LINDSEY DAVIS TRE MANI NELLA FONTANA (Three Hands In The Fountain, 1996) A Heather e Oliver il mio agente e il mio edito...
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LINDSEY DAVIS TRE MANI NELLA FONTANA (Three Hands In The Fountain, 1996) A Heather e Oliver il mio agente e il mio editor due persone meravigliose (ciascuna delle quali merita una dedica): grazie per i primi dieci. E ad altri dieci! Personaggi principali Amici e parenti GIULIA GIUNILLA LAIETANA Una neonata al centro dell'attenzione. MARCO DIDIO FALCO Un neopapà, che a detta di molti avrebbe bisogno di un socio. ELENA GIUSTINA La sua compagna nella vita e nel lavoro, una neomamma. NOCE Unica padrona di se stessa, ma un buon cane. LA MADRE DI FALCO Un'affittacamere; l'affettuosa nonna di Giulia. ANACRITE Il suo inquilino; un piantagrane in cerca di guai. L. PETRONIO LONGO Bravo a risolvere i guai, ma non a evitarli. ARRIA SILVIA Sua moglie, che l'ha appena cacciato di casa. D. CAMILLO VERO Il nonno di Giulia; un senatore idealista GIULIA GIUSTA L'altra affettuosa nonna di Giulia. CAMILLO ELIANO Che sa di volersi sposare. CAMILLO GIUSTINO Che non sa quello che vuole. CLAUDIA RUFINA La cui fortuna è ciò che Eliano sa di voler sposare. GAIO Nipote di Falco, un ragazzo di mondo. LOLLIO Suo padre, perennemente assente, che si è fatto vivo. MARINA Che dice di confezionare passamanerie per tuniche. RUBELLA Tribuno severo ma giusto della Quarta coorte dei Vi-
gili. FOSCOLO Sostituto leale (ma non privo di ambizioni) di Petronio. MARTINO Rivale geloso, ma trasferito. SERGIO Un agente le cui punizioni lasciano tramortite le sue vittime. SCITACE Medico della coorte, che vuole vivi i suoi pazienti. Amanti, supervisori, vittime e sospetti BALBINA MILVIA La causa dei guai di Petronio. CORNELIA FLACCIDA Sua madre; concretamente tremenda (e tremendamente concreta). FLORIO Il marito di Milvia; tremendamente inconsistente. ANNONE Scrivano al registro delle nascite; mortalmente infelice. SILVIO & BRIXIO Scrivani al registro dei decessi; due tipi pieni di vita. SESTO GIULIO FRONTINO Sì, quel Frontino! Un personaggio reale. STAZIO Un ingegnere; troppo importante per sapere o fare qualcosa. BOLANO Il suo assistente, che sa e che fa. CORDO Uno schiavo pubblico che spera in una mancia per quel che ha trovato. CAIO CICURRO Un commerciante di granaglie che ha perso il suo tesoro. ASINIA Sua moglie, a quanto pare una brava ragazza. PIA Una cattiva ragazza, senza dubbio. MONDO Fidanzato di Pia, che di ragazze se ne intende davvero poco. ROSIO GRATO Un uomo molto anziano che vive altrove. AURELIA MESIA Sua figlia, a cui va bene così. DAMONE Un conducente così lento che la sua fama lo precede. TITO No, non quello; un ragazzo di campagna. TURIO Un tirapiedi scontroso. Alcuni altri indiziati
Duecentocinquantamila persone al Circo Massimo, chiunque abbia un lavoro collegato ai Giochi, tutti gli abitanti di Tibur e della campagna circostante. L'uomo della strada.
ROMA Agosto-ottobre, 73 d.C. Quando [la conduttura dell'acqua] avrà raggiunto la città, costruite un serbatoio con una cisterna di distribuzione fatta di tre compartimenti... Dalla cisterna centrale saranno posate condutture dirette verso tutte le vasche pubbliche a mo' di fontane; dalla seconda cisterna verso le terme, affinché possano fruttare una rendita annuale per lo stato; e dalla terza verso le case private, così che non scarseggi mai l'acqua per uso pubblico. VITRUVIO, De Architectura, VIII, 6
Vi chiedo! Confrontate la nostra rete di acquedotti, monumenti di vitale importanza, con quelle inutili piramidi, o con le sterili attrazioni turistiche dei greci! FRONTINO, De Aquis, I, 16 Beviamo... e lasciamo perdere l'acqua! PETRONIO LONGO della Falco & Socio I La fontana non funzionava. Non che ci fosse qualcosa di insolito: dopotutto, eravamo sull'Aventino. Doveva essere fuori uso da parecchio tempo, perché l'abbozzo di conchiglia che fungeva da getto, di cui una ninfa nuda tutt'altro che attraente faceva sfoggio, era imbrattato di guano di piccioni. La vasca invece era pulita, l'ideale per appoggiarsi senza sporcare la tunica e per vuotare in pace un'anfora di vino ispanico che aveva patito un po' il viaggio. Quando Petronio e io saremmo tornati alla festa che si teneva nel mio appartamento, nessuno avrebbe capito dov'eravamo stati. Avevo appoggiato l'anfora nella vasca vuota della fontana, con la punta verso l'interno, così da poterla inclinare facilmente oltre il bordo per riempire le coppe che ci eravamo portati di nascosto. Rimanemmo lì per un bel po' di tempo, tanto che, al momento di tornare a casa, saremmo stati troppo ubriachi per preoccuparci delle chiacchiere, a meno che, certo, qualcuno non ci avesse accolto a male parole. Cosa tutt'altro che impossibile, se Elena Giustina si era accorta che ce l'eravamo svignata, lasciandola da sola. Ci trovavamo nel Vicolo dei Sarti. Avevamo evitato di proposito la Corte della Fontana, dove vivevo, per paura che uno dei miei cognati, vedendoci dalla finestra, decidesse di imporci la sua compagnia. Nessuno di loro era stato invitato, si erano semplicemente avventati sul mio appartamento, come mosche su un pezzo di carne cruda, non appena avevano saputo che davo una festa. S'era fatto vivo perfino Lollio, il barcaiolo, che non si faceva mai vedere in nessuna occasione. Essendo abbastanza lontana da casa, la fontana del Vicolo dei Sarti era il posto perfetto per fare due chiacchiere a quattr'occhi. D'altra parte, la Corte della Fontana non possedeva alcuna fontana pubblica, e a ben pensarci neanche il Vicolo dei Sarti ospitava sarti. Anche questo era l'Aventino, dopo-
tutto. Uno o due passanti, vedendoci conversare animatamente in una strada che non era la nostra, pensarono che parlassimo di lavoro. Ci guardarono né più né meno come due topi spiaccicati. Bisogna dire che nel Tredicesimo settore eravamo entrambi noti, sebbene fossero ben pochi quelli che ci stimavano. Di quando in quando lavoravamo insieme, nonostante la collaborazione tra pubblico e privato non fosse affatto facile. Io ero un investigatore e un agente imperiale, di ritorno da una missione nella Spagna Betica per la quale ero stato pagato meno di quanto pattuito ma ero riuscito a recuperare il disavanzo con un'ingegnosa richiesta di rimborso spese. Petronio Longo godeva di un regolare stipendio: era l'investigatore capo della locale coorte dei Vigili. O almeno, lo era in circostanze normali: mi aveva appena lasciato di stucco rivelandomi di essere stato sospeso. Petronio tracannò un po' di vino, poi, con molta attenzione, cercando di non farla cadere, appoggiò la coppa sulla testa della ninfa di pietra, che in teoria avrebbe dovuto fornire l'acqua al vicinato e la cui conchiglia continuava a non funzionare. L'aspetto minuto della ninfa contrastava con le braccia lunghe di Petro. Era un onesto cittadino, forte, robusto e generalmente tranquillo. In quel momento fissava accigliato il vicolo. Tacqui un momento per versarmi altro vino, approfittandone per decidere come reagire. Alla fine preferii evitare commenti. Esclamare «Oh, per gli dèi, vecchio mio!» oppure «Per Giove, mio caro Lucio, non credo alle mie orecchie» sarebbe stato troppo scontato. Se voleva raccontarmi l'intera storia l'avrebbe fatto spontaneamente, altrimenti era pur sempre il mio migliore amico, e se avesse fatto finta di voler mantenere il riserbo sarei stato al gioco. D'altra parte, avrei sempre potuto domandare a qualcun altro. Qualunque cosa fosse successa, non avrebbe potuto tenermela segreta a lungo: dopotutto, cavare informazioni era il mio mestiere. Il Vicolo dei Sarti era un ambiente tipico dell'Aventino. Caseggiati anonimi davano su una viuzza stretta e sudicia che dall'Emporium serpeggiava fin quassù e poi scendeva verso il Tevere, con un occhio al Tempio di Cerere, perdendosi infine sulle ripide alture che dominavano il Ponte di Probo. Bimbetti seminudi giocavano con le pietre accucciati accanto a una pozzanghera di dubbia origine, dalla quale di certo si sarebbero beccati la febbre. Da qualche parte sopra di noi, un borbottio incessante e monotono raccontava qualche fosca storia a un ascoltatore silenzioso che pareva
pronto a brandire un coltello da un momento all'altro. Nonostante fossimo all'ombra, il sole d'agosto non dava scampo. Perfino la tunica si appiccicava alla schiena. «Be', finalmente ho ricevuto la tua lettera.» Per affrontare un argomento difficile, Petronio sceglieva sempre la strada più lunga e tortuosa. «Quale lettera?» «Quella in cui mi riferivi di essere diventato padre.» «Che cosa?» «Tre mesi per riuscire a trovarmi... niente male.» Quando, qualche mese prima, Elena, io e la neonata eravamo salpati dal Tarraconense, avevamo impiegato solo otto giorni di navigazione per raggiungere Roma, più due giorni di viaggio via terra da Ostia, viaggiando con comodo. «Non è possibile.» «L'hai spedita in caserma» si lamentò Petronio. «È passata da uno scrivano all'altro per settimane e poi, quando finalmente hanno deciso di consegnarmela, naturalmente io non c'ero.» Non usava mezzi termini: un indubbio sintomo di tensione. «Ho pensato che sarebbe stato più sicuro mandarla alla caserma dei Vigili. Non sapevo che ti saresti fatto sospendere» gli rammentai, visto che non era in vena di ragionare. Non c'era in giro quasi nessuno. Eravamo rimasti rintanati lì per buona parte del pomeriggio, praticamente in segreto. Speravo che nel frattempo le mie sorelle e relativi figli, che Elena e io avevamo invitato a pranzo per presentarli tutti in blocco alla nostra piccolina, fossero tornati a casa. Quando Petro e io ce l'eravamo svignata nessuno dei nostri ospiti dava l'impressione di volersene andare, ed Elena aveva già l'aria stanca. A ripensarci, sarei dovuto restare. La sua famiglia aveva avuto l'accortezza di non venire, ma ci aveva invitati a cena per uno dei giorni successivi. Uno dei suoi fratelli, quello che riuscivo a sopportare, ci aveva consegnato il messaggio dei suoi nobili genitori, che cortesemente declinavano l'invito a condividere uno spuntino freddo con i miei numerosissimi parenti nel nostro minuscolo, e per lo più sgombro, appartamento. Qualcuno della mia famiglia aveva già cercato di vendere agli illustri Camilli opere d'arte fasulle che non potevano permettersi e di cui non avevano bisogno. I miei parenti erano per lo più persone sgradevoli e prive di tatto, difficile trovare una massa di idioti più chiassosi, arroganti e polemici. Grazie alle mie sorelle, tutte mal maritate, non avevo alcuna possibilità di fare una buona impressione sulla famiglia di E-
lena, il cui rango era decisamente superiore. «Potevi scrivere prima» protestò Petronio, immusonito. «Ero troppo occupato. Quando ho scritto, avevo appena percorso a rotta di collo ottocento miglia attraverso la Spagna, per sentirmi dire che il parto era difficile ed Elena in condizioni disperate. Ho temuto di perdere sia lei che la bambina. La levatrice era lontana, a metà strada tra noi e la Gallia, Elena era esausta e le ragazze che viaggiavano con noi erano terrorizzate. Ho fatto nascere io stesso la bambina... e credo che mi ci vorrà un bel po' di tempo per riprendermi dallo choc!» Petronio rabbrividì. Pur essendo lui stesso padre devoto di tre figlie, era per natura prudente e schizzinoso. Quando Arria Silvia aveva partorito, l'aveva mandato via finché le grida non fossero cessate. Era quella la sua idea di vita familiare. Non avrei ottenuto alcun riconoscimento per la mia impresa. «E così l'hai chiamata Giulia Giunilla. Ha preso il nome da entrambe le nonne? Falco, tu sai davvero come procurarti delle bambinaie gratis.» «Giulia Giunilla Laietana» lo corressi. «Hai dato a tua figlia il nome di un vino?» Finalmente c'era una nota di ammirazione nella sua voce. «È la regione nella quale è nata» dichiarai con orgoglio. «Che astuto bastardo!» adesso era invidioso. Sapevamo entrambi che Arria Silvia non gliel'avrebbe mai permesso. «Allora, dov'è Silvia?» lo stuzzicai. Petronio tirò un lungo respiro e alzò gli occhi al cielo. Mentre lui cercava rondini, io mi chiesi quale fosse il problema. L'assenza della moglie e delle figlie alla nostra festa era un fatto sorprendente: le nostre famiglie cenavano spesso insieme. Una volta eravamo perfino sopravvissuti a una vacanza, anche se non era stato facile. «Dov'è Silvia?» ripeté Petro fra sé e sé, come se la domanda incuriosisse anche lui. «Spero che la storia sia convincente.» «Esilarante, direi.» «Allora sai dov'è?» «A casa, credo.» «Non ne vuole più sapere di noi?» Sarebbe stato troppo sperarlo. Non ero mai piaciuto a Silvia. Riteneva che io avessi una pessima influenza su Petronio, il che ovviamente era un'autentica calunnia: Petro era sempre stato perfettamente in grado di ficcarsi nei guai da solo. Tuttavia, cercavamo
di andare tutti d'accordo, sebbene Elena e io non la sopportassimo troppo. «Non ne vuole più sapere di me» precisò Petro. Si avvicinava un operaio. Caso tipico. Indossava una tunica con una manica sola, sollevata sopra la cintura, e portava un secchio malandato. Veniva a pulire la fontana, ed era palese che sarebbe stato un lavoro lungo, ma naturalmente arrivava alla fine della giornata lavorativa, perciò senza dubbio avrebbe lasciato il lavoro a metà, senza più tornare. «Lucio, amico mio» affrontai Petro in tono severo, perché sapevo che, se quel tipo fosse riuscito a convincere la fontana a riempirsi, avremmo dovuto abbandonare il nostro posto. «Mi vengono in mente diverse ragioni... quasi tutte di sesso femminile... per cui Silvia possa aver bisticciato con te. Di chi si tratta?» «Di Milvia.» La mia non era una domanda seria. Inoltre, credevo che con Balbina Milvia avesse smesso di amoreggiare già da parecchi mesi. Se avesse avuto un po' di buonsenso, non avrebbe nemmeno iniziato. D'altra parte, quando mai il buonsenso ha impedito a un uomo di correre dietro a una ragazza? «Milvia è un gran brutto affare, Petro.» «È quello che mi ha detto Silvia.» Balbina Milvia aveva circa vent'anni. Era straordinariamente graziosa, delicata come un bocciolo di rosa irrorato di rugiada, una piccola fonte di guai, dolce e dai capelli scuri, che Petro e io avevamo incontrato nel corso del nostro lavoro. Possedeva quel tipo di innocenza che vien voglia di istruire, ed era sposata con un uomo che la trascurava. Era anche la figlia di un malvagio criminale, un delinquente che Petronio aveva arrestato e che alla fine io avevo contribuito a eliminare. Attualmente suo marito Florio faceva timidi tentativi di mettere le mani sull'attività criminale della famiglia, mentre sua madre Flaccida tramava per derubare il genero. Era una strega dal volto crudele per la quale far uccidere gli uomini che le intralciavano la via era poco più di un passatempo, e prima o poi sarebbe toccato anche a Florio. Date le circostanze, Milvia dava l'impressione di avere bisogno di conforto ma, se nella sua veste di ufficiale dei Vigili Petronio Longo correva un grosso rischio a offrirle il suo aiuto, come marito di Arria Silvia, un osso duro con cui bisognava fare i conti in qualunque momento, stava semplicemente facendo una pazzia. Avrebbe piuttosto dovuto lasciare che la deliziosa Milvia se la cavasse da sola.
Fino a quel giorno avevo fatto finta di non saperne niente: Petro non mi avrebbe comunque dato ascolto. Non mi aveva mai ascoltato nemmeno nell'esercito, quando metteva gli occhi su qualche formosa ragazza celta con un corpulento padre britannico dai capelli rossi e il carattere irascibile, e tanto meno l'aveva fatto in seguito, quando eravamo tornati a Roma. «Non sei innamorato di Milvia, vero?» Petronio parve sorpreso da quella domanda. Sapevo di andare sul sicuro suggerendo che la sua scappatella non fosse una cosa seria. La cosa seria per Petronio Longo era essere il marito di una ragazza che gli aveva portato una dote considerevole (e che gli sarebbe toccato restituire se lei avesse chiesto il divorzio) ed essere il padre di Petronilla, Silvana e Tadia, che adorava e per cui stravedeva. Ne eravamo tutti consapevoli, ma convincere Silvia sarebbe stato tutto un altro paio di maniche, soprattutto se avesse sospettato dell'esistenza della piccola e dolce Milvia. Silvia era sempre stata capace di farsi valere. «Allora, qual è la situazione?» «Silvia mi ha cacciato di casa.» «Sai che novità!» «È successo più di due mesi fa.» Fischiai. «Adesso dove vivi, allora?» Non con Milvia, che era sposata con Florio, un uomo così pavido che nemmeno le sue donne si prendevano il disturbo di bistrattarlo, ma che si teneva ben stretta Milvia perché la sua, di dote, frutto dei proventi del crimine organizzato, era di certo enorme. «Sto in caserma.» «Forse sono più ubriaco di quanto pensassi, ma mi era parso di capire, da come hai esordito, che ti avessero sospeso.» «Già, è diventato piuttosto complicato intrufolarmi quando ho voglia di schiacciare un pisolino» ammise Petro. «A Martino sarebbe piaciuto moltissimo impedirtelo.» Martino era stato il vice di Petro. Un pignolo in fatto di regolamenti, soprattutto quando questi gli consentivano di oltraggiare qualcun altro. «È stato promosso e trasferito alla Sesta, vero?» Petro riuscì perfino a sogghignare. «L'ho proposto io stesso.» «Povera Sesta! E chi è salito di grado nella Quarta? Foscolo?» «Foscolo è eccezionale.» «Finge di non vederti?» «Macché. Mi ordina di andarmene. È convinto che ereditando il posto di Martino se ne debba assumere anche l'atteggiamento .»
«Per Giove! Quindi non sai dove dormire?» «Volevo andare a pensione da tua madre.» Mamma e Petronio erano sempre andati perfettamente d'accordo. Ci prendevano gusto a complottare, criticando me. «Mamma ti ospiterebbe volentieri.» «Non posso chiederglielo. Dà ancora alloggio ad Anacrite.» «Non parlarmi di quel bastardo!» Detestavo l'inquilino di mia madre. «Il mio vecchio appartamento è vuoto» suggerii. «Speravo che lo dicessi.» «È tutto tuo. Purché» aggiunsi maliziosamente «tu mi spieghi come mai, se parliamo di una lite con tua moglie, ti ritrovi anche sospeso dalla Quarta. Quando mai Rubella ha avuto motivo di accusarti di slealtà?» Rubella era il tribuno a capo della Quarta, diretto superiore di Petro. Era un rompiscatole, ma, a parte questo, una persona onesta. «Silvia si è presa il disturbo di informare Rubella che ero invischiato con la parente di un criminale.» Ebbene sì, se l'era andata a cercare, ed era davvero un bel guaio. Petronio Longo non avrebbe potuto scegliersi un'amante peggiore: una volta informato della relazione, Rubella non aveva avuto altra scelta che sospenderlo dal servizio. Sarebbe stata già una fortuna se fosse riuscito a conservare il lavoro. Arria Silvia se ne rendeva certamente conto; per mettere a rischio il loro sostentamento doveva essere davvero furiosa. Sembrava che il mio vecchio amico stesse per perdere anche la moglie. Eravamo troppo abbattuti per continuare a bere, e comunque l'anfora era quasi vuota, ma in quello stato di depressione non eravamo nemmeno pronti a tornare casa. A dire il vero, il dipendente dell'acquedotto non ci aveva chiesto di toglierci dai piedi, così restammo dov'eravamo mentre lui si sporgeva per pulire il getto a forma di conchiglia con una disgustosa spugna attaccata a un bastone. La cosa non funzionò, così frugò nella sua borsa degli attrezzi in cerca di un pezzo di filo metallico, che infilò nel getto cominciando a raschiare. Ne uscì un po' di acqua sporca, e poi pian piano l'acqua cominciò a sgorgare mentre l'operaio continuava ad armeggiare con il filo. Petronio e io ci tirammo su di malavoglia. A Roma la pressione dell'acqua è bassa, ma a lungo andare la vasca delle fontane si riempie, dopodiché l'acqua tracima, fornendo al vicinato la provvista per uso domestico ma formando anche un rivolo interminabile che trascina via la sporcizia
dalle strade lungo i canali di scolo. Il Vicolo dei Sarti ne aveva un gran bisogno ma, per quanto fossimo ubriachi, non volevamo ritrovarci in mezzo. Petronio applaudì l'operaio con una nota di scherno. «Tutto lì?» «Si è bloccato mentre era fuori servizio, legato.» «Perché era fuori servizio?» «La conduttura di distribuzione era vuota. Un'ostruzione al castello dell'acquedotto.» L'uomo rovistò con la mano nel secchio che aveva portato con sé, come un pescatore che cerca di afferrare un granchio. Ne estrasse un oggetto annerito e lo tenne sollevato per l'unica appendice, simile a un artiglio, in modo che potessimo esaminarlo brevemente: un oggetto consunto e difficile da identificare, ma sgradevolmente familiare. Lo rigettò nel secchio, dove atterrò con un tonfo sorprendentemente pesante. Decidemmo entrambi di ignorarlo: ci saremmo risparmiati un sacco di problemi. Ma poi Petro mi guardò di traverso. «Aspetta un momento!» esclamai. L'operaio cercò di rassicurarci. «Non c'è motivo di farsi prendere dal panico, legato. Capita continuamente.» Petronio e io ci avvicinammo e guardammo in fondo al lurido secchio di legno. Un odore nauseabondo ci diede il benvenuto. La causa dell'ostruzione alla torre dell'acqua adesso riposava su un letto di fango e rifiuti. Era una mano umana. II Nessuno dei miei parenti aveva avuto la cortesia di andarsene. Al contrario, ne erano arrivati altri. L'unica buona notizia era che fra i nuovi arrivati non c'era mio padre. Le mie sorelle Allia e Galla trovarono un pretesto per allontanarsi risentite non appena ricomparvi, i loro mariti, invece, Veronzio e quel poco di buono di Lollio, rimasero tranquillamente seduti. Giunia era schiacciata in un angolo con Gaio Bebio e il loro figlio sordo, occupati, come d'abitudine, ad atteggiarsi a famigliola perfetta in modo da evitare contatti con chiunque altro. Micone, il vedovo di Vittorina, sorrideva stupidamente e aspettava invano che qualcuno gli dicesse com'era venuta su bene la sua orribile prole. Famia, l'ubriacone, era ubriaco. Sua moglie Maia era nella stanza sul retro e aiutava Elena a riordinare. C'erano diversi bambini annoiati, che nondimeno si davano da fare prendendo a calci, con i calzari
sporchi, le pareti pitturate di fresco. Tutti i presenti si rallegrarono quando videro che mi facevo coraggio. «Ciao, mamma. Vedo che ti sei portata un servitore.» Se fossi stato avvertito in anticipo, avrei assoldato dei tipi robusti per buttare fuori quell'individuo, magari un paio di gladiatori a cui non sarebbe dispiaciuto arrotondare, con il preciso ordine di non lasciarlo entrare e, per fargli capire meglio l'antifona, con il permesso di spezzargli entrambe le braccia. Mia madre mi guardò accigliata. Era una vecchietta minuscola, con gli occhi neri, capace di razziare i mercati peggio di un'orda di barbari. Teneva in braccio la mia bimba di pochi mesi, che aveva incominciato a strillare non appena mi aveva visto entrare. Ma il motivo della contrarietà di mia madre non era il pianto di Giulia alla vista di suo padre: avevo insultato il suo beniamino. Si trattava del suo pensionante, Anacrite. Sembrava un tipo tranquillo, ma avere a che fare con lui era piacevole come entrare in un porcile trascurato da mesi. Lavorava per l'imperatore: era la Prima spia. Era un uomo pallido, silenzioso e ridotto a uno spettro in seguito a una grave ferita alla testa che sfortunatamente non l'aveva finito. Mia madre gli aveva salvato la vita e ora si sentiva in dovere di trattarlo come uno straordinario semidio che valeva la pena preservare. Lui accettava con aria compiaciuta tutte quelle attenzioni, mentre io digrignavo i denti. «Sii educato e saluta il tuo amico, Marco.» Salutarlo? E poi non era affatto un mio amico. Una volta aveva complottato di farmi uccidere, anche se, naturalmente, non era per questo che lo detestavo. Molto più semplicemente, tra i miei amici non volevo un manipolatore subdolo e pericoloso con la moralità di una lumaca. Afferrai la bambina urlante. Lei smise di piangere, ma la cosa non sembrò impressionare nessuno. La bimba mi gorgogliava contro l'orecchio in un modo che, come ormai avevo imparato a mie spese, significava che mi avrebbe vomitato presto sulla tunica. La rimisi nella bella culla che le aveva costruito Petronio, pronto a fingere sorpresa nel caso l'avesse fatto realmente. Mamma incominciò a dondolare la culla e la crisi sembrò passare. «Ciao, Falco.» «Anacrite! Hai un aspetto orribile» gli dissi allegramente. «Ti hanno ricacciato dall'Oltretomba per paura che insozzassi la barca di Caronte?» Ero deciso a zittirlo prima che avesse l'opportunità di darmi addosso. «Come va lo spionaggio di questi tempi? Al Palatino si mormora che Claudio Leta stia cercando di soffiarti il posto.»
«Non credo. Leta è piuttosto inguaiato e sta ben attento a non farsi vedere.» Sogghignai astutamente. Claudio Leta era un ambizioso amministratore del Palazzo che sperava di inglobare Anacrite e la sua rete di spie nella propria sezione. I due erano alle prese con una lotta di potere che trovavo estremamente divertente... fintanto che potevo tenermene fuori. «Povero Leta!» esclamai beffardo. «Non si sarebbe mai dovuto immischiare in quella faccenda ispanica. Ho dovuto fare un rapporto all'imperatore che l'ha messo in cattiva luce.» Anacrite mi scrutò con attenzione. Anche lui vi era stato implicato, e in quel momento sicuramente si domandava che cosa potevo avere riferito su di lui a Vespasiano. Era ancora convalescente e all'improvviso un velo di sudore gli imperlò la fronte. Era preoccupato. La cosa mi dava una grande soddisfazione. «Anacrite non è ancora in condizioni per tornare al lavoro.» Mamma ci riferì alcuni particolari che lo fecero arrossire per l'imbarazzo. Finsi di mostrargli comprensione, lasciandogli capire che ero felicissimo che avesse terribili mal di capo e anche problemi intestinali. Cercai di ottenere ulteriori particolari, ma mia madre capì al volo qual era il mio gioco. «Ha preso un congedo per malattia a tempo indeterminato, approvato dall'imperatore.» «Oh! Oh!» esclamai ironicamente, come a volere insinuare un riposo forzato. «Alcune persone colpite violentemente alla testa in seguito subiscono un cambiamento di personalità.» Non sembrava il suo caso. Ed era un vero peccato: un cambiamento non poteva che migliorarlo. «Ho portato con me Anacrite in modo che poteste scambiare due chiacchiere.» Mi sentii raggelare. «Adesso che sei diventato padre dovrai riorganizzare la tua attività» sentenziò mia madre. «Hai bisogno di un socio, di qualcuno che ti dia qualche suggerimento. Anacrite ti aiuterà a ingranare, quando si sentirà meglio.» Adesso ero io che mi sentivo male. Lucio Petronio, il mio fedele amico, mostrava furtivamente ai miei cognati, seduti in un angolo, la mano smembrata che era stata rinvenuta nella torre dell'acqua. Che sciacalli! Sempre in cerca di notizie sensazionali. «Macché!» sentii Lollio che si vantava. «Questo non è niente. Ne peschiamo di peggio nel Tevere tutte le settimane.» Alcuni figli delle mie sorelle notarono quell'oggetto raccapricciante e vi
si affollarono intorno per vederlo meglio. Petro si affrettò ad avvolgere la mano in un pezzo di straccio. Mi augurai che non fosse uno dei nostri nuovi tovaglioli ispanici. Era un pacchetto invitante, che attirò subito l'attenzione di Noce, la risoluta bastardina di strada che mi aveva adottato. La cagnolina si avventò con un balzo sul pacchetto. Tutti cercarono di afferrarlo. La mano cadde fuori dallo straccio e atterrò sul pavimento, dove fu raccolta da Mario, il figlio maggiore di mia sorella Maia, un ragazzino estremamente serio, che era entrato nella stanza proprio in quel momento. Quando vide il figlio di otto anni, di regola prudente, che annusava dei resti umani in avanzato stato di decomposizione sotto lo sguardo di approvazione di Lucio Petronio, la mia sorella preferita usò un linguaggio che non avrei mai immaginato conoscesse. Per lo più si rivolgeva a Petronio, ma ebbe una buona dose di improperi anche per me. Maia afferrò la caraffa di squisito olio di oliva che le avevo portato come regalo dalla Betica e poi lei, Famia, Mario, Anco, Clelia e la piccola Rea se ne andarono a casa. Be', se non altro si liberò un po' di spazio. Mentre tutti gli altri ridacchiavano e lanciavano occhiate furtive, Petro mi cinse le spalle con il braccio pesante e salutò con affetto mia madre. «Giunilla Tacita! Hai perfettamente ragione quando sostieni che Falco deve mettersi a lavorare con impegno. Io e lui stavamo giusto discutendo di questo. Lo sai, sembra un irresponsabile, ma si rende conto della situazione. Ha bisogno di rafforzare la sua attività, occuparsi di qualche caso redditizio e farsi una reputazione in modo che il lavoro continui ad arrivare.» Belle parole. Mi chiesi come mai non ci avessi mai pensato. Ma Petronio non aveva ancora finito. «Abbiamo trovato la soluzione ideale. Intanto che mi prendo un periodo di riposo dai Vigili, mi trasferirò nel suo vecchio appartamento... e gli darò io stesso una mano in qualità di socio.» Sorrisi ad Anacrite in modo caritatevole. «Peccato, sei in ritardo. Temo che il posto sia già occupato. Una vera sfortuna!» III Quando gettammo l'involto sul tavolo dell'ufficio, Foscolo allungò con impazienza la mano per afferrarlo. Aveva sempre avuto un grande appetito e pensò che gli avessimo portato uno spuntino. Lasciammo che l'aprisse. Per un attimo pensò che si trattasse di un nuovo tipo di salsiccia fredda
particolarmente appetitoso, poi balzò indietro, strillando. «Bleah! Dove siete andati a giocare, voi due furfanti? A chi appartiene questo... affare?» «Chi lo sa?» Petronio aveva avuto tutto il tempo di abituarsi alla mano smembrata, e mentre il gioviale Foscolo era ancora pallido come un cencio, lui poteva mostrarsi indifferente. «Nessun anello con il nome di un innamorato, nessun tatuaggio celtico fatto con il guado... è così gonfia e deforme che non si capisce nemmeno se sia di un uomo o di una donna.» «Una donna» ipotizzò Foscolo. Si vantava della propria esperienza professionale. La mano, a cui mancavano quattro dita, era così gonfia, dopo essere stata nell'acqua, che in realtà non c'erano elementi a sostegno della sua ipotesi. «Come va il lavoro?» s'informò Petronio con fervore. Mi era già chiaro che come socio avrebbe avuto ben altro a cui pensare. «Benissimo, prima che voi due piombaste qui dentro.» Ci trovavamo nella caserma della Quarta coorte. Era in gran parte destinata a magazzino per l'attrezzatura antincendio, dal che si deduceva quale fosse il principale compito dei Vigili. Corde, scale a pioli, secchi, grosse stuoie di sparto, picconi e asce, oltre alla macchina per il pompaggio, erano tutti pronti all'azione. C'era una piccola cella spoglia nella quale, all'occasione, si scaraventavano piromani e ladri, e una stanza dove i vigili in servizio potevano giocare a dadi o, se preferivano, pestare a sangue i ladri e i piromani. A quell'ora abitualmente entrambe le stanze erano vuote. La cella veniva usata di notte, e la mattina il suo miserabile contenuto umano veniva rilasciato su cauzione o spedito all'ufficio del tribuno per un regolare interrogatorio. Dal momento che la maggior parte dei crimini avviene con il favore delle tenebre, di giorno il personale era ridotto all'osso. In quel momento i Vigili erano in giro in cerca di indiziati... o seduti su una panchina al sole. Non lasciatevi ingannare, però. La vita dei vigili era dura e pericolosa. Molti di loro erano stati schiavi pubblici, arruolatisi perché alla fine del servizio, se fossero sopravvissuti, avrebbero ottenuto i pieni diritti civili. La ferma ufficiale era di sei anni soltanto. I soldati delle legioni prestavano servizio almeno per venti. C'era un valido motivo per un arruolamento così breve: non erano molti i vigili che raggiungevano la fine della ferma. Tiberio Foscolo, il migliore degli agenti scelti di Petro, che al momento lo rimpiazzava, ci osservò con circospezione. Era un individuo grassoccio e gioviale, un po' pelato, che godeva di ottima salute ed era estremamente
perspicace. Nutriva un'autentica passione per la teoria del crimine, ma dal modo in cui spinse via la mano gonfia capimmo che molto volentieri avrebbe archiviato la faccenda fra i casi irrisolti. «Allora, che cosa volete che ne faccia?» «Che ne trovi il resto?» suggerii. Foscolo mi rivolse un'occhiata beffarda. Petronio esaminò l'oggetto. «È evidente che è rimasta per molto tempo nell'acqua» osservò in tono contrito. «Ci è stato riferito che è stata rinvenuta in un castello dell'Aqua Appia, dove ostruiva una conduttura, ma potrebbe essere arrivata lì da qualunque altro posto.» «La maggior parte delle persone viene cremata» osservò Foscolo. «In qualche villaggio delle province può anche succedere che un cane scavando dissotterri una mano umana, ma a Roma i cadaveri non vengono sepolti.» «Questa faccenda puzza» concordò Petro. «Se qualcuno, probabilmente una donna, è stato fatto fuori, come mai non c'è stato nessun clamore?» «Probabilmente perché le donne vengono fatte fuori continuamente» spiegò Foscolo, cercando di rendersi utile. «Sono i loro mariti o gli amanti a ucciderle e, quando si svegliano sobri, crollano in preda al rimorso e si precipitano qui a confessare, oppure trovano la pace e la tranquillità così piacevoli che non ci pensano neanche a sollevare clamore.» «Tutte le donne hanno amiche ficcanaso» fece notare Petro. «Molte di loro hanno madri impiccione, alcune si prendono cura di vecchie zie che, se restassero sole, andrebbero in giro per le strade maestre a spaventare gli asini. Per non parlare dei vicini.» «Già, e poi i vicini vengono da noi a riferire l'accaduto» ribatté Foscolo. «Noi andiamo a casa e interroghiamo il marito. Lui ci risponde che i vicini sono dei disgustosi bastardi che lanciano accuse malevole, poi afferma che la moglie è andata a trovare dei parenti ad Antium. A quel punto gli raccomandiamo di riferire alla moglie di passare da noi per una conferma non appena rientra. Archiviamo la denuncia, la donna non si presenta, ma non abbiamo mai il tempo di proseguire le indagini perché nel frattempo sono successe altre venti cose. In ogni caso, il marito è ormai lontano.» Non aggiunse «e buon per lui», ma il tono era eloquente. «Non rifilarmi le solite scuse! Non sono qui in veste di cittadino.» Petronio scopriva sulla sua pelle come doveva sentirsi la gente comune quando osava presentarsi al suo ufficio. Sembrava contrariato, probabilmente con se stesso, per non esservi preparato.
Foscolo fu assolutamente cortese. Da quindici anni ormai scoraggiava la gente con qualche pretesto. «Se un crimine c'è stato, potrebbe essere avvenuto ovunque, signore, e le possibilità di recuperare il resto del corpo sono praticamente nulle.» «La faccenda non ti entusiasma» indovinai. «Quale ingegno!» «La prova è stata trovata sull'Aventino.» «Sull'Aventino si trova un sacco di sporcizia» ribatté Foscolo sbuffando acidamente, quasi ci volesse includere in quella categoria. «Questa non è una prova, Falco. La prova è un elemento importante che getta luce su un incidente noto, rendendo possibile un procedimento giudiziario. Non sappiamo da dove venga questo misero pugno, e scommetto che non lo sapremo mai. Se ti interessa il mio parere» continuò, pensando evidentemente di avere trovato una buona soluzione, «deve aver inquinato le riserve idriche, quindi rintracciare le altre parti del corpo è un problema che riguarda il comitato delle acque. Riferirò il ritrovamento. Tocca al curatore degli acquedotti decidere quali provvedimenti prendere.» «Non fare lo stupido» ironizzò Petro. «Quando mai qualcuno del comitato delle acque ha dato prova di iniziativa? Sono tutti troppo occupati a imbrogliare.» «Minaccerò di denunciarne qualcuno. Si sa quando torni al lavoro, capo?» «Chiedilo a Rubella» grugnì Petro. Tuttavia, sapevo che il tribuno aveva ordinato al mio stupido amico di mollare la figlia del malvivente prima di farsi rivedere in giro per la coorte, e, a meno che non mi fossi perso qualcosa, Petro non aveva ancora detto addio a Milvia. «Ho sentito che al momento ti sei messo in affari con Falco...» Per essere un uomo affabile, Foscolo sembrava piuttosto sostenuto. La cosa non mi sorprendeva affatto. Gli investigatori hanno una pessima reputazione fra i cittadini, e sono odiati in particolare dai vigili. Le coorti compilano elenchi con i nostri nomi, per poi bussare a casa nostra nel bel mezzo di una cena e trascinarci via per interrogarci senza un motivo particolare. I servitori dello stato detestano sempre chi viene retribuito in base ai risultati ottenuti. «Gli sto solo dando una mano in modo informale. Perché? Senti la mia mancanza?» domandò Petro. «No, mi sto solo chiedendo quando potrò fare domanda per il tuo posto.» Era stato detto a mo' di scherzo, ma la verità era che se Petronio Longo non si fosse sbrigato a rimettere ordine nella propria vita privata, lo
scherzo sarebbe diventato una cosa seria. Avvertirlo, tuttavia, avrebbe soltanto peggiorato le cose. Petronio era cocciuto, e aveva sempre avuto la tendenza a ribellarsi all'autorità. Per questo eravamo amici. La Quarta gestiva un raccapricciante museo che per mezzo denario mostrava alla plebe i suoi tesori. I proventi erano destinati alle vedove dei membri della coorte. Lasciammo lì la mano, dicendoci che la cosa ormai non ci riguardava più. Dopodiché, Petronio e io c'incamminammo lungo il Circo Massimo per raggiungere il Foro, dove avevamo appuntamento con un muro. IV Se avessi avuto un po' di buonsenso, avrei troncato sul nascere la nostra società mentre eravamo ancora in piedi di fronte al muro. Avrei spiegato a Petro che, sebbene gli fossi grato per la sua offerta, il modo migliore per salvaguardare la nostra amicizia sarebbe stato che lo lasciassi dormire nel mio appartamento e basta. Avrei lavorato con qualcun altro. Anche con Anacrite, al limite. Gli auspici si rivelarono pessimi fin dall'inizio. Il metodo abituale con cui reclamizzavo le mie prestazioni professionali era di arrivare ai piedi del Campidoglio, cancellare rapidamente l'annuncio affisso nel punto migliore del Tabularium e poi scribacchiare con qualche veloce tratto di gesso qualunque messaggio faceto mi venisse in mente. Petronio Longo aveva un approccio alla vita più serio. Aveva già preparato il testo. Ne aveva buttate giù parecchie versioni (ne vidi traccia sulle sue tavolette) e intendeva riportare la prescelta in uno stile meticoloso, circondando l'iscrizione con una greca variamente modulata. «Non serve a niente farlo così bello.» «Non essere sempre così trascurato, Falco.» «Gli edili lo cancelleranno comunque.» «Dobbiamo fare le cose nel modo giusto.» «No, dobbiamo evitare di essere visti mentre lo facciamo.» Scrivere con il gesso sui monumenti nazionali potrà anche non essere un reato incluso nelle Dodici Tavole, ma può comunque regalare una bella fustigata. «Intendo farlo così.» «Posso scrivere il mio nome e accennare ai divorzi e al recupero di opere d'arte rubate.» «Non ci diletteremo di arte.»
«Ma è la mia specialità.» «Per questo non guadagni mai niente.» Probabilmente era vero. Le persone che avevano perduto oggetti di valore erano restie a sborsare altro denaro, e quelli che perdevano oggetti d'arte erano spesso degli spilorci. Non a caso non li proteggevano con serrature adeguate e guardiani scrupolosi. «D'accordo, Pitagora, qual è la tua filosofia? Quali straordinarie prestazioni professionali dovremmo offrire?» «Lasciamo perdere gli esempi. Dobbiamo allettare il pubblico. Dovremmo suggerire che ci occupiamo praticamente di tutto. Quando arriveranno i clienti, elimineremo quelli che non valgono nulla e li passeremo a qualche investigatore da strapazzo dei Saepta Julia. Noi saremo Didio Falco & Socio...» «Ah, tu resti anonimo?» «Devo.» «Allora rivuoi indietro il tuo lavoro?» «Non ho mai detto che intendevo rinunciarvi.» «La mia era solo una domanda. Non lavorare con me se disprezzi il mio genere di vita.» «Chiudi un attimo il becco. Falco & Socio: un servizio esclusivo per clienti oculati.» «Sembra la pubblicità di un bordello a buon mercato.» «Abbi fede, ragazzo.» «O di un calzolaio dai prezzi esorbitanti. Falco & Socio: provate le nostre pantofoline di pelle di vitello con tripla cucitura. Indossate da tutti gli sfaccendati decadenti, un autentico lusso nell'arena, perfette e riposanti per le orge...» «Sei un individuo abietto, Falco.» «Va bene strizzare l'occhio, ma se non fornisci qualche garbato accenno al fatto che svolgiamo delle indagini, e che gradiremmo essere pagati per questo, non otterremo alcun incarico.» «Ascolta... In casi particolari è possibile usufruire dell'assistenza personale dei soci. Questo suggerisce che siamo una solida organizzazione con parecchio personale a farsi carico delle questioni meno importanti. In questo modo possiamo blandire ogni cliente, inducendolo a credere che solo lui riceve un trattamento di favore, per il quale naturalmente paga una cifra maggiore.» «Hai un'opinione un po' stravagante del mondo dei liberi professionisti.»
Si capiva che la cosa lo divertiva. «Ascolta, scrivano, non hai ancora detto...» «Sì, invece. È nella bozza. Indagini specialistiche. Poi in fondo, in caratteri più piccoli, ci aggiungo: Nessun onere per una consultazione preliminare. Questo li convincerà a venire, pensando di ottenere qualcosa per niente, ma lascia intendere che per il resto la nostra parcella sarà salata.» «Le mie parcelle sono sempre state ragionevoli.» «Chi è lo stupido, allora? Per metà del tempo ti lasci abbindolare a lavorare per niente. Sei troppo indulgente, Falco.» «Non più, a quanto pare.» «Su, fammi un po' di spazio. Non essermi d'impaccio.» «Incominci già a comandare» l'accusai. «L'attività è mia, ma cerchi già d'importi.» «È a questo che servono i soci» ridacchiò Petro. Gli spiegai che avevo un altro appuntamento da un'altra parte. «Allora rimandalo» borbottò lui, totalmente assorbito dal suo lavoro. V Per l'altro appuntamento, mi era stata fornita una scorta ufficiale: la mia fidanzata, nostra figlia e Noce, la mia cagnolina. Ero in ritardo. Le trovai sedute sui gradini del Tempio di Saturno, un luogo molto frequentato, all'estremità settentrionale del Foro sul lato del Palatino. Erano tutte accaldate. La bambina doveva essere allattata, la cagnolina abbaiava ai passanti ed Elena Giustina aveva sfoderato la sua espressione esageratamente tollerante. Sapevo che cosa aspettarmi. «Mi dispiace. Sono passato alla Basilica per far sapere agli avvocati che sono tornato. Può darsi che mi chiedano di consegnare i soliti mandati di comparizione.» Elena era convinta che fossi stato in osteria. «Non preoccuparti» ribatté. «Mi rendo conto che registrare la nascita di tua figlia non è una priorità in una vita così piena.» Diedi una carezza al cane, baciai Elena sulla guancia rovente e feci il solletico alla bambina. Quel gruppetto irritabile e accaldato era la mia famiglia. Avevano già capito che il mio ruolo di capofamiglia consisteva nel farle aspettare in luoghi disagevoli mentre io gironzolavo per Roma, spassandomela. Fortunatamente Elena, il loro tribuno della plebe, risparmiava i com-
menti per quando avrebbe avuto a disposizione un servizio da cucina completo con cui suonarmele. Era un sogno di ragazza, alta, ben tornita, con i capelli scuri e i vivaci occhi castani la cui espressione tenerissima era in grado di farmi sciogliere come una torta al miele lasciata sul davanzale in pieno sole. Perfino l'occhiata feroce che mi rivolgeva in quel momento mi scuoteva le viscere. Una violenta lite con Elena era la cosa più divertente che avessi sperimentato, a parte portarla a letto. Il Tempio di Saturno si trova fra il Tabularium e la Basilica Giulia. Avevo intuito che Elena Giustina mi avrebbe aspettato al tempio, così quando avevo lasciato Petro avevo svoltato nella Via Nova onde evitare di essere visto. Detesto gli avvocati, ma il loro lavoro per me poteva fare la differenza fra la sopravvivenza e la rovina. Detto francamente, la mia situazione finanziaria era disperata. Non dissi nulla, per non preoccupare Elena. Lei mi guardò di sottecchi, sospettosa. Cercai di infilarmi la toga lì in bella vista, mentre Noce balzava sulle ingombranti pieghe del tessuto di lana, pensando che fosse un gioco che avevo escogitato proprio per lei. Elena non cercò nemmeno di aiutarmi. «Non ho bisogno di vedere la bambina» sospirò il segretario del censore. Era uno schiavo dell'imperatore e la sua sorte era piuttosto triste. Era costantemente raffreddato, a causa del continuo flusso di persone che andava e veniva dal suo ufficio. La sua tunica era appartenuta in passato a un uomo molto più grasso, e chiunque l'avesse sbarbato aveva avuto la mano pesante. Aveva lo sguardo furtivo tipico dei parti, cosa che a Roma non poteva avergli procurato molti amici. «Né la madre, suppongo?» domandò sbuffando Elena. «Ad alcune fa piacere venire.» Sapeva scegliere le parole giuste, se questo poteva evitargli una sfuriata. Sistemai Giulia Giunilla sulla sua scrivania, dove la piccola agitò le gambe e farfugliò. Aveva il dono di riuscire simpatica alla gente. Ormai aveva tre mesi e, secondo me, incominciava a diventare graziosa. Aveva perso quella fisionomia ancora immatura, schiacciata e con gli occhi chiusi, con cui i neonati spaventano i genitori inesperti. Quando avesse smesso di sbavare, sarebbe stata quasi adorabile. «Per favore, togli di lì la bambina» dichiarò con enfasi il segretario. Sarà stato anche abile con le parole, ma non era affatto cordiale. Srotolò un fascicolo di spessa pergamena, ne preparò una di qualità inferiore (la nostra copia) e si accinse a riempire una penna da un calamaio di inchiostro di
galla di quercia. Ne aveva di rosso e di nero. A noi riservò il nero. Mi chiesi quale fosse la differenza. Intinse la penna, poi l'accostò al bordo del calamaio per togliere l'inchiostro in eccedenza. I suoi gesti erano precisi e solenni. Elena e io vezzeggiammo nostra figlia mentre lui riportava diligentemente la data della registrazione che le avrebbe conferito status e diritti civili. «Nome?» «Giulia Giunilla...» Lui alzò bruscamente la testa. «Il tuo nome!» «Marco Didio Falco, figlio di Marco. Cittadino di Roma.» La cosa non fece affatto colpo su di lui. Doveva avere saputo che i Didii erano una massa di attaccabrighe e piantagrane. Può darsi anche che i nostri antenati avessero causato problemi a Romolo, ma essere oltraggiosi per secoli non conta affatto come lignaggio. «Condizione sociale?» «Plebea.» Lo stava già scrivendo. «Indirizzo?» «Corte della Fontana, dalle parti della Via Ostiense, sull'Aventino.» «Nome della madre?» Si rivolgeva ancora a me. «Elena Giustina» rispose sbrigativamente da sé la madre. «Nome del padre della madre?» Lo scrivano continuò a rivolgere a me le domande, così Elena si arrese con un digrignare dei denti perfettamente udibile. A che scopo sprecare il fiato? Lasciò che fosse un uomo a fare il lavoro. «Decimo Camillo Vero.» Mi resi conto che non avrei saputo rispondere se lo scrivano avesse chiesto il nome personale del padre di suo padre. Se ne rese conto anche Elena. «Figlio di Publio» borbottò, facendo capire che me lo stava dicendo in privato e che lo scrivano si sarebbe potuto accontentare. Lui lo annotò senza nemmeno un grazie. «Condizione sociale?» «Patrizia.» Lo scrivano alzò di nuovo la testa. Questa volta si prese la briga di osservarci attentamente entrambi. L'ufficio del censore è responsabile della moralità pubblica. «E dove vivi?» domandò, direttamente a Elena questa volta. «Corte della Fontana.» «Stavo solo verificando» mormorò lui, e riprese il lavoro. «Vive con me» feci notare, sebbene fosse superfluo. «A quanto pare.»
«Vuoi delle spiegazioni?» Lo scrivano alzò ancora una volta gli occhi dal documento. «Sono certo che siete entrambi perfettamente consapevoli delle implicazioni.» Oh, sì. E fra uno o due decenni ci sarebbero state sicuramente lacrime e bizze, quando avessimo cercato di spiegarle alla bambina. Elena Giustina era figlia di un senatore, mentre io appartenevo alla plebe. Era già stata sposata una volta, con un uomo della sua stessa condizione sociale. Un matrimonio infelice. Dopo il divorzio, aveva avuto la fortuna o la disavventura di incontrarmi e di innamorarsi di me. Dopo alcuni passi falsi, avevamo deciso di vivere insieme. Intendevamo rendere stabile la nostra relazione. Questa decisione faceva di noi una coppia sposata, dal punto di vista strettamente legale. Per la società, invece, costituivamo uno scandalo. Se l'eccellente Camillo Vero avesse deciso di causarmi problemi per avergli rubato la sua nobile figliola, la mia vita sarebbe potuta diventare molto ma molto difficile. E anche quella di Elena. La nostra relazione era affar nostro, ma l'esistenza di Giulia rendeva necessario un cambiamento. Tutti continuavano a chiederci quando ci saremmo sposati, ma per noi le formalità non erano affatto necessarie. Eravamo entrambi liberi di sposarci e, se decidevamo di vivere insieme, per la legge non c'era bisogno di altro. Avevamo anche preso in considerazione l'idea di negarlo; in quel caso, i nostri bambini sarebbero appartenuti alla classe sociale della madre, ma i vantaggi sarebbero stati solo teorici: fintanto che io fossi stato privo di titoli onorifici da sfoggiare in pubblico, i miei figli sarebbero rimasti invischiati nella melma esattamente come me. Di conseguenza, quando eravamo tornati dalla Spagna avevamo deciso di dichiarare pubblicamente la nostra posizione. Elena era scesa al mio livello. Sapeva quello che faceva: conosceva il mio stile di vita, e ne aveva affrontato le conseguenze. Alle nostre figlie sarebbe stato impedito di contrarre un buon matrimonio. I nostri figli non avrebbero avuto alcuna possibilità di ricoprire cariche pubbliche, indipendentemente da quanto il loro nobile nonno potesse desiderare di vederli un giorno candidarsi a un'elezione. Le classi elevate li avrebbero rifiutati, e anche i plebei li avrebbero probabilmente disprezzati, considerandoli degli estranei. Per il bene di Elena Giustina e dei nostri figli, avevo accettato di impegnarmi a elevare la mia posizione: avevo cercato di ottenere la promozione alla classe equestre, che avrebbe ridotto al minimo le difficoltà. Il tentativo
era stato un disastro, e non intendevo rendermi nuovamente ridicolo. Tuttavia, gli altri erano decisi a costringermi a farlo. Il segretario del censore mi esaminò come se ci stesse ripensando. «Hai provveduto al censimento?» «Non ancora.» L'avrei evitato, se possibile. Lo scopo del nuovo censimento di Vespasiano non era di fare un calcolo della popolazione per pura curiosità burocratica, ma di valutare il patrimonio allo scopo di tassarlo. «Sono stato fuori Roma.» Lui mi rivolse la solita espressione che diceva: "È quello che sostengono tutti". «Servizio militare?» «Incarichi speciali.» Visto che lui non indagava oltre, aggiunsi, deciso a stuzzicarlo: «Non chiedermi di entrare nei particolari.» Lui non mostrò interesse. «Quindi non ti sei ancora presentato. Sei un capofamiglia?» «Sì.» «Padre deceduto?» «Non ho questa fortuna.» «Sei emancipato dall'autorità di tuo padre?» «Sì» mentii. Papà non si sarebbe mai sognato di fare qualcosa di così cortese. Comunque, per me non faceva alcuna differenza. «Didio Falco, per tua convinzione e conoscenza, e secondo le tue intenzioni, la tua unione può dirsi valida?» «Sì.» «Grazie.» Il suo interesse era superficiale. Me l'aveva chiesto soltanto per coprirsi le spalle. «Dovresti porre la stessa domanda anche a me» protestò aspramente Elena. «Soltanto i capofamiglia» intervenni, sorridendole. Elena considerava il proprio ruolo nella nostra famiglia almeno pari al mio. Io ero d'accordo, naturalmente, poiché sapevo quello che volevo. «Nome della bambina?» L'indifferenza dello scrivano lasciava intendere che di coppie mal assortite come la nostra se ne vedevano ogni settimana. Roma in effetti era considerata una cloaca morale, così probabilmente era vero, sebbene non avessimo mai incontrato nessun altro che corresse altrettanto apertamente i nostri stessi rischi. In primo luogo, la maggior parte delle donne nate nel lusso cerca di tenerselo ben stretto. In secondo luogo, la maggior parte degli uomini che cercano di irretirle viene pestata a sangue da schiere di schiavi nerboruti.
«Giulia Giunilla Laietana» risposi orgogliosamente. «Come si scrive?» «G... I...» Lui alzò la testa in silenzio. «L...» intervenne pazientemente Elena, come se fosse consapevole che l'uomo con il quale viveva era un idiota. «A... I... E... T... A... N... A.» «Tre nomi? Ma è una bambina?» Le donne, in genere, avevano soltanto due nomi. «Ha bisogno di un buon avvio nella vita.» Perché avevo la sensazione di dovermi scusare? Avevo il diritto di chiamarla come preferivo. Lo scrivano si accigliò. Per quel giorno, ne aveva avuto abbastanza di giovani genitori eccentrici. «Data di nascita?» «Sette giorni prima delle Calende di giugno.» Questa volta lo scrivano gettò la penna sul tavolo. Sapevo che cosa l'aveva messo in crisi. «Accettiamo registrazioni soltanto il giorno in cui viene imposto il nome!» Avrei dovuto imporre il nome a mia figlia entro otto giorni dalla nascita. (Per i maschi i giorni erano nove; come sosteneva Elena, gli uomini avevano bisogno di più tempo per tutto.) La consuetudine stabilisce che una famiglia si rechi al Foro per ottenere il certificato di nascita nello stesso momento. Giulia Giunilla era nata a maggio e ormai eravamo ad agosto. Anche lo scrivano aveva i suoi principi, e non avrebbe permesso una violazione delle regole così sfrontata. VI Mi ci volle un'ora per spiegare come mai mia figlia fosse nata nel Tarraconense. Non che ci fosse nulla di male, né tanto meno di insolito. Parecchi padri si recavano fuori Roma per commercio, perché impegnati nell'esercito, per affari imperiali, e le donne risolute (soprattutto quelle convinte che le ragazze straniere fossero la tentazione fatta persona) non esitavano ad accompagnarli. In estate, la maggior parte dei figli di famiglie rispettabili nasceva comunque in eleganti ville fuori Roma. Perfino nascere fuori dall'Italia era assolutamente accettabile: ciò che contava era solo la condizione sociale dei genitori. Non avevo nessuna intenzione di far perdere a mia figlia i diritti civili solo perché un'indagine per conto del Palazzo ci aveva allontanati nel momento sbagliato, costringendoci a dare alla luce
nostra figlia in un porto lontano mille miglia di nome Barcino. Avevo preso tutti i provvedimenti del caso: avevo radunato diverse donne nate libere in modo che presenziassero alla nascita e facessero da testimoni; avevo informato immediatamente il consiglio cittadino di Barcino (che mi aveva ignorato in quanto straniero) e avevo presentato una dichiarazione ufficiale alla residenza del governatore provinciale, a Tarraco, entro il limite di tempo prescritto. Il sigillo di quel bastardo sulla ricevuta sbavata era lì a dimostrarlo. Ma il problema era di tutt'altro genere. Come è noto, gli schiavi pubblici non ricevono alcuno stipendio ufficiale per le mansioni che svolgono, quindi ero venuto provvisto della consueta offerta; senonché lo scrivano era convinto che, se avesse fatto sembrare le cose più difficili, avrebbe potuto guadagnare una mancia più generosa del solito. Quell'ora di discussione doveva servire a convincerlo che non disponevo d'altro. L'uomo cominciava quasi a cedere quando Giulia si ricordò che doveva essere allattata: strizzò gli occhietti e strillò come se volesse esercitarsi per quando da grande mi avrebbe chiesto di andare a una festa che sapeva avrei disapprovato. Ottenne il certificato senza ulteriori indugi. Non c'è dubbio, Roma è una città per uomini. Sono rari i luoghi in cui una donna rispettabile può allattare un neonato senza dare troppo nell'occhio; forse perché la morale comune vuole che le donne rispettabili allattino i figli in casa. Un'idea che Elena non approvava affatto. Forse era colpa mia, dopotutto, che non le offrivo un domicilio più invitante. Non le andava nemmeno la prospettiva che la piccola poppasse nelle latrine delle donne, e non sembrava dell'umore giusto per prendere in considerazione l'offerta di recarsi alle terme. Così finimmo per noleggiare una lettiga, assicurandoci che fosse provvista di tende. Se c'era una cosa che mi seccava di più che pagare una lettiga era pagarla per non andare da nessuna parte. «Sta' tranquillo» mi blandì Elena. «Possiamo fare una gita, se ti va. Non è necessario che tu resti di guardia, tutto imbarazzato.» La bambina doveva pur mangiare. Inoltre, ero molto orgoglioso del fatto che Elena avesse deciso di allattare Giulia personalmente. La scelta le faceva onore, considerando che molte donne della sua condizione sociale lodavano l'idea, ma poi assumevano una balia. «Aspetterò.» «Ma no, chiedi agli uomini di portarci all'Atrio della Libertà» ordinò Elena, risoluta. «Che cosa c'è all'Atrio?»
«È lì che conservano ogni singolo documento dell'ufficio del censore, comprese le notifiche dei decessi.» Questo lo sapevo. «Chi è morto?» Avevo intuito quello che aveva in mente, ma non sopportavo di essere imbeccato. «È quello che devi scoprire, Marco.» «Scusa?» «La mano che avete trovato tu e Petro, no? Non intendo dire che riuscirai a rintracciarne il proprietario, ma deve pur esserci un segretario che sia in grado almeno di spiegarti qual è la procedura quando scompare una persona.» Le risposi che ne avevo avuto abbastanza di segretari, ma ci facemmo comunque trasportare fino all'Atrio della Libertà. Esattamente come gli addetti ai funerali, gli scrivani del registro dei decessi erano tipi allegri, l'esatto opposto della loro controparte che registrava le nascite. Ne conoscevo già un paio, tali Silvio e Brixio. Gli investigatori vengono spesso mandati agli archivi dell'Atrio dagli eredi e dagli esecutori testamentari. Era la prima volta, tuttavia, che mi trascinavo nel loro ufficio con appresso la mia nobile fidanzata, una neonata addormentata e una cagnolina curiosa. La presero bene, e pensarono che Elena fosse una cliente invadente che pretendeva di sorvegliare ogni mio movimento. A parte il fatto che non le avrei inviato il conto, non erano molto lontani dalla verità. Silvio e Brixio lavoravano nello stesso stanzino, scambiandosi battute di cattivo gusto e maneggiando rotoli di pergamena come se non avessero la minima idea di ciò che stavano facendo, ma tutto sommato erano due lavoratori efficienti. Silvio era sulla quarantina, smilzo e ben curato, mentre Brixio era più giovane, ed entrambi sfoggiavano lo stesso taglio di capelli corto e una cintura della tunica piuttosto elaborata. Era abbastanza evidente che avevano una relazione; dei due, Brixio era lo sdolcinato e voleva coccolare Giulia. Silvio, ostentando un'aperta irritazione, si occupò di me. «Sto cercando informazioni generiche, Silvio.» Gli riferii del ritrovamento della mano, spiegandogli che la cosa aveva incuriosito sia me sia Petronio. «Sembra un vicolo cieco. Se una persona scompare e di questo vengono informati i Vigili, loro prendono nota, ma non so per quanto tempo il caso verrà tenuto aperto, e preferisco non fare ipotesi. Che continuino o meno a indagare dipende da molte variabili. Ma non è questo il problema: il brandello in questione non è in condizioni di essere identificato. Può
anche darsi che sia vecchio di secoli.» «In che modo possiamo esserti utili?» domandò Silvio, sospettoso. Era uno schiavo pubblico che passava la vita a ingegnarsi ed escogitare metodi per deviare le richieste ad altri reparti. «Noi ci occupiamo di persone intere, non dei loro resti ripugnanti.» «Supponi che avessimo rinvenuto un corpo intero. Se fosse un individuo ignoto, e tale restasse, verrebbe registrato qui?» «No. Potrebbe trattarsi di uno straniero o di uno schiavo. Perché mai qualcuno dovrebbe volerne sapere qualcosa? Noi registriamo soltanto il decesso di cittadini romani identificati.» «D'accordo. Considera la faccenda da un altro punto di vista, allora. Che cosa succederebbe se qualcuno sparisse? Un cittadino, uno appartenente a una delle tre classi sociali? Quando i parenti angosciati arrivano al punto in cui devono per forza presumere che la persona sia morta, vengono da voi?» «È possibile. Dipende da loro.» «In che senso?» «Se vogliono una documentazione ufficiale della scomparsa, possono richiedere un certificato.» «Ma a che pro? Non vi sono pratiche per cui è necessario possederne uno.» Silvio consultò Brixio con un'occhiata. «Se la persona scomparsa è un capofamiglia, il certificato attesta che non è più tenuto a pagare le tasse, in virtù del fatto che ormai le paga direttamente a Caronte. La morte è il solo modo di evitarle.» «Molto divertente.» «Ma non è necessario un certificato ufficiale per il testamento?» intervenne Elena. Scossi la testa. «Gli esecutori possono decidere di aprirlo quando lo ritengono opportuno.» «E se facessero un errore, Marco?» «Se si notifica ai censori un falso decesso deliberatamente» le spiegai, «o se un testamento viene aperto consapevolmente prima del tempo, si tratta di un reato grave: furto e probabilmente cospirazione, nel caso del testamento. Un errore in buona fede verrebbe giudicato con clemenza, immagino. Voi che cosa fareste, per esempio, se una persona che è stata catalogata come morta ricomparisse all'improvviso?» Silvio e Brixio si strinsero nelle spalle, dichiarando che il problema a-
vrebbe riguardato i loro superiori, che, naturalmente, consideravano degli idioti. Ma non erano gli errori che mi interessavano. «Quando le persone vengono a registrare un decesso, non devono dimostrare che è avvenuto realmente?» «Non c'è bisogno di dimostrarlo, Falco. Fanno una dichiarazione ed è più che sufficiente. È loro dovere dire la verità.» «Ah già, l'onestà è un dovere!» Silvio e Brixio si mostrarono sdegnati per la mia ironia. «Non dovrebbe esserci un corpo?» Elena era particolarmente interessata a causa del fratello minore di suo padre, che era sicuramente morto ma a cui non era stato fatto alcun funerale in quanto il corpo era sparito. Cercando di dimenticare che ero stato proprio io a scaricare nella cloaca il cadavere in via di decomposizione dello zio traditore di Elena, onde evitare complicazioni per l'imperatore, dissi: «Possono esserci parecchie ragioni per cui il corpo risulta disperso. La guerra, la scomparsa in mare...» Era quello che aveva fatto credere la famiglia di Elena a proposito dello zio Publio. «O i barbari» scherzò Silvio. «La fuga con il fornaio» aggiunse Brixio, che era più cinico. «Be', questo è il genere di caso di cui sto parlando» dichiarai. «Qualcuno che scompare senza alcun motivo valido. Potrebbe essere un'adultera fuggita con l'amante... o una donna rapita e assassinata.» «A volte le persone decidono spontaneamente di sparire» osservò Brixio. «La pressione a cui sono sottoposte nella vita diventa insopportabile, così scappano. Magari tornano a casa... o magari no.» «Ma quindi che cosa succede se qualcuno ammette che un proprio parente non ha improvvisamente deciso di trasferirsi in una bara, ma è semplicemente sparito?» «Se è veramente convinto che la persona sia morta dovrebbe riferirlo e basta.» «Perché? Che cosa gli fate altrimenti?» s'informò sorridendo Elena. Lo scrivano sogghignò. «Sappiamo come rendere la vita estremamente difficile! Ma se le circostanze sembrano ragionevoli, rilasciamo un certificato nel modo consueto.» «Consueto?» domandai. «Come... senza alcuna stelletta a margine? Senza inchiostro di un colore diverso? Senza elencarlo in una pergamena speciale?»
«Ooh!» esclamò ad alta voce Silvio. «Falco vuole dare un'occhiata alla nostra pergamena speciale!» Brixio si appoggiò su un gomito, osservandomi scherzosamente. «Che pergamena speciale sarebbe, Falco?» «Quella nella quale elencate le denunce dubbie che in seguito potrebbero rivelarsi un problema.» «Diamine! Questa sì che è una buona idea. Potrei avanzare la proposta e convincere i censori a diffondere il sistema con un editto.» «Abbiamo già abbastanza sistemi» gemette Silvio. «Esatto. Ascolta, Falco» mi spiegò allegramente Brixio, «se qualcosa sembra sospetta, qualunque scrivano sano di mente la scrive come se non se ne fosse accorto. In quel modo, se mai dovessero esserci gravi ripercussioni, può sempre sostenere che al momento sembrava tutto assolutamente regolare.» «Quello che sto cercando di accertare» insistetti, pur rendendomi conto di non avere speranze, «è se qui da voi si potrebbero trovare informazioni utili, nel caso qualcuno sparisse da Roma.» «No» rispose Brixio. «No» concordò Silvio. «Il registro dei decessi è una tradizione ormai consolidata» proseguì Brixio. «A nessuno è mai venuto in mente che potesse servire realmente a qualcosa.» «Capisco.» Non stavo approdando a nulla, come se non ci fossi ormai abituato. Elena chiese a Brixio di restituirle la bambina e ce ne tornammo a casa. VII
Sapevo che a Elena era tornato in mente lo zio defunto. Dovevo cercare di evitare domande imbarazzanti, considerato il ruolo che avevo avuto nella sua sparizione. M'inventai la scusa che dovevo andare a controllare Petronio Longo. Visto che dovevo semplicemente recarmi dall'altro lato della strada, sembrava una cosa innocua, così lei acconsentì. Il mio vecchio appartamento, quello che ora avevo prestato a Petro, si trovava al sesto piano di un edificio veramente orribile. Quel tetro fabbricato di appartamenti in affitto era il dente marcio della Corte della Fontana; teneva lontana la luce con la stessa efficacia con cui teneva lontana la
felicità dei suoi inquilini. Lo spazio al piano terra era occupato da una lavanderia gestita da una donna di nome Lenia, che aveva sposato il padrone di casa, Smaractus. L'avevamo avvertita tutti di non farlo, e in realtà dopo circa una settimana fu la stessa Lenia a chiedermi se non pensassi che avrebbe fatto meglio a divorziare. Aveva dormito da sola per quasi tutta la settimana. Il suo disgustoso compagno era stato accusato di incendio doloso e incarcerato dai Vigili per via di certe torce della cerimonia per il matrimonio che avevano dato fuoco al talamo nuziale. Tutti l'avevano trovata una cosa spassosa, tranne Smaractus, che si era bruciacchiato ben bene. Dopo il rilascio era diventato intrattabile, un lato del suo carattere che, a detta di Lenia, era stato una completa sorpresa. Coloro fra di noi che da anni gli pagavano l'affitto la pensavano diversamente. Per il momento erano ancora sposati. Lenia aveva impiegato anni prima di decidere di dividere con lui la propria fortuna, ed era assai probabile che ne trascorressero altrettanti prima che lo mollasse. Nel frattempo, i suoi vecchi amici erano costretti ad ascoltare interminabili discussioni sull'argomento. Davanti all'entrata del caseggiato erano stesi i panni ad asciugare, che mi consentirono di passare alla chetichella e salire le scale prima che Lenia mi notasse. Ma Noce, quel puzzolente sacco di pulci, si precipitò avanti, abbaiando forsennatamente. Le ragazze chine sui mastelli e quelle che cardavano lanciarono grida furiose, dopodiché Noce corse nuovamente fuori trascinando una toga, inseguita da Lenia in persona. Era una furia, con gli occhi stralunati e i capelli in disordine, un po' appesantita ma con dei buoni muscoli, risultato di anni di lavoro. Dovendo stare tutto il giorno nell'acqua calda aveva mani e piedi gonfi e arrossati, e i capelli erano spudoratamente rossi. Ansimando leggermente, imprecò contro il mio cane, che scappò di corsa attraverso la strada. Lenia raccolse la toga. La scosse pigramente, cercando di non notare che si era nuovamente insudiciata. «Oh, sei tornato, Falco.» «Ciao, vecchia megera. Come vanno i panni sporchi? Rendono?» «Rendono la vita un inferno.» Aveva una voce che si sentiva quasi fino al Palatino, dolce come una tromba durante una parata di legionari. «L'hai detto tu a quel bastardo di Petronio che poteva dormire di sopra?» «Sì, gliel'ho detto io. Adesso lavoriamo insieme.» «Tua madre è stata qui con il suo cocco. A suo dire, lavorerai per lui.» «Lenia, sono almeno vent'anni che non faccio quello che mi dice mia
madre.» «Tutte spacconate, Falco!» «Io lavoro per me, e con le persone che scelgo io in base alla loro abilità, diligenza e affabilità.» «Tua madre sostiene che Anacrite si dimostrerà all'altezza.» «E io sostengo che può legarsi a una catapulta e lanciarsi oltre il Tevere.» Lenia scoppiò a ridere. C'era una nota beffarda nella sua allegria: conosceva l'influenza che mia mamma esercitava su di me... o credeva di conoscerla. Arrivai di sopra senza fiato, avendo ormai perso l'allenamento a salire tutte quelle scale. Petronio parve sorpreso che si trattasse solo di me. Per qualche motivo, supponeva che, avendo messo un annuncio straordinariamente allettante al Foro, sarebbe stato sommerso da raffinati clienti in cerca d'aiuto e ansiosi di richiedere assistenza legale. Naturalmente non era venuto nessuno. «Hai messo l'indirizzo?» gli domandai. «Non mettere il dito nella piaga, Falco.» «Allora?» «Sì.» Un'espressione indefinita balenò per un attimo sul suo volto. L'appartamento sembrava più angusto e trasandato che mai. C'erano due stanze, una per dormire e una per tutto il resto, e un balcone, da cui, secondo Smaractus, si godeva la vista sul fiume. Era vero, a condizione che si fosse disposti a trascorrere ore abbarbicati su quella sporgenza malferma. C'era spazio sufficiente per appollaiarvisi con una ragazza, ma era meglio non dimenarsi troppo, nel caso i supporti stessero per cedere. Le sole cose che avevo ritenuto valesse la pena portarmi via quando Elena e io ci eravamo trasferiti dall'altra parte della strada erano stati il letto, un antico tavolo a tre gambe che una volta Elena aveva acquistato per me e la nostra collezione di utensili da cucina (non esattamente un servizio imperiale). In quella casa quindi non c'era niente su cui dormire, ciononostante Petro era riuscito a crearsi un nido sul pavimento sistemando con cura alcune coperte che probabilmente conservava dai tempi in cui eravamo nell'esercito. Ai ganci che avevo infisso nel muro quando abitavo ancora lì erano appesi alcuni indumenti. Su uno sgabello giacevano disposti con pignoleria tutti i suoi oggetti personali: pettine, stuzzicadenti, strigile e fiasca di olio per le terme.
Nell'altra stanza non era cambiato molto. C'erano un tavolo, una panca, un piccolo ripiano di mattoni per cucinare, un paio di lumi e un secchio per l'acqua sporca. Sulla graticola della cucina notai una pentola perfettamente pulita che non riconobbi. Sul tavolo erano allineati una scodella rossa con una coppa uguale, un cucchiaio e un coltello. Assai più organizzato di quanto io fossi mai stato, Petronio aveva già comprato una pagnotta, uova, fagioli secchi, sale, pinoli, olive, un cespo di lattuga e una manciata di dolci al sesamo, di cui era ghiottissimo. «Entra. Allora, Marco, amico mio, è come ai vecchi tempi!» Mi sentii mancare. Naturalmente avevo nostalgia dei vecchi tempi: la libertà, le donne, le bevute e la spensieratezza priva di responsabilità. Era piacevole ripensare a quei momenti, ma la cosa finiva lì. Bisogna andare avanti, e se Petronio aveva in mente di tornare adolescente, erano fatti suoi. Io avevo ormai imparato ad apprezzare le coperte pulite e i pasti regolari. «Vedo che sai arrangiarti.» Mi chiedevo quanto tempo sarebbe durato il piacere della novità. «Non è mica necessario vivere nello squallore come facevi tu.» «Il mio stile di vita da scapolo era più che dignitoso.» Non poteva che essere tale, visto che allora passavo buona parte del mio tempo a declamare i fasti del mio appartamento nella speranza di adescare le donne. Naturalmente lo sapevano tutte che mentivo, ma il fascino che esercitavo le induceva ad aspettarsi almeno una certa qualità. In ogni caso, tutte quante avevano sentito dire che, anche dopo che me ne ero andato di casa, mia madre si prendeva cura di me. «Mia madre teneva lontane le sgualdrine. E ci ha pensato Elena, una volta trasferitasi qui, a dare un tocco di eleganza.» «Ho dovuto spazzare sotto il ripiano della cucina.» «Non fare la vecchia bisbetica. Nessuno spazza là sotto.» Petronio Longo si raddrizzò completamente sbattendo la testa contro il soffitto e gli sfuggì una mezza imprecazione. Lo avvertii che, se fosse stato in camera da letto, con quel gesto avrebbe sfondato il tetto, magari smuovendo qualche tegola e uccidendo un passante per la strada, con il rischio di ritrovarsi una causa sul groppone. «Noto con sorpresa che il tuo zelo casalingo ha tralasciato qualcosa» aggiunsi, prima che cominciasse a criticare l'appartamento che mi ero scelto. «Non ci sono anfore.» Sul volto di Petro si dipinse un'espressione cupa. Mi resi conto che il vino doveva essere rimasto a casa con Silvia. Se la loro controversia fosse durata ancora a lungo, Petronio avrebbe potuto dire addio alla splendida collezione di anfore che era riuscito a mettere insieme in quei dieci anni.
Aveva l'aria affranta. Fortunatamente, nascosta sotto le tavole del pavimento c'era ancora una mia vecchia anfora piena a metà. La tirai fuori prontamente e mi sedetti con Petro sul balcone, al sole della sera, cercando di fargli dimenticare la propria tragedia. Ero intenzionato a cenare con Elena, ma tra un discorso e l'altro tirare su il morale a Petro richiese più tempo del previsto. Era terribilmente depresso. Gli mancavano le figlie. E gli mancavano ancora di più i Vigili. Era furioso con sua moglie, ma non poteva farle una sfuriata perché lei si rifiutava di parlargli. Inoltre nutriva già qualche dubbio sull'idea di lavorare con me. L'incertezza del futuro aveva incominciato a tormentarlo e così, invece di essere pieno di aspettative sulla sua nuova vita, si incupiva. Lasciai che fosse lui a decidere quando versare il vino, un ruolo che assunse con tracotanza. Ben presto il nostro tasso alcolico fu tale da spingerci a riprendere il discorso sulla mano smembrata, e, una cosa tira l'altra, cominciammo a rimuginare sulle colpe della società, sulla violenza della città, su quanto la vita è dura e le donne sono crudeli. «Che cosa c'entra però la crudeltà delle donne?» riflettei ad alta voce. «Foscolo sostiene che la mano è quasi certamente di una donna... quindi è probabile che sia stata mozzata da un uomo adirato.» «Non fare il pignolo.» Petro aveva parecchie teorie sul grado di crudeltà che potevano raggiungere le donne e c'era la possibilità che, se glielo avessi permesso, andasse avanti per ore a parlarne. Lo distolsi da quel proposito parlandogli dei miei vani tentativi all'Atrio della Libertà. «E così, niente da fare, Petro. Una povera prostituta è morta. Morta e insepolta. Fatta a pezzi come un arrosto e poi gettata nel serbatoio dell'acqua.» «Dovremmo fare qualcosa.» Era l'impetuosa dichiarazione di un uomo che si era dimenticato di mangiare ma ricordava benissimo a che cosa servisse una coppa di vino. «Che cosa, per esempio?» «Scoprire qualcosa di più su questo cadavere... Capire dove si trova il resto del corpo.» «E chi lo sa!» La testa mi girava più di quanto la mia coscienza approvasse. E l'idea di barcollare giù per sei piani di scale per poi salirne altri dall'altra parte della strada e arrivare a casa da Elena non mi solleticava affatto.
«Qualcuno deve saperlo. Anzi, qualcuno l'ha fatto. E adesso sta ridendo, convinto di essersela cavata.» «Ed è così, infatti.» «Falco, sei un insopportabile pessimista.» «Solo realista.» «Lo troveremo.» Ormai era evidente che in breve tempo saremmo stati completamente ubriachi. «Fa' pure.» Feci per alzarmi. «Io devo andare da mia moglie e dalla bambina.» «D'accordo.» Petro fu magnanimo, con tutta la disperata abnegazione di chi ha appena subito una grave perdita e ha una sbornia coi fiocchi. «Non preoccuparti di me. La vita va avanti. Vai dalla piccola Giulia e da Elena, mio caro amico. Una bella bambina. Una bella signora. Sei un uomo fortunato, un brav'uomo...» Non potevo lasciarlo in quelle condizioni. Tornai a sedermi. La mente del mio vecchio amico era ossessionata dai pensieri, che turbinavano senza dargli tregua come pianeti impazziti. «Quella mano ci è stata data perché siamo i soli in grado di risolvere il mistero.» «Ci è stata data perché stupidamente abbiamo chiesto che cosa fosse, Petro.» «Appunto. Noi l'abbiamo chiesto. Eravamo nel posto giusto a fare la domanda giusta. E anche a pretendere una risposta. Ed eccoti qualche altra domanda: quanti altri brandelli di corpi ci saranno che fluttuano come gamberetti nell'acquedotto della città?» «E quanti corpi?» aggiunsi. «Da quanto tempo?» «Chi si occuperà di cercare i brandelli di questo corpo?» «Nessuno.» «Partiamo da un'altra prospettiva, allora. Come si rintraccia una persona scomparsa in una città che non prevede procedure in tal senso?» «E in cui tutti gli uffici amministrativi restano rigorosamente separati?» «Se la persona è stata uccisa, e se è successo in una zona della città diversa da quella nella quale è stata rinvenuta la mano, chi ha la responsabilità di indagare?» «Soltanto noi... se siamo abbastanza stupidi da assumercene l'incarico.» «Chi si preoccuperà di chiedercelo?» domandai. «Soltanto un amico o un parente del defunto.»
«Può darsi che non abbia amici, o nessuno che si preoccupi di dove sia finito.» «Una prostituta, per esempio.» «O uno schiavo fuggiasco.» «Un gladiatore?» «Non credo, sono un investimento per i loro allenatori. Quei bastardi li rintracciano uno a uno. Un attore o un'attrice, forse.» «Uno straniero in visita a Roma.» «Potrebbero esserci parecchie persone che cercano parenti scomparsi» ammisi mestamente. «Ma in una città di un milione di abitanti, quante possibilità ci sono che vengano a sapere che ne abbiamo trovato un pezzo? E se anche lo sapessero, come potremmo identificarlo?» «Metteremo un annuncio» decise Petronio, ormai convinto che fosse la risposta a tutto. «Per gli dèi, no. Avremmo migliaia di risposte inutili. E comunque, un annuncio per trovare che cosa?» «Altri pezzi del rompicapo.» «Altri pezzi del corpo?» «Può darsi che il resto sia ancora vivo, Falco.» «Allora cercheremo qualcuno con una mano sola?» «Sì, se è ancora vivo. I cadaveri non rispondono agli annunci.» «E nemmeno gli assassini. Tu sei ubriaco.» «Anche tu.» «Allora sarà meglio che io mi trascini dall'altro lato della strada.» Lui cercò di convincermi che sarei dovuto restare per farmi passare la sbornia prima di andare. Io però mi ero trovato in situazioni del genere abbastanza spesso per sapere quanto fosse folle quell'idea. Era veramente strano vedere Petronio Longo che si comportava come uno scapolo impenitente, intenzionato a far baldoria tutta la notte, mentre io ero il capofamiglia sobrio che cercava una scusa per svignarsela a casa. VIII Scendere di corsa sei piani di scale dovrebbe bastare a schiarire una mente ottenebrata dall'alcol, ma se non si riescono a calibrare bene gli angoli procura soltanto contusioni. Inoltre, se si comincia a imprecare per il dolore bisogna mettere in conto di attirare dell'attenzione indesiderata. «Falco! Vieni qui! Dimmi che dovrei piantare Smaractus.»
«Lenia, non limitarti a piantarlo. È un parassita. Atterralo e saltaci sopra finché non smette di urlare.» «Ma che ne sarà della mia dote?» «Te l'ho già spiegato: divorzia e potrai tenertela.» «Non è quello che sostiene lui.» «Lui? Sbaglio o è lo stesso che ti ha promesso prosperità, pace e un'esistenza felice se vi foste sposati? Era una menzogna, non è vero?» «Anche dire che non ci abbia mai provato sarebbe una menzogna, Falco.» Forse sarei dovuto restare nella lavanderia a cercare di consolare la mia vecchia amica Lenia. Ai vecchi tempi trascorrevo metà del mio tempo nel bugigattolo che usava come ufficio, a bere pessimo vino in sua compagnia e a lamentarmi delle ingiustizie e della mancanza di denaro. Ora, dal momento che era ancora sposata con Smaractus, era assai probabile che lui arrivasse e decidesse di unirsi a noi, così tendevo a evitare quel tipo di rischio. Inoltre, avevo un casa dove andare, quando non mi facevano perdere tempo. Quello che non sapevo era che anche la mia casa era stata invasa da un parassita: Anacrite. «Salve, Falco.» «Aiuto! Portami una scopa, Elena. Qualcuno ha lasciato entrare un disgustoso scarafaggio.» Anacrite mi guardava con un sorriso tranquillo e indulgente, che esaurì istantaneamente la mia pazienza. Elena Giustina mi esaminò con espressione pungente. «Come stava il tuo amico?» Evidentemente era giunta alla conclusione che avere Petronio come vicino di casa avrebbe minacciato la nostra vita familiare. «Starà benissimo.» Elena capì che questo significava che era in pessimo stato. «C'è una frittata di pinoli con un po' di ruchetta.» Lei aveva già mangiato la sua parte. La mia era disposta su un piatto. Ce n'era un po' meno di quanto mi sarei servito personalmente, la frittata si era raffreddata ed era accompagnata, cosa abbastanza eloquente, da acqua. Anacrite gettò uno sguardo interessato al mio piatto, ma misi subito in chiaro che non era per lui. Elena, da parte sua, lo ignorava. Lo detestava almeno quanto me, sebbene non avesse opinioni precise sulla sua efficienza o sul suo carattere: semplicemente, lo odiava perché aveva cercato di uccidermi. Mi piacciono le ragazze dai sani principi morali, soprattutto
quelle che pensano che io debba rimanere vivo e vegeto. «C'è qualche possibilità che Petronio Longo torni al lavoro?» Anacrite era arrivato dritto al punto. Prima di subire quella ferita alla testa non sarebbe mai stato così esplicito. Aveva dimenticato l'arte dell'inganno e non ostentava più l'impertinente sicurezza di un tempo. Ma i suoi occhi erano falsi come sempre. Feci finta di niente. «Balbina Milvia è una ragazza molto graziosa.» «Credi che la sua sia un'infatuazione seria?» «Credo che Petronio Longo non veda di buon occhio che qualcuno gli dica che cosa fare.» «Speravo che ci fosse una qualche possibilità che tu e io lavorassimo insieme, Falco.» «Chiunque penserebbe che hai paura di mia madre.» Lui sogghignò. «Non ce l'hanno forse tutti? Parlo seriamente, Falco.» Anch'io ero seriamente deciso a evitarlo. Continuai a mangiare. Non intendevo scherzare su mia madre con lui. Elena si accomodò su uno sgabello al mio fianco, congiunse le mani sul bordo del tavolo e guardò Anacrite con occhio torvo. «Mi sembra che una risposta alla tua domanda tu l'abbia ricevuta. È solo questo il motivo per cui sei venuto?» Di fronte alla sua ostilità, Anacrite sembrò turbato. I suoi scialbi occhi grigi vagavano incerti. Da quando si era beccato quella botta in testa, era leggermente rimpicciolito, sia fisicamente che mentalmente. Era strano vederlo seduto lì con noi: per anni l'avevo sempre e solo visto nel suo ufficio al Palatino. Non aveva mai conosciuto Elena di persona fino a quando mia madre non l'aveva portato alla festa, così probabilmente si stava chiedendo come trattarla. Quanto a Elena, ancora prima che Anacrite mettesse piede in casa nostra ne aveva sentito parlare parecchio a causa dei guai che mi aveva procurato. Non aveva alcun dubbio su come comportarsi con lui. Anacrite lasciò perdere Elena e tornò a rivolgersi a me. «Noi due potremmo costituire un'ottima società, Falco.» «Io lavoro con Petro. A parte il fatto che ha bisogno di tenersi occupato, lui e io siamo compagni di vecchia data.» «Potrebbe voler dire la fine della vostra amicizia.» «Mi porti cattivi auspici.» «So come va il mondo.» «Ma non conosci noi.» Anacrite si trattenne dal replicare. A quel punto tenni la testa china sulla
ciotola del cibo, evitando ogni suo tentativo di conversazione, finché la spia non capì l'antifona e se ne andò a casa. Elena Giustina si voltò a guardarmi. «Che cosa pensi abbia in mente?» «Ho già chiarito l'altro giorno come la penso. Da parte sua tornare qui è stata una mossa impulsiva. Dev'essere colpa della botta in testa.» «Secondo tua madre, continua a dimenticarsi le cose, e alla festa sembrava molto infastidito dal baccano. Non sta bene.» «Una ragione in più per non lavorare con lui. Non posso permettermi di portarmi dietro un peso morto. Qualunque cosa dica mia madre, Anacrite non è all'altezza.» Elena mi stava scrutando con attenzione, e la cosa non mi dispiaceva affatto. «Quindi Petro se la cava. E tu come stai, Marco Didio?» «Sono meno ubriaco di quanto avrei potuto, e meno affamato di prima.» Ripulii ben bene la mia ciotola con il pane rimasto, poi vi appoggiai il coltello. Bevvi fino in fondo la mia coppa d'acqua con l'aria di chi apprezza veramente quello che gli viene offerto. «Grazie.» Elena chinò modestamente il capo. «Avresti potuto portare anche Petronio» disse, conciliante. «Un altro giorno, forse.» Le presi la mano e gliela baciai. «Quanto a me, sono esattamente dove vorrei essere» le dissi. «Insieme alle persone alle quali appartengo. È tutto splendido.» «Lo dici come se fosse la verità» mi prese in giro Elena. Tuttavia, sorrideva. IX Ben presto mi ritrovai a un'altra cena, in un ambiente decisamente più lussuoso ma dall'atmosfera assai meno piacevole: avevamo ricevuto un invito ufficiale da parte dei genitori di Elena. I Camilli possedevano un paio di case nei pressi di Porta Capena, con tutte le attrattive del vivere in una zona che pullula di attività, come la Via Appia, ma al contempo al riparo in una sorta di isola privata, poco lontana da una strada secondaria, dove solo le classi più elevate erano benvenute. Io non ce l'avrei mai fatta a vivere lì. I vicini erano troppo ficcanaso per i miei gusti, e molti avevano spesso a cena edili o pretori, con il risultato che chi abitava in quella zona doveva tenere il selciato sempre pulito per paura che la loro oasi esclusiva fosse oggetto di critiche ufficiali. Elena e io eravamo arrivati a piedi dall'Aventino. I suoi genitori avreb-
bero sicuramente insistito perché tornassimo a casa con la loro sgangherata lettiga, trasportata da schiavi appena passabili, così ne approfittammo per gustarci una passeggiata serale tra la folla. Io portavo la bambina. Elena si era offerta spontaneamente di portare la grossa cesta con le cianfrusaglie di Giulia: sonagli, panni per cambiarla, tuniche pulite, spugne, asciugamani, fiaschette di acqua di rose, una copertina e la bambola di pezza che la bimba si divertiva a mordicchiare. Quando arrivammo sotto Porta Capena, che sostiene gli acquedotti dell'Aqua Appia e dell'Aqua Marcia, fummo inzaccherati dalle solite perdite d'acqua, ma la sera d'agosto era così calda che quando arrivammo a casa dei Camilli ci eravamo già asciugati; sfogai la mia collera con il portiere, distogliendolo dal gioco dei dadi. Era un idiota senza futuro, un cafone allampanato dalla testa piatta che si faceva un dovere di infastidirmi. Adesso la figlia di casa apparteneva a me, dunque era ora che la smettesse, ma era troppo stupido per rendersene conto. Per l'incontro ufficiale con nostra figlia si era radunata la famiglia al completo. Considerato che i Camilli vantavano due figli maschi poco più che ventenni, non era una notizia da poco: Eliano e Giustino avevano rinunciato al teatro e alle corse, alle danzatrici e ai musicisti, alle letture di poesie e ai banchetti con amici ubriachi per salutare la loro prima nipotina. Questo mi spinse a chiedermi se per convincerli i genitori non avessero minacciato di tagliargli i viveri. Consegnammo Giulia affinché potesse essere ammirata da tutti, poi ci defilammo in giardino. «Voi due sembrate esausti!» Decimo Camillo Vero, il padre di Elena, era uscito di nascosto per raggiungerci. Alto, leggermente curvo, con i capelli corti, lisci e ritti sul capo, aveva i suoi problemi. Era amico dell'imperatore, ma su di lui gravava ancora l'ombra di un fratello che aveva cercato di trafugare i lingotti dell'imperatore e di disgregare lo stato. Che gli concedessero una carica importante era un'eventualità decisamente remota, e anche i suoi forzieri erano leggeri. Non a caso, nonostante fosse agosto, erano rimasti a Roma, invece di crogiolarsi al sole in un'elegante villa di Neapolis, vicino al mare e a pochi passi dalle sorgenti termali, o in riva a un lago, come tutte le famiglie di senatori. I Camilli possedevano varie aziende agricole nell'entroterra ma non una vera e propria residenza estiva degna del loro nome. Raggiungevano la soglia del milione di sesterzi necessaria per essere ammessi alla Curia, ma non disponevano di denaro con-
tante sufficiente per irrobustire le proprie finanze e affermarsi socialmente. Camillo Vero ci aveva trovati seduti fianco a fianco su una panchina sotto un colonnato, immobili e con le teste vicine, come se fossimo sul punto di crollare. «Avere un bambino è un lavoro faticoso» replicai sorridendo. «Sei riuscito almeno a scorgere la nostra piccolina prima che le donne la subissassero di moine?» «Mi pare che si trovi piuttosto a suo agio tra il pubblico.» «Eccome» confermò Elena, allungandosi per baciare il padre che senza troppe formalità si stringeva sulla nostra stessa panchina. «E lo sarà altrettanto quando, terminate le adulazioni, vomiterà su qualche spalla.» «Mi ricorda qualcuno tanto tempo fa» commentò fra sé e sé il senatore. Elena, la figlia primogenita, era la sua prediletta, e se non m'ingannavo Giulia sarebbe stata la prossima. Sorridendo, si protese davanti a Elena per darmi una pacca sul braccio. Avrebbe dovuto considerarmi un intruso, invece per lui ero un alleato: gli avevo portato via una figlia difficile, dimostrandogli di essere deciso a tenermela stretta. Non possedevo denaro, eppure non andavo da lui una volta al mese a piagnucolare per ottenere un prestito, come avrebbe fatto un qualsiasi genero patrizio. «Allora, siete tornati dalla Betica con un'ottima reputazione, come d'abitudine, a quanto dicono i ben informati al Palatino. Il modo in cui hai risolto il problema del cartello dell'olio d'oliva, Marco, è stato molto apprezzato dall'imperatore. Adesso che progetti hai?» Gli spiegai che avevo in programma di lavorare con Petronio, ed Elena gli descrisse le nostre vicissitudini del giorno precedente con il segretario dei censori. Decimo sospirò. «Hai già provveduto, Marco? Spero che tu sia stato più fortunato di me.» «In che senso, senatore?» «Mi sono presentato, con la sicurezza di chi si precipita a fare il proprio dovere, e non hanno creduto alla valutazione che avevo fatto del mio patrimonio. E pensare che mi sembrava più che attendibile.» Sospirai. Lo consideravo un uomo onesto, nonostante fosse un senatore. Inoltre, dopo il tradimento del fratello, Camillo Vero era costretto a dimostrare la propria lealtà ogni volta che metteva piede nel Foro; una vera ingiustizia, dal momento che negli ambienti politici era quanto di più raro si potesse trovare: un uomo che esercitava le sue pubbliche funzioni senza perseguire alcun interesse personale. Era una cosa talmente rara che nessu-
no ci credeva. «Sarà dura. Pensi di poterti appellare?» «Ufficialmente, non è previsto alcun tipo di verifica. I censori possono respingere qualunque obiezione, dopodiché calcolano le tasse a loro discrezione.» Elena, che aveva ereditato dal padre il caustico senso dell'umorismo, rise e disse: «Vespasiano ha dichiarato che dopo gli sprechi di Nerone ha bisogno di quattrocento milioni di sesterzi per rimpinguare le casse. È presto detto in che modo intende procurarseli.» «Spremendo me?» «Sei una persona di buon cuore e ami Roma.» «Una responsabilità terrificante!» «Allora hai accettato la decisione dei censori?» gli chiesi, accennando una risata. «Non proprio. Avevo due scelte: o protestavo, il che significava spendere una notevole quantità di tempo e denaro per presentare ricevute e contratti di affitto con i quali poi i censori si sarebbero fatti quattro risate, o pagavo senza dire una parola. A quel punto mi sarebbero venuti incontro.» «Stai parlando di corruzione!» esclamò Elena. Suo padre si mostrò scandalizzato. In ogni caso, fece finta di niente. «Elena Giustina, nessuno corrompe l'imperatore.» «Oh! Un compromesso, allora» sbuffò lei, furiosa. Stare seduti in tre su una panchina mi stava facendo venire i crampi, così mi alzai e andai a esaminare la fontana del giardino, costruita accanto a una parete vicina: uno sputacchiante Sileno ubriaco versava un debole rivolo d'acqua da un otre. Il povero vecchio dio non se l'era mai cavata troppo bene con l'acqua e, a peggiorare la situazione, da un albero di fichi che cresceva contro il muro soleggiato era caduto un frutto che ostruiva lo zampillo. Lo tolsi e il gorgoglio riprese con maggiore forza. «Grazie.» Il senatore aveva la tendenza a tollerare le cose che non funzionavano. M'incamminai verso un angolo di giardino dov'erano stati trapiantati i gigli dell'anno precedente. Erano assaliti dai coleotteri, con le foglie mangiucchiate e colpite dalla ruggine, non erano fioriti e sarebbero stati in pessime condizioni la stagione successiva. I coleotteri dei gigli sono di un rosso brillante ed è facile catturarli, così riuscii a farmene cadere qualcuno sul palmo della mano, dopodiché li gettai sul pavimento e li schiacciai sotto il calzare. Tornai a controllare che la fontana funzionasse, approfittandone per rac-
contare al senatore della mano smembrata. Sapevo che aveva dovuto pagare per avere il collegamento privato a uno degli acquedotti. «La nostra acqua sembra abbastanza pulita» dichiarò. «Proviene dall'Aqua Appia.» «È la stessa che rifornisce le fontane dell'Aventino» l'avvertii. «Lo so. Loro hanno la precedenza. Pago una tariffa esorbitante, ma purtroppo le regole per i privati sono severe.» «È il comitato delle acque che stabilisce quanta acqua puoi ricevere?» «Il comitato inserisce alla base di una torre dell'acqua un'apposita bocca di distribuzione, che deve essere approvata ufficialmente.» «Non puoi forzarla e aumentarne il flusso?» «Tutte le condutture per l'attacco privato sono fatte di bronzo proprio per impedire che vengano allargate illegalmente, anche se credo che alcuni ci provino.» «Quanto è grande la tua conduttura?» «È solo una quinaria.» Poco più di un dito di diametro. Era la più piccola disponibile, ma consentiva un flusso d'acqua ininterrotto giorno e notte, sufficiente per una famiglia di discrete dimensioni. Camillo non aveva denaro contante, quindi anche se era benestante aveva bisogno di risparmiare. «Troppo piccola perché ci passino degli oggetti» commentò Elena. «Per fortuna. Ci arriva parecchia sabbiolina, ma trovo decisamente sgradevole l'idea che possano affiorare brandelli umani.» Il senatore si appassionò all'argomento. «Se l'acquedotto si riempisse di detriti, la mia bocca nella torre dell'acqua potrebbe ostruirsi. Non potrei nemmeno lamentarmi subito, dal momento che le case private sono le prime a essere escluse dall'erogazione se insorge un problema. Immagino che sia giusto così.» Camillo si mostrava sempre indulgente. «Dubito molto che il comitato ammetterebbe di avere trovato qualcosa di poco igienico all'interno della torre. L'acqua che riceviamo dovrebbe provenire direttamente dalla Sorgente Cerulea, ma dopo avere viaggiato negli acquedotti sarà ancora sicura da bere?» «Limitati al vino!» fu il mio consiglio. Questo ci ricordò che la cena era pronta. Quando varcammo la porta che conduceva alla sala da pranzo, ci apparve un banchetto più solenne di quanto fosse abituale in quella casa. La paternità porta benefici, dunque. C'erano sette adulti che cenavano. Baciai sulla guancia Giulia Giusta, la madre di Elena, una donna altera e benedu-
cata che si trattenne dal ritrarsi. Salutai Eliano, l'arrogante figlio maggiore, con esagerato entusiasmo, sapendo che la cosa l'avrebbe irritato, poi rivolsi un sorriso sincero alla figura più alta e snella di suo fratello Giustino. Oltre a me e ai Camilli al completo, alla cena era presente Claudia Rufina, una ragazza intelligente ma piuttosto riservata che Elena e io avevamo portato con noi dalla Spagna e che alloggiava dai genitori di Elena poiché noi non disponevamo di alcuna stanza per gli ospiti. Era nata nelle province, ma proveniva da una buona famiglia, e a parte i più spocchiosi nessuno si sarebbe sognato di respingerla, soprattutto perché era in età da marito e unica erede di un'enorme fortuna. Elena e io la salutammo cortesemente. Avevamo presentato Claudia ai Camilli nella speranza, bisogna ammetterlo, che grazie a lei potessero finalmente procurarsi una villa a Neapolis. A quanto pareva, le nostre speranze non erano state vane: Claudia aveva già acconsentito a un fidanzamento. A modo loro anche i Camilli sapevano essere inesorabili: meno di una settimana dopo che Elena e io avevamo lasciato Claudia a casa loro, le avevano proposto di sposare Eliano. Claudia aveva già avuto modo di vederlo in Spagna e da brava ragazza che conosce le buone maniere, e a cui Giulia Giusta non aveva fatto incontrare nessun altro giovanotto, aveva accettato senza dire una parola. Una lettera di invito ai nonni affinché accorressero immediatamente a suggellare il contratto era già in viaggio. Era successo tutto così in fretta che non ne avevamo ancora sentito parlare. «Olimpo!» esclamò Elena. «Sono certo che sarete entrambi immensamente felici» riuscii maldestramente a borbottare. Claudia sorrise dolcemente all'idea, come se nessuno le avesse mai fatto notare che era in gioco la sua felicità. Insieme, sarebbero stati infelici come la maggior parte delle coppie, ma se non altro erano abbastanza ricchi da permettersi un'ampia casa nella quale evitarsi a vicenda. Claudia, una ragazza tranquilla con il naso un po' pronunciato, era vestita di bianco in segno di lutto per il fratello, che era rimasto ucciso in un incidente. Probabilmente era lieta di avere qualcosa di nuovo a cui pensare. Eliano, dal canto suo, voleva entrare in Senato e per farlo aveva bisogno di denaro: avrebbe accettato qualsiasi cosa. Inoltre, finalmente aveva l'opportunità di farsi bello con Giustino, il fratello minore, che era sempre stato più attraente e più popolare. Quanto a Giustino, si limitò a sorridere e alzare le spalle con espressione leggermente curiosa, come un ragazzo dal carattere mite che si stesse chiedendo il perché di tutto quel trambusto. Una volta avevo lavorato con lui
fuori Roma. Quella sua aria tenera celava in realtà un cuore infranto. Si era innamorato perdutamente di una bionda profetessa visionaria nelle foreste della Germania barbarica (anche se, tornato a Roma, si era consolato rapidamente, intrecciando un legame sentimentale perfino più inaccettabile con un'attrice). Quinto Camillo Giustino dava sempre l'impressione di non ricordare la strada per il Foro, ma nascondeva grandi qualità. La serata scivolò via così tranquilla che tornando a casa in lettiga, fra i brontolii dei portatori che evidentemente si erano aspettati che io vi camminassi a fianco, Elena commentò: «Spero che tu abbia notato quanto sono cambiati, adesso che abbiamo messo al mondo una figlia.» «Già, come è possibile?» Nei suoi grandi occhi castani brillò una luce di complicità. «Nessuno bada più a noi. Non c'è stata una sola persona che ci abbia chiesto quando intendiamo trasferirci in un posto migliore...» «O quando mi deciderò a intraprendere un lavoro decoroso...» «O quando avrà luogo il matrimonio...» «Se avessi immaginato che era sufficiente una bambina, ne avrei presa in prestito una molto tempo fa.» Elena osservò Giulia. Esausta dopo le mille attenzioni che aveva ricevuto, dormiva profondamente. Nel giro di un'ora circa, non appena mi fossi appisolato sul letto, sarebbe cambiato tutto. C'era un motivo se gli investigatori, per lo più, restavano scapoli. Ma era pur vero che, inaspettatamente, incominciavano a presentare una certa attrattiva anche quelle notti trascorse a sorvegliare strade lontane da casa, immerse nel fetore di pelli conciate e salsa di pesce prodotta illegalmente e infestate da prostitute amanti dell'aglio e protettori con il coltello facile. Inoltre, imparata l'arte di mantenersi in piedi, ci si può riposare tranquillamente anche nelle botteghe. «Che ne pensi di Eliano e Claudia?» mi domandò la mia amata. «I tuoi genitori di solito sono miti, ma quando vogliono si danno da fare.» «Spero che la cosa funzioni.» Sembrava indifferente, il che significava che era preoccupata. «Be', lei ha accettato. Tuo padre è un uomo onesto e tua madre non è tipo da permettere al proprio figlio di rimanere intrappolato se ci fosse anche solo una probabilità che il matrimonio fallisca.» Tuttavia, avevano un estremo bisogno del denaro di Claudia. Dopo poco aggiunsi: «Che cosa diceva tua madre quando eri sposata con quel bastardo di Pertinace?».
«Non molto.» Nemmeno io ero mai piaciuto alla madre di Elena, il che dimostrava che non c'era nulla che non andasse nella sua capacità di giudizio. Era stato lo zio di Elena (quello che in seguito avrei spinto nella cloaca) a suggerire per primo quel matrimonio, per i propri viscidi interessi, naturalmente, e a quel tempo neppure Giulia Giusta avrebbe trovato motivi per opporsi. Quanto a Elena, aveva sopportato Pertinace finché c'era riuscita, dopodiché, senza consultarsi con nessuno, aveva divorziato. La famiglia del marito aveva cercato di farli riconciliare. Ma a quel punto Elena aveva già conosciuto me. Fine della storia. «Prima che arrivino i suoi nonni, faremmo meglio a parlare con Claudia» dissi. Dal momento che avevamo portato noi la ragazza a Roma, ci sentivamo entrambi responsabili di lei. «Ho scambiato due parole con lei mentre tu ti nascondevi con mio padre nel suo studio. E, a proposito» mi chiese calorosamente Elena «che cosa stavate tramando voi due?» «Niente, mia cara. Lasciavo solo che si lamentasse ancora un po' per quella questione dei censori.» In realtà, stavamo valutando un'idea: il suo accenno ai censori mi aveva suggerito un modo per guadagnare un po' di denaro. Non che volessi tenere Elena all'oscuro per esercitare la mia autorità, semplicemente volevo vedere quanto tempo avrebbe impiegato a cavare i particolari a suo padre o a me. Elena e io non avevamo segreti, ma alcuni progetti sono faccende da uomini... O così ci piace pensare. X Glauco, il mio allenatore, era furbo come una volpe. Era un liberto della Cilicia, basso e con le spalle ampie, che gestiva un complesso termale due isolati dietro il Tempio di Castore. Il complesso comprendeva anche una palestra molto esclusiva per individui, come me, per i quali mantenere in perfetta forma il proprio fisico era una questione di vita o di morte. Una biblioteca e una pasticceria dilettavano i clienti, tutti membri della classe equestre che potevano permettersi di pagare le spese e le cui abitudini morigerate non disturbavano l'atmosfera tranquilla del posto. Glauco non ammetteva nuovi clienti a meno che non li conoscesse personalmente. Quelli abituali come me li conosceva meglio di quanto loro conoscessero se stessi. Non che fossimo veramente in confidenza: dopo avere passato
vent'anni ad ascoltare i segreti degli altri lavorando sul loro tono muscolare, sapeva come evitare quella trappola. Tuttavia, aveva la capacità di strappare informazioni imbarazzanti con la stessa facilità con cui un tordo svuota il guscio di una lumaca. Conoscevo la sua tecnica. Quando le sue domande incominciarono a diventare insinuanti, sorrisi e gli dissi: «Limitati a chiedermi se quest'anno penso di andare in vacanza». «Sei in sovrappeso e hai un'abbronzatura ridicola, i muscoli sono così rilassati che mi sorprende che tu non stia crollando. Direi che hai passato il tempo a oziare in qualche casa di campagna, Falco.» «In effetti, era un luogo terribilmente agreste. Ma si trattava solo di lavoro, te lo garantisco.» «Ho sentito dire che sei diventato papà.» «È vero.» «Immagino che finalmente tu sia stato costretto a rivedere il tuo approccio indolente al lavoro. Hai fatto un grosso passo avanti e ora sei in affari con Petronio Longo.» «Vedo che tieni le orecchie aperte.» «Mi tengo aggiornato. E prima che tu me lo chieda» aggiunse vivacemente Glauco «l'acqua di queste terme proviene dall'Aqua Marcia. È rinomata per la sua qualità e la sua freschezza. Non voglio sentire in giro sgradevoli chiacchiere riguardo a certi oggetti disgustosi che si troverebbero nella cisterna!» «È soltanto un passatempo. Mi sorprende perfino che tu ne sia venuto a conoscenza. Petro e io mettiamo annunci per occuparci di divorzi e questioni di eredità.» «Non cercare d'ingannarmi, Falco. Io sono quello che sa che la tua gamba sinistra è ormai debole da quando te la sei rotta tre anni fa. Le tue vecchie costole fratturate dolgono ancora se soffia il vento da nordovest, ti piace combattere con il pugnale ma non te la cavi male neanche con la lotta, hai dei buoni piedi, la tua spalla destra è vulnerabile, sai tirare un pugno però miri troppo in basso e non ti fai alcuno scrupolo a colpire il tuo avversario con un calcio nelle palle...» «Sembro un vero e proprio rottame. Altri particolari interessanti?» «Mangi troppe polpette nelle taverne e detesti le rosse.» «Risparmiami l'imitazione dell'astuto contadino che proviene dalla Cilicia.» «Allora diciamo che so quello che state combinando tu e Petronio.»
«Petro e io siamo forse eccentrici ma innocui. Sospetti di noi?» «Mi hai preso per un allocco? Ho saputo a quale scopo esattamente mettete in giro annunci» m'informò aspramente Glauco. «Ne parlano tutti: Falco & Socio offrono una grossa ricompensa a chiunque abbia informazioni in merito a brandelli umani rinvenuti negli acquedotti.» Alla parola «ricompensa» reagii più in fretta che a un lassativo. Gamba debole o no, giusto il tempo di buttarmi addosso i vestiti ed ero fuori dalla sua esclusiva palestra. Ma quando salii di corsa le scale fino all'appartamento della Corte della Fontana, deciso a ordinare a Petronio di ritirare quel suo nuovo, pericoloso annuncio pubblicitario, era ormai troppo tardi. Qualcuno mi aveva preceduto, per offrire la mano di un altro cadavere. XI «Idiota! Se offri ricompense a nome della mia impresa, vedi di sborsare di tasca tua!» «Calmati, Falco!» «Fammi sentire il tintinnio dei denari.» «Vuoi chiudere il becco? Abbiamo visite.» Esattamente il genere di personaggio che mi sarei aspettato di veder strisciare fin lassù in cerca di una ricompensa: un disperato dall'aspetto poco raccomandabile. Petronio non aveva idea di come funzionassero le cose. Per un uomo che aveva passato sette anni ad arrestare furfanti, restava stranamente sprovveduto. Se non l'avessi fermato, mi avrebbe rovinato. «Allora, che cos'è questa storia?» domandò il nostro ospite. «Qualche problema con i soldi?» «Nessuno» lo rassicurò Petro. «Parecchi» ribattei io. «Ho sentito dire che offrivate ricompense» si lamentò l'uomo in tono di accusa. «Dipende per che cosa.» Ero furibondo, tuttavia l'esperienza mi aveva insegnato a mantenere le promesse se queste erano in grado di attirare gente fin lassù. Nessuno sale sei piani di scale per vedere un investigatore se non si trova in un guaio serio o non crede che ciò di cui è a conoscenza valga un bel po' di soldi. Lo guardai di traverso. Era di circa un piede più basso della media, sporco e malnutrito. La sua tunica consunta era di un sudicio marrone e gli pendeva dalle spalle grazie ad alcuni stracci di lana. Aveva le sopracciglia
unite e il mento sporgente, una corta e ispida barba nera saliva lungo gli zigomi fino alle borse sotto gli occhi. Forse i suoi antenati erano stati nobili sovrani della Cappadocia, ma al momento quell'uomo era indubbiamente uno schiavo pubblico. Ai piedi, piatti come pale, portava un paio di rozzi zoccoli che malgrado la suola spessa non l'avevano tenuto all'asciutto. I gambali di feltro erano neri e avevano colato acqua dappertutto: una scia di goccioloni mostrava il suo percorso attraverso la porta, e nel punto nel quale si era fermato si stava lentamente formando un piccolo laghetto scuro. «Come ti chiami?» gli domandò Petronio in tono altezzoso, cercando di riaffermare la propria autorità. Io mi appoggiai al tavolo, con i pollici infilati nella cintura. Ero contrariato. Non c'era bisogno che l'informatore lo sapesse, ma Petronio l'avrebbe capito dal mio atteggiamento. «Ho detto, come ti chiami?» «Perché lo vuoi sapere?» Petro si accigliò. «Perché lo vuoi nascondere?» «Non ho niente da nascondere.» «Lodevole da parte tua! Io sono Petronio Longo, e lui è Falco.» «Cordo» ammise a denti stretti il visitatore. «E sei uno schiavo pubblico che lavora per il curatore degli acquedotti?» «Come hai fatto a capirlo?» Notai che Petro cercava di controllarsi. «Mi pare logico, visto quello che mi hai portato.» Tutti quanti guardammo la mano, per poi distogliere rapidamente lo sguardo. «Per chi lavori esattamente?» domandò ancora Petro, onde evitare di discutere di quei resti. «Per lo stato.» L'amministrazione degli acquedotti aveva a sua disposizione due gruppi di schiavi: uno proveniva direttamente dall'organizzazione originaria messa in piedi da Agrippa ed attualmente era sotto il controllo statale, l'altro era stato costituito da Claudio e faceva ancora parte della servitù dell'imperatore. Non c'era alcuna giustificazione logica per mantenere i due gruppi distinti, che avrebbero dovuto fare parte della stessa forza lavoro. Era il classico pasticcio burocratico che apriva le porte alle consuete possibilità di corruzione. L'inefficienza era aggravata dal fatto che ormai le opere pubbliche più importanti erano appaltate a privati e non venivano più affidate agli schiavi pubblici. Non c'era da stupirsi che l'Aqua Appia avesse costantemente delle perdite. «Quali sono le tue mansioni, Cordo?» «Sono un muratore. Il mio capomastro è Venno. Lui non sa che ho tro-
vato quella...» Con riluttanza, guardammo nuovamente la mano. Era orripilante: scura e putrida, emanava un fetore insopportabile; era possibile riconoscerla soltanto perché eravamo dell'umore per farlo. A essere precisi, si trattava solo di mezza mano e oltretutto piuttosto malridotta. Come nella prima, mancavano tutte le dita a eccezione del pollice, che era rimasto attaccato per un filo di pelle ormai indurita mentre l'articolazione era venuta via. Forse le dita erano state rosicchiate dai topi. O forse era successo qualcosa di peggio. Al momento il cimelio riposava su un piatto (il mio vecchio piatto per la cena, notai con irritazione) che era stato appoggiato su uno sgabello tra Petronio e il suo interlocutore, il più lontano possibile da entrambi, ma in quella stanza angusta era ancora troppo vicino, e mi spostai lentamente lungo il tavolo, nella direzione opposta. Una mosca entrò ronzando a dare un'occhiata, poi volò via allarmata. Era innegabile: quell'oggetto disturbava l'atmosfera. «Dove l'hai trovata?» domandò Petronio con voce cupa. «Nell'Aqua Marcia.» Povero Glauco. Addio ai bagni in acqua cristallina. «Ci sono entrato con un ispettore da uno sbocco superiore, per controllare se era necessario raschiare le pareti.» «Raschiarle?» «È un lavoro da fare costantemente. Si ricoprono di calcare, legato, e se non lo togliamo diventa spesso come la tua gamba. Dobbiamo scrostarlo continuamente, altrimenti s'intaserebbe l'intera rete.» «Quindi in quel momento c'era acqua nell'acquedotto?» «Oh, sì. Chiudere la Marcia è quasi impossibile. Dipendono in tanti da quell'acquedotto e se, per fare una deviazione, mandiamo acqua scadente, i senatori incominciano ad agitarsi.» «Allora come hai trovato la mano?» «Semplice. È arrivata galleggiando e ha detto salve.» Petronio smise di porre domande. Tutt'a un tratto avrebbe voluto che io lo interrompessi, ma non morivo proprio dalla voglia di interloquire. Anch'io, come lui, mi sentivo abbastanza male. «Quando mi ha colpito al ginocchio, ho fatto un balzo di un miglio, te lo garantisco. Sai per caso a chi appartiene?» domandò con curiosità lo schiavo. Forse credeva che avessimo una risposta a tutto, anche all'impossibile. «Non ancora.»
«Ma lo scoprirete.» Lo schiavo cercava di rassicurarsi. Voleva credere che da tutta quella faccenda sarebbe venuto fuori qualcosa di buono. «Ci proveremo.» Petro sembrava demoralizzato. Sapevamo tutti e due che era un'impresa disperata. «Allora, riguardo a quel denaro?» Cordo mostrava un certo imbarazzo, ma senza dubbio l'avrebbe superato non appena gli avessimo offerto una ricompensa. «Se devo dirvi la verità, non è per la ricompensa che sono venuto, sapete.» Petronio e io ascoltammo con aria abbastanza interessata. «Ho saputo che facevate domande in giro, così ho pensato che avreste dovuto averla voi... solo non vorrei che i miei capi venissero a sapere...» Petronio osservò lo schiavo con espressione cordiale. «Immagino» suggerì «che in casi come questo il regolamento imponga di tenere la bocca chiusa per evitare di turbare la serenità della gente, non è così?» «Proprio così!» si animò Cordo. «Quanti brandelli hai già trovato?» gli domandai. Adesso che aveva suscitato l'interesse di una seconda persona, lo schiavo parve tirarsi su di morale: forse, dopotutto, avevamo apprezzato quello che aveva portato, e chissà che non decidessimo di dargli qualche soldo in più. «Be', io nessun altro, legato. Ma ti sorprenderebbe vedere che cosa salta fuori dall'acqua, e ne ho sentiti parecchi di casi.» «Qualche corpo senza mani?» «Braccia e gambe, legato.» Intuii che lo sapesse per sentito dire. Capii che Petro era d'accordo con me. «Tu ne hai mai viste?» «No, ma un mio compagno sì.» Tutti a Roma hanno un compagno la cui vita pare molto più interessante. Il buffo è che non si riesce mai a incontrarlo. «La mano è il tuo primo ritrovamento importante?» chiesi, cercando di farlo sembrare qualcosa di cui andare fieri. «Sì, signore.» Rivolsi un'occhiata franca a Petronio, che si mise a braccia conserte. Io feci altrettanto. Fingevamo di consultarci in silenzio. In realtà, eravamo entrambi tremendamente abbattuti. «Cordo» azzardai «sai se le acque dell'Aqua Appia e dell'Aqua Marcia provengono dalla stessa fonte?» «Io no, legato. Non chiedermi niente che riguardi gli acquedotti. Sono un ignorante che lavora nel bagnato, scrostando calcare. Non so niente di cose tecniche.
Gli sorrisi. «È un vero peccato! Speravo che potessi risparmiarci il disturbo di fare domande a qualche noioso ispettore idraulico.» Lo schiavo sembrò mortificato. Probabilmente era un furfante, ma ci aveva convinti che le sue intenzioni erano buone. Sapevamo quanto fosse dura la vita per uno schiavo pubblico, così Petro e io rovistammo nelle tasche e nelle borse. Fra l'uno e l'altro, riuscimmo a raccogliere tre quarti di denario. Cordo sembrò assai felice. Mezzora trascorsa nella nostra topaia alla Corte della Fontana l'aveva convinto che da un paio di incompetenti come noi non si sarebbe potuto aspettare altro che un calcio nel sedere e una lunga e faticosa discesa per le scale a mani vuote. Poche monete di rame erano sempre meglio di niente, inoltre aveva capito di averci ripuliti ben bene. Dopo che se ne fu andato, Petronio s'infilò i calzari da strada e sparì, presumibilmente per precipitarsi a togliere l'annuncio della ricompensa. Io sollevai con cura lo sgabello con sopra la mano e lo portai sul balcone, ma in un attimo un piccione volò giù intenzionato a farne un boccone. Riportai dentro la mano e la coprii con la bella pentola di Petro. Al suo ritorno mi avrebbe imprecato contro, ma a quel punto io mi sarei già trovato dall'altra parte della strada, tranquillo, insieme a Elena. Il lato positivo di avere un socio era che potevo lasciarlo tutta la notte a crucciarsi su ogni nuovo indizio mentre io, in qualità di socio di grado più elevato, potevo dimenticarmene e tornare l'indomani, rinfrescato e pieno di idee irrealizzabili, per chiedergli in tono irritante quali soluzioni avesse trovato nel frattempo. C'è chi nasce per fare il capo, e chi no. XII Il curatore degli acquedotti era un liberto imperiale, probabilmente un greco viscido e istruito. E forse svolgeva il suo lavoro con efficienza e dedizione, chi può dirlo. Quel che è certo è che Petro e io non riuscimmo mai a vederlo. Evidentemente mostrarsi viscido e istruito era un'attività che lo impegnava a tempo pieno e non era disposto a perdere neanche un minuto per parlare con noi. Petronio e io sprecammo un'intera mattinata nel suo ufficio al Foro. I capomastri degli schiavi pubblici entravano e uscivano per ricevere gli ordini, ma nessuno si degnava di rivolgerci la parola. Incontrammo una moltitudine di funzionari, tutti estremamente diplomatici, qualcuno persino
cortese, ma ben presto capimmo che nessun privato sarebbe mai riuscito a ottenere udienza e neanche i migliori consigli su come evitare di intasare gli acquedotti con putridi brandelli umani avrebbero aperto le porte di quell'ufficio. Il fatto di presentarsi come investigatori forse non era stata un'idea brillante. Riuscimmo, se non altro, a preparare una dichiarazione nella quale manifestammo le nostre preoccupazioni, ma uno scrivano più schietto degli altri, dopo avere esaminato il documento, ci informò senza mezzi termini che il curatore non ne voleva sapere. Aveva l'aria di essere una risposta definitiva. Il solo modo di aggirare l'ostacolo sarebbe stato far pesare la propria autorità sul curatore, ma io disapprovavo quelle tattiche così meschine e soprattutto, a dire il vero, non conoscevo nessuno abbastanza importante da farlo per me. Quindi era fuori discussione. Presi in considerazione diverse possibilità. Petro incominciò a infuriarsi e a comportarsi come se l'intera faccenda puzzasse; a quel punto la sua unica priorità divenne andare a bere qualcosa. A me invece piaceva valutare le cose in una prospettiva storica: l'erogazione dell'acqua era sempre stata un'impresa redditizia per lo stato e l'apparato burocratico che la supportava si era sviluppato in maniera tentacolare fino ai vertici superiori. L'imperatore Augusto amava mettere lo zampino un po' ovunque, senza eccezioni, e a tale proposito aveva escogitato una serie di procedure straordinarie, che ufficialmente garantivano una gestione accurata ma in sostanza servivano a tenerlo sempre informato di tutto. Sapevo dell'esistenza di una commissione per gli acquedotti che comprendeva tre senatori di rango consolare. Nell'esercizio delle proprie funzioni, ciascuno di loro era autorizzato a farsi precedere da due littori, oltre a disporre di tre schiavi per portare il fazzoletto, di un segretario e di un architetto, senza contare la schiera di funzionari, di dubbia utilità, che gli girava attorno. Il personale era pagato tramite i fondi pubblici, inoltre ai commissari venivano distribuiti articoli di cancelleria e varie altre cose, una parte delle quali puntualmente, come voleva l'usanza, ricompariva nelle rispettive case. Quei meritevoli vecchietti potevano esercitare una certa autorità sul curatore. Convincerne almeno uno a interessarsi alla nostra storia avrebbe potuto smuovere le acque. Per nostra sfortuna, i tre commissari rivestivano contemporaneamente altre importanti cariche pubbliche, come quella di governatore di una provincia straniera, per esempio. Era una prassi consentita in quanto la commissione si riuniva formalmente solo tre mesi all'anno
per ispezionare gli acquedotti, e agosto, ovviamente, non era compreso fra quelli. Tanto per cambiare ci eravamo cacciati in un bel pasticcio. Dovetti ammettere che Petronio aveva avuto ragione fin dall'inizio. Non ci rimase che consolarci alla maniera tradizionale: con un bel pranzo all'osteria. Qualche ora dopo, barcollando leggermente, Petronio Longo mi condusse nel miglior posto che conoscesse per smaltire una sbornia: la sua vecchia caserma. Di Foscolo neanche l'ombra. «Si è preso un giorno libero per andare a trovare la zietta» ci informò Sergio. Sergio era l'agente della Quarta coorte addetto alle punizioni: alto, corporatura perfetta, sempre pronto all'azione e sorprendentemente bello. Era seduto su una panca all'aperto e agitava delicatamente la frusta, uccidendo formiche. Aveva una mira micidiale. Attraverso le aperture della tunica marrone si intravedevano i suoi muscoli che guizzavano decisi. Un'ampia cintura aderiva perfettamente alla pancia piatta e metteva in evidenza la vita sottile e il torace perfetto. Sergio sapeva prendersi cura di sé. E anche delle questioni che doveva risolvere: in quella zona non c'era piantagrane di cui Sergio si fosse occupato che si disturbasse a ripetere il reato. Se non altro, la sua lunga faccia abbronzata, il naso diritto come un pugnale e i denti scintillanti erano un bel vedere per chi sveniva sotto i colpi della sua frusta. Essere pestati da Sergio in qualche modo era come far parte di un'opera d'arte. «Quale zietta?» lo schernì Petro. «Quella che va a trovare quando ha bisogno di una giornata libera.» I vigili erano grandi esperti nel procurarsi fastidiosi mal di denti o nel dover assolutamente partecipare al funerale di un parente a cui erano molto legati. Il loro lavoro era duro, mal pagato e pericoloso, e inventare scuse per tagliare la corda ogni tanto era una necessità. «Gli dispiacerà di non esserci stato.» Srotolai il pacchetto e sventolando la mano rinsecchita la gettai sulla panca accanto a Sergio. «Gli abbiamo portato un'altra fetta di budino.» «Accidenti! Tagliato un po' spesso, vedo» Sergio non si mosse nemmeno. La mia teoria era che fosse privo di emozioni. Tuttavia, capiva quello che scombussolava gli altri. «Dopo l'ultima leccornia che gli avete portato, Foscolo ha fatto voto di non toccare più carne. Adesso mangia solo cavoli e torta alla rosa canina. In quale taverna ve l'hanno servita?» Per qualche ragione Sergio aveva capito che eravamo appena stati a pranzo. «Dovreste
denunciarla agli edili: è un pericolo per la salute.» «Uno schiavo pubblico l'ha tirata fuori dall'Aqua Marcia.» «Secondo me è un'idea della corporazione dei produttori di vino» ridacchiò Sergio. «Per farci smettere di bere acqua.» «Con noi ha funzionato, allora» ribattei. «Non ho dubbi.» «Dov'è la mano precedente?» domandò Petro. «Vogliamo vedere se appartiene alla stessa persona.» Sergio mandò uno scrivano a prendere la mano dal museo dove, a quanto pareva, riscuoteva grande successo. Quando lo scrivano tornò con la mano, lo stesso Sergio l'appoggiò sulla panca accanto all'altra, come se riordinasse un paio di nuove ciabattine per l'inverno. Dovette armeggiare un po' con il pollice quasi staccato della seconda mano per disporlo nella posizione corretta. «Due destre.» «Difficile a dirsi.» Petronio non si sbilanciava. Era consapevole che la nuova mano era in pessimo stato. Inoltre, aveva trascorso un'intera notte nello stesso appartamento con quell'affare, un'esperienza che lo turbava ancora. «Ne manca un bel pezzo, ma è così che va il pollice, e sono entrambe con il palmo all'insù. Ve lo garantisco, sono due destre.» Sergio restava della propria opinione, ma non si scaldava mai in una discussione. Per lo più, non ne aveva affatto bisogno: le persone sbirciavano la sua frusta e gli davano subito ragione. Petronio accettò tetramente la cosa. «Quindi ci sono due corpi diversi.» «Stesso assassino?» «Potrebbe essere solo una coincidenza.» «Come no, e io potrei diventare imperatore» ironizzò Sergio. Poi decise di chiamare Scitace affinché fornisse un parere professionale. Scitace, il medico dei Vigili, era un austero liberto orientale. I capelli gli scendevano sulla fronte formando una linea perfettamente diritta, come se se li fosse tagliati da solo appoggiando una coppa sulla testa. L'anno precedente suo fratello era stato assassinato e da allora era diventato ancora più taciturno. Quando parlava, aveva un'aria sospettosa e un tono scoraggiante, ma ciò non gli impediva di fare battute di spirito. «Non posso fare niente per questo paziente.» «Oh, almeno provaci, Ippocrate! Può darsi che sia molto ricco. Sono sempre pronti a tutto pur di campare in eterno, e pagano bene per un po' di vita in più.»
«Sei un buffone, Falco.» «Be', non ci aspettavamo di certo che le ricucissi addosso al proprietario.» «Chi le ha perse?» «Non lo sappiamo.» «Che cosa puoi dirci su queste mani?» Sergio espose la propria teoria, secondo la quale le mani provenivano da persone diverse. Scitace restò in silenzio abbastanza a lungo da farci dubitare di quell'ipotesi, ma alla fine la confermò. Era un vero medico: sapeva come esasperare le persone con la sua aria di superiorità scientifica. «Appartengono a uomini?» borbottò Petro. «È possibile.» Il medico ostentava la stessa sicurezza di chi attraversa una palude nella nebbia. «Probabilmente no. Troppo piccole. È più probabile che siano donne, bambini o schiavi.» «E come pensi si siano staccate dalle braccia?» domandai. «È possibile che qualche cane o qualche volpe le abbia dissotterrate da una tomba?» Prima che fosse dichiarato illegale seppellire i corpi all'interno dei confini della città, c'era stato un cimitero sul Colle Esquilino di cui si sentiva ancora il fetore in tutta la zona. L'area era stata trasformata in orti, ma non mi sarei mai sognato di coltivarci un appezzamento di asparagi. Scitace scrutò nuovamente le mani, riluttante a toccarle. Sergio ne raccolse tranquillamente una e la tenne sollevata in modo che il medico potesse ispezionare il polso. Scitace fece un balzo all'indietro, quindi arricciò le labbra con fare schizzinoso e disse: «Non vedo nessun segno di denti di animale. Mi sembra che l'ossatura del polso sia stata recisa con una lama». «Allora si tratta di omicidio!» esultò Sergio. Si portò la mano proprio davanti alla faccia e la osservò, come se esaminasse una piccola tartaruga. «Che tipo di lama?» domandò Petro a Scitace. «Non ne ho idea.» «Un lavoro preciso?» «La mano è troppo putrefatta per poterlo dire.» «Guarda anche l'altra» ordinai. Sergio lasciò cadere la prima e senza indugi offrì l'altro avanzo a Scitace, che divenne ancora più pallido quando il pollice si staccò definitivamente. «È impossibile stabilire che cosa sia successo.» «C'è attaccata più o meno la stessa quantità di polso.» «È vero, Falco. Si intravede un frammento di osso che apparteneva al braccio. Quindi non c'è stato distacco naturale dell'articolazione, come ac-
cadrebbe per sola decomposizione.» Sergio appoggiò nuovamente la seconda mano sulla panca, allineando con cura il pollice staccato in quella che riteneva fosse la sua posizione naturale. «Grazie, Scitace» disse Petro in tono cupo. «Non c'è di che» borbottò il medico. «Ma se trovi altri pezzi, consulta un altro medico, per favore.» Guardò con occhio torvo Sergio. «E tu, lavati le mani! Non che serva a molto, se tutta l'acqua disponibile proviene da acquedotti contaminati.» «Prendete qualcosa per il mal di testa e sdraiatevi un momento» ci consigliò spiritosamente Sergio mentre il medico se la svignava. Scitace era tristemente noto per la sua riluttanza a prescrivere quel rimedio alle persone che ne avevano bisogno, la sua abituale procedura era di dire ai vigili gravemente feriti di tornare immediatamente al lavoro e di fare parecchio esercizio fisico. Con i vivi era un uomo tenace, ma quei resti parevano avere tirato fuori il suo punto debole. E, a dire il vero, anche il nostro. XIII Il giorno seguente fu ormai chiaro che gli schiavi pubblici del comitato delle acque avevano parlato fra di loro: avevano indetto una gara per chi avesse scoperto la «prova» più rivoltante e ci avesse convinto a farsela consegnare. Arrivavano a passo svelto alla Corte della Fontana, con l'aria tranquilla e sprovveduta, portando furtivamente dei pacchetti. Che bastardi! Le loro offerte erano inutili, e puzzavano pure. A volte riuscivamo a capire che cosa fossero quegli oggetti disgustosi, ma il più delle volte preferivamo non saperlo. Fummo costretti a stare al gioco, nel caso un giorno ci avessero portato qualcosa di autentico. «Ebbene, ve la siete cercata» sentenziò Elena. «No, mia cara. È stato Lucio Petronio Longo, il mio nuovo eccellente socio, l'idiota che ha messo l'annuncio.» «E come te la cavi con Petro? Andate d'accordo?» mi domandò in tono falsamente schivo. «Lo sai che ho appena risposto alla domanda.» Dopo che gli schiavi pubblici ebbero convinto i loro capisquadra a partecipare al gioco, Petro e io chiudemmo a chiave l'ufficio e ci ritirammo nel mio nuovo appartamento. Elena capì che era giunta la sua occasione.
Poco dopo la vidi con indosso un'elegante tunica rossa e perline di vetro che tintinnavano ai lobi delle orecchie, mentre si legava un copricapo da sole. Intendeva fare visita a una scuola per orfani di cui era la patrocinatrice. La convinsi a portare con sé Noce perché la proteggesse. Giulia si sarebbe presa cura di me. La bambina causò qualche dissenso. «Non posso credere che tu lo consenta!» brontolò Petronio. «Tendo a non usare la parola "consentire" quando si tratta di Elena.» «Sei uno sciocco, Falco. Come puoi occuparti del tuo lavoro mentre fai la bambinaia?» «Ci sono abituato. Marina mi affidava sempre Marzia e se ne andava.» Marina era la fidanzata del mio defunto fratello, una donna che sapeva come sfruttare il prossimo. Io ero particolarmente affezionato alla piccola Marzia, e Marina ne approfittava con grande abilità. Dopo la morte di Festo mi aveva prosciugato completamente, non sapevo più che valore avessero la compassione, il senso di colpa e il denaro (per il quale lei nutriva una spudorata preferenza). «Alcune regole sono necessarie» continuò Petro con aria cupa. Era seduto sul balcone che dava sulla strada con i grossi piedi appoggiati alla ringhiera marcia, ostruendo le scale. Non essendoci molto da fare, mangiava una ciotola di susine selvatiche. «Non voglio sembrare poco professionale.» Gli feci notare che la ragione principale per cui sembravamo cani randagi che si aggirano per i mercati era che in mancanza di clienti paganti trascorrevamo il tempo a ciondolare da un'osteria all'altra. «Giulia non è un fastidio. Non fa altro che dormire.» «E piangere! Come puoi fare buona impressione con una neonata che strilla sul tavolo? Come farai a interrogare un sospetto mentre le pulisci il sedere? In nome degli dèi, Falco, come farai a uscire e metterti di guardia con una culla legata sulla schiena?» «Me la caverò.» «La prima volta che ti troverai immischiato in una rissa e un criminale ti prenderà la bambina in ostaggio sarà tutta un'altra storia.» Non dissi niente. Mi aveva messo con le spalle al muro. Ma non aveva ancora finito. «Come farai a gustarti una caraffa di vino e fare quattro chiacchiere in taverna?» Quando il mio vecchio amico incominciava a elencare tutto ciò che non andava, ne faceva un'enciclopedia di pergamena in dieci rotoli.
Per farlo stare zitto, proposi di andare a pranzo. Come d'abitudine, questo aspetto della vita del libero professionista lo tirò su di morale, così uscimmo, portandoci ovviamente appresso Giulia. Quando fu quasi ora di allattarla, fummo costretti a tornare nuovamente a casa per consegnarla a Elena, approfittandone per un pasto breve, che - accompagnato da acqua una volta tanto - poteva soltanto essere salutare, come feci notare a Petro. Lui mi disse senza mezzi termini che cosa potevo farne dei miei consigli sulla vita da astemio. Elena non era ancora tornata, così ci sedemmo in balcone, come se non ci fossimo mai alzati da quando lei era uscita. Per rendere più credibile la farsa, riprendemmo anche la stessa discussione. Avremmo potuto continuare a polemizzare per ore. Era come se fossimo di nuovo due legionari diciottenni. Durante la nostra ferma in Britannia sprecavamo giornate intere a discutere di faccende inutili, era il nostro unico divertimento durante i turni di guardia obbligatori che si frapponevano tra il bere birra celtica fino a stare male e il convincerci che quella sarebbe stata la notte in cui avremmo perso la verginità con una delle prostitute da pochi soldi dell'accampamento. (Non ce lo potemmo mai permettere, il nostro soldo se ne andava sempre tutto in birra.) Ma era destino che il nostro simposio sulla soglia di casa fosse disturbato. Osservammo con estremo interesse gli scocciatori che si stavano avvicinando. «Guarda quegli idioti.» «Sembrano disorientati.» «Disorientati e con poco cervello.» «Allora è te che cercano.» «No, secondo me cercano te.» Erano tre pesi morti e un tonto che doveva essere il capo. Le tuniche che indossavano erano così logore che perfino la mia parsimoniosa madre si sarebbe rifiutata di usarle come strofinacci per il pavimento. Cinture di corda, tuniche troppo corte, scollature sbrindellate, cuciture disfatte, maniche mancanti. Quando li avvistammo, si stavano aggirando per la Corte della Fontana come pecore smarrite. Sembrava che fossero venuti lì con uno scopo preciso, ma che si fossero dimenticati quale. Doveva averli mandati qualcuno, perché non avevano abbastanza spirito d'iniziativa per ideare un piano; in ogni caso, chiunque gli avesse fornito le istruzioni aveva sprecato il fiato. Dopo un po', i quattro si fermarono davanti alla lavanderia. Stavano di-
scutendo se avventurarsi all'interno, quando Lenia si precipitò fuori: doveva avere pensato che fossero decisi a rubarle gli indumenti stesi, così era uscita per aiutarli a scegliere almeno qualcosa di decente. Perché stupirsi? Di certo riteneva che ne avevano un disperato bisogno, e in effetti il loro abbigliamento era vergognoso. Ne seguì una lunga conversazione, dopodiché i quattro imbecilli incominciarono lentamente a salire gli scalini di pietra che, polmoni permettendo, li avrebbero portati al mio vecchio appartamento all'ultimo piano. Lenia si voltò verso Petro e me gesticolando goffamente: tentava di dirci che quegli inetti cercavano proprio noi. Capimmo anche che li aveva avvertiti che, se anche non ci avessero trovati, non avrebbero perso molto. Tanto per cambiare, Lenia non si era nemmeno presa la briga di informarli che eravamo impegnati a oziare proprio lì di fronte a loro. Molto più tardi, i quattro rimbambiti scesero nuovamente in strada. Ciondolarono lì per un poco, ci furono vaghe discussioni. Poi uno di loro notò Cassio, il fornaio la cui bottega era stata distrutta dalle fiamme durante i malaugurati riti nuziali di Lenia. Adesso aveva preso in affitto dei forni da qualche altra parte, ma gestiva una bancarella nella Corte della Fontana per i suoi vecchi clienti. L'idiota affamato chiese una pagnotta, ed evidentemente domandò anche informazioni su di noi. Probabilmente Cassio gliele diede, perché lo stupido tornò dai compagni a riferire e tutti e quattro si voltarono lentamente e alzarono lo sguardo verso di noi. Petro e io non ci muovemmo. Lui era ancora seduto sullo sgabello con i piedi sollevati, mentre io me ne stavo appoggiato all'intelaiatura della porta d'ingresso a limarmi le unghie. Cosa assai sorprendente, ci fu un altro scambio di frasi. Infine i quattro zucconi decisero di venire dalla nostra parte. Li aspettammo pazientemente. «Siete Falco e Petronio?» «Chi lo chiede?» «Chi vi chiede di rispondere.» «La nostra risposta è: chi siamo è affar nostro.» Una tipica conversazione fra estranei, come ne capitano di frequente sull'Aventino. Per una delle parti l'esito era generalmente veloce, duro e doloroso. I quattro, a cui nessuna madre aveva insegnato a non tenere la bocca aperta e a non grattarsi le parti intime, si chiesero che cosa fare a quel punto.
«Cerchiamo due bastardi di nome Petronio e Falco.» Il capo pensava che se l'avesse ripetuto abbastanza spesso, prima o poi saremmo crollati e avremmo confessato. Probabilmente nessuno l'aveva informato che una volta eravamo stati nell'esercito: sapevamo come ubbidire agli ordini... e come ignorarli. «È tutto molto divertente.» Petronio si voltò verso di me, sogghignando. «Potrei continuare così tutto il giorno.» Ci fu una pausa. Sopra i tetri appartamenti si levò il sole impietoso di mezzogiorno. L'ombra si era quasi completamente ritirata e gli steli delle piante sui balconi erano completamente a terra. Sulle strade sudice era scesa la pace: ognuno si trascinava dentro casa e si preparava ad affrontare parecchie ore di insopportabile calura estiva. Era venuto il momento di dormire o di fornicare languidamente. Soltanto le formiche si affaticavano ancora. Le rondini continuavano a volare in circolo sull'Aventino e sul Campidoglio, e di quando in quando garrivano mentre si stagliavano contro l'azzurro mozzafiato del cielo romano. Perfino lo schiocco continuo di un abaco ai piani alti, dove un certo padrone di casa sedeva abitualmente a contare il proprio denaro, sembrò esitare leggermente. Faceva troppo caldo per cercare grane, e anche per riceverle. Nonostante ciò, uno degli idioti ebbe la brillante idea di cercare di afferrarmi. XIV Lo colpii con forza allo stomaco prima ancora che arrivasse a toccarmi. Contemporaneamente, Petro balzò in piedi con un agile scatto. Nessuno dei due perse tempo a gridare «Oh, per gli dèi, che cosa succede?»: lo sapevamo, e sapevamo che cosa fare. Afferrai il primo per i capelli, perché la sua tunica non offriva abbastanza presa. Erano tipi rachitici e mezzo addormentati, nessuno di loro aveva la volontà di resistere. Tenendolo con un braccio intorno alla vita, ben presto usai l'uomo come una scopa per far scappare gli altri giù per i gradini. Petro credeva di avere ancora diciassette anni: per darsi delle arie, aveva scavalcato la ringhiera ed era saltato giù in strada con una smorfia di dolore sul viso; si trovava nella posizione perfetta per bloccare gli altri non appena fossero precipitati e accerchiandoli con un movimento a tenaglia, fummo in grado di pestarli ben bene senza sprecare troppo fiato. Dopodiché, li ammucchiammo l'uno sull'altro. Con il calzare piantato su quello che si trovava in cima, Petro mi strinse
cerimoniosamente la mano. Non era nemmeno tanto sudato. «Due ciascuno: un bel risultato.» Li guardammo. «Avversari penosi» osservai con rammarico. Ci facemmo da parte e lasciammo che si rimettessero in piedi. Nel giro di pochi secondi si era radunata una folla di curiosi sorprendente: Lenia doveva avere avvertito tutti quanti in lavanderia, perché le lavandaie e i ragazzi addetti alle tinozze erano usciti al gran completo. Qualcuno ci applaudì. Anche la Corte della Fontana aveva il suo lato mondano. Notai una traccia di ironia: chiunque avrebbe pensato che Petronio e io fossimo una coppia di gladiatori ottuagenari a riposo che erano tornati momentaneamente in servizio per catturare una banda di ladruncoli di soli sei anni. «Adesso» ordinò Petro, con la voce dell'ufficiale dei Vigili «ci dite chi siete, chi vi ha mandati e che cosa volete.» «Non è importante» azzardò il capo, così lo afferrammo e lo gettammo in mezzo a noi come un sacco di fagioli finché non si rese conto dell'autorità di cui godevamo in quelle strade. «Piantala, quella testa di melone si sta spappolando!» «La ridurrò in poltiglia se non la smette di fare i capricci.» «Adesso fai il bravo bambino?» Ansimava troppo per rispondere, ma lo tirammo nuovamente su. Petronio, che si stava divertendo un mondo, indicò le ragazze di Lenia. Prese singolarmente erano dei tesorucci, ma tutte insieme si trasformavano in un'orda strepitante, scurrile e oscena. Se le aveste viste arrivare, non vi sareste limitati a cambiare marciapiede, ma vi sareste fiondati in un vicolo laterale, a costo di farvi derubare. «Causate altri problemi e vi getteremo fra le braccia di quelle bellezze. Credetemi, non vi piacerà essere trascinati nella stanza del vapore. L'ultimo uomo sul quale le arpie dei mastelli hanno messo le mani è sparito per tre settimane. L'abbiamo ritrovato appeso a un palo con le parti intime che penzolavano e da allora se ne sta rannicchiato a farfugliare in un angolo.» Le ragazze fecero gestacci osceni e agitarono insolenti le tuniche. Finalmente un pubblico partecipe che dava soddisfazione. Petro li aveva minacciati, ora toccava a me interrogarli. Quei relitti umani sarebbero svenuti se mi fossi dilettato nell'arte della retorica, così usai un linguaggio sobrio. «Com'è la faccenda?» Il capo ciondolò la testa. «Dovete smetterla di fare tanto chiasso per quelle fontane.» «Chi ha emesso questo editto clamoroso?»
«Non ha importanza.» «A noi importa. È tutto qui?» «Sì.» «Avreste potuto dirlo senza causare una rissa.» «Tu sei balzato addosso a uno dei miei ragazzi.» «Quel verme del tuo compare mi ha minacciato.» «E tu gli hai fatto male al collo!» «È fortunato che non gliel'abbia torto. Non fatevi mai più vedere da queste parti.» Lanciai un'occhiata a Petro. Quei tipi non avevano più nulla da dirci e ci saremmo potuti beccare un paio di querele a testa se li avessimo pestati con troppa violenza, quindi dicemmo al loro capo di piantarla di lamentarsi, poi spolverammo i suoi tre aiutanti e ordinammo a tutti di sparire dal nostro territorio. Quando ebbero svoltato l'angolo gli concedemmo qualche minuto per confabulare e imprecare contro di noi, dopodiché ci accingemmo a seguirli, con discrezione. Avremmo dovuto capire da subito dov'erano diretti ma pedinarli era pur sempre un buon esercizio. Dal momento che non si preoccupavano di stare all'erta, stargli alle calcagna fu una vera passeggiata. Petronio si concesse perfino una deviazione per comperare una frittella farcita, dopodiché mi raggiunse. Scendemmo dall'Aventino, girammo intorno al Circo ed entrammo nel Foro. Chissà perché, non fu affatto una sorpresa. Non appena i quattro raggiunsero l'ufficio del curatore degli acquedotti, Petro gettò in un canale di scolo ciò che restava del suo spuntino e affrettammo il passo. Entrammo a nostra volta. I quattro scagnozzi erano spariti, quindi mi avvicinai a uno scrivano. «Dove sono andati gli agenti che sono appena entrati? Ci hanno detto di seguirli.» Lui ci indicò una porta con un cenno del capo. Petro si precipitò ad aprirla e varcammo decisi la soglia. Appena in tempo. I quattro idioti avevano incominciato a lamentarsi con un superiore. Costui si era reso subito conto che li avremmo seguiti e si era già alzato per sprangare la porta. Accortosi che era ormai troppo tardi, finse amabilmente di essere balzato in piedi per salutarci, poi ordinò ai suoi penosi tirapiedi di andarsene. Non ci fu alcun bisogno di presentazioni, conoscevamo bene quell'individuo: era Anacrite. «Bene, bene» disse.
«Bene, bene» replicammo. Mi girai verso Petro. «È il fratello naufrago che da tempo avevamo dato per disperso.» «Davvero? Credevo fosse l'erede scomparso di tuo padre.» «No, quello ho fatto in modo di abbandonarlo all'aperto sul fianco brullo di una montagna. A quest'ora sarà già stato divorato da un orso.» «Allora chi è costui?» «Credo l'impopolare strozzino che intendiamo nascondere dentro un baule prima di perdere la chiave...» Chissà perché, Anacrite non apprezzava la nostra giovialità. Del resto, nessuno si aspetta che una spia sia socievole. Impietosendoci per la sua ferita alla testa, fingemmo di smettere di coalizzarci contro di lui, anche se il velo di sudore che gli imperlava la fronte e l'espressione guardinga che proveniva dai suoi occhietti grigi semichiusi ci fecero capire che era ancora convinto che volessimo appenderlo a testa in giù dentro un secchio d'acqua finché non avessimo smesso di sentire i suoi lamenti strozzati. Prendemmo possesso della stanza, gettando da parte rotoli di pergamena e spingendo qua e là i mobili. Lui capì che era meglio non fare storie. Noi eravamo in due, di cui uno grande e grosso, ed eravamo entrambi molto arrabbiati. In più, teoricamente, Anacrite era ammalato. «Allora, si può sapere perché ci stai minacciando per la nostra innocente curiosità?» domandò Petronio. «State creando allarmismo.» «Ma quello che abbiamo scoperto è motivo di allarme!» «Non c'è ragione per mettere in ansia la popolazione.» «Ogni volta che sento queste parole» dissi «salta fuori che qualche subdolo funzionario mi sta raccontando bugie.» «Il curatore degli acquedotti prende molto sul serio la situazione.» «È per questo che ti rintani nel suo ufficio?» «Sono stato cooptato per un incarico speciale.» «Ripulire le fontane con una bella spugnetta?» Anacrite sembrò offeso. «Faccio il consigliere del curatore, Falco.» «Non sprecare il tuo tempo. Quando siamo venuti a riferire che c'erano cadaveri a ostruire la corrente, il bastardo non ha voluto saperne niente.» Anacrite riacquistò la propria baldanza. Assunse l'aria gentile e ipocrita dell'uomo che ci aveva rubato il lavoro. «È così che funziona nei servizi pubblici, amico. Quando decidono di avviare un'indagine, non si servono mai di chi li ha avvertiti per primo del problema. Non si fidano di lui, per-
ché tende a pensare di essere l'unico esperto e comincia a esporre le teorie più astruse. Invece, chiamano un professionista.» «Vuoi dire un principiante incompetente che non ha alcun interesse?» Lui sogghignò con aria di trionfo. Petronio e io ci scambiammo un'occhiata gelida, poi ci alzammo in piedi e ce ne andammo. La Prima spia ci aveva rubato l'indagine. Nonostante fosse in congedo per malattia, Anacrite aveva maggiore influenza di noi due messi insieme. Bene, il nostro interessamento al servizio dello stato era finito. Ora ci saremmo potuti occupare dei clienti privati. Inoltre, mi ero appena ricordato una cosa terribile: ero uscito senza Giulia. Per gli dèi, avevo lasciato la mia bambina di soli tre mesi completamente sola in una casa deserta, e per di più in una zona violenta dell'Aventino. «Be', può essere un modo per evitare di portarsi appresso una neonata e avere l'aria poco professionale» commentò Petro. «Sono certo che ti stia bene, almeno spero. Quello che mi preoccupa è che ormai Elena sarà quasi certamente tornata e avrà scoperto quello che ho fatto...» Faceva troppo caldo per correre. Tuttavia, tornammo a casa camminando il più in fretta possibile. Quando iniziammo a salire le scale, ci rendemmo subito conto che Giulia era sana e salva e che era in buona compagnia. Dall'appartamento provenivano alcune voci femminili che conversavano serenamente. Ci scambiammo un'occhiata che si può solo definire preoccupata, poi entrammo tranquillamente, con l'aria di chi è sinceramente convinto che non sia successo niente di disdicevole. Una delle voci apparteneva a Elena Giustina, che in quel momento allattava la bambina. Non proferì parola ma, quando il suo sguardo incrociò il mio, nei suoi occhi notai la stessa temperatura rovente che doveva avere sciolto le ali di Icaro quando si era avvicinato troppo al sole. L'altra voce proveniva da una donna che rappresentava un problema ben più grosso: la moglie da cui Petro era separato, Arria Silvia. XV «Non disturbarti a guardare in giro. Le bambine non le ho portate.» Sil-
via non perse tempo. Era una minuscola scintilla, una bambolina. Petronio la prendeva in giro dicendo che aveva un carattere forte. Io la consideravo assolutamente irragionevole. «In una zona come questa, non si sa mai che genere di individui potrebbero incontrare» proferì con enfasi, serrando con forza le mani. Silvia non si era mai preoccupata di essere scortese. «Sono anche le mie figlie.» Petronio era il pater familias: dal momento che alla nascita aveva riconosciuto le tre bambine, legalmente appartenevano a lui. Se avesse voluto fare il difficile, avrebbe potuto pretendere che vivessero con lui. Tuttavia, eravamo plebei. Non aveva i mezzi per badare a loro, e Silvia lo sapeva benissimo. «Allora perché le hai abbandonate?» «Me ne sono andato perché tu me l'hai ordinato.» La pacatezza di Petro stava mandando su tutte le furie Silvia. Sapeva esattamente come farla uscire dai gangheri usando la moderazione. «E questo ti sorprende, bastardo?» La collera di Silvia non faceva che accrescere la caparbietà di Petro. Il mio amico si mise a braccia conserte. «Risolveremo la cosa.» «La tua solita risposta per tutto!» Elena e io per tutto il tempo ci eravamo mantenuti prudentemente neutrali. Io avrei proseguito in quella direzione, ma poiché ci fu un momento di tregua Elena intervenne con calma: «Mi dispiace vedervi così». Silvia scrollò il capo e cominciò a comportarsi come una cavalla selvatica. Sfortunatamente per Petro, ci voleva ben più di una manciata di carote per calmarla. «Non immischiarti, Elena.» Elena cercò di mostrarsi ragionevole, mentre avrebbe tanto voluto scagliare una ciotola di frutta in faccia a Silvia. «Esprimo solo un dato di fatto. Marco e io abbiamo sempre invidiato la vostra tenera vita familiare.» Arria Silvia si alzò in piedi. Aveva un sorriso sfuggente che probabilmente Petronio aveva trovato incantevole un tempo. Quel giorno se ne servì come un'arma micidiale. «Ebbene, adesso vi accorgete anche voi che è sempre stata una finzione.» Lo spirito combattivo l'abbandonò all'improvviso, in un modo che trovai preoccupante. Decise di andarsene. Per puro caso Petronio le intralciava la via. «Scusami.» «Vorrei vedere le mie figlie.» «Le tue figlie vorrebbero vedere un padre che non raccoglie ogni fiore spezzato che trova sulla strada.» Petronio non si prese il disturbo di controbattere. Si fece da parte e la lasciò passare.
Petro indugiò giusto il tempo di accertarsi che non si sarebbe imbattuto in Arria Silvia quando fosse sceso di nuovo in strada. Poi se ne andò anche lui, senza che ci fosse molto da dire. Elena finì di dare colpetti sulla schiena a Giulia per farle fare il ruttino. Sul tavolo c'era un nuovo giocattolo che Silvia doveva averle portato in dono. Lo ignorammo, consapevoli che a quel punto avremmo trovato spiacevole la sua presenza. Elena rimise la bambina nella culla. Ogni tanto mi era concesso quel privilegio, ma quel giorno non fu così. «Non succederà più» promisi, senza bisogno di specificare che cosa. «No» concordò Elena. «Non cerco scuse.» «Sei stato sicuramente chiamato per qualcosa di estremamente importante.» «Niente è più importante della sua sicurezza.» «È quello che penso anch'io.» Ci trovavamo ai lati opposti della stanza. Parlavamo a bassa voce, come se volessimo evitare di svegliare la bambina. Il tono della nostra conversazione era stranamente leggero e guardingo, senza alcun ammonimento da parte di Elena né scuse da parte mia, come sarebbe stato pensabile. Eravamo stati troppo colpiti dalla violenta lite tra i nostri due amici per aver voglia, o rischiare, di litigare a nostra volta. «Avremo bisogno di una bambinaia» osservò Elena. Quell'affermazione più che ragionevole implicava gravi conseguenze. Avevo due possibilità: o cedere e prendere a prestito una donna dei Camilli (che loro ci avevano già offerto e che io avevo orgogliosamente rifiutato), o acquistare direttamente una schiava. Quest'ultima alternativa sarebbe stata una novità alla quale non ero affatto preparato, non avendo il denaro per acquistarla, darle da mangiare e vestirla, né il desiderio di ampliare il mio nucleo familiare fintanto che vivevamo in uno spazio così angusto, né la speranza di migliorare le nostre condizioni in un prossimo futuro. «Naturalmente» risposi. Elena non replicò. Il soffice tessuto del suo vestito rosso scuro si era impigliato alla base ricurva della culla. Non vedevo la bambina, ma sapevo esattamente che aspetto e che odore aveva, come tirava su col naso e come mi avrebbe guardato con gli occhi socchiusi se mi fossi chinato a osservarla. Esattamente come conoscevo il modo in cui il petto di Elena si sollevava al ritmo del respiro, l'impeto di collera per il pericolo che avevo fatto
correre a nostra figlia lasciandola sola e indifesa, il muscolo che si contraeva all'angolo della sua dolce bocca mentre lottava con i sentimenti contrastanti che provava per me. Forse sarei riuscito a rabbonirla con un sorriso sfrontato. Ma Elena era troppo importante per me per provarci. Probabilmente un tempo Petro aveva provato per sua moglie e la sua famiglia gli stessi sentimenti che provavo io in quel momento e fondamentalmente né lui né Silvia erano cambiati. Tuttavia, sembrava che in qualche modo lui avesse smesso di preoccuparsi che le proprie azioni sconsiderate fossero evidenti, mentre lei aveva smesso di credere che lui fosse perfetto. Avevano perduto la tolleranza quotidiana che rende possibile vivere insieme a un'altra persona. Elena probabilmente si chiedeva se un giorno sarebbe successa la stessa cosa anche a noi. Ma forse lesse la tristezza sul mio volto perché, quando le tesi le mani, mi venne incontro. La presi tra le braccia e la tenni stretta a me. Il suo corpo era caldo e i suoi capelli profumavano di rosmarino. Come sempre, i nostri corpi sembravano adattarsi perfettamente l'uno all'altro. «Oh, piccola, mi dispiace. Sono un disastro. Che cosa ti ha spinto a scegliere me?» «Un errore di giudizio. E che cosa ha spinto te a scegliermi?» «Pensavo che fossi bellissima.» «Uno scherzo della luce.» L'allontanai leggermente da me, scrutandole il viso. Era pallida, forse stanca, e tuttavia sempre calma e volitiva. Sapeva come trattarmi. Tenendola ancora stretta a me, la baciai delicatamente sulla fronte: un saluto, dopo essere stati lontani tutto il giorno. Credevo molto nel cerimoniale quotidiano. M'informai sulla scuola per gli orfani e lei mi riferì della sua giornata, parlando in tono formale ma senza polemiche. Dopodiché mi chiese che cosa fosse successo di così importante da trascinarmi fuori casa, e io le raccontai di Anacrite. «Ci ha rubato il nostro rompicapo sotto il naso. È un vicolo cieco, in ogni caso, così immagino che dovremmo essere contenti che se ne occupi lui.» «Ma tu non hai intenzione di rinunciare, vero, Marco?» «Pensi che dovrei andare avanti?» «È quello che aspettavi che ti dicessi.» Elena sorrise. Dopo un momento, aggiunse, osservandomi: «E Petro, che cosa vuole fare?». «Non gliel'ho chiesto.» Aspettai anch'io un momento, poi proseguii in tono beffardo: «Quando medito su qualcosa, è con te che ne parlo. Questo
non cambierà mai, lo sai». «Tu e lui siete soci.» «Nel lavoro. Ma nella vita sei tu la mia compagna.» Mi ero reso conto che, nonostante Petro e io lavorassimo insieme, desideravo ancora discutere dei problemi con Elena. «È quel che si intende con matrimonio, amore mio. Un uomo sceglie una moglie per fidarsi l'uno dell'altra. Per quanto intimo possa essere un amico, in fondo in fondo un briciolo di riserbo resta sempre, specialmente se quell'amico si comporta in modo apparentemente insensato.» «Petronio avrà sempre il tuo sostegno.» «Certamente. E poi verrò da te a dirti quanto è stupido.» Credo che Elena fosse sul punto di baciarmi, e in maniera neanche troppo fuggevole, ma, con mio grande fastidio, fu interrotta. Un paio di piccoli piedi infilati in grossi calzari continuavano a tirare calci contro la porta d'ingresso. Quando uscii per protestare vidi che, proprio come mi ero aspettato, si trattava del mio rozzo e inquieto nipote Gaio. Conoscevo da tempo il suo vandalismo. Aveva tredici anni e andava per i quattordici. Apparteneva alla nidiata di Galla. Testa rasata, un mucchio di tatuaggi di sfingi che si era fatto da solo, metà dei denti mancanti, una tunica abbondante che formava innumerevoli pieghe ed era infine stretta da una cintura alta un palmo la cui fibbia riportava «Fottiti» e una serie di chiodi micidiali. Se ne andava in giro ricoperto di foderi, borse, zucche vuote e amuleti. Un ragazzino che voleva fare l'uomo e che, essendo Gaio, la passava liscia. Era un vagabondo. Spinto alla vita di strada da un'esistenza familiare insopportabile e dalla propria indole curiosa, viveva in un mondo tutto suo. Sarebbe già stato un buon risultato se fossimo riusciti a farlo arrivare alla maturità senza che gli capitasse qualche terribile disgrazia. «Smettila di tirare calci alla porta, Gaio.» «Non sono stato io.» «Non sono sordo, e quelle nuove impronte di piedi sono della tua misura.» «Ciao, zio Marco.» «Ciao, Gaio» risposi pazientemente. Elena era uscita dietro di me. Era convinta che Gaio avesse bisogno di coccole e di qualche parola di conforto invece delle cinghiate che erano considerate un classico dal resto della mia famiglia. «Ti ho portato qualcosa.»
«Che mi piacerà?» Non era difficile immaginare che cosa. «Naturalmente. È un regalo fantastico.» Gaio possedeva un senso dell'umorismo molto sviluppato. «Be', è un altro affare disgustoso che serve alla tua indagine. Un mio amico l'ha trovato in un canale di scolo sulla strada.» «Giochi spesso nei canali di scolo?» domandò Elena, preoccupata. «Oh, no» mentì Gaio, che aveva subito captato la sua inclinazione a correggerlo. Rovistò in una delle borse e tirò fuori il regalo. Era piccolo, delle dimensioni di una pedina. Me lo mostrò, poi lo fece sparire rapidamente. «Quanto mi dai?» Avrei dovuto capire che il furfante aveva saputo della ricompensa. Quel piccolo armeggione scaltro doveva avere costretto metà dei monelli di Roma a perlustrare luoghi disgustosi in cerca di tesori da farmi comprare. «Chi ti ha detto che volevo altri resti ripugnanti, Gaio?» «Ne parlano tutti di quello che tu e Petro state raccogliendo. Papà è di nuovo a casa» aggiunse, così capii chi ne avesse parlato senza troppi peli sulla lingua. «Ottimo.» Ero contrario a dire a un ragazzo di tredici anni che consideravo suo padre un degenerato inaffidabile. Oltretutto, Gaio era abbastanza intelligente per capirlo da solo. «Papà dice che tira fuori dal fiume pezzi di cadavere continuamente.» «I racconti di Lollio devono sempre superare tutti gli altri. È stato lui a riferirti quelle storie assurde di corpi smembrati?» «Lui sa tutto in proposito! Hai ancora quella mano? Posso vederla?» «No e poi no.» «Questo è il caso più eccitante di cui tu ti sia mai occupato, zio Marco» dichiarò Gaio in tono serio. «Se devi scendere nelle fognature per cercare altri brandelli, posso venire a tenerti la lanterna?» «Non ho intenzione di scendere in nessuna fognatura, Gaio. I brandelli che sono stati rinvenuti si trovavano negli acquedotti. Dovresti conoscere la differenza. In ogni caso, ormai se ne stanno già occupando. Un funzionario sta indagando sulla faccenda per conto del curatore degli acquedotti, e Petronio e io torneremo al nostro abituale lavoro.» «Il comitato delle acque ci pagherà per ossa e altra roba del genere?» «No, vi arresteranno per avere causato tumulti. Il curatore vuole tenere tutto sotto silenzio. Comunque, può darsi che quello che hai trovato non sia niente.»
«Oh, sì che lo è» mi corresse Gaio con calore. «È l'alluce di qualcuno!» Alle mie spalle, Elena rabbrividì. Smanioso di fare colpo su di lei, il mascalzone ritirò fuori il pezzo di materia scura, poi mi domandò ancora una volta quanto gliel'avrei pagato. Lo guardai. «Piantala, Gaio! Smettila di seccarmi cercando di rifilarmi un vecchio osso di cane.» Gaio esaminò personalmente l'oggetto, poi ammise mestamente di averci provato. «Sono sempre disposto a tenerti il lume, se scendi nelle fognature.» «Gli acquedotti, te l'ho già spiegato. Comunque, preferirei che tenessi la bambina, così non mi prenderò più lavate di capo per averla abbandonata.» «Gaio non ha ancora visto Giulia» suggerì Elena. Mio nipote aveva evitato di partecipare alla nostra festa di presentazione. Detestava le riunioni familiari: quel ragazzo sotto sotto aveva del buonsenso. In qualche modo fu una sorpresa per me quando mi chiese di vederla subito. Elena lo condusse all'interno e sollevò perfino la bambina dalla culla in modo che lui potesse tenerla in braccio. Dopo averle gettato un'occhiata spaventata, accettò il fagotto addormentato (per qualche ragione, Gaio era sempre stato abbastanza cortese con Elena), e poco dopo il famoso uomo duro rimase completamente incantato dal nostro frugoletto e cominciò a elogiarne le dita in miniatura dei piedini e delle mani. Cercammo di non mostrare la nostra avversione per tutte quelle smancerie. «Credevo che avessi anche tu dei fratellini e delle sorelline» commentò Elena. «Oh, non ho niente a che fare con loro!» ribatté sdegnosamente Gaio. Sembrava pensieroso. «Se badassi a lei, ci sarebbe un compenso?» «Naturalmente» rispose subito Elena. «Sempre che tu lo faccia nel modo giusto» aggiunsi debolmente. Avrei preferito affidare una gabbia di topi alle cure di Gaio, ma la situazione era disperata. Inoltre, ero convinto che non volesse farlo davvero. «Quanto?» Era un autentico membro della famiglia Didio. Stabilii una somma, Gaio me la fece raddoppiare, poi riconsegnò con estrema cura Giulia a Elena e decise di andarsene a casa. Elena lo richiamò per dargli un pasticcino alla cannella (con mia grande contrarietà, visto che l'avevo già adocchiato sul tavolo e non vedevo l'ora di mangiarmelo) e lo baciò cerimoniosamente sulla guancia. Gaio fece una smorfia, ma non si sottrasse al saluto. «Per Giove! Spero che sia pulito. Non lo trascino alle terme da quando siamo andati in Spagna.»
Restammo a guardarlo mentre si allontanava. Avevo ancora il suo piccolo tesoro proveniente dal canale di scolo. Ero soddisfatto di me stesso per avere respinto sdegnosamente il suo tentativo di corrompermi, ma provavo comunque una certa confusione. «Come mai?» mi chiese Elena in tono dubbioso, immaginando già il peggio. «Perché sono quasi convinto che sia veramente un alluce umano.» Elena mi sfiorò delicatamente la guancia, con la stessa aria di chi cerca di ammansire una creatura selvatica che aveva avuto poco prima mentre baciava Gaio. «C'è poco da fare» mormorò. «Anacrite può indagare quanto vuole, ma tu non hai di certo mollato la presa!» XVI Lenia acconsentì ad affiggere un avviso sulla lavanderia per informare che in base a un'ordinanza ogni brandello di cadavere rinvenuto nei corsi d'acqua doveva essere consegnato ad Anacrite. La cosa funzionò. Inoltre, ci eravamo fatti una tale fama che anche il flusso di clienti regolari aumentò. Per lo più ci affidavano mansioni che avremmo potuto svolgere anche a occhi chiusi; per esempio i soliti avvocati che avevano bisogno di dichiarazioni da parte di testimoni che vivevano fuori Roma. Mandavo Petro a occuparsene. Era un modo efficace per distoglierlo dal pensare alle figlie, e per accertarsi che non si comportasse nuovamente in modo indegno facendo visita a Balbina Milvia. Inoltre, non si era ancora reso conto che il motivo per cui gli avvocati ci affidavano questo tipo di lavoro era che andare e tornare da Lavinium a dorso di mulo era una seccatura mortale, soprattutto quando lo scopo era ascoltare una vecchia bacucca mentre descriveva in che modo il suo decrepito fratello fosse andato su tutte le furie con un carraio e l'avesse infine colpito sulla zucca con mezza anfora (con l'ulteriore considerazione che probabilmente il carraio si sarebbe ben guardato dall'intentare causa al fratello e avrebbe ritirato comunque la denuncia). Io mi tenevo occupato rintracciando debitori e svolgendo controlli sulla moralità di alcuni potenziali sposi per conto delle famiglie che avevano figlie in età da marito, che preferivano procedere con i piedi di piombo (una buona arma a doppio taglio, perché avrei potuto facilmente proporre ai futuri sposi di pagare per conoscere la situazione finanziaria delle famiglie). Per alcuni giorni fui un investigatore privato molto impegnato. Quando
questo incarico incominciò a venirmi a noia, tirai fuori l'alluce dal vaso in cui l'avevo riposto e che avevo appoggiato in alto sullo scaffale per evitare che finisse nelle fauci di Noce, e andai al Foro per vedere se fossi riuscito a irritare Anacrite. Aveva ricevuto tanti di quegli oggetti rivoltanti trovati e consegnati da persone convinte che la ricompensa fosse ancora valida che aveva dovuto destinare all'indagine una stanza apposita e due coscienziosi scrivani. Mi bastò un'occhiata per capire che la maggior parte di quei disgustosi ritrovamenti avrebbe dovuto essere rifiutata, ma i funzionari accettavano e registravano tutto. Fino a quel momento Anacrite non aveva fatto molti progressi, a parte ideare un formulario che i suoi scrivani avrebbero dovuto compilare scrupolosamente. Io gettai lì l'alluce trovato da Gaio, mi rifiutai di riempire la mezza pergamena prescritta, sbirciai dietro la porta dell'ufficio rigorosamente privato di Anacrite e sparii di nuovo. Mi ero divertito abbastanza, avrei potuto lasciare le cose come stavano. Invece, tormentato da qualcosa che mi aveva riferito Gaio e che io stesso avevo sentito per caso durante la festa di Giulia, decisi di andare a trovare Lollio. Mia sorella Galla si dava un gran da fare per sopravvivere con un numero incerto di figli a carico e senza alcun sostegno da parte del marito. Abitava in un locale in affitto nei pressi della Porta Trigemina. Lo si sarebbe potuto descrivere come una bella proprietà sull'argine del fiume con uno straordinario panorama e una terrazza su cui prendere il sole, ma solo a chi non l'avesse mai visto. Qui era cresciuto il mio nipote prediletto, Lario, prima di avere il buonsenso di scappare di casa per andare a dipingere i muri delle lussuose ville della baia di Neapolis. E qui, in teoria, viveva Gaio, sebbene si facesse vedere raramente, preferendo rubare salsicce ai venditori di strada e pernottare sotto il colonnato di un tempio. Sempre qui, e in occasioni estremamente rare, si poteva incontrare Lollio, il barcaiolo del Tevere. Era un individuo indolente, falso e brutale, ma tutto sommato accettabile considerato il livello dei miei cognati. Eppure lo disprezzavo più di tutti gli altri, fatta eccezione per Gaio Bebio, il borioso funzionario della dogana. Lollio era brutto, ma così impudente che riusciva chissà come a convincere le donne di essere assai affascinante. Galla abboccava sempre, ogni volta che lui tornava da lei dopo l'ennesima scappatella. Il suo successo con le sgualdrine da taverna aveva dell'incredibile. Lui e Galla si sforzavano re-
golarmente di far funzionare il loro matrimonio, affermando che s'imbarcavano in questa impresa disperata solo per il bene dei figli. Ogni volta che accadeva, la maggior parte dei figli fuggiva a casa di mia madre. Dopo poco che si erano riappacificati, per così dire, Lollio incominciava a fare il cascamorto con una nuova fioraia quindicenne. Inevitabilmente Gallia avrebbe appreso la notizia da una vicina premurosa e Lollio, tornando a casa all'alba barcollando, si sarebbe trovato la porta chiusa a chiave. E ogni volta non se ne capacitava. «Dov'è Gaio?» urlò Galla mentre entravo nel loro sordido tugurio cercando di pulirmi il calzare che avevo appena infilato in una ciotola di pappa per cani lasciata nell'ingresso. «Come faccio a saperlo? Non è affar mio quel che combina quella tua sudicia e indisciplinata carogna.» «È venuto a trovarti.» «Dev'essere stato due giorni fa.» «Oh, davvero?» Non c'era da stupirsi che il giovane Gaio fosse cresciuto senza controlli. Galla era una pessima madre. «Che cosa intendi fare riguardo a Lario?» «Niente, Galla. Non continuare a chiedermelo. Lario fa quello che vuole, e se si tratta di dipingere pareti a qualche miglio da Roma non posso biasimarlo. Dov'è Lollio, piuttosto?» strepitai, visto che Galla non mi era ancora venuta incontro e quindi non sapevo con esattezza da quale stanza urlasse. «Chi se ne frega? Dorme.» Se non altro, era in casa. Snidai quel disgustoso furfante e lo trascinai via dal sudicio guanciale dove russava con un braccio intorno a una caraffa vuota. Era quella l'idea di devozione coniugale tipica di un barcaiolo. Non appena lo sentì borbottare, Galla lanciò una serie di contumelie contro di lui, così Lollio mi strizzò l'occhio e ce la svignammo senza avvertire. Galla, dopo tutto, era abituata. Trascinai mio cognato verso il Foro Boario. Probabilmente era ubriaco, ma era anche zoppo, il che lo costringeva a procedere barcollando. Di conseguenza, ebbi lo sgradevole compito di sostenerlo in posizione eretta; avevo l'impressione che puzzasse, ma non osavo tenerlo troppo stretto a me per accertarmene. Camminavamo sul lato lastricato del Tevere, che chiamano Argine di Marmo, parecchio lontani dalle banchine che circondano l'Emporium ma
prima degli eleganti teatri e colonnati e della grande ansa del fiume che racchiude il Campo di Marte. Dopo il Ponte Sublicio girammo intorno all'Arco di Lentulo e all'ufficio dell'ispettore dei mercati, e ci ritrovammo a guardare l'acqua vicino all'antico Tempio di Portunno, subito sopra l'arco di uscita della Cloaca Massima. Un bel posto maleodorante per gettare Lollio giù dall'argine. Forse avrei dovuto farlo davvero: Roma e i figli di Galla mi sarebbero stati grati. «Che cosa vuoi, giovane Marco?» «Per te io sono Falco. Mostra un po' di rispetto per il capofamiglia.» Lollio la prese per una battuta: essere a capo della nostra famiglia non era un onore di cui vantarsi, anzi era insopportabile, una punizione che mi era stata inflitta con malignità dalle Parche. Mio padre, il banditore e imbroglione impenitente Didio Gemino, avrebbe dovuto attendere ai suoi obblighi ma se ne era andato di casa molti anni addietro. Insensibile, ma sagace. Lollio e io restammo a guardare incupiti in direzione del Ponte Emilio. «Parlami di quello che hai trovato nel fiume, Lollio.» «Merda.» «È una risposta ponderata, o un'imprecazione generica?» «Entrambe.» «Voglio sapere dei corpi smembrati.» «Quanto sei stupido!» Lo fissai con severità. Non servì a niente. Mentre mi sforzavo di osservarlo, non vedevo altro che un miserabile individuo. Lollio dimostrava una cinquantina d'anni ma avrebbe potuto avere qualsiasi età. Era più basso e più robusto di me, ma così male in arnese che le prospettive per i suoi eredi sembravano ottime. La sua faccia era già brutta ancora prima che perdesse quasi tutti i denti, inoltre aveva un occhio permanentemente chiuso da quando Galla l'aveva colpito in volto con una padella dal fondo pesante. Aveva sempre avuto gli occhi troppo ravvicinati, le orecchie a sventola, e il naso così storto che lo faceva respirare rumorosamente. Inoltre, non aveva collo. I radi capelli lisci erano coperti dal tradizionale berretto di lana dei barcaioli. Diversi strati di tunica completavano quell'insieme desolante: quando riteneva di essersi versato addosso vino a sufficienza, si limitava ad aggiungere uno strato supplementare. Non c'era quindi niente che lo rendesse accettabile? Be', sapeva condurre una barca a remi, sapeva nuotare. Sapeva imprecare, lottare e fornicare. Era un marito sessualmente attivo, ma un padre sleale: vantava entrate re-
golari ma si ostinava a mentire sul salario, e a mia sorella non dava mai niente per il mantenimento della famiglia, un classico atteggiamento. Un'autentica moneta di stampo romano. Aveva tutte le carte in regola per essere eletto sacerdote o tribuno. Tornai a guardare il fiume. Non notai niente di straordinario. Come sempre l'acqua bruna gorgogliava in modo discontinuo; ogni tanto straripava, ma per il resto il leggendario Tevere era un corso d'acqua piuttosto mediocre. Ero stato in città più piccole che sfoggiavano fiumi più imponenti. Roma però era stata costruita proprio lì non solo per via dei mitici Sette Colli: quella era una posizione eccellente nell'Italia centrale. L'Isola Tiberina, sulla nostra destra, distante dalla costa solo un modesto giorno di viaggio, era stato il primo luogo sopra il livello del mare su cui si potesse edificare un ponte. Probabilmente era sembrato un posto ragionevole a quegli antichi pastori non propriamente svegli che avevano costruito sopra una pianura alluvionale, posizionando il Foro in una palude stagnante, convinti che fosse un colpo da maestri. Lo stretto fiume limaccioso costituiva un grave svantaggio. Roma importava straordinarie quantità di merci da tutte le parti, e ogni anfora e ogni pacco dovevano essere trascinati lungo la strada maestra su carretti o a dorso di mulo, oppure trasportati su chiatte fino all'Emporium. A Ostia era stato costruito un nuovo porto, ma era ancora insufficiente. Così, oltre alle chiatte, sul Tevere c'era un notevole traffico di piccole imbarcazioni, e questo consentiva l'esistenza di parassiti come Lollio. Era l'ultima persona che avrei voluto si vantasse di avere collaborato a una mia indagine. Tuttavia, Petro e io non sapevamo come trovare informazioni utili. Se dovevamo competere con Anacrite, dovevo rassegnarmi ad avere a che fare perfino con mio cognato. «Lollio, o la pianti di parlare dei tuoi ritrovamenti, in nome degli dèi, o mi dici di che cosa si tratta.» Mi fissò con quei suoi occhi cisposi ma scaltri, che parevano tutt'altro che affidabili. «Oh, ti riferisci ai giochini da festa!» Compresi immediatamente che quel bastardo mi aveva appena rivelato qualcosa d'importante. XVII «Le chiamiamo così» gongolò. Dal momento che era lento ad afferrare un'idea, presumeva che io fossi altrettanto ottuso. «Giochini da festa...» ripeté accuratamente.
«Di che cosa stai parlando esattamente, Lollio?» Lui tracciò con gli indici due linee sul proprio corpo, una di traverso davanti al collo sudicio e l'altra alla sommità delle gambe grasse. «Lo sai...» «Tronchi? Senza arti?» «Sì.» Mi era passata la voglia di chiacchierare, mentre mio cognato al contrario sembrava entusiasta. Per prevenire altri orribili dettagli, chiesi: «Immagino che manchino anche le teste.» «Naturalmente. Tutto quello che può essere tagliato via.» Lollio mostrò ciò che restava dei suoi denti in un sogghigno: «Compresi i meloni». Tracciò dei cerchi sul torace e poi li troncò con il palmo della mano come se recidesse dei seni. Nello stesso tempo, emise un suono rivoltante attraverso le gengive. «Mi pare di capire che siano donne?» La sua mimica era stata piuttosto chiara, tuttavia avevo imparato ad accertarmi di tutto. «Be', lo erano una volta. Schiave, probabilmente, o poco di buono.» «Che cosa te lo fa pensare?» «Nessuno viene mai a cercarle. Che altre donne potrebbero essere? A ben pensarci, però, le schiave hanno un certo valore, quindi probabilmente saranno state ragazze facili... che hanno passato momenti difficili.» Scrollò le spalle senza tanti complimenti. Deploravo il suo atteggiamento, anche se probabilmente aveva ragione. «Non ho mai sentito parlare di queste ragazze senza gambe né braccia.» «Si vede che frequenti gli ambienti sbagliati, Falco.» Lungi da me cambiare vita. «Ne hai ripescata qualcuna?» «No, ma conosco qualcuno che l'ha fatto.» Che novità. «L'hai visto di persona?» «Esatto.» A quel ricordo, divenne silenzioso perfino lui. «Di quante stiamo parlando?» «Be', non così tante» ammise Lollio. «Abbastanza, comunque, da pensare: "Ecco che l'ha rifatto!" quando ce n'è una che galleggia in superficie o che resta impigliata in un remo. Sembrano tutte più o meno uguali» spiegò, come se fossi troppo stupido per capire in che modo i barcaioli mettessero in relazione le cose. «Con le stesse mutilazioni? Ne parli come se ripescare simili bellezze fosse diventato parte integrante del tuo lavoro. Da quanto tempo va avanti questa faccenda?» «Oh, da anni!» Sembrava piuttosto preciso.
«Anni? Quanti anni?» «Da quando faccio il barcaiolo. Be', più o meno.» Avrei dovuto avere abbastanza buonsenso da non aspettarmi che Lollio potesse essere preciso, perfino su qualcosa di così sensazionale. «Quindi cerchiamo un assassino piuttosto maturo?» «O qualcuno che ha rilevato l'attività di famiglia» blaterò Lollio. «Quando è stata scoperta l'ultima?» «L'ultima di cui io ho sentito parlare...» Lollio si arrestò, lasciando che cogliessi l'allusione al fatto che a lui non sfuggiva nulla di quello che capitava sul fiume, «dovrebbe essere stata scoperta più o meno lo scorso aprile. A volte le troviamo in luglio, però, e a volte in autunno.» «E come le chiamate, hai detto?» «Giochini da festa.» Orgoglioso di quella definizione, non ebbe nulla in contrario a ripeterlo un'altra volta. «Come quelle speciali torte cretesi, sai...» «Sì, sì, ho afferrato l'idea. Quelle che compaiono in occasione delle festività pubbliche.» «Semplice, no? Qualcuno si è accorto che capita sempre quando ci sono Giochi importanti, o un Trionfo.» «Il calendario è così zeppo di festività pubbliche che mi sorprende che qualcuno l'abbia notato.» «Noi scherziamo dicendo che capita sempre quando torniamo al lavoro con un mal di testa terribile e non siamo in grado di affrontare niente di così forte.» E questo accadeva di frequente: i barcaioli del fiume erano tutti tristemente noti per la loro attitudine al vino. «Quando vengono ripescate, che cosa ne fate dei corpi?» Lollio mi guardò di traverso. «Tu che cosa pensi che ne facciamo? Li trafiggiamo con una lancia per far uscire i gas, li trainiamo giù fino alla foce, perché non creino problemi, e poi, se possiamo, li facciamo affondare.» «Come siete umani.» Il suo sdegno era giustificabile. «Sicuramente non siamo tanto stupidi da consegnarli alle autorità!» «Capisco.» Il senso civico è, nel migliore dei casi, una perdita di tempo, e nel peggiore significa andare in cerca di guai, per esempio marcire per dieci mesi nelle prigioni Lautumie senza processo. «Allora, tu che cosa suggerisci?» mi punzecchiò Lollio. «Di scavare una grande buca in un giardino pubblico e seppellire i pezzi quando nessuno guarda... o almeno si spera? Oppure potremmo metterci insieme e organiz-
zare qualcosa tramite il circolo funerario della nostra corporazione? Oh, sì. Prova a organizzare un'elegante cremazione per qualcuno che non conosci e a cui un pervertito ha mozzato le estremità. In ogni caso, Falco, se io avessi trovato uno di quei giochini, e anche se fossi disposto a fare qualcosa in proposito, come farei a spiegarlo a Galla?» Sorrisi con sarcasmo. «Inventandoti qualche bugia, Lollio, proprio come fai regolarmente!» XVIII Petronio era furioso. Quando tornò dal suo viaggio fuori città e gli riferii il racconto di Lollio, venne fuori il suo lato peggiore di membro dei Vigili. Voleva precipitarsi giù al Tevere e arrestare chiunque maneggiasse un remo. «Calmati, Petro. Non sappiamo il nome di nessuno, e nessuno ce li dirà. Ho ficcato un po' il naso, ma i barcaioli si sono rifiutati di parlare: non vogliono avere problemi. E chi può biasimarli? In ogni caso, senza un tronco vero e proprio non possiamo fare molto. Per lo meno sappiamo che i barcaioli trovano queste genere di cose. Non che mi sorprenda: se ci sono in giro mani smembrate, da qualche parte i corpi dovranno pur essere. Ho sparso la voce lungo l'argine che la prossima volta prenderemo in consegna noi quello che pescano. Non irritiamo quei bastardi, fidati. Lollio ha sputato il rospo solo perché voleva darsi delle arie.» «È solo una vecchia aringa affumicata e putrida.» «Non dirlo a me.» «Sono stufo marcio di perdere tempo, Falco.» Petronio sembrava irritabile. Forse mandandolo a Lavinium gli avevo fatto perdere un incontro galante con Milvia. «Il modo in cui lavori è incredibile. Giri intorno, ti avvicini furtivamente agli indiziati con un sorriso da ebete sul viso, quando basterebbe distribuire un paio di randellate.» «Voi Vigili conquistate così la fiducia della gente?» «È l'unico metodo per svolgere un'indagine come si deve.» «Io preferisco convincerli a cantare con le parole.» «Non contare frottole. Tu li corrompi e basta.» «Ti sbagli. Sono troppo a corto di denaro.» «Allora qual è il tuo metodo?» «L'astuzia.» «Tutte palle! Diamoci da fare, piuttosto» sentenziò Petro.
Per dare il buon esempio, si precipitò fuori, nonostante l'intensa calura, e scese fino al fiume, dove avrebbe cercato di lavorarsi i barcaioli nonostante gli avessi detto di non farlo. Sapevo che non sarebbe approdato a nulla. Era evidente che, prima di dare il suo apporto come socio, Lucio Petronio avrebbe dovuto imparare a sua volta le dure lezioni che io avevo assimilato in sette anni di lavoro. Petro era abituato a fare assegnamento sulla pura e semplice autorità per incutere qualcosa di perfino più semplice, la paura. Presto avrebbe scoperto di esserne privo. Nel settore privato non avrebbe ispirato altro che dileggio e disprezzo. In ogni caso, menare le mani non era una soluzione praticabile per un privato cittadino. (E probabilmente era illegale anche per i Vigili, ma nessuno si sarebbe mai sognato di farlo presente davanti a loro.) Mentre Petro si sfiancava fra la feccia del fiume, io mi diedi da fare per guadagnare un po' di spiccioli. Per prima cosa mi tirai su di morale riscuotendo il pagamento di diversi lavori che avevo eseguito mesi addietro, prima di mettermi in società con Petro. I denari finirono dritti nella mia cassetta bancaria al Foro, ma non prima di essermi procurato un paio di bistecche di squalo per Elena e me. In secondo luogo, grazie alla fama che ci eravamo fatti di recente, avevamo ottenuto alcuni incarichi interessanti. Un padrone di casa voleva che indagassi su una delle sue inquiline che si lamentava della malasorte. L'uomo sospettava che ospitasse abusivamente un fidanzato che avrebbe invece dovuto sganciare una parte dell'affitto. Mi era bastata un'occhiata alla signora per capire che questo era assai probabile: era molto bella e nella mia spensierata gioventù mi sarei messo anch'io in fila per settimane davanti a casa sua. Il padrone di casa aveva cercato inutilmente di attendere al varco il fidanzato, mentre il mio metodo richiese solo un'ora di sorveglianza. Mi appostai a mezzogiorno. Puntualmente all'ora di pranzo arrivò con aria furtiva un omuncolo con la tunica rattoppata: non sopportava l'idea di perdere lo spuntino. Poche parole scambiate con il portatore d'acqua del caseggiato mi confermarono che viveva lì. Entrai con decisione, affrontai i colpevoli mentre si dividevano uova e olive e risolsi il caso. Un ricco commerciante di papiri, invece, sospettava che la moglie lo tradisse con il suo migliore amico. Avevamo tenuto sotto controllo il posto e alla fine giunsi alla conclusione che l'amico era innocente, ma che quasi certamente la matrona se la faceva regolarmente con il cerimoniere di casa. Il cliente fu felicissimo che avessi scagionato l'amico, non volle più saperne dello schiavo che lo aveva ingannato e pagò tutto immediatamente. Il
compenso, e in aggiunta una grossa mancia, fu versato nella cassa comune che Petro e io avevamo istituito. Sulla via del ritorno verso la Corte della Fontana, feci una capatina alle terme, dove mi ripulii ben bene, ascoltai qualche pettegolezzo senza importanza e scambiai un paio di battute scherzose con Glauco, che però era impegnato con un altro cliente, così non mi fermai. Quando infine tornai alla base, Petronio Longo non era ancora ricomparso. Mi toccava anche preoccuparmi di dove si fosse cacciato, ed era come tenere a bada le pene d'amore di un adolescente. Mi augurai che la sua assenza significasse che era andato dalla moglie per tentare di riconciliarsi, ma sapevo che era assai più probabile che quel cane fosse andato di nascosto a trovare Balbina Milvia. Soddisfatto dei risultati del mio lavoro, chiusi l'ufficio, scambiai qualche parola con Lenia, dopodiché attraversai tranquillamente la strada. Ero io il cuoco di casa, almeno finché non avessimo avuto anche noi a disposizione una schiera di schiavi dalla lamentela facile. Elena aveva già marinato le bistecche di pesce in olio d'oliva con alcune erbe. Io mi limitai a passarle in padella sulle braci del nostro piano per cucinare, dopodiché le mangiammo con insalata verde condita con aceto, olio e un tantino di salsa di pesce. Dopo la nostra avventura in Spagna, avevamo olio e salsa di pesce in abbondanza, tuttavia preferivo usarli con parsimonia. D'altra parte un'eccellente bistecca di squalo non aveva bisogno di particolari condimenti. «Le hai sciacquate bene?» «Naturalmente» ribatté Elena. «Ho visto che erano state salate. Sai, mentre le lavavo mi sono chiesta che cosa poteva esserci stato in quell'acqua» «Non pensarci. Non lo saprai mai.» Elena sospirò. «Be', se Lollio ha ragione e da parecchi anni le persone vengono assassinate, fatte a pezzi e poi scaricate nell'acqua, immagino che ormai ci abbiamo fatto tutti l'abitudine.» «I tronchi dei cadaveri devono essere stati gettati direttamente nel fiume.» «Mmm, davvero rassicurante» borbottò Elena. «Sono preoccupata per la salute della bambina. Chiederò a Lenia se possiamo attingere acqua dal pozzo della lavanderia.» Voleva che quell'orrore finisse, e anch'io. E voleva che fossi io a mettervi fine, ma non ero tanto sicuro di riuscirci.
Lasciammo passare un discreto periodo di tempo, giusto per non dare l'impressione che non vedessimo l'ora di essere invitati a cena, poi scendemmo dall'Aventino per andare a casa dei genitori di Elena. Pensavo che avremmo semplicemente trascorso una tranquilla serata fuori casa, ma mi resi ben presto conto che Elena aveva progetti assai più precisi. Per prima cosa voleva verificare da vicino la situazione che riguardava Claudia Rufina. Sia Claudia sia i fratelli di Elena erano in casa, imbronciati perché i genitori avevano organizzato un banchetto per alcuni amici della loro generazione, così la casa era piena di profumi allettanti ma loro dovevano accontentarsi degli avanzi. Ci sedemmo insieme a loro finché Eliano non incominciò ad annoiarsi e decise di uscire per andare ad ascoltare un concerto. «Potresti portare con te Claudia» lo sollecitò Elena. «Naturalmente» rispose subito Eliano, poiché proveniva da una famiglia di persone perspicaci e aveva ricevuto una buona educazione. Ma Claudia era terrorizzata all'idea di uscire di notte a Roma e decise di rifiutare l'invito del suo fidanzato. «Non preoccuparti, baderemo noi a lei» disse il fratello al futuro sposo. Il commento era pacato e non implicava alcun giudizio, Giustino aveva sempre saputo come criticare velatamente. Quei due ragazzi non si amavano affatto. Fra loro c'erano poco meno di due anni di differenza e non erano mai stati troppo uniti. Non avevano l'abitudine di condividere niente, tanto meno le responsabilità. «Grazie.» rispose laconicamente Eliano. Per un attimo parve sul punto di cambiare idea. O forse fu solo un'impressione. Comunque ci lasciò. Claudia discuteva con Elena della scuola per orfani, un argomento che interessava entrambe. Continuava a coccolare la nostra bambina, era quel genere di ragazza che prende in braccio i bambini e dimostra quanto sa essere sentimentale, e questo probabilmente non era il modo migliore per conquistare il cuore del suo fidanzato: Eliano digeriva a stento l'idea di sposarsi, e di certo Claudia dimostrava poco tatto nel fargli intuire che si aspettava una culla tutta sua. Io mi gustai una lunga conversazione con Giustino. Una volta lui e io avevamo condiviso un'avventura, imperversando come eroi per tutto il Nord della Germania, e da allora lo tenevo in grande considerazione. Se fossi stato della sua stessa classe sociale gli avrei offerto la mia protezione, ma essendo un investigatore non potevo dargli alcun aiuto. Era poco più che ventenne, alto, di corporatura esile e di una bellezza e
un'indole tranquilla che avrebbero potuto creare scompiglio fra le donne annoiate delle classi senatoriali, se mai gli fosse venuto in mente di avere la stoffa del rubacuori. Parte del suo fascino derivava proprio dal fatto che non sembrava rendersi conto né delle doti né del potenziale di seduttore che possedeva. Nel contempo i suoi grandi occhi castani, con quella affascinante nota di tristezza, osservavano quasi certamente più di quanto lui desse a vedere. Quinto Camillo Giustino era un piccolo soldato avveduto. Stando a quanto si raccontava in giro faceva la corte a un'attrice, ma mi chiedevo se quelle voci non fossero state alimentate ad arte, in modo che gli altri lo lasciassero in pace mentre lui sceglieva la propria strada. Le attrici erano letali per i figli dei senatori, e Quinto era troppo intelligente per rischiare di suicidarsi socialmente. Vespasiano l'aveva richiamato a Roma da un tribunato militare in Germania, un grande segno di benevolenza, apparentemente. Ma, come spesso capita, non appena tornato a casa la promessa di una sua promozione svanì. Evidentemente nel frattempo erano comparsi altri valenti uomini che avevano attirato l'attenzione dell'imperatore. Quanto a Giustino, sempre diffidente, non mostrava né sorpresa né risentimento. Io invece ero furioso per lui, e sapevo che lo era anche Elena. «Avevo sentito di un tuo tentativo di entrare in Senato contemporaneamente a tuo fratello. L'imperatore non aveva forse accennato alla possibilità di un accesso in tempi brevi?» «Lo slancio si è spento.» Il suo sorriso era sardonico. Qualsiasi cameriera gli avrebbe offerto da bere sui due piedi. «Sai come vanno le cose, Marco. Immagino che dovrò candidarmi alle elezioni, quando avrò l'età per farlo. E dopotutto in questo modo mio padre non dovrà sobbarcarsi tutto quel peso economico in una volta sola.» Fece una pausa. «In ogni caso, non sono sicuro che sia quello che voglio veramente.» «Stai attraversando una fase difficile, eh?» Gli sorrisi. Voleva riuscire bene nella vita, e superare Eliano. Era comprensibile. «Faccio il difficile» concordò lui. Elena alzò gli occhi. Doveva avere seguito il discorso anche se sembrava impegnata nella conversazione con Claudia. «Suppongo che ti gratti di fronte agli illustri amici di nostro padre, che ti rifiuti di cambiarti la tunica più di una volta al mese, e che sei scontroso all'ora di colazione, sbaglio?» Giustino sorrise affettuosamente alla sorella. «Non mi presento affatto a colazione, mia cara. A metà mattina, quando tutti gli schiavi sono indaffarati a lavare i pavimenti, scendo dal letto, camminando proprio sui tratti
già puliti con i calzari sporchi della sera precedente, poi pretendo una sardina fresca e una frittata di cinque uova cucinata esattamente a puntino. E quando arriva, ne lascio più della metà.» Risi. «Farai molta strada... ma non aspettarti un invito a stare da noi!» Dall'alto del suo grosso naso, Claudia Rufina osservò noi tre con aria solenne e turbata. Forse era un bene che si fosse legata a Eliano: il ragazzo era rispettabile e ligio alle convenzioni, non si lasciava mai andare a ridicole fantasie. Senza alcun motivo evidente, Elena diede un colpetto affettuoso sul braccio della ragazza stracarico di braccialetti. E sempre senza alcun motivo, il suo sguardo incrociò il mio. Le strizzai l'occhio. Senza pensarci due volte, Elena ammiccò a sua volta. Poi restammo a guardarci negli occhi come chi si ama da tempo e non ha paura di mostrarlo anche quando è socialmente sconveniente, escludendo gli altri due. Elena aveva un aspetto splendido, la carnagione luminosa, era di buonumore, sveglia e intelligente. Era vestita in modo più formale di quando era a casa, poiché non si sa mai che cosa aspettarsi quando si va in visita da un senatore: una tunica di un bianco immacolato con una luccicante toga dorata, una collana d'ambra e orecchini leggeri, il viso appena truccato con accenni di colore, i capelli raccolti con diversi pettini eleganti. Vederla così contenta e sicura di sé mi rassicurò: non avevo commesso nessuna ingiustizia nei suoi confronti strappandola a suo padre. Elena era molto abile nel tornare temporaneamente nel suo mondo aristocratico senza provare alcun imbarazzo, e riusciva perfino a portarmi con sé. Vivendo con me le comodità dovevano mancarle, ma non dava mai l'impressione di provare rammarico. «Allora, Marco!» I suoi occhi sorridevano in un modo che mi spinse a prenderle la mano e a baciarla. Il gesto era accettabile in pubblico, ma rivelava sicuramente un'intimità assai più profonda. «C'è un affetto così grande tra voi!» esclamò d'impulso Claudia. Allarmata da quella voce concitata, la nostra bimba si svegliò e incominciò a frignare. Elena si protese a prendere la figlia. Giustino si alzò dal divano e si avvicinò, fermandosi alle spalle della sorella per abbracciarla e baciarla a sua volta. «Claudia Rufina, noi siamo una famiglia affettuosa» disse maliziosamente. «E fra poco tu entrerai a farne parte... non sei contenta?» «Sii gentile» lo rimproverò Elena. «Mentre ci delizi con i tuoi commenti sciocchi, fai un salto nello studio di nostro padre e portami il suo calenda-
rio annuale.» «Stai progettando un'altra festa?» «No. Voglio dimostrare a Marco che il suo socio più efficiente è quello che vive con lui.» «Ma già lo sa» dissi. Il calendario del senatore era un oggetto di un certo pregio: conteneva le date importanti di ogni mese, con una C erano contrassegnati i giorni in cui potevano riunirsi i Comizi, con una F quelli in cui erano consentiti gli affari pubblici generali e con una N le festività pubbliche. I giorni sfortunati avevano dei segni neri. Erano indicate anche tutte le celebrazioni ufficiali e i Giochi. Decimo aveva amabilmente aggiunto i compleanni della moglie e dei figli, il proprio e quelli della sorella prediletta e di un paio di altre sorelle benestanti (che si sarebbero potute ricordare di lui nel testamento se fosse rimasto in buoni rapporti con loro). L'ultima aggiunta, con un inchiostro ancora più scuro, era il giorno, mi fece notare Elena, in cui era nata Giulia Giunilla. Elena Giustina scorse il calendario in silenzio, poi alzò la testa e mi osservò con sguardo severo. «Sai perché lo faccio?» Assunsi un'aria umile, ma pronta a dimostrarle che sapevo anche pensare. «Ti stai ponendo delle domande su quello che ha detto Lollio.» Naturalmente Claudia e Giustino vollero sapere chi fosse Lollio e di che cosa avesse parlato. Glielo dissi, cercando di non scadere nel cattivo gusto. Dopodiché, mentre Claudia rabbrividiva e Giustino assumeva un'espressione austera, Elena espresse la sua opinione. «Devono esserci più di cento festività pubbliche ogni anno, e almeno una cinquantina di celebrazioni solenni. Ma le celebrazioni sono disseminate durante l'intero anno, mentre tuo cognato ha detto che ci sono periodi particolari in cui trovano i resti di queste donne. Credo che il rapporto sia con i Giochi. Lollio ha detto che trovano corpi in aprile... ebbene, ci sono i Megalensia per Cibele, i Giochi di Cerere e poi i Floralia, tutti durante quel mese. La grossa concentrazione di giochi successiva è in luglio...» «E Lollio ha accennato anche a quel mese.» «Esatto. In quel periodo abbiamo i Giochi Apollini, che iniziano il giorno prima delle None, e successivamente i Giochi per le Vittorie di Cesare, che durano per dieci giorni interi.» «Corrisponde tutto. Lollio sostiene che c'è un altro brutto periodo in autunno.»
«Be', a settembre si celebrano i Grandi Giochi, che durano quindici giorni, e poi, all'inizio del mese successivo, quelli in memoria di Augusto, seguiti a fine ottobre dai Giochi per le Vittorie di Siila...» «E i Giochi Plebei in novembre» le rammentai. Li avevo notati prima, sbirciando sopra la sua spalla. «Vatti a fidare di un repubblicano!» «O di un plebeo» replicai. «Ma questo che cosa significa?» domandò Claudia, eccitata. Pensava che avessimo risolto il caso. Giustino alzò la sua bella testa dai capelli curati e osservò l'intonaco decorato del soffitto macchiato di fumo. «Significa che Marco Didio si è trovato un'ottima scusa per passare buona parte dei prossimi due mesi spassandosela nelle arene della nostra magnifica città, e tutto questo definendolo lavoro.» Io, però, scossi tristemente la testa. «Io lavoro soltanto quando qualcuno mi paga, Quinto.» Elena condivideva il mio stato d'animo. «Inoltre, sarebbe inutile per lui aggirarsi per il Circo quando non ha ancora la minima idea di chi o di che cosa cercare. Be', a dir la verità questa situazione somigliava a gran parte degli appostamenti che svolgevo abitualmente. XIX Petronio Longo aveva deciso che doveva tenere tutto sotto controllo. Il suo incontro con i barcaioli del Tevere era stato inutile come avevo previsto, e dichiarò che avremmo dovuto abbandonare l'ormai vano tentativo di chiederci chi stesse inquinando le riserve d'acqua. Era intenzionato a raddrizzare la nostra attività (o, più probabilmente, me). Voleva imporre ordine e attirare nuovo lavoro, pianificare il numero complessivo dei casi da esaminare, mostrarmi in pratica come creare ricchezza grazie a una severa efficienza. Trascorse parecchio tempo a delineare e compilare tabelle mentre io arrancavo in giro per la città consegnando mandati di comparizione in tribunale. Portai a casa gli scarsi denari e, tramite un elaborato sistema di contabilità di cui solo lui era a conoscenza, Petro ne annotò la somma. Ero felice di vedere che si teneva alla larga dai guai. Sembrava che Petronio fosse felice, anche se incominciai a sospettare
che nascondesse qualcosa ancora prima di quando, passando per caso dalla caserma dei Vigili, fui interpellato da Foscolo. «Senti, Falco, non puoi tenere occupato quel nostro capo? Continua a ciondolare qui intorno con il muso lungo, intralciando il lavoro.» «Credevo che fosse in ufficio a creare scompiglio fra i miei clienti, o in giro ad amoreggiare.» «Oh, fa anche quello. Quando finalmente ci lascia in pace, passa a trovare il suo zuccherino.» «Mi dai una notizia scoraggiante, Foscolo. Allora non c'è alcuna possibilità che abbia lasciato perdere Milvia?» «Be', se l'avesse fatto» mi spiegò allegramente Foscolo «i tuoi clienti sarebbero al sicuro, e noi l'avremmo nuovamente qui in pianta stabile.» «Non illudetevi. Petronio ama la vita del lavoratore indipendente.» «Oh, certo!» Foscolo rise di me. «È per questo che tormenta continuamente Rubella per essere reintegrato nel suo incarico.» «Però non lo ottiene. Come fa Rubella a sapere che Milvia è ancora in giro?» «E tu come credi che faccia, Milvia a parte, a sapere le cose?» Foscolo aveva una teoria, naturalmente. Ce l'aveva sempre. «Il nostro fedele tribuno se ne sta rintanato nel suo ufficio e le informazioni gli arrivano direttamente attraverso l'aria. È un essere soprannaturale.» «No, è umano come tutti noi» ribattei sconfortato. Sapevo come lavorava Rubella, ed era tutto strettamente professionale. Voleva farsi un nome come ufficiale dei Vigili e poi salire fino ai raffinati ranghi delle coorti urbane, e magari fare carriera nella Guardia Pretoriana. Le sue priorità non cambiavano mai. Dava la caccia ai grossi criminali, la cui cattura avrebbe potuto suscitare molto rumore e procurargli una promozione. «Scommetto che tiene costantemente sotto sorveglianza Milvia e il suo emozionante consorte, nel caso decidessero di riportare in vita le vecchie bande. Ogni volta che Petronio entra in quella casa, la sua visita viene annotata.» Foscolo concordò con me nel suo consueto modo tranquillo. «Hai ragione. Non è un segreto, sebbene la sorveglianza si concentri soprattutto sulla vecchia. Rubella è convinto che, se le bande verranno ricostituite, sarà per opera di Flaccida.» Si trattava della madre di Milvia. Tuttavia, Petro non si trovava per questo in una posizione migliore, dal momento che Flaccida viveva con la figlia e il genero. Era stata costretta a trasferirsi a casa loro quando Petronio aveva fatto condannare il marito malvivente, la cui proprietà di conseguen-
za era stata confiscata. Un motivo in più per non farsi coinvolgere da quel bocconcino, se Petro avesse avuto un po' di buonsenso. Il padre di Milvia era stato un gran brutto soggetto, ma sua madre era perfino più pericolosa. «Allora» domandò Foscolo nel suo modo cordiale «quando possiamo sperare che tu faccia un tranquillo discorsetto a quel tenero fiore dei bassifondi di nome Milvia e la convinca a lasciare in pace il nostro amato capo?» Emisi un gemito. «Perché tocca sempre a me fare il lavoro sporco?» «Perché sei diventato un investigatore, Falco?» «Petronio è il mio amico più caro. Non potrei agire a sua insaputa.» «Naturalmente no» ribatté Foscolo, sogghignando. Un'ora più tardi, mi ritrovai a bussare con un enorme battente di bronzo a forma di antilope per richiamare il portinaio della sontuosa dimora di Milvia e Florio. XX Se mai mi procurerò degli schiavi, sicuramente non comprenderanno un portinaio. Chi mai vuole tra i piedi un pigro insolente, sbronzo e con il mento coperto di barba ispida, che ingombra l'ingresso e insulta i visitatori ammodo, sempre che si lasci convincere a lasciarli entrare? Durante la ricerca dei sospetti, un investigatore passa più tempo di chiunque altro a esaminare a fondo quella razza spregevole, e io avevo imparato ad aspettarmi di dover uscire dai gangheri ancora prima di essere ammesso in qualunque casa prestigiosa. Quella di Milvia, in realtà, era molto peggio delle altre. Il suo portinaio non era il solito giovanotto sprezzante che cerca di tornarsene il prima possibile al tavolo da gioco dove l'aspetta l'aiuto cuoco, ma un nanerottolo conosciuto con il nome di Piccolo Icaro: un ex malvivente che l'ultima volta avevo visto malconcio dopo un memorabile scontro con i Vigili in un famigerato bordello; in quell'occasione il suo compare, il Mugnaio, si era ritrovato con entrambi i piedi mozzati dal littore di un magistrato che, diciamolo, non aveva badato molto ai danni che la sua ascia rituale poteva procurare. Il Piccolo Icaro e il Mugnaio erano criminali pericolosi. Se Milvia e Florio volevano fingere di essere diventate persone raffinate della classe equestre avrebbero dovuto scegliersi altri collaboratori. Evidentemente, non si preoccupavano neanche più di salvare le apparenze. Il Piccolo Icaro fu sgarbato con me perfino prima di ricordare chi fossi,
dopodiché parve infuriarsi, e mi sembrò che stesse per darmi una testata nelle parti intime (almeno fin dove fosse riuscito ad arrivare). Quando era stato destinato a fare da Giano a Milvia, doveva essere stato spogliato delle armi; chissà che non fosse quello il modo in cui Flaccida imponeva le regole della casa. Il fatto che avessero come portinaio lo scagnozzo di un malvivente diceva comunque tutto su che genere di dimora fosse. Il posto era grazioso. Ai lati della porta erano disposti vasi di pietra in cui crescevano semplici rose, e l'atrio interno era adornato con discrete copie di statue greche. Ma ogni volta che vi mettevo piede mi si accapponava la pelle. Rimpiansi di non avere detto a nessuno che ci sarei andato, ma ormai era troppo tardi: ero già dentro. Milvia sembrò estremamente lieta di vedermi, ma non per via del mio fascino. Mi ritrovai a chiedermi, e non era la prima volta, che cosa mai spingesse Petro a lasciarsi coinvolgere da bamboline come quella: tutta occhioni fiduciosi e vocine stridule, ma probabilmente falsa, sotto quella ostentata innocenza, almeno quanto le ragazzacce sfrontate di cui un tempo mi incapricciavo. Balbina Milvia era un esemplare impagabile. Aveva una coroncina di riccioli scuri sorretta da immodesti serti d'oro, un seno saldamente sostenuto che si intravvedeva tra le fasce di sontuosa mussolina, minuscoli piedi in sfavillanti calzari e, ovviamente, una cavigliera. Braccialetti a forma di serpente, con autentici rubini al posto degli occhi, stringevano le braccia delicate dalla pelle chiara, e numerosi anelli di filigrana le appesantivano le dita minute. Tutto in lei era così minuscolo, aggraziato e scintillante che mi faceva sentire un bruto grossolano. La verità, tuttavia, era che tutto quello splendore nascondeva sudiciume: Milvia non poteva più fingere di non sapere che la sua ricchezza era finanziata dal furto, dall'estorsione e dalla violenza. Lo sapevo anch'io. Quella ragazza mi lasciava in bocca un gusto amaro e metallico. D'altra parte, i genitori di quella personcina provocante che sorrideva in modo così dolce e mellifluo provenivano direttamente dall'Ade. Suo padre, Balbino Pio, era stato un grosso criminale che aveva terrorizzato per anni l'Aventino. Mi chiedevo se la cinguettante Milvia si rendesse conto, mentre ordinava tè alla menta e datteri al miele, che io ero l'uomo che aveva infilzato suo padre con una spada per poi lasciare che il suo cadavere finisse carbonizzato in un violento incendio. Sua madre doveva pur saperlo: Cornelia Flaccida sapeva tutto. Solo così era riuscita ad assumere il comando
dell'impero criminale che il marito si era lasciato alle spalle, e non pensiate che abbia pianto a lungo dopo la dipartita del marito dalla società. La sola cosa che mi sorprendeva era che non mi avesse mai mandato una grossa ricompensa per averlo ucciso: se ora aveva lei il controllo di tutto era grazie a me. «Come sta la tua cara mamma?» domandai a Milvia. «Bene, per quanto possibile. È rimasta vedova, lo sai.» «Un evento tragico.» «È straziata dal dolore. Io cerco di dirle che il modo migliore per superare la cosa è di tenersi occupata.» «Oh, sono sicuro che lo fa.» Doveva farlo per forza: dirigere in modo efficiente un coacervo di criminali richiede tempo e notevole energia. «Devi essere una grande consolazione per lei, Milvia.» Milvia si mostrò compiaciuta, ma subito dopo la sua espressione si fece leggermente ansiosa, notando che le mie parole non si armonizzavano affatto con il tono in cui le avevo pronunciate. Ignorai le leccornie e le bevande che mi venivano disposte davanti. Quando Milvia congedò gli schiavi con un grazioso cenno della mano, finsi di essere nervoso e sconvolto. Non ero nessuna delle due cose. «E come sta Florio?» La ragazza assunse un'aria incerta. «Frequenta ancora le corse ogni volta che ne ha occasione? Oltretutto ho sentito dire che gli affari del tuo devoto marito vanno a gonfie vele.» Anche Florio (che definire devoto era un azzardo) aspirava a infangare i suoi già sozzi piedi equestri nella torbida pozzanghera degli affitti esorbitanti, delle estorsioni e dei furti organizzati. In effetti, non si può dire che i parenti di Milvia non avessero interessi finanziari alquanto creativi. «Non sono sicura di avere capito quello che intendi, Marco Didio.» «Il mio nome è Falco. E credo che tu mi abbia capito molto bene.» Queste parole diedero il via a una raffinata esibizione. Milvia cominciò a imbronciarsi. Aggrottò le sopracciglia. Abbassò gli occhi con fare stizzito. Si lisciò la sottana, si aggiustò i braccialetti e sistemò su un elegante vassoio con i manici a forma di delfini le ciotole d'argento per la tisana dalle decorazioni eccessive. Io osservai con aria di approvazione l'intero repertorio. «Mi piacciono le ragazze che si danno da fare.» «Scusa?» «La recita è buona. Sai rimproverare duramente un uomo semplice, fino a farlo sentire un bruto.» «Di che cosa stai parlando, Falco?»
Aspettai un po', prima di risponderle. Mi protesi all'indietro e la scrutai da lontano. Alla fine dissi freddamente: «Mi risulta che sei diventata molto amica del mio amico Lucio Petronio...». «Oh!» Lei alzò la testa, pensando evidentemente che fossi un intermediario. «Ti ha mandato lui?» «No... e se sai ciò che è bene per te, eviterai di riferirgli che sono venuto a trovarti.» Balbina Milvia si avvolse la stola luccicante intorno alle spalle esili come se volesse proteggersi. Aveva perfezionato l'atteggiamento del cerbiatto terrorizzato. «Tutti alzano la voce con me, e io sono certa di non meritarmelo.» «Oh, invece sì, signora. Meriti di essere gettata su quel divano d'avorio e sculacciata fino a lasciarti senza fiato. C'è una moglie offesa sull'Aventino a cui bisognerebbe permettere di strapparti gli occhi, e tre bambine che dovrebbero applaudire mentre lo fa.» «Che cosa orribile da dire!» gridò Milvia. «Non preoccupartene. Limitati a goderti le attenzioni, e a essere portata a letto da un uomo che sa come si fa, invece che da quella radice floscia che è tuo marito, e non angosciarti per le conseguenze. Puoi anche permetterti di mantenere Petronio nel lusso, a lui non dispiacerà provarlo... dopo che avrà perso il lavoro, e la moglie, e le figlie, e la maggior parte dei suoi amici offesi e delusi. Però ricorda» conclusi «che se a causa tua lui dovesse perdere tutti coloro che gli sono cari, può darsi che alla fine sia tu quella contro la quale inveirà.» Milvia era ammutolita. Era stata una bambina viziata e una moglie lasciata a se stessa. Disponeva di un'oscena ricchezza e suo padre aveva guidato le più temute bande criminali di Roma. Nessuno osava contrariarla. Perfino sua madre, che era una strega impietosa, la trattava con diffidenza, forse subodorando che quella pupattola dagli occhi di cerbiatta era così viziata che all'improvviso avrebbe potuto rivelarsi davvero sgradevole: in fondo l'unico lusso al quale si era sottratta era quello di comportarsi in maniera spregevole. Prima o poi sarebbe successo. «Non ti biasimo» dissi. «Capisco l'attrazione che provi. Probabilmente ci vorrà parecchia forza di volontà per chiudergli la porta in faccia. Ma tu sei una ragazza molto sveglia, e Petronio è un ingenuo quando si tratta di sentimenti. Sei tu quella che possiede l'intelligenza sufficiente per capire che questa storia non ha futuro. Speriamo che sia tu quella che avrà il coraggio di sistemare le cose.»
Milvia drizzò la schiena. Come tutte le donne di Petro, non era molto alta. Lui era solito stringerle come agnellini smarriti contro il suo torace possente con fare protettivo, e per qualche ragione loro accettavano quel rifugio non appena lui lo metteva a disposizione. Mi chiesi se fosse il caso di raccontare a Milvia di tutte le altre, ma pensai che così facendo le avrei solo dato l'imbeccata per presumere di essere diversa. Era quello che credevano tutte, ma nessuna di loro lo era mai stata in realtà, a parte Silvia, che l'aveva accalappiato con una dote (e una personalità) che la rendeva sicura del fatto suo. Osservai la fanciulla mentre cercava il coraggio per insultarmi. Ma io ero troppo calmo e lei si rendeva conto che litigare da soli era difficile. Conoscevo alcune donne che avrebbero potuto darle qualche lezione, ma sotto tutto quello splendore Milvia era una ventenne abulica cresciuta al riparo dal mondo. Possedeva tutto quello che poteva desiderare, eppure non sapeva niente. Era molto ricca e quindi, perfino ora che era sposata, veniva tenuta dentro casa per la maggior parte del tempo. Naturalmente questo spiegava il comportamento di Petronio: quando le donne sono sotto chiave, ben presto sono i guai che vanno da loro. Secondo la buona vecchia tradizione romana, l'unica fonte di emozione per Milvia erano le visite del suo amante segreto. «Non hai nessun diritto di invadere la mia casa e mettermi in agitazione. Ti prego di andartene, e non tornare mai più!» I granelli d'oro della sua acconciatura lampeggiarono quando gettò indietro la testa in preda alla collera. Inarcai un sopracciglio. Dovevo apparire stanco invece che impressionato. Lei gettò nuovamente indietro la testa, segno inconfondibile della sua immaturità. Un'esperta avrebbe tirato fuori qualche altro subdolo trucco. «Splendido!» la canzonai. «Me ne vado... ma solo perché lo avevo già deciso.» E così feci. A quel punto, naturalmente, Milvia sembrò dispiaciuta che il suo bel dramma fosse già finito. Mentivo quando avevo suggerito che sarebbe toccato a lei mettere fine alla relazione: se l'avesse voluto veramente, Petronio avrebbe potuto facilmente chiuderle in faccia le porte del rifugio. Aveva fatto abbastanza pratica. Il solo problema era che tanti gli consigliavano di finirla, con il risultato di ravvivare il suo interesse per Milvia. Il mio vecchio amico Lucio Petronio Longo non aveva mai sopportato che gli dicessero quello che doveva
fare. XXI Naturalmente qualcuno gli riferì che ero stato a casa di Milvia, e scommetto che fu lei stessa a farlo. Chissà perché, l'idea che il suo fedele amico cercasse altruisticamente di proteggerlo dalla sventura non riempì Lucio Petronio d'affetto. Tra noi due scoppiò una violenta lite. Questo rese spiacevole lavorare insieme, tuttavia perseverammo, dal momento che nessuno voleva ammettere di essere in torto e uscire dalla società. Sapevo che la disputa non sarebbe durata a lungo: eravamo entrambi troppo infastiditi da quelli che ci dicevano insistentemente che la nostra collaborazione non avrebbe funzionato. Prima o poi avremmo fatto pace, anche solo per dimostrare ai dubbiosi che avevano torto. In ogni caso, l'amicizia tra Petro e me durava da quando avevamo diciott'anni: ci sarebbe voluto ben altro che una ragazzina sciocca per separarci. «Parli proprio come sua moglie» mi prese in giro Elena. «Non credo proprio. Sua moglie gli ha suggerito di fare una lunga gita fino in Mesopotamia e poi gettarsi nell'Eufrate con un sacco sulla testa.» «Già, ho saputo che questa settimana c'è stata fra loro un'altra affabile conversazione.» «Silvia gli ha portato una notifica di divorzio.» «Maia mi ha riferito che Petro gliel'ha gettata in faccia.» «Non è indispensabile che lei gliela consegni.» Informare l'altra parte per mezzo di una notifica era un gesto di cortesia, che le donne con buoni motivi di rancore potevano trasformare in una scena drammatica, soprattutto quelle con ricche doti di cui pretendere la restituzione. «Lo ha cacciato e si rifiuta di lasciarlo tornare a casa, e questa è una prova sufficiente della sua intenzione di separarsi. Se vivranno separati ancora per molto tempo, qualunque notifica sarà superflua.» Petronio e Silvia si erano già lasciati in precedenza. Di regola, la cosa durava per uno o due giorni e finiva quando quello dei due che era rimasto lontano da casa ci tornava per dare da mangiare al gatto. Questa volta invece la rottura durava da parecchi mesi, ed entrambi si erano trincerati alla perfezione sulle proprie posizioni: li separavano vere e proprie palizzate e triplici fossati ben protetti da picchetti. Arrivare a una tregua sarebbe stato
difficile. Per nulla scoraggiato dal mio primo fallimento, mi feci coraggio e andai a trovare Arria Silvia, ma anche lei aveva saputo che ero stato da Milvia e mi costrinse a fare fagotto in men che non si dica. Fu un altro sforzo sprecato, che ebbe il solo risultato di peggiorare la situazione. Per lo meno, visto che Petro si rifiutava di parlarmi, mi risparmiai la seccatura di sentire quello che pensava della mia tentata missione di pace con sua moglie. Ormai eravamo in settembre. Per ironia della sorte, Petro e io avevamo litigato il primo giorno del mese, alle Calende, quando, come mi fece notare Elena, cadeva la festa di Giove Tonante. Chi si trovava a passare dalla Corte della Fontana e per caso aveva assistito allo scambio di opinioni tra Petro e me, doveva avere pensato che il dio fosse venuto a stabilirsi sull'Aventino. Tre giorni più tardi, sempre in onore di Giove Tonante, ebbero inizio i Grandi Giochi. I due giovani Camilli usarono la loro aristocratica influenza (vale a dire che sborsarono un bel po' di sesterzi) per procurarsi degli ottimi biglietti per il primo giorno dei Giochi. Come d'abitudine, i privilegiati che avevano i posti riservati passavano i biglietti a chi li avrebbe rivenduti a prezzo maggiorato, e i discendenti degli eroi militari vendevano i posti ereditati dai loro avi. I discendenti degli eroi sono quasi sempre mercenari, cosa che non si può dire degli eroi stessi, naturalmente. Così i fratelli di Elena acquistarono i biglietti ed ebbero la cortesia di invitare anche noi. Per me, godermi i Giochi da seduto e con una discreta vista costituiva un notevole cambiamento: di solito mi ritrovavo schiacciato dalla folla sulle gradinate aperte al pubblico. Per la giovane Claudia Rufina quella era l'iniziazione ufficiale al Circo di Roma. Osservare moltitudini di gladiatori che venivano fatti a fette mentre l'imperatore russava discretamente nel suo palco dorato e studiare come i migliori borseggiatori al mondo si destreggiavano tra la folla le avrebbe mostrato in quale città civilizzata il matrimonio l'avrebbe presto introdotta. Era una ragazza estremamente dolce e fece del suo meglio per apparire entusiasta. Senza farci notare ci portammo dei cuscini e grandi fazzoletti per proteggerci dal sole (comportamenti un tempo illegali, ma ormai tollerati purché lo si facesse con discrezione), restammo seduti durante tutta la parata e
la corsa delle bighe, poi per pranzo ce la filammo mentre i gladiatori più scadenti venivano subissati di fischi, e tornammo per restare fino all'imbrunire. Dopo pranzo Elena rimase a casa con Giulia, ma ci raggiunse nuovamente nelle ore conclusive. Comportarsi in modo affabile divenne uno sforzo eccessivo per Eliano, che nel tardo pomeriggio ci lasciò, mentre la sua timida fidanzata rimase fino alla fine insieme a Elena, a Giustino e a me. Ce ne andammo tranquilli durante l'ultimo combattimento, per evitare il marasma di gente e procacciatori di prostitute che si sarebbe scatenato alla fine. Eliano sembrava allarmato dal fatto che la sua sposa spagnola si appassionasse tanto ai Giochi. Doveva temere che durante le festività sarebbe stato difficile svignarsela con i suoi amici a festeggiare, come era abituato, se la sua nobile consorte avesse voluto accompagnarlo: difficile ubriacarsi e raccontare storielle sporche mentre si regge un parasole o si offrono noci salate; impossibile lasciarsi andare. Claudia Rufina si divertiva, e non soltanto perché Giustino e io incoraggiammo Eliano a squagliarsela presto: era ansiosa di partecipare alla mia indagine. In effetti, non ero andato al Circo solo per svagarmi. Tenevo gli occhi aperti in cerca di qualcosa di sospetto che fosse collegato con gli omicidi dell'acquedotto. Non successe niente, naturalmente. I Grandi Giochi durano quindici giorni, quattro dei quali prevedono rappresentazioni teatrali. Eliano non ritrovò mai più l'interesse del primo giorno. D'altra parte, ci aveva offerto i biglietti per la cerimonia di apertura (facendo la parte dello sposo generoso) e quindi la sua borsa si era alleggerita parecchio. Inoltre, dover chiedere a suo fratello o a me di comprargli da un venditore di bevande il vino melato ogni volta che ne voleva una coppa gli sarebbe sicuramente venuto a noia. Entro il terzo giorno era ormai consuetudine che quando Elena andava a casa ad allattare la bambina anche lui se la filasse. Di quando in quando, lasciavo Claudia a scambiare due chiacchiere con Giustino e gironzolavo per il Circo in cerca di qualunque cosa sembrasse disdicevole, ma con un pubblico di un quarto di milione di persone che cambiava ogni giorno, le possibilità di notare un rapimento in corso erano assai scarse. Invece accadde. E io me lo persi. A un certo punto, nei primi giorni dei Giochi, una donna fu convinta con le lusinghe ad andare incontro a un orribile destino. Poi, il quarto giorno, la mano di una nuova vittima fu rinvenuta nell'Aqua Claudia e la notizia provocò grande clamore.
Mentre tornavo da Claudia Rufina e Giustino dopo avere pranzato a casa con Elena, notai un gran numero di persone che si affrettava in una sola direzione. Ero sceso dall'Aventino lungo il Clivo Publico. Mi aspettavo di trovare un po' di folla, ma era evidente che tutta quella gente non si stava dirigendo al Circo Massimo. Nessuno volle spiegarmi dove andassero. Doveva esserci un combattimento di cani particolarmente interessante, o la vendita di un esecutore testamentario che offriva affari straordinariamente vantaggiosi, o semplici disordini. Così, naturalmente, mi precipitai nel mucchio. Non mi interessano i cani che si azzannano, ma afferro sempre al volo l'opportunità di acquistare un servizio di pentole a buon mercato o di osservare la gente che lancia sassi contro la casa di un magistrato. Dall'estremità del Circo dove si trovano i cancelli di partenza la folla procedeva a spintoni attraverso il mercato del bestiame, oltre la Porta Carmentale, intorno alla curva del Campidoglio e fin dentro il Foro principale, che era insolitamente tranquillo a causa dei Giochi. Tuttavia, il Foro non era mai completamente deserto, nemmeno durante le festività pubbliche: turisti, guastafeste, lavoratori incalliti, ritardatari diretti allo spettacolo e schiavi che non avevano biglietti né tempo libero passavano continuamente avanti e indietro. Coloro che non si erano resi conto della situazione si ritrovarono con i piedi calpestati, e poi mentre se ne stavano lì fermi a lamentarsi furono nuovamente urtati. All'improvviso scoppiò il panico. Alcune lettighe si rovesciarono. Avvocati fuori servizio (dal fiuto spettacolare) si nascosero all'interno della Basilica Giulia, vuota ed echeggiante; persino gli usurai, che non chiudono mai i loro chioschi, serrarono così in fretta le loro cassette che alcuni di loro si schiacciarono le grasse dita sotto i coperchi. Alcuni gruppetti di persone si erano seduti sui gradini dei monumenti per gustarsi lo spettacolo. Altri coordinavano i propri sforzi nell'inveire contro il curatore degli acquedotti; nulla di troppo astruso politicamente, solo esclamazioni raffinate tipo «Bastardo incapace!» e «Che se ne vada fuori dai piedi!». Salii di corsa e raggiunsi il colonnato del Tempio di Castore, uno dei miei punti di osservazione preferiti, che mi offrì un'eccellente vista sulla plebe che ascoltava le arringhe sotto l'Arco di Augusto. Diverse teste calde agitavano le braccia come se cercassero di perdere qualche libbra e inveivano contro le istituzioni in un modo che di certo avrebbe loro garantito un trattamento di favore in prigione, una volta che fossero finiti nelle sudice mani delle guardie (un altro affronto al loro diritto di replica). Alcuni di lo-
ro si atteggiavano a filosofi - capelli lunghi, piedi scalzi e ruvidi mantelli e questo a Roma era un modo sicuro per essere considerati pericolosi; insieme a loro notai anche alcuni individui prudenti che non erano usciti senza la loro provvista d'acqua e di cibo. Nel frattempo, gruppetti di donne pallide e tristi vestite a lutto deponevano solennemente offerte floreali al Bacino di Giuturna, la sacra fonte dove si riteneva che Castore e Polluce avessero abbeverato i loro cavalli. Alcuni invalidi che un po' imprudentemente cercavano proprio in quel momento di prendere le proprie disgustose medicine si ritrassero innervositi davanti alle matrone; queste, fra grandi gemiti, deposero i loro fiori quasi appassiti e poi si presero per mano e girarono in circolo con aria sognante, dopodiché si fecero strada fra la folla per recarsi alla Casa delle Vestali. In quel momento la maggior parte delle vergini del tempio probabilmente era seduta al proprio posto d'onore al Circo, ma almeno una era rimasta a badare al fuoco sacro e doveva essere abituata a ricevere delegazioni di gentildonne ben intenzionate, che si presentavano con doni raffinati e pressanti preghiere ma senza troppo buonsenso. Sul lato opposto della Via Sacra, nei pressi del vecchio Rostro e del Tempio di Giano, sorge l'antico Tempio di Venere Claocina, la Purificatrice. Anche in quel punto molte persone manifestavano con grande clamore. Venere aveva decisamente bisogno di rimboccare le sue belle maniche e darsi da fare. Da uno spettatore appresi finalmente che il giorno precedente era stata rinvenuta un'altra mano nell'Aqua Claudia, uno degli acquedotti più recenti, che si riversava in un sistema di raccolta nei pressi del Tempio di Claudio, di fronte all'estremità del Palatino. Questo spiegava tutte quelle scene nel Foro: i cittadini di Roma si erano resi conto che la loro acqua conteneva resti sospetti, che avrebbero potuto avvelenarli. Medici e speziali erano assediati da pazienti con tanti tipi di nausea quanti può averne un coccodrillo del Nilo indisposto. La folla era più rumorosa che violenta, ma questo non avrebbe impedito alle autorità di usare le maniere forti. I Vigili avrebbero saputo come disperdere la gente con spintoni e imprecazioni, ma qualche idiota aveva chiamato le coorti urbane. Questi fanatici assistevano il prefetto urbano e il loro compito si poteva riassumere come «opprimi il servilismo e contieni l'insolenza»; per farlo, ciascuno di loro era armato di spada e pugnale ed era autorizzato a non preoccuparsi di dove li avrebbe conficcati. Le coorti urbane condividono lo stesso quartier generale della Guardia
Pretoriana, e sono altrettanto arroganti. Amano manovrare qualunque tipo di manifestazione pacifica per ottenere spargimenti di sangue, e questo compito giustifica la loro esistenza. Non appena li vidi avvicinarsi e marciare in minacciose falangi, saltai giù dal retro del tempio atterrando sulla Via Nova e mi allontanai alla chetichella lungo il Vicolo Tusco, e così riuscii a lasciare il luogo dei disordini senza farmi spaccare la testa. Ci fu chi non ebbe altrettanta fortuna. Dal momento che ero vicino alle terme di Glauco, entrai e rimasi lì nella palestra deserta a sollevare pesi e a menare colpi contro un palo con una spada da allenamento finché il pericolo non fu passato. Ci voleva ben altro che le coorti urbane per passare davanti a Glauco: quando diceva «Ingresso solo dietro invito», valeva per tutti. Quando uscii, le strade erano nuovamente tranquille, e non c'era poi molto sangue sul lastricato. Lasciando perdere i Giochi, tornai verso l'ufficio nella vaga speranza di trovarci Petronio. Mentre bighellonavo per la Corte della Fontana mi accorsi che stava succedendo qualcosa, ma per quel giorno avevo già avuto abbastanza emozioni, così tornai subito sui miei passi e mi rifugiai nella bottega del barbiere. Era aperta, nonostante in teoria fosse proibito, perché agli uomini piace avere un bell'aspetto durante le festività pubbliche nella speranza che qualche sgualdrina s'innamori di loro; d'altra parte il barbiere della nostra strada non sapeva nemmeno che cosa fosse un calendario. Ordinai che mi tagliasse con comodo i capelli e osservai prudentemente la scena. «Abbiamo visite» sogghignò il barbiere, che non nutriva alcun rispetto per l'autorità. Si chiamava Apio. Era grasso, rubicondo, e nessuno da Roma a Rhegium vantava una testa peggiore. Rade ciocche untuose erano attaccate a uno scalpo che si squamava. Ormai non si rasava quasi più. Anche lui aveva notato la presenza assolutamente insolita di alcuni littori stanchi che, alla disperata ricerca di un po' d'ombra, si erano lasciati cadere sotto il porticato all'esterno della lavanderia di Lenia. Le donne si fermavano a fissarli con sfacciataggine, facendo battute volgari. I bambini si avvicinavano furtivamente ridacchiando, sfidandosi a vicenda a rischiare le proprie dita sulle lame delle asce rituali celate nei fasci che i littori avevano appoggiato con noncuranza. I littori sono liberti oppure cittadini indigenti: rozzi, ma con la voglia di riabilitarsi tramite il lavoro. «Chi ha diritto ad averne sei?» domandai ad Apio. Il barbiere parlava
sempre come se sapesse tutto, anche se non l'avevo mai sentito rispondere con precisione a una domanda diretta. «Qualcuno che vuole farsi annunciare molto prima del suo arrivo.» Solitamente, i littori camminano in un'unica fila davanti al personaggio che scortano. Sei era un numero inconsueto. A un pretore o un altro funzionario di grado elevato ne spettavano due. Dodici erano per l'imperatore, che però veniva accompagnato anche dai pretoriani, e inoltre lo sapevo incatenato al suo palco al Circo. «Un console» stabilì Apio. Parlava a vanvera: anche i consoli ne hanno dodici. «Perché mai un console dovrebbe far visita a Lenia?» «Per lamentarsi delle macchie di sporco rimaste sulla biancheria intima?» «E perché non di un ritocco malriuscito alla sua toga migliore? Per Giove, Apio! Ci sono i Giochi e la lavanderia è chiusa! Non servi proprio a niente. Per il taglio di capelli ti pagherò domani, mi offende separarmi dal mio denaro durante una festività. Vado a vedere che cosa sta succedendo.» Tutti sono convinti che i barbieri siano una fucina di pettegolezzi, ma non il nostro. E Apio non era certo un caso isolato. La leggenda secondo cui i barbieri sarebbero aggiornati su tutti gli scandali è vera quanto quella storiella che viene sempre raccontata agli stranieri sui romani che socializzano nelle latrine pubbliche. Ma per favore! Vorrei vedere voi se un tizio cordiale con un sorriso idiota vi chiedesse un'opinione sul nuovo decreto del Senato sui liberti che coabitano con gli schiavi, proprio mentre state vomitando anche le budella perché il sughetto del coniglio al naturale della sera precedente era un po' andato. Se qualcuno ci provasse con me, non esiterei a prendere dal secchio delle latrine una bella spugna incrostata e a infilargliela da qualche parte. Mi dilettavo con questi nobili pensieri mentre camminavo per la Corte della Fontana. I littori mi dissero che scortavano un ex console, uno che aveva servito all'inizio dell'anno ma che aveva lasciato il posto per offrire un'opportunità a qualche altro pezzo grosso. A quanto pareva, si trovava dall'altra parte della strada per fare visita a qualcuno di nome Falco. La notizia mi mise di ottimo umore. Se c'è una cosa che detesto più dei funzionari d'alto rango schiacciati dai propri problemi sono i funzionari che di problemi non ne hanno più ma cercano di causarne ad altri. Mi fiondai in casa, deciso a insultarlo e sapendo bene che se in effetti era stato eletto quell'anno stavo per comportarmi da villano con l'ex magistrato più
riverito e di grado più elevato di Roma. XXII Ci sono donne che si farebbero prendere dal panico qualora si presentasse un console alla loro porta. Uno dei vantaggi di avere come segretaria non retribuita la figlia di un senatore era che, invece di strillare inorridita, era assai più probabile che Elena Giustina salutasse il prestigioso ospite come fosse un vecchio zio e s'informasse tranquillamente sullo stato delle sue emorroidi. A quell'individuo era già stata offerta una ciotola di rinfrescante cannella calda che, come io sapevo bene, Elena sapeva preparare con miele e un goccio di vino, che le davano il sapore dell'ambrosia. L'uomo sembrava favorevolmente colpito da quella garbata ospitalità e dal vivace buonsenso di Elena. Così, quando entrai con passo deciso, con i pollici infilati nella mia cintura da festa come un Ciclope irritato, mi trovai di fronte un ex console ormai malleabile. «'Giorno. Mi chiamo Falco.» «Mio marito» mi presentò sorridendo Elena, particolarmente riguardosa. «Il suo schiavo devoto» ribattei, rendendole cortesemente omaggio con quell'allegro appunto romantico. Be', era un giorno di festa. «Giulio Frontino» si presentò l'eminente personaggio in tono sobrio. Feci un cenno con il capo, e lui ricambiò. Mi sedetti al tavolo e l'elegante padrona di casa mi porse la mia ciotola personale. Elena era straordinaria in bianco, il colore appropriato per recarsi al Circo. Sebbene non portasse gioielli a causa dei borseggiatori, era fasciata in nastri intrecciati che le davano un aspetto lindo e frivolo allo stesso tempo. Per chiarire come andavano le cose in quella casa, presi un'altra ciotola e versai da bere anche a lei, poi brindammo entrambi al console mentre io gli gettavo una bella occhiata. Se era diventato console, doveva avere quarantatré o quarantaquattro anni. Era sbarbato di fresco e portava i capelli tagliati cortissimi. La sua nomina era arrivata da Vespasiano, di conseguenza doveva per forza essere competente, sicuro di sé e perspicace; si mostrò imperterrito di fronte al mio minuzioso esame e niente affatto turbato dall'ambiente sobrio. Era un uomo con una solida carriera alle spalle e tuttavia con l'energia per affrontare parecchi altri incarichi di prim'ordine prima di diventare vecchio. Il fisico era esile, in perfetta forma, e non aveva conosciuto sregolatezze. Era
qualcuno da rispettare, insomma... o anche una vera seccatura: era ansioso di ingarbugliare le cose. Anche lui mi valutava. Ero fresco di palestra e portavo gli abiti della festa, ma i miei calzari erano di foggia militare. Vivevo in una zona squallida, ma con una ragazza di livello sociale elevato, una combinazione alquanto insolita. Sapeva di trovarsi di fronte un plebeo aggressivo, ma era stato ammorbidito con coppe di costosa cannella proveniente dal sontuoso Oriente. Da un vaso di bronzo campano proveniva un profumo pungente di gigli che lo inebriava, e la sua bevanda era servita in una lucente ciotola di terraglia rossa, decorata con raffinati disegni di antilopi in corsa. Questo mostrava che avevamo buongusto e interessanti relazioni commerciali (sempre che non fossimo viaggiatori veri e propri), oppure sapevamo come procurarci amici facoltosi. «Sto cercando qualcuno che lavori con me, Falco. Camillo Vero mi ha consigliato di rivolgermi a te.» Qualunque incarico ci giungesse tramite il padre di Elena doveva essere accolto con il dovuto riguardo. «Di che lavoro si tratta e quali saranno il tuo e il mio ruolo?» «Per prima cosa devo conoscere la tua esperienza personale.» «Sono certo che Camillo ti avrà già ragguagliato.» «Vorrei sentirlo da te.» Mi strinsi nelle spalle. Non mi lamento mai se un cliente è esigente. «Sono un investigatore privato: incarichi giudiziari, rappresentanza di esecutori testamentari, valutazioni di carattere finanziario, ritrovamento di opere d'arte rubate. Attualmente sono in società con un ex vigile. Di quando in quando il Palazzo mi impiega in veste ufficiale per missioni di cui non posso parlare, generalmente fuori Roma. Faccio questo lavoro da otto anni. In precedenza, ho prestato servizio nella Seconda legione augusta, in Britannia.» «Britannia!» Frontino sobbalzò. «Che opinione ti sei fatto della Britannia?» «Non tale da volerci tornare.» «Grazie» commentò lui con sarcasmo. «Sono appena stato nominato prossimo governatore di quelle terre.» Sogghignai. «Sono certo che la troverai una provincia affascinante. Ci sono stato per ben due volte: mi ci ha portato anche la mia prima missione per conto di Vespasiano.» «La Britannia ci è piaciuta più di quanto Marco Didio sia disposto ad
ammettere» intervenne diplomaticamente Elena. «Credo che se mai un giorno gli investigatori dovessero essere banditi da Roma, potremmo perfino ritirarci laggiù. Marco sogna una tranquilla fattoria in una fertile valle verdeggiante.» Quella ragazza era perfida. Sapeva che detestavo quel posto. «È un paese nuovo dove tutto è ancora da fare» dissi con il tono di un pomposo oratore del Foro. Cercavo di evitare lo sguardo vivace di Elena. «Se l'idea di lavorare non ti disturba, e se ti piacciono le sfide, credo che troverai piacevole il tuo periodo di servizio laggiù.» Frontino sembrò rilassarsi. «Mi piacerebbe parlarne ancora, ma c'è qualcosa di molto più urgente. Prima che io parta per la Britannia, mi è stato chiesto di sovrintendere una commissione d'inchiesta. Mi piacerebbe vederla conclusa il più presto possibile.» «Quindi non si tratta di un'indagine privata?» domandò Elena con aria ingenua. «No.» Lei tirò fuori il bastoncino di cannella dalla propria ciotola e cominciò a premerlo leggermente contro il bordo. Nessuno spingeva a formalità. Be', potevo contare sulla curiosità di Elena per saggiare garbatamente il terreno. «La commissione è per il Senato?» domandò. «Per l'imperatore.» «È stato lui a suggerire Marco come tuo assistente?» «È stato Vespasiano a suggerire che tuo padre avrebbe potuto mettermi in contatto con una persona affidabile.» «Per fare cosa?» insistette dolcemente Elena. Frontino si rivolse a me. «Devi ottenere l'approvazione?» Sembrava divertito. «Senza permesso non starnutisco nemmeno.» «Ma se non mi dai mai ascolto!» mi corresse Elena. «Al tuo servizio, signora!» «Allora, accetta il lavoro.» «Non so di che cosa si tratti.» «Papà vuole che tu lo faccia, e altrettanto l'imperatore. Hai bisogno della loro benevolenza.» Ignorando Frontino, Elena si protese verso di me, battendomi leggermente il polso con le dita lunghe e affusolate della mano sinistra. Su uno era infilato l'anello d'argento che le avevo donato come pegno d'amore. Guardai l'anello, poi lei, fingendo di essere imbronciato. Lei arrossì. Mi battei la spalla con il pugno e abbassai il capo: il gesto di sot-
tomissione del gladiatore. Elena espresse bofonchiando la sua riprovazione. «Basta con il Circo! Smettila di scherzare. Giulio Frontino penserà che sei un buffone.» «Non credo. Se un ex console si abbassa fino a venire sull'Aventino, è perché ha già letto il mio curriculum impeccabile e ne è stato favorevolmente colpito.» Frontino si torse le labbra. Elena parlò ancora in tono pressante: «Ascolta! Credo di sapere che cosa ti chiedono di fare. Oggi ci sono stati disordini al Foro...» «Lo so.» Lei parve sorpresa, poi assunse un'aria sospettosa. «Li hai causati tu?» «Grazie per la fiducia, tesoro! Non sono un delinquente. Ma forse all'origine dell'agitazione pubblica ci siamo proprio io e Lucio Petronio.» «Le vostre scoperte sono sulla bocca di tutti, in città. Avete agitato le acque, ora dovreste risolvere la cosa» dichiarò Elena con severità. «Non è responsabilità mia. C'è già un'indagine in corso sugli omicidi dell'acquedotto. Se ne occupa il curatore, con la collaborazione di quel bastardo di Anacrite.» «Ma ora Vespasiano deve avere ordinato una commissione superiore» ribatté Elena. Fissammo entrambi Giulio Frontino. Aveva posato la sua ciotola. Mostrò i palmi in segno di conferma, anche se pareva un po' sconcertato dal modo in cui Elena e io avevamo discusso, escludendolo e prevenendo la sua richiesta. Sogghignai nuovamente. «Tutto quello che ho bisogno di sapere da te, console, è se la tua commissione ha la precedenza su qualunque cosa venga portata avanti dal curatore degli acquedotti, in modo che i tuoi assistenti abbiano la precedenza sui suoi.» «Prova a contare i miei littori» rispose Frontino in tono leggermente stizzito. «Sei.» Doveva essergliene stato concesso un numero speciale, all'altezza dell'incarico. «Il curatore degli acquedotti ne ha solo due.» Quindi Frontino lo superava in grado, e anch'io avrei superato in grado Anacrite. «È un piacere fare affari con te, console» dissi. Dopodiché, spingemmo da parte le graziose coppe di cannella e ci dedicammo a un esame pratico di quello che sarebbe stato necessario fare. «Vorrei che mi prestaste un piatto» chiese con calma Frontino. «Ve ne
consiglierei uno che non usate molto spesso.» Gli occhi di Elena incontrarono i miei, offuscati dalla preoccupazione. Avevamo capito entrambi a quale scopo l'avrebbe utilizzato. XXIII La terza mano era gonfia, ma intatta. Giulio Frontino la tolse dall'involto e ce la presentò senza alcuna drammaticità, ponendola sul piatto come fosse un organo rimosso da un chirurgo. I primi due avanzi erano anneriti dalla decomposizione; questa mano, invece, era nera perché la sua proprietaria era stata una donna di colore, forse originaria della Mauritania o dell'Africa. La pelle delicata del dorso della mano era color ebano, il palmo e la punta delle dita molto più chiari. Le cuticole erano curate, le unghie accuratamente tagliate. Sembrava una mano giovane. Le dita, ancora tutte intere, dovevano essere state lunghe e affusolate come quelle di Elena, che poco prima mi avevano picchiettato così pressantemente il polso. Era una mano sinistra. Al mignolo gonfio era infilata una semplice fede nuziale d'oro. Giulio Frontino era rimasto in silenzio, con fare schizzinoso. Io mi sentivo depresso. Elena Giustina all'improvviso aveva allungato il braccio e aveva coperto quei resti con la propria mano più chiara, con le dita allargate e diritte, per fortuna senza toccarli. Era un gesto involontario di tenerezza per la ragazza morta. La sua espressione era assorta come quando faceva lo stesso gesto sopra la nostra bambina addormentata. Forse il fatto che l'avessi notato fece vibrare una corda dentro di lei. Senza proferire parola, Elena si alzò e la sentimmo dirigersi nella stanza accanto, dove Giulia Giunilla era al sicuro nella propria culla. Dopo una breve pausa, in cui probabilmente osservava la bimba, Elena tornò e si sedette nuovamente con espressione corrucciata. Era di umore tetro, ma non disse nulla, così Frontino e io incominciammo a discutere del nostro lavoro. «Questa mano è stata rinvenuta durante la pulizia della cisterna dell'Aqua Claudia, nell'Arco di Dolabella.» Il tono e i modi di Frontino erano sbrigativi. «È saltata fuori dalla sabbia in uno dei secchi per il dragaggio. La squadra di lavoranti che l'ha scoperta non era sorvegliata a dovere e, invece di riferire ufficialmente il ritrovamento, l'ha esibita in pubblico per denaro.» Parlava come se disapprovasse l'accaduto e tuttavia non
li biasimasse. «È stato questo a provocare i tumulti di oggi?» «Apparentemente sì. Il curatore degli acquedotti si trovava al Circo, per sua fortuna. Uno dei suoi assistenti non è stato altrettanto fortunato: lo hanno riconosciuto per strada e pestato. Ci sono stati danni alle proprietà, e naturalmente c'è grande clamore affinché vengano ripristinate le condizioni igieniche. Il panico ha provocato difficoltà di ogni genere. È scoppiata un'epidemia dalla sera alla mattina...» «È naturale» commentai. «Non appena ho saputo che probabilmente l'acqua della città era contaminata, ho incominciato anch'io a sentirmi poco bene.» «Isteria» sentenziò recisamente il console. «Ma chiunque sia il responsabile, va trovato.» Elena aveva sentito abbastanza. «Che comportamento sconsiderato!» Parlava con un tono molto dolce, il che significava che saremmo stati criticati aspramente. «Una stupida ragazza si fa uccidere da un folle, e getta nello scompiglio tutta la città. Bisognerebbe proprio impedire alle donne di mettersi in queste situazioni. Per Giunone, non possiamo permettere che ci siano femmine responsabili di febbri, e tanto meno di danni alle proprietà...» «È l'uomo che deve essere fermato.» Cercavo di superare la bufera. Frontino mi lanciò un'occhiata impotente e lasciò che la affrontassi da solo. «Sia che le vittime cadano nelle sue grinfie per stoltezza sia che lui le sorprenda alle spalle in una strada buia, nessuno vuole insinuare che se la siano meritata, amore. E credo che la gente non abbia nemmeno incominciato a pensare a quello che fa a queste donne prima di ucciderle... e tanto meno al modo in cui le tratta dopo.» Con mia grande sorpresa, Elena si calmò. Era cresciuta al riparo dai pericoli, ma prestava attenzione alle cose e non era priva d'immaginazione. «Queste donne vengono sottoposte a terribili sofferenze.» «Su questo non c'è alcun dubbio.» La compassione rattristò nuovamente il volto di Elena. «La proprietaria di questa mano era giovane e piena di calore. Solo uno o due giorni fa stava forse cucendo, o filando. Magari con questa mano accarezzava suo marito o il loro figlio. Preparava il cibo, si pettinava i capelli, deponeva focacce di frumento davanti agli dèi...» «Ed è solo una di una lunga serie di ragazze, rapite e condotte a una fine orrenda. Con tutta una vita davanti.»
«Speravo che fosse un fenomeno recente» intervenne Frontino. «No, succede da anni, console» gli spiegò Elena in tono adirato. «Nostro cognato lavora sul fiume e sostiene che, per quanto ricordi, sono sempre stati rinvenuti corpi mutilati. Da anni spariscono donne senza che nessuno ne denunci la scomparsa... o comunque senza che nessuno indaghi. I loro cadaveri sono stati fatti sparire nel silenzio generale. È solo quando la gente incomincia a pensare che gli acquedotti siano contaminati che qualcuno si interessa!» «Finalmente è stata avviata un'indagine.» Frontino fu più coraggioso di me nel suggerirlo. «Naturalmente, è uno scandalo, e naturalmente questa indagine è tardiva. Nessuno lo nega.» «Sei in malafede» lo rimproverò Elena con garbo. «Sono concreto, direi» ribatté lui. «Chiunque fossero» garantii a Elena «queste donne avranno l'indagine che meritano.» «Sì, credo che adesso l'avranno.» Aveva fiducia in me. Era una grave responsabilità. Allungai la mano per prendere il piatto e lo tenni sollevato. «La prima cosa da fare, anche se può sembrare una mancanza di rispetto, è togliere la fede nuziale di questa poveretta.» Sarebbe stato meglio farlo senza essere osservati: l'anello era incastrato nella carne impregnata d'acqua e sfilarlo sarebbe stato un lavoro assai sgradevole. «La sola possibilità che abbiamo di risolvere questo caso è identificare almeno una delle vittime e scoprire esattamente che cosa le è successo.» «Quante probabilità ci sono?» chiese Frontino. «Be', è la prima volta che l'assassino deve far sparire in fretta e furia i resti mentre qualcuno lo cerca realmente. È probabile che quanto prima il tronco della ragazza venga scaricato nel Tevere, come ha spiegato prima Elena.» Il console alzò rapidamente lo sguardo, e si tenne pronto a discutere dell'organizzazione. «Nei prossimi giorni» gli dissi. «O al più tardi non appena finiranno i Giochi, se hai a tua disposizione degli uomini, potrebbero tenere sotto controllo ponti e argini.» «Un giorno e una notte di guardia richiedono più risorse di quelle di cui dispongo.» «Che sarebbero?» «Un modesto gruppo di schiavi pubblici.» Compresi dalla sua espressione che si rendeva pienamente conto di non avere mezzi sufficienti a dirigere un'indagine seria.
«Fai del tuo meglio, console. Niente di troppo manifesto, o l'assassino si spaventerà e fuggirà. Metterò in giro la voce fra i barcaioli del fiume, e forse il mio socio potrà ottenere qualche aiuto dai Vigili.» I grandi occhi castani di Elena erano ancora addolorati, ma vidi che stava riflettendo. «Marco, continuo a chiedermi anzitutto in che modo questi resti più piccoli vengano introdotti nella rete idrica. La maggior parte degli acquedotti non si trova in profondità nel sottosuolo o in cima ad archi molto alti e quindi inaccessibili?» Lasciai che fosse Frontino a rispondere alla domanda. «Un'ottima idea» concordò lui. «Dobbiamo consultarci con i funzionari per sapere in che modo sia possibile l'accesso non autorizzato.» «Se riusciamo a scoprire dove succede, forse possiamo cogliere sul fatto quel bastardo.» Quello che a me interessava, in realtà, era in che modo il nostro intervento avrebbe toccato Anacrite. «Ma parlare con il comitato delle acque non ostacolerà l'indagine del curatore?» Frontino scrollò le spalle. «Lui sa che mi è stato chiesto di effettuare un esame generale. Chiederò che domani metta a nostra disposizione un ingegnere per una consultazione. Non ha altra scelta.» «Di certo non incoraggerà i suoi dipendenti a fornirci aiuto. Dovremo convincerli con l'astuzia» dissi. «Usa il tuo fascino» mi prese in giro Elena dolcemente. «Tu che cosa mi consigli, amore? Disponibilità e il mio sorriso affascinante?» «No, intendevo dire di allungare qualche moneta.» «Vespasiano non l'approverebbe mai!» Feci una smorfia a beneficio di Frontino, che ascoltava con una certa circospezione le nostre punzecchiature. «Console, dovremmo riuscire a cavare qualche informazione utile dagli ingegneri. Parteciperai a questa parte dell'indagine?» «Certamente.» Povero me. «Benone!» Mi chiedevo in che modo Petro e io saremmo riusciti a condividere le nostre impressioni con un ex magistrato. Ingraziarci un console non era nel nostro stile. La questione sarebbe stata affrontata immediatamente, poiché proprio in quel momento era arrivato Petronio con il suo passo dinoccolato. Doveva avere notato i littori accasciati davanti all'ingresso di Lenia. In teoria, non avevamo ancora ricominciato a parlarci ma, si sa, la curiosità è una brutta bestia. Petro, con la sua figura alta e le spalle ampie, indugiò per un attimo
sulla soglia. Sembrava esitare. «Falco! Che cos'hai fatto per guadagnarti un seguito di sei littori?» «Un tardivo riconoscimento da parte dello stato... Entra, bastardo! Ti presento Giulio Frontino.» Notai che Petro aveva intercettato il messaggio che gli avevo inviato con lo sguardo. «È il console di quest'anno... e il nostro ultimo cliente.» Mentre Petronio faceva un cortese cenno con il capo, fingendo di non essere affatto colpito dal grado, gli parlai della commissione d'inchiesta e di come per il lavoro di gambe fosse necessaria la nostra competenza. Riuscii anche ad alludere al fatto che il nostro cliente intendeva imporre la propria presenza durante gli interrogatori, in modo che Petro fosse avvertito. Sesto Giulio Frontino era naturalmente l'uomo che nel corso della vita avrebbe raggiunto una fama senza pari per le sue doti di avvocato, statista, generale e amministratore di città, per non parlare della sua produzione di importanti e qualificate opere di strategia militare, rilevamento topografico ed erogazione dell'acqua (un interesse che mi piace pensare avesse acquisito mentre lavorava con noi). La sua carriera rappresenta un ideale perfetto. In quel momento, tuttavia, la sola questione che interessava Petro e me era se saremmo riusciti a sopportarlo come supervisore... e se il potente Frontino sarebbe stato disposto a sollevare la sua toga porpora fin sulle ginocchia nodose per fare la sua parte come onesto soldato nelle squallide osterie dove amavamo tenere i nostri dibattiti sulle prove appena acquisite. Petronio si trovò da sedere e si sistemò comodamente. Prese il piatto che conteneva la nuova mano, la fissò con un sospiro opportunamente depresso, mi ascoltò mentre gli facevo notare alcuni evidenti segni di scure sulle ossa del polso e poi rimise con cura il piatto sul tavolo. Non sprecò il fiato in esclamazioni isteriche e non pretese neppure una noiosa ripetizione della conversazione che si era perso. Pose semplicemente la domanda che, secondo lui, aveva la precedenza. «Questa è un'indagine di primaria importanza. Immagino che il compenso sarà adeguato.» Lo avevo addestrato bene. Ormai Lucio Petronio era un autentico investigatore. XXIV Grazie alla fede nuziale, avevamo il nostro primo indizio utile. Toglierla però mi fece stare male. Non chiedetemi come ci sia riuscito. Dovetti rifugiarmi da solo in un'altra stanza. Petronio valutò il lavoro, poi fece una
smorfia e lasciò che me la cavassi da solo, tuttavia potei contare sul suo aiuto per tenere alla larga Elena e il console. Alla fine fui lieto di avere resistito: all'interno dell'anello erano incisi i nomi «Asinia» e «Caio». A Roma ci saranno stati migliaia di uomini di nome Caio, ma trovarne uno che di recente avesse perduto una moglie di nome Asinia non si sarebbe dovuto rivelare difficile. Il nostro nuovo collega dichiarò che avrebbe chiesto al prefetto cittadino di informarsi presso tutte le coorti dei Vigili sotto il suo comando. Lasciammo che fosse Frontino a occuparsene, nel caso il suo grado avesse accelerato i tempi. Sapendo, tuttavia, in che modo i Vigili tendessero a reagire ai gradi, anche Petronio fece un tentativo per conto suo con la Sesta, che pattugliava il Circo Massimo e che attualmente aveva la sventura di ospitare Martino, il suo vecchio comandante in seconda. Dal momento che gli omicidi sembravano collegati ai Giochi, c'era la possibilità che la vittima avesse incontrato il suo aggressore proprio al Circo. I Vigili della Sesta erano i candidati più probabili a ricevere la richiesta di aiuto del marito. Nel suo stile che sembrava sempre poco affidabile, Martino promise di informarci immediatamente. Be', non era totalmente incapace, quindi forse alla fine avrebbe risolto il problema. Mentre aspettavamo notizie, affrontammo la questione dell'acquedotto. La mattina seguente, sul presto, Petronio e io ci presentammo a casa di Frontino con le tuniche linde, i capelli in ordine e tutta la solennità di cui gli investigatori efficienti sono capaci. Sembravamo gli uomini giusti per l'incarico: tutto il tempo a braccia conserte, con le sopracciglia aggrottate e l'espressione pensierosa. Qualunque ex console sarebbe stato ben felice di avere al suo servizio due bellimbusti del genere. Anche se ci era stato concesso di interrogare un ingegnere, il curatore degli acquedotti aveva avuto la possibilità di scegliere quale mandarci. L'uomo che ci affibbiò si chiamava Stazio, e capimmo dalle dimensioni della sua squadra di supporto che si sarebbe dimostrato un balordo: si era portato appresso un paio di schiavi con le tavolette per appunti (per annotare quello che diceva in modo da controllare esattamente le sue parole e mandarci le correzioni necessarie nel caso fosse stato inavvertitamente troppo sincero), un portaborse, un assistente e il paffuto scrivano dell'assistente, per non parlare dei portatori di lettiga e delle guardie armate di clave che aveva lasciato all'esterno. Si trovava lì per fornirci la sua consulenza di esperto, tuttavia si comportava come se fosse stato citato in giudizio con una vera e propria accusa di corruzione.
Fu Frontino a porgli la prima domanda che, com'era nel suo stile, fu diretta: «Hai una mappa della rete degli acquedotti?». «Credo che esista un diagramma dell'ubicazione delle condutture sopra e sotto il suolo.» Io e Petronio ci guardammo negli occhi. Era il suo tipo preferito: quello che per indicare una vanga diceva «attrezzo per la ridistribuzione del suolo». «Puoi fornircene una copia?» «Di norma informazioni segrete di questo genere non sono disponibili...» «Capisco!» Frontino lo guardò con occhio torvo. Se mai gli avessero offerto di amministrare gli acquedotti, era chiaro quale sarebbe stato il primo zuccone che avrebbe scaraventato fuori dalla finestra. «Forse allora» suggerì Petro, facendo la parte del tipo fraterno e comprensivo (una sorta di fratello maggiore armato di randello) «potresti darci semplicemente qualche ragguaglio su come funzionano le cose?» Stazio fece ricorso alla sua cartella, nella quale aveva nascosto un fazzoletto di lino per asciugarsi la fronte. Era in sovrappeso e rosso in viso. La tunica era sgualcita e formava pieghe dall'aspetto sudicio, anche se probabilmente all'inizio della giornata era stata pulitissima. «Be', è complicato da spiegare ai non addetti ai lavori. Quello che mi chiedi è estremamente tecnico...» «Mettimi alla prova. Quanti acquedotti ci sono?» «Otto» ammise Stazio, dopo una pausa di terrore. «Non erano nove?» azzardai con calma. Lui parve seccato. «Be', se includi l'Alsietina...» «C'è una ragione per cui non dovrei?» «Si trova sul lato di Trastevere.» «Questo lo so.» «L'Aqua Alsietina è usata solo per la naumachia e per irrigare i Giardini di Cesare...» «E per i poveri di Trastevere quando gli altri acquedotti sono in secca.» Ero infastidito. «Sappiamo che l'acqua è di pessima qualità. Era stato destinato solo a riempire il bacino per le battaglie di triremi. Ma non è questo il punto, Stazio. Nell'Alsietina sono mai state rinvenute mani di donne, o altri brandelli umani?» «Su questo non ho nessuna informazione precisa.» «Allora ammetti che potrebbero esserci resti umani?»
«È una possibilità statistica.» «È anche statisticamente certo che da qualche parte c'è un corso d'acqua pieno di teste, gambe e braccia. Dove ci sono mani, di norma si trovano anche gli altri arti, e non ne abbiamo ancora trovato nessuno.» Petronio intervenne di nuovo autorevolmente, facendo la parte del tipo ragionevole e gentile di cuore: «Bene, diciamo quindi che il computo è di nove? Con un po' di fortuna, potremo eliminarne qualcuno con facilità, ma dobbiamo cominciare prendendo in considerazione l'intera rete. Dobbiamo stabilire in che modo un uomo e i suoi complici, qualora ne avesse, approfittano degli acquedotti per eliminare le prove dei loro orrendi crimini». Stazio insisteva con i commenti fuori luogo. «Il comitato delle acque non accetta nessuna responsabilità per questo. Non starete insinuando che la qualità notoriamente cattiva dell'Aqua Alsietina si spiega con impurità illegali di origine umana?» «Naturalmente no» replicò cupamente Petro. «Naturalmente no» concordai anch'io. «L'Alsietina è piena di schifezze assolutamente naturali.» Gli occhi dell'ingegnere, che erano troppo ravvicinati, si spostarono nervosamente dall'uno all'altro di noi. Sapeva che Giulio Frontino era troppo importante per trattarlo con sdegno, ma riteneva noi due un paio di sgradevoli insetti da schiacciare, se ne avesse avuto il coraggio. «Voi state cercando di stabilire in che modo alcuni... relativamente pochi, direi... resti sgraditi siano stati introdotti nelle condutture. Be', apprezzo la vostra iniziativa...» Mentiva spudoratamente. «Tuttavia dobbiamo considerare gli innumerevoli ostacoli che abbiamo di fronte...» Per lo meno, parlava. Ascoltammo in silenzio. Era diventato sicuro di sé, forse perché respingere le richieste lo faceva sentire importante. «L'impianto dell'acqua dolce comprende fra le due e le trecento miglia di condotti...» Sembrava un calcolo molto approssimativo. Impossibile che non si fossero fatte misurazioni più accurate, per lo meno quando erano stati costruiti gli acquedotti. «Mi pare di capire che questi singolari inquinanti...» «Membra umane» lo corresse Petronio. «Siano comparsi nelle torri dell'acqua, di cui la rete è scandalosamente carente...» «Quante sono?» domandò subito Frontino. Stazio consultò il suo assistente, che ci informò prontamente: «L'Aqua Claudia e l'Anio Novo insieme hanno quasi un centinaio di castelli, e per l'intera rete se ne potrebbero calcolare più del doppio».
Notai che Frontino prendeva frettolosamente nota delle cifre. Lo faceva personalmente, senza servirsi di uno scrivano, sebbene dovesse averne a disposizione parecchi. «Quant'è la portata giornaliera di acqua?» domandò seccamente. Stazio trasalì. «Approssimativamente» aggiunse Frontino, per venirgli incontro. Stazio dovette ricorrere di nuovo all'aiuto del suo assistente, il quale spiegò con precisione: «È difficile da misurare, poiché il flusso scorre di continuo e inoltre ci sono variazioni stagionali. Una volta ho abbozzato delle statistiche per l'Aqua Claudia, uno dei quattro grandi acquedotti provenienti dai Monti Sabini. Una cosa sbalorditiva, console. Siamo riusciti a fare un paio di misurazioni, e quando ho estrapolato le cifre, ho calcolato una portata giornaliera di poco più di sette milioni di piedi cubici. In altri termini, all'incirca sette milioni di anfore normali... per culleo, se preferite, oltre sessantamila». Il culleo è una sacca di cuoio enorme, ed è quindi veramente difficile immaginarne sessantamila piene d'acqua. E quella era soltanto la quantità distribuita a Roma da un singolo acquedotto in un solo giorno. «È importante?» s'informò Stazio. Lungi dal mostrarsi grato, sembrava seccato di essere stato messo in imbarazzo da un subordinato. Frontino alzò la testa, con gli occhi ancora spalancati di fronte a quelle cifre. «Non ne ho ancora idea. Ma di certo è affascinante.» «Quello che nessuno sa» continuò l'assistente, che sembrava divertirsi parecchio, «è se ci siano altri resti umani non ancora rinvenuti nelle camere di decantazione lungo il percorso.» «Quante ne esistono di queste camere?» si affrettò a domandare Petro, cercando di precedere il console, che pareva estremamente interessato. «Innumerevoli» intervenne sbrigativamente Stazio, fornendoci personalmente quell'osservazione con il preciso intento di ridurci al silenzio. L'assistente invece dava l'impressione di conoscere la risposta, tuttavia non disse una parola. «Vorrà dire che da questo momento siete autorizzati a contarle» grugnì Frontino rivolto all'ingegnere capo. «Ho motivo di credere che questa disgustosa contaminazione vada avanti da anni. Quello che mi lascia sbalordito è che il comitato delle acque non abbia indagato molto tempo fa.» Fece una pausa, aspettandosi evidentemente una spiegazione, ma Stazio non colse l'allusione. Di fronte a noi aveva luogo uno scontro frontale tra l'intelligenza e la mancanza di fantasia. L'ex console possedeva tutto l'acume e la vivacità mentale che caratterizzano i migliori amministratori,
l'ingegnere aveva fatto carriera grazie a una burocrazia corrotta e per il solo fatto di essere stato a guardare mentre i suoi tirapiedi gli passavano le carte su cui apporre il sigillo. Nessuno dei due riusciva a credere che l'altro esistesse realmente. Frontino capì che doveva mostrarsi risoluto. «Vespasiano vuole che si metta fine a questa orribile faccenda. Darò istruzioni al curatore affinché tutte le torri vengano immediatamente ispezionate, dopodiché tu dovrai incominciare a controllare il più rapidamente possibile tutte le camere di decantazione. Le vittime devono essere trovate e identificate, e ricevere un funerale adeguato.» «Ho sentito dire che fossero soltanto delle schiave» obiettò debolmente Stazio, che cercava ancora di opporre resistenza. Ci fu un breve momento di pausa. «È probabile» concordò Petronio. Il suo tono era caustico. «Quindi sarebbe uno spreco di risorse, oltre che un rischio per la salute pubblica, vero?» L'ingegnere evitò prudentemente di rispondere. Il suo silenzio parlava di anni di irrisione e oscenità che dovevano avere accompagnato ogni singolo orribile ritrovamento da parte degli operai dell'acquedotto, e delle lamentele dei loro superiori mentre studiavano il modo di insabbiare la faccenda. Elena aveva ragione: quelle morti erano considerate solo una seccatura. Perfino la commissione ufficiale che avrebbe potuto mettervi fine era vista come un fastidio imposto ingiustamente dall'alto. Giulio Frontino lanciò un'occhiata a Petro e a me. «Altre domande?» Non faceva mistero del fatto che ne aveva avuto abbastanza di Stazio e del suo modo evasivo di rispondere. Mentre la squadra dell'ingegnere se ne andava, acciuffai il paffuto scrivano dell'assistente. Avevo tirato fuori una tavoletta per gli appunti e uno stilo e gli chiesi il suo nome, come se fossi stato designato per stilare il verbale dell'incontro e avessi bisogno di buttare giù alla svelta il consueto elenco dei presenti per compilare il mio rotolo di pergamena. Lui mi rivelò il suo terzo nome come se fosse un segreto di stato. «E l'assistente?» «Bolano.» «Nel caso dovessi controllare di non avere riportato scorrettamente i dati che ci ha fornito, dove lo posso trovare?» Lo scrivano mi fornì con riluttanza l'indirizzo. Dovevano avergli ordinato di non esserci di nessun aiuto, ma pensava evidentemente che, se avessi
avvicinato l'assistente, Bolano si sarebbe sbarazzato di me con un pretesto. Per me andava benissimo così. Tornai indietro e riferii a Frontino che pensavo che Bolano potesse essere un tipo intraprendente. Sarei andato a cercarlo in privato e avrei chiesto il suo aiuto. Nel frattempo Petronio avrebbe fatto visita all'ufficio del prefetto cittadino e ai nostri contatti fra i Vigili, per vedere se fosse emerso qualcosa di nuovo sull'ultima ragazza morta. Con aria afflitta, poiché sembrava che nessuno di noi due avesse bisogno di lui, Frontino si accinse a trascorrere la giornata tenendosi occupato come tutti gli ex consoli a riposo. Probabilmente anche loro fanno i nostri stessi lavoretti, ma hanno a disposizione qualche schiavo in più per buttare via i torsoli di mela mangiucchiati e per cercare gli utensili e le pergamene che hanno posato da qualche parte ma che misteriosamente non trovano più. XXV Stazio, l'ingegnere, aveva probabilmente a sua completa disposizione un ufficio spazioso pieno di grafici che non consultava mai, comode sedie pieghevoli per i visitatori e un'attrezzatura per riscaldare il vino, se mai fosse stato costretto a inerpicarsi su un acquedotto in una giornata piuttosto fredda e avesse avuto bisogno di riattivare la circolazione. Ma di certo non era cosa che succedeva spesso! Bolano, invece, viveva in prossimità del Tempio di Claudio, in un tugurio schiacciato in un angolo contro la cisterna terminale dell'Aqua Claudia e, per questo, difficile da trovare. Ma non era un caso: Bolano doveva stare vicino al luogo di lavoro, poiché naturalmente, fra i due colleghi, era lui quello che di fatto lavorava. Fui lieto di averlo capito subito: questo ci avrebbe risparmiato un sacco di seccature. Ero sicuro che avrebbe parlato, perché era sempre così indaffarato che non poteva permettersi di perdere tempo in sciocchezze. Qualunque lavoro stesse seguendo, sapeva che gli avremmo causato una fatica supplementare e aveva capito che era meglio rispondere in modo esauriente da subito. La sua minuscola capanna era un ottimo rifugio dalla calura estiva. Una corda tesa tra due pilastrini doveva servire per tenere alla larga gli ospiti non desiderati, ma chiunque avrebbe potuto scavalcarla. All'esterno erano ammassate scale a pioli, lampade e protezioni frangivento, visibilmente consumate dall'uso. Anche l'interno era stipato di attrezzature: quelle livel-
le speciali chiamate corobate, diottra, groma, e poi aste di rilevamento, un odometro, una meridiana portatile, piombini, funicelle già tese e incerate, squadre fisse, divisori, compassi. Un panino ripieno di affettato e mangiato a metà era appoggiato su una pelle distesa che riconobbi come uno dei grafici che, a detta del borioso Stazio, erano troppo riservati perché potessimo consultarli; Bolano invece lo teneva sul tavolo, a portata di tutti. Quando mi presentai a casa sua, era appena rientrato. Alcuni operai stavano pazientemente in coda per consegnargli promemoria e ordini di variazioni. Bolano mi chiese di aspettare mentre dava rapidamente retta a quanti gli era possibile, promettendo agli altri una visita in loco entro breve tempo. Costoro se ne andarono con l'aria di sapere che avrebbe mantenuto la promessa e la coda si esaurì ancora prima che incominciassi ad annoiarmi. Bolano era basso, largo di spalle, massiccio, senza collo, con la testa rasata e le dita tozze. Indossava una tunica rosso ciliegia scuro, quella tinta che tende a diventare striata con i lavaggi, con una cintura di cuoio ritorto che avrebbe dovuto buttare via almeno cinque anni prima. Quando si sedette, si issò goffamente su uno sgabello, come se avesse dei problemi alla schiena. Nonostante un occhio velato, aveva uno sguardo intelligente. «Sono Falco» mi presentai. «Lo so.» Si ricordava di me. Mi piace pensare di fare colpo sulla gente. A volte capita, invece, di parlare con certe persone per un'ora e poi di incontrarle in un contesto diverso, senza che vi riconoscano. «Non voglio disturbarti, Bolano.» «Tutti abbiamo il nostro lavoro da svolgere.» «Ti dispiace se cerco di approfondire la conversazione di stamattina?» Bolano si strinse nelle spalle. «Avvicina uno sgabello.» Mi misi a sedere su uno sgabello libero, mentre lui si accingeva a finire il panino al salame lasciato a metà. Prima, però, tirò fuori un canestro da sotto il tavolo, aprì rapidamente una tovaglia immacolata e mi offrì un boccone di quel sostanzioso spuntino. La cosa mi preoccupò: di solito, infatti, le persone cortesi con gli investigatori nascondono qualcosa; tuttavia, lo spuntino era così invitante che decisi di lasciare da parte il mio cinismo. «Ascolta, tu sai qual è il problema...». Feci una pausa per comunicargli che il graditissimo boccone era davvero ottimo. «Stiamo cercando un maniaco. Quello che ci lascia perplessi, innanzitutto, è come riesca a introdurre i resti dei cadaveri nelle condutture dell'acqua. Non sono per lo più sotto terra?»
«Sì, ma ci sono dei tombini di accesso per la manutenzione». «Come nelle fognature.» Di quelle sapevo tutto: io stesso le avevo usate per disfarmi di un cadavere, quello di Publio, lo zio di Elena. «Le fognature hanno almeno una via di uscita nel fiume, Falco, invece qualunque oggetto presente negli acquedotti finisce per forza nelle terme o in una fontana, con il rischio di spaventare qualcuno. Secondo te lui vuole che queste cose siano scoperte?» «Forse non vi introduce deliberatamente i resti, forse arrivano per caso negli acquedotti.» «Mi sembra più probabile.» Bolano addentò con sano appetito un grosso boccone. Aspettai che avesse finito di masticarlo, perché avevo la chiara sensazione che non fosse necessario incalzarlo. «Ci ho riflettuto, Falco.» Me l'aspettavo. Era un uomo pratico, abituato a risolvere i problemi, e i misteri di qualunque genere gli avrebbero roso l'animo. La sua soluzione, qualora ne avesse suggerita una, avrebbe sicuramente funzionato. Avrei voluto un individuo come lui come cognato, invece di quei parassiti con cui le mie sorelle erano maritate, un uomo insieme al quale avrei potuto costruire una terrazza per godersi il sole o che avrebbe fatto una capatina a casa nostra per aggiustare un'imposta rotta, mentre fossimo stati in vacanza. «Gli acquedotti posti sulle arcate hanno soffitti a volta, oppure, di quando in quando, lastre che servono principalmente a impedire l'evaporazione. Di conseguenza, non è possibile lanciare rifiuti in aria e sperare che cadano all'interno delle condutture, Falco. Ci sono, però, tombini di accesso, a intervalli di circa settanta metri l'uno dall'altro. Chiunque può trovarli. Sono contrassegnati da cippi...» «Da lapidi?» «Esatto. Augusto ha avuto la brillante idea di numerare tutti i tombini. In realtà, noi non usiamo questo sistema, perché è più comodo basarsi sulle pietre miliari più vicine. Infatti è così che le squadre di lavoro si avvicinano al sito.» «Non credo che Cesare Augusto facesse parte delle squadre di lavoro.» Bolano fece una smorfia. «Forse le cose funzionerebbero meglio, se per fare carriera e arrivare al Senato fosse necessaria qualche settimana in una squadra di lavoro.» «Sono d'accordo, ma trovami un uomo al Senato che si sia mai dovuto sporcare le mani.» «In ogni caso, trovare i punti di accesso non è difficile, ma sono tutti ot-
turati con enormi tappi di pietra che solo una gru è in grado di sollevare. Noi non abbiamo la necessità di accedervi tanto spesso quanto le squadre delle cloache e siamo incessantemente in lotta per impedire che i cittadini attacchino le proprie condutture e rubino l'acqua. Quindi non mi sembra che il vostro maniaco abbia molte possibilità di introdurvisi.» Questa era davvero una buona notizia. «D'accordo. Consideriamo la situazione. Non stiamo parlando di un omicidio preterintenzionale avvenuto all'interno di una famiglia. Qui abbiamo un bastardo che da molto tempo rapisce donne regolarmente, con l'intenzione di abusare di loro sia da vive sia da morte. Dopodiché deve sbarazzarsi di ogni traccia, in un modo che non permetta di risalire direttamente a lui, perciò quando uccide una donna la fa a pezzi per eliminare più facilmente il cadavere.» «O perché gli piace farlo.» A Bolano piaceva scherzare. «Entrambe le cose, probabilmente. Gli uomini che uccidono ripetutamente possono agire con distacco. Sicuramente è ossessivo... ed è anche astuto. Quindi perché ha scelto di servirsi delle condutture degli acquedotti? E se sono così inaccessibili, come fa?» Bolano trasse un profondo respiro. «Forse per lui non sono inaccessibili. Forse ci lavora. Forse è uno di noi.» Naturalmente mi ero già posto anch'io la stessa domanda. Scrutai serio Bolano. «È una possibilità.» Sembrava sollevato di avere messo le carte in tavola. Sebbene stesse parlando in modo franco con me, si sentiva probabilmente sleale nei confronti dei colleghi. «La cosa non mi piace, Bolano. Gli schiavi pubblici lavorano tutti in squadre e, a meno che un'intera squadra non sia a conoscenza degli omicidi e non stia coprendo da anni qualcuno, immagina soltanto i problemi che questo comporterebbe. È davvero possibile che questo assassino abbia fatto sparire tutti quei cadaveri senza che qualcuno dei suoi compagni se ne sia mai accorto? E se fosse stato notato, ormai dovrebbe essere trapelato qualcosa.» Bolano aggrottò le sopracciglia. «È spaventosa anche solo l'idea che qualcuno s'introduca in un condotto con in tasca una mano o un piede...» «Piede?» «Ne è stato trovato uno, una volta.» Mi chiesi di quanti altri macabri rinvenimenti saremmo venuti a conoscenza. «Se così fosse, deve aspettare di essere sicuro che nessuno dei suoi compagni di lavoro stia guardando, quando lo getta dentro.» «È un comportamento da stupidi. Vale la pena di correre il rischio?»
«Correre il rischio potrebbe far parte del divertimento» suggerì Bolano. Per un attimo quello di Bolano mi sembrò un esame troppo dettagliato della mente dell'assassino. Dopotutto, lavorava anche lui negli acquedotti e, come assistente di un ingegnere, avrebbe potuto compiere ispezioni da solo, se l'avesse voluto. Sarebbe stato anche nella posizione ottimale per venire a sapere di una possibile indagine ed entrare a farne parte, in modo da poter controllare quello che stava succedendo. Improbabile. Sì, certo, era un tipo solitario, forse anche a causa della sua conoscenza specialistica, ma era un uomo che faceva funzionare le cose, non uno che uccideva e faceva a pezzi le donne per qualche oscuro, disumano motivo. Bolano era uno di quegli esperti che edificano l'impero e lo mantengono in perfetto ordine. Tuttavia anche l'assassino, che aveva alle spalle anni di crimini mai scoperti, doveva a suo modo essere efficiente. Se mai l'avessimo identificato, ero certo che ci saremmo trovati davanti a un folle, ma anche a un uomo che aveva vissuto liberamente senza suscitare sospetti in coloro che incontrava. La cosa che davvero terrorizza di queste persone è che somigliano, in tutto e per tutto, a uno chiunque di noi. «Può darsi che tu abbia ragione» dissi, decidendo di mettere comunque alla prova Bolano. Non volevo fare la fine dell'investigatore fesso che si lascia mettere fuori strada da un collaboratore servizievole per poi scoprire, dopo settimane di frustrazione, che proprio lui era in realtà la preda. È capitato fin troppo spesso. «Ciò che lo eccita maggiormente dev'essere l'idea di esercitare un potere sulle sue vittime. Quando lo troveremo, scopriremo che odia le donne.» «Uno dei tanti!», ironizzò Bolano. «Si sente impacciato se deve avvicinarle e, quando ci prova, è probabile che le donne ridano di lui. Più si sente offeso per essere stato respinto, più le donne avvertono fastidio e rifuggono da lui.» «Sembra l'incubo di ogni ragazzo.» «Ma nel suo caso è sproporzionato, Bolano. E, diversamente dalla maggior parte di noi, lui non impara mai ad accettare il rischio. È molto peggio di un ragazzotto timido: il suo è un vizio radicato e in realtà lui non vuole persuadere nessuna donna, e loro lo intuiscono. Quest'uomo è prigioniero del proprio rifiuto di comunicare nel modo giusto, mentre tutti noi commettiamo un sacco di errori lungo il percorso ma se siamo fortunati ce la facciamo a mettere a segno anche qualche tiro vincente.» All'improvviso Bolano sorrise con espressione nostalgica. «E quando ci riusciamo, è magnifico!»
Questa frase mi rassicurò. Ma naturalmente i maniaci assassini sono generalmente anche abili bugiardi che sanno fingere molto bene, e Bolano poteva essere uno di questi, un impostore abile a manipolare il prossimo, che sapeva esattamente quello che volevo sentire, dotato di un'astuzia così perversa da riuscire a simulare la normalità e a mettermi nel sacco a ogni mossa. «Potrebbe essere uno di noi due» suggerì Bolano, come se avesse intuito quello che pensavo. Stava ancora sgranocchiando il suo spuntino. «Di certo non spicca in mezzo agli altri come un mostro dallo sguardo folle, altrimenti sarebbe già stato arrestato da parecchi anni.» Annuii. «Oh, sì, probabilmente ha un aspetto molto ordinario.» Bolano mi lanciò nuovamente un'occhiata attenta, come se mi leggesse nel pensiero. Ci rimettemmo a discutere del modo in cui l'assassino si sbarazzava dei corpi. «Tu sai che i barcaioli trovano anche tronchi di cadavere nel fiume, vero?» «Tutto torna, Falco. Se costui ha trovato un modo di infilare qualche mano negli acquedotti, i tronchi invece sono troppo grossi e si bloccherebbero. È probabile che l'assassino cerchi di disseminare i pezzi in un'area molto vasta, per evitare di essere rintracciato, quindi non vuole sicuramente che si verifichi regolarmente un'occlusione a mezzo miglio da dove vive.» «È vero.» Bolano mi offrì nuovamente il suo spuntino, ma avevo perso l'appetito. «Da quanto tempo sai dei ritrovamenti negli acquedotti, Bolano?» «Da prima che incominciassi a lavorare qui.» «E quando è iniziata la tua carriera?» «Quindici anni fa. Ho imparato il mio mestiere mentre mi trovavo all'estero nelle legioni, poi sono stato congedato per invalidità e sono tornato a casa proprio nel momento giusto per incominciare a lavorare ai bacini che Nerone ha fatto costruire nella sua grande villa di Sublaqueum. Si trova sul fiume Anio, sai, che è anche la sorgente dei quattro acquedotti sabini.» «È un particolare importante?» «Credo che potrebbe esserlo. Per quanto ne so, i resti di cadavere saltano fuori solo in determinati punti della nostra rete. Incomincio ad avere una mia teoria riguardo a questo.» Mi ringalluzzii. Una teoria formulata da Bo-
lano poteva essere qualcosa da prendere in considerazione. «Sono diventato una sorta di specialista di tutti gli acquedotti che provengono dall'Anio.» «Sarebbero i lunghi acquedotti edificati da Caligola e da Claudio?» «E il vecchio gigante, l'Anio Veto.» «Li ho visti percorrendo la campagna romana.» «Uno spettacolo grandioso. È lì che capisci perché Roma domina il mondo. Quegli acquedotti raccolgono l'acqua pura e fresca dal fiume e dalle sorgenti nei Monti Sabini, fanno una deviazione intorno alle lussuose dimore di Tibur e percorrono parecchie miglia per arrivare qui. Sono una straordinaria opera di ingegneria. Ma lasciamelo raccontare a modo mio.» «Scusa.» Le sue teorie potevano anche essere fondate, ma all'improvviso la sua retorica mi terrorizzò. Avevo già parlato con degli ingegneri in precedenza. Per ore e ore. «Continua pure, amico.» «Facciamo un breve passo indietro. Stamattina hai avuto un battibecco con Stazio a proposito dell'Aqua Alsietina, vero?» «Infatti. Voleva che la ignorassimo. Ci sono stati anche lì dei ritrovamenti macabri?» «Anche secondo me possiamo ignorarla tranquillamente: quell'acquedotto proviene dall'Etruria, a occidente, e non credo che l'assassino vada da quelle parti. Lo stesso vale per l'Aqua Virgo.» «Non è l'acquedotto che Agrippa ha fatto costruire appositamente per le sue terme vicino ai Saepta Julia?» Conoscevo bene i Saepta: oltre a essere un tradizionale luogo di ritrovo degli investigatori, che dovevo evitare per assicurarmi di non incontrare i miei infimi colleghi, erano anche pieni di antiquari e di gioiellieri, fra i quali mio padre, che aveva un ufficio proprio lì. E io preferivo evitare anche papà. «Sì. L'Aqua Virgo è alimentata da un acquitrino nei pressi della Via Collatina ed è situata quasi completamente sotto terra. Io escluderei anche l'Aqua Giulia e la Tepula.» «Perché proprio quelli?» domandai. «Non ho mai sentito dire che in quei due acquedotti sia stato rinvenuto qualcosa che abbia attinenza con questi omicidi. L'Aqua Giulia ha origine in un serbatoio che si trova solo sette miglia fuori Roma, sulla Via Latina. E l'Aqua Tepula non è lontana da lì.» «Nei pressi del Lago Albano?» «Sì, infatti. L'Aqua Giulia e l'Aqua Tepula entrano a Roma sostenute dalle stesse arcate della vecchia Aqua Marcia... Ed è qui che la mia teoria potrebbe scricchiolare un po', poiché nella Marcia invece ci sono stati dei
ritrovamenti.» «Da dove proviene la Marcia?» Bolano aprì la mano in un gesto esultante. «È uno dei quattro grandi acquedotti provenienti dai Monti Sabini!» Cercai di dare l'impressione di capire quello che intendeva. «Tutte queste diverse condutture sono collegate fra loro? L'acqua può essere trasferita dall'uno all'altro?» «È proprio così!» Bolano era convinto di potermi insegnare la logica degli acquedotti. «Ci sono punti, lungo tutta la rete, dove l'acqua di un acquedotto può essere deviata in un altro, per esempio se abbiamo bisogno di un'erogazione supplementare o se vogliamo chiudere parte della rete per effettuarvi dei lavori. La sola limitazione è che la deviazione può avvenire in discesa, da un acquedotto alto a uno più basso, mentre ovviamente non si può mandare l'acqua all'insù. In ogni caso, una volta arrivate qui, l'Aqua Claudia, la Giulia e la Tepula finiscono in un unico serbatoio. Questo potrebbe essere interessante, come potrebbe essere importante anche il fatto che l'Aqua Marcia è collegata con l'Aqua Claudia. La Claudia arriva a Roma con l'Anio Novo ed entrambi gli acquedotti sono sostenuti da arcate che si riuniscono nei pressi della città.» «In un unico condotto?» «No, in due. L'Aqua Claudia è stata costruita per prima. La parte inferiore è collegata con quella superiore dell'Anio Novo.» Fece una pausa. «Non importa, non voglio confonderti con dettagli tecnici.» «Adesso parli come quel dannato Stazio». Tuttavia, aveva ragione. Ne avevo avuto abbastanza. «Quello che voglio dire è che non sarei affatto sorpreso se le mani che sono state rinvenute a Roma fossero state introdotte nell'acqua molto fuori della città.» «Stai dicendo che finiscono nella rete molto lontano da qui, prima che i condotti siano coperti o interrati?» «Ancora di più» ribatté Bolano. «Scommetto che l'assassino le getta nell'acqua proprio alla sorgente.» «Alla sorgente? Lassù fra le colline, vuoi dire? Sicuramente niente delle dimensioni di una mano potrebbe essere portato dalla corrente fino a Roma, no?» «Abbiamo fatto degli esperimenti con le zucche e abbiamo scoperto che la corrente è in grado di trasportarle. Inoltre, estraiamo mucchi di ciottoli che sfuggono alle camere di decantazione e abbiamo verificato che arriva-
no, perfettamente rotondi a causa dell'attrito.» «Ma una mano non verrebbe distrutta dall'attrito?» «Potrebbe essere sballottata dalla corrente e arrivare ancora intera. È anche possibile che ci siano ancora frammenti di corpi nelle camere di decantazione, così come altri resti, di cui non siamo a conoscenza, potrebbero essere arrivati a Roma così frantumati che nessuno si è reso conto di che cosa fossero.» «Quindi, ammesso che un oggetto sia portato dalla corrente e arrivi intero, quanto tempo impiegherebbe?» «La cosa ti sorprenderà, ma perfino l'acqua dell'Aqua Marcia, che è lunga sessanta miglia e segue un percorso tortuoso attraverso la campagna, studiato per mantenere costantemente il giusto dislivello, impiega soltanto un giorno per giungere a Roma. Quella degli acquedotti più piccoli può arrivare anche in un paio d'ore soltanto. Naturalmente, un oggetto galleggiante verrebbe rallentato dall'attrito. Non molto però, direi.» «Così, stai cercando di convincermi che c'è la possibilità che questo folle agisca in campagna, in qualche località come Tibur?» «Sarò più preciso. Scommetto che getta i resti nel fiume Anio». «Non posso crederci». «Be', è soltanto un suggerimento». Avevo di fronte un uomo abituato a dare buoni consigli che i suoi superiori incompetenti in genere ignoravano. Lui, ormai, non se ne preoccupava più. Potevo prendere o lasciare. L'idea sembrava inverosimile e, tuttavia, in qualche modo, assurdamente possibile. Non sapevo che cosa pensare. XXVI Riuscii a rimandare ogni giudizio. Prima dovevo indagare su qualcosa di più urgente. Avevo un appuntamento con Petronio alla Corte della Fontana. Quando arrivai, nelle prime ore del pomeriggio, mi resi anzitutto conto che mi ero dimenticato di pranzare con Elena. Lei aveva mangiato, presumendo che anch'io avessi fatto uno spuntino altrove. La seconda scoperta fu che, dal momento che Petronio aveva fatto una capatina per vedere se ero già tornato a casa, Elena aveva servito a lui il mio pranzo. «È bello averti in famiglia» commentai. «Grazie.» Petro sogghignò. «Se avessimo saputo che stavi arrivando, na-
turalmente ti avremmo aspettato.» «Sono rimaste delle olive» cercò di consolarmi Elena. «Che vadano in malora!» esclamai. Quando ci fummo calmati, riferii quello che mi aveva raccontato Bolano. Petronio si mostrò ancora più scettico di me riguardo alla possibilità che l'assassino vivesse in campagna. Non sembrò nemmeno molto interessato alla cultura che mi ero appena fatto sugli acquedotti. In realtà, era palesemente invidioso e moriva dalla voglia di farci sapere quello che aveva scoperto lui. All'inizio non capii e proseguii: «Se Bolano ha ragione e gli omicidi avvengono in campagna, o in collina, sarà problematico per noi catturare l'assassino». «Non pensarci, per ora.» Era l'esperienza di Petro fra i Vigili a farlo parlare in quel modo. «I problemi di competenza territoriale sono un incubo, se bisogna andare fuori Roma.» «Forse Giulio Frontino riuscirà a superare le normali trafile burocratiche.» «Avrà bisogno di parecchie legioni per farlo. Non se ne parla nemmeno di svolgere un'indagine al di fuori delle porte della città. Politiche locali, magistrati locali, squadre di zucconi a caccia di ladri di cavalli, vecchi generali in pensione che credono di sapere tutto perché una volta hanno sentito Giulio Cesare schiarirsi la gola...» «D'accordo, prima seguiremo tutti i possibili indizi qui a Roma.» «Grazie per avere mostrato buonsenso. Sarò sempre un ammiratore del tuo approccio intuitivo, Marco, ma...» «Vuoi dire che pensi che il mio metodo faccia schifo.» «Posso anche dimostrarlo. Le sole che portino a qualche risultato sono le legittime procedure di polizia.» «Oh, davvero?» «Ho individuato la ragazza.» A quanto pareva il suo metodo implicava qualcosa che lo rendeva consigliabile: quell'ingrediente mistico chiamato successo. Elena e io lo tenemmo sulle spine, evitando di porgli altre domande, anche se lui moriva dalla voglia di raccontarci tutto. Imperturbabili, lo esasperammo ancora di più, discutendo se il fatto che aveva identificato una ragazza fosse più utile delle informazioni ottenute da me, che avrebbero potuto stimolare altre idee, che a loro volta avrebbero potuto infine condurre a delle soluzioni...
«O voi due la smettete di farmi infuriare» sbottò Petro «o vado da solo a interrogare l'uomo.» «Quale uomo, mio caro Lucio?» domandò gentilmente Elena. «L'uomo di nome Caio Cicurro che stamattina ha denunciato alla Sesta coorte la scomparsa della sua amata moglie Asinia.» Lo fissai con espressione benevola. «Falco, questa cosa è maledettamente più utile che sprecare le ore migliori del tuo turno di lavoro per scoprire che, se pisci a Tibur al mattino, puoi intossicare delle persone in una taverna fuori delle Terme di Agrippa a colazione la mattina seguente.» «Petro, tu non mi stavi ascoltando. Le Terme di Agrippa sono rifornite dall'Aqua Virgo, che ha origine sulla Via Collatina, non a Tibur. Inoltre, l'Aqua Virgo è lunga solo quindici miglia, mentre l'Aqua Marcia e l'Anio Novo sono quattro o cinque volte più lunghi, così se pisci nell'acquitrino al mattino, tenendo conto della lentezza con cui il portatore d'acqua locale va avanti e indietro dalla fontana alla tua ipotetica taverna, in realtà il tuo residuo nocivo verrà riversato dal suo secchio nelle coppe di vino intorno a metà pomeriggio.» «Per gli dèi, sei un borioso bastardo. Vuoi sentire la mia storia o stare qui a perdere tempo tutto il giorno?» «Non vedo l'ora di sentire la tua storia, prego.» «Allora togliti dalla faccia quello stupido ghigno.» Probabilmente fu una fortuna che proprio in quel momento Giulio Frontino bussasse alla mia porta ed entrasse senza attendere risposta. Non era tipo da starsene seduto in ozio aspettando che andassimo a fargli rapporto quando ne avessimo avuto voglia. Grazie a Giove, a Giunone e a Minerva, avevamo notizie da riferire. «Falco ha appreso alcune cifre e alcuni fatti interessanti sul sistema di erogazione dell'acqua.» Petronio Longo lo disse in tono impassibile. Quel Giano ipocrita! «Nel frattempo, io ho appreso dal mio contatto personale nella Sesta coorte dei Vigili che un uomo di nome Caio Cicurro ha denunciato la scomparsa della moglie. Il nome della moglie è Asinia. Corrisponde a quello inciso sull'anello della mano che ci hai portato, console.» «Il prefetto cittadino non mi ha riferito questo fatto.» Frontino era contrariato: i canali d'informazione superiori avevano fallito, mentre noi, infimi individui, avevamo preceduto la rete dei suoi illustri pari, senza nemmeno darci troppo da fare. «Sono sicuro che la notizia ti arriverà molto presto.» Petro voleva dare a
intendere che il prefetto cittadino non sarebbe mai approdato a nulla. «Scusami se ho reso superflui i canali ufficiali: volevo interrogare l'uomo prima che quegli idioti incaricati dell'indagine dal curatore s'intromettano.» «Allora è meglio farlo subito.» «Sarà una faccenda delicata» intervenni, sperando di dissuadere il console. «Caio non è stato ancora informato che la moglie è morta» spiegò Petro. «Il mio vecchio subalterno, Martino, è riuscito a evitare di rivelargli la verità.» In realtà, Martino era così ottuso che probabilmente aveva collegato gli eventi solo quando Caio Cicurro era già andato via. «Non sarebbe stato meglio mettere fine all'angoscia di quel pover'uomo?» domandò Frontino. «È meglio che glielo spieghiamo noi. Conosciamo i particolari del ritrovamento e inoltre siamo impegnati nell'indagine principale.» Raramente Petro mostrava di disapprovare Martino. «Vogliamo vedere come reagisce il marito quando apprende la notizia» aggiunsi. «Sì, vorrei vederlo anch'io.» Frontino non si lasciava scoraggiare da niente. Era deciso ad accompagnarci. Petronio ebbe la brillante idea di fare presente che la solenne toga bordata di porpora del console avrebbe potuto mettere in soggezione il marito della defunta, così Frontino si liberò bruscamente della toga, l'arrotolò e chiese in prestito una tunica meno elegante. La mia taglia era la più vicina alla sua. Senza fare storie, Elena andò a prendere una delle mie tuniche bianche, scegliendola fra quelle meno rammendate. L'ex console si spogliò e se l'infilò senza imbarazzo. «Sarà meglio che lasci parlare noi, console» insistette Petro. Io trovavo Frontino alquanto gentile, ma se c'è una cosa che Petronio Longo detesta, ancor più di un pezzo grosso che mantiene le distanze, è un pezzo grosso che cerca di mescolarsi fra i sottoposti. Mentre uscivamo, Petronio si arrestò bruscamente sotto il porticato. Sul lato di fronte, un'elegante lettiga si stava fermando davanti alla lavanderia. Ne scese rapidamente una figura minuta, di cui riuscii a intravvedere solo leggeri veli viola chiaro con pesanti orli d'oro che strisciavano a terra e, di sfuggita, il brillare di una cavigliera su una gamba affusolata. La donna parlò brevemente con Lenia, poi salì le scale che portavano al mio vecchio appartamento.
Non appena fu sparita alla vista, Petronio balzò giù in strada e se la svignò con il suo passo lungo e agile. Frontino non si era accorto di niente, ma io ero curioso: sembrava che Petro volesse evitare la sua dolce tortorella. Mi voltai indietro in direzione della porta di casa. Elena Giustina era ferma nel porticato con in braccio Giulia e ci salutava con la mano. Le feci un cenno e lei mi sorrise. Conoscevo quell'espressione. Quando la piccola Milvia fosse scesa di nuovo in strada, le sarebbe stato concesso l'onore di scambiare quattro chiacchiere con la figlia dell'illustre Camillo. Dopodiché, sarei stato molto sorpreso se Milvia avesse avuto ancora il coraggio di mostrare la sua delicata caviglia nella Corte della Fontana, e dal modo in cui Petronio girò furtivamente l'angolo del Vicolo dei Sarti ebbi l'impressione che la cosa gli avrebbe fatto assai comodo. XXVII Mentre ci recavamo all'indirizzo che Martino aveva dato a Petro, sentimmo un cupo boato che proveniva dal Circo. I Grandi Giochi, che durano quindici giorni, erano ancora in corso. Il presidente dei Giochi doveva avere lasciato cadere il suo fazzoletto bianco, gesto che dà il via alla corsa delle bighe intorno all'arena. Una caduta o qualche drammatico episodio di guida avevano fatto esplodere un coro di duecentomila persone. Lo sfogo di massa risuonò per la valle tra l'Aventino e il Palatino, spingendo alcuni piccioni a levarsi in volo e a volteggiare nell'aria prima di tornare a posarsi sui balconi e sui tetti riscaldati dal sole. La corsa proseguiva con un borbottio più sommesso in sottofondo. Anche i fratelli Camillo, o almeno Giustino, dovevano essere al Circo Massimo in quel momento, assieme a Claudia Rufina. Al Circo, forse, c'era anche l'assassino che faceva a pezzi le donne, di cui fra poco avremmo dovuto raccontare il recente gesto efferato a un marito ancora ignaro. E, se Caio Cicurro non fosse stato in grado di dirci qualcosa di utile, da qualche parte nel Circo Massimo si sarebbe potuta trovare la prossima donna destinata a finire a pezzi dentro gli acquedotti. Caio Cicurro era un commerciante di granaglie. Viveva con la moglie, senza figli, in un alloggio al terzo piano di un caseggiato composto da piccoli appartamenti in affitto, tutti identici. L'alloggio era piccolo, ma ben tenuto. Ancora prima che bussassimo con il luccicante battente di bronzo a forma di testa di leone, i decorosi vasi di fiori e lo stuoino sul pianerottolo
ci avevano fatto capire una cosa: era assai improbabile che la sua Asinia fosse stata una prostituta. Una giovane schiava ci fece entrare; era pulita e ordinata, schiva ma non intimorita. Si capiva che la gestione della casa era accurata. Le mensole erano state spolverate e c'era un gradevole profumo di erbe essiccate. La schiava ci invitò a toglierci i calzari. Trovammo Caio seduto da solo, lo sguardo fisso nel vuoto, con il lavoro di filatura di Asinia in una cesta ai suoi piedi. Teneva in mano quello che doveva essere stato il cofanetto dei gioielli di lei e rigirava fra le dita matasse di perline di vetro e cristallo di rocca. Appariva turbato e istupidito dal dolore, che probabilmente lo ossessionava. Era evidente che Caio non era un ruffiano abbandonato, la sua profonda infelicità non era di certo dovuta a una semplice perdita finanziaria. Era scuro di carnagione, ma chiaramente italico. Aveva le braccia più pelose che avessi mai visto, nonostante la testa fosse quasi pelata. Poteva avere circa trentacinque anni. Era un uomo assolutamente comune e inoffensivo, ancora all'oscuro dei particolari che avevano causato la morte della moglie e delle terribili circostanze in cui era avvenuta. Petronio fece le presentazioni, spiegò che conducevamo un'indagine speciale e gli chiese se potessimo parlare di Asinia. La cosa sembrò farlo felice. Gli faceva piacere parlare di lei: la moglie gli mancava terribilmente e aveva bisogno di consolarsi raccontando a chiunque fosse disposto ad ascoltare quanto lei fosse dolce e gentile. Asinia era la figlia della liberta di suo padre e Caio l'amava da quando lei aveva tredici anni. Questo spiegava perché l'anello nuziale le fosse diventato così stretto: la ragazza l'aveva indossato ancora molto giovane. Adesso avrebbe avuto - aveva, disse Caio solo vent'anni. «Hai denunciato la sua scomparsa questa mattina?» Petronio continuò a condurre la conversazione. Grazie al suo lavoro fra i Vigili aveva acquisito un'esperienza notevole, perfino maggiore della mia, nel dare cattive notizie ai parenti di una vittima. «Sì, signore.» «Ma era sparita da più tempo?» Caio sembrò turbato dalla domanda. «Quando l'hai vista l'ultima volta?» sondò gentilmente Petro. «Una settimana fa.» «Sei stato via da casa?» «Sono andato a visitare la mia fattoria in campagna» rispose Caio. Petro aveva intuito che fosse successo qualcosa del genere. «Asinia era rimasta a
casa. Ho una piccola attività, una bottega. Lei se ne occupa per conto mio. Mi fido totalmente ad affidarle i miei affari. È una compagna meravigliosa...» «La tua bottega non era chiusa per la festività pubblica?» «Sì, infatti quando sono iniziati i Giochi Asinia è andata a stare a casa di un'amica che abita molto più vicino al Circo. In questo modo Asinia non sarebbe stata costretta a percorrere tutta la strada per tornare a casa la sera tardi. Non sono tranquillo se so che gira da sola per Roma.» Vidi Petronio tirare un respiro affannoso, imbarazzato dall'ingenuità dell'uomo. Per dargli un po' di sollievo, domandai sommessamente: «Quando esattamente ti sei accorto che Asinia era sparita?» «Ieri sera, quando sono tornato. La mia schiava mi ha detto che Asinia era a casa della sua amica, ma quando ci sono andato, l'amica mi ha riferito che Asinia era tornata a casa sua tre giorni prima.» «Ne era sicura?» «Oh, sì, l'ha accompagnata qui con una lettiga e l'ha lasciata proprio davanti alla porta. Sapeva che era quello che mi sarei aspettato.» Lanciai un'occhiata a Petronio. Avremmo dovuto parlare con questa amica. «Scusami se ti faccio questa domanda» disse Petro. «Capirai che è necessario. È possibile che Asinia vedesse un altro uomo durante la tua assenza?» «No.» «Il vostro matrimonio era assolutamente felice e Asinia era una ragazza tranquilla?» «Sì.» Petronio procedeva con estrema cautela. Poiché avevamo iniziato la nostra indagine ipotizzando che le vittime fossero ragazze facili (che potevano sparire senza attirare troppa attenzione), non sottovalutavamo la possibilità che Asinia avesse condotto una doppia vita, all'insaputa del marito premuroso. Ma sapevamo che era assai più probabile che il folle che l'aveva fatta a pezzi fosse un estraneo: Asinia aveva semplicemente avuto la sventura di trovarsi nel luogo sbagliato e lui aveva colto l'occasione per rapirla. Le mutilazioni che Lollio mi aveva descritto così bene davano una particolare impronta ai delitti: gli uomini che fanno a pezzi le donne in quel modo non sono mai emotivamente legati a loro. Adesso eravamo venuti a sapere che questa vittima era una ragazza rispettabile. Dov'era stata dopo che l'amica l'aveva lasciata davanti alla porta? In quale avventura si era imbarcata? L'amica sapeva qualcosa in propo-
sito? A quel punto Petronio, che aveva portato con sé l'anello, lo tirò fuori con movimenti lenti e l'espressione austera. In teoria, Caio avrebbe dovuto incominciare a intuire la verità, ma non ne dava affatto l'impressione. «Vorrei che dessi uno sguardo a una cosa, Caio. Lo riconosci?» «Naturalmente! È l'anello di Asinia. Allora l'avete ritrovata?» Osservammo smarriti il volto del marito che s'illuminava di gioia. A poco a poco Caio Cicurro si rese conto delle nostre espressioni serie e capì che stavamo aspettando che lui giungesse alla vera e tragica conclusione. Sbiancò lentamente in volto. «Non conosco nessun modo per renderti più facile la cosa» disse Petronio. «Caio Cicurro, temo si debba presumere che la tua povera moglie sia morta.» Il marito, affranto, non proferì una parola. «Ne abbiamo quasi la certezza». Petronio stava cercando di spiegare a Cicurro che in realtà non avevamo trovato il corpo della moglie. «L'avete trovata?» «No... e quel che è peggio è che forse non la troveremo mai». «Allora come potete sostenere...» Petronio sospirò. «Hai sentito parlare dei resti umani che ogni tanto vengono rinvenuti nella rete di distribuzione dell'acqua? C'è in giro un criminale che, nel corso degli anni, ha assassinato diverse donne, dopodiché le ha fatte a pezzi e le ha depositate negli acquedotti. I miei colleghi e io stiamo investigando su questo caso.» Cicurro si rifiutava ancora di capire. «E che cosa può avere a che fare questo con Asinia?» «Siamo inclini a credere che questo assassino l'abbia rapita. L'anello di Asinia è stato trovato nella cisterna terminale dell'Aqua Claudia. Mi dispiace doverti dire che insieme all'anello c'era una delle sue mani.» «Soltanto la mano? Allora potrebbe essere ancora viva!» L'uomo era disperato e si aggrappava a ogni più piccola possibilità. «Non illuderti» ribatté Petro con voce ferma. La situazione gli era quasi insopportabile. «Convinciti che è morta. Convinciti che è morta rapidamente, subito dopo essere stata rapita, tre giorni fa. Cerca di credere che non si è resa conto quasi di niente. Convinciti che quello che è stato fatto in seguito al cadavere non ha importanza, perché Asinia non ha provato niente. E infine raccontaci tutto quello che sai e che potrebbe aiutarci a catturare l'uomo che ha ucciso tua moglie, prima che privi altri cittadini delle
loro donne.» Caio Cicurro lo fissò. Non riusciva a seguirlo così in fretta. «Asinia è morta?» «Sì, temo di sì.» «Ma lei era bellissima.» Adesso doveva confrontarsi con la verità. La sua voce aumentò di tono. «Asinia era diversa dalle altre donne... così dolce. E la nostra vita domestica era così affettuosa... Oh, non posso crederlo, sento che da un momento all'altro tornerà a casa...» Le lacrime incominciarono a scorrergli sulle guance. Finalmente aveva accettato la verità. Ora avrebbe dovuto imparare a sopportarla, ma per questo forse ci avrebbe messo tutta la vita. «È stata trovata soltanto la sua mano? Che ne sarà del resto del suo corpo? Che cosa devo fare? Come posso seppellirla?» Era sempre più agitato. «E dov'è adesso la sua povera mano?» Fu Frontino a rispondere: «La mano di Asinia è stata imbalsamata. Ti verrà restituita in un cofanetto chiuso a chiave. Ma, ti prego, non rompere la serratura.» Tutti noi eravamo angosciati al pensiero che se fossero comparsi altri resti, avremmo dovuto decidere se restituirli un pezzo alla volta a quell'uomo sconvolto. In quel caso, avrebbe dovuto organizzare un funerale diverso per ciascun arto o raccoglierli per un'unica sepoltura? Come avrebbe potuto stabilire che gli era stato restituito abbastanza della sua amata per giustificare una cerimonia funebre? E quando avessimo rinvenuto il tronco, avrebbe ancora avuto il cuore, o la testa? Quale filosofo avrebbe spiegato al marito dove risiedeva il dolce spirito della ragazza? Quando si sarebbe conclusa la sua agonia? Non c'era alcun dubbio che la sua devozione verso Asinia fosse sincera. Le settimane seguenti l'avrebbero probabilmente portato alla pazzia, e non avremmo potuto fare niente per impedirgli di rimuginare tristemente sull'orrore delle ultime ore della moglie. Gli avremmo detto il meno possibile ma anche lui, come noi, avrebbe ben presto immaginato in che modo l'assassino doveva trattare le sue vittime. Petronio uscì dalla stanza per dire alla schiava di prendersi cura del suo padrone. All'inizio sentii che le parlava a bassa voce. Sapevo che stava controllando con circospezione la storia degli ultimi movimenti di Asinia e si stava probabilmente facendo dare il nome e l'indirizzo dell'amica dalla quale era stata. Accompagnò la ragazza nella stanza, dopodiché ci congedammo.
Ci fermammo un attimo fuori dall'appartamento. L'incontro ci aveva demoralizzati. «Una perfetta donna di casa» disse Frontino, citando con tono sinistro le convenzionali frasi commemorative. «Modesta, casta e accomodante. La migliore delle donne, restava in casa e lavorava la lana.» «Soltanto vent'anni» borbottò Petronio, sinceramente sconvolto. «Che la terra su di lei sia lieve» completai la formula. Improbabile, visto che dovevamo ancora trovare i suoi resti. XXVIII Nessuno di noi se la sentiva di fare ancora qualcosa, per quella sera. Petro e io accompagnammo il console a casa, dove questi mi restituì la tunica dopo essersi spogliato sulla soglia. Si capiva che era un aristocratico, un plebeo si sarebbe di sicuro rifiutato di compiere un gesto così stravagante: ho conosciuto lottatori che, per spogliarsi, si giravano dall'altra parte perfino alle terme. Lo stesso portinaio di Frontino sembrò imbarazzato, eppure doveva essere abituato al suo padrone; gli affidammo il console, e l'uomo ci strizzò l'occhio per ringraziarci di essere rimasti impassibili. Dopodiché, Petro e io tornammo lentamente alla Corte della Fontana. Alcune botteghe riaprivano i battenti per attirare i clienti serali, mentre il Circo si svuotava. Le strade erano piene di ubriachi, truffatori, brutti ceffi, schiavi con propositi poco chiari e ragazze a caccia di uomini. La gente parlava a voce alta, alcuni passanti ci urtarono spingendoci giù dal marciapiede e, quando decidemmo di camminare sulla carreggiata, altri ci fecero finire nei canali di scolo; probabilmente lo facevano in maniera accidentale, ma in ogni caso non se ne curavano per niente. D'istinto, incominciammo anche noi a farci largo a spintoni. La città mostrava il suo lato peggiore. Forse, in occasione dei Giochi, la plebaglia si riversava nelle strade, o forse era sempre stata così e quella sera lo notavo più del solito. Sconvolti dal colloquio con Cicurro, non facemmo nemmeno una capatina in osteria per rilassarci prima di cena. Una volta tanto, però, sarebbe stato meglio se ci fossimo andati, perché così avremmo evitato una sgradevole esperienza alla Corte della Fontana. Camminavamo malinconicamente a testa bassa e questo non ci permise di escogitare in tempo una via di fuga. Quando appoggiai la mano sul braccio di Petro per metterlo in guardia, lui si mise a urlare: la lettiga che avevamo visto fuori dalla lavan-
deria quando ce ne eravamo andati alcune ore prima era ancora lì. Era evidente che la sua occupante aspettava il nostro ritorno. Infatti questa balzò fuori e ci aggredì. Ma non era la piccola e agile Balbina Milvia vestita di viola. Probabilmente tutte le donne della famiglia di Florio avevano una lettiga in comune, che questa volta trasportava una visitatrice assai più terrificante dell'insolente civetta di Petro: la mamma di Milvia. Capimmo che era furiosa ancora prima che si scagliasse contro Petro e incominciasse a sbraitare. XXIX Cornelia Flaccida aveva la grazia di un ippopotamo: mani grosse, piedi grassi, un'irrimediabile aria di impudenza. Tuttavia era elegantemente addobbata. Sul brutto viso di vecchia era stata dipinta la maschera di una fresca fanciulla appena emersa dalla spuma di Paphos in un arcobaleno di spruzzi scintillanti. Il suo corpo, che aveva passato lunghe serate a ingozzarsi di ali di airone inzuppate nel vino, esibiva sete traslucide di Cos e favolose collane di filigrana d'oro, che svolazzavano e tintinnavano assalendo i sensi sbigottiti di uomini stanchi. I piedi, che avanzavano pesantemente verso di noi, calzavano graziose babbucce decorate con fili d'argento. Una pungente zaffata di balsamo ci prese violentemente alla gola. Considerato che quando Petronio aveva mandato in prigione Balbino Pio tutte le proprietà del malfattore erano state confiscate, era sorprendente che la sua feroce vedova avesse ancora a disposizione tanto denaro da spendere. D'altronde, Balbino era un osso duro, e aveva astutamente fatto in modo che una notevole quota dei suoi beni materiali fosse messa al riparo: gran parte della sua ricchezza era stata posta in un fondo amministrato da Flaccida come dote per la bella figlia Milvia. Adesso la mamma viveva con la figlia: tutti i loro palazzi erano stati confiscati, di conseguenza le due donne erano costrette a vivere insieme nell'elegante dimora di Florio, il marito di Milvia. Tutte le coorti dei Vigili accettavano scommesse su quanto tempo i tre sarebbero riusciti a sopportarsi. Fino a quel momento stavano appiccicati l'uno all'altro come api sul miele: era l'unico modo in cui potevano tenersi stretto il denaro. Un contabile del Tesoro controllava quotidianamente la salute del matrimonio di Milvia, perché se avesse divorziato da Florio e la sua dote fosse stata restituita alla famiglia l'imperatore l'avrebbe confiscata. Questo era uno dei po-
chi casi in cui le leggi che incoraggiavano il matrimonio non venivano applicate. Siccome il nuovo imperatore Vespasiano aveva fatto delle virtù della vita familiare il suo programma politico, l'ammontare di denaro che si aspettava di arraffare con il divorzio di Milvia doveva essere veramente esorbitante se poteva convincerlo a fare tacere la sua antica coscienza. Queste sono le gioie del crimine organizzato. È sorprendente che non ci siano più persone che vi si dedichino! C'era in effetti una ragione per cui altre persone continuavano a perseguire la strada dell'onestà: divenire rivali di Cornelia Flaccida era davvero troppo spaventoso: chi vorrebbe essere sbollentato, arrostito, infilzato con spiedi in ogni orifizio e servito in una gelatina ai tre formaggi, con gli organi interni leggermente rosolati e condimenti piccanti a parte? Naturalmente questa me la sono inventata. Per un tipo come Flaccida sarebbe stata una punizione di gran lunga troppo raffinata. «Non cercare di sfuggirmi, dannazione!» strillò Flaccida. Ma Petro e io non fuggivamo da nessuna parte: non avevamo nemmeno avuto il tempo di prendere in considerazione l'idea. «Signora!» esclamai. La neutralità era un rifugio incerto. «Non provare a divertirti con me!» ringhiò lei. «Che suggerimento ripugnante!» «Sta' zitto, Falco.» Petro pensava che non gli fossi di alcun aiuto, così tacqui: era abbastanza forte da badare a se stesso; forse però l'agguerrita Flaccida era più di quanto fosse in grado di affrontare, così rimasi nei paraggi, per intervenire in caso di necessità. E poi non mi volevo perdere lo spasso. Vidi che Elena era uscita nel porticato. La mia cagnolina, Noce, la seguì ansiosa, accortasi del ritorno del padrone. Elena si chinò e l'afferrò nervosamente per il collare; aveva già capito che la nostra visitatrice probabilmente si mangiava vivi i cani da guardia, come se fossero la portata di un banchetto. «Non vi ho già incontrati prima, voi due brutti zoticoni?» La madre di Milvia non poteva essersi dimenticata di Petronio Longo, l'investigatore capo che aveva fatto condannare suo marito. Rivedendola faccia a faccia, decisi che avrei preferito che non si rendesse conto che ero io l'eroe della società che l'aveva resa vedova. «Mi lusinga che le nostre vivaci personalità abbiano fatto una tale im-
pressione su di te» borbottai. «Di' al tuo buffone di non immischiarsi» ordinò Flaccida a Petro. Lui si limitò a sorridere, lasciandola continuare. La matrona gettò all'indietro la bionda chioma scolorita e lo esaminò come se fosse una pulce che aveva trovato nella biancheria. Lui ricambiò lo sguardo, assolutamente calmo come d'abitudine. Grande e grosso, forte, dall'aspetto tranquillo: qualunque madre sarebbe stata invidiosa della figlia per essersi scelta un amante del genere. Petronio Longo emanava quella salda padronanza che tutte le donne cercano. Lo sanno gli dèi quante donne avevo visto corrergli dietro! Compensava quello che gli mancava in bellezza con la statura e un inequivocabile fascino e, in quel momento, ostentava anche un eccellente taglio di capelli. «Hai una gran faccia tosta!» «Lascia perdere, Flaccida. Ti stai mettendo in una situazione imbarazzante.» «Metterò te in imbarazzo! Dopo tutto quello che hai fatto alla mia famiglia...» «Dopo tutto quello che la tua famiglia ha fatto a Roma... e probabilmente sta ancora facendo... mi sorprende che tu non ti senta obbligata a trasferirti in una provincia lontana.» «Ci hai distrutti e, come se non bastasse, hai dovuto anche sedurre la mia bambina.» «Tua figlia non è una bambina» ribatté Petronio, insinuando con questa frase che non era stato necessario sedurla. Tuttavia, era troppo gentiluomo per insultarle Milvia, perfino se questo fosse servito a difendersi. «Lascia in pace Milvia!» Esclamò lei in un cupo brontolio rabbioso, simile al ringhio violento di una leonessa che minaccia la sua preda. «Ai tuoi superiori fra i Vigili farebbe piacere sapere delle tue visite alla mia Milvia.» «I miei superiori lo sanno.» I suoi superiori, tuttavia, non l'avrebbero presa affatto bene se quell'arpia di Cornelia Flaccida fosse piombata come una furia nell'ufficio del tribuno. Quella vipera avrebbe potuto causare il licenziamento di Petro. «Florio non ne è ancora a conoscenza.» «Oh, sono terrorizzato.» «Faresti meglio a esserlo davvero!» urlò Flaccida. «Ho ancora degli amici. Non voglio più vedere la tua faccia a casa nostra e, te lo garantisco, nemmeno Milvia verrà più a trovarti!»
Si allontanò. Proprio in quel momento Elena Giustina si lasciò sfuggire Noce, che si precipitò fuori dal nostro appartamento: un ispido fagotto di pelliccia grigia e marrone, con le orecchie all'indietro e i denti aguzzi scoperti. Noce era piccola e puzzolente, e nutriva un'avversione canina per tutto ciò che scompigliava la pace domestica. Mentre Flaccida saliva sulla sua lettiga, la cagnolina si avventò su di lei, afferrò il bordo ricamato della sua costosa tunica e poi arretrò. Noce doveva annoverare fra i suoi antenati degli scavatori e dei cacciatori di cinghiali. Flaccida chiuse in tutta fretta la portiera della lettiga per proteggersi e sentimmo, non senza soddisfazione, il rumore della costosa stoffa che si strappava. Strillando insulti, la matrona ordinò ai portatori di avviarsi in tutta fretta, mentre la mia ostinata cagnolina stringeva fra i denti l'orlo della sua sottana, finché non si lacerò. «Brava cagnolina!» esclamammo all'unisono io e Petronio. Noce scodinzolò orgogliosa, sbranando il prezioso tessuto di Cos come fosse stato un topo morto. Petro e io ci scambiammo un'occhiata, evitando di guardare Elena. Dopo un solenne saluto, lui salì nel vecchio appartamento con il passo esuberante di un allegro dissidente e io mi avviai verso casa, con l'aria del bravo ragazzo. Gli occhi della mia amata erano caldi e benevoli, vivi come legna che arde. Aveva un sorriso pericoloso, ma la baciai comunque: un uomo non dovrebbe mai sentirsi intimorito sui gradini di casa; le diedi, però, solo un formale bacio sulla guancia. «Marco! Che cosa succede?» «Solo il saluto di un uomo che torna a casa.» «Sciocco! Mi riferivo alla persona orribile che si è lasciata dietro le balze della tunica. Mi è sembrato di riconoscere Cornelia Flaccida». Una volta, in passato, Elena mi aveva aiutato a interrogare quella donna. «Secondo me, qualcuno ha sconvolto Balbina Milvia e lei è corsa a casa a piangere dalla madre, e questa è arrivata di corsa a rimproverare l'amante colpevole. La povera madre deve essersi spaventata quando ha scoperto che un membro dei Vigili ha libero accesso alla sua casa e sarà inorridita al pensiero che quell'uomo si sia insinuato nel cuore di Milvia, conquistando la sua confidenza.» «Credi che abbia sculacciato Milvia?» «Sarebbe la prima volta. Milvia è cresciuta come una principessa viziata.» «Sì, l'ho capito» rispose abbastanza laconicamente Elena.
«Oh» esclamai, ostentando una certa sorpresa. «Stai insinuando che la principessa ha appena passato un brutto quarto d'ora a causa di qualcun altro, che non era quella racchia della madre?» «È possibile» ammise Elena. «Ma mi chiedo, chi potrebbe essere stato?» «Qualcuno che ha incontrato andando a passeggio nella sua bella lettiga, forse?» Elena ricambiò il mio formale bacio sulla guancia, salutandomi come una matrona contegnosa dopo il mio pomeriggio di assenza. Profumava di sapone al rosmarino e di essenza di rose, che invitavano a intime coccole. Mi stavo infiammando. «Forse la lezione insegnerà a Milvia a restare a casa e a usare il suo telaio» concluse Elena. «Come fai tu?» Entrai in casa e la cinsi con entrambe le braccia. Noce ci seguì saltellando, pronta ad abbaiare se ci fossimo sbaciucchiati. «Come faccio io, Marco Didio.» Elena Giustina non possedeva un telaio: il nostro appartamento era così piccolo che non avremmo saputo dove tenerlo. Se l'avesse chiesto però l'avrebbe ottenuto, poiché ovviamente io avrei incoraggiato le virtuose attività tradizionali, ma Elena Giustina detestava i lavori lunghi e ripetitivi. Stava forse in casa a lavorare la lana? Come la maggior parte dei romani, ero costretto ad ammettere di no: non la mia devota tortorella. Almeno sapevo come si comportava la mia donna, anche quando ero lontano da casa. O, se non altro, era quello che dicevo a me stesso. XXX La mattina seguente Petronio passò a chiamarmi. Aveva l'aria di uno che non era riuscito a procurarsi la colazione. Dal momento che ero io il cuoco di casa, gli diedi qualcuno dei nostri panini, mentre Elena mangiava in silenzio i suoi. Era andata lei a prenderli, correndo fuori scalza quella mattina per acquistarli freschi da Cassio, dopodiché io li avevo disposti in bell'ordine nella ciotola. «Vedo che sei tu che comandi, Falco.» «Sì, sono un rigido paternalista. Io parlo e le mie donne si velano il capo e si affrettano a ubbidire.» Petronio sbuffò, mentre Elena si ripuliva meticolosamente le labbra dal miele. «Che cos'è stato tutto quel trambusto ieri?» gli domandò apertamente, per dimostrare quanto fosse remissiva.
«Il vecchio ariete era terrorizzato all'idea che mi insinuassi troppo in famiglia e usassi nuovamente le maniere forti con le bande di criminali, acquisendo informazioni dall'interno. Pensa che Milvia sia così sciocca da raccontarmi qualunque cosa io le chieda.» «Mentre tutti noi sappiamo che non vai da lei per parlare... Una situazione interessante» rimuginai ad alta voce, punzecchiandolo. Poi mi rivolsi a Elena. «Sembra che adesso sia Milvia a correre dietro a Petronio, mentre il suo ardente innamorato è stato visto mentre cercava di evitarla.» «Oh! Come mai?» gli chiese Elena, scrutandolo con i suoi occhi acuti. «Ha paura della sua mamma» ridacchiai. Petro si accigliò. «All'improvviso Milvia si è messa in testa delle strane idee.» Inarcai un sopracciglio. «Significa che finalmente si è resa conto che non vali niente?» «No. Vuole lasciare Florio.» Petronio ebbe la buona grazia di arrossire leggermente. «Oh, per gli dèi!» «E vivere con te?» domandò Elena. «E sposarmi!» Elena si dimostrò più intrepida di me. «Non è una buona idea?» «Elena Giustina, io sono sposato con Arria Silvia.» Elena si trattenne dal fare commenti su quell'impudente affermazione. «Lo ammetto» continuò Petro «è probabile che Silvia metta in dubbio la cosa, e questo dimostra quanto sia poco informata.» Elena gli passò il miele. Mi aspettavo che glielo gettasse in faccia. Conservavamo il miele in un vaso decorato da una faccia celtica che avevamo acquistato durante un viaggio in Gallia. Petro l'osservò di traverso, poi lo tenne sollevato, confrontando sgarbatamente l'umoristica faccia dagli occhi rotondi con la mia. «Quindi non hai mai avuto intenzioni serie con Milvia?» lo torchiò Elena. «Non in quel senso. Mi dispiace.» «Perché, quando gli uomini sentono il bisogno di chiedere scusa, riescono a dirlo solo alla persona sbagliata? E adesso lei vuole legarsi formalmente a te?» «È convinta di essere molto importante per me. Alla fine capirà.» «Povera Milvia» mormorò Elena. Petronio tentò di apparire responsabile. «È più tosta di quanto sembri. È
più tosta perfino di quanto lei stessa creda di essere.» Dall'espressione di Elena si capiva che pensava che Milvia si sarebbe potuta rivelare più tosta, e molto più molesta, di quanto lo stesso Petro si fosse reso conto fino a quel momento. «Oggi andrò a trovare tua moglie, Lucio Petronio. Maia verrà con me. Non vedo le bambine da secoli e ho dei regali per loro che abbiamo portato dalla Spagna. Hai qualche messaggio da riferirle?» «Di' a Silvia che ho promesso di portare Petronilla ai Giochi. È abbastanza grande ormai. Se domani Silvia la lascia a casa di sua madre, passerò a prenderla e poi ce la riporterò.» «Da sua madre? Stai cercando di evitare tua moglie?» «Cerco di evitare di essere duramente attaccato e minacciato. In ogni caso, se andassi a casa farei agitare il gatto.» «In questo modo non tornerete mai insieme.» «Risolveremo il problema» tagliò corto Petronio. Elena inspirò profondamente, poi rimase in silenzio. «D'accordo» si arrese Petro. «Come farebbe notare Silvia, è quello che dico sempre.» «Oh, allora starò zitta» replicò Elena, ma non lo fece sgarbatamente. «Perché voi due uomini non parlate del vostro lavoro?» Non ce n'era bisogno: le cose finalmente si erano messe in moto. Sapevamo che cos'avremmo dovuto fare quel giorno, e anche che cosa speravamo di scoprire. Poco dopo baciai la bambina ed Elena, mi sistemai, contai i miei spiccioli e mi ripromisi di guadagnarne altri, mi pettinai approssimativamente i capelli e mi misi in cammino insieme a Petronio. Volevamo evitare di informare Frontino dei nostri progetti. Al suo posto, ci eravamo portati appresso Noce. Elena non si sarebbe fatta accompagnare dalla cagnolina nella sua visita, perché il nostro cane e il famoso gatto di Petro erano nemici mortali; a me non sarebbe minimamente importato se Noce avesse azzannato con violenza quella creatura pulciosa, ma Petronio si sarebbe infuriato. Inoltre, Elena non aveva bisogno di un cane da guardia se era in compagnia di mia sorella Maia, che era più aggressiva di qualunque belva potessero incontrare durante il breve percorso sull'Aventino. Petro e io eravamo diretti dalla parte opposta, in Via dei Ciclopi, sul Celio, per interrogare l'amica di Asinia. Si chiamava Pia, ma l'edificio fatiscente nel quale viveva ci convinse in anticipo che quel nobile nome era senz'altro fuori luogo. Era difficile capi-
re come fosse diventata amica di qualcuno che poteva vantare la buona reputazione di Asinia, anche se avevamo appreso che l'amicizia risaliva a parecchi anni addietro. Ma ero troppo vecchio per preoccuparmi del modo in cui le ragazze si sceglievano le amiche. Salimmo parecchie rampe di scale maleodoranti. Un custode con il gozzo ci lasciò entrare, ma si rifiutò di salire con noi. Passammo davanti a ingressi bui, illuminati a stento dalle fessure che si aprivano nei muri anneriti. La sporcizia ci imbrattò le tuniche quando sfiorammo l'intonaco girando gli angoli, ricoperti di spessi strati di polvere. Ce ne accorgemmo grazie ai pochi raggi di luce che di tanto in tanto penetravano nel fabbricato. Petronio tossì e il suono echeggiò cupamente, come se l'edificio fosse deserto. Forse qualche magnate sperava di cacciare i rimanenti inquilini in modo da poter ricostruire con un grosso guadagno. Mentre l'edificio aspettava di essere abbattuto, l'aria si era saturata del fetore della disperazione. Pia aspettava speranzosa l'arrivo di visitatori. Sembrò perfino più interessata, quando vide che eravamo in due. Le facemmo capire che non eravamo clienti e lei divenne assai meno cordiale. Era sdraiata su un triclinio, ma non sembrava intenta ad arricchire la mente. Non c'era in giro niente da leggere; dubitavo perfino che ne fosse capace ma, ovviamente, non glielo chiesi. Aveva i capelli lunghi, di uno strano color vermiglio che probabilmente lei definiva biondo rame. Gli occhi erano quasi invisibili fra i cerchi scuri di nerofumo e piombo colorato. Sembrava accaldata e questo non era un sintomo di buona salute. Indossava una sottoveste gialla e una tunica più lunga e di tessuto molto leggero, di un brutto turchese bruciato, piena di buchi. In effetti, le mussoline non sono a buon mercato. Ogni dito era pesantemente adornato di anelli, sette catene verdognole stringevano il suo collo scarno, portava braccialetti, volgari amuleti di metallo infilati su fragili catenelle alle caviglie e ornamenti tintinnanti fra le ciocche di capelli. Pia esagerava in tutto, fuorché nel buongusto. Nonostante l'apparenza, tuttavia, avrebbe potuto rivelarsi onesta e di buon cuore. «Vogliamo parlare di Asinia.» «Andate a farvi fottere, tutti e due» rispose. XXXI «Ti piacciono le sfide, quindi comincia tu» dissi a Petronio. «No, sei tu l'esperto in streghe» ribatté cortesemente lui.
«Be', scegli tu» sollecitai Pia. «Quale di noi?» «Fatevi fottere entrambi.» Pia allungò le gambe, mostrandole senza pudore, ma sarebbe stato meglio se fossero state più pulite e con le ginocchia più sottili. «Che begli spilloni!» mentì Petronio con un leggero tono di ammirazione, quello a cui le donne credevano per circa tre secondi, prima di rendersi conto che era accompagnato da un'espressione beffarda. «Fottiti.» «Suonaci un motivetto diverso, tesoro.» «Da quanto tempo conosci Asinia?» buttai lì. Petronio e io ci dividevamo il compito di fare le domande e adesso era venuto il mio turno. Nonostante la spavalderia, Pia non seppe trattenersi dal rispondere. «Da anni e anni.» «Come vi siete incontrate la prima volta?» «Quando lei serviva in bottega.» «La bottega di Caio? Ti ci hanno mandata a comprare?» Sebbene avessi evitato di dirlo apertamente, avevo intuito che a quel tempo Pia era stata una schiava. Adesso doveva essere indipendente, anche se non sembrava essere messa bene quanto a quattrini. «Ci faceva piacere scambiare due chiacchiere.» «E andare insieme ai Giochi?» «Non ce niente di male in questo.» «No, niente di male... se ci andavate veramente.» «Sì che ci andavamo!» ribatté lei senza esitazioni, in tono indignato. Fino a quel momento stava dicendo la verità. «Asinia aveva un innamorato?» continuò Petronio. «Non lei.» «Forse uno di cui non aveva parlato nemmeno a te?» «È improbabile. Non sa tenere un segreto, quella ragazza. Non che ne abbia mai avuto bisogno.» «Amava il marito?» «Già! Che stupida! L'avete conosciuto? È un bietolone.» «Sua moglie è sparita. È comprensibile.» Sprecando il fiato, Petronio rimproverò Pia mentre lei, con fare irritante, si limitava ad attorcigliarsi fra le dita sudice i capelli arruffati. «Quindi nessuno è venuto con voi, e in seguito Asinia non ha incontrato nessuno? Allora faresti meglio a raccontarci che cos'è successo quando siete uscite dal Circo.» «Non è successo niente.»
«Ad Asinia è successo qualcosa» intervenni nuovamente io. «Non le è successo niente.» «È morta, Pia.» «Mi state prendendo in giro.» «Qualcuno l'ha uccisa e l'ha fatta a pezzi. Non preoccuparti, un po' alla volta la ritroveremo, anche se dovessero volerci anni.» Pia era sbiancata in viso. Distolse lo sguardo. Evidentemente stava pensando che sarebbe potuto toccare a lei. Petronio riprese con voce aspra: «Chi ha incontrato, Pia?» «Nessuno.» «Non mentire. E non avere paura, non lo riferiremo a Caio Cicurro. Sappiamo essere discreti, se necessario. Vogliamo la storia vera. Chiunque sia l'uomo con cui Asinia si è allontanata, è un pericoloso assassino. Soltanto tu puoi aiutarci a fermarlo.» «Asinia era una brava ragazza.» Restammo in silenzio. «Lo era veramente» insistette Pia. «Non è andata via con nessuno. Io sì, ho incontrato qualcuno. Asinia ha detto che sarebbe tornata a casa.» «Qui?» «No. Avevo bisogno di portare qui il mio uomo, stupido! Sarebbe tornata a casa sua.» «E come ci sarebbe andata?» «A piedi. Ha detto che non le importava.» «Credevo che voi due aveste noleggiato una lettiga. Cicurro è convinto che sia andata così. Gli hai detto che hai accompagnato Asinia fin davanti alla porta di casa sua.» «Avevamo speso tutti i nostri soldi. E in ogni caso era tardi, il Circo si stava svuotando e non c'era più nessuna lettiga a noleggio.» «Quindi l'hai lasciata sola» sbottai. «Questa brava ragazza che era una tua amica così cara, sapendo che avrebbe dovuto trovare la strada fra folle di chiassosi festaioli e andare a piedi quasi fino al Pincio?» «L'ha deciso lei» insistette la ragazza. «Asinia era fatta così. Avrebbe fatto qualunque cosa per chiunque. Ha visto che ero in compagnia, così si è tolta di mezzo.» «Ti ha aiutata ad agganciare il tuo compagno?» domandò Petro. «No. In questo era negata». «Però era graziosa?» «Oh, sì! Attirava gli sguardi. Lei, però, non sembrava accorgersene.» «Aveva troppa fiducia negli altri?»
«Sapeva abbastanza della vita.» «A quanto pare no!» gridò Petro, in preda alla collera. Fece un gesto disgustato e lasciò che continuassi io l'interrogatorio. «Chi era l'uomo che hai incontrato, Pia?» «Come faccio a saperlo? Potrebbe venire da chissà dove. Non l'avevo mai visto prima. Era ubriaco e non aveva denaro. Che stupida sono stata! Se lo incontro un'altra volta gli strappo le palle.» «Un nuovo amore, eh? Ho un debole per le storie romantiche. Lo riconosceresti?» «No di certo.» «Sicura?» «Avevo bevuto un bel po' di vino anch'io. E poi, credimi, non merita di essere ricordato.» «Quindi, qual è stato esattamente l'ultimo posto in cui hai visto Asinia?» «Al Circo Massimo.» «Dove? Quale uscita avete preso?» Pia gettò indietro le spalle e si rivolse a me scandendo le parole, come se fossi stato sordo. «Ho visto Asinia per l'ultima volta presso il Tempio del Sole e della Luna.» Questa risposta era abbastanza precisa, ma poi Pia ebbe un ripensamento e rovinò tutto. «Ho detto una bugia... si stava incamminando lungo la Via dei Tre Altari.» La Via dei Tre Altari va dall'estremità absidale del Circo, nei pressi del Tempio del Sole e della Luna a cui aveva accennato prima Pia, fino al Clivo Scauro. Il Clivo Scauro passa accanto al Tempio del Divino Claudio e arriva fino all'antico Arco di Dolabella, attualmente utilizzato come cisterna dell'Aqua Claudia. Era proprio lì che la mano di Asinia era stata rinvenuta. Chissà se era un elemento importante o solo una terribile e dolorosa coincidenza che la donna scomparsa fosse stata vista l'ultima volta così vicino al luogo in cui in seguito era finita la sua mano smembrata. Quanta strada aveva percorso in quel lasso di tempo? Mi chiesi sconsolatamente se l'avremmo mai scoperto. Fissai Pia con sguardo duro. «Quindi Asinia si è allontanata diretta a nord e tu sei venuta qui. Quante persone c'erano nella Via dei Tre Altari?» «Centinaia, naturalmente. Era l'ora della chiusura del Circo... Be', parecchie.» «Hai detto che non c'erano lettighe? C'erano altri veicoli?» «Solo roba privata.»
«Roba?» «Lo sapete, un mucchio di grassi idioti nelle loro eleganti carrozze. Era passato da un pezzo il coprifuoco.» «Quante carrozze?» «Oh, quasi nessuna.» Contraddirsi sembrava essere la sua specialità. «È il lato sbagliato del Circo. Ai nobili piace farsi prendere su al cancello di partenza o vicino al palco imperiale, lo sapete.» «Temo di no» commentò Petro. «L'estremità absidale del Circo, dopo il coprifuoco, è un luogo troppo turbolento per noi.» Pia gli lanciò un'occhiata fulminante, ma ci voleva molto di più della faccia stizzita di una ragazza imbellettata per intimidire Petronio. «Hai visto Asinia parlare con qualcuno?» domandai. «No. Asinia non l'avrebbe mai fatto.» «Qualcuno ha cercato di rivolgerle la parola?» «Te l'ho appena detto!» «Qualcuno avrebbe potuto fare un fischio. Non significa che lei abbia risposto.» «No» dichiarò Pia. «Non sei di grande aiuto.» Petro decise che era venuto il momento di essere apertamente sgarbato con lei. «Quello che è successo ad Asinia sarebbe potuto capitare a te. E potrebbe ancora succedere.» «Impossibile: non andrò più ai Giochi.» «Una cosa assennata. Ma sei disposta a venire con noi una sera, più o meno all'ora in cui hai lasciato Asinia, per vedere se possiamo individuare qualcuno che riconosci?» «Non intendo avvicinarmi mai più a quel posto.» «Nemmeno per aiutarci a trovare l'assassino della tua amica?» «Non servirà a nulla.» «Come puoi esserne certa?» «Vivo nel mondo.» Petro mi guardò. Se ci fossimo lasciati andare al pessimismo come quella sgualdrinella, avremmo rinunciato o forse non avremmo mai nemmeno incominciato. Forse in effetti non avremmo dovuto immischiarci, ma ormai c'eravamo dentro. Senza che lui proferisse una parola, capii che intendeva far interrogare nuovamente Pia dai Vigili, nella speranza che loro riuscissero a spaventarla e a cavarle qualcosa. La Via dei Ciclopi, dove viveva, doveva trovarsi nel Primo o nel Secondo settore. Non ne ero certo, lì per lì, ma il confine correva più o meno vicino a Porta Metrovia, alla fine
della strada. Quel territorio era di competenza della Quinta coorte. Se non era ancora giunta voce che Rubella l'aveva sospeso, probabilmente Petro sarebbe riuscito a farla franca e a presentare "ufficialmente" la richiesta. Non c'era niente che ci incoraggiasse a continuare l'interrogatorio: trattare con quella ragazza non ci portava a nessun risultato utile. Solo quando eravamo sul punto di andarcene lei si mostrò terrorizzata e lacrimosa. «Non parlavate sul serio, vero, quando dicevate che Asinia è morta?» Petronio si sporse in avanti dal vano della porta, con i pollici ficcati nella cintura. «Purtroppo è vero. Vuoi raccontarci ancora qualcosa?» «Non so nient'altro» replicò Pia con aria insolente. Uscimmo, chiudendo silenziosamente la porta. Petronio Longo scese deciso mezza rampa di scale maleodoranti, poi si fermò brevemente. Lo guardai. Si mordicchiava un dito, assorto. «Quella stupida sgualdrina sta mentendo» sentenziò. XXXII Fuori dal caseggiato di Pia Petro e io ci separammo e, come avevo previsto, lui andò a scambiare qualche parola con i Vigili della Quinta coorte. La caserma si trovava proprio in fondo a quella strada ed era anche piuttosto vicina al serbatoio dell'Arco di Dolabella. Gli consigliai di chiedere ai Vigili che vi prestassero particolare attenzione, ogni sera, dopo la conclusione dei Giochi, nel caso il maniaco assassino contaminasse la riserva d'acqua proprio sotto il loro naso. «D'accordo, non ho bisogno che mi scrivi il discorso.» «Magari potrei prepararti giusto due o tre frasi retoriche, socio.» «Sei un bastardo impiccione.» Era ancora pensieroso. Infatti aggiunse, in tono ancora più provocatorio: «O io sono il Colosso di Rodi o Pia mente su qualcosa, Falco». «Sei solo un colossale presuntuoso» ribattei sogghignando e siccome eravamo quasi arrivati alla caserma della Quinta lo lasciai solo in modo che potesse far credere di essere lì in rappresentanza della propria coorte: se si fosse fatto vedere in compagnia di un investigatore, avrebbero capito che lavorava in proprio. Io mi incamminai invece verso la Via dei Ciclopi, che si trovava a soli due isolati dalla Via dell'Onore e della Virtù, un nome inopportuno per quel posto degradato, pieno di sgualdrine con storie orripilanti, fra cui Marina, quella poco di buono che era stata la fidanzata del mio defunto fratel-
lo e madre di mia nipote Marzia. Mi ero ripromesso di prendermi cura di Marina, date le sue intenzioni di continuare a comportarsi in modo irresponsabile, e stavo passando talmente vicino a dove abitava che non potevo andare oltre facendo finta di niente, così mi feci coraggio e decisi di andare a trovare lei e la bambina. Fu uno sforzo inutile; avrei dovuto saperlo, visto che erano in corso i Giochi: Marina era andata al Circo. Era tipico di quella sventata puntare dritto su un luogo che conteneva duecentomila uomini. Sicuramente aveva scaricato Marzia da qualche parte. Nella via non c'era quasi nessuno a cui chiedere di lei e della bimba, e quei pochi a cui chiesi non seppero rispondermi. Lasciai un messaggio per avvertire Marina che da quelle parti si aggirava un individuo malvagio che rapiva le donne. Sapevo che la cosa non l'avrebbe certamente preoccupata ma speravo che, sapendo che girovagavo nei paraggi per vigilare, si sarebbe spaventata abbastanza da badare con più cura a mia nipote. Marzia aveva ormai quasi sei anni. Sembrava una bambina vivace, felice ed equilibrata; meglio così, perché io e Elena non saremmo stati in grado di soccorrerla. Era una situazione piuttosto complicata: mio fratello Festo era morto in Giudea senza sapere di avere generato una figlia e per diverse ragioni, alcune delle quali nobili, mi sentivo in dovere di prendere il suo posto. La giornata si era fatta estremamente calda, tuttavia un brivido mi percorse la schiena. Speravo che l'assassino degli acquedotti non fosse anche pedofilo. Marzia era troppo cordiale con chiunque, e il pensiero della mia nipotina preferita che scorrazzava per quelle strade con il suo innocente sorriso amichevole mentre un macellaio pervertito si aggirava nello stesso quartiere in cerca di indifesa carne femminile mi terrorizzava. In effetti nessuno era al sicuro. Petro e io eravamo riusciti a restare indifferenti quando avevamo trovato la prima mano in avanzato stato di decomposizione, poiché la sua anonima proprietaria ci era sembrata lontana: eravamo consapevoli che non saremmo mai riusciti a identificare quella vittima, e neppure la successiva. Adesso, però, eravamo più coinvolti e questo scatenava i nostri incubi. Avevo appreso abbastanza di una delle vittime da avere l'impressione di conoscerla; avevo visto in che modo la sua morte affliggeva la famiglia e gli amici. Ormai Asinia, vent'anni, moglie di Caio Cicurro, aveva anche per noi un nome e una personalità. Ben presto ci sarebbe capitato di svegliarci nel cuore della notte, sudando, al pensiero che la prossima vittima poteva essere uno dei nostri cari.
Ritornai indietro verso la caserma della Quinta coorte ma Petronio se n'era già andato. Visto che ero nei paraggi, andai a trovare Bolano nella sua casupola, ma era fuori per lavoro. Gli scrissi un messaggio per informarlo che c'era la possibilità che le donne rapite fossero scomparse nelle immediate vicinanze di casa sua e che, quindi, mi avrebbe fatto piacere parlarne con lui. Volevo sapere se era possibile accedere all'Aqua Claudia o a un altro acquedotto vicino. Non ero riuscito a trovare tre persone su tre, così approfittai della mia sfortuna e tornai a casa per pranzo. Rividi Petronio solo in tarda serata. Mentre le rondini approfittavano dell'ultimo raggio di sole per svolazzare, attraversai la strada diretto all'ufficio, dove lui era intento a riordinare dopo cena. Anche lui, come me, era pronto per uscire; indossavamo entrambi tuniche bianche e toghe per sembrare un paio di normali fannulloni che si dirigono ai Giochi, ma sotto portavamo calzari militari, perfetti per prendere a calci i furfanti. Lui aveva un grosso bastone infilato nella cintura sotto la toga, io invece facevo affidamento sul pugnale nascosto nel calzare. Ci incamminammo tranquillamente in direzione del Tempio del Sole e della Luna, senza quasi scambiare una parola. Petro si sistemò sui gradini del tempio, io tornai indietro di qualche passo e presi la Via dei Tre Altari. Di giorno quello era un quartiere commerciale dall'aspetto abbastanza accettabile, nonostante la vicinanza del Circo Massimo. La valle tra l'Aventino e il Palatino è vasta e piatta, e non c'è molto via vai, poiché di solito le persone evitano di attraversarla per non dover fare il giro intorno al Circo; percorrere la valle a piedi è un'impresa, sarebbe possibile solo con una quadriga trainata da cavalli sbuffanti e incitati da una folla rumorosa. Al crepuscolo l'atmosfera del quartiere peggiorava notevolmente. Taverne che a mezzogiorno sembravano sorprendentemente eleganti tornavano all'improvviso a essere squallide, i mendicanti (probabilmente schiavi fuggiaschi) infastidivano i passanti, le vecchie scritte sugli edifici malandati sembravano più evidenti. Le uscite del Circo riversavano in strada orde di spettatori stanchi e il baccano era atroce. Per questo motivo quella non sarebbe mai potuta diventare una distinta zona residenziale. La gente che si saluta gridando dopo essersela spassata è un grosso fastidio per chi ha dovuto rinunciare a divertirsi. E poi, chi vorrebbe trovarsi gli spettatori delle corse, ubriachi di sole e satolli di spuntini, vomitare sul proprio zerbino per quindici notti di fila?
I primi a uscire furono gruppi di amici o famiglie che tornavano a casa oppure compagni di lavoro che passavano la serata fuori; sciamavano alla svelta, dando qualche spintone se c'era troppa ressa, per poi disperdersi velocemente. I gruppi di fannulloni erano più vari e chiassosi. Alcuni erano ubriachi. Proibire il vino nelle arene non sortiva alcun effetto in nessuna parte dell'Impero, e coloro che lo facevano entrare illegalmente ne portavano sempre abbastanza da annegarvici. Anche il gioco d'azzardo era illegale, e tuttavia rimaneva il vero scopo degli incontri al Circo. Quelli che avevano vinto volevano festeggiare intorno al Tempio del Sole e della Luna, dove si era piazzato Petro, o al vicino Tempio di Mercurio, prima di allontanarsi barcollando per le strade, pericolosamente felici, seguiti nell'ombra da ladri speranzosi; chi invece aveva perso le scommesse era infelice e aggressivo e di solito bighellonava in cerca di teste da fracassare. Infine, quando i cancelli del Circo stavano per chiudere, uscivano le ragazze più frivole, che erano lì per rovinarsi la reputazione, e i maschi sbruffoni che speravano di attirarle. Quasi tutte le ragazze erano in coppia o in piccoli gruppi. È così che escono di solito, per sentirsi sicure di sé, cosa di cui però, in base alla mia esperienza, non hanno affatto bisogno. Prima o poi puntano un gruppetto di sfaccendati, decise a scegliersi un bersaglio ciascuna. A volte c'è nel gruppo una ragazza impacciata e bruttina, il cui ruolo è di mettere in guardia le altre e che infine si allontana da sola, mentre le amiche sfrontate si buttano a capofitto verso il bersaglio. Tenni d'occhio alcune di queste ragazze meno carine e le seguii con discrezione per breve distanza, per vedere se venivano pedinate da qualche sinistro individuo, ma rinunciai quasi immediatamente: non volevo spaventarle e, in secondo luogo, non volevo che qualche conoscente mi notasse mentre seguivo delle donne poco attraenti, cosa che avrebbe rovinato la mia reputazione. Volevo tenere sotto controllo anche la situazione dei trasporti. Quando la gente aveva incominciato a defluire dal Circo sembrava che ci fossero portantine a nolo in grande quantità, ma se le accaparrarono subito i tipi più prudenti, che uscirono in fretta in cerca di un mezzo di trasporto per tornare a casa. Solo alcune portantine tornarono per una seconda corsa e, a quel punto, chi stava ancora aspettando era così disperato che sparirono di nuovo quasi subito. C'erano anche alcune lettighe private. Naturalmente avevano l'ordine di rimanere parcheggiate in attesa dei legittimi proprietari, e in teoria non erano disponibili, ma gli schiavi a cui erano affidate ri-
cevevano parecchie richieste e alcuni di loro accettavano di accompagnare qualcuno. Le più ambite erano le portantine del tipo «sta' ben seduto e prega», con due portatori, e le lettighe portate a spalla da quattro, o perfino otto, uomini vigorosi. Le carrozze invece erano rare, poiché in città non erano molto usate; i veicoli a ruote, infatti, erano banditi da Roma durante il giorno, fatta eccezione per i carretti degli imprenditori edili, che lavoravano ai monumenti pubblici, e per i cocchi cerimoniali delle vestali. Per quanto ne sapevo, a memoria d'uomo, nessuna vestale aveva mai offerto un passaggio neanche a un gattino abbandonato; una donna avrebbe potuto partorire in un canale di scolo e le vergini l'avrebbero altezzosamente ignorata. Pertanto, dopo avere lasciato Pia in quella notte fatale, Asinia, senza denaro, era rimasta quasi certamente a piedi. Quello non era il posto adatto per una donna sola. Cercavo di immaginare come doveva essersi svolta la scena: una ragazza nera, molto graziosa ma ingenua e inconsapevole della propria avvenenza, che si stringeva timidamente nella stola e camminava nervosa tenendo gli occhi bassi sul marciapiede. Se camminava in fretta era stata probabilmente giudicata vulnerabile, e il passo svelto poteva avere attirato l'attenzione. Forse chi la seguiva con insistenza aveva prima messo gli occhi addosso a Pia, ma era stato preceduto da qualcun altro. Quando Asinia, che sembrava molto più rispettabile dell'amica che l'accompagnava, si era allontanata da sola in modo schivo, l'uomo non era riuscito a credere alla propria fortuna. Quella sera tutt'intorno all'arena le prostitute si dedicavano con entusiasmo ai loro affari. Mi rivolsero sguardi eloquenti fino a che non capirono che i miei affari, invece, non le riguardavano; a quel punto mi lasciarono in pace. Avevano troppo da fare. Quelle lunghe notti calde all'ombra del Circo valevano parecchi denari. Mostrarsi sgradevoli con me sarebbe stata una pessima pubblicità e, cosa più importante, uno spreco di tempo prezioso. Quello che mi colpì delle donne che vedevo in giro era che molte di loro erano più minacciose delle bande di giovinastri. Alcune di quelle fanciulle, con le palpebre tinte di biacca di piombo, andavano a zonzo imprecando e agitando il parasole giallo, mostrandosi pronte all'azione, e terrorizzavano perfino me. Al loro avvicinarsi, qualunque uomo in cerca di facili avventure che trovasse però difficile approcciare una donna sarebbe corso a nascondersi dietro a una colonna facendosela sotto.
Non vidi nessuno del genere nella Via dei Tre Altari, ma incominciai a pensare che gli uomini di quel tipo dovevano essere attirati da quel posto. Riuscivo a immaginarli mentre venivano scherniti e insultati e capivo che l'umore tormentato potesse portare a feroci pensieri di vendetta. XXXIII Petronio e io decidemmo di trascorrere le ultime serate dei Grandi Giochi appostati fuori dal Circo Massimo. Forse ci saremmo trovati costantemente di fianco all'assassino, che avrebbe potuto passarci così vicino da sfiorare i nostri indumenti con i suoi, e noi non l'avremmo saputo. Era necessario scoprire dell'altro, le informazioni con le quali lavoravamo erano troppo scarse. Incominciavamo a pensare che avremmo avuto qualche probabilità di trovare altri indizi solo quando fosse stata assassinata un'altra donna, anche se, ovviamente, non l'auguravamo a nessuna. Sebbene non sollevassimo mai l'argomento, volevamo che dopo Asinia, di cui conoscevamo il nome e l'indole dolce, nessuna altra donna subisse quella sorte. Il giorno dopo l'inizio del nostro lavoro di sorveglianza, tutti i giovani Camilli accusarono un'indisposizione provocata da un pollo alla griglia mal cotto. Non essendo in condizioni di recarsi al Circo, mandarono uno schiavo per offrire i biglietti a me e a Elena. Nonostante il breve preavviso lei riuscì in qualche modo ad accordarsi con Gaio perché badasse alla bambina per qualche ora. Era una piacevole opportunità di uscire insieme da soli. Be', da soli se si escludeva un quarto di milione di spettatori sbraitanti! Elena Giustina non era in realtà molto appassionata delle corse di bighe, io invece ero felice perché quel giorno gli Azzurri sembravano in gran forma. Mentre mi dimenavo sul sedile, imprecando per l'incompetenza dei conducenti e lanciando grida per i loro successi, e mangiucchiando nervosamente i fichi durante i momenti di tensione, Elena stava pazientemente seduta lasciando che la sua mente vagasse altrove. Quando balzai in piedi per applaudire, lei raccolse il mio cuscino e lo rimise a posto, pronto per quando il mio fondoschiena fosse atterrato nuovamente sulla panca. Che brava ragazza! L'avreste potuta portare ovunque. Elena sapeva come farmi intuire che soltanto un idiota si sarebbe divertito con quella roba, tuttavia non si lamentava apertamente.
Mentre io mi rilassavo, lei cercava di risolvere il caso al posto mio. Elena aveva capito che cercavamo qualcuno di cui avevamo solo pochi particolari, oltretutto molto approssimativi. Durante un intervallo tranquillo, mi presentò un riassunto: «La natura del crimine, in particolare ciò che ti ha riferito Lollio delle mutilazioni che sono state inflitte alle vittime, indica che devi cercare un uomo. L'assassino potrebbe essere chiunque, senatore o schiavo. La sola cosa che puoi stabilire con una certa sicurezza su di lui è che non ha un'aria sospetta. Altrimenti, le donne che ha ucciso non sarebbero mai andate con lui. «Sai qualcosa riguardo alla sua età: queste morti risalgono a molti anni addietro, dunque, a meno che non abbia incominciato nella culla, dev'essere un uomo di mezza età o anche più vecchio. «Tu e Petro pensate che sia un tipo solitario. Se lavorasse con qualcun altro, dopo tutto questo tempo uno dei due avrebbe commesso un errore o si sarebbe lasciato sfuggire parte della storia, com'è nella natura umana: più sono le persone coinvolte, maggiori sono le probabilità che uno si ubriachi, o sia spiato dalla moglie, o attiri l'attenzione dei Vigili per un'accusa non correlata. Le notizie di cui sono a conoscenza più persone si diffondono più facilmente, quindi, giustamente, siete arrivati alla conclusione che si tratti di una singola persona. «Pensi anche che abbia problemi nelle relazioni personali. La natura del crimine lascia intendere che a spingerlo sia la gratificazione sessuale, l'eccitamento tramite la vendetta. «Se Bolano ha ragione quando sostiene che potrebbe vivere fuori Roma, eventualità che stai ancora prendendo in considerazione, allora è qualcuno che dispone di un mezzo di trasporto. Di conseguenza le donne, come Asinia, vengono rapite in prossimità del Circo e poi portate altrove, ma non sappiamo se a quel punto siano ancora vive o già morte. «Sa usare un coltello e dev'essere in buona forma fisica: sopraffare delle persone, massacrarle e trasportarne i corpi richiede una forza notevole. «Vive in un posto dove può agire in segretezza, o, per lo meno, ha a disposizione un rifugio, un luogo isolato per uccidere e commettere altri crimini. Può nascondere i corpi mentre incomincia a farli sparire e può lavarsi e pulire i vestiti sporchi di sangue senza essere notato. Il caso sembra abbastanza circostanziato» rifletté Elena mentre completava il quadro a mio beneficio «ma non è abbastanza, Marco. È assolutamente urgente che tu scopra che aspetto ha quell'individuo. Qualcuno deve pur saperlo de-
scrivere, anche se ovviamente non sa chi sia. Non può riuscire ogni volta nel suo intento. Ogni tanto avrà avvicinato una donna che l'ha ignorato o gli ha ordinato di squagliarsela. Può anche darsi che da qualche parte ci sia una ragazza che lui ha cercato di aggredire ma che è riuscita a sfuggirgli». Scossi la testa. «Nessuna si è fatta avanti. Nemmeno il famoso annuncio di Petro al Foro ha prodotto testimoni.» «Troppo spaventate?» «È più probabile che a nessuna sia mai venuto in mente che l'animale al quale è sfuggita fosse l'assassino degli acquedotti.» «Una donna denuncerebbe il fatto» affermò con decisione Elena. «Gli uomini che respingono un aggressore si limitano a sbuffare e a dire: "Ah! Che spaventi pure qualcun altro!". Ma le donne si preoccupano all'idea di lasciare in giro pericoli per altre come loro.» «Le donne hanno parecchia immaginazione» commentai biecamente. Chissà perché, Elena sorrise. Mi ritrovai a guardarmi in giro per il Circo, osservando il pubblico vicino a me. Non vidi nessuno che sembrasse un assassino, però notai il mio vecchio compagno di tenda, Lucio Petronio. Era seduto solo alcune file dietro di noi in compagnia di una fanciulla e parlava in tono serio della corsa che stava per cominciare. Se lo conoscevo bene, stava spiegando che i Verdi erano un disastro e non avrebbero saputo guidare una biga diritta nemmeno se avessero avuto a disposizione l'intero Campo di Marte, mentre gli Azzurri erano un equipaggio elegante e dinamico che avrebbe dato una severa lezione a tutti gli altri. Diedi una gomitata a Elena e sorridemmo insieme, ma eravamo anche addolorati. Quello spettacolo sarebbe probabilmente diventato sempre più raro: Petronio che si divertiva in compagnia della figlia di sette anni. Seduta al suo fianco, Petronilla ascoltava seria. Dall'ultima volta che l'avevo vista aveva perso l'aria infantile ed era diventata una vera ragazzina. Sembrava più tranquilla di quanto la ricordassi, cosa che trovai preoccupante. Aveva i capelli bruni, raccolti ordinatamente sulla sommità del capo, e occhi castani solenni, quasi tristi. Tutti e due mangiavano delle frittelle. Petronilla doveva ritenersi fortunata, aveva ereditato la grazia della madre. Suo padre invece aveva il mento appiccicoso e il miele gli era colato sulla tunica; la figlia se ne accorse e lo pulì rapidamente con il fazzoletto. Petronio lasciò fare con aria da eroe. Quando sua figlia tornò a sedersi, le cinse le spalle con un braccio mentre lei gli si raggomitolava contro. Pe-
tro fissava risoluto l'arena, ma non ero più tanto sicuro che guardasse la corsa. XXXIV Il giorno seguente Giulio Frontino ci convocò per una consultazione sul caso. Era quel genere di formalità che detesto. Petronio, al contrario, si trovava nel suo elemento. «Mi dispiace mettervi fretta, ma ho ricevuto a mia volta sollecitazioni a produrre risultati.» Il console subiva pressioni dall'alto, così passava a noi la seccatura. «Ormai siamo all'ottavo giorno dei Giochi...» «Ci siamo già fatti un'idea più precisa da quando ci hai affidato l'incarico» lo rassicurai. Sembrava imprudente fargli notare che lavoravamo solo da quattro giorni all'indagine. In questi casi è consigliabile guardare sempre avanti, altrimenti si rischia di sembrare evasivi. «Immagino che sia così che di regola illudete i vostri clienti affinché provino un senso di sicurezza.» Frontino aveva un tono scherzoso, ma non troppo. «L'identificazione di Asinia è un buon primo passo» dichiarò Petro. Ancora lusinghe, da cui Frontino non si fece impressionare. «Mi è stato suggerito che dovremmo cercare di risolvere il problema entro la fine dei Giochi.» Petronio e io ci scambiammo un'occhiata. Eravamo abituati tutti e due alle scadenze impossibili e a volte riuscivamo a rispettarle, ma sapevamo entrambi che non bisognava mai ammettere che sarebbe stato difficile onorarle. «Abbiamo avuto conferma che l'assassino compie le sue imprese durante le festività» rispose pacatamente Petro. «Ha rapito Asinia il primo giorno dei Grandi Giochi. Tuttavia, non è detto che sia ancora qui. Forse è venuto a Roma soltanto per la cerimonia di apertura, ha rapito la ragazza, procurandosi l'emozione che cercava, e se ne è andato. Forse, dopo avere massacrato Asinia, la sua sete di sangue si è placata fino alla prossima occasione. Inoltre abbiamo una teoria secondo la quale farebbe a pezzi le donne e si sbarazzerebbe dei cadaveri fuori città.» Questa poi! Era stato Petronio a sostenere che avremmo dovuto scartare quell'ipotesi per motivi logistici, mentre quando ne avevo discusso con Elena lei si era mostrata incline a credere alla teoria che l'uomo che cercavamo viaggiasse avanti e indietro, e io pensavo che avesse ragione.
Considerato quanto avevo appreso su quel genere di uomini, riflettei anche fra me e me: il cadavere ha solo una settimana. Lui ha mozzato una mano, ma potrebbe nascondere ancora il resto del corpo in qualche rifugio... No: settembre è un mese molto caldo. Frontino brontolava. «Non posso tenere in sospeso la mia indagine fino all'inizio dei prossimi Giochi. Se agiamo così, perdiamo lo slancio e l'intera faccenda ristagnerà. L'ho visto succedere troppe volte. Inoltre, che cosa comporterebbe? Vogliamo lasciare a quell'uomo la possibilità di uccidere qualche altra ragazza durante la cerimonia di apertura degli Augustali?» «È un rischio troppo grande» concordò Petro, anche se probabilmente non avevamo scelta. «E sarebbe lo scenario peggiore» suggerii, lasciando da parte le mie riflessioni per partecipare alla discussione. «Ma non è nostra intenzione starcene seduti su cuscini di piuma fino a ottobre solo perché la nostra preda potrebbe avere lasciato Roma.» «Se pensate che sia così, dovreste dargli la caccia» disse Frontino. «Oh, lo faremmo, console, ma non sappiamo dove cercare. Adesso è il momento di seguire delle piste, e ne abbiamo qualcuna.» «Possiamo esaminarle?» I modi del console erano sempre sbrigativi. Evitava di insinuare che ci riteneva degli incompetenti, ma riusciva a farci capire che dei professionisti sarebbero stati ansiosi di fornirgli esattamente quello che voleva, e in questo modo richiedeva uno sforzo da parte nostra. Avremmo dovuto stare attenti con quell'uomo, poiché i suoi criteri di giudizio erano molto elevati. Per cominciare, gli esposi il riassunto fattomi da Elena Giustina relativo a quello che sapevamo della personalità dell'assassino. Era stato pensato bene e il console ne sembrò soddisfatto, apprezzandone la chiarezza e il buonsenso. Petronio pensava che improvvisassi e mi fece capire, con uno sguardo gelido, che preferiva non avere come socio un oratore ricco di immaginazione. Tuttavia, pur essendo un po' irritato per non averci pensato lui per primo, dovette riconoscere che l'analisi aveva un senso. Poi anche Petro ci mise del suo. «Sappiamo, console, che Asinia è scomparsa da qualche parte fra l'estremità absidale del Circo Massimo, dov'è stata vista l'ultima volta, e casa sua. Si era allontanata verso nord. Può darsi che sia stata rapita fra la gente intorno al Circo, oppure in seguito, in qualche strada più tranquilla. Tutto dipende dalla tattica di quest'uomo: se raggira le sue vittime o se le aggredisce. Falco e io continueremo la nostra sorveglianza notturna. Può darsi che la procedura regolare produca
qualcosa.» «La procedura regolare?» ripeté Frontino. «Esattamente» ribatté Petronio con voce ferma. «Vorremmo capire anche se i conducenti delle lettighe e delle portantine a noleggio hanno visto qualcosa la sera dell'apertura dei Giochi.» «Credi che sia stato uno di loro a compiere il delitto?» Capimmo che Frontino aveva deciso all'istante di tempestare di domande gli edili che avevano la responsabilità di controllare le strade. «È una copertura ideale.» Era chiaro che Petro aveva in mente qualcosa. È tipico dei Vigili: considerano una singola ipotesi e poi cercano di dimostrarla; gli investigatori, invece, possono esaminare parecchie idee contemporaneamente. Quando la vita reale produce qualcosa che si allontana dal loro scenario, i Vigili falliscono. In questo caso, tuttavia, dovevo ammettere che la teoria di Petro sembrava valida. «I conducenti delle portantine possono far salire le donne senza destare sospetti, e hanno i mezzi per trasportare i cadaveri dopo l'omicidio.» «Però tendono a lavorare in coppia» obiettai. Petro continuò imperterrito. «Forse alla fine scopriremo che due di loro collaborano, e non solo per trasportare passeggeri. Giulio Frontino, io farò le mie indagini, tuttavia questi individui sono numerosi e sarebbe d'aiuto, console, se potessi chiedere al prefetto dei Vigili di ordinare un'ispezione ufficiale.» «Certamente.» Frontino prese rapidamente nota su una tavoletta incerata. «È necessario che incarichi di questo la Quinta e la Sesta coorte, in modo che si possano controllare entrambe le estremità del Circo. È possibile che l'assassino si limiti a un percorso preferito, ma non possiamo farci affidamento. I Vigili dovrebbero compiere indagini anche fra le lucciole.» «Chi?» «Le prostitute.» «Ah!» «Se quest'uomo avvicina regolarmente le donne, una lucciola che lavora dalle parti del Circo potrebbe averlo incontrato.» «Sì, naturalmente.» «In realtà, è possibile che detesti le professioniste. Forse preferisce le donne rispettabili, poiché sono più innocenti e meno esperte nell'evitare i guai. Chi lo sa? Ma se gironzola spesso nei paraggi, allora è probabile che le lucciole sappiano della sua esistenza.»
Poi toccò a me dare suggerimenti. Al pari di Petro, adottai un atteggiamento ipocrita. «Io vorrei, invece, indagare più a fondo sulla rete idrica. L'assistente dell'ingegnere che è venuto qui, Bolano, ha avuto un'idea, ed è disposto a esaminare anche gli acquedotti in campagna, nell'eventualità che il nostro uomo non abiti in città. Questo è un altro dei motivi per cui non ci siamo precipitati personalmente fuori Roma: Bolano potrebbe scoprire qualcosa di particolare.» «Cercate insieme a lui» ci ordinò Frontino. «Darò istruzioni al curatore affinché Bolano collabori con noi in base alle nostre esigenze.» «E per quanto riguarda il magnifico Stazio?» domandò malignamente Petro. Frontino ci guardò da sopra il bordo della tavoletta per appunti. «Immaginiamo che io dica che abbiamo richiesto Bolano per non distogliere il suo superiore da responsabilità dirigenziali assai più essenziali. C'è dell'altro?» «Dovresti metterti assolutamente in contatto con il prefetto dei Vigili.» Frontino annuì, anche se sembrava rendersi conto che gli rifilavamo i lavori noiosi per evitare di sbrigarli noi stessi. Tuttavia, eravamo sicuri che avrebbe provveduto a prendere i due contatti quella mattina stessa, dopodiché sarebbe stato alle calcagna del curatore e del prefetto per ottenere i risultati voluti. Non sembrava contrariato dai nostri suggerimenti su come muoversi, ci aveva affibbiato incarichi fastidiosi così come aveva anche accettato di assumerseli lui stesso. Era una cosa rara in un uomo del suo rango. Fino a quel momento avevamo confidato che l'indagine incominciasse a mettersi sulla buona strada, poiché sembrava che le nuove prove riguardanti il caso di Asinia ci fossero di aiuto. Ma era un'impressione passeggera: quando lasciammo Frontino egli si era già reso conto che stavamo bluffando, e con il passare dei giorni cademmo entrambi in preda alla depressione. Petronio si logorò facendo domande ai conducenti delle portantine, un compito molto noioso, e cercando di interrogare le donne di strada, un incarico addirittura pericoloso. Da loro apprese pochissimo. Nel frattempo io riuscii finalmente a contattare Bolano, che di recente era sempre in giro per qualche lavoro. Mi sembrò stranamente distaccato. Disse che aveva condotto ricerche nei castelli e nei pressi degli acquedotti di campagna, ma fino a quel momento non aveva ottenuto nessun risultato. Temetti che gli
avessero imposto di ostacolarci. Pronto a usare tutto il potere di pressione del console sui suoi superiori, glielo chiesi apertamente, ma Bolano negò e io gli credetti. Petro e io fummo costretti a riconoscere che eravamo praticamente a un punto morto. Senza un colpo di fortuna non avremmo fatto progressi. I Grandi Giochi si avviavano stancamente alla fine e, oltretutto, quei dannati Verdi risultavano in vantaggio sugli Azzurri nelle corse delle bighe. Alcuni noti gladiatori avevano subito sconfitte inaspettate ed erano passati a miglior vita, lasciando cuori spezzati e allenatori in rovina. Gli spettacoli teatrali erano spaventosi come al solito e, tanto per cambiare, nessuno a parte me osava ammetterlo. Il caso ci stava sfuggendo di mano. XXXV Oramai era chiaro che non avremmo portato sicuramente a termine l'indagine entro la fine dei Grandi Giochi. Mi aspettavo che Giulio Frontino ci liquidasse, invece riconobbe che, senza altri indizi, eravamo bloccati. Però ci tagliò l'onorario e ci fece una severa ramanzina. Doveva essersi reso conto di avere bisogno di noi, perché, senza una soluzione da offrire all'imperatore, anche lui era privato della gloria. Le indagini di Petro ci fornirono alcuni nomi di donne scomparse in passato, la maggior parte delle quali erano prostitute. Rimproverammo le ragazze che ci avevano fornito i nominativi per non avere denunciato le scomparse ai Vigili, ma loro sostennero che, il più delle volte, l'avevano fatto. (In certi casi le scomparse lasciavano dei bambini di cui prendersi cura, altre volte i protettori si rendevano conto di avere perso parte del proprio sostentamento.) Nessuno aveva mai messo in relazione i diversi episodi, nessuno si era mai preoccupato troppo. Era difficile mettere insieme una documentazione completa e affidabile dei vecchi casi, ma Petro e io avevamo l'impressione che recentemente il numero delle sparizioni fosse cresciuto. «L'assassino è diventato più audace» osservò Petro. «È uno schema noto. Affronta il rischio di essere scoperto come una sfida ed è convinto di poterla fare franca. La sua è diventata una dipendenza, ha sempre più bisogno di questa emozione.» «Si considera invincibile?»
«Sì, ma si sbaglia.» «Oh! E se non riuscissimo a trovare gli indizi essenziali per scoprire la sua identità?» «Non pensarci, Falco.» Era impossibile collegare l'una o l'altra delle prime due mani che avevamo trovato a una qualunque delle donne scomparse. Per dimostrare la nostra buona volontà, facevamo regolarmente una copia del nostro elenco di vittime per Anacrite, nell'eventualità che lui fosse in grado di trovare un collegamento con qualcosa che fosse stato riferito al curatore. Non ci rispose mai e, conoscendolo, avremmo giurato che non leggesse mai quello che gli mandavamo. Avevamo sperato, invano, che i casi precedenti ci consentissero di ottenere ulteriori informazioni. I rapimenti erano però avvenuti troppo tempo addietro. Le date erano vaghe e le amiche delle donne rapite erano dissuase dall'aiutarci dalla loro etica professionale. Vedere una prostituta avvicinata da un uomo suscitava raramente la curiosità altrui, e per questo motivo non c'erano, a quanto pareva, testimoni dei rapimenti. Se non altro avevamo qualche progresso da riferire al console. Nel corso del colloquio successivo Petronio consigliò a Frontino di ricorrere all'aiuto dei Vigili per sorvegliare la zona durante l'ultima notte dei Giochi. La sua intenzione era di coprire tutta l'area intorno al Circo con agenti in borghese, che tenessero particolarmente d'occhio le prostitute. «L'assassino non focalizza le sue attenzioni sulle prostitute» gli fece notare Frontino. «Asinia era una donna assolutamente rispettabile.» «È vero, console. Però è possibile che nel caso di Asinia abbia commesso un errore. Era sola, a notte inoltrata, potrebbe aver tratto le conclusioni sbagliate. Oppure sta ampliando i suoi interessi. Io sono comunque convinto che le lucciole che lavorano lungo i colonnati siano ancora le ragazze più vulnerabili.» «Quante prostitute registrate ci sono a Roma?» domandò il console, sempre interessato alle cifre. «Trentaduemila, in base all'ultimo censimento.» Petronio rispose tranquillamente, lasciando che Frontino traesse da solo le conclusioni: sarebbe stato impossibile proteggerle tutte. «Che cosa si sta facendo per scoprire se altre donne rispettabili sono state rapite con le stesse modalità con cui è stata rapita Asinia?» «Il mio vecchio comandante in seconda, Martino, è attualmente assegnato alle indagini presso la Sesta coorte. Sta riesaminando le denunce di per-
sone scomparse, e per i casi che sono rimasti irrisolti interroga nuovamente le famiglie. Crede di avere trovato un paio di casi che potrebbero rientrare fra gli omicidi degli acquedotti, ma finora non c'è niente di definitivo.» «Tutto questo non avrebbe dovuto essere scoperto in precedenza dai Vigili?» Petronio si strinse nelle spalle. «Può darsi. Certamente non si può biasimare Martino, perché allora lavorava con me sull'Aventino. Le denunce sono state ricevute da agenti diversi e nel corso di parecchi anni. Inoltre, se una donna scompare durante una festività pubblica, per prima cosa supponiamo che sia fuggita con il suo amante. In uno o due casi Martino ha scoperto che era andata proprio così e le donne in questione ora vivono stabilmente con un fidanzato. Una è perfino tornata dal marito dopo avere bisticciato con il nuovo compagno.» «Per lo meno adesso Martino può chiudere quei casi» commentai. Nel frattempo io continuavo a occuparmi della rete idrica. Bolano si stancò di essere infastidito. Era certo che non ci fosse alcuna possibilità di accesso agli acquedotti nella città di Roma. Quelli che non erano disposti nel sottosuolo, infatti, erano sostenuti da enormi arcate alte più di trenta metri, che attraversavano la campagna. Le costruzioni erano alte anche in città, perché dovevano sormontare le strade e rifornire le cittadelle. Bolano aveva chiesto agli operai di cui si fidava se c'era effettivamente la possibilità che il nostro uomo fosse un dipendente del comitato delle acque e se, grazie a questo, avesse potuto accedere a qualche acquedotto. Se qualcuno avesse nutrito qualche dubbio su un altro schiavo, probabilmente avrebbe fatto la spia. Era risaputo che nell'amministrazione degli acquedotti la corruzione dilagava, e i funzionari del Comitato delle acque sapevano come essere d'intralcio se non ricevevano quello che avevano chiesto. Un omicidio perverso però è un crimine particolare e chiunque avesse nutrito dei sospetti fondati su un compagno di lavoro l'avrebbe denunciato. Giulio Frontino incominciò a interessarsi a Bolano. La rete di distribuzione dell'acqua stuzzicava la sua curiosità e buttò giù qualche schizzo. Un giorno Bolano ci condusse a vedere il punto in cui l'Aqua Claudia e l'Aqua Marcia s'incrociavano per dimostrarci che qualcuno avrebbe potuto introdurre in una delle condutture delle membra mozzate che, successivamente, sarebbero finite in un'altra conduttura, creando confusione sul luogo di effettiva provenienza.
Poi ci portò nella conduttura di un ramo dell'Aqua Marcia. Era alta il doppio di un uomo, con il tetto piatto e rivestita di cemento impermeabile levigato. «Calce e sabbia, oppure calce e laterizi frantumati» ci spiegò Bolano, mentre arrivavamo a destinazione attraverso una botola posta al di sopra delle nostre teste. «Attento a dove metti i piedi, console. Il cemento è disposto a strati. Ci vogliono tre mesi perché faccia presa. L'ultimo tratto è lucidato a specchio, come si dice.» «È un lavoro notevole» commentai. «Come mai il comitato delle acque è così zelante?» «Una superficie liscia impedisce la formazione di sedimenti. Riducendo la frizione, si agevola anche il flusso.» «Quindi se un corpo estraneo vi finisce dentro può essere danneggiato mentre viene sballottato dalla corrente?» s'informò Frontino. «Falco e io ne abbiamo già discusso. Probabilmente l'attrito avrebbe qualche effetto, ma, se le mani mozzate sono molto deteriorate, sarei più propenso ad attribuirlo alla decomposizione, visto che le pareti sono così lisce. Oppure potrebbero essere così gravemente danneggiate a causa di una caduta. Se un corpo estraneo finisse qui proprio mentre deviamo il flusso, non rimarrebbe sicuramente intatto.» Eravamo arrivati nel punto che voleva mostrarci. L'Aqua Claudia passava direttamente sopra la Marcia, e chiunque detesti gli spazi ristretti non avrebbe gradito quel luogo. Bolano ci spiegò che sopra di noi c'era un pozzo di accesso nel fianco della conduttura dell'Aqua Claudia, controllato da una chiusa. Ci mostrò il pozzo, un quadrato largo circa due cubiti. Frontino e io ci sforzammo di guardare nell'oscurità: avevamo con noi delle lampade, ma la cima di quel camino stretto e buio era troppo alta per riuscire a vedere qualcosa. «Come potete notare, al momento, giù nella Marcia, il flusso è molto debole, e infatti dobbiamo riempirla rapidamente perché rifornisce il Campidoglio. L'ideale sarebbe avere la conduttura piena almeno per un terzo...» Naturalmente, la cosa era stata organizzata apposta per noi: qualcuno era stato incaricato di aprire la chiusa mentre ascoltavamo la spiegazione di Bolano. La sentimmo scricchiolare debolmente molto sopra di noi, poi, senza alcun preavviso, un'enorme massa d'acqua fu rilasciata dall'Aqua Claudia e precipitò fragorosamente nel pozzo attraverso il tetto della Marcia. Si riversò nella nostra direzione, cadendo per oltre nove metri e colpendo il fondo con un frastuono tremendo. L'acqua della Marcia rifluì con
una forza straordinaria e il suo livello si alzò in modo preoccupante. Le onde sbatterono lungo la conduttura, gli spruzzi ci inzupparono e rimanemmo assordati. Noi però non correvamo alcun pericolo, poiché ci trovavamo su una piattaforma fuori dalla portata dell'acqua. Bolano afferrò Frontino, nel timore che il contraccolpo lo facesse vacillare e cadere nell'acqua. Io riuscii a rimanere saldo (in passato avevo avuto esperienza di burloni che avevano tentato di farmi cadere in acqua e sapevo bene come fare), anche se mi sentii tremare le gambe. L'acqua che scorreva così violentemente era uno spettacolo straordinario. Bolano disse qualcosa del tipo: «Solo questa mattina era nella Sorgente Cerulea!», ma con quel frastuono era inutile cercare di parlare. Come ci aveva spiegato Bolano, qualunque corpo estraneo che dall'Aqua Claudia fosse precipitato giù in quella cascata sarebbe stato quasi certamente ridotto in poltiglia. Ma la corrente dell'Aqua Marcia avrebbe anche semplicemente potuto trasportarlo fino alla cisterna, come era successo alla seconda mano, che lo schiavo Cordo ci aveva consegnato in risposta all'annuncio messo da Petro nel Foro. Frontino era entusiasmato da quello spettacolo. In quanto a questo neanch'io avrei voluto perderlo, ma dal punto di vista dell'indagine fu una giornata sprecata. Non apprendemmo nuovi particolari, quindi apparentemente a Roma non c'era niente da scoprire. «Ditemelo quando volete fare un'escursione guidata a Tibur!» si offrì sorridendo Bolano, mentre ce ne stavamo andando. Mi piacciono gli uomini che seguono tenacemente le loro teorie! Non c'erano state altre macabre scoperte. Ormai molte persone si lavavano, bevevano e cucinavano senza quasi più pensare alle possibili conseguenze. Nonostante l'assenza di arti negli acquedotti fosse certamente un sollievo, significava anche che Caio Cicurro rimaneva in preda alla sua angoscia. Poco prima che si concludessero i Giochi, andai a trovarlo. Portai Elena con me, pensando che la presenza di una donna potesse essergli di conforto. In realtà mi interessava sapere che impressione le avrebbe fatto Caio. Quando una donna viene assassinata, è inevitabile che il marito sia il primo indiziato e, sebbene ci fossero stati parecchi delitti simili in precedenza, era bene non scartare la possibilità che l'uomo avesse volutamente agito alla stessa maniera. Ci andammo a mezzogiorno, perché se Cicurro aveva riaperto la sua bot-
tega non l'avremmo trovato in casa prima di quell'ora. In effetti, però, ci parve che trascorresse in casa la maggior parte del suo tempo, lasciando la bottega chiusa. Ci fece entrare la stessa schiava della volta precedente. «Mi dispiace, Cicurro, ma non ho quasi niente da riferirti. Questa visita è solo per farti sapere che stiamo ancora cercando e che continueremo a cercare finché non troveremo qualcosa. Ma non posso fingere che finora si siano fatti molti progressi.» Lui rimase seduto ad ascoltare con aria mite. Sembrava ancora immerso nei suoi pensieri. Quando gli chiesi se voleva sapere qualcosa, o se Frontino poteva fare qualcosa per aiutarlo, lui scosse la testa. Di solito le morti improvvise causano rabbia e rancore, sentimenti che prima o poi avrebbero scosso anche Cicurro. A un certo punto il povero Caio si sarebbe ritrovato a chiedersi, all'infinito: perché proprio lei? Perché quella notte Asinia ha deciso di incamminarsi proprio per quella strada? Perché Pia l'ha lasciata sola? Perché Asinia e non Pia, che andava così apertamente in cerca di guai? Perché sono andato in campagna proprio quella settimana? Forse Asinia è morta perché era così bella? O forse perché gli dèi mi odiano? Non era ancora venuto quel momento, per lui l'incubo era solo all'inizio: era sospeso tra il volere e il non voler conoscere gli orribili particolari della sorte della sua giovane moglie. Cicurro ci indicò un cofanetto di marmo marrone che, a suo dire, conteneva la mano imbalsamata. Grazie agli dèi, non si offrì di aprirlo. Sembrava troppo piccolo, più simile a un astuccio per le penne che a un reliquario. Perfino a noi parve un simbolo irreale della perduta Asinia. «Sorvegliamo ancora ogni notte il Circo Massimo» dissi. «L'ultima notte dei Giochi ci sarà una copertura a tappeto...» «Era una moglie perfetta» m'interruppe lui, senza scomporsi. «Non riesco a credere che non ci sia più.» Non voleva sapere quello che facevamo. Tutto ciò di cui aveva veramente bisogno quell'uomo era che gli fosse restituito il corpo della moglie in modo che potesse celebrare un funerale e dolersi per lei. Purtroppo in quel momento non ero in grado di aiutarlo. Dopo avere lasciato la casa di Cicurro, Elena Giustina non si pronunciò subito, ma aspettò un po' prima di parlare. Poi mi espose le sue conclusioni. «Non è coinvolto. Credo che se l'avesse uccisa lui, inveirebbe contro il presunto assassino in modo più drammatico. Lancerebbe minacce, oppure offrirebbe pretenziose ricompense. Insisterebbe più a lungo sulla perfezione di Asinia e lo farebbe in modo più clamoroso. Invece se ne resta lì sedu-
to, sperando che i suoi visitatori lo lascino presto in pace. È sconvolto, Marco.» Credevo che avesse concluso, poi aggiunse: «Hai visto la collana di cristallo di rocca che indossava la schiava? Immagino che fosse una di quelle che appartenevano alla moglie». Rimasi scioccato. «Secondo te l'ha rubata?» «Non credo, la portava disinvoltamente.» Ero turbato. «Mi stai dicendo che dopo tutto Cicurro aveva un motivo per liberarsi della moglie.» «No.» Elena scosse la testa e mi sorrise dolcemente. «Ha il cuore straziato, su questo non ci sono dubbi. Ti sto dicendo soltanto che il suo è un comportamento tipicamente maschile.» XXXVI Mentre passavano i giorni e gli indizi diminuivano, ci preparammo per un'ultima notte di sorveglianza all'esterno del Circo Massimo, in occasione della conclusione dei Giochi. Frontino e il prefetto dei Vigili organizzarono un'esercitazione ufficiale. Ogni uomo disponibile doveva essere prelevato dalle coorti di ronda e piazzato lì. Trascorsi un po' di tempo a casa durante la giornata. Elena aveva bisogno di riposo e io di stare con lei. Avendo fatto i turni di notte per tutta la settimana toccava sempre a Elena alzarsi quando la bambina piangeva di notte, e lei era esausta. Sapevo che si sentiva demoralizzata. Giulia aveva scoperto di poterci logorare i nervi fino all'esaurimento piangendo senza tregua, anche se, quando una qualsiasi delle due nonne veniva a trovare Elena, il nostro piccolo tesoro smetteva non appena la prendeva in braccio. Elena era stanca di essere guardata come se non ci provasse nemmeno o fosse incompetente. Dormì tutto il pomeriggio, mentre io tenni tranquilla Giulia con un metodo che mi aveva rivelato Petro, che comportava che la bambina e io sonnecchiassimo insieme nel porticato con una coppa di vino melato, che non veniva bevuto interamente dal papà! L'unica vera interruzione fu la visita di quella lucertola da latrina di Anacrite. «Che cosa vuoi? E tieni la voce bassa. Se svegli la bambina, lei sveglierà Elena, e io ti torcerò quel collo sudicio.» Non c'era motivo di insinuare che non si lavasse. Anacrite era sempre sembrato fin troppo lustro, si vestiva quasi come un damerino e il suo taglio di capelli era fin troppo preciso. Si considerava una persona di bell'a-
spetto. L'unica cosa veramente sudicia in lui era il carattere. «Come sei riuscito ad attaccarti a un console, Falco?» «Una buona reputazione e conoscenze irreprensibili.» «Dev'esserti costato parecchio. Posso sedermi?» «Sei ancora in cattiva salute? Accomodati su un gradino.» Io mi ero portato fuori una poltrona di vimini sulla quale stavo allungato con un braccio intorno alla bambina addormentata. Noce, sdraiata ai miei piedi, occupava lo spazio rimanente del minuscolo ballatoio all'esterno del mio appartamento. Anacrite non poteva né girarmi intorno per entrare a prendere uno sgabello, né raggiungere un punto all'ombra. Dovette sistemare i suoi drappeggi sui polverosi scalini di pietra, nel caldo torrido. In genere non sono così perfido, e in verità non era mia intenzione procurare un altro mal di testa all'invalido; volevo solo farlo essiccare al sole come l'uva passa, per convincerlo ad andarsene. Sollevai verso di lui la mia coppa in segno di saluto e la vuotai. Ce n'era soltanto una e lui poté rispondere solo con un cenno del capo. Ma nemmeno quell'allusione funzionò. «Il gioco che stai portando avanti con Frontino mi intralcia, Falco.» «Oh, mi dispiace!» «Non c'è alcun bisogno di fingere.» «Si tratta di ironia, mio caro.» «Stronzate, Falco! Perché non collaboriamo?» Sapevo doveva voleva arrivare. Era completamente bloccato nelle indagini, come me e Petronio. «Vuoi unirti a noi, rubarci tutte le idee che abbiamo e attribuirti tutto il merito?» «Non essere così antipatico.» «Ho già avuto modo di vederti al lavoro.» «Penso soltanto che stiamo raddoppiando gli sforzi inutilmente.» «Be', può darsi che questo ci offra il doppio delle possibilità di successo.» Anch'io sapevo come mettere in imbarazzo il mio interlocutore. Anacrite cambiò subito argomento. «Allora, che cos'è tutto il casino che avete messo in moto per questa notte?» A quanto pareva era bene informato, d'altronde era inevitabile che la notizia filtrasse: con tutte le coorti dei Vigili mobilitate al massimo per fornirci truppe al Circo, sarebbe arrivata anche alle orecchie di una spia poco addestrata. «Solo qualche misura antivandalismo escogitata da Frontino.» «Ma com'è possibile? Frontino è ex officio, se si esclude l'indagine sulle morti degli acquedotti.» «Oh, davvero? Non saprei, non mi interesso molto alla politica, è troppo
oscura per un sempliciotto dell'Aventino come me. Lascio tutte quelle cose tanto complesse agli individui raffinati che sono stati educati a Palazzo.» Sapeva che parlavo in malafede... e che volevo insolentirlo alludendo al suo status inferiore. Non mi ero mai preoccupato di indagare, ma ero quasi certo che Anacrite fosse un ex schiavo imperiale. Oggigiorno, tutti i funzionari del Palazzo lo erano. Non riuscendo a raggiungere un accordo, Anacrite cambiò tattica. «Tua madre si lamenta che non vieni mai a trovarla.» «Dille di procurarsi un nuovo inquilino, allora.» «Vuole vedere più spesso la bambina» mentì Anacrite. «Non dirmi che cosa vuole mia madre.» Quando mamma voleva vedere la bambina, faceva quello che aveva sempre fatto: arrivava nel mio appartamento, entrava come se fosse la padrona e si rendeva insopportabile. «Dovresti prenderti cura di lei» dichiarò Anacrite, che sapeva come tirare un colpo basso. «Oh, vattene, Anacrite.» Se ne andò. Io cambiai posizione alla bambina e mi misi più comodo. Noce alzò la testa con un occhio aperto, poi agitò la coda. Quel bastardo mi aveva rovinato il pomeriggio. Trascorsi il resto del tempo a chiedermi che cos'avesse in mente. Cercai di convincermi che era soltanto geloso, ma questo non faceva che peggiorare le cose: essere invidiato da un uomo come Anacrite significava essere in pericolo. Nelle prime ore della sera Petro venne da noi per una semplice cenetta. Gli strizzai l'occhio ringraziandolo per il consiglio su come trattare la bambina, dopodiché sbocconcellammo un pasticcio di carne che avevamo acquistato da Cassio. Ma li salava sempre troppo, e in ogni caso eravamo troppo nervosi per avere fame. «Che cosa succede?» domandò Petro a Elena, notando che era particolarmente silenziosa. Io non avevo avuto bisogno di chiederglielo. «Mi preoccupo quando Marco va in giro sulle tracce di un assassino.» «Pensavo che fosse perché eravamo in giro a guardare prostitute.» «Marco ha gusti più raffinati.» Petronio sembrò sul punto di raccontare qualche storiella scurrile, ma poi decise di non turbare l'armonia familiare. «Comunque non sono solo le prostitute che dobbiamo tenere d'occhio» commentò con aria cupa. Era tipico di Petro rimuginare sui programmi della serata imminente. «Stavo pensando a quante persone diverse potrebbero essere implicate, se questi
omicidi sono davvero collegati con le festività.» «Chiunque abbia a che fare con i mezzi di trasporto, vuoi dire?» domandò Elena, che seguiva ancora la teoria dell'assassino che arrivava da fuori Roma. «Sì, o i venditori di biglietti ai cancelli.» «O i venditori di programmi.» Mi unii al gioco. «Le ragazze delle ghirlande, gli allibratori, gli spacciatori di biglietti, i venditori ambulanti di cibo e bevande.» «I venditori di parasole e ricordini» suggerì Petro. «Gli edili e gli uscieri.» «Gli addetti alle pulizie dell'arena.» «Tutti i conducenti di bighe e i gladiatori, i mozzi di stalla e gli allenatori, gli attori, i pagliacci e i musicisti» interloquì Elena. «I dipendenti del Circo che aprono i cancelli di partenza e spostano i segnapunti di ogni giro. Gli schiavi che manovrano l'organo idraulico.» «Lo sprezzante cerimoniere che apre la porta sul retro del palco imperiale quando l'imperatore vuole svignarsela per fare pipì.» «Grazie, Marco! Tutti gli spettatori dall'imperatore in giù, senza dimenticare la Guardia Pretoriana.» «Basta, basta!» gridò Petronio. «Lo so che è vero, ma voi due burloni mi state deprimendo.» «È questo il problema dei Vigili» spiegai mestamente a Elena. «Non hanno capacità di resistenza.» «È stata una tua idea» gli rammentò Elena. «Qualcuno di noi pensa che gli omicidi avvengano solo in occasione delle festività, perché l'assassino è qualcuno che viene da fuori.» Quando venne il momento di uscire per il nostro pattugliamento serale, Petro ebbe il riguardo di precedermi in modo che io potessi abbracciare per un momento Elena. La baciai con tenerezza, mentre lei mi pregava di essere prudente. Faceva caldo anche quella sera. La zona intorno al Circo Massimo era uno spettacolo desolante di rifiuti e cattivi odori: dopo due settimane di festa, gli spazzini si erano dati per vinti. Anche gli spettatori dovevano essere esausti, perché quando arrivammo, un bel po' prima che le trombe annunciassero la cerimonia di chiusura, alcuni incominciavano già ad andarsene. Quella sera Petronio avrebbe pattugliato la Via dei Tre Altari. Eravamo
dell'opinione che scambiarci il posto ci avrebbe aiutato a stare all'erta. Gli diedi una pacca sulla spalla e proseguii in direzione del Tempio del Sole e della Luna. Arrivato in fondo alla strada, mi voltai a guardare indietro. Mi ci volle un momento per individuarlo: nonostante la sua mole, Petro sapeva mimetizzarsi. La sua figura dai capelli bruni, vestita di marrone, si confondeva fra la folla mentre gironzolava disinvolto sotto un colonnato con l'aria di chi ha ogni diritto di trovarsi proprio lì, senza quasi niente da fare e senza prestare attenzione a nessuno. Sapevo che avrebbe registrato mentalmente tutte le passanti, archiviando nella casella «degne di nota» quelle belle, senza però trascurare la «seconda scelta». Avrebbe individuato anche i tipi in agguato e i fannulloni, avrebbe fatto una smorfia perché c'erano in giro troppi bambini soli a un'ora così tarda, avrebbe guardato torvo i giovinastri e si sarebbe lamentato delle ragazze sventate. Se una donna indifesa o un pervertito gli si fossero avvicinati, Petro ne avrebbe preso nota. Se qualcuna fosse stata osservata troppo da vicino, pedinata, infastidita, o peggio ancora aggredita apertamente, la pesante mano di Petronio Longo sarebbe piombata dal nulla per acciuffare il criminale. Passai accanto a parecchi vigili, alcuni riconoscibili e altri ben camuffati. Il prefetto aveva fatto del suo meglio e il settore era discretamente coperto di uomini. Ma, al pari di noi, non avevano la minima idea di chi in realtà stessero cercando. Svoltai in Via della Piscina Publica. Il cuore mi martellava nel petto. Ci siamo, pensai. All'improvviso, ebbi la certezza che quella notte lui sarebbe stato lì. Ormai dal Circo proveniva un esodo lento ma costante. Le persone camminavano pigramente, sfiancate da quindici giorni di Giochi, stanche del cibo da bancarella e del vino scadente, nuovamente pronte per la normale vita quotidiana. Era ormai metà settembre, la lunga estate calda volgeva al termine e presto il clima si sarebbe rinfrescato. Ancora due settimane e ci sarebbe stata la tradizionale conclusione della stagione dei combattimenti. Ottobre portava con sé la fine delle vacanze scolastiche e, dopo tre mesi e mezzo, per alcuni sarebbe stato un sollievo rientrare (compresi gli insegnanti, che ormai avevano un disperato bisogno di nuovi compensi). Ottobre avrebbe portato anche nuove celebrazioni, ma non era ancora il momento di pensarci. La notte non era ancora finita, c'era ancora tempo per rendere quei Giochi memorabili, rimaneva ancora qualche ora per dare sfogo al semplice piacere o alla vera e propria depravazione.
All'interno del Circo sentii che stava attaccando a suonare la banda di cornu, quegli enormi corni di ottone, semicircolari, che i suonatori reggono sulle spalle per mezzo di sbarre trasversali e da cui ottengono note diverse semplicemente soffiando. Più spesso in realtà le sbagliavano, soprattutto dopo una lunga giornata ricca di eventi. Decisi che avrei potuto escluderli dal novero dei sospetti: nessun suonatore di cornu avrebbe avuto la forza di sopraffare una donna dopo avere suonato a perdifiato con la banda. Un applauso stanco si diffuse per tutta la valle, segnando anche quell'anno la fine dei Grandi Giochi. A quel punto gli spettatori che erano stati felici di assistere alla conclusione dei Giochi se n'erano già andati da un bel pezzo. Quelli che erano rimasti incominciarono a defluire stancamente dal Circo, riluttanti ad allontanarsi, incalzati dagli uscieri che volevano chiudere i cancelli. All'esterno, diversi gruppetti indugiavano qua e là: giovani che speravano di proseguire i divertimenti, visitatori che salutavano gli amici che vedevano soltanto in occasione delle festività, giovanotti che fischiavano a ragazze in preda a sciocchi risolini. I musicisti si attardavano nella speranza che qualcuno si offrisse di pagare loro da bere. I venditori di cibarie facevano lentamente fagotto e gli ambulanti dagli occhi zingari, provenienti da Trastevere, si aggiravano da un gruppetto all'altro, cercando di indurre qualcuno ad acquistare all'ultimo minuto uno dei loro orribili gingilli. Un nano, con cuscini da pochi soldi appesi tutt'intorno alla cintura, s'incamminò dondolando in direzione del Tempio di Mercurio. All'ombra del Circo si aggiravano le prostitute, da sole o in coppia, con le sottane sollevate per fare intravedere le gambe, traballanti sugli alti tacchi di sughero e strabuzzando gli occhi attraverso le ciglia cerchiate di nerofumo. Capelli finti, o capelli veri così maltrattati da sembrare finti, torreggiavano sopra le facce imbrattate con il gesso, e le labbra tinte del colore del fegato di maiale risaltavano su quei volti simili a maschere. Gli uomini si avvicinavano regolarmente. Scambiavano qualche parola e poi sparivano in silenzio nell'oscurità più fitta con una donna, che ricompariva non molto tempo dopo in cerca di altri rapidi incontri. Alle mie spalle, nell'oscurità dell'ingresso del tempio, sentivo dei rumori che lasciavano intendere che anche lì si svolgeva il mercimonio, o forse un giovanotto aveva avuto un colpo di fortuna con una di quelle ragazze chiassose che ancora scorrazzavano in giro mentre le madri le aspettavano a casa. Una volta forse, per solidarietà, mi sarei rallegrato di una tale for-
tuna, ma ormai ero padre. In ogni caso l'intera scena era sordida, a partire dagli ubriachi appoggiati alle botteghe chiuse, che tentavano disgustosi approcci con i passanti, fino ai pezzi di anguria schiacciati nei canali di scolo, rossi come sangue vivo, ai ladruncoli che tornavano furtivamente a casa con espressione soddisfatta fino al fetore di urina nei vicoli dove i fannulloni più incivili si liberavano. E la situazione andava peggiorando. Le poche lampade, appese davanti a qualche bottega aperta o alle finestre degli appartamenti appena sopra le botteghe, facevano sembrare ancora più bui e più pericolosi gli spazi tra una casa e l'altra. Un paio di portantine passarono traballando, con le lanterne di corno che ondeggiavano sui ganci. Qualcuno cantava una canzone oscena, che ricordavo dai tempi trascorsi nelle legioni. Due uomini si tenevano stretti sul dorso di un asinello, entrambi così ubriachi che probabilmente non sapevano nemmeno dove stavano andando. L'asinello si allontanò trotterellando lungo la Via della Piscina Publica, scegliendo da sé il percorso. Forse conosceva una piacevole osteria sotto le Mura Serviane, in prossimità di Porta Rauduscolana. Ero quasi tentato di seguirlo. Le persone che sembravano non avere in mente niente di buono erano così numerose che era difficile decidere quali tenere d'occhio. In ogni direzione c'erano donne sfacciate e individui dall'aria sinistra che le osservavano speranzosi. Detestavo dover stare lì a guardare come se facessi parte anch'io di quella scena. Avevo i nervi così tesi che arrivai quasi a pensare che chiunque si fosse messo in quella squallida situazione si meritava tutto quello che gli sarebbe potuto accadere. L'esodo andò avanti per un paio d'ore. Alla fine la mia mente era così inebetita che incominciavo a farneticare. All'improvviso tornai in me e mi resi conto che negli ultimi dieci minuti avevo fissato il vuoto pensando al mio progetto di prendere in affitto una sala e organizzare una recita pubblica delle mie poesie (era un sogno che accarezzavo ormai da un po' di tempo, ma fino a quel momento ero stato delicatamente dissuaso dai buoni consigli dei miei amici più cari, in particolare di quelli che avevano letto le mie odi e le mie egloghe). Tornai con un sussulto alla realtà, sentendomi in colpa per essermi distratto. All'esterno del vicino cancello del Circo una giovane donna se ne stava tutta sola. Indossava una veste bianca, e il ricamo dorato sull'orlo della stola luccicava. Aveva la carnagione delicata e i capelli acconciati alla perfezione ed esibiva ingenuamente gioielli che soltanto un'ereditiera si sarebbe
potuta permettere. Si guardava intorno come se fosse pieno giorno e lei facesse parte di un'irraggiungibile processione di vestali. Era stata educata a credere che sarebbe sempre stata trattata con rispetto, eppure un qualche idiota l'aveva piantata lì da sola. Doveva sentirsi assolutamente fuori posto. Osservandola bene mi resi conto che la conoscevo, era Claudia Rufina, la giovane che Elena e io avevamo portato con noi dalla Spagna. Mentre se ne stava lì da sola, individui malvagi di ogni genere le giravano intorno pronti ad avvicinarsi alla prima occasione. XXXVII «Claudia Rufina!» La raggiunsi prima che qualunque possibile rapinatore, stupratore o rapitore si avvicinasse a lei. Diversi individui piuttosto squallidi indietreggiarono immediatamente, cercando di rimanere comunque a portata d'orecchio, nella speranza che anch'io fossi un adescatore e che Claudia mi respingesse, lasciando a loro il bocconcino. «Che piacere vederti, Marco Didio!» Non c'era malizia nella sua frase, Claudia non aveva mire nei miei confronti. Cercai di moderare il mio tono di voce. «Posso chiederti che cosa ci fai tutta sola in un posto del genere a quest'ora della notte?» «Oh, non ti preoccupare» mi rassicurò dolcemente con un tono da ragazzina ingenua. «Sto aspettando che Eliano e Giustino tornino con la nostra portantina. La loro madre ha insistito perché la facessimo venire per riportarmi a casa, ma in mezzo a questa ressa è così difficile trovarla...» «Questo non è il posto adatto per stare ad attenderla, Claudia.» «No, è vero, non è bello, ma questa è l'uscita più vicina a Porta Capena. Saremmo potuti tornare a piedi da qui, ma Giulia Giusta non ha voluto sentire ragione.» Tornare a casa a passo svelto in tre sarebbe stato decisamente più sicuro che mandare i ragazzi in cerca della lettiga di famiglia mentre Claudia se ne stava lì da sola a fare da esca ai delinquenti. Quando Giustino arrivò, ero in preda alla collera. «Claudia, ti avevo avvertito di non parlare con gli estranei!» A quel punto uscii dai gangheri. «Non rifarlo mai più! Non ti rendi conto che questa è la zona dov'è scomparsa l'ultima vittima dell'assassino degli acquedotti? Sono qui per evitare che qualche stupida donna si faccia seguire da un maniaco omicida e preferirei che la donna in questione non fosse quella che io stesso ho portato a Roma, la mia futura cognata!»
Giustino non conosceva la zona, ma si rese conto del pericolo non appena gliene illustrai la reputazione. «Siamo stati degli idioti. Ti chiedo scusa.» «Ma ti pare» replicai aspramente. «Purché tu e tuo fratello siate disposti a fornire una spiegazione della vostra stupidità anche a Elena! Per non parlare della tua nobile madre, del tuo illustre padre e degli affezionati nonni di Claudia.» Claudia rivolse uno sguardo severo a Giustino, che era una delle poche persone abbastanza alte da poterla guardare direttamente negli occhi, nonostante l'abitudine di Claudia di spingere indietro la testa e osservare il mondo da dietro il suo grosso naso. «Oh, Quinto» mormorò «credo che Marco Didio sia leggermente adirato con te!» «Oh, povero me! Sono nei guai, Falco?» Era la prima volta che vedevo Claudia punzecchiare qualcuno. Sembrava che quel furfante di Quinto vi fosse abituato, e ciò mi insospettiva. «Non preoccuparti, se si verrà a sapere qualcosa a casa, ci limiteremo a dare la colpa a Eliano!» Probabilmente lo facevano spesso. Claudia nascose un sorriso con la mano inanellata, in un tintinnio di braccialetti. Proprio in quel momento arrivò Eliano in persona, da una diversa direzione, portando la lettiga per la sua fidanzata. Oltre ai portatori c'erano tre ragazzi armati di bastoni che fungevano da guardie del corpo, ma erano gracili e all'apparenza irresoluti. Ordinai ai due fratelli di tagliare in fretta la corda. «State tutti insieme, tenete gli occhi aperti e cercate di arrivare a casa il prima possibile.» Porta Capena era molto vicina, altrimenti mi sarei sentito in dovere di accompagnarli. Eliano aveva l'aria di voler discutere per principio, ma suo fratello aveva afferrato al volo la situazione. Quando Claudia cercò di calmarmi con un bacio d'addio sulla guancia, Giustino la fece salire nella lettiga e si sistemò accanto al mezzo sportello aperto, riparando la ragazza dagli astanti e piazzandosi tra lei e qualunque pericolo. Mormorò qualche parola sottovoce al fratello, che si guardò intorno come a confermare che eravamo circondati da spostati. Dopodiché Eliano ebbe la benevolenza di serrare i ranghi con Giustino, camminando accanto alla lettiga mentre questa si avviava. Giustino si accomiatò da me con un secco saluto militare, in ricordo del periodo che avevamo trascorso insieme in Germania, con lo scopo di farmi capire che adesso avrebbe fatto attenzione. Anche Eliano doveva essere
stato nell'esercito, anche se non sapevo in quale provincia avesse prestato servizio. Conoscendolo, doveva essere capitato in una zona dove la caccia era buona e gli abitanti del posto avevano dimenticato come si organizza una ribellione. Se il fratello minore sembrava più maturo e responsabile in una situazione difficile, infatti, era perché a Giustino era stato insegnato come sopravvivere in territorio barbarico... ed ero stato io a farlo. Avrei voluto insegnargli anche come trattare con le donne, ma per il momento non mi sembrava che ne avesse bisogno. In effetti, mi pareva che non avesse bisogno di alcun tipo di insegnamento. Tornai al mio posto, presso il Tempio del Sole e della Luna. Ero scosso. C'erano in giro già abbastanza giovani a caccia di guai, senza che dovessi preoccuparmi di quelli che conoscevo. Subito dopo vidi un'altra donna di mia conoscenza: era Pia, l'amica della defunta Asinia, la sgualdrina vestita di turchese che aveva assicurato a me e a Petro che non avrebbe mai più messo piede dalle parti del Circo dopo quello che era capitato ad Asinia. Non fui affatto sorpreso quando la vidi uscire dallo stadio quella sera, evidentemente aveva assistito ai Giochi, come faceva sempre e, ancora peggio, aveva rimorchiato un uomo. Mi avvicinai con passo deciso e lei si mostrò seccata di vedermi. Ero seccato anch'io, per il fatto che ci aveva mentito e che mostrava una così sfacciata mancanza di lealtà nei confronti dell'amica assassinata, ma nutrivo una pur lieve speranza di smascherare le sue menzogne, approfittando dell'occasione. Il tizio che Pia si trascinava appresso era uno zotico sudicio, con gusti indubbiamente discutibili. Indossava una tunica rattoppata e aveva un occhio nero, che tendeva al giallognolo. Faceva la parte dell'amicone e forse era stata la stessa Pia a fargli quell'occhio pesto. Lei, tuttavia, cercava di darmi a intendere che conosceva a malapena quell'uomo da sogno. Intervenni senza indugio. «Sarebbe costui l'individuo viscido che hai rimorchiato la notte in cui hai piantato in asso Asinia?» Pia voleva negarlo, ma il tizio non se ne accorse e lo ammise subito. Pia l'aveva chiaramente scelto per la sua intelligenza, ma non chiedetemi che cosa lui avesse trovato in lei per correrle dietro. Dovevano avere già discusso della notte in questione. Evidentemente lui sapeva del tragico destino di Asinia e, a mio avviso, forse anche qualcosina in più di me. «Come ti chiami, amico?»
«Preferirei non dirlo.» «Non è un problema.» A volte conviene lasciare che le persone interrogate mantengano il riserbo. Volevo sapere che cos'aveva visto, non mi importava niente di chi fosse. «Hai saputo la brutta notizia della povera Asinia?» «Terribile!» «Mi interesserebbe sentire la tua versione della storia. Pia ha detto che voi due l'avete lasciata più o meno qui... ma l'avete vista nuovamente nella Via dei Tre Altari, vero?» «Sì, l'abbiamo raggiunta, ma lei non ci ha visti.» «Stava ancora bene?» L'uomo lanciò un'occhiata a Pia. «Allora non gli hai parlato di quell'individuo?» «Oh» mentì spudoratamente Pia «temo di essermene dimenticata.» «Allora, chi era questo individuo?» Avrei voluto che Petro fosse presente: lui si faceva meno scrupoli di me e l'avrebbe trascinata con le mani in alto fino a una caserma dei Vigili, incitandola a confessare con un braccio intorno alla sua gola. «Oh» borbottò Pia, come se la cosa non fosse affatto importante e in ogni caso se ne fosse ricordata solo in quel momento. «Abbiamo visto un uomo che parlava con Asinia.» XXXVIII Ero così furioso che avrei potuto gettarli entrambi senza problemi nelle mani del pubblico torturatore e farli scuoiare con degli uncini. Credo che Pia si fosse resa conto di trovarsi in una situazione più difficile di quanto si aspettasse ma, nonostante ciò, non sembrava intenzionata ad aprire bocca. Tuttavia, quando il suo pidocchioso compagno di letto sputò il rospo, lo guardò accigliata ma lo lasciò parlare. Qualunque cosa gli avesse fatto in seguito, avrebbe riguardato solo loro due. «Abbiamo visto un individuo» mi spiegò il suo compagno con atteggiamento disponibile. Lo avrei apprezzato di più se non avessi sospettato che Pia gli aveva ordinato di tenere la bocca chiusa. Ero livido di rabbia: quell'uomo aveva taciuto per più di una settimana quell'informazione di vitale importanza, nonostante sapesse che avrebbe potuto contribuire a catturare un depravato e a salvare la vita di altre donne. «Allora, sei sicuro di avere visto questo individuo?»
«Stava parlando con Asinia.» «La infastidiva?» «No, Asinia sembrava tranquilla. L'abbiamo notato perché Asinia non aveva mai niente a che fare con gli uomini. Lui, però, pareva abbastanza cordiale. Altrimenti ci saremmo avvicinati, naturalmente.» «Naturalmente.» Il modo in cui perfino in quel momento avvinghiava Pia suggeriva che quell'ammaliatore non rinunciava facilmente a una palpeggiata. «Allora, che cos'è successo?» «Lei gli ha risposto e lui se ne andato.» «Tutto qui?» «È tutto, legato.» «Sei sicuro di avere visto Asinia allontanarsi da sola?» «Oh, sì.» «Che aspetto aveva quell'uomo?» «Normale. L'abbiamo visto soltanto da dietro.» «Era alto?» «No, basso.» «Corporatura?» «Normale.» «Età?» «Non saprei dire.» «Giovane o vecchio?» «Vecchio, mi pare.» «Molto vecchio?» «Credo di no.» «Qualche caratteristica che ne possa indicare la provenienza?» «Che cosa?» «Aveva l'aspetto di un romano?» «Che cosa intendi dire?» «Lascia perdere. Capelli?» «Non saprei.» «Copricapo?» «Non credo.» «Che cosa indossava?» «Tunica e cintura.» «Di che colore era la tunica?» «Normale.» «Bianca?»
«È possibile.» «C'è niente che tu abbia notato?» «No, legato.» «Calzari normali o militari?» «Non saprei dire, legato.» «E non potrebbe importarvene di meno, eh?» «È solo che non ci abbiamo fatto molto caso. Era un tipo ordinario.» «Così ordinario che potrebbe essere un brutale assassino. Perché nessuno di voi due si è fatto avanti prima con questa informazione?» «Non ho mai pensato che fosse importante» mi assicurò scrupolosamente l'uomo. Pia non tentò nemmeno di cavarsela mentendo. Capivo qual era il suo problema: aveva paura che Caio Cicurro se la prendesse con lei, perché aveva lasciato che la moglie si ficcasse nei guai mentre lei era occupata a portarsi a letto quel verme. «Bene. Adesso voglio che veniate con me nella Via dei Tre Altari e mi indichiate esattamente dove ha avuto luogo questo incontro con Asinia.» «Abbiamo altro in programma!» protestò quello spregevole individuo. Pia, che fingeva ancora di conoscerlo appena, si limitò a guardarmi imbronciata. «Non c'è problema» replicai in tono amabile. «Anch'io ho qualcosa in programma: sto meditando di trascinarvi tutti e due di fronte a un giudice questa sera stessa con l'accusa di ostacolare un'indagine consolare, di alterare la giustizia e di mettere a rischio di rapimento, sfregio e morte dei liberi cittadini.» «Oh, be', allora sbrighiamoci» borbottò l'amico di Pia. Lei non proferì una parola, ma ci seguì di malavoglia, per controllare, nel caso lui avesse detto qualcosa per cui in seguito l'avrebbe potuto pestare. I due si fermarono a un incrocio all'estremità di Via della Piscina Publica, dopo avere oltrepassato il Circo Massimo. Alla nostra sinistra, una strada costeggiava il lato nord del Circo in direzione del Foro Boario e del fiume, mentre alla nostra destra cominciava la Via Latina. Di fronte a noi, oltre l'incrocio, la strada da cui eravamo venuti si biforcava: la via sulla sinistra portava al Foro, sbucava oltre il Colosso e il nuovo Anfiteatro Flavio, quella sulla destra prendeva il nome di Via dei Tre Altari. «Allora: quando siete arrivati qui, voi due stavate percorrendo Via Latina per oltrepassare la fine di Via dell'Onore e della Virtù e poi svoltare nella Via dei Ciclopi?» Annuirono. Non sapendo che la ragazza di mio fratel-
lo viveva nella Via dell'Onore e della Virtù, sembrarono impressionati dalla mia vasta conoscenza della zona. «Quindi Asinia era davanti a voi?» L'uomo annuì nuovamente. «Doveva avere appena imboccato la Via dei Tre Altari.» «Non sarebbe stato più breve per lei prendere l'altra strada?» «Non le piaceva attraversare il Foro da sola» spiegò volontariamente Pia. «Per Giove! Preferiva una strada più tranquilla, così se fosse stata aggredita da un pervertito nessuno l'avrebbe sentita gridare?» «Asinia era schiva.» «Vuoi dire che moriva di paura all'idea di trovarsi in giro da sola, e tu lo sapevi!» Pia, da donna di mondo qual era, avrebbe anche dovuto sapere che una ragazza nervosa, sola per strada, attira l'attenzione di quegli uomini ai quali, chissà per quali ragioni, piacciono le donne terrorizzate. Asinia era stata molestata sin dal momento in cui le due amiche si erano separate. Probabilmente le era già capitato in altre occasioni e forse proprio per questo motivo preferiva evitare la folla. «Quante persone c'erano in giro quella notte?» «Non molte. Un po' più di adesso.» «Gli spettacoli erano terminati? La maggior parte della gente era tornata a casa?» «A meno che non avessero di meglio da fare.» Il corteggiatore di Pia ridacchiò e la palpeggiò, pregustando un accoppiamento sudaticcio. Lo ignorai. Non avevo notato Petro, ma lui doveva averci visti, perché si materializzò all'improvviso e si mise ad ascoltare. Gli presentai come meglio potevo il grande amore di Pia. «Oh, lo conosco» ribatté Petro con un ghigno di scherno. «Si chiama Mondo.» Non disse che cosa avesse fatto Mondo per attirare l'attenzione dei Vigili ma la sua espressione mi fornì qualche indizio. Raccontai la storia a Petro. Lui se la fece ripetere per intero da Mondo, poi tentò lo stesso con Pia. Ancora una volta lei si rifiutò di parlare, ma ci diede l'impressione che fosse più a causa del malumore che per nasconderci qualcosa. «Quello che non capisco è perché vi siete congedati da Asinia presso il Tempio del Sole e della Luna, e tuttavia avete continuato a seguirla fino a qui.» «All'inizio volevamo entrare nel tempio per pomiciare» spiegò Mondo,
come se fosse una cosa ovvia. «Pensavamo di farci una sveltina nel tempio e poi di comprare qualcosa da mangiare e portarlo a casa di Pia, prima di darci sotto veramente. Ma, quando siamo arrivati in cima alla scalinata, il colonnato era pieno di vecchi che si divertivano con ragazzi graziosi, così abbiamo rinunciato alla prima parte.» Petronio fece una smorfia di disgusto. Probabilmente non avremmo potuto cavare altre informazioni utili da quella squallida coppia. Era il momento di lasciarli andare. «Ancora una cosa» dissi in tono severo, tentando di catturare l'attenzione di Mondo prima che si perdesse completamente dentro i sudici indumenti di Pia. «Sei assolutamente sicuro che l'uomo che avete visto rivolgere la parola ad Asinia fosse a piedi?» «Sì, legato.» «Nessuna portantina?» domandò Petronio. «Nessuna carrozza? Nessun carretto in vista?» «Te l'ha detto.» Adesso Pia non vedeva l'ora di sbarazzarsi di noi. «Non aveva niente del genere.» Se Pia aveva ragione, potevano esserci diverse spiegazioni. L'incontro a cui avevano assistito poteva non avere avuto niente a che fare con il successivo rapimento di Asinia. O forse l'assassino aveva importunato la ragazza, aveva fatto finta di andarsene e poi l'aveva seguita, senza che Pia e Mondo lo notassero, per catturarla quando fosse stata sola e trasportarla fino al proprio mezzo di trasporto. In alternativa, il suo era stato un contatto preliminare (le aveva dato un'occhiata per decidere se soddisfaceva le sue esigenze), dopodiché era andato a prendere il mezzo di trasporto che aveva lasciato nelle vicinanze e l'aveva presa in trappola in una strada più tranquilla. Conversare affabilmente con lei ne avrebbe fatto un bersaglio più facile quando l'avesse raggiunta nuovamente più tardi. «Era lui» decisi. «È assai probabile» concordò Petro. Lasciammo andare gli innamorati, che sparirono lungo la Via Latina, con Mondo che faceva lo svenevole con Pia mentre lei lo insultava volgarmente. Questa volta toccò a me emettere il verdetto. «Lei continua a mentirci, per principio. Se potesse evitare di parlare con noi, lo farebbe. Ma quel testa di rapa sta dicendo la verità.» «Oh, è un brav'uomo» concordò Petronio, pur senza entusiasmo. «Schietto e sincero. E la sua mancanza di rimorsi nei confronti di Asinia è quasi commovente quanto quella di Pia. Dove saremmo noi senza cittadini
così onesti che ci aiutano nel nostro lavoro?» La folla ormai si era quasi completamente dispersa. Erano rimasti soltanto i fannulloni, che sarebbero stati in giro a gozzovigliare finché non fossero caduti nei canali di scolo. Petro era deciso a restare fuori tutta la notte, per continuare a sorvegliare la zona. Avrei potuto farlo anch'io, non ero troppo stanco, ma ormai il piacere per quel compito era stato rovinato. Dissi a Petro che intendevo percorrere la strada che doveva avere seguito Asinia quella notte e poi sarei tornato indietro per dare un'occhiata lungo il fiume prima di andare a casa. Poiché avevo una donna e una bambina che mi aspettavano, Petro accettò. Non aveva bisogno di nessuno che gli tenesse la mano, era sempre stato un solitario quando si trattava di lavoro, proprio come me, e forse era questo il modo migliore per tenere in piedi la nostra società. Percorsi tutta la strada fino alla casa di Caio Cicurro. Non notai niente di insolito. La casa aveva le imposte chiuse ed era immersa nell'oscurità. I cipressi incorniciavano il vano della porta in segno di lutto e io mi chiesi per quanto tempo ancora sarebbero dovuti restare lì prima che Cicurro potesse celebrare il funerale. Tornai indietro, verso il Foro, seguendo un itinerario leggermente diverso. Non vidi niente di interessante, a parte qualche ladro che si arrampicava su un muro e delle prostitute, i cui complici stavano in agguato nei vicoli per rapinare gli sventurati clienti. Presi in considerazione l'idea di chiedere a loro se avessero mai visto portare via a forza dalla strada una bella ragazza di colore, ma avvicinare quelle donne equivaleva ad andare a prendermi una violenta botta in testa. Per fortuna so quando tirarmi indietro. Raggiunsi il Foro appena a nord del Tempio di Venere e di Roma. Mi avviai lungo la Via Sacra, tenendo le orecchie e gli occhi bene aperti, come un animale in cerca di preda, attento a ogni ombra per scorgere qualunque movimento. Mi tenni al centro della strada, percorrendo nel modo più silenzioso possibile il vecchio lastricato sconnesso. In prossimità del Tempio di Vesta c'era una ragazza piegata in due che vomitava in maniera piuttosto rumorosa. Un'altra donna la sosteneva. Mentre mi avvicinavo con circospezione, un veicolo arrivò sferragliando da una via secondaria: un carretto di campagna, senza carico né passeggeri. La donna che era in posizione più o meno eretta urlò sfacciatamente qualcosa al conducente. L'uomo chinò di colpo la testa, temendo forse di essere
importunato, e incitò il cavallo, allontanandosi in fretta dal Foro in direzione della Basilica Giulia. Sospirai sommessamente e poi, sebbene di norma fosse contrario ai miei principi avvicinarmi a un paio di streghe ubriache di quel genere, attraversai a grandi passi la via verso di loro. Avevo riconosciuto la voce di quella che aveva gridato: era Marina, la madre della mia nipotina Marzia. XXXIX Probabilmente c'erano più persone in giro di quante ne vedessimo, ma si nascondevano intorno alla Regia, muovendosi di soppiatto fra le colonne del tempio o indugiando nel buio più fitto sotto l'Arco di Augusto. Non vidi nessuno che fosse a portata d'orecchio. Meglio così. La ragazza alta appesa al braccio sinistro di Marina aveva appena vomitato contro le imponenti colonne corinzie del Tempio di Vesta, che avrebbe dovuto assomigliare a un'antica capanna di legno e di paglia ma aveva un aspetto piuttosto nuovo. L'edificio, infatti, non aveva più di dieci anni, essendo stato distrutto durante il grande incendio di Nerone e frettolosamente ricostruito «per garantire eterna vita a Roma». In quel momento l'amica di Marina si dava coraggiosamente da fare per dare un aspetto più antico al nuovo colonnato. La ragazza era molto esile, assomigliava a un lungo fantoccio che avesse perso l'imbottitura, e Marina la sorreggeva per la vita. Marina non era molto alta, mi arrivava solo a metà del petto quando stava eretta, cosa che in quel momento le riusciva a fatica. Mi stavo dunque avvicinando a due donne assolutamente indecorose, e questo mi faceva sentire più vecchio di dieci anni. «Ciao, Marco. Ecco qualcosa da ripulire per le sacre governanti!» Marina non era in effetti molto alta ma possedeva un fascino che faceva girare la testa a parecchi uomini di ogni rango. Era vestita in modo da mettere bene in mostra le sue grazie e anche splendidamente truccata. Con la mano destra, che aveva libera, fece un gesto osceno. «Brutte streghe!» gridò in direzione della Casa delle Vestali, un po' più forte di quanto avrebbe dovuto fare rivolgendosi alle custodi del Sacro Fuoco. La sua amica rigettò di nuovo. «Ficcatevelo dove dico io il vostro Palladio!» brontolò rabbiosamente contro la riverita Casa. «Adesso ascoltami» incominciai debolmente. «Che ne è di...» «Marzia è a casa, idiota. Dorme al sicuro nel proprio lettino e la figlia
della mia vicina bada a lei. Una ragazza pulita e assennata, di tredici anni, non ancora interessata ai ragazzi, grazie agli dèi... C'è qualcos'altro che il nostro ficcanaso vuole sapere?» «Siete state ai Giochi?» «Certamente no. C'è troppa gente volgare. È lì che sei stato, Falco?» Starnazzò con un'orrenda risata la donna, rovinando la sua stupenda immagine. Per terra c'era una lampada, che Marina aveva posato mentre si prendeva cura della compagna. Grazie alla luce tremolante potei osservare l'esotica fidanzata di mio fratello: carnagione traslucida, lineamenti regolari che mozzavano il fiato e la bellezza distaccata della statua di un tempio. Solo quando apriva bocca l'aura di mistero svaniva: aveva la voce di una venditrice di chiocciole di mare. Ma perfino in quel momento le bastò muovere un po' di volte quegli occhioni perché ricordassi fin troppo chiaramente il fremito di gelosia che mi faceva impazzire quando Festo se la portava a letto. Poi Festo era morto e io avevo aiutato Marina a pagare i conti. Questo aveva contribuito a mantenermi casto. «Se non siete andate al Circo, in quale congrega siete state voi streghe a fare i vostri incantesimi?» «Noi signore, volevi dire» mi corresse pomposamente Marina, che sembrava assai più sobria dell'amica sconosciuta che vomitava addosso al tempio. «Siamo state alla nostra consueta riunione mensile, quella organizzata per noi ragazze delle passamanerie.» Pareva che Marina di lavoro decorasse tuniche, sebbene lei facesse del proprio meglio per smentirlo. In quel momento la sola cosa che riusciva a fare era torcermi le budella. «Non è un po' tardi per lasciare una festa, signora?» «No, è ancora presto per chi confeziona passamanerie» disse con una risatina indecente. L'amica spilungona le fece eco con un debole singhiozzo. «Vi piace stare fuori fino all'alba, eh? Suppongo che quando avete lasciato le vostre compagne in pensione, sulla via di casa, vi siete fermate ai Quattro Pesci per una bevuta?» «Se ben ricordo, era la Vecchia Colomba Grigia, Marco Didio.» «E la Valva d'Ostrica?» «E poi probabilmente la Venere di Cos. È stata la dannata Venere a ridurla così...» Marina dedicò le sue tenere attenzioni all'amica, la costrinse a raddrizzarsi con uno strattone e le spinse indietro la testa con un pericoloso scatto
del collo. «Be', abbassa la voce» borbottai «o finirete con il far uscire le vestali in camicia da notte per capire che cosa sta succedendo.» «Lascia perdere! Sono troppo indaffarate a spassarsela con il Pontefice Massimo intorno al sacro focolare.» Se dovevo farmi trascinare davanti a un giudice con l'accusa di tradimento, avrei preferito scegliermi da solo l'infamia. Pensai che fosse venuto il momento di filarmela. «Siete in grado di arrivare a casa sane e salve?» «Certo che sì.» «E questo fiorellino?» «La lascerò a casa sua. Non preoccuparti per noi» mi rabbonì gentilmente Marina. «Ci siamo abituate.» Non stentavo a crederlo. Sostenendosi a vicenda, si allontanarono barcollando lungo la Via Sacra. Avevo nuovamente ripetuto a Marina di essere prudente, perché c'era la possibilità che il rapitore degli acquedotti fosse al lavoro nella sua zona. Lei mi aveva quindi chiesto, seria, se pensavo veramente che un qualunque pervertito avrebbe trovato il coraggio di aggredire due ragazze delle passamanerie dopo la loro uscita mensile. Un'idea assurda, naturalmente. Le sentii ancora cantare e ridere per tutta la strada fino all'altra estremità del Foro. Quanto a me, mi incamminai senza dare nell'occhio in direzione del Tabularium, girando a sinistra intorno al Campidoglio e uscendo da Porta del Fiume nei pressi del Teatro di Marcello, di fronte all'estremità dell'Isola Tiberina. Proseguii lungo l'argine, oltrepassando i ponti Emilio e Sublicio. Nel Foro Boario incontrai una pattuglia di vigili di ronda, capitanata da Martino, il vecchio vice di Petro. Erano in caccia dello stesso individuo che cercavo anch'io. Nessuno di noi pensava che l'avremmo trovato. Scambiammo tranquillamente qualche parola, dopodiché proseguii per l'Aventino. Solo mentre mi inerpicavo verso il Tempio di Cerere mi ricordai che volevo chiedere a Marina che cosa aveva pensato di fare quando aveva chiamato a gran voce quel conducente sconosciuto. Era un bizzarro capovolgimento della scena che immaginavo si fosse svolta con Asinia: lo sfacciato approccio della donna e il nervosismo dell'uomo, quindi lo scherno mentre lui si allontanava velocemente. Scacciai quell'idea, considerandola priva d'importanza: sarebbe stata un'incredibile coincidenza se avesse davvero avuto a che fare con le mie indagini. Eppure, qualcosa era accaduto lì nel Foro. Qualcosa di molto rilevante.
XL Sembrava una normale, luminosa mattinata romana. Mi svegliai tardi, solo nel letto e impigrito. La luce del sole screziava la parete di fronte all'imposta chiusa. Sentivo la voce di Elena che parlava con qualcuno, un uomo che non conoscevo. Prima che lei mi chiamasse, mi infilai a fatica una tunica pulita e mi sciacquai i denti, sospirando. Era questa la ragione per cui gli investigatori preferivano essere uomini solitari. Ero andato a dormire sobrio, eppure quel giorno mi sentivo stanco morto. Avevo un vago ricordo del mio ritorno a casa nel buio, la notte precedente. Avevo sentito Giulia che piangeva stizzosamente e avevo pensato che Elena era troppo esausta per svegliarsi, oppure stava sperimentando il piano che avevamo discusso, con scarso entusiasmo, di lasciar piangere qualche volta la bambina finché non si fosse riaddormentata. La cosa certa era che Elena aveva tolto la culla dalla nostra camera da letto. Com'era prevedibile, mandai a monte il piano: sentendo il pianto straziante di Giulia, dimenticai quello che avevamo concordato e andai a prenderla. Riuscii a camminare silenziosamente avanti e indietro con la bambina in braccio, evitando di disturbare Elena, finché alla fine non si appisolò. La rimisi nella culla senza che si svegliasse. A quel punto Elena irruppe nella stanza, sveglia e spaventata dal silenzio... Ah, bene. Dopodiché fu ovviamente necessario riempire e accendere le lampade, preparare qualcosa da bere, riferire la storia della mia notte di sorveglianza, spegnere nuovamente le lampade e cercare il letto, e questo mentre ci scambiavamo coccole, ci scaldavamo i piedi, ci baciavamo e facevamo altre cose che non riguardano nessun altro e che fecero sì che la mattina dopo io rimanessi a dormire fino a ben oltre l'ora di colazione. D'altronde, quel giorno la colazione non sarebbe rientrata fra le mie attività. Infatti, l'uomo del quale avevo sentito la voce al risveglio aspettava fuori, ai piedi delle scale. Guardando oltre il parapetto del porticato, vidi dei radi capelli neri ricciuti su un lucido scalpo bruno, una rozza tunica rossa e robusti calzari provvisti di cinghie: era un membro dei Vigili. «Da parte di Martino» mi spiegò Elena. «C'è qualcosa che devi vedere sull'argine del fiume.» I nostri sguardi s'incrociarono. Non era il momento per fare illazioni. La baciai, tenendola più stretta del solito, ricordando e facendole ricor-
dare l'accoglienza che aveva riservato all'eroe tornato a casa tardi la sera prima. La vita familiare e il lavoro s'incontravano e tuttavia restavano separati in modo indefinibile. Il lieve sorriso di Elena apparteneva alla nostra vita privata, così come l'impeto di passione che mi suscitò in risposta. Lei mi passò le dita fra i capelli, tirandomi i riccioli nel tentativo di ravviarmeli in modo che avessi un aspetto decoroso. La lasciai fare, anche se mi rendevo conto che l'appuntamento al quale ero stato convocato non avrebbe richiesto una pettinatura accurata. Ci radunammo sull'argine appena sotto il Ponte Emilio. L'uomo al comando era Martino, il nuovo agente investigativo della Sesta coorte, massiccio e tozzo, con la frangia tagliata diritta e un grosso neo su una guancia. I grandi occhi potevano sembrare pensierosi, ma celavano il fatto che non si preoccupava di pensare. Mi spiegò che aveva deciso di non mandare a chiamare Petro perché la sua posizione fra i Vigili era «così delicata». Non feci commenti. Se la notte precedente Petronio era rimasto fuori di ronda quanto immaginavo, aveva bisogno di dormire. In ogni caso, il lato positivo di avere un socio era che potevamo spartirci i compiti sgradevoli, e questo non richiedeva la presenza di entrambi: sarebbe bastato prendere nota del ritrovamento e verbalizzare il nostro interessamento. Martino era accompagnato da un paio dei suoi uomini e da alcuni barcaioli, fra i quali, notai con sollievo, non c'era mio cognato Lollio. Be', non era ancora mezzogiorno: Lollio era ancora sicuramente addormentato tra le braccia di qualche giovane cameriera. Intravidi sul bordo dell'argine una massa scura e un pezzo di stoffa, che gocciolando avevano bagnato il lastricato tutt'intorno per un vasto tratto. Gli elementi, come li definì Martino mentre annotava lentamente i particolari sulla sua tavoletta per appunti, erano stati recuperati dal Tevere quella mattina, dopo essere rimasti incagliati nel cavo di ormeggio di una chiatta che aveva risalito il fiume soltanto il giorno prima, quindi si trovavano lì solo da una notte. «Qualcuno ha visto qualcosa?» «Tu che cosa pensi, Falco?» «Penso che qualcuno debba avere visto.» «E sai benissimo che sarà difficile trovarlo.» Il pezzo di stoffa sembrava una vecchia tenda, poiché era frangiato a un'estremità. Era sporco di sangue coagulato, le macchie avevano resistito alla breve immersione. Il tessuto era stato avvolto intorno al giovane corpo
di una esile donna, probabilmente di carnagione scura. Adesso quel corpo, un tempo flessuoso, era livido per le contusioni e la decomposizione e sembrava disumano. Il tempo, la calura estiva e infine l'acqua avevano provocato orribili cambiamenti. Ma il peggio era stato inflitto prima, da chiunque avesse privato la ragazza della vita. Presumevamo che fosse il tronco di Asinia, ma nessuno suggerì di chiedere al marito di identificarla. La testa e gli arti erano stati asportati e lo stesso era accaduto ad altre parti del corpo. Fui costretto a guardare e poi mi fu difficile non vomitare. Asinia era morta ormai da quasi due settimane e durante tutto quel tempo doveva di certo essere stata tenuta nascosta da qualche parte. Secondo Martino e i barcaioli il corpo in decomposizione era rimasto nell'acqua soltanto per qualche ora. A quel punto avremmo dovuto cercare di capire cosa era successo in precedenza, perché i particolari avrebbero potuto aiutarci a rintracciare l'assassino. Ma non era facile concentrare la mente su quel compito. Un vigile coprì i resti con la tenda. Sollevati, facemmo tutti un passo indietro, cercando di dimenticare quello che avevamo visto. Discutevamo ancora delle possibilità, quando un messaggero venne a cercare Martino. La sua presenza era richiesta al Foro perché una testa umana era stata rinvenuta nella Cloaca Massima. XLI Quando aprirono il tombino di accesso, sentimmo l'acqua scorrere nell'oscurità, a una certa distanza sotto di noi. Non c'erano scale, né torce e calzari impermeabili a sufficienza. Dovemmo aspettare che li mandassero a prendere in un deposito, mentre una folla di curiosi si radunava. La gente aveva capito che stava succedendo qualcosa. «Perché questi bastardi non ci sono mai quando l'assassino viene a gettare i resti? Perché non lo colgono mai sul fatto?» Imprecando, Martino incaricò i suoi uomini di formare un cordone, che non servì però a impedire agli sciacalli di accalcarsi all'estremità occidentale del Foro. Stavamo ancora aspettando i calzari impermeabili quando, con mio grande dispiacere, comparve Anacrite. L'ufficio del curatore era nelle vicinanze e qualche simpaticone era andato ad avvertirlo. «Vai a farti fottere, Anacrite. Il tuo capo è responsabile soltanto degli acquedotti. Il mio ha il controllo totale.»
«Vengo con te, Falco.» «Terrorizzerai i ratti.» «Ratti, Falco?» All'improvviso Martino sembrò ansioso di tirarsi indietro e di lasciare che Anacrite prendesse il suo posto in quella sgradevole impresa. Alzai gli occhi al cielo, pensando che se fosse piovuto la Cloaca si sarebbe trasformata in un torrente impetuoso, diventando molto pericolosa. Il cielo sgombro di nubi mi rassicurò un poco. «Perché non hanno direttamente riportato in superficie i resti?» Martino non se la sentiva proprio di scendere là sotto. Anche io non ne ero entusiasta, ma lui era senza ombra di dubbio in preda al panico. «Giulio Frontino ha dato istruzioni affinché qualunque oggetto rinvenuto nella rete idrica venga lasciato dov'è per permetterci di compiere le indagini. Andrò io. Se ci sono degli indizi, li riporterò e tu potrai prendere nota di quanto ti riferirò. Sono un testimone valido in tribunale.» «Penso che manderò a chiamare Petronio.» «Siete già in troppi» intervenne il caposquadra degli addetti alle fognature. «Non mi piace portare giù degli estranei.» «Non farmi preoccupare» borbottai. Se lui era nervoso, allora noi come avremmo dovuto sentirci? «Ascolta, quando Marco Agrippa era responsabile dei corsi d'acqua, non aveva forse girato in barca l'intera rete delle fognature?» «Quel pazzo furioso!» commentò il caposquadra con tono beffardo. Be', la cosa mi tirò su di morale. Erano arrivati i calzari impermeabili, con suole rozze e spesse e parti in cuoio alte fino alle cosce. Fu portata una scala a pioli di legno, ma quando la gettarono oltre il bordo vedemmo che copriva solo metà della distanza che ci separava dall'acqua. Nemmeno gli addetti alle fognature sembravano sapere quanto fosse profonda in quel punto. Volevano farci scendere nelle vicinanze del luogo in cui era stata rinvenuta la testa, a cui loro dovevano essere arrivati lungo un qualche percorso sotterraneo, che consideravano però troppo difficile per dei deboli scribacchini come noi. Ben presto arrivò un altro pezzo di scala, che fu legato al primo con delle funi, e poi quell'oggetto traballante fu calato nel buco nero. Arrivava a stento al fondo, e solo se veniva tenuto praticamente verticale, posizione che chiunque si sia servito di scale a pioli sa quanto sia micidiale. In cima fu piazzato un uomo robusto per reggere la scala con un pezzo di corda sfilacciata. Aveva l'aria felice: sapeva che gli era toccato il lavoro migliore.
Fu deciso che saremmo scesi io, Anacrite e uno degli uomini di Martino più curiosi. Sarebbe stato inutile costringere Martino ad avventurarsi nel cunicolo, nervoso com'era, così gli dicemmo di stare di guardia. Se fossimo rimasti troppo a lungo là sotto, avrebbe dovuto chiamare aiuto. Il caposquadra accettò la cosa fin troppo prontamente, come se pensasse che c'erano parecchie probabilità che qualcosa andasse storto. Ci consigliò di coprirci la testa con un cappuccio e così ci avvolgemmo la faccia in pezzi di stoffa. Con l'udito attutito e i piedi appesantiti dai calzari, scendere quella scala era ancora più difficoltoso. Scendemmo uno alla volta. Dovemmo sporgerci nel vuoto per trovare i pioli della scala, che una volta raggiunta si piegò in modo preoccupante, dandoci la sensazione di essere totalmente insicura. Il caposquadra si era calato per primo; mentre scendeva, la parte superiore della scala oscillò, staccandosi dal punto in cui era appoggiata, e dovette essere tirata indietro a viva forza con la corda. L'uomo era sbiancato in viso e guardava ansiosamente in su dal pozzo scuro, ma il tizio che reggeva la corda gridò qualcosa di incoraggiante e quello proseguì. «Cerca di non precipitare» mi raccomandò Martino. «Grazie» risposi. Poi venne il mio turno. Riuscii a non fare una figuraccia, anche se i pioli erano sottili e troppo distanziati fra loro perché mi sentissi tranquillo. I muscoli delle mie gambe protestarono non appena incominciai a scendere. A ogni passo, tutta la scala traballava. Anacrite balzò giù dopo di me, con l'aria di chi ha passato metà della vita su una scala instabile. La botta in testa l'aveva reso privo di sensibilità e di buonsenso. L'uomo di Martino ci seguì, dopodiché restammo prudentemente fermi nel buio pesto, in attesa che ci venissero calate le torce. Avrei potuto approfittare di quel momento per spingere nell'acqua Anacrite, ma purtroppo ero troppo assorto perché mi venisse in mente. L'aria era gelida. L'acqua (o meglio, acqua e altre sostanze) ci scorreva fredda intorno ai piedi e alle caviglie, dandoci la falsa impressione che filtrasse nei calzari. C'era un forte odore di liquami, seppure sopportabile. Chiedemmo al caposquadra accendere delle torce di pece a fiamma scoperta se fosse sicuro, nel caso là sotto ci fossero dei gas, ma lui rispose in tono scherzoso che gli incidenti erano rari; aggiunse però che ce n'era stato uno la settimana precedente. Quando arrivarono le torce, potemmo vedere che ci trovavamo in una lunga galleria a volta, alta più del doppio di noi. Era rivestita di cemento e
nel punto in cui eravamo entrati l'acqua ci arrivava agli stinchi. Al centro la corrente era forte, per via della pendenza, mentre ai lati, dove la profondità era minore, si vedevano erbacce brune ondeggiare, piegate in un'unica direzione dallo scorrere lento dell'acqua. Il fondo era pavimentato di lastroni come una strada, ma c'erano parecchi detriti: pietrisco e sassi si alternavano a tratti sabbiosi. La luce delle torce non era abbastanza forte da permetterci di vedere bene il fondo. Il caposquadra ci disse di fare attenzione a dove mettevamo i piedi. Subito dopo inciampai in una buca. Procedemmo sguazzando nella galleria, che dopo poco faceva una curva. L'acqua diventava più profonda e io ero molto preoccupato. Passammo accanto all'entrata di un canale di alimentazione, che al momento era in secca. Ci trovavamo nelle viscere del Foro. Un tempo tutta quella zona era stata una palude ed era ancora un terreno naturalmente acquitrinoso. I bei monumenti sopra di noi innalzavano verso il sole cocente i loro frontoni ma avevano le fondamenta bagnate: ecco perché le zanzare affliggevano il Senato e gli stranieri, che non erano immunizzati, erano vittime di febbri virulente. Settecento anni addietro gli ingegneri etruschi avevano mostrato ai nostri rozzi antenati come prosciugare la palude tra il Campidoglio e il Palatino, e la loro opera durava ancora. Grazie alla Cloaca Massima e all'altra cloaca sotto il Circo Roma era abitabile e tutto funzionava così come sapevamo: la grande fognatura risucchiava l'acqua stagnante e di superficie, l'acqua in eccesso delle fontane e degli acquedotti, i liquami e l'acqua piovana. Poi, la notte precedente, un qualche bastardo aveva intaccato questo sistema perfetto sollevando il coperchio di un tombino e gettandovi dentro una testa umana. Era assai probabile che si trattasse di Asinia. Il suo cranio si era arenato su un banco di sabbia, una bassa spiaggia di fine limo bruno che si protendeva nella corrente poco profonda. La testa era troppo deteriorata perché potesse essere identificata con certezza, anche da chi l'aveva conosciuta, ma c'erano ancora dei capelli e un po' di carne del viso. Durante la notte erano passati i topi. Nonostante ciò, ero pronto a cercare di identificarla. C'erano altre donne di colore a Roma ma, per quanto ne sapevo, soltanto una era scomparsa un paio di settimane prima. Non fu difficile stabilire che quel cranio era stato introdotto nella Cloaca la notte precedente. Scoprimmo infatti che gli schiavi pubblici erano scesi
lungo quella galleria per pulire il canale solo il giorno precedente e non avevano visto niente. L'assassino doveva aver gettato là dentro la testa poco prima o poco dopo essersi sbarazzato del tronco. Nella Cloaca l'acqua non era abbastanza profonda per supporre che il corpo fosse stato gettato lì e poi trasportato dalla corrente fino al Tevere, e in ogni caso mi ricordai che era stato ritrovato a monte dello scarico, quindi doveva essere stato gettato direttamente nel fiume o dall'argine, o dal parapetto di un ponte, il Ponte Emilio probabilmente. Di conseguenza la testa e il corpo erano stati scaricati nell'acqua separatamente. Ne emergeva uno schema abbastanza chiaro: l'assassino si sbarazzava dei vari pezzi del cadavere in luoghi distinti, anche se questo aumentava le possibilità di essere scoperto, quindi possedeva sicuramente un mezzo di trasporto. La notte precedente era partito portando con sé la testa e il corpo, e forse altri arti che non avevamo ancora ritrovato. Probabilmente aveva gettato un involto, aveva proseguito fino a un altro posto e aveva scaricato rapidamente il pezzo successivo dentro un tombino o giù da un parapetto. Forse seguiva quello schema da anni e aveva imparato a essere così disinvolto che un passante qualunque non ci avrebbe fatto caso. L'acqua scorreva tumultuosa intorno alla testa di Asinia e la sabbia scivolava via in rivoli per essere velocemente rimpiazzata da altra sabbia. Se l'avessimo lasciata dov'era, la testa sarebbe rimasta sepolta oppure avrebbe potuto disincagliarsi all'improvviso e rotolare lungo il canale fino al grande arco di marmo peperino che dava sul fiume. «Avete già trovato teste in precedenza?» «Solo qualche teschio, di quando in quando. Non si può stabilire da dove vengano o quanto siano vecchi... di solito, almeno. Questo è più...» La voce del caposquadra si smorzò garbatamente. «Fresco?» Non è proprio la parola adatta, Anacrite! Gli lanciai un'occhiata di disapprovazione. Il caposquadra fece un respiro, profondamente a disagio, e non rispose. Riteneva che più avanti ci fosse un altro banco di sabbia simile a quello e ci disse di aspettare mentre lui andava a dare un'occhiata. Sentimmo Martino che da lontano gridava qualcosa e il suo uomo tornò indietro fino alla scala per confermargli che stavamo tutti bene. Anacrite e io ci ritrovammo da soli nella galleria. Era un luogo tranquillo, maleodorante e talmente isolato da far rizzare i capelli. L'acqua fredda scorreva incessantemente intorno ai nostri calzari,
che mentre stavamo fermi affondavano pian piano nel limo; intorno a noi regnava il silenzio, rotto solo da qualche raro gocciolio. Il cranio di Asinia, che ormai non sembrava più umano, giaceva ancora nel limo ai nostri piedi. Più avanti, illuminata alle spalle dalla luce tremolante delle torce, la sagoma scura del caposquadra si allontanava in direzione di una curva della galleria, nell'acqua sempre più profonda, e si faceva paurosamente piccola e indistinta. Era solo. Se avesse proseguito oltre la curva, avremmo dovuto seguirlo, perché sparire da soli in una fognatura non era sicuro. L'uomo si fermò. Si era appoggiato con una mano alla parete della galleria, piegandosi in avanti come se stesse ispezionando la zona. All'improvviso compresi. «È troppo anche per lui. Sta vomitando.» A quel punto distogliemmo lo sguardo. Ci aspettava un compito ingrato. Porsi la mia torcia ad Anacrite. Rammaricandomi di essermi messo una seconda tunica pulita quella mattina, me ne tolsi uno strato. Puntai un calzare contro la testa per tenerla ferma, poi mi chinai e cercai di farci passare sotto con cautela la tunica, facendo in modo di evitare di toccarla. Fu un errore, perché rotolò. Anacrite spostò il suo piede, formando un cuneo con il mio. Intrappolammo la testa e io riuscii a prenderla, come se fossimo impegnati in un raccapricciante gioco con la palla. Riluttante perfino a reggere direttamente quel peso, sostenendolo da sotto con una mano, tenni stretti i quattro angoli del mio indumento, lasciando che l'acqua colasse fuori mentre mi sollevavo. Tenni il più lontano possibile da me la tunica e il suo macabro contenuto. «Per gli dèi, ma come può fare una cosa del genere? E io che credevo di essere un duro! Com'è possibile che l'assassino sia riuscito a maneggiare dei pezzi di cadavere non una, bensì ripetute volte?» «È un lavoro ripugnante.» Una volta tanto, Anacrite e io parlavamo la stessa lingua. Conversavamo a bassa voce mentre lui reggeva le torce e con la mano libera mi aiutava ad annodare gli angoli della tunica per farne un fagotto sicuro. Concordai con lui. «Mi vengono gli incubi solo all'idea che un po' di questo sudiciume possa restarmi attaccato addosso.» «Potresti lasciare il compito ai Vigili.» «I Vigili evitano da anni questo tipo di faccende. È il momento che qualcuno fermi quell'uomo.» Rivolsi un pietoso sogghigno ad Anacrite. «Potrei lasciarlo a te!» Tenendo sollevate le torce, lui ricambiò l'occhiata sarcastica. «Non sarebbe da te, Falco. Tu devi sempre immischiarti.»
Per una volta il suo commento era imparziale e questo mi fece inorridire: mi resi conto che se avessimo continuato a condividere altri compiti disgustosi con intermezzi filosofici, avremmo finito per diventare amici. Tornammo diguazzando fino alla scala, dove restammo ad aspettare il caposquadra. L'uomo di Martino fu mandato su per primo con le torce. Io salii dopo di lui. Avevo annodato l'involto alla cintura, che mi ero allacciato sulla spalla, così da avere entrambe le mani libere. Su quella scala con i pioli sottili, e che per di più si piegava, salire con i calzari bagnati era addirittura più difficile che scendere. Emersi come una talpa nella luce abbacinante del sole e Martino mi aiutò a risalire sulla strada. Mentre gli raccontavo quello che era successo arrivò anche Anacrite. Mi feci da parte per lasciargli spazio. Fu allora che mi resi conto che era un autentico professionista: mentre emergeva, si guardò rapidamente intorno, osservando le facce fra la folla curiosa. Sapevo perché, l'avevo fatto anch'io. Si chiedeva se l'assassino non fosse lì presente, se l'uomo non avesse gettato i resti in posti diversi proprio allo scopo di farsi beffa di noi, e se adesso non ciondolasse nei dintorni per osservare quello che succedeva mentre venivano scoperti. Per me vedere Anacrite che si guardava intorno in quel modo fu una strana rivelazione. Subito dopo scoprii qualcos'altro: dopo avere camminato in una fognatura bisogna togliersi subito i calzari. XLII Martino prese in consegna la testa. Alla caserma avrebbero provveduto a riunirla al tronco, dopodiché avrebbero espletato le formalità per consentire a Cicurro di celebrare un funerale per la moglie. Per la prima e probabilmente l'ultima volta, io e Anacrite andammo insieme alle terme. Ci strofinammo entrambi in maniera estremamente meticolosa con lo strigile, ma nonostante la solidarietà che si era creata tra noi non mi offrii di aiutarlo a grattarsi la schiena. L'avevo portato, quale mio ospite, alle terme annesse alla palestra di Glauco, a pochi passi dal Foro. Fu un errore, perché Anacrite incominciò a guardarsi in giro come se il posto gli piacesse e volesse fare domanda di iscrizione. Alla fine lasciai che andasse via da solo per tornare a buttar via il tempo nell'ufficio del curatore, mentre io mi trattenni per avvertire Glauco che la Prima spia non era certamente il tipo che avrebbe gradito come
cliente abituale del suo apprezzato locale. Glauco arricciò il naso. «L'avevo capito.» Quando confessai chi era esattamente la persona che avevo portato con me quel giorno, lui mi rivolse un'occhiata disgustata. Glauco voleva evitare guai e, per farlo, era solito escludere dalla sua palestra gli individui che d'abitudine li causavano. Quanto a me, mi lasciava entrare perché mi considerava un innocuo dilettante: i professionisti sono pagati per il loro lavoro, mentre a me capitava di rado. Chiesi a Glauco se avesse del tempo libero per esercitarmi un po' nella lotta. Lui sbuffò, reazione che interpretai come una risposta negativa, e sapevo perché si rifiutava. Scesi con tutta calma gli scalini tra la pasticceria e la piccola biblioteca, destinate a offrire uno svago supplementare ai clienti. Glauco gestiva un locale lussuoso, dove non solo era possibile allenarsi e fare un bagno, ma anche prendere in prestito alcune odi per riaccendere una relazione sentimentale in crisi e poi rovinarsi i denti con deliziosi fagottini di uva passa glassati. Ma quel giorno non avevo tempo per la lettura e non ero dell'umore giusto per i dolci. Sebbene mi fossi oliato e strofinato attentamente, non ero ancora soddisfatto dei risultati. Ero già stato in precedenza in luoghi sudici, ma scendere nelle fognature per cercare resti umani mi aveva lasciato con i brividi e ricordare che io stesso una volta avevo gettato in un tombino il cadavere in decomposizione di un uomo aveva reso la situazione ancora più sgradevole. Un paio d'anni e molti violenti acquazzoni avrebbero dovuto escludere ogni possibilità di inciampare in qualche sgradito fantasma, ma laggiù nella Cloaca Massima ero stato quasi lieto che l'irritante presenza di Anacrite mi avesse impedito di soffermarmi sul passato. Era una storia finita. Non c'era alcun bisogno che Elena lo scoprisse. Non ero ancora sicuro di come avrebbe reagito sentendo che lo zio Publio, dato per disperso, era morto, era stato lasciato imputridire e poi gettato nella Cloaca, e che ero stato proprio io a farlo... Ormai pensavo di essere al sicuro, mi ero convinto che non avrei mai dovuto metterla di fronte alla verità. Nonostante ciò, la situazione mi induceva a quelle tristi meditazioni. Lì, nella palestra di Glauco, mi trovavo su un terreno familiare e gli investigatori imparano presto che la casa è il luogo in cui non ci si dovrebbe mai rilassare: è nei posti in cui siete conosciuti, infatti, che gli individui malvagi vengono a cercarvi. Quando notai il gruppetto di persone che quel giorno mi aspettava all'esterno della palestra, ero già passato oltre, lasciando a
quegli importuni il tempo di uscire dalla porta della pasticceria in modo da trovarsi più in alto di me sui gradini. Sentii il rumore di pesanti calzari. Non mi fermai. Invece di voltarmi per vedere chi avevo alle spalle, scesi con tre rapidi saltelli i gradini e poi superai con un lungo balzo quelli che restavano per raggiungere il livello della strada. Solo allora mi girai. Era un gruppetto numeroso, ma non mi fermai a contarli. Circa quattro o cinque erano usciti dalla pasticceria, seguiti da altri che si riversavano fuori dalla biblioteca. Volevo gridare per chiedere aiuto, ma con la coda dell'occhio vidi il proprietario della pasticceria infilarsi nella palestra. «Fermi lì!» valeva la pena tentare. Loro indugiarono un istante. «Sei tu Falco?» «Certamente no.» «Sta mentendo.» «Non insultarmi. Sono Gambaronio Filodendronico, un noto plissettatore di mussolina di queste parti.» «È Falco!» Beccato. Era evidente che quelli non erano colti studenti di filosofia in gita. Erano tipi rozzi, delinquenti di strada, facce che non conoscevo, sguardi da lottatori, abituati alle minacce. Ero in trappola. Sarei potuto scappare, ma mi avrebbero preso. Opporre resistenza sarebbe stato perfino più stupido. Non vidi armi, ma probabilmente le tenevano nascoste sotto quelle tuniche scure. Dalle corporature intuivo che potevano fare parecchio male anche senza l'aiuto di alcuna attrezzatura. «Che cosa volete?» «Se sei Falco, vogliamo te.» «Chi vi ha mandati?» «Florio.» Sorridevano, ma non era un sorriso cordiale né allegro. «Allora avete trovato l'uomo sbagliato. Quello che cercate è Petronio Longo.» Fare il suo nome era la mia unica possibilità. Petro era più robusto di me e inoltre c'era la vaga speranza che in qualche modo potessi avvertirlo. «Abbiamo già visto Petronio» risposero ridacchiando. Mi sentii raggelare. Dopo la notte passata di guardia al Circo, stava sicuramente dormendo da solo nell'ufficio e quando era stanco morto Petronio dormiva come un sasso. Nell'esercito dicevamo sempre, scherzando, che un orso selvatico avrebbe potuto mangiarlo per intero e lui non se ne sarebbe accorto, finché
non gli avesse fatto il solletico dietro le orecchie. Sapevo che genere di squadra punitiva fosse quella. Una volta avevo visto un uomo pestato a sangue per ordine della madre di Milvia. Quando l'avevamo trovato, era già morto. Probabilmente aveva sperato nella fine prima ancora di tirare effettivamente le cuoia. Questi energumeni lavoravano per quella famiglia e non avevo motivo di credere che il marito di Milvia si facesse più scrupoli della madre. Cercai disperatamente di non pensare a Petro che subiva un'aggressione del genere. «L'avete ucciso?» «La prossima volta.» La tattica del terrore: fare molto male alle vittime e poi lasciarle giorni o settimane a pensare alla prossima aggressione. Il branco era ben coordinato. Si erano sparpagliati e incominciarono a scendere lentamente su due lati per circondarmi. Indietreggiai cautamente. La scalinata che dalla palestra portava alla strada era ripida. Volevo portarli lontano da lì. Gettai una rapida occhiata alle mie spalle, pronto al via. Quando si lanciarono contro di me, ne stavo fissando uno, ma saltai addosso a un altro. Balzando in avanti, mi abbassai di colpo e lo colpii vicino alle ginocchia, atterrandolo. Poi lo scavalcai e mi lanciai su per qualche gradino. Misi il braccio intorno al collo di un'altro bestione e lo trascinai di peso verso la palestra, lottando per metterlo tra me e i suoi compagni. Lo tenni stretto e respinsi con i piedi gli altri che si facevano avanti. Se avessero avuto dei pugnali, sarei stato spacciato, ma per fortuna contavano solo sulla loro forza fisica. Scalpitavano mentre io li schivavo furiosamente. Fui quasi sul punto di raggiungere l'Ade. Mi beccai calci e colpi violenti, ma poi si udì del baccano sopra di noi. Un po' di aiuto, finalmente. Persi la presa sul mio uomo, ma prima riuscii a stringergli il collo così forte che per poco non lo uccisi. Mentre si rannicchiava tossendo ai miei piedi, lo spinsi giù per le scale con un violento calcio. Dietro di me, qualcuno mi incitò gridando. Dalla palestra uscì Glauco, seguito da una massa di clienti. Alcuni, che indossavano perizomi e polsiere, avevano sollevato pesi fino a pochi minuti prima. Altri stavano tirando di scherma con lo stesso Glauco ed erano armati di spade di legno da allenamento: spuntate, ma utili per menare violente randellate. Alcuni individui, molto generosi, avevano perfino abbandonato le terme e, nudi e luccicanti di olio, accorsero in nostro aiuto. Sarebbe stato impossibile che avvinghiassero gli avversari, ma nemmeno loro potevano essere afferrati. C'era una gran confusione ed ebbe inizio una furibonda rissa di strada. «Sto perdendo tempo prezioso, Falco!» grugnì Glauco mentre ci lavora-
vamo un paio di quegli stupidi delinquenti. «Bene! Non mi hai insegnato niente di utile.» D'abitudine i clienti della palestra di Glauco erano molto discreti e raramente scambiavano qualche parola: ci andavano per l'esercizio fisico, per la pulizia e per le abili mani del massaggiatore cilicio, non per la conversazione. A quel punto vidi un uomo che per caso sapevo essere un promettente avvocato ficcare le dita negli occhi di un avversario con la stessa malvagità di un cavernicolo della Suburra. Un ingegnere cercò di spezzare il collo a un altro delinquente, trovando chiaramente divertente quell'esperienza, mentre l'apprezzato massaggiatore, cercando di proteggere le proprie mani, usava i piedi per menare colpi a destra e a manca. «Com'è che ti sei fatto intrappolare proprio su questa maledetta scalinata?» grugnì Glauco, parando un pugno e rispondendo con una rapida serie di quattro. «Erano rintanati nella tua pasticceria.» Il suo uomo era fuori gioco, così gli passai il mio affinché lo tenesse fermo mentre io lo pestavo. «Forse avevano qualche motivo di lagnanza. Te lo ripeto continuamente che i topolini alla cannella sono stantii.» «Dietro di te!» Mi girai di scatto, in tempo per dare una ginocchiata a un altro bastardo che stava per balzarmi addosso. «Parla di meno e tieni alta la guardia» mi consigliò Glauco. Bloccai un lottatore che stava per stringergli il collo in una presa micidiale. «Tieni per te i tuoi consigli» replicai sogghignando. Glauco gli storse il naso finché non si spezzò. «Un bel colpo. Richiede un temperamento tranquillo.» Sorrisi alla vittima sporca di sangue. «E mani molto forti.» La rissa si era estesa fin giù nella strada. Era un vicolo pieno di attività commerciali, dove tutti erano amici: dopo avere spostato le merci dalla zona pericolosa, i bottegai erano accorsi in aiuto di Glauco, che era un vicino molto popolare. I passanti, che si sentivano esclusi, incominciarono a tirare pugni, e quando non ci riuscivano lanciavano mele. I cani abbaiavano, le donne si affacciavano dalle finestre di sopra gridando incoraggiamenti e insulti e rovesciavano secchi di chissà cosa sulla testa dei combattenti, per puro divertimento. I panni stesi ad asciugare si impigliavano nelle spade da allenamento e si aggrovigliavano intorno ai corpi di quelli che si azzuffavano freneticamente. I sollevatori di pesi facevano sfoggio dei loro pettorali sollevando pesi umani in orizzontale. Un asino spaventato sbandò lungo la strada, rovesciando gli otri di vino che portava sulla groppa, i quali si spaccarono, infradiciarono il conducente furioso e formarono una macchia
scivolosa sul selciato; parecchi dei presenti si schiantarono al suolo e furono dolorosamente calpestati. A quel punto qualche idiota mandò a chiamare i vigili. Un fischio ci mise in allarme. Mentre le tuniche rosse si precipitavano nel vicolo, nel giro di pochi secondi l'ordine si ristabilì da solo e i vigili si trovarono davanti a una normale scena di strada. La banda di Florio, con l'abilità che deriva da una lunga pratica, si era dileguata. Due piedi sporgevano da dietro un barile di pesce salato: qualcuno che dormiva, evidentemente. Qualcosa che somigliava a tintura rossa per tuniche veniva sciacquato via con un secchio d'acqua e spazzato dentro un canale di scolo da una ragazza che cantava a squarciagola una canzone volgare. Gruppetti di uomini valutavano le dimensioni della frutta sulle bancarelle, facendo meditati paragoni. Le donne si sporgevano dalle finestre, sistemando le carrucole sulle corde per stendere i panni. I cani, felici, stavano distesi sulla schiena e si dimenavano pazzamente mentre i passanti li solleticavano sulla pancia. Io facevo notare a Glauco che il frontone delle sue terme era sormontato da un eccellente acroterio con un autentico disegno classico, mentre lui mi ringraziava per le lodi alla sua elegante antefissa, che rappresentava una Gorgone. Il cielo era azzurro e il sole caldo. Per qualche strana ragione due individui che salivano i gradini della palestra parlando del Senato erano senza vestiti, ma a parte loro non c'era nessuno che i tutori della legge potessero arrestare. XLIII Quando arrivai alla Corte della Fontana, seguendo un itinerario tortuoso per motivi di sicurezza, Petronio veniva trascinato per i piedi fuori dall'ufficio. Lo avevano trovato Lenia e le ragazze che lavoravano con lei, che avevano visto gli scagnozzi di Florio allontanarsi con una fretta sospetta. Ancora una volta mi rammaricai che Lenia non fosse altrettanto brava a riconoscere i problemi quando arrivavano quanto lo era a notarli quando se ne andavano. Ero arrivato di corsa lungo un vicolo sul retro, oltrepassando i forni di nerofumo, il letamaio e il cortile del pollame. Superai con un balzo i lavori in corso nello spiazzo della corderia e la fossa di scarico delle acque nere ed entrai in fretta e furia nella lavanderia dall'ingresso posteriore. Nel cor-
tile i panni bagnati mi sbatterono in faccia e il fumo di legna mi soffocò, e una volta dentro per poco non scivolai, finendo lungo disteso sul pavimento bagnato. Mentre vacillavo, una ragazza con in mano un attrezzo per lavare mi tenne in piedi con una spinta. Passai di corsa davanti all'ufficio e mi arrestai nel porticato. Petro era disteso su una rudimentale barella fatta con le aste per i vestiti e la toga di un cliente. «State indietro. Ecco qui il suo amico del cuore, con il cuore infranto!» «Basta con il tuo umorismo mordace, Lenia. È morto?» «Non scherzerei se lo fosse.» In effetti Lenia aveva dei principi. Petro era vivo, anche se le sue condizioni erano gravissime. Se era cosciente, soffriva troppo per avere una qualche reazione vedendomi arrivare. Gran parte della testa e della faccia, il braccio sinistro e la mano destra erano coperti da fasciature lacere. Le gambe erano piene di brutti tagli e graffi. «Petro!» Non ci fu alcuna risposta. Lo stavano trascinando verso una lettiga. «Va a casa della sua zietta.» «Quale zietta?» «Sedina, quella che ha la bancarella dei fiori. L'abbiamo mandata a chiamare, ma lo sai quanto è grassa. Sarebbe morta se le avessimo fatto salire tutte quelle scale. In ogni caso, non volevo che quel povero tesoro lo vedesse finché non lo avessi ripulito un poco. È tornata a casa per preparargli il letto. Si prenderà lei cura di Petro.» Lenia doveva averlo rimesso un po' in sesto e dato tutte le disposizioni del caso. «Ottima idea. Sarà più al sicuro che qui.» «Dai, il vecchio Petro starà benissimo.» «Grazie, Lenia.» «È stata una banda di avanzi di galera» mi disse. «Li ho incontrati anch'io.» «Allora sei stato più fortunato.» «Ho avuto un po' di aiuto.» «Falco, perché è più al sicuro a casa di Sedina?» «Mi hanno promesso che sarebbero tornati a finirlo.» «Per tutti gli dèi! E tutto a causa di quella stupida ragazzetta?» «Un messaggio da parte del marito, a quanto mi hanno detto, e anche molto chiaro. Ma lui lo ascolterà?» «Almeno per qualche giorno starà alla larga dai guai. E tu, Falco?» «Me la caverò.» Mentre la lettiga si allontanava traballando, mandai un messaggero alla caserma dei Vigili per chiedere che Scitace, il loro medico, si prendesse
cura di Petronio a casa della zia. Chiesi a Lenia se qualcuno avesse informato Silvia. Prima di crollare, Petro aveva chiesto che la moglie non venisse coinvolta, e si capiva perché. «E che cosa vuole che facciamo riguardo alla cara piccola Milvia?» domandai. «Devo essermi dimenticata di chiederglielo!» rispose sogghignando Lenia. Elena Giustina era andata a trovare i genitori, perciò si era persa tutto quel trambusto. Quando tornò a casa, poco più tardi di me, le spiegai quello che era successo, cercando di nasconderle i particolari peggiori. Elena però capiva quando le nascondevo una situazione critica. Nonostante ciò, non disse una parola. La osservai lottare con le proprie emozioni, poi mi mise la bambina tra le braccia e ci abbracciò un momento entrambi. Dato che ero il più grande, fui io a ricevere il bacio. Si era messa a sbrigare qualche faccenda, per tenersi occupata mentre cercava di farsi un'idea del problema, quando sentimmo un tremendo baccano che proveniva dalla Corte della Fontana. Balzai in piedi prima di ricordarmi di non reagire troppo bruscamente, per non far notare a Elena il mio nervosismo, ma lei era uscita nel porticato ancora prima di me. Sull'altro lato della strada Lenia, osservata da un gruppetto beffardo di lavandaie, copriva gli insulti nientemeno che la vivace Balbina Milvia. Quando ci vide, la ragazza attraversò precipitosamente la strada. Feci segno a Lenia di lasciare che me ne occupassi io, poi invitai Milvia a salire con un breve cenno del capo. La facemmo entrare nel nostro salotto e la invitammo a sedersi, mentre noi restavamo in piedi. «Oh, che bella bambina!» cinguettò Milvia, niente affatto intimorita dall'atmosfera ostile. «Elena Giustina, porta la bambina in un'altra stanza. Non lascerò che mia figlia sia contaminata dal sudiciume di strada.» «Falco, è una cosa orribile da dire» protestò Milvia con voce stridula. Con espressione risoluta, Elena portò Giulia nella sua culla. Aspettai che tornasse, mentre Milvia mi fissava con sguardo solenne. Quando Elena tornò nella stanza, sembrava perfino più furiosa di me. «Se sei venuta qui per vedere Petronio Longo, non sprecare il tuo tempo, Milvia.» Raramente avevo sentito Elena così sprezzante. «Stamattina l'hanno pestato violentemente ed è stato portato in una casa sicura, lontano dalla tua famiglia.» «No! Petronio è ferito? Chi è stato?»
«Dei tipi loschi mandati da tuo marito» spiegò Elena in tono gelido. Sembrava che Milvia non avesse afferrato, così aggiunsi: «Florio è in vena di fare il permaloso. È colpa tua, Milvia». «Florio non farebbe...» «Florio l'ha fatto. Com'è venuto a sapere quello che succede tra Petro e te? Gliel'hai detto tu?» Una volta tanto, Milvia esitò. Arrossì perfino leggermente. «Credo che sia stata mia madre ad accennare qualcosa.» Trattenni a stento un'imprecazione. Era proprio per questo motivo che Rubella era stato costretto a sospendere Petro: Flaccida era troppo pericolosa e causare problemi ai Vigili era l'obiettivo della sua vita. «Be', è stata la sua cattiva azione quotidiana.» «Sono felice che Florio lo sappia!» esclamò Milvia in tono di sfida. «Voglio...» «Quello che sono sicura che non vuoi» l'interruppe Elena «è rovinare Petronio Longo. È già stato gravemente ferito. Guarda in faccia la realtà, Milvia. Questo può soltanto indurlo a riflettere su ciò che vuole lui. E posso darti la risposta: Petronio vuole riavere il suo lavoro e, da padre affettuoso qual è, vuole poter rivedere le sue figlie.» Notai che non aveva menzionato la moglie. Milvia ci guardò entrambi. Sperava di scoprire dove si trovasse Petro, ma si rese conto che non avevamo intenzione di rivelarglielo. Abituata soltanto a impartire ordini, era confusa. «Porta a Florio un messaggio da parte mia» le dissi. «Oggi ha commesso un grave errore. Ha fatto pestare due liberi cittadini, nel mio caso senza conseguenze durature, tuttavia è successo di fronte a testimoni. Così ho un edile, un giudice e due importanti centurioni a confermare le mie accuse se deciderò di portare Florio in tribunale.» Elena sembrò allarmata. Non potevo permettermi una vertenza giudiziaria e non mi andava nemmeno di sprecare il mio denaro, ma questi erano i particolari di cui Florio non doveva venire a conoscenza. In qualità di investigatore, poi, facevo spesso lavori per il tribunale, e alla Basilica c'erano degli avvocati che mi dovevano qualche favore. Parlavo sul serio quando dissi a Milvia: «Tuo marito finirà sul lastrico se avanzerò una richiesta di risarcimento. Digli che se importunerà nuovamente Petronio oppure me non avrò alcuna esitazione». Milvia era stata allevata da malviventi. Anche se fingeva di non sapere niente del proprio ambiente, doveva essersi accorta che i suoi genitori vivevano in un mondo che faceva della segretezza una condizione essenzia-
le. Suo padre aveva sempre evitato di farsi pubblicità con i processi (almeno fino a quando Petronio l'aveva fatto mettere sotto accusa). Suo marito era un principiante nell'attività criminale, ma anche lui viveva in modo equivoco: giocava d'azzardo, un'attività basata sull'allusione e sull'inganno, e adesso era implicato anche nel giro delle estorsioni, che si basavano su pesanti minacce e non certo su documenti manifesti. «Florio non mi darà ascolto.» «Dovrai convincerlo» intervenne seccamente Elena. «Altrimenti non sarà il solo a essere citato negli Acta Diurna: comparirai anche tu, fra le notizie scandalistiche. Potrai dire addio a quel poco di rispettabilità che resta alla tua famiglia. Tutta Roma saprà.» «Ma io non ho fatto niente di male!» «È proprio questo lo scopo degli Acta Diurna» sorrise tranquillamente Elena. Era tipico della figlia di un senatore sapere come schiacciare un nuovo ricco. Non c'è niente di più spietato di una matrona di famiglia patrizia decisa a distruggere la moglie di un arricchito. «Dimentica i programmi per l'approvvigionamento del grano, le ordinanze del Senato, gli articoli sulla famiglia imperiale, i Giochi e il Circo, i presagi e i miracoli. Quello che i romani vogliono leggere sono proprio le storie sugli smascheramenti delle tresche amorose di persone che sostengono di non avere fatto niente di male!» Milvia aveva poco più di vent'anni e non era ancora pronta a certe sfide. Lo sarebbe stata presto, ma fortunatamente Petronio l'aveva incontrata prima che si facesse agguerrita. Ormai inerme, e da vera irresponsabile qual era, cambiò argomento dicendo con petulanza: «In ogni caso, sono venuta per un altro motivo». «Non seccarmi» dissi. «Volevo pregare Petronio di aiutarmi.» «Be', per qualunque cosa sia, tuo marito ha fatto in modo che non potesse esserti d'aiuto.» «Ma è importante!» «Sei testarda. Petro è privo di conoscenza... e comunque è stanco di te.» «Di che cosa si tratta?» le chiese Elena, avendo avvertito una nota di sincero isterismo nella sua voce. L'avevo notato anch'io, ma non me ne ero preoccupato. Milvia era sul punto di piangere, per commuoverci. Probabilmente Petronio avrebbe abboccato, se non fosse stato costretto a letto, ma io non mi lasciai impressionare.
«Oh, Falco, non so che cosa fare. Sono così angosciata.» «Allora dicci di che si tratta.» Gli occhi di Elena rilucevano: era un chiaro sintomo che da un momento all'altro avrebbe perso la pazienza e avrebbe tirato a Milvia un piatto di cuori di sedano marinati. Non avrei voluto perdermi quella scena, però mi andava di più l'idea di mangiarli. Doveva averceli portati mia madre e, se venivano dal nostro orto in campagna, erano sicuramente deliziosi. «Volevo chiederlo a Petronio, ma visto che non è qui, dovrai aiutarmi tu, Falco...» «Falco è molto impegnato» ribatté seccamente Elena, nel ruolo della mia capace assistente. Milvia continuò, imperterrita: «Sì, ma quanto è accaduto potrebbe essere collegato con quello su cui aiuta Petro a indagare...». I cuori di sedano erano nuovamente in pericolo, ma fui fortunato. Le successive parole di Balbina Milvia fecero esitare Elena, e anzi ci ridussero entrambi al silenzio. «Mia madre è sparita. Non torna a casa da due giorni e non riesco a trovarla da nessuna parte. È andata ai Giochi e non è mai rientrata. Temo che sia stata catturata dall'uomo che fa a pezzi le donne e le getta negli acquedotti.» Prima che Elena potesse impedirmelo, sentii la mia voce rispondere che, se era vero, allora quel bastardo aveva gusti orripilanti. XLIV Ero pronto a spedire via la desolata Milvia con parole perfino più aspre, ma fummo interrotti da Giulio Frontino, venuto per una delle sue regolari visite di controllo. Lui mi fece pazientemente segno di continuare. Gli spiegai succintamente che la ragazza pensava che la madre scomparsa potesse essere stata rapita dal nostro assassino e che era venuta a chiedere il nostro aiuto. Era probabilmente giunto alla conclusione che non credevo a quella storia pietosa ancora prima che io borbottassi: «Uno dei problemi, in una situazione del genere, è che mette in testa alla gente strane idee. Va a finire che ogni donna che si ferma al mercato un'ora più del solito viene considerata una nuova vittima». «E il rischio è che in questo modo si trascurino le vittime autentiche?» Era da parecchio tempo che non venivo ingaggiato da un cliente intelligente. Elena affrontò la ragazza. «Quando un membro di una famiglia scompa-
re, Milvia, di solito è per ragioni familiari. In base alla mia esperienza, la situazione diventa instabile quando una vedova, forte di carattere, va a vivere con i parenti acquisiti. Avete avuto qualche discussione in famiglia di recente?» «Certamente no!» «Mi sembra piuttosto inconsueto» commentò Frontino, senza essere stato invitato a parlare. Mi ero dimenticato che per raggiungere il rango di console aveva prima occupato importanti cariche giuridiche ed era abituato a interrompere le deposizioni con battute mordaci. «Balbina Milvia» dissi «costui è Giulio Frontino, l'illustre ex console. Ti consiglio seriamente di non mentirgli.» Lei batté le palpebre. Ero sicuro che fosse abituata ad avere a che fare con membri abbastanza influenti delle istituzioni, che suo padre aveva ricevuto a casa sua per bere, rimpinzarsi, accettare doni e godere delle attenzioni di danzatrici o di ragazzi - insomma, di quella che i potenti più spregiudicati definiscono ospitalità, ma che quei guastafeste del popolo tendono a considerare corruzione - ma probabilmente non aveva mai incontrato un console prima di allora. «Ci sono stati dissapori in casa vostra?» ripeté con calma Frontino. «Be'... forse.» «A quale proposito?» A proposito di Petronio Longo, ero pronto a scommetterci. Flaccida aveva sicuramente rimproverato Milvia di amoreggiare con un membro della squadra investigativa dei Vigili, dopodiché si era divertita a riferire la notizia a Florio. Questi, da parte sua, doveva avere incolpato Flaccida dell'infedeltà della figlia, o perché immaginava che avesse chiuso un occhio o accusandola di avere allevato male la ragazza. La casa era stata probabilmente sconvolta da un uragano di ostilità. Elena sorrise a Frontino. «Nel caso pensassi che ti sfugga qualcosa, console, ti avverto che abbiamo a che fare con un'importante famiglia del crimine organizzato.» «Un altro fatto che potrebbe beneficiare di una commissione d'inchiesta» lo stuzzicai. «Una cosa alla volta, Falco» rispose il console, imperturbabile. Osservai Milvia. «Per essere veramente convinta che tua madre sia morta, non mi sembri molto sconvolta.» «Nascondo coraggiosamente il mio dolore.» «Che esempio di stoicismo!» Forse pensava che sarebbe diventata anco-
ra più ricca, se mamma fosse stata uccisa. Forse era per quel motivo che sembrava così ansiosa di scoprirlo con sicurezza. Frontino batté con un dito sul tavolo, attirando l'attenzione della ragazza. «Indagheremo energicamente per capire se tua madre è stata rapita dalla canaglia a cui stiamo dando la caccia. Ma se è andata soltanto a stare da un'amica a causa di un litigio non dovresti intralciare la mia indagine con una banale denuncia. Adesso rispondimi: c'è stato un litigio?» «Può darsi di sì.» Imbarazzata, Milvia fissò il pavimento. Le scolarette indisciplinate sapevano essere più evasive, mentre Milvia non era mai stata a scuola: le figlie dei criminali non familiarizzano facilmente con i coetanei e i loro affettuosi genitori non vogliono che prendano cattive abitudini, tanto meno che apprendano sani principi morali. L'educazione di Milvia era stata affidata a una serie di precettori, probabilmente terrorizzati dalla famiglia. I loro sforzi, a quanto si vedeva, erano stati vani. Sicuramente avranno acquistato alcuni testi di Livio da lasciare in aula e speso il resto del denaro destinato ai testi in pergamene pornografiche per sé. «C'era un problema tra te e tua madre? Oppure c'entrava tuo marito?» Se mi fosse venuto a mancare Petronio come socio, non sarebbe stato male lasciare che l'ex console prendesse il suo posto. Era mordace e sembrava divertirsi. Peccato fosse stato destinato al governo della Britannia, un vero spreco di talento. Milvia stropicciava nervosamente le costose sottane con le piccole dita pesantemente inanellate. «C'è stata una specie di scenata tra mamma e Florio, l'altro giorno.» Frontino la guardò dall'alto in basso. «Una scenata?» «Be', direi una tremenda lite.» «A proposito di che cosa?» «Oh... soltanto per un uomo con cui ho fatto amicizia.» «Bene!» Frontino si drizzò a sedere, come un giudice pronto per andare a casa a pranzo. «Signorina, devo avvertirti che la tua situazione familiare è grave. Se un uomo scopre che la moglie ha commesso adulterio, è legalmente tenuto a divorziare da lei.» Sicuramente era stato inculcato nella mente di Milvia che, per tenersi stretto il denaro del padre, lei e Florio non si sarebbero mai dovuti separare. Milvia non era un'ingenua idealista pronta a sacrificare la propria ricchezza al vero amore per Petro, amava troppo i suoi cofanetti di pietre preziose e le stoviglie d'argento di prima qualità per rinunciarvi. Battendo le palpebre come un coniglietto spaurito, domandò con voce tremante: «Di-
vorziare?». Frontino aveva notato la sua esitazione. «Altrimenti il marito può essere portato in giudizio con l'accusa di agire in qualità di ruffiano. Consentire che una matrona sia disonorata è una cosa che non tolleriamo. Immagino che tu sappia che, se tuo marito ti trova a letto con un altro uomo, ha il diritto di sguainare la spada e di uccidervi entrambi.» Tutto questo era vero. Sarebbe stata la rovina per Florio. Difficilmente avrebbe infilzato con la spada la moglie e Petronio in un accesso di violenta collera; sarebbe stato sottoposto alle antiche leggi sugli scandali per il suo ruolo di ruffiano, sarebbe diventato oggetto di scherno. «Mi piace il senso dell'umorismo del console» dissi schiettamente a Elena. Lei finse di disapprovare. «Vuoi dire il suo senso di giustizia, Marco Didio.» «Preferisco non essere causa di disarmonia coniugale» disse gentilmente Giulio Frontino a Milvia. Era una vecchia volpe. Aveva già trattato in precedenza con ragazzine ottuse, per questo riusciva a vedere quanto fossero pericolose oltre le loro sete luccicanti e i grandi occhi imbellettati. «Chiuderò un occhio su quanto ho sentito oggi. Capisco che vuoi salvaguardare il tuo matrimonio, quindi so che ovviamente metterai immediatamente fine alla tua relazione. E ti auguriamo tutti buona fortuna!» Milvia era sbalordita. La sua famiglia di strozzini disponeva di una sfilza di avvocati corrotti, bravissimi a riesumare leggi antiquate con cui incastrare gli innocenti. Per lei trovarsi vittima dell'antica legislazione era qualcosa di nuovo, per non parlare poi dell'essere sottoposta a un sottile ricatto da parte di un senatore d'alto rango. Frontino sembrava così comprensivo che a Milvia doveva essere venuta voglia di strillare. «Quanto alla scomparsa di tua madre, è comprensibile che la situazione ti renda molto triste. Devi cercare in tutti i modi di scoprire se si è rifugiata presso un'amica o una parente. Falco condurrà delle indagini per tuo conto se il tempo glielo consentirà ma, se non ci fornisci delle prove che tua madre è stata rapita, questa rimane una faccenda privata. Potrebbero esserci molte altre spiegazioni. Tuttavia, se si ritiene che sia stato commesso un crimine, bisogna senza dubbio denunciarlo ai Vigili.» «Oh, ma non posso andare da loro.» Frontino mi guardò con aria interrogativa. «Probabilmente non sarebbero molto solidali, console. Passano gran parte del tempo indagando su attività illecite nelle quali la donna scomparsa è pesantemente coinvolta. Non si darebbero molto da fare per ritrovare Flac-
cida.» «Ma io ho bisogno di aiuto» piagnucolò Milvia. «Allora assumi un investigatore» disse Elena. Milvia aprì la sua boccuccia di rosa per lamentarsi che era proprio per quello che era venuta da me, poi afferrò il significato della parola «assumere». Naturalmente Petronio non le avrebbe chiesto un compenso. «Devo pagarti, Falco?» «Sarebbe considerato quantomeno cortese» rispose Elena. Era lei che teneva i conti in casa. «Be', naturalmente sì, allora» accondiscese Milvia, mettendo il broncio. «In anticipo.» Frontino sembrava divertito, poiché a lui era invece permesso rimanere indietro con i pagamenti per il lavoro relativo alla sua indagine ufficiale. XLV Frontino non fu affatto contento quando, più tardi, lo informai che metà della sua squadra era in congedo per malattia. La mia versione dei fatti fu che Petronio Longo, quel generoso flagello del crimine organizzato, era stato aggredito da una banda che si voleva rifare su di lui per avere mandato in galera il criminale Balbino Pio. Se prima di assumerci Frontino era stato messo al corrente della sospensione di Petro dal suo lavoro di vigile, non ci sarebbe voluto molto perché comprendesse il collegamento con Milvia, ma io non glielo avrei detto, a meno che non me l'avesse chiesto. «Speriamo che si rimetta rapidamente. Te la senti di continuare da solo, Falco?» «Sono abituato a lavorare da solo, console. Petronio comunque sarà in piedi molto presto.» «Non abbastanza presto» obiettò il console. «Ho appena ricevuto un messaggio che mi è stato recapitato da uno schiavo in palese stato di agitazione.» A quel punto ci spiegò il vero motivo della sua visita: finalmente c'erano novità da parte di Bolano. Lungi dall'avere abbandonato il caso come avevo incominciato a sospettare, l'assistente dell'ingegnere si era dato molto da fare. Aveva insistito nella sua personale teoria secondo la quale bisognava indagare sugli acquedotti che arrivavano a Roma da Tibur. Aveva organizzato verifiche regolari di tutte le torri dell'acqua e di tutte le vasche di sedimentazione sparse nella campagna e i suoi uomini avevano estratto
altri resti umani nei pressi degli immissari sopra Tibur. Si trattava di un ritrovamento considerevole, a quanto ci fu spiegato: parecchie gambe e braccia, in differenti stadi di decomposizione. Giulio Frontino rivolse a Elena uno sguardo contrito. «Temo che dovrò rubarti tuo marito per qualche giorno. Lui e io dobbiamo compiere una visita sul posto.» Elena Giustina gli sorrise. «Non è un problema, console. Una gita in campagna è proprio ciò di cui la bambina e io abbiamo bisogno.» Frontino si sforzò nervosamente di sembrare un sincero ammiratore dello donne moderne. Io mi limitai a sorridere. XLVI La scomparsa di Flaccida mi offrì l'opportunità di mettermi in mostra. Avevo un giorno di pausa prima di lasciare Roma, così lo usai per indagare per conto di Milvia. È superfluo dire che non fu divertente quanto può esserlo abitualmente dare la caccia alle vedove. Tutte quelle per cui avevo lavorato in precedenza erano non soltanto fornite di straordinari patrimoni ricevuti in eredità, ma anche notevolmente attraenti e sensibili a un sorriso affascinante; da quando avevo conosciuto Elena avevo però rinunciato a quel genere di clienti. La vita era già abbastanza piena di rischi. La pausa era dovuta al fatto che dovevo aspettare che il mio compagno di viaggio sistemasse i suoi affari privati, ovviamente più complessi dei miei. Aveva investito alcuni milioni di sesterzi in terreni, che richiedevano la sua attenzione, e una reputazione in Senato da coltivare, per non parlare della sua imminente destinazione in Britannia: i preparativi per trascorrere tre anni ai confini dell'Impero non potevano essere di certo lasciati ai suoi sottoposti. Probabilmente i suoi segretari e gli addetti alla piegatura delle toghe non avevano ancora capito quanto fosse terribile quella provincia. Frontino aveva insistito per dirigere le indagini a Tibur. Finché non avesse cercato di dirigere me, non avrei sollevato obiezioni. In quanto cittadino di Roma avevo una scarsa conoscenza dei dintorni, oltre a non avere nessuna autorità se non come membro della sua squadra investigativa sugli acquedotti. La sua presenza avrebbe rafforzato il mio potere. Tenuto conto della condizione sociale dei proprietari terrieri che frequentavano quel territorio, era assai probabile che avrebbero opposto resistenza alle indagini: in genere quei sudici ricchi hanno più segreti da nascondere dei poveri. Approfittando quindi dell'occasione, mentre Frontino metteva ordine fra
i propri affari, mi recai alla casa di Florio e spiai un po' dall'esterno. Uno schiavo uscì di fretta per andare a fare la spesa; lo presi per il collo, gli sganciai una monetina, ne aggiunsi altre dietro suo suggerimento e gli chiesi che cosa si dicesse in giro della matrona scomparsa. Era chiaro che odiava Flaccida e mi rivelò spontaneamente che nessuno in casa sapeva dove potesse trovarsi. Non mi presi il disturbo di bussare e parlare con Milvia. Non c'erano vigili nella via, altrimenti li avrei riconosciuti. Di conseguenza tornai con tutta calma sull'Aventino, piombai nell'ufficio di Marco Rubella, nel quartier generale del Dodicesimo settore della Quarta coorte, e gli chiesi immediatamente che fine avesse fatto la sua squadra di sorveglianza. «La faccenda di Balbino è conclusa, Falco. Lui è morto e noi non vogliamo essere accusati di vessazione. Quale squadra di sorveglianza?» Rubella era un ex centurione capo, aveva alle spalle vent'anni di esperienza nelle legioni ed era attualmente al comando di un migliaio di ex schiavi agguerriti che costituivano la sua coorte di vigili del fuoco. Aveva la testa rasata, il mento ispido e occhi scuri e tranquilli che avevano visto sicuramente troppa violenza. Amava considerarsi alla stregua di un ragno pericoloso che torceva i fili di una grossa tela perfettamente formata. Personalmente pensavo che avesse un'opinione esagerata di sé, tuttavia cercavo di non sottovalutare mai quell'uomo, né di contrariarlo: non era uno sciocco ed esercitava un potere notevole nella zona dove vivevo e lavoravo. Nel suo ufficio mi permisi di mettermi comodo e appoggiai delicatamente i calzari sul bordo del suo bel tavolo da lavoro, lasciando che i miei talloni sfiorassero il suo calamaio d'argento mostrando che avrei potuto rovesciarlo di proposito. «Quale squadra? L'unità di sorveglianza che qualunque tribuno intelligente come te, Rubella, avrebbe incaricato di tenere sotto controllo la vedova di Balbino, Cornelia Flaccida.» Gli occhi castani di Rubella indugiarono sul suo servizio da scrittoio. La lunga carriera nell'esercito gli aveva lasciato un profondo rispetto per l'attrezzatura, che non aveva perso nemmeno ora che occupava una carica nella quale ufficialmente non ce n'era alcuna. Teneva sempre ben pieni il calamaio e il vassoio della sabbia. Uno scatto del mio piede insolente avrebbe potuto buttargli all'aria l'ufficio. Gli sorrisi con l'aria di chi non ha nessuna intenzione di farlo, ma lui non mi sembrò affatto tranquillo.
«Non posso fare commenti su un'indagine in corso, Falco.» «Non c'è problema. Tieniti i tuoi commenti. Non sono lo scrivano che rivede gli Acta Diurna in cerca di un paragrafo sensazionale. Voglio soltanto sapere dov'è andata a finire Flaccida. È nel tuo interesse.» Potevo contare su questo argomento per ottenere benevolenza: Rubella era un ufficiale nato, vale a dire che non si muoveva mai a meno che non fosse nel suo interesse, ma in quel caso scattava. «Allora, come stanno le cose?» Gli raccontai tutto. Rubella era un professionista e questa era un'evidenza che rispettavo troppo per permettermi di prenderlo in giro. In ogni caso, offrirsi di renderlo partecipe di una confidenza lo preoccupava sempre, il che era abbastanza piacevole. «C'è stato un grosso litigio tra Flaccida e suo genero, quel rimbambito di Florio, e lei è sparita da casa. La piccola e ottusa Milvia è convinta che l'assassino degli acquedotti abbia rapito la sua mamma... un'assurdità, naturalmente: all'assassino degli acquedotti piacciono vittime più appetitose. È la sola cosa che sappiamo di lui.» «Fino a che punto siete arrivati, allora?» domandò Rubella. «È vero che una testa mozzata è stata rinvenuta ieri nella Cloaca?» «Non è esattamente quello che avevano calcolato in origine gli esimi ingegneri etruschi... ma sì, è vero, e la stessa mattina è stato trovato un corpo umano nel Tevere. A dire la verità, per ora non siamo approdati a nulla, e questo nonostante la piena collaborazione di tutte le coorti dei Vigili e due inchieste distinte in corso. Quella per conto del Curatore degli acquedotti sembra essersi arenata completamente, cosa che a dire il vero non mi dispiace affatto, dal momento che è la Prima spia a condurla.» Rubella sbuffò sommessamente. «Quel tipo non ti piace.» «È solo che non approvo i suoi metodi, il suo atteggiamento o il fatto che gli sia consentito di insudiciare il suolo con la sua presenza... La squadra di cui io faccio parte...» omisi accortamente di specificare che lavoravo con Petronio, che proprio Rubella aveva sospeso dal servizio «...ha qualche indizio. Sto giusto per partire per Tibur con Frontino, l'ex console incaricato dell'indagine. Lo conosci?» Rispose di no, un punto a mio vantaggio. «A quanto pare sono stati trovati altri resti di corpi umani. Forse tu puoi dirmi, Rubella, quali sono le disposizioni per l'applicazione della legge fuori Roma.» «Nel Lazio?» Il tribuno parlava della campagna con il disgusto tipico dell'uomo di città ed era ferocemente critico nei confronti dell'amministrazione locale della zona. «Suppongo che nei villaggi migliori possa esserci
qualcuno come un diumviro che organizza un gruppo di volontari, se per caso vengono attaccati da ladri di polli particolarmente violenti.» «Nelle province straniere è l'esercito a occuparsi di questo lavoro.» «Non nella sacra Italia, Falco. Noi siamo una nazione di uomini liberi, non possiamo accettare di avere soldati che impartiscono ordini. La gente potrebbe ignorarli, e come si sentirebbero allora quei poveri ragazzi? C'è una coorte della Guardia Urbana a Ostia, ma si tratta di un'eccezione per via del porto.» «Per proteggere gli approvvigionamenti di grano quando arrivano» aggiunsi. «Ci sono gli urbani anche a Puteoli, per la stessa ragione.» Rubella sembrava seccato di scoprire che ero così bene informato. «Non troverai presidi di polizia regolari in nessun altro posto.» «Questo particolare mi puzza.» «Loro sostengono che in campagna non si verificano crimini.» «Sì, e le capre hanno teste umane e i cavalli possono nuotare sott'acqua!» «La campagna è selvaggia e la cosa peggiore sono le persone che ci abitano. È per questo che tu e io abitiamo nella grande città, Falco, dove simpatici e cordiali individui in tunica rossa assicurano che si possa dormire tranquilli la notte.» Questa era un'opinione romantica sui Vigili e sulla loro efficacia, e lui lo sapeva. Per parte mia, mi sentivo perfettamente in grado di affrontare il resto del Lazio. Rubella non lo sapeva, ma vi avevo trascorso metà della mia infanzia. Conoscevo, per esempio, il modo giusto per piantare l'aglio, sapevo che i funghi crescono bene nello sterco di mucca ma è meglio non accennare a questo particolare quando si servono. Su un punto, però, aveva assolutamente ragione: anch'io preferivo Roma. Tornai alla mia indagine originaria. «Dubito che Flaccida sia stata rapita da un assassino: quell'uomo dovrebbe essere coraggioso, e anche perspicace. Petronio Longo probabilmente direbbe che dovremmo sospettare Florio di volerla morta. Ormai è invischiato con le bande, quindi potrebbe cercare di organizzare da sé l'attività criminale, e ha un validissimo movente. La mia teoria, forse un po' troppo cinica, è che la stessa Milvia sarebbe felice di liberarsi della sua bisbetica genitrice.» «E quanto a Petro?» scherzò Rubella. «Ho sempre pensato che fosse grande e grosso, tranquillo... e profondo!» «Lui sarebbe felice di sbarazzarsi della vecchia strega, ma preferirebbe
prenderla in castagna per un delitto grave e portarla davanti a un giudice. Milvia vuole che Petronio scopra dov'è finita la sua adorata mamma, a quanto dice. Se le riferissi che la vecchia megera è salva, la ragazzina starebbe alla larga da Petro.» «È vero che qualcuno l'ha ridotto male?» A Rubella non sfuggiva nulla di quello che succedeva sul suo territorio. «Florio è venuto a sapere della relazione. È stata Flaccida a informarlo, per questo hanno litigato, e lui ha deciso che era venuto il momento di far rispettare la sua presenza.» «Roma può fare a meno dei grandi progetti di Florio.» L'idea che Florio flettesse i muscoli era sufficiente a preoccupare Rubella. «Questo influirà in qualche modo sull'atteggiamento di Petro verso la donna?» «Possiamo solo sperarlo.» «Non mi sembri ottimista.» Conoscevo Petro da parecchio tempo. «Be', credo che voglia riavere il suo lavoro.» «Uno strano modo di dimostrarlo. Gli ho dato un ultimatum, ma sembra che l'abbia ignorato.» «E tu lo sai» gli feci gentilmente notare «perché Petronio è stato visto andare a casa di Milvia dai tuoi uomini. Dai tempi del processo di Balbino alcuni investigatori seguono a tempo pieno ogni mossa di Flaccida. Ma poi, probabilmente, quando lei ha preso il volo il tuo uomo ha serrato le cinghie dei calzari e l'ha seguita nel suo nuovo nido, no?» «Ho dovuto richiamare i miei uomini» si lamentò Rubella. «Quella donna è troppo scaltra per fornirci qualche indizio. È anche troppo costoso sorvegliarla... e senza Petronio Longo sono seriamente a corto di uomini.» «Quindi hai sospeso la sorveglianza prima che lei se la squagliasse? O finalmente le Parche mi sorridono, una volta tanto?» Rubella si divertiva a tenermi sulle spine. Alla fine sorrise. «Gli uomini saranno ritirati alla fine del turno di oggi.» Sollevai i piedi dal tavolo, evitando con cura il suo calamaio e il vassoio della sabbia e per sottolineare il gesto mi protesi in avanti e li rimisi delicatamente a posto, allineandoli ordinatamente. Non so se il bastardo provasse un po' di gratitudine per la mia moderazione, ma mi fornì un indirizzo dove trovare Cornelia Flaccida. Si era presa un appartamento in Vicolo Statae, sotto l'Esquilino, nelle vicinanze delle Mura Serviane. Per arrivarci dovetti girare intorno all'estre-
mità absidale del Circo, attraversando i luoghi importanti della nostra caccia all'assassino. Passai davanti al Tempio del Sole e della Luna, percorsi la Via dei Tre Altari, girai intorno al Tempio del Divino Claudio, feci una deviazione in Via dell'Onore e della Virtù per passare a vedere se c'era Marina, ma era fuori. Conoscendola, non ne fui sorpreso. La nuova dimora di Flaccida era un vasto appartamento al secondo piano di un lindo caseggiato. Quando suo marito era stato condannato e le sue ricchezze confiscate dal Tesoro, le era stato probabilmente concesso di conservare il denaro che poteva dimostrare le appartenesse: la sua dote, per esempio, o qualunque eredità strettamente personale. Così, sebbene si lamentasse di essere sul lastrico, si era già sistemata bene con i suoi schiavi, pieni di lividi per le percosse come succedeva sempre al suo personale, e i mobili essenziali. Tutta la baracca era stata decorata con eleganti affreschi e con quei vasi in stile greco che vengono prodotti in serie nell'Italia meridionale per quei padroni di casa che vogliono circondarsi di oggetti di gusto evitandosi il fastidio di perlustrare i mercati delle pulci. L'impressione era che Flaccida avesse approntato il suo rifugio già da parecchio tempo, e avrei scommesso che non ne aveva mai rivelato l'esistenza né a Milvia né a Florio. Flaccida era in casa. Ne ebbi la conferma perché il vigile che la pedinava era appostato in una trattoria proprio di fronte. Fingendo di non sapere che la sua presenza doveva essere un segreto, lo chiamai e lo salutai con la mano. Era probabile che Flaccida sapesse già che si trovava lì, e se la sorveglianza stava per essere tolta, far saltare la sua copertura non avrebbe comunque potuto causare alcun danno. Mi lasciarono entrare, se non altro per impedirmi di mettere in allarme il vicinato. Non era una casa dove si offrivano dolci al sesamo e tè alla menta, ma per me era meglio così: avrei considerato rischioso accettare qualsiasi cosa in cui potesse essere mescolato del veleno. Per festeggiare la riconquistata libertà dalla generazione più giovane, la pallida matrona si era appena fatta ritoccare i capelli, di un biondo diverso dalla precedente tonalità. Era stravaccata su un divano color avorio, vestita di indumenti dai colori stridenti, porpora e cremisi intenso, il cui acquisto doveva avere reso felici molti follatori e tintori; quando però l'avesse mandato in lavanderia, il completo avrebbe rilasciato quei terribili colori suscitando le proteste degli altri clienti, i cui vestiti sarebbero tornati a casa striati. Flaccida non fece nemmeno il gesto di alzarsi per salutarmi. Forse i cal-
zari che indossava, con suole molto alte, la rendevano instabile, o forse pensava che io non meritassi lo sforzo. In questo caso il sentimento era reciproco. «Questa sì che è una sorpresa! Cornelia Flaccida, sono felicissimo di vederti viva e vegeta. Correva voce che fossi stata rapita per essere dissezionata.» «Da chi?» Evidentemente Flaccida pensava che si trattasse di qualche nemico della malavita. Doveva averne parecchi. «Potrebbe essere chiunque, non credi? Sono in tanti a covare questa fantasia.» «Oh, si trovano sempre benefattori impiccioni!» Scoppiò in una risata stridula che mi diede sui nervi. «Scommetterei il mio denaro su Florio e Milvia, anche se, cosa abbastanza strana, è stata proprio tua figlia a sguinzagliare i segugi. Ti vuole talmente bene che ha assunto proprio me per rintracciarti. Dovrò riferirle che sei in ottima salute... anche se non sono necessariamente obbligato a rivelare dove ti trovi.» «Quanto?» mi domandò stancamente Flaccida, presumendo che volessi essere comprato per tenere la bocca chiusa. «Oh, non potrei mai accettare denaro.» «Credevo che fossi un investigatore.» «Diciamo che mi accontenterò se parteciperai all'iniziativa della tua famiglia di lasciare in pace il mio buon amico Lucio Petronio. Sono sollevato di non doverti includere fra le donne che sono state fatte a pezzi e gettate negli acquedotti.» «È vero» concordò Flaccida, niente affatto commossa. «Sono certa che non vorresti vedermi mentre ti sorrido dalla vasca di una fontana, e a me non va di arrivare con un tonfo nel calidarium delle terme degli uomini, fornendo a quei bastardi la scusa per fare battute sconce.» «Oh, non preoccuparti» la rassicurai «a questo assassino piacciono i bocconcini giovani e freschi.» XLVII Fare i preparativi e salutare per un'assenza di una quindicina di giorni richiese più tempo di quanto ne impiegavamo in passato quando lasciavamo Roma per sei mesi. Io avrei preferito non dirlo a nessuno, ma questo avrebbe comportato dei rischi: a parte l'inclinazione all'isteria che regnava a
Roma e che avrebbe potuto indurre le persone a riferire che un'intera famiglia era stata rapita dall'assassino degli acquedotti, faceva ancora caldo e non volevamo che mia madre facesse una capatina e ci lasciasse mezza spigola nella stanza migliore, senza coperchio sul piatto. Questo non significa che avvisai personalmente mia madre. Chiesi invece a mia sorella Maia di dirglielo dopo che fossimo partiti, altrimenti ci avrebbe caricati di pacchetti da portare alla prozia Febe nella fattoria di famiglia. La campagna si estende a sud e a est di Roma formando un gigantesco arco da Ostia a Tibur, ma secondo l'opinione di mia madre contava solo il puntino sulla Via Latina dove vivevano quei mentecatti dei suoi fratelli e spiegarle che non saremmo andati in un posto vicino a Fabio e a Giunio sarebbe stato come dare testate contro un ceppo per tagliare la legna. Per mamma il solo motivo per andare in campagna era riportare a casa prodotti di prima scelta ottenuti gratuitamente da parenti sbigottiti che non vedevamo da anni. In realtà, io ci andavo anche per il vino. Non si poteva fare una gita in campagna soltanto per dare la caccia a un maniaco che uccideva le donne: in genere la campagna era il luogo in cui un romano andava quando la sua cantina incominciava a svuotarsi. «Portane un po' anche per me!» brontolò Famia, il marito di Maia, che era un ubriacone. Come al solito, non fece nemmeno il gesto di pagarlo. Strizzai l'occhio a mia sorella per farle capire che non avevo nessuna intenzione di accontentarlo, e a lei avrei portato dei cavoli, che avrebbe potuto utilizzare per preparargli dei rimedi contro i postumi delle sbornie. «Dei carciofi, per favore» mi disse Maia. «E degli zucchini, se ce ne sono ancora.» «Scusami, ma in teoria dovrei andare a catturare un maniaco.» «Stando a quanto racconta Lollio, ha già risolto lui il caso per voi.» «Non dirmi che qualcuno ha incominciato a prendere sul serio Lollio.» «Soltanto lui stesso.» Maia aveva un modo pungente di insultare i mariti delle nostre sorelle. Suo marito, però, rimaneva un punto debole, cosa del resto comprensibile. Il giorno in cui avesse incominciato a notare i difetti di Famia, tutti noi ci saremmo dovuti aspettare un'interminabile diatriba. «Come sta Petronio?» s'informò. «Viene con voi?» «È stato costretto a letto dalla società per la salvaguardia dei matrimoni nel mondo criminale, un bel gruppetto di individui con alti valori morali che credono di essere il fulmine di Giove. Lo hanno pestato così violente-
mente che mi auguro che quando riaprirà gli occhi torni dritto da Arria Silvia.» «Non ci scommetterei al tuo posto» ironizzò Maia. «Può anche darsi che lui bussi alla porta, ma non sono sicura che lei gli aprirà. L'ultima volta che ho sentito parlare di Silvia, si stava consolando benissimo della propria perdita.» «Che cosa significa, sorellina?» «Oh, Marco! Significa che suo marito l'ha tradita, così lei lo ha scaricato e adesso è stata vista in giro con un nuovo accompagnatore.» «Silvia?» Maia mi abbracciò. Chissà perché, mi considerava sempre un amorevole ingenuo. «Perché no? Quando l'ho vista, mi ha dato l'impressione che non si divertisse così da anni.» Mi si strinse il cuore. «Come va la tua poesia?» Se Maia cercava di tirarmi su di morale fingendo interesse per il mio passatempo (sapevo benissimo che lei lo trovava ridicolo), il suo stratagemma fallì. «Sto pensando di organizzare presto una recita in pubblico.» «Giunone e Minerva! Prima partirai per la campagna e meglio sarà, fratellino caro!» «Grazie per il sostegno, Maia.» «Sono sempre pronta a salvarti da te stesso.» Avevo un altro compito, di poca importanza, da portare a termine prima della partenza, ma non sopportavo l'idea di ascoltare per un'ora il chiacchiericcio di Milvia, così mi rifiutai di andare a casa sua. Scrissi invece un conciso rapporto al quale Elena allegò il conto dei miei servigi, pagabile alla consegna. Rassicurai la ragazza dicendole che avevo visto sua madre e che le avevo parlato personalmente. Dissi che Flaccida stava bene e si era iscritta a una serie di conferenze speculative sulle scienze naturali, per cui non desiderava essere disturbata. Fatto questo, decisi di andare a trovare Petronio a casa di sua zia, una visita che fui obbligato a fare in compagnia del nostro zelante supervisore, l'ex console. La sua idea di gestione era di controllare personalmente i dipendenti che avrebbero potuto fingere di essere in malattia mentre in realtà stavano benissimo. Ancora una volta avevo suggerito a Frontino di venire vestito alla buona, onde evitare che la zia di Petro, Sedina, che respirava già affannosamente, morisse per l'agitazione all'idea che un personaggio
così eminente stesse seduto sul bordo del letto, in casa sua, per visitare quel nipote vagabondo. Invece Sedina mi salutò calorosamente, dopodiché salutò il mio compagno come se pensasse che fosse il mio schiavo, incaricato di cambiarmi i calzari; riservò a me l'onore della ciotola di mandorle da sgranocchiare che si offre agli ospiti, ma io lasciai che anche il console ne prendesse una o due. Non appena entrammo vidi che, ora che i lividi e i gonfiori avevano raggiunto lo stadio migliore, il mio vecchio amico aveva un aspetto perfino peggiore. Era così variopinto che avrebbe potuto interpretare Iride sul palcoscenico. Era cosciente e abbastanza in sé da salutarmi con una serie ininterrotta di oscenità; lasciai che si sfogasse, poi mi feci da parte in modo che potesse vedere Frontino, che si nascondeva alle mie spalle reggendo in mano una caraffa di cordiale medicamentoso, da cui si capiva che era stato educato bene. Io avevo portato dell'uva, così Petro poteva distrarsi mangiucchiando mentre rimaneva in silenzio alla presenza del grand'uomo. È difficile scambiare quattro chiacchiere con un invalido che può biasimare solo se stesso. Non gli avremmo certamente fatto piacere parlando dei suoi dolori, e chiedergli la causa della sua infermità era fuori discussione. La stupidità è un malanno di cui nessuno ama parlare apertamente. Frontino e io facemmo l'errore di confessare che eravamo venuti a salutarlo prima di partire per un viaggetto a Tibur. Questo diede subito a Petro l'idea di noleggiare una lettiga per venire con noi. Era a stento in grado di muoversi, quindi non sarebbe stato d'aiuto, tuttavia forse sarebbe stato un bene allontanarlo dal pericolo di una nuova aggressione da parte di Florio, ed ero anche ben lieto di portarlo in un luogo dove Milvia non avrebbe potuto raggiungerlo. Sua zia pensò che la sua ospitalità non era abbastanza apprezzata, ma poi smise quasi subito di fare l'offesa e incominciò invece a pensare che l'aria fresca della campagna era proprio quello di cui aveva bisogno il suo tesoro. Così ce lo ritrovammo sul gobbo. «Benissimo, ma questo non aiuterà Lucio Petronio a tornare insieme a sua moglie» osservò Elena quando glielo riferii. Non feci commenti. Ero già stato in campagna in precedenza con quel furfante, durante la vendemmia, e quelle esperienze con Petronio nelle fattorie dei parenti mi avevano insegnato che cosa esattamente egli intendesse per «rimettersi in salute»: l'idea che Petro aveva di una bella vacanza in campagna era di starsene sdraiato all'ombra di un fico, con una rozza brocca di vino del Lazio da una parte e una prosperosa ragazzotta di campagna dall'altra.
L'ultimo compito in programma era di andare a trovare la famiglia di Elena a Porta Capena. Suo padre era fuori, aveva accompagnato il figlio maggiore in visita presso alcuni senatori per procurarsi voti. Sua madre prese in braccio la nostra bambina in una pubblica manifestazione di affetto, lasciando intendere che era scontenta di alcuni altri membri della sua tribù. Claudia Rufina sembrava molto silenziosa e Giustino fece solo una breve apparizione, con espressione seria, prima di svignarsela da solo da qualche parte. Giulia Giusta spiegò a Elena che Giustino non voleva entrare in Senato, nonostante suo padre si fosse indebitato parecchio per trovare i fondi necessari all'elezione. Adesso era stato deciso che il figlio avrebbe fatto un viaggio di perfezionamento fuori Roma «Dove, mamma?» «In qualunque posto» commentò piuttosto energicamente la nobile Giulia. Avemmo la chiara impressione che ci avesse raccontato solo metà della storia, ma dal momento che nessuno si sbottonava non ci fu alcuna possibilità di fare una chiacchierata in privato. «Be', immagino che non partirà prima del matrimonio di Aulo e Claudia» si consolò Elena. Giustino era il suo prediletto e le sarebbe mancato moltissimo se fosse stato esiliato da Roma. «I nonni di Claudia dovrebbero arrivare fra un paio di settimane» ribatté sua madre. «Uno cerca di fare del proprio meglio.» Giulia Giusta sembrava più depressa e risentita del solito. L'avevo sempre considerata una donna avveduta. Era una rarità fra le patrizie, una brava moglie e madre. Avevamo i nostri dissapori, ma solo perché lei viveva secondo principi morali assai elevati. Quando era in difficoltà con uno dei suoi figli la compativo, ma ero sicuro che non avrebbe mai voluto che le offrissi aiuto. Sperando di scoprire che cosa bolliva in pentola cercai di scovare il senatore nella palestra di Glauco, che frequentavamo entrambi, ma Camillo Vero non c'era. Il giorno seguente eravamo tutti alloggiati a Tibur. Frontino era ospite di amici patrizi in una villa dotata di tutte le comodità e dalla quale si godeva una splendida vista. Elena e io avevamo preso in affitto una piccola fattoria in pianura, un paio di stanze annesse a un'abitazione rustica. Sistemammo Petro sopra la capanna, in un alloggio da scapolo dove avrebbe dovuto esserci il torchio da vino, mentre sua zia divideva con noi un corridoio. Sedina aveva insistito per venire con noi, così da poter continuare ad assiste-
re il suo tesoro. Petronio era furibondo, ma non c'era niente che potesse fare. Doveva dire addio alle sue aspirazioni romantiche: sarebbe stato colmato di attenzioni, coccolato... e controllato. «Questa è una topaia, Falco.» «Hai deciso tu di venire. Tuttavia, sono d'accordo con te. Probabilmente potremmo acquistare questo posto per poco più di quello che paghiamo di affitto.» Le parole sbagliate al momento sbagliato. «È una buona idea» disse subito Elena, che era sopraggiunta in modo inaspettato. «Possiamo dare inizio ai tuoi investimenti in terra italica, in previsione di quando deciderai di acquisire i requisiti necessari per un rango più elevato. Allora potremo pavoneggiarci parlando della nostra residenza estiva a Tibur.» Ero allarmato. «È questo che desideri?» «Oh, io desidero quello che desideri tu, Marco Didio.» Elena sorrise maliziosamente. Non aveva risposto alla mia domanda, e lo sapeva benissimo. Sembrava già più serena e meno stanca di quando era a Roma, così parlai in tono meno scontroso di quanto mi fossi proposto. «Nemmeno per infastidire mia sorella Giunia, che come sappiamo ha aspirazioni esagerate, investirei del buon denaro in un posto spregevole come questo.» «È un ottimo terreno, ragazzo mio» annunciò la zia di Petro, avvicinandosi con il suo passo dondolante, con un fascio di ortaggi flosci nello scialle. «Ci sono delle splendide ortiche sul retro. Ho intenzione di preparare una bella pentola di minestra per tutti noi.» Come tutte le donne di città, zia Sedina amava venire in campagna per poter dare prova delle sue abilità culinarie, preparando piatti discutibili con disgustosi ingredienti che chi abitava in campagna avrebbe rifiutato con sdegno. L'idea di acquistare un appezzamento di ortiche selvatiche alte quasi due metri nella debole speranza di diventare un giorno un equestre saggiava il mio livello di ambizione. Soltanto un idiota l'avrebbe fatto. Nessuno viveva lì in pianura, in una zona squallida e insalubre: chiunque avesse un po' di denaro e di buongusto avrebbe acquistato un piccolo palazzo su un terreno circondato da giardini ornamentali fra i pittoreschi dirupi dai quali il fiume Anio precipitava formando una straordinaria cascata. L'Anio era il grazioso corso d'acqua nel quale, secondo Bolano, qualche squilibrato locale gettava abitualmente brandelli di corpi umani dissezionati.
XLVIII Purtroppo, però, non ero venuto per gustarmi il panorama. Il mio primo compito sarebbe stato familiarizzare con la zona. Ci trovavamo in cima all'estremità meridionale dei Monti Sabini; eravamo arrivati lungo la Via Tiburtina, attraversando due volte l'Anio, la prima volta appena fuori Roma sul Ponte Mammeo e più avanti sul Ponte Lucano, a cinque arcate, dominato dalla bella tomba dei Plauti. Era un luogo abitato da gente ricca, come si poteva capire dalla presenza delle fonti termali di Aquae Albulae, nelle quali Sedina aveva provveduto a immergere Petronio, anche se, poiché si riteneva che le terme curassero le affezioni di gola e le infezioni urinarie, non capivo che utilità potessero avere per un uomo che era stato preso a calci e a pugni fino a cadere quasi nell'oblio. Inoltre le sue ferite, sgradevoli alla vista, provocarono un certo trambusto fra gli infermi, che si precipitarono fuori. I laghi che alimentavano le terme erano splendidi, di un sorprendente azzurro intenso. La zona adiacente era pervasa da un odore di zolfo assolutamente ripugnante e, nel timore che i romani si trasformassero in turisti, l'imperatore aveva fatto del proprio meglio per rovinarla. Lì veniva estratto il travertino per il nuovo enorme Anfiteatro Flavio di Roma, un'operazione che deturpava il paesaggio e riempiva di carri le strade. Doveva essere dura da accettare per i ricchi che avevano costruito in quel luogo le loro case per le vacanze, ma difficilmente avrebbero potuto protestare per fermare il progetto favorito di Vespasiano. Durante il nostro viaggio attraverso la campagna avevamo costeggiato gli alti ed eleganti archi dei principali acquedotti; anche quando si allontanavano dalla strada, potevamo vedere le grandiose arcate scure che dalle colline si dirigevano verso Roma. Dominavano la pianura, occupavano un'area molto vasta e il loro percorso si estendeva per parecchie miglia. Dovevano avere sempre la giusta pendenza e arrivare in città ancora abbastanza in alto per rifornire le cittadelle, il Palatino e il Campidoglio. Nel punto in cui terminava la pianura e incominciavano le colline sorgeva Tibur, circondata da begli oliveti e panorami impareggiabili per la loro imponenza. Lì il fiume Anio, che scendeva dalle colline, descriveva una vasta ansa che circondava la città su tre lati, percorrendo una stretta gola e formando spettacolari cascate. Il terreno collinare terminava bruscamente con una scarpata e il fiume precipitava direttamente per oltre centottanta metri.
In quel luogo sbalorditivo, sacro alla sibilla Albunia, erano stati edificati l'elegante tempio dedicato alla sibilla, che aveva il tetto scosceso, e quelli di Ercole Vittorioso e di Vesta, soggetti molto popolari fra gli artisti di tutta Italia e che ricorrevano soprattutto nei paesaggi dipinti su pannelli circolari che venivano usati per adornare i lati di eleganti triclinii. Qui gli statisti costruivano opulente dimore di campagna, vantando una serie di imitatori, i poeti erranti infestavano i luoghi e anche Mecenate, sostenitore di Cesare e di Augusto, vi aveva edificato il suo sontuoso rifugio. A volte ci veniva lo stesso Augusto. Varo, il leggendario ufficiale incompetente che aveva perso tre intere legioni in Germania, possedeva un vasto appezzamento di terreno e anche una strada che aveva preso il suo nome. L'intero paesaggio trasudava ricchezza e l'atmosfera era, di conseguenza, opportunamente sofisticata. Il centro della città era ordinato, lindo e abbellito con capelvenere coltivata ad arte. La popolazione sembrava amichevole, come sempre succede nelle città dove la principale occupazione è spennare i turisti con prezzi esorbitanti. Sapevamo che Bolano si trovava in collina, così mandammo un messaggero ad annunciare il nostro arrivo. Nel frattempo, Giulio Frontino e io ci dividemmo il compito di controllare le proprietà terriere. Lui si accollò le sinistre dimore con campi da corsa privati e guardie armate in cui gli estranei non sarebbero potuti penetrare e che però aprirono quasi tutti i cancelli a un console accompagnato da sei littori. (Naturalmente Frontino se li era portati appresso: anche loro meritavano una vacanza. In questo era assolutamente premuroso.) Io mi occupai delle restanti proprietà, che erano meno numerose di quanto avessi temuto. Tibur era un luogo di villeggiatura da milionari, talmente esclusivo da essere perfino peggiore della baia di Neapolis in piena estate. Elena Giustina aveva deciso di coordinare i nostri sforzi. Sedina l'aiutò a prendersi cura di Giulia nei momenti in cui mandava Petronio a fare un riposino. In questo modo Elena era libera di organizzare le attività mie e di Frontino, un compito a cui si dedicò con gioia. Disegnò una mappa dell'intera zona, indicando chi viveva dove e chi dovesse essere incluso nel nostro elenco di persone sospette. Per diversi motivi, l'elenco risultò più breve del previsto. «Poiché, a quanto pare, l'assassino degli acquedotti esercita la sua macabra attività da parecchi anni, possiamo escludere tutti coloro che possiedono una proprietà acquistata di recente» ci fece presente Elena. «Poiché uccide in modo ricorrente, probabilmente possiamo ignorare tutte le grandi
ville che sono occupate solo in modo saltuario: i loro proprietari non vengono qui abbastanza spesso. Noi cerchiamo qualcosa di molto particolare: una famiglia per cui Tibur è un luogo in cui rilassarsi, dove stare, o non stare, in determinati periodi dell'anno, e da cui tornare o no a Roma per le festività più importanti. Quelle che cercate sono persone che assistono a tutti i Giochi regolarmente, e che lo fanno con assiduità da decenni. Se poi possiedono una casa con accesso al fiume, tanto meglio.» In generale non fu difficile ottenere queste informazioni. Se trovava i proprietari terrieri in casa, Frontino si informava apertamente sulle loro abitudini e sui loro movimenti. Le persone rispondevano diligentemente: aiutare un tribunale ufficiale è un dovere pubblico e ci sono sanzioni penali per chi si rifiuta. Il mio approccio era più sottile, ma funzionò altrettanto bene. Invitavo, in genere, la gente a spettegolare sui loro vicini. Trovai materiale in abbondanza. «Entrambi avete raccolto parecchie informazioni» dichiarò Elena, facendoci sedere per una consultazione dopo una giornata di duro lavoro. Frontino era venuto giù alla fattoria e non si era mostrato affatto riluttante a visitare una serie di capanne in un appezzamento di ortiche. Elena brontolò con lui almeno quanto fece con me: «Il problema è che non avete rintracciato abbastanza sospetti». «Stiamo commettendo degli errori?» domandò umilmente Frontino. «Non lasciarti intimorire da Elena» dissi, con un sorriso sarcastico. Elena sembrò addolorata. «Mi comporto da tiranno, Marco?» «Tu sei te stessa, amore mio.» «Non voglio essere sfacciata.» «Non ti preoccupare, Elena! Vedi bene che il console e io ascoltiamo come due docili agnellini. Andiamo avanti.» «Allora, ascoltate, questo è un esempio tipico: Giulio Frontino ha interrogato una famiglia, i Luculli. Costoro possiedono una grande casa vicino alla cascata, con una vista sublime sul Tempio della Sibilla.» «Al momento si trovano qui, e hanno ammesso prontamente di essere andati tutti insieme a Roma per parecchi giorni durante gli ultimi Giochi» riferì Frontino, che appariva ancora un po' intimorito dall'entusiasmo di Elena. «Sì ma, console...» Quel «console» era un contentino alla sua vanità, e lui la prese bene. «I Luculli sono una famiglia ricca sfondata da tre o quattro generazioni, di conseguenza si sono comprati ville in tutte le località alla moda. Ne hanno ben due nella baia di Neapolis, poste l'una di fronte
all'altra a Cumae e a Surrentum, oltre a una base per la navigazione da diporto sul Lago Albano, a una proprietà a nord, Clasium, e una a sud, Velia. E in questa zona non possiedono soltanto la casa di Tibur dove li abbiamo trovati, ma un'altra a Tusculum e ancora una terza a Praeneste, che in realtà risulta essere la loro dimora preferita quando cercano aria fresca per fuggire dalla calura estiva di Roma.» Frontino sembrava completamente sconcertato. Intervenni con tono allegro. «Di conseguenza le possibilità che i fortunati Luculli seguano uno schema di comportamento regolare sono pari a zero.» «Esatto» ribatté Elena. «Sono costantemente in movimento. Anche se si recano regolarmente a Roma per le festività, per metà del tempo non soggiornano qui. La persona che cercate rapisce le sue vittime e poi le elimina sempre esattamente nello stesso modo, a quanto pare, e probabilmente nello stesso posto.» «Abbiamo trovato qualcuno che corrisponda ai requisiti?» domandai. «No.» Elena sembrava scoraggiata. «Pochissime persone rientrano nella categoria. Pensavo che ne avessimo una: è romana, vive qui da vent'anni e va a Roma in occasione di tutte le festività più importanti. Tuttavia si tratta di una donna, Aurelia Mesia. Possiede una villa nei pressi del Santuario di Ercole Vittorioso.» «Me la ricordo.» Era stato Frontino a interrogarla. «Una vedova. Discreta famiglia. Non si è mai risposata. È tornata a vivere in una delle proprietà di famiglia dopo la morte del marito, ma adesso va a stare a Roma dalla sorella ogni volta che c'è un evento importante a cui partecipare. Ha superato la cinquantina...» Il suo tono lasciava intendere che quella era una valutazione galante. «Si è mostrata sospettosa nei confronti della nostra indagine, ma è sicuramente incapace di commettere un omicidio. Inoltre, si ferma a Roma per tutto il periodo dei Giochi. Il nostro assassino ha catturato Asinia dopo la cerimonia di apertura e ha introdotto almeno una delle sue mani nella rete idrica immediatamente dopo. Questo significa che se Bolano ha scoperto realmente dove agisce, ed è quassù, l'uomo deve essere tornato a Tibur in pratica il giorno dopo.» «Questo è un altro punto essenziale dello schema» suggerii. «L'assassino va a Roma per le festività, ma è evidente che torna indietro subito dopo la cerimonia di apertura. Tuttavia non resta qui: deve tornare a Roma una seconda volta, poiché i tronchi e le teste vengono gettati nel fiume e nella Cloaca Massima in seguito. È un comportamento lineare.» A quel punto
mi balenò nella testa una spiegazione ovvia. «Aurelia Mesia deve avere dei portatori di lettiga, o un conducente. La sua lettiga l'accompagna a casa della sorella a Roma, ritorna qui e poi va a riprenderla alla fine dei Giochi.» «Si serve di un conducente.» Era toccante il modo in cui Frontino era smanioso di mostrarsi zelante. «Mi sono ricordato di chiederglielo. Viaggia con una carrozza, ma il conducente resta con la vettura in una stalla appena fuori Roma. La signora vuole che sia disponibile nel caso lei e la sorella decidano di fare una gita in campagna.» Quindi Aurelia Mesia era da escludere, ma per lo meno avevamo trovato una persona che si avvicinava abbastanza al nostro profilo. Questo ci incoraggiò a credere che da qualche parte potessero essercene altre. «Non lasciarti scoraggiare» dissi a Frontino. «Più persone escludiamo, più facile sarà individuare quella che vogliamo.» Lui concordò con me e poi ci presentò un altro problema. «Se Bolano ha ragione quando afferma che i resti smembrati dei corpi entrano negli acquedotti alla fonte, allora non è a Tibur che dovremmo cercare.» «Tibur è rifornita dall'Aqua Marcia» spiegò Elena, «ma è una diramazione che termina qui. La conduttura principale che va a Roma incomincia ad alcune miglia di distanza.» «A metà strada tra qui e Sublaqueum» aggiunsi, per non essere da meno nel fornire elementi. «Soltanto altre trenta miglia di territorio nel quale dobbiamo identificare ogni casa e ogni fattoria e poi chiedere cortesemente ai proprietari se per caso non sono degli assassini!» XLIX Come d'accordo, Bolano fece rapporto a Frontino il giorno seguente. Li incontrai entrambi nella casa nella quale soggiornava il console. Bolano indossava la stessa tunica logora e la stessa vecchia cintura che gli avevo visto la prima volta che ci eravamo incontrati. A queste aveva aggiunto un ampio copricapo per proteggersi dalle intemperie e una sacca da viaggio. La sua intenzione era di trascinare Frontino e me fino a Sublaqueum, per ragioni che sospettavo avessero più a che fare con il suo desiderio di vedere la diga alla quale aveva lavorato un tempo che con la nostra ricerca. Ma, da funzionario statale qual era, sapeva benissimo come far sembrare una necessità logistica quella che era soltanto una piacevole visita in loco. Frontino aveva mandato un messaggio per chiedere se Petro voleva esse-
re condotto alla villa per aiutarci a fare il punto della situazione, ma il mio socio si rifiutò spudoratamente. «No, grazie. Riferisci al console che preferisco poltrire qui contando le oche.» «Amoreggiando con la sguattera del vicino, vuoi dire» grugnii. «Certamente no!» esclamò lui ridacchiando. Avevo ragione io. Petro aveva notato che era rotonda nei punti giusti, aveva diciott'anni e l'abitudine di guardare oltre lo steccato che la divideva dalla nostra fattoria nella viva speranza che un essere maschile si avvicinasse per scambiare quattro chiacchiere. Quanto a me, avevo notato la ragazza soltanto a causa di una conversazione assolutamente ragionevole con Elena Giustina su quanto poco la signorina avesse da fare a cogliere erbe e a mungere le capre. Elena era dell'idea che fosse una fonte di guai mentre io cercavo debolmente di sostenere che le abitudini sconvenienti non finiscono inevitabilmente in tragedia. Petronio Longo rispecchiava il modello del tipico investigatore più di quanto io avessi mai fatto. Il problema era che non prendeva seriamente il lavoro: se c'era una caraffa da bere o una donna attraente da guardare con aria trasognata, lui non si tirava mai indietro. Sembrava che pensasse che la vita del libero professionista significasse starsene a letto fino a rovinarsi la reputazione e poi passare il resto della giornata spassandosela. Se poi, così facendo, finiva per scaricare tutto il lavoro sulle mie spalle, si limitava a ridere della mia stupidità. Questo atteggiamento era l'esatto contrario del suo modo coscienzioso di lavorare fra i Vigili. Perfino da ragazzo, nell'esercito, era stato più scrupoloso. Forse aveva bisogno di un capo al quale ribellarsi. In tal caso, come suo amico non sarei mai stato in grado di impartire ordini, era fuori discussione. Inoltre, Petro sapeva bene come raggirare il console. «Petronio Longo non è con te?» fu la prima cosa che mi chiese Frontino. «Mi dispiace, console. Si sente di nuovo un po' indisposto. Lui voleva venire, ma sua zia gli ha proibito di uscire.» «Oh, davvero?» rispose Frontino, come un galletto consapevole che qualche burlone gli sta tirando le penne. «Davvero.» Bolano sogghignò, intuendo la situazione, poi allentò la tensione mettendosi tranquillamente a parlare della nostra escursione sulle colline. Frontino fu sistemato su una comoda e veloce carrozza mentre io e Bolano viaggiammo a dorso di mulo. Prendemmo anzitutto la Via Valeria, la
grande strada che attraversa gli Appennini e sale fra dolci e piacevoli pendii boscosi, accompagnata dagli eleganti archi dell'Aqua Claudia. In quel punto l'acquedotto seguiva il fiume Anio, mentre sotto Tibur faceva una lunga deviazione verso sudest per evitare la scarpata, che l'avrebbe costretto a un'improvvisa caduta in altezza. I Monti Sabini si estendono sostanzialmente da nord a sud. All'inizio del nostro viaggio per gran parte del primo giorno ci dirigemmo verso nordest. La valle dell'Amo si allargava e assumeva un aspetto più agricolo, con vigneti e uliveti. Comprammo qualcosa da mangiare, dopodiché proseguimmo fino al punto in cui il fiume deviava verso sud e dovemmo lasciare la strada principale. Eravamo nelle vicinanze della strada secondaria che, a quanto mi era stato riferito, conduceva alla fattoria sabina di Orazio. Quale poeta dilettante mi sarebbe piaciuto fare una deviazione per rendere omaggio alla Fonte Bandusia, ma eravamo in cerca di un assassino, non di cultura. Questa è la triste routine degli investigatori. Ci fermammo per la notte in un piccolo paese, prima di abbandonare la strada maestra e prendere una viuzza di campagna poco battuta che percorreva la valle dell'Anio fino alla dimora di Nerone a Sublaqueum. Quando vi arrivammo, il giorno seguente, rimanemmo sbalorditi: era sorto un nuovo villaggio, sviluppatosi dalle officine e dalle capanne originarie che erano state edificate per dare alloggio ai costruttori e agli artigiani che avevano lavorato alla villa di Nerone. Il luogo era tranquillo e ben tenuto, con pochi abitanti, ed era splendido. All'inizio della pittoresca valle coperta di foreste, dove il fiume riceveva i suoi affluenti e incominciava a diventare importante, un tempo c'erano tre piccoli laghi. Nerone aveva fatto costruire una diga per alzare il livello delle acque, creando magnifici laghi ornamentali intorno al suo favoloso palazzo estivo in marmo. Seguendo il tipico gusto romano per l'eccesso, aveva scelto uno splendido paesaggio in un luogo tranquillo e riservato e l'aveva arricchito con opere architettoniche di portata così stupefacente che ormai nessuno veniva più per ammirare il panorama, ma solo per ammirare il complesso residenziale. Una valle remota e suggestiva era stata distrutta per creare il luogo di villeggiatura di Nerone, che poteva così divertirsi con ogni genere di lusso mentre fingeva di vivere con semplicità nella natura. In realtà non ci venne quasi mai, poiché morì subito dopo la sua costruzione. Nessun altro volle utilizzare quel palazzo, e ora Sublaqueum non sarebbe mai più stata la stessa. Bolano ci informò con orgoglio che la diga intermedia, alla quale lui
stesso aveva lavorato, era la più grande al mondo. Alta circa quindici metri, era tanto ampia che sulla sommità potevano avanzare dieci cavalli affiancati, se qualche pomposo fanatico avesse voluto condurveli. Era pavimentata con mattonelle speciali e aveva un avvallamento al centro che faceva da sfioratore, in modo che le acque potessero continuare a scorrere naturalmente a valle. La diga era davvero enorme, un massiccio terrapieno di pietrisco ricoperto di blocchi incastrati e sigillati con calce idraulica e pietre frantumate per ottenere un intonaco impenetrabile dall'acqua. Splendido. Chi avrebbe potuto biasimare un imperatore che poteva disporre dei migliori ingegneri al mondo e li aveva usati per abbellire in quel modo il suo giardino? Era molto meglio di un banale stagno con una lampreda e un po' di erbacce verdi. Un ponte attraversava l'intera diga e consentiva l'accesso alla villa e alle sue splendide attrattive. Bolano ci raccontò parecchie storie sull'opulenza di quel luogo, ma non eravamo dell'umore giusto per fare un giro turistico. Frontino ci costrinse a incamminarci lungo il ponte. Quando arrivammo nel mezzo, per quanto mi riguardava non desideravo altro che tornare sulla terraferma; il console, se anche soffriva di vertigini, non lo diede a vedere. «Siamo venuti con te, Bolano, poiché ci fidiamo della tua competenza. Adesso convincici che questa visita alla diga ha una sua rilevanza.» Bolano si fermò e guardò giù nella valle: una figura risoluta, niente affatto impressionata dall'autorevolezza della persona che lo torchiava. Indicò il paesaggio con un ampio gesto del braccio. «Non è splendido?» Frontino storse la bocca e assentì in silenzio. «Bene! Volevo dare un'altra occhiata» continuò Bolano. «L'acquedotto dell'Amo Novo ha bisogno di una completa revisione. Non arriva direttamente al fiume. Sapevamo già, vista la pessima qualità dell'acqua dell'originario Anio Veto, che la conduttura avrebbe trasportato troppo fango. Io ritengo che la situazione potrebbe essere notevolmente migliorata se qualcuno riuscisse a convincere l'imperatore a estenderlo fin quassù, in modo che riceva le acque direttamente dalla diga.» Frontino aveva tirato fuori la sua tavoletta per appunti e prendeva nota. Mi pareva già di vederlo incoraggiare Vespasiano a restaurare l'acquedotto. Per le casse del Tesoro, già in difficoltà, trovare i fondi necessari per quel lavoro avrebbe richiesto probabilmente un bel po' di tempo. Tuttavia, Giulio Frontino aveva solo poco più di quarant'anni ed era il tipo che avrebbe meditato per anni su un suggerimento del genere. Nel giro di qual-
che decennio forse mi sarei ritrovato a sorridere mentre gli Acta Diurna festeggiavano l'estensione dell'Anio Novo, ricordando che ero stato proprio lì, sopra il Lago di Nerone, ad ascoltare l'assistente di un ingegnere che propugnava con convinzione le proprie teorie... Questo, tuttavia, non aveva niente a che fare con gli omicidi. Feci pacatamente presente la cosa. Avevo la sensazione che l'ostinato Bolano avesse pronto un altro dei suoi lunghi discorsi istruttivi. Mi spostai con aria infelice, guardando il cielo; era azzurro, con quella leggera sfumatura gelida tipica dell'approssimarsi dell'autunno. In lontananza volteggiavano poiane e gheppi. Bolano, che aveva la vista debole, soffriva per la luce abbagliante e la brezza. Nonostante ciò, si era tolto il copricapo, per timore che il vento glielo strappasse dalla testa e lo facesse volare via, oltre la diga e giù nella valle. «Ho riflettuto parecchio sull'Anio Novo.» Bolano si divertiva a toccare un punto di vitale interesse per poi tenere sulla corda i suoi interlocutori. «Oh!» esclamai, nel tono di chi sa di essere ignobilmente preso in giro. «Mi avete chiesto di calcolare in che modo le mani e altri resti del genere possano essere introdotti nella rete idrica. Tenendo conto del punto in cui finiscono a Roma, sono giunto alla conclusione che devono arrivare da uno dei quattro principali acquedotti che cominciano sopra Tibur, e cioè l'Aqua Claudia, la Marcia, l'Anio Veto e l'Anio Novo. La Marcia e l'Anio Veto, che è il più vecchio di tutti, scorrono entrambi quasi sempre sotto terra. Un altro punto fondamentale è che tanto la Marcia quanto la Claudia sono alimentate da sorgenti diverse, collegate agli acquedotti da gallerie. L'Anio Veto e l'Anio Novo hanno invece origine direttamente dal fiume, dal quale hanno preso il nome.» Guardammo giù il fiume maledetto che scorreva molto sotto di noi. «Secondo te questo è un particolare rilevante?» lo sollecitò Frontino. «Credo di sì.» «Tu hai sempre pensato che i resti venissero gettati direttamente nel fiume» dissi. «L'hai suggerito quando abbiamo parlato la prima volta.» «Hai una buona memoria!» Bolano mi rivolse un sorriso raggiante. All'improvviso mi colpì un pensiero orribile. «Tu credi che vengano gettati da qui!» Ci scambiammo un'occhiata, poi guardammo nuovamente giù, oltre la diga. Mi resi subito conto dei problemi che una tale ipotesi sollevava. Chiunque avesse gettato degli oggetti stando lassù su quel ponte sarebbe stato visibile per miglia. Dal lato della cisterna la diga aveva una parete vertica-
le, ma dal lato del fiume c'era un lungo terrapieno in pendenza. Sarebbe stato impossibile scaraventare le membra abbastanza lontano da essere sicuri che finissero dentro l'Anio e questo avrebbe comportato per l'assassino il rischio di precipitare a sua volta giù dal ponte. In una giornata molto ventosa sarebbe stato particolarmente pericoloso: perfino in un giorno come quello, in cui la valle coperta di fiori selvatici risuonava del canto degli uccelli e l'aria era tiepida, umida e immobile, lì in cima c'erano raffiche costanti che minacciavano di farci perdere l'equilibrio. Espressi i miei dubbi. «Un'idea originale, ma pensa a qualcos'altro.» Bolano si strinse nelle spalle. «Allora dovete controllare il fiume tra qui e la Via Valeria.» A quel punto volevo solo tornare con molta prudenza verso la terraferma, dove finiva la diga. L I miei compagni furono ben contenti di affidarmi l'incarico di ispezionare le proprietà di un certo livello. Quella notte alloggiavamo a Sublaqueum e durante il resto del pomeriggio appurai che la maggior parte della terra coltivata all'inizio della valle e sui pendii più bassi del Monte Livata ora faceva parte dell'enorme proprietà imperiale. Ogni imperatore che progetti un parco per le vacanze dovrebbe circondarsi soltanto di adulatori, che gli permettano di godersi il momento di distacco dalla vita mondana, perché le malelingue non sono mai fuori servizio. Vespasiano aveva ereditato la villa. Era quasi deserta e tale sarebbe probabilmente rimasta. Il nuovo sovrano e i suoi due figli provavano, infatti, una certa avversione per il vistoso lusso in cui era solito ammantarsi Nerone. Quando volevano visitare i Monti Sabini - cosa che facevano di frequente - andavano a nord, a Reate, il paese natale di Vespasiano, dove la famiglia possedeva diversi terreni e dove trascorrevano l'estate nella pace e nella tranquillità, godendosi la vita di campagna. Nessuno degli schiavi imperiali che attualmente curavano i Giardini di Nerone né la gente comune del villaggio adiacente poteva permettersi di recarsi abitualmente a Roma per le festività. Eravamo alla ricerca di una villa privata di proprietà di persone che disponessero del tempo libero, del denaro e della propensione alla vita sociale necessari per onorare ogni anno le principali festività. Il giorno seguente ripercorremmo a ritroso il percorso fino alla Via Vale-
ria, guardandoci in giro in cerca di una proprietà con quelle caratteristiche. Frontino e Bolano andarono avanti per trovare un'altra sistemazione per la notte, mentre io mi fermai a fare domande in una villa privata dall'aspetto fastoso. «La lascio a te. Io ho fatto la mia parte a Tibur» disse con tono ironico Frontino. «Certamente. E tu, Bolano? Vuoi darmi una mano nel colloquio?» «No, Falco. Io sono qui soltanto per la mia competenza tecnica.» Grazie, amici! La villa apparteneva a tre fratelli, i Fulvi, un allegro terzetto di scapoli. Erano tutti poco più che quarantenni e ammisero senza problemi che amavano andare a Roma per i Giochi. Chiesi se il loro conducente era solito tornare lì dopo averli accompagnati. Risposero di no, perché ai Fulvi non interessava avere personale supplementare e facevano quindi a turno per guidare la carrozza. Erano grassi, curiosi, impazienti di raccontare storielle divertenti e alquanto disinibiti. Mi sembrarono da subito tipi turbolenti, che bevevano vino volentieri e ogni tanto si cacciavano in qualche rissa, che andavano e tornavano da Roma con gran chiasso ogni volta che ne avevano voglia. Mi dissero che ci andavano sovente, anche se non erano frequentatori assidui e ogni tanto si perdevano una festività. Sebbene non si fossero mai sposati, amavano divertirsi ed erano fin troppo uniti: nessuno di loro rispecchiava la figura dell'assassino solitario e turbato che cercavo. «A proposito... per caso siete andati in città in occasione degli ultimi Grandi Giochi?» «In effetti no.» Be', allora non potevano essere coinvolti nell'omicidio di Asinia. Messi alle strette, mi dissero che non andavano a Roma dai Giochi Apollini, che hanno luogo in luglio, e mi confessarono con un certo imbarazzo che si riferivano al luglio dell'anno precedente. Altro che uomini di mondo! Ai tre allegri scapoloni piaceva divertirsi a casa loro! Prima di andarmene spiegai ai Fulvi il motivo delle mie indagini e chiesi se per caso sapessero di qualche loro vicino che si recava abitualmente a Roma per le festività. Era mai capitato, per esempio, che durante i loro chiassosi viaggi avessero superato un altro veicolo locale lungo lo stesso percorso? Risposero di no, poi si scambiarono un'occhiata, come per condividere qualcosa. Li presi lo stesso in parola, anche se avrebbe potuto rivelarsi un errore.
L'Anio scorreva proprio attraverso la loro proprietà. Mi permisero di dare un'occhiata in giro. Il podere era pieno di capanne, stalle, recinti per animali e magazzini; c'era perfino un chiosco, la cui foggia ricordava un tempio, sulla riva soleggiata del fiume. In quei posti si potevano nascondere, torturare, uccidere e fare a pezzi le donne rapite. Ero assolutamente consapevole che, nonostante sembrassero individui aperti e felici, i Fulvi avrebbero benissimo potuto nutrire oscure gelosie e sfogare con azioni perverse risentimenti a lungo trattenuti. Devo aggiungere che, in quanto cittadino, nutrivo forti sospetti nei confronti di chiunque vivesse in campagna. Proseguendo lungo la valle, arrivai all'ingresso di un'altra proprietà, non distante dal punto in cui l'acqua veniva deviata nella conduttura dell'Anio Novo. Questa tenuta aveva un aspetto un po' diverso dalle fiorenti piantagioni dei Fulvi. C'erano alberi di olivo, ma sembrava che non appartenessero a nessuno, anche se questo non sempre significa che il terreno sia abbandonato. Probabilmente il proprietario si recava lì solo per la raccolta. Gli alberi crescevano in modo disordinato ed era palese che nessuno si fosse mai preoccupato di potarli; i tronchi erano soffocati dall'erba alta. I miei amici coltivatori di olivi della Betica avrebbero arricciato il naso a quella vista. C'erano alcuni conigli domestici che, invece di scappare, stavano tranquillamente seduti a osservarmi. Ero sul punto di proseguire, ma il senso del dovere mi spinse ad addentrarmi nella proprietà. Seguii un sentiero coperto di erbacce, nascosto nella boscaglia intricata. Dopo poco incontrai un uomo. Era fermo accanto a uh mucchio di tronchi sul lato del sentiero e non era occupato in nessuna attività in particolare. Se avesse avuto con sé un'ascia o un altro arnese affilato, avrei avuto probabilmente paura, ma l'uomo aveva solo l'aria di sperare che non arrivasse nessuno a chiedergli di darsi da fare. Poiché ero entrato in una proprietà privata, dovetti fermarmi. «Salve!» dissi. La sua risposta fu un'impenetrabile occhiata, tipica della gente di campagna. Dall'aspetto sembrava uno schiavo. Era abbronzato e aveva la pelle ruvida, la corporatura robusta di chi lavora all'aperto, i capelli scarmigliati e gli mancavano parecchi denti. Era di un'età indefinibile, probabilmente sulla cinquantina, di statura media, vestito malamente ma non in modo sgradevole. Portava una rozza tunica marrone, cintura e calzari. Non aveva certamente l'aspetto di un dio, ma non era nemmeno peggiore delle parec-
chie migliaia di altri individui di umili natali che abitavano l'Impero, e che mi ricordavano quanto fossi fortunato ad avere un'istruzione, il carattere e l'energia per badare a me stesso. «Andavo verso la casa. Puoi dirmi chi ci vive?» «Il vecchio» rispose l'uomo, con un tono sgradevole da contadino. Aveva la faccia tonda, sicuramente non ostile. Ad ogni modo aveva risposto e, considerato che non mi ero presentato, era più di quanto mi sarei potuto aspettare a Roma. Aveva ricevuto certamente l'ordine di scoraggiare gli estranei, probabili ladri di bestiame. Misi da parte ogni pregiudizio. «Lavori per lui?» «È il mio dovere nella vita.» Avevo già incontrato quel genere di persone in precedenza: incolpavano il mondo delle proprie disgrazie. Uno schiavo della sua età avrebbe potuto in un modo o nell'altro ottenere la libertà, ma forse non aveva la possibilità di guadagnarsi il denaro per acquistarla neppure con l'imbroglio, né di dimostrare la lealtà appropriata. Sicuramente non aveva la faccia tosta e il fascino dei sofisticati schiavi di Roma. «Ho bisogno di sapere se qualcuno di qui va mai a Roma per i Giochi del Circo Massimo.» «Non il vecchio. Ha ottantasei anni!» Scoppiammo a ridere. Questo spiegava perché la proprietà sembrasse abbandonata. «Ti tratta bene?» «Non potrei chiedere di meglio.» Grazie al mio tono scherzoso, lo schiavo era diventato più disponibile. «Come si chiama?» «Rosio Grato.» «Vive solo?» «Sì.» «Non ha nessun parente?» «Sì, a Roma.» «Posso andare a trovarlo?» Lo schiavo acconsentì con un'alzata di spalle. Sapevo che non avrei ottenuto molto da quell'incontro, ma potevo anche sbagliarmi, come mi era già successo. La mia richiesta non aveva incontrato nessuna resistenza. «Grazie... e tu come ti chiami?» Lui mi fissò con l'arroganza di chi si aspetta che tutti sappiano chi sono. «Turio» rispose. Gli feci un cenno di assenso con il capo e proseguii. Rosio Grato era seduto su un triclinio nel porticato, perduto in fantasticherie che dovevano riguardare eventi di sessant'anni addietro. Era eviden-
te che trascorreva così tutte le sue giornate. Aveva addosso una coperta che lasciava intravedere una figura rinsecchita dalle spalle ricurve, con i capelli bianchi e gli occhi acquosi. Sembrava ben curato e, considerata l'età, in discreta salute, ma non era certo pronto a fare sette giri di corsa intorno a uno stadio. E sicuramente non era un assassino. Una governante mi aveva lasciato entrare, permettendomi di parlargli da solo. Gli posi qualche semplice domanda, a cui lui rispose con estrema cortesia. Ebbi l'impressione che si fingesse più rimbambito di quanto non fosse in realtà: la maggior parte dei vecchi si diverte a farlo per puro spasso. Anch'io lo avrei fatto, un giorno, e già allora ne pregustavo il piacere. Durante la conversazione gli raccontai che ero arrivato da Tibur. «Hai visto mia figlia?» «Pensavo che la tua famiglia stesse a Roma.» «Oh...» Il povero vecchietto sembrò confuso. «Sì, è possibile. Sì, sì, ho una figlia a Roma...» «Quando è stata l'ultima volta che l'hai vista?» Probabilmente era stato abbandonato lì da tanto di quel tempo che si era dimenticato della sua famiglia. «Oh... l'ho vista poco tempo fa» mi assicurò lui, anche se dava l'impressione che fosse successo parecchio tempo addietro. In effetti il vecchietto era così vago che poteva essere stato anche due giorni prima. Era un testimone terribilmente inattendibile. Gli occhi infossati suggerivano che ne era consapevole anche lui e che non gli importava affatto di ingannarmi. «Non vai molto spesso a Roma in questo periodo?» «No. Sai, ho ottantasei anni!» «Complimenti!» esclamai, anche se me l'aveva già detto due volte. Sembrava desideroso di avere compagnia, sebbene avesse ben poco di interessante da raccontare a chiunque. Ciononostante riuscii a liberarmi senza apparire scortese. Qualcosa in Rosio Grato lasciava intendere che avrebbe potuto benissimo compiere qualche malignità, ma, avendo ormai appurato che non poteva essere un assassino, dovevo rimettermi in viaggio. Tornai correndo verso la strada, questa volta senza incontrare nessuno lungo il sentiero. LI Il luogo nel quale ci saremmo fermati si trovava presso alcune sorgenti
che alimentavano l'Aqua Marcia. Bolano sosteneva che, essendo sotterranee, sarebbe stato difficile, anzi decisamente improbabile, che l'assassino potesse accedervi. Secondo lui non era da lì che le mani mozzate finivano dentro la rete idrica, tuttavia Bolano era convinto di poterci fornire la risposta che volevamo. Come convenuto, lui e Frontino mi aspettavano accanto alla quarantaduesima pietra miliare, in prossimità di una grande cisterna di fango dalla quale aveva inizio l'Anio Novo. L'intera valle risuonava del canto degli uccelli, era un pomeriggio luminoso di quelli che si vedono solo in campagna, in netto contrasto con le lugubri conversazioni che stavamo per affrontare. Ci avvicinammo all'acquedotto e ne studiammo la struttura. Una diga con una chiusa nel letto del fiume contribuiva a convogliare parte delle acque dentro il bacino, che funzionava come un'enorme vasca di decantazione: filtrava le impurità prima dell'inizio dell'acquedotto. Per la prima volta da anni il bacino era stato prosciugato e ripulito e tutt'intorno c'erano mucchi di fango, che ne era stato estratto, lasciato ad asciugare. Alcuni schiavi pubblici scaricavano senza fretta la propria colazione da un asinello, lasciando gli utensili appesi alla soma: una scena che avevo visto mille volte. All'improvviso l'asino girò la testa e addentò qualcosa da mangiare. Lui sì che sapeva come ottenere il meglio dal comitato delle acque! «È difficile» ci spiegò Bolano «oltre che superfluo, progettare un sistema di filtraggio lungo l'intero percorso degli acquedotti. In genere si tende a fare un grosso sforzo all'inizio e a costruire delle camere di decantazione alla fine del percorso, appena prima che cominci la distribuzione. Questo implica però che qualunque oggetto riesca a superare il primo filtro può arrivare fino a Roma.» «Impiegando solo un giorno» gli rammentai, ricordando quello che mi aveva spiegato durante la nostra prima conversazione. «Sei il mio migliore allievo, Falco! Comunque, non appena sono arrivato quassù, ho capito che c'era qualcosa che non andava. Questo bacino non era mai stato svuotato da quando Caligola ha inaugurato il condotto. Potete immaginare che cosa abbiamo trovato nel fango.» «È stato allora che hai scoperto gli altri resti?» lo sollecitò Frontino. Bolano assunse un'espressione disgustata. «Ho trovato una gamba.» «Nient'altro?» Frontino e io ci scambiammo un'occhiata. Il messaggio che ci era arrivato aveva lasciato intendere che ci fossero membra di ogni genere e dimensione.
«Mi è bastata! Era orribile, in stato di decomposizione avanzato. Abbiamo dovuto seppellirla.» Bolano, che era sembrato così poco impressionabile, quando aveva visto di persona quei resti raccapriccianti era inorridito. «Non posso descrivere che cos'è stato tirare fuori il fango. C'erano ossa sparpagliate ovunque che non è stato possibile identificare.» Un caposquadra ce le mostrò prontamente. Agli operai piace conservare una brocca piena di ritrovamenti interessanti, meglio ancora se comprendono pezzi di vecchi scheletri. «Chiederò a qualche cacciatore esperto, forse è in grado di distinguerle» suggerì Frontino, pragmatico come sempre, mentre maneggiava impavido i frammenti di nocche e di ossa di gambe. «Ma anche se arrivassimo alla conclusione che sono umane, non potranno essere utilizzate per l'identificazione.» «Le ossa no, ma questi probabilmente sì.» Bolano aprì la sua sacca, da cui estrasse un pezzo di stoffa ripiegata. Sembrava un tovagliolo di quelli che usava per i suoi eccellenti panieri per il pranzo. Lo aprì con cura e ne estrasse un orecchino d'oro. Era di buona fattura, a forma di mezzaluna e tempestato di pietruzze, ornato da cinque catenelle ciondolanti che terminavano ciascuna con una minuscola pallina. Senza proferire parola, Bolano lo tenne sollevato fra le dita osservandolo, come se lo immaginasse pendere leggiadramente da un orecchio femminile. Insieme all'orecchino c'era un filo di perline, che aveva fatto probabilmente parte di una collana più lunga, dato che non c'era nessun fermaglio. Le perline erano di una pietra di colore azzurro brillante, forse lapislazzuli o qualcosa di molto simile, e avevano dei cappucci di metallo che le univano a piccoli riquadri d'oro delicatamente disegnati. «È molto raro trovare oggetti del genere quassù» ci spiegò Bolano. «Nelle fognature è più frequente, si trovano oggetti perduti per strada, o gettati via. In genere, monete e gioielli di ogni tipo. Una volta una squadra di lavoro ha trovato mezzo servizio da pranzo in argento.» «Sembra che qualcuno li abbia gettati nell'acqua per liberarsene» commentai. «Quale ragazza andrebbe a passeggio lungo la riva remota di un fiume con indosso i suoi eleganti fronzoli da città?» A quella domandai i miei compagni rimasero in silenzio, lasciando che mi rispondessi da solo su quel genere di ragazze. Demoralizzato dalla conversazione, Frontino s'incamminò di nuovo verso il fiume. «Pensi che dovrei far dragare il letto dell'Amo?» mi chiese accigliato quando lo raggiunsi, a mia volta abbastanza depresso. «Potrei
mandarci gli schiavi pubblici che mi sono stati assegnati. Tanto vale utilizzarli per qualcosa.» «A tempo debito, forse. Per il momento dovremmo evitare di farci notare. È meglio che sembri tutto normale, altrimenti rischiamo di spaventare l'assassino e farlo fuggire. Dobbiamo convincerlo a venire allo scoperto, per poi catturarlo.» «Prima che uccida di nuovo.» Frontino sospirò. «Questa faccenda non mi piace, Falco. Ormai dovremmo essergli alle costole, ma tutta la storia potrebbe ancora prendere un'altra piega.» Bolano ci raggiunse. Per un momento restammo tutti a guardare l'acqua che scorreva rapida dentro un condotto di deviazione che al momento alimentava l'acquedotto. Mi voltai e scrutai il bosco, quasi sospettassi che l'assassino potesse stare in agguato fra gli alberi a osservarci. «Ve lo spiego io quello che succede» disse Bolano in tono tetro. Poi ebbe un'esitazione. Anche lui era turbato e quel luogo isolato lo rattristava. Immaginava gli ultimi momenti vissuti dalle donne che erano state portate così lontano da casa, verso un destino terribile, uccise, mutilate e smembrate in un posto probabilmente molto vicino a quello nel quale ci trovavamo. Cercai di aiutarlo a formulare un'ipotesi. «L'assassino vive da qualche parte nei dintorni. Rapisce le sue vittime a Roma, probabilmente perché laggiù nessuno lo conosce e spera di non essere rintracciato. Dopodiché, le trasporta per quaranta miglia fino a qui.» Bolano ritrovò la voce. «Quando ha terminato di torturare le ragazze, qualunque cosa faccia loro, torna a Roma per sbarazzarsi delle teste e dei corpi gettandoli nel fiume e nella Cloaca, forse per ridurre al minimo le possibilità che qualche elemento possa farci risalire fino a lui tramite questo posto. Prima di liberarsi dei cadaveri ne mozza le membra e le getta nel fiume.» «Perché non getta semplicemente i corpi nell'Amo, o altrimenti non porta tutto a Roma?» domandò Frontino. «Immagino» risposi riflettendo «che voglia che i pezzi più grandi dei corpi delle ragazze siano il più lontano possibile dal luogo del delitto, perché rimangono identificabili per molto più tempo. Quindi li riporta a Roma, ma mentre se ne sbarazza, gettandoli nelle fognature e nel fiume, è vulnerabile. Per questo porta con sé solo un paio di grossi pacchi, che affondino rapidamente e scompaiano alla vista nel caso fosse osservato. Ritiene che sia invece sicuro disfarsi quassù delle membra più piccole, per-
ché si deteriorano rapidamente, al punto da non essere più riconoscibili; una volta gettate nel fiume potrebbero essere mangiate dagli uccelli o da altri animali, qui fra le colline o giù nella campagna. E, in più, qualunque cosa precipiti dalla cascata a Tibur verrà quasi certamente ridotta in pezzi.» «Esatto, Falco» concordò Bolano. «Credo che la sua intenzione sia di non far arrivare niente alla rete idrica di Roma, ma a volte capita che i pezzetti più piccoli e più leggeri... per esempio le mani... riescano a raggiungere il bacino del Novo e finiscano poi nella conduttura. Può darsi che l'assassino non sappia ancora che questo è successo. Se capita che superino il sistema di filtraggio, i brandelli di cadavere proseguono fino a Roma. Alla fine del percorso due acquedotti si congiungono su una sola arcata. Il Novo corre sopra l'Aqua Claudia, con condotti per deviare il flusso, e la Claudia è collegata anche con la Marcia, come ho mostrato a tutti e due.» Io e Frontino annuimmo, ricordando di avere visto il torrente d'acqua che precipitava con un gran frastuono da un acquedotto in un altro. «Si capisce quindi come questi piccoli resti, una volta arrivati a Roma, possano spostarsi qua e là. La sola cosa che mi lascia perplesso» continuò lentamente Bolano «riguarda la prima mano, quella trovata da Falco, che dovrebbe essere stata recuperata sull'Aventino, in un castello dell'Aqua Appia.» Sembrava trascorso molto tempo da quando Petro e io avevamo bevuto insieme nel Vicolo dei Sarti. «Non ci sono collegamenti tra l'Aqua Appia e qualcuna delle condutture di Tibur?» «C'è qualche possibilità. L'Appia non ha una sorgente sotterranea, ma comincia da una cisterna in alcune antiche cave sulla Via Collatina.» «Quindi chiunque potrebbe esserci passato un giorno e averci gettato un fagotto?» Bolano non era convinto. «È più probabile che la vostra fontana pubblica abbia due getti alimentati da due acquedotti diversi. Questo consente, in caso di necessità, di mantenere costante l'approvvigionamento per mezzo di uno scambio. È vero che è l'Appia a servire l'Aventino, la parte terminale si trova presso il Tempio del Sole e della Luna, tuttavia potrebbe esserci un secondo condotto di alimentazione proveniente dall'Aqua Claudia...» «Allora tutto quadra» l'interruppe Frontino. «E tutto ha inizio qui.» «Ma chi sarà questo bastardo?» domandò irritato Bolano, per il quale la caccia all'assassino incominciava a diventare una questione personale. «Tutto quello che ho trovato lungo la strada» riferii «sono stati tre fratel-
li alquanto sciocchi, con alcuni schiavi, che a quanto pare non vanno a Roma da secoli, oltre a un vecchio troppo debole per andare da qualsiasi parte.» «Allora che cosa suggerisci?» domandò il console. «Sappiamo come agisce il bastardo, e sappiamo che in parte si muove quassù. Se non ci diamo da fare subito, alla prossima festa sarà ancora libero e colpirà di nuovo.» «Se fossimo degli insensibili» gli risposi soppesando le parole «quando inizieranno i Giochi Augustani, a cui manca solo una settimana, posizioneremmo i tuoi schiavi pubblici dietro gli alberi lungo tutta la strada che sale in questa valle da Sublaqueum, con l'ordine di fare in modo di sembrare dei ramoscelli finché non individuano qualcuno che getta qualcosa di sospetto dentro l'Anio.» «Ma per fare questo e coglierlo sul fatto...» «...Bisogna che prima muoia una donna.» Frontino tirò un profondo sospiro. «Lo faremo solo se vi saremo costretti.» Non si smentiva, rimaneva pragmatico fino alla fine. Sorrisi. «Se sarà possibile, voglio catturarlo prima.» «Bene, Falco!» «Abbiamo qualche indizio. Prima che comincino gli Augustalia dobbiamo essere pronti a prenderlo in trappola a Roma. Non abbiamo molto tempo, però. Io resterò a Tibur ancora per un giorno e darò un'ultima scorsa veloce alla nostra lista di sospetti. Voglio essere assolutamente sicuro di non avere trascurato niente. Sappiamo che l'assassino è pronto a percorrere lunghe distanze, forse vive effettivamente a Tibur ma viene quassù fra le colline quando si accinge a macellare i corpi.» Era ora di tornare a Tibur. Mentre ci allontanavamo dalla riva soleggiata del fiume un martin pescatore, spaventato, si levò in volo in uno scintillio di colori. Dietro di noi una splendida libellula si librava sopra le acque spumeggianti, e a quanto pareva contaminate, dell'Anio. LII Tibur sembrava essere ancora la base migliore per scovare il nostro assassino. Tornando indietro lungo la Via Valeria, non vedemmo quasi niente che potesse interessarci; c'erano due o tre imponenti ville di campagna, con i colonnati che recavano il nome di uomini famosi, ma erano per lo più deserte e alcuni nomi erano così illustri che perfino una persona d'alto ran-
go come Frontino impallidiva alla sola idea di insinuare che i discendenti di quei personaggi potessero essere coinvolti in una lunga e sordida serie di omicidi. Fra un palazzo e l'altro si trovavano le fattorie, i cui proprietari organizzavano viaggi a Roma più in base ai mercati che alle festività. I proprietari terrieri che non risiedevano sulle loro terre, ed erano parecchi, andavano appunto esclusi per la loro assenza (modo, questo, in cui gestivano gran parte delle loro responsabilità). Al mio ritorno a Tibur non ricevetti un'accoglienza festosa. Quando arrivai alla fattoria fra le ortiche Giulia Giunilla piangeva. «Su, su, vieni da papà!» Quando la presi in braccio incominciò a strillare forte e diventò tutta rossa in faccia. «Si sta chiedendo chi sia questo estraneo» suggerì dolcemente Elena in mezzo agli strepiti. Colsi l'allusione. «E tu che cosa pensi, mia cara?» «Oh, io me lo ricordo fin troppo bene.» Doveva esserselo ricordato anche la bambina, perché all'improvviso mi diede il benvenuto con un discreto ruttino. Lucio Petronio, il mio socio malandato, aveva un aspetto migliore; i suoi lividi incominciavano a sbiadire e alla luce fioca delle lampade sembrava soltanto che non si fosse lavato la faccia da una settimana. Ormai poteva anche muoversi più liberamente, quando si degnava di fare lo sforzo. «Allora, com'è andata la ricerca dei sospetti a Sublaqueum?» «Oh, proprio come piace a me. È stato tutto un ammirare panorami idilliaci e un inseguire pensieri poetici.» «Trovato qualcosa?» «Persone deliziose che non vanno mai da nessuna parte. Onesti campagnoli che conducono esistenze irreprensibili e che mi dicono che no, non nutrono alcun sospetto sulla possibilità che qualcuno dei loro amabili vicini possa fare a pezzi delle donne in qualche sinistra capanna nascosta nel bosco.» Petro si erse in tutta la sua statura e compresi che il convalescente incominciava ad annoiarsi. «E adesso che si fa?» «Si torna a Roma, abbastanza urgentemente, anche se prima ho intenzione di ricontrollare rapidamente alcune eleganti ville già visitate da Frontino.» «Pensavo che l'avessi mandato in quelle dove a te sarebbe stato rifiutato l'accesso...» «Infatti ci andrò travestito da operaio tuttofare itinerante, il tipo che tutti
accoglieranno sicuramente a braccia aperte.» Lui inarcò un sopracciglio con espressione scettica. «Esiste quel tipo di operaio?» «Ogni raffinata casa dell'Impero ha almeno una fontana che non funziona. Mi offrirò di aggiustarla.» Sogghignai. «E tu puoi venire con me fingendo di essere il mio disastroso apprendista, se vuoi.» Petronio accettò prontamente, anche se cercò di convincermi che, a rigor di logica, il ruolo di superiore sarebbe dovuto toccare a lui. Gli risposi che visto che sembrava un attaccabrighe reduce da una rissa di taverna doveva fare la parte di quello che porta gli attrezzi. «La sguattera della casa accanto non è un granché, allora?» «Troppo giovane» rispose Petro con un sorriso furbo. «Troppo pericolosa. E poi» ammise «puzza di aglio ed è stupida come un'oca.» A parer mio ogni indagine dovrebbe comprendere una parentesi nella quale il fido investigatore si mette una tunica sporca, con una sola manica, si liscia i capelli con l'olio dell'insalata e si accinge a bussare alle porte. Io l'avevo già fatto in precedenza; Petronio, invece, abituato a imporre le proprie richieste di informazioni usando un randello e la minaccia di incarcerazione, dovette imparare qualche trucco, in primo luogo quello che consiste nel tacere. Tuttavia, sua zia Sedina gli garantì che riusciva a sembrare un perfetto tonto (primo requisito di un artigiano). Elena ci sottopose a una prova, durante la quale ci diede diversi buoni suggerimenti, del tipo: «Mettiti le dita nel naso con maggior convinzione!» e «Non dimenticarti di inspirare fra i denti e mormorare: Oh! Questo sembra un lavoro complicato, credo che qui abbiate un problema...». La scena si svolse così: vestiti in modo trasandato e portando un grosso sacco con diversi attrezzi pesanti che avevamo raccolto negli edifici annessi alla fattoria, Petro e io varcammo indisturbati gli eleganti cancelli delle opulente dimore nelle quali volevamo indagare. Entrando, mangiavamo sempre un melone e quando le feroci guardie uscivano e ci squadravano con occhio torvo mentre passavamo le salutavamo allegramente e ne offrivamo loro una fetta. Dopo avere scherzato un po' insieme, di solito convincevamo i nostri nuovi amici, che avevano ancora il succo del melone che gli colava sul mento, a lasciarci entrare. Percorrevamo il viale con il nostro sacco sulle spalle e cercavamo di convincere il sospettoso cerimoniere di casa che quella era la sua grande occasione di stupire il proprietario riparando la fontana che non funzionava da anni. Non avendo nulla da perdere, costui di solito si lasciava tentare. Mentre noi mettevamo in prati-
ca la nostra abilità, lui naturalmente restava lì a guardare, caso mai fossimo stati ladri intenzionati a rubare le coppe per bere. Questo ci offriva l'occasione di attaccare discorso e, quando l'acqua della fontana riprendeva a scorrere (un lavoro che, sono orgoglioso di dire, ci riusciva quasi sempre), erano così grati che ci raccontavano volentieri qualunque cosa. Be', d'accordo, alcuni di loro ci ordinarono di smammare. C'era una casa in particolare che aveva destato sospetti in entrambi. Petro, durante la mia assenza, aveva esaminato gli elenchi di Elena e aveva formulato qualche ipotesi (la sguattera evidentemente si era rivelata un vero disastro). Era convinto anche lui che avremmo dovuto indagare più approfonditamente sulla villa di Aurelia Mesia. Nonostante fosse una donna, lo schema dei suoi viaggi a Roma somigliava notevolmente a quello dell'individuo che cercavamo. La donna viveva proprio a Tibur. La sua casa era situata nella zona occidentale della città, vicino al Tempio di Ercole Vittorioso; questo imponente santuario era il più importante di Tibur e sorgeva sulla collina scoscesa che dominava il tratto inferiore dell'Anio, dove il fiume attraversava la città. Massicce mura in pietra sostenevano antiche arcate su cui si trovava una vasta piazza circondata da colonnati a doppia altezza, che erano stati lasciati aperti su un lato per consentire una straordinaria vista sulla valle. Al centro del temenos si raggiungeva il tempio del semidio salendo un'alta rampa di scale. Appena sotto c'era un piccolo teatro. I colonnati ospitavano un mercato, di conseguenza la zona ferveva di attività. Avevano anche un oracolo. «Perché non ci limitiamo a consultare l'oracolo?» grugnì Petro. «Perché faticare tanto travestendoci da sfaccendati e infradiciandoci da capo a piedi quando potremmo semplicemente pagare un compenso e farci dare la risposta?» «Gli oracoli possono occuparsi solo di cose semplici, tipo "Qual è il significato della vita?" e "Come posso avere la meglio su mia suocera?". Non è previsto che tu li metta a dura prova con complicati problemi tecnici quali "Per favore, dimmi il nome del bastardo che rapisce le donne e le uccide per divertimento". Questo richiede sofisticate capacità di deduzione.» «E idioti come te e me che non sanno rifiutare un lavoro rognoso.» «Questo è vero. Gli oracoli sono capricciosi, stuzzicano e ingannano. Tu e io, invece, ci attacchiamo come zecche alle pecore alle questioni che dobbiamo risolvere e otteniamo sempre splendidi risultati.» «Bene, allora andiamo e attacchiamo» mi canzonò Petro.
Come la maggior parte delle case abitate da sole donne, nelle quali dovrebbe essere impossibile l'accesso agli uomini equivoci, anche quella di Aurelia Mesia aveva un parco ben curato dov'era facilissimo infiltrarsi. Può darsi che in casa ci fosse un portinaio oppure un cerimoniere, tuttavia ad accoglierci fu una cuoca, che ci accompagnò subito dalla matrona. Aurelia Mesia poteva avere all'incirca una sessantina d'anni. Era vestita in modo sontuoso e portava orecchini d'oro con pendenti adorni di ambra e perle. Il viso grassoccio incominciava a diventare più sparuto e la pelle era segnata da una rete di rughe sottili. Sembrava affabile ma ottusa. Non appena facemmo la sua conoscenza capii che non era lei la nostra assassina, ma questo non escludeva che potesse esserlo il suo conducente o chiunque altro avesse occasione di utilizzare la sua carrozza durante i periodi che lei trascorreva a Roma. Era impegnata a scrivere una lettera, non senza difficoltà, poiché non si serviva di uno scrivano e la sua vista era chiaramente scarsa. Quando entrammo strascicando i piedi, alzò la testa con fare piuttosto nervoso. Ripetemmo la consueta procedura e, data per buona la nostra copertura, fummo accompagnati fino a una fontana asciutta in un cortile coperto di licheni. Era antica ed elegante. Alcuni passeri saltellarono speranzosi nelle vasche a due livelli, osservandoci con cinguettante curiosità mentre ci avvicinavamo. Un ragazzo era stato incaricato di sorvegliarci. «Sono Gaio» gli dissi. Posai con cura il nostro sacco, onde evitare di rivelare che il presunto contenuto tecnico era costituito in realtà solo da cianfrusaglie di fattoria, ne estrassi un bastoncino dalla punta smussata e incominciai baldanzosamente a grattare via il lichene. Petro rimase un po' più indietro, fissando senza scopo il cielo. «E lui chi è?» mi chiese il ragazzo, per controllare ulteriormente le nostre credenziali. «Anche lui è Gaio.» «Oh! Come faccio a distinguervi l'uno dall'altro?» «Io sono quello intelligente.» Quando toccava a lui fare le presentazioni, Petro era solito dire che ci chiamavamo «Tito», aggiungendo «come il figlio dell'imperatore.» Questo gli forniva il piacere infantile di assumere un'aria imperiale quando facevamo i tangheri. «E tu sei...» «Tito» rispose il ragazzo.
Petronio gli rivolse un sorriso infingardo. «Come il figlio dell'imperatore!» A quanto pareva, il giovane Tito l'aveva già sentita. «Sembra una signora simpatica, Aurelia come si chiama», commentai dopo avere ripulito per un po' la pietra erosa dal tempo. «Vive qui, vero? Mi chiedo come mai molti dei nostri clienti di questa zona vengano qui soltanto in vacanza.» «Vive qui da anni» ribatté Tito. «Tuttavia, immagino che ogni tanto vada a Roma.» «Abbastanza spesso, in realtà.» Petronio si era infilato un dito nel naso. Tito fu sul punto di imitarlo, ma poi preferì lasciar perdere. Alzai la testa e mi rivolsi a Petronio: «Senti, Gaio... guardati in giro e vedi se da qualche parte riesci a trovarmi una piccola pietra e un pezzo di mattonella scheggiata». «Perché devo andare sempre io?» «Perché sei tu quello che deve andare a cercare, ecco perché.» Petro riuscì a dare l'impressione di non sapere che cosa volessi, gironzolando qua e là senza meta mentre io tenevo occupato Tito in una noiosa conversazione. «È un bel viaggetto per la tua padrona, andare a Roma, no? Non voglio essere villano, ma non sembra nel fiore degli anni.» Al ragazzo la padrona doveva sembrare un vero pezzo d'antiquariato. «Comunque, si vede che ha il denaro per viaggiare comoda. Se ci andassimo io e te, verremmo sballottati su un vecchio carretto, ma una signora...» «Lei va con la sua carrozza.» «La guida un conducente?» «Damone.» «Che bel nome greco!» «L'accompagna e poi la riporta indietro. Lei sta a casa della sorella. Durante le festività fanno regolarmente una riunione familiare.» «È una bella cosa.» «Splendida!» ridacchiò il ragazzo. Era evidente che la sua idea di divertimento era molto più eccitante di quello che avrebbero potuto concepire due donne di sessant'anni. Aveva circa quattordici anni e moriva dalla voglia di combinarne di tutti i colori. «Vanno ai Giochi, chiacchierano per tutto il tempo e non hanno mai la minima idea di chi abbia vinto i combattimenti o le corse. Vogliono soltanto vedere chi altri c'è fra il pubblico.» «Tuttavia...» Stavo dando dei colpetti ai getti con il mio filo di ferro.
«Alle signore piace fare compere e a Roma ci sono tante occasioni.» «Oh, lei porta indietro un sacco di roba. La carrozza è sempre piena.» «Questo Damone che guida la carrozza ha un bel lavoro. Scommetto che ti piacerebbe prendere il suo posto.» «Niente da fare, amico! Damone non lo consentirebbe mai a nessuno.» «Gli piace, eh?» «Vive con la cuoca e approfitta di ogni occasione per allontanarsi da lei.» Petronio arrivò a passo lento, avendo apparentemente dimenticato quello che gli avevo ordinato di portarmi. Mentre fingevo di ripulire la fontana dalla sporcizia e dalla vegetazione, avevo scoperto quello che cercavo. La conduttura dell'acqua della villa di Aurelia Mesia proveniva dall'acquedotto di Tibur, mentre la sua fontana era alimentata da una conduttura secondaria e probabilmente un rubinetto bloccava il flusso dell'acqua. (Questa era una rarità, poiché la maggior parte delle persone preferiva usare l'acqua di riserva per risciacquare la latrina.) Supponevo che qualcuno avesse chiuso il rubinetto e se ne fosse poi dimenticato. Il rubinetto era in genere un grosso aggeggio di bronzo fuso, con in cima un anello quadrato, che veniva azionato con una speciale chiave rimovibile. «Fammi un favore, Tito. Corri a chiedere a chiunque abbia la chiave di prestarcela. Poi ti mostrerò qualcosa.» Mentre il ragazzo scappava via, Petro mi riferì sottovoce: «C'è una stalla con dentro la carrozza. È una raeda, un mezzo molto grosso a quattro ruote, con rivestimenti in bronzo. Un tizio, forse il conducente, dorme disteso su una balla di fieno: capelli rossicci, barba sudicia, gambe storte... ed è alto solo la metà di me.» «Facile da individuare.» «Infatti.» «Si chiama Damone» dissi. «Sembra un tipico pastore greco.» «Un autentico arcadico. Mi chiedo se possegga anche un coltello, grosso e sudicio, per tosare le pecore.» Il giovane Tito tornò di corsa per riferire che nessuno aveva la chiave per il rubinetto. Strinsi le spalle. Nel nostro sacco c'era una spranga di ferro di cui mi sarei potuto servire, facendo attenzione a non piegarla, perché in tal caso avrei dovuto buttarla e odiavo sbarazzarmi di simili attrezzi: a parte il fatto che possono tornare utili per fracassare qualche testa, come
avrei fatto la prossima volta a far funzionare la fontana di qualche inetto padrone di casa? Come avevo immaginato, il rubinetto era bloccato e difficile da girare. Si originò immediatamente un colpo di ariete, che risuonò fragorosamente attraverso tutta la casa. Doveva essere quella la ragione per cui avevano chiuso il rubinetto. Un vero peccato, perché non appena l'ebbi aperto, l'acqua della fontana riprese a scorrere gorgogliando. Era piacevole e musicale, anche se irregolare. «Oh!» esclamò Tito. «È così che funziona, allora!» «Ma non è finita qui, ragazzo...» «È un perfezionista» spiegò Petro al ragazzo, annuendo solennemente. «Vedi, si riversa tutta da una parte. Dacci quella pietra che hai trovato, caro Gaio.» La incuneai nel livello superiore, in modo che l'acqua scorresse in modo più regolare. «Allora, giovane Tito, Gaio e io lavoriamo così: usiamo una pietra per raddrizzare il getto; altre persone ci conficcano un pezzetto di legno, e lo fanno apposta, perché alla lunga marcisce e bisogna richiamarli. Ma Gaio e io, quando ripariamo una fontana, lo facciamo bene e non ci vedete più una seconda volta.» Tito annuì, facilmente impressionato dai segreti del mestiere. Era un ragazzo acuto. Capii che pensava che avrebbe potuto trarre a sua volta vantaggio da quell'insegnamento. Stavo ormai chiudendo il nostro sacco degli attrezzi. «Allora, perché questo Damone ama tanto andare a Roma?» Il ragazzo si guardò in giro per assicurarsi che nessuno lo sentisse. «Va in cerca di donne, no?» replicò Tito, dandosi delle arie per questa rivelazione. LIII Da quanto sapevamo, tuttavia, era improbabile che il nostro assassino fosse un donnaiolo, e soprattutto non era un uomo sposato o l'equivalente fra gli schiavi di campagna. Petronio Longo concordò con me: Damone voleva tenersi lontano dalla cuoca perché lei sapeva che non sarebbe mai stato un marito fedele e per questo lo tormentava. Guardai Petro. Era una situazione che lui conosceva molto bene. Petro ricambiò la mia occhiata con un fosco cipiglio e per quel giorno smettemmo di riparare fontane. In realtà, interrompemmo anche le indagini a Tibur, perché il tempo era contro di noi. La mattina seguente preparammo i bagagli e ce ne tornammo
a Roma. Apparentemente non avevamo fatto nessun progresso, ma ero certo che avevamo acquisito maggiori informazioni sull'assassino, al punto che sarebbe bastata una sola mossa da parte sua per essere scoperto. Anche se Damone non era l'indiziato ideale, possedeva comunque alcuni requisiti del colpevole. Prima di ripartire avevo acquistato una fattoria. Sarebbe stata probabilmente la mia rovina, ma ora potevo definirmi un possidente. La prima persona che incontrammo mentre ci trascinavamo stancamente verso casa, sull'Aventino, fu mio nipote, il vero Gaio. Era furioso. «Bene, mi avete proprio tradito!» urlò. Gaio sapeva schiumare di rabbia come un cavallo morente. Non riuscivo a immaginare perché fosse così in collera. «Sei proprio un bell'amico, zio Marco...» Elena era entrata in casa per allattare la bambina, mentre io stavo ancora scaricando l'asino che aveva trasportato i bagagli. «Calmati e piantala di urlare. Tieni questo...» «Non voglio più lavorare per te!» «Fa' come ti pare.» Vedendo che restavo impassibile, Gaio si calmò. Come tutti in famiglia, non amava sprecare i propri sforzi, così assunse la classica espressione imbronciata della mia famiglia. Somigliava a mio padre. Mi s'indurì il cuore. «Ho parecchio da fare qui, Gaio. Se stai zitto e mi aiuti, dopo ascolterò le tue lagnanze. Altrimenti, vai a infastidire qualcun altro.» Con riluttanza Gaio rimase lì fermo mentre io lo caricavo di bagagli, al punto che riuscì a stento a salire le scale fino al mio appartamento. Sotto quell'aria da perdigiorno prepotente si nascondeva un bravo piccolo lavoratore. Mi resi conto, come già mi era capitato, che avrei dovuto fare qualcosa per lui, e al più presto. Pensando al mio appezzamento di ortiche a Tibur, mi venne in mente una possibile soluzione. Ciò di cui Gaio aveva bisogno era essere strappato dalla turbolenta vita di strada che conduceva, quindi forse avrei potuto mandarlo nella fattoria di famiglia. La zia Febe aveva una lunga esperienza nell'addolcire ragazzini stupidi, ed ero sicuro che Gaio sarebbe stato in grado di resistere coraggiosamente alle stravaganze dei miei eccentrici zii, Fabio e Giunio. Non dissi niente, per il momento. Avrei dovuto lasciare che sua madre, mia sorella Galla, quella sconsiderata, sfogasse il suo disgusto per qualunque progetto ragionevole avanzassi. E poi c'era Lollio, naturalmente. Be', non vedevo l'ora di surclassarlo... Sospirando, seguii Gaio dentro casa. Ero tornato solo da cinque minuti e
i fardelli della vita familiare mi facevano già sentire in trappola. «Mi darai del denaro per riportare il tuo asino alle stalle, zio Marco?» «No.» «Sì, invece» interloquì Elena. «Perché sei in collera, Gaio?» «Mi era stato promesso un lavoro qui da voi» dichiarò indignato mio nipote. «Avrei guadagnato un po' di denaro badando alla bambina. Presto ricomincerà la scuola.» «Non preoccuparti» gli dissi cupo. «Le vacanze scolastiche durano altre due settimane.» Gaio non aveva mai avuto una nozione precisa del tempo. «Comunque, quando avrò quattordici anni non ci andrò più.» «Bene. Dì a tua madre di non sprecare più il denaro per la retta, allora.» «Me ne vado il giorno stesso del mio compleanno.» «Fa' come vuoi, Gaio.» «Perché non fai obiezioni?» «Sono stanco. Adesso ascolta, stanno per iniziare gli Augustalia e mi aspettano parecchie spossanti notti di guardia. Elena sarà felice se potrà contare sul tuo aiuto con la bambina. Suppongo che gradirà anche avere un po' di compagnia durante il giorno, ma non dovrai fare rumore quando tornerò a casa per dormire.» «Lo spiegherai tu a tua figlia che non deve piangere?» Come futura bambinaia, Gaio possedeva uno straordinario sarcasmo. «Perché dovrai stare di guardia?» «Per catturare il maniaco che getta brandelli di corpi di donne nella rete idrica.» «Come pensi di riuscirci?» Come tutti i miei parenti, Gaio giudicava con incredulità il mio lavoro, stupito che ci fosse qualcuno abbastanza pazzo da assumermi o che i lavori che intraprendevo potessero produrre veri risultati. «Dovrò stare appostato fuori dal Circo Massimo finché non si farà vivo per agguantare una donna.» Messa così, l'irrisione della mia famiglia sembrava ragionevole: come potevo aspettarmi che funzionasse? «E poi?» «A quel punto io agguanterò lui.» «Mi piacerebbe vederlo! Posso aiutarti?» «No, è troppo pericoloso» obiettò Elena con decisione. «Oh, zio Marco!» «Se vuoi guadagnare qualche spicciolo, farai quello che ti dice Elena. È lei che possiede le chiavi di casa, ed è sempre lei che tiene i conti.»
«Ma è una donna!» «Sa far di conto» le sorrisi. «In più di un senso» commentò lei. «Venite a mangiare, voi due furfanti.» Seppure di malavoglia, Gaio acconsentì a sedersi a tavola. Sedotto dall'inconsueta esperienza di una cena familiare, un momento che, a quanto mi risultava, Galla e Lollio non avevano mai condiviso con i loro figli, alla fine si ricordò che aveva un messaggio da riferire a Elena. «Tuo fratello è venuto a trovarti ieri.» «Quinto? Quello alto e cordiale? Camillo Giustino?» «È probabile. Ha detto di riferirti che è stato allontanato da Roma per motivi di salute.» Elena si allarmò. «Che cosa significa? È ammalato?» Gaio scrollò le esili spalle sotto la tunica sporca. «Credo che fosse una specie di scherzo. Io dormivo nel porticato, aspettando che tornaste a casa.» Al pensiero di quel bricconcello che ciondolava pateticamente intorno a casa nostra, Elena fece una smorfia. «Hai parlato con mio fratello?» «Si è seduto con me sui gradini e abbiamo fatto una piacevole chiacchierata. Non è male, ma era molto depresso.» Esausta dopo il lungo viaggio, Elena si strofinò gli occhi, poi fissò mio nipote con il mento fra le mani. «Che cosa lo deprime, Gaio?» «Era una conversazione confidenziale...» Cogliendo lo sguardo di Elena, mio nipote cominciò a parlare, pur sentendosi a disagio. «Be', l'amore e tutto quel genere di roba» ammise. Scoppiai in una risata. «Bene, ecco una lezione per te. È quello che succede ai ragazzi che amoreggiano stupidamente con le attrici.» Con aria pensierosa, Elena Giustina riempì una nuova ciotola di cibo per mio nipote. Poi, per evitare bisticci, ne riempì un'altra anche per me. I Giochi in onore del defunto imperatore Augusto cominciano il terzo giorno di ottobre. Esattamente due giorni dopo ricorre una data leggendaria per l'apertura dei cancelli dell'Ade, dove avrei voluto mandare il pazzo criminale che speravo di catturare presto. Inoltre una giornata nera precedeva i Giochi, il tradizionale giorno nefasto che segue le Calende. Secondo noi i superstiziosi avrebbero evitato di viaggiare in una giornata infausta e quindi sarebbero arrivati a Roma il primo del mese, per la festa delle Calende. Per essere assolutamente sicuri di trovarci al nostro posto in tempo,
però cominciammo la sorveglianza il giorno prima. Tenevamo d'occhio le porte della città. Sperando che le nostre ipotesi fossero giuste, ci concentrammo sul lato orientale. Petro e io facemmo a turno per controllare le porte Tiburtina e Prenestina, dove ci appostavamo ogni sera, non appena veniva tolto il bando per i veicoli e i carri che entravano in Roma, restandovi finché all'alba il traffico non si disperdeva. Grazie a Giulio Frontino il prefetto dei Vigili ci aveva fornito l'aiuto dei suoi uomini. Per consentire un'ulteriore copertura, i Vigili furono messi di guardia anche alle due porte a nord dei Castra Praetoria e presso altre due porte più a sud. «Spero» disse Petro «che tu sia pronto a spiegare ai Vigili che devono cercare un nanerottolo dai capelli rossicci con la barba e una gamba traballante.» «Penseranno che si tratti di uno scherzo.» «Falco, sono giunto alla conclusione che tutto quello in cui sei coinvolto tu è uno scherzo!» replicò Petro, in un tono che suonò abbastanza sgradevole. Porta Tiburtina era quella da cui ci aspettavamo che l'assassino entrasse, che fosse il nostro indiziato Damone o qualcun altro, perché è da quella porta che arrivano a Roma tanto la Via Tiburtina quanto la Via Collatina. Presso queste due porte, e anche presso Porta Prenestina, dove arrivava una strada proveniente dalla stessa zona di campagna, i Vigili fermavano ogni veicolo e ne prendevano nota. Tutto questo provocò un grande scompiglio. Facemmo passare il blocco per un censimento dei veicoli, ordinato dall'imperatore. A ogni conducente fu chiesto da dove veniva e di «fornirci in anticipo il programma» di dove si sarebbe recato. Alcuni non erano affatto contenti di dircelo e altri probabilmente mentirono per principio. Quando si sentivano chiedere il motivo del loro viaggio, e con quale frequenza venissero a Roma per le festività, alcuni degli occupanti delle carrozze, in particolare gli appartenenti alla classe equestre e a quella elevata, minacciavano di tornare immediatamente a casa e scrivere le loro rimostranze a Vespasiano. Naturalmente ricorremmo a frasi come «Spiacenti, signore, sono ordini dall'alto» e «Non prendertela con me, tribuno, sto solo facendo il mio lavoro...» e naturalmente questo li faceva infuriare ancora di più. Quando ripartivano, facendo stridere le ruote tanto da farne scaturire scintille, erano troppo presi dalla loro collera per fermarsi a riflettere su quale potesse essere stato il nostro vero scopo.
La grossa raeda a quattro ruote decorata in bronzo arrivò traballando attraverso Porta Tiburtina il giorno delle Calende. In quel momento ero io di guardia. Mi ero appostato non appena era stato consentito ai primi veicoli di entrare. La superba carrozza era trainata da quattro cavalli, ma viaggiava alla velocità di un carro funebre e il suo procedere lento aveva già causato una coda di traffico lunga un miglio. Era facile da riconoscere, non soltanto per le grida irritate dei conducenti frustrati che la seguivano ma anche perché al posto del guidatore era seduto il nanerottolo dai capelli rossicci che cercavamo. Feci un passo indietro e lasciai che uno dei vigili alzasse un bastone per fermare la carrozza. Vidi l'anziana Aurelia Mesia fare capolino con i suoi occhi da miope. Era l'unica passeggera. Damone, il conducente, era un uomo sulla cinquantina, con la pelle chiara coperta di lentiggini e i capelli, le sopracciglia e persino le ciglia rosse. Non incarnava di certo lo stereotipo del conquistatore di donne ma spesso, per oscuri motivi, gli individui come lui sono quelli che hanno più successo. Mentre i vigili si avvicinavano con il loro elenco di domande, io rimasi a osservare la scena nell'oscurità del vano della porta, abbastanza vicino da riuscire ad ascoltare. I vigili presero nota dei dettagli del soggiorno a Roma di Aurelia Mesia a casa della sorella, che a quanto ci riferì si chiamava Aurelia Grata e abitava sulla Via Lata. La matrona dichiarò che si sarebbe fermata per tutta la durata degli Augustalia e addusse come motivo una riunione familiare. Damone ci fornì il nome di una stalla fuori Porta Metrovia dove disse che sarebbe rimasto con i cavalli e la carrozza, dopodiché ripartì, immettendosi nel normale ingorgo di traffico notturno caratteristico di Roma. Un vigile, istruito in anticipo, partì per seguirli a piedi. Sarebbe dovuto restare alle costole di Damone lungo tutto il percorso fino alla stalla e poi rimanere lì, appoggiato a una scopa, per tutta la durata dei Giochi, pedinando l'uomo se fosse andato da qualche parte. Damone non corrispondeva all'idea che ci eravamo fatti del criminale. Se fosse davvero rimasto nelle stalle per tutto il periodo dei Giochi, non avrebbe rispettato lo schema dell'assassino, che si recava a Tibur per compiere gli omicidi e poi tornava per disfarsi della testa e del corpo delle vittime. Tuttavia, se avessimo scoperto che esisteva qualche collegamento tra l'assassino e Damone, avrei provato un leggero senso di soddisfazione. Porta Metrovia, che era la porta della città più vicina al Circo Massimo, si trovava infatti alla fine di Via dei Ciclopi, a pochi minuti dalla zona dov'era scomparsa Asinia.
LIV Le festività romane che avevano preso il nome da Augusto erano due. Otto giorni prima di ottobre si festeggiava la ricorrenza del suo compleanno, in occasione del quale venivano celebrati giochi solenni al Circo, che purtroppo avevamo perso a causa del nostro viaggio a Tibur. Adesso iniziava invece un festeggiamento di dieci giorni, durante i quali sarebbero stati organizzati splendidi spettacoli per l'anniversario del ritorno di Augusto dalle province, dove si era recato per pacificarle. Questa festa mandava ancora regolarmente in rovina le città di tutto l'Impero e io cercavo di evitare questo tipo di celebrazioni. Non adoravo gli imperatori quando erano vivi, di certo non volevo avere alcuna parte nella loro apoteosi una volta che Roma si era liberata di loro. Il giorno della cerimonia di apertura Petro e io eravamo tesi come Bruto e Cassio prima della battaglia di Filippi, dopo una notte piena di incubi. Se si fosse comportato secondo lo schema, quella sera il nostro assassino sarebbe stato in giro in cerca della prossima vittima. Giulio Frontino aveva tenuto una lunga riunione con i tribuni della Quinta e della Sesta coorte dei Vigili, che pattugliavano la zona del Circo. I Vigili avrebbero dovuto mandare in giro uomini in forze, con l'ordine specifico di proteggere l'incolumità delle donne non accompagnate. Ogni volta che pensavo alla vastità della zona che sarebbe stato necessario coprire e alla quantità di persone che si sarebbero spostate in massa avanti e indietro mi venivano i brividi. Era un impegno enorme. Avevamo accarezzato l'idea di mettere in giro annunci che avvertivano le persone di stare in guardia, ma Frontino l'aveva proibito. Questo ci procurava qualche problema di coscienza, tuttavia lui si era addossato la responsabilità finale. Non dovevamo far trapelare niente, l'atmosfera doveva sembrare normale. Volevamo che l'assassino colpisse, ma che lo facesse mentre lo tenevamo d'occhio, così saremmo potuti intervenire. Mia sorella Maia arrivò nelle prime ore del pomeriggio. Era una ragazza vivace, con i capelli ricci, vestita con eleganza, pronta a qualsiasi esperienza e assolutamente indomabile. «Dovremmo andare, Elena!» esclamò. «Tu e io siamo in grado di tenere gli occhi aperti. Scommetto che, se l'assassino è lì, noi lo individueremo.» «Per favore, state alla larga dal Circo» le pregai terrorizzato. In quanto fratello maggiore di Maia e compagno eletto di Elena, secondo l'antica le-
gislazione di Roma la mia parola doveva essere legge: tutt'altro che facile! Quelle due erano dotate di carattere e io ero soltanto un povero sciocco che si sforzava di fare del proprio meglio per loro, vale a dire che non avevo autorità su nessuna delle due. Elena e Maia erano grandi amiche ed entrambe polemiche nei miei confronti. «Maia ha ragione.» Elena sapeva quanto fossi preoccupato, ma si ribellava. «Lei e io potremmo gironzolare nei pressi del Circo, facendo da esca.» «Per gli dèi!» «Saremmo perfette. Devi pur tentare qualcosa» cercò di zittirmi Maia. Da quanto sapeva dell'indagine, compresi che lei e Elena avevano già complottato il da farsi mentre ero fuori. «Te lo sei lasciato sfuggire durante i Grandi Giochi e te lo lascerai sfuggire di nuovo.» «Oh, non essere troppo incoraggiante, potresti alimentare la mia autostima.» «Non sapete nemmeno in che modo agisce realmente quel rifiuto umano.» Era vero. Non avevamo alcun indizio, a parte l'uomo che Pia e il suo squallido innamorato, Mondo, avevano visto parlare con Asinia e che poteva non avere assolutamente niente a che fare con gli omicidi. Forse Asinia era stata catturata più tardi, da un carretto, una biga, una carrozza, un uomo con un asino o, per quanto ne sapevo, da Perseo piombato giù sul suo cavallo alato. «Il nostro maggiore indiziato è il conducente di una carrozza.» Maia gettò indietro la testa. «Un'intuizione tua e di Lucio Petronio!» «Fidati di noi.» «Scusami, Marco, ma come posso fidarmi? Conosco bene sia te che Petro!» «Allora sai che ogni tanto abbiamo successo.» Cercavo di mantenere la calma. Di fronte a delle donne che sostengono idee avventate, bisogna essere sempre disponibili ai suggerimenti. «Quello che so è che siete un paio di fannulloni.» Feci appello a Elena Giustina. Ascoltava con l'aria abbattuta della donna che sa che toccherà a lei essere ragionevole, qualunque cosa le suggerisca il cuore. «La nostra è una buona idea, Marco, ma capisco perché sei nervoso.» «È troppo pericoloso.» «Ci sarai tu a proteggerci.»
«Apprezzo l'offerta ma voi due siete troppo importanti per me e non voglio che lo facciate. Posso rinchiudervi in...» «Non provarci nemmeno!» mi interruppe Maia. Non potevo far altro che pregarle di garantirmi che avrebbero ascoltato il mio ammonimento e non avrebbero tentato niente di stupido dopo che me ne fossi andato. Loro mi ascoltarono con espressione compassionevole, poi mi promisero così solennemente di comportarsi bene che fu evidente che avrebbero fatto di testa loro. Era venuto il momento di affilare il mio pugnale e di concentrarmi sul caso. Non avevo tempo per occuparmi di quelle due, che facevano di tutto per irritarmi. Alcuni uomini permetterebbero senz'altro alle donne che amano di correre un rischio in una situazione disperata, ma non era il mio caso. Elena e Maia erano coraggiose e intelligenti e sarebbero state un'esca eccellente se avessimo deciso di usarne una, ma era troppo pericoloso. Si sarebbe potuto verificare un imprevisto, un errore o un disguido che le avrebbe lasciate esposte al pericolo, senza pensare che a un uomo basta un secondo per afferrare una ragazza, tagliarle la gola e ridurla per sempre al silenzio. «Restate a casa, per favore» le pregai mentre uscivo per il mio turno di guardia. Forse avevano discusso ulteriormente mentre mi preparavo all'azione, perché mi baciarono tutte e due in silenzio, come tesori ben educati. Sentii una stretta al cuore. Erano troppo disponibili. Progettavano forse di mettere in pratica il loro folle progetto senza dirmelo? Per gli dèi, ero già abbastanza nei guai! LV Restammo di guardia tutta la notte all'esterno del Circo. Ancora una volta io pattugliavo la Via dei Tre Altari mentre Petro si era accampato al Tempio del Sole e della Luna. Era una serata mite, umida, con il cielo sereno, non troppo calda ma abbastanza da creare un'atmosfera eccitante. Le ragazze si aggiravano per le strade in abiti leggeri, con le spille delle vesti chiuse solo per metà e le cuciture laterali aperte, spiluccando allegramente dai loro pacchetti di noci e dolciumi, senza preoccuparsi di guardarsi in giro per vedere chi potesse mangiarsele con gli occhi e seguirle. Con il capo scoperto, il collo e le braccia nudi, erano un aperto invito alla lussuria. Non avevo mai visto tante donne romane così spensierate e sicure di sé, tutte apparentemente ignare del rischio che correvano.
Incominciavo a perdermi d'animo. C'era troppa gente in giro, mentre noi di pattuglia eravamo troppo pochi, e c'erano troppo uscite dal Circo, troppe strade nelle quali le donne sconsiderate che tornavano a casa da sole avrebbero potuto essere catturate nell'oscurità. Restammo lì finché la stanchezza ce lo permise. La concentrazione e la tensione ci avevano sfiniti, anche perché non sapevamo esattamente chi cercare fra la folla. I Giochi erano terminati, le lettighe e le portantine erano arrivate e ripartite, le prostitute e gli ubriachi avevano preso possesso del quartiere e infine anche loro avevano deciso di tornarsene a casa. Quando incominciò ad albeggiare, mi incamminai in direzione del tempio. Petro e io restammo fermi qualche minuto, guardandoci in giro. Le strade e i gradini del tempio erano ricoperti di rifiuti fra i quali trovavano rifugio cani randagi e vagabondi raggomitolati. Le ultime lampade andavano lentamente spegnendosi. Finalmente c'era silenzio, rotto soltanto da qualche sporadico rumore proveniente dai vicoli bui. «Se è stato qui, ce lo siamo lasciati scappare» disse a bassa voce Petronio. «Può darsi che abbia catturato una donna.» «Tu che cosa pensi?» «Spero di no.» «Ma tu che cosa pensi, socio?» «Non chiedermelo, Falco.» Ci trascinammo fino a casa, alla Corte della Fontana. LVI Elena mi svegliò intorno a mezzogiorno. Mi portò qualcosa da bere, mi mise in braccio la bambina e poi si accoccolò sul letto di fianco a me mentre io riprendevo lentamente conoscenza. Liberai una ciocca dei suoi capelli che era rimasta intrappolata sotto il mio gomito. «Grazie di esserti fatta trovare qui al mio ritorno.» Fingevo di scherzare su quello che avevano minacciato di fare lei e Maia. «Ti ho svegliata?» «Non mi sono mai addormentata veramente, ho sonnecchiato soltanto. Ero preoccupata per te, là fuori.» «Non è successo niente.» «No» disse sommessamente Elena. «Ma se tu l'avessi visto, gli avresti dato la caccia. Ero preoccupata per questo.» «So badare a me stesso.»
Lei si rannicchiò di più contro di me, senza proferire una parola. Rimasi sdraiato anch'io in silenzio, preoccupato all'idea di doverla lasciare sola ogni notte, consapevole che quando pensava che stessi facendo qualcosa di pericoloso restava sveglia per ore, apriva gli occhi a ogni minimo rumore e a volte balzava persino in piedi per guardare fuori, in strada, sperando di vedermi tornare. Adesso che ero a casa, fra le sue braccia, Elena si appisolò. La bambina era sveglia, tutta ben pulita, incantevole, agitava soddisfatta i piedini e mi resi conto che mi osservava come se stesse mettendo deliberatamente alla prova il suo pubblico. Aveva gli stessi occhi di Elena e se fossimo riusciti a farle superare indenne gli anni pericolosi dell'infanzia, quando tanti bambini perdevano la vita, un giorno avrebbe dimostrato di averne ereditato anche lo spirito. Poi avrebbe cominciato a uscire, come qualsiasi donna nata libera in città, e probabilmente il più delle volte non ci avrebbe detto dove andava. Le donne dovrebbero essere prudenti, quelle avvedute lo sapevano, ma Roma doveva consentire loro di dimenticarsene ogni tanto, poiché essere veramente liberi significa potersi godere la vita senza il rischio di subire qualsiasi tipo di ingiustizia. Mi capitava a volte di detestare il mio lavoro, ma quel giorno ne ero fiero. Quel pomeriggio Giulio Frontino venne a cercarmi per un consulto. Mi piaceva per quel suo approccio diretto, ma il costante pensiero che potesse entrare all'improvviso in casa mia mi limitava un po'. Comunque, aveva avuto la cortesia di lasciare che ci godessimo il meritato riposo dopo il turno di notte. Uscii sul portico e chiamai Petronio con un fischio. Non mi rispose, ma arrivò quasi subito attraversando a lunghi passi la strada. Gli feci un cenno e ci raggiunse. Ci sedemmo tutti insieme, accompagnati dal rumore della culla che Elena faceva dondolare delicatamente con il piede. Parlando con voce sommessa, Petro e io riferimmo i risultati negativi della notte appena trascorsa. «Ho parlato con il prefetto dei Vigili stamattina.» Si poteva stare certi che Frontino non avrebbe mollato la presa. «I suoi agenti gli hanno riassunto le imprese della notte. Hanno catturato diversi piccoli delinquenti che avrebbero potuto farla franca se non avessimo circondato il Circo e sorvegliato le porte della città, ma nessuno che sembri coinvolto nella nostra ricerca.»
«Non è stata denunciata la scomparsa di nessuna donna, stamattina?» m'informai. La mia voce suonò rauca, poiché non volevo sapere la risposta. «Finora no.» Anche il tono di Frontino era sommesso. «Dovremmo essere contenti.» Lo eravamo, naturalmente, anche se l'assenza di nuovi elementi non ci forniva alcun aiuto concreto. «Se non altro non è stato rapito nessuno sotto il nostro naso.» «Non avete niente da rimproverarvi» disse Elena. Seduta nella sua poltrona di vimini con lo schienale rotondo, si teneva leggermente in disparte dal colloquio, ma era sottinteso che ascoltava. In casa mia certe discussioni riguardavano tutta la famiglia. Elena sapeva che cosa stavo pensando. Una volta una giovane cugina di Elena era stata assassinata, io avevo avuto la sensazione che avrei potuto impedirlo e mi ero rimproverato aspramente di non esserci riuscito. Era una cosa passata, ma a volte mi torturavo ancora pensando e ripensando se non avessi dovuto comportarmi in modo diverso. Odiavo ancora l'assassino per avermi lasciato con quel delitto sulla coscienza. Di recente avevo rimuginato molto sulla faccenda dello zio defunto di Elena, del cui cadavere mi ero sbarazzato per ordine di Vespasiano gettandolo nella Cloaca Massima. La ragazza che era stata uccisa era sua figlia. Si chiamava Sosia. Aveva sedici anni, era vivace, bella, avida di sapere, innocente e intrepida... e io ero stato un po' innamorato di lei. Da allora non avevo più avuto molta fiducia nella mia capacità di proteggere le donne. «Ho ricevuto un messaggio dall'uomo che abbiamo mandato alle stalle di Porta Metrovia» annunciò Petro, interrompendo il corso dei miei pensieri. «A quanto pare Damone, il conducente sul quale nutriamo qualche sospetto, è rimasto lì tutto il tempo. Fa esattamente quello che gli è stato ordinato di fare. Va nella taverna accanto, si compra qualcosa da bere e se lo fa bastare per ore. Cerca di approcciare la cameriera, ma lei non se lo fila nemmeno.» «Ed è rimasto lì tutta la notte?» domandò Frontino, ansioso di apprendere qualcosa che coinvolgesse il conducente. «Tutta la notte» confermò cupo Petro. «Quindi questo discolpa Damone?» «Almeno per la notte scorsa.» «Non credo che Damone sia il vostro assassino» aggiunse pacatamente Elena. «Gli è stato ordinato di restare a Porta Metrovia nel caso la sua pa-
drona avesse bisogno della carrozza. Chiunque abbia ucciso Asinia, l'ha rapita a Roma e ha gettato la sua mano nell'Anio nel giro di pochi giorni, dopodiché è tornato qui per disfarsi della testa e del tronco alla fine dei Giochi. Se segue la stessa procedura durante questi Giochi, può darsi che i Vigili riescano a catturarlo in mezzo al traffico che passa da Porta Tiburtina... anche se a un prezzo fatale per qualche povera donna, temo.» «La notte scorsa sono usciti solo veicoli commerciali» la rassicurò Frontino. Doveva essere riuscito a strappare davvero tutti i particolari al prefetto dei Vigili. «Non è possibile che l'assassino sia un conducente di professione... uno che magari viene da Tibur?» «È un conducente privato. Accompagna qualcuno per le festività e in seguito lo riporta a casa» dichiarai, convinto. «Per questo fa due viaggi.» «Ma non Aurelia Mesia, a quanto pare» aggiunse Petro con un brontolio. «No, Elena ha ragione. Ci stiamo lasciando sviare da Aurelia e Damone. Siamo troppo disperati e, se non stiamo attenti, rischiamo di tralasciare qualcosa.» «Stamattina, mentre aspettavo che ti svegliassi» intervenne Elena «mi è venuta in mente una cosa. Ho capito dal modo tranquillo in cui sei entrato in casa che la notte scorsa non era successo niente. Eppure era l'apertura dei Giochi, e tu eri sicuro che l'assassino avrebbe colpito proprio ieri sera.» «Quindi, amor mio?» «Mi sono chiesta che cosa ci fosse di diverso e mi è venuta in mente la giornata nera. Alcune persone potrebbero raggiungere Roma prima, come sostieni tu, per evitare il giorno infausto, però il mese scorso i Grandi Giochi sono iniziati tre giorni dopo le Calende, non due, quindi non si è posto il problema. Quella volta l'assassino ha colpito il giorno dell'inizio dei Giochi, e tu presumi che sia un particolare rilevante. Ma supponiamo che la persona che accompagna non sia particolarmente interessata alla grande parata? Se non vogliono viaggiare in un giorno infausto, potrebbero benissimo arrivare un giorno dopo.» «Vuoi dire che ancora non è qui?» «Be', è un'ipotesi. Può darsi che la notte scorsa, mentre eravate tutti all'esterno del Circo ad aspettare un'aggressione, lui stesse arrivando a Roma.» Lanciai un'occhiata a Petro, che annuì cupamente. «Stanotte è tutto da rifare, Petro.» «Non avevo comunque in mente di rilassarmi.» Volevo fare presente che avremmo dovuto controllare gli elenchi dei
veicoli che erano arrivati da Tibur la sera precedente, ma la conversazione prese una direzione diversa. «Dobbiamo studiare una strategia nel caso l'assassino colpisca» intervenne Frontino. «Naturalmente tutti speriamo che l'assassino venga notato appena prima, o durante, il rapimento ma, bisogna essere realistici, questo richiederebbe un bel po' di fortuna. Se lo manchiamo e se lui parte con la sua vittima, può darsi che debba esserci un inseguimento.» «Se varca i confini della città, uscirà dalla giurisdizione dei Vigili.» Frontino mi guardò. «A quel punto toccherà a voi due. Comunque non sarete privi di aiuto, ho già dato disposizioni in proposito. Poiché i crimini vengono commessi a Roma, se si renderà necessario un inseguimento potranno esservi assegnati alcuni uomini delle coorti urbane...» Petronio, che detestava gli urbani, soffocò un grugnito. «Ho un'intera coorte in stato di allerta ai Castra Praetoria, con i cavalli sellati. Il magistrato che si occuperà del caso, se si arriverà in tribunale, dovrà fornire una nota al prefetto urbano. È tutto stabilito, ma abbiamo bisogno di un nome da mettere sul mandato di cattura.» «Quale magistrato?» domandò Petro. «Sui chiama Marponio. Lo conoscete?» «Sì, lo conosciamo, Marponio.» Petro detestava anche lui. Mi lanciò un'occhiata d'intesa: se avessimo avuto l'occasione di catturare l'assassino, l'avremmo fatto da soli, a Roma o fuori città, e solo in seguito avremmo richiesto educatamente un mandato. «Voglio che tutto sia eseguito nel modo corretto» ci ammonì Frontino, intuendo le nostre intenzioni. «Naturalmente» lo rassicurammo. Elena si chinò sulla culla in modo che l'ex console non potesse vedere il suo sorriso. Dopo che Frontino se ne fu andato, Petronio mi riferì dov'era stato in precedenza. «Ho percorso la Via Lata, quasi fino all'Altare della Pace. È una zona molto elegante ed esclusiva. Ci sono grandi case abitate da ricchi lungo tutta la Via Flaminia.» «Come mai ci sei andato?» «Per controllare che Aurelia Mesia fosse veramente lì con la sorella.» «Credevo che avessimo deciso di abbandonare la pista di Damone!» «Si dà il caso che non me l'avesse ancora detto nessuno! Per gli dèi, lavorare fra i Vigili avrà i suoi problemi, ma non è niente in confronto alla
frustrazione di lavorare al di fuori. Ascolta!» Batté un pugno sul tavolo. «Agire di nascosto non funzionerà.» «Così hai voluto fare un po' di pressione?» «La pressione è ciò in cui credo, Falco.» Lo sapevo, ma io credevo il contrario. «Allora, la vecchia Aurelia era in casa?» «C'erano tutte e due le sorelle. Grata è ancora più miope e decrepita di Mesia, ma non sembra che questo le scoraggi dal raggiungere traballando ogni giorno i loro posti al Circo. Alla sera di solito invitano amici a cena. Non possono uscire perché anche il padre viene a Roma per la riunione familiare ed è troppo debole per essere portato da qualsiasi altra parte. Lo sa Giove quanti anni può avere!» «L'hai visto?» «No, il poveretto dormiva.» «Fortunato lui!» Ero stato un po' troppo rude. E mancavano ancora nove giorni alla fine degli Augustalia. Nelle prime ore della sera indossai i miei calzari da lavoro migliori, i cinturini di cuoio ai polsi, che usavo raramente, e due tuniche. Portavo il mantello, il pugnale in uno dei calzari e una borsa con il denaro che mi sarebbe potuto essere utile per corrompere gli informatori. Mi recai alle terme per un bagno e un po' di allenamento, dopodiché mi feci radere per far trascorrere un'ora e riscaldarmi imprecando contro la goffaggine del barbiere. Petronio, invece, avrebbe passato il tempo in noiose chiacchiere con i suoi colleghi vigili. Lo lasciai andare avanti perché si togliesse lo sfizio. Non avendo niente di meglio da fare in quel momento, mi incamminai lungo la Via Appia in direzione di Porta Metrovia. Volevo incontrare Damone. Stando agli indizi, non era lui il nostro assassino, ma c'era la possibilità che sapesse qualcosa sugli altri conducenti della zona di Tibur. Avevo deciso che era venuto il momento di interrogarlo direttamente. Le stalle nelle quali Aurelia Mesia teneva la sua carrozza mentre era in visita dalla sorella erano i consueti tuguri affollati dove grossi ratti se ne stavano seduti sogghignando nelle mangiatoie mentre gatti scarni scappavano via spaventati. Asini, muli e cavalli rischiavano la putrefazione degli zoccoli mentre stallieri trasandati si trastullavano sulla paglia non rivoltata. I mezzi di trasporto a noleggio avevano prezzi esagerati e i cavalli di ricambio di migliore qualità erano stati acquistati con il denaro pubblico per
uso della posta imperiale. Alcune scritte facevano pubblicità a un fabbro e maniscalco, ma l'incudine sembrava fredda e la bottega era deserta. Accanto c'era una sudicia taverna che offriva camere in affitto, cameriere che probabilmente potevano essere reclutate per completare l'arredo e una lista di bevande che dimostrava quanto il controllo dei prezzi fosse un'oscura leggenda. Non trovai né Damone né il vigile che era stato incaricato di tenerlo d'occhio e pedinarlo. Una cameriera il cui cipiglio lasciava intendere che aveva motivo di ricordarsi di loro mi disse che erano usciti tutti e due. LVII Mi ero ripromesso, se non fosse accaduto nulla di strano, di passare a trovare Marina: c'era ancora una domanda che volevo farle; ormai però non c'era più tempo per una sosta nella Via dell'Onore e della Virtù, nemmeno per fare la parte del bravo zio e andare a fare visita a mia nipote. Invece mi incamminai rapidamente in direzione del Tempio del Sole e della Luna, dove, come d'accordo, incontrai Petro e lo informai dei nuovi sviluppi. Frontino ci aveva consentito di servirci degli schiavi pubblici assegnati all'indagine. Li sguinzagliammo subito in tutte le direzioni e avvertimmo i Vigili che tutti avrebbero dovuto cercare l'uomo dai capelli rossi, l'aspetto celtico e una gamba zoppa. Suonava come uno scherzo ma tutti sapevamo che la faccenda era in realtà serissima. «Ha preso la carrozza?» «No, dà troppo nell'occhio. È così grande e appariscente che la si individuerebbe subito, qualora fosse avvistata nelle vicinanze del luogo dove è scomparsa una donna. Può darsi, però, che esca a piedi per rapire le ragazze e le porti in seguito alle stalle.» «Ammesso che l'assassino sia lui» mi rammentò doverosamente Petro. Quando qualcuno sotto sorveglianza fa qualcosa che non dovrebbe, è facile assegnargli il ruolo del delinquente che si sta cercando. Petro si sforzava di non agitarsi troppo. «Non lasciamoci portare fuori strada da questo fatto.» «No, va bene. Per lo meno sembra che il suo segugio gli sia rimasto alle calcagna.» «Riceverà una gratifica!» Petro avrebbe dovuto sapere che fra i dipendenti dello stato questo era assai improbabile, ma era indubbio che l'uomo stesse facendo un buon lavoro. «L'assassino non è Damone...» mormorò Petro, con un'espressione cupa, come se si chiedesse se in qualche modo
non si fosse lasciato sfuggire qualcosa di fondamentale e se, dopo tutto, Damone non fosse l'uomo che cercavamo. Tutto quello che potevamo fare era aspettare e procedere come se non fosse successo niente. Come la notte precedente, ci saremmo nuovamente scambiati di posto per rimanere più vigili durante il turno di sorveglianza. Quella notte toccava a Petro stare nella Via dei Tre Altari mentre io mi appostai al Tempio del Sole e della Luna. Lui mi batté la spalla con il vecchio saluto dei legionari, poi si allontanò e mi lasciò solo. Presto si fece buio. Sopra il Circo scorgevo il tenue bagliore delle migliaia di lampade e di torce che illuminavano gli spettacoli serali e pensavo che in quel periodo dell'anno l'atmosfera poteva essere perfino più magica che in estate, e più tranquilla e meno sgradevole che nelle lunghe sere dei Grandi Giochi di settembre. Gli Augustalia, strettamente collegati alla corte imperiale, assumevano un tono più spento nei casi in cui la corte non era particolarmente vivace, come accadeva appunto sotto Vespasiano. Gli applausi che si levavano dagli spalti erano garbati, i musicisti suonavano a ritmo moderato, quasi noioso, lasciando alle note il tempo di raggiungere dolcemente la giusta altezza. Quasi quasi li preferivo quando suonavano in modo confuso! «Zio Marco!» Un grido soffocato mi fece sobbalzare. Il peggiore dei miei nipoti stava nascosto sotto un lungo mantello accuratamente chiuso, dal cui orlo si intravedevano però i grossi piedi sporchi e i rozzi calzari. «Giove! Ma Gaio, sei tu...» Si aggirava furtivamente nei pressi del colonnato buio del tempio, tenendosi addossato alle colonne e avvolgendosi nel mantello in modo da lasciare scoperti solo gli occhi. «È qui che stai di guardia cercando quell'uomo?» «Vieni via di lì, Gaio. Non pensare di essere invisibile, attiri soltanto l'attenzione.» «Voglio aiutarti.» Mi pareva che in effetti non ci fosse niente di male, così gli descrissi Damone e gli dissi di correre subito a cercare me o uno dei vigili nel caso l'avesse incontrato. Ero sicuro che non avrebbe corso alcun rischio perché, per quanto ne sapevamo, l'assassino degli acquedotti non aveva alcuna predilezione per i ragazzini. In ogni caso, se avesse sentito l'odore del nostro Gaio, che non si lavava mai, avrebbe sicuramente desistito. Pregai mio nipote, quando si fosse stancato di quel lavoro di sorveglian-
za, di andare a casa mia e di badare a Elena al mio posto. Lei l'avrebbe tenuto alla larga dai guai. Dopo avere frignato un po' lamentandosi di quell'ingiustizia, si allontanò furtivamente, tenendosi ancora nell'ombra. Ridacchiando lo guardai incamminarsi: aveva un'andatura esagerata e si muoveva a passi giganteschi. In cuor suo era ancora un bambino e camminando faceva il vecchio gioco di mettere i piedi sulle fessure del lastricato nel caso un orso avesse voluto mangiarlo. Avrei dovuto spiegargli che quello che contava in realtà era evitare le fessure. Quella notte si annunciava piena di seccature. Infatti mi ero appena liberato di Gaio quando dal buio emerse con cautela un nuovo tormento. «Che cosa succede, Falco?» «Anacrite! In nome degli dèi, vuoi sparire per favore?» «Sei di guardia?» «Chiudi il becco!» Lui si accovacciò sui gradini del tempio, come un fannullone che sta a osservare la folla. Era troppo vecchio e vestito in modo troppo elegante per essere scambiato per un assistente dell'altare fuori servizio. Ma ebbe la sfacciataggine di dire: «Risalti troppo stando quassù da solo, Falco». «Se gli idioti come te mi lasciassero in pace, mi potrei appoggiare a una colonna con una manciata di polpette fredde, così da sembrare un ragazzo che aspetta un amico.» «Sei vestito nel modo sbagliato» mi fece notare. «Riconoscerei che sei una spia a mezzo chilometro di distanza. Si vede che sei pronto all'azione. Allora, che cosa si muove stanotte?» «Se intendi restare qui davanti a questo tempio, mi muovo io!» Anacrite si alzò lentamente. «Potrei aiutarti, lo sai.» Ero combattuto. Da una parte, se ci fossimo lasciati sfuggire l'assassino perché avevo rifiutato la sua offerta, nessuno avrebbe accettato la scusa che lo consideravo un idiota. Anacrite era la Prima spia. In quel momento era in congedo per malattia, assegnato temporaneamente a mansioni più leggere presso il comitato delle acque, ma in definitiva lavorava per il Palazzo, proprio come me. Dall'altra parte, se Anacrite avesse catturato l'assassino grazie a qualche mio indizio Petronio Longo mi avrebbe strangolato; avrei anche potuto affrontare la cosa, ma non le torture a cui Petro mi avrebbe sottoposto prima di finirmi. «La nostra sorveglianza non è mirata a nessuno in particolare. Teniamo d'occhio qualunque uomo guardi in modo sospetto le donne, soprattutto se
ha un mezzo di trasporto.» «Terrò gli occhi aperti.» «Grazie, Anacrite.» Riuscii a dirlo senza avere un travaso di bile. Con mio grande sollievo, Anacrite si allontanò, dirigendosi però verso la Via dei Tre Altari e quindi da Petro. Be', il mio socio sapeva come occuparsi di lui, o per lo meno lo credevo. In realtà però, a mia insaputa, il mio coraggioso socio si era allontanato dalla postazione di guardia. La serata era deprimente, sembrava più noiosa del solito. Gli applausi salivano dal Circo a intervalli regolari, propagandosi verso il cielo. Gli scoppi di musica assordante delle bande di cornu disturbavano le mie stanche fantasticherie. Presto iniziò un lento flusso di spettatori in uscita. La folla si disperse più rapidamente di quanto avesse fatto dopo i Grandi Giochi, come se le persone avvertissero l'approssimarsi del freddo delle sere autunnali anche se quella era ancora una perfetta sera di fine estate, che concludeva una giornata calda e soleggiata. In cielo svolazzava una moltitudine di pipistrelli e splendeva una miriade di stelle. A poco a poco la folla rallentò, accorgendosi della piacevolezza di quella notte. Gli uomini ebbero il desiderio improvviso di bere ancora qualcosa in una taverna, le donne si attardarono chiacchierando, poi si avvolsero nelle stole preziose (indossate più per fare colpo che per necessità, in quella notte mite), scossero le pieghe delle sottane aderenti e si allontanarono scortate da numerosi accompagnatori. Gli Augustalia erano giochi molto sobri, troppo rispettabili per la marmaglia più sfrenata e troppo seri per gli appassionati di corse eccessivamente smaniosi. Erano privi del mordente dei giochi più antichi, di origine pagana, su cui si raccontavano storie truci che risalivano a parecchi secoli addietro. Onorare un dio creato dagli uomini e fattosi da sé non aveva lo stesso fascino istintivo dei vecchi Giochi che erano stati inaugurati sotto divinità più antiche e misteriose. Si potevano comunque osservare comportamenti curiosi, cinque ragazze che confezionavano passamanerie, per esempio, dopo avere assistito agli spettacoli tiravano tardi masticando pistacchi e sbevazzando vino melato, e agitavano il parasole esasperando gli uomini. Il loro capo era la ragazza più chiassosa, più rozza, più appariscente, più sfrontata che avessi visto in tutta la serata: Marina, la madre immodesta e volubile della mia nipotina prediletta. «Oh, Giunone... ma quello è Falco, ragazze!» Com'era possibile che una donna così bella diventasse tanto volgare quando apriva bocca? Eppure a
Marina capitava, e forse era meglio così: se fosse stata anche provvista di buona educazione e signorilità, sarebbe stata terribilmente pericolosa. «Inseguiamolo intorno al tempio e vediamo chi riesce a strappargli via la tunica!» «Salve, Marina.» Parlavo già in tono pomposo. «Ciao, caro. Puoi prestarmi del denaro?» «Non questa sera.» Prestare denaro a Marina poteva essere considerata solo una forma di carità civica, anche se nessuno avrebbe eretto una statua in onore di chi l'avesse fatto. «Dove stai andando?» Per lo meno, sembrava sobria. Mi chiedevo come liberarmi di lei. «A casa, tesoro. Dove altro dovrei andare? A Marzia piace che le canti la ninna nanna.» «Niente affatto.» «È vero... lo detesta. È solo che mi piace ricordare alla signorina chi comanda.» Fui sul punto di risponderle che sua madre aveva tirato così tardi che fra poco la piccola Marzia si sarebbe svegliata per un nuovo giorno. Le altre lavoratrici in pensione saltellavano intorno alla fidanzata di mio fratello come uno stormo di uccelli vivaci e un po' scomposti. Incominciarono a ridacchiare e a mormorare parolacce. Erano peggio delle terribili scolarette che d'abitudine gironzolano in gruppo cercando ragazzi da tormentare. Avevano imparato a esercitare il loro potere e a lungo andare non avevano maturato nient'altro che disprezzo per gli uomini. Nemmeno un brandello di romanticismo mitigava la loro sfacciataggine. In quel momento volevano terrorizzarmi e solo gli dèi sapevano che cosa avrebbero fatto per riuscirci. «Ti cercavo» dissi. «Oooh!» Le compagne di Marina diedero inizio a una raffica di risatine falsamente scandalizzate. Persi la calma. «Piantatela, questi sono affari seri...» «Ooh! Ooh!» ricominciarono. «Le migliori donne di Roma» commentai. «Encomiabili come Cornelia, la madre dei Gracchi!» «Oh, falla finita.» Marina si stancava in fretta, anche quando si trattava di rendere difficile la vita a un uomo. «Che cosa vuoi, Falco?» «Una domanda. La notte in cui ci siamo incontrati al Foro...» «Quando quella misteriosa ragazza ha vomitato addosso alla Casa delle Vestali?»
«Credevo che fosse una tua amica.» «Mai vista prima e, da quella sera, nemmeno dopo. Non ho idea di chi fosse. Si sentiva un po' giù di morale, così ho pensato che avrei dovuto accompagnarla a casa.» Ah, bene. Era evidente che le ragazze delle passamanerie formavano una comunità di donne amorevoli. «Be', non importa... Non è della ragazza che voglio sapere. Chi era l'uomo nella carrozza che è passata, l'uomo al quale hai gridato qualcosa?» «Quale carrozza?» domandò Marina, totalmente dimentica di avere fatto qualcosa del genere. Le sue amiche smisero di schiamazzare e si limitarono a strascicare i piedi, spazientite. Si erano stancate di me e si stavano guardando in giro in cerca di qualcun altro da tiranneggiare. «Non insultarmi, Marco Didio, io non grido mai agli uomini nel Foro.» Le descrissi in che modo il veicolo fosse sbucato dalle tenebre e come avessi sentito confusamente un volgare scambio di frasi tra Marina e il conducente, che lei sembrava conoscere. Marina ci pensò su. Aspettai in silenzio, lasciando che ordinasse faticosamente i pensieri in quel piccolo organo poco allenato che le serviva da cervello. L'esperienza mi aveva insegnato che quel procedimento avrebbe potuto richiedere del tempo. Sapevo anche che, probabilmente, non ne sarebbe valsa la pena ma, da professionista, preferisco sempre provarci. «Che cosa intendi per carrozza?» mi domandò Marina. «Oggetti su ruote, con un cavallo davanti, su cui una o più persone possono percorrere lunghe distanze in modo molto scomodo e per un prezzo esorbitante...» «Per gli dèi, ti piace dire fesserie, Marco! Pensavo che forse poteva essere il tizio che vedo ogni tanto.» «Non ti ricordi? Stai tirando a indovinare?» «Oh, sono sicura che me lo ricorderò, se avrò il tempo di rifletterci. A dire la verità, quella notte non ero proprio in grado di osservare granché.» «Be', questo è essere sinceri.» Marina, con calma, stava ancora riflettendo. Aveva corrugato la fronte di alabastro. Forse a qualche uomo sarebbe piaciuto spianare quelle rughe, ma io ero sul punto di imprimerle in fronte un pugno chiuso. «Non poteva essere lui, altrimenti si sarebbe fermato. Di solito scambiamo quattro chiacchiere quando mi capita di incontrarlo.» «Di chi stai parlando?» «Di un tizio che parcheggia nella nostra via, ci facciamo sempre un sacco di risate. Senti, questa ti piacerà. Lui accompagna il suo padrone a visi-
tare dei parenti... Gente rispettabile, una famiglia molto per bene... Ma quello che loro non sanno è che la sera prima di arrivare a casa loro, con quell'aria devota, il padrone fa una capatina a trovare una signora, che una volta era una professionista e di cui lui è l'ultimo cliente fedele. Sembra quasi centenario, lo sa il cielo che cosa riescono a combinare. Lei non la vediamo mai, riesce a stento a trascinarsi fino alla finestra per salutarlo con la mano la mattina dopo.» «Come si chiama?» «Il padrone o il conducente? Non chiedermelo. Non passo il tempo a controllare il certificato di nascita delle persone.» «Da dove arrivano? Da fuori Roma? Potrebbe essere una località come Tibur?» «Non credo» mormorò Marina. «Hai detto che era una carrozza, ma non è così che la definirei. È uno di quegli scomodi carrozzini simili a una cassetta su due grosse ruote.» «Privi di copertura ma che viaggiano di corsa? Ma va'! Il vecchio non può stare seduto davanti.» «Oh, si tiene coraggiosamente aggrappato.» «Sono stati nella tua via questa settimana?» «Non l'ho notato.» Marina aveva un'espressione vagamente furtiva. Immaginai che volesse evitare di dirmi che era uscita spesso, scaricando Marzia da qualche altra parte. Era inutile cercare di approfondire l'argomento. «Questo conducente non è per caso un nanerottolo con i capelli rossi, che zoppica?» «Oh, per gli dèi, come te le inventi? No, in quanto uomo è sicuramente brutto, ma normale.» Ancora una volta dovetti ammettere con riluttanza che non si trattava del nostro maggiore indiziato, Damone. «Tenta degli approcci?» «Come faccio a saperlo?» ribatté Marina in tono di scherno, tirandosi su indignata. «Che cos'è questa faccenda?» Parlai gentilmente: «Oh, mi chiedevo soltanto se il veicolo che abbiamo visto al Foro appartenesse all'uomo che quella stessa notte ha gettato dentro la Cloaca Massima la testa di una donna assassinata». Marina impallidì e anche le sue petulanti amiche si calmarono di colpo. «Stai cercando di spaventarmi?» «Sì, appunto. Tutte voi, siate prudenti questa notte. Marina, se per caso vedi questo carretto, cerca me o Petronio.»
«È lui il bastardo che state cercando?» «Non sembra la persona giusta, ma devo controllare. Se non è lui, è probabile che il vero bastardo sia ancora in giro.» Le dissi che sarei andato a trovarla l'indomani e che avrebbe dovuto indicarmi la casa della vecchia prostituta, che volevo interrogare. E così la Via dell'Onore e della Virtù si rivelava, come sempre, terribilmente all'altezza del suo affascinante nome. Rimasi presso il tempio quasi fino all'alba, ma non successe niente di interessante in relazione al nostro caso. Il racconto di Marina mi tormentava. Mentre aspettavo Petro mi resi conto che non vedevo l'ora di consultarmi con lui; tardava più del solito, probabilmente perché voleva rimanere al suo posto fino all'ultimo istante, riluttante ad ammettere che avevamo sprecato un'altra notte. Scesi i gradini del tempio, facendo attenzione a non calpestare nessuna fessura (non volevo di certo allarmare gli orsi del lastricato). Incominciai a camminare intorno al Circo in cerca di Petro. Se c'era, non lo trovai. Invece, presso il grande cancello di uscita ormai chiuso, sotto l'arco al centro dell'abside, vidi qualcosa che attirò la mia attenzione. C'erano delle torce, splendenti, apparentemente appena accese, mentre i pochi lumi rimasti nelle strade si erano ridotti a un debole guizzo. Mi ero imbattuto in un gruppetto di schiavi guidati da un giovanotto in abiti bianchi patrizi, che riconobbi immediatamente. Ancora prima di chiamarlo, compresi dal suo atteggiamento ansioso che si trovava in qualche guaio. «Eliano!» Il fratello meno simpatico di Elena correva avanti e indietro all'esterno del cancello del Circo. Quando mi vide, l'orgoglio lo spinse a rallentare e a riassettarsi. «Falco!» Il mio nome gli uscì in tono troppo pressante. Sapeva che io sapevo che era disperato. «Marco Didio... forse tu puoi aiutarmi.» «Che cosa c'è che non va?» Avevo un brutto presentimento. «Niente, spero... Ma sembra che io abbia perso Claudia.» Il mio presentimento era giusto, e quello era l'inizio di un incubo. LVIII «Da quanto tempo è scomparsa?» «Oh, dèi! Da ore!»
«Da ore?» «Da questa sera...» Lanciai un'occhiata eloquente al cielo rischiarato dall'alba. «Ieri sera, vorrai dire.» «Non c'è bisogno che tu me lo ricordi! È terribile... E aspettiamo i suoi nonni da un giorno all'altro...» Si arrestò scuotendo la testa, rammaricato per avere pensato a quelle banalità. Avevo sempre desiderato vedere Eliano tormentarsi, ma non in quel modo. Era arrogante, stupido e sprezzante, e aveva fatto molto soffrire Elena con le sue critiche nei nostri confronti. E adesso se ne stava lì sulla strada, agitato, preoccupato, cercando di cavarsela bluffando. Sapevo, e lui doveva rendersene conto, che avvertiva l'incombere di una tragedia. «Mantieni la calma.» Il sollievo di avere qualcuno con cui condividere la propria angoscia lo rendeva quasi incapace. Lo afferrai per le spalle per scuoterlo dal panico di cui era caduto preda. L'elegante stoffa bianca della sua bella tunica felpata era impregnata di sudore. «Claudia voleva andare ai Giochi e io no. E così l'ho lasciata...» «Da sola? Non sono un moralista in fatto di comportamenti sociali, ma è una ragazza giovane, e inoltre non è di Roma!» «Giustino di solito andava con lei, ma...» Giustino era fuori città, e quello non era il momento di chiederne il perché a suo fratello. «E così l'hai lasciata sola. I tuoi genitori lo sanno?» «Adesso lo sanno! Quando sono venuto a prenderla come d'accordo, Claudia non si è fatta vedere. A quel punto ho cominciato a commettere una serie di errori.» «Dimmi tutto.» «Ho guardato dappertutto. All'inizio ero arrabbiato con lei... Sono stato quasi sul punto di allontanarmi incollerito per andare a bere qualcosa...» Evitai di fare commenti. «Ho immaginato che si fosse stancata di aspettare. Claudia non ha una grande opinione delle mie capacità organizzative.» Sembrava qualcosa di più grave di un battibecco tra innamorati. «Ho pensato che se la fosse presa con me e fosse tornata a casa a piedi.» Mi morsi la lingua per evitare di esclamare irosamente: «Da sola?». In effetti la casa non era lontana. Bastava arrivare all'inizio della Via dei Tre Altari e girare a destra nella Via Appia. Si poteva vedere Porta Capena dal primo crocicchio, dietro l'Aqua Appia e l'Aqua Claudia. Eliano ci avrebbe impiegato solo pochi minuti per arrivare alla casa dei Camilli, correndo affannosamente, e nemmeno Claudia avrebbe impiegato molto di
più. Conosceva la strada e probabilmente si sentiva al sicuro. «Allora sei tornato di corsa a casa?» «Purtroppo no.» «L'hai confessato a tuo padre?» «Un altro errore! Mi vergognavo. Ho tentato di risolvere da solo la cosa. Senza fare rumore, ho preso con me tutti gli schiavi che sono riuscito a trovare e sono tornato indietro a cercarla. È stato tutto inutile, naturalmente. Sono entrato nel Circo, ma tutti coloro che erano seduti vicino a lei se n'erano già andati. Naturalmente gli edili responsabili si sono limitati a ridere di me. Sono andato a casa e ho informato papà, che si è incaricato di informare i Vigili mentre io ho continuato a cercare...» «Hai perso troppo tempo.» Non c'era niente da guadagnare a risparmiargli la verità. Claudia Rufina era una ragazza seria e ragionevole, troppo riguardosa per fare i capricci se era arrabbiata con Eliano. «Aulo...» Raramente lo chiamavo con il suo nome privato. «Questa è una faccenda molto seria.» «Lo capisco.» Non cercava scuse né si subissava di rimproveri, ma era evidente che si sentiva in colpa. Be', sapevo che cosa si provava. «Vuoi aiutarmi, Falco?» Alzai le spalle. Era il mio lavoro, e comunque i Camilli erano in parte la mia famiglia. «Tu non sai il peggio.» Eliano stringeva i denti per confessare. «Prima ho parlato con un venditore ambulante. L'uomo ha detto di avere visto una ragazza, che corrispondeva alla mia descrizione di Claudia, mentre aspettava da sola presso il cancello. Poco tempo dopo, l'ha vista parlare con il conducente di un veicolo... Un carretto, ha detto, ma non ne era del tutto sicuro. Pensa che sia salita, dopodiché è stata condotta via a gran velocità.» «In quale direzione?» Eliano non ne aveva la minima idea, naturalmente, e non si era nemmeno fatto fare una descrizione di chi l'aveva condotta via. Il venditore se ne era andato ormai da parecchio tempo. Mandammo a casa gli schiavi. Accompagnai di buon passo Eliano fino alla Via dei Tre Altari. Fu allora che incontrai un vigile nel punto in cui sarebbe dovuto trovarsi Petro. L'uomo mi riferì che Petronio era andato da qualche parte. «Dov'è, nell'Ade?»
«Sta seguendo un sospetto.» «Che genere di sospetto?» «Capelli rossicci, con una gamba zoppa.» «Qui? Damone? C'era un vigile che lo pedinava!» Inoltre, avevamo convenuto tutti quanti che Damone non era il nostro indiziato. «Petro è andato ad aiutarlo. Ha detto che qui non c'era più niente da fare. Ha preferito seguire il suo fiuto.» «Quando è stato?» «Un po' di tempo fa. Mi ha ordinato di aspettare qui, ma ormai sono tornati tutti a casa. Stavo venendo ad avvertirti di non aspettarlo più.» Imprecai sotto voce. «Damone era solo?» «C'era una donna con lui.» «Una ragazza elegante vestita di bianco, con il naso un po' grosso?» «No. Una tipa sudicia, con una sottana rossa, che mostrava le gambe.» Poteva anche avere incontrato Claudia successivamente. Di solito le ragazze che mostrano le gambe percepiscono il pericolo e forse «sottana rossa» lo aveva piantato in asso. Claudia era senz'altro un bersaglio più facile. Ma c'era anche la possibilità che Damone fosse con la ragazza dalla sottana rossa, mentre qualcun altro aveva preso Claudia. In tal caso, non avevamo la minima idea di chi cercare. «Scopri dove sono andati. Trova Petro, digli... No, prima fai avere un messaggio al tuo comandante: una ragazza rispettabile è stata rapita questa sera mentre tutti noi ce ne stavamo di guardia immobili come dipinti sul muro. Chiunque l'abbia presa ha un mezzo di trasporto. Nell'eventualità che non abbia ancora lasciato la città, è necessario che venga perquisito ogni veicolo che si trova per strada stanotte... e dobbiamo cominciare immediatamente. Concentratevi sui settori orientali. L'uomo è probabilmente diretto a Tibur.» Il sostituto di Petro sembrava preoccupato. «Non ci sarà molto movimento. La maggior parte dei veicoli se ne sono già andati.» «Oh, questo lo so!» Afferrai Eliano. Era pallido, i capelli lisci gli cadevano scompostamente sul viso e il cuore era sul punto di esplodergli. «Aulo, farò tutto quello che posso. Se è ancora viva, te la riporterò, ma non posso prometterti niente, quindi preparati al peggio.» Reagì meglio di quanto pensassi. «Che cosa devo fare?» Lo osservai brevemente. Era riuscito a controllare il panico, in fondo apparteneva a una famiglia di persone intelligenti. Non mi piaceva, ma non
dubitavo della sua tenacia. «Ho bisogno di un mandato d'arresto, ma non abbiamo ancora un nome. Fa' del tuo meglio per me. L'uomo che ha dato tutte le disposizioni è l'ex console Frontino, e conosce tuo padre. Il magistrato che deve rilasciare il documento si chiama Marponio.» Gli diedi rapidamente l'indirizzo di entrambi. «Nessuno dei due sembra il tipo che resta fuori la notte, quindi dovresti riuscire a trovarli. Convinci Marponio a rilasciare il mandato per "il rapitore di Claudia Rufina". Questa dicitura dovrebbe essere abbastanza precisa. Poi, portalo di corsa ai Castra Praetoria. Solo allora le coorti urbane potranno inseguire questo criminale, se ha lasciato la città.» «E tu, Falco?» «Io andrò immediatamente ai Castra e cercherò di convincerli a montare immediatamente in sella. Se non riuscirò a farli muovere, andrò avanti da solo.» «Vengo con te...» «No! Ho bisogno che tu mi organizzi i rinforzi, Aulo!» Non potevo portarlo con me, sapendo quello che avremmo potuto trovare. Per un ragazzo di ventitré anni perdere in quel modo la futura sposa era già abbastanza terribile, era meglio risparmiargli la vista di ciò che poteva esserle stato fatto. «Il mandato è di vitale importanza. Dopodiché puoi fare un'altra cosa per me: Elena mi starà sicuramente aspettando a casa e sarà sconvolta non vedendomi arrivare. Per favore, vai a riferirle quello che sta succedendo.» Elena avrebbe capito che non doveva permettergli di seguirmi. Era suo fratello, quindi reputai che potesse portarle anche un altro messaggio: «Dille che l'amo... e se vuoi veramente essere un eroe, sforzati di baciare mia figlia per me». Tutte queste cose avrebbero dovuto tenere occupato il giovane e riluttante zio Aulo per un po'. LIX Non era il momento propizio per mettersi in viaggio. Quando partii, tutti i trabiccoli di Roma per il trasporto del vino e del marmo si erano messi in marcia nel tentativo di lasciare la città prima dell'alba. Dopo la fine dei Giochi i veicoli a noleggio privati avevano accompagnato gli spettatori e poi si erano sparpagliati, per cui dovetti andare a piedi. Dal Circo ai Castra Praetoria è una scarpinata terribilmente lunga. Nei pressi dei Giardini di Mecenate, incontrai un ubriaco in groppa a un
asino e lo spinsi giù, requisendo l'animale in nome dell'Impero. L'ubriaco non se ne curò nemmeno, non era in grado di intendere. L'asino fece resistenza, ma io ero più ostinato di lui; lo feci partire con un calcio e per il resto della strada fino a Porta Tiburtina lo tenni a bada con un bastone che avevo trovato. Arrivai proprio mentre i Vigili si preparavano ad andarsene. «Fermi! È urgente. Qualche veicolo privato è uscito di qui stanotte?» «Oh, accidenti, Falco! È stata una notte difficile. Ce ne sono stati centinaia.» «Avete l'elenco?» «Eravamo convinti di avere finito e l'abbiamo già mandato al prefetto.» «Aiutatemi, ragazzi. Una grossa carrozza a quattro cavalli, o un carretto?» «Non chiedercelo.» «Giove! Siete una vergogna per lo stato! È per questo che pago la mia tassa sul censo?» «Piantala! Chi altri vuoi che sborsi la tassa?» «Non abbastanza persone per pagare un servizio di ronda efficiente, a quanto pare. Ma lasciamo perdere. La canaglia ha rapito una giovane ragazza, promessa sposa di un senatore. Dobbiamo trovarla. Perquisite qualunque veicolo arrivi in questa direzione, e cercate di passare parola alle altre porte della città.» Con uno strattone rimisi in marcia il mio asino rubato. Passammo sotto l'arcata dell'Anio Veto, poi proseguimmo parallelamente alla triplice arcata dell'Aqua Marcia, che sosteneva anche la Tepula e la Giulia. In origine l'acquedotto non era stato progettato per questo e le nuove condutture non erano centrate. Era stato necessario rinforzare gli archi e, nonostante ciò, la copertura superiore della Marcia cedeva a causa della distribuzione irregolare del peso... Grazie a Bolano avevo ormai una conoscenza approfondita di questi particolari. Mi ero anche fatto una certa idea di che cosa avrebbe potuto molto presto galleggiare in quelle acque. Forzai l'andatura dell'asino fino ai Castra Praetoria e quando vi giunsi fui, come sempre, colto da una spiacevole sensazione. Il campo è un'enorme distesa all'ombra delle Mura Serviane, cui si aggiunge una piazza d'armi addirittura più gigantesca, che occupa la maggior parte dello spazio tra Porta Viminale e Porta Collina. I soldati di stanza lì sono tutti dei gran bastardi. Il campo era particolarmente silenzioso, tanto che si riuscivano a sentire i ruggiti delle bestie feroci nel serraglio imperiale appena fuori città. Pas-
sando accanto a una sala riunioni, le mie orecchie furono assalite dal caratteristico baccano delle guardie che si scolavano le loro consuete quindici anfore di vino, come ogni notte. Anche i bulli all'ingresso dovevano essere abbastanza brilli, ma reggevano bene la sbornia. Il vino li rendeva lenti a reagire alle emergenze, ma infondeva in loro una certa attitudine alla violenza qualora avessero incominciato a capire cosa accadeva intorno a loro. Un individuo gentile diede una pacca al mio asino, che reagì mordendolo, ma il corpulento soldato era così coriaceo, o così sbronzo, che non sentì nulla. Il centurione degli urbani a cui era stato ordinato di stare all'erta per aiutarci era un individuo mite e ordinato, che era andato a letto di buon'ora. Era bello pensare ai duri e famigerati guardiani della città che leggevano tranquillamente nei loro lindi lettini e poi spegnevano il lume mentre la città si scatenava, indisturbata. Dopo un'attesa tormentosa, il centurione si presentò con indosso una lunga camicia da notte di foggia greca, solo per dirmi che senza il mandato di un giudice sarebbe tornato a dormire. Gli consigliai di controllare quanto avesse messo da parte per la pensione nella cassa di risparmio del reggimento, perché per l'esilio nella lontana Armenia forse non sarebbe stato abbastanza. Lui tirò su con il naso e se ne andò. In preda alla disperazione più nera, mi ritrovai a raccontare i miei problemi ai pretoriani di guardia. Nonostante fossero ragazzi grandi e grossi e portassero lucenti armature, si lasciavano facilmente commuovere da una storia straziante. Sempre smaniosi di fregare gli urbani, che consideravano inferiori, mi mostrarono dov'erano pronti i cavalli sellati e mi fecero argutamente capire che avrebbero guardato dall'altra parte mentre me la svignavo con uno di essi. Li ringraziai, non senza far loro notare che i cavalli erano in realtà dei muli, dopodiché scelsi il migliore. Mentre le prime luci illuminavano i Sette Colli, impiegai una buona mezz'ora per far partire a furia di calci la mia cavalcatura, quindi uscii al galoppo da Roma lungo la Via Tiburtina, inseguendo un assassino che forse non era nemmeno andato da quella parte. LX Da Roma a Tibur c'erano venti miglia romane, o forse più. Mentre galoppavo nella mattina grigia e fredda, avevo tempo per riflettere. I miei pensieri, però, erano quasi tutti sgradevoli. Quello più facile da sopportare era l'idea di essermi completamente sbagliato a valutare gli eventi, per cui
stavo probabilmente facendo un viaggio inutile: Claudia sarebbe ricomparsa e forse era già a casa, al sicuro. Se fosse stata rapita, quasi certamente Petronio o qualcun altro se ne sarebbe accorto e avrebbe arrestato l'uomo; mentre io cercavo Petro per strada, probabilmente lui si era appartato in qualche caserma per torturare l'assassino con degli uncini. Oppure le ricerche del veicolo che avevo ordinato avevano consentito di ritrovare la ragazza prima che le accadesse qualcosa di male. Magari il rapitore era stato arrestato alle porte della città. La mia ultima speranza era che, se in quel momento Claudia fosse stata in viaggio per Tibur, inerme e terrorizzata (sempre che fosse ancora viva), sarei riuscito a raggiungerla in tempo... L'avrei trovata, niente mi avrebbe fermato. Forse però era già morta e, considerato quello che le sarebbe toccato sopportare prima, pregavo quasi che lo fosse. Durante le prime ore di viaggio non incontrai anima viva. La campagna era deserta, ero l'unico viaggiatore sulla strada: era di gran lunga troppo presto perfino per i contadini. Il mulo aveva ormai preso un'andatura rapida e il ritmo degli zoccoli al galoppo leniva la mia sensazione di panico. Cercavo di non pensare a Claudia, e così mi tornò in mente Sosia. La sua era stata un'altra morte che avrei potuto, e dovuto, evitare. Era cresciuta con la famiglia di Elena, una giovane fanciulla che amavano e della cui terribile perdita avrebbero sempre incolpato me. Non ne parlavamo mai, ma nessuno di noi l'avrebbe mai dimenticata. Sosia ed Elena erano molto unite. Anche se alla fine Elena mi aveva perdonato, in un primo tempo mi aveva aspramente biasimato per la morte della giovane cugina. Come avrei potuto aspettarmi che tollerasse lo stesso errore una seconda volta? Ormai Eliano doveva averla informata che Claudia era scomparsa. Ogni istante del viaggio che passava corrispondeva a un istante in cui Elena, a casa, si affliggeva per il tragico destino della sua giovane amica, mentre perdeva fiducia nei miei confronti e la sua preoccupazione aumentava. La fiducia in me stesso io l'avevo persa ancora prima di lasciare Porta Tiburtina. Si stava facendo giorno. Cavalcavo in direzione del sole, che splendeva basso sui Monti Sabini e illuminava anche quella casupola in cui decine e decine di povere donne erano state torturate, uccise e fatte a pezzi. La luce mutevole mi faceva sentire ancora più stanco di quanto già non fossi. Tenere gli occhi socchiusi, a causa del chiarore abbagliante, affievoliva la mia concentrazione, oltre a rendermi irritabile e affranto. Avevo trascorso troppe ore cavalcando contro il tempo per liberare il mondo dai malfattori,
con il risultato che criminali anche più crudeli ne ereditavano il posto: persone dalle abitudini più infami e dall'atteggiamento più maligno. Pian piano gli abitanti delle fattorie riprendevano le loro attività. Si cominciavano a incontrare carretti di campagna, che però andavano quasi tutti nella direzione opposta a quello che cercavo, verso Roma. Ispezionai tutti quelli che erano diretti a est, ma fu uno spreco di tempo. Furioso per quei dettagli inutili, che però non osavo trascurare, ne ebbi ben presto fin sopra i capelli di cavoli e rape, di ceste di susine e otri di vino che perdevano. I vecchi sdentati, che puzzavano di aglio, scoprivano i carretti con i loro gesti lenti e mi facevano perdere tempo. I giovani esaltati, invece, mi fissavano crudelmente con occhi infidi. Chiesi a tutti se fossero stati superati da un altro veicolo, chi negò mi diede l'impressione di mentire, chi al contrario assentì diceva evidentemente soltanto quello che volevo sentire. Detestavo la campagna, detestavo i sognatori e i fannulloni che ci vivevano e detestavo anche me stesso. Perché quella vita? Avrei voluto essere un poeta, che lavorava in una tranquilla biblioteca, lontano dal degrado morale dell'umanità, immerso nell'irreale mondo della mia mente. (Sostenuto finanziariamente da un mecenate ricchissimo innamorato delle arti... Niente da fare, Falco!) A mezzogiorno avevo già percorso parecchia strada e mi trovavo nei pressi di Aquae Albulae. A quel punto la mia volata terminò. Il mulo era stanco e io stesso ero irrigidito e mezzo morto, d'altronde ero stato alzato tutta la notte. Avevo un disperato bisogno di riposo e potevo solo sperare che anche l'assassino, che non poteva sapere che lo seguivo, facesse una sosta lungo la strada. Lasciai il mulo in una stalla e mi immersi nelle calde acque sulfuree delle terme. Mi addormentai. Fortunatamente qualcuno mi tirò fuori prima che annegassi. Mi concessi un paio d'ore di riposo, che passai intontito sulla lastra del massaggiatore, a faccia in giù sotto un asciugamano, con le mosche che ronzavano fino a stordirsi intorno alle parti esposte del mio corpo. Tornai in me, barcollante e pieno di punture, acquistai qualcosa da mangiare e da bere e, in una piccola stalla dove tenevano cavalli di ricambio per i corrieri ufficiali, cercai di scambiare il mio mulo. «Il mio viaggio è di vitale importanza per lo stato, ma sono partito troppo in fretta per prendere un lasciapassare. Ho trovato questo nella mia borsa, comunque...» L'uomo che si occupava della stalla prese il contrassegno che gli porsi, senza mostrare alcuna curiosità. Aquae Albulae era una piccola località tranquilla. «Temo che sia scaduto.»
Lui si strinse nelle spalle, gettandolo in una ciotola. «Be', vorrà dire che farò il finto tonto con i revisori e dovrò esclamare "Oh, povero me, quale malvagia canaglia mi ha rifilato questo?".» «C'è di più. In realtà il lasciapassare è stato compilato per il governatore della Betica» confessai. «Sono certo che è un tipo simpatico. Quello grigio è un buon cavallo.» «Grazie! Spero che i miei rinforzi arrivino presto. Vuoi riferire che Falco ha detto di fare in fretta?» Il pranzo me lo gustai al galoppo. Sette miglia dopo, percorse a rotta di collo, entrai a Tibur in sella al cavallo grigio. A quel punto dovevo risolvere quel genere di dilemma nel quale ero bravissimo a incastrarmi: ero venuto a catturare un uomo che non conoscevo, che viveva chissà dove e che in quel momento, forse, faceva a Claudia gli dèi soli sapevano che cosa. In assenza di altre brillanti idee, seguii l'unica pista che avevo, anche se tutti gli ultimi indizi dicevano che era sbagliata: girai intorno al santuario di Ercole Vittorioso e mi diressi a casa di Aurelia Mesia. Non avevo più molto tempo, doveva essere già metà pomeriggio. Né un cavaliere né un conducente potevano proseguire al buio, perciò, quando io mi fossi dovuto fermare, lui avrebbe dovuto fare altrettanto. Purtroppo aveva una vittima a tenergli compagnia, ed era probabile che, se in quel momento era ancora viva, quando avesse smesso di viaggiare l'avrebbe uccisa. Chissà in che condizioni era la ragazza, e come la stava trattando il suo carceriere. Doveva averla legata, ridotta al silenzio e nascosta alla vista. Ormai era con lei quasi da una notte e un giorno. Anche se fossi riuscito a salvarla, quella donna non sarebbe mai più stata la stessa. Avvicinandomi alla villa di Aurelia Mesia avevo sperato di trovarlo lì, ma ormai ero rassegnato all'idea di essere corso nel posto sbagliato. LXI Era evidente che gli schiavi non si aspettavano che Aurelia Mesia tornasse a casa così presto: erano tutti su una terrazza a godersi il sole. Gli attrezzi da giardino erano appoggiati con ordine contro una statua e nessuno lavorava. Si erano presi i triclinii migliori e ci si erano stravaccati sopra,
presi da una tale indolenza da non riuscire a tirarsi in piedi nemmeno vedendomi comparire. In effetti, se si fossero mossi troppo in fretta avrebbero potuto rovesciare le loro bevande. «Dov'è Damone?» «Se la sta spassando a Roma.» «Il bastardo!» esclamò rabbiosamente la cuoca (la sua compagna ufficiale). «Quando va a Roma di solito torna indietro da solo con la carrozza?» «Ti pare possibile?» ridacchiò la cuoca, aggiungendo il suo ritornello: «Quel bastardo!» Sarei stato ben felice di insultare Damone, tuttavia avevo bisogno al più presto di risposte. Riconoscendo Tito, che avevo già incontrato, gli feci cenno che avrei avuto piacere di scambiare due parole con lui e ci allontanammo insieme. «Ma tu non sei Gaio, quello che aggiusta le fontane?» Gli strizzai l'occhio. «Lavoravo sotto copertura. Immagino che tu l'avessi capito.» Lui non rispose. Se si fosse sentito tradito per il sotterfugio, si sarebbe rifiutato di collaborare. Non gli lasciai il tempo di realizzare. «Questa è la tua occasione di aiutarmi in una situazione disperata. Ascolta, Tito, da tempo succedono delitti orribili e sto cercando di catturare il criminale che li compie.» Lui sgranò gli occhi. «Stai parlando di Damone?» «Ho pensato che potesse essere lui, ma sto incominciando a farmi un'idea diversa. Dimmi un po', Aurelia Mesia va a trovare la sorella, che si chiama Aurelia Grata, vero?» Tito annuì. Aurelia Grata... Un ricordo aveva all'improvviso illuminato le tenebre della mia coscienza. «E il loro vecchio padre le raggiunge a casa della sorella?» «Sì.» Adesso un campanello suonava rumorosamente nella mia mente stanca. Poi quel suono echeggiò in diverse direzioni. «Non si chiama per caso Rosio Grato?» «Esatto.» «Vive forse sulla strada per Sublaqueum?» «Sì.» Respirai lentamente. Sarebbe stato inutile mettergli fretta. «E va a Roma anche lui quando sua figlia da Tibur vi si reca per le festività. Quindi la tua padrona lo porta con sé?» «No, la vecchia non sopporta di stare chiusa con lui nella carrozza. Van-
no abbastanza d'accordo, ma è meglio che non si vedano troppo spesso. Per questo motivo lui continua a vivere nella propria tenuta. Comunque, gli piace viaggiare fino a Roma. In realtà, è una specie di corridore.» «Che mezzo di trasporto usa?» «Un cisium.» «Che cosa? Un vecchio su un carrozzino scoperto a due ruote, con qualunque tempo?» «L'ha sempre usato.» Mi tornarono in mente le parole di Marina: «Oh, si tiene coraggiosamente aggrappato». «E va al Circo insieme alle donne?» «No, dorme tutto il giorno e si sveglia solo per la cena.» «Ma Rosio Grato è ancora un uomo di mondo, in altri sensi?» Tito arrossì. «Credo di sì.» Inarcai le sopracciglia e sogghignai. «Va a trovare una donna?» «Lo ha sempre fatto. Dovrebbe essere il suo grande segreto, ma ci ridiamo tutti sopra. Come fai a saperlo?» «Me ne ha parlato qualcuno che vive nella stessa strada. Be', questo è un altro motivo per non viaggiare con sua figlia. Sicuramente il vecchio Rosio non guida personalmente.» «No, infatti. Lo accompagna qualcuno.» «E questo qualcuno riporta a casa il cisium mentre il vecchio rimane con le figlie e poi torna a prenderlo alla fine delle festività?» «È probabile, a Roma il vecchio non ha bisogno del cisium. Te l'ho spiegato, sonnecchia tutto il giorno su un divano. Ti sono stato di aiuto?» domandò ansiosamente il ragazzo. «Di enorme aiuto, Tito. Mi hai detto quello che avrei dovuto scoprire da solo qualche giorno fa. Il problema è che ho dato retta a qualcuno che non avrei dovuto ascoltare.» «Che cosa significa?» «Qualcuno mi ha detto che Rosio Grato non va mai a Roma.» «Questo è ridicolo.» «La gente racconta bugie, Tito.» Mentre mi voltavo per prendere il mio cavallo, gli rivolsi un'occhiata gentile. «Imparerai a farci attenzione. Segui il mio consiglio: diffida in particolare degli uomini che se ne stanno senza fare niente, a lato di un sentiero, in un bosco.» Con un enorme sforzo rimontai in sella. «Il conducente del cisium... si chiama per caso Turio?» «È proprio lui.» Avrei dovuto saperlo.
Tito voleva indicarmi la strada, ma non ce n'era bisogno: dovevo percorrere la Via Valeria fino al punto in cui gli acquedotti partivano dal fiume Anio e poi svoltare, prendendo la strada per Sublaqueum. E dovevo assolutamente impiegarci meno di un giorno intero, il tempo che un viaggio del genere normalmente richiederebbe. Avevo a disposizione solo poche ore prima del calare della sera. Lasciai un messaggio al giovane Tito, caso mai i rinforzi mi avessero seguito, ma ormai non speravo più di ricevere aiuto: non c'era abbastanza tempo perché arrivassero. Dovevo cavarmela da solo. I corrieri della posta imperiale sono in grado di percorrere cinquanta miglia in un giorno se cambiano cavallo, e io avrei potuto fare altrettanto. Essere già in possesso di una cavalcatura del cursus publicus mi avrebbe aiutato a cavarmela con l'inganno. Riuscii a scambiare il cavallo grigio con un robusto sauro in una stazione di posta poco prima della strada per la fattoria di Orazio. Persi così un'altra occasione per visitare la Fonte Bandusia, ma in quel momento non mi importava. Ne avevo abbastanza di acqua. Incominciava a farsi buio. Superai le sorgenti degli acquedotti alla trentacinquesima e alla trentottesima pietra miliare e proseguii al galoppo lungo lo strada per Sublaqueum per altre quattro miglia, finché non arrivai alla grande cisterna di fango. Mi fermai, cercando Bolano. Subito mi si avvicinò uno degli schiavi pubblici. «Poco fa Bolano ha visto passare un carretto. Lo ha seguito in groppa a un asino.» «Da solo?» «Abbiamo finito di svuotare il bacino. Eravamo rimasti solo io, lui e una rete. Mi ha ordinato di aspettare qui e di avvertirti se fossi arrivato.» «So dov'è andato. Resta qui, nel caso arrivino i soccorsi. Se arriva qualcuno, puoi indicargli la strada per la proprietà di Rosio Grato?» A monte della chiusa che convogliava l'acqua nel bacino vidi la rete che avevano legato da una parte all'altra del fiume. Con un brivido lungo la schiena, pregai che quel giorno non avesse raccolto niente. Proseguii, spinto dalla disperazione. Bolano si era messo in una situazione di grave pericolo, e con la sua schiena rigida e la vista debole non sarebbe stato in grado di affrontare un malvagio assassino. Arrivato alla proprietà di Rosio Grato, rallentai il cavallo al piccolo galoppo. Sul sentiero che portava alla casa non vidi nessuno. Gli edifici della villa erano immersi nel silenzio, qui non c'erano schiavi che se la spassa-
vano. Durante la mia precedente visita mi ero fatto l'impressione che il personale fosse molto ridotto. La governante comunque era in casa, e sentendo arrivare il cavallo, uscì per indagare. «Mi chiamo Falco. Sono stato qui l'altro giorno. Ho bisogno di parlare con Turio... È tornato da Roma?» Lei annuì. «Che cosa sta facendo?» «Non ne ho idea. Non mi preoccupo di quello là.» Parlava con tono di disapprovazione. Tutto corrispondeva. «Dove posso cercarlo?» «Dovrebbe essere nella stalla, ma in caso contrario non ti sarà facile trovarlo. Se ne va sempre in giro nei boschi.» Sembrava incuriosita, ma era occupata con il suo lavoro e lasciò che andassi da solo. «Grazie. Se lo vedi prima di me, non dirgli che mi hai visto. Voglio fargli una sorpresa.» «D'accordo.» Era evidente che lasciavano che Turio facesse di testa sua, probabilmente perché trovavano difficile trattare con lui. Era esattamente quello che mi aspettavo: un solitario, con strane abitudini, malvisto. «Sembri stremato, Falco.» «È stata una giornata lunga.» E sapevo che non era ancora finita. Provai prima nella stalla. Non trovai il conducente, né Bolano, ma vidi il cisium. I suoi due cavalli erano ancora sudati, ma avevano ricevuto da bere e da mangiare. Lasciai il mio cavallo nella stalla accanto a loro. Gironzolai intorno al vecchio veicolo. Come mi avevano detto tutti, era un semplice carretto veloce con la base alta, due grosse ruote cerchiate di ferro e un sedile su cui potevano stare due passeggeri. Sotto il sedile era stata costruita una cassetta, fermata da un robusto lucchetto, che consentiva di lasciare il bagaglio al sicuro quando il cisium era parcheggiato. In quel momento era chiusa. Battei leggermente sulla cassetta. Niente. Con sollievo notai che nelle assi erano stati praticati quelli che sembravano rudimentali fori per l'aria. Mi guardai in giro in cerca della chiave. Niente da fare. Naturale, in effetti non mi aspettavo che fosse semplice. Mi trovavo in una stalla, quindi dovevano esserci degli attrezzi. Sprecai qualche secondo facendo una delle cose più inutili che si possano immaginare: cercai di scassinare la serratura con un chiodo. Assurdo. Ero troppo stanco per ragionare chiaramente. Una serratura che si potesse aprire così facilmente sarebbe stata inutile. Mi serviva qualcosa di più robusto. Tenendo gli occhi aperti, caso mai tornasse Turio, andai a ispezionare gli edi-
fici annessi finché non trovai un magazzino. Come capita nella maggior parte delle ville isolate, era ben fornito. Con un piede di porco piegai i ganci della serratura, indebolendo il metallo, dopodiché la feci saltare via con un furioso colpo di martello. Sudavo copiosamente, non tanto per lo sforzo quanto per l'ansia. Rimasi immobile, in ascolto. Non sentivo nessun movimento, né lì, né nella casa. Mi feci coraggio e aprii di colpo la cassetta. Puzzava disgustosamente e l'odore sembrava di origine umana ma, a parte della tela da sacchi, dentro non c'era niente. LXII Avrei dovuto perlustrare i boschi. Avevo voglia di gridare il suo nome. Claudia! La mia voce le avrebbe dato di certo la forza di tenere duro. Si era fatto troppo buio, però. Tornai verso la casa per farmi dare una lanterna. Sapevo di avere bisogno di aiuto e per questo chiesi alla governante di chiamare gli altri schiavi che vi lavoravano. Non ce n'erano a sufficienza, tuttavia abbastanza rapidamente (come se da tempo sospettassero che stava succedendo qualcosa) si radunarono diversi braccianti dalle gambe corte, l'andatura dinoccolata e l'aria furtiva. Rimasero a fissarmi. «Ascoltate, voi non mi conoscete, ma mi chiamo Falco e lavoro per l'imperatore. Devo trovare Turio. Credo che abbia rapito una giovane donna e che abbia intenzione di ucciderla.» Li vidi scambiarsi qualche occhiata. Forse nessuno aveva mai espresso apertamente dei sospetti, ma non parevano affatto sorpresi. Repressi la collera. Chissà quante donne e ragazze avrebbero potuto salvare! Be', almeno adesso avrebbero potuto aiutarmi a trovare Claudia. «Se vi sembra di vederlo, non avvicinatevi. Limitatevi a gridare per chiamare gli altri.» Non fu necessario che lo ripetessi una seconda volta. Perlustrammo i boschi per tutta la notte, con le torce. Chiamammo, controllammo stalle e cataste di legname, battemmo i cespugli con i rami, spaventando gli animali selvatici. Un asino slegato uscì da un boschetto per salutarci. Doveva essere quello che aveva usato Bolano, sebbene di lui non ci fosse alcuna traccia. Turio non si fece vedere e noi non lo snidammo, ma si trovava sicuramente lì e doveva essersi reso conto che lo cercavamo. Evitavo di proposito di muovermi furtivamente, poiché quella era la mia
ultima speranza di impedirgli di toccare la ragazza. Ovunque Turio si nascondesse, dovevo bloccarlo finché era buio. Continuammo la ricerca, muovendoci da un posto all'altro, finché i primi raggi di luce non incominciarono a scivolare sulle placide acque dell'Anio. Allora ordinai a tutti di restare seduti immobili, di smettere di chiamare e mantenere un assoluto silenzio mentre io tenevo gli occhi aperti in attesa che Turio uscisse dal suo nascondiglio. Avevo trascorso buona parte della notte nelle vicinanze del fiume. Qualcosa mi ci aveva attirato, trattenendomi nei paraggi. Ero riuscito anche a riposare un po', seduto sui talloni con la schiena appoggiata al tronco di un albero, mentre la mia mente era costantemente in attività e in ascolto. Adesso ero sveglio, almeno quanto poteva esserlo un uomo che non toccava il letto da due notti. Mentre la prima luce filtrava da sopra le colline, mi incamminai in silenzio verso la riva del fiume e mi lavai la faccia. L'acqua era fredda e anche l'aria, lì fra le colline, era gelida, molto più che a Roma. Era così presto che ogni suono si propagava per una grande distanza. Lasciai che l'acqua colasse il più dolcemente possibile dalle mie mani nel fiume, cercando di non fare troppo rumore. Poi scorsi qualcosa nell'acqua che brillava contro una pietra. Mi chinai per osservare meglio. Era un orecchino. Non si appaiava con quello che mi aveva mostrato Bolano, sarebbe stata veramente una incredibile coincidenza. Questo era un semplice cerchietto, e probabilmente non era d'oro. C'era l'attacco di un pendente, che però mancava. Infilai la mano nell'acqua fredda per prenderlo, poi mi girai verso riva, fermandomi un momento per scuotere l'acqua dall'orecchino e infilarlo nella mia borsa. All'improvviso, lì sulla sponda dell'Anio, mi sentii allo scoperto. L'assassino doveva essere molto vicino. Era anche possibile che mi stesse osservando, se sapeva della mia presenza. Mi arrampicai sulla riva, facendo più rumore di quanto avrei voluto. Fu allora che notai qualcosa di nuovo: sotto alcuni alberi dai rami bassi c'era una piccola capanna, che nell'oscurità della notte mi era sfuggita. Non era un granché, solo quattro pareti sbilenche e un tetto cascante. Erbacce infestanti, senza fiori, crescevano contro le assi coperte di licheni e intorno c'erano rovi carichi di more luccicanti e coperti da enormi ragnatele. Regnava il silenzio, rotto solo dal lieve sciabordio del fiume alle mie spalle. Mi sentivo quasi un eroe mitico che avesse appena raggiunto l'Oracolo, anche se era improbabile che trovassi ad accogliermi un eremita nato
negli acquitrini o una sfinge dorata. Lungo la riva del fiume correva un sentiero assai frequentato, ma decisi di avvicinarmi attraverso la boscaglia. Una grossa ragnatela mi bloccava la strada. La scostai via con un bastone, lasciando cortesemente che il grosso ragno scappasse fra le erbacce. Tenevo lo sguardo fisso sull'entrata della capanna. Quando vi arrivai, mi accorsi che la porta era bloccata. Si apriva verso l'interno e non c'era nessuna serratura. Mi ci appoggiai, ma mentre il bordo superiore si apriva di qualche dito, la parte inferiore resisteva. Cercando di non fare baccano, aprii una fessura con una violenta spinta. Doveva esserci qualcosa all'interno appoggiato proprio contro la porta. Era ancora troppo buio per distinguere chiaramente le ombre, ma avvicinandomi un po' di più fui assalito da un insieme di odori vecchi e sgradevoli. Quel posto doveva essere una capanna di pescatori. Puzzava come se ci fossero stati tenuti dei maiali, ma sapevo che nella proprietà di Rosio Grato non ce n'erano. Meglio così, altrimenti sarebbe stato facile sbarazzarsi dei cadaveri, e non ci sarebbe stata una lunga scia di indizi a condurmi fin lì da Roma. Qualunque cosa fosse, l'oggetto appoggiato contro la porta mi impediva di proseguire. Era necessario rimuoverlo prima di poter entrare. Sembrava il peso morto di un sacco di frumento... O un corpo, ma pesava troppo per appartenere a una ragazza giovane. Mi guardai intorno per vedere se ci fosse un altro modo di entrare nella capanna. In quel momento sentii lo schianto di un ramoscello. Mi girai di scatto. Di fronte a me c'era un uomo, a una cinquantina di passi di distanza. Lo intravidi appena prima che si lanciasse nuovamente nel boschetto dal quale doveva essere uscito qualche istante prima, evidentemente ignaro della mia presenza. Se fosse stata una persona diversa da Turio, non avrebbe avuto alcun motivo per fuggire. Lanciai un grido e costrinsi le mie membra stanche a rincorrerlo. Era più riposato di me, ma quasi certamente non era altrettanto in forma. Speravo che gli schiavi di casa mi aiutassero a bloccare la sua fuga, ma rimasi deluso: dovevano essere tornati in casa di soppiatto per fare colazione, ignorando il mio ordine di restare seduti. Nessuno rispose al mio appello, e mentre correvamo rumorosamente attraverso il bosco nessuno comparve per fermarlo. Tutt'intorno c'era silenzio. Me l'ero lasciato scappare. «Turio! Il gioco è finito. Fatti vedere e mettiamo fine a questa faccenda!»
Non ci fu alcuna risposta. Non che ci fosse da stupirsene: io ero uno straniero mentre lui conosceva il terreno palmo a palmo. Doveva essere sicuro di potersela svignare. Si era aperto un varco in direzione del sentiero che conduceva fuori dalla proprietà. Mi sembrò di sentire un rumore di zoccoli. Ero ossessionato dalla visione di Turio che fuggiva a cavallo in direzione di Sublaqueum. Non aveva alcuna speranza di trovare rifugio in casa: si rendeva conto che gli altri schiavi avrebbero voluto dimostrare la propria innocenza e rendergli pan per focaccia per averli ingannati. Coloro che nel corso degli anni avevano deciso di ignorare il suo strano comportamento adesso sarebbero stati i primi a denunciarlo e, se fossero ricorsi alla violenza, non sarebbe stata la prima volta che un assassino appena scoperto veniva ucciso a randellate dalle persone fra le quali era vissuto. Strisciai fra i cespugli, dirigendomi verso il sentiero mentre tenevo d'occhio una catasta di lunghi tronchi dietro i quali si sarebbe potuto nascondere un uomo disteso a terra. Mentre mi avvicinavo cautamente, Turio saltò fuori dalla boscaglia quasi sopra di me. Balzai in piedi, spaventandolo. Stava cercando di fuggire e non si era reso conto che ero così vicino. Prima che potessi scagliarmi contro di lui, vidi che teneva in mano una lunga scure. Per un attimo parve sorpreso quanto me ma si riprese subito. Si fermò un momento, grugnendo, poi roteò rabbiosamente la sua arma. «Arrenditi, Turio...» Sferrò un colpo verso il basso, in direzione delle mie ginocchia. Mi spostai vicino a un albero nella speranza di bloccarlo, facendo in modo che la lama della scure si conficcasse nel tronco. Lui sbuffò e menò un altro colpo, questa volta all'altezza della testa. Il piccolo coltello che tenevo nel calzare non sarebbe servito a niente contro quell'arma. Non tentai nemmeno di impugnarlo. Turio era esattamente come me lo ricordavo: disordinato, mal vestito, senza denti, un tipico schiavo di campagna. Certo, non lo ritenevo più folle della maggior parte dei passanti nelle vie di Roma. Se l'avessi incontrato per la strada avrei evitato di urtarlo accidentalmente, ma non l'avrei notato più di tanto. Se mi fossi trovato in giro la sera tardi e lui mi avesse offerto con naturalezza un passaggio, probabilmente l'avrei perfino accettato. «Non sono solo. Le coorti urbane mi seguono d'appresso. Non hai scampo, arrenditi.» La sua unica risposta fu un violento colpo di scure, che spezzò alcuni
rami sopra la mia testa, seguito immediatamente da un altro colpo più in basso, nell'altra direzione. Nell'esercito mi era stato insegnato ad affrontare i celti che brandivano lunghi spadoni, ma da soldato avevo un'armatura che mi proteggeva, ero a mia volta armato e protetto dai compagni che formavano barriere impenetrabili su entrambi i lati. Mossi un passo verso di lui. Turio roteò nuovamente la scure, facendo balenare la lama. Saltai come un danzatore cretese, con i talloni contro le natiche, salvandomi le gambe. Attaccandomi a un ramo, atterrai sano e salvo, poi mi nascosi dietro a un albero. Tentai di spezzarne un ramo ma la corteccia verde me lo impedì. Per gli dèi, stavo vivendo l'incubo di un uomo di città. Avrei voluto camminare sui lastricati, dove i criminali seguivano regole di comportamento precise e dove avrei potuto fare un salto in una taverna, quando il ritmo fosse diventato troppo intenso. Invece mi trovavo lì, in un bosco nebbioso, ad affrontare un uomo disperato armato di scure, sfinito, affamato, abbandonato dai miei pochi aiutanti mentre correvo un pericolo enorme. Non era di certo un modo eccellente per guadagnarsi da vivere! Diedi un altro strattone al ramo, che questa volta si staccò. Era abbastanza grosso da bloccare la lama, se l'avesse colpito. L'altra estremità si divideva in una massa di ramoscelli ancora coperti di foglie e, quando Turio menò il colpo successivo, schivai la lama luccicante, poi lo assalii colpendolo in piena faccia con quel mucchio di ramoscelli. Lui cercò di indietreggiare, inciampò, perse terreno. Lo incalzai, sbattendogli il ramo sugli occhi. Lui si voltò e fuggì. Lo seguii, ma il ramo s'impigliò nel sottobosco e dovetti lasciarlo andare. Continuai a correre. Turio si muoveva con fatica, sempre in direzione del sentiero. Deviai di lato, cercando di bloccargli la strada. Procedevamo con difficoltà, travolgendo i cespugli. Una volpe uscì all'improvviso dalla sua tana e scappò via. Una ghiandaia si levò in volo, lanciando un grido acuto. Ebbi nuovamente l'impressione di sentire un rumore di zoccoli, questa volta molto più vicino. Il petto mi doleva a ogni respiro ed ero madido di sudore. Le gambe indolenzite riuscivano a malapena a proseguire. Nonostante ciò, quando Turio raggiunse il sentiero, stavo guadagnando terreno. Proprio allora il mio piede scivolò su un gruppetto di funghi e finì in una buca, costringendomi a fermarmi con un grido d'angoscia. Riuscii a tenermi in piedi, ma mi si sfilò un calzare. Mi liberai saltellando, e per colpa dei gambi di fungo velenoso spiaccicati sotto il mio piede scivolai di nuovo, ma continuai con una smorfia di dolore a inseguire Turio. Lui si voltò a guardarsi indietro,
poi ricominciò a correre lungo il sentiero. Ignorando il dolore alla caviglia, proseguii saltellando in quella che doveva essere la volata finale. In genere una caviglia distorta guarisce da sola, ma ha bisogno di un po' di tempo per sistemarsi. Io non ne avevo. Le forze stavano per abbandonarmi, ma prima dovevo acciuffarlo. Sentii il nitrito di un cavallo e mi persi subito d'animo, pensando che avesse una cavalcatura legata da qualche parte. Poi vidi Turio allargare le braccia. Il cavallo e il cavaliere erano emersi all'improvviso dal bosco sull'altro lato del sentiero e galoppavano dritti verso di lui. Non riusciva a fermarsi, inciampò e perse la scure. Il cavallo s'impennò sopra di lui, ma fu tenuto a freno. Turio barcollò ma riuscì a tenersi in piedi, sempre deciso a scappare. Fece una finta con il braccio al cavallo, si abbassò per schivare gli zoccoli e tornò a lanciarsi lungo il sentiero. Io continuavo a correre. Passai accanto al cavallo, che scartò per lasciarmi spazio, e il cavaliere mi sembrò una figura familiare. Finalmente raggiunsi Turio e mi lanciai su di lui. Lo scaraventai a terra, a faccia in giù nel fango. Ero furibondo, ora che l'avevo preso non aveva più scampo. Mi lasciai cadere sulla sua schiena, facendo in modo di atterrare pesantemente, gli immobilizzai le braccia e lo tenni stretto, ordinandogli di arrendersi. Lui diede uno strattone di lato, continuando a dimenarsi. Lo tirai su di peso e gli sbattei nuovamente la faccia contro il suolo. Il cavaliere era smontato, arrivò di corsa e prese a tirargli calci nelle costole come se volesse finirlo. «Piano!» gridai, cercando di allontanarmi dalla traiettoria dei suoi calzari. Lui si fermò. Finalmente Turio crollò, con la faccia nei solchi del sentiero. Rimanendo a cavalcioni del mio prigioniero, cercai di controllare il ritmo del respiro. «Bella azione» mormorai ansimando, alzando gli occhi sull'altro uomo. «Le basi dell'addestramento» ribatté lui. «Oh, non si dimenticano mai.» Riuscii a sorridere, anche se quell'ulteriore sforzo era una sofferenza. «Immagino che tu non stia pensando di rinunciare al governatorato della Britannia per metterti ufficialmente in società con me?» Giulio Frontino, soldato, magistrato, amministratore, scrittore e quasi esperto della rete idrica romana, sorrise con modestia. Sul suo viso comparve un'espressione di autentico desiderio. «Questo potrebbe essere uno dei grandi "E se?" della storia, Falco.»
Accettai la mano che mi porgeva e riuscii ad alzarmi, mentre lui teneva giù il prigioniero piantandogli un piede sul collo. Era tutto finito. Ci sentivamo degli eroi. Adesso, però, dovevamo tentare di trovare Claudia. LXIII Turio si rifiutava di parlare e avevo la sensazione che non avrebbe cambiato idea. Alcuni prigionieri vogliono vantarsi delle proprie imprese, altri vanno incontro al loro destino continuando a negare tutto. Turio rimaneva silenzioso. Riluttante a perderlo di vista, gli legai le mani dietro la schiena con la mia cintura e lo sistemai di traverso sul cavallo. Raccontai al console della capanna presso il fiume e ci dirigemmo laggiù, portando Turio con noi. Questa volta pensavo di sapere che cos'avremmo trovato. Con mia grande sorpresa, mentre ci avvicinavamo alla casupola, vidi che la porta era aperta. Fuori, rannicchiato al suolo, c'era Bolano, tutto coperto di lividi, che scuoteva la testa. Sentendoci arrivare, cercò faticosamente di alzarsi in piedi. Mi precipitai a sorreggerlo. «Lì dentro...» Era stordito e vacillava. «L'ho seguito... l'ho visto portarla lì dentro... ho gridato. Lui è corso fuori e mi ha aggredito... Poi ti abbiamo sentito nel bosco. L'ho respinto, ma stavo perdendo i sensi. Riuscivo ancora a sentirti in lontananza, nei boschi. Mi sono trascinato dentro e sono crollato contro la porta. Sapevo che avrei dovuto soltanto tenerlo fuori...» «Sei stato lì dentro tutta la notte? Per gli dèi, siediti.» Bolano fece soltanto un gesto disperato in direzione della capanna. Frontino e io ci guardammo, poi ci voltammo verso la baracca. Ci avvicinammo tutti e tre alla porta sfasciata. L'aria fresca non aveva disperso l'odore stantio e alla luce del giorno la scena ci apparve in tutto il suo orrore. Sul pavimento scuro si vedevano chiaramente le macchie di sangue coagulato. La mannaia era appesa a un chiodo: tagliente, pulita, con il manico annerito dal tempo e dall'uso. La fila di coltelli da macellaio, il secchio scolorito, i sacchi ammucchiati ordinatamente, pronti per la prossima raccapricciante avventura, le corde arrotolate. E l'ultima vittima. Quando vidi su una panca quella che per forma e dimensioni sembrava una sagoma umana, un grido disperato mi morì in gola. Era legata, coperta con un telo, e immobile. L'avevamo trovata, finalmente. Dovetti girare la testa.
Frontino mi spinse da parte ed entrò. «La conosco.» Ero immobilizzato sul posto. Bolano mi rivolse un'occhiata spaventata, poi mi toccò il braccio e seguì il console. Portarono fuori il corpo. Con estrema delicatezza, depositarono la donna sul terreno umido, girandola in modo da poterne raggiungere i polsi, che erano legati dietro la schiena. Frontino chiese un coltello e io gli porsi il mio. Con grande attenzione e meticolosità infilò la punta sotto le corde e maneggiò la lama finché i legacci non si tagliarono. Le liberò le braccia, le gambe e il corpo. Io mi scossi e lo aiutai mentre la girava con cura sulla schiena e si accingeva a toglierle il bavaglio dalla faccia. Sollevammo in parte la stoffa sudicia che le copriva la bocca. Ora che era esposta alla fresca brezza che soffiava dai Monti Sabini, mi sforzai di guardarla. Mi si strinse lo stomaco. Ciocche di un biondo sgradevole, belletto imbrattato rappreso sulla pelle cascante, una volgare collana costosa fatta di spessi fili d'oro e pezzi di ematite lucidata... La mia mente faticava a capire, ma mi resi conto che quella non era Claudia. «È viva!» esclamò Frontino, tastandole il collo macilento per controllare il battito cardiaco. Poi la donna aprì gli occhi ed emise un gemito. Mentre batteva le palpebre, accecata dall'improvvisa luce del giorno, accettai la strabiliante verità: avevamo salvato Cornelia Flaccida. Impiegammo parecchio tempo per farla tornare in sé, ma non appena fu in grado di vederci ebbe un moto di rabbia contro di noi. Voleva alzarsi e scagliarsi contro Turio. Era una fortuna per lui che, dopo due giorni di quella prova tremenda, rinchiusa dentro il cisium, la donna non potesse fare altro che restare sdraiata, inerme, gridando di dolore mentre cercavamo di massaggiarle le membra per riattivare la circolazione. Il cisium era abbastanza grande da averle consentito di stare completamente distesa e le corde non le avevano bloccato del tutto la circolazione, altrimenti non sarebbe riuscita a sopravvivere. Riacquistando la sensibilità, cominciò a essere tormentata dal dolore. Non sarebbe riuscita a stare in piedi, né a camminare, prima di un giorno o due. Non sembrava che avesse subito alcun abuso sessuale, anche se era quello che si aspettava. Sicuramente era stato terribile. Ancora prima di capire dove si trovava, incominciò a brontolare irosamente. Considerato quello che avevo temuto di trovare, qualunque suono emettesse era benvenuto. Dopo essere stata legata per due giorni, sballottata per quaranta miglia in uno spazio limitato e buio, disidratata e quasi
morta di fame, con la nausea e costretta a farsela addosso, aspettandosi per tutto il tempo lo stesso destino delle donne che in precedenza erano state smembrate da Turio, perfino Flaccida aveva il diritto di essere furiosa. Forse aveva pensato che nessuno avrebbe notato la sua assenza e che, in ogni caso, non sarebbe mai stata ritrovata. Era abbastanza perspicace da essersi accorta che Rubella aveva sospeso la sorveglianza e la sua famiglia non aveva idea di dove fosse andata ad abitare. Di sicuro non poteva aspettarsi che gli schiavi che pestava regolarmente denunciassero la sua scomparsa: al contrario, sarebbero stati ben lieti di essere lasciati finalmente in pace. Come tante altre prima di lei, sarebbe sparita da Roma senza lasciare traccia. Quando finalmente si rese conto di averla scampata veramente per poco, tacque e si lasciò andare alla violenta emozione. Avere trovato Flaccida non risolveva comunque il mistero di che cosa fosse accaduto alla fidanzata di Eliano, ma ci lasciava qualche speranza che il destino della giovane Claudia quella notte fosse stato meno orribile. «E adesso?» domandò Frontino. Mi aveva spiegato brevemente come Eliano lo avesse trovato, vestito per l'azione e con un robusto cavallo già sellato e pronto, a casa sua. Aveva mandato Eliano a cercare di ottenere un mandato dal giudice Marponio mentre lui, con grande senso pratico, si era precipitato al mio inseguimento lungo la Via Tiburtina. «Le coorti urbane e i miei stessi schiavi dovrebbero essere qui da un momento all'altro. Bisognerà trovare un mezzo di trasporto per la donna quando si sarà ripresa un po', e vorrei consegnare al più presto questo bastardo al giudice.» Ero pienamente d'accordo, perché volevo andare a casa. Quanto a Turio, avevo già escogitato un modo per riportarlo indietro che fosse sicuro per noi, spiacevole per lui e assolutamente appropriato. Facendo molta attenzione a non soffocarlo, lo avvolsi nella stoffa più vecchia e disgustosa che riuscii a trovare, testa e tutto il resto. Lo legai abbastanza stretto da farlo soffrire, ma non tanto da bloccargli la circolazione e finirlo. Poi lo rinchiusi nella cassetta del cisium del suo padrone, con cui Frontino e io e tornammo a Roma. Impiegammo due giorni e durante tutto il viaggio lasciammo Turio imprigionato dentro la cassetta. LXIV Casa. Elena Giustina non mi aveva sentito entrare. Era seduta, triste, con la testa appoggiata al tavolo e, quando la bambina si mise a piangere e la ca-
gnolina incominciò a mugolare, cercò di scuotersi, sollevando la testa dalle braccia. Capii che era disperata, perché stava leggendo le mie poesie. «Non muoverti» dissi. «Ho preso Giulia e Noce ha preso me.» La cagnolina si era attaccata alla mia gamba, tenendosi aggrappata con entrambe le zampe al mio ginocchio anche mentre attraversavo la stanza. Era probabilmente una manifestazione di affetto, forse però più adatta a un ladro. «Ti stanno riservando un benvenuto degno di un eroe!» Feci una smorfia, mentre Giulia piangeva senza sosta e Noce mi saltellava intorno impazzita. «Questo non è mai successo neanche a Ulisse.» Poi le strinsi entrambe a me, con un braccio intorno a ciascuna, mentre loro piangevano addosso alla mia tunica disgustosamente sporca. Mi sarei dovuto lavare prima, ma avevo urgente bisogno di tenere strette tra le braccia quelle due. «Avrei dovuto andare alle terme, ma volevo venire a casa il prima possibile.» Adesso che ero lì, sarebbe stato difficile uscire di nuovo, anche perché ero troppo stanco. Elena mormorò qualcosa di incoerente e si tenne stretta a me per un momento notevolmente lungo, considerato quanto puzzavo, poi si tirò leggermente indietro, dissimulando educatamente il sollievo di avere messo un po' di spazio tra sé e quel rudere ispido con gli occhi pesti del quale era innamorata. Per un lungo momento mi fissò e basta. Riuscii a reggere il suo sguardo. «Alcune donne pensano che gli eroi siano meravigliosi» mormorò quasi tra sé e sé. «Se vuoi sapere come la penso, è abbastanza fastidioso averli in giro per casa. Trovo che la cosa peggiore sia che si assentano spesso. Non sai mai quando ritirare la loro biancheria dalla lavanderia, o se è la giornata giusta per ricominciare a comprare la loro frutta preferita.» Le sorrisi futilmente mentre un senso di pace s'impadroniva lentamente di me come un vino pesante. Noce, che era uscita di corsa dalla stanza, tornò camminando all'indietro, trascinando la sua cesta mangiucchiata come dono di bentornato. Per correttezza nei confronti di Elena, dovevo almeno raccontarle quello che era successo, anche solo brevemente. Mi risparmiò la fatica di trovare le parole e indovinò da sé. «Hai catturato l'assassino. Ti sei dovuto battere con lui...» Mi accarezzò con il dito un livido sulla guancia; a quel contatto un nervo guizzò, ma nonostante il dolore mi appoggiai alla sua mano. «Sei esausto. Aveva rapito un'altra donna?» «Sì.» «Ma non era Claudia.»
«Infatti. Quindi Claudia si è fatta viva?» «No, ma qui c'è qualcuno che sa che cosa le è successo.» «Tuo fratello?» «No, Aulo è tornato a casa disgustato. Gaio.» Qualche minuto dopo, quel furfante di mio nipote entrò strascicando i piedi, con aria stranamente timida. Una volta tanto, era più pulito di me. Dal suo aspetto si sarebbe detto che per quasi tutto il tempo in cui ero stato via Elena l'avesse tenuto lì a casa nostra, dandogli parecchio da mangiare e incoraggiando abitudini igieniche che gli erano sconosciute. Elena gli parlò tranquillamente. «Riferisci a zio Marco tutto quello che hai raccontato a me e a mio fratello Eliano su quella notte al Circo Massimo.» Gaio sembrava convinto di doversi aspettare una sberla. Elena aveva preso la bambina, così restai seduto scompostamente, facendogli capire che niente al mondo mi avrebbe tirato su dallo sgabello. Per di più Noce era sdraiata sui miei piedi e mi avrebbe impedito di alzarmi. «Il fratello di Elena...» «Eliano?» «No, l'altro.» «Giustino? È fuori Roma.» «Adesso sì!» saltò su Elena con inconsueta energia. Gaio si fece coraggio e continuò in fretta e furia il suo racconto. «Giustino è arrivato su un piccolo carretto quando ero lì ad aiutarti. Ho visto una ragazza correre fuori dal Circo. Sembrava che lui l'aspettasse. Hanno scambiato qualche parola, poi lui le ha dato un lungo bacio, l'ha fatta salire sul carretto ed è partito come un fulmine.» «La ragazza era...» «Claudia Rufina!» confermò Elena. «Quel ragazzaccio! Quinto è fuggito con la sposa di suo fratello. E sai una cosa, Marco?» Tirai a indovinare. «La tua nobile famiglia darà la colpa a me?» Ero troppo stanco perfino per ridere. Gaio si lamentò perché schiacciavamo la bambina, così decise di prendersi cura di lei e la portò via per farla giocare in un'altra stanza. Piegandosi alla sua burbera autorità, Giulia smise immediatamente di piangere. Restai seduto un momento, guardandomi in giro. L'appartamento sembrava insolitamente pulito e ordinato. Sul tavolo, oltre alla pergamena malconcia delle mie odi scritte in stile troppo fiorito, che Elena aveva letto
per consolarsi, c'erano la mia ciotola e la mia coppa preferite, disposte con estrema precisione di fronte al mio consueto sgabello, come se il fatto che fossero lì pronte potesse garantire il mio ritorno. Accanto c'era un documento che riconobbi come l'atto di vendita della fattoria di Tibur che avevo promesso di comprare. Elena aveva organizzato l'acquisto. Alzando il coperchio del calamaio, afferrai la penna, la intinsi rapidamente e scarabocchiai la mia firma. «Non l'hai letto» protestò sommessamente Elena. «No, ma tu sì.» «Falco, ti fidi troppo delle persone.» «È tutto a posto?» «Te lo farò leggere domani.» «Ecco perché mi fido di te» ribattei sorridendo. Era in arrivo un'altra sventura. Elena era andata fino alla lavanderia a prendere un secchio d'acqua affinché potessi lavarmi prima di crollare sul letto. Aveva parlato con Petronio che quindi, quando arrivò di corsa a trovarmi, sapeva già che avevo risolto il caso e che ero tornato a casa ricoperto di gloria, consegnando Turio alla giustizia. Sarebbe stata una prova difficile. «Allora, dov'eri quando avevo bisogno di te?» lo canzonai, affrontando l'argomento prima che lui potesse prendere l'iniziativa. «Mi stavo trascinando per le luride taverne della Suburra mentre uno stupido inetto di nome Damone cercava senza successo di portarsi a letto una ragazza scaltra vestita di rosso, di gran lunga più intelligente di lui. Lei lo ha tenuto fuori a bere tutta la notte e poi, quando Damone si è allontanato per fare pipì per la decima volta, ha tagliato la corda. Dopodiché ho dovuto seguire quell'idiota istupidito mentre tornava in tutte le taverne dov'erano stati in precedenza, cercando di scoprire dove aveva lasciato la borsa... anche se in realtà era stata la ragazza a portargliela via.» «Che incapace.» Non ero dell'umore giusto per occuparmi di indagini complesse. Petro mi rivolse una lunga occhiata. Avevo capito di che cosa si trattava. Alzai stancamente la mano. «Lucio Petronio, c'è qualcosa che muori dalla voglia di dirmi.» «Quando sarai nelle condizioni giuste.» «Sono nelle condizioni giuste. La tua vita ha bisogno di una svolta. Non vedi l'ora di avere un vero lavoro... Sicuramente allettato dall'eccitazione della monotona quotidianità e dei lunghi rapporti da compilare per i supe-
riori, dall'odio del pubblico che viene a lamentarsi e dallo stipendio misero ma abbastanza regolare...» «Qualcosa del genere.» «C'è dell'altro? Oh, credo di avere indovinato. Stai pensando a un gioioso ritorno da tua moglie.» Se fossi stato meno stanco, sarei stato più prudente. «Adesso non esagerare, vecchio amico.» «Visto che continuavi a tormentarmi perché lo facessi, lo dico a te per primo.» «Mi pare di capire che non ne hai ancora fatto parola con Silvia?» «No, non ancora.» «Quindi immagino che dovrei sentirmi onorato. Hai visto Silvia di recente?» Sul suo viso si dipinse un'espressione sospettosa. «Stai cercando di dirmi qualcosa?» Avrei dovuto mentire, o meglio, non avrei mai dovuto cominciare quella discussione. Petro era mio amico e sapevo quanto facilmente poteva montare in collera, ma ero troppo esausto per comportarmi in modo sagace o prudente. «Ho sentito dire che Arria Silvia è stata vista in giro con un altro uomo.» Petronio Longo si zittì. «Lascia perdere» borbottai. «Chi te lo ha raccontato?» Il suo tono di voce era basso, ma agitato. «Maia. Probabilmente è solo un pettegolezzo.» «Da quanto tempo lo sai, Falco?» «Non è il momento...» Era già in piedi. Ero amico di Petronio Longo da parecchi anni. Avevamo condiviso le difficoltà, il vino e i pessimi comportamenti quasi in parti uguali. Sapeva di me cose che probabilmente nessun altro avrebbe mai scoperto e mi rendevo perfettamente conto di quello che voleva dire. «Petro, tu mi hai aiutato nel mio disgustoso lavoro, hai sopportato i miei metodi avventati e il mio vecchio e schifoso appartamento, hai tollerato di essere criticato e adesso mi hai visto acciuffare Turio e prendermene tutto il merito. Come se ciò non bastasse, ti ho appena riferito che tua moglie se la spassa, e proprio nel momento in cui hai messo da parte l'orgoglio e hai deciso di tornare da lei. Be', ecco: tu vuoi mettere fine alla nostra società e io ti ho appena offerto la scusa per una bella lite.» Ero troppo stanco per trovare l'energia per discutere. Petro restò a fis-
sarmi un momento, poi lo sentii inspirare ed espirare sommessamente. Non proferì una parola, ma sul viso gli si dipinse un mezzo sorriso. Uscì dal nostro appartamento con il suo consueto passo regolare e lo sentii scendere pesantemente le scale con sprezzante risolutezza. Dopo un momento sentii Elena che tornava. Il secchio sbatté contro la balaustra esterna, come faceva sempre quando lei lo riportava a casa pieno. Stava brontolando tra sé e sé. Poi gridò, come per avvertire un visitatore di non salire, ma non ottenne alcun risultato: dei passi veloci risuonarono impazienti su per gli scalini e una testa fece capolino dalla porta. Capelli unti, occhi scialbi e un'insopportabile aria cordiale, una figura familiare che capitava in un momento inopportuno. Era il mio vecchio antagonista: Anacrite. Indossava una tunica di colore neutro, poco elegante, calzari aderenti e una solida cintura di cuoio. Appesi alla cintura c'erano una piccola borsa, una grossa tavoletta per appunti e una serie di lime per unghie che egli usava per tenersi occupato, caso mai avesse dovuto stare appoggiato per ore a una colonna ionica tenendo d'occhio un individuo sospetto. Qualcuno doveva avergli impartito lezioni. Aveva il classico aspetto dell'investigatore: tenace, un po' bellicoso ma probabilmente affabile, curioso e non troppo affidabile. «Bentornato a casa e congratulazioni! Ho saputo che Petronio Longo intende sciogliere la vostra società.» Mi coprii gli occhi, rabbrividendo in silenzio. La stanchezza mi rendeva inerme e Anacrite se ne era accorto: parlò in tono delicato, come un cavadenti che vi assicura che non vi farà male nel momento stesso in cui vi fa gridare. «Tua madre aveva ragione, Falco. Non sei contento che ci sia qualcun altro disponibile? Sembra che, dopo tutto, adesso toccherà a noi lavorare insieme!» FINE