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RICHARD NORTH PATTERSON TUTTA LA VERITÀ (Dark Lady, 1999) A George Bush e Ron Kaufman PARTE PRIMA ARTHUR BRIGHT 1 Poco prima che il brutale assassinio di Jack Novak mettesse fine a quella che Stella Marz, sostituto procuratore della contea di Erie, avrebbe poi definito la propria «età dell'innocenza», la giovane donna guardava il lago su cui si affacciava la città dov'era nata, Steelton. Ma, a trentotto anni, Stella non poteva più parlare di «età dell'innocenza». La vista che si godeva dalla finestra del suo ufficio non era particolarmente amena. Era un pomeriggio senza sole, tipico degli inverni di Steelton. Il fiume Onondaga, che divideva la città in due prima di sfociare nel lago Erie, passava grigio e torbido sotto un ponte di acciaio e scorreva in una piana senza alberi, punteggiata soltanto da binari ferroviari, carri merci, raffinerie, gru, stabilimenti chimici e grosse ciminiere nere, ricordo delle acciaierie intorno alle quali era nata Steelton. Stella ricordava ancora la puzza dei fumi che uscivano da quelle ciminiere quand'era piccola, l'alone grigiastro che lasciavano sulla camicetta bianca della divisa della scuola quando la madre la stendeva ad asciugare. Ricordava anche la sera in cui, dal fiume, si erano alzate fiamme alte come un palazzo di cinque piani in seguito a una spaventosa esplosione spontanea provocata da scarichi chimici e catrame. A quei tempi, lei frequentava i corsi serali della facoltà di giurisprudenza. Quei due momenti - il boom dell'industria siderurgica e il disastro ecologico -segnavano l'inizio della storia della città e del suo declino. Anche Stella faceva parte di quella storia, insieme con la sua famiglia. Le acciaierie erano sorte dopo la guerra civile, in concomitanza con la prima ondata d'immigrazione. Intorno al 1870, gli immigrati tedeschi, inglesi, gallesi e irlandesi appena sbarcati dall'Europa lavoravano quattordici ore al giorno, sei giorni su sette, per undici dollari e cinquanta centesimi la settimana. Nel 1874 lo scontento che ribolliva ormai da anni aveva dato
luogo a uno sciopero in cui gli operai esasperati chiedevano un aumento di venticinque centesimi la settimana. Per tutta risposta, il proprietario delle acciaierie, Amasa Hall, aveva spento gli altiforni e informato gli scioperanti che, alla riapertura, avrebbe dato lavoro soltanto a chi avesse accettato cinquanta centesimi di meno. Siccome gli operai avevano rifiutato, Hall era partito a bordo del suo panfilo per una crociera intorno al mondo. Si era fermato a Danzica, l'importante porto polacco sul Baltico, e aveva messo in giro la voce che cercava manodopera giovane, cui offriva un lauto salario di sette dollari e venticinque centesimi la settimana, oltre alla traversata gratis fino in America. Fra i tanti polacchi che si erano imbarcati - cattolici poverissimi e grandi lavoratori, perlopiù analfabeti - c'era il bisnonno di Stella, Carol Marzewski. Era stato sfruttando operai come lui che Amasa Hall aveva sistematicamente battuto tutti i suoi concorrenti, rilevando l'uno dopo l'altro i loro stabilimenti e acquisendo il controllo quasi totale dell'industria siderurgica della regione. Ed era stato il lento ma inesorabile declino di quelle stesse industrie, diventate obsolete, a lasciare disoccupato e amareggiato il padre di Stella, Armin Marz. Il ricordo delle fiamme che si erano alzate dall'Onondaga, arancioni e azzurrognole contro il cielo scuro della notte, fece tornare in mente a Stella un altro episodio della sua infanzia, i disordini dell'East Side. Nel West Side di Steelton abitavano gli immigrati europei, alla cui prima ondata si erano aggiunti italiani, russi, polacchi, slovacchi e sudditi dell'impero austroungarico, mentre sulla riva orientale dell'Onondaga si erano stabiliti molti discendenti degli schiavi del Sud degli Stati Uniti. Giunti in un secondo tempo, costoro non erano stati bene accolti né dai padroni né dalla classe operaia, fino a quel momento interamente bianca. A Warszawa, il quartiere dove Stella aveva vissuto da piccola, gli «intrusi» di colore erano sempre stati visti con sospetto e disprezzo; con lo scoppio dei disordini nell'East Side negli anni '60 - tre giorni d'incendi e scontri a fuoco con la polizia -, la diffidenza si era trasformata in paura e odio. Gli ultimi arrivati - portoricani, cubani, coreani, haitiani, cinesi e vietnamiti - erano stati relativamente bene accolti solo nel poverissimo East Side. La spaccatura che il fiume Onondaga esemplificava si era accentuata e il razzismo a Steelton si respirava nell'aria come i fumi delle industrie. Quella divisione era un problema che stava molto a cuore a Stella. Negli ultimi sei anni aveva vinto tutte le cause tranne una, in cui la giuria non era giunta a un accordo sul verdetto. L'imputato era un insegnante delle superiori, accusato di avere prima messo incinta e poi ucciso una studentessa;
sconvolto dagli implacabili controinterrogatori di Stella, aveva finito per suicidarsi. Era in quell'occasione che uno dei cancellieri del tribunale le aveva dato il soprannome di «dark lady», che poi si era diffuso nell'ambiente giudiziario di Steelton. Ma Stella nutriva altre ambizioni, che solo recentemente aveva manifestato: voleva diventare la prima donna eletta procuratore nella contea di Erie. Era un'impresa ardua, ma non impossibile. Stella veniva dal West Side, dove godeva di grande stima da parte di tutti, in quanto si era laureata brillantemente lavorando per mantenersi agli studi ed era rimasta cattolica osservante; inoltre, a differenza di tanti della sua generazione, non aveva mai voltato le spalle a Steelton e ai suoi problemi. Infine era già a capo della sezione omicidi della procura. Stella non era vanitosa ed era abbastanza obiettiva nei confronti di se stessa: le mancavano l'estroversione e la capacità di vendersi che per molti politici sono naturali, però era una buona comunicatrice e voleva sinceramente migliorare la situazione della procura e della città. Era bella, ma non tanto da suscitare l'invidia delle altre donne; aveva folti capelli castani, carnagione chiara, un viso aperto con la fossetta sul mento e occhi scuri vagamente slavi che riteneva il proprio tratto migliore. Di corporatura robusta, si teneva in forma facendo ginnastica con regolarità e stava attenta a non ingrassare, con quell'autodisciplina che l'aveva caratterizzata anche a scuola e sul lavoro. E, se non c'erano né un marito né figli a addolcire la sua immagine pubblica di donna in carriera - o, dal suo punto di vista, la solitudine -, perlomeno non aveva nessuno a criticarla e a dirle che puntava troppo in alto, come avrebbe fatto certamente Armin Marz, se non avesse ormai perso la memoria e la ragione. Il problema più grave, che a Stella era chiaro come il fiume che divideva in due la sua città, non era tanto il fatto di essere donna, quanto di essere bianca e non avere appoggi nell'East Side. I suoi pensieri e il suo sguardo si spostarono verso l'incarnazione di tutti i guai e delle speranze della città, ovvero lo stadio di baseball che stava prendendo forma tra le impalcature, quello che il sindaco Krajek aveva chiamato Steelton 2000. Non era l'unico segno di ripresa, per la verità: il lago e il fiume apparivano più puliti e l'aria meno inquinata, se non altro perché gli altiforni erano in crisi. Il centro della città, un tempo regno di malavita e prostituzione, adesso era pieno di negozi, cinema e ristoranti che lentamente attiravano i giovani e la gente dai sobborghi. Nei grattacieli di cristallo avevano sede industrie pulite e, intorno al lago, rimaneva una grande area verde, l'unica del centro cittadino, dove sorgevano il palazzo di giustizia e il municipio,
entrambi pregevoli esempi dell'architettura monumentale di fine Ottocento, epoca di prosperità e di sicurezza. Ma era il nuovo stadio che, per Stella come per molti altri, simboleggiava il rilancio della città. La squadra degli Steelton Blues era stata costituita nel 1901 e, a cominciare dal bisnonno di Stella, aveva fatto sognare quattro generazioni di Marz; cinque, se si considerava che Katie, la sorella minore di Stella, ormai portava alla partita anche i suoi figli. I Blues erano parte integrante della città: se ne parlava alla radio, se ne discuteva al bar e a tavola, erano un argomento di conversazione in famiglie in cui genitori e figli altrimenti avrebbero avuto ben poco da dirsi. Visto e considerato che l'ultima volta che i Blues avevano partecipato alle World Series risaliva agli anni '30, c'era qualcosa di assurdo nel grande seguito che la squadra continuava ad avere in città, a parte il fatto che ne rispecchiava idealmente la storia di decadenza e progressivo declino. In realtà anche il numero di persone che andavano allo stadio stava diminuendo, le entrate pubblicitarie scarseggiavano e i campioni supergettonati tendevano a rivolgersi a mercati più attraenti per i media, dove potevano chiedere ingaggi decisamente superiori. Peter Hall, pronipote dello spietato padrone delle ferriere e attuale proprietario degli Steelton Blues, aveva minacciato di cedere la squadra a un gruppo della Silicon Valley che l'avrebbe portata in California. Ma, come Hall preferiva non passare alla storia per aver venduto i Blues, Thomas Krajek, giovane e ambizioso sindaco di Steelton, originario dello stesso quartiere di Stella, era deciso a non diventare il politico che, dopo tante promesse, aveva lasciato che uno dei fiori all'occhiello di Steelton finisse in mano a sconosciuti arricchitisi coi microchip. Il risultato di quelle intenzioni era sotto gli occhi di Stella. In un primo tempo si era trattato di un semplice disegno, che Krajek e Hall avevano utilizzato durante la campagna per raccogliere i fondi necessari per la realizzazione del progetto tramite un'emissione di buoni del tesoro comunali per 275 milioni di dollari. Poi Steelton 2000 aveva cominciato a prendere forma sullo sfondo del grigio lago Erie, la sua struttura di acciaio si era riempita a poco a poco di cemento e la sua geometria senza tempo si era imposta alla nuda terra. Le gru all'intorno sembravano scheletri di giganteschi animali preistorici e i prefabbricati che ospitavano gli uffici delle imprese impegnate nei lavori quel giorno, domenica, erano deserti. Era un progetto moderno, simile agli stadi di Camden Yards e Jacob Fields. Nel 2000 i Blues sarebbero tornati in campo e Steelton avrebbe vissuto una
nuova epoca d'oro. O almeno quello era ciò che prometteva il sindaco e che Stella aveva scelto di credere. Ma non era così semplice. Il mandato di Krajek sarebbe scaduto a novembre e, per essere rieletto, il sindaco avrebbe dovuto vincere le primarie democratiche, cosa non facile perché il suo avversario, Arthur Bright, era uno strenuo oppositore di Steelton 2000 e lo riteneva un inutile spreco di quattrini che sarebbero stati meglio spesi in scuole, case e rafforzamento dell'ordine pubblico. Bright era il primo procuratore afroamericano eletto nella contea di Erie ed era stato lui a mettere Stella a capo della sezione della procura che si occupava degli omicidi. Oltre a sentirsi in debito nei suoi confronti, Stella lo ammirava molto. Senza contare che il suo futuro politico dipendeva da quello di Bright: il posto di procuratore della contea cui aspirava si sarebbe liberato solo se Bright fosse diventato sindaco e Stella aveva la possibilità di vincere solo se lui le avesse portato i voti dell'East Side. Pertanto, dipendeva tutto o quasi dal fatto che Bright riuscisse a convincere gli elettori a esaminare con occhio più attento e disincantato il sogno del sindaco Krajek. Nel fare questa considerazione, Stella smise di guardare dalla finestra del proprio ufficio e tornò alla scrivania. Era in disordine, come al solito: c'erano una tazza con un resto di caffè ormai freddo, la sacca da ginnastica, incartamenti e rapporti vari relativi ai casi che stava seguendo. Ma il documento più importante, talmente delicato che lo aveva analizzato insieme con Bright in persona, era il rapporto della polizia sul decesso di Tommy Fielding, avvenuto tre giorni prima. Stella non lo conosceva, ma, da quanto era emerso, la sua morte aveva colto tutti di sorpresa. La cameriera lo aveva trovato cadavere nella stanza da letto della villa in cui viveva, in una strada residenziale del centro, completamente nudo, accanto a una prostituta di colore, Tina Welch. Nel lavandino della cucina erano stati ritrovati un accendino, un cucchiaio, batuffoli di cotone e una bustina con un residuo di polvere bianca, sui quali la Scientifica non aveva trovato impronte digitali. Non erano state rilevate impronte della Welch da nessuna parte. I vicini interrogati dalla polizia non conoscevano bene la vittima, ma nessuno avrebbe mai immaginato che fosse tossicomane o frequentasse prostitute. L'ex moglie, madre dell'unica figlia di Fielding, era ancora sotto shock. Apparentemente non c'era nessun legame tra lo squallore di una simile morte e la vita che Fielding conduceva: manager della Hall Development Company, braccio destro di Peter Hall, Fielding era responsabile del progetto di Steelton 2000. Stella
aveva a malapena letto il titolo sullo Steelton Press: «Trovato morto il project manager di Steelton 2000» quando Arthur Bright era andato a parlarle. Le aveva raccomandato di occuparsi personalmente del caso; aveva già detto a Nathaniel Dance, capo della sezione Investigativa, di fare riferimento a lei. L'inchiesta doveva essere accurata, imparziale, professionale. Era probabile che Tommy Fielding fosse morto di overdose, ma solo un idiota poteva ignorare il fatto che, a morire in circostanze poco chiare, era stato un uomo che si trovava al centro di Steelton 2000. Come Stella aveva previsto, da quel momento in poi il loro discorso era stato prettamente politico. «Grande esempio di tolleranza razziale», aveva detto ironico Bright. «'Cooperazione tra le due sponde dell'Onondaga: prostituta nera inizia alla droga manager bianco.' Che ne dirà la gente di Warszawa, Stella?» Era una domanda retorica: Bright sapeva bene quanto lei che la gente di una certa età, ma anche molti giovani, era talmente piena di pregiudizi che la morte di Tommy Fielding non avrebbe fatto che accentuare il rancore nei confronti dei neri. Non importava che Arthur Bright avesse dedicato gran parte della sua carriera alla lotta contro la droga, potenziando gli strumenti di lotta, inasprendo le pene, promuovendo campagne d'informazione e migliorando le strutture riabilitative: la paura aveva radici molto profonde. La gente di Warszawa temeva che, se Bright fosse diventato sindaco, per i bianchi sarebbe stata la fine. Dopo un po', Stella aveva risposto: «Qualche voto potresti racimolarlo anche lì, Arthur. Se riuscissi a far dimenticare loro che sei nero». «È gente che, quando incontra un nero per la strada, attraversa pur di evitarlo», era stata l'avvilita replica di Bright. «Non vedono più in là del colore della pelle.» Si era chinato in avanti. «Se fossi donna, sarebbe meglio. I bianchi vedono con occhio più benevolo le nere dei neri, possibilmente un po' più vecchie e grasse di Tina Welch. Vedono in loro la cuoca, la bambinaia, la donna di casa, una specie di Mammy, la governante nera di Via col vento.» «Se vuoi, posso prestarti un tailleur», aveva proposto Stella. «Ma dovresti anche mettere su qualche chilo.» Poi aveva abbandonato il tono scherzoso. «Sono anni che combatti: perché tanta autocommiserazione, d'un tratto?» Bright si era accigliato, abbassando lo sguardo sul pavimento di piastrelle. Era magro, aveva il viso liscio e portava benissimo i suoi cinquant'anni,
nonostante l'aria professorale che gli davano gli occhiali con la montatura di metallo. Stella lo aveva visto infiammare le platee coi suoi discorsi appassionati, degni del miglior Malcolm X, ma aveva la sensazione che, sotto l'immagine pubblica di uomo forte e deciso, si nascondessero una certa vulnerabilità e ferite - che Stella non conosceva, ma intuiva - che forse non si sarebbero mai rimarginate. «Per via dei sondaggi», aveva risposto Bright, diretto. «Dei miei personali, intendo. Ho il novanta per cento dell'elettorato dell'East Side, ma nel West Side non arrivo al sedici. E non mi smuovo di lì.» Aveva alzato gli occhi verso Stella. «E la tua campagna come procede? Sei stata più che discreta, una vera signora. Ma io ti conosco. Mi risulta che sei stata vista spesso nei quartieri più popolari, che mangi pierogi e tieni comizi.» Intuendo dove voleva andare a parare, Stella l'aveva prevenuto con un sorriso. «Voglio accedere a una carica che mi permetterà di migliorare l'ordine pubblico. Anzi, ho pensato che potrei farmi chiamare direttamente John Wayne.» Bright aveva riso, nonostante tutto. «John Wayne Marz... E che ne pensa il vecchio Duca della pena di morte?» «È sempre contrario», aveva risposto Stella. La sua fede cattolica le dava l'incrollabile convinzione che la vita fosse sacra, nel feto come nell'assassino. «Tuttavia la legge dello Stato la prevede», aveva continuato, «per cui io la applicherò con equità e giudizio. È questo che rispondo quando, purtroppo, la gente me lo chiede.» «Se ti candiderai, te lo chiederanno spesso», l'aveva avvertita Bright. «Charles Sloan lo farà apposta: è l'unico argomento che ha per prendere qualche voto nel tuo distretto.» Bright la stava manipolando: nominare Charles Sloan era come buttare un'esca per vedere se lei abboccava. Sloan era il procuratore aggiunto, stretto collaboratore di Bright e nero come lui, e si proponeva come suo erede politico. Era troppo presto perché Sloan e Stella prendessero apertamente posizione e Bright, che invece era già sceso in campo, ne approfittava per tenerli entrambi sulla corda. Stella, che lo sapeva, non aveva risposto. «Allora, come intendi sfruttare il fatto di essere una donna? E chi voterà per te nell'East Side?» aveva continuato Bright. La prima domanda era la più semplice, ma la infastidiva. «Da quando mi occupo di omicidi», aveva risposto, «ho dato l'ergastolo a ventiquattro assassini e ne ho spedito nel braccio della morte altri tre. Non mi sono lascia-
ta influenzare né dalla mia religione né dal mio sesso. D'altra parte, il fatto di essere donna e cattolica mi aiuta in altre occasioni, tipo con le Catholic Charities e le Big Sisters, o quando si tratta di togliere un minore a genitori che lo trascurano prima che finisca in mezzo a una strada.» Aveva rallentato il ritmo. «Le donne dell'East Side lo sanno, Arthur. Molte di loro tirano su i figli di altri, per dare loro una mano. Sanno che io sono dalla loro parte.» Bright l'aveva guardata, dubbioso. «Chi ti fa da consulente?» «Dick Feeney», era stata la risposta di Stella. Era un consulente politico di chiara fama. «Non ufficialmente, visto che non posso ancora permettermi di pagarlo. Ma ho amici con cui parlo di queste cose, gente che conosce altra gente. Sono nata e cresciuta a Steelton, non te lo scordare.» Bright era rimasto in silenzio. Il tono difensivo di Stella confermava i suoi sospetti: era una dilettante. «Anche Charles Sloan», aveva osservato. «Però ha una grande esperienza e oltre dieci anni più di te, che vogliono dire mille cene in parrocchia, feste della United Ways, dibattiti coi poliziotti, eccetera... Tu conosci il problema. Se sarò eletto sindaco, ci sarà un'elezione straordinaria in cui duemila membri del distretto democratico stipati in un auditorium voteranno il procuratore ad interim. Charles Sloan li conosce tutti, dal primo all'ultimo, dai neri ai lituani.» Stella l'aveva squadrato, ribattendo: «Appunto... Conosco il problema». Bright, dopo qualche attimo di esitazione, aveva sorriso. Equivaleva ad ammettere che, in quella schermaglia, Stella gli aveva forzato la mano, costringendolo a riconoscere che la sua elezione a sindaco aveva effettivamente la priorità. «E tu conosci il mio. Charles è uno dei miei più vecchi e fidati collaboratori. E il mio zoccolo duro nella comunità nera, per quanto fedele, si è ormai abituato all'idea di avere un procuratore afroamericano. Se sostenessi un candidato bianco invece di Charles, potrei apparire un po' meno nero di una volta.» Allora era quello il punto, aveva pensato Stella. «Corriamo tutti dei rischi quando attraversiamo l'Onondaga», era stato il suo commento. Bright aveva guardato i suoi gemelli al polso. «È necessario... altrimenti la città resterà quella che è. Dio sa quanto ho lottato per cambiarla.» Nonostante la divergenza di opinioni, Stella aveva provato un impeto di simpatia per il suo capo. «Lo so.» Nel lungo silenzio che era seguito, Bright l'aveva guardata negli occhi. «Ho bisogno del tuo aiuto, Stella.» «Cosa vuoi che faccia?»
«Che mi aiuti nella campagna contro Krajek a Warszawa e nel West Side. Che ne parli coi tuoi amici.» Aveva abbassato di nuovo la voce. «Per vincere io ho bisogno di te e tu di me.» Di colpo, Stella aveva pensato che non era più una dilettante. «E se vinci, che cosa succederà?» «Non posso prometterti niente. Ma mi sarò fatto un'idea dei risultati che puoi ottenere. E tu anche.» Stella sapeva di non poter pretendere più di così: Bright le aveva lasciato socchiusa una porta che avrebbe potuto benissimo sbatterle in faccia. «Non farò dichiarazioni contro lo stadio», aveva messo in chiaro. «Visto che io e te non siamo d'accordo su questo argomento.» «Non è il caso. Mi basta che tu dica ai tuoi amici e conoscenti che hai fiducia in me.» Stella aveva aspettato un istante prima di dargli la risposta che si stava preparando da diversi mesi. «Certamente», aveva detto con un sorriso. «Aspettavo solo che tu me lo chiedessi.» Bright, sapendo che era vero, si era abbandonato a una risata. «Parlerò coi miei collaboratori... Ti contatteranno quanto prima.» Stella aveva annuito. «Okay.» Bright si era alzato, fermandosi poi un momento a guardare il giornale sulla scrivania di Stella. «A proposito dello stadio...» aveva ripreso. «Sei la persona più giusta per indagare su questa storia di Tommy Fielding. Non vorrei che qualcuno mi accusasse di gettare fango su Steelton 2000 per interesse mio personale. Se lo fai tu, è meglio.» Con quelle parole se n'era andato - aveva un comizio in un asilo nido - e Stella aveva ripreso a sfogliare il quotidiano. Quel giorno, domenica, Stella rilesse il rapporto stilato dalla polizia. Sembrava che, nella casa di Fielding, non fosse stato rubato nulla e, a un primo esame dei cadaveri, non erano state riscontrate tracce di violenza. Prima dell'arrivo della Welch, Fielding aveva cenato, lasciando un avanzo di panino al prosciutto e un sorso di birra. Gli abiti della donna erano piegati con cura su una sedia e le luci in camera da letto erano basse. Nel cassetto del comodino era stata trovata una rivista porno, Black Beauties. L'autopsia era stata rimandata su richiesta dei genitori di Fielding, rientrati d'urgenza da una crociera di lusso nel Sud-Est asiatico. Stella li aveva visti qualche ora prima. Il padre era gentile e parlava a voce molto bassa; la madre, Marsha, era minuta e, dietro la compostezza da donna di mondo,
nascondeva un'indole focosa e prepotentemente materna, che la morte non aveva intaccato. Secondo lei era stato un omicidio: era sempre stato un ragazzo a posto, che da bambino giudizioso si era trasformato in adulto serio e responsabile, profondamente contrario alla droga... Anzi, a dirla tutta, aveva persino paura degli aghi. Sgomenti all'idea che il figlio venisse sottoposto a un'autopsia e fiduciosi nella comprensione di Stella, le avevano estorto la promessa di presenziarvi l'indomani. Stella aveva acconsentito di malavoglia. A Tina Welch, naturalmente, l'autopsia era stata fatta subito. Sebbene Stella non avesse ancora ricevuto il referto, il coroner, Kate Micelli, l'aveva chiamata per comunicarle che, secondo lei, la Welch era tossicomane ed era morta di overdose. Ciò non escludeva l'omicidio, aveva riflettuto Stella, sebbene uccidere due persone con una dose mortale di eroina fosse alquanto complicato. Meditabonda, studiò le fotografie scattate dalla Scientifica. Nella loro nudità, impietosa com'era stato impietoso l'obiettivo, Fielding e la Welch giacevano sul letto, lui con gli occhi chiusi, lei sbarrati. Forse fu quell'apparente incongruenza, pensò Stella, o forse un vecchio pregiudizio, ma anche nella morte quei due continuavano a non sembrarle una coppia. Ma poi, con improvvisa ironia, rifletté che forse era solo perché i suoi genitori avevano sempre dormito dandosi la schiena. C'erano anche alcuni primi piani. La Welch dimostrava molto più dei ventitré anni attestati dalla sua patente: aveva le borse sotto gli occhi ed era scheletrica, senza tono muscolare, a causa della droga e della malnutrizione. Ventitré anni, pensò Stella. Poi cominciò a esaminare i primi piani di Fielding, il quale invece dimostrava meno dei suoi trentaquattro anni. Aveva i capelli neri pettinati all'indietro col gel, lineamenti perfetti e un fisico statuario. Stella lo immaginò in calzoni sportivi e maglione color pastello sulle spalle. Se a farle sembrare improbabile quella coppia erano dei pregiudizi, avevano a che fare con la classe sociale, non col colore della pelle: era ovvio che Tommy Fielding doveva essere più amico di Peter Hall che di Tina Welch. Quei due non ricordavano assolutamente Romeo e Giulietta. Del resto Giulietta non faceva la prostituta e Romeo non sfogliava Black Beauties. Quanto a Stella, ne aveva viste tante che nulla riusciva più a sorprenderla: aveva scoperto da tempo che si sa sempre troppo poco degli altri, persino di quelli che ci sono più vicini.
Il telefono squillò, facendola trasalire. Era Nathaniel Dance, il capo della sezione Investigativa. Sentendo la sua voce profonda si preoccupò, perché era domenica e perché Dance solitamente non si occupava di normale amministrazione. «C'è stato un omicidio», le annunciò lui. «Scottante.» Nonostante la calma apparente, nel tono di Dance c'era una titubanza sospetta, neanche avesse appena visto l'inferno e non osasse descriverglielo. Istintivamente, Stella ribatté: «Le disgrazie non vengono mai sole». «Jack Novak.» Stella rimase interdetta. Non voleva credere a quello che Dance le aveva appena detto, ma riuscì a reagire in tono molto professionale. «Arthur ne è al corrente?» chiese. «Non ancora. Mi hanno detto che aveva un impegno elettorale, un dibattito pubblico a Warszawa. Ho provato a contattarlo, ma non posso certo lasciargli un messaggio.» Abbassò la voce. «Non voglio che la stampa lo venga a sapere prima di lui, che gli faccia qualche brutto scherzo. Soprattutto lì, nel tuo vecchio quartiere.» Nemmeno questo la colse di sorpresa. In teoria, Dance non s'immischiava nella politica. Nella pratica nessun funzionario di polizia, nero o bianco che fosse, poteva arrivare tanto in alto senza una certa dose di diplomazia. Dance stava prendendo tempo per Arthur, senza dubbio perché voleva che Bright diventasse il primo sindaco nero di Steelton e magari lui stesso il primo comandante di polizia nero della città. Quali che fossero i suoi motivi, aveva capito subito ciò che non era sfuggito neppure a lei, e cioè che, se la maggior parte degli omicidi importano solo ai familiari della vittima, ogni due o tre anni ne viene commesso uno che rovina la carriera al procuratore che se ne deve occupare. E l'assassinio di un avvocato abituato a difendere spacciatori, ex compagno di scuola nonché amico di Arthur Bright, suo sostenitore politico pur essendo suo avversario nella vita professionale, poteva essere uno di quelli. «Chi l'ha ucciso?» chiese Stella in tono neutro. «Non lo sappiamo. Alla Omicidi è arrivata una telefonata anonima. Hanno mandato qualcuno a casa sua e per fortuna hanno avuto il buonsenso di chiamare me.» Stella chiuse gli occhi, poi disse: «Allora devo venire anch'io». Dance rimase zitto un istante. «Non è un bello spettacolo, Stella.» C'era una traccia di compassione nelle sue parole o la immaginò soltanto? Nathaniel Dance conosceva molti segreti, forse anche i suoi.
«Tra un quarto d'ora sono lì», gli disse prima di riattaccare. Non poteva concedersi il lusso di provare nulla. Non ne aveva il tempo e, se avesse cominciato a piangere, non sarebbe più riuscita a smettere. S'infilò il cappotto e uscì. Solo in quel momento si rese conto che non aveva avuto bisogno di chiedere l'indirizzo di Jack Novak e che Dance non glielo aveva dato. 2 Da quando Stella lo conosceva, Jack Novak abitava a Lincoln Park. Al pari di Warszawa, era nato come quartiere operaio a ridosso del versante occidentale della valle dell'Onondaga. Sulle modeste case a due piani incombevano ancora le acciaierie, una distesa sconfinata di altiforni e ciminiere. Nel parco che gli dava il nome si radunavano i primi operai anglosassoni la domenica, dopo essere andati in chiesa, e, intorno al 1860, nei prati ombreggiati dagli alberi, facevano le esercitazioni per andare in guerra a liberare gli schiavi del Sud. L'arrivo degli europei dell'Est era ricordato dalla chiesa polacca dall'alto campanile, St. John Cantius, e dalle splendide cupole dorate della chiesa russa ortodossa. A differenza del quartiere in cui era nata Stella, rimasto gelosamente attaccato alle sue origini proletarie, Lincoln Park si era trasformato in una miscela un po' esplosiva di etnico e artistico, bohémien e trendy, con squallide botteghe a fianco di ristoranti all'ultima moda. Secondo Stella, aveva lo stesso carattere indefinito e inquieto di Jack Novak, un caleidoscopio di schegge luccicanti che non arrivavano mai a formare un disegno finito. Jack Novak viveva - Stella stentava ancora a credere che fosse morto nel Lincoln Park Baths, un elegante edificio di mattoni rossi eretto negli anni '20 come bagno pubblico per gli operai delle acciaierie e riconvertito in roccaforte chic per quei professionisti che potevano permettersi uno dei sei ampi appartamenti con soffitti alti, stanze luminose e vista panoramica sul parco. Perlomeno, era così che Stella lo ricordava. Lasciò la macchina a un isolato di distanza. Aveva bisogno di prendere una boccata d'aria e raccogliere le forze: si sentiva disorientata, scossa, e non solo per lo spettacolo cui stava per assistere. A turbarla era l'eco di una confusione antica che aveva provato un martedì sera di tanti anni prima, uscendo da quella casa per tornare in un mondo diverso, anche se a soli dieci minuti di distanza: Warszawa, la casa dei suoi genitori. Quella sera Jack le aveva fatto capire che quella distanza era diventata incolmabile.
All'epoca, Stella aveva ventitré anni. Sdraiata accanto a lui, il primo uomo con cui era andata a letto, i capelli ancora umidi dopo aver fatto l'amore, il seno contro il suo petto, l'aveva guardato timidamente in faccia. Era più vecchio di lei, aveva trentotto anni e le tempie brizzolate, ma aveva gli occhi azzurri intensi e sempre attenti, che parevano leggerle nel pensiero. Aveva il naso un po' grosso e le guance paffute, ma la rotondità del viso era compensata dal mento lungo e da un paio di baffi ben curati che, insieme con lo sguardo penetrante e i capelli folti, gli davano un'aria da tartaro. Sebbene non amasse l'esercizio fisico fine a se stesso, un metabolismo molto rapido e la smaniosa ricerca di esperienze sempre nuove lo aiutavano a mantenersi snello e giovanile. Stella gli aveva visto accennare un sorriso. «Sta per scattare il coprifuoco?» le aveva chiesto. «O ti hanno revocato definitivamente la libertà vigilata?» Benché il tono fosse bonario, quell'allusione al fatto che suo padre era contrario alla loro relazione l'aveva turbata. «È tardi», aveva risposto. «Devo venire a lavorare nel tuo studio domani e lunedì sera ho un esame.» Il sorriso era sparito. «Vuoi dire che non ci vedremo per un po'?» Stella aveva avuto l'impressione che, dietro quella domanda, si nascondesse una vaga minaccia, come se Jack volesse ricordarle che poteva divertirsi anche in altri modi. Lo aveva scrutato e lui aveva detto sottovoce: «Povera Stella». Aveva chiuso gli occhi, ascoltando la musica dei Led Zeppelin che usciva dai costosi amplificatori di Jack. «Non è così semplice andarsene di casa», aveva replicato. «Non hanno nemmeno ancora digerito il fatto che mi sono iscritta a giurisprudenza.» Era una tacita supplica: anche Jack era cresciuto a Warszawa e capiva meglio di tanti altri che vita faceva Stella. «Perché a quest'ora ti saresti già dovuta trovare un marito, facendo tanti bei frugoletti», aveva replicato. «Dovresti avere un lavoro come dattilografa in parrocchia. E sperare che tuo marito non resti disoccupato come tuo padre e non si metta a bere vodka e a maledire il mondo per le ingiustizie di cui è stato vittima.» Dopo un breve silenzio, aveva assunto un tono più dolce. «Ci sono passato anch'io, Stella. Mi dispiace che tu non te ne sia ancora tirata fuori.» Lo aveva fissato. Sotto quelle parole leggeva una collera cieca, un rifiuto assoluto, forse addirittura l'orrore per il proprio passato. «Lo farò», aveva
replicato con veemenza. «Voglio vivere come piace a me e non...» «Lo so», l'aveva interrotta lui. «So tutto, anche quello che non mi hai mai raccontato. Il gruzzolo nascosto sotto il materasso, le mille raccomandazioni: fai la brava, vai a messa, cerca di prendere bei voti. Ma senza esagerare, perché, se diventi troppo in gamba e fai strada, finirai per dimenticare da dove vieni.» Aveva alzato la voce, a metà tra lo scherno e l'amarezza. «Ah, e naturalmente la confraternita della Vergine Maria, il culto assoluto della verginità che impone a ogni ragazza polacca di tenere le gambe chiuse fino al giorno delle nozze. È la regola numero uno: niente sesso, guai anche solo a nominarlo. Non è così?» Jack l'aveva osservata, nuda al suo fianco. «Andare via da casa equivarrebbe ad ammettere che vieni a letto con me. E nel regime integralista di Warszawa, certe cose non si fanno.» Stella aveva preso fiato ed era scivolata di lato in maniera da allontanarsi da lui. La sua vita era molto più complessa e il suo quartiere e la sua infanzia molto più articolati di così, sebbene ciò che Jack diceva a proposito della sua famiglia fosse tragicamente vicino alla verità. «Le cose stanno cambiando, Jack. E la mia vita non è fatta solo di quello. Non è mai stata limitata come la dipingi tu.» Aveva assunto un tono più amaro. «La sera studio e di giorno lavoro per mantenermi all'università. Non ho abbastanza tempo per pagarmi anche l'affitto.» «O per me.» «Infatti.» Era rimasta lei stessa sorpresa della propria risposta così piatta. «Non quando sei così egoista.» E se n'era pentita immediatamente: benché fosse determinata a raggiungere i propri obiettivi, non amava i conflitti, perlomeno con Jack. Ma lui si era addolcito. «Se il problema sono i soldi, ti posso aiutare io.» Stella aveva distolto lo sguardo, piena di vergogna. Di colpo si era sentita a disagio tra quelle pareti bianchissime, i pochi mobili moderni, gli specchi in cui si riflettevano loro due distesi sul letto. «Non ti basta che faccia pratica nel tuo studio e stia con te? Che la tua segretaria sospetti che io passi gli esami a forza di darla in giro? Forse sono già la tua mantenuta, Jack. Forse è questo che non mi va.» Jack la osservava, impenetrabile. «Quando ti ho assunta, Stella, non sapevo che ci saremmo messi insieme.» «Davvero?» E perché allora non mi dici che sono brava sul lavoro? si era chiesta. «Comunque sia», aveva replicato sottovoce, «nella mia vita ci sono anche altre persone. Non solo i miei genitori, ma anche Katie.»
«Tua sorella?» «Sì. Se me ne vado, resta tutto sulle sue spalle.» «Resta l'unica a portare il velo, vorresti dire? Dovrei vergognarmi?» Ma Stella aveva la sensazione che Jack non provasse nessuna vergogna, quanto piuttosto l'intenso desiderio di cancellare tutto ciò che gli ricordava le sue origini con la stessa determinazione di un Jay Gatsby. «Sarebbe aspettarsi troppo da te», aveva detto infine. «Ma un po' di comprensione non mi dispiacerebbe.» Per un istante, Jack l'aveva guardata, poi le aveva fatto una carezza sul viso. «Scusa», le aveva detto. «Hai ventitré anni, li ho avuti anch'io. Mi ritrovo a combattere le stesse battaglie di una volta. Non è giusto.» Nonostante la diffidenza, erano questi improvvisi attimi di tenerezza a farle sperare che Jack potesse offrirle compassione e solidarietà, anziché contrasti. Da sempre si sentiva sola, diversa, e, per quanto fosse giovanissima, incominciava a temere che le cose non potessero cambiare. Pregando di sbagliarsi, le erano venute le lacrime agli occhi. Jack l'aveva baciata sulla fronte. «Sono tuo amico, Stella, e lo sarò per sempre.» Confusa, gli aveva appoggiato la testa sulla spalla. Jack era rimasto stranamente fermo, come se per una volta non si sentisse incalzato dal tempo. «Resta», le aveva sussurrato. «Un'ora ancora.» Forse per amore di Jack, o forse perché si sentiva sola e piena di dubbi che non aveva il coraggio di affrontare, Stella aveva avuto un nuovo impeto di passione e gli aveva sfiorato il petto con le labbra, giocherellando coi peli intorno al capezzolo. Lo aveva udito aprire il cassetto del comodino. E aveva chiuso gli occhi. Quando li aveva riaperti, si era ritrovata davanti la causa di un litigio avvenuto due settimane prima, che l'aveva lasciata sconsolata e interdetta, incapace di dar voce alla vergogna. Jack aveva in mano un reggicalze e un paio di calze nere. Stella si era sentita la bocca improvvisamente asciutta e, suo malgrado, si era chiesta se le avesse già indossate qualche altra donna. «Per favore», le aveva chiesto. «Fallo per me. Per noi...» Senza rispondere, Stella aveva preso le calze e si era alzata. Era andata in fondo al letto e, in silenzio, se le era infilate sotto gli occhi di Jack. Poi si era sforzata di guardarlo negli occhi. «Sono tuo amico», le aveva ripetuto. «Ogni notte che passiamo insieme, ogni cosa che facciamo insieme e che non avevi mai fatto, sei più vicina ad
andartene di casa e a diventare la persona che vuoi veramente essere.» Stella non aveva risposto. I Led Zeppelin cantavano Stairway to Heaven. Il desiderio aveva ceduto all'apatia, a una sorta di ottundimento dei sensi. Si era vista nello specchio mentre si avvicinava a Jack e quasi non si era riconosciuta. «Sei bellissima», le aveva detto, anche lui guardandola allo specchio. Trovò le auto della polizia davanti alla casa di Jack Novak e un agente in divisa di guardia alla porta. Stella gli porse il tesserino. «Sono Stella Marz. Sezione Omicidi della procura.» L'uomo annuì e le restituì il documento. Stella aspettò un istante e poi entrò. Qualunque cosa fosse successa a Jack Novak, vide con temporaneo sollievo che non era successa nel salotto. C'erano due tecnici della Scientifica, uno chino su un bicchiere contenente un resto di qualcosa che le parve whisky, l'altro che osservava un piatto su cui c'era una striscia di polverina bianca. Com'era prevedibile, dato il carattere di Jack, l'arredamento era cambiato: poltrone e divani sembravano più colorati, come il quadro che dominava la grande stanza, un olio che ricordava quelli di Jackson Pollock. Alcune voci ruppero il silenzio e Stella capì dove si trovava Jack. Con lo stomaco in subbuglio, si diresse lentamente verso la camera da letto. «Lasciatelo dov'è», sentì che diceva Dance. «Tanto adesso non gli importa più nulla.» E vide il riflesso di Jack Novak nello specchio. 3 Non riuscì a trattenere un gemito, quindi si accorse di avere il batticuore e la nausea. Come in una scenografia surreale, Dance e un investigatore della Omicidi la guardavano, mentre il fotografo della Scientifica, impassibile, continuava a riprendere il corpo di Jack e gli specchi riflettevano tutti. L'unico rumore era il ronzio della telecamera. Si appoggiò allo stipite della porta, cercando di dare un senso compiuto alla terribile scena che aveva davanti agli occhi. Jack Novak era appeso all'anta dell'armadio coi piedi a pochi centimetri dalla moquette, impiccato a una cinghia di cuoio tesa sopra la porta e assicurata a un gancio di metallo dall'altra parte. Ciondolava con gli occhi
strabuzzati e iniettati di sangue, la bocca aperta, la lingua fuori. Sotto il torso cereo e non più giovane, indossava calze e reggicalze neri. Un paio di scarpe col tacco alto gli si erano sfilate dai piedi e giacevano in una pozza rosso carminio. Stella chiuse gli occhi. Era stato castrato. Sulla moquette si trovava un coltello da cucina incrostato di sangue ormai secco. Stella rimase paralizzata, la mano sullo stipite. Quando riaprì gli occhi, tra lei e il cadavere di Jack torreggiava Nathaniel Dance che la guardava dall'alto in basso con gli occhi marrone chiaro, quasi gialli, nel volto che pareva scolpito nella pietra. La sua imperturbabilità aveva sempre preoccupato Stella, contribuendo a darle la sensazione che fosse un uomo potente, a conoscenza di tanti segreti. In quell'occasione, però, le fu di conforto. «Non ha sentito nulla», le disse. «Era già morto.» La sua voce profonda era quasi dolce. Stella chiese stupidamente: «E tu come lo sai?» «Per via del sangue.» Stella si rese conto solo in quel momento che alle sue spalle c'era il coroner, Kate Micelli. «Le gocce di sangue seguono le leggi della fisica», le spiegò. «Se fosse stato vivo, il cuore avrebbe pompato sangue e avremmo una serie di archi sempre più vicini ai piedi, corrispondenti alla diminuzione della forza del battito. Qui invece abbiamo un gocciolamento per gravità. Giurerei che è morto per asfissia.» Kate Micelli, perfettamente a suo agio, si spiegava in modo chiaro e col distacco professionale che le veniva dall'esperienza. L'orrore di quella morte, invece, pareva aver colpito Dance. Forse era un abbaglio, uno scherzo dell'immaginazione di Stella, che, nella sua confusione, interpretava come stoicismo l'atteggiamento dell'uomo, che voleva dare l'impressione di sapere tutto e nel contempo non far capire a nessuno che cosa pensava. Stella ebbe un'improvvisa certezza: Dance sapeva chi era stato per lei Jack Novak. Calze nere. Rivide se stessa tanti anni prima, riflessa in quegli specchi, ma si costrinse a tornare al presente. Jack si era sempre concesso molto nella vita e i segni di quell'eccessiva leggerezza erano chiari, senza i vestiti italiani a mascherarli. In quel momento, Stella si accorse che era morto con le mani legate dietro la schiena. Accanto ai piedi, che puntavano verso terra come quelli di Cristo in croce, c'era uno sgabello di metallo rovesciato.
Stella lo ricordava. Jack lo usava per arrivare allo scaffale più alto dell'armadio, dove teneva le valigie; ci era salito anche prima di partire per l'ultimo weekend che avevano trascorso insieme. L'ultimissima volta, però, era stato usato per ben altri scopi. Un calcio al momento giusto, e Jack era rimasto impiccato. Stella chiese in tono neutro: «Com'è successo?» «Con amore.» La voce era del detective John Burba, che attraversò la stanza e si mise accanto a Dance. Sebbene fossero entrambi grandi e grossi, Burba aveva i capelli rossi, era tozzo e volgare, di un'efficienza un po' grezza. «È tipico dei culi, questo genere di messinscena.» Nessuno fece commenti. Stella distolse lo sguardo da Burba e lo posò sulla faccia stravolta di Jack Novak. La colpì un dettaglio, che le fece sembrare tutto il resto ancor più pietoso: Jack si era tinto i baffi di nero. Come hai potuto? avrebbe voluto chiedergli. Come hai potuto ridurti così? A poco a poco Stella cominciò a registrare i rumori degli altri che si muovevano nelle stanze accanto. La Scientifica avrebbe raccolto polvere, fibre di materiali estranei alla casa e impronte digitali, avrebbe cercato tracce di furto o effrazione, avrebbe controllato gli scarichi dei lavandini e smontato sistematicamente tutto. Dance si sarebbe assicurato che nulla venisse trascurato. Stella lo guardò. Non disse nulla, lasciando cadere nel vuoto il commento di Burba, e si rivolse al coroner. Kate Micelli era sulla cinquantina, col naso aquilino, i capelli tinti di nero, gli occhi infossati e le guance un po' incavate, da inquisitore spagnolo. Era una donna attenta e competente e Stella aveva imparato a fidarsi di lei. «Ho appena cominciato», disse. «Ma posso farvi vedere quello che mi è saltato subito agli occhi.» Prese Stella sottobraccio e la portò oltre Dance e Burba, a un metro da Novak. Per Kate Micelli quella scena raccapricciante era soltanto un problema da risolvere e ne parlava in tono piatto, da anatomopatologo che esamina un gatto. Guardando le gambe di Novak nelle calze nere per evitare il volto e tutto ciò che potesse risvegliarle qualche ricordo, Stella si concentrò sui possibili indizi, su quello che c'era da imparare. Era tutta sudata. «A prima vista sembrerebbe un caso di autoerotismo», cominciò la Micelli. «Autoasfissia per stimolare l'eiaculazione. Ma come tutti, anche coloro che praticano questo genere di autoerotismo hanno le loro abitudini. Generalmente lo fanno in solitudine, di nascosto persino da mogli e amanti, e vengono scoperti soltanto se accidentalmente s'impiccano; quindi ten-
dono a essere bene organizzati e abbastanza esperti da non rimanerci. Il punto infatti non è suicidarsi, ma ottenere un orgasmo particolarmente intenso. Solitamente preferiscono non essere completamente sospesi per rimanere coscienti e poter interrompere tutto in caso di bisogno. Ed è qui che cominciano le mie perplessità.» Un raggio di sole entrò inaspettatamente nella stanza, riflettendosi nello specchio e bagnando il corpo straziato di Novak di luce dorata. Il coroner sbatté le palpebre. «In genere», riprese dopo un momento, «non usano sgabelli. Da soli è troppo rischioso: al minimo errore ci s'impicca. Basta mettersi in punta di piedi.» Stella spostò lo sguardo dai piedi di Novak alla cinghia che gli stringeva il collo e alla faccia paonazza. Immaginando i suoi ultimi istanti di vita, provò un dolore indicibile. «Poi la cintura», continuò la Micelli. «Un professionista avrebbe usato le apposite cinghie di cuoio che si comprano nei sex-shop o per corrispondenza. Adesso si trovano anche attraverso Internet... E le mani.» Kate Micelli girò compassata intorno alla chiazza di sangue e posò le mani sulle anche di Novak, voltandolo perché Stella potesse vedergli le mani, legate dietro la schiena. «Qui le possibilità sono due», proseguì. «L'ha legato qualcuno o si è legato da solo. Naturalmente, se uno si lega da solo, si lascia la possibilità di slegarsi... Possibilità che qui non c'è. La corda è talmente stretta che i palmi delle mani sono bianchi. Novak non era solo.» Il tono didascalico e un po' antipatico del coroner aiutò Stella a non vomitare. Sentendosi addosso gli occhi di Dance, con un filo di voce chiese: «C'è stata penetrazione?» La Micelli lasciò andare il corpo, che girò lentamente su se stesso nel gioco di luci e ombre creato dagli specchi. Gli occhi rossi di Jack parevano fissare sgomenti Stella. «A un esame esterno, non direi. Non vedo sperma. E dalle tracce di sangue non sembrerebbe che si sia castrato da solo e poi sia salito sullo sgabello per finire di suicidarsi.» Stella si rese conto che Dance si era avvicinato. «Non c'è imbottitura intorno al collo», osservò in tono misurato, calmo. «Questa è gente che il lunedì deve andare a lavorare. Non gli conviene farsi venire un livido che sporge dal colletto, perché poi la gente mormora.» Per quanto laconica, l'osservazione di Dance aveva un tocco di umanità, in quanto riportava nella realtà della vita quelle debolezze. «Non ci sono segni di usura né sull'anta né sulla cintura», continuò. «Questo non vuol dire», replicò Kate Micelli. «Ma ci riporta al problema del collo.» Allungò una mano e col pollice e l'indice sollevò il mento di
Novak. «Chi è dedito a questo tipo di gioco autoerotico generalmente si fa passare la corda sotto il mento, non intorno al collo. In caso d'incidente, la corda scivola e lascia due segni.» Incrociò lievemente gli occhi infossati, assumendo un'aria ancor più da rapace. «Qui l'unico segno è sotto.» Colta da un improvviso conato di nausea, Stella si girò dall'altra parte e rabbrividì, ma la stanza piena di specchi si trasformò in un caleidoscopio in cui il suo ex amante appariva in diverse angolazioni, l'una più orribile dell'altra. «Dunque lei non crede che il nostro amico Jack lo pigliasse nel culo», intervenne Burba. Stella aveva intuito fin dal principio che la macabra morte di un noto avvocato che difendeva spacciatori di droga sarebbe stata accolta con soddisfazione dai poliziotti di Steelton i quali, oltre al generico disprezzo per il nemico, nutrivano l'invidia del poveraccio per chi ha più soldi di lui. «Non mi pare proprio», replicò Kate Micelli. «Ma si sa che l'amore fa strani scherzi.» Stella fissava la moquette con le braccia conserte, in preda alla nausea, ma decisa a resistere. Se pensava alla morte di Jack, a come doveva essersi dimenato, all'intestino che si svuotava, ai tentativi sempre più deboli di resistere, alla disperazione che si fermava negli occhi sbarrati per l'eternità, le veniva da vomitare. Fu Dance a riscuoterla da quell'incubo. «Abbiamo due possibilità», dichiarò. La sua voce, pratica e distaccata, le parve un'ancora di salvezza. «Una sola, secondo me», ribatté Stella. «È stato ucciso.» Gli occhi gialli di Dance parvero prendere atto della sua confusione. Con lo stesso tono flemmatico precisò: «Intendevo prima di essere ucciso». Stella abbassò gli occhi e se li sfiorò. «Perché non andiamo a parlare nel salotto?» propose Dance. Stella voltò le spalle agli specchi e uscì. C'era un divano davanti al caminetto. Vi si sedette goffamente e osservò il tavolino di cristallo, la striscia di polvere che probabilmente era cocaina, due bicchieri da cocktail con un resto di liquore ambrato che, se Jack aveva conservato i gusti di una volta, doveva essere scotch di puro malto. Con chi aveva trascorso le sue ultime ore di vita e quale patologia lo aveva condotto dalla droga e dall'alcol alla morte che si rifletteva all'infinito negli specchi della camera da letto? Dance e il coroner si sedettero sulle poltrone di fianco al divano; Dance
osservò Burba che controllava la porta dell'appartamento. «Non ci sono segni di effrazione», dichiarò. «Chiunque fosse, Novak gli ha aperto la porta. A meno che non avesse la chiave.» «Dunque», riprese Stella rivolgendosi a Dance, «quali sono le tue due possibilità?» Dance si voltò verso di lei. «Che Novak si esibisse in questo tipo di giochetti con qualcuno. Che però, stavolta, gli ha tolto lo sgabello da sotto i piedi.» La Micelli ridacchiò. «Brutto scherzo, non c'è che dire!» «Oppure», continuò Dance, «è stata un'esecuzione.» Stella prese fiato. «Per questo avrebbero dovuto costringerlo a salire sullo sgabello.» Guardando la Micelli chiese: «Ci sono lividi o segni di colluttazione?» «A prima vista, no. E non mi pare neppure che sia stato strangolato.» Guardò Dance. «Secondo te erano più di uno?» «È possibile. Se è stata un'esecuzione, hanno dovuto vestirlo da donna e legargli la cintura intorno al collo. Una persona sola non ce l'avrebbe fatta, uomo o donna che fosse.» S'interruppe, poi guardò Kate Micelli. «Secondo te era ancora vivo, vero?» «Sì, credo di sì.» «Ma quando l'hanno castrato era morto.» Il coroner accennò un sorriso. «Allora perché preoccuparsene, dici? Quando uno si castra da solo, lo fa perché si detesta o perché ha gravi problemi d'identità sessuale. Invece qui...» Lanciò un'occhiata verso la porta della camera da letto, poi riprese: «Qui potrebbe essersi trattato di un gesto di rabbia. Che mi fa pensare a una relazione omosessuale». Dance guardò un istante Stella, mettendola in imbarazzo, poi disse: «Se così fosse, avremmo trovato molto più caos, e magari anche l'amante in piena crisi isterica a chiedersi, passato l'effetto della droga, perché Jack l'aveva portato fino a quel punto». La Micelli assentì. «Perché era stato così cattivo con lui? Chissà, forse a fare quella telefonata anonima è stato proprio lui, l'amante, per quanto mi sembra di aver capito che la voce era distorta in maniera che non si capisse se era un uomo o una donna.» Dopo un momento di silenzio, aggiunse: «O magari l'assassino voleva mandare un messaggio». Stella ritrovò la voce. «Se è stata un'esecuzione, perché la messinscena?» «Per far sì che non lo sembrasse?» suggerì Kate Micelli, congiungendo
le mani, meditabonda. «Non lo so, Stella. Come omicidio, è effettivamente un po'... barocco.» Stella si sforzò di mantenere la lucidità. «Di che numero sono le scarpe?» chiese. «Quello giusto, sembra. Hai notato che anche le calze sono della sua taglia?» Nel silenzio di Dance, che aveva socchiuso gli occhi e guardava la polvere bianca sul tavolino di cristallo, c'era qualcosa che insospettì Stella. «Finiscono per diventare marci pure loro», disse. «Gli avvocati che difendono gli spacciatori. Fanno la stessa vita sporca dei loro clienti.» Quell'osservazione, pensò Stella, era un velato avvertimento, di certo per Arthur Bright, ma forse anche per lei: dove li avrebbe portati quell'assassinio? «Nat», chiamò in quel momento Burba dalla stanza da letto. «Vieni a vedere.» Dance si alzò faticosamente e lanciò una rapida occhiata in direzione di Stella, che lo seguì meccanicamente, come un automa, verso quell'incubo seriale che era la camera di Jack Novak. Un tempo, Stella, emarginata dalla propria famiglia e dalla vita che aveva condotto fino ad allora, c'era andata regolarmente. A volte l'aveva considerata addirittura un rifugio. Con finta delicatezza, Burba faceva dondolare da un dito un paio di manette. «Non vedo l'ora di trovare anche il resto dell'attrezzatura», disse. «Nel bagno c'è tanto di quel nitrito di amile da mettere su una farmacia per checche.» Stella guardò il comò: i cassetti erano tutti spalancati, tranne il primo, che era socchiuso. «Avete guardato in tutti i cassetti?» chiese. Burba posò le manette e cominciò a frugare, come se fosse un ordine, mentre Stella glielo aveva chiesto semplicemente perché ricordava che Jack era un uomo ordinato. «Hai visto qualcosa?» chiese Dance. E tu? avrebbe voluto chiedergli Stella. «Mi chiedevo se qualcuno ha frugato in casa prima che arrivassimo noi», mormorò. Dance rimase impassibile. «Bisognerebbe avere i nervi saldissimi, col cadavere lì appeso.» «Ma non dicevi che potrebbe essere stato tutto premeditato?» ribadì Stella. Dance ci pensò su. «È solo una supposizione.» Stella trasalì nel sentire una musica improvvisa. La riconobbe e rabbrividì. Erano le prime note di Stairway to Heaven.
Burba aveva acceso lo stereo. Fissando Stella, Dance spiegò: «Era la musica che suonava quand'è stato ritrovato». Per qualche istante, quelle note le parvero arrivare da un tempo remoto e le sembrò di risentire il corpo del suo amante sulla propria pelle. Quando rialzò lo sguardo, tuttavia, Jack Novak era lì, appeso, senza vita. «Sarà meglio che vada ad avvertire Arthur», disse. 4 Dieci minuti dopo, ripercorrendo per istinto la stessa strada che aveva preso tanti anni prima, la notte in cui aveva costeggiato l'Onondaga alla luce arancione degli altiforni per tornare dal bell'appartamento di Jack Novak all'unica casa in cui lei aveva vissuto, Stella arrivò a Warszawa. Stavolta era ancora presto e il buio incombeva come una cappa di fumo sulla città e nell'animo di Stella. Eppure le alte guglie della chiesa di St. Stanislaus che s'intravedevano tra le case le parvero un faro che la invitava alla preghiera. Erano quindici anni che aveva lasciato Warszawa, ma ci si sentiva ancora a casa. Era una sensazione sia fisica sia spirituale, che la riportava ai primi ricordi dell'infanzia: le case piccole, le strade strette, l'odore di pesce fritto, servito in tutti i bar e ristoranti il venerdì anche dopo che la Chiesa aveva tolto il divieto di mangiare carne, gli uomini con le falciatrici che rasavano con cura minuscoli giardini, il carretto arancione del pop-corn, le voci che arrivavano dalle verande nelle calde sere d'estate, i matrimoni chiassosi nel salone parrocchiale con l'orchestrina che suonava la polka, birra a fiumi, cavolo ripieno e cibo in quantità, i cartelli appesi alle finestre della scuola che raccomandavano di osservare la quaresima, la preghiera e il digiuno e di fare l'elemosina. E, naturalmente, la chiesa. Stella non avrebbe saputo dire quando c'era entrata per la prima volta, ma serbava vivo il ricordo della soggezione provata da bambina di fronte all'enormità del piano divino incarnato in quella costruzione neogotica, all'ombrosa vastità di quel santuario, alla sensazione di freddo e di umido sulla pelle, alla bellezza dei rosoni e delle statue, alla riverenza condivisa da grandi e piccini, al rispetto dimostrato anche dall'abbigliamento scelto per la messa. Ma tanta umiltà era accompagnata da un certo orgoglio: quattro generazioni prima, con gli spiccioli risparmiati dai salari da fame che ricevevano dal bisnonno di Peter Hall, i primi immigrati polacchi avevano costruito una cattedrale che era un monumento alla loro vita, per quanto
misera, come gli altiforni per Amasa Hall. Stella Marz sentiva ancora una forte solidarietà nei confronti degli abitanti, presenti e passati, di quel quartiere. Ma, tra i duemila parrocchiani di St. Stanislaus, i professionisti come Stella erano pochi. Perlopiù si trattava di operai, più vecchi e più poveri di lei, o di disoccupati come Armin Marz. Stella continuava a frequentare quella chiesa, però tra lei e gli altri si era aperto un solco più profondo di quanto non avrebbe voluto, sebbene quella di costruirsi un futuro diverso fosse stata una scelta consapevole. Stella aveva deciso di non rimanere incinta a diciannove anni, di non mettersi in condizione di dover obbedire a un marito stolido: non voleva fare la fine della madre. Era per quello che, prima ancora della storia con Jack Novak, Armin Marz era diventato suo nemico. Stella non credeva che il padre l'avesse fatto apposta. Armin Marz non ragionava: era talmente impulsivo che non si rendeva conto della profondità della propria amarezza e credeva che la collera nei confronti della figlia fosse una reazione al suo spirito ribelle. Così, ciò che per Stella era una lotta per la sopravvivenza, per il padre era un affronto personale, tanto più che l'unico posto in cui poteva comandare, ormai, era casa sua. Si trovava a tre isolati di distanza dal salone parrocchiale di St. Stanislaus, dove Arthur Bright era impegnato in un confronto col sindaco Krajek. La campagna elettorale era infuocata a Warszawa come altrove e, quella sera, le strade erano piene di macchine. Così Stella, già oppressa dal dolore e dai ricordi, parcheggiò davanti alla casa dei suoi. Non ci abitavano più, naturalmente. L'ultima volta che Stella ci aveva messo piede era stato per venderla, nonostante le vivaci obiezioni della sorella, per pagare l'assistenza al padre, che non aveva più nemmeno la forza di essere arrabbiato col mondo ed era giunto ad aver paura della sua stessa casa, piena di oggetti che non riconosceva più. Soltanto Stella ricordava l'ultima terribile notte, al ritorno da casa di Jack. Soltanto Stella ricordava - suo malgrado anche in quel momento - di aver parcheggiato la vecchia Honda comprata coi suoi soldi e di aver salito gli scalini scricchiolanti della veranda, pregando dentro di sé che la porta si aprisse senza far rumore e che il padre non fosse ancora sveglio a sorprenderla, ventitreenne, con l'odore del suo uomo ancora addosso. Ma lui aveva acceso la lampada accanto alla poltrona. Il fascio di luce aveva illuminato il volto scavato e stanco, il naso carno-
so e rosso da alcolizzato, le guance infossate, i capelli grigi arruffati, la fronte stempiata, le rughe profonde che parevano scavate dalle traversie di tutta una vita. Negli occhi neri brillava una luce rabbiosa. Stella era rabbrividita: il suo primo istinto era avere paura di lui. «Dove sei stata?» le aveva chiesto. Il tono non ammetteva tentennamenti. Sebbene Armin Marz fosse nato in America, nella sua voce profonda Stella riconosceva i suoni gutturali di tempi e luoghi lontani, un'autorità feudale che lui riteneva proprio diritto inviolabile. Mentire equivaleva a sfidarlo e, come si era resa conto a un tratto, a tradirsi. «Da Jack», aveva risposto semplicemente. Era seguito un silenzio. Stella aveva indovinato che la madre era sulle scale a origliare nel buio, troppo paurosa per intervenire, troppo succube del marito per difenderla o per capire il suo punto di vista. Anche Katie, che aveva tre anni meno di lei, stava certamente seguendo la scena, contenta di poter continuare a fare la brava figlia mentre Stella le apriva la strada con la sua ribellione. Dopo un po' Armin Marz aveva sussurrato: «Sei una puttana». Stella era arrossita, suo malgrado in preda al senso di colpa. «Non è vero.» Armin Marz si era alzato, con una maglietta di cotone troppo stretta che metteva in risalto i muscoli ormai flaccidi. «Vuoi dire che non gliel'hai data?» «No», aveva risposto Stella. «Voglio dire che gliela do gratis.» Armin Marz, tremante di rabbia, era avanzato con una rapidità e un'agilità sorprendenti: ormai si trovava accanto a lei ed era furente. Stella si era sforzata di tenere ferme le mani. Mentre il padre alzava il braccio, lo aveva guardato in faccia; era così vicino che ne sentiva il respiro. L'aveva colpita in pieno volto e Stella aveva barcollato, gli occhi pieni di lacrime, il sapore del sangue sulla lingua. Armin Marz era rimasto lì impalato, fuori di sé dalla collera, con lo sguardo ottuso di un cavallo a metà tra il recalcitrante e lo spaventato. Aveva il respiro affannoso. «Sei una puttana», aveva ripetuto cocciutamente, come per giustificarsi. «Lavori per lui, ti paga. Ti prostituisci per fare carriera.» Stella aveva la testa che le pulsava. In quel momento che pareva sospeso nel tempo, prigioniera in una stanza buia, si era chiesta come poteva un popolo aver creato un capolavoro come la cattedrale di St. Stanislaus e poi
vivere in uno squallore simile. Del resto era proprio per quello che lei era una puttana. «Sono costretta a lavorare perché non lavori tu», aveva risposto con voce tremante. «E continuo a vivere qui per poter un giorno fare una vita migliore della tua.» Sul volto del padre aveva letto anni e anni di rabbia: Stella aveva denunciato apertamente la sua vergogna, gli aveva rinfacciato con disprezzo l'umiliazione che lui covava in silenzio. Lo sguardo addolorato che le aveva rivolto le aveva fatto più male dello schiaffo appena ricevuto. Lei stessa quasi non si capacitava dell'enormità di ciò che aveva fatto. L'aveva afferrata per i polsi con tanta violenza che Stella era trasalita. Erano vicinissimi e, nell'alito di lui, Stella aveva riconosciuto l'odore della vodka. «Non ti laureerai mai», le aveva detto con voce roca. «Le puttane non si laureano. Le puttane restano incinte.» La rottura era definitiva. Sentendosi augurare di non farcela, Stella aveva replicato, con tutto il risentimento accumulato in una vita passata a cercare di emanciparsi da un padre tiranno: «Le puttane sanno come fare a non restarci. Non ti coprirò di vergogna mettendo al mondo un figlio di Jack. Ti coprirò di vergogna facendo carriera». L'atmosfera si era fatta irrespirabile. Armin Marz, frustrato all'estremo, continuava a stringerla con forza: al contrario della figlia, lui non aveva il dono dell'eloquenza e la seconda volta l'aveva schiaffeggiata quasi con rassegnazione, come ad ammettere la propria impotenza. La violenza del colpo le aveva fatto girare la testa. Stella si era chinata ad asciugarsi il sangue dalla bocca, cercando di non svenire. Con un filo di voce aveva detto: «Questa è l'ultima volta». Gli aveva visto sbarrare gli occhi a mano a mano che si rendeva conto del significato di quelle parole. «Adesso torno da Jack», gli aveva detto. «Poi mi cercherò una casa.» «E ti farai mantenere da lui.» «Preferisco farmi mantenere da lui che essere figlia tua.» Lui aveva chiuso gli occhi e lei era indietreggiata. Stella era disgustata da quell'uomo che l'aveva portata allo zoo e alle partite dei Blues e l'aveva guardata giocare a basket con orgoglio. Avrebbe preferito un figlio maschio, invece di due femmine, una delle quali gli aveva sempre dato dei problemi. E così Stella aveva represso il proprio desiderio di fuga, per paura, per conformismo, ma anche per rispetto. Finché non avevano chiuso le acciaierie e non erano cominciate le lunghe serate d'angoscia. Finché non
avevano chiuso le acciaierie e non era arrivato Jack Novak. «Se te ne vai», l'aveva minacciata con voce tremante, «ti disconosco. Se esci da quella porta, Katie sarà la mia unica figlia.» Stella era perfettamente consapevole di abbandonare la sorella a un destino che avrebbe preferito risparmiarle e se ne rammaricava. Inoltre era certa che quello strappo non si sarebbe mai ricucito e che, se se ne fosse andata, la sua famiglia sarebbe andata in pezzi. Immaginava già la madre che piangeva impotente in camera sua e Katie spaventata dall'enormità del suo gesto. Poi si era accorta che era lei a provare dolore e paura. «Non sono mai stata tua figlia», era riuscita a dire tra le lacrime. Si era voltata senza dargli il tempo di replicare, prima che succedesse qualcos'altro. Per anni, in seguito, si era chiesta se Armin aveva gli occhi lucidi perché stava per piangere anche lui. Era ancora sua figlia, sebbene lui ormai non ricordasse più nulla. E, come tale, aveva voglia di entrare in chiesa a pregare per l'anima di Jack Novak e per l'anima che aveva lasciato anzitempo quella larva d'uomo che era diventato suo padre. Se avesse potuto, avrebbe anche chiesto al Signore di guidarla. Ma non c'era tempo. Nel crepuscolo, si affrettò a raggiungere il salone parrocchiale per informare Arthur Bright che Jack Novak era stato assassinato. 5 Entrando nel salone, Stella si domandò quanto tempo restava a Bright prima che la stampa venisse a sapere della morte di Novak. Si fermò un istante a guardarsi intorno. L'auditorium era sempre uguale: grande, spoglio e bene illuminato, col pavimento di legno consumato da anni e anni di balli scolastici e ricevimenti di nozze. Quel giorno vi erano state disposte quattrocento sedie metalliche pieghevoli, quasi tutte occupate da gente del quartiere. C'erano telecamere, cavi, fotografi, giornalisti e servizio d'ordine. Sul palco si trovavano i due candidati e un moderatore, un veterano brizzolato dello Steelton Press. L'atmosfera era rovente, carica di tensione: Krajek stava parlando a un pubblico favorevole a lui quanto ostile a Bright e Stella vide che il procuratore aveva la fronte sudata. Provò compassione per lui. Quando Stella se n'era andata di casa, la madre, Helen, aveva cominciato ad andarla a trovare di nascosto. Nessuno diceva nulla, ma il padre lo sapeva; a tavola faceva commenti fingendo di
parlare alla moglie e a Katie, in realtà perché li riferissero a Stella. Fin da piccola, Stella lo aveva sentito scagliarsi contro l'avarizia degli ebrei e contro i negri, scansafatiche, corrotti e lascivi, e perciò non si era stupita quando la madre le aveva confidato che, secondo Armin, il fatto che lavorasse per Bright era il colmo dell'abiezione, l'ennesima conferma che era una puttana. Era tutta colpa di Stella, le aveva fatto capire tra le righe, era stata lei a erigere la barriera che gli impediva di riconoscere il suo successo. Stella invece era convinta che Armin Marz non le avrebbe comunque dato la soddisfazione. Si appoggiò al muro e guardò la folla. Molti dei presenti la pensavano come suo padre e ascoltavano attenti, tesi. Stella vide l'amica più cara della madre, Wanda Lutoslawski, che fissava Bright da dietro gli occhiali dalla montatura nera. Da piccole, Katie e lei giocavano con le sue due figlie e Stella ricordava con tenerezza Wanda, che con altre vicine le aveva fatto da baby-sitter quando la mamma andava a lavorare. Era invecchiata, impoverita, e aveva un'espressione cupa, come il marito, Stanley. Seduti accanto a loro c'erano due dei pochissimi neri presenti e Stella notò che Stanley cercava di star loro il più lontano possibile. Si chiese quando avrebbe avuto fine l'intolleranza razziale e si voltò verso il sindaco Krajek. Aveva più o meno la sua età e, sebbene fossero stati a scuola insieme e fosse considerato il vanto di Warszawa, a Stella non era mai piaciuto. Fin da ragazzo, qualunque cosa facesse, Tom Krajek aveva sempre in mente uno scopo ben preciso; non faceva quello che gli piaceva, ma quello che gli conveniva per realizzare le proprie ambizioni nascoste. Già a quei tempi era energico e parlava velocemente, senza lasciar trasparire nessuna emozione, e aveva gli occhi attenti, freddi e opachi. Forse Stella era gelosa del successo di un uomo che riteneva limitato, o forse la sua aria da bravo ragazzo che piaceva alle donne mature a lei non diceva nulla... Comunque non sentiva il fascino del fisico scattante di Krajek, della sua faccia da bambino, liscia e col naso adunco. Gli eleganti abiti doppiopetto, che anche Jack Novak portava così volentieri, lo facevano somigliare a un commesso che si dà delle arie. Stella era convinta che fosse perfido, una vera e propria serpe. Ma doveva ammettere che era intelligente, freddo, e che lavorava indefessamente senza lasciarsi mettere i bastoni tra le ruote da nessuno. Non solo: Tom Krajek era anche un uomo fortunato. La sua fortuna era cominciata quando aveva ventidue anni e il rappre-
sentante di Warszawa nel consiglio comunale aveva avuto un infarto durante il Polish Street Festival. Krajek, che all'epoca studiava ancora alla Steelton State University, si era candidato alla successione ed era stato eletto coi voti di Warszawa, ma anche del centro città, perché era riuscito a convincere gli elettori che aveva ben chiari i loro interessi e che era di vedute assai più larghe del suo predecessore. Insieme coi suoi alleati politici, aveva aspettato dodici anni - tre mandati in consiglio comunale - e, trentaquattrenne, si era candidato a sindaco. Il suo avversario si chiamava George Walker ed era un politico esperto, di colore, presidente del consiglio comunale. I suoi difetti erano una certa arroganza e una serie di matrimoni falliti; i suoi pregi una grande eloquenza e la capacità di capire la città e i vari interessi in gioco con un acume che a Krajek mancava. Se fosse stato bianco, sarebbe certamente stato eletto. I sondaggi, a una settimana dal voto, lo davano in vantaggio su Krajek del sei per cento. Due giorni dopo, però, Stella aveva aperto lo Steelton Press e aveva capito che George Walker era finito. In seguito a una soffiata, la Narcotici aveva perquisito il suo lussuoso appartamento e aveva trovato cinque chilogrammi di cocaina. Walker si era protestato innocente e vittima di un complotto, ma, a causa delle voci che circolavano sulla sua vita privata, solo pochi gli avevano creduto. Nell'East Side la droga era un flagello e l'astensionismo tra i sostenitori di Walker era stato tale da regalare la vittoria a Tom Krajek. Cinque mesi dopo, il caso era stato chiuso perché la perquisizione era stata irregolare, ma per Walker si era trattato di una magra consolazione. A Warszawa la sua caduta aveva rafforzato gli antichi pregiudizi contro neri, droga e rappresentanti politici delle minoranze, complicando non poco il già difficile compito di Arthur Bright. Mai quanto lo avrebbe complicato l'assassinio di Jack Novak, rifletté Stella. L'accostamento, per quanto ingiustificato, tra un altro candidato nero e la strana morte di un avvocato che difendeva spacciatori e trafficanti di droga, suo amico e sostenitore, poteva rivelarsi fatale. Per non parlare del fatto che Krajek aveva basato la propria campagna elettorale su Steelton 2000 e si proponeva alla cittadinanza come colui che, insieme con Peter Hall, aveva offerto a una città in crisi una possibilità di riscatto. Una nuova età dell'oro, pensò Stella con un sorriso amaro, dopo le prodezze di Amasa Hall, che aveva portato a Steelton i polacchi. Guardò l'ora - erano le sei appena passate - e si concentrò su Krajek.
Com'era sua abitudine, il sindaco passeggiava sul palco con un microfono in mano, guardando il pubblico e fermandosi di tanto in tanto per sottolineare qualcosa che gli stava particolarmente a cuore. «Steelton 2000», stava dicendo, «non è assistenzialismo, ma un progetto innovativo che rompe col passato. Steelton 2000 vuol dire nuovi posti di lavoro, nuove entrate e nuove prospettive per la nostra città. Steelton 2000 non è un centro di riabilitazione per tossicodipendenti in un quartiere tranquillo, uno strumento di diffusione di disagio sociale e droga in un organismo sano. Steelton 2000 non è uno sterile esempio di azione positiva che rischia di creare ulteriori divisioni tra le diverse etnie...» Come se non fossimo già abbastanza divisi, rifletté Stella. Ma notò che molti tra il pubblico erano d'accordo, che Stan Lutoslawski annuiva e i giornalisti seguivano attentamente. Bright, pur essendo famoso per il proprio autocontrollo, era accigliato: Krajek stava facendo leva su paure e risentimenti antichi non del tutto ingiustificati dei bianchi di Steelton. Ma ancor più insidiosa era la bravura con cui il sindaco faceva appello ai pregiudizi della cittadinanza, ricorrendo a slogan scelti ad hoc. Accingendosi a segnare un altro punto a proprio favore, Krajek si voltò verso Arthur Bright. «Se è questo che Arthur Bright propone, come può pretendere di governare la nostra città?» domandò. «Perché dovremmo eleggerlo sindaco quando non è riuscito a mettere freno alla droga da procuratore? E perché il comune dovrebbe diventare terra di conquista per gruppi privilegiati?» Bright incassò l'accusa di non avere i numeri per diventare primo cittadino e di fomentare il desiderio dei neri di sopraffare i bianchi. Era per quello che aveva bisogno di Stella, a Warszawa e non solo: lei poteva dichiarare apertamente cose che lui non avrebbe mai potuto dire. La situazione, tuttavia, era sempre più complicata: prima Fielding, adesso Novak. Colta da un'angoscia improvvisa, Stella si dovette far forza per non mettersi a camminare nervosamente. «Arthur Bright», riprese Krajek, guardando la folla, «si autodefinisce un idealista. Ma a me sembra che faccia le pulci a Steelton 2000 perché non ha ideali. Né lui né la gente che rappresenta.» Cioè la comunità nera, pensò Stella con un sorriso sarcastico. Ma il pubblico pendeva dalle sue labbra. «Il vero aiuto alle minoranze», continuò, «non viene da Arthur Bright, bensì da Steelton 2000.» Ricominciò a passeggiare e accelerò il ritmo.
«Perché Steelton 2000 è un bene per la collettività, indipendentemente dalla razza... Perché Steelton 2000 trasforma l'immagine della nostra città: non più disastro ecologico, ma polo di attrazione turistica... Perché Steelton 2000 distribuisce ricchezza nel territorio, assegnando a imprese locali i lavori di costruzione di uno stadio modernissimo in cui giocherà una squadra locale.» D'un tratto Krajek si rivolse alla telecamera che trasmetteva il dibattito in diretta. «E qui vorrei che tutti i cittadini mi ascoltassero: Steelton 2000 tiene conto dei cittadini di colore, di questa generazione e di quelle future.» Krajek rallentò e Stella se lo immaginò su uno schermo televisivo a perorare con grande convinzione la propria causa. «La direzione dei lavori è stata affidata a un'impresa che rappresenta una minoranza etnica... Il trenta per cento delle opere è stato assegnato a ditte in mano a esponenti di varie minoranze etniche... Il trenta per cento della manodopera è costituito da esponenti di minoranze. Stiamo costruendo il nostro futuro tutti insieme e nessuno potrà fermarci.» Era un'idea brillante, dovette ammettere Stella. Non era difficile immaginare gli elettori neri che prendevano appunti, e i polacchi che si dicevano: «Più di così che cosa pretendono?» Quasi a conferma dei suoi pensieri, numerose teste nella sala annuirono. «Vorrei presentarvi una persona del cui sostegno vado molto fiero. Se Peter Hall vuole cortesemente alzarsi...» Krajek si voltò verso sinistra e Stella vide Hall in prima fila. Ripensò al ritratto del suo bisnonno, Amasa Hall, conservato nel museo che portava il suo nome: calvo, baffuto, con la faccia severa da calvinista tutto d'un pezzo, convinto che le acciaierie spettassero a lui di diritto. I suoi discendenti non avevano più l'aspetto imperioso: Peter Hall era un bel quarantenne biondo che sembrava esattamente ciò che era, ovvero un imprenditore uscito da Princeton con la carriera assicurata e l'hobby della vela, ricco rampollo di una famiglia importante coi lineamenti aristocratici e gli occhi azzurri da attore hollywoodiano. E, a differenza del suo avo, era molto benvisto in città. «Peter Hall», disse Krajek mentre gli applausi scemavano, «garantisce l'integrità dell'operazione. Perché la Hall Development dividerà con la pubblica amministrazione tutto quello che riuscirà a risparmiare sul budget... Peter Hall ha tutto l'interesse a contenere i costi della costruzione di uno stadio che, alla fine, sarà proprietà di Steelton. Uno stadio dove giocherà la nostra gloriosa squadra di baseball.» Fece un'altra pausa e sorrise.
«Ma c'è un'altra novità, che Peter Hall mi ha chiesto di comunicarvi...» Fu in quel momento che Stella notò il nero seduto accanto a Hall. Aveva i capelli grigi ed era un po' ingrassato, ma era ancora lui, uno dei tre campioni degli Steelton Blues, con l'aria pronta e scattante dei suoi tempi migliori. «Il mese prossimo», continuò Krajek, «tra i proprietari dei Blues ci sarà uno dei cittadini più illustri di Steelton, legato alla città quanto la città è legata a lui: Larry Rockwell, il più grande esterno centro della storia dei Blues...» Dio mio... pensò Stella. Larry Rockwell si alzò per rispondere all'ovazione del pubblico, anch'esso per la maggior parte in piedi. Stella capì subito che era un colpo da maestro sia per Peter Hall sia per Krajek. I neri vedevano in Larry Rockwell l'eroe che si era riscattato dal ghetto, i bianchi un precursore di Michael Jordan, un campione che li aveva fatti sognare, indipendentemente dal colore della sua pelle. L'ex esterno centro fronteggiava la folla, impettito. Bright sembrava abbacchiato: evidentemente non si aspettava un simile colpo di scena. Dalla sua seggiola vedeva i tre filoni della storia di Steelton - il discendente del padrone delle ferriere, il sindaco polacco e il figlio degli immigrati neri - intrecciarsi insieme per costruirne il futuro. Stella non poté fare a meno di provare un brivido di emozione e di speranza. «Insieme», annunciò Krajek non appena gli applausi si furono spenti, «costruiremo il nuovo stadio. Insieme, trasformeremo Steelton in quello che Ronald Reagan voleva per l'America, 'una città splendente sulla collina...'» Il pubblico si alzò, applaudendo, e Krajek si risedette. Arthur Bright rimase immobile. Nonostante tutte le sue doti, pensò Stella, nonostante tutto ciò che aveva fatto per la sua città, sembrava improvvisamente inadeguato. Stella era dalla sua parte e lo considerava un uomo in gamba, migliore di quanto Krajek sarebbe potuto diventare, ma in politica non sempre sono i migliori a vincere. «A lei la parola, procuratore Bright», disse il moderatore. E Arthur si alzò per controbattere. 6 Stella guardò l'ora.
Erano le sei e un quarto. La polizia doveva aver già apposto i sigilli alla casa di Novak e trasferito il corpo all'obitorio e ben presto i giornalisti avrebbero avuto la notizia dell'assassinio, sempre che non l'avessero già captata dagli scanner della polizia. Stella e Dance sapevano benissimo che cosa sarebbe successo. Il comandante della polizia, Frank Nolan, doveva a Krajek la carica cui ambiva Dance e, nel parlare con la stampa, avrebbe tenuto conto delle sue raccomandazioni, mentre Dance non poteva schierarsi apertamente a favore di Bright. Nemmeno Stella, ormai, poteva aiutarlo; Bright era solo sul palco e lei non poteva far altro che stare a guardare. Sperava di poterlo prendere in disparte alla fine del dibattito, prima che qualche cronista gli chiedesse come mai il suo amico e alleato politico Jack Novak era finito impiccato in reggicalze e tacchi a spillo, i testicoli sulla moquette della camera da letto e una pista di cocaina sul tavolino del salotto. Chiuse di nuovo gli occhi. Avrebbe dato qualsiasi cosa per essere nella pace di St. Stanislaus a pregare, lontana dalla morte e dai veleni della politica. Quel pensiero la indusse a guardare Lizanne Bright. Era in prima fila, dalla parte opposta rispetto a Peter Hall. Anche lei, come Stella, avrebbe certamente preferito essere altrove. Era una donna snella e ben pettinata, dai modi gravi, un'ex insegnante che ormai si dedicava esclusivamente ai figli, al marito e alla parrocchia. Troppo timida per la politica, sembrava preferire un mondo più ristretto e meno pubblico di quello in cui si muoveva il marito. Quando Bright prese la parola davanti alla platea ostile, Lizanne lo guardò con aria preoccupata, tesa. E Bright sorrise. «Mi dichiaro colpevole», esordì, alzando le mani in segno di resa. «Sono colpevole perché sono favorevole all'azione positiva. Perché credo che tutti meritino una possibilità e che, per una pacifica convivenza, sia indispensabile imparare a conoscersi. E, sì, sono anche favorevole ai centri di riabilitazione per tossicodipendenti. Perché possiamo continuare a processare e condannare trafficanti e spacciatori da qui all'eternità - cosa che intendo fare, peraltro - senza per questo riuscire a salvare i nostri figli dal flagello della droga. E credo anche alla necessità di aiutare la gente a passare dai sussidi all'occupazione, e non solo nell'East Side. Perché la maggior parte dei disoccupati sono bianchi licenziati da industrie che loro stessi hanno contribuito a creare.» Lanciò una rapida occhiata al sindaco. «Krajek lo sa e voi lo avete visto coi vostri occhi, in questo quartiere, quando le acciaie-
rie hanno cominciato a chiudere.» Nonostante tutto, Stella si sentì sollevata. In quell'ora drammatica in cui passato e presente si scontravano, la confortava vedere le ragioni per cui ammirava Arthur Bright. Guardò il pubblico in sala, che lo seguiva, attento. «Allora», chiese Bright. «Di che cosa stiamo parlando? Di 275 milioni di dollari versati dai contribuenti per costruire un nuovo stadio al signor Hall. Di 275 milioni di dollari per uno stadio cui non potrete permettervi di portare i vostri figli perché le sue lussuose tribune riservate costeranno centomila dollari l'anno. Di 275 milioni di dollari per fare gli interessi dei ricchi che vivono in centro, cui non importa nulla né del vostro quartiere né della vita che fate, ma solo del programma elettorale di Krajek, che promette di facilitargli ulteriormente la vita.» Usando la retorica per vincere il nervosismo, Bright aveva preso il ritmo e mescolava un tocco di umorismo a una severa critica sociale. «Cos'altro potremmo fare, chiede Krajek, con 275 milioni di dollari? Dice di essere preoccupato per l'alto tasso di criminalità. Be', con 275 milioni di dollari, potremmo fare per Steelton più di quanto ha fatto il sindaco Giuliani per New York: ripristinare i pattugliamenti per le strade della città, per esempio, invece di tenere gli agenti in commissariato a passare carte. Dice di essere preoccupato per l'inadeguatezza delle nostre scuole. Con 275 milioni di dollari, potremmo ristrutturare gli edifici scolastici e istituire nuovi corsi che soddisfino le esigenze nostre, non quelle di qualche burocrate strapagato. Dice di essere preoccupato per l'occupazione. Con 275 milioni di dollari, potremmo finanziare progetti di formazione per il reinserimento dei disoccupati nel mondo del lavoro e restituire alle nostre famiglie la sicurezza che meritano.» Aveva assunto una cadenza ritmica e Stella si accorse che persino Wanda Lutoslawski lo ascoltava attentamente. Poi le venne in mente il cadavere di Novak diretto all'obitorio e guardò di nuovo l'ora. Erano le sei e venti. «Sono cose che sappiamo tutti», stava dicendo Bright. «Come fa allora Tom Krajek a convincervi della validità del suo programma? Non può mettere la foto del signor Hall sui manifesti con scritto: 'Datemi 275 milioni di dollari per dare da mangiare a questo signore'.» Qualcuno in sala scoppiò a ridere e Bright sorrise, sfruttando l'occasione. «Voglio dire, il signor Hall potrebbe tranquillamente firmare a Krajek un assegno dello stesso importo in questo stesso momento.»
Nonostante tutto, anche a Stella scappò da ridere. Seduto diritto sulla seggiola, Krajek aveva l'aria irritata, mentre Hall occhieggiava il sindaco con grande aplomb. «Allora Tom Krajek prende un ragazzino di colore e sbatte la sua faccia sul manifesto di uno stadio in cui né voi né lui metterete mai piede. Promette posti di lavoro in abbondanza per gli afroamericani.» S'interruppe e sorrise sarcastico. «Be', ha avuto il buon gusto di non dirlo, ma sono afroamericano anch'io.» Le risate aumentarono; comunque la pensassero, molti spettatori erano divertiti dall'arguzia con la quale Bright demoliva pezzo per pezzo la strategia del suo avversario. Non solo: ricordando a Warszawa la triste fine delle acciaierie, sottolineando la differenza tra il tenore di vita dei quartieri operai e la generosa offerta di denaro pubblico che Krajek aveva fatto a Peter Hall, faceva indirettamente notare che proletariato bianco e proletariato nero avevano in comune molto più di quanto s'immaginava. Anche i cronisti stavano cominciando a divertirsi. «Vi posso assicurare che, quando questo progetto sarà finito, le cose nella comunità nera non saranno cambiate di una virgola. E neppure a Warszawa. Pertanto vi esorto a porvi questa domanda: 'Se spendiamo 275 milioni di dollari che sono anche nostri, il signor Hall ci darà effettivamente una mano?'» Bright sorrise di nuovo. «Rifletteteci bene. Non lasciatevi infinocchiare dalla foto di un bambino nero su un manifesto.» Fece una pausa per dare al pubblico il tempo di assimilare la gravità delle sue affermazioni, al di là dell'ironia. E si fece improvvisamente serio. «Meritate di meglio. Meritiamo tutti di meglio. Non è troppo tardi. Riapriamo la trattativa. Facciamo pagare parte delle spese al signor Hall e usiamo i soldi che risparmiamo per qualcosa che aiuti concretamente la città.» Guardò i presenti e concluse in tono più basso: «Grazie per l'attenzione». Con questo, si risedette. A Stella gli applausi che seguirono parvero abbastanza incoraggianti, benché molto meno fragorosi di quelli ottenuti da Krajek o da Larry Rockwell. Era meglio di quanto sperasse. Forse, dopotutto, Bright avrebbe racimolato qualche voto anche a Warszawa. Quando Krajek si alzò per replicare, Stella imboccò il corridoio ed estrasse il cellulare dalla borsa. Dance, solo sull'autopattuglia, stava andando verso il commissariato. «La stampa è già al corrente?» gli chiese Stella.
«No», rispose. E poi aggiunse: «L'ho appena detto a Nolan». Era un modo per farle capire che il comandante l'aveva saputo da poco, che lui aveva aspettato il più possibile prima d'informarlo e che a Bright restava il tempo che Nolan avrebbe impiegato per decidere se avvertire prima Krajek o la stampa. «Speriamo che Nolan riferisca ai giornalisti il meno possibile», mormorò Stella. «Più ci sbottoniamo, più informazioni diamo agli assassini di Novak, quali che siano.» «Lo so. Ma non credo che andrà così. Secondo me ti resta al massimo un'ora.» Stella lo ringraziò e tornò nella sala. «Dobbiamo ringraziare Peter Hall», stava dicendo Krajek. «Ma non fraintendetemi. Ho condotto io la trattativa e me ne assumo io la responsabilità, nel bene e nel male. «Sono responsabile io del fatto che un eventuale sforamento del budget sarà interamente coperto dalla Hall Development. Sono responsabile io del fatto che la Hall Development Company guadagnerà se la città risparmierà. Sono responsabile io del fatto che, se Peter Hall darà ai Blues uno stadio per meno di 275 milioni di dollari, la città avrà indietro i suoi soldi.» Il tono era vittimista: che Stella ricordasse, Tom Krajek non aveva mai avuto il senso dell'umorismo, né un atteggiamento obiettivo su se stesso e, secondo lei, in un politico, quello era un difetto ben più grave dell'assenza di fascino, in quanto lasciava intuire un'ambizione sconfinata e un'incapacità di distinguere tra interessi pubblici e privati. Scrutò il gruppo dei giornalisti per controllare se qualcuno tirava fuori il cellulare o il cercapersone: avrebbe significato che la notizia della morte di Novak era ormai di dominio pubblico. «Questi 275 milioni di dollari», continuò Krajek, «sono interamente recuperabili sotto forma di gettito fiscale generato dalla creazione di nuovi posti di lavoro, dalla vendita di biglietti per le partite di baseball, dall'organizzazione di concerti rock, manifestazioni sportive e forse, chissà, un giorno anche una messa del papa...» Che avessero scritturato il pontefice per il lancio della prima palla? si chiese Stella. Che il papa fosse seduto, in incognito, vicino a Larry Rockwell? Ma Krajek stava toccando corde che facevano parte anche del suo retroterra: Stella ricordava benissimo il momento in cui, a sette anni, aveva assistito alla messa celebrata nella cattedrale di St. Stanislaus da Karol
Wojtyla, allora cardinale e futuro papa Giovanni Paolo II, il quale le aveva sfiorato la mano. Da allora, Steelton non aveva più avuto l'onore di una visita papale. «Siamo stati grandi», concluse Krajek. «E possiamo tornare a esserlo.» Stella sentì squillare il cellulare nella borsa. Lo tirò fuori e sussurrò: «Sì?» «Hai venti minuti», le disse Dance. «Nolan sta per contattare la stampa.» «Interamente recuperabili?» esclamò Bright incredulo. «Grazie a nuovi posti di lavoro nel settore dell'edilizia? No, perché sono solo temporanei. Grazie a soldi che la gente avrebbe speso altrove, per esempio al cinema, al ristorante o nei grandi magazzini, invece che alla partita? Grazie all'affitto dello stadio? Non credo che il signor Hall pagherà grosse cifre. Grazie alla vendita delle tribune riservate e dei biglietti e alle entrate pubblicitarie? Ma se è tutto in mano al signor Hall...» Bright si fermò, si mise una mano sul fianco e, in tono didascalico, spiegò: «Come sapete, il sindaco e Peter Hall hanno ideato il progetto in privato e intendono finanziarlo con buoni del tesoro comunali per 275 milioni di dollari. Aggiungiamo gli interessi e, per rimborsare il prestito, la pubblica amministrazione si troverà ad affrontare una spesa di quasi 450 milioni di dollari. Loro costruiscono e noi paghiamo. Ecco il motivo di tanta segretezza. Ecco perché non c'è stata gara d'appalto. Ecco perché nessuno ci ha parlato dei milioni e milioni che lo stadio verrà a costare in strade di accesso, fognature, servizi, trasporti, servizio d'ordine, manutenzione». Bright sorrise nuovamente. «Hall non dovrà pagare neppure le lampadine. No, loro costruiscono e noi paghiamo. E continueremo a pagare anche a progetto finito, quando i posti di lavoro non ci saranno più.» Bright fece una breve pausa e, quando riprese, fu in tono di grande serietà. «Uno stadio non è un altoforno. La città è sorta grazie alle acciaierie. Ma adesso è la città a costruire lo stadio, noi a pagare le spese e Peter Hall ad arricchirsi.» Bright si mise una mano sul cuore. «Pagherò io, pagherete voi, pagheremo tutti. È questa l'unica cosa che ci unisce in questo progetto.» Fra applausi rispettosi, più forti dei precedenti, Bright si risedette. Stella guardò l'ora per l'ultima volta. Il dibattito era finito. I candidati si strinsero frettolosamente la mano, sorridendo a beneficio
dei fotografi, poi i giornalisti si accalcarono intorno a loro, mentre collaboratori e consulenti cercavano di proteggerli. Facendosi largo tra la folla, Stella rimase colpita dall'apparente fragilità di Bright che, attorniato da una folla ostile, sembrava esile e indifeso. Ma era quello che succedeva in politica e, riflettendo sulla propria missione, per un istante Stella si chiese se davvero voleva buttarsi nella mischia. A pochi metri da Arthur Bright, la moglie Lizanne, con l'aria di un cerbiatto sgomento, si dichiarava fiera del marito e favorevolmente impressionata dall'accoglienza ricevuta a Warszawa. Infine Stella riuscì a raggiungere il proprio capo. «Scusate», disse, interrompendo una giornalista di Channel 3 che gli stava facendo una domanda. Bright le lanciò un'occhiataccia: «Ma che cosa...» Stella fece finta di non capire e lo portò in disparte, tirandolo per una manica, poi gli sussurrò: «Devi venire via subito. Hanno ucciso Jack Novak». Bright istintivamente si guardò alle spalle, mentre in faccia gli si leggeva una serie di emozioni contrastanti: paura, sorpresa, calcolo. Tutto tranne che dolore, notò Stella. Poi si calmò e borbottò: «Cazzo...» A Stella parve quasi una preghiera. «È molto, molto peggio di quanto tu pensi», gli disse. 7 Bright parlò brevemente con Lizanne e quindi uscì con Stella. Andarono verso la macchina in silenzio. Quando fu seduto nell'ombra, protetto dalla gente che usciva dal salone parrocchiale disperdendosi per le strade di Warszawa, le chiese: «Com'è successo?» «Malamente», rispose Stella in tono piatto. «L'hanno trovato impiccato all'anta dell'armadio della sua camera da letto, con un paio di calze da donna e le scarpe col tacco.» Bright la fissò, sbalordito, incapace di proferire parola, poi si voltò dall'altra parte e guardò fuori del finestrino, nell'oscurità. Sembrava facesse fatica a respirare. Stella gli disse con dolcezza: «Non sappiamo chi è stato. Né perché». Per qualche istante Bright non parlò. «Allora come fate a sapere che si tratta di un omicidio?» chiese quindi, lentamente. Stella si stupì: qualunque fosse stato il corso dei suoi pensieri, evidente-
mente Bright aveva pensato che il suo amico fosse morto accidentalmente, vittima delle sue pulsioni nascoste. Con altrettanta pacatezza, rispose: «Lo hanno castrato, Arthur». Bright rimase di sasso, poi chinò la testa e si coprì il volto con le mani. Stella sentì alcuni passi sul marciapiede, qualche voce. Fino a quel momento era riuscita a reprimere le proprie emozioni ma, vedendo Bright in quello stato, fu colta nuovamente dall'angoscia. Gli mise una mano sulla spalla, cercando e nel contempo offrendo conforto. Dopo un po', Bright rialzò la testa. «Cos'altro devi dirmi?» «La polizia è stata avvertita con una telefonata anonima in cui una voce camuffata diceva semplicemente che Jack era morto. Non sanno se la voce appartenga a un uomo o a una donna. Gli agenti hanno trovato la porta aperta, senza segni di effrazione. C'erano due bicchieri e una pista di coca sul tavolino del salotto. Jack era in camera da letto. Hanno trovato anche del nitrito di amile e un paio di manette.» Stella si accorse che, stranamente, riepilogare i fatti la aiutava e che riusciva a parlare con voce secca e impassibile. «O si è trattato di un rapporto morboso in cui a un certo punto è scattata la molla della violenza, oppure è stata un'esecuzione mascherata da delitto a sfondo sessuale.» Bright si fregò gli occhi. «Sì, ma perché inscenare una cosa del genere?» chiese a voce bassa. «Non lo so, Arthur. Lo guardavo e mi domandavo: 'Come hai potuto?'» Qualcosa nel suo viso cambiò e, per la prima volta, Bright parve accorgersi veramente di Stella. «Tu l'hai visto? Ci sei andata?» «Sì.» «Oh, Signore!» Le accarezzò la mano. «Non avresti dovuto.» Lei lo scrutò, cercando di capire. Avevano parlato soltanto una volta del fatto che Jack e lei avevano avuto una relazione, e soltanto molto tempo prima, ma in quel momento Stella si chiese che cosa sapesse esattamente. Quasi se ne fosse accorto, Bright le disse: «Preferisci che affidi il caso a qualcun altro?» Stella scosse la testa. «Ormai l'ho visto», rispose. Dopo una vaga esitazione, aggiunse con veemenza: «C'è qualcosa che non mi quadra. Jack non...» Non finì la frase. Stava cercando di preservare intatto un angolo di ricordi o voleva far capire a Bright che, con lei, Jack non aveva mai fatto niente di simile? Fin dove si era spinto Jack in quei quindici anni? Bright si voltò di nuovo dall'altra parte. «Non si può mai dire di cono-
scere sino in fondo una persona», disse, sfiduciato. Stella non replicò. «Portami in ufficio», le ordinò lui. «Devo chiamare Sloan.» Stella gli porse il cellulare, Bright parlò col procuratore aggiunto e poi rimase zitto per il resto del viaggio. Stella aveva l'impressione che entrambi stessero seguendo il corso dei propri pensieri nel tentativo di riprendersi dallo shock. Il procuratore aggiunto Charles Sloan era già nell'ufficio di Bright e stava parlando al telefono con uno dei consulenti elettorali di Bright. «Dite che abbiamo piena fiducia nelle forze dell'ordine», ordinò. «In realtà quella testa di cazzo del comandante della polizia non se lo meriterebbe, dopo quello che ha fatto. Comunque, mandatemi un fax, non appena è pronto il comunicato.» Bruscamente posò la cornetta e disse a Bright: «Quel coglione di Nolan ha raccontato tutto, persino del reggicalze. Quando sono arrivato c'era già un messaggio di Leary dello Steelton Press che chiedeva a quanto ammontavano i contributi di Novak alla tua campagna elettorale». Sloan scosse la testa e aggiunse con malcelato disgusto: «Calze nere... Ci sguazzeranno». A Stella parve sintomatico del carattere del suo rivale. Sloan era un uomo astuto, propositivo, freddo e diffidente nei confronti di tutti coloro che, come Novak o come lei stessa, potevano interferire nel suo rapporto con Bright. L'antagonismo tra loro, al di là del problema della successione alla carica di procuratore della contea, nasceva da un conflitto di fondo: lui era un funzionario con ambizioni politiche e lei una professionista decisa a dare il meglio di sé. Stella riteneva che Sloan usasse male il suo intuito e che il suo desiderio di controllare le informazioni destinate al procuratore avesse effetti controproducenti. Per Sloan, invece, l'intesa tra Bright e Stella metteva a repentaglio il suo potere. A prima vista, i due uomini erano diversissimi. Sloan era basso di statura, aveva la faccia rotonda, il naso camuso, i baffi e la pancetta. Un po' sciatto, consumava quantità abnormi di fast-food e beveva anche più di dieci lattine di Pepsi al giorno, o almeno così diceva chi gli stava accanto. Bright, al confronto, sembrava un fuscello. Sedendosi di fronte alla scrivania e guardandoli, Stella si sentì tre volte emarginata: perché era donna, perché era bianca e perché aveva un background totalmente diverso dal loro. «Stanno preparando un comunicato su Novak», annunciò Sloan a Bright.
«Vogliono che tu tenga una conferenza stampa domani per spiegare agli elettori che non c'entri e che la procura accerterà la verità. Come sempre.» Bright aveva un'espressione stranamente distante e solo dalla domanda che fece dopo un momento, a bassissima voce, si capì che lo era stato a sentire. «È davvero questo che vogliamo?» «Sì, ma non solo. Non vogliamo che la faccenda diventi ancora più torbida e scandalosa di quanto non sia già, per esempio.» Di colpo si voltò verso Stella. «Tu come pensi di muoverti?» Stella cercò di fare mente locale. «Seguirò Dance; per fortuna sta gestendo personalmente il caso. Presenzierò agli interrogatori più importanti e gli darò una mano nelle scelte strategiche. Non che ne abbia molto bisogno.» Guardò Bright. «Quanta visibilità vuoi dare alla procura?» Bright aggrottò la fronte, pensoso. Intervenne Sloan: «Dipende da come si muove Nat. E da quello che scopre». Stella alzò le spalle. «A me ha detto che non lascerà nulla d'intentato: intervisterà i vicini, gli amici, le amiche, il postino, quello che gli portava il giornale, i colleghi e i dipendenti. Date le circostanze, farà una puntatina nei sex-shop e negli ambienti sadomaso. E controllerà le cause di cui Jack si occupava per capire se aveva problemi con qualche cliente.» Si rivolse di nuovo a Bright e abbassò lievemente il tono. «Forse non tutti sanno che il suo principale cliente era Vincent Moro, ma Dance sì.» L'atmosfera nella stanza cambiò nettamente. Bright guardò la scrivania, Sloan scrutò Stella. Nel silenzio generale, Stella notò che la lampadina nella plafoniera sul soffitto lampeggiava, che sulla scrivania Arthur aveva una foto di Lizanne e dei figli nonché alcuni grafici che le parvero i risultati elettorali, distretto per distretto, delle ultime comunali tra Krajek e George Walker, che dalla finestra Steelton sembrava un videogame in cui erano già state spente molte luci. Bright disse, cupo: «Non lo sa nessuno, Stella. Jack non ha mai difeso Moro in tribunale». «Ma Moro controlla il traffico di stupefacenti e Jack ha sempre difeso grossi spacciatori. Credi che l'avrebbe potuto fare senza l'approvazione del boss?» «Novak era un ottimo avvocato», intervenne Sloan. «È ovvio che, se potevano permetterselo, se ne sceglievano uno bravo.» Aveva l'aria irritata. Senza batter ciglio, Stella rispose: «Io lo so per certo, comunque. Quattordici anni fa ho visto coi miei occhi Moro nell'ufficio di Jack. Di sera, fuori dell'orario di lavoro». Sloan si protese in avanti. «Vincent Moro controlla la malavita organiz-
zata di Steelton: droga, gioco d'azzardo, prostituzione e chi più ne ha più ne metta. E lo fa da vent'anni. Se Arthur avesse saputo che Jack lavorava per Moro, non avremmo mai accettato i suoi soldi. Punto e basta.» Stella capi il messaggio sottinteso in quelle parole: Su questo non si discute, perciò lascia stare Moro. «Il traffico di droga è un brutto giro, in cui circolano un sacco di quattrini», replicò, «e i federali fanno enormi pressioni sugli spacciatori perché collaborino con la giustizia. Mettiamo che Jack avesse pestato i piedi a qualcuno...» «A Vincent Moro?» Sloan sgranò gli occhi, fingendosi esageratamente infastidito e incredulo. «Moro è un imprenditore: lui non massacra la gente, la fa sparire e basta. E se Jack lavorava per lui, perché avrebbe dovuto farlo fuori? E come lo dimostri, in ogni caso? È impossibile.» Assunse un tono gelido. «Però, se sollevi la questione, susciterai un vespaio. Ti ricordo che siamo in piena campagna elettorale. Alle ultime elezioni è stata un'accusa infondata a rovinare George Walker.» Sloan stava parlando a esclusivo beneficio di Stella, la quale se ne rendeva perfettamente conto. Bright le rivolse un'occhiata. «Se Jack aveva problemi coi suoi clienti, non sarà certamente Moro a venirtelo a dire», dichiarò. «E nessuno spacciatore sarebbe così stupido da fare anche il suo nome. Puoi indagare sui clienti di Jack senza tirare in ballo Moro.» Stella annuì. «Prima d'indagare», le disse Sloan, «chiediti se è giusto che sia tu a occuparti di questo caso.» A Stella venne il dubbio che fosse al corrente dei suoi trascorsi con Jack e arrossì. «Dirigo la sezione Omicidi», replicò. «E questo è un omicidio importante.» «Hai lavorato per lui», insistette il procuratore aggiunto, impassibile. «Fu Novak ad aiutarti a entrare in procura. E adesso tiri in ballo Vincent Moro nonostante sia un'assurdità. Perciò mi sento in dovere di chiederti se ritieni di poter mantenere un atteggiamento abbastanza obiettivo.» Le stava ponendo delle condizioni? Stava forse dicendo che, se voleva occuparsi del caso, doveva lasciar perdere Moro? O stava solo mettendo le mani avanti in modo che, se l'inchiesta non avesse portato a nulla, la colpa ricadesse tutta su di lei? «Sono perfettamente in grado di occuparmene», rispose fredda. Con aria scettica, Sloan si rivolse a Bright. Il procuratore era imperscrutabile. Rifiutava di ammettere la rivalità tra i due e nel contempo ne approfittava. «Tieni aggiornato Charles», le raccomandò semplicemente. «Biso-
gna che lui sia sempre informato di tutto.» Era tipico di Bright cercare di mettere tutti d'accordo, pensò Stella: in questo modo le aveva dato ragione senza mettere in discussione la superiorità gerarchica di Sloan. «Se è questo che hai deciso», disse Sloan a Bright, «allora Stella dovrà venire con te alla conferenza stampa di domani.» Stella rimase sorpresa: di solito Sloan faceva di tutto per tenerla nell'ombra ed evitare che comparisse in TV. Evidentemente quella volta voleva che, se il caso Novak fosse rimasto irrisolto, la pubblicità negativa ricadesse su di lei. A parte il fatto che la presenza di una donna bianca al fianco di Bright poteva essere una mossa politicamente oculata. Il procuratore si slacciò stancamente la cravatta. Stella si aspettava un momento di apertura, magari una riflessione più personale a proposito dell'omicidio di Jack. Invece Bright la sorprese chiedendole: «A che punto siamo con la storia di Tommy Fielding?» Sebbene avesse studiato le foto dei due cadaveri non più di sei ore prima, a Stella pareva che tutto fosse successo in un'altra vita, dove le cose avevano ancora un senso. Bright invece stava pensando al futuro. «Domani c'è l'autopsia», replicò. «Andrò ad assistere. Speriamo che ci dica qualcosa. I genitori di Fielding non riescono a farsene una ragione: continuano a ripetere che secondo loro è stato ucciso.» Bright unì la punta delle dita. «Vacci piano, con Peter Hall», le raccomandò. «Soprattutto dopo stasera.» Con la coda dell'occhio, Stella vide che Charles Sloan, concentratissimo, si massaggiava la pancetta. Probabilmente rifletteva sulle possibili ripercussioni della morte del braccio destro di Hall nonché di una prostituta tossicomane di colore sulla carriera di Arthur Bright e, di conseguenza, sulla propria. «C'è altro?» chiese Stella. Silenzio. «A ciascun giorno basta la sua pena», sentenziò Bright dopo un po'. Stella capì che la stava congedando. Quando si alzò, Bright sembrò non farci neppure caso. 8 Era quasi mezzanotte quando Stella arrivò a casa. Abitava alla periferia occidentale di Steelton, in una villetta a due piani di pietra e legno scuro, con veranda e vista sulla città. L'aveva scelta per-
ché era ampia e luminosa, ben diversa dalla casa angusta e buia in cui aveva vissuto da piccola. La sua solidità e i colori vivaci dell'arredamento l'aiutavano a dimenticare le atrocità che vedeva sul lavoro. E poi era casa sua e lei era fiera di averla acquistata coi suoi soldi. Peraltro la fatica che ciò aveva comportato le faceva pensare che, nella vita, avrebbe dovuto conquistare tutto a caro prezzo. La divideva con una gatta nera, Star, una micetta indipendente, che amava stare da sola, ma che le trotterellava incontro non appena tornava a casa per andare a strusciarsi contro le sue gambe. Stella non sapeva come facessero gli animali a capire certe cose, ma era sicura che Star sapesse che lei le aveva salvato la vita. Il figlio di una sua vicina di casa l'aveva trovata in cantina appena nata, magra, smunta e puzzolente, con l'aria inselvatichita. Alla donna non era piaciuta e, siccome le faceva anche un po' paura, se n'era sbarazzata più in fretta che aveva potuto, lasciandola in un ricovero per animali randagi dove sarebbe certamente morta nel giro di poco tempo. Saputolo, Stella vi si era fatta accompagnare dal ragazzino, decisa a ritrovarla a ogni costo, perché quella storia l'aveva commossa profondamente. L'aveva portata dal veterinario e si era messa d'impegno per farla sentire amata e protetta. Chiudendo la porta dietro di sé, sentì il pelo morbido di Star contro la gamba. Tastoni, cercò l'interruttore e accese le luci del salotto. Prese in braccio la gatta e rimase in piedi, stanca, a farsi annusare il mento. Sul tavolo di noce lì accanto c'era una statuetta di porcellana del Bambino di Praga, con una grande corona in testa e una ricca veste dorata. Quand'era piccola, quasi tutti a Warszawa ne avevano una. Katie e lei l'avevano regalata alla madre e, a Natale e a Pasqua, Helen Marz si faceva dare i soldi dal marito per comprarle un abito nuovo. La veste che indossava in quel momento doveva avere una trentina di anni ed era la preferita della madre che, prima di morire di cancro, gliel'aveva lasciata. Stella andava a trovarla in ospedale tutti i giorni e talvolta si fermava a tenerle la mano per ore, ma non avevano molto da dirsi. Aveva la sensazione che, lasciandole quella statuetta, la madre avesse voluto ricordare un tempo di certezza e serenità, prima che le cose si guastassero, ed esprimere la speranza che la figlia serbasse un buon ricordo di lei. Katie si era risentita quando Stella, con un misto di nostalgia, rispetto e ironia, si era presa la statuetta, meravigliandosi lei stessa di quanto poco avevano in comune la madre e lei. Una volta, molto tempo prima che Helen Marz morisse, Stella ne aveva
parlato con Jack. Erano a letto e lui, con la sua solita freddezza, le aveva fatto notare: «Ormai sei più evoluta di tua madre, Stella. Hai visto la vita che fanno lei e le suore della scuola e ti sei resa conto che per certe donne le pari opportunità non esistono neanche sulla carta». Aveva sorriso. «Tu non vuoi diventare né come tua madre, né come madre Teresa. Semmai cardinale o papa.» Così, forse volutamente, Jack aveva risvegliato in Stella la paura nascosta che, dietro l'impegno di una vita, ci fosse una profonda ambivalenza nella propria femminilità. E quella sera, come tante altre, aveva cercato di dimostrargli che era una vera donna. Tenendo Star in braccio, salì in camera sua. Sul comò aveva una serie di fotografie dei genitori e della sorella. La guardavano dal passato, ignari di tutto. Ormai la madre era morta, il padre era come se lo fosse e Katie era un'estranea, da quando Stella se n'era andata di casa per amore di Jack Novak. Ma la sera in cui Stella aveva preso la porta per non tornare mai più, non avrebbe potuto prevederlo. Tutto era cominciato con una cena in un locale elegante del centro, dove Jack l'aveva portata per festeggiare una causa appena vinta. Aveva ordinato una bottiglia di Roederer Cristal con la stessa disinvoltura con cui la portava all'opera e a teatro, alle prime delle compagnie newyorkesi o a fare una gita sulla barca a vela che si era comprato per puro e semplice capriccio. Jack amava la bella vita e, quella sera, la vita gli sorrideva: con grande disappunto di Arthur Bright, il processo contro George Flood, un grosso trafficante dell'East Side accusato di detenzione di cinque chili di cocaina, era stato invalidato per vizio di forma. La cocaina infatti era andata distrutta in quello che la polizia aveva definito un «errore amministrativo». Con la testa che le girava un po', Stella aveva dichiarato: «Non capisco come facciate a essere amici, tu e Bright. A me lui sembra un idealista». «E io un grandissimo cinico?» aveva replicato Jack con un sorriso. «Arthur e io siamo amici, ma siamo anche professionisti. E anch'io sono un idealista, Stella: se fossi il padreterno, liberalizzerei la droga. Pensaci. Avremmo persone che ne fanno uso terapeutico e non tossici. È per via di quelli che la pensano come Arthur che esiste il traffico illegale degli stupefacenti e che il mio lavoro è indispensabile. Io abolirei la mia categoria, se solo Arthur me lo permettesse.» Aveva smesso di sorridere. «Da come stanno le cose, tuttavia, non mi resta che affrontarlo in tribunale e batterlo. Non posso fare più di così. A parte dissuadere i miei clienti dal collaborare
con la giustizia per avere uno sconto di pena.» Stella aveva bevuto un altro sorso di champagne. «E perché no, se gli conviene?» Jack si era stretto nelle spalle. «Ti sbagli, Stella: non conviene a nessuno. La gente racconta un sacco di bugie e spesso e volentieri ci scappa il morto.» Stella era rimasta in silenzio. Già allora le era chiaro che chi guadagnava maggiormente dalla politica di Jack era l'uomo che controllava il traffico. I clienti di Jack erano molto vari: bianchi, neri, asiatici, haitiani, latinoamericani. Lo chiamavano dal carcere, poi una moglie o un fratello si presentava in studio con una busta piena di contanti. Stella faceva il suo lavoro, preparava gli esami e teneva la bocca chiusa. Come i clienti di Jack tenevano la bocca chiusa con Arthur Bright. Ma da dove venivano quei soldi? Stella se lo era chiesto più di una volta. E perché Novak si faceva pagare in contanti, visto che non faceva nulla per nascondere la propria ricchezza o per evadere il fisco? Evidentemente doveva essere al centro di un gioco molto articolato di cui lei non conosceva le regole. Ma l'esistenza delle regole che insegnavano all'università - che ogni imputato è innocente fino a prova contraria, che anche chi non se la può permettere ha diritto a una difesa competente - aveva temporaneamente messo a tacere i suoi dubbi, per quanto lei rimanesse convinta che bisognava rispettare la legge, mantenere l'ordine e incoraggiare la giustizia. «Ma come hanno fatto a distruggere le prove?» aveva chiesto a Jack al momento del dessert. Lui aveva sorriso. «Burocrazia. Grazie a gente come Arthur, i processi per possesso e spaccio di sostanze stupefacenti sono così tanti che i magazzini straripano di droga. Questo vuol dire che, non appena chiuso un caso, si distruggono le prove, altrimenti si annegherebbe nella polvere bianca. Si riempiono un paio di moduli e si brucia tutto.» Aveva ridacchiato. «Pare che stavolta qualcuno abbia letto male. Del resto si sa che i poliziotti non fanno le scuole alte.» «Sei stato fortunato.» Jack aveva bevuto un sorso di brandy. «La fortuna aiuta gli audaci», aveva risposto allegramente. Poi aveva posato il bicchiere, l'aveva guardata negli occhi ed era tornato serissimo. «Ma la mia fortuna più grande è essere qui con te, Stella, sapere che lo sarò ancora per diverse ore.» L'aveva dato per scontato, e non a torto. Quella sera, avvicinandosi a lui nel riflesso degli specchi senza sapere che nel giro di due ore avrebbe rotto
i ponti con la sua famiglia, era stata colta dal dubbio che, sia nel lavoro sia con le donne, la fortuna di Jack fosse il frutto di un'audacia un po' eccessiva. A quindici anni di distanza, ripensò a quanto si era sentita confusa, nuda davanti a lui, e a come l'aveva visto poche ore prima, alla raccapricciante fine della sua fortuna riflessa in quegli stessi specchi. Stella posò Star sul cuscino accanto al suo, si spogliò e spense la luce. La gatta le avvicinò il muso ai capelli e cominciò a fare le fusa, vibrando di soddisfazione in tutto il corpo. Quando smise, fu perché si era addormentata. E allora, nel silenzio della propria stanza, Stella scoppiò in lacrime, senza sapere bene per chi. PARTE SECONDA JACK NOVAK 1 L'indomani mattina, esausta dopo una notte insonne, Stella presenziò all'autopsia di Tommy Fielding. Ricordava ancora la prima autopsia alla quale aveva assistito: non appena Kate Micelli aveva finito di esporre con rapidi colpi di bisturi gli organi della vittima, un tecnico di laboratorio, sorridendo, aveva esclamato: «Un altro momento Kodak!» cominciando poi a scattare foto. Della sala autopsie ricordava il metallo: il bisturi e gli strumenti, il lavello e gli armadietti grigi, la bilancia su cui venivano pesati gli organi, i tavoli di acciaio su cui venivano stesi i corpi. Su uno di essi c'era Tommy Fielding; sull'altro, con lo sguardo vuoto fisso sul soffitto, Jack Novak. Stella si allontanò dal coroner e andò verso di lui. Un'autopsia era un brutto spettacolo anche nella migliore delle ipotesi, ma quella era davvero terribile. Stella allungò le dita protette dai guanti di gomma e delicatamente chiuse gli occhi iniettati di sangue di Jack per rendere un po' meno insopportabile l'addio, l'ultima volta che lo guardava in faccia. Poi ne coprì il corpo nudo con un lenzuolo, consegnandolo per sempre al mondo dei ricordi. Non diede spiegazioni, né gliene chiese la Micelli, china sul cadavere di Fielding insieme col suo assistente, col quale di tanto in tanto scambiava qualche laconica osservazióne. Nella stanza c'era silenzio, a parte le voci
dei due, che si muovevano con la misurata efficienza di due chirurghi in sala operatoria. Tornando accanto al coroner, Stella si fece forza e osservò per l'ultima volta Tommy Fielding prima che perdesse definitivamente ogni somiglianza con la persona che era stato in vita. Provò un moto di compassione per i genitori di Fielding e una sorta di timore reverenziale per il modo in cui si riduceva la carne in assenza dello spirito che la animava. L'uomo che aveva davanti agli occhi era già molto diverso da quello che i suoi avevano conosciuto o creduto di conoscere: era bianco e rigido, pallidissimo, e non era facile immaginarlo da vivo, preoccupato per lo stadio che si ergeva sotto la finestra dell'ufficio di Stella. Eppure era stato un bell'uomo, come testimoniavano le foto scattate sulla scena del delitto, con grandi occhi marroni, lineamenti degni di un eroe greco e un fisico statuario, muscoloso e ben definito, che faceva intuire un passato fatto di rigoroso rispetto di norme dietetiche e di vita sana. Anche in quelle condizioni aveva un'aria di estrema pulizia, un che di pignolo: osservandolo, Stella capì lo shock e l'incredulità della madre, Marsha. «Considerati fortunata», le disse Kate Micelli. «Quello di venerdì scorso era morto da tre settimane.» Stella continuò a guardare fisso Fielding. «Cosa mi dici di Tina Welch?» chiese. «Il referto è sulla mia scrivania. Ma posso riferirti il succo: era una tossicomane, un caso da manuale. Cicatrici sulle braccia e sotto le unghie, emorragie sottocutanee dovute ai troppi buchi, sangue secco intorno all'ultimo.» S'interruppe, esaminò attentamente il torace di Fielding, poi le braccia, rigide e dure. «Invece qui non c'è niente, a parte un unico buco.» Dettò alcune osservazioni cliniche in un registratore, poi riprese il discorso. «Tina Welch aveva le vene ispessite e sclerotizzate tipiche del consumatore abituale. Non credo che qui le troveremo.» Infilò un dito tra le labbra di Fielding e gli piegò la testa all'indietro. «Quello che si nota, in entrambi i cadaveri, è una leggera schiuma bianca. Segno di overdose... Ma le differenze sono evidenti: Tina, a soli ventitré anni, era sfatta e molto malandata. Se il corpo è lo specchio dell'anima, Fielding e lei non erano certo della stessa pasta.» Dettò ancora qualche frase concisa, poi aggiunse: «Ah, sì: Tina era sieropositiva. E aveva i primi segni di lesioni nella materia bianca cerebrale tipiche dell'AIDS». «Insomma: una tragedia», concluse Stella. Kate Micelli annuì. «Era destinata a una brutta morte. Tutto sommato le è andata bene: una crisi respiratoria acuta, probabilmente dovuta a un'o-
verdose di eroina, come inducono a pensare anche tutte le altre circostanze.» «Vorrei sapere che cosa ci faceva Fielding con una così», si chiese Stella, riflettendo ad alta voce. «Mah! 'Al cuor non si comanda'? O stai pensando al fatto che sua madre è convinta che lo abbiano ammazzato?» «Sì, sto pensando a questo.» Con un cenno del capo Kate Micelli indicò Novak. «Da quel punto di vista, è come il tuo amico laggiù: non ha lividi, né graffi, né segni di violenza sul corpo o sulla testa. Non c'è niente che suggerisca che non abbia collaborato con Tina Welch come, a prima vista, l'avvocato Novak col suo amico sconosciuto. E nemmeno il corpo della Welch presenta segni di maltrattamenti, a parte quelli che si autoinfliggeva da armi.» «Fielding ha avuto rapporti sessuali con lei?» La Micelli scosse la testa. «Non ci sono residui di sperma sul pene e la Welch aveva ancora tutti i suoi preservativi nella borsetta. Forse avevano deciso di bucarsi prima. Una dose fatale di coitus interruptus.» Disse ancora qualcosa al registratore, poi si rivolse a Stella: «Abbiamo mandato tutto alla Scientifica, naturalmente, per le analisi e la rilevazione delle impronte digitali. Forse così scopriremo qualcosa di più. Ma ricordati che uccidere una persona con un'overdose di eroina è un'impresa che richiede una certa competenza. E chiunque s'intende di droga sa che l'overdose è imprevedibile». «Perché?» «Perché nell'organismo l'eroina si trasforma in morfina e provoca una depressione respiratoria ma, anche in dosi elevate, non porta necessariamente alla morte, soprattutto in un soggetto assuefatto, come Tina Welch. L'assassino sarebbe dovuto rimanere lì a controllare e magari sederglisi sul petto per essere sicuro che morissero veramente.» Kate Micelli prese un bisturi. «E gli omicidi sarebbero due. Quanti killer e quanta presenza di spirito ci sarebbero voluti?» «È quello che mi stavo chiedendo.» Stella seguì la mano del coroner che, con gli occhi socchiusi, stava praticando un'incisione a Y sul petto e sull'addome di Fielding. «Io posso solo darti i dati scientifici, Stella. Ma sappiamo tutt'e due che, mentre un omicidio di solito è un macello, in questo caso la camera da letto di Fielding era ordinatissima. Se li hanno ammazzati, hanno fatto davvero un lavoro di fino. Che suppongo richiedesse più di un killer.»
Kate Micelli impugnò un seghetto e, con un certo sforzo, sezionò le costole per esporre gli organi interni. Stella rabbrividì al rumore. «È possibile stabilire l'ora della morte?» chiese. «Anche approssimativamente?» «Dal corpo, no. Erano tutti e due già freddi.» Con gran cura, prelevò il cuore e i polmoni. L'assistente, un giovane cinese con gli occhiali, li prese per andare a pesarli. Stella si sforzò di concentrarsi sul volto di Fielding. Come hai potuto? gli chiese in cuor suo, come aveva fatto con Novak. Come hai potuto ridurti così? Si rese conto che era quello, in un'autopsia, a lasciarla tanto frustrata: la Micelli poteva estrarre il cuore di Tommy Fielding, ma non poteva scoprire niente sulla sua anima, né su come la sua vita si era incrociata con quella di Tina Welch. Mentre la dottoressa Micelli sezionava cuore e polmoni, Stella pensò alla madre di Fielding: le aveva detto che Tommy aveva paura degli aghi... Kate Micelli sistemò con cura una fettina rosa di polmone su un vetrino. «Che cosa stai cercando?» le domandò Stella. Il coroner si chinò sul microscopio. «Nei polmoni dei consumatori abituali di eroina spesso si trovano fibre lunghe e sottili, che, a forte ingrandimento, luccicano. Quelle di Tina Welch erano bellissime. Invece i polmoni di Fielding sono normali.» «Quindi non c'è nulla che dimostri che aveva fatto uso di eroina in precedenza», commentò Stella «Per il momento, no.» Si rivolse all'assistente e gli ordinò: «Prelevi un campione di capelli». Stella guardò Fielding negli occhi, freddi come il marmo. «Continuo a chiedermi perché Tina Welch sia andata a casa di uno sconosciuto. Le prostitute che battono il marciapiede di solito lavorano in una stanza d'albergo, in una macchina, in un vicolo, in un posto dove riescono a mantenere un certo controllo sulla situazione e non rischiano di essere fatte a pezzi da un maniaco.» «Già», rispose ironica la Micelli. «Io, se non altro, aspetto che siano morte prima di farle a pezzi.» Con un'alzata di spalle aggiunse: «Magari non era un cliente nuovo. Bisognerà che Nathaniel Dance e la Buoncostume indaghino tra le sue colleghe. Io posso dirti solo quello che, da cadaveri, hanno in comune la Welch e Fielding: la causa di morte». Il coroner osservò con aria solenne gli organi interni. «Quello che abbiamo qui è perfettamente compatibile con la classica overdose. I polmoni sono pieni
di sangue, il cuore ha smesso di pompare e l'apparato respiratorio è collassato: Fielding è letteralmente annegato nel suo stesso sangue.» Gli odori che si alzavano dal cadavere stavano cominciando a disturbare Stella, che arretrò di un passo; senza dare segno di averlo notato, la Micelli concluse: «Analizzeremo il sangue, naturalmente, e troveremo abbondanti residui di eroina, magari tagliata male». Stella rifletté. «La Welch deve aver iniettato la droga a lui prima di farsi, giusto? E così è rimasta con la siringa nel braccio.» «Sembrerebbe.» «E lui non era un consumatore abituale, secondo te. Quindi dovrebbe essere morto subito, giusto? Se la dose era tale da uccidere lei, che non era al primo buco...» Kate Micelli le rivolse un'occhiata interrogativa. «In altre parole, ti stai chiedendo se veder morire Fielding non avrebbe scoraggiato anche il tossico più accanito? Direi di sì. Solo che non ho modo di sapere quanto ci ha messo lui a morire e quanto ha aspettato lei a farsi.» «Ma lei è morta così in fretta che non si è nemmeno tolta la siringa dal braccio», ribatté Stella. La Micelli aggrottò la fronte. «Chi li ha tenuti?» domandò. «Quanti erano? Perché non ci sono segni di colluttazione nella camera da letto o sul corpo di Tommy Fielding? In fondo era uno sportivo.» «Già.» Il coroner le rivolse un sorriso a labbra strette. «E tu continui a pensare che il mio sia un lavoro difficile.» «A me lo sembra.» Il sorriso della Micelli si spense. Lanciò un'occhiata a Novak, poi si rivolse di nuovo a Stella. «Hai molto da fare», le disse sottovoce. «Hai fatto il tuo dovere. Se trovo qualcos'altro d'interessante, ti chiamo.» Stella se ne andò, piena di gratitudine: non aveva bisogno di fare la dura con Kate Micelli. Le porte di metallo si chiusero alle sue spalle, soffocando il rumore raccapricciante della sega che sezionava il cranio di Tommy Fielding. 2 Nella sala stampa dell'ufficio del procuratore della contea - pavimento piastrellato, pareti spoglie, sedie di metallo - c'era tanta gente che non si respirava. Arthur Bright e Stella Marz erano seduti a un tavolo pieghevole
davanti a telecamere, fotografi, tecnici del suono, cronisti e personaggi cui Stella era meno abituata, i giornalisti politici. I finanziamenti di Jack Novak a Bright, sommati alla notizia della sua morte, avevano creato un'atmosfera di grande aspettativa scandalistica e, non appena Bright ebbe concluso la sua dichiarazione, Dan Leary dello Steelton Press si alzò e chiese: «Quanti soldi le ha dato Jack Novak per finanziare la sua campagna elettorale?» Poi, aggressivo ed energico, si protese in avanti, aspettando una risposta. Bright si diede un contegno. «Mille dollari, che è il limite previsto per le donazioni individuali. Ha anche contribuito a organizzare una cena durante la quale sono stati raccolti altri quarantasettemila dollari tra i suoi amici e conoscenti. Che erano anche amici miei perché, come lei sa, godo di un ampio appoggio negli ambienti giudiziari...» «Ma non è stata un'imprudenza accettare soldi da un avvocato che si era arricchito difendendo gli spacciatori?» Stella, sulle spine, ripensò a George Walter e alla preoccupante somiglianza tra quella vicenda e la delicata situazione in cui si trovava Bright. Vide il procuratore aggiunto Charles Sloan che, a braccia conserte, seguiva quello scambio da un angolo della sala. «No», rispose prontamente Bright. «Noi, uomini di legge, crediamo nel diritto a un giusto processo ed è in virtù di questa convinzione da tutti condivisa che alcuni fanno i pubblici ministeri e altri gli avvocati difensori. Il nostro sistema funziona così.» A Stella parve lievemente sulla difensiva. «Sono oltre vent'anni che conduco la mia battaglia personale contro il flagello della droga. Nessuno l'ha mai messo in discussione e l'avvocato Novak lo sapeva benissimo.» «Scusi, procuratore...» Stella si voltò e riconobbe una giornalista alta e bionda di Channel 6, Jan Saunders. «Dietro l'assassinio di Novak sembrano esserci droga, perversioni sessuali e una brutalità estrema. Non la disturba il fatto che un suo amico e sostenitore sia morto in circostanze del genere?» «Dire che mi disturba è poco...» ribatté Bright, guardando i presenti. «Conoscendo Jack Novak, non avrei mai più immaginato che la sua vita dovesse finire così e sono il primo a voler sapere perché è successo tutto ciò.» «Ma un omicidio così insolito non rischia di danneggiarla nella sua corsa alla poltrona di sindaco?» insistette Jan Saunders. Bright la squadrò. «Non vedo perché dovrebbe», ribatté.
Nella sala scese momentaneamente il silenzio, rotto poco dopo da Chet Winfield di Channel 2 che chiese: «Chi ha denunciato l'omicidio di Novak?» Stella prese il microfono. «Non l'abbiamo ancora accertato», rispose. «Ma le indagini della polizia sono in corso da diciotto ore soltanto...» «Quale ruolo ha lei nelle indagini?» Senza volere, Stella lanciò un'occhiata a Charles Sloan: era una domanda spinosa e, comunque lei avesse risposto, lui l'avrebbe criticata. «Sono il capo della sezione Omicidi della procura e pertanto, insieme con la polizia, sono responsabile di...» «Il fatto che il procuratore Bright sia candidato a sindaco la influenzerà nel suo lavoro?» la interruppe Jan Saunders. Stella scosse la testa. «Assolutamente no. Io voglio solo accertare com'è morto Jack Novak.» «Non teme che un eventuale insuccesso del procuratore Bright possa nuocere alla sua carriera politica?» riprese Leary. Stella si rese conto che Dan Leary aveva centrato perfettamente la complessità della sua posizione e della sua rivalità con Sloan, che si sarebbe manifestata con chiarezza se Bright fosse stato eletto. «È stato assassinato un uomo», rispose in tono neutro. «Quello che mi preoccupa è scoprire perché.» Rassegnata a subire un lungo assedio, si accomodò sulla sedia, sapendo che il desiderio di Sloan sarebbe stato esaudito: sarebbe finita in televisione, nel bene e nel male. Due ore più tardi, Stella e Sloan erano seduti nell'ufficio di Bright. Sloan lasciò cadere le braccia lungo i fianchi, rassegnato. «Perché non gli hai detto che questa faccenda è di competenza della polizia e il nostro ruolo consiste nel dare loro gli input che ci chiedono?» le domandò. «In un caso come questo?» ribatté Stella. «Li hai visti, Charles! Anche se ci avessi creduto, con una risposta del genere non me la sarei mai cavata!» Si rivolse a Bright. «Adesso non possiamo non indagare sui clienti di Jack. Che figura ci facciamo, se no?» «E che figura ci facciamo se viene fuori che Jack è stato ammazzato da uno spacciatore?» la rimbeccò Sloan. «Invece che da un suo amico travestito?» sibilò Stella. «Visto che le alternative sono queste, tanto vale optare per la verità.» Sloan inarcò le sopracciglia. «La conferenza stampa l'hai fatta», disse a Bright. «Adesso pensa ad affrontare Krajek sul programma politico e la-
scia che di Jack Novak si occupi Nathaniel Dance. Almeno finché non capiamo come si evolve la situazione.» Bussarono alla porta. La segretaria di Stella, una donna di mezz'età, molto efficiente, si affacciò esitante sulla soglia dell'ufficio di Bright. «Ci sono due messaggi per lei», disse a Stella. «Uno del capitano Dance e uno della dottoressa Micelli. Ho pensato che preferisse saperlo subito.» Stella aveva appena finito di parlare con Kate Micelli e stava cercando di riordinare idee ed emozioni quando nel suo ufficio entrò Arthur Bright. «Jack è morto col naso pieno di cocaina», lo informò. «Sulle manette che abbiamo trovato nel cassetto c'erano le sue impronte e la cameriera ricorda di aver visto calze e reggicalze neri nel comodino. Ma le scarpe coi tacchi non le rammenta. Il che mi pare strano.» Bright le si sedette di fronte e appoggiò il mento sulle mani giunte. «Perché?» «Non ti sembra che, se l'avesse fatto abitualmente, avrebbe dovuto possedere tutti gli accessori? Inoltre, secondo Kate Micelli, non era mai stato sodomizzato.» Bright abbassò gli occhi, pensoso. «Ci sono gli attivi e i passivi, Stella. A che cosa serve il nitrito di amile?» «La storia di J. Edgar Hoover la sappiamo tutti.» Il tono di Stella si era indurito. «Se Jack era in un giro di gay sadomaso, ci sarà qualcuno che lo sa, oltre all'assassino.» Bright accavallò le gambe e si aggiustò con cura la giacca. «Mi stai chiedendo fin dove puoi arrivare?» domandò alla fine. «Se per te va bene, posso anche fermarmi a questo punto. Charles è talmente preso a indagare sui corollari, che si è dimenticato che cosa ci sta a fare qui. O forse no», dichiarò con pacato disprezzo. Bright alzò gli occhi e lasciò trapelare una lieve irritazione. «Ho i miei motivi per tenere Charles al suo posto. E te al tuo.» Poi, in tono più vivace, aggiunse: «Dimmi di Fielding», «È morto di overdose, su questo non ci piove. Forse non c'è altro da dire. Ma non possiamo accontentarci di questo.» Stella si mise a scribacchiare su un blocco. «Le domande più pressanti sono: in quali circostanze? Come faceva a conoscere Tina Welch? Risulta che avesse già fatto uso di eroina? Dance sta indagando presso la ex moglie, tra varie prostitute che conoscevano la Welch, tra i poliziotti della Narcotici e nel giro di Steelton 2000. Interrogherà anche Peter Hall.»
«E se non trova niente?» «Allora è come per Jack: se la vita di Fielding era un segreto per tutti, c'è qualcosa che non quadra. Ma se non altro avremo fatto il nostro dovere.» Bright atteggiò le labbra a un sorriso poco convinto. «A volte, Stella, ti trovo un po' semplicistica.» Lei si strinse nelle spalle. «Cerco di semplificare le cose per concentrarmi meglio. Ed è quello che dovresti fare anche tu, Arthur: dovresti concentrarti sulla campagna elettorale. In questo Sloan ha ragione. In fondo, entrambi vogliamo che tu diventi sindaco.» Quella sardonica allusione alle loro rispettive ambizioni fu accolta da Bright con un'occhiata interrogativa. «E tu hai deciso per l'approccio aggressivo. Che tra l'altro, o forse anzitutto, significa andare a spulciare tra le cause di Jack Novak.» «Già. Penso che a te convenga risolvere questo caso piuttosto che nascondere la testa sotto la sabbia. Devi giocare con le carte che ti sono toccate, Arthur.» Per un istante, Stella ebbe l'impressione che Bright stesse pensando ad altro. Alla fine, lui le disse: «Dovresti parlare con Johnny Curran». «Quello della Narcotici?» Bright ebbe un moto d'impazienza. «Quanti Johnny Curran conosci?» Presa alla sprovvista, Stella si sforzò di ricordare. Lo aveva visto solo una volta, quando lavorava ancora da Novak. Bright lo aveva chiamato a testimoniare contro uno dei clienti di Jack. Sì, lo ricordava benissimo: un quarantenne molto robusto, con occhi azzurro ghiaccio, capelli folti e baffi brizzolati, l'aria sprezzante e sicura di sé di chi ha sempre pronta una battuta cinica. D'altra parte era sopravvissuto per anni nel mondo paranoico degli infiltrati, dove non esistevano regole e il minimo errore poteva essere fatale. Tra i colleghi aveva una fama leggendaria: era il poliziotto bianco che lavorava nell'East Side nero. «Rinfrescami la memoria su Harlell Prince», disse Stella. Bright pulì gli occhiali, se li rimise e la guardò dritto negli occhi. «Lo ha ammazzato Curran.» «In quale circostanza?» Bright si alzò e andò alla finestra, apparentemente per guardare le impalcature dello stadio di baseball che, essendo lunedì, brulicavano di operai. «Harlell Prince era un killer di Detroit», rispose dopo un po'. «Era talmente pazzo e spietato che aveva ammazzato un paio degli scagnozzi di Vincent Moro ed era riuscito a mettere su una rete di spacciatori nell'East
Side. Era anche furbo: nemmeno Moro sembrava capace di fermarlo.» Si voltò verso Stella. «Ma Curran aveva convinto uno degli uomini di Prince a denunciarlo. Poi, una sera, si era trovato l'informatore davanti alla porta, morto e con la lingua mozzata. A quei tempi, Curran lavorava da solo. Era andato da Prince, il cui cadavere era stato in seguito rinvenuto accanto a quello della sua guardia del corpo, con una pistola in pugno e un proiettile in mezzo agli occhi, sparato da quattro dita di distanza. Autodifesa, aveva detto Curran.» Stella lo osservava. «E l'unico 'testimone' era la guardia del corpo, ammazzata anche lei da Curran.» Bright annuì. «Quale poliziotto avrebbe mai avuto il coraggio di puntare il dito contro Johnny Curran? Ammazzare Harlell Prince era stato un gesto di pubblica utilità, per così dire: nessuno l'avrebbe mai rimpianto.» Bright fece una pausa e si appoggiò con le mani alla spalliera della sedia. Poi riprese: «Curran mi fa paura. Non si fida di nessuno e sa tutto quello che c'è da sapere sul traffico di droga a Steelton. Ne sa ancora più di Dance. Se vuoi scoprire qualcosa su Jack Novak, comincia da lui». 3 Alle sei, Stella era seduta nel bar dello Steelton Club ad aspettare Saul Ravin. Non era socia - il club era stato aperto alle donne da una decina d'anni soltanto - e gli altri avventori erano tutti uomini di mezza età. Il bancone un po' barocco era in rovere intagliato a mano e le pareti rivestite in legno scuro erano decorate soltanto da discrete foto in bianco e nero dei soci più illustri: giudici, imprenditori e sindaci che, oltre a essere tutti uomini, erano anche passati tutti a miglior vita. Le poltrone erano rivestite di morbida pelle verde e nell'aria aleggiava un lieve ma persistente odore di tabacco. Per Stella la cosa più bella del club era il panorama. Si trovava al ventesimo e ultimo piano del palazzo della Steelton Trust Bank e, dalle sue finestre, si godeva una vista esclusiva e per certi versi edulcorata: da quell'altezza la sporcizia della città era meno evidente e le fiammate rosse delle poche acciaierie ancora in funzione davano un'illusione di vitalità. Anche i soci del club sembravano intrappolati in una sorta di vuoto extratemporale: nel bar non c'era traccia dell'inquieta mescolanza di etnie che caratterizzava il resto della città e Stella non vide nessun nero né nessun volto dai lineamenti slavi. Intorno ai tavolini c'erano solo WASP
brizzolati e, tra i più giovani, anch'essi prevalentemente protestanti, personaggi mediocri dalle vane ambizioni con cui il club aveva infoltito le file negli ultimi tempi. Lì, pensò Stella, era ancora possibile credere nell'esistenza di una classe di maschi anglosassoni privilegiati che si tramandavano i diritti di generazione in generazione. Fuori, invece, neri e minoranze etniche avevano un grosso peso nella vita della città e gli equilibri del potere si stavano modificando. Un Peter Hall con l'intelligenza di trovare nuovi sbocchi per denaro antico era una rarità e solo da poco nei grandi studi legali stavano cominciando a entrare donne, neri, italiani, gente dell'Est europeo ed ebrei. Manco a farlo apposta, in quel momento arrivò Saul Ravin. Ormai ultrasettantenne, la testa coronata da una nuvola angelica di ricci bianchi, aveva la pancia grossa e l'andatura pesante di chi non ha mai fatto molto movimento e comincia a pagarne le conseguenze. Ma aveva ancora una luce ironica e vivace negli occhi azzurri: tre anni prima aveva smesso di bere, invertendo una pericolosa china prima di perdere il rispetto che gli era dovuto in quanto decano degli avvocati della città. Poi, rinvigorito, aveva sposato la vedova di un ricco agente di Borsa, una donna bella e intelligente. Stella, che credeva nella capacità dell'uomo di redimersi e ammirava Saul, ne era stata contenta. Su iniziativa di Saul, avevano preso l'abitudine di pranzare insieme ogni tanto. Stella intuiva che Saul a sua volta nutriva per lei una certa stima professionale e un'attrazione innocua che tuttavia la lusingava. Saul le si sedette di fronte e sorrise. «Che piacere vederti, Stella. Mi fai pensare a quello che scarseggia in questo club, a parte gli ebrei.» «Ovvero?» «Gioventù e bellezza. Mi sento più tranquillo, al pensiero che non rischi di morirmi davanti prima che io abbia finito la mia acqua tonica.» Per la prima volta da quand'era stato assassinato Jack Novak, Stella riuscì a fare un sorriso sarcastico. «Cercherò di evitare l'arresto cardiaco. O la menopausa.» Un cameriere di colore, anziano come la maggior parte dei soci, si materializzò al loro tavolo come un fantasma. Saul ordinò un'acqua tonica e Stella un bicchiere di vino rosso. «Allora», esordi Saul. «Jack Novak. Che brutta morte.» Stella prese il bicchiere. «Troppo brutta, continuo a pensare.» Saul aveva la faccia seria. «Ti chiedi, mi par di capire, se non avesse pe-
stato i piedi a un cliente. O a qualcuno in certi ambienti omosessuali, magari.» «Mi chiedo un sacco di cose.» Stella s'interruppe per bere un sorso di vino. «Una volta lavoravo per lui, se ben ricordi.» Nello sguardo di Saul non c'era traccia di sorpresa. «Certo. Più o meno a quell'epoca, Jack e io seguimmo insieme alcuni processi per droga.» Chissà che cosa aveva detto Jack di lei, pensò Stella: Saul aveva l'espressione impassibile tipica degli avvocati che non vogliono lasciar trapelare nulla. «Pensavo a uno in particolare», spiegò Stella. «Al processo in cui tu difendevi lo spacciatore e Jack quello che lo riforniva, George Flood.» Al di là del leggero sorriso, Saul era meditabondo. «Flood era accusato di aver fornito cinque chili di cocaina al mio cliente. Le prove scomparvero.» Stella annuì. «Il pubblico ministero era Arthur Bright e il poliziotto che aveva compiuto l'arresto Johnny Curran, giusto?» «Giusto.» «E allora chi era George Flood?» Saul non cambiò espressione, ma aveva gli occhi che brillavano d'interesse. «Il luogotenente di Vincent Moro.» «Tu lo sapevi.» «Nessuno me lo disse apertamente, ma nessuno era tenuto a dirmelo. Moro aveva bisogno di un nero che controllasse l'East Side per conto suo. Se non fosse stato uno dei suoi, lo avrebbe fatto ammazzare, ma Flood era troppo potente e aveva resistito troppo a lungo.» «Se le cose fossero state come dici tu, a Moro sarebbe convenuto scaricarlo.» Dallo sguardo di Saul era sparita qualsiasi traccia di divertimento. «Sì, ma organizzare una rete di distribuzione come quella di Flood è una faticaccia e uno come Moro si fida di pochissime persone.» Lentamente, posò il bicchiere. «E, soprattutto, Flood era arrivato troppo in alto per non sapere qualcosa sul conto di Moro. Evidentemente il boss non poteva neppure rischiare che Flood patteggiasse con Bright.» Stella lasciò passare qualche istante di silenzio. «Allora», chiese poi, «come andarono distrutte le prove?» Saul sorrise di nuovo, ma senza allegria e con uno sguardo freddo. «Credi che io lo sappia?» Stella continuò a fissarlo, implacabile. «Dimmi quello che sai.»
Lui si voltò verso la finestra: una manciata di luci nella notte e, più in là, il nero fittissimo del lago Erie. Stella lo guardava e taceva. Saul stava decidendo se darle una mano, venendo meno al codice deontologico e alla propria abitudine al silenzio. Alla fine, disse: «Il mio cliente è morto e io non ho mai lavorato per Vincent Moro». «Ma Jack lo ha fatto.» «Certo. Gli uomini di Moro non si rivolgevano a Novak di propria iniziativa. Moro gli diceva da chi andare e a chi era disposto a pagare la parcella.» Anche a distanza di tanto tempo, quelle parole diedero i brividi a Stella. «Allora che cosa successe nel processo Flood?» Saul guardò oltre le spalle di lei. «In confidenza?» domandò poi. «Sì.» Lui si guardò rapidamente intorno. Gli altri sembravano immersi nelle loro conversazioni: Stella era sicura che non immaginassero nemmeno su che cosa verteva il loro dialogo. «Quello che posso dirti è che il mio cliente era disposto a collaborare», mormorò Saul. «Non avevamo niente da perdere e c'era tutto da guadagnare. Era stato il mio cliente a farsi beccare da Curran con la droga: Flood sosteneva di essere passato di lì per caso o roba del genere. Quindi Bright aveva bisogno di noi. E, dal momento che Flood era un pesce più grosso del mio cliente, avevo un certo potere contrattuale. Il mio cliente era disposto a vuotare il sacco sul conto di Flood se Bright gli avesse accordato uno sconto di pena. Così Bright e io cominciammo a trattare. Eravamo a buon punto quando il mio cliente di colpo cambiò idea.» «Perché?» Saul bevve un sorso di acqua tonica e si leccò le labbra. «Non l'ho mai capito esattamente. Potevo garantirgli una condanna leggera, ma non l'incolumità una volta uscito di galera.» Si strinse nelle spalle. «Mi disse che gli era giunta voce che la causa era persa. Non mi volle dire il perché.» «Ma tu pensi che Jack lo sapesse.» Saul si appoggiò allo schienale, col bicchiere tra le mani. «Un uomo come Vincent Moro ha mille modi per ottenere quello che vuole: può corrompere poliziotti, giudici, gli impiegati del magazzino delle prove, qualche funzionario perché faccia assegnare un processo a un giudice favorevole oppure un pubblico ministero perché perda là causa. O magari le prove vanno distrutte 'accidentalmente'...» Guardò Stella dritto negli occhi. «È possibile che Jack ne abbia soltanto beneficiato per caso, ma non fece mai
nulla per smentire la fama che aveva in città, e cioè che lui era l'avvocato che poteva far succedere questo genere di cose. Una reputazione così può fruttare molto.» Stella posò un dito sull'orlo del bicchiere. «Finché non si scontenta qualcuno», concluse. Saul sorrise. «Pensi che Jack avesse fatto una promessa che poi non è riuscito a mantenere?» Si appoggiò la guancia sulla mano coperta di macchie di vecchiaia. «Su una cosa hai ragione, Stella. Rispetto ai primi anni '90, le cose sono molto cambiate. Jack era l'avvocato di Vincent Moro nei grossi processi per droga. E questo significa almeno due cose. Anzitutto che doveva impedire ai suoi clienti di parlare troppo perché, più che loro, difendeva Moro. In secondo luogo, che veniva pagato in contanti, perché Moro non poteva firmargli assegni tramite i quali sarebbe stato semplice risalire a lui o a una delle sue 'attività legittime'. Dopo il 1990, la cosa si è complicata. Non solo i federali hanno perfezionato moltissimo i metodi di sorveglianza elettronica, ma è stato anche introdotto l'ergastolo per i reati di droga più gravi. Non è facile convincere un cliente a tenere la bocca chiusa, se questo significa rischiare una condanna pesante. Se per esempio Jack avesse promesso l'assoluzione a qualcuno che poi invece si era beccato l'ergastolo... Be', è possibile che a quel tizio sia venuta voglia di farlo fuori. E anche le valigette piene di contanti sono diventate un problema. Di questi tempi, se versi in banca più di diecimila dollari in contanti, il fisco pretende che tu dichiari chi te li ha dati. Supponiamo che, a un certo punto, Jack sia stato costretto a dichiarare il falso: il cliente che lo sa lo tiene in pugno. E magari Moro potrebbe farlo ammazzare prima di ritrovarsi in una posizione rischiosa. È come una galleria di specchi: tutti vedono tutti e tutti entrano in paranoia. Va storto qualcosa e...» Lanciò a Stella una lunga occhiata. «Sì, sono cose che possono succedere a un avvocato che difende gli spacciatori. E anche che ci prenda troppo gusto: soldi, droga, sesso... A un certo punto non ce la fa più e comincia a fare cazzate.» «Credi davvero?» Saul si strinse nelle spalle. «Era un po' che non lo vedevo, ma mi è sempre sembrato un tipo che volava un po' troppo vicino al sole, uno sregolato.» Prese il bicchiere. «Invece non mi risulta che avesse cominciato a prendere sottogamba il lavoro. Quando uno nella sua posizione perde colpi, finisce male.» Stella bevve il resto del vino, che le lasciò in bocca un sapore aspro, metallico. «Male?»
«Magari muore come sembra che sia morto Jack: vittima della sua perversione, o ammazzato da un cliente. Ma non da Moro, secondo me. Moro si sarebbe accontentato di sparargli.» Meditabondo, Saul si sistemò più comodamente sulla sedia. «Quello che non sono mai riuscito a capire è perché, a un certo punto, Moro ha scaricato il suo avvocato Jerry Florio, che oltretutto era suo compaesano, e ha cominciato a dire a quelli come Flood di rivolgersi a Jack. Florio era al culmine della carriera e Jack era solo un pivello. Come avrà fatto a soppiantarlo? Di punto in bianco tutti gli spacciatori protetti da Moro si sono messi a girare col biglietto da visita di Jack nel portafoglio e, non appena finivano dentro, lo chiamavano. Anche se devo dire che Jack colse la proverbiale palla al balzo e si diede parecchio da fare.» Per un po' Stella rimase in silenzio a fissare il bicchiere vuoto. «Hai tempo per un altro drink?» chiese infine. Qualcosa nel tono della sua voce incuriosì Saul. «Perché?» «Avrei una storia da raccontarti.» 4 Stella aveva incontrato lo spacciatore haitiano solo una volta, ma lo ricordava benissimo: si chiamava Jean-Claude Desnoyers, aveva la barba di due giorni, gli occhi imploranti e s'intuiva che aveva passato la trentina solo perché aveva cominciato a perdere i capelli. L'accento leggermente musicale, dai toni alti, contribuiva a farlo sembrare più giovane. Le aveva mostrato le foto di due gemelline dallo sguardo vivace, immortalate in una scuola materna dell'East Side, e, rimettendole nel portafoglio, le aveva detto che non sopportava l'idea di essere rimpatriato. «A Haiti mi aspettano solo povertà e morte», aveva dichiarato. Erano seduti nella piccola biblioteca dello studio di Novak. Jack aveva versato la cauzione il giorno prima e, poiché era stato trattenuto in tribunale, come spesso avveniva da qualche mese a quella parte, aveva telefonato a Stella, chiedendole di riceverlo. Desnoyers, accusato di detenzione di sostanze stupefacenti, era stato sorpreso in possesso di cinque chili di eroina nel parcheggio di un motel, a mezzanotte. Ascoltandolo, Stella aveva riflettuto sulla totale assenza di moralità di un padre di famiglia che vedeva nell'America solo una preziosa opportunità per vendere droga. E, inesperta com'era, aveva creduto che Desnoyers fosse uno che contava nell'East Side: il valore di mercato di cinque chili di roba, una volta tagliata, era
ragguardevole. «Mi racconti com'è stato arrestato», gli aveva chiesto. L'haitiano si era guardato intorno come se la biblioteca fosse una prigione e aveva alzato le spalle così velocemente che il gesto era parso alla donna un tic nervoso. «Andavo a rifornirmi là. Forse mi avevano visto altre volte.» Stella aveva posato la penna; l'haitiano sembrava preoccupato del fatto che lei prendesse appunti e aveva la fronte imperlata di sudore. «E come avvenivano i rifornimenti?» gli aveva chiesto. L'uomo aveva abbassato gli occhi. «Parcheggiavo ed entravo nel bar. Il mio fornitore aveva la chiave del portabagagli. Io bevevo qualcosa e intanto lui mi metteva la roba in macchina. Lasciavo passare dieci minuti, uscivo dal motel e quando lui mi passava vicino nel parcheggio, gli consegnavo la busta. Due secondi ed era fatta... Ma stavolta non c'era.» L'haitiano esitava, visibilmente teso al ricordo della paura che aveva avuto. «Ho capito subito che c'era qualcosa che non andava. L'unica era andarmene. Sono tornato in macchina.» Aveva chiuso gli occhi. «C'era uno nascosto, accucciato davanti, che non mi ha neanche dato il tempo di capire che cosa succedeva e mi ha puntato una pistola alla testa. Lì per lì ho pensato che era Harlell Prince che lavorava nella nostra zona. Invece era un bianco grande e grosso coi baffi grigi. 'Apri il portabagagli', mi ha fatto, e mi ha sbattuto sotto il naso un foglio di carta arrotolato.» «Un mandato», aveva suggerito Stella. L'haitiano, magrissimo sotto la camicia di cotone sottile, respirava affannosamente. «Non sono un cretino e il mio fornitore neanche: ero convinto che aveva visto tutto e che la droga non c'era. Così ho aperto il bagagliaio...» La frase era rimasta a metà. Sconsolato, l'haitiano aveva scosso la testa. Stella sapeva già il resto. Jack aveva solo due possibilità: sperare che ci fosse un vizio di forma nel mandato o chiedere il patteggiamento. Esitante, gli aveva domandato: «Chi è il suo fornitore?» L'haitiano era rimasto impietrito: «Se faccio la spia...» Stella aveva capito subito che aveva già preso in considerazione l'ipotesi. Le pareva di vederlo soppesare i rischi; benché il colloquio fosse confidenziale, forse doveva lasciar continuare Jack. Poi, fissando il piano del tavolo, Desnoyers aveva mormorato: «George Flood». George Flood, aveva ripetuto Stella tra sé: il cliente nero di Jack, quello che era tornato in libertà dopo che la polizia aveva «accidentalmente» di-
strutto cinque chili di cocaina. Era ammutolita. Il telefono aveva squillato. Jack era tornato, le aveva comunicato la segretaria, e voleva vederla nel suo ufficio. Qualche parola di rassicurazione a Desnoyers e Stella era uscita. A differenza della biblioteca, l'ufficio di Jack era bene arredato, con vasi giapponesi e raffinati acquerelli di Jacoulet, un francese espatriato in Giappone. Lo stile era volutamente eccentrico per Steelton e Stella nutriva il sospetto che Jack li avesse scelti apposta. Si era seduta su una sedia nera e aveva riferito quello che aveva appena appreso; ma, quando aveva nominato George Flood, l'aria di attenzione divertita con cui Jack aveva ascoltato quell'episodio della commedia umana era sparita di colpo. «Questo è un problema», aveva commentato. «Perché?» «George Flood è stato mio cliente e potrebbe esserlo di nuovo. Non vorrei che sorgessero conflitti.» Si era appoggiato allo schienale, pensoso, e le aveva detto: «Portalo di qua». Stella aveva obbedito. Aspettandosi che Jack la invitasse a restare, in virtù dell'incerto rapporto che si era creato tra Desnoyers e lei, aveva indugiato sulla porta. «Ci vediamo dopo», erano state le parole di congedo di Jack. L'haitiano le aveva lanciato un'occhiata impaurita, poi Jack aveva chiuso la porta. Mezz'ora più tardi, guardando dalla biblioteca, aveva visto Desnoyers che attraversava svelto l'atrio a testa bassa, senza accennare a salutarla. Lei era tornata nell'ufficio di Jack. «Che cosa è successo?» aveva chiesto. Jack era corrucciato. «Ha troppa paura di essere rimpatriato.» «Tu non l'avresti?» Jack, col mento posato su una mano, aveva alzato gli occhi. «Mi ha chiesto di parlare con Arthur Bright, Stella. Che cosa gli hai detto?» Stella si era sentita arrossire. «Niente.» L'istinto di difendersi si era tramutato in un'emozione meno definita, a metà tra la curiosità e il tono accusatorio. «Che cosa gli hai detto tu, piuttosto?» «Che, se vuole denunciare Flood, si deve cercare un altro avvocato.» L'aveva studiata a lungo, poi in tono più gentile aveva aggiunto: «C'è un chiaro conflitto d'interessi e, sì, è anche contro i miei principi morali. Quell'uomo ha famiglia e nessuna giuria crederà a una parola di quello che
dice, senza altre prove. Quindi che cosa può fare Arthur? Mettergli addosso una microspia per incastrare George Flood? Quanti secondi sopravvivrebbe Desnoyers in questo caso?» Nonostante l'antipatia che le aveva ispirato, Stella cominciava a provare pietà per l'haitiano e la sua famiglia, in trappola tra interessi contrapposti. «Ci dev'essere una soluzione», aveva detto. «Non quella.» Di nuovo, Jack aveva addolcito il tono. «Finirà per farsi ammazzare, Stella. Ma io non voglio saperne niente.» Stella non aveva detto altro. Quella sera, non aveva dormito da Jack. In parte era per via degli esami del secondo anno. Due sere dopo, mentre fissava scoraggiata gli appunti del corso di diritto tributario, nella biblioteca di legge si erano abbassate le luci e Stella si era resa conto che la biblioteca stava per chiudere. Si era sfregata gli occhi. Se fosse tornata nel suo appartamentino, si sarebbe buttata a letto, addormentandosi subito. L'alternativa migliore le era parsa quella che non aveva mai utilizzato: tornare nello studio, farsi un caffè e sperare che una scomoda sedia di legno la aiutasse a tenersi sveglia. Arrivata nell'atrio, era rimasta impietrita nell'udire alcune voci sommesse, troppo basse per capire che cosa dicevano. Dall'ufficio di Novak veniva un fascio di luce. Stella si era fermata, indecisa. Poi, coi nervi a fior di pelle, si era avviata verso la luce senza fare rumore. La porta di Jack era socchiusa. Stella non vedeva chi c'era. «Hai fatto tutto il possibile?» aveva chiesto freddamente una voce maschile, in tono pratico. «Sono stato molto esplicito», aveva risposto Jack. «Ma non mi ha voluto dare ascolto.» Stella non aveva mai sentito Jack parlare in quel modo, senza la concisa sicurezza di sé che ostentava con la maggior parte dei clienti. «E allora?» aveva domandato la voce tranquilla. Jack aveva risposto sottovoce: «Allora niente». Stella aveva fatto altri due passi e si era affacciata sulla soglia. L'unica luce accesa era la lampada da tavolo di Jack. L'altro uomo era seduto con le spalle rivolte a lei. Non era alto e, anche a quell'ora, mezzanotte passata, era impeccabile in un vestito di grisaglia con la camicia bianca. I capelli brizzolati apparivano tagliati con cura e probabilmente da un ottimo parrucchiere. Sempre rivolto a Novak, aveva alzato leggermente
la testa. Il visitatore aveva notato lo sguardo allarmato di Jack. Imbarazzata, si era fatta avanti. «Ho visto che avevi la luce accesa», si era giustificata. «Ho pensato che fossero i ladri.» L'uomo si era voltato a guardarla. Sembrava poco più che quarantenne, aveva gli occhi neri e penetranti e la fronte leggermente corrucciata. «Ti presento la mia praticante», aveva detto Jack con voce malferma. «Stella Marz.» L'uomo si era alzato. Era piuttosto minuto, proporzionato, e si muoveva con gesti misurati ma agili. Anche la voce aveva una certa morbidezza, quando le aveva detto: «Lei è molto bella, signorina». Poi, senza darle il tempo di reagire a quel complimento un po' antiquato e paternalistico, si era spostato in piena luce. Aveva un viso strano, aveva pensato Stella: gli zigomi sporgenti, le labbra sottili, il mento volitivo formavano una geometria di piani e di angoli, di luci e ombre. Quando le aveva porto la mano, guardandola dritto negli occhi, Stella era trasalita. Non lo aveva mai visto prima, ma conosceva quella faccia. L'uomo le aveva preso la mano tra le sue, asciutte e fresche. «Molto bella», aveva ripetuto sottovoce. «Ora, se vuole scusarci...» In silenzio, Stella era uscita dall'ufficio. Pochi minuti dopo, Jack Novak era entrato nella biblioteca. Stella aveva alzato gli occhi dagli appunti su cui stava cercando invano di concentrarsi. Pianissimo, le aveva chiesto: «Che ci facevi qui?» Stella aveva la bocca asciutta. «Era Vincent Moro, quello.» Non era una domanda e Novak non aveva risposto. Si era appoggiato allo stipite della porta con le braccia conserte. «Una faccenda di lavoro.» A voce più bassa aveva aggiunto: «Tu non devi preoccuparti di lui e non devi parlarne con nessuno. Per quanto ti riguarda, non è mai stato qui. Hai capito?» No, aveva pensato Stella. Capire era troppo per lei, quella notte, stanca com'era, senza una famiglia in cui confidare, senza soldi per poter fare a meno dello stipendio che le dava Jack. Ma anche così era chiaro che, da quel momento in avanti, niente sarebbe più stato come prima, tra loro. Aveva bisogno di stare un po' da sola. Si era limitata ad annuire. Jack le si era avvicinato e l'aveva baciata sulla nuca. «Vai a casa», le a-
veva detto. «È tardissimo.» La mattina dopo l'esame di diritto tributario, stanca e depressa, Stella aveva aperto il giornale e si era messa a leggere a caso, bevendo un caffè al tavolo della cucina. Nell'ultima pagina della cronaca cittadina, le era caduto l'occhio su un articoletto. «Presunto spacciatore trovato morto nel fiume», diceva il titolo. Stella aveva posato la tazza. Il cadavere di Jean-Claude Desnoyers era stato rinvenuto nel fiume Onondaga, sotto un pontile d'acciaio, con una pallottola in testa. Stella era rimasta seduta per tutto il tempo che le ci era voluto per capacitarsi del fatto, poi aveva chiuso il giornale ed era salita in macchina, diretta allo studio di Jack. Lui era alla scrivania. Stella aveva chiuso la porta e gli aveva sbattuto il giornale sotto gli occhi. «L'hai tradito. E Vincent Moro lo ha fatto ammazzare.» Jack era balzato in piedi, poi si era fermato e aveva guardato la porta. Quell'attimo di esitazione, quell'ammissione di paura, aveva tolto mordente alla sua ira. «Come puoi dire una cosa simile? Non mi conosci?» Stella non era indietreggiata. «No», aveva risposto con rabbia contenuta. «Credo di non conoscerti affatto.» Jack era arrossito. «Perché credi che li sconsigli di prendere quella strada? Perché porta sotto un pontile... Vincent Moro non ha bisogno di me per sapere che uno spacciatore ha intenzione di fregarlo. A Steelton le voci corrono: ci sono gli altri spacciatori, i poliziotti, magari anche qualcuno in procura. Desnoyers non mi ha voluto dare ascolto.» «Ma Moro sì», aveva ribattuto Stella, ostinata. «Ti tiene in pugno, vero?» «Non mi tiene in pugno nessuno.» Le aveva posato le mani sulle spalle e aveva scosso lentamente la testa, come per cercare di calmare sia lei sia se stesso. «È stato un caso eccezionale», aveva aggiunto a voce più bassa. «Moro voleva che parlassi con Bright e gli dicessi che la sua crociata contro la droga è un inutile spreco di tempo e denaro, priva di futuro in politica. Hai sentito che gli spiegavo che non potevo farci nulla.» Stella lo aveva guardato, sconcertata. «Non è questo che ho sentito.» Per la prima volta da quando lo conosceva, lo aveva visto con le lacrime agli occhi. Confusa, aveva esitato. «Ti prego», aveva mormorato Jack. «Non ti ho mai detto quanto sei im-
portante per me. Ti prego, Stella, credimi...» Stella aveva chiuso gli occhi. Finì di bere e guardò Saul Ravin seduto di fronte a lei. Il bar stava cominciando a svuotarsi e i soci si spostavano nella sala da pranzo. «Mi sono sempre chiesta se era stato Jack a firmare la condanna a morte di Desnoyers», concluse sottovoce. L'espressione di Saul era severa come quella dell'angelo che registra le buone e le cattive azioni degli uomini. «Non chiedertelo, Stella. Faceva parte del suo lavoro.» In silenzio, Stella si voltò a guardare fuori della finestra. «E da ieri ti chiedi chi, oltre la famiglia di Desnoyers, aveva motivo di odiare Jack Novak al punto d'impiccarlo e di tagliargli le palle», continuò Saul. Stella si voltò di nuovo a guardarlo. «Sì.» «Allora permettimi di darti un consiglio.» Si sporse in avanti con un'espressione seria e una sollecitudine che Stella non gli aveva mai visto. «Questo lavoro per te è la tua vita e per farlo hai bisogno di sapere chi sei, di sentirti onesta e in pace con la tua coscienza. Io non ti biasimo per questo, Stella. Certe volte rimpiango di non essere stato anch'io come te. Nei tuoi panni, ci andrei coi piedi di piombo. Ti sarà già abbastanza difficile non scendere a compromessi, ora che hai deciso che vuoi il posto di Bright. Questo caso ti riguarda troppo da vicino. Anche un santo rischierebbe di perdere l'obiettività.» Stella sorrise, sebbene si sentisse oppressa da un peso terribile. «Non sono una santa, Saul. Ho perso ogni speranza di essere canonizzata quando sono andata a lavorare per Jack.» Il sorriso si spense. «Sarà anche un problema mio, ma devo arrivare sino in fondo.» Saul rimase impassibile, ma scosse leggermente la testa, forse in segno di avvertimento. «Prima, però, cerca di capire perché lo fai.» 5 Alle dieci della mattina seguente, Stella era con Nathaniel Dance davanti a una squallida scuola materna ad aspettare la ex moglie di Tommy Fielding. Ci era arrivata in macchina, attraversando il degradato East Side nero e pensando ad Arthur Bright, a come doveva averlo influenzato crescere in
quelle strade e a quanta fatica doveva aver fatto per diventare quello che era e affrontare tante difficoltà. Dopo le lotte razziali di una trentina d'anni prima, lo sviluppo della zona pareva essersi arrestato. Alcune grandi case unifamiliari erano state trasformate in pensioni per emarginati, poveri, disoccupati, gente di passaggio. Altre avevano le finestre chiuse con assi inchiodate ed erano diventate covi di spacciatori di crack e malavitosi. Una strada che, negli anni '20, appariva piena di dignitosi negozi, era ormai invasa dalla spazzatura; vi si affacciavano lavanderie, bottiglierie, botteghe di alimentari che accettavano le tessere per i poveri, magazzini di abbigliamento di seconda mano e agenzie di prestiti su pegno dalle insegne vecchie e sbiadite. In poche decine di metri, Stella aveva visto un gruppo di ragazzini che, invece di essere a scuola, si passavano una canna col fiato che si condensava nell'aria fredda del mattino; un senzatetto macilento che spingeva un carrello da supermercato con un sacco a pelo dentro; tre donne di colore alla fermata dell'autobus che aspettavano infreddolite il pullman che, a giudicare dalla direzione, le avrebbe portate a pulire le case dei bianchi nei quartieri orientali; un'alcolizzata priva di sensi davanti alla saracinesca di un negozio di liquori. Più avanti aveva superato un condominio popolare, una sorta di monolito di cemento imbrattato da graffiti indecifrabili, abitato da famiglie disastrate; poi una scuola di mattoni coi vetri rotti e un cortile con due canestri privi della rete e scritte inneggianti a gang giovanili sul nudo cemento. Da sei anni ormai le scuole di Steelton erano commissariate in base a provvedimenti di «emergenza» a tempo indeterminato e il grado di alfabetizzazione degli studenti era aleatorio quanto l'incolumità di coloro che osavano entrare negli edifici scolastici; negli ultimi tempi, la procura aveva indagato su alcune sparatorie avvenute davanti alle scuole; in un'occasione, un piccolo spacciatore aveva ucciso la professoressa che gli aveva negato il permesso di andare al gabinetto. Tuttavia, qua e là Stella notò indizi che potevano far sperare in qualche miglioramento: case ristrutturate o nuove villette costruite in lotti di terreno che, nella speranza di salvare un quartiere in stato di assedio, il comune aveva venduto per la cifra simbolica di un dollaro a poliziotti, vigili del fuoco e funzionari pubblici disposti a trasferirvisi con la famiglia. Le chiese dei neri, ancora molto vitali, offrivano servizi di nursery per i bambini piccoli, doposcuola per i più grandi, corsi di formazione professionale, la presenza di modelli forti, sia maschili sia femminili, e il conforto della fede e della preghiera comunitaria alla domenica mattina. Ai margini di quel
panorama deprimente si stava consolidando una classe media e di professionisti, ma purtroppo erano molto più numerosi quelli che fuggivano verso quartieri più sicuri e scuole migliori. Stella non li poteva biasimare: era difficile trovare soluzioni efficaci a tanta povertà, dipendenza, discriminazione, alcolismo e abuso di sostanze stupefacenti, alla crisi della famiglia e a una situazione di patologia sociale che si protraeva ormai da tre generazioni. Ragione di più per ammirare coloro che, come Arthur Bright, si erano tirati fuori da quel ghetto e per ritenersi fortunata: in confronto, la strada per lei era stata molto più facile. Si rallegrò in cuor suo che Bright, nel delicato gioco degli equilibri politici, avesse deciso di battersi per il recupero di quella zona e della città intera. Si chiese anche con una certa curiosità perché la ex moglie del dirigente colto ed elegante con cui lei aveva fatto conoscenza all'obitorio fosse venuta a insegnare in un quartiere così pericoloso, controllato più dai narcotrafficanti come George Flood che dalla polizia. La scuola non era diversa da come se l'era immaginata. Mentre aspettava con Dance nel corridoio, notò - e le parve che anche Dance se ne fosse accorto - il contrasto tra i colori vivaci dei disegni e dei manifesti alle pareti e i neon malridotti, il linoleum grigio e consunto, i vestiti dei bambini, di seconda e terza mano, sbiaditi a furia di lavarli. Erano quasi tutti afroamericani sotto i sei anni, più qualche asiatico e latinoamericano; c'era anche una bambina haitiana coi codini e lo sguardo attento. Si chiese che fine avessero fatto le figlie di Jean-Claude Desnoyers. Erano ragazzini vivaci e interessati: Stella osservò i progressi della piccola haitiana nella costruzione di una precaria torre di mattoncini e, pur immaginando fin troppo bene il destino che li attendeva, si divertì a guardarli intenti nei giochi di un'infanzia che non sarebbe durata a lungo. Ma, quando da una delle aule uscì Amanda Fielding, fu uno shock. Pareva molto più vecchia del suo ex marito. Alta e ossuta, venne loro incontro con un'andatura un po' goffa. Era sproporzionata, aveva poco seno, i fianchi larghi, le caviglie grosse. Portava un informe vestito stampato e non era truccata; i capelli erano di un anonimo color castano, con la frangetta; il viso era pallido e smunto e le borse sotto gli occhi le davano un'aria stanca. Il contrasto tra Amanda e il giovane adone disteso su un tavolo all'obitorio fece tornare in mente a Stella la discrepanza che l'aveva colpita nel vedere Fielding accanto a Tina Welch. Solo negli occhi grigi e seri di Amanda, schietti e indagatori, pieni di silenziosa intelligenza, s'intravede-
va un certo fascino. Strinse la mano prima a Stella e poi a Dance e disse senza preamboli: «Ho un ufficio in fondo al corridoio. Se volete accomodarvi...» L'accento distinto, da East Coast, rivelava che si trattava di una donna colta, forse un'intellettuale di buona famiglia che disdegnava le apparenze. Dance e Stella la seguirono in un ufficio poco più grande di un ripostiglio e si sedettero su due sedie di plastica. Quando Dance si accomodò su una sedia troppo piccola per lui e trasalì, sentendo scricchiolare le ginocchia, Stella provò un leggero divertimento che le parve di riconoscere anche nell'espressione di Amanda Fielding la quale gli propose, con lieve sarcasmo: «Forse posso trovarle una sedia più grande». «Grazie», rispose Dance. «Ma la cosa migliore è che resti dove sono.» La battuta, pronunciata con aria impassibile, alleggerì l'atmosfera. Stella pensò che era un uomo sensibile e intelligente. Il detective accese il piccolo registratore e lo posò sulla scrivania. Amanda non fece obiezioni. Dance cominciò con le domande di routine: «Quando ha visto suo marito per l'ultima volta? Com'erano i vostri rapporti ultimamente?» «Civili, ma non intimi», rispose Amanda. Quando le chiese se le risultava che Fielding facesse uso di droga, rispose con un fermo no. In generale, si limitò a rispondere alle domande senza aggiungere nulla e, davanti a quella apparente indifferenza, che trovava sconcertante, Stella si chiese come avesse presentato alla figlia di sette anni la squallida morte del padre. D'istinto, s'informò: «Come ha reagito Julia?» Quell'argomento parve turbare Amanda Fielding. «È tornata a scuola oggi», rispose sottovoce. «Peter Hall è stato molto gentile, è venuto a trovarla, l'ha portata a casa sua e l'ha fatta montare a cavallo. Sapeva che Tommy la adorava e lei adorava lui. Lo aspettava sempre sulla porta, vestita di tutto punto, e, quando vedeva arrivare la macchina, gli correva incontro...» Scosse la testa. «Non riesce a farsene una ragione.» Stella immaginò che il padre amatissimo a un certo punto fosse diventato una specie di ospite di passaggio nella vita della bambina, mentre lei a sua volta si trasformava in un surrogato dell'affetto della ex moglie. «E lei?» domandò. «Nemmeno io.» «Per via dell'eroina?» Amanda abbassò gli occhi e poi, senza guardare Dance, si girò verso Stella e la fissò con addolorato candore. «Per il fatto che erano nudi.» Dance restò immobile. L'atmosfera era cambiata: Stella si posò un dito
sulle labbra, pensosa, e continuò a guardare Amanda con aria interrogativa. In silenzio, l'insegnante incrociò le braccia e Stella ebbe di colpo una visione di tristezza, di abbandono e di vedovile solitudine. «A Tommy non interessava il sesso», disse Amanda dopo un po'. Anche Stella abbassò gli occhi per non sembrare indiscreta. «In assoluto?» Amanda prese fiato, posò gli occhi su Dance e subito li distolse, quasi avesse ripreso coscienza della situazione: il detective nero impassibile, il nastro che girava nel registratore, una sconosciuta che le faceva domande sulla sua vita. Gli occhi grigi e tristi le parvero rassegnati. «Non so perché Tommy sia morto in quel modo», disse alla fine. «Ma posso aiutarvi a capire che uomo era. E per questo bisogna cominciare dal motivo per cui mi ha sposato.» Stella annuì. «Qualsiasi cosa ci possa dire...» Amanda lanciò un'occhiata a Dance, poi si rivolse di nuovo a Stella. «Avevo trentatré anni, signora Marz. Sette più di Tommy. Ero venuta qui dal college, dallo Smith College per la precisione, con una laurea in scienze sociali. Sapevo di non poter cambiare il mondo, ma m'illudevo ancora di riuscire ad aiutare qualcuno e magari a fare qualcosa di utile per i giovani.» Stella riconobbe nelle parole di Amanda una traccia di nostalgia per la giovane donna che era stata e ricordò di aver provato qualcosa di simile il giorno in cui era entrata in procura sperando di realizzare i propri ideali. «Capisco.» «Credevo di potercela fare», riprese Amanda in tono piatto. «Ma era un'impresa disperata: violenze contro i minori, crack, gravidanze indesiderate. Di fronte a simili tragedie ero impotente.» Si morse un labbro. «Mi sentivo sola e non riuscivo a reagire. Così cominciai a bere.» Sempre con le braccia conserte, Amanda fissò il soffitto. «Bevevo alla sera, da sola, e, quando non riuscii più ad andare a lavorare, cominciai a darmi malata e a bere anche al mattino. Perché così stavo meglio. A quel punto mi costrinsero a scegliere tra il ricovero in una clinica per disintossicarmi e il licenziamento. Non ebbi incertezze: lasciai il lavoro e ne trovai un altro.» Si sforzò di sorridere. «In un'agenzia di viaggi di periferia, per poter continuare a bere. Ormai avevo capito che non bevevo per il mio lavoro, ma per la solitudine, l'isolamento, per cose che portavo con me dovunque andassi.» Quegli occhi sinceri si posarono di nuovo su Stella e Amanda parve tor-
nare nel presente. «Lei si chiederà», riprese con sorprendente pacatezza, «che c'entrano sei anni di psicoterapia con Tommy. C'entrano eccome.» Posò le mani sulla scrivania e si mise a osservarsele come se, distraendosi, le fosse più facile spiegarsi. «Mi offrii volontaria per gestire un club per single organizzato dall'agenzia di viaggio, pensando che così avrei conosciuto qualcuno - a quel punto l'età non m'importava più -, mi sarei sposata e avrei avuto il figlio che desideravo. E non avrei più avuto bisogno di bere. Ma nessuno, né giovane né vecchio, s'interessava a me. Passarono dieci lunghi anni in cui cercai di essere tanto efficiente sul lavoro da far dimenticare la frequenza con cui i raffreddori mi costringevano a restare a casa. Poi arrivò Tommy. La prima volta che lo vidi entrare rimasi senza fiato.» Amanda sospirò e la sua voce si ravvivò al ricordo. «Era bellissimo, elegante e profumato, sembrava uscito dalle pagine di una rivista. Mi parve fin troppo allegro... Appariva così contento che mi chiesi come mai un uomo del genere avesse voglia o bisogno d'iscriversi a un club che, francamente, attirava soprattutto gente molto più vecchia e molto meno affascinante di lui. Mentre sfogliavamo i dépliant e le proposte di viaggio del club, pensavo: Ma che ci fai qui? Perché non te ne vai in vacanza con qualche bella donna in carriera con un fisico da fotomodella? Era chiaro che Tommy aveva avuto tutto dalla vita: Princeton, un master in economia e commercio nel Michigan, un ottimo posto alla Hall Development. Quando m'invitò a cena, stentavo a credere alla mia fortuna. Forse, pensai, cercava la compagnia di una persona più matura. Venivamo tutti e due dalla East Coast, da buone università, e a quanto pareva avevamo molte letture in comune. Trovammo subito tante cose di cui parlare.» La voce di Amanda era carica di rassegnata autoderisione. «Mentre aspettavo che mi venisse a prendere, cercai di convincermi che eravamo due anime gemelle. Ma era un sogno destinato a svanire presto...» D'un tratto, come spossata dai ricordi, si richiuse in se stessa e tacque. Sottovoce, Stella le chiese: «Che cosa successe?» Amanda continuava a guardarsi le mani. «A cena cominciai a bere e diventai prima loquace, poi eccitata, e alla fine decisamente ubriaca.» Dance ascoltava con la consueta impenetrabilità e Stella non poté fare a meno di chiedersi se considerasse quel racconto alla stregua di farneticazioni di una bianca privilegiata che non aveva altro cui pensare. Ma era attentissimo, come Stella del resto, alla direzione che stava prendendo la storia di Amanda. «Però lui la invitò un'altra volta», riprese Stella.
Amanda le lanciò una rapida occhiata sorpresa, poi annuì. «Un'altra volta, e poi un'altra e ancora un'altra... Pensai che non gli importasse se bevevo. La prima volta che mi baciò, sperai che volesse fare l'amore con me.» Lo stupore che doveva aver provato in quel momento traspariva ancora dal tono della sua voce, per quanto attenuato dalla delusione che vi aveva fatto seguito. «Invece mi chiese di sposarlo. Finalmente avevo quello che desideravo, un fidanzato, un futuro. Solo che quasi non mi toccava. Era sempre al lavoro o fuori ad allenarsi per una maratona, o semplicemente troppo stanco. Quando provai ad affrontare il problema, cambiò discorso. Tommy sapeva parlare di libri e film, di lavoro, di tutti i posti in cui era stato, ma non di sé.» Il tono si fece amaro. «Quando conobbi sua madre, capii finalmente perché. Tommy aveva vissuto in un regime di... occupazione militare.» Ripensando all'impressione che la madre di Tommy aveva fatto a lei, a Stella parve che tutto quadrasse. «Lo soffocava?» «Soffocarlo è dir poco!» Amanda fece una risatina beffarda. «Era capace di porre le domande più indiscrete, sia a lui sia a me, faceva commenti offensivi sul mio conto in mia presenza, ma Tommy non riteneva mai di dover intervenire. Quello che non sopportava, in realtà, era che un aspetto qualsiasi della vita di Tommy le fosse precluso. Fin da piccolo, Tommy aveva messo a punto l'unica difesa che aveva: nascondersi, dalla madre e da tutte le donne che incontrava. Il suo fascino, la sua eleganza, la dedizione fanatica al lavoro e al fitness erano tutte espressioni di paura. Il sesso non soltanto non gli interessava, ma gli faceva anche paura. Voleva evitare quella sfera della sua vita.» Stella lanciò un'occhiata a Dance, il quale osservava Amanda con tale concentrazione che Stella si chiese se anche a lui era venuta in mente la stessa cosa, cioè che, in un certo senso, farsi un buco insieme con una donna era un gesto intimo come un rapporto sessuale. «Eppure vi siete sposati e avete avuto una figlia», osservò. Amanda si appoggiò all'indietro. «Una notte, dopo aver bevuto tanta vodka da trovare il coraggio, lo affrontai, gli dissi in faccia quanto mi sentivo sola e rifiutata. Non potevo sposare un uomo che non mi voleva toccare, che non mi voleva dare né amore né figli. Impallidì. Senza dire nulla, mi baciò. Io lo aiutai...» Amanda era visibilmente addolorata. «Poi si addormentò e io rimasi lì. Ubriaca com'ero, finalmente capii. Eravamo giunti a un tacito accordo. Tommy aveva tollerato le mie debolezze, sperando che io avrei tollerato le sue, visto che nella mia posizione non potevo pretende-
re di più. A Tommy, incredibile ma vero, il mio alcolismo faceva comodo: il fatto di tornare a casa la sera tardi e trovare una moglie stordita dall'alcol e dalla solitudine gli semplificava le cose. Ci sposammo. Io lo accompagnavo in società: bastava che fossi sobria e non straparlassi. Avendo me, Tommy non era costretto a procurarsi una fidanzata o una ragazza più giovane e più carina che gli avrebbe certamente creato problemi... Così, lui aveva una moglie per far contenti la madre - la quale rimase sgomenta quando mi conobbe - e Peter Hall, e io potevo annegare i miei dispiaceri nell'alcol nella privacy della nostra casa. A patto che non rispondessi al telefono prima di aver smaltito la sbornia.» Si strinse nelle spalle. «E potevo chiedergli di fare l'amore nei giorni fertili. Tutto sommato, un figlio avrebbe dato a Tommy la copertura di cui aveva disperatamente bisogno e a Marsha il nipotino che tanto desiderava.» Amanda Fielding guardò il registratore di Dance come se si svegliasse in quel momento da uno straziante sogno a occhi aperti. Fissò prima Dance poi Stella. «Pagare una donna perché andasse a letto con lui? Tommy avrebbe pagato per non doverci andare.» «E che cosa provocò la fine del vostro matrimonio?» domandò Stella. «Julia.» Per la prima volta, al tono ironico di Amanda si mescolò una nota di orgoglio. «Il giorno che scoprii di essere incinta, smisi di bere. Né io né Tommy volevamo che il bambino avesse una madre alcolizzata. L'unico problema era che, a quel punto, la mia situazione mi apparve con una chiarezza implacabile. Resistetti per tre anni, dicendomi che lo facevo per il bene di Julia, mia figlia. Tre anni d'indifferenza da parte di Tommy, tre anni di tentativi da parte di Marsha di allontanare da me la bambina, di convincerla che la persona più importante nella sua vita era lei. E in fondo la capivo: quello dei miei suoceri era un matrimonio senza amore come il nostro e, se non ci fossimo stati noi, a Marsha non sarebbe rimasto nulla. Be', io volevo che mia figlia diventasse una persona adulta e matura, non che restasse un'eterna bambina e diventasse una pedina in quell'incubo freudiano. Così me ne andai e cercai di essere un buon modello per lei, anziché costringerla a riempire il vuoto della mia vita.» S'interruppe e fece un sorriso amaro. «In fondo, penso che Tommy avesse capito anche questo. Ma la cosa che gli faceva più paura era ammettere quanto detestava sua madre.» La durezza del tono con cui lo disse diede i brividi a Stella, che sapeva per esperienza che l'unico antidoto alla cancrena dei rapporti familiari era fuggire e poi pregare che non fosse troppo tardi, sperare di potersi ancora
salvare. «Che genere di padre era Tommy?» Amanda si addolcì. «Devoto. Era contento di avere una figlia... Dimostrava che lui era eterosessuale e rendeva più accettabile il fatto che pensava soltanto al lavoro e non aveva una vita sociale. Quella con Julia era la relazione più salda che avesse. Oltretutto la bambina non mi somigliava affatto.» Il sorriso di Amanda era triste. «È bellissima, come Tommy. Non passava domenica senza vederla.» Dance si sporse in avanti. «Era il tipo d'uomo capace di mettere a rischio la propria vita, signora Fielding? Forse era infelice.» Amanda scosse energicamente la testa. «Meglio di così le cose non gli potevano andare. E anche se fosse stato infelice, Tommy era troppo prudente per provare la droga: non gli piaceva perdere il controllo. Beveva solo per mantenere le apparenze, al massimo un bicchiere di vino. E il fitness, la dieta e lo sport per lui venivano subito dopo il lavoro.» Stella ripensò all'autopsia, al corpo scultoreo sul tavolo del coroner. «Sua madre ci ha detto che Tommy aveva paura degli aghi.» «Davvero? Non credo che a Tommy le iniezioni piacessero, ma questo è il genere di storie che raccontava Marsha per fargli fare la figura del bambino bisognoso di aiuto. Soprattutto con lui presente, costretto a sentire.» Cercò di controllarsi e, con minor veemenza, riprese: «La cosa veramente impossibile è che Tommy abbia usato la stessa siringa di una prostituta che non conosceva. Aveva la fissazione dell'igiene e questo, sì, che mi sembra improbabile. E poi l'idea che sbavasse davanti a una rivista di donne nere nude... Anche questo è assolutamente impensabile». Dance la osservava. «Forse si eccitava con le donne nere nude a sua insaputa...» disse, nel tono più neutro possibile. Vedendola arrossire, Stella si sforzò di non sorridere; poi Amanda scosse la testa. «Non è il fatto che fossero nere a lasciarmi perplessa, capitano Dance, ma il fatto che fossero donne.» Dance rimase impassibile. L'impenetrabilità dei suoi occhi era scoraggiante persino per Stella. «Le parlava mai del lavoro?» «Sì. Era un argomento di cui parlavamo senza difficoltà e Tommy era davvero entusiasta dello stadio. Sembrava molto coinvolto, affascinato. Aveva portato un modellino in scala a Julia e l'aveva montato nella sua camera.» Per la prima volta dalla voce di Amanda trapelò soltanto nostalgia. «Mi aveva fatto promettere che il giorno dell'inaugurazione non l'avrei mandata a scuola per portarla a vedere la prima partita dei Blues. Si era addirittura fatto cambiare la targa con una che diceva PLAY BALL.»
«C'era qualcosa nella sua vita, qualche problema che potesse averlo indotto a comportarsi in maniera diversa dal solito?» chiese Stella. Amanda Fielding fissava il piano della scrivania. «Mi piacerebbe tanto saperlo. Voglio che Julia, un giorno, possa capire e che conservi del padre l'opinione migliore possibile... Effettivamente, però, nelle ultime settimane sembrava depresso. Mi ha accennato a qualche guaio allo stadio: doveva mantenere le spese entro il budget, perché il progetto sembrasse un grande affare per il sindaco Krajek e per la città.» Alzò gli occhi in direzione di Stella. «Da quando Bright ha cominciato a contestare il progetto, sono certa che Tommy si sentiva messo alle strette. Ma sono tutte supposizioni. In realtà non ho idea di quali fossero i problemi di Tommy, sempre che ne avesse.» Incuriosita, Stella si protese in avanti. «Se lo stress fosse aumentato molto, come avrebbe reagito Tommy?» «Buttandosi ancora di più nel lavoro, non certo sfuggendo. E certamente non facendo qualche follia, per così dire. Non quadra davvero col suo carattere.» Guardò di nuovo Stella prima di concludere: «Così, il modo in cui è morto è inspiegabile, almeno per me. Sempre che...» «Sempre che...» incalzò Stella. Amanda fece un ultimo sorriso amaro. «Che non fosse andato con quella donna di colore non per la droga o per il sesso, ma immaginando di costringere la madre a guardarlo.» Stella e Dance uscirono. Un vento polare spazzava la strada davanti alla scuola e li fece rabbrividire. «Guarda quelle bambine... Prima di diventare maggiorenni, molte saranno incinte. O morte», osservò Dance. Poi, rivolto a Stella, chiese: «E Fielding... Credi che sia vero quello che ci ha raccontato la moglie?» «Sì. E tu?» Dance la guardò negli occhi. «Io non credo a nessuno», rispose. 6 «Così Bright ti ha mandato da me», disse Johnny Curran con la sua voce da cantante d'opera. Stella si sedette. «Ho bisogno di un corso accelerato sul traffico di droga a Steelton.» Curran si accarezzò i baffi e la studiò, senza sforzarsi di nascondere l'at-
teggiamento freddo e quasi clinico con cui la stava soppesando, forse per ricordarle che era una donna e che era venuta a chiedergli un favore. Curran era un omone, portava un paio di jeans e un maglione irlandese sotto il quale sporgeva una pancia tonda e dura come una palla di cannone. A Stella parve più vicino ai sessanta che ai cinquanta. I capelli folti e piuttosto lunghi erano bianchi e il rossore del volto, insieme con le venuzze bluastre sul naso, da cui era facile intuire che, per vincere la tensione del lavoro, si aiutava col whisky, le ricordò quell'uomo tormentato che era stato suo padre. Ma gli occhi azzurri erano chiari e freddi e la scrutavano con spietata lucidità. Stella non ebbe difficoltà a immaginarlo sparare un colpo in mezzo agli occhi a Harlell Prince a distanza ravvicinata: persino la voce dal leggero accento irlandese, delicato e tenorile, aveva un che d'inquietante. «Per Novak?» le domandò. «Chi te lo fa fare?» Lo conosceva da meno di due minuti, ma le era già chiaro che sollevare questioni morali con quell'uomo sarebbe stato una perdita di tempo. «È il mio lavoro.» Curran si appoggiò allo schienale. Chi me lo fa fare? diceva la sua espressione. Senza preamboli, Stella chiese: «Come faceva Novak a truccare i processi?» L'unica reazione di Curran fu uno sguardo freddo, seguito da un lampo d'interesse. «Be', questo sì, che è un argomento complesso.» «In che senso?» Curran si osservò le scarpe di cuoio marrone; Stella si rese conto che ostentava la massima indifferenza nei confronti di qualsiasi imperativo, tranne i propri. «Ventitré anni di carriera», rispose, «più altri dieci alla Buoncostume, e non so risponderti. Tu non ti rendi nemmeno conto di che cosa mi stai chiedendo.» Ai poliziotti di solito piaceva raccontare aneddoti e alcuni finivano per diventare ottimi narratori. Ma Curran aveva fatto l'infiltrato per anni: diffidava delle parole e persino il suo ufficio spoglio non rivelava nulla su di lui. «Perché? Che cosa ti sto chiedendo?» domandò Stella. Lentamente Curran alzò gli occhi azzurri e gelidi nel volto paonazzo. «Come fa Vincent Moro a truccare i processi.» Stella piegò la testa da una parte. «E a farla franca.» Lui si accomodò sulla poltrona, socchiudendo gli occhi con aria stanca e annoiata, come se qualcuno lo avesse costretto a guardare e riguardare all'infinito lo stesso film. «Ai vecchi tempi, certi tizi di Chicago cercarono di sbaragliare il clan che controllava Steelton. I boss di Steelton li andarono a
prendere alla stazione, li portarono a fare un giro in macchina, gli spararono in testa con un fucile a pallettoni e rispedirono indietro i resti in un carro frigorifero. La polizia si disinteressò della faccenda: che bisogno c'era dei gangster di Chicago, visto che quelli che c'erano già pagavano bene? La vita era facile.» D'un tratto quella storia, quel breve schizzo degli equilibri di potere in un'epoca più primitiva, gli parve divertente. Stella lo osservava. «La droga ha cambiato tutto», continuò. «Girano troppi soldi, c'è molta più gente che vuole una fetta della torta ed è disposta a uccidere per impadronirsene. E noi dovremmo fare qualcosa. Così adesso Vincent Moro deve vedersela coi clan rivali e con noi. La malavita organizzata continua a eliminare chi cerca di metterle i bastoni tra le ruote, solo che adesso i boss sono diventati più furbi. Quando ho ammazzato Harlell Prince, mi pareva di sentire Vincent che se la rideva. Praticamente gli avevo fatto un regalo: George Flood poteva riprendersi la sua zona.» Posò i piedi sulla scrivania. «Naturalmente, quando mi è arrivata per posta la lingua del mio informatore, anch'io ho riso: perché Prince era già morto.» Stella intuì che Curran non parlava in senso figurato: le pareva di vederlo sorridere davanti alla lingua mozzata. Riconobbe l'ironia implicita in una situazione in cui, paradossalmente, Curran risolveva i problemi di Moro aggiungendo morti su morti. «Conosci Vincent Moro?» La sua sorpresa parve divertirlo. «Dall'infanzia. Siamo cresciuti nello stesso quartiere e rubavamo macchine insieme, prima che io entrassi nella polizia e lui diventasse un boss.» La prima parte di quel racconto non era inconsueta: il confine tra guardie e ladri spesso era incerto per i ragazzi ribelli che, sia in un caso sia nell'altro, aspiravano a comandare. Ma il rapporto tra Curran e Moro la incuriosiva: due sopravvissuti duri e astuti, che pochissime persone potevano dire di conoscere e che tra loro si erano conosciuti bene. «Com'era Moro?» domandò. Dal volto di Curran sparì l'espressione sarcastica ma divertita di poco prima. «Non aveva paura di niente», disse. «Era di poche parole, ma quando diceva che faceva una cosa, poi non si tirava indietro. Ed è un genio. Non si è mai fatto sorprendere a rubare una macchina. Come non si è mai fatto beccare a truccare un processo.» Ne parlava con rispetto, forse perché la stessa descrizione sarebbe andata benissimo anche per lui. «E perché nessuno riesce mai a beccarlo?» indagò Stella. Curran la squadrò di nuovo, poi rispose sottovoce: «Perché è ben protet-
to». Stella pensò a Saul Ravin, il quale era convinto che Moro avesse in pugno Novak, giudici, funzionari, poliziotti e forse anche pubblici ministeri. Con altrettanta calma, chiese: «Come può fare un poliziotto a proteggerlo?» Lui la guardò gelido. «Oltre a distruggere 'accidentalmente' un grosso quantitativo di droga?» Ancora una volta Stella fu colta alla sprovvista. «Già.» Curran socchiuse di nuovo gli occhi e lei immaginò che stesse passando in rassegna trent'anni di storia per decidere se dirle qualcosa e che cosa dirle. Quando parlò, fu con voce piatta. «Può avvertire uno spacciatore che sta per esserci una retata. Può vendere l'informatore di qualche collega e farlo ammazzare. Può dire al pubblico ministero di andarci piano con un imputato perché in realtà è un informatore. Può usare la password di un collega per accedere alla banca dati della polizia e vedere su che cosa stanno lavorando gli altri. Può fare una perquisizione irregolare, buttare via un mandato, tenere le orecchie aperte, non lasciare mai tracce.» Non era un elenco formale, pensò Stella: quel sommarsi di tradimento a tradimento aveva un che di letale. «E tu pensi che tutte queste cose siano successe veramente?» Silenzio. Quando Curran riaprì gli occhi, lo sguardo era straniato, come quello di una persona che la vita ha allontanato da tutto e da tutti. «Lavorando sotto copertura sei costretto a mentire, a tradire la gente... Impari a imitare i tossici, a capire che cosa pensano gli altri, a non dire mai che sei stato in una galera se non la conosci come le tue tasche, perché se lo spacciatore che stai cercando d'incastrare s'insospettisce per un motivo qualsiasi ti fa fuori. Impari a non fidarti di nessuno.» Dalla sua voce trapelò di nuovo la collera repressa. «Diventi più furbo di quanto non si sia mai sognato di essere Jack Novak. Senza dare nell'occhio.» «E secondo te questo poliziotto corrotto è esistito davvero?» Curran si assestò sulla poltrona e alzò pigramente le spalle, stiracchiandosi come un felino. «Ho parlato di uno? Due, magari anche tre. In oltre vent'anni, anche di più.» Fece una pausa. «Noi non ne parliamo e non voglio che ne parli neanche tu. Forse ormai è una storia chiusa: negli ultimi due anni Vincent ha avuto meno fortuna. L'unico motivo per cui te ne parlo è che tutto questo è talmente fuori della tua capacità di comprensione che non ti rendi nemmeno conto di quello che dici. Altrimenti non saresti qui a chiedermi di Jack Novak.»
Stella ingoiò il rospo. «O di uno spacciatore haitiano di nome JeanClaude Desnoyers. Lo hai arrestato nel parcheggio di un motel, ricordi? Una sera che George Flood non si è presentato.» Guardandola dritto negli occhi, Curran disse: «Novak era una puttana. Desnoyers voleva collaborare». Il tono di Stella si fece più freddo. «In venti minuti che parliamo, le botte di fortuna di Flood sono già due. Quante altre ne ha avute?» Raddrizzandosi sulla poltrona, Curran guardò il muro oltre le spalle di Stella. «Una, che io sappia», disse laconicamente. «Quale?» «Una retata. Sequestrammo la droga e finimmo sulle prime pagine dei giornali, ma Flood non c'era.» «E tu non ne hai mai parlato con nessuno dei tuoi colleghi. Non sei curioso.» «Curioso?» esclamò lui, incrociando le braccia. «Curioso è dir poco. Abbiamo quindici infiltrati alla Narcotici, di cui nove con vent'anni di esperienza. Altri cinque che sono ancora in servizio, compreso il capo della sezione Investigativa, hanno lavorato per me. Ci sono buone probabilità che almeno uno fosse al soldo di Vincent.» Il tono oscillava tra il sarcasmo e l'indignazione. «Chi dovrei mettere alle strette? Nessuno di loro è tanto stupido da vivere nel lusso coi soldi di Vincent, come faceva Novak. Aspettano di andare in pensione e sparire.» Tacque, poi aggiunse piano: «Se non li becco prima». Stella intuì la delicatezza della posizione di Curran, che si muoveva in un mondo di paranoia e di violenza, dove non ci si poteva fidare di nessuno. «Come Harlell Prince», disse. Lui le lanciò un'occhiata enigmatica. «Prince è morto in fretta. Quindi si può dire che sia stato fortunato. Ma non quanto Vincent.» La musicalità della sua voce spaventò Stella più della sua collera. Da quella conversazione stava emergendo un nuovo aspetto, che forse era il principio organizzatore del mondo di Curran, una lotta poco chiara tra amici d'infanzia che, nonostante tutto, erano rimasti legati anche a quarant'anni di distanza. A quanto pareva, Harlell Prince era morto troppo in fretta per i gusti di Curran e il prossimo che lo avesse contrariato probabilmente ne avrebbe pagato le conseguenze. «Allora chi è stato a uccidere Novak?» domandò Stella. Curran alzò di nuovo le spalle. «Il suo sarto, magari. Se cerchi un cliente incazzato o qualcuno che stava per finire dentro, non saprei suggerirti nes-
suno.» «Quand'eri alla Buoncostume, hai mai sentito dire che aveva perversioni sessuali?» «Perversioni? No. Solo che gli piacevano le prostitute. Non le battone, quelle di alto bordo, le ragazze di Moro.» Curran doveva averne viste di tutti i colori e ormai non s'impressionava più di niente. «Girava voce che a Novak piacessero i travestimenti e, a volte, per ottenere quello che si vuole, bisogna pagare.» «I travestimenti...» ripeté Stella. Curran allargò le dita sul tavolo con una smorfia di dolore: aveva le mani deformate dall'artrite, le articolazioni gonfie e arrossate; Stella notò con una certa sorpresa che aveva le unghie perfettamente curate. Cominciò a giocherellare con un grosso anello con una pietra rossa che pareva cresciuta direttamente dalla carne della mano sinistra. «Serate a tre», spiegò. «Ho sentito dire che gli piaceva dare istruzioni. Giocare a fare il regista.» Stella si sentì avvampare. «Stava a guardare?» «Così dicono.» «Donne o uomini? Ambientazioni sadomaso tipo lacci intorno al collo?» Curran alzò gli occhi e le rivolse uno sguardo penetrante. «Dimmelo tu», replicò. «Non siamo mai stati così intimi, Novak e io.» L'ambiguità di quel commento la lasciò perplessa. Guardandola, Curran sorrise e aggiunse pigramente: «Certi lavori sono da uomo». Era una provocazione deliberata: Curran lasciava a lei indovinare se il lavoro in questione era impiccare un altro uomo in reggicalze o indagare sull'omicidio che ne era derivato. Stella ribatté, fredda: «Come la violenza carnale, intendi dire». Curran rise. «Come tante cose.» Lei incrociò le dita e lo fissò. «E sul conto di Tommy Fielding, cosa mi dici?» Le folte sopracciglia di Curran s'inarcarono leggermente. «L'amico di Peter Hall che è morto di overdose con una prostituta? No, non so nulla.» «E lei? Che sai di Tina Welch? Dance mi ha detto che era stata arrestata un paio di volte vicino ai teatri. Dalle parti di Scarberry Street.» Curran guardò dentro la tazza da caffè sbreccata che aveva sulla scrivania come per assicurarsi che fosse proprio vuota. «Non mi ricordo più i nomi», disse. «È passato troppo tempo da quando lavoravo alla Buoncostume. Le prostitute che conoscevo ormai saranno vecchie sdentate oppure nella tomba. Ma lo Scarberry è sempre uguale: in quei vicoli ti scopano
anche dietro i cassonetti della spazzatura.» Il suo disprezzo per le donne non si limitava alle prostitute, Stella ne era certa. Con calma disse: «Anche la Narcotici pattuglia quei luoghi». Curran posò la tazza. «Non lavoro più in borghese, ormai. Sono troppo vecchio e c'è troppa gente che mi conosce. Ma a volte ci passo in macchina o ci mando qualcuno.» «A cercare cosa?» «Eroina. Molte prostitute sono tossicodipendenti ed è più facile far parlare loro che non gli spacciatori.» Il tono di Curran era pieno di disprezzo. «Hanno più paura di finire dentro. Chi glielo fa fare di restare senza lavoro e senza roba? Il problema è che di solito si riforniscono da gentaglia di livello talmente basso che Jack Novak non l'avrebbe nemmeno considerata, oppure pagano in natura.» Di nuovo sorrise. «In cambio di una dose sarebbero disposte a succhiarlo anche a Rock Hudson. Dopo averti dato una mano a riesumarlo.» «Ma andrebbero via in macchina con lui?» ribatté fredda Stella. Con un sospiro, Curran si assestò sulla poltrona. «Allora vuoi che ti parli di prostituzione.» «No. Voglio sapere qualcosa di più sullo Scarberry.» Curran esitò, come se continuare gli costasse un certo sforzo. «Rivolgiti a Dance e a quelli della Buoncostume. Comunque, lo Scarberry è una fogna dove trovi sia droga sia donne, ma tutt'e due di bassa lega. Ci sono prostitute che ti rubano il portafoglio, altre che hanno un protettore, ma la maggior parte sono indipendenti, si arrangiano da sole.» Girò di nuovo l'anello. «È una zona pericolosa. Certe si tengono d'occhio a vicenda, stanno attente che qualche maniaco non faccia a pezzi una collega con un coltello da macellaio. Dance sa a chi chiedere. Se Fielding l'ha adescata lì, è probabile che qualcuno abbia visto la sua macchina.» «E dove portano i clienti?» «In macchina, per strada, come ti ho detto, in albergo, ma in quel caso devono pagare. Perché dividere con l'albergatore i cinque dollari di un pompino da cinque minuti, che è il massimo che uno è disposto a pagare se ha un po' di sale in zucca? Comunque, una prostituta con un po' di sale in zucca non andrebbe mai via in macchina con uno sconosciuto.» Alzò di nuovo gli occhi con aria meditabonda. «Se va a casa sua, è solo perché lui le offre della droga. Ma forse nemmeno così. Bisogna che la paghi molto di più e che lei lo conosca già.» Stella aprì la valigetta. «Quand'è l'ultima volta che sei stato nello Scar-
berry? Per caso giovedì?» «La sera in cui è morto Fielding, intendi dire?» ribatté Curran. «No. Forse un giorno o due prima. Martedì, direi.» Stella tirò fuori le foto scattate sulla scena del delitto e gliele porse. «Li riconosci?» Curran sparse le foto davanti a sé. Prese da un cassetto un paio di occhiali da presbite e strizzando gli occhi guardò i due cadaveri nudi. «Lui, no», rispose. «Nello Scarberry non l'ho mai visto. Lei, non saprei. Magari al buio, passando in macchina. Vedrai che quelli della Buoncostume la conoscono.» Le restituì le foto. «Martedì scorso», disse Stella. «A che ora?» «Non era tardi: le nove, le nove e mezzo. Non mi ricordo.» Stella richiuse le foto nella valigetta. «Hai buona memoria per le macchine?» chiese. «Certamente.» Il tono era di nuovo spazientito. «È così che si riconoscono gli spacciatori.» «Ricordi di aver visto una Lexus bianca? Modello 1999?» Curran rimase zitto. «Una macchina da signora», commentò sottovoce. «Di quelle che si vedono nei parcheggi dei country club. È passata un paio di volte, come se stesse cercando qualcosa, e poi è sparita. Forse doveva rientrare a casa entro una certa ora.» Adesso lo sguardo era molto interessato. «Aveva una targa personalizzata?» Stella, emozionata, rispose: «PLAY BALL». Curran si appoggiò all'indietro e scoppiò in una gran risata, gli occhi divertiti di fronte all'inesorabilità della follia umana. «La partita è finita, povero ragazzo», esclamò. «Abbiamo già passato al setaccio lo Scarberry», la informò Dance al telefono. «Nessuno ricorda Fielding, né di aver visto la sua Lexus.» Dalla scrivania, Stella vedeva lo stadio e gli operai che andavano e venivano sulle impalcature come un esercito di formiche. «Se quello che mi ha detto Curran è vero, forse Tina Welch lo conosceva già.» «Curran...» Il tono laconico di Dance aveva una sfumatura indefinibile. «Vi siete piaciuti?» «Non particolarmente.» Stella esitava, incerta su quanto rivelargli. «Ma pensa che Jack Novak frequentasse prostitute. E che gli piacessero i travestimenti.» Dance taceva. «Forse dovresti venire con me», disse alla fine. «Sto per
andare a trovare l'amica di Novak. Sostiene di essere l'ultima persona che lo ha visto vivo. A parte, se le vogliamo credere, il suo assassino.» 7 Erano le tre quando Dance e Stella arrivarono nella mansarda di Missy Allen, da cui si godeva una vista panoramica. Il pallido sole invernale brillava fioco sul grigio plumbeo del lago. Dance e Stella si sedettero sul divano, la Allen rimase in piedi. Si muoveva veloce, a scatti, ora per prendere un bicchiere vuoto dal tavolino basso, ora per raddrizzare una pila di riviste, e parlava un po' affannosamente, con frasi che si accavallavano l'una sull'altra, tradendo la consapevolezza di essere nella rosa dei sospetti. Faceva la modella, spiegò, ma lavorava saltuariamente, spesso chiamavano ragazze più giovani e a lei restava troppo tempo per pensare a Jack e a quella telefonata. «Sono così contenta che siate venuti», esordì. «Da quando Jack... Sono così agitata... Voglio dire, ogni volta che squilla il telefono penso che sia l'assassino.» Si fermò di botto, allargando le braccia in un gesto teatrale di angoscia e rassegnazione. Aveva i capelli lunghi e biondi, con le mèche, un viso troppo liscio e privo di rughe per avere quasi quarant'anni e le unghie di un rosso vistoso che a Stella parevano finte. Che cosa avevano in comune Melissa Allen e lei? Come mai avevano entrambe attratto Jack Novak? «Ci racconti di quella sera», la invitò Dance nel suo tono flemmatico. «Tutto quello che ricorda.» Missy Allen s'immobilizzò, come se non avesse capito, quindi annuì con un certo ritardo. «Tutto», ripeté e, camminando avanti e indietro nel soggiorno, cominciò a parlare ansiosamente, rovesciando su di loro un fiume di ammissioni. Quella notte doveva fermarsi da lui. Sì, prendeva la cocaina. Nel suo giro lo facevano quasi tutte, per reggere allo stress del lavoro, alle sedute di posa che non finivano più, alle convocazioni e ai secchi rifiuti con cui si veniva congedate se non si aveva il look giusto. Ma la cocaina non era un problema né per lei né per Jack. Stella in cuor suo decise che non era vero e, quando Missy si mise a piangere, ebbe il dubbio che fosse drogata anche in quel momento. Poi la donna si sedette di colpo, come se l'effetto della droga fosse improvvisamente svanito. Dance e Stella la fissarono. Sconcertata dal loro silenzio, la Allen ricominciò a parlare, stavolta con aria più tormentata e impaurita, e descrisse
la serata in cui era morto Jack Novak. Jack era un po' su di giri. Erano rimasti fino alla chiusura del ristorante e Jack aveva ordinato vari tipi di whisky di puro malto e si era lamentato del servizio. Missy aveva capito che doveva aver sniffato quand'era andato al bagno. Stava diventando imprevedibile e le faceva paura, per cui, quando aveva chiuso la porta dell'appartamento e le aveva chiesto di spogliarsi, non era stata a discutere: aveva gli occhi troppo accesi. L'unica cosa che gli aveva chiesto era un po' di coca. Con una lentezza esasperante, Jack aveva preso una lametta e preparato una riga sottile. Non appena la polverina fresca le era entrata nelle narici, Missy si era sentita meglio: la cocaina le aveva snebbiato la mente da tutto il borgogna bianco che aveva bevuto; con raggelante chiarezza, le era parso di trovarsi nella stanza e nel contempo di osservarla da fuori. Le luci erano troppo forti, ma, quando aveva allungato la mano per spegnere la lampada di fianco al divano, Jack le aveva detto a bassa voce: «Lasciala accesa». Si era voltata a guardarlo. La luce spietata metteva in evidenza le rughe profonde sul viso e le borse scure sotto gli occhi. La testa le diceva di lasciarlo, ma il corpo non voleva. Le offerte di lavoro stavano diventando più rare e, purché lei lo accontentasse, Jack era disposto a mantenerla in un appartamento che le altre ragazze le invidiavano. Quand'era affettuoso e le accarezzava la schiena o le leggeva versi di Verlaine, Missy s'illudeva quasi di amarlo... Jack era sparito in camera da letto. Dopo un po' era tornato con un paio di manette che gli dondolavano mollemente dalle dita. In silenzio, si era spogliata con gesti tanto automatici che la sua mente si era messa a divagare. Aveva mangiato troppa cioccolata: l'indomani avrebbe fatto un'ora di cyclette. Mentre Jack le si metteva dietro le spalle, Missy aveva guardato la propria pancia piatta e si era chiesta quanto ancora sarebbe durata. Jack l'aveva baciata sulla nuca. Missy aveva riconosciuto il segnale e docilmente aveva portato le mani dietro la schiena. Quand'erano scattate le manette, aveva abbassato gli occhi. Il rumore della lampo dei pantaloni di Jack l'aveva riempita di tristezza. In un lampo di cupa lucidità aveva pensato che si era spinta troppo in là, arrivando a fare cose che prima di mettersi con Jack non avrebbe mai immaginato di fare. Aveva sempre voluto essere bella e desiderata, amata da
un uomo che si prendesse cura di lei anche una volta passata la fase dell'infatuazione. Quando aveva conosciuto Jack, era già tardi e aveva sperato che fosse lui... Goffamente, si era inginocchiata sulla moquette ruvida che le graffiava la pelle. Le manette avevano uno strano effetto sull'equilibrio. Si era raddrizzata, avanzando verso di lui strisciando sulle ginocchia. Jack era seduto sul divano coi pantaloni alle caviglie. Non ce l'aveva ancora duro; ultimamente aveva qualche difficoltà e si aiutava col nitrito di amile, o guardandola insieme con un altro. A seconda di quello che voleva Jack, aiutava anche lei... Si era chinata in avanti e glielo aveva preso in bocca. Lentamente, aveva chiuso gli occhi, cercando di pensare ad altro. In quel momento era suonato il telefono e Jack era trasalito. Gli squilli erano riecheggiati aspri e invadenti nel silenzio. Con sua sorpresa, Jack si era alzato per rispondere. Missy aveva posato la faccia sul divano, contenta di quell'attimo di tregua. L'indomani, dopo la cyclette, avrebbe telefonato alla madre. Maggie Allen le aveva sempre detto che era bellissima, com'era stata lei stessa prima di avere i figli. Ancor prima che le crescesse il seno, sua madre le aveva insegnato a truccarsi, a vestirsi, a sfilare in passerella. La guardava allo specchio e sorrideva: era come rivedere se stessa da giovane, diceva, e Missy aveva imparato presto a osservare la propria immagine riflessa, quand'era sola, in cerca della bellezza che sua madre vedeva così chiaramente... «Adesso?» aveva sentito esclamare Jack. Che ora è? si era chiesta Missy, ed era stata presa dall'ansia al pensiero che invitasse qualche sconosciuto. Il tono di Jack era teso, sul chi vive. «Dammi dieci minuti», aveva detto. Quando aveva udito i suoi passi sulla moquette, Missy aveva chiuso di nuovo gli occhi. Aveva sentito che Jack afferrava le manette, poi un clic quando le aveva aperte e lasciate cadere a terra. «Devi andare», le aveva ordinato brusco, incalzante. Missy sapeva che, come sempre, non le avrebbe dato spiegazioni. Mentre si rivestiva, Jack aveva cominciato a camminare avanti e indietro come se lei non ci fosse già più. Senza dire una parola, aveva aperto la porta per andare. Di nuovo, si era sentita sfiorare la nuca dalle labbra di Jack, che sottovoce le aveva chiesto: «Te la senti di guidare?»
Sorpresa, si era voltata e le si erano riempiti gli occhi di lacrime. Aveva annuito in silenzio. Jack l'aveva guardata a lungo, come per scrutarle nell'anima, e in tono gentile le aveva detto: «Chiamami domani, non appena ti svegli». Missy gli aveva dato un rapido bacio ed era uscita nella notte gelida. Stella aveva un groppo allo stomaco, non solo per il riaffiorare di ricordi angosciosi, ma per i dubbi che la attanagliavano. Era fin troppo facile immaginare l'odio represso di una donna che si sentiva maltrattata esplodere in una furia irrazionale, alimentata dall'alcol e dalla cocaina. Non ci voleva un uomo per dare un calcio a uno sgabello o per castrare un cadavere. «Uscendo, ha visto qualcuno?» chiese. «No.» Missy Allen pareva esausta. «Ricordo che fuori c'erano delle macchine, ma ce n'erano sempre.» Stella prese fiato. «Lei sa com'è morto Jack.» La Allen annui e distolse lo sguardo. Stella si accorse che era effettivamente molto bella: zigomi alti, luminosi occhi marroni, un'aria eterea che dava un tocco di vulnerabilità al fascino da modella. Ma prima o poi la chirurgia estetica l'avrebbe rovinata: la pelle era già troppo tesa e il viso avrebbe finito per prendere l'aspetto lustro e artificiale di una bambola di porcellana. Da una parte, Stella provava una grande pietà per Missy Allen; dall'altra, per quello che ne sapeva, poteva benissimo essere stata lei a cancellare le proprie impronte dal coltello. Dance, seduto sul divano accanto a Stella, la studiava in silenzio. Sottovoce le domandò: «Novak le aveva mai chiesto di legarlo?» La donna spalancò gli occhi. «No.» «O di stringergli un laccio intorno al collo?» «No.» La voce le s'incrinò. «Io non ne sapevo niente.» In quelle parole c'era una studiata indignazione che fece riflettere Stella. Missy Allen era insicura, nevrotica, senz'anima, e Stella aveva imparato per esperienza che le donne così mentivano abitualmente nella convinzione che le bugie fossero un mezzo per sopravvivere; messe alle strette, spesso raccontavano altre bugie, proprio con l'aria melodrammatica e offesa che Missy Allen aveva in quel momento. «Diceva che Novak la guardava fare sesso con altri», chiese in tono neutro. «Uomini o donne?» Missy Allen alzò la testa e la scosse, mandando i capelli all'indietro come se si preparasse ad affrontare la passerella. «Tutt'e due», rispose.
Stella esitò, poi chiese con un filo di voce: «Jack aveva rapporti sessuali con loro?» «Con le donne.» La Allen si morse le labbra. «Ma più che altro gli piaceva guardarmi. Mi chiedeva di fare delle cose con gente che non conoscevo. A volte con donne che pagava apposta.» La voce si ridusse a un sussurro. «Perlomeno loro non mi facevano del male. Non come la prima volta, col suo cliente...» Stavolta fu Stella a chiudere gli occhi. Era estate e la piccola striscia di sabbia davanti alla casa di Jack sul lago luccicava per l'umidità. Stella era seduta sulla riva coi piedi a bagno e lanciava sassolini nell'acqua appena increspata. Pur essendo primo pomeriggio, aveva già bevuto troppo e si sentiva confusa, con i riflessi rallentati dal vino e dal sole. Il bikini ridottissimo che le aveva regalato Jack le pareva meno succinto, o forse non se ne rendeva più conto. Non era abituata a bere. Le era sempre piaciuto quel posto, che considerava una specie di rifugio dalla monotonia del lavoro e dell'università, dal ritmo frenetico della vita di Jack. Eppure beveva, per attenuare il senso di disagio che provava al pensiero del lavoro, di se stessa e di quel che stava diventando, dell'irrequietezza di Jack, che sembrava avere bisogno di stimoli sempre nuovi. E soprattutto della notte precedente. Allora aveva preso la bottiglia e si era riempita di nuovo il bicchiere di plastica, guardando le onde che battevano sulla riva e l'acqua azzurra al sole del pomeriggio... Nel buio della camera da letto, la domanda di Jack le era sembrata implorante, disperata. «Che genere di fantasie?» aveva mormorato. «Diverse.» L'aveva baciata sul collo e con la sua voce bassa, tranquilla, aveva detto: «Ora ti spiego». A Stella aveva cominciato a girare la testa, ma forse era perché aveva bevuto troppo a cena. Sdraiata sul letto, confusa, aveva sentito le labbra di Jack sul ventre. Forse quella notte avrebbe scoperto che cosa aveva nel cuore. Dopo un po', l'aveva penetrata. Lei lo aveva assecondato, ascoltando solo in parte la storia che lui le bisbigliava su uno sconosciuto che li guardava nel buio. Solo quando, al culmine della storia, era venuto, si era resa conto che, nella fantasia, era stato lo sconosciuto a entrare dentro di lei... Ripensando alla notte precedente, Stella aveva bevuto un altro sorso. «È
stato bellissimo guardarti», le aveva detto Jack. Adesso la aspettava in casa. A pranzo gli aveva detto che voleva stare un po' sola e, con suo grande sollievo, Jack non aveva fatto obiezioni e l'aveva mandata via con una bottiglia di vino bianco. Fantasie, sogni. Che cos'aveva Jack Novak per far sembrare così trite le aspirazioni di Stella? Una laurea in legge, una casa, un compagno che la capisse come Jack nei momenti migliori. Magari un giorno un marito, una figlia dallo sguardo vivace, cui dare tutto l'amore e la stima che a lei erano tanto mancati. Perché non trovava il coraggio di dire queste cose a Jack? Per un po' - Stella non avrebbe saputo dire quanto - i suoi pensieri si erano confusi coi riflessi del sole sull'acqua. Quando aveva preso la bottiglia, era vuota. Si era alzata e lentamente si era diretta verso casa. Era ubriaca e avanzava a passi esitanti, malfermi; c'era troppo sole e il mondo - il roseto, gli alberi che ombreggiavano la casa di legno - sembrava finire pochi metri più avanti. Arrivata alla terrazza, si era appoggiata alla ringhiera per non perdere l'equilibrio, poi aveva aperto la zanzariera ed era entrata. Il soggiorno era fresco e in penombra. Stella aveva riconosciuto il lieve ronzio del ventilatore al soffitto e poi le note del Requiem di Verdi provenienti dallo stereo di Jack. La villa non corrispondeva all'idea che Stella aveva delle case per le vacanze: era arredata con cura e sugli scaffali che coprivano intere pareti c'erano libri d'arte, bestseller recenti, collane di classici rilegati in pelle che le davano un senso di tranquillità, di sicurezza. Guardandosi intorno in cerca di Jack, era trasalita. Dal sofà si era alzato un nero alto, bello, con gli occhi di un verde sorprendente e un fisico muscoloso sotto jeans aderenti e T-shirt, un lieve sorriso agli angoli della bocca sensuale. «Dov'è Jack?» gli aveva domandato con voce tesa. Aveva paura. Poi aveva visto Jack che osservava in disparte sorridendo tra sé e le era venuto il sospetto che avesse architettato tutto. «Ti presento Diego Carter», le aveva detto, disinvolto. «Un cliente. E un amico.» Stella era rimasta di sasso. Gli aveva rivolto uno sguardo implorante, in cerca di una spiegazione, poi si era resa conto che Jack non gliene avrebbe date e che comunque non ne occorrevano. Sottovoce gli aveva domandato: «Posso parlarti?» «Certo.» Jack l'aveva presa per mano come una bambina e l'aveva accompagnata in camera.
Lei era rimasta in piedi con le braccia lungo i fianchi. Lui le aveva dato un bacio in fronte e l'aveva guardata negli occhi. «È perché è nero?» Stella aveva scosso la testa, incapace di trovare le parole. Lentamente, col tocco di un amante rispettoso, Jack le aveva slacciato il reggiseno del bikini e lo aveva lasciato cadere a terra. Stella lo aveva guardato sbigottita, a testa bassa, sopraffatta dalla piega che stavano prendendo gli eventi. «Stai tranquilla, Stella», le aveva detto lui in tono rassicurante, ma con una certa insistenza. «Ci sono io. Non ti succederà niente.» A Stella era venuta la nausea. Aveva fatto un passo in avanti, barcollando. Jack l'aveva sorretta. Sebbene temesse moltissimo l'abbandono e il distacco, soprattutto da quand'era andata via di casa, aveva alzato un braccio e l'aveva schiaffeggiato. Jack aveva vacillato. Con voce tremante, lei gli aveva detto: «Dammi le chiavi della macchina. Subito». Lui si era toccato le labbra. «Non sei in condizioni di guidare. Non posso lasciarti andare», aveva ribattuto, secco. Stella si era sentita certa di aver chiuso con lui, ma il timore che per Jack fosse diverso le aveva provocato una nuova ondata di panico. Si era vista trasformata in giocattolo, alla mercé di due uomini, e in preda al disperato bisogno di ritrovare se stessa aveva capito che la sua autostima e la sua identità erano in pericolo quanto il suo corpo. Con tutta la calma che era riuscita a trovare, aveva risposto: «Allora mandalo via». Jack taceva. Nell'ombra della stanza, avevano continuato a fissarsi. «Subito», gli aveva ordinato a denti stretti. Per un altro momento che le era parso lunghissimo, Jack era rimasto immobile, poi era uscito chiudendosi la porta alle spalle. Ancora mezza nuda, Stella era scoppiata a piangere. A tredici anni di distanza, Stella osservò Melissa Allen e chiese: «Questi uomini... quelli con cui Jack la faceva stare, si arrabbiavano mai, con lei o con lui?» «Non lo so.» Missy Allen, pensosa, parve chiudersi a riccio, con le ginocchia strette. «Non quando c'ero io... Cioè, non ricordo...» «Rammenta qualche nome?» «Non mi diceva mai come si chiamavano.» Missy Allen distolse lo
sguardo. «A volte portavano una maschera.» Stella lanciò un'occhiata a Dance che, come al solito, era impassibile. A giudicare dalla sua faccia, Missy Allen avrebbe potuto descrivere i quadri appesi alle pareti di casa Novak. Stella invece aveva le mani sudate. «Novak si metteva mai calze da donna?» domandò Dance. «O scarpe col tacco?» «Jack?» La voce di Missy era più bassa, roca. «No. Me le mettevo io.» Stella prese fiato. «E quella sera?» continuò Dance. «Tornati a casa, avete bevuto altro whisky?» Ci fu una pausa e la donna si rabbuiò, concentrata. «Io no. E non credo che abbia bevuto altro nemmeno Jack.» Non restava che prenderle le impronte digitali. Dance incrociò le mani davanti a sé. «Novak sembrava spaventato al telefono? O preoccupato?» La donna pareva assorta. Il contrasto tra il comportamento frenetico di poco prima e la fiacchezza di quelle ultime frasi accentuò la perplessità di Stella. «Non mi pare», rispose. «Direi che sembrava cauto o rispettoso. Non capivo perché aveva risposto...» Nemmeno Stella lo capiva, ammesso che Missy Allen avesse detto la verità. «Sa se aveva problemi sul lavoro?» chiese Stella. L'amante di Jack si scostò nervosamente i capelli dal viso. «Non mi parlava mai del suo lavoro. Credo che non volesse farmi sapere troppe cose.» In tono più dolce, aggiunse: «Io volevo solo accontentarlo e farlo felice». Stella tacque, riflettendo sui dubbi che nutriva circa la storia della Allen e ripensando a quando lei stessa si era illusa e aveva sperato, chissà come, di poter aiutare Jack Novak a trovare la pace. Poi ricordò quell'ultimo weekend, le ultime parole che gli aveva detto salendo in macchina e voltandosi a guardarlo nel buio. «Hai un buco nel cuore, Jack. Mi sembra di sentire il vento che ci soffia attraverso.» Non sapeva, allora, quanto male le aveva fatto. 8 «Da come me lo descrive», disse Martin Breyer mezz'ora più tardi, «questo non è un uomo capace di relazionarsi agli altri. A meno che il suo concetto di 'relazione' non sia piuttosto elastico.» «Infatti», ribatté Stella. «L'uomo in questione è morto.» Breyer la osservò da dietro gli occhiali con la montatura di tartaruga.
Come lo studio - monastico, impersonale, con le pareti azzurrine -, a Stella gli occhiali parevano accessori indispensabili per uno psichiatra, categoria che, nella vita privata, le ispirava un'inquietudine assai simile alla paura. Ma in veste professionale le capitava di tanto in tanto che la difesa si appellasse all'incapacità d'intendere e di volere dell'imputato e, in Breyer, Stella aveva trovato un perito il cui senso di responsabilità e i cui valori morali collimavano coi suoi. Inarcando le sopracciglia, abitudine che accentuava la magrezza del volto lungo e coronato da capelli bianchi, Breyer s'informò: «Stiamo forse parlando del povero avvocato Novak?» «Sì. Confidenzialmente.» Breyer si appoggiò una sottile penna d'argento sulle labbra. «Mi ha elencato una gamma interessante di caratteristiche personali: fascino, grandiosità, disdegno per le norme del vivere sociale, grande capacità di manipolare il prossimo, profonda paura della mediocrità, disperato bisogno di colmare un vuoto interiore. Nel complesso, c'è qualcosa di molto triste in lui.» Strinse gli occhi. «Ne deduco che lo conosceva molto bene. O sbaglio?» Stella esitò. «Non sbaglia. L'ho frequentato per un certo periodo.» Di nuovo le sopracciglia s'inarcarono. «Abbastanza da aver constatato di persona alcune di queste caratteristiche.» Non era una domanda. Stella lo guardò negli occhi e bruscamente rispose: «Abbastanza da scoprire quali erano i miei limiti». Gli occhi grigi dello psichiatra erano attentissimi. «Ma non abbastanza da sapere quali erano quelli dell'avvocato Novak», osservò alla fine. Stella annuì. «Sempre che ne avesse. L'esperienza dei suoi amici più recenti induce a pensare che non gliene fossero rimasti molti. E poi c'è il modo in cui è morto.» Breyer accavallò le gambe, continuando a muovere la penna tra le dita lunghe e affusolate, che contribuivano a dargli un aspetto ascetico e professorale, da vecchio saggio. «Ha accennato al voyeurismo e al gusto per il sesso trasgressivo. Quindi cominceremo da qui. Secondo me, questo indica non solo la continua ricerca della novità - questo è ovvio - ma anche una volontà di controllo.» Strinse le labbra. Stella intuì che si rendeva conto sia del suo imbarazzo sia del suo desiderio di nasconderlo e che voleva essere delicato. «Costringere un'amante, se così la si può definire, a darsi ad altri uomini è contrario all'amore e all'intimità. Fa pensare che parte del suo piacere consistesse nel negare i limiti della partner, costringendola a adeguarsi alla propria sregolatezza. Avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di sottolineare il proprio bisogno di essere diverso, speciale, potente.» Breyer ab-
bassò il tono. «Immagino che questo fosse un bisogno che non riguardava solo il sesso. E, per soddisfarlo, l'uomo che lei mi ha descritto sapeva essere molto seducente e giocava su uno straordinario istinto nel riconoscere le debolezze altrui.» Dopo un po', Stella si rese conto di dover dire qualcosa. «Arrivai a capire che era capace di tutto. Anche di piangere.» Breyer la guardò con velata curiosità. «Quanti anni aveva quando vi frequentavate?» Dietro il distacco, Stella intuì un'insolita compassione. «Poco più di venti.» Lo psichiatra staccò gli occhi dalla penna. «Chiunque sia sfuggito a quest'uomo, a qualsiasi età, ha avuto ragione», sentenziò. Era così chiaro che nutriva dei dubbi su se stessa? si chiese Stella. Ma il tono di comprensione dello psichiatra le era di grande conforto. Forse, ammise tra sé, si era rivolta a lui anche per quello, benché pensasse che non avrebbe mai avuto il coraggio di tornarci a titolo personale. «Jack mi aiutò a capire chi ero», disse. «Almeno in un certo senso.» L'altro annuì. «Viviamo in base a regole. Abbiamo bisogno di regole.» Aggrottò la fronte, pensoso. «Ma anche la devianza ha le sue regole, ed è qui che la sua descrizione mi lascia perplesso.» «In che senso?» «Le fantasie sadomaso sono abbastanza coerenti, ma non riesco a capire reggicalze e tacchi a spillo. Addosso a lui, voglio dire. E neanche il laccio strangolatore.» Stella si assestò sulla poltrona. «Non so che dire... L'unica prova in tal senso, finora, è lo stato in cui l'abbiamo trovato.» Breyer fece roteare la penna. «Be', il problema, secondo me, è questo, e vediamo se la mia ipotesi le sembra plausibile. Come mi pare le abbia fatto capire anche la dottoressa Micelli, i soggetti dediti a forme estreme di autoerotismo sono tendenzialmente individui solitari e piuttosto patetici, soprattutto se indossano biancheria femminile. Sono soli e si vergognano. Da molti punti di vista, la loro è una metafora della solitudine assoluta. Come suggerisce anche il gioco con la morte, quale che sia lo stimolo che ne ricavano. Non voglio dire che non possano trovare un partner. Alcuni ci riescono. Forse c'è un certo conforto nel far sentire il proprio dolore a un'altra persona. Ma, per arrivare a questo, devono aver raggiunto un certo grado di sofisticazione e in tal caso hanno i loro bravi manuali sadomaso, le cinghie di pelle, le sciarpe per non farsi venire i lividi, e sanno fin dove pos-
sono arrivare. Il che significa che non si azzardano a usare uno sgabello, visto che basta mettersi in punta di piedi.» Senza volere, Stella rivisse il momento in cui Kate Micelli aveva voltato il corpo nudo di Jack per mostrarle quanto erano legati stretti i polsi. «Quindi a lei pare strano che avesse compagnia», concluse. «Ritengo che, molto probabilmente, l'abbia ucciso un sadico, ma mi riesce più difficile accettare che Novak fosse masochista. Quello che mi sembra strano è che abbia collaborato e anche gli strumenti un po' rozzi che sono stati usati non mi convincono. Dalla sua descrizione inoltre emerge un uomo con un fortissimo istinto di sopravvivenza, uno che aveva ben chiaro chi poteva sfruttare o evitare e fin dove poteva spingersi. Non sembra uno che sottovaluti le cattive intenzioni dell'altro.» Assunse un tono meditativo. «Vorrei poterle dire esattamente come sono andate le cose, ma ho delle perplessità.» «Anche a me disturba non capire.» Breyer parve esitante. «Forse non vuole, Stella. Senta, io credo di doverla mettere in guardia. Novak amava il brivido. E il suo senso d'invulnerabilità non poteva che essere esaltato dalla cocaina. Non si può escludere pertanto che la sua morte sia avvenuta esattamente come sembra e che lui abbia semplicemente valutato male la sua partner.» Fece una nuova pausa, come indeciso se continuare o no, poi in tono quasi paterno aggiunse: «Occuparsi di questo caso è l'ultima cosa che le avrei augurato, Stella. Quale che sia la verità, spero che non sia più amara di quella che ha appreso oggi». Ripensando all'avvertimento di Saul Ravin, anche Stella rimase un momento in silenzio. «Come potrebbe?» chiese allarme. In procura, pensò Stella al suo rientro, regnava un'insolita attività: due agenti in divisa le passarono accanto in fretta nel lungo corridoio e il personale di segreteria davanti all'ufficio di Charles Sloan, un miscuglio in cui erano rappresentati tutti i gruppi etnici di Steelton, sembrava sovraccarico di lavoro e di malumore. C'era odore di caffè bruciato. Stella entrò nella stanza di Sloan e chiuse la porta: già correvano voci sulla loro rivalità e sul fatto che si sarebbero trovati a competere per il posto di Bright e non aveva nessuna voglia di peggiorare la situazione. Sloan la osservò e nel tono più neutrale possibile le chiese: «Cosa posso fare per te?» Pur non essendo stata invitata ad accomodarsi, Stella si sedette. «Ho bi-
sogno di aiuto per il caso Novak.» Sloan strizzò gli occhi. «Che genere di aiuto?» «Ho delle perplessità sulla dinamica dell'omicidio e anche Dance ha dei dubbi. Supponiamo che Jack fosse solo: cadrebbe il movente sessuale, passionale.» «Nathaniel Dance è qui per accertarlo», rispose secco Sloan. «C'è dell'altro. Qualcuno aiutava Jack ad aggiustare i processi, secondo me. E anche secondo Saul Ravin e Johnny Curran. Non molti, ma importanti.» «Qualcuno?» ripeté con freddezza Sloan. «Forse qualcuno della polizia. Ricordi il caso George Flood?» Lo guardò negli occhi. «Non capita tutti i giorni che vengano 'accidentalmente' distrutti cinque chili di cocaina.» Sloan taceva, ma Stella gli lesse negli occhi che lo ricordava. «George Flood era un killer», continuò. «Come anche altri clienti di Jack. Supponiamo che Jack gli avesse promesso un miracolo, ma stavolta non ci fosse riuscito.» Sloan si sporse in avanti. «Il giorno dopo il suo assassinio, Stella, hai insinuato che Jack Novak - che ha finanziato la campagna elettorale di Arthur - fosse l'avvocato di Vincent Moro. Adesso stai dicendo che truccava processi. Perché non vai in fondo al corridoio e non spari in testa ad Arthur? Oppure ti schieri direttamente dalla parte di Tom Krajek?» Stella represse la propria rabbia. «Non credo che Curran, Ravin e io siamo gli unici tre in tutta Steelton ad avere dubbi su Jack Novak. Preferiamo che ci arrivi qualcun altro? Magari lo Steelton Press?» Con sarcasmo aggiunse: «So di essere più ingenua di te, Charles, ma io sono convinta che l'integrità paghi. Tienine conto». Sloan la fissava. «A me interessa solo che Arthur diventi sindaco, in maniera che la sua integrità possa servire a qualcosa di meglio che mettere a posto la tua coscienza. Per me questo conta molto di più di un avvocato morto con cui non ho mai avuto nessun rapporto personale.» Dopo qualche istante di silenzio, sbottò: «Se hai qualcosa che ti rode, fatti un esame di coscienza, cazzo». Stella arrossì. Con considerevole sforzo riuscì a rispondere in tono pacato: «E da Arthur vuoi che ci vada da sola o vuoi venire con me?» Sloan, che di solito era irrequieto, restò immobile e Stella capì di aver colpito nel segno: quell'uomo teneva moltissimo ad avere un rapporto esclusivo con Arthur Bright. «Arthur non può perdere tempo a far da pacie-
re tra noi», replicò. «Come ho accennato, sta cercando di farsi eleggere sindaco.» «Ragion per cui non possiamo decidere al posto suo.» Sloan appallottolò un cartoccio di fast-food e lentamente aprì la mano per contemplarne i resti, poi chiese: «Che cosa vuoi?» «Una persona capace, che mi aiuti a passare al setaccio l'archivio di Jack.» Dopo un momento di esitazione, continuò: «Sarebbe utile che s'intendesse anche di malavita organizzata, visto che Nat Dance non ne sa molto». «Vuoi un aiuto», disse Sloan piano, ma in tono acido. «Perché continuo a dimenticare che stiamo 'aiutando' Arthur Bright?» Stella non rispose. Sloan si voltò dall'altra parte come se, al momento di tirarsi indietro, non osasse guardarla in faccia. «L'aiuto che ti darò è qualche ora del tempo di Michael Del Corso. Ho detto 'qualche ora'.» Prese il telefono, ma si fermò con la mano a mezz'aria e la squadrò. «Voglio sapere come ti muovi, Stella. Tutto quello che fai.» Stella uscì e tornò nella sua stanza. Aveva ancora una difficoltà da affrontare, la più sgradevole di tutte. Ma era stato Sloan a ricordarle quanto fosse necessaria. Quando arrivò a casa di sua sorella erano quasi le otto di sera. Katie Derwinsky andò ad aprirle e disse solo: «Entra». Coi capelli rossicci e il naso all'insù, Katie era una versione più in carne della madre, ma il modo di fare, né cordiale né ostile, era tutto suo. Stella era sicura che lo avesse studiato con cura, avendo deciso che, nella vita, era meglio mostrarsi indifferenti. Del resto quell'atteggiamento quadrava col modo in cui si era chiusa in se stessa dopo la morte della madre e il declino del padre. Anche la decisione di trasferirsi da Warszawa a un quartiere di periferia, in una casa piccolissima anni '50, a Stella era sembrata un'indiretta protesta contro la sua crudeltà per aver venduto la casa dei genitori. In quell'occasione, Katie l'aveva accusata chiaramente di averli abbandonati e di essere tornata solo per distruggere anche le loro radici. A Stella continuava a sembrare straordinario che due sorelle allevate dagli stessi genitori, con tre anni di differenza soltanto, potessero avere una visione così opposta e inconciliabile di tutto ciò che avevano in comune: padre e madre, vicende familiari, persino i ricordi più semplici.
Mentre andava con Katie in cucina, sentì alcune esclamazioni provenienti dal soggiorno. «È un cialtrone», stava sentenziando suo cognato. «È un deficiente strapagato.» Stella si fermò sulla porta. Da quando Steelton non aveva più una squadra di basket, si era talmente disinteressata di quello sport da aver dimenticato che Bobby ne era fanatico. Era seduto davanti alla TV con altri due uomini - di sicuro colleghi della Ford - e l'oggetto del suo scherno, come prevedibile, era uno strapagato giocatore nero, famoso per i gioielli vistosi e per le costanti spacconate. Bobby non era certo un uomo affascinante: con la pancia cascante, la barba alla Fu Manchu e l'immancabile berretto da baseball degli Steelton Blues, sembrava un profugo in uno spot della Miller High Life. Visto che avevano due figli, evidentemente Katie ci andava a letto, ma Stella aveva sempre trovato ripugnante l'idea e, per il bene della sorella, sperava che evitassero la posizione del missionario. Bobby alzò gli occhi e la vide. Subito sfoderò il suo solito sorriso provocatorio ed esclamò: «Lady Stella...» alludendo alla sua superiorità sociale di sostituto procuratore e mettendosi sulle difensive in previsione della discussione che dovevano affrontare. Imbarazzata e tesa, Stella ribatté: «Per te, principessa Stella...» Poi, in tono più affabile, aggiunse: «Ciao, Bobby». Al che, Bobby si fece scrupolo di presentarla educatamente agli altri dicendo: «Mia cognata, futuro procuratore della contea». Dopo un po' di convenevoli, gli uomini tornarono a guardare la partita e Stella seguì Katie in cucina. «Caffè?» le propose la sorella. Riempì due tazze e si sedettero al tavolo. Per l'ennesima volta, Stella pensò che i soprammobili di cui Katie si circondava - un'aquila di ceramica, ingenue statuine campestri - derivavano da una Polonia mitica con la quale cercava di ricostruire un passato familiare inesistente. Secondo Stella, una natura morta con una bottiglia di vodka e una statuetta di un'acciaieria dismessa sarebbero state molto più appropriate. Lasciò che il silenzio imbarazzato si prolungasse finché Katie, riluttante, non chiese: «Come sta?» «Oh, bene», rispose Stella. «Due domeniche fa ha recitato l'intero discorso di Lincoln a Gettysburg. Mi ero dimenticata che lo sapeva a memoria.» Vedendo che Katie si rabbuiava, si pentì di aver cercato di fare dell'iro-
nia e in tono più serio aggiunse: «Sta come al solito, Katie. Sono mesi che non parla. Dubito che sentiremo mai più la sua voce». «Ma fisicamente?» «Benissimo. O almeno così dicono.» Katie bevve un lungo sorso di caffè e posò con cura la tazza sul piattino. «Hai venduto la casa, Stella, e licenziato l'infermiera.» «Non ce l'avremmo fatta a mantenerlo, altrimenti. Lo sai.» «No, non lo so. Hai deciso tutto tu.» Stella ebbe la sensazione, tutt'altro che nuova, che la conversazione con la sorella non fosse un dialogo, ma un duello. «Era indispensabile», replicò. «È come un problema di matematica: quanti anni vivrà e quanto verrà a costare? Solo che nessuno sa la risposta.» Con grande sussiego, Katie macchiò di latte il caffè e lo mescolò finché non fu di suo gradimento. «Qualcosa devi sapere, altrimenti non saresti qui.» Infatti, pensò Stella colta da un impeto di rabbia. Sarei rimasta invisibile come lui. Sottovoce, disse: «Scusa il disturbo, Katie, ma papà continua a respirare e loro a mandare il conto a fine mese. Strano, eh?» Katie le lanciò un'occhiataccia. «Continuiamo tutti a respirare, Stella. Abbiamo respirato anche negli anni in cui non ci rivolgevi la parola. Mentre tu eri sulle prime pagine dei giornali, Bobby e io ci siamo sposati e abbiamo avuto dei figli. Però non ti mandiamo il conto, vero?» L'ingiustizia di quelle parole aiutò Stella a vincere il proprio imbarazzo. «Avresti potuto dare loro un aut-aut, Katie. Dire che, se non ti lasciavano invitare me al battesimo, non avresti invitato nessuno. Non sono stata lontana perché lo volevo io, ma perché faceva comodo a te. Per poter continuare a far parte della 'famiglia', come dicevi sempre.» Stella si fermò, poi riprese a voce più bassa: «Siamo ancora una famiglia, ma papà non fa più il bello e il cattivo tempo. Ha perso completamente la memoria e ha bisogno di qualcuno che gli cambi il pannolone. E né io né tu possiamo farlo». Katie incrociò le braccia. «Non si tratta solo di papà, ma anche di Deb e Jimmy.» Assunse un tono di stanca rassegnazione. «Bobby non arriverà mai a guadagnare novantamila dollari all'anno. Tu non hai mai avuto questi problemi, Stella, ma le scuole pubbliche fanno schifo. Paghiamo per mandarli alla Holy Name perché vogliamo dar loro un'educazione come si deve.» Stella, cercando di essere il più conciliante possibile, posò la tazza. «Non sto cercando di ricacciare i miei nipoti nel buio Medioevo, Katie. Lo
sai che non mi piace chiedere, ma ho bisogno di un piccolo aiuto. Solo temporaneamente.» «Sarà. Ma hai parlato coi medici, giusto? E pensi che camperà fino al 2001. E hai bisogno di soldi per diventare procuratore della contea.» Se non altro, pensò Stella, sua sorella non era una scema. «Il mondo è così semplice, vero? Non si tratta di nostro padre, ma di maternità contro ambizione, con me a recitare la parte della stronza egoista. Sceneggiatura di Katie Marz.» Katie si alzò di scatto. «Sei tu che te ne sei andata, Stella. Sei tu che ci hai abbandonati.» S'interruppe, forse perché le tremava la voce. «Ti sei laureata, vivi da sola: puoi permetterti di mantenerlo tu. Per quanto mi riguarda, è il minimo che tu possa fare.» Abbassò il tono e perfidamente aggiunse: «O ti manca il tempo di firmare un assegno?» Stella sentì cedere qualcosa dentro di sé e, insieme, avvertì che le ultime remore dettate dall'interesse e dall'educazione si stavano dissolvendo. Soltanto il senso di superiorità la spinse a scegliere il disprezzo anziché le urla. «Ho riflettuto molto sulla nostra infanzia», disse. «Su quanto è stato ingiusto che a me sia toccato il ruolo della figlia intelligente e a te di quella buona. Pensavo che in fondo fosse andata meglio a me perché io, per quanto mi sia costato, me ne sono andata, mentre la figlia buona è stata obbligata a rimanere... Invece mi sbagliavo. Tu sei troppo intelligente per comportarti bene anche quando gli altri non vedono. E non sei abbastanza buona da vergognartene.» Si alzò. «Non è colpa mia se sei come sei, Katie. Non è nemmeno più colpa della mamma e di papà. Sei una donna adulta, ormai, prenditi le tue responsabilità.» Katie s'irrigidì, furiosa. «Vattene», ordinò. Stella ebbe un flashback: ricordò di quando la sorella s'infilava impaurita sotto le coperte vicino a lei perché aveva fatto un brutto sogno. Katie si era sempre appoggiata a lei e ormai era troppo tardi per cambiare. «Mi dispiace», disse Stella. «Mi dispiace per tutt'e due.» Si voltò e uscì, con la certezza che Katie e lei non si sarebbero riparlate fino al giorno in cui non fosse morto il padre. 9 Stella e Michael Del Corso pranzarono su una panchina di Steelton Square vicino alla statua del maresciallo Pilsudski, imbrattata dai piccioni. Era una giornata insolitamente calda per quella stagione e i venditori am-
bulanti facevano affari con hot-dog e pretzel. La gente, sollevata da quella breve tregua nel gelo invernale, era uscita dall'accozzaglia di moderni grattacieli di vetro e vecchi edifici degli anni '30 per godersi il sole tiepido di mezzogiorno. Stella mangiava un pretzel. Al primo boccone del suo Polish dog, Michael osservò: «È così che c'incontreremmo se tu fossi Vincent Moro: all'aperto, dove non c'è pericolo di microspie e intercettazioni ed è più difficile che qualcuno riesca ad ascoltare quello che ci diciamo. Solo che mi avresti dato appuntamento di notte e in qualche posto imprevedibile». Staccò un pezzetto di pane e lo lanciò a un piccione. «E avresti paura che io avessi una pistola o un microfono nascosti da qualche parte.» Stella bevve un sorso del suo succo di mela. «Che paranoia.» «Che disciplina», la corresse Michael. «Mai rilassarsi, mai bere un goccio di troppo, mai lasciarsi avvicinare da nessuno. La regola numero uno è: 'Nessuna nuova conoscenza'. Non ti fidi nemmeno della gente che conosci da anni, uccidi chiunque ti possa incastrare prima che abbia l'occasione di farlo. Sei l'unico che resiste sulla piazza perché stai più attento degli altri.» Stella osservò Michael più da vicino. Arrivava al metro e novanta di statura e aveva un fisico da atleta che, insieme col naso da pugile, faceva pensare che i suoi allenatori di football lo avessero mandato allo sbaraglio. Aveva poco più di trent'anni e, tra i ricci nerissimi, s'intravedevano i primi fili bianchi; la lentezza che lo contraddistingueva e un accenno di pinguedine rivelavano un carattere flemmatico. Gli occhi scuri e lo sguardo contemplativo contribuivano ulteriormente a dargli l'aria di uno che ha visto in faccia verità molto amare. D'un tratto scoppiò in una risata che lo fece sembrare quasi un ragazzino e l'impressione di tristezza - istintiva e del tutto infondata, rifletté Stella - scomparve. «Se ti presento Moro come l'ultimo dei pistoleri è per innalzare me stesso al ruolo di Don Chisciotte dei burocrati», le disse. Quella scarsa considerazione di sé colse di sorpresa Stella, che ribatté in tono piatto: «Non riuscirò mai a incastrarlo». Michael la studiò. «L'FBI, forse», disse. «Tu no. Soprattutto per un omicidio con cui non ha niente a che fare.» «Perché io no? Parla per te.» La risposta era più brusca di quanto Stella intendesse e negli occhi di Michael brillò un lampo di divertimento, come se avesse riconosciuto il tacito conflitto che esisteva tra loro. «Okay», concesse. «Lasciamo Novak per un po' lì appeso e occupiamoci di Vincent Moro.»
Il tono basso con cui aveva pronunciato quella frase e l'accento popolare, probabilmente ereditato da genitori immigrati che in inglese sapevano dire solo l'indispensabile, resero ancora più caustica alle orecchie di Stella l'allusione alle circostanze della morte di Novak. «Moro è praticamente intoccabile», continuò lui, pacato. «A lui possono arrivare al massimo tre o quattro persone che lui protegge come se ne andasse della sua vita, perlomeno finché non si trova costretto a ucciderle. Perché è mafioso fino all'osso.» Stella notò che Michael non aveva quasi toccato il suo Polish dog. «Una quarantina di anni fa», stava proseguendo Michael, «ha smesso di andare a scuola e ha cominciato a lavorare per la malavita organizzata. Qualche anno dopo è finito nella stanza segreta - dove o quando non importa - in cui a lume di candela si compie un rito che è lo stesso da secoli. Gli hanno messo l'immaginetta di un santo nella destra e le hanno dato fuoco. Moro l'ha lasciata bruciare sino in fondo.» Le rivolse il primo, brevissimo sorriso. «Se ti sembra una storia degna del Padrino, prova a stringergli la mano: ha i polpastrelli coperti di cicatrici.» Stella diede un morso al suo pretzel. Michael parlava del boss in un modo che le fece venire in mente Johnny Curran: sembrava che anche lui fosse cresciuto con Moro. Stella non gli raccontò della sera in cui lo aveva visto nello studio di Jack e non aveva fatto caso alle mani, ma agli occhi. «Poi gli hanno punto un dito», riprese Michael con disinvoltura. «Sulle ustioni, perché ricordasse che il tradimento significa la morte. Naturalmente lui lo sapeva già. L'unico modo per entrare nel clan degli Scalisi era uccidere chi ti dicevano di uccidere. Nel caso di Moro, un cugino. Ha imparato a rispettare le regole e continua a rispettarle. Chi lo tradisce sa che morirà, a meno che non riesca a ucciderlo prima. Che è quello che ha fatto lui con Tino Scalisi.» Michael s'interruppe e parve riscoprire il suo hotdog. «Dicono che la lezione che non scorderà mai è quella che ha dato a Scalisi.» «Ne parli come se lo conoscessi», gli fece notare Stella. Osservando i piccioni, Michael addentò il panino e cominciò a masticare lentamente. Stella non sapeva niente di lui, a parte le tappe salienti del suo curriculum: due lauree, sei anni di militanza nella difficile lotta contro la corruzione e la malavita organizzata. L'impressione che le dava era di uomo tra il proletario e il raffinato, l'orgoglioso e il sensibile, con un cupo senso dell'umorismo. Anche l'atteggiamento che aveva verso Moro sembrava ambiguo, quasi che l'inimicizia professionale contrastasse con una
familiarità più profonda, prossima al rispetto e forse a qualcosa di più. Michael si voltò a guardarla. «Sono cresciuto a Little Italy. Tutti riverivano Vincent Moro, non solo perché lo temevano o perché lui gli prestava soldi e gli trovava lavoro, ma perché lui conosceva loro e loro conoscevano lui.» Abbassò la voce. «Suo padre era siciliano come mio padre. La prima volta che l'ho visto fu quando giocavo in una squadra della Little League, sponsorizzata da Moro. Avevamo vinto il campionato grazie all'home run più lungo della mia vita. Dopo la partita, mi ha dato una vecchia palla firmata da Yogi Berra, dicendo che mi ammirava molto. Non aveva bisogno di spiegarmi chi era, né perché avrei dovuto ricordarmi di lui.» «E tu hai subito capito che non te lo saresti mai dimenticato.» Michael annuì. «Conosce i punti deboli della gente e sa per quale verso prenderla. Ma non è solo questo: l'opinione che Moro ha di te è importante.» Di nuovo Stella fu presa dalla curiosità: «Allora come mai non hai seguito la sua strada?» Michael le rivolse un breve sorriso. «È stata l'università, la laurea in giurisprudenza. I miei avevano un forte senso morale e io, da buon cattolico, mi sono convinto che la legge è uguale per tutti, o dovrebbe esserlo.» Osservò la piazza. «Mi capita di provare cose che preferirei non provare, ma ammirare un uomo che vende droga e donne e uccide per difendere i propri interessi non è da persone inconsapevoli, è addirittura da canaglie.» Il tono improvvisamente severo lasciò sconcertata Stella. Forse anche lei rispettava rigorosamente le regole per autofustigarsi, per non cedere alla degenerazione morale che aveva intravisto negli specchi di Jack Novak. Forse Michael Del Corso, conoscendosi, aveva paura quanto Stella. «Moro gioca sulla parte peggiore di ognuno di noi», continuò Michael. «Le sue accompagnatrici e prostitute di lusso girano a bordo delle sue limousine e vendono droga ai loro clienti. Se sono abbastanza importanti uomini d'affari danarosi o politici - li portano in un appartamento dove Moro ha fatto nascondere una telecamera e li riprendono, così, quando passa loro la voglia di sollazzarsi, e gli viene invece quella di parlare, a Moro resta in mano la cassetta.» Dalla sua voce traspariva più stanchezza che rabbia. «Una cassetta che documenta eventuali perversioni sessuali, uso di cocaina o affermazioni incaute e che può essere un utile strumento di ricatto. Moro non si espone mai personalmente: incassa solo tramite intermediari. Noi possiamo soltanto cercare di dimostrare che ricicla il denaro attraverso il servizio di noleggio delle limousine, ma di scritto non c'è
niente, i libri contabili sono fasulli e il prestanome cui è intestata la ditta sa che, se fa la spia, ci lascia la pelle.» Si voltò a guardarla. «Quello di Moro è una specie di sterminato organigramma delle debolezze umane.» Stella percepì la sua delusione. Era capitato anche a lei d'interrogare un imputato mafioso che apriva bocca soltanto per fornire un alibi. Tuttavia i processi per omicidio - un reato che spesso è causato da passione, avidità o collera - erano relativamente semplici e si concludevano con una condanna pesante o, in rari casi, con la pena di morte. In confronto, il lavoro di Michael era come le fatiche di Ercole. Non c'era da stupirsi se non credeva più alla possibilità di condannare Moro. «Allora perché lo fai?» gli chiese a bruciapelo. Lui alzò le spalle. «Per motivi esistenziali. Chi è stato a dire che bisogna vivere come se fosse importante? Sartre o Camus?» Stella intuì che sotto quella battuta semiseria forse si nascondeva qualcosa di più fondamentale della disperazione: la cocciutaggine del figlio di un immigrato a dare il meglio di sé. Sommata al timore del lato oscuro di se stessi, che Stella ben conosceva, poteva spaventare chiunque. «Parlami del traffico di droga», gli chiese. Michael lanciò l'ultimo pezzo di pane a un piccione che passava impettito. «Non penso di poterti dire niente che tu non sappia già. È una struttura semplice, studiata per assicurare la massima protezione a Moro, che è al vertice della piramide e parla solo ed esclusivamente con Frank Falco, il suo luogotenente. È lui che tratta coi distributori. Moro non li vede mai. Prendi per esempio il boss dell'East Side, George Flood, e lo spacciatore haitiano che hai conosciuto anche tu, Desnoyers, quello che ha fatto una brutta fine. Per Moro, Flood era un personaggio indispensabile: un nero che distribuisce la droga per conto di un italiano a latinoamericani, asiatici e altri neri. Flood parlava solo con Falco e il tuo haitiano solo con Flood. Tutti i piccoli spacciatori sotto l'haitiano sono di quinto livello, che è il massimo cui Moro permette alla polizia di arrivare. Novak gli teneva buoni i clienti, ma Johnny Curran è stato in gamba e, chissà come, è riuscito a far parlare un pesce piccolo, grazie al quale ha arrestato Desnoyers in un parcheggio. Forse sperava di riuscire a beccare anche Flood. Moro ovviamente non voleva, perché, se la polizia fosse arrivata a Flood, si sarebbe ritrovata a un passo da Falco. Moro era certo che Flood e Falco non lo avrebbero tradito, ma non poteva rischiare e infatti, dicendo a Novak che era disposto a incastrare Flood, l'haitiano ha firmato la propria condanna a morte. Novak non ha dovuto fare altro che riferirlo a Moro.» Michael fece
schioccare le dita. «E il tuo haitiano è finito nel fiume. In quattordici anni, più vicini di così a Moro non siamo mai riusciti ad arrivare. A riprova della lealtà di Novak.» In quell'ultima frase era contenuto un tale disprezzo che Stella si sentì messa sotto accusa e immaginò i dubbi che Michael doveva nutrire sul suo conto, giacché un tempo lei aveva lavorato per lui. Scacciò quel pensiero e domandò: «Come fai a sapere queste cose?» «Più che altro tramite i federali. Loro hanno risorse umane ed economiche che noi non ci sogniamo nemmeno: agenti, sorveglianza, microspie, videocamere, una rete d'informatori, intercettazioni telefoniche su gente come Falco. Hanno anche ricostruito in maniera piuttosto accurata la gerarchia del clan. Ma da lì a dimostrarne la colpevolezza ce ne corre... Voglio dire, l'FBI può filmare Moro e Falco che salgono su un jet privato, ma non può sapere che cosa si dicono quando l'aereo è in volo, e proprio per questo Moro viaggia tanto.» Più si sentiva frustrato, più parlava in fretta. «E noi, Arthur Bright, la polizia, o magari anche Johnny Curran, nella migliore delle ipotesi gli creiamo qualche fastidio, ma a volte lo aiutiamo addirittura.» «E come?» «Nel mondo della droga vige la legge darwiniana della sopravvivenza del più forte e del più furbo. Ma, dati i soldi che girano, è facile incontrarci anche spostati con qualche velleità di guadagno. Prendi di nuovo l'East Side, il regno di George Flood. Anni fa, l'unico che poteva dargli qualche preoccupazione era Harlell Prince, il nero ammazzato da Curran. Adesso ci sono le gang - i Bloods, i Crips, gli Hell's Angels - più gli skinhead, i neri e una barcata di giamaicani senza rispetto per le tradizioni. Talvolta Moro è costretto a eliminarne qualcuno. Talvolta lo facciamo noi per lui. Perché sono ancora dilettanti e non dispongono del sofisticato sistema di distribuzione di Moro, con parcheggi, limousine, depositi, bordelli, gente che gestisce tutte queste attività, per non parlare della rete di poliziotti, giudici o cancellieri corrotti che usa per impedire ad Arthur Bright di fotterlo. I pesci piccoli con troppe ambizioni, ecco chi riusciamo a prendere. Ma i federali non hanno né fiducia né rispetto nei nostri confronti.» Michael s'interruppe all'improvviso, come colpito dalla sua stessa amarezza, e chinò la testa: Stella pensò che non sembrava più un giovane giocatore di football, ma un pugile che si è reso conto che non farà mai carriera e teme di dover ammettere che disprezza lo sport col quale si è identificato fino a quel momento. Poi Michael alzò le spalle e Stella si chiese se
non aveva visto in lui più di quello che era in realtà. «Allora quando dicono che la mafia è moribonda...» Michael aspettò un momento prima di rispondere, sottovoce: «Semmai, è una morte molto lenta. Ma quello che ti ha detto Ravin è vero: le pressioni esercitate su avvocati e piccoli spacciatori hanno reso più pericoloso l'FBI. Aggiungici le microspie e i programmi di protezione dei pentiti, per cui uno come Sammy Gravano, detto 'il Toro', con venti morti sulla coscienza, può rifarsi una faccia e una vita mandando in galera il Vincent Moro di turno... Quello che stanno cercando di fare i federali è trasformare Moro in una garanzia di libertà per gente che altrimenti becca l'ergastolo». Rise di nuovo. «Forse è per questo che suo figlio Nick seguiva i corsi di diritto civile insieme con me. Ma è anche il motivo per cui non può essere stato Moro a impiccare Novak. Un individuo così privo di scrupoli è troppo prezioso.» Stella rifletté. «Ma se per qualche ragione avesse avuto paura di lui?» «Paura che lo fregasse? Novak?» Forse era la sua immaginazione, ma a Stella parve che nel pronunciare quelle parole in tono sprezzante, Michael l'avesse osservata più da vicino. «Un'ora fa, ho chiamato uno della DEA. Se quello che mi ha detto è la verità, ai federali non risulta nulla sul suo conto. A parte il fatto che per lavorare per Moro ci vuole molto meno coraggio che per farlo arrestare.» Stella ripensò a com'era stato contento Jack la sera dell'assoluzione di George Flood, dopo la «miracolosa» sparizione della cocaina. C'erano molti aspetti di lui che Stella aveva solo in parte intuito: era solitario, volubile, forse tormentato dal proprio vuoto interiore. Ma alla fine, troppo tardi per evitare che le rimanessero cicatrici, Stella aveva capito la cosa più importante: il carattere conta. E Jack Novak, di carattere, non ne aveva. Michael diede un'occhiata all'orologio. «Devo rientrare», disse e si alzò di scatto. Dentro di sé, Stella si risentì perché Michael non le mostrava il rispetto dovuto a una stretta collaboratrice di Arthur Bright. Era stata trattata con condiscendenza troppe volte all'inizio della carriera, quand'era una giovane avvocatessa, ma aveva imparato a essere paziente, a trovare il momento giusto per farsi rispettare in maniera da mettere fine una volta per sempre a certi atteggiamenti. Il cielo era diventato grigio. In silenzio si avviarono verso l'ufficio, presero l'ascensore e andarono nella stanza di Michael. Stella si fermò sulla soglia. Non aveva mai guardato dentro quell'ufficio.
Scrivania di metallo e pareti spoglie, pavimento di mattonelle: l'ufficio di Michael Del Corso era monastico e impersonale quanto il suo, a parte la foto di una bambina bruna, di sei o sette anni, molto carina, sul mobile dietro la scrivania. A quale donna sconosciuta somiglia? si chiese Stella e in quell'attimo si rese conto che Michael non portava la fede. «Avrò ancora bisogno del tuo aiuto per gli archivi di Novak», disse. «Vorrei togliermi lo sfizio di dimostrare che non è stato assassinato per motivi di lavoro. Fammi questo piacere.» Lo disse apposta, per ricordargli che in realtà il suo era un ordine. Michael strinse leggermente gli occhi, cambiò espressione quel tanto che bastava a farle capire che sapeva sia quello sia, forse, il resto, e cioè che Stella e Charles Sloan erano rivali e che, se Michael voleva tirarsi indietro, sapeva a chi rivolgersi. «Certo», rispose. 10 Tredici anni dopo aver lasciato Jack Novak, Stella tornò nello studio di lui. Erano circa le sette di sera. La stanza non aveva finestre; Stella si sentiva isolata dal mondo esterno, ermeticamente chiusa nel proprio passato. Era come se tutti quegli anni fossero svaniti di colpo. Davanti a sé, aveva cinque incartamenti scelti da quel passato, che le avrebbero richiesto parecchie ore di lavoro. Allo studio erano stati apposti i sigilli, come richiesto da Stella. Dal primo incartamento, un fascicolo smilzo intitolato «Jean-Claude Desnoyers», aveva estratto gli appunti del suo colloquio col teste, scritti di suo pugno, in una calligrafia stretta che da allora non era cambiata. «Patteggiamento?» aveva annotato e poi sottolineato. Due giorni dopo, l'haitiano era morto. La porta dello studio si aprì ed entrò Nathaniel Dance. Si sedette su una poltroncina decisamente insufficiente per la sua mole, giunse le mani e osservò la donna con la consueta impassibilità. «Che cos'hai trovato?» chiese. «Questi fascicoli. Sono tutti del periodo in cui tu eri alla Narcotici, credo.» Ne mise da parte uno. «Questo è su Jean-Claude Desnoyers, uno spacciatore che era disposto a incastrare George Flood. Se ne occupò Curran e so già come andò a finire. È per il resto che ho bisogno di aiuto.»
Dance non disse nulla e a Stella il suo silenzio parve tanto un'arma quanto una difesa, un'abitudine presa nel mondo sotterraneo e oscuro in cui si muoveva la polizia di Steelton, dove la fiducia era una merce accuratamente razionata. «Tutti e cinque riguardano la rete di Flood», riprese Stella. «Nel più vecchio, Saul Ravin difendeva uno spacciatore di Flood e Jack Novak, Flood, che lo riforniva.» Il sorriso di Dance era appena accennato e niente affatto divertito. «Lo avevo arrestato io. Si chiamava Louis Jackson. La prova del reato era costituita da cinque chili di cocaina.» Stella aprì la cartella. «Per un 'errore amministrativo' qualcuno la distrusse e il processo fu invalidato. Saul mi ha detto che Jackson era pronto a incastrare Flood.» Lentamente Dance annuì, senza smettere di osservare Stella, che gli chiese: «Come mai le prove andarono distrutte?» Dance incrociò le braccia. «Dai registri del magazzino dove venivano conservate, risulta che arrivò una regolare autorizzazione. Ma non abbiamo mai trovato il modulo e quindi non abbiamo mai saputo di chi fu l'errore.» «Ma fu davvero un errore?» Dance la studiava. Stella era piuttosto sicura che non le avrebbe chiesto perché ci teneva tanto a saperlo e che le avrebbe dato corda per poter trarre le proprie conclusioni. «Di errori se ne fanno tanti», le disse. «Succede.» Stella non insistette. «Anche il caso successivo fu seguito da Johnny Curran», riprese. «Aveva un mandato di perquisizione per l'appartamento di un altro degli spacciatori di Flood. Pare che fosse arrivata una soffiata secondo cui la cocaina era nascosta nel divano.» Il sorrisetto di Stella era pungente. «Non trovando niente nel divano, Curran si fece dare le chiavi della macchina, andò nel garage e trovò la droga nel bagagliaio, pronta per essere portata via. Il processo fu assegnato al giudice Freeman, il grande sostenitore dei diritti civili dell'East Side. E tu sai come andò a finire.» Dance annuì di nuovo. «Freeman invalidò il processo perché la perquisizione non era autorizzata. Il mandato si limitava all'abitazione e non comprendeva il garage.» Stella posò il fascicolo sopra gli altri due. «Impeccabile, eh?» Dance si accomodò meglio sulla sedia. «Tu pensi che Moro avesse brigato per far assegnare il processo a Freeman.» «Oppure che qualcuno avesse avvisato lo spacciatore di spostare la droga in un posto dove il mandato non era valido. A Curran non restava molta
scelta: se fosse tornato dal giudice per farsene dare un altro, la coca nel frattempo sarebbe sparita. Perlomeno così la tolse dal mercato.» Dance appoggiò il gomito sul bracciolo della poltroncina di Novak e si posò il mento sul palmo della mano. «Chi era il pubblico ministero?» chiese. Benché non ce ne fosse bisogno, la domanda ricordò a Stella quanto era acuto e perspicace Dance. «Charles Sloan», rispose. L'altro fece una risatina e non disse nulla. «Il quarto caso», continuò lei, «era ancora di Curran. E di Sloan. L'imputato era di nuovo Louis Jackson, arrestato perché trovato in possesso di cocaina. Stavolta però è stato Jack a tirarlo fuori dei guai.» Con aria disinvolta, mise il fascicolo sopra gli altri. «Jackson se l'è cavata con un anno e poi è uscito. Poco più di una gita a Disney World.» «Che linea di difesa ha adottato Novak?» «Ha sostenuto che la perquisizione era stata condotta in maniera irregolare, come nel caso precedente. Solo che stavolta i documenti erano poco convincenti e il giudice non era Freeman.» Stella prese l'ultimo fascicolo. «Questo è tuo.» Lui mostrò una calma che rasentava la condiscendenza. «Tiro a indovinare», disse. «Quando Jackson era in galera, ho arrestato quello che lo sostituiva, Morgan Beach, il quale era disposto ad aiutarci a prendere Flood. Purtroppo, però, Novak è riuscito a far fissare una cauzione piuttosto bassa, intorno ai cinquantamila dollari, e non l'abbiamo più rivisto.» Era interessante, che ricordasse tante cose, pensò Stella. Posò anche quel fascicolo sopra gli altri. «Ricordi chi era il pubblico ministero?» Dance annuì. «Sloan.» La guardava con l'aria di aspettare che continuasse. Invece Stella chiese: «Allora, che cosa hai scoperto? Jack aveva davvero gusti così perversi?» Lui incrociò le dita. «Non aveva una cassetta postale per riviste porno, gay o sadomaso. Nessuno ricorda di averlo mai visto in un sex-shop. La segretaria, i soci e i vicini dichiarano di non aver mai avuto sentore che avesse gusti particolari.» Scrollò pigramente le spalle. «Senz'altro gli piacevano la cocaina e i video porno. L'appartamento e la casa al lago sono pieni di film in cui uomini di tutti i tipi fanno di tutto con donne di tutti i tipi. Ma né gay, né bambini, né animali.» Senza volere, Stella ricordò l'ultimo weekend che aveva passato sul lago con Jack. «E le cause che seguiva?» domandò. «Le cause recenti? Niente di nuovo. Nessun processo particolarmente
importante, nessun problema singolare: ai nostri informatori non risulta nulla d'insolito. Niente che potesse dar fastidio a Vincent Moro. Niente che induca a pensare che l'omicidio non sia un fatto privato.» «Sì, ma chi aveva una ragione 'privata' per ucciderlo?» Dance le lanciò un'occhiata maliziosa. «A parte Missy Allen e compagnia? Ho appena parlato con Kate Micelli. Le uniche impronte che la Scientifica ha trovato nell'appartamento di Novak erano di Novak, della Allen e della cameriera, un'anziana donna ceca. Kate pensa che uno dei bicchieri e il manico del coltello usato per l'evirazione siano stati ripuliti. Se è stata Missy Allen, lui deve essere stato consenziente. Solo che lei gli ha tolto lo sgabello da sotto i piedi a tradimento.» S'interruppe, poi chiese: «Pensi che lo odiasse fino a questo punto?» Vedendo che lei non rispondeva, spostò gli occhi sulla pila di fascicoli che aveva davanti. «Questi casi sono vecchi, Stella.» «Questi casi sono sporchi», ribatté lei. «E in uno c'è scappato il morto.» Dance tornò a guardarla negli occhi. «Jean-Claude Desnoyers...» mormorò. «Pace all'anima sua. La sua famiglia ha lasciato la città subito dopo il ritrovamento del cadavere nell'Onondaga. Non c'è più nessuno a Steelton cui interessi Desnoyers, o che se ne ricordi. Tranne te.» E te, pensò Stella. «Immagino che tu abbia controllato.» «Ieri. Anch'io ricordavo Desnoyers.» Stella non ne fu affatto sorpresa. «Allora, chi ha aggiustato questi processi, Nat?» chiese, posando la mano sui fascicoli. «A parte Jack, voglio dire.» Dance si sporse in avanti. «È stata una congiura», dichiarò. «Tra Novak, Curran, Sloan, il giudice Freeman, l'impiegato del magazzino e me. C'incontravamo una volta al mese. Oh, in presenza di Arthur, naturalmente.» Stella fece una risata forzata. «Non credo alle congiure», disse Dance in tono neutro. «Sono troppo complicate. Hai cinque vecchie pratiche, tre delle quali col nome di Charles Sloan. E con questo?» «E io non credo nelle coincidenze, meno che mai a cinque, l'una dietro l'altra. Qualcuno giocava sporco. Per questo Flood è ancora in affari e fa soldi per conto di Vincent Moro.» Lo sguardo di Dance divenne pungente. «Pensavo che tu istruissi i processi per omicidio e che su questo stessimo indagando. Le cose che dici mi sembrano molto più personali, o più politiche.» Stella alzò le spalle, lo guardò fisso e aspettò che fosse lui a parlare di
nuovo. Il capo della sezione Investigativa era lui e il silenzio calmo di Stella bastò a ricordarglielo. «Che cosa dice Curran?» le chiese alla fine. «Che potrebbe essere un poliziotto. Ma non sa chi.» Dance guardò oltre le spalle di lei, in silenzio, come se stesse pensando ad altro. «Di uno lo so per certo», ammise alla fine. «Ma è morto.» «Chi era?» Dance parve indeciso se rispondere o no. Passarono alcuni istanti prima che dicesse: «Era un vecchio agente che si chiamava Steckler. Soprannominato Bufalo». «Com'è stato smascherato?» «C'era giunta voce da vari informatori che Bufalo arrestava gli spacciatori e poi rivendeva la droga.» Dance tornò a fissarla. «Poi ne furono trovati morti un paio e quando arrivammo noi gli appartamenti erano stati già saccheggiati. Non erano uomini di Moro, bensì spacciatori che lavoravano per conto proprio e quindi il rischio era minore. E la faccenda puzzava: doveva essere stato qualcuno che aveva accesso ai dati, alle intercettazioni telefoniche, agli informatori... Un poliziotto che magari sentiva quello che dicevano i colleghi. Ma Bufalo era in gamba e l'unica cosa che riuscì a fare il capitano fu metterlo in coppia con un collega.» Da come Dance socchiuse leggermente gli occhi, Stella capì che stava rivivendo la tensione e il pericolo di quel periodo. «Cioè te», disse. Dance si aggiustò il nodo della cravatta con un gesto per lui insolitamente distratto. «Un giorno Bufalo ricevette una soffiata secondo cui un certo DeJesus stava per vendere un grosso quantitativo di eroina. Così una sera lo andammo a trovare e lo perquisimmo. L'unica cosa che gli trovammo addosso fu un'arma da quattro soldi e la chiave di uno stipetto al deposito bagagli della stazione degli autobus. Bufalo gli puntò una pistola alla testa e gli chiese di mostrarci che cosa c'era dentro. Per questo non avevamo un mandato. Ma in macchina, quando quello era seduto dietro ammanettato, Bufalo mi fece: 'Ha acconsentito, Nat. Voglio dire, a chi crederà il giudice, a noi o a questo coglione?' Io non dissi niente, perché avevo già capito come sarebbe andata a finire. Era mezzanotte passata e la stazione era praticamente deserta. Bufalo mi disse di restare in macchina con DeJesus, che era magro come un chiodo e tutto sudato anche se faceva freddo. Io capii che se nello stipetto c'era qualcosa, lo ammazzava.» Stella si accorse che Dance stava rivivendo tutte le emozioni di quella notte. «Bufalo tornò con l'aria disgustata», continuò, «e mi disse che non aveva
trovato niente. Poi si rivolse a DeJesus e gli disse: 'T'è andata bene, barbone. Ti riportiamo a casa'. DeJesus rimase a bocca aperta. Per strada non c'era nessuno: Bufalo controllò, per sicurezza, e nel momento in cui mi puntò addosso la pistola di DeJesus, io gli sparai in faccia. Aveva ancora la chiave dello stipetto nella tasca del cappotto. Lo lasciai lì, col cervello spappolato sul cruscotto e DeJesus dietro che piangeva e farfugliava, e tornai nella stazione. Dentro lo stipetto c'era una borsa di tela con oltre un milione di dollari in contanti. Mi resi conto che era la mia salvezza. Tornai fuori, sistemai Bufalo sul sedile davanti, lo portai in centrale insieme con DeJesus, mollai la borsa coi soldi sulla scrivania del capitano e gli dissi che nella mia macchina c'era il cadavere di Bufalo.» Stella aveva un nodo alla bocca dello stomaco. «Bufalo voleva ammazzarvi tutti e due», riassunse. «E poi dire che c'era stato uno scontro a fuoco, magari in casa di DeJesus, in cui vi eravate ammazzati l'uno con l'altro. E si sarebbe tenuto i soldi.» «Un milione di dollari», ripeté Dance sottovoce. «Ci pensai tutta la strada.» Stella capì che non voleva andare a parare dove pensava lei. Il messaggio era: Non provarti ad accusare me, ma gliel'aveva fatto capire più con durezza che con rabbia. «Come c'era lui, poteva esserci qualcun altro. Che magari c'è ancora.» Dance continuava a guardarla dritto negli occhi. «Dopo, le cose sono cambiate», replicò. «Lavoriamo più in gruppo, usiamo il lie detector e persino i test psicologici. Facciamo ruotare il personale in ufficio e fuori, controlliamo i conti in banca, sorvegliamo chi si fa vedere nei locali di proprietà di Moro e dei suoi scagnozzi. E i federali ormai fanno tante di quelle intercettazioni telefoniche che, se c'è un poliziotto corrotto, prima o poi salta fuori. A parte il fatto che l'ultimo caso della tua lista risale a oltre dieci anni fa», concluse in tono piatto. «Adesso il capo della Narcotici sono io.» «Quindi se, oltre a Bufalo, c'era qualche altro corrotto, a quest'ora se n'è andato?» Dance puntò l'indice sui fascicoli. «Alla Narcotici ci saranno nove o dieci uomini che erano già nella polizia all'epoca di questi casi. Se uno lavorava per Moro ed è sopravvissuto finora, dev'essere davvero in gamba. Non si è fatto accorgere di avere un sacco di soldi, sta attento a come parla al telefono, non si confida con nessuno. Vive a compartimenti stagni: c'è un solo contatto tra lui e il clan Moro. Supera i test della macchina della
verità senza sudare. E uccide a sangue freddo.» Dance ammorbidì il tono. «Forse è questo che fa incazzare Curran: il pensiero che ci sia qualcun altro in giro duro come lui. O come Vincent Moro.» «Ma dieci anni fa c'era», insistette Stella. «E questi incartamenti lo dimostrano.» Dance si accigliò. «Non è detto che sia della Narcotici. Dai un'occhiata al tuo elenco di sospetti. Al magazzino delle prove hanno accesso anche persone che non lavorano nella polizia.» «Come Sloan.» Lui scrollò le spalle. «Come qualsiasi procuratore distrettuale, tanto per fare un esempio. A meno che non sia stato Sloan in persona a uccidere Novak. In fondo è per questo che sei qui.» Stella abbassò gli occhi sulle pratiche e per l'ennesima volta ebbe la sensazione che Dance stesse cercando di distoglierla dal suo intento. «Perché non parliamo di baseball?» le propose. «E di Tommy Fielding? Volevi che andassimo insieme da Peter Hall, no?» 11 Peter Hall, il cui bisnonno aveva indotto il bisnonno di Stella a trasferirsi a Warszawa e a lavorare nelle acciaierie per sette dollari al giorno, abitava in un posto in cui era possibile dimenticare le fabbriche arrugginite e fatiscenti che avevano lasciato disoccupati uomini come Armin Marz. Peter Hall era un imprenditore edile che, come il padre, si era arricchito, costruendo i centri commerciali di periferia e i grattacieli che avevano contribuito a dissanguare Steelton. Superata la guardiola all'inizio del viale che portava alla villa, Stella rifletté sul paradosso per cui Hall si era accollato la missione di salvare la squadra di baseball di Steelton e i ghetti del centro. Stonebrook, la località in cui Hall aveva scelto di vivere, era una sorta di parco a tema ispirato al New England: proprietà di due ettari come minimo, morbide colline coperte di brina, fitti boschi di querce e betulle che d'inverno, senza foglie, sembravano d'argento, e ville in uno stile coloniale che a prima vista ricordavano il New England, ma erano molto più ricche e sfarzose. Stella e Dance passarono sul ponte di legno sopra il torrente che attraversava la tenuta di Hall - una quarantina di ettari di terreno, a occhio e croce - e proseguirono per mezzo chilometro tra prati ondulati, oltre i quali s'intravedevano, in lontananza, una scuderia, campi recintati da stac-
cionate bianche, graziosi muretti a secco, un campo da tennis e poi ancora bosco. Solo la casa si discostava dal tema pastorale: in pietra grezza, legno e vetro, ricordava lo stile di Frank Lloyd Wright e rivelava il lato innovatore della personalità di Hall. Fermarono la macchina nel vialetto circolare davanti alla casa e furono accolti da un giovanotto impeccabile in blazer blu e collo alto: un maggiordomo del XXI secolo che, con rispettosa sollecitudine, fece loro strada in un enorme atrio con lucernari, pavimento di marmo, dipinti astratti alle pareti. A Stella, che s'interessava un po' di arte, parve di riconoscere un Diebenkorn e un Kandinskij. Le grandi finestre sul retro davano su un giardino all'italiana con una piscina al centro. Percorsero quindi un lungo corridoio con vecchie foto in bianco e nero delle acciaierie, di operai polacchi, di Amasa Hall col colletto inamidato o seduto a capotavola con la famiglia, e arrivarono in un ufficio spazioso ma arredato semplicemente, con una vetrata che dava su un prato in cui pascolavano tre cavalli. Peter Hall stava leggendo i giornali economici seduto su una poltrona di pelle. Si alzò e andò loro incontro con un'aria solenne ma incuriosita, ringraziò il giovane attendente e strinse la mano prima a Stella e poi a Dance. Si sedettero su un divano. Hall si accomodò con le gambe accavallate e la punta delle dita unite. Le scarpe di pelle nera erano lucidissime e i pantaloni beige stirati alla perfezione; il maglione nero era di cachemire. Ma il fascino di Hall non dipendeva soltanto dall'eleganza: aveva denti bianchi e regolari, viso abbronzato con quel tanto di rughe e di angolosità sufficiente a far intuire una grande forza di carattere, folti capelli biondi senza un filo di grigio e gli occhi azzurri che osservavano Stella e Dance con la massima attenzione. Stella lo trovò attraente e pensò che ben poche donne sarebbero restate indifferenti a un uomo tanto bello - l'aggettivo non era esagerato che le guardava in modo così diretto. «La ammiro molto», le disse. «Quanti anni sono che non perde una causa? Sei?» L'atteggiamento non era né eccessivamente ossequioso né artefatto; sembrava quasi che, giacché si trattava di un complimento meritato, non ritenesse inopportuno rivolgerglielo davanti a Nathaniel Dance. Hall partecipava attivamente alla vita di Steelton, sottintendeva quel commento, e i suoi consiglieri, politici e no, lo tenevano aggiornato: dati i suoi interessi, anche Stella, possibile candidata alla carica di procuratore della contea, rientrava tra i personaggi da seguire. Con un sorriso, lei rispose: «Sei anni e nove mesi».
Hall sorrise a sua volta. Dance li osservava: Hall parve accorgersene, si mise comodo e, con espressione più seria, guardò ora l'uno ora l'altro. «Tommy Fielding», disse. «Mi è difficile accettare la sua morte.» Dance continuava a tacere. «Che cosa ci può dire di lui?» domandò Stella. Hall la studiò. «Ricorda Richard Cory?» chiese a sua volta. «La poesia di Edwin Arlington Robinson?» Presumere una comunanza culturale al di là delle barriere sociali era un tentativo di adulazione, per quanto sottile. «Un uomo perfetto, ammirato da tutta la città, va a casa, si spara un colpo in testa e nessuno sa perché», rispose Stella. Hall annuì. «Mi è venuta in mente quando ho saputo che Tommy era morto di overdose con una prostituta. Non avrei mai più immaginato che potesse fare una cosa del genere. Come non la farei io.» Stella intuì che Dance aveva deciso di restare a guardare. «Non abbiamo ancora i risultati di tutte le analisi», disse a Hall. «Ma sembra che sia stata una dose eccessiva di eroina a ucciderli.» Assorto, Hall fissava il tappeto. «Credevo, o m'illudevo, di conoscerlo. Avevamo studiato nello stesso college, eravamo soci degli stessi club, giocavamo insieme a squash. Ma soprattutto eravamo amici. E poi era un collaboratore della massima affidabilità: puntiglioso, ordinato, sempre in forma, estremamente organizzato e molto competente. Quando si prendeva l'incarico di fare qualcosa, io ero tranquillo. Sapevo che, se c'era qualcosa di cui preoccuparsi, me l'avrebbe detto subito.» «E non le aveva espresso nessuna preoccupazione?» replicò Stella. «Non era stressato?» Hall alzò gli occhi e accennò un sorriso. «Tommy era sempre stressato. L'unico mio cruccio era che lavorava troppo, come se non potesse smettere. Quando lo costringevo a prendersi una vacanza, si portava il cellulare in spiaggia.» Hall aveva fatto scelte diverse, lo si capiva dal tono: nella sua vita c'era un equilibrio da rispettare. «Lo stadio», riprese, «è il progetto più grosso di cui ci siamo occupati, una cosa completamente nuova per noi, e la città si aspetta il massimo. Tommy ci si era buttato anima e corpo. Non riusciva a fare altrimenti.» «Secondo Amanda Fielding, di problemi ce n'erano», gli fece notare Stella in tono piatto. Hall inclinò la testa. «Vi ha detto quali?» «No. Soltanto che Tommy le sembrava molto preoccupato.»
Hall inarcò le sopracciglia. «Da quanto tempo?» «Da qualche settimana.» Hall si voltò a guardare la fotografia in cornice di una bella donna dai capelli biondo cenere che non doveva avere ancora quarant'anni e a Stella venne in mente che la moglie di Hall era morta in un incidente stradale. Sentendosi osservato, Hall si girò di nuovo verso di lei. «Potrebbe spiegarci in che cosa consisteva esattamente il lavoro di Fielding?» Hall appoggiò i gomiti sui braccioli, stando attento a guardare sia Stella sia Dance. «Tommy era il nostro project manager, cioè la persona che coordinava le imprese, sia bianche sia di altri gruppi etnici.» Lanciando un'occhiata a Stella, aggiunse: «Se non sbaglio, lei si trovava al dibattito, quando il sindaco Krajek ha spiegato quali sono gli accordi. La Hall Development si è impegnata a consegnare Steelton 2000 per 275 milioni di dollari. Eventuali spese supplementari sono a nostro carico, mentre, se riusciremo a tenerci al di sotto di questa cifra, verseremo la metà della differenza nelle casse del comune. Ciò significa che abbiamo interesse a ridurre i costi, mentre le imprese, ovviamente, hanno interesse a guadagnare più che possono. Tommy aveva il compito, tra l'altro, di mantenere i costi al di sotto della cifra stabilita. In tal caso, avrebbe avuto diritto al dieci per cento della nostra quota. È naturale, pertanto, che ci fosse una certa tensione sana, direi - tra lui e le imprese, anche perché bisognava evitare che il risparmio andasse a scapito della qualità». Stella vide una cerbiatta col suo piccolo attraversare di corsa il prato e nascondersi tra gli alberi spogli del bosco. Si voltò di nuovo verso Hall e chiese: «E, nella pratica, in che cosa consisteva il lavoro di Fielding?» Hall cominciò prontamente a elencare sulla punta delle dita: «Anzitutto, doveva approvare le fatture dei fornitori o rimandarle indietro, se necessario. Questo valeva anche per gli architetti e i subfornitori. Fielding autorizzava pure le eventuali modifiche e le revisioni dei prezzi rese necessarie da varianti in corso d'opera non previste dagli architetti nel progetto esecutivo. E naturalmente doveva accertarsi che venissero rispettate le politiche sociali volute da Tom Krajek, cioè che i lavori venissero equamente divisi tra le ditte rappresentanti i diversi gruppi etnici». Sorrise di nuovo. «Il tutto cercando di fare in modo che alla fine avanzasse qualcosa.» Nathaniel Dance aprì bocca per la prima volta per osservare, con una voce priva d'inflessioni che rivelava il suo profondo scetticismo: «Ma non c'era nessun problema».
«Ha mai fatto ristrutturare una cucina?» replicò Hall amabilmente. «Ci sono sempre problemi e si finisce sempre per spendere più di quanto preventivato.» L'aria lievemente divertita con cui Dance osservava Hall era molto meno cordiale. «Non saprei. Io la cucina me la sono ristrutturata da solo.» Stella vide che Hall non si era offeso, ma rifletteva sulla differenza tra Dance e se stesso. «Fielding si lamentava sempre delle varianti in corso d'opera. E ne aveva ben donde: erano tutti soldi in meno anche per lui. Ma il guaio non era tanto questo, quanto il fatto che io...» «E le donne?» lo interruppe Dance. «Le donne?» Hall si rabbuiò. «Conoscevo la sua ex moglie, e basta.» «La sorprese il suo matrimonio?» domandò Stella. «O il suo divorzio?» «Né l'uno né l'altro.» Hall si voltò a guardare Stella con gli schietti occhi azzurri. «Stiamo parlando di uno dei grandi misteri della vita e niente di quello che fanno uomini e donne riesce più a sorprendermi. Mi sgomenta, forse, ma...» Gli angoli della bocca si piegarono all'ingiù, mentre rifletteva. «Amanda non era la donna che mi aspettavo sposasse, è vero. Non per l'età o per l'aspetto, e nemmeno per l'intelligenza. Era colta e brillante, abbastanza da interessare a Tommy. Ma il divorzio era relativamente prevedibile: Amanda era un po' nevrastenica, astiosa, ed era sposata con un uomo che non faceva altro che lavorare.» «Secondo lei, Fielding era omosessuale?» chiese Dance. Hall si voltò verso di lui, impassibile. «Che io sappia, no. Ma Tommy non era il tipo da parlarmi di uomini, né di donne.» Hall era di una cortesia impeccabile: calmo, filosofico, comprensivo. «E di prostitute?» chiese Stella. L'altro scosse la testa. «No. Ma se avessi dovuto immaginare Tommy con una prostituta, lo avrei visto con una da duemila dollari a notte, laureata a Wellesley e sana come un pesce.» Con un leggero sorriso aggiunse: «E che parlasse francese come una parigina». La lieve ironia di Hall rivelava affetto e incredulità. Poi il sorriso svanì del tutto e con veemenza disse a Stella: «Avete visto lo stadio... Sta crescendo sotto i vostri occhi. In tutto il Paese non c'è nulla di simile. Entro aprile 2001, i Blues giocheranno la prima partita e avrà inizio il rilancio di Steelton. E questo anche grazie al lavoro di Tommy. Lui sarebbe stato insieme con me nella tribuna d'onore, con la figlia cui voleva tanto bene, ad assistere al primo lancio di Larry Rockwell. Invece è finito in questo modo orribile». Abbassò la voce. «Non chiedetemi di spiegarvelo.»
«Ma se dovesse...» insistette Stella. Hall sospirò. «Forse il problema è che Tommy ha passato la sua vita a cercare di essere più perfetto di quanto Dio ci conceda di essere», ammise alla fine. «Temo che sia stato questo a ucciderlo.» Nella stanza scese il silenzio, poi Hall sorrise di nuovo, tristemente, e disse: «Vi chiedo scusa, ma ora devo andare. Non so perché sia morto, ma in ogni caso Tommy mi ha lasciato il suo lavoro da fare». Quando uscirono, Dance osservò in silenzio quel mondo tanto diverso dal suo in cui viveva Peter Hall. «Sai che cosa mi disturba?» disse Stella dopo un po'. Dance fece un sorriso amaro. «Che Curran l'abbia beccato in macchina nello Scarberry? O che sia innegabilmente morto di overdose in compagnia di una puttana sieropositiva e nessuno ammetta di crederci?» «Che vivesse per quello stadio», replicò Stella. «E noi non ci capiamo niente.» Dance continuò a guardare fuori del finestrino. «Ammesso che c'entri qualcosa, ti ci vuole un commercialista», dichiarò alla fine. Mi ci vuole Michael Del Corso, pensò Stella e subito dopo immaginò, senza il minimo piacere, di rivolgersi a Charles Sloan. Rientrata in ufficio, Stella guardò lo stadio. La struttura di acciaio stava diventando più complessa: le travi nere avevano cominciato a prendere la forma delle gradinate che dovevano circondare l'arena ideata da Peter Hall. Stella pensò a quando, in futuro, fermandosi in ufficio fino a tardi, avrebbe visto le luci gialle dei riflettori, segno che, oltre alle partite, si stava giocando anche la rinascita di Steelton. Poi le venne in mente che, pur avendo visto crescere lo stadio da lontano, non aveva mai visitato il cantiere. Prese il telefono e chiamò Kate Micelli. «Hai già i risultati delle analisi su Fielding e Tina Welch?» chiese. Come sempre, il coroner rispose con grande precisione: «Zero virgola otto microgrammi di eroina per millilitro. Un'overdose classica, che può essere mortale come no». «In questo caso però lo è stata», commentò Stella. «Per tutti e due. Ci sono impronte sulla siringa?» «No, ma non vuol dire. Una superficie di plastica così piccola non si presta. Non è stata ripulita, comunque.» Una breve pausa, poi: «Perché me lo chiedi?»
«Non so. Da una parte, niente dimostra che non sia stata un'overdose accidentale, e Johnny Curran sostiene di aver visto la macchina di Fielding nello Scarberry prima della sera della sua morte, il che suggerirebbe che l'adescamento di prostitute non era una novità per lui. Dall'altra, non c'è assolutamente nulla che faccia pensare che avesse mai usato eroina o fosse il tipo da farlo.» «Molta gente ha una doppia vita, Stella. In un certo senso, ce l'abbiamo tutti.» Chi altri le aveva detto la stessa cosa? si chiese Stella, poi ricordò Arthur Bright che rifletteva sulla morte di Jack Novak. Non si può mai dire di conoscere sino in fondo una persona, le aveva detto. Certamente c'erano molte cose di lei che Stella non voleva far sapere a nessuno. «Stella?» La nota d'impazienza nella voce della Micelli la riportò al presente. «Insomma, tu per ora non hai trovato nulla che indichi se Fielding si fosse mai drogato prima», buttò lì Stella per sondare il coroner. «E noi nemmeno.» All'altro capo del filo ci fu un breve silenzio. «Ho prelevato alcuni capelli dal cadavere di Fielding. Posso analizzarli. Esiste un test che ci può dire se aveva fatto uso di eroina nell'ultimo mese. Oltre alla sera in cui è morto, naturalmente.» Stella rifletté. Se fosse risultato negativo, quel test non avrebbe cambiato la causa della morte. Tuttavia, se fosse stato positivo, lei sarebbe stata più tranquilla: quali che fossero i misteri della sua vita intima, avrebbe saputo che, prima di morire, Fielding si era già bucato altre volte. «Fallo», disse. 12 Non appena ebbe riattaccato, Stella tornò a pensare ad Arthur Bright. Telefonò alla sua segretaria, Brenda Waters, la quale la informò che Bright era impegnato nella campagna elettorale, ma intorno alle quattro aveva un'ora libera e forse le avrebbe potuto concedere qualche minuto. Stella posò la cornetta, ma la voce rassicurante di Brenda - una nera cordiale, grassoccia, sulla sessantina - continuava a riecheggiarle nelle orecchie. Si erano conosciute quando Stella era all'università. Anche a quei tempi in procura erano pochi a disporre di una reception in cui le segretarie potessero lavorare con calma. In quanto capo della sezione Narcotici, Bright
era uno dei fortunati: quando Stella, venticinquenne, si era presentata da lui, un po' intimidita, mandata da Jack Novak, era stata Brenda a riceverla. «Non posso più lavorare per te», aveva detto a Jack due giorni dopo l'ultimo weekend al lago. «Perché?» le aveva chiesto lui. «Perché?» aveva ripetuto lei, controllando a stento la rabbia. Avrebbe dovuto licenziarsi molto tempo prima, subito dopo l'incontro con Vincent Moro e la morte dell'haitiano. Per dignità, quindi, non poteva che tacere e guardare Jack il più possibile dritto negli occhi. Lui aveva lasciato cadere le braccia e, in tono di stanca rassegnazione, aveva detto: «Va bene. Allora quella di sabato e domenica scorsa non eri tu, o perlomeno così pensi o ti piace pensare. Ma questo non c'entra niente col lavoro. Cerchiamo di comportarci da adulti, okay?» Ormai era un suo nemico, aveva pensato Stella, proprio come suo padre. «Se è questo che significa diventare 'adulti', non m'interessa», aveva risposto seccamente. «Né sul lavoro, né nella vita.» Le tremava un po' la voce, ma era determinata ad andare sino in fondo. Splendido nel suo vestito di Armani col fazzoletto blu nel taschino, Jack la osservava. «Che cosa vuoi?» le aveva chiesto. Dopo due notti insonni passate a torturarsi tra mille dubbi, Stella aveva preso la sofferta decisione di rompere con lui. «Lavorare in procura», era stata la sua risposta. «Vincent Moro dovrebbe essere in galera, non a piede libero a far ammazzare i tuoi 'clienti' o a pagare i tuoi bei vestiti.» Jack aveva fatto una risatina. «Allora si tratta di questo. 'E queste mani, non saranno mai pulite?' Povera Lady Macbeth. Non hai mai creduto in me, vero?» Stella era arrossita. «Non è solo questo. Ho bisogno di poter credere nel lavoro che faccio.» A quella risposta, Jack si era calmato. «Forse hai ragione, Stella. Ma come si fa a trovarlo?» Non lo sapeva. «Io voglio riuscirci», aveva insistito. «Sono la terza del mio corso e nelle esercitazioni all'università me la sto cavando benissimo.» Dopo un po', Jack aveva accennato un sorriso. «Posso telefonare ad Arthur Bright, se è questo che vuoi. Ti consentirebbe di aprire subito una tua piccola inchiesta su Moro.» E perché mai Arthur Bright avrebbe dovuto assumere una persona raccomandata da Jack? Stella pensava che una sua intromissione potesse essere più dannosa che altro, a parte il fatto che, se la risposta fosse stata nega-
tiva, si sarebbe trovata ancora più legata a lui. «Mi arrangerò da sola», aveva risposto cocciutamente. Jack aveva scosso la testa. «Senza offesa, Stella, ma davanti al portone della procura c'è una fila di giovani neolaureati di tutte le etnie che va da qui al lago Erie. Entrano solo quelli che hanno una lettera del presidente democratico della contea o del consigliere comunale che, nella sua circoscrizione, è riuscito a far eleggere il capo di Arthur, lo stimatissimo Francis X. Connolly. Quando si tratta di assumere, anche Arthur ha le mani legate. Quello che ti serve è uno sponsor.» Il tono si era fatto suadente. «Ho finanziato la campagna elettorale del buon vecchio Francis, per quanto ormai sia alla frutta. E, cosa altrettanto importante, sono amico di Arthur dai tempi dell'università e so dove vuole arrivare. Lui sa che potrà contare su di me quando Connolly toglierà il disturbo.» Stella si era resa conto che persino nel momento in cui cercava di lasciarlo, lui le metteva davanti nuove tentazioni; quella sintesi impietosa su come si entrava in procura suonava realistica. Come se le leggesse nel pensiero, Jack aveva aggiunto: «Ancora un morso alla mela, Stella, e sarai libera. Che presa avrò su di te quando non sarò più il tuo amante e non firmerò più gli assegni del tuo stipendio?» Stella si era raddrizzata sulla sedia. «Non potrei mai dimenticare di esserci entrata grazie a te.» «Ci entrerai perché sei in gamba. Il mio unico contributo sarà segnalarlo ad Arthur.» Parlava in tono più caldo, quasi intimo, con gli occhi fissi in quelli di lei. «Mi dispiace perderti, Stella, per quanto male tu mi giudichi adesso. Se mi permetti di fare almeno questo, magari potrò illudermi che ci siamo lasciati bene. E se le cose vanno come meriti...» Aveva lasciato la frase a metà e, con sorpresa, Stella si era accorta di avere gli occhi lucidi. Vedendola commuoversi, Jack aveva sorriso e d'un tratto lei aveva temuto che, se avesse accettato il suo aiuto, se ne sarebbe portata dietro il peso per tutta la vita. E Jack Novak voleva che quella consapevolezza non la abbandonasse mai. A occhi bassi, aveva scosso lentamente la testa. Jack si era alzato e aveva fatto il giro della scrivania. Delicatamente le aveva posato le mani sulle spalle e l'aveva baciata in fronte. «Ti prego», aveva detto. «Concedimi di essere egoista per l'ultima volta.» Una settimana dopo l'aveva convocata nella sua stanza. «Ho parlato con Arthur Bright. Il tuo curriculum gli piace e vuole vederti.»
Stella non gli aveva detto nulla delle notti che aveva passato a tormentarsi nel tentativo di rassegnarsi al difficile compromesso necessario per accettare il suo aiuto. «Ma mi assumeranno?» si era chiesta ad alta voce. Jack aveva sorriso. «Certo. Ho spiegato ad Arthur quanto sei motivata.» Il tono era mesto. Si era appoggiato a un gomito e l'aveva guardata con rimpianto. «Mi manchi, Stella.» Lei aveva distolto gli occhi. «È finita», aveva detto a bassa voce. «Per sempre.» Jack non aveva fatto obiezioni e né allora, né in seguito aveva più provato a toccarla, se non per salutarla rispettosamente come si fa coi colleghi più simpatici. Ma l'espressione che aveva in quel momento di silenzio era la più tenera che gli avesse mai visto. Alla fine, lui le aveva sussurrato: «Non ti dimenticherò mai». E io non dimenticherò mai te, aveva risposto Stella in cuor suo, e sapeva che era vero. 13 Alle cinque meno venti Brenda telefonò, dicendo che Bright aveva cinque minuti liberi. Se voleva parlargli, le conveniva sbrigarsi. Mentre correva nel corridoio piastrellato con un sacco di pensieri per la testa, Stella non poté fare a meno di riflettere su quanto erano diversi l'atteggiamento professionale di quel giorno e la tensione e la timidezza che aveva provato tredici anni prima, quando si era presentata ad Arthur Bright in veste di postulante, incerta sul proprio futuro e su quello che avrebbe pensato di lei... Brenda aveva chiuso la porta alle loro spalle. Impettita nel tailleur blu, l'unico che aveva, Stella si era seduta di fronte a Bright, cercando di sembrare intelligente ed energica mentre lui, freddo, le faceva illustrare passo passo il curriculum. Lo aveva visto in tribunale e sapeva che poteva essere molto eloquente e persuasivo e tenere banco come uno showman, ma, in quel momento, sembrava assorto in altri pensieri, quasi l'avesse ricevuta controvoglia. Si era addirittura chiesta se davvero avesse intenzione di assumere qualcuno o se Jack gli avesse chiesto aiuto da uomo a uomo per liquidare elegantemente la sua amante, trovandole un posticino nel limbo della burocrazia, in attesa di un incarico che non si sarebbe mai materializzato. Bright aveva alzato gli occhi dal curriculum. Era raffinato nei modi, ma
dimostrava una cautela che rasentava la diffidenza. «Perché vuole lasciare Jack Novak per mettersi dalla parte dei buoni?» le aveva chiesto alla fine. «Per fare esperienza?» Stella aveva scosso la testa. «Sono quasi due anni che lavoro nello studio di Novak. È stato interessante e ho imparato molte cose. Per esempio che non sono tagliata per fare l'avvocato difensore.» «No?» Stella aveva esitato. Benché Bright non avesse fatto mistero del ruolo che Jack aveva avuto nel procurarle quel colloquio, aveva parlato di lui con la stessa freddezza con cui stava trattando lei. Per il momento, comunque, la cosa migliore era dire la verità nel modo più semplice. «Spesso ci si trova a difendere persone colpevoli», aveva mormorato. «Lo sappiamo tutti. La legge dà loro diritto a una difesa e gli avvocati esistono per questo, d'accordo. Ma per me è un principio troppo astratto, di fronte ai danni concreti che provoca la droga.» Bright aveva aggrottato la fronte, lievemente critico, ma l'aveva osservata attentamente. Nella sua voce c'era un'ombra di scetticismo. «Dunque vorrebbe entrare nella sezione Narcotici.» Stella aveva preso fiato. «No. A dire il vero, preferirei occuparmi di altro.» Bright l'aveva fissata con un sorrisetto niente affatto divertito. «Non vuole lavorare con me?» Era giunto il momento che lei temeva maggiormente. «Mi piacerebbe molto», aveva ammesso alla fine. «Però credo che sia meglio di no.» Lo aveva guardato dritto negli occhi. «Jack Novak e io abbiamo avuto una relazione, dottor Bright, che è durata quasi tutto il tempo in cui ho lavorato per lui. Senza il suo aiuto, io non sarei qui.» Bright aveva inarcato le sopracciglia. «E questo non le piace.» «Adesso che ci sono, mi va bene. Penso che Jack non abbia esagerato nel dire che sono brava nel mio lavoro e qualificata per un'eventuale assunzione in procura.» Si era accorta che stava parlando troppo in fretta e si era sforzata di rallentare. «Ma è possibile che io continui a provare per Jack sentimenti complessi, oltre a sentirmi in debito nei suoi confronti. Se mi occuperò di droga, mi capiterà di scontrarmi con lui in tribunale. Ammesso che questo non causi problemi deontologici, non mi sembra la posizione migliore per un pubblico ministero. Ed è questo che voglio diventare: un pubblico ministero. Per cui sono disposta a cominciare da qualsiasi parte.»
Bright aveva incrociato le dita e la sua espressione da sorpresa si era trasformata in affabile. «Be', lei è di un candore ammirevole», aveva commentato dopo un po'. Se doveva dire la verità, decise Stella, tanto valeva che la dicesse sino in fondo. «Pensavo che lei lo sapesse.» «Jack non me ne ha mai parlato.» Dopo una pausa, aveva aggiunto: «Un vero gentiluomo, Jack Novak». Quell'ultimo commento, decisamente sarcastico, le parve in contrasto con la cautela dimostrata fino a quel momento, tanto più che lui non la conosceva affatto. «Jack voleva che rimanessi da lui», aveva detto Stella semplicemente. «Tuttavia io non potevo.» Bright aveva continuato a squadrarla. I suoi collaboratori dovevano abituarsi a reggere ai suoi silenzi. «Penso che lei abbia ragione», aveva replicato in tono più mite. «Tutte le ragioni, anzi. Ed è un peccato, perché c'è un posto libero proprio nella mia sezione.» Nonostante la sua determinazione, Stella era rimasta molto delusa; ecco il prezzo del suo fragile rispetto di sé, conquistato con tanta fatica. Aveva incrociato le braccia. «Dispiace anche a me. Ma penso che non ci sia niente da fare.» Bright aveva strizzato leggermente gli occhi e stavolta dal suo silenzio si capiva che la stava soppesando, giudicando, che stava prendendo una decisione. «Chissà...» aveva detto. «Ho sentito che cercano qualcuno all'ufficio Reati Minori. Se la sente d'intraprendere una crociata contro i pedoni che passano col rosso?» Il suo sorriso sembrava sincero. Era l'espressione di un uomo che, forse all'ultimo momento, aveva deciso di fare un piacere a una persona che gli era simpatica, indipendentemente da Jack Novak. «I pedoni che passano col rosso? Se li lasci fare, il giorno dopo buttano anche le cartacce per terra.» Con sorpresa di Stella, Arthur Bright era scoppiato a ridere. A tredici anni di distanza, aprì la porta di quello stesso ufficio. Bright era vicino alla finestra e guardava lo stadio nel crepuscolo invernale. Forse, pur essendo contrario al progetto, anche lui era affascinato dal monumento di Hall e Krajek che cresceva a vista d'occhio. Si voltò e le disse: «Hai trovato l'assassino di Novak, vero? Se riesco a dare la notizia prima di Krajek, prendo il tre per cento di voti in più». Stella si sedette. «Siamo in alto mare», rispose. «Ma sono andata a rive-
dere alcuni dei suoi vecchi fascicoli. Aggiustava i processi, sembrerebbe.» Bright la squadrò. «Come?» «Non lo so. Ma di mezzo c'è sempre l'uomo di Moro nell'East Side, George Flood, o qualcuno dei suoi scagnozzi.» Gli descrisse rapidamente le vicende. Bright la ascoltò con attenzione, senza batter ciglio. Alla fine le domandò soltanto: «Che cosa c'entra questo col fatto che l'hanno ammazzato?» «Probabilmente nulla. Ma non abbiamo niente che dimostri che Jack è morto perché frequentava maniaci o ambienti sadomaso...» «Però le ammucchiate non gli dispiacevano, no?» La voce era sommessa, ma la domanda era chiara e Stella immaginò che avesse parlato con Dance. «E neppure il brivido di andare con degli sconosciuti. Jack cercava stimoli sempre nuovi e, quando si entra in certi giri strani, qualche rischio si corre. E poi c'è Missy Allen.» Abbassò ulteriormente la voce. «Ti è andata bene, Stella. Anche se forse a quei tempi Jack era diverso.» Era vero, ma Stella ebbe la sensazione che la stesse manipolando, che stesse usando in modo scorretto le informazioni che aveva sul suo passato. Non era il caso di rispondere. Bright si avvicinò alla scrivania e si sedette stancamente sulla poltrona, quasi si fosse reso conto di aver esagerato. «Dimmi che Jack non poteva finire così. Dimostrami che nessuno aveva motivo di odiarlo.» «Non posso. Quello che ti ho detto è che Jack aggiustava processi. Questo ti lascia indifferente, Arthur?» Alzò lo sguardo. «Mi riguarda in prima persona, Stella: non posso rimanere indifferente adesso, come non potevo allora, ma...» «Ma?» «C'era sempre un motivo. Un errore del giudice, un imputato in attesa di giudizio che scappava...» «E delle cauzioni troppo basse che mi dici?» lo interruppe Stella. «E dei testimoni uccisi?» Bright incrociò le braccia. «Nei processi per droga capita abbastanza frequentemente che un testimone non si presenti o che ci lasci le penne. Non ho notato nulla di particolarmente strano, né mi pare di notarlo ora.» Di nuovo abbassò la voce. «Dance ha ragione, sai. Ci sarebbe voluta la collaborazione di troppa gente.» Allora ne avevano parlato. «Compreso qualcuno della sezione Narcotici, magari?» Bright non si scompose. «Se qualcuno nella mia sezione avesse fatto una
cosa del genere, me ne sarei accorto.» Fece schioccare le dita. «L'avrei cacciato e sbattuto dentro. Sapevo tutto di quei casi: delle grane grosse mi occupavo sempre personalmente.» Dopo una pausa, concluse con enfasi: «E, quand'era necessario, fissavo una cauzione bassa apposta per far scappare l'imputato». Stella lo guardò con gli occhi sgranati. «Era un informatore...» «Era il mio informatore. Aveva paura e mi ha implorato di dargli una via di scampo.» Il sorriso di Bright era sardonico. «Gli dovevo un favore e ho detto a Charles Sloan di non opporsi alla proposta di Jack. Ma non potevo dire a nessuno perché, nemmeno a Dance. Il mio informatore aveva paura che ci fosse una talpa di Moro nella polizia, anche se non sono mai riuscito a dimostrarlo.» Stella era delusa, scoraggiata. «Questo è un caso», replicò. «Ce ne sono almeno altri quattro. Mi stai dicendo che solo tu potevi insabbiare un'inchiesta?» «Se era per droga, sì.» Le lanciò un'occhiata significativa. «A parte forse Charles Sloan. Del resto è proprio a lui che pensavi, no?» La velata accusa di Bright la mise a tacere. Si era fatto buio e le lampade sopra la scrivania emanavano una luce giallastra che accentuava le borse sotto gli occhi dell'uomo. «Sai che cosa mi disturba più di tutto?» le disse alla fine. «Questi casi hanno le ragnatele, tanto sono vecchi. Troppo vecchi per avere a che fare con la morte di Jack. Però hanno a che fare col periodo in cui stavi con lui. Non ho niente in contrario a che tu faccia i conti col tuo passato, Stella, ci mancherebbe. Ma questo tuo esercizio di necrofilia ha implicazioni potenzialmente pericolose per me.» Si sporse in avanti. «Credi che Krajek o i media faranno molte sottili distinzioni, se verranno a sapere che tu pensi che uno dei miei principali sostenitori politici abbia aggiustato dei processi di cui mi occupavo io? Non ha nessuna importanza che i miei conti personali siano stati controllati per dritto e per traverso o che Charles Sloan abbia ancora meno soldi di me. Krajek e i media non hanno bisogno di dimostrare che mi pagavano: gli basterà il fatto che Jack mi finanziasse la campagna elettorale.» Il monologo di Bright terminò di colpo, con un aperto rimprovero: «Su questo Charles ha perfettamente ragione. Come sempre». Stella s'irrigidì. Le stava ricordando, come se ce ne fosse bisogno, che la realizzazione delle sue aspirazioni politiche dipendeva dal fatto che Bright preferisse lei a Sloan e che, comportandosi così, si dava la zappa sui piedi da sola. Sottovoce disse: «Chi ha aiutato Jack potrebbe essere ancora in
circolazione. Non possiamo ignorarlo». «Non ti sto chiedendo d'ignorarlo. È una questione di priorità e di possibili conseguenze. Se passi il tempo a chiederti che cosa faceva Novak nel periodo in cui stavate insieme, non ti avvicini di un passo a scoprire il suo assassino.» Adesso sorrideva in modo più rilassato. «Invece è di questo che ti dovresti occupare, Stella, perché, oltre a essere il tuo lavoro, è l'unica cosa che può essere utile a me e a te.» Il sorriso si spense. Era chiaro che Stella aveva messo a dura prova la sua pazienza e, nonostante la stima di fondo, lo aveva deluso. Le passò la voglia di affrontare l'altra faccenda per cui era andata a parlargli: chiedere a lui, anziché a Sloan, se poteva far esaminare a Michael Del Corso il capitolato dello stadio. Era difficile barcamenarsi nella politica di corridoio quando si dubitava delle proprie motivazioni. Lo ringraziò e uscì. Erano quasi le sei quando andò da Sloan. L'intero piano era semivuoto, le segretarie erano andate via e le luci spente in quasi tutte le stanze, ma Sloan si sarebbe fermato in ufficio ancora per ore: in quello, se non altro, Stella e lui erano simili. «Avrei un favore da chiederti», gli annunciò. Il tono umile e modesto lo sorprese, soprattutto dopo l'ultima, aspra discussione che avevano avuto. Bevve un sorso dall'eterna lattina di Pepsi e replicò, abbastanza garbatamente: «Ancora un po' del tempo di Michael Del Corso, per studiare il contratto dello stadio, vero?» Possibile che lì dentro anche i muri avessero le orecchie? Stella non ne aveva fatto cenno a nessuno. Evidentemente Sloan, per il quale le informazioni, soprattutto sul suo conto, erano potere, aveva parlato con Dance dopo il colloquio con Hall, aveva intuito le sue intenzioni e adesso voleva ricordarle che era al corrente di tutto ciò che faceva. Con la massima calma, lei replicò: «La moglie di Fielding pensa che ci fossero problemi a Steelton 2000. Forse non è niente, come sostiene Hall, e Fielding era solo un tipo ansioso. Ma non conosciamo abbastanza a fondo il contratto per capire che cosa potessero essere questi 'problemi'». Sloan bevve un altro sorso. «O per sapere come mai Steelton 2000 abbia spinto Fielding ad andare a puttane e farsi di eroina. Se Johnny Curran ricorda di aver visto la sua macchina, stai tranquilla che è vero.» A differenza di quando gli aveva parlato dei suoi sospetti su Novak, sembrava che volesse sondarla, più che metterla a tacere. «Fielding è un
mistero», gli disse. «Sappiamo che è morto di overdose, ma non siamo sicuri né del come, né del perché.» Sloan aggrottò la fronte. «E l'autopsia cosa dice?» Stella scosse la testa. «Secondo Kate non c'è nulla che confuti l'ipotesi dell'incidente: nessun segno di violenza, per esempio. Ma questo non basta a escludere l'omicidio. E il fatto che Curran lo abbia visto nello Scarberry non spiega come mai la Welch e Fielding siano stati trovati morti insieme due sere dopo.» Fece una pausa e, dalla finestra, guardò l'arco buio dello stadio in mezzo alle luci di Steelton. «L'unica cosa che sappiamo, in realtà, è che Tommy Fielding stava costruendo quello stadio.» Sloan le rivolse un sorriso indagatore. «Pensavo che fossi favorevole.» «Infatti. Ma cosa c'entra?» Con aria dubbiosa, Sloan parve soppesare le motivazioni di Stella. Era proprio quello, secondo lei, il suo difetto: Sloan si conosceva fin troppo bene e applicava a tutti il suo stesso metro. Su un punto lei era in parte d'accordo con Bright: non c'erano soldi che potessero comprare Charles Sloan, ma ambizione e interesse personale potevano averlo corrotto molto tempo prima. Dopo un po' le chiese: «Che cosa vuoi da Del Corso?» Si vedeva che la tentazione era forte anche per lui. Come per Stella, la sua carriera dipendeva dall'elezione di Bright: se avessero trovato qualcosa di losco riguardo a Steelton 2000, indipendentemente dalle motivazioni politiche, avrebbero inferto un duro colpo al sindaco Krajek. «Un'analisi economica», rispose. «Vorrei sapere chi, a parte Peter Hall, ci perde o ci guadagna dalla costruzione e dalla gestione dello stadio. E se possibile vorrei fargli dare un'occhiata alle carte e ai documenti che passavano sulla scrivania di Fielding.» Sloan arricciò le labbra ed emise un sospiro. «Ci si potrebbe ritorcere contro», disse. «Se ci muoviamo con prudenza e ci manteniamo neutrali, no.» Lui strizzò gli occhi, meditabondo. «Be'... Questa idea mi piace più di quella che hai avuto la volta scorsa», disse alla fine. Stella sorrise. «Grazie.» Il suo contenuto sarcasmo suscitò in Sloan una secca risata. «Riferirò a Del Corso. Sono certo che sarà lieto di dare una mano.» Nel tono in cui lo disse era sottinteso che, nel codice segreto degli uomini, Sloan aveva motivo di ritenere che non fosse così. Stella sperò che fosse soltanto una sua proiezione; in fondo, Del Corso e lei stavano per andare a cena insieme.
14 Little Italy era un'enclave bianca nell'East Side, un quartiere di strade strette, bordate da cespugli di sanguinella, e case a due piani in mattoni circondate da siepi potate con cura. L'atmosfera era molto più vivace che a Warszawa. La strada principale, Naples Boulevard, rifletteva la provenienza della maggior parte degli abitanti e la forte influenza dell'Italia meridionale nella pittoresca varietà di botteghe, ristoranti, trattorie, pasticcerie e rosticcerie. Il quartiere era perlopiù libero dalla criminalità comune; sebbene Vincent Moro abitasse in una tenuta fuori città, come Peter Hall, la sua autorità si faceva ancora sentire a Little Italy e, finché c'era lui, nessuno osava contestarla. Le strade non erano molto cambiate rispetto agli anni '20 e '30. Lì si erano stabiliti i genitori immigrati di Michael Del Corso e lì lui abitava con la figlia, Sofia. Era per causa sua che Michael e Stella stavano andando a cena fuori. Michael aveva telefonato dallo studio di Jack Novak nel pomeriggio. Come richiesto da Stella, aveva esaminato libri e registri - tenuti in perfetto ordine nel timore di un controllo fiscale - e aveva trovato qualcosa di strano. Non aveva tempo di spiegarglielo per telefono, le aveva detto senza tanti complimenti, perché la figlia aveva un saggio di danza. Ma quella sera sarebbe andata a mangiare dai nonni, come faceva sempre una volta alla settimana, e lui sarebbe stato libero d'invitarla a cena a Little Italy. Se Stella era d'accordo, naturalmente. Stella era d'accordo. Prevedendo di avere ancora parecchio bisogno di lui, voleva instaurare un'intesa professionale migliore di quella che aveva raggiunto fino a quel momento. Le capitava abbastanza spesso di cenare con colleghi maschi, ma dopo Jack Novak si era data una regola ferrea: niente coinvolgimenti sentimentali coi colleghi, nemmeno un flirt. Michael aveva proposto di andare da Guardino's, un noto ristorante napoletano il cui proprietario, un corpulento ex pugile di nome Frankie Scavullo, accoglieva in smoking i clienti sulla soglia. A Stella sembrava un vecchio padre un po' a disagio al matrimonio della quinta e ultima figlia, che sorride agli invitati e intanto pensa al conto da pagare. Le rivolse un bel sorriso, mostrando una sfilza di denti incapsulati e, benché lei non avesse mai messo piede nel locale prima di allora, le assicurò che era un piacere rivederla. «Che gentile a ricordarsi di me», disse Stella. Quando seppe che era o-
spite di Michael, Scavullo la scortò al suo tavolo un po' in disparte con mille complimenti e galanterie, dandole cavallerescamente il braccio. Quasi a completare quella farsa cerimoniosa, Michael Del Corso si alzò e le fece un leggero inchino. «Che bella signora», disse Scavullo a Michael e si allontanò in tutta fretta, lasciando Stella a chiedersi come andava interpretato quell'ultimo commento. Sedendosi di fronte a lei, Michael la guardò divertito e le chiese: «Frankie è fenomenale, vero? E il ristorante pure». Fenomenale era dir poco: i camerieri erano in smoking, la tappezzeria in rilievo di un rosso degno di un bordello e sotto un lampadario molto elaborato faceva bella mostra di sé una fontana barocca con un putto in stile antica Roma che sputava acqua in una vasca enorme. «Forse non sono una bella signora», tagliò corto Stella. «Però curiosa lo sono di sicuro.» Michael fece una faccia delusa, ma si ricompose subito e si strinse nelle spalle: era risaputo che Stella era una donna fredda e distaccata. «Ho preso i tuoi cinque casi e ho controllato se Novak aveva incassato e magari sborsato cifre insolite nello stesso periodo», le disse. «Cioè quello che ti aspetteresti di trovare se avesse corrotto qualcuno.» «E allora?» Interrotto dal cameriere, un uomo rubicondo coi capelli tinti di nero, Michael alzò gli occhi. «Gradite qualcosa da bere prima di ordinare?» chiese il cameriere a Stella. «Una Perrier, grazie. Con limone e senza ghiaccio.» Stella ebbe l'impressione che Michael prendesse nota del fatto che non beveva alcolici, come se facesse parte della sua etica professionale. Del resto era proprio così. «Per me un bicchiere di chianti», ordinò Michael. «Grazie.» Aspettò che l'uomo si fosse allontanato e cominciò a parlare in tono sommesso. «Procediamo con ordine e cominciamo dall'omicidio del tuo haitiano, Desnoyers. Il cadavere è stato trovato un martedì. Il giovedì successivo, Novak ha ricevuto cinquantamila dollari in contanti.» Pur non essendo del tutto sorpresa, Stella trasalì. «Da chi?» «Dalla Crown Limousine.» Michael aspettò qualche istante prima di aggiungere: «Un paravento per le attività illecite di Moro. Nei registri di Novak la cifra risulta versata a saldo di una parcella per 'consulenza direzionale'». Stella scosse energicamente la testa. «Impossibile. Jack faceva l'avvoca-
to. Che ne sapeva di limousine? Solo che servivano per andare all'aeroporto.» Michael annuì. «In effetti sembra poco plausibile. A quanto ho visto, l'unica società cui Novak avrebbe dato quel tipo di consulenza è la Crown.» Arrivarono l'acqua e il vino. Stella si guardò intorno e chiese: «Questa cifra... Jack l'ha poi girata a qualcun altro?» «Non risultano grossi prelievi.» Michael si chinò in avanti, incuriosito. «E, nel contesto di questo omicidio, non avrebbe senso. Voglio dire, a chi vuoi che la dirottasse? Moro non aveva certo bisogno di Novak per pagare un killer. E non è stato certo Novak in persona a far fuori Desnoyers.» Stella fissava il tavolo. «Forse era una ricompensa», disse alla fine. «Per cosa?» «Per aver tradito un cliente.» Michael scrutò il bicchiere di vino con un mezzo sorriso, meditabondo. Non era un sorriso divertito, pensò Stella, bensì suscitato dalla certezza che un tradimento del genere era possibile. Lui lo sapeva, perché erano anni che dava inutilmente la caccia a mafiosi come Moro e quindi non poteva prendere alla leggera la teoria di Stella. «Nel caso successivo», riprese Michael, «Novak propone una cauzione molto bassa, cui noi non ci opponiamo, e lo spacciatore di Flood taglia la corda. Un certo Morgan Beach.» Stella annuì. «Dopo aver parlato con te, ho chiesto ad Arthur. Mi ha detto che Beach era un suo informatore e che la procura l'aveva lasciato scappare per proteggerlo.» Michael rimase in silenzio, poi guardò Stella dritto negli occhi e mormorò: «Pochi giorni dopo, Novak incassa altri ventimila dollari, sempre dalla Crown Limousine. Di nuovo non ci sono esborsi corrispondenti. Risulta un semplice versamento in banca, da buon cittadino che dichiara ogni centesimo che guadagna». Stella rimase esterrefatta. «Perché?» domandò. «Stavolta Jack non aveva fatto niente. Era stata la procura a decidere.» «Ammesso e non concesso che la tua teoria sia giusta e che i contanti fossero la ricompensa per qualcosa che aveva fatto Novak.» Michael sorseggiò il suo vino. «Una cosa è certa: questi pagamenti non servivano a corrompere qualcuno, perché, in tal caso, ci sarebbero anche uscite. Anzi, no, sarebbe stato fatto tutto in nero.» Stella non beveva. «Due buoni risultati», ricapitolò. «Un morto e un te-
stimone sparito. Due parcelle per consulenze inspiegabili...» «E niente uscite. Forse, nel secondo caso, Novak è stato semplicemente fortunato: voleva che il suo cliente scappasse, ma con tutta probabilità non sapeva che Beach faceva l'informatore per Arthur. Altrimenti Moro l'avrebbe fatto fuori.» «Certamente Moro non lo sapeva», confermò Stella. «Avrà pensato che Novak avesse compiuto un altro miracolo. Sono sicura che ne era convinto anche Jack.» Michael si grattò pensosamente la cresta del naso. «Così Moro sarebbe un cliente pieno di gratitudine, che paga un extra per i servizi straordinari.» «Ha dato segno di gratitudine anche in altre occasioni?» s'informò Stella. «Altre due volte.» Michael aprì distrattamente il menù, continuando a parlare in tono così basso che solo Stella poteva sentirlo. «La prima, quando Johnny Curran ha fatto la famosa perquisizione oltre i limiti del suo mandato e Novak ha ricusato il primo giudice perché non dava sufficienti garanzie d'imparzialità. La causa è stata allora affidata al giudice Freeman, il quale ha mandato tutto a monte. Novak ha ricevuto altri trentamila dollari dalla Crown Limousine.» «E anche quelli sono rimasti sul suo conto?» «Sì.» Michael studiava il menù. «L'ultimo pagamento riguardava Louis Jackson, che lavorava per Flood. Il secondo caso, Jackson.» Se n'era occupato Charles Sloan, ricordò Stella. «Quello in cui ha patteggiato, cavandosela con un anno?» «Già. Se hai ragione tu sulle parcelle, quella volta Novak è stato ricompensato con quarantamila dollari.» Stella ci pensò su. «E l'ultimo caso? Quello in cui la polizia ha 'accidentalmente' distrutto cinque chili di cocaina, invalidando il processo contro Flood e Jackson?» Michael scosse la testa. «Per quello Novak non ha intascato niente. A parte la normale parcella da Jackson, naturalmente in contanti.» Stella prese il bicchiere e bevve un sorso di acqua frizzante. «E le altre cause vinte da Jack? Nessun pagamento extra?» Per la prima volta, Michael diede segni d'insicurezza. «È proprio questo che mi è sembrato strano. Nei due o tre anni che ho controllato, Novak ha vinto parecchie cause, ma senza ricevere nessun extra.» Stella posò il bicchiere. «Dunque gli 'extra' erano per i risultati eccezionali: testimoni morti, cauzioni troppo basse, patteggiamenti vantaggiosi,
assegnazione della causa al giudice di manica più larga.» «Già.» Stella si guardò intorno nella sala. Gli altri clienti - anziane coppie, famiglie, una tavolata di tre generazioni di italoamericani - sembravano allegramente occupati. «Forse sulla carta non risulta che fosse il cassiere di Moro», disse. «Ma ciò non toglie che poteva fare da intermediario per il pagamento delle tangenti.» Michael annuì. «Non avrebbe dichiarato quelle somme: nell'eventualità di un controllo fiscale, avrebbe non solo destato sospetti, ma addirittura rischiato una sanzione, se non avesse spiegato dov'erano andate a finire. Può darsi che le girasse a qualcun altro. Ma non è detto.» Corrucciato, chiuse il menù. «Prova a chiederti una cosa, però: se Moro corrompeva qualcuno, che bisogno aveva di affidare l'incarico del cassiere a Novak? Perché pagarlo per un lavoro fatto da altri? E perché Vincent Moro avrebbe corso il rischio di far sapere tante cose a un'altra persona, soprattutto a un cacasotto come Novak?» Stella taceva. Conclusa l'analisi, Michael lasciò trapelare tutto il suo scoraggiamento. Questa potrebbe anche essere un'indagine interessante, pareva dire, in teoria potremmo anche approdare a qualcosa, ma la mano di Vincent Moro resterà comunque nascosta. Secondo Stella, tutto partiva da Jean-Claude Desnoyers. Era sicura che Novak lo avesse tradito, denunciandolo a Moro, e che fosse stato ricompensato non appena qualcun altro aveva buttato nel fiume il cadavere. Quello che restava oscuro negli altri casi era il ruolo avuto da Jack nell'esito della vicenda e, forse, l'identità del «qualcun altro» che aveva aiutato Moro a proteggere George Flood. Ma, come Bright, anche Sloan e Dance avrebbero sicuramente obiettato: che cosa c'entrava tutto quello con la morte di Novak? «Non lo so», concluse Stella. 15 Il cameriere prese le ordinazioni: carpaccio e saltimbocca per Michael, insalata e pasta all'ortolana per Stella. «Vino?» propose Michael. Stella esitò. «Magari un bicchiere.» Michael sorrise. «Allora al ritorno guidi tu», disse e ordinò una bottiglia di chianti.
Mentre il cameriere versava il vino, Michael osservava il ristorante con aria soddisfatta: l'atmosfera era allegra, i tavoli erano pieni e il volume di risate e chiacchiere stava salendo. Quando il cameriere se ne fu andato, le chiese: «Già che abbiamo nominato la Crown Limousine, che cosa sai del riciclaggio di denaro sporco?» Stella assaggiò svogliatamente il vino: era aspro, ma lasciava un sapore piacevole sulla lingua. «So che Moro riesce a far apparire legittime le proprie entrate, ma ignoro come faccia esattamente.» «Te lo spiego io.» Nel frastuono generale, Michael prese a parlare in tono normale, rilassato. «Le 'parcelle' di Novak venivano pagate dalla Crown Limousine, ma scommetto che il denaro proveniva dalla malavita organizzata. Droga, prostituzione e gioco d'azzardo generano grandi quantità di contanti: non è roba che si paga con la MasterCard, e stai tranquilla che gli uomini di Moro non accettano assegni dagli spacciatori...» «Non si fidano di nessuno.» «Già. Meglio non mettere nulla nero su bianco. Ma anche i contanti lasciano tracce: Moro non li nasconde di certo sotto il materasso e col suo tenore di vita è costantemente nel mirino del fisco.» Sorrise. «È per via delle tasse che sono riusciti a beccare Al Capone, alla fine. Non per i cadaveri nel Chicago River, ma per evasione fiscale. Moro ha lo stesso problema. Come tutti, deve versare i soldi in banca, investirli. E gli istituti di credito devono denunciare le operazioni che fa. Può esportare capitali all'estero, d'accordo, però non tutti. Il reddito che denuncia deve quadrare col tenore di vita.» S'interruppe per bere un lungo sorso di vino. «Così», riprese, «compra quote azionarie di società legittime che muovono molti contanti, tipo ditte di catering, noleggio di limousine, distributori automatici, parcheggi, bar, ristoranti, e dirotta i profitti illeciti in queste imprese di facciata, che dichiarano scrupolosamente fino all'ultimo centesimo e fanno passare i profitti dello spaccio di eroina per incassi derivanti dalla vendita, mettiamo, di un miliardo di piatti di saltimbocca.» Stella si accorse che lui stava ridendo, seppure soltanto con gli occhi, e, goffamente, prese il bicchiere. «Dici che questo ristorante...» Michael annuì. «È di Moro. Si mangia benissimo, tra parentesi.» Quell'atteggiamento la irritò. «E perché ci siamo venuti?» Lui la guardò imperturbabile, senza perdere l'aria divertita. «Perché è un caso da manuale. Guardino's e Frankie Scavullo sono un'istituzione nel quartiere: nessuno vorrebbe mai vederli chiudere. E hanno utili reali sufficienti a far girare bene anche il denaro sporco. Frankie è molto benvoluto a
Little Italy: fa donazioni agli enti di beneficenza cattolici, sponsorizza le squadre della Catholic Youth Organization e fornisce pasti gratuiti alle mense per i poveri. Nessuno cercherà di scalzarlo dalla sua posizione o dargli noie. E Frankie non vorrebbe mai e poi mai pestare i calli a Vincent Moro. Questo è un altro ostacolo. Per troppa gente è troppo facile accettare il sistema. Anzi, adeguarsi è l'unica cosa prudente da fare.» Stella posò il bicchiere. «Ma perché ci siamo venuti?» ripeté. Michael smise di sorridere. «Io ci vengo da quand'ero piccolo. So che cosa fa Frankie e lui sa che io lo so. Abbiamo fatto patti chiari molto tempo fa: io non mi lascio offrire niente e lui ogni tanto mi fa una soffiata, senza mai danneggiare Moro, s'intende. Tu forse lo trovi disdicevole, ma è molto pratico e comunque più di così io non posso fare. Perché Frankie e io sappiamo che non avrò mai le risorse per passare i mesi e mesi che ci vorrebbero a spulciare la sua contabilità. Se c'è qualcuno che può fregare Frankie - cosa che probabilmente non succederà mai - è l'FBI, non noi. Ma per ogni cameriere che vedi, Frankie ne ha uno a libro paga che qui non mette mai piede, perché in realtà lavora per Vincent Moro.» «Uno scagnozzo? Anche Moro ha cominciato così...» Michael si strinse nelle spalle. «Scagnozzi, picchiatori... Per quello che ne so, il tizio che ha fatto fuori il tuo haitiano poteva essere un dipendente di Frankie. Ma Frankie non ne sa niente. Ed è un altro degli aspetti geniali di Moro.» Fissandolo, Stella cercò di capire perché era così arrabbiata. Michael l'aveva messa in una posizione compromettente con l'inganno, senza consultarla, perché era abituato a piccole forme di corruzione, come mangiare da Guardino's. E, per quanto realistico, il suo era un atteggiamento disfattista. Vedendo che lei taceva, Michael tornò serio. «Sembri arrabbiata.» «Lo sono. Essere venuta a cena qui mi dà la sensazione di aver già perso in partenza; mi sento come uno di quegli imbranati che giocavano contro i Globetrotters.» Abbassò la voce. «Come fai a sapere che non c'è una microspia nascosta sotto il tavolo?» Stavolta fu Michael a fissarla con rabbia; stava per risponderle male quando arrivò l'antipasto. Si concentrò sulla senape da spalmare sul carpaccio, poi alzò gli occhi e disse: «Non sono un idiota, Stella. So dai federali che in questo ristorante non ci sono microspie e Vincent Moro non correrebbe mai un rischio simile: le intercettazioni sono vietate dalla legge». Parlava sottovoce, ma con durezza. «Hai scoperto adesso come funziona la criminalità organizzata,
pur avendo lavorato per Novak, e t'indigni. Okay, mi sta bene. Spiegami come facciamo a sbattere in galera Moro e ti concederò tutto il tempo che vuoi. Per il momento, cerca almeno di apprezzare quello che non sei in grado di capire. E non dire che ho già perso in partenza.» Stella si morse un labbro e lo guardò in faccia. Michael rivelava un orgoglio, o forse solo un'arroganza maschile, che Stella aveva ignorato a proprio rischio e pericolo. E in qualità di responsabile della sezione Omicidi anche a lei era capitato di scendere a patti con un assassino per incastrarne un altro o di fare la corte a potenziali testimoni che, in qualsiasi altra circostanza, avrebbe considerato disprezzabili bugiardi. La verità era che aveva bisogno di Michael Del Corso. «Scusami», gli disse. «Hai fatto un ottimo lavoro. Solo che non mi è piaciuto scoprire a metà della cena che stavo mangiando in un ristorante di mafiosi.» Lui incrociò le dita. «Capisco», disse alla fine. «Non ti ci porterò più.» Quella battuta acida le strappò un sorriso. Si mise a mangiare la sua insalata nel silenzio imbarazzato che era sceso sulla tavola. «In realtà sono stata poco diplomatica perché avrei ancora bisogno di te per un'altra cosa», si azzardò a dire dopo un po'. Michael, che stava finendo il carpaccio, le lanciò un'occhiata né ostile né entusiasta. «Per che cosa?» «Per Steelton 2000. Il project manager, Tommy Fielding, è morto di un'overdose cui nessuno riesce a credere e la sua ex moglie sostiene che aveva problemi sul lavoro. Io però non capisco quali sono i termini del contratto, chi ci guadagna, né in che cosa consisteva esattamente il suo lavoro.» Sul viso di Michael comparve un'espressione di vago interesse. «Sono tante le persone che lavorano nell'indotto di un progetto di questo genere», replicò. «Studi di commercialisti, investment banks, imprese di costruzioni. È da lì che devi cominciare. Poi magari uno come me può dare un'occhiata agli ingranaggi.» Meglio non insistere, pensò Stella. «Puoi darmi almeno qualche indicazione su dove andare?» Michael esitava. «Dovresti parlarne con Sloan.» «Già fatto.» Il sorrisetto divertito ricomparve: le tensioni tra Sloan e Stella erano ormai sulla bocca di tutti in procura, tanto quanto le complicazioni politiche che riguardavano Bright, il sindaco Krajek e Steelton 2000. A bruciapelo, Michael le chiese: «Ti candidi?»
Quella franchezza la colse alla sprovvista. «Perché me lo chiedi?» Lui la osservava. «Perché Sloan si candida. E in ufficio c'è molto nervosismo, anche perché il nuovo procuratore ha facoltà di licenziare chi vuole e molti si chiedono chi di voi due appoggiare o viceversa rischiare di offendere, per complicarsi il meno possibile la vita. Steelton non è il posto ideale per ritrovarsi in mezzo alla strada a cercare lavoro.» Soprattutto per un single con una figlia di sette anni a carico, pensò Stella. «Prima bisogna che Arthur diventi sindaco», replicò. «Molto dipende dall'opinione che gli elettori si fanno di Steelton 2000. Sono certa che a Charles Sloan questo non è sfuggito.» Michael rise. «Allora posso stare tranquillo.» Non sembrava eccessivamente preoccupato: dietro l'apparente scoraggiamento, Stella aveva cominciato a intravedere una certa sicurezza di sé. «Tranquillissimo», replicò. «Anche se l'interesse di Sloan per la cosa è politico e il mio, invece, professionale. Lui vuole vedere lo stadio nel fango e Arthur sulla poltrona di sindaco. Io voglio che Arthur sia eletto e i Blues giochino ancora a Steelton quando avrò ottant'anni. E voglio anche sapere con certezza perché è morto Fielding.» Tornò il cameriere. Sorridendo, chiese se andava tutto bene e servì loro il secondo. Sentendo il profumo squisito dei saltimbocca, Stella rimpianse di avere problemi di linea. «Allora sei un'appassionata di baseball», commentò Michael dopo averli assaggiati. Ci volevano anche le chiacchiere, pensò Stella, e non c'era nulla di male a dire qualcosa di sé. «Più che appassionata», rispose. «Al liceo giocavo a softball, come lanciatore ed esterno centro. Fino a quattordici anni, ho sognato di succedere a Larry Rockwell. È stato duro accettare il fatto che i Blues non mi volevano.» Sorrise. «Non sono sicura di averla mandata giù nemmeno adesso.» Michael le rivolse un'occhiata interrogativa. «Procuratore di contea... Non mi sembra una brutta alternativa», le fece notare. Stella, seria, rispose semplicemente: «Può darsi. Ma prima bisogna che Arthur vinca». Lui la osservò ancora un po', quindi diede un'occhiata all'orologio. «Sono le nove», disse. «Dovrei chiamare i miei.» Estraendo il cellulare dalla tasca, mormorò: «Prima di avere Sofia, odiavo queste diavolerie». Premette il tasto della memoria e il numero 1. Stella si concentrò sul suo piatto di pasta. «Mamma?» disse Michael.
«Tra poco sono lì. Come sta?» Stette ad ascoltare per un po', poi riprese: «Bene. Le hai fatto il bagno, vero? Aveva i capelli sporchi». La risposta, che Stella immaginò fosse affermativa, fu seguita da un monologo della signora Del Corso durante il quale Michael annuì più volte, come per affrettare la conclusione. «Grazie, mamma», disse. «Baci.» E chiuse la telefonata. Stella posò la forchetta. «Tutto a posto?» «Sì.» Riponendo il telefono, Michael aggiunse: «A volte mia madre non riesce a credere che sua nipote possa essere tirata su da un uomo. Come se io fossi geneticamente incapace di portarla dal dentista». Allora era davvero un padre single. «Com'è andato il saggio di danza?» s'informò. Michael sorrise di nuovo. «Hai mai visto un gruppetto di bambine di seconda elementare in calzamaglia che cercano di andare a tempo? Ma io avevo occhi solo per la mia principessina. Che è stata bravissima.» In tono più serio, aggiunse: «L'importante è che sia contenta lei. A me interessa solo questo». Stella intuì l'esistenza di difficoltà, presenti o passate, ma non le parve il caso di fare domande. Finirono di mangiare in fretta. «Hai bisogno di un passaggio?» gli chiese. «Se non ti dispiace... Ho lasciato la macchina dai miei. Non è lontano.» Dietro insistenza di Stella, divisero il conto e uscirono a passo svelto. Dopo il caldo e il rumore del ristorante, l'esterno sembrava freddo. Rimasero in silenzio durante il tragitto verso la casa dei genitori di Michael. Abitavano in una modesta villetta a due piani che, pur avendo una struttura diversa, ricordò tristemente a Stella la casa in cui aveva passato i primi ventitré anni della sua vita. Dalla finestra del soggiorno al pianterreno, Stella intravide una bambina bruna che si sporgeva con le braccia oltre la spalliera di un divano, in attesa del papà. Sua madre, pensò di nuovo Stella, doveva essere stata molto bella. Prima di scendere dalla macchina, Michael si voltò verso di lei. «Grazie del passaggio», disse e andò a prendere Sofia. 16 Stella aveva molto da fare il venerdì mattina: un'udienza preliminare, una riunione con la sezione Omicidi per rivedere i casi in sospeso, le sele-
zioni degli studenti del terzo anno di giurisprudenza, due chiamate da potenziali sostenitori che la invitavano a parlare da qualche parte. Erano le undici quando riuscì a telefonare a Dance per chiedergli di Tina Welch, la prostituta morta insieme con Tommy Fielding. Dance la informò che avevano finalmente rintracciato la madre della Welch. Viveva nell'East Side, faceva la domestica e aiutava Tina a tirare su il suo bambino, che aveva cinque anni. Si vergognava che la figlia facesse la vita e non si capacitava che fosse morta. Sì, sapeva che era tossicodipendente e anche come si guadagnava da vivere, ma su Tommy Fielding sapeva tanto quanto sull'identità del padre del nipotino. Una sera, Tina non era rientrata e il giorno dopo era stata trovata morta. Dance suonava stanco, rassegnato: non erano cose nuove per lui, sembrava dire il suo tono, eppure non smettevano di deprimerlo. «E nello Scarberry?» chiese Stella. «Avete scoperto qualcosa?» «Nessuno ricorda né Fielding né la sua macchina. L'unico avvistamento è quello di Curran.» «C'era anche Tina Welch. Le prostitute sono abitudinarie, di solito lavorano sempre nella stessa zona. Qualcuno deve averla vista, quella sera.» «Se l'hanno vista, non lo dicono. I poliziotti della Buoncostume la conoscevano e hanno battuto tutta la sua zona abituale. Ma le puttane odiano i poliziotti, soprattutto quelli della Buoncostume, e nessuna ricorda niente. Le serate sono più o meno sempre uguali, sai, una decina di pompini a dieci dollari l'uno.» La sua voce profonda aveva imitato la cadenza da ghetto di una prostituta che non si fa illusioni. «Immagino che abbiate distribuito delle foto di Tommy Fielding e di Tina Welch. E senza ottenere risultati», disse Stella, controllando le telefonate cui non aveva ancora risposto: una di Jan Saunders di Channel 6 e due di Dan Leary dello Steelton Press. «Ma avete trovato l'assassino di Jack Novak, vero?» Dance emise un suono a metà tra una risata e un grugnito. «Questione di ore.» Gli si sentiva la frustrazione nella voce. «Abbiamo interrogato di nuovo Missy Allen, abbiamo rivoltato la sua vita come un guanto. Nessuna macchia di sangue sui vestiti, niente in lavanderia o nella spazzatura, nessuno che la ritenga capace di uccidere. Continua a ripetere che deve averlo ammazzato lo sconosciuto della telefonata e che le manca da morire.» «Tu che ne pensi?» Di nuovo, Dance fece la sua strana risata. «Che i gusti sono gusti.» Una pausa, poi riprese: «Se si fosse trattato di un raptus omicida, l'assassino a-
vrebbe lasciato qualche traccia sul luogo del delitto, magari impronte, oppure sarebbe stato visto o sentito scappare in preda al panico. Per essere l'autore di un omicidio così sanguinoso, è stato molto ordinato: si è presentato, ha impiccato Novak all'armadio, gli ha tagliato le palle ed è scomparso senza lasciare traccia». Per l'ennesima volta, Stella lanciò un'occhiata alla copia dello Steelton Press che sporgeva dal cestino. «Pochi indizi nell'omicidio Novak», titolava e, come c'era da aspettarsi su un quotidiano che appoggiava Krajek e lo stadio, definiva Novak «un caro amico di Arthur Bright.» «Se non è stato un delitto passionale come può, chiunque sia stato, averlo convinto a collaborare?» replicò Stella. «Puntandogli una pistola alla testa, magari?» Suonava scettico, e anche Stella lo era. «Ne parlerò con Kate», concluse. Il coroner era impegnato nell'autopsia di una bambina di sei anni violentata e uccisa mentre la madre era al bar, e richiamò Stella solo all'ora di pranzo. «Una pistola puntata alla testa?» ripeté Kate e rifletté su quell'ipotesi. «Non mi pare possibile», disse dopo un po'. «Nessuno è docile fino a quel punto. Quando l'assassino gli ha tolto lo sgabello da sotto i piedi, Novak avrebbe cominciato a dibattersi: è un riflesso spontaneo, per quanto uno abbia paura di una pistola. Gli sarebbero rimasti segni sui polsi e forse più abrasioni sul collo...» A Stella venne in mente qualcosa che, a giudicare dal silenzio improvviso del coroner, doveva essere venuto in mente anche a lei. «Questo vale anche per un eventuale partner.» «Vero», borbottò la Micelli dopo un momento. «Qual era il tasso alcolemico di Novak? E quanta coca aveva sniffato? La Allen dice che avevano bevuto come spugne e, arrivati a casa, avevano tirato coca. E dai bicchieri sappiamo che poi Novak aveva anche bevuto scotch con qualcuno. Che non era la Allen, stando a quello che giura e spergiura lei.» «Ah, da quando si offre da bere al proprio assassino?» ribatté scettica la Micelli. Stella si appoggiò allo schienale. «Se è una persona che si conosce, può darsi. La Allen sostiene che Novak ha ricevuto una telefonata e di punto in bianco l'ha congedata.» «Quanto all'alcol, Novak era ben oltre il limite previsto dalla legge, che
è zero virgola sei. Tuttavia, a giudicare da quello che so di lui e dalla massa corporea, non penso che fosse ubriaco fradicio. La Allen lo conferma, vero?» «Sempre che le si voglia credere.» «Non occorre. Lo avrà tenuto su la coca.» Stella ripensò a Jack impiccato, col viso spaventosamente distorto. «Se hai finito con le domande, ho una cosa da dirti», disse Kate Micelli. «Cosa?» «I risultati del test sui capelli di Fielding. È l'esatto contrario di Novak: sono capelli di almeno un mese e non risulta assolutamente che facesse uso di stupefacenti. E anche nel sangue, niente alcol. Al massimo il mezzo bicchiere di birra che abbiamo trovato nel lavandino.» Stella si alzò e prese a camminare avanti e indietro. «Se tu fossi uno che si buca, anche poco, resisteresti un mese senza farti?» «Probabilmente no. Ma c'è sempre una prima volta. Non posso dimostrarlo, però ho la netta sensazione che per lui fosse il primo buco.» Novak, Fielding, Tina Welch: tante domande, nessuna risposta. Dopo aver riattaccato, Stella guardò, come ormai era sua abitudine, lo stadio in costruzione. «Maledizione», esclamò. Senza accorgersene, rimase mezz'ora alla finestra a esaminare attentamente le travi in acciaio, la struttura circolare delle gradinate già in parte riempita di calcestruzzo, gli operai con l'elmetto, il metallo opaco sotto il cielo grigio. Il trenta per cento dei lavoratori era costituito da minoranze etniche, aveva assicurato agli elettori Thomas Krajek, un vero e proprio melting pot. In quella mezz'ora, Stella temporeggiò. Quello di lasciarsi sopraffare dalla frustrazione, dal groviglio di cose incompiute e problemi irrisolti, era un difetto di cui era consapevole, ma conosceva l'antidoto: scegliere una cosa qualunque, anche di poca importanza, e farla. Ritrovato lo slancio, il compito successivo risultava più facile. Con sua stessa sorpresa, decise di prendere l'ascensore per scendere nell'archivio storico. Si trovava nelle viscere dell'edificio ed era senza finestre, polveroso e umido, con un interruttore nel muro di cemento accanto alla porta. Stella aprì con la chiave in dotazione al suo ufficio e accese la luce. I neon al soffitto lampeggiarono e poi si accesero. Il locale, pieno di file e file di scaffali metallici alti tre metri allineati su un pavimento di linoleum sporco, era immerso nel silenzio più totale. Rac-
coglieva anni e anni di azioni penali cadute in prescrizione, ricorsi rigettati o cause risolte con un patteggiamento, vinte o perse e mai finite in appello. Non ci andava mai nessuno, tranne quando un frammento di storia passata poteva servire a gettare luce sul presente. Era un po' come un cimitero senza custode: c'era un impiegato incaricato di aggiornare l'indice e di registrare le nuove accessioni in grossi volumi che risalivano agli anni '70, ma né l'esiguo numero di visitatori né il bilancio giustificavano l'assunzione di qualcuno che lavorasse soltanto lì. Gli avvocati prelevavano i documenti sulla parola, segnando su un registro il proprio nome, il titolo e il numero del fascicolo. A quanto pareva, nessuno era stato nell'archivio da quando Jack Novak era stato assassinato. Erano gli incartamenti di Novak - le cinque cause riguardanti George Flood - ad aver condotto Stella in quella specie di antro. Quello che aveva letto nello studio le aveva rivelato molte cose, ma su certi aspetti non poteva dirle nulla. Forse lì, invece, avrebbe trovato notizie sull'informatore sparito, Morgan Beach, e sui suoi rapporti con Arthur Bright o con Charles Sloan. O magari avrebbe trovato qualcosa che spiegava perché Sloan o Bright avevano accettato un patteggiamento che condannava Louis Jackson, uno degli spacciatori di Flood, a solo un anno di detenzione per possesso di cocaina. O magari avrebbe scoperto come mai nel caso Green in cui il sequestro di cocaina compiuto da Curran era stato invalidato per mancato rispetto dei limiti del mandato di perquisizione - era stato ricusato il giudice originale a favore del giudice Freeman. Con un po' di fortuna avrebbe potuto scoprire addirittura come avevano fatto a sparire cinque chili di cocaina. O, ancora, qualcosa che dimostrasse se il pubblico ministero, che era di nuovo Sloan, sapeva che Jean-Claude Desnoyers era disposto a collaborare; rileggendo l'appunto «patteggiamento» tra le proprie note, la disperazione dell'haitiano le era tornata in mente come se quel colloquio fosse avvenuto soltanto il giorno prima. Scorse l'indice. I fascicoli c'erano tutti: Stato contro Flood; Stato contro Desnoyers; Stato contro Green; Stato contro Jackson; poi un altro Stato contro Flood. Una litania di tentativi falliti di smantellare la rete di Moro. Stella non sapeva esattamente perché fosse andata lì. Forse era stata spinta dalla sensazione - ma non era nulla più di una sensazione - che qualcuno le stesse raccontando delle bugie o comunque le stesse nascondendo la verità su quei casi, o forse semplicemente dal desiderio di accertare che non ci fosse nulla di cui lei avrebbe dovuto essere al corrente. Appuntati i numeri dei fascicoli su un foglietto, cominciò a cercare tra
gli scaffali. Erano disposti come in una sorta di primitiva biblioteca: c'era un cartellino incollato a ogni scaffale con data e numero del primo e dell'ultimo fascicolo scritti a pennarello. Avvicinò una scaletta pieghevole e si fermò davanti allo scaffale in cui si sarebbe dovuto trovare il fascicolo Stato contro Desnoyers. Era sul ripiano più alto. Stella salì, cercandolo con gli occhi: gli scaffali erano pieni zeppi, ma in alto c'era uno spazio e una delle cartelline era inclinata. Ne controllò il numero, poi anche quello del fascicolo cui era appoggiata. Stato contro Desnoyers non c'era. Si fermò un momento ad annusare l'odore di muffa e di carta vecchia che aleggiava nell'archivio, poi sistematicamente tirò fuori tutti gli incartamenti per assicurarsi che quello che le interessava non fosse fuori posto. Ma erano tutti in ordine. Scese dalla scaletta e cercò lo scaffale in cui si sarebbe dovuto trovare quello della prima causa, Stato contro Flood, in cui erano sparite le prove. Stavolta era più facile, perché il ripiano era alla sua altezza. Trovò un altro fascicolo inclinato, un altro spazio vuoto. Le bastò un minuto per avere la conferma che Stato contro Flood non c'era. Interdetta, consultò il foglietto che aveva in mano. Sullo scaffale accanto, stando ai suoi appunti, c'era Stato contro Jackson. Ma anche lì trovò uno spazio vuoto. Le mancava l'aria, in quel seminterrato chiuso e surriscaldato. Con una sensazione di disagio che rasentava l'ansia, Stella cercò gli ultimi due fascicoli, ma ormai era pronta a scommettere che anche quelli mancavano, e ne ebbe presto conferma. Tornò all'indice. Sfogliandolo, verificò che i fascicoli che le interessavano erano stati archiviati nel 1996. Nell'elenco dei nomi dei colleghi figurava quello di Michael Del Corso, che aveva prelevato il fascicolo relativo a un malversatore condannato, ma non risultavano né Arthur Bright né Charles Sloan. Nessuno, secondo il registro, aveva prelevato i dossier che cercava lei. Rimase lì impalata, con le mani sui fianchi, a osservare la stanza piena di ombre. Il silenzio era opprimente. Aprì la porta e uscì. Michael si trovava alla sua scrivania e, quando Stella si fermò sulla so-
glia, alzò gli occhi da una pila di carte. «Come stava Sofia?» gli chiese. «Bene, grazie», le rispose con un sorriso un po' ironico. «Solo che mi ha tenuto alzato fino a tardi, insistendo per venire nel lettone con me. A volte lo fa, quando esco la sera.» Dov'era la madre? si chiese Stella. Era morta o se n'era andata? Dal commento di Michael s'intuiva un'insicurezza di fondo che poteva dipendere da un distacco improvviso. Forse era per quello che la bambina lo aspettava guardando dalla finestra. «Ho cercato gli incartamenti di quei processi», disse. «Li hai mica presi tu?» Michael sembrava poco interessato. «Non sono al loro posto?» «No, e non risultano in prestito. Anche se è possibile che qualcuno li abbia presi tanti anni fa e non li abbia più restituiti.» «Tutti e cinque?» Il suo sguardo era più serio. Alzò le spalle e disse: «Non guardare me. Non ho mai ricevuto un sollecito da una biblioteca in vita mia». Stella accennò un sorriso. «Restituivi sempre tutto alla scadenza?» «Sì.» «Anch'io.» Si voltò per andare. «Hai mai sentito nominare la Megaplex?» le domandò Michael. «È la più grossa impresa americana nel settore degli impianti sportivi. Ho appena parlato con uno dei vicepresidenti, Paul Harshman.» Non si poteva negare che fosse efficiente, pensò Stella. Magari lo era solo perché riteneva prudente fare buona impressione sulla donna che un giorno poteva diventare procuratore della contea. «È disposto ad aiutarci?» «Purché la cosa resti tra noi: non vuole immischiarsi nella politica di Steelton, ma sembra che sappia tutto su Steelton 2000. Non sarebbe male che tu andassi a New York a parlargli a quattr'occhi.» Stella ci pensò su. «Potresti andarci tu.» Michael pareva dubbioso. «Io posso tradurre... ma sei tu che devi capire la faccenda.» Stella esitava. «Potremmo andarci tutti e due», disse alla fine. «Si tratta di un giorno soltanto, no?» Lui lanciò un'occhiata al piano della scrivania. «Devo vedere come posso fare con Sofia.» Stella era in imbarazzo: aveva messo con le spalle al muro un uomo con
una figlia di sette anni, un uomo che non aveva voglia né di andare né di dirle di no. «Non avevo pensato a Sofia», disse. «E a Sloan», aggiunse lui, secco. «Non so se sarà disposto ad autorizzare la spesa esorbitante di due biglietti in classe economica.» «Per indagare su Steelton 2000? Non hai detto anche tu che vuole diventare procuratore della contea?» Quel commento gli strappò un sorriso. «Ne parlerò coi miei. Tu parla con Sloan.» «Grazie», disse Stella. Andò a cercare Sloan, ma non riusciva a smettere di pensare alla mancanza di prove riguardo alla morte di Novak e al marcio che temeva di scoprire sul suo conto. Durante il tragitto decise di non parlargli degli incartamenti scomparsi. Sloan rimase ad ascoltare la sua richiesta con una luce maliziosa negli occhi. «Tu e Del Corso», mormorò. «Si tratta solo di un giorno, Charles.» Sloan incrociò le mani sulla pancia. «E pensi che basti per scoprire come mai questo stadio è uno schifo?» 17 Da un tavolo d'angolo, Stella osservava la strada di SoHo, piena di gente e di traffico. Il viaggio a Manhattan era stato organizzato il giorno stesso in cui Sloan aveva dato l'autorizzazione: Paul Harshman della Megaplex era libero la mattina successiva, dopodiché non li avrebbe potuti ricevere per diverse settimane. Così Stella si trovò seduta da Raoul's, un gradevole bistrot con una buona cucina e una clientela molto eterogenea, mentre Michael parlava con Sofia al cellulare, passeggiando sul marciapiede. Quando la raggiunse a tavola, si mise a far girare il vino nel bicchiere con aria distratta. «Mi sento in colpa per averti sottratto ai tuoi doveri familiari», gli disse. Lui la guardò con l'aria di prendersi un po' in giro. «A volte non so come fare. Ho paura che non si senta abbastanza importante...» Non finì la frase. Stella era combattuta tra il desiderio di rispettare la sua privacy e il timore che lui interpretasse il suo silenzio come un segno di disinteresse. «Scusa se te lo chiedo...» mormorò alla fine. «Ma che cosa è successo alla mamma di Sofia?»
È morta, si aspettava quasi di sentirsi rispondere. Invece Michael disse: «È andata a vivere in Australia». In mancanza di altre spiegazioni, Stella non poté che rimanere in un imbarazzato silenzio. Michael studiava la tovaglia, mentre lei desiderava in cuor suo di non aver mai fatto quella domanda. «Credi nelle premonizioni?» le chiese lui dopo un po'. «Nel fatto che certe volte, non appena conosci una persona, hai la certezza, senza sapere perché, che cambierà la tua vita?» Nel tono in cui pose quella domanda c'erano tanto il ricordo dell'emozione di quell'incontro quanto la triste consapevolezza del suo esito. «A me non è mai successo», rispose Stella onestamente. «Non mi dispiace. Il fatto che una persona abbia questo genere di potere su di me mi fa paura.» Michael annuì. «Ci penso spesso quando guardo Sofia che dorme e mi sembra tutta sua madre. Vorrei dirle: 'Okay, tu sei la ragione per cui è successo tutto quanto'.» Che peso per un padre e una figlia, pensò Stella. «Che cosa è successo?» domandò. Michael fece un mezzo sorriso. «Vuoi davvero saperlo?» «Sennò non te l'avrei chiesto.» Leggendo il dubbio nel suo sguardo, a bassa voce aggiunse: «Sì, lo vorrei sapere davvero». Michael si voltò a guardare fuori. «Ci siamo conosciuti in. prima media», cominciò. «Ventidue anni dopo non riuscivo a ricordare un solo momento in cui non l'avessi amata. Ti sembrerò fuori moda, ma nella mia vita c'è stata solo lei. La guardavo e pensavo a quanto ero fortunato. Eravamo tutti e due di origini siciliane, avevamo gli stessi amici e frequentavamo la stessa chiesa. Sapevamo tutto l'uno dell'altra. Ricordo persino come si vergognava quando le vennero le prime mestruazioni.» S'interruppe e scosse la testa, meditabondo. «Uno non immaginerebbe mai di sposare una compagna di scuola. Per noi era la cosa più naturale del mondo.» Un tempo, pensò Stella, doveva averlo raccontato con orgoglio, non con quel tono cupo che faceva pensare a due ignari che vanno incontro alla rovina. «Ma a un certo punto cambiò tutto», disse. «Fu Maria a cambiare.» Appartati rispetto alla confusione del ristorante, pieno di yuppie e giovani coppie, Michael pareva assorto nei ricordi. «Avevamo molti progetti. Maria prese il diploma e andò a lavorare alla BP per aiutarmi a finire l'università. Volevamo sposarci, avere dei figli, comprarci una bella casa fuori città vicino a buone scuole. Però volevamo continuare a portare i bambini a messa a Little Italy, nella chiesa di St. Peter
and Paul, e a pranzo dai nonni alla domenica. Come avevano fatto i nostri genitori con noi.» Stella sorrise. «È John Lennon che ha detto: 'La vita è quello che ti succede mentre stai facendo altri progetti'? Io mi sono sempre rifiutata di crederci.» Lui la osservò incuriosito. «Hai sempre avuto un progetto di vita?» «Ce l'ho ancora.» Michael cominciò a giocherellare con le posate, allineandole e poi spostandole soprappensiero. «Anche noi eravamo così. Finiti gli studi, entrai in procura, tanto per fare esperienza, pensavo. Poi nacque Sofia. Dopo un po', Maria disse che voleva tornare a lavorare. Okay, ce la potevamo fare, i nonni ci avrebbero aiutato e io non volevo che si sentisse frustrata. Ma ero un po' preoccupato. Stravedevo per Sofia, mentre Maria sembrava meno felice della vita che facevamo. Mi pareva che la persona che conoscevo così bene, spiritosa e affettuosa, fosse scomparsa. Forse aveva cominciato ad annoiarsi. Forse, quand'era nata la bambina e si era resa conto che le dava meno gioia di quanto pensasse, si era improvvisamente accorta che a trent'anni faceva la vita che aveva scelto a dodici. Eppure continuava a dirmi che andava tutto bene, perché non sapeva come fare a spiegarmi che non era vero. Io mi rendevo conto che era diversa da prima. Una sera tornò a casa e mi disse che si era innamorata di un collega australiano e che voleva andare via con lui. Rimasi stordito, disgustato. Tutte quelle cene di lavoro, tutte quelle trasferte fuori città, e io non mi ero accorto di niente... Perché la ragazza che conoscevo dalla prima media non mi avrebbe mai, mai, mentito.» Abbassò la voce. «Cercai di convincermi che era ancora una brava persona, che non poteva essere cambiata tanto. Ma era come guardare un'estranea. La Maria che amavo era morta.» Pur nei suoi toni pacati, quel racconto aveva un'intensità che commosse profondamente Stella. Michael era in lutto e quella vicenda lo spingeva a mettere in discussione il valore di qualsiasi cosa, nella vita, a parte la figlia che amava. «L'hai mai più vista?» gli chiese. «No.» Bevve un sorso di vino. «Credo che, per lei, andarsene fosse l'unica soluzione possibile. Non osava affrontare la gente che conosceva da sempre, non solo me e sua figlia, ma anche i parenti, gli amici. Caso mai, Sydney non era abbastanza lontana.» Le sembrò una conclusione cui doveva essere arrivato dopo mesi di sofferenza. «E Sofia?» domandò.
Lui chiuse gli occhi, poi li riaprì. «A distanza di undici mesi, continua a chiedermi quando torna la mamma», disse. «Come faccio a dirle che non tornerà più, che si è innamorata di un altro?» «E che cosa le dici?» Michael posò i gomiti sul tavolo e parve afflosciarsi. Nonostante le tempie brizzolate, a Stella sembrava ancora giovane, ma in certi momenti aveva l'aria oppressa di chi sente che la vita non ha più nulla da offrirgli. «Che Maria ha trovato un lavoro, per aiutarci. Che non sappiamo quando potrà tornare.» C'era rabbia repressa nella sua voce. «Su mia insistenza, ogni tanto Maria le manda cartoline affettuose, piene di notizie, come ne scriverebbe una zia a una nipote che vede una volta ogni tanto. Solo che sono firmate: 'Baci, mamma'.» Stella non sapeva che cosa dire. In quel momento arrivarono i piatti che avevano ordinato e lei, che aveva bevuto due bicchieri di vino, fu felice di affrontare la sua steak au poivre. Quando la cameriera le riempì per la terza volta il bicchiere, si rese conto che si sentiva più cordiale, più libera di quanto non le accadesse di solito con le persone che non conosceva bene. «Non ho figli», mormorò. «Ho solo due nipoti, figli di mia sorella. Io sono la zia che li vede una volta ogni tanto. Qualunque cosa dica non è basata sull'esperienza...» Lui alzò gli occhi. «Di' pure.» «Mi chiedo se è giusto che Sofia creda che sparire sia normale, per una madre. E che cosa penserà nello scoprire che tu le hai nascosto la verità.» Michael finì di masticare il primo boccone di agnello. «Che cosa faresti tu, nei miei panni?» Stella ripensò ai silenzi della sua famiglia, al senso di solitudine che l'aveva accompagnata sin da quand'era piccola. «Forse gliela direi, la verità. Nella maniera più delicata possibile.» Lui sgranò gli occhi. «Dirle che sua madre ci ha lasciato per un altro?» Stella ebbe la sensazione che la sua rabbia non fosse rivolta soltanto contro Maria, ma anche contro di lei, che gli dava consigli inutili. «Forse non va bene neanche così», ammise. «Ma il rischio è che, per Sofia, la madre diventi un personaggio immaginario che può materializzarsi da un momento all'altro. E tu sai che non è vero. Forse sarebbe meglio che sapesse come stanno le cose. Forse, crescendo, capirà che se la madre si è comportata così non è colpa sua e potrà cominciare a prendere le distanze. A volte il distacco è la cosa migliore.» Quelle parole le uscirono di bocca prima che si rendesse conto di quante
cose rivelavano su lei stessa. Michael la studiò attentamente. «Si direbbe che tu ne sappia qualcosa.» Stella esitava. La sua istintiva riservatezza l'avrebbe portata a tacere, ma forse, quella volta, la sua esperienza passata poteva essere di aiuto per qualcun altro. «Nella mia famiglia delle cose importanti non si parlava mai», raccontò. «Mio padre beveva perché era frustrato e arrabbiato, mia madre aveva così paura che faceva finta di non vedere. Katie e io dovevamo far finta insieme con lei. Fin da giovanissima ricordo di averli osservati tutti e tre con l'occhio dell'antropologo. Ma a Katie venne la sindrome di Stoccolma.» Stella piegò la testa. «Sai cos'è, vero?» «Sì. È quando la vittima di un sequestro comincia a identificarsi coi suoi rapitori. Perché ha paura di vederli per quello che sono realmente.» Stella annuì. «S'inventò una famiglia che non è mai esistita, piena di calore e di affetto, per quanto espressi in un modo un po' anomalo. E io me ne andai di casa. Ce l'ha ancora con me, perché non sono stata al suo gioco, e con mio padre, perché non è più lui. E, nella sua immaginazione, ha trasformato nostra madre in una martire, dopo che è morta.» Bevve un sorso di vino. «Per quanto sia stata dura, preferisco così che essere come Katie. E forse anche per Sofia sarebbe meglio capire che siete rimasti solo tu e lei. Affrontare la realtà è meno dannoso che negarla.» Quelle parole lo resero pensieroso. Dopo un po', chiese: «Quando dici che tuo padre non è più lui...» «Ha l'Alzheimer.» Il tono di Stella non invitava alle confidenze. «Che cosa terribile», commentò Michael semplicemente. «Non per lui. Non più, perlomeno.» Lui la studiava. «Per te, intendevo.» Stella provò una stretta al cuore che non le era nuova. «È stato uno shock», disse poi. «Un giorno mi ha telefonato in ufficio, di punto in bianco, per lamentarsi di come lo avevo disonorato. Ma avevo trentaquattro anni, mentre la figlia di cui si lamentava ne aveva ventitré. E lui non si rendeva conto della differenza.» Michael mimò un lungo fischiò silenzioso. Stella si accorse che quel ricordo era vivo come se il fatto risalisse al giorno prima. Era tornata a Warszawa in macchina, era entrata in casa al buio, col batticuore, come la notte in cui se n'era andata. Aveva immaginato quello che potevano dirsi Armin Marz e lei dopo undici anni che non si rivolgevano la parola. Ma l'uomo che aveva trovato era una larva, pelle e ossa, coi capelli grigi ingialliti.
Guardava Family Court e rideva con uno sguardo spaventosamente vuoto. Per undici anni ti sei rifiutato di parlarmi, avrebbe voluto gridargli. E poi ti sei dimenticato tutto. «Lo vidi, e non ebbi bisogno di nessuna diagnosi», raccontò a Michael. «Da quel momento in poi fu un declino costante. Anche se stava morendo, mia madre si occupò di lui e lo coprì, come sempre. Fu quasi un sollievo vederlo piangere di cuore, al funerale. Ci riaccompagnarono a casa dei vicini.» Stella ricordava che gli occhi del padre si erano spenti come lampadine bruciate. «Aspettò che se ne fossero andati», continuò a raccontare. «Poi mi prese per un polso e disse: 'Tua madre mi ha tradito'.» Michael posò il gomito sul tavolo, gli occhi marroni più comprensivi del solito. Ma Stella non poteva dirgli che, quando gli aveva spiegato che la madre era morta di cancro, Armin Marz aveva ribattuto: «Se n'è andata perché tu fai la puttana per Novak». «Così lo avete messo in una casa di cura?» domandò Michael. «Katie avrebbe voluto che rimanesse a casa, in mezzo ai suoi ricordi, diceva. Ma io avevo visto che si guardava intorno senza riconoscere le persone nelle foto, che non ricordava dov'erano le cose, si spaventava e si arrabbiava. Dimenticare la sua stessa casa era una tortura per lui.» Stella tacque e guardò fuori della finestra. «Katie non voleva farsene una ragione. Alla fine le dissi che non ero più disposta a pagare l'infermiera...» «Sei una stronza senza cuore», le aveva detto Katie. «Chi paga la casa di cura?» chiese Michael. «Io.» «E tua sorella non contribuisce?» Stella si girò a guardare nella sala: due nuove coppie ai tavoli vicini le ricordarono quanto tempo era passato e si sentì a disagio. «Dice che non se lo può permettere», rispose. «Ma credo che voglia punirmi perché me ne sono andata di casa lasciandole tutto sulle spalle. Secondo lei, sto espiando i miei peccati contro la sua famiglia immaginaria.» Michael inclinò la testa. «E tuo padre?» «Non ricorda niente né nessuno. L'ultima volta che sono andata a trovarlo, era seduto in cerchio con gli altri pazienti, per mano a un nero.» Stella rise al ricordo. «Sono rimasta sconvolta. Poi ho capito che si era scordato anche di essere razzista.» Non avrebbe mai osato raccontargli che, la domenica, sedeva accanto a quel fantasma che era diventato il padre e immaginava che, nella sua sere-
nità artificiale, si potessero riconciliare. Non poteva raccontargli la cosa che ancora trovava più difficile accettare: per quanto suo padre fosse importante per lei, lei per lui non significava assolutamente nulla. Alla fine disse: «Abbiamo parlato di tutto, direi. Tranne che dell'appuntamento di domani». Michael giocherellava con la tazzina del caffè. «Vero.» «Anzitutto, il mio obiettivo non è quello di Sloan. Non sono qui per dimostrare che Steelton 2000 è uno schifo.» Appoggiandosi alla spalliera della sedia, Michael fece una faccia incuriosita. «Nemmeno se questo può aiutare Arthur?» «È facendo il nostro lavoro che possiamo aiutare Arthur. Quello che voglio è individuare gli ostacoli nella vita professionale di Fielding e scoprire con chi poteva essere in contrasto.» Michael si guardò intorno e chiese, dubbioso: «Non starai pensando che sia stato ammazzato, vero? Non avrebbero certo assoldato una puttana tossicodipendente per farlo fuori. A parte il fatto che è morta anche lei». «Ottimi argomenti», replicò con calma Stella. «Allora spiegami com'è finita in compagnia di Tommy Fielding.» «Non ne ho idea.» «Il problema è proprio questo. Quando Arthur lo capirà, non dovremo più preoccuparci di altro.» Guardandola da sotto in su con gli occhi socchiusi, Michael chiese: «Nemmeno di Sloan?» Stella ricordò che Michael aveva una figlia e un mutuo da pagare e che, nelle correnti e controcorrenti politiche della procura, entrambi correvano rischi. «Sloan non è uno stupido», rispose seccamente. «Chi lavora bene gli fa fare bella figura, anche se lui non muove un dito. Lui lo sa. E tu non hai mai messo in discussione il fatto che lui sia la persona più adatta ad amministrare la giustizia a Steelton.» L'occhiata che le rivolse Michael fu lunga e seria. A Stella parve l'espressione di qualcuno che voleva esserle amico. «Ma tu sì», le fece notare. «Allora, che cosa ti trattiene dal candidarti?» Mio padre, pensò. Ogni mese in più che campa, i miei risparmi, il gruzzolo di cui ho bisogno per la campagna elettorale, si assottigliano ulteriormente. E, con essi, diminuiscono le mie speranze. Perché i mecenati sono tutti dalla parte di Sloan. «L'umiltà», rispose. Finito il caffè, presero un taxi per tornare nel modesto albergo nei pressi
della Cinquantesima Est. Il tassista, un russo trapiantato a New York che indossava un berretto degli Yankees, cambiava continuamente corsia, passava col giallo e al rosso inchiodava. Per distrarsi, Stella si mise a guardare le strade di Manhattan di notte e la vita della città che non dormiva mai. Il taxi frenò per l'ultima volta. Entrarono nella hall e salirono in ascensore fino al sesto piano. Le loro due stanze erano una di fronte all'altra. Si fermarono davanti alla porta di Stella. Michael, con le mani sprofondate nelle tasche, d'un tratto pareva a disagio. Avevano finito per parlare non solo di lavoro, ma di cose molto personali e Stella intuì che lui voleva in qualche modo rimarcarlo, senza sapere come. Alla fine le disse: «Le cose che mi hai detto a cena mi sono state di grande aiuto. Non me l'aspettavo». Nemmeno lei se l'aspettava. Il viaggio e il vino parevano averla scombussolata. Si sforzò di sorridere. «Di solito non racconto la storia della mia famiglia», mormorò. «Non lo considero un grande onore.» Si pentì immediatamente di quelle parole. Michael lavorava per lei e oltretutto le era abbastanza simpatico, o forse gli aveva confidato abbastanza cose da desiderare qualche rassicurazione. Gentilmente Michael replicò: «Per me lo è stato». Stella si rese conto che le si era avvicinato. Lo guardò in faccia. Con fare incerto, lui le posò una mano sulla spalla. «Grazie di tutto», le disse. «Prego.» Si voltò, aprì la porta ed entrò nella stanza buia. Sentiva ancora il calore della sua mano sulla spalla. Quella notte, sognò l'archivio storico della procura. L'enorme sotterraneo era buio e Stella aveva paura. Ma non poteva andarsene. Jack Novak le aveva dato appuntamento lì e aveva promesso di dirle finalmente la verità. Fino a quel momento, non sarebbe stata libera. Avanzava incerta tra gli scaffali. Jack era stato assassinato. Lo sapeva. Eppure le aveva promesso d'incontrarla lì un'ultima volta. Tastando uno scaffale, sentiva lo spazio vuoto lasciato dal fascicolo chiuso dopo l'omicidio di Jean-Claude Desnoyers. Morto l'haitiano, morte le sue speranze di risolvere il mistero, morto Jack. L'unico rumore che sentiva era il proprio respiro, che era diventato affannoso. Era tutta sudata.
Alle sue spalle c'era qualcuno. Terrorizzata, chiudeva gli occhi. Era un uomo, un uomo che conosceva: perché altrimenti avrebbe provato quel senso d'intimità? Ma non si sentiva sicura. Perché, se era Jack, non diceva qualcosa? Sentiva il suo alito sul collo. «Lei è molto bella, signorina.» Dita fredde le toccavano un braccio... Stella si svegliò di soprassalto, in un groviglio di lenzuola umide. La stanza era buia, ma sapeva dov'era: non nell'archivio storico di Steelton, bensì a New York, ed era appena riemersa da un incubo. Aveva i capelli appiccicati alla fronte. Si guardò intorno per ritrovare l'orientamento. Non dava molto peso ai sogni e generalmente ricordava solo piccoli frammenti, brandelli privi di senso che non le dicevano nulla. Tuttavia non ci voleva molto per ricollegare quel sogno alla solitudine e alla paranoia in cui viveva. Perché, se a parlarle era stato Moro, le era sembrato che le dita che la toccavano fossero di qualcun altro? Andò alla finestra in cerca di luce, ma sotto di lei si apriva un pozzo di cemento, la Cinquantesima Est nel grigiore delle prime luci dell'alba. L'unico rumore era lo sferragliare metallico di un camion della spazzatura. Stella si voltò e si sedette sul bordo del letto. Era sicura che ci fosse un legame tra le inchieste insabbiate e gli incartamenti scomparsi. Chiunque nella polizia e negli ambienti giudiziari poteva aver aiutato Moro e Novak e probabilmente anche essere entrato nell'archivio. Ma gli unici ad avere la chiave erano i dipendenti della procura. Chi è andato lì prima di me? si chiese. E chi c'è stato insieme con me stanotte? Era la solitudine a farla sentire così o era completamente impazzita? Ormai non si fidava più di nessuno, aveva cominciato ad analizzare persino i propri sogni... Poco prima dell'appuntamento, telefonò a Nathaniel Dance. Non c'erano novità sull'omicidio di Novak. Stella non gli disse nulla dei fascicoli spariti. 18 «Come vi ho detto, sono felice di darvi qualche dritta, ma non voglio che il mio nome finisca sul giornale», esordì Paul Harshman. «D'accordo», rispose Stella e si sedette vicino a Michael.
Pur avendo una splendida vista sul fiume Hudson, l'ufficio di Harshman era spoglio, quasi a indicare che, a differenza di avvocati di grido e top manager, non riteneva necessario un arredamento sofisticato. Forse, pensò Stella, ciò era dovuto al fatto che Harshman produceva qualcosa di concreto, di tangibile. I corridoi erano di una severità geometrica, le vetrate enormi e le pareti completamente bianche, decorate con foto a colori di alcuni progetti realizzati dalla Megaplex: gli stadi di Camden Yards a Baltimora, di Jacobs Field a Cleveland e di Turner Field ad Atlanta e infine il Pac Bell Stadium di San Francisco. Gli impianti sportivi della Megaplex, come moderne piramidi, testimoniavano un rinnovato orgoglio della gente per la propria città e un impegno economico straordinario. Quegli stadi non erano fatti solo di cemento armato, ma anche di sudore e di sangue; erano causa di furiose battaglie politiche, insulti e accuse, avevano comportato l'esproprio di aree, il trasferimento di persone e infinite polemiche sulla creazione di posti di lavoro a scapito d'investimenti, per esempio in nuove scuole. Intorno a essi si era riaccesa la lotta di classe, c'erano stati vincitori e vinti, erano cominciate e finite carriere di pubblici amministratori. Stella e Michael si trovavano in uno dei templi dell'imprenditoria mondiale, dai profitti altissimi ma quanto mai precari, e Harshman era stato magnanimo anche solo a concedere loro un appuntamento. Riempì di caffè due tazze col logo della Megaplex e le spinse verso Stella e Michael sul tavolo della sala riunioni. Era alto, di mezza età, aveva i capelli grigi e gli occhi infossati, un accento del Midwest e il colorito vivace di una persona che ama la vita all'aria aperta e beve volentieri. Il suo modo di fare corrispondeva al look, vivace, diretto e brusco, non aveva peli sulla lingua e badava più ai fatti che alle parole. «Lamentarsi non giova agli affari», sentenziò. Michael bevve un sorso di caffè. «Steelton vi ha dato motivo di lamentarvi?» chiese. Harshman scoppiò a ridere. «Ci hanno detto un no secco. Non c'è stata nemmeno una gara d'appalto. È la prima volta che succede in diciassette anni.» «Secondo lei perché?» «Per motivi politici. Il vostro sindaco voleva dare lavoro alle imprese locali e noi non siamo di Steelton.» Sorrise. «Emettere buoni del tesoro comunali per 275 milioni di dollari, come ha fatto Tom Krajek, significa contrarre un debito di circa 400 milioni. Un'operazione del genere è possibile solo se si ha il massimo consenso e, in quest'ottica, creare posti di lavoro è
più importante che affidarsi a una ditta di provata esperienza.» «Ma lei sa come funziona Steelton 2000, no?» intervenne Stella. «Certo. Dal punto di vista politico, le opere pubbliche sono sempre un campo minato. Prima d'imbarcarsi in un progetto del genere, bisogna conoscere i precedenti: perché è stato sforato il budget, cosa ha creato scontento, cosa andava bene e cosa andava male. Steelton 2000 è un caso più unico che raro, perché, da cinque anni a questa parte, il trend è a favore dei progetti privati, senza finanziamenti pubblici.» Stella guardava l'Hudson, di un colore violaceo raggelante al sole di una mattina di gennaio, e in tono secco osservò: «Eravamo alla disperazione». Harshman aveva smesso di sorridere. «E ne avevate ben donde. Una cattiva immagine, un mercato troppo piccolo per i media, uno stadio dove i ratti sono più numerosi degli spettatori paganti. Se Peter Hall avesse accettato di trasferire altrove la squadra, avrebbe rimediato un nuovo stadio e una cifra sui 50 milioni di dollari e si sarebbe ritrovato proprietario dei Silicon Valley Blues oppure dei Laptop Blues...» «Quindi, tenendo la squadra a Steelton, Hall ci rimette?» chiese Michael. «Forse a lungo andare no. È questo il colpo di genio.» Guardò prima Michael poi Stella. «Probabilmente dovremmo cominciare da qui, da quello che Steelton si aspetta da Peter Hall, e alla fine arriveremmo al morto, Fielding. Anzitutto dovete sapere che Peter Hall si stava dissanguando. Quando il proprietario di una squadra piange miseria, è vero. L'anno scorso solo quattro squadre di serie A hanno chiuso il bilancio in attivo: i giocatori costano troppo e i diritti televisivi coprono a malapena i loro ingaggi.» Bevve un sorso di caffè. «È così che i vari Murdoch, Turner e Disney finiscono per accaparrarsi le esclusive. Chi altri può permetterselo? Per Hall, la chiave è questa. Il baseball economicamente non rende, però essere proprietari di una squadra è uno status symbol. Le squadre di baseball sono soltanto una trentina e i miliardari se le contendono continuando a far salire i prezzi. Rispetto a costoro, Hall è un poveraccio; ha fatto i soldi con le acciaierie e i centri commerciali, non con la TV, il cinema e gli imperi multimediali. Per realizzare avrebbe dovuto trasferire la squadra, oppure venderla al primo conglomerato di aziende disposto ad acquistarla.» Michael posò la tazza. «In un modo o nell'altro, i Blues sarebbero andati via da Steelton», commentò. «A meno che Steelton non costruisse loro uno stadio.» Harshman fece un rapido sorriso che rivelò una dentatura sorprendentemente bianca e regolare. «Al giorno d'oggi, come prima dell'avvento della TV, nel baseball
gli incassi dipendono dal numero di spettatori. Quindi gli stadi non sono più soltanto stadi, ma parchi a tema, progettati con un occhio alla tradizione, ma pieni di tribune di lusso, videogame, realtà virtuale, effetti speciali, comodi parcheggi e punti di ristoro: qualsiasi cosa possa attirare una nuova clientela di fascia medio-alta. Esattamente il contrario del vostro vecchio Erie County Stadium, insomma.» Improvvisamente Harshman si alzò e si stiracchiò, con le mani dietro la nuca. «Costruite uno stadio a Peter Hall e lui e il suo nuovo socio afroamericano, il signor Rockwell, saranno a posto, perlomeno quando venderanno a un novello Rupert Murdoch. Come Hall avrà senza dubbio fatto notare a Rockwell quando si è messo in cerca di un prestanome capace di attirare i voti dei neri. Procurarsi una facciata come Rockwell era indispensabile: spendere 275 milioni più gli interessi per aiutare uno coi soldi di Hall non poteva che suscitare scontento in una città in crisi come la vostra.» Sorrise di nuovo. «Senza offesa. D'altra parte, il sindaco Krajek non voleva essere additato come quello che si era lasciato scappare i Blues, caso mai gli fosse venuta voglia di farsi eleggere al Senato. Quello che gli occorreva era persuadere un numero sufficiente di elettori che tutto il denaro pubblico speso non solo sarebbe restato a Steelton, ma avrebbe anche prodotto ricchezza.» Quella sintesi un po' brutale dei fatti offendeva l'amor proprio di Stella, che aveva tanto desiderato assistere al rilancio della sua città e della sua immagine: non le piaceva pensare a Steelton come a una proprietà di scarso valore, a un Vicolo Corto di un Monopoli per miliardari. «I soliti argomenti per risanare il centro città e mantenere alto il profilo», continuò Harshman. «Ma Hall e Krajek hanno fatto qualcosa di più. Anzitutto hanno visto chi poteva guadagnare dal progetto: i proprietari dei terreni, le ditte incaricate di sgomberare l'area del cantiere, l'architetto, il costruttore - a me il fatto che fosse Hall è parso un tocco di classe -, il construction manager, il general contractor i fornitori e i subfornitori, i commercialisti, gli avvocati, le banche, le ditte che prenderanno in concessione i parcheggi, la ristorazione, la vendita dei gadget e i videogame. Poi hanno deciso che dovevano essere assolutamente tutti di Steelton. E, per farla suonare ancora meglio e tappare la bocca a gente come il procuratore Bright, hanno fatto in modo che tutti, dal primo all'ultimo, rappresentassero qualche minoranza etnica.» «E sembra che ci siano riusciti», commentò Michael. «Già.» Harshman bevve un sorso di caffè. «L'unico problema è che si tratta di emeriti sconosciuti, dall'architetto al venditore di hot-dog. Quello
non è uno stadio, è un albero della cuccagna per dilettanti. Ed è probabilmente il motivo per cui non è stata mai indetta una gara d'appalto e sta costando tanto ai contribuenti.» «C'è un tetto di spesa», gli fece notare Stella. «Se i costi supereranno i 275 milioni, Hall dovrà pagare la differenza.» Harshman si voltò verso di lei con affabile pazienza. «Già», replicò. «È anche per questo che Steelton 2000 costa tanto: per fare in modo che Peter Hall non debba sborsare neanche un centesimo. Dimentichi il 'plafond garantito', dottoressa Marz, e pensi piuttosto in termini di 'utile minimo garantito'; dopodiché comincerà a capire quanto è ingegnoso questo contratto. Tutti quelli che hanno le mani in pasta ci guadagneranno, tranne la pubblica amministrazione.» «Peter Hall sostiene che c'è una 'clausola di salvaguardia'», obiettò Stella. «Se riesce a mantenere i costi al di sotto dei 275 milioni di dollari raccolti con l'emissione di buoni del tesoro comunali, la differenza verrà divisa in parti uguali tra la pubblica amministrazione e la Hall Development Company. Questo affinché la Hall Development controlli l'operato del general contractor e faccia risparmiare soldi anche alla città.» Harshman incrociò le braccia. «E questo è un altro degli argomenti di Hall e Krajek. Ma quello che dovete capire è che, realizzato in modo corretto, questo è un progetto che può costare al massimo 200 milioni di dollari. Il preventivo è stato gonfiato di 75 milioni, che in parte serviranno a coprire i costi derivanti dall'assunzione di gente priva di esperienza e tutti gli sprechi, gli imprevisti e i pasticci che inevitabilmente ne seguiranno. Supponiamo che 25 milioni se ne vadano così. Quello che resta, 50 milioni, verrà diviso in parti uguali tra Peter Hall e la pubblica amministrazione. Tipicamente, al construction manager tocca il quattro per cento. Su 200 milioni, sono 8 milioni, che non è male, ma non è neanche paragonabile ai 25 milioni di dollari della clausola di salvaguardia.» Sorrise di nuovo. «Gran bell'affare per il comune di Steelton, che si vede tornare indietro 25 milioni di dollari che poteva fare a meno di raccogliere, ma sui quali paga gli interessi, per farne guadagnare 25 alla Hall Development. Meno male che il sindaco Krajek non gestisce le mie finanze.» Michael lanciò un'occhiata a Stella. Forse non era venuta fin lì per dimostrare che Hall aveva fregato la città, sembrava dire la sua espressione, ma il risultato era un regalo per Bright e Sloan. Ma Stella si rese conto che le cose non stavano necessariamente così. «Mettiamo che lei abbia ragione», disse a Harshman. «Che questo sia un
progetto da 200 milioni di dollari e che Hall e la pubblica amministrazione se ne dividano 50. Chi si spartirà gli altri 25?» Harshman la osservò senza più sorridere, poi andò alla finestra, apparentemente attratto da un vaporetto di turisti diretto a Ellis Island e alla Statua della Libertà. Ma aveva gli occhi socchiusi e le labbra strette e Stella intuì che stava pensando al modo migliore per risponderle. Quando si voltò, dal viso e dalla voce trapelava una grande serietà. «Non sono razzista», dichiarò. «Ritengo giusto che il settore edilizio resti aperto alle MBE, le Minority Business Enterprises, cioè alle imprese che rappresentano minoranze razziali. Farle lavorare è l'unico modo per garantire che acquisiscano esperienza e quindi il diritto a una fetta della torta. Ce ne sono molte di ottimo livello e le conosco troppo bene per non pensarla così. Ma c'è un segreto vergognoso nel mio lavoro, che tutti conoscono, ma che, per essere politicamente corretti, nessuno nomina mai: le quote riservate alle MBE spesso sono marchette pagate a incompetenti che ottengono un contratto solo per motivi politici. Dopo essersi impegnato ad assegnare una determinata percentuale dei lavori a imprese che rappresentavano minoranze, Krajek non ha più avuto scelta: il trenta per cento doveva essere manodopera locale, e necessariamente nera, ispanica o asiatica. Senza bisogno di essere professionalmente qualificata.» Fece una pausa e tornò verso il tavolo, dove si sedette di fronte a Stella e la guardò dritto negli occhi. «Steelton ha realizzato il sogno americano: pari opportunità per incompetenti di tutte le razze, colori e fedi religiose che a turno dissanguano la città per fornirle uno stadio dal costo esorbitante. Sicuramente uno dei motivi per cui il progetto costa più del dovuto è che Krajek ha usato le politiche sociali contro Arthur Bright.» Fece un sorriso breve e niente affatto divertito. «Mi dicono che siete in piena campagna elettorale.» Buttata lì con apparente noncuranza, quell'osservazione significava che Harshman aveva capito il significato recondito della domanda di Stella: promuovendo Steelton 2000 come un esempio di realizzazione di pari opportunità, Hall e Krajek avevano fatto in modo che per Bright attaccare il progetto diventasse molto rischioso. «La politica è uno sport violento», osservò Stella. «Dove si colloca Tommy Fielding in tutto questo?» «Proprio al centro. In quanto project manager, vistava le fatture della società capocommessa e di tutti i fornitori, approvava le eventuali varianti in corso d'opera e controllava che i lavori fatturati fossero stati eseguiti conformemente al capitolato. Il suo obiettivo era fare in modo che la Hall Development risparmiasse il più possibile, ma si trovava a combattere ogni
giorno con le imprese, che volevano una fetta della stessa torta. E ogni settimana doveva certificare alla pubblica amministrazione che alle MBE era stato effettivamente assegnato il trenta per cento dei lavori, che li svolgessero o no. In caso contrario...» Harshman lasciò la frase a metà e alzò le spalle. «Scoppia uno scandalo e a chi tocca tocca: persino Hall e Krajek rischiano di saltare.» «Dunque Fielding era seduto su una cisterna, mentre tutti gli altri stavano lì ad aspettare l'acqua», commentò Michael. «E l'unico a poter aprire e chiudere il rubinetto era lui.» «Direi piuttosto su una polveriera. Difficile che non saltasse in aria.» Stella, ascoltandolo, immaginò lo stress che tutto ciò doveva aver causato a Tommy Fielding, un perfezionista per il quale il lavoro era una ragione di vita, responsabile di un progetto da milioni di dollari da cui dipendeva il futuro di una città e di coloro che volevano governarla. Forse non aveva retto e aveva cercato un modo, per quanto a lui estraneo, per evadere. Ma non aveva potuto evitare di farsi nemici. «Sta pensando che qualcuno volesse ucciderlo?» le chiese Harshman. Lei scrollò le spalle. «Un conto è volerlo uccidere, un conto è ucciderlo davvero. Questo sembra un incidente.» Esitò, ripensando a quello che aveva appena sentito. «Lei dice che Fielding controllava le fatture. Mi faccia qualche esempio di occasioni in cui questo poteva creare problemi.» «Ce ne sono a bizzeffe. Varianti in corso d'opera gonfiate o non necessarie. Parcelle fasulle, ricarichi eccessivi sui costi dei materiali...» Harshman assaggiò il caffè, lo trovò freddo e posò la tazza con aria leggermente imbronciata. «Con le MBE», riprese poi, «il rischio aumenta in maniera esponenziale, perché Fielding aveva le mani legate, e anche Hall e Krajek. È gente che non si può mandare via, perché altrimenti saltano le quote garantite. Pur di far quadrare tutto e di non scontrarsi con loro, Fielding probabilmente liquidava fatture per lavori non fatti e poi pagava un altro fornitore perché li facesse al posto loro. Magari il problema era strutturale e il lavoro non poteva essere svolto perché i rappresentanti delle minoranze esistevano solo sulla carta. Le possibilità sono infinite. Ma non c'è modo di scoprirle se non sporcandosi a propria volta le mani.» Michael annuì. «Bisogna andare a spulciare nelle carte di Fielding, scoprire chi sono le MBE e andare a controllare nel cantiere se ci sono veramente.» Harshman sorrise di nuovo. «Farsi vedere, insomma.» C'era un'ombra di dubbio nella sua voce, e Stella sapeva perché: fino a
quel momento Bright aveva criticato Steelton 2000 in linea di principio, ma per aprire un'inchiesta si sarebbe dovuto esporre. Harshman guardò l'orologio e annunciò: «Tra mezz'ora devo andare. Ho un impegno fuori città». Stella si voltò verso Michael, che disse a Harshman: «Secondo lei ci guadagnano tutti tranne la città. Ma lo stadio sarà di proprietà della pubblica amministrazione, che incasserà gli introiti della gestione, compresi quelli di eventi come concerti rock e forse la prossima visita del papa a Steelton. Ci dica qualcosa di più preciso al riguardo: chi altri ci guadagna, a parte Hall e le imprese edili, e perché gli introiti della gestione verranno usati per rimborsare il debito pubblico?» Harshman lo guardò con rispetto. «Cominciamo dall'inizio. Chi ci guadagna. Anzitutto, come ho detto, i proprietari delle aree edificabili, perché sicuramente il prezzo dei terreni nella zona è salito. Se il rilancio del centro riesce, anche il valore dei terreni adiacenti andrà alle stelle. Poi c'è la fase di costruzione. Abbiamo già stabilito che le MBE e la Hall Development faranno soldi a palate. Quello che abbiamo trascurato è che avere un nuovo stadio significa più soldi per Peter Hall anche in quanto proprietario dei Blues. Anzitutto le sponsorizzazioni: non a caso lo stadio di San Francisco è intitolato a una società di telefoni e quello di Denver a una birra.» Harshman tornò a sedersi, con espressione ammirata per l'eleganza dell'operazione condotta da Hall. «i Blues hanno venduto alla MCI l'esclusiva sul nome dello stadio. Per i prossimi vent'anni, in cambio di 40 milioni di dollari, Steelton 2000 si chiamerà MCI Stadium. Un nome davvero molto poetico.» Michael ridacchiò. «Poi ci sono le tribune riservate», riprese in tono pacato Harshman. «Cento in totale, già vendute per centomila dollari l'una. Che fanno altri 10 milioni. Poi ci sono le entrate delle concessioni.» Fece una pausa e guardò Stella. «Questo è un po' insolito: i Blues ricevono un forfait annuo per la gestione dei parcheggi, dei punti di ristoro e della vendita dei gadget. È un affare per i titolari delle concessioni, soprattutto se sono ditte sconosciute che lavorano a basso costo, incassano contanti e di solito dividono gli utili col baseball club. Ma anche per i Blues non è male: a fine anno, due milioni e mezzo per i parcheggi, due milioni per la ristorazione e un milione per i gadget. In tutto altri cinque milioni e mezzo di cui la pubblica amministrazione non vedrà un centesimo e che la squadra si troverà in tasca prima ancora di aver venduto un solo biglietto.» Rallentò per sottolineare il
seguito del suo discorso. «Con la vendita degli abbonamenti, i Blues sono praticamente in pari. Il che permetterà a Hall di alzare notevolmente il prezzo quando metterà all'asta la squadra.» «E il comune?» domandò Michael. «Riceve un affitto simbolico, un milione di dollari all'anno. Krajek sostiene che lo stadio genererà anche entrate fiscali con la vendita dei biglietti e similari, che contribuiranno a pagare gli interessi sui buoni del tesoro. Ma il comune deve provvedere all'acquisto dei terreni, per non parlare del costo delle nuove strade di accesso, dei trasporti pubblici, dei servizi di sicurezza e di tutti i costi di manutenzione di uno stadio, comprese le lampadine. I conti di Krajek non tornano.» Stella lo scrutò. «Se è così facile smontare questo progetto, perché non ci ha mai provato nessuno?» chiese. «Allude per esempio a Bright? E chi glielo fa fare?» Harshman puntò il dito sul piano del tavolo. «Quelli che capiscono questo genere di operazione - come noi, i finanziatori, i consulenti che forniscono a Hall e Krajek tutti quei bei grafici e proiezioni di cash flow - hanno tutto da guadagnare a stare zitti. Nessuno ha aspirazioni suicide.» Si alzò di scatto, con le mani in tasca. «Vi sembrerò cinico, ma non lo sono affatto. Questi stadi hanno un significato politico e sono solo gli aspetti politici che io metto in discussione: mi domando, però, se i vantaggi per le minoranze etniche sono reali, se il gettito fiscale controbilancerà gli esborsi, se la gente spenderà più soldi a Steelton oppure no. Sono questi gli argomenti su cui fanno leva i politici per convincere gli elettori e, spesso, non hanno nessun legame con la realtà. In ogni caso, secondo me, non affrontano il vero problema.» Abbassò gli occhi su Stella. «Non si tratta solo di denaro, dottoressa Marz. È una questione di sensazioni, di aria che tira. Quanto vale per Cleveland il fatto che la sua immagine non sia più legata a una discarica, ma a uno splendido stadio circondato da edifici nuovi? Come si quantifica il valore del fatto che i giovani adesso frequentano il centro? Quanto varrebbe per lei veder succedere la stessa cosa anche a Steelton? E quanto varrà per i suoi figli? La vita non è perfetta. Probabilmente il Taj-Mahal è stato costruito con sprechi e corruzione e denaro che avrebbe potuto salvare chissà quante vite. Ma le grandi città finanziano musei, teatri d'opera e monumenti pubblici che non fanno nemmeno una piccola parte del bene che, psicologicamente, potrebbe fare il rilancio di Steelton.» Stella notò che per la prima volta Harshman stava parlando con passione del suo lavoro. Di colpo le tornarono in mente il padre e l'unico ricordo
buono che lei conservava nello sfacelo della sua famiglia: ripensò a quando la sera le dava il permesso di restare alzata più del solito, la prendeva in braccio e insieme ascoltavano alla radio le imprese di Larry Rockwell che batteva gli Yankees. «Arthur Bright ha ragione riguardo agli aspetti finanziari», le disse Harshman. «Ne ha forse ancora più di quanto non sappia o voglia sapere. E Dio solo sa perché Fielding è morto. Ma Krajek ha ragione quando parla del declino e dei sogni di una città. Per questo merita di vincere.» Arrivarono all'aeroporto di La Guardia scambiando a malapena qualche parola. Poi Michael chiese: «Allora, che ne pensi?» Stella guardò il cartellone delle partenze. «Che non riesco ancora a spiegarmi il come e il perché dell'overdose di Tommy Fielding. Devo concentrarmi su questo e lasciar perdere il resto.» «E le elezioni?» Stella si voltò a guardarlo. Era una domanda un po' strana da parte di un subordinato, benché Stella gli avesse dato confidenza. E negli occhi e nella voce gli lesse solo sincera preoccupazione. «Che della politica si occupino Sloan e Bright», rispose. «A me piacerebbe semplicemente seguire le indicazioni di Paul Harshman. A meno che qualcosa o qualcuno non ci dica di non farlo.» «Per esempio Arthur Bright?» «O Charles Sloan.» Stella si scusò e andò verso una cabina telefonica. Era quasi l'una e, dalle otto e mezzo di quella mattina, benché fosse sabato, Stella aveva ricevuto sette messaggi: uno ormai inutile, uno di Dance, due dai media su Novak o Fielding, o su entrambi, uno da uno studente di giurisprudenza per un problema di orario e uno dal suo presunto consulente elettorale. Fu l'ultimo messaggio, una voce impastata e monotona che le parve di una ragazza di colore, che le fece premere l'orecchio sulla cornetta. «L'ho vista alla TV», le parve di capire. «Chiamo per Tina...» Un silenzio, poi la donna diceva: «Magari la richiamo». Poi cadeva la linea. 19 Erano le quattro passate quando Stella arrivò in procura e, dopo nemmeno un quarto d'ora, Charles Sloan, saputo del suo ritorno, le chiese di rag-
giungerlo nell'ufficio di Bright per un aggiornamento. Per una decina di minuti, seduta alla scrivania del procuratore capo, Stella riferì il colloquio con la Megaplex. Sloan la tempestò di domande in modo brusco, mentre Bright si limitò a stare ad ascoltare con la sua tipica aria di riservatezza professorale, che Stella considerava una forma di difesa, ancor più impenetrabile del solito. Alla fine Bright ricapitolò: «Verrà fuori che le MBE sono di Krajek. Alcune prendono soldi senza fare assolutamente niente, ve lo dico io. Non essendoci una gara d'appalto, Krajek sottopone a Peter Hall un elenco d'imprese di sua scelta e Hall deve fare buon viso a cattivo gioco. Quello che bisogna accertare è quanto denaro pubblico finisce nei finanziamenti a Krajek.» Quella sintesi dei fatti colse di sorpresa Stella. «Ne sei sicuro?» «No, ma mi sembra logico.» Bright incrociò le braccia. «Sento le voci che corrono, Stella. Ci sono fornitori con tutte le carte in regola per lavorare per Steelton 2000 che hanno cercato di entrare e non ci sono riusciti. Ci sono troppi milioni in ballo perché Hall protesti.» «E Fielding?» Bright accennò un sorriso. «Doveva prendere atto della realtà e fare in modo che il progetto andasse avanti.» Stella lanciò un'occhiata a Sloan. «Come a Chicago», disse. «Chicago non è solo una città», replicò Bright sarcastico. «È anche uno stato d'animo.» Sloan aveva cominciato a dare segni di nervosismo. Si rivolse a Bright sottovoce, come per escludere Stella. «E la tua base elettorale? Se ti metti a contestare a Krajek il ricorso a manodopera nera 'non qualificata', farai la figura di quei razzisti che blaterano sulle pari opportunità. I bianchi non si metteranno di colpo a votare per te, perché il loro uomo resta comunque Krajek, e la maggioranza vuole lo stadio. E una parte dell'elettorato nero potrebbe decidere di disertare le urne.» Il tono si abbassò ancora. «Ti conviene continuare ad attaccare Peter Hall come hai fatto finora. Il problema è Hall, non un pugno di briciole per qualche minoranza simbolica. I ricchi trovano sempre il modo di diventare ancora più ricchi e Hall e Krajek si fanno piedino alle spalle del contribuente. È lì che stanno i voti.» «È proprio per questo che Hall e Krajek hanno dato una fetta a Larry Rockwell, il primo grande giocatore nero che i Blues abbiano mai avuto», aggiunse Bright. «È un po' come assoldare Joe Louis per fargli accogliere la gente al Caesar's Palace.»
L'amarezza delle sue parole non nascondeva l'ammirazione che, dal punto di vista professionale, provava per l'abilità di Krajek. Anche Stella era ammirata: Krajek stava sfruttando con grande maestria le tensioni razziali, attirando voti tra i neri e facendo in modo che gli attacchi di Bright gli si ritorcessero contro. Ma la conversazione era troppo astratta per i suoi gusti. «Ho due cadaveri sulla scrivania», disse. «Che cosa devo farne?» Col mento appoggiato nel palmo della mano, Sloan la guardò leggermente irritato. «Sono morti tutti e due di overdose. Tina Welch era tossicodipendente e Tommy Fielding bazzicava lo Scarberry. Una sera si sono incontrati e...» Lasciò la frase in sospeso come se le debolezze umane fossero troppo noiose per soffermarvisi. «E...?» continuò Stella. «Che cosa è successo dopo? Come mai è finita così? Sarei proprio curiosa di saperlo.» Le parve che Bright si vergognasse. Dopo un breve silenzio, si rivolse a Sloan e gli disse pensosamente: «Chiama Nat Dance». Alle sei e quarantacinque era buio ormai da un'ora e lo stadio, dalla finestra di Bright, pareva una zona d'ombra tra le luci della città. I tre uomini e Stella erano seduti intorno al tavolo della sala riunioni di Bright e mangiavano la cena ordinata al ristorante cinese. Con sorpresa di Stella, Dance usava le bacchette. «Fielding abitava in una villa a Steelton Heights», riassunse il detective. «Vicini tanti, ma nessuno che lo conoscesse veramente: usciva presto la mattina e rincasava tardi. Ricordano solo la figlia.» Nella sua voce c'era un misto di frustrazione e laconico sarcasmo. «La portava a cavalluccio sulle spalle, mi hanno raccontato alcune signore. Ed è praticamente l'unico dato certo che abbiamo.» A Stella pareva che Dance fosse perplesso quanto lei. Non c'era nulla nel breve profilo della vittima che facesse pensare a un uomo sull'orlo del baratro. «E sul lavoro?» domandò. Il detective si voltò verso di lei e, invece di rispondere, la sorprese dichiarando: «Tu non credi a Johnny Curran, vero?» Ancora una volta Stella pensò che era molto acuto. «Non ho dubbi che abbia visto l'auto di Fielding nello Scarberry o che abbia creduto di vederla, un paio di giorni prima della morte di Fielding. Ma potrebbe essere passato di lì per caso...»
«Non si passa dallo Scarberry per andare a Steelton Heights», la interruppe con veemenza Dance. Stella si strinse nelle spalle. «Non faceva uso di droga, non aveva cambiato abitudini, non aveva donne. Poi una sera di punto in bianco muore di overdose in compagnia di Tina Welch. E l'unico cui questo sembra logico è Johnny Curran.» Dance era incuriosito dall'ostinazione di Stella. Bright e Sloan soppesavano ogni parola. «A questo punto, alla Hall Development abbiamo interrogato tutti, anche quello che spazza le scale», le disse Dance. «Nessuno riferisce comportamenti strani o insoliti, a parte il fatto che Fielding pareva teso. La segretaria dice che da un po' di tempo soffriva di emicrania.» «Prendeva qualcosa?» «Tylenol. Nessun farmaco prescritto dal medico.» Dance si appoggiò allo schienale e osservò il suo uditorio. «Lavorava fino a tardi. A giudicare dalle ricevute del parcheggio, usciva dal garage dopo le undici quasi tutte le sere...» «E la sera che Curran dice di averlo visto nello Scarberry? Secondo lui erano le nove, le nove e mezzo.» L'espressione di Dance divenne impenetrabile. «Uscì alle otto e trentasei», rispose. «Pare avesse detto che non si sentiva bene.» Allora anche Dance ci aveva pensato. «E la notte in cui morì?» domandò Stella. «Quella sera era uscito alle sette e dieci. La segretaria dice che quel giorno era stanco e aveva mal di testa e si era lamentato di aver dormito male. La mattina dopo sulla scrivania c'era un flacone di Tylenol vuoto.» Sloan affondò la forchetta di plastica in una montagna di riso fritto. «Dunque stava perdendo colpi. Una sera va a cercare Tina e un antidolorifico di quelli che non si vendono in farmacia. La sera dopo, ottiene quello che vuole.» Dance osservava Stella in silenzio. «Forse», ipotizzò lei, rivolta a Sloan. «O forse un imprenditore arrabbiato perché Fielding non lo voleva pagare per lavori che non aveva fatto gli ha iniettato una dose mortale di eroina e si è servito della Welch perché non sembrasse un omicidio. Per sicurezza, diciamo.» Dopo una pausa, aggiunse a bassa voce: «La verità, Charles, è che non sai un cazzo. Come noi, del resto». Quella parolaccia, che Stella non usava mai, strappò a Dance una risata che riscosse Bright dai suoi pensieri. «A che punto siamo con Novak?» chiese.
«Nessun indiziato», rispose Dance. «Nessun movente. La gente ci muore tra i piedi senza dire perché.» Al di là dell'ironia, nel tono di Dance c'era una certezza, condivisa da Stella ma forse non dagli altri: l'omicidio, il più brutale dei reati, raramente era così oscuro e, quando lo era, le cause erano spesso profonde e complesse. Gli interrogativi di Stella sulle inchieste insabbiate e su Vincent Moro rimasero inespressi: per l'ennesima volta, lei si trovò a chiedersi chi di quei tre uomini poteva averla preceduta nell'archivio storico. «Quello che sto cominciando a sperare è di non scoprirlo mai», disse Sloan alla fine. «E che Jack Novak riposi in pace.» Politicamente era difficile capire se, ad Arthur Bright, convenisse di più che il suo amico fosse morto per via di una squallida vicenda di corruzione o durante un gioco sadomaso degenerato in furia omicida. Stella doveva scoprirlo, perché era il suo lavoro e perché era importante per lei. «Vallo a dire ai media», ribatté. Sloan sbuffò. Bright, in silenzio, aveva lo sguardo perso nel vuoto, come se fosse sull'orlo di un abisso: per quanta pietà potesse provare per Novak, Stella era convinta che avrebbe dato qualsiasi cosa per non averlo mai conosciuto. «E Fielding?» gli chiese. Ancora una volta ebbe l'impressione che Bright si fosse riscosso da un sogno a occhi aperti quando le disse: «Piano, piano. Non mi piace l'idea che Krajek si serva di MBE fasulle. Ma qui ci sono due morti, non è uno scherzo. Tu e Del Corso potete ficcare un po' il naso negli affari della Hall Development. Ma a meno che non riusciate a collegare la morte di Fielding al suo lavoro, non potete indagare più di tanto». Lanciò un'occhiata a Sloan e concluse sottovoce: «Non vorrei che qualcuno pensasse che lo fate per motivi politici». Per un'altra ora, Stella scorse distrattamente le pratiche che aveva sulla scrivania. Erano mandati di arresto, elenchi, verbali di testimonianze su cui non riusciva a concentrarsi. In una busta, quella con le foto scattate in casa di Novak dopo il delitto, non guardò affatto: quelle immagini le dicevano troppe cose e nel contempo non le rivelavano nulla. Stava per uscire quando squillò il telefono. «Stella Marz», rispose. Dall'altra parte il silenzio, a parte il fruscio di un respiro leggero. «Niente sbirri, okay?» Era la stessa voce. Stella rabbrividì. «Chiama per Tina.»
Un altro silenzio. «Con lei parlo», dichiarò la donna. «Con loro no.» Stella esitò a rispondere davanti a tanta fragile determinazione. «D'accordo», disse alla fine. «Dove la posso trovare?» L'incertezza aumentò: la sconosciuta stava soppesando le alternative e le loro eventuali conseguenze. «Al's Corner», rispose. «In Flower Street.» Nello Scarberry. Stella non ebbe più dubbi: era la voce di una prostituta che conosceva Tina Welch e non voleva avere niente a che fare con la polizia. «Come farò a riconoscerla?» Un'ultima breve pausa, poi la donna rispose: «Lei non mi conosce, ma io l'ho già vista. In televisione». 20 Lo Scarberry era un quartiere squallido, freddo, deserto. Quando Stella fermò la macchina, il vento gelido proveniente dal Canada soffiava sul lago e s'incanalava in quel corridoio sporco lungo il fiume Onondaga che era Flower Street. Il nome risaliva a un secolo prima, quando gli operai come il bisnonno di Stella, Carol Marzewski, andavano a comprare la verdura o i fiori dai carretti lungo i marciapiedi dello Scarberry. Ormai non c'erano più, ma la strada aveva conservato quell'incongruo nome. Negli anni '20 Flower Street aveva ospitato bar e locali notturni, fulcro di una brillante quanto effimera vita mondana, parallela a quella più raffinata della vicina zona dei teatri; col proibizionismo era decaduta a strada di spacci clandestini di liquori e, negli anni '40, aveva conosciuto un ultimo sprazzo di vitalità con l'apertura di alcuni saloon. Nel dopoguerra, con l'esodo verso la periferia, il centro di Steelton si era irrimediabilmente svuotato. I grandi teatri barocchi avevano spento i riflettori e lo Scarberry era stato abbandonato. La droga aveva sostituito l'alcol e i pochi alberghi del quartiere, che non erano mai stati particolarmente eleganti, si erano trasformati in pensioni d'infimo ordine. Lo Scarberry era diventato una sorta di enclave piena di sporcizia e di scritte sui muri, popolata da figure spettrali - prostitute, spacciatori, senzatetto - che aspettavano agli angoli di strada i pochi che si avventuravano fin lì per motivi che Stella trovava deprimenti quanto il luogo stesso. Guardando su e giù per Flower Street, Stella cercò d'immaginare Tommy Fielding che passava al volante della sua Lexus bianca. Non era facile. C'erano tre persone sul marciapiede: un barbone con un carrello della spesa e due prostitute con vestiti dai colori sgargianti e stivali
di plastica, una che fumava sbuffando nel buio e l'altra che si alitava sulle mani per scaldarle. Le poche insegne erano spente o rotte, ma evidentemente alberghi, bar e lavanderie automatiche non si curavano di ripararle. Superando l'imboccatura di un vicolo mentre andava verso Al's Corner, Stella vide un altro uomo seduto con la schiena appoggiata a un cassonetto. Con la droga, lo Scarberry e i suoi abitanti avevano toccato il fondo, pensò. Al's Corner, uno dei pochi esercizi commerciali sopravvissuti in quello squallore, era un ibrido tra bar, ristorante ed emporio: vendeva sigarette e dolciumi, serviva colazioni, pranzi e cene il cui comune denominatore erano l'unto e l'alto tasso di colesterolo, cocktail alla buona e birra nazionale. C'erano pochi avventori e, tra essi, una donna di colore molto magra, seduta a un tavolo in un angolo, che alzò gli occhi con aria diffidente e incrociò lo sguardo di Stella. Stella si fermò, rimpiangendo di non avere accanto Dance, poi si fece avanti. «È venuta in macchina?» le chiese la donna. Stella annuì. «Si giri e se ne vada. Io la seguo.» Stella si rese conto che la procedura era la stessa che la donna metteva in pratica tutte le sere: un uomo la veniva a cercare, concordavano il prezzo, poi lei lo seguiva fino alla macchina. Molto probabilmente batteva il marciapiede dalle cinque del pomeriggio: i suoi clienti uscivano dal lavoro, magari bevevano un po' per farsi coraggio e poi si fermavano nello Scarberry per farsi fare una sega o un pompino prima di tornare a casa e cenare in famiglia. Stella esitò, spinta dalla prudenza: non conosceva quella donna e certe prostitute giravano armate di coltello. Quasi le avesse letto nel pensiero, la donna bisbigliò: «Quelli della Buoncostume qui mangiano gratis». Con le mani sprofondate nelle tasche dell'impermeabile, Stella la guardò. Aveva i capelli stirati e tinti di un nero tanto innaturale che sembrava avesse la parrucca, il viso dalla pelle bruna stranamente immobile e occhi a mandorla che, forse come nel caso di Stella, tradivano origini eurasiatiche. Aveva uno sguardo ardente, penetrante. Bisognava decidere. Senza dire una parola, Stella girò sui tacchi e uscì. Non si voltò a guardare indietro e non sentì nessuno che la seguiva. La prostituta che aveva visto prima sul marciapiede non c'era più. Una settimana prima, pensò, Tina Welch era scomparsa da quelle stesse strade, consumata dalle violenze subite in tenera età, da una gravidanza troppo precoce, dalla prostituzione, dall'eroina e dall'AIDS. La sua breve
vita era giunta in fondo a un vicolo cieco. Di buon passo, Stella tornò alla macchina e, salendo, lasciò aperta la portiera destra. Come un'ombra, oltre il parabrezza apparve la donna. Si guardò da una parte e dall'altra e salì in macchina, chiudendo la portiera senza fare rumore. D'un tratto s'immobilizzò, quasi un sesto senso l'avesse avvertita di un pericolo; nello specchietto retrovisore Stella vide i fari di un furgone della polizia in perlustrazione. La strada si svuotò di colpo. La prostituta si chinò in avanti. Il furgone rallentò e poi proseguì in cerca di derelitti lungo i marciapiedi. La donna alzò la testa. «Fa freddo.» Quella frase, che suonava più come una semplice osservazione che come una lamentela, mise Stella più a suo agio. Accese il motore e il riscaldamento. «Mi parli di Tina.» La donna si guardò intorno, il viso scarno solcato da ombre. «Lavoravamo in questa strada», disse. «Cercavamo di arrivare più o meno alla stessa ora.» Occupandosi di omicidi, Stella aveva imparato cose che la maggior parte della gente ignora: uno dei primi casi che aveva seguito riguardava un falegname che era diventato un serial killer di donne di strada. Alla fine si era scoperto che sua madre batteva il marciapiede. «Per difendervi l'una con l'altra?» chiese Stella. «Ci teniamo d'occhio a vicenda.» La donna emise un'imprevedibile risata bassa. «Dicono che ci sono più omicidi tra le coppie sposate che nel mondo della prostituzione, e forse è anche vero. Ma a Steelton non sembrerebbe.» «Ha paura di qualcuno in particolare?» La fiamma di un accendino rischiarò brevemente l'abitacolo; la donna si accese una sigaretta al mentolo senza chiedere il permesso, in una sorta di affermazione dei propri diritti, un po' come un senzatetto che attraversa col rosso. Emise un lieve sbuffo di fumo e rispose: «Clienti, scippatori, assassini. Poliziotti». Quell'ultima parola fu pronunciata con asprezza. «La Buoncostume?» domandò Stella. La donna guardò fuori del finestrino. «Che cosa ne sa lei?» Abbassando leggermente il vetro, Stella rifletté su come rispondere. «So che alla Buoncostume finiscono i poliziotti troppo fuori di testa per lavora-
re nella Narcotici. E chi odia le donne si offre volontario.» Per quanto esasperata, in quella risposta c'era una parte di verità. Per la prima volta la donna si voltò a guardare Stella. «Non ti arresta», continuò la prostituta in tono piatto. «Ti violenta sul sedile di dietro della macchina e poi ti ruba i soldi. Ti toglie la droga se ti rifiuti di collaborare. Ti ritira la patente se non gli fai un pompino.» La voce le s'incrinò. «Ti porta a fare un giro in macchina di notte, ti picchia e ti violenta a Steelton Park e poi ti lascia in mezzo alla strada. Perché lui può.» «È successo a lei?» La donna sorrise con le labbra tese, scoprendo appena i denti, come per farle capire che era una domanda stupida. «La legge è dalla sua. Come si dice? L'arroganza del potere?» «Sì.» «Come quello che ha preso una prostituta per strada, l'ha fatta a pezzi, l'ha ficcata in un barile e l'ha buttata nel fiume. Era una mia amica, sa? Non l'avete mai beccato, vero?» Stella la fissava. La vicenda, ormai leggendaria, risaliva a quindici anni prima: quella donna doveva aver cominciato a prostituirsi nell'adolescenza. «No», ammise. «Non l'abbiamo mai beccato.» «Perché era un poliziotto.» «Ne è sicura?» «La mia amica è scomparsa dall'oggi al domani.» La voce della donna si era incupita. «Uno così lo vedi subito che è fuori di testa. Nessuna prostituta sale in macchina con uno così. A meno che non sia un poliziotto.» «Mi faccia qualche nome.» La donna era nell'ombra, ma Stella si sentì fulminare dal suo sguardo. «Non ci penso nemmeno. Quel giro a Steelton Park è stato la mia fortuna. Il poliziotto me lo ha detto chiaramente, che cosa mi succedeva se non mi mostravo grata delle sue attenzioni. E io lo sono.» Stella ebbe un moto di rabbia e dovette sforzarsi di ricordare il motivo per cui era lì. «E Tina Welch?» chiese. «Pensa che sia salita in macchina con uno che non conosceva e che non era un poliziotto?» La donna fece un lungo tiro e la punta della sigaretta luccicò nel buio. «Forse sì, per la droga», disse alla fine. «Tina si faceva, di brutto. Ma non penso che...» Abbassò la voce, quasi stesse per congedarsi. «Tina conosceva le regole del gioco e voleva un bene dell'anima a suo figlio.» «Le regole del gioco?» ripeté Stella. «E quali sono?» «Andare in albergo», rispose la donna. «Cinque dollari per venti minuti.
Oppure in un vicolo. Certi si sentono più sicuri sul sedile di dietro di una macchina con le portiere chiuse, per non farsi scippare dai tossici. Ma non si va mai via in macchina con uno che non si conosce.» Quella sintesi pragmatica confermava quanto era duro e spietato l'ambiente in cui si era avventurata: il silenzio, il buio, l'atmosfera clandestina e desolata di chi vive ai margini della legalità. In quel momento, l'unica prostituta rimasta per strada si rintanò in un vicolo in compagnia di un uomo pelle e ossa, che zoppicava, chissà se per drogarsi o fare del sesso. Si chiese perché non c'erano lampioni. «Tina aveva un magnaccia?» chiese. «Per farsi proteggere?» ribatté sprezzante la donna. «La maggior parte delle prostitute dello Scarberry preferisce rischiare. Ci diamo una mano tra noi, come Tina e me.» Tuttavia non basta, parve sottintendere. «E come fate?» domandò Stella. La donna diede l'ultimo tiro alla sigaretta. «Ci parliamo», rispose. «Parliamo dei trucchi che usano i poliziotti, delle auto che hanno... Cerchiamo di capire cos'hanno in testa. I segnali di pericolo, insomma.» Aprì velocemente la portiera per buttare via la cicca e altrettanto velocemente la richiuse, ma la ventata d'aria fredda, il brevissimo contatto con l'esterno, parve riscuoterla. «L'unico problema è che, se sei drogata come Tina, fai casino», riprese. «Vai in overdose, ti senti male, ci lasci la pelle. Tina era già morta prima ancora che la ammazzassero.» Stella la osservava. «Conosce un poliziotto che si chiama Johnny Curran?» L'altra, immobile, rifletté. «È nella Narcotici», aggiunse Stella. «Anni fa era nella Buoncostume.» La donna osservava la strada in silenzio. «Com'è?» Stella cercò di ordinare i propri ricordi. «Sulla cinquantina. Robusto, con tanti capelli bianchi, rosso di carnagione. Occhi azzurri. Gelidi. Se l'ha visto, gli occhi li ricorda senz'altro.» La donna si accese un'altra sigaretta. «Può darsi», rispose lentamente. «Ma non credo. Sarà stato prima che io cominciassi a lavorare.» Quando aveva cominciato, si chiese Stella, e come aveva fatto a sopravvivere fino ad allora? Sembrava più vecchia di Tina, ma non poteva avere più di trent'anni e aveva l'espressione di chi ha già visto di tutto. «Ricordiamo sempre le facce e le macchine», aggiunse sottovoce la donna. «Tina e io imparavamo a memoria le targhe. È questo che volevo dirle.» Per alcuni minuti, Stella rimase ad ascoltare, finché il quadro della notte in cui Tina era morta le apparve con una chiarezza allucinante.
Aveva appena finito col quinto cliente, in una stanza del Royale con l'abat-jour rotto e la tappezzeria strappata. Quand'era scesa nella hall e aveva pagato il conto, l'orologio alle spalle del portiere segnava le dieci e mezzo. Fuori faceva un freddo cane. Tina si trovava sul marciapiede sotto l'insegna al neon del Royale. Aveva le pupille piccole come punte di spillo, il viso sudato e tremava: il ritratto di una tossica che ha bisogno di una dose. Non le aveva quasi rivolto la parola. Lei aveva pensato che non avrebbe retto a lungo e si era chiesta che fine avrebbe fatto il suo bambino. Aveva cinque anni e probabilmente sarebbe morto anche lui nel giro di dieci o quindici anni. A volte, la sofferenza degli altri la angosciava e provava un senso di claustrofobia simile a quello che le dava quel tratto di marciapiede in Flower Street. «Stai bene?» aveva chiesto a Tina. Tina, guardando a terra, aveva scosso la testa. Aveva gli occhi lucidi, ma non aveva detto niente e in silenzio si era allontanata, tornando a battere. Sembrava un fantasma, una larva umana con un paio di stivali di plastica rossa. Erano passati alcuni minuti, poi un paio di fari bianchi erano venuti verso di loro e la donna aveva riconosciuto il ritmo familiare della macchina che, avvicinandosi, rallenta e scruta nel buio. I fari puntarono su Tina e si fermarono. Nessun rumore di freni, né di motore. Strizzando gli occhi alla luce, la donna l'aveva osservata. Anche in quella sorta di oscuro regno dei morti che era Flower Street, aveva visto che era bianca e lussuosa, una macchina di gente che fa vita tranquilla e regolare. Con le braccia conserte, Tina stava immobile. Poi si era chinata a guardare dentro l'auto, come se da dentro avessero abbassato il finestrino. Dopo una vaga esitazione, aveva fatto due passi avanti. Era incerta, diffidente: aveva piegato la testa, forse per sentire meglio, tenendosi a distanza. Aveva abbassato gli occhi. La portiera si era aperta. Lì per lì Tina era rimasta dov'era, quindi, come attratta da qualcosa che le avevano detto o mostrato, si era avvicinata. La donna che stava a guardare era rabbrividita, con una stretta al cuore, mentre l'ombra di Tina scompariva a bordo dell'auto. Silenziosissima, la macchina era ripartita. Strano che un motore facesse
così poco rumore. I fari si erano avvicinati e lei aveva guardato la targa, memorizzandola. Quando l'auto le era passata davanti, per una frazione di secondo aveva intravisto Tina che la fissava. Poi aveva svoltato l'angolo ed era sparita. La donna aveva tirato un sospiro. Se non altro, la targa era facile da ricordare. Anche Stella ebbe una stretta al cuore nel sentire quel racconto, perché sapeva com'era andato a finire quel giro in macchina. Aveva le foto che lo dimostravano. «Era una macchina che non aveva mai visto prima.» La donna scosse la testa. «E neanche Tina», disse. «L'ho capito da come si è comportata.» «Pensa che lui le avesse offerto una dose?» La donna diede un tiro alla sigaretta e, senza staccarla dalle labbra, rispose: «Per forza. O dei soldi per comprarla. Tina non si era ancora fatta, quella sera». «Da chi si riforniva di solito?» La donna le rivolse un'occhiata stanca. «Non aveva uno spacciatore in particolare. C'era uno nello Scarberry che le dava la roba quando lei aveva i soldi per pagarlo. Ma quella sera non si era fatto vivo.» «E lei non ha visto l'uomo al volante della macchina.» «Era troppo buio.» Diede un lungo tiro alla sigaretta e le parole successive le uscirono di bocca insieme con un sinuoso ricciolo di fumo mentolato. «Quella targa, era del cretino con cui è morta?» «Sì.» La donna annuì lentamente ed emise una specie di sospiro che esprimeva la risoluzione di un dubbio, la conferma di una fine, con tutta la sua triste ineluttabilità. Stella pensò che forse anche lei avrebbe dovuto rassegnarsi. La donna buttò vìa la cicca. Stella taceva, meditabonda. La donna infilò una mano in tasca e, quando la tirò fuori, Stella vide che aveva nel palmo un paio di forbicine da unghie. Trasalì. Con un riflesso istintivo, le afferrò il polso e lo strinse con tanta forza che la donna lanciò un piccolo grido. Ma le forbicine rimasero ferme, in equilibrio sul palmo, e la donna guardò Stella con un sorriso amareggiato. «Autodifesa», spiegò in tono brusco. «Per cavargli gli occhi.» Dopo una
pausa aggiunse, con più calma: «A Tina non è servito granché, vero?» Lentamente, Stella le lasciò andare il braccio. «Come si chiama?» La donna scosse la testa. «Devo tornare a lavorare, dottoressa», disse e aprì la portiera. Scese senza lasciare a Stella il tempo di aprire bocca. Pochi secondi dopo, la strada era deserta. Le uniche tracce della prostituta erano l'aria fredda entrata in macchina mentre scendeva e l'odore del fumo. PARTE TERZA TOMMY FIELDING 1 La domenica, Stella si ritrovò alla propria scrivania, davanti a una pila di carte, esattamente come una settimana prima, quando l'aveva chiamata Dance per darle la notizia della morte di Novak. Quel pensiero la turbò. Per tredici anni aveva cercato rifugio nelle certezze della legge, nei vincoli, nelle norme, nei doveri, nel necessario equilibrio tra zelo e compassione, nelle cause da seguire. La routine aveva rimarginato la ferita lasciata dalla rottura con la famiglia e l'aveva aiutata a redimersi dalla decadenza morale cui si era lasciata andare durante la relazione con Jack Novak. Tuttavia, da quando lui era stato ucciso, il passato era tornato a farsi prepotentemente sentire in un presente in cui Stella di colpo non si fidava più di nessuno, neppure di se stessa. Quale che fosse il motivo della sua tragica morte, era chiaro che Jack aveva partecipato a un gioco di potere e corruzione che coinvolgeva anche altre persone. Ammesso e non concesso che Tommy Fielding si fosse iniettato da solo una dose mortale di eroina, l'improvvisa trasformazione da impotente tutto preso dal lavoro a drogato frequentatore di prostitute dello Scarberry restava inspiegabile. Stella sapeva soltanto che quei due misteri avevano a che fare con un groviglio d'interessi di lunga data in cui erano invischiati Moro, Bright, Sloan, Dance, Krajek, Hall, e che quegli interessi potevano contrastare pericolosamente coi suoi. Stella non amava riflettere su se stessa e sulla propria vita perché era un esercizio che comportava troppo dolore e la rendeva vittimista. Ma illudersi era ancora peggio e credere nella giustezza delle proprie motivazioni per Stella era talmente importante che, nelle circostanze sbagliate, rischiava di farle perdere l'obiettività.
Per la prima volta in vita sua, aveva cominciato a tenere all'oscuro di ciò che faceva le persone con cui lavorava. Per certi versi, non aveva tutti i torti: i dossier spariti, la paura della prostituta che le aveva telefonato a proposito di Tina Welch erano motivi più che validi. Ma non erano gli unici. L'esigenza di trovare una risposta ai misteri passati e presenti che circondavano Jack Novak era preoccupantemente vicina al desiderio di espiazione. E al bisogno di autoaffermazione, ormai diventato fondamentale nella sua vita solitaria, il bisogno di prendere il posto di Arthur Bright. Di colpo si sentì soffocare. Non sopportava di stare sola con se stessa. Non ne poteva più di non avere un posto dove andare, nessuno cui chiedere aiuto. A parte la sua gatta, naturalmente. E suo padre. Nonostante l'umore nero, Stella scoppiò a ridere. Dei due, l'unica che l'avrebbe riconosciuta era la gatta. Ma la domenica precedente non era andata alla casa di cura, perché Jack Novak si era intromesso tra il padre e lei per l'ultima volta, pensò con amaro sarcasmo. Decise pertanto di andare a far visita a quell'essere ormai senz'anima che era diventato Armin Marz. Più che una visita era un rito, come andare a messa quando non si credeva più in Dio. Però, a volte, Stella trovava conforto nel silenzio di suo padre: come la speranza d'amore, anche la guerra tra loro era ormai finita, tranne che nelle ferite che lei ancora portava dentro, come la morte di Jack le aveva dolorosamente ricordato. Basta così: sarebbe andata a trovare il padre e poi a casa. Uscendo nel corridoio buio della procura, Stella ripensò alla casa dei suoi a Warszawa. Poi una voce di bimba la fece trasalire. Le ci volle un istante per capire che non si trattava di uno scherzo della memoria. Era una risata e fu seguita dal riso di un uomo, un suono nel contempo sconosciuto e familiare per Stella, un padre che rideva insieme con la figlia. Proveniva dall'ufficio di Michael Del Corso. Incuriosita, Stella si fermò. Michael si trovava alla scrivania. Interrotto nel proprio lavoro, sorrideva guardando il disegno appena fatto dalla bellissima bambina che Stella aveva visto alla finestra la sera che aveva riaccompagnato a casa Michael. Gli occhi, che ricordava tanto seri, erano trionfanti. Sulla porta, Stella si sentì di troppo, quasi fosse stata sorpresa a origliare. «Magari il tempo funzionasse davvero così» disse Michael a Sofia. Stella si sentì in dovere di annunciare la propria presenza. «Come?»
Sorpresi, Michael e Sofia alzarono gli occhi. Poi Michael si rivolse alla figlia: «Fai vedere il tuo disegno a Stella». Incerta tra timidezza e orgoglio, la bambina decise di accontentare il padre. «Papà stava lavorando e io mi annoiavo», spiegò. «Perciò ho disegnato un giorno più corto.» Stella guardò il disegno. Per una bambina di sette anni, era una riproduzione abbastanza verosimile della vista che si godeva dalla finestra dell'ufficio di Michael: palazzi, una nuvola, il lago, un pallido sole. Con l'unica differenza che il sole era molto più vicino al lago di quanto non fosse in realtà. «Ho disegnato che è ora di andare.» Stella sorrise, sorpresa: da bambina era stata anche lei piuttosto prosaica, poco sentimentale. «Ecco che cosa vuol dire avere fantasia», commentò Michael. «Sto facendo del mio meglio. Ho quasi finito.» Sofia si voltò verso il padre con le mani sui fianchi, in atteggiamento militaresco. «Vedi?» Anche quello colse Stella di sorpresa. L'aveva immaginata, benché senza fondamento, timida e un po' appiccicosa. Michael rispose alla figlia in tono ragionevole: «Nel tuo disegno è sera, ma in questo ufficio è ancora giorno e io devo lavorare». Sofia assunse l'espressione grave che Stella ricordava. Posò la matita e saltò in braccio al padre, premendogli la faccia sul petto. «Ti prego», lo implorò. «Mi sento sola.» Michael chiuse gli occhi e, per un istante, Stella intuì che anche lui doveva sentirsi solo. Ma fu solo un lampo: lui sorrise e le diede un bacio in fronte. Interpretando quel gesto come una sorta di premio di consolazione, la bambina fu sul punto di scoppiare in lacrime. «Mi avevi promesso di portarmi al bowling.» Stella si augurò che Michael mantenesse quella promessa perché, dal tono supplichevole di Sofia, si capiva che ci teneva moltissimo. Ma la vita di Michael non doveva essere facile: la moglie, che lui amava ancora, l'aveva lasciato con una figlia. «Sofia», intervenne Stella, «perché non fai un altro disegno?» La bambina la guardò, diffidente, come a dire: Stai cercando di distrarmi, ma io voglio stare con il mio papà. «Fa' un disegno di papà e di te che giocate a bowling. Quando l'avrai finito, forse anche lui avrà finito quello che deve fare.» La bambina la guardò con occhi così tristi che Stella si sentì a disagio.
Michael intervenne prontamente: «È un'ottima idea, Sofia. Ti prometto che faccio più in fretta che posso». L'ha detto per salvarmi dalla mia goffaggine, pensò Stella. La bimba si voltò a guardare Michael e Stella ebbe l'impressione che fosse una bambina cresciuta troppo in fretta e si prendesse cura del padre nel modo in cui avrebbe desiderato che lui si prendesse cura di lei. Poi Sofia le porse la matita. «Fallo tu», disse, rassegnata. Stella impugnò la matita, decisa ad aiutare una bambina troppo grande per la sua età, che cercava tanto disperatamente di prendersi cura del padre. «Grazie», disse Michael rivolto sia a lei sia alla figlia. Si sedettero per terra a gambe incrociate, tutt'e due in jeans. Ripensando a com'era lei da piccola, Stella rifletté che, in confronto, Sofia pareva uno scricciolo. Non appena cominciò a disegnare, le venne in mente anche che, all'età di Sofia, rimanere passiva, farsi fare dagli altri qualcosa che avrebbe potuto fare lei stessa, la infastidiva moltissimo. Disegnata la pista da bowling, Stella dichiarò: «I birilli non li so fare». E restituì la matita a Sofia. La bambina guardò il foglio e, con sorprendente precisione, cominciò a tracciare righe che, più che birilli, sembravano candeline su una torta. In quel momento, Stella si sentì addosso gli occhi di Michael: forse stava pensando ai tempi in cui la figlia stava con la madre, invece che con una sconosciuta che non sapeva nulla di bambini a parte ciò che ricordava della propria infanzia. In che cosa sarebbe stata diversa la sua vita, se suo padre non si fosse ridotto a un vegetale? si domandò Stella. Se non altro, avrebbe avuto il tempo di restare con la bambina che aveva accanto e magari avrebbe saputo cosa fare e dire. Intanto Sofia aveva disegnato un uomo, poi una figura più piccola, coi capelli ricci e scuri, che Stella ritenne fosse un autoritratto. La bambina del disegno aveva in una mano una boccia da bowling e con l'altra stringeva quella del padre. In fondo, a una certa distanza dai due, Sofia cominciò a disegnare una terza figura. Stella la osservò, incuriosita. Sofia se ne accorse, esitò, poi aggiunse altri tratti: un vestito, capelli lunghi da donna. Stella chiese sottovoce: «Chi è questa?»
«La mamma.» Un breve silenzio. «È in Australia, ma ci guarda mentre giochiamo a bowling.» Sofia aveva sette anni ed era perfettamente consapevole che non poteva essere vero, come sapeva di non poter cambiare il tempo disegnando un tramonto, e l'aveva detto in tono piatto, che contrastava col guizzo di fantasia. Michael era raggelato. Stella non trovava nulla da dire. Poteva solo guardare la bimba mentre finiva di disegnare la madre con la massima concentrazione. A un certo punto Michael annunciò: «Ho finito. Possiamo andare». Assorta nel suo lavoro, la bambina non rispose. Michael cominciò a riporre carte e documenti nella cartella, aspettando che la figlia gli prestasse attenzione. Dopo un po', Sofia alzò la testa dal foglio e chiese: «Può venire anche lei?» Stella impiegò un momento per capire che Sofia si stava riferendo a lei e non alla donna che aveva appena disegnato. La bambina tenne gli occhi bassi. Michael invece la fissava, e con l'aria cupa. «Vuoi venire?» le chiese. Stella pensò che sarebbe stato come buttarsi in acque calme ma terribilmente profonde senza saper nuotare. Sofia la implorava con lo sguardo. Stella pensò ad Armin Marz, che non si accorgeva neanche se lei andava a trovarlo o no. «Sei sicura?» chiese a Sofia. «Guarda che io sono bravissima a bowling...» Il bowling Fiore Lanes, a Little Italy, era pieno di famiglie, anziani e adolescenti in gruppo o a coppie. Verso sera, la confusione aumentò, in un crescendo di risate, urla, palle che scivolavano sul legno, fragore di birilli che cadevano. Stella vinse tre partite di seguito. «Sei brava veramente», riconobbe Sofia. Stella sorrise. Con Michael e Sofia non era difficile fare bella figura. La bambina non sapeva giocare: prendeva la rincorsa a piccoli passi, forse perché la palla era un po' pesante per lei, e poi la lanciava con un saltino aggraziato, lasciando che andasse dove voleva. Michael invece credeva nella forza bruta: se, nel calcolare i punti, si fosse tenuto conto della violenza con cui venivano abbattuti i birilli, probabilmente sarebbe stato un campione. Non aveva buona mira, tuttavia, e se, dopo il primo tiro, rimaneva qualche birillo in piedi, difficilmente lo abbatteva col secondo. «Sono polacca», disse Stella a Sofia. «Per noi il bowling è una cosa seria. Per forza sono diventata brava.»
La verità era leggermente diversa: a scuola, Stella aveva raggiunto ottimi risultati in vari sport grazie alla tenace determinazione che le veniva dalla paura di perdere. Le sue compagne le cedevano il passo e, poiché Stella aveva anche un grande autocontrollo ed era prodiga di consigli, era stata spesso capitana della squadra. Anche nel bowling, che pure le interessava poco, era molto brava, perché non sapeva perdere. Michael sorrise. «Racconta a Sofia del sindaco Burek.» Era un vecchio aneddoto e, pur essendo vero, non aveva mai divertito molto Stella: apparteneva all'epoca delle barzellette sui polacchi e sottolineava il grande provincialismo degli abitanti di Warszawa. Ma la bambina sembrava contenta di essere al centro dell'attenzione di due adulti. Stella le si sedette accanto sulla panchina. «Il sindaco Burek era del mio quartiere», cominciò a raccontare Stella. «Un giorno, il presidente degli Stati Uniti invitò lui e la moglie a cena alla Casa Bianca. Tu sai cos'è la Casa Bianca, Sofia?» La bambina le lanciò un'occhiata risentita, le braccia conserte. «Certo che lo so. È dove abita il presidente. Con tutti gli avvocati.» Non sapeva perché, ma si rendeva conto di aver detto una cosa buffa e, con la coda dell'occhio, ne cercò conferma nell'espressione del padre. Anche lui si sedette. «Molto divertente, Sofia. Sta' solo attenta a non esagerare.» Sofia gli si avvicinò finché lui non le mise un braccio sulle spalle. Rassicurata da quel gesto di approvazione, la bambina si rivolse di nuovo a Stella. «E allora?» Stella guardò Michael con un sorrisetto. «Il sindaco rifiutò l'invito. Perché era la sera in cui sua moglie giocava a bowling.» Sofia la guardò sbalordita. «Tutto qui?» «No. Questa è la parte che a tuo padre piace di più.» «E l'altra?» «Il presidente era Richard Nixon, il diavolo incarnato.» Lanciando un'occhiata a Michael, Stella chiese con finta solennità: «Tu sai come lo chiamavano?» «Come?» «Il padrino.» Michael fece una smorfia e Sofia, intuendo che stavano scherzando, spostò lo sguardo da Stella a lui. «Vieni che t'insegno come si fa», le disse poi Stella. Sofia, titubante, la guardò con occhi gravi e si strinse ancora di più al
padre. «No, m'insegna lui.» Stella si sentì rifiutata e rimase male, ma decise di fingersi stupita. «Lui?» La bambina non stette allo scherzo. Rimase zitta, un po' turbata, poi cambiò tono e dichiarò: «Poi voglio che vieni a mangiare a casa nostra». Stella si sentì a disagio. Sia Sofia sia Michael evitavano di guardarla. La bambina era confusa e Michael era impassibile, con gli occhi bassi. Stella immaginò che la confusione di Sofia fosse dovuta al fatto che, da una parte, era attaccatissima al padre e temeva di dividerlo con altri e, dall'altra, aveva un ruolo di sostituto della madre, di moglie bambina. Indipendentemente dalle cause, era una situazione in cui Stella non voleva assolutamente immischiarsi. Tuttavia, con sua sorpresa, Sofia insistette: «Per favore». Stella le fece una carezza. Michael guardò la bambina e quindi, a nome della figlia, rivolse uno sguardo implorante a Stella. «Il menù prevede spaghetti», disse disinvolto. «Basta buttarne una porzione in più. Sofia mangia come sua madre.» L'appartamento di Michael era molto ordinato, ma piccolo: un salotto, una zona pranzo, un angolo cottura coi fornelli a gas e un vecchio frigo terribilmente rumoroso. Era una sorta di mausoleo alla vita con Maria, comprato con quello che restava dopo aver finito di pagare il prestito d'onore, più funzionale che altro. Stella immaginava le sere che dovevano avervi trascorso insieme a mangiare pastasciutta e bere chianti, risparmiando per realizzare il sogno di acquistare una casetta in periferia e dare a Sofia un fratellino o una sorellina. Una cosa era certa: Stella si sentiva come un pesce fuor d'acqua. Mentre Michael cucinava e la casa si riempiva del profumo del ragù, Sofia mostrò a Stella la sua camera. Era la più accogliente della casa. Per quanto piccola e. poco luminosa, aveva copriletto, tende e cuscini coloratissimi, una libreria piena di libri e un lettino coperto di bambole. Sul comodino c'era una foto di Maria. Stella non poté fare a meno di guardarla. Era una donna bellissima, dall'aria eterea, coi lunghi capelli che le incorniciavano un viso delicato e la bocca perfetta. Nel ritratto, scattato da un fotografo professionista con la luce soffusa tipica delle foto di famiglia, Maria poteva passare per una martire beatificata, una vergine sacrificale uscita da qualche leggenda medievale. A parte gli occhi neri, dallo sguardo diretto straordinariamente intenso. Esistevano sante arrabbiate? si chiese Stella.
Si rese conto che Sofia la guardava e, voltandosi, le disse: «Somigli a tua madre». Sofia piegò la testa di lato e la guardò negli occhi, incuriosita, quasi temesse che una sconosciuta sapesse cose che lei ignorava sulla vera Maria Del Corso, quella che viveva fuori della fotografia. Si fissarono per un momento. Poi Stella propose: «Andiamo ad aiutare il papà». La cena fu più difficile del bowling. Mangiarono a lume di candela sul tavolo di legno che abitualmente stava ripiegato perché per due persone sole era più che sufficiente. Stella cercò d'immaginare quello che facevano tutti i giorni, le cose che si dicevano padre e figlia a tavola. Quando chiese a Sofia di parlarle delle sue amichette o della scuola, ottenne le risposte tipiche di una bambina che ha altro per la testa. Non appena poté, Sofia domandò educatamente il permesso di alzarsi e si ritirò in camera sua. Imbarazzato, Michael pareva assorto nello studio delle decorazioni del piatto che aveva davanti. Stella cercò qualcosa da dire per rompere quel silenzio impacciato, ma le pareva che nulla andasse bene. Quell'uomo era un suo subordinato ed era pentita di avere accettato il suo invito. «Secondo me ricorda la madre... degli ultimi tempi», disse a un certo punto Michael. Se era un tentativo di metterla a suo agio, non era certo il migliore. «Perché lo dici?» «Mangiavamo sempre insieme e, dopo cena, Sofia andava a prendere un libro e chiedeva a uno dei due di leggerglielo.» Bevve un sorso di vino e osservò la fiamma della candela in mezzo al tavolo. «Pochi mesi prima di andarsene, Maria smise di leggerle storie. Per un po' Sofia continuò a portare giù il libro, poi si arrese.» Stella rimase zitta. Maria era ancora presente in quella casa, più reale e concreta di un fantasma. Dimenticando il proprio disagio, si chiese chi dei due le faceva più pena, se Michael o Sofia, e decise che era la bambina: le ferite dell'infanzia, più difficili da comprendere, erano più lente a rimarginarsi. La ragione non serviva a guarire. In quel momento, Michael alzò la testa e guardò verso la porta. Sulla soglia c'era Sofia, che li guardava dall'ombra. Stella sentì di aver turbato l'equilibrio di quella casa in cui Maria Del Corso esercitava ancora un'influenza invisibile ma fortissima. La bimba
fece un passo avanti senza smettere di guardarli. Quando le mise il libro in mano, a Stella si strinse il cuore. «Mi leggi una storia?» le domandò. Finita la storia, quando Sofia si fu addormentata, Stella tornò di sotto e trovò Michael in salotto che beveva un bicchiere di vino rosso. Sul tavolino ce n'era uno pieno per lei. Porgendoglielo, le disse: «Mi dispiace che ti abbia... reclutato. Di solito è compito mio». «Non importa.» Stella si sedette dall'altra parte del divano. «Chiede sempre la stessa storia?» «No. Ma spesso. È quella che le leggeva sempre la madre.» Avendo così ammesso che la richiesta di Sofia aveva un profondo significato emotivo, Michael non aggiunse altro per un po'. «Un momento fa pensavo a Fielding», le disse poi. Stella rimase sorpresa da quel cambiamento di discorso, ma forse anche Michael si era reso conto che non era il caso di metterla a parte di tanti particolari della sua vita privata. «E che cosa pensavi?» «A com'era pulito. A detta di tutti, l'unico problema che poteva avere era la gestione di Steelton 2000.» Incrociò le gambe sul divano e accarezzò il bicchiere. «La penso come te: mi sembra impossibile che sia finito in quel modo.» Stella assaggiò il vino, un po' in difficoltà per il fatto che gli aveva tenuto nascosta la sua spedizione nello Scarberry. «Se ti dico una cosà, mi prometti di non riferirlo a nessuno? Almeno finché non mi sono chiarita meglio le idee?» Michael rifletté un istante. «Okay.» Gli raccontò brevemente della prostituta senza nome che, pur avendo il terrore della polizia, le aveva raccontato di aver visto Tina Welch salire sulla macchina di Fielding. Michael la ascoltò attentamente, senza fare domande. «A questo punto tutto quadra», decretò alla fine. «Prima Johnny Curran scorge Fielding girare per lo Scarberry. Due sere dopo una prostituta vede Tina Welch andare via in auto con lui. Per qualche ragione, Tommy Fielding aveva imboccato una cattiva strada.» «Ma perché è andata via con lui? La donna con cui ho parlato aveva avuto l'impressione che non volesse.» «Probabilmente ha valutato se fidarsi o no, poi ha visto questo tipo azzimato e pieno di soldi, su un macchinone, una sera in cui era in astinenza.
Come faceva a dirgli di no?» Michael si appoggiò allo schienale e guardò il soffitto, immaginando il seguito. «Aveva già la siringa nella borsa e sa.peva dove procurarsi l'eroina. Lui l'ha accompagnata e poi l'ha portata a casa sua.» «Dove si è fatto una pera pure lui?» intervenne Stella. «Ma perché? Tommy Fielding probabilmente non si era mai bucato in vita sua. Perché ha cominciato proprio quella sera? Dopotutto, Tina Welch era una prostituta tossicomane che conosceva da meno di un'ora: ti pare logico che si fidasse di lei?» Michael scosse la testa. «Fielding era tornato a casa alle sette e dieci», continuò Stella. «Aveva l'emicrania. Ha mangiato un panino e bevuto una birra. Ti saresti immaginato che accendesse la TV e guardasse la partita di baseball, non che pigliasse la macchina e facesse mezz'ora di strada per andare nello Scarberry.» Posò il bicchiere. «Quando uno muore a questo modo, di solito ci sono almeno dieci tra parenti e amici che dicono che se l'aspettavano. Qui non ce n'è nemmeno uno.» «Non deve per forza avere un senso, Stella. C'è il referto dell'autopsia e adesso hai una testimone.» «Che potrebbe non avermi detto tutto quello che sa.» Lui si strinse nelle spalle. «Forse, a proposito della Buoncostume. Per quanto mi sia sembrata un po' paranoica, per la verità: non credo che siano poi in tanti ad ammazzare le prostitute per sport. E comunque su Tina Welch non mi è parsa reticente.» Era vero. Stella tacque, contemplando il bicchiere. «Dunque vuoi andare a ficcare il naso a Steelton 2000», borbottò Michael, guardingo. Dopo un momento d'imbarazzo, Stella fece di sì con la testa. Ma non gli diede altre spiegazioni. Anche Michael rimase zitto. Lei intuì che stava cercando di capire a che cosa pensava. «I cinque incartamenti», disse dopo un po'. «Li hai più trovati?» Quella domanda la colse di sorpresa. Era abbastanza prevedibile, ma dubitava che gliel'avesse fatta per pura curiosità. Dove vuoi arrivare? sembrava volerle chiedere. E di chi è che non ti fidi? Ma, anche volendo, Stella non gliel'avrebbe potuto dire. «No», rispose. «Ho deciso di lasciar perdere.» Michael la scrutava e Stella si sentì a disagio, come poco prima con So-
fia. «È tardi», mormorò. «Sarà meglio che vada.» La sua decisione brusca parve turbarlo. Michael cambiò espressione e di colpo apparve supplichevole, spaventato. Poi si decise a parlare. «Ti sono molto grato per oggi pomeriggio, per la pazienza che hai avuto con Sofia.» Si sedette più composto e la guardò negli occhi. «So che avevi altro da fare. Ma l'ho osservata e mi sono reso conto che le fa bene passare un po' di tempo con una donna che non sia la nonna. Con un'amica, che le vuole bene.» Stella sorrise. «Sì, le voglio bene. Non m'intendo di bambini, ma mi sembra che tu sia un ottimo padre.» Michael rifletté per qualche istante, gli occhi lievemente velati. Stella immaginò che pensasse a Maria. «Ringrazia Sofia da parte mia», gli disse. «Dille che mi sono divertita molto.» E scappò via. 2 Il mattino dopo, piuttosto presto, Stella andò a Steelton Heights. La strada, tortuosa e in salita, le permetteva di vedere, nella valle punteggiata di acciaierie, la città, con le superstrade, i capannoni, i vecchi palazzi di pietra e i grattacieli di cristallo, lo stadio oltre il lago e, più vicino, il dedalo di strade dell'East Side. Si addentrò di un altro poco tra gli alberi e la città parve improvvisamente lontana e spettrale tra i rami spogli. Le case da quelle parti erano grandi, squadrate, a tre piani, costruite all'inizio del Novecento dalla prima generazione d'industriali, e si affacciavano sulla città con un'imponenza che solo il tempo può dare. C'erano volute altre due generazioni, pensò Stella, perché in quella zona elegante spuntassero le prime ville signorili, come quella di Peter Hall, abitate da famiglie che disdegnavano la vita cittadina. Occhio non vede, cuore non duole, ovviamente. La via in cui abitava Tommy Fielding, Knightsbridge Court, era dello stesso periodo, ma l'atmosfera era diversa: era stretta e costeggiata su entrambi i lati da case a tre piani di stile bostoniano. Risalivano a un'epoca in cui nessuno aveva il garage, e questo, per quanto poco pratico negli inverni rigidi di Steelton, contribuiva alla bellezza del quartiere, abitato prevalentemente da giovani professionisti. Sulla destra, dalla parte di Fielding, la vista sul lago e sulla città era meravigliosa.
La casa era la seconda in una fila di sei. Stella fermò la macchina e scese. Sul portone c'erano i sigilli della polizia e una coroncina a ricordare che, solo quattro settimane prima, si era festeggiato il Natale. Stella si chiese se era stata messa lì per la figlia che, come Sofia, aveva sette anni, un'età in cui il Natale è ancora una ricorrenza importante e i giocattoli arrivano come per magia. Era stato così anche per lei, quando gli altiforni lavoravano a ciclo continuo e Armin Marz, ancora padrone del proprio destino, nascondeva i doni per le figlie in una casa che adesso non ricordava nemmeno più. La casa di Fielding era perfetta come aveva immaginato. Le siepi erano ben rasate, le persiane dipinte di fresco. Sul retro c'era una terrazza di mattoni con un tavolo e sedie di ferro battuto da cui, la primavera successiva, si sarebbero viste splendere le luci dello stadio. Vi aleggiava un senso di morte: era cupa, silenziosa, le tende tirate. Undici giorni prima, Fielding vi aveva portato Tina Welch, rimorchiata nello Scarberry. Nessuno li aveva visti; erano scivolati come fantasmi in quell'ambiente pulito e asettico e, la mattina dopo, erano stati ritrovati cadaveri. Lì, sul posto, quell'idea scombussolò Stella più che in altri momenti. Era stata la cameriera a trovarli, mentre una telefonata anonima aveva risparmiato alla cameriera di Jack Novak la stessa macabra esperienza. In tutti e due i casi, rifletté Stella, nessun altro aveva le chiavi di casa. Eppure, volendo credere a Missy Allen, l'ultimo visitatore di Jack Novak era entrato e se n'era andato senza lasciare traccia. A parte il cadavere evirato. Stella risalì in macchina e andò nello Scarberry. Era come una città fantasma. Le prostitute non c'erano e le vetrine degli squallidi negozi erano chiuse con pesanti inferriate. Stella ritrovò soltanto il vento freddo e il barbone della volta precedente, che in quel momento era rannicchiato in un vicolo accanto a un cassonetto. Cercò d'immaginare la Lexus bianca di Fielding fermarsi silenziosamente davanti a Tina Welch nell'oscurità. Guardò l'ora. Per arrivare lì da Steelton Heights aveva impiegato trentaquattro minuti, col traffico del mattino. Mentre andava in procura, chiamò Nat Dance a casa. Le rispose in tono né cordiale né infastidito. «Ricordi la rivista porno che hai trovato in camera di Fielding?» gli chiese.
«Sì. Pagine e pagine di donne nere nude.» Stella si fermò a un semaforo rosso. «La cameriera aveva mai visto per casa riviste come quella o di altro tipo?» «No.» «Okay. Quando hai controllato se Novak frequentava ambienti sadomaso, se faceva acquisti nei sex-shop e sui cataloghi per corrispondenza, hai chiesto anche di Fielding?» Le parve di vedere Dance che, immobile, rifletteva. Non le chiese il perché di quella domanda. «Ci vorrà qualche giorno. Ti faccio sapere.» La prima cosa che fece, non appena arrivata in ufficio, fu il caffè. La seconda fu chiamare Kate Micelli. Aspettando che il coroner terminasse la conversazione in cui era impegnata, guardò lo stadio dalla finestra. Non erano ancora le otto e mezzo e non c'erano operai: gru e scavatrici erano ferme e in giro non c'era nessuno. Alle nove, tutto avrebbe preso vita. Un albero della cuccagna per dilettanti, l'aveva definito Paul Harshman. Una gallina dalle uova d'oro. Kate Micelli prese la linea. «Devo farti una domanda scema», esordì Stella. «Quanto tempo ci ha messo Tommy Fielding a digerire quel panino?» «L'ultima cena? Non l'aveva digerita del tutto, ma devo controllare i miei appunti. Perché t'interessa?» «La digestione s'interrompe con la morte, naturalmente. Vorrei sapere quanto tempo è passato da quando ha finito di mangiare, se possibile.» Si mise a passeggiare avanti e indietro. «Deve aver impiegato come minimo un'ora per andare allo Scarberry, rimorchiare Tina e tornare a Steelton Heights. Anche di più, se si sono fermati a comprare l'eroina.» «Forse non è passato da casa.» «Dici? Prima ha rimorchiato la prostituta, poi è andato a casa, si è fatto un panino col prosciutto, si è versato una birra e per finire si è fatto una pera?» Kate Micelli si mise a ridere. «Forse a lui era venuta fame e a Tina Welch no. O forse era maleducato.» S'interruppe. «No, immagino che tu abbia ragione. Bisogna che la sequenza dei fatti abbia una logica. Sempre che ci si possa aspettare una logica in una vicenda come questa.» Stella evitò di dirle che la prostituta amica di Tina Welch riteneva di aver visto la Lexus di Fielding intorno alle dieci e mezzo. «Fielding era u-
scito dall'ufficio dopo le sette», ricapitolò Stella. «Ha sostenuto di avere una forte emicrania. Dopodiché non sappiamo più niente.» «Non credo che il panino possa risolvere il problema», replicò la Micelli. «Ma controllo e poi ti faccio sapere. Ti richiamo tra un paio d'ore.» Era una di quelle mattine in cui Stella si sentiva piena di energia, la mente resa lucida dalla caffeina. Era la terza volta che passava davanti all'ufficio di Michael, quando finalmente lo trovò. Stava posando il cappotto sull'appendiabiti di metallo. Vedendola, sorrise. «Grazie della serata», le disse. «È stato molto bello.» Presa alla sprovvista, Stella si sforzò di sorridere. «Come sta Sofia?» «Stamattina era tutta allegra, ma è una signorina piuttosto lunatica.» Intuendo che Stella aveva in mente qualcosa, le domandò: «Cosa c'è?» Stella si sedette. «Pensavo a Jack Novak, alle somme che incassava inspiegabilmente, alle cause che vinceva in maniera a dir poco fortunata. Abbiamo indagato solo perché io mi sono ricordata di cose successe ai tempi in cui lavoravo nel suo studio. Si tratta di casi molto vecchi.» «Giusto. Ma Dance non ha trovato niente di più recente, vero?» Stella annuì. «Nulla di attuale, per la precisione», lo corresse. «Ma tu mi dici - e Saul Ravin lo conferma - che le cose si sono complicate nel mondo del narcotraffico e le pressioni su Vincent Moro sono aumentate da parte sia delle forze dell'ordine sia dei concorrenti. Questo significa che Novak si sarà dato ancora più da fare per influenzare l'esito dei processi e per tenere Moro al sicuro.» Michael ci pensò su. «Dieci anni di pratiche non sono bruscolini», dichiarò. «È una ricerca infinita, soprattutto se non si sa nemmeno che cosa si vuole trovare esattamente.» «Perché non cominci dai registri contabili? Se trovi un'uscita ingente per 'consulenza direzionale', come nel caso della Crown Limousine, vai a verificare le pratiche che Jack stava seguendo nello stesso periodo.» Michael era dubbioso. «Ci vorrà comunque un sacco di tempo. Certi processi durano un'eternità.» Stella rifletté. «Limitati agli ultimi quattro anni», gli consigliò. Non aggiunse che era il periodo in cui Arthur Bright era stato procuratore della contea e Charles Sloan, ora procuratore aggiunto, aveva smesso di seguire i processi per droga. Chissà se Michael avrebbe fatto il collegamento. «Stai pensando che Novak abbia combinato qualche pasticcio che gli è costato la vita?» le chiese dopo un momento.
«O che abbia scoperto qualche informazione che gli è costata la vita. Cos'altro abbiamo?» «Non saprei.» La guardò, incuriosito. «Che cos'ha Dance?» «Niente.» Non era soddisfatto, e Stella se ne accorse, ma non le fece altre domande. «Stamattina avevo intenzione di andare in municipio», le annunciò. «A controllare i rapporti di conformità di Steelton 2000. Che vuoi che faccia per prima cosa?» Era sempre così, rifletté Stella. La procura non aveva mai abbastanza risorse; anche in casi scottanti come quelli le toccava fare scelte e giustificarle a Charles Sloan. «Steelton 2000», rispose dopo un istante. «Intanto Moro non scappa e Jack non torna in vita.» 3 Erano le quattro passate quando Michael fece capolino nell'ufficio di Stella per metterle sul tavolo una serie di documenti. «Se vogliamo credere a questi, Steelton 2000 è un caso esemplare di giustizia sociale», dichiarò. «Di che si tratta, esattamente?» «Di tutta la documentazione», rispose Michael separando le carte in quattro pile. Indicò la prima. «Qui c'è il controllo stipulato tra la Hall Development e la pubblica amministrazione: stabilisce che il trenta per cento dei lavori vanno affidati alle MBE e che il trenta per cento della manodopera deve provenire da minoranze etniche. Questo invece è il contratto tra la Hall e l'Alliance Company, la società capocommessa, che rappresenta anch'essa una minoranza.» Posò il dito sulla terza pila. «Questi sono i rapporti di conformità mensili della Hall Development che certificano che le quote sono state rispettate.» Voltando i documenti dalla sua parte, Michael le indicò la firma sotto la dicitura HALL DEVELOPMENT CORPORATION. In una calligrafia ordinata e precisa, Stella lesse: Thomas R. Fielding. «L'ultima pila riguarda i certificati firmati dall'ispettore comunale: attestano che i rapporti di Fielding vanno bene. C'è un certificato per ogni rapporto», concluse Michael. Poi si sedette e aspettò che Stella desse un'occhiata ai documenti. I rapporti di Fielding erano precisi, pagine e pagine di cifre dettagliate mese per mese. Lo prevedeva, tenuto conto di quello che le avevano detto di lui. Ma Michael aspettava, impaziente. «Cosa dovrei trovare di strano?» gli chiese.
«Tanto per cominciare, le date dei rapporti di Fielding.» Stella li ricontrollò a uno a uno. Erano relativi ai primi undici mesi del progetto, fino a ottobre, presentati entro le prime due settimane del mese successivo. Non trovò quelli dei mesi di novembre e dicembre, nonostante fosse ormai metà gennaio. Alzò lo sguardo verso Michael. «Era indietro di un mese», disse. «Alla scadenza del rapporto di dicembre era già morto.» «Leggi il contratto tra Hall e il comune, a pagina due: data di presentazione dei rapporti di conformità...» Stella obbedì. «'I rapporti di conformità andranno presentati entro i primi dieci giorni lavorativi del mese successivo a quello in oggetto'», lesse. «Secondo te che cosa significa?» domandò a Michael. «Mi sembra evidente: o Fielding era in ritardo, o aveva addirittura smesso di presentare i rapporti.» Stella ripensò al colloquio con Peter Hall e a quando, accennando alle pile di carte che aveva a fianco, aveva detto che Fielding gli aveva lasciato tutto il suo lavoro da sbrigare. «Un'altra cosa importante è il contratto tra la Hall Development e l'Alliance Company», continuò Michael. «Non so se sia consuetudine comportarsi così, ma a fronte del rispetto delle quote di assegnazione delle opere stabilite dal contratto, l'Alliance ha diritto al dieci per cento della cifra che spetterebbe alla Hall Development in base alla clausola di salvaguardia. Che potrebbe equivalere ad altri due o tre milioni di dollari.» Stella ci rifletté un istante. «Che cosa sappiamo di quest'Alliance?» «Soltanto il nome del presidente, ovvero del signore che ha firmato il contratto.» Stella rilesse l'ultima pagina del documento. Il presidente dell'Alliance era Lawrence J. Rockwell. Sorrise. «Larry Rockwell», esclamò. «Ecco che cosa fa un esterno centro in pensione, oltre ad acquistare quote di minoranza nelle squadre di baseball... Si occupa di edilizia.» Michael appoggiò le mani sulle ginocchia e si chinò a guardarla. «E incassa lauti premi. Purché Tommy Fielding continui a stilare rapporti.» «Stai dicendo che, secondo te, c'è qualcosa che non va?» Lui scosse la testa. «Fielding ha lavorato bene. Ma, come diceva Harshman, era sotto pressione.» Senza ribattere, Stella guardò la data dell'ultimo rapporto: 9 novembre, due mesi prima della morte. «Mi chiedo perché fosse rimasto indietro. Soffriva di troppi mal di testa? Nessuno ce lo ha descritto come un temporeg-
giatore.» Michael non disse nulla. La morte di Fielding continuava a lasciarla perplessa. La causa era chiara, ma sembrava così incongrua... E l'unica persona che avrebbe potuto spiegarla non poteva più parlare. Frustrata, andò alla finestra e guardò il cantiere. Come aveva detto Harshman? «Tutti quelli che hanno le mani in pasta ci guadagneranno, tranne la pubblica amministrazione.» «Che cosa c'era prima? Ricordi?» chiese dopo un po'. «Niente di che. Un paio di vecchi magazzini, binari abbandonati, un aeroporto privato che non usava nessuno. Il terreno non deve essere costato molto. Né comprarlo né sgomberarlo. Costruire lì probabilmente al comune conveniva e un posto vale l'altro.» «A parte il fatto che è molto ventoso e freddo in primavera. Le perturbazioni vengono dal Canada.» Voltandosi verso Michael, domandò: «Sappiamo quanto è stato pagato?» «No, ma posso scoprirlo.» «Mi piacerebbe saperlo», mormorò Stella. «Andiamo a dare un'occhiata al cantiere. Vorrei vedere coi miei occhi quello che ha visto Tommy Fielding.» Quando Stella controllò i messaggi arrivati durante la sua assenza, ne trovò uno di Kate Micelli. La richiamò subito. Sembrava agitata. «Ho controllato i miei appunti», disse senza tanti preamboli. «Fielding non aveva digerito il tramezzino quasi per niente. Il che significa che è morto poco dopo averlo mangiato.» «Che cosa vuoi dire con 'poco dopo'?» «Meno di un'ora, probabilmente.» «Dunque deve averlo mangiato dopo essere andato a prendere la Welch», concluse Stella. «E poco prima d'iniettarsi la dose fatale.» «Direi di sì. Scusa, Stella, ma devo correre allo Scarberry.» «Come mai?» «Hanno trovato una prostituta in un cassonetto. Nat dice che le hanno tagliato la gola.» Stella si sentì raggelare. «Ci vediamo là», le disse. Stella arrivò all'imbrunire. In una traversa di Flower Street c'erano le auto della polizia con le luci rosse che lampeggiavano. Passandovi accanto, udì il gracchiare di una ra-
dio che proveniva da una macchina con la portiera aperta. Le luci di un'altra auto coloravano il vicolo di una luce giallastra nel buio sempre più fitto. Dance e Kate Micelli si trovavano davanti a un cassonetto. Un tecnico della Scientifica ci stava guardando dentro. Sul marciapiede di fronte c'erano due agenti in borghese: parlavano col barbone che Stella aveva visto quella mattina. Nel silenzio rotto soltanto dai bisbigli e dal gracchiare delle radio della polizia, i tacchi di Stella risuonavano sull'asfalto. Dance alzò lo sguardo, la vide e sgranò gli occhi, lievemente sorpreso. Che cosa ci fai tu qui? sembrava dirle. Stella avrebbe voluto fargli la medesima domanda: non le pareva che il capo della sezione Investigativa si dovesse scomodare per una prostituta morta. «Che cosa è successo?» domandò. Dance indicò il barbone con un cenno del capo. «L'ha trovata qui dentro mentre cercava da mangiare, dice. Non ha idea di come sia successo. A parte... l'evidenza.» Stella si fece prestare la torcia dal tecnico della Scientifica, e si avvicinò al cassonetto per guardare. La donna giaceva tra scatole, bicchieri di carta e contenitori per alimenti. Vide per prime le gambe e spostò lentamente il fascio di luce verso la faccia. Aveva lo sguardo fisso, spento: nei suoi occhi non c'erano più né odio né collera. Stella rimase di sasso. La donna aveva la gola tagliata e la testa piegata in un modo assolutamente innaturale. Voltandosi, Stella chiese a Dance: «Sappiamo come si chiama?» «Natasha Tillman, stando alla patente.» «Cos'altro sappiamo?» La dottoressa Micelli fece un passo avanti. Alla luce, la sua faccia da rapace sembrava ancora più severa, come un ritratto di Goya. «Dev'essere qui dentro da un pezzo. Da ieri sera, secondo me. È rigida.» Stella guardò il barbone. «E lui da quanto tempo è qui?» «Da stamattina presto. Non ricorda bene. Avrà lasciato l'orologio a casa.» Stella incrociò le braccia e rabbrividì. Quella mattina, quand'era passata di lì, Natasha Tillman era già in quel cassonetto da diverse ore. Doveva essere morta la sera prima, poco dopo che Stella era uscita da casa di Micha-
el Del Corso. La sera prima ancora era salita sulla sua macchina, non tanto per aiutare Stella, quanto per capire come aveva fatto a morire la sua amica Tina Welch. Che qualcuno le avesse viste insieme? Stella era tormentata dai dubbi. Guardava il tecnico della Scientifica che controllava le tasche dell'impermeabile della Tillman; poco dopo, nella sua mano brillò un paio di forbicine da unghie. Comunque fosse morta, non aveva cercato di difendersi. Stella si sentì confusamente, ma spaventosamente, in colpa. Dance le si avvicinò. Nell'aria fredda, il respiro gli si condensava davanti alla faccia. «Che cosa ne pensi?» le chiese. Stella rispose: «Tina Welch batteva in questa stessa zona». E non aggiunse altro. 4 La mattina dopo, Stella e Michael uscirono dall'ufficio per andare a Steelton 2000. Era ancora presto e dal lago Erie soffiava un vento gelido che faceva sbattere i lembi dei cappotti come lenzuola stese ad asciugare. Stella aveva la faccia gelata. Teneva in mano una tazza di polistirolo piena di caffè bollente e, come Michael, ogni tanto ne beveva un sorso per scaldarsi. «Che tempaccio!» protestò Michael. «Quando arriverà la primavera?» La struttura in cemento armato davanti a loro sembrava un resto di qualche antica civiltà e lo spiazzo deserto un campo di battaglia. L'unica differenza erano le gru, le betoniere, i camion carichi di acciaio e legname, le voci in lontananza di uomini che impartivano ordini. Stella pensò che quel luogo, fino a poco tempo prima immerso nel silenzio e nella desolazione, era tornato a vivere. Si fermarono all'ombra dello stadio e osservarono lo scheletro di acciaio che si alzava verso il cielo. Dalle finestre della procura sembrava un modellino, un giocattolo per bambini. Da vicino, invece, era di un'imponenza maestosa. «Che roba!» commentò Michael. Stella annuì. Tra loro e lo stadio c'era una recinzione alta circa tre metri con un cancello largo abbastanza da permettere il passaggio di camion, sterratrici e macchinari pesanti. Si diressero al cancello e mostrarono il tes-
serino di riconoscimento al custode. Era un nero e li squadrò con risentita diffidenza, gli occhi arrossati dal freddo e dal vento. Disse loro di aspettare un momento e Michael e Stella restarono lì, a rabbrividire, finché l'uomo non tornò, accompagnato da un bianco con lunghi capelli neri che gli spuntavano da sotto il casco. Sembrava sudamericano. Si chiamava Chuck Panos ed era il responsabile della Farelli Brothers, l'impresa cui erano state affidate le opere murarie. Fu avaro di parole, quasi temesse che il vento gliele portasse via. «Volevamo parlare con qualcuno dell'Alliance Company», spiegò Stella. «Forse lei ci può aiutare a trovare il responsabile.» Panos si mise a braccia conserte e spostò il peso da un piede all'altro. «Non credo che sia in cantiere, in questo momento.» Michael fece un passo avanti. Era di dieci centimetri più alto di Panos e molto più robusto. Serio in volto, assunse un'espressione di vaga minaccia. «Avranno un ufficio, qui in cantiere.» Non era una domanda, ma un'affermazione. Panos alzò gli occhi verso Michael, si strinse nelle spalle e li accompagnò dentro senza replicare. Si fermarono ai piedi di un enorme pilone di acciaio circondato da impalcature su cui si muovevano gli operai; dentro lo stadio, gru, scavatrici e betoniere andavano avanti e indietro sul terreno gelato. Alla sinistra di Stella, Michael e Panos c'erano alcuni prefabbricati, disposti a semicerchio, ciascuno col nome di una ditta. Panos ne superò alcuni piuttosto scalcagnati e si fermò di fronte a quello su cui era scritto: ALLIANCE. Invece di andarsene, aprì la porta e li accompagnò dentro. L'interno era ordinato e spoglio; su alcune scrivanie di compensato si scorgevano poche carte. A Stella venne in mente un'aula scolastica in disuso. C'era una sola persona, una giovane donna di colore, che sedeva dietro all'unica scrivania dotata di telefono. Panos indicò col pollice Stella e Michael e le disse: «Cercano il capo». La donna lo guardò da dietro gli occhiali di metallo. «Il signor Spain? Non c'è.» Michael si fece avanti. «Quando possiamo trovarlo?» domandò. La donna diede un'impercettibile alzata di spalle. Stella aspettò qualche istante, poi le posò sulla scrivania un biglietto da visita e disse, cortese ma ferma: «Gli dica di telefonarmi, per favore». Panos riaprì la porta e si fece da parte. Aspettò che Stella e Michael fossero usciti e la richiuse.
«Di solito il signor Spain viene in cantiere?» chiese Stella in tono neutro. «Intendo lui o un suo sostituto...» Con la coda dell'occhio vide che Michael sorrideva tra sé, guardando gli operai e le impalcature sopra di loro. «Dipende dal lavoro», rispose Panos, laconico, dirigendosi verso il cancello. Stella lo seguì, mentre Michael rimaneva indietro. Si era fermato accanto al prefabbricato dell'Alliance, con le mani in tasca, a guardarsi intorno tranquillo, fischiettando sottovoce. Con le mani sui fianchi, Panos lo guardò, impaziente. Michael fece finta di niente. Un momento dopo li raggiunse. Panos aprì il cancello. Non appena lo ebbero oltrepassato, venne richiuso immediatamente. Tornarono senza parlare in quel palazzo monumentale che era la procura, la cui magnifica facciata nascondeva un grande squallore. «Che ne dici?» chiese Stella. «Dico che non ho sentito squillare un telefono.» Si voltò verso di lei. «E tu, hai visto dei neri in giro?» «Il custode, la segretaria, uno degli operai.» Michael annuì. «Forse domani ne arriveranno altri», osservò dopo un po'. «Mio padre dice sempre che i neri patiscono il freddo.» Arrivata in ufficio, Stella chiamò Dance sul cercapersone. Dopo meno di cinque minuti il telefono squillò. «Nat Dance.» Sebbene il tono fosse neutro, Stella sentì una certa freddezza nella voce familiare. «Scoperto niente sul conto della Tillman?» chiese lei. «Non molto. Pare che l'altro ieri sera fosse sola.» Dopo un istante di silenzio, aggiunse: «Un impiegato che era uscito a fumare ricorda di averla vista salire su una macchina vecchia, marrone, malconcia. Non ricorda la marca». «L'ha vista anche scendere?» Un altro breve silenzio. «L'auto è ripartita con la Tillman a bordo», disse Dance dopo un po'. «Tutto qui?» «Pare sia l'ultima volta che è stata vista. Almeno finora.» «Dev'essere tornata», mormorò lei. «Non ha senso che il killer le abbia tagliato la gola da un'altra parte e poi l'abbia riportata nello Scarberry per buttarla in un cassonetto.»
«Sono d'accordo.» A Stella sembrò di percepire un vago rimprovero nella voce di Dance e decise di cambiare discorso. «Durante le indagini su Fielding, sei mai andato al cantiere?» chiese. «Certo.» «E hai parlato con qualcuno dell'Alliance Company?» «Sì. Con un certo Spain.» «Chi altro c'era nel prefabbricato?» «Una segretaria e un contabile, credo», rispose Dance. «Hai visto gli operai? Ti sembrava che ce ne fossero di tutte le etnie?» «Non ci ho fatto caso. Sì, qualche nero c'era. Più o meno come mi aspettavo.» Dance aveva un tono incuriosito. «Ci hai fatto un salto?» Dopo una certa esitazione, Stella rispose: «Sì. E ho visto un sacco di bianchi. Dell'Alliance non c'era nessuno». Dance emise un verso incomprensibile. «Tu avevi preso appuntamento?» chiese Stella. Lui ci pensò su un istante. «Sì», rispose. «Avevo telefonato prima di andare. Volevo parlare coi responsabili.» «Attraverso chi avevi preso appuntamento?» «Attraverso Hall.» Stella lo ringraziò e chiuse la comunicazione. Michael era sulla porta del suo ufficio con una faccia molto diversa da prima, come se volesse scusarsi di qualcosa. «Mi scoccia chiedertelo, ma avrei bisogno di un favore», le disse. «Potresti prestarmi la macchina? Mi hanno chiamato dalla scuola perché Sofia è stata male di stomaco. Siccome oggi i miei andavano a fare la spesa, io sono venuto in autobus.» Era evidentemente frustrato da quel contrattempo che, impellente e imprevedibile come sono i bisogni dei bambini, gli ricordava come ciò che Stella dava per scontato per lui era un lusso. In genere non parlava molto di Sofia e in quel momento sembrava alquanto imbarazzato, ma forse aveva preferito chiedere quel favore a lei che l'aveva conosciuta. «Certo», rispose Stella, cercando le chiavi nella borsa. «Speriamo che non sia nulla di grave.» «Non credo proprio. I bambini sono così.» Michael prese le chiavi e aggiunse: «Oggi pomeriggio volevo andare a controllare gli atti di vendita dei terreni su cui è stato costruito lo stadio». «Sarà per un'altra volta», replicò Stella con un sorriso. «Basta che me la
riporti prima delle sette. Oltre alle chiavi della macchina ci sono quelle di casa: non vorrei dormire qui.» Le tre ore fino al ritorno di Michael passarono in un lampo. Stella dovette evitare Leary dello Steelton Press che voleva informazioni sugli sviluppi dell'inchiesta sull'omicidio di Jack Novak, poi fece una serie di telefonate punteggiate da meditazioni circa gli eventuali collegamenti tra la morte di Fielding, l'assassinio della Tillman e Steelton 2000, su chi poteva aver preso i cinque incartamenti spariti e sui confusi sospetti che nutriva nei confronti di Dance. Poi si chiese perché aveva confidato solo a Michael di aver incontrato Natasha Tillman. Michael entrò nel suo ufficio con l'aria irritata e le posò le chiavi sulla scrivania. «Come sta Sofia?» gli domandò. «Bene.» Si sedette, corrucciato. «Sai cosa penso? Che non avesse per niente mal di stomaco. Secondo me voleva solo vedere se andavo a prenderla o no.» Stella lo squadrò. Qualche ora prima le era parso estremamente sicuro di sé, mentre all'improvviso sembrava vulnerabile. «Voleva accertarsi che non l'avresti abbandonata anche tu.» Michael fece una smorfia scoraggiata. «Sì, forse. Sì, probabilmente hai ragione.» Sprofondò nella sedia. «Vorrei offrirti da bere, Stella. Credo di aver bisogno di qualcosa per tirarmi un po' su.» Stella lo guardò, incerta tra la prudenza e l'amicizia, in quel momento due sentimenti contrastanti. «Sarà per un'altra volta», disse con un sorriso. 5 Ci vollero altri due giorni perché Michael terminasse la sua ricerca degli atti di vendita dei terreni. Nel frattempo, Stella accumulò altre ansie e frustrazioni. Alle cinque del pomeriggio, ottennero udienza presso Bright e Sloan. «Vuoi spiegare la storia della Lakefront Corporation?» chiese Stella a Michael. Poi diede un'occhiata intorno al tavolo delle riunioni. Il procuratore capo era seduto a capotavola, un po' in disparte, perfetto e fresco come una rosa nel suo doppiopetto senza una piega, sebbene fosse stato impegnato tutto il giorno nella campagna elettorale. Sloan, invece, semurava un letto sfatto:
aveva il vestito tutto sgualcito, la cravatta storta e la camicia che gli tirava sulla pancia. L'unica caratteristica che aveva in comune con Arthur Bright era la dedizione alla causa. «I terreni su cui si sta costruendo lo stadio erano di proprietà della Lakefront», esordì Michael. «E la Lakefront risulta proprietaria anche degli appezzamenti intorno al cantiere.» Sloan guardò Bright. «Di tutti?» «Sì.» Rivolgendosi di nuovo a Michael, Sloan assunse un tono sospettoso. «Da quando?» «Da poco. Li ha comprati appena in tempo», rispose Michael con calma. «Poco prima che Krajek annunciasse l'accordo con Hall e facesse di Steelton 2000 il fulcro della sua campagna elettorale.» Stella si chinò in avanti. «Lo sapevano già», disse a Bright. «Sapevano del progetto e sapevano dove sarebbe stato costruito lo stadio. Hanno comprato quei terreni a un prezzo stracciato e li hanno rivenduti per molto di più.» Bright si tolse gli occhiali e si fregò gli occhi, soprappensiero. «Quanto di più?» chiese Sloan. Stella lanciò un'occhiata a Michael. «Il ricarico è stato di cinque milioni di dollari», rispose lui. Bright inforcò gli occhiali e chiese sottovoce: «Di chi è la Lakefront?» «Gli atti sono firmati da un tal Conrad Breem.» Michael assunse un tono ironico. «Uomo dallo straordinario senso degli affari, chiunque egli sia. Se non addirittura dotato di poteri paranormali.» «Oppure un paravento.» Sloan si rivolse al procuratore. «Qui c'è di mezzo Krajek. Scommetto la tua poltrona di sindaco, Arthur, che dietro la Lakefront c'è qualche suo amico.» «È possibile», rispose Bright lentamente. «Anche se a volte la gente sente le cose nell'aria, soprattutto in certi campi. Insomma, era ovvio che lo stadio sarebbe stato costruito lì, no?» Si rivolse a Stella. «Come mai i nostri amici della stampa non sono arrivati alla Lakefront?» «Perché non è facile», rispose Michael. «Nella maggior parte dei casi, la Lakefront ha rilevato le ditte proprietarie dei terreni e li ha rivenduti a nome di queste. Io, che sapevo dove cercare, ci ho messo due giorni per capirci qualcosa.» «A te sembra un'operazione innocente?» chiese Sloan ad Arthur. «A me sembra un giochetto sporco in cui qualcuno ha fatto un sacco di quattrini.»
«Chi?» chiese retorico Bright. «Chi sta dietro la Lakefront», replicò Stella. «Michael dice che ci vorrà tempo per scoprirlo.» «Dovrò andare al Registro delle Imprese», spiegò Michael. «E anche lì non è detto che sia facile. Potrei trovarmi di fronte a una serie di società fittizie, ciascuna di proprietà di un'altra e facenti capo a qualche società di Bimini intestata a chissà chi.» «Be', se è così, meglio saperlo», esclamò Sloan. «Se uno si para dietro una rete di questo tipo, qualcosa da nascondere lo deve avere.» Bright ripeté a bassa voce: «Chi?» Di solito i due non lasciavano trasparire così chiaramente la loro rivalità. Mancavano tre mesi alle primarie democratiche, dal cui esito dipendeva la scelta del candidato sindaco. Bright aveva paura di sembrare disperato e Sloan temeva che Bright perdesse e restasse in procura, impedendogli di succedergli. Per una volta, pensò Stella, Sloan e lei erano alleati, ma provò anche un moto di compassione per Arthur, che era pur sempre il procuratore e aveva il dovere di muoversi con la massima prudenza. «Chiedilo a Krajek», insistette Sloan. «Chiediglielo al prossimo dibattito.» «E poi, quando mi domanda di dire pubblicamente chi c'è dietro la Lakefront, che cosa gli rispondo, Charles? Faccio come Charles Laughton in Testimone d'accusa e gli sussurro in un orecchio: 'Ti dice niente il nome Conrad Breem?'» Sloan non abboccò. «Convochiamo il gran giurì e chiamiamo Breem a testimoniare.» «Su quali basi?» ribatté Bright con aperto sarcasmo. «Prima di convocare un teste, bisognerebbe sapere anche cosa chiedergli...» «Sai benissimo che cosa chiedergli», replicò Sloan, irritato. «Di chi è la Lakefront? Perché ha comprato quei terreni? Chi le ha detto di comprarli?» «Sarebbe bello conoscere le risposte», intervenne Stella. «Scoprire chi è Breem mi sembra il primo passo.» «Perché non ci provi tu?» propose Bright a Michael. «E poi vai a controllare al Registro delle Imprese.» Quindi si rivolse a Sloan in tono conciliante: «Non posso scomodare il gran giurì per procurarmi informazioni, Charles. Lo sai benissimo». Normalmente agitato, il procuratore aggiunto appariva immobile. Lentamente replicò: «Il gran giurì esiste per questo». «Non nell'imminenza delle elezioni. Non col poco che abbiamo.»
«Forse non abbiamo solo questo», disse Stella. «Abbiamo un elemento quantomeno discutibile legato a Tommy Fielding.» Bright, sorpreso, tese le orecchie. «Ovvero?» «L'Alliance Company, general contractor di Steelton 2000, risulta presieduta da Larry Rockwell.» S'interruppe e guardò Sloan. «Due giorni fa siamo andati allo stadio. L'Alliance ha un ufficio in un prefabbricato, praticamente vuoto. E in tutto nel cantiere c'erano tanti afroamericani quanti ce ne sono in questa stanza.» Bright le rivolse un sorriso freddo. «Alla faccia di Krajek che sostiene che Steelton 2000 è la grande occasione di riscatto per la comunità nera.» «Anche i rapporti di conformità stilati da Tommy Fielding e certificati dal comune lo sostengono. A parte il fatto che, quand'è morto, Fielding era in ritardo di due mesi.» Stella assunse un tono tagliente. «Sapete che alcune ditte di neri molto qualificate non sono riuscite ad aggiudicarsi un contratto, vero?» Bright guardò fuori della finestra. «Che cosa vuoi dire?» chiese Sloan a Stella. «Che Larry Rockwell è un uomo di facciata?» «Non lo so. Ma so che all'Alliance toccherà una bella fetta della clausola di salvaguardia per aver garantito il rispetto delle politiche sociali come previsto dal contratto. A patto che Fielding presenti i rapporti e l'ispettore del comune li approvi.» Stella notò che Bright era di nuovo attento. «Chi altri ci guadagna, oltre l'Alliance?» domandò Sloan. «Se le MBE vengono pagate senza lavorare e l'Alliance viene pagata per fare da intermediaria, la Hall Development ci perde dalla spina e dal tappo.» Michael sorrise. «Infatti.» «Ma Fielding ha presentato i rapporti per conto della Hall Development e il comune li ha approvati», intervenne Bright. «A meno che non fossero tutti d'accordo per fregare Hall.» Sloan annuì. «Quello che mi dispiace è dover ammettere davanti a Dio e agli uomini che Larry Rockwell non è nient'altro che una pedina.» Stella si rivolse a Bright. «Forse potremmo portare Rockwell davanti al gran giurì. Esiste per questo...» disse in tono pacato. Bright scoppiò in una risata amara, mentre Sloan lanciava a Stella un'occhiata ostile. «Sei tu che hai sollevato la faccenda. Dove diavolo vogliamo arrivare?» «Non potremmo cercare semplicemente di andare tutti d'accordo?» chiese Bright, alzando una mano.
Il tacito sarcasmo fu più efficace della collera. Stella e Sloan rimasero zitti, mentre Michael disse a Bright: «Potremmo cominciare col controllare le pratiche di Fielding, i documenti su cui basava i rapporti di conformità, tipo le fatture dell'Alliance e dei subfornitori». Bright spostò lo sguardo da Michael a Stella. «Se la morte di Fielding fosse chiaramente un omicidio, il nostro operato sarebbe meno discutibile.» Stella resse il suo sguardo, ma dentro di sé si sentiva mancare. Non era da lei ingannare Bright, sebbene ogni tanto riuscisse a non pensare al fatto che aveva tenuto nascosto a tutti - a parte Michael - il colloquio con Natasha Tillman e che, per vergogna o per altro, non aveva parlato con Michael della morte della prostituta. In quella stanza era come se Natasha Tillman non fosse mai esistita: Stella non sapeva nemmeno se Bright o Sloan ne fossero al corrente, magari informati da Dance. Accigliato, Bright lasciò che il silenzio si prolungasse. «Novità a proposito di Jack?» chiese dopo un po'. «Nessuna», rispose Stella. «Né sull'assassino né sul movente. Assolutamente nulla.» Bright guardò nel vuoto. «Indaga su Breem», le disse un momento dopo. «Poi controllate i rapporti di Fielding. Hall lo verrà a sapere, ma voi cercate di tenervi sul vago. E agite con discrezione, mi raccomando.» La riunione era conclusa. Sloan, seduto di fronte a Stella a testa bassa, si passò una mano tra i capelli. Gli riusciva difficile prendere in esame i problemi da punti di vista diversi, pensò Stella senza compassione. D'altronde lo era anche per lei. Michael seguì Stella nel suo ufficio, lanciò un'occhiata nel corridoio e chiuse la porta. «Allora?» gli domandò lei. Michael si appoggiò alla porta. «Comincia tu.» Stella scosse la testa. «Sono tredici anni che lavoro con Arthur e tuttora mi pare di non conoscerlo. Ha ragione ad andare coi piedi di piombo, però. Non abbiamo granché in mano e convocare il gran giurì su Steelton 2000 potrebbe ritorcerglisi contro. Quando abbiamo nominato Larry Rockwell, anche Sloan se n'è reso conto.» Michael sorrise. «Il tuo è un gioco pesante.» Ma seguo le regole, pensò Stella. O perlomeno l'ho fatto finché non ho cominciato a nutrire dubbi sulle regole stesse. Alzò le spalle. «Abbiamo
ottenuto quello che volevamo. Almeno per ora.» Lui la guardò con aria interrogativa. «Scusa...» continuò lei. «Adesso devo fare qualche telefonata...» Michael sembrava non volersene andare. «Volevo chiederti una cosa.» Stella si preparò a una domanda sulla Tillman. «Okay.» «Sofia si chiedeva...» Si riprese e sorrise. «Sofia e io ci chiedevamo se sei libera questo sabato. Magari nel pomeriggio.» L'aggiunta fu fatta in tono quasi di scusa, buttata lì. So che hai molto da fare, sembrava dire. Inoltre non mi voglio intromettere... Stella rimase interdetta. «Non saprei.» Non tirò fuori la scusa del lavoro e quello, insieme col tono che usò, voleva dire che le sue perplessità erano di altra natura. Michael lo intuì e, dopo un istante, decise di parlare chiaro. «Non è detto che le altre donne che frequentiamo Sofia o io debbano essere per forza sostitute di Maria», spiegò. Il fatto che fosse andato diritto al punto rassicurò Stella, ma non bastò a sciogliere tutti i suoi dubbi. «Ci devo pensare», rispose. Non appena fu sola, rifletté sulla propria reazione. Sarebbe stato più facile se di Sofia o Michael non le fosse importato, doveva ammetterlo. Ma non poteva farsi prendere la mano: non sapeva che cosa intendesse Michael per «frequentare» altre donne. Del resto, pensò, a un collega lei non poteva che offrire semplice amicizia. Però era vero che doveva fare qualche telefonata. La prima fu a Dance. «Abbiamo parlato di Fielding», gli disse. «Charles, Arthur e io. C'è qualcosa che dovremmo sapere?» Era una domanda che lasciava Dance libero di rispondere come voleva ed evidentemente lui decise di attenersi ai dati di fatto. «Mi avevi chiesto di controllare sex-shop e cataloghi pornografici. Non ho trovato niente. Forse Black Beauties era un regalo.» «Non ti pare strano?» lo sondò Stella. Seguì un lungo silenzio. «Perché, a te lo sembra?» le chiese Dance a bassa voce. «Come la fine della Tillman, dici?» Stella si appoggiò allo schienale. L'investigatore assunse un tono piatto. «Con me puoi parlare, Stella. Quando vuoi.» Senza darle tempo di rispondere, riattaccò. Il viaggio verso casa le parve lunghissimo.
Assorta nei propri pensieri, Stella salì i gradini con estrema lentezza. Aprì la porta senza pensarci e altrettanto distrattamente entrò. A quel punto calpestò qualcosa, che le scricchiolò sotto i piedi. Trasalì e cercò l'interruttore sul muro. Ci mise un po' a trovarlo, poi lo premette e, come sempre, la luce si accese nell'ingresso e nel salotto. Ai suoi piedi c'era la statuetta del Bambino di Praga in cocci, senza testa. Solo la veste era intatta. Le vennero le lacrime agli occhi. Era la sorpresa, si disse. E il ricordo di sua madre, di un Natale di tanti anni prima, quando lo sfacelo della famiglia era ancora in agguato, nel futuro. Ma c'era qualcos'altro che non andava, pensò. Qualcosa di molto grave. L'interruttore. Rabbrividì. Ogni sera, quando rientrava, premeva l'interruttore che comandava la luce nell'ingresso e nel salotto. Era un'abitudine da donna che vive sola: le bastava un gesto per far sembrare più luminosa e sicura la propria casa. Ma quella sera c'era qualcosa di strano. Quand'era entrata, la casa era buia, ma l'interruttore era già nella posizione ON. Chi era entrato e aveva fatto a pezzi il Bambino di Praga, uscendo, aveva spento le luci a una a una, lasciando l'interruttore com'era, chissà se apposta o per disattenzione. In casa regnava il silenzio. Star non c'era. A quell'ora, di solito, sarebbe già stata accanto a lei a miagolare in cerca di cibo o carezze. Fu soltanto quel pensiero a trattenerla dallo scappare via. Tese l'orecchio. Ancora silenzio. Allarmata, cominciò a controllare al pianterreno - il salotto, la sala da pranzo, la cucina - guardando bene porte e finestre. Non c'erano segni di effrazione, né tracce della gatta. Salì lentamente al piano di sopra. In cima alle scale esitò, timorosa, poi accese la luce nel corridoio. La camera da letto era vuota. Poi notò che l'orlo del copriletto si muoveva. Si voltò per guardarsi alle spalle, s'inginocchiò e sotto il letto vide gli occhi verdi della gatta che la fissavano nel buio. Probabilmente, quando l'intruso era entrato in casa, Star era corsa di sopra a nascondersi.
Allungò una mano, Star gliela leccò e Stella la prese in braccio. «Tutto bene, tranquilla», le mormorò. «Adesso ci sono io.» Si alzò, con la gatta tra le braccia, e perlustrò il resto della casa. Non c'era nessuno. Esitante, tornò di sotto e diede da mangiare a Star. Andò nell'ingresso e guardò la statua in frantumi. Dopo un po', raccolse i cocci. Non riuscì a dormire fino all'alba. 6 Il sabato mattina, Stella andò in ufficio. Il cielo appariva grigio come al crepuscolo e cadeva un fitto nevischio che il vento faceva roteare nell'aria. La città era avvolta nella nebbia e i piloni di acciaio dello stadio si ergevano nel grigiore, simili a dolmen. Sulla scrivania erano sparse le foto dei cadaveri di Tommy Fielding e Tina Welch. Non le dicevano nulla di nuovo. Fielding continuava a sembrare un adone sorpreso nel sonno e la Welch una larva umana, l'ago ancora conficcato nella vena. Nel frattempo, però, erano cambiate molte cose: Stella aveva interrogato due testimoni che avevano visto Fielding nello Scarberry - Curran e una prostituta - e quest'ultima, che aveva visto la Welch salire sull'auto di Fielding, era stata uccisa. E poi qualcuno era entrato in casa sua. Star era una gatta molto vivace ed era possibile che avesse fatto cadere lei la statua, spaventandosi poi a morte, ma Stella era sicura di aver spento le luci, uscendo, quella mattina. Inoltre, riflettendoci, capiva anche il motivo dell'incursione. Non le avevano portato via niente, non avevano toccato niente. Volevano lasciarle un avvertimento, farla sentire in pericolo senza darle modo di sporgere denuncia: se fosse andata da Bright o alla polizia, probabilmente l'avrebbero presa per una mitomane. Non era difficile considerare così una donna che ormai non si fidava più di nessuno, rifletté. Guardò la foto di Tommy Fielding. Il volto era calmo; lo immaginò mentre si preparava il panino col prosciutto e beveva mezza birra, ma non riusciva a vederlo mentre andava nello Scarberry prima di cena né, poco dopo, mentre si faceva iniettare l'eroina dalla Welch. Come non riusciva a immaginare Jack Novak che s'infilava un paio di calze nere e si lasciava impiccare da qualche amante deluso. Chi gli aveva telefonato quella sera? Chi poteva averlo spaventato al punto di distoglierlo da Missy Allen eppure conoscerlo così bene da berci
uno scotch insieme? Oppure la Allen aveva mentito? Rammentò che l'assassino di Jack non aveva lasciato tracce, come non aveva lasciato tracce chi era entrato in casa sua. A parte la traccia che aveva voluto lasciare: la statuetta in mille pezzi, decapitata. Stella aprì le pagine gialle e chiamò due installatori di antifurto, poi mise via le foto e andò a Warszawa. Una volta dentro, Stella ebbe la sensazione che la chiesa di St. Stanislaus la avvolgesse completamente. Michael e Sofia, al suo fianco, tacevano, immobili. Osservando la bambina che ammirava la vastità delle volte altissime, Stella ricordò di quando aveva la sua età e quel luogo la metteva in grande soggezione. Con sua grande sorpresa, Sofia la prese per mano. Le parve piccolissima e molto fragile; nella penombra della chiesa della sua infanzia, avendo poca familiarità coi bambini, si commosse. In realtà era sorpresa anche solo per il fatto di trovarsi lì. Quella mattina, Michael le aveva telefonato per invitarla a pranzo. Nella cucina troppo silenziosa, Stella aveva pensato alla statuetta in frantumi e aveva chiesto se Sofia era mai stata a Warszawa. S'inginocchiò accanto a lei. «Che cosa c'è?» le chiese. «Ho paura», rispose la bambina. «È troppo grande.» Ho paura anch'io, pensò Stella. Ho paura di cose che non posso spiegarti, che non conosco nemmeno io. «Anche a me faceva paura, da piccola», rispose invece. «Ma la sua bellezza mi dava un senso di pace. Vuoi vederla meglio?» Sofia ci pensò su un momento, poi allargò le braccia; pur inesperta com'era, Stella lo interpretò come un segno di fiducia e capì che Sofia voleva essere presa in braccio. Era così leggera che la sentiva respirare. Dimenticando Michael, rimasero lì, nella grande navata. Stella le raccontò a voce bassa dell'arrivo a Warszawa degli operai delle acciaierie, degli affreschi pagati coi sudati risparmi di famiglie come quelle del suo bisnonno. Le disse che, per tre generazioni, tutti gli abitanti di Warszawa si erano sposati lì, compresa sua sorella, Katie. Voleva essere un racconto rassicurante e omise tutte le cose brutte, evitando accuratamente il martirio del santo raffigurato nella vetrata e il fatto che non era stata invitata alle nozze della sorella. Le dipinse un'infanzia più sognata che vissuta, sebbene legata alla realtà. Le parlò dei matrimoni, dei balli, della scuola, dell'odore del cavolo e
dei pierogi - squisite mezzelune ripiene di patate e formaggio - che la madre preparava e dei quali non dava a nessuno la ricetta. Sorvolò sull'amarezza del padre, sulle paure della madre, sulla loro incapacità di accettarla per quello che era e sugli effetti che ciò aveva avuto su di lei. Non erano omissioni gravi, perché a Sofia importava principalmente il tono dolce di quel racconto. Dopo un po' si sedettero in uno dei banchi di legno lucidati a mano. Sofia stava zitta, cullata dal racconto di Stella. Per quanto dolorosa fosse la verità, a Stella sembrava che quel luogo continuasse ad appartenerle: ricordava i registri con la copertina di pelle in cui erano elencate migliaia di nascite e di morti, di battesimi e di matrimoni, e il monumento nella navata laterale con la scritta KU WICZNIEJ PAMIECI, cioè: «a imperituro ricordo», seguita dai nomi dei settantadue caduti nella seconda guerra mondiale, tra cui anche un suo prozio; le sembrava una testimonianza del contributo che i polacchi avevano dato e continuavano a dare a una città nata dalla cupidigia di Amasa Hall e tradita dai suoi discendenti. Ciononostante fu invasa da un gran senso di pace, quasi che quello fosse un rifugio dove sangue, tradimenti e paure non potevano entrare. Rimase lì, con una bambina non sua in braccio e il padre della piccola accanto, nella chiesa vuota. Dopo un po', Michael sussurrò: «Tu sei brava come tua madre a fare i pierogi? O non ha dato la ricetta neanche a te?» Allora era stato ad ascoltare anche lui, pensò Stella sorridendo tra sé. «Sono molto più brava in tribunale che in cucina», rispose. «Ma, se Sofia mi dà una mano, posso provare.» I pierogi di Stella e Sofia erano una specie di mutazione genetica delle splendide mezzelune di Helen Marz, ma il profumo che emanavano era molto simile. «Se non glielo dici tu a papà che sono strani, io non glielo dico», borbottò Stella. Sofia non si rendeva nemmeno conto che fossero strani, ma le brillarono gli occhi per l'aria da cospiratrice di Stella. Ai bambini piace essere importanti per gli adulti, essere amati per quello che sono. Sofia cominciò a disporre nella padella gli informi fagottini. «Va bene?» domandò. Il principio era lo stesso della medicina, rifletté Stella: primum non nocere. Da quel punto di vista, non c'era pericolo che Sofia facesse danni. D'un tratto le venne in mente che forse non si poteva dire lo stesso di una donna che, in un momento di solitudine e di particolare vulnerabilità, si era
riconosciuta in una bambina. «Benissimo», la rassicurò. Dopo mangiato, Michael lavò i piatti. Stella e Sofia si sedettero sul divano con Star in mezzo. Sofia accarezzava la gatta, che osservava la padrona con aria dubbiosa. «Dove l'hai presa?» le chiese Sofia a un certo punto. Così Stella le raccontò la storia della gattina affamata ritrovata nella cantina del vicino e salvata da morte certa. Sofia ascoltò senza fare commenti, guardando pensosa Star. Alla fine del racconto, le appoggiò la testa sul pelo morbido e le disse: «Sei al sicuro, ormai». Stella la osservò mentre coccolava la gatta e pensò alle pietre miliari del passaggio dall'infanzia all'età adulta. Era convinta che il destino di ogni essere umano sia in gran parte prestabilito e aveva la sensazione di essere stata un'estranea per i suoi genitori fin dalla nascita. Per Sofia era diverso, però: abbandonata dalla madre, era rimasta sola col padre, a sua volta impegnato a fare i conti col proprio dolore. Era commovente vedere quanto fosse contenta di passare un po' di tempo con una donna che non conosceva quasi. «Noi non possiamo tenere un gatto», le comunicò la bambina. «Non abbiamo nessuno che gli stia dietro.» Stella non riuscì a decifrare la sua espressione; dietro le lunghe ciglia, gli occhi erano fissi su Star, ma il tono non chiedeva compassione: stava semplicemente spiegando un dato di fatto. Le sarebbe piaciuto molto avere un gatto, ma era una bambina giudiziosa e capiva che, nella loro situazione, non era possibile. «Anch'io lascio Star sola tutto il giorno», le disse Stella. «Non mi sembra che ci patisca.» La bambina la guardò negli occhi. «Ma tu le vuoi bene», le rispose. Stella si accorse che Michael era sulla porta con una videocassetta in mano. Non sapeva da quanto tempo fosse lì. «Pensavo che potresti guardare Babe», propose a Sofia. «Se Stella ci fa vedere dov'è il videoregistratore.» I due adulti si accomodarono sul divano a bere scotch, mentre Sofia guardava il video nella camera di Stella, al piano di sopra. A detta di Michael, era a dir poco la quindicesima volta che seguiva le avventure in cui s'imbarcava l'astuto maialino per sfuggire al triste fato dei suoi simili.
«Le piacciono le storie in cui c'è qualcuno che viene miracolosamente salvato da un terribile pericolo», disse Michael. Sì, ma in chi s'identifica? pensò Stella. Però rispose: «Le è piaciuta la storia di Star, ma penso che piacerebbe a qualsiasi bambino». «Non è solo questo. Ci sai fare, con lei.» Non è vero, pensò Stella. Lo faccio per egoismo, ho solo bisogno di compagnia. Non aveva voglia di spiegarglielo, però. Bevve un altro sorso di whisky, per scaldarsi il cuore. «Com'eri tu alla sua età?» le chiese Michael. Stella scoppiò a ridere. «A sette anni ero un maschiaccio. E, secondo alcuni, non sono molto cambiata. Ero molto diversa dalle mie compagne.» Michael sorrise. «E ti dispiaceva?» «Era più forte di me», rispose lei semplicemente. «Ma sono stata fortunata. Non dispiaceva agli altri.» Non disse a Michael che la sua vicina, Wanda Lutoslawski, l'aveva definita, con un'ombra di ammirazione, «una gatta solitaria». E non poteva descrivergli il sollievo che aveva provato nello scoprire che le persone libere da cliché e gelosie meschine la consideravano una leader, una che non si guardava mai indietro per vedere se gli altri la seguivano. Se il prezzo di tutto quello era stata la solitudine, l'essere vista come una donna che non ha bisogno di niente e di nessuno, in compenso si era guadagnata il rispetto degli altri e di se stessa. L'unico da cui si era lasciata influenzare era stato Jack Novak, ma da allora non aveva più permesso a nessuno di avvicinarsi tanto da farla soffrire. Michael la guardò negli occhi. «Sei ancora in contatto coi tuoi amici d'infanzia?» «Li vedo in chiesa, perlopiù.» Stella rimase in silenzio e pensò agli anni in cui, rispettando il bando del padre fino quasi a farlo proprio, aveva evitato St. Stanislaus. «Mi parlano dei loro figli e mi chiedono del mio lavoro», aggiunse con un sorriso. «Certe donne mi chiamano Star.» Michael le sorrise. «La traduzione inglese di Stella.» Stella annuì. «Cominciarono le mie compagne di basket, quando confidai a Margaret Stupak che il mio nome non mi piaceva affatto. Strane, le cose che la gente ricorda. Al di fuori di Warszawa, nessuno mi ha mai chiamato così.» «E tu hai dato il tuo nome al gatto.» Stella allungò la mano e fece una carezza a Star nel suo punto preferito, sulla fronte. «Non sono stata io a darglielo», precisò. «È lei che se l'è pre-
so.» Rimasero in silenzio, nella luce soffusa della lampada del salotto. Michael non riteneva necessario fare conversazione e a Stella quello faceva piacere. Come Sofia, forse aveva bisogno di un po' di compagnia e di sapere che nemmeno lei pretendeva niente di più. «Parla spesso della madre?» chiese Stella dopo un po'. Michael guardò il bicchiere. «Non molto. Ha qualche ricordo.» Lei cercò un modo per continuare il discorso. «Secondo me, Sofia sa che Maria non tornerà.» «Da che cosa lo deduci? Dalla sua insicurezza?» «Sì. Ma ho anche l'impressione che cerchi di proteggerti.» In tono più dolce, aggiunse: «Come se si rendesse conto che soffri anche tu». Michael cambiò posizione, pensieroso, e Stella rimase stupita ancora una volta dal contrasto tra l'atteggiamento virile e sicuro di sé che dimostrava in certe occasioni e i dubbi che nutriva come padre. Lo guardò negli occhi e sussurrò: «Vedo Sofia e ripenso a com'ero io alla sua età. Intuivo certe cose, ma non riuscivo a esprimerle a parole. Capivo che i miei non erano felici, che, con l'irascibilità, mio padre manifestava le sue paure. Tu conosci Sofia e te stesso in un modo che per loro era impensabile. Ma anche tua figlia capisce molte cose, e non credo che tu possa nasconderle quanto male vi ha fatto Maria. Penso che a poco a poco dovresti aiutarla a dimenticare, nel modo meno traumatico possibile». «Forse le piace tanto stare con te perché si diverte e tu non la fai soffrire.» La guardò con improvviso candore. «Forse quando ci sei tu si preoccupa meno per me.» «Cosa che tuttavia preoccupa un po' me.» «Perché?» Stella prese fiato. «Perché non vorrei deluderla. Ci mancherebbe solo questo.» Michael accennò un sorriso. «Hai paura che invece di fantasticare sulla madre cominci a fantasticare su di te?» Detta così, sembrava una presunzione eccessiva. «È naturale che Sofia cerchi una figura materna. I sentimenti che prova devono trovare sbocco da qualche parte. Per questo non ero sicura se accettare l'invito, oggi.» Lo sguardo di Michael era dolce, nonostante il viso stanco e tirato. «Forse dovremmo chiarire le cose tra noi.» Lo disse con calma, con ragionevolezza. Ma Stella si sentì arrossire.
«Non ti ho invitato solo per fare piacere a Sofia», le disse lui. «Ma anche perché faceva piacere a me.» Stella lo guardò senza dire niente. Lui piegò la testa da una parte. «Spero di non metterti in imbarazzo.» Lei fece segno di no. «Non è imbarazzo.» «Sei già impegnata?» «No. Sono sola.» Benché le dispiacesse, Stella sperava che Michael potesse capire che certi vincoli, per quanto impersonali, erano importanti. «Lavoriamo insieme, Michael. Di solito tra colleghi finisce che non ci si può più guardare in faccia.» «Pensi che io mi comporterei così?» ribatté lui. Poi si addolcì. «Sto bene con te e mi piaci molto. E la prima volta, dopo Maria, che provo attrazione per una donna.» Per un istante, Stella immaginò di fare l'amore con lui. Si sentiva un groppo alla gola: aveva imparato a illudersi così bene da credere, sbagliando, che ciò che provava per lui fosse semplice amicizia. «Anch'io sto bene con te», gli disse dopo un po'. «E anche con Sofia. Ma se cercassimo di essere più che amici, finiremmo sicuramente per farci del male. Tu ami ancora Maria, almeno per quello che è stata. E io sono troppo abituata a stare da sola per poter aiutare te o Sofia.» Michael allungò il braccio sullo schienale del divano, poi, con voce sommessa, le chiese: «Lo credi davvero?» No, avrebbe voluto rispondergli, ma non ne era sicura. «Hai scelto Maria quando avevi dodici anni», mormorò. «Adesso ne hai trenta e passa. Devi pensarci bene, prima di scegliere un'altra persona.» Michael posò il bicchiere sul tavolo e le si avvicinò, sfiorandole la mano. Stella pensò a New York, alla prima e ultima volta che l'aveva toccata. «Proviamoci», le mormorò. Stella non rispose. Aveva il batticuore. Michael sollevò lentamente la mano e le accarezzò il collo, avvicinando la faccia alla sua. Lei lo guardò negli occhi, poi li chiuse e non si voltò. La bocca di Michael era morbida e sapeva appena di scotch. Stella si lasciò baciare e, per un istante, rispose al bacio. Poi abbassò la testa, ma la sensazione di calore non la abbandonò. «Ci vorrà un po' di tempo», mormorò Michael. Lei lo guardò in faccia. «Anch'io ho bisogno di tempo per pensare. Non ero pronta a questo.» Michael le sfiorò il viso. Stella si morse un labbro. «Il film sarà finito,
Michael. Non penso che Sofia voglia vederne un altro.» Michael sorrise. «Vado a controllare», disse. Quando tornò di sotto, con la bimba addormentata in braccio, mormorò: «Sa già come va a finire». Stella sorrise e aprì la porta. «Grazie di tutto», disse Michael. «Anche da parte sua.» «Grazie a voi», replicò Stella. Le dispiacque che non si fosse fermato. Non gli aveva raccontato della statuetta in frantumi né della sua paura di essere seguita. Si limitò a guardarlo allontanarsi sul marciapiede con la figliola in braccio, fino alla macchina. Chiuse la porta e si ritrovò a fissare il posto in cui era sempre stato il Bambino di Praga. Quella sera, non riuscì a prendere sonno. Continuava a pensare a Michael e a Sofia e i sensi che Michael aveva risvegliato non volevano placarsi. Sentiva ogni suono: le ruote sull'asfalto di qualche automobile di passaggio, il fischio della vecchia caldaia, Star che si leccava e faceva le fusa prima di riaddormentarsi. Poi udì una macchina che si fermava sotto casa sua, il motore che si spegneva. Rimase ad aspettare il rumore della portiera e dei passi sul marciapiede. Niente. Senza accendere l'abat-jour, andò a prendere la vestaglia nell'armadio e si avvicinò alla finestra. Il marciapiede era immerso nell'oscurità, diradata appena da un lampione a tre portoni di distanza. Tuttavia, nel posto lasciato libero da Michael, era parcheggiata una macchina che lei non conosceva, una vecchia auto giapponese di colore scuro che non apparteneva a nessuno dei vicini. Rimase a osservare per qualche minuto, poi andò nel corridoio e accese la luce. Il gatto si svegliò e sbatté le palpebre. Stella tornò alla finestra. In quel momento, sentì l'auto che ripartiva. Il parcheggio era di nuovo vuoto. Vide la macchina sparire nella notte solo un istante, ma abbastanza per notare che aveva i fari spenti. Si sedette sul bordo del letto a riflettere su chi poteva essersi introdotto in casa sua la sera prima. Come aveva fatto a entrare senza forzare la porta? Poi, all'improvviso, si sentì raggelare.
7 L'indomani mattina, all'alba, Stella andò a correre, con gli occhi che le bruciavano dalla stanchezza. Era spuntato il sole, chiaro e brillante, e il respiro le si condensava nel vento freddo che soffiava a raffiche dal lago. La strada seguiva la sponda rocciosa del lago e Stella sentiva le onde frangersi più in basso, mandando spruzzi di schiuma bianca. I grattacieli di Steelton brillavano in lontananza. Non c'era nessuno e l'unico rumore era quello del vento. Si guardò alle spalle senza smettere di correre. Lungo la strada, troppo lontano perché lei potesse vedere il guidatore o leggere il numero di targa, c'era una vecchia auto marrone che la seguiva, forse una Toyota, ma così scalcagnata da sembrare impossibile che andasse ancora. Però andava, e troppo lentamente. Stella si voltò, tornando a guardare la città. Contò fino a trenta e si girò di nuovo. L'auto era sempre dietro di lei. Procedeva alla stessa andatura, mantenendo sempre la medesima distanza da lei. Stella si spaventò. Aveva poco tempo per decidere che cosa fare. Poteva fermarsi e vedere se anche l'automobile si fermava, ma era sola e se, invece di una semplice coincidenza, si fosse trattato di un vero agguato, non avrebbe avuto scampo. Al pensiero che, se avesse accelerato, l'auto avrebbe potuto raggiungerla nel giro di pochi secondi, svoltò bruscamente e imboccò una traversa che portava verso casa sua. Per due isolati corse senza voltarsi. Quando chiuse la porta e vi si appoggiò, in un bagno di sudore, la macchina non c'era più. Armin Marz era seduto nella penombra. Come sempre, quando andava a trovarlo, per qualche secondo Stella fu assalita da un senso di morte e istintivamente cominciò a camminare piano e parlare sottovoce. In realtà, se anche avesse gridato, sarebbe stato esattamente lo stesso. Ormai da diverso tempo il padre era perso nei recessi della propria mente, con lo sguardo vuoto e i riflessi talmente lenti che, qualsiasi gesto facesse, Stella si chiedeva sempre col cuore stretto se sarebbe riuscito a portarlo a termine. Per mangiare un panino impiegava minuti, ma anche ore;
lo teneva in mano senza ricordarsi di averlo, poi muoveva la mano con fare assente. Non dava più nessun segno d'interesse: aveva smesso di fare elenchi in cui ripeteva all'infinito la stessa parola e anche di guardare continuamente la foto di Helen Marz senza ricordare chi era, perché Stella, non riuscendo più a sopportare quella pena, gliel'aveva tolta. Aveva smesso persino di chiederle come facevano a conoscersi. «Sono tua figlia», gli rispondeva, pensando a quando l'aveva disconosciuta. Gli si sedette di fronte. L'unica sua reazione fu spostarsi lievemente sulla poltrona, quasi avesse sentito un rumore distante, ma che non lo riguardava. Negli occhi scuri non c'erano né ostilità né attenzione. «Be', eccoci qui», fece lei. Si chiese se la propria voce smuovesse in lui qualche ricordo troppo radicato per potersi perdere o se gli sembrasse una delle tante che risuonavano nel corridoio o alla televisione. I medici non glielo avevano saputo dire e in fondo poco importava: lo andava a trovare per se stessa, oltre che per lui. Per questo ci teneva che la clinica fosse pulita, la stanza luminosa e le infermiere pazienti ed esperte, abbastanza gentili da chiamarlo per nome. Per questo pagava il conto alla fine del mese. «Ciao, papà», ripeté. Non le rispose. Stella sorrise tra sé: in confronto alle reazioni di un tempo, quando la respingeva e la temeva, quel silenzio era quasi benevolo. Tutto sommato preferiva illudersi che quel vegetale ormai incapace persino di arrabbiarsi la stesse ad ascoltare e le volesse bene. «È stata una settimana terribile», gli raccontò. «Continuo a non capire niente né dell'omicidio di Jack Novak né dei fascicoli scomparsi. L'unica testimone nel caso Fielding è stata sgozzata. Non mi fido più di nessuno e non dico a nessuno quello che faccio. Non sono più sicura nemmeno di me stessa. Oh, ricordi il Bambino di Praga? Qualcuno è entrato in casa e me l'ha rotto. E poi ho l'impressione che mi seguano.» Armin Marz si voltò appena; i loro sguardi s'incontrarono, forse per caso, e per un brevissimo istante parve essere tornato l'uomo di una volta. Stella gli prese la mano e gli chiese sottovoce: «Mi senti?» Rimase immobile e a Stella piacque pensare che stesse tendendo le orecchie per ascoltarla. Si voltò dall'altra parte prima di confidargli: «Ho conosciuto un uomo». Sapeva benissimo che era come parlare al muro. A mano a mano che le sue condizioni peggioravano, Stella si era rassegnata dapprima a essere
considerata un'amica di Warszawa, una persona che il padre aveva conosciuto a sei anni, poi a essere dimenticata anche in quella veste; a un certo punto persino le scelte più semplici lo turbavano, poi, prima di perdere la parola, aveva smesso di turbarsi del tutto. Ormai gli si poteva parlare di qualsiasi cosa, come Stella un tempo aveva tanto desiderato. «Si chiama Michael», continuò. «Ha una figlia.» Continuava a tenergli la mano. Armin Marz cominciò a muovere l'altra, sinuosa come un serpente, tanto lenta che sembrava avere vita propria. «Penso che potrei volergli bene. E anche a sua figlia. Ma ho paura.» Abbassò lo sguardo sulla mano posata sulla sua e domandò: «Anche tu avevi paura?» Ci fu un lungo silenzio, in cui Stella pensò alla propria confessione e all'inutilità di quella domanda. Poi, con la stessa sofferta lentezza, Armin Marz spostò l'altra mano fino a coprire la sua. A Stella vennero le lacrime agli occhi. Quando alzò la testa per guardarlo in volto, si accorse che si era assopito. Entrando in casa, Stella si guardò intorno. Tutto sembrava a posto e Star le venne incontro come al solito. L'interruttore sul muro era nella posizione in cui l'aveva lasciato. Quando andò a riempire la ciotola per il gatto, vide che c'era un messaggio sulla segreteria telefonica e si sorprese a sperare che fosse Michael... Premette il pulsante. «Ciao.» Era Sofia. «Grazie. Io e papà ci siamo divertiti molto.» In sottofondo la bambina chiedeva se bastava così e suo padre aggiungeva: «Moltissimo». Quando il messaggio finì, Stella sorrise. Poi andò di sopra e accese la TV per guardare la CNN. 8 Stella si era appena versata la prima tazza di caffè quando la segretaria la avvertì che Dan Leary dello Steelton Press la stava aspettando. «Conosce la strada», rispose Stella e usò il mezzo minuto che le restava per prepararsi all'incontro. Il suo atteggiamento nei confronti della stampa era semplice: non mentiva mai e, se non poteva parlare di una cosa, lo diceva chiaramente. Eppure le inchieste, di per sé delicate, sulla morte di Novak e di Fielding erano re-
se ancor più complicate dalle sue ambizioni politiche e Leary non si occupava di cronaca nera, ma di politica locale: un passo falso con lui e Stella avrebbe potuto mettere Charles Sloan in posizione di vantaggio o, peggio ancora, mettere Arthur Bright in cattiva luce. Tuttavia, quando Leary entrò nel suo ufficio, lo accolse con estrema calma e disponibilità. «Mi dica», esordì. Leary si sedette. Era un uomo snello dai lineamenti marcati, brizzolato e, a differenza di molti suoi colleghi, poco compiacente: generalmente oscillava tra il diffidente, il sospettoso e il perentorio. «Ho avuto qualche informazione a proposito di Jack Novak», esordì. «Mi è parso giusto sottoporle anzitutto a lei.» A Stella si rizzarono le antenne. «Grazie.» Leary si appoggiò allo schienale, posò matita e taccuino sul tavolo e la guardò. «Lei è stata l'amante di Novak», disse in tono piatto. Stella reagì come aveva imparato a fare in aula, con freddezza, facendo prevalere la ragione sui sentimenti. «È un'affermazione, la sua?» replicò. «Non dovrebbe essere una domanda, piuttosto? Non mi sembra che Jack Novak possa averle fatto questo genere di confidenze. Almeno negli ultimi tempi.» Leary sorrise e la squadrò con attenzione. «Mi risulta che ne siano al corrente diverse persone.» «Davvero? E chi?» «Sa benissimo che non glielo posso dire.» Leggermente spazientito, aggiunse: «Senta, o è vero o non è vero». «Ma che discorsi fa? Si aspetta che io stia qui a discutere con lei di un pettegolezzo da quattro soldi?» Stella si sforzò di mantenere un tono pacato. «Io non gioco agli indovinelli. Mi dica che cosa pensa di sapere e chi glielo ha detto e io vedrò di rispondere. Per esempio, mi dica quando sarei stata l'amante di Novak.» Leary inclinò la testa di lato, come per scansare un pugno. «Me lo dica lei. Voglio controllare se le mie fonti sono coerenti.» «Le sue fonti? Senta, io non credo proprio che lei abbia fonti. Anzi, secondo me lei non ha un bel niente.» Assunse un tono più duro. «Lei non mi conosce, perciò chiariamo subito due cose. Io non dico bugie e non amo gli scherzi di cattivo gusto. Ho l'impressione che qualcuno la stia strumentalizzando.» L'uomo parve offendersi, poi, da bravo professionista, mise da parte l'orgoglio e tornò alla carica. «Ho ricevuto una telefonata anonima», am-
mise. «Che diceva?» «Diceva che lei ha avuto una relazione di un paio di anni con Novak ed è coinvolta in maniera troppo personale per condurre le indagini con la necessaria obiettività.» Stella lo fissò. «Quando sarebbe terminata la nostra relazione? Per rinfrescarmi la memoria, sa?» Leary la guardò, imperturbabile. «Non me l'hanno specificato.» «Quindi da me vuole un'ammissione. Se non ammetto niente, lei non scrive l'articolo.» Leary alzò le spalle. «Sono venuto anzitutto da lei. Avrei anche potuto non farlo.» «Non si preoccupi, le risponderò. Prima, però, vorrei farle un paio di domande io. Facili facili, tipo: è stato un uomo o una donna a telefonarle?» Leary si tolse un peluzzo immaginario dal giaccone sportivo. «Non lo so.» Stella stava per dargli una rispostaccia, ma le vennero in mente Jack nudo che dondolava davanti allo specchio e Kate Micelli che raccontava come l'autore della telefonata anonima avesse camuffato la voce in maniera da non far capire se era uomo o donna. Gli chiese semplicemente: «Che tipo di voce aveva?» «Parlava come al rallentatore. Forse usava un dispositivo per distorcere il suono.» Con un certo interesse, aggiunse: «Sembrava Boris Karloff». O l'assassino di Jack, pensò Stella. «Lei ha un numero privato?» Leary era incuriosito, quasi avesse capito il corso dei suoi pensieri. «Sì.» «E la chiamata era diretta o veniva dal centralino?» «Diretta.» «Chi ha il suo interno?» «Mia moglie. Lei, la gente che chiamo per lavoro.» «Ma gli estranei devono passare dal centralino.» Stella ci pensò su un momento. «Dunque non è vero che lei non ha in mano un bel niente, signor Leary. Ha la telefonata di qualcuno che vuole mettermi in una posizione imbarazzante senza scoprirsi e che conosce il suo numero privato. Che cosa le fa pensare tutto ciò?» «Direi che la chiamata è stata fatta da qualcuno che, direttamente o indirettamente, non la vuole vedere eletta procuratore della contea.» «Oppure da qualcuno che mi vuole veder fuori di questo caso.» «È possibile.» Il sorrisetto di Leary sembrava un tic nervoso. «Forse
perché è vero che lei ha avuto una relazione con Novak e chi mi ha telefonato lo sapeva.» «E sapeva anche che io non avrei negato.» Stella prese fiato. «È pronto?» Leary annuì e impugnò la matita, accingendosi a prendere appunti. «Quando studiavo legge lavoravo part-time nello studio di Novak. Me ne andai poco prima di laurearmi, nel 1986. Per circa un anno e mezzo ebbi una relazione con lui. Non le fornirò dettagli, salvo dirle che non convivevamo. Da quando venni a lavorare in procura, tredici anni fa, ci vedemmo solo per caso. Non mi occupai mai di processi per droga. Due anni fa sono diventata capo della sezione Omicidi. Due settimane fa, Jack Novak è stato ucciso e il caso è stato affidato a me. Punto e basta.» «Come punto e basta? Novak è stato suo amante, suo datore di lavoro, amico del suo attuale capo ed è morto in circostanze a dir poco inquietanti. Non pensa che tutto questo possa interferire con la sua obiettività?» Stella rivide episodi dolorosi vissuti con Jack, la visita di Moro, l'omicidio di Desnoyers, i processi invalidati. Non era per niente obiettiva: quella causa la riguardava troppo da vicino. E proprio per quello aveva tutte le intenzioni di arrivare a una soluzione, nonostante qualcuno volesse impedirglielo. In tono incredulo, chiese a Leary: «Lei crede che ci troviamo di fronte a un problema morale? Mi spieghi che cosa può avere a che fare con l'omicidio di Novak una relazione di tredici anni fa, per favore.» Lo disse per sondarlo. Ma la sua fonte non glielo aveva detto, oppure Leary non voleva sbottonarsi più di così. «Non c'entrano i problemi morali», ribatté senza convenevoli. «È una questione di semplice buonsenso. Tenuto conto dell'amicizia che lo legava alla vittima, al procuratore Bright forse converrebbe non affidare le indagini a una persona coinvolta in maniera così personale. Nell'interesse di entrambi.» Stella si sforzò di nascondere il proprio fastidio per il modo in cui Dan Leary si arrogava il ruolo di difensore civico, ma non poteva negare che, se lei fosse stata meno coinvolta emotivamente, si sarebbe accorta prima che quello era un problema che lei e Bright avrebbero dovuto affrontare. «Se mi riterrà inadeguata, la procura prenderà opportuni provvedimenti», rispose. La faccia di Leary era perplessa. «Comunque sia, l'articolo uscirà domani. Dica a Bright che gli conviene rispondere alle mie telefonate, se vuole far sapere agli elettori quello che pensa.» Quando Leary se ne fu andato, Stella rimase a fissare la scrivania.
La frittata era fatta: non importava chi aveva chiamato Leary o perché. Prese il telefono e disse a Brenda Waters di rintracciare Bright ovunque fosse. Riuscì a raggiungerlo a mezzogiorno, nel mezzanino dello Steelton Palace Hotel, dove stava per parlare a un meeting di un'associazione per la prevenzione della violenza tra le mura domestiche. La causa stava a cuore a tutti e due, e a Stella dispiaceva farlo arrivare in ritardo per motivi così personali. Vicino alla porta del salone c'era uno dello staff di Bright che aspettava con ansia. Per fortuna, Bright sembrava calmo. «Sono passati tredici anni», le disse con voce calda e piena di comprensione. «Chi vuoi che lo ricordi?» «Non molte persone: i miei, la segretaria e la centralinista di Jack. Tu, perché te l'ho detto io. Qualcuno cui potrebbe averlo detto Jack. Io, a quel tempo, non frequentavo molta gente. Sono sicura di non aver confidato a nessuno che stavo con lui.» L'occhiata di Bright fu nel contempo affettuosa e penetrante. «Quando mi ha convocato sul luogo del delitto, ho avuto l'impressione che Nat Dance ne fosse al corrente. Ma non capisco come...» Assunse un'aria meditabonda dietro gli occhiali dalla montatura dorata. «Il passato è passato, Stella, ma non lo si può cancellare. È per questo che Sloan non voleva che tu scavassi nei trascorsi professionali di Jack.» Stella si mise a braccia conserte. «Fin dove pensi che sia disposto ad arrivare per impedirmelo?» chiese. «Pensi che sia stato lui a chiamare Leary?» Bright era severo, impettito. «Charles non farebbe mai una cosa simile. Anzitutto perché è meno machiavellico di quanto tu creda; in secondo luogo, perché fare uno sgarbo a te è farlo a me. E poi non gli ho mai detto che hai avuto una relazione con Jack. Non ce n'era bisogno, visto che non hai mai voluto occuparti di processi per droga. No, Stella», continuò in tono più ironico, «Novak è un problema sia per me sia per te e tu non me lo hai mai nascosto. Non tormentiamoci senza motivo.» Lei non fece commenti: sapendo di avergli tenuto nascosto qualcosa, quella specie di assoluzione le risultava molto più imbarazzante. «Se ti togliessi il caso adesso», continuò Bright, «dovrei sostenere che non approvo il modo in cui lo stai conducendo. Altrimenti lo Steelton Press mi metterebbe in croce perché sapevo che c'era un'incompatibilità fin dall'inizio. Farei una figuraccia di cui né io né te abbiamo bisogno. Quindi a Leary di-
rò che sei la migliore e che sei a capo della sezione Omicidi. Se te la senti di seguire il caso, mi dimostri lui che non dovresti farlo. Perché il fatto di aver avuto una relazione con Jack Novak prima di entrare in procura non mi sembra un motivo sufficiente.» Pur essendogli grata di quelle parole, Stella ripensò a Star terrorizzata e alla statuetta in frantumi. «Sono d'accordo», disse. «Ma mi sento accerchiata.» Bright lanciò un'occhiata al suo assistente che fremeva, poi si voltò verso Stella e sorrise. «Credi davvero di essere tu, quella accerchiata?» Senza darle il tempo di rispondere, si voltò ed entrò nella sala dove doveva tenere il suo discorso. «Ciao», la salutò Michael. Stella alzò gli occhi e lo vide sulla porta che sorrideva e la scrutava con aria interrogativa. Si sentì contenta, sconcertata e indecisa. «Che giornataccia!» gli disse. «Chiudi la porta, ti dispiace?» Michael obbedì e prese una sedia. «Che ti è successo?» «Tanto per cominciare, ho un piccolo guaio con lo Steelton Press.» Incrociò le dita. «Ho avuto una relazione con Novak, ai tempi in cui lavoravo nel suo studio. Qualcuno l'ha detto a Leary. Una telefonata anonima.» Sul viso di Michael passarono una serie di emozioni contrastanti: incredulità, curiosità e persino gelosia. Senza distogliere un istante gli occhi da lei, disse: «Indagare sulla sua morte non dev'essere stato facile». «Infatti. Ho dovuto rivangare momenti cui avrei preferito non pensare. Anche allora sapevo, o sospettavo, troppe cose sul suo conto.» S'interruppe e cercò di mantenere un tono obiettivo. «Non ho un bel ricordo di quei tempi. Anzi direi che fu un periodo decisamente brutto, in cui ho dovuto fare cose che avrei preferito non fare.» Michael la squadrò a lungo. «Per colpa di Novak?» «Ero sola come un cane, Michael. Jack lo aveva intuito, approfittando delle mie debolezze. Ma forse in un certo senso anch'io ho sfruttato la situazione: è stato lui ad aiutarmi ad andare via di casa e a entrare in procura.» «Però ti ha fatto anche soffrire.» Stella esitò. Non era abituata a parlare di sé e a ricevere comprensione: si sentiva emotivamente vulnerabile, bisognosa di affetto, ma piena di paure. «Sì, moltissimo», rispose. Michael le si avvicinò, quasi avesse voglia di toccarla ma si rendesse
conto di non potere. «Ci sono tante cose che mi piacerebbe sapere di te», le disse. «Vorrei che potessimo prenderci una pausa, andare da qualche parte e parlare.» Stella scosse la testa. «Questo è uno dei problemi cui mi riferivo l'altra sera. Siamo qui in ufficio, con la porta chiusa, a parlare di Jack Novak neanche fossi io che ho bisogno d'incoraggiamento.» Si sforzò di sorridere. «E forse uno sfogo è quello che mi ci vorrebbe, Michael. Ma devo scoprire chi l'ha ammazzato. E perché. Per non parlare di chi ce l'ha con me e come mai.» Michael abbassò gli occhi, pensoso. «Ne hai parlato con Bright, immagino.» «Sapeva della mia relazione con Jack prima ancora di assumermi. Non ha nessuna intenzione di togliermi il caso.» Michael alzò la testa e la osservò. «Pensi che io stia sbagliando?» gli domandò lei. «Detto tra noi, sì. Soprattutto se il caso dovesse rimanere irrisolto. E tenuto conto delle tue ambizioni politiche.» Lo sapeva anche da sola, ma sentirselo dire da Michael la intristì. «Io devo fare il mio lavoro», ribadì. «Evidentemente qualcuno sta cercando d'impedirtelo.» Più di quanto tu creda, rifletté Stella. «Allora dammi una mano, okay?» «E come?» «Ti avevo detto di sospendere le ricerche sulle cause che Jack aveva seguito, invece adesso ti chiedo di tornarci su e di concentrarti soprattutto su quelle degli ultimi due anni. Controlla i risultati imprevedibili, i processi che puzzano, quelli in cui hai l'impressione che qualcun altro oltre a Jack abbia avuto un ruolo poco chiaro. Un poliziotto, magari un giudice...» Michael si grattò la fronte. «Torni sempre su Moro.» «Finché non mi convinco che non c'entra, sì.» «Va bene», rispose lui dopo un po'. «Sospenderò momentaneamente le ricerche su Steelton 2000.» Stella percepì la sua frustrazione, come se il fatto di dover interrompere un lavoro lo disturbasse. «Solo momentaneamente», gli disse. Poi chiese: «Hai scoperto qualcosa di nuovo?» «Niente di più di quello che già sai. Ho preso informazioni su Conrad Breem, il presidente della Lakefront Corporation. È un consulente fiscale col pallino dell'edilizia. Appartamenti, perlopiù. Non sembra legato a Krajek e, tra i finanziatori della sua campagna elettorale, non risultano né il
suo nome né la Lakefront.» Prese fiato e, in tono diverso, aggiunse: «I contributi dell'Alliance Company invece sono stati fatti alla luce del sole. E questo mi ha sorpreso». «Sei sorpreso del fatto che venga citata la ditta di Rockwell? E perché mai?» Stella si rese conto che in realtà era quello che angustiava anche lei. «Vorresti andare alla Hall Development a controllare i documenti di Fielding?» Michael annuì. «Perlomeno sequestrargli le fatture dell'Alliance. Non vogliamo che vadano perse, no?» «Devi farti firmare il decreto di acquisizione da Arthur, ma è un provvedimento con troppe ripercussioni politiche per lui. E comunque non credo che distruggeranno le fatture: non avrebbero niente con cui documentare che le quote sono state rispettate.» Michael sembrava scettico: non lo diceva, ma pensava che Stella stesse sbagliando le priorità. Lei rifletté ancora una volta che, se i loro rapporti fossero diventati più intimi, sarebbe stato un gran pasticcio. Disse: «Torneremo su Steelton 2000». Michael cercò di far finta che la cosa non lo turbasse e Stella si sentì ancora più a disagio. Con un sorrisetto aggiunse: «Vedi, hai già smesso di parlarmi». Con suo grande sollievo, Michael scoppiò a ridere. Poi assunse un'espressione più seria. «In realtà vorrei capirti, Stella. Non voglio più malintesi con nessuno.» Si alzò, s'infilò una mano in tasca e tirò fuori un topolino di gomma. «Questo è per Star», disse. «Da parte di Sofia. Perché non si senta sola.» Stella sorrise al pensiero che la sua gatta, tanto indipendente, fosse oggetto delle preoccupazioni di Sofia, ma forse a quell'età era normale proiettare sugli altri i propri problemi. «Dille che stasera la chiamo per raccontarle se Star ha gradito.» Michael sorrise. «Grazie. Ma solo se Star gradisce veramente.» Anche Stella sorrise. «Be', in certe occasioni lascia che parli io per lei.» Si lasciarono amichevolmente. Se c'era stato nervosismo tra loro, per il momento si era dissolto. Stella, però, era agitata. Il caso Novak aveva troppi legami col suo passato e Michael, che avrebbe voluto avere una relazione con lei, non poteva disinteressarsene. E comunque lavorare insieme sarebbe stato motivo di tensioni, incomprensioni e stress: anche solo il fatto che avessero parlato a porte chiuse non poteva non essere stato notato.
In quel momento, il telefono squillò e interruppe i suoi pensieri. «Sono Peter Hall», si presentò il suo interlocutore. «Vorrei chiederle un favore e spero proprio che mi dirà di sì.» Il tono sicuro e educato la colse lievemente di sorpresa, ma Stella non ebbe il tempo di chiedersi perché e replicò: «Un favore grosso?» «Volevo invitarla a pranzo. Va bene domani?» Stella rimase ancor più sorpresa. «Mi prende alla sprovvista. Per parlare di Tommy Fielding?» «Se vuole. Ma vorrei anche parlare un po' di lei.» Nel silenzio causato dallo stupore di Stella, Hall chiese: «Mi concede questo incontro, domani?» Stella era indecisa, combattuta tra curiosità e circospezione. In circostanze diverse non avrebbe avuto problemi ad accettare, anche se difficilmente Peter Hall l'avrebbe invitata. Era più che altro un problema d'immagine. Per quanto in maniera indiretta, Stella stava indagando sulla Hall Development, ma era l'occasione per capire qualcosa di più, compreso il motivo per cui Hall la stava invitando. «Va bene», disse alla fine. 9 La sede della Hall Development si trovava all'ultimo piano di un grattacielo di cristallo e acciaio e, dalle vetrate dell'ufficio di Peter Hall, si godeva una vista stupenda del lago. Dal tavolo rotondo al quale si sedettero, oltre alle acque grigie dell'Erie, si scorgevano anche il municipio e il palazzo di giustizia. Direttamente sotto di loro, da un'altezza che a Stella dava le vertigini, si scorgeva lo stadio. Hall seguì il suo sguardo. «Ecco perché abbiamo scelto questa sede», spiegò. «Per noi lo stadio non è un progetto astratto, una serie di disegni tecnici. Da qui l'abbiamo visto nascere.» Lo disse con pacato entusiasmo, col tono di un artista o un regista che parla delle proprie opere. Quella impressione era accentuata dal fatto che Hall, pur avendo l'aria dell'uomo impegnato in un progetto importante, era in jeans e camicia azzurra. Lo stile casual lo rendeva ancora più affascinante. «Che effetto fa?» gli chiese Stella. Lui la guardò negli occhi. «Il mio bisnonno ha costruito le acciaierie e per tre generazioni la mia famiglia è vissuta del suo patrimonio, voltando
le spalle alla città che languiva. Ora io ho di nuovo la sensazione di costruire qualcosa d'importante.» Quella spiegazione aveva un che d'ironico per Stella, figlia di uno dei molti operai licenziati dal ricco padre di Hall. Ma lei condivideva le idee di rinnovamento di Peter Hall per quanto riguardava la città. «Per il lungolago avete qualche progetto?» gli domandò. Hall rifletté un istante, forse sul motivo di quella domanda. «Tom Krajek ne ha», rispose poi. «Se lo stadio sarà un successo, partirà un secondo progetto che prevede ristoranti, negozi, forse un centro commerciale. Il lungolago è una grossa risorsa per la città, secondo lui.» Forse Michael aveva ragione quando sosteneva che lo stadio rappresentava soltanto la prima parte di una speculazione edilizia più vasta, che avrebbe arricchito i proprietari dei terreni lungo l'Erie, pensò Stella, e cominciò a piluccare l'insalata, guardandosi intorno. Sulla scrivania c'erano le foto di due ragazzini biondi, un maschio e una femmina. Si chiese come fosse la vita privata di Hall. Poi tornò all'ordine del giorno. «Lei conoscerà tutte le imprese edili della zona», disse. Hall la squadrò un istante, sbattendo lievemente le ciglia. La cosa che più impressionava Stella era la sua naturalezza. Forse mostrarsi disinvolti era proprio il massimo dell'artificiosità... «Conosco tutte quelle di una certa rilevanza», rispose. «Ha mai sentito parlare della Lakefront Corporation? O dell'avvocato Conrad Breem?» Hall inclinò la testa da una parte e accennò un sorriso. «No. Le sue mi sembrano domande da pubblico ministero, sa?» «Forse perché di mestiere faccio il pubblico ministero. Ma non si senta messo sotto accusa personalmente.» Hall bevve un sorso di acqua minerale. Affabile, ma apertamente incuriosito, disse: «Ieri ha accennato a Tommy Fielding». Stella annuì. «Forse non ha importanza, anche perché non ho prove che la sua morte sia avvenuta in circostanze diverse da quelle finora accertate, eppure... Lei sapeva che Fielding era indietro di due mesi nella presentazione dei rapporti di conformità?» «Sì.» Per la prima volta Hall parve turbato. «Sto cercando di mettermi in pari.» «Era normale per Fielding non rispettare le scadenze?» Lui la guardò negli occhi. «No.» Dopo qualche istante di silenzio, aggiunse: «Ha dubbi sull'Alliance?»
Era stato sorprendentemente diretto. «E lei?» chiese a sua volta Stella. Hall si grattò il mento e guardò il tavolo, pensoso. «Non so come spiegarmelo», disse alla fine. Stella non replicò: aveva imparato che era meglio non aiutare i testimoni in difficoltà. Come rendendosene conto, Hall alzò gli occhi e sorrise. «Non le dirò nulla di nuovo», cominciò. «Io voglio costruire uno stadio e il sindaco desidera farsi rieleggere; quindi la Hall Development deve affidare il trenta per cento dei lavori a imprese che rappresentano le diverse minoranze. Perciò ci siamo rivolti a Larry Rockwell. Vuole sapere se l'Alliance è l'impresa migliore del mondo? Ne dubito. Se il contratto con l'Alliance è costato denaro, a noi o alla pubblica amministrazione? Penso proprio di sì. E anche Tommy lo pensava. Ma il suo lavoro era verificare che l'Alliance rispettasse i termini del contratto, minimizzando i costi a nostro carico.» Tanta franchezza portò anche Stella a esprimersi con sincerità. «E li rispettava? E i subfornitori li rispettavano?» Hall la guardò a lungo e con freddezza. «Mi sta chiedendo se Tommy Fielding ha commesso una frode ai danni della Hall Development e della pubblica amministrazione?» chiese dopo un po'. «Le assicuro che non era il tipo.» Stella scosse la testa. «Le sto chiedendo se c'è stata una frode... Non so di che genere né da parte di chi.» Quelle parole non risultarono offensive perché vennero pronunciate in tono pacato e incuriosito, ma Hall non cambiò atteggiamento. «La procura ha più risorse di me per accertarlo. Se avete qualche dubbio, bisogna che lo dissipiate.» Rimase per un po' zitto e poi, quando riprese a parlare, per la prima volta lo fece con un'ombra di nervosismo. «Purché sia per motivi legali e non politici.» Stella lo guardò negli occhi. «Questa non è un'iniziativa di Bright. I dubbi, al limite, sono miei.» Hall resse il suo sguardo senza tentennamenti, poi annuì. «Quello che posso fare è metterle a disposizione i registri. Non c'è bisogno di un mandato ufficiale, basta che mi dia una settimana di tempo.» Fu molto chiaro: niente avvocati, niente indugi, niente insabbiamenti. «La richiamo tra una settimana, allora», disse Stella. «Va bene.» Hall le guardò nel piatto. «Non ha mangiato quasi niente. Posso offrirle qualcos'altro?» «No, grazie.» L'aveva invitata per parlare di lei, o così almeno aveva detto. Ma Stella
non voleva dimostrarsi curiosa. Posò il tovagliolo sul tavolo come per congedarsi. Hall si appoggiò allo schienale con un sorriso interrogativo. «L'avevo invitata per un motivo preciso, ma a questo punto mi è un po' difficile parlargliene.» Stella cercò di sorridere a sua volta. «Mi dispiace.» Hall la osservò un istante, indeciso, poi si buttò. «Ho letto l'articolo di Dan Leary. Evidentemente qualcuno vuole complicarle la vita.» Stella non se lo aspettava. L'articolo non era stato terribile come immaginava: dopo un breve excursus sulla sua carriera in procura, parlava della telefonata anonima, del fatto che lei aveva ammesso la relazione e che Bright era dalla sua parte. Fino a quel momento, Stella aveva ricevuto soltanto una telefonata da parte di un'emittente televisiva. Ma per lei la soffiata a Leary era stata un avvertimento e l'articolo un motivo d'imbarazzo. Evidentemente anche per Hall era così. «Sono contenta che la mia vita sia talmente noiosa che, per trovare qualcosa d'interessante, sono dovuti tornare indietro di tredici anni», disse. «Il classico scheletro nell'armadio, le pare?» Hall giunse le mani. «Pensa di candidarsi comunque?» Stella lo guardò, incuriosita. «Perché me lo chiede?» «Non per cooptarla, se è questo che pensa. Rispetto a un'ora fa, sono meno propenso a parlargliene, a dire il vero. Ma voglio chiarire due punti.» Stella esitò, poi si lasciò tentare. «Mi dica.» «Anzitutto, Charles Sloan ha una mentalità clientelare ed è del tutto privo d'ideali.» S'interruppe e sorrise. «Lei non crede?» Stella pensò bene a come rispondere, tenuto conto del fatto che, a Hall, Bright non piaceva. «Io credo che sia molto diverso da Arthur Bright.» Hall scoppiò a ridere, spiazzato da una donna che trovava interessante. Era straordinario che si fosse lasciato distrarre così dal proprio scopo. «Touché», replicò. «Provo a parlarle del secondo punto o lascio perdere?» «Mi dica.» «Anche lei è molto diversa da Bright.» Si fece serio. «So che lei è favorevole alla costruzione dello stadio e penso quindi che possa darmi un parere spassionato. Guardi che è solo questo che le chiedo: di essere imparziale. Perché è il motivo per cui preferisco lei a Sloan. Dal punto di vista politico, questa città è allo sfascio. Conflitti razziali, d'interesse, bisticci insulsi mentre Roma va a fuoco. Tom Krajek non è un uomo dai solidi idea-
li, è soltanto un politico che sa contare fino al cinquantuno per cento e si candida con un programma fatto di slogan. Bright almeno ha qualche principio e, se un numero sufficiente di elettori li condivide, è probabile che venga eletto.» Si protese in avanti e soggiunse: «Il che mi riporta a quello che le volevo dire». «E cioè?» «Se Bright diventerà sindaco, lei potrà prendere il suo posto. A parte Dan Leary, io credo che lo Steelton Press la sosterrà. Mi dicono che lei ha le idee giuste: difendere i consumatori, combattere la violenza tra le mura domestiche e gli abusi contro i minori. Qualcosa di più di una semplice politica d'inasprimento delle misure di ordine pubblico. Ma Sloan si prepara da anni. Ha i contatti giusti e le conoscenze nel campo dei media: può contare sull'appoggio di tutti i politici neri di questa città. A parte, forse, il più importante.» Abbassò di nuovo la voce. «Finora Bright non si è mai sbilanciato: è possibile che voglia sostenere lei?» Stella rifletté su come rispondere. La affascinava la franchezza di Hall, il fatto che conoscesse così bene il suo programma politico e la situazione della città. «Sì», rispose. «La possibilità c'è.» «Il sostegno di Bright le faciliterebbe molto le cose, ma, per vincere, che le piaccia o no, ci vogliono i quattrini. Per pagare i consulenti, i mailing, la pubblicità, le televisioni, le radio, gli spazi pubblici e così via... Tutto quello che serve a uaa candidata giovane e meno nota di Sloan per competere con lui, insomma.» La sua analisi era tanto realistica quanto scoraggiante. Stella pensò al proprio conto in banca, alla retta della casa di cura del padre e al rancore della sorella. «Non posso farci niente», replicò. «Questa è una campagna elettorale che ha un limite di cinquecento dollari per i contributi. A meno che non chieda un prestito alla banca... Se deciderò di candidarmi, dovrò arrangiarmi come potrò.» Hall la squadrò. «Ha un consulente?» «Per ora, no.» «Come pensavo. Perché mi sembra che manchi qualcosa. Se Bright sarà eletto, come avviene la nomina del procuratore ad interim?» «Con un'elezione speciale. Ma, prima, il partito democratico deve scegliere il proprio candidato nel distretto, che conta circa duemila delegati.» Parlare delle difficoltà la metteva a disagio. «Il parere dei delegati democratici è determinante per l'elezione e si tratta di persone che conoscono Sloan da una vita.»
«Questo è vero. E qual è il contributo massimo che si può dare in quella campagna?» Improvvisamente Stella capì e si sentì stupida, avvilita e, nonostante tutto, speranzosa. Guardò Hall negli occhi. «Penso che lei sappia già che non ci sono limiti», replicò a bassa voce. Hall le sfiorò una mano, come per calmarla. «So che cosa pensa. Per questo voglio che sappia come la vedo io. Io tengo molto a questa città, non voglio vederla finire in mano a Charles Sloan e a gente come lui. E so che se una donna attraente appare in TV, parla alla radio e dispone dei fondi necessari per presentarsi alle elezioni generali, risulta irresistibile anche al più ottuso tirapiedi dei politici in carica.» Assunse un tono enfatico. «La sua candidatura cambierebbe completamente la campagna elettorale. Indaghi finché vuole su Steelton 2000. Non dovrei dirglielo, ma avevo paura che l'affare Novak, i problemi economici o il fatto che Bright appoggiasse Sloan la inducessero a rinunciare. Io voglio che lei si candidi.» Stella cercò di fare ordine tra le proprie emozioni: credeva nella giustizia, temeva di lasciarsi sedurre, diffidava del privilegiato che aveva davanti e di quell'uomo che, per la prima volta nella vita, le presentava l'occasione di non doversi fermare per mancanza di fondi. Forse Peter Hall non immaginava nemmeno che cosa volesse dire quello per lei. Quando lo guardò in faccia, vi lesse solo il desiderio di rendersi utile. «Apprezzo molto la sua offerta», rispose. «Ma mi dispiace che me l'abbia fatta.» Pensava che, da uomo di potere quale era, si offendesse nel vedersi respinto. Invece Hall annuì. «Me l'immaginavo», disse. «Mi rendo conto che ricorrere alle scappatoie non è la soluzione ideale... ma neanche far eleggere Charles Sloan lo è.» Si alzò e andò verso la vetrata. Di profilo, coi capelli biondi e scompigliati, a Stella sembrò un lupo di mare che scruta l'orizzonte. «Sa che cosa fanno i soldi?» le domandò dopo un po'. «Chiamano altri soldi. Io sarei ricco anche se non avessi mai mosso un dito in vita mia. E, una volta terminato lo stadio, sarò ancora più ricco. Lei si è fatta da sola. Io sono il pronipote di Amasa Hall. Non mi lamento; voglio solo dire che l'unico modo che ho per realizzarmi è fare qualcosa di utile coi soldi che possiedo. Anche per questo ho intenzione di vendere la casa di Stonebrook e tornare a Steelton. Se non fosse stato per la mia defunta moglie, sarei tornato già da tempo.» Si voltò verso di lei e continuò lentamente e in tono serissimo: «Forse lei non ci crederà e lo troverà ipocrita, ma i miei antenati si sono arricchiti alle vostre spalle e mi hanno messo nella posizione in cui
sono. Io adesso vorrei sdebitarmi facendo qualcosa di utile per la città». Stella rimase commossa e scettica nel contempo. «Questo le fa onore, ma è prematuro parlarne. Non voglio che m'influenzi nel mio lavoro o nella mia corsa alla poltrona di procuratore di contea. Sono cose che si dovranno risolvere da. sole.» Hall sorrise. «Ma, quando saranno risolte, potrò invitarla a cena, Stella?» 10 Erano quasi le dieci di sera quando Stella tornò a casa. Aveva molti pensieri per la testa, primo fra tutti che non si sentiva più al sicuro. Star le si andò a strusciare contro le gambe. Sembrava tutto in ordine. Andò in cucina, le diede da mangiare, si versò un bicchiere di vino e si trasferì nel salotto. Era filato tutto liscio, anche il discorso che aveva tenuto all'ordine degli avvocati della contea. Era stato un discorso molto equilibrato: aveva fatto notare che la percentuale delle condanne per crimini violenti dimostrava la bontà del lavoro suo e di Bright e aveva accennato a un eventuale cambiamento di prospettiva nella gestione della procura. Ma era più facile fare buona impressione sui colleghi che convincere un auditorio pieno di delegati democratici a preferire lei rispetto a Sloan come candidato alla carica per il loro partito. Il che la riportò a Peter Hall. Quello che gli aveva detto era abbastanza vero: avrebbe preferito sul serio che lui non avesse neppure accennato alla sua proposta. Ormai che sapeva, non sarebbe più riuscita a pensare a Steelton 2000 senza pensare anche che Peter Hall rappresentava la sua chance migliore di succedere ad Arthur Bright. Suo malgrado, gli interessi di Hall erano venuti a coincidere coi suoi. Si cominciava così, in fondo. Un po' di esitazione, qualche piccolo compromesso con la scusa di pensare a un bene «superiore». Ma non era forse lei stessa, questo bene superiore? Nel proprio intimo, Stella era convinta di essere la migliore, di meritare la nomina a procuratore di contea. Tuttavia, se avesse ceduto alle lusinghe di Hall, sarebbe stata poi tanto diversa, tanto migliore di Sloan? Ormai dubitava persino di essere la stessa donna che era andata a trovare Hall quella mattina. Per certi versi, aveva già perso l'orientamento. I sospetti che nutriva erano talmente vaghi che non aveva osato confidare a nessuno le sue paure, neanche a Bright, a Sloan, a Dance, a Kate Micelli o a Michael. Il suo la-
voro era diventato un labirinto nel quale brancolava alla cieca. Aveva paura sul lavoro, a casa, aveva paura di se stessa. Salì al piano di sopra, si spogliò e s'infilò sotto le coperte. Si rigirò nel letto per un tempo incalcolabile, per ore, passando tra il sonno e la veglia. Tuttavia, quando il telefono squillò, stava dormendo. Il telefono suonò stridulo nella stanza buia. Stella balzò a sedere sul letto, intontita. La sveglia digitale sul comodino segnava le due e diciassette. Da quanto tempo suonava? Stella era incerta se rispondere o no: aveva paura. Prima che Jack fosse ucciso, avrebbe risposto senza esitazione. Il display segnalava che la chiamata veniva da un «numero non identificato». Sollevò la cornetta e rimase sorpresa dal proprio tono calmo. «Pronto?» Una voce grottesca, irriconoscibile, chiese: «Parlo con Stella Marz?» Sembrava un disco che girava alla velocità sbagliata. Stella ripensò alla descrizione fattale da Dan Leary e si corresse: sembrava un film dell'orrore. Provò un senso di nausea. «Vogliamo parlare del tuo amichetto?» continuò la voce. Rabbrividì. Si sentiva infangata, violata, calpestata. Ebbe paura che qualcuno la stesse osservando anche in quel momento. «Ti piacerebbe sapere com'è andata con sua moglie?» chiese la voce. «Come mai gli ha lasciato la bambina?» Stella non rispose. «Non si porta via la figlia a un uomo che lavora per Vincent Moro, ti pare?» continuò la voce camuffata. Stella chiuse gli occhi. «Chiedigli chi gli ha dato i soldi per mantenersi agli studi... Chiedigli come mai lavora per Bright... Chiedigli come mai Maria lo ha lasciato.» La voce diventò un sussurro. «Forse, se gliela dai, te lo dice.» Lei si risedette, col telefono incollato all'orecchio. Il bisbiglio era ancor più raggelante. La voce era deformata da qualche congegno. «Perché mi dice tutto questo?» chiese. «Perché siamo preoccupati per te. Una donna sola, senza veri amici, potrebbe morire senza che nessuno se ne accorga. Non ti converrebbe alleggerirti il carico di lavoro?» Stella prese fiato. «In che senso?» Seguì una risata profonda. «Allora non sai proprio niente! Tira a indovinare e augurati di azzeccarci.»
Stella si alzò. «Buonanotte», le disse la voce. «Non dimenticarti di dar da mangiare al gatto.» E chiuse la comunicazione. Stella andò in bagno e vomitò. Si guardò nello specchio. Era pallida, sudata, aveva la fronte imperlata di sudore e lo stomaco che bruciava e le faceva male. Alzò una mano e si accorse che le tremava. S'impose di riflettere. Con la testa bassa, guardò il lavandino. Le avevano telefonato per gettarla nel panico. Ma anche, forse, per spingerla a chiedere aiuto, ad affidarsi a qualcuno da cui era meglio stare alla larga. O per spingerla a smettere di fidarsi di chi invece lo meritava. Se Michael fosse stato davvero un uomo di Moro, perché avrebbe dovuto dirglielo, a meno che non fosse assolutamente indimostrabile? Ma forse l'autore della telefonata voleva farla sentire completamente isolata, convincendola che tutti quelli che aveva intorno erano traditori. In tal caso, però, che pericolo avrebbe costituito e per chi? «Allora non sai proprio niente!» Neanche sul conto di Michael. Non aveva abbastanza prove per andare da Bright. Non sapeva da che parte cominciare. Non poteva più continuare da sola. Rabbrividì e andò alla finestra: la strada era buia, l'oscurità impenetrabile. «Tira a indovinare e augurati di azzeccarci.» Prese il telefono. Star, accoccolata sul tappeto accanto a lei, si svegliò e giocherellò col topolino che le aveva regalato Sofia. «Dance», rispose una voce profonda. Nonostante l'ora, sebbene fosse stato svegliato, il capo della sezione Investigativa era pronto a ogni evenienza: poteva esserci stato un omicidio, essere morto un collega, esserci un informatore in pericolo. «Sono Stella», gli disse, senza nemmeno scusarsi. «Ho bisogno di vederti subito.» Dalla finestra, Nathaniel Dance pareva un'ombra enorme sulla veranda. Bussò piano alla porta e, quando Stella accese la luce, il respiro del poliziotto si condensò nell'aria fredda della notte. Lo fece entrare senza dire una parola. Lui andò nel salotto e Stella si accorse per la prima volta, forse perché non l'aveva mai osservato così attentamente, che, nonostante l'età, si muoveva con grazia felina. Si sedette sul
divano, appoggiò i gomiti sulle ginocchia e la guardò, impassibile. «Ho fatto il caffè», gli disse lei. Lui fece di no con la testa, senza smettere di guardarla. «L'altra sera, qualcuno è entrato in casa», spiegò Stella. «Non c'erano segni di scasso. Non so chi sia stato né come abbiano fatto, ma so che sono entrati perché hanno lasciato alcune tracce. Stanotte invece ho ricevuto una telefonata. Non sono riuscita a identificare la voce, perché era distorta con qualche apparecchio, ma il messaggio era chiaro: smetti d'indagare su una certa faccenda. Non ha specificato quale, però il tono era minaccioso.» Dance rimase zitto. Stella temette che sapesse anche il resto, le cose che lo sconosciuto le aveva detto di Michael. Dopo un po', disse: «Mi hai preso per il culo, Stella». Gli si sedette di fronte. «In che senso? Qualcuno ce l'ha con me.» Dance incrociò le braccia e Stella capì che era arrabbiato, ma cercava di controllarsi. «E tu pensi che quel qualcuno sia io.» Stella era stanca, spaventata: era tardi e gli occhi da basilisco di Dance davano a quel colloquio un'aria surreale. «Può darsi. Anche tu mi hai preso per il culo, forse perché neanche tu ti fidi di me.» Dance socchiuse gli occhi. «Comincia tu.» Dopo un istante di esitazione, Stella gli raccontò degli incartamenti scomparsi, dell'incontro con Natasha Tillman, dei dubbi sulla morte di Fielding e dei rapporti che questi non aveva presentato. «Non so che cosa voglia dire», concluse. «Ma la sparizione di quei fascicoli e la morte della Tillman non possono essere semplici coincidenze.» Dance rimase imperturbabile. «Sono casi diversi», ribatté. «Non sono collegati.» «Il collegamento sono io, Nat.» Dance taceva, talmente immobile che sembrava che non respirasse. «Chi altri lo sa?» Nella mezz'ora trascorsa tra la telefonata e l'arrivo di Dance, Stella ci aveva pensato e aveva capito che l'unico ad avere tutte le informazioni era Michael Del Corso, l'uomo cui aveva anche prestato le chiavi. Scosse la testa, come per riscuotersi dal dormiveglia. «Non lo so con certezza.» Dance si accigliò. «Qualcuno deve saperlo. Se non scopriamo chi è, ci scapperà un altro morto. Forse tu.» In cuor suo, Stella non poteva accettare l'idea che fosse Michael, ma l'unico motivo per cui si fidava di lui era l'istinto. E l'istinto, almeno nel caso di Jack Novak, non l'aveva guidata bene. «Affrontiamo la cosa da un altro
punto di vista, Nat. Neanche tu ti sei fidato di me. Perché?» Dance ci rifletté, poi la guardò con più serenità. «Non pensavo che fossi una mela marcia», rispose. «Ma che avessi ragione.» «In che cosa?» «Nel dire che Novak aveva interferito nel corso della giustizia. Io lo sapevo da anni. Come so che qualcuno, non so chi, deve averlo aiutato, e non volevo che tu in qualche modo gli mettessi la pulce nell'orecchio.» S'interruppe, poi continuò a voce più bassa: «Cosa che secondo me è già successa. Motivo per cui hai ricevuto quella telefonata». «Come fai a essere così sicuro?» «Perché hai esposto parte della tua teoria a Bright, a Sloan, a Curran, a Del Corso, a Saul Ravin, a me...» «Bright e Sloan non l'hanno detto a nessuno», lo interruppe lei. «Credimi.» Dance le sorrise. «Lo so. Ma tu hai parlato apertamente dei tuoi sospetti e non puoi dare per scontato che la persona che cerchi non l'abbia saputo. Altrimenti, perché avresti ricevuto la telefonata?» Stella ci pensò su. «Questo nell'ipotesi che chi aiutava Jack sia ancora in circolazione. E mi stia lanciando segnali. Non pensi che invece potrebbe essere qualcosa che ha a che fare con Fielding?» Dance aggrottò la fronte. «Il tuo numero è sull'elenco?» le domandò. «No di certo.» «Chi lo conosce?» «Gli amici. I colleghi. Tu. Altri poliziotti della Omicidi.» Dance si protese in avanti. In contrasto con la sua stazza, il salotto sembrava una casetta delle bambole. «Circa quattordici anni fa ricevetti anch'io una telefonata di questo genere», le confidò. «Poco dopo che avevano ammazzato l'haitiano, quando lavoravo ancora nella Narcotici. Dopo la faccenda di George Flood. Mi era venuta l'idea di prendere in mano le stesse pratiche che hai trovato tu e cercare di far cantare Jack Novak. Di costringerlo a parlare, in qualche maniera.» Stella si sentì gelare. «Non sapevo che, da Novak, sarei potuto risalire direttamente a Moro», aggiunse Dance sottovoce. «L'ho capito soltanto due settimane fa, quando mi hai raccontato di averlo visto nel suo studio, una sera. Tu sei convinta che Novak avesse avvertito Moro che l'haitiano era disposto a collaborare, vero?» «E tu?» Dance non rispose. «Mi telefonarono di notte», continuò. «Come a te.
Anche quella volta la voce era distorta, ma fece meno giri di parole.» Il tono di Dance era piatto, senza inflessioni. «Mi dissero che la mia copertura era saltata e che gli spacciatori sapevano chi ero. O me ne andavo dalla Narcotici, oppure avrebbero violentato mia moglie e le mie figlie. E poi le avrebbero ammazzate. Lo sconosciuto mi disse dove abitavo, dove lavorava Beatrice, dove andavano a scuola le bambine. Mi spiegò che non avevano fretta, che avrebbero aspettato l'occasione giusta e non mi sarebbe capitato niente finché non avessero messo le mani su mia moglie o sulle bambine. Perché volevano che vedessi chi avrebbero violentato e ammazzato per prima. La sua preferita era la piccola, mi disse. Perché avrebbe sentito più male e avrebbe gridato più forte.» S'interruppe, ricordando, poi finì: «C'era una talpa tra noi». Stella aveva la testa che le scoppiava. «E tu che cos'hai fatto?» «Rinunciare ai soldi di Bufalo era una cosa; Bea e le figlie un'altra. Non avevo nemmeno il coraggio di raccontarlo a lei.» Scosse la testa. «Ci pensai su ventiquattr'ore, poi andai dal capitano e gli dissi che non potevo più lavorare alla Narcotici. Mi trasferirono senza problemi. Tu sei la prima cui ho spiegato perché.» Abbassò la voce. «E giurami che non lo dirai a nessuno, Stella. Né adesso né mai.» «Non sai ancora chi è stato.» Dance la fissò. «Grazie a te ho smesso di arrovellarmi. A dare l'ordine è stato Moro. Quello che non so è chi gli avesse detto che stavo indagando su Novak.» Negli occhi di Dance c'era una luce che Stella non vi aveva mai visto: un odio implacabile. Cercò d'immaginare che effetto facesse temere per la vita dei propri figli e, istintivamente, pensò a Sofia. «Non si porta via la figlia a un uomo che lavora per Vincent Moro.» Scossa, chiese a Dance: «Ma secondo te chi poteva essere?»v «È semplice. Tutti tranne Arthur.» Stella si sentì sopraffatta dai dubbi: la storia di Dance non lasciava spazio alla fiducia o ad atti di fede di nessun tipo. Guardandola, il detective parve leggerle nel pensiero. «Forse non te l'ho mai detto», soggiunse. «Ricordi quando ti presentasti da Arthur per chiedergli un lavoro?» «Certamente. Mi diede del filo da torcere.» «Prima del colloquio, mi chiamò. Mi disse che ti mandava Novak e voleva che, con la massima discrezione, io controllassi le tue referenze. Pertanto chiesi qualche informazione e ti seguii un paio di sere.» Assunse un tono ironico. «Devo ammettere che non ti trovai molto interessante, ma
capii che andavi a letto con Novak e lo riferii ad Arthur. Lui non parve molto contento della cosa.» Rimase un istante in silenzio a guardarsi le unghie, allargando le dita con sorprendente delicatezza. «Poi mi richiamò e mi raccontò che tu avevi ammesso di aver avuto una relazione con Novak e non volevi occuparti di processi per droga.» Stella in quel momento capì tante cose: perché aveva avuto la sensazione che Dance sapesse della sua storia con Novak, perché Bright era stato tanto sulle sue la prima volta che si erano visti e perché alla fine aveva deciso di offrirle un lavoro. Ma la cosa più importante, che non poté fare a meno di dire anche a Dance, fu: «Arthur non si fidava di Jack, vero?» «Per nulla. Avrà anche accettato i suoi soldi per la campagna elettorale, ma non lo voleva in procura e sicuramente non voleva mettersi in ufficio qualcuno che poi gli andasse a spifferare tutto quello che faceva.» Era come se avessero vissuto in tre compartimenti stagni, nascondendosi le cose a vicenda, non fidandosi completamente di nessuno. «Dopo la morte di Jack, Arthur non mi ha dato l'impressione di voler rivangare il passato», disse lei. Dance la guardò. «E perché avrebbe dovuto? Vuole diventare sindaco. Supponi che il problema fosse in procura, non sarebbe certo il momento migliore per scoprirlo, ti pare? Naturalmente tu non gli hai detto che quegli incartamenti sono scomparsi. Secondo te chi li ha presi? Arthur o Sloan?» Stella arrossì, poi pensò di nuovo a Michael. «Qualcuno della procura, ma non so chi.» «Non sei sicura nemmeno di questo. L'archivio non è sorvegliato. Ci sarebbe potuto entrare qualunque pubblico ufficiale, in qualsiasi momento.» In tono gelido, aggiunse: «Io, per esempio». Stella s'irrigidì. «Tu?» ribatté. «Tu sei amico di Arthur. Anche tu cerchi di evitargli guai.» Evitò di specificare: A parte il fatto che anche tu, come me, miri alto. Dance aveva lo sguardo duro. Parlò sottovoce: «Voglio beccare quello della telefonata. E quello che mi ha tradito. Perciò spero che non sia Arthur». Per qualche momento nessuno parlò. «Chi ha ucciso Jack?» domandò poi Stella. «Non lo so ancora, ma non credo che sia stata Melissa Allen.» Dopo una vaga esitazione, aggiunse, brusco: «È più probabile che sia stata la stessa persona che si è introdotta in casa tua e ti ha telefonato poco fa». Stella si mise a braccia conserte. «E questo non ti fa pensare a Moro?»
«Molto probabile.» Si alzò, andò alla finestra e guardò fuori. «Avvertirò il capo del distretto che hai ricevuto strane telefonate.» Stella lo guardò. «Posso farti un'altra domanda, Nat? A proposito di Natasha Tillman. Perché sei intervenuto sul luogo del delitto?» Dance si voltò verso di lei. «Per lo stesso motivo per cui sei intervenuta tu: due prostitute in due settimane è un tasso di mortalità piuttosto elevato per un solo isolato dello Scarberry.» Si fermò, poi riprese: «Specialmente ora che mi dici che la Tillman è stata l'ultima persona a vedere la Welch». Non era tutto, ma evidentemente Dance era deciso a tenerla sulla corda. Stella si sentiva abbastanza sicura che non volesse dirle altro. Del resto, lei non poteva raccontargli di Michael, perlomeno non prima di averci pensato ancora un po'. «E adesso che cosa facciamo?» gli chiese. «Noi?» Accennò un sorriso. «Io sono il capo della sezione Investigativa, le mie figlie ormai sono grandi. Quindi vorrei chiudere i conti. Ma tu? Ho l'impressione che tu non abbia ancora deciso fino a che punto spingerti. Come me quattordici anni fa, del resto.» Era tutto fin troppo chiaro, pensò Stella di colpo: la telefonata che aveva ricevuto lei poco prima, il racconto di Dance. O forse non era vero e Dance si era inventato tutto per spaventarla ulteriormente. In quel momento, le venne un'altra paura: che fosse stato proprio Dance a telefonarle e le avesse raccontato quella storia per capire quanto era legata a Michael. La sua unica certezza era che doveva andare da Arthur Bright. «Io non ho figli», rispose. 11 Quando Stella finì il suo racconto, Bright rimase zitto. L'ufficio era immerso nel silenzio; un silenzio di tomba, pensò Stella con un certo sarcasmo. Erano appena le sette del mattino. «Mi hai fatto cambiare idea», disse Bright dopo un po'. «Non puoi continuare a occuparti del caso Novak.» Quelle parole, dette con grande delicatezza, la sorpresero. «Perché?» Ma era una domanda stupida. Bright sembrava preoccupato e dispiaciuto nel contempo. «Per diversi motivi», rispose. «Forse il caso è troppo personale, ma è evidente che hai perso l'obiettività. Non ti fidi più di nessuno.» Abbassò ulteriormente la voce. «Quando non ci si fida più del proprio capo, è tempo di dimettersi.» Stella non osava guardarlo in faccia. Lui aveva pubblicamente preso le
sue difese, mentre lei dubitava di lui. «Scusa», disse. «È di Charles che non mi fido. Quei fascicoli non sono usciti dall'archivio con le loro gambe.» «Questo lo so anch'io», replicò Bright in un tono che non ammetteva repliche. «Ma non è stato Charles a prenderli.» Stella temporeggiò. «A parte quelli, non ti ho tenuto nascosto nulla. Sospettavo che Jack avesse insabbiato alcune inchieste, ma questo lo hai sempre saputo.» S'interruppe, poi concluse: «Anche tu lo sospettavi da anni, Arthur, tant'è vero che hai chiesto a Nat Dance di prendere informazioni sul mio conto prima di assumermi». Bright rimase zitto, poi fece un cenno d'assenso. «Puoi licenziarmi», disse Stella cercando di alleggerire la tensione con una battuta. «Ma io non intendo dimettermi. Ho fatto troppa fatica ad arrivare fin qui.» Il sorriso di Bright era quasi impercettibile. «Ci sono altri motivi», riprese senza scomporsi. «A cominciare dalla tua incolumità.» Stella si sentì invadere dalla collera come la sera prima. «Siamo arrivati a questo, Arthur? Basta una telefonata per scaricare un sostituto procuratore?» «No, se l'interessato fa il suo lavoro», ribatté lui con rabbia. «Invece tu mi hai tenuto all'oscuro delle tue indagini. Preoccuparmi della tua incolumità a questo punto non è un lusso.» Stella era risentita, ma doveva ammettere che lui aveva ragione e s'impose di non controbattere. Non incontrando resistenza, la collera di Bright sbollì. L'uomo trasse un lungo sospiro e disse: «Okay. La morte di Jack ha scombussolato anche me che non l'ho visto penzolare dall'armadio con le palle tagliate. Ma questo caso è troppo pericoloso per te, Stella. Sotto tanti punti di vista». Per quanto indiretta, l'allusione alle ambizioni politiche di Stella era evidente. Lei preferì tacere. «Se non mi tieni aggiornato», continuò Bright, «metti a repentaglio non solo la tua carriera, ma anche la qualità del tuo lavoro. E mi metti in una posizione delicata, sia in quanto procuratore, sia in quanto candidato sindaco. Con ripercussioni chiare sul tuo futuro.» Stella decise di rivelargli quella che, a suo parere, era la verità. «Quale futuro, Arthur? Dicendoti di quei fascicoli, sapevo che avrei perso il tuo appoggio.» Bright sorrise appena. «Te ne do atto. E devo dire che da te me l'aspetta-
vo.» Stella ebbe ancora una volta l'impressione di essere prigioniera in un gioco di specchi da cui non sarebbe più uscita, proprio come aveva previsto Saul Ravin. Ma, forse per disperazione, credette di capire che Bright non le aveva rifiutato definitivamente il suo aiuto e decise che era meglio continuare a tacere. «Il tuo tentativo di suicidio professionale è fallito, ma sei ancora sotto osservazione, Stella. Ho deciso d'impedirti di rovinarti con le tue stesse mani.» Il messaggio implicito era chiaro: Stella doveva fare anzitutto gli interessi di Bright. Se ne rendeva conto, eppure continuava a non rivelargli quello che l'autore della telefonata anonima le aveva detto sul conto di Michael. «Avrei dovuto parlarti», riconobbe. «Ma togliermi il caso non servirebbe a salvarmi. Darebbe ragione a Dan Leary e farebbe contento chi ha telefonato prima a lui e poi a me.» Bright assentì. «Per questo non darò rilievo alla cosa. Evitiamo la pubblicità: si tratterà di un semplice trasferimento amministrativo.» Di cui lo Steelton Press non mancherà di venire informato. Se non ci avesse pensato il solito ignoto, lo avrebbe fatto Charles Sloan. Fu presa dalla paura che nessuno riuscisse a scoprire chi aveva ucciso Jack Novak. «A chi affideresti il caso?» «A Sloan.» Tono e modi erano implacabili. Stella chiese a bassa voce: «Dammi altre due settimane, Arthur. Ti prego». Bright la osservò con un misto di freddezza e compassione. «Una», replicò poi. «Dopodiché passerai la palla a Charles.» Michael si trovava nel suo ufficio. La finestra alle sue spalle era punteggiata di gocce di pioggia. Vedendo Stella, sorrise. «Come sta il topolino?» le domandò. «È ancora intero?» Era arrivata decisa, ma quell'accoglienza scherzosa la scoraggiò. In preda a una nuova ondata di tensione e sfiducia, non riuscì neppure a sorridere. «Sì», rispose. Michael piegò la testa da una parte. «C'è qualcosa che non va?» Una domanda così era normale tra colleghi, ma Stella sentì la sfumatura di affetto nella sua voce e si sentì ancor più confusa. «Sì», rispose. «Jack Novak è morto e io continuo a chiedermi perché.» Aveva usato un tono così brusco che non capì se, nello sguardo di lui, si
nascondesse una velata inimicizia o lo sconforto di un amico che si sente tradito. «Se è a questo che ti riferisci, non ho ancora finito», replicò Michael. «Per vagliare quattro anni di processi per droga del tuo amico ci vuole più di un giorno. Volevi sapere se ho trovato qualcosa di strano? La risposta è no. Nei sei mesi controllati non è successo niente di particolare.» Le parve sulla difensiva, sebbene il riferimento al «suo amico» fosse chiaramente acido. Ma era la risposta che si sarebbe potuta aspettare anche da uno scagnozzo di Vincent Moro. Si sedette e chiese: «Quando pensi di finire?» «Ne avrò per un po'. Anche se lasciassi perdere tutto il resto, impiegherei una o due settimane.» Ormai qualsiasi cosa le dicesse si prestava a interpretazioni contrastanti e le creava ulteriori dubbi. Doveva esortarlo a finire senza credergli o dimostrargli la propria sfiducia, chiedendogli di restituirle le pratiche e, così facendo, rivelare a Moro quello che aveva capito? «Volevo chiederti una cosa, Michael. Supponi che, quando io lavoravo nel suo studio, Jack aggiustasse i processi, cosa di cui peraltro sono abbastanza convinta. Supponi anche che, negli ultimi quattro anni, tu non trovi assolutamente nulla di sospetto. Che cosa penseresti, nei miei panni? Che Jack si era pentito dei propri peccati?» «No», ribatté Michael. «Penserei che aveva sempre avuto un complice e che Moro non aveva più nessuno da affiancargli.» Quella spiegazione così pronta - e presentata con un'ombra di stizza - lasciò Stella ancor più angosciata. Finse di pensarci su e abbassò la testa. «Ho parlato con Peter Hall», disse poi. «Ci lascerà accedere ai documenti di Fielding. Perché tu non controlli Steelton 2000, la Lakefront, l'Alliance, le MBE, e io intanto vaglio il resto delle pratiche di Novak?» Michael la guardò in silenzio. Ogni momento passato con lui era, per Stella, come un test di Rorschach che rifletteva la sua crescente paranoia. Michael era forse confuso davanti a quella donna per cui provava interesse? Era frustrato per quel cambiamento di programma? O c'era sotto qualcosa di molto peggio? «Okay», disse comunque dopo un po'. Stella fece per andare. Lui le lanciò uno sguardo distaccato, da subordinato rispettoso, senza un'ombra di affetto. «A proposito di Steelton 2000», mormorò. «Krajek ha indetto una conferenza stampa oggi pomeriggio per la presentazione della nuova fase del progetto. Ci vai?» Era curiosità professionale o un diversivo? Si sforzò di sorridergli. «Andiamoci insieme, Michael. Mi piacerebbe sapere che cosa ne pensi.»
La conferenza stampa di Krajek era affollatissima e Stella e Michael, arrivati in ritardo, si ritrovarono in fondo alla sala. Furono accolti da una doppia immagine: Krajek, piccolo piccolo sul palco, stava di fronte alla propria faccia proiettata su un maxischermo. Accanto a lui, c'erano un plastico dell'area del lungolago con sfumature diverse di azzurro che corrispondevano alla profondità dell'acqua, una vista aerea della zona intorno allo stadio in costruzione e un modello in scala della stessa area con lo stadio al centro, come il sindaco la vedeva nel 2003. Krajek, col microfono in mano, indicava con la mano libera i vari aspetti della sua futuristica Steelton. Accarezzò con l'indice un complesso di vetro e marmo bianco. «Questo è il centro congressi, lo Steelton Convention Center, esempio di architettura moderna come lo stadio e, come lo stadio, futura fonte di ricchezza per tutti. Esso porterà infatti ricchezza alla pubblica amministrazione, all'imprenditoria locale e alla cittadinanza tutta.» Krajek era nel suo ambiente, pensò Stella. Davanti al palco c'era una selva di telecamere, mentre dalla folla spuntavano decine e decine di microfoni. La tecnologia amplificava la sua voce e la sua immagine, mentre la sua figura minuta si gonfiava come quella di un attore nel presentare una proposta tanto innovativa; la sua voce, tendenzialmente stridula, quel giorno era bassa e solenne. Nel competere con Bright, sicuramente il destinatario principale di quella messinscena, Krajek godeva in una maniera che a Stella pareva quasi indecente. Le venne in mente una cosa alla quale, forse per via del disprezzo che provava per lui, non aveva pensato fino a quel momento: probabilmente aveva davanti a sé il futuro governatore della contea. Poi pensò anche che Hall le aveva detto la verità circa i piani di Krajek e provò per quello un senso di gratitudine che si spiegava solo con la totale sfiducia che nutriva verso il suo prossimo. Michael, al suo fianco, guardava dritto davanti a sé. Forse non aveva capito perché, ma aveva intuito che Stella era di cattivo umore e si teneva in disparte, ignorandola. «Nelle vicinanze dello stadio sorgerà un centro commerciale che sarà il più grande ipermercato dello Stato.» Stella lo ascoltava, lacerata tra la voglia d'interrogarlo in veste di pubblico ministero per chiarire la posizione della Lakefront Corporation e il desiderio di cittadina di vedere la sua Steelton risorgere. «Il lago è una risorsa che finora non abbiamo saputo sfruttare», conti-
nuava Krajek. «Abbiamo sprecato una risorsa importante, l'abbiamo inquinata.» Si voltò verso il plastico. «Io propongo un'altra emissione di buoni del tesoro per finanziarne la ristrutturazione. Dragheremo la darsena e costruiremo un porticciolo per imbarcazioni da diporto e navi da crociera, che saranno attratte da Steelton per i suoi ristoranti, locali notturni, negozi...» «Ma cosa crede?» borbottò Stella. «Chi vuole che venga a Steelton in gennaio? Gli amanti della pesca nel ghiaccio?» Michael continuò a guardare lo schermo e non replicò. Uscendo dal municipio, Stella e Michael si fermarono sulla gradinata di marmo, investiti da un vento gelido. Michael taceva. «Ma cosa crede?» ripeté Stella. Michael si voltò verso di lei con le sopracciglia inarcate, aspettando che si spiegasse meglio. «L'ho seguito finché non ha cominciato a parlare di dragare il lago. Il nostro porto non diventerà mai un'attrazione turistica.» Michael incrociò le braccia per ripararsi dal freddo. «Non nel modo che intende lui, a parer mio. Ristoranti e negozi di souvenir non bastano. Ci vuole di più.» «Qual è il suo secondo fine, allora? Non credo che Arthur sarà l'unico scettico nei confronti di una nuova emissione di buoni del tesoro per 500 milioni di dollari, anche considerando le sovvenzioni federali e gli sgravi fiscali che Krajek sostiene di poter offrire alle nuove imprese.» Michael annuì e sembrò sciogliersi un poco. «C'è una cosa che Krajek non ha detto: lo stadio è la prima fase di un'operazione immobiliare molto più vasta, come io peraltro avevo previsto. Se parte la seconda fase, i proprietari dei terreni diventano ricchi, a prescindere dal fatto che il porticciolo decolli o no.» Era molto meglio discutere che tacere, temendo continuamente di non potersi fidare di Michael, pensò Stella, e, dal momento che non stavano parlando di Novak, le pareva che non ci fosse nulla di male. «Prima di questa conferenza stampa ero convinta che Hall stesse usando Krajek», gli disse. «Adesso mi chiedo se non sia il contrario. Forse lo stadio è una sorta di cavallo di Troia per accedere a tutto il resto.» «In che senso?» «Hall mi ha detto di non aver mai sentito nominare la Lakefront Corporation. Mi chiedo che risposta mi darebbe Krajek, se gli facessi la stessa domanda.»
Michael si accigliò. «E Arthur o Sloan? Siamo partiti dall'inchiesta sulla morte di Fielding e siamo arrivati a dubitare della legittimità delle MBE. Se Hall e Fielding non hanno niente da spartire con la fase due del progetto, quanto possiamo andare avanti ancora?» Stella era titubante. «Legalmente, non so», rispose. «Intendevo dire politicamente. Ma hai saltato un passaggio. Hai mai pensato che forse Peter Hall è la Lakefront o che la Hall Development potrebbe aggiudicarsi le opere di costruzione della seconda fase? In tal caso, alla fine, Hall, grazie alle sue amicizie altolocate, farebbe sfigurare il vecchio Amasa.» A Stella venne in mente una cosa, ma non osò esprimerla a Michael: forse lei stessa era stata così scema da farsi cooptare da Hall con mezzi più subdoli del denaro. E, se Michael aveva ragione, Hall sarebbe stato ben felice di avere una sua creatura, Stella Marz, alla procura della contea. «No», ammise. «Non ci avevo pensato.» Michael strizzò gli occhi, come infastidito dal vento. «E questo ci riporta ad Arthur. Ciò che Krajek ha presentato non è un progetto concreto, bensì un sogno, uno specchietto per le allodole da usare in campagna elettorale. È un sogno accattivante, in technicolor, corredato di tanti bei plastici, e forse Arthur ci penserà due volte prima di calpestarlo. Soprattutto con Krajek e Hall e Larry Rockwell vincenti sul fronte dello stadio.» Era un'osservazione piena di buonsenso, ma a Stella parve che Michael fosse cinico come Sloan e quel pensiero ridestò i suoi dubbi. Di nuovo in preda alla diffidenza, ricordò tristemente che le restava una sola settimana per far luce sull'omicidio di Novak. «Per ora concentrati sui documenti di Fielding e lascia a me i fascicoli di Novak», gli disse. «Con Arthur parlo io.» Ma Bright, naturalmente, era fuori per un comizio e a Stella non rimase che chiedersi che cosa avrebbe detto e come avrebbe reagito nel vedere il nuovo progetto di Krajek al telegiornale delle sei e sulla prima pagina dello Steelton Press l'indomani. Tornò in ufficio. Aveva una serie di messaggi e di documenti da leggere: la conferenza stampa le aveva portato via due ore preziose e l'avrebbe costretta a un'altra serata di straordinario. Si ripromise di cominciare a guardare i fascicoli di Jack l'indomani, a costo di doverseli andare a riprendere nel suo studio. Guardando i foglietti rosa delle telefonate, si rese conto che aveva passa-
to un quarto d'ora in trance, come ipnotizzata. Prese il telefono e chiamò Kate Micelli. «Volevo chiederti una cosa a proposito di Novak», esordì. «Mi hai detto che, quando gli hanno stretto la cinghia intorno al collo, secondo te era cosciente. Ricordi?» «Ricordo di aver detto che, per salire su uno sgabello e lasciarsi stringere una cinghia attorno al collo senza ribellarsi, uno deve aver bevuto molto più di quanto non avesse fatto Novak.» «Ne sei sicura?» «Stella, doveva essere praticamente morto per non accorgersene. E sappiamo che non lo era, perché abbiamo accertato che il decesso è avvenuto per asfissia. Okay?» Dal tono del coroner, se non dalle sue parole, traspariva una certa impazienza. «Hai da fare?» le chiese Stella. «Sì. Ti dispiace se ne riparliamo dopo? Sempre che ci sia altro da dire.» Senza aspettare risposta, riattaccò. 12 Erano le otto passate quando Stella arrivò a casa e trovò la luce accesa nell'ingresso. Si fermò di botto e, nell'istante necessario per capire che doveva essere spenta, cominciò a tremare. Rimase sulla veranda, cercando di ricordare. I gesti che compiva tutte le mattine prima di uscire di casa erano talmente abitudinari che non ci faceva più caso: riempiva la ciotola di Star, accendeva la lavastoviglie, spegneva le luci. Se avesse fatto qualcosa di diverso, se lo sarebbe ricordata, invece le sembrava proprio che fosse andato tutto come al solito. Quindi aveva spento le luci. Quindi, mentre lei non c'era, era entrato qualcuno. E quel qualcuno voleva che lei lo sapesse. Qualcuno che forse era ancora in casa. «Una donna sola, senza veri amici, potrebbe morire senza che nessuno se ne accorga.» Stella rimase lì impalata, indecisa. La luce era accesa solo nell'ingresso e l'unico rumore era il latrare lontano di un cane. Le tremavano le mani. Aveva voglia di scappare, di correre via. Si voltò a controllare se, nella strada, erano parcheggiate auto che non conosceva, ma non ne vide. Una paura nuova la fece rabbrividire.
Deglutì e, con le mani tremanti, infilò la chiave nella toppa, trasalendo al rumore del chiavistello. Avanzò nell'ingresso. E mise il piede su qualcosa di morbido, di pesante. Chiuse istintivamente gli occhi, poi guardò. Era Star, con la veste del Bambino di Praga. S'inginocchiò e le toccò la fronte con gli occhi pieni di lacrime. «Non dimenticarti di dar da mangiare al gatto...» Era fredda e aveva uno sguardo spaventato che non le aveva mai visto. Soffocò un singhiozzo. Con dolcezza, la prese in braccio. «Io non ho figli...» Con le guance rigate di lacrime, si fece forza per non scappare via. L'assassino della gatta poteva essere ovunque, magari ancora lì, nel salotto, o in agguato al piano di sopra. Doveva uscire, chiamare la polizia dal telefono della macchina. Invece rimase dov'era, col fiato corto e la mente che correva veloce. Se il killer avesse voluto ammazzarla, le avrebbe lasciato un avvertimento del genere? Si alzò col gatto in braccio, come per portarlo in camera a dormire. In punta di piedi andò in cucina, addolorata, furiosa, atterrita. Il silenzio era totale. Si guardò intorno, in attesa che gli occhi si abituassero all'oscurità. Tese le orecchie, ma non sentì nessun suono. Adagiò Star sul tavolo della cucina. Riuscì a sfilarle la piccola veste solo dopo qualche minuto, con gli occhi lucidi e il cuore gonfio di amore e di odio. Non aveva ceduto alle intimidazioni e qualcuno aveva voluto punirla. Ma chi? Accese la luce e accarezzò la sua povera gatta, preparandosi al passo successivo, poi andò al telefono e chiamò Kate Micelli a casa. «Pronto?» rispose il coroner. «Sono Stella.» Parlò con un filo di voce, ma calma. «Vorrei che facessi l'autopsia al mio gatto.» La dottoressa Micelli la aspettava davanti alla porta del proprio ufficio, con la faccia stanca; i capelli tinti la facevano sembrare ancora più pallida. Lanciando un'occhiata al sacchetto della spazzatura che Stella aveva in
mano, accese le luci e le fece strada verso una porta di metallo a due battenti in fondo a un lungo corridoio con le piastrelle verdi sul quale si affacciavano altre porte chiuse a chiave. Stella ricordava che, in occasione di uno dei primi processi per omicidio di cui si era occupata, aveva chiesto alla Micelli se ci teneva i cadaveri squartati. Quella sera, invece, non parlò e i loro passi riecheggiavano nel sotterraneo vuoto. Superarono la doppia porta e la Micelli accese la luce. La sala autopsie era tutta di metallo: tavoli, lavabi, bilance e strumenti. L'ultima volta che Stella c'era entrata, aveva coperto il volto di Novak con un lenzuolo e osservato il coroner mentre esaminava il cadavere di Fielding. Tolse Star dal sacchetto e la adagiò sullo stesso tavolo. Kate Micelli s'infilò camice e guanti di gomma e si avvicinò. «Non credo di aver mai fatto lo straordinario per un animale», disse. Stella la guardò mentre disponeva gli strumenti sul tavolo. Star sembrava fissarla, inorridita. «Mi dispiace», le mormorò Stella. Kate le posò una mano sulla spalla. «Vatti a sedere là», le disse, indicando uno sgabello di metallo vicino al lavandino. Stella si sedette rivolta verso il muro grigio e appoggiò le braccia sul lavabo. Sentiva il bisturi del coroner, il fruscio del camice contro il tavolo. Non appena udì la sega, chiuse gli occhi. Quando l'aveva adottata, Star era una gatta scarna, malata e selvatica. Stella l'aveva fatta vaccinare, aveva scoperto i suoi gusti e imparato a volerle bene molto prima che si rimettesse in forze e diventasse la sua fedele compagna, la soffice palla di pelo che si accoccolava nel letto accanto a lei, l'amica cui raccontare com'era andata la giornata in tribunale. I ricordi erano intensi, chiarissimi: a sembrare irreali erano la sala di acciaio, le luci al neon, il rumore della sega. «Oh, Gesù!» esclamò Kate Micelli sgomenta. Stella si voltò e la vide, china sul tavolo. Seguì il suo sguardo fino al cadavere aperto e sanguinolento, con le zampe divaricate. Kate Micelli se ne accorse e le fece segno di restare dov'era, di aspettare. Stella si voltò dall'altra parte e la lasciò continuare. Le tremavano talmente le mani che, per fermarle, se le mise sotto le ascelle. A un certo punto, si rese conto che Kate Micelli le si era avvicinata. Le chiese stancamente: «Allora?» Il coroner si era ricomposto e parlò con voce posata. «Devo fare qualche analisi», disse. «Ma la tua gatta è morta di collasso respiratorio acuto. Si
direbbe che le abbiano iniettato una dose massiccia di eroina.» «Chiedigli come mai Maria lo ha lasciato.» Stella, arrabbiata e angosciata, guidava troppo veloce. I suoi pensieri parevano frammenti di un incubo - un cadavere impiccato, una statuetta in frantumi, gli occhi fissi di una gatta morta, una prostituta sgozzata in un cassonetto -, un incubo fatto di documenti spariti in un archivio buio, una mano che le si posava sulla spalla, il calore della bocca di Michael, il desiderio... «Forse, se gliela dai, te lo dice.» Era disgustata di sé. Non era Sofia ad amare le storie in cui chi è in pericolo viene miracolosamente salvato, ma lei. Ne aveva talmente bisogno che a Michael era bastato pochissimo per insinuarsi nei suoi sogni come colui che, insieme con una bambina e una gatta, poteva riempire il vuoto nella sua vita. Michael l'aveva tradita e Stella si era tradita da sola in maniera ancor più umiliante che con Jack, distruggendo un'autostima che si era conquistata a fatica, affidandosi a un uomo che probabilmente rideva delle debolezze che lei tentava di nascondere sotto una patina di professionalità. Stella Marz, capo della sezione Omicidi, aspirante procuratore di contea, era consumata da una rabbia tale che quasi capiva come doveva essersi sentito suo padre quando l'aveva picchiata. Anche a lei sarebbe piaciuto poter sfogare una tale collera. Inchiodò davanti alla casa di Michael. «Ero sola come un cane, Michael. Jack lo aveva intuito...» Sbatté la portiera, corse al portone e, senza fermarsi a riprendere fiato, suonò il campanello. Silenzio. Stella suonò di nuovo. Si accese una luce. La porta interna si aprì e, dietro la zanzariera, apparve Michael, un'ombra in jeans e maglietta, con l'aria di chi è stato svegliato nel cuore della notte. Stella lo guardò oltre la rete. «Stella? Cos'è successo?» Lei non rispose. Alla fine, Michael aprì. Stella allungò una mano e lo colpì con tutta la forza che aveva. Lo schiaffo riecheggiò nel silenzio. Michael perse l'equilibrio, sorpreso, gli occhi sbarrati per lo sgomento e la rabbia. Le afferrò il polso e poi le immobilizzò anche l'altra mano, inchiodandola al muro. Gli sanguinava il labbro e Stella sentì il suo respiro caldo e aspro sul volto. Era talmente agi-
tata che non sentiva male. Si dibatté, cercando di liberarsi. «Tu lavori per Moro», gli sputò in faccia. «Gli hai dato le mie chiavi di casa!» Michael la fissò, sbalordito, poi si guardò alle spalle e la strinse con maggior forza. Sottovoce replicò: «Sei impazzita?» «Gli hai riferito quello che ti avevo detto a proposito di Jack», continuò lei, scandendo le parole. «Lo avverti se mi fermo in ufficio fino a tardi, gli dici quand'è meglio andare a casa mia, come farmi paura. Gli hai detto di Star...» «Di Star?» «Lo hai avvisato che la telefonata non era servita. Così Moro mi ha fatto uccidere il gatto...» «Stella!» Michael la guardava con gli occhi sbarrati, come se temesse che fosse impazzita, ma parlava a voce bassa. «Pensa a Sofia.» «Non si porta via la figlia a un uomo che lavora per Vincent Moro, ti pare?» Istintivamente, Stella guardò nel corridoio aspettandosi di veder arrivare la bambina. «Hanno ucciso Star?» chiese Michael. Furibonda, Stella ricominciò a divincolarsi. «Moro ti tiene in pugno», disse con un filo di voce. «Stronzate.» «Ti ha fatto studiare, ti ha pagato l'università, ti ha trovato il lavoro in procura...» Michael le tappò la bocca e la spinse contro il muro con tutto il proprio peso. Stella, furente, cercava invano di liberarsi. «Stammi a sentire», le disse lui nell'orecchio. «Stanimi a sentire, ti dico. Possiamo parlarne, se vuoi, ma non così...» «E perché?» Stella aveva il respiro affannoso e faceva fatica a parlare. «Vuoi chiamare la polizia?» Non appena lo disse, si accorse che in realtà non poteva fidarsi neanche della polizia. Riuscì a voltare un poco la testa e a dire: «Perché non chiami Arthur?» Michael continuava a tenerla schiacciata contro il muro. Mentre si divincolava, ricordò con atroce chiarezza quando, qualche sera prima, aveva desiderato di sentirsi così vicina a lui. Colta da un impeto di rabbia, gli morse la spalla attraverso la maglietta. Michael lanciò un urlo di dolore, quindi le mise una mano sulla gola, facendole sbattere la testa contro il muro. «Non voglio farti del male», le sussurrò. «Ma non voglio che Sofia senta questo tuo delirio.»
Stella deglutì, la gola stretta, la testa che le scoppiava. «Stammi a sentire e ti lascerò andare», insistette lui. «Dammi un minuto soltanto. Poi fa' quello che vuoi. Basta che vai via di qui.» Stella, con la vista annebbiata, non gli rispose. Michael allentò la stretta, ma continuò a tenerla ferma. Erano vicinissimi. «Ho lavorato per Moro due estati», mormorò. «Non proprio per lui, veramente, ma per la Dioguardia Security. Sapevo che usava la Dioguardia per pagare i suoi scagnozzi e comprare il consenso della gente del quartiere, dando ai loro figli un lavoro con cui pagarsi il college. Facevo la guardia di notte ai magazzini di generi alimentari di una ditta di Moro. Sapevo da dove venivano i soldi che prendevo, ma ne avevo bisogno.» Stella lo guardò. Continuava a respirare affannosamente. «Tu hai lavorato per Novak. Io per Moro. Due anni e basta, come te.» Quel confronto la fece andare su tutte le furie. «Tu non hai mai smesso», ribatté Stella. «Hai fatto scomparire tu quei fascicoli. Hai preso le mie chiavi. Mi hai spiato...» «Spiato? Guarda che sei stata tu a coinvolgermi nelle tue ossessioni su Novak. Io lavoro per Sloan.» «E Sloan lavora per Moro.» Michael scosse la testa, incredulo. «Non so se lui lavora per Moro, ma io non ci lavoro, questo è certo.» «Ecco perché non mi hai mai parlato dei tuoi lavoretti estivi, vero?» chiese Stella in tono rabbioso. «Mi hai raccontato un sacco di cose sul conto di Frankie Scavullo, ma su questo hai sorvolato...» «Sono italiano, te lo sei scordato? Pensi che voglia grane?» Il tono era risentito. «Ti rendi conto delle accuse che mi stai facendo? Aver ucciso Star, essere la talpa di Moro. ..» Stella cercò di spingerlo via. «Non solo Star», disse. «Ma anche Natasha Tillman.» «Aspetta un momento. Chi è Natasha Tillman?» «È vero, non ti ho mai detto come si chiamava. Ti ho soltanto spiegato che era amica di Tina Welch.» «Tina Welch appartiene a un'altra inchiesta, Stella. Sei talmente fuori di testa che non distingui più un caso dall'altro.» «Non appena ti ho parlato della Tillman, quella poveretta è finita in un cassonetto con la gola tagliata.» Scoraggiato, Michael scosse di nuovo la testa. «Non voglio sapere niente. Non me ne frega un cazzo.»
Per la prima volta, Stella vacillò nella sua ira, sentì che nella sua catena di accuse c'era qualcosa che non andava, per la precisione la morte di Natasha Tillman. «Maria sapeva che lavoravi per Moro», ricominciò. «A un certo punto non ha retto più e ti ha lasciato. Rinunciando a Sofia.» Michael fece un passo indietro e la lasciò andare. Stella lo fissò, sgomenta. Con voce strozzata le disse: «Non ho mai alzato le mani su una donna. Ma con te ho paura di non riuscire a trattenermi.» Ansimava. «Che cosa ne sai di Maria e me? Dove l'hai sentita, questa storia?» «Ho ricevuto una telefonata.» «Da chi?» Michael incrociò le braccia. «Ti stai lasciando manipolare, Stella. Vorrei poterti compatire, ma tu ti stai rovinando con le tue stesse mani.» Nel silenzio doloroso che seguì, Stella sentì alcuni passi. Nel corridoio c'era Sofia, che guardava spaventata ora il padre ora Stella. E Stella ricordò quanto la terrorizzavano i litigi dei suoi genitori. «Cristo», esclamò Michael, afflitto e disperato. Sofia li guardava. «Torna a letto», le sussurrò lui. «Vengo subito.» La bimba lanciò a Stella uno sguardo implorante che la riempì di sgomento, lasciandola incapace di parlare o di muoversi. «Torna a letto», ripeté Michael alla figlia. Lentamente Sofia si voltò. I due adulti la seguirono con gli occhi. Michael guardò in faccia Stella. «Parlane con Bright, se credi. Sappi che potresti farmi perdere il posto.» Stella provò un nuovo impeto di collera, oltre che di vergogna: anche in quel momento Michael aveva saputo toccarla sul vivo. «Puoi sempre mandare Sofia a lavare i vetri delle macchine», replicò. Michael s'irrigidì. «Non voglio più avere niente a che fare con te. Né sul lavoro né fuori. Qualunque cosa tu decida di fare.» Stella lo guardò confusa, offesa, addolorata. Poi si voltò e se ne andò. Sentì la porta che si chiudeva. Faceva freddo. La sua gatta era morta e non si era mai sentita tanto sola in vita sua. Non sapeva neppure dove andare a dormire. 13 Stella osservava insieme con Arthur Bright i tecnici della Scientifica che
cercavano impronte digitali in casa sua, sotto la direzione di Dance. Erano le sette del mattino. Dopo la scenata con Michael, era andata in ufficio perché aveva troppa paura a tornare a casa. All'alba, non sapendo più che pesci pigliare, aveva chiamato prima Dance e poi Bright. Dance aveva deciso di fare un sopralluogo approfondito a casa sua, facendole notare che, chi vi si era introdotto, avrebbe potuto uccidere lei, anziché il gatto. Seduta accanto a Bright sul divano del salotto, Stella beveva un caffè, cercando di ritrovare un minimo di lucidità. «Dobbiamo parlare della Lakefront», gli disse. «A parte quello che sta succedendo...» Non riuscì a finire. Bright si pulì distrattamente gli occhiali col fazzoletto e, a voce bassissima per non farsi sentire dagli altri, la interruppe dicendo: «Parliamo della tua candidatura a procuratore di contea». Stella si voltò verso di lui, ignorando il rumore e il movimento intorno a loro. Bright continuò a pulirsi le lenti. «Tu mi sostieni nelle elezioni comunali, ma non ti sei mai schierata contro lo stadio», cominciò. «Forse è una buona strategia. Adesso Peter Hall ti corteggia. Perché andarsi a cercare altre grane?» S'interruppe per riflettere su come continuare. «Non voglio che tu faccia una brutta fine, né letteralmente né politicamente, perché sarebbe un male per tutti e due.» Stella non sapeva che cosa dire. Si sentiva la testa pesante: nelle ultime dieci ore gliene erano successe di tutti i colori e le pareva assurdo parlare di politica poco dopo che qualcuno le era entrato in casa e le aveva ammazzato la gatta. Bright si rimise gli occhiali e concluse con lo stesso tono diretto: «Quello che voglio dire è: lasciamo che a Novak ci pensi Sloan e che Del Corso e la squadra anticorruzione si occupino di Lakefront, delle MBE e di Steelton 2000». «E di Fielding, della Welch e della Tillman che cosa facciamo?» Bright lanciò un'occhiata ai tecnici della Scientifica e poi si girò a guardarla. «Per quello che ne sappiamo, la morte di Fielding e della Welch è stata accidentale e la Tillman ha fatto la fine di tante prostitute. È un mestiere a rischio, in fondo. Ammesso e non concesso che l'inchiesta sulla Lakefront e sull'Alliance metta a nudo qualche illecito, ciò non significa che Fielding sia stato assassinato. E tu ti occupi di omicidi, non di corruzione. Portami le prove che Fielding è stato ucciso e io riapro il caso. Al momento, però, tu e Dance non avete in mano niente. È chiaro che a qualcuno non va che tu faccia quello che stai facendo e che c'entra anche
Jack.» Bright le sfiorò la mano. «A parte questo, perché dovresti rischiare d'inimicarti Peter Hall e i sostenitori dello stadio e dei sogni di gloria che Krajek nutre per Steelton, per quanto loschi siano? Perché non ti chiami fuori e lasci che a pescare nel torbido restiamo Del Corso e io? Perché non vuoi che ti proteggiamo?» Stella era disorientata. Un discorso così lungo e così personale da parte di Bright era davvero inconsueto. Per quanto stanca, capiva che le stava offrendo una via di scampo, un modo per evitare ripercussioni politiche negative senza incorrere in nessuna critica, visto che si trattava di rispettare le competenze delle varie sezioni della procura. Ciò avrebbe portato un ulteriore beneficio di cui Bright non era consapevole, ovvero l'interruzione della collaborazione tra Stella e Michael. Dandole l'opportunità di non dirgli che conosceva il suo passato - o il suo presente - e cioè i suoi legami con Vincent Moro. Fissò il tappeto senza parlare. Quante volte aveva già ripensato alla sera prima, alla rabbia, alle accuse, alle ammissioni e ai dinieghi di Michael. E all'impotenza, allo sgomento, alla paura che aveva letto sul volto di Sofia. «Ti stai rovinando con le tue stesse mani», le aveva detto Michael. Si rese conto con orrore che la sua serenità si reggeva su basi molto fragili. Ripensò a Star. «Si direbbe che le abbiano iniettato una dose massiccia di eroina...» «Prenditi due giorni», le stava dicendo Bright. «Dance farà sorvegliare la casa e, quando rientri, potresti occuparti di qualcos'altro.» Stella lo guardò. «Ovvero?» «Possiamo uscire un momento?» Stella prese una giacca a vento nell'armadio e uscirono nel giardino coperto di brina. «Ho dei problemi nel West Side», disse Bright. «Non godo di molto favore tra i polacchi. Vorrei che mi sostenessi a Warszawa. E non solo lì.» La guardò con grande attenzione. «In questo modo tu cominci a costruirti un'immagine e io racimolo qualche voto che potrebbe rivelarsi importante. Sei una donna e sei bianca: puoi fare per me molto più di quanto non possa fare Sloan.» Stella si riteneva pronta di riflessi, ma in quel momento aveva la mente obnubilata e non si fidava del proprio giudizio: il fatto che Bright avesse accennato a Sloan in maniera tanto aperta quanto gratuita l'aveva colpita. «Che cosa stai dicendo, Arthur? Che se vincerai appoggerai me?» Se non fosse stata così stanca, certamente avrebbe dimostrato più tatto.
Era stata schietta non per interesse: era troppo angosciata per quello, ma non abbastanza da non essere curiosa. Bright non rimase sorpreso della domanda, ma misurò le parole. «Se mi aiuterai a vincere e ti dimostrerai una candidata forte, avrò due buoni motivi per appoggiarti. Ma dovrai partecipare alla campagna elettorale più attivamente del previsto.» A quel punto, Stella capì quanto era stato abile: con quella proposta non stava proteggendo dalle conseguenze del caso Novak soltanto lei, ma anche se stesso. Se delle indagini si fosse occupato Sloan, avrebbe anteposto gli interessi politici del procuratore alla verità. Ma il colpo di genio di Arthur era mettere Sloan, anziché lei, in quella posizione rischiosa. Allontanarla da Steelton 2000 conveniva tanto a Bright quanto a Stella. E lei si chiese - e non per la prima volta - se era abbastanza elastica, interessata e capace di comprendere le motivazioni altrui per fare strada in politica. Dopo un momento, disse: «Sono un po' lenta, stamattina». Bright sorrise e la guardò come se cercasse di leggerle nel pensiero. «È solo questione di allenamento, Stella. Io sono un nero ambizioso in una città di bianchi. Ho imparato a pensare.» Da quanto tempo lavorava per farsi eleggere sindaco? Era un sogno che covava da trent'anni, dai tempi delle superiori, quando Stella era ancora piccola e a Steelton nessun nero aveva mai ricoperto una carica pubblica? Quanti calcoli aveva fatto, giorno dopo giorno, da allora? Quante volte aveva nascosto le proprie mire, simulato interesse per un obiettivo mentre lottava in realtà per un altro, finto di stimare uomini che disprezzava, tra cui forse anche Jack Novak; quante volte aveva aspettato che le debolezze o gli errori di giudizio altrui gli spianassero la strada? Forse lo stava facendo anche in quel preciso momento con lei. Ma Stella credeva in lui e in quello che era stato capace di costruire. «Ti è mai capitato di sognare di cadere dal ventesimo piano?» gli domandò. «E di svegliarti un attimo prima di sfracellarti?» Bright annuì. «Il mio incubo peggiore è quello in cui scoprono che non ho passato l'esame di Stato e mi tolgono la carica di procuratore. Come vedi, temo il giudizio degli altri più che la morte. Comunque ho fatto anche il sogno che dici tu.» Stella incrociò le braccia e rabbrividì, nonostante la giacca. «È così che mi sento in questo momento. Come quando mi sveglio e non so dove sono. L'unica cosa da cui capisco che sono ancora viva è la paura mortale che provo.»
Bright ci pensò su. «A volte mi viene in mente George Walker alle ultime elezioni. Io ero convinto che sarebbe diventato sindaco, invece l'hanno incastrato per quella storia della cocaina e la grande speranza dei neri sono diventato io.» Alzò il pollice e l'indice e li accostò. «Ci sono vicinissimo anch'io, ormai. Come George Walker. E forse anche tu.» Stella lo ascoltava, ipnotizzata come le era successo con Hall: si sentiva una bambina a uno spettacolo di magia. Poi le venne in mente la fine che avevano fatto il suo ex amante e la sua gatta. «Lavoro per te», rispose. «Come per il caso Novak, sta a te decidere se devo lavorare su Steelton 2000 o no. E, se hai bisogno che ti aiuti nella campagna elettorale, ho abbastanza ferie arretrate per occuparmene. Ma, per i prossimi sei giorni, voglio continuare a indagare sulla morte di Jack.» Bright le lanciò un'occhiata gelida, chiaramente irritato dalla sua cocciutaggine, quando lui le stava spianando la strada per il futuro. Però aveva bisogno di lei. «Okay», disse alla fine. «Basta che tu non corra rischi. Domani ti farò avere il programma delle manifestazioni cui partecipare.» Le posò una mano sulla spalla e la guardò negli occhi. Chiariti i reciproci interessi, poteva tornare a occuparsi della sua campagna elettorale. Quando Stella tornò a casa, Dance era sulla porta di servizio. Ai suoi piedi, nella pallida luce invernale, c'era la ciotola di Star con qualche avanzo di cibo. Al pensiero di non doverla più riempire, le venne da piangere. Si voltò dall'altra parte, ma Dance, intento a studiare la serratura, non si accorse di niente. «Non ci sono segni di forzatura?» domandò Stella. Dance borbottò di no, senza voltarsi. Sembrava di pessimo umore. «Nat, come si fa a entrare senza chiave e senza forzare la serratura?» «Non si può. A meno che uno non sia il mago degli scassinatori. Hai una domestica, qualcuno che viene in casa tua quando non ci sei?» «No. Ormai sono mesi...» Aveva dovuto rinunciarci per far fronte alle spese della clinica. Dance si voltò a guardarla senza il minimo calore. «Hai dato la chiave a qualcuno?» Stella s'irrigidì, non soltanto per il modo in cui glielo aveva chiesto, ma anche perché si vide costretta a prendere la decisione che aveva rimandato fino ad allora. Ancora una volta, le venne in mente Sofia. «Tu hai lavorato per Novak. Io per Moro. Due anni e basta, come te...» «Ci devo pensare», rispose Stella. «Pensaci», le intimò Dance, imponente e impenetrabile come una ma-
schera africana. «Come ti dicevo l'altra sera, devi deciderti. Qualcuno sta cercando di dirti qualcosa ed evidentemente ha la sensazione che tu non capisca il messaggio.» Triste e sfiduciata, Stella si voltò e si allontanò. Andò nello studio di Novak, spinta tanto dalla logica quanto dal sentimento. Dalla logica perché gli incartamenti di Jack erano l'unica prova che aveva; dal sentimento perché stava cercando di evitare Michael. Si sedette sulla poltroncina di Jack e cercò di scacciare i ricordi, poi chiamò la propria segretaria per lasciarle il numero di telefono e cominciò a studiare le carte. Iniziò dai sei mesi che Michael aveva già controllato. Finì sette ore dopo, alle quattro del pomeriggio. Non vi trovò nulla di sospetto. Questo poteva confermare le supposizioni di Michael - e cioè che Moro non avesse più nessuno che aiutasse Novak a scagionare i suoi assistiti -, oppure poteva voler dire che Michael aveva distrutto i documenti che dimostravano il contrario. E Stella non aveva modo di saperlo. Stanca, osservò le buste e le cartelle rimaste negli scatoloni. Aveva ancora tre anni e mezzo da esaminare. Ma perlomeno il lavoro la distraeva dal pensare a Star e le dava un motivo in più per non tornare a casa. Lo squillo del telefono di Jack, basso come sempre, la fece comunque trasalire. Era Kate Micelli che, senza preamboli, le disse: «Ieri sera, dopo la storia del gatto, ho ripensato a Novak». Stella raddrizzò la schiena. «Dimmi tutto.» «Mi chiedevi se potevano avergli messo quella cinghia al collo senza che lui se ne accorgesse. Hai mai sentito nominare il flunitrazepan?» «È quello che usano per stuprare le ragazze, no? Glielo mettono nel drink alle feste, così quelle non capiscono più niente, non oppongono resistenza e poi non ricordano niente di ciò che gli fanno. Comodo.» «Nel sangue non risulta, ma nelle urine sì. Se lo vai a cercare, naturalmente.» Il coroner tossicchiò. «Io ho tenuto un campione di urina di Novak e l'ho fatto analizzare. Contiene tracce evidenti di flunitrazepan.» Improvvisamente a Stella l'ufficio di Novak parve più scuro e freddo. «Dunque lo hanno drogato», concluse. «Missy Allen o la persona che Jack aspettava.» «Infatti. Di certo non faceva parte di un rituale autoerotico: il flunitraze-
pan non serve per aumentare il piacere sessuale. A questo punto, però, bisogna porsi un'altra domanda: come fa una donna come la Allen a sollevare un sacco di patate di ottanta e passa chili?» Stella ci pensò su. «Non ce la fa. A meno che non gli abbia messo il flunitrazepan nello scotch e poi abbia fatto entrare in casa un complice. In ogni caso, ci vogliono premeditazione e una buona dose di sangue freddo, è un lavoro da professionisti», osservò, eccitata al pensiero di aver finalmente scoperto una cosa importante e inorridita per l'enormità della crudeltà umana, per quello che avevano fatto a Jack. L'idea che chi lo aveva ucciso e chi era entrato in casa sua fossero la stessa persona la riempiva di terrore, come la certezza che la Scientifica non avrebbe trovato nessun indizio. «Dunque potrebbero averlo drogato e poi avergli messo reggicalze e tacchi a spillo.» «Infatti. Il perché spetta a te scoprirlo.» «Per far sembrare la cosa diversa da quella che era?» ipotizzò Stella. Ma non bastava: perché un professionista avrebbe dovuto perdersi in tanti dettagli? Kate Micelli rimase zitta. «Grazie, Kate», le disse Stella. «Grazie mille.» Mettendo giù il telefono, le parve di vedere Moro nell'ombra e si sentì raggelare. Sei stato tu, stronzo che non sei altro. A corrompere i giudici, ad assassinare l'haitiano, a uccidere Jack, a far sparire gli incartamenti, ad ammazzare Star. Anche se forse non lo proverò mai, so che sei stato tu. Tu e qualcun altro. Era quello il problema vero, scoprire chi era il qualcun altro che aiutava Moro. Se avesse continuato a indagare, forse Moro l'avrebbe fatta uccidere prima che scoprisse la verità. Flunitrazepan. Era fin troppo facile, dopo Jack, immaginare che morte avrebbero scelto per lei. Non le restava che riferire a Bright quello che le aveva detto il coroner e poi avvertire Dance. Ma poteva essere lui, l'uomo di Moro, e forse anche l'ultimo visitatore di Jack. Il telefono squillò di nuovo. «Stella?» Riconobbe subito la voce di Dance e fu presa ancora una volta dalla paranoia: e se il telefono di Jack fosse stato sotto controllo? «Sì?» «Ci hai pensato?» le chiese con la consueta indifferenza. Stella rifletté prima di rispondere: «Sono qui, se è questo che intendevi».
«Come vuoi.» Non c'era emozione, in quelle parole. «Allora ho una cosa che potrebbe interessarti. Un testimone che afferma di aver visto la Welch e Fielding insieme la sera in cui morirono.» 14 Come il municipio, anche la casa di fronte a quella di Fielding era di fine Ottocento, con finestre alte e intricate modanature, e il proprietario, un manager sui trentacinque anni col gel nei capelli e gli occhiali di tartaruga, ne aveva accentuato lo stile arredandola con mobili francesi. Roger Blechman spiegò a Dance e a Stella che, quando Fielding era morto, lui si trovava a Toronto e non aveva saputo nulla. La sua compagna, Susanna Patch, che era rimasta a custodirgli la casa e a portare fuori il dobermann, però, due sere prima, a cena, gli aveva riferito un episodio curioso. Blechman aveva controllato l'agenda e verificato la data: sebbene Susanna non ci avesse badato, gli era venuto il sospetto che il fatto fosse avvenuto proprio quella sera e potesse essere importante. D'accordo con lei, pertanto, aveva chiamato Dance. Tutto ciò fu raccontato in modo molto formale a indicare che, anche nelle faccende che non gli competevano direttamente, Roger Blechman era un uomo preciso. Susanna Patch, una studentessa col viso acqua e sapone e i capelli biondi naturali pettinati all'indietro, che stava facendo il dottorato in storia dell'arte, era stata ad ascoltare in rispettoso silenzio. Dance, come se avesse già saputo abbastanza da Blechman e fosse certo di non poter scoprire da lui null'altro di rilevante, accese il registratore e cominciò a rivolgere domande alla Patch. Seria e riservata, la ragazza rispose con un lieve accento del New England. Per un po', Stella rimase ad ascoltare cercando di nascondere la propria diffidenza nei confronti di Dance. Era tardi. Susanna ne era certa perché, dopo aver guardato le previsioni del tempo alle undici, si era ricordata che quella sera bisognava portare fuori la spazzatura; Roger le aveva raccomandato di farlo, visto che la nettezza urbana di Steelton non era delle più efficienti. Si era messa la vestaglia ed era uscita per spingere il bidone di plastica dal retro della casa fino al marciapiede. Faceva molto freddo, la luna era alta nel cielo terso e davanti a tutte le case erano già allineati gli altri bidoni. Susanna aveva controllato che il
coperchio fosse a posto perché Roger l'aveva avvertita che nel quartiere c'erano parecchi gatti randagi e si era avviata in fretta verso casa. Aveva sentito un rumore lungo la strada, il ronzio basso di un'auto che si avvicinava; si era voltata e aveva visto i fari nel gioco di luci e ombre creato dai lampioni di ferro battuto fatti installare da Roger e dai suoi vicini. L'auto aveva rallentato e Susanna aveva notato soltanto che era bianca e di lusso, perché non s'intendeva di automobili. L'unico motivo per cui si era soffermata a guardare era che in quella strada di solito non passava nessuno. L'auto si era fermata sul lato opposto della strada, tre case più in là, nella zona d'ombra tra un lampione e l'altro, dov'era quasi invisibile. Susanna aveva sentito una portiera che si chiudeva piano e, protetta dall'oscurità, era rimasta a guardare dalla veranda. Aveva udito dei passi in lontananza e visto una sagoma muoversi davanti alla macchina; poi c'era stato un altro rumore metallico, probabilmente la portiera dalla parte del passeggero che si apriva. Dopo un tempo che le era parso sorprendentemente lungo, l'aveva sentita richiudere. I passi che aveva udito dopo erano più lenti e pesanti. Le era parso strano che fossero di una persona sola, dal momento che aveva sentito aprirsi e chiudersi due portiere. Ne era sicurissima. Non beveva, a parte un bicchiere di bordeaux ogni tanto con Roger, e aveva un udito finissimo, come diceva suo padre ricordando la volta che, a soli tre anni, lo aveva sorpreso a nascondere i regali sotto l'albero di Natale. Ormai si era abituata all'oscurità e, nonostante il freddo, era rimasta a curiosare. Aveva scorto due persone alla luce di un lampione, solo per pochi secondi, ma l'avevano colpita: l'uomo trascinava la donna, che sembrava ubriaca, verso una villa senza nessuna luce accesa, neanche sulla veranda. Erano spariti di colpo. Aveva sentito il cigolio del portone aperto e richiuso. L'ultima cosa che aveva visto era un bagliore giallo a una delle finestre. Poi era entrata in casa, rabbrividendo. «Quanto era alta la donna?» chiese Stella. Dance la guardò in tralice. Susanna Patch rifletté a lungo, prima di rispondere. «Era alta. Era appoggiata all'uomo e gli arrivava alla spalla.» «Li conosceva?» La ragazza scosse la testa. «Mai visti.» Lanciò un'occhiata al suo com-
pagno e poi a Dance. «Ho sentito che lui era bianco e lei nera, ma non posso dire di averlo notato. Era troppo buio. Però penso che fosse lui, perché aveva le chiavi.» «Come lo descriverebbe?» chiese Stella. Susanna alzò gli occhi verso il soffitto. «Grande e grosso, direi... Spalle larghe. Ma forse mi è sembrato così per contrasto con lei, che era magrissima e non si reggeva in piedi. Era soprattutto lei a dare nell'occhio.» Quando Stella si zittì nuovamente, Dance riprese l'interrogatorio. Usciti dalla casa di Blechman, rimasero un istante sul marciapiede. Sebbene fosse presto, le otto appena passate, era una serata fredda e limpida e la strada era silenziosa e deserta come l'aveva descritta Susanna Patch. «Voglio vedere la casa di Fielding», disse Stella. Dance annuì. Al telefono Stella gli aveva raccomandato di prendere le chiavi. Attraversarono la strada in silenzio. La casa era buia. Entrando, Stella accese le luci e rabbrividì al pensiero che lì erano stati trovati due cadaveri. L'atmosfera era di desolazione: c'era odore di chiuso e il freddo le faceva venire in mente l'obitorio. Non le piaceva stare sola con Dance. Ignorandolo, passò da una camera all'altra. Il salotto era sobrio, con l'arredamento funzionale di un uomo divorziato che ha lasciato tutti i mobili alla ex moglie e sta poco in casa. Anche la cucina era spoglia, col minimo necessario per un padre e una figlia o - pensò Stella - per un uomo e un ospite. Osservò senza parlare il lavabo di acciaio inossidabile dove la polizia aveva trovato un panino al prosciutto e un bicchiere di birra, accanto al cucchiaino coi resti di polvere bianca. Le pareva un'assurdità totale che però, forse per la prima volta, cominciava ad avere un senso. Andò nella camera di Fielding e guardò il letto matrimoniale. Ricordava benissimo le foto dei due cadaveri: Fielding e Tina Welch, nudi, sembravano due estranei anche da morti. Ciò che in quelle foto non si vedeva era il ritratto di una bambina sul comodino di Fielding, una bimba bella come Sofia. Dance la raggiunse e le disse piano: «Pensi che lei fosse già morta». Stella, nervosa, non si girò. Erano due ore che si chiedeva se Dance l'avesse invitata a prendere parte a quel colloquio perché lei si sbottonasse e, semmai, a quale scopo. Doveva decidere che cosa dire e che cosa non dire. «No», rispose. «Penso che fosse già morto lui.»
Dance le passò vicino per andarsi a sedere sul letto e la guardò. «Questo spiegherebbe diverse cose. Per esempio il panino.» «Sì, ma come spieghi Curran?» «Curran?» Dance la scrutò. «Non è facile. Ma supponiamo che Fielding sia stato ucciso e che il suo assassino abbia preso in prestito la sua macchina. Sappiamo che due sera prima di morire, Fielding era tornato a casa prima del solito perché non stava bene. Forse il suo assassino lo sapeva. Potrebbe avergli preso la Lexus ed essere andato a donne nello Scarberry. E Curran l'ha visto. Due sere dopo, la tua amica Natasha Tillman ha visto salire sulla stessa macchina Tina Welch.» Stella era a braccia conserte. Sebbene ne avesse viste ormai di tutti i colori, la spietatezza di uccidere due volte, scegliendo una seconda vittima a caso per mascherare il primo omicidio, le pareva inaudita. «La Micelli sostiene che sarebbe stato difficile fare un buco a Fielding senza che lui opponesse resistenza e, soprattutto, essere sicuri che con quella dose morissero tutti e due. E quindi ritiene che sia stato un incidente.» Dance si accigliò. «E Susanna Patch dove la mettiamo? Sappiamo che i testimoni oculari sono inaffidabili, soprattutto quelli che si piccano di avere un'ottima memoria. Se vogliamo crederle, però, Tina Welch è arrivata qui priva di sensi, come minimo. Vuoi che si sia ripresa, abbia fatto una pera a Fielding e poi se ne sia fatta una lei?» Stella alzò le spalle. A prima vista, il loro era uno scambio di opinioni tra colleghi, professionisti che confrontano le rispettive teorie, ma a Stella sembrava che fosse un gioco su più livelli, quello delle ipotesi e quello delle cose volutamente non dette. «Il problema è la Welch, non Fielding», disse alla fine. «Perché?» chiese Dance. «Secondo la Patch, Tina Welch arrivò qui priva di sensi. Stando alla Tillman, salì a bordo della Lexus di Fielding circa mezz'ora prima, completamente sveglia. Ciò implica che conoscesse l'uomo alla guida abbastanza da salire in macchina e da farsi un buco per strada. Come ho detto, Fielding a quel punto poteva essere già morto. Ma l'idea che un'altra persona abbia portato la sua macchina in giro per lo Scarberry due volte in una settimana mi sembra un po' forzata.» Stella s'interruppe e guardò bene in faccia Dance, nella speranza di sembrargli convincente. «Se Curran aveva visto la Lexus due sere prima, mi pare logico che alla guida ci fosse Fielding anche la seconda volta. E che Tina Welch abbia accettato di salire in macchina la sera in cui morirono perché lo conosceva già. Per quanto strano
possa sembrare.» Quando Stella arrivò a casa, trovò un'automobile della polizia parcheggiata davanti al giardino e un agente in divisa sulla veranda. Lo ringraziò, aprì il portone e si bloccò nell'ingresso, lo sguardo fisso sul punto in cui aveva trovato Star morta. Trasse un respiro profondo e salì in camera. Si coricò sul letto con una pezzuola fredda sugli occhi per calmare il mal di testa. Era confusa. Star, Novak, Michael e Sofia, Fielding e Tina Welch, Natasha Tillman. L'offerta di Hall, l'offerta di Bright. La pervicacia delle proprie ambizioni. L'irrequietezza che l'aveva spinta a ingannare Dance. «Al momento, però, tu e Dance non avete in mano niente.» Così aveva detto Arthur. Ma forse non era vero e - a parte l'assassino - solo Stella sapeva perché. A volte la verità supera l'immaginazione. Prese il telefono sul comodino aspettandosi il clic e il segnale lievemente alterato tipico dei telefoni sotto controllo. Non sentì nulla, ma aspettò un po' prima di chiamare Kate Micelli a casa. «Scusa», disse al coroner. «Non pensare che ci stia prendendo l'abitudine, ma volevo chiederti due o tre cose.» «Purché non siano altri gatti...» replicò l'altra in tono piatto. «Dimmi.» «Ricordi quanto era alto Tommy Fielding? E la Welch?» «Esattamente no. Mi pare che lui fosse uno e ottantacinque, uno e ottantasei. Anche lei era alta: uno e settantasette o settantotto.» Allora ricordava bene. «Hai per caso fatto anche a loro quell'analisi delle urine?» «Non mi sembrava il caso.» La risposta del coroner, sebbene pronta, indicava sorpresa. «Vuoi che la faccia?» «Sì», rispose Stella. «Non appena puoi.» 15 La mattina dopo, Stella entrò nell'ufficio di Michael. Lui alzò gli occhi dalle carte che aveva sulla scrivania con espressione dapprima sorpresa, poi diffidente e quindi apertamente risentita. Evidentemente era arrabbiato e aveva paura di lei, ma se ciò significasse che lui era innocente o colpevole non era affatto chiaro. Non le parlò e aveva l'aria di non avere nessuna voglia di farlo.
Neanche per Stella era facile trovare le parole. Prese una sedia e gli si sedette di fronte senza parlare e senza abbassare gli occhi. «Devo dirti una cosa», esordì. «Non credo proprio, a meno che tu non stia per andare da Bright. Sloan mi ha informato che non lavoro più per te.» La durezza del tono la bloccò, ma solo per un istante. «Se pensi che sia venuta a scusarmi, ti sbagli di grosso. Mi dispiace per Sofia, naturalmente. Per il resto, tutto quello che ti ho detto l'altra sera è vero.» Parlava a voce bassa, controllata. «Quando ho fatto domanda di assunzione in procura, ho detto ad Arthur della mia relazione con Jack. Tu invece gli hai tenuto nascosto che a pagarti gli studi è stato Vincent Moro. E chissà cos'altro... Chi è entrato in casa mia non ha forzato nessuna serratura, Michael. Questo significa che aveva le chiavi. Dimmi a chi le hai date.» Michael la fissò. «A nessuno», rispose, facendo per alzarsi. «Chiamiamo Bright. Subito. Non voglio altre scenate isteriche.» Stella era tesa come una corda di violino. «Di' ai tuoi amici che intendo scoprire chi ha ucciso Jack Novak, chi è il mandante e perché. Poi toccherà a te.» S'interruppe, cercando di controllarsi. «Prima di venire qui ho scritto una lettera in cui specifico tutto quello che io credo tu abbia fatto e l'ho chiusa in una cassetta di sicurezza. Quindi, prima che mi facciano qualcosa, avvertili. In modo che possano decidere quanto vali per loro.» L'espressione di Michael passò dalla collera all'incredulità. Sgomento, a voce bassissima, sussurrò: «Parli sul serio, vero?» Stella si alzò e lo guardò negli occhi. «Chi c'è dietro la Lakefront, Michael?» A un interlocutore meno cinico, il suo stupore sarebbe sembrato autentico. «Pensi che io lo sappia? Ma se sono stato io il primo a farti questa domanda... Se non fosse stato per me, non ti sarebbe nemmeno venuto in mente.» Stella sorrise, dura, determinata come se ne andasse della propria vita. E forse era proprio così. «Trovami una risposta, allora», replicò. E uscì. Trascorse le ore successive nello studio di Novak senza ricavarne nulla di costruttivo. Nonostante l'urgenza di quel compito, si distraeva. Pensava a Michael, poi a Jack, all'umiliazione di quell'ultimo weekend nella villa al lago e al ricordo più recente del suo corpo martoriato, con gli occhi fuori delle orbite. Il suo assassino doveva aver frugato dappertutto, ma Stella non poteva
provarlo. Tuttavia sapeva quant'era abitudinario Jack, lo aveva imparato le mattine in cui si era svegliata con lui e l'aveva visto chiudere con cura ogni cassetto prima di uscire di casa. Era un uomo ordinato, preciso, per quanto incredibile potesse sembrare, data la sua vita sregolata. Persino le pratiche più recenti erano perfette, già catalogate e archiviate in ordine cronologico. Ma non trovò assolutamente nulla. Non c'erano patteggiamenti strani, né condanne troppo miti, non erano più scomparse prove... A meno che Michael non avesse saputo dove guardare e quali carte distruggere, sembrava che Jack a un certo punto avesse perso la capacità di far scagionare i propri clienti. Oppure era stato Moro a non chiederglielo più, ad aver trovato altre forme di protezione. Forse i suoi amici nelle forze dell'ordine avevano fatto carriera. Prese il telefono e chiamò Kate Micelli. «Hai i risultati?» le domandò. «Dammi altre due ore», rispose laconica la Micelli, apparentemente più per imbarazzo che per mancanza di tempo. «Poi vieni da me.» Stella non chiese perché. Riattaccò e, per ammazzare il tempo, sfogliò altri incartamenti in cerca di quello che ormai si aspettava di trovare, ovvero la totale assenza di anomalie, stranezze e favori a beneficio di George Flood. O di Vincent Moro. Poco dopo le quattro prese la macchina e andò da Kate Micelli. Il coroner si alzò dalla scrivania con l'aria grave. Alla luce impietosa dei neon i suoi lineamenti sembravano ancora più duri. Disse alla segretaria di non passarle nessuna chiamata, andò alla porta e la chiuse. «Non volevo parlartene per telefono», esordì. Stella si sentì mancare. «Cosa c'è?» «Non so da che parte cominciare.» Il tono era asettico, professionale, quasi volesse mantenere un certo distacco da ciò che aveva scoperto. «Tu sai come lavoriamo, Stella. Eseguiamo molti tipi di analisi, ma non possiamo farle tutte. Prendiamo per esempio Novak. Ci sembrava utile misurare il tasso di alcol e cercare tracce di sostanze stupefacenti nel sangue, ma non abbiamo effettuato test più specifici...» «Per le benzodiazepine come il flunitrazepan, per esempio.» «Infatti. Per quello ci vuole un esame apposta. Finché non mi hai messo la pulce nell'orecchio, non l'ho fatto. Idem per Fielding e per la Welch.» La voce della Micelli divenne stranamente dolce. «Quello della Welch è negativo, Stella. Quello di Fielding positivo.»
A Stella venne la pelle d'oca. «Novak», disse lentamente. «E Fielding...» Il coroner annuì. Per una volta, pareva volerle dire, era un passo avanti a lei. «Tina Welch era eroinomane, non c'era bisogno di costringerla a farsi un buco. Con Fielding invece era diverso. Resta il problema della dose letale, ma una persona abbastanza competente da mettergli nella birra una benzodiazepina dieci volte più potente del Valium come il flunitrazepan sa anche calcolare la dose giusta per uccidere sia lui sia lei. Ho considerato le varie possibilità. Poi mi è venuta in mente quella serie di morti a Baltimora, quand'era stata messa sul mercato una partita di eroina tagliata col fentanyl. Non era stata una buona idea: il fentanyl è un anestetico, due volte più potente della morfina. A un'overdose di eroina e fentanyl non scampa nessuno.» Incrociò le dita. «Ed è questo che ha ucciso sia la Welch sia Fielding.» Stella era ammutolita al pensiero di quel piano intricato e terribile che, da semplice sospetto, diventava realtà. Lo stesso uomo che aveva ammazzato Jack Novak aveva ucciso anche Tina Welch e Tommy Fielding e l'unica ad averlo visto era Susanna Patch. L'assassino, Stella ne era certa, aveva anche tagliato la gola a Natasha Tillman. E messo in atto una serie di avvertimenti, uno più spaventoso dell'altro, indirizzati a lei. Ma nessun movente plausibile nel caso di Novak - il quale doveva essere stato ucciso per qualche intrigo di corruzione - sembrava applicabile agli altri omicidi. «Parliamo dell'assassino», disse la Micelli. «Okay.» «Il flunitrazepan lo conoscono tutti, ma il fentanyl no. Secondo me, abbiamo a che fare con qualcuno che s'intende di droga e ha una certa preparazione in campo medico o qualche conoscenza specifica.» Dopo una pausa, aggiunse: «È lo stesso uomo che ti ha ucciso il gatto, Stella. Non te lo scordare». Stella era senza parole. Uscendo dall'ufficio di Kate Micelli, Stella si guardò intorno. Nei canyon di cemento delle strade del centro, tra negozi malandati, vecchi palazzi di uffici e un ristorante già chiuso, soffiava un vento gelido. A quattro isolati di distanza c'era lo Scarberry e, più avanti ancora, il pontile sotto il quale era stato trovato morto Jean-Claude Desnoyers, l'haitiano. Stella rabbrividì. Pur essendo vicina ai nuovi grattacieli che, insieme con lo stadio, rappresentavano le grandi speranze di rinnovamento della città, le strade erano pericolosamente vuote. La paura aveva messo in fuga le
famiglie bianche, spingendole verso i quartieri residenziali dove c'erano meno pericoli per i bambini. Stella, come molte altre donne, non andava volentieri in centro. In giro non c'era anima viva. Mentre attraversava la strada per andare alla macchina, le venne in mente com'erano sparite Tina Welch e Natasha Tillman; poi pensò a Desnoyers, che le aveva raccontato di essere salito in auto credendosi al sicuro e di essersi trovato la canna della pistola di Curran puntata alla testa. Si fermò accanto alla macchina, aspettandosi qualche brutta sorpresa. Guardò dentro e, quando vide che non c'era nessuno, si accorse di come le batteva forte il cuore. Aveva bisogno di un rifugio, di un luogo tranquillo in cui pensare senza paura. Gliene veniva in mente uno solo. Salì in macchina e si diresse verso Warszawa, controllando più volte nello specchietto retrovisore di non essere seguita. Come al solito, i grandi portali della cattedrale di St. Stanislaus erano aperti. Stella posò la mano sul legno intagliato. Da un secolo a quella parte, la chiesa stava aperta giorno e notte e padre Kolak rispettava la tradizione per dare rifugio a chi cercava pace; anche il bisnonno di Stella, Carol Marzewski, che era morto prima che lei nascesse e non avrebbe mai immaginato la vita che conduceva, aveva contribuito a edificare il tempio cui lei stava facendo ritorno. Entrò a passo svelto. Il bisnonno di Stella non sapeva bene l'inglese e le messe che aveva sentito, come la prima cui aveva assistito lei, erano in latino, cantate. In quel momento la chiesa era immersa nel silenzio. Una donna del quartiere si genuflesse davanti all'altare illuminato dalle candele e si fece il segno della croce. I passi di Stella risuonavano. In nomine Patris et Filli et Spiritus Sancii. Il primo ricordo di Stella risaliva a quando lei aveva quattro anni. Era rannicchiata accanto al papà e alla mamma al funerale del nonno. Da allora, era entrata in quella chiesa migliaia di volte. Aveva smesso di frequentarla soltanto nel periodo in cui suo padre non voleva più vederla; in quegli anni bui c'era tornata una volta soltanto, dopo l'ultimo weekend con Jack, e anche allora, come in quel momento, si era guardata intorno per accertarsi che nessuno la vedesse e aveva ripensato alla messa in memoria del nonno
Emil Marz. Ave Maria, piena di grazia... prega per noi peccatori, adesso e nell'ora della nostra morte. Anche quel weekend si era sentita un po' morire. Jack le aveva detto di non preoccuparsi, mentre l'altro uomo, fuori, stava ad ascoltare. «Fallo per me. Per noi...». Stella s'inginocchiò nella penombra. Aveva fatto tanta strada e, nonostante tutto, era tornata lì, ancora perseguitata da Jack Novak, ancora in lotta per la sopravvivenza. Sperava di ritrovare un po' di lucidità con la preghiera, con l'aiuto di Dio. Per un po' - non avrebbe saputo dire quanto - Stella lasciò che la preghiera e il luogo facessero la loro parte. Poi fece appello alla sua logica di magistrato. L'assassino aveva ucciso prima Fielding e poi Novak. Per occultare il proprio movente, aveva architettato una morte infamante per le sue vittime: Fielding per droga, in compagnia di una prostituta nera, Novak in un rituale sadomaso. La morte delle due donne, in sé, non voleva dire nulla. La Welch era stata assassinata perché serviva alla messinscena, la Tillman per errore: l'assassino aveva seguito Stella nello Scarberry, aveva visto la Tillman salire sulla sua macchina e aveva temuto - sbagliando, come poi si era visto -che la Tillman sapesse troppo e lo smascherasse. Allora era quello che Fielding e Novak avevano in comune, pensò Stella: non droga, né corruzione, ma informazioni. Sapevano troppo, avevano il potere di danneggiare qualcuno. Ma di che cosa poteva trattarsi? Sicuramente non di sesso, se si voleva credere ad Amanda Fielding. Continuò a pensare. Quando avevano perquisito la casa di Fielding, avevano trovato una rivista pornografica. Doveva avercela lasciata l'assassino, ormai Stella ne era sicura, a dimostrazione di un interesse inesistente. Con Novak, invece, non ne aveva avuto bisogno. Novak aveva sempre avuto gusti un po' particolari, come aveva detto Curran e confermato Missy Allen: il vuoto interiore, la continua ricerca dell'eccitazione lo avevano portato alla morte. Eppure ci doveva essere un motivo per quella messinscena.
Stella rimase in ginocchio a meditare. Era convinta che l'assassino avesse frugato ovunque, in casa di Jack. Che cosa cercava? E cosa c'entrava Tommy Fielding? Perché, se aveva trovato quello che cercava, continuava a minacciare Stella e a trovare tanto pericolose le sue indagini? Evidentemente non aveva trovato ciò che cercava. Sgomenta, Stella ripassò ciò che sapeva. La polizia aveva perquisito lo studio, aperto la cassaforte dov'era custodito il testamento di Jack Novak, era andata nella casa al lago... Stella ricordò, e chiuse gli occhi. Seminuda, era scoppiata in lacrime. Dalla porta socchiusa della camera da letto sentiva le voci di Jack e dell'uomo con cui voleva farla andare a letto che rideva, sprezzante. Dopo un po', la porta si era aperta e richiusa. Silenzio. Sollevata, disperata, Stella tremava. La porta della camera da letto si era di nuovo aperta. Jack l'aveva guardata. «Diego è andato via», le aveva comunicato. Stella era scoppiata in lacrime. Con voce soffocata gli aveva detto: «Adesso me ne vado anch'io». Le si era seduto vicino, le aveva accarezzato i capelli e il viso. «No.» Si era alzata di scatto e aveva raccolto da terra il reggiseno del costume, ma era così agitata che non era riuscita ad allacciarlo e si era coperta con le mani. «Non aver paura», le aveva mormorato Jack. «Non devi fare niente, se non vuoi anche tu.» Stella gli aveva voltato le spalle e si era rivestita. Jack intanto continuava a parlarle con dolcezza. «Non ti preoccupare, Stella, era solo un esperimento. Avremmo dovuto parlarne prima.» Lei si era arrabbiata. «Ma cosa dici? Mi hai fatto bere perché volevi che non fossi in grado di dire di no. Volevi stare a vedere la mia reazione passata la sbornia. Chissà quanto ci avresti goduto.» Lui aveva scosso la testa. «Sei diffidente come una contadina. Sei come tuo padre.» Poi l'aveva guardata in faccia e aveva fatto marcia indietro: «Scusami, ho esagerato. Ma anche tu hai esagerato con me». Era rimasta lì, spiazzata da quei discorsi e dall'improvviso desiderio di difendere il padre. Si era lasciata accompagnare docilmente in salotto,
ammaliata dal fascino perverso di Jack. Lui si era fermato al centro della stanza e l'aveva baciata in fronte. «La settimana prossima c'è la prima della stagione sinfonica», le aveva detto. «Non ti ci ho mai portato. Sarai bellissima.» Era umiliante che, dopo tutto quello che era successo, credesse ancora che lei potesse cedere alle sue lusinghe. Si era allontanato un istante per andare a prendere nella libreria un volume rilegato in pelle. L'aveva osservato senza capire, come una bambina di fronte a qualcosa di troppo grande per lei. Era ancora annebbiata dall'alcol e tutto continuava a sembrarle irreale. Jack era tornato da lei, tenendo il volume con entrambe le mani. «Ecco», le aveva detto. Le stava dando un libro da leggere? Poi l'aveva aperto e Stella aveva visto che era finto. Dentro c'erano tre mazzette di banconote da cento dollari: denaro sporco, senza dubbio. «È il mio conto in Svizzera, il mio gruzzolo per le emergenze», le aveva detto. Stella aveva guardato prima i soldi e poi Jack, che sorrideva. «Per la prima, Stella. Comprati un bel vestito e tutto quello che ti serve.» In quel modo, le aveva detto che cos'era veramente per lui. Ma ancora più offensiva era la provenienza di quei soldi, ricordo di uno spacciatore terrorizzato che si era confidato con lei, e di Vincent Moro, intravisto nella penombra dell'ufficio di Jack qualche giorno prima della morte di Desnoyers. Colta da un impeto di rabbia viscerale, gli aveva strappato di mano il volume e l'aveva scaraventato per terra. Le banconote si erano sparpagliate sul pavimento, il libro era caduto a faccia in giù e Stella aveva letto il titolo che Jack non aveva certo scelto a caso: Delitto e castigo. Lo aveva guardato in faccia. Era rosso, aveva gli occhi spalancati. «Portami a casa», gli aveva detto. Stella aprì gli occhi. Si voltò a osservare il rosone che raffigurava il martirio del santo cui era dedicata la chiesa. La aiutò a tornare in sé. Da quel weekend aveva visto Jack soltanto in ufficio e non aveva mai
più messo piede in quella casa. Il pensiero di ritornarci la turbava, quasi equivalesse ad accettare di diventare la donna che Jack voleva. Tuttavia aveva ancora la chiave che le aveva dato Jack in segno di amicizia, perché ci andasse a preparare l'esame di Stato, e che lei conservava come un talismano vicino ai cocci del Bambino di Praga. Sempre in ginocchio, Stella disse un'ultima preghiera e si alzò. Uscendo, si guardò di nuovo intorno, poi salì in macchina e tornò a casa, prese la chiave e partì alla volta della villa di Jack sul lago. PARTE QUARTA NATHANIEL DANCE 1 Quasi due ore dopo, Stella imboccò la strada sterrata che portava alla villa di Jack. Rallentò e le luci dei fari illuminarono il prato intorno a lei. Si voltò per accertarsi che nessuno l'avesse seguita. Non vide niente, ma non bastò a tranquillizzarla. Era sola, in un posto pericoloso. Lungo la strada non aveva fatto altro che arrovellarsi. A guidarla fin lì era stato l'intuito e, più si avvicinava alla villa, più dubitava di aver fatto bene a seguirlo. Eppure non era tornata indietro. In fondo alla strada c'erano un salice spoglio e la villa di Jack, che si stagliava contro le acque scure dell'Eric Stella spense il motore e scese. Il mormorio del lago aveva risonanze profonde da cui s'intuiva la sua estensione; Stella riconobbe lo sciacquio delle onde sulla spiaggia. Oltre a quello, udiva soltanto lo stormire dei rami nel vento e il rumore dei propri passi sulla ghiaia. La casa incombeva sullo sfondo del cielo senza stelle. L'aveva costruita un plutocrate di Steelton a cavallo tra i due secoli. Era a un solo piano, ma grande, di legno, col caminetto in pietra e soffitti con travi a vista. Stella ricordava perfettamente l'interno, ma non poteva sapere se era rimasto invariato prima di verificare se la chiave che Jack le aveva dato tredici anni prima funzionava ancora. Provò a infilarla nella toppa: entrava. Si chinò e appoggiò la fronte contro la porta di legno. La chiave non girava. Fece forza e la serratura scattò di colpo, facendola trasalire. Aprì lentamente. Dentro era buio pesto. Cercò tastoni l'interruttore.
La lampada a parete dietro di lei gettò una luce fioca al centro del salotto, lasciando gli angoli in ombra. Stella non si mosse. Era tutto come ricordava: il camino, i ceppi accatastati, persino il modellino di barca a vela che gli aveva regalato per il suo trentottesimo compleanno, l'età che aveva adesso lei. S'intristì al pensiero del tempo passato, del fatto che Jack non poteva più invecchiare. Le pareva di essere entrata in un museo. C'erano i ricordi di tutto ciò che Jack aveva desiderato, gli oggetti con cui si era illuso di poter riempire il suo vuoto: i bei tappeti persiani, l'impianto stereo, le centinaia di dischi di musica lirica e sinfonica, le bottiglie di vini pregiati, le foto della sua barca a vela. Ma nulla di tutto ciò lo aveva reso felice, perché Jack non era mai riuscito a fare la cosa più semplice e più importante di tutte: vivere pienamente uno spazio, un momento, e sentirsi in pace. Stella attraversò lentamente la stanza. Gli scaffali intorno al televisore erano pieni di libri d'arte, classici rilegati in pelle, manuali di vela e di astronomia, cibo per la sua mente onnivora. Non c'era neppure un libro di storia: anche nella scelta delle letture, Jack aveva vissuto in un eterno presente. Le cose che sentiva di non poter usare non lo interessavano. E nemmeno le persone, si disse Stella. Ricordò Jack nell'attimo in cui prendeva il volume. Lo ritrovò subito e, ancora una volta, sentì la sua presenza; Jack era stato ordinato sino alla fine e nulla era cambiato in quella casa. Stella lesse il titolo dorato: Delitto e castigo. Dentro c'era una videocassetta. Non a caso, priva di etichetta. Dal fatto che fosse specificato che era VHS, Stella dedusse che si trattava di una cassetta abbastanza vecchia: probabilmente degli anni '80. E quello, sommato al fatto che Jack l'aveva nascosta, rendeva ancor più sinistro il silenzio che regnava nella villa. Stella andò alla finestra con la cassetta in mano. Non vedeva granché, ma le pareva che non ci fosse nessuno. Nervosa, tirò comunque le tende. Il videoregistratore era sotto il televisore. L'agitazione la rendeva goffa: le ci volle un po' per capire che, senza accendere l'interruttore principale, non poteva funzionare. Quando finalmente riuscì a inserire il nastro, prima di schiacciare il tasto e farlo partire, si fermò un istante a prendere fiato. Il televisore cominciò a gracchiare. Sullo schermo apparve un lampo e quindi la cascata di puntini bianchi e neri di un tratto non registrato. Stella si sedette a gambe incrociate sul tappeto, in attesa che cominciasse.
Improvvisamente apparve un'immagine. Non c'era audio, l'immagine era poco definita e l'inquadratura fissa. Evidentemente la telecamera era ferma in un punto: una stanza vuota, surreale, con un letto e un armadio. Sebbene Stella non la vedesse tutta, le parve che non avesse finestre o che le riprese fossero state fatte di notte. Per qualche minuto non successe nulla e lei pensò che forse si trattava del filmato di un impianto a circuito chiuso. L'immobilità della scena la innervosiva. Si guardò alle spalle. Quando si girò nuovamente verso il video, sullo schermo era apparsa una donna. Era molto giovane e, nella penombra, il suo corpo nudo pareva d'argento. Dando le spalle alla telecamera, andò verso l'armadio e lo aprì. Dentro c'era uno sgabello. La donna lo prese. In quel momento, Stella notò l'anta dell'armadio e guardò più attentamente, col fiato sospeso. In cima all'anta spuntava qualcosa di metallico, una specie di gancio per gli attaccapanni cui era appesa una cinghia di cuoio. La donna si guardò in giro come alla ricerca di qualcosa o di qualcuno, verso il punto dov'era nascosta la telecamera. Stella era agitatissima. Quasi in risposta alla sua ansia, la donna sullo schermo si fermò. Era apparso un uomo, che le andava incontro. Anche lui era nudo. Stella non lo vedeva in faccia, ma trasalì: portava calze di seta, reggicalze e tacchi a spillo che gli conferivano un'andatura goffa e pietosa, come quella di un carcerato che s'incammina verso il plotone d'esecuzione. D'istinto, Stella si alzò. Stava per assistere a una riedizione della morte di Jack Novak. Solo che era precedente, dato che il video apparteneva allo stesso Jack. L'uomo si voltò, si sfilò le scarpe e salì sullo sgabello. Stella non riusciva a vederlo bene in volto. Quando si mise la cinghia attorno al collo, lo fece coi movimenti lenti e un po' confusi di chi è ubriaco o sotto l'effetto di una droga, ma a Stella parve un gesto abituale, compulsivo. Intuì che l'uomo era già stato in quella stanza altre volte. La donna s'inginocchiò e cominciò a succhiarglielo. Stella si mise a braccia conserte e si costrinse a guardare. L'uomo sullo schermo era in punta di piedi, la cinghia tesa intorno al collo, mentre la donna era in ginocchio.
A un certo punto, lui allontanò lo sgabello con un calcio. Stella si strinse le braccia al petto. Il corpo asciutto dell'uomo tremò nell'orgasmo. La telecamera zoomò sul volto dell'uomo: una maschera di piacere e abiezione. «No!» esclamò Stella a bassa voce riconoscendolo. «No!» Sullo schermo, Arthur Bright chiuse lentamente gli occhi. Era più giovane di quando lo aveva conosciuto. E Stella avrebbe dato chissà cosa per non averlo mai conosciuto. L'inquadratura si allargò di nuovo. La donna rimise lo sgabello sotto i piedi di Bright e lo aiutò a liberarsi dal laccio. Bright scese e barcollò, stordito dalla mancanza di ossigeno e probabilmente dall'alcol o dalla droga, quindi si appoggiò al muro e si lasciò scivolare a terra. Quando la donna si voltò di nuovo verso la telecamera, era privo di sensi. Il secondo uomo non sarebbe potuto essere più diverso. Stella sgranò gli occhi quando lo vide comparire sullo schermo. Era possente come un toro e la sua nudità era animalesca, volgare. Avanzò verso la donna, minaccioso, implacabile. Stella si avvicinò al televisore per guardarlo meglio. Non lo vedeva in faccia, tuttavia, nella sua grazia un po' indolente, c'era qualcosa di vagamente familiare e di agghiacciante. Anche la donna sembrava spaventata. Quando l'uomo le si avvicinò, indietreggiò fino a trovarsi con le spalle al muro. L'uomo si fermò e disse qualcosa. La donna scosse la testa, tremando. Con un balzo felino l'uomo si avvicinò e la schiaffeggiò in pieno volto. La testa della donna ruotò da una parte. L'uomo strinse i pugni e la colpì, brutalmente, rapidamente, alla mascella. La donna piegò la testa, andò a sbattere contro il muro e, prima ancora che si accasciasse al suolo, Stella capì che era successo qualcosa di grave: la sua caduta pareva assoluta, irrevocabile, mortale. Anche l'uomo se n'era accorto. In quel momento, prima ancora che si voltasse col viso verso la telecamera, Stella, sgomenta, capì chi era. Johnny Curran si chinò sulla donna e la stese supina. Aveva gli occhi sbarrati, lo sguardo fisso della morte. Curran pareva infastidito.
A Stella venne da vomitare. Aveva appena assistito a un omicidio. Ma la cosa che la impressionava di più era la reazione di Curran, che non era rimasto sconvolto come lei, ma aveva mantenuto un autocontrollo terrificante. Ogni suo movimento, rapido e deciso, indicava lucidità, freddezza: le sentiva il polso, le auscultava il cuore, le metteva due dita davanti alla bocca. Una volta accertato che era morta, si alzava e andava da Bright, lo tirava su e lo trascinava via, con la testa penzoloni. Il filmato finiva bruscamente. Sconvolta, Stella si risedette. Le ci volle un bel po' per elaborare quello che aveva appena visto e ancora di più per valutarne le implicazioni. Soltanto allora si rese conto dei pericoli che stava correndo e delle scelte che doveva fare, nell'incertezza più totale sulle conseguenze che quelle scelte avrebbero avuto. Si alzò e aprì la porta facendo meno rumore che poteva. La notte era silenziosa, senza vento. Lo sciacquio incessante delle onde le parve d'un tratto minaccioso. Richiuse la porta e fece una telefonata. Poi chiamò Arthur Bright. Era appena tornato a casa dopo una serie di comizi in alcuni quartieri bianchi e aveva la voce stanca. Stella non sapeva se provava per lui rabbia o paura o pietà. «Devo vederti subito», gli disse senza preamboli. Era strano: ora che sapeva la verità, anche se soltanto in parte, si sentiva calma. E fu con voce calma che parlò. «Subito?» protestò Bright. «Ma è mezzanotte!» «Non me ne frega niente, Arthur. Devo parlarti di una cosa che riguarda la morte di Novak e non può aspettare. Nel tuo interesse.» Bright non disse nulla e Stella lo immaginò roso dai dubbi e dalle supposizioni. Alla fine le disse: «Okay, vediamoci nel mio ufficio». «Alle due e mezzo. Prima devo fare qualcosa.» Riattaccò senza dargli il tempo di rispondere o di chiederle dov'era. Prese la videocassetta e uscì in punta di piedi, nella speranza ridicola che, se qualcuno la stava aspettando, non si accorgesse di lei. Ma non c'era nessuno. Salì in macchina e si chiuse dentro, poi mise in moto e partì senza guardarsi indietro. Per strada ripassò l'elenco delle cose che doveva fare: andare a casa, duplicare il nastro, mettere la copia in una busta indirizzata a se stessa e imbucarla. Poi fare un'altra telefonata da una linea sicura.
Quando ebbe finito, poco prima delle due e mezzo, entrò nell'ufficio di Bright. Non fu affatto sorpresa di trovarlo già lì. 2 Stanco, esaurita l'adrenalina che lo spingeva da un'attività all'altra, senza gli abiti eleganti a dargli un tono, Bright sembrava più magro e vulnerabile del solito. Ma Stella era talmente amareggiata che non riusciva a provare compassione per lui. «Devo mostrarti una cosa», gli disse. «Vieni nel mio ufficio.» Il tono non ammetteva discussioni. Bright si alzò e la seguì. Stella aveva portato nel suo ufficio il videoregistratore della sala riunioni. Non appena Bright lo vide, indietreggiò e si appoggiò al muro come se preferisse non sedersi. Stella chiuse la porta e accese l'apparecchio. Bright restò immobile. Sullo schermo apparve una camera vuota. Bright aprì la bocca, ma non emise suono. Fissava lo schermo come se fosse un abisso. Stella sussurrò: «Il finale non mi è piaciuto». Con uno scatto, lui spense il videoregistratore. Stella gli lesse negli occhi un misto di vergogna, collera e umiliazione così evidenti che fu come guardargli nel profondo dell'animo. «Ti avverto che ne ho fatto una copia.» Bright incrociò le braccia come per farsi forza. Stella trovava spaventosa la sua capacità di vivere a compartimenti stagni. Ma notò che faceva fatica a parlare. «Che cosa vuoi?» le chiese con un filo di voce. Era una domanda aperta, interlocutoria, quasi il problema potesse essere ancora superato. Sebbene fosse piena d'indignazione, per un istante Stella non poté fare a meno di pensare ai potenziali benefici di quella situazione. Poi gli diede l'unica risposta possibile. «Voglio la verità. Tutta la verità. Dall'inizio alla fine.» «La verità?» ripeté Bright. «Sei una donna che ha vissuto; hai lavorato per Novak e poi qui in procura, e credi ancora che esistano il bene e il male senza vie di mezzo? E che per distinguerli basti la verità?» «Cazzo, Arthur. Sei come minimo complice di un omicidio: risparmiami il relativismo morale, per favore.» Bright fece una smorfia. Lavoravano insieme da tanti anni e il rapporto di fiducia che si era instaurato aveva reso più sopportabile lo stress e meno
logoranti i conflitti tra le loro ambizioni politiche: doveva essere un grande dolore per lui accorgersi che Stella non gli credeva più. Anche a Stella dispiaceva: tredici anni prima era andata a chiedergli un lavoro, lui l'aveva fatta entrare in procura, aveva apprezzato la sua integrità morale. Di colpo, però, i ruoli si erano invertiti: ormai era lei ad avere in mano il futuro di entrambi. Stella sentì tutta la precarietà di quella situazione, in cui era lei ad avere il controllo, ma in gioco c'era il destino di entrambi. L'unica cosa che poteva fare era sforzarsi di non abbassare gli occhi per prima. E ci riuscì. Bright si voltò, si sedette e si mise a guardare la città buia, con poche luci che brillavano qua e là e il buco nero dello stadio. «La verità...» ripeté. «Vuoi sapere la verità che ho scoperto quando mia madre mi lasciava a casa da solo e, per sentire meno la sua mancanza, mi provavo i suoi vestiti? O quanto mi vergognavo e quanta paura avevo di essere scoperto? O quanto mi eccitava guardarmi allo specchio? O preferisci che ti racconti quanto bisogno avevo di eccellere a scuola, nel lavoro, di fare qualcosa di utile per questa città dimenticata da Dio? Proprio come te.» Il tono era amaro, combattuto tra la rabbia e il desiderio di essere capito. «Abbiamo tutti qualche segreto, Stella, cose che nessuno deve sapere. Anche tu per Novak devi aver fatto cose che preferisci che gli altri non sappiano.» «Io l'ho lasciato, Arthur», sbottò lei. «Jack invece ti ha filmato. Soltanto uno di noi due si è venduto l'anima.» Si fissarono a lungo, poi Arthur parve arrendersi. «Mi sono illuso che non fosse irrimediabile», disse infine. «Speravo di poterne uscire come sono uscito dal ghetto. Di poter essere ancora l'uomo che volevo essere.» Davanti agli occhi di Stella c'era un uomo sull'orlo del baratro: una parte di lei avrebbe voluto fermarsi, riflettere sul motivo, tanto futile quanto profondamente umano, per cui era arrivato a tanto. Dopo un po' gli chiese: «Com'è successo?» Arthur Bright si massaggiò le tempie. «Non deve saperlo nessuno», mormorò. «Meno che mai Lizanne. Ero riuscito a diventare magistrato e a lottare contro i narcotrafficanti di droga, come avevo sempre desiderato, ma una parte di me aveva bisogno di una serata particolare, una volta al mese.» S'interruppe e deglutì. «Avevo bisogno di una prostituta per fare quello che volevo, ma non ci riuscivo se prima non mi stordivo con qualche sostanza. E mi detestavo per questo.»
«Pratiche sadomaso.» Bright fece una smorfia. «Per il resto facevo una vita normalissima. Hai visto dove mi ha portato.» «A Johnny Curran. Per non parlare del resto.» Bright drizzò la schiena cercando di darsi un contegno. «Curran voleva diventare mio amico: mi offriva da bere, mi aiutava a gestire i rapporti con la polizia. E io mi fidavo di lui, purtroppo. Una mattina venne in ufficio, chiuse la porta e mi disse che aveva sentito certe voci. E, come se avessimo parlato di baseball, mi descrisse per filo e per segno quello che avevo fatto. Non osai nemmeno guardarlo in faccia. Avevo paura che rendesse pubblica la cosa, che lo venissero a sapere Lizanne e i bambini, che la mia carriera fosse finita. Volevo morire. Invece lui mi mise una mano sulla spalla, da vecchio amico. C'erano modi migliori per fare le cose che mi piacevano, mi disse, con persone che avevano troppa paura per ricattarci. E c'erano sistemi per evitare che si sapesse in giro.» Stella pensò a quando Curran aveva riso della morte di Fielding. «Immagino che lui fosse in grado di organizzare tutto.» «Per questo gli diedi retta», replicò Bright. Si voltò verso di lei, guardando in faccia la propria vergogna. «E anche perché era in grado di darmi quello che mi serviva.» Era la seconda volta. Per questo sapeva già come sarebbe andata. Curran l'aveva portato a casa di una donna, dove avevano fumato hashish e bevuto bourbon insieme finché lui non si era sentito pronto a travestirsi. La donna sapeva che cosa voleva da lei. Come in trance, le si era avvicinato. Era ubriaco, intontito, non pensava alle conseguenze delle proprie azioni, aveva meno paura di essere scoperto. Vedeva soltanto la donna che aveva davanti. Che gli avrebbe fatto quello che lui voleva. Come lui avrebbe fatto quello che voleva lei. Il resto era venuto da sé. L'ultimo minuto di lucidità era quello in cui aveva sentito la pressione sulla gola, l'esplosione di luce negli occhi, il brivido della vergogna e della passione, e aveva immaginato la morte come una liberazione. Il suo desiderio più profondo era annullarsi, sprofondare nell'oscurità. Si era svegliato confuso, in una casa che non ricordava.
Era sdraiato su un divano e aveva di fronte Johnny Curran, seduto in poltrona con gli occhi socchiusi; l'espressione di cinico divertimento era scomparsa. Bright, disorientato, con un filo di voce aveva chiesto: «Che cosa è successo?» Curran l'aveva guardato fisso. «La tua troia è morta. Così non potrà dire niente a nessuno.» Sebbene l'avesse detto senza particolari inflessioni, la minaccia implicita in quelle parole era chiara. Bright non aveva avuto il coraggio di chiedere com'era morta la donna, se era stato Curran a metterla a tacere per sempre e che cosa aveva fatto del cadavere. L'unica cosa che riusciva a pensare era: è colpa mia. Si era chinato in avanti e si era fatto forza per non vomitare. Curran aveva assunto un tono di disprezzo: «Ho pensato a tutto io. L'unica cosa che devi fare tu è andare a lavorare domani». Bright aveva chiuso gli occhi. Il resto era come un sogno. Il sapore amaro del caffè, Curran che lo riportava a casa, lui che s'infilava a letto vicino alla moglie senza svegliarla e pensava alla pazienza con cui lei tollerava i suoi impegni. Rivedeva l'immagine di una donna nuda, impressa sulla retina come il bagliore di un flash, l'oblio del sonno. L'indomani c'era il sole e, del giorno prima, restavano solo frammenti di un incubo prima del blackout, un buco di qualche ora nella memoria, il desiderio disperato di credere di non essersi mai allontanato da casa. Era andato in ufficio come un automa. La sua segretaria gli aveva sorriso. Sulla scrivania lo aspettavano le carte che vi aveva lasciato la sera prima. Erano passati due giorni e due notti insonni. La terza mattina, andando a prendere il caffè, aveva incontrato il procuratore della contea, un allegro irlandese che si chiamava Francis X. Connolly, che parlava col capo della sezione omicidi, un vecchio brontolone. «Che orrore!» diceva Connolly. «Che cosa?» aveva chiesto Bright. Connolly si era voltato dalla sua parte. «Un altro episodio d'inquinamento delle acque dell'Onondaga. Hanno appena ritrovato un barile con un cadavere fatto a pezzi dentro. C'è voluto un po' per capire che si trattava di una donna. Una puttana l'ha identificata dalla testa.» Bright si era sentito torcere le budella. «Dalla testa?» aveva ripetuto stupidamente.
Connolly era scoppiato a ridere. «Sì. Per fortuna era rossa di capelli. Non ce ne sono tante, nello Scarberry.» Bright era corso nella toilette a vomitare. Stella, ascoltando quel racconto, deglutì. «Come si dice? Il arroganza del potere?» le aveva chiesto Natasha Tillman. «Sì.» «Come quello che ha preso una prostituta per strada, l'ha fatta a pezzi, l'ha ficcata in un barile e l'ha buttata nel fiume. Era una mia amica, sa? Non l'avete mai beccato, vero?» «No, non l'abbiamo mai beccato.» «Perché era un poliziotto.» «Ne è sicura?» «La mia amica è scomparsa dall'oggi al domani. Uno così lo vedi subito che è fuori di testa. Nessuna prostituta sale in macchina con uno così. A meno che non sia un poliziotto.» Bright notò la sua espressione strana e le chiese sottovoce: «Te lo ricordi?» «Sì.» Distolse lo sguardo. «Mentre mi lavavo la faccia, ho giurato a me stesso che non avrei mai più preso droga né bevuto una sola goccia di alcol. Mi sarei ammazzato, piuttosto che darla di nuovo vinta a quella parte di me.» Assunse un tono più dolce. «Mi sarei sparato alla testa...» «Forse sarebbe stato meglio.» Bright chiuse gli occhi. «Non ci sono più ricascato, Stella. Ho ripreso la mia battaglia contro la droga, mi sono dedicato al mio lavoro anima e corpo. Un anno dopo, Connolly mi ha messo a capo della sezione Narcotici.» Una collera terribile e spietata rendeva Stella ancora più lucida. «Così sei finito a lavorare con Johnny Curran.» Dopo un po' Bright alzò gli occhi. «Si comportava come se non fosse successo niente. Non mi ha mai chiesto niente.» «E tu non hai detto niente a nessuno. Perché pensavi di poter far passare tutto sotto silenzio, anche l'omicidio.» Bright evitò il suo sguardo. «Poi, un giorno, Novak mi ha chiamato. Anche lui voleva farmi vedere una cosa.» Si erano incontrati nello studio di Novak, di sera, quando ormai erano
andati tutti via. Avevano la stessa età, ma Novak sembrava più vecchio: aveva le borse sotto gli occhi e in giro si diceva che il lavoro non gli andasse troppo bene. A Bright non era mai stato simpatico, nemmeno quand'erano compagni di scuola. Novak lo sapeva, ma gli aveva sorriso, fingendosi amichevole, e con gesto teatrale gli aveva indicato una sedia. Mancava solo che gli facesse aria con un ventaglio. Bright era molto nervoso. Quando Novak gli aveva offerto da bere, aveva immaginato che sapesse che aveva smesso e anche il perché, ma, cercando di mantenersi calmo, aveva risposto: «Un bicchiere d'acqua, grazie». Novak aveva fatto una faccia delusa, come se da un vecchio compagno di scuola si fosse aspettato qualcosa di più. Poi Bright si era accorto che in un angolo dell'ufficio c'era un videoregistratore. «Ghiaccio?», gli aveva chiesto affabile Novak. Bright aveva fatto di no con la testa e Novak gli aveva passato un bicchiere di cristallo. «Château Onondaga», aveva detto. «Speriamo che dentro non ci sia niente di macabro.» L'altro lo aveva guardato sbigottito, ripensando a un barile alla deriva nel fiume con dentro un cadavere fatto a pezzi. Novak aveva proposto un brindisi: «Alle acque pulite, Arthur. Alle mani pulite». Bright aveva bevuto senza smettere di guardare Novak, sforzandosi di contenere l'ansia. Non ottenendo reazione, Novak aveva smesso di fare convenevoli e, per la prima volta, Bright si era accorto che era teso. Gli era venuta la pelle d'oca. Con nonchalance, fingendosi annoiato, gli aveva chiesto: «Come va il lavoro, Jack?» «Potrebbe andare meglio», aveva risposto l'altro, in tono pacato. «Ma tu mi puoi aiutare. Per questo ti ho invitato.» Si era alzato di scatto e aveva acceso il video. «Spengo la luce. Io l'ho già visto diverse volte, ma per te penso che sia la prima.» Aveva fatto partire il nastro e spento la luce. Sullo schermo era apparsa la stanza vuota il cui ricordo assillava Bright che, inorridito e nel contempo affascinato, aveva guardato il lato oscuro di se stesso. Insieme avevano assistito senza dire una parola al supplizio di Bright: l'estasi e l'umiliazione, lo sgabello, il laccio, la donna in ginocchio. Quando si era visto in primo piano, Bright era trasalito e Novak aveva fermato
l'immagine. Bright, impotente, era rimasto a fissare il proprio volto contorto, immobile sullo schermo. A un certo punto, Novak aveva riacceso la luce ed era andato a sedersi alla scrivania. L'unica cosa che era cambiata rispetto a pochi minuti prima era la faccia di Bright sullo schermo. In tono cupo, Bright aveva chiesto: «Dove l'hai presa?» «Me l'ha data una mia cliente.» Parlò con calma, come se la cosa non lo turbasse affatto. «La donna che ha fatto le riprese. Quando le cose hanno cominciato a mettersi male, ha preso la cassetta ed è scappata. Aveva bisogno di una consulenza e mi ha pagato con questa.» Bright non riuscì a controllare il tremito nella voce. «Non sono io.» «Sì, invece.» Novak era paziente, quasi gentile. «Stai tranquillo, amico mio, ti chiederò solo un piccolo favore ogni tanto, niente di troppo compromettente. Potrai continuare la tua battaglia contro la droga col tuo solito zelo. Tranne pochissime eccezioni.» «E se mi rifiutassi?» Novak aveva assunto un'espressione gelida. «Ti concedo un periodo di prova, Arthur. Per farla vedere a Lizanne c'è sempre tempo.» Stella osservava Bright, ma pensava a Novak che la guardava nello specchio. Novak, l'uomo per cui aveva rotto i ponti con suo padre, l'uomo che aveva fatto uccidere Jean-Claude Desnoyers. «Quello che non sono mai riuscito a capire è perché, a un certo punto, Moro ha scaricato il suo avvocato Jerry Florio, che oltretutto era suo compaesano, e ha cominciato a dire a quelli come Flood di rivolgersi a Jack...» Finalmente era tutto chiaro. «Jack ha detto a Moro che ti aveva in pugno», mormorò. «Ha chiesto un periodo di prova per vedere fin dove poteva arrivare.» Bright giunse le mani. «Non me ne sono reso conto finché non mi ha chiamato per George Flood», replicò. «E tu hai ceduto, facendo di Jack Novak l'avvocato più gettonato da spacciatori e trafficanti.» Si alzò e, con veemenza, proseguì: «Sei stato tu a far sparire quei fascicoli, maledizione! Perché eri stato tu ad aiutare Jack a far evitare il carcere ai suoi assistiti». «Non sempre. Non ho distrutto io le prove, non ho fatto uccidere Desnoyers...» «Solo perché Jack non te l'ha chiesto.» Stella cercava di non perdere la
calma. «Mi hai mandato da Curran perché m'illuminasse, ma in realtà volevi che fossi io a illuminare lui. Perché non è un killer come tutti gli altri, vero? Lui è marcio da fare schifo.» Bright la afferrò per un polso. «Dovevo fermarti...» «Mi hai strumentalizzato. Arthur. Sei stato tu a far sapere allo Steelton Press che avevo avuto una relazione con Jack. Così avresti potuto 'salvaguardare' il mio futuro politico, togliendomi il caso.» Assunse un tono tagliente. «Sei stato tu anche a telefonare, Arthur? O l'hai fatto fare a qualcuno con più fegato di te?» Bright la strinse con maggior forza. «Stammi a sentire, Stella. Io non so chi sia stato a chiamare Dan Leary e te e non ho idea di chi sia entrato in casa tua e ti abbia ammazzato il gatto. So solo che anch'io avevo paura per te.» «Non quanta ne hai avuta per te stesso. Sei stato tu a uccidere Jack? O l'hai fatto uccidere da qualcun altro?» Bright continuava a stringerle disperatamente il braccio. «Tu non capisci», le disse, spazientito. «Capisco benissimo, invece. Capisco che sei corrotto e che faresti qualsiasi cosa pur di salvarti il culo...» «E perché allora avrei chiesto a Nat Dance di prendere informazioni su di te prima di farti entrare in procura? Perché non volevo che Novak facesse il bello e il cattivo tempo nella mia sezione.» «Speravi che si accontentasse di avere in pugno te.» Bright la lasciò andare e fece un passo indietro, poi prese fiato. «Quando sono stato eletto procuratore di contea, Stella, ho creduto di essere salvo. Vincendo, ho creduto di potermi tirare fuori. Ho detto a Novak che era finita, che non avrei più potuto far nulla senza suscitare uno scandalo. E che comunque non avevo intenzione di provarci.» Parlava veloce. «Jack si occupava solo di processi per droga, ormai non potevo più fare niente per lui. È andato su tutte le furie, anche perché mi aveva aiutato a diventare procuratore nella speranza che poi io dessi una mano a lui. Non immaginava che io, una volta eletto, lo avrei mandato a quel paese. E invece l'ho fatto.» «Non sino in fondo», ribatté Stella. «Per questo Jack è morto com'è morto.» Bright la guardò in faccia, poi si voltò dall'altra parte. «È vero», mormorò. 3
«Salve, Arthur», gli aveva detto Jack Novak. Erano le sette passate quando si era presentato in procura. Bright pregustava già una rara serata a casa senza impegni e la prospettiva di una cena tranquilla con Lizanne. Avevano superato tanti momenti difficili - Arthur sperava che lei nemmeno sapesse quanti - e, col passare degli anni, Bright le era sempre più grato dell'amore e della fiducia che provava per lui, marito, padre e politico impegnato per la sua città. Sebbene dedicarle una sera ogni tanto fosse una magra ricompensa per tanta fedeltà, era certo che lei avrebbe apprezzato quel dono inatteso. All'ultimo momento, invece, si era fatto vivo Jack Novak. Era una cosa urgente, gli aveva detto, da cui dipendeva il futuro di tutti e due. Bright si era reso conto di non avere scelta: sebbene da quattro anni a quella parte non avesse più interferito nel corso della giustizia, non poteva rifiutare un appuntamento a Jack Novak, che custodiva ancora il loro segreto, quella terribile videocassetta. «Accomodati, Jack.» Cercava di essere educato, ma aveva imparato a evitare gli atteggiamenti servili: Novak ormai sapeva fin dove poteva arrivare. Che strani scherzi giocava la vita, aveva pensato: mentre lui non era invecchiato molto, Jack Novak sembrava un rudere. Era flaccido, curvo, come se le preoccupazioni avute e l'esistenza che aveva condotto gli pesassero terribilmente. Bright aveva pensato che, volendo, si sarebbe potuto far fare una plastica, per eliminare le borse sotto gli occhi, ma non sarebbe riuscito a colmare il vuoto che aveva dentro. Jack era sempre stato un gaudente, però, ormai, anche nei momenti di maggiore spavalderia, aveva un che di patetico; sembrava ossessionato dal passare del tempo e dall'idea di aver costruito poco o nulla nella vita. Quelle riflessioni fugaci avevano attraversato la mente di Bright, diffidente e maldisposto nei confronti di Novak, troppo pericoloso e amorale per meritare la sua compassione, che lo osservava con una luce furtiva e inquietante negli occhi. «Stai andando forte, Arthur. Diventerai il primo sindaco nero di Steelton.» Tanto cinismo aveva offeso Bright, ma la cosa che più lo aveva indispettito era il tono arrogante, da creditore che reclama i suoi soldi. Cauto, aveva risposto: «È un momento importante nella storia dei neri, certo. Ma voglio che sia una buona cosa anche per i bianchi; o almeno per la mag-
gioranza di loro». Di fronte a quella replica ambigua, Novak era rimasto per qualche istante in silenzio. «Ne sono certo», aveva detto poi. «Ma voglio darti un consiglio. Finora mi sono tenuto in disparte, mi sono limitato a stare a guardare. Adesso mi permetto di darti un piccolo suggerimento.» Istintivamente, Bright aveva lanciato un'occhiata verso la porta, poi aveva guardato Novak. «Piccolo? Che cosa intendi?» Il sorriso di Novak era nervoso, lo sguardo attento e preoccupato. «Steelton 2000.» Bright era scoppiato a ridere, dando libero sfogo all'agitazione e al disprezzo. «Lo stadio di Tom Krajek? Stai per dirmi che dovrei innamorarmene?» Novak smise di sorridere. «Proprio così, Arthur. Tu sei innamorato di quel progetto.» Non era uno scherzo: il tono di Novak non dava adito a dubbi. Bright si era sentito morire. Evidentemente stava dando fastidio a qualcuno e Jack Novak si era impegnato a sistemare la faccenda. Bright si era chiesto chi altri avesse visto quel filmato e, suo malgrado, era rabbrividito al pensiero che ne arrivasse una copia allo Steelton Press. Dunque il problema era tutt'altro che superato: il suo nemico aveva semplicemente aspettato che la posta si alzasse, che i tempi fossero maturi. Bright aveva le mani sudate. «Quanto mi dovrei innamorare di questo progetto?» aveva chiesto. «Tanto. Devi smettere immediatamente di criticarlo. La settimana prossima dichiarerai che è un bene per la città, soprattutto per la popolazione afroamericana. E, qualsiasi cosa succeda, né tu né la procura troverete mai nulla da ridire in proposito.» Il tono era calmo, ma l'atteggiamento no e Bright si era spaventato ancora di più. «In che senso trovare da ridire? Che cosa dovrebbe succedere?» Novak si era proteso verso di lui. «È una cosa seria, Arthur. Tu non sai quanto. Sia per te sia per me.» Bright era stato colto dal panico perché, abbandonata l'ironia, per un istante Novak, con gli occhi iniettati di sangue, gli aveva parlato da amico ad amico, avvertendolo di un problema grave che poteva significare la rovina per entrambi. Bright aveva domandato, con voce pacata: «Per conto di chi sei venuto?» Novak si era limitato a osservarlo e Bright, dopo un po', aveva capito
che non gli avrebbe risposto. Poi Novak si era alzato ed era andato alla porta senza dire altro. Bright era rimasto seduto. Con la mano sulla maniglia, Novak si era voltato verso di lui. «Non sei in condizione di dire di no, credimi. Perché io non posso permettermi di tornare a mani vuote.» Bright non aveva risposto. Novak l'aveva guardato ancora per qualche momento, poi era uscito. Quand'era arrivato a casa, Lizanne aveva acceso le candele in sala da pranzo. In un'altra occasione avrebbe sorriso di quel gesto, invece aveva osservato i suoi lineamenti delicati, le labbra carnose, l'aria di timida riservatezza, di silenziosa fedeltà, e l'aveva trovata di una bellezza commovente. «Cos'hai?» gli aveva chiesto Lizanne. Gli erano venute le lacrime agli occhi. «Niente. Pensavo a te.» A quanto ti amo. A nostro figlio, a nostra figlia. A tutto quello che meriti e a quello che non meriti. Lizanne, ignara, aveva piegato la testa da una parte, sorridendo, e gli aveva preso la mano. Erano saliti in camera e avevano fatto l'amore. L'aveva presa con disperazione, poi l'aveva stretta tra le braccia finché non si era addormentata. Il mattino dopo, le candele rimaste sul tavolo erano consumate. Col cuore gonfio, Bright era andato a una funzione religiosa e poi all'inaugurazione di un centro per anziani. Era diretto a una riunione col suo staff quand'era squillato il cellulare. «È successo qualcosa che credo tu debba sapere», gli aveva detto Dance. Nonostante la preoccupazione, Bright aveva rizzato le antenne, perché Dance lo avvertiva sempre se la polizia scopriva qualcosa d'importante. Non era necessario specificare il motivo per cui lo faceva: che lo facesse per solidarietà o per interesse personale, a Dance stava molto a cuore l'elezione di Bright. Si era fermato a un semaforo rosso col cellulare premuto sull'orecchio. «Che cosa?» «È morto un certo Tommy Fielding, un bianco, residente a Steelton Heights. Lo ha trovato stamattina la cameriera, insieme con una prostituta nera. Pare siano morti per overdose, anche se lui non sembrava un tossicomane.»
«In che senso?» «Lavorava per Peter Hall. Era il project manager del tuo stadio preferito.» Bright si era sfregato gli occhi. I clacson dietro di lui lo avvertivano che era scattato il verde. «Tienimi aggiornato», aveva raccomandato a Dance. La riunione verteva sulla strategia da adottare nel dibattito con Krajek in programma a Warszawa due giorni dopo. Bright aveva ascoltato distrattamente la responsabile della campagna elettorale, Etta Rogers, una donna nera dalla risposta sempre pronta, che analizzava i pro e i contro del dibattito a beneficio dei presenti, ovvero Bright, il consulente che gli scriveva i discorsi, l'esperto di sondaggi, il responsabile della logistica e un assistente. Due bianchi e tre neri, tutti uomini. Sembrava che il fatto di essere l'unica donna rendesse Etta Rogers ancor più agguerrita. «Krajek farà leva sullo stadio», aveva detto loro. «Ricorrerà ai soliti argomenti: che mentre lui crea nuovi posti di lavoro e punta verso il progresso, tu proponi una politica di assistenzialismo indiscriminato e clientelare. Indipendentemente dal fatto che questo aborto di progetto è un giochino per miliardari.» Si era interrotta, voltandosi verso Bright. «Accettare uno scontro diretto a Warszawa è stato un errore madornale, Arthur. Krajek là gioca in casa e quelli che guarderanno il dibattito in TV vedranno che il pubblico applaude lui e non te. O cerchi di evitare di pronunciarti su Steelton 2000, sperando che non ti fischino, oppure parti lancia in resta.» Bright si era reso conto di aver assistito a quella discussione come se non lo riguardasse. «Tu che cosa mi consigli?» aveva chiesto. La Rogers aveva sorriso, ironica. «Se hai accettato di partecipare, sono sicura che avevi un motivo.» Bright aveva raccolto le forze: gli sembrava di aver preso quella decisione in un'altra vita. «Warszawa è un rischio», aveva risposto. «Ma, se mi propongo come uno dei tanti politici di colore, non ce la farò mai. E, anche se ce la facessi, non riuscirei comunque a governare.» La Rogers aveva mantenuto l'espressione di amaro divertimento. «Allora dovrai conquistarti una platea di polacchi di ampie vedute, che vivono per i pierogi, il bowling e gli Steelton Blues. Che cosa gli vuoi dire?» Bright si era guardato intorno, aveva pensato a Lizanne, alla prostituta coi capelli rossi, alla nuova e inquietante morte riferitagli da Dance. Nella mente gli era riecheggiata la voce di Novak che gli diceva che non era in
condizione di dire di no. Ma io non sono Jack Novak, avrebbe voluto gridare. «Gli dirò che si stanno facendo fregare», aveva risposto alla Rogers. «Che Steelton 2000 è una truffa.» Pieno di speranza e di disperazione, Bright era tornato in ufficio e si era imposto di chiamare Novak prima che gli calasse l'adrenalina. Gli aveva risposto subito. «Arthur?» «Piglia quella cassetta e ficcatela su per il culo.» Si sentiva invincibile. «Riferisci pure ai tuoi amici che te l'ho detto io. Così capiranno il perché della tua strana andatura.» E aveva buttato giù il telefono. Si era deciso, anche se forse troppo tardi. Sperava solo di poter sopportare le conseguenze di quel gesto. La notte prima del dibattito, lo squillo del telefono lo aveva risvegliato da un sonno agitato. Aveva acceso l'abat-jour e aveva visto che erano le due. Lizanne si era mossa appena: era la moglie di un politico, diceva la sua espressione tranquilla, abituata a sentire suonare il telefono a qualsiasi ora del giorno e della notte. Bright aveva sollevato la cornetta. «Arthur.» Era Novak. Era bastata una sola parola e Bright aveva capito che era terrorizzato, forse sotto l'effetto di qualche droga. «Stanno venendo qui, brutto maiale...» «Sstt!» Era uscito velocemente dalla stanza e aveva aggiunto sottovoce: «Manda pure quel nastro in televisione, Jack, ma non chiamarmi più a casa, capito?» «Tu non ti rendi conto: devo dar loro qualcosa... Altrimenti è finita per entrambi. Finita sul serio.» Si era seduto in cima alle scale buie e aveva parlato a voce bassa, nervoso. «Non so che cosa stia succedendo, ma non voglio averci niente a che...» «Ma vaffanculo!» Novak era isterico. «Mi hai tenuto sulla corda quattro anni, cazzo. Dimmi che cominci col dibattito di domani, perché altrimenti gli do la cassetta, te lo giuro.» Bright aveva capito tutto all'istante. «Non ci credo, Jack. Che cos'hai da offrirgli?»
«Arthur!» Dopo un lungo silenzio, in cui aveva cercato di non perdere l'autocontrollo, Novak aveva aggiunto: «Hai bisogno di me, Arthur, perché se non faccio io da intermediario tra te e loro...» Ma si era interrotto bruscamente. Bright aveva sentito suonare il campanello. Novak aveva detto in fretta: «Ti richiamo...» Ma non si era mai più fatto vivo. Ascoltandolo, Stella ricordò il brillante e caustico attacco a Steelton 2000 sferrato da Bright tre settimane prima a Warszawa. Le pareva che fosse passato tantissimo tempo. «Com'è successo?» «Malamente. L'hanno trovato impiccato all'anta dell'armadio della sua camera da letto, con un paio di calze da donna e le scarpe col tacco.» Bright l'aveva fissata, sbalordito, incapace di proferire parola, poi si era voltato e aveva guardato fuori del finestrino, nell'oscurità. Sembrava facesse fatica a respirare. Le era difficile immaginare come doveva essersi sentito, perché a lei era parso di vedere Jack Novak in quegli ultimi istanti, stritolato dagli ingranaggi della sua stessa avidità. «Lo hanno ucciso per mandarti un segnale», disse poi. «Per farti capire che chi lo ha impiccato ha la cassetta. Da allora tu non hai fatto altro che cercare di mettermi fuori strada. Per salvarti.» «Per salvarci tutti», replicò Bright semplicemente. L'ultima telefonata l'aveva ricevuta la sera in cui aveva saputo che Novak era stato ucciso. Si trovava in cucina. Lizanne stava dormendo e lui vagava per la casa come un'anima in pena da un'ora, talmente confuso che, per un attimo, aveva sperato che si trattasse di Jack Novak. Magari gli voleva chiedere se aveva cambiato idea. «Arthur?» La voce era distorta, irriconoscibile. «Sono certo che hai ricevuto il nostro messaggio.» Bright era rimasto zitto, in preda al terrore. «Sì.» «Allora sai che cosa devi fare. Altrimenti Lizanne e i tuoi figli scopriranno quanto ti dona il reggicalze. Ne abbiamo una copia per la tua famiglia e una per Dan Leary. Forse ti lasceremo vivere abbastanza a lungo da vedere che faccia faranno.» E aveva riattaccato.
Bright e Stella si guardarono. «Ormai non si può fare più niente», gli disse. Bright non sembrava in grado di dire né di sì né di no: le conseguenze erano inimmaginabili, al di fuori della sua portata. La porta dell'ufficio di Stella si aprì senza fare rumore. Bright si voltò, sbigottito. Era Dance, che lo guardò, mormorando: «Dio mio, Arthur...» Sul suo viso sempre impassibile passò un'ombra di compassione e nella voce emerse un velo di rispetto. Bright si rese conto soltanto allora della propria rovina. Quando si voltò dall'altra parte, Dance guardò Stella. «Curran», gli disse lei. 4 Alle cinque meno un quarto del mattino, Stella suonò il campanello dell'appartamento di Curran. Siccome nessuno venne ad aprire, suonò di nuovo, stando attenta a restare davanti allo spioncino in maniera da poter essere riconosciuta. Con la coda dell'occhio intravedeva Dance con la schiena appoggiata al muro. La porta si aprì e nello spiraglio comparve Curran, gli occhi azzurri gelidi all'altezza della catena, la pistola in pugno. «Cosa vuoi?» le chiese. Stella aveva il batticuore. «Non possiamo parlare sul pianerottolo.» Curran la squadrò, poi sbirciò fuori e Stella intuì che stava facendo i suoi calcoli. «Torna in orario d'ufficio», le disse. «Si tratta di Jack Novak», ribatté dopo una vaga esitazione. Curran rimase immobile e Stella cercò di non pensare a quello che poteva succedere. Lentamente, lui tolse la catena. Si sentì un rumore metallico, poi la porta si aprì. Curran indietreggiò di un passo, la pistola puntata su Stella. Le fece segno di entrare. Dance si staccò dal muro e la sua mano prese il posto di quella di Stella sulla maniglia. Mentre lei si faceva da parte, Dance spalancò la porta. Curran, sorpreso, trasalì e Dance gli si avventò contro a testa bassa, dan-
dogli una spallata nel torace. Curran cadde all'indietro e lasciò cadere la pistola. Dance gli balzò addosso, lo inchiodò, puntandogli un ginocchio sul petto e l'altro sulla gola, poi gli premette la pistola sulla fronte. Le loro facce erano vicinissime. Il capo della sezione Investigativa aveva il fiato corto. Gli occhi azzurri e glaciali di Curran non si staccavano un istante da lui. Stella chiuse la porta, mise la catena e si avvicinò ai due uomini. «Legittima difesa», disse Dance a Curran. «Stella è testimone.» Stella sudava e si sentiva scoppiare la testa. Curran le lanciò un'occhiataccia. Gli sussurrò: «Hai ucciso la mia gatta». Con la mano libera, Dance costrinse Curran a voltarsi verso di lui. «Hai ucciso Desnoyers», gli disse. «Hai sparato a Harlell Prince su ordine di Moro. Hai sabotato il nostro lavoro, minacciato me e la mia famiglia. Sono vent'anni che fai il doppio gioco.» Curran lo guardava, freddo, impassibile. Con un gesto rabbioso, Dance lo colpì sulla bocca col calcio della pistola. Si sentì un rumore di denti rotti che fece rabbrividire Stella. Curran non emise suono. Gli si formò una bolla di saliva rossa sulle labbra. «Tanto non mi spari», ansimò. «Non avete un cazzo di prova. E avete bisogno di me.» Stella andò nella stanza buia dove aveva lasciato la borsa, si chinò a prendere qualcosa, quindi tornò da loro. Curran guardò il video che Stella aveva in mano. «Abbiamo capito quali preliminari ti piacciono», gli disse Stella. «Mi sorprende che tu abbia aspettato che fosse morta, per tagliarle la testa.» Curran arrossì di collera. «Guardami», gli ordinò Dance. L'altro obbedì. «Novak ne aveva una copia, Johnny. Sei fregato.» «Ti aspettano in galera, sai? Tutti quelli che ci hai mandato. Lo sai che cosa gli fanno, ai poliziotti in galera? Li inchiappettano, gli tagliano le dita, gli cavano gli occhi. Ti ridurranno alla metà di quello che sei... a tre quarti, se sei fortunato. E non ti daranno tregua. Rimpiangerai che Stella non abbia chiesto la pena di morte.» Curran assunse un'espressione dura. «Ma non la chiederò», intervenne lei. «Perché credo che la vita umana sia sacra. Soprattutto la tua.»
Con calma studiata, Curran disse una parola sola: «Stronza». Dance, col dito sul grilletto, gli puntò la pistola alla bocca. «Non gli sparare, per favore», mormorò Stella. Curran la guardò, implacabile. «Chi di voi ha il registratore nascosto?» «Nessuno dei due», rispose Stella. «Niente registratori. Resta tutto tra noi.» Curran si voltò verso Dance. «Non basta.» Dance era titubante. Poi si alzò, sempre tenendo sotto tiro Curran. Questi lo guardò con un mezzo sorriso e si alzò a fatica. Stella gli sentì scrocchiare un ginocchio, ma vide che non aveva perso la sua imponenza, la sua agilità da belva feroce. Guardò in faccia Dance e disse: «Comincia tu». Dance gli posò una mano sulla spalla e la pistola all'orecchio e lentamente gli raccomandò: «Stai calmo, Johnny. Non farmi innervosire». Guardandolo negli occhi, Curran gli tastò il petto e la schiena, quindi si chinò a controllare le gambe. Dance gli teneva la pistola puntata alla nuca. «Adesso tocca a te», disse poi, rivolto a Stella. Le si avvicinò e Dance rapidamente lo seguì, tenendolo sotto tiro. Le posò le mani sulla vita e la scrutò. Aveva l'alito che odorava lievemente di whisky. Le passò le mani lungo la schiena. «Sbrigati», disse Dance. Curran si chinò appena e le tastò le cosce e i polpacci fasciati nei jeans, poi si rialzò, la guardò in volto, e le posò le mani sul seno. Dance lo colpì col calcio della pistola, ma Curran sorrise. Stella pensò che c'era solo un altro uomo al mondo che lei odiava più di quello. «Niente», le disse Curran a bassa voce. «Niente di niente.» Stella fece un passo indietro, i pugni stretti, la mascella serrata. Vedendola, Curran sorrise. «Allora va bene.» Lo disse con un'ombra di divertimento, col suo vago accento irlandese. «Posso anche dirvi tutto quello che ho fatto, tanto non potrete mai dimostrarlo.» La posta era troppo alta per lasciarsi confondere, pensò Stella, e si guardò intorno. La stanza era piccola, spoglia, banale: pareti verdi, arredamento anonimo, un quadro da pochi soldi di un paesaggio di montagna, un vecchio televisore e un crocifisso d'argento. Quest'ultimo oggetto la stupì. Non era ancora l'alba e il pallido bagliore dell'unica lampada accesa si rifletteva sui vetri. Stella tirò le tende..
Quando si voltò, la tensione restava, ma era meno evidente. Dance era seduto in poltrona con la pistola in mano e Curran gli stava di fronte, sul divano, volutamente disinvolto. «Quello che hai detto è vero», disse. «Stabilivo io le regole e voialtri non sapevate nemmeno quali erano. Sono riuscito a farti scappare dalla Narcotici, no?» Il tono era pacato, ma arrogante. Stella credette di capire quale immagine aveva di sé: era convinto di muoversi in una città oscura senza regole a parte le proprie, di essere l'unico a condividere col suo compare la conoscenza delle reti e del potere. Dance non sembrava arrabbiato, ma Stella intuì che lo era almeno quanto lei. «Per ordine di qualcuno», replicò Dance. «Di chi, Johnny?» «Ci arriveremo. Ma prima vediamo un po' se c'intendiamo tra noi.» Spostò lo sguardo da Stella a Dance. «Da dove volete cominciare? Da Fielding, da Novak o dalle due puttane?» Ostentava una calma assoluta, ma Stella intuì che era agitato. «Perché non andiamo per ordine?» Curran lo scrutò. «Allora cominciamo da Fielding», disse. Curran aveva una sola settimana per studiare le sue abitudini, scegliere tempo e luogo e architettare una morte che apparisse nel contempo accidentale e infamante. Quando gli era venuta l'idea, dopo averlo visto andare in palestra per la terza volta in tre giorni, si era messo a ridere da solo. A parte il metodo, eliminare Fielding non era un grosso problema: mentre Desnoyers aveva la coda di paglia e sapeva di essere in pericolo di vita, Fielding, che non nutriva il minimo sospetto, era un bersaglio facile. Lavorava fino a tardi, frequentava poca gente e viveva solo. L'unica persona che era andato a trovarlo nei cinque giorni in cui Curran l'aveva pedinato era la figlia. Nessuno gli aveva spiegato perché Fielding doveva morire, ma Curran era certo che, come nel caso di Desnoyers e di Harlell Prince, fosse per motivi professionali. Era un chiaro sintomo di com'erano cambiate le cose a Steelton. Una volta pronto, Curran l'aveva seguito a bordo di una macchina priva di contrassegni. Era sera. Aveva posteggiato a un isolato di distanza, si era infilato un berretto di lana e un paio di guanti e aveva preso una sacca da ginnastica nel bagagliaio. Dirigendosi verso la casa di Fielding, aveva provato un vago disprezzo. A differenza di Little Italy, a Steelton Heights la gente era ri-
servata e si disinteressava dei propri vicini: il peggio che potesse capitargli era incontrare uno yuppie che portava a spasso il cane. Aveva bussato alla porta. Fielding gli aveva aperto in pantaloni e maglietta Ralph Lauren. A Curran sembrò uno di quei gay che si facevano fotografare sulle riviste di moda. L'aveva guardato con l'aria corrucciata di chi si aspetta di sentirsi chiedere dei soldi per chissà quale associazione benefica. Curran aveva sorriso. «Johnny Curran, della Narcotici», si era presentato. «Posso parlarle un minuto?» Fielding, diffidente e perplesso, aveva abbassato gli occhi sulla sacca da ginnastica e gli aveva chiesto: «Posso vedere il suo distintivo?» Allora non sei poi così coglione, aveva pensato Curran. Si vede che alle elementari ti hanno insegnato a non fidarti degli sconosciuti. Aveva tirato fuori il tesserino. Fielding lo aveva studiato, si era rilassato e aveva assunto quell'espressione da bravo cittadino volenteroso di collaborare con la giustizia che Curran aveva sempre trovato divertente. «Si accomodi», gli aveva detto. Lui era entrato, guardandosi intorno, mentre Fielding chiudeva la porta e diceva: «C'è qualche problema?» Curran aveva fatto di sì con la testa. «Abbiamo saputo che c'è una persona nel quartiere che fa uso di eroina.» «Chi?» Curran aveva estratto la pistola e gliel'aveva puntata alla testa. «Lei.» Fielding era impallidito e aveva fatto un passo indietro. «Dov'è la sua camera da letto?» gli aveva chiesto Curran, cortese. Fielding tremava e Curran aveva notato che il pomo d'Adamo gli saliva e scendeva nervosamente. «Non abbia paura», gli aveva detto. «Mi porti in camera sua.» Fielding aveva alzato le mani e, barcollando, aveva percorso il corridoio. Ma la cosa più divertente era stata immaginare che cosa gli passava per la testa. Sarebbe morto senza riuscire a capire perché. «Si spogli», gli aveva intimato. Fielding aveva la fronte sudata e le guance rosse e quasi non osava muoversi. Curran aveva deciso che non gli conveniva spaventarlo ulteriormente. «Su, non si preoccupi», gli aveva detto. «È solo una rapina.» Fielding l'aveva guardato a bocca aperta. Come avrebbe guardato un marziano, aveva pensato Curran, ma molto più credibile.
Si era voltato per svestirsi e a Curran aveva fatto venire in mente un ragazzino timido nello spogliatoio di una palestra. Era bianco, con la pelle liscia, muscoloso e senza un grammo di ciccia. Curran si era di nuovo chiesto se era gay. Di solito i tipi così perfetti lo erano. Fielding si era voltato di nuovo verso di lui, senza guardarlo in faccia, e Curran gli aveva indicato la foto sul comodino. «Bella bambina», aveva osservato. Con la voce rotta, Fielding aveva risposto: «Grazie». Curran era scoppiato a ridere così forte che gli tremava la mano. Fielding era terrorizzato. Tornato serio, Curran gli aveva detto: «Andiamo in cucina». Fielding, nudo, aveva fatto strada. Accanto al lavandino c'erano gli avanzi di un panino e un bicchiere di birra. Perfetto, aveva pensato Curran. Senza togliergli gli occhi di dosso, aveva preso dalla sacca il flunitrazepan e glielo aveva messo nella birra. «Beva», gli aveva intimato. Fielding aveva preso il bicchiere con mano tremante. «Vuole violentarmi?» Curran aveva alzato le spalle. «Non ci avevo pensato. Le piacerebbe?» Per un istante, Fielding aveva chiuso gli occhi. Poi aveva guardato il bicchiere. «Non si preoccupi», aveva detto Curran. «Non è veleno.» L'espressione di Fielding era diventata implorante e speranzosa nel contempo e Curran aveva immaginato che Fielding s'illudesse che fosse solo un sedativo. Poi aveva bevuto. Curran gli aveva fatto segno di andare verso il tavolo. «Si sieda lì, mentre io cucino.» Fielding si era seduto pesantemente, con gli occhi bassi. Curran aveva posato la pistola sul lavandino e aveva tirato fuori il necessario per preparare l'eroina. Nel frattempo il flunitrazepan aveva cominciato a fare effetto e Fielding era intontito. Curran era riuscito a portarlo in camera da letto appena in tempo. Quando l'aveva fatto sdraiare, Fielding sbatteva le palpebre come un bambino che si sforza di restare sveglio. A quel punto, gli aveva infilato l'ago nella vena. Il fatale miscuglio di eroina e fentanyl era entrato in circolo e, qualche attimo dopo, Fielding aveva avuto un sussulto, come se stesse facendo un
brutto sogno. Era morto nel sonno. Curran lo aveva guardato. Neanche un segno, aveva pensato. Sembra una statua di Michelangelo. Steelton era uno strano posto. A mezz'ora dal Walhalla degli yuppie c'era l'inferno, lo Scarberry. A Curran era sempre piaciuto, nel suo squallore, col suo puzzo di urina, la disperazione, la violenza sempre pronta a esplodere. Curran si annoiava spesso e lo Scarberry, come la doppia vita che conduceva, gli dava quel brivido di cui aveva bisogno. Mentre girava per il quartiere malfamato sull'automobile di Fielding, aveva visto un uomo e una donna che s'infilavano in un vicolo. Immaginò di essere al posto di quell'uomo: lui sapeva terrorizzare le donne, si faceva fare tutto quello che voleva. Tuttavia, dopo la morte della rossa, era sempre andato coi piedi di piombo: l'aveva ammazzata per sbaglio e subito dopo, scoprendo che la donna che aveva filmato tutto dalla casa vicina era scomparsa insieme con la cassetta che doveva servire a ricattare Arthur Bright, aveva perso il sangue freddo. Aveva fatto a pezzi il cadavere della rossa per confondere le tracce e per spaventare la sua collega, per darle un avvertimento. Per anni aveva temuto che quella cassetta saltasse di nuovo fuori. A distanza di tanto tempo, però, era di nuovo lì a cercare una donna. Aveva visto una prostituta infreddolita in un angolo. Aveva rallentato per guardarla bene, notando che barcollava come una tossica, stringendosi le braccia al petto per calmare il tremito, e gli era venuto in mente Fielding con la sua pelle bianchissima. Che la puttana fosse nera gli era parso un tocco di classe. Poco più avanti ce n'era un'altra. Meglio essere prudenti. Un teste in grado d'identificare l'automobile di Fielding poteva tornargli utile, ma doveva stare attento a non farsi riconoscere. Le puttane non vivono a lungo, tuttavia poteva essercene ancora qualcuna che ricordava la rossa e magari anche l'uomo che l'aveva fatta salire in macchina. L'idea di mettere accanto a Fielding una donna, una comparsa nel suo macabro teatro dell'assurdo, era un colpo da maestro, un elemento in più per avallare la morte accidentale. La prostituta si era fatta avanti, quasi ipnotizzata dalla luce dei fari. Curran, interpretandolo come un segno del destino, aveva rallentato e si era fermato. La donna si era chinata a parlargli dal finestrino. La puttana poco più in
là continuava a osservarli. Resta dove sei e memorizza la targa, aveva pregato Curran. Aveva abbassato il finestrino elettrico dalla parte del passeggero e la puttana si era avvicinata, strascicando i piedi. Aveva lo sguardo da crisi di astinenza ed era pallidissima. «Ti faccio divertire?» gli aveva domandato. Sai che divertimento, aveva pensato Curran. E le aveva sorriso. «Vuoi della roba?» La puttana aveva mosso le labbra. Con la coda dell'occhio, Curran aveva visto l'altra donna all'erta. Senza dire nulla, aveva tirato fuori due biglietti da cento dollari e li aveva posati sul sedile. La donna aveva guardato prima i soldi e poi lui, combattuta tra la paura e la voglia di farsi, poi era salita. La portiera si era chiusa col lieve tonfo ovattato delle macchine di lusso. La donna era emaciata, sfatta. Con o senza il suo intervento, non sarebbe arrivata alla fine dell'anno, aveva pensato Curran. Quand'era ripartito, aveva visto che le due puttane si erano scambiate un'occhiata attraverso il vetro fumé. Non voleva che lei si bucasse troppo presto, ma, una volta arrivati a Steelton Heights, doveva darle la dose perché, se da morta sarebbe stata un peso, da viva, per quanto inebetita, c'era il rischio che si accorgesse che Fielding era morto. Per evitare d'insospettire il coroner, era meglio che morisse senza lottare. Perciò aveva preso dalla sacca una siringa. Lei aveva chiuso gli occhi e si era infilata l'ago in vena in macchina, appoggiando la testa all'indietro. Quando Curran aveva posteggiato davanti alla casa di Fielding, sussultava ancora. Si era messo la siringa in tasca e l'aveva aiutata a scendere. L'aveva dovuta sorreggere perché non respirava più, ma era ancora calda. Aveva guardato da una parte e dall'altra: la strada era deserta. Aveva fatto il breve tratto dalla macchina al portone tenendola abbracciata, come un'amante ubriaca. Farla entrare era stato più difficile. Da morte, come aveva avuto modo di constatare, le donne camminano malissimo. L'aveva stesa sul letto accanto a Fielding, che sembrava già di marmo. «Non si preoccupi», gli aveva detto. «È morta.» Anche spogliarla non era stato facile e, nel vederla nuda, aveva provato
un certo ribrezzo. Pover'uomo, aveva pensato. Stella guardò Curran seduto di fronte a lei e gli augurò una morte lenta e dolorosa. Aveva le labbra sporche di sangue e i denti rotti, ma lo sguardo compiaciuto: ogni ammissione lo rendeva più prezioso. Stella guardò la stanza squallida, la luce fioca, Dance con la pistola puntata contro Curran. «Finora hai ammazzato cinque persone», gli disse. Curran si guardò le unghie. Si comportava con lo sprezzo di chi sa di avere il coltello dalla parte del manico. «Cinque condanne a morte», replicò. «Tanto, più di una volta non potete giustiziarmi.» Lo disse con un certo gusto, divertito. Vedendolo, Stella ricordò la rabbia di Natasha Tillman, quando avevano parlato sulla sua macchina, allorché lei le aveva detto: «So che alla Buoncostume finiscono i poliziotti troppo fuori di testa per lavorare nella Narcotici. E chi odia le donne si offre volontario». Natasha aveva ribattuto: «Ti porta a fare un giro in macchina di notte, ti picchia e ti violenta a Steelton Park e poi ti lascia in mezzo alla strada. Perché lui può». Poi, quando lei le aveva chiesto di fare qualche nome, la risposta era stata: «Non ci penso nemmeno. Quel giro a Steelton Park è stato la mia fortuna. Il poliziotto me lo ha detto chiaramente, che cosa mi succedeva se non mi mostravo grata delle sue attenzioni. E io lo sono». «Hai ucciso anche Natasha Tillman.» Stella mantenne un tono impassibile. «Mi hai seguito nello Scarberry e, quando l'hai vista salire sulla mia macchina, hai deciso di tagliarle la gola e gettarla in un cassonetto. Non solo per la Welch, ma perché sapeva chi eri: un pervertito che non riesce a farselo rizzare senza far soffrire il prossimo.» Negli occhi gelidi di Curran brillò un lampo di odio per Stella e per le donne in generale. «La perversione è un concetto relativo», disse. «Io, per esempio, non mi sono mai scopato Jack Novak.» «E perché no?» ribatté Stella. «Perché era morto?» Gli ci volle qualche istante prima di ritrovare il sorriso. «Vuoi sentire tutta la storia o preferisci uscire?» le domandò. Senza essere invitato a entrare, Curran aveva spinto Novak da una parte e aveva chiuso la porta. «Non vali più niente, ormai», gli aveva detto. Novak aveva cambiato faccia. «Bright verrà a più miti consigli. So ancora come convincerlo a collaborare.»
Curran aveva scosso la testa. «Il tempo è scaduto.» Novak aveva notato la sacca da ginnastica di Curran e d'istinto aveva fatto un passo indietro. «Parliamone.» «Offrimi un whisky irlandese», aveva ribattuto Curran. «Prima che io lo finisca, mi dovrai dire tutto quello che mi serve.» Novak aveva la fronte imperlata di sudore ed era agitato, come se avesse appena tirato della coca. «Posso offrirti dello scotch... Di puro malto.» «Okay.» Novak era andato in cucina. Curran si era seduto in poltrona. Sul tavolino c'era un po' di polvere bianca e, poco prima, lui aveva visto la bionda di Novak uscire di corsa dal portone con l'aria sconvolta: fatto e ubriaco, Novak sarebbe crollato come una pera matura. Era ritornato con due bicchieri di whisky con ghiaccio e Curran l'aveva squadrato. Aveva i baffi tinti, la pancia che sporgeva sotto il dolcevita di cachemire e lo sguardo astuto ma vigliacco. Del resto, pensò Curran, si sapeva che le donne per soldi andavano con chiunque. Novak gli aveva porto un bicchiere e aveva notato solo in quel momento che Curran calzava un paio di guanti trasparenti, da chirurgo. Era rimasto a bocca aperta, ma Curran aveva fatto finta di niente e aveva assaggiato lo scotch. «Ottimo, Jack. Penso che lo finirò in un batter d'occhio.» Novak non riusciva a staccare gli occhi dalle mani di Curran. «Ti prego», lo aveva supplicato. «Bright mi dà ancora ascolto.» Curran aveva parlato con voce flautata. «Si può influenzare solo chi dipende da noi. O sbaglio?» Novak aveva bevuto un sorso di scotch, nervoso. Si era leccato le labbra e aveva deglutito a fatica. «Stronzate», aveva continuato Curran sottovoce. «Hai una cassetta di Bright, ma al nostro amico non l'hai mai detto, no?» Novak aveva cambiato posizione. «No», aveva risposto dopo un po'. «Lui naturalmente lo sa, perché filmare Bright era stata un'idea sua. Solo che non sa chi altro c'è nel film.» Finito lo scotch, Curran aveva posato il bicchiere vuoto. «Solo tu e io sappiamo il vero motivo per cui sono qui.» E aveva tirato fuori la pistola. Novak era sbiancato. «Ricordi Desnoyers?» gli aveva chiesto Curran. «Farlo ammazzare non è stato difficile, eh, Jack?»
Curran non aveva mai visto quello sguardo: negli occhi di Novak lesse il terrore di chi si accorge troppo tardi di aver imboccato una strada senza uscita. «Sei soltanto un apprendista stregone», gli aveva detto allora. «Non sei mai stato altro. Solo che a un certo punto te ne sei dimenticato.» Novak l'aveva guardato con sgomento. Curran aveva pensato che aveva i riflessi lenti e che si era reso conto solo in quel momento che, indipendentemente dalle sue intenzioni, era molto più che un semplice ricattatore: era il testimone di un omicidio. Lentamente era andato a prendere una bibbia rilegata in pelle dalla libreria e l'aveva posata sul tavolo. Dentro c'era la videocassetta. «Okay», aveva detto. «Adesso hai quello che volevi...» «Non ancora.» Curran aveva preso dalla sacca il reggicalze e le calze. «Mettiti questi, Jack. Dovrebbero andarti bene.» Novak aveva assunto un'aria sconcertata. «Che cosa vuoi fare, Johnny?» Era una supplica fatta nella speranza, per quanto vana, che Curran fosse andato lì solo per umiliarlo o, forse, per ricattarlo. «Un esperimento», aveva risposto Curran. «Per vedere quanto tieni alla tua vita.» Novak ci teneva ancora. Curran lo aveva guardato mentre si spogliava. Nudo, aveva rabbrividito e gli ci era voluto un po' per infilarsi le calze. Con un cenno, Curran lo aveva invitato ad alzarsi. Novak aveva obbedito. Curran gli aveva osservato il ventre flaccido e aveva detto: «So che alle donne fai mettere il reggicalze. Ora capisco perché». Novak sembrava sul punto di vomitare. «Hai una copia di questa cassetta?» gli aveva chiesto Curran, brusco. Novak aveva chiuso gli occhi e, lentamente, aveva scosso la testa. Curran l'aveva scrutato. «Non raccontarmi palle, Jack. Non ti conviene.» Novak aveva deglutito. «Non è una palla», aveva ripetuto con un filo di voce. «Credimi.» Curran gli aveva restituito la cassetta. «Allora fammela vedere. Dopotutto non ho mai avuto il piacere.» Aveva notato subito lo sguardo perplesso di Novak. «Avanti», aveva insistito. Novak era andato a infilare il nastro nel videoregistratore con passo esitante e l'andatura da travestito. A Curran era venuto in mente il concorso di bellezza dei Monty Python. Peccato che per le scarpe coi tacchi bisognasse aspettare.
Il nastro aveva cominciato a girare. «Resta lì dove sei», gli aveva ordinato. «Ti dico io quando fermarlo.» Novak si era chinato, il dito sul pulsante dello stop, e aveva osservato Arthur Bright che si avvicinava alla donna. Al momento dell'orgasmo, Curran aveva esclamato: «Stop». La smorfia di Bright si era fermata sullo schermo. «Cancella tutto il resto», gli aveva ordinato. Novak sembrava paralizzato. Evidentemente cercava di ricordare come si faceva a cancellare un nastro e nel contempo si chiedeva che cosa sarebbe successo dopo. Era in quel momento che gli aveva messo il sedativo nel bicchiere. Finalmente Novak aveva premuto due pulsanti. «Va bene», aveva detto Curran. «Adesso puoi finire il tuo scotch.» A ogni nuovo ordine, Novak sembrava più remissivo, svuotato. «Sta svanendo l'effetto della coca?» aveva chiesto Curran. Novak, sull'orlo del collasso, si era accasciato, senza toccare lo scotch. Aveva un'espressione ridicola, gli occhi sbarrati, la bocca aperta... Sembrava un pesce che boccheggiasse. «Bevi», gli aveva comandato Curran. Novak aveva guardato il liquido ambrato come fosse cicuta. Aveva alzato la testa, si era guardato intorno e poi l'aveva buttato giù in un unico sorso. Curran si era posato la pistola in grembo. «A proposito», gli aveva detto, come se niente fosse. «Sei un uomo morto.» Ma Novak lo sapeva già. Si era appoggiato all'indietro con la testa ciondoloni. Curran aveva frugato dappertutto alla ricerca di un'eventuale copia della cassetta e, quand'era tornato nel salotto, l'aveva visto con gli occhi chiusi e il respiro corto. È soltanto un altro uomo con le calze di seta, aveva pensato. Riposta la cassetta nella sacca da ginnastica, si era messo al lavoro. Stella si sforzò di respirare lentamente. Curran la guardava in faccia. «Sorvolerò sul resto», disse. «Visto che sei convinta che la vita umana sia sacra. Ma tagliargli i coglioni è stato un colpo di genio. Un bel regalino per Arthur Bright.» «Il colpo di genio è stato di Jack, che ti ha mentito», replicò Stella. «Per questo siamo qui.»
Curran si appoggiò allo schienale e socchiuse gli occhi minaccioso. Stella scandì bene le parole. «Desnoyers. Prince. Fielding. Novak. Chi è il mandante?» Curran guardò prima Stella e poi Dance. La trattativa stava per cominciare. «Vincent Moro», rispose, calmo. «Vincent Moro in persona.» 5 Dance scoppiò a ridere. «Lo sapevo. E adesso tu lo puoi incastrare.» Curran gli lanciò un'occhiata fredda, soppesandolo. Si era messo comodo, come se non avesse nessuna fretta e Dance e Stella potessero continuare tutto il giorno coi loro giochi. Stella notò che dalle tapparelle filtravano le prime luci dell'alba. Dance si voltò verso di lei. «Johnny è pronto a sgravarsi la coscienza. Ma aspetta che tu lo implori.» «Perché dovrei?» chiese lei di rimando a Curran. «Hai qualche testimone?» Lo sguardo dell'irlandese era gelido. «Nessuno sapeva niente», disse. «Né tu, né i picciotti di Vincent. Solo lui e io.» Stella rimase colpita per l'ennesima volta dalla sua megalomania: era convinto di essere il più furbo in mezzo a un branco d'incapaci. C'era una sola persona da cui gli interessava essere rispettato ed era quella che stava per tradire. «Così, io ti porto sul banco dei testimoni e tu dici alla giuria: 'Sono un serial killer che fa a pezzi le prostitute. Ma è stato Vincent Moro a ordinarmelo'», disse Stella in tono sprezzante. «Che cosa vuoi perché io mi renda ridicola davanti a tutto il tribunale? I cinque ergastoli cui hai accennato? Non mi sembra uno scambio vantaggioso.» Curran si limitò ad alzare le spalle. «Come v'incontravate?» incalzò lei. A quella domanda, le sorrise. «In case sicure. Usando telefoni sicuri. Io gli telefonavo, oppure mi chiamava lui, senza intermediari, il tempo necessario per comunicarmi un codice corrispondente a uno dei quattro o cinque condomini con garage sotterraneo. Io andavo nell'appartamento e aspettavo. Vincent arrivava sempre dopo di me e se ne andava sempre prima.» Dance si sporse in avanti e, con voce piatta, commentò: «La cocaina sparita, le retate fallite, gli omicidi... Funzionava sempre allo stesso modo. Tu e Moro v'incontravate in privato per organizzare tutto».
A Curran brillarono di nuovo gli occhi. «Anche come farti uscire dalla Narcotici. Vincent e io ci siamo messi d'accordo per spaventarti e costringerti a chiedere il trasferimento.» Poi si rivolse a Stella: «E sul modo per fare uscire di testa te. Che puntualmente ha funzionato». Abbassò la voce e prese un tono sfottente. «Ma immagino di non poter dimostrare quanto sei stupida. Nessuna giuria mi crederebbe mai.» Stella non perse la calma. «Vuoi che ti crediamo noi? Organizza un altro incontro con Moro.» Curran si girò l'anello al dito. «E perché?» domandò sottovoce. «Per dimostrare che sono in grado di farlo?» «No. Per metterti addosso una microspia.» Lentamente, Curran spostò lo sguardo da Stella a Dance. «Andate a fare in culo. Vincent è troppo furbo.» «E tu non lo sei abbastanza.» Il tono di Dance era meditabondo. «Ricordi la rivolta dei carcerati di qualche anno fa? Ricordi che fine fece l'ex poliziotto corrotto della Narcotici? I compagni di cella gli tagliarono il pisello e glielo fecero ingoiare. Ma fu il punteruolo conficcato in testa a ucciderlo. Adesso le misure di sicurezza sono state intensificate e probabilmente moriresti più lentamente, di AIDS. Per noi fa lo stesso.» Curran pareva impietrito. Con un filo di voce chiese a Stella: «Che cosa mi offrite?» «Da un minimo di quindici anni all'ergastolo. Per l'omicidio della rossa soltanto. Dacci Moro e convincerò il giudice.» Curran inarcò le sopracciglia, incredulo, poi il suo sguardo s'indurì. «Palle. Una volta che sono dentro, non esco più, nemmeno in libertà vigilata. E Vincent mi fa ammazzare in prigione...» «Il tempo sta per scadere», lo interruppe Dance. «Dicci che cosa vuoi.» Curran, con gli occhi fissi a terra, valutava le alternative. «Voglio scappare all'estero», disse alla fine. «Se riesco a farvi prendere Vincent e a uscirne vivo, mi date una settimana di vantaggio in cui nessuno mi deve seguire e non avvertite né l'Interpol né l'ufficio immigrazione. Dopodiché, mi arrangio da solo.» Era un'offerta di un'immoralità inaudita: Curran voleva una settimana per recuperare i soldi che aveva nascosto chissà dove e scappare in un Paese in cui non avrebbe rischiato l'estradizione. «Escluso», disse Stella. «Sono cose che non si fanno nemmeno a Steelton.» «Si fanno eccome, signorina. Ricordi Sammy Gravano detto 'il Toro'?» Ci risiamo, pensò Stella. Gravano era l'esempio classico: un mafioso con
una ventina di omicidi sulla coscienza che aveva tradito il suo boss grazie al programma federale di protezione dei pentiti. «Gravano è stato dentro», ribatté. Curran alzò le spalle. «Secondo i miei calcoli, ho ammazzato quindici persone meno di Gravano. Anche se una era il tuo ex fidanzato.» Stella vide Dance accarezzare il grilletto della pistola. «Sei marcio, Johnny. Hai tenuto mano a Moro nell'East Side per vent'anni...» «Non solo», lo interruppe soavemente Curran. «Ho fatto molto di più.» Davvero? si chiese Stella, imponendosi di non chiedergli che cosa. «Dieci anni», disse. «In un carcere federale. Se mi dai Moro.» Curran sorrise. «In un carcere federale? Che cosa ho fatto? Ho violato i 'diritti civili' della rossa?» Stella si sforzò di pensare soltanto alla possibilità d'incastrare Vincent Moro. «T'incontri con Moro, registri il colloquio, poi vieni a testimoniare su questo e su tutto quello che hai fatto per lui. Se Moro viene condannato a morte o all'ergastolo, avrai quello che chiedi.» Quella presentazione brutale della posta in gioco per Vincent Moro e per lui stesso lasciò perplesso Curran. Stella lo osservò soppesare i rischi. «Niente prigione», dichiarò dopo un po'. «Voglio la protezione dei federali da subito: non appena finisco con Vincent Moro, voglio essere trasferito al sicuro. Dopo che ho testimoniato, voglio essere portato da un chirurgo plastico e aiutato a sparire. I soldi che ho, li tengo.» «Dieci anni», ripeté Stella. Curran scosse la testa. «Se volete incastrare Vincent Moro, avete bisogno di me. Ma non vale dieci anni della mia vita.» Stella si preparò al peggio. «Difatti.» Curran si appoggiò allo schienale. Poi mormorò: «Allora cerchiamo di capire quanto vale». C'era davvero molto di più: a quel punto Stella ne ebbe la certezza. Anche Dance era attentissimo. «Sono stato io a nascondere la cocaina in casa di George Walker quattro anni fa», raccontò Curran. «Sono stato io a far eleggere sindaco Tom Krajek. Per ordine di Vincent Moro. È lui che comanda, in questa città.» Assunse un tono pragmatico nel concludere: «Tiene in pugno Krajek, come avrebbe tenuto in pugno Bright. È stato lui a impedire a quel bugiardo di Walker di diventare il primo sindaco nero di Steelton». Dance si sporse verso di lui, con lo sguardo severo, pieno di violenza repressa. «Sei uno stronzo, Johnny.» Lo disse a voce bassa, istintivamente,
con rabbia. Stella rimase a guardare. «Niente galera», ripeté Curran con calma. «O niente Moro.» Stella e Dance fissavano il lago in silenzio. Avevano lasciato Curran a casa sua, guardato a vista da due poliziotti fidati perché sarebbe stato troppo rischioso sbatterlo dentro e, siccome davanti a lui non potevano parlare, erano andati a Steelton Park con la macchina di Dance. Gli alberi erano molto fitti, tranne che nell'ultimo tratto verso il lago. Dance e Stella erano sulla spiaggetta con le mani in tasca e il fiato che si condensava nell'aria. Era in quel parco, pensò Stella, che Curran aveva violentato Natasha Tillman. «Hai sempre sospettato di lui, vero?» disse a Dance dopo un po'. Continuando a guardare le onde, lui annuì. «Se non era un'associazione per delinquere, doveva per forza essere Curran. Era il più intelligente, l'unico con sufficiente autonomia da poter agire per conto proprio.» Emise un gran sospiro. «Non vedevo l'ora di beccarlo.» Stella si voltò verso di lui. «Perché non ti fidavi di me?» «Più che altro non mi fidavo della procura. Bright ti aveva mandato da Curran.» Tacque, poi mormorò: «Che coglione, Arthur...» Dal tono di rammarico di quelle parole trapelavano tutte le sue speranze infrante: prima Walker, adesso Bright. Steelton non sarebbe mai cambiata. Stella incurvò le spalle per proteggersi dal freddo. «Quello che tu pensavi di Curran, io lo sospettavo di te», ammise. «Eri nella condizione di poter insabbiare quei processi e abbastanza intelligente per farlo. Sospettavo che avessi fatto fuori Bufalo per conto di Moro.» Dance si girò con un sorriso amareggiato. «Sì. Nel mondo di Vincent Moro, sarebbe stato plausibile anche questo.» Aveva cominciato a piovigginare e il vento spingeva le gocce in faccia a Stella. «Questa è una cosa grossa, Nat. Se Moro ha in pugno Krajek...» «Stai pensando che dobbiamo arrivare a un accordo. A costo di lasciarlo andare.» Era la verità, ma dirla non era facile. «Quello stronzo ci contava», mormorò. «Per questo trattava con Moro direttamente, per poterlo tradire, se necessario.» Dance fece una risatina. «Credi che Moro non lo sappia? Ricordati che è ancora lì dopo tutti questi anni, nonostante tutto quello che ha fatto.» Era vero: se il mondo non era perfetto, Steelton lo era ancora meno. La
città si trovava nelle mani di Moro e l'unico a poter cambiare le cose era Curran. Stella si voltò per ripararsi la faccia dalla pioggia e disse: «E come può fare Curran a incastrarlo?» Dance alzò le spalle. «Non lo so ancora. Ma se ci prova e gli va male, è un uomo morto. Il nostro premio di consolazione è questo.» Stella era certa che anche Curran ci aveva pensato. Trovò Bright nel suo ufficio, solo. Aveva annullato tutti gli impegni pubblici. Era accanto alla finestra e guardava la struttura d'acciaio dello stadio che aveva continuato a crescere di giorno in giorno, inesorabilmente, anche dopo la morte di Fielding. Entro breve sarebbe stato finito; se poi fosse partita anche la fase due, sarebbe diventato il fulcro di un complesso da cinque milioni di dollari che avrebbe cambiato faccia alla città. Quando Stella chiuse la porta, Bright continuò a guardare il panorama. «Che cosa significa tutto questo?» domandò. «Continuo a non capire.» Poteva darsi che si riferisse a Steelton 2000, ma Stella immaginò che stesse parlando della propria vita, degli anni di fatica e di sotterfugi che non erano bastati a evitare la rovina. Le pareva impossibile che si fosse rassegnato. Lei stessa non riusciva ancora a capacitarsi del fatto che Bright fosse diventato una pedina nel suo piano per distruggere Vincent Moro. E che, se il piano fosse riuscito, avrebbe travolto anche Arthur. Ma non c'era tempo per lasciarsi prendere dalle emozioni. L'unica cosa che poteva fare era raccontargli che cosa era successo. Quando arrivò a Krajek e George Walker, Bright si voltò dall'altra parte. Probabilmente stava pensando che, nonostante le loro manovre politiche, i loro calcoli e scrupoli di coscienza, Moro li aveva ridotti tutti e tre a marionette di cui teneva i fili. Fino a poche ore prima, forse avrebbe provato gusto al pensiero della rovina di Krajek e della propria vittoria imminente, ma ormai era completamente svuotato. «Che cosa volete che faccia?» le chiese. «Che contatti i federali. Dobbiamo farci assicurare che Curran sarà incluso in un programma di protezione dei pentiti e non verrà ammazzato. La trattativa si preannuncia lunga e non sappiamo come andrà a finire. Per il momento, non parlarne coi federali. Noi non diremo nulla a nessuno. Di Curran ci occuperemo Nat e io. Tu continua a comportarti come se non fosse successo niente. E tieni alla larga Sloan.»
Bright andò alla scrivania e vi posò le mani come per sincerarsi che era vera. Con voce atona chiese: «E Lizanne?» «Per il momento non dire niente neanche a lei. Agli occhi di tutti, sei ancora candidato alla poltrona di sindaco.» Sforzandosi di non lasciar trasparire le proprie emozioni, continuò: «Cerca di non fare stronzate, Arthur. Non sei nelle mani di Moro, ma nelle mie. Collabora e cercherò di agevolarti il più possibile. Ma non pensare che per te sia meglio se Moro ammazza Curran e a me non rimangono prove contro di lui. Perché ti metterei in croce». Nello sguardo di Bright passò un lampo di rabbia, seguito da un'amara rassegnazione. «Jack aveva ragione, Stella. Sei perfetta per questo lavoro.» «Tu mi hai assunto. E guarda dove siamo arrivati.» Bright parve darsi un contegno. Stella ebbe la netta sensazione che fosse deciso a comportarsi con dignità e razionalità, almeno per qualche altra ora. «Farò tutto quello che è necessario», mormorò. «Ma non fare stronzate neanche tu. Con Moro non avrai una seconda chance.» Non c'era altro da dire. Stella uscì, prese l'ascensore e attraversò la strada spazzata dal vento per andare alla macchina di Dance. Quando arrivarono a casa di Curran, Dance mandò i due agenti in camera da letto e si sedette, la pistola puntata sull'irlandese. Stella rimase in piedi. «Stiamo riflettendo sulla tua proposta.» Sul viso di Curran passò l'ombra di un sorriso, che però scomparve rapidamente. «Bene. Tornate quando siete pronti a concludere.» «Procediamo con ordine», tagliò corto Stella. «Spiegaci il tuo piano.» L'uomo cominciò a girarsi l'anello al dito. «Oh, pensavo di chiedergli di confessare tutto», mormorò, e la sua cadenza irlandese assunse un tono sarcastico. «Un piccolo favore in nome della nostra vecchia amicizia.» «Non hai un piano?» disse Stella. «Allora non se ne fa niente.» Curran alzò lo sguardo e, con gelida ironia, sibilò: «Volete che registri Moro mentre parla di un omicidio? Be', io non voglio morire. Quindi dare un appuntamento a Vincent nel solito modo non mi sembra una grande idea. Bisogna che m'inventi qualcosa che lo induca a incontrarmi senza seguire la solita procedura». Spalancò gli occhi, fingendo di aver avuto una grande ispirazione. «Ah, sì... Gli racconto che avete un testimone. Una donna che sostiene di aver visto uscire da casa di Novak un uomo che somiglia pericolosamente a me. E che state cercando tracce di flunitrazepan nelle urine di Novak e Fielding. Di questo forse lo posso convincere, anche
se voi ci fate la figura di essere più intelligenti di quanto non siate.» «Molte grazie», replicò Stella. «Immagino che andrai all'estero.» «Non posso più restare qui. Mi servono mezzo milione di dollari in contanti e un posto in cui nascondermi in Europa. Altrimenti...» A quel punto smise di fare lo spiritoso. «Con tutta probabilità mi beccherò una pallottola nella testa. Vincent non si fida di nessuno e sa che darmi dei soldi sarebbe compromettente. Quindi può darsi che capisca, se gli dico che mi sentirei più tranquillo a incontrarlo all'aperto. Il vantaggio d'incontrarsi all'aperto, dal suo punto di vista, è che l'intercettazione ambientale è più difficile. L'unico modo per registrarlo è che io mi presenti all'appuntamento con una cimice addosso.» Curran fece una pausa, quasi stesse immaginando passo per passo l'incontro. «Penserà anche a quello, naturalmente. È per questo fino all'ultimo momento non dirà dove c'incontreremo.» Stella ripassò mentalmente i propri dubbi. «E se manda qualcun altro al posto suo?» «Non è possibile, perché in tal caso avrebbe un altro testimone che ha visto me e che io ho visto. Avrei una persona in più da poter denunciare e le probabilità di essere tradito raddoppierebbero.» Abbassò la voce. «Sono anni e anni che lavoriamo così, lui e io. Non cambierà adesso.» Stella lanciò un'occhiata a Dance. Senza parlare, lui le fece capire che non avevano scelta. «Okay», disse allora. «Ti faremo sapere quando telefonargli. E come.» Curran, in silenzio, si strinse nelle spalle. «Ancora una cosa», aggiunse Stella. «Michael Del Corso.» Subito Curran sorrise e i suoi occhi ebbero un guizzo. «Mi chiedevo quando ci saresti arrivata. Vuoi sapere se è marcio.» «Sì.» «Vuoi che ti dica di sì?» Stella incrociò le braccia. «Voglio la verità.» «Credevo che la sapessi. Lavora per Vincent. Sua moglie se n'è andata, abbandonando quella povera bambina, perché è stata costretta. Mi ha dato una copia della chiave che gli hai prestato perché non sono molto bravo come scassinatore. Mi ha tenuto informato perché non ce la facevo a star dietro alle tue elucubrazioni, né alla tua macchina, quando correvi dallo studio della Micelli a quello di Novak e allo Scarberry.» Curran quasi rideva. «Spero che tu gli abbia dato il benservito, almeno.» Stella, non sapendo se sarebbe riuscita a controllarsi, non rispose e Curran, con spietata indifferenza, concluse: «Mah, Del Corso è un ingenuo,
proprio come te. Farlo passare per marcio è stato un giochetto di Vincent. Ti ricordava dai tempi di Novak, quindi sa che non sei molto brava a giudicare gli uomini». 6 Per Stella, le ore successive furono estenuanti: un breve colloquio con Bright per avere conferma della collaborazione dei federali, uno con Dance per assicurarsi che Curran e i suoi angeli custodi restassero invisibili, poi fingere con Sloan che fosse tutto normale, cercare di soffocare il dispiacere per Michael, ragionare sulle implicazioni della morte di Fielding e della presunta corruzione di Krajek. Era partita da una storia di omicidi, droga e inchieste insabbiate e si era ritrovata tra le mani qualcosa di molto diverso. Non era neppure esattamente sicura di che cosa fosse, ma aveva la sensazione che si trattasse di un mistero enorme e terribile. Andò due volte nell'ufficio di Michael, senza sapere nemmeno lei perché, visto che non poteva dirgli niente e, soprattutto, che lui non c'era. Si sorprese a pensare a Sofia, poi alla figlia di Fielding e all'uomo che l'aveva resa orfana. E che forse lei, Stella, stava per lasciare libero. Vincent Moro avrebbe dovuto essere in prigione, ricordava di aver detto a Jack Novak. A quei tempi era troppo giovane per sapere quanto le sarebbe costato mandarcelo. Poco prima delle quattro, Michael si presentò nell'ufficio di Stella. Buttò alcune carte sulla scrivania e disse: «Leggile, credo che possano interessarti». Colta alla sprovvista, Stella replicò sottovoce: «Chiudi la porta, per favore». Lui obbedì, ma dalla sua lentezza si capiva che avrebbe preferito essere altrove. «Volevi sapere chi c'è dietro la Lakefront. Be', qui hai tutta la documentazione: sei società private, ognuna di proprietà della precedente, senza obbligo giuridico di rendere pubblici i nomi degli azionisti. L'ultima della serie ha sede nelle Antille Olandesi, ma, per fortuna, io conoscevo qualcuno laggiù, per via di un altro caso.» Meccanicamente, Stella sfogliò il plico di carte. L'ultimo documento era un fax, l'iscrizione al Registro delle Imprese della Malta Company, N.A., con sede nelle Antille Olandesi. Il presidente si chiamava Richard Flack. «Chi è Richard Flack?» chiese.
«Un avvocato, socio del mio vecchio amico e compagno di scuola Nicholas Moro.» Stella sgranò gli occhi. «Il figlio di Vincent?» «Esatto.» Il tono di Michael era freddo. «Ho pensato che preferissi saperlo. Così potrai parlare dei miei rapporti con Nick Moro quando porterai tutto questo ad Arthur.» Stella prese una penna e cominciò a girarsela tra le dita, la mente affollata da mille pensieri. Ma si concentrò su due in particolare. Con tutta probabilità erano Vincent Moro o suo figlio a controllare Steelton 2000 e il progetto per la ristrutturazione del lungolago. E, volente o nolente, Peter Hall faceva loro da paravento. Non ci sarebbe mai arrivata senza Michael. Finalmente alzò la testa, lo guardò e rimase malissimo nel rendersi conto che, più che arrabbiato, sembrava indifferente. Non si sarebbe mai potuta scusare abbastanza, pensò, né avrebbe potuto farlo senza spiegargli di Curran. «Puoi portarli ad Arthur tu stesso», gli disse. Quando Michael se ne fu andato, Stella accese il computer. Lì per lì fece fatica a concentrarsi, ma poi cominciò a stendere un documento di cui nessun altro doveva sapere nulla: una domanda di autorizzazione a intercettare le telefonate di Peter Hall. Non appena ebbe finito, telefonò a Dance a casa di Johnny Curran. «Dietro Steelton 2000 c'è Vincent Moro», gli comunicò, spiegandogli poi tutto. Quando ebbe finito, Dance rimase in silenzio. Dopo un po' chiese: «Che cosa speri di ottenere da Hall?» «Una confessione, se possibile. È un altro modo per arrivare a Moro.» «E se Hall telefona a Moro o a Krajek?» «A questo serve l'intercettazione. E, se mettiamo sotto inchiesta Hall, Curran diventa più credibile.» All'altro capo del filo ci fu un lungo silenzio. «Credo che sia meglio che io resti qui», disse poi Dance. «Non è necessario che venga anche tu da Hall. Posso andarci da sola.» Fece una pausa. «A meno che non mi accompagni Del Corso, che capisce gli aspetti finanziari e sa come lavora Moro. Non gli dirò niente di Curran.» Stella intuì che Dance stava valutando il rischio e forse anche la sua mo-
tivazione. «Bisogna che Curran faccia quella telefonata al più presto», le ricordò. «Non voglio che Moro si accorga che l'abbiamo preso.» «Tra un'ora sono lì», promise Stella prima di riattaccare. Fece un breve inventario mentale dei problemi che le si sarebbero presentati nelle ore successive: l'incertezza riguardo alla telefonata di Curran a Moro, la complessa operazione da mettere in atto se Moro avesse acconsentito a incontrarlo, il rischio d'irritare Peter Hall. Poi andò nell'ufficio di Michael, che stava mettendo delle carte nella valigetta e si preparava a uscire. «Ho bisogno del tuo aiuto», gli disse. Lui alzò lo sguardo e continuò a riempire la valigetta. «Sto andando da Peter Hall. Non voglio interrogarlo senza di te.» Michael fece scattare la chiusura della valigetta e, senza guardarla in faccia, disse: «E Bright che cosa vuole?» Stella esitò. «Che ci andiamo insieme.» Michael appoggiò la valigetta sulla scrivania e le rivolse un'occhiata apertamente risentita. «Allora immagino che sia un ordine.» Si rammaricò di non potersi scusare per averglielo detto così all'ultimo momento, costringendolo a lasciare Sofia dai nonni, ma sarebbe stato troppo confidenziale. «Ti passo a prendere a casa», concluse. Lui s'infilò il cappotto e uscì senza rispondere, senza nemmeno guardarla. Stella andò in tribunale e cercò il giudice di turno. Sebbene questi inarcasse le sopracciglia nel sentir nominare Peter Hall, gli spiegò il minimo indispensabile e ottenne l'autorizzazione. Telefonò a Dance per predisporre le intercettazioni e poi andò a casa di Curran. Quando arrivò, nel soggiorno c'erano due nuove prese telefoniche con apparecchio, cuffie e registratore installati dalla polizia. Coinvolgere altre persone, per quanto necessario, la preoccupava perché significava che sempre più gente veniva a sapere che avevano preso Curran. Quest'ultimo aveva perso un po' della sua sicurezza. Aveva l'aria di chi ha ancora la cena della sera prima sullo stomaco e giocherellava con l'anello, si torceva le mani gonfie e si toglieva peluzzi immaginari dal maglione irlandese. «Ci siamo», annunciò Dance a Stella. Curran non alzò nemmeno la testa. Improvvisamente immobile, sembra-
va essersi ritirato in se stesso. «Pensa alla galera», gli disse Dance. «Vedrai che aiuta.» Curran valutò per l'ultima volta quante possibilità aveva di farcela, immaginò che cosa sarebbe stata la vita in prigione, poi fissò il telefono che aveva accanto. Alla fine sollevò la cornetta. Stella e Dance gli si erano seduti di fronte, ma non avevano preso le cuffie che erano pronte per ciascuno di loro. Curran compose un numero a memoria. Dopo un solo squillo riattaccò e rifece il numero. Aspettò la risposta con gli occhi socchiusi. «Sono io», disse e subito riattaccò. Nell'appartamento c'era silenzio. Stella immaginò Moro che prendeva un cellulare riservato a chiamate come quelle, di cui nessuno conosceva il numero, ma le era difficile concepire l'attenzione e il timore costante in cui era costretto a vivere il boss. Anche nelle cose più semplici, come fare una telefonata. Curran teneva la mano posata sul telefono. Stella guardò l'orologio. La lancetta dei secondi scandiva il silenzio. Passarono un minuto, due. Squilla, ti prego, pensò. Sentì Dance sospirare, teso. Senza alzare la testa, Curran gli rivolse un'occhiata gelida. Il telefono squillò. Immediatamente Dance premette il pulsante START del registratore. Cercando di controllare il tremito delle mani, Stella prese la cuffia. Con la coda dell'occhio vide Dance che faceva la stessa cosa. Tutti e due fissavano Curran. Il telefono squillò per la seconda volta. Lentamente, Curran annuì e sollevò la cornetta. «Sì?» disse Curran. Ci fu un lungo silenzio, poi Stella udì una voce che avrebbe riconosciuto ovunque, sebbene fossero quattordici anni che non la sentiva. «Che cosa c'è?» chiese Vincent Moro. Il tono era calmo, cortese, ma con una leggera sfumatura d'imperiosità mista a sospetto. Era la voce di un sopravvissuto, signore di un mondo sotterraneo. Curran era concentratissimo. «C'è un problema. Ho ricevuto un avvertimento dal nostro amico negro.»
Curran tacque e aspettò. «Un avvertimento?» chiese la voce. «Qualcuno è convinto di avermi visto nell'appartamento di un noto avvocato. Adesso la 'dark lady' sta facendo cercare tracce di droga nel sangue.» «E con questo?» «Per me qui è finita. Mi servono mezzo milione in contanti e un posto nel vecchio Paese. Il tuo, non il mio.» «Capisco.» La voce rimase calma; solo il silenzio che seguì tradiva la sorpresa. Alla fine, Moro disse: «Ci vorrà un po' di organizzazione». Curran aveva la fronte imperlata di sudore. In tono basso, ma urgente, ribatté: «Non abbiamo più tempo». Quell'uso del plurale a Stella parve un modo per ricordargli che si conoscevano bene, che erano legati da quarant'anni di complicità e da quella che veniva chiamata amicizia in un mondo che non la prevedeva. Per ricordargli che l'uno poteva distruggere l'altro. «Allora sarà meglio vedersi.» Il tono di Moro era ancora pratico, indifferente. «Come sempre.» Curran si leccò le labbra. «Stavolta non va bene. Vediamoci in un posto diverso, all'aperto, dove se mi seguono me ne accorgo. Non voglio nessuno in giro.» Stavolta il silenzio si protrasse più a lungo. Stella deglutì. Quasi non osava respirare per paura che Moro la sentisse. Quando questi finalmente parlò, fu a voce ancora più bassa. «È una questione di fiducia?» Curran si raggelò come se avesse sentito i passi attutiti di un intruso. «Di prudenza», rispose. «Capisco. Allora sarò prudente anch'io. Aspetta vicino al telefono.» E chiuse la conversazione. 7 Andando da Michael, Stella si rese conto di essere esausta. Non aveva praticamente dormito da quando aveva trovato la sua gatta morta e, nelle ultime quarantott'ore, non aveva mangiato quasi nulla; nelle ultime ventiquattr'ore era riuscita soltanto a fare la doccia e a cambiarsi i vestiti. Durante la telefonata di Curran a Moro aveva bruciato la poca adrenalina che le restava. Aveva le palpebre pesanti e la città, con le sue luci e le sue auto, le appariva lontana e irreale. Si sentiva come ubriaca.
Stanchezza e delusione, sommate a tutto ciò che aveva scoperto ma avrebbe preferito ignorare, minavano il suo senso della realtà. Si aggrappò ai fatti dell'ultima mezz'ora: Dance la aspettava insieme con Curran e aveva predisposto rinforzi di polizia in caso Moro avesse fissato un appuntamento; Peter Hall era a casa e a lei restavano quaranta minuti per prepararsi ad affrontarlo, cioè il tempo di andare in macchina dalla modesta casa di Michael alla tenuta di Hall; infine, la stanchezza che le annebbiava la mente. Ma forse era meglio così. Almeno non avrebbe pensato troppo a Michael. Le aprì la porta e la squadrò a lungo, come per prendere le distanze dall'antipatia che provava per lei. Alla fine disse: «Hai l'aria distrutta». Stella s'infilò le mani in tasca, stringendosi nel cappotto per il freddo, e chiese: «Ti dispiace guidare? Io sono stanchissima». Michael tese la mano. La donna tirò fuori le chiavi e gliele diede. In macchina, appoggiò il volto al finestrino, incurante del fatto che era gelato. Michael guidava disinvolto, senza fretta. «Che cosa sta succedendo?» le domandò. Stella cercò di decidere fino a che punto sbottonarsi. «Fielding è stato assassinato», disse alla fine. «Gli hanno dato un sedativo e poi gli hanno iniettato dell'eroina tagliata col fentanyl. La Welch era solo una copertura.» Michael le lanciò un'occhiata e Stella capì che stava valutando il significato di quella notizia. «Hall lo sa?» «Sa qualcosa.» Michael non fece commenti e Stella immaginò che anche lui si stesse chiedendo fino a che punto fosse coinvolto. Poi le venne in mente che, per prendere Vincent Moro, avrebbe rovinato Arthur Bright e molto probabilmente anche Peter Hall. Ma l'unica conseguenza certa di tutto ciò non riguardava Moro, quanto la sua stessa candidatura a procuratore della contea. Si voltò verso Michael. Visto di profilo alla luce dei fari delle macchine che passavano, coi capelli ricci, il naso da pugile e gli occhi socchiusi, sembrava assorto nei suoi pensieri. «Ho bisogno di dormire», disse. Lui la guardò e annuì. Stella si lasciò scivolare un po' sul sedile e chiuse gli occhi. La macchina
continuava ad andare. Quando il sonno la colse, dandole un confuso senso di benessere, dal suo subconscio riemerse un ricordo di molto tempo prima. Era Natale e i suoi l'avevano portata in centro insieme con Katie a guardare le luminarie dei grandi magazzini. Avevano comprato una cioccolata calda da un banchetto lungo la strada e tornando a casa, in macchina, seduta dietro vicino a Katie, si era goduta il tepore, il sapore dolce della cioccolata, la vista della testa di suo padre e sua madre che parlavano piano davanti. Katie le teneva la mano nella sua, coi guanti di lana... Stella si addormentò. Qualcuno le mise una mano sulla spalla e la scosse. Stella sobbalzò e aprì gli occhi. Di notte, il viale lastricato di Peter Hall, illuminato da faretti a terra, pareva la pista di un aeroporto. La neve sui bordi era grigio argento. Mentre parcheggiavano, Stella si ricompose. Anche Michael rimase colpito dalla villa. Come Stella, non si sarebbe mai potuto avvicinare a un posto simile senza ricordare le proprie origini, senza provare l'insicurezza e i dubbi che Stella sentiva moltiplicati dalla posta in gioco. Per fortuna quei pochi minuti di sonno l'avevano ristorata. «Grazie», disse. «Di cosa?» «Di aver guidato tu.» Scesero. Steelton era esposta al vento gelido che soffiava dal lago, ma lì sembrava ancora più freddo: la casa di Hall si trovava in alto rispetto alla città e non c'era niente, né palazzi, né strade, né persone, ad attutire la morsa dell'inverno. Il sentiero che conduceva alla porta era cosparso di sale. Andò ad aprire di persona Peter Hall, in smoking. Quella sera c'era la prima della stagione sinfonica, aveva ricordato a Stella quando gli aveva telefonato, ed era atteso nel palco riservato della Hall Development. Come le aveva fatto notare, aveva sentito già molte volte L'uccello di fuoco di Stravinskij, e certamente in esecuzioni migliori, ma, dopo lo spettacolo, aveva organizzato una cena di gala per i suoi ospiti e non poteva farli aspettare. Dunque poteva concederle un tempo limitato. Le aveva riferito tutto ciò cortesemente, senza mostrare la minima curiosità sul motivo della sua missione, quasi gli bastasse sapere che lei desiderava vederlo. Ma in quel modo le aveva anche ricordato che, se lei aveva un certo potere, lui ne aveva di più, e su più fronti: quello che per lei era
un dovere imprescindibile, per lui era un'imposizione o un atto di cortesia. La sua reazione nel vedere Michael rifletté tutto quello e anche una certa irritazione, che manifestò a Stella inarcando le sopracciglia. Aveva tempo per lei, pareva dire quell'occhiata, ma per i suoi colleghi era disponibile solo in orario di lavoro. Stella ripensò al fatto che, durante il loro incontro precedente, era stata tentata di scendere a compromessi e aveva avuto la sensazione di ricevere un trattamento di favore e, a sua volta, di fargli un favore. Tuttavia in quel momento era troppo tesa per provare qualcosa del genere. Hall li accompagnò nello studio. Li fece accomodare su un divano e si sedette in una poltrona dallo schienale alto, senza offrire loro da bere. Stella aveva la sensazione che l'avrebbe fatto, se lei fosse stata sola. «Allora?» chiese. Stella aspettò qualche istante prima di rispondere. La sua vita, tutto ciò per cui aveva lavorato, la sua immagine di sé dipendevano da quel colloquio. In un certo senso, avrebbe preferito non avere scelta, quando invece stava per compierne una importantissima. «Tommy Fielding è stato assassinato per ordine di Vincent Moro. Voglio che lei mi spieghi perché.» Hall restò immobile. Solo gli occhi, azzurri come quelli di Curran, mostrarono un po' di sorpresa. «Non so niente di nessun assassinio», ribatté. «Non conosco Vincent Moro.» Michael si sporse in avanti, imponente e fuori posto come un pugile a un ballo di beneficenza, e sottovoce disse: «Siete soci». Hall si voltò di scatto, con rabbia e, secondo Stella, con sincero disgusto. «Si spieghi meglio, signor Del Corso.» «Perché dovrei spiegarle quello che lei ha sempre saputo?» ribatté Michael. «Lei sapeva che Larry Rockwell era una pedina di Moro e l'Alliance una semplice copertura. Sapeva che Moro prendeva una tangente dalle MBE e non ha fatto niente per impedirglielo. Ha dato in gestione parcheggi, ristoranti e vendita di gadget a imprese 'locali' mai sentite nominare, in modo che Moro potesse utilizzarle per riciclare i contanti provenienti dalle sue bische, dal traffico di droga e dalla prostituzione, facendoli passare per introiti legittimi.» Michael parlava piano, in tono duro. «A ben pensarci, signor Hall, io la conosco da sempre. Lei è come Frankie Scavullo: un tirapiedi in smoking. Solo che è più ricco.» Hall si alzò. «Non permetto a nessuno di parlarmi in questo modo», di-
chiarò. «Né in questa casa né altrove. Io non so niente di Vincent Moro. Non si azzardi a ripetere queste cose in pubblico, perché io la rovino come lei minaccia di rovinare me.» Si rivolse a Stella. «Non so perché stia facendo tutto questo. Ma ne ho avuto abbastanza. È ora che lei se ne vada e che io chiami il mio avvocato.» «Lo chiami», ribatté Stella con calma. «La farò arrestare in quanto complice di un omicidio. Dopodiché la farò rilasciare e farò filtrare alla stampa la notizia che lei ha deciso di collaborare. Sono certa che Vincent Moro legge i giornali.» Si alzò e prese un cellulare dal tavolino lì accanto. «Può usare questo. Se ci arriva vivo, ci rivedremo all'udienza preliminare. L'unica alternativa che le resta, a parte la prigione, è fare la fine di Fielding. E su quella sa tutto. Quindi le spiegherò soltanto che è reo di complicità chi, sapendo perché una persona è stata uccisa, mente al riguardo.» Sforzandosi di mantenere la calma, lo guardò in faccia. «Si può essere complici prima oppure dopo il fatto. Chieda al suo avvocato quale dei due casi la riguarda. Secondo me, tutti e due.» La collera di Hall parve sbollire. Il suo sguardo si fece incerto, se non addirittura implorante. Non le era mai sembrato così bello. Lo prese per un braccio e gli mise in mano il cellulare. «Cento anni fa, quel bastardo di suo nonno era padrone di questa città. Adesso lei la sta vendendo a Vincent Moro. Per mantenere alto il nome della famiglia. Telefoni pure al suo avvocato. Al resto penserà Moro.» Hall posò la mano su quella di Stella. «Non conosco Vincent Moro, Stella. Non so niente di questa storia.» Lentamente, lei sfilò la mano. «Allora mi dica che cosa sa», mormorò. «Dall'inizio alla fine.» Poco dopo essere stato eletto, Tom Krajek aveva chiesto di vedere Peter Hall a quattr'occhi. La cosa non lo aveva sorpreso, sebbene il sindaco fosse stato vago sul motivo per cui desiderava incontrarlo. Krajek si era dato molto da fare perché i Blues non lasciassero la città e Hall lo aveva appoggiato con discrezione nel confronto elettorale con George Walker, il quale aveva aspramente criticato quelli che chiamava «contributi assistenziali ai miliardari». Il nocciolo della questione era quello: Hall voleva che il nuovo stadio venisse costruito con denaro pubblico. Per evitare polemiche, Krajek aveva preferito non compromettersi prima delle elezioni, ma in privato gli aveva fatto capire di essere disposto a trattare. A Hall il fatto che avesse insistito
per vederlo a tu per tu era parsa una semplice misura di prudenza o un modo per evitare che un incontro così interlocutorio giungesse all'attenzione dei media. Perciò lo aveva invitato a casa sua. Vedendolo arrivare, tuttavia, si era ricordato che sua moglie Alix - di cui sentiva ancora terribilmente la mancanza - una volta aveva detto: «Tom Krajek ha uno sguardo da rapace. Lo guardi negli occhi e sembra che dentro non ci sia nessuno». Era vero. Negli occhi chiari e freddi di Krajek non c'era nulla che ricordasse la presenza di un'anima. Anche il viso era un po' da rapace, col naso adunco, la pelle liscia, lo sguardo vigile. Non era da sottovalutare, però: aveva molta energia, il dono dell'eloquenza e una sete di potere che probabilmente avrebbe disgustato un uomo normale. Sempre interessato al proprio tornaconto, non sprecava un momento per gli altri e anche quella volta, seduto su una sedia dell'ufficio di Peter Hall, non aveva sprecato tempo in convenevoli. «Io voglio che i Blues rimangano a Steelton», aveva esordito. «E lei vuole uno stadio nuovo costruito col denaro pubblico. Ci dev'essere un modo per venire incontro alle sue esigenze senza distruggere la mia carriera.» Pur non essendo un tipo ironico, aveva concluso dandosi un'occhiata intorno: la stampa di Miró e la vista sui boschi erano più che sufficienti a rivelare la posizione fin troppo privilegiata del padrone di casa. Peter Hall aveva ribattuto pacatamente: «Sentiamo». Krajek aveva estratto una penna dalla tasca e se l'era appoggiata alle labbra. «Sono sindaco da due mesi soltanto e mi sento già braccato», aveva esordito. «Nel novembre scorso, George Walker poteva battermi e, se non avesse avuto quel problema giudiziario, probabilmente ce l'avrebbe fatta. Il prossimo è Arthur Bright. Nell'East Side è già in ottima posizione: ha il quaranta per cento dei voti dell'elettorato nero, convinto che, per uno di loro, sia arrivata l'ora di diventare sindaco. Un altro dieci per cento e...» Krajek aveva fatto schioccare le dita. «Devo impedire ai bianchi di passare dall'altra parte e convincere i neri che sono loro amico. E questo senza mettermi contro né gli uni né gli altri.» Se Krajek, confidandogli quella rudimentale strategia politica, sperava d'impressionarlo, allora era veramente un illuso, aveva pensato Hall. Poi si era reso conto di ciò che Krajek stava cercando di dirgli: che il prezzo dello stadio consisteva nell'andare incontro ai suoi interessi. In tono sarcastico, Hall gli aveva fatto notare: «Io non sono esattamente il volto da mette-
re sui manifesti elettorali dell'East Side». Krajek aveva annuito, un po' seccato. «È questo il problema, signor Hall. Il suo compito è renderlo meno gravoso.» «E come?» Krajek aveva accennato un sorriso che a Hall era sembrato più che altro un tic nervoso. «Lei vuole 225 milioni di dollari di denaro pubblico. Dovrà prenderne 50 di più.» Peter Hall si era sforzato di nascondere il proprio stupore: d'un tratto la conversazione aveva preso una direzione che soltanto Krajek conosceva e ciò lo rendeva diffidente. Con calma, aveva ribattuto: «Apprezzo la sua generosità». «Lei scherza. Ma io no. L'incarico sarà affidato alla Hall Development. Per 275 milioni di dollari, costruirete lo stadio migliore d'America. Se supererete tale importo, dovrete integrare di tasca vostra, ma se vi terrete al di sotto, dividerete quello che resta a metà con la pubblica amministrazione.» Hall aveva fatto due rapidi calcoli. Il progetto si poteva realizzare con 200 o 225 milioni: il fatto che Krajek gli stesse offrendo molto di più, con un vantaggio solo apparente per la città, lo insospettiva. «Che altro?» aveva domandato. La sua flemma era piaciuta a Krajek, forse perché significava che era tentato di accettare. «Lo stadio resterà di proprietà del comune», aveva spiegato Krajek. «Lei firmerà un contratto di locazione ventennale per un milione di dollari all'anno. In cambio, le spetteranno tutti gli incassi delle sponsorizzazioni, della vendita delle tribune riservate e dei biglietti, oltre a una quota ragionevole dei parcheggi e delle concessioni.» Erano mesi che Hall studiava i complessi risvolti economici della costruzione di un nuovo stadio: ormai erano calcoli che sapeva fare a memoria. La cosa più inquietante era che evidentemente anche Krajek dominava la materia e, come lui, sapeva che nessun proprietario di una squadra di baseball avrebbe potuto rifiutare una proposta come quella. «E i suoi problemi politici?» gli aveva chiesto. Krajek aveva sorriso di nuovo. «I nostri problemi politici, vorrà dire», lo aveva corretto. Peter Hall non era riuscito a resistere alla curiosità. «In che senso?» «Bright dirà che la sua è un'estorsione bella e buona. Questa è l'immagine che dobbiamo cambiare.» Krajek aveva assunto un tono da comizio. «Quello che costruiremo non sarà il suo stadio, ma il mio primo passo ver-
so il rilancio di Steelton, la prima fase di un progetto più articolato, volto a creare occupazione e a rivitalizzare il lungolago. Con benefici per tutti i cittadini. Ed è qui che ho bisogno del suo aiuto. Lei costruirà lo stadio in riva al lago. Tutte le imprese che parteciperanno al progetto saranno di Steelton e il trenta per cento delle ditte e della forza lavoro apparterrà a minoranze etniche. Ogni dollaro che sborseremo verrà speso a Steelton e ogni dollaro di tasse pagate finirà nelle casse di Steelton.» Krajek aveva puntato la penna verso Peter Hall come se stesse per lanciare una freccetta. «Così venderemo questa idea e metteremo in scacco Arthur Bright.» «Ma non ci sarà una gara d'appalto?» si era informato Hall. «Nel settore degli impianti sportivi la leader è la Megaplex, che è a New York.» Krajek aveva smesso di sorridere e di fingere. «Non ci sarà nessuna gara d'appalto», aveva detto. «Scelgo io il general contractor, scelgo io i subappaltatori e le imprese che avranno in gestione i parcheggi e tutto il resto. Gestisco io la parte economica.» Dopo una pausa, in cui aveva lanciato a Peter Hall un'occhiata astuta da maneggione, aveva concluso: «Questo è il contratto chiavi in mano, signor Hall. Prendere o lasciare». Hall lo aveva fissato a lungo. Le condizioni erano troppo allettanti per non avere un prezzo, anche se per il momento gli era oscuro. Krajek aveva aspettato un po', poi aveva aperto la valigetta, estraendone un memorandum di tre pagine. Glielo aveva porto. Non recava né firma né data, ma le condizioni c'erano tutte: quanto ci avrebbe guadagnato Hall, quali erano le prerogative di Krajek, l'ubicazione precisa dello stadio. Hall si era chiesto di chi fossero i terreni e poi aveva cominciato a capire. Sottovoce, aveva detto: «Ha parlato di una prima fase. Qual è la seconda?» «La seconda consisterà nello sviluppo dell'intera area del lungolago», aveva risposto Krajek prontamente. «Dragheremo la darsena...» «Dragare la darsena? E per cosa, di grazia? Per farci attraccare la Love Boat?» Krajek fece una risatina. «Magari.» Hall era certo che qualcosa non quadrava e, a quel punto, aveva deciso di scoprire che cosa fosse. «Sono favorevolissimo al rilancio di Steelton. Ma il lungolago in inverno è inospitale come la tundra. E l'idea di dragare la darsena mi pare prossima a un'allucinazione.» Krajek si era appoggiato allo schienale e, con lo sguardo ostile fisso su Hall, aveva chiesto: «Lei è interessato?»
«Prima di rispondere, voglio sapere in che cosa consiste esattamente il progetto e che cosa implica.» Krajek aveva unito la punta delle dita, con l'aria di riflettere sulla risposta da dare. Alla fine aveva dichiarato: «Un casinò sul lago». Naturale. D'un tratto, Peter Hall si era sentito stupido. Era facile calcolare i guadagni che sarebbero piovuti dal cielo sui proprietari dei terreni o su chiunque Krajek avesse con discrezione indirizzato a comprarli. Com'era facile per lui immaginare il lungolago trasformato dai giochi di potere e dalla sete di denaro. Krajek si era proteso in avanti. «Questa è una zona depressa, signor Hall. L'unica soluzione è il gioco d'azzardo. Lei è stato ad Atlantic City? Prima delle case da gioco, faceva schifo.» E adesso fa paura, col tasso di criminalità che c'è, aveva pensato Hall. Ma, dal suo punto di vista, Krajek aveva ragione: il gioco d'azzardo avrebbe potuto veramente risanare la città. «Ci vorranno leggi speciali», gli aveva fatto notare. «Col suo appoggio, sarà più facile ottenerle. È anche nei suoi interessi.» Krajek aveva sorriso brevemente. «Soprattutto in quanto costruttore.» Ecco la carota, aveva pensato Hall, deciso a lasciare che l'altro interpretasse come preferiva il suo silenzio. Aveva preso il memorandum, cominciando a leggere. Si era fermato alla seconda pagina. «Che cos'è questa clausola sulla rappresentanza delle minoranze etniche nella proprietà della squadra?» aveva chiesto. «Prima di rendere pubblico il nostro accordo, lei cederà a Larry Rockwell il cinque per cento della squadra, a un prezzo che verrà stabilito da un perito imparziale. Lei è bianco, signor Hall. Rockwell ci è sembrato l'alternativa migliore.» A quel punto, Peter Hall aveva capito quanto era pericoloso Krajek: se in privato assumeva toni duri era per ricordargli che era entrato nel suo territorio. «È proprio vero che questo è il Paese delle opportunità», aveva commentato. «Immagino che lei abbia già scelto l'impresa aggiudicataria e tutti i subappaltatori, oltre che i gestori delle varie concessioni.» Krajek aveva strizzato leggermente gli occhi. «Veramente no, non ho ancora deciso.» «Ma almeno la società capocommessa dovrà sceglierla, se vuole proporre questo affare. Uno stadio non è una casetta delle bambole.»
Krajek aveva annuito lentamente. «Infatti. C'è altro?» Peter Hall, intuendo che Krajek lo stava studiando per valutare le proprie chance di convincerlo, aveva esitato. A suo parere, il punto debole del sindaco era che non riusciva a immaginare che gli altri potessero avere motivazioni diverse dalle sue. Invece Peter Hall le aveva: lui sognava uno stadio e una città che recassero la sua impronta, voleva restituire qualcosa di ciò che la sua famiglia aveva preso, contribuire a far rinascere una regione che aveva cominciato a morire quando si erano spenti gli altiforni di suo nonno Amasa. Lo aveva capito quand'era morta Alix: aveva riflettuto seriamente sul senso della propria vita senza di lei e sull'immagine di sé che voleva lasciare ai propri figli. Il fatto che quella proposta fosse irresistibile non poteva che accentuare le sue speranze, facendole sembrare molto più prossime a realizzarsi. Ma bisognava tener conto di Krajek e quindi Hall si sforzò di mettersi nei suoi panni. «Questa fase due...» aveva detto alla fine. «Il costruttore sarei io?» Krajek aveva sorriso, soddisfatto; in ultima analisi, Hall aveva reagito come si aspettava. «Se il prezzo sarà equo, non dovrebbero esserci problemi.» «Allora aggiunga una clausola in cui mi dà un diritto di prelazione, con la possibilità di trattare con la pubblica amministrazione due mesi prima dell'intervento di altri costruttori.» Krajek era imperscrutabile. «Lei vuole lo stadio», aveva continuato Hall. «Vuole le case da gioco. Vuole sviluppare il lungolago. Vuole che diventiamo inseparabili come gemelli siamesi.» Aveva restituito il memorandum a Krajek. «Prepari una bozza, Tom. Mi fido di lei. Perché lei ha bisogno di me.» Hall smise di parlare e si voltò verso la finestra buia. Stella lo osservò, magro ed elegante nel suo smoking, e pensò a Dance che aspettava nello squallido appartamento di Curran, con la pistola puntata contro l'assassino di Fielding. Continuava a sperare che il telefono squillasse e Dance le dicesse che stavano partendo, mentre lei stava cominciando a capire la rete di corruzione della sua città, la catena inesorabile di eventi che legava Hall a Johnny Curran. «Mi parli di Fielding», disse. 8
Ci sono uomini che sembrano nati per lavorare. Era quello che Peter Hall aveva sempre pensato di Tommy Fielding. Tommy era intelligente, instancabile e di una precisione al limite dell'ossessivo: a volte pareva addirittura che si fissasse sui particolari e sulle incombenze quotidiane al punto di perdere di vista l'insieme. Per Fielding fare il project manager non era solo un mestiere redditizio, era un'arte, o almeno così pensava con leggera ironia Peter Hall. Ma andava benissimo. Mentre Hall era pragmatico e aveva la visione di lungo periodo dell'andamento dell'azienda, Fielding curava i particolari: varianti in corso d'opera, ritardi nelle consegne e le infinite formalità burocratiche. Hall sospettava che, dietro la sua dedizione al lavoro, ci fosse anche un desiderio di evasione, qualcosa che andava oltre la sfera professionale e coinvolgeva un lato oscuro della personalità che probabilmente Fielding rimuoveva. Se era così, Hall, da buon imprenditore che sapeva sfruttare e motivare i propri dipendenti, sperava ardentemente che Fielding non trovasse rimedio ai suoi problemi. Questo fino a Steelton 2000 e a una cupa giornata di novembre. Hall se la ricordava bene. Da quando Fielding era stato trovato morto, l'incontro di quel giorno gli era tornato in mente più e più volte, ossessionante come il ricordo del fatale incidente in cui la moglie aveva perso la vita. Solo che della morte della moglie non si sentiva responsabile. Fielding era andato a cercarlo in ufficio. Coi pantaloni impeccabilmente stirati, i mocassini con le nappine, il maglione dal collo alto e i capelli nerissimi impomatati, sembrava un personaggio di Francis Scott Fitzgerald diretto a una regata velica, se non fosse stato per l'aria serissima. «Peter... Non posso continuare a firmare questi rapporti», aveva detto. Hall sapeva già il motivo e solo per sondare la sua determinazione gli aveva chiesto: «Perché?» «Perché commetteremmo una frode.» Fielding aveva sempre avuto una voce un po' stridula, adolescenziale e, in quell'occasione, aveva persino la totale mancanza d'ironia di un adolescente. «In politica, la frode è un concetto relativo. Necessariamente», aveva risposto Hall. Fielding era davanti alla finestra e guardava il cantiere. «Tu te ne stai seduto quassù e vedi un sogno», aveva replicato. «Io ho cominciato a vedere una realtà più corrotta di quanto immaginassi.»
Quella franchezza aveva irritato e preoccupato Hall. «Quello che vedo io», aveva precisato, «è un progetto utile per la città e per noi. Non sta a noi dettare le condizioni o scegliere le persone con cui abbiamo a che fare. Per usare una frase fatta, tu rischi di buttare via il bambino insieme con l'acqua sporca. Come se avessimo una possibilità di scelta...» Fielding si era messo le mani sui fianchi. «I rapporti che presentiamo al comune sono fasulli dalla prima all'ultima riga, Peter.» Hall era scattato in piedi. «Non ci possiamo fare niente, Tommy. Vuoi che Arthur Bright diventi sindaco? Allora sì, che saranno guai.» «Lo so. Ma in fondo a tutti quei rapporti ci va la mia firma.» «Apposta in buona fede.» «Non più!» Tommy aveva alzato la voce e fissava Peter con un'espressione di grande risolutezza negli occhi scuri. «Voglio vedere se riuscirai a mantenere il tuo dannato sangue freddo quando ti avrò raccontato tutto. L'impresa aggiudicataria che distribuisce il lavoro alle minoranze, l'Alliance, non esiste, è un prefabbricato con un ragioniere e una signorina che risponde al telefono. Larry Rockwell s'intende di edilizia quanto io di baseball. L'unica cosa che sanno fare è incassare i nostri assegni...» «Non voglio essere cinico», lo aveva interrotto Hall, «ma forse l'intenzione era proprio quella. E comunque l'idea non è stata nostra.» «Ah, no? E allora di chi è stata? L'Alliance fattura lavori che non fa e che vengono poi fatti eseguire da altri e noi riceviamo fatture gonfiate e varianti in corso d'opera fasulle. Così paghiamo due volte. Tutto questo a danno dei contribuenti e anche nostro, perché perdiamo i soldi della clausola di salvaguardia. Allora chi ci guadagna?» Hall aveva fatto il giro della scrivania e si era avvicinato a Fielding, mettendosi a osservare deliberatamente lo stadio dalla finestra; era insolito, per lui, non avere il coraggio di guardare in faccia i suoi interlocutori. Sottovoce aveva detto: «Questo non ci deve interessare. Gli ispettori del comune affermano che l'Alliance fa il suo lavoro e che le politiche sociali sono rispettate. È quello che io vedo da qui ed è quello che dicono i documenti che firmi tu. È quello che fa sì che i lavori procedano». Si era voltato verso di lui. «Guarda che non piace neanche a me, Tommy, e rallegrati di non esserti trovato a dover scegliere tra questo e un lotto di terreno vuoto in una città moribonda. In fondo tu devi soltanto firmare un po' di carte.» Fielding gli aveva posato una mano sulla spalla e lo aveva guardato con espressione addolorata. «Come puoi fare una cosa simile?» Hall si era sforzato di sorridere. «Sono dieci anni che lavori in questo
campo, avendo a che fare con politici e gruppi d'interesse di tutti i tipi... E mi fai questa domanda? Nominami un progetto in cui non abbiamo dovuto dare a qualcuno qualcosa che non si era guadagnato. Fa parte del libero mercato.» Senza sorridere, Fielding aveva chiesto a voce bassa: «Chi è questo 'qualcuno', Peter? Larry Rockwell? O non lo sai nemmeno tu?» Hall non aveva osato rispondere. Fielding gli aveva stretto la spalla con più forza. «Questa non è una normale bustarella, qui non si tratta di girarsi dall'altra parte mentre un'azienda fasulla rubacchia diecimila dollari. Qui si tratta di milioni e milioni di dollari. Qualcuno se li mette in tasca. Qualcuno sta fregando il lavoro alle MBE perfettamente legittime. Qualcuno sta rubando soldi alla città. Qualcuno corrompe gli ispettori...» «Come fai a saperlo?» lo aveva interrotto Hall. «Quello che vedo io lo possono vedere anche loro. Larry Rockwell è davvero tanto influente? È così determinante per attirare i voti dei neri? Bright è davvero un pericolo così grave?» Erano tutte domande più che giustificate e, ascoltandole, Hall si era reso conto di quanto a lungo Tommy ci avesse pensato per arrivare al quadro d'insieme. Con riluttanza, si era azzardato a dire: «Se è la tua parte che ti preoccupa...» «Pensi che ti stia facendo questo discorso per i soldi del premio?» Fielding aveva lasciato cadere la mano ed era indietreggiato per fissare Hall. «Guarda che mi preoccupa di più finire in prigione! Non voglio che mia figlia debba venire a trovarmi in galera il giorno della festa del papà. Ma vuoi che ti dica che cosa mi preoccupa ancora di più?» «Che cosa?» «Il fatto che tu sei un brav'uomo e, non so come, ti stai corrompendo. Se sta succedendo a te, può succedere anche a me.» Aveva abbassato di nuovo la voce. «Io quei rapporti non li firmo. Io le fatture dell'Alliance non le visto più. Non ho intenzione di pagare due volte lo stesso lavoro. Né di coprire gente che non conosco. Ti do due mesi per decidere, Peter. Riferisci a chi di dovere che mi sono impuntato e che, se necessario, mi rivolgerò a Bright. Comunicagli che a queste condizioni non ci possiamo più stare, chiamati fuori...» «Non posso, Tommy. Ho un progetto da portare a termine.» «Va bene. Volevano le minoranze? Che le assuma pure Rockwell, ma vere. Perché, se qualcuno comincia a ficcare il naso in questa faccenda,
Dio solo sa che cosa salterà fuori.» Ascoltandolo, Stella fu presa dalla rabbia e da un'inutile pietà. Pietà per Fielding, che si era posto più domande di quanto il ruolo affidatogli da Hall prevedeva ed era morto per quello. Rabbia per Hall e per se stessa che si era sentita attratta da lui. «Con chi ha parlato di quel colloquio?» gli chiese. Hall socchiuse gli occhi. Forse era tutta scena, considerando quanto era sicuro di sé, ma Stella ebbe l'impressione di essere di fronte non al complice di un omicidio, bensì a un uomo tormentato dal rimorso, che stava rivivendo tutte le scelte sbagliate e le svolte inopportune che avevano portato alla morte di una persona per la quale provava stima e affetto. Ma era difficile capire le vere intenzioni di un uomo tanto subdolo: in lui anche il candore pareva ambiguo. E la presenza di Michael lì accanto era più che sufficiente a ricordarle quanto poteva sbagliare nei suoi giudizi sugli uomini. «Con nessuno», rispose Hall. «Mi sono limitato a temporeggiare. Da quell'incontro trascorse un mese e lui non firmò nessun rapporto, poi ne passò un altro. Era una specie di guerra di nervi. Nessuno diceva nulla. La situazione peggiorò per tutti e due.» Senza parlare, Stella si voltò verso Michael. «Tutto qui?» domandò questi. «Lei si è svegliato una mattina, ha scoperto che Fielding era morto di overdose e ha pensato che fosse l'ennesima sorpresa di un mondo imperfetto?» Hall non alzò lo sguardo. Ancora una volta, Stella ebbe la sensazione che stesse valutando se chiamare l'avvocato o fare quello che l'aveva implorato di fare Tommy Fielding. Quando alzò gli occhi, fu per guardare Stella. «Cinque giorni prima che Tommy morisse, Krajek mi telefonò.» «Abbiamo bisogno di quei rapporti», gli aveva detto. «Quelli dell'Alliance protestano perché non sono stati pagati.» Sebbene la cosa preoccupasse anche lui, il tono perentorio del sindaco lo aveva irritato. «Non sono stati pagati perché non stanno lavorando», aveva replicato. «C'è qualcosa che non quadra a Tommy Fielding, il quale è tanto ingenuo da pensare che non quadri nemmeno a me.» «A Steelton bisogna sottostare a certe condizioni, se si desidera ottenere ciò che si vuole», aveva ribattuto Krajek. «Lei pensa che stiamo facendo
un buon lavoro?» «Sì. E anche Tommy Fielding pensa di star facendo un buon lavoro.» «Ma non è così. Altrimenti lo stadio ce lo scordiamo.» Hall si era alzato, dirigendosi alla finestra. Pur essendo inverno, era una giornata insolitamente luminosa: sull'altra sponda del fiume, vedeva le ciminiere dismesse delle acciaierie di suo nonno e, più in basso, sorgeva come dal nulla lo stadio, con le travi d'acciaio che luccicavano al sole. «Fielding non si piegherà», aveva concluso Hall. «Dice che, se sarà necessario, si rivolgerà a Bright.» Dall'altra parte c'era stato un lungo silenzio, poi Krajek aveva risposto in tono gelido: «Questo non deve succedere. Mai». Hall si era subito sentito un vigliacco. Era stato lui a mettere Fielding in quella posizione, lui a tapparsi gli occhi per non vedere. Per quanto fosse un compito spiacevole, toccava a lui salvare lo stadio e tenere Fielding fuori di quella sporca faccenda, a qualsiasi costo. «Me ne occuperò io», aveva detto a Krajek. «Visterò le fatture e firmerò i rapporti. Fielding non dovrà fare più nulla.» Krajek pareva dubbioso. «Basterà per non farlo andare da Bright?» «Sì», gli aveva assicurato Hall. «Ci penso io.» «Sarà meglio.» Il sindaco aveva alzato la voce, inquieto e minaccioso nel contempo. «La posta in gioco è troppo alta. Non si tratta solo dello stadio, ma anche di tutta la seconda fase del progetto. E della parte che vi avrà lei, signor Hall.» Hall aveva rimpianto di aver dato a quell'uomo la possibilità di capire così chiaramente le sue motivazioni. «Con Fielding parlerò io», aveva detto. «Lei non s'immischi.» E aveva riattaccato con la speranza che la faccenda fosse chiusa. Il pomeriggio prima che Fielding morisse, Hall gli aveva comunicato la sua decisione. Fielding era rimasto deluso e poco convinto e Hall aveva sentito aprirsi tra loro un'incrinatura forse irrimediabile. «Perché lo fai?» gli aveva chiesto Fielding. «Perché non lo debba fare tu.» Fielding, accigliato, era parso ancora più turbato. «E tu sei costretto a farlo?» «Per costruire questo stadio, sì. Quindi devo chiederti un favore.» «Che cosa?»
«Lascia perdere Arthur Bright. Se andrai da lui, rovinerai non solo il nostro progetto, ma anche me.» Fielding lo aveva fissato, scuotendo lentamente la testa. Hall aveva capito che quello era un segno di dispiacere, di delusione. Non lo avrebbe tradito, indipendentemente da tutto. «Tornatene a casa», gli aveva detto sottovoce Hall. «Dormici sopra. Ci saranno altri progetti.» Fielding se n'era andato ed era stata l'ultima volta che Hall l'aveva visto. La notizia gli era stata data da Amanda, la ex moglie di Tommy. Posando il telefono, Peter aveva pensato ad Alix. La macchina di Alix era slittata sull'asfalto ghiacciato, finendo contro un palo del telefono. La donna era morta sul colpo. Il suo unico vizio nella vita era andare troppo forte in macchina, perché, per il resto, era stata una moglie affascinante e impeccabile e una madre affettuosa. Così Hall aveva capito, prima ancora che glielo dicesse la polizia, che i due figli erano salvi. Perché Alix guidava spericolatamente soltanto quand'era sola. Spaventato, era rimasto alla scrivania a pregare che Fielding fosse morto sul colpo come Alix, in un incidente. «È morto inutilmente, solo perché Moro potesse stare tranquillo», disse Stella. Hall era sconvolto. Non doveva essere facile ammettere che era stata la sua ambizione, e non l'eroina, a uccidere Tommy Fielding. «Se avessi saputo che dietro c'era Moro...» cominciò Hall. «Sì?» «Credevo che fosse il solito intrigo politico, che fosse solo Krajek a curare i suoi interessi, i suoi elettori, i suoi sostenitori. Mi aspettavo che qualcuno venisse pagato senza aver fatto niente, che ci fossero speculazioni immobiliari e che Krajek prendesse qualche tangente. Che fosse la solita storia di corruzione e opere pubbliche, insomma, non che si arrivasse a uccidere.» Fece una pausa e riprese con più calma: «Adesso ho capito. Se volete che vi aiuti, avrò bisogno della massima segretezza e protezione». Stella, sulle spine, pensò a Curran, per il momento ancora il suo unico legame con Moro, e si chiese perché il telefono non aveva ancora squillato. «Come faccio a crederle?» gli domandò. «Riguardo a Moro? Non lo so. Ma uno dei motivi per cui non ho chiamato il mio avvocato è che vi sto dicendo la verità. Le cose sono andate esattamente come vi ho raccontato.»
«Già.» Michael suonava scettico. «Però non ci sono testimoni.» Hall si voltò verso di lui. A Stella parve che tra i due uomini ci fosse un'antipatia spontanea, una sorta di antagonismo maschile che prescindeva dalle rispettive funzioni. Poi, quasi congedando Michael, Hall girò le spalle e andò verso la stampa di Miró. Con cura la staccò dal chiodo. Dietro c'era una cassaforte. Posò il quadro sulla scrivania e aprì la cassaforte. Stella non riuscì a vedere che cosa ci fosse dentro. Hall estrasse un documento e girò le prime due pagine. Si voltò verso Stella e disse: «Ecco». Stella lo prese e in fondo alla terza pagina lesse alcune aggiunte scritte a mano sulla fase due del progetto e sul diritto di prelazione. Era chiaramente assurdo, erano condizioni improponibili. Ma a quel punto capì quali erano le intenzioni originarie di Hall. «È la scrittura di Krajek», osservò. Negli occhi di Hall comparve l'ombra di un sorriso. «L'ho fatto apposta», confermò. «Nel caso mi potesse tornare utile.» Arrivarono fino alla guardiola all'ingresso della tenuta prima che Michael aprisse bocca. «È incredibile», disse. «Moro?» «Sì. Sta rendendo 'legittimo' il suo clan. Vedendo finire in prigione boss come John Gotti, ha capito che gli resta poco tempo. Il traffico di droga è diventato troppo pericoloso e lui sa che la prossima generazione, quella cui appartiene suo figlio, formata da laureati in legge, non avrà lo stomaco per fare le cose che ha fatto lui. Non sarà facile provarlo, ma sulle concessioni ho ragione, ne sono certo. È così che ricicla il denaro per la seconda fase. E si tratta solo di un'attività temporanea, perché secondo me la sua vera intenzione è impadronirsi dei terreni, far fuori le MBE fasulle e investire nello sviluppo del lungolago per arrivare a controllare le licenze del casinò. Ci vuole coraggio, ma è un piano geniale. Per il quale vale la pena di uccidere, in effetti.» Abbassò la voce e prese un tono sprezzante. «Moro ha fatto ammazzare Tommy Fielding, ma i suoi nipoti saranno rispettabili ed eleganti come Hall.» «Non gli credi?» «No. Tuttavia non posso dimostrare che mente. Alla fine la farà franca. Quelli come lui se la cavano sempre.» Stella guardava fuori del finestrino. I fari della macchina illuminavano
una strada buia e solitaria. «Ho bisogno di lui», disse. «Per Krajek.» «Non credere che non lo sappia. Non ha chiamato l'avvocato perché aveva già incastrato Krajek per coprirsi le spalle. Ha parlato solo per salvare se stesso e perché tu gli hai fatto credere che altrimenti lo avresti messo in condizione di farsi ammazzare da Moro. Ma non saresti arrivata a tanto, vero?» «No.» Le lanciò un'occhiata di traverso. «Che cosa c'è tra Hall e te?» Stella accennò un sorriso. «È disposto ad aiutarmi nella campagna elettorale. O perlomeno lo era.» «Come ha aiutato Krajek.» Non era una battuta, ma un monito. Le cose che avevano scoperto erano spaventose, di una gravità che rendeva insignificante il risentimento tra loro. Le efferatezze di Vincent Moro andavano ben oltre l'omicidio. «Moro è isolato», gli fece notare. «Per questo, a grandi linee, credo alla storia di Hall. Hall vede solo Krajek e Krajek vede solo Moro, come nelle reti del narcotraffico. E Krajek è come gli spacciatori: non ammetterà mai di aver preso ordini da un boss. Ha troppa paura e ha troppo da perdere.» Non gli raccontò il resto, il fatto che la sua unica speranza di beccare Moro, e l'unico rischio per quest'ultimo, consisteva in Johnny Curran. Tuttavia non poteva tornare a casa di Curran: la telefonata aveva messo in allarme Moro ed era probabile che l'appartamento fosse sorvegliato. Il telefono dell'auto squillò. Lei rispose. «Vai in ufficio», le disse Dance in tono brusco. «Passa dal garage sotterraneo e sta' attenta che non ti veda nessuno. Ti chiamerò là.» Stella era tesa. «Che cosa sta succedendo?» Sentì che Dance esitava. «Il tuo amico ha richiamato.» 9 Entrando in ufficio, Stella trasalì nel trovarvi Arthur Bright. Era seduto alla sua scrivania e le disse: «Mi ha chiamato Nat. A casa». La situazione le parve drammatica e nel contempo inquietante. Erano le undici passate e gli uffici erano deserti, ma Bright era in giacca e cravatta come se stesse cercando di aggrapparsi a un'identità che si sentiva sfuggire. Aveva l'aria esausta: l'inesorabile avvicinarsi dello scandalo e lo stress di non poterne parlare con Lizanne avevano certamente avuto su di lui un effetto devastante.
«Che cosa ti ha detto?» gli chiese. «Che Moro ha ordinato a Curran di andare in ufficio e aspettare la sua telefonata.» «E basta?» «Nat pensa che gli uomini di Moro vogliano vedere se è pedinato. Oppure intercettarlo e ucciderlo.» Stella si sedette sul bordo della scrivania. «Dov'è Nat?» «Sdraiato sul sedile posteriore della macchina, con la pistola puntata alla testa di Curran. Nella speranza che riescano a uscire vivi dal garage.» Stella rifletté. Curran aveva ragione: per Moro, mandare chiunque altro all'appuntamento - o all'esecuzione - avrebbe significato esporsi ulteriormente. «Moro non vuole testimoni», disse. «Vuole accertarsi che Curran sia solo.» Bright annuì. «Nat ha predisposto i rinforzi, due squadre speciali. Un commissariato nell'East Side, uno nel West Side. Niente in centro. Ha paura che Moro controlli la sede centrale. Ma non sa dire loro che cosa fare, né dove andare.» «Ha telefonato al capo della polizia?» Bright distolse lo sguardo. Forse, pensò Stella, quella domanda gli aveva ricordato che, nel giro di pochissimo tempo, i suoi segreti sarebbero diventati di dominio pubblico. «No», rispose. Stella non disse nulla. Erano in gioco vite umane, reputazioni e carriere e bisognava prendere decisioni dall'esito incerto. Operazioni di quel genere andavano concordate col capo. Siccome però questi era un uomo di Krajek, parlargliene poteva essere fatale e rendeva ancora più delicata la posizione di Dance: se la trappola non avesse funzionato e Moro non fosse stato arrestato, Dance e Stella si sarebbero trovati a dover rispondere di molte cose. Stella si voltò, osservando il panorama. Vicino alla procura, l'edificio in cui avevano sede il tribunale e la polizia era buio, popolato solo dagli agenti di turno e dagli addetti alle pulizie. Suggerendo a Curran di recarsi proprio lì, Moro aveva lanciato un segnale: se si trattava di un'imboscata, avrebbe certamente notato un'insolita attività della polizia. Passarono alcuni minuti. Stella cominciò a passeggiare avanti e indietro. A parte le dita che tamburellavano sul piano della scrivania, Bright era immobile. Sembravano due carcerati durante l'ora d'aria.
«Mi dispiace», disse dopo un po'. Bright la studiò a lungo, poi scosse lentamente la testa. Stella non sapeva se interpretarlo come un gesto di angoscia o di addio. Alla fine lui chiese: «Dimmi una cosa, Stella. Tu credi che io abbia fatto più bene che male o viceversa?» Stella lo osservò, pensosa. Da quasi tutti i punti di vista, Arthur Bright era stato un ottimo procuratore. Era un simbolo per la comunità nera e tuttavia si era saputo muovere nella politica di Steelton, smussando gli aspetti più conflittuali della questione razziale. Aveva assunto e promosso in base al merito: lei stessa non sarebbe arrivata fin lì senza di lui. Eppure, senza volere, aveva aiutato Vincent Moro a mantenere chiusa in una stretta mortale la comunità da cui proveniva egli stesso. E, candidandosi alle elezioni, aveva proposto a Steelton un sindaco che, se non corrotto, era certamente corruttibile. Dopo un lungo silenzio, Stella rispose: «Vorrei tanto saperti rispondere...» All'istante percepì tutto il dispiacere suo e di Bright, il quale distolse lo sguardo come se si sentisse respinto: nella sua disperazione si aspettava forse qualcosa di più sentimentale, una sorta di assoluzione da parte della donna che stava causando la sua rovina. Ma forse era chiedere troppo. In quel momento squillò il telefono. Bright sobbalzò e istintivamente fece per rispondere. Stella gli tolse la cornetta dalle mani. «Vieni qui», le disse Dance. «Nell'ufficio di Curran. Passa dal tunnel.» Riattaccò senza lasciarle il tempo di fare domande. Stella abbassò gli occhi. «Vado da Curran», comunicò a Bright. Poi aggiunse: «Non fare colpi di testa, Arthur. Se parli adesso, la tua unica speranza è che uccidano sia Dance sia me». Bright scosse il capo. «Starò qui», le assicurò in tono scoraggiato, quasi tutta la sua autorevolezza fosse svanita e si fosse reso conto di non contare più niente. Ma Stella ebbe la sensazione che in realtà non osasse affrontare Johnny Curran e ciò che avevano fatto insieme tanti anni prima, un episodio ancor più vivido nella cassetta di Novak che nella sua memoria. Con la cassetta ancora nella borsa, Stella uscì. Il tunnel tra la procura e la sede della polizia risaliva all'epoca della Guerra Fredda, quando urbanisti poco lungimiranti avevano stabilito che,
in caso di attacco nucleare, il procuratore della contea si sarebbe dovuto mantenere in contatto con la polizia. La sua maggiore utilità consisteva nel proteggere i dipendenti dei due edifici dal gelo degli inverni di Steelton. Quella sera permise a Stella di passare inosservata. Il corridoio di cemento era stretto, tetro, male illuminato, deserto. Stella camminò più in fretta che poteva e, quando finalmente arrivò alla tromba delle scale e riemerse nella penombra dell'atrio dal pavimento di marmo, tirò un sospiro di sollievo. Prese l'ascensore e salì nell'ufficio di Curran. Dance e Curran erano soli. Dance alzò gli occhi quando lei entrò, ma Curran non le fece caso, concentrato, tesissimo. Dance aveva una pistola sulle ginocchia. «Stiamo ancora aspettando», la informò. «Il telefono è sotto controllo.» Dal momento che Curran era d'accordo, non c'era voluta nessuna autorizzazione del tribunale. Quello le era chiaro; quello che la lasciava perplessa era il fatto che Moro, che poco prima era stato tanto misterioso e guardingo, volesse telefonare proprio lì. Curran continuava a tenere la testa bassa. Scendere nel garage sotterraneo, attraversare il centro in macchina e poi entrare nel garage della polizia doveva essere stato uno stress inimmaginabile, pensò Stella. Molto peggio di com'era stato, per lei, trovarsi in un angolo semibuio della stazione di polizia in compagnia dell'assassino di Tommy Fielding. Dopo un po', Curran guardò Dance. «Chi ha le maggiori possibilità di sfangarla, secondo te, Nat? Vincent o io?» Dance si strinse nelle spalle. «È difficile scegliere.» Stella, a braccia conserte, si appoggiò al muro. Krajek era nelle sue mani. Era decisa a portare Hall davanti al gran giurì e poi a torchiare Larry Rockwell, gli ispettori della pubblica amministrazione e quelli del general contractor. Anche se non fosse riuscita a mandare Krajek in prigione - ma era convinta di potercela fare - lo avrebbe comunque rovinato. E insieme con lui avrebbe rovinato la seconda fase del piano di Moro. Ma non Moro in persona, a meno che non facesse qualche passo falso. Cercò d'immedesimarsi e di pensare come lui. Non aveva ancora tentato di assassinare Curran, forse per una forma perversa di lealtà o più probabilmente perché Curran era un bersaglio troppo difficile senza una pianificazione accurata. Oppure, ipotesi ancora peggiore dal punto di vista di Stella, aveva ritenuto più rischioso incontrarlo che permettere a lei di arrestarlo perché, senza lo straccio di una prova, le
accuse di uno come Curran valevano poco o niente. Sull'altro piatto della bilancia c'era il sogno di Moro. Quanti sogni! Quello di Bright, quelli di Stella, di Dance, di Hall, di Krajek... Per essere un postaccio qual era, Steelton pullulava di sogni più o meno contorti. Ma, se Michael aveva ragione, nessuno di essi era potente e audace come quello di Vincent Moro: la trasformazione di un clan, la conquista di una città. Dal punto di vista di Moro, ammesso che non fosse al corrente del fatto che Hall era indagato, Curran rappresentava il principale ostacolo alla realizzazione dei suoi piani. Solo Curran sapeva che Fielding era morto per ordine di Moro e questo, sommato al fatto che lo sapeva anche Stella, poteva sconvolgere i suoi piani. Curran si voltò per la prima volta, dando segno di vederla. «Vincent non abbocca», le disse. «Ha fiutato la trappola.» In quelle parole lesse un lieve rimprovero e una soddisfazione perversa, che andava oltre la disperazione. Moro, come sempre, era stato più furbo di loro. Stella rispose, calma: «Spera solo di esserti sbagliato». Curran non replicò, ma le lanciò un'occhiata piena di odio: sapeva chiaramente che Stella non gli avrebbe fatto rischiare la vita, se non avesse avuto bisogno di lui. Ed era la verità. Riabbassò gli occhi. Stella cominciava a trovare opprimenti quelle pareti di cemento, la scrivania di metallo, il pavimento sporco, lo stesso Curran. Che cosa sta facendo Michael? si chiese. Cercò di non pensarci, perché la loro amicizia era irrimediabilmente perduta e, tranne che sul lavoro, dubitava di vederlo mai più. Avrebbe incontrato Sofia solo per caso, o forse non l'avrebbe rivista affatto. Uno squillo attutito la riscosse. Sempre attentissimo, Curran aprì un cassetto della scrivania. Il telefono che era dentro squillò di nuovo. Un cellulare, un numero sconosciuto, da usare solo una volta, con Moro, per poi buttarlo via. Così Moro faceva capire che era sempre un passo avanti agli altri. Curran si accostò il telefonino all'orecchio e rimase ad ascoltare, immobile, senza dire nulla. Pochi secondi dopo posò l'apparecchio. «Mi ha dato un appuntamento», mormorò, pallidissimo alla luce spietata del neon. «O almeno così ha det-
to.» «Dove?» chiese Dance. «Nel cantiere dello stadio.» Stella era esterrefatta. La piattezza del tono di Curran non riusciva a mascherare la paura. Per quanto spazioso, lo stadio era recintato; c'era una ditta incaricata della sorveglianza, ma Stella era certa che fosse controllata da Moro. La polizia non sarebbe potuta entrare all'insaputa di Moro, né avrebbe potuto installare apparecchi per intercettazioni ambientali o telecamere a raggi infrarossi. L'unico modo che avevano per sorvegliare la scena era lo stesso Curran. Non ci sarebbero stati altri testimoni. «Quando?» domandò poi Dance. «E come?» «Adesso.» Le rughe di Curran erano diventate più profonde. «Il cancello nell'angolo a sud-ovest sarà aperto. Devo passare di lì e andare in mezzo al campo.» Parlava piano, ma con una vena d'ironia nella voce. «Dicono che Jimmy Hoffa sia sepolto a fondo campo nello stadio di Meadowlands. Ma il football è uno sport più violento.» Dance lo guardava, impassibile. «Avremo dei rinforzi.» La risposta di Curran era carica di disprezzo. «Certo, Nat. Ma abbastanza lontani da non farsi vedere dagli uomini di Vincent. Non vorrete rovinare tutto.» Dance s'infilò una mano in tasca e poi gli mostrò il palmo, su cui era posto un microfono miniaturizzato. «Appuntati questo sulla maglietta. Sentiremo tutto quello che direte.» «Con l'attrezzatura giusta, anche Vincent lo sentirà. Correrei meno rischi a registrarlo.» Dance rimase in silenzio. «Stai firmando la mia condanna a morte», mormorò Curran. Con voce neutra, Dance ribatté: «Se lo registri, noi non ti sentiamo e, dato che non ti possiamo neanche vedere, ci è preclusa qualsiasi possibilità d'intervento. Se ti perquisisce e trova il registratore, ti ammazza e lo distrugge. Allora è inutile, Johnny. Se è per ammazzarti, posso farlo anche senza il suo aiuto». Stella rabbrividì: quasi certamente stavano mandando Curran a morire. Con calma, Dance concluse: «Puoi provare a scappare in Canada. Ti do dieci minuti. Con un po' di fortuna, i miei uomini ti abbatteranno in corsa». Curran si voltò verso Stella e la guardò negli occhi. «Avanti, mettitelo», ripeté Dance. «Se non ti sentiamo più respirare, veniamo a cercarti.»
Curran continuava a fissarla. Con un groppo allo stomaco, Stella annuì. Il tempo sembrava essersi fermato. Curran si voltò a guardare la pistola che Dance stringeva nell'altra mano. Dopo un po', prese il microfono. Sollevò il maglione e se lo fissò alla maglietta che gli tirava sulla pancia. Stella gli vide un centimetro di pelle scoperta, un rotolo di ciccia, e pensò all'uomo più giovane, nudo e bestiale, della videocassetta. «Dove starai tu?» chiese Curran a Dance. «A bordo di un furgone.» Ancora una volta, Curran parve assorto nei suoi pensieri. Stella immaginò che stesse valutando le alternative, calcolando i rischi. Forse si chiedeva anche se Vincent Moro, suo amico d'infanzia, lo avrebbe risparmiato. Dance inclinò la testa verso la porta. «Ti sta aspettando, Johnny. Se credi a quello che dice.» Curran arricciò le labbra. Lentamente, spostò lo sguardo da Dance a Stella. «Fai con comodo», gli disse Dance. Curran voltò loro le spalle e sparì nel corridoio buio. Stella lo guardò allontanarsi. «Vengo con te», disse a Dance. 10 Seduti a bordo dell'unità mobile, Dance e Stella ascoltavano il respiro di Curran. L'unità era camuffata da ambulanza. Dietro i finestrini opachi erano nascosti apparecchiature, tecnici della polizia e telefoni dotati di scrambler. A un ordine di Dance, il furgone uscì dal garage sotterraneo della procura. «State indietro», disse Dance al telefono. «Vi dirò io quando isolare la zona.» Il furgone si fermò. Curran, inquadrato sul monitor, cominciò a fischiettare Danny Boy così piano che quasi non lo sentivano. «Dove siamo?» chiese Stella. «Di fianco alla procura, a sei isolati dallo stadio.» Curran smise di fischiettare. Stella se lo immaginò, solo, al buio e al freddo, che camminava nella terra di nessuno tra il palazzo di giustizia e lo stadio. Di notte, quella zona non era illuminata e Curran doveva essere praticamente invisibile, come un eventuale aggressore che gli avesse teso un'imboscata prima del cancello.
Tesissimi, Dance e Stella si aspettavano di sentire, da un momento all'altro, colpi di arma da fuoco. Ma non udirono altro che il suono dei passi e il respiro regolare di Curran. Poteva darsi che tentasse la fuga a piedi. A Stella pareva di vederlo, mentre guardava la struttura di acciaio che incombeva davanti a lui nel cielo senza stelle. Che cosa avrebbe fatto lei, nei suoi panni? Dance stringeva la cornetta del telefono. Nella scarsa luce dell'unità mobile, un tecnico del suono, che ascoltava attentissimo, alzò il volume. Rumore di passi, poi il sussurro del vento che soffiava dal lago. La pistola di Curran era scarica. Stella si chiedeva che cosa provasse, se cercasse d'indovinare dove fosse Moro o riflettesse sulle conseguenze del proprio gesto. Poteva morire nel giro di pochi secondi, oppure vivere per anni, libero nonostante almeno sei omicidi, e godersi la rendita dei conti che certamente aveva in qualche banca svizzera, dei soldi sporchi di sangue di Vincent Moro. Facendosi grasse risate alle loro spalle. Forse era quello, oltre alla paura, ad attirarlo verso lo stadio: la prospettiva di farla franca ancora una volta, e definitivamente. Si udì un cigolio metallico, come di un cancello di ferro che si apre. Dance socchiuse gli occhi. Dal monitor vennero le prime parole. «Sono dentro», mormorò Curran. Stella si voltò verso Dance, che scosse la testa. Probabilmente, in quel momento, Curran stava passando sotto le impalcature, dove poteva esserci qualcuno in agguato. D'un tratto, il rumore di passi cessò. Stella immaginò che fosse arrivato sulla terra battuta e stesse camminando verso il centro del campo o che si fosse fermato a guardarsi intorno. Si udiva soltanto il suo respiro lento e regolare. Dance avvicinò il telefono alla bocca e ordinò: «Tenetevi pronti». Le sue parole, alterate dallo scrambler, sarebbero risultate incomprensibili a chiunque, a parte la polizia che ascoltava. Col fiato sospeso, Stella si chinò verso il monitor. Si udì una specie di grugnito molto basso: Curran che sospirava. «Ciao, Johnny.» Stella chiuse gli occhi. Nello stesso tono calmo, Vincent Moro chiese: «Da quanto tempo ci co-
nosciamo?» «Da quarantanove anni.» La voce di Curran era più bassa, baritonale rispetto a quella tenorile di Moro. «Da quando facevamo la seconda elementare alla Our Lady.» «Giusto. E in tutti questi anni non ti ho mai visto spaventato.» Il tono pacato era allusivo, insinuante. Dance non aveva ancora dato nessun ordine. Anche Curran taceva, ma il respiro si era fatto più veloce. «Perché proprio adesso, dopo vent'anni che fai questa vita?» chiese Moro. Ancora silenzio. «La tua amica», disse alla fine Curran. «La 'dark lady' ha capito di Novak e Fielding.» La dark lady... pensò Stella. Si voltò e sussurrò a Dance: «Falli avvicinare...» «Non è solo per questo che hai paura», stava dicendo intanto Moro. «Dimmi che cos'altro ti preoccupa.» Per un po' non si sentì altro che il respiro di Curran, poi: «Che cosa preoccupa te al punto di farti venire qui?» Sul furgone, Stella fissava Dance. «Dai ordine di entrare in azione, Nat.» Dance scosse la testa. Ma allora vuoi farlo morire, pensò Stella. La voce di Moro rimase calma. «Tu per me sei importante, Johnny. Ti ho portato questa. Guarda che cosa c'è dentro.» Silenzio. Stella udì un clic, poi il rumore di una serratura a scatto. «Che cosa fai, Vincent?» La voce di Curran era diversa, adesso, bassa e roca, decisamente spaventata. Moro rispose in un soffio: «Ti abbraccio fraternamente, Johnny. Addio». A Stella parve di vedere, chiarissimo, Curran chino su una valigetta aperta, con Moro che gli puntava una pistola alla testa e con l'altra mano gli tastava i vestiti. «No», sussurrò Curran. «Ho una cimice.» Seguì un silenzio. «Dimmi che non è vero, Johnny.» Il tono di Moro era duro. «Perché se tu sei stato leale con me, io sono tranquillo. Se invece hai una cimice, non ho niente da perdere.» Curran respirava veloce, ansimando, e non rispose. Moro abbassò ancora la voce. «Non ci avevi pensato?» chiese. Dance, guardando la giovane donna, si avvicinò il telefono alla bocca.
Si udì un grido soffocato, come di chi prende un pugno. Dance ascoltava, concentratissimo. «Maledizione, Nat», disse Stella. «Dai il via.» Dal furgone si sentì riecheggiare uno sparo. «Ora!» esclamò Dance. Il furgone partì, sgommando, e Stella andò a sbattere contro la parete. A sirene spiegate, si diresse nella notte verso il cantiere, mentre altri mezzi partivano da più lontano. Stella si tenne forte mentre il veicolo, sobbalzando, prendeva velocità. «Che cosa stiamo facendo?» chiese. Anche Dance si teneva al corrimano. «Andiamo a vedere», rispose. L'ambulanza salì su un marciapiede. Dal finestrino di dietro, Stella vide i cancelli dello stadio e la base dei piloni di acciaio. Con uno scossone, si fermarono. Dance spalancò il portellone posteriore e scese con un balzo sul terreno gelato. Stella lo seguì. E rimase esterrefatta. Il campo era illuminato dai fari di molte macchine della polizia. Vicino al cancello c'era un poliziotto che puntava una pistola semiautomatica su una guardia giurata. I fasci di luce intorno al campo erano come occhi gialli e illuminavano fino a una certa altezza i piloni di acciaio, che poi sparivano nell'ombra. Nell'aria riecheggiavano voci e urla. Dance, poco più avanti, si era fermato a guardare un corpo immobile, rannicchiato su un fianco come un feto gigantesco. Avvicinandosi, Stella riconobbe il maglione irlandese. Curran la fissava con l'occhio destro, ma il sinistro non c'era più. Al suo posto vide un rivolo di sangue. Accanto a lui c'era una valigetta aperta, vuota. Dance osservava il cadavere. Ma solo il fatto che rimanesse a contemplarlo a lungo tradì la sua emozione. «Meglio così», disse alla fine. «Adesso puoi incriminarlo per l'omicidio di Curran.» Senza rispondere, Stella alzò gli occhi. Al centro del campo, i poliziotti armati circondavano la sagoma scura di un uomo solo, esile, immobile. Stella si avviò in quella direzione. Quando fu a pochi metri di distanza, l'uomo si voltò verso di lei e gli vide la faccia alla luce, esattamente come tanti anni prima nell'ufficio di Jack Novak.
Moro raddrizzò le spalle. Era invecchiato, aveva il viso segnato e i capelli grigi, ma non aveva perso la sua raggelante dignità. Guardò Stella negli occhi. «Lei è ancora una bellissima donna», disse. Sono passati quattordici anni, pensò Stella, e tanta corruzione, tanti morti. Ma non c'era bisogno di dirlo. La prossima volta lo avrebbe rivisto in tribunale. Gli voltò le spalle e si allontanò. 11 Appoggiata alla base di uno dei piloni, Stella si sforzò di riordinare le idee, spossata, svuotata dell'energia un po' isterica che l'aveva sorretta nelle ultime ore. I rumori e la confusione che la circondavano le parevano venire da molto lontano. Curran era morto. Con l'aiuto di Nat Dance e di Michael Del Corso, era riuscita a collegare l'omicidio di Jack Novak a quello di Tommy Fielding e di Tina Welch. In quel modo avrebbe smascherato Krajek e, di conseguenza, mandato a monte i suoi piani per il lungolago. Vincent Moro era stato arrestato. Stella si era impegnata anima e corpo per riuscirci, ma era stata la disperazione del boss, la degenerazione del suo sogno di potere, a fargli commettere un'imprudenza. Quello, e la paura di Curran, l'unico uomo che lo conosceva troppo bene. Restava ancora molto da fare. Moro si sarebbe difeso fino all'ultimo e il processo non sarebbe stato facile, ma Stella era convinta di poter vincere. E, come con Curran, aveva comunque già ottenuto una sorta di giustizia. Le ci volle qualche istante per accorgersi che Dance era lì accanto. «Dobbiamo parlare», le disse. Stella affondò ancora di più le mani nelle tasche del cappotto. «Di che cosa?» Dance le si avvicinò. «Di Arthur.» Stella si voltò a guardarlo, un po' confusa. Dance parlava piano, pacatamente. «Curran è morto. Moro è in arresto per omicidio. Contro Krajek puoi usare Hall. Arthur e la sua videocassetta non ti servono.» Stancamente, Stella pensò: Sono sempre un passo indietro. E capì che Dance aveva voluto far morire Curran per proteggere Bright. «Moro è l'unica altra persona che conosce la verità», concluse Dance. «E
non la dirà a nessuno.» Stella lo fissava. «Anche noi la sappiamo.» Con pazienza, a voce bassissima per essere sicuro di non essere sentito che da lei, Dance disse: «Volevi che Arthur fosse eletto sindaco per buone ragioni che, secondo me, sono ancora valide. Col suo appoggio, potresti diventare procuratore della contea al posto di Sloan. Ma non puoi farcela da sola. Se lo denunci, ti dai la zappa sui piedi.» Era vero. Stella se ne rese conto all'improvviso e, con un filo di voce, ribatté: «E se Arthur diventa sindaco, tu diventi capo della polizia». Dance la studiava. «Che cosa c'è di male? Vedi ancora tutto solo bianco o solo nero, t'importa solo il modo in cui avvengono le cose? A questo punto dovresti aver capito come funzionano.» Stella rifletté sulle sue parole e su quella chiara allusione al fatto che lei stessa aveva usato Curran per prendere Moro e, d'un tratto, si rese conto di dove si trovava: in mezzo al cemento e all'acciaio. «Qualcosa ho capito, ma Arthur cercava di convincersi di aver ostacolato il corso della giustizia in nome di un bene di ordine superiore. Chissà se lo pensa ancora», mormorò. Dance la guardò in faccia. «Perché non glielo chiedi, Stella?» Lei raddrizzò le spalle. «Tu e Arthur avete concordato tutto questo?» «No.» Dance accennò un sorriso. «Se Moro non avesse ucciso Curran, sarebbe stato inutile.» Stella taceva. Nathaniel Dance era più scaltro, e spinto da motivazioni più varie delle sue, nessuna delle quali, tuttavia, giocava a suo favore. «È un sindaco nero che vuoi a tutti i costi?» gli chiese. «Oppure vuoi Arthur?» Dance lasciò passare qualche istante prima di rispondere. «Tutt'e due le cose», disse poi. «È giunta l'ora. Anche per te.» Stella scosse la testa come per schiarirsi le idee. «Non sai nemmeno se Arthur vuole ancora diventare sindaco. A questo punto, comunque, ce l'ha con me.» «Ma ha bisogno di te. Quindi Charles Sloan è fuori del gioco.» Dance si voltò verso l'edificio buio dove Bright li stava aspettando, oltre lo stadio in costruzione. «Dobbiamo dire ad Arthur che cosa è successo prima che lo vengano a sapere Krajek e i giornali. Deciditi.» Stella aspettò che Dance avesse finito di dare disposizioni per il trasferimento in carcere di Vincent Moro, poi, nel freddo pungente, si avviò col
capo della sezione Investigativa verso la procura, in silenzio. Erano le due e mezzo passate e la città era silenziosa. Nell'atrio le luci erano abbassate e c'era un solo custode. Mentre prendevano l'ascensore, Stella cercò d'immaginare che cosa si sarebbero detti Bright e lei. Il corridoio era buio. Lo percorsero guidati dal chiarore proveniente dalla porta socchiusa dell'ufficio di Stella. Sentirono cigolare i cardini. Stella si fermò e rabbrividì, incredula e inorridita. Dalla sua porta pendeva la sagoma di un uomo impiccato. «Noooo!» esclamò Dance. Si precipitò in avanti, seguito da Stella. La porta oscillò verso di loro, trascinata dal peso di Bright. Aveva gli occhi iniettati di sangue, come Jack Novak, il volto distorto dal dolore. Con un gemito, Dance lo prese tra le braccia e lo sollevò dal cappio che aveva ricavato dalla cintura dei pantaloni. Stella glielo sfilò dal collo. Era ancora caldo. Dance lo stese per terra e cercò di rianimarlo facendogli la respirazione a bocca a bocca. Stella, in preda alla nausea, corse alla scrivania e chiamò il pronto intervento. Quando si voltò, vide la cintura di Bright ancora appesa all'attaccapanni fissato all'interno della porta. Poi Dance alzò la testa. Piangeva. Stella si lasciò cadere sulla sua sedia. Bright era morto come Jack Novak. Però si era impiccato nel suo ufficio, perché lei vedesse. Non faceva freddo, ma le battevano i denti. Il dolore negli occhi di Dance era tale che fu costretta a distogliere lo sguardo. «Adesso sappiamo cosa mi avrebbe risposto», mormorò. In lontananza si udì l'urlo della sirena di un'ambulanza. Con la voce roca, Dance le chiese: «Dov'è la cassetta?» «Nella mia borsa.» Dance andò nel corridoio. La borsa era per terra, vicino al corpo di Bright. Dance la tirò velocemente fuori. «Ne ho un'altra copia», gli disse lei. 12 Cinque giorni dopo, Stella si fece forza e andò al funerale di Arthur
Bright. Chiese a Michael di sedersi vicino a lei e lui lo fece. Parlarono poco e Stella non gli diede spiegazioni perché non era sicura di riuscirci. Per farlo, avrebbe dovuto rivelare i segreti di Bright, oltre al proprio: si sarebbe sempre sentita responsabile della sua morte. Ma la vita continuava. Era una bella giornata e la First Baptist Church costruita, come St. Stanislaus, coi risparmi di laboriosi immigrati - era inondata di luce che entrava dalle vetrate. Dal suo posto in terza fila, Stella osservò Lizanne Bright e s'interrogò sui propri doveri morali. Seduta tra il figlio e la figlia, Lizanne li teneva per mano e non piangeva, ma aveva l'aria stravolta e non sembrava più la stessa persona. Stella sapeva che l'inspiegabile suicidio del marito l'avrebbe lasciata a tormentarsi per sempre sugli indizi che non aveva saputo vedere, su ciò che non era riuscita a dargli. Sarebbe stato meglio per lei sapere la verità? si chiese. E per i figli? Stella aveva la possibilità di rassicurarli o d'infliggere loro un colpo mortale e non sapeva quale strada scegliere. Alzatosi, il procuratore ad interim Charles Sloan prese la parola. «Arthur Bright ha portato nella vita pubblica i nobili ideali della sua vita privata...» esordì a voce bassa. Per una volta, Stella invidiò Sloan. Se non altro, perché non sapeva nulla. Ma la vita continuava. L'orazione di Sloan era più di un elogio funebre: era un modo per presentarsi come suo erede. La politica non era assente nemmeno in quel momento e, dall'altra parte della navata, accanto a due assistenti, era seduto Thomas Krajek. Sindaco, ma non per molto ormai, e lo sapeva. Era afflitto per se stesso, non per Arthur Bright: Stella e Michael avevano notificato a Larry Rockwell un mandato di comparizione davanti al gran giurì e Peter Hall, su consiglio del suo avvocato, non rispondeva alle telefonate. In seguito alle prime indiscrezioni fatte trapelare da Stella a Dan Leary, i giornali avevano preannunciato l'incriminazione di Krajek, e gli ispettori del comune, in preda al panico, si preparavano a patteggiare. Hall era già sceso a patti: la sua unica telefonata era stata all'avvocato e Stella aveva accettato di non metterlo in stato d'accusa in cambio dell'impegno a collaborare. A Hall, come a Stella, restava da affrontare in privato il rimorso per aver contribuito alla morte di una persona. Michael, seduto al fianco di Stella, ascoltava Sloan.
L'espressione era seria, ma Stella intuì che Michael aveva la testa altrove. Cosa non avrebbe dato per sapere dove... Possibile che mi debba sentire sempre così sola? Col cuore in pena, cercò di concentrarsi sull'orazione funebre, ma ancora una volta quello che sapeva e vedeva era più interessante delle parole di Sloan. Seduto dietro di lui c'era George Walker, che certamente sarebbe stato eletto sindaco di Steelton. Subito dopo il rinvio a giudizio di Vincent Moro per l'omicidio di Curran, c'era stata una conferenza stampa cui avevano partecipato sia Stella sia Sloan, il quale non aveva perso l'opportunità di attribuirsi il merito dell'operazione. Però era stata Stella a risolvere il caso e a rivelare che Walker era stato incastrato da Moro e Curran. Era il primo colpo significativo inferto a Krajek e l'inizio della riscossa per George Walker. A quel punto il futuro di Walker, come quello di Sloan, dipendeva dal segreto di Stella. Se avesse deciso di rendere pubblico il fatto che Bright si drogava, si travestiva ed era complice nell'omicidio di una prostituta, per Sloan, che era il suo più stretto collaboratore, il danno sarebbe stato irreparabile, ma anche George Walker, sia pure in misura minore e tutto sommato meno giustificata, avrebbe perso voti tra i bianchi accecati dagli stereotipi razziali. Stella aveva il sospetto che Walker, a differenza di Sloan, fosse, almeno in parte, preparato a quella eventualità. Quella riflessione la spinse a cercare con gli occhi Nathaniel Dance. Non fu difficile trovarlo: era seduto, insieme con la moglie, accanto alla famiglia di Arthur, sinceramente addolorato e preoccupato per Lizanne Bright, ma anche per altri motivi. Ed era una delle ragioni per cui Stella era convinta che Walker sapesse quello che sapeva lei. L'altra era che Walker le aveva telefonato, sostenendo che desiderava vederla per ringraziarla. Non aveva aggiunto altro né le aveva dato l'impressione di sapere qualcosa, eppure, tramite il consulente di Stella, aveva preannunciato che intendeva chiederle se era disposta ad appoggiarlo in cambio del sostegno alle elezioni per la carica di procuratore della contea. Anche Stella, quindi, poteva avere interesse a tacere. Non aveva ancora deciso se accettare la proposta, ma capiva la logica di Walker. Nell'atmosfera di sospetto venutasi a creare in seguito agli ultimi avvenimenti - l'ingiusta accusa ai danni di Walker, la rovina di Krajek, lo scandalo di Steelton 2000 -, Walker aveva bisogno di raccogliere voti sull'altra sponda dell'Onondaga e aveva già fatto il primo passo per conqui-
starseli, dichiarando pubblicamente che, se fosse stato eletto, avrebbe portato a termine il progetto dello stadio. Tutto ciò non aveva meravigliato affatto Stella, sorpresa e turbata, caso mai, dal risvegliarsi della propria ambizione. È morto da soli cinque giorni e stai già desiderando il posto dell'uomo che hai spinto a morire, pensò. Con un guizzo di macabro senso dell'umorismo, si disse che poteva sempre confidarsi con suo padre. Chiuse gli occhi. Doveva andare a trovarlo. Erano già passate due settimane dall'ultima visita. Quando rialzò la testa, George Walker si accingeva a prendere la parola. Fisicamente era diversissimo da Arthur: era in carne, sicuro di sé, coi capelli bianchi e l'espressione bonaria, e parlava con un tono da predicatore tipico delle generazioni passate. Non poteva essere arrivato alla presidenza del consiglio comunale senza aver fatto cose su cui era meglio non indagare, pensò Stella, ma nemmeno senza essere intelligente, in gamba e diplomatico. E aveva il necessario pelo sullo stomaco: pochi minuti prima aveva stretto la mano e sussurrato le proprie condoglianze a Charles Sloan, l'ignaro avversario politico cui aveva intenzione di tagliare metaforicamente le gambe. Si rivolse a Lizanne Bright, riempiendo la chiesa con la propria voce possente. «Arthur non faceva altro che dare, come te», disse. «Tu gli davi la possibilità di riposare, affinché potesse dare ancora a noi. Abbiamo finito per logorarlo, ma dobbiamo ringraziare te se questo non è avvenuto ancora prima...» Forse andava bene così, pensò Stella. Certo né George Walker né nessun altro potevano sollevarla dall'obbligo che sentiva di avere nei confronti di Lizanne Bright. Il coro intonò Amazing Grace e la cerimonia finì. Sei uomini, tra cui Sloan e Walker, si fecero avanti e portarono fuori la bara. Passando, Walker incrociò lo sguardo di Stella e la salutò con un cenno del capo. Istintivamente Stella toccò la manica di Michael e sussurrò: «Andiamocene, ti prego». Michael esitò, poi, per compassione o forse per la tristezza di quel momento, annuì. Restava un'unica cosa da fare. «Aspettami», gli disse Stella.
Fuori della chiesa, individuò Dance tra la folla e aspettò in fondo alle scale che lui la notasse e si allontanasse dagli altri. Non si erano più parlati da quand'era morto Bright e Dance non disse niente nemmeno in quel momento. «Ho una cosa da darti», esordì lei. Frugò nella borsa e tirò fuori una busta imbottita, indirizzata a lei. «Che cos'è?» chiese Dance. «L'ultima copia della cassetta di Novak.» Dance la scrutò in volto, commosso, o forse solo incuriosito, ma non chiese perché. Neppure Stella, del resto, capiva bene le proprie motivazioni. Ma una cosa le era chiara: quella cassetta e il fatto che lei fosse a conoscenza del contenuto non dovevano influire né su quello che avrebbe fatto Walker né sulle decisioni che avrebbe preso lei. «Non serve più», disse semplicemente Stella. 13 Stella e Michael si sedettero su una panchina sul sagrato di St. Stanislaus. D'inverno non c'erano fiori nelle aiuole e l'erba era poca, ma il sole era tiepido e Warszawa appariva tranquilla e silenziosa, dopo l'assedio dei reporter che, all'uscita della First Baptist Church, li avevano tempestati di domande sulla morte di Arthur Bright, come facevano ormai da giorni. E, come faceva da giorni, Stella si era dichiarata addolorata e sconcertata. Era convinta che, benché insospettiti dalla coincidenza temporale tra il suicidio di Bright e l'arresto di Moro, Dan Leary e colleghi non avrebbero mai scoperto la verità. E lei non aveva più motivo di aiutarli. Con Michael, le cose erano diverse. «Non so da che parte cominciare», esordì. Lui si voltò. «Capisco quello che hai passato, Stella, ma mi hai accusato di lavorare per un assassino. Non penserai che io mi accontenti di un semplice 'scusa'.» Che cosa poteva dirgli? Nulla sarebbe bastato a farsi perdonare. Poteva solo raccontargli la verità, sul proprio lavoro e su tutta se stessa, ma era troppo spaventosa. La difficoltà e le eventuali conseguenze di una confessione erano tali che l'istinto le sussurrava di andare avanti come aveva sempre fatto, tacendo. Tuttavia ormai aveva paura anche di quello. Si chinò in avanti, posò i gomiti sulle ginocchia e abbassò lo sguardo.
Poi cominciò da dove sapeva di dover cominciare, raccontando qualcosa del padre, poi di Jack Novak e infine tutto quello che era successo da quando questi era stato ucciso. Michael non fece commenti. Stella non sapeva che cosa aspettarsi da lui: disgusto, indifferenza, o forse trite rassicurazioni su come non avrebbe potuto comportarsi diversamente. Invece le chiese: «Pensi davvero che Bright si sia suicidato per causa tua?» Quella domanda così diretta la fece sentire ancora più in colpa. «In un certo senso, sì. Avrei dovuto dirgli che l'avrei protetto, che l'avrei lasciato arrivare alla scadenza del suo mandato. Aveva superato tanti ostacoli che meritava almeno un po' di speranza. E io non gliene ho data nessuna.» «Ma lo avresti veramente protetto dopo il discorso di Dance?» le fece notare Michael. «Non lo so.» Stella rifletté: se l'era chiesto lei stessa infinite volte. «Se Arthur si fosse dimesso, non lo avrei denunciato. Di questo sono sicura. Quanto ad aiutarlo a diventare sindaco... Moro avrebbe potuto ricattare sia lui sia me, e avevo già visto con quali risultati. Spero proprio che sarei stata abbastanza coraggiosa da dire di no.» L'espressione di Michael era indecifrabile e a Stella parve di leggervi più obiettività che comprensione. «T'interessa sapere che cosa penso?» le chiese. «Molto», rispose lei a voce bassa, esitante. «Avevo cominciato ad affezionarmi a te, non solo a Sofia, e questo mi ha spaventato. Se ho sospettato di te, non è stato solo perché Curran mi aveva messo la pulce nell'orecchio... Avrei avuto paura comunque.» Si voltò verso di lui. «Non sapevo se fidarmi di te, e non solo a livello professionale. Adesso, se non altro, ci sto provando.» Michael la osservava. «Okay», disse alla fine. «Una cosa per volta. Anzitutto, Arthur si è ammazzato perché voleva farlo: non era mai riuscito ad accettare se stesso né il proprio passato. Aveva semplicemente rimosso. Era tuo dovere mostrargli la cassetta e non è colpa tua se lui non ha retto. Non sei stata tu a metterlo in quella posizione. E non avresti accettato le condizioni di Dance.» Il tono di Michael era pacato, monocorde. «Le tue virtù sono anche i tuoi difetti, Stella. Sei troppo severa, sia con te stessa sia con gli altri, ma non ti tiri indietro di fronte alle scelte morali.» Stella si rasserenò un poco. Lungi dall'evitare le esperienze personali, le parole di Michael andavano al cuore dei suoi problemi. Le cose che le aveva detto non erano d'ipocrita consolazione, erano giuste. Non le restava
che sperare che preludessero al perdono. «E adesso che cosa faccio?» chiese. La domanda si prestava a varie interpretazioni e lei stessa non era certa del senso che le voleva dare. Michael rispose semplicemente: «Io posso solo dirti perché sono successe queste cose secondo me. Il resto sta a te». In parte era vero: aveva da sempre scelto di decidere da sola. Soltanto che ultimamente la rattristava che le sue decisioni non interessassero a nessun altro. «Non è del tutto vero», rispose. «Ho cercato di spiegarti che cosa ho fatto e perché. Che altro posso fare?» Michael abbassò gli occhi. «Mi sento completamente disorientato. Non si tratta solo di Maria. Non voglio che mia figlia debba soffrire di nuovo così. Lo capisci, vero?» Anche quello era duro da accettare: le era più facile capire una bambina spaventata che un uomo cui teneva. «Sì», rispose semplicemente. «Capisco. Ma mi dispiace ancora di più per te. E non so come spiegartelo.» Michael sollevò la testa. «Hai mai detto queste cose a qualcuno?» le chiese. «No. Dopo Jack, non ci ho mai più voluto provare.» «Penso che questo voglia dire qualcosa, Stella.» Dunque aveva capito. Forse, col tempo, si sarebbe potuta fidare di lui al punto di confidargli anche il resto. Ma in un secondo tempo. Per il momento, l'unica cosa di cui era certa era che Michael le aveva dato un po' di pace e, con essa, la risposta a una delle domande che la assillavano. Se George Walker voleva ancora che lei si candidasse a procuratore della contea, avrebbe accettato. Altrimenti, avrebbe aspettato un'altra occasione. Nessuno le aveva promesso che i suoi desideri, di qualunque genere, si sarebbero realizzati senza sforzo. In silenzio pensò al padre, a Jack Novak e poi all'uomo seduto al suo fianco in quel momento. «Vuol dire tutto», disse. RINGRAZIAMENTI Scrivere Tutta la verità non è stata un'impresa facile. Ho dovuto parlare della vita di una donna, di politica, di conflitti razziali, di corruzione, di criminalità organizzata, della costruzione di uno stadio e di una città che non esiste. Non c'è da stupirsi che abbia avuto bisogno di aiuto. Per fortuna, c'è stato chi me l'ha dato. A Cleveland sono stati prodighi di
consigli gli amici: Stephanie Tubbs Jones, procuratore di contea ora al Congresso; Carmen Marino, sostituto procuratore responsabile della sezione penale; la dottoressa Elizabeth Balraj, coroner della contea; le dottoresse Mandy Jenkins e Sharon Rosenberg dell'Istituto di medicina legale e i sostituti procuratori degli Stati Uniti Roger Bamberger e James Wooley. La collega Gloria Brown mi ha dato una mano con la sua conoscenza dei quartieri cui mi sono ispirato per descrivere Steelton, mentre padre William Gulaf, della chiesa di St. Stanislaus, mi ha generosamente spiegato la storia della sua parrocchia. Riguardo alla città di Cleveland, mi preme inoltre precisare che, se ho ampiamente attinto alla sua storia, alla sua posizione geografica e alla sua struttura urbana, essa è protagonista di una rinascita tanto vivace e degna di nota quanto la crisi di Steelton è profonda e deprimente. Steelton non è Cleveland, ma quello che Cleveland sarebbe potuta diventare se i suoi abitanti non avessero deciso di dare una svolta al suo destino. Anche gli amici di San Francisco mi hanno aiutato molto. I sergenti Richard Correia e Ron Kerns hanno cortesemente accettato di riflettere con me sul mondo di Nathaniel Dance e Johnny Curran; il sostituto procuratore distrettuale George Butterworth mi ha illustrato i meccanismi dell'appropriazione indebita. Il mio solito «consiglio di amministrazione» mi ha aiutato a districarmi nel labirinto che io stesso mi ero costruito: l'ispettore della Omicidi Napoleon Hendrix, il medico legale Boyd Stephens, l'avvocato Hugh Antony Levine e, soprattutto, il sostituto procuratore Al Giannini. Il sostituto procuratore Dick Martin, di New York, protagonista di molti processi della «Pizza Connection», mi ha fornito suggerimenti preziosi. Anche i maneggi politici ed economici che vanno di pari passo con la realizzazione di un impianto sportivo di grosse dimensioni sono complessi: illuminanti in proposito sono stati per me i contributi di Tom Chema, ideatore dello straordinario stadio dei Cleveland Indians, Jacobs Field; Michael Kerr, la cui azienda ha costruito alcuni dei migliori impianti sportivi d'America fondendo brillantemente novità e tradizione; Steve Agostini, che ha lavorato a progetti di questo tipo in varie città; e Clint Reilly, Jim Ross e Doug Comstock, che mi hanno messo a parte delle loro opinioni in materia. Naturalmente tutto questo ha anche un lato umano e sono grato a Margo St. James e agli psichiatri Ken Gottlieb e Rodney Shapiro per avermi aiutato a capire meglio le diverse personalità d'individui quali Stella Marz, Arthur Bright, Johnny Curran, Jack Novak, Tommy Fielding, Tina Welch
e Natasha Tillman. Per non parlare dell'impagabile contributo di Michelle Wagner del Goldman Center, che tratta i inalati di Alzheimer con tanta competenza e buonumore. Desidero ringraziare poi chi mi ha aiutato, ma desidera rimanere anonimo e che si riconoscerà in queste parole. La mia gratitudine va in particolare a tutti coloro che, coi loro commenti e osservazioni, hanno contribuito a migliorare il romanzo: mia moglie Laurie e i miei cari amici Philip Rotner, Anna Chavez e Fred Hill. La mia validissima assistente Alison Thomas ha reso più stimolante il gioco, sia mio sia suo, con quotidiani suggerimenti di ogni tipo. E, come sempre, non mi sono mancati gli incoraggiamenti dei miei straordinari editor alla Knopf e alla Ballantine: un grazie particolare a Sonny Metha e Linda Grey. Infine, una parola per George Bush e Ron Kaufman, generosissimi nell'amicizia come nell'aiuto che mi hanno dato durante la stesura del mio romanzo precedente, Nessun luogo è sicuro. Non penso di potermi sdebitare dedicando loro un libro, e meno che mai questo, più cupo di quanto forse a loro piacerebbe, ma confido che ci saranno altre occasioni in futuro per esprimere tutta la gratitudine che provo per loro. FINE