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DOUGLAS PRESTON TYRANNOSAUR CANYON (Tyrannosaur Canyon, 2005) A mio figlio, Isaac Prologo Dicembre 1972 Valle Taurus-Littrow Mare della Serenità Luna L'undici dicembre 1972 l'ultima missione Apollo con equipaggio sbarcò sul suolo lunare. La navicella atterrò nell'area di Taurus-Littrow, una straordinaria valle circondata da montagne ai margini del Mare della Serenità. La zona sembrava ricca di meraviglie geologiche, costellata di colline, monti, crateri, frane e distese di detriti. Di particolare interesse erano i numerosi crateri che punteggiavano la valle: nei punti di impatto, i meteoriti avevano sollevato spruzzi di ciottoli e pietrisco vetrificato disseminandoli nelle aree circostanti. La spedizione contava di fare ritorno sulla Terra con preziosi campioni di rocce lunari. Il comandante del modulo era Eugene Cernan, Harrison «Jack» Schmitt il suo pilota. Erano entrambi perfetti per la missione Apollo 17: Cernan, reduce dalle precedenti spedizioni Gemini IX e Apollo 10, era un veterano; Schmitt era un brillante geologo specializzatosi ad Harvard che aveva preso parte alla pianificazione delle prime missioni Apollo. Per tre giorni i due astronauti esplorarono la valle Taurus-Littrow a bordo del Rover lunare. Fin dalla prima ricognizione era apparso chiaro a tutti che, geologicamente parlando, avevano fatto un colpaccio; e il secondo giorno, presso un cratere piccolo e profondo detto Shorty, compirono una delle scoperte più eccitanti, che portò indirettamente alla rivelazione del cratere Van Serg. Quando Schmitt scese dal veicolo per esplorare il bordo dello Shorty, notò con stupore che da sotto la polvere lunare smossa dai suoi stivali affiorava uno strato di terreno arancione vivo. Meravigliato, Cernan alzò il visore riflettente per assicurarsi che non si trattasse di un'illusione ottica. Nel frammento, Schmitt scavò rapido una buca e vide che in profondità il suo-
lo diventava di un colore rosso acceso. Nella sala di controllo a Houston gli esperti discussero eccitati le origini e il significato di quel suolo insolitamente colorato, e chiesero ai due uomini di prelevare un campione di entrambi i materiali per portarlo sulla Terra. Schmitt eseguì, poi i due astronauti giunsero sulla cima dello Shorty, dove constatarono che l'impatto del meteorite che aveva originato il cratere aveva portato alla luce lo stesso tipo di terreno arancione, ben visibile ai lati della cavità. Houston richiese ulteriori campioni da una seconda zona. Per questo motivo nell'itinerario di ricognizione fu inserito un piccolo cratere senza nome, situato accanto a Shorty. L'avrebbero esplorato il terzo giorno, sperando che presentasse il medesimo tipo di terreno. Schmitt lo battezzò cratere Van Serg, dal nome di un docente conosciuto ad Harvard che scriveva pezzi umoristici dietro lo pseudonimo di «Professor Van Serg». Il terzo giorno si rivelò lungo ed estenuante. La polvere penetrava nelle apparecchiature, intralciando il lavoro. Quella mattina, Cernan e Schmitt avevano condotto il Rover alla base delle montagne che circondavano la valle Taurus-Littrow per esaminare un enorme masso fessurato chiamato Tracy's Rock, che doveva essere rotolato dall'alto molti eoni prima, scavando una traccia nel suolo. Da lì i due astronauti si spostarono in un'area chiamata Sculptured Hills, non particolarmente interessante, dopo di che si inerpicarono con grande difficoltà su una delle colline circostanti per esaminare un macigno dall'aspetto strano e scoprire di aver preso una «cantonata scientifica». Non era altro che un vecchio frammento di crosta lunare, scagliato sull'altura da un'antica esplosione. Schmitt e Cernan scesero lungo il pendio ripido e polveroso saltando come canguri. Il primo, in particolare, balzava da una parte all'altra simulando uno slalom sugli sci. «Non riesco a tenere le punte allineate. Shhhoomp. Shhhoomp. Non è facile ruotare il bacino.»* Cernan invece si produsse in una spettacolare caduta a bassa gravità, sprofondando illeso nel terreno polveroso. Quando raggiunsero il cratere Van Serg erano entrambi esausti. Durante l'avvicinamento avevano dovuto attraversare con il Rover lunare un campo pieno di rocce grandi quanto palloni da football. Quei massi risvegliarono l'interesse di Schmitt. «Non riesco ancora a spiegarmi cosa sia successo, qui», disse. Era tutto coperto da uno spesso strato di polvere. Non c'erano più tracce del terreno arancione che stavano cercando.
I due astronauti parcheggiarono il veicolo e attraversarono il campo di detriti in direzione del bordo del cratere. Schmitt arrivò per primo. A beneficio di Houston, lo descrisse così: «Si presenta grosso e massiccio. Ma è coperto da uno spesso mantello di polvere che nasconde in parte le rocce. A quanto pare, la polvere ricopre il fondo e anche le pareti. Il cratere in sé è formato da un nucleo centrale di rocce del diametro di una cinquantina di metri... no, troppo... facciamo una trentina». Cernan lo raggiunse. «Accidenti!» esclamò, quando si affacciò sull'impressionante voragine. L'altro proseguì: «In quella zona le rocce sono molto frammentate, come quelle che compongono le pareti». Quando si guardò intorno alla ricerca del suolo arancione, Schmitt scorse soltanto grigie pietre lunari, per la maggior parte ridotte in coni a seguito dell'impatto che aveva dato origine alla cavità. Il Van Serg pareva un cratere come tanti, non più vecchio di sessanta, settanta milioni di anni. Il Controllo missione era deluso. Nondimeno, Schmitt e Cernan cominciarono a raccogliere campioni e a infilarli in buste numerate. «Si tratta di rocce estremamente frammentate», osservò Schmitt, maneggiandone una. «E tendono a sfaldarsi. Prendiamo questa, sembra la più adatta ai fini della documentazione. E che ne dici di quella che hai lì dentro?» Cernan prese un campione e Schmitt ne mise un altro sulla sua paletta. «Hai una busta?» «La 568.» «Mi pare che questa appartenga a un blocco che ha documentato Gene.» Schmitt tirò fuori un'altra busta vuota. «Preleviamo un altro campione dall'interno.» «Okay, non è difficile con le pinze», concordò Cernan. Schmitt diede un'occhiata intorno e si soffermò su un esemplare interessante: era una strana roccia lunga una trentina di centimetri, a forma di tavoletta. «Dovremmo prenderla così com'è», disse a Cernan, nonostante fosse un po' troppo grande per essere contenuta in una busta. La sollevarono con le pinze. «La tengo di qua», fece Cernan, mentre tentavano di infilarla nel contenitore. «La reggo io, tu apri la busta.» Poi si fermò e la guardò da vicino. «Li vedi? Quei frammenti bianchi che ha dentro?» Indicò alcune schegge incorporate nella roccia. «Già», annuì Schmitt, avvicinando lo sguardo. «Be', potrebbero essere
frammenti del meteorite. Non saprei. Perché non sembrano... parte del sottosuolo. Okay. Butta dentro.» Quando la roccia fu al sicuro nella busta, Schmitt chiese: «Che numero è?» «480», rispose Cernan, leggendo la cifra stampata di lato. Intanto Houston manifestava nervosismo per il tempo che i due uomini stavano «perdendo» al Van Serg, dal momento che era stata stabilita l'assenza di suolo arancione. Dalla Terra chiesero a Cernan di abbandonare il cratere e di scattare alcune foto del Massiccio Nord con l'obiettivo da 500 mm, mentre Schmitt effettuava una «ricognizione radiale» della coltre di detriti attorno al cratere. Gli astronauti erano in esplorazione da quasi cinque ore. Schmitt lavorava lentamente, e durante la spedizione la sua paletta si ruppe per problemi dovuti, ancora una volta, alla polvere. Da Houston gli dissero di interrompere la ricognizione radiale e di prepararsi a chiudere il sito. Tornati al veicolo, dopo un ultimo rilievo gravimetrico e il prelievo di un altro campione di terreno, provvidero alla chiusura e si avviarono verso il modulo lunare. Il giorno successivo, Cernan e Schmitt decollarono dalla valle TaurusLittrow, passando alla storia come gli ultimi esseri umani ad aver messo piede sulla Luna. Almeno finora. L'Apollo 17 effettuò l'ammaraggio sulla Terra il 19 dicembre del 1972. Il Campione Lunare numero 480 fu inviato al Lunar Receiving Laboratory del Johnson Space Center di Houston, Texas, unendosi agli altri trecentottanta chili di rocce lunari raccolte dalle spedizioni precedenti. Otto mesi più tardi, concluso il programma Apollo, quel laboratorio venne smantellato e il materiale trasferito in una struttura ipertecnologica di recente costruzione presso il Johnson Space Center, il Sample Storage and Processing Laboratory, ovvero SSPL. A un certo punto, durante quegli otto mesi, prima del trasferimento delle rocce lunari al nuovo SSPL, la roccia conosciuta come Campione Lunare 480 scomparve. Contemporaneamente, tutte le annotazioni relative al suo reperimento svanirono dal catalogo elettronico e dai dossier cartacei. Oggi, se visitate l'SSPL e consultate il Lunar Sample Registry Database alla voce Campione Lunare 480, il computer vi fornirà il seguente messaggio di errore: RICHIESTA: CL480 ?> NUMERO ERRATO/NUMERO INESISTENTE
PREGASI CONTROLLARE NUMERO CAMPIONE E RIPROVARE * Tutte le conversazioni citate sono tradotte dalle trascrizioni originali della missione Apollo 17 a cura di Eric M. Jones, direttore dell'Apollo Lunar Surface Journal. Copyright © 2005 by Eric M. Jones. PARTE PRIMA IL LABIRINTO 1 Marston Weathers, detto Stem, «stelo», per il fisico allampanato, raggiunse la cima della Mesa de los Viejos, legò il suo burro a un ginepro secco e si sedette su un masso polveroso. Riprendendo fiato, si deterse il sudore dal collo con una bandana. La forte brezza proveniente dalla cima della mesa gli stuzzicò la barba, concedendogli un rinfrescante sollievo dall'aria calda e viziata del canyon. L'uomo si soffiò il naso e rimise in tasca la bandana. Osservò i familiari punti di riferimento e ne ripeté i nomi, in silenzio: Daggett Canyon, Sundown Rocks, Navajo Rim, Orphan Mesa, Mesa del Yeso, Dead Eye Canyon, Blue Earth, La Cuchilla, le Echo Badlands, il White Place, il Red Place e il Tyrannosaur Canyon. L'artista che era in lui vedeva un fantastico regno dai riflessi dorati, rosati e violetti, ma il suo sguardo da geologo scorgeva una sequenza di altipiani a faglia del Cretaceo superiore, fessurati, striati e levigati dalle ere, come se il tempo avesse lasciato dietro di sé un deserto di rocce dalle tonalità abbaglianti. Weathers estrasse dal taschino del gilet lurido una busta di Bull Durham e si preparò una sigaretta con le mani rugose e sporche, le unghie giallastre e spezzate. Strofinando un fiammifero sui pantaloni, la accese e tirò una lunga boccata. Nelle due settimane precedenti si era trattenuto con il tabacco, ma adesso poteva esagerare. Era tutta la vita che attendeva quell'eccitante settimana. La sua esistenza sarebbe cambiata in un istante. Avrebbe sistemato le cose con sua figlia Robbie, l'avrebbe portata fin lì e le avrebbe mostrato la sua scoperta. Lei gli avrebbe perdonato le fissazioni, lo stile di vita caotico, le prolungate assenze. La scoperta l'avrebbe riscattato. Con Robbie non aveva mai potuto prodigarsi come facevano gli altri padri con le figlie, per
esempio dandole i soldi per il college, una macchina, un aiuto per l'affitto. Ora l'avrebbe liberata dalla schiavitù di servire ai tavoli del Red Lobster e avrebbe finanziato l'atelier e la galleria d'arte che lei sognava. Weathers socchiuse gli occhi e guardò il sole. Due ore al tramonto. Se non si dava una mossa, non avrebbe raggiunto il Chama River prima del buio. Salt, il suo burro, non beveva dal mattino, e lui non voleva un animale morto per le mani. Guardò l'asino che dormicchiava all'ombra, le orecchie all'indietro e la bocca che si muoveva a scatti, forse per colpa di qualche cattivo sogno. Weathers provava una sorta di affetto per quella bestia vecchia e dispettosa. Spense la sigaretta e si infilò in tasca il mozzicone. Bevve un sorso d'acqua dalla borraccia, ne versò un goccio sulla bandana e si rinfrescò il collo e la fronte. Poi si mise la borraccia a tracolla, slegò il burro e lo condusse verso est, attraverso le aride rocce d'arenaria della mesa. A quattrocento metri di distanza, la vertiginosa gola del Joaquin Canyon squarciava la Mesa de los Viejos, l'Altopiano degli Antichi. Digradando in una complessa rete di canyon detta il Labirinto, la mesa si snodava in direzione del Chama River. Weathers guardò in basso: la base del canyon era avvolta da un'ombra azzurrognola, quasi fosse sommersa. Individuò l'apertura del Labirinto. Si trovava otto chilometri più in là, tra l'Orphan Mesa e la Dog Mesa, nel punto in cui il canyon curvava e proseguiva verso ovest. Il sole picchiava sulle guglie aguzze e sui pinnacoli di roccia che ne segnavano l'ingresso. L'uomo perlustrò il bordo, finché non scorse il sentiero ripido e quasi invisibile che conduceva verso il fondo. La discesa era rischiosa: la stradina franava in diversi punti e costringeva il viaggiatore a percorrere trecento metri di cengia. La sola via che partiva dal Chama River e attraversava la mesa in direzione est era riservata unicamente ai più impavidi. A Weathers la cosa non dispiaceva affatto. Si mise in cammino, badando a sé e al burro. Si sentì sollevato quando raggiunse la Joaquin Wash. Il letto asciutto di quella cascata l'avrebbe condotto all'ingresso del Labirinto e di lì al Chama River. Lungo l'ansa, dove il corso d'acqua si piegava a gomito, c'era una zona in cui si poteva campeggiare e una striscia di spiaggia per fare una nuotata. Comunque adesso aveva altro a cui pensare... Entro il pomeriggio del giorno dopo sarebbe stato ad Abiquiú. Per prima cosa, dato che la batteria del cellulare era morta da giorni, avrebbe chiamato Harry Dearborn per informarlo. Al solo pensiero di dargli la notizia, Weathers ebbe un fremito.
Finalmente il sentiero arrivò in fondo. Il cercatore guardò su. La parete del canyon era scura, ma il sole del crepuscolo fiammeggiava sull'orlo del dirupo. Si irrigidì. Trecento metri più in alto, la sagoma di un uomo lo stava osservando. Weathers imprecò, nonostante la stanchezza. Quello era lo stesso tizio che due settimane prima l'aveva seguito da Santa Fe fino alle desolate lande del Chama. C'era gente che sapeva dell'abilità di Weathers, ma che era troppo pigra o troppo ignorante per effettuare da sé una prospezione, e sperava di approfittare di lui, prendendo i suoi meriti. Il cercatore si ricordava quell'individuo: era un tipo ossuto in sella a una Harley, una specie di biker, che gli era stato dietro a Española, Abiquiú, Ghost Ranch, tenendosi a nemmeno duecento metri di distanza, senza fare niente per nascondersi. Lo aveva rivisto all'inizio della sua escursione in quei luoghi selvaggi; quello aveva continuato a seguirlo a piedi, mentre risaliva la Joaquin Wash. Nel Labirinto Weathers aveva perso le sue tracce, e quando aveva raggiunto la Mesa de los Viejos il biker non ne era ancora uscito. Erano passate due settimane e rieccolo lì... Il bastardello non demordeva. Stem studiò prima le curve descritte dalla Joaquin Wash, poi le guglie di roccia all'ingresso del Labirinto. Avrebbe fatto sì che lo scocciatore si perdesse di nuovo lì dentro. E stavolta quel figlio di puttana non ne sarebbe più uscito. Riprese a scendere lungo il canyon, disarrampicando. Di tanto in tanto si guardava alle spalle. L'uomo, anziché stargli dietro, adesso era scomparso. Forse il suo inseguitore credeva di conoscere una via più rapida per arrivare giù. Weathers sorrise: non esistevano altre strade. Dopo un'ora di discesa nel letto della cascata, il nervosismo e la collera del cercatore si placarono. Quel biker era un dilettante. Non era la prima volta che un idiota lo seguiva nel deserto per poi perdersi miseramente. Erano in molti a voler emulare Stem, ma senza risultato. Lui quelle cose le faceva da una vita e aveva una specie di inspiegabile sesto senso. Non lo aveva imparato nei libri, né all'università e neppure in quei dottorati dove passavi il tempo a esaminare cartine e a fare rilevamenti topografici con il radar C-Band ad alta tecnologia. Stem era riuscito dove gli altri avevano fallito. Unica attrezzatura: un asino e un'unità radar fatta in casa, montata su un vecchio IBM 286. Non c'era da stupirsi se lo detestavano. Riprese a montargli la rabbia. Lo stronzo non avrebbe rovinato la settimana più bella della sua vita. Il burro indugiava. Weathers si fermò e riempì d'acqua il suo copricapo per far bere l'animale, poi lo incitò a pro-
seguire. Il Labirinto era proprio lì davanti, e lui doveva entrarci. Al suo interno, vicino alla formazione di Two Rocks, c'era una particolare sorgente, un terrazzino di roccia ricoperto di felci e capelvenere, la cui acqua sgorgava in un vecchio bacino scolpito nella pietra dai nativi preistorici. Weathers decise di accamparsi lì, anziché a Chama Bend, dove sarebbe stato un bersaglio scoperto. Meglio scomodi, ma al sicuro. Girò intorno alla grande colonna rocciosa che delimitava l'entrata. Trecento metri di canyon in arenaria eolica si innalzavano sopra di lui, la maestosa Formazione dell'Entrada, i massicci resti di un deserto del Giurassico. L'interno era fresco e silenzioso come in una cattedrale gotica. Respirò a fondo l'aria intrisa di tamerice. In alto, con l'avanzare del crepuscolo, le formazioni a pinnacolo erano passate dal colore dell'ambra a quello dell'oro. Weathers proseguì attraverso il dedalo del Labirinto, avvicinandosi al punto in cui l'Hanging Canyon si fondeva con il primo degli innumerevoli rami del Mexican Canyon. Non sarebbe bastata una cartina per uscirne. E, a quelle profondità, GPS e telefoni satellitari diventavano inutilizzabili. Il primo colpo, proveniente da dietro, si abbatté sulla spalla. Assomigliava più a un pugno che a un proiettile. Il cercatore cadde in ginocchio, le mani a terra, esterrefatto. Solo quando percepì la detonazione rimbombare nel canyon, capì che gli avevano sparato. Non provava ancora dolore, solo un torpore formicolante; poi sentì l'osso frantumato sporgere dalla camicia strappata e il sangue pulsare all'impazzata mentre schizzava sulle rocce. Cristo. Quando il secondo proiettile sollevò la sabbia a un passo da lui, l'uomo si risollevò, a fatica. Lo sparo proveniva dall'orlo del dirupo sovrastante, sulla destra. A Weathers conveniva tornare all'imboccatura del Labirinto, a quasi duecento metri di distanza, e ripararsi dietro la colonna rocciosa. Era il suo unico rifugio. Si mise a correre più che poteva. Al terzo tentativo il cecchino alzò altra sabbia davanti a Weathers, che non si fermò: sentiva di avere ancora una possibilità. Il suo assalitore gli aveva teso una trappola dall'alto, ma ci avrebbe messo parecchie ore a scendere, e se nel frattempo lui avesse raggiunto la colonna di pietra sarebbe riuscito a fuggire. Forse sarebbe sopravvissuto. Corse zigzagando, i polmoni che gemevano dal dolore. Quaranta metri, trenta, venti... Udì lo sparo soltanto dopo avere sentito il proiettile penetrargli nella schiena. Vide le proprie viscere riversarsi sulla sabbia. Cadde con la faccia
a terra. Tentò di alzarsi, rantolando, graffiando il terreno, furioso perché qualcuno gli stava rubando la sua scoperta. Ululava e si contorceva, stringendo il taccuino nella speranza di gettarlo, distruggerlo o farlo sparire in modo che non cadesse nelle mani del suo assassino. Ma non c'era un solo posto in cui nasconderlo. Infine, come in sogno, smise di pensare e rimase immobile... 2 Tom Broadbent spronò il cavallo. Dalla Joaquin Wash quattro spari riecheggiavano tra le profonde pareti dei canyon a est del fiume. Se ne chiese il significato: non era stagione di caccia, e nessun individuo sano di mente si sarebbe esercitato al tiro al bersaglio in un posto come quello. Guardò l'ora. Le otto. Il sole era appena calato all'orizzonte. I rimbombi sembravano provenire dal gruppo di pinnacoli rocciosi all'imboccatura del Labirinto. A cavallo era questione di un quarto d'ora, non di più. C'era tempo per una rapida deviazione. Mancava ancora parecchio prima che si levasse la luna piena, e sua moglie Sally non lo aspettava tanto presto. Tom girò il cavallo, Knock, e si diresse verso il letto asciutto della cascata, puntando all'ingresso del canyon, seguendo le tracce fresche di un uomo e del suo burro. Dopo una curva, una sagoma scura gli si parò dinanzi: una persona stesa a terra a faccia in giù. Gli si avvicinò, smontò dalla sella e si inginocchiò, il cuore che palpitava. Lo sconosciuto, ferito alla schiena e alla spalla, continuava a sanguinare sulla sabbia. Gli toccò l'arteria del collo: nulla. Lo voltò e le interiora si rovesciarono sul terreno. Rapidamente, Tom tolse la sabbia dalle labbra del ferito e cominciò la respirazione bocca a bocca. Si piegò su di lui e gli praticò un massaggio cardiaco; gli premeva sulle costole, rischiando quasi di spezzarle. Una, due volte, e di nuovo. L'aria gorgogliò fuori della ferita. Tom continuò a rianimarlo, poi controllò le pulsazioni. Incredibile: il cuore aveva ripreso a battere. All'improvviso, lo sconosciuto aprì gli occhi; le sue iridi celesti, così vivide sul viso sporco e bruciato dal sole, scrutavano Tom. Respirava debolmente, l'aria gli grattava in gola. Dischiuse le labbra. «No... bastardo...» Spalancò gli occhi, la bocca era imbrattata di sangue. «Aspetta», fece Tom. «Non sono io che ti ho sparato.» Lo sconosciuto lo scrutò con attenzione. Il terrore aveva ceduto il passo
a un sentimento nuovo. La speranza. Lo sguardo dell'uomo si spostò sulla mano, come se volesse mostrare qualcosa. Tom abbassò gli occhi e vide che stringeva un piccolo taccuino rilegato in pelle. «Prendi...» sibilò. «Non parlare.» «Prendilo...» Tom obbedì. La copertina era appiccicosa di sangue. «È per Robbie...» ansimò, le labbra contratte nello sforzo di parlare. «Mia figlia... promettimi che glielo darai... lei saprà come trovarlo...» «Che cosa?» «... il tesoro...» «Adesso non ci pensare. Dobbiamo andarcene di qui. Appoggiati a...» L'uomo si aggrappò disperatamente alla camicia di Tom, la mano tremante. «È per lei... per Robbie... e per nessun altro... per amor del cielo, niente polizia... Me lo devi... promettere.» La mano dello sconosciuto torse la camicia con incredibile forza, l'ultimo spasmo di vita del moribondo. «Lo prometto.» «Di' a Robbie che le voglio...» Lo sguardo dell'uomo si appannò. La mano lasciò la presa e scivolò a terra. Tom si accorse che aveva anche smesso di respirare. Praticò nuovamente il massaggio cardiaco. Nessun segno. Dopo dieci inutili minuti gli tolse la bandana e la usò per coprirgli il volto. Fu allora che se ne rese conto: Il killer deve essere ancora qui intorno. Scrutò i massi circostanti e il bordo del precipizio. Silenzio profondo. Sembrava che le rocce stessero vegliando. Dov'è? In giro non si vedevano altre impronte, a parte quelle dell'uomo e del suo asino che, con il carico sulla groppa, dormiva in piedi a meno di un centinaio di metri. L'assassino aveva un fucile e il vantaggio di essere in alto. Broadbent avrebbe potuto essere il prossimo bersaglio, in quello stesso momento. Vattene subito. Tom si alzò, afferrò il cavallo per le redini, balzò in sella e lo spronò. L'animale attraversò il canyon al galoppo, aggirando l'ingresso del Labirinto. Rallentarono al trotto solo quando furono a metà della Joaquin Wash. A est stava sorgendo una luna bianca come il burro che illuminò il letto asciutto della cascata. Se spronava per bene il suo cavallo, sarebbe arrivato ad Abiquiú nel giro di due ore.
3 Jimson «Erbaccia» Maddox stava attraversando il canyon. Fischiettava Saturday Night Fever e si sentiva di ottimo umore. Aveva smontato e pulito l'AR-15 calibro 223 e l'aveva nascosto in una fenditura chiusa da alcune pietre. Il canyon curvò una volta, poi un'altra. Weathers, usando lo stesso stratagemma in due occasioni, aveva tentato di farlo perdere nel Labirinto. Il vecchio bastardo poteva fottere Jimson A. Maddox una volta. Non due. Scendeva giù per il letto della cascata, le gambe lunghe e secche che divoravano il terreno. Nonostante il GPS e la cartina, aveva passato la maggior parte della settimana a girovagare, perso nel Labirinto. Ma non era stato tempo sprecato: ora lo conosceva bene, come gran parte del territorio della mesa. Inoltre, ne aveva approfittato per preparare l'imboscata a Weathers. Che gli era riuscita alla perfezione. Inspirò l'aria nel canyon, lievemente profumata. Non era poi così diverso dall'Iraq, dove aveva operato per un certo periodo come sottufficiale della marina, addetto alle armi durante l'operazione «Tempesta nel deserto». Se esisteva un posto che non c'entrava niente con la prigione, era proprio quello. Nessuno che ti si attacca addosso o si mette a fissarti. Niente froci, ispanici o negri a romperti i coglioni. Solo caldo, vuoto e silenzio. Girò intorno alla colonna di arenaria all'ingresso del Labirinto. L'uomo a cui aveva sparato era una sagoma scura nel crepuscolo. Si fermò. Intorno al cadavere c'erano impronte di zoccoli che andavano e venivano. Iniziò a correre. Il corpo giaceva sulla schiena, le braccia lungo i fianchi, la bandana distesa con cura a coprirgli la faccia. Qualcuno era stato lì. Forse un testimone. Aveva un cavallo e magari stava andando dalla polizia. Maddox si impose la calma. Anche a cavallo, ci sarebbero volute almeno due ore per raggiungere Abiquiú, e ancora di più per informare la polizia e tornare indietro. E se gli sbirri avessero chiamato un elicottero, avrebbero comunque dovuto farlo arrivare da Santa Fe, centotrenta chilometri più a nord. Aveva almeno tre ore per prendere il taccuino, nascondere il corpo e levarsi dalle palle. Perquisì il cadavere, rivoltò le tasche e rovistò nello zaino. Mise le mani su una roccia che l'uomo teneva in tasca, la estrasse e la esaminò alla luce
della torcia elettrica. Era senza dubbio un reperto, il tipo di materiale che Corvus aveva richiesto espressamente. E ora il taccuino. Incurante del sangue e delle viscere, Maddox frugò di nuovo il corpo, rivoltandolo e cercando ovunque. Gli assestò un calcio, frustrato. Diede un'occhiata in giro. Il burro del morto sonnecchiava con la sua soma cento metri più in là. Maddox sciolse il nodo, scaricò il basto e ne svuotò il contenuto sulla sabbia. Ne venne fuori di tutto: un apparecchio elettronico, martelli, scalpelli, mappe dello United States Geographic Service, un GPS portatile, una caffettiera, una padella, sacchetti di cibo vuoti, pastoie per l'asino, biancheria sporca, vecchie pile e un pezzo di pergamena ripiegata. Maddox la afferrò. Era una cartina piuttosto approssimativa con cime, fiumi e rocce mal disegnati, linee tratteggiate e scritte in spagnolo antico. Nel centro, con la stessa grafia, era stata tracciata una X. Una mappa del tesoro in piena regola. Strano che Corvus non gliene avesse parlato. Ripiegò la pergamena unta e se la infilò nel taschino della camicia, poi tornò alla ricerca del taccuino. Si mise a rovistare per terra, passò in rassegna quel bagaglio del perfetto cercatore che conteneva tutto... tutto a parte il taccuino. Esaminò l'apparecchiatura elettronica del morto. Una puttanata fatta in casa: una scatola di metallo ammaccata con alcuni interruttori, quadranti e un piccolo schermo dotato di LED. Corvus non ne aveva parlato, ma sembrava importante. Meglio prendere anche quella. Continuò a rovistare, aprì i sacchi di tela, si mise a scuotere la farina e i fagioli secchi. Esaminò i panieri del basto in cerca di uno scomparto segreto e ne squarciò la fodera. Niente taccuino. Maddox tornò al cadavere e tastò per una terza volta i vestiti inzuppati di sangue, sperando di incappare in un rigonfiamento rettangolare. Ma non venne fuori nulla, se non un mozzicone di matita dalla tasca destra. Si sedette, la testa che gli pulsava. Non è che l'uomo a cavallo si era preso il taccuino? Passava di lì per caso... oppure no? Un'idea terribile gli affiorò alla mente: era un rivale. Aveva agito esattamente come lui, aveva seguito Weathers sperando di impossessarsi della sua scoperta e forse aveva messo le mani sul taccuino. Be', Maddox aveva la mappa. Che sembrava importante quanto il taccuino, se non di più. Si guardò intorno, considerando il cadavere, il burro, tutto quel casino.
Presto sarebbe arrivata la polizia. Con grande forza di volontà, Maddox tentò di controllare il respiro e il battito del cuore, facendo appello alle tecniche di rilassamento apprese in galera. Inspirò ed espirò finché le pulsazioni non diventarono regolari. A poco a poco si tranquillizzò. Aveva ancora parecchio tempo. Tolse il reperto dalla tasca e lo rigirò sotto la luce della luna, poi tirò fuori la mappa. Quelli, assieme al dispositivo, avrebbero soddisfatto Corvus, eccome. Intanto, aveva un cadavere da seppellire. 4 Il tenente di polizia Jimmie Willer prese posto nel retro dell'elicottero. Era stanco morto e sentiva il rumore sordo delle eliche rimbombargli nelle ossa. Scrutò il paesaggio notturno e spettrale che scivolava via sotto di loro. Il pilota seguiva il corso del Chama River. A ogni insenatura, il fiume brillava come la lama di una scimitarra. Sorvolarono i piccoli villaggi costruiti sulle rive, poco più che macchioline di luci: San Juan Pueblo, Medanales, Abiquiú. Di tanto in tanto si scorgeva un'auto solitaria percorrere l'Highway 84, bucando l'oscurità con un sottile fascio di luce giallastra. A nord del bacino di Abiquiú, il buio era assoluto; oltre si estendevano i monti e i canyon del Chama Desert e il vasto altopiano disabitato che arrivava fino al confine del Colorado. Willer scosse il capo. Un posto di merda per finire ammazzati. Estrasse il pacchetto di Marlboro dal taschino della camicia. Era scocciato perché l'avevano tirato giù dal letto a mezzanotte ed era dovuto andare dalla polizia di Santa Fe per l'elicottero. Scocciato perché non erano riusciti a trovare un medico legale e perché il suo vicesceriffo era andato al casinò Cities of Gold a sputtanarsi il misero stipendio sui tavoli da gioco, dopo aver spento il cellulare. Come se non bastasse, usare l'elicottero costava seicento dollari l'ora, una spesa completamente fuori budget. E quello era solo il primo viaggio. Prima di rimuovere il cadavere e raccogliere gli indizi avrebbero dovuto farne un secondo, con il medico legale e la squadra della Scientifica. La faccenda avrebbe richiamato l'attenzione dei media... Forse, si disse Willer speranzoso, si tratta dell'ennesimo delitto per droga. Il New Mexican gli avrebbe dedicato un trafiletto di cronaca e morta lì. Ti prego, fa' che sia un delitto per droga. «Lì. Alla Joaquin Wash. Punta a est», fece Broadbent al pilota. Willer lanciò uno sguardo all'uomo che gli aveva rovinato la serata. Era alto, snel-
lo, e portava un paio di consunti stivali da cowboy, di cui uno tenuto insieme dal nastro adesivo. L'elicottero si allontanò dal fiume. «Riesci a volare più in basso?» L'apparecchio scese di quota, rallentando, e Willer scorse i bordi del canyon inondati dalla luce lunare, le gole come fratture senza fondo nella roccia. Postaccio d'inferno. «Il Labirinto è in quella direzione», spiegò Broadbent. «E il corpo si trova proprio all'imboccatura, nel punto in cui la formazione si congiunge al Joaquin Canyon.» L'elicottero continuò a rallentare e fece un giro nei dintorni. La luna era quasi sopra le loro teste e illuminava gran parte del fondo del canyon. Willer vedeva soltanto sabbia argentea, e nient'altro. «Atterra in questa zona aperta.» «D'accordo.» Il pilota volò a punto fisso e iniziò la discesa sollevando un turbine di polvere dal letto della cascata prima di toccare il suolo. Atterrarono dopo un istante, mentre la polvere si disperdeva nell'aria e il rumore sordo delle eliche si affievoliva. «Io resto a bordo», disse il pilota. «Voi fate quel che dovete.» «Grazie, Freddy.» Broadbent scese e Willer lo seguì. Correva tenendosi basso, gli occhi al riparo dalla polvere; non si fermò finché non oltrepassò la nube. Poi si raddrizzò, estrasse il pacchetto dal taschino e si accese una sigaretta. Broadbent lo precedeva. Willer accese la Maglite e illuminò la zona. «Non calpesti le impronte», fece a Tom. «Non voglio avere guai con la Scientifica.» Puntò la torcia sulla bocca del canyon. Si vedeva soltanto un letto di sabbia tra due pareti di arenaria. «Cos'è quello?» «Il Labirinto», rispose Broadbent. «E dove porta?» «È una vasta rete di canyon che va verso la Mesa de los Viejos. Si fa in fretta a perdersi, detective.» «Okay.» Il tenente agitò la torcia avanti e indietro. «Non vedo nessuna traccia.» «Neanch'io. Ma da qualche parte qui intorno ce ne devono essere.» «Vada avanti.» Willer seguì Broadbent, muovendosi lentamente. Con il chiarore della
luna, la Maglite era inutile e scomoda. La spense. «Continuo a non vedere tracce.» Scrutò avanti a sé. Le pareti del canyon erano inondate dalla luce lunare e sembravano vuote: a vista d'occhio non si scorgeva una roccia, un cespuglio, un'impronta e tanto meno un cadavere. Broadbent esitò, guardandosi intorno. L'altro cominciò ad avere un brutto presentimento. «Il corpo era in questa zona. E le impronte del mio cavallo si sarebbero dovute vedere chiaramente, qui.» Willer non fiatò. Si chinò, spense la sigaretta nella sabbia e mise in tasca il mozzicone. «Il corpo era proprio qui. Ne sono certo.» Willer accese la torcia, illuminò la zona. Nulla. La spense. «Il burro era là», continuò Broadbent, «a nemmeno cento metri.» Niente impronte, né burro, né corpo, soltanto un canyon deserto. «Sicuro che siamo nel posto giusto?» «Sì.» Il poliziotto infilò i pollici nella cintura e osservò Broadbent camminare intorno ed esaminare il terreno. Agile e snello. In paese dicevano che era un riccone, ma non lo dimostrava, con quei vecchi stivali sfasciati e la camicia dell'Esercito della Salvezza. Willer sputò. C'erano migliaia di canyon in quella zona ed era notte fonda; Broadbent li aveva portati in quello sbagliato. «Sicuro che sia qui?» «Era proprio qui, all'imboccatura del canyon.» «Forse era un altro.» «Assolutamente no.» Il tenente poteva vedere con i suoi dannati occhi che quello era deserto. La luna era così luminosa che pareva fosse mezzogiorno. «Be', adesso non c'è niente. Né impronte, né cadavere, né sangue... niente.» «Eppure c'era, detective.» «È ora di lasciar perdere.» «Vuole già arrendersi?» Willer fece un lungo sospiro. «Dico solo che è meglio tornare di giorno, quando tutto ci sembrerà più familiare.» Non voleva perdere la pazienza con quel tipo. «Venga qui», fece Broadbent. «Sembra che la sabbia sia stata appiattita.»
Il poliziotto lo guardò. Chi cazzo è questo per dirmi che cosa devo fare? «Non vedo alcuna prova di un crimine. Quell'elicottero costerà al mio dipartimento seicento dollari l'ora. Torneremo domani con le mappe, un'unità GPS... e troveremo il canyon giusto.» «Forse lei non mi ha sentito. Io non vado da nessuna parte, finché non ho risolto questo problema.» «Allora si arrangi. La strada la conosce.» Willer gli diede le spalle, tornò all'elicottero, salì a bordo. «Andiamocene di qui.» Il pilota si tolse gli auricolari. «E lui?» «Sa come tornare a casa.» «Sta gesticolando.» Willer trattenne una bestemmia e guardò verso la sagoma scura a qualche centinaio di metri dall'elicottero. Agitava le braccia, indicava. «Sembra abbia trovato qualcosa», osservò il pilota. «Cristo santo.» Il tenente ridiscese dall'elicottero e gli andò incontro. Broadbent aveva sollevato un mucchietto di sabbia asciutta, portando alla luce uno strato scuro, bagnato e appiccicoso. Willer deglutì, sganciò la torcia e l'accese. «Oh, Gesù!» esclamò, facendo un passo indietro. «Oh, Gesù...» 5 Erbaccia Maddox andò da Seligman's sulla Trentaquattresima e si comprò una giacca blu di seta, boxer e un paio di pantaloni grigi, oltre a una Tshirt bianca, calzini e un paio di scarpe italiane. Indossò tutto nel camerino. Prima di uscire pagò con l'American Express, la sua prima carta di credito regolare, con stampigliato sopra Jimson A. Maddox, titolare dal 2005. Gli abiti contribuirono a renderlo meno nervoso per l'imminente incontro con Corvus. Curioso come un vestito nuovo di zecca ti faccia sentire una persona diversa. Raddrizzò la schiena e percepì la stoffa che si tirava e distendeva. Ora sì che andava meglio, molto meglio. Prese un taxi che lo portò rapidamente in centro. Dieci minuti più tardi veniva ammesso nell'ufficio rivestito di pannelli del dottor Iain Corvus. Era un luogo magnifico. In un angolo faceva bella mostra un finto caminetto in marmo rosa e una fila di finestre si affacciava direttamente su Central Park. Il giovane inglese era accanto alla scrivania,
e scartabellava frenetico alcuni documenti. Maddox si fermò sulla soglia, le mani intrecciate, in attesa di essere notato. Corvus era nervoso come al solito, le labbra inesistenti serrate, il mento sporgente come la prua di una nave, i capelli neri tirati all'indietro. Maddox immaginò che quella pettinatura fosse all'ultimo grido a Londra. L'uomo indossava un completo antracite di ottimo taglio e una frusciante camicia Turnbull & Asser abbottonata fino al colletto e chiusa da una cravatta di seta rosso sangue. Ecco un tipo, pensò Maddox, a cui un po' di meditazione non farebbe niente male. Corvus smise di frugare tra le carte e sbirciò da sopra gli occhiali. «Dunque, dunque... se lei non è Jimson Maddox, può anche fare marcia indietro.» L'accento inglese sembrava più affettato del solito. Corvus doveva avere più o meno la sua stessa età, sui trentacinque anni, ma i due non avevano proprio niente in comune, come se venissero da due pianeti diversi. Era strano pensare che un tatuaggio li aveva uniti. Corvus gli porse la mano e Maddox la strinse. Il gesto non fu né troppo rapido né lento, né eccessivamente fiacco o aggressivo. Maddox represse un moto di emozione. Quello era l'uomo che l'aveva tirato fuori da Pelican Bay. L'inglese lo fece sedere in una piccola zona salotto dall'altra parte della stanza, davanti all'inutile caminetto. Poi tornò in ufficio, disse qualcosa alla segretaria, chiuse la porta a chiave e gli si sedette di fronte. Distese e accavallò inquieto le gambe, finché non gli parve di aver trovato una posizione comoda. Si protese in avanti, il viso che tagliava l'aria come una mannaia, gli occhi luccicanti. «Sigaro?» «Ho smesso.» «Bravo. Le spiace?» «No, diamine.» Corvus ne estrasse uno dalla scatola per sigari, tagliò un'estremità e lo accese. Ci mise qualche istante prima che la punta ardesse, poi lo abbassò e guardò attraverso le volute di fumo. «Sono lieto di vederla.» A Maddox piaceva quando lo metteva al centro dell'attenzione, rivolgendosi a lui come a un suo pari, trattandolo come il tipo tosto che d'altronde era. Quell'uomo aveva smosso mari e monti per farlo uscire di prigione, ma gli sarebbe bastata una sola telefonata per farlo rientrare. Questo fatto risvegliava nell'ex galeotto sentimenti contrastanti e ancora irrisolti. «Dunque», esordì Corvus, appoggiandosi allo schienale in una nube di
fumo. Qualcosa in lui riusciva ogni volta a innervosirlo. Maddox estrasse la mappa dalla tasca e gliela porse. «Nel bagaglio del tipo ho trovato questa.» Corvus la prese aggrottando le sopracciglia, la dispiegò. Jim era in attesa dei complimenti. Al contrario, l'uomo divenne paonazzo. La lanciò sul tavolo, con uno scatto. Maddox si protese per afferrarla. «Tranquillo», gli rispose brusco. «Tanto non vale niente. Dov'è il taccuino?» Maddox non rispose direttamente. «È andata più o meno così... Ho seguito Weathers lungo la mesa, ma mi ha seminato. Ho aspettato due settimane che tornasse. Quando è ricomparso, gli ho teso un'imboscata e l'ho ucciso.» Regnava un silenzio elettrico. «L'ha ucciso?» «Già. Dovevo lasciarlo correre dalla polizia a dire a tutti che lei gli aveva fregato la sua scoperta o come diavolo si chiama? Mi creda, davvero, quel tipo andava fatto fuori.» Ci fu un lungo silenzio. «E il taccuino?» «Ecco il punto. Non l'ho trovato. C'era solo la mappa. E questo.» Estrasse dalla borsa la scatola di metallo munita di schermo, LED e interruttori e la posò sul tavolo. L'altro non la guardò nemmeno. «Il taccuino non l'ha trovato?» Maddox deglutì. «No. Non l'ho trovato.» «Eppure Weathers doveva averlo con sé.» «Non ce l'aveva. Gli ho sparato dalla cima di un canyon e ho dovuto scarpinare per più di otto chilometri per arrivare giù. Ci sono volute quasi due ore. Quando l'ho raggiunto, qualcun altro doveva essere passato di lì, forse un altro cercatore che sperava di ricavarci qualcosa. Era un tipo a cavallo, intorno era pieno di impronte. Ho perquisito il cadavere e il suo asino, ho tirato fuori tutto. Niente taccuino. Ho preso gli oggetti importanti, ripulito la zona e seppellito il corpo.» Corvus guardava altrove. «Poi ho tentato di seguire le orme di quell'altro, ma l'ho perso. Il giorno dopo, per fortuna, il suo nome era sui giornali. Vive in un ranch a nord di Abiquiú, dev'essere un veterinario per cavalli. Si chiama Broadbent.» Si interruppe. «Broadbent ha preso il taccuino», fece Corvus, piatto.
«Lo penso anch'io, per questo mi sono informato su di lui. È sposato e passa gran parte del tempo a cavalcare nei paraggi. Lo conoscono tutti. Dicono che è ricco... anche se dall'aspetto non si direbbe.» Corvus fissò Maddox. «Le porterò quel taccuino, dottor Corvus. Ma che ne pensa della mappa? Voglio dire...» «La mappa è un falso.» Un altro imbarazzante silenzio. «E la scatola di metallo?» chiese Maddox, indicando l'oggetto che aveva recuperato dal burro di Weathers. «Magari all'interno c'è un computer. E forse sull'hard disk...» «Quella è l'unità centrale del radar costruito da Weathers per ispezionare il suolo. Non contiene nessun hard disk. I dati sono nel taccuino. Per questo lo volevo... invece di quest'inutile mappa.» Maddox distolse lo sguardo, estrasse dalla tasca il pezzo di roccia e lo posò sul tavolo di vetro. «Weathers in tasca aveva anche questo.» Corvus osservò l'oggetto; la sua espressione cambiò completamente. Lo prese con delicatezza dal tavolo, la mano simile a un artiglio. Recuperò una lente dalla scrivania e lo esaminò più da vicino. Passò un minuto, poi un altro. Infine alzò gli occhi. Maddox notò con stupore come il suo volto fosse cambiato. Non era più tirato e gli occhi avevano smesso di lampeggiare. I suoi lineamenti avevano assunto una parvenza quasi umana. «Davvero... ottimo» Corvus si alzò, andò alla scrivania, estrasse da un cassetto una busta con chiusura a cerniera e vi infilò dentro il pezzo di roccia. Usò la maggior cura possibile, neanche fosse un gioiello. «È un reperto, vero?» domandò Maddox. L'inglese si piegò in avanti, aprì un cassetto chiuso a chiave e ne tirò fuori un fascio di biglietti da cento legati con un elastico. «Non è il caso, dottor Corvus. Ho già dei soldi da parte...» L'uomo contrasse le labbra sottili. «Questi sono per le spese impreviste.» Premette il mazzo di banconote tra le mani di Maddox. «Lei sa che cosa deve fare.» Maddox infilò il denaro nel giubbotto. «Arrivederla, signor Maddox.» Corvus gli aprì la porta e gliela tenne spalancata. Non appena ebbe varcato la soglia, Maddox sentì una strana sensazione di bruciore lungo il collo. L'uomo lo aveva bloccato, afferrandolo per la spalla. Come presa era un
po' troppo brutale per essere scambiata per una manifestazione d'affetto. «Il taccuino», gli sussurrò all'orecchio, scandendo ogni sillaba. Poi lo lasciò andare. Maddox udì la porta chiudersi dolcemente. Attraversò l'ufficio della segretaria, ora deserto, e raggiunse l'ampio corridoio vuoto. Broadbent. Gliel'avrebbe fatta vedere lui a quel figlio di puttana! 6 Tom sedeva al tavolo della cucina in attesa che il caffè salisse nella caffettiera di latta sul fornello. La brezza di giugno faceva frusciare le foglie dei pioppi e li spogliava dei semi, che volteggiavano nell'aria a piccoli ciuffi. Dall'altro lato del cortile poteva vedere i cavalli nel recinto, con il muso nella biada che Sally aveva preparato quella mattina. Lei entrò; indossava ancora la camicia da notte. Passò davanti alla porta a vetri scorrevole, illuminata dal sole nascente. Erano sposati da meno di un anno eppure tutto aveva mantenuto il sapore della novità. Tom la osservò mentre prendeva la caffettiera, guardava dentro con una smorfia e la rimetteva sul fuoco. «Non so proprio come fai a preparare il caffè così.» «Sei incantevole, stamattina», commentò Tom sorridendo. Sally alzò gli occhi, scompigliandosi i capelli dorati. «Oggi ho deciso di lasciare Shane a occuparsi dell'ambulatorio», fece lui. «L'unica visita in programma è un cavallo che soffre di coliche, giù a Española.» Appoggiò gli stivali sullo sgabello e seguì i gesti di lei mentre si preparava il proprio elaborato caffè. Faceva fare la schiuma al latte, aggiungeva un cucchiaino di miele e ci versava sopra una spruzzata di cacao. Era il suo rituale mattutino, cui Tom non si stancava di assistere. «Shane capirà. Sono stato sveglio quasi tutta la notte per quella... quella storia al Labirinto.» «La polizia ha una pista?» «No. Niente cadavere, né movente, né persone scomparse... Solo qualche secchio di sabbia intrisa di sangue.» Sally trasalì. «Allora oggi che cosa vuoi fare?» domandò. Tom si piegò in avanti e la sedia tornò sulle quattro gambe con un tonfo. Si mise la mano in tasca, estrasse il taccuino rovinato e lo posò sul tavolo. «Voglio trovare Robbie, ovunque sia, e darle questo.»
La moglie si accigliò. «Tom, continuo a pensare che avresti dovuto consegnarlo alla polizia.» «Ho fatto una promessa.» «Occultare prove non ti fa onore.» «Mi ha fatto promettere di non dare il taccuino alla polizia.» «Forse c'era in ballo qualcosa di illegale.» «Forse. Ma io ho fatto una promessa a un moribondo. E, oltre tutto, non mi sento di mettere la faccenda nelle mani di quel detective, Willer. Non mi ha dato l'impressione di essere tanto brillante.» «Quell'uomo ti ha obbligato a promettere. Non dovrebbe avere valore.» «Se avessi visto il suo sguardo disperato, capiresti.» Sally sospirò. «Allora, dove andrai a cercare questa figlia misteriosa?» «Credo che partirò dal Sunset Mart, controllerò se quel tizio si è fermato a fare benzina o a comprare provviste. Poi perlustrerò le strade nei boschi lì intorno, in cerca della sua auto.» «Con un rimorchio per cavalli.» «Esatto.» All'improvviso, gli riaffiorò alla mente l'immagine del moribondo: non se ne sarebbe liberato mai più. Gli ricordava la morte di suo padre, i suoi disperati tentativi di aggrapparsi alla vita, anche negli ultimi dolorosi istanti, quando ogni speranza è perduta. Alcune persone resistono sino alla fine. «Potrei anche andare a trovare Ben Peek», continuò Tom. «Ha passato anni a fare ricerche in quei canyon. Potrebbe sapere chi era quell'uomo o che tesoro stesse cercando.» «Buona idea. Non c'è scritto niente su quel taccuino?» «Niente. A parte numeri. Nessun nome o indirizzo, solo sessanta pagine di numeri... e alla fine un paio di enormi punti esclamativi.» «Credi che abbia davvero trovato un tesoro?» «Gliel'ho letto negli occhi.» Nelle orecchie di Tom risuonava ancora il disperato appello dell'uomo. L'aveva colpito profondamente, forse perché aveva ancora chiara in mente la morte di suo padre. Il grande e temibile Maxwell Broadbent; era stato anche lui una specie di cercatore... un saccheggiatore di tombe, un collezionista e mercante di manufatti. Era stato un padre difficile, e la sua scomparsa aveva lasciato una profonda ferita nella psiche di Tom. Il cercatore moribondo, barbuto e dai pungenti occhi azzurri, glielo aveva ricordato. Il nesso poteva sembrare insensato, ma per chissà quale ragione sentiva che la promessa fatta allo sconosciuto andava mantenuta.
«Tom?» Lui batté le palpebre. «Hai di nuovo lo sguardo perso.» «Scusa.» Sally finì il suo caffè, si alzò e sciacquò la tazza nel lavandino. «Ti rendi conto che abbiamo trovato questo posto esattamente un anno fa?» «Me ne ero dimenticato.» «Ti piace ancora?» «È tutto ciò che ho sempre desiderato.» Insieme, nella campagna selvaggia di Abiquiú, ai piedi del Pedernal Peak, avevano trovato la vita che sognavano: un piccolo ranch con i cavalli, un giardino, una scuderia per i puledri e l'opportunità per Tom di fare il veterinario. Finalmente una vita rurale, lontana dal trambusto della città, dal traffico e dall'inquinamento. La sua attività andava bene. Avevano cominciato a chiamarlo persino gli allevatori più scostanti. Il lavoro si svolgeva per la maggior parte all'aperto, la gente era espansiva e lui amava i cavalli. Era tutto molto tranquillo, doveva ammetterlo. Ripensò al cercatore di tesori. Lui e il taccuino erano molto più interessanti dell'infilare un gallone di olio minerale in gola a un cavallo recalcitrante al ranch di Gilderhus, a Española, rinomato per il cattivo carattere degli animali e del loro proprietario. Un vantaggio dell'essere il capo era delegare il lavoro sporco ai sottoposti. Tom non lo faceva sovente e non si sentiva per niente in colpa. O forse un po'. Guardò un'altra volta il taccuino. Si trattava chiaramente di una specie di codice, pagine e pagine di caratteri in righe e colonne scritti con una precisione ossessiva. Non c'erano cancellature, né correzioni, o errori o scarabocchi, quasi fossero ricopiati numero per numero. Sally si alzò e gli mise un braccio intorno alle spalle. I suoi capelli scesero sul viso di Tom, lui li odorò. Profumavano di shampoo e di biscotti caldi. «Promettimi una cosa», disse la donna. «Cosa?» «Che starai attento. Quell'uomo ha trovato un tesoro per cui la gente è pronta a uccidere.» 7
Melodie Crookshank, tecnico specialista di primo livello, si prese una pausa e aprì una Coca. Ne bevve un sorso, guardandosi intorno pensierosa nel laboratorio del seminterrato. Quando si era iscritta a chimica geofisica alla Columbia University immaginava che avrebbe imboccato una strada del tutto diversa. Tipo attraversare le foreste pluviali di Quintana Roo per effettuare un rilievo topografico del cratere di Chicxulub, oppure accamparsi nel deserto del Gobi, presso le leggendarie Flaming Cliffs, per portare alla luce antiche tane di dinosauro; o ancora, tenere una conferenza in perfetto francese lasciando a bocca aperta la platea del Museo di Storia Naturale a Parigi. Invece si trovava in quel laboratorio sotterraneo, senza finestre, a fare stupide ricerche per inutili scienziati con un QI la metà del suo, che non si davano neppure la pena di ricordare come si chiamava. Aveva accettato l'incarico quando studiava ancora all'università; si era detta che si trattava di una parentesi temporanea, in attesa di finire la tesi ed entrare di ruolo. Poi, cinque anni prima, aveva ottenuto il dottorato e da allora aveva mandato in giro centinaia, anzi migliaia, di curricula, senza ottenere risposta. Il mercato era spietato: ogni anno sessanta studenti freschi di laurea inseguivano una mezza dozzina di posti. Come nel gioco delle sedie musicali: quando la musica cessava, quasi tutti restavano in piedi. Mentre era immersa in questi tristi pensieri, le cadde l'occhio sulla pagina dei necrologi del Mineralogy Quarterly e provò un moto di speranza nel leggere che uno stimato professore titolare di una cattedra prestigiosa, pluripremiato e onorato, un vero e proprio pioniere nel suo campo, era tragicamente e precocemente deceduto. Splendido. D'altro canto, Melodie era un'incorreggibile ottimista e sentiva dentro di sé di essere destinata a qualcosa di grande. Per questo non smetteva di mandare in giro il curriculum e tentava ogni concorso. Intanto, il presente era sopportabile: il laboratorio era tranquillo e lei ne era la responsabile. Per estraniarsi, le bastava chiudere gli occhi e immaginare il futuro, quel luogo splendido e senza confini in cui avrebbe vissuto avventure, compiuto splendide scoperte, ricevuto onori e ottenuto una cattedra. I suoi occhi si riaprirono ancora una volta sul banale laboratorio dalle pareti di calcestruzzo, in compagnia del debole ronzio delle luci al neon e del sibilo costante dell'aria condizionata. Intorno a lei, scaffali con volumi in consultazione e vetrinette con campioni minerari. Persino le attrezzature da milioni di dollari che un tempo l'avevano entusiasmata erano lì a invecchiare. Fece vagare lo sguardo inquieto sul mostruoso microanalizzatore a raggi X JEOL JXA-733 Superprobe Electrone, l'analizzatore tridimensio-
nale a raggi X Y5, che polarizzava la geometria ottica assieme al tubo a raggi X Gd-Anode da 600 watt e al generatore da 100 kilowatt, il microscopio elettronico Watson 55, il PowerMac G5 con le dual CPU da 2,5 gigahertz a raffreddamento ad acqua, i due microscopi per la ricerca petrografica, il Meiji polarizzatore, i set per la macchina fotografica digitale, l'apparecchiatura completa per preparare i campioni, comprendente lame sottili di diamante, levigatrici automatiche e rivestitori al carbonio. Che cosa se ne faceva di quella roba se poi le davano da analizzare solo stronzate? Le fantasticherie di Melodie furono interrotte da un leggero ronzio, segno che qualcuno era entrato nel laboratorio deserto. Di sicuro si trattava di un assistente venuto a chiederle di analizzare l'ennesima roccia grigia per un bollettino di ricerca che nessuno avrebbe letto. Melodie, i piedi sulla scrivania e la Coca in mano, attese che l'intruso svoltasse l'angolo. Poco dopo udì un rumore simile a un secco battito d'ali sul pavimento di linoleum e vide comparire un uomo snello ed elegante con un vistoso e frusciante completo azzurro: il dottor Iain Corvus. La ragazza tolse rapida i piedi dal tavolo, e senza volerlo fece scendere la sedia sulle quattro gambe con un tonfo sordo. Si scostò i capelli dal viso che era diventato paonazzo. I conservatori non venivano quasi mai di persona in laboratorio, per non abbassarsi a mescolarsi con lo staff dei tecnici. Ma lì davanti, incredibile a dirsi, c'era Corvus in persona, quasi un figurino, con indosso un abito di Savile Row e un paio di scarpe artigianali Williams & Croft. Era pure attraente, con quel fascino vagamente inquietante alla Jeremy Irons. «Melodie Crookshank?» Lei si stupì che sapesse il suo nome. Ne fissò il volto magro e sorridente, la dentatura perfetta, i capelli neri come la notte. L'abito frusciava leggero a ogni movimento. «Sì», disse alla fine, simulando disinvoltura. «Sono proprio io, Melodie Crookshank.» «Sono lieto di averla trovata, Melodie. La disturbo?» «No, no, affatto. Si sieda.» Tentò di ricomporsi: era arrossita e si sentiva una stupida. «Chissà se posso interrompere la sua fitta giornata lavorativa con un campione da analizzare.» Aveva in mano una busta chiusa con una zip che fece ondeggiare avanti e indietro, il sorriso smagliante. «Certo.»
«Ho da proporle una piccola... ehm, sfida. È capace di tenere un segreto?» «Be', sì.» Corvus era famoso per essere un tipo distaccato e anche arrogante, ma stavolta sembrava quasi scherzoso. «Deve restare tra me e lei.» Melodie indugiò, poi chiese con prudenza: «Che cosa intende?» Osservò il campione che l'uomo le porgeva. Nella busta c'era un'etichetta scritta a mano che diceva: New Mexico, campione #1. «Vorrei che analizzasse la roccia qui dentro senza preconcetti sulla sua natura o provenienza. Dev'essere un'analisi completa: mineralogica, cristallografica, chimica e strutturale.» «Sì.» «Il problema è questo. Vorrei mantenere il segreto. Non metta nulla per iscritto e non inserisca i dati sull'hard disk. Quando sottopone il campione ai vari test, salvi i risultati su CD e li cancelli dal disco fisso. Tenga sempre i CD chiusi a chiave nel suo armadietto. Non dica a nessuno quello che sta facendo, né discuta delle sue scoperte. Le riferisca direttamente a me.» Le rivolse un altro sorriso smagliante. «Che gliene pare?» Melodie provò un brivido di eccitazione, sia per l'intrigo sia perché Corvus aveva deciso di riporre la sua fiducia proprio in lei. «Non saprei. Perché tutto questo mistero?» L'uomo si protese in avanti. La ragazza percepì un vago aroma di sigaro e di tweed. «Mia cara Melodie, lo saprà... solo dopo aver fatto le sue analisi. Come le ho detto, non voglio fornirle informazioni preliminari.» L'idea la intrigava... e la eccitava, sì. Corvus era una di quelle persone che emanavano potere; di quelle che non dovevano fare altro che prendersi ciò che desideravano. Nel contempo, all'interno del museo, era temuto e malvisto dalla maggior parte degli altri conservatori. Dunque tutta quella falsa cordialità, al di là dell'aspetto fascinoso e attraente, sembrava nascondere un che di subdolo. Lui le posò delicatamente una mano sulla spalla. «Che ne dice, Melodie? Complottiamo insieme, lei e io?» «D'accordo.» Diamine, perché no? In fondo sapeva che cosa stava facendo. «C'è qualche scadenza particolare?» «Il prima possibile. Ma non voglio un lavoro affrettato. Lo faccia per bene.» La ragazza annuì. «Perfetto. Non ha idea di quanto sia importante.» Sollevò le sopracciglia
e sogghignò un'altra volta, alla vista di Melodie che occhieggiava il campione. «Avanti, lo guardi da vicino.» Melodie obbedì, e il suo interesse aumentò. Si trattava di un grosso pezzo di roccia marrone che pesava all'incirca trecento, quattrocento grammi. Un'idea lei se l'era fatta, anche se approssimativa. Il reperto aveva una struttura davvero insolita. Il suo cuore accelerò. New Mexico, campione #1. Avrebbe avuto di che divertirsi. Abbassò la busta e il suo sguardo si imbatté in quello dell'uomo. I suoi occhi grigi la fissavano attenti, quasi incolori sotto i neon fluorescenti del laboratorio. «Stupefacente», commentò lei. «Se non mi sbaglio si tratta di...» «Ah!» Le mise delicatamente un dito davanti alle labbra, ammiccando. «Il nostro piccolo segreto.» Ritrasse la mano, fece per congedarsi, poi tornò indietro, come se avesse avuto un ripensamento. Estrasse dalla tasca della giacca una lunga scatola di velluto. Gliela porse. «Una modesta ricompensa.» Melodie la prese. Sopra c'era scritto TIFFANY. Già, ovvio, si disse. La aprì e rimase abbagliata dalle gemme blu. Distolse brevemente lo sguardo, non riusciva a guardarle. Zaffiri a forma di stella. Un braccialetto di zaffiri a stella montati su platino. Li osservò da vicino e si accorse subito che si trattava di pietre vere. Ognuna era diversa dall'altra, leggermente irregolare e dotata di una propria sfumatura di colore e di una propria personalità. Rivolse la scatola verso la luce. Le stelle sembravano muoversi, riflettendo i raggi dalle loro fulgide profondità. Melodie deglutì, sentendo un improvviso groppo alla gola. Nessuno le aveva mai fatto un regalo così. Mai. Gli occhi le brillavano dall'emozione. Si riscosse, spaventata dal mostrarsi tanto vulnerabile. Disse con noncuranza: «Una bella collezione di ossido di alluminio». «Speravo che gli zaffiri le piacessero, Melodie.» Lei deglutì un'altra volta, senza alzare la testa dal braccialetto. Non credeva di aver mai visto niente di più bello. Zaffiri a stella dello Sri Lanka, i suoi preferiti, tutti pezzi unici, forgiati nelle profondità terrestri a temperature e pressione elevatissime... La mineralogia incarnata. Sapeva che quella di Corvus era una manovra vergognosamente spudorata per manipolarla, ma intanto si disse: Perché no? Perché non accettarlo? Non era così che girava il mondo? Sentì la mano dell'uomo posarsi sulla sua spalla e stringerla con estrema delicatezza. Fu come una scossa elettrica. Una lacrima bollente le rigò la
guancia. Batté rapida le palpebre, incapace di parlare, lieta che Corvus fosse dietro di lei e non la vedesse in viso. Ora, entrambe le mani di lui le stringevano le spalle; Melodie avvertì alla nuca il calore della sua presenza. Fu percorsa da una forte eccitazione, la saetta di un fulmine. Arrossì e fremette. «Melodie, le sono enormemente grato per la sua collaborazione. So quanto è brava nel suo lavoro. Per questo il campione l'ho affidato a lei... e a nessun altro. Per questo le ho dato il braccialetto. Non si tratta semplicemente di una bustarella... anche se in parte lo è.» Ridacchiò. «È una dimostrazione della mia fiducia nei suoi confronti, Melodie Crookshank.» La ragazza annuì, senza voltarsi. Le mani continuavano a massaggiarle le spalle. «Grazie, Melodie.» «Prego», sussurrò lei. 8 Quando il padre era morto lasciandogli in eredità soldi a palate, l'unico capriccio di Tom era stato comprarsi un pick-up. Era un Chevy 3100 del 1957 a tre marce, azzurro con il tettuccio bianco e le griglie cromate. Apparteneva a un collezionista di auto di Albuquerque, un vero fanatico che ne aveva ricostruito amorevolmente il motore e il cambio, aveva fatto rifare i pezzi mancanti e cromato il tutto, comprese le manopole della radio. E, come tocco finale, aveva tappezzato gli interni in pregiata pelle color crema. Il poveraccio era morto di infarto prima di potersi godere i frutti del suo lavoro; Tom ne era entrato in possesso tramite un annuncio sul Thrifty Nickel. Aveva dato alla vedova tutto ciò che l'auto valeva, fino all'ultimo centesimo: cinquantacinquemila dollari. Nonostante questo, sentiva di aver fatto un affare. Era un'opera d'arte su quattro ruote. Era già mezzogiorno. Tom era andato ovunque, aveva chiesto informazioni al Sunset e percorso gran parte delle strade conosciute che attraversavano la foresta, vicino alla mesa. Non era approdato a nulla, a parte rendersi conto che stava seguendo la stessa pista della polizia di Santa Fe. Anche loro erano alla ricerca di qualcuno che avesse incontrato l'uomo prima che fosse ucciso. Quel tipo sembrava aver fatto di tutto per nascondere le proprie tracce. Tom aveva deciso di far visita a Ben Peek, a Cerrillos. In passato quel caratteristico villaggio aveva vissuto tempi migliori, grazie alle miniere d'oro. Giaceva in una conca piena di pioppi lontano dalla strada principale;
un gruppo di abitazioni in legno e mattoni che si estendeva lungo il letto asciutto del Galisteo Creek. Le miniere erano ormai in disuso da decenni, ma Cerrillos non era mai diventata una città fantasma. Negli anni Sessanta gli hippie avevano acquistato le cave abbandonate per installarvi atelier di ceramica, negozi di pellame e manifatture di macramè. Ora la popolazione era uno strano assortimento di vecchie famiglie di spagnoli che un tempo lavoravano in miniera, fricchettoni stagionati e tipi piuttosto eccentrici. Ben Peek rientrava nella terza categoria e il posto in cui viveva lo dimostrava. La vecchia casa rivestita di assi non veniva ridipinta da almeno una generazione. Il cortile sporco, chiuso da una recinzione di picchetti storti, era ingombro di attrezzature da minatore arrugginite. In un angolo giaceva un ammasso rosso e verde di isolante per pali del telefono. Un cartello inchiodato a un lato della baracca diceva: THE WHAZZIT SHOP TUTTO È IN VENDITA proprietario compreso nessuna offerta ragionevole verrà rifiutata Tom scese dal pick-up. Ben Peek era stato per quarant'anni un cercatore di professione, finché un mulo non gli aveva rotto il bacino. Si era stabilito controvoglia a Cerrillos con un ammasso di cianfrusaglie e una serie di storie improbabili. Nonostante l'aspetto eccentrico, aveva un master in geologia della Colorado School of Mines. Sapeva il fatto suo. Tom raggiunse il portale sbilenco e bussò. Poco dopo nell'oscurità all'interno si accese una luce e comparve un volto, deformato dal vetro ondulato. Infine la porta si aprì facendo trillare un campanello. «Tom Broadbent!» La mano rozza di Peek afferrò quella dell'amico e quasi la stritolò. Peek non superava il metro e sessantacinque, ma il suo vigore e la voce tonante compensavano l'altezza. Aveva una barba di cinque giorni e dalle rughe spuntavano un paio di vivaci occhi scuri; la fronte, spesso aggrottata, gli conferiva una perenne espressione di stupore. «Come te la passi, Ben?» «Male, male. Entra.» Condusse Tom all'interno del negozio, le pareti cariche di scaffali che cigolavano sotto il peso di vecchie rocce, attrezzi di ferro e bottiglie di vetro. Era tutto in vendita, benché difficilmente qualcuno avrebbe comprato qualcosa. Le stesse etichette dei prezzi erano vecchie e ingiallite. Passaro-
no nel retro che fungeva da cucina e sala da pranzo. I cani di Peek dormivano sul pavimento, sognando rumorosamente. Il vecchio tolse dal fornello una caffettiera ammaccata, riempì due tazze e raggiunse zoppicando un tavolo di legno. Si sedette e invitò Tom ad accomodarsi di fronte. «Zucchero? Latte?» «Lo prendo nero.» Ben aggiunse al suo tre cucchiaini di zucchero e tre di Cremora, poi mescolò il tutto ottenendo una specie di fanghiglia. Tom sorseggiò diffidente il suo caffè. Era sorprendentemente buono: bollente, forte e fatto alla maniera dei cowboy, proprio come piaceva a lui. «Come sta Sally?» «Alla grande, come sempre.» Peek annuì. «Ti sei trovato una donna meravigliosa, Tom.» «Sicuro come l'oro.» Peek diede un colpetto alla pipa contro il bordo del caminetto e la riempì di Borkum Riff. «Ieri mattina ho letto sul New Mexican che hai trovato un uomo assassinato sulla mesa grande.» «La storia è più complessa di quella che hanno raccontato i giornali. Posso contare sulla tua discrezione?» «Certo.» Tom gli raccontò l'accaduto, omettendo la parte relativa al taccuino. «Hai idea di chi possa essere il cercatore?» chiese infine a Peek. Il vecchio sbuffò. «I cacciatori di tesori sono un branco di idioti creduloni. In tutta la storia del West nessuno ha mai trovato un vero tesoro sepolto.» «A parte quest'uomo.» «Ci credo solo se lo vedo. Comunque no, non ho sentito parlare di nessun cacciatore da queste parti, anche se non vuol dire molto. È gente che agisce nell'ombra.» «Hai idea di che tesoro potrebbe essere? Ammettendo che ci sia.» Peek grugnì. «Io sono un cercatore, non un cacciatore di tesori. C'è una grossa differenza.» «Ma sei stato per tanto tempo da quelle parti.» «Venticinque anni.» «Hai sentito raccontare delle storie?» Il vecchio accese un fiammifero e lo avvicinò alla pipa. «Sicuro.» «Illuminami.» «Quando questi territori erano ancora spagnoli, si diceva che esistesse
una miniera d'oro a nord di Abiquiú chiamata El Capitan. Ne hai mai sentito parlare?» «Mai.» «Si dice che ne avessero trovati quasi trecento chili e li avessero fusi in lingotti con stampigliati il Leone e il Castello. Dato che nella zona infuriavano gli apache, anziché portarselo dietro avevano murato l'oro in una cava in attesa che la situazione si calmasse. Poi un giorno gli apache fecero incursione nella miniera. Ammazzarono tutti quanti, eccetto un certo Juan Cabrillo che era andato ad Abiquiú a fare provviste. Lui partì per Santa Fe e tornò con un gruppo armato per recuperare l'oro. Ma erano passate un paio di settimane e c'erano stati forti rovesci e un'improvvisa alluvione. Il paesaggio era cambiato. Trovarono senza difficoltà la miniera, il campo e gli scheletri dei loro amici assassinati; non la cava. Juan la cercò per anni, finché non sparì nella mesa e nessuno lo vide più. O almeno così dice la leggenda.» «Interessante.» «C'è dell'altro. Negli anni Trenta, un certo Ernie Kilpatrick andava in giro per quei canyon in cerca di un toro non marchiato. Si era accampato presso le English Rocks, proprio a sud delle Echo Badlands. Al tramonto notò che, su una parete rocciosa sopra Tyrannosaur Canyon, una frana recente aveva portato alla luce quella che sembrava una grotta. Si arrampicò e strisciò all'interno. Si trattava di un meandro corto e stretto con segni di piccone sui lati. Lo percorse, finché non si aprì in una saletta. Quando la sua candela illuminò una parete intera di lingotti d'oro con stampigliati il Leone e il Castello, quasi ci restò secco. Se ne mise uno in tasca e tornò ad Abiquiú. Quella sera al saloon si ubriacò e fece vedere il lingotto a tutti. Qualcuno lo seguì fuori, gli sparò e lo derubò. Ovviamente, il segreto lo seguì nella tomba e nessuno rivide mai più quel lingotto.» Sputò un pezzo di tabacco. «Le storie di tesori si assomigliano tutte.» «Tu non ci credi.» «Neanche a una parola.» Peek si appoggiò alla sedia e tirò una boccata dalla pipa. Liberò qualche nuvoletta nell'aria in attesa di commenti. «Te lo devo dire, Ben. Io con quell'uomo ci ho parlato. Ha trovato qualcosa di grosso.» Peek si strinse nelle spalle. «Quella zona potrebbe custodire altre ricchezze, oltre ai lingotti di El Capitan?» «Certo. Svariati minerali e metalli preziosi. Se era un cercatore di mine-
rali. Oppure, se si trattava di un archeologo, poteva aver scoperto delle rovine indiane. Hai dato un'occhiata al suo bagaglio?» «Era ben impacchettato in groppa al burro. Non ho notato niente di strano.» Peek grugnì un'altra volta. «Se era un cercatore, potrebbe essersi imbattuto in uranio o moli. Ogni tanto si trova dell'uranio nella parte superiore della formazione Chinle che affiora nel Tyrannosaur Canyon, nell'Huckbay Canyon e tutto intorno, in basso, nel Joaquin. Alla fine degli anni Cinquanta anch'io sono andato in cerca di uranio, ma è stato un fiasco. Di nuovo mi mancava l'attrezzatura giusta, scintillometri e roba simile.» «Hai nominato due volte il Tyrannosaur Canyon.» «È un canyon dannatamente grande, con milioni di ramificazioni, taglia tutte le Echo Badlands e risale nella mesa grande. È un ottimo posto per trovare uranio e moli.» «Vale molto l'uranio, al giorno d'oggi?» «No, a meno che tu non abbia un committente di fiducia nel mercato nero. I federali di sicuro non lo comprano... gliene arriva già troppo.» «Ai terroristi potrebbe interessare?» Peek scosse il capo. «Ne dubito. Dovrebbero avere a disposizione un budget miliardario.» «E per farne una bomba?» «L'ossido di uranio, anche quello puro, è quasi privo di radioattività. L'idea contraria è solo un pregiudizio diffuso.» «Hai parlato di moli. Che cos'è?» «Molibdeno. Nella parte posteriore del Tyrannosaur Canyon ci sono degli affioramenti di porfirite dell'Oligocene associata al molibdeno. Io ne ho trovato, laggiù, anche se il giacimento era già stato ripulito e ne era rimasto uno sputo. Ma ce ne dev'essere di più... ce n'è sempre di più, da qualche parte.» «Come mai si chiama Tyrannosaur Canyon?» «Proprio all'imboccatura c'è un'enorme intrusione di basalto che l'erosione ha reso simile al cranio di un T. rex. Gli apache non ci si arrampicano, lassù; dicono che è maledetto. È stato lì che il mio mulo ha preso paura e mi ha disarcionato. E io mi sono rotto il bacino. Tre giorni dopo mi hanno recuperato con l'elicottero e portato in ospedale. Eh, già... se quel posto non è maledetto, poco ci manca. Non ci sono più tornato.» «E l'oro? Ho saputo che ne hai trovato, da quelle parti.» Ben ridacchiò. «Certo. L'oro è una maledizione per chi lo trova. Nel
1986 avevo trovato un masso di quarzo ricco di venature d'oro sul fondo della cascata accanto al Labirinto. L'avevo venduto per novemila dollari a un commerciante di minerali, poi ho speso dieci volte di più per scoprirne la provenienza. Quella dannata roccia da qualche parte doveva pur venire, ma non sono mai riuscito a trovare il giacimento. Forse era rotolata giù in qualche modo dalle Canjilon Mountains, dove ci sono alcune miniere d'oro in disuso e qualche antico villaggio. Te l'ho già detto, l'oro è una fregatura. Io comunque non ho più messo le mani su niente di simile.» Rise e tirò un'altra boccata di fumo dalla pipa. «Non ti viene in mente nient'altro?» «Quel suo 'tesoro' potrebbe essere una rovina indiana. Da quelle parti ci sono parecchi resti anasazi. Prima di diventare un cercatore esperto, spesso facevo scavi in quei vecchi siti e vendevo le punte di freccia e il vasellame che trovavo. Oggi da una scodella chaco con decorazioni nere su fondo bianco si possono tirar su dai cinque ai diecimila dollari. Valgono il disturbo. E poi c'è la Città Perduta dei padres.» «Cos'è?» «Tom, ragazzo mio, questa storia te l'ho già raccontata.» «No.» Peek aspirò dalla pipa con un gorgoglio. «A cavallo del secolo, un prete francese, padre Eusebio Bernard, partito da Santa Fe alla volta di Chama, si perse dalle parti della Mesa de los Viejos. Mentre vagabondava alla ricerca della strada giusta, scorse un enorme insediamento anasazi, grande quanto la Mesa Verde, nascosto in una rientranza della roccia. C'erano quattro torri, centinaia di costruzioni, un'autentica città perduta. Non fu mai più ritrovata.» «È una storia vera?» Peek sorrise. «Mi sa di no.» «E il petrolio? O il gas? Dici che quel tipo cercava roba del genere?» «Ne dubito. È vero che il deserto di Chama si estende proprio accanto al bacino di San Juan, una delle zone più ricche di gas naturale di tutto il Sud-ovest. Però ci vorrebbe un'intera squadra attrezzata di addetti alla trivellazione per un giochetto così. Per un cercatore minerario da solo non c'è storia.» Peek mescolò il tabacco nella pipa, lo schiacciò e riaccese. «Se erano i fantasmi che cercava... be', dicono che qualcosa c'è. Gli apache giurano di aver sentito ruggire il T. rex.» «Stiamo uscendo dal seminato, Ben.» «Hai detto che volevi sentire delle storie...»
Tom alzò una mano. «Non di dinosauri fantasma.» «Può darsi che il tuo cercatore sconosciuto abbia trovato i lingotti di El Capitan. Trecento chili d'oro sarebbero...» Peek fece una smorfia «... quasi quattro milioni di dollari. Ma c'è anche da considerare il valore numismatico di quei lingotti spagnoli con stampigliato il Leone e il Castello. Diamine, varrebbero almeno venti, trenta volte di più. Adesso stiamo parlando di denaro... Comunque, facciamo un passo indietro e dimmi qualcosa di più sull'omicidio. In cambio ti racconterò del fantasma di La Llorona, la donna che piange.» «Affare fatto.» 9 Erbaccia Maddox si stiracchiò sul sedile di prima classe del volo continentale 450 da LaGuardia, l'aeroporto di New York, ad Albuquerque. Tirò indietro il sedile in pelle, aprì il portatile e, mentre il PC si avviava, sorseggiò una San Pellegrino. Era buffo, ma era proprio come tutti quegli uomini eleganti intorno a lui che lavoravano al computer. Sarebbe stato forte, davvero forte, se il vicepresidente esecutivo o il manager seduti lì accanto avessero visto su che cosa lui stava lavorando. Maddox cominciò a fare ordine nel mucchio di lettere scritte a mano. Sembrava che un ignorante si fosse impegnato a tracciare dei segni con una matita spuntata su della carta scadente, piena di macchie d'unto e impronte digitali. Allegata a ogni lettera c'era la foto del coglione che l'aveva scritta. Che manica di sfigati! Tirò fuori la prima, la distese sul tavolino ribaltabile accanto al computer e cominciò a leggere. Caro sinior Madocks, il mio nome e Londell Franklin James, sono un bianco ariano di trentaquatro anni, mio paese è Arundell, Ark. Il mio cazzo è lungo più di venti centimetri e lavora ala grande. Cerco siniora bionda no culo grosso no puttana ma una che le piace se le sbatono dentro venti centimetri. Sono anche quasi alto due metri e pieno di muscoli e ho un teschio tatuato sul deltoide destro e un dragone sul petto. Cerco siniora magra del profondo sud niente negre o troie di New York solo una donna del sud all'antica bianca e ariana che sa come far godere un uomo e sa cucinare il pol-
lo. O fatto cinque su quindici ani dentro per rapina a mano armata e il procuratore distretuale mia inganato a pattegiare e adesso tra due ani e otto mesi mi danno la liberta condizionata. Voglio una siniora che quando esco mi aspeta fuori pronta a farselo sbatere dentro. Maddox ridacchiò. Un altro figlio di puttana destinato a passare al fresco il resto della sua vita, con o senza libertà condizionata. Certa gente sembra nata apposta. Cominciò a digitare sul PC: Mi chiamo Lonnie F. James e sono un trentaquattrenne caucasico di Arundell, Arkansas. Sto scontando il quinto di quindici anni di carcere per rapina a mano armata, in attesa della libertà condizionata che otterrò fra meno di tre anni. Sono in ottima forma fisica, alto quasi due metri, peso ottantacinque chili e sono un esperto culturista e body builder. Ragazze, sono molto ben dotato. Sono del Capricorno. Ho un tatuaggio con un teschio sul braccio destro e uno di San Giorgio che uccide il drago sul sinistro. Cerco una ragazza del Sud minuta, bionda, dagli occhi azzurri e un po' all'antica, scopo corrispondenza, flirt ed eventuale fidanzamento. Ti vorrei curata e ben fatta, sui ventinove o più giovane, dolce come un brandy alla menta, ma nello stesso tempo capace di riconoscere un vero uomo. Mi piacciono la musica country, il cibo genuino e il football. Nelle mattine di nebbia amo fare lunghe passeggiate per la campagna mano nella mano. Rileggila ora che sei ispirato, si disse Maddox. Dolce come un brandy alla menta. La rilesse un'altra volta, cancellò «nelle mattine di nebbia» e salvò. Poi diede uno sguardo alla foto acclusa alla lettera. Un altro orribile figlio di puttana... questo con una faccina piccola e tonda e gli occhi così stretti da sembrare schiacciati in una morsa. L'avrebbe scansionata e inviata ugualmente. Si era accorto che l'aspetto non contava granché. Contava, piuttosto, che Londell Franklin James fosse là dentro e non qui fuori. In questo modo poteva offrire alla donna giusta la relazione perfetta. Lei gli avrebbe potuto scrivere, si sarebbero scambiati lettere spinte, avrebbero stretto promesse, giurato amore eterno, parlato di bambini, di matrimonio e dell'avvenire... e lui avrebbe continuato a restare dentro e lei fuori. Il con-
trollo totale sarebbe stato nelle mani di lei; l'intera faccenda era una questione di controllo. In più c'era la scarica di ormoni che provano alcune donne nel corrispondere con un tipo grezzo messo dentro per rapina a mano armata e che asserisce di avere un cazzo lungo venti centimetri. D'altronde, chi potrebbe metterlo in dubbio? Aprì un nuovo file e passò alla lettera successiva. Caro signor Maddox, sto cercando una donna per mandargli il mio sperma così può avere un bambino da me... Maddox la appallottolò e la gettò nel cestino del sedile. Cristo, la sua era una specie di agenzia matrimoniale, non una banca dello sperma. Aveva creato il suo sito, Hard Time, quando lavorava nella biblioteca del carcere; lì c'era un vecchio IBM 486 che veniva utilizzato come schedario. Durante il periodo nell'esercito come sergente dell'artiglieria aveva imparato tutta l'informatica di cui aveva bisogno. A quei tempi quasi non potevi sparare un proiettile calibro 50 senza usare un computer. Maddox si era accorto, con stupore, di essere portato per l'uso del PC. A differenza delle persone, le macchine sono pulite, inodori, obbedienti e non fanno le stronze. Aveva cominciato con il raccogliere dieci dollari a carcerato per inserire nome e indirizzo in un sito di sua creazione, al fine di procurare corrispondenza con donne all'esterno. L'attività era decollata. Presto si era accorto che i guadagni maggiori non gli venivano dai carcerati, ma dalle donne. Era stupefacente vedere quante signore volevano trovarsi un uomo in prigione. L'iscrizione per un mese al sito di Hard Time costava ventinove dollari e novantanove centesimi, centonovantanove quella annuale. Con quella cifra avevi libero accesso ai profili con foto e indirizzi di più di quattrocento carcerati dentro per svariati reati: omicidio, stupro, sequestro di persona, rapina a mano armata, aggressione. Per ogni detenuto si erano iscritte almeno tre donne per un totale di milleduecento signore, il che voleva dire trecento dollari puliti a settimana, al netto delle tasse. Gli altoparlanti annunciarono che l'aereo si stava preparando all'atterraggio; comparve un'hostess sorridente che mormorò agli uomini d'affari di spegnere i portatili. Maddox ripose il proprio sotto il sedile e guardò fuori dal finestrino. Man mano che si spostavano a ovest, verso Albuquerque, il panorama brunito del New Mexico cedeva il passo ai declivi delle Sandia Mountains, prima fitte di alberi e poi bianche di neve. L'aereo oltrepassò i
monti e sorvolò la città, verso la pista. Di lì la visuale era completa: il fiume, le autostrade, il Big I e tutte quelle casette ai piedi della collina. Era deprimente vedere quanta gente inutile vivesse una patetica vita in quelle specie di formicai. Non era tanto diverso dall'essere in prigione. No, come non detto. Non esisteva niente di peggio della prigione. Tornò con la mente alla radice del problema, avvertendo un improvviso moto di rabbia. Broadbent. Quell'uomo doveva essere lassù, nel Labirinto, in attesa del suo momento. Attendeva e basta. Maddox si era occupato di tutto, aveva fatto fuori il vecchio, e poi quel bastardo era entrato in scena, aveva rubato il taccuino e se n'era andato. Il figlio di puttana gli aveva mandato in fumo il gran finale. Inspirò a fondo, chiuse gli occhi e si ripeté più volte il suo mantra, tentando di riflettere. Non era il caso di agitarsi. Il problema era terribilmente semplice. Se Broadbent aveva in casa il taccuino, lui l'avrebbe trovato. Se non ce l'aveva, avrebbe escogitato un modo per impossessarsene. Quel tipo non sapeva con chi aveva a che fare. E dato che c'era dentro fino al collo, difficilmente avrebbe chiamato la polizia. Se la sarebbero sbrigata in privato loro due, da soli. Glielo doveva, a Corvus. Cristo, gli doveva la sua stessa vita. Reclinò il sedile e sentì l'aereo atterrare, morbido e dolce, come se baciasse il terreno. Maddox lo prese come un segno. 10 Il mattino successivo Tom trovò il suo assistente, Shane McBride, davanti al recinto, con uno sguardo perplesso. Osservava un cavallo rossiccio che si muoveva faticosamente in cerchio intorno all'hot walker. Shane era un irlandese di South Boston che aveva studiato a Yale, ma poi era stato conquistato a tal punto dalla vita del West che ora era più cowboy lui degli abitanti del luogo. Andava in giro con gli stivali, un paio di baffoni e un vecchio Stetson calcato sulla testa, al collo una bandana nera scolorita e in bocca il tabacco da masticare. Si intendeva di cavalli, aveva senso dell'umorismo, era professionale sul lavoro ed era leale. Per Tom era il socio perfetto. Shane si voltò, si tolse il cappello, si asciugò la fronte e strizzò un occhio. «Che te ne sembra?» Tom osservò i movimenti del cavallo. «Da quanto tempo è qui?» «Dieci minuti.»
«Osteite.» Shane lo guardò. «No. Ti sbagli. Sesamoidite.» «I legamenti delle nocche non sono gonfi. E la lesione è troppo simmetrica.» «Anche la sesamoidite può essere simmetrica.» Tom socchiuse gli occhi e li fissò sull'animale. «Di chi è?» «Di Noble Nix, appartiene all'O Bar O. Mai avuto problemi, finora.» «È un cavallo da cowboy o da corsa?» «Da cutting.» Tom aggrottò le sopracciglia. «Forse hai ragione.» «Forse? Non ci sono forse. È appena tornato da una gara ad Amarillo, dove ha vinto una sella. L'allenamento, combinato con l'attività di traino, deve aver causato l'infiammazione. Tom arrestò il cavallo, si inginocchiò e tastò le zampe. Bollenti. Si alzò. «Continuo a dire che si tratta di osteite, ma posso concederti che sia osteite al sesamoide.» «Avresti dovuto fare l'avvocato.» «In ogni caso, la cura non cambia. Completo riposo, applicazioni periodiche di acqua fredda e dimetilsulfossido, imbottiture di pelle per gli zoccoli.» «Dimmi qualcosa che ancora non so.» Tom strinse Shane per la spalla. «Stai diventando in gamba, eh?» «Certo, capo.» «Allora oggi non ti dispiacerà portare avanti la baracca da solo.» «Quando non ci sei tu, si sta da Dio: birra fredda, mariachi, donnine con il culo di fuori.» «Basta che non fai saltare tutto per aria.» «Stai sempre cercando la figlia del tizio ucciso nel Labirinto?» «Non sono molto fortunato. La polizia non riesce a trovare il cadavere.» «Non mi stupisce affatto. È una zona dannatamente grande.» Tom annuì. «Se riuscissi a capire che cos'ha scritto in quel taccuino, forse scoprirei chi era.» «Forse sì.» Tom gli aveva raccontato tutto. Erano piuttosto legati. E Shane, nonostante la loquacità, era un tipo discreto. «Ce l'hai con te?» Tom estrasse il taccuino dalla tasca. «Fammi vedere.» Shane lo prese e si mise a sfogliarlo. «Che cos'è? Un
codice?» «Già.» Lo richiuse, esaminò la copertina. «È sangue?» Tom annuì di nuovo. «Gesù. Poveraccio.» Shane gli restituì il taccuino. «Se la polizia scopre che glielo nascondi, ti sbatte dentro e butta via la chiave.» «Ci starò attento.» Tom fece un giro delle stalle per controllare i cavalli. Andava loro vicino, accarezzandoli a uno a uno, e mormorando parole gentili li visitava. Poi finì il lavoro che aveva sulla scrivania; sistemò le fatture e si accorse che alcune erano scadute. Non le aveva pagate non perché gli mancassero i soldi, ma per pura pigrizia. Sia lui sia Shane odiavano le faccende amministrative. Rimise le buste chiuse dov'erano, senza aprirle. Avevano davvero bisogno di un contabile che si occupasse di tutta quella carta, anche se una spesa extra li avrebbe fatti tornare in rosso, dopo un anno di duro lavoro per far quadrare i conti. Poco importava che lui avesse cento milioni di dollari da parte in buoni del Tesoro. Lui non era suo padre. I soldi se li doveva guadagnare con le proprie forze. Spinse da parte documenti e quant'altro e tirò fuori il taccuino, lo aprì e lo posò sul tavolo. Osservò quell'infinità di cifre. Era certo che custodivano il segreto dell'identità dell'uomo. E del tesoro che aveva trovato. Shane si affacciò nella stanza. «Come sta il cavallo dell'O Bar O?» chiese Tom. «Medicato, nel suo box.» Shane non se ne andava. «Cosa c'è?» «Ti ricordi l'anno scorso... quel monastero sul Chama River che aveva una pecora malata?» Tom annuì. «Quando eravamo lassù, ti ricordi che parlavano di quel tipo che prima decifrava i codici per la CIA e poi aveva lasciato tutto per diventare monaco?» «Sì, ricordo una storia del genere.» «Perché non gli chiedi di decifrare il taccuino?» Tom lo guardò negli occhi. «Ecco la tua miglior pensata della settimana.» 11
Melodie Crookshank regolò l'angolo della sottile lama di diamante e aumentò la velocità di rotazione. Era uno splendido macchinario di precisione: si intuiva dal suono chiaro, quasi musicale. Sistemò il campione nella nicchia destinata al taglio, lo strinse in modo che non si muovesse e aprì il getto laminare d'acqua. Mentre il liquido inondava la pietra, un gorgoglio si mescolò al sibilo della lama e apparvero sprazzi di colore: giallo, rosso, porpora. Melodie effettuò le ultime regolazioni, impostò la velocità automatica e partì con il taglio. Non appena il campione entrò in contatto con la lama di diamante, si udì una musica celestiale. In un attimo fu tagliato a metà e il tesoro che custodiva venne alla luce. La ricercatrice lo lavò e asciugò con la perizia maturata in anni di lavoro, lo rovesciò e ne ricoprì il lato di resina epossidica su un manipolatore in acciaio. Mentre attendeva che la resina si indurisse, osservò il suo bracciale di zaffiri. Aveva raccontato alle amiche che si trattava di uno scadente oggetto di bigiotteria e loro le avevano creduto. Perché non avrebbero dovuto? Chi avrebbe mai immaginato che lei, Melodie Crookshank, assistente tecnico di primo livello, con uno stipendio di ventunomila dollari l'anno, lei che viveva in un buco di appartamento su Amsterdam Avenue, senza denaro né fidanzati, se ne sarebbe andata in giro con un bracciale di zaffiri dello Sri Lanka da dieci carati? Sapeva benissimo che Corvus la stava usando: un uomo come lui non avrebbe mai desiderato avere una storia con lei. D'altro canto, però, non era una coincidenza se le aveva affidato questo lavoro. Lei era in gamba, molto in gamba. Il bracciale non era altro che un aspetto, del tutto neutro, della loro transazione: il compenso per la sua abilità e il suo silenzio. E in tutto questo non c'era nulla di disdicevole. Il campione si era solidificato. Lo rimise nella nicchia di taglio e lo sezionò dall'altro lato. Dopo un istante Melodie aveva ottenuto una sottile lamina di pietra, spessa mezzo millimetro, priva di crepe o fessure. Dissolse rapidamente la resina, estrasse la lamina e la tagliò in una dozzina di pezzi, ognuno destinato a un differente tipo di test. Prese un frammento, lo intinse nella resina epossidica usando un altro manipolatore e lo levigò ulteriormente, finché non divenne trasparente e poco più spesso di un capello. Lo mise su un vetrino e lo piazzò sotto il microscopio polarizzatore Meiji, lo accese e accostò l'occhio alla lente. Mise a fuoco, e quel che vide fu un arcobaleno di colori, un universo di cristallina bellezza. Ogni volta che usava il Meiji restava senza fiato. Al microscopio anche le pietre più insulse rivelano un'anima. Regolò l'in-
grandimento a 30x e aumentò di trenta gradi per volta l'angolo di polarizzazione. Ogni cambiamento produceva una diversa pioggia di colori all'interno del campione. Il primo esame aveva un fine puramente estetico: era come guardare attraverso un'apertura ancora più incantevole del rosone della cattedrale di Chartres. Man mano che si avvicinava a 360 gradi di polarizzazione, sentiva il battito del cuore accelerare. Era un campione davvero formidabile. Aumentò l'ingrandimento a 120x. La struttura era perfetta... stupefacente. Ora comprendeva il motivo di tanta segretezza. Se in quel sito ce n'erano altri, cosa probabile, era fondamentale che non si sapesse. Sarebbe stato un colpo pazzesco, anche per una persona in vista come Corvus. Si allontanò dall'oculare con un nuovo pensiero che le balenava nella testa. Ecco quel che le serviva per ottenere la sua cattedra all'università. Sempre se avesse giocato le carte giuste. 12 Il monastero Cristo nel Deserto si trovava a circa venticinque chilometri dal Chama River, nel cuore della desolata vallata omonima. Si estendeva lungo l'enorme e scosceso massiccio della Mesa de los Viejos, l'Altopiano degli Antenati, che segnava l'inizio della mesa alta. Tom guidava con estenuante lentezza: non gli andava che il suo prezioso Chevy percorresse una delle strade più disastrate del New Mexico. Il suolo era talmente pieno di buche che sembrava fosse stato bombardato, in più c'erano zone tanto accidentate da far saltare i bulloni al veicolo e i denti al conducente. Pareva che ai monaci andasse bene così. Giunto al termine di quello che sarebbe potuto apparire un viaggio ai confini della Terra, Tom scrutò il campanile della chiesetta che si ergeva tra i ginepri e la chamisa. Poco per volta il monastero benedettino comparve alla vista. Si trattava di un gruppo di costruzioni in terra cruda sparpagliate qua e là sull'argine del fiume, proprio nel punto in cui il Rio Gallina affluiva nel Chama. Si diceva fosse tra i monasteri più isolati del mondo. Tom parcheggiò il pick-up in uno spiazzo polveroso e imboccò il sentiero che portava alla bottega del convento. Nutriva un certo imbarazzo, si chiedeva in che termini porre la sua richiesta di aiuto al monaco. Dalla chiesa proveniva un canto lontano, che si confondeva con il rauco stridio di uno stormo di ghiandaie. La bottega era deserta, ma quando Tom aprì la porta sentì trillare un
campanello e un giovane monaco apparve dal retro. «Buondì», fece Tom. «Benvenuto.» Il ragazzo si sedette dietro il bancone su un alto sgabello di legno. Tom si guardava intorno indeciso, sbirciando gli umili prodotti sugli scaffali: miele, fiori secchi, cartoline dipinte a mano, sculture in legno. «Mi chiamo Tom Broadbent», disse, porgendo la mano. Il monaco la strinse. Era piccolo e magro e portava occhiali spessi. «Piacere.» Tom si schiarì la voce. «Sono un veterinario e l'anno scorso sono venuto da voi a curare una pecora.» Il ragazzo annuì. «Quand'ero qui, ho sentito parlare di un monaco che aveva lavorato per la CIA.» L'altro annuì ancora. «Sa di chi sto parlando?» «Di fratello Ford.» «Ecco. È possibile parlargli?» Il ragazzo guardò l'ora. Portava un grosso orologio sportivo pieno di pulsanti e quadranti, che a Tom parve piuttosto fuori luogo sul polso di un monaco anche se non avrebbe saputo spiegare perché; in fondo pure loro avevano bisogno di sapere l'ora. «La sesta è appena trascorsa. Vado a chiamarlo.» E scomparve lungo il sentiero. Cinque minuti più tardi Tom osservava sbalordito l'imponente figura che gli veniva incontro. Calzava grossi sandali impolverati, impugnava un bastone di legno e, mentre camminava, il saio sbatteva avanti e indietro. Un attimo dopo la porta si spalancò e l'uomo entrò a grandi passi nella bottega; si diresse verso Tom e gli avviluppò la mano con una stretta energica ma cordiale. «Fratello Wyman Ford», disse, in un tono per nulla monacale. «Tom Broadbent.» Fratello Ford era un uomo incredibilmente brutto. Il faccione largo e dai lineamenti marcati era un incrocio tra Abraham Lincoln e Herman Munster. Non sembrava così religioso, almeno in apparenza, e di certo non aveva l'aria classica del frate: alto un metro e novanta, massiccio, barbuto e con i capelli neri e scarmigliati. Calò il silenzio e ancora una volta Tom si sentì in imbarazzo per la sua visita. «Ha un attimo di tempo per parlare?»
«Teoricamente, avremmo fatto il voto del silenzio», rispose il monaco. «Facciamo una passeggiata?» «D'accordo.» L'uomo infilò rapido un sentiero sempre più stretto che costeggiava il fiume. Tom faticava a stargli dietro. Era una splendida giornata di giugno, il canyon aranciato si stagliava contro il cielo azzurro in cui vagavano nubi soffici come pecorelle. Camminarono una decina di minuti senza parlare. Il sentiero saliva e terminava a picco su un promontorio. Fratello Ford sistemò l'abito e si sedette sul tronco secco di un ginepro. Tom gli si mise accanto, osservando il paesaggio, rapito. «Spero di non averle fatto trascurare qualcosa di importante», esordì, incerto. «Mi sto perdendo un incontro importantissimo nella Camera delle Discussioni. Un fratello ha fatto giuramento a compieta.» Ridacchiò. «Fratello Ford...» «Per piacere, chiamami Wyman.» «Hai saputo dell'omicidio di due giorni fa, nel Labirinto?» «Ho smesso di leggere i giornali tanto tempo fa.» «Sai dove si trova il Labirinto?» «Lo conosco bene.» «L'altra notte, laggiù, è stato ucciso un cacciatore di tesori.» Tom raccontò la storia, dall'incontro con il moribondo - taccuino incluso - fino al cadavere scomparso. Ford restò un momento in silenzio, lo sguardo che vagava oltre il fiume. Poi si voltò e chiese: «E io... a che punto entro in scena?» Tom estrasse di tasca il taccuino. «Non l'hai consegnato alla polizia?» «Ho fatto una promessa.» «Gliene avrai data di sicuro una copia.» «No.» «Non è stato saggio.» «Il tenente a cui è stato affidato il caso non mi ispira molta fiducia. E poi ho fatto una promessa.» «Che cosa posso fare per te?» Il monaco puntava su Tom i calmi occhi grigi. Tom gli porse il taccuino, ma l'uomo non fece nulla per prenderlo. «Ho fatto il possibile per scoprire l'identità della vittima e consegnarlo a sua figlia. Non ci sono riuscito. La polizia non ha indizi e mi ha detto che prima di trovare il corpo ci vorranno settimane. La risposta è qui dentro...
ne sono certo. Unico problema: è scritta in codice.» Fece una pausa. Il monaco continuava a fissarlo, senza scomporsi. «Ho sentito che decifravi i codici per la CIA.» «Sì, facevo il decrittatore.» «Be', ti andrebbe di provare con questo?» Ford guardò il taccuino, ma di nuovo non si mosse. «Su, dagli un'occhiata», fece Tom, porgendoglielo. Ford esitò, poi disse: «No, grazie». «Perché no?» «Perché così ho deciso.» La risposta categorica suscitò in Tom un moto di rabbia. «È per una buona causa. Forse la figlia di quell'uomo non sa neppure che il padre è morto. Potrebbe essere seriamente in pensiero per lui. Ho fatto una promessa a un moribondo e intendo mantenerla... Tu sei l'unica persona che conosco che può aiutarmi.» «Mi dispiace, Tom, ma non posso.» «Non puoi oppure non vuoi?» «Non voglio.» «Hai paura di restare coinvolto con la polizia?» Il monaco sorrise, caustico. «Per niente.» «Allora cosa c'è?» «Sono venuto qui per un motivo... proprio per stare alla larga da queste cose.» «Non credo di aver capito.» «Ho deciso di prendere i voti in meno di un mese. Essere monaco è qualcosa di più che portare l'abito. Significa intraprendere una vita nuova. Il che significa...» indicò il taccuino, «gettarsi alle spalle quella vecchia.» «Quella vecchia?» Wyman, la fronte corrugata e le guance scavate, fissava il fiume. «Sì.» «Dev'essere stata una vita difficile, se sei fuggito in un monastero.» Ford si accigliò. «La spiritualità monastica non è un fuggire da qualcosa, ma un correre incontro a qualcos'altro... a Dio. Comunque sì, ho avuto una vita difficile.» «Che cosa è successo? Sempre se non ti dispiace parlarne.» «Certo che mi dispiace. Devo aver perso l'abitudine alle domande indiscrete che nella vita mondana vengono legittimate con il pretesto di 'fare conversazione'.» Tom si sentì ferito dal rimprovero. «Scusami. Era fuori luogo.»
«Non scusarti. Hai fatto ciò che ritenevi giusto. E anch'io ritengo che lo sia. Soltanto, non sono la persona adatta ad aiutarti.» Tom annuì. Entrambi si alzarono, il monaco scosse via la polvere dall'abito. «Riguardo al taccuino, non credo che avrai problemi con il codice. Molti di quelli artigianali li chiamiamo 'cifrari per imbecilli'. Li crea un imbecille perché li decifri un altro della sua stessa specie. I numeri al posto delle lettere. Ti basta una tavola di frequenza della lingua inglese.» «Che cos'è?» «Un elenco delle lettere più comunemente usate. Da confrontare con i numeri che compaiono più di frequente all'interno del codice.» «Sembra facile.» «Lo è. Lo decifrerai in un istante, ci scommetto.» «Grazie.» Wyman esitava. «Fammi dare un'occhiata veloce. Dovrei riuscire a decifrarlo sul momento.» «Sicuro che non ti crea problemi?» «Mica morde.» Tom glielo consegnò. L'ex decrittatore lo sfogliò, una pagina alla volta. Passarono cinque minuti. «Strano, mi sembra più complicato di un semplice codice di sostituzione.» Il sole calava sul canyon, colorando gli arroyos di una luce dorata. Le rondini svolazzavano intorno e le loro strida riecheggiavano tra le mura di pietra. Sotto, si udiva il sussurro del fiume. Il monaco chiuse il taccuino con un colpo secco. «Lo terrò qualche giorno con me. Queste cifre mi intrigano... contengono strani schemi.» «Alla fine hai deciso di aiutarmi?» L'altro alzò le spalle. «Aiuterò quella ragazza a scoprire che cosa è successo a suo padre.» «Dopo quanto mi hai detto, mi sento un po' a disagio.» Wyman agitò la manona. «A volte sono un po' troppo categorico. Non c'è niente di male se faccio un rapido tentativo.» Scrutò in direzione del sole. «È meglio che ritorni.» Afferrò la mano di Tom. «Ammiro la tua tenacia. Qui non c'è il telefono, ma abbiamo una connessione Internet satellitare. Quando lo decifro, ti faccio sapere.» 13 Erbaccia Maddox si ricordava dell'ultima volta in cui aveva attraversato
di corsa Abiquiú su un'Harley Dyna Wide Glide rubata. Ora era solo uno dei tanti coglioni in pantaloni kaki e polo Ralph Lauren al volante di un Range Rover. Si stava davvero facendo strada nel mondo. Dopo Abiquiú la strada correva lungo il fiume, passando davanti a verdi campi di erba medica e boschetti di pioppi prima di uscire dalla valle. Maddox svoltò a sinistra sulla 96, attraversò la diga e risalì lungo il lato più a sud della valle, all'ombra del Pedernal Peak. Dopo qualche minuto ecco la svolta a sinistra che conduceva dai Broadbent. Su un vecchio cartello rovinato dalle intemperie c'era scritto a mano: CAÑONES. La strada era sporca e mal tenuta. Da una parte scorreva un fiumiciattolo, dall'altra c'erano piccoli ranch di cavalli, dai quaranta agli ottanta acri, con nomi accattivanti tipo Los Amigos o Valle dei Daini. Quello di Broadbent gli avevano detto che si chiamava in modo strano, Sukia Tara. Maddox rallentò in prossimità del cancello, entrò e proseguì per altri cinquecento metri, infine parcheggiò in un boschetto di querce. Scese dall'auto e chiuse delicatamente lo sportello. Tornò sulla strada e si accertò che la macchina non fosse visibile. Le tre. Forse Broadbent era fuori, al lavoro o altro. Gli avevano detto che aveva una moglie, Sally, che si occupava della scuderia. Si chiese che aspetto avesse. Maddox si caricò lo zaino in spalla. Per prima cosa, pensò, doveva fare una ricognizione del territorio. Era un grande sostenitore delle ricognizioni. Se in casa non c'era nessuno, ne avrebbe approfittato per perquisirla. E se avesse trovato il taccuino, l'avrebbe preso e poi se ne sarebbe andato. Se invece c'era la donna, sarebbe stato ancora più facile: non aveva mai trovato qualcuno che non fosse pronto a collaborare di fronte alla canna di una pistola. Abbandonò la strada e camminò lungo la sponda del fiumiciattolo che appariva e spariva tra i ciottoli biancastri. Tagliando a sinistra, attraversò un boschetto di pioppi e querce per poi spuntare dietro le scuderie dei Broadbent. Si muoveva lentamente, attento a non lasciare impronte. Scavalcò una tripla recinzione di filo spinato e avanzò con cautela lungo il muro posteriore della scuderia. Si rannicchiò in un angolo e scostò gli arbusti per avere una visuale del retro della casa. Scorse una costruzione bassa in adobe, mattoni di terra cruda, alcuni recinti per il bestiame, un paio di cavalli, una zona con la mangiatoia e un abbeveratoio. Udì un grido acuto. Oltre i recinti c'era un galoppatoio per la corsa degli animali. Sally, la moglie di Broadbent, aveva una lunghina da equitazione e faceva correre in tondo un cavallo con un ragazzino seduto
in groppa. Maddox alzò il binocolo e la mise a fuoco. Osservava il corpo della donna muoversi assieme all'animale: avanti, indietro, di lato e di nuovo da capo. Un alito di vento le spettinò i capelli e lei se li scostò dal viso. Cristo, se è carina! Osservò il ragazzino. Sembrava ritardato, mongoloide o roba del genere. Riportò l'attenzione sul retro dell'abitazione. Vicino alla porta posteriore c'era una grande finestra composta di un unico pannello che dava sulla cucina. In paese dicevano che Broadbent era ricco sfondato. Aveva sentito che era cresciuto in una villa, circondato dalla servitù e da opere d'arte di valore inestimabile. Il suo vecchio era morto un anno prima e doveva avergli lasciato in eredità un centinaio di milioni. A giudicare da ciò che vedeva, non si sarebbe detto. Non c'era traccia di ricchezza nell'edificio, nella scuderia, nel cortile polveroso o in giardino. Nemmeno nel malandato International Scout parcheggiato nel garage aperto o nella Ford 350 sotto l'altra tettoia. Se Maddox avesse avuto cento milioni, di sicuro non avrebbe vissuto in una topaia del genere. Si tolse lo zaino. Estrasse un bloc-notes e una matita numero due temperata di fresco e prese a schizzare come poteva la struttura della casa e del cortile. Dieci minuti dopo strisciò dietro la scuderia, attraverso gli arbusti, alla ricerca di una prospettiva diversa per disegnare la parte anteriore e quella laterale del cortile. Un paio di ingressi portavano a un modesto salotto. Oltre c'era un patio lastricato con un barbecue Smoky Joe e alcune sedie; intorno, un giardinetto di erbe aromatiche. Niente piscina. La casa sembrava deserta. Broadbent, come aveva sperato, era uscito, o almeno, il suo Chevy del '57 non era in garage. Maddox era sicuro che l'uomo non l'avrebbe dato da guidare ad altri. Nessuna traccia di garzoni o lavoranti e l'abitazione più vicina era a mezzo chilometro. Terminò la piantina e la esaminò. C'erano tre ordini di porte per entrare nella casa: una sul retro che dava in cucina, una d'ingresso e quelle del patio che davano sul cortile laterale. Se erano tutte chiuse a chiave, e diede per scontato che lo fossero, allora quelle del patio dovevano essere le più semplici da aprire. Erano vecchie, e con gli attrezzi che aveva nello zaino ne aveva già aperte diverse in passato. Ci avrebbe messo meno di un minuto. Sentì il rumore di un'auto, si rannicchiò. Un attimo dopo una Mercedes station wagon fece il giro dell'edificio e parcheggiò. Ne scese una donna che si diresse verso il galoppatoio, chiamando e salutando il ragazzino a
cavallo. Lui rispose al saluto con un'espressione incomprensibile ma felice. L'animale rallentò e la moglie di Broadbent aiutò il ragazzino a scendere. Questi corse incontro alla donna e la abbracciò. Finalmente la lezione era terminata. Le due signore chiacchierarono un poco, poi madre e figlio salirono in macchina e si allontanarono. La moglie, Sally, era rimasta sola. Maddox continuava a seguirla con il binocolo mentre legava il cavallo, gli toglieva la sella, lo strigliava e si chinava per spazzolargli il ventre e le zampe. Quando ebbe finito, lo condusse in un recinto e lo liberò. Mise un po' di erba medica in una mangiatoia, quindi si diresse verso casa scrollandosi di dosso i fili d'erba. C'era un'altra lezione in programma? Sembrava di no... non alle quattro, almeno. La donna entrò in cucina dall'ingresso posteriore, sbattendo la porta. Un istante dopo Maddox la vide attraverso la zanzariera che si avvicinava al fornello e preparava il caffè. Era arrivato il momento. Diede un ultimo sguardo al suo schizzo prima di infilarlo nello zaino. Cominciò a tirare fuori l'attrezzatura. Per prima cosa infilò le scarpette verdi da chirurgo, la retina per capelli e la cuffia da doccia. E, sopra tutto quanto, una calza. Indossò l'impermeabile in plastica del Wal-Mart, di quelli che vendevano in piccoli pacchetti a quattro dollari. Si mise un paio di guanti di lattice e tirò fuori la Glock calibro 29, 10 mm Auto, 935 grammi, caricata con dieci proiettili: un'arma eccellente. La strofinò e se la infilò nella tasca dei pantaloni. Infine estrasse un pacchetto di preservativi, ne strappò due e li mise nella tasca della camicia. Non avrebbe lasciato tracce di DNA sulla scena del crimine. 14 Il tenente di polizia Willer uscì dalla radiomobile e gettò il mozzicone sull'asfalto. Lo schiacciò con il piede, poi entrò nella centrale dall'ingresso secondario e attraversò una hall in plexiglas e ardesia. Oltrepassò le porte a vetri della Omicidi, percorse il corridoio decorato da una pianta di ficus e arrivò nella sala riunioni. Era puntuale. Erano arrivati già tutti e al suo ingresso il mormorio cessò. Willer detestava le riunioni, ma in questo caso era inevitabile. Fece un cenno al suo vice, Hernandez, e a un paio di altre persone, prese un bicchierino di plastica dalla pila e lo riempì di caffè, appoggiò la ventiquattro-
re sul tavolo e si sedette. Per un istante si concentrò solo sul caffè, ne bevve un sorso - appena fatto, una volta tanto - e posò il bicchiere. Aprì la valigetta, estrasse un fascio di carte con l'intestazione LABIRINTO e lo sbatté sul tavolo con energia, per attirare l'attenzione degli altri. Spalancò il fascicolo, vi appoggiò con forza la mano e si guardò intorno. «Ci siamo tutti?» «Sembra di sì», fece Hernandez. Vi furono cenni e brusio. Willer bevve rumorosamente un altro sorso di caffè. «Signore e signori, come sapete abbiamo per le mani un caso di omicidio avvenuto nel Chama Desert, nei pressi del Labirinto, che ha sollevato l'attenzione della stampa. Voglio capire a che punto siamo e dove intendiamo andare. Se qualcuno ha idee brillanti, me le dica.» Si guardò intorno nella stanza. «Intanto, sentiamo il resoconto del medico legale. Dottoressa Feininger?» Il patologo della polizia era una donna elegante in tailleur e capelli grigi che appariva fuori posto in quella squallida sala. Aprì un'esile cartellina foderata di pelle. Rimase seduta e parlò con un tono di voce calmo, asciutto, vagamente ironico. «Sono stati rinvenuti una decina di litri di sabbia inzuppata di sangue, contenenti gran parte dei cinque litri di sangue di un corpo umano. Non sono stati trovati altri resti. Sono stati effettuati i test del caso: gruppo sanguigno, presenza di droghe eccetera.» «E?» «Il gruppo sanguigno è 0 positivo, non sono state rilevate tracce di droga o alcool, i valori dei globuli bianchi e rossi sono regolari, come pure l'insulina e tutto il resto. La vittima era un maschio in ottima salute.» «Un maschio?» «Già. È stata riscontrata la presenza del cromosoma Y.» «Avete fatto l'esame del DNA?» «Sì.» «E?» «Abbiamo controllato tutti i database, non abbiamo trovato nessuna corrispondenza.» «Che cosa intende con 'nessuna corrispondenza'?» intervenne il procuratore distrettuale. «Non disponiamo di database nazionali del DNA», spiegò con calma la dottoressa, quasi parlasse con un imbecille, che era poi la considerazione che Willer aveva per il procuratore. «Normalmente è impossibile identifi-
care una persona dal DNA, o almeno finora. È utile soltanto per fare confronti. Finché non troviamo un cadavere, un parente o una chiazza di sangue sui vestiti di un sospetto, non ce ne facciamo nulla.» «Okay.» Willer bevve un sorso di caffè. «È tutto?» «Se mi date un cadavere, vi dirò di più.» «Lo stiamo cercando. E le unità cinofile?» Un tipo nervoso dai capelli color carota ordinò in fretta alcune carte: Wheatley, da Albuquerque. «Il quattro giugno abbiamo condotto sei cani nell'area in questione...» Willer lo interruppe. «Due giorni più tardi, dopo che quell'acquazzone ha riempito i letti dei fiumi e ripulito il Labirinto da impronte o odori.» Si fermò, fissando Wheatley con rabbia. «Lo metteremo a verbale.» «È un posto fuori mano, difficile da raggiungere», rispose Wheatley, alzando la voce. «Continui.» «Il quattro giugno, seguiti da tre addestratori dell'unità cinofila di Albuquerque, i cani hanno riconosciuto un odore...» Alzò gli occhi. «Ho qui la documentazione, se vuole...» «È sufficiente il resoconto.» «Sulla scena del crimine è stato registrato un possibile odore di terriccio. L'hanno seguito lungo il canyon e fin sul bordo della Mesa de los Viejos. Lì è stato rilevato che il suolo non era in grado di trattenere l'odore...» «Lasciando perdere quel centimetro abbondante di pioggia.» Wheatley tacque. «Vada avanti.» «I cani non erano più in grado di seguire la pista. Sono stati fatti altri tre tentativi...» «La ringrazio, signor Wheatley, abbiamo il quadro. E ora?» «Disponiamo di cani addestrati apposta per rintracciare cadaveri. Stiamo allestendo una griglia, a partire dalla scena del crimine. Per coprire le pareti del canyon utilizziamo un GPS. Ci occupiamo nel contempo dell'interno del Labirinto e dell'area verso il fiume. In seguito, perlustreremo la zona in alto.» «E con questo arriviamo al fiume. John?» «Il fiume scorre in basso e lentamente. I nostri sub hanno esaminato ogni buco e ogni sporgenza, seguendo la corrente. Non hanno trovato nulla, né resti né effetti personali. Siamo arrivati fin quasi al lago di Abiquiú.
Sembra improbabile che l'assassino si sia sbarazzato del corpo gettandolo nel fiume.» Willer annuì. «E la Scientifica?» C'era Calhoun da Albuquerque, uno dei poliziotti più brillanti dello Stato. Che almeno con la Scientifica avessero più fortuna? Calhoun, a differenza delle unità cinofile, aveva alzato il culo e si era recato sul luogo alle prime luci dell'alba. «Abbiamo effettuato un'approfondita ricerca di ogni fibra o particella. È stata dura, tenente, visto che praticamente abbiamo lavorato nella sabbia. Abbiamo raccolto tutto ciò che ci sembrava artificiale nel raggio di trecento metri dal luogo del delitto. Abbiamo inoltre passato al vaglio un secondo sito, duecento metri a nord-est, dove sembrava dovesse esserci un burro... sono state rinvenute le feci. Abbiamo anche individuato un terzo sito, nel dirupo sovrastante.» «Un terzo sito?» «Un minuto e ci arrivo, tenente. L'assassino è riuscito a far sparire piuttosto bene le tracce, cancellando le impronte. Però abbiamo trovato un bel po' di capelli, peli, fibre artificiali, rimasugli di cibo. Nessuna impronta digitale latente. Due proiettili M855.» «Adesso sì che si ragiona.» Willer lo sapeva, ma non conosceva i risultati degli esami. «Sono proiettili standard NATO, 5.56 mm, rivestimento metallico, nucleo in lega di piombo con penetratore in acciaio, massa sessantadue grani. Immediatamente riconoscibili dalla punta verde. È probabile che il nostro killer utilizzasse un Ml6 o un modello simile di arma da guerra.» «Forse si tratta di un ex militare.» «Non è detto. Esistono parecchi fanatici che prediligono queste armi.» Calhoun consultò gli appunti. «Un proiettile era conficcato nel terreno; abbiamo trovato il foro d'ingresso, il che ci ha dato un'idea della traiettoria. L'assassino sparava dall'alto, con un angolo di trentacinque gradi. In questo modo abbiamo individuato il punto in cui si trovava: appostato sul bordo del canyon. Questo è il terzo sito di cui mi aveva domandato. Abbiamo trovato tracce di stivali e un paio di fibre di cotone che potrebbero appartenere a una bandana o a una camicia leggera. Niente bossoli. È stata dura salire fino alla posizione da cui ha sparato il cecchino. Quel tipo doveva conoscere la zona e aveva progettato l'omicidio in anticipo.» «Fa pensare a uno del posto.» «O a qualcuno che se lo è studiato per bene.»
«Capelli?» «Nel terzo sito, nessuno.» «E il secondo proiettile?» «Era deformato e scheggiato per aver attraversato il corpo della vittima. Recava tracce di sangue che corrispondono a quelle sulla sabbia. Di nuovo, nessuna impronta digitale.» «Nient'altro?» «Lana e fibre di cotone sul luogo dell'omicidio che stiamo analizzando. E un capello umano con la radice. Castano chiaro, liscio, appartenente a un uomo di razza bianca.» «Dell'assassino?» «Potrebbe appartenere a chiunque: alla vittima, all'assassino, a uno dei poliziotti. Potrebbe persino essere mio.» Ridacchiò e si passò una mano tra i capelli sottili. «Non sarebbe la prima volta. Faremo l'esame del DNA e controlleremo se corrisponde a quello del sangue. Ci servirebbero campioni di capelli degli agenti a scopo di confronto.» «Broadbent, il tipo che ha trovato il cadavere... ha i capelli castano chiaro, lisci.» «Ci servirà anche un campione dei suoi.» Willer ringraziò Calhoun e si voltò verso il vicesceriffo. «Hernandez?» «Ho controllato la storia di Broadbent. Pare faccia spesso lunghi giri a cavallo per la mesa alta.» «Allora che cosa ci faceva nel Labirinto?» domandò Willer. «Ha detto che voleva prendere una scorciatoia dal Joaquin Canyon.» «Un'allungatoia, vorrai dire.» «Sostiene che gli piace quella passeggiata. Dice che è una zona suggestiva.» Willer grugnì. «Credevo fosse un veterinario. I veterinari hanno sempre tanto lavoro.» «Ha un socio, un tipo di nome Shane McBride.» Il tenente grugnì un'altra volta. Broadbent non gli era piaciuto fin dal principio, e aveva l'impressione che non gliela raccontasse giusta. Non poteva fare a meno di domandarsi come mai, quando quell'uomo era stato ucciso, lui si trovasse proprio lì. «Hernandez, informati in giro, cerca di capire se Broadbent ha mostrato qualche particolare interesse per quella zona... ricerca di minerali, vasellame, cose così.» «Sissignore.» «Lo ritiene un sospetto?» chiese il procuratore.
«È la cosiddetta 'persona informata dei fatti'.» Il procuratore scoppiò in una fragorosa risata. «Okay, d'accordo.» Willer si accigliò. Non c'era da stupirsi se in quel periodo non riuscivano a sbattere dentro nessuno, con un tipo del genere come procuratore. Si guardò intorno. «Nessuna idea brillante?» Calhoun disse: «Una curiosità che va al di là del mio campo... C'è un rifornimento d'acqua permanente in quel canyon?» «Non saprei. Perché?» «Sarebbe il posto ideale per coltivare della marijuana.» «Me lo segno. Hernandez?» «Mi informerò, tenente.» 15 Erbaccia Maddox stava per alzarsi dal suo nascondiglio nella chamisa quando udì un rumore provenire dalla casa. Lo squillo di un telefono. Si riabbassò rapido e puntò il binocolo. La donna si era alzata dal tavolo per andare a rispondere in salotto, scomparendo dietro l'angolo. Lui rimase in attesa. Sally Broadbent doveva essere impegnata nella conversazione. Maddox era in grado di individuare il punto in cui i cavi entravano nell'abitazione, però aveva escluso l'idea di tagliarli. Molte costruzioni erano ormai dotate di allarmi privati che segnalano a una ditta esterna quando saltava la linea. Imprecò sottovoce; finché lei era al telefono, non poteva farle nulla. Aspettò cinque minuti... poi dieci. La calza sulla testa cominciava a prudergli e i guanti in lattice gli scaldavano le mani e le facevano sudare. La donna intanto era ricomparsa, la tazza con il caffè in una mano, il cordless nell'altra. Lo teneva premuto contro l'orecchio e continuava ad annuire e a parlare. Maddox cominciava a spazientirsi; per calmarsi tentò di chiudere gli occhi e recitare il suo mantra, senza alcun effetto. Era troppo agitato. Strinse la Glock. L'odore sgradevole del lattice gli penetrò le narici. La donna andava su e giù per il tinello, conversava e rideva, scuotendo i capelli biondi. Prese una spazzola e cominciò a spazzolarli, la testa piegata da un lato. Quello sì che era un bel vedere: la lunga chioma bionda gonfiata dall'elettricità statica e illuminata dal sole che filtrava dalla finestra. Portò il ricevitore all'altro orecchio e continuò a spazzolarsi, cambiando lato, muovendo il bacino. Quando entrò in cucina, Maddox provò un brivido di
eccitazione. Dalla sua posizione non poteva più vederla, ma sperò che avesse riattaccato. Sì... la donna tornò nel tinello senza il cordless, si diresse verso l'ingresso principale e poi scomparve di nuovo, forse nel bagno. Ora. Maddox si alzò, attraversò il prato di corsa diretto verso la porta del patio e si appiattì contro il muro della casa. Estrasse dalla tasca un cuneo lungo e flessibile e armeggiò per inserirlo tra la porta e lo stipite. Di lì non riusciva a vedere l'interno, in ogni caso sarebbe stato dentro in meno di un minuto, prima che lei uscisse dal cesso. E a quel punto, l'avrebbe presa. Il cuneo era entrato e aveva incontrato il chiavistello. Lo strattonò verso il basso. Si udì un clic. Maddox afferrò la maniglia pronto ad aprire. Si fermò all'improvviso. Aveva sentito sbattere una porta. Quella della cucina che dava sul retro. Percepì dei passi che calpestavano la ghiaia del vialetto e svoltavano l'angolo. Si abbassò, accovacciandosi dietro un cespuglio vicino all'ingresso del patio. Nascosto dalle foglie, vide la donna dirigersi a grandi falcate verso il garage, con le chiavi che le tintinnavano in mano, e scomparire all'interno. Un attimo dopo udì un motore avviarsi e l'International Scout attraversò il vialetto uscendo dal cancello in una nube di polvere. Maddox fu preso da una rabbia impotente, un misto di frustrazione, irritazione e sconforto. La puttana non sapeva quant'era fortunata. E ora gli toccava perquisire la casa senza il suo aiuto. Attese cinque minuti che la polvere si posasse, poi si alzò e aprì la porta del patio, entrò e se la richiuse alle spalle. La casa era fresca e profumava di rose. Controllò il respiro, si rilassò e si concentrò sulla ricerca. Partì dalla cucina. Fece un lavoro rapido e accurato. Prima di toccare un oggetto, prendeva nota della sua posizione, e alla fine lo rimetteva al suo posto. Se il taccuino non era in casa, sarebbe stato un errore metterli sul chi vive. Ma, se c'era, l'avrebbe trovato. 16 Il dottor Iain Corvus si diresse verso l'unica finestra del suo studio che dava su Central Park. Di lì si vedeva il laghetto del parco, le acque luminose e quasi metalliche che riflettevano la luce pomeridiana. Passò una barca trasportata dalla corrente. Un padre e un figlio, ognuno con un remo in mano, erano usciti per un'escursione. Corvus osservò i remi entrare e uscire lentamente dall'acqua, man mano che l'imbarcazione avanzava. Il ragaz-
zino sembrava in difficoltà, e infatti il suo remo uscì dal supporto e scivolò in acqua, galleggiando lontano. Il padre si tirò su e gesticolò, infuriato, inscenando una pantomina muta e distante. Padre e figlio. Corvus avvertì una lieve fitta allo stomaco. Quello spettacolino gli ricordava il suo, di padre, uno dei più importanti biologi inglesi, ai tempi in cui lavorava al British Museum. Quando aveva trentacinque anni, l'età attuale di Corvus, era già membro della Royal Society, insignito della Crippen Medal e in attesa di ricevere un'onorificenza dalla regina. Il pensiero del suo viso baffuto risvegliò in Corvus un moto di rabbia antica. Rivide le guance con i capillari in evidenza, il portamento militaresco, il perenne bicchiere di whisky e soda, gli parve di risentire il tono sarcastico e ammonitore. Il vecchio bastardo era morto dieci anni prima di infarto. Era crollato a terra morto stecchito, spargendo cubetti di ghiaccio sul tappeto Aubusson della loro casa di Wilton Crescent, a Londra. Certo, il figlio aveva ereditato un sacco di soldi, ma né quelli né il suo nome erano bastati a procurargli un posto al British Museum, l'unico luogo dove desiderava lavorare. Ora aveva trentacinque anni ed era ancora assistente conservatore al dipartimento di Paleontologia, in attesa di una cattedra, senza la quale non poteva dirsi un vero scienziato... e nemmeno un vero uomo. Assistente conservatore. Solo a dirlo, puzzava di fallimento. Corvus non era mai riuscito ad adattarsi alla macchina universitaria americana; non gli andava di essere un elemento anonimo del gregge. Sapeva di essere permaloso, sarcastico e impaziente. Non intendeva stare al loro gioco. Tre anni prima era saltata fuori la possibilità di una cattedra, ma la decisione era stata congelata: la sua spedizione paleontologica nel Sinkiang, nella Valle Tung Nor, non aveva dato frutti. Gli ultimi tre anni li aveva passati a girare come una mosca impazzita senza combinare nulla. Fino a quel momento. Guardò l'orologio. Era giunta l'ora del sanguinoso incontro. L'ufficio del dottor W. Cushman Peale, presidente del museo, era situato nella torre sud-ovest dell'edificio e godeva di un'ampia visuale del parco e della facciata neoclassica della New York Historical Society. La segretaria scortò Corvus all'interno e annunciò la sua presenza con un sussurro. Sfoggiando un sorriso cordiale, l'assistente conservatore si chiese come mai, dinanzi ai re e agli imbecilli, la gente tendesse ad abbassare la voce. Peale emerse dalla scrivania per salutarlo. Gli diede una stretta salda e virile, afferrandogli il braccio con l'altra mano, come fanno i venditori. Poi
lo fece accomodare sulla sua antica poltrona Shaker di fronte al caminetto in marmo che, a differenza di quello che aveva Corvus in ufficio, funzionava davvero. Con una cortesia tipica di altri tempi, il presidente prese posto solo quando fu certo che l'ospite fosse a proprio agio. La criniera leonina pettinata all'indietro, l'abito color antracite, il modo di parlare lento e vecchio stile... tutto faceva pensare che fosse nato per essere il direttore di un museo. Era solo scena, Corvus lo sapeva: dietro a quei modi eleganti si celava un uomo dalla raffinatezza e dalla sensibilità di un furetto. «Iain, come stai?» Peale assestò la posizione e congiunse i polpastrelli. «Molto bene, grazie», rispose Corvus, sollevando la piega dei pantaloni mentre accavallava le gambe. «Ottimo. Posso offrirti qualcosa? Acqua? Caffè? Sherry?» «No, grazie.» «Io mi concedo sempre un bicchierino di sherry, alle cinque. È il mio unico vizio.» Già. Peale aveva una moglie di trent'anni più giovane che se la faceva con un giovane conservatore di archeologia. Se fare la parte del vecchio cornuto non poteva definirsi un vizio, sposare una donna con qualche anno in meno della figlia, sì. La segretaria gli portò su un vassoio d'argento un bicchierino di cristallo contenente un liquido ambrato. Peale lo prese e lo sorseggiò attento. «Graham del '61. Colore fulvo. Nettare degli dei.» Corvus attese, sul volto un'espressione di neutra cordialità. Peale posò il bicchiere. «Non intendo menare il can per l'aia, Iain. Come sai, sei di nuovo in lizza per la cattedra. Il dipartimento comincerà a deliberare dal primo del mese prossimo. La procedura è nota a tutti.» «Certo.» «La seconda fase la conosci. Il dipartimento mi fa una proposta. Teoricamente, a me spetta l'ultima parola, anche se, in dieci anni di presidenza del museo, non ho mai remato contro una decisione del dipartimento e non ho intenzione di cominciare ora. Non ho idea di come si stiano muovendo sul tuo caso. Non gliel'ho chiesto e non intendo farlo. Ma voglio darti dei consigli.» «I tuoi consigli sono sempre benvenuti, Cushman.» «Questo è un museo. E noi siamo ricercatori. Per fortuna non siamo un'università, obbligata a indottrinare branchi di studenti. Abbiamo la possibilità di dedicarci a tempo pieno alla ricerca. Dunque un curriculum di pubblicazioni così basso non è giustificato.»
Si interruppe e sollevò il sopracciglio a sottolineare la finezza della propria argomentazione. Prese un foglio. «Ho l'elenco dei tuoi articoli... Sei qui da nove anni e vedo undici pubblicazioni. Poco più di una all'anno.» «La qualità conta più della quantità.» «Io sono un entomologo, non ho le tue competenze, dunque perdonami se non giudico la qualità. Sono sicuro che si tratti di ottimi articoli. Nessuno ha mai messo in dubbio la qualità del tuo lavoro, e siamo certi che la spedizione nel Sinkiang sia fallita solo per un colpo di sfortuna. Però undici articoli... Da noi ci sono conservatori che ne pubblicano undici all'anno.» «Chiunque può buttare giù qualcosa solo per il gusto di farlo. Io preferisco aspettare quando ho qualcosa da dire.» «Avanti, Iain, lo sai che non è cosi. Va bene, ammettiamo pure che esistano articoli non troppo brillanti. Ma noi siamo il Museo di Storia Naturale, e la maggior parte di ciò che scriviamo ha risonanza internazionale. Veniamo al punto. È passato un anno senza che tu abbia pubblicato nulla. Il motivo per cui ti ho chiamato è che suppongo tu stia lavorando a qualcosa di importante.» Alzò di nuovo un sopracciglio, a indicare che la sua era una domanda. Corvus cambiò posizione. Sembrava che Peale trattenesse a stento una risata. L'umiliazione era insostenibile. «Infatti sto proprio lavorando a un progetto importante», dichiarò. «Posso sapere quale?» «Ora mi trovo in una fase delicata, ma nel giro di una settimana o due sarò in grado di presentarlo a voi e al comitato... in via confidenziale, ovvio. Dovrebbe rispondere in modo molto soddisfacente.» Peale lo fissò un istante, quindi si mostrò compiaciuto. «Splendida notizia, Iain. Il punto è che tu sei un bravo collaboratore e la tua presenza, unita al nome del tuo illustre genitore, dà prestigio al museo. Prendi queste affermazioni come semplici suggerimenti. Quando un conservatore fallisce nell'ottenere una cattedra, noi ce la prendiamo a cuore, come se si trattasse di un nostro fallimento.» Si alzò in piedi e gli porse la mano con un ampio sorriso. «Buona fortuna.» Corvus si congedò e percorse il lungo corridoio del quinto piano. Era talmente in collera da non riuscire quasi a respirare. Nonostante ciò, non smise di sorridere, facendo cenni a destra e a sinistra. Salutava i colleghi che, dopo un'altra giornata di lavoro, tornavano in branco verso le loro case in un'anonima periferia americana, in Connecticut, nel New Jersey o a
Long Island. 17 La stanza dalle pareti in calce bianca, situata dietro la sacrestia del monastero Cristo nel Deserto, conteneva solo cinque oggetti: uno sgabello di legno, un tavolo grezzo, un crocifisso e un portatile Apple PowerBook G4 con stampante, entrambi alimentati a energia solare. Wyman Ford si mise davanti al computer, trepidante. Aveva appena finito di scaricare due programmi di criptoanalisi e stava per applicarli al codice che aveva pazientemente ricopiato dal taccuino del morto. Sapeva già che non sarebbe stato un lavoro semplice: i suoi soliti stratagemmi non erano serviti. Si trattava di qualcosa di veramente speciale. Premette un tasto: il primo programma si avviò. Non era proprio un software di decrittazione, ma di analisi della struttura. Applicato al codice, stabiliva tramite schemi numerici ricorrenti a quale classe appartenesse. Se si trattasse di sostituzione o trasposizione, placode oppure encicode, nomenclatore oppure polialfabetico. Aveva determinato che era un codice a chiave pubblica, basato sull'elaborazione di numeri primi elevati. Nient'altro. Dopo cinque minuti il programma emise un bip, indicando che la prima analisi era ultimata. L'esito lasciò Ford senza parole: IMPOSSIBILE DETERMINARE IL TIPO DI CODICE Fece scorrere i risultati, le tavole di frequenze numeriche, le attribuzioni di probabilità. I raggruppamenti di numeri non erano casuali: il programma aveva estratto tutti i tipi di strutture e di deviazioni dalla casualità. Era la prova che quei numeri contenevano informazioni. Ma quali, e in che modo erano state cifrate? Ben lungi dal farsi scoraggiare, Ford provò un fremito. Più il codice è sofisticato, più il messaggio è importante. Lanciò un altro programma, un'analisi della frequenza di singole cifre, coppie di numeri e triplette rapportata alle tavole di frequenza del linguaggio comune. Ma anche quello fu un fallimento: non c'era nessuna correlazione tra le cifre e la lingua inglese o qualunque altra lingua. Ford guardò l'ora. Si era dimenticato della Terza. Era stato su quel codice per cinque ore filate.
Dannazione. Tornò a fissare lo schermo. Ogni numero era composto di otto cifre, un byte. Dunque era un codice basato sul linguaggio informatico. Eppure era scritto a matita su un logoro taccuino, in un posto lontano dal mondo e dall'accesso a un qualsiasi PC. Per di più Ford aveva provato a trasformare i numeri a otto cifre nel sistema binario, in quello esadecimale e nel codice ASCII, e poi aveva lanciato i programmi di decrittazione, ma senza successo. La questione si faceva intrigante. Si concesse una pausa, prese il taccuino, lo sfogliò. Era vecchio, la copertina in pelle logora e consunta, e tra le pagine usurate era rimasta della sabbia. Aveva un leggero odore di legno bruciato. I numeri erano scritti con una matita appuntita, netti e precisi, in file e colonne, come in una specie di griglia. La loro uniformità faceva pensare che fossero stati riportati tutti nello stesso momento. E in nessuna delle sessanta pagine c'era un errore o una cancellatura. Senza dubbio le cifre erano state ricopiate. Ford lo richiuse e lo girò. Sul retro c'era una macchia, una striscia lievemente appiccicosa. Si accorse con sorpresa che era sangue. Rabbrividì e posò rapido il taccuino. Gli era tornato alla mente che quello non era un gioco: un uomo era stato ucciso e molto probabilmente quel codice conteneva istruzioni per raggiungere un tesoro. Wyman Ford si chiese in che situazione si stesse cacciando. All'improvviso sentì una presenza alle sue spalle e si voltò. Era l'abate, le mani dietro la schiena, un lieve sorriso, i vivaci occhi neri puntati su di lui. «Ci sei mancato, fratello Wyman.» Il monaco si alzò in piedi. «Chiedo perdono, padre.» Lo sguardo dell'abate andò ai numeri sullo schermo. «Ciò che stai facendo dev'essere importante.» Wyman non rispose. Non era sicuro che lo fosse nel senso che intendeva il superiore. Se ne vergognò. Aveva risuscitato l'ossessione per il lavoro che gli aveva causato problemi nella sua vita precedente, quel concentrarsi in modo compulsivo su un aspetto escludendo tutti gli altri. Dopo la morte di Julie non era mai riuscito a perdonarsi i momenti passati a lavorare fino a tardi, al posto di stare con lei, mangiare insieme, fare l'amore. Sentiva su di sé lo sguardo benevolo dell'abate, ma non riusciva ad alzare gli occhi. «Ora et labora», disse questi, calmo ma determinato. «Sono due opposti. La preghiera è una via per ascoltare Dio, il lavoro un modo per parlare
con lui. La vita del monastero è un tentativo per stabilire un equilibrio tra i due.» «Comprendo, padre.» Wyman arrossì. L'abate riusciva sempre a sorprenderlo con la sua semplice saggezza. «Ne sono lieto», rispose il padre, posandogli una mano sulla spalla. Poi si voltò e uscì. Wyman salvò il lavoro, lo mise su un CD e spense il computer. Si infilò in tasca CD e taccuino, tornò nella sua cella e li infilò nel cassetto del comodino. Si domandò se sarebbe mai riuscito a lasciare il mondo delle spie. Era questo il problema? Chinò il capo e pregò. 18 Tom Broadbent osservava il tenente Willer che andava avanti e indietro per il salotto. Quei passi lenti e pesanti avevano un che di insolente. Il detective indossava una giacca sportiva scozzese, pantaloni grigi e una camicia blu senza cravatta. Le braccia corte terminavano in un paio di mani ossute e con le vene in evidenza. Doveva avere sui quarantacinque anni o poco più. Il suo viso era sottile, il naso affilato, gli occhi neri dal contorno arrossato e rivolti all'ingiù. La classica faccia di chi soffre d'insonnia. Con lui, un taccuino aperto in una mano, c'era il suo vice, Hernandez, un tipo piacevole, paffuto, tranquillo. Erano arrivati in compagnia di una donna seria dai capelli grigi che si era presentata come la dottoressa Feininger, medico legale. Sally sedeva sul divano. «Sulla scena del crimine è stato trovato un capello», fece Willer, voltandosi. «La dottoressa Feininger vuole scoprire se appartiene all'assassino, ma per farlo dobbiamo escludere tutti quelli che erano sul posto.» «Capisco.» Tom notò che quegli occhi neri lo fissavano piuttosto intensamente. «Se non ha nulla in contrario, firmi qui.» Lui firmò il modulo di autorizzazione. La dottoressa Feininger si fece avanti con un sacchettino nero. «Posso chiederle di mettersi seduto?» «Non credevo fosse così pericoloso», fece Tom, abbozzando un sorriso. «Devo staccarli con la radice», rispose ruvida. Tom si sedette, scambiando un'occhiata con Sally. Era sicuro che l'inten-
to di quella visita non fosse limitato a strappargli qualche capello. Osservò il medico legale estrarre dal sacchettino nero un paio di tubetti per analisi e alcune etichette adesive. «Intanto», esordì il detective, «ci sono un paio di punti che vorrei chiarire. Le spiace?» Eccoci, pensò Tom. «Ho bisogno di un avvocato?» «Rientra nei suoi diritti.» «Sono un sospetto?» «No.» Tom fece un cenno con la mano. «Gli avvocati costano. Prosegua.» «Lei ha riferito che la notte dell'omicidio stava cavalcando lungo il Chama.» «Esatto.» Tom sentì le dita della dottoressa rovistargli nei capelli. L'altra mano teneva un enorme paio di pinzette. «Lei ha dichiarato di aver preso una scorciatoia salendo lungo il Joaquin Canyon?» «Non è una vera e propria scorciatoia.» «È esattamente quello che pensavo anch'io. Perché è salito da quelle parti?» «Come ho già detto, quel percorso mi piace.» Silenzio. Sentiva la penna di Hernandez grattare sul foglio, poi il rumore della pagina voltata. La dottoressa stava strappando uno, due, tre capelli. «Fatto», annunciò. «Quanti chilometri doveva percorrere quella notte?» domandò Willer. «Quasi una ventina.» «Quanto pensava di impiegarci?» «Dalle tre alle quattro ore.» «Dunque ha deciso di prendere una scorciatoia che in realtà non lo è, quando il sole stava calando e la attendevano almeno tre ore di cavalcata notturna.» «Era una notte di luna piena e avevo stabilito così. Mi andava di tornare a casa cavalcando alla luce della luna, ecco il punto.» «A sua moglie non importa se lei torna a casa tardi?» «No, a sua moglie non importa se torna a casa tardi», gli fece eco Sally. Il tenente proseguì, impassibile. «Così, quando ha sentito gli spari, è andato in avanscoperta?» «Non ne abbiamo già parlato, tenente?»
Willer continuò. «Mi ha detto di aver trovato l'uomo in fin di vita. E di aver provato a rianimarlo. Ecco perché i suoi vestiti erano tutti macchiati di sangue.» «Infatti.» «E il moribondo le ha parlato, le ha detto di cercare sua figlia - Robbie, giusto? - e di riferirle della sua scoperta. Ma è morto prima di poter dire di che cosa si trattasse. È così?» «Anche di questo abbiamo già parlato.» Tom non aveva riferito, né intendeva farlo, che il cercatore possedeva un taccuino o aveva menzionato un tesoro. Non aveva nessuna fiducia nella capacità della polizia di mantenere un segreto. La notizia dell'esistenza di un tesoro avrebbe portato al caos generale. «Non le ha dato nulla?» «No.» Tom deglutì. Si stupì di quanto detestasse mentire. Dopo un po' Willer grugnì e abbassò lo sguardo. «Lei ha passato parecchio tempo a cavalcare per gli altipiani della mesa alta, vero?» «Vero.» «Cercava qualcosa in particolare?» «Sì.» Willer alzò lo sguardo di colpo. «Cosa?» «Calma e tranquillità.» Il tenente aggrottò le sopracciglia. «Di preciso dove va?» «Ovunque... Labirinto, Mesa de los Viejos, English Rocks, La Cuchilla... a volte fino alle Echo Badlands, se si tratta di una gita notturna.» Willer si rivolse a Sally. «E lei lo accompagna?» «Ogni tanto.» «Signor Broadbent, ho saputo che ieri pomeriggio lei è andato al monastero Cristo nel Deserto.» Tom si alzò in piedi. «Chi gliel'ha detto? Mi avete fatto pedinare?» «Si calmi. Il suo pick-up è caratteristico. Le ricordo che dalla Mesa de los Viejos, dove i miei uomini stanno lavorando, si vede gran parte della strada sottostante. Allora: è andato o no al monastero?» «Sono obbligato a rispondere?» «No. Se non lo farà, sarò costretto a emanare un mandato di comparizione nei suoi confronti. Le toccherà procurarsi quel famoso avvocato e dovrà rispondere sotto giuramento alla centrale.» «È una minaccia?» «È un dato di fatto, signor Broadbent.»
«Tom, stai calmo», intervenne Sally. Lui deglutì. «Sì, ci sono stato.» «A fare che?» Tom indugiò. «A trovare un amico.» «Nome?» «Fratello Wyman Ford.» La penna scricchiolava sulla carta. Willer risucchiava aria tra i denti. «Questo fratello Ford è un monaco?» «Un novizio.» «Perché è andato a trovarlo fin là?» «Per chiedergli se avesse visto o sentito qualcosa che aveva a che fare con l'omicidio nel Labirinto.» Si sentì di nuovo in colpa per la bugia. Cominciò a pensare che avevano ragione gli altri, che non avrebbe mai dovuto prendere il taccuino. Ma c'era in ballo quella dannata promessa. «E il monaco sapeva qualcosa?» «No.» «Nulla?» «Nulla. Nemmeno ne era a conoscenza. Non legge i giornali.» Tom si chiese se Ford, nel caso di una visita dei poliziotti, avrebbe mentito sul taccuino. Gli parve improbabile. Dopotutto, era un monaco. Willer si alzò. «Resterà in zona per un po'? Nel caso avessimo bisogno di riparlarle.» «Attualmente non ho in programma nessun viaggio.» Il tenente fece un cenno con il capo, guardò Sally. «Signora, mi perdoni per l'interruzione.» «Non importa», ribatté Sally, brusca. Il poliziotto si rivolse al medico legale. «Ha preso ciò che le serve?» «Sì.» Tom li accompagnò alla porta. Prima di andarsene, Willer si fermò e gli puntò gli occhi neri addosso. «Mentire a un agente è un reato di omissione... È considerato un crimine.» «Ne sono al corrente.» Willer si voltò e uscì. Tom guardò la loro auto allontanarsi, poi rientrò e chiuse la porta. Sally era in salotto, in piedi, a braccia conserte. «Tom...» «Non lo dire.» «Invece lo dico. Ti stai ficcando in un ginepraio. Quel taccuino glielo devi consegnare.»
«Adesso è troppo tardi.» «Non è vero. Gli spiegherai. Capiranno.» «Col cavolo che capiranno. E poi quante volte te lo devo ripetere? Ho fatto una promessa.» Sally sospirò, allargò le braccia. «Perché sei così testardo?» «Senti chi parla.» Lei gli si sedette accanto sul divano. «Sei impossibile.» Tom le cinse le spalle. «Mi dispiace, ma preferiresti che fossi diverso?» «Mi sa di no.» Sospirò. «Come se non bastasse, oggi pomeriggio, quando sono tornata, ho avuto l'impressione che qualcuno fosse entrato in casa.» «Da cosa?» chiese lui, allarmato. «Non saprei. Non hanno rubato né spostato nulla. È solo una sensazione sinistra... Mi è sembrato di sentire l'odore di sudore di uno sconosciuto.» «Ne sei certa?» «No.» «Dobbiamo dirlo alla polizia.» «Se fai una denuncia di effrazione, di Willer non ti liberi più. E comunque non ne sono sicura... La mia è solo un'impressione.» Tom rifletté un istante. «Sally, qui non si scherza. Sappiamo che esiste gente pronta a uccidere per quel tesoro. Starò meglio se tirerai fuori la tua Smith & Wesson e la terrai a portata di mano.» «Non esagerare. Mi sento una stupida ad andare in giro con una pistola.» «Dammi retta. Con un'arma in mano sai essere molto pericolosa... e in Honduras l'hai dimostrato.» Sally si alzò, aprì un cassetto sotto il telefono, prese una chiave e si diresse verso un armadietto in soggiorno. Poco dopo tornò con una pistola e una scatola di proiettili calibro 38. Aprì il cilindro, infilò tre cartucce, lo chiuse di scatto e la ripose nella tasca anteriore dei jeans. «Contento?» 19 Jimson Maddox porse le chiavi dell'auto e cinque dollari di mancia al sorvegliante brufoloso che stazionava sul marciapiede. Poi attraversò l'atrio dell'El Dorado Hotel, con i nuovi stivali pitonati Lucchesi che scricchiolavano piacevolmente sul pavimento. Si fermò a dare un'occhiata intorno e a sistemarsi la giacca. In un angolo della grande stanza c'era un
fuoco scoppiettante, nell'altro una vecchia checca al pianoforte che suonava Misty. In fondo un bancone di legno chiaro. Maddox lo raggiunse ciondolando, appese la borsa con il portatile alla spalliera dello sgabello e si sedette. «Un caffè. Nero.» Il barista annuì e tornò con una tazza e una ciotola di arachidi piccanti. Maddox ne bevve un sorso. «Ehi, questo sa di stantio. Riesci a farmene uno più fresco?» «Certo, signore. Mi scusi.» Il barista riprese la tazza e scomparve nel retro. Maddox tuffò le dita nelle arachidi e se ne fece saltare qualcuna in bocca, mentre osservava la gente che andava e veniva. Erano tutti come lui, in polo e giacca sportiva, con pantaloni di velluto a coste o di lana pettinata. Gente a cui tutto andava liscio, con due auto in garage, una media di 2,4 marmocchi, che viveva con la busta paga. Si appoggiò allo schienale e ingoiò altre arachidi. Era buffo pensare quante belle donne di mezza età - tipo quella che stava attraversando la hall con il completo marrone, il giro di perle e la borsetta nera - perdevano la testa per un carcerato muscoloso e pieno di tatuaggi di nome Jeff, messo dentro per omicidio, stupro o aggressione. Quella sera aveva parecchio da fare, almeno venti annunci da scrivere e postare sul sito. Alcuni erano talmente scorretti che erano da rifare per intero. Niente di grave. Le iscrizioni aumentavano, la richiesta di carcerati cresceva. Non aveva mai fatto soldi così facilmente in vita sua e, cosa meravigliosa, era tutto legale. Le transazioni avvenivano tramite una società di pagamenti on line: loro si prendevano una parte e versavano il resto sul suo conto in banca. Se avesse saputo prima com'era facile fare soldi onestamente, si sarebbe risparmiato un sacco di grane. Rosicchiò ancora qualche arachide, poi allontanò la ciotola, consapevole del proprio giro vita. Il barista era arrivato con un'altra tazza. «Perdoni se ci ho messo troppo. E mi scusi un'altra volta.» «Nessun problema.» Sorseggiò il caffè. Era appena fatto. «Grazie.» «Prego, signore.» Erbaccia Maddox tornò a pensare al suo problema. Il taccuino non era in casa. Voleva dire che Broadbent ce l'aveva addosso, oppure l'aveva nascosto da un'altra parte, magari in una cassetta di sicurezza. Ovunque fosse, Maddox sapeva di non poterlo rubare. Provò un accesso di rabbia. Broadbent c'era dentro fino al collo, in un modo o nell'altro. O come rivale o
come socio di Weathers. Gli sembrava quasi di sentire l'accento inglese di Corvus risuonargli nella testa: il taccuino. C'era un unico modo: costringere Broadbent ad arrendersi. E per farlo aveva bisogno di un incentivo. Aveva bisogno di lei. «È la prima volta che viene a Santa Fe?» chiese il barista, distraendolo dai suoi pensieri. «Sì.» «Per affari?» «Per che altro, se no?» ridacchiò Maddox. «È qui per il convegno di chirurgia laparoscopica?» Cristo, si vede che sembro un dottore. Un medico del Connecticut in viaggio di lavoro, a spese di un colosso dell'industria farmaceutica. Se solo il barista avesse potuto vedere la sua schiena ricoperta di tatuaggi. Se la sarebbe fatta nei pantaloni... «No», rispose Maddox educatamente, «mi occupo di risorse umane.» 20 La mattina dopo Tom ricevette un'e-mail che diceva: Tom, ho decodificato il taccuino. Non ci crederai. Ripeto, non ci crederai. Vieni al monastero il più presto possibile e preparati a restare senza parole. Wyman Tom era partito all'istante. Ora che il suo Chevy stava percorrendo gli ultimi chilometri della strada sconnessa che portava al monastero, la sua impazienza aveva raggiunto uno stato febbrile. Quando la torre campanaria comparve oltre la chamisa, parcheggiò il pick-up sollevando una nuvola di polvere. Scese dal veicolo. Un istante dopo fratello Wyman gli correva incontro dalla chiesa, la tunica che ondeggiava, come un enorme pipistrello in volo. «Quanto ci hai messo a decifrare il codice?» chiese Tom mentre si inerpicavano su per la collina. «Venti minuti?» «Venti ore. E non l'ho decodificato.» «Non capisco.»
«È qui che sta il problema. Non si tratta di un codice.» «Non è un codice?» «È stato quello a confondermi. Tutti quei numeri perfettamente incolonnati. Ho dato per scontato che lo fosse. Ogni programma lanciato su quelle cifre mi diceva che non erano casuali, che seguivano uno schema... ma a che fine? Non era basato su numeri primi, né su meccanismi di sostituzione o trasposizione o altro che mi venisse in mente. Ero sconcertato. Finché ho capito che non si trattava di un codice.» «E allora che cos'è?» «Sono dati.» «Dati?» «Sono stato un totale imbecille. Avrei dovuto accorgermene.» Non appena i due uomini furono vicini al refettorio, Wyman si interruppe e si mise un dito davanti alla bocca. Entrarono, percorsero un corridoio e raggiunsero una stanzetta bianca e fresca. Un portatile era posato su uno spartano tavolo di legno. Sopra era appeso un crocifisso molto realistico, quasi inquietante. Il monaco si guardò intorno colpevole e chiuse con attenzione la porta. «Non si dovrebbe parlare qui dentro», sussurrò. «Mi sento come uno studente indisciplinato che si chiude in bagno a fumare.» «Allora, di che tipo di dati si tratta?» «Lo vedrai.» «Rivelano l'identità di quell'uomo?» «Non proprio, ma ti condurranno a lui. Di questo sono sicuro.» Entrambi avvicinarono le sedie al computer. Fratello Wyman alzò lo schermo e accese il portatile. Attesero con ansia che si avviasse. Poi Wyman attaccò rapido a digitare. «Mi sto connettendo a Internet tramite un satellite a banda larga. Il tuo uomo si serviva di uno strumento a rilevazione remota e ricopiava i dati sul taccuino.» «Che strumento?» «Ci ho messo un po' a scoprirlo. I cacciatori di tesori e i geologi cercatori di solito ne usano di due tipi. Il primo è un magnetometro a protoni in assetto gradiometrico; in pratica, un sofisticato metal detector. Ti sposti lungo il suolo e quello registra le più piccole variazioni del campo magnetico. Ma i dati in output, in milligauss, non sembrano avere a che fare con queste cifre. «L'altra strumentazione è il GPR, ovvero un radar per la penetrazione del suolo. Si tratta di un macchinario simile a un piatto perforato con una
serie di antenne. In sostanza, emette raggi e ne registra l'eco. Secondo il tipo di terreno e il suo grado di umidità, il raggio può penetrare fino a cinque metri prima di tornare indietro. E ti dà un'immagine approssimativa a tre dimensioni di ciò che si cela in profondità o in certi tipi di rocce. Ti permette di vedere cavità, grotte, antiche miniere, tesori sepolti, giacimenti di metalli, vecchie mura o tombe... cose del genere.» Si interruppe per prendere fiato, quindi proseguì a bassa voce. «Le cifre del tuo taccuino sono i dati generati da un GPR molto sensibile, assemblato in modo artigianale. Per fortuna lo standard di output imita il Dallas Electronics BAND155 Swept-FM, così i risultati possono essere processati con un software prefabbricato.» «Questo cacciatore di tesori era un professionista.» «Senza dubbio. Sapeva quel che faceva.» «Dunque ha trovato un tesoro?» «Sicuro.» Tom riusciva a malapena a sopportare la tensione. «Di che si tratta?» Wyman sorrise e alzò un dito. «Stai per vedere la sua immagine al radar, mappata tramite GPR. Ecco a cosa si riferivano tutte quelle cifre. Sono la mappa precisa di un tesoro sepolto sottoterra.» Tom osservò Ford che si connetteva al sito del dipartimento di Geologia della Boston University. Si introdusse in una serie di database e di schermate molto tecniche relative a radar, immagini via satellite e Landsat, finché non arrivò a una pagina intitolata: APPLICAZIONE DEL GPR BAND155 SWEPT-FM E ANALISI CON IL TERRAPLOT® INSERIRE ID E PASSWORD «Ho hackerizzato l'accesso», sussurrò Ford con una risatina, inserendo un ID e una password. «Non ho fatto niente di male, solo finto di essere uno studente della Boston University.» «Diciamo che non ti sei comportato da monaco», osservò Tom. «Non sono ancora un monaco.» Ford digitò altre lettere e comparve una nuova schermata. INSERIRE DATI ORA Continuò a digitare, poi si appoggiò alla sedia sogghignando, il dito sul
tasto di INVIO e un sorrisetto sulle labbra. «Pronto?» «Non farmi stare ancora sulle spine.» Con un colpetto del dito il programma partì. 21 L'agenzia immobiliare Cowboy Country si trovava sul Paseo de Peralta in una costruzione in finto adobe. Alla porta erano appese decorazioni tipiche del New Mexico e alla reception troneggiava una florida segretaria in tenuta western. Maddox entrò, soddisfatto del clunk-clunk che gli stivali producevano sulle piastrelle Saltillo. Fece per togliersi il Resistol in castoro acquistato quella mattina a quattrocentoventi dollari, poi cambiò idea. Adesso era nel West, e i veri cowboy, quando entrano, non si tolgono il cappello. «Posso aiutarla, signore?» «Affittate case per l'estate, vero?» chiese Maddox con un sorrisetto sbilenco. «Sì, certo.» «Mi chiamo Maddox. Jim Maddox.» Tese la mano e la ragazza gliela strinse. I suoi occhi blu incontrarono quelli di lui. «Ha parlato con qualcuno in particolare?» «No, diciamo che sono venuto senza appuntamento.» «Attenda, le chiamo un agente.» Un istante dopo lo fecero passare in un ufficio ben arredato, in puro stile Santa Fe. «Trina Dowling», si presentò l'agente. Porse la mano a Maddox e lo fece sedere di fronte. Era una splendida cinquantenne o giù di lì, magra magra, abito nero, bionda e con una voce efficiente da far paura. Una potenziale cliente, pensò Maddox. Sicuro. «Mi è parso di capire che lei sia interessato ad affittare qualcosa per l'estate.» «Esatto. Sto cercando un posto per finire il mio primo romanzo.» «Interessante! Il suo primo romanzo!» Lui accavallò le gambe. «Avevo un'azienda che operava in Internet, poi l'ho liquidata prima che il mercato fallisse. Nel frattempo sono passato attraverso un divorzio. E ora ho deciso di prendermi una pausa dal lavoro, sperando di realizzare il mio sogno.» Accennò un sorriso patetico. «Sto cercando qualcosa a nord di Abiquiú, isolato, tranquillo, lontano chilometri
dal vicinato.» «La nostra agenzia ha per le mani più di trecento proprietà. Siamo certi che riusciremo a trovarne una che soddisfi le sue esigenze.» «Ottimo.» Maddox si mosse sulla sedia, accavallò nuovamente le gambe. «Non scherzavo con la storia della privacy. La casa più vicina dev'essere almeno a un chilometro e mezzo di distanza. Vorrei qualcosa al termine di una strada, in mezzo agli alberi.» Si fermò. Trina stava prendendo appunti. «Un vecchio capanno da minatori sarebbe perfetto», aggiunse. «Le miniere mi hanno sempre appassionato. Ce n'è una anche nel mio romanzo.» La Dowling smise di prendere appunti con un colpo secco della penna. «Vogliamo dare uno sguardo al database? Ma prima di tutto, signor Maddox, ha idea di quanto vuole spendere?» «Il denaro non è un problema. E mi chiami Jim, per favore.» «Può attendere un momento, Jim, mentre consulto il nostro database?» «Certo.» Accavallò un'altra volta le gambe, mentre Trina digitava sulla tastiera. «Perfetto.» La donna sorrise nuovamente. «Abbiamo parecchie proprietà che fanno al caso suo, ma ce n'è una in particolare che spicca sulle altre. Il vecchio Campo CCC a Perdiz Creek, ai piedi delle Canjilon Mountains.» «Campo CCC?» «Esatto. Negli anni Trenta i Civilian Conservation Corps hanno messo su un campo nella foresta nazionale, per gli operai che costruivano sentieri. Si tratta di una dozzina di capanni di legno edificati intorno a un refettorio e a una casetta. Qualche anno fa un texano ha acquistato l'intero campo. Ha ristrutturato la casetta e l'ha trasformata in uno chalet con tre camere da letto e tre bagni. Il resto l'ha lasciato com'era. Ci ha vissuto per un po', poi gli sembrava troppo solitario e adesso lo affitta.» «Sembra un posto dove potrebbero piombare dei turisti.» «È chiuso con una cancellata. Si trova proprio nel mezzo di terreni privati ed è circondato dalla foresta nazionale. Sta al termine di una strada dissestata lunga una dozzina di chilometri e gli ultimi tre sono da fare per forza con un quattro per quattro.» L'agente gli lanciò un'occhiata. «Lei possiede un quattro per quattro, vero?» «Ho un Range Rover.» La donna sorrise. «Una strada del genere terrà lontani i curiosi.» «Bene.» «Su quel posto circolano storie interessanti. Prima di diventare un Cam-
po CCC, Perdiz Creek era una città di cercatori d'oro. Intorno ci sono vecchie miniere e...» aggiunse, accentuando il sorriso «... circola voce che ci sia un fantasma. Di solito non lo dico, ma visto che lei è uno scrittore...» «Potrebbe tornarmi utile per il romanzo.» «Pare sia anche un bel posto per fare passeggiate, andare in mountain bike e a cavallo. Nel cuore della foresta nazionale. È comunque dotato di corrente elettrica e linea telefonica.» «Mi sembra perfetto. Unico dettaglio: non vorrei che il proprietario si facesse vivo all'improvviso, senza avvisare.» «Ora si trova in Italia, ma non è il tipo che si comporta così. Siamo noi a occuparci dell'immobile in vece sua e, in caso di necessità, saremmo noi a venire sul posto. E solo con un motivo più che importante e con ventiquattro ore di preavviso. La sua privacy sarà rispettata.» «L'affitto?» «La cifra è piuttosto ragionevole. Sono tremilaottocento al mese, se la affitta per l'intera estate.» «Ottimo. Mi piacerebbe vederla.» «Quando?» «Adesso.» Si tastò la tasca del giubbotto, dove teneva il libretto degli assegni. «Sono pronto a concludere l'affare in giornata. Sono impaziente di lavorare al mio romanzo. Si tratta di un giallo.» 22 Tom fissò con attenzione la schermata bianca del PowerBook. All'inizio non successe nulla, poi un'immagine cominciò a formarsi confusamente sul monitor. «Il processo è piuttosto lungo», mormorò Wyman. La prima fase era terminata; si intuiva una sagoma, una massa indefinita. Non assomigliava a uno scrigno ricolmo d'oro né a una miniera perduta; forse il tracciato si riferiva al contorno di una caverna. Nel secondo passaggio l'immagine si fece più definita, linea dopo linea. Quando prese forma, Tom trattenne il fiato. Era inconfondibile. Non ci poteva credere, forse era un'illusione ottica, doveva trattarsi di qualcos'altro. Al terzo passaggio si rese conto che non era un'illusione. «Mio Dio», fece Tom. «Non è un tesoro. È un dinosauro.» Wyman rise, gli occhi che brillavano. «Te l'avevo detto che ti avrebbe sconvolto. Guarda le proporzioni in scala. Si tratta di un T. rex. Ho fatto
qualche ricerca e pare sia il più grande mai scoperto.» «E non sono solo ossa: c'è l'intera massa.» «Esatto.» Tom ammutolì, fissando la sagoma. Era senza dubbio un Tyrannosaurus rex, la forma era inconfondibile. Giaceva su un lato, il corpo piegato. Ma non si trattava di un semplice scheletro fossile: sembrava che una gran quantità di pelle, carne e organi interni si fossero conservati assieme alle ossa. «È una mummia», fece Tom, «una mummia fossile di dinosauro.» «Proprio così.» «Incredibile. Dev'essere uno dei più grandi fossili mai scoperti.» «Già. È virtualmente completo, a parte qualche dente, un artiglio e l'ultimo pezzo della coda. Guarda come esce dalla roccia.» «Dunque l'uomo assassinato era un cercatore di dinosauri.» «Infatti. Il 'tesoro' di cui parlava poteva essere un tentativo di depistaggio, o forse era proprio il suo modo di esprimersi. D'altronde, si tratta di un tesoro, dal punto di vista paleontologico.» Tom scrutò l'immagine. Non riusciva a crederci. Da piccolo aveva sempre desiderato diventare un paleontologo. Quando i suoi amichetti avevano smesso di pensare ai dinosauri, lui non era mai riuscito a liberarsi del suo sogno. Il padre l'aveva spinto a fare il veterinario. E ora eccolo lì, a contemplare uno dei più fantastici fossili di tutti i tempi. «Ecco il movente», fece Ford. «Quel dinosauro vale una fortuna. Ho fatto qualche ricerca sulla rete. Hai mai sentito parlare del dinosauro Sue?» «Il famoso tirannosauro del Field Museum?» «Proprio lui. È stato scoperto nel 1990 nel deserto del South Dakota da una cacciatrice di fossili professionista di nome Sue Hendrickson. È il tirannosauro più grande e meglio conservato che sia mai stato trovato. È stato messo all'asta da Sotheby's dieci anni fa, prezzo base 8,36 milioni di dollari.» Tom fece un fischio. «Questo deve valere dieci volte di più.» «Come minimo.» «E dove si trova?» Ford sorrise e indicò il monitor. «Vedi quel contorno sfocato intorno al dinosauro? È una sezione trasversale della roccia in cui è incastonato il fossile, un'enorme formazione di più di dodici metri di diametro. La forma è così caratteristica che dovrebbe essere facilmente riconoscibile. Tutte le informazioni che ti servono le trovi lì. Si tratta semplicemente di fare una
gita sul posto e girare finché non lo trovi.» «A partire dal Tyrannosaur Canyon.» «Affascinante coincidenza. Il punto, Tom, è che potrebbe essere da qualunque parte, sulla mesa grande.» «Potrei cercarlo all'infinito.» «Non credo. Ho girovagato a lungo in quelle zone e penso lo troverei in meno di una settimana. Non solo conosci il contorno della formazione, ma come vedi parte del cranio e del tronco anteriore sono affioranti. Si dovrebbe vedere la mandibola del dinosauro emergere dalla roccia.» «Tipo il monolito nero che ha dato il nome al Tyrannosaur Canyon?» «Ce l'ho presente... ma non ha niente a che fare con il fossile. Ora che abbiamo il contorno, sappiamo che cosa dobbiamo cercare... vero?» «Un momento. Chi ha detto che dobbiamo andare a cercarlo?» «Io.» Tom scosse il capo. «Pensavo che ti stessi preparando a diventare monaco. Pensavo volessi lasciarti dietro storie del genere.» Ford lo fissò per un istante, poi abbassò lo sguardo. «Tom... l'altro giorno mi hai fatto una domanda. Vorrei darti la risposta.» «Sono stato indiscreto. Non volevo saperlo davvero.» «Non sei stato indiscreto e ora risponderò alla tua domanda. Mi sono tenuto tutto dentro e ho usato il silenzio come pretesto per evitare l'argomento.» Si fermò. L'altro restò in silenzio. «Lavoravo sotto copertura. Ho studiato crittografia, ma sono finito a lavorare sotto copertura come analista dei sistemi per una grossa ditta di informatica. In realtà facevo l'hacker per la CIA.» Broadbent ascoltava. «Facciamo l'ipotesi che... che un governo... per esempio il governo della Cambogia, acquisti server e software da una grossa ditta americana che non nominerò, il cui acronimo ha tre lettere. All'insaputa dei committenti, la fabbrica ha inserito nel software una piccola bomba logica, che due anni dopo esplode. Il sistema comincia a fare stranezze. Il governo della Cambogia chiede aiuto alla ditta americana. Io vengo inviato come analista dei sistemi. Diciamo che porto con me mia moglie: dà credibilità alla mia copertura, inoltre è un'impiegata dell'azienda. Risolvo il problema, e nello stesso tempo masterizzo su CD tutti i file dell'archivio del personale del governo cambogiano. Camuffo il CD in modo che sembri una copia clandestina del Requiem di Verdi, musiche e tutto quanto. Si può persino ascol-
tare. Parlo sempre in teoria. In realtà niente del genere è mai successo.» Si interruppe. Sospirò. «Sembra divertente», commentò Tom. «Oh, sì che lo era... finché non fecero saltare in aria l'auto con dentro mia moglie. Era incinta del nostro primo figlio.» «Oh, mio Dio.» «Proprio così», disse Wyman tutto d'un fiato. «Te lo dovevo dire. Quando successe, sono fuggito da quella vita per tuffarmi in quest'altra. Mi ero portato solo i vestiti che indossavo, le chiavi dell'auto e il portafogli. Alla prima occasione, ho gettato il portafogli in una fenditura senza fondo nel Chavez Canyon. Non ho idea di che fine abbiano fatto il mio conto in banca, i miei titoli, la casa. Un giorno di questi andrò a controllare, per donarli ai poveri, come ogni monaco che si rispetti.» «Nessuno sa che sei qui?» «Lo sanno tutti. La CIA ha capito. Credici o no, Tom, ma non è male lavorarci. Per la maggior parte si tratta di brava gente. Julie, mia moglie, e io conoscevamo i rischi a cui andavamo incontro. Eravamo stati reclutati insieme al Massachusetts Institute of Technology. Dai file dell'archivio che avevo procurato emersero i nomi di parecchi torturatori e assassini che avevano fatto parte dei Khmer Rossi. Avevo fatto un buon lavoro. Ma per me...» la voce si affievolì «... il sacrificio è stato troppo grosso.» «Mio Dio.» Ford si mise un dito davanti alla bocca. «Non pronunciare il nome di Dio invano. Ora ti ho risposto.» «Non so che dire, Wyman. Mi dispiace... mi dispiace, davvero.» «Non devi dire nulla. Non sono l'unica persona che ha sofferto a questo mondo. Si sta bene qui. Quando riesci a liberarti delle tue pulsioni attraverso il digiuno, la povertà, il celibato e il silenzio, ti avvicini a ciò che è eterno. Chiamalo Dio o come ti pare. Sono un uomo fortunato.» Seguì un lungo silenzio. Infine Tom domandò: «E questo cosa c'entra con la tua idea di andare insieme in cerca del dinosauro? Ho promesso che avrei dato il taccuino a Robbie, la figlia del cercatore, e basta. Per quanto mi riguarda, il dinosauro è suo». Ford tamburellava le dita sul tavolo. «È brutto a dirsi, ma tutti i territori qui intorno, dalla mesa grande al deserto e alle montagne che lo circondano, sono di proprietà del Bureau of Land Management. In altre parole, è terra federale. La nostra terra. Gli americani possiedono tutto ciò che ci sta sopra e sotto, dinosauro compreso. Vedi, Tom, il tuo uomo non era soltan-
to un cercatore. Era un ladro di dinosauri.» 23 Il dottor Iain Corvus abbassò con delicatezza la maniglia della porta in metallo con la targa LABORATORIO DI MINERALOGIA ed entrò con calma nella stanza. Melodie Crookshank digitava di spalle, seduta a una postazione. Mentre lavorava, i corti capelli castani si muovevano su e giù. L'uomo le si avvicinò in silenzio e posò delicatamente una mano sulla sua spalla. Lei emise un gemito soffocato e fece un balzo. «Non ti sei dimenticata del nostro piccolo appuntamento, vero?» chiese. «No, è solo che si è avvicinato silenzioso come un gatto.» Corvus rise appena, le strinse lievemente la spalla e non tolse la mano. Sentiva il calore di lei attraverso il camice. «Sono lieto che ti sia fermata fino a tardi.» Notò con gioia che la ragazza indossava il braccialetto. Era carina, ma di quella bellezza atletica e priva di fascino tipica delle americane. Come se non truccarsi e non andare dalla parrucchiera fossero i requisiti necessari della vera scienziata. Allo stesso tempo aveva due importanti qualità: era discreta ed era sola. Corvus aveva raccolto informazioni su di lei. La ragazza era un prodotto della Columbia University, che sfornava più ricercatori di quanti erano i posti di lavoro. I suoi genitori erano entrambi deceduti, non aveva fratelli né sorelle, pochi amici, niente fidanzato e una vita sociale praticamente nulla. E, oltre tutto, era esperta e tanto bisognosa di approvazione. Tornò a osservarla, lieto di vederla arrossire. Si chiese se il loro rapporto potesse andare al di là della sfera professionale... No, quella era sempre una strada difficile da gestire. La ammaliò con il suo sorriso migliore e le prese la mano, che nella sua divenne bollente. «Melodie, mi compiaccio dei tuoi splendidi progressi.» «Sì, dottor Corvus. È... be', è incredibile. Ho messo tutto su CD.» Corvus si sedette davanti allo schermo piatto del Power Mac G5. «Che lo spettacolo abbia inizio», mormorò. Melodie si sistemò accanto a lui, prese il primo di una pila di CD, aprì la custodia di plastica e lo infilò nel lettore. Avvicinò la tastiera e digitò un comando. «Innanzi tutto», esordì, assumendo un tono professionale, «abbiamo qui un frammento di vertebra e la pelle e i tessuti molli fossilizzati di un grosso tirannosauride, probabilmente un T. rex o un gigantesco Albertosaurus.
Ed è incredibilmente ben conservato.» Apparve un'immagine sullo schermo. «Guardi. È un'impronta della pelle.» Fece una pausa. «Qui si vede più da vicino. Vede quelle linee parallele? Ora siamo tornati a 30x.» Per un istante Corvus rabbrividì. Era ancora meglio di quanto immaginava, molto meglio. Si sentì leggero, quasi levitava sulla sedia. «Sembra la sagoma di una piuma», riuscì a dire. «Esatto. Ecco la prova che il T. rex era piumato.» Era una teoria avanzata qualche anno prima da alcuni giovani paleontologi del museo. Corvus se ne era fatto beffe sul Journal of Paleontology definendola una «tipica fantasia americana». In questo modo non aveva fatto altro che incrementare le critiche sarcastiche e i commenti antibritannici da parte dei colleghi nei suoi confronti. E adesso, nelle sue stesse mani, ecco le prove che loro avevano ragione e lui aveva torto. La spiacevole scoperta della propria sconfitta generò in lui stati d'animo complessi. Ecco un'occasione... piuttosto rara. Avrebbe potuto impossessarsi delle loro teorie, ammettendo pubblicamente l'errore. Una completa e totale azione preventiva... avvolta in un manto di umiltà. Ecco come avrebbe agito. Con una cosa del genere per le mani, sarebbero stati costretti a dargli la cattedra. Ma a quel punto lui non se ne sarebbe fatto niente, vero? Avrebbe potuto lavorare ovunque... persino al British Museum. Soprattutto al British Museum. Corvus si accorse che stava trattenendo il respiro; espirò. «Già, in effetti», mormorò. «Cosi alla fine il nostro vecchio signore aveva le piume.» «E non solo.» Corvus alzò un sopracciglio. Melodie toccò un tasto e comparve una nuova schermata. «Questa è un'immagine polarizzata ingrandita a 100x del tessuto muscolare fossile. È completamente pietrificato, certo. Ma è il fossile più preciso che sia mai stato rinvenuto... Vede come il diossido di silicone a grana fine ha rimpiazzato i tessuti cellulari, persino gli organuli? Il risultato è perfetto e molto fedele. Ora abbiamo davanti l'immagine effettiva della cellula muscolare di un dinosauro.» Corvus ammutolì. «Già.» Melodie batté di nuovo sulla tastiera. «Qui siamo a 500x... Guardi... si riesce a vedere il nucleo.» Clic.
«I mitocondri.» Clic. «E questo... è l'apparato del Golgi.» Clic. «I ribosomi...» Corvus allungò la mano. «Ferma. Ferma un momento.» Chiuse gli occhi e trasse un respiro profondo. Li aprì. «Un attimo, per cortesia.» Si alzò, si aggrappò allo schienale della sedia e respirò a lungo, un'altra volta. Il momento di vertigine passò, lasciandolo incredibilmente vigile. Vagò con lo sguardo per il laboratorio. Regnava un silenzio tombale. Si sentiva solo il sibilo dell'aria condizionata, il ronzio della ventola del computer, l'odore di resina epossidica, di plastica e di circuiti surriscaldati. Era tutto come prima, eppure il mondo era appena cambiato. All'improvviso il futuro gli balenò davanti: i premi, il suo libro in cima alle classifiche, le conferenze, il denaro, la fama. La cattedra sarebbe stata solo l'inizio. Guardò la Crookshank. Se ne rendeva conto anche lei? Non era una stupida. Stava pensando le stesse cose, immaginando a come la sua vita sarebbe cambiata... per sempre. «Melodie...» «Lo so. È spaventoso. E non ho finito. C'è dell'altro.» L'inglese tornò a sedere. Possibile che ci fosse altro? Melodie batteva sulla tastiera. «Ora le microfotografie a elettroni.» Comparve un'immagine in bianco e nero perfettamente a fuoco. «Questo è il reticolo endoplasmatico a 1.000x. Si può notare la struttura a cristalli del minerale che l'ha rimpiazzata. È vero, non si vede granché... ma siamo al limite. La struttura si perde nell'ingrandimento... Il processo di fossilizzazione non può preservare ogni dettaglio. Però il fatto che si riesca a vedere parecchio con un ingrandimento a mille è incredibile. Stiamo guardando la microbiologia di un dinosauro.» Era straordinario. Soltanto quel piccolo campione rappresentava una mirabolante scoperta paleontologica. Pensare che, se le informazioni erano corrette, esisteva un intero dinosauro come quello... La carcassa fossile e perfettamente conservata di un T. rex: lo stomaco, che conteneva ancora l'ultimo pasto, il cervello in tutto il suo splendore, la pelle, le piume, i vasi sanguigni, gli organi riproduttivi, le cavità nasali, il fegato, i reni, la bile. Persino le malattie, le ferite, la storia della sua vita, il tutto esattamente duplicato nella pietra. Era la cosa più vicina a Jurassic Park che mai fosse esistita.
Melodie cliccò sull'immagine successiva. «E questo è il midollo osseo...» «Aspetta.» Corvus la fermò. «Che cosa sono quelle cose scure?» «Quali?» «Nell'immagine di prima.» «Ah, quelle.» La ragazza tornò indietro. Corvus indicò una piccola particella nera sulla fotografia. «Che cos'è?» «Forse un artefatto del processo di fossilizzazione.» «Non può essere un virus?» «È troppo grande. E troppo definito per far parte della biologia originaria. Sono quasi certa che si tratti di un'escrescenza microcristallina, forse un'orneblenda.» «Può essere. Prosegui.» «Posso bombardarlo con lo spettrometro a raggi X e particelle alfa per scoprirne la composizione.» «Bene.» Cliccò su un'altra serie di microfotografie. «È meraviglioso, Melodie.» La ragazza si voltò verso di lui, raggiante e rossa in volto. «Posso farle una domanda?» Corvus esitò, intanto tentava di riprendersi. L'aiuto di Melodie gli tornava utile, senza dubbio. Inoltre, concedere qualche brandello di gloria a un'assistente di laboratorio era di gran lunga preferibile che coinvolgere nella storia un altro conservatore. Lei non aveva agganci, né potere. E non aveva futuro. Era soltanto una ricercatrice sottoccupata e frustrata come tante. Meno male che era una donna e nessuno l'avrebbe presa sul serio. Lui le mise un braccio dietro la schiena e si protese verso di lei. «Naturale.» «È rimasto solo questo campione o c'è dell'altro?» Corvus non poté fare a meno di sorridere. «Ho il sospetto, Melodie, che ci sia un dinosauro intero.» 24 Quando Tom aprì sul tavolo della cucina l'immagine stampata a computer, Sally non provò esaltazione. Si sentiva invece piuttosto agitata. «Andiamo di male in peggio», commentò. «In meglio, vuoi dire. Ecco il tipo di informazione che mi serviva per
identificare quell'uomo e rintracciare sua figlia.» Tipico di Tom, pensò Sally. Testardo, agiva seguendo principi morali profondamente radicati che finivano con il metterlo nei guai. In Honduras aveva rischiato di farsi ammazzare, per quei principi. «Ascolta... quell'uomo stava cercando illegalmente fossili su un suolo pubblico. Di sicuro era coinvolto nel mercato nero di quei reperti e magari aveva contatti con il crimine organizzato. Era un individuo senza scrupoli ed è stato ucciso. Tu sei il tipo che sta alla larga da queste storie. Anche se trovassi sua figlia, il fossile non appartiene a lei. Sai bene anche tu che è di proprietà dei federali.» «Ho fatto una promessa a un moribondo, punto e basta.» Sally sospirò esasperata. Tom si aggirava intorno al tavolo come avrebbe fatto una pantera con una preda. «Non mi hai ancora detto che cosa ne pensi.» «È meraviglioso, d'accordo, ma il punto non è questo.» «Invece sì. È la più importante scoperta paleontologica mai fatta.» Sally venne attirata, suo malgrado, dalla strana immagine. Era sfocata, confusa, ma si capiva chiaramente che era qualcosa di più di uno scheletro. Era un dinosauro intero sepolto nella roccia. Giaceva su un lato, il collo riverso, la mascella aperta, gli arti anteriori distesi come se tentasse di scavare a unghiate la via per la salvezza. «Come ha fatto a fossilizzarsi così perfettamente?» «Dev'essere stato un insieme unico di circostanze che non saprei nemmeno da dove cominciare a capire.» «Dici che è rimasto materiale organico? DNA?» «Sono passati come minimo sessantacinque milioni di anni.» «Pazzesco come il cadavere sembri recente. Quasi si sente la puzza.» Tom ridacchiò. «Non è la prima mummia di dinosauro che viene ritrovata. A cavallo del secolo un cercatore di nome Charles Sternberg ne trovò un esemplare con il becco a spatola in Montana. Ricordo di averlo visto da piccolo al Museo di Storia Naturale di New York, ma non era completo come questo.» Sally guardò la stampata. «Sembra che sia morto soffrendo, con il collo storto all'indietro e la mascella spalancata.» «Vuoi dire morta. È una lei.» «Come lo sai?» La donna avvicinò lo sguardo. «Vedo soltanto una macchia confusa.» «Pare che i tirannosauri femmina fossero più grossi e più feroci di quelli
maschi. E dato che questo è il tirannosauro più grande mai trovato, è probabile sia una lei.» «La Grande Bertha.» «La distorsione del collo è dovuta alla disidratazione e alla contrazione dei tendini. Molti scheletri di dinosauro vengono trovati con il collo distorto.» Sally fischiò. «E adesso? Hai un piano?» «Chiaro. Non sono in molti a saperlo, ma esiste un fiorente mercato nero di fossili di dinosauro. Quei reperti costituiscono un ottimo investimento, e alcuni, come questo, valgono milioni.» «Milioni?» «L'ultimo T. rex comparso sul mercato è stato acquistato per otto milioni... e parliamo di dieci anni fa. Questo ne vale almeno ottanta.» «Ottanta milioni?» «Bingo.» «Chi è disposto a pagare una cifra simile per un dinosauro?» «E chi li pagherebbe per un quadro? Per me, un T. rex batte un Tiziano, sopra ogni cosa.» «Capito.» «Mi sono documentato. In giro ci sono parecchi collezionisti, soprattutto in Estremo Oriente, disposti a pagare cifre astronomiche per uno spettacolare fossile di dinosauro. Il mercato nero in Cina ha fatto uscire dal Paese talmente tanti fossili che lo Stato ha approvato una legge che dichiara i dinosauri parte del patrimonio nazionale. Eppure il flusso non si è arrestato. Al giorno d'oggi, tutti vogliono il proprio dinosauro personale. Il fatto è che le bestie più grandi e meglio conservate provengono ancora dall'America occidentale, e molte di esse si trovano in territorio federale. Se ne vuoi una, devi andare a rubarla.» «Che è esattamente ciò che stava facendo quel tipo.» «Esatto. Era un cacciatore di dinosauri professionista. Non credo ce ne siano tanti come lui, al mondo. Se parlo con la gente giusta, non dovrebbe essere difficile identificarlo. Devo solo trovarla, questa gente.» Sally lo guardò, sospettosa. «E come hai intenzione di muoverti?» Tom ridacchiò. «Piacere, Tom Broadbent. Agente per conto del signor Kim, ricchissimo e solitario industriale della Corea del Sud. Il signor Kim ha intenzione di acquistare un dinosauro spettacolare. È disposto a spendere qualunque somma.» «Oh, no!»
Tom rise, mentre si infilava il foglio in tasca. «Mi sono organizzato. Sabato Shane baderà alla clinica, mentre noi voleremo a Tucson, capitale mondiale del fossile.» «Noi?» «Non crederai che ti lasci qui sola con un assassino in circolazione?» «Tom, sabato ho in programma un percorso a ostacoli per i ragazzini. Non posso partire.» «Non importa. Io non ti lascio qui da sola.» «Non sarò sola. Ci sarà gente tutto il giorno. Sarò perfettamente al sicuro.» «Non di notte.» «Di notte mi farà compagnia il signor Smith & Wesson... e tu sai come so maneggiare una pistola.» «Potresti andare a stare qualche giorno al capanno di pesca.» «Assolutamente no. È troppo isolato. Là sarei ancora più nervosa.» «Allora dovresti andare in albergo.» «Lo sai che non sono una di quelle donne indifese che hanno bisogno della balia. Andrai a Tucson e farai faville con il tuo signor Kim. Qui andrà tutto bene.» «Niente da fare.» Sally insisté. «Se sei così preoccupato, vai a Tucson in giornata. Parti in aereo sabato mattina e torni la sera. Avrai quasi tutto il giorno a disposizione. E venerdì potremo ancora fare il nostro solito picnic, che ne dici?» «Certo. Ma riguardo a sabato...» «Hai deciso di stare a farmi la guardia con il fucile puntato? Neanche per scherzo. Vai a Tucson e torni prima che faccia buio. Io so badare a me stessa.» PARTE SECONDA CHICXULUB Il Tyrannosaurus rex era una creatura della giungla. Viveva nel cuore delle foreste e nelle paludi del Nord America, ai tempi in cui quelle terre si erano da poco separate dal continente della Laurasia. Il suo territorio si estendeva per oltre ottocento chilometri quadrati, dalle sponde dell'antico mare interno Niobrara fino ai piedi delle recentissime Montagne Rocciose. Era un mondo subtropicale con immense foreste e alberi favolosi che in futuro non avrebbero avuto eguali. Piante di araucaria alte centocinquan-
ta metri, gigantesche magnolie e sicomori, sequoie, imponenti palmizi e felci grandi come alberi. Un po' di luce filtrava nel sottobosco e quel chiarore consentiva ai dinosauri e alle loro prede di inscenare il solenne dramma architettato da madre natura. Lei visse nel periodo di splendore dell'Era dei Dinosauri, un'epoca che non avrebbe mai avuto fine se non fosse stata brutalmente interrotta dalla più imponente catastrofe naturale che mai avesse colpito il pianeta Terra. Condivideva la foresta con altre creature, tra cui le sue prede preferite, due specie di dinosauri dal becco a spatola, l'edmontosauro e l'anatosauro. A volte attaccava un triceratopo solitario; evitava il branco, se non per inseguirne un membro malato o moribondo. In quei territori si aggirava anche un enorme brontosauro, l'alamosauro, ma lei raramente lo sceglieva come preda. Preferiva mangiarne la carogna piuttosto che rischiare combattendo. Passava gran parte del tempo a cacciare sulle rive dell'antico mare interno. In quello specchio d'acqua viveva un predatore molto più grosso di lei, un coccodrillo lungo quindici metri chiamato deinosuco. Era l'unico animale in grado di uccidere un T. rex che imprudentemente, magari mentre inseguiva una preda, si fosse avventurato nelle sue acque. Lei cacciava anche leptoceratopi, piccoli dinosauri della taglia di un cervo con il becco simile a quello di un pappagallo e un'arricciatura protettiva intorno al collo. Anche gli anchilosauri erano suoi bersagli, ma li affrontava con maggiore cautela. Un'altra preda era suo cugino, il nanotirannosauro, una versione di se stessa più piccola e più veloce. Una volta aveva attaccato un vecchio e disgustoso torosauro, un dinosauro cornuto dal muso lungo quasi due metri e mezzo: aveva il cranio più grosso di qualunque mammifero terrestre. Occasionalmente aveva ammazzato un imprudente Quetzalcoatlus, un rettile volante con un'apertura alare simile a quella di un F-111. La terra e gli alberi brulicavano di mammiferi che lei a malapena notava: roditori, marsupiali, i progenitori della mucca, della taglia di un topo, e il primo primate del mondo, una creatura chiamata Purgatorius che si nutriva di insetti. Esistevano anche dinosauri che lei non riusciva a cacciare. Per esempio l'ornitomimo, della taglia di uno struzzo, che correva a più di cento chilometri all'ora, e il troodon, un carnivoro molto veloce, grande come un essere umano, dalle mani agili, con un'ottima vista e un cervello in proporzione molto più grande di quello di un T. rex. Lei era un'abitudinaria. Nella stagione delle piogge, quando i fiumi e le
paludi straripavano dai loro argini, migrava a ovest, nel grande territorio ai piedi dei monti. Nella stagione secca, dopo l'accoppiamento, a volte si spostava verso una catena di alture sabbiose, al riparo di un vulcano spento, per fare il nido e deporre le uova. Poi faceva ritorno alla sua tana nella grande foresta sulle sponde del Niobrara. Il clima era caldo, umido e bagnato. Non esistevano calotte polari o ghiacciai. La Terra era stretta nella morsa di uno dei più caldi cicli climatici della storia. I livelli dei mari non erano mai stati così alti. In molti continenti esistevano mari interni. Enormi rettili dominavano l'aria, l'acqua e la terra, e così accadeva da duecento milioni di anni. I dinosauri erano la specie animale più riuscita che si fosse mai evoluta. I mammiferi avevano convissuto con i dinosauri per quasi cento milioni di anni, ma non avevano mai raggiunto un gran numero. Il mammifero più grosso vissuto nell'Era dei Dinosauri era grande quanto un topolino. I rettili erano al top. E lei era il massimo. Era in cima alla catena alimentare. Era la più grande macchina biologica per uccidere mai esistita sulla Terra. 1 Il sole del mattino bruciava sulla mesa grande, incendiando la terra. Jimmie Willer riposava all'ombra di un ginepro, disteso su una roccia. Hernandez gli si sedette accanto, il viso paffuto imperlato di sudore. Willer estrasse dallo zaino un thermos con il caffè, ne versò una tazza per sé e una per il suo vice, e tirò fuori una Marlboro. Wheatley era andato avanti con i cani. Li vedeva avanzare lenti nell'arido altopiano. «Caldo infernale.» «Già», fece Hernandez. Willer aspirò una lunga boccata e lasciò correre lo sguardo verso l'infinita distesa di canyon rossi e aranciati, le volte di roccia, le guglie, i crinali, le colline, gli altipiani: trecentomila acri. Non avevano la minima speranza, a pensarci bene. Strizzò gli occhi per la luce intensa. Il corpo poteva essere stato sepolto sul fondo di uno qualunque di quelle centinaia di canyon o Dio solo sapeva in quale nicchia o cavità, murato in una roccia o occultato in un crepaccio. «È un vero peccato che Wheadey non si sia messo sulle sue tracce quand'era fresco», fece Hernandez. «Non dirlo più.»
Sopra le loro teste il rombo di un elicottero. Era la Narcotici in cerca della marijuana. Wheatley apparve oltre la collinetta di fronte, alle prese con un pendio scivoloso immerso nella calura, con quattro pesanti borracce che gli ballonzolavano sulle spalle. I suoi due segugi gli capitombolavano davanti, la lingua penzoloni, il muso che annusava il terreno. «Scommetto che si è già pentito», disse Willer. «Ora gli tocca portare l'acqua per sé e per i cani.» Hernandez rise. «Allora, che pensi? Nessuna ipotesi?» «Prima pensavo si trattasse di droga. Ma mi sa che c'è sotto qualcosa di più grosso. E sia Broadbent sia il monaco ci sono dentro.» Willer fece un tiro dalla sigaretta. «Di che tipo?» «Non so. Stanno cercando qualcosa. Rifletti. Broadbent sostiene di cavalcare spesso da queste parti 'per piacere'. Be', guardati intorno, porca puttana. Verresti a fare una passeggiata a cavallo in un posto come questo 'per piacere'?» «Assolutamente no.» «Poi incappa in questo cercatore, proprio un attimo dopo che gli hanno sparato. Il sole sta tramontando, la zona è tredici chilometri fuori dalla strada, in mezzo al nulla... Ti pare una coincidenza? Ma fammi il favore...» «Credi sia stato lui a sparargli?» «No. Però è coinvolto. Non ci ha detto tutto. Comunque, due giorni dopo l'omicidio, Broadbent è andato a trovare quel monaco, Wyman Ford. Ho chiesto in giro e pure lui ama passeggiare per il deserto, spesso sta fuori anche quattro giorni di fila.» «Okay, ma che cosa cercano?» «Ecco il punto. E c'è una cosa che non sai, Hernandez. Ho chiesto a Sylvia di prendere informazioni sul monaco. Indovina un po'? Lavorava per la CIA.» «Mi stai prendendo per il culo.» «Non so tutta la storia, ma sembra che se ne sia andato all'improvviso, si sia presentato al monastero e l'abbiano preso. Tre anni e mezzo fa.» «Di cosa si occupava alla CIA?» «Non sono riuscito a scoprirlo. Sai come funziona con quelli. C'era dentro anche la moglie, che è stata uccisa in servizio. Quel Ford è un eroe.» Il detective aspirò un'altra boccata, sentì l'amaro del filtro e gettò la cicca. La guardò rimbalzare sulle rocce. Provava una strana soddisfazione a sporcare
quel paesaggio incontaminato, lo stesso paesaggio che sembrava gridargli tutto il giorno nelle orecchie: «Non sei niente e nessuno». Si alzò all'improvviso. Vedeva a media distanza un puntino nero che si muoveva su un'altura circondata da alti precipizi. Prese il binocolo, guardò. «Bene, bene. Si parla del diavolo...» «Broadbent?» «No. Quella specie di monaco. E ha un binocolo appeso al collo. Proprio come ti ho detto: sta cercando qualcosa. All'inferno... Darei la mia palla sinistra per sapere cosa.» 2 Erbaccia Maddox uscì sul portico della sua casetta in affitto, il pollice alla cintura, e inspirò l'odore degli aghi di pino riscaldati dal sole mattutino. Portò alle labbra la tazza di caffè e ne bevve un sorso rumorosamente. Aveva dormito fino a tardi; erano quasi le dieci. Oltre i pini si scorgevano i picchi argentei delle Canjilon Mountains. Attraversò il porticato, gli stivali da cowboy che rimbombavano sul legno, e si fermò davanti a una buffa insegna con la scritta SALOON. Le diede un colpetto con il dito, facendola oscillare avanti e indietro sui perni arrugginiti. Osservò la via principale. Non era rimasto granché del vecchio Campo CCC. Molte costruzioni erano crollate al suolo come frittelle di legno marcescente, circondate da cespugli e alberelli. Buttò giù il caffè, posò la tazza sulla balaustra e scese i gradini di legno dirigendosi verso la vecchia via centrale del paese. Non poteva negarlo: si sentiva un vero ragazzo di campagna. Amava stare solo, lontano dalle strade, dal traffico, dai palazzi, dalla folla. Alla fine di quella storia, forse avrebbe acquistato un posto così. Lì avrebbe potuto continuare a lavorare su Hard Time e condurre un'esistenza calma e tranquilla, in compagnia di un paio di donne e nient'altro. Imboccò la via polverosa, le mani in tasca, fischiettando stonato. Al fondo del paese, la strada terminava in un sentiero invaso dalle erbacce che si inerpicava su per una gola. Proseguì, gli stivali che frusciavano contro l'erba incolta. Raccolse un bastone per spostare le piante troppo alte al suo passaggio. Due minuti dopo trovò un cartello piantato nel terreno che diceva: PERICOLO: MINIERA - GALLERIE NON SEGNALATE VIETATO L'INGRESSO
IN CASO DI INFORTUNIO IL PROPRIETARIO DECLINA OGNI RESPONSABILITÀ La foresta era quieta, il vento soffiava delicatamente tra gli alberi. Maddox proseguì oltre il cartello. Il sentiero saliva leggermente, seguendo il letto asciutto di una cascata. Camminò altri dieci minuti e raggiunse una radura. Sulla destra si levava il fianco di una collina su cui si snodava un sentiero. Lo imboccò. Quattrocento metri più avanti trovò un capanno decrepito che custodiva l'ingresso al vecchio tunnel di una miniera. Sulla porta facevano bella mostra un lucchetto nuovo di zecca e una catena, assieme a un altro cartello di divieto d'accesso. Lucchetto e catena erano stati messi da lui il giorno precedente. Estrasse una chiave dalla tasca, apri il lucchetto ed entrò. Due vecchie rotaie conducevano in un buco scuro nella roccia chiuso da una grata, anch'essa con un lucchetto. Maddox la aprì facendola scivolare sui cardini oliati di fresco, inspirò l'odore di terra e di umido, poi puntò la luce all'interno. Mentre avanzava, prestava attenzione a non passare sulle vecchie rotaie o a finire in una pozzanghera. La galleria era stata scavata nella roccia viva e nei punti in cui la pietra era marcita o si era fessurata, il soffitto era stato puntellato con travi massicce. Dopo trecento metri, il tunnel svoltava a sinistra. Maddox girò l'angolo e la sua luce illuminò una biforcazione nel condotto. Imboccò il ramo sinistro. Presto ne raggiunse la fine: Maddox aveva chiuso il passaggio costruendo una parete di tronchi che arrivava fino alla volta, in modo da creare una piccola cella. Vi si avvicinò e le diede un colpetto, orgoglioso. Solida come la roccia. Aveva cominciato a mezzogiorno del giorno prima e aveva proseguito fino a mezzanotte: dodici ore di lavoro ininterrotto, da spezzarsi la schiena. Si infilò nell'apertura non ancora ultimata che dava sulla stanzetta che aveva creato. Prese da un gancio una lampada al cherosene, sollevò il tubo di vetro, la accese e la appese a un chiodo. Un chiarore amichevole e giallastro illuminò lo spazio intorno, due metri e mezzo per tre. Non è poi così male, pensò. In un angolo aveva disteso un materasso con un paio di lenzuola pulite, pronte all'uso. Accanto aveva sistemato una vecchia bobina di cavi in legno che fungeva da tavolo, un paio di brutte sedie prese da una casa diroccata, un secchio da cavalli per bere e un altro per andare in bagno. Nelle pietre di una parete aveva piantato quattro bulloni del diametro di più di un centimetro, ognuno dotato di catena e anello in metallo, due
per le braccia e due per i piedi. Si fermò ad ammirare la sua opera. Si stupì un'altra volta della fortuna che aveva avuto a trovare un luogo del genere. Non solo la galleria era perfetta per il suo scopo, ma era riuscito a trovare sul posto gran parte del legname: assi e vecchie travi erano accatastati nel retro della miniera, dove erano sopravvissuti ai danni del tempo. Interruppe le sue piacevoli fantasticherie e si concentrò sul disegno approssimativo che giaceva su un barile, arricciato dall'umidità. Lo distese poggiandoci sopra dei bulloni e lo esaminò. Ancora qualche ritocco ed era fatta. Invece di una porta avrebbe inchiodato tre travi davanti all'apertura: una soluzione più semplice, sicura e resistente. Tanto sarebbe entrato e uscito pochissime volte. La grotta era umida e tiepida. Maddox si tolse la maglietta e la gettò sul materasso. Contrasse il torso muscoloso, fece una serie di esercizi di stretching, poi prese il portentoso Makita e gli cambiò la batteria. Raggiunse la catasta di legname, tastò alcune travi con il cacciavite finché ne trovò una buona, prese le misure, fece un segno a matita e cominciò a trapanare. Il sibilo del Makita riecheggiava lungo la galleria, e man mano che i trucioli fuoriuscivano dal buco un odore di legno bagnato gli arrivava alle narici. Al termine, afferrò la trave e la sollevò con forza, per metterla in posizione verticale. Dopo averla fissata al suo posto con un chiodo, fece un buco con il trapano in quella vicino, vi inserì un bullone lungo una trentina di centimetri e vi avvitò un dado esagonale. Lo strinse così forte con la chiave che penetrò per più di mezzo centimetro nel legno. Nessuno, neanche in preda alla disperazione più cieca, sarebbe riuscito a togliere quel dado. Nel giro di un'ora aveva finito il lavoro. Soltanto la porta era rimasta aperta. Le tre travi che avrebbero bloccato l'apertura erano impilate accanto, già forate con il trapano e pronte all'uso. Maddox passò vicino alla parete ultimata, accarezzando le assi. Lanciò un urlo, ne afferrò una e colpì le pareti della cella con tutte le sue forze. Quindi fece un passo indietro e cominciò a prendere a calci le travi, poi a spallate, urlando e bestemmiando. Si voltò, sollevò il tavolo e lo scagliò contro la barriera di legno, gridando: «Figli di puttana! Bastardi! Vi ammazzerò tutti, vi farò saltare le budella!» Si fermò di colpo, respirando affannosamente. Estrasse un asciugamano dallo zaino, si asciugò il sudore dal petto e dalle spalle, si pulì la faccia e si tirò indietro i capelli, passandoci in mezzo le dita. Raccolse la maglietta e
se la infilò, flettendo i muscoli della schiena. Maddox sorrise tra sé. Nessuno sarebbe riuscito a scappare dalla sua prigione. Nessuno. 3 Wyman Ford scosse la polvere dall'orlo dell'abito e si sedette sul tronco contorto di un vecchio ginepro. Aveva camminato per più di una trentina di chilometri dal monastero fino a raggiungere le maestose cime del Navajo Rim, l'imponente altopiano che si snodava per parecchi chilometri a sud delle Echo Badlands. Alle sue spalle, in lontananza, si estendevano i canyon vermigli di Ghost Ranch, mentre a nord-ovest si stagliavano i picchi innevati delle Canjilon Mountains. Ford estrasse dallo zaino quattro carte topografiche in scala uno a ventiquattromila, le aprì e le mise a terra una accanto all'altra, bloccandole ai lati con alcune pietre. Gli ci volle un momento per orientarsi e far corrispondere i punti di riferimento del paesaggio a quelli sulle cartine. Puntò il binocolo verso le Echo Badlands, in cerca di una formazione rocciosa simile alla sagoma tracciata dal computer. Ogni volta che notava qualcosa di promettente, lo segnava sulla carta con una matita rossa. Dopo un quarto d'ora abbassò il binocolo, incoraggiato da ciò che aveva visto. Non aveva trovato nessuna corrispondenza significativa, ma più osservava il lunghissimo canyon che solcava le Echo Badlands, più si convinceva che il T. rex era sepolto in quella zona. Quelle formazioni rocciose ricordavano la sagoma a cupola che era apparsa sul computer. Il problema era che gli altipiani e i canyon gli coprivano la visuale. Per di più, la sagoma al computer descriveva solo una porzione bidimensionale della roccia e non l'aspetto della formazione da angolature differenti. Riprese a guardare nel binocolo e a cercare, finché non ebbe controllato tutto ciò che si poteva vedere dalla sua posizione. Era ora di spostarsi in un altro punto, che sulla mappa era segnato come Postazione 2, una collinetta che sorgeva al fondo del Navajo Rim simile a un pollice mozzato. Il cammino sarebbe stato lungo, ma ne valeva la pena. Di lì sarebbe riuscito a vedere quasi tutte le Badlands. Raccolse la borraccia, la agitò: era ancora piena per più di metà. Nello zaino ne aveva un'altra, intatta. Finché ci stava attento, non avrebbe dovuto preoccuparsi per l'acqua. Ne bevve un piccolo sorso e si mise in cammino,
lungo il bordo del Navajo Rim. Mentre avanzava, entrò in un piacevole stato onirico dovuto allo sforzo. Aveva detto all'abate che aveva bisogno di una pausa da solo, nel deserto, e aveva promesso che sarebbe tornato l'indomani, alla Terza. Il che ormai era fuori questione, visto che se si recava nelle Badlands non sarebbe stato indietro prima di due giorni. L'abate non avrebbe fatto storie; Ford era solito andare in ritiro spirituale nel deserto. Ma questa volta Wyman ebbe la vaga sensazione di fare qualcosa di sbagliato. Aveva ingannato l'abate riguardo allo scopo della sua escursione. Anche se nel deserto pregava, digiunava e si negava i piaceri corporali, il suo non si poteva definire un viaggio di ricerca spirituale. Si accorse di essersi lasciato trascinare dall'intrigo, dal mistero, dal brivido di trovare il dinosauro. Il monastero gli aveva insegnato a mettersi in discussione, cosa che fino a quel momento non l'aveva mai entusiasmato, e in quell'occasione se ne servì per comprendere le proprie motivazioni. Perché lo stava facendo? Di certo non cercava il dinosauro per consegnarlo al popolo americano, per quanto gli piacesse pensare di essere spinto da motivi altruistici. E non c'entravano nemmeno il denaro o la gloria. Era animato da qualcosa di più profondo, una macchia nel suo temperamento, un bisogno disperato di emozioni e di avventura. Tre anni prima aveva preso una decisione, quella di ritirarsi dal mondo e servire il Signore. Allora aveva agito di impulso, ma ora la sua era una decisione ferrea, e confermata dalla preghiera. Con questa piccola spedizione poteva in qualche modo servire il Signore? Sapeva che la risposta era negativa. Malgrado questi pensieri, fratello Wyman continuava a camminare lungo il bordo scosceso e spazzato dal vento del Navajo Rim, lo sguardo fisso sulla lontana collina. Era in balia di una forza incontrollabile. 4 Mentre era alla finestra, Iain Corvus sentì squillare il telefono. La voce della segretaria gli annunciò: «Il signor Warmus del Bureau of Land Management sulla linea uno». Raggiunse rapido la scrivania, alzò il ricevitore e prese il suo tono più cordiale. «Signor Warmus, come sta? Spero abbia ricevuto la mia richiesta di autorizzazione.»
«Certo, professore. Ce l'ho qui davanti.» Quel suo irritante accento dell'Ovest gracchiò nelle orecchie di Corvus. Professore. Ma dove pescano certa gente? «Ci sono problemi?» «Dal punto di vista pratico, sì. Sono sicuro che si tratti di una svista, ma non vedo indicata nessuna località.» «Non è una svista, signor Warmus. Non ho inserito appositamente l'informazione. Si tratta di campioni molto preziosi, soggetti a un elevato rischio di saccheggio.» «Comprendo, professore», disse la voce strascicata all'altro capo del filo, «ma la mesa grande è enorme. Non possiamo firmare un permesso di raccolta per un museo paleontologico senza essere informati sulla località.» «Quel campione è quotato milioni sul mercato nero. Rivelare informazioni del genere, anche al Bureau of Land Management, è un rischio che non mi sento di correre.» «Capisco, signore, ma qui al BLM tutte le richieste vengono conservate sotto chiave. È molto semplice: niente località, niente permesso.» Corvus trasse un respiro profondo. «Le potremmo fornire un'indicazione di massima...» «Nossignore», lo interruppe l'uomo del BLM. «Ci servono, specificatamente, divisione amministrativa, area, settore e coordinate GPS. In caso contrario non è possibile mandare avanti la richiesta.» Corvus respirò di nuovo a fondo, tentò di moderare il tono di voce. «Mi preoccupo perché, se ben ricorda, l'anno scorso nella contea di McCone, nel Montana, un eccellente esemplare di diplodoco venne soffiato poco dopo che fu inoltrato il permesso.» «Soffiato?» «Rubato.» La voce nasale proseguì, noiosa: «Io non lavoro per il BLM del distretto del Montana, dunque non so nulla di un diplodoco soffiato. Qui nel New Mexico sono richieste le coordinate della località per autorizzare un permesso di raccolta. Se non sappiamo neppure dove si trova il campione, come possiamo autorizzarla a prelevarlo? O impedire che lo faccia qualcun altro? Dovremmo forse mettere una moratoria nella mesa grande sulla raccolta di fossili senza scopo di lucro finché lei non si appropria del suo campione? Non credo proprio». «Capisco. Le farò avere i dati della località il più presto possibile.» «Vediamo. Ancora una cosa.»
Corvus attese. «Non ci sono foto né ricerche allegate alla richiesta. È scritto nell'Appendice A, alla voce norme e regolamenti: 'Il permesso deve recare in allegato un'indagine scientifica che dimostri la presenza del fossile in situ, unita a ulteriori indagini di telerilevamento, se esistenti, e alle foto del detto campione'. Dobbiamo avere le prove della presenza del fossile nella zona.» «La scoperta è recente e il sito è lontano. Non possiamo ritornare sul posto per fare un'indagine. Il punto è questo: voglio essere certo di avere la precedenza, nell'eventualità che riceviate un'altra richiesta relativa allo stesso fossile.» Warmus grugnì. «Il diritto di precedenza va al primo museo o università che presenta in via ufficiale una regolare richiesta di permesso. Gliel'ho già detto, professore, nella domanda qui mancano i presupposti per accordarle questo diritto.» Corvus strinse i denti. Nella domanda qui. «Sono certo che esiste un modo per ottenere il diritto di precedenza senza comunicare coordinate precise.» All'altro capo del filo si udì un sospiro di superiorità. L'inglese sentì il sangue montargli alla testa. «Come ho già detto, otterrà l'autorizzazione quando sarà in regola con i documenti. Non prima. Se altri presenteranno una richiesta per lo stesso fossile... be', non è un problema nostro. Chi primo arriva bene alloggia.» «Cristo santo, quanti tirannosauri interi crede che ci siano laggiù?» saltò su Corvus. «Si dia una calmata, professore.» Corvus fece di tutto per controllarsi. Ecco l'ultima persona al mondo con cui non poteva permettersi di litigare. Era il burocrate che poteva autorizzarlo a portar via il fossile da un territorio federale. Quell'uomo avrebbe anche potuto accordare il permesso a quel maledetto sfigato di Murchison della Smithsonian Institution. «Mi perdoni per l'impulsività, signor Warmus. Le farò avere le informazioni richieste al più presto.» «La prossima volta che inoltra una domanda di autorizzazione alla raccolta di fossili in territorio federale», intonò l'uomo, «si accerti che il modulo sia compilato correttamente. Faciliti il nostro lavoro. Solo perché siete un importante museo di New York, non vuol dire che non dobbiate rispettare le regole.» «Di nuovo, le porgo le mie scuse più sincere.»
«Buona giornata.» Corvus posò con cura il ricevitore. Inspirò profondamente e si passò una mano tremante nei capelli. Misero imbecille arrogante. Erano già le cinque, quindi le tre nel New Mexico. Maddox non si faceva vivo da quarantotto ore, dannazione a lui. L'ultima volta che avevano parlato sembrava che la faccenda fosse sotto controllo, ma in due giorni può capitare di tutto. Camminò su e giù per l'ufficio, andò alla finestra e guardò fuori. Era sera, e al laghetto le barche a remi erano di ritorno dalla gita. Corvus si sorprese a cercare il padre e il figlio. Ma naturalmente non erano tornati... perché avrebbero dovuto? Un solo giro in barca era sufficiente. 5 Le sei. Il sole era tramontato sul canyon e la temperatura aveva cominciato a calare, ma tra le pareti di pietra l'aria era sempre immobile e soffocante. Willer, che stava scarpinando a fatica lungo un canyon interminabile, udì un latrato improvviso provenire da dietro la curva, seguito dalle urla acute di Wheatley. Lui e Hernandez si scambiarono un'occhiata. «Sembra che abbiano trovato qualcosa.» «Già.» «Tenente!» gridava Wheatley in preda al panico. «Tenente!» L'abbaiare isterico dei cani e le urla del collega riecheggiavano lungo le strette pareti del canyon, come se fossero imprigionati in un gigantesco trombone. Willer era stufo di cercare, ma temeva questo momento. «Era ora», fece Hernandez, muovendo le gambe tozze. «Mi auguro che il ragazzo abbia sotto controllo quei dannati cani.» «Ti ricordi l'hanno scorso quando a quel vecchio hanno divorato la sinistra...» «Okay, okay», annuì Willer, brusco. Quando girò la curva, si accorse che Wheatley non aveva i cani sotto controllo. Di uno aveva perso il guinzaglio, e stava cercando senza successo di tirare l'altro a sé. Entrambe le bestie tentavano di scavare in un pezzo di sabbia alla base di una stretta curva a ridosso della parete rocciosa. Hernandez e Willer gli corsero incontro e afferrarono i guinzagli, trascinarono indietro i cani e li legarono a un masso. Willer, ansimante e paonazzo, esaminò la scena. Il letto di sabbia era stato smosso dagli animali, ma non era una gran perdita, visto che l'alluvione
della settimana precedente aveva comunque lavato via ogni traccia. Mentre osservava l'area, non vide nulla che facesse pensare alla presenza di qualcosa sotto la sabbia; si percepiva solo un odore lieve e sgradevole portato dal vento. Alle sue spalle, i cani guaivano. «Scaviamo.» «Scavare?» esclamò Hernandez, il faccione preoccupato. «Non dovremmo aspettare la Scientifica e il medico legale?» «Non sappiamo ancora se si tratta di un corpo. Potrebbe essere un cervo morto. Non possiamo far venire in elicottero un'intera squadra della Scientifica prima di controllare.» «Capisco.» Willer si tolse lo zaino, tirò fuori le due palette che si era portato dietro e ne porse una a Hernandez. «Non credo sia profondo. Il nostro assassino non aveva molto tempo.» Si inginocchiò e cominciò a raschiare con la paletta nella sabbia asciutta, rimuovendo uno strato alla volta. Hernandez lo imitò dall'altra parte. Fecero due mucchi; in seguito se ne sarebbe occupata la Scientifica. Non trovavano una straccio di indizio - vestiti, effetti personali -, e il buco era sempre più profondo. La sabbia da asciutta diventò bagnata. Lì sotto c'era qualcosa, sicuro, pensò il tenente, mentre l'odore aumentava. A un metro di profondità la paletta grattò contro qualcosa di molle e peloso. Un'improvvisa ondata di fetore, densa come una brodaglia, gli aggredì le narici. Continuò a raschiare, respirando con la bocca. Quella roba era seppellita da cinque giorni nella sabbia bagnata, a quasi quaranta gradi di temperatura, e puzzava di conseguenza. «Non è umano», fece Hernandez. «Sembra un cervo.» Willer continuò a raschiare. La pelliccia era troppo folta e arruffata per essere quella di un cervo. Mentre il detective grattava via la sabbia per vedere meglio, brandelli di pelle e di pelliccia si staccarono, esponendo una carne viscida marrone-rosata. Non era un cervo, era un burro. L'asino del cercatore, quello di cui parlava Broadbent. Willer si alzò. «Se c'è un cadavere, deve essere qui vicino. Tu prova da quella parte, io vado di qua.» Ripresero a raschiare la sabbia, ammucchiandola diligentemente da un lato. Willer si accese una sigaretta e la fumò tenendola stretta tra le labbra, sperando di coprire la puzza. «Ho trovato qualcosa.»
Il tenente smise di scavare e raggiunse Hernandez. Il poliziotto aveva tolto altra sabbia, portando alla luce un oggetto lungo e gonfio come una salsiccia bollita. Willer ci mise un momento prima di capire che si trattava di un avambraccio. Un'altra zaffata fetida lo aggredì: era un odore diverso, peggiore. Si riempì di fumo i polmoni, ma non fu una buona idea: sentiva il sapore del cadavere. Si alzò in piedi nauseato e indietreggiò. «Okay. Va bene così. Questa puzza... parla da sola.» Hernandez batté velocemente in ritirata, desideroso di allontanarsi da quella specie di tomba. Willer si spostò controvento. Fumava furiosamente, come a voler proteggere i polmoni dall'odore della morte. Si guardò in giro. I cani, legati alla roccia, guaivano impazienti. Cosa volevano? Cibo? «Dov'è andato Wheatley?» chiese Hernandez, gettando un'occhiata intorno. «Che cazzo ne so!» Willer scorse le orme fresche di Wheatley che si allontanavano lungo il canyon. «Va' a vedere cosa combina.» Il vicesceriffo si incamminò e sparì dietro la curva. Tornò un attimo dopo, con un sorrisetto. «Sta vomitando.» 6 Quel venerdì mattina si preannunciava di un blu impeccabile, con stormi di ghiandaie che starnazzavano e si beccavano tra i piñones e i pioppi che gettavano lunghe ombre sui prati. Tom aveva nutrito i cavalli, lasciando loro un'ora di tempo per mangiare, poi aveva portato il suo preferito, Knock, allo steccato per mettergli la sella. Sally l'aveva raggiunto assieme a Sierra, il suo castrato dal pelo fulvo. Si erano messi al lavoro in silenzio: spazzolavano il mantello dei due animali, sistemavano gli zoccoli, la sella, i finimenti. Da quando erano partiti, non faceva più così fresco lungo il fiume, all'ombra dei pioppi. Alla loro destra svettava il Pedernal Peak, i cui ripidi pendii culminavano con quella caratteristica cima spuntata, raffigurata nei dipinti di Georgia O'Keeffe. Come sempre cavalcavano in silenzio. Quando erano in sella, preferivano non parlare, bastava il piacere di essere insieme. Raggiunsero il guado, i cavalli attraversarono schizzando il basso corso d'acqua, ancora gelido per la neve che si scioglieva dai monti. «Destinazione, cowboy?» «Barrancones Spring.» «Perfetto.»
«Shane ha tutto sotto controllo», fece Tom. «Non c'è bisogno che ritorni questo pomeriggio.» Si sentì leggermente in colpa. In quell'ultima settimana non aveva fatto altro che contare su Shane. Arrivarono al promontorio e si inerpicarono lungo uno stretto sentiero, diretti alla cima. Un falco volò in tondo sopra di loro, fischiando. Nell'aria, odore di pioppi e di polvere. «Caspita, io questo posto lo adoro proprio», fece Sally. Il sentiero tagliava la mesa e attraversava l'ombrosa pineta. Nel giro di mezz'ora furono in cima e Tom girò il cavallo per osservare il panorama. Non si sarebbe mai stancato di guardarlo. Alla sua sinistra scorse le aspre falde del Pedernal Peak, a destra le rocce aranciate della Pueblo Mesa. Sotto di loro i campi irregolari di erba medica che fiancheggiavano Cañones Creek, il quale si apriva nell'immensa Piedra Lumbre Valley, centomila acri di estensione. In lontananza si stagliava il sublime contorno della Mesa de los Viejos, scolpita dai canyon: l'inizio della mesa grande. Da qualche parte, laggiù, giaceva il fossile di un leggendario Tyrannosaurus rex e vagabondava un monaco mezzo folle partito alla sua ricerca. Tom guardò Sally. Il vento le scompigliava i capelli biondi e il suo viso era rivolto verso la luce, le labbra lievemente socchiuse per il piacere e la meraviglia. «Una vista niente male», disse lei allegramente. Proseguirono, le spighe della boutelova che disegnavano un corridoio ondeggiante lungo il ciglio del sentiero. Tom lasciò che Sally passasse avanti e la osservò mentre cavalcava. Continuarono in silenzio, accompagnati solo dal cigolio ritmico delle selle. Non appena il paesaggio si aprì sulle distese erbose della Mesa Escoba, Sally spronò Sierra e partì al trotto. Tom la seguì. Abbandonarono il sentiero e cavalcarono in mezzo all'erba, punteggiata di cardi e lupini. «Più veloce!» esclamò Sally, dando un altro colpetto al cavallo che aumentò il passo. Tom le stava dietro; al fondo del prato vide le macchie di pioppi tipiche di Barrancones Spring, ai piedi di un dirupo rossastro. «Okay», gridò Sally. «L'ultimo che arriva alla sorgente paga pegno! Vai!» Spronò Sierra per l'ultima volta, e il cavallo partì veloce come un razzo, in una corsa senza fiato. Knock non volle essere da meno; un attimo, e lui e Sierra scorrazzavano a tutta velocità per la mesa. Sally spronava il castrato, i capelli che si agitavano al vento come fiamme dorate. Tom la osservò mentre si librava e riconobbe che era una cowgirl perfetta. I due cavalli volavano sull'erba, di-
retti verso l'ombrosa frescura degli alberi vicino alla sorgente. Nell'ultimo tratto, sua moglie tornò al passo e Tom la imitò; le due bestie rallentarono e si fermarono, rispondendo solerti ai padroni. Quando alzò lo sguardo, gli occhi di Tom si posarono su Sally, i capelli scarmigliati, la camicetta bianca sbottonata, il volto colorito. «Fantastico.» Lei saltò giù da cavallo. Erano arrivati in un boschetto di pioppi, con un cerchio di pietre per accendere il fuoco e un paio di tronchi per sedersi. Ai vecchi tempi i genizaros, cowboy di origine indiana, avevano messo su un campo con tavoli grezzi scavati in tronchi di pino, una scatola di legno inchiodata a un ceppo, un pezzo di specchio incastrato nella biforcazione di un ramo e un lavabo smaltato e scheggiato appeso con un chiodo. La sorgente scorreva sul fondo del dirupo, una profonda piscina naturale nascosta dai rami dei salici. Tom prese i cavalli, tolse loro la sella, li abbeverò alla fonte e li portò a pascolare. Quando tornò, Sally aveva sistemato il pranzo su una sottile coperta. Una bottiglia di vino rosso appena stappata faceva da centrotavola. «Questa è classe», commentò Tom. «Castello di Verrazzano, riserva '97.» «L'ho infilata di nascosto nella mia bisaccia. Spero non me ne vorrai.» «Si sarà paurosamente scosso, temo», fece Tom, con falso disappunto. «Sei sicura di volerlo bere a pranzo? Secondo le regole, non si dovrebbe bere e poi cavalcare.» «Be'», fece Sally con il suo stesso tono, «che ne dici se le infrangiamo, queste regole?» Afferrò il panino e ne strappò due grandi morsi, poi versò il vino in un bicchiere di plastica. «Ecco qua.» Tom lo prese, lo fece girare nel bicchiere e ne assaggiò un sorso. «Sapore fruttato, con un lieve aroma di vaniglia e una punta di cioccolato», scherzò. Sally si riempì un bicchiere e lo tracannò. Tom attaccò il suo panino e la osservò mentre mangiava. Una luce verde filtrava attraverso il fogliame che frusciava a ogni alito di vento. Dopo pranzo, lui si sdraiò sulla coperta che avevano disteso sull'erba morbida. In lontananza, attraverso i pioppi, scorgeva i cavalli pascolare, punteggiati dai raggi del sole. All'improvviso sentì una mano fresca sulla tempia. Si voltò; Sally era china su di lui, e con lei la sua cascata di capelli biondi. «Che fai?»
Gli sorrise. «Secondo te?» Gli sfiorò il viso con le mani. Tom tentò di alzarsi, ma lei lo spinse delicatamente nell'erba. «Ehi...» «Ehi lo dico io.» Sally gli fece scivolare una mano sotto la camicia e prese ad accarezzargli il petto. Si abbassò e premette le labbra contro le sue. Sapevano di menta e di vino. Gli si sdraiò sopra rovesciandogli addosso i capelli. Tom allungò la mano e glieli accarezzò, poi raggiunse l'incavo della sua schiena, sentì i suoi muscoli. La attirò tra le braccia e percepì il suo corpo sottile e i morbidi seni contro il proprio petto. Dopo, restarono sdraiati l'una accanto all'altro sulla coperta. Tom le mise un braccio intorno alle spalle, perso nei suoi splendidi occhi azzurri. «Non c'è niente di più bello, non credi?» osservò. «Già», mormorò lei. «È così bello che mi fa quasi paura.» 7 Maddox passeggiava per Canyon Road. Svoltò l'angolo e si trovò su Camino del Monte Sol. Fu accolto da una schiera di insegne fatte a mano che addobbavano entrambi i lati della via, gareggiando a quale attraeva più acquirenti nei negozi di artigianato. I marciapiedi erano gremiti di turisti bardati come se fossero in procinto di partire per un'escursione nel Sahara, con cappelli flosci parasole, borracce alla cintola e scarponi ai piedi. Molti erano pallidi e confusi, simili a larve appena emerse dalle piovose città della East Coast. Quel giorno Maddox voleva fare il ricco texano e ci riusciva piuttosto bene, con il cappello, gli stivali e la bolo, una specie di cravatta da cowboy su cui spiccava un turchese grosso come una pallina da golf. La strada passava accanto ad alcune vecchie ville vittoriane, anche loro, come tutto in quel posto, trasformate in spazio espositivo, le vetrine piene di bigiotteria indiana e vasi di terracotta. Guardò l'orologio. Mezzogiorno. Aveva ancora un po' di tempo prima di entrare in azione. Si aggirò dentro e fuori i negozi, sbalordito dall'incredibile quantità di argento, turchese e vasellame che esisteva al mondo, per non parlare dei dipinti. Dopo l'ennesima sfilata di quadri con canyon fluorescenti, coyote che ululavano alla luna e indiani avviluppati nelle coperte, Maddox rafforzò la sua convinzione sull'arte: non era altro che una truffa. Un modo elementare per fare quattrini e restare nella legalità. Perché non ci aveva mai pensato? Aveva buttato nel cesso metà della sua vita cercando di fare soldi
in modo disonesto, e con fatica, senza pensare che le truffe migliori sono quelle alla luce del sole. Una volta concluso quell'ultimo lavoro, si sarebbe legalizzato al cento per cento, avrebbe reinvestito una somma in Hard Time e forse cercato altri investitori. Anche lui si sarebbe fatto i milioni su Internet. Vide una galleria in cui troneggiavano enormi sculture in bronzo e pietra. Sembrava roba costosa... Anche solo per smuoverla di lì sarebbe servita una piccola fortuna. Al suo ingresso, il campanello sulla porta suonò e comparve una giovane donna con i tacchi alti che gli rivolse un luminoso sorriso lucido di rossetto. «Posso aiutarla, signore?» «Certo che sì», rispose Maddox, notando di aver assunto un accento strascicato. «Quella scultura laggiù», e indicò la più imponente del negozio, un gruppo di indiani a grandezza naturale ricavati da un unico blocco di pietra. Doveva pesare minimo tre tonnellate. «Mi può dire quanto viene?» «La via della benedizione. Viene uno e settantacinque.» Maddox si zittì, appena in tempo per non domandare: Intende dire centosettantacinquemila? «Accettate carte di credito?» Se la commessa era stupita, non lo diede a vedere. «Dobbiamo solo verificare il limite della carta. Tanti non possono superare un determinato importo.» «Io non sono uno dei tanti.» La donna sorrise un'altra volta. Maddox notò che la camicetta di seta era sbottonata e aveva lentiggini sul décolleté. «Preferisco usare la carta il più possibile, per usufruire delle riduzioni sui voli aerei.» «Con questa può andare fino in Cina senza spendere nulla.» «Meglio in Thailandia.» «Può andare anche lì.» Maddox la guardò meglio. Era una bella donna, com'era giusto che fosse, lavorando in un posto simile. Si chiese se le sarebbe toccata una commissione. «Be'...» fece, ammiccante. «E quello quanto costa?» Indicò una statua di bronzo con un indiano che teneva un'aquila. «Liberando l'aquila... Uno e dieci.» «Ho appena acquistato un ranch fuori città e devo pur arredarlo in qualche modo, dannazione. Sono tremila metri quadrati solo la costruzione principale.»
«Immagino.» «Mi chiamo Maddox. Jim Maddox.» Gli porse la mano. «Clarissa Provender.» «Piacere di conoscerti, Clarissa.» «L'artista è Willy Atcitty, un autentico membro della tribù navajo, uno dei nostri migliori scultori nativi americani. La prima opera che ha visto è scavata in un blocco di alabastro originario del New Mexico proveniente dalle San Andres Mountains.» «Splendido. Che cosa rappresenta?» «Il canto della 'Via della benedizione', della durata di tre giorni.» «Il canto di che?» «Della 'Via della benedizione'. È un tipico rituale navajo per ritrovare l'equilibrio e l'armonia interiore.» «Me ne serve una.» Ora le era così vicino da sentire l'odore della tintura per capelli che quella mattina aveva applicato alla sua lucente chioma corvina. «A chi non servirebbe?» rise Clarissa, lanciandogli uno sguardo di complicità attraverso gli occhi color nocciola. «Clarissa, te l'avranno chiesto in molti, e se sono fuori luogo dimmelo... ma ti andrebbe di andare a cena stasera?» La donna sfoggiò un sorriso luminoso e impostato. «Non è previsto che esca con un potenziale cliente.» Maddox lo interpretò come un sì. «Sarò al Pink Adobe per le sette. Se ti capita di passare da quelle parti, sarei lieto di offrirti un martini e una steak Dunigan.» Lei non disse di no e la cosa lo incoraggiò. Indicò le sculture. «Credo che opterò per quella in alabastro. Prima però devo prendere le misure, per essere certo di avere lo spazio. In caso contrario sceglierò l'altra.» «Di là ho tutte le informazioni utili: dimensioni, peso, metodo di consegna.» Si allontanò e Maddox la ammirò ancheggiare nel suo vestitino nero. La donna tornò con un foglio, un biglietto da visita e un dépliant sull'artista: gli porse tutto con un sorriso. Aveva una macchia di rossetto sul canino sinistro. Maddox si infilò il materiale nella tasca della giacca. «Ti dispiace se uso il telefono per una breve chiamata locale?» «No.» Clarissa lo condusse alla sua scrivania, nel retro, e gli porse il ricevitore. «Sarò rapido», fece lui. «Pronto? Il dottor Broadbent?»
All'altro capo del filo una voce rispose: «No, sono Shane McBride, il suo socio». «Mi sono trasferito da poco a Santa Fe, ho preso un ranch a sud della città. Ho comprato un cavallo addestrato. È un bellissimo animale pezzato e ha bisogno di una visita veterinaria. Sarebbe disponibile il dottor Broadbent?» «Quando?» «Oggi. Oppure sabato.» «Oggi il dottor Broadbent non c'è, ma potrebbe darle appuntamento per lunedì.» «Non sabato?» «Sabato sono di servizio, vediamo... ho un buco per le due.» «Mi perdoni, Shane, non la prenda sul personale, ma mi hanno parlato molto bene del dottor Broadbent e con lui mi sentirei più tranquillo.» «Per avere lui deve attendere fino a lunedì.» «Ne ho bisogno per sabato. Se il problema è che è il suo giorno libero, sono disposto a pagare un extra.» «Quel giorno sarà fuori città. Mi dispiace. Come le ho detto, sarei lieto di poterla aiutare.» «Niente di personale, Shane, è che...» Lasciò calare il tono di voce, dispiaciuto. «Grazie lo stesso. Richiamerò lunedì per un altro appuntamento.» Riattaccò e ammiccò a Clarissa. Lei restituì lo sguardo, il volto impenetrabile. «Ci si vede al Pink, Clarissa.» Per un attimo la donna non rispose. Poi si protese verso di lui e con un sorriso smaliziato gli disse sottovoce: «È da cinque anni che faccio questo lavoro e lo so fare molto bene. E sai perché?» «Perché?» «Riconosco i contaballe non appena varcano la porta. E a te lo si legge in faccia.» 8 L'elicottero che trasportava la Scientifica fu costretto ad atterrare quasi un chilometro prima della scena del crimine, lungo il canyon, e gli agenti dovettero portare l'attrezzatura oltre il letto della cascata. Arrivarono furibondi, anche se Calhoun, il capo e anche il più ironico del gruppo, li aveva
intrattenuti con battute, aneddoti, pacche sulla schiena e la promessa di birra fresca per tutti. Calhoun gestì l'operazione come se fosse uno scavo archeologico: mappò il sito a griglia e i suoi uomini si misero a scavare strato dopo strato, mentre il fotografo documentava ogni fase. Setacciarono la sabbia con una rete a maglie finissime, poi la passarono in una vasca di galleggiamento da cui pescarono ogni pelo, filo e oggetto sconosciuto. Era un lavoro sporco ed erano in ballo dalle otto di mattina. Adesso erano le tre del pomeriggio e c'erano quasi quaranta gradi. Le mosche erano accorse a sciami, ronzanti. Presto, si disse Willer, sarebbe giunta l'ora della «spazzata», cioè quando un cadavere viene fatto rotolare nel suo sacco, preferibilmente senza disfarsi come un pollo troppo cotto. A un corpo potevano succedere tante cose, dopo che se ne stava sepolto per cinque giorni sotto la calura. La Feininger, il medico legale, se ne stava lì vicino a supervisionare l'operazione. Era l'unica che con quel caldo riuscisse a mantenersi composta ed elegante, i capelli grigi legati con un foulard e nemmeno una goccia di sudore a imperlare il viso segnato ma ancora piacente. «Voi tre, vi voglio tutti dalla parte giusta, per cortesia», disse lei, facendo un cenno alla squadra. «Sapete come si fa. Gli infilate sotto le mani, vi assicurate che la presa sia buona e al tre lo fate rotolare nel sacco di plastica. Niente di più facile. Avete tutti le protezioni? Controllato se sono strappate o bucate?» Si guardava intorno con aria ironica e in parte divertita. «Pronti? Okay, stavolta è dura. Dateci dentro, ragazzi. Al mio tre.» La squadra si preparò con qualche grugnito. Tempo prima la Feininger aveva imposto agli agenti della Scientifica il divieto di fumare. Tutti si erano applicati una grossa striscia di Vicks Vaporub sotto le narici. «Pronti? Uno... due... tre... via.» Con un unico movimento fecero rotolare il corpo nel sacco aperto. Willer constatò che l'operazione aveva avuto successo: nulla era caduto fuori o si era perso per strada. «Ottimo lavoro, ragazzi.» Uno della squadra chiuse la cerniera del sacco, che venne posizionato su una barella in attesa di essere trasportato all'elicottero. «La testa dell'animale mettetela lì dentro», ordinò la Feininger. Il cranio fu prontamente afferrato e infilato in un sacchetto poi chiuso con la cerniera. Il detective sospirò di sollievo; la Scientifica aveva acconsentito a lasciare lì gran parte del burro e a prendersi solo la testa, su cui il killer aveva sparato a bruciapelo, lasciando un buco di dieci millimetri di
diametro. Il proiettile era stato rinvenuto conficcato nelle pareti di arenaria del canyon e costituiva un'ottima prova. Avevano recuperato l'attrezzatura del cercatore; l'unica cosa che mancava erano indicazioni sulla sua identità. Ma con il tempo avrebbero scoperto anche quella. Tutto sommato, avevano raccolto un bel po' di indizi. Willer guardò l'ora. Le tre e mezzo. Si asciugò il viso, tirò fuori una lattina gelata dalla borsa frigo e se la passò sulla fronte, sulle guance e sulla nuca. Hernandez lo raggiunse, sorseggiando la sua Coca. «Dici che l'assassino se l'aspettava che avremmo trovato il cadavere?» «Di sicuro per lui non è stato facile nasconderlo. Ci troviamo a quanto dal luogo dell'omicidio? Diciamo tre chilometri... Ha dovuto legare il corpo sopra al burro, trascinarlo fino qui, scavare un buco grande abbastanza per l'animale, l'uomo e tutte quelle merdate... No, per me non si immaginava che l'avremmo trovato.» «Qualche ipotesi, tenente?» «L'assassino cercava qualcosa addosso a quell'uomo.» «Come fai a dirlo?» «Guarda tutta la roba che aveva.» Willer indicò il telone di plastica su cui avevano poggiato l'attrezzatura e le provviste del cercatore. Uno dei ragazzi della Scientifica rimuoveva un oggetto alla volta, lo avvolgeva in una carta speciale, lo etichettava e lo riponeva nei contenitori di plastica. «Vedi che la pelle di pecora del basto è stata strappata e gli altri oggetti sono stati rotti o aperti? E che le tasche del cadavere sono state rivoltate? Non soltanto il nostro uomo cercava qualcosa, ma era scocciato perché non la trovava.» Willer scolò rumorosamente ciò che restava della Coca, poi buttò la lattina nella borsa frigo. Hernandez grugnì, contrasse le labbra. «E che cosa cercava? Una mappa del tesoro?» Un lieve sorriso attraversò il volto dello sceriffo. «Qualcosa del genere. E ci scommetto che il cercatore l'ha data al suo socio prima che l'assassino lo raggiungesse scendendo nel canyon.» «Socio?» «Già.» «Quale socio?» «Broadbent.» 9
Sabato mattina, all'alba. Il sole nascente sfiorava le cime dei pini sul crinale sopra Perdiz Creek e illuminava la vallata sovrastante; lame di luce tagliavano la foschia. Gli alberi più in basso erano ancora avvolti nella frescura notturna. Erbaccia Maddox ciondolava sul porticato della sua casetta, sorseggiando il caffè. Teneva in bocca per un po' il liquido amaro e bollente, poi lo deglutiva. Ripensò al giorno prima, a quella puttana della galleria d'arte. Si sentì scoppiare di rabbia. Doveva sfogarsi con qualcuno. Buttò giù l'ultima sorsata di caffè, posò la tazza e si alzò. Andò in salotto, prese lo zaino, lo appoggiò sul portico e preparò le attrezzature necessarie per la sua giornata di lavoro. Per prima la Glock 29, con due caricatori, ognuno da dieci proiettili. Poi il solito kit: retina per capelli, cuffia, calza, due paia di guanti chirurgici, giacca a vento di plastica, scarpette chirurgiche e profilattici. Ancora, matite e fogli da disegno, cellulare (con la batteria carica), sacchetti a chiusura lampo, coltello da caccia, snack da sgranocchiare, una bottiglia d'acqua, torcia elettrica, manette con la chiave, filo per stendere in plastica, nastro telato, fiammiferi, cloroformio e un assorbente di stoffa. Tirò fuori lo schizzo di casa Broadbent e lo studiò con attenzione, memorizzando stanze, porte, finestre, postazioni telefoniche e punti di osservazione. Infine spuntò tutti gli oggetti dal suo elenco man mano che li infilava, ciascuno al proprio posto, nello zaino. Rientrò in casa, buttò lo zaino accanto alla porta, si versò una seconda tazza di caffè, prese il portatile, tornò fuori e si accomodò sulla sedia a dondolo. Doveva far passare gran parte della giornata e nello stesso tempo non voleva sprecare tempo prezioso. Si appoggiò allo schienale, aprì il portatile e lo accese. Intanto estrasse un pacchettino di lettere dalla tasca, tolse l'elastico che le teneva insieme e cominciò con la prima, a caso. Ci lavorò sopra, una dopo l'altra, per trasformare quello stupido carceratese in una prosa accettabile. Due ore dopo aveva finito. Salvò e inviò tutto in allegato al webmaster del sito, un tale che non aveva mai visto dal vivo e con cui non aveva nemmeno mai parlato al telefono. Si alzò dalla sedia a dondolo, gettò dalla balaustra il caffè gelido avanzato ed entrò a vedere che cosa c'era da leggere. Sulla libreria c'erano soprattutto biografie e libri storici, ma Maddox passò oltre, nella zona dei thriller. Aveva bisogno di qualcosa che lo prendesse e non gli facesse pensare ai suoi piani del pomeriggio, che aveva ormai organizzato nel detta-
glio. Scorse i titoli, finché il suo sguardo si posò su un romanzo intitolato Finché morte non vi separi. Lo prese dallo scaffale, lesse il risvolto, lo sfogliò. Uscì sul porticato, si risistemò sulla sedia a dondolo e cominciò a leggere. La sedia si muoveva ritmicamente, mentre il sole sorgeva. Due corvi si alzarono in volo da un albero vicino e planarono sulla città deserta, gracchiando. Maddox si interruppe e guardò l'ora. Era quasi mezzogiorno. Sarebbe stato un sabato lungo e tranquillo... ma con un finale a sorpresa. 10 Willer era seduto con i piedi sulla scrivania. Osservava Hernandez di ritorno dall'archivio con un fascicolo a fisarmonica sotto il braccio. Il vicesceriffo si lasciò cadere con un sospiro su una poltrona nell'angolo, il raccoglitore sulle ginocchia. «Sembra promettente», fece Willer, indicando il fascicolo. Hernandez era in gamba a fare ricerche. «Lo è.» «Caffè?» «Se non ti spiace.» «Te lo prendo.» Willer si alzò, andò alla macchinetta, riempì due tazze e ne portò una a Hernandez. «Che hai scoperto?» «Questo Broadbent ha un passato.» «Racconta in breve. Stile Reader's Digest.» «Suo padre era Maxwell Broadbent, un collezionista di fama. Negli anni Settanta si trasferisce a Santa Fe, si sposa cinque volte e ha tre figli da mogli diverse. Un tombeur de femmes. Si occupava di compravendita di opere d'arte e antichità. Fu indagato dall'FBI un paio di volte per acquisti al mercato nero e saccheggio di tombe, ma era un volpone e non fu mai preso.» «Vai avanti.» «Circa un anno e mezzo fa capitò qualcosa di singolare. Sembra che la famiglia si fosse spostata in America Centrale per una specie di vacanza estesa. Il padre morì laggiù e i figli fecero ritorno con un quarto fratello, metà indiano. Tutti e quattro si spartirono una cifra sui seicento milioni.» Willer sollevò le sopracciglia. «Nessun sospetto di omicidio, laggiù in Centro America?» «Niente di definito. Ma l'intera storia è confusa, nessuno sembra saperne nulla, sono tutte voci. Ora nella vecchia casa di famiglia ci vive il figlio
indiano, un tipo che scrive libri ispirati, roba New Age. Dicono che abbia addosso dei tatuaggi tribali. Broadbent conduce un'esistenza modesta, lavora duro. Si è sposato l'anno scorso, la moglie si chiama Sally, Sally Colorado da nubile. Viene da una famiglia di operai. Broadbent gestisce una clinica veterinaria per grossi animali ad Abiquiú assieme al suo assistente, Albert McBride, detto Shane.» Willer alzò gli occhi al cielo. «Ho parlato con alcuni suoi clienti ed è ugualmente apprezzato dai fighetti appassionati di cavalli e dai rancher all'antica. La moglie dà lezioni di equitazione ai bambini.» «E la fedina penale?» «A parte qualche bravata giovanile, il tipo è pulito.» «McBride?» «Pure lui.» «Parliamo di queste 'bravate giovanili'.» «Questi documenti sarebbero sigillati, ma sai com'è. Vediamo... Uno stupido scherzo che coinvolgeva il preside del suo liceo e un camion pieno di letame...» Hernandez sfogliò gli incartamenti. «Una passeggiata a cavallo con una bestia non sua... Ha spaccato il naso a un ragazzo durante una scazzottata.» «E gli altri fratelli?» «Philip vive a New York, è conservatore al Metropolitan Museum of Art, e fin qui niente di strano. Vernon ha sposato da poco un'avvocatessa ambientalista, vive nel Connecticut e fa il casalingo, sta a casa a guardare il bambino mentre la moglie lavora. Tempo fa ha avuto qualche problema finanziario, ma questo prima dell'eredità.» «Quanto hanno ricevuto?» «Pare novanta milioni a testa, al netto delle tasse.» Willer strinse le labbra. «Mi chiedo di che diavolo vada in cerca questo tipo nella mesa grande... Qualunque cosa sia, di sicuro non si tratta di denaro.» «Non ne ho idea, tenente. Ci sono tanti di quei manager pieni di soldi disposti a rischiare la galera per averne ancora di più. È una malattia.» «Vero.» Willer annuì, sorpreso all'uscita di Hernandez. «È solo che quel Broadbent non mi sembra il tipo. Non è uno che ama sfoggiare la sua ricchezza. Lavora anche se non ne avrebbe bisogno. Voglio dire, questo è uno che si alza alle due di mattina per andare a trafficare con il culo di una mucca e tirare su quaranta dollari. C'è qualcosa che ci sfugge, Hernandez.»
«Hai ragione.» «Notizie del cadavere?» «Ancora non identificato. Stanno rilevando le impronte digitali e quelle dell'arcata dentale. Ci vorrà un po' prima che si riesca a rintracciarlo nel database.» «E il monaco? Hai raccolto informazioni?» «Sì. Ha un curriculum niente male. Figlio dell'ammiraglio John Mortimer Ford, sottosegretario della marina sotto Eisenhower. Ha fatto l'accademia ad Andover e studiato ad Harvard, dove si è laureato in antropologia con centodieci e lode. È andato al MIT e ha preso un dottorato in cibernetica o diavolerie simili. Ha conosciuto sua moglie, si sono sposati ed entrambi hanno lavorato per la CIA. Per il resto, nada. Quei tipi sono bravi a mantenere i segreti. Lui faceva lavori di spionaggio decifrando codici e utilizzando l'informatica. Sua moglie fu assassinata in Cambogia. Allora Ford si licenziò e si fece monaco. Rinunciò a tutto, compresa una casa da un milione di dollari, soldi a palate, un garage stracolmo di Jaguar d'epoca... Incredibile.» Willer grugnì. C'era qualcosa che non quadrava. Si domandò se i suoi sospetti su Broadbent e sul monaco fossero giustificati... Sembrava che entrambi avessero tutte le caratteristiche per rigare dritto. Eppure era certo che in qualche modo ci fossero dentro fino al collo. 11 Quando Tom entrò nel parcheggio del Silver Strike Mall, nella periferia tentacolare di Tucson, era metà pomeriggio. Scese dall'auto presa a noleggio e camminando sull'asfalto appiccicaticcio si diresse verso l'ingresso del centro commerciale. All'interno, l'aria condizionata aveva creato un clima polare. Il Fossil Connection si trovava sul fondo, nella zona meno alla moda del centro, dove Tom scorse una vetrina stranamente spoglia e modesta con pochi esemplari in esposizione. Un cartello sulla porta recitava: SOLO VENDITA ALL'INGROSSO. ASTENERSI PERDITEMPO. Chiuso. Tom suonò, la porta si aprì e lui entrò nel negozio. L'interno somigliava più all'ufficio di un avvocato che a uno dei più grandi spacci di fossili della West Coast. Il pavimento era rivestito da una moquette beige e alle pareti erano appesi manifesti sull'imprenditorialità e sul servizio clienti. Due segretarie lavoravano alla scrivania, di fianco a una sala d'attesa costituita di un paio di poltrone marroncine e un tavolino
di vetro e ferro. Su uno scaffale erano esposti alcuni fossili, una grossa ammonite troneggiava al centro del tavolino, accanto a una pila di riviste del settore e volantini del Tucson Gem and Mineral Show. Una delle due segretarie passò velocemente in rassegna l'abito da duemila dollari firmato Valentino e le scarpe fatte a mano di Tom. La donna alzò un sopracciglio, compiaciuta: «Posso aiutarla, signore?» «Ho un appuntamento con Robert Beezon.» «Nome?» «Broadbent.» «Prego, si accomodi, signor Broadbent. Desidera qualcosa da bere? Caffè? Tè? Acqua minerale?» «No, grazie.» Tom si sedette, prese una rivista, la sfogliò. Al pensiero dell'inganno che si era studiato, provò una fitta d'ansia. Il vestito che indossava era stato chiuso nell'armadio assieme a molti altri che mai aveva portato, acquistati per lui da suo padre a Londra e a Firenze. Un istante dopo un telefono trillò. «Ora il signor Beezon la può ricevere.» La segretaria indicò una porta con un vetro smerigliato su cui c'era scritto semplicemente BEEZON. Tom si alzò in piedi e, mentre la porta si apriva, scorse un uomo tarchiato con il riporto, in cravatta e maniche di camicia. Non era molto diverso da un piccolo avvocato di paese stressato dal lavoro. «Il signor Broadbent?» Gli porse la mano. Le pareti dell'ufficio rivelavano che l'uomo non si occupava di contabilità o di problemi legali. Vi erano appesi poster che raffiguravano campioni di fossili e c'era una teca di vetro contenente un assortimento di granchi, meduse e ragni fossili. Nel centro si scorgeva una placca con un pesce fossile che aveva un altro pesce nella pancia, il quale a sua volta aveva nel ventre un pesciolino. Tom si sedette e Beezon prese posto dietro la scrivania. «Che ne dice della mia piccola chicca? Mi ricorda ogni volta che viviamo in un mondo in cui il pesce più grande mangia quello più piccolo.» Tom fece una risata di convenienza a quella che doveva essere l'apertura di rito di Beezon. «Bello», commentò. «Veniamo a noi, signor Broadbent», proseguì l'uomo. «Non ho mai avuto il piacere di lavorare per lei. Finora. È entrato recentemente in affari? È titolare di un negozio?» «Vendo all'ingrosso.»
«Noi serviamo parecchi clienti di questo genere. È strano non aver avuto a che fare con lei prima d'ora. Siamo un circolo piuttosto ristretto, sa.» «Sono appena entrato nel giro.» Beezon incrociò le mani sulla scrivania e lo osservò, senza staccare gli occhi dal suo abito firmato. «Biglietto da visita?» «Non l'ho con me.» «Allora, cosa posso fare per lei, signor Broadbent.» Chinò la testa, sollecitando una spiegazione. «Speravo di vedere qualche esemplare.» «Le farò fare una visita rapida nel retro.» «Splendido.» Beezon si alzò dalla scrivania e Tom lo seguì. Attraversarono l'ufficio e raggiunsero una porticina modesta. L'uomo la aprì ed entrarono in un enorme stanzone simile a un ipermercato, benché al posto della mercanzia gli scaffali traboccassero di fossili. Erano migliaia, forse addirittura milioni. Qua e là, uomini e donne guidavano carrelli elevatori e veicoli vari carichi di rocce. L'aria odorava di polvere di pietra. «Prima era un emporio Dillard», spiegò Beezon, «ma questa zona del centro commerciale non ha mai funzionato bene con la vendita al dettaglio, così l'abbiamo avuto a un buon prezzo. Fa da magazzino, galleria espositiva e area di estrazione e preparazione, tutto in uno. Da una parte entra materiale grezzo e dall'altra esce il prodotto finito.» Prese Tom per il braccio e lo condusse avanti, indicando con la mano una parete su cui erano poggiate gigantesche lastre di roccia marroncine tenute ferme da pezzi di legno e imballate nel cellophane. «Disponiamo di materiali eccellenti provenienti da Green River, roba bella. La può acquistare da me a lastre, tagliarla e poi venderla a un quintuplo del suo valore.» Giunsero in prossimità di alcuni bidoni colmi di fossili che Tom riconobbe come ammoniti. «Siamo i più grandi commercianti di ammoniti al mondo. Ne abbiamo di tutti i tipi: grezze o lucidate, con o senza matrice. Le vendiamo a peso o a singolo pezzo.» Beezon continuava a camminare, passando davanti a un'infinità di scaffali colmi di scatole contenenti la strana conchiglia. Si fermò, prese una scatola, ne estrasse una. «Queste sono quelle base, grezze, ancora nella matrice. Le vendiamo a quattro dollari al chilo. Disponiamo anche di esemplari con piriti e altri molto belli con agata all'interno. Quelli sono più costosi.» Proseguì il giro. «Se è interessato agli insetti, mi sono arrivati di recente
alcuni splendidi ragni dagli scisti della Namibia. E un nuovo carico di granchi da Heinigen, Germania... Vanno molto oggigiorno, arrivano a duecento, trecento dollari al pezzo. Il legno fossilizzato nell'agata si vende a peso. Poi ci sono i crinoidi, concrezioni con felci. I coproliti... i bambini li adorano. Ne abbiamo di ogni genere e ai prezzi migliori.» Tom lo seguiva. A un certo punto Beezon si fermò, prese una concrezione. «Molte di queste non sono neanche state spezzate. Le può vendere come sono e lasciarle aprire al cliente. I bambini ne vorranno tre, anche quattro. Spesso dentro c'è una felce o una foglia. Ogni tanto un osso o un pezzo di mascella... Ho sentito che in alcune è stato trovato persino il cranio di un mammifero. È come giocare d'azzardo. Qui...» Porse a Tom una concrezione e posò un martello su un'incudine. «Avanti... la rompa.» Tom prese il martello e, memore della propria copertura, mostrò qualche difficoltà a piazzare il fossile sull'incudine. «Usi la punta dello scalpello», suggerì Beezon, calmo. «Ah, certo.» Tom raddrizzò il martello e colpì con forza la concrezione. La pietra si aprì, rivelando una foglia di felce fossile. L'altro lo osservava pensieroso. «E non avreste... ehm... qualcosa di meglio?» chiese Tom. Beezon si diresse in silenzio verso una porta metallica e lo condusse in una piccola stanza senza finestre. «È qui che teniamo la roba migliore: fossili di vertebrati, avorio di mammut, uova di dinosauro. Tra l'altro, è appena arrivato da Hunan un carico di uova di adrosauro e almeno il sessanta per cento dei gusci sono intatti. Quelle le vendo a uno e cinquanta al pezzo. Ci può guadagnare quattrocento, anche cinquecento dollari.» Aprì un armadio chiuso a chiave e sollevò un uovo pietrificato, avvolto in un foglio di giornale. Glielo porse. Tom lo prese, lo guardò e glielo restituì, poi estrasse dalla tasca un fazzoletto di seta e si ripulì attentamente la mano. Un gesto che non sfuggì a Beezon. «Ordine minimo una dozzina.» Passarono oltre, vicino a una lunga scatola in metallo a forma di bara che, una volta aperta, rivelò un blocco irregolare in gesso delle dimensioni di un metro per un metro e trenta. «Ecco qualcosa di veramente delizioso: uno struziomimo, completo al quaranta per cento, cranio a parte. Viene dal South Dakota. È tutto legale, completamente legale; proviene da un ranch di privati. È ancora incapsulato e chiuso nella matrice, necessita di essere trattato.» Lanciò a Tom uno sguardo penetrante. «Tutto quello che vendiamo qui è legale e accompa-
gnato da documenti firmati e notificati dal proprietario del terreno.» Si interruppe. «Che cosa sta cercando, di preciso, signor Broadbent?» Non sorrideva più. «Gliel'ho detto.» L'incontro stava ottenendo il risultato sperato: insospettire Beezon. L'uomo si protese verso Tom e disse sottovoce: «Lei non è un commerciante di fossili». Il suo sguardo indugiò un'altra volta sull'abito. «È per caso dell'FBI?» Tom scosse il capo e sorrise, imbarazzato e colpevole. «Lei mi ha scoperto, signor Beezon. Complimenti. Ha ragione, non sono un commerciante di fossili. Ma non sono nemmeno un federale.» Beezon continuava a fissarlo, tutta la cordialità del West sparita. «E allora chi è?» «Sono il manager di una banca d'investimento.» «Che cosa diavolo vuole da me?» «Lavoro per una piccola ed esclusiva clientela orientale... Singapore e Corea del Sud. Investiamo i soldi dei nostri clienti, che a volte si indirizzano su investimenti eccentrici: quadri d'autore, miniere d'oro, cavalli da corsa, vini francesi...» Tom si interruppe, poi aggiunse: «... dinosauri». Ci fu un lungo silenzio. Il venditore ripeté: «Dinosauri?» Tom annuì. «Immagino di non essere stato credibile come commerciante di fossili.» Beezon tornò a essere un po' più cordiale, oltre che soddisfatto all'idea di non essersi fatto fregare. «No, in effetti. Prima cosa, quel vestito ricercato. E poi, non appena ha preso in mano quel martello per spaccare le rocce, ho capito che non era del settore.» Ridacchiò. «Allora, signor Broadbent, chi è il suo cliente e che tipo di dinosauro sta cercando?» «Possiamo parlare liberamente?» «Certo.» «È il signor Kim, un industriale di successo della Corea del Sud.» «Questo struziomimo è un affare niente male, per centoventimila...» «Al mio cliente non interessa la spazzatura.» Tom aveva cambiato tono, sperando di riuscire convincente nei panni del banchiere deciso e arrogante. Beezon smise di sorridere. «Questa non è spazzatura.» «Il mio cliente gestisce un impero industriale multimiliardario. L'ultima sua operazione è costata il suicidio al direttore generale dell'azienda rivale, il che non è particolarmente dispiaciuto al signor Kim. Il suo è un mondo
basato sulla selezione naturale, come diceva Darwin. Il signor Kim vuole un dinosauro per la sede centrale della sua società, che rappresenti lui e il suo modo di condurre gli affari.» Seguì un lungo silenzio. Poi Beezon domandò: «E che tipo di dinosauro deciderebbe?» Tom distese le labbra in un sorriso. «Quale altro... se non un T. rex?» Beezon fece una risatina nervosa. «Capisco. Di certo sarà consapevole del fatto che al mondo esistono solo tredici scheletri di tirannosauro e che ognuno di essi si trova in un museo. L'ultimo che sia stato messo in vendita veniva otto milioni e mezzo. Non stiamo parlando di noccioline.» «Sono anche consapevole del fatto che forse ce ne sono ancora uno o due tranquillamente in vendita...» Beezon tossì. «È possibile.» «Sempre parlando di noccioline, per il signor Kim quelli al di sotto dei dieci milioni non sono nemmeno considerati investimenti, ma semplici perdite di tempo.» Beezon parlò adagio. «Dieci milioni?» «Come minimo. Il signor Kim è disposto a pagare cinquanta milioni, anche di più.» Broadbent abbassò la voce e si protese verso il venditore. «Lei mi capirà, signor Beezon, se le dico che non ha importanza come o da dove viene prelevato l'esemplare. Ciò che conta è che sia quello giusto.» L'uomo si inumidì le labbra. «Cinquanta milioni? È un po' fuori dalla mia portata.» «In questo caso mi dispiace di averle fatto sprecare del tempo.» Tom fece per congedarsi. «Aspetti un minuto, signor Broadbent. Non ho detto di non poterla aiutare.» Tom si fermò. «Potrei presentarla a una persona. Se... be', sempre a patto che tempo e disturbo mi vengano ricompensati.» «Nel campo degli investimenti bancari, signor Beezon, tutti coloro che vengono coinvolti in una transazione sono remunerati in base all'entità del loro contributo.» «È proprio ciò che speravo di sentirle dire. Per quanto riguarda la commissione...» «Sarà dell'uno per cento, all'atto della vendita, per avermi introdotto alla persona giusta. Soddisfatto?» Il commerciante aggrottò un istante le sopracciglia, assorto nel calcolo,
poi sulla sua faccia tonda comparve un sorrisetto. «Credo si possa fare, signor Broadbent. Come le ho accennato, conosco un signore...» «Un cacciatore di dinosauri?» «No, no, assolutamente. Non è uno che si sporca le mani. Credo si possa definire 'venditore di dinosauri'. Non abita lontano di qui, sta in un paesino vicino a Tucson.» Calò il silenzio. «Allora?» fece Tom, caricando la voce del giusto livello di impazienza. «Che cosa stiamo aspettando?» 12 Maddox era appostato dietro le scuderie, intento a spiare. I bambini cavalcavano in circolo nell'arena, tra grida e risate. Era passata un'ora e sembrava che solo adesso quel percorso a ostacoli per ritardati o chi per essi si fosse concluso. I ragazzi erano smontati da cavallo e stavano imparando a togliere la sella, spazzolare l'animale e portarlo a pascolare nel retro. Maddox aspettava, teso, i muscoli doloranti, rimpiangendo di non essere venuto per le cinque anziché per le tre. Finalmente arrivò il momento del commiato. La madre di turno, a bordo del SUV, uscì dal parcheggio, circondata da ragazzini schiamazzanti che salutavano con la mano. Consultò l'orologio. Le quattro. Sembrava non fosse rimasto nessuno a mettere a posto... Sally era sola. Non sarebbe uscita come la volta scorsa. Era stata una giornata impegnativa ed era stanca. Sarebbe entrata a riposare, forse si sarebbe fatta un bagno. Con quell'allettante prospettiva per la mente, Maddox guardò l'ultimo SUV allontanarsi dal vialetto in una nuvola di polvere che presto svanì nella luce dorata del pomeriggio. Scese la calma. Sally attraversava il cortile, carica di redini e di cavezze. Era uno schianto, con quegli stivali da cowgirl, i jeans, la camicetta bianca e la lunga cascata di capelli biondi. Raggiunse la scuderia, entrò. Lui la sentiva muoversi su e giù, appendere la roba, parlare ai cavalli. A un tratto si trovò a pochi centimetri da lui, dall'altra parte della sottile parete di legno. Ma non era ancora il momento. Doveva sorprenderla quand'era dentro casa, dove lo spazio ristretto avrebbe smorzato ogni rumore. Anche se le persone più vicine stavano a mezzo chilometro di distanza. I suoni tendono a diffondersi, e poi qualcuno avrebbe potuto passare da quelle parti e trovarsi a portata d'orecchio. Nella scuderia l'attività era in aumento. I cavalli soffiavano e scalpitava-
no, si sentiva una pala raschiare, altri sussurri rivolti agli animali. Dieci minuti dopo, Sally uscì ed entrò in casa dalla porta sul retro. Maddox la vedeva muoversi attraverso la finestra della cucina. La donna riempì il bollitore al rubinetto, lo mise sul fornello, prese una tazza e quella che sembrava una confezione di tè. Si sedette al tavolo della cucina e, in attesa che l'acqua bollisse, sfogliò una rivista. Tè e poi bagno? Maddox non ne era certo. Meglio non aspettare. In ogni caso, lei si trovava dove lui voleva, in cucina. Il rito del tè sarebbe durato almeno cinque minuti, fornendogli l'occasione di cui aveva bisogno. Si preparò rapidamente. Infilò le soprascarpe di plastica, la giacca a vento, la cuffia e la calza. Controllò la Glock 29, estrasse il caricatore e lo fece scattare nuovamente al suo posto. Come mossa finale, aprì la piantina dell'abitazione e le diede un'ultima occhiata. Aveva le idee chiare su come agire. Fece il giro della scuderia, diretto all'altro lato della costruzione, da dove Sally, in cucina, non l'avrebbe visto. Poi tirò dritto, attraversò agevolmente il cortile e superò il cancello che dava sul patio. Lì si appiattì contro la parete della casa, con l'ingresso alla sua destra. Sbirciò all'interno; il salotto era vuoto: Sally era ancora in cucina. Inserì in fretta un cuneo nella porta, in prossimità del chiavistello, e lo fece passare dall'altra parte, fino ad abbassarlo. Il chiavistello si aprì con uno scatto. Maddox sospinse la porta, strisciò all'interno, la richiuse e si appiattì in un angolo del corridoio che conduceva dal salotto alla cucina. Udì il cigolio di una sedia nell'altra stanza. «Chi è là?» Non si mosse. Passi esitanti in corridoio diretti in salotto. «C'è qualcuno?» Maddox rimase in attesa, controllando il respiro. Lei sarebbe venuta a vedere da dove proveniva il rumore. Udì altri passi esitanti in corridoio, che poi cessarono. Doveva essersi bloccata all'entrata del salotto. Era proprio dietro l'angolo, poteva sentirne il respiro. «Ehi... c'è qualcuno laggiù?» Sarebbe potuta tornare in cucina. O andare verso il telefono. Ma era incerta: aveva sentito un rumore, era sulla soglia del salotto e sembrava non ci fosse nessuno... Avrebbe potuto essere qualunque cosa, un ramoscello caduto contro la finestra o un uccello che sbatteva contro il vetro. Maddox conosceva alla perfezione i pensieri di Sally. Dalla cucina un fischio basso crebbe di intensità. L'acqua stava bollendo. Porca puttana.
Lei si voltò con un fruscio. L'uomo udì i suoi passi che facevano ritorno in cucina. Tossì. Non forte, ma chiaro, per richiamarla indietro. I passi si bloccarono. «Chi è?» In cucina il fischio aumentava. La donna si precipitò all'improvviso in salotto. Maddox le fu addosso e nello stesso istante scoprì, con orrore, che stringeva una calibro 38. Lei si voltò di scatto e lui si tuffò in avanti per afferrarle le gambe, e in quel momento dalla pistola partì un colpo. Poi lui la colpì con forza e la mise al tappeto. Sally gridò, rotolò, i capelli biondi scarmigliati, la pistola che rimbalzava sul pavimento; fece mulinare il pugno e gli assestò un colpo sul cranio che lo stordì. Puttana bionda. Maddox rispose con violenza, colpendola di sinistro e neutralizzandola al punto da poterle salire addosso e immobilizzarla contro il pavimento. Sally ansimava, si divincolava, ma lui la schiacciava con tutto il proprio peso, puntandole la Glock contro l'orecchio. «Puttana!» Il suo dito stava... quasi... per premere il grilletto. Lei lottava, urlava. Maddox le si sdraiò sopra e premette più forte, bloccando le gambe che scalciavano convulse sotto le sue, che le chiudevano in una morsa. Lui aveva ripreso il controllo. Cristo, aveva quasi rischiato di spararle e non escludeva che sarebbe successo di nuovo. «Se mi costringi a farlo, ti ammazzo. Lo faccio.» Sally si dimenava, emetteva suoni incoerenti. Era incredibilmente forte, sembrava un gatto selvatico. «Ti ammazzo. Non obbligarmi, ma se non la smetti non potrò farne a meno.» Non scherzava. Lei lo capì e si bloccò. A quel punto Maddox tentò di muovere la gamba per trascinare la calibro 38 che giaceva sul tappeto, tre metri più in là. «Ferma.» Maddox la sentiva sotto di lui singhiozzare di terrore. Bene. Doveva avere paura. Era andato così vicino a farla fuori che quasi ne percepiva l'odore. Raggiunse con il piede la calibro 38, la tirò a sé, la raccolse e se la mise in tasca. Le spinse in bocca la canna della Glock e disse: «Adesso ci riproviamo. Stavolta lo sai che ti posso ammazzare. Fai sì con la testa se hai capito». Sally si voltò di scatto e gli assestò un calcio violento negli stinchi, ma era priva di un punto d'appoggio. Tentò di liberarsi del braccio di Maddox
che la strattonava alla gola. «Non lottare.» Sally non smetteva. Lui le spinse la canna in bocca ancora più a fondo. «È una pistola, brutta troia... ricevuto?» Lei si arrese. «Fai come ti dico e nessuno si farà male. Fai cenno di sì se hai capito.» La donna annuì e lui lasciò andare lentamente la presa. «Verrai con me. Senza tante storie. Prima però devi farmi un piacere.» Nessuna risposta. Maddox affondò la pistola nella bocca di Sally. Lei annuì. Tremava tutta. «Tra poco ti lascerò andare. Non voglio rumori. Né urla. O movimenti improvvisi. Se non fai quello che ti dico, ti secco all'istante.» Lei annuì e singhiozzò. «Lo sai cosa voglio?» Fece cenno di no con il capo. L'uomo era sempre addosso a lei, le gambe intrecciate alle sue, e la stringeva con forza. «Voglio il taccuino. Quello che tuo marito ha preso al cercatore. È qui in casa?» Fece cenno di no. «Ce l'ha lui?» Nessuna risposta. Ce l'aveva lui. Ormai ne era certo. «Adesso ascoltami bene, Sally. Non sono qui per cazzeggiare. Un passo falso, un urlo, una stronzata qualsiasi e io ti ammazzo. Semplice.» Non mentiva e lei lo capì. «Ora ti lascio libera e faccio qualche passo indietro. Tu andrai alla segreteria telefonica che c'è sul tavolo. E registrerai il seguente messaggio: 'Salve, siamo Tom e Sally. Tom è via per affari e io sono fuori città per un imprevisto. Non potremo quindi richiamarvi immediatamente. Mi scuso per le lezioni saltate, le recupereremo più avanti. Lasciate un messaggio, grazie'. Sei in grado di dirlo con un tono di voce normale?» Nessuna risposta. Maddox rigirò la canna della pistola. Lei annuì. Lui gliela tolse di bocca. La donna tossì. «Dillo. Voglio sentire la tua voce.» «Lo farò.»
Mentre parlava, tremava. Maddox si alzò e le puntò contro l'arma; Sally si rialzò lentamente. «Fai come ho detto. Non appena avrai finito, controllerò il messaggio con il cellulare, e se hai fatto qualche bravata, sei morta.» La donna andò alla segreteria telefonica, premette un pulsante e recitò il messaggio. «Hai la voce troppo tesa. Rifallo. Spontanea.» Lo registrò una seconda volta, poi una terza, finché non andò bene. «Perfetto. Ora usciremo all'aperto come due persone normali, tu davanti, io dietro, a un metro e mezzo di distanza. Non dimenticare nemmeno per un istante che sono armato. La mia macchina è parcheggiata in un boschetto di querce a circa mezzo chilometro da qui. Hai capito dov'è?» Lei annuì. «È lì che andiamo.» Mentre la spingeva attraverso il salotto, Maddox avvertì un senso di bagnato alla coscia. Abbassò lo sguardo. L'impermeabile era strappato e c'era qualcosa che sporgeva dal pantalone. Una macchia scura di sangue, non molto grande, ma era pur sempre sangue. Si stupì. Eppure non aveva sentito nulla, proprio nulla. Esaminò il tappeto, ma non vide tracce sul pavimento. Avvicinò la mano alla ferita, la tastò e per la prima volta sentì dolore. Stronza. La bionda l'aveva ferito. La condusse fuori dalla casa, attraverso una distesa fitta di alberi e lungo il fiume. In breve tempo furono alla macchina. Al riparo delle querce, Maddox estrasse dallo zaino un paio di cavigliere in metallo e gliele lanciò. «Mettitele.» Sally si piegò, armeggiò un poco, finché non si chiusero con uno scatto. «Mani dietro la schiena.» La donna obbedì. Lui la girò e le mise ai polsi un paio di manette. Poi aprì la portiera dalla parte del passeggero. «Salta su.» Lei si sedette e tirò dentro i piedi. Maddox prese lo zaino, estrasse una bottiglietta di cloroformio e ne versò un'abbondante dose sull'assorbente. «No!» gridò lei. «No, non lo fare!» Sollevò i piedi per dargli un calcio, ma non aveva molto spazio per muoversi e l'uomo le era già balzato addosso; le immobilizzò le braccia ammanettate e le schiacciò l'assorbente sulla faccia. Sally si divincolò, urlò, si contorse e scalciò; dopo pochi i-
stanti svenne. Maddox si assicurò che avesse inalato cloroformio a sufficienza, quindi si infilò dalla parte del guidatore. Lei era accasciata sul sedile in una posizione innaturale. La sollevò e la appoggiò contro la portiera, le mise un cuscino dietro la testa e le distese addosso una coperta perché sembrasse che stava dormendo. Abbassò i finestrini per far uscire la puzza di anestetico, si tolse calza, cuffia, soprascarpe, la retina per capelli e l'impermeabile, li appallottolò e li infilò in un sacchetto della spazzatura. Mise in moto la macchina e guidò lungo la strada sconnessa fino all'autostrada. Da lì attraversò la diga e si diresse a nord sulla Highway 84. Dopo una quindicina di chilometri imboccò la strada non segnata del Forest Service che portava alla Carson National Forest e al campo di Perdiz Creek. La donna era accasciata contro la portiera, gli occhi chiusi, i capelli biondi scarmigliati. Si soffermò a guardarla. Dannazione, pensò, è davvero uno schianto. 13 «Dicono che una volta fosse un bordello», spiegò Beezon a Broadbent. Si trovavano nello spiazzo polveroso davanti alla vecchia e cadente costruzione vittoriana che si ergeva, quasi fuori posto, in mezzo a un deserto punteggiato di cactus, ocotillo e palo verde. «Sembra più una casa infestata che una casa di tolleranza», commentò Tom. Beezon ridacchiò. «La avviso... Harry Dearborn è un tipo eccentrico. La sua rudezza è leggendaria.» Salì in veranda e sollevò il grosso battente a forma di testa leonina, che ricadde diffondendo un rumore cupo. Poco dopo una voce piena, dall'interno, disse: «Avanti, la porta è aperta». Entrarono. La casa era scura, con quasi tutte le tende tirate, e puzzava di chiuso e di gatti. Sembrava un ingorgo di cupi mobili vittoriani. Sui pavimenti c'erano strati di tappeti persiani e alle pareti erano allineate teche di quercia con vetri ondulati, traboccanti di minerali annidati nell'ombra. Qua e là lampade a stelo dai paralumi infiocchettati gettavano una flebile luce giallastra. «Di qua», borbottò la voce. «E non toccate nulla.» Beezon fece strada verso il salotto. Nel mezzo, un uomo incredibilmente
grasso era stravaccato su un'enorme poltrona di chintz a fiori, con il coprischienale abbandonato su un bracciolo. La luce alle sue spalle lasciava il viso in ombra. «Ciao, Harry», esordì Beezon con un certo nervosismo. «Quanto tempo, eh? Lui è un mio amico, il signor Thomas Broadbent.» Una manona emerse dall'oscurità e indicò con un cenno vago un paio di poltrone. Entrambi si sedettero. Tom osservò l'uomo più da vicino. Somigliava molto all'attore Sidney Greenstreet. Indossava un completo bianco con una camicia nera e una cravatta gialla, aveva i capelli radi pettinati con cura all'indietro e, nonostante la stazza, il suo aspetto era lindo e curato. La fronte era liscia e bianca come quella di un neonato e alle dita gli brillavano grossi anelli d'oro. «Bene, bene», fece Dearborn. «Guarda chi si vede, Robert Beezon, l'uomo-ammonite. Come vanno gli affari?» «Non potrebbero andare meglio. Ora l'ultima tendenza è decorare l'ufficio con i fossili.» L'omone fece un altro gesto noncurante, sollevò la mano e mosse impercettibilmente due dita. «Che cosa vuoi da me?» Beezon si schiarì la voce. «Il signor Broadbent è qui per...» Dearborn lo interruppe e si rivolse a Tom. «Broadbent? Per caso è parente di Maxwell Broadbent, il collezionista?» Tom fu colto di sprovvista. «Era mio padre.» «Maxwell Broadbent.» Grugnì Dearborn. «Un tipo interessante. Ci ho avuto a che fare qualche volta. È ancora vivo?» «È mancato l'anno scorso.» Un altro grugnito. Poi Dearborn tirò fuori un grosso fazzoletto e se lo premette sul faccione squadrato. «Mi dispiace. Al mondo esiste poca gente come lui, personaggi che sembrano usciti da un romanzo. Tutti finiscono con il diventare così... ordinari. Posso sapere com'è morto? Non doveva avere più di sessant'anni.» Tom esitò. «È deceduto in Honduras.» L'altro sollevò le sopracciglia. «C'è sotto qualche mistero?» La franchezza di quell'individuo lo sorprese di nuovo. «È morto mentre si dedicava a ciò che amava», rispose Tom, ruvido. «Avrebbe potuto chiedere di meglio, ma l'ha accettato con dignità. Non c'è nessun mistero.» «La notizia mi ha scioccato.» Dearborn si interruppe. «Allora, che cosa posso fare per te, Thomas?» «Il signor Broadbent è qui perché è interessato ad acquistare un dinosau-
ro...» spiegò Beezon. «Un dinosauro? Che cosa mai ti fa pensare che io venda dinosauri?» «Be'...» Beezon tacque, costernato. Dearborn gli fece un cenno con la manona. «Robert, ti ringrazio di cuore per avermi presentato il signor Broadbent. Perdona se resto seduto. Pare che io e lui si debba discutere di alcuni affari e preferirei farlo in privato.» Il commerciante si alzò e guardò Broadbent, esitante, in procinto di dire qualcosa. Tom aveva capito cosa. «Sta pensando al nostro accordo? Ci può contare.» «Grazie», fece Beezon. Tom si sentì vagamente in colpa. Ovviamente, non ci sarebbe stata nessuna commissione. Beezon si congedò e un istante più tardi sentirono la porta che si chiudeva e il rumore di una macchina in partenza. Dearborn si rivolse a Tom, con una specie di sorriso. «Ora... ho sentito parlare di dinosauri? Ho detto la verità. Io non ne vendo.» «Di che cosa ti occupi, esattamente, Harry?» «Sono un procacciatore di dinosauri.» L'omone si sdraiò sulla poltrona e attese, sorridendo. Tom colse al volo la sua battuta. «Io sono il manager di una banca d'investimento che ha molti clienti in Oriente, e uno di loro...» La mano grassoccia si alzò un'altra volta a interrompere il discorso che Tom si era preparato. «Questa può funzionare con Beezon, non certo con me. Raccontamela giusta.» Tom restò un attimo soprappensiero. Il lampo cinico e astuto nello sguardo di Dearborn gli suggeriva che era meglio dire la verità. «Per caso hai letto dell'omicidio in New Mexico, nella mesa grande, a nord di Abiquiú?» «Sì.» «Sono io l'uomo che ha trovato il cadavere. Sono capitato accanto a lui mentre stava morendo.» «Vai avanti», disse Dearborn, in tono neutrale. «Il moribondo mi ha messo in mano un taccuino e mi ha fatto promettere di consegnarlo a sua figlia, Robbie. Sto cercando di mantenere quella promessa. Il problema è che la polizia non è riuscita a identificarlo e, per quanto ne so, non ha nemmeno trovato il corpo.» «Quell'uomo ti ha detto qualcosa prima di morire?» «Ha avuto un unico momento di lucidità», rispose Tom, evasivo.
«E quel taccuino? Cosa dice?» «Sono solo numeri. Elenchi di numeri.» «Di che tipo?» «Dati di un'indagine GPR.» «Sì, sì, certo. Posso chiederti qual è il tuo interesse in questa faccenda, Thomas?» «Ho fatto una promessa a un moribondo, Harry. Sono uno che ama mantenere la parola data. Ecco qual è il mio interesse... né più, né meno.» La risposta sembrò divertire l'uomo. «Thomas, se fossi Diogene, dovrei tirare fuori il mio lanternino. Sei un esemplare raro al mondo: un uomo onesto. Oppure un consumato impostore.» «Mia moglie dice che sono soltanto un testone.» L'omone emise un flebile sospiro. «A dire il vero ho seguito la storia di quell'omicidio ad Abiquiú. Mi sono domandato se non si trattasse di un certo cacciatore di dinosauri di mia conoscenza. Sapevo che era impegnato in ricerche da quelle parti, e correva voce che avesse per le mani qualcosa di grosso. Temo che i miei peggiori presentimenti abbiano un fondamento.» «Sai come si chiama?» Il grassone si rigirò sulla poltrona che scricchiolò sotto il suo peso. «Marston Weathers.» «Chi è?» «Nientemeno che il migliore cacciatore di dinosauri della nazione.» Dearborn incrociò le mani e le strinse. «Per gli amici Stem, perché era alto e filiforme. Dimmi una cosa, Thomas: il vecchio Stem ha trovato quello che cercava?» Tom indugiò. Sentì che, in qualche modo, poteva fidarsi di quell'uomo. «Sì.» Dearborn sospirò un'altra volta, tristemente. «Povero Stem. È morto come ha vissuto, vittima dell'ironia della sorte.» «Che cosa mi puoi dire di lui?» «Parecchie cose. E in cambio, Thomas, tu mi parlerai della sua scoperta. D'accordo?» «D'accordo.» 14 Wyman Ford scorse il bordo rastremato del Navajo Rim a qualche cen-
tinaio di metri, dove l'altopiano terminava in una collinetta a forma di pollice. Il sole era basso nel cielo, una palla infuocata. Ford si esaltò. Ora capiva perché gli indiani andavano nel deserto e digiunavano per avere visioni. Era da due giorni che consumava razioni ridotte: a colazione un pezzo di pane con un filo di olio d'oliva e la sera mezza tazza di lenticchie cotte e riso. La fame aveva effetti strani e meravigliosi sulla mente; gli dava un senso di euforia e di energia senza confini. Curioso come una semplice variazione del corpo avesse conseguenze così profonde sulla spiritualità. Girò attorno alla collinetta di arenaria, alla ricerca di un punto per salire. Il panorama era incredibile, ma dalla cima avrebbe visto ancora di più. Procedette costeggiando un terrazzino di pietra largo non più di un metro che si affacciava su un abisso di centinaia di metri nelle bluastre profondità del canyon. Non aveva mai visto paesaggi del genere nella mesa grande; si sentì un esploratore, una specie di John Wesley Powell. Si trattava, senza ombra di dubbio, di una delle zone più remote a quelle latitudini. Camminò lungo il bordo e si fermò sbalordito e ammirato. Là, incastonata nel precipizio, si ergeva una piccola ma quasi perfetta abitazione anasazi, quattro stanzette ricavate nell'arenaria e cementate con il fango. Ford costeggiò con grande attenzione il burrone, chiedendosi come facessero ad allevare bambini in un posto simile. Poi si inginocchiò e sbirciò all'interno. La stanzetta era vuota, a eccezione di alcuni resti di pannocchie arrostite e qualche frammento di vaso. Un raggio di sole penetrava da una fessura nella parete, macchiando il pavimento di luce. C'erano impronte recenti sul suolo impolverato, le aveva lasciate un paio di scarponi dalla soletta a spina di pesce; Ford si domandò se appartenessero al cercatore. Possibile. Se si cercava qualcosa nella mesa grande, non c'era altro luogo da cui avere una visuale migliore. Si tirò su e proseguì lungo la cengia finché non incrociò un sentiero approssimativo, scavato a strapiombo nell'arenaria, che conduceva alla cima della collinetta. La sommità regalava un'impressionante vista di tutte le Echo Badlands e, sembrava, della curvatura terrestre. Alla sinistra di Ford apparve in lontananza l'imponente profilo della Mesa de los Viejos che, simile a una scala di pietra, si innalzava ai piedi delle Canjilon Mountains. Era il panorama più stupefacente che avesse mai avuto l'opportunità di vedere, come se il Creatore avesse incendiato il paesaggio e quelli fossero i resti. Ford cercò tra le sue cartine e ne estrasse una. La divise a occhio in quadranti, poi provò mentalmente a ricreare le stesse linee sulle Badlands di
fronte a sé. Quando ebbe finito di sezionare e numerare il paesaggio, prese il binocolo e cominciò a cercare il primo quadrante, quello più a est. Poi passò al successivo e a quello dopo ancora, orientandosi metodicamente sul territorio alla ricerca delle particolari formazioni rocciose indicate dal tracciato sul computer. Al primo esame emersero troppi possibili candidati. Formazioni del genere si trovavano spesso a gruppi, essendo state scavate negli stessi strati di pietra dai medesimi agenti atmosferici. Ford era sempre più convinto di essere sulla strada giusta e che il T. rex si trovasse da qualche parte nelle Echo Badlands. Doveva solo guardare meglio. Passò il successivo quarto d'ora a esaminare ogni quadrante una seconda volta ma, anche se molte rocce erano simili a quella che cercava, nessuna corrispondeva esattamente. Era anche possibile che stesse osservando la formazione giusta, ma dall'angolatura sbagliata, o che questa fosse nascosta nelle profondità di un canyon sul fondo delle Badlands. Fece vagare lo sguardo e fu attratto da un canyon in particolare. Tyrannosaur Canyon. Il più lungo della mesa grande, molto profondo e tortuoso, tagliava le Echo Badlands per quasi trentacinque chilometri e disponeva di centinaia, anzi, migliaia di rami laterali e secondari. Identificò il grosso monolito di basalto che segnava l'entrata e ne seguì il tragitto sinuoso con il binocolo. Più avanti, nelle Badlands, il canyon terminava in una valle lontana gremita di bizzarre rocce a forma di cupola. Alcune erano incredibilmente simili alle immagini computerizzate: ampie alla base e strette ai lati. Erano l'una accanto all'altra, alla rinfusa, come una folla di uomini pelati che si toccano con le teste. Ford misurò con il dito la distanza dal sole all'orizzonte e stabilì che erano circa le quattro. Era giugno, il sole non sarebbe tramontato prima delle otto passate. Se si sbrigava, sarebbe riuscito a raggiungere il gruppo di rocce a forma di cupola prima che facesse buio. Là non sembrava esserci acqua, ma aveva da poco rifornito le sue due borracce in una buca riempita dalla pioggia. Poteva contare su una riserva di quattro litri. Si sarebbe accampato da qualche parte in quella maestosa gola e l'indomani, all'alba, avrebbe cominciato l'esplorazione. Domenica. Il giorno del Signore. Scacciò il pensiero dalla mente. Diede un'ultima occhiata con il binocolo a quel canyon profondo e misterioso. Provò una fitta allo stomaco. Sapeva che il T. rex si trovava là... nel Tyrannosaur Canyon. L'ironia della situazione lo fece sorridere.
15 Harry Dearborn inspirò profondamente, il volto nell'ombra. «Buon Dio, sono già le quattro e mezzo. Gradisci un tè?» «Se non dà troppo disturbo», rispose Tom, chiedendosi come avrebbe fatto quel grassone ad alzarsi dalla poltrona e prepararlo da solo. «Assolutamente.» Dearborn mosse leggermente i piedi e batté un colpetto sul pavimento. Un attimo dopo la presenza cupa di un domestico si materializzò dal retro della casa. «Tè.» L'uomo si ritirò. «Allora, dov'eravamo rimasti? Ah, sì, la figlia di Stem Weathers. Si chiama Roberta.» «Robbie.» «Robbie, così la chiamava suo padre. Purtroppo, i due si erano allontanati. Ho sentito che lei stava cercando di sfondare come artista in Texas... a Marfa, credo, una piccola cittadina dalle parti del Big Bend. Non dovrebbe essere difficile trovare la ragazza.» «Come fai a conoscere Weathers? Era lui che ti procurava i dinosauri?» Dearborn batté il dito massiccio sul bracciolo. «Nessuno mi procura nulla, Thomas. Io non intervengo nella fase di recupero del reperto, se non per accertarmi della sua provenienza da suolo privato.» E qui fece una pausa, e un sorrisetto ironico gli affiorò sulle labbra. Proseguì. «Gran parte dei cacciatori di fossili della zona sono alla ricerca di roba piccola. Felci o pesciolini, come il nostro signor Beezon. Robetta. Ma ogni tanto incappano in qualcosa di importante e allora vengono da me. Io tratto con clienti alla ricerca di cose piuttosto originali: uomini d'affari, musei stranieri, collezionisti. Mi occupo di far incontrare venditori e acquirenti, ricavando il venti per cento di commissione. Non ho mai visto né toccato reperti. Non sono uno che si sporca le mani.» Tom trattenne un sorriso. Comparve il domestico, reggendo un enorme vassoio d'argento con sopra una teiera con copertura imbottita e piattini stracolmi di focaccine, sfogliatine alla crema, bignè, brioche in miniatura, vasetti di marmellata, burro, panna e miele. Posò il vassoio su un tavolo accanto a Dearborn e sparì, silenzioso com'era venuto. «Ottimo!» Dearborn tolse il copriteiera e riempì due tazze cinesi, ag-
giungendo latte e zucchero. «Il tuo tè.» Porse a Tom la tazza con il piattino. Tom la prese e bevve un sorso. «Insisto che il mio tè venga preparato all'inglese, non come fanno quei barbari di americani.» Ridacchiò e vuotò la tazza in un'unica sorsata, la posò e afferrò con la mano grassoccia una brioche dal vassoio, la aprì, la cosparse di panna e se la fece saltare in bocca. Quindi si dedicò a una focaccina calda, ci spalmò sopra una noce di burro, aspettò che si sciogliesse, infine la mangiò. «Prego, serviti», lo invitò a bassa voce. Tom prese una brioche e le diede un morso. Dal fondo fuoriuscì una densa crema che gli colò tra le dita. Finì di mangiare leccando via la crema, poi si ripulì. Dearborn schioccò le labbra, vi passò sopra un tovagliolo e proseguì. «Stem Weathers non era il tipo da felci e pesciolini. Lui stava dietro a fossili esclusivi. Il sogno della sua vita era scoprire qualcosa di grosso. Tutti i cacciatori di dinosauri professionisti sono fatti così. Hanno un'ossessione. L'eccitazione della caccia, il brivido della scoperta, la brama di trovare qualcosa di incredibilmente raro e di valore... Ecco che cosa li fa andare avanti.» Si versò un'altra tazza di tè, avvicinò la tazza e il piattino alle labbra e ne vuotò metà. «Ho piazzato alcuni reperti di Stem, ma altre volte l'ho lasciato da solo. Non mi raccontava quasi mai quel che faceva o cosa cercava. Stavolta, però, gli è scappato che stava mettendo le mani su qualcosa di grosso nella zona della mesa grande. Per ottenere informazioni ha parlato con troppe dannate persone: geofisici, astrofisici, conservatori di paleontologia di diversi musei. È stato molto imprudente da parte sua. Era troppo conosciuto. La voce si è sparsa rapidamente. Tutti sapevano come agiva: il suo GPR fatto in casa e il suo taccuino erano diventati leggendari. Non mi stupisce affatto che qualcuno l'abbia seguito. Oltre tutto, la mesa grande è territorio federale, sotto la giurisdizione del Bureau of Land Management. Nessuno doveva sapere che lui era lì. Prelevare qualunque reperto dal suolo di competenza del BLM senza un regolare permesso federale è considerato un reato a tutti gli effetti. E tra l'altro quei permessi vengono rilasciati soltanto a pochi musei e università selezionati.» «Perché Weathers ha deciso di correre il rischio?» «Non si tratta di un vero e proprio rischio. E lui non è l'unico a correrlo.
Molti territori sotto il BLM sono così sperduti che le possibilità di essere scoperti sono quasi nulle.» «Che tipo di reperti ti ha portato?» Dearborn sorrise. «Niente pettegolezzi. Ti basti sapere che non mi ha mai fatto perdere tempo con roba mediocre. Dicono che sentisse l'odore dei dinosauri morti, anche se sono sottoterra da milioni di anni.» Emise un sospiro di cordoglio, troncato sul nascere da un pasticcino alla marmellata che si era cacciato in bocca. Masticò, si ingozzò e andò avanti. «Il suo problema non era trovare i dinosauri, ma che cosa fare dopo che li aveva trovati. Il lato finanziario lo fregava ogni volta. Ho cercato di aiutarlo, ma riusciva sempre a mettersi nei guai. Era un uomo difficile, solitario, scontroso, facilmente irritabile. Certo, poteva trovare un dinosauro e venderlo a mezzo milione di dollari, ma solo per portarlo via dal territorio e spedirlo a un laboratorio ne spendeva centomila. Per pulire e preparare un grosso dinosauro ci vogliono circa trentamila ore di manodopera... senza calcolare il montaggio. Weathers ci teneva troppo ai suoi dinosauri e per questo ci rimetteva sempre. Però senza dubbio li sapeva scovare.» «Hai idea di chi possa averlo ucciso?» «No. Ma non è difficile immaginare come può essere andata. Qualcuno meno abile di lui può essersi messo alle sue calcagna. Come ti ho detto, la voce ha cominciato a girare. Weathers ha fatto troppe domande a troppi geologi, specie a quelli che studiano l'estinzione di massa del limite K-T. Tutti sapevano che Stem stava fiutando qualcosa di grosso. A mio parere è stato ammazzato da qualcuno che voleva appropriarsi della sua scoperta.» Tom si protese avanti. «Hai in mente qualcuno in particolare?» Dearborn scosse il capo, prese una brioche e la ingoiò. «Conosco tutti nel giro. I cacciatori di dinosauri che circolano nel mercato nero sono parecchi. Quando si incontrano si prendono a pugni, si fregano a vicenda le informazioni, mentono, imbrogliano, rubano. Ma ad ammazzare proprio non ce li vedo. Mi viene da pensare che l'assassino sia un nuovo arrivato, o forse qualcuno pagato per stargli dietro che ha preso il lavoro troppo sul serio.» Svuotò la tazza e se ne riempì un'altra. «E quelle voci di cui mi parlavi?» «Per un paio di anni Weathers aveva tentato di rintracciare uno strato di arenaria detto Hell Creek Formation giù in New Mexico.» «Hell Creek?» «Quasi tutti i T. rex esistenti sono venuti fuori da quest'immensa formazione sedimentaria affiorata in luoghi diversi delle Montagne Rocciose, ma
che non è mai stata rinvenuta in New Mexico. Lo strato è stato scoperto per la prima volta un secolo fa da un paleontologo di nome Barnum Brown, a Hell Creek, nel Montana, quando ha rinvenuto il primo T. rex della storia. Solo che Weathers era in cerca di qualcosa di più delle rocce di Hell Creek. Era ossessionato dal limite K-T.» «Intendi il confine tra il Cretaceo e il Terziario?» «Esatto. Vedi, la Hell Creek Formation è sormontata dallo strato K-T, che, spesso soltanto qualche centimetro, reca le tracce dell'evento che ha estinto i dinosauri... la pioggia di asteroidi. Non esistono molti luoghi al mondo in cui si registra una sequenza interrotta di rocce del limite K-T. Credo sia stato questo a portarlo nella zona della mesa grande di Abiquiú... in cerca di quello strato.» «Come mai cercava proprio quello?» «Non lo so con certezza. Detto banalmente, il K-T è lo strato roccioso più interessante mai trovato. Include i detriti dell'impatto degli asteroidi e le ceneri delle foreste incendiate. Nello strato K-T del bacino di Raton, in Colorado, si nota una sequenza chiara e spettacolare. Praticamente quelle rocce raccontano una storia. L'asteroide cadde dove c'è l'odierna penisola dello Yucatan, con un angolo tale da inondare di frammenti di rocce fuse gran parte del Nord America. L'asteroide fu denominato Chicxulub, un'espressione maya che vuol dire 'la coda del diavolo'... Carino, eh?» Ridacchiò e approfittò dell'occasione per mangiare un'altra focaccina. «Chicxulub si abbatté sulla Terra alla velocità di Mach 40. Era così grosso che quando la base toccò la superficie la cima era alta quanto l'Everest. All'impatto con la crosta terrestre, si staccò un pezzo enorme che sprigionò un pennacchio di materia nel raggio di più di un centinaio di chilometri, il quale oltrepassò l'atmosfera ed entrò in orbita. Una parte quasi raggiunse la luna prima di ricadere alla velocità di quarantamila chilometri all'ora. La massa di materia in caduta surriscaldò l'atmosfera, generando lampi enormi che si abbatterono sui continenti, liberando cento miliardi di tonnellate di biossido di carbonio, cento miliardi di tonnellate di metano e settanta miliardi di tonnellate di fuliggine. Il fumo e la polvere erano così fitti che la Terra diventò scura come una grotta, la fotosintesi si bloccò e la catena alimentare andò a rotoli. Scese una sorta di inverno nucleare e il pianeta restò ghiacciato per mesi; seguì immediatamente un galoppante effetto serra causato dall'improvviso rilascio di biossido di carbonio e metano. L'atmosfera terrestre impiegò centotrentamila anni per raffreddarsi e tornare alla normalità.»
Dearborn schioccò le labbra e si leccò un baffo di crema con la grossa lingua rosata. «Tutta questa storia è perfettamente registrata sulle rocce KT nel bacino di Raton. Prima si vede uno strato di frammenti prodotti dall'impatto. È grigiastro e presenta tracce di iridio, un elemento riscontrato nei meteoriti. Al microscopio appare composto da piccole sferette, goccioline congelate di rocce fuse. Sopra c'è un altro strato, nero intenso, che un geologo ha definito 'le ceneri del Cretaceo'. I geologi sono più poetici degli scienziati, non trovi?» «Continuo a non capire perché Weathers si interessasse al K-T se si limitava ad andare a caccia di fossili di dinosauri.» «È un mistero. Forse utilizzava lo strato K-T come mezzo per localizzare fossili di T. rex. I tirannosauri spadroneggiavano sulla Terra proprio nel tardo Cretaceo, poco prima dell'estinzione.» «Al giorno d'oggi quanto vale un tirannosauro?» «Pare che le persone che hanno trovato T. rex non si contino sulle dita di una mano. Quelle bestie sono rarissime. Ho due dozzine di clienti in attesa di comprare il primo T. rex che venga fuori sul mercato nero, e sono certo che alcuni di loro sarebbero disposti a offrire dai cento milioni in su.» Tom fece un fischio. Dearborn posò la tazza, il volto pensieroso. «Ho una sensazione...» «Sì?» «Sento che Stem Weathers era in cerca di qualcosa di più di un tirannosauro. Qualcosa che aveva a che fare con lo stesso strato K-T Ma non saprei esattamente dire cosa...» La sua voce si fece più flebile; infine si versò un'altra tazza di tè. «Povero Stem. E povera Robbie. Non vorrei essere nei tuoi panni, Thomas, quando le dovrai dare la notizia.» Scolò la tazza, mangiò un ultimo pasticcino, si pulì il viso e si asciugò la punta delle dita nel tovagliolo. «Adesso tocca a te, Thomas. Raccontami che cosa ha trovato Weathers. Ovviamente, puoi contare sulla mia discrezione.» Il suo sguardo si illuminò. Tom tirò fuori dalla tasca la mappa fatta al computer e la aprì sul tavolo da tè. Dapprima con movimento flemmatico, inesorabile, e poi con sempre maggiore velocità, la stazza enorme di un Harry Dearborn ammutolito dallo stupore si levò dalla sedia. 16
Maddox era in piedi davanti alla donna distesa sul letto, un'aureola di capelli biondi sparpagliati sul cuscino. Si era appena risvegliata, gemendo, e infine aveva aperto gli occhi. Maddox restava in silenzio, osservando il suo sguardo che passava dalla confusione al terrore man mano che cominciava a ricordare. L'uomo alzò la pistola in modo che lei la vedesse. «Niente scherzi. Puoi stare seduta, e basta.» Sally si tirò su a fatica, facendo tintinnare manette e cavigliere. Maddox indicò con un gesto la stanzetta. «Allora... che ne pensi?» Nessuna risposta. «Ho lavorato duro per fartela così bella.» Aveva disteso una tovaglietta sulla bobina di cavi per trasformarla in un tavolo, messo dei fiori freschi in un barattolo di marmellata e persino appeso una stampa in edizione limitata presa dal cottage. La lampada a kerosene sprigionava per la stanza una luce giallastra e nell'ambiente regnava una gradevole frescura rispetto all'afa serale che si respirava fuori. L'aria era pulita... niente vapori della miniera o gas velenosi. «Tom quando torna?» chiese Maddox. Nessuna risposta. La bionda guardava da un'altra parte. Stava cominciando a farlo incazzare. «Guardami in faccia.» Lei lo ignorò. «Ti ho detto guardami in faccia.» Sollevò la pistola. La donna girò il viso lentamente e lo guardò con insolenza. I suoi occhi verdi erano colmi di odio. «Allora?» Lei non rispose. Aveva uno sguardo così intenso che Maddox ne fu quasi sconcertato. Non sembrava impaurita. Ma lo era, e lui lo sapeva. Era terrorizzata. E ne aveva motivo. Le si mise davanti, spalancò le braccia e sul viso comparve il suo sorriso sghembo. «Dai, guardami bene. Non sono così male, no?» Nessuna reazione. «Ti toccherà vedere molto di me, lo sai? Cominciamo con il tatuaggio che ho sulla schiena. Indovina cos'è.» Nessuna reazione. «Per farlo ci sono volute due settimane, quattro ore al giorno. Me l'ha fatto un mio amico in carcere, un vero genio con l'ago. Sai perché te lo sto dicendo?»
Fece una pausa, ma lei non aprì bocca. «Perché questo tatuaggio è il motivo per cui ora sono qui con te. Adesso ascoltami con attenzione. Voglio quel taccuino. Tuo marito ce l'ha. Quando me lo dà, io ti lascio andare... Semplice. Ma perché questo succeda, ho bisogno di comunicare con lui. Ha un cellulare? Dammi il numero e sarai fuori di qui nel giro di poche ore.» Finalmente la donna parlò. «Cercalo sulla guida.» «Oh, e adesso perché fai la stronza?» Lei tacque. Forse si illudeva di poter fare ancora il bello e il cattivo tempo. Gli toccava fargliela capire diversamente. Domarla come una giovane puledra. «Vedi le catene appese al muro? Sono per te, se non l'hai capito.» Lei non si voltò. «Dagli un'occhiata.» «No.» «Alzati.» Rimase seduta. Maddox le puntò la pistola alle caviglie, mirò a sinistra, fece fuoco. Il rumore rimbombò nello spazio chiuso e lei saltò come un cervo. Il proiettile aveva trapassato il materasso sollevando ciuffi di ovatta. «Dannazione. Mancata.» Riprese la mira. «Resterai zoppa per tutta la vita. Alzati.» Sally si alzò, facendo tintinnare i ferri che aveva addosso. «Vai verso le manette attaccate al muro. Ti togli quelle che hai addosso e ti infili le altre.» Ora vedeva il terrore farsi strada su quel volto arrogante, nonostante lei cercasse di mascherarlo. Puntò la pistola. «Se becco un'arteria, potrei anche ammazzarti.» Nessuna risposta. «Fai come ti ordino o vuoi che ti spari alle gambe? Te lo dico per l'ultima volta, non scherzo.» Faceva maledettamente sul serio, Sally lo sapeva. «Sì», disse con voce soffocata. Aveva le lacrime agli occhi. «Sei una tipa sveglia. Adesso stammi a sentire. La stessa chiave va bene per tutte. Chiudi prima le cavigliere, una per volta. Poi la manetta destra. Io mi occupo della sinistra.» Le gettò la chiave. Lei la raccolse e si infilò goffamente le cavigliere, seguendo le istruzioni. «Ora butta la chiave.»
Maddox si chinò e la riprese. «Adesso mi occupo del polso sinistro.» Si avvicinò al tavolo, vi posò sopra la pistola, poi le andò incontro e finì di ammanettarla. Infine controllò che fosse tutto chiuso alla perfezione. Tornò al tavolo e prese la pistola. «Hai visto?» Indicò la coscia. «Mi hai ferito, te ne eri accorta?» «Peccato che non ti ho centrato dieci centimetri più in alto.» Maddox rise con durezza. «Abbiamo un'attrice comica, qui! Prima farai quello che ti ho detto e prima sarà finita. Tuo marito, Tommy, ha il taccuino. Lo voglio.» Indicò la Glock ancora puntata sui piedi. «Dammi il suo cellulare, così ci sbrighiamo in fretta.» La donna gli diede un numero. «Ora ti meriti un bel regalo.» Ridacchiò, fece qualche passo indietro e si sbottonò la camicia. «Ti faccio vedere il mio tatuaggio.» 17 Nella sala di lettura dell'Amsterdam Club regnava come sempre il silenzio. Gli unici suoni udibili erano lo sfogliare dei giornali e l'occasionale tintinnio del ghiaccio in un bicchiere. Le pareti rivestite di pannelli in rovere, i dipinti scuri e i mobili imponenti, uniti all'odore di cuoio e di vecchi libri, conferivano al luogo un'eleganza al di fuori del tempo. In un angolo, sprofondato nella poltrona e illuminato da una pozza di luce giallastra, stava Iain Corvus, sorseggiando un martini e con in mano l'ultimo numero dello Scientific American. Lo sfogliava senza leggerlo veramente, poi lo posò spazientito sul tavolino accanto. Alle sette di sabato la sala di lettura cominciava a svuotarsi e la gente andava a cenare. Corvus non aveva voglia né di mangiare né di fare conversazione. Erano ormai passate settantadue ore da quando aveva sentito Maddox l'ultima volta. Non aveva idea di dove fosse o che cosa stesse facendo, e non sapeva come comunicare con lui senza lasciare indizi. Cambiò posizione, incrociando di nuovo le gambe, e buttò giù una sorsata di martini. Sentì nel petto quel gradevole calore che gli saliva alla testa, ma non ne trasse giovamento. Molte cose dipendevano da Maddox; tutte, anzi. La sua carriera attraversava un momento di crisi e lui si trovava alla mercé di un ex galeotto. Melodie faceva le ore piccole al laboratorio di mineralogia, sottoponendo il campione a ulteriori analisi. Aveva dimostrato di essere una scienzia-
ta fenomenale, ottenendo risultati superiori a quelli da lui previsti. D'altro canto, però, tanta bravura insinuava nella mente di Corvus un timore strisciante: condividere con lei la gloria delle sue scoperte sarebbe stato più pericoloso di quanto aveva creduto. Forse era stato un clamoroso errore mettere nelle mani della Crookshank un'analisi così importante e innovativa senza seguirla abbastanza da potersi accaparrare i meriti. Melodie aveva promesso che l'avrebbe chiamato alle undici per comunicargli gli ultimi risultati. Consultò l'orologio. Mancavano quattro ore. Quello che lei aveva scoperto era più che sufficiente per l'incontro per l'assegnazione della cattedra. Era manna dal cielo. Non potevano negargli quel posto e lasciare che il più importante reperto di dinosauro di tutti i tempi se ne andasse con lui, diretto verso un altro museo. Non importava quanto Corvus stesse loro antipatico o quanto ritenessero inadeguate le sue pubblicazioni, in ogni caso non si sarebbero lasciati sfuggire il campione. Si trattava di un colpo di fortuna al di là dell'immaginabile... Anzi, no, pensò Corvus. Dicono che la vera fortuna è quando la preparazione si unisce all'occasione. E lui aveva preparato le cose per bene. Più di sei mesi prima girava voce che Marston Weathers avesse per le mani qualcosa di grosso. Lui sapeva che quel vecchio stronzo si trovava nella parte nord del New Mexico con la speranza di recuperare un dinosauro illegale dai territori federali. Per Corvus era l'occasione giusta: sottrarre un dinosauro a un ladro per offrirlo alla scienza. Avrebbe compiuto un importante gesto civico... e dato una svolta alla propria carriera. Quando Maddox gli aveva detto di aver ammazzato Weathers, la cosa l'aveva infastidito non poco. Poi, dopo aver superato lo choc iniziale, aveva capito che si trattava della decisione migliore, perché semplificava ampiamente le cose. E toglieva dalla circolazione un uomo che più di ogni altro, vivo o morto, aveva sottratto dal suolo pubblico numerosi e insostituibili reperti. Preparazione. Anche Maddox non gli era esattamente caduto tra le braccia. Quel tizio l'aveva contattato per quello che Corvus rappresentava, cioè un'autorità mondiale nel campo dei tirannosauri. Quando lui si era reso conto che, tramite Weathers, poteva mettere le mani su un reperto di prima qualità, allora aveva capito quanto Maddox gli sarebbe potuto tornare utile... se fosse stato fuori di prigione. Per farlo uscire, Corvus aveva rischiato in prima persona, anche se agevolato dal fatto che il verdetto fosse di omicidio colposo aggravato, anziché omicidio di secondo grado... Il suo avvocato era stato dannatamente bravo. Maddox in prigione aveva mante-
nuto una buona condotta. Infine, all'udienza per la libertà condizionata non c'erano parenti o amici del morto pronti a intervenire facendo le vittime. Lo stesso Corvus si era presentato all'udienza, garantendo per il suo protetto e offrendosi di procurargli un lavoro. Aveva funzionato e la commissione aveva concesso la libertà al detenuto. Con il tempo, Corvus si era reso conto che Maddox era un individuo dotato di rare qualità, decisamente carismatico e intelligente, un fine parlatore, presentabile e di bell'aspetto. Se fosse nato in condizioni diverse, anche lui sarebbe diventato uno scienziato niente male. La preparazione si unisce all'occasione. Fino a quel momento Corvus se l'era cavata perfettamente. Ora doveva starsene tranquillo e confidare in Maddox. Lui avrebbe portato a termine il suo compito e gli avrebbe consegnato il taccuino. E quel taccuino l'avrebbe portato dritto al fossile. Era la chiave di tutto. Controllò impaziente l'orologio, finì il suo martini e prese in mano lo Scientific American. Adesso la sua mente era sgombra. 18 Sally Broadbent osservò l'uomo che si toglieva la camicia alla luce fioca della lanterna a kerosene. Sentiva il freddo dell'acciaio che le stringeva i polsi e le caviglie, l'odore di umidità nell'aria e un rumore di acqua che gocciolava, da qualche parte. Da quanto vedeva si trovava in una specie di grotta o in una vecchia miniera. Aveva in bocca il sapore del metallo e la testa le doleva. Era come se ogni cosa stesse succedendo a qualcun altro. Sally non credeva che, una volta avuto il taccuino, l'uomo l'avrebbe lasciata andare. L'avrebbe uccisa... glielo leggeva negli occhi e nella noncuranza con cui le mostrava il suo volto o le rivelava informazioni personali. «Ehi, che ne dici di questo?» Si era piazzato di fronte a lei, a torso nudo, con il ghigno sghembo che gli attraversava la faccia, e gonfiava lentamente pettorali e bicipiti. «Pronta?» Protese le braccia e si piegò in avanti. Poi si voltò di scatto. Sally trasalì. La schiena era completamente ricoperta da un enorme tatuaggio a forma di Tyrannosaurus rex, gli artigli sguainati, le fauci spalancate. Era così realistico che sembrava dovesse balzare fuori dalla pelle. Quando contrasse i muscoli, il dinosauro parve muoversi. «Fico, eh?»
La donna lo fissava. «Mi hai sentito?» Continuava a restare voltato, gonfiando uno per volta i muscoli, facendo muovere al T. rex prima una zampa, poi l'altra, infine la testa. «Lo vedo.» «Quand'ero in prigione, avevo deciso che volevo un tatuaggio. È una tradizione, capisci? E anche una necessità... Dice chi sei e definisce le tue alleanze. I ragazzi senza tatuaggio spesso diventano la puttana di qualcuno. Io però non volevo il solito teschio o le stronzate tipo la morte con la falce. Volevo qualcosa che mi rappresentasse. Che dicesse che non ero la puttana di nessuno, ma un uomo vero, che non doveva niente a chicchessia. Ecco perché ho scelto un T. rex. Sul nostro pianeta non è esistito niente di più crudele. A quel punto dovevo trovare il disegno. Se lasciavo la mia schiena nelle mani di qualche imbecille, mi ritrovavo addosso Godzilla oppure l'immagine che qualche fesso di carcerato si era fatto di un dinosauro. Io lo volevo realistico. E scientificamente accurato.» Contrasse con forza i muscoli che si ingrossarono in modo quasi grottesco: sembrava che il tirannosauro aprisse e chiudesse la mascella. «Così ho scritto a un esperto mondiale di tirannosauri. Ovviamente, non ho ricevuto risposta. Perché una persona dovrebbe mettersi a corrispondere con un detenuto a Pelican Bay?» Ridacchiò sottovoce, fletté di nuovo i muscoli. «Guarda bene, Sally. Non esiste una rappresentazione più accurata di un T. rex, né sui libri né nei musei. Tutte le ultime ricerche scientifiche sono concentrate qui.» Sally deglutì e ascoltò. «Comunque, dopo un anno di silenzio, all'improvviso questo esperto di dinosauri mi risponde. Abbiamo avuto una specie di corrispondenza. Mi ha mandato tutte le ultime ricerche, anche roba che non era ancora stata pubblicata. E disegni fatti di suo pugno. Avevo a disposizione un bravo tatuatore. E man mano che il dinosauro veniva alla luce, tutte le volte che avevo una domanda, il mio esperto, da fuori, mi dava la risposta. Si è dato da fare per me. Era davvero preso, faceva di tutto perché il mio T. rex assomigliasse a quello vero.» Gonfiò un'altra volta i muscoli. «Siamo diventati amici... quasi fratelli. E poi... sai che cosa ha fatto?» Sally schiuse la bocca, riuscì a dire: «Cosa?» «Mi ha tirato fuori di prigione. Stavo scontando dieci anni su quindici per omicidio colposo aggravato, ma lui ha garantito per me all'udienza, mi ha dato dei soldi e un lavoro. Quindi, quando mi ha chiesto un piacere, io
non ero nella posizione di rifiutare. Sai di che favore si trattava?» «No.» «Prendere quel taccuino.» Sally deglutì un'altra volta, lottando contro una gelida ondata di terrore. Non le avrebbe mai raccontato una cosa così, se non avesse avuto in mente di ucciderla. L'uomo smise di gonfiare i muscoli, prese la camicia, la indossò. «Adesso hai capito perché sto facendo tutto questo casino? Ora devo fare una telefonata. A dopo.» Si voltò e uscì da quella piccola prigione. 19 Mentre guidava diretto a Tucson, Tom riprovò a usare il cellulare. Finalmente prendeva. Guardò l'ora. Le cinque e mezzo. Si era trattenuto con Dearborn più di quanto pensasse. Ora doveva affrettarsi se voleva prendere il volo delle sei e trenta. Fece il numero di casa per sentire come stava Sally. Dopo qualche squillo, scattò la segreteria telefonica. «Salve, siamo Tom e Sally. Tom è via per affari e io sono fuori città per un imprevisto. Non potremo quindi richiamarvi immediatamente. Mi scuso per le lezioni saltate, le recupereremo più avanti. Lasciate un messaggio, grazie.» Seguì un bip e Tom riattaccò, stupito e preoccupato. Cos'era questa storia che era fuori città per un imprevisto? Perché non l'aveva chiamato? O magari l'aveva fatto... Da Dearborn il suo cellulare non prendeva. Lo controllò rapidamente; non conteneva chiamate perse. Con crescente inquietudine, rifece il numero di casa e ascoltò il messaggio più attentamente. Non gli sembrava affatto normale. Accostò lungo la strada, rifece la chiamata e riascoltò. C'era qualcosa di terribilmente sbagliato. Tutto a un tratto, Tom sentì il cuore accelerare nel petto. Tornò sgommando sulla carreggiata. Mentre prendeva velocità, chiamò la polizia di Santa Fe e chiese del detective Willer. Dopo due frustranti trasferimenti di chiamata, rispose la solita voce impassibile. «Parla Tom Broadbent.» «Sì?» «Sono via e ho appena chiamato a casa. C'è qualcosa di strano. Mia moglie dovrebbe esserci e invece non c'è, e ha registrato un messaggio senza senso sulla segreteria telefonica. Credo che l'abbiano costretta a farlo.
Dev'essere successo qualcosa.» Silenzio. Poi Willer disse: «Vado là a dare un'occhiata». «Non solo. Vorrei che si mobilitasse per trovarla.» «Pensa sia stata rapita?» Tom esitò. «Non so.» Ci fu una pausa. «C'è altro che dovremmo sapere?» «Vi ho detto tutto quello che so. Solo cercate di essere là il più presto possibile.» «Me ne occuperò personalmente. Siamo autorizzati a scassinare la porta, se è chiusa a chiave?» «Sì, certo.» «Quando sarà di ritorno in città?» «Il mio volo da Tucson arriva per le sette e mezzo.» «Mi dia il suo cellulare. La chiamerò da casa sua.» Tom glielo diede e riattaccò. Si sentì colpevole e impotente. Era stato un idiota a lasciare Sally da sola. Premette l'acceleratore a tavoletta, divorando l'asfalto a oltre centosessanta all'ora. Non doveva a nessun costo perdere quell'aereo. Un quarto d'ora dopo squillò il telefono. «Parlo con Tom Broadbent?» Non era Willer. «Guardi, sto aspettando un'importante...» «Zitto, Tommy caro, e stammi a sentire.» «Chi diavolo...» «Ho detto zitto.» Una pausa. «Ho preso la tua signorinella, Sally. È al sicuro... per adesso. Voglio solo quel taccuino. Mi segui? Dimmi sì o no.» Tom strinse così forte l'apparecchio che stava quasi per romperlo. «Sì», riuscì a dire, alla fine. «Quando avrò il taccuino, tu riavrai Sally.» «Senti, se soltanto le hai...» «Non lo ripeterò più. Stai zitto, cazzo.» Tom sentiva l'uomo respirare rumorosamente. La voce disse: «Dove sei?» «In Arizona...» «Quando torni?» «Alle sette e mezzo. Ascolta...» «Sei tu che mi devi ascoltare. E con molta attenzione. Ci riesci?»
«Sì.» «Quando arrivi con l'aereo, salta in macchina e guida verso Abiquiú. Attraversa la città e prendi la Highway 84 a nord della diga. Non ti fermare per nessun motivo. Dovresti arrivare verso le nove. Hai con te il taccuino?» «Sì.» «Bene. Voglio che lo prendi, lo metti in un sacchetto con la zip e lo riempi di immondizia in modo che sembri un sacco della pattumiera. I rifiuti devono essere gialli. Chiaro? Giallo squillante. Percorri avanti e indietro la Highway 84 tra lo svincolo per la diga e quello per il Ghost Ranch. Vai esattamente a cento all'ora e tieni il cellulare acceso. Lì la ricezione è abbastanza buona, a parte qualche piccola zona morta. Ti richiamerò per darti ulteriori istruzioni. Chiaro?» «Sì.» «Qual è il tuo volo?» «Il 662 della Southwest Airlines.» «Bene. Controllerò l'ora esatta dell'atterraggio e ti aspetterò al Ghost Ranch un'ora e venticinque minuti più tardi. Non passare da casa, né fare altro che non sia guidare dritto per Abiquiú. Chiaro? Vai avanti e indietro dalla diga al Ghost Ranch finché non ricevi la mia chiamata. E mantieni i cento.» «Okay. Ma se le fai del male...» «Far del male a Sally? La tratterò con i guanti, se farai esattamente ciò che ti ho detto. Ah, Tom... niente polizia. Ti spiego perché. Quando si mette in mezzo, i rapimenti finiscono sempre male. Succede che la chiamano, il rapimento fallisce e di solito la vittima muore. I poliziotti prendono il controllo della situazione, fanno quello che devono fare e se ne fregano di te e dei tuoi interessi. Tu ti agiti, io mi agito e Sally muore. Okay? Chiama la polizia e preparati a dire addio a tua moglie, distesa su una barella nel seminterrato del 1100 West Airport. Capito?» Silenzio. «Sono stato chiaro?» «Sì.» «Bene. Saremo solo io e te, tutto sotto controllo. Io avrò il taccuino, tu tua moglie. Tutto sotto controllo. Capito?» «Sì.» «Ho una radio a banda della polizia e se la chiami me ne accorgo. E ho anche un socio.»
L'uomo chiuse la comunicazione. Tom riusciva a stento a guidare e a distinguere la strada. Un istante dopo, la suoneria riprese a squillare. Era Willer. «Signor Broadbent? Siamo a casa sua, in salotto, e siamo spiacenti ma c'è un problema.» Tom deglutì, incapace di parlare. «C'è un proiettile nella parete. I ragazzi della Scientifica stanno cercando di estrarlo.» Tom si accorse che la macchina sbandava; teneva il piede premuto sull'acceleratore e stava superando i centottanta. Rallentò e si sforzò di concentrarsi. «Mi sente?» chiese la voce lontana di Willer. Tom riuscì a parlare. «Detective Willer, la ringrazio per il disturbo, ma è tutto a posto. Ho appena sentito Sally. Sta bene.» «L'ha sentita?» «Sua madre si è sentita male, ha dovuto andare ad Albuquerque.» «Il fuoristrada è ancora in garage.» «È rotto e ha preso un taxi.» «E l'F350?» «Quello serve solo a trasportare i cavalli.» «Capisco. Ma il proiettile...» Tom riuscì a fare una risata. «Giusto. È... è roba vecchia.» «A me sembra recente.» «Risale a un paio di anni fa. Mi è sfuggito un colpo dalla pistola.» «Sicuro?» «Certo.» «Le spiace dirmi di che arma si trattava e di quale calibro?» «Un revolver Smith & Wesson calibro 38.» Seguì un lungo silenzio. «Come le ripeto, detective, mi dispiace di averla disturbata, davvero. È stato un falso allarme.» «Qui sul tappeto c'è anche una macchia di sangue. Anche questa è 'roba vecchia'?» Tom non fu in grado di dargli una risposta. Un'ondata di nausea lo invase. Se quei bastardi avevano fatto del male a Sally... «C'è molto sangue?» «Solo una macchia. È ancora umida.» «Non so proprio che cosa dirle al riguardo, detective. Magari qualcuno... si è tagliato.» Deglutì. «Chi? Sua moglie?»
«Non so che dirle.» Silenzio. Un sibilo nel ricevitore. Tom doveva prendere l'aereo e vedersela con quell'uomo. Non avrebbe mai dovuto lasciare Sally da sola. «Signor Broadbent? Conosce l'espressione 'causa probabile'?» «Sì.» «È con quella che abbiamo a che fare. Siamo entrati in casa con il suo permesso, abbiamo trovato la causa probabile che un crimine sia stato commesso... e ora intendiamo fare una perquisizione. In tali circostanze non è necessario un mandato.» Tom deglutì. Se il rapitore stava tenendo d'occhio la casa e la trovava piena di poliziotti... «Fate veloce.» «Mi diceva che il suo aereo arriverà alle sette e trenta?» chiese Willer. «Sì.» «Stasera vorrei vedere lei e sua moglie, non c'è madre malata che tenga. Alla centrale. Alle nove in punto. Anche con l'avvocato di cui aveva parlato. Sento che stavolta le servirà.» «Non posso. Non alle nove. È impossibile. E mia moglie si trova ad Albuquerque...» «Non ha scelta, Broadbent. Se alle nove non si presenta, emetterò un mandato di arresto nei suoi confronti. È chiaro?» Tom deglutì. «Mia moglie non c'entra niente.» «Se non me la porta, i suoi problemi aumenteranno. E lasci che glielo dica, amico: è già malmesso comunque.» Riattaccò. PARTE TERZA PERDIZ CREEK Era alta sei metri a partire dalla spalla e lunga quindici. Pesava circa sei tonnellate. Gli arti posteriori misuravano oltre tre metri ed erano dotati dei muscoli più potenti che mai si fossero evoluti su un vertebrato. Quando si muoveva teneva la coda sollevata, e ogni sua falcata copriva dai quattro ai cinque metri. Di corsa, raggiungeva i cinquanta chilometri orari, sebbene fossero più importanti l'agilità, lo scatto e i riflessi pronti. Le sue zampe, lunghe più di un metro, erano armate di artigli simili a scimitarre, tre diretti in avanti e un quarto rivolto all'indietro. Camminava sulle punte. Con un calcio ben assestato era in grado di sbudellare un
anatosauro adulto. La sua mascella era lunga un metro e disponeva di sessanta zanne. Lei utilizzava i quattro incisivi davanti per strappare via la carne dalle ossa. I denti che uccidevano erano in file laterali, lunghi trenta centimetri (radici incluse), ed erano grossi come il pugno di un bambino. Quelli posteriori erano acuminati, in modo che, una volta azzannata la preda, potessero tagliarla a pezzi. Con un morso era in grado di staccare più di tre metri cubi di carne alla volta, del peso di svariati chili. Il suo cranio aveva ampie finestre e numerose cavità che alleggerivano la testa, conferendole potenza e agilità di movimento. Aveva due diverse tecniche di morso: una «a forbice», che tagliava la carne, e una «a schiaccianoci», per stritolare ossa e corazze. Sul palato aveva sottili montanti che permettevano al cranio di allargarsi quando chiudeva le fauci, e poi di distendersi, permettendole di ingoiare per intero grossi pezzi di carne. I muscoli parzialmente sovrapposti della mascella le conferivano una forza di schiacciamento micidiale, sufficiente a tagliare l'acciaio. Gli arti anteriori, piccoli e non più larghi delle braccia di un essere umano - ma ben più forti - erano dotati di un paio di artigli piegati a novanta gradi, il che aumentava la loro capacità di presa e di taglio. Le vertebre posteriori, quelle all'attaccatura con le costole, erano grandi come barattoli del caffè, dato che dovevano sostenere la pancia, ovvero più di un quarto di tonnellata di carne fresca appena ingerita. Puzzava. Aveva in bocca brandelli di carne putrefatta e di grasso rancido, intrappolati in particolari cavità dei denti che rendevano il suo morso ancora più letale. Anche se le sue vittime riuscivano a sfuggire al primo assalto, era facile che morissero dopo poco per infezione o avvelenamento del sangue. Le ossa che lei espelleva con le feci spesso venivano sciolte quasi interamente dal potente acido cloridrico con cui digeriva il cibo. L'osso occipitale del collo aveva la forma di un pompelmo e le permetteva di girare il capo di quasi centottanta gradi per poter mordere in ogni direzione. Come quelli degli esseri umani, i suoi occhi guardavano in avanti, non di lato, dandole una visione stereoscopica. Aveva inoltre un eccellente senso dell'udito e dell'olfatto. Le sue prede preferite erano branchi di anatosauri che si spostavano rumorosamente nell'immensa foresta, gridando e strombazzando per non perdersi di vista e perché i più piccoli restassero accanto alle madri. Ma lei era un'opportunista e avrebbe mangiato qualunque cosa, purché fosse fatta di carne.
La sua tecnica di caccia era tendere agguati: restava in attesa a lungo, furtiva, controvento, e poi sì gettava a capofitto. Era ben mimetizzata perché la sua pelle aveva i colori della foresta, una ricca gamma di verdi e di marroni. Quand'era giovane cacciava in branco, ma con la maturità preferiva farlo da sola. Non era solita attaccare la preda e combattere fino alla morte. Piuttosto, piombava sulla vittima e le assestava un unico morso selvaggio, mentre i denti penetravano le squame e la corazza in cerca degli organi vitali e delle arterie pulsanti. In quell'istante, dopo aver inchiodato la preda come un insetto a uno spillo, alzava la zampa e le sferrava un calcio. Quindi la lasciava andare e si piazzava a distanza di sicurezza, mentre la bestia ruggiva, graffiava e si contorceva, sanguinando a morte. Come molti altri predatori, anche lei si cibava di carogne: affondare le zanne in una carcassa brulicante di insetti la appagava allo stesso modo di quando ingoiava un cuore ancora palpitante. 1 Wyman Ford si fermò e guardò in basso, nella grande spaccatura detta Tyrannosaur Canyon. Sedici chilometri prima aveva superato l'intrusione di basalto nero da cui il canyon prendeva il nome, e ora si trovava nelle sue profondità. Non si era mai spinto così avanti. Era un luogo dimenticato da Dio, quello. Man mano che proseguiva, le pareti si facevano sempre più alte, finché non lo strinsero claustrofobicamente da entrambi i lati. Massi grandi come case erano rotolati frantumandosi lungo il dirupo e giacevano al suolo, in mezzo a velenose pozze alcaline. La polvere svolazzava nell'aria in veli bianchi. Non c'erano forme di vita, a parte qualche cespuglio di atreplice e, ovviamente, parecchi serpenti a sonagli. Si arrestò di colpo quando percepì qualcosa che si muoveva lento davanti a lui. Un crotalo diamantino, il corpo grande quanto il suo avambraccio, strisciava sulla sabbia. La sera era il momento preferito dei serpenti, pensò Ford, l'ora in cui il caldo diminuisce e loro escono dalle tane per dare inizio alla caccia notturna. Ford proseguì la marcia e riprese il ritmo, le lunghe gambe che divoravano il terreno. Era in una specie di labirinto, in cui molti canyon laterali si affacciavano sul nulla. Aveva percorso chilometri su chilometri. All'ora del tramonto, quando la gola compì un'ulteriore svolta, vide dinanzi a sé il grande gruppo di rocce che si scorgeva dal Navajo Rim. Per scherzo le a-
veva battezzate «Rocce Pelate». La parte più bassa del canyon era già in ombra, inondata da una calda luce aranciata che si rifletteva da est. Il monaco si rallegrò che la giornata stesse volgendo al termine. Era dal mattino che razionava l'acqua e l'aria fresca gli stava facendo passare la sete. Nel deserto la notte arriva rapidamente: non aveva molto tempo per accamparsi a dovere. Con passo disinvolto, proseguì il cammino, guardandosi intorno finché non trovò ciò che cercava: una zona riparata tra due massi dotata di un morbido letto sabbioso. Si tolse lo zaino dalle spalle e bevve un sorso d'acqua, rigirandoselo in bocca per gustarlo bene prima di deglutirlo. Aveva ancora un quarto d'ora, massimo venti minuti di luce. Perché sprecarli a farsi da mangiare e a distendere il sacco a pelo? Posò le sue attrezzature e si arrampicò su una parete fino alle Rocce Pelate. Viste da quella prospettiva, non gli sembrarono più teste, ma enormi funghi spiaccicati. Ognuna aveva un diametro di una decina di metri ed era alta sei, scolpita in uno strato di arenaria arancione attraversato da venature di scisto viola e conglomerati. Tra le rocce più larghe, alcune, erose alla base, erano cadute come degli Humpty Dumpty e giacevano in pezzi al suolo. Wyman attraversò la foresta di colonne di arenaria sormontate da cupole di roccia. Le formazioni, rosate, erano alte circa tre metri. Ford vi si arrampicò, intenzionato a vedere dove finissero. Da quel punto, nessuna roccia corrispondeva a quella che stava cercando, anche se si notava un'«aria di famiglia». Fu percorso un'altra volta da un brivido di eccitazione, certo di essere vicino al dinosauro. Si fece largo tra i massi, schiacciandosi, a volte costretto a strisciare, mentre sentiva le pietre premergli addosso. Quando arrivò dall'altra parte, scoprì con sorpresa che le Rocce Pelate celavano l'ingresso di un altro canyon... o quella che in realtà era la continuazione nascosta del Tyrannosaur Canyon. Cominciò a percorrerla, camminando a passo svelto lungo il fondo. La gola era stretta e recava i segni di violenti diluvi. Disseminati sui fianchi, alberi e rami spezzati precipitati dalle montagne sovrastanti. Le pareti più basse erano state pulite e svuotate dall'azione dell'acqua. Il canyon proseguiva, una svolta dopo l'altra, mostrando a ogni angolo nicchie e cavità. Alcune contenevano piccole abitazioni. Quattrocento metri più avanti, Ford giunse a un «gocciolatoio», un terrazzo in arenaria che si affacciava sul canyon. In epoche più piovose doveva aver formato una cascata che si raccoglieva in una pozza, come testimoniava il pavimento di fango fessurato sottostante. L'ex agente della CIA vi si arrampicò, usando
le pietre sporgenti come appigli per braccia e gambe. Poi proseguì. Il canyon svoltava, spalancandosi all'improvviso in una stupenda vallata. Qui, tre gole secondarie si riunivano come treni che si scontrino l'uno contro l'altro, dando luogo a una visione di ferocia scolpita nell'arenaria. Wyman si arrestò, colpito da quello spettacolo di violenza pietrificata. Con un sorriso, decise di battezzarlo «Cimitero del Diavolo». In quel momento, l'ultimo raggio di sole ammiccò dietro il bordo del canyon e su quella bizzarra vallata scese la sera, avvolgendola di un velo purpureo. Era davvero una terra sperduta. Ford si voltò indietro. Era troppo tardi per proseguire l'esplorazione; doveva tornare al campo prima che facesse buio. Queste pietre hanno atteso milioni di anni, si disse. Possono aspettare ancora un giorno. 2 Tom guidava verso nord, sulla Highway 84, facendo il possibile per mantenere la concentrazione. L'aereo era atterrato in ritardo, erano le otto e mezzo e almeno un'ora lo separava dal tratto di strada indicato dal rapitore. Sul sedile del passeggero giaceva un sacco giallo colmo di spazzatura con dentro il taccuino. Vicino c'era il cellulare, carico e pronto a ricevere la chiamata. Si sentiva furibondo e indifeso, in balia degli eventi... Detestava stare così. Doveva trovare un modo per assumere il controllo, per agire e non solo reagire. Ma agire soltanto non bastava: doveva escogitare un piano, e per farlo doveva mettere da parte le emozioni e ragionare con freddezza. La scura distesa desertica correva dall'altro lato della strada, le stelle in cielo erano punti fermi e luminosi. L'ora di volo aereo da Tucson a Santa Fe era stata la più dura che avesse mai passato. Aveva dovuto fare appello a tutte le sue forze per non far correre i pensieri e concentrarsi sul problema. La questione era semplice: salvare Sally. Tutto il resto non contava. Una volta riavuta Sally avrebbe trattato col rapitore. Si domandò ancora se non avrebbe dovuto avvertire la polizia, o addirittura lasciar perdere Willer e rivolgersi direttamente all'FBI. Ma dentro di sé sapeva che quel tizio aveva ragione: se l'avesse fatto, avrebbe perso il controllo. Loro si sarebbero imposti. Non importava come, Willer sarebbe stato coinvolto. Non dubitava che il sequestratore avrebbe ammazzato Sally, se la polizia fosse intervenuta. Era un rischio troppo grosso. Doveva cavarsela da solo.
Gli era stato detto che in quel tratto di Highway 84 avrebbe dovuto guidare avanti e indietro. Era una delle zone più solitarie dell'autostrada statale a due corsie. C'erano un unico distributore di benzina e un negozio di alimentari. Tom provò a pensare come si sarebbe comportato nei panni del rapitore: come avrebbe organizzato le cose, come avrebbe fatto a prendere il taccuino, evitando di farsi seguire. In altre parole, Tom doveva riuscire a immaginare quale fosse il suo piano. 3 Willer alzò gli occhi dalla pila di carte e guardò l'orologio. Le nove e un quarto. Lanciò uno sguardo a Hernandez che, illuminato dai neon dell'ufficio, aveva un colorito verdastro. «Ci ha dato buca», fece Hernandez. «Ecco tutto.» «Ecco tutto...» Lo sceriffo diede un colpetto con la penna sul mucchio di carte. Non aveva senso, per uno come lui che aveva parecchio da perdere. Gente così conosceva un sacco di vie legali per evitare un interrogatorio della polizia. «Credi che abbia tagliato la corda?» «Il suo veicolo... quel particolare Chevy che guida lui, era parcheggiato all'aeroporto. Il volo è atterrato alle otto e adesso l'auto non c'è più.» Hernandez alzò le spalle. «Avrà avuto grane al motore?» «Si sta divertendo a farci qualche giochetto.» «Quale?» «Lo sapessi, dannazione!» Nella stanza calò un silenzio pesante. Infine Willer tossì e si accese una sigaretta; sentiva di dover fare qualcosa per ristabilire la propria autorità. Che Broadbent avesse semplicemente deciso di non presentarsi lo sorprendeva e irritava insieme. «Ecco cosa dicono i fatti: c'è una macchia di sangue fresco sul tappeto del suo soggiorno e un proiettile recente nella parete. E lui non si è presentato a un colloquio con la polizia. Forse è nei guai oppure è morto. Oppure sta fuggendo, terrorizzato. O ha litigato con la moglie e la situazione gli è scappata di mano... e ora lei è sepolta nel giardino dietro casa. O forse è solo un bastardo arrogante e pensa che non contiamo nulla. Non mi interessa: lo dobbiamo scovare e basta, cazzo!» «Giusto.» «Voglio posti di blocco nella zona nord del New Mexico, sulla 84 a
Chama, sulla 96 a Coyote, sulla 285 a sud di Española, sulla Interstate 40 a Wagon Mound, al confine con l'Arizona. Uno sull'Interstate 25 a Belen e uno sulla Highway 44.» Fece una pausa, scartabellò alcuni fogli sulla scrivania e ne estrasse uno. «Ecco qua: è al volante di un pick-up Chevrolet 3100 del '57, bianco e azzurro, targato 346 EWE. Con un veicolo del genere è impossibile non notarlo.» 4 Maddox parcheggiò il Range Rover di fronte al Sunrise Liquor Mart e gettò un'occhiata all'orologio. Le nove e ventuno. Una mezza dozzina di pubblicità di birra lampeggiavano nella vetrina, e la loro luce al neon si rifletteva sul tettuccio impolverato della sua auto. Per la gioia del commesso dietro il banco, il locale era vuoto. La luna non era ancora comparsa nel cielo. Aveva calcolato che i fari di una macchina diretta verso sud sarebbero comparsi due minuti e quaranta secondi prima del suo passaggio. Scese dalla vettura, si infilò le mani in tasca, si appoggiò alla carrozzeria e inspirò l'aria fresca del deserto. Chiuse le palpebre, mormorando il suo mantra e tentando di pensare ad altro. Riaprì gli occhi. L'autostrada era ancora buia. Le nove e ventidue. Undici minuti prima Broadbent era passato sul suo Chevy del '57 e, se seguiva le istruzioni, presto sarebbe tornato indietro alla stessa velocità. Nel giro di sei minuti, a nord sarebbero comparsi i fari. Maddox entrò nel negozio di alimentari, comprò un pezzo di pizza di dieci ore prima e una tazza gigante di caffè bruciacchiato. Pagò con i soldi contati. Uscì e tornò alla macchina, si appoggiò con il piede sul paraurti e fissò la strada buia. Ancora due minuti. Un altro sguardo nel negozio e vide che il ragazzo era immerso nella lettura di un fumetto. Rovesciò il caffè sull'asfalto e gettò il pezzo di pizza vicino a un cactus ormai sepolto di rifiuti. Controllò l'ora e il cellulare... Ottimo. Salì in macchina, accese il motore e attese. Nove e ventisei. Nove e ventisette. Nove e ventotto. Bingo. A nord, un paio di fari emersero dall'oscurità. Man mano che l'auto si avvicinava diventavano sempre più forti, poi il pick-up passò in un lampo azzurrino e il rosso dei fari posteriori scomparve nel buio, verso
sud. Nove e trenta e quaranta secondi. Maddox attese, gli occhi sull'orologio, calcolando un minuto esatto. Poi premette il pulsante delle chiamate rapide sul cellulare. «Sì?» La voce rispose all'istante. «Ascoltami bene. Mantieni la velocità. Non rallentare né accelerare. Abbassa il finestrino di destra.» «E mia moglie?» «L'avrai tra breve. Fa' come ti ho detto.» «Ho abbassato il finestrino.» Maddox guardò la lancetta dei secondi sul suo orologio. «Quando te lo dirò, chiudi la comunicazione sul cellulare, ma lascialo acceso. Infilalo nel sacchetto con il taccuino e gettali dal finestrino. Aspetta finché non ti do il segnale. Dopo continua a guidare senza fermarti.» «Sentimi bene, figlio di puttana. Se non mi dici dov'è mia moglie, non farò niente.» «Fa' come ti dico o lei è morta.» «Allora non avrai mai questo taccuino.» Maddox controllò l'orologio. Erano passati già tre minuti e mezzo. Posò una mano sul volante, premette l'acceleratore e imboccò l'autostrada, lasciando il segno delle ruote sull'asfalto del parcheggio. «Lei si trova nel vecchio campeggio a Madera Creek, hai presente? A sessantacinque chilometri da qui, sul Rio Grande. Quella puttana non mollava, adesso è ferita e sta con il mio socio. Se non fai quello che ti dico, gli telefono e lui l'ammazza e se ne va. Adesso metti il cellulare nel sacco e lancialo fuori, subito.» «Se lei muore, tu sei un uomo morto, sappilo. Ti seguirò in capo al mondo e ti ammazzerò.» «Taglia corto con la recita e fa' come ti ho detto!» «Lo sto facendo.» Maddox sentì un fruscio e la comunicazione si interruppe. Tirò un gran sospiro di sollievo. Controllò l'orologio, memorizzò l'ora esatta al secondo e guardò il contachilometri. Il taccuino doveva trovarsi in un punto a sei chilometri e cinquantotto metri di distanza a sud del negozio di alimentari. Spense il cellulare e mantenne la velocità. Era già andato in ricognizione sull'autostrada, calcolando i tempi e segnando le distanze tra i paracarri. Sapeva già il tratto di strada in cui si trovava il taccuino: nel raggio di quattrocento metri. Raggiunse il punto che aveva calcolato, rallentò, abbassò il finestrino e
compose il numero di Broadbent. Un istante dopo udì il debole squillo del telefonino. Ed ecco il sacchetto di plastica che giaceva sul ciglio della strada. Accostò. Intanto accese una lampada montata sul Range Rover e controllò la zona, per assicurarsi che il maritino non fosse appostato nei dintorni. La distesa era deserta. Ma non era così convinto che Broadbent fosse partito a tutta velocità verso sud, diretto al campeggio di Madera. Forse si era fermato ad Abiquiú per chiamare un'ambulanza e avvisare la polizia. Maddox non aveva molto tempo per recuperare il taccuino e togliersi dalle palle. Fece inversione a U, si diresse verso il sacchetto, saltò giù dall'auto e lo prese. Rientrò in autostrada, accelerò e lo lacerò, frugando tra la spazzatura alla ricerca del taccuino. Eccolo. Lo tirò fuori e lo osservò. Era rilegato in pelle e sul retro era macchiato di sangue. Lo aprì. Conteneva file di numeri a otto cifre, come aveva detto Corvus. Era quello. Ce l'aveva fatta. Si chiese come avrebbe reagito Broadbent quando avrebbe scoperto che non c'era nessuno al campeggio Madera. In capo al mondo. Il taccuino era suo. Ora poteva sbarazzarsi della donna. 5 A ottocento metri da dove aveva buttato il taccuino, Tom spense i fari e uscì dall'autostrada, saltò un fosso e si fermò a ridosso di un recinto di filo spinato. Guidò per il prato, al buio, finché non gli parve di essere abbastanza lontano dalla strada. Spense il motore e restò in attesa, il cuore che pulsava. Quando l'uomo gli aveva detto che Sally si trovava al Madera, sapeva che stava mentendo. In quel periodo il campeggio era pieno di bambini e i bungalow erano troppo in vista e parecchio frequentati. La storia del campeggio serviva a far sì che se ne andasse a sud. Pochi minuti dopo scorse un paio di fari dietro di sé. Prima era passato davanti a un Range Rover, davanti al negozio di alimentari, e adesso lo vedeva accostare nel tratto di strada in cui aveva gettato il taccuino. Non c'erano dubbi: era la macchina del rapitore. Una torcia illuminò il prato circostante. All'improvviso Tom temette di essere visto, poi si accorse che la luce era puntata solo negli immediati dintorni. Il fuoristrada fece inversione a U e tornò indietro. Ne uscì un uomo che prese il taccuino. Era alto e magro, ma troppo lontano per essere identificato. Un istante dopo risali-
va in auto e si dirigeva a nord, sgommando sull'asfalto. Tom attese finché non fu lontano, quindi ripartì e tornò sulla carreggiata. Gli toccava guidare alla cieca. Se avesse acceso le luci, l'uomo si sarebbe accorto di essere seguito: i fanali tondi e fuori moda tipici del Chevy erano troppo riconoscibili. Guidò più veloce che poteva, gli occhi puntati sulle luci posteriori del Range Rover, che però andava veloce: Tom capì che sarebbe stato impossibile stargli dietro a fari spenti. Doveva rischiare. Giusto in quel momento ripassava davanti al negozio; notò un pick-up che aveva accostato per fare benzina, e allora inchiodò, sterzò nella stazione di servizio e accostò dall'altro lato del distributore. Il veicolo, un brutto Dodge Dakota, era fermo accanto alla pompa, le chiavi che penzolavano dal cruscotto, mentre il proprietario era dentro a pagare. Tom si accorse che dalla tasca attaccata alla portiera sporgeva il calcio di una pistola. Balzò dal suo Chevy e saltò sul Dodge, mise in moto e se ne andò con uno stridore di pneumatici. Schiacciò l'acceleratore a tavoletta e si diresse a nord, all'inseguimento di quei fari scomparsi nel buio. 6 La chiamata arrivò alle undici di sera. Anche se Melodie la aspettava, sobbalzò allo squillo del telefono nel laboratorio deserto e silenzioso. «Melodie? Come vanno le ricerche?» «Alla grande, dottor Corvus, alla grande.» Deglutì, quando si accorse che stava ansimando al microfono. «Ancora al lavoro?» «Sì, sì, certo.» «Risultati?» «Sì. È... incredibile.» «Racconta.» «Il reperto pullula di iridio... esattamente dello stesso tipo di quello che si trova nello strato K-T. Intendo dire che ne è completamente saturo.» «Di che tipo di iridio si tratta e in quale percentuale?» «È legato in varie forme isometriche esaottaedriche, con una concentrazione di 430 parti per miliardo. Il che, come lei sa, è dello stesso tipo di quello identificato nell'asteroide Chicxulub.» Melodie attese una replica che non arrivò. «Non è che questo fossile», azzardò, «è localizzato nello strato K-T?»
«Può essere.» Seguì un altro lungo silenzio e la ragazza proseguì. «Nell'altra matrice che circondava il reperto ho rilevato un'impressionante abbondanza di particelle di fuliggine, di quelle che si trovano nelle foreste bruciate. Secondo un recente articolo del Journal of Geophysical Research, più di un terzo delle foreste del pianeta bruciarono come conseguenza dell'impatto dell'asteroide Chicxulub.» «Conosco quell'articolo», ribatté Corvus, calmo. «Allora saprà che il K-T consiste di due strati. Il primo di scorie di iridio provenienti dall'impatto, il secondo di fuliggine liberata dagli incendi delle foreste del pianeta.» Melodie fece una pausa, in attesa di un'altra reazione che non ci fu. All'altro capo del filo tutto taceva. Corvus non sembrava aver capito... o forse sì? «Mi sembra...» Si interruppe, quasi timorosa di dirlo. «Secondo le mie conclusioni, o il dinosauro è stato ucciso dall'impatto dell'asteroide... oppure è morto nel collasso ecologico che ne è seguito.» Quelle considerazioni, così stimolanti, caddero nel vuoto. Corvus restava muto. «Immagino che tutto ciò sia anche la causa dello straordinario stato di conservazione del fossile.» «Come?» domandò l'uomo, cauto. «Mentre leggevo l'articolo, mi ha colpito il fatto che l'impatto dell'asteroide, gli incendi e il calore dell'atmosfera contribuissero a creare un ambiente unico per il processo di fossilizzazione. Per esempio, erano scomparsi gli animali che si cibavano di carogne. L'impatto aveva arroventato il clima terrestre che era diventato caldo come il deserto del Sahara. In molte zone la temperatura superava gli ottanta, cento gradi... L'ideale per asciugare una carcassa. Per di più, tutta quella polvere aveva innescato imponenti sistemi climatici. Gigantesche inondazioni sommersero rapidamente tutto ciò che restava.» Melodie trasse un profondo sospiro, in attesa di una qualsiasi reazione: eccitazione, stupore, perplessità. Invece, nulla. «C'è altro?» chiese Corvus. «Be', ci sarebbero le particelle di Venere.» «Le particelle di Venere?» «Ho chiamato così quelle particelle nere che lei aveva notato. Al microscopio ricordano il simbolo di Venere... un cerchio da cui fuoriesce una croce. Ha presente, il simbolo del femminismo.» «Il simbolo del femminismo», ripeté l'inglese. «Ho fatto alcune analisi. Non si tratta di una formazione di microcristalli
o di un artefatto di fossilizzazione. La particella è una sfera di carbone inorganico con un braccio sporgente. Contiene un mucchio di elementi ancora da esaminare.» «Capisco.» «Hanno tutti in comune forma e dimensione, il che implica che siano di origine biologica. Presumibilmente erano presenti nel dinosauro al momento della morte e sono rimasti in quella posizione, senza mutare, per sessantacinque milioni di anni. Sono... molto strani. Dovrò lavorarci su ancora parecchio per identificarli... Mi chiedo se non si tratti di qualche particella infettiva.» All'altro capo del filo regnava uno strano silenzio. Quando finalmente Corvus parlò, lo fece sottovoce. Sembrava infastidito. «C'è dell'altro, Melodie?» «No.» Come se non fosse sufficiente. Che cosa aveva Corvus? Forse non le credeva? La voce del conservatore era così calma da sembrare inquietante. «Melodie, hai fatto un ottimo lavoro. Hai tutta la mia stima. Ora ascoltami bene. Prendi i tuoi CD, i frammenti di fossile, tutto ciò che c'è nel laboratorio che ha a che fare con il tuo lavoro e chiudilo a chiave nel tuo armadietto. Se per caso è rimasto qualcosa nel computer, cancellalo utilizzando il programma che rimuove completamente i file dall'hard disk. Poi vai a casa e fatti un sonnellino.» Melodie era senza parole. Tutto quello che Corvus riusciva a dire era che lei doveva farsi un sonnellino? «Allora ce la fai, Melodie?» mormorò Corvus. «Metti tutto sottochiave, ripulisci il computer, vai a casa, fatti un sonnellino e metti qualcosa sotto i denti. Ne riparleremo domattina.» «D'accordo.» «Bene.» Fece una pausa. «A domani.» Dopo aver riattaccato, Melodie restò per un po' seduta nel laboratorio, stupita. Nonostante tutto il lavoro e i risultati stupefacenti che aveva ottenuto, Corvus si comportava come se non gliene importasse granché... oppure non le credesse. Hai tutta la mia stima. Lei aveva fatto una delle più importanti scoperte nella storia della paleontologia e l'unica cosa che lui riusciva a dirle era che aveva tutta la sua stimai E di andare a farsi un sonnellino? Controllò l'ora. Scattò la lancetta dei minuti. Le undici e un quarto.
Guardò il suo braccio, il braccialetto che portava al polso, il seno tristemente piccolo, le mani sottili, le unghie rosicchiate, le braccia troppo lentigginose. Ecco Melodie Crookshank, trentatré anni, ancora assistente priva di cattedra, professionalmente una nullità. Si sentiva ribollire di risentimento. Ripensò a suo padre, un severo professore universitario: le ripeteva di continuo che non voleva che lei diventasse «una stupida qualunque». Ricordò quanto aveva fatto per fargli piacere. Poi le venne in mente la madre, e la sua sofferenza per essere soltanto una casalinga; sua madre che sognava di vivere attraverso i successi della figlia. Melodie aveva cercato di compiacere anche lei. Ripensò agli insegnanti, ai professori e ai relatori con cui aveva cercato di fare bella figura. Adesso era il turno di Corvus. Ma dove l'aveva portata tutto questo? I suoi occhi vagarono per l'opprimente laboratorio in cemento. Per la prima volta si chiese come Corvus intendesse gestire la loro scoperta. Sì, proprio la loro, perché lui non sarebbe stato in grado di farcela da solo. Non conosceva bene il funzionamento dei macchinari, era praticamente un analfabeta dell'informatica e un mineralista di infimo ordine. Melodie aveva fatto le analisi, posto le domande giuste al reperto e ricavato le risposte. Aveva scoperto connessioni tra i dati e sviluppato teorie. Cominciò a capire perché il conservatore voleva che tutto fosse tenuto segreto. Una scoperta del genere avrebbe dato il via a smanie di competizione, intrighi e a una gara a chi avesse trovato per primo il resto del fossile. Corvus avrebbe potuto facilmente perdere il controllo... e perdere il merito. E lui aveva particolarmente chiaro il valore di quella parola, merito. Era alla base di tutto il mondo della ricerca scientifica. Merito. A pensarci, era un concetto ambiguo. Era da mesi, forse anni, che la sua mente non era così lucida. Forse perché era tanto stanca... stanca di compiacere, stanca di lavorare per altri, stanca di quel laboratorio che sembrava una tomba. Gli occhi le caddero sul braccialetto di zaffiri. Lo sfilò e se lo fece oscillare davanti, mentre le gemme brillavano seducenti. Con quel regalo, Corvus aveva stipulato uno degli accordi più vantaggiosi della sua vita, credendo di poter comprare il suo silenzio e appagare la sua larvata vanità femminile. Se lo cacciò in tasca, disgustata. Ora cominciava a capire perché Corvus, al telefono, aveva avuto quella reazione di reticenza, quasi di fastidio. Lei era stata fin troppo brava a svolgere il compito. Lui era preoccupato che lei avesse scoperto fin troppo
e potesse prendersene il merito. Come in una rivelazione, Melodie capì come doveva agire. 7 L'M-Logos 455 Massively Parallel Processing Object Unit System era il computer più potente mai costruito dalla razza umana. Si trovava a Fort Mead, nel Maryland, presso il quartier generale della National Security Agency, in un seminterrato perpetuamente dotato di aria condizionata, al riparo dalla polvere e dall'elettricità statica. Non era stato assemblato per fare previsioni meteorologiche, per simulare un'esplosione termonucleare da quindici megatoni o per trovare la quadrimillionesima cifra del pi greco. Era stato creato con un intento molto più mondano: ascoltare. Un'infinita quantità di nodi distribuiti in tutto il globo raccoglieva un pantagruelico flusso di informazioni digitali. Intercettava più del quaranta per cento dell'intero traffico di Internet e oltre il novanta per cento delle conversazioni al cellulare, virtualmente tutti i programmi radiofonici e televisivi, parecchie conversazioni al telefono fisso e un vasto numero di dati provenienti dalle reti LAN governative, aziendali e di privati. Questo torrente digitale veniva immesso in tempo reale nell'M455MPP alla velocità di sedici terabit al secondo. Il computer si limitava ad ascoltare. Capiva praticamente ogni lingua conosciuta del globo, ogni dialetto, ogni protocollo, quasi ogni algoritmo di analisi linguistica. Ma non era tutto: l'M455MPP era il primo a utilizzare una segretissima forma di analisi dei dati nota come stutterlogic, sviluppata dai più brillanti teorici e programmatori cibernetici al Defense Intelligence Service. Era nata come una via per aggirare lo scoglio dell'Intelligenza Artificiale, che negli ultimi decenni aveva fatto naufragare le speranze di molti programmatori. La stutterlogic era un modo completamente nuovo di guardare all'informazione. Invece di provare a simulare la mente umana, come avevano tentato di fare invano i teorici dell'IA, la stutterlogic operava utilizzando un nuovo tipo di logica, senza basarsi sull'intelligenza della macchina o su quella artificiale. Anche in questo caso, però, non si poteva dire che il computer «capisse» ciò che sentiva. Il suo ruolo era soltanto quello di identificare una «comunicazione di interesse», detta CI nel gergo degli operatori, per inoltrarla a un essere umano che la controllasse. Molte delle CI rilevate dall'M455MPP provenivano da e-mail o da con-
versazioni al cellulare. Le ultime erano ripartite tra centoventicinque ascoltatori umani. Il loro compito richiedeva grandi conoscenze di base e della lingua o del dialetto in questione e una capacità di intuizione quasi magica. Essere un bravo «ascoltatore» era considerata un'arte, più che una scienza. Alle 11:04.34.98 ora legale, il modulo 3656070 dell'M455MPP, dopo duecentoquaranta secondi di una telefonata al cellulare di undici minuti complessivi, individuò una possibile CI. Il computer, avendola registrata dal principio, la riascoltò e cominciò ad analizzarla, mentre ancora si stava svolgendo. Quando la conversazione si concluse, alle 11:16.04.58, era già passata attraverso una serie di filtri algoritmici che l'avevano sottoposta ad analisi linguistica e concettuale. L'inflessione della voce era stata esaminata alla luce di dozzine di indici psicologici, tra cui lo stress, l'eccitazione, la rabbia, la fiducia e la paura. I programmi identificarono il chiamante e il ricevente e controllarono centinaia di database per rintracciare tutte le possibili informazioni esistenti sulle reti mondiali sui due interlocutori. Questa CI superò la prima batteria di test e ottenne un punteggio di 0,003. Si trovò poi dinanzi a uno sbarramento rappresentato da un sottosistema dell'M455 e venne sottoposta a una potente analisi tramite la stutterlogic. Il suo punteggio salì a 0,56 e venne inviata al database centrale accompagnata da una serie di «domande». Il database restituì la CI al modulo stutterlogic con le corrispondenti «risposte» e un punteggio innalzato a 1,20. Ogni conversazione che oltrepassava l'1,0 veniva inoltrata a un ascoltatore umano. Erano le 11:22.06.31. Rick Muzinsky aveva cominciato la sua carriera di «origliatore» quand'era ragazzo, ascoltando per ore i discorsi dei genitori da dietro la porta della camera da letto e restando morbosamente affascinato da tutto ciò che dicevano. Suo padre era un diplomatico in carriera e Rick aveva vissuto in giro per il mondo, imparando fluentemente tre lingue, oltre all'inglese. Era cresciuto abituandosi a osservare le cose dall'esterno, come un ragazzo senza amici e senza un posto fisso che potesse chiamare casa. Era un individuo che viveva attraverso gli altri e il suo impiego alla Homeland Security gli aveva permesso di accettare la propria condizione. Lo pagavano molto bene. Lavorava un totale di quattro ore al giorno in un ambiente privo di capi imbecilli, colleghi fastidiosi, collaboratori incompetenti e sciocche segretarie. Non doveva avere a che fare con gente alla mac-
chinetta del caffè o alla fotocopiatrice. Poteva timbrare il cartellino e fare le sue quattro ore in qualunque momento della giornata. E, soprattutto, lavorava da solo. Era obbligatorio. Non gli era permesso di parlare delle proprie mansioni con nessuno. Nessuno. Così, quando qualcuno gli poneva la solita, odiosa domanda «Che cosa fai per vivere?», lui diceva di tutto, eccetto la verità. Per molti ascoltare una CI dopo l'altra poteva risultare terribilmente noioso, dato che si trattava per la maggior parte di stupidi discorsi tra idioti, pieni di vuote minacce, sfuriate psicotiche, esternazioni politiche, dichiarazioni insensate e vane illusioni. Il delirio più disperato di alcune tra le persone più tristi e imbecilli che Muzinsky avesse mai ascoltato. Eppure ne amava ogni singola parola. Ogni tanto qualche conversazione era diversa. Spesso era difficile spiegare perché. Il discorso manifestava una sua serietà, una sorta di gravitas. Si aveva l'impressione che al di là delle parole si celasse qualcos'altro. Dopo qualche ascolto, se la sensazione non se ne andava, l'ascoltatore richiamava l'informazione associata a quella conversazione e controllava l'identità degli interlocutori. Di solito erano dettagli rivelatori. Il compito di Muzinsky non era quello di analizzare le CI identificate come minacciose. Doveva soltanto inoltrarle all'agenzia appropriata che a sua volta le sottoponeva a ulteriori esami. Spesso era addirittura il computer che identificava l'agenzia; ne esistevano di adeguate per ascoltare i messaggi più criptici. In genere, su duemila o tremila CI ascoltate, Muzinsky ne inoltrava una sola. Gran parte le passava a sottoagenzie dell'NSA o della Homeland Security. Altre andavano al Pentagono, al Dipartimento di Stato, all'FBI, alla CIA, all'ATF, all'INS e ad altre ulteriori sigle. L'esistenza di alcune di queste agenzie era di per sé un segreto. Muzinsky doveva inviare ogni CI all'ufficio preposto e farlo in fretta. Una «comunicazione di interesse» non poteva rimbalzare qua e là, in cerca di una destinazione. Un fatto del genere aveva portato all'undici settembre. Le agenzie riceventi avevano come primo obiettivo l'immediata gestione di tutte le informazioni, se necessario entro pochi minuti dal loro arrivo. Un altro insegnamento dell'undici settembre. Ma Muzinsky non c'entrava nulla con queste cose. Una volta che una CI abbandonava la sua postazione, se n'era andata per sempre. L'uomo si sedette davanti al computer, si chiuse nel suo cubicolo, infilò gli auricolari e premette il pulsante READY, che indicava che era pronto a ricevere un'altra CI. Il terminale non gli inviò alcun dato preliminare o in-
formazione sul contesto della chiamata, nulla che potesse influenzarlo prima dell'ascolto. Cominciava sempre da una conversazione nuda e cruda. Un sibilo e partì. Si sentì un telefono che suonava, una risposta, un tonfo, qualcuno che ansimava dall'altra parte e poi la CI cominciò: «Melodie? Come vanno le ricerche?» «Alla grande, dottor Corvus, alla grande.» 8 Poco prima di imboccare la strada del Forest Service che portava a Perdiz Creek, Maddox rallentò e uscì dall'autostrada. Dietro di lui erano comparsi un paio di fari e, prima di girare, voleva assicurarsi che non fossero quelli di Broadbent. Spense il motore e le luci e attese il passaggio del veicolo. Stava arrivando a una velocità incredibile; rallentò leggermente, poi riprese a correre. Maddox sospirò di sollievo: era soltanto un Dodge vecchio e malconcio. Rimise in moto la macchina e svoltò; attraversò rumorosamente la grata che copriva il fosso e proseguì lungo la strada polverosa e sconnessa, con un senso di leggerezza. Abbassò il finestrino per far entrare l'aria. Era una notte fresca e profumata e le stelle illuminavano le rocce buie della mesa. Il piano aveva funzionato: il taccuino era suo. Nessuno avrebbe potuto fermarlo, adesso. Nei giorni a venire, quando Broadbent avrebbe denunciato il rapimento della moglie, nella zona si sarebbe verificato un certo spiegamento di forze dell'ordine, ma lui sarebbe stato al sicuro a Perdiz Creek a scrivere il suo romanzo... E nel caso fossero venuti a interrogarlo non avrebbero visto nulla... nessun cadavere, nada. Il corpo della donna, poi, non l'avrebbero mai trovato. Aveva già scovato un posto perfetto dove gettarlo, un pozzo profondo pieno d'acqua, in una delle miniere superiori. Poiché la volta sopra il pozzo era sostenuta da travi di legno marcio, dopo avere gettato il corpo avrebbe fatto detonare una piccola carica per far crollare il soffitto. Tutto sarebbe stato risolto. Sarebbe stata introvabile come Jimmy Hoffa. L'orologio segnava le nove e quaranta. Sarebbe tornato a Perdiz Creek nel giro di mezz'ora e lì aveva di che occuparsi. L'indomani avrebbe chiamato Corvus da una cabina per dargli le buone notizie. Guardò il cellulare, con la tentazione di telefonargli all'istante... No, a questo punto non poteva fare errori o correre rischi. Accelerò, l'auto che sobbalzava sulla strada polverosa e accidentata, ar-
rampicandosi su una serie di collinette. Nel giro di dieci minuti aveva raggiunto la zona in cui la foresta di ginepri cedeva il passo agli imponenti pini ponderosa, le fronde scure che frusciavano nel vento notturno. Finalmente raggiunse il cancello della brutta recinzione che delimitava la proprietà. Maddox scese dall'auto, lo aprì, entrò con la macchina e lo richiuse. Neanche duecento metri e sarebbe arrivato alla casetta. Era una notte senza luna e la vecchia costruzione era avvolta nel buio più profondo; la sua sagoma desolata sembrava cancellare via le stelle. Maddox rabbrividì e si ripromise, la prossima volta, di lasciare accesa la luce del portico. Poi pensò alla donna che l'attendeva nell'oscurità della miniera e sentì un piacevole calore attraversargli il corpo. 9 A furia di stare in piedi, sempre nella stessa posizione, le gambe di Sally cominciarono a farle male, mentre i polsi e le caviglie sfregavano contro il gelido acciaio. Uno spiffero di aria fredda proveniente dal fondo della miniera le penetrava nelle ossa. La fioca fiammella della lampada a kerosene ondeggiava e crepitava, trasmettendole il timore irrazionale che prima o poi si sarebbe spenta. Ma la cosa più terribile era il silenzio, spezzato soltanto dal monotono gocciolio dell'acqua. Era impossibile dire quanto tempo fosse passato e se fosse giorno oppure notte. Si irrigidì all'improvviso. Qualcuno faceva sferragliare la grata all'ingresso della miniera. Stava entrando. Sentì il suono metallico dell'inferriata richiudersi dietro di lui e il tintinnio della chiave mentre veniva richiusa. E ora percepiva i suoi passi che si avvicinavano, sempre più forti. Il raggio di una pila balenò tra le sbarre e poco dopo lui apparve. Sbloccò le sbarre e le fece scorrere da parte. Poi si infilò la torcia nella tasca posteriore ed entrò nella piccola prigione di pietra. Sally era in catene, curva, gli occhi semichiusi. Gemette con un filo di voce. «Ciao, Sally.» Un altro gemito. Attraverso le palpebre socchiuse, la donna lo vide sbottonarsi la camicia, il volto distorto in un ghigno. «Tirati su», disse. «Adesso ce la spassiamo un po'.» Sentì la camicia cadere a terra e lo scatto della fibbia mentre si slacciava la cintura.
«No», mormorò lei, debolmente. «Sì. Oh, sì. Basta aspettare. Ora o mai più.» Udì il fruscio dei pantaloni che cadevano al suolo. Un altro fruscio e si liberò degli slip. Sally, esausta, alzò gli occhi ridotti a due fessure. Lui era li, in piedi davanti a lei, nudo e con il pene eretto. In una mano teneva una chiavetta, nell'altra una pistola. La donna gemette e abbassò nuovamente il capo. «Ti prego, non farlo.» Il suo corpo si afflosciò, debole, inerme, del tutto indifeso. «Vuoi dire, fallo.» Le andò incontro, afferrò il suo polso destro e infilò la chiave nella manetta. Si avvicinò al capo chino della donna e le ficcò il naso tra i capelli. Lei sentiva il suo respiro. Le strofinò le labbra contro il collo e le graffiò la guancia con il mento mal rasato. Sally sapeva che presto sarebbe stato il momento dell'altra manetta. E che lui, dopo aver fatto qualche passo indietro, avrebbe fatto aprire a lei le altre due. Era questo il suo metodo. Attese, senza raddrizzare la schiena. Sentì il piccolo scatto della chiave che girava nella serratura e il bracciale d'acciaio che si apriva. In quell'istante, facendo appello a tutta la propria forza, lo colpì di scatto alla mano sinistra, quella con la pistola. Era un movimento che aveva ripassato centinaia di volte nella mente e che riuscì a coglierlo di sorpresa. L'arma volò via. Senza fermarsi, Sally fece mulinare il braccio e gli piantò le unghie nella faccia; le aveva affilate per un'ora contro la roccia. Non riuscì a centrare gli occhi, ma gliele affondò per bene nella carne. Maddox barcollò all'indietro con un urlo inarticolato, tentando di coprirsi il viso con le mani, mentre la torcia rotolava sul pavimento. Sally mise rapida la mano sulla manetta aperta. Sì! La chiave era ancora dentro, girata a metà. La tolse e aprì la cavigliera, appena in tempo per assestargli un violento calcio nello stomaco mentre lui tentava di rialzarsi. Si liberò l'altro piede e la mano destra. Libera! Lui era in ginocchio e tossiva, mentre la sua mano vagava in cerca della pistola. Sally fece un altro movimento, anche questo ripassato migliaia di volte nelle ore precedenti. Si protese verso il tavolino, e con una mano afferrò una scatola di fiammiferi, mentre con l'altra faceva cadere la lampada a kerosene che si fracassò sul pavimento. La miniera precipitò nell'oscurità. Sally si gettò a terra, proprio mentre l'uomo faceva fuoco nella sua dire-
zione. Lo sparo rimbombò nello spazio chiuso. Si sentì un urlo pieno di rabbia: «Puttana!» Sally si acquattò, strisciando rapida nell'oscurità verso il punto in cui ricordava esserci la porta. Sapeva di non poter uscire dalla miniera passando per il cunicolo di ingresso: aveva sentito il rapitore chiudere a chiave la grata. La sua unica speranza era avventurarsi nella miniera e trovare una seconda uscita o un posto in cui nascondersi. «Ti ammazzo!» gridava lui con voce strozzata. Seguì uno sparo nel buio. Il lampo le fece balenare sulla retina l'immagine di un uomo nudo e rabbioso che stringeva una pistola agitandola selvaggiamente, il corpo distorto avvolto in un grottesco tatuaggio a forma di dinosauro. Il bagliore dello sparo le aveva indicato la strada verso la porta. Vi corse incontro alla cieca, la attraversò e si mise a strisciare a tentoni nel tunnel, muovendosi più rapida che poteva. Dopo un po' accese un fiammifero. Davanti a lei due cunicoli si univano. Gettò via velocemente il fiammifero e si infilò in uno di essi, sperando, pregando, che la portasse in un luogo sicuro nelle profondità della miniera. 10 Finalmente Iain Corvus, che aspettava in un taxi fermo fuori dal museo, vide la sagoma magra e adolescenziale di Melodie affacciarsi dall'uscita di servizio dell'edificio. Era mezzanotte. La ragazza se l'era presa dannatamente comoda. Scorse la sua figura minuta svoltare a sinistra su Central Park West e dirigersi verso la zona residenziale. Senza dubbio stava tornando in qualche tetro monolocale vicino alla ferrovia, nell'Upper West Side. Corvus maledì ancora una volta la propria stupidità. Quasi dall'inizio della conversazione di quella sera si era reso conto del proprio madornale errore. Aveva consegnato a Melodie su un vassoio d'argento una delle più importanti scoperte scientifiche di tutti i tempi e lei l'aveva presa al volo e aveva fatto centro. Certo, sugli articoli il suo nome sarebbe comparso per primo come scienziato più anziano, ma la parte del leone l'avrebbe fatta lei, nessuno si sarebbe lasciato ingannare. Lei avrebbe messo in ombra, se non eclissato, la sua fama. Fortunatamente esisteva una soluzione semplice al problema e Corvus si congratulò con se stesso per averci pensato in tempo. Aspettò che Melodie sparisse nel buio di Central Park West, allungò un
biglietto da cinquanta al tassista e scese dall'auto. Attraversò a lunghi passi la strada ed entrò dall'uscita di servizio del museo usando la tessera magnetica. Nel giro di dieci minuti fu nel laboratorio di mineralogia, davanti all'armadietto dei campioni di Melodie. Infilò la sua chiave universale e lo aprì, ed espirò sollevato quando scorse all'interno una pila di CD-ROM, floppy e le parti sezionate del reperto sistemate con ordine al loro posto. Si stupì di quanto Melodie fosse riuscita a fare in quei cinque giorni e di quante informazioni fosse riuscita a trarre dal campione. Uno scienziato meno in gamba ci avrebbe impiegato un anno, sempre che ne avesse cavato qualcosa. Prese i CD, etichettati e classificati. In questo caso, il possesso dei CD e del reperto era tutto quanto era richiesto per attestare la legittimità della scoperta. Senza, lei non avrebbe nemmeno potuto iniziare a reclamarne la paternità. D'altronde era giusto che il merito andasse a lui: era stato lui l'unico a rischiare davvero, persino la propria libertà, per rivendicare il fossile di dinosauro per il museo. Lui l'aveva strappato dagli artigli del mercato nero. Ed era stato l'unico a offrirlo alla Crookshank su un vassoio d'argento. Se lui non avesse corso quei rischi, la ragazza non avrebbe avuto nulla. Melodie poteva anche andarsene in giro a dire a tutti che la scoperta l'aveva fatta lei... Che cosa poteva fargli? La guerra? Se avesse tirato fuori un argomento del genere, nessuna università l'avrebbe più assunta. Non si trattava di rubare, soltanto di correggere i parametri di merito e di ottenere ciò che gli spettava. Corvus sistemò con cura il materiale nella propria valigetta. Poi andò al computer, effettuò il login come amministratore di sistema e controllò i file della ragazza. Nulla. Aveva fatto come lui le aveva detto e cancellato ogni traccia. Si girò e stava per andarsene quando all'improvviso ebbe un pensiero. Doveva controllare il registro delle attrezzature. Tutti quelli che utilizzavano i costosi macchinari del laboratorio erano tenuti a segnare da che ora a che ora li avevano usati e per quale scopo. Si chiese come Melodie avesse gestito la cosa. Spalancò il registro e lo lesse attentamente. Notò con sollievo che anche in questo caso l'assistente si era comportata come lui le aveva chiesto, segnando il nome e gli orari, ma inserendo obiettivi differenti, tratti da lavori fatti per altri conservatori. Eccellente. Con la sua grafia chiara e inclinata, aggiunse nuove registrazioni a suo nome. Alla voce «reperto», scrisse: Deserto della mesa alta / Chama River, N.M. T. rex. Si fermò, poi sotto «note» aggiunse: Terzo esame di un
notevole frammento della colonna vertebrale di un T. rex. Straordinario! Passerà alla storia. Firmò, riportando l'ora e la data. Sfogliò il registro all'indietro, individuò alcune righe vuote al fondo delle pagine precedenti e inserì due notazioni simili, con ora e data appropriate. Fece la stessa cosa con gli altri registri d'ingresso dei macchinari ad alta tecnologia. Mentre stava per andarsene dal laboratorio provò un'urgenza immediata di osservare il campione. Aprì la valigetta, estrasse la scatola che custodiva i vetrini con i frammenti del reperto e ne prese uno. Lo voltò adagio, lasciando che la luce si riflettesse sulla superficie. Accese il macchinario, attese che si scaldasse, poi fece scivolare un vetrino nell'alloggiamento alla base del microscopio. Pochi minuti dopo fissava una microfotografia a elettroni del tessuto osseo spugnoso del dinosauro, con cellule e nucleo chiaramente visibili. Rimase senza fiato. Ancora una volta le capacità tecniche di Melodie erano da lodare. L'immagine era incisiva, virtualmente perfetta. Corvus aumentò l'ingrandimento a 2000x e un'unica cellula riempì lo schermo, balzandogli alla vista. Si scorgeva all'interno una di quelle particelle nere che lei aveva battezzato particelle di Venere. Cosa diavolo era? Vista da vicino era piuttosto bizzarra: una sfera con un rudimentale braccio a forma di tubo che terminava con una specie di croce. Ciò che lo stupì fu lo stato di conservazione della particella, priva di buchi, danni o fratture come ci si sarebbe aspettati. Si era mantenuta bene negli ultimi sessantacinque milioni di anni! Corvus scosse il capo. Lui era un paleontologo specializzato in vertebrati, non un microbiologo. La particella era interessante, ma si trattava soltanto di un'appendice all'attrazione più importante: il dinosauro stesso. Un dinosauro la cui morte era dovuta in realtà all'impatto con l'asteroide Chicxulub. Il pensiero lo fece rabbrividire. Ancora una volta tentò di frenare l'entusiasmo. C'era ancora molta strada da fare prima che il fossile venisse piazzato nel museo. Prima di tutto, gli serviva quel dannato taccuino... altrimenti avrebbe dovuto passare la vita a vagare per canyon e altipiani. Con un tuffo al cuore, rimise a posto il vetrino e spense il macchinario. Chiuse con cura i CD e il reperto nella valigetta, quindi fece un altro giro per il laboratorio a controllare che non fosse rimasta nessuna traccia. Soddisfatto, si infilò il cappotto e lasciò la stanza, dopo aver spento le luci e chiuso a chiave la porta. Davanti a lui si snodava il tetro corridoio del seminterrato, illuminato da una serie di lampadine a quaranta watt fiancheggiate dai tubi dell'acqua. Era un posto orribile per lavorarci... Si chiese come facesse Melodie a
sopportarlo. Persino gli assistenti conservatori avevano il loro ufficio con finestre al quinto piano. Alla prima curva a gomito del corridoio, Corvus si fermò. Sentiva una strana sensazione di prurito alla nuca, come se qualcuno lo stesse osservando. Si voltò, ma dietro di sé, nell'oscurità, non vide nessuno. Diamine, adesso anche lui si metteva a sobbalzare all'improvviso come Melodie. Attraversò l'atrio a lunghe falcate, superò gli altri laboratori, tutti chiusi a chiave, voltò l'angolo. Esitò. Era sicuro di aver sentito una suola raschiare leggera sul cemento. Restò in attesa di un altro passo, di qualcuno che apparisse dopo la curva, invece nulla. Imprecò; doveva essere un guardiano che faceva un giro di controllo. Strinse la valigetta e proseguì, avvicinandosi alle due porte che davano sul magazzino in cui erano conservate le ossa di dinosauro. Si fermò, convinto di aver sentito un altro rumore alle sue spalle. «Melodie... sei tu?» La sua voce riecheggiò forte e innaturale nel corridoio deserto. Nessuna risposta. Provò un moto di disappunto. Non sarebbe stata la prima volta che un universitario o un conservatore veniva sorpreso a vagare di soppiatto, tentando di mettere le mani sui dati di qualcun altro. Poteva anche darsi che fossero proprio i suoi dati a suscitare interesse... Qualcuno poteva aver sentito nominare il T. rex. O forse Melodie aveva parlato. All'improvviso Corvus fu lieto di aver visto lungo e aver messo al sicuro i risultati e il reperto. Attese, in ascolto. «Ascolta, non so chi sei, ma non tollero di essere seguito», sbottò. Mosse un passo, con l'intenzione di tornare dietro la curva e fronteggiare l'inseguitore, ma il suo sangue freddo stava venendo meno. Si rese conto di avere paura. Era assurdo. Si guardò intorno, osservò le lucide porte metalliche che conducevano allo scantinato con le ossa di dinosauro. Si avvicinò e il più silenziosamente possibile fece strisciare sul lettore la tessera magnetica. La luce di sicurezza da rossa divenne verde e la porta si aprì lenta. Corvus la spinse, entrò e se la richiuse alle spalle, sentendo muoversi il massiccio ingranaggio elettronico. La porta aveva una finestrella che dava sul corridoio, con il vetro protetto da una grata. Ora avrebbe scoperto chi lo stava seguendo. Avrebbe fatto un esposto nei suoi confronti, chiunque fosse; quella specie di intrigo era
intollerabile. Dopo un minuto, un'ombra attraversò la lastra di vetro. Apparve un volto di profilo che, girandosi di scatto, guardò nella finestrella. Con un balzo, Corvus indietreggiò nell'oscurità del magazzino, l'uomo l'aveva visto, ne era certo. Restò in attesa, avvolto nel buio più totale, osservando lo sconosciuto. La luce alle sue spalle lo lasciava in parte in ombra, però si scorgevano lo stesso i suoi lineamenti: la pelle tesa sugli zigomi prominenti, una massa di capelli corvini, il naso piccolo e perfetto, le labbra sottili che sembravano di creta. Non riuscì a distinguere gli occhi, due pozze d'ombra sul volto. Non era un viso noto. Non era un impiegato del museo, né uno studente universitario. Se si trattava di un paleontologo ospite, era strano che lui non lo conoscesse: non erano in molti a lavorare in quel campo. Corvus respirava a fatica. C'era qualcosa, nell'espressione di totale calma dell'uomo, che gli faceva paura... E quelle labbra grigiastre, cadaveriche... Lo sconosciuto continuava a restare alla finestrella, immobile. Poi si sentì un fruscio leggero, uno strofinio, un debole scatto. La maniglia girò e tornò lentamente nella posizione iniziale. Corvus era stupefatto: il bastardo stava cercando di entrare. Impresa impossibile. Il magazzino dei dinosauri conteneva reperti per milioni di dollari e vi aveva accesso solo una mezza dozzina di persone. Sicuramente lo sconosciuto non era una di queste. Corvus sapeva che la porta era formata da due strati di sessanta millimetri di acciaio inossidabile, con un'anima in titanio, e aveva una serratura tecnicamente inaccessibile. Un altro leggero fruscio, uno scatto, poi un altro. La luce di sicurezza all'interno continuava a essere rossa, come Corvus prevedeva. Gli venne quasi voglia di scoppiare a ridere a voce alta, provocando e insultando l'intruso, tuttavia la sua continua presenza lo stupiva e inquietava. Che cosa diavolo voleva? All'improvviso Corvus pensò al telefono nel retro del magazzino, dove c'erano i tavolini di studio. Avrebbe chiamato la sicurezza e fatto arrestare quel coglione. Si voltò, ma era terribilmente buio, e la stanza così grande e piena di scaffali e di scheletri di dinosauro che capì sarebbe stato impossibile tornare indietro senza accendere le luci. E, se lo avesse fatto, l'uomo sarebbe scappato. Estrasse il cellulare dalla tasca del cappotto: lì sotto naturalmente non prendeva. Il tizio era sempre indaffarato con la maniglia, continuava a farla scattare e grattare tentando di aprire la porta. Incredibile. Altri lievi fruscii, uno scatto secco... e Corvus restò a guardare, esterre-
fatto. La luce di sicurezza era diventata verde. 11 Sorpassata l'auto del rapitore, che aveva accostato da una parte e spento i fari, Tom aveva proseguito fino a scomparire alla sua vista, poi aveva fatto un'inversione a U. Il tratto di strada dietro di lui restava avvolto nell'oscurità. Dunque l'uomo doveva aver preso una delle numerose vie forestali dirette alle Canjilon Mountains. Tom accelerò, puntando verso sud, e in pochi minuti trovò il posto in cui l'uomo aveva accostato, lasciando chiare impronte sulla sabbia. Più avanti c'era uno svincolo che portava a una strada forestale e all'imbocco si scorgevano le stesse impronte. Tom svoltò, guidando lentamente, a luci spente. La strada si arrampicava sulle alture delle Canjilon, sopra la Mesa de los Viejos. Man mano che saliva, gli abeti e i ginepri cedevano il passo alla scura foresta di pini ponderosa. Resistette alla tentazione di illuminare il percorso e correre avanti; la sorpresa era la sua unica risorsa. Sally era ancora viva, se lo sentiva dentro. Non poteva essere morta. L'avrebbe capito. La strada si inerpicava a tornanti su un ripido crinale fitto di pini e sulla cima era circondata da un dirupo. Qui gli alberi si diradavano e si apriva un'ampia vista della mesa alta, dominata dallo scuro contorno della Mesa de los Viejos. Poi la strada tornava a gettarsi nella foresta, e presto una recinzione apparve nel buio, assieme a un paio di cancelli. Un cartello rovinato dalle intemperie diceva: CAMPO CCC PERDIZ CREEK Ne seguiva un altro, appeso alla recinzione: PROPRIETÀ PRIVATA VIETATO IL PASSAGGIO I TRASGRESSORI SARANNO PERSEGUITI SECONDO I TERMINI DI LEGGE Era una specie di enclave nella foresta nazionale. Tom accostò e spense
il motore. Ora che ne aveva il tempo, estrasse la pistola dalla tasca nella portiera. Era un revolver J.C. Higgins «88» in pessimo stato, calibro 22, una vera schifezza. Controllò il cilindro... nove camere, tutte vuote. Tirò fuori un mucchio di vecchie cartine, una bottiglia vuota di Jim Beam e continuò a frugare. Niente proiettili. Aprì con uno strattone il cruscotto e infine, tra altre cartine e bottiglie vuote, trovò un unico proiettile, piuttosto rovinato. Lo inserì nel cilindro e si mise la pistola alla cintola. Prese una torcia dal cruscotto ed esaminò il resto del veicolo, sotto i sedili, in ogni scomparto, alla ricerca di altre munizioni. Nulla. Scese dal Dodge. Il luogo era immerso nel silenzio, a parte il vento notturno che sussurrava tra i pini e il chiurlare di una civetta. Il cancello era chiuso con il lucchetto. Tom vi guardò attraverso. La strada curvava e scompariva tra i pini e più avanti, in lontananza, si scorgeva il fioco balenare di una luce. Una casa. Tom si arrampicò oltre la recinzione, si lasciò cadere dall'altra parte e imboccò la strada di corsa, senza far rumore. 12 Sally si fermò ad ascoltare nel cunicolo buio. Sentiva l'uomo grattare e imprecare, forse alla ricerca della torcia. Riprese a strisciare. Dove portava il tunnel? Aveva i fiammiferi nella tasca, ma non osava accenderne nemmeno uno: l'avrebbe trasformata in un bersaglio. Proseguì alla cieca, facendo il minor rumore possibile. Udì riecheggiare altri colpi, ma l'uomo sparava a casaccio e i proiettili finivano chissà dove nell'oscurità. Sally si muoveva veloce, il suolo roccioso della miniera che le graffiava le ginocchia. Pochi minuti dopo la sua mano urtò qualcosa di freddo: un pezzo di legno marcio che dondolò sotto la sua presa. Sentì sotto di sé le gelide esalazioni di umidità della miniera. Si sdraiò a pancia in giù e percepì un'inferriata, mentre le sue mani incontravano una roccia appuntita e sporgente. Si spinse in avanti di poco, tastando sotto di sé. Era tutto bagnato e scivoloso, doveva trattarsi della parete verticale di un pozzo. Si spostò lateralmente: sperava di trovare il modo di girarci intorno, tastando il corrimano. Una voce risuonò nel vuoto. «Non puoi uscire, puttana. La grata è chiusa e la chiave ce l'ho io.» Una pausa, poi, la voce, tentando di mantenere un
tono più calmo, aggiunse: «Ehi, non ti farò del male. Dimentica tutto. Cerca di ragionare. Parliamone». Sally raggiunse la parete del tunnel. Il pozzo sembrava aprirsi davanti a lei, sbarrandole la strada. Si fermò, il cuore che le esplodeva nel petto. «Davvero, scusami per prima. Mi sono lasciato trascinare.» Lei continuava a sentirlo rovistare in cerca della pila che gli era caduta e che forse funzionava ancora. Doveva trovare una via lungo il tunnel, e in fretta. Tornò indietro lungo la grata finché non avvertì un buco. Era in quel punto che c'era la scala? Si mise di nuovo a pancia in giù e si protese oltre il bordo del pozzo, percependo le pareti di pietra umida che andavano verso il basso... Una scala! Il piolo più alto era morbido e spugnoso, tanto era marcio. Sally doveva vedere quella scala prima di cominciare a scendere. Doveva rischiare e accendere un fiammifero. «Dai, lo so che sei lì. Ragiona. Giuro che ti lascerò andare.» Estrasse la scatola di fiammiferi, la aprì e ne prese uno. Si sporse lungo il bordo e lo accese, mantenendo la fiamma sotto l'imboccatura del pozzo. L'aria la faceva tremare, la rendeva bluastra, ma la luce le bastò per vedere una vecchia scala di legno marcio che scendeva in un baratro nero e apparentemente senza fondo. Molti pioli erano rotti, putrefatti o popolati di muffe biancastre. Scendere sarebbe stato un suicidio. Wham! Un proiettile sbriciolò la roccia alla sua destra e le schizzò sulla spalla frammenti di pietra. Senza volerlo, emise un gemito soffocato e lasciò cadere il fiammifero, che precipitò nel buio, volteggiando per qualche istante prima di sparire. «Ti ammazzo, puttana!» Lei si lasciò dondolare all'estremità della voragine buia e allungò il piede a tastoni. Incontrò un piolo marcio, provò ad appoggiarsi con il suo peso, poi scese lentamente, verificando la tenuta di quello successivo. Udì un grido soffocato di trionfo, poi uno scatto... e all'improvviso il raggio di una torcia le balenò sul capo. Sally lo schivò e continuò a scendere. Tutt'a un tratto uno dei pioli si spezzò, lasciandola con una gamba sospesa nel baratro. La scala scricchiolava e traballava. Proseguì, un piolo alla volta, scivolando e ansimando per lo sforzo, mentre la scala ondeggiava e l'acqua le gocciolava addosso. Si staccarono altri due gradini di fila e Sally restò aggrappata soltanto con le mani, agitandosi
nell'oscurità. Respirava a fatica e si affidava unicamente alle mani per lasciarsi scivolare verso il basso. Finché il piede tastò un gradino sicuro. Il fascio di luce comparve fulmineo sul bordo del pozzo, puntato contro di lei. Quando la pistola sparò, Sally si buttò di lato, mentre il proiettile penetrava in un piolo e la scala ondeggiava violentemente. Risuonò una risata. «Questo era solo per riscaldarmi. Adesso comincio a fare sul serio.» Lei guardò in su, ansimando. L'uomo era proteso sul bordo del pozzo, sei metri più in alto. In una mano stringeva la pila, con l'altra puntava la pistola. Lei non era un bersaglio difficile. Lui sapeva di averla in pugno e se la prendeva comoda. Sally lottava con la scala cigolante. L'uomo avrebbe potuto premere il grilletto in ogni momento. Sally guardò in alto e vide il contorno del suo viso stagliarsi contro la luce. Si fermò... Era tutto inutile. «No!» urlò. «Ti prego.» L'uomo distese il braccio e la canna d'acciaio brillò nel fascio di luce. I tendini delle mani si contrassero, mentre si preparava a premere il grilletto. «Vai a farti fottere, puttana.» Sally fece l'unica cosa possibile: si lanciò dalla scala e si lasciò precipitare nel buio del pozzo. 13 Corvus fissò la luce verde, paralizzato dal terrore. Come aveva fatto quell'uomo a violare il sistema di sicurezza del museo? Che cosa diavolo voleva? La porta si aprì, gettando sul pavimento un'ampia striscia di luce giallastra che illuminò lo scheletro di un allosauro, trasformandolo in una specie di mostro di Halloween. L'ombra del suo inseguitore entrò nel fascio di luce e si proiettò, grottesca, addosso al dinosauro. Poi l'uomo fece un altro passo avanti e Corvus si accorse che impugnava un'arma a canna lunga. A quella vista l'incantesimo si ruppe e Corvus passò all'azione. Si voltò correndo verso gli oscuri recessi del magazzino, percorrendo di volata uno stretto corridoio fiancheggiato da enormi scaffali in acciaio, davanti a mucchi di scheletri e di teschi. Arrivò a una svolta e prese a destra, si infilò in un altro corridoio laterale e poi in un altro. Si arrestò, ansimando, e si accovacciò dietro il cranio di un enorme centrosauro, guardandosi alle spalle per vedere se l'uomo lo stava seguendo. Il cuore gli batteva così for-
te che percepiva il pulsare ritmico del sangue nelle orecchie. Spiò attraverso un buco nel teschio di un mostro e vide che l'uomo non si era mosso: restava sempre una sagoma nera dinanzi alla porta spalancata. Infine l'intruso alzò l'arma e si allontanò, la porta si richiuse, i sistemi di sicurezza si inserirono automaticamente e l'oscurità scese un'altra volta sul magazzino. La mente di Corvus lavorava frenetica. Davvero delirante, essere inseguito nel suo stesso museo. Doveva avere a che fare con la storia del T. rex nel New Mexico. Lo sconosciuto voleva i suoi dati ed era disposto a uccidere per averli. Il conservatore sentì un respiro affannoso. Quando si accorse che si trattava del suo, tentò di controllarsi. Il più silenziosamente possibile, tolse le scarpe e si ritirò in mezzo alle oscure file di fossili, diretto verso il retro del magazzino dove, mascella contro mascella, venivano conservati gli esemplari più grandi. Quel luogo offriva numerosi nascondigli. Ma per quanto tempo avrebbe resistito? Il magazzino aveva le dimensioni di un capannone, però il «nemico» aveva quasi tutta la notte per dargli la caccia. Una voce dal tono neutro e tranquillo emerse dal buio. «Vorrei parlare con lei, professore.» Corvus non rispose. Doveva trovare un posto più sicuro in cui nascondersi. Avanzò a tastoni, strisciando sulle mani e sulle ginocchia, attento a muoversi senza fare rumore. Si ricordava che lì dietro c'era il torso di un enorme triceratopo coperto da un telone di plastica; avrebbe potuto nascondersi tra le costole dell'animale. Anche con le luci accese, sarebbe comunque rimasto in ombra sotto lo scheletro e l'elmo cornuto gli avrebbe fatto da schermo. Il triceratopo era sistemato in mezzo a dozzine di altri dinosauri parzialmente montati e tutti coperti da teli. Corvus attraversò strisciando quella foresta di ossa, contorcendosi in mezzo alla plastica, facendosi largo nell'accozzaglia di fossili. A un certo punto si fermò, in ascolto, ma non sentì nulla, né passi né altri movimenti. Strano che l'uomo non avesse acceso la luce. «Dottor Corvus, stiamo perdendo tempo prezioso. Esca fuori, la prego.» Corvus era allibito: la voce non proveniva più dall'ingresso del magazzino, accanto alla porta, ma da un altro luogo, più vicino e alla sua destra. Lo sconosciuto si era mosso nell'oscurità senza produrre il benché minimo fruscio. Continuando a muoversi con infinita prudenza, l'inglese tastò le zampe di ogni dinosauro per identificarle e inserirle nella propria mappa mentale del magazzino. Urtò contro qualcosa e un osso cadde tintinnando.
«Sto perdendo la pazienza.» La voce era vicina, molto vicina. Corvus avrebbe voluto domandargli chi fosse, ma non lo fece. Sapeva bene di chi si trattava: un dannato rivale, un paleontologo o qualcuno che lavorava per lui, venuto a rubare la sua scoperta. Quei maledetti americani erano tutti bestie criminali. Sollevò un altro lembo di plastica, producendo suo malgrado un forte crepitio. Si fermò, trattenne il respiro, poi riprese a cercare. Se solo fosse riuscito a identificare uno di quei dannati dinosauri, avrebbe capito in che punto si trovava. Sì... era la forcella dell'oviraptor ingenia. Si precipitò a destra, evitando i teloni di plastica, muovendosi a tastoni finché non incontrò una vertebra della coda, poi un'altra, sorrette da una barra metallica. Era il triceratopo. Si avvicinò, sollevò con infinita cura il pesante telone e si infilò sotto. Una volta dentro, procedette alla cieca tra le costole, strisciando verso la parte anteriore, dove poteva raggomitolarsi all'interno dell'enorme cranio cornuto dell'animale, del diametro di più di un metro e mezzo. Avanzò in modo lento e minuzioso nella cavità che un tempo ospitava il cuore e i polmoni del dinosauro. Anche con le luci accese, vederlo sarebbe stato dannatamente difficile. L'inseguitore ci avrebbe messo ore prima di trovarlo, forse anche tutta la notte. Corvus restò in attesa, immobile, il cuore che gli batteva all'impazzata nella cassa toracica. «È inutile nascondersi. Sto arrivando.» La voce era vicina, sempre più vicina. Corvus sentì un ronzio terrificante, come uno sciame di api che gli brulicavano nella testa. Non riusciva a togliersi dalla mente l'immagine della pistola a canna lunga. Non era uno scherzo: quell'uomo lo voleva ammazzare. Corvus aveva bisogno di un'arma. Procedette lungo la gabbia toracica del dinosauro e afferrò una costola per staccarla, ma era ben salda. Provò con altre, finché non ne trovò una che si mosse leggermente. Tastò l'armatura metallica in cerca del galletto e della vite che reggevano l'osso, li trovò e tentò di aprirli. Bloccato. Tornò sul fondo dell'animale, provò con l'altro galletto... non girava. Dannazione, avrebbe dovuto prendere un osso sfuso, quando ne aveva avuta l'occasione. «Dottor Corvus, glielo ripeto, sto perdendo la pazienza. Vengo da lei.» La voce era sempre più vicina. Come faceva a muoversi tanto silenziosamente nell'oscurità? E a conoscere tanto bene quella stanza? Sembrava galleggiare nel buio. In un impeto di disperazione, Corvus si aggrappò al galletto, lo strinse, tentando di allentarlo. Sentì il dado arrugginito tagliar-
gli la pelle, il sangue caldo che scorreva... e ancora non riusciva a svitarlo. Abbandonò l'impresa, deglutì e cercò di controllare il respiro. Il cuore gli batteva così forte da essere quasi udibile... Ma è impossibile sentire un cuore che batte, vero? Se si rannicchiava e se ne stava fermo e zitto, l'uomo non l'avrebbe mai trovato nel buio. Non poteva. Era impossibile. «Dottor Corvus?» disse la voce. «Voglio soltanto qualche piccola informazione sul Tyrannosaurus rex. Dopo di che la nostra trattativa potrà dirsi conclusa.» Corvus si raggomitolò in posizione fetale senza riuscire a smettere di tremare. La voce era a non più di tre metri da lui. 14 Tom attraversò la foresta di corsa diretto verso la luce gialla che brillava tra gli alberi. Quando arrivò dietro la casa, rallentò e avanzò con prudenza, restando nella zona buia. Era un grande chalet a due piani con porticato. Parcheggiato davanti e illuminato dalla lampadina del portico, scorse il Range Rover. All'improvviso ebbe un senso di déjà vu e si ricordò di essere già stato lì, anni prima, con alcuni amici che volevano esplorare le città fantasma sulle montagne. Allora non c'erano ancora né la recinzione né lo chalet. Si appiattì contro i ruvidi tronchi dell'abitazione e strisciò finché non incontrò una finestra. Guardò dentro. Si scorgeva un salotto con travi a vista, un caminetto in pietra, tappeti navajo sul pavimento e una testa di alce appesa alla parete. C'era solo una luce accesa e Tom ebbe la netta sensazione che la casa fosse vuota. Restò in ascolto. Nello chalet regnava il silenzio e le finestre del primo piano erano buie. Sally non era in quella casa. Raggiungendo la facciata, gettò un'occhiata alla città fantasma sotto il debole fascio luminoso del portico. Sempre tenendosi basso, avanzò lentamente e con l'orecchio teso finché non raggiunse l'auto; mise una mano sul cofano: il motore era ancora tiepido. Si accovacciò accanto alla portiera del passeggero, estrasse la torcia che aveva trovato nel cruscotto del Dodge e la accese. La puntò a terra e osservò i segni sul terreno. Sulla sabbia smossa si scorgevano le impronte sparse di un paio di stivali da cowboy. Continuò a cercare. Poco più avanti, proprio dopo la macchina, notò due strisce parallele prodotte dai tacchi degli stivali. Illuminò i segni e vide che si inerpicavano lungo la strada sterrata che portava a un burrone, dove la città terminava.
Il cuore gli balzò nel petto. Sally era stata trascinata? Era incosciente? Il burrone, se ricordava bene, portava ad alcune miniere d'oro abbandonate. Si fermò, tentando di ricordare l'assetto della zona. Istintivamente, la sua mano si posò sul calcio della pistola che aveva infilato nella cintura. Un proiettile. Seguì le strisce sul terreno fino alla fine del vecchio campo. Qui sparivano nel bosco che si affacciava sul dirupo. La torcia illuminò dell'erbaccia calpestata di fresco su un sentiero invaso dalla vegetazione. Tese l'orecchio, ma si sentiva soltanto il vento sibilare tra i pini. Imboccò il sentiero e dopo quattrocento metri giunse in un luogo ampio, dove si apriva la valle. La strada saliva sul fianco della collina e Tom vi si arrampicò, correndo. Attraversava un gruppo di pini ponderosa, costeggiava il crinale e terminava in una vecchia baracca di legno all'imbocco di un tunnel. Sally è stata imprigionata nelle miniere. Ed è lì che si trovano adesso. La porta della baracca era chiusa con catena e lucchetto. Tom si fermò, resistendo all'impulso di darle una botta, e ascoltò. Silenzio totale. Controllò il lucchetto e notò che era rimasto aperto, appeso alla catena. Spense la torcia, aprì la porta ed entrò. Riaccese la pila, schermandola con le mani a coppa, solo per il tempo necessario a esaminare il posto. Davanti a lui si sviluppava la miniera, simile a fauci spalancate che tagliavano la roccia alitando umidità e muffa. L'apertura era sbarrata e chiusa da una pesante grata di metallo a cui era assicurato un grosso lucchetto d'acciaio temprato. Tom restò in ascolto, trattenendo il fiato. Dal tunnel non proveniva alcun suono. Esaminò il lucchetto: stavolta era chiuso. Si accovacciò, estrasse la Maglite e controllò per terra. Le impronte spiccavano nette sul suolo polveroso e dovevano appartenere a qualcuno che portava un 43 o un 44 di scarpe. Da un lato si vedevano le tracce dei tacchi di Sally mentre veniva trascinata e la zona piatta in cui doveva essere stato disteso il corpo, il suo corpo, mentre l'uomo sollevava la grata. Lei doveva essere stata incosciente. Evitò altre supposizioni più penose. Fece il punto della situazione. O entrava, oppure tentava di attirare l'uomo all'uscita e poi gli sparava. Si bloccò. Un debole suono proveniva dall'interno della miniera. Un grido? Non osava nemmeno respirare. Dopo un po' percepì un altro suono, un urlo lontano distorto dall'eco all'interno del tunnel. Era una voce maschile. Tom afferrò il lucchetto, lo scosse, tentando di farlo saltare. Invano. La grata era in acciaio massiccio e cementata nella pietra. Non sarebbe mai
riuscito a spaccarla. Mentre studiava la situazione, sentì un altro urlo, pieno di rabbia, che stavolta risuonò forte e chiaro. Capì a malapena la parola «puttana». Lei era lì. Ed era viva. Poi udì il rimbombo soffocato di uno sparo. 15 Bob Biler accese la radio sul Chevy del '57 e vagò tra le frequenze, alla ricerca della sua stazione preferita di vecchi successi che trasmetteva da Albuquerque, ma sentì solo sibili e fruscii. Spense la radio e si consolò con la bottiglia di Jim Beam che giaceva sul sedile del passeggero. Schioccò le labbra dal piacere e la gettò sul sedile con un tonfo, si pulì con la mano il mento ispido di barba e ridacchiò, ripensando alla sua botta di fortuna. Aveva rinunciato a capire come potesse essere andato quello strano incidente che gli era capitato alla pompa di benzina. Qualcuno gli aveva rubato il Dodge e gli aveva lasciato un Chevy d'epoca che valeva almeno dieci volte il suo merdoso rottame, con le chiavi infilate nel cruscotto. Forse avrebbe dovuto chiamare la polizia, ma gli sembrava il minimo che, se altri gli fregavano il suo camioncino, lui si prendesse in cambio il loro. Per di più, si era appena scolato mezzo litro di Jim Beam e non era in condizione di incontrare sbirri. Era il suo veicolo a essere stato rubato e nessuno lo obbligava a denunciare il furto. Un rumore improvviso proveniente dalle ruote di destra costrinse Biler a sterzare a sinistra, rischiando quasi di sbandare, poi riprese il controllo con uno stridore di ruote e si rimise in carreggiata. La linea gialla tratteggiata correva diritta nell'oscurità e lui si piazzò esattamente sopra, per seguirla meglio. Non c'era di che preoccuparsi, lui sarebbe riuscito ad avvistare un'auto a centinaia di chilometri di distanza, in tempo per spostarsi. Per aumentare la concentrazione, bevve un altro po' di bourbon, facendo schioccare le labbra mentre le allontanava dalla bottiglia. Erano già le dieci passate e voleva essere a Española per le dieci e mezzo. Cristo, era stanco, e partendo da Dolores non si arrivava più. Tutto per andare a trovare sua figlia e quello sfigato nullafacente del marito. Se solo fosse riuscito a prendere quella stazione di Albuquerque... qualche pezzo di Elvis l'avrebbe messo di buon umore. Accese nuovamente la radio, si mise in cerca della frequenza e si fermò su un programma che sembrava avere qualcosa a che fare con la musica, in mezzo al crepitio. Magari avvicinandosi al centro abitato il segnale sarebbe diventato più forte.
Scorse un paio di fari in lontananza e si spostò sul suo lato della strada. Lo superò un'auto della polizia che si allontanò. Biler vide le luci rosse posteriori sparire nell'oscurità. Poi notò con allarme che i fanali si facevano improvvisamente più luminosi: il poliziotto aveva frenato. Dopo un rapido bagliore, i fari anteriori, più potenti, comparvero nel buio, mentre l'auto faceva un'inversione a U. Santa merda. Biler fece cadere la bottiglia di Jim Beam giù dal sedile e le assestò un calcio con lo stivale per spingerla sotto. Il pick-up sbandò un'altra volta e lui si concentrò rapido sulla strada, facendo oscillare il veicolo. Merda, meglio rallentare e guidare come una signorina. Il suo sguardo saltava dalla strada al contachilometri allo specchietto retrovisore. Stava mantenendo i novanta ed era certo che, quando la pattuglia l'aveva superato, non stava andando oltre i cento, che erano comunque al di sotto del limite consentito. Biler, come molti guidatori alcolisti, non superava mai i limiti. Dopo qualche istante di batticuore, tornò a rilassarsi. Il poliziotto non aveva acceso il lampeggiante né aveva accelerato per raggiungerlo. Andava alla sua stessa velocità, forse qualcosa di meno, tutto calmo e tranquillo, come fanno quelli della stradale quando sono di pattuglia. Biler afferrò il volante con le braccia larghe, tenendo gli occhi sulla strada, senza superare i novanta. Diamine, nessuno avrebbe guidato meglio di lui. 16 Sally giacque per un po' in una pozza d'acqua poco profonda, stordita dalla caduta. Dopotutto il volo non era durato molto ed era più spaventata che ferita. Non per questo poteva dirsi fuori pericolo. Il fascio della pila continuava a cercarla da lassù, senza lasciarle il tempo di riprendersi. Un istante dopo la illuminò e lei fece un balzo di lato, mentre il proiettile finiva in acqua con un sibilo. Si dibatté nella pozza, riuscendo a raggiungere un punto in cui la luce della torcia aveva rivelato l'esistenza di una piccola galleria buia. Vi entrò in un istante e fu fuori dalla portata della pistola. Si appoggiò alla parete, respirando a fatica. Aveva male dappertutto, ma non doveva avere niente di rotto. Cercò la scatola di fiammiferi che teneva nella tasca sopra il seno: la parte esterna si era bagnata, ma l'interno era rimasto asciutto. Erano fiammiferi lunghi, di legno, di quelli che si accendono sfregandoli ovunque. Ne strofinò uno contro la roccia, una, due volte.
Al terzo tentativo si accese una fiammella che illuminò debolmente il tunnel, un lungo cunicolo ingombro di travi marcite di quercia, percorso da un ruscelletto basso che scorreva da una pozzanghera all'altra. Era in condizioni disastrose: le travi erano crollate e piccoli cedimenti alle pareti e alla volta avevano in parte ostruito il passaggio. Sally lo percorse in fretta, riparando il fiammifero con la mano finché non arrivò quasi a bruciarle le dita e fu costretta a gettarlo. Proseguì al buio, tentando di ricordarsi ciò che aveva scorto dinanzi a sé. Quando non ebbe più punti di riferimento, si fermò e restò in ascolto. Il suo aguzzino la stava seguendo? Le sembrava strano che decidesse di arrischiarsi a scendere da quella scala: nessuno sano di mente l'avrebbe fatto, specie ora che aveva troppi pioli spezzati. Avrebbe avuto bisogno di una corda, il che avrebbe dato a lei un attimo di tregua. Non di più, però: Sally ricordava di aver visto una corda nella sua cella, arrotolata ai piedi del letto. Doveva mantenersi lucida e razionale. Ricordava di aver letto da qualche parte che tutte le grotte «respiravano» e che il modo migliore per uscirne era trovarne il flusso d'aria. Accese un altro fiammifero. La fiamma si piegò all'indietro, nella direzione da cui lei proveniva. Sally si diresse verso quella opposta, nelle profondità della miniera, avanzando il più velocemente possibile senza spegnere il fiammifero. Il tunnel svoltava a destra e si apriva in un'ampia galleria, con pilastri di roccia grezza a sostenere la volta. Un altro fiammifero mostrò l'imbocco di due cunicoli. Quello di sinistra era percorso dal fiumiciattolo. Sally si fermò, aveva ancora fiamma a sufficienza per vedere da dove soffiava l'aria. Infine decise di prendere il cunicolo di destra, in salita. Il fiammifero finì e lei lo gettò. Contò al tatto quanti ne restavano nella scatola. Quindici. Tentò di avanzare a tentoni, ma si accorse di essere troppo lenta. Doveva distanziare il più possibile il suo carceriere. Quei fiammiferi le servivano ora, non dopo. Ne accese un altro, proseguì nel cunicolo, svoltò a una curva per scoprire che era bloccata da un crollo. Fissò il buco nero sulla volta da cui si era staccato un masso enorme. Parecchie rocce grandi come auto erano ancora appese al soffitto in strane posizioni, sostenute da travi pericolanti; sembrava dovessero spostarsi al minimo soffio. Sally tornò sui suoi passi e infilò il cunicolo di sinistra, quello in discesa percorso dal ruscello. Il panico cresceva: in qualsiasi momento il rapitore avrebbe potuto essere dietro di lei. Seguì il corso d'acqua, sperando che la conducesse verso un'uscita, avanzando a fatica nelle pozze. Il tunnel scen-
deva, poi proseguiva in piano. L'acqua diventava sempre più profonda, ormai le arrivava alla vita. Alla svolta successiva capì il perché: un crollo bloccava completamente il passaggio e teneva indietro l'acqua. Non c'erano feritoie sufficienti per permetterle di defluire. Sally imprecò. Le era sfuggito qualche passaggio? Dentro di sé, sapeva di no. Nel giro di cinque minuti aveva esplorato tutte le zone della miniera ancora accessibili. In breve, era in trappola. Accese un altro fiammifero, le dita tremanti, guardandosi disperatamente intorno in cerca di una via d'uscita, di una galleria o di un'apertura che potesse avere trascurato. Si bruciò le dita, si maledisse e ne accese un altro ancora. Di sicuro esisteva un modo per andarsene da lì. Tornò un'altra volta sui suoi passi, fiammifero dopo fiammifero, giungendo al primo crollo. Il masso era compatto, privo di buchi visibili. Fece di nuovo luce ed esaminò le altre rocce, in cerca di un varco. Nulla. Contò i fiammiferi. Gliene restavano sette. Ne accese un altro, guardò in alto e notò il buco sulla volta. Pensare di arrampicarsi fin lassù era da folli. La luce era troppo flebile per vedere in lontananza, ma sembrava ci fosse uno spazio in cui strisciare, nel quale almeno avrebbe potuto nascondersi. Sempre se se la sentiva di mettere alla prova l'equilibrio precario dei massi impilati l'uno sull'altro. Era un rischio assurdo. Mentre ragionava, perplessa e tremante, la fiamma si consumava. Un sassolino cadde dal buco, tintinnando, rimbalzò come una pallina da flipper nell'accozzaglia di rocce e di travi per poi arrestarsi ai suoi piedi. Così stavano le cose. Aveva due possibilità: tornare indietro e affrontare il rapitore, oppure rischiare e arrampicarsi in un buco prodotto da una frana. Il fiammifero si estinse. Ne aveva ancora altri sei. Ne estrasse due dalla scatola e li accese insieme, sperando che facessero luce a sufficienza per vedere più avanti. Scrutò con attenzione: non bastavano a illuminare al di là del cumulo di travi e di rocce. Si spensero. Non c'era altro tempo. Ne accese un altro, se lo infilò tra i denti, si aggrappò a una roccia e cominciò ad arrampicarsi. Nello stesso momento udì un suono... una voce lontana, che riecheggiava rauca lungo il tunnel di pietra. «Pronta o no, sto arrivando, puttana!»
17 Corvus si rannicchiò nella gabbia toracica del triceratopo, il sangue che gli pulsava nelle vene. L'uomo era a non più di tre metri da lui. Deglutì, tentando di inumidire la gola. Sentì una mano sfregare contro un osso, un passo lieve sul pavimento in cemento, il sottile fruscio della sabbia fossile sotto le suole dello sconosciuto man mano che si avvicinava. Chi diavolo è questo tizio che si sa muovere così bene nel buio? «Ti vedo», disse sottovoce, come se gli leggesse nella mente, «ma tu non puoi vedermi.» Il cuore di Corvus batteva all'impazzata: la voce era proprio accanto a lui. Aveva la gola così secca che non sarebbe stato in grado di parlare, neanche volendo. «Raggomitolato in quel modo, sembri un idiota.» Un altro rumore di passi. Gli sembrava quasi di percepire il costoso dopobarba dell'uomo. «Voglio soltanto i dati della località. Mi va bene tutto: le coordinate GPS, il nome del canyon o della formazione, cose del genere. Voglio sapere dov'è il dinosauro.» Corvus deglutì di nuovo, si mosse. Non aveva più senso nascondersi: lui sapeva dove si trovava. Forse era in possesso di qualche dispositivo per vedere al buio. «Non posseggo questa informazione», disse con voce rauca. «Non so dove sia quel dannato dinosauro.» Si tirò su, stringendo la valigetta. «Se è questo il gioco che vuoi giocare, spiacente, ma dovrò ucciderti.» L'uomo era così calmo e gentile che Corvus non mise minimamente in dubbio che stesse facendo sul serio. Afferrò la valigetta, le mani fradice di sudore. «Non lo so. Sul serio.» Corvus si sorprese a supplicarlo. «Allora come te lo sei procurato il reperto?» «Tramite un terzo.» «Ah. E il nome e l'indirizzo di questo terzo?» Silenzio. Il terrore si univa a un'altra sensazione: la rabbia. Una rabbia furibonda. La sua carriera e la sua vita dipendevano da quel dinosauro. Non avrebbe consegnato la sua scoperta nelle mani di un bastardo che lo teneva in scacco con la pistola puntata... Piuttosto, meglio la morte. L'uomo doveva portare occhiali per la visione notturna o roba del genere; se lui fosse riuscito a raggiungere gli interruttori più vicini, avrebbe eliminato il
suo vantaggio. Poteva utilizzare... «Il nome e l'indirizzo di questo terzo, per cortesia», ripeté lo sconosciuto, con il solito tono educato. «Sto uscendo.» «Saggia decisione.» Corvus strisciò lungo la schiena dello scheletro e sgusciò fuori. Sollevò la plastica e si alzò. Era ancora buio pesto e aveva soltanto un'impressione vaga di dove potesse trovarsi l'altro. «Il nome di questo terzo?» L'inglese balzò in avanti, facendo mulinare per aria la valigetta, in direzione della voce. Lo colpì da qualche parte, l'uomo grugnì e fu scaraventato all'indietro dall'attacco inaspettato, Poi Corvus si voltò e attraversò alla cieca la foresta di scheletri, verso il punto in cui ricordava esserci gli interruttori della luce. Inciampò nei resti di un dinosauro e cadde, appena in tempo per udire un secco sibilo pneumatico, seguito da un impatto metallico sull'osso di un fossile. Il bastardo gli stava sparando. Si spostò di lato con uno scatto e finì addosso a uno scheletro, che cigolò in segno di protesta; alcuni ossi caddero rumorosamente a terra. Un altro sibilo e un nuovo rimbalzo metallico contro dei reperti alla sua destra. Corvus avanzava a tentoni, armeggiando disperato nella foresta di fossili, finché all'improvviso ne uscì, e si trovò davanti agli scaffali. Si precipitò nel corridoio, quasi planando, sbandò e cadde, si rialzò. Si gettò in avanti, incurante di ciò che potesse esserci in mezzo, e finì contro il pannello degli interruttori elettrici. Lo ghermì urlando e le vecchie luci al neon si accesero, una dopo l'altra, con scatti e ronzii. Poi afferrò un osso fossile da uno dei ripiani e si mise a girare in tondo, agitandolo come fosse una mazza, pronto a combattere. L'uomo era fermo e tranquillo, a meno di tre metri da lui, e non sembrava si fosse mosso. Portava una tuta blu e un paio di occhiali a raggi infrarossi sulla fronte. Per terra, accanto alle sue gambe, c'era una logora valigetta di cuoio. Le mani erano pronte a fare fuoco, il tubo luccicante della sua strana arma puntato contro lo studioso. Corvus fissò stupito quel volto ordinario, impassibile nei suoi tratti da impiegato. Udì lo scatto e subito dopo il sibilo dell'aria compressa, scorse un balenare argenteo e sentì la puntura al plesso solare. Abbassò lo sguardo, ancora più stupito: aveva una siringa d'acciaio conficcata nell'addome. Aprì la bocca, tentò di staccarsela, ma un'oscurità nuova e sconosciuta lo sommerse come un'onda di alta
marea. Si sentì inghiottire dal frastuono della risacca. 18 Ford si appoggiò con la schiena a una roccia, tentando di scaldarsi con un focherello ottenuto dalla combustione di un cactus secco. Le pareti del Tyrannosaur Canyon si ergevano cupe intorno a lui, sotto un cielo vellutato punteggiato di stelle. Aveva appena terminato il pasto a base di riso e lenticchie. Prese la latta che conteneva i legumi, la mise sul fuoco e la lasciò finché i residui di cibo non furono bruciati. Era il suo metodo di lavare i piatti quando l'acqua era troppo preziosa per essere sprecata. Con un bastone tolse la latta dalla fiamma, la fece raffreddare e la riempì con l'acqua della borraccia. La tenne per il coperchio metallico e la appoggiò sopra le braci di cactus. Nel giro di pochi minuti l'acqua bolliva. La tolse dal fuoco, aggiunse un cucchiaino di fondo di caffè, mescolò e la rimise sulla fiamma. Altri cinque minuti e la sua tazza era pronta. Sorseggiò il caffè, assaporandone il gusto amarognolo e affumicato. Sorrise mestamente, ripensando a quel piccolo bar affollato vicino al Pantheon, a Roma, dove di solito lui e Julie bevevano un ottimo espresso seduti a un tavolino. Come si chiamava quel posto? La Tazza d'Oro. Era tutto così lontano. Quando ebbe finito, coprì il fuoco con la terra, ripulì la latta fino all'ultima goccia e la mise da parte per il caffè mattutino. Si appoggiò alla roccia con un sospiro, si strinse nel suo abito e guardò le stelle. Era quasi mezzanotte e una luna bitorzoluta si affacciava sul bordo del canyon. Individuò alcune delle costellazioni che conosceva: l'Orsa Maggiore, Cassiopea, le Pleiadi. La scia della Via Lattea attraversava il cielo. Seguendola con gli occhi localizzò la costellazione del Cigno, immortalato per l'eternità nel suo volo verso il centro della galassia. Ford aveva letto dell'esistenza di un gigantesco buco nero al centro della galassia chiamato Cigno X-1: miliardi di soli inghiottiti e compressi in un unico punto matematico. Si interrogò sull'audacia degli esseri umani che credevano di sapere tutto sulla vera natura divina. Sospirò e si distese sulla sabbia, domandandosi se quei pensieri si confacessero a un futuro monaco benedettino. Aveva la sensazione che gli eventi degli ultimi giorni lo stessero portando a una crisi spirituale. La ricerca del T. rex aveva risvegliato in lui la stessa brama di un tempo, quel deside-
rio di ricerca che credeva di essersi lasciato alle spalle. Dio lo sapeva: Ford aveva avuto talmente tante avventure che gli dovevano bastare per una vita intera. Parlava quattro lingue, aveva vissuto in una dozzina di Paesi esotici e aveva avuto molte donne prima di incontrare quella della sua vita. Per lei aveva sofferto incredibilmente e soffriva ancora. Allora perché continuava a drogarsi con il brivido e il pericolo? Ora era qui, in cerca di un dinosauro che non gli apparteneva, che non gli avrebbe procurato né meriti, né denaro, né fama. Perché? Forse questa pazza brama di ricerca derivava da qualche fondamentale tara del suo carattere? Senza volerlo, la mente di Ford tornò a quel fatidico giorno a Siem Reap, in Cambogia. Lui e Julie erano partiti il giorno precedente da Phnom Penh per andare in Thailandia. Si erano fermati qualche giorno a Siem Reap per visitare il tempio di Angkor Wat, una deviazione turistica che faceva parte della loro copertura. Solo una settimana prima avevano scoperto che Julie era incinta, e per festeggiare avevano preso una suite al Royal Khampang Hotel. Non avrebbe mai dimenticato quell'ultima serata trascorsa insieme, affacciati alla Naga Balaustrade dell'Angkor Wat, a guardare il sole tramontare dietro le cinque grandi torri del tempio. Nell'aria il canto enigmatico e sommesso dei monaci buddhisti proveniente da un monastero sperduto nella foresta, accanto al tempio. I loro incarichi si erano svolti senza intoppi. Quel mattino avevano consegnato i CD-ROM con i dati al loro agente a Phnom Penh. Avevano fatto un lavoro pulito, o almeno così credevano. Unico dettaglio, Ford si era accorto che una Toyota Land Cruiser li stava seguendo, ma se l'erano tolta di torno seminandola nelle vie affollate della capitale, prima di lasciare la città. Non gli era sembrato niente di serio e d'altronde non era la prima volta che accadeva. Dopo il tramonto lui e Julie avevano cenato senza fretta in uno di quei ristoranti alla buona sulle rive del Siem Reap, seduti fuori, con le rane che saltellavano sul pavimento e le falene che sbattevano contro le lampadine appese ai fili. Erano tornati al loro hotel vergognosamente costoso e avevano passato gran parte della serata a crogiolarsi nel letto. Si erano svegliati alle undici e avevano fatto colazione sulla terrazza. Poi Julie era andata a prendere la macchina, mentre lui portava giù i bagagli. Aveva sentito l'esplosione soffocata proprio mentre la porta dell'ascensore si spalancava sull'atrio. Aveva pensato che si trattasse di una vecchia mina che saltava... la Cambogia ne era piena. Gli tornò in mente quando, una volta passato il cortile con i palmizi, aveva visto, attraverso le porte
dell'atrio, la colonna di fumo levarsi dinanzi all'hotel. Era corso fuori. L'auto era rovesciata, quasi aperta a metà, e nel suolo si apriva un cratere da cui si levavano acri volute grigiastre. Una ruota era schizzata in un praticello a una quindicina di metri e bruciava, bruciava. Anche allora non aveva riconosciuto la sua macchina. Credeva si trattasse di un delitto politico, anche quelli molto frequenti nel Paese. Era rimasto immobile, in cima alla scalinata, a guardare avanti e indietro lungo la strada in attesa dell'arrivo di Julie, preoccupato che potesse esplodere un'altra bomba. Poi aveva visto un brandello di stoffa trasportato da una folata di vento risalire i gradini e posarsi quasi ai suoi piedi. Era il colletto della camicetta che Julie indossava proprio quella mattina. Con grande sofferenza, Ford tentò di tornare al presente, al falò, ai canyon oscuri, alle stelle che brillavano nel cielo. Tutti quei terribili ricordi sembravano lontani, come se fossero capitati in un'altra vita, a un'altra persona. Ma il punto era questo: si trattava davvero di un'altra vita... e di un'altra persona? 19 Bob Biler si avvicinava a Española. Le luci della cittadina occhieggiavano nell'oscurità. L'auto di pattuglia era sempre dietro di lui, ma la cosa aveva smesso di preoccuparlo. Gli dispiaceva persino di essersi fatto prendere dal panico e aver spinto con il piede la bottiglia sotto il sedile; aveva cercato più volte di tirarla fuori con la punta dello stivale, ma il pick-up si era messo a sbandare, così aveva dovuto lasciar perdere. Poteva anche accostare e recuperarla, però non era sicuro che fosse legale in quel punto dell'autostrada, e preferiva non fare nulla che attirasse l'attenzione del poliziotto. Almeno si cominciavano a ricevere quelle stazioni di vecchi successi. Girò la manopola e si mise a canticchiare stonato al ritmo della musica. Quattrocento metri più avanti scorse il primo gruppo di semafori alla periferia della città. Se beccava il rosso, avrebbe avuto il tempo sufficiente per ripescare il whisky. Dannazione, a guidare ti veniva una sete... Biler si avvicinò al semaforo, frenando piano e con prudenza, osservando il poliziotto attraverso lo specchietto retrovisore. Non appena la macchina si fermò, si protese in avanti e infilò la mano unta sotto il sedile, rovistando finché non afferrò la fredda bottiglia di vetro. La tirò fuori e, tenendosi basso, la aprì e se la attaccò alle labbra, cercando di berne il più
possibile. D'un tratto udì uno stridio di gomme e urla di sirene. Si raddrizzò, dimenticando di avere in mano la bottiglia, e fu accecato da un'esplosione di luce biancastra sparata da un faro. A quanto pareva, era circondato da auto della polizia, tutte con le sirene accese. Biler era scioccato, incapace di capire che cosa stesse succedendo. Trasalì, tentando di distinguere qualcosa nonostante la luce abbagliante, mentre passava dall'incredulità al vuoto più totale. Una voce ruvida al megafono ripeteva: «Esci dall'auto con le mani alzate. Esci dall'auto con le mani alzate». Dicevano a lui? Biler si guardò intorno, senza vedere nessun altro, solo lampi di luce. «Esci dall'auto con le mani alzate.» Dicevano proprio a lui. Accecato dal panico, Biler cercò a tastoni la maniglia della portiera, continuando ad armeggiare, incapace di aprire. All'improvviso la portiera si spalancò e lui rotolò fuori, mentre la bottiglia di Jim Beam gli saltava dalle mani e si infrangeva al suolo. Si accasciò sull'asfalto accanto al pick-up, immobilizzato dallo choc e dalla confusione. Una figura torreggiava sopra di lui, oscurando la luce. In una mano stringeva il distintivo, nell'altra un revolver. Una voce abbaiò: «Detective Willer, dipartimento di polizia di Santa Fe, non si muova». Seguì un attimo di pausa. Biler vedeva soltanto la sagoma nera dell'uomo contro lo sfondo brillante. Nelle orecchie, la voce di Elvis che usciva dal pick-up, intonando: You ain't nothin' but a hound dog... Sei soltanto un poco di buono... Tempo un attimo e l'uomo rimise la pistola nella fondina e si sporse verso di lui, fissandolo attentamente. Poi si tirò su e Biler lo sentì parlare di nuovo, stavolta rivolto a qualcuno fuori scena. «E questo chi diavolo è?» 20 Sally si arrampicò sull'ammasso di rocce pericolanti, il fiammifero stretto tra i denti, in cerca di appigli per le mani e per i piedi. A ogni passo sentiva le pietre franare sotto di sé, alcune si staccavano e rotolavano sul fondo. Il mucchio sembrava muoversi e scricchiolare. Ansimava così forte che il fiammifero si spense. Tastò la scatola. Ne restava uno. Decise di conservarlo.
«Sto arrivando!» La voce rimbombava rauca attraverso i cunicoli, inquietante e distorta. Sally continuò a salire, muovendosi alla cieca e facendo rotolare altre pietre. Poi udì, proveniente dall'alto, un forte rumore di rami e rocce smossi, seguito da una cascata di pietrisco. Un altro passo e un altro smottamento. Stava per crollare. Ma non aveva altra scelta. Cercò una presa, la trovò e avanzò. La mano su un appiglio, il piede su un altro. Si muoveva con molta prudenza, verificando che le rocce reggessero il suo peso. «Saaaallyyy... dove sei?» Lo sentiva avanzare nella galleria sollevando spruzzi d'acqua. Si issò più in alto, afferrò una trave sopra la sua testa. Valutò se fosse sicura: scricchiolò e si spostò lentamente, ma sembrava reggere. Sally si fermò, tentando di non pensare a come sarebbe stato essere sepolta viva, poi si tirò su. Un altro scricchiolio, altri sassi che franavano, ed era sopra la trave. Le sue mani incontrarono un groviglio di schegge di legno e pietrisco. Era ora di usare l'ultimo fiammifero. Lo sfregò contro la scatola e lo accese. Sopra di lei c'era il buco nero in cui sarebbe dovuta entrare. Avvicinò la scatola alla fiamma in modo che si incendiasse e facesse più luce, ma non era sufficiente. Strinse con una mano la scatola infuocata e raggiunse un'altra trave instabile. Si trovò su una sorta di terrazzino pericolante all'ingresso del buco. Alla luce fioca della scatola, vide che l'apertura dava su un'ampia fenditura a forma di mezzaluna con un'inclinazione di circa trenta gradi. Apparentemente, era larga abbastanza da passarci attraverso. Sotto di lei, un tonfo improvviso: una grossa roccia si era staccata dalla volta ed era precipitata al suolo. La fiamma si spense. «Eccoti!» Il fascio della torcia perforò l'oscurità, perlustrando gli ammassi di rocce sotto di lei. Sally si afferrò a un appiglio e si issò. Ora la luce perlustrava tutto intorno. Si arrampicò, rapida e temeraria, percorrendo le pareti di umida pietra, e infine strisciò nella fessura. Più avanti si stringeva, ma lei riuscì a infilarvisi e ad avanzare poco alla volta. Non aveva più fiammiferi né poteva vedere dove stesse andando o dove la fenditura portasse. Continuò a strisciare, spingendosi con le mani e le ginocchia. Per un istante fu colta da un senso di claustrofobia, sentiva le pareti di pietra serrarsi fino a soffocarla. Si fermò e si impose di controllare la respirazione e il panico, poi proseguì. «Sto venendo a prenderti, stronza!»
La voce era proprio sotto di lei. Sally continuò a strisciare con il terrore crescente che la fenditura si restringesse. Presto divenne talmente angusta che dovette spingere con forza, premendo con i piedi e le ginocchia, e buttare fuori tutto il fiato per poter sgusciare in avanti. Un'altra ondata di panico e si rese conto che il suo era un viaggio di sola andata... Non era in grado di girarsi. «So che sei lassù, puttana!» Sentiva il rumore delle rocce che franavano, mentre l'uomo cominciava a scalare. Avvicinò i piedi, torse il busto e riuscì a lasciar andare le mani, tendendole davanti a sé per cercare la via. Più avanti le pareti si distanziavano. Se solo fosse riuscita a superare il punto in cui era bloccata, forse sarebbe sbucata in un'altra galleria. Sgonfiò i polmoni, puntò i piedi e avanzò a forza, lacerando la tasca della camicia e facendo saltare i bottoni. Tastò davanti a sé. Un'altra spinta, un'altra espirazione profonda per occupare meno spazio. Si fermò e si concesse brevi respiri. Era come stare in una pressa. Altre rocce precipitarono sotto di lei, mentre l'uomo si avvicinava. Sempre usando i piedi si diede una spinta potente e si infilò più avanti nella fenditura. Il timore di restare schiacciata nel buio era opprimente. Dell'acqua le gocciolò sul viso. Adesso sapeva che non sarebbe mai più potuta tornare indietro. Avrebbe preferito morire ammazzata piuttosto che sepolta in quella strettoia. Doveva solo superare quel tratto, magari il passaggio si sarebbe allargato. Spinse di nuovo, mentre i vestiti si riducevano a brandelli. Un'altra spinta e poté mettere le mani avanti. Il passaggio si restringeva di altri due centimetri. Sally si mise ad agitare le mani all'impazzata, avanti e indietro, in cerca di una zona più ampia. Non la trovò. Continuò a muoversi a tentoni, terrorizzata, ma non c'erano dubbi: la fenditura si restringeva sempre più, tagliata da altre fessure ancora più strette. Sally muoveva le mani frenetica, avanti, indietro, cercando, tastando... Era tutto inutile. In preda a un terrore cieco, rantolava, incapace di controllarsi. Provò a strisciare indietro, lottando senza posa, il respiro mozzo. Ma non aveva nessun punto d'appoggio; in quella posizione non poteva fare forza con le braccia. Era incastrata nella fenditura. Non poteva andare avanti. Né tornare indietro. 21
Tom le provò tutte per spaccare il lucchetto che chiudeva la grata. Lo schiacciò con delle pietre, lo percosse con un tronco, ma senza successo. Il debole rumore all'interno della miniera era cessato e quel silenzio lo stava facendo impazzire. A Sally poteva succedere qualsiasi cosa... Un minuto poteva fare la differenza tra la vita e la morte. Si mise a gridare attraverso le sbarre, cercando di attirare il rapitore. Niente da fare. Uscì dalla baracca che ospitava l'ingresso della miniera, riflettendo sul da farsi. La luna stava per sorgere tra le file di abeti lungo il crinale. Respirò adagio e cercò di ragionare. Anni fa aveva esplorato alcune di quelle gallerie e si ricordava che ce n'erano altre nella zona. Forse erano collegate: spesso le miniere d'oro avevano diversi ingressi. Risalì la cresta e osservò l'altro lato dell'altura. Bingo. Meno di duecento metri più in basso sorgeva una baracca, quasi alla stessa altezza dell'altra. Di sicuro erano collegate. Corse giù per la collina, saltando tra i massi, e in un istante la raggiunse. Estrasse la pistola, aprì la porta con un calcio ed entrò, illuminando la stanza. C'era un'altra apertura che conduceva dentro la miniera e non era chiusa da nessuna grata. Si avventurò all'interno ed esaminò con la torcia la galleria lunga e piatta. La necessità pressante di fare in fretta quasi lo soffocava. Si inoltrò nel tunnel e al primo bivio si arrestò, in ascolto. Passò un minuto, poi due. Gli sembrava di impazzire. All'improvviso lo sentì: il debole eco di un urlo. Le due miniere erano collegate. Si precipitò nella direzione da cui proveniva l'urlo, mentre la torcia illuminava sulla sinistra una serie di condotti per l'aria. Svoltò un angolo e si trovò davanti altri due cunicoli, uno che saliva, l'altro che scendeva. Si fermò, in attesa, l'orecchio teso, l'ansia che cresceva a mille... E poi arrivò un altro urlo distorto. Ancora la voce dell'uomo. Colma di rabbia. Tom imboccò il tunnel di sinistra, il soffitto basso che lo costringeva più di una volta ad abbassare la testa. Ora si sentivano riecheggiare diversi suoni, prima deboli poi sempre più chiari. La galleria, dopo alcune curve, si apriva in un salone centrale, con quattro cunicoli che andavano in diverse direzioni. Tom si fermò di colpo, respirando affannosamente, e perlustrò la zona con la torcia. Vide alcune vecchie rotaie, un vagone sfasciato per trasportare i minerali, un mucchio di catene arrugginite e corde di canapa rosicchiate dai topi. Prima di potersi muovere, doveva sentire altri rumori.
Il silenzio lo faceva impazzire. Un rumore, dannazione, uno qualsiasi. Poi lo sentì: un urlo lontano. Come un fulmine, si lanciò nel tunnel da cui proveniva, che finiva in un pozzo verticale circondato da una ringhiera. Era troppo profondo per illuminarne la fine. Non c'era modo di calarsi: niente scale, né corde. Ne esaminò il bordo e decise di provarci. Si tolse le eleganti scarpe italiane e le gettò dentro, contando quanto ci mettevano a toccare il fondo. Un secondo e mezzo: una decina di metri. Infilò la pistola nella cintura e strinse la torcia tra i denti, dopo di che si aggrappò alla ringhiera, facendo presa con i piedi sulla roccia nuda. Lentamente, con il cuore che gli esplodeva nel petto, disarrampicò dentro il pozzo. Prima un piede, poi una mano. Perse un appiglio e per un terribile momento credette di precipitare. Le rocce gli si conficcavano nella pianta dei piedi. Scese con esasperante lentezza e infine percepì con sollievo la terra sotto i piedi. Illuminò intorno, raccolse le scarpe e se le rimise. Si trovava in un'altra galleria che entrava diritta nella montagna. Rimase in ascolto. Tutto taceva. Corse nel tunnel e un centinaio di metri dopo si fermò, tendendo l'orecchio. La luce si stava affievolendo: le batterie si stavano esaurendo. Proseguì, si fermò, tese l'orecchio. Gli parve di udire alle sue spalle un grido soffocato. Spense la luce e trattenne il respiro. La voce era sempre lontana, ma più chiara di prima. Si capivano appena le parole. «Lo so che sei lassù. Scendi o sparo.» Tom ascoltava, il cuore in subbuglio. «Mi hai sentito?» Provò un tale sollievo che quasi gli vacillarono le gambe. Sally era viva... e chiaramente libera. Si concentrò al massimo, tentando di localizzare la direzione della voce. «Sei morta, puttana!» Quelle parole lo riempirono talmente di rabbia che per un istante gli mancò il fiato. Avanzò qualche metro, si mise a camminare avanti e indietro, tentando di inquadrare la situazione. Il rumore sembrava venire da sotto, attraverso la roccia. Ma era impossibile. A tre metri sulla sua sinistra, scorse una ragnatela di crepe nella parete di pietra del tunnel. Si accovacciò e mise la mano su una fenditura. Usciva aria fredda. Accostò l'orecchio.
All'improvviso sentì lo sparo di una pistola di grosso calibro seguito da un urlo. Un urlo così vicino che fece un balzo. 22 Willer ed Hernandez viaggiavano a tutta velocità sulla Highway 84, diretti a nord. Le luci di Española si allontanavano all'orizzonte, mentre si profilava dinanzi a loro l'oscura e desolata distesa desertica. Era quasi mezzanotte e Willer era fuori di sé all'idea che un idiota come Biler gli avesse fatto perdere tutto quel tempo prezioso. Tirò fuori una sigaretta dalla tasca della camicia e se la infilò tra le labbra. Nell'auto della polizia era vietato fumare, ma a quel punto non gliene importava granché. «Ora Broadbent potrebbe essere sul Cumbres Pass», osservò Hernandez. Willer inspirò una boccata di fumo. «Impossibile. Hanno registrato tutti i veicoli che attraversavano il passo e quello di Biler non c'era. E non ha nemmeno passato il posto di blocco a Española.» «Potrebbe aver abbandonato il veicolo in qualche parcheggio secondario a Española ed essersi fermato in un motel.» «Avrebbe potuto, ma non l'ha fatto.» Willer diede un colpo all'acceleratore. Il contachilometri si spostò da centottanta a centonovanta, le teste dei due poliziotti oscillarono indietro e poi avanti. «Allora che ha fatto, secondo te?» «Credo sia andato in quel monastero, il Cristo nel Deserto, per incontrare il monaco. E noi siamo diretti là.» «Che cosa te lo fa pensare?» Willer tirò un'altra boccata. Di solito le continue domande di Hernandez gli erano gradite, perché lo aiutavano a riflettere. Stavolta lo innervosivano e basta. «Non so che cosa me lo fa pensare, lo penso e basta», rispose secco. «Broadbent e sua moglie ci sono in mezzo, e pure il monaco. E c'è anche una terza persona, l'assassino, che c'è dentro fino al collo. Hanno trovato qualcosa in quei canyon e hanno ingaggiato una lotta all'ultimo sangue per averla. Qualunque cosa sia, è molto importante, così importante che Broadbent è pronto a infischiarsene della polizia e a rubare un veicolo. Cristo, Hernandez, non ti sei chiesto per che cosa un tipo sarebbe pronto a rischiare di passare dieci anni dentro a Santa Fe? E questo qui è uno che ha già tutto.» «Hmmm...»
«Anche se Broadbent non è al monastero, voglio fare una chiacchierata con quel monaco.» 23 Tom si rese conto, sgomento, che l'urlo era di Sally. Premette la bocca contro la fenditura. «Sally!» Un sussulto. «Tom!» «Sally! Che succede? Stai bene?» «Mio Dio, Tom! Sei tu...» Riusciva a malapena a parlare. «Sono incastrata. Mi sta sparando addosso.» Un singhiozzo. «Sally, sono qui, è tutto okay.» Puntò in basso la torcia quasi scarica e vide con orrore il volto di lei incastrato nella fenditura a nemmeno mezzo metro sotto di lui. Un altro colpo e Tom sentì il proiettile fischiare tra le rocce sotto di sé. «Sta sparando nella fenditura, ma non riesce a vedermi. Tom, sono in trappola!» «Adesso ti tiro fuori.» Proiettò il fascio di luce intorno. La roccia era già fratturata, era solo questione di romperla del tutto e staccarne i pezzi. Si guardò in giro, in cerca di un attrezzo. In un angolo erano ammucchiate corde e cassette marce. «Torno subito.» Un altro sparo. Tom corse verso l'angolo, gettò via un rotolo di corda marcita e frugò tra i vecchi sacchi di tela. Trovò uno scalpello spezzato. Lo afferrò e tornò indietro. «Tom!» «Sono qui, sto per tirarti fuori.» Un altro sparo. Sally urlò. «Mi ha colpita! Mi ha colpita!» «Mio Dio, dove...?» «Alla gamba. Oh, ti prego, fammi uscire.» «Chiudi gli occhi.» Tom conficcò il cuneo d'acciaio nella fessura, afferrò una pietra e gliela martellò contro, ripetutamente. La roccia fratturata diventava più friabile. Si mise carponi e iniziò a spostare i frammenti. Tolto il primo pezzo, gli altri venivano via velocemente. Intanto lui parlava a Sally, la tranquillizzava, le diceva che presto sarebbe stata libera. Un altro sparo.
«Tom!» «Adesso ricarico e sei morta, puttana!» Tom staccava un pezzo di roccia, lo gettava da una parte, poi un altro e un altro ancora; lavorava febbrilmente, le pietre appuntite che gli ferivano le mani. «Sally, dove ti ha colpita?» «Alla gamba. Non è grave. Vai avanti!» Un altro sparo. Tom martellava contro la roccia, battendo sullo scalpello, staccando i pezzi e allargando il buco. Poteva vederle il viso. Ora la roccia cedeva facilmente. Un altro sparo. Sally tentò di schivarlo. «Dio mio, sbrigati!» La punta del cuneo si spezzò. Tom imprecò, lo girò e continuò con l'altro lato. «È largo abbastanza!» gridò Sally. Tom si sporse verso il basso, le afferrò la mano e tirò, mentre lei si spingeva verso di lui. Si graffiò contro la roccia e le saltarono via altri bottoni della camicia. E, come se non bastasse, il bacino rimase incastrato. «Sei carne morta!» Tom piantò il cuneo nella roccia, staccando un pezzo di quarzo piuttosto fragile. Notò con estrema noncuranza di aver trovato una vena d'oro sfuggita ai minatori. Gettò il frammento, senza smettere di spaccare. «Ora!» Afferrò Sally per le braccia e la sollevò. Dal basso riecheggiò un altro sparo. E adesso Sally giaceva a terra, sporca, bagnata, i vestiti a brandelli. «Dove ti ha presa?» Il marito la esaminava, angosciato. «Alla gamba.» Tom si strappò la camicia, deterse il sangue e vide alcune ferite superficiali sul polpaccio della moglie. «Non è grave. Starai bene.» «Sì.» «Puttana!» L'urlo risuonava isterico, grottesco. Altri due colpi. Un proiettile vagante rimbalzò contro la fenditura e si conficcò nella volta. «Dobbiamo chiudere questo buco», fece Sally. Tom stava già facendo rotolare alcune pietre verso l'apertura. Ve le incastrarono a martellate. In cinque minuti era bloccata. Poi lui la abbracciò, all'improvviso, e la strinse forte. «Mio Dio, pensavo di non rivederti mai più», disse lei, con un singhiozzo. «Non posso credere che mi hai trovata.»
Tom la strinse un'altra volta. Non sembrava vero nemmeno a lui. Sentiva il cuore battere all'impazzata. «Andiamo.» L'aiutò ad alzarsi e ripercorsero rapidamente i tunnel. Di quando in quando Tom agitava la torcia perché non si spegnesse. Si arrampicarono lungo il pozzo e nel giro di cinque minuti erano fuori dalla baracca. «Uscirà dall'altra parte», lo avvisò Sally. Tom annuì. «Faremo il giro lungo.» Invece di scendere dal crinale, si inoltrarono nella scura foresta sul fondo del burrone, poi si fermarono a riprendere fiato. «Come va la gamba? Ce la fai a camminare?» «Più o meno. È una pistola quella che hai alla cintura?» «Sì. Una calibro 22 con un solo proiettile.» Tom si voltò a guardare il pendio argenteo della collina, sorreggendo Sally con un braccio. «Ho il camioncino davanti al cancello.» «Sarà davanti a noi», disse Sally. Si misero in marcia. Tra i pini il buio era assoluto e il tappeto di aghi sotto i loro piedi era morbido e ne attutiva i passi. La brezza notturna che fischiava tra le cime degli alberi copriva ogni rumore del loro passaggio. Di tanto in tanto, Tom si fermava per capire se il rapitore li stesse seguendo, ma tutto taceva. Una decina di minuti e videro la gola aprirsi nel letto ampio e asciutto di una cascata. Davanti a loro, un po' più in basso, brillavano le luci della casetta. Sembrava tutto tranquillo. Però il Range Rover del rapitore non c'era più. Costeggiarono i margini della vecchia città, che sembrava deserta. «Dici che si è preso paura e se n'è andato?» chiese Sally. «Dubito.» Evitarono la casa e si spostarono rapidi in mezzo agli alberi, fiancheggiando la strada sterrata. Ancora quattrocento metri e avrebbero raggiunto il camioncino. Tom sentì un rumore e si fermò, il cuore che gli martellava nel petto. Di nuovo... Era il sommesso richiamo di un gufo. Strinse la mano di Sally e proseguirono. Qualche minuto dopo intravide il contorno indistinto della recinzione che si estendeva tra gli alberi. Aiutò Sally a scavalcarla. Lei si aggrappò alle maglie della rete e lui la sollevò, mentre lo sferragliare rompeva il silenzio. Un istante ed era dall'altra parte. Tom la seguì. Corsero lungo il perimetro della recinzione e scorsero il camioncino rubato rischiarato dalla luce della luna, dove Tom l'aveva lasciato, accanto a! can-
cello chiuso con il lucchetto. Solo che stavolta il cancello era aperto. «Dove diavolo è?» sussurrò Sally. Tom le strinse la spalla e disse sottovoce: «Cammina nell'ombra, senza alzare la testa. Sali sul camioncino e fai meno rumore che puoi. Poi io metto in moto e schizzo via a tutta velocità». Sally annuì. Strisciò dalla parte del passeggero e si accovacciò sotto il livello dei finestrini. Tom aprì la portiera e in un attimo fu al volante. Sempre a testa bassa, recuperò le chiavi e le infilò nel cruscotto. Schiacciò la frizione e si voltò verso la moglie. «Tieniti forte.» Girò la chiave e il veicolo si mise in moto con un ruggito. Innestò la retromarcia e diede gas, ruotando il volante, mentre il Dodge arretrava. In quell'attimo, un paio di fanali luminosi sbucarono da una curva, ai margini del bosco. Si udì una detonazione proveniente da un'arma a grosso calibro. L'interno del veicolo esplose in una pioggia di plastica e schegge di vetro. «Giù!» Tom si buttò da una parte, mise la prima e schiacciò l'acceleratore a tavoletta, mentre il camioncino slittava sulla strada, schizzando ghiaia tutt'intorno. Passò in seconda e ripremette il pedale fino in fondo, sotto la grandine di proiettili. Le ruote giravano all'impazzata e il camioncino sbandava. Alzò la testa, ma non vide nulla: il parabrezza era una ragnatela di vetro. Gli diede un pugno e aprì un buco largo abbastanza per guardare fuori, continuò ad accelerare, la coda del Dodge che si dimenava mentre scendevano lungo la strada. «Stai giù!» Dopo la prima curva gli spari cessarono, ma Tom avvertì il rombo di un motore e capì che il loro avversario li stava inseguendo. E infatti il Range Rover comparve subito dopo derapando, i fari puntati contro. Thwang! Thwang! Altri colpi alle loro spalle centrarono il tettuccio del camioncino, inondando Tom di brandelli di plastica. Ora il Dodge procedeva velocemente, a zig-zag, rendendoli un bersaglio mobile. Improvvisamente la parte posteriore cominciò a vibrare e a sbandare: uno pneumatico, come minimo, doveva essere stato forato dai proiettili. «Benzina!» urlò Sally accovacciata per terra. «C'è puzza di benzina!» Il serbatoio era stato colpito. Un altro sparo seguito da un inquietante sibilo. Tom percepì subito il calore e il bagliore alle proprie spalle. «Stiamo andando a fuoco!» urlò Sally. Appoggiò la mano sulla maniglia. «Saltiamo!»
«No! Non ancora!» Tom condusse il veicolo oltre la curva successiva e per un attimo gli spari si interruppero. Più avanti, la strada costeggiava l'orlo di un precipizio. Correva a tutto gas, puntando in quella direzione. «Sally, sto per lanciare il camion nel burrone. Quando dico fuori, salta. Rotola più lontano che puoi. Poi tirati su e corri. Vai giù per la collina, verso la mesa alta. Ce la fai?» «Okay!» Il precipizio era sempre più vicino. Tom afferrò la maniglia e aprì la portiera per metà, tenendo il pedale schiacciato. «Pronta?» Un secondo. «Adesso!» Si gettò fuori, sbattendo sul terreno, e rotolò, poi si tirò su e si mise a correre. Vide la sagoma scura di Sally in lontananza alzarsi con difficoltà, mentre l'automezzo in fiamme scompariva nel precipizio, il motore che strideva come un'aquila in picchiata. Vi fu un rombo soffocato e un improvviso bagliore arancione illuminò il fondo della gola. Il Range Rover inchiodò appena in tempo, sbandando sull'orlo dell'abisso. Si spalancò la portiera. Tom scorse con la coda dell'occhio un uomo a torso nudo, una pistola in una mano, una torcia nell'altra e un fucile a tracolla. Cominciò a correre lungo il ripido pendio appena dietro il burrone, ma quel tizio aveva individuato Sally e la stava inseguendo con la pistola spianata. «Ehi, tu, figlio di puttana!» urlò Tom, correndogli incontro, sperando di distrarlo. Ma l'altro continuava a stare dietro a Sally, guadagnando rapidamente terreno, mentre lei trascinava la gamba ferita. Quindici metri, dodici... Presto sarebbe stato così vicino da poterle sparare. Tom estrasse la sua calibro 22. «Ehi, tu, bastardo!» L'uomo appoggiò un ginocchio a terra e imbracciò il fucile. Tom si fermò e assunse la posizione di tiro. Non sarebbe mai riuscito a colpirlo, ma lo sparo avrebbe distolto la sua attenzione. Valeva la pena di giocarsi l'unico proiettile: era la sola possibilità di salvare Sally. L'uomo appoggiò il calcio alla guancia e prese la mira. Tom fece fuoco. L'avversario si gettò a terra. Tom corse verso di lui, agitando freneticamente il revolver. «Ti ammazzo!» L'uomo si risollevò: questa volta puntava l'arma verso di lui. «Sono qui per te!» gridava Tom, in tono di sfida. L'uomo premette il grilletto mentre Tom si gettava a terra e rotolava su
un fianco. L'altro guardò in direzione di Sally. Scomparsa. Si rimise il fucile a tracolla, estrasse la pistola e partì all'attacco del suo disturbatore. Tom si alzò faticosamente e si precipitò giù per la collina più veloce che poteva, saltando sui massi e sui tronchi d'albero, felice che l'uomo lo stesse inseguendo. Il fascio di luce della torcia vagava impazzito sulla sua testa, baluginando tra i rami bassi. Sentì il doppio clic della pistola, il fischio di un proiettile che penetrava in un tronco alla sua destra. Si tuffò in avanti, rotolò, si rialzò e proseguì in diagonale lungo la collina. L'altro si trovava trecento metri dietro di lui. La luce era puntata sulle sue spalle. Altri due proiettili si conficcarono negli alberi, uno a sinistra, l'altro a destra. Tom schivava, si nascondeva, zigzagava. La collina era sempre più ripida e il bosco più fitto. L'uomo gli stava dietro, anzi guadagnava terreno. Doveva tenerlo impegnato, in modo che restasse alla larga da Sally. Rallentò deliberatamente, tagliando a sinistra per allontanarsi da lei. Altri proiettili esplosero dietro di lui, strappando pezzi di corteccia dai tronchi. Tom continuò a correre. 24 Maddox constatò che stava guadagnando terreno su Broadbent. Si era fermato tre volte a sparare, ma ogni volta il bersaglio era troppo lontano e ogni pausa aveva aumentato soltanto il vantaggio dell'altro. Doveva stare attento: quell'uomo aveva un'arma a piccolo calibro, nulla paragonata alla sua Glock, comunque pericolosa. Per prima cosa doveva occuparsi di lui, poi della donna. La collina si faceva sempre più ripida, le piante più fitte. Broadbent stava scendendo per un pendio che terminava nel letto asciutto di un fiume. Era veloce, dannatamente veloce, ma lui lo stava raggiungendo. Il suo addestramento nell'esercito e il suo allenamento, dalla corsa allo yoga, gli stavano tornando utili. Broadbent non gli sarebbe sfuggito. Lo vide prendere a sinistra. Maddox tagliò in diagonale, riducendo la distanza. Ancora qualche minuto e il figlio di puttana sarebbe stato ai suoi piedi, il cranio aperto come una borsetta. Broadbent continuava a fare lo slalom tra gli alberi, cercando di creare una barriera tra sé e l'inseguitore. La collina era sempre più ripida, il decli-
vio si stava trasformando in burrone. Ormai tra loro c'erano una ventina di metri. Il gioco era quasi finito; Broadbent era rimasto intrappolato tra due crinali, come restare chiusi in una morsa. Una quindicina di metri ed era fatta. D'improvviso, Broadbent scomparve nel folto degli alberi. Un istante dopo Maddox faceva il giro del boschetto e si trovò di fronte a un dirupo largo duecento metri che formava una V dove il letto asciutto del fiume terminava. Broadbent non aveva scampo. Maddox si arrestò. Il suo bersaglio era sparito. Proiettò il fascio di luce intorno a sé. Nessuna traccia. Quel pazzo bastardo doveva essersi buttato giù dal precipizio. Oppure si stava calando di sotto. Si fermò sull'orlo, illuminando il baratro. Ma non vide nulla: il suo uomo non era né appeso alla parete né sul fondo. Un moto di rabbia lo pervase. Che cosa era successo? Broadbent era forse tornato indietro su per la collina? Maddox puntò la torcia sul pendio: non c'era nessuno, gli alberi erano immobili. Si affacciò di nuovo sull'orlo del precipizio, puntò la torcia in cerca di un corpo sulle rocce sottostanti. A qualche metro dal dirupo si ergeva un alto abete. Maddox sentì il rumore di un ramo spezzato e notò che, dall'altro lato, si muovevano le fronde più basse. Quel figlio di puttana è saltato sull'albero. Voltò di scatto il fucile e si inginocchiò, puntando in direzione dei suoni. Sparò un colpo, un secondo, un terzo, senza effetto. Broadbent stava scendendo dall'altro lato del tronco, usandolo come riparo. Maddox considerò la distanza: quasi cinque metri. Ci sarebbe voluta una bella rincorsa per colmarla, il che voleva dire tornare ad arrampicarsi sulla collina. E anche così avrebbe corso un bel rischio. Solo un uomo che si stava giocando la pelle si sarebbe cimentato in un'impresa simile. Maddox si precipitò lungo il crinale in cerca di un buon angolo di tiro, in attesa che Broadbent spuntasse da dietro l'albero. Si inginocchiò, prese la mira, trattenne il fiato e aspettò che comparisse. Il suo bersaglio si lasciò cadere dal ramo più basso proprio mentre lui sparava. Per un attimo Maddox credette di averlo colpito, ma il bastardo aveva anticipato il colpo, aveva fatto una capriola a terra, si era tirato su e aveva ripreso a correre. Merda. Maddox si rimise il fucile in spalla e si guardò intorno in cerca della
donna. Scomparsa. Restò immobile, fuori di sé dalla rabbia. Gli erano sfuggiti. Solo per il momento, però. Erano diretti verso il fiume Chama: sarebbero stati costretti ad attraversare la mesa alta per cinquanta dannati chilometri. E Maddox era un esperto di trekking, aveva combattuto nel deserto e conosceva la zona. Li avrebbe scovati. Lasciarseli sfuggire equivaleva a tornare dentro, e stavolta niente libertà condizionata. Doveva farli fuori, o morire nel tentativo. 25 Willer scese dall'auto della polizia, mettendo piede sul parcheggio polveroso del monastero. Fece suonare la sirena, giusto per segnalare la propria presenza. Non sapeva a che ora i monaci andassero a dormire, ma era abbastanza sicuro che all'una e trenta di notte stessero ronfando della grossa. Quel posto era cupo come una tomba, non c'era neanche una lampadina all'esterno. La luna era sorta sull'orlo del canyon e gettava sul paesaggio una luce sinistra. Un altro giro di sirena. Che si facessero vedere loro. Dopo un'ora e mezzo di viaggio su quella che doveva essere una delle peggiori strade del Paese, non era in vena di gentilezze. «Hanno acceso le luci.» Willer guardò dove indicava Hernandez. Un rettangolo giallo fluttuava nel mare di oscurità. «Davvero pensi che Broadbent sia qui? Il parcheggio è vuoto.» Willer provò un moto di irritazione dinanzi alla voce dubbiosa di Hernandez. Estrasse una sigaretta dalla tasca, se la mise tra le labbra, la accese. «Sappiamo che Broadbent era sulla Highway 84, alla guida di quel Dodge rubato. Non è passato attraverso nessun posto di blocco e non si trova al Ghost Ranch. Dove dovrebbe essere?» «Ai margini dell'autostrada è pieno di strade forestali.» «Sì. Ma nella zona della mesa alta c'è un'unica strada, questa. Se lui non è qui, allora torchiamo quel monaco.» Inspirò, espirò. La luce di una torcia ondeggiava sul sentiero. Verso di loro veniva una figura incappucciata, il volto nascosto nell'ombra. Willer rimase fermo davanti alla portiera, uno stivale appoggiato sullo pneumatico. Il monaco si avvicinò, tendendo la mano: «Fratello Henry, abate del
monastero Cristo nel Deserto». Era un uomo basso, dai movimenti bruschi, gli occhi accesi e una barbetta corta. Il poliziotto gli strinse la mano, imbarazzato dall'accoglienza cordiale e calorosa. «Tenente Willer, squadra Omicidi di Santa Fe», disse, mostrando il distintivo, «e lui è il sergente Hernandez.» «Bene, bene.» Il monaco esaminò il distintivo sotto la luce della torcia e lo restituì. «Le dispiacerebbe spegnere la sirena, tenente? I fratelli stanno dormendo.» «Sì, certo.» Hernandez si infilò in macchina, la spense. Willer provava disagio nel parlare con il monaco, era quasi sulla difensiva. Forse avrebbe potuto evitare di far partire la sirena a quel modo. «Stiamo cercando un uomo chiamato Thomas Broadbent», disse. «Sembra che abbia simpatizzato con uno dei suoi confratelli, Wyman Ford. Abbiamo ragione di credere che ora si trovi qui o da qualche parte lungo questa strada.» «Questo signor Broadbent non lo conosco», fece l'abate. «E fratello Wyman non è qui.» «Dov'è?» «È partito da solo tre giorni fa, per un ritiro di preghiera nel deserto.» Ritiro di preghiera, le palle, pensò Willer. «E quando torna?» «Doveva tornare ieri.» «Davvero?» Willer scrutò attentamente il volto del monaco. Non ne aveva visti molti di così sinceri. Se non altro diceva la verità. «Dunque, questo Broadbent, lei non sa chi sia. Secondo le mie indagini, dovrebbe essere stato qui un paio di volte. Capelli castani, alto, guida un pick-up Chevy del '57.» «Oh, sì, il proprietario di quel pick-up da favola. Ora ho capito a chi si riferisce. È venuto qui due volte, almeno a quanto ne so. L'ultima è stata quasi una settimana fa.» «Secondo le mie informazioni, sono stati quattro giorni fa. Il giorno prima che quel vostro monaco, Ford, andasse nel deserto in 'ritiro spirituale'.» «Forse ha ragione», rispose il monaco, gentilmente. Willer estrasse il suo taccuino e prese un appunto. «Posso domandarle, tenente, di che cosa si tratta?» chiese l'abate. «Non è nostra consuetudine ricevere visite dalla polizia nel mezzo della notte.»
Willer chiuse il taccuino con uno scatto. «Ho un mandato d'arresto per Broadbent.» L'abate fissò un momento il poliziotto, testimoniando il proprio sconcerto. «Un mandato d'arresto?» «Proprio così.» «Qual è l'accusa, se può dirmelo?» «Con tutto il rispetto, padre, ora non mi è consentito di entrare nei particolari.» Silenzio. «C'è un posto in cui possiamo parlare?» «Sì, certo. Nel monastero saremmo sotto voto del silenzio, ma possiamo parlare nella Camera delle Discussioni. Se volete seguirmi...» «Dopo di lei», disse Willer, lanciando un'occhiata a Hernandez. Seguirono il monaco su per il sentiero spazzato dal vento e si diressero verso una piccola costruzione in adobe dietro la chiesa. L'abate si fermò sulla porta, fissando Willer con sguardo interrogativo. Il tenente lo guardò a sua volta. «Mi scusi... La sigaretta.» «Oh, sì, certo.» Willer la gettò a terra e la schiacciò con il tacco, consapevole dello sguardo carico di biasimo del religioso, già irritato dall'aver subito, in un certo senso, una prevaricazione. Il monaco si voltò e varcò la soglia. La costruzione era composta di due stanze singole, dai muri in calcestruzzo. La più spaziosa aveva panche appoggiate alle pareti e un crocifisso sul fondo. L'altra conteneva soltanto una scrivania di legno grezzo, una lampada, un portatile e una stampante. Il monaco accese la luce e si sedettero sulle dure panche. Willer, che continuava a cambiare posizione cercando di mettersi comodo, estrasse penna e taccuino. Più pensava all'assenza di Ford e di Broadbent e al tempo che avevano perso ad arrivare fin lì, più si innervosiva. Perché, dannazione, i monaci non potevano avere un fottuto telefono? «Abate, glielo devo dire. Ho motivo di credere che Wyman Ford possa essere coinvolto.» L'abate, che si era abbassato il cappuccio, inarcò le sopracciglia, sorpreso. «Coinvolto in cosa?» «Non ne abbiamo ancora la certezza... qualcosa che ha a che fare con l'omicidio al Labirinto della scorsa settimana. Forse qualcosa di illegale.» «Mi pare del tutto improbabile che fratello Wyman possa essere coinvolto in qualcosa di illegale, per non parlare di un omicidio. È un uomo inte-
gro.» «Ford è stato parecchio in giro per la mesa, ultimamente?» «Non più del solito.» «Ma trascorre molto tempo là fuori?» «È un'abitudine che ha da quando è arrivato qui, tre anni fa.» «Lei è a conoscenza del fatto che lavorasse per la CIA?» «Tenente, io 'sono a conoscenza' di molte cose, ma non so altro. Noi non raccogliamo informazioni sulle vite passate dei nostri fratelli, a parte quello che ci viene raccontato nel confessionale.» «Ultimamente ha notato qualche differenza nel comportamento di Ford, qualche cambiamento di abitudini da parte sua?» L'uomo esitò. «Negli ultimi tempi lavorava molto al computer. Cose che avevano a che fare con i numeri. Ma, le ripeto, sono certo che non si sarebbe mai lasciato coinvolgere...» Willer lo interruppe. «Su quel computer?» Indicò l'altra stanza. «È l'unico che abbiamo.» Il detective scarabocchiò altri appunti. «Fratello Ford è un uomo di Dio e le posso assicurare...» Willer lo zittì con un gesto d'impazienza. «Ha idea di dove Ford vada durante i 'ritiri'?» «No.» «E come spiega il suo ritardo?» «Mi aspetto che torni da un momento all'altro. Ha assicurato che sarebbe arrivato ieri. In genere mantiene la parola.» Willer imprecò tra sé. «C'è altro?» «Al momento, no.» «Allora vorrei ritirarmi. Ci alziamo alle quattro.» «D'accordo.» Il monaco se ne andò. Willer fece un cenno a Hernandez. «Usciamo a prendere un po' d'aria.» Una volta fuori, si accese un'altra sigaretta. «Che cosa ne pensi?» chiese il suo vice. «La storia mi puzza. Voglio torchiare quel Ford, fosse l'ultima cosa che faccio. 'Ritiro spirituale'... per piacere!» Willer consultò l'orologio. Quasi le due. Avvertì un crescente senso di inutilità e di perdita di tempo. «Torna alla macchina e chiama Santa Fe perché ti mandino un elicottero. E, già che ci sei, chiedi un mandato per requisire questo computer.»
«Un elicottero?» «Sì. Lo voglio qui all'alba. Scoveremo quei figli di puttana. È territorio federale, quindi assicurati che il dipartimento di polizia di Santa Fe tenga i contatti con il Bureau of Land Management e con chiunque altro si possa incazzare se resta tagliato fuori.» «Certo, tenente.» Willer osservò la torcia di Hernandez che ondeggiava lungo il sentiero in direzione del parcheggio. Un istante dopo la radiomobile della polizia si accese e lui ne udì i tipici sibili e i fruscii. Poi una lunga conversazione incomprensibile. Aveva appena finito una sigaretta e stava attaccando con la successiva quando Hernandez lo raggiunse. Il sergente si fermò, sfiancato dalla salita lungo la collina. «Sì?» «Hanno appena chiuso lo spazio aereo da Española ai confini con il Colorado.» «Chi?» «La FAA, l'associazione aeronautica federale. Nessuno sa perché, sono ordini che vengono dall'alto. Non dall'aviazione commerciale o da quella privata.» «Fino a quando?» «A tempo indeterminato.» «Splendido. E per il mandato?» «Niente da fare. Hanno svegliato il giudice: si è incazzato, ha detto che è cattolico e che ci vuole qualcosa di più di una 'causa probabile' prima di sequestrare il computer di un monastero.» «Anch'io sono cattolico, ma cosa diavolo c'entra?» Willer aspirò con rabbia l'ultima boccata dalla sigaretta, la gettò a terra, la calpestò con il tacco e la schiacciò ripetutamente, finché rimase solo un brandello di filtro. Indicò l'immensa massa scura dei canyon e dei dirupi che si stagliavano dietro il monastero. «Nella mesa alta sta capitando qualcosa di grosso. E noi non abbiamo la più pallida idea di che cazzo sia.» PARTE QUARTA IL CIMITERO DEL DIAVOLO Il Tyrannosaurus rex era dotato di grande intelligenza. Lei aveva un cervello molto sviluppato in proporzione al corpo, più di ogni altro rettile
mai esistito, delle stesse dimensioni di quello di un essere umano; dunque, in termini assoluti, tra i cervelli più grandi che si fossero mai evoluti in un animale terrestre. Eppure la sua mente, la parte deputata al ragionamento, era virtualmente inesistente. Era limitata a una macchina biologica di input-output che elaborava il comportamento istintivo. La sua programmazione era ineccepibile. Non pensava a quello che faceva, lo faceva e basta. Non possedeva una memoria a lungo termine. Quella serviva ai deboli. Non aveva predatori da riconoscere, pericoli da evitare o concetti da apprendere. Gli istinti si prendevano cura delle sue necessità, che erano semplici. Aveva bisogno di carne. E tanta. Non avere memoria significava essere liberi. Le dune di sabbia in cui era nata, sua madre e i suoi fratelli, i tramonti infuocati della sua infanzia, le piogge torrenziali che tingevano i fiumi di rosso e le piene improvvise che si abbattevano sulla pianura, la siccità che spaccava la terra... di tutto questo aveva perso ogni ricordo. Sperimentava la vita man mano che le si presentava, un unico flusso di sensazioni e reazioni che annullava il suo passato, come il fiume che si dissolve nell'oceano. Aveva visto i suoi quindici fratelli morire o venire uccisi e non aveva provato nulla. Non sapeva nulla. Non si era accorta della loro scomparsa, se non dopo che le loro carcasse si erano trasformate in carne. E questo era tutto. Dopo essersi separata dalla madre, non l'aveva più riconosciuta. Lei cacciava, uccideva, mangiava, dormiva e andava in giro. Non era consapevole di avere un «territorio»: si spostava seguendo le felci sradicate e le zone di vegetazione calpestata da branchi di anatosauri, senza riconoscere o ricordare. Le loro abitudini erano le sue abitudini. Emozioni come l'amore, l'odio, la compassione, la tristezza, il rimpianto o la felicità non avevano equivalenti nel suo cervello. Lei conosceva soltanto il dolore e il piacere. Era programmata in modo da appagare i suoi istinti e provare piacere: non farlo sarebbe stato impensabile. Non rifletteva sul significato dell'esistenza. Non era consapevole di esistere. Lei era e basta. 1 Le piste del White Sands Missile Range, nel New Mexico, giacevano sotto la luce che precede l'alba, due strisce di asfalto su una distesa di gesso bianca come la neve. Il terminal si ergeva su un lato della pista, illumi-
nato da luci al sodio giallastre, accanto a una fila di hangar. L'aria era immobile e cristallina. Un puntino apparve nel cielo limpido, a oriente. Lentamente si definì la sagoma di un F-14 Tomcat, con la doppia deriva e le ali spiegate, pronto ad atterrare. Il rombo dei motori si faceva sempre più assordante. Il caccia toccò il suolo, alzando due sbuffi di fumo e facendo sbatacchiare una fila di yucca secche che crescevano ai bordi del tracciato. L'F-14 invertì la spinta, rallentò e virò per poi arrestarsi davanti al terminal. Due uomini del personale di terra corsero vero il jet, per bloccarne le ruote e srotolarne i tubi del carburante. L'abitacolo si aprì e la figura magra di un uomo discese dal sedile del copilota e balzò agilmente a terra. Indossava una tuta blu e portava un'usurata valigetta di pelle. Si diresse a lunghi passi dalla pista al terminal e accennò il saluto militare a un paio di soldati di guardia all'ingresso. I due risposero, sorpresi dall'improvvisa formalità. Tutto, nell'aspetto dell'uomo, era gelido, preciso e simmetrico, come un pezzo di acciaio temprato. Aveva capelli neri e lisci che gli coprivano la fronte e zigomi pronunciati che sporgevano dalla pelle levigata. Le sue mani erano piccole e talmente curate che sembrava avesse fatto la manicure. Le labbra erano grigie e sottili, come quelle di un cadavere. Avrebbe potuto essere asiatico, non fosse stato per i penetranti occhi azzurri che parevano balzargli fuori dal viso, in netto contrasto con i capelli neri e la carnagione pallida. J.G. Masago oltrepassò la soglia ed entrò nel blocco di calcestruzzo del terminal. Si fermò in mezzo alla sala, dispiaciuto che non ci fosse nessuno ad accoglierlo. Non aveva assolutamente tempo da perdere. Ma quell'attimo di pausa gli diede il tempo di riflettere. Fino a quel momento, l'operazione era riuscita alla perfezione. Aveva risolto il problema al museo e si era impossessato dei dati. Dalle analisi straordinarie e dagli esami dei reperti all'NSA erano emersi risultati al di là di ogni aspettativa. Ecco ora il memorabile evento che la sua agenzia segreta, il distaccamento CL480, aveva atteso dal ritorno dell'Apollo 17 dalla sua missione più di trent'anni prima. Erano giunti a fine partita. Masago era spiacente per come aveva dovuto comportarsi con l'inglese, al museo. Era sempre una tragedia dover troncare una vita umana. I soldati morivano in guerra, i civili in tempo di pace. I sacrifici andavano fatti. Altri si sarebbero occupati di quell'assistente di laboratorio, la Crookshank.
Le priorità nei suoi confronti erano diminuite, ora che dati e reperti erano al sicuro. Un'altra eliminazione deplorevole, seppur inevitabile. Masago era figlio di madre giapponese e padre americano; era stato concepito tra le rovine di Hiroshima la settimana seguente i bombardamenti. Sua madre era morta molti anni dopo, urlando di agonia per il cancro causato dalla «pioggia nera». Suo padre, naturalmente, era sparito prima che lui nascesse. Masago, a quindici anni, se n'era andato in America. Undici anni più tardi, quando ne aveva ventisei, il modulo dell'Apollo 17 era allunato nella Valle Taurus-Littrow, presso il Mare della Serenità. Il giovanotto era ben lontano dall'immaginare che quella missione avrebbe portato alla maggiore scoperta scientifica di tutti i tempi... e che un giorno quel segreto sarebbe stato affidato proprio a lui. In quel periodo la sua carriera nella CIA era agli inizi. In seguito, grazie al giapponese fluente e al suo talento in matematica, aveva seguito un percorso tortuoso tra i vari livelli della Defense Intelligence Agency. Masago aveva avuto successo in virtù della sua estrema prudenza, della modestia, della bravura venata di diffidenza. Alla fine gli era stato affidato il comando di un piccolo distaccamento noto come CL480, e gli era stato rivelato il segreto. Il più grande di tutti i segreti. Masago era il predestinato, perché conosceva una semplice verità che nessuno dei suoi colleghi aveva il coraggio di guardare in faccia: sapeva che l'umanità avrebbe presto cessato di esistere. Gli uomini avevano raggiunto la capacità di autodistruggersi, e questo avrebbero fatto. CVD: come volevasi dimostrare. Per lui era chiaro e ovvio come fare due più due. Nel corso della storia, quando mai l'umanità non aveva fatto ricorso alle armi di cui disponeva? La vera domanda non era se, ma quando. Era proprio quel «quando» la parte dell'equazione che Masago controllava. Lui aveva il potere di ritardare gli eventi. Se ottemperava al proprio dovere, era in grado di dare alla razza umana cinque anni di vita in più, forse dieci... magari anche un'intera generazione. Il suo era il più nobile dei compiti, ma richiedeva disciplina morale. Se per ottenere quel risultato qualcuno doveva morire prima del tempo, non era un prezzo troppo oneroso da pagare. Ma se una morte poteva ritardare gli eventi di soli cinque minuti... che vantaggio se ne traeva? In ogni caso il destino di tutti era segnato. Per dieci anni Masago aveva diretto il CL480 cercando di passare inosservato. La loro era una situazione di stallo, un gioco d'attesa, un limbo. Sapeva da tempo che presto o tardi qualcosa sarebbe successo.
E ora quel giorno era arrivato. Era accaduto nel posto e nel modo più improbabili. Ma lui era preparato. Aspettava quel momento da dieci anni. E aveva agito con prontezza e decisione. Gli occhi azzurri di Masago planarono una seconda volta sul terminal, si posarono sulla parete con i distributori automatici, sulla moquette di poliestere grigio, sulle file di sedie di plastica bloccate al pavimento, sui banconi e sugli uffici. Era tutto così tetro, semplice, funzionale, tipico dell'esercito. Erano passati due minuti: l'attesa si faceva intollerabile. Infine uscì da un ufficio un militare con una tuta mimetica sgualcita, due stelle sulla spalla e una massa di capelli grigi. Masago aspettò che l'uomo si avvicinasse, poi gli porse la mano. «Il generale Miller?» Il generale gli restituì la stretta con fermezza e piglio militaresco. «E lei deve essere il signor Masago.» Ridacchiò e indicò il Tomcat in fase di rifornimento sulla pista. «È stato nella marina? Non ne incontriamo molti da queste parti.» L'agente non sorrise né rispose alla domanda. Invece chiese: «È stato tutto predisposto come abbiamo detto, generale?» «Naturalmente.» Miller si voltò e Masago lo seguì in un ufficio disadorno in fondo alla sala. Sulla scrivania metallica erano posate alcune cartelle, un distintivo e un piccolo apparecchio che doveva essere una versione segreta di un telefono satellitare dell'esercito. Il generale prese apparecchio e distintivo e li porse a Masago, senza dire una parola. Dopo di che afferrò la prima cartella, su cui erano stampigliati dei timbri rossi. «Ecco qua.» L'agente esaminò per qualche minuto la cartella. Era esattamente ciò che aveva richiesto: il ricognitore telecomandato. Notò con approvazione che un satellite fotografico a infrarossi SIGINT KH-11 era stato deviato appositamente per la sua missione. «E quanto a uomini?» «Una squadra da dieci, precedentemente selezionata dalla National Command Authority presso il Combined Assault Group e il DEVGU, assegnata a un ramo del Direttorato Operazioni della CIA. Sono pronti a entrare in azione.» «Sono stati informati?» «Non hanno bisogno di essere informati, si occupano unicamente di ope-
razioni segretissime. Sono stati allertati, ma in termini piuttosto vaghi.» «È stato fatto deliberatamente.» Masago si interruppe. «Sussiste quella che si potrebbe definire un'insolita componente psicologica.» «E quale sarebbe?» «Stiamo per chiedere a questi uomini di uccidere parecchi civili americani in territorio statunitense.» «Che cosa diavolo intende dire?» domandò brusco il generale. «Sono bioterroristi e hanno per le mani qualcosa di grosso.» «Capisco.» Il generale fissò a lungo Masago. «Questi uomini sono psicologicamente preparati a tutto. Ma vorrei una spiegazione...» «Non è possibile. Le basti sapere che si tratta di un gravissimo problema di sicurezza nazionale.» Il generale Miller deglutì. «Quando riceveranno il loro ordine di pattuglia, sarà la prima cosa di cui ci dovremo preoccupare.» «Generale, tratterò io la questione nel modo che riterrò opportuno. Le chiedo solo di assicurarmi che la squadra sia in grado di affrontare questo compito insolito. La sua risposta mi fa sospettare che mi occorrano uomini più adatti.» «Non troverà uomini più adatti di questi dieci. Maledizione, sono i soldati migliori di cui dispongo.» «Ci conto. E per quanto riguarda l'elicottero?» Il generale indicò con un cenno l'elipista. «L'apparecchio è pronto a partire.» «L'MH 60G Pave Hawk?» «È quello che mi è stato richiesto.» Il tono di Miller si era fatto gelido. «E il caposquadra? Mi parli di lui.» «Sergente di prima classe Anton Hitt, è tutto nel suo fascicolo.» Masago lanciò uno sguardo inquisitore all'indirizzo del generale. «Sergente?» «Lei mi ha chiesto il meglio, non gli alti gradi», rispose questi, secco. «Il teatro della missione non è qui in New Mexico, vero? Vorremmo essere informati se l'operazione si svolge sotto casa.» «Questa informazione non è di sua competenza, generale.» Per la prima volta le labbra di Masago si distesero, abbozzando un sorriso, e diventarono quasi cadaveriche. «I miei uomini della United States Air Force necessitano di un briefing...» «Il suo equipaggio e i suoi piloti riceveranno i dettagli della missione e
le coordinate quando saranno in volo. Le squadre CAG/DEVGU riceveranno l'ordine di pattuglia per strada.» Il generale non rispose, ma contrasse la mascella. «Voglio anche un elicottero da carico in stand-by pronto a volare all'istante con un carico di quindici tonnellate.» «Posso sapere con quanta autonomia?» domandò Miller. «Per evitare problemi di carburante.» «Volerà con il serbatoio pieno al settantadue per cento.» Masago chiuse la cartella di scatto e la infilò nella valigetta. «Mi accompagni all'elipista.» Seguì il militare attraverso la sala d'aspetto, fuori da una porta laterale. Percorse un ampio cerchio di asfalto su cui era parcheggiato il Sikorsky Pave Hawk, nero e lucente, i rotori in movimento. Il cielo si era fatto più luminoso, passando dall'azzurro al giallo chiaro. Venere si trovava a trenta gradi sopra l'orizzonte, un punto di luce morente nell'alba sfavillante del nuovo giorno. Masago procedette a lunghi passi, senza tentare di ripararsi dalle eliche in movimento, i capelli neri spettinati dal vento. Salì a bordo e le porte si chiusero. I propulsori accelerarono, sollevando nubi di polvere. Un istante dopo l'elicottero decollò e si librò nel cielo del mattino, diretto a nord. Il generale osservò il Pave Hawk sparire all'orizzonte, quindi tornò verso il terminal scuotendo il capo e imprecando sottovoce: «Dannati civili bastardi!» 2 Dopo essersi ritrovati nei canyon superiori, Tom e Sally avevano camminato tutta la notte, sotto la luce della luna. Lui si fermò a prendere fiato. Lei si avvicinò e gli si appoggiò contro, mettendogli una mano su una spalla. Il deserto si estendeva silenzioso e immobile, migliaia di colline simili a piccoli mucchi di cenere grigiastra. Videro un avvallamento nella sabbia, un letto di fango crepato imbiancato da cristalli alcalini. A oriente il cielo si era illuminato: il sole stava per sorgere. Sally tirò un calcio al fango, sollevando una nuvola biancastra. «È la quinta pozza disidratata che incontriamo.» «Sembra che la pioggia della scorsa settimana non sia arrivata fin qui.» La donna si appoggiò a una roccia e guardò Tom di traverso. «Mi sa che quel completo è rovinato, mister.»
«Valentino scoppierebbe in lacrime», fece Tom, sforzandosi di sorridere. «Fammi dare un'occhiata alla ferita.» Sally si lasciò sfilare i jeans e rimuovere con cura il bendaggio improvvisato. «Nessuna traccia di infezione. Ti fa male?» «Sono così stanca che non lo sento nemmeno.» Lui gettò via le bende, prese di tasca un pezzo di seta pulito che aveva tagliato dalla fodera del vestito e glielo avvolse intorno con cura. Fu colto da una rabbia improvvisa verso l'uomo che l'aveva rapita. «Salgo su quel crinale a vedere se il bastardo ci sta ancora alle costole. Tu intanto riposati.» «Volentieri.» Tom si arrampicò sul pendio di una vicina dorsale dalle pareti scoscese, tenendosi appena sotto la cresta. Gli ultimi metri rallentò l'andatura, finché non sbucò sulla cima. In un'altra occasione si sarebbe messo ad ammirare il magnifico panorama, stavolta però era solo stanco. Nelle ultime cinque ore avevano percorso a piedi almeno una trentina di chilometri, nel tentativo di distanziare il più possibile il loro inseguitore. Tom non pensava che sarebbe riuscito a localizzarli anche di notte, ma voleva essere assolutamente sicuro di averlo seminato. Si mise in appostamento. Il paesaggio sembrava deserto, benché alcune zone più basse e il fondo dei canyon non fossero visibili. Il rapitore avrebbe potuto restare nascosto a lungo. Tom si sdraiò a pancia in giù e scrutò attentamente la zona, alla ricerca di un puntino in movimento che ricordasse un essere umano. Non vide nulla. Trascorsero cinque minuti, poi dieci. Tom provò un crescente senso di sollievo. Sorse il sole, una sfera infuocata che sfiorava con la sua luce arancione le vette più alte e i declivi, scivolando dalle loro falde come oro fuso. Infine la luce si estese all'intero deserto e Tom ne avvertì il calore sulla nuca. Ancora nessuna traccia del loro inseguitore. L'uomo era scomparso. Sperò che si trovasse ancora su a Daggett Canyon, barcollante e assetato, con le poiane che gli giravano in circolo sulla testa. Con in mente quell'allegro pensiero, scese dal declivio. Trovò Sally che dormiva con la schiena appoggiata a una roccia. Rimase a osservarla per un istante, i lunghi capelli aggrovigliati, la camicia sporca e a brandelli, i jeans e gli stivali pieni di polvere. Si piegò e le diede un bacio leggero. Lei aprì gli occhi, rivelando due gioielli verdissimi. Tom sentì un nodo alla gola. Per poco non l'aveva persa. «Niente tracce?»
Lui scosse il capo. «Sicuro?» Tom esitò. «Non del tutto.» Si domandò perché lo avesse detto, per quale ragione avesse dei dubbi. «Dobbiamo muoverci», fece Sally. Quando Tom l'aiutò ad alzarsi, lei gemette. «Sono rigida come la mamma di Norman Bates. Non avrei mai dovuto sedermi.» Si misero in cammino lungo il letto asciutto del torrente; Tom lasciò che fosse Sally a stabilire il passo. Il sole si stava alzando nel cielo. Lui si mise in bocca un sassolino e lo succhiò, tentando di non badare alla sete crescente. Era probabile che non avrebbero trovato acqua finché non fossero arrivati al fiume, e il fiume distava ancora venticinque chilometri. La nottata era stata fresca, ma con il sorgere del sole si cominciava ad avvertire la calura. La giornata si preannunciava torrida. 3 Maddox si sdraiò sulla pancia dietro un masso e, attraverso il mirino telescopico 4x del suo AR-15, vide Broadbent che si chinava a baciare la moglie. Aveva il naso ancora dolorante per il calcio che lei gli aveva tirato e le guance infiammate dai suoi terribili graffi. Si sentiva le gambe di gomma ed era sempre più assetato. Quei figli di puttana marciavano a un ritmo quasi sovrumano e non si fermavano mai a riposare. Si domandò come facessero. Se non fosse stato per la luna piena e la torcia, di sicuro li avrebbe persi di vista. Ma in quel deserto era facile stare dietro a qualcuno. Inoltre Maddox aveva il vantaggio di sapere dove erano diretti: al fiume. In che altro posto sarebbero potuti andare? Ogni sorgente che avevano incontrato era asciutta come un osso. Un piede gli si era addormentato. Si mosse e li vide avviarsi giù per il canyon. Dalla sua posizione forse avrebbe potuto sparare a Broadbent, però poteva essere rischioso, e la puttana sarebbe potuta scappare. Ora che era giorno, Maddox aveva la possibilità di tagliare loro la strada e tendergli un agguato. Quello era il luogo ideale. Il segreto era non rivelare la propria presenza. Se pensavano che lui li stesse ancora seguendo, sarebbe stato molto più difficile coglierli di sorpresa. Con il mirino controllò il territorio davanti a sé, attento a non esporre la
lente alla luce diretta del sole: niente l'avrebbe tradito più facilmente di un luccichio del vetro. Conosceva bene la mesa alta, sia per averla esplorata personalmente sia per aver passato un sacco di tempo sulle carte dell'USGS fornite da Corvus. Come avrebbe voluto ora avere una di quelle dannate mappe! A sud-ovest riconobbe il grande altopiano conosciuto come Navajo Rim, che si elevava di duecentocinquanta metri sul deserto circostante. In mezzo, si ricordò, si estendeva una zona impervia detta Echo Badlands, attraversata da profondi canyon e bizzarre formazioni rocciose, tagliata dall'imponente frattura del Tyrannosaur Canyon. A circa venticinque chilometri si scorgeva a malapena, nella foschia dell'orizzonte, l'interruzione della Mesa de los Viejos, lungo i fianchi della quale si dipartivano numerosi canyon tra cui il Joaquin, il più grande, che conduceva al Labirinto. Era là che Maddox aveva ammazzato il cercatore di dinosauri; di lì al fiume non c'era una grande distanza. Ed era laggiù che quei due erano diretti. Gli sembrava fosse passato un secolo da quando aveva fatto fuori quel cercatore... Era difficile rendersi conto che invece erano passati solo... quanto? Otto giorni. Ne erano capitati di casini da allora. Aveva il taccuino e stava per sistemare tutto il resto. Broadbent e la donna stavano puntando verso l'unico sentiero che attraversava il Navajo Rim, il che voleva dire che sarebbero andati a sud-ovest, nelle Badlands, attraversando l'imbocco del Tyrannosaur Canyon, una sorta di strozzatura naturale in cui si riunivano diversi canyon secondari. I suoi bersagli sarebbero dovuti passare proprio di lì. Maddox avrebbe fatto il giro da sud, tagliando la base del Navajo Rim, e sarebbe tornato indietro da nord per tendere loro un agguato all'imboccatura della valle. Doveva sbrigarsi; comunque, in meno di un'ora la faccenda sarebbe stata conclusa. Si allontanò strisciando dalla sua posizione strategica, assicurandosi di non essere visto, poi si incamminò a passo veloce verso sud, diretto alle pareti in arenaria del Navajo Rim. L'indomani a quell'ora sarebbe già stato in viaggio per New York con il primo volo. 4 Melodie camminava sulla Settantanovesima, quando il museo le comparve dinanzi, le finestre dei piani superiori che mandavano bagliori nella
luce mattutina. Di dormire proprio non se ne parlava, così aveva passato gran parte della notte a camminare su e giù per un tratto di strada molto affollata a Broadway, la mente che continuava a lavorare a ritmo frenetico. Si era fermata a mangiare un hamburger in Times Square, in uno di quei ristorantini aperti ventiquattr'ore su ventiquattro, infine aveva preso un tè vicino al Lincoln Center. Era stata una lunga notte. Svoltò in prossimità della porta di servizio riservata ai dipendenti e controllò l'orologio. Le otto meno un quarto. All'epoca della tesi aveva passato un sacco di notti in bianco e ci aveva fatto l'abitudine, ma stavolta era diverso. La sua mente era insolitamente nitida e luminosa... non soltanto lucida. Suonò il campanello dell'ingresso di servizio e fece passare il tesserino nel lettore magnetico. Attraversò la rotonda centrale e una serie di sale dedicate alle grandi mostre. La inquietava sempre camminare nel museo vuoto la mattina presto, quando non era ancora arrivato nessuno, le vetrine erano scure e silenziose e l'unico suono era quello dei suoi tacchi sul pavimento di marmo. Prese la solita scorciatoia passando per il dipartimento dell'Istruzione, si servì del tesserino per chiamare l'ascensore, attese che la cabina arrivasse sferragliando al piano e scese nel seminterrato. Le porte si aprirono e Melodie imboccò il solito corridoio. I meandri del museo erano freschi e silenziosi, immutabili come una grotta. Ogni volta le davano i brividi. C'era odore di chiuso, come se l'aria fosse imbevuta di un sottile sentore di carne andata a male. Affrettò il passo, diretta al laboratorio di mineralogia. Le porte dei diversi magazzini di fossili le sfilarono accanto: Dinosauri del Triassico, del Giurassico e del Cretaceo, Mammiferi dell'Oligocene e dell'Eocene... Era come fare una passeggiata attraverso l'evoluzione. Un'ultima svolta ed eccola nel corridoio che dava sui laboratori, porte d'acciaio luccicante che conducevano alle varie sale: mammalogia, erpetologia, entomologia. Raggiunse l'ingresso con la scritta MINERALOGIA, inserì la sua chiave, spinse la porta e tastò la parete in cerca dell'interruttore. Le luci al neon si accesero. Melodie si bloccò. Attraverso gli scaffali con i reperti, vide che Corvus era già arrivato: era addormentato sullo stereozoom, con la valigetta al fianco. Che cosa ci faceva lì? Mentre se lo domandava, la risposta le venne istintiva: era arrivato presto per controllare il lavoro di persona... nientemeno che di domenica mattina. La ragazza fece un passo avanti, esitante, si schiarì la voce.
L'uomo non si mosse. «Dottor Corvus?» Gli si avvicinò ancora un po', con maggior sicurezza. Il conservatore era proprio addormentato sulla scrivania, il capo reclinato sul braccio. Melodie si accostò in punta di piedi. Stava osservando un reperto attraverso lo stereozoom: un trilobite. «Dottor Corvus?» La ragazza aveva raggiunto la scrivania. Ancora nessuna risposta. Che avesse avuto un infarto? Improbabile, era troppo giovane. «Dottor Corvus?» ripeté, ma le uscì soltanto un sussurro. Si spostò dall'altra parte del tavolo e si chinò per guardarlo in volto. Si ritrasse di scatto con un grido soffocato, coprendosi la bocca con la mano. Il conservatore aveva gli occhi spalancati, fissi e opachi. Corvus aveva davvero avuto un infarto. Melodie arretrò di un altro passo. Sapeva di dovergli tastare il polso per controllare se pulsava ancora, e che comunque doveva fare qualcosa, tipo la respirazione bocca a bocca... ma l'idea di toccarlo la disgustava. Quegli occhi... Non c'erano dubbi, era morto. Fece un altro passo indietro, allungò la mano verso il telefono interno. Ma si fermò. C'era qualcosa che non quadrava. Osservò il cadavere accasciato sul microscopio, il capo reclinato sul braccio come se gli fosse venuto sonno e si fosse addormentato. L'artificiosità della scena le dava i brividi. Poi afferrò perché: Corvus stava esaminando un trilobite. Prese il reperto e lo guardò. Era un comune trilobite del Cenozoico, di quelli che si comprano per pochi dollari in un negozio di fossili. Nel museo ce n'erano a migliaia. Com'era che Corvus, che aveva per le mani la più spettacolare scoperta paleontologica del secolo, aveva deciso, proprio in quel momento, di mettersi a esaminare un banale trilobite? Non aveva senso. Il terrore le attanagliò le viscere. Melodie si avvicinò al suo armadietto dei campioni, compose la combinazione, lo aprì. I CD e i reperti che aveva chiuso lì dentro a mezzanotte erano scomparsi. Si guardò intorno, scrutò la valigetta di Corvus. La sfilò dalla sua mano ciondolante, la posò sul tavolo, la aprì e rovistò fra il contenuto. Nulla. Tutti i dati sul dinosauro erano spariti. I campioni, i CD, scomparsi. Come se non fossero mai esistiti. Le venne in mente un altro dettaglio:
quando era entrata nel laboratorio, le luci erano spente. Se Corvus si era addormentato mentre lavorava, chi aveva spento le luci? Non aveva avuto nessun infarto. Melodie ebbe la sensazione che un pezzo di ghiaccio secco le si fosse materializzato nello stomaco. Chiunque avesse ammazzato Corvus, forse avrebbe dato la caccia anche a lei. Doveva gestire la situazione con molta, molta prudenza. Afferrò il ricevitore e chiamò la sicurezza. Le rispose una voce pigra. «Parla la dottoressa Crookshank dal laboratorio di mineralogia. Sono appena arrivata. Il dottor Corvus è qui dentro, morto.» Un istante dopo, in risposta all'inevitabile domanda, disse con grande cautela: «Infarto, a quanto pare». 5 Il tenente Willer, in piedi sulla soglia della Camera delle Discussioni, guardava il sole sorgere sugli altopiani oltre il fiume. Dalla chiesa alle sue spalle si diffondeva il suono delle campane, che si levava nell'aria del deserto. Gettò la cicca della sigaretta, la penultima rimastagli, e la schiacciò. Poi scatarrò. Ford non era ancora tornato e di Broadbent non si aveva nessuna notizia. Hernandez era alla macchina per un'ultima chiamata. La polizia di Santa Fe aveva già un elicottero in attesa all'eliporto: arrivava da Albuquerque ed era pronto a partire, se non fosse stato che lo spazio aereo era ancora chiuso e non si sapeva quando l'avrebbero riaperto. Il tenente vide Hernandez uscire dall'auto, sentì sbattere la portiera. Pochi minuti dopo il suo vice arrancava su per il sentiero. Quando incrociò lo sguardo di Willer, scosse il capo. «Niente da fare.» «Niente su Broadbent o il veicolo?» «Nada. Sembrano svaniti nel nulla.» Willer imprecò. «Qui non combiniamo niente. Andiamo a perlustrare le strade forestali vicino alla 84.» «Okay.» Willer lanciò un'ultima occhiata alla chiesa. Quanto tempo sprecato! Prima o poi Ford sarebbe tornato e lui avrebbe preso quella specie di monaco per i capelli e si sarebbe fatto raccontare che cazzo c'era andato a fare a spasso per la mesa alta. E quando Broadbent fosse ricomparso, si sarebbe
divertito a mettere quel riccone di veterinario a pane e acqua in cella con un tossico. Willer scese per il sentiero seguito da Hernandez, facendo tintinnare manette e manganello. Avrebbero fatto colazione da Bode, con burritos e litri di caffè. E avrebbe comprato una stecca di Marlboro. Detestava rimanere senza sigarette. Fece per aprire la portiera dell'auto, quando avvertì una vibrazione nell'aria. Alzò il capo e vide un puntino nero materializzarsi nel cielo, mentre albeggiava. «Ehi», fece Hernandez, strizzando gli occhi, «non è un elicottero?» «Certo che sì, cazzo.» «Neanche cinque minuti fa mi hanno detto che era ancora sulla pista.» «Imbecilli.» Willer tirò fuori l'ultima sigaretta e la accese. Freddie, il pilota, di solito girava con un paio di pacchetti. «Ora possiamo cominciare lo spettacolo.» Il tenente osservò l'elicottero avvicinarsi e il suo senso di frustrazione scomparve. Avrebbero mandato a puttane il «canyon party» di quei bastardi. La zona era vasta, ma Willer era quasi certo che l'azione si sarebbe svolta al Labirinto, ed era lì che sarebbero andati, subito. Il puntino nero divenne sempre più grosso e Willer lo fissò con crescente perplessità. Non era un elicottero della polizia, a meno che non si trattasse di un modello che non aveva mai visto prima. Era nero e molto più grande, con due specie di galleggianti appesi ai lati. Con un improvviso senso di nausea, Willer capì che cosa stava capitando davvero. La chiusura dello spazio aereo, l'elicottero nero. Si rivolse a Hernandez. «Pensi anche tu quello che penso io?» «FBI.» «Esatto.» Willer imprecò sottovoce. «Tipico dei federali: tengono la bocca cucita, lasciano che quelli della polizia locale si facciano il culo come degli idioti, poi se ne arrivano giusto in tempo per la retata e per fare bella figura davanti ai giornalisti». L'elicottero si inclinò leggermente man mano che si avvicinava, rallentò e si librò sopra il parcheggio, in cerca di un punto in cui atterrare. Si appoggiò al suolo, mentre il movimento dei rotori sollevava in aria folate di polvere. Le pale non avevano ancora smesso di girare che il portello si aprì e ne balzò fuori un tizio in tuta mimetica, con zaino sulle spalle e carabina
M4 al collo. «Che diavolo succede?» disse Willer. Dall'elicottero spuntarono altri nove soldati, molti dei quali carichi di radio e apparecchiature elettroniche. L'ultimo a uscire fu un uomo alto, magro, con i capelli neri e il volto ossuto, che indossava una tuta. Otto di loro scomparvero lungo il sentiero che portava alla chiesa, correndo l'uno dietro l'altro, mentre due rimasero assieme all'uomo in tuta. Willer finì la sigaretta, la buttò a terra, inspirò e attese. Non erano nemmeno federali, quelli... o almeno, non erano i federali che conosceva. L'uomo in tuta gli venne incontro a grandi falcate, si fermò. «Posso chiederle di identificarsi, agente?» disse con il tono neutrale che usano le autorità. Il poliziotto lasciò trascorrere un secondo. «Tenente Willer, polizia di Santa Fe. E questo è il sergente Hernandez.» Non si mosse. «Posso chiederle per cortesia di allontanarsi dall'auto?» Willer temporeggiò. Poi disse: «Se lei ha un distintivo, signore, è arrivato il momento di tirarlo fuori». Lo sguardo dell'uomo si posò, impercettibilmente, su uno dei soldati, che fece qualche passo avanti. Era un ragazzo muscoloso, con i capelli tagliati a spazzola, il viso dipinto in colori mimetici, tutto tronfio. Willer aveva già incontrato tipi del genere quand'era nell'esercito e non gli erano mai piaciuti. «Signore, per cortesia, si allontani dal veicolo», ripeté il soldato. «Chi diavolo sei tu per parlarmi così?» Non aveva alcuna intenzione di tollerare stronzate del genere, almeno finché non gli avessero mostrato qualche distintivo. «Sono il tenente della Omicidi del dipartimento di polizia di Santa Fe e sono qui in veste ufficiale, con un mandato, per inseguire un fuggitivo. Chi vi autorizza ad agire in questa zona?» L'uomo in tuta rispose con calma: «Sono il signor Masago della National Security Agency degli Stati Uniti d'America. Quest'area è stata dichiarata zona di operazioni speciali e messa sotto stato di emergenza militare. Questi uomini sono parte di un commando combinato Delta Force impegnato in una missione da cui dipende la sicurezza nazionale. Ultimo avvertimento: si allontani dal veicolo». «Finché non vedo...» In un istante Willer si trovò a terra, piegato in due, che tentava disperatamente di respirare mentre il soldato gli sfilava con destrezza la pistola dalla fondina. Con un rantolo fece entrare aria nei polmoni e aspirò avida-
mente. Si rigirò, riuscì ad appoggiare mani e ginocchia, sputò e tossì, tentando di non vomitare. Riprese il controllo e si rimise in piedi. Hernandez era immobile, sbalordito. Anche lui era stato disarmato. Willer fissò incredulo uno dei soldati che entrava con un cacciavite nella macchina, la sua macchina. Ne uscì un attimo dopo con la radio in mano e i cavi che penzolavano. Nell'altra mano aveva le chiavi dell'auto. «Ci consegni la sua radio portatile, agente», disse l'uomo in tuta. Willer respirò un'altra boccata d'aria, sbottonò l'astuccio e consegnò la radio. «Ora consegnate manganello, manette, bomboletta spray e ogni altra arma o dispositivo di comunicazione. Oltre alle restanti chiavi del veicolo.» Willer obbedì. Lo stesso fece Hernandez. «Ora ci dirigeremo verso la chiesa. Lei e l'agente Hernandez camminerete davanti.» I due poliziotti si inerpicarono lungo il sentiero. Quando passarono davanti alla Camera delle Discussioni, Willer notò che il computer portatile del monastero giaceva a terra, fuori della porta, in pezzi. Accanto c'era una parabolica fracassata, da cui penzolavano i cavi. Il tenente gettò un'occhiata all'interno e vide i soldati impegnati a montare scaffalature con materiale elettronico. Un altro, sul tetto, stava installando una parabolica più grossa. Entrarono in chiesa. Il canto si era interrotto e tutto taceva. I monaci erano stretti in un angolo, sorvegliati da due uomini del commando. Uno dei militari fece un cenno a Willer ed Hernandez perché si unissero a loro. L'uomo in tuta si parò dinanzi al gruppo di religiosi ammutoliti. «Sono il signor Masago, della National Security Agency del governo degli Stati Uniti. Stiamo conducendo un'operazione speciale in quest'area. Per la vostra sicurezza, siete pregati di restare in questa stanza, senza comunicare con il mondo esterno, finché non avremo finito. Due soldati resteranno qui in caso abbiate bisogno. L'operazione impegnerà dalle dodici alle ventiquattro ore. Riceverete tutto ciò che vi serve: acqua, bagni, un cucinino con provviste nel frigorifero. Mi scuso per il contrattempo.» Fece un cenno a Willer, indicando una stanza laterale. Il poliziotto lo seguì. L'uomo chiuse la porta, si voltò e disse adagio: «E ora, tenente, mi racconti per filo e per segno perché siete qui e chi è il fuggitivo». 6
Il sole era sorto da ore e il vallone nascosto si era trasformato in una zona morta, un inferno di massi che riflettevano i torridi raggi solari. Ford camminava lungo il letto secco del torrente, pensando che durante il giorno il nome Cimitero del Diavolo gli calzava alla perfezione, ancora di più che al crepuscolo. Si sedette su una roccia, sfilò la borraccia e bevve un piccolo sorso d'acqua. Si trattenne a fatica dal ripetere il gesto. Riavvitò il tappo e valutò che doveva esserci ancora un litro. Su una roccia piatta distese con cautela la mappa che stava già cominciando a rompersi lungo le pieghe, e prese il mozzicone di una matita. Temperò velocemente la punta e segnò un altro quadrilatero in cui non aveva trovato nulla. La sensazione di essere vicino al fossile aveva cominciato a fare i conti con la dura realtà del paesaggio in cui stava vagando ormai dall'alba. Tre grandi canyon e tanti altri più piccoli si riunivano in un totale caos di pietra... una terra distrutta dall'erosione, devastata dalle inondazioni, deturpata dalle frane. Era come se Dio l'avesse considerata la discarica della Creazione, la pattumiera in cui gettare tutte le pietre e la sabbia rimaste inutilizzate. Per di più, non aveva visto traccia di fossili, nemmeno i frammenti di legno pietrificato comunissimi nella mesa alta. Si trattava di un paesaggio privo di vita, nel vero senso della parola. Scosse un'altra volta la borraccia, si disse Che diavolo!, e ne bevve un altro sorso. Le dieci e mezzo. Aveva perlustrato metà della valle. Gli restava da esplorare l'altra metà, quella di sinistra, assieme a un numero imprecisato di canyon e di gole... Almeno un'altra intera giornata di lavoro. Non avrebbe potuto finire, se non avesse trovato dell'acqua. Ma era chiaro che in quell'inferno non ce n'era nemmeno una goccia. Se non voleva morire di sete, doveva incamminarsi verso il fiume non più tardi dell'alba del giorno successivo. Ripiegò la mappa, mise la borraccia a tracolla e si orientò rapidamente con la bussola, utilizzando come punto di riferimento un sottile pilastro di arenaria che si era staccato dalla parete del canyon e sporgeva in equilibrio precario. Avanzò faticosamente lungo la distesa di sabbia e attraversò un'altra pozza d'acqua asciutta, calciando con i sandali la bianca polvere alcalina. Affrettò il passo, già piuttosto veloce; oltrepassò il pilastro, oltre il quale scorse uno strato sottile di limo. Quel mattino aveva mangiato davvero pochissimo, qualche cucchiaino di avena schiacciata e bollita, e il suo stomaco avvertiva quella sensazione di vuoto ormai familiare che an-
dava al di là della semplice fame. Le gambe gli dolevano, i piedi erano pieni di vesciche, gli occhi arrossati dalla polvere. Fino a un certo punto, Ford accoglieva come benefiche le mortificazioni della carne, le considerava una punizione per i piaceri corporali. La stessa penitenza era per lui di conforto. D'altro canto, però, gli stenti spinti all'estremo si trasformavano essi stessi in un vizio. Ora si trovava in una zona pericolosa, dove non c'era spazio per incidenti o errori. Una gamba rotta, anche solo una distorsione alla caviglia, equivaleva a una condanna a morte: con così poca acqua sarebbe finito al Creatore prima che qualcuno lo trovasse e lo salvasse. Comunque, niente di nuovo; nella sua vita aveva affrontato situazioni ben più rischiose. Continuò a camminare, travagliato da sentimenti conflittuali. Il letto asciutto formava un stretta curva a ridosso di una parete di arenaria che creava un riparo di quattro o cinque metri, una specie di mezzaluna d'ombra. Ford si fermò un attimo a riposare. Vide una solitaria pianta di ginepro, immobile, come stordita dalla calura. Fece due lunghi respiri, lottando contro l'impulso di bere un'altra volta. Lungo il canyon si scorgeva il punto in cui la parete a strapiombo era crollata in una frana monumentale, creando un cumulo alto centocinquanta metri di massi grossi come automobili. C'era qualcosa su quei massi. La faccia levigata di uno di essi era inclinata in modo tale da ricevere direttamente la luce solare. E vi si vedeva una serie perfetta di orme di dinosauro, dal contorno preciso: una bestia enorme dagli artigli giganteschi che doveva aver attraversato quella che nell'antichità era una distesa fangosa. Ford si diresse alla base della frana, elettrizzato. Non sentiva nemmeno più la stanchezza. Era sulla strada giusta, in ogni senso: il T. rex era lì, da qualche parte in quel labirinto di rocce... Dio solo lo sapeva, ma forse quelle erano proprio le sue impronte. Fu in quel momento che avvertì il rumore, appena udibile nella vastità del deserto che lo circondava. Si fermò, guardò in alto, ma da sotto le rocce si scorgeva soltanto una parte di cielo. Il rumore si faceva sempre più forte e Ford concluse che doveva trattarsi del ronzio di un elicottero. Il suono svanì prima che riuscisse a localizzarlo nel cielo blu. Il monaco si strinse nelle spalle e si arrampicò sul cumulo di massi per esaminare le impronte più da vicino. La roccia si era spaccata orizzontalmente, mostrando una superficie ondulata di strati sedimentari, quasi neri se confrontati con gli altri, sopra e sotto, di colore rosso mattone. Li percorse con lo sguardo: una striscia nera dello spessore di circa dieci centimetri che correva lungo le formazioni circostanti. Se quelle che vedeva erano le impron-
te del tirannosauro - e ne avevano tutto l'aspetto -, la striscia scura era una specie di segno che indicava lo strato in cui si trovava l'animale. Scese dai massi e proseguì lungo il piccolo canyon, che tuttavia, dopo qualche curva, si chiuse in una gola e lo costrinse a tornare indietro. In quel momento sentì di nuovo il rumore dell'elicottero, stavolta più forte. Alzò lo sguardo, strizzando gli occhi: un raggio di sole si rifletté su un piccolo velivolo che stava passando quasi sopra di lui. Si fece schermo con le mani, ma ormai l'elicottero era scomparso, mimetizzato dal bagliore. Ford estrasse il binocolo e scrutò il cielo, e finalmente lo localizzò. Lo fissò, meravigliato. Era un velivolo piccolo e senza finestrini, lungo sette o otto metri, dal muso allungato e con il motore montato posteriormente. Lo riconobbe all'istante: si trattava di un MQ-1A Predator Unmanned Aerial Vehicle. Lo seguì con il binocolo, chiedendosi perché diavolo la CIA o il Pentagono facessero volare un esemplare altamente segreto della loro aviazione su un territorio per la maggior parte pubblico. Quel Predator era la versione operativa di un apparecchio che, quando lui era nell'Agenzia, si trovava ancora in fase di progettazione. Era un drone, un aeromobile radioguidato dotato di tecnologia ICCG, un sistema detto Indipendent Computer Controlled Guidance che permetteva al velivolo di operare in piena autonomia anche se perdeva temporaneamente il contatto con chi lo controllava a distanza. Ciò permetteva di diminuire in modo notevole il personale necessario alla guida del velivolo: bastavano tre tecnici con una stazione radio portatile, anziché una squadra di venti uomini a bordo di un camion lungo una decina di metri. Ford notò che il Predator era dotato di un paio di missili Hellfire C a guida laser. Lo guardò passare; l'apparecchio puntava a ovest. Poi, a circa dieci chilometri da lui, si inclinò lentamente e virò nella sua direzione. Diminuiva di quota e nel contempo accelerava... Che stava facendo? Continuò a osservarlo attraverso il binocolo, affascinato. L'apparecchio sembrava effettuare un attacco simulato. Ci fu un debole sbuffo di fumo e il Predator parve sobbalzare: aveva appena lanciato uno dei suoi missili. Incredibile. Ford si domandò chi o che cosa potesse essere il bersaglio. Una frazione di secondo dopo, in preda allo choc, capì: il bersaglio era lui. 7
Maddox si arrampicò sull'ultimo crinale e si fermò a osservare il panorama sottostante. Due canyon si riunivano a formarne uno più ampio, creando un anfiteatro roccioso dal liscio pavimento di sabbia gialla. Respirò affannosamente; per arrivare fin lassù aveva marciato come se avesse il diavolo alle calcagna e cominciava a sentire un lieve capogiro, non sapeva se per il caldo o per la sete. Si asciugò il sudore dal collo e dalla fronte, tamponandosi con cautela le zone gonfie, dove la puttana l'aveva graffiato e preso a calci. L'escoriazione alla coscia dovuta al proiettile pulsava dolorosamente e il sole gli bruciava la schiena nuda. Ma la sua preoccupazione più grande era l'acqua: dovevano esserci quaranta gradi e il sole gli batteva a picco sulla testa. Tutto sembrava luccicare sotto la calura. La sete aumentava, minuto dopo minuto. Seguì con lo sguardo la profonda fenditura del canyon centrale. Era da lì che sarebbero arrivati i Broadbent. Deglutì e gli parve di avere la bocca piena di colla secca. Avrebbe dovuto caricarsi in macchina una borraccia prima di partire al loro inseguimento... In ogni caso ormai era troppo tardi. E poi sapeva che anche quei due stavano patendo la sete quanto lui. Maddox si guardò intorno alla ricerca di una buona posizione. I numerosi massi rotolati dall'orlo del canyon offrivano diverse possibilità. Scorse un paio di enormi pietre incastrate l'una nell'altra; erano proprio di fronte alla gola da cui sarebbero arrivate le sue prede, il luogo ideale per un'imboscata, ancora meglio di quello da cui aveva ammazzato Weathers. Ma questa volta un buon punto di appostamento era essenziale. Doveva colpire due persone, anziché una, e Broadbent era armato. Come se non bastasse, Maddox non si sentiva in forma. Be', il gioco si chiudeva lì; niente chiacchiere e niente stronzate, avrebbe fatto fuori quei bastardi e se ne sarebbe andato da quell'inferno. Si incamminò giù dall'altopiano, scivolando e inciampando nella discesa, aggrappandosi agli sterpi e all'artemisia per non cadere. A un tratto un serpente a sonagli, nascosto all'ombra di una roccia, assunse la posizione di attacco, a S, ed emise un sibilo. Maddox si tenne alla larga; era il quinto che vedeva da quella mattina. Giunse al fondo del letto asciutto del torrente, lo attraversò e si arrampicò lungo la scarpata, attento a non lasciare impronte. Si fermò in prossimità dei massi e verificò se ci fossero altri serpenti. Non ne vide. Si trovava in pieno sole e il caldo era infernale, ma da quel punto godeva di una visuale perfetta sul lato opposto. Tolse dalla spalla il suo AR-15 calibro 223 e si sedette all'indiana, con l'arma appog-
giata sulle ginocchia. Diede una rapida controllata all'arma, poi, soddisfatto, si mise in posizione di tiro. I due massi, appoggiati uno contro l'altro, formavano una V, ideale per appoggiarvi la canna del fucile. Si accovacciò e guardò attraverso il mirino, muovendo il braccio teso a destra e a sinistra per scandagliare il paesaggio. Non poteva trovare un luogo migliore per appostarsi: da lì guardava dritto sul canyon da cui sarebbero usciti i Broadbent, due pareti a picco di arenaria con in mezzo un letto di sabbia. Niente ripari, cespugli o vie di fuga. L'unica possibilità sarebbe stata risalire lungo le pareti del canyon. Secondo il telescopio digitale, arrivati all'ultima curva i suoi bersagli si sarebbero trovati a quattrocentodieci metri di distanza. Maddox li avrebbe lasciati avanzare ancora di duecento metri scarsi, poi avrebbe fatto fuoco. Non tirava un alito di vento, sarebbero stati due tiri puliti. Nonostante il dolore e la fatica, sorrise al pensiero: i proiettili che colpivano i bastardi alla schiena, il sangue che schizzava sulla sabbia... L'aria odorava di polvere e di rocce bollenti e gli venne un improvviso capogiro. Cristo. Chiuse gli occhi e recitò il suo mantra, tentando di rendere la mente lucida e vigile, ma aveva troppa sete per riuscire a concentrarsi. Aprì gli occhi e abbassò di nuovo lo sguardo sul canyon. Ci volevano almeno altri dieci minuti. Mise la mano in tasca e tirò fuori il taccuino: era unto, pieno di orecchie, non più grande di quindici centimetri per dieci. Fu stupito da quanto sembrava insignificante. Sfogliò le pagine. Numeri, una specie di codice... e in fondo, sull'ultima pagina, due grandi punti esclamativi. Qualunque cosa volessero dire, non era un suo problema; Corvus sapeva che cosa farci. Lo rimise in tasca, cambiò posizione e si pulì con il fazzoletto il collo madido di sudore. Sentiva il flusso di adrenalina e quella nitida consapevolezza che precedeva sempre un omicidio. I colori erano più luminosi, l'aria più trasparente, i suoni più distinti. Molto bene. Avrebbe continuato a sentirsi così per i successivi dieci minuti. Diede un'ultima occhiata al fucile, più per tenersi impegnato che altro. Gli era costato un paio di bigliettoni, ma Maddox ne aveva fatto buon uso. Toccò la canna e ritirò la mano: era bollente. Cristo santo. Rammentò a se stesso che questa volta non stava lavorando per soldi, come un qualsiasi killer a pagamento. Lo stava facendo per motivi più importanti. Corvus l'aveva tirato fuori di prigione e avrebbe potuto farcelo ritornare. Questo infondeva in Maddox un autentico senso del dovere. Tuttavia, la ragione principale era la sua stessa sopravvivenza. Se non li avesse ammazzati entrambi, nessuno, nemmeno Corvus, avrebbe potuto
salvarlo. 8 Tom sentiva il caldo della sabbia penetrare attraverso le suole delle scarpe di cuoio italiane; le vesciche si erano spaccate da tempo e la carne viva sfregava a ogni passo. Ma, con l'aumentare della sete, il dolore sembrava diminuire. Avevano superato diverse tinajas, pozze scavate nella roccia che di solito contenevano acqua. Erano tutte asciutte. Si fermò in uno spicchio d'ombra sotto una roccia. «Ci fermiamo cinque minuti?» «Oh, sì.» Si sedettero, al riparo di quella tettoia naturale. Tom prese la mano di Sally. «Come va?» Lei scosse il capo, agitando i lunghi capelli biondi. «Tutto okay. E tu?» «Sopravvivo.» La donna tastò i pantaloni di seta del suo completo da «signor Kim» e sorrise debolmente. «Ha funzionato?» «Non avrei mai dovuto lasciarti sola.» «Tom, smettila di darti la colpa.» «Hai idea di chi sia l'uomo che ti ha rapita?» «Mi ha raccontato tutto, per vantarsi. È stato assoldato dal conservatore di un museo della costa est. Non credo sia una persona colta, ma di sicuro non è uno stupido.» Si appoggiò all'indietro, chiuse gli occhi. «Dunque ha ammazzato Weathers per prendergli il taccuino e poi ti ha rapita. Non sarei mai dovuto andare a Tucson, mi dispiace...» Sally gli posò una mano sulla spalla. «Risparmia le scuse per quando saremo fuori di qui.» Dopo una breve pausa domandò: «Credi che l'abbiamo davvero seminato?» Tom non rispose. «Non sei ancora tranquillo, vero?» Lui annuì, facendo vagare lo sguardo giù per il canyon. «Non mi piace il modo in cui è scomparso. Somiglia troppo a quello che è successo nella città fantasma.» «L'hai detto tu: si è perso mentre ci seguiva.» «Lui sa che se non ci ammazza è finito. Come incentivo non è niente male.» Sally annuì lentamente. «Non è il tipo che si arrende.» Appoggiò di
nuovo la testa alla roccia e richiuse gli occhi. «Vado su a dare un'occhiata. Voglio vedere se è ancora dietro di noi.» Tom si arrampicò su una pietraia, fino a raggiungere una cengia. Ma dietro di loro non c'era nulla, solo una spoglia distesa di detriti. Giudicò che al fiume mancasse almeno una trentina di chilometri, però aveva solo una conoscenza molto vaga di quell'area. Imprecò tra sé. Avrebbe voluto una carta della zona. Non si era mai addentrato così a fondo nella mesa e non aveva idea di cosa ci fosse tra loro e il fiume. Tornò giù e si soffermò per un istante a osservare Sally, poi la toccò. Lei aprì gli occhi. «È meglio avviarci.» Mentre l'aiutava ad alzarsi, la donna gemette. Stavano per mettersi in cammino quando un forte boato, simile a un tuono, squarciò il silenzio, riecheggiando attraverso il canyon. Tom alzò la testa. «Strano. In cielo non c'è una nuvola.» 9 Ford si rannicchiò sul fondo del dirupo, la faccia a terra, le mani sulla testa, finché l'assordante rombo del missile non si disperse in lontananza, riecheggiando nel canyon come una sequela di tuoni. Sabbia e ghiaia erano ancora nell'aria, mentre l'eco si spegneva. Il monaco attese che tornasse il silenzio, poi sollevò la testa. Era immerso in una fosca nube arancione. Tossì, coprendosi la bocca con l'orlo dell'abito, e tentò di respirare, ancora stordito per l'onda d'urto. Il boato era stato potentissimo: per un attimo aveva pensato che sarebbe bastato quel suono a ucciderlo. Invece era ancora lì, vivo e incolume. Non ci poteva credere. Si alzò, appoggiandosi alla parete del canyon, la testa che gli pulsava, le orecchie che fischiavano. Si era rifugiato in una rientranza scavata nella roccia ed era stata una scelta fortunata. Intorno a lui erano disseminate al suolo grosse schegge di pietra, ma quel provvidenziale antro l'aveva protetto alla perfezione. Poco per volta la polvere si depositò e la nebbia arancione si trasformò in foschia. Ford percepì uno strano odore, un misto soffocante di roccia frantumata e cordite. La polvere, intrappolata tra le pareti del canyon, sarebbe rimasta a lungo in sospensione. La polvere... Ora era quella a proteggerlo. L'avrebbe celato ai penetranti occhi delle videocamere del Predator, che senza dubbio stava ancora vo-
lando in cerchio per effettuare una valutazione dei danni. Ford si accovacciò, immobile, così ricoperto di polvere da sembrare anche lui una roccia. Continuava a sentire l'apparecchio ronzare da qualche parte nel cielo. Dieci minuti e il suono era cessato. Il monaco si alzò barcollando, tossendo e sputando fango; scosse i capelli e si pulì la faccia. Solo in quel momento si pose il problema di spiegare l'inspiegabile: un Predator aveva deliberatamente lanciato un missile contro di lui. Perché? Doveva essere stato un errore, qualche test fallito. Eppure, più ci pensava meno quell'ipotesi lo convinceva. Tanto per cominciare, sapeva che un drone segretissimo non sarebbe mai stato testato al di fuori di una zona militare, soprattutto in New Mexico, dove si trovava il White Sands Missile Range, il più grande terreno di prova della nazione. E non era nemmeno possibile che il Predator si fosse allontanato da lì e fosse finito dove lui si trovava per sbaglio: non aveva un raggio d'azione sufficiente. La virata, la picchiata e le manovre di attacco eseguite dal drone andavano oltre le capacità dell'ICCG: doveva esserci un essere umano a telecomandarlo, un pilota che vedeva chi era il bersaglio ed era consapevole di come agiva. Volevano forse colpire qualcun altro? Si trattava di uno scambio di persona? Era possibile, ma avrebbe contravvenuto alla prima regola del combattimento: l'identificazione certa del bersaglio. Come poteva lui, in sandali e abito da monaco, essere preso per qualcun altro? Forse la CIA gli stava dando la caccia per qualcosa che lui sapeva o aveva fatto. Eppure gli pareva inconcepibile che la CIA volesse assassinare uno dei suoi... Era illegale, d'accordo, ma più che altro era del tutto contrario alle abitudini dell'Agenzia. E anche se avessero voluto ucciderlo, non avrebbero inviato a dargli la caccia un drone segretissimo da quaranta milioni di dollari. Sarebbe stato molto più semplice eliminarlo nel suo stesso letto, nella cella del monastero, aperto ventiquattr'ore su ventiquattro, e poi farlo passare per il solito infarto. C'era sotto qualcos'altro, qualcosa di decisamente strano. Ford si sfilò l'abito, scosse via la polvere e se lo rimise. Scrutò il cielo con il binocolo, ma il Predator era scomparso. Poi osservò l'altopiano colpito dal missile. Vide la fresca cicatrice aranciata che tagliava l'arenaria più scura, un buco scavato nella roccia da cui si levavano ancora polvere e nubi di sabbia. Se non si fosse rifugiato in quella rientranza nella parete del canyon, di sicuro sarebbe rimasto ucciso. Riprese il cammino, con le orecchie che non smettevano di fischiare.
Continuava a non riuscire a spiegarsi l'accaduto. Poi cominciò a pensare che l'attacco doveva avere a che fare con il dinosauro. Non sapeva dire esattamente perché; era più una sensazione che una deduzione. Tuttavia niente aveva senso. Come diceva il buon vecchio Sherlock Holmes? Quando tutte le ipotesi vengono scartate, ciò che resta, per quanto improbabile, è la verità. Per qualche insondabile motivo, rifletté Ford, un'agenzia governativa era disposta a fare qualunque cosa pur di mettere le mani sul fossile senza lasciare testimoni, persino a far fuori un cittadino americano. Ma ciò sollevava un'ulteriore domanda: come facevano a sapere che lui era in cerca del dinosauro? Solo Tom Broadbent ne era al corrente. Durante il suo periodo nella CIA, Ford aveva avuto a che fare con diverse sotto-agenzie segrete, task-force speciali e black detachments. Queste ultime erano piccole squadre altamente segrete di specialisti formati per specifici scopi investigativi o di ricerca, smobilitate non appena il problema era risolto. Nel gergo della CIA venivano chiamate Black Dets. Ufficialmente quelle squadre dovevano essere sotto il controllo dell'NSA, della DIA o del Pentagono; di fatto non dipendevano da nessuno. Tutto dei Black Dets era segreto: l'obiettivo, il budget, il personale, la loro stessa esistenza. Alcune squadre erano talmente occulte che nemmeno i pezzi grossi della CIA erano autorizzati a trattare con loro. Ford ripensò a quelle con cui aveva avuto a che fare, tutte con acronimi magniloquenti: TEMPWG (Thermonuclear Electromagnetic Pulse Working Group, il «gruppo di lavoro sull'impulso elettromagnetico nucleare»), ANDD (Allied Nations Disinformation Detachment, il «distaccamento disinformazione nazioni alleate») e BDGZD (Bioweapons Defense Ground Zero Detachment, il «distaccamento difesa da armi biologiche su Ground Zero»). Ford si ricordò di come lui e i colleghi disprezzassero i Black Dets: individui privi di scrupoli che non dovevano rendere conto a nessuno, gestiti da cowboy convinti che il fine giustifichi i mezzi. Qualsiasi mezzo e qualsiasi fine. Quella situazione gli puzzava troppo di Black Dets. PARTE QUINTA LA PARTICELLA DI VENERE Venne il giorno in cui i tirannosauri maschi si batterono per lei nel combattimento rituale. Giravano in circolo sotto il suo sguardo, ruggendo
e simulando di attaccarsi, e la foresta rimbombava delle loro grida. Poi si lanciarono l'uno contro l'altro: si prendevano a testate, indietreggiavano, sradicavano alberi, rivoltavano la terra in preda a una furibonda lussuria. Quei ruggiti le eccitavano i lombi e la facevano ardere. Quando il maschio vincitore la montò, mugghiando di trionfo, lei si sottomise, le sinapsi che liberavano tutta la loro carica, a sopprimere l'impulso di squartare il suo pretendente e aprirlo dal collo all'addome. Non appena la cosa finì, ne scomparve anche il ricordo. Per deporre le uova, si mise in viaggio verso ovest, diretta a una catena di alture all'ombra dei monti. Scavò e preparò un nido nella sabbia. Dopo aver deposto le uova, coprì la covata con erba marcia e bagnata che, fermentando, avrebbe prodotto calore. Vi affondava il muso per controllarne la temperatura e la sostituiva sovente. Era difficile che abbandonasse il nido, rinunciò persino a procurarsi il cibo per potergli fare la guardia. Difese la prole con violenza e la allevò in modo efficiente. Era più grossa dei maschi della sua specie, per poter proteggere i cuccioli dalla loro sconsiderata brama di carne. Il suo sentimento non si poteva definire «amore»: lei era una macchina biologica su cui era implementato un programma complesso allo scopo di perpetuare copie di sé e assicurare loro dosi di carne che ne permettessero la sopravvivenza, in modo che si riproducessero a loro volta. L'idea di «prendersi cura» dei figli per lei era neurologicamente impossibile da concepire. Quando i piccoli raggiunsero una certa taglia, cominciarono a cacciare in gruppo, ampliando il loro territorio man mano che cresceva il desiderio di carne, fu a quel punto che lei li abbandonò e migrò nei luoghi di un tempo; l'esistenza dei cuccioli non era più parte della sua coscienza. Al suo ritorno, il terrore tornò ad abbattersi sulla foresta come gas velenoso. L'ampia falcata era silenziosa. La terra non tremava né si scuoteva al suo passaggio. Lei camminava con passo felpato, leggera e silente; il colore del manto la mimetizzava con la vegetazione. Distingueva la fame e la sazietà. Conosceva il sapore del sangue che le inondava la bocca. Distingueva il buio e la luce, il sonno e la veglia. Il programma biologico continuava, inesorabile. 1 Melodie osservò l'ultimo drappello di guardie che si allontanava dal laboratorio di mineralogia, facendo tintinnare le chiavi e parlando a voce alta
in corridoio. Chiuse a chiave la porta e vi si appoggiò contro, tirando un sospiro. Era quasi l'una. Era venuto il coroner, che aveva firmato un mucchio di carte; gli infermieri del pronto soccorso avevano portato via il cadavere; un poliziotto annoiato aveva fatto il sopralluogo di rito, scarabocchiando qualche appunto su un taccuino. Tutti erano convinti che si trattasse di un infarto e Melodie era certa che l'autopsia l'avrebbe confermato. Lei era l'unica a sospettare che si trattasse di omicidio. L'assassino era sulle tracce del dinosauro, su questo non aveva dubbi... altrimenti perché avrebbe rubato i risultati della loro... anzi, della sua ricerca? Doveva fare in fretta. Si chiese se avesse fatto bene a tenere per sé i propri dubbi. Non c'erano indizi, né prove reali di omicidio, solo l'improbabile decisione di Corvus di mettersi a esaminare un trilobite. Riferire i suoi sospetti e farsi coinvolgere nel caso sarebbe soltanto servito ad attirare l'attenzione dell'assassino su di lei. E questo non doveva accadere, soprattutto non ora che la posta in gioco era così alta. Aveva troppe cose importanti a cui pensare. Afferrò una pesante sedia di metallo e la mise contro la porta, bloccando la maniglia e assicurandosi così che nessuno potesse entrare, nemmeno con una chiave. Se le avessero chiesto perché si era chiusa dentro, avrebbe sempre potuto rispondere che la morte di Corvus l'aveva spaventata. D'altra parte non erano molti i conservatori che, dai loro uffici al quinto piano rivestiti di pannelli di legno, si degnavano di scendere nei laboratori del seminterrato, specie di domenica. Melodie avrebbe avuto un sacco di tempo per lavorare indisturbata. Si spostò rapidamente nella zona magazzino, contigua al laboratorio, in cui migliaia di reperti di fossili e minerali, numerati e classificati, erano sistemati su mensole metalliche che andavano dal pavimento al soffitto. I più piccoli stavano nei cassetti, i più grandi in scatole su scaffali a vista. Una scala scorrevole simile a quella delle biblioteche dava accesso ai piani più alti. Il cuore le batteva forte per l'ansia. Melodie spinse la scala lungo le guide finché non raggiunse la fila che le interessava. Salì. Sullo scaffale più alto, in una zona tetra confinante con il soffitto, c'era una vecchia cassettina di legno con un'etichetta scolorita: Uova di Protoceratops andrewsii Flaming Cliffs Accesso n. 1923-5693
A W. Grainger, collezionista Il coperchio di legno sembrava inchiodato, ma non era così. Melodie lo sollevò, lo posò da una parte e tolse uno strato di paglia. Nascoste tra le uova fossili di dinosauro c'erano le copie dei CD-ROM su cui lei aveva masterizzato tutti i dati e le immagini. Accanto c'era una custodia di plastica con tre sottili sezioni del campione originale, tanto piccole che non se ne notava la mancanza. Melodie rimise via i CD, tolse la custodia di plastica dai campioni, ricoprì con la paglia, richiuse il coperchio, scese dalla scala e la fece scorrere fin dove l'aveva trovata. Riportò la custodia alla levigatrice, prese un frammento e lo inserì nell'apparecchio. Quando la resina epossidica si fu solidificata cominciò la lucidatura per ottenere una sezione perfetta, sottilissima, in grado di fornire buone immagini al microscopio elettronico. Era un lavoro di precisione ed era ancora più difficile farlo con le mani che le tremavano. Dovette interrompersi diverse volte, respirare a fondo e ripetersi che non c'era motivo che l'assassino tornasse. Ora il killer aveva ciò che cercava e non poteva supporre che lei avesse una copia dei dati. Quando il reperto fu pronto, accese il microscopio e aspettò che si scaldasse. In quel momento notò che vicino c'era il registro, aperto. Le balzò subito agli occhi l'ultima voce, scritta con grafia netta e inclinata: Ricercatore: I. Corvus Località/Numero del reperto: Deserto della mesa alta/Chama River, N.M. T. rex. Note: Terzo esame di un notevole frammento della colonna vertebrale di un T. rex. Straordinario! Passerà alla storia. LG Terzo esame? Sfogliò il registro a ritroso e trovò altre due registrazioni, entrambe scritte a fondo pagina, dove sicuramente Corvus aveva trovato alcune righe vuote. Melodie si aspettava una cosa del genere, però non così spudorata. Il bastardo aveva progettato di tagliarla fuori, nel vero senso della parola. E lei, la solita ricercatrice gentile e desiderosa di approvazione, gliel'aveva quasi permesso. Sfogliò i registri d'ingresso, trovando altre false annotazioni. Ecco perché Corvus era andato nel laboratorio a notte fonda: per rubare il suo lavoro e contraffare i registri.
Si accorse di avere il respiro affannoso. Era da quando frequentava la prima elementare che sognava di diventare una scienziata. Per anni aveva creduto che quello fosse l'unico campo in cui la gente era altruistica e lavorava non per se stessa, ma per il progresso della conoscenza umana. Aveva sempre pensato che in quel campo i riconoscimenti andassero a chi li meritava. Che ingenua. C'era solo un modo per assicurarsi il merito e nello stesso tempo proteggersi dall'assassino: portare a termine la ricerca e precedere il killer annunciando i risultati alla stampa. Se li presentava alla sezione on line del Journal of Paleontology, sarebbero stati valutati dagli addetti ai lavori e pubblicati su Internet nel giro di tre giorni. Ovviamente, avrebbe dato a Corvus la sua parte di merito, un merito secondario ma pur sempre un merito, cioè quello di averle fornito il reperto. A chi appartenesse quel campione, quale fosse la sua provenienza e come fosse finito nelle sue mani, erano tutte domande che trascendevano la sua ricerca. Certo, ci sarebbero state polemiche. Il fossile poteva essere stato rubato, forse era persino illegale. Ma niente di tutto ciò aveva a che vedere con il suo lavoro: le avevano dato un campione da analizzare e lei l'aveva fatto. Una volta che le ricerche fossero state pubblicate, sarebbe stato del tutto inutile ucciderla. E sarebbe stata lei a dettare le regole. 2 Maddox, in agguato dietro il masso, cambiò posizione, distese i piedi e li ruotò per farvi circolare meglio il sangue. Il sole gli picchiava sulla schiena come un martello su un'incudine. Il sudore gli gocciolava dai capelli, dal collo, dalla faccia, i tagli gli bruciavano. La ferita alla coscia pulsava violentemente... Ormai aveva fatto infezione. Si asciugò il viso, strizzò gli occhi per non far entrare il sudore. Aveva la lingua impastata dalla polvere, le labbra spaccate. Cristo, se aveva sete! Erano passati venti minuti e i Broadbent non si erano visti. Diede un'occhiata nel telescopio, perlustrando il canyon deserto. Potevano aver preso una deviazione che lui non conosceva, oppure aver trovato l'acqua... In questo caso, forse avevano deviato verso nord, verso Llaves. Se li avesse persi... E all'improvviso eccoli.
Maddox tentò di rilassarsi mentre guardava nel mirino, il dito appoggiato contro il grilletto bollente. Restò in attesa, finché i due non si trovarono a circa duecento metri. Scorgeva il calcio della pistola infilato alla cintola dell'uomo. Non avrebbe avuto il tempo di estrarla, tanto meno di usarla. E, se anche l'avesse fatto, a quella distanza non sarebbe servita granché. Un altro minuto e furono in posizione. Premette il grilletto e fece fuoco ripetutamente, con il selettore di tiro su full auto. L'arma rinculò. Alzò lo sguardo e vide che tutti e due tornavano di corsa indietro nel canyon. Tutti e due. Che diavolo...? Mancati. Tornò a guardare nel telescopio, inquadrò la donna, fece nuovamente fuoco. Una volta, due... ma i proiettili colpivano solo la sabbia davanti a loro, mentre le sue prede correvano zigzagando verso la parete. Cercavano di scappare riparandosi dietro la curva del canyon. Si alzò con un ruggito di frustrazione. Spostò il selettore su semiautomatico e si lanciò di corsa giù per il pendio. Si fermò, si inginocchiò, sparò. Inutile: i due erano già al riparo. Come aveva fatto a mancarli? Che cosa aveva che non andava? Distese la mano, aprì il pugno e fu sorpreso da quanto tremava. Era stanco, assetato, ferito, forse aveva la febbre... In ogni caso, come aveva fatto a mancarli? Poi capì. Non era abituato a fare fuoco ad angolo acuto: doveva aver calcolato male la traiettoria del proiettile. Avrebbe dovuto sparare prima un proiettile di prova e poi prendere la mira. Invece, aveva avuto fretta. Eppure gli rimaneva una possibilità. Le pareti del canyon erano ripide, i Broadbent erano comunque in trappola. Avrebbe potuto ancora ammazzarli... se fosse riuscito a trovarli. Si mise in spalla il fucile e corse verso di loro. In un minuto aveva girato la curva. Eccoli, trecento o quattrocento metri più avanti. Anche da lontano si capiva che la donna era senza forze. Il marito la stava sorreggendo. L'una e l'altro dovevano essere duramente provati. Non c'era da stupirsi: lei era digiuna da trentasei ore ed entrambi dovevano essere assetati quanto Maddox. Per di più, la puttana zoppicava. Li inseguì, a passo sostenuto. La sabbia era cedevole ed era difficile spostarsi, e questo lo avvantaggiava. Si muoveva ad ampie falcate, risparmiando energie, certo che li avrebbe battuti sulla lunga distanza. All'inizio correvano forte, in preda al panico, aumentando il vantaggio, ma mentre Maddox proseguiva a passo costante, le prede cominciarono a perdere col-
pi e a rallentare. Li inseguì per una, due, tre curve. Quando svoltò alla terza, la donna procedeva a fatica e l'uomo l'aiutava. Maddox aveva ridotto lo stacco a meno di duecento metri. Nonostante ciò, non aumentava la velocità. Ormai sapeva di essere più resistente di loro e che, finalmente, li aveva in pugno. Li vide scomparire dietro un'altra curva. Quando svoltò l'angolo, erano ancora più vicini. Sentiva l'uomo parlare a Sally, incoraggiarla mentre le dava una mano. Maddox mise a terra un ginocchio, prese la mira e sparò in automatico. I bersagli si gettarono a terra e lui ne approfittò per guadagnare terreno. Quando si rimisero in piedi, erano a meno di un centinaio di metri. Lei cadde e lui la aiutò ad alzarsi. Quaranta metri. Anche con le mani tremanti, nemmeno un idiota avrebbe sbagliato. Broadbent tentava di incoraggiarla, ma lei vacillava... Poi si arresero. Si voltarono e lo guardarono in faccia, con aria di sfida. Maddox prese la mira. Ci ripensò. Si avvicinò ancora. Venticinque metri. Spostò il selettore di tiro, si inginocchiò, puntò e fece fuoco. Clic! Nulla. Aveva esaurito il caricatore. I due si scagliarono verso di lui, urlando. Maddox si frugò addosso in cerca della pistola e fece partire un proiettile, ma la donna gli si scagliò contro come una gatta selvatica, afferrando l'arma con entrambe le mani. Caddero a terra, lottando per il possesso della pistola, poi lui riuscì ad agguantarla, le saltò sopra e gliela puntò in viso, armeggiando per togliere la sicura. E sentì una pistola puntata contro la sua testa. Vide che si trattava della calibro 22 di Broadbent. «Conto fino a tre», fece Tom. «Le sparo! Vedrai!» «Uno.» «Le faccio saltare le cervella, giuro! Vedrai!» «Due.» Maddox non avrebbe potuto sparare due proiettili, lo sapeva. Si voltò di scatto, puntò l'arma su Broadbent e fece fuoco, abbattendolo. Prese la mira per sparare un'altra volta, ma la puttana gli assestò un potente calcio all'inguine, così forte che la mano si contrasse e dal revolver partì un colpo. Gli sembrò che qualcosa gli avesse tirato con violenza la gamba, che si faceva insensibile... mentre lui scorgeva un fiotto cremisi sulla sabbia. «La mia gamba!» urlò, lasciando cadere la pistola e stringendosi i pantaloni, pazzo di dolore. «La mia gamba!» Vedeva il sangue, il suo sangue,
sgorgare a fiotti. «Muoio dissanguato!» La donna fece qualche passo indietro, puntandogli contro la sua stessa Glock. Da come la impugnava, Maddox capì che sapeva usarla. «No! Aspetta! Per favore!» Lei non sparò. Non ce n'era bisogno. Il sangue che gli schizzava fuori dall'arteria femorale gli inzuppava i pantaloni. Sally Broadbent si mise la pistola alla vita e si chinò rapida sul marito, steso a terra ferito. Maddox la guardava, felice di non essere stato ammazzato. Lacrime di gratitudine gli rigavano le guance, poi fu preso da un capogiro e vide le pareti del canyon che si muovevano. Tentò di rimettersi in piedi, ma era così debole da non riuscire nemmeno ad alzare la testa e crollò sulla sabbia, come se qualcuno lo stesse tirando verso il basso. «La mia gamba...» sussurrò con voce rauca. Voleva vederla, tuttavia non ci riusciva, era troppo debole. Scorgeva soltanto il piatto cielo blu sopra la sua testa. Si sentì invadere da un senso di distacco, come se si stesse trasformando in fumo levandosi nell'aria, espandendosi fino a dissolversi nel nulla. Poi divenne lui stesso il nulla. 3 Wyman Ford si fermò accanto a un pilastro di roccia e si mise in ascolto. Aveva udito le detonazioni piuttosto distintamente: tre colpi di un'arma automatica, forse un Ml6, seguiti da altri due, più cupi, probabilmente di una pistola di grosso calibro. I colpi sembravano provenire dalla parte opposta del Cimitero del Diavolo, forse un chilometro e mezzo a nord-est. Restò in attesa di altri segnali, ma dopo quel rapido scambio di spari non udì più niente. Si spostò all'ombra. Stava capitando qualcosa di molto strano. Se la CIA gli aveva insegnato qualcosa, era che sopravviveva solo chi disponeva delle informazioni migliori. Dimentica le armi, l'addestramento dei commando e le apparecchiature supertecnologiche. I combattimenti si vincono, innanzi tutto, con le informazioni. E a lui mancavano proprio quelle. Ford soppesò la borraccia, l'agitò, svitò il tappo e bevve un piccolo sorso. Gliene restava ancora mezzo litro e la prima sorgente sicura era a più di trenta chilometri. Non poteva fare nient'altro, se non mettersi in marcia verso l'acqua. Eppure gli spari non erano lontani, nel giro di una ventina di
minuti sarebbe arrivato all'imbocco della valle da cui provenivano. Tornò indietro, deciso a scoprire che cosa stava succedendo. Stabilì di attraversare il Cimitero del Diavolo, puntando verso l'ingresso di un canyon a nord-est, attraverso una zona di basse dune sabbiose. Si arrampicò su una serie di rocce piatte, superò alcune colline di cenere, discese il letto asciutto di un torrente e proseguì. La parte opposta del Cimitero del Diavolo era ancora più strana di come se l'era immaginata. Le pareti del canyon cedevano il passo all'arenaria, alternata a scisto e a tufo di origine vulcanica. La valle si ramificava in numerose gole senza uscita, molte delle quali contenevano lisce cupole rocciose e zone fortemente erose. Era un'area complessa e caotica. Da qualche parte, proprio lì, era nascosto il fossile. Ford scosse il capo. Che stupido era, a continuare a pensare a quel dinosauro. Sarebbe stato già fortunato a uscirne vivo. 4 Tom aprì gli occhi e vide Sally china su di lui, la cascata di capelli biondi che gli sfiorava il viso, il loro odore che gli entrava nelle narici. Gli stava tamponando il volto con un brandello di stoffa. «Sally? Stai bene?» «Io sì. Tu, piuttosto, sei stato colpito di striscio da un proiettile.» Tentava di sorridere, ma la sua voce tremava. «Sei svenuto per qualche istante.» «E lui?» «È morto... credo.» Tom si rilassò. «Per quanto tempo sono...» «Solo pochi secondi. Mio Dio, Tom, ho temuto...» Si interruppe. «Mezzo centimetro più a destra e... Non importa. Hai una fortuna dannata.» Tom tentò di rialzarsi e sussultò. Il dolore gli martellava le tempie. Sally lo fece sdraiare di nuovo. «Non ho finito. Ti ha colpito di striscio, hai rischiato una commozione cerebrale, ma l'osso non si è spezzato. Hai la testa dura, tu.» Gli legò una striscia di seta blu intorno al capo. «Credo che Valentino dovrebbe entrare nel business delle bende firmate. Sei uno schianto.» Tom cercò di sorridere, trasalì. «È troppo stretta?» «Per niente.» «Comunque, ti devo ringraziare. Hai fatto un uso perfetto di quella pi-
stola scarica.» Lui le prese la mano. «Aiutami a sedermi. Sembra che la mia testa si stia riprendendo.» Sally l'aiutò a mettersi seduto, poi ad alzarsi. Lui barcollò, poi riprese l'equilibrio. «Sicuro di stare bene?» domandò lei. «Sono molto più preoccupato per te.» «Ho un'idea: tu ti preoccupi per me e io per te.» Tom cercò di non pensare alla sete. Lo sguardo gli cadde sull'uomo che giaceva sulla sabbia: il bastardo che aveva rapito e tentato di violentare e uccidere sua moglie. Era a torso nudo, le braccia lungo i fianchi, quasi stesse dormendo. Le gambe erano distese, i jeans avevano un grosso buco ed erano inzuppati di sangue nerastro. Sotto si allargava una grande pozza di sangue. Tom si chinò. L'uomo aveva un volto incavato e magro, non rasato. I capelli neri erano striati di polvere. Le labbra erano rilassate, atteggiate a un mezzo sorriso, il capo riverso all'indietro rivelava un brutto pomo d'Adamo ricoperto di una barba corta e ispida. Un rivolo di saliva gli scendeva da un angolo della bocca. Gli occhi erano due fessure, non proprio chiusi. Il torace muscoloso faceva pensare a un carcerato dedito al body building. Tom gli tastò il collo e fu sorpreso di sentire che pulsava. «È morto?» chiese Sally. «No.» «Che cosa facciamo?» Tom tentò di sfilargli la gamba fradicia dei jeans, ma era durissima. Prese il coltellino che l'uomo aveva alla cintola e tagliò la stoffa dei pantaloni: la gamba e l'inguine erano inondati di sangue. Il proiettile era uscito da dietro il ginocchio, facendoglielo quasi saltare. Continuava a perdere sangue. «Sembra che la pallottola abbia preso l'arteria femorale.» Sally distolse lo sguardo. «Aiutami a metterlo all'ombra contro quella roccia.» Lo spostarono. Tom si tagliò un lembo della camicia e lo usò a mo' di emostatico stringendoglielo intorno alla gamba per arginare il flusso ematico. Gli rovistò nelle tasche e gli prese il portafogli. Vi trovò una patente dell'Ohio con sopra una foto dell'uomo: lo sguardo arrogante, pieno di sé, il sorriso distorto... da vero psicopatico. «Jimson A. Maddox», lesse a voce alta. Frugò nel portafogli ed estrasse
un rotolo di banconote, carte di credito e scontrini. Notò con sorpresa un biglietto da visita spiegazzato: IAIN CORVUS, D. PHIL. OXON. F.R.P.S. Assistente Conservatore Dipartimento di Paleontologia dei Vertebrati Museo di Storia Naturale Central Park West/Novantasettesima Strada New York, NY 10024 Lo voltò. Sul retro, scritti a mano, c'erano l'indirizzo di un club, un'email e un numero di cellulare. Lo porse a Sally. «Ecco il tipo per cui lavora», osservò lei. «Quello che l'ha fatto uscire di prigione.» «Non riesco a credere che lo scienziato di un museo così importante possa essere coinvolto in rapimenti, furti e omicidi.» «Quando la posta è molto alta, certa gente è disposta a fare qualunque cosa.» Lei gli restituì il biglietto e Tom se lo mise in tasca assieme alla patente. Esaminò il resto del portafogli e perquisì veloce le altre tasche. Trovò il taccuino, lo prese. «Guarda guarda...» fece Sally. Tom si infilò in tasca anche quello. In un astuccio appeso alla cintura dell'uomo trovò un caricatore di riserva per la pistola. Si guardò in giro e vide l'arma a terra, dove Sally l'aveva gettata. La raccolse. «Sei sicuro che quella pistola ti serva davvero?» «Potrebbe avere un complice.» «Non credo.» «Non si sa mai.» Il tizio non aveva addosso nient'altro di interessante. Tom gli contò di nuovo le pulsazioni: deboli, ma costanti. Avrebbe preferito fosse morto: avrebbe reso le cose più semplici. Non provava alcuna pietà per lui e la cosa lo inquietò. Il fucile giaceva sulla sabbia qualche metro più in là. Tom lo prese, estrasse il caricatore vuoto e lo gettò via. «Andiamo», disse. «E lui?» «L'unica cosa che possiamo fare è uscire di qui e chiamare soccorsi. Se dobbiamo dirla tutta, è spacciato.» Tom le mise un braccio intorno alla vi-
ta. «Pronta?» Scesero dal letto asciutto della cascata reggendosi a vicenda, barcollando. Camminarono una decina di minuti senza parlare, poi Tom si fermò, sorpreso. Una figura in abito da monaco veniva a grandi passi verso di loro, agitando le braccia. Era Wyman Ford. «Tom!» gridò questi, mettendosi a correre. «Tom!» Ora gesticolava frenetico, precipitandosi verso di loro. In quel momento si udì un debole ronzio. Un piccolo velivolo senza finestrini e dal grosso muso volò lungo il bordo del canyon e virò lentamente nella loro direzione. 5 Melodie fissò lo schermo del computer su cui scorrevano i dati dell'ultimo esame della microsonda. Batté due volte le palpebre e fece vagare lo sguardo per il laboratorio, nel tentativo di mettere a fuoco. Strano come si sentisse esausta ed elettrizzata insieme, la testa che le ronzava, quasi si fosse bevuta un martini. Il grosso orologio al muro segnava le quattro del pomeriggio. La lancetta dei minuti si spostò in quell'istante con un debole clunk. Era da cinquanta ore che non dormiva. Digitò la password e salvò i dati. Aveva effettuato tutte le ricerche possibili sul campione e aveva dato una risposta alla maggior parte delle domande più importanti. L'unico dettaglio in sospeso era la particella di Venere. Intendeva risolvere la questione prima di presentare l'articolo al sito per la pubblicazione. Prima che altri scienziati la risolvessero al posto suo. D'altronde non era lontana dalla soluzione. Selezionò l'ultimo degli strati sottili, lo mise su un vetrino e lo esaminò al microscopio polarizzato. A 500x si vedevano a malapena: piccoli puntini neri raggruppati qua e là all'interno delle cellule. Tolse il reperto, lo infilò in un micromortaio e lo spezzettò con cura, utilizzando dell'acqua per ridurlo a un fine impasto che versò in un becher di plastica. Prese dall'armadietto chiuso a chiave una bottiglia di acido fluoridrico al dodici per cento. Nel suo stato di stress e di carenza di sonno non era un'idea saggia maneggiare quella soluzione chimica, in grado di sciogliere anche il vetro. Eppure era l'unico acido capace di fare ciò che lei voleva: dissolvere totalmente la parte minerale del fossile senza intaccare il rivestimento in carbonio delle particelle di Venere. Voleva liberarle, in modo da poterle osservare a trecentosessanta gradi, per così dire.
Mise la bottiglia nella cappa, nella zona con scritto SOLO PER ACIDO FLUORIDRICO. Indossò un paio di occhiali antispruzzo, guanti di nitrile, un grembiule di gomma e maniche protettive. Abbassò la cappa di una quindicina di centimetri per proteggere il viso, accese l'aspiratore e cominciò a lavorare. Svitò il tappo e versò una piccola quantità di acido nella provetta che conteneva i frammenti del fossile, consapevole che anche un'unica goccia di quel liquido sulla pelle avrebbe potuto esserle fatale. Osservò mentre la schiuma si formava e si offuscava, cronometrando al secondo. Quando il processo fu terminato, diluì il tutto in una soluzione cinquanta a uno per bloccare la reazione dell'acido, eliminò l'eccesso e diluì una seconda e una terza volta per sbarazzarsi delle tracce residue. Esaminò il risultato sotto la luce: un sottile strato di sedimento minerale sul fondo di una provetta, in cui sapeva che erano presenti alcune particelle. Con una micropipetta aspirò gran parte dei sedimenti, li asciugò e, con un imbuto di separazione e una soluzione di metatungstato di sodio, divise i sedimenti più leggeri dai granelli più pesanti. Dopo un ulteriore risciacquo, prese con la pipetta una piccola quantità di particelle e le fece scivolare su un vetrino grigliato. Un rapido conteggio all'ingrandimento di 100x ne rivelò circa trenta, quasi del tutto intatte, prive di sabbia e altri detriti. Melodie si concentrò su quella meglio conservata e aumentò l'ingrandimento a 750x. Il corpuscolo balzò in evidenza, riempiendo l'obiettivo. La ragazza lo esaminò con crescente perplessità. Era sempre più simile al simbolo di Venere, una sferetta di carbonio con un lungo prolungamento esterno che finiva in una croce e quelli che sembravano peli all'estremità dei bracci. Aprì il suo quaderno di laboratorio e tracciò uno schizzo.
Dopo di che, si appoggiò allo schienale e osservò il disegno. Era molto stupita. La particella non assomigliava a nessuna inclusione cristallizzata naturalmente nella roccia. Non le ricordava nulla di già visto prima... a parte, forse, la radiolaria, su cui aveva passato due giorni tra analisi e disegno per un progetto scolastico al liceo. Era sicuramente di origine biologi-
ca... Ora ne aveva la certezza. Melodie rimosse dal vetrino una mezza dozzina di particelle e decise di sottoporle al microscopio a elettroni. Le piazzò in una camera sottovuoto, preparandole per l'esame. Premette il pulsante e la camera si svuotò con un debole ronzio. E adesso è giunto il momento di guardarla sopra e sotto, questa stronzetta. 6 Masago era in piedi nella sala dalle pareti imbiancate a calce che aveva ospitato il computer del monastero e ora era stata trasformata in stazione di controllo del Predator. Aveva gli occhi fissi su uno schermo piatto che trasmetteva le immagini digitali provenienti dalla telecamera principale del velivolo. Il rozzo tavolo era ricoperto da una vasta gamma di modernissimi dispositivi elettronici, controllati da tre operatori. Il loro capogruppo, appartenente al 615° Special Tactics Group Wing Command, indossava un casco FlightSim. La console su cui lavorava disponeva dei comandi base di un normale aereo: una leva del cambio, acceleratore, indicatore di velocità, di rotta e altimetro, assieme a un joystick simile alla cloche di un F16. Lo sguardo di Masago andava dallo schermo ai due operatori di supporto. Lavoravano sodo, badando soltanto al mondo elettronico in cui erano immersi. Uno di loro era chino sulla payload console, una serie di schermi, interruttori, tastiere e dispositivi digitali che governavano le attività di ricognizione e di sorveglianza del Predator. Quell'apparecchio da duecentoventi chili conteneva telecamere elettro-ottiche e a raggi infrarossi, un radar per il volo in cattive condizioni meteorologiche, un televisore digitale a due colori con uno zoom variabile e uno Spotter da 955 mm, e un radar a raggi infrarossi ad alta risoluzione dotato di sei campi visivi, da 19 a 560 mm. I ragazzi della squadra erano di ritorno con l'elicottero. Il loro turno sarebbe arrivato più tardi. Masago osservò il secondo operatore, addetto al localizzatore con designazione laser, misuratore di distanza, supporto elettronico, contromisure e indicatore di bersaglio mobile. Il Predator aveva appena utilizzato uno dei suoi due missili Hellfire C per uccidere il monaco. Masago tornò a guardare lo schermo. Si irrigidì all'improvviso.
«Qui c'è qualcosa», gli mormorò in cuffia la voce atona di uno degli operatori. Vide due persone, e poi una terza che andava loro incontro, a un centinaio di metri di distanza. Quattrocento metri più in là, lungo il canyon, una figura giaceva supina. «Zoom a 90 mm sul bersaglio più a sud», ordinò. La nuova immagine comparve sul video. Un uomo, sdraiato contro la parete del canyon. Una grossa macchia... sangue. Un morto. Aveva saputo di quei due e del monaco dal racconto del poliziotto, Willer. Ma del quarto, il cadavere, non era al corrente. «Allarga a 240 mm.» Ora vedeva di nuovo gli altri tre. La figura più a nord si era messa a correre. Per un momento lo vide in faccia, mentre guardava in alto. Era l'impiccione della CIA, il monaco. Masago lo fissò, stupito. «Pare che abbiamo mancato il tizio in gonnella», annunciò l'addetto al localizzatore. Masago si protese verso l'immagine, quasi volesse succhiarne l'essenza. «Fammi vedere meglio il bersaglio di mezzo.» La telecamera si spostò bruscamente e l'immagine di un uomo riempì lo schermo. Broadbent. L'uomo che stava cercando, di cruciale importanza per portare a termine il suo piano. Era lui che aveva trovato il cercatore di dinosauri moribondo, e perciò era quello che più probabilmente conosceva la posizione esatta del fossile. Secondo Willer, tanto la moglie quanto il monaco erano coinvolti nella vicenda, anche se non era chiaro come si incastrassero i pezzi. Non aveva importanza. Lo scopo di Masago era molto semplice: identificare la posizione del fossile, ripulire l'area dal personale non autorizzato, prendere il dinosauro e andarsene, lasciando che fosse qualche passacarte a mettere insieme i dettagli per il rapporto. «Vai a 160 mm», disse all'operatore alla payload console. L'immagine sullo schermo si allontanò. I tre si erano riuniti e stavano correndo a ripararsi presso le pareti del canyon. «Attivazione MIT.» «No», mormorò Masago. L'operatore gli lanciò un'occhiata perplessa. «Mi servono vivi.» Masago esaminò il canyon. Era profondo sui duecentocinquanta metri, con pareti che si stringevano a collo di bottiglia per poi spalancarsi in un'ampia vallata di pietra. I due lati della gola erano chiusi, di conseguenza
anche la zona lo era, il che dava loro un'opportunità. «Vedi quel punto in cui il canyon si restringe? A ore due sullo schermo.» «Sissignore.» «Quello è il bersaglio.» «Come dice?» «Voglio che colpisci quelle pareti in modo da bloccare la strada con una frana. Abbiamo la possibilità di prenderli in trappola.» «Sissignore.» «Puntare su uno-ottanta e discendere a duemila», disse il pilota. «Individuato bersaglio stazionario. Pronto al fuoco.» «Attendi il mio segnale», mormorò Masago nelle cuffie. Non era ancora il momento. Poi apparve il bordo del canyon e improvvisamente i bersagli scomparvero, nascosti dietro l'alta parete di pietra. «Merda», borbottò il controllore. «Gira intorno e punta a uno-sessanta», fece Masago. «Sorvola a bassa quota, segui il canyon.» «Ci vedranno...» «Appunto. Tieniti basso. Spaventali.» Mentre il drone scendeva di quota, la scena cambiò. «Zoom indietro a 50 mm.» L'immagine apparve da una prospettiva più ampia. Ora Masago vedeva entrambi i bordi del canyon. Non appena il Predator fece il giro, i tre bersagli riapparvero: tre formiche nere che correvano lungo le pareti a strapiombo, diretti verso la valle. «Bersaglio buono», annunciò l'operatore. «Non ancora.» Da quell'angolazione Masago vedeva una curva del canyon e subito dopo uno stretto corridoio di almeno trecento metri. «Al fuoco passa alla telecamera del missile.» «Sissignore. Il bersaglio è ancora agganciato.» «Aspetta...» Un lungo silenzio. I tre correvano, ma perdevano colpi, evidentemente esausti. La donna cadde e fu soccorsa dall'uomo e dal monaco. Ora erano a meno di quattrocento metri dal bersaglio. Trecentocinquanta. Trecento... «Fuoco.» Sullo schermo l'immagine passò istantaneamente dalla telecamera sul Predator a quella a bordo del missile: prima comparve una striscia vuota di cielo, poi la terra che ondeggiava, infine la parete sinistra del canyon. La
roccia diventava sempre più grande, man mano che il missile puntava verso il punto indicatogli dal laser tracking. Non appena arrivò a destinazione, la fonte del video si spostò automaticamente alla telecamera a bordo del Predator, che tornò a riprendere la visuale dall'alto... Una nube di polvere si levava a ondate, silenziosa, con frammenti di roccia che schizzavano dappertutto. Le figure si erano gettate a terra. Masago aspettava. Voleva che fossero parecchio scossi... ma non morti. La nube di polvere cominciò a dissolversi nell'aria del canyon. Le sagome riapparvero: correvano nella direzione da cui erano venute. «Guardi quei figli di puttana», mormorò l'operatore. Masago sorrise. «Ora puoi farlo tornare su, intanto continua a tenerli sotto controllo. Prendiamo l'elicottero. Adesso sono nostri, tre topi in trappola.» 7 Tom correva dietro Sally, il rombo dell'esplosione ancora nelle orecchie. La polvere sollevata dallo scoppio avanzava verso di loro. Si riposarono un momento, al riparo delle pareti di roccia. Tom si fermò e si appoggiò alla pietra: aveva il fiatone. Ford li raggiunse. «Che diavolo sta succedendo?» esclamò Tom. Il monaco scosse il capo. «Cos'è quella roba che ci sta sparando contro?» «Un drone. È ancora là sopra, che ci controlla. Comunque ha finito i missili. Ne può trasportare due soltanto.» «Questo è surreale.» «Credo che il drone abbia sparato per bloccare il canyon. Mi sa che vogliono prenderci in trappola.» «Chi?» «Dopo. Ora dobbiamo uscire di qui.» Tom esaminò le pareti del canyon, su e giù, da entrambi i lati. Il suo sguardo si posò su una larga fenditura in fondo alla quale cumuli di detriti si ammassavano creando numerose sporgenze, veri e propri appigli naturali. «Là», indicò. «Possiamo arrampicarci su quella fenditura.» Si rivolse a Sally. «Te la senti?» «Certo che sì, diavolo.» «Wyman?»
«Non c'è problema.» «La via migliore è sulla destra, verso quella cengia.» «Facci strada», disse Ford. «Sai che cosa c'è di là?» «Non mi sono mai spinto tanto lontano nella mesa alta.» Tom guardò le sue scarpe italiane artigianali da quattrocento dollari: erano così rovinate da essere quasi irriconoscibili, ma tenevano ancora. Se almeno avesse indossato quelle con le suole di gomma! Alle sue spalle, la polvere che ristagnava nell'aria dopo l'esplosione rotolava pigra verso di loro, coprendo il cielo con una cappa sulfurea. «Andiamo.» Afferrò il primo appiglio e si tirò su. «Guardate dove metto mani e piedi e usate le stesse prese. Mantenete una distanza di sicurezza di tre metri. Sally, tu dopo di me.» Tom puntò il ginocchio contro la pietra e cominciò a salire. Cercò di non pensare alla bocca, che sentiva piena di sabbia. La sofferenza per l'assenza dell'acqua andava ormai oltre la sete: si era trasformata in dolore fisico. L'arrampicata era dura e vertiginosa, ma gli appigli non mancavano. Tom procedeva con metodo, controllando in ogni istante la progressione di Sally. Era atletica, benché fosse ferita, e non aveva difficoltà. Ford si arrampicava in modo temerario e con naturalezza, come una scimmia. Più salivano, più lo spazio si apriva sotto di loro, vasto e terrificante. Non avevano né corde né moschettoni, nulla. Era quello che i rocciatori chiamavano con un eufemismo «vietato cadere»: se cadi, muori. Tom concentrò lo sguardo sulla roccia davanti a sé. Era così esausto che non riusciva più nemmeno a sentire la stanchezza. Raggiunsero una piccola cengia, si issarono e si fermarono a riposare. Ford estrasse la borraccia. «Oh, mio Dio! È acqua, quella?» chiese Sally. «È pochissima. Prendine due sorsi.» Sally la afferrò e bevve, con le mani che le tremavano, poi la passò a Tom. L'acqua era tiepida e sapeva di plastica, ma a lui parve la bevanda più buona che avesse mai assaggiato in tutta la vita. Gli ci volle un enorme sforzo di volontà per fermarsi; passò la borraccia a Ford che la rimise nello zaino. «Tu non bevi?» «Non ne ho bisogno», disse l'altro, laconico. Tom guardò in alto. Continuava a sentire il debole ronzio del drone, simile a una zanzara, ma non lo vedeva. Tornò a concentrarsi sulla roccia.
«Che diavolo sta succedendo?» «Quella roba che ci ha dato la caccia è un Predator Unmanned Aerial Vehicle da quaranta milioni di dollari, segretissimo, dalla punta delle ali fino alla coda.» «Perché?» Ford scosse il capo. «Non ne sono sicuro.» Le pareti di roccia emanavano calore. Tom esaminò il pendio sopra di sé, scelse una via e ricominciò a scalare. Gli altri lo seguirono in silenzio. Erano saliti di una sessantina di metri, e più in alto diventava più semplice. Altri cinque minuti e avevano scalato la parte più ripida della parete. Il resto dell'arrampicata consisteva in uno snervante pendio pieno di detriti. Arrivata in alto, Sally si distese su una pietra piatta, ansimando. Tom le si mise accanto. Guardò il cielo deserto e silenzioso, l'aereo sembrava scomparso. Ford estrasse dalla tasca una cartina sbrindellata e la aprì. «Dove siamo?» chiese Tom. «Appena fuori dalla carta.» La richiuse. Tom osservò il paesaggio. La cima della mesa era un altopiano di nuda arenaria scavato e levigato dal vento e dall'acqua. Alcune zone più in basso erano piene di sabbia portata dal vento che le sferzava incessante. Qua e là qualche ginepro cresceva aggrappato a una fenditura. La mesa terminava quattrocento metri più avanti, tuffandosi nel cielo azzurro. Tom strizzò gli occhi. «Mi piacerebbe sapere che cosa c'è laggiù. Qui non siamo altro che bersagli.» «Dappertutto siamo dei bersagli, con quell'occhio in cielo.» «Continua a spiarci?» domandò Sally. «Puoi starne sicura. E ho anche il sospetto che ci manderanno dietro un elicottero. Direi che abbiamo ancora dieci o venti minuti.» «Mi sembra veramente folle. Non hai idea di che cosa stia succedendo?» «L'unica cosa che mi viene in mente è quel dinosauro.» «Che se ne fanno di un dinosauro? Mi sembra più probabile che un bombardiere abbia smarrito per sbaglio una bomba H, o che sia precipitato un satellite segreto... roba del genere.» «Può darsi, però non credo.» «Ma anche se c'entrasse il dinosauro, perché se la prendono con noi?» chiese Tom. «Per ottenere informazioni.» «Quali informazioni? Non ho idea di dove sia.»
«Non è detto che loro lo sappiano. Tu hai il taccuino e io la mappa GPR. Una volta che li avranno entrambi, lo troveranno nel giro di pochi giorni.» «E quando ce l'avranno, cosa se ne faranno di noi?» «Ci ammazzeranno.» «Non dici sul serio, vero?» «Non lo dico, Tom. Lo so. Hanno già cercato di uccidermi.» Ford si alzò, Tom lo imitò e aiutò Sally a fare lo stesso. Il monaco si incamminò lungo l'altopiano di pietra, con il suo solito passo temerario, la tonaca marrone che sfiorava la terra. Era diretto verso il lato opposto del canyon. 8 I rotori erano già in azione quando Masago saltò sull'elicottero, riparandosi il viso dalla polvere e dalla ghiaia. Passò oltre i sette membri del CAG/DEVGU che prendevano parte all'operazione e prese posto davanti. Il comandante gli porse una cuffia munita di microfono, collegata tramite un filo nero al soffitto. Masago se la sistemò sulla testa e regolò il microfono, mentre l'elicottero si alzava e prendeva velocità, i portelli ancora aperti. Superarono il bordo superiore del canyon e rasentarono i declivi e gli altipiani, oltrepassando di tanto in tanto qualche crepaccio che spaccava la roccia in profondità. Il sole a picco rendeva incandescente il paesaggio sotto di loro. Masago srotolò sul pavimento del velivolo una cartina topografica USGS scala 1:24.000 della zona bersaglio. Aveva sempre preferito le mappe cartacee a quelle GPS: gli fornivano una certa idea del paesaggio che quelle elettroniche non gli davano. Le immagini provenienti dal drone che, invisibile, volava in circolo a più di settecento metri, mostravano che i tre erano riusciti ad arrampicarsi fuori dal canyon e si stavano dirigendo verso una profonda vallata al di là della gola. Era un postaccio d'inferno, ma aveva il vantaggio di essere una zona circoscritta, il cui perimetro poteva essere controllato. Quando Masago ebbe terminato di tracciare con una matita rossa alcune indicazioni, passò la mappa al capo della spedizione, il sergente di prima classe Anton Hitt. Questi la esaminò in silenzio e introdusse i punti segnati nell'unità GPS. Gli uomini avevano ricevuto la consegna poco prima che l'elicottero si alzasse in volo, senza fare particolari commenti o difficoltà, specie quando Masago li aveva aggiornati sulla possibile eventualità di e-
liminare civili americani. Ovviamente aveva mentito, raccontando che si trattava di terroristi in possesso di un virus dalle potenziali conseguenze apocalittiche. Non tutti sono abituati ad avere a che fare con verità complesse: meglio semplificare. Osservò Hitt al lavoro. Il sergente era un afroamericano di poche parole, in ottima forma fisica, la fronte alta color mogano, gli occhi limpidi castano chiaro e i modi molto pacati. Indossava una tuta mimetica da deserto e anfibi da combattimento, e portava un M4 con un caricatore per il 6,8SPC dotato di un mirino elettronico Aimpoint. Alla cintola aveva un revolver Ruger Magnum calibro 22, una scelta piuttosto eccentrica per un soldato delle forze speciali, che tuttavia Masago approvò. Come coltello, era dotato di un Trace Rinaldi, altra scelta che Masago non poté non apprezzare. Aveva autorizzato Hitt a prendere decisioni riguardo all'equipaggiamento; il sergente aveva deciso che i suoi uomini si muovessero rapidi e leggeri, senza munizioni supplementari, solo borracce da un litro, niente granate, armi automatiche e caricatori extra, né il solito giubbotto antiproiettile in kevlar. Dopotutto, non si trattava di un'operazione nel centro di Mogadiscio, dove tipi incazzosi e pesantemente armati potevano spuntare fuori a ogni angolo. Quando Hitt ebbe finito, restituì la cartina a Masago. «I quattro uomini che manderemo non hanno bisogno di mantenere il silenzio radio. Accerchiamo i nostri bersagli e li chiudiamo. Il piano è molto semplice. Mi piacciono le cose semplici.» Masago annuì. «Ci sono altre domande?» chiese. Hitt scosse il capo. «Sergente», disse lentamente Masago, «sta per arrivare il momento in cui le chiederò di eliminare parecchi cittadini americani disarmati. Questi individui sono troppo pericolosi per essere portati in tribunale. Le crea problemi?» Hitt rivolse lo sguardo limpido su Masago. «Sono un soldato, signore. Eseguo gli ordini.» Masago si appoggiò allo schienale, le braccia conserte. Il generale Miller aveva ragione: Hitt era in gamba. L'elicottero avanzava con un rumore sordo. Il sergente controllò il GPS e si rivolse a uno degli uomini. «Halber, dieci minuti di warning per prendere terra sul punto Tango.» L'uomo, un ventenne dalla testa rasata, annuì e diede l'ultima controllata alla sua arma. Continuarono a volare, seguendo un canyon lungo e profon-
do che sboccava nella valle in cui erano diretti i bersagli, l'ombra dell'elicottero che ondeggiava avanti e indietro proprio sopra di loro. Era un posto infernale, deturpato dall'erosione, una piaga aperta sulla faccia della Terra. Masago tentò di tornare con il pensiero alle distese verdeggianti e afose del Maryland. «Cinque minuti di warning», disse Hitt. Il Pave Hawk cominciò a inclinarsi, girò intorno a un altopiano di pietra, si tenne basso lungo la scarpata e volò a punto fisso, proprio dove un canyon laterale sboccava nel deserto. Halber si alzò. La corda, arrotolata con cura accanto al portello aperto, venne lanciata fuori. La afferrò e si calò, scomparendo alla vista. Un istante dopo la corda fu tirata su e l'elicottero si sollevò. «Sullivan.» Hitt si rivolse a un altro uomo. «Presa di terra nel punto Foxtrot, otto minuti.» L'elicottero sorvolò rapidamente, un'altra volta, il deserto rosso. A nord, Masago scorse il profilo nero e irregolare di un antico flusso lavico, e in lontananza, sulla destra, colline boscose ai piedi di cime ricoperte di neve. Ora conosceva la zona piuttosto bene. «Sullivan, un minuto di warning.» Sullivan finì di controllare la propria arma e si alzò mentre l'elicottero volava a punto fisso. La corda fu di nuovo calata fuori e l'uomo scomparve. Cinque minuti dopo avevano ultimato la quarta e ultima presa di terra. L'apparecchio puntò verso la valle, dove sarebbe atterrato, all'imbocco della grande gola che sulla cartina era denominata Tyrannosaur Canyon. 9 Ford raggiunse per primo il bordo dell'altopiano e guardò in basso verso la valle. Si accorse con terrore che avevano girato in tondo e si trovavano all'estremità del Cimitero del Diavolo. Fu sorpreso dal fatto che, con tutta la sua esperienza e la sua conoscenza del deserto, quell'ambiente così complesso l'avesse fatto tornare indietro. Estrasse la cartina, la esaminò e stabilì che si trovavano al margine nord-occidentale dell'area. Si guardò intorno, aspettandosi in ogni momento di scorgere all'orizzonte un puntino nero e di udire il familiare suono dei rotori che si avvicinavano. Aveva vissuto parecchie situazioni del genere nella sua vita, ma mai
come questa. Prima, ciò che non gli era mai mancato erano le informazioni; ora agiva brancolando nel buio. Sapeva soltanto che il suo stesso governo aveva tentato di ucciderlo. Ford si fermò, in attesa che Tom e Sally lo raggiungessero. Erano straordinariamente resistenti, se si considerava che entrambi erano feriti, affaticati e del tutto disidratati. Forse sarebbe stato meglio se si fossero fermati dopo aver scalato la parete. Rischiavano l'ipertermia, una forma di consunzione dovuta al caldo in cui l'organismo perde il controllo delle proprie funzioni per mantenere costante la temperatura corporea. Ford aveva assistito a un caso del genere nella giungla della Cambogia: l'uomo aveva improvvisamente smesso di sudare, la sua temperatura era salita a più di quaranta gradi ed era stato colto da convulsioni così forti da spezzargli i denti. Nel giro di cinque minuti era morto. Il monaco strizzò gli occhi nella luce brillante. I monti si trovavano a venticinque chilometri da una parte, il fiume a una trentina di chilometri nell'altra direzione. Disponevano di meno di mezzo litro d'acqua e c'erano più di quaranta gradi. Anche senza nessuno alle calcagna, sarebbero stati comunque guai seri. Guardò la gola con una crescente sensazione di sconforto. «Qui c'è una possibile via di discesa», fece Tom, dal bordo. Il monaco tacque, lo sguardo che correva lungo la spaventosa fenditura verticale. Un debole ronzio si fece strada nella soglia dell'udibile. Ford si fermò, fissò l'orizzonte e vide il punto a tre, forse quattro chilometri di distanza. Non aveva neppure bisogno di controllare con il binocolo: sapeva di che cosa si trattava. «Andiamo.» 10 Melodie Crookshank osservò sullo schermo l'immagine tridimensionale della particella di Venere con una sorta di reverenza. Risaliva a sessantacinque milioni di anni prima, e tuttavia era perfetta come se fosse stata creata da un giorno. L'immagine del microscopio a elettroni era più nitida di quella che si poteva ricavare da uno comune e mostrava la particella in modo molto dettagliato: una sfera perfetta con un tubo sporgente e due traverse sul fondo, che terminavano con strutture complesse, mucchi di tubuli che ricordavano i semi di un dente di leone. Un'analisi ai raggi X confermò i sospetti di Melodie: la sfera di carbonio
era ciò che i chimici chiamano «fullerene», una molecola costituita di più atomi di carbonio con una struttura a sferoide cavo, che ricordava la cupola geodetica creata dall'architetto Fuller. I fullereni erano stati scoperti di recente ed erano piuttosto rari in natura. In genere avevano piccole dimensioni; quello era gigantesco. La loro caratteristica principale era di essere quasi indistruttibili: tutto ciò che stava all'interno era completamente sigillato. Solo gli enzimi più potenti, attentamente manipolati in una situazione controllata di laboratorio, erano in grado di aprire un fullerene. Ed era esattamente ciò che aveva fatto Melodie. All'interno della sfera aveva trovato una stupefacente miscela di minerali, inclusa un'insolita forma di feldspato plagioclasio, Na0,5Ca0,5Si3AlO8 addizionato con titanio, rame, argento e ioni metallici alcalini... Essenzialmente si trattava di una miscela di ceramiche, ossidi di metallo e silicati. Il tubo che si estendeva ortogonalmente al fullerene sembrava un gigantesco nanotubo di carbonio, con una traversa su cui erano attaccati gruppi laterali contenenti una miscela di composti della ceramica e di ossidi di metallo. Davvero singolare. Aprì una lattina di Dr. Pepper e si appoggiò alla sedia, bevendo pensierosa. Dopo che avevano portato via il corpo del dottor Corvus, quel posto era diventato silenzioso come una tomba, molto più delle altre domeniche. La gente si teneva alla larga. Ripensò un'altra volta a quanti pochi amici aveva al museo. Nessuno che l'avesse chiamata per sapere come stava o invitata a pranzo o a bere qualcosa per distrarla dall'accaduto. In parte la colpa era sua, visto che si rinchiudeva in laboratorio come una suora di clausura. Ma molto dipendeva dalla sua modesta posizione e dall'alone di fallimento che emanava: lei, la povera ricercatrice che da cinque anni non faceva altro che spedire curriculum in giro. Tutto questo sarebbe cambiato. Richiamò alcune delle prime immagini della particella registrate su CDROM, a riprova della teoria che le si stava formando nella mente. Aveva notato che la particella di Venere sembrava addensarsi soprattutto nei nuclei cellulari. Se esaminava alcune delle immagini che aveva ricavato per Corvus, emergeva un aspetto significativo: molte cellule in cui compariva la particella erano allungate. Non solo, molte particelle sembravano risiedere in cellule unite lato contro lato. Le due osservazioni erano strettamente legate e Melodie le concatenò all'istante. Sentì una specie di prurito alla base del collo. Stranamente non se ne era accorta prima. I corpuscoli erano
presenti per la maggior parte in cellule che stavano subendo un processo di mitosi. In altre parole, la particella di Venere aveva infettato le cellule del dinosauro e stava di fatto innescando la divisione cellulare. Molti virus moderni si comportavano allo stesso modo, portando il loro ospite alla morte: gli inducevano il cancro. Nel 1925, il paleontologo Henry Fairfield Osborn, che lavorava presso lo stesso museo di Melodie, era stato il primo a ipotizzare che l'estinzione di massa dei dinosauri fosse causata da un'epidemia simile alla peste nera. Robert Bakker, nella sua opera Eresie sui dinosauri, aveva sviluppato la teoria, ipotizzando che l'estinzione di massa si potesse spiegare con il propagarsi di microbi estranei che si sarebbero diffusi freneticamente tra quegli animali. Questi «microbi estranei» provenivano dall'unione tra l'Asia e l'America del Nord. Le specie, mescolandosi, avrebbero dato origine a nuovi germi. Il libro di Bakker era stato pubblicato quasi vent'anni prima e, mentre la teoria dell'estinzione di massa dovuta all'impatto dell'asteroide aveva ottenuto sempre più credito, la sua era stata poco alla volta dimenticata. Ora sembrava che Bakker avesse ragione, dopotutto. In un certo senso. I dinosauri erano, sì, stati ammazzati da un'epidemia, rifletté Melodie. Ne aveva la prova proprio sotto gli occhi, in quel preciso momento. Tuttavia la malattia non era stata causata dalla lenta unione dei continenti. Era stata innescata dall'impatto stesso dell'asteroide, che aveva bruciato intere foreste, portato oscurità, fame, catastrofi ambientali. Secondo i calcoli, la Terra era rimasta al buio per parecchi mesi, l'aria si era saturata di fuliggine soffocante e di polvere, la pioggia era divenuta talmente acida da sciogliere le rocce. L'impatto dell'asteroide aveva creato le condizioni ideali per il massiccio dilagare del morbo tra i sopravvissuti. Il paesaggio era disseminato di animali morti e moribondi, mentre gli altri morivano di fame, bruciati o feriti, il loro sistema immunitario prossimo al collasso. In tali condizioni, un'epidemia devastante non solo era probabile, ma addirittura inevitabile. L'asteroide aveva sterminato gran parte dei dinosauri e la peste che ne era seguita aveva fatto fuori i rimanenti. C'era un ulteriore, sorprendente colpo di scena nella sua teoria... Un grosso colpo di scena. Melodie si domandava se fosse troppo folle da inserire nell'articolo e non fosse piuttosto la conseguenza di cinquanta ore di privazione del sonno. La particella non assomigliava a una forma di vita terrestre. Sembrava piuttosto, be'... aliena. Forse, solo forse, la particella di Venere era arrivata assieme all'asteroi-
de. 11 Masago saltò fuori dall'elicottero, nelle orecchie il sibilo dei rotori che diminuivano di velocità. Si allontanò dal punto di atterraggio e si guardò intorno nel deserto. Il drone indicava che gli obiettivi erano scesi dal bordo dell'altopiano, diretti in quella valle senza nome. L'apparecchio era proprio nel mezzo della stessa valle, nel punto centrale del perimetro che i quattro uomini avrebbero dovuto coprire. Hitt veniva dietro di lui, seguito dagli altri due soldati dell'operazione, i caporali Gowicki e Hirsch. Il terreno era complesso e difficoltoso, ma i loro bersagli erano in un certo senso intrappolati nella valle, tagliati fuori dai canyon. I quattro uomini erano stati inseriti proprio nei punti di sbocco e li stavano chiudendo. Ora a Hitt e ai suoi due uomini non restava altro che andare loro incontro e stanarli. Non avevano nessuna possibilità di scappare. Il capo dell'operazione e i due tecnici avevano già scaricato i kit, se li erano messi a tracolla ed erano al lavoro con i GPS, comunicando, sulle frequenze dedicate, con i membri della squadra, i quali, dal canto loro, stavano effettuando un movimento a tenaglia. «Procediamo», disse Masago. Hitt annuì e, al suo segnale, gli uomini si misero in movimento. Masago, com'era stato stabilito, stava un centinaio di metri più indietro, con la fida Beretta 8000 Cougar nella fondina ascellare. Il caporale Gowicki e il sergente Hitt si misero avanti con Hirsch dietro di loro, disposti come i vertici di un triangolo. Insieme si diressero cauti lungo il letto di un torrente in secca, verso la zona in cui si erano calati i fuggitivi. Masago esaminò la sabbia in cerca di impronte, ma non ne vide. Era solo questione di tempo. Risalirono il letto del torrente finché non si allargò e si divise. A quel punto si fermarono, mentre Hitt si arrampicava in ricognizione. Fu di ritorno pochi minuti dopo, scuotendo brevemente la testa. Un altro cenno e proseguirono lungo una fila di rocce simili a funghi. Nessuno disse una parola. Quando la salita finì, si sparpagliarono, avanzando verso la curiosa foresta di pietre, e presto furono dentro, all'ombra. «Un'impronta», mormorò Gowicki. «Un'altra.» Masago si chinò. Erano recenti, lasciate da una persona con i sandali: il monaco. Si guardò intorno e vide le altre: quelle della donna più piccole,
numero trentanove o quaranta, quelle dell'uomo quarantacinque. Dovevano essersi spostati velocemente. Avevano capito che stavano dando loro la caccia. Hitt condusse il gruppo in profondità nella foresta di pietra. Masago era praticamente certo che non avevano teso un'imboscata: sarebbe stato un vero suicidio tentare di sgominare una pattuglia di soldati con le loro poche pistole, se mai ne avevano. Dovevano essersi nascosti da qualche parte... e loro li avrebbero stanati. Presto la prima fase dell'operazione si sarebbe conclusa. Arrivarono in un luogo in cui parecchi massi enormi erano appoggiati l'uno contro l'altro e per passare era necessario strisciare attraverso una fenditura. Hitt attese che Masago lo raggiungesse. Indicò alcuni segni recenti sulla sabbia dura. Anche i loro obiettivi erano passati di lì, e nemmeno molto tempo prima. Masago annuì. Hitt andò per primo, strisciando sulle ginocchia. Masago lo seguì. Quando si rialzò, si accorse che l'intera zona era chiusa a ogni lato da pareti a strapiombo che salivano lungo la gola. Controllò la carta. Sembrava che le prede si fossero avventurate in un canyon senza uscita, sul quale non era possibile nemmeno arrampicarsi. Masago sussurrò nelle cuffie: «Li voglio vivi finché non avrò le informazioni che cerco». 12 «Aspettate qui», disse Ford. «Vado lassù a dare un'occhiata.» Tom e Sally si riposarono, mentre il monaco si arrampicava su un masso, in ricognizione. Si trovavano nel mezzo del deserto, circondati da quelle dannate rocce. Avevano visto atterrare l'elicottero nella valle, a meno di un chilometro e mezzo; Ford era certo che si erano messi sulle loro tracce. Sapeva anche, dal suo addestramento nella CIA, che dovevano aver calato alcuni uomini nei potenziali exit point e che si sarebbero fatti avanti per chiuderli. La loro unica possibilità era trovare una strada imprevista che li conducesse fuori dal canyon o un posto in cui nascondersi. Guardò verso la parte più lontana della gola. Una serie di desolate colline di cenere cedeva il passo a un altro gruppo di rocce pelate, simili a file serrate di monaci incappucciati. Diversi chilometri più in là si intravedevano pendii vermigli, come scale che conducevano a un altro altopiano. Se
fossero riusciti a sbucare di nascosto da quella parte, forse avrebbero potuto farcela, ma non sembrava tanto semplice. Scrutò in direzione di Sally e Tom. Si stavano indebolendo rapidamente, e non credeva che avrebbero resistito ancora per molto. Dovevano trovare un posto dove nascondersi. Tornò giù. «Visto niente?» chiese Tom. Ford scosse il capo. «Andiamo avanti.» Continuarono a salire lungo il letto del torrente e arrivarono alla foresta di pietra. Proseguirono all'interno, arrampicandosi su rocce cadute e schiacciandosi tra massi di arenaria, a volte sotto il sole, a volte all'ombra, addentrandosi più che potevano. A tratti le rocce erano talmente vicine l'una all'altra che dovevano mettersi carponi e strisciare per passarci attraverso. All'improvviso, si imbatterono nella parete curva di un dirupo che formava una sorta di anfiteatro. Verso il fondo, a una quindicina di metri da terra, un corso d'acqua doveva aver scavato una grotta. Ford notò una serie di increspature nella roccia, avvallamenti in cui gli antichi indiani anasazi avevano ricavato un tracciato con appigli per mani e piedi che conduceva nella grotta. «Andiamo a dare un'occhiata», disse. Arrivarono alla base del dirupo e Tom esaminò il tracciato. Alzò lo sguardo. «Qui dentro ci troveranno, Wyman.» «Non abbiamo altra scelta. Forse la grotta porta da qualche parte. E se cancelliamo le nostre impronte qui davanti, può darsi che non ci becchino.» Tom si rivolse a Sally. «Che ne pensi?» «Non riesco più a pensare.» «Proviamoci.» Cancellarono le impronte il meglio possibile, quindi si arrampicarono lungo la pista. L'ascesa non presentava difficoltà e nel giro di pochi minuti erano arrivati alla grotta. Ford si fermò, respirando a fatica. Anche lui stava giungendo al limite della resistenza. Di nuovo, si chiese come facessero marito e moglie a camminare ancora; erano entrambi stravolti. In ogni caso, quel luogo rappresentava la fine del loro cammino. La cava si levava imponente come la cupola di una cattedrale, il pavimento di sabbia e le pareti di arenaria incurvate verso l'alto. La luce indiretta del sole filtrava dall'esterno assumendo riflessi rossastri; l'aria sapeva di polvere e di tempi remoti. All'ingresso troneggiava un masso enorme, forse precipitato dal soffitto eoni prima, consunto e smussato dall'azione
dell'acqua che una volta entrava da una ragnatela di buchi sulla volta. Mentre si avventuravano in profondità, disturbarono una colonia di rondini, che svolazzarono in alto, al buio, garrendo. «La grotta sembra proseguire oltre quella grande roccia», osservò Ford. Si diressero verso il fondo, avvicinandosi al masso. «Guardate», fece Tom. «Impronte.» La sabbia era stata lisciata con cura, ma nello spazio tra la roccia e la parete si scorgevano le orme a spina di pesce di un paio di scarponi. Si strinsero per passare ed entrarono nel retro della caverna, dietro il masso. Ford si voltò e lo vide. Il grande Tyrannosaurus rex, la mascella e le zampe anteriori protese oltre la roccia. Nessuno fiatò. Era una visione straordinaria. Sembrava che l'animale avesse ingaggiato una lotta furibonda per uscire, per liberarsi dalla tomba di pietra. Giaceva su un lato, ma le rocce, precipitando, l'avevano drizzato quasi del tutto, dandogli una grottesca illusione di vita. Ford lo guardò e gli parve quasi di scorgere, nella bestia, il suo ultimo rabbioso istante di consapevolezza. Si avvicinarono in silenzio. Sparse sotto la sabbia si intravedevano alcune parti del fossile, compreso un lungo dente nero a forma di scimitarra. Tom lo raccolse, lo soppesò e accarezzò con il pollice il taglio seghettato. Fece un fischio e lo porse al monaco. Era freddo e pesante. «Incredibile», mormorò Ford osservando un'altra volta il grande mostro. «Guarda là», disse Tom, indicando alcuni strani manufatti semisepolti dalla sabbia. Erano antiche statuette scolpite nel legno. Si chinò e scostò la sabbia, scoprendo altre statue e un piccolo vaso di terracotta colmo di punte di freccia. «Offerte», concluse Ford. «Questo spiega il tracciato scavato dagli indiani. Adoravano il mostro. Non mi stupisce.» «Cos'è quello?» Tom indicò uno spigolo metallico che sporgeva dal terreno. Spazzò via la sabbia e trovò una lattina bruciata, la estrasse e aprì il coperchio. Conteneva un sacchetto chiuso con una zip con all'interno un pacco di lettere, chiuse nelle loro buste, con sopra la data e indirizzate a «Robbie Weathers». Sulla prima c'era scritto: A mia figlia Robbie. Spero che questa storia ti piaccia. Il tirannosauro è tutto tuo. Ti voglio bene, Papà. Tom arrotolò le lettere e le rimise nella latta, senza dire una parola. Sally era più in là, vicino all'imbocco della caverna. All'improvviso sibi-
lò: «Delle voci!» Ford sobbalzò, come se fosse stato scaraventato fuori da un sogno. Tornò rapidamente alla realtà. «Dobbiamo nasconderci. Vediamo fin dove arriva la grotta.» Tom estrasse la torcia quasi scarica che aveva ancora con sé e illuminò il fondo della grotta. Tutti guardarono. Terminava in una stretta fenditura creata dall'acqua, troppo stretta perché vi passasse una persona. Il fascio di luce si spostava da destra a sinistra. «Non c'è sbocco», osservò Ford, calmo. «Quindi è finita?» fece Sally. «E adesso cosa facciamo? Ci arrendiamo?» Ford non rispose. Si avvicinò rapido verso l'imbocco della grotta, appiattendosi contro la parete e sbirciando di sotto. Un attimo dopo era tornato. «Sono qui, tre soldati e un civile.» Anche Tom si diresse verso l'apertura per guardare nel piccolo anfiteatro. Sotto si muovevano due uomini con fucili da assalto e indosso una mimetica da deserto. Ne comparve un terzo e poi un quarto. Esaminavano la zona in cui loro avevano cancellato le impronte. Uno indicava su, verso la caverna. «Ci siamo», fece Ford, serafico. «Stronzate.» Tom prese la pistola dal sacchetto, estrasse il caricatore, vi infilò un paio di proiettili e lo rimise al suo posto. Alzò lo sguardo e vide che Ford stava scuotendo il capo. «Sparare alla cieca sulle Special Forces equivale a suicidarsi.» «Non mi arrendo senza combattere.» «Nemmeno io.» Ford si interruppe, pensieroso. Estrasse il dente di dinosauro con sguardo assente, lo soppesò. Poi lo rimise in tasca. «Ce l'hai il taccuino?» Tom lo tirò fuori. «Dammelo. E anche la pistola.» «Che cos'hai...» «Non c'è tempo di spiegare.» 13 Masago osservava dal basso Hitt e gli altri due uomini che si arrampicavano lungo la ripida roccia di arenaria e si appiattivano all'imboccatura della grotta, sparpagliandosi per sorprendere gli occupanti da tre punti di-
versi. Era una manovra tipica, forse un po' eccessiva, se si considerava che i bersagli probabilmente erano disarmati. Quando arrivarono sul posto, si sentì risuonare la voce di Hitt: non urlava, ma emanava durezza e decisione. «Voi nella grotta! Siete pochi e disarmati. Stiamo per entrare. Non muovetevi e tenete in vista le mani.» Masago aspettava, combattendo contro un'insolita agitazione. Hitt uscì allo scoperto, esponendosi ai bersagli nascosti all'interno. Gli altri due lo coprirono. «D'accordo. Mani sulla testa. Nessuno si farà male.» Fece dei cenni agli altri soldati, che uscirono dai loro ripari. Era fatta. I tre obiettivi erano in piedi, al centro della grotta, le mani alzate. «Copritemi.» Hitt andò loro incontro e li perquisì, per assicurarsi che non fossero armati. Parlò nel microfono. «Signore, la grotta è sicura. Ora può salire.» Masago afferrò il primo appiglio, si tirò su e in pochi minuti raggiunse l'ingresso, davanti ai tre patetici bastardi cui stava dietro da tempo: il monaco, Broadbent e sua moglie. «Sono disarmati?» Hitt annuì. «Perquisiscili un'altra volta. Voglio vedere tutto quello che hanno addosso. Tutto. Posalo nella sabbia davanti a me.» Il sergente fece un cenno a uno dei suoi ragazzi, che cominciò a perquisire il gruppo male in arnese. Comparvero una torcia, portafogli, chiavi, una patente. Ogni cosa fu allineata con cura per terra. Lo zaino del monaco conteneva una borraccia vuota, fiammiferi, alcune latte, vuote anch'esse, e altri attrezzi da campeggio. L'ultimo oggetto era nascosto nell'abito del monaco. «E questo che diavolo è?» chiese il soldato, prendendolo in mano. Masago, imperturbabile, disse: «Dammelo». Il ragazzo glielo porse. Masago osservò il dente seghettato, lo girò, lo soppesò. «Tu.» Indicò il monaco. «Tu devi essere Ford.» L'uomo annuì impercettibilmente. «Fa' un passo avanti.» Il monaco obbedì. Masago stringeva il grosso dente. «Dunque l'hai trovato. Sai dov'è.» «Esatto», rispose lui.
«Mi devi dire dov'è.» «Sono l'unico in possesso dell'informazione che volete. E non parlerò se prima non risponderete alla mia domanda.» Masago estrasse la sua Beretta e gliela puntò contro. «Parla.» «'Fanculo.» L'agente fece fuoco, e il proiettile passò fischiando accanto all'orecchio di Ford. Il monaco non batté ciglio. Masago abbassò la pistola. L'uomo non si faceva intimorire... ora era chiaro. «Ammazzami e non avrai il dinosauro. Mai.» Masago sorrise leggermente. «D'accordo, allora... fuori la domanda.» «Perché lo volete?» «Contiene particelle altamente pericolose che si possono trasformare in un'arma biologica.» Vedeva il monaco immagazzinare l'informazione. Non poteva dire altro, per non entrare in contraddizione con l'ordine di pattuglia che era stato distribuito ai suoi uomini. «Come si chiama il tuo distaccamento?» «Con questa sono due domande.» «Vai all'inferno, allora», disse il monaco. Masago fece un passo avanti, rapido, e gli affondò un pugno nel plesso solare. Ford cadde a terra come un sacco di cemento. Tossì, si mise carponi, affondando convulsamente le mani nella sabbia nel tentativo di tirarsi su, mentre l'altro gli veniva vicino. «Il dinosauro, signor Ford. Dov'è?» «Dell'acqua... per favore...» Masago sganciò la borraccia e la agitò in modo provocatorio. «Se mi dici dov'è il dinosauro.» Svitò il tappo e la abbassò verso il monaco tremante, che si reggeva a malapena sulle mani e sulle ginocchia. Invece Ford saltò su come un serpente a sonagli; e tirò fuori di scatto dalla sabbia la mano. Stringeva inaspettatamente una pistola. Prima che Masago potesse reagire, con la sinistra lo afferrò alla gola e lo strattonò all'indietro. L'uomo sentì la canna dell'arma premuta sull'orecchio, le braccia immobilizzate all'indietro: raggiungere la Beretta sarebbe stato impossibile. «Ora», fece il monaco rivolto ai soldati, facendosi scudo con Masago, «quest'uomo spiegherà a tutti quello che sta succedendo... oppure sarà morto.»
PARTE SESTA LA CODA DEL DIAVOLO La fine arrivò in una normale giornata di giugno. L'afa era una coperta che soffocava la foresta, le foglie dondolavano sui rami e grossi nuvoloni si accumulavano a ovest. Lei si aggirava tra gli alberi, cacciando. Non si accorse della luce improvvisa che veniva da sud. Si irradiava silenziosa, un bagliore giallognolo nel cielo azzurro pallido. La foresta taceva, in attesa. Sei minuti più tardi la terra tremò violentemente. Lei si rannicchiò per non cadere. Nel giro di nemmeno trenta secondi il tremito cessò e lei tornò a cacciare. Otto minuti dopo il suolo riprese a tremare, stavolta si agitava e beccheggiava come una nave su un mare in tempesta. Fu allora che notò lo strano bagliore giallastro levarsi a sud, all'orizzonte, che fece calare un'altra volta le tenebre tra i grandi tronchi di araucaria. La foresta si illuminò e lei sentì un forte calore irraggiarsi ai suoi fianchi. Smise di cacciare, vigile ma non preoccupata. Al dodicesimo minuto sentì un rumore impetuoso, simile all'avvicinarsi di un forte vento. Si trasformò in un rombo e all'improvviso gli alberi si piegarono in due e nella foresta risuonò lo schianto dei tronchi spezzati. Si sentì schiacciare con violenza e venne sbattuta a terra e graffiata da piante divelte, tronchi, rami. Giaceva a terra, confusa e dolorante, quando i suoi istinti si impossessarono di lei e le dissero di alzarsi, alzarsi e combattere. Si girò, si raddrizzò e si accovacciò, fronteggiando la tempesta, furiosa, ruggendo e azzannando l'uragano di vegetazione che si era abbattuto su di lei. La tempesta si placò poco alla volta, trasformando la foresta in un relitto. E, nel silenzio, si levò un nuovo suono, un brusio misterioso, quasi un canto. Una striscia luminosa piovve dal cielo e poi un'altra e un'altra ancora. Si abbattevano sul paesaggio devastato, trasformandosi in pioggia di fuoco. Le urla e le strida degli animali si levarono da ogni angolo come un inquietante ritornello. Branchi di piccole creature si facevano largo attraverso la foresta che andava a fuoco, veloci. Una mandria di celofisi le correva dinanzi, vagando senza meta: lei vi affondò il suo grosso muso, lacerando e strappando, lasciando sparpa-
gliati a terra arti, corpi e code che si contorcevano. Divorò i pezzi a suo piacimento, osservando di tanto in tanto con disappunto la pioggia di fuoco, che presto cedette il passo alla sabbia che scendeva a cumuli dal cielo. Finì di mangiare e si riposò, la mente vuota. Non si accorse che il sole era scomparso e il cielo cambiava colore: da giallo ad arancione, infine rosso sangue. Diventava sempre più cupo, irradiando calore. Anche l'aria bruciava, lei non l'aveva mai sentita così calda. Il calore la spinse all'azione, assieme al dolore lancinante delle ferite alla schiena. Si alzò e si diresse alla palude dei cipressi, il suo abituale pantano, e si acquattò e rotolò, ricoprendosi di fango fresco e scuro. Poco per volta si fece buio. Lei era tranquilla. Andava tutto bene. 1 Melodie Crookshank terminò di sistemare i dati in formato HTML, ritagliò immagini, scrisse didascalie e sottopose a un paio di ultime revisioni il breve articolo scritto in un impeto di furibonda attività. Era ormai da sessanta ore che non dormiva e avrebbe dovuto essere priva di energie, ma si sentiva ancora in forze. Quello sarebbe diventato uno degli articoli più importanti nella storia della paleontologia dei vertebrati e avrebbe causato il finimondo. Sarebbero saltati fuori gli scettici, i contrari, i detrattori e forse anche le accuse di frode... eppure i dati erano validi. E le immagini impeccabili. In più, Melodie aveva ancora un frammento di reperto che intendeva offrire ai paleontologi di Harvard o dello Smithsonian Institute perché lo esaminassero in modo indipendente. Il pandemonio avrebbe avuto inizio nel momento in cui lei avesse trasmesso il suo articolo alla versione on line del Journal of Paleontology. Le bastava che lo leggesse una persona sola. Poi di conseguenza l'avrebbero letto tutti e la sua vita sarebbe cambiata. Era fatta... o quasi. Posò il dito sul tasto di invio, pronta a spedire l'articolo via e-mail. Bussarono alla porta. Melodie si voltò di scatto. C'era ancora la sedia incastrata sotto la maniglia. Guardò l'orologio: le cinque. «Chi è?» «Pulizie.» Sospirò e si alzò dalla scrivania, andò alla porta e tolse la sedia. Stava per aprire quando si fermò. «Pulizie?»
«Esatto.» «Frankie?» «E chi se no?» Melodie aprì la porta e notò con sollievo che si trattava proprio di Frank, il suo amico pelle e ossa, mal rasato, puzzolente di fumo e whisky scadente. Lui entrò strascicando i piedi e lei richiuse. L'uomo andava in giro per il laboratorio svuotando i cestini in un saccone di plastica e fischiettando stonato. Si infilò sotto la sua scrivania e afferrò il cestino stracolmo di carte di Mars e lattine. Quando si tirò su batté la testa, rovesciando alcune lattine vuote di Dr. Pepper sul microscopio. «Scusa.» «Tranquillo.» Melodie attendeva con impazienza che finisse. Frank svuotò il cestino, pulì rapidamente la scrivania passandoci sopra la manica e nel farlo urtò il microscopio da cinquantamila dollari. La ragazza si chiese rapidamente com'era possibile che alcuni esseri umani diventassero grandi matematici e altri non riuscissero nemmeno a svuotare un cestino. Scacciò quel pensiero poco gentile dalla mente. Non voleva diventare una di quegli scienziati arroganti con cui aveva avuto a che fare negli ultimi anni. Avrebbe trattato bene chiunque, dagli umili tecnici agli uomini delle pulizie incapaci ai ricercatori. «Grazie, Frankie.» «Ci vediamo.» Frankie se ne andò, sbatacchiando il sacco contro la porta. Nella stanza tornò a regnare il silenzio. Con un sospiro, Melodie osservò il microscopio. Goccioline di Dr Pepper erano finite sulla lente e altre avevano bagnato il vetrino. Guardò attraverso l'oculare per assicurarsi che non ci fossero danni. Non erano avanzati molti frammenti del prezioso reperto e ognuno di essi aveva il suo valore, in particolare le sei o sette particelle che era riuscita a estrarre dalla matrice. Il vetrino era integro. Le gocce della bevanda non avevano cambiato le cose: ci voleva ben più di poche molecole di zucchero per danneggiare una particella sopravvissuta per sessantacinque milioni di anni sottoterra e in una soluzione al dodici per cento di acido fluoridrico. Si interruppe all'improvviso. Se i suoi occhi non la ingannavano, una delle croci sul braccio della particella si era mossa. Attese, fissando attraverso l'oculare i corpuscoli ingranditi, con una sensazione strisciante alla spina dorsale. Mentre osservava, un altro braccio di una particella si mosse, scattando da una posizione a un'altra, proprio come
un piccolo meccanismo. La particella si spostò in avanti. Melodie aveva gli occhi incollati al microscopio, intrigata e allarmata insieme, mentre i corpuscoli si animavano, tutti allo stesso modo. Ogni particella prese a muoversi, con i bracci che facevano da piccole eliche. Le particelle sono ancora vive. Doveva essere stato lo zucchero aggiunto alla soluzione. Melodie infilò la mano sotto la scrivania ed estrasse l'ultima lattina di Dr Pepper. La aprì e con una micropipetta ne prese una piccola quantità, che depositò su un lato del vetrino formando un gradiente zuccherato. Le particelle aumentarono la loro attività, ruotando le braccia in modo da portarsi sopra la zona dove c'era maggiore concentrazione di zucchero. Melodie sentì la preoccupazione aumentare. Non aveva neanche pensato che avrebbero potuto essere ancora infettive. E se erano vive, erano di sicuro infette... almeno per un dinosauro. Nel laboratorio di erpetologia in fondo al corridoio uno dei conservatori aveva generato lucertole per partenogenesi come parte di un complesso esperimento. Lì c'era un'incubatrice con colture di cellule in vitro. Una coltura cellulare era un terreno eccellente per testare se le particelle avrebbero infettato una lucertola moderna. Melodie uscì in corridoio: era deserto. Dopo le cinque, la domenica, era piuttosto improbabile incontrare qualcuno. Il laboratorio di erpetologia era chiuso a chiave, ma la sua tessera funzionava, e procurarsi una capsula Petri piena di cellule di lucertola fu questione di minuti. Tornò al suo laboratorio, ne sciolse alcune in uno spruzzo di soluzione salina e le trasferì su un vetrino. Dopo di che guardò nell'oculare. Le particelle di Venere cessarono la loro marcia verso il gradiente zuccherino. Si voltarono all'unisono, simili a un branco di lupi sulle tracce di una preda, e puntarono verso le cellule. Melodie si sentì un nodo in gola, all'improvviso. In un istante le raggiunsero, si raggrupparono intorno e attaccarono le membrane con le loro lunghe appendici; infine, con un rapido movimento, le tagliarono e si inserirono ognuna all'interno di una cellula. Melodie, affascinata, osservava la scena per scoprire come sarebbe andata a finire. 2 Il monaco spinse in malomodo l'uomo in tuta verso una roccia nell'ango-
lo, così da essere coperto alle spalle e ai fianchi. I tre soldati avevano puntato le loro armi contro Ford e Masago. Il sergente fece un cenno con la mano e gli altri due si mossero su ambo i lati. «Fermi tutti e abbassate le armi.» «Come ho già detto, quest'uomo ci racconterà che cosa sta succedendo, altrimenti lo ammazzo. Chiaro? Perché non volete tornare alla base con il vostro agente chiuso in un sacco nero, giusto?» «Tu finirai nel sacco accanto a lui», fece Hitt, calmo. «Lo faccio per voi, sergente.» «Per noi?» «Anche voi avete il diritto di sapere che cosa sta succedendo davvero.» Silenzio. Ford premette la pistola contro la tempia di Masago. «Parla.» «Lascialo andare o apro il fuoco», fece Hitt, tranquillo. «Uno...» «Aspetti», disse Tom. «Siamo cittadini americani. Non abbiamo fatto niente di male. È per questo che lei è entrato nell'esercito? Per ammazzare civili americani?» Hitt ebbe una lieve esitazione. Poi riprese: «Due...» «Mi ascolti», continuò Tom, rivolgendosi direttamente al sergente. «Lei non sa quello che sta facendo. Non obbedisca alla cieca. Almeno aspetti di sapere.» Il sergente esitò un'altra volta. I due soldati lo guardavano. Dipendeva tutto da lui. Hitt abbassò l'arma. Ford parlava con calma, memore di ciò che aveva imparato anni prima sugli interrogatori. «Lei ha mentito a questi uomini, vero?» «No.» Masago stava già sudando. «Invece sì. E ora dirà a tutti la verità, altrimenti la ammazzo... Non avrà una seconda possibilità, non si tratta di un avvertimento. Una pallottola nel suo cervello e poi sarà il mio turno.» Ford faceva sul serio, il punto era quello. E l'uomo lo sapeva. «Prima domanda. Per chi lavori?» «Sono a capo del distaccamento CL480.» «Che sarebbe?» «È stato fondato nel 1973 dopo la missione dell'Apollo 17 sulla Luna. Il suo scopo era quello di studiare un campione lunare noto come CL480.» «Una roccia lunare?» «Sì.»
«Avanti.» Masago deglutì. Stava sudando. «Si trattava di un frammento di materiali piroclastici emesso da un cratere denominato Van Serg. La roccia conteneva schegge del meteorite che aveva formato il cratere. In esso erano contenute delle particelle. Microbi.» «Che tipo di microbi?» «Sconosciuti. Sembravano una forma di vita aliena. Biologicamente attiva. Potrebbero essere utilizzati come arma.» «E cosa c'entra con il dinosauro?» «Nel fossile del dinosauro sono state trovate le stesse particelle. L'animale è morto per un'infezione causata dalla particella CL480.» Ford rifletté. «Intende dire che il dinosauro è stato ucciso da una forma di vita aliena?» «Sì.» «E come si lega alla roccia lunare? Mi sto perdendo.» «Il cratere Van Serg risale a sessantacinque milioni di anni fa. Il dinosauro è morto nello stesso periodo, dopo l'impatto del meteorite Chicxulub.» «Chicxulub?» «L'asteroide che ha causato l'estinzione di massa dei dinosauri.» «Vada avanti.» «Il cratere Van Serg è stato creato da un frammento del medesimo asteroide. Sembra che l'asteroide stesso fosse eroso da particelle di CL480.» «Qual è l'obiettivo di questa operazione?» «Ripulire l'area, cancellare ogni traccia del dinosauro e recuperarlo per ricerche segrete.» «Quando dice 'ripulire l'area' si riferisce a noi.» «Esatto.» «E quando dice 'cancellare ogni traccia del dinosauro', sta parlando di ammazzarci... dico bene?» «Non prendo alla leggera l'omicidio di cittadini americani. Ma qui ci troviamo di fronte a una gravissima minaccia per la sicurezza nazionale. È in gioco la sopravvivenza del nostro Paese. Non è disonorevole dare la vita per la propria nazione... anche se non dipende dalla propria volontà. A volte è inevitabile. Lei era nella CIA. Lo capirà.» Si interruppe e fissò Ford, gli occhi simili a due spilli. «Queste particelle CL480 hanno provocato l'estinzione di massa dei dinosauri. In mani sbagliate potrebbero causare l'estinzione della razza umana.»
Ford lo lasciò andare. Masago balzò via e arretrò, respirando affannosamente, poi sfoderò la sua Beretta. Si mise alle spalle di Hitt. «Sergente Hitt, elimini questi tre individui. Le loro informazioni non mi servono. Le otterremo in un altro modo.» Seguì un lungo silenzio. «Lei non lo farà», fece Sally. «Ora sa che si tratta di omicidio.» «Sto aspettando che obbediate ai miei ordini, soldati», disse Masago, calmo. Nessuno parlò. Nessuno si mosse. «Hitt, lei è destituito dal suo incarico», replicò Masago. «Soldato Gowicki, obbedisca al mio ordine. Elimini questi individui.» Un altro pesante silenzio. «Gowicki, non ho ricevuto conferma al mio ordine.» «Sissignore.» Gowicki alzò l'arma. I secondi passavano. «Gowicki?» fece Masago. «No», disse Hitt. Masago puntò la Beretta contro la tempia di Hitt. «Gowicki, obbedisci al mio ordine.» Tom placcò Masago alle ginocchia, facendogli volare in aria la pistola. L'altro si girò e si riprese, ma con un abile movimento Hitt gli assestò un colpo al plesso solare. L'uomo crollò pesantemente al suolo, piegato in due, incapace di emettere un suono. Hitt allontanò la pistola con un calcio. «Ammanettatelo.» Gowicki e Hirsch si avvicinarono; un istante dopo gli avevano assicurato le braccia dietro la schiena. Masago tossiva e ansimava, rotolando nella sabbia, il sangue che gli gocciolava dalla bocca. Per diversi istanti nessuno fiatò. «Okay», fece Hitt ai soldati. «Assumo io il comando dell'operazione. E mi sembra che queste tre persone abbiano bisogno di un po' d'acqua.» Gowicki si sfilò la borraccia e la fece passare. Bevvero tutti abbondantemente. «Ora che sappiamo davvero che cosa sta succedendo», proseguì il sergente, «dobbiamo comunque portare a termine un'operazione. Mi sembra di aver capito che si doveva localizzare un fossile di dinosauro. E che tu sai dove si trova.» Guardò Ford. «Che cosa pensi di fare di noi?»
«Vi riporto al WSMR. Il generale Miller deciderà che cosa fare: è lui il vero ufficiale comandante qui, non quel...» abbassò la voce e lanciò un'occhiata a Masago «... quel civile.» Ford indicò con un cenno il grosso masso che troneggiava sul fondo della grotta. «Per di qua.» «Niente scherzi.» Hitt si voltò verso Gowicki. «Tu, tienili d'occhio mentre io vado a controllare.» E scomparve dietro il masso. Tornò pochi minuti dopo. «Quello sì», disse, «che è un grosso figlio di puttana!» Si rivolse ai suoi uomini. «Per quanto mi riguarda, la prima fase dell'operazione è riuscita. Il fossile è stato localizzato. Contatto il resto della squadra. Ci incontriamo su LZ, torniamo alla base e segnaliamo al generale Miller queste tre persone, in attesa di ulteriori ordini.» Si rivolse a Masago. «Lei ci segua senza fiatare, signore, e si comporti bene.» 3 L'elicottero era accovacciato sulla pianura alcalina come un grosso insetto nero pronto a prendere il volo. Si avvicinarono in silenzio; Tom camminava da solo, zoppicando, mentre Sally avanzava aiutata da un soldato. Hitt veniva per ultimo, con davanti Masago. Gli altri quattro membri della squadra, contattati da Hitt, si trovavano all'ombra di una roccia, fumando sigarette. Hitt indicò l'elicottero e i soldati si alzarono, gettando via i mozziconi. Tom e gli altri li seguirono a bordo e il sergente fece loro cenno di sedersi sulle panche metalliche lungo la parete. «Chiama la base», disse Hitt al copilota. «Riferisci che la prima parte dell'operazione è riuscita. E che sono stato costretto a destituire dal comando il civile Masago e a disarmarlo.» «Sissignore.» «Riferirò di persona i dettagli al generale Miller.» «Sissignore.» Un soldato chiuse il portello del cargo appena l'elicottero iniziò a sollevarsi. Tom si appoggiò contro la parete, accanto a Sally: non era mai stato così stanco in vita sua. Lanciò un'occhiata a Masago, immobile e muto. Il suo volto sembrava stranamente vuoto. L'elicottero si alzò in volo dalla ripida valle e sorvolò le cime degli altipiani diretto a sud-ovest. Il sole si stagliava all'orizzonte come una grossa macchia di sangue; mentre il velivolo guadagnava quota, Tom vide il Na-
vajo Rim e al di là la Mesa de los Viejos, attraversata nel mezzo dal complesso di canyon noto come il Labirinto. In lontananza si estendeva l'ansa azzurra del Chama River. Quando l'elicottero virò lentamente verso sud-est, Tom colse un rapido movimento con la coda dell'occhio. Masago era saltato in piedi e si stava precipitando verso l'abitacolo di guida. Tom gli si gettò contro, ma l'uomo si liberò con una giravolta, e con le braccia ammanettate lo colpì con un gesto a scatto verso l'alto. Masago estrasse con entrambe le mani un coltello dalla tasca esterna dei pantaloni e si tuffò verso il pilota. Gli altri uomini erano balzati dai sedili per bloccarlo quando all'improvviso l'elicottero imbardò, scagliando tutti su una parete, mentre un grido rauco si levava dall'abitacolo. «Ci sta facendo schiantare!» urlò Hitt. Il velivolo scendeva in picchiata, i rotori che vibravano con violenza. Tom si rimise in piedi barcollando; lottò contro la decelerazione, mentre l'elicottero volteggiava rombando verso il basso. Lanciò uno sguardo verso l'abitacolo: il copilota stava lottando contro Masago. Il pilota era steso a terra, inondato di sangue. Tom si lanciò a sua volta verso i due. Finì contro il pannello di comando, si afferrò a un sedile e assestò un pugno a Masago, colpendolo all'orecchio. Questi barcollò all'indietro, il copilota gli afferrò i polsi ammanettati e glieli sbatté contro il pannello, disarmandolo. L'elicottero rollò, gettandoli entrambi a terra; Masago afferrò il copilota e lo strinse alla gola; scivolavano sul pavimento sporco di sangue. Tom sbatté la testa di Masago contro il portello, facendolo rotolare lontano dal copilota. «Prendi i comandi!» urlò Tom al copilota, che non aveva comunque bisogno di incoraggiamento. Si stava già dirigendo, barcollante, al pannello, mentre il velivolo oscillava spaventosamente. I rotori posteriori rombarono all'improvviso e ci fu una brusca decelerazione, poi l'elicottero si raddrizzò. Masago continuava a dibattersi, lottando con una forza quasi sovrumana, ma Hitt aveva raggiunto Tom e insieme l'avevano immobilizzato. Coperto dal rumore sordo dei motori, il copilota effettuava una chiamata d'emergenza, tentando di controllare il mezzo. All'improvviso, la parete di un precipizio si materializzò davanti alla cabina di pilotaggio. Seguì un sobbalzo da spaccare le ossa e un rumore simile a una mitragliata: pezzi dei rotori colpivano la fusoliera come schegge di granata. Il copilota fu scaraventato con forza da una parte, e il suo sangue schizzò sul vetro sbriciolato. Lo stridore del metallo che cozzava contro la
roccia fu seguito da un istante di caduta libera e poi da un enorme fragore. Silenzio. A Tom parve di nuotare fuori dall'oscurità, e gli ci volle un momento per ricordare dov'era... A bordo di un elicottero schiantato. Tentò di muoversi e si accorse di essere intrappolato in un angolo, tra le lamiere. Sentiva urla in lontananza, il gocciolare di un fluido idraulico (o forse era sangue?), il puzzo del combustibile e di circuiti elettronici bruciati. Tutto era immobile. Lottò per liberarsi. Una fiancata dell'apparecchio si era squarciata e dall'apertura si vedeva che erano precipitati su un ripido pendio roccioso. Il velivolo cigolava e si muoveva, le rivettature saltavano, il fumo riempiva l'aria. Tom sgusciò tra i rottami e scorse Sally, aggrovigliata tra una rete e una tela cerata. Rimosse la rete. «Sally!» La donna si mosse, aprì gli occhi. «Ti faccio uscire.» La afferrò per le spalle e la liberò, sollevato nel vederla soltanto stordita. «Tom!» Era la voce di Wyman Ford. Si girò. Il monaco stava strisciando fuori da un mucchio di rottami, la faccia insanguinata. «Fuoco», esclamò rauco. «Stiamo per andare a fuoco.» In quello stesso istante si udì un rombo e la coda cominciò a bruciare. Le fiamme brillarono sui loro volti. Tom mise un braccio intorno a Sally e la fece passare dall'apertura nella fusoliera, l'unica via d'uscita. Un salto di due metri e mezzo li separava dal suolo. Il fuoco si diffondeva rapido lungo la coda, alimentato dal carburante e dai cavi elettrici, divorando il velivolo. «Riesci a saltare?» Sally annuì. Si lasciò scivolare giù per il bordo e si buttò. «Corri!» «Perché diavolo resti lassù?» gli gridò lei, dal basso. «Salta!» «Ford è ancora dentro!» «Sta per esplodere...!» Ma Tom era tornato a guardare dentro l'elicottero. Ford, ferito, stava cercando di arrampicarsi lungo la rete, verso l'apertura. Aveva un braccio penzolante, inutilizzabile. Tom si sdraiò sulla pancia, si protese verso il foro, afferrò il braccio sano dell'uomo e lo tirò fuori. Un fumo nerastro si levava a ondate, mentre aiutava il monaco a salire sulla fusoliera e poi a saltare.
«Tom! Scendi di lì!» urlava Sally da sotto. «C'è ancora Hitt!» Ora il fumo si riversava fuori dalla fenditura. Tom si calò all'interno e si rannicchiò, in prossimità di uno spiffero di aria fresca. Strisciò in direzione del punto in cui aveva visto il sergente l'ultima volta, tenendosi basso. Il soldato giaceva incosciente su un lato, all'interno dell'abitacolo, circondato da un ammasso di detriti. Ondate di calore bruciavano la pelle di Tom. Lui fece scivolare le braccia lungo il torace di Hitt e tentò di alzarlo, ma era troppo pesante. Si udì un tonfo soffocato, come se qualcosa dentro la fusoliera prendesse fuoco. Seguì un'ondata di fumo e di calore. «Hitt!» Tom lo schiaffeggiò sulla faccia. Gli occhi dell'uomo si mossero. Lo schiaffeggiò un'altra volta, con forza, finché il sergente non riprese coscienza. «Muoviamoci! Fuori!» Tom gli passò il braccio intorno al collo e lo sollevò. Hitt si mise faticosamente in ginocchio e scosse il capo, mentre gocce di sangue gli colavano dai capelli. «Merda...» «Fuori! Stiamo bruciando!» «Cristo...» Finalmente Hitt sembrò tornare alla realtà, pronto a muoversi con le sue forze. Ora il fumo era così denso che Tom ci vedeva a malapena. Camminò a tastoni sul pavimento, mentre il militare strisciava dietro di lui. Dopo un'eternità giunsero nel punto in cui la fusoliera si curvava in alto. Tom si girò, afferrò il sergente per il braccio e piazzò il suo grosso pugno sulla rete. «Sali!» Non si respirava più e il fumo acre gli inondava i polmoni, simile a cocci di vetro. «Sali, cazzo!» L'uomo prese ad arrampicarsi come uno zombie, il sangue che gli colava giù dal braccio. Tom lo seguiva di fianco, urlando, mentre il torpore gli aggrediva la testa. Stava per svenire, era troppo tardi. Era finita. Sentì la sua presa allentarsi... Poi vide scendere dall'alto un paio di braccia che lo afferrarono e lo tirarono fuori. Cadde pesantemente sulla sabbia e dopo un istante Hitt atterrò accanto a lui, con un grugnito. Sally era tornata sull'elicottero per aiutarli a uscirne.
Si spostarono, strisciando e camminando con passo malfermo, tentando di portarsi il più lontano possibile dal rottame. Infine Tom crollò, ansimando e tossendo, incapace di proseguire. Mentre si trascinava sulla sabbia, sentì un tonfo sordo e una vampata di calore: l'ultimo serbatoio era esploso, avvolgendo l'elicottero nelle fiamme. In quell'istante ebbe una strana visione: un uomo che emergeva dal fuoco, avviluppato dalle fiamme, il braccio infuocato che puntava una pistola. Si fermò, come animato da uno strano impulso, sparò un'unica volta, con furia, poi si accasciò piano, simile a una statua, nell'inferno fiammeggiante, e scomparve. Tom perse i sensi. 4 Sul Museo di Storia Naturale di Manhattan era scesa la notte. Una brezza leggera faceva stormire le fronde dei secolari sicomori nel parco del museo, mentre i gargoyle di pietra che infestavano le cime dei tetti si stagliavano silenti contro il cielo oscuro. Giù nel seminterrato dell'edificio, al laboratorio di mineralogia, brillava una luce: Melodie Crookshank era china sul microscopio, a osservare una piccola massa di cellule che si dividevano. Erano tre ore e mezzo che andava avanti. Le particelle di Venere avevano innescato una crescita improvvisa e prodigiosa, scatenando un'orgia di divisione cellulare. In principio Melodie pensava che avessero dato origine a una crescita cancerogena, a un agglomerato maligno. Ma non molto tempo dopo si era resa conto che quella divisione non era di tipo cancerogeno, né somigliava a una normale coltura cellulare. No, tra quelle cellule era in atto una differenziazione. Il gruppo aveva cominciato ad assumere le caratteristiche delle blastociste, le cellule che si sviluppano dall'embrione. Man mano che continuavano a dividersi, Melodie aveva notato che nel mezzo si formava una striscia scura che aveva assunto le fattezze di quelle strisce primitive presenti in tutti gli embrioni dei cordati e che danno origine alla spina dorsale e alla colonna vertebrale della creatura nascente. Creatura. Melodie, al limite della stanchezza, alzò il capo. Non aveva capito esattamente che cosa fosse ciò che stava crescendo, se una lucertola o qualcos'altro: la fase di sviluppo era ancora troppo involuta per poterlo sapere.
Rabbrividì. Che diavolo stava facendo? Aspettare di scoprire cosa sarebbe accaduto era folle, oltre che estremamente pericoloso. Quelle particelle andavano studiate in condizioni di biosicurezza a livello quattro, non in quel laboratorio a cielo aperto. Guardò l'orologio e riuscì con difficoltà a mettere a fuoco il quadrante. Batté le palpebre. Era così stanca che quasi aveva le visioni. Melodie non aveva idea di che cosa fossero quelle particelle, cosa facessero, come funzionassero. Doveva essere una forma di vita aliena che aveva chiesto un passaggio all'asteroide Chicxulub per arrivare sulla Terra. Tutto ciò andava oltre la sua competenza... molto oltre. Spostò indietro la sedia e si alzò, appoggiandosi al bordo del tavolo, le gambe instabili, le mani che tremavano. Cominciò a riflettere su ciò che doveva fare. Si guardò in giro e vide una bottiglia di acido cloridrico. Aprì l'armadietto, la prese, la portò dietro la cappa, ruppe il sigillo e ne versò qualche grammo in un basso vassoio di vetro. Rimosse con estrema cura il vetrino dal microscopio e lo fece scivolare nell'acido. Si formò una schiuma e con uno sfrigolio il liquido sciolse e distrusse quell'orribile blob cellulare finché non ne rimase alcuna traccia. Melodie emise un sospiro di sollievo. Aveva appena compiuto il primo passo: liberarsi degli organismi che si moltiplicavano sul vetrino. Ora doveva distruggere le particelle di Venere. Aggiunse all'acido una forte base, e lo neutralizzò provocando la precipitazione di uno strato di sale sul fondo della capsula. Posizionò un becco di Bunsen sotto il pannello, mise la capsula sopra il bruciatore e portò a ebollizione la soluzione. In pochi minuti il liquido era evaporato, lasciando un deposito salino. Accese di nuovo il becco di Bunsen e lo portò alla massima temperatura. Passarono cinque minuti, poi dieci e il sale cominciò a crostificarsi, finché non raggiunse il punto di fusione del vetro e diventò rosso incandescente. Nessun tipo di carbonio, nemmeno il fullerene, resisteva a temperature simili. Tenne per cinque minuti la capsula in pyrex sul bruciatore finché il residuo non diventò color amaranto. A quel punto spense il gas e lasciò raffreddare il tutto. Doveva fare ancora una cosa: la più importante. Finire l'articolo, aggiungendo ciò che aveva scoperto. Impiegò dieci minuti a scrivere gli ultimi due paragrafi, illustrando le sue osservazioni nel più secco linguaggio tecnico che riuscì a trovare. Salvò, rilesse un'altra volta e si disse soddisfatta. Si rimproverava la propria mancanza di prudenza. Qualunque cosa fos-
sero quelle particelle, ora riteneva che potessero essere molto pericolose. Non si poteva dire che cosa avrebbero fatto a un organismo vivente o a un essere umano. Rabbrividì, domandandosi se l'avessero infettata. No, era impossibile: le particelle erano troppo grandi per essere trasportate dall'aria. Inoltre, a parte quelle che aveva liberato con attenzione, le altre erano al sicuro, chiuse nella pietra. Avevano sessantacinque milioni di anni, ma erano ancora funzionali. Funzionali. Ecco il nodo della questione. Qual era la loro funzione? Poteva anche porsi la domanda; sapeva comunque che avrebbe impiegato mesi, se non anni, a trovare una risposta. Allegò l'articolo a un'e-mail e si preparò a spedire, il dito posato sul tasto di invio. Lo premette. Melodie si appoggiò allo schienale della sedia con un grosso sospiro e all'improvviso si sentì svuotata. Era bastato premere quel tasto e la sua vita era cambiata. Per sempre. 5 Tom aprì gli occhi. Strisce di sole illuminavano il suo letto, un oscillogramma sullo sfondo e un orologio appeso alla parete. Attraverso la nube di dolore, riuscì a scorgere Sally su una sedia di fronte a lui. «Sei sveglio!» Lei fece un salto, gli prese la mano. Tom non tentò nemmeno di alzare la testa che gli pulsava. «Cosa...?» «Sei in ospedale.» Gli riaffiorò tutto rapido alla mente: l'inseguimento nei canyon, lo schianto dell'elicottero, il fuoco. «Sally, come stai?» «Molto meglio di te.» Tom si osservò, stupito di vedersi tutto fasciato. «Allora, che cos'ho che non va?» «Soltanto una brutta ustione, un polso spezzato, costole rotte, commozione cerebrale, un rene ferito e un polmone disidratato. Basta.» «Per quanto tempo sono stato incosciente?» «Due giorni.» «E Ford? Come sta?» «Dovrebbe arrivare a momenti. Ha un braccio rotto e qualche taglietto, nient'altro. È una pellaccia. Tu ti sei fatto più male.»
Tom grugnì, la testa che continuava a pulsare. Quando tornò a essere lucido, notò un'ingombrante presenza seduta in un angolo. Il tenente Willer. «Che cosa ci fa qui?» Willer si alzò, si toccò la fronte in segno di saluto e tornò a sedersi. «Sono lieto del suo risveglio, Broadbent. Non si preoccupi, non si è cacciato in nessun guaio... anche se non dovrebbe essere così.» Tom non sapeva che dire. «Sono solo passato per vedere come stava.» «Gentile da parte sua.» «Ho immaginato che avrebbe voluto delle risposte a certe domande. Tipo che cosa abbiamo scoperto sull'assassino di Marston Weathers, ovvero lo stesso uomo che ha rapito sua moglie.» «Mi piacerebbe.» «In cambio, quando se la sentirà, mi piacerebbe avere da lei un rapporto dettagliato dell'accaduto.» Lo sceriffo alzò un sopracciglio con fare interrogativo. «Ci sto.» «Bene. L'uomo si chiamava Maddox, Jimson Alvin Maddox. Era stato dentro per omicidio. Sembra lavorasse per un certo Iain Corvus, un conservatore del Museo di Storia Naturale di New York che era riuscito a farlo uscire di prigione prima del tempo. La stessa sera del rapimento di Sally, Corvus è morto, apparentemente di infarto. L'FBI sta indagando sulla questione.» Tom annuì con il capo. Dannazione, la testa gli doleva da pazzi. «Come faceva questo Corvus a sapere del dinosauro?» «Gli era arrivata voce che Weathers aveva le mani su qualcosa di grosso e ha incaricato Maddox di seguirlo. Maddox l'ha ammazzato e pare gli avesse rubato un reperto che poi Corvus ha fatto analizzare al museo. La storia è venuta fuori su Internet e ci hanno fatto su un casino mai visto prima. Ne parlano tutti i giornali.» Willer scosse il capo. «Un fossile di dinosauro... Cristo, avevo pensato di tutto, dalla cocaina al tesoro nascosto, ma mai mi sarebbe venuto in mente un T. rex.» «Che fine ha fatto il fossile?» Sally rispose: «Il governo ha bloccato l'accesso alla mesa alta e vogliono portarlo via. Stanno parlando di costruire un laboratorio speciale per studiarlo, forse proprio qui nel New Mexico». «E Maddox? È veramente morto?» «Abbiamo trovato il corpo dove l'avete lasciato», lo informò lo sceriffo,
«o almeno quel che ne era rimasto dopo la visita dei coyote.» «E cosa ne è stato del Predator e di tutta quell'altra faccenda?» Willer appoggiò la schiena alla sedia. «Stiamo ancora cercando di vederci chiaro. Sembra si tratti di qualche agenzia governativa deviata.» «Quando arriverà Ford, ti spiegherà», fece Sally. Neanche a farlo apposta, entrò l'infermiera e Tom scorse alle sue spalle il faccione del monaco, la mascella fasciata da un lato, il braccio ingessato al collo. Indossava una camicia a quadri e un paio di jeans. «Tom! Sono felice di vederti sveglio.» Si avvicinò e si appoggiò alla spalliera del letto. «Come stai?» «Ho passato momenti migliori.» Con la sua massiccia corporatura, Ford prese cautamente posto su una scadente sedia in plastica dell'ospedale. «Ho contattato alcuni dei miei vecchi amici alla CIA. Sembra che molte teste siano cadute, dopo questa disastrosa operazione condotta nel più totale disprezzo per la vita umana. L'agenzia segreta che l'ha gestita è stata smantellata. Una commissione governativa sta indagando sulla faccenda, ma sai com'è...» «Capisco.» «C'è dell'altro. Qualcosa che ha dell'incredibile. Una scienziata del Museo di Storia Naturale di New York è venuta in possesso del reperto del dinosauro, l'ha esaminato e ha scritto un articolo. È roba esplosiva. Il T. rex è morto a causa di un'infezione... portata dall'asteroide che ha causato l'estinzione di massa. Non sto scherzando, il dinosauro è morto per un'infezione aliena. O almeno così hanno detto.» Ford gli raccontò di come l'Apollo 17 avesse portato sulla Terra alcune particelle contenute in un campione lunare. «Quando hanno scoperto che la roccia era impregnata di un microbo alieno, l'hanno dirottata alla Defense Intelligence Agency, che in cambio ha creato un black detachment per studiarla. La DIA chiamò quest'agenzia CL480, che sta per Campione Lunare 480. Hanno studiato queste particelle per più di trent'anni, tenendo le antenne drizzate in caso di altre manifestazioni.» «Ancora non si spiega come abbiano fatto a venire a sapere del dinosauro.» «L'NSA ha una spaventosa abilità nell'ascoltare. I dettagli non li sappiamo... ma pare abbiano intercettato una telefonata. E si sono lanciati all'istante. Era da trent'anni che aspettavano, erano pronti.» Tom annuì. «Come sta Hitt?» «È ricoverato al piano di sopra, ancora a letto. Si riprenderà. Però pilota
e copilota sono entrambi morti. Assieme a Masago e a molti soldati. È stata una vera tragedia.» «E il taccuino?» Willer si alzò, lo estrasse dalla tasca e lo posò sul letto. «Questo è per te. Sally mi ha detto che mantieni sempre le promesse.» 6 Melodie non era mai entrata nell'ufficio di Cushman Peale, il presidente del museo, e si sentì soffocare da quell'atmosfera esclusiva e di altri tempi. Ad aumentare l'effetto contribuiva l'uomo in grigio seduto dietro l'antica scrivania di palissandro, con una lustra criniera di capelli bianchi pettinati all'indietro e un abito Brooks Brothers. Inoltre, i suoi modi di fare stucchevoli, uniti al fraseggiare autodenigratorio, non servivano granché a celare la sua incrollabile presunzione di superiorità. Peale le fece strada fino a una poltrona Shaker in legno accanto a un caminetto di marmo e le si sedette di fronte. Estrasse da una tasca una copia dell'articolo che lei aveva scritto e la posò sul tavolo, distendendola con cura con la sua manona piena di vene. «Bene, bene, Melodie. Hai fatto un lavoro pregevole.» «La ringrazio, dottor Peale.» «Chiamami pure Cushman.» «D'accordo, Cushman.» Melodie si appoggiò allo schienale. Quella sedia era così scomoda che avrebbe fatto contorcere un puritano, ma fece finta di nulla. Aveva dovuto imparare a mentire, ma sperava che prima o poi non sarebbe più stato necessario. «Allora, vediamo...» Peale rilesse alcuni appunti che aveva scritto sulla prima pagina dell'articolo. «Sei venuta a lavorare al museo cinque anni fa, o sbaglio?» «Non sbaglia.» «Con una specializzazione presa alla Columbia. E sei stata reclusa nel laboratorio di mineralogia finché non sei diventata... tecnico specialista di primo livello?» Sembrava quasi stupito che ricoprisse un incarico così basso. Melodie tacque. «Be', sembra sia arrivato il momento di ottenere una promozione.» Peale si appoggiò alla sedia e incrociò le gambe. «Quest'articolo è davvero pro-
mettente, Melodie. Certo, è anche controverso, com'era prevedibile, ma il comitato scientifico l'ha vagliato con cura e con ogni probabilità i risultati reggeranno i loro esami.» «Reggeranno.» «Questo è l'atteggiamento giusto, Melodie.» Peale si schiarì leggermente la voce. «Il comitato sostiene che l'ipotesi che questa... ehm... particella di Venere sia un microbo alieno possa essere un po' prematura.» «Non mi sorprende, Cushman.» Melodie si interruppe: chiamarlo per nome la imbarazzava. Meglio che ci faccia l'abitudine, pensò. Il tecnico di primo livello deferente e desideroso di compiacere era ormai preistoria. «Tutte le più grandi scoperte scientifiche vanno incontro a incomprensioni. Tuttavia sono fiduciosa riguardo al fatto che le mie ipotesi saranno confermate.» «Sono lieto di sentirtelo dire. Naturalmente, sono soltanto il presidente di un museo», e qui fece un sorrisetto di falsa modestia, «dunque non sono in grado di giudicare il tuo lavoro. Mi hanno riferito che è piuttosto buono.» Melodie sorrise amabilmente. Cushman si mise comodo, appoggiò le mani sulle ginocchia, le distese. «Mi sono consultato con il comitato scientifico e abbiamo pensato di offrirti un incarico come assistente conservatore al dipartimento di Paleontologia dei Vertebrati. Si tratta di una buona posizione che consente di passare di ruolo e porterà, con il tempo, se tutto va bene, ad assumere la Humboldt Chair, la carica che avrebbe potuto occupare il dottor Corvus prima della sua scomparsa. Ovviamente è previsto un aumento di stipendio commisurato.» Melodie lasciò passare un imbarazzante lasso di tempo prima di dare una risposta. «Si tratta di un'offerta generosa. La apprezzo.» «Abbiamo cura del nostro personale», fece il presidente, pomposo, allungando la mano. «Vorrei poter accettare.» Peale ritrasse la mano. La ragazza attese. «Ci stai dando il benservito, Melodie?» Peale sembrava incredulo, come se l'idea di non voler restare al museo fosse irragionevole, impensabile. «Cushman, ho passato cinque anni reclusa nel seminterrato a fare lavori di prima classe per questo museo. E non ho mai ricevuto un minimo riconoscimento. Nessuno mi ha mai ringraziata, se non con una distratta pacca sulla spalla. Avevo uno stipendio più basso degli uomini delle pulizie che
mi svuotavano il cestino.» «Naturalmente ora ti abbiamo notata...» Peale era imbarazzato. «E le cose cambieranno. Permetti che ti dica che l'offerta che ti abbiamo fatto non è scolpita nella pietra. Potrebbe presentarsi la possibilità di un nuovo consulto con il comitato per darti un aiuto maggiore. Si può valutare un posto di conservatore associato con cattedra.» «Ho appena rifiutato una cattedra ad Harvard.» Peale alzò le sopracciglia dallo stupore, poi dissimulò, rapido. «Be', hanno fatto in fretta.» Fece un sorrisetto forzato. «Che tipo di offerta ti hanno fatto? Se posso sapere.» «La Montcrieff Chair.» Melodie si trattenne dal mettersi a ridere. Si stava proprio divertendo! «La Montcrieff Chair? Be', è... straordinario.» Il presidente tossicchiò, si distese sulla sedia, si aggiustò la cravatta. «E tu hai rifiutato?» «Sì, io seguo il dinosauro... allo Smithsonian.» «Lo Smithsonian?» Non appena sentì nominare il suo avversario, Peale divenne rosso in volto. «Proprio così. Al Museo di Storia Naturale. Il governo ha progettato di costruire un laboratorio biologico speciale di livello quattro nel New Mexico, nel White Sands Missile Range, per studiare il dinosauro e le particelle di Venere. Mi hanno offerto un posto di assistente direttore della ricerca, unito a una cattedra di conservatore al museo nazionale. Per me è molto importante poter continuare le ricerche su quei campioni. Il mistero delle particelle di Venere non è ancora stato svelato e voglio essere io a farlo.» «È la tua decisione finale?» «Sì.» Peale si alzò, allungò la mano e mise insieme un debole sorriso. «In questo caso, dottoressa Crookshank, mi permetta di essere il primo a congratularmi con lei.» La buona educazione aveva conferito a Peale un'ottima qualità, pensò Melodie. Gli aveva insegnato a perdere con dignità. 7 La casa era un piccolo bungalow situato in una graziosa strada laterale nella città di Marfa, Texas. Un grande platano gettava la sua ombra sul prato, recintato da una palizzata bianca. Nel vialetto era parcheggiata una
vecchia Ford Fiesta del 1989 e appeso davanti al garage c'era un cartello scritto a mano che diceva: ATELIER. Tom e Sally parcheggiarono in strada e suonarono il campanello. «Di qui», gridò una voce all'interno del garage. Fecero il giro dello steccato e la porta del garage si aprì, rivelando un piacevole studio. Comparve una donna con indosso un'enorme camicia maschile macchiata di pittura, i capelli rossi che uscivano dalla cuffia. Era piccolina, vivace e attraente, il nasino all'insù, il volto da ragazzina e l'aria combattiva. «Avete bisogno?» «Sono Tom Broadbent. E lei è mia moglie, Sally.» Lei sorrise. «Piacere. Robbie Weathers. Grazie molte per essere venuti.» La seguirono in un atelier sorprendentemente bello dotato di lucernario. Alle pareti bianche erano appesi quadri di paesaggi. In fondo alla stanza strane rocce, pezzi di legno erosi, vecchie ossa e frammenti di ferro arrugginito erano sistemati sui tavoli come fossero sculture. «Accomodatevi. Volete del tè o del caffè?» «No, grazie.» Si sedettero su un futon imbottito come un divano, mentre Robbie Weathers si lavava le mani e si toglieva la cuffia, scuotendo i riccioli. Prese una sedia di legno e si sedette di fronte a loro. Il sole filtrava all'interno. Seguì un imbarazzante silenzio. «Così tu sei quello che ha trovato mio padre», disse, rivolta a Tom. «Esatto.» «Voglio che tu mi dica tutto, come hai fatto a trovarlo, quello che ha detto... tutto.» Tom cominciò a raccontare, riferendole di come aveva sentito gli spari, era corso a cavallo per scoprire l'accaduto e aveva trovato suo padre nel canyon, steso a terra, moribondo. La ragazza annuiva, cupa in volto. «Com'era... caduto?» «Di faccia. Gli hanno sparato più volte alla schiena. Io l'ho girato, gli ho praticato un massaggio cardiaco e lui ha aperto gli occhi.» «Credi sarebbe sopravvissuto se l'avessero soccorso in tempo?» «Le ferite erano letali. Non aveva possibilità.» «Capisco.» Le nocche delle mani aggrappate alla sedia erano diventate bianche. «Stringeva un taccuino. Mi ha detto di prenderlo e portartelo.» «Che cosa ha detto esattamente?» «Ha detto: 'È per Robbie... mia figlia... promettimi che glielo darai... lei
saprà come trovarlo... il tesoro...'» «Il tesoro», ripeté Robbie, con un debole sorriso. «Di solito parlava così quando si riferiva ai suoi fossili. Non ha mai usato la parola 'fossile', perché aveva la fissazione che qualcuno si appropriasse delle sue scoperte. Si comportava come un cercatore di tesori mezzo fulminato. Spesso portava con sé parecchie mappe finte, per far credere alla gente di essere un ciarlatano.» «Questo spiega una cosa a cui ho pensato a lungo. In ogni caso, ho preso quel taccuino. Stava... stava per morire. Ho fatto quello che potevo, ma non aveva speranze. Il suo unico pensiero eri tu.» Robbie si asciugò una lacrima. «Ha detto: 'È per lei... per Robbie... e per nessun altro... per amor del cielo, niente polizia... Me lo devi... promettere'. Poi ha aggiunto: 'Dille che le voglio bene'.» «Ha detto davvero così?» «Sì.» Tom non le riferì che l'ultima parola non aveva fatto in tempo a pronunciarla. «E poi?» «Queste sono state le sue ultime parole. Il suo cuore si è fermato ed è morto.» La ragazza annuì, chinando il capo. Tom estrasse il taccuino dalla tasca e glielo porse. Robbie alzò la testa, si asciugò gli occhi e lo prese. «Grazie.» Lo girò, sfogliò le pagine e si fermò davanti ai due punti esclamativi. Tra le lacrime le spuntò un sorriso. «Sono certa di una cosa: dal momento in cui ha trovato quel dinosauro fino a quando è stato assassinato, è stato di sicuro l'uomo più felice della Terra.» Robbie richiuse lentamente il taccuino e guardò il paesaggio fuori dalla finestra, inondato di sole, tipico del Texas del sud. Disse adagio: «La mamma se n'è andata quando avevo quattro anni. Chi poteva biasimarla? Si era sposata con un uomo che ci faceva girovagare per tutto l'Ovest, dal Montana al Texas, più tutti gli Stati che ci stanno in mezzo... Era alla continua ricerca della scoperta che gli avrebbe fatto fare fortuna. Quando sono cresciuta voleva che lo seguissi, che formassimo una squadra, ma... a me non interessava. Non mi andava di accamparmi nel deserto per cercare fossili. Desideravo soltanto fermarmi in un posto e farmi delle amicizie che
durassero più di sei mesi. Pensavo fosse tutta colpa dei dinosauri. Li detestavo». Estrasse un fazzoletto, si asciugò di nuovo gli occhi e lo ripiegò in grembo. «Non vedevo l'ora di finire l'università. Dovevo seguire la mia strada... Papà non aveva mai un soldo da darmi. Abbiamo litigato. Poi lui mi ha chiamata un anno fa, mi ha detto che stava per fare un colpo grosso, che era sulle tracce del dinosauro 'definitivo', il migliore di tutti. E che l'avrebbe trovato per me. Non era la prima volta che glielo sentivo dire. Non ci ho visto più e gli ho detto cose che non avrei mai dovuto dirgli e di cui ora non posso più scusarmi.» La stanza si riempì della luce e del silenzio del pomeriggio. «Darei qualsiasi cosa per averlo ancora qui», aggiunse sottovoce, poi tacque. «Ha scritto qualcosa per te», intervenne Tom, estraendo un pacchetto. «Era sepolto nel deserto, accanto al dinosauro, in una scatola di latta sotto la sabbia.» Robbie lo prese tremando. «Grazie.» «Lo Smithsonian presenterà il dinosauro all'inaugurazione del nuovo laboratorio costruito per lui nel New Mexico. Ti va di venire? Io e Tom ci saremo», chiese Sally. «Be'... non saprei.» «Credo che dovresti, invece. Gli daranno il tuo nome.» Robbie alzò gli occhi di scatto. «Cosa?» «Proprio così», fece Sally. «Lo Smithsonian voleva chiamarlo come tuo padre, ma Tom li ha convinti che tuo padre voleva battezzarlo 'Robbie', come te. Inoltre, si tratta di un tirannosauro femmina... Dicono che fossero più grosse e feroci dei maschi.» Robbie sorrise. «Che mi piacesse o no, l'avrebbe chiamato come me.» «E dunque?» chiese Tom. «A te piace?» Dopo un attimo di silenzio, Robbie sorrise. «Sì, credo di sì.» EPILOGO JORNADA DEL MUERTO Nel giro di quattro ore, l'oscurità era totale. Lei si rannicchiò nel suo pantano, gli occhi semichiusi. L'unica luce erano i nastri di fuoco che bruciavano qua e là tra i cipressi. La palude era piena di dinosauri e piccoli mammiferi che tentavano di nuotare e si urtavano, impazziti dal terrore. Molti annegavano e morivano.
Lei si svegliò e si nutrì, presto e bene. L'aria divenne rovente. Respirarla le bruciò i polmoni e la fece tossire di dolore. Emerse dall'acqua per combattere quel calore opprimente, azzannando l'aria con rabbia. Il calore aumentò. E con esso l'oscurità. Lei si spostò verso acque più profonde e più fresche. Carne morta e morente le fluttuava intorno, ma la ignorò. Cominciò a scendere una pioggia nera e intrisa di fuliggine che le ricoprì la schiena di un manto fangoso. L'aria si riempì di foschia. Scorse un barlume rosso tra gli alberi. Un enorme incendio divampava sulle alture. Lo vedeva espandersi, esplodere tra le chiome dei grandi alberi, in un carosello di scintille e rami roventi. Il fuoco passò, risparmiando la zona paludosa in cui aveva trovato rifugio. Restò in acqua, circondata da rifiuti morti e marcescenti. Passarono i giorni. L'oscurità divenne totale. Lei si indebolì e cominciò a morire. La morte era una sensazione nuova, diversa da tutto quello che aveva sperimentato prima. La sentiva impossessarsi di lei. La sentiva aggredire il suo organismo, insidiosa e silente. Il mantello di piume morbide e vellutate che le ricopriva il corpo se ne stava andando. Quasi non riusciva a muoversi. Ora ansimava forte, e non riusciva a placare il bisogno di ossigeno. Gli occhi erano bruciati dal calore, erano gonfi e appannati. Prima di morire impiegò giorni. I suoi istinti si opponevano e resistevano in ogni istante. Giorno dopo giorno, il dolore aumentava. Lei si morse e si prese a calci, strappandosi via la sua stessa carne, inseguendo il nemico che le cresceva dentro. Con il peggiorare del male, la rabbia aumentava. Lottò duramente per avvicinarsi alla terra, le zampe sempre più pesanti. Senza l'acqua che la teneva a galla, vacillò e cadde nel pantano. Allora si mise a urlare e a dibattersi, scalciando e mordendo il fango, devastando con furia la terra. I polmoni cominciarono a riempirsi di liquido, mentre il cuore faticava a pompare il sangue lungo il corpo. Scese una pioggia nera e bollente. Il programma biologico che l'aveva sostenuta per una quarantina d'anni stava perdendo colpi. I suoi neuroni morenti diedero un'ultima inutile fiammata. Non c'erano più risposte, né programmi o soluzioni previsti per quell'ultima crisi. Le sue grida vane restarono soffocate in quel corpo bagnato e sofferente. L'emisfero sinistro del cervello le esplose in una tempesta di impulsi elettrici, la zampa sinistra scalciò selvaggiamente, quasi in preda all'epilessia, prima di irrigidirsi e contrarsi, i tendini che saltavano
fuori dalle ossa. La sua mascella si aprì e si richiuse di scatto, gli occhi sbarrati e immobili, la bocca ferocemente spalancata. Il suo corpo fu percorso da un brivido, fino alla coda, infine l'attività neuronale si arrestò. Il programma era arrivato al termine. La pioggia nera continuava a cadere. Poco per volta il suo corpo si ricoprì di liquame. L'acqua salì, a causa delle grandi tempeste sui monti, e nel giro di un giorno fu sepolta sotto una fanghiglia sterile e spessa. Ecco la tomba che l'avrebbe ospitata per sessantacinque milioni di anni. Il camioncino sobbalzava sulla strada dissestata, sfrecciando per l'ampio deserto del New Mexico detto Jornada del Muerto. Il paesaggio era piatto e vuoto come l'oceano, si scorgevano soltanto le lontane colline nere. Si trovavano nel cuore del White Sands Missile Range, una distesa di quasi cinquemila chilometri, terreno di prova del governo per le armi più perfezionate. Man mano che si avvicinavano, le scure colline prendevano forma. Quella centrale, un cono di cenere vulcanica, aveva in cima file di torri radio e di trasmettitori a microonde. «Siamo quasi arrivati», annunciò Melodie Crookshank, seduta davanti, accanto al conducente militare. Oltrepassarono un gruppo di palazzi bruciati e sbarrati, chiusi da una doppia palizzata. Al di là si ergeva una nuova struttura, brillante, ricoperta di lustri pannelli in titanio, circondata da una recinzione di sicurezza. «Questa zona ospitava delle specie di laboratori di ingegneria genetica», spiegò, «ma sono stati chiusi in seguito a un incendio. Lo Smithsonian si è adoperato per affittarne una parte. Dato che l'area era stata attrezzata per un livello quattro di sicurezza biologica, sotto molti aspetti era già pronta, almeno in termini di isolamento e sicurezza. Sarà il posto ideale per studiare il dinosauro, tutelato dal WSMR, ma ancora accessibile. In tutto e per tutto, una sistemazione invidiabile.» «Sembra un posto solitario per viverci», osservò Robbie Weathers. «Per niente!» esclamò Melodie. «Il deserto ha un'essenzialità quasi zen. E questa è una zona affascinante, ricca di cose da visitare: antiche rovine indiane, fiumi di lava, grotte con milioni di pipistrelli. E persino un'antica pista spagnola. Ci sono scuderie, una piscina... Sto imparando ad andare a cavallo. Di sicuro batte un laboratorio in un seminterrato di cemento a New York.» Il camioncino passò su un fossato coperto da una griglia. Un sorveglian-
te fece loro cenno di passare. Si fermarono in uno spiazzo ricoperto di ghiaia di fronte all'edificio. Sul posto c'erano già parecchie auto, furgoncini della televisione con paraboliche, vari tipi di automezzi militari e fuoristrada. «Sembra quasi una festa», osservò Ford. «Mi hanno detto che questa presentazione avrà un'audience simile alla Coppa del Mondo... un miliardo di persone.» Ford fece un fischio. Uscirono dal camioncino nella calura di luglio tipica del sud del New Mexico. Saliva a ondate dal terreno, come se la terra stesse evaporando. Attraversarono il parcheggio diretti all'edificio in titanio. Una guardia tenne loro aperta la porta, mentre entravano in un grande atrio inondato di aria condizionata. Un uomo in divisa, con due stellette sulla spalla, venne loro incontro con la mano tesa. «Sono il generale Miller, comandante del White Sands Missile Range. Benvenuti.» Fece un cenno a Tom. «Ci siamo già conosciuti, ma lei era fuori combattimento.» «Mi spiace, proprio non ricordo.» Il generale ridacchiò. «Ora mi sembra molto migliorato.» Un gruppo di giornalisti, in attesa in un angolo dell'atrio, accorse rapido, con flash, macchine fotografiche e microfoni. «Dottoressa Crookshank! Dottoressa Crookshank! È vero che...?» Le loro domande si persero nella calca. Melodie mise avanti le mani. «Signore e signori, niente domande. Dopo l'inaugurazione è prevista una conferenza stampa.» «Una domanda per la signorina Weathers.» «Tienila per la conferenza stampa!» esclamò Robbie, mentre entravano nel complesso vero e proprio del laboratorio, un lungo corridoio bianco con porte d'acciaio. Svoltarono l'angolo e si diressero verso due grandi porte al fondo del corridoio che si aprivano su una specie di sala conferenze, con file di sedie di fronte a una grande tenda bianca a nascondere una parete. Il posto era pieno di scienziati in camice, rappresentanti governativi, conservatori e ufficiali; la stampa era stipata dietro una transenna e sembrava piuttosto scontenta. «È lì dietro?» domandò Robbie, indicando la tenda. «Esatto. L'intero laboratorio è stato progettato in modo da lavorare in massima sicurezza, a livello quattro... ma non è un bunker, non c'è niente di segreto. È questa la chiave. I risultati saranno messi su Internet perché tutti possano vedere. Una scoperta del genere è... be'... a dir poco memora-
bile.» Melodie salutò diverse persone. Arrivarono altre autorità, e infine i presenti furono invitati a prendere posto. «Tocca a me», fece Melodie. Non appena salì sul podio, il brusio diminuì. La ragazza estrasse nervosamente una mezza dozzina di schede. Si accesero un mucchio di riflettori e lei batté le palpebre un paio di volte. Calò il silenzio. «Benvenuti alla nuova stazione di ricerca paleontologica dello Smithsonian Institution.» Scoppiarono gli applausi. «Sono la dottoressa Melodie Crookshank, assistente direttore, e credo di indovinare il motivo per cui siamo qui.» Sfogliava le schede con una certa agitazione. «Siamo riuniti per presentare, e battezzare, quella che è senza dubbio la più grande scoperta paleontologica mai fatta. Secondo alcuni, si tratta della massima scoperta di tutti i tempi. Ma prima di continuare, vorrei parlare dell'uomo che ha trovato questo incredibile reperto: il compianto Marston Weathers. Conoscete tutti quanti la sua storia, dalla scoperta del fossile al suo omicidio. Pochi invece sanno che Weathers è stato forse uno dei più grandi cacciatori di dinosauri dai tempi di Barnum Brown e Robert Sternberg, anche se la sua metodologia non era esattamente ortodossa. È rappresentato oggi da sua figlia Roberta. Robbie? Per favore, alzati in piedi.» Mentre la ragazza si alzava, rossa in volto, seguì un applauso scrosciante. «C'è qualcun altro a cui va la mia gratitudine. Innanzi tutto, Tom e Sally Broadbent, e Wyman Ford, senza i quali il dinosauro non avrebbe visto la luce del giorno.» Altri applausi. Tom guardò Ford. L'uomo non portava più la tonaca marrone e i sandali. Indossava un completo elegante, si era rasato e i capelli scarmigliati erano pettinati ordinatamente all'indietro. Il faccione ossuto aveva ancora l'abbronzatura del deserto ed era brutto come al solito. Eppure anche qui sembrava nel suo ambiente, sofisticato e a proprio agio. Melodie snocciolò un elenco di persone da ringraziare mentre il pubblico cominciava a spazientirsi. Lei si interruppe, guardò un'altra volta i fogli, sorrise nervosamente. Tornò il silenzio. «Una volta Philip Morrison, un fisico del MIT, ha detto che le possibilità sono due: o esistono forme di vita nell'universo, o non esistono, e che in
ogni caso la nostra mente ne sarebbe sgomenta. Ora siamo in grado di rispondere a questo grande interrogativo scientifico. Nell'universo esistono altre forme di vita. «La scoperta di esseri alieni è stata oggetto di speculazioni e supposizioni fantascientifiche per parecchi secoli e ha ispirato numerosi libri e film. Adesso è arrivato il momento di andare oltre. E c'è di più. Questa scoperta è giunta in un modo davvero inaspettato: un microbo alieno intrappolato in un fossile. Gli scrittori di fantascienza hanno immaginato tutti gli scenari possibili, ma non questo. Un'altra prova, sempre che ne abbiamo bisogno, che il nostro affascinante e sconfinato universo continua a essere ricco di sorprese. «Qui, alla stazione di ricerca paleontologica, sarà possibile studiare questa nuova forma di vita in tutta sicurezza, ma alla luce del sole, in modo che i nostri progressi vengano condivisi per il bene dell'intera umanità. Niente verrà tenuto segreto e la scoperta sarà utilizzata unicamente a vantaggio del genere umano. Non solo. Il fossile ci dirà molto sui dinosauri teropodi, in particolare sul Tyrannosaurus rex: la sua anatomia, la biologia cellulare, come viveva, cosa mangiava, come si riproduceva. E, infine, sapremo molto di più sul memorabile evento accaduto sessantacinque milioni di anni fa: l'impatto dell'asteroide Chicxulub, responsabile del più grande disastro naturale mai verificatosi sul nostro pianeta. Siamo già a conoscenza del fatto che questi misteriosi microbi alieni, le particelle di Venere, sono stati portati sulla Terra dall'asteroide e che l'impatto ne ha provocato la diffusione: un frammento della stessa roccia è stato infatti rinvenuto sulla Luna durante la missione Apollo 17. «Questi microbi alieni hanno dato il contributo definitivo alla scomparsa dei dinosauri. I sopravvissuti all'impatto sono stati uccisi da un'epidemia mortale, la più grande di tutte le pestilenze. Senza la completa e totale estinzione dei dinosauri, i mammiferi non si sarebbero mai evoluti in esseri più grandi di un topolino, e l'uomo non sarebbe mai esistito. Dunque, possiamo affermare che queste particelle hanno ripulito il pianeta a nostro vantaggio. L'asteroide e l'epidemia hanno innescato l'importante catena evolutiva che ha portato alla comparsa dell'essere umano.» Melodie Crookshank si interruppe, e fece un grosso respiro. «Grazie.» La stanza si riempì di applausi. Il direttore dello Smithsonian, Howard Murchison, raggiunse il podio con una bottiglia di champagne e strinse la mano a Melodie. Si voltò verso le telecamere, raggiante. «Posso chiedere a Robbie Weathers di salire?»
Robbie lanciò un sorriso a Tom e Sally e si diresse verso il podio. Il direttore le afferrò la mano e ci piazzò la bottiglia di champagne. «Luci, per favore.» I riflettori si accesero alle sue spalle, illuminando la spessa tenda al fondo della sala. «Ho l'onore di presentarvi Robbie Weathers, figlia di Marston Weathers, l'uomo che ha trovato il dinosauro. Le abbiamo chiesto di presiedere al battesimo.» Esplosero gli applausi. «In realtà non è possibile innaffiare il dinosauro con lo champagne, ma possiamo alzare i calici in suo onore. E chi c'è di meglio per compiere un tale gesto?» Si rivolse a Robbie. «Vuoi dire qualcosa?» Robbie alzò la bottiglia. «Questa è dedicata a te, papà.» Altri applausi. «Rulli di tamburo, prego», fece il direttore. Un rullo registrato risuonò dagli altoparlanti e il sipario si alzò, rivelando un laboratorio superilluminato al di là di una spessa parete di vetro. Il meraviglioso fossile giaceva su una serie di tavoli, a pezzi, alcuni ancora incapsulati nella matrice. Gli addetti avevano esposto gran parte del cranio del dinosauro, della mascella spalancata, del collo, degli artigli e delle zampe. Sembrava ancora di più che cercasse di uscire dalla roccia. Il direttore alzò le mani e i rulli di tamburo cessarono. «È ora di stappare lo champagne, Robbie.» Robbie si mise ad armeggiare con la bottiglia. Con un colpo sordo, il tappo volò sulla folla e lo champagne zampillò fuori. Seguirono acclamazioni e battiti di mani. Murchison si riempì parte del bicchiere, lo alzò all'indirizzo del grosso fossile e disse: «Ti battezzo con il nome di Robbie, il Tyrannosaurus rex». Tutti applaudirono. Dai lati della sala comparvero camerieri che reggevano vassoi d'argento e distribuivano alla folla calici colmi di champagne. «Brindisi! Brindisi!» La stanza si riempì di chiacchiere, risate e tintinnio di bicchieri, mentre i presenti brindavano in onore del possente animale. Si sentiva esclamare: «A Robbie, il T. rex!» La colonna sonora di Jurassic Park di John Williams intanto si diffondeva dagli altoparlanti. Pochi minuti dopo, Melodie si unì a Tom e al suo gruppo. Brindarono tutti insieme. «L'idea di scoprire i misteri di quel fossile è emozionante», osservò Me-
lodie. «Dev'essere il sogno di una vita», commentò Ford. La ricercatrice rise. «Sono sempre stata una sognatrice, ma non sarei mai arrivata a tanto.» «La vita è ricca di colpi di scena, non è vero?» disse Ford, strizzando l'occhio. «Quando sono entrato nel monastero, non avrei mai pensato che mi avrebbe condotto fin qui.» «Non sembri un monaco», osservò Melodie. Ford rise. «Non lo sembro, non lo sono mai sembrato... e ora non lo sarò mai. La caccia a questo dinosauro mi ha fatto capire che non sono tagliato per una vita contemplativa. Il monastero è stato per me la cosa giusta al momento giusto, ma non poteva durare tutta la vita.» «Che cosa farai, adesso?» chiese Tom. «Tornerai a lavorare per la CIA?» Wyman scosse il capo. «Ho deciso di fare l'investigatore privato.» «Come? Il detective? Che cosa dirà l'abate?» «Fratello Henry ha approvato di cuore. Dice che lo sapeva sin dall'inizio che non sarei mai diventato un monaco, ma che dovevo capirlo da solo. E così è stato.» «Su che cosa indagherai?» domandò Sally. «Scatterai foto a mariti infedeli?» «Assolutamente no. Mi occuperò di spionaggio internazionale e aziendale, di crittografia, criptoanalisi, scienza e tecnologia. Tipo quello che facevo alla CIA. Sto cercando un socio.» Strizzò l'occhio a Tom. «Che ne dici?» «Chi, io? Secondo te che cosa ne so, io, di spionaggio?» «Niente. E va bene così. Io ti conosco... e mi basta.» «Ci penserò.» Nel frattempo, nuovi applausi e acclamazioni mentre il direttore stappava un'altra bottiglia e si aggirava tra i giornalisti, riempiendo i bicchieri e ascoltando i loro lamenti. Ford indicò il dinosauro; i suoi denti scoperti e lo sguardo vuoto. «Quel tirannosauro non è scivolato 'docile in quella buonanotte'.» «'Ribellati, ribellati alla luce che si smorza'», mormorò Melodie, riprendendo i versi della poesia di Dylan Thomas citata dall'ex monaco. Ford sorseggiava il suo champagne. «Mentre tenevi il tuo discorso, Melodie, mi hai fatto venire un'idea piuttosto bizzarra.» «Quale?»
L'uomo osservò l'animale, poi la ragazza. «Lascia che ti faccia una domanda: che cosa ti fa pensare che la particella di Venere sia viva?» Lei sorrise, scosse il capo. «In effetti hai ragione a dire che tecnicamente non rientra nella nostra definizione di vita, in quanto non è dotata di DNA. Ma ne ha tutte le altre caratteristiche in termini di capacità di riprodursi, crescere, adattarsi, nutrirsi, trasformare l'energia ed espellere rifiuti.» «C'è un'ipotesi che mi pare tu non abbia considerato.» «E cioè?» «Che la particella di Venere sia una macchina.» «Una macchina? Vuoi dire una macchina miniaturizzata? Creata a quale scopo?» «Assicurare l'estinzione dei dinosauri. Forse è stata costruita per manipolare o dirigere il processo evolutivo e inserita in un asteroide diretto verso la Terra... o forse spinto contro la Terra.» «E perché?» «L'hai detto tu stessa. Per innescare l'evoluzione degli esseri umani.» Seguì un breve silenzio, poi Melodie rise imbarazzata. «Questa è davvero un'idea bizzarra. Solo un ex monaco poteva concepire una simile follia.» RINGRAZIAMENTI Sono enormemente in debito con il mio editor alla Tor/Forge, l'inestimabile Robert Gleason, per le idee, l'acume e la sua eccellente guida editoriale. Alla Tor sono anche grato a Tom Doherty, Linda Quinton, Elena Stokes, Eric Raab e Dana Giusio. Desidero ringraziare Lincoln Child, mio complice di crimini letterari, per i preziosi e numerosi consigli. La mia gratitudine va inoltre a Eric Simonoff, Matthew Snyder, John Javna, Bobby Rotenberg, Niccolò Capponi, Barbara Peters e Sebastian Pritchard. Per quanto riguarda la documentazione sui dinosauri, sull'impatto del Chicxulub, sul limite K-T e sull'estinzione di massa, sono debitore a numerose fonti. Le più importanti: The Day the World Burned di David A. Kring e Daniel D. Durda, pubblicato sulla rivista Scientific American del dicembre 2003; The Dinosaur Heresies di Robert T. Bakker e The Complete T. rex di John R. Horner e Don Lessem. A tutti coloro che fossero desiderosi di approfondire la materia, suggerisco tali letture, oltre al mio saggio Dinosaurs in the Attic, che narra la storia dei primi cacciatori di dinosauri e delle loro scoperte.
Mentre Abiquiú, il fiume Chama, il monastero Cristo nel Deserto e la Mesa de los Viejos esistono realmente, gran parte della geografia del romanzo è inventata; in qualche caso, alcuni territori sono stati spostati a nord del New Mexico. In particolare, mi sono preso la libertà di trasferire lo sperduto e affascinante canyon del Cimitero del Diavolo, sito nel Big Bend del Texas, nella zona che mi serviva per lo showdown finale. Per gli interessati, il libro fotografico di recente pubblicazione Ribbons of Time, sul vero Cimitero del Diavolo, contiene le immagini descritte nel romanzo. FINE