta, nonostante le proteste della figlia di Aglionby, controllando ogni angolo. Era una casa stupenda, piena di mobili antichi e opere d'arte. Sandy aveva l'impressione che i padroni di casa si fossero ispirati alla vicina Fiorentina, che era considerata una delle più belle case del mondo. Di certo avevano gusti raffinati e potevano permettersi ogni lusso. L'arredamento comprendeva alcuni pezzi Luigi XVI dipinti a mano, lampadari Luigi XV, antichi tappeti turchi, paraventi cinesi, arazzi e un gran numero di dipinti, classici e moderni. Opere di Fragonard, Goya, Brueghel. Li aveva pagati il Lupo? E perché no? Aveva oltre due miliardi di dollari... Riunimmo i «sospetti» nella sala da biliardo, che conteneva tre tavoli da biliardo e un numero spropositato di divani, come nel salotto, dello stesso stile. Possibile che nessuno sapesse niente sul conto del Lupo? Era più probabile che quella gente conoscesse Paris e Nicky Hilton. «C'è qualcuno che vuole parlare a nome di tutti?» chiese il capo dei poliziotti francesi. Nessuno si offrì volontario, nessuno rispose alle domande. «Va bene, separiamoli e cominciamo a interrogarli uno per uno. Qualcuno prima o poi parlerà», disse il capo della polizia. Non essendomi stato chiesto di partecipare agli interrogatori, uscii a fare un giro e scesi verso il mare. Avevamo seguito un'altra pista sbagliata? I
giochetti del Lupo, le sue strategie e controstrategie, ci avevano confuso sin dal principio. Era improbabile che smettesse di menarci per il naso proprio adesso. Sulla riva c'era una rimessa per le barche. Grande, molto grande. Era a un centinaio di metri dalla villa. Era stata trasformata in garage e conteneva oltre trenta automobili di gran lusso, sportive e berline. Forse avevamo finalmente scoperto qualcosa. Una prova che il Lupo era stato lì. O era l'ennesima presa in giro? Ero lì, fra la rimessa e la spiaggia, quando scoppiò il finimondo. 109 Non aveva altro che il suo pezzo del puzzle, una piccola parte di un piano grandioso. Ma era sufficiente. Bari Naffis sapeva che c'era stata un'incursione nella proprietà di Villefranche-sur-Mer e che per questo nel giro di un'ora sarebbero morti tutti, compresi i suoi amici e la ragazza con cui era andato a letto, una modella di Amburgo. Bella, e preziosa. La polizia e l'esercito francese avevano occupato la villa. Adesso toccava a Bari. Aveva una missione da compiere. Non sapeva come fosse potuto succedere, ma era successo. Svoltando sulla D125, il Boulevard Circulaire, gli sembrava di essere già in ritardo. Ma aveva ricevuto ordini precisi. Evidentemente qualcuno aveva previsto anche questo. Il Lupo se l'aspettava. Quell'uomo aveva gli occhi anche dietro la testa. Faceva davvero paura. Bari Naffis non sapeva, né voleva sapere altro. Era stato pagato profumatamente e in anticipo, per quel lavoro assurdo e deplorevole. Perché uccidere e ferire tanta gente? Mezz'ora prima aveva ricevuto un segnale radio dalla villa nella sua camera d'albergo: il rumore l'aveva riscosso da un sonno profondo. Si era buttato giù dal letto, si era vestito ed era corso a prendere posizione in un terreno a monte della villa. Cercava di non pensare ai suoi amici e alla ragazza di Amburgo, che erano dentro la casa. Chissà, forse la modella sarebbe sopravvissuta. Non c'era niente da fare: non poteva andare contro le istruzioni del Lupo per una ragazza. Corse fra gli alberi, nella fitta vegetazione. Aveva un lanciamissili portatile, l'arma più scomoda del mondo. Era lungo un metro e mezzo e pesava una quindicina di chili, ma era molto ben bilanciato e ave-
va un'impugnatura a fucile. Sparava un missile Stinger FIM-92A e lì nel bosco ce n'erano altri due, con altrettanti operatori. Ognuno aveva un compito da svolgere. A ognuno il suo pezzo del piano. Chissà se anche gli altri sicari avevano i suoi stessi dubbi, le sue esitazioni. Era stata tesa una trappola alle forze dell'ordine. Una morte terribile aspettava tutti quelli che erano nella villa. Sarebbero andati tutti al Creatore, poliziotti e non. Una carneficina. Quando arrivò in posizione, a circa cinquecento metri dalla villa, si mise il tubo sulla spalla, posò la mano destra sull'impugnatura e prese la mira. Teneva il lanciamissili come fosse stato un fucile convenzionale, benché fosse tutt'altro che convenzionale. Trovò facilmente il suo bersaglio: non si poteva mancare una villa. Rimase in attesa del via in cuffia. Non gli piaceva. Immaginava la bellissima tedesca. Si chiamava Jeri ed era dolcissima, con un corpo stupendo. Aspettando, quasi sperava che il segnale non arrivasse. Per il bene di Jeri e di tutti gli altri poveracci dentro quella casa. Invece il segnale arrivò. Elettronico, impersonale come il funerale di uno sconosciuto. Un lieve fischio nelle orecchie. Due brevi e uno lungo. Bari trasse un profondo respiro, poi buttò fuori l'aria lentamente e, riluttante, premette il grilletto. Sentì un leggero rinculo, più lieve di quello di un fucile. Il motore primario si accese, lanciando il missile a una decina di metri di distanza. A quel punto si sarebbe attivato il sistema di propulsione secondario. Seguì con gli occhi la scia di vapore lasciata dal razzo. Lo Stinger stava per colpire il bersaglio. Con un rombo cupo, il missile accelerò, raggiungendo i duemilacinquecento chilometri orari. Cerca di salvarti, Jeri. Lo Stinger colpì la casa e Bari si preparò al secondo lancio. 110 Si sentirono dei sibili sinistri e quindi una serie di esplosioni. Guardai e vidi morte e confusione ovunque. I militari e i poliziotti francesi correvano a cercare riparo. Un missile
doveva aver colpito il tetto della villa a nord, proiettando tegole, mattoni e pezzi di legno in tutte le direzioni. Poi arrivò un secondo missile e poi ancora un terzo. Stavo correndo verso la villa, quando ebbi la seconda sorpresa. Una porta della rimessa si aprì e una Mercedes blu percorse sgommando il vialetto di ghiaia che portava alla strada. Corsi verso un'auto della polizia parcheggiata sull'erba, la misi in moto e partii all'inseguimento. Non ebbi tempo di avvertire nessuno del mio piano. Neppure Sandy. Mi chiesi se un'auto della polizia potesse stare dietro a una Mercedes truccata. Probabilmente no. Anzi, quasi certamente no. Riuscii a non perdere di vista la potente CL55 fino a dopo Cap Ferrat, lungo la Basse Corniche. Rischiavo di lasciarci le penne e di ammazzare anche altre persone, in quella strada tutta curve, ma non volevo assolutamente farmi seminare. Chi c'era a bordo? Perché stava scappando? Possibile che fosse il Lupo? Il traffico verso Monaco era intenso. Vidi le luci di un carro attrezzi e capii che qualche poveraccio aveva avuto un incidente su quella strada tortuosa. Iniziai a sperare. Il traffico rallentava davanti alla Mercedes, che di punto in bianco fece inversione e partì in direzione ovest. Procedeva a gran velocità, superando una serie infinita di insegne di locali e ristoranti. E io gli tenevo dietro. Dietro una curva mi apparve Villefranche-sur-Mer in tutto il suo splendore. La baia era magnifica, con la luna piena nel cielo e tanti yacht e barche a vela. Sembrava il bagnetto di un bambino ricco. In discesa la Mercedes accelerò ulteriormente. Doveva fare i centocinquanta chilometri all'ora. Mi venne in mente che avevo letto che quell'auto aveva una potenza di cinquecento cavalli. Non mi stupivo. Stavamo entrando a Nizza e io ero sempre più vicino. Le strade erano strette e incredibilmente affollate, specie intorno ai bar e ai night-club. Cioè ovunque. Per fortuna. La Mercedes mancò di un pelo un gruppetto di ubriachi che usciva dall'Etoile Filante. Suonando il clacson, continuai l'inseguimento, scatenando le proteste e le urla dei passanti. L'auto davanti a me svoltò bruscamente sulla N7, la Moyenne Corniche, la strada in quota. La seguii sapendo che rischiavo di perderla da un momento all'altro. Ma chi avrei perso? Chi si trovava a bordo di quella Mercedes blu?
La strada si inerpicava, tortuosa. Stavamo tornando verso Monaco, ma lì non c'era traffico e la Mercedes andava a velocità elevatissima. Evidentemente la persona che la guidava sapeva che, tornando indietro, avrebbe fatto prima e avrebbe potuto viaggiare a una velocità impossibile per una macchina della polizia. Dopo un paio di chilometri ebbi la certezza che mi avrebbe seminato. Eravamo di nuovo all'altezza di Villefranche, ma in quota. La vista su Cap Ferrat e Beaulieu era mozzafiato. Non potevo non guardarla: anche a quella folle velocità era una gioia per gli occhi. Non potevo arrendermi, e premetti ulteriormente sull'acceleratore. Quanto ancora sarei riuscito a stargli dietro? Entrammo in una galleria buia e, quando sbucammo, mi ritrovai in un villaggio medievale in cima a un dirupo, Eze. Appena superato il villaggio, la strada diventò pericolosa. Sembrava che la Moyenne Corniche fosse stata appiccicata con lo scotch al pendio roccioso. Il mare, di sotto, era cangiante e passava dall'azzurro all'opale e al grigio argento. Sentii profumo di agrumi. La paura, a volte, acuisce i sensi. La Mercedes mi stava seminando e io feci l'unica cosa che potevo fare. Invece di rallentare prima della curva successiva, accelerai. 111 Cominciavo ad accorciare le distanze e perciò continuai ad andare a tavoletta, chiedendomi se non avessi per caso un istinto suicida. A un certo punto la Mercedes sbandò finendo sulla corsia opposta e toccò la parete di roccia. In realtà la sfiorò appena, ma a quella velocità fece un testacoda, spostandosi da una corsia all'altra, e carambolò di nuovo contro la roccia. Poi prese il volo. Era a mezz'aria, stava precipitando in mare. Inchiodai e scesi di corsa dall'auto. Vidi la Mercedes rimbalzare contro la parete rocciosa e cadere sulla strada più in basso. Non potevo certamente raggiungerla. Come avrei potuto? In corda doppia? Scorsi un intrico di lamiere contorte e immaginai che il conducente fosse morto. Chi sarà stato? Tornai alla macchina della polizia di cui mi ero impossessato alla villa. Mi ci vollero dieci minuti o quasi per scendere sull'altra strada e raggiungere la Mercedes incidentata. La polizia francese e le ambulanze erano già
sul posto. Si era anche raccolto un gruppo di curiosi. Scesi dalla mia macchina e vidi subito che il ferito non era ancora stato estratto dalle lamiere. I soccorritori stavano lavorando per riuscire a tirarlo fuori. Notai che gli parlavano. Chi era? Uno gridò: «È ancora vivo! È un uomo. È ancora vivo!» Corsi verso la Mercedes per vedere com'era fatto. Chi era? Mi avrebbe detto qualcosa? Lanciai un'occhiata alla Moyenne Corniche e mi chiesi come avesse potuto cavarsela dopo un volo così. Si sapeva che il Lupo era un duro, ma possibile che fosse sopravvissuto a un volo del genere? Mostrai il mio tesserino ai poliziotti, che mi lasciarono avvicinare. E così lo vidi. Conoscevo l'uomo intrappolato fra le lamiere. Non potevo crederci, però. Non riuscivo a credere ai miei occhi. Mi batteva fortissimo il cuore e avevo la mente totalmente in subbuglio. Mi chinai sull'auto rovesciata, da cui si alzava un filo di fumo, e quindi mi inginocchiai per terra e mi protesi verso l'abitacolo semidistrutto. «Sono Alex», dissi. L'uomo mi guardò, cercando di mettermi a fuoco. Era intrappolato fra le lamiere, imprigionato fino al petto. Era uno spettacolo raccapricciante. Tuttavia Martin Lodge era ancora vivo. Stava tenendo duro. Mi parve sul punto di dire qualcosa e mi avvicinai ancora. «Sono Alex», ripetei. Gli accostai l'orecchio alla bocca. Volevo sapere chi era il Lupo. Volevo sapere tante cose. Martin sussurrò: «Tutto questo per niente. La tua caccia all'uomo è inutile. Non sono io il Lupo. Non l'ho mai nemmeno visto». Detto questo, spirò, lasciando a bocca asciutta me e tutti gli altri che aspettavano delle risposte. 112 La famiglia Lodge era sotto custodia cautelare, in Inghilterra. Avevamo la sensazione che, se il Lupo avesse sospettato che la moglie o i figli di Martin Lodge sapessero qualcosa di compromettente, li avrebbe fatti uccidere. Era possibile che li facesse giustiziare comunque, per sicurezza, o anche solo per divertirsi un po'. Partii per Londra la mattina dopo e parlai con il superiore di Martin Lodge a Scotland Yard. Si chiamava John Mortenson. Prima di tutto, mi riferì che nessuno dei sopravvissuti alla strage di Cap Ferrar sembrava saper nulla del Lupo, o di Martin Lodge.
«Ma un piccolo sviluppo c'è stato», aggiunse poi. Mi appoggiai allo schienale della poltroncina di pelle da cui vedevo Buckingham Palace. «A questo punto, non mi stupisco più di niente. Mi dica tutto, John. Riguarda la famiglia Lodge?» Mortenson sospirò e annuì. «Tutto cominciò con Klara Cernohosska in Lodge. Martin era nella squadra che aiutò a far espatriare dalla Russia il disertore Edward Morozov nel 1993. Era insieme con Cahill, Hancock e Thomas Weir della CIA. Il problema era che il disertore non era Edward Morozov, ma un ex agente del KGB che non fu mai identificato e che sospettiamo fosse il Lupo.» «Diceva della moglie di Martin, Klara. Che cosa ha fatto?» «Tanto per cominciare, non è ceca. Uscì dalla Russia insieme con l'uomo che si faceva chiamare Morozov. Era l'assistente del capo del KGB, oltre che la nostra principale fonte di informazioni a Mosca. Pare che lei e Martin avessero legato durante il passaggio. Lei poi fu trasferita in Inghilterra. Martin la aiutò a cambiare identità e cancellò tutti i dossier che la riguardavano. Poi la sposò. Che cosa ne dice?» «Dico che Klara Cernohosska sa chi è il Lupo e che faccia ha. Giusto?» «Non sappiamo che cosa sappia. Si rifiuta di parlare. Non è detto però che con lei non si sbottoni, dottor Cross.» Mi appoggiai allo schienale e scossi la testa. «Perché dovrebbe? L'ho vista una volta soltanto...» Mortenson fece spallucce e accennò un sorriso. «Klara dice che suo marito si fidava di lei. Ci crede? Che cosa significa, secondo lei? Perché dovrebbe fidarsi di un uomo che ha visto una volta soltanto?» Purtroppo, non ne avevo la più pallida idea. 113 La famiglia Lodge era sotto sorveglianza a Shepton Mallet, una località a circa duecentocinquanta chilometri da Londra. In mezzo alla campagna verdeggiante, era un nascondiglio perfetto, anche se temporaneo. Si trattava di un casolare ristrutturato in una strada senza uscita appena fuori del paese. Il terreno era abbastanza pianeggiante e chiunque avesse tentato di avvicinarsi sarebbe stato visibile a chilometri di distanza. La fattoria era protetta da un manipolo di guardie armate fino ai denti. Arrivai verso le sei di quella sera stessa. La casa era bene arredata, con mobili antichi. Cenammo in una sorta di bunker sotterraneo, però.
Non era stata Klara a preparare la cena e io mi chiesi se approvasse il menu. Ne dubitavo. Il cibo era piuttosto cattivo: sembrava quello che servivano in aereo. «Niente michana vejce, stasera», dissi, cercando di fare lo spiritoso. «Ricorda la colazione insieme a Battersea, Alex. E persino la pronuncia. Mi fa piacere», disse Klara. «È un buon osservatore. Martin lo diceva, che lei era un professionista in gamba.» Finito di mangiare, Hana, Daniela e Jozef salirono in camera loro a fare i compiti. Klara rimase con me e si accese una sigaretta. Aspirava lunghe boccate di fumo, che poi espirava lentamente. «I compiti?» domandai stupito. «Anche qui? Stasera?» «È importante avere una disciplina, buone abitudini su cui contare. Io ne sono convinta. Dunque lei era con Martin, quando è morto?» mi chiese. «Che cosa le ha detto? La prego, mi racconti tutto.» Riflettei, prima di rispondere. Che cosa voleva sentirsi dire Klara? E che cosa mi conveniva dirle? «Mi ha detto che non era lui il Lupo. È vero, Klara?» «Tutto qui? Cos'altro le ha detto?» Presi in considerazione di dirle che aveva parlato di lei e dei bambini, ma non lo feci: non volevo mentirle. Non ne sarei stato in grado. «Niente, Klara, tutto qui. Non c'è stato molto tempo. Solo pochi secondi. Non ha sofferto troppo. Era sotto shock.» Klara annuì. «Martin me l'aveva detto che potevo fidarmi di lei. La trovava fin troppo sincero. Lo so che mio marito non può aver detto niente di sentimentale nemmeno in punto di morte.» La guardai nei profondi occhi scuri, che sembravano straordinariamente vivaci. «Le dispiace, Klara?» le chiesi. Scoppiò a ridere. «Lo amavo per questo.» Aveva alcune cose da dirmi, quella sera, nella campagna inglese. Iniziò una trattativa fra noi. Ascoltai le sue richieste. «Voglio un salvacondotto per l'estero per me e i ragazzi. Nuove identità e la possibilità di portare con noi un po' dei nostri risparmi. Le dirò dove vogliamo andare a stare in un secondo tempo. Per ora, no.» «Praga?» chiesi. Era una battuta. «No, di certo non Praga, Alex. E nemmeno in Russia. Né in America, peraltro. Glielo dirò a tempo debito. Prima, però, stabiliamo che cosa volete in cambio del salvacondotto.»
«Vogliamo molto, Klara», risposi. «Vogliamo il Lupo. Che cosa sa di lui? Chi è? Dov'è? Che cosa le ha detto Martin?» Sorrise. «Tutto. Martin mi adorava: non aveva segreti per me.» 114 Il Lupo atterrò con il suo aereo privato all'aeroporto di Teterboro, nel nord del New Jersey. Ad aspettarlo c'era una Range Rover nera con cui andò a New York City, città che disprezzava da sempre. C'era un traffico infernale come al solito e gli ci volle di più ad arrivare a Manhattan da Teterboro che a volare dal New Hampshire al New Jersey. Lo studio del chirurgo era in Sixty-third Street, vicino a Fifth Avenue. Parcheggiò la Range Rover ed entrò velocemente. Erano le nove del mattino appena passate. Non si premurò di controllare se qualcuno lo seguiva. Lo riteneva improbabile e comunque non avrebbe potuto farci nulla, ormai. In ogni caso aveva già predisposto una serie di piani alternativi, come al solito. L'infermiera dello studio faceva anche da segretaria. Quel giorno c'erano solo lei e il chirurgo plastico. Il Lupo aveva insistito perché lo staff fosse ridotto al minimo e perché non ci fossero altri pazienti. «Questi sono i moduli che deve leggere e firmare», gli disse la donna con un sorriso teso. Forse non sapeva chi era, ma sospettava avesse dei buoni motivi per pretendere una tale segretezza e per sborsare tutti quei soldi. «Non firmo un bel niente, io», dichiarò il Lupo, spingendola da una parte per andare dalla dottoressa Levine. La trovò nella piccola sala operatoria, già illuminata e molto fredda. «Mi ricorda la Siberia. Il gulag in cui trascorsi un lungo inverno», disse. La dottoressa si voltò: era una quarantenne graziosa, snella e giovanile. Se la sarebbe fatta volentieri, ma non era dell'umore giusto. Magari dopo, pensò. Le strinse la mano. «Dottoressa Levine, sono pronto. Non voglio restare qui per più di qualche ora, quindi è meglio che cominciamo subito.» «Oh, non è possibile», iniziò a obiettare la dottoressa. Il Lupo alzò una mano per farla tacere e per un istante parve che stesse per darle uno schiaffo. La dottoressa trasalì. «Non ho bisogno di anestesia. Come le ho detto: sono pronto. Anche lei è pronta.»
«Non sa quel che dice, mi creda. Lei ha chiesto un intervento al volto, al collo, liposuzione, impianti a zigomi e mascelle. Il dolore sarà insopportabile. Glielo assicuro.» «Io lo sopporterò. Ho già patito di peggio», disse il Lupo. «Le consento unicamente di monitorare i miei segni vitali. Sull'anestesia generale non ci sono discussioni. Mi prepari per l'intervento. Altrimenti...» «Altrimenti?» chiese la dottoressa, irritata, dondolando sui talloni. «Altrimenti», ribadì il Lupo. «Non occorre che io sia più specifico, le pare? Il campo è vasto e comprende sofferenze molto superiori a quelle che lei ritiene io non possa sopportare. Ha una soglia del dolore altrettanto alta, dottoressa Levine? E i suoi figli, Martin e Amy? Suo marito Jerrold? Su, cominciamo. Ho dei tempi da rispettare.» Piani, programmi, scadenze. Sempre. 115 Non diede un grido, non emise suono per tutta la durata dell'operazione. Né il chirurgo né la sua assistente riuscivano a capacitarsene. Sembrava che il paziente non avesse la minima sensibilità. Come spesso succedeva agli operati di sesso maschile, perse parecchio sangue e il suo volto si coprì di lividi. Il dolore della rinoplastica, che durò un'ora e mezzo, dovette essere di gran lunga il peggiore, soprattutto quando gli asportò frammenti di osso e cartilagine senza neppure un anestetico locale. Al termine della plastica al naso, l'ultima fase dell'intervento, la dottoressa gli raccomandò di restare immobile. Ma il Lupo si alzò subito in piedi. Aveva il collo gonfio e dolente e macchie di Betadine sulla testa e sotto il mento. «Non male», disse con un filo di voce. «Ho vissuto di peggio.» «Non si soffi il naso per almeno una settimana», gli raccomandò la dottoressa, quasi con quel consiglio cercasse di mantenere un po' di dignità e di controllo della situazione. Il Lupo si infilò una mano in tasca ed estrasse un fazzoletto, ma poi lo ripose subito. «Scherzavo», disse. Si incupì. «Non ha proprio nessun senso dell'umorismo, vero, dottoressa?» «Le sconsiglio anche di guidare», disse il chirurgo. «Vivamente. Per il bene suo e degli altri.» «Certo. Non metterei mai a rischio la vita del mio prossimo. Lascerò qui
la macchina, alla mercé di quelli della rimozione forzata. Pago subito il conto, dottoressa: sto iniziando a stufarmi della sua compagnia.» Fu in quel momento, mentre prendeva la valigetta, che ebbe un piccolo tentennamento. Barcollò appena, poi si vide allo specchio: era incredibilmente livido e gonfio in viso. Almeno per quel poco che si vedeva spuntare dalle bende. «Ha fatto un bel lavoro», decretò. E scoppiò in un'aspra risata. Aprì la valigetta, prese una Beretta munita di silenziatore e sparò due colpi in faccia all'infermiera sbigottita. Quindi si voltò verso la dottoressa Levine, che gli aveva inflitto così tanto dolore. «Altre raccomandazioni, dottoressa?» le domandò. «Vuole darmi un ultimo consiglio prima di andarsene?» «I miei figli. La prego, non mi uccida», lo supplicò la dottoressa. «Lei sa che sono madre.» «Staranno meglio senza di lei, credo. È una grandissima rompipalle, sa? Scommetto che anche i suoi figli la pensano così.» Le sparò al cuore. Sono stato fin troppo buono, tenuto conto di come mi hai torturato, pensò. Gli era antipatica: non aveva il minimo senso dell'umorismo. Alla fine uscì dallo studio medico e si avvicinò alla Range Rover. Nessuno sapeva che faccia aveva adesso. Nessuno al mondo sarebbe più stato in grado di riconoscerlo. Gli scappava da ridere. Ecco qual era il suo pezzo del puzzle. 116 «È lui. Deve essere lui.» «Cos'avrà mai da ridere? Guardalo. Ci credi?» «Sembra che gli abbiano fatto lo scalpo e lo abbiano scorticato vivo», disse Ned Mahoney, osservando l'uomo con la testa bendata e il completo grigio che usciva dallo studio medico. «Sembra un mostro.» «Non lo sottovalutare», ricordai a Ned. «E non ti dimenticare che è un mostro.» Stavamo osservando il Lupo. O, perlomeno, quello che credevamo essere il Lupo. Usciva dallo studio di un chirurgo plastico nell'East Side, a Manhattan. Eravamo appena arrivati, da un minuto soltanto. Avevamo rischiato di perderlo per l'ennesima volta. «Non ti preoccupare: non lo sottovaluto, Alex. Tant'è vero che ho oltre
dieci squadre pronte ad acciuffarlo. Se fossimo arrivati qui un attimo prima, l'avremmo preso all'uscita dallo studio medico.» Annuii. «In ogni caso, siamo qua. La trattativa, in Inghilterra, è stata complicata. Klara Lodge e i suoi figli sono in Nord Africa, adesso. Klara ha fatto la sua parte.» «Dunque il Lupo ha un dispositivo di tracciamento sotto la scapola da quando è uscito dalla Russia? Sarà vero?» «Be', siamo qui, no? Secondo Klara, Martin Lodge sapeva sempre dov'era il Lupo. Per questo era vivo.» «Allora siamo pronti? Lo prendiamo?» «Si, siamo pronti. Io sono pronto.» Altroché, ero prontissimo: volevo catturare quel bastardo, non vedevo l'ora di vedere che faccia avrebbe fatto. Mahoney, che aveva un paio di cuffie e un microfono, disse: «Circondatelo. Ricordatevi che è estremamente pericoloso». Bravo, Ned. 117 La Range Rover era ferma al semaforo all'incrocio fra Fifth Avenue e Fifty-ninth Street. Fu affiancata da alcune berline scure, da un lato e dall'altro. Una terza auto le sbarrò la strada. Dalle macchine scesero diversi agenti. Lo avevamo preso! Dalla Hummer bianca davanti alla Range Rover qualcuno cominciò a sparare. Poi le portiere si spalancarono e scesero tre uomini imbracciando armi automatiche. «Da dove vengono quelli?» urlò nel microfono Ned Mahoney. «A terra, presto!» Eravamo scesi dall'auto e stavamo correndo verso la sparatoria. Ned fece fuoco e prese una delle guardie del corpo del Lupo. Io ne colpii un'altra. La terza cominciò a spararci addosso. Nel frattempo il Lupo era sceso dalla Range Rover e si era messo a correre lungo Fifth Avenue, in mezzo alle macchine. Essendo tutto bendato, sembrava che gli avessero sparato o si fosse bruciato malamente. I pedoni si gettavano sul marciapiede per ripararsi dai proiettili che volavano in tutte le direzioni, gridando. Dove pensava di andare il Lupo, conciato così? Be', a New York poteva anche andare lontano. Altri uomini armati spuntarono come dal nulla. Quante erano le guardie
del corpo del Lupo? Di certo erano arrivati i rinforzi. E noi quanti eravamo? A un certo punto il Lupo entrò in un negozio di Fifth Avenue. Io e Mahoney lo seguimmo. Non vidi neppure che negozio fosse. Bello, di lusso. Del resto, se era in Fifth Avenue, non poteva essere altrimenti. Poi il Lupo fece una cosa impensabile. E io che credevo che nulla potesse più sorprendermi... Alzò di scatto il braccio destro e lanciò in aria un oggetto scuro. Ne seguii la traiettoria. Gridai: «Granata! Tutti a terra! Attenti alla granata!» La potente esplosione mandò in frantumi due enormi vetrine del negozio, ferendo diverse persone e producendo un fumo spesso e scuro. Nel negozio gridavano tutti, compresi commessi e cassieri. Non persi di vista il Lupo nemmeno per un attimo, restando concentrato su di lui. Qualsiasi cosa facesse, stavolta non doveva farla franca. Indipendentemente dal pericolo. Non potevamo permetterlo: quell'uomo stava tenendo in ostaggio il mondo intero. Era già responsabile della morte di migliaia di persone. Mahoney andò da una parte, io dall'altra. Il Lupo pareva diretto a un'uscita che dava su una traversa di Fifth Avenue. Avevo perso l'orientamento: era Fifty-fifth o Fifty-sixth Street? «Non dobbiamo lasciarlo uscire!» urlò Mahoney. «No di certo!» gli risposi. Stavamo per raggiungerlo, lo vedevamo in faccia. Fra le bende, i lividi e il gonfiore, faceva ancor più paura di quanto mi immaginassi. Ma il peggio era che sembrava disperato, disposto a tutto. Noi, però, lo sapevamo. Gridò: «Ucciderò tutti quelli che sono qui dentro!» Io e Mahoney non gli rispondemmo nemmeno e continuammo ad avvicinarci. Ma gli credevamo. Il Lupo afferrò una bambina bionda, strappandola alla baby-sitter. «La ammazzo. Ammazzo la bambina. È morta! La ammazzo!» Noi non ci fermammo. Il Lupo prese in braccio la bambina, che doveva avere tre o quattro anni, sporcandola del suo sangue. La bambina piangeva terrorizzata e si dibatteva furiosamente. «Ammazzerò...» Ned e io sparammo quasi contemporaneamente. Due spari, e il Lupo perse l'equilibrio e lasciò cadere a terra la bambina, che si alzò subito in piedi strillando e corse via.
Anche il Lupo si rialzò e corse via. Prese la prima porta laterale e fuggi in strada. «Deve avere un giubbotto antiproiettile.» «La prossima volta, miriamo alla testa», replicai. 118 Lo inseguimmo lungo Fifty-fifth Street, in direzione est, insieme con un paio di nostri agenti e due poliziotti che correvano velocissimi. Se qualcuna delle sue guardie del corpo era sopravvissuta alla sparatoria in Fifth Avenue, doveva aver perso le tracce del Lupo nella confusione, perché non ne vidi nemmeno una. Ma il Lupo sembrava sapere dove andare. Com'era possibile? Come poteva aver pianificato anche questo? Non riuscivo a credere che stesse per sfuggirci di nuovo. Era lì, davanti a noi. Nel mirino. Poi, di colpo, svoltò l'angolo di un palazzo di mattoni rossi, alto una decina di piani. Che conoscesse qualcuno lì dentro? Che fosse entrato per cercare rinforzi? O ci stava tendendo l'ennesima trappola? Nel palazzo c'era un servizio di sicurezza. C'era stato, per la precisione: la guardia, in divisa, era morta. Qualcuno le aveva sparato alla testa e adesso giaceva a faccia in giù in un lago di sangue. Gli ascensori erano tutti occupati. I numeri rossi luminosi segnavano otto, quattro, tre: stavano salendo tutti. «Non uscirà di qui, questo è certo», decretò Mahoney. «Non esserne così sicuro», replicai. «Non volerà mica, ti pare?» «No, ma chissà cos'altro farà. Se è venuto qui, un motivo ci sarà.» Mahoney mandò alcuni agenti ad aspettare gli ascensori e a controllare tutti i piani sistematicamente, dal basso in alto. Stavamo attendendo rinforzi dal dipartimento di polizia di New York. Nel giro di qualche minuto sarebbero arrivate decine di altri agenti. E poi centinaia. Il Lupo era in quel palazzo. Mahoney e io imboccammo le scale. «Dove andiamo? Fino dove arriviamo?» «Fin sul tetto. È l'unica via di fuga.» «Pensi davvero che abbia un piano? E quale, Alex?» Scossi la testa: non ne avevo la minima idea. Ma il Lupo sanguinava e
doveva essere debole. Chissà, forse delirava. O forse aveva un piano. Per la miseria, non l'avevamo mai colto impreparato. E così salimmo fino all'ultimo piano, il nono. Dalla tromba delle scale, il Lupo non si vedeva. Controllammo velocemente negli uffici: nessuno l'aveva visto. Sicuramente, se ne sarebbero ricordati. «Sul retro! Ci sono le scale che portano sul tetto», ci suggerì l'impiegato di uno studio legale. Ned Mahoney e io le salimmo e uscimmo alla luce del sole. Del Lupo neanche l'ombra. C'era una specie di casotto, che pareva un cappellino posato in cima all'edificio. Una cisterna? Un ripostiglio? La porta era chiusa a chiave. «Dev'essere qui. A meno che non si sia buttato», disse Ned. Fu in quel momento che lo vedemmo sbucare da dietro il casotto. «No, non mi sono buttato, Mahoney. Le avevo detto di non partecipare alle indagini. Mi sembrava di essere stato chiaro. Gettate a terra le armi. Subito.» Feci un passo avanti. «L'ho portato io.» «Lo so. Lei è infaticabile, dottor Cross. Non molla mai, eh? Per questo è tanto prevedibile, e utile.» Dalla botola che portava sul tetto fece capolino un poliziotto del Dipartimento di New York. Vide il Lupo e sparò. Lo colpì al petto, senza fargli nulla. Sì, evidentemente portava un giubbotto antiproiettile. Emise un verso, una specie di ululato, e si avventò contro il poliziotto con le mani sopra la testa. Lo afferrò e lo sollevò di peso. Io e Ned non potevamo intervenire. Il Lupo lanciò il poveraccio oltre il parapetto, nel vuoto. Poi si mise a correre verso l'altro lato del tetto, come un pazzo scatenato. Che cosa aveva in mente di fare? Di colpo capii: il palazzo accanto era abbastanza vicino per poterci saltare sopra. Ma poi vidi che stava arrivando un elicottero. Era venuto a prendere il Lupo? Era questo il suo piano di fuga? Non potevo lasciarlo scappare... Gli corsi dietro. Anche Mahoney. «Fermo lì! Non ti muovere!» Correva a zigzag, per sfuggirci. Aprimmo il fuoco, ma senza colpirlo. E, tutto a un tratto, lo vedemmo per aria, che agitava le braccia: stava saltando sul tetto del palazzo vicino. «No! Bastardo!» urlò Ned. «No!» Mi fermai e presi la mira, poi premetti il grilletto quattro volte. 119
Il Lupo muoveva gambe e braccia, quasi corresse a mezz'aria, ma a un certo punto cominciò a precipitare. Allungò le braccia per aggrapparsi al tetto del palazzo vicino e lo toccò con le dita. Mahoney e io raggiungemmo il bordo del tetto. Possibile che il Lupo stesse per scapparci un'altra volta? Chissà come, finora c'era sempre riuscito. Ma questa volta no. Gli avevo sparato nel collo. Stava per soffocare nel suo stesso sangue. «Cadi, bastardo!» gli urlò Mahoney. «Non ce la fa», dissi io. Avevo ragione: il Lupo precipitò, senza lottare, senza emettere suono, senza lanciare un grido. Nel più completo silenzio. Mahoney gli gridò dietro: «Ehi, Lupo! Va' dritto all'inferno!» Cadde giù, come al rallentatore, e si schiantò nel vicolo fra i due palazzi. Guardai il suo corpo sull'asfalto, in una posizione innaturale, la faccia bendata, e provai una soddisfazione che non sentivo da tempo. Mi sentivo sollevato, felice. Lo avevamo preso! E meritava di fare quella fine, spappolato per terra come un insetto schiacciato. Ned Mahoney si mise a battere le mani e fece una piccola danza sul posto. Sembrava impazzito. Non mi unii ai suoi festeggiamenti, ma lo capivo. Quel criminale meritava di morire. Di finire stecchito in mezzo a una strada. «Non ha detto bah», mormorai dopo un po'. «Non ci ha voluto dare neppure quella piccola soddisfazione.» Mahoney alzò le spalle. «Me ne frego. Noi siamo quassù e lui è laggiù, in mezzo alla spazzatura. Forse un po' di giustizia a questo mondo c'è. O forse no», disse Ned. Scoppiò a ridere e mi abbracciò. «Abbiamo vinto!» esclamai. «Maledizione, alla fine abbiamo vinto noi!» 120 Ce l'avevamo fatta! La mattina dopo andai a Quantico a bordo di un elicottero Bell, insieme con Ned Mahoney e i suoi. Era in programma una festa per celebrare la vittoria sul Lupo. Io però volevo tornare a casa al più presto. Avevo detto a Nana di non mandare a scuola i ragazzi: volevo festeggiare con loro. Avevamo vinto! Durante il viaggio in macchina da Quantico a Washington mi rilassai
sempre di più. Più mi avvicinavo a casa, più mi sentivo di nuovo me stesso. Mi pareva quasi di essere tornato alla normalità. Non vedendo uscire di casa nessuno, pensai che Nana e i ragazzi non mi avessero visto e decisi di far loro una sorpresa. Avevamo vinto! Il portone era aperto. Entrai. Le luci erano accese, ma non vedevo nessuno. Che volessero farmi una sorpresa? Senza far rumore, andai in cucina. Le luci erano accese, la tavola apparecchiata. Ma neanche lì c'era nessuno. Era un po' strano. Anomalo. Rosie, la gatta, mi si avvicinò miagolando e mi si strusciò contro le gambe. Alla fine urlai: «Sono arrivato! Papà è tornato a casa! Dove siete? Sono tornato dalla guerra». Salii al piano di sopra, ma non c'era nessuno neppure lì. Controllai se mi avessero lasciato un biglietto. Niente. Corsi giù e guardai sul retro e per la strada. Non c'era un'anima. Dov'erano Nana e i ragazzi? Sapevano che stavo per tornare a casa... Rientrai e feci un paio di telefonate, cercando di pensare dove potessero essere andati tutti quanti. Nana mi lasciava quasi sempre scritto dove portava i ragazzi, anche se uscivano solo per un'ora o due. Soprattutto quando sapeva che stavo per rientrare. Mi colse un'angoscia improvvisa. Aspettai mezz'ora, poi avvertii i colleghi dello Hoover Building, a cominciare da Tony Woods, della direzione. Nel frattempo, continuai a girare per casa alla ricerca di qualche indizio. Arrivò una squadra di tecnici. Dopo un po' uno di essi mi raggiunse in cucina. «Nel giardino sul retro ci sono impronte di un individuo di sesso maschile. Tracce di terra portata in casa da poco. Sul fatto che le impronte siano recenti non ci sono dubbi. Potrebbero essere di un fattorino o di un tecnico venuto a fare qualche riparazione, però.» Quel pomeriggio, non trovarono altro. Neanche una traccia. La sera vennero a trovarmi Sampson e Billie. Ci sedemmo lì ad aspettare che mi chiamasse qualcuno, che succedesse qualcosa. Un piccolo segno, un motivo di speranza. Invece non telefonò nessuno e, alle due passate, Sampson se ne tornò a casa sua. Billie era andata via verso le dieci. Io rimasi alzato tutta la notte, ma nessuno mi contattò. Nessuna notizia né di Nana né dei miei figli. Parlai con Jamilla al cellulare e un po' mi rasserenò, ma troppo poco. Niente avrebbe potuto rasserenarmi, quella sera. Alla fine, quando ormai era mattino, andai sulla porta e scrutai Fifth
Street con gli occhi rossi e gonfi. Mi resi conto che quella era sempre stata la mia paura più grossa: essere solo, senza nessuno vicino, e sapere che i miei cari erano in grave pericolo. Non avevamo vinto un bel niente... 121 L'e-mail arrivò il quinto giorno. Tremavo. Quando la aprii, temetti di sentirmi male. Caro Alex, esordiva. Sorpresa! Contrariamente a quello che lei pensa di me, non sono una persona così crudele e spietata. Gli individui veramente crudeli e irragionevoli, quelli di cui è giusto aver paura, si trovano prevalentemente negli Stati Uniti e in Europa occidentale. Il denaro ora in mio possesso mi aiuterà a fermarli, ad arginare la loro ingordigia. Non mi crede? Fa male. Perché non dovrebbe credermi? La ringrazio per tutto quello che ha fatto per me, e per Hana, Daniela e Jozef. Sono in debito nei suoi confronti e io i debiti li saldo sempre. La considero «un misero insetto, ma sempre meglio che niente». I suoi familiari torneranno oggi: adesso siamo pari. Non mi rivedrà mai più. Non desidero rivederla mai più. Se mai capiterà, per lei sarà la fine. Glielo prometto. Klara Cernohosska, il Lupo 122 Non potevo mollare. Non potevo, e non volevo. Il Lupo si era introdotto nella mia casa e aveva rapito la mia famiglia. Erano tornati tutti sani e salvi, ma poteva accadere di nuovo. Nelle settimane successive misi alla prova i nuovi rapporti di collaborazione fra il Bureau e la CIA. Chiesi a Ron Burns di esercitare tutte le pressioni possibili. Mi recai nel quartier generale della CIA, a Langley, più di dieci volte e parlai con più persone possibile, dagli analisti più giovani al nuovo direttore, James Dowd. Volevo informazioni su Thomas Weir e l'agente del KGB che aveva aiutato a far uscire dalla Russia. Dovevo sapere tutto quello che sapevano loro. Era possibile? Ne dubitavo, ma questo non
mi impediva di tentare. Un giorno venni convocato nell'ufficio di Burns. Quando arrivai, trovai ad aspettarmi Burns e il nuovo direttore della CIA: doveva essere successo qualcosa. Poteva essere uno sviluppo positivo. Ma anche negativo. Molto negativo. «Venga avanti, Alex», mi fece Burns, cordiale come sempre. «Si accomodi. Dobbiamo parlare.» Entrai e mi andai a sedere di fronte ai due grandi capi, che erano in maniche di camicia e sembravano reduci da un'estenuante discussione. Di che cosa potevano aver parlato? Del Lupo? Di qualcos'altro di cui io preferivo non sapere niente? «Il direttore Dowd ha da riferirle qualcosa», disse Burns. «Già», fece Dowd. Era un ex avvocato di New York, il che era inconsueto per un direttore della CIA. Aveva lavorato nel dipartimento di polizia di New York e poi per alcuni anni come libero professionista in uno studio legale. Si diceva che nascondesse segreti che nessuno di noi sapeva, o voleva sapere. «Sono a Langley da poco», esordì Dowd. «Il fatto di essere ancora in fase di ambientamento mi ha aiutato: ho dedicato molte energie e molto tempo a raccogliere informazioni su Weir.» Guardò Burns. «Sono prevalentemente positive. Un curriculum impeccabile. Ma andare a frugare nei vecchi archivi non è un'attività molto apprezzata da quelli della 'vecchia guardia', in Virginia. Francamente, non me ne può fregare di meno. Un russo a nome Anton Christyakov venne reclutato e portato fuori della Russia nel 1990. Siamo abbastanza sicuri che fosse il Lupo. Venne trasferito in Inghilterra, dove incontrò alcuni agenti, fra cui Martin Lodge. Fu poi trasferito in una casa fuori Washington. La sua identità era nota soltanto a pochi. La maggior parte di costoro adesso sono morti, compreso Weir. Dopo un certo periodo venne mandato in una sede di sua scelta - Parigi - dove ritrovò i suoi familiari: madre, padre, moglie e due figli, di nove e dodici anni. Abitavano a due passi dal Louvre, in una delle strade andate distrutte qualche settimana fa. La sua famiglia venne sterminata nel 1994, ma Christyakov sopravvisse. Riteniamo che la strage fosse stata ordinata dal governo russo, anche se non lo sappiamo per certo. Qualcuno che voleva morto Christyakov doveva aver scoperto dove viveva. Pare che la strage abbia avuto luogo sul ponte sulla Senna che è andato distrutto nel recente attentato.» «Christyakov ritenne responsabili la CIA e Tom Weir e i governi coin-
volti», aggiunse Burns. «Forse fu per questo che impazzì: non lo sapremo mai. Fatto sta che entrò nella Mafia russa e salì rapidamente ai vertici. Qui in America, presumibilmente a New York.» Si interruppe e Dowd non aggiunse nulla alle sue parole. Tutti e due mi guardavano in silenzio. «Dunque non è Klara. Cos'altro sappiamo di questo Christyakov?» Dowd allargò le braccia. «Abbiamo qualche informazione, ma molto poche. Era conosciuto da alcuni boss, che però nel frattempo sono tutti morti. È possibile che il boss attualmente a capo delle cosche russe di Brooklyn sia al corrente di qualcosa e potrebbe esserci un contatto anche a Parigi. Non è escluso che riusciamo a scoprire qualcosa a Mosca: ci stiamo lavorando.» Scossi la testa. «Non mi interessa quanto tempo ci vuole: voglio prenderlo. Ditemi cos'altro sapete.» «Era molto legato ai figli. Forse è per questo che non ha torto un capello ai suoi ragazzi, Alex», disse Burns. «Né ai miei.» «Ha risparmiato la mia famiglia per dimostrarmi quanto è potente. Per mostrarsi superiore.» «Ha il vizio di stringere in mano una pallina di gomma», disse Dowd. «Nera.» Lì per lì non capii. «Come, scusi?» «Prima di morire, uno dei suoi figli gli regalò una pallina di gomma. Per il suo compleanno, pare. Ci risulta che Christyakov abbia l'abitudine di tenerla in mano e di stringerla nel pugno quando è arrabbiato. Si dice anche che ami lasciarsi crescere la barba. E che sia single. Ma sono tutte voci frammentarie, Alex. Purtroppo non abbiamo altro. Mi spiace.» Spiaceva anche a me, ma non c'era niente da fare. Lo avrei preso comunque. Una pallina di gomma in mano. La barba. Sopravvissuto alla strage dei suoi familiari. 123 Sei settimane dopo andai a New York. Era la mia quinta trasferta consecutiva. Tolya Bykov era ai vertici della Mafia russa di New York, specie nella zona di Brighton Beach, da diversi anni. Era stato un potente boss a
Mosca e adesso lo era in America. Stavo andando da lui. Era una giornata insolitamente calda per quella stagione. Ned Mahoney e io eravamo diretti a Mill Neck, sulla costa settentrionale di Long Island. Attraversammo in macchina una zona molto verde, con strade strette e niente marciapiedi, e arrivammo nella roccaforte di Bykov insieme con una dozzina di agenti, senza essere annunciati. E muniti di un mandato. C'erano bodyguard ovunque e mi chiesi come facesse Tolya Bykov a vivere a quel modo. Forse era costretto, per non lasciarci la pelle. Era una casa molto grande, in stile coloniale, a tre piani, con una vista incredibile sul canale, fino al Connecticut. Aveva una piscina con una cascata d'acqua, una rimessa per le barche e un molo. Tutto pagato con soldi sporchi? Ci ricevette nel suo studio. Mi sorpresi di quanto sembrasse vecchio e stanco. Era grassissimo, con gli occhi piccoli. Doveva pesare centocinquanta chili e respirava a fatica. Ogni tanto, tossiva. Mi avevano detto che non parlava inglese. «Mi parli dell'uomo chiamato il Lupo», dissi, sedendomi di fronte a lui, davanti a una semplice scrivania di legno. Uno dei nostri agenti di New York, mezzo russo e mezzo americano, tradusse le mie parole. Tolya Bykov si grattò il collo, scosse la testa e infine parlò in russo, a denti stretti. L'interprete ascoltò, poi mi guardò. «Dice che gli sta facendo perdere tempo, oltre che perderne lei. Sa solo la favola di Pierino e il Lupo. Nient'altro.» «Non ce ne andremo. FBI e CIA gli staranno con il fiato sul collo e indagheranno su tutti i suoi affari finché non troveremo il Lupo. Glielo dica.» L'agente parlò in russo e Bykov gli scoppiò a ridere in faccia. Disse qualcosa. Io capii solo «Chris Rock». «Dice che è più divertente di Chris Rock. Gli piace molto Chris Rock. La satira politica in generale.» Mi alzai in piedi, feci un cenno a Bykov e me ne andai. Non mi aspettavo molto di più da quel primo incontro. Era solo un'introduzione. Ma sarei tornato più e più volte, se necessario. Era l'unico caso a cui stavo lavorando. E stavo imparando a essere paziente. Molto paziente. 124 Pochi minuti dopo, mentre uscivo dall'enorme villa insieme a Ned Ma-
honey, scoppiai a ridere al pensiero di quel primo colloquio. Tanto valeva prenderla in ridere, no? Poi vidi qualcosa. Mi fermai, guardai meglio. E lo vidi di nuovo. «Oddio, Ned. Guarda!» «Che cosa?» Si voltò, ma non vide niente. Mi misi a correre, un po' tremebondo. «Che cos'hai visto Alex? Cosa c'è?» mi gridò dietro Ned. «Alex?» «È lui!» Avevo gli occhi fissi su uno dei bodyguard di Bykov. Giacca nera, cravatta, niente cappotto. Era in piedi sotto un sempreverde e ci fissava. Gli guardai la mano. Stringeva nel pugno una pallina nera. La strizzava ritmicamente. Ero sicuro che quella fosse la pallina che il figlio del Lupo aveva regalato a suo padre prima di morire. L'uomo con la pallina in mano aveva la barba. Mi fissava dritto negli occhi. Poi si voltò e si mise a correre. Urlai a Ned: «È lui! Il Lupo!» Accelerai, correndo più forte di quanto non mi capitasse da parecchio tempo a quella parte. Confidavo che Ned mi venisse dietro. Vidi il russo saltare su una spider rossa e mettere in moto. Oh, no! Ma riuscii a raggiungerlo e a salirci su anch'io prima che lui ingranasse la marcia. Gli mollai un potente pugno sul naso, facendogli schizzare sangue sulla giacca e sulla camicia nera. Ero sicuro di averglielo rotto. Lo colpii nuovamente, questa volta sulla mascella. Aprii la portiera dalla parte del guidatore. Lui mi guardò. I suoi occhi erano freddi, di un'intelligenza gelida, privi di qualsiasi emozione. Non avevo mai visto occhi così. Disumani. Era l'aggettivo che aveva usato il presidente francese, del resto. Il vero Tolya Bykov era forse lui? In quel momento, non mi interessava. Era il Lupo, glielo leggevo in quegli occhi pieni di arroganza, di sicumera e, soprattutto, di odio nei confronti miei e del resto del mondo. «La pallina», disse. «Lei sapeva della pallina. Me la regalò mio figlio. Complimenti.» Mi fece un sorriso strano, quindi addentò qualcosa che aveva in bocca. Immaginai subito di che cosa doveva trattarsi e cercai disperatamente di aprirgli la bocca. Teneva le mascelle serrate, però. Sgranò gli occhi, con una smorfia di dolore. Veleno. Aveva ingerito una capsula di veleno. Di colpo spalancò la bocca e lanciò un gemito altissimo. Aveva la bava
che gli colava giù per il mento. Emise un altro verso e cominciò a tremare, in preda alle convulsioni. Non riuscivo a tenerlo fermo. Mi scostai. Sempre in preda agli spasmi, iniziò ad ansimare. Si teneva il collo con le mani, tremando in maniera incontrollabile. Dopo alcuni minuti di terribile agonia, nei quali non potevo - e non volevo - fare nulla a parte guardare, morì sul sedile anteriore di una delle sue numerose automobili di lusso. Mi chinai e raccolsi la pallina di gomma. Me la misi in tasca. Era quello che molti serial killer che avevo catturato chiamavano «un trofeo». Era finita. Sarei tornato a casa, adesso. C'erano tante cose su cui dovevo riflettere, mi aspettavano tanti cambiamenti. Mi colse un pensiero preoccupante: Adesso mi metto anche a raccogliere trofei? Ma avevo un pensiero più importante: riguardava Damon, Jannie, il piccolo Alex e Nana. La mia famiglia. Il Lupo è morto. Sotto i miei occhi. Continuai a ripetermelo finché non iniziai a crederci veramente. FINE