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KARIN SLAUGHTER TAGLI (Kisscut, 2002) A Doris Smart, che adorava, nell'ordine, la squadra di football di Auburn e la lettura SABATO 1 Dancing Queen, canticchiava Sara Linton sopra la musica, avanzando lungo la pista di pattinaggio. Young and sweet, only seventeen. La distrasse un calpestio convulso di rotelle alla sua sinistra e si voltò di scatto, appena in tempo per acciuffare un bambino che stava per rovinarle addosso. «Justin!» Aveva riconosciuto il piccolo di sette anni. Lo tenne in piedi reggendolo per il dietro della camicia mentre lui cercava inutilmente di tenersi dritto sui pattini a rotelle allineate. «Oh, dottoressa Linton» le sorrise Justin ansimante. Il caschetto che aveva in testa era troppo largo e lui continuava a spingerlo indietro con la mano per riuscire a vederla. Sara restituì il sorriso sforzandosi di non ridere. «Ciao Justin». «A lei piace questa musica, eh? Anche alla mia mamma piace». La fissava negli occhi, con le labbra appena socchiuse, come se fosse sorpreso di averla incontrata fuori dal centro pediatrico. Succedeva spesso con i piccoli pazienti di Sara, sembravano convinti che lei dovesse stare in permanenza all'ambulatorio ad aspettare che a loro venisse il raffreddore o l'influenza. «L'ho vista che cantava, sa?» Tirò indietro il caschetto colpendosi il naso con il paragomito. «Aspetta» disse Sara. Si chinò per regolargli il sottogola. Il volume della musica era così alto che quando strinse la fibbia sentì sotto le dita le vibrazioni del basso. «Grazie» strillò Justin. Appoggiò le mani sopra il caschetto come se volesse tenerlo fermo, ma il gesto lo sbilanciò facendolo aggrappare d'istinto alla gamba di Sara.
Sara lo acciuffò di nuovo per la camicia e lo trascinò fino alla ringhiera di protezione. Anche lei all'inizio aveva scelto un paio di pattini con le rotelle allineate, ma come si era resa conto che rischiava di farsi vedere a gambe all'aria da mezza città, era subito ritornata a chiedere un vecchio modello a ruote appaiate. «Accidenti» rise Justin buttando le braccia sopra la ringhiera per tenersi in piedi. Le stava guardando i pattini. «Che piedi grandi che ha!» Sara abbassò gli occhi sui pattini e arrossì d'imbarazzo. La prendevano in giro per i piedi enormi da quando aveva sette anni. Dopo quasi trent'anni che se lo sentiva dire, l'assaliva ancora l'impulso di nasconderli. «Quelli sono da uomo!» si accanì Justin. Lasciò andare la ringhiera per indicare i pattini neri e solo grazie a Sara non crollò a terra. «Quanto sei gentile» gli sussurrò lei nell'orecchio. «Me lo ricorderò quando verrai per le vaccinazioni.» Justin cambiò espressione. «Adesso devo andare dalla mamma» borbottò. Si trascinò lungo il corrimano voltandosi a controllare che Sara non lo seguisse. Lei si appoggiò di schiena alla ringhiera, incrociò le braccia, e lo seguì con lo sguardo. Adorava i bambini, ma non al punto da volerli attorno anche il sabato sera. «Era il tuo cavaliere?» domandò Tessa affiancandola. Sara lanciò alla sorella un'occhiataccia. «Mi domando perché sono venuta in questo posto.» «Forse perché mi vuoi bene?» «Ci puoi scommettere» rispose Sara caustica. Vide Devon Lockwood sull'altro lato della pista. Era il ragazzo di Tessa, lavorava nella ditta di impianti idraulici della famiglia Linton. Devon conduceva per mano il nipotino lungo lo spazio riservato ai bambini, sotto lo sguardo vigile del fratello. «Sua madre mi odia» protestò Tessa. «Mi lancia delle occhiate di fuoco ogni volta che mi avvicino a lui.» «Papà fa esattamente lo stesso con noi» le ricordò Sara. Devon si accorse che lo stavano guardando e le salutò con la mano. «Ci sa fare, con i bambini» osservò Sara mentre restituiva il saluto. «Ci sa fare con tutti» disse Tessa a bassa voce, quasi a se stessa. «A proposito, dov'è Jeffrey?» aggiunse a voce più alta. Sara guardò verso l'entrata. Non avrebbe saputo dire se le importava davvero che il suo ex marito la raggiungesse. «Non lo so» rispose. «Come
mai c'è tanta gente stasera?» «È sabato e la stagione di football non è ancora cominciata. Che altro rimane da fare in questa città?» rispose Tessa. Ma non si arrese, e ripeté: «Dov'è Jeffrey?». «Potrebbe anche non venire.» Tessa fece un sorrisetto e Sara capì che era in arrivo un commento sarcastico. «Avanti. Dillo.» «Io non voglio dire proprio niente.» «Ci vediamo ogni tanto. Tutto qui» si giustificò Sara, domandandosi se stava cercando di convincere sua sorella o se stessa. «Niente di serio, in ogni modo.» «Ho capito.» «Non ci siamo neppure baciati.» «Ho capito, ho capito.» «Siamo usciti un paio di volte. Niente di più.» «Non è me che devi convincere.» Sara borbottò qualcosa e tornò ad appoggiarsi alla ringhiera. Si sentiva stupida come un'adolescente. Due anni prima aveva divorziato da Jeffrey dopo averlo sorpreso a letto con la donna che gestiva il negozio di targhe e insegne. Perché avesse ricominciato a vederlo rimaneva un mistero sia per lei che per la sua famiglia. Dagli altoparlanti si diffuse un lento, e le luci si abbassarono. Dal soffitto scese un grande pallone a specchietti che proiettò su tutta la pista minuscoli riquadri di luce. «Devo andare in bagno» annunciò Sara. «Tieni d'occhio l'entrata e vedi se arriva Jeffrey.» Tessa allungò lo sguardo verso i gabinettti. «È appena entrato qualcuno.» «Adesso ci sono due bagni.» Si girò e vide una ragazzona che stava entrando proprio in quel momento. La riconobbe, era Jenny Weaver, anche lei una sua paziente. Agitò la mano, ma la ragazza non la vide. «Spero che tu non abbia fretta» disse Tessa. Sara vide un'altra ragazza che non conosceva seguire Jenny e si accigliò. Di questo passo era garantito il mal di reni prima che Jeffrey si decidesse a farsi vivo. Un attimo dopo Tessa indicò col mento l'entrata. «Ti interessa un tipo alto, bruno, piuttosto bello?» Sara individuò Jeffrey che si stava dirigendo verso la pista e istintivamente sorrise. Era ancora in abito da lavoro, completo grigio antracite con
cravatta bordeaux. Dato che era il capo della polizia della contea di Grant conosceva quasi tutti e ogni poco si fermava a stringere una mano continuando a guardarsi intorno per cercarla. Lei decise di non fare niente per attirare la sua attenzione. A questo punto del loro rapporto toccava a lui darsi da fare. Si erano conosciuti quando Sara era stata da poco nominata patologo forense della contea. Aveva accettato quell'incarico per guadagnare qualcosa di più e rilevare le quote di un collega che andava in pensione alla Clinica Pediatrica di Heartsdale. Erano anni, ormai, che aveva coperto la sua quota, ma continuava a conservare l'incarico di coroner. Le piaceva misurarsi con le sfide dell'anatomia patologica. Dodici anni prima aveva completato il tirocinio al pronto soccorso del Grady Hospital di Atlanta e il passaggio dai ritmi convulsi delle emergenze ai mal di pancia e alle piccole infezioni infantili era stato quasi traumatico. L'incarico di coroner era uno stimolo a tenere in esercizio la mente. Finalmente Jeffrey la vide. Interrupe la stretta di mano con Betty Reynolds, le sorrise e fece per andarsene, ma la proprietaria dell'emporio pareva decisa a non lasciarlo andare. Sara immaginò cosa gli stava dicendo. Negli ultimi tre mesi il suo negozio era stato svaligiato due volte e naturalmente non voleva lasciarsi sfuggire l'occasione di lamentarsi con le forze dell'ordine. Continuava a parlare anche se Jeffrey era palesemente distratto. Alla fine lui annuì, ricominciò a stringerle la mano, la rassicurò con qualche colpetto sulla spalla e forse le fissò un appuntamento per il giorno dopo alla centrale. A quel punto filò spedito verso Sara con un sorriso incerto sulle labbra. «Ehi» disse quando la raggiunse. Senza pensarci Sara gli strinse la mano come se fosse una semplice conoscente. «Salve, Jeffrey» si intromise Tessa con un tono insolitamente freddo. Di solito era Eddie Linton, il padre, a trattarlo con voluto distacco. Jeffrey reagì con un sorriso stupito. «Ciao, Tessie.» Lei si staccò dalla ringhiera e riprese a pattinare lanciando alla sorella un'occhiata eloquente da sopra la spalla. «Che le prende?» domandò lui. Sara fece per ritrarre la mano, ma Jeffrey la trattenne un attimo di più, tanto per farle capire che era lui a decidere quando lasciarla andare. Era sempre così maledettamente sicuro di sé. Era la cosa che indispettiva di più Sara.
«Sei in ritardo» disse lei mettendosi a braccia conserte. «Sono stato trattenuto.» «Suo marito è fuori città?» La guardò con la stessa espressione che riservava ai testimoni che mentivano. «Ero con Frank» disse. Frank era il detective della squadra di polizia. «Gli ho passato le consegne per questa sera. Non voglio che qualcuno ci interrompa.» «E che cosa dovrebbero interrompere?» «Oh, già. Dimenticavo. Stasera avevo in mente di sedurti.» Sara sorrise, ma quando lui si protese per baciarla tirò indietro la testa. «Di solito il bacio viene meglio se le labbra si toccano.» «Non di fronte alla metà dei miei pazienti.» «Vieni, allora.» Senza troppa convinzione, Sara passò sotto la ringhiera e si lasciò condurre per mano dietro la pista, vicino ai bagni, in un angolo protetto da sguardi indiscreti. «Così va meglio?» «Certo.» Approfittò dei pattini che la alzavano per guardarlo con condiscendenza dall'alto in basso. «Molto meglio, dato che dovevo andare al bagno.» Fece per avviarsi, ma lui la afferrò per la vita. «Jeff» lo avvertì, ma il tono non le riuscì minaccioso. «Sei così bella, Sara.» Lei roteò gli occhi fingendosi deliziata. Jeffrey rise, ma non si dette per vinto. «Ho passato la notte a immaginare di baciarti.» «Oh, davvero?» «Mi manca il tuo sapore.» Lei fece una faccia annoiata. «È sempre il solito Colgate.» «Non è di quel sapore che sto parlando.» Sara rimase a bocca aperta, sconcertata, ma in fondo allo stomaco si agitò qualcosa. Stava per rispondere - non sapeva ancora cosa - quando il cercapersone di Jeffrey trillò. Lui continuò a contemplarla come se non avesse sentito. Lei si raschiò la gola per imporsi un contegno. «Non dovresti rispondere?» Jeffrey si rassegnò a guardare il cercapersone appeso alla cintura e borbottò: «Merda».
«Cosa c'è?» «Scasso» rispose laconico. «Non avevi passato le consegne a Frank?» «Solo per le piccole cose. Devo andare a telefonare.» «Non hai il cellulare?» «Batterie scariche.» Mascherò l'irritazione con un sorriso rassicurante. «Non riusciranno a rovinarmi la serata, Sara.» Le accarezzò la guancia. «È troppo importante per me.» «Hai un appuntamento erotico dopo cena?» lo provocò lei. «Sei vuoi, possiamo rimandare.» Jeffrey strinse gli occhi, la fissò senza dire una parola, si voltò e se ne andò a passo deciso. Sara si appoggiò al muro e lo seguì con lo sguardo. «Cristo santo!» sospirò. In meno di tre minuti era riuscito a farla sentire una perfetta idiota. La porta del bagno sbatté facendola sobbalzare. Jenny Weaver era appena uscita e si era fermata a fissare la pista di pattinaggio come se stesse rimuginando qualcosa. La maglietta nera a maniche lunghe che aveva addosso accentuava il pallore del viso. Mentre Sara le veniva incontro sollevò il braccio per buttarsi sulla spalla lo zainetto rosso che teneva in mano e inavvertitamente la colpì sul petto. «Attenta!» fece Sara tirandosi indietro. Jenny sbatté le palpebre, confusa, come se prima non l'avesse riconosciuta. Farfugliò un «mi dispiace» evitando di guardarla. «Non è nulla» rispose Sara. Capì che la ragazza era turbata e cercò di scambiare qualche battuta. «Come va?» le domandò. «Ti senti bene?» «Sì, signora» rispose Jenny. Si strinse al petto lo zaino e prima che Sara potesse aggiungere altro se ne andò. La vide unirsi a un gruppo di coetanei all'entrata della sala giochi. La luce degli schermi la avvolse per un attimo in un alone verdastro e poi scomparve. Sara intuì che qualcosa non andava, ma non si sentiva in diritto di seguirla per domandarle spiegazioni. A quell'età tutto assumeva toni drammatici. Probabilmente c'era di mezzo un ragazzo. Il lento terminò, ritornò la luce e dagli altoparlanti si riversò una vecchia canzone rock che le vibrò nello stomaco, Sulla pista i pattinatori cominciarono a muoversi al ritmo della musica volteggiando con disinvoltura e Sara rimase a guardarli con una punta di invidia. Dai tempi della sua adolescenza il pattinaggio aveva subito varie trasformazioni e passaggi di proprietà, ma continuava ad essere il punto più frequentato dai giovani. Lei ci aveva
passato intere serate a pomiciare dietro la pista col suo primo ragazzo, Steve Mann. Il loro rapporto, più che una vera passione era stato un sodalizio, con un unico obiettivo che li univa: andarsene al più presto da Grant. Steve aveva dovuto rinunciare ai suoi progetti di fuga quando suo padre era stato stroncato da un infarto e lui era stato costretto ad accollarsi la gestione del negozio di ferramenta. Adesso era sposato e aveva dei figli. Sara era riuscita a scappare ad Atlanta, ma anche lei, dopo qualche anno, era ritornata. E adesso era di nuovo lì, al pattinaggio della sua adolescenza, a pomiciare con Jeffrey Tolliver. O almeno a provarci. Allontanò il pensiero con un'alzata di spalle e voltò verso il bagno. Posò la mano sulla maniglia, ma qualcosa di vischioso gliela fece ritirare di scatto. In quel punto l'illuminazione era scarsa e per capire cosa l'aveva imbrattata avvicinò la mano al viso. La colpì prima di tutto l'odore. Si guardò la camicia, nel punto in cui era stata strusciata dallo zaino di Jenny Weaver. Il petto era segnato da una sottile striatura di sangue. 2 Jeffrey era furioso, si sentiva prudere le mani dalla voglia di strappare il telefono dal muro. Respirò a fondo per calmarsi, fece il numero della centrale e ascoltò pazientemente gli squilli. Rispose Maria Simms, sua segretaria e centralinista part-time alla centrale; «Buona sera, dipartimento di polizia della contea di Grant, resti in linea prego». E lo mise in attesa senza dargli il tempo di dire una parola. Jeffrey cercò di non lasciarsi trascinare dal nervosismo. Pensò a Sara in fondo alla pista di pattinaggio, che forse stava meditando di rinunciare alla cena. Ogni volta che lui faceva un passo avanti lei ne faceva due indietro. Capiva le sue ragioni, ma non aveva alcuna intenzione di rispettarle. Si appoggiò al muro e sentì il sudore che gli colava sulla schiena. Agosto si era presentato in forze, tanto che le temperature da record di giugno e luglio impallidivano al confronto. Quando usciva all'aria aperta aveva l'impressione di respirare attraverso uno straccio bagnato. Allentò la cravatta e slacciò il primo bottone della camicia per prendere aria. Dal fronte dell'edificio lo raggiunse il suono di una risata contratta. Si sporse oltre l'angolo per riuscire a vedere l'area di parcheggio. C'erano dei ragazzi radunati accanto a una vecchia Camaro ammaccata, fumavano passandosi a turno un'unica sigaretta. Il telefono pubblico era sul fianco dello
stabile e Jeffrey rimaneva nascosto dal tendone verde e giallo. Gli parve di sentire odore di marijuana ma non ne era sicuro. I ragazzi avevano l'aria di non promettere niente di buono. Più che l'intuito di poliziotto glielo diceva la sua esperienza di adolescente, passata a far vita di branco. Stava decidendo se andare a controllare, quando Maria lo rimise in linea. «Buona sera, dipartimento di polizia di Grant, grazie per avere aspettato. Posso esserle utile?» «Maria, sono Jeffrey.» «Oh, salve capo» disse. «Mi dispiace di averla disturbata. È stato un falso allarme, per un negozio.» «Quale?» domandò, memore della tirata d'orecchi che aveva appena ricevuto da Betty Reynolds, la proprietaria dell'emporio. «La lavanderia» disse. «Il povero vecchio Burgess ha fatto partire l'allarme per sbaglio.» Sorrise all'idea che Maria, sulla china della settantina, definisse vecchio il signor Bill, ma evitò di fare commenti. «C'è altro?» domandò. «Brad ha segnalato qualcosa giù alla tavola calda, ma non hanno trovato nulla.» «E cosa aveva segnalato?» «Gli era sembrato che ci fosse in ballo qualcosa, tutto qui. Sa com'è fatto Brad. Si insospettisce anche per la sua ombra.» Ridacchiò. Brad era una sorta di mascotte della stazione di polizia. Aveva ventun anni, la faccia tonda e biondi capelli fluenti che lo facevano sembrare un ragazzino. Gli anziani della squadra si divertivano a nascondergli il berretto nei punti più impensati della città. Qualche giorno prima Jeffrey l'aveva notato in testa alla statua del generale Lee, di fronte alle scuole. Pensò a Sara che aspettava. «Questa sera il responsabile è Frank. Non cercatemi, a meno che non ci scappi il morto.» «Due piccioni con una fava» ridacchiò di nuovo Maria. «Con una sola telefonata troverò il coroner e il capo.» Cercò di ricordare a se stesso che si era trasferito da Birmingham a Grant perché voleva vivere in una piccola città dove tutti si conoscevano. L'altra faccia della medaglia era che tutti si facevano i fatti degli altri. Stava per dire qualcosa quando udì un grido stridulo che proveniva dal parcheggio. Si sporse per dare un'occhiata e una ragazzina gridò: «Vaffanculo, fottuto bastardo». Maria disse: «Capo?».
«Un momento» bisbigliò Jeffrey. Quella voce rabbiosa gli aveva dato una stretta allo stomaco. Sapeva per esperienza che una ragazzina imbestialita era la cosa peggiore che potesse capitare in un parcheggio di sabato sera. Sapeva come intervenire con i ragazzi, si trattava quasi sempre di spacconate tra maschi, e di solito non aspettavano altro che qualcuno gli impedisse di buttarsi in una vera rissa. Ma con le ragazze era diverso, non succedeva spesso che perdessero la testa e quando succedeva non era tanto facile calmarle. Non c'era da scherzare con una ragazzina infuriata, tanto più se aveva in mano una pistola. «Io ti ammazzo, bastardo di merda» stava gridando a uno dei ragazzi. In un attimo il gruppo fece semicerchio attorno a lui lasciandolo solo al centro, con la pistola puntata addosso. La ragazza era a due metri circa dal suo bersaglio e mentre Jeffrey la guardava fece un passo avanti accorciando ulteriormente la distanza. «Merda» ringhiò Jeffrey, poi si ricordò di avere il telefono in mano e ordinò: «Manda subito qui Frank e Matt, di fronte al pattinaggio». «Sono a Madison.» «Lena e Brad, allora. Senza sirena. C'è una ragazza armata nel parcheggio.» Riagganciò con le dita irrigidite dalla tensione. Sentì la bocca inaridirsi e l'arteria carotidea pulsare come un serpente in fondo alla gola. Nel giro di pochi secondi gli passarono per la mente mille cose ma allontanò ogni pensiero, si levò la giacca e spostò la fondina dietro la schiena. Si diresse al parcheggio con le braccia abbandonate lungo i fianchi. Quando entrò nel suo campo visivo, la ragazza gli lanciò un'occhiata continuando a tenere la pistola puntata al petto del ragazzo. Le tremava la mano, ma fortunatamente non teneva il dito sul grilletto. La ragazza dava le spalle al pattinaggio e aveva il parcheggio e la strada di fronte a sé. Jeffrey si avvicinò ancora. Si augurò che Lena e Brad avessero il buon senso di arrivare dal lato dello stabile. Non si poteva prevedere cosa avrebbe fatto la ragazza sentendosi circondata. Un errore banale poteva causare la morte di molte persone. Quando fu a circa sei metri di distanza, a voce abbastanza alta per farsi sentire da tutti, Jeffrey la chiamò: «Ehi!». La ragazza trasalì, benché lo avesse visto arrivare, e passò il dito attorno al grilletto. L'arma era una Beretta 32, una cosiddetta pistola da signora, non tra le più potenti, ma in grado di produrre guai seri a distanza ravvicinata. Con quell'arma in mano la ragazza aveva otto possibilità di uccidere.
Se era una buona tiratrice, e a quella distanza anche una scimmia lo sarebbe stata, teneva in pugno la vita di otto persone. «Voi state indietro» ordinò Jeffrey al gruppo. Seguì qualche istante di esitazione, poi i ragazzi si spostarono verso l'entrata del parcheggio. L'odore di erba era pungente anche da lontano, e dal modo in cui la vittima prescelta ondeggiava Jeffrey capì che ne aveva fumata parecchia. «Se ne vada» gridò a Jeffrey la ragazza. Era vestita di nero, con le maniche della maglietta tirate fin sopra i gomiti a causa del caldo. Era solo alle soglie dell'adolescenza, con la voce ancora acerba, ma non per questo meno dura. «Se ne vada, ho detto» ripeté. Jeffrey non si mosse e lei tornò a guardare il ragazzo. «Adesso lo ammazzo» annunciò. «Perché?» domandò Jeffrey. Parve sorpresa della domanda, ma proprio per questo Jeffrey l'aveva fatta. Di solito le persone con un'arma in pugno non riflettono su quello che stanno facendo. La canna della pistola si abbassò lievemente e la ragazzina rispose: «Per impedirglielo». «Impedire cosa?» Parve pensarci e alla fine rispose: «Non sono affari suoi». «No?» domandò Jeffrey. Fece un passo avanti, poi un altro Adesso era a circa quattro metri da lei, abbastanza vicino per avere la situazione sotto controllo, ma non tanto da farla sentire minacciata. «No, signore» rispose la ragazza. Il tono cortese lo rassicurò. Una ragazza che dice «signore» non spara alla gente. «Ascolta» cominciò Jeffrey cercando qualcosa da dire. «Tu sai chi sono io?» «Sì, signore» rispose. «Lei è il capo della polizia Tolliver» «Esatto. E tu come ti chiami?» Lei ignorò la domanda, ma il ragazzo parve riscuotersi, come se il cervello annebbiato dall'erba cominciasse a registrare quel che stava accadendo. Disse: «Jenny. Si chiama Jenny». «Jenny?» ripeté Jeffrey. «È un bel nome.» «Be', s-sì» balbettò lei, colta alla sprovvista. Poi aggiunse in fretta: «Stia zitto, per favore. Non voglio parlare». «Forse invece ne hai voglia» disse Jeffrey. «A me sembra che tu abbia un sacco di cose da dire.» Parve indecisa, poi tornò ad alzare la canna all'altezza del petto del ra-
gazzo. «Se lei non se ne va, lo ammazzo.» «Con quella pistola?» domandò Jeffrey. «Sai cosa vuol dire ammazzare qualcuno con la pistola? Hai idea di come ci si sente?» La osservò. Ci stava pensando. Era disorientata. Jenny era grassa, in soprappeso di almeno venti chili. Vestita tutta di nero, dava l'idea di una quelle ragazze che attraversano la vita senza che nessuno le noti. Il ragazzo che teneva sotto tiro, invece, era molto bello, probabilmente l'oggetto di una passione non corrisposta. Ai tempi di Jeffrey, una come lei si sarebbe limitata a infilargli un bigliettino malevolo nell'armadietto. Adesso gli puntava addosso una pistola. «Jenny» ricominciò Jeffrey, domandandosi se la pistola fosse carica. «Cerca di ragionare. Non vale la pena che tu ti metta nei guai per uno come lui.» «Se ne vada» ripeté lei, ma la voce non era più tanto ferma Si passò sul viso la mano libera e Jeffrey capì che stava piangendo. «Jenny, io non credo che...» riprovò, ma si interruppe perché Jenny aveva levato la sicura. Il clic metallico gli era arrivato all'orecchio come una freccia acuminata. Portò la mano dietro la schiena e impugnò la pistola, ma senza estrarla dalla fondina. Si sforzò di mantenere un tono pacato. «Che ti è successo, Jenny? Perché non ne parliamo? Non può essere una cosa così terribile.» Lei si passò un'altra volta la mano sul viso. «Sì, signore» disse. «Lo è.» La voce era diventata atona e Jeffrey si sentì gelare. Represse un brivido ed estrasse la pistola dalla fondina. Odiava le armi proprio perché era un poliziotto e sapeva quanto male potevano causare. Girava armato solo perché doveva farlo, non perché gli piacesse. In venti anni di servizio nelle forze dell'ordine aveva puntato la pistola su un sospetto non più di quattro o cinque volte, e solo due aveva fatto partire il colpo. Ma mai direttamente contro un essere umano. «Jenny» tentò di nuovo, mettendo una certa autorevolezza nella voce. «Guardami.» Lei tenne gli occhi sul ragazzo per un tempo che sembrò infinito. Jeffrey rimase zitto per darle il tempo di riprendere il controllo. Con estrema lentezza, Jenny spostò lo sguardo su di lui e vide la nove millimetri che stringeva nella mano abbandonata lungo il fianco. Si leccò le labbra innervosita, cercando di valutare la portata del rischio. Con la stessa voce inespressiva disse: «Mi ammazzi». Jeffrey pensò di aver capito male. Non era la risposta che si aspettava.
Lei ripeté: «Mi ammazzi subito, altrimenti io ammazzo lui». Puntò la Beretta alla testa del ragazzo. Divaricò le gambe per tenersi salda e portò anche la mano libera sul calcio della pistola. Era la posizione di una che sapeva come manovrare un'arma. Adesso le mani non tremavano e gli occhi erano inchiodati sul ragazzo. «Oh merda» gemette lui, poi si udì un gocciolio sull'asfalto. Si era pisciato addosso. Jeffrey alzò la pistola e lei fece fuoco, ma il colpo passò sopra la testa del ragazzo e scheggiò l'insegna all'entrata del parcheggio. «E questo cos'era?» sibilò Jeffrey. Jenny era ancora in piedi solo perché lui non aveva osato premere il grilletto. La pallottola aveva centrato il puntino della «i» sulla scritta PATTINAGGIO. Era sconcertato, forse neppure i suoi ragazzi erano capaci di tanta precisione. «Era un avvertimento» disse Jenny, benché lui non si aspettasse una risposta. «Mi ammazzi» ripeté. «Mi ammazzi o giuro su Dio che gli faccio saltare la testa in questo preciso istante.» Si passò la lingua sulle labbra. «Lo so fare. So come si usa questa.» Agitò lievemente la pistola per indicare cosa intendeva. «Lei sa che lo so fare» disse divaricando ancora le gambe per neutralizzare il rinculo dell'arma. Spostò di poco la mira e mandò in frantumi il resto della «i». Seguì un fuggi fuggi generale, ma Jeffrey non lo notò neppure. Vedeva solo il fumo che usciva dalla canna della pistola. Quando fu di nuovo in grado di respirare disse: «C'è una bella differenza fra un'insegna e un essere umano». Con un filo di voce Jenny rispose: «Quello non è un essere umano». Jeffrey colse con la coda dell'occhio una sagoma in movimento. Riconobbe subito Sara. Si era levata i pattini, e i calzini bianchi spiccavano sull'asfalto. «Tesoro?» chiamò Sara con la voce incrinata dalla paura. «Jenny?» «Se ne vada» le intimò Jenny, ma il tono era lamentoso, più simile a quello della bambina che in effetti era, che non al mostro che si era dimostrata qualche secondo prima. «La prego.» «È viva» disse Sara. «L'ho trovata là dentro. È viva.» La pistola ebbe un piccolo sussulto, poi la volontà di Jenny ebbe la meglio e la canna si alzò di nuovo puntando diritto in mezzo agli occhi del ragazzo. Tornò anche la voce piatta di prima: «È una bugia». Jeffrey guardò Sara e capì che la ragazza aveva ragione. Sara non era mai stata brava a mentite ed era facile smascherarla. Inoltre, anche da quel-
la distanza era perfettamente visibile il sangue che aveva sulla camicia e sui jeans. Qualcuno era stato ferito sulla pista di pattinaggio e forse, o meglio, quasi sicuramente, era morto. Tornò a guardare Jenny e per la prima volta riuscì a mettere in relazione quel faccino da bambina con la minaccia che costituiva in quel momento. Si rese conto solo allora di non avere levato la sicura della sua pistola. La fece scattare lanciando a Sara un'occhiata di avvertimento perché si tenesse lontana. «Jenny?» riprovò Sara, con una voce quasi infantile che non era la sua. Era evidentemente sconvolta da quello che aveva visto fare a Jenny dentro il pattinaggio. Jeffrey non riusciva a immaginare cosa poteva essere accaduto. Non aveva sentito colpi d'arma da fuoco e solo pochi minuti prima la guardia giurata gli aveva detto che tutto stava andando per il meglio. Si domandò che fine avesse fatto. Era rimasto all'interno per proteggere la scena del delitto e impedire che qualcuno uscisse? Cosa aveva combinato Jenny là dentro? Avrebbe dato qualsiasi cosa per interrompere la scena che aveva di fronte agli occhi e scoprire cosa era successo. Inserì il proiettile nella camera della sua nove millimetri. Sara udì il rumore, girò la testa di scatto e protese una mano come per dire "No, stai calmo. Non lo fare". Lui guardò oltre, verso l'entrata del pattinaggio. Si aspettava di vedere qualche curioso col naso schiacciato contro la vetrata, ma non c'era nessuno. Dentro era accaduto qualcosa di ancor più interessante? Sara fece un altro tentativo. «Ti assicuro che sta bene, Jenny. Vieni a vedere, se non mi credi.» «Dottoressa Linton» rispose Jenny con la voce rotta. «La prego, non mi parli.» «Cara. Guardami. Per favore, guardami.» Dato che la ragazzina la ignorava ripeté: «Sta bene. Ti assicuro che sta bene, mi devi credere». «Lei è una bugiarda» ripeté Jenny. «Siete tutti dei bugiardi.» Fissò il ragazzo, «E tu sei il più bugiardo di tutti. Brucerai tra le fiamme dell'inferno per quello che hai fatto. Bastardo.» «Ci rivedremo là, puttana» rispose lui furioso, sputando saliva dalla bocca. «Lo so» disse Jenny quasi piangendo. Con la coda dell'occhio Jeffrey vide che Sara faceva un passo avanti. Guardò Jenny che passava lo sguardo sulla canna corta della pistola per allinearla con la testa del ragazzo. Era immobile, in attesa. Non le tremavano
le mani. Non le tremavano le labbra. La presa sull'arma era salda. Sembrava rassegnata al compito che l'aspettava, più di quanto non lo fosse Jeffrey. «Jenny...» cominciò lui in cerca di una via d'uscita. Non avrebbe ucciso una ragazzina. Non poteva ucciderla, per nessuna ragione al mondo. Jenny guardò di lato e Jeffrey seguì il suo sguardo. Era finalmente arrivata la macchina di pattuglia e Lena Adams e Brad erano appena scesi, armi in pugno. Adesso i poliziotti erano disposti a triangolo come da manuale, con Jeffrey al vertice. «Mi ammazzi» ripeté Jenny continuando a tenere la pistola puntata sul ragazzo. «Giù le armi» ordinò Jeffrey ai due agenti. Brad eseguì subito, ma Lena tergiversava. Jeffrey la guardò con durezza, sul punto di ripetere l'ordine, ma finalmente lei abbassò la pistola. «Ora lo faccio» mormorò Jenny. Era come impietrita e Jeffrey si domandò cosa avesse passato per essere così rassegnata. Jenny si schiarì la voce: «Lo faccio. L'ho già fatto un'altra volta». Jeffrey guardò Sara in cerca di una conferma, ma in quel momento per lei c'era solo la sua piccola paziente con una pistola in pugno. «L'ho già fatto un'altra volta» ripeté Jenny. «Mi ammazzi, altrimenti io ammazzo lui e poi mi uccido comunque.» Jeffrey puntò la pistola. Cercò di costringere la mente a riconoscere che, per quanto fosse una ragazzina, Jenny costituiva un pericolo reale per il ragazzo. Se la colpiva alla gamba o alla spalla, le avrebbe lasciato il tempo di premere il grilletto. Se anche la colpiva al torace, rimaneva la possibilità che riuscisse a far partire il colpo prima di crollare. Il ragazzo sarebbe morto prima ancora che lei cadesse a terra, dato che lo puntava alla testa. «Voi uomini siete dei deboli» disse Jenny in un sussurro, continuando a fissare l'arma. «Non fate mai la cosa giusta. Parlate, parlate, ma poi non fate niente.» «Jenny...» la implorò Sara. «Conterò fino a cinque» disse Jenny rivolta a Jeffrey. «Uno.» Jeffrey deglutì. Il cuore gli martellava così forte nelle orecchie che «vedeva» contare la ragazza, più che sentirla. «Due.» «Jenny, ti prego.» Sara giunse le mani come per pregare. Erano scure, quasi nere di sangue. «Tre.» Jeffrey prese la mira. La ragazza non poteva sparare. Era impossibile che
lo facesse. Non doveva avere più di tredici anni. Le ragazzine di tredici anni non ammazzano la gente. Quello era un suicidio. «Quattro.» Vide il dito di Jenny stringere il grilletto, vide i muscoli dell'avambraccio tendersi lentamente mentre lei muoveva il dito. «Cinque!» gridò. Sul collo le affiorarono le vene. «Spari, dannazione!» ordinò mettendosi salda sulle gambe per neutralizzare il rinculo. Lui guardò il braccio teso e il polso immobile. Il tempo scorreva così lento che poté osservare i muscoli impegnati lungo l'avambraccio e il dito stretto attorno al grilletto. Jenny gli diede un'ultima possibilità. «Spari!» gridò. E lui sparò. 3 A ventotto settimane, la bambina di Jenny Weaver sarebbe sopravvissuta fuori dall'utero se sua madre non avesse cercato di farla sparire nello scarico del gabinetto. Il feto era ben sviluppato e ben nutrito. Il cervello era intatto e, con una buona assistenza medica, i polmoni avrebbero raggiunto il pieno sviluppo nel corso del tempo. Le mani avrebbero imparato ad afferrare, i piedi a flettersi, gli occhi a muoversi. E infine la bocca avrebbe imparato a parlare, a dire cose diverse dagli orrori di cui adesso parlava a Sara. I polmoni avevano incamerato aria, la bocca aveva annaspato per aggrapparsi alla vita. Poi era stata uccisa. Nelle ultime tre ore e mezza Sara aveva cercato di ricomporre le parti del corpo che Jenny Weaver aveva nascosto nel bagno e nello zainetto rosso rinvenuto nel bidone della spazzatura vicino alla sala dei videogiochi. Ricorrendo a minuscole suture invece che ai soliti punti a croce, Sara aveva ricucito la pelle sottile come carta, fino a ricostruire le sembianze di un neonato. Le tremavano le mani e aveva dovuto rifare molti nodi perché al primo tentativo le dita non rispondevano. Ma quello che era riuscita a fare non era sufficiente. Eseguire le suture era come tirare il filo di una maglia. Per ogni zona riparata ce n'era un'altra che rimaneva scoperta. Non c'era modo di mascherare i traumi che aveva subito il piccolo corpo. Alla fine Sara si era rassegnata, aveva dovuto riconoscere che il compito che si era imposta era futile. La piccola sarebbe scesa nella tomba non molto diversa da come l'aveva vista sua madre per l'ultima volta.
Trasse un profondo respiro e rilesse il referto prima di firmarlo. Non aveva aspettato che arrivassero Jeffrey o Frank per dare inizio all'autopsia. Non c'erano testimoni mentre lei incideva, sezionava e ricomponeva. Li aveva esclusi di proposito perché sentiva che non ce l'avrebbe fatta a compiere quelle operazioni in presenza di altre persone. Il suo ufficio era separato dalla sala anatomica da una vetrata. Si abbandonò contro lo schienale della sedia e rimase a fissare il sacco di plastica nera che conteneva il corpicino, adagiato sul tavolo anatomico. Lasciò vagare la mente e intravide un'alternativa alla morte che aveva dovuto certificare. Vide una vita di risa e di pianti, di amore dato e ricevuto, ma alla fine vide la verità: la piccola di Jenny non avrebbe mai avuto quelle cose. Forse neppure Jenny le aveva mai avute. Dopo una gravidanza extrauterina, parecchi anni prima, Sara non era più stata in grado di concepire. All'inizio le era costato accettare la nuova realtà, ma col passare del tempo altre cose avevano preso il sopravvento e lei aveva imparato a non desiderare quello che non avrebbe mai potuto avere. Ma c'era qualcosa in quell'esserino non voluto che giaceva sul tavolo, quella bambina a cui la madre aveva strappato la vita, che risvegliava in lei antiche emozioni. Il suo lavoro consisteva nel curare i bambini. Li teneva in braccio, li cullava e li coccolava come non avrebbe mai potuto fare con un figlio suo. E in quel momento, dentro l'obitorio, con gli occhi fissi sul sacco nero, il desiderio di portare in grembo un figlio si risvegliò con sorprendente chiarezza, seguito dalla sensazione di essere vuota dentro. Udì dei passi sulle scale, si riscosse e asciugò in fretta gli occhi. Come vide entrare Jeffrey appoggiò le mani sulla scrivania e si costrinse ad alzarsi in piedi. Stava cercando gli occhiali nel tentativo di assumere un'espressione normale, quando notò che Jeffrey, contrariamente al solito, non era subito venuto nell'ufficio. Lo vide attraverso il vetro, fermo di fronte al sacco nero, sembrava che non avesse neppure notato la presenza di Sara. Era lievemente chinato sopra il tavolo, con le mani dietro la schiena, e lei si domandò cosa stesse pensando, forse alla vita che la piccola avrebbe potuto avere, o forse al fatto che lei non avrebbe mai potuto dargli dei figli. Sara si raschiò la gola ed entrò nella sala anatomica stringendo al petto il referto dell'autopsia. Lo posò sul bordo del tavolo e si mise di fronte a Jeffrey, con la bambina al centro che li separava. Il sacco era troppo grande, ricadeva attorno al corpo minuscolo come una coperta ed era ancora aperto. Sara non aveva trovato la forza di incernierare la piccola in un buio an-
cora più fitto e trasportarla dentro il freezer. Non riuscì a trovare nulla da dire e rimase zitta. Infilò con un gesto automatico la mano nella tasca del camice e vi trovò gli occhiali. Se li stava mettendo quando Jeffrey si decise a parlare. «E così» disse con la voce arrochita, come se non parlasse da tanto tempo, «ecco cosa succede quando si cerca di buttare un bambino nel gabinetto.» Sara provò una stretta al cuore, non si aspettava un commento così aspro e non sapeva come reagire. Per fare qualcosa si levò gli occhiali e strofinò le lenti col lembo del camice. Jeffrey inspirò ed espirò lentamente. A lei parve di sentire odore di alcol, ma si disse che non era possibile perché Jeffrey beveva al massimo una birra quando andava alla partita di football. «Che piedi minuscoli» disse pensoso, continuando a fissare il corpo. «Sono sempre così piccoli?» Di nuovo Sara non rispose. Guardò i piedi, le dieci dita, la pelle rugosa sulle piante. Piedini che una mamma vorrebbe baciare. Piccole dita che una mamma vorrebbe contare ogni giorno, come il giardiniere conta i boccioli sul cespuglio di rose. Si morse il labbro per trattenere la commozione. Il vuoto che sentiva dentro era insopportabile e istintivamente si portò una mano al cuore. Quando riuscì ad alzare gli occhi vide che Jeffrey la guardava. Aveva gli occhi iniettati di sangue, un sottile reticolo di linee rosse circondava le iridi. Sembrava che faticasse a mantenere il controllo. Lei non riusciva a capire se a causa dall'alcol o della sofferenza. «Non sapevo che bevessi» disse, con un tono d'accusa che avrebbe voluto evitare. «E io non sapevo di essere uno che ammazza i bambini» ribatté lui fissando un punto sulla parete. Sara avrebbe voluto aiutarlo, ma era paralizzata dal dolore. «Frank» spiegò Jeffrey. «Mi ha dato due dita di whisky.» «Sono servite?» Gli affiorarono le lacrime agli occhi e lei vide che lottava per ricacciarle indietro. La mascella si contrasse, poi si rilassò in un sorriso pieno di amarezza. «Jeffrey...» Lui fece un gesto evasivo con la mano, come per dire di lasciar perdere. «Hai trovato qualcosa?» domandò.
«No.» «Io non...» si trattenne e abbassò gli occhi, ma non sulla bambina. Fissava le piastrelle del pavimento. «Non so come comportarmi» disse alla fine. «Non so cosa dovrei fare.» Il tono della sua voce toccò Sara nel profondo. Vederlo così umiliato la faceva soffrire ancora di più. Passò attorno al tavolo e gli mise una mano sulla spalla per confortarlo, ma lui non si girò a guardarla. Domandò: «Tu credi che lo avrebbe ucciso davvero?». Sara si sentì serrare la gola, fino a quel momento si era impedita di porsi quella domanda. Al momento della tragedia, dal punto in cui si trovava poteva vedere Jenny solo di spalle. Solo Jeffrey, Lena e Brad avevano una visione completa della scena. «Sara?» Dal modo in cui la stava guardando capì che non c'era spazio per le risposte evasive. «Sì» rispose con voce ferma. «Non avevi alternative, Jeffrey. Dovevi farlo.» Jeffrey si allontanò, andò ad appoggiarsi alla parete e domandò: «Probabilmente il padre è Mark, non credi?». Abbandonò la testa contro la parete. «Il ragazzo che voleva uccidere.» Sara infilò le mani in tasca e puntò i piedi per costringersi a non andargli vicino. «È molto probabile» disse. «I suoi genitori ci permetteranno di interrogarlo solo domani. Lo sapevi?» Lei scosse la testa lentamente. Mark non era un elemento sospetto. Jeffrey non poteva accusarlo di nulla. Non era certo stato lui a impugnare una pistola. «Hanno detto che è già abbastanza provato.» Chinò la testa sul petto. «Cosa avrà spinto Jenny a fare una cosa del genere? Cosa le avranno fatto per...?» La voce gli morì in gola e tornò a guardare Sara. «Era una tua paziente, vero?» «Si era trasferita qui con la madre circa tre anni fa.» Fece una pausa. Decise che a Jeffrey poteva essere d'aiuto affrontare il discorso come se si trattasse di un caso qualsiasi, senza indulgere sul suo tragico coinvolgimento. Che per lei non fosse semplice, a quel punto diventava irrilevante. «Da dove venivano?» «Da uno stato del Nord, credo. Sua madre si è trasferita dopo un divorzio che deve essere stato disastroso.» «Tu come lo sai?»
«I genitori mi raccontano sempre qualcosa di loro.» Si interruppe. «Non sapevo che Jenny fosse incinta. Non veniva da me da almeno sei mesi, forse di più.» Si portò la mano al cuore. «Era una ragazzina così dolce. Non avrei mai immaginato che potesse fare una cosa simile.» Lui annuì. Si stropicciò gli occhi. «Tessa non crede di poter riconoscere qualcuno tra le persone che sono andate al bagno. Brad le porterà l'annuario della scuola, vedremo se rintraccia una faccia che le è familiare. Voglio che anche tu gli dia un'occhiata.» «Certamente.» «Era così affollato» continuò Jeffrey alludendo alla pista di pattinaggio. «La gente se n'è andata senza deporre testimonianze. Non credo che riusciremo a rintracciare qualcuno dei presenti.» «Hai qualche elemento?» Scrollò il capo. «Sei sicura che solo due ragazze sono andate in bagno? Jenny e un'altra?» «È quello che ho visto» rispose Sara, anche se dopo tutto quello che era successo non era più sicura di nulla. «L'altra non l'ho vista. Credo che se fosse stata una delle mie pazienti l'avrei riconosciuta. Credo.» Fece una pausa per cercare di ricordare, ma non le venne in mente niente di nuovo. «Era abbastanza alta, forse portava in testa un berretto da baseball.» Jeffrey alzò la testa. «Ti ricordi di che colore?» «C'era poca luce, Jeffrey» rispose, consapevole di deluderlo. Adesso capiva come mai tanti testimoni fornivano istintivamente false testimonianze. Si sentiva stupida e inutile perché non sapeva chi fosse l'altra ragazza. Per reazione alla frustrazione, la sua mente le stava suggerendo immagini a casaccio, che forse non erano neppure veri ricordi. Disse: «Non sono nemmeno sicura che fosse un berretto da baseball. Non ci ho badato». Cercò di sorridere. «Cercavo te.» Lui non restituì il sorriso. «Ho parlato con sua madre.» «Che cosa le hai detto?» Ritornò il tono aspro. «Ho ucciso sua figlia, signora Weaver. Mi dispiace tanto.» Sara si morse il labbro. In una contea più grande, non sarebbe toccato a Jeffrey il compito di notificare il decesso. Non si sarebbe trovato in servizio, in quanto a sua volta oggetto di un'indagine. Ma la contea di Grant non era abbastanza grande e tutte le responsabilità continuavano a pesare sulle sue spalle. «Non voleva l'autopsia» aggiunse. «Ho dovuto spiegarle che non aveva
scelta. Ha detto che era...» si trattenne. «Ha detto che era come farla morire due volte.» Sara si sentì serrare lo stomaco dal senso di colpa. «Mi ha definito un killer di bambini» disse. «Adesso sono un killer di bambini.» Lei agitò la testa per negare. «Non avevi scelta» disse con convinzione. Aveva fatto l'amore con quell'uomo, condiviso la sua vita con lui. Non era possibile che avesse commesso un errore di valutazione. «Hai seguito la procedura» disse. Lui rispose con una risata sprezzante. «Jeff...» «Tu credi che l'avrebbe fatto davvero?» domandò di nuovo. «Io non credo che l'avrebbe fatto, Sara. Continuo a pensarci, forse avrebbe rinunciato e se ne sarebbe semplicemente andata. Forse avrebbe...» «Guarda» lo interruppe Sara indicando il tavolo anatomico. «Ha ucciso la sua bambina, Jeffrey. Credi che non avrebbe ucciso anche il padre?» «Non lo sapremo mai.» Il silenzio li avvolse come una nebbia. L'obitorio era nel seminterrato dell'ospedale, una stanza rivestita di piastrelle anonime. Si udiva solo il rumore del compressore del freezer, fino a che non si spense con un tonfo secco che risuonò sulle pareti. «La bambina era viva?» domandò Jeffrey. «Quando è nata, era viva?» «Non sarebbe sopravissuta a lungo, senza cure mediche» rispose Sara per schivare la domanda. Non sapeva perché, ma sentiva il bisogno di proteggere Jenny. «Era viva?» insistette lui. «Era molto piccola. Non credo che...» Jeffrey si riavvicinò al tavolo. Infilò le mani in tasca e fissò la bambina. «Voglio...» cominciò. «Voglio andare a casa. Voglio che tu venga a casa con me.» «D'accordo» disse lei, anche se non era sicura di aver capito cosa voleva. Lui disse: «Voglio fare l'amore con te». Sara lo guardò sgomenta. «Io voglio...» Jeffrey lasciò la frase a metà. Lei lo fissò e si sentì avvilita. «Tu vuoi fare un bambino» disse. Da come la stava guardando capì che era l'ultima cosa che lui aveva in mente, allora arrossì di vergogna, col cuore in gola, incapace di parlare. Lui scrollò la testa. «Non era questo che volevo dire.»
Sara gli voltò le spalle, aveva le guance in fiamme. Non sapeva cosa dire per rimangiarsi quello che aveva detto. Lui disse: «Lo so che non puoi...». «Lascia stare.» «Ma io...» Era furiosa con se stessa, non con Jeffrey, ma quando riuscì a parlare diventò aggressiva. «Ti ho detto di lasciar perdere.» Jeffrey aspettò qualche secondo, timoroso di dire la cosa sbagliata. Poi con una voce triste, quasi lamentosa, confessò: «Voglio tornare indietro di cinque ore, d'accordo?». Aspettò che lei si voltasse a guardarlo. «Voglio essere di nuovo in quel dannato pattinaggio con te e quando il cercapersone si mette a squillare voglio buttarlo nella spazzatura.» Sara continuò a fissarlo senza sapere cosa dire. «È questo che voglio, Sara» ripeté. «A questo pensavo. Quello che hai detto...» Lei alzò una mano per fermarlo e in quel momento si udirono dei passi sulle scale, due persone stavano scendendo. Sara si rifugiò nel suo ufficio per asciugarsi gli occhi. Prese un fazzoletto di carta dalla scatola sulla scrivania, si soffiò il naso, contò fino a cinque, si fece forza e cacciò indietro le lacrime. Quando si voltò la detective Lena Adams e l'agente Brad Stephens erano già nella sala anatomica accanto a Jeffrey che, a quanto pareva, era riuscito a controllare la commozione. Tutti e tre tenevano le mani intrecciate dietro la schiena, com'è abitudine dei poliziotti quando si trovano sulla scena di un delitto e non vogliono rischiare di contaminare qualche prova. In quel momento Sara li odiò tutti e tre, perfino Brad Stephens che era innocuo come un moscerino. «Buongiorno, dottoressa Linton» disse lui levandosi il berretto quando la vide arrivare. Era ancora più pallido del solito e aveva le lacrime agli occhi. «Ti spiacerebbe...» cominciò Sara e subito si interruppe. Si schiarì la voce. «Ti spiacerebbe andare di sopra a prendermi delle lenzuola?» disse. «Lenzuola da letto. Quattro, direi.» Non aveva nessun bisogno di lenzuola, ma non voleva che Brad rimanesse lì: era stato un suo paziente, e sentiva ancora il bisogno di proteggerlo. Lui sorrise, contento di avere qualcosa da fare. «Certamente, signora.» Quando se ne fu andato, Lena domandò con un tono sbrigativo: «Avete già fatto la bambina?».
Rispose Jeffrey con un laconico sì, anche se non aveva assistito all'autopsia. Notò il referto sul bordo del tavolo anatomico e cominciò a sfogliarlo. Sara non disse nulla quando lo vide prendere la penna dalla tasca della giacca e scribacchiare la sua firma. Dal punto di vista procedurale, eseguendo l'autopsia senza la presenza di almeno un testimone, Sara aveva violato parecchie leggi. «La ragazza è nel freezer?» domandò Lena dirigendosi agli sportelli. Percorse quel breve tratto con una sorta di spavalderia, come se dovessero sbrigare una faccenda di normale routine. Sara sapeva che Lena aveva passato momenti terribili di recente, ma quel modo di fare la mandò su tutte le furie. «Qui?» domandò Lena con la mano su una maniglia del freezer. Sara annuì senza muoversi, aspettò che Jeffrey andasse ad aiutare Lena e chiuse in fretta la cerniera sopra la bambina. Quando li vide spingere al centro della sala il carrello col corpo di Jenny Weaver le venne il batticuore. Loro bloccarono le ruote accanto al tavolo anatomico e aspettarono che lei levasse la piccola. Alla fine fu Jeffrey a prendere tra le braccia il grande sacco nero. Sara lo vide sostenere nel palmo della mano quella che doveva essere la testa e si voltò subito dall'altra parte. Le estremità vuote del sacco frusciarono contro il pavimento per tutto il tratto fino al freezer. Lena guardò con intenzione l'orologio. Sara avrebbe voluto schiaffeggiarla, invece andò all'armadietto metallico vicino ai lavabi, aprì un pacco sterile e si infilò un camice. Lanciò un'occhiata verso il freezer domandandosi come mai Jeffrey ci mettesse tanto. Tornò quando lei stava aiutando Lena a trasferire il corpo di Jenny sul tavolo. «Lascia» disse a Lena e la sostituì nella manovra di trasferimento sul ripiano di porcellana bianca. Jenny era una ragazza massiccia e quando la adagiarono, il peso fece vibrare i tubi di drenaggio a capo del tavolo. Sara sistemò la testa sopra il sostegno cercando di immedesimarsi nel ruolo di coroner e non in quello di pediatra della ragazza. In dieci anni di attività come patologa forense le era capitato solo quattro volte di esaminare il cadavere di persone che aveva conosciuto. Jenny Weaver era la prima ad essere stata anche sua paziente. Accostò il vassoio con gli strumenti sterili e controllò che ci fosse tutto il necessario. I due tubi a capo del tavolo servivano a evacuare il corpo nel corso dell'autopsia. Sopra pendeva una grossa bilancia per pesare gli organi. Il tavolo era concavo, con le sponde rialzate per evitare che materia e liquidi gocciolassero a terra, e inclinato in direzione di un grande bacile di
raccolta in ottone. Carlos, l'assistente di Sara all'obitorio, aveva steso un lenzuolo bianco sopra il corpo di Jenny. Sulla zona che copriva il collo c'era un macchia rossa. Sara aveva chiesto a Carlos di cominciare a occuparsi di Jenny mentre lei lavorava sulla bambina. Lui aveva fatto le radiografie e predisposto il corpo all'autopsia, poi era stato mandato a casa. Sara tirò indietro il lenzuolo fin sopra il petto della ragazza. La ferita non era netta e una porzione della parte destra del collo penzolava fuori simile a pezzi di carne cruda. Cartilagine e tessuto osseo spuntavano dal sangue scuro e rappreso attorno alla ferita. Andò allo schermo luminoso sulla parete e lo accese. La luce mise in mostra le radiografie fatte da Carlos. Per qualche istante non riuscì a vedere quello che stava guardando ma si costrinse a concentrarsi e studiò con cura ogni lastra. Controllò il nominativo su ciascuna, poi cominciò a descrivere ad alta voce quello che vedeva. «Come potete notare, qui appaiono delle linee sfuocate di una frattura all'omero sinistro che farei risalire a non più di un anno fa. Non è una frattura tipica, specialmente per chi non fa attività atletica, si potrebbe dedurne che è frutto di percosse.» «L'avevi curata tu?» domandò Jeffrey. «Certo che no» rispose Sara. «Avrei sporto denuncia. Qualsiasi medico avrebbe sporto denuncia.» «Va bene, va bene» disse Jeffrey alzando le mani. Il tono aggressivo di Sara imbarazzò Lena che abbassò gli occhi e si mise a fissare il pavimento. Sara tornò a guardare le lastre. «C'è anche traccia di un trauma attorno alla cartilagine costale, qui, su questa costola.» Indicò la lastra del torace. «Quassù, vicino allo sterno, c'è un ematoma, probabilmente dovuto a una spinta violenta da dietro, o a un colpo. Voglio dire sulla schiena.» Si domandò se Jenny si fosse rivolta à un altro medico per quell'incidente. Anche un neolaureato al primo anno di internato avrebbe capito che qualcosa non tornava in quella lesione. Proseguì: «Direi che la persona che l'ha procurato era più alta di lei. È anche recente». Passò a un'altra lastra. Incrociò le braccia su petto e la studiò. «Questo è il bacino» spiegò. «Notate questa linea sfumata, qui, sull'ischio. Potrebbe indicare una pressione traumatica sul pube. Ciò che comunemente si definisce una frattura da sforzo.» «Che genere di sforzo?» domandò Jeffrey. Con sorpresa di Sara fu Lena a fornire la risposta.
«È stata stuprata» disse, con un tono che avrebbe potuto usare per dire che aveva gli occhi azzurri. «Brutalmente. Dico bene?» Sara annuì. Stava per aggiungere qualcos'altro quando sentì di nuovo dei passi sulle scale. Intuì dall'andatura a balzi che stava tornando Brad. «Ecco qui» annunciò Brad entrando di spalle dalla porta, con un carico di lenzuola sulle braccia e il berretto appeso alla mano. Sara lo fermò con una domanda: «Hai preso anche delle federe?». «Oh?» fece lui stupito. Scrollò la testa. «No, mi dispiace.» «Dovrebbero essere all'ultimo piano» lo informò Sara. «Me ne puoi procurare almeno quattro?» «Certo, signora.» Posò le lenzuola sul tavolo accanto alla porta. Quando se ne andò, Lena incrociò le braccia e sospirò: «Non ha mica dodici anni». Jeffrey, che non le aveva ancora rivolto la parola, la rimbeccò: «Taci» disse con un tono imperioso del tutto insolito. Lena arrossì ma non disse nulla. Anche questo era insolito. «L'ematoma sul petto poteva essere trattato solo con del Tylenon» proseguì Sara. «La frattura pelvica poteva saldarsi da sola. Questo potrebbe spiegare come mai negli ultimi tempi era ingrassata. Aveva difficoltà a muoversi.» Jeffrey domandò: «Credi che il suo ragazzo abusasse di lei?». «Qualcuno di sicuro» rispose Sara tornando a guardare le lastre per sincerarsi che non le fosse sfuggito qualcosa. Pur avendola vista tante volte, non aveva mai immaginato che Jenny Weaver fosse vittima di violenze. Non riusciva a capire come avesse fatto a tener nascosto un fatto così grave e perché. Naturalmente, Sara non prescriveva radiografie per un mal di gola e Jenny non si era mai spogliata di fronte a lei per una visita. Le adolescenti sono molto gelose del loro corpo e per non imbarazzarle Sara le auscultava infilando lo stetoscopio sotto la maglietta. Tornò al tavolo anatomico per riprendere l'esame sul cadavere. Quando tirò indietro il lenzuolo le tremavano le mani ed era talmente concentrata nello sforzo di controllare il tremito che non vide subito quello che aveva messo allo scoperto. «Merda» esclamò Lena. Questa volta Jeffrey non la redarguì e Sara capì perché. Il corpo della ragazza era pieno di piccoli tagli, specialmente sulle braccia e sulle gambe. Le ferite erano a vari stadi di cicatrizzazione, alcune risalivano a pochi giorni prima.
«Che significa?» domandò Jeffrey. «Aveva cercato di suicidarsi?» Sara osservò i tagli, non ce n'erano sui polsi o in punti che gli abiti non potessero coprire. Questo spiegava come mai Jenny indossasse una maglietta a maniche lunghe nel cuore dell'estate. Piccole file di tagli molto profondi segnavano l'avambraccio sinistro a partire da circa sei centimetri sopra il polso. Alcune cicatrici più scure indicavano che le incisioni si erano ripetute. Sulle gambe erano molto più profonde e in alcuni casi si incrociavano. Partivano da sopra il ginocchio e risalivano la coscia. Jenny se le era inferte da sola. «Come mai?» domandò Jeffrey, anche se probabilmente aveva già la risposta. «Si tagliava» disse Lena. «Autolesionismo» precisò Sara, come se questo migliorasse le cose. «Ho già visto altri casi.» «E perché lo fanno?» «Per stupidità, nella maggior parte dei casi» rispose Sara. La assalì una rabbia impotente. Quante volte aveva visto quella ragazza? Quanti indizi si era lasciata sfuggire? «A volte vogliono solo vedere che cosa si prova. Di solito si tratta di gesti impulsivi, compiuti senza pensare alle conseguenze. In questo caso, però» si interruppe per guardare di nuovo i tagli più profondi sulla coscia destra, «c'è un aspetto particolare. Li teneva nascosti, non voleva che si vedessero.» «E perché?» ripeté Jeffrey. «Volontà di controllo» disse Lena. Guardò il corpo della ragazza in un modo che a Sara non piacque. Quasi con rispetto. «È una psicosi grave» spiegò Sara. «Spesso è legata alla bulimia o all'anoressia. È una forma di disprezzo di sé.» Guardò Lena negli occhi. «All'origine c'è quasi sempre una causa scatenante. Molestie, o uno stupro, per esempio.» Lena resse il suo sguardo per poco più di un secondo, poi abbassò gli occhi. Sara proseguì. «Anche altri aspetti possono concorrere a determinarla. Abuso di sostanze stupefacenti, per esempio, malattie mentali, difficoltà a scuola o in famiglia.» Andò all'armadietto e prese uno speculum di plastica. Infilò un secondo paio di guanti, lacerò l'involucro e divaricò lo speculum. Il rumore fece sussultare Lena e Sara fu quasi rincuorata che riuscisse ancora a mostrare una reazione emotiva.
Sara si spostò in fondo al tavolo anatomico, divaricò le gambe alla vittima e si bloccò con gli occhi spalancati, come se non riuscisse a credere a quello che aveva visto. Lo speculum cadde sul tavolo. «Cosa c'è?» domandò Lena. Sara non rispose. Pensava che dopo quello che aveva visto quella sera nulla potesse più sconvolgerla, ma si sbagliava. «Cosa c'è?» ripeté Lena. «Non ha partorito un bambino» disse Sara. «Nessun bambino.» Jeffrey indicò lo speculum inutilizzato. «Come fai a saperlo, se non l'hai esaminata?» Sarà guardò entrambi, esitante. Alla fine disse. «Ha la vagina cucita. È cicatrizzata, da almeno sei mesi.» DOMENICA 4 Lena si passò la lingua sugli incisivi e guardò fuori dal finestrino. Non riusciva ad abituarsi alla presenza del ponte provvisorio. Fra tre settimane le avrebbero impiantato i quattro denti definitivi avvitandoli nelle gengive come piccole lampadine. Non riusciva a immaginare come si sarebbe sentita. Per ora i provvisori erano un richiamo costante a quello che le era accaduto quattro mesi prima. Cercò di non pensarci e concentrarsi sullo scenario che scorreva fuori dal finestrino. Grant era una piccola città, ma non quanto la città di Reece dove era cresciuta insieme a Sibyl, la sua gemella. Il padre poliziotto era stato ucciso in servizio nove mesi prima che loro nascessero e la madre era morta nel darle alla luce. Il compito di crescere le bambine era ricaduto sullo zio, Hank Norton, consumatore di droghe pesanti e alcolista, che aveva combattuto contro la dipendenza per tutta l'infanzia delle bambine. Un pomeriggio di sole Hank, ubriaco, aveva investito Sibyl facendo retromarcia sul vialetto di casa. Lena lo riteneva responsabile di aver reso cieca la sorella e non lo aveva mai perdonato, Hank dal canto suo si era trincerato dietro un muro di rancore. Anche adesso che Sibyl era morta e lei aveva perso la voglia di vivere, Lena continuava a considerare lo zio un male inevitabile nella sua vita. «Fa caldo fuori» borbottò Hank tamponandosi la nuca con un fazzoletto sgualcito. Sopra il ronzio del condizionatore Lena riusciva a malapena a
sentirlo. La vecchia berlina Mercedes di Hank era una specie di carro armato e all'interno tutto sembrava fuori misura. I sedili erano troppo grandi. Nello spazio per le gambe si sarebbe potuto accomodare un cavallo. I comandi sul cruscotto erano più appariscenti che funzionali. Ciò nonostante Lena trovava rassicurante stare lì dentro, dove tutto era solido e inattaccabile. Perfino sullo sterrato fuori di casa sua la macchina procedeva senza sbalzi, come se galleggiasse. «Fa davvero caldo» ribadì Hank. Invecchiando aveva preso l'abitudine di ripetere le cose, forse perché lo metteva a'disagio il fatto di non trovare qualcosa da dire. «Già» fece Lena e tornò a guardare fuori. Si sentiva addosso lo sguardo dello zio, che evidentemente aveva voglia di chiacchierare. Dopo qualche battuta senza risposta lo zio si rassegnò e in alternativa accese la radio. Lei abbandonò la testa contro il sedile e chiuse gli occhi. Una domenica, poco dopo che l'avevano dimessa dall'ospedale, aveva acconsentito ad andare in chiesa con lui e nei mesi successivi era diventata una consuetudine. Lena ci andava perché aveva paura di rimanere in casa da sola, non perché sentisse il bisogno di assoluzioni. Riteneva di non avere più nulla da farsi perdonare. Aveva abbondantemente pagato il suo debito con Dio, o con chiunque reggesse le redini del mondo, quattro mesi prima, quando era stata stuprata, drogata e imprigionata in un incubo di sofferenze e allucinazioni. Hank si intromise di nuovo: «Stai bene, piccola?». Che domanda stupida, pensò Lena. «Lee?» «Sì» rispose. La sillaba sibilò tra i denti finti. «Ha telefonato di nuovo Nan» disse lui. «Lo so.» Nan Thomas, la fidanzata di Sibyl fino al momento della sua morte, aveva chiamato spesso nell'ultimo mese. «Ha delle cose di tua sorella» spiegò Hank, anche se Lena lo sapeva già. «Voleva dartele, tutto qui.» «E perché non le dà a te?» ribatté Lena. Non le andava di vedersi con quella donna, lui lo sapeva, eppure continuava a insistere. Hank cambiò argomento. «Quella ragazza, ieri sera» cominciò. Abbassò la radio. «Tu c'eri, vero?» «Sì» rispose con lo stesso sibilo. Serrò la mascella per non mettersi a piangere. Sarebbe mai tornata a parlare come un tempo? O anche il suono della voce doveva ricordarle senza tregua quello che lui le aveva fatto?
Lo pensava sempre come lui, le riusciva impossibile usare il suo nome. Posò le mani in grembo e abbassò gli occhi sulle cicatrici simmetriche che aveva sul dorso di ciascuna. Non ci fosse stato Hank, avrebbe girato le mani per guardare anche le palme, dove i chiodi l'avevano trafitta e inchiodata al pavimento. Anche sui piedi aveva due cicatrici, a metà tra le dita e la caviglia. Due mesi di fisioterapia le avevano restituito l'uso delle mani e la capacità di camminare eretta, ma le cicatrici sarebbero rimaste per sempre. Le restavano solo brandelli di ricordi di quello che era successo al suo corpo durante il rapimento. Solo le cicatrici e la cartella clinica dell'ospedale raccontavano la storia per intero. Ricordava solamente i momenti in cui si affievoliva l'effetto delle droghe e lui veniva da lei. Le sedeva accanto sul pavimento come se stessero al campo scout a leggere la Bibbia, e le raccontava storie della sua infanzia e della sua vita, come se fossero due innamorati che volevano conoscersi meglio. Aveva ancora la mente affollata delle cose che le aveva raccontato: il primo bacio, la prima volta che aveva fatto l'amore, i sogni, le speranze, le ossessioni morbose. Le affioravano alla coscienza come ricordi del proprio passato. Anche lei gli aveva raccontato storie simili? Non riusciva a ricordarlo, ma era una cicatrice ancor più profonda di quelle visibili sul corpo. Quelle a volte le sembravano irrilevanti, rispetto alle ferite lasciate dalle conversazioni intime che aveva intrattenuto con lui. L'aveva manipolata fino a non lasciarle più alcun controllo sui suoi pensieri. Non aveva violentato solo il suo corpo, ma anche la sua mente. Ancora adesso i ricordi di lui si intrecciavano ai suoi al punto che non sapeva più a chi appartenessero davvero. E lui le aveva portato via anche Sibyl, l'unica persona che poteva aiutarla a capire, l'unica in grado di restituirle la sua vita e la sua infanzia. «Lee?» la riscosse Hank porgendole un pacchetto di gomme da masticare. Lei rispose di no con la testa e lo guardò: con una mano stringeva il volante e con l'altra cercava di prendere una gomma dal pacchetto. Le maniche arrotolate della camicia lasciavano in vista i segni sull'avambraccio bianco come la cera. Erano cicatrici sinistre, che a Lena fecero tornare in mente Jenny Weaver. La sera prima Jeffrey si era stupito che qualcuno potesse tagliuzzarsi di proposito, ma lei sapeva che il dolore poteva diventare una sorta di consolazione. Circa sei settimane dopo essere stata dimessa dall'ospedale, si era accidentalmente chiusa le dita nella portiera della macchina. Una fitta lancinante le aveva percorso il braccio e, anche se solo
per un istante, aveva goduto di quel dolore: ecco cosa significa provare di nuovo delle sensazioni. Chiuse gli occhi e intrecciò le mani in grembo. Come al solito le dita trovarono le cicatrici e percorsero i contorni prima di una e poi dell'altra. Non aveva provato dolore quando era stata trafitta. La droga le aveva regalato la sensazione di galleggiare sul mare, libera e in salvo. La sua mente aveva creato una realtà alternativa a quella imposta dallo stupratore. Quando lui la toccava, la mente le diceva che era Greg Mitchell, il suo ragazzo di un tempo, a entrare dentro di lei. Il corpo aveva risposto a Greg, non a lui. Ma le poche volte in cui Lena era riuscita a dormire abbastanza a lungo per sognare, aveva sognato che era lo stupratore a toccarla, e non Greg. C'erano le sue mani, sui suoi seni. C'era lui, dentro di lei. E al risveglio, sbalordita e spaventata, nella stanza buia e vuota, si rendeva conto che non era Greg quello che i suoi occhi e le sue mani stavano cercando. La colpì l'odore dolciastro della gomma che Hank stava masticando e strinse i pugni, sopraffatta da un conato di vomito. «Accosta» riuscì a dire coprendosi la bocca con la mano e afferrando con l'altra la maniglia della portiera. Hank sterzò bruscamente verso il margine della strada e Lena balzò fuori per vomitare. A colazione aveva bevuto solo una tazza di caffè ma vomitò anche di più. Ebbe qualche altro conato che le strizzò lo stomaco e le fece lacrimare gli occhi, il corpo era scosso dai sussulti, ma riuscì a tenersi in piedi. Dopo qualche minuto la nausea cessò. Si pulì la bocca col dorso della mano, poi Hank le diede qualche colpetto sulla spalla e le offrì il suo fazzoletto. Era caldo e puzzava di sudore, ma lo usò ugualmente. «La tua gomma» farfugliò quando risalì in macchina. Si aggrappò al cruscotto per tenersi dritta. «Non so come mai...» «Va bene» tagliò corto lui. Abbassò il finestrino, sputò la gomma e ripartì con gli occhi fissi alla strada e la mascella contratta. «Mi dispiace» disse Lena, benché neppure lei sapesse perché doveva scusarsi. Hank sembrava arrabbiato, ma lei capì che era irritato solo con se stesso perché non sapeva come aiutarla. Era una scena ricorrente che aveva luogo quasi ogni giorno da quando era uscita dall'ospedale. Lena allungò il braccio sul sedile posteriore e recuperò la borsa. Aveva le pastiglie di Pepto Bismol e Altoids che le erano d'aiuto in quelle occasioni. Odiava i giorni non lavorativi. Sul lavoro era sempre troppo occupata per concedersi il lusso di simili reazioni. Doveva stilare i rapporti ed ef-
fettuare i controlli, quando era alla centrale sapeva chi era, e girare in macchina con Brad, un incarico che all'inizio aveva accettato con riluttanza, la faceva sentire competente e protetta. Non che si buttasse nel lavoro perché fare il poliziotto era diventata la sua ragione di vita. Sapeva che la vita riservava ben altro. Faceva il poliziotto come avrebbe potuto fare la cassiera al negozio di ferramenta o la donna delle pulizie alla scuola. Il crimine e i criminali non avevano più significato che dare il resto esatto a un cliente, o togliere una macchia dal pavimento della mensa. Il lavoro era importante per il semplice fatto che le offriva una cornice di riferimento. Doveva presentarsi alle otto in punto. Doveva assolvere a certi compiti. Brad aveva bisogno di essere diretto. A mezzogiorno pranzavano, o meglio pranzava Brad, perché lei non aveva quasi mai fame. Verso le tre si fermavano a bere un caffè a Madison. Alle sei rientravano alla centrale, e allora il suo mondo andava in frantumi fino al giorno dopo, quando poteva ripresentarsi al lavoro. Le rare volte in cui Jeffrey le concedeva qualche ora di straordinario - come la sera prima - le veniva quasi da piangere per la contentezza. «Adesso va meglio?» le domandò Hank ancora irritato. «Lasciami in pace.» «Come vuoi tu.» Si era fermato dietro le macchine in coda di fronte alla chiesa e rimasero zitti in attesa di entrare nel parcheggio. Lena guardò il piccolo edificio bianco, scontenta di trovarsi lì. Non le era mai piaciuto andare in chiesa. A dodici anni era stata perfino cacciata dalla scuola domenicale per aver strappato le pagine della Bibbia. Quando Hank l'aveva rimproverata, aveva sostenuto di averlo fatto per noia, ma la verità era che già allora non sopportava le regole. Non tollerava che le dicessero cosa doveva fare. Non accettava di riconoscere l'autorità di chi non si era conquistata la sua stima. Era diventata un bravo poliziotto perché disponeva di un certo grado di autonomia sul lavoro e, quando voleva, sapeva farsi ascoltare. «Quella ragazzina» disse Hank riprendendo la conversazione, come se negli ultimi dieci minuti non fosse successo nulla. «Che tristezza, quello che ha fatto.» «Già» disse Lena con un'alzata di spalle. Non le andava di pensarci in quel momento. «Sono in tanti, a perdersi lungo la strada. E si decidono a chiedere aiuto solo quando oramai è troppo tardi.» Fece una pausa poi ripeté: «Solo quando ormai è troppo tardi».
Lena capì che la stava paragonando alla ragazza morta. Probabilmente sul retro di quelle stupide pubblicazioni dell'Anonima Alcolisti che suo zio venerava, c'erano le indicazioni per ricevere aiuto, con tanto di spazio per inserire nome e numero di telefono di un improbabile consulente. «Se avessi avuto intenzione di ammazzarmi, l'avrei fatto quando mi hanno dimessa dall'ospedale» disse. «Non stavo parlando di te» disse Hank. «Stronzate.» Aspettò un po', poi aggiunse: «Pensavo che avessi deciso di tornartene a casa». «È così, infatti.» «Ottima idea.» Lo disse quasi convinta. Hank viveva da lei dal giorno in cui era uscita dall'ospedale e Lena non ne poteva più di averlo sempre addosso. «Ho un'attività da mandare avanti» si giustificò, come se il bar malandato che possedeva alla periferia di Reese fosse l'IBM. «Devo tornare là. Posso andarmene anche stasera, se vuoi.» «Per me va bene» disse Lena, ma al pensiero di rimanere sola di notte trasalì. Non voleva Hank in casa sua, ma sapeva che senza di lui non si sarebbe sentita al sicuro. Anche durante il giorno, quando lei era al lavoro e Hank andava a dare un'occhiata al suo locale, si spaventava all'idea che potesse avere un incidente con la macchina o più semplicemente decidere di non tornare più e lasciarla sola ad affrontare la casa buia e vuota. Hank non era soltanto un ospite indesiderato, era anche il suo scudo protettivo. «Ho tante cose più importanti da fare» insistette lui. Lena non disse nulla, ma dentro di sé cominciò a ripetere il suo mantra, "Ti prego non mi lasciare, ti prego non mi lasciare". Si sentì serrare la gola dalla voglia di gridarlo. Hank schiacciò l'acceleratore e con un sobbalzo andò a infilarsi in uno spazio vicino alla cappella. Frenò e mise in folle agguantando il cambio con furia e la berlina ondeggiò avanti e indietro come una barca, Lanciò un'occhiata a Lena per farle capire che l'aveva in pugno. «Vuoi che me ne vada? Basta che me lo dici. Non sarebbe la prima volta che mi cacci via.» Lei si morse il labbro per farsi male e sentire il sapore del sangue, ma sentì muovere gli incisivi posticci e si portò la mano alla bocca, colta alla sprovvista dal ricordo. «Allora? Hai perso la parola?» Represse un singhiozzo, sopraffatta dalla commozione.
Lo zio guardò altrove per darle il tempo di riprendersi. Era capace di reggere una stanza piena di tossici che imploravano un ago nel braccio o un doppio whisky, ma di fronte alle lacrime di Lena si sentiva impotente. Quasi la odiava, quando la vedeva piangere. Quella da proteggere e di cui prendersi cura era sempre stata Sibyl. Lena era la forte, che non aveva bisogno di nessuno, e adesso il cambio di ruolo lo disorientava. «Devi deciderti a vedere un terapeuta» ringhiò, ancora stizzito. «Te l'ha detto anche il capo. È indispensabile, e tu continui a non andarci.» Con la mano ancora sulla bocca, Lena scosse la testa. «Non vai più a correre, non ti tieni in esercizio» cominciò Hank, come se fosse una prova contro di lei. «Te ne vai a letto alle nove e la mattina ti alzi sempre all'ultimo momento» continuò. «Ti trascuri.» «Non è vero che mi trascuro» borbottò lei. «Trovati un terapeuta, Lee, altrimenti io me ne vado, oggi stesso.» Le prese la mano per costringerla a girare la testa. «Dico sul serio, bambina». Lo disse con un'improvvisa tenerezza che gli fece cambiare espressione e rilassare i muscoli del viso. Le tirò indietro i capelli con la punta delle dita sfiorandole il viso con dolcezza. Voleva solo essere paterno, ma la carezza sortì l'effetto di risvegliare in Lena il ricordo di lui che l'accarezzava. La tenerezza era stata la parte peggiore: la delicatezza con cui usava la lingua e le dita per calmarla e stimolarla, la lentezza esasperante con cui la possedeva, come se stesse facendo l'amore con lei e non la stesse stuprando. Lena cominciò a tremare. Non riusciva a evitarlo. Hank ritrasse subito la mano, come se all'improvviso si fosse accorto di toccare una cosa morta. Lei scostò la testa di scatto e picchiò la tempia contro il finestrino. «Non ti azzardare a rifarlo» lo minacciò, ma la voce era piena di paura. «Non mi devi toccare. Non mi devi toccare a quel modo. Hai capito?» disse quasi senza fiato, con la bile che le occludeva la gola. «Lo so» disse Hank accostando di nuovo la mano, ma senza toccarla. «Lo so. Ti chiedo scusa.» Lena afferrò la maniglia della portiera con la mano che tremava ancora. Scese dalla macchina e respirò a pieni polmoni. Si sentì avvolgere dalla calura e serrò gli occhi per scacciare quell'impressione di galleggiare sul mare, che la assaliva quando la droga la inondava di caldo. Udì alle sue spalle una voce familiare, piena di cordialità. «Come va, Hank?» Era Dave Fine, il pastore della chiesa. «Buongiorno» rispose Hank, con un tono gentile che non usava mai con
Lena. Un tono che lei gli aveva sentito usare solo con Sibyl. Per lei c'erano state solo parole dure e rimproveri. Lena si sforzò di controllare il respiro prima di voltarsi. Provò a sorridere, ma sentì gli angoli della bocca tendersi in qualcosa di molto simile a una smorfia di dolore. «Buongiorno detective» disse Dave Fine. Il tono compassionevole da predicatore la ferì più delle parole brusche che Hank aveva usato in macchina. Negli ultimi quattro mesi Hank aveva fatto di tutto per avvicinarla a Dave Fine, nella speranza che lei si convincesse a parlargli. Il pastore Fine era anche psicologo, o almeno così diceva, e riceveva i pazienti di sera. Lena non avrebbe parlato con quell'uomo nemmeno del tempo, figuriamoci di quello che aveva dovuto subire. Non che lo disprezzasse, ma un pastore era l'ultima persona che avrebbe scelto per confidarsi. Sembrava che Hank non si rendesse conto di quello che aveva passato in quella stanza buia. Si limitò a un saluto laconico e si allontanò stringendo al petto la borsa come una vecchietta alla fiera di beneficenza. Sentì alla spalle Hank che si scusava per lei e arrossì di vergogna. Il povero Fine non aveva fatto nulla di male - era perfino abbastanza simpatico - ma non avrebbe saputo cosa dirgli per farsi capire. Affrettò il passo con gli occhi fissi davanti a sé, e si diresse alla chiesa. Il gruppetto di persone di fronte all'entrata si fece da parte per lasciarla passare. Lei si costrinse ad andare avanti con calma, passo dopo passo, anche se avrebbe voluto precipitarsi dentro. Mentre saliva i gradini tutti finsero di essere distratti da qualcos'altro, a parte Brad Stephens che le sorrise come un cucciolo. Matt Hogan, che sul lavoro faceva coppia con Frank Wallace da quando Lena era stata assegnata alla pattuglia, cominciò ad accendersi una sigaretta con grande concentrazione, come se avesse in mano un ordigno esplosivo. Lei tenne il mento alzato e lo sguardo puntato lontano in modo che nessuno potesse rivolgerle la parola, ma sapeva che avrebbero cominciato a fare commenti non appena si fosse allontanata. La presenza di tanta gente era la cosa che la infastidiva di più ogni volta che veniva in chiesa. Tutta la città sapeva cosa le era successo. Tutti sapevano che era stata rapita e violentata. Si erano letti i particolari della vicenda sul giornale. Avevano seguito il ricovero in ospedale e il ritorno a casa come seguivano le puntate delle soap opera e le partite di football. Quando andava al supermercato c'era sempre qualcuno che le guardava le
mani in cerca delle cicatrici. Se si trovava in un locale affollato, era oggetto di occhiate di compatimento. Come se gli altri potessero capire cosa aveva passato. Come se sapessero cosa significa sentirsi forte e invincibile un giorno, e del tutto impotente il giorno dopo. E quello dopo ancora. La porta della chiesa era stata chiusa per non lasciare entrare il caldo. Lena allungò la mano sulla maniglia nel momento in cui la stava afferrando un diacono e le due mani si sfiorarono. Lei ritrasse la sua come se avesse toccato il fuoco e aspettò a occhi bassi che l'altro aprisse. Entrò e tenne lo sguardo fisso alla passatoia rossa, alle modanature bianche che bordavano la base dei banchi allineati nella navata, in modo che nessuno cercasse di parlarle. Era una chiesa semplice per lo standard battista, e piccola per le dimensioni della città. La maggior parte dei vecchi residenti frequentava la vecchia chiesa battista di Stokes Street e ad essa devolveva le sue decime. Questa aveva una trentina d'anni e nel seminterrato si tenevano incontri per single, neo divorziati e genitori soli. Lì non si venerava un Dio vendicativo. I sermoni parlavano di perdono, d'amore, di carità e di pace. Il pastore Fine non rimproverava mai i fedeli per i loro peccati, né li spaventava col fuoco dell'inferno. Quello era un luogo di gioia, o così almeno spiegava il bollettino della chiesa. Lena non era affatto stupita che Hank avesse scelto proprio quella chiesa. Frequentava le sedute dell'Anonima Alcolisti che si tenevano nel seminterrato, accanto al gruppo d'ascolto per i genitori di adolescenti. Scelse un banco delle prime file, sapeva che Hank voleva stare vicino al pastore per ricevere la sua dose domenicale di perdono. Di fronte a lei sedeva la moglie di Fine con i due figli, ma per fortuna non si voltarono a salutarla. Accavallò le gambe e si lisciò i pantaloni fino a che non si accorse che la signora all'altra estremità del banco le stava guardando le mani. Si mise a braccia conserte e guardò l'altare. Il pulpito era sistemato al centro di un semicerchio di sedie foderate in velluto. Dietro c'era la pedana del coro con l'organo di lato. Le canne salivano contro la parete formando una sorta di gabbia toracica in verticale, ai lati del fonte battesimale. Più dietro ancora, in posizione dominante, c'era Gesù con le braccia aperte e i piedi accavallati l'uno sull'altro. Quando Hank venne a sedersi accanto a lei, Lena evitò il suo sguardo. Guardò l'orologio. Erano le nove e mezza, la funzione stava per cominciare. Sarebbe durata un'ora, poi c'era la mezz'ora di scuola domenicale. Entro le undici sarebbero usciti per andare alla caffetteria dove Hank avrebbe
pranzato e lei indugiato su una tazza di caffè. A mezzogiorno sarebbero rientrati a casa. Lena avrebbe pulito la casa e lavorato a un paio di rapporti. All'una e mezza doveva trovarsi alla centrale per discutere il caso Jenny Weaver. La riunione sarebbe durata tre ore circa, se aveva fortuna. Poi le rimaneva il tempo di ripassare da casa e prepararsi per la cena comunitaria della domenica e il servizio serale. Dopo di che l'aspettava una specie di concerto corale che sarebbe durato fino alle nove e mezza. E una volta a casa sarebbe già stata l'ora di andare a letto. Espirò lentamente e pensò con sollievo che almeno per quel giorno aveva tante cose da fare con cui tenersi occupata. «Sta per cominciare» bisbigliò Hank. Prese dal banco il libro degli inni e l'organo scandì le prime note. Lui sfogliò in fretta il libro e aggiunse: «Il pastore Fine dice che ti aspetta domani, dopo il lavoro». Lena finse di non averlo sentito, ma prese mentalmente nota dell'appuntamento. Era pur sempre qualcosa da fare. E se accettava di vedere il pastore, poteva trattenere Hank in città ancora per un po'. «Lee?» la sollecitò Hank, ma come il coro cominciò a cantare l'inno rinunciò a pretendere una risposta. Lena si alzò in piedi con gli altri e sentì vibrare nell'orecchio la voce baritonale di Hank che cantava: «Vicino a te, Signore». Lei non mosse neppure le labbra. Passò la lingua sugli incisivi guardando il dito di Hank che rincorreva le parole sulla pagina. Tornò a guardare la croce. Provò una leggerezza, una strana sensazione di pace mentre fissava il crocefisso e benché non volesse ammetterlo, trovò conforto in quel simbolo così familiare. 5 Sara tenne in seconda la sua BMW Z3 verde scuro per tutto il tratto attraverso il centro di Heartsdale. La macchina era stata una spesa impulsiva, ammesso che possa definirsi impulsiva una spesa di oltre trentamila dollari. Aveva deciso di regalarsela subito dopo il divorzio, un momento in cui sentiva il bisogno di un lusso superfluo e un po' vistoso, e da questo punto di vista la Z3 era quello che ci voleva. Ovviamente, come se l'era portata a casa dalla concessionaria di Macon si era resa conto che non poteva essere una macchina a farla sentire meglio. Semmai aveva contribuito a farla sentire megalomane e stupida, specialmente dopo i commenti della sua famiglia. Ormai la usava da due anni, ma le capitava ancora di provare una
punta di imbarazzo quando se la vedeva davanti sul vialetto di casa. Billy, uno dei suoi due levrieri, era accoccolato sul sedile del passeggero, con la testa incassata tra le spalle perché il tettuccio della piccola auto sportiva era troppo basso per lui. Di tanto in tanto si leccava le labbra, ma stava praticamente immobile, con gli occhi socchiusi e le orecchie abbassate per difendersi dall'aria fredda della ventola. Le guance un po' ritratte davano l'impressione che sorridesse, soddisfatto del suo giro in macchina. Sara lo sbirciava con la coda dell'occhio, quasi invidiosa che per lui la vita fosse tanto semplice. La strada principale era pressoché deserta, dato che i negozi erano chiusi. La domenica, a parte il ferramenta e l'emporio, chiudevano tutti a mezzogiorno. Sara era nata lì, in fondo alla strada del Grant Medical Center, che allora era l'unico ospedale della regione. Conosceva ogni angolo di quella via come fossero le pagine del suo libro preferito. Svoltò prima dei cancelli del college e raggiunse il parcheggio di fronte al centro pediatrico. Nonostante l'aria condizionata al massimo, quando fu il momento di scendere aveva le cosce appiccicate al sedile di pelle. Si era preparata alla vampata di aria calda che l'avrebbe accolta fuori, ma l'impatto fu ugualmente violento. Perfino Billy tergiversò prima di decidersi a saltare giù. Si guardò attorno, forse pentito di essere venuto con Sara invece di rimanere nella casa fresca insieme a Bob. Sara si asciugò la fronte col dorso della mano. Aveva addosso un paio di jeans tagliati sopra il ginocchio, una canottiera e una vecchia camicia di Jeffrey che teneva aperta, ma niente serviva ad alleviare il caldo e l'umidità. La pioggia, quando si degnava di arrivare, era inutile quanto gettare acqua sul petrolio in fiamme. C'erano giorni in cui si faticava a ricordare che cos'era il fresco. «Andiamo» disse al cane tirandolo per il guinzaglio. Come sempre, Billy la ignorò. Lei gli levò il guinzaglio e il cane trotterellò verso il retro dell'edificio mostrandole il posteriore ossuto. Sulle cosce erano ancora evidenti le cicatrici lasciate dai troppi colpi presi al cinodromo, quando alla partenza scattava la barra che lo lanciava sulla pista. Ogni volta che le notava Sara si sentiva stringere il cuore. Billy fece i suoi bisogni con calma, sollevando pigramente la zampa contro l'albero più vicino. Il terreno alberato sul retro era proprietà del college. Era attraversato da sentieri che gli studenti usavano per fare jogging quando il caldo non era così opprimente da mozzare il fiato. Quella mattina il notiziario locale invitava i cittadini a non uscire di casa a meno
che non fosse strettamente necessario. Sara tirò fuori il portachiavi e trovò la chiave che apriva l'entrata secondaria. Bastarono i pochi secondi che impiegò per far scattare la serratura a inondarle il collo e la schiena di sudore. Si ricordò di Billy e mentre lui si rotolava beato sull'erba gli riempì d'acqua una ciotola con la manichetta per annaffiare il prato. All'interno il caldo era quasi altrettanto soffocante, grazie al dottor Barney, ottimo pediatra ma pessimo progettista, che aveva scelto un vetrocemento termoassorbente per la realizzazione della facciata esposta a sud. Non osò immaginare la temperatura nella sala d'attesa. Sul retro praticamente si bolliva e lei aveva la bocca così secca che non riuscì a fischiare. Tenne la porta aperta sperando che Billy si decidesse a entrare. Dopo aver prosciugato la ciotola si decise, imboccò il corridoio, si fermò a metà, si guardò attorno e si lasciò cadere sul pavimento con un guaito. A vederlo così pigro nessuno avrebbe creduto che aveva corso per anni sul circuito di Ebro. Sara si chinò ad accarezzarlo, gli levò il guinzaglio e andò nel suo ufficio. La pianta del centro pediatrico era simile a quella di tanti altri. Un lungo corridoio a L che dava accesso a tre ambulatori su entrambi i lati del braccio più lungo e ad altri due su quello più corto, uno dei quali utilizzato come magazzino. Al centro del corridoio c'era la postazione delle infermiere, che era il punto nevralgico. Lì erano sistemati il computer con tutti i dati dei pazienti e una fila di scaffalature metalliche con le cartelle cliniche ancora in uso. Dietro la sala d'attesa c'era un altro archivio con le cartelle degli ex pazienti, risalenti fino al 1969. Un giorno o l'altro andavano eliminate, ma Sara non trovava mai il tempo di farlo e non se la sentiva di affidare al personale un lavoro, solo perché a lei non andava di farlo. Le sue scarpe da ginnastica squittirono sulle piastrelle immacolate. Non accese le luci, conosceva il percorso a menadito, ma non era l'unica ragione per cui decise di lasciarle spente. Dato il compito che l'aspettava, l'idea del bagliore intermittente dei tubi al neon che si rianimavano le sembrava sinistra. Quando raggiunse la porta del suo ufficio di fronte alla postazione delle infermiere si era già levata la camicia e se l'era legata attorno alla vita. Non aveva reggiseno, ma non prevedeva di incontrare qualcuno. Le pareti dell'ufficio erano tappezzate di fotografie dei suoi pazienti. Tutto era cominciato la volta che una madre le aveva regalato un'istantanea del suo bambino. Sara l'aveva appesa, e il giorno dopo ne era arrivata u-
n'altra, che lei aveva sistemato accanto alla prima. Da allora erano passati dodici anni e le fotografie stavano invadendo l'atrio e parte del bagno. Sara se li ricordava tutti quei bambini, col naso colante o l'otite, depressi dai fallimenti scolastici o con problemi in famiglia. La foto di Brad Stephens era nel bagno, accanto alla doccia. La foto di Jimmy Powell, un bambino a cui qualche mese prima era stata diagnosticata una leucemia, era stata trasferita vicino al telefono perché Sara voleva ricordarlo ogni giorno. Adesso era ricoverato in ospedale, ma lei sapeva che di lì a poco lo avrebbe perduto per sempre. La fotografia di Jenny Weaver non era sulla parete. Sua madre non ne aveva mai portata una. Rimaneva solamente la cartella clinica per ricostruire il suo rapporto con Sara. Il cassetto dello schedario cigolò quando Sara lo aprì con uno strattone. Il mobile di metallo resisteva a qualsiasi lubrificante, era vecchio e poco pratico, proprio come il dottor Barney. «Merda» esclamò, quando il mobile si inclinò in avanti trascinato dal cassetto strapieno e lei dovette trattenerlo con la mano libera per evitare che si ribaltasse. Fece scorrere il dito sulle schede e trovò quella intestata a Jenny Weaver. Richiuse il cassetto con un colpo deciso che riportò in posizione anche il mobile. Il tonfo risuonò nel silenzio e fu quasi tentata di riaprirlo, tanto per sentire un po' di rumore. Accese la lampada sulla scrivania e sedette sulla sedia di vinile che si appiccicò prontamente alle cosce sudate. Forse avrebbe fatto meglio a portarsi a casa la cartella. Se non altro sarebbe stata più comoda, ma non era la comodità che desiderava. Stare seduta in una stanza soffocante su una sedia appiccicosa non era una grande penitenza, se serviva a scoprire quello che le era sfuggito negli ultimi tre anni. Gli occhiali con la montatura metallica erano nel taschino della camicia ed ebbe un attimo di panico al pensiero di averli rotti sedendosi. Erano un po' incurvati, ma intatti; li inforcò, trasse un bel respiro e aprì la cartella. Jenny Weaver era venuta per la prima volta alla clinica tre anni prima. All'età di dieci anni il peso era nella norma rispetto all'altezza. Il primo disturbo accusato era stato un brutto mal di gola per il quale erano stati prescritti degli antibiotici. Sulla cartella era riportata un'annotazione successiva, che Sara riuscì a malapena a decifrare benché la scrittura fosse la sua, da cui dedusse che una settimana dopo aveva contattato la madre per telefono per sapere se Jenny reagiva al trattamento. La risposta era stata posi-
tiva. Dopo un anno circa, Jenny aveva cominciato a ingrassare. Purtroppo si trattava di un fenomeno abbastanza diffuso, specialmente tra le ragazzine come Jenny, che aveva avuto la prima mestruazione poco dopo l'undicesimo compleanno. Conducevano una vita troppo sedentaria e ingurgitavano troppe merendine. Gli ormoni presenti nella carne e nei latticini facevano il resto. Sara aveva letto delle pubblicazioni che puntavano l'attenzione su casi sempre più diffusi di bambine che entravano nella pubertà all'età di otto anni. Continuò a leggere la cartella. Non molto tempo dopo l'inizio dell'ingrassamento era sta diagnosticata un'infezione alle vie urinarie. Tre mesi dopo ancora, la bambina si era presentata con una micosi. A quello che dicevano le annotazioni di Sara, non c'era nulla che potesse indurre a sospettare qualcosa. Ora, col senno di poi, si poteva supporre che le infezioni segnalassero l'inizio di un processo. Passò alla pagina successiva, controllando le date. Un anno dopo Jenny era tornata con un'altra infezione alle vie urinarie. Un anno era un lungo intervallo, Sara prese un foglio e riportò tutte le date, anche le successive, relative a due episodi di mal di gola. Forse i genitori di Jenny si alternavano nella cura della bambina. Bisognava verificare se quelle date coincidevano con periodi di soggiorno a casa del padre. Posò la penna e cercò di ricordare cosa sapeva del padre di Jenny Weaver. Di solito erano le madri ad accompagnare i figli alla clinica e probabilmente non lo aveva mai incontrato. Alcune donne, in particolare quelle reduci da un divorzio recente, si lasciavano spesso andare a confidenze sul marito come se i figli non fossero presenti. Quando succedeva, Sara interrompeva il discorso sul nascere, ma alcune insistevano e rivelavano particolari della vita coniugale che un bambino non dovrebbe mai conoscere. Dottie Weaver non era una di queste. Parlava, a volte si dilungava su questo e quello, ma non aveva mai screditato il marito anche se, dati i ritardi nei versamenti dei contributi assicurativi, si poteva supporre che avesse problemi economici. Sollevò gli occhiali e si stropicciò gli occhi. Lanciò un'occhiata all'orologio sulla parete. Alle undici aveva il pranzo domenicale a casa dei genitori e all'una e mezza doveva incontrarsi con Jeffrey alla centrale. Scrollò il capo per non pensare a lui. Un lieve mal di testa sopra la nuca le rendeva difficile la concentrazione. Si levò gli occhiali e li pulì nella camicia, come se potesse servire a vedere meglio le cose.
«C'è nessuno?» chiamò spalancando la porta di casa dei genitori. Provò quasi piacere per la pelle d'oca che l'aria dei condizionatori le provocò sulle braccia. «Sono qui» rispose sua madre dalla cucina. Sara abbandonò la cartella accanto alla porta, sfilò le scarpe con un calcio e andò in fondo al corridoio. Billy trotterellò di fronte a lei e si voltò a guardarla con gli occhi fissi, come se volesse chiederle perché mai erano stati tutto quel tempo dentro il centro pediatrico soffocante invece di venire subito lì. Per sottolineare la sua contrarietà si accasciò sul fianco a metà corridoio costringendo Sara a scavalcarlo. Quando arrivò in cucina, Cathy era di fronte al fornello a friggere il pollo. Aveva ancora addosso l'abito della domenica ma si era levata scarpe e calze. Legato attorno alla vita aveva un grembiule bianco con la scritta NON MOLESTATE IL CUOCO. «Ciao, mamma» disse Sara dandole un bacio sulla guancia. Sara era la più alta della famiglia, avrebbe potuto posare il mento sulla testa della madre senza stirare il collo. Tessa aveva ereditato da Cathy la corporatura minuta e i capelli biondi, Sara lo spirito pragmatico. Cathy le lanciò un'occhiata di disapprovazione. «Dove hai lasciato il reggiseno?» Lei arrossì e sciolse subito la camicia che teneva legata sui fianchi per infilarla sopra la canottiera. «Sono passata al centro e non ho voluto accendere i condizionatori per così poco tempo.» «Fa troppo caldo per friggere» si lamentò la madre, «ma tuo padre voleva il pollo.» A Sara non sfuggì la morale sulla necessità di sacrificarsi per la famiglia, ma non accusò il colpo. «Potevi dirgli di comperarne uno già cotto». «Lui non mangia quelle schifezzze» tagliò corto la madre. Sara si limitò a sospirare come aveva fatto Billy, si abbottonò la camicia e guardò sua madre con un sorriso artefatto. «Così va meglio?» Cathy annuì, prese un tovagliolino di carta e si asciugò la fronte. «Non è ancora mezzogiorno e fuori ci sono più di trenta gradi.» «Lo so» disse Sara. Si sistemò sullo sgabello infilando un piede sotto la coscia e rimase a guardare la madre che si affaccendava per la cucina, contenta di ritrovare un'atmosfera di normalità. Cathy indossava un vestito di lino a righini verdi. I capelli biondi, con qualche sottile striatura di grigio, erano raccolti dietro la nuca in un nodo morbido, molto simile a quello che
si era fatto Sara. Cathy si soffiò il naso nel tovagliolino e lo buttò nella pattumiera. «Raccontami di ieri sera» disse ritornando al fornello. Sara alzò le spalle. «Jeffrey non aveva scelta.» «Su questo non avevo dubbi. Volevo solo sapere come va.» Sara soppesò la domanda. Non molto bene, pensò. Cathy intuì che qualcosa non andava. Fece scivolare un altro pezzo di pollo impanato nell'olio bollente e si voltò a guardare la figlia. «Ti ho chiamata ieri sera, volevo sapere come stavi.» Sara la fissò per non tradire l'imbarazzo. «Ero da Jeffrey» disse. «Io l'avevo immaginato, ma tuo padre è passato in macchina di fronte a casa sua per controllare.» «Cosa?» domandò sorpresa. «E perché?» «Pensavamo che saresti venuta qui. Quando abbiamo visto che non eri a casa abbiamo pensato di dare un'occhiata da lui.» Sara incrociò le braccia sul petto. «Non vi sembra di essere un po' troppo invadenti?» «Se è per questo, è molto più invadente nascere» ribatté la madre puntandola con la forchetta. «La prossima volta telefona.» Dopo quasi quarant'anni, Cathy riusciva ancora a farla sentire una bambina. Guardò fuori dalla finestra, come se fosse stata sorpresa a fare qualcosa che non doveva. «Sara?» «Sì, mamma» borbottò sottovoce. «Sono preoccupata per te.» «Lo so, mamma.» «Va tutto bene?» Lei arrossì di nuovo, ma per un'altra ragione. «Dov'è Tessa?» «Non è ancora scesa.» Tessa viveva sopra il garage dei genitori. La casa di Sara era a meno di un miglio di distanza, ma tanto bastava a darle un'impressione di indipendenza. A Tessa evidentemente non dispiaceva stare così vicina ai genitori. Lavorava nella ditta di istallazioni idrauliche di Eddie, il padre, e trovava comodo scendere solo una rampa di scale e trovarsi sul lavoro ogni mattina. Inoltre Tessa era in un certo senso ancora un'adolescente. Non le passava neanche per la testa l'idea di avere una casa tutta per sé. Forse non l'avrebbe mai avuta. Cathy girò il pollo, batté un paio di volte la forchetta sul bordo della padella, la posò sul bancone e si voltò a guardare la figlia in-
crociando le braccia. «Che ti succede?» «Niente. Voglio dire, a parte ieri sera, con quella ragazzina. E la neonata. Immagino che avrai saputo anche della neonata.» «Davanti alla chiesa non si parlava d'altro.» «Insomma...» Alzò le spalle. «È stata dura.» «Non riesco a capire perché continui a fare quel lavoro, bambina mia.» «Certe volte neppure io.» Cathy rimase ferma ad aspettare il resto. «Quindi?» la incalzò. Lei si strofinò la nuca. «Da Jeffrey...» cominciò. «Non ha funzionato.» «Non ha funzionato?» «Voglio dire, non come...» Agitò le mani per incoraggiare la madre a concludere la frase. «Oh» disse alla fine Cathy. «Fisicamente?» Sara arrossì di nuovo. «Be', non mi sembra che ci sia da sorprendersi, ti pare? Dopo quello che era successo.» «È stato così...» Cercò la parola giusta. «Così... sbrigativo. Cioè, io ho provato a...» Evitò di entrare nei dettagli. «È la prima volta che succede?» Sara alzò le spalle. Era la prima volta che succedeva con lei, ma chi poteva dire come si comportava con le sue conquiste? «La cosa brutta è stato quando...» cominciò, ma si trattenne. «Da quando lo conosco non l'avevo mai visto così. Era furioso. A un certo punto ho pensato che si mettesse a fracassare qualcosa.» «Mi ricordo di una volta con tuo padre, non era riuscito a...» «Mamma» la interruppe Sara. Era già abbastanza difficile parlare con lei di certe cose e non era il caso di tirare in ballo anche Eddie. Per non parlare del fatto che Jeffrey l'avrebbe ammazzata, se avesse saputo che andava in giro a raccontare delle sue prestazioni tutt'altro che pirotecniche. Per lui la prestanza sessuale era importante quanto la fama di bravo poliziotto. «Sei stata tu a cominciare» la rimbeccò Cathy tornando a occuparsi del pollo. Strappò dal rotolo un pezzo di carta e lo dispose sul piatto per metterci i pezzi già fritti. «Hai ragione» ammise Sara. «Che cosa dovrei fare?» «Fai quello che vuole lui» disse Cathy. «Oppure non fare niente di niente.» Infilzò un altro pezzo di pollo. «Sei sicura che ti interessi ancora, a questo punto?» «Che intendi dire?»
«Intendo dire: vuoi stare con lui o no? Forse è proprio questo il punto. Da quando hai divorziato non fai che girare attorno a questa storia con Jeffrey.» Batté la forchetta sulla padella. «Come direbbe tuo padre, o ti decidi a farla, o lasci libero il bagno.» La porta d'entrata si aprì e si richiuse con un colpo, e subito dopo si udì il tonfo ripetuto delle scarpe che Tessa si era sfilata scalciando. «Mamma?» chiamò Tessa. «In cucina» rispose Cathy. Lanciò un'occhiata pungente a Sara. «Hai capito cosa ti ho detto?» «Sì, mamma.» Si udì Tessa percorrere a passi pesanti il corridoio e borbottare «Stupido cane» quando si scontrò con Billy. Poi spalancò la porta della cucina ed entrò con un'aria indispettita. Aveva addosso una vecchia vestaglia rosa sopra una maglietta verde e un paio di boxer. Era pallida, con la faccia segnata. «Cosa è successo?» domandò Cathy. Lei si limitò a scuotere la testa. Andò al frigorifero, spalancò lo sportello del freezer e disse: «Ho solo bisogno di un caffè». Cathy ignorò la richiesta e la baciò sulla fronte per sentire se aveva la febbre. «Sei calda.» «Lo credo bene, ci sono quasi quaranta gradi là fuori» si lamentò appiccicandosi al freezer. «Ovvio che sono calda.» Agitò la vestaglia per farsi aria. «Gesù, voglio andare a vivere in un posto dove esistono le stagioni. Giuro che ci vado. Non mi importa se parlano in modo assurdo e se non sanno cucinare. Ci deve pur essere un'alternativa.» «Stai davvero tanto male?» domandò Sara posandole una mano sulla fronte. Sapeva bene che la mano valeva quanto il bacio di Cathy per misurare la febbre, ma Tessa era la sua sorellina e voleva mostrarsi premurosa. Tessa si scostò. «Mi devono venire le mestruazioni, scotto, e ho bisogno di un po' di cioccolato.» Alzò il mento: «Lo vedi?» domandò indicando un grosso foruncolo. «Come si fa a non vederlo?» disse Cathy chiudendo lo sportello del freezer. Sara rise e Tessa la pizzicò sul braccio. «Vedrai che papà gli troverà un bel nome» la canzonò Sara dandole una pacca sulla spalla. Quando le figlie erano adolescenti, Eddie si divertiva a tormentarle per i brufoli. Una volta, di fronte a un amico, aveva detto: «Ti presento Sara, la mia figlia maggiore, e il fedele Bobo, il suo nuovo forun-
colo». Tessa stava per ribattere quando suonò il telefono. Rispose al primo squillo. Dopo due secondi bofonchiò un'imprecazione e gridò: «Ho risposto io, papà». Evidentemente Eddie aveva preso la linea al piano di sopra. Sara sorrise. Una scena così avrebbe potuto succedere in qualsiasi domenica degli ultimi vent'anni. Mancava solo papà che entrava e faceva una battuta sulle sue tre belle ragazze che spettegolavano in cucina a piedi scalzi. Tessa disse: «Un momento» e coprì il ricevitore con la mano. Si voltò verso Sara: «Ci sei?». «Chi è?» «E chi può essere, secondo te?» Non aspettò la risposta e disse al telefono: «È qui, Jeffrey, te la passo». 6 Ben Walker, capo della polizia prima di Jeffrey, aveva il suo ufficio di fronte alla sala riunioni in fondo al corridoio. Ogni giorno Ben andava a sistemarsi dietro la grande scrivania che occupava quasi tutta la stanza e costringeva chiunque volesse parlargli a sedersi dall'altra parte del mobile mastodontico, con le ginocchia intrappolate sotto il ripiano e la schiena contro la parete. Ogni mattina gli uomini della squadra - allora era composta esclusivamente da uomini - venivano convocati per ricevere le istruzioni della giornata, poi il capo chiudeva la porta e nessuno lo rivedeva più fino alla fine della giornata, quando montava in macchina per andare a cena alla tavola calda due isolati più giù. La prima cosa che fece Jeffrey quando prese il comando della centrale fu quella di eliminare la scrivania di Ben. Per far uscire il mostro di quercia dalla porta dovettero smontarlo pezzo per pezzo. Jeffrey trasformò il vecchio ufficio di Ben in magazzino e ne organizzò uno più piccolo per sé, di fronte alla stanza della squadra. In un fine settimana abbastanza tranquillo fece inserire nella parete una finestra per poter vedere i suoi ragazzi e, cosa più importante, per farsi vedere da loro. C'era una veneziana sulla finestra, ma succedeva di rado che venisse abbassata. Anche la porta era quasi sempre aperta. Jeffrey fissava la stanza vuota della squadra domandandosi come i suoi agenti avessero preso la morte di Jenny Weaver. Era oppresso dal senso di
colpa per quello che aveva fatto, anche se continuava a dirsi che non aveva avuto scelta. Ogni volta che ci pensava aveva la sensazione di non riuscire a respirare, come se ai polmoni non arrivasse abbastanza aria. Gli affiorava alla mente sempre la stessa domanda: Aveva fatto la cosa giusta? Jenny avrebbe davvero ucciso a sangue freddo quel ragazzo? Sara sosteneva di esserne convinta. La sera prima gli aveva detto che se lui non avesse fermato la ragazza si sarebbero ritrovati con due adolescenti morti invece di uno. Ma aveva detto anche un sacco di altre cose, tutt'altro che lusinghiere. Unì le mani di fronte al viso e appoggiò il mento sui pollici continuando a pensare a Sara. A volte era troppo analitica. La cosa più sexy che aveva era la bocca. Peccato che non capisse quando doveva tenerla chiusa oppure usarla per qualcosa che Jeffrey avrebbe trovato più incoraggiante di un bel discorso. «Capo?» Frank Wallace stava bussando sulla porta aperta. «Entra» disse Jeffrey. «Fa un caldo terribile» disse Frank, forse per giustificare l'assenza della cravatta. Indossava un completo scuro, reso lucido dall'uso. Il primo bottone della camicia era slacciato e lasciava intravedere una canottiera ingiallita. Come sempre, Frank puzzava di nicotina. Probabilmente era uscito a fumare per dare un po' di tempo al capo prima della riunione. Per Jeffrey era incomprensibile che, con quel caldo, si potesse provare piacere a tenere in mano una cosa che brucia. Frank avrebbe potuto prendere il posto di Ben, se lo avesse voluto, ma il vecchio poliziotto non era uno sciocco. Lavorava nella contea di Grant dal giorno in cui era entrato nella polizia e aveva assistito alle trasformazioni della città. Una volta aveva detto a Jeffrey che per fare il capo della polizia bisognava essere giovani, ma era chiaro che intendeva dire matti. Anche Jeffrey, dopo un anno di incarico, era arrivato alla conclusione che nessuno sano di mente poteva trovare invidiabile quella vita, ma ormai era troppo tardi. Aveva già incontrato Sara. «Weekend pieno» disse Frank mostrandogli l'elenco delle chiamate. Era più lungo del solito. «Già» fece Jeffrey. Indicò la sedia per farlo accomodare. «Un presunto scasso alla lavanderia. Te ne ha parlato Maria? Poi due o tre casi di guida in stato di ubriachezza e i soliti casini al college, risse e uso di sostanze illecite. Poi liti familiari, alcune violente, ma nessuno ha sporto denuncia.» Jeffrey ascoltava distrattamente. L'elenco di Frank era lungo e scorag-
giante. Se a Grant erano successe tutte quelle cose, chissà nei centri più grandi. Di solito era tutto più tranquillo. Naturalmente il caldo contribuiva a far esplodere la violenza, i poliziotti lo sapevano. «Questo è quanto» concluse Frank richiudendo il fascicolo. «Bene» rispose Jeffrey. Lo prese, lo posò, lo tamburellò con le dita, poi senza entusiasmo spinse avanti il fascicolo su Jenny Weaver e lo abbandonò al centro della scrivania. Era più ingombrante di un elefante bianco. Frank lo osservò con lo stesso scetticismo che avrebbe riservato alla relazione di un astrologo. Alla fine si decise, lo prese in mano e cominciò a leggere. Con gli anni di servizio che aveva alle spalle era convinto di avere già visto tutto, ma quando si trovò sotto gli occhi le fotografie scattate da Sara reagì con una smorfia di sgomento. «Madre di Dio» bofonchiò cercando la tasca della giacca. Tirò fuori le sigarette quasi avesse scordato dove si trovava, e le rimise subito via. Chiuse il fascicolo senza finire di leggerlo. Jeffrey disse: «Non è lei che ha partorito la bambina». «Ho visto.» Si raschiò la gola e accavallò le gambe con impaccio. Aveva cinquantotto anni e un'anzianità di servizio che poteva assicurargli una pensione più che dignitosa. Non si capiva perché continuasse a lavorare. Di fronte a un caso come quello, probabilmente se lo stava domandando anche lui. «Buon Dio del cielo. Che roba è?» domandò. «Mutilazione dei genitali femminili» spiegò Jeffrey. «Una cosa che si pratica in certi paesi dell'Africa.» Alzò la mano per frenare la domanda di Frank. «So cosa stai pensando. Loro sono battisti del sud, che c'entra l'Africa?» «Come gli è venuto in mente, allora?» «È quello che dobbiamo scoprire.» Frank scosse la testa come se volesse far uscire dalla mente quell'immagine. Jeffrey disse: «Fra poco arriverà la dottoressa Linton per la riunione» e si sentì stupido per averla chiamata col titolo professionale. Frank andava sempre a giocare a poker a casa Linton. Aveva visto crescere Sara. «Viene anche la ragazza?» domandò alludendo a Lena. «Certo» rispose Jeffrey guardandolo negli occhi. Frank aggrottò la fronte perché fosse chiaro che non approvava. Per quanto avesse tanti difetti - era sessista, probabilmente razzista, sicuramente tradizionalista - Frank provava un sincero affetto per Lena, forse
perché aveva una figlia più o meno della sua età. Eppure non aveva fatto che protestare dal momento in cui il capo lo aveva messo a lavorare in coppia con lei. Tutte le settimane chiedeva di essere assegnato ad altri compiti e tutte le settimane Jeffrey gli diceva che doveva abituarsi. L'amministrazione cittadina aveva puntato su Jeffrey, un forestiero, proprio per far uscire le sue forze dell'ordine dall'età della pietra. Lui aveva assunto Lena ancora fresca di accademia e aveva subito deciso di farla diventare la prima donna detective della contea. Adesso non sapeva più come comportarsi con lei. In via provvisoria, in attesa che le sue mani guarissero completamente, l'aveva messa di pattuglia con Brad Stephens, ma sperava di riassegnarla presto al suo ruolo. Già da un mese il medico aveva dato il nulla osta a rimetterla in servizio effettivo, ma lei non aveva chiesto di ritornare ad essere detective. Quanto a Frank, non riusciva neppure a guardarla negli occhi quando lo salutava. Continuava a sostenere che il corpo di polizia non era fatto per le donne e considerava l'aggressione che Lena aveva subito una conferma della sua tesi. Ovviamente Jeffrey sosteneva l'esatto contrario. Secondo lui le donne poliziotto erano di grande utilità perché la composizione della polizia doveva rispecchiare quella della comunità. Lena contribuiva al lavoro con la sua capacità di riflessione, aveva un approccio più efficace con certi tipi di criminali e sapeva come comportarsi con le donne, cosa che non si poteva dire degli altri. Inoltre la presenza di una detective donna aveva incoraggiato altre giovani a entrare in polizia. Adesso avevano quindici donne in servizio. Quando Ben Walker era andato in pensione le uniche donne alle sue dipendenze erano le segretarie. Ma nonostante tutto, neppure Jeffrey avrebbe potuto negare che ogni volta che pensava a Lena e a quello che le avevano fatto, la prima cosa che gli veniva in mente era di confinarla in casa e mettersi di guardia alla sua porta perché nessuno potesse più farle del male. Frank interruppe i suoi pensieri. «Ci sarà una specie di indagine interna su questa faccenda?» domandò schiacciando il dito sul dossier Weaver. Jeffrey annuì e si appoggiò allo schienale della sedia. «Ho parlato col sindaco stamattina. Voglio che tu raccolga le testimonianze di Brad e di Lena. Il procuratore sarà Buddy Conford.» «Ma quello fa l'avvocato» obiettò Frank. «Già, ma non in questo caso» spiegò Jeffrey. «Bisognerà vedere se la madre di Jenny decide di intentare una causa. L'amministrazione cittadina
ha un'assicurazione per questo genere di incidenti. Forse troveranno un accordo senza arrivare in tribunale. Non ne ho idea.» Alzò le spalle. «Minacciava un altro cittadino con la pistola, eccetera. Non è così semplice, capisci?» «Già» rispose Frank. «Lo so.» Aspettò qualche secondo poi aggiunse: «Tu ti senti tranquillo, non è vero capo?». La domanda incrinò all'improvviso ogni certezza. Con una stretta allo stomaco ricomparve lo smarrimento che lo aveva assalito la sera prima da Sara. Non aveva mai ucciso nessuno e tanto meno una ragazzina. Non riusciva a togliersi dalla mente il dialogo con Jenny, rivedeva ogni particolare, cercava di capire cosa non aveva funzionato nel suo tentativo di mediazione. Cosa non aveva detto o fatto per convincerla a posare la pistola. Doveva esserci un'alternativa che lui non aveva saputo vedere. «Capo?» disse Frank. «Per quel che può servire, Brad e Lena ti sosterranno al cento per cento. Questo lo sai, vero?» «Sì» rispose Jeffrey, ma le parole di Frank non furono d'aiuto. Sapeva che Brad e Lena lo avrebbero difeso in ogni modo, anche se fossero stati convinti che aveva sbagliato. Esistevano delle zone d'ombra nelle forze di polizia, ma quando si arrivava al dunque scattava prima di tutto la solidarietà. Brad avrebbe difeso Jeffrey perché in pratica lo adorava, e Lena perché si sentiva in debito con lui da quando l'aveva riammessa in servizio. Non era una grande consolazione. I due uomini rimasero zitti. Jeffrey voltò la testa e lasciò vagare lo sguardo sugli scaffali ingombri. C'erano i trofei conquistati al poligono, prova della sua ottima mira. C'era un vecchio trofeo di football, di quando giocava nella squadra di Auburn, relegato sul ripiano più basso. Poi parecchie fotografie dei ragazzi con cui aveva lavorato a Grant e prima ancora a Birmingham, insieme a un paio di istantanee di Sara scattate durante il viaggio di nozze. Le aveva inserite di recente, da quando avevano ricominciato a vedersi. Adesso non era più tanto sicuro di volere quelle foto in ufficio, o di volere Sara nella sua vita. Non riusciva a capacitarsi della freddezza che gli aveva riservato la sera prima, si irrigidiva ogni volta che la toccava, stabiliva lei cosa bisognava fare. Come se lui non sapesse fare quello che faceva, come se non l'avesse già fatto centinaia di volte, con donne che avevano dimostrato ben altra sensibilità. Frank si girò sulla sedia. La porta che separava la stanza della squadra dall'accettazione si spalancò. Entrò Sara, con la cartella in mano. Indossava un abitino azzurro che sembrava una maglietta lunga. E per completare
l'insieme si era messa le scarpe da tennis senza i calzini. Probabilmente non si era neppure depilata le gambe. I due uomini la guardarono. Aveva i capelli arruffati e Jeffrey immaginò che non si fosse neppure pettinata. Sara non era mai stata il tipo che si preoccupa di essere alla moda o di avere un trucco perfetto. A volte questo la rendeva sexy, ma a volte le dava semplicemente un aspetto trasandato, come se le importasse di più essere un medico che non una donna. Quando fu più vicina, Jeffrey notò gli occhiali deformati che le stavano storti sul naso e quel particolare lo irritò ancor più del resto. Come entrò, Frank scattò in piedi e Jeffrey dovette imitarlo. «Salve» disse lei con un sorriso nervoso. Jeffrey registrò il suo imbarazzo con una certa soddisfazione. «Come va?» disse Frank abbottonandosi la giacca. Sara rispose con un sorriso. «Ho chiamato Nick Shelton» disse. Nick era l'agente del centro investigativo della Georgia. «Gli ho chiesto di verificare se ci sono stati altri casi di mutilazione simili al nostro. Ha detto che saprà dirmi qualcosa entro mercoledì al massimo.» Dato che Jeffrey non apriva bocca, Frank si sentì in dovere di dire qualcosa. «Ottima idea» butto lì. «Inoltre» proseguì Sara, «ho chiamato tutti gli ospedali della zona. Non risulta che si sia presentata una donna che aveva appena partorito. Ho lasciato il numero della centrale, nel caso si faccia viva qualcuna.» Frank si allargò il colletto della camicia. «Ma tu credi che la ragazza abbia fatto tutto da sola? Voglio dire, la circoncisione.» «Mio Dio, no.» La sola idea la fece rabbrividire. «E non si può definire circoncisione» precisò. «È più simile alla castrazione. Clitoride e piccole labbra erano completamente recise, e quel che rimaneva è stato cucito col filo.» «Oh» disse Frank pieno di imbarazzo. «È come tagliare via il pene a un uomo» infierì Sara. Frank guardò prima Jeffrey, poi Sara, poi di nuovo il capo. «Se volete possiamo cominciare» disse lei indicando la cartella. «La riunione è posticipata» annunciò Jeffrey. Non riuscì a evitare il tono sprezzante. Quando aveva chiamato Sara per chiederle di venire presto non le aveva spiegato perché. «Fra un quarto d'ora circa arriverà Dottie Weaver. Voglio mandarla via il più presto possibile.» «Oh» fece Sara. «Se è così io vado a smaltire un po' di scartoffie. Facciamo fra un paio d'ore?»
Lui scosse la testa. «No, voglio che tu sia presente all'interrogatorio.» Sara gli lanciò un'occhiata. «Io non faccio il poliziotto.» «Ma Lena sì. Condurrà lei l'interrogatorio. Voglio che tu sia presente perché la conosci.» «Lena o Dottie?» domandò posando il pugno sul fianco. Frank si raschiò la gola. «Io devo fare delle telefonate» disse. Salutò Sara con un cenno e filò via. Sara guardò Jeffrey senza capire. Lui disse: «Cos'è quella, una camicia da notte?». «Come hai detto?» «Quella che hai addosso.» Indicò il vestito. «Sembra una camicia da notte.» Lei rispose con un risolino d'imbarazzo. «Tu dici?» «Potevi metterti qualcosa di più professionale.» Pensò a come era vestita la sera prima. I pantaloni della tuta e la maglietta logora non avevano certo contribuito a migliorare la situazione. E aveva le gambe più ispide delle sue. «Ti costa troppo vestirti in modo decente?» Sara abbassò la voce come faceva sempre quando era arrabbiata. «Che cosa ti autorizza a parlarmi come se fossi mia madre?» Jeffrey si impose di non rispondere per non farsi trascinare dalla rabbia. «Jeff» disse lei. «Che ti prende?» Lui andò a chiudere la porta. «Ti ho chiesto quest'unico favore. Ti pare troppo?» «Quale favore?» Scrollò il capo come se lui stesse dicendo cose senza senso. «Di assistere all'interrogatorio» le ricordò. «Con la Weaver.» «E che cosa dovrei dirle?» «Lascia perdere» rispose lui e non sapendo cosa fare andò ad abbassare la veneziana. «Scordatelo.» «Dimmi solo cosa devo fare» disse lei con un tono assennato, molto irritante. «Vuoi che vada a casa a cambiarmi? Vuoi rimanere solo?» «Voglio che la smetti di rompermi le palle, ecco cosa voglio.» Sara si irrigidì. Questa volta fu lei a imporsi di non parlare. Lui la guardò inarcando le sopracciglia. «Allora?» Voleva che dicesse qualcosa, voleva lo scontro per poter sfogare tutta la rabbia che aveva in corpo. Sara inspirò ed espirò lentamente. «Non capisco perché sei arrabbiato
con me.» Jeffrey non rispose. Lei fece scivolare la punta delle dita sulla sua cravatta, poi gli posò la mano sul petto. «Jeff, ti prego. Dimmi cosa devo fare.» Jeffrey non riusciva a parlare. Si scostò da lei e, tanto per fare qualcosa, andò a sollevare la veneziana. Sentì la mano di Sara sulla spalla. Lei disse: «Va tutto bene». «Lo so» rispose, anche se era vero il contrario. Si sentiva la mente in fiamme e se chiudeva gli occhi per un secondo si ripresentava l'immagine della testa di Jenny Weaver sbalzata indietro dal proiettile che le trapassava il collo. Sara gli premette le labbra sulla nuca e lo strinse tra le braccia. «Va tutto bene» gli sussurrò sul collo. Il fiato fresco sulla pelle fu come un balsamo. Lei lo baciò di nuovo sotto l'orecchio, lasciandovi indugiare le labbra. Jeffrey sentì il corpo rilassarsi e si domandò perché la sera prima Sara non avesse fatto lo stesso. Poi gli venne in mente che lo aveva fatto. «Va tutto bene» ripeté lei, e per la prima volta dall'inizio della giornata Jeffrey si placò. Era una sensazione così piacevole che si sentì disarmato e stupido, con una gran voglia di piangere, o di dire a Sara che l'amava. Invece domandò: «Rimani o no per l'interrogatorio?». Lei lasciò cadere le braccia e lui capì di averla delusa. La guardò e cercò di dire qualcosa, ma non riuscì a farsi venire in mente nulla. Alla fine, con un cenno di assenso, lei disse: «Farò tutto quello che vuoi». Jeffrey era nella saletta di osservazione e attraverso il falso specchio guardava Sara che consolava Dottie Weaver. Non era mai stato capace di tenere il broncio con lei, soprattutto perché lei non glielo permetteva. Dottie Weaver era una donna grassoccia, con la carnagione olivastra e i capelli castani che teneva raccolti in uno chignon in cima alla testa. Un'acconciatura un po' antiquata, che evidentemente a lei non dispiaceva. Osservandola, Jeffrey pensò che aveva la tipica faccia senza età, di quelle che a dieci anni o a quaranta mostrano sempre la stessa espressione. Le guance facevano tutt'uno con la mascella e tradivano un generale eccesso di peso. Benché stesse piangendo, le rughe che le solcavano la fronte suggerivano un'indole battagliera. Jeffrey lanciò un'occhiata a Lena, che era in piedi accanto a lui a braccia conserte ed era concentrata sulle due donne dall'altra parte del vetro. Ecco-
ci qui, pensò lui, il capo e la detective, le due persone più impulsive della centrale, che devono scoprire cos'è successo ieri. Si rese conto di aver chiesto a Sara di rimanere per egoismo. Toccava a lei la parte della razionale. A Lena disse: «L'interrogatorio è tuo». Com'era prevedibile, lei non reagì. Sei mesi prima avrebbe gongolato di soddisfazione annunciando a tutta la centrale che il capo aveva scelto lei. Adesso si limitava a uno stentato cenno del capo... «Perché sei una donna» spiegò Jeffrey. «E per quello che ti è capitato.» Lei lo fissò con uno sguardo apatico che gli strinse il cuore. Dieci anni prima Jeffrey l'aveva notata all'accademia mentre volava sul percorso a ostacoli del centro addestramento come un piccolo pipistrello che sguscia fuori dall'inferno. Alta poco più di un metro e sessanta, non arrivava a sessanta chili. Era la recluta più piccola del gruppo, ma compensava lo svantaggio con una ferrea forza di volontà. Lui era rimasto colpito dalla sua tenacia e dal suo slancio. Adesso, guardandola, si domandò se quella Lena sarebbe mai ricomparsa. Lena guardò Sara oltre il vetro. «Già, immagino che le ispirerò compassione» disse con una voce senza espressione. Quell'apparente assenza di emozioni mandava in bestia Jeffrey. Gli sembrava di avere a che fare con un automa, quasi rimpiangeva gli sfoghi incontrollati di un tempo. «Fai le cose con calma» le suggerì passandole il fascicolo. «Abbiamo bisogno di tutti i particolari possibili.» «C'è altro?» domandò lei come se stessero discutendo del tempo. Jeffrey rispose di no e Lena se ne andò senza dire una parola. Lui tornò davanti al falso specchio e attese che lei entrasse nella stanza degli interrogatori. Quando era rientrata in servizio, lui le aveva detto chiaramente che per superare il trauma delle violenze subite doveva rivolgersi a uno psicoterapeuta. Non gli risultava che Lena lo avesse fatto. Doveva insistere perché si decidesse, ma non sapeva come affrontare l'argomento. Lena aprì la porta ed entrò con le mani affondate nelle tasche dei pantaloni e il fascicolo stretto sotto il braccio. Indossava un paio di chinos beige e una camicia blu con i bottoni sul colletto. I capelli lunghi fino alle spalle erano trattenuti dietro le orecchie. A trentatré anni, aveva finalmente perso l'espressione da bambina. Era sempre stata attraente, ma negli ultimi due anni aveva sviluppato una femminilità che non lasciava indifferenti gli uomini della squadra. Jeffrey distolse lo sguardo, imbarazzato da questi pensieri. Gli parve in-
giusto considerare Lena sotto quella luce, dopo tutto quello che aveva passato. «La signora Weaver?» domandò Lena porgendo la mano. Dottie Weaver fissò il palmo aperto e trasalì. Anche Jeffrey, da dietro il vetro, provò un tuffo al cuore. La cicatrice era terrificante. Sara fu l'unica a non reagire. Lena ritrasse la mano e la lasciò ricadere lungo il fianco col pugno chiuso, visibilmente imbarazzata. «Sono la detective Lena Adams. La prego di accettare le mie condoglianze.» «La ringrazio» disse Dottie, il suo accento del Midwest in netto contrasto con la parlata morbida di Lena. Lena andò a sedersi di fronte a Sara e a Dottie. Intrecciò le mani sul tavolo, attirando di nuovo l'attenzione sulle cicatrici. Jeffrey si domandò se avesse intenzione di sfilarsi le scarpe per mettere sul tavolo anche i piedi. «Mi dispiace...» cominciò Dottie, poi si interruppe. «Voglio dire, per quello che le è successo.» Lena annuì con un secco cenno del capo e abbassò gli occhi per riprendere il controllo. Una delle prime astuzie che Jeffrey le aveva insegnato per gli interrogatori era che il silenzio è il migliore amico del detective. Di solito la gente non ama il silenzio e inevitabilmente cerca un modo di riempire il vuoto che si crea. Il più delle volte lo fa senza rendersene conto. «E sua sorella» continuò Dottie. «Era una persona così amabile. L'avevo conosciuta al salone della scienza. Jenny adorava le scienze. Era...» Il petto di Lena si sollevò e si abbassò in un respiro affannato, ma fu l'unica reazione visibile. «Sibyl era un'insegnante» disse, «le piaceva rendersi utile con i ragazzi.» Cadde di nuovo il silenzio e Jeffrey spostò lo sguardo su Sara. Qualche ciocca dei suoi capelli fulvi si era sciolta dalla coda di cavallo e stava appiccicata al collo. Gli occhiali non erano più sul naso ma sulla testa, e lei fissava Lena come se fosse un serpente e dovesse capire se era velenoso. Lena domandò: «Vuole che contattiamo suo marito, signora Weaver?». «Mi chiami Dottie, la prego» la corresse la madre. «Gli ho già parlato io.» «Verrà per il funerale?» Dottie non rispose e cominciò a giocherellare con il braccialetto d'argento che teneva al polso. Quando si decise a parlare si rivolse a Sara: «Ha dovuto aprirla, vero?». Sara stava per rispondere, ma Lena la anticipò. «Sì, signora. La dottoressa Linton ha eseguito l'autopsia. Io ho assistito, come previsto dalla procedura. Abbiamo fatto tutto quello che era possibi-
le, per Jenny.» Dottie guardò Lena, poi Sara, poi di nuovo Lena. All'improvviso si chinò sul tavolo incurvando le spalle come se avesse ricevuto un pugno allo stomaco. «Era la mia unica figlia» singhiozzò. «La mia piccolina.» Sara allungò il braccio per farle una carezza sulla schiena, ma Lena la fermò con un'occhiata. Si protese in avanti e strinse la mano a Dottie: «So cosa significa perdere una persona cara. Glielo posso assicurare». Dottie si aggrappò alla sua mano. «Lo so, ci è passata anche lei, lo so.» Jeffrey si rese conto di avere trattenuto il fiato in attesa di quel momento. Lena si era aperta un varco. Domandò: «Cos'è successo col padre?». «Oh.» Dottie prese dalla borsa il fazzoletto. «Sa com'è. Non andavamo d'accordo. Lui voleva di più dalla vita. E alla fine è scappato con la segretaria.» Poi rivolta a Sara: «Sa come sono gli uomini». Jeffrey non gradì l'allusione alle sue infedeltà. Ma questi erano i vantaggi di vivere in una piccola città. «Non l'ha mai sposata, però» concluse Dottie. «La segretaria, intendo.» Stese le labbra in un sorriso di soddisfazione. «È successo anche alla mia migliore amica» cominciò Lena, per rinsaldare il ponte che si era creato tra loro. «Suo padre si comportò allo stesso modo. Un bel giorno ha preso e se n'è andato. E non si è fatto più vedere.» «Oh, no. Samuel non era il tipo. Non all'inizio, almeno. Vedeva Jenny tutti i mesi, poi è stato trasferito a Spokane. È nello stato di Washington. L'ultima volta che l'ha vista è stato circa un anno fa.» «E come ha reagito alla notizia?» «Si è messo a piangere» disse Dottie, con le lacrime che le rigavano le guance. Tornò a rivolgersi a Sara, forse perché lei aveva conosciuto Jenny. «Era così buona. Aveva un cuore tenero.» Sara annuì, ma Jeffrey intuì che era a disagio per il modo in cui Lena stava conducendo il colloquio. Si domandò cosa si aspettasse, dopo quello che aveva scoperto sul corpo di Jenny. Dottie si soffiò il naso e riprese a parlare con una voce più chiara. «È finita con quel gruppo. E con quel ragazzo, Patterson.» «Mark Patterson?» domandò Lena. Era il ragazzo che Jenny aveva tenuto sotto tiro. «Sì, Mark.» «Si frequentavano? Uscivano insieme?» Dottie alzò le spalle. «Non le saprei dire. Facevano tutto in gruppo.
Jenny era amica di sua sorella, Lacey.» «Lacey?» ripeté Sara. Si rese conto di averla interrotta e le fece segno di proseguire. «Io e Jenny eravamo molto unite da quando suo padre se n'era andato, eravamo due amiche, più che madre e figlia. Lei era la mia ancora di salvezza. Forse mi sono appoggiata anche troppo a lei.» Fece una pausa. «Mark mi sembrava innocuo. D'estate veniva a tagliare l'erba del nostro prato. Faceva dei lavoretti per guadagnarsi qualche soldo.» Rise tristemente. «Pensavo che fosse un bravo ragazzo. Pensavo di potermi fidare di lui.» Lena decise di farle cambiare direzione. «Quando hanno cominciato a frequentarsi, Jenny e Lacey?» «Un anno fa, circa. Erano nel gruppo della chiesa. Mi sembrava una buona cosa, ma quei ragazzi... Non saprei. Uno si immagina che la chiesa sia un posto sicuro, invece...» Scosse la testa. «Io non lo sapevo» disse. «Non sapevo neppure che fosse stata con un ragazzo, e tanto meno che...» Lena fece un cenno quasi impercettibile a Sara, e Jeffrey capì che si preparavano a dare la notizia. «Dottie, ieri ho esaminato il corpo di sua figlia.» Dottie strinse le labbra e aspettò che continuasse. Intervenne Lena: «Jenny non era incinta. Non era sua, la neonata rinvenuta alla pista di pattinaggio». La madre guardò fisso Lena, poi Sara. Più che sorpresa sembrava incredula. Sara cercò di spiegare. «Lena ha ragione. Non era incinta, anche se posso dirle che era sessualmente attiva già da più di sei mesi.» Dottie mosse la mascella ma non aprì bocca. Alla fine sorrise, come se avesse ricevuto una buona notizia. «Allora non è stata lei? Non ha ucciso il bambino?» «Non sappiamo ancora come siano andate le cose» disse Lena. Si guardò le mani, questa volta senza intenzione. Dopo qualche secondo tornò a guardare Dottie e le parlò a voce bassa, con gli occhi inchiodati su di lei come se Sara non fosse più nella stanza. «È solo una mia impressione, signora, ma da quello che ho saputo di sua figlia non riesco a immaginare che possa aver fatto quello di cui l'accusano.» La madre rilassò le spalle, evidentemente sollevata. Ricominciò a piangere e tuffò il naso nel fazzoletto. «Era così buona» disse. «È impossibile che abbia fatto una cosa simile.» Si girò verso Sara per avere conferma. «Era una ragazzina davvero brava.»
Sara annuì e accennò un sorriso. «Diceva sempre che voleva fare il medico» continuò Dottie. «Diceva che voleva aiutare i bambini, come fa lei.» Il sorriso di Sara si smorzò e Jeffrey capì che il senso di colpa la stava di nuovo attanagliando. Lena deviò la conversazione con una nuova domanda. «Mi parli di quel gruppo che frequentava, c'erano anche i ragazzi Patterson?» «Sì, Mark e Lacey.» «Andava ancora in chiesa con loro? Partecipava alle attività?» «Fino a circa otto mesi fa» rispose Dottie. «Poi ha smesso di andarci. Non le so dire perché. A me ha detto solamente che non ci voleva più andare.» «Dunque è stato verso gennaio?» «Direi di sì.» «Poco dopo Natale?» Dottie annuì. «Più o meno.» «Era successo qualcosa? Un litigio? Si era arrabbiata con qualcuno? Ha avuto uno scontro con Mark Patterson?» «No» rispose Dottie con decisione. «La settimana dopo Natale è anche andata in montagna con il gruppo della parrocchia. Sono andati a sciare a Gatlinburg. Non volevo che andasse via durante le feste, ma lei ci teneva tanto, aveva preso dei bei voti a scuola, e così...» lasciò morire la voce. «E così è stata via per una settimana?» «Sì, una settimana, poi io sono dovuta andare nell'Ohio da mia sorella, che non stava bene» strinse le labbra. «Eunice, mia sorella, ha un enfisema. Adesso sta un po' meglio. Ma ha passato dei brutti momenti.» «Quindi Jenny è rimasta a casa da sola?» «Oh, no.» Scosse la testa. «Certo che no. È stata dai Patterson per tre o quattro giorni.» «Andava spesso dai Patterson?» «Sì, nei weekend. O Lacey veniva da noi, o Jenny andava da loro.» «Lei li conosce bene?» «Teddy e Grace?» Annuì. «Oh, sì, anche loro frequentano la chiesa. Non posso dire che Teddy mi entusiasmi» disse abbassando un po' la voce. «Se vuole sapere il mio parere, Mark ha preso da lui.» «In che senso?» «È un tipo...» cominciò Dottie, poi fece spallucce. «Non lo so. Quando lo incontrerà, capirà cosa voglio dire.»
«Quindi» concluse Lena, «a Natale Jenny è andata in vacanza con il gruppo della parrocchia, poi è stata dai Patterson, poi ha smesso di frequentare la chiesa e di vedersi con loro.» «Be'...» esitò Dottie. «Sì, direi di sì. Cioè, adesso direi proprio che è andata così. Prima non avevo visto un legame.» «Ha mai avuto il sospetto che sua figlia facesse uso di droghe?» «Oh, no, lei era assolutamente contraria» rispose Dottie. «Non beveva neppure caffeina e ultimamente aveva eliminato perfino lo zucchero.» «Per via del peso?» «Per la sua salute, diceva. Voleva rendere puro il suo corpo.» «Puro» ripeté Lena. «Crede che abbia qualcosa a che fare con la chiesa?» «Aveva già smesso di frequentare la chiesa» le ricordò Dottie. «A dire la verità non so perché lo facesse. Un giorno, stavamo tornando dalla scuola in macchina, mi ha semplicemente detto: "Non voglio più mangiare cibi che contengono zucchero. Voglio che il mio corpo sia puro"». «E non le è sembrato strano?» «Al momento no» disse Dottie. «Voglio dire, forse sì, era una cosa un po' bizzarra, ma negli ultimi tempi si comportava in modo strano. Niente di speciale, in realtà. Per esempio, quando rientrava da scuola, non beveva più le solite bibite gassate. E si era messa a studiare d'impegno. Come se volesse migliorarsi. Stava tornando quella di un tempo.» «Quella di un tempo? Cioè prima che cominciasse a frequentare i ragazzi Patterson?» «Sì, credo che si possa dire così.» Arricciò le labbra. «È strano, perché Lacey era molto popolare a scuola, e dal giorno in cui Jenny ha messo piede in quella scuola, Lacey ha cominciato a torturarla.» «Torturarla in che modo?» domandò Sara. «Era maligna» rispose Dottie. «La prendeva in giro per il peso. E questo anche quando era solo un po' paffutella. Non come negli ultimi tempi.» «Ma lei non crede che Lacey e Mark la picchiassero, vero?» Dottie parve sorpresa. «Mio Dio, no. Avrei chiamato la polizia.» Si tamponò gli occhi con il fazzoletto. «La prendevano in giro e basta. Niente di fisico. Come le ho detto, erano diventati amici.» «E come mai a un certo punto non lo sono più stati?» «Questo non glielo so dire. Forse è stato il passaggio dalle medie alle superiori. È un grosso cambiamento. Mi pare che Lacey non fosse riuscita a entrare nel gruppo delle ragazze pompon e non si sentiva considerata. Sa
come sono i ragazzi. Hanno un forte senso di appartenenza. Adesso che ci penso, la faccenda dello zucchero deve essere stata un'idea di Lacey.» «Di Lacey?» «Sì. Era sempre lei a decidere cosa dovevano fare. Cosa mettersi per andare a scuola, dove andare nel weekend. Passavano ore al telefono a parlare di queste cose.» Lena sorrise. «Mia sorella e io facevamo lo stesso» disse. Poi aggiunse: «C'era un risvolto religioso, secondo lei?». «In che cosa?» «Lo zucchero. La caffeina. Fa venire in mente una pratica religiosa.» «Non penserà che...» si trattenne. «No, non credo che c'entri la religione. A lei andava bene la sua chiesa. Sono stati i Patterson, secondo me. Mark è schedato perché si era messo a rubacchiare.» Scosse la testa lentamente. «Non sapevo cosa fare. Dovevo impedirle di vederlo? Sarebbe servito solo a farglielo desiderare di più.» «Di solito è così, con le ragazzine» ammise Lena. «Lei però continua a frequentare la chiesa, non è vero?» «Ma certo» disse Dottie. «Per me è una grande consolazione.» «Ha già preso accordi? Chi celebrerà il funerale?» Dottie sospirò. «Non lo so. Io...» si interruppe e si soffiò il naso. «Credo che a lei piacesse il pastore Fine. Era venuto anche a casa per parlare con lei. Anche Brad Stephens. È lui che si occupa dei giovani.» «Davvero?» «Certo. Brad è molto attivo nella congregazione.» «Il pastore Fine venne a casa vostra dopo che Jenny aveva smesso di frequentare la chiesa?» «Sì» annuì. Sembrava contenta di essersi ricordata qualcosa che poteva risultare importante. «Lei non ci era andata per due o tre domeniche di seguito, e lui è venuto a trovarla a casa.» «Lei ha sentito cosa si sono detti?» «No, no. Li ho lasciati in soggiorno e me ne sono andata.» Parve ricordarsi di un'altra cosa. «Circa una settimana dopo, lui l'ha chiamata al telefono. Ma Jenny mi ha fatto dire che non era in casa. Doveva essere un sabato, perché io ero a casa. Quel giorno ha ricevuto delle altre telefonate, ma si è sempre negata.» «Era una cosa insolita?» «A quel punto non più» disse. «Doveva essere intorno a febbraio. Ero quasi contenta che non volesse più parlare con Mark.»
«Avevano litigato?» Dottie alzò le spalle. «Io so soltanto che a quel punto lo odiava. Prima stava sempre appiccicata a lui, poi, a un certo punto, ha cominciato a odiarlo.» «Lo odiava come può odiare una ragazzina che si sente rifiutata?» Dottie drizzò la schiena e lanciò a Lena un'occhiata valutativa. Parve rendersi conto solo allora che l'interrogatorio serviva a stabilire le eventuali colpe di Jenny e non a riscattarla. Lena rifece la domanda. «Odiava Mark perché non voleva più stare con lei?» «No. Certo che no» ribatté col suo accento nasale. «Ne è sicura?» «In quel periodo era stato arrestato» spiegò. Sembrava soddisfatta di fargli fare la parte del criminale. «Per percosse. Aveva aggredito la sorella.» Jeffrey si maledì per non avere controllato prima. Prese il telefono e chiamo l'interno di Maria. «Sì?» rispose Maria. «Devi trovarmi la scheda di Mark Patterson» disse a bassa voce. «Il ragazzo di ieri sera?» «Sì.» «Subito» disse e riagganciò. Quando Jeffrey tornò a guardare nella stanza degli interrogatori l'atmosfera era completamente cambiata. Dottie Weaver aveva la faccia tesa, sembrava contrariata. Lena domandò: «Vuole qualcosa da bere?». «No, grazie.» «Lei sa che l'anno scorso sua figlia si era rotta un braccio?» Dottie parve stupita. Guardò Sara: «È venuta da lei senza di me?». «No» rispose lei senza aggiungere altre spiegazioni. Era indispettita, ma non con Dottie Weaver. Lena tirò diritto: «Sua figlia aveva interesse per la cultura africana?». Dottie scrollò il capo senza capire. «No, naturalmente. Perché? Cosa c'entra?» Si intromise Sara: «Dottie, vuole fare una pausa?». Lena si agitò sulla sedia, ben decisa a proseguire. «Sua figlia si era anche fratturata il bacino, signora Weaver. Lo sapeva?» Dottie mosse le labbra ma non rispose.
«Probabilmente era stata stuprata» continuò Lena. Lasciò passare qualche secondo, poi senza tradire alcuna emozione aggiunse: «Brutalmente». «Io non...» Guardò Sara, poi Lena. «Non capisco.» «E le cicatrici sulle braccia e sulle gambe?» la incalzò Lena. «Come mai? Perché sua figlia si tagliava?» «Si tagliava?» trasecolò Dottie. «Cosa sta dicendo?» «C'erano tagli su tutto il corpo. Che si era fatta da sola, da quel che si può capire. Mi spiega come ha fatto a ridursi così senza che lei se ne accorgesse?» «Era riservata» si difese Dottie. «Si intabarrava dalla testa ai piedi. Io non ho mai...» Lena la interruppe. «Lei sapeva che ha subito un intervento chirurgico non più di sei mesi fa?» «Un intervento chirurgico?» ripeté Dottie. «Di cosa sta parlando?» «Non un intervento chirurgico» si intromise Sara. Posò la mano sul braccio di Dottie. «Quando ho esaminato il corpo di Jenny...» Lena aprì il fascicolo. Buttò una fotografia sul tavolo, poi un'altra. Da dove si trovava, Jeffrey non poteva vedere quali fossero, ma non ebbe dubbi quando guardò il viso di Dottie. «Oh, mio Dio, la mia bambina.» Si portò una mano alla bocca. «Lena» la redarguì Sara. Cercò di coprire con la mano le fotografie, ma Dottie le afferrò il braccio. Lottarono per qualche secondo, poi Sara si arrese. «Co... cos'è?» balbettò Dottie. Accostò al viso la fotografia con la mano che le tremava. Lena, impassibile, si appoggiò allo schienale della sedia e incrociò le braccia sul petto. Lanciò un'occhiata fugace al falso specchio, cioè a Jeffrey, e sollevò le sopracciglia, trionfante. Sara posò la mano sulla spalla di Dottie. «Le dia a me» disse cercando di prenderle la foto. «Mio Dio, mio Dio» balbettò la madre tra i singhiozzi. «La mia piccola. La mia bambina. Che cosa le hanno fatto.» Sara lanciò a Lena un'occhiata di fuoco che a Jeffrey non sfuggì. Lena scrollò le spalle, come per dire: «Cosa ti aspettavi?». «Oh Dio, oh Dio» ripeté Dottie, poi tacque di colpo. Si accasciò e scivolò sul pavimento, svenuta. Sara fece in tempo ad afferrarla, ma riuscì solo a rallentare la caduta.
Fuori dalla sala riunioni, Jeffrey stava parlando con Lena. «Dobbiamo trovare subito il ragazzo. Patterson» disse. «Sara può gestire da sola la riunione sui risultati dell'autopsia.» Lena si voltò per dare un'occhiata alla porta sul retro. Sara era uscita con Dottie per accompagnarla alla macchina, ma prima di andarsene aveva lanciato un'occhiata minacciosa a Lena, annunciando che sarebbe tornata subito. Jeffrey continuò: «Maria sta cercando l'indirizzo. Può darsi che sia coinvolto in questa storia più di quanto crediamo. Forse a casa troveremo anche la sorella». Lena annuì e incrociò le braccia. «Vuoi che mi occupi io della sorella mentre tu interroghi Mark?» «Vediamo come si mettono le cose. Voglio scambiare due chiacchiere anche con quel pastore.» Lena ebbe un guizzò negli occhi. «È della mia chiesa. Cioè, non la mia chiesa, quella dove va Hank, qualche volta lo accompagno.» Alzò le spalle. «Tanto per fare qualcosa. Io non sono religiosa.» «Capisco» disse Jeffrey, stupito che gli parlasse della sua vita privata. Da quando aveva subito violenza era raro che si lasciasse andare a confidenze. Pensò che forse le faceva bene seguire quel caso e ne fu contento. «Chiamerò Brad per farlo rientrare alla centrale» continuò. «Gli voglio parlare subito, voglio capire che tipo è questo Fine.» «Pensi che sia stato lui a fare quelle cose a Jenny?» Jeffrey affondò le mani nelle tasche. Non riusciva a immaginare che qualcuno potesse infierire su una bambina, ma era successo, e qualcuno doveva averlo fatto. «Dobbiamo scoprire se a Natale in montagna c'era anche Fine.» «Forse potrei...» Lena si interruppe. La porta sul retro si era spalancata con un colpo violento. Jeffrey si voltò e vide Sara che la richiudeva. Dal modo in cui si diresse verso di loro capì che era infuriata. Prima ancora di raggiungerli sbottò: «Lena, si può sapere cosa ti ha preso? Ti pare il modo di trattare quella povera donna?». Lei lasciò cadere le mani lungo i fianchi e Jeffrey la vide serrare i pugni mentre Sara si avvicinava. Poi indietreggiò fino alla parete per mantenere la distanza e, sempre a pugni chiusi, disse con decisione: «Ho fatto solo il mio lavoro». «Il tuo lavoro?» la rimbeccò Sara andandole quasi addosso. Era quindici
centimetri buoni più alta di Lena e sfruttò la differenza per imporsi. «Fa parte del tuo lavoro martoriare una donna che ha appena perduto la figlia? Fa parte del tuo lavoro mostrarle quelle foto orribili?» L'emozione le incrinò la voce. «Come hai potuto, Lena? Quelle foto sono diventate l'ultimo ricordo che le resterà di sua figlia, lo capisci questo?» «Sara...» intervenne Jeffrey. Lei si accostò all'orecchio di Lena e le sussurrò qualcosa. Jeffrey non riuscì a sentire, ma la reazione di Lena fu immediata. Si strinse nelle spalle avvilita, come un gattino preso per la collottola. Sara si morse le labbra, pentita. Si portò una mano alla bocca come se volesse rimangiarsi le parole. «Perdonami» disse. «Lena, ti prego, non volevo...» Lena si raschiò la gola e fissò il pavimento. «Non fa nulla» disse, ma era evidente che le sue parole l'avevano ferita. Sara di rese conto di starle ancora addosso e fece un passo indietro. «Ti chiedo scusa, non avevo il diritto...» Lei alzò una mano per zittirla. Prese fiato, poi rivolta a Jeffrey disse: «Ti aspetto in macchina». «D'accordo» disse lui. Si frugò in tasca in cerca delle chiavi e gliele porse, ma lei non le prese. Si limitò ad allungare la mano aperta e aspettò che lui ve le lasciasse cadere. «Bene» disse alla fine, stringendo le chiavi. Evitò di guardare sia Jeffrey che Sara e si avviò all'uscita con gli occhi fissi a terra. Camminava incurvata, come se avesse incassato una sconfitta. Jeffrey guardò Sara stupito. «Che diavolo le hai detto?» Sara scosse la testa e si copri gli occhi con la mano. «Oh, Jeff» disse continuando a scrollare il capo. «Ho detto la cosa sbagliata. Non avrei potuto dire una cosa peggiore.» 7 Lena sedeva nella Lincoln di Jeffrey, tesa come una corda di violino. Aveva il respiro affannato e si sentiva girare la testa come se stesse per svenire. Sudava, e non solo perché nella macchina c'era un caldo soffocante. Si sentiva bruciare, come se avesse toccato un filo elettrico scoperto. «Stronza» mormorò, pensando a Sara Linton. «Brutta stronza» ripeté con soddisfazione, come se l'insulto potesse vanificare l'offesa subita. Le sue parole le risuonavano ancora nella mente: Adesso sai cosa vuol
dire fare del male a qualcuno. Fare del male, aveva detto, ma Lena aveva capito cosa intendeva: adesso sai cosa vuol dire violentare qualcuno. «Maledizione!» gridò, più forte che poteva. Picchiò la mano sul cruscotto maledicendo Sara Linton e il lavoro. Mentre torchiava Dottie Weaver nella stanza degli interrogatori, per la prima volta dopo tanto tempo Lena era riuscita a sentirsi di nuovo nella sua pelle. E con una sola frase Sara aveva rovinato tutto. «Maledizione!» gridò di nuovo, con la voce arrochita dallo sforzo. Aveva voglia di piangere ma non le restavano più lacrime, solo una rabbia incontenibile. Tutti i muscoli erano entrati in tensione e si sentiva addosso tanta di quella forza repressa che avrebbe voluto sfasciare la macchina a forza di calci. «Smettila, smettila, smettila» si disse cercando di calmarsi. Doveva farsi trovare tranquilla da Jeffrey, non voleva che lui andasse a riferire a Sara visto che ci andava a letto - che le sue parole l'avevano sconvolta. Rise di amarezza al pensiero di Sara che cercava di scusarsi. Come se le scuse cambiassero qualcosa. Aveva semplicemente detto quello che pensava. Era solo dispiaciuta di averlo detto chiaro e tondo. Oltre a essere una stronza era anche vigliacca. Tirò un sospiro profondo e cercò di riprendersi. «Va tutto bene» mormorò a se stessa. «Non ha importanza. Niente ha importanza.» Dopo qualche secondo si sentì meglio. Il cuore non batteva più tanto forte e il nodo allo stomaco si stava sciogliendo. Continuò a dirsi che era forte, che aveva passato di peggio e nonostante tutto era sopravvissuta. Quello che pensava Sara Linton non significava nulla, nella prospettiva della sua esistenza. Quello che importava davvero era che lei potesse fare il suo lavoro. E aveva fatto il suo lavoro. Grazie all'interrogatorio erano saltate fuori piste importanti da seguire, e non sarebbe successo se l'interrogatorio l'avesse condotto Sara Linton. Guardò l'orologio e si rabbuiò. Non si era resa conto che fosse così tardi. Probabilmente Hank si stava chiedendo come mai non si faceva viva. Ormai era troppo tardi per andare in chiesa con lui. L'auto di Jeffrey aveva un cellulare inserito nel cruscotto. Si allungò sul sedile e girò la chiave per attivare i contatti. Accese il condizionatore e socchiuse il finestrino per fare uscire l'aria calda. Attese che il telefono si caricasse e sbirciò l'uscita della centrale per accertarsi che Jeffrey non stesse arrivando. Hank rispose al primo squillo. «Pronto?»
«Sono io» disse Lena. All'altro capo del filo cadde il silenzio e lei capì di avere usato il tono sbagliato. Era aspro, ancora pieno del rancore per Sara. Per fortuna Hank non le domandò cos'era successo. «Non farò in tempo per la chiesa» disse. «Ah» fece Hank. «Devo andare con Jeffrey a interrogare una persona» continuò lei, anche se non era tenuta a fornire spiegazioni a Hank Norton. «Ci vorrà un po'. Non aspettarmi, vai da solo.» Sul finire della frase le si smorzò la voce al pensiero di ritornare a casa e non trovare nessuno. «Lee?» Hank conosceva bene le sue paure. «Se vuoi posso rimanere qui, fino a che non rientri.» «Non essere stupido» disse, ma il tono era tutt'altro che convincente. «Non ho mica tre anni.» «Allora potresti raggiungermi dopo» propose lui. Lena si ricordò del concerto e si sentì stringere lo stomaco. Hank non sarebbe tornato prima che facesse buio. E dentro casa sarebbe stato ancora più buio, anche con tutte le luci accese. «In ogni modo domani devo alzarmi presto, devo dare un'occhiata al bar. Potrei tornare a casa subito dopo la funzione.» «Hank. Stammi bene a sentire. Vai a quel fottuto concerto. Non mi serve un babysitter, è chiaro?» Non era disposta a cedere, anche se aveva il cuore in gola. La porta della centrale si aprì e sulla soglia apparve Jeffrey accanto a Maria Simms che gli stava consegnando una cartella d'archivio. Hank insistette: «Sei sicura?». «Sì» disse subito Lena, per non darsi il tempo di riflettere. «Adesso devo andare. Ci vediamo a casa.» Chiuse il telefono prima che lo zio potesse aggiungere altro. «Gesù» disse Jeffrey aprendo la portiera. «Hai acceso il condizionatore?» Le lanciò la cartella che gli aveva dato Maria. «Certo che l'ho acceso» borbottò lei e istintivamente si ritirò contro la portiera per stabilire una distanza. Jeffrey non fece commenti. Buttò la giacca sul sedile posteriore. «Ho ricevuto una telefonata.» Era contrariato. «Mia madre ha avuto un incidente. Devo andare in Alabama.» «Adesso?» domandò Lena. Posò la mano sulla maniglia della portiera e pensò che poteva richiamare Hank per dirgli che l'aspettasse. «No» rispose Jeffrey. Fissò con intenzione la sua mano. «Questa sera.» «Benissimo» disse lei senza levare le dita dalla maniglia, come se ce le
avesse messe per stare comoda. «È una bella seccatura partire con le cose ancora in sospeso. Speriamo che Mark Patterson ci chiarisca la situazione.» «Che intendi dire? Secondo te tutto si riduce a una lite fra fidanzatini?» «Non saprei. Forse può dirci chi era l'altra ragazza, chi è la madre.» Lei annuì, ma non sembrava convinta. «Ho parlato con Brad» continuò Jeffrey. «Fine non c'era, in montagna.» Si accigliò. «Lo richiamerò dopo che avremo parlato con Mark, per vedere se si è ricordato qualcos'altro.» Fece una pausa. «Sono sicuro che, se fosse successo qualcosa di riprovevole, me ne avrebbe parlato.» «Questo è certo» ammise Lena. Brad era il tipo di poliziotto capace di multare la propria madre per non aver attraversato sulle strisce pedonali. «Domani mattina, per prima cosa tu e Brad andrete a parlare con gli insegnanti di Jenny Weaver. Cercate di capire che tipo era, chi frequentava. Parlate anche con le ragazzine che erano in montagna con lei e Lacey. Probabilmente frequentano tutte la stessa scuola.» «D'accordo». «Io devo per forza andare in Alabama, altrimenti lo farei io stesso.» «Certo.» Lena si domandò come mai continuasse a scusarsi. Ufficialmente, rimaneva in servizio. E poi in quel momento non c'era molto che si potesse fare. A meno che Mark puntasse il dito contro qualcuno, non avevano altre piste da seguire. «Voglio anche che interroghi il pastore Fine il più presto possibile» aggiunse. Guardò l'orologio. «Domani mattina. Portati Frank, non Brad.» «Va bene.» «Hai detto che lo conosci, il pastore.» Inserì la retromarcia. «Pensi che c'entri qualcosa?» «Direi di no» disse Lena. «Non è una cattiva persona. Semplicemente non mi sta simpatico.» Jeffrey le lanciò un'occhiata, come per dire che a lei non stava simpatico quasi nessuno. «A dire la verità, ho già una specie di appuntamento con lui per domani sera» confessò Lena. «Un appuntamento?» Lena fissò il cruscotto. «Me l'hai detto tu. È quello che vuoi, no?» disse in un fiato. Jeffrey non capì. «Che parli con qualcuno» aggiunse. «Ah. Forse allora non dovresti essere tu a...»
«No» lo interruppe lei. «Lo voglio fare.» Abbozzò un falso sorriso. «Lo posso prendere di sorpresa, non ti pare? Penserà che sono lì per una seduta, o come diavolo si chiama, e invece gli chiederò di Jenny e dei Patterson.» Jeffrey portò la macchina fuori dal parcheggio. «Non so se sia una buona idea» disse accigliato. «Hai sempre detto che il momento migliore per interrogare qualcuno è quando lo si può prendere alla sprovvista» gli ricordò. «E poi me lo ha fissato Hank, quell'appuntamento. Non ho intenzione di mettermi a parlare con Fine del...» cercò la parola, ma non riuscì a trovarne una plausibile. «Insomma. Non mi va. È un tipo bizzarro. Non mi fido di lui.» «Perché?» «Non mi fido e basta» disse Lena. «È una sensazione.» «Credi che sia stato lui?» Lena scrollò le spalle. Come faceva a spiegare a Jeffrey che l'unica ragione per cui Dave Fine non le andava a genio e non le ispirava fiducia stava nel fatto che faceva il pastore? Jeffrey si stava dimostrando uno stupido, esattamente come Hank. Come mai a nessuno veniva in mente che lei era stata violentata da un fanatico religioso, e perciò non voleva parlarne con un pastore? «Non saprei, può darsi che in qualche modo c'entri» azzardò. La bugia convinse Jeffrey a cambiare idea. «D'accordo allora, ci andrai tu. Però portati Frank.» «Senz'altro.» «Non deve essere un interrogatorio. Vogliamo solo capire se sa qualcosa. Non aggredirlo, non fargli perdere le staffe.» «Ho capito, ho capito.» «E trovati un'altra soluzione» disse. «Qualcun altro che ti possa aiutare.» Fece una pausa. «Era una condizione, Lena. Ti ho permesso di riprendere il servizio perché avevi promesso di andare a parlare con qualcuno.» «Lo so» annuì. «Mi troverò subito qualcun altro.» Jeffrey la guardò, ma non poteva bastare un'occhiata per capire Lena. Lei cercò di cambiare discorso: «Come sta adesso? Tua madre, voglio dire». «Bene. E tu come stai?» «Io? Bene.» «Prima, con Sara...» «Sto bene» tagliò corto, com'era abituata a fare con Hank, Ma Jeffrey non era Hank Norton. «Sei sicura?»
«Certo» disse. Poi, per dimostrarglielo, domandò: «Mentre interrogavo Dottie Weaver la dottoressa Linton mi è sembrata sorpresa di sentire nominare Lacey Patterson». «Era una sua paziente» spiegò Jeffrey. Poi, quasi a se stesso, disse: «Sai com'è Sara con i suoi bambini». Lena non lo sapeva e abbassò gli occhi sul fascicolo senza rispondere. Sull'etichetta era riportato il nome di Mark Patterson. Aprì per vedere cosa aveva combinato. Sulla prima pagina erano riportati i dati essenziali, compreso l'indirizzo. «Abitano in Morningside?» domandò. Era una zona degradata di Madison. «Credo che sia un parco di roulotte. Quello col tendone verde sopra l'insegna.» «Il Kudzu Arms» precisò Lena. Negli ultimi mesi lei e Brad erano stati chiamati sul posto parecchie volte. Il caldo contribuiva a scaldare gli animi. «Vedi un po' cosa c'è in quelle pagine» disse Jeffrey. Lena cominciò a sfogliare. «Due effrazioni all'età di dieci anni, entrambe al Kudzu Arms. Non molto tempo fa ha picchiato la sorella. Ci ha chiamato il padre, ma quando siamo arrivati nessuno ha voluto sporgere denuncia.» Smise di leggere e chiarì: «Per "siamo" intendo Deacon e Percy. Erano andati loro, non io e Brad». Jeffrey si grattò il mento, pensoso. «Non mi ricordo neppure quando è successo.» «Poco dopo il Ringraziamento. Poi, intorno a Natale, Deacon e Percy sono stati chiamati di nuovo. Anche questa volta aveva telefonato il padre, precisando che voleva loro.» Diede una scorsa al rapporto di Deacon. «Questa volta è stata sporta denuncia. Mark è finito in gattabuia per un paio di giorni, poi ha patteggiato un corso per imparare a controllare gli accessi di collera e se l'è cavata così.» Fece una smorfia e rise. «Il suo avvocato era Buddy Conford.» «Buddy non è poi tanto male» osservò Jeffrey. Lena chiuse il fascicolo e gli lanciò un'occhiata incredula. «È una puttana. Rimette sulla strada i tossici e gli assassini.» «Fa il suo lavoro, come noi facciamo il nostro.» «E il suo lavoro distrugge il nostro.» Jeffrey scrollò la testa. «Dovrà parlare con te per il caso Weaver» disse. «La mia condotta.» Lena rise. «Ha avuto l'incarico da Dottie Weaver?»
«Dalla giunta comunale» disse lui. «Credo che sia una specie di favore al sindaco.» Alzò le spalle. «In ogni modo, cerca di collaborare. Digli esattamente come sono andate le cose.» «Hai sparato di necessità.» Se c'era una cosa di cui Lena era sicura tra le tante incertezze che aveva nella vita, era che Jeffrey in quel frangente non aveva avuto alternative. «E Brad sosterrà la stessa cosa» aggiunse. Jeffrey rimase zitto, sembrava che volesse lasciar cadere l'argomento, ma dopo qualche secondo accostò sul lato della strada. Lena ebbe una specie di déjà vu e arrossì di imbarazzo al pensiero di quello che le era successo la mattina, mentre si trovava in macchina con Hank. Si disse che con Jeffrey non poteva succedere. Con lui poteva dimostrarsi forte, perché lui non la vedeva come la vedeva Hank. Lo zio la considerava ancora l'adolescente del tempo in cui vivevano insieme. Aspettò che Jeffrey fermasse la macchina e si girasse verso di lei. Si sentì rizzare i peli sotto la nuca e pensò di essere nei guai. «Detto tra noi...» cominciò Jeffrey, poi si trattenne. Aspettò che lei lo guardasse negli occhi e ripeté: «Detto tra noi». «Sì?» disse Lena. Non le piaceva il tono serio che aveva assunto. Immaginò che stesse per dire qualcosa a proposito di Sara e provò una stretta allo stomaco. Ma inaspettatamente lui disse: «Ho sparato». Lena annuì per farlo continuare. «Alla piccola Weaver» aggiunse, come se fosse necessaria una precisazione. Lei vide che era tormentato. Per la prima volta capì cosa significava leggere dentro qualcuno come in un libro aperto. Gli vide negli occhi un'angoscia che non si sarebbe mai aspettata da Jeffrey Tolliver. «Dimmi la verità» continuò lui, quasi implorando. «Tu c'eri. Hai visto come sono andate le cose.» «Sì» disse Lena. La stupì che Jeffrey avesse un bisogno così forte di conferme. «Dimmi cosa ne pensi.» Questa volta il tono era apertamente di supplica e di fronte al suo sgomento Lena provò una sorta di eccitazione. Jeffrey voleva qualcosa da lei. Jeffrey Tolliver, che l'aveva vista nuda, inchiodata al pavimento, tumefatta e sanguinante, voleva qualcosa da lei. Indugiò, assaporando la sua posizione di potere. «Certo» disse alla fine, ma senza troppa convinzione. Lui continuava a guardarla e lei gli lesse negli occhi il dubbio. Per un attimo pensò che stesse per crollare.
«Hai fatto quel che dovevi fare» gli disse. Jeffrey continuò a fissarla come se potesse vedere dentro di lei. Lena sapeva di aver usato un tono poco convinto e che a lui non era sfuggito. Non si era neppure data la pena di assicurargli che approvava il suo comportamento. Era stata volutamente ambigua. Neppure lei sapeva bene perché lo avesse fatto, ma continuò a provare una strana soddisfazione, anche quando Jeffrey mise in moto e riprese la strada. La contea di Grant era formata da tre città: Heartsdale, Madison e Avondale. Avondale e Madison erano più povere di Heartsdale, con molti parchi di roulotte, che erano gli alloggi più economici. Questo non significava necessariamente che gli occupanti delle roulotte fossero tutti degli emarginati. C'erano parchi dotati di un centro di ritrovo, di piscine e perfino di un servizio di sorveglianza, ed altri più noti per gli episodi di violenza domestica e le risse tra balordi alcolizzati. Il Kudzu Arms rientrava nella seconda categoria. Si trovava al margine estremo della città ed era composto da una serie di roulotte più o meno malandate, disposte a ventaglio in fondo a una strada sterrata. Alcuni residenti avevano tentato senza successo di coltivare delle aiuole, ma anche senza la siccità, che aveva imposto in tutta la Georgia restrizioni sul consumo dell'acqua, il caldo e il terreno arido facevano morire qualsiasi fiore. Lì la calura era insopportabile. Le piante non avevano speranze. «Piuttosto deprimente» osservò Jeffrey, tamburellando le dita sul volante. Un modo di fare nervoso che Lena non aveva mai notato in lui. Sentì arrivare il senso di colpa come una corrente sotterranea che la trascinava dalla parte sbagliata. Avrebbe dovuto essere più categorica sulla morte di Jenny. Avrebbe dovuto guardarlo negli occhi e dirgli la verità, cioè che uccidere quella ragazzina era la sola cosa che potesse fare. Non sapeva come riparare. Mille rassicurazioni non sarebbero valse a cancellare la reticenza iniziale e l'effetto che aveva prodotto. Cosa le era venuto in mente? Jeffrey domandò: «Qual è l'indirizzo?». Lena aprì il fascicolo, scorse la prima pagina e rintracciò col dito l'indirizzo. «Tre barra dieci» disse guardando le roulotte. «Queste hanno tutte il due.» «Vero» riconobbe Jeffrey. Guardò attorno, poi indietro da sopra la spalla, verso il lato opposto della strada. «Eccola là.» Mentre lui faceva manovra anche Lena si girò per guardare. C'era una grande casa mobile, forse grande il doppio delle altre, e, a differenza delle
altre, più simile a una vera casa. Lo spiazzo di fronte era ben tenuto e la fascia bassa era schermata da blocchi di pietra dipinti di nero, per far risaltare il bianco della parte abitabile. Lungo la fiancata era stato costruito un ampio portico. Di lato c'era una tettoia che fungeva da garage e accanto un grosso autoarticolato diesel. «Fa il camionista?» domandò Jeffrey. Lena controllò sulla pagina. «Trasporti ad ampio raggio. Probabilmente il camion è suo.» «Si direbbe che stiano abbastanza bene.» «È un lavoro che rende, se sei proprietario del mezzo» disse Lena continuando a scorrere le informazioni fornite dal fascicolo. «Oh, aspetta» disse. «Patterson è anche proprietario del Kudzu. L'ha messo su come attività secondaria.» Jeffrey parcheggiò di fronte alla roulotte. «Non se ne cura molto, però. Del parco roulotte, voglio dire.» «No» ammise Lena voltandosi a guardare in fondo allo sterrato. La casa dei Patterson era in netto contrasto con la desolazione del Kudzu Arms. Si domandò che tipo fosse il padre, che curava con orgoglio la propria abitazione e lasciava vivere gli altri nello squallore, a non più di trenta metri di distanza. Non che toccasse a lui occuparsi delle altre roulotte, ma avrebbe potuto scegliersi dei vicini più gradevoli, specialmente avendo due ragazzini in casa. «Teddy» disse. «Il padre si chiama Teddy.» «Maria ha controllato la sua fedina alla centrale» la informò Jeffrey. «Ha due incriminazioni per violenza, ma risalgono a dieci anni fa. Per una è stato dentro qualche tempo.» «La mela non cade mai lontano dall'albero.»» Mentre scendevano dalla macchina, un uomo corpulento uscì dalla roulotte. Lena immaginò che fosse Teddy Patterson e di fronte a quella mole minacciosa ebbe un momento di panico. Parecchi centimetri più alto di Jeffrey e con almeno quindici chili in più, poteva fare di loro quello che voleva. La indispettì che bastassero le dimensioni a impaurirla. Un tempo viveva nella convinzione di poter affrontare chiunque. Era una donna forte, con un'ottima muscolatura sviluppata in palestra, ed era sempre riuscita a imporsi di fare quello che doveva. Ma non era più così, e la vista di Patterson bastò a darle i brividi, anche se lui si stava semplicemente asciugando le mani in uno strofinaccio sporco.
«Vi siete perduti?» domandò. Portava i segni che ogni poliziotto impara a riconoscere: i classici tatuaggi che invadono le braccia dei detenuti nel corso del tempo passato in cella. Lena e Jeffrey si scambiarono un'occhiata che non sfuggì a Patterson. «Il signor Patterson?» domandò Jeffrey tirando fuori il distintivo. «Jeffrey Tolliver, polizia di Grant.» «Lo so chi è lei» ribatté Patterson infilandosi lo strofinaccio nella tasca. Lena vide che era macchiato di qualcosa che sembrava grasso. Notò anche che Patterson l'aveva completamente ignorata. Lena aprì la bocca per parlare, per fargli capire che esisteva anche lei, ma non le uscì nulla. Il pensiero di quell'uomo che sfogava la sua brutalità su di lei la paralizzò. «La detective Lena Adams» intervenne Jeffrey. Si era accorto che lei era spaventata, ma non lo dette a vedere. «Siamo venuti per parlare con Mark di quello che è successo ieri sera.» «Già» disse Patterson laconico. Voltò loro le spalle e si diresse alla porta. Si fermò intenzionalmente sulla soglia quando Jeffrey stava per entrare, tanto per creargli impaccio, e Lena poté constatare che era ancora più alto di quanto non le fosse sembrato dalla macchina. Quando toccò a lei passare, ebbe l'impressione che restringesse ulteriormente lo spazio tra la sua pancia e lo stipite. Lei sgusciò via di lato per evitare il contatto fisico e capì dal sorriso che gli affiorò sulle labbra che si stava divertendo a intimidirla. «Accomodatevi» disse indicando il divano. Né Jeffrey né Lena ubbidirono. Lui incrociò le braccia sul petto e li squadrò. Era così imponente che la testa arrivava a pochi centimetri dal soffitto basso. Il locale era spazioso, ma Patterson lo riempiva solo con la sua presenza. Lena si guardò in giro cercando di comportarsi da poliziotto e non da ragazzina impaurita. Tutto era in ordine e pulito, e non come avrebbe immaginato se avesse incontrato Ted Patterson in un bar. La stanza in cui si trovavano era un lungo rettangolo, col caminetto e un grande televisore, la cucina in fondo, e un corridoio laterale che doveva condurre alle camere. C'era un profumo di fiori, probabilmente diffuso dai filtri del condizionatore. Si intuiva la presenza di un tocco femminile, le pareti erano rosa pallido, il divano e le due poltrone celesti a righe rosa. Sopra il divano era buttata una trapunta intonata alle fodere. Sul tavolino era posata una ciotola piena di fiori freschi circondata da riviste femminili. Alle pareti c'erano stampe incorniciate con gusto e tutti i mobili avevano un aspetto nuovo.
Anche il tappeto sembrava appena passato con l'aspirapolvere. Sul pelo lungo erano rimaste le impronte dei passi di Patterson. «Vogliamo solo parlare con Mark di quello che è successo ieri sera» ripeté Jeffrey mentre Lena continuava la sua ispezione. Si era fermata a guardare un quadro appeso sopra il caminetto che raffigurava Gesù. Le mani trafitte e macchiate di sangue erano aperte nella classica esortazione evangelica: «Venite a me». Anche Jeffrey doveva averlo notato, perché quando Lena si costrinse a levare lo sguardo vide che la stava guardando. Inarcò le sopracciglia, come a chiederle se andava tutto bene. Patterson li stava osservando. Naturalmente sapeva della tragedia capitata a Lena, e lei non poté fare a meno di figurarselo che si godeva i particolari della vicenda riportati dai giornali. La sua presa su di lei stava diventando soffocante e per non cedere Lena lo guardò fisso negli occhi. Patterson resse il suo sguardo per un secondo, poi le guardò le mani. Lei capì all'istante cosa cercava, stava resistendo all'impulso di nasconderle nelle tasche, quando una donna minuta col viso segnato arrivò dal corridoio e domandò: «Teddy? Sei andato a prendermi le pillole?». Si fermò quando vide Jeffrey e Lena. «Che succede?» disse portandosi una mano al collo. «Polizia» annunciò Patterson. Guardò subito altrove, ma un guizzo di imbarazzo gli attraversò lo sguardo, come se la moglie potesse indovinare a cosa pensava guardando Lena. «Bene» disse lei con una smorfia di disappunto. «Ditemi cosa volete.» Era una donna bassa, che non arrivava al metro e sessanta di Lena, con radi capelli biondi che lasciavano intravedere la cute. Aveva un'aria emaciata che a Lena ricordò le immagini dei sopravvissuti all'olocausto riprodotte sui libri di scuola. Ciò nonostante, trasmetteva un'impressione di forza e Lena immaginò che fosse lei a tenere la roulotte pulita e in ordine. Sotto un'apparenza di grande fragilità aveva il piglio della persona capace di affrontare le situazioni della vita. «Immaginavo che sareste venuti» disse, «non posso dire di essere sorpresa.» Continuava a tenere la mano sul collo e giocherellava nervosamente con il ciondolo della catenina. Dato il Gesù alla parete, Lena immaginò che si trattasse di una croce. «La signora Patterson?» domandò Jeffrey. «Grace» precisò lei porgendo la mano. Jeffrey la strinse e Lena sfruttò il momento per osservare Teddy Patterson. Guardava Jeffrey e la moglie con un'espressione apatica. L'arrivo di Grace l'aveva come avvilito, stava a
spalle incurvate e non sembrava più tanto minaccioso. «Vorremmo parlare con Mark» disse Jeffrey. «È in casa?» Grace Patterson lanciò un'occhiata preoccupata al marito. «Perché non ti siedi, tesoro?» disse lui, poi, quasi a giustificarsi con Jeffrey aggiunse: «È stata malata negli ultimi tempi». «Mi dispiace» disse Jeffrey. Prese posto accanto a Grace e con un cenno del capo invitò Lena a fare lo stesso. Lena esitò, ma alla fine andò a sedersi sulla poltrona. La luce che filtrava dalla finestra colpiva in viso Grace Patterson facendola sembrare ancora più pallida. Aveva occhiaie profonde e le labbra di un innaturale colore rosa-bluastro. A Lena venne in mente che erano perfettamente in tinta con il soggiorno. «La devo ringraziare per non avere interrogato Mark ieri sera, capo Tolliver. Era sconvolto» esordì Grace. «È comprensibile. Ho ritenuto che avesse bisogno di un po' di tempo per riprendersi.» Teddy Patterson sbuffò. Lena non ne fu sorpresa. Teddy Patterson non era tipo da credere che in certi casi fosse utile riservarsi qualche attenzione. Sotto questo aspetto non era molto diverso da lei. Le cose succedevano e bisognava superarle. Senza stare a piangerci sopra. «E la sorella è in casa? Vorremmo parlare anche con lei» aggiunse Jeffrey. «Lacey?» disse Grace ricominciando a giocare con la catenina. «In questo momento è dalla nonna. Abbiamo pensato che per lei fosse meglio stare un po' via.» «Dov'era ieri sera?» «Qui» rispose Grace. «È rimasta a farmi compagnia.» Deglutì e si guardò le mani. «Di solito non le chiedo di rimanere, ma avevo passato una notte terribile e Teddy doveva lavorare.» Gli lanciò un sorriso. «A volte il dolore diventa insopportabile. Mi piace avere i ragazzi con me.» «Ma Mark non era qui» osservò Jeffrey, anche se era un'ovvietà. Grace si incupì. «No, non è rimasto a casa. Negli ultimi tempi è diventato difficile tenerlo a bada.» «Ha picchiato sua sorella, qualche tempo fa» disse Patterson. «Immagino che sia sulla sua scheda. È un disastro, quel ragazzo. Non promette niente di buono.» Grace non disse nulla, ma si capiva che non era d'accordo. «Scusami» si giustificò Patterson. Sembrava davvero dispiaciuto e Lena
pensò che Grace doveva in qualche modo tenerlo in pugno. In pochi minuti l'aveva ridotto alla sottomissione. «Vado a cercare Mark» disse Patterson, e uscì dal soggiorno. Lena si bagnò le labbra. Non sapeva perché, ma non riusciva a parlare. Doveva fare delle domande, sapeva che Jeffrey si aspettava che fosse lei a interrogare, ma era troppo tesa per riuscire a concentrarsi. Il suo unico pensiero era di allontanarsi da quella roulotte e da Patterson il più presto possibile. Anche con la moglie e Jeffrey vicini, provava una strana paura. Si sentiva minacciata. Cercò di non pensare alla claustrofobia che sentiva in agguato. Guardò verso la cucina, che era spaziosa ma non grande. Le pareti erano foderate in carta color fragola e sopra il tavolo era appeso un orologio a forma di fragola. Grace si schiarì la voce. «Mark sta passando un brutto momento» disse per riprendere il discorso da dove l'aveva interrotto. «Anche a scuola non fa che mettersi nei guai.» «Mi dispiace, signora Patterson» disse Jeffrey. Si raddrizzò sul divano, forse per sottolineare la sua partecipazione. «E Lacey?» «Lacey non ha mai fatto niente di male in vita sua» disse Grace. «Dio mi è testimone. È un angelo.» Jeffrey sorrise e Lena capì cosa stava pensando. Di solito gli angeli sono quelli che commettono i crimini più efferati. «Esce con qualche ragazzo?» «Ha tredici anni» disse Grace. «Non lasciamo neppure venire altri ragazzi a casa.» «Non potrebbe vedersi con qualcuno di nascosto?» «Non vedo come» rispose Grace. «Tutti i giorni rientra dalla scuola in orario. Se esce, va con le sue amiche e ritorna all'ora stabilita.» Lena vide che Jeffrey cercava di catturare il suo sguardo, ma lo ignorò. «E qual è, l'ora stabilita?» «Nei giorni di scuola non la lasciamo uscire, naturalmente. Il venerdì e il sabato deve essere a casa entro le nove.» «Va mai a dormire da qualche amica?» Grace lo guardò insospettita, si stava rendendo conto che l'interesse di Jeffrey per Lacey non era semplice curiosità, ma puntava a un obiettivo preciso. L'espressione era simile a quella assunta qualche ora prima da Dottie Weaver di fronte a Lena, ma quella di Grace Patterson era più aggressiva. Disse: «Perché tante domande su mia figlia? È Mark, che quella ragaz-
zina ha minacciato con la pistola». «Dottie ci ha detto che Lacey e Jenny erano amiche.» «Be'...» cominciò, ancora dubbiosa. Era chiaro che stava cercando di prevedere le domande di Jeffrey. Alla fine disse: «Sì, erano amiche. Poi è successo qualcosa e hanno smesso di frequentarsi». Alzò le spalle. «È successo qualche mese fa. Jenny non si è fatta più vedere da noi, e Lacey ha smesso di andare a casa sua.» «Le ha mai detto perché?» «Ho pensato che si trattasse dei soliti litigi fra ragazze.» «E non le ha chiesto spiegazioni?» Grace alzò di nuovo le spalle. «È mia figlia, capo Tolliver, non la mia migliore amica. Le ragazzine hanno i loro segreti. Può chiederlo alla sua ex moglie.» Jeffrey annuì. «Sara dice che Lacey è una ragazza fantastica. Molto intelligente.» «Lo è» confermò Grace, compiaciuta che si facessero dei complimenti a sua figlia. «Ma non sta a me spiare, se lei non è disposta a parlare.» «Forse sarebbe disposta a farlo con qualcun altro.» «Vale a dire?» «Le dispiace se parlo con lei?» Grace gli lanciò un'occhiata. «È minorenne. Se non ha un motivo legittimo, non può parlare con lei senza il mio permesso. Dico bene?» «Non la riteniamo un elemento sospetto, signora Patterson. Vogliamo parlare con lei per farci un'idea dello stato mentale in cui si trovava Jenny Weaver. Non abbiamo bisogno del suo permesso per questo.» «Le ho già detto che Lacey non vedeva più Jenny da qualche tempo... probabilmente da Natale. Non saprebbe cosa dirle.» Fece un sorriso garbato ma freddo. «Non voglio che mia figlia venga interrogata, capo Tolliver.» Fece una pausa. «Né da lei, né dalla dottoressa Linton.» «Non è sospettata di nulla.» «Voglio che la mia decisione venga rispettata» disse. «Devo chiamare la scuola e avvisare la direzione che mia figlia non può parlare con nessuno senza la mia presenza o quella di suo padre?» Jeffrey rimase zitto. Probabilmente stava pensando che Grace Patterson in materia di legge ne sapeva più di quanto avesse immaginato. Le scuole erano molto disponibili con i tutori della legge, e dato che il direttore faceva le veci dei genitori quando i ragazzi erano a scuola, poteva autorizzare l'interrogatorio senza consultare la famiglia.
«Non sarà necessario» disse. «Ho la sua parola?» Jeffrey annuì. «Sì, ma ritengo che sia molto importante parlare con lei» insistette. «Se vuole presenziare, sarà la benvenuta.» «Dovrò parlarne con Teddy. Ma possiamo entrambi immaginare cosa risponderà.» Accennò un sorriso per annunciare la fine delle ostilità. «Sa come sono i papà con le loro bambine.» Jeffrey sospirò e annuì un'altra volta. Lena non aveva dubbi su come avrebbe reagito Teddy Patterson alla proposta che sua figlia parlasse con uno sbirro. I detenuti imparavano in fretta a non fidarsi della polizia, e benché lui fosse fuori da parecchio tempo, non dava l'impressione di aver rinunciato ai vecchi principi. Jeffrey però non si arrese. «Sua figlia è stata ammalata di recente?» «Lacey?» domandò Grace, evidentemente sorpresa. «No, certo che no. Lo domandi alla dottoressa Linton, se vuole.» Si mise la mano sul petto. «Io sono l'unica della famiglia che sia mai stata ammalata.» «Andava in chiesa? Intendo dire Lacey.» «Sì.» Sorrise di nuovo e Lena notò i denti quasi grigi. «Anche Mark ci andava. Fino a qualche tempo fa, almeno.» Si interruppe e guardò verso il caminetto. Lena pensò che guardasse il quadro, ma poi vide che sulla mensola c'erano le fotografie di famiglia. Erano le solite istantanee che non mancano mai in una casa; genitori e figli sulla spiaggia, al parco dei divertimenti, in campeggio nei boschi. La Grace di quelle foto era un po' più in carne e meno sciupata, e i figli erano più piccoli. Il maschio che doveva essere Mark era sui dieci o gli undici anni e sua sorella sugli otto. Sembravano una famiglia felice. Perfino Teddy Patterson sorrideva alla macchina fotografica, nelle poche in cui compariva. «E andavano alla chiesa battista?» «La nuova chiesa» rispose Grace, per la prima volta con vivacità. «All'inizio sembrava che Mark si trovasse molto bene. Come se avesse trovato un modo per canalizzare la sua energia nervosa. Anche a scuola era migliorato.» «E poi?» «E poi...» Scosse la testa lentamente e incurvò le spalle. «Non lo so. Verso Natale ha ricominciato a comportarsi male.» «Lo scorso Natale?» «Sì. Non so cosa sia successo, ma le crisi di rabbia sono ricominciate. Sembrava così...» lasciò cadere la voce. «Abbiamo cercato di mandarlo da
uno psicologo, ma non ci andava mai. Non riuscivamo a convincerlo. Suo padre...» guardò verso il corridoio, come per accertarsi che non ci fosse nessuno, «...ci ha provato. Teddy è convinto che tutti dovrebbero essere come lui. I maschi, voglio dire. O meglio, gli uomini. Ha idee molto precise su come bisogna comportarsi.» «Durante le vacanze di Natale la chiesa ha organizzato una vacanza in montagna. Mark ci è andato?» «No» scosse il capo. «In quel periodo aveva cominciato a fare le bizze. Era in punizione e suo padre non l'ha lasciato andare.» «Lacey ci è andata?» «Sì» sorrise. «Non era mai andata a sciare. Si è divertita un mondo.» Cadde il silenzio e Grace Patterson prese a levarsi dei peluzzi inesistenti dal vestito. Si capiva che aveva altro da dire. «Io sono molto malata» disse a voce bassa. «I medici non mi danno molte speranze.» «Mi dispiace tanto» disse Jeffrey sinceramente dispiaciuto. «Cancro al seno» disse Grace, portandosi la mano al petto. Solo allora Lena notò che sotto la blusa aveva il petto quasi completamente piatto. «Lacey se la caverà. Lei casca sempre in piedi. Ma non oso pensare cosa succederà a Mark quando me ne andrò. Nonostante tutto è un caro ragazzo.» «Sono sicuro che troverà la sua strada» la rassicurò Jeffrey, ma era evidente che non ci credeva. A meno di un miracolo, i ragazzi come Mark difficilmente cambiavano. Grace non si lasciò abbindolare e sospirò scoraggiata: «Oh, non sono una stupida, signor Tolliver, ma la ringrazio lo stesso». Si udirono in corridoio i passi pesanti di Teddy Patterson e quando si piantò nel soggiorno la roulotte ebbe un lieve sussulto. Il figlio era alle sue spalle, una figura in netto contrasto col padre. Patterson lo afferrò per il braccio e lo spinse avanti. La prima impressione che ebbe Lena fu di un ragazzo molto bello. La sera prima, nella tensione generale, non lo aveva notato. Dentro la roulotte poté prendersi il tempo per osservarlo con attenzione. I capelli biondi erano simili a quelli della madre, ma più folti e un po' più corti. Aveva le ciglia più lunghe che lei avesse mai visto in un maschio e gli occhi di un azzurro intenso. Come quasi tutti i sedicenni, cominciava a sviluppare un po' di peluria sul mento e un'ombra di baffi sopra le labbra carnose. Mentre Lena lo guardava, si portò i capelli dietro l'orecchio con un gesto
che lei trovò quasi erotico. Anche il modo che aveva di muoversi e di tenere le spalle aveva un che di sensuale. I jeans sdruciti scendevano appena sotto i fianchi sottili e la maglietta aderente scappava in alto lasciando scoperta la linea degli addominali. Ma nonostante tutta la sua bellezza aveva un che di asessuato. Era un sedicenne sul punto di diventare uomo, in cui l'impronta adolescenziale esaltava quel carattere androgino che stava diventando popolare tra i giovani. Quando Lena era alle superiori, i ragazzi facevano di tutto per sembrare più mascolini, ora invece prevaleva la tendenza a confondere i ruoli. «Eccolo qui» ringhiò Patterson spingendolo ancora più avanti. Il padre sembrava ancora più infastidito di prima e serrò i pugni come se si preparasse a picchiarlo. Il suo machismo ostentato, con quei modi burberi, ricordò a Lena suo zio Hank quando era giovane. «Noi ci facciamo un giro in macchina» disse Patterson alla moglie. «Andiamo in farmacia a prendere le tue pillole.» «Teddy...» fece Grace, ma la voce le morì in gola. Lena non si spiegava come mai, un uomo come Teddy Patterson, con un'innata diffidenza per le forze dell'ordine, potesse lasciare il figlio in balia di due poliziotti. In base alla legge, il padre poteva pretendere di presenziare all'interrogatorio, invece sembrava deciso a lasciarlo solo nei suoi guai. Jeffrey colse al volo l'occasione. «Signor Patterson» disse, «le dispiace se fissiamo un appuntamento con Mark per domani mattina? Vorrei che si sottoponesse a un prelievo di sangue.» Patterson inarcò le sopracciglia, ma poi annui. «Gli dica dove e quando e si presenterà.» «Teddy...» ritentò la moglie. «Muoviamoci» la interruppe lui. «La farmacia sta per chiudere.» Evidentemente Grace Patterson sapeva come dosare il potere che esercitava sul suo uomo. Si alzò e porse la mano prima a Jeffrey e poi a Lena. A lei non aveva ancora rivolto la parola, ma trattenne la sua mano più a lungo di quanto fosse necessario per un semplice arrivederci. «Stia bene» le disse. Prima di seguire il marito si fermò di fronte al figlio per dargli un bacio. Era più bassa di lui e dovette sollevarsi sulle punte per raggiungere la guancia. «Ci vediamo dopo» gli disse, accarezzandolo sulla spalla. Mark la guardò andare via, poi si passò le dita sulla guancia che lei aveva baciato e se le fissò come se potesse vederci il bacio. «Mark?» lo richiamò Jeffrey.
«Signore?» disse lui trascinando la parola. Non stava dritto e si dondolava leggermente. «Sei fatto?» gli domandò Jeffrey. «Sì signore» rispose. Si appoggiò con la mano alla spalliera della poltrona e Lena notò che portava al dito il grosso anello d'oro della scuola. La pietra rossa catturò la luce rendendo invisibili le iniziali incise. «Mi vuole portare in prigione?» domandò. «No. Voglio parlare con te di quello che è successo ieri sera.» «Quello che è successo ieri sera» ripeté con la voce impastata. «La devo ringraziare per aver sparato alla persona giusta.» Jeffrey tirò fuori il taccuino e lo aprì su una pagina bianca, poi prese la penna e scrisse il nome del ragazzo. «Tu credi?» Mark sorrise con indolenza. Girò intorno alla poltrona, si sedette e sospirò socchiudendo appena le labbra. C'era una carica di sensualità anche in quei semplici movimenti e Lena provò una sorta di attrazione invece della repulsione che si sarebbe aspettata. Non aveva mai conosciuto un adulto che sembrasse così a suo agio col suo corpo, e tanto meno un adolescente. Jeffrey cominciò dalla domanda più ostica: «Sei tu il padre della neonata che è stata trovata ieri sera?». Mark inarcò le sopracciglia come aveva fatto suo padre. «No» disse senza esitazione. Jeffrey tentò un'altra strada. «Tua sorella era con te ieri sera?» «No signore» rispose Mark. «Mia madre, sa, non sta molto bene. Lacey è rimasta a casa con lei.» Alzò le spalle. «Non succede spesso. Con noi la mamma non vuole dare a vedere che sta morendo.» Deglutì in modo visibile, distolse lo sguardo e guardò fuori dalla finestra. Fu un attimo, poi tornò a fissare Jeffrey con il sorriso sulle labbra. C'era qualcosa di particolare nella sua bellezza, come se fosse velata da un'ombra, e non solo per quello che gli era capitato la sera prima. Come se qualcosa l'avesse segnato, qualcosa che a Lena sembrò di riconoscere. Sembrava fragile e nello stesso tempo pericoloso. Non aveva l'aria minacciosa del padre, tutt'altro, semmai dava l'impressione di essere un pericolo per se stesso. Per la prima volta da quando erano entrati, Lena riuscì ad articolare una frase. «Tua sorella ti è simpatica?» domandò. «È una santa» rispose Mark rigirando l'anello sul dito. «La cocca di papà.» «È sempre stata bene negli ultimi tempi?» domandò Lena. «Non si è
ammalata o qualcosa del genere?» Mark la fissò negli occhi. Non era ostile, sembrava semplicemente incuriosito. Disse: «Mi pare che stesse bene, stamattina. Dovrebbe chiederlo a lei». «Come mai Jenny Weaver era così infuriata con te?» Mark alzò le spalle, le trattenne per un secondo e le lasciò ricadere. Sollevò la maglietta e cominciò ad accarezzarsi con noncuranza la pancia sotto gli occhi di Lena. «Be', sa. Ci sono un sacco di ragazze che si arrabbiano con me.» «Stavate insieme?» domandò Jeffrey. «Nel senso che avevamo una relazione?» Scosse lentamente la testa. «No. Cioè, ci sono andato a letto un paio di volte, ma non era una cosa seria.» Alzò una mano per prevenire Jeffrey. «È successo quando avevo quindici anni, agente.» «Ci devono essere almeno quindici anni di differenza perché sia corruzione di minorenne» lo tranquillizzò Lena. Jeffrey si agitò sul divano. L'uscita di Lena non gli era piaciuta. Avrebbe potuto sfruttare l'ammissione di Mark per metterlo alle strette e adesso doveva trovare qualcos'altro. Domandò: «Quando è stata l'ultima volta che hai fatto sesso con lei?». «Non lo so» rispose Mark continuando ad accarezzarsi la pancia. Lena gli notò un piccolo tatuaggio sulla mano, sulla membrana fra il pollice e l'indice. Un cuore nero con al centro un piccolo cuore bianco capovolto. Doveva esserselo fatto da solo perché il disegno era rudimentale, come i tatuaggi di suo padre fatti in cella con mezzi di fortuna. «Facevate sesso molto spesso?» domandò Lena. Mark alzò le spalle. «Abbastanza» disse senza smettere si accarezzarsi. Guardò Lena con malizia e cominciò a tirarsi la peluria fra l'ombelico e il pube. Lei guardò Jeffrey sperando che intervenisse, ma non stava guardando, era occupato a riprodurre il disegno del tatuaggio sul taccuino. «Abbastanza quanto?» chiese finalmente Jeffrey, mentre anneriva il cuore con la penna. «Le ho detto che è stato circa un anno fa. Lo voleva lei, mi pregava di farlo.» Jeffrey terminò il disegno e alzò gli occhi. «Non sto cercando di incastrarti per stupro, Mark. Per quel che mi riguarda, potevi anche scoparti una capra in mezzo al cortile. Non siamo qui per questo.» «Volete sapere perché voleva uccidermi.»
«Esatto» disse Lena. «Vogliamo capire cosa c'era sotto, Mark. Vogliamo sapere di Jenny e perché ha fatto quello che ha fatto.» Mark le lanciò un sorriso indolente. «Lo sa, detective, che lei è molto carina?» Lena si imbarazzò, timorosa di avere inviato dei segnali al ragazzo senza volerlo. Di sicuro il sesso era l'ultima cosa che aveva in mente, Mark l'aveva colpita solo perché era di una bellezza che rasentava la perfezione. Sembrava una star del cinema, addirittura troppo bello per essere vero, e lei lo aveva guardato come si può guardare un bel dipinto o una scultura raffinata. «Anche tu sei piuttosto bello, Mark» rispose con un tono tagliente. Teddy Patterson poteva anche fantasticare di scoparsela, ma non quel ragazzino precoce. «Ed è questo che mi stupisce, riguardo a Jenny. Non si può dire che lei fosse una bellezza. Non eri riuscito a trovarti qualcosa di meglio?» L'osservazione lo colpì proprio dove voleva Lena, cioè nel suo ego. «Mi deve credere, detective, ho avuto molto di meglio.» «Ah sì? E allora? Te la scopavi per bontà?» «Qualche volta me lo lasciavo succhiare.» Fece scendere le dita sotto la pancia e la guardò per saggiare la sua reazione. Questo permise a Lena di capire più a fondo il ragazzo. Aveva imparato a sfruttare abilmente la sua bellezza. Non c'era da stupirsi che suo padre, che aveva il fisico di un treno merci, fosse disgustato dal figlio. Lena provò un'improvvisa compassione per lui. Cambiò posizione sulla poltrona, inquieta: aveva passato troppo tempo a compatire se stessa, e non riusciva a capacitarsi di un sentimento così nuovo per lei. Mark disse: «Faceva una cosa con la lingua, come con il lecca-lecca. Niente denti. Favoloso». Lena si impose di non reagire, ma il cuore prese a batterle più in fretta. Forse il ragazzo non aveva idea di chi fosse lei e di quello che aveva passato. Capì che Jeffrey stava per parlare e per impedirgli di intromettersi disse la prima cosa che le passò per la mente. «Dunque, le concedevi di farti dei pompini» disse. Voleva fare la sfrontata, ma aspettò la risposta a denti stretti. Il ragazzo sorrise di nuovo e la fissò con gli occhi azzurri scintillanti di soddisfazione. «Proprio così.» «Qui? In questa casa?»
Mark tossicchiò. «In corridoio.» «Con tua madre in casa?» Si irrigidì, più impaurito che arrabbiato. «Lasciate fuori mia madre da questa storia.» Lena sorrise. «Non possiamo Mark, perché è lì che hai inciampato. Non faresti mai una cosa simile con tua madre in casa.» Storpiò le labbra e prese tempo per pensare. «Magari lo facevamo a casa sua, magari in macchina.» «Che significa, che uscivi con Jenny? Che la portavi fuori?» «No, merda. C'era anche lei quando accompagnavo mia sorella.» Accavallò le gambe e finalmente smise di toccarsi. «Al centro commerciale, al cinema, in vari posti.» «E in quelle occasioni la lasciavi fare? Quando andavate da qualche parte?» Alzò le spalle in segno di assenso. «E tua sorella dov'era? Seduta davanti?» Impallidì lievemente. Mark era un andirivieni arruffato tra infanzia, adolescenza ed età adulta. Se qualcuno avesse domandato a Lena quanti anni aveva Mark Patterson, lei avrebbe scelto a caso un numero tra dieci e venti. Si schiarì la voce e gli domandò: «Dov'era Lacey, mentre tu lasciavi fare a Jenny, Mark?». Mark fissò la composizione floreale sul tavolino. Rimase zitto per un po', poi disse: «Ci incontravamo alla chiesa, va bene?». Lo disse in un fiato, senza staccare le parole, come avrebbe fatto suo padre. «Facevi sesso con lei alla chiesa» puntualizzò Lena. «Nel seminterrato» spiegò lui. «Non chiudono mai le finestre e potevamo andare e venire, va bene?» «Mi sembra piuttosto elaborato» osservò Lena. «Cosa vuol dire?» Lena cercò un altro termine. «Non casuale, Mark. Sai cosa vuol dire?» «Non sono mica scemo.» «Portarla al centro commerciale, accompagnare lei e tua sorella al supermercato» si interruppe per vedere se la stava seguendo, «le definirei occasioni. C'era lei, c'eri tu, e in qualche modo succedeva.» «Esatto. Così andava.» «Ma alla chiesa» obiettò Lena. «Alla chiesa secondo me c'era l'intenzione. Non si trattava di occasioni fortuite. Erano incontri programmati.»
Mark annuì poi rimase immobile. «E allora?» disse. «Allora» riprese Lena, «se la tua era una relazione occasionale, perché programmavi degli incontri di sera?» Mark girò lentamente la testa e guardò verso la finestra. Era chiaro che non riusciva a trovare una risposta plausibile. Lena disse: «Lei è morta, Mark». «Questo lo so» sussurrò. Lanciò un'occhiata fugace a Jeffrey e fissò il pavimento. «L'ho vista morire.» «È così che vuoi parlare di lei? Sostenendo che era un puttana?» gli domandò Lena. «Vuoi davvero distruggerla fino a questo punto?» Lena gli vide la gola ingrossarsi mentre deglutiva. Dopo qualche secondo farfugliò qualcosa di incomprensibile. «Come hai detto?» domandò Lena. «Non era cattiva» disse sbirciandola con la coda dell'occhio. Sulla guancia scese un lacrima e lui tornò a guardare la finestra. «D'accordo?» «D'accordo.» «Lei mi stava a sentire» cominciò, a voce così bassa che Lena istintivamente si protese per sentire. «Era intelligente, sa? Leggeva e cose simili, e mi aiutava nei compiti.» Lei si limitò ad appoggiarsi allo schienale per lasciarlo proseguire. «Gli altri pensano sempre male di me» disse con una voce infantile. «Pensano che sono fatto in un certo modo, ma non è sempre così. Magari sono anche qualcos'altro. Magari sono un essere umano anch'io.» «Certo che lo sei» disse Lena. Pensò che lo capiva più di quanto lui potesse immaginare. Ogni volta che si trovava in mezzo alla gente, Lena aveva l'impressione che il suo vero io venisse cancellato. Per gli altri era solo la ragazza che era stata stuprata. A volte arrivava a domandarsi se non sarebbe stato meglio morire. Morendo poteva diventare una figura tragica, così invece era solo una povera vittima. Mark si passò le dita sulla peluria che aveva sulla guancia e riportò Lena all'interrogatorio. Disse: «Ho fatto delle cose, va bene? E magari io non le volevo fare e lei non le voleva fare...». Scosse la testa e chiuse gli occhi. «Le cose che ha fatto...» smorzò la voce. «Lo so che era grassa. Ma era anche qualcos'altro.» «Cos'era, Mark?» Tamburellò le dita sul bracciolo. Quando ricominciò a parlare sembrava più sicuro di sé. Aveva ripreso il controllo. «Lei mi stava a sentire. Sa, la
mia mamma...» Fece una risata amara. «Come la volta che la mamma ci ha detto che non voleva più fare altre chemio, che aveva deciso di lasciarsi morire. Jenny ha capito.» Trovò un filo sul bracciolo della poltrona e cominciò a tirarlo finché non si strappò. Si era talmente concentrato su quel filo che sembrava si fosse dimenticato di Lena e Jeffrey. Lena guardò Jeffrey. Era sprofondato nel divano e fissava Mark in attesa che continuasse. «Mi aiutava con la scuola» disse lui, rigirando l'anello sul dito. «Era più giovane di me, ma sapeva un sacco di cose. Le piaceva leggere.» Sorrise come se gli fosse tornato in mente un episodio lontano. Si passò il dorso della mano sotto il naso. «All'inizio era solo amica di Lacey. Credo che avessero un sacco di cose in comune. Con me era così gentile.» Scrollò la testa, come per schiarirsi le idee. «A me piaceva, proprio perché era gentile con me.» Le labbra ebbero un tremito. «Quando la mamma si è di nuovo ammalata...» cominciò, ma si trattenne. «Noi pensavamo che ormai l'aveva fatto fuori, no? E invece era ricomparso, e lei ha cominciato ad andare e venire dall'ospedale e a stare sempre male. Così male che certe volte non riusciva neanche a camminare. Così male che mio padre doveva aiutarla a tenersi in piedi per fare la doccia.» Fece una pausa. «E a un certo punto ci ha detto che non voleva più fare la chemio, che non sopportava più di stare sempre male. Ha detto che non voleva farsi vedere così da noi, ma come vuole che la vediamo? Morta?» Si coprì gli occhi con le mani. «E Jenny era lì, capisce? Era lì per stare vicino a me, mica a nessun altro...» si interruppe. «Era tanto buona, e si interessava a me, parlava con me e capiva cosa stavo passando. Non le importava di essere una ragazza pompon o di portare il mio fottuto anello della scuola. Voleva solo starmi vicino.» Lasciò cadere le mani e guardò Lena. «Non lo faceva per Lacey, o per mio padre. Pensava che io fossi buono. Pensava che io valessi qualcosa.» Affondò la testa fra le mani e scoppiò a piangere. Cadde il silenzio, si sentiva solo il ticchettio della pendola appesa alla parete che a Lena pareva fortissimo, le rimbombava nelle orecchie. Accanto a lei Jeffrey era assolutamente immobile, aveva una capacità particolare di fare come se non ci fosse per lasciare a lei il comando. Le parve che fossero tornati ad essere quelli di un tempo. Lei era di nuovo la detective che sapeva esattamente come mandare avanti le cose. Inspirò a fondo, sollevando le spalle per riempire i polmoni. In quel momento, in quella particolare stanza, era di nuovo se stessa. Per la prima volta da mesi, era di nuovo
la vera Lena. Lasciò passare un po' di tempo poi disse a Mark: «Spiegami cosa è successo». Lui scrollò la testa. «Ho fatto male. È andato tutto a finire male.» Si chinò in avanti col petto sulle ginocchia e una smorfia di dolore in viso, come se avesse preso un calcio nella pancia. Nascose la faccia tra le mani e ricominciò a singhiozzare. Senza quasi rendersene conto, Lena si ritrovò in ginocchio accanto a lui a stringergli la mano. Gli posò l'altra sulla schiena e cominciò a consolarlo. «Va tutto bene» disse per rassicurarlo. «Io le voglio bene» mormorò. «Le voglio ancora bene, anche dopo quello che ha fatto.» «Lo so» disse Lena, massaggiandogli la schiena. «Era infuriata con me» disse tra i singhiozzi. Lena prese un kleenex dalla scatola sul tavolino e glielo passò. Lui si soffiò il naso e bisbigliò: «Le avevo detto che dovevamo smettere». «E perché dovevate smettere?» domandò Lena in un sussurro. «Non ho mai pensato che avesse bisogno di me. Pensavo che fosse più forte di me. Più forte di tutti.» La voce si incrinò. «Invece non era così.» Lena gli accarezzò la nuca. «Che cosa è successo, Mark? Perché è arrivata a odiarti?» «Lei crede che mi odi?» domandò guardandola negli occhi. «Davvero crede che mi odi?» «No, Mark.» Gli scostò i capelli dal viso. Mark parlava al presente, come succede spesso a chi non riesce ad accettare la morte di una persona cara. Lo aveva fatto anche Lena con sua sorella. «Certo che non ti odia.» «Le ho detto che non l'avrei più fatto.» «Fatto cosa?» Fece segno di no con la testa. «È inutile» disse. «Che cosa è inutile?» lo incalzò Lena cercando di fargli alzare la testa. Lui la sollevò lentamente e per un secondo terribile Lena credette che la volesse baciare. Si tirò indietro di scatto sui talloni aggrappandosi al bracciolo per non cadere. Forse Mark si rese conto di averla spaventata, perché si voltò per prendere un altro fazzoletto e si soffiò il naso guardando Jeffrey. Lena evitò di guardare entrambi. Riuscì solo a dirsi che aveva oltrepassato il limite, ma quale fosse il limite e dove era tracciato non lo sapeva neppure lei. Mark si rivolse a Jeffrey con un tono più sicuro. Il ragazzino che si era
commosso pochi istanti prima era scomparso. L'adolescente insolente era ritornato. «C'è altro?» «A Jenny piaceva studiare?» domandò Jeffrey. Mark alzò le spalle. «Era interessata ad altre culture, ad altre tradizioni?» aggiunse Lena. «E perché avrebbe dovuto?» ribatté stizzito. «Tanto non ce ne andremo mai da questo buco fottuto.» «Quindi la risposta è no?» domandò Lena. Mark increspò le labbra come per inviare un bacio. «No.» Jeffrey si mise a braccia conserte e ricominciò. «Verso Natale avete smesso di essere amici. Come mai?» «Mi ero stufato di lei.» «Che altri amici aveva Jenny?» «Me. Lacey. Questo è tutto.» «Non aveva altri amici?» «No» disse. «E noi non eravamo neppure veri amici.» Ridacchiò. «Era sola, credo. Non è una cosa triste, signor Tolliver?» Jeffrey lo fissò senza rispondere. «Se non avete altre domande, andate via.» «Conosci la dottoressa Linton?» domandò Jeffrey. «Certo.» «Voglio che ti presenti al centro pediatrico domani, entro le dieci, per un prelievo di sangue.» Gli puntò il dito addosso. «Non costringermi a venire a cercarti.» Mark si alzò in piedi e strusciò le mani sui pantaloni. «Va bene, va bene.» Abbassò gli occhi su Lena, ancora accovacciata sul pavimento. Era all'altezza del suo inguine e quando lui se ne accorse fece un sorriso beffardo. Prima di andarsene la guardò di nuovo sollevando un sopracciglio e socchiuse le labbra nello stesso sorriso malizioso che le aveva lanciato prima. LUNEDI 8 Verso le sei del mattino Jeffrey rotolò giù dal letto e cadde sul pavimento. Si mise seduto brontolando per il dolore alla testa e cercò di capire dove si trovava. Il viaggio fino a Sylacauga era durato sei lunghe ore e appe-
na arrivato si era buttato sul letto senza neppure darsi la pena di levarsi i vestiti. La camicia era sgualcita, le maniche si erano arrampicate fin sopra il gomito e i pantaloni avevano la piega in quattro punti diversi. Sbadigliò e si guardò attorno. Da quando, più di vent'anni prima, se n'era andato ad Auburn, sua madre non aveva cambiato nulla nella sua camera di ragazzo. Dietro la porta era appeso il poster di una Mustang rossa decappottabile col tettuccio bianco. Sul pavimento della cabina armadio c'erano sei paia di scarpe da ginnastica logore. Sopra il letto la maglia della squadra di football della scuola, fissata con le puntine da disegno. Sotto l'unica finestra, una pila di audiocassette. Sollevò il materasso e ritrovò le copie di «Playboy» che aveva cominciato ad accumulare all'età di quattordici anni. In cima c'era ancora il suo numero preferito di «Penthouse», rubato al supermercato del quartiere. Si accovacciò e cominciò a sfogliare. Un tempo conosceva a memoria ogni pagina, da quelle con i fumetti a quelle con le splendide modelle in pose provocanti che avevano alimentato per mesi le sue fantasie sessuali. «Gesù» sospirò, pensando che alcune di quelle ragazze adesso erano già nonne. Forse qualcuna tirava avanti con la pensione sociale. Rimise a posto il materasso e controllò che non spuntasse fuori qualche rivista. Si domandò se sua madre le avesse mai trovate e cosa avesse pensato. Conoscendola, immaginò che le avesse ignorate o avesse trovato un pretesto per negare a se stessa che suo figlio teneva sotto il letto una quantità di materiale pornografico sufficiente a tappezzare la casa. Sua madre aveva la specialità di non vedere quello che non voleva vedere, come buona parte delle madri, del resto. Pensò a Dottie Weaver, che non si era accorta di quello che succedeva a sua figlia. La mano corse istintivamente allo stomaco al pensiero di Jenny nel parcheggio del pattinaggio. L'immagine era nitida come un'istantanea, rivedeva la ragazzina, immobile, con la pistola puntata su Mark Patterson. Ora anche Mark era più nitido nel ricordo, con più dettagli: rivedeva il modo in cui teneva le braccia scostate, le ginocchia lievemente piegate, lo sguardo fisso su Jenny. Per tutto quel tempo non aveva mai guardato Jeffrey, e anche dopo lo sparo era rimasto fermo, con gli occhi fissi a terra, dove giaceva Jenny. Si strofinò gli occhi per respingere l'immagine. Tornò con lo sguardo alla Mustang e la contemplò come aveva fatto ogni mattina della sua vita di adolescente. Aveva rappresentato tante cose per lui, ma soprattutto la libertà. Certe volte si sedeva sul letto, chiudeva gli occhi e immaginava di sali-
re su quella macchina e partire. Aveva sempre desiderato andarsene, lasciare Sylacauga e la casa di sua madre, diventare qualcos'altro che il figlio di suo padre. Suo padre, Jimmy Tolliver, era un ladro. Non faceva mai furti grossi, per sua fortuna, perché non la passava mai liscia. La moglie si divertiva a dire che Jimmy riusciva a farsi beccare anche se scoreggiava in una stanza affollata. Aveva una faccia che trasudava sensi di colpa ed era un chiacchierone. Il suo punto debole era proprio la lingua, non resisteva alla tentazione di andare in giro a vantarsi dei colpi che metteva a segno. Fu l'unico a stupirsi quando gli capitò di morire in prigione, dove stava scontando l'ergastolo per rapina a mano armata. Già all'età di dieci anni Jeffrey conosceva per nome quasi tutti gli agenti della polizia di Sylacauga, dato che ciascuno di loro era venuto almeno una volta a casa Tolliver per cercare Jimmy. Anche gli agenti di pattuglia conoscevano bene Jeffrey e ogni volta che lo incontravano scambiavano due parole con lui. Allora il fatto di essere preso da parte dai poliziotti lo indispettiva, lo considerava un abuso, ma adesso che era diventato a sua volta un poliziotto poteva capire che per loro era una forma di assicurazione sul futuro: avrebbero evitato di perdere tempo a correr dietro a un altro Tolliver che aveva rubato la falciatrice o le cesoie nel giardino del vicino. Doveva molto a quei poliziotti, forse la sua intera carriera. Aveva capito di voler diventare poliziotto l'ultima volta che erano venuti a casa ad ammanettare suo padre e Jeffrey gli aveva letto negli occhi la paura. Jimmy Tolliver era uno di quegli alcolisti che quando bevono diventano cattivi. In città lo consideravano solo un poco di buono ubriacone, ma Jeffrey e sua madre vivevano nel terrore delle sue esplosioni di violenza. Stirò le braccia fino a toccare il soffitto e pigiò le dita contro il legno caldo. Quando arrivò in bagno notò che perfino le calze si erano attorcigliate. Durante la notte il tallone era scivolato sopra la caviglia. Stava in equilibrio su un piede per sistemarsi il calzino, quando in camera squillò il cellulare. «Dannazione» esclamò sbattendo con la spalla contro il muro nel tentativo di infilare la porta. Adesso la casa gli sembrava molto più piccola. Prese il telefono al quinto squillo, un attimo prima che comparisse la scritta «chiamata persa». «Pronto?» «Jeff?» disse Sara con una voce preoccupata. Prima di rispondere assaporò per un istante il suono dolce della sua voce. «Ciao baby» disse.
Lei rise. «Sei in Alabama da meno di dieci ore e mi chiami già baby?» Aspettò un secondo poi aggiunse: «Sei solo?». «Certo che sono solo» rispose impermalito. «Mio Dio, Sara.» «Alludevo a tua madre» si giustificò lei, ma il tono non era molto convincente. Jeffrey decise di lasciar correre. «No, non è qui, passerà la notte in ospedale.» Si sedette sul letto e finì di raddrizzare le calze. «È caduta. Si è rotta un piede.» «È caduta in casa?» Non lo domandava per semplice curiosità e Jeffrey lo capì subito. Lui stesso era venuto in Alabama nel pieno delle indagini e non si era accontentato di una telefonata perché voleva capire a che punto era arrivata sua madre col consumo di alcol. Mary Tolliver era sempre stata una "alcolista funzionale", come si dice con un eufemismo, e Jeffrey non poteva sapere se aveva superato il limite. In tal caso avrebbe dovuto fare qualcosa. Non sapeva ancora cosa, ma capiva d'istinto che non sarebbe stato facile. «Ho parlato con il medico» la informò. «Non ho potuto parlare con lei per capire come sono andate le cose. La vedrò oggi, ti saprò dire.» «Probabilmente dovrà camminare con le stampelle» disse Sara. Jeffrey udì il rumore di una macchina per scrivere e immaginò che si trovasse in ufficio. Guardò l'orologio, stupito che fosse già al lavoro, ma poi si ricordò della differenza di fuso orario. Sara era un'ora avanti. «La signora Harris si occuperà di lei. Abita di fronte.» Sapeva che Jean Harris avrebbe fatto il possibile per aiutare la sua vicina. Lavorava come dietologa all'ospedale e quando Jeffrey era ragazzo lo invitava spesso a cena per fargli mangiare un pasto caldo. Sedere a tavola con le sue tre belle figlie era sicuramente più entusiasmante che mangiare il pasticcio di pollo, ma Jeffrey le era sempre stato grato per entrambe le cose. Sara disse: «Le devi raccomandare di evitare l'alcol, se prenderà degli analgesici. Avvisa anche il medico». Lui si guardò il calzino ancora storto e lo girò nell'altro verso. «Mi hai chiamato per questo?» domandò. «Ho avuto il tuo messaggio su Mark Patterson. Perché devo fargli un prelievo?» «Paternità» disse. Gli balenò nella mente un'immagine sgradevole. «Hai già la certezza?» «No. Tutt'altro, ma devo muovermi in tutte le direzioni.» «Come hai fatto ad avere l'autorizzazione del tribunale così in fretta?»
«Non serve. C'è il consenso del padre.» «Non ha nemmeno consultato un avvocato?» domandò incredula. Jeffrey sospirò. «Sara, è tutto spiegato nel messaggio che ti ho lasciato sulla segreteria ieri sera. C'è qualcos'altro?» «No» rispose a voce bassa. Poi aggiunse: «Anzi, sì». «Cosa?» «Volevo sapere come stavi.» «A parte il fatto che mi sono svegliato sapendo di avere ucciso una ragazzina di tredici anni, sto benissimo» disse sarcastico. Lei rimase zitta e lui lasciò prolungare il silenzio perché non sapeva cosa dire. Sara non lo chiamava mai, neppure per ragioni di lavoro. Di solito gli inviava dei fax e per le informazioni più delicate mandava Carlos, il suo assistente. Da quando avevano divorziato le telefonate personali erano fuori discussione e anche adesso che avevano ricominciato a vedersi era sempre Jeffrey a prendere l'iniziativa. «Jeff?» «Stavo pensando» disse. Poi per cambiare argomento: «Dimmi qualcosa di Lacey». «Te l'ho già detto ieri. È una brava ragazza.» Jeffrey avvertì la tensione nella voce. Sapeva che Sara si sentiva in qualche modo responsabile per Jenny Weaver, ma non poteva farci nulla. «È sveglia, divertente. Come Jenny, per certi aspetti» continuò lei. «Sei in confidenza con lei?» «Come si può esserlo con una ragazza che vedi qualche volta all'anno.» Fece una pausa, poi aggiunse: «È così. Con alcune si entra subito in contatto. Con Lacey è successo. Credo che si sia un po' innamorata di me». «Questo è bizzarro.» «Non direi. Un sacco di ragazzi si innamorano di persone adulte. Il sesso non c'entra, vogliono solo impressionarle, farle ridere.» «Non credo di avere capito.» «Alcuni ragazzi, non tutti, a una certa età perdono la stima per i genitori e trasferiscono i loro sentimenti su un altro adulto. È assolutamente normale. Cercano un modello di riferimento che non trovano nei genitori.» «E lei ha scelto te?» «Mi sembra di sì.» C'era una vena di tristezza nella voce. «Credi che te ne avrebbe parlato, se fosse stata a conoscenza di qualcosa?» «Chi può dire. Quando entrano alle medie cambiano. Diventano molto
più riservati.» «È quello che ha detto anche Grace Patterson. Hanno i loro segreti.» «È vero» confermò Sara. «Il cambiamento arriva con la pubertà. Tutti quegli ormoni, tutte quelle sensazioni insolite. Hanno un sacco di cose nuove da scoprire e l'unica cosa su cui non hanno dubbi è che gli adulti non possono capire quel che provano.» «E non credi» insistette Jeffrey «che se c'era qualcosa che non andava te ne avrebbe parlato?» «Mi piacerebbe crederlo, ma non dimenticare che per venire da me doveva farsi accompagnare dalla madre. E io non avrei potuto cacciarla fuori senza insospettirla.» «Credi che Grace si sarebbe opposta?» «Credo che si sarebbe preoccupata. È una buona madre. Segue molto i figli e si interessa a quello che fanno.» «È quello che ha detto Brad.» «Cosa c'entra Brad?» domandò Sara. «Segue il gruppo giovanile alla chiesa battista.» «Ah. È vero. Deve essere andato con loro in montagna.» «Infatti» disse Jeffrey. «C'erano otto ragazzi. Tre maschi e cinque femmine.» «Così pochi?» «È una piccola congregazione» le ricordò Jeffrey. «E poi sciare costa. Non tutti possono permetterselo, specialmente intorno a Natale.» «Questo è vero» ammise Sara. «C'era solo Brad ad accompagnarli?» «Doveva andare anche la segretaria della chiesa, per seguire le ragazze, ma all'ultimo momento si è ammalata.» «Hai già parlato con lei?» «Ha avuto un infarto. Ha solo cinquantotto anni.» Gli venne in mente che da ragazzo una persona di quell'età gli sembrava decrepita. «Si è trasferita in Florida per avere vicini i figli.» «E Brad cosa ti ha detto di Jenny e Lacey?» «Niente di particolare. Ha detto che se ne stavano in disparte mentre gli altri sciavano e si divertivano.» «Non è insolito nelle ragazze di quella età. Tendono a stare in piccoli gruppi separati.» «Già» sospirò Jeffrey. Le frustrazioni del giorno prima stavano riaffiorando. «Quando Jenny ha smesso di frequentare la chiesa, Brad è andato a trovarla a casa. Come l'ha visto, lei è scoppiata in lacrime e si è rifiutata di
parlare.» «E lui cos'ha fatto?» «Se n'è andato con la coda tra le gambe. Ha chiesto a Dave Fine di fare un altro tentativo, ma anche lui ha ricevuto lo stesso trattamento.» «Ne hai parlato con Fine?» «Solo di sfuggita. Aspettava qualcuno per una seduta terapeutica.» Come lo disse gli venne in mente Lena. Non avrebbe dovuto permetterle di sfruttare il suo appuntamento per interrogare Fine. Si era lasciato convincere solo perché lo trovava vantaggioso. «Jeffrey?» «Oh, scusami.» «Cosa ti ha detto Fine?» «Quello che ha detto Brad. Si è offerto di venire domani per parlarne con calma, ma ho l'impressione che nessuno dei due potrà essere di grande aiuto.» Si stropicciò gli occhi e cercò un altro appiglio. «E Mark Patterson?» domandò alla fine. «Non ti sembra un po' strano?» «Strano in che senso?» «Nel senso che...» cercò le parole. Non voleva entrare nel merito di quello che era successo a casa Patterson per non alimentare l'insofferenza di Sara nei confronti di Lena. Senza dubbio lo scambio tra Lena e il ragazzo era stato a dir poco inquietante. «È strano... non saprei come dire.» Sara rise. «E come faccio a risponderti?» «Sensuale» disse. Gli sembrò la parola giusta per descrivere Mark Patterson. «Mi è sembrato molto sensuale.» «Be'...» cominciò Sara. Jeffrey capì che era disorientata. «È un ragazzo molto bello. E credo che faccia sesso già da un bel po' di tempo.» «Ha appena compiuto sedici anni.» «Jeffrey» sbuffò Sara, come se stesse parlando a un idiota. «Io ho delle bambine di dieci anni che non hanno ancora avuto la prima mestruazione e vengono a chiedermi informazioni sui contraccettivi.» «Oh Gesù» sospirò Jeffrey. «Che bei discorsi, di primo mattino.» «Benvenuto nel mio mondo.» «Hai ragione.» Fissò la maglia della sua squadra sulla parete e cercò di ricordarsi com'era all'età di Mark Patterson, quando il mondo intero gli sembrava a portata di mano. Mark però non dava quell'impressione. Provò una fastidiosa sensazione di impotenza. Doveva tornare a Grant e cercare di capirci qualcosa. Per lo meno, doveva tenere d'occhio Lena. Gli era chiaro già da tempo che viveva come sull'orlo di un baratro, ma solo
ieri si era reso conto che rischiava seriamente di perdere l'equilibrio e precipitare. «Jeff?» lo sollecitò Sara. «Cosa c'è che non va?» «Sono preoccupato per Lena.» Non era una novità. Si preoccupava per Lena da quando l'aveva assunta, ed erano passati dieci anni. All'inizio, quando era solo un agente di pattuglia, perché era troppo aggressiva, sembrava che la sua vita dipendesse dalla quantità di arresti che riusciva a mettere a segno. Poi, quando era diventata detective, perché si esponeva troppo, trascinava i sospetti fino al limite della sopportazione, e se stessa al limite delle sue capacità di controllo. Adesso lo preoccupava perché stava tirando troppo la corda ed era convinto che prima o poi si sarebbe spezzata, era solo questione di tempo. Era stato il suo timore fin dall'inizio: che Lena finisse per spezzarsi. «Fai bene a preoccuparti» disse Sara. «Perché non la esoneri dal servizio attivo?» «Non ce la farebbe a sopportarlo.» Era la verità. Per Lena il lavoro era vitale come l'aria da respirare. «C'è altro che mi volevi dire?» Jeffrey ripensò alla conversazione che aveva avuto con Lena in macchina. Non le era sembrata molto convinta quando gli aveva detto che era stato giusto sparare. «Ah... io...» cominciò. Non sapeva come dirlo. «Quando ho parlato con Lena, ieri...» «Sì?» «Non mi è sembrata molto convinta di come sono andate le cose.» «Per il fatto che hai sparato?» domandò Sara, già irritata. «Cosa ha detto, di preciso?» «Non è tanto quello che ha detto, ma come l'ha detto.» Sara borbottò qualcosa che doveva essere un'imprecazione. «Se la prende con te per vendicarsi di me.» «Lena non è il tipo.» «Invece sì che lo è. Fa sempre così.» Jeffrey scrollò il capo, poco convinto. «Credo che abbia semplicemente dei dubbi.» Sara borbottò un'altra imprecazione, poi a voce alta disse: «Solo qualche dubbio! Magnifico!». Jeffrey cercò di calmarla. «Non le dire niente, d'accordo? Servirebbe solo a peggiorare le cose.» «E perché dovrei dirle qualcosa?»
«Sara...» si stropicciò gli occhi per liberarsi dal sonno. Non voleva parlarne in quel momento. «Senti, mi stavo preparando per andare all'ospedale...» «Mi fa proprio incazzare...» «Lo so. Questo si era capito.» «Io...» «Sara» la interruppe. «Adesso devo proprio andare.» «A dire la verità» disse lei moderando il tono. «Ti avevo chiamato per una ragione precisa. Hai un minuto?» «Certo. Cosa c'è?» La sentì trattenere il fiato, come se dovesse lanciarsi da uno scoglio. «Mi chiedevo se sarai di ritorno per sera.» «Arriverò tardi, probabilmente.» «Ah. E domani sera?» «Se torno stasera, non torno domani.» «Mi stai prendendo in giro?» Jeffrey si ripassò lo scambio di battute e quando finalmente capi che Sara lo stava invitando a casa sua sorrise. Non era mai successo. «Non sono mai stato molto sveglio.» «No» ammise Sara ridendo. «Allora?» «Allora...» sospirò lei. «Oh... è una sciocchezza» buttò lì alla fine. «Quale sciocchezza?» «Dicevo...» ricominciò. «Niente. Solo che domani sera non ho niente da fare.» Jeffrey si accarezzò la guancia con soddisfazione. Gli parve di non essere mai stato tanto felice in quella stanza. Forse solo il giorno che lo avevano chiamato dal college di Auburn per dirgli che lo ammettevano gratuitamente, a patto che ogni sabato si facesse massacrare sul campo di football. «Se è per questo nemmeno io» si limitò a dire. «Quindi...» Sperava che fosse lui a completare la frase, ma Jeffrey se ne stava tranquillamente seduto sul letto. Poteva anche crollare il mondo, ma questa volta lui non avrebbe mosso un passo. «Potresti venire a casa mia» si arrese Sara. «Facciamo alle sette?» «Perché?» La sentì agitarsi sulla sedia e la immaginò con la mano sugli occhi. «Mio Dio. Certo che non mi faciliti le cose.»
«E perché dovrei?» «Ho voglia di vederti. Vieni alle sette. Cucino io.» «Un momento...» Sara capì al volo, sapeva di non essere una cuoca di prim'ordine. «Posso ordinare qualcosa da Alfredo» propose. «Allora vada per le sette» disse Jeffrey, al settimo cielo dalla gioia. Da bambino Jeffrey ne aveva combinate parecchie, in particolare con i due ragazzi che erano stati suoi amici del cuore dalle elementari alle superiori e che abitavano nella sua strada. Uno, Jerry Long, aveva la passione dei fuochi d'artificio e l'altro, Bobby Blankenship, adorava le esplosioni. Questo fece sì che il terzetto riuscisse a rischiare la vita parecchie volte fino a che, con l'arrivo della pubertà, il gusto di far saltare in aria qualcosa lasciò il posto a quello per le ragazze. All'età di undici anni avevano scoperto il piacere di far esplodere dietro la casa di Jeffrey dei razzetti dentro un fusto d'acciaio. A dodici, il fusto era ammaccato e butterato come la faccia di Bobby Blankenship, detto Spot. A tredici, Jerry Long si era aggiudicato il soprannome di «Possum» perché, quando il fusto era finalmente esploso, un scheggia gli aveva quasi portato via una fetta di testa e lui era rimasto steso sul prato come un opossum, fino a che la vicina non aveva chiamato l'ambulanza per mandarlo all'ospedale e la polizia per mettere paura agli altri due. A Jeffrey avevano appioppato un soprannome solo più tardi, quando aveva cominciato a notare le ragazze e, cosa più importante, loro avevano cominciato a notare lui. Come Possum e Spot, era nella squadra di football ed erano diventati abbastanza popolari nella scuola perché quell'anno la squadra mieteva vittorie. Jeffrey fu il primo dei tre a baciare una ragazza, il primo a passare alla seconda base, e il primo a perdere la verginità. Per questi traguardi si guadagnò il soprannome di Slick. La prima volta che Jeffrey aveva portato Sara a Sylacauga, era così nervoso che gli sudavano le mani. Avevano cominciato a frequentarsi da poco e Jeffrey temeva che Sara fosse socialmente troppo elevata per Possum e Spot, e forse anche per il vecchio Slick. Sylacauga era l'epitome della cittadina del Sud. A differenza di Heartsdale non aveva un college, e in città non c'erano professori che dessero un tocco di diversità all'insieme. La maggior parte della gente che viveva lì lavorava alla fabbrica tessile o alla cava di marmo. Non che Jeffrey li considerasse tutti degli incorreggibili provinciali retrogradi, ma era convinto che Sara non si sarebbe trovata a
suo agio con gente così. Sara non era solo «una ragazza istruita» come avrebbero detto i locali, era addirittura medico e, anche se veniva da una famiglia che si poteva definire operaia, suo padre aveva dimostrato di sapere come si fanno girare i soldi. Aveva dei terreni nella zona del lago e perfino degli appartamenti in Florida. Ma soprattutto, Sara era intelligente, e non solo perché aveva studiato. Era sagace e piena di ironia e non si sarebbe mai sognata di stare a casa ad aspettarlo con le pantofole pronte e un pasto fumante. Semmai si aspettava che fosse Jeffrey a fare queste cose per lei. A circa sei miglia da casa Tolliver c'era l'emporio di Cat che Jeffrey, come tutti, aveva frequentato fin da bambino. Era il tipico negozio in cui si può trovare il latte, il tabacco, la benzina e l'esca per andare a pescare. Il pavimento era fatto di listoni di legno grezzo talmente sconnessi e segnati che bisognava stare attenti a dove mettere i piedi per non incespicare. Il soffitto era basso, ingiallito dalla nicotina e dalle macchie di umidità. All'entrata c'era una fila di frigoriferi pieni di ghiaccio e Coca-Cola e vicino alla cassa un distributore di snack. All'esterno, il distributore di benzina trillava ogni volta che pompava un gallone. Quando Jeffrey si era già trasferito ad Auburn, Cat era passato a miglior vita e Possum, che all'emporio faceva il commesso, aveva preso l'attività in gestione dalla vedova. Sei anni dopo lo aveva comperato e rinominato «Possum e Cat». La prima volta che Sara aveva visto l'insegna sullo stabile fatiscente ne era rimasta deliziata immaginando un'allusione alla famosa poesia. Jeffrey era morto di vergogna, ma quando aveva confessato la sua ignoranza Sara era scoppiata a ridere. Contro ogni aspettativa, in quel weekend si era molto divertita e il secondo giorno era già sdraiata sul bordo della piscina di Possum, a ridere con lui e la moglie delle bravate giovanili di Jeffrey. Adesso Jeffrey poteva sorridere al ricordo, ma allora non gli era piaciuta l'idea di fare da bersaglio alle loro battute. Sara era la prima donna che si divertiva a prenderlo in giro, ma forse proprio per questo era riuscita a catturarlo. Sua madre diceva sempre che a lui piacevano le sfide. Pensava a tutte queste cose, al fatto che Sara Linton era una bella sfida, quando la macchina imboccò il parcheggio del «Possum e Cat». Il negozio era molto cambiato col passaggio di proprietà e ancora di più dall'ultima volta che Jeffrey era venuto a Sylacauga. L'unica cosa che non era cambiata era il grande stemma della Auburn University sopra la porta. L'Alabama era divisa dalle sue due università, la Auburn e l'Alabama, e tra gli abitanti
la domanda cruciale era sempre una sola: «Per chi stai?». Jeffrey aveva visto scoppiare delle risse quando qualcuno aveva dato la risposta sbagliata nella parte sbagliata della città. Sulla destra del negozio c'era un giardino d'infanzia che non esisteva l'ultima volta che Jeffrey era venuto. Sulla sinistra c'era il «Madame Bell», il negozio di chiromanzia che adesso mandava avanti Nell, la moglie di Possum. Come Cat, Madame Bell era morta da tempo e Nell l'aveva rilevato tanto per avere qualcosa da fare mentre i bambini erano a scuola. Alle superiori Jeffrey aveva amoreggiato con lei a intermittenza, poi Possum se ne era seriamente innamorato. Jeffrey non riusciva a credere che una ragazza tanto vivace potesse essere soddisfatta con una vita così, ma succedevano cose anche più strane. Del resto, il giorno in cui avevano preso il diploma delle superiori, Nell era già incinta di tre mesi e non le rimanevano molte alternative. Jeffrey decise di non parcheggiare di fronte al negozio. Fermò la macchina accanto al «Madame Bell» mentre lo stereo diffondeva le note di Sweet Home Alabama, la sua canzone preferita di un tempo, che riusciva ancora a fargli provare nostalgia. Aveva trovato la cassetta nella scatola sotto la finestra di camera sua. Strano, si disse, che si finisca col dimenticare anche le cose che si amano di più se non si hanno sotto il naso. Gli succedeva lo stesso con la città e i vecchi amici. Ritrovare Possum e Nell avrebbe risvegliato antichi sentimenti, dandogli l'impressione che negli ultimi vent'anni non fosse successo nulla, una sensazione che lo disorientava. Dieci minuti prima però, rivedendo la madre in ospedale, aveva prevalso la voglia di ritornare a Grant il più presto possibile. Si era sentito soffocare, quando lei lo aveva abbracciato prolungando la stretta come per trattenerlo. E trovava snervante la sua abitudine di smorzare le frasi a metà, per dire e non dire quello che aveva in mente. May Tolliver non era mai stata una donna felice. Jeffrey si era quasi convinto che suo padre fosse diventato il criminale da strapazzo che era col solo scopo di finire in prigione e liberarsi una volta per tutte dal tormento dei rimbrotti lagnosi di sua moglie. Come Jimmy, anche May diventava cattiva quando beveva. Non aveva mai alzato una mano su suo figlio, ma diventava crudele con le parole, riusciva a spezzarlo in due con un commento fulminante. Per fortuna quel giorno l'aveva trovata abbastanza in sé, anche se aveva in corpo una quantità di alcol sufficiente a fare il pieno a un trattore, A sentire lei, un gatto arrivato di soppiatto dalla casa dei vicini l'aveva spaventata e fatta cadere dalle scale. Poiché Jeffrey aveva effettivamente sentito dei miagolii vicino
a casa, dovette concederle il beneficio del dubbio. Era felice, anche se non lo avrebbe mai ammesso con nessuno, e tanto meno con se stesso, che la madre non avesse bisogno di ulteriori cure. Scese dalla macchina e si avviò sul ghiaino sdrucciolevole. A casa della madre si era cambiato, si era messo un paio di jeans e una polo e si sentiva strano, abbigliato così in un giorno feriale. Aveva anche pensato di tenere le scarpe che usava con l'abito, ma quando si era visto allo specchio aveva subito cambiato idea. Inforcò gli occhiali da sole e si diresse verso il «Madame Bell» guardandosi attorno. Il negozio della chiromante era poco più di un capanno e la porta a zanzariera cigolò quando Jeffrey la aprì. Bussò sulla porta di legno ed entrò nel piccolo ingresso. L'interno era rimasto identico a quando lui era ragazzo. Una volta Spot lo aveva sfidato a entrare e farsi leggere la mano da Madame Bell. Quello che gli aveva detto non gli era affatto piaciuto, e da allora non ci aveva più messo piede. Sbirciò nell'altra stanza. Nell era seduta al tavolo, davanti a un mazzo di tarocchi. Si sentiva il televisore acceso a basso volume e il ronzio del vecchio condizionatore. Lei lavorava a maglia e intanto si guardava lo show, protesa verso lo schermo per non perdersi una parola. «Buuh!» fece Jeffrey. «Oh, mio Dio!» Nell sobbalzò e lasciò cadere il lavoro. Si alzò con la mano sul cuore. «Slick, mi hai fatto morire di paura!» «La solita esagerata» rise lui stringendola tra le braccia. Era una donna piccola e carina, coi fianchi formosi. Jeffrey arretrò d'un passo per guardarla bene. Non era molto cambiata dai tempi delle superiori. Aveva ancora i capelli neri e folti, lievemente striati di grigio, lunghi fino in vita ma raccolti in una coda, forse per il caldo. «Sei andato da Possum?» domandò rimettendosi seduta. «Che ci fai qui? Sei venuto per tua madre?» Jeffrey sorrise e prese posto di fronte a lei. Nell parlava sempre a raffica. «Sì e no» rispose. «Era ubriaca» disse lei, sbrigativa come sempre. La sua franchezza era stata una delle ragioni per cui Jeffrey aveva smesso di uscirci insieme. Chiamava le cose con il loro nome e a diciotto anni lui era refrattario all'introspezione. «Con quel che ha speso in alcolici questo inverno, ci ha mandato avanti il negozio.» «Lo so.» Jeffrey le pagava le bollette per permetterle di pagarsi gli alco-
lici. Ormai era inutile sperare che ci rinunciasse, ed era meglio per tutti che bevesse a casa piuttosto che andare in giro a elemosinare un bicchiere nei bar. Disse: «Arrivo adesso dall'ospedale. Ho visto coi miei occhi che le davano un bicchierino di vodka». Nell prese le carte e cominciò a mischiarle. «Poveretta, le verrebbe il delirium tremens se non lo facessero.» Jeffrey alzò le spalle. Era quello che gli aveva detto il medico del reparto. «Cosa stai guardando?» gli domandò Nell. Jeffrey sorrise, non si era accorto di fissarla. Stava pensando che con Nell gli riusciva più facile che con Sara parlare dell'alcolismo di sua madre. Non sapeva bene perché, forse perché erano cresciuti insieme. Quando ne parlava con Sara, prima si imbarazzava, poi si vergognava e alla fine si arrabbiava. «Com'è che ti trovo più bella ogni volta che ti rivedo?» scherzò. «Slick, Slick, non cambierai mai.» Mise sul tavolo un paio di carte scoperte e domandò: «Come mai Sara ha voluto il divorzio?». Lui sollevò le sopracciglia, stupito: «Lo vedi nelle carte?». Lei fece un sorriso malizioso. «Nei biglietti d'auguri di Natale. Sul mittente Sara ha scritto Linton, non Tolliver.» Posò un'altra carta sul tavolo. «Che cosa hai fatto, l'hai tradita?» Lui indicò le carte. «Perché non me lo dici tu?» Nell annuì e ne scoprì altre due. «Direi che l'hai tradita e ti sei fatto beccare.» «Cosa?» Lei scoppiò a ridere. «Solo perché non parla con te, non è detto che non debba parlare con me.» Jeffrey scrollò la testa senza capire. «Anche noi abbiamo un telefono, piccolo. E qualche volta la chiamo, tanto per tenermi aggiornata.» «Allora saprai che abbiamo ricominciato a vederci.» Gli scappò il tono da galletto del vecchio Slick di un tempo, ma non gli dispiacque. «Cosa dicono le tue carte?» Nell ne rovesciò altre due e le studiò per qualche secondo con la fronte aggrottata e le labbra strette, poi le recuperò tutte e le infilò nel mazzo. «Queste stupide carte non dicono un bel nulla» borbottò. «Andiamo da Possum. Sarà felice di vederti.» Gli porse la mano e Jeffrey esitò, in dubbio se insistere per farsi leggere
le carte. Non si illudeva che la vecchia Nell avesse il dono della divinazione, ammesso che qualcuno l'avesse, ma gli sarebbe piaciuto che lei si inventasse qualcosa per rassicurarlo. «Andiamo, su.» Lo tirò per la manica e lui si lasciò condurre nella calura dell'Alabama. Non c'erano alberi nell'area di parcheggio e il sole implacabile picchiava in testa. Nell lo prese a braccetto. «Sara mi piace» disse. «Anche a me piace.» «Dico sul serio Jeffrey, mi piace molto.» Lui si fermò. Non succedeva spesso che lo chiamasse Jeffrey. «Se ti dà un'altra possibilità, cerca di non rovinare tutto.» «Non è nelle mie intenzioni.» «Stai bene attento, Slick» disse lei sospingendolo verso il negozio. «È troppo buona per uno come te, e anche troppo intelligente.» Si fermò davanti alla porta e aspettò che fosse lui ad aprirla. «Non rovinare tutto» ripeté. «Hai una fiducia in me davvero esaltante.» «Non si sa mai, il tuo cosino potrebbe trascinarti nei guai.» «Cosino?» ripeté aprendo la porta. «Hai perso la memoria?» Nell stava per rispondere, ma la voce tonante di Possum si impose su tutto. «C'è Slick?» gridò, come se Jeffrey fosse solo uscito a fare quattro passi e non fosse stato via per anni. Jeffrey lo vide scivolare fuori dal bancone costringendo la pancia a cambiare forma. «Eccoti qui, dannazione!» Gli passò la mano sul ventre enorme. «Nell, perché non mi detto che ce n'era un altro in arrivo?» Possum rise divertito e si massaggiò la pancia. «Sì, ma questo è figlio della Heineken.» Abbracciò Jeffrey con slancio. «Dove ti eri cacciato, ragazzo?» Jeffrey fornì la risposta di rito: «Non sono più un ragazzo da quando ero alto come te». Possum rise di nuovo buttando indietro la testa. «Peccato che non ci sia anche Spot. Quando sei arrivato?» «Da poco. A dire la verità sto già per ripartire.» Si voltò e vide che Nell li aveva lasciati soli. «Brava ragazza» disse Possum. «Mi meraviglio che stia ancora con te.» «Prima di andare a dormire nascondo le chiavi di casa» disse strizzando
l'occhio. «Una birra?» Jeffrey guardò l'orologio sulla parete. «Non bevo mai prima di mezzogiorno.» «Oh, bene, bene. Una Coca allora?» Senza aspettare la risposta prese due bottiglie dal refrigeratore. «Fa caldo fuori» disse Jeffrey. «Vero.» Strappò i tappi sul fianco del refrigeratore. «Immagino che sei passato per chiedermi di tenere d'occhio tua madre.» «Ho un'indagine in corso a casa.» Gli piacque l'idea che adesso «casa» significasse Grant. «Se non ti crea problemi...» «Non dire stronzate.» Possum gli passò una bottiglia. «Non preoccuparti. Abitiamo a pochi metri di distanza.» «Ti ringrazio.» Possum prese un sacchetto di noccioline dal ripiano e lo aprì coi denti. Ne offrì a Jeffrey, che rifiutò facendo no con la testa. «È una disdetta che sia caduta» disse Possum. Fece scivolare qualche nocciolina nel collo della bottiglia. «Ultimamente ha fatto molto caldo. Avrà avuto un capogiro.» Jeffrey bevve un sorso di Coca. Possum si stava comportando come aveva sempre fatto, cercava di proteggere May Tolliver. Il soprannome non gli era toccato soltanto per quella volta che aveva fatto il morto sul prato di Jeffrey. Se c'era una cosa che Possum sapeva fare bene, era ignorare quello che aveva sotto gli occhi. Il ritmo pulsante di una musica rap fece fremere i vetri e un grosso pickup rosso venne a fermarsi di fronte all'emporio. Il rumore assordante cessò come il motore si spense, poi un ragazzo con l'aria imbronciata smontò dalla cabina ed entrò. Aveva la camicia dello stesso rosso del furgone, con una scritta bianca sotto un elefante rampante, pantaloni mimetici neri e grigi tagliati al ginocchio, e scarpe e calze rosse. Jeffrey si rese conto all'improvviso che era vestito dalla testa ai piedi con i colori della Alabama University. «Ciao papà» disse rivolto a Possum. Jeffrey scambiò un'occhiata con l'amico e tornò a guardare il ragazzo. «Jared?» domandò stupito. Non riusciva a credere che fosse il tenero bambino di Nell e Possum che aveva conosciuto. Sembrava un teppista della tifoseria dell'Alabama. «Ehi, zio Slick» farfugliò Jared. Superò Jeffrey e il padre trascinando i piedi e scomparve nel retrobottega.
«Mio Dio» disse Jeffrey. «Deve essere imbarazzante.» Possum annuì. «Posso solo sperare che cambi idea.» Alzò le spalle. «Gli piacciono gli animali e si sa che la Auburn ha una facoltà di veterinaria di gran lunga migliore dell'Alabama. Speriamo.» Jeffrey strinse i denti per non ridere. «Torno subito» disse Possum e seguì il ragazzo. «Prenditi tutto quello che vuoi.» Jeffrey finì la Coca in un sorso e andò in fondo al negozio a vedere le esche. C'erano le gabbiette di maglia metallica con i grilli canterini e un grosso bidone di plastica pieno di terra ba gnata che probabilmente nascondeva migliaia di lombrichi. Vicino allo scaffale dei grilli c'era un mastello pullulante di pesciolini minuscoli con accanto la retina e i barattoli per il trasporto. A Sara piaceva pescare e Jeffrey pensò di portarle delle esche, ma poi immaginò i lombrichi lasciati a friggere nella macchina infuocata quando avrebbe fatto tappa per mangiare qualcosa e decise che era una pessima idea. E poi a Grant si trovavano in quantità esche di ogni genere. Buttò la bottiglia vuota in un bidone sperando che fosse quello per il vetro e osservò dalla finestra il giardino d'infanzia. Era l'ora della ricreazione e i bambini correvano di qua e di là gridando a squarciagola. Pensò a Jenny Weaver e si domandò se si fosse mai sentita così libera. Non riusciva a immaginarsela, cicciottella e impacciata, a correre per il giardino. Era il tipo che preferisce sedersi all'ombra con un libro, ad aspettare che suoni la campana per tornare tra le mura protettive dell'aula. «Lei lavora qui?» domandò qualcuno. Jeffrey si voltò. Alle sue spalle, vicino alle esche, c'era un uomo sulla trentina. Aveva il tipico aspetto dell'agricoltore del Sud: magro, con la pelle flaccida e irritata dal rasoio. Le braccia sembravano robuste, sviluppate dall'attività manuale. Dalle labbra pendeva una sigaretta. «No» rispose Jeffrey, imbarazzato di essersi fatto sorprendere con lo sguardo nel vuoto. «Guardavo i bambini.» «Già.» Si avvicinò. «A quest'ora escono sempre a giocare.» «C'è anche suo figlio?» L'uomo gli lanciò una strana occhiata, come se lo stesse valutando. Si portò una mano alla bocca e si accarezzò il mento, pensoso. Jeffrey non poté fare a meno di notare il tatuaggio che aveva sulla membrana tra il pollice e l'indice. Era uguale a quello che aveva visto sulla mano di Mark Patterson.
Si girò, per darsi il tempo di riflettere. Tornò a guardare dalla finestra, cercando di interpretare l'espressione dello sconosciuto dall'immagine riflessa sul vetro. «Bello, quel tatuaggio» disse. «Ne ha uno anche lei?» domandò l'uomo quasi in un sussurro, con un tono da cospiratore. Jeffrey strinse le labbra e fece segno di no con la testa. «Come mai no?» «Il lavoro» rispose Jeffrey, volutamente vago. Provò una sensazione sgradevole, come se nella mente gli affiorasse un'idea che non voleva prendere forma. «Non sono in molti a sapere cosa significa» disse lo sconosciuto chiudendo la mano a pugno. Si guardò il tatuaggio e abbozzò un sorriso. «Ce l'aveva un ragazzino» disse Jeffrey. «Non come quelli.» Indicò i bambini alzando il mento. «Più grande.» L'uomo allargò il sorriso. «A lei piacciono più grandi?» Jeffrey si voltò e guardò oltre l'uomo in cerca di Possum. «Non si farà vivo per un po'» lo rassicurò lo sconosciuto. «Suo figlio deve averne combinata una delle sue.» «Ah sì?» «Sì, si caccia sempre nei guai.» Jeffrey tornò a guardare i bambini che correvano nel giardino con uno sguardo diverso. Non gli sembravano più piccoli e spensierati, ma vulnerabili e a rischio. L'uomo si avvicinò a Jeffrey e con la mano segnata dal tatuaggio indicò fuori dalla finestra. «La vede quella bambina?» disse. «La piccola col libro?» Jeffrey guardò nella direzione indicata e vide una bambina seduta sotto l'albero al centro del cortile. Stava leggendo un libro, proprio come lui aveva immaginato Jenny Weaver. L'uomo disse: «Quella è la mia». Jeffrey si sentì rizzare i peli sulla nuca. Era evidente che l'uomo non intendeva dire che era sua figlia. C'era un gusto del possesso nella sua voce, segnato da un che di sensuale. Continuò: «Da qui non lo può notare, ma ha la boccuccia più bella che si sia mai vista». Jeffrey girò lentamente la testa per nascondere il suo disgusto. «Perché non andiamo a parlarne da un'altra parte?» disse. L'uomo socchiuse gli occhi. «Qui non va bene?»
«Mi rende nervoso» disse forzandosi di sorridere. L'uomo lo fissò a lungo poi annuì con un cenno impercettibile. «D'accordo.» Cominciò a camminare in direzione della porta posteriore voltandosi in continuazione per sincerarsi che Jeffrey lo seguisse. Raggiunto il retro dell'emporio stava per girarsi, quando Jeffrey lo colpì con un calcio dietro le ginocchia e lo mandò a terra. «Oh, Gesù» gemette raggomitolandosi. «Zitto» ordinò Jeffrey alzando il piede. Lo colpì con violenza sulla coscia perché capisse che era inutile cercare di rialzarsi. Lo sconosciuto rimase immobile, rannicchiato, in attesa che Jeffrey colpisse di nuovo. Un comportamento patetico e nello stesso tempo disgustoso, come se trovasse legittimo che qualcuno volesse aggredirlo e accettasse la punizione. Jeffrey si guardò attorno per essere certo che nessuno li stesse guardando. Aveva una gran voglia di picchiarlo a sangue, ma di fronte a quel fagotto informe e piagnucoloso si smontò. Un conto era accanirsi su qualcuno che lottava per difendersi, tutt'altra cosa era infierire su un individuo praticamente inerme. «Alzati» disse. L'uomo sbirciò dalle braccia incrociate sopra la testa per capire se non fosse una trappola. Quando vide che Jeffrey indietreggiava, si tirò su lentamente. Il calcio aveva sollevato della polvere e Jeffrey tossì per raschiarsi la gola. «Che cosa vuole?» domandò l'uomo. Prese dal taschino il pacchetto ammaccato delle sigarette e ne mise in bocca una senza neppure notare che era incurvata. Quando l'accese gli tremavano le mani. Jeffrey frenò l'impulso di strappargliela di bocca. «Cosa significa quel tatuaggio?» L'uomo alzò le spalle e lo guardò di sottecchi. «Significa che appartieni a un club o qualcosa di simile?» «Già» fece l'uomo. «Il club dell'amore per i piccoli. È questo che voleva sapere?» «Quindi ce ne sono altri con quello?» «Non lo so. Io i nomi non li conosco, se è quello che le interessa. Viene tutto da internet. Siamo tutti anonimi.» Jeffey sospirò. Fra i tanti servizi che forniva internet c'era anche quello riservato ai maniaci e ai pedofili. Potevano mettersi in contatto e scambiarsi le storie e le fantasie, e a volte anche i bambini. Jeffrey aveva seguito dei
corsi di aggiornamento sulla materia. La polizia aveva effettuato degli arresti spettacolari in tutto il paese, ma era gente che sapeva come muoversi e anche l'FBI faticava a rintracciarla. «Cosa significa?» domandò. L'uomo lo guardò con malevolenza. «Che significa secondo lei?» «Dimmelo» disse Jeffrey tra i denti. «Se non vuoi ritrovarti a terra a domandarti come mai gli intestini ti escono dal culo.» L'uomo annuì e prese una boccata dalla sigaretta. Fece uscire lentamente il fumo dalle narici e dalla bocca. «Il cuore» cominciò indicando la mano. «Il cuore grande è nero.» Jeffrey annuì. «Ma all'interno ha un altro piccolo cuore. Giusto?» Si guardò il tatuaggio quasi con affetto. «Un cuoricino bianco. Un cuore puro.» «Puro?» ripeté Jeffrey. Si ricordò di aver già sentito quella parola. «In che senso puro?» «Puro come un bambino.» Si concesse un sorriso. «Il cuore bianco rende pura una piccola parte del cuore nero. È amore. Nient'altro che amore.» Jeffrey frenò l'impulso di buttarlo a terra con un pugno. Alzò la mano e disse: «Il portafoglio». L'uomo non esitò a passarglielo e non protestò quando Jeffrey tirò fuori il taccuino e trascrisse tutti i dati. «Ecco fatto.» Glielo lanciò con tale violenza che gli rimbalzò sul petto prima che riuscisse ad afferrarlo. «Adesso ho il tuo nome e il tuo indirizzo. Se osi tornare qua dentro o gironzolare intorno al giardino d'infanzia, il mio amico ti fa a pezzi.» Fece una pausa. «Hai capito?» «Sì signore» disse l'uomo abbassando lo sguardo. «E qual è questo sito web?» L'uomo continuò a guardare per terra. Jeffrey fece un passo avanti e l'altro si tirò indietro e alzò le mani. «Bambine predilette» rispose. «Cambia in continuazione, bisogna cercarlo.» Jeffrey prese nota, anche se gli era già stato segnalato al corso. L'uomo prese un altro tiro di sigaretta e trattenne il fumo per qualche secondo. «Basta così?» «Quella bambina...» cominciò Jeffrey cercando di non perdere la calma. «Se ti azzardi a toccarla...» L'uomo lo interruppe. «Non sono mai stato con una bambina in vita mia, chiaro? Mi piace guardare e basta.» Tirò un calcio a una pietra. «Sono tan-
to dolci. Come si fa a pensare di fare del male a delle creature così dolci?» Senza stare a pensarci Jeffrey gli sferrò un pugno sulla bocca. Un dente volò via e sotto il labbro comparve un rivolo di sangue. L'uomo crollò a terra e nascose la testa fra le mani preparandosi ad altre botte. Jeffrey ritornò all'emporio, nauseato. 9 La scuola media superiore Robert E. Lee veniva chiamata dalla gente del posto la «superscuola». Questo perché l'intero complesso era stato concepito per ospitare i circa quindicimila studenti delle tre città che componevano la contea di Grant. Tuttavia la scuola si era rivelata troppo piccola e dietro l'edificio erano state attrezzate le aule provvisorie - che i comuni mortali chiamano container - invadendo il campo da baseball. Lì erano sistemate le quattro classi delle superiori, mentre le medie stavano alla Lee. C'erano quattro vicepreside e un preside, George Clay, l'uomo che a detta di tutti stava per buona parte del tempo dietro la scrivania a elaborare schemi per il nuovo programma educativo del governatore - un programma innovativo, grazie al quale gli insegnanti avrebbero speso più tempo a compilare moduli e seguire corsi di formazione che a insegnare ai ragazzi. Brad tormentava il berretto tra le mani mentre attraversava con Lena l'atrio, che risuonava sotto i colpi delle sue scarpe d'ordinanza. Raggiunto il corridoio con gli armadietti degli studenti, Lena, senza rendersene conto, cominciò a contare i passi. Era il tipico ambiente anonimo delle sedi istituzionali, col pavimento in piastrelle bianche e le pareti in cemento insonorizzato. Per richiamarsi ai colori della scuola gli armadietti erano stati dipinti di rosso scuro e le pareti di grigio ancora più scuro. Su ogni spazio disponibile erano appesi in disordine manifesti inneggianti alla squadra dei Rebels. Alle bacheche erano appesi appelli agli studenti perché dicessero no alle droghe, alle sigarette e al sesso. «Come sembra piccola» disse Brad a bassa voce. Lena non alzò gli occhi al cielo per pura cortesia. Da quando avevano parlato col preside, Brad non si comportava più come un poliziotto ma come un alunno del primo anno. Senza aggiungere che la faccia tonda e il ciuffo biondo, sempre sul punto di coprirgli gli occhi, contribuivano non poco a farlo sembrare un ragazzino. «Questa è l'aula della signorina Mac.» Indicò una porta chiusa e quando ci passò davanti diede un'occhiata dal vetro. «Era la mia insegnante di in-
glese» aggiunse tirando indietro i capelli. «Ah» fece Lena senza guardare. Le porte delle aule venivano chiuse a chiave quando non c'era lezione, un provvedimento adottato dalla direzione per impedire l'accesso agli estranei. I professori tenevano d'occhio i corridoi e due agenti, che Jeffrey chiamava i cani in incognito, stavano di guardia di fronte agli uffici, pronti a intervenire. Quando faceva il servizio di pattuglia, Lena era stata chiamata un'infinità di volte per arrestare spacciatori e attaccabrighe. Sapeva per esperienza che i piccoli criminali acciuffati nelle scuole erano molto più difficili da trattare degli adulti. I delinquenti minorenni conoscevano a menadito le norme giuridiche che regolavano gli arresti e non temevano i poliziotti. «Come sono cambiate le cose» disse Brad, dando voce ai pensieri di Lena. «Non so come facciano a resistere gli insegnanti.» «Esattamente come facciamo noi» ribatté Lena, che non aveva voglia di chiacchiere. La scuola non le era mai piaciuta e lì dentro si sentiva a disagio. In realtà si sentiva a disagio da quando aveva terminato l'interrogatorio di Mark Patterson. Da un lato era orgogliosa di essere riuscita a comunicare col ragazzo, dall'altro era turbata, perché si rendeva conto di essersi lasciata coinvolgere troppo. Peggio ancora, era sicura che anche Jeffrey l'aveva notato. «Eccolo qui» disse Brad fermandosi di fronte all'armadietto di Jenny Weaver. Tirò fuori dalla tasca un foglietto. «Dunque, la combinazione è...» Ma Lena, con uno strattone ben dato, aveva già fatto scattare la serratura. «Come hai fatto?» domandò Brad stupefatto. «Solo gli imbranati usano la combinazione.» Brad arrossì e per non darlo a vedere infilò la testa nell'armadietto e cominciò a svuotarlo. «Tre libri di testo» disse passandoli a Lena perché controllasse se c'era qualcosa tra le pagine. «Un quaderno. Due matite e un pacchetto di gomme da masticare.» Anche Lena diede un'occhiata dentro e non poté fare a meno di pensare che Jenny Weaver era molto più ordinata di lei. Non c'era neppure una foto appiccicata sull'antina. «Tutto qui?» domandò, benché lo vedesse da sé. «Tutto qui» confermò Brad, dando una scorsa ai libri che Lena aveva già controllato. Lena aprì il quaderno, che aveva un cagnolino sulla copertina. Era diviso in sei sezioni a colori diversi, una per ciascuna materia. Quasi tutte le pagine erano scritte, ma da quel che poté vedere c'erano solo appunti delle
lezioni. Jenny non aveva neppure scarabocchiato sui margini. «Doveva essere un'allieva modello» disse a Brad. «Aveva tredici anni ed era già al primo superiore.» «Non è normale?» «No, era un anno avanti.» Brad ripose i libri nell'armadio come li aveva trovati. Controllò il pacchetto di gomme per essere sicuro che non nascondessero altro. «Che ragazza diligente.» «Puoi ben dirlo» ammise Lena. Gli passò anche il quaderno, che Brad si sentì in dovere di sfogliare, nel caso a Lena fosse sfuggito qualcosa. «E che bella calligrafia» disse rattristato. «Che impressione ti aveva fatto in montagna?» Brad si levò i capelli dagli occhi. «Era silenziosa. Mi dispiace dirlo, ma l'ho un po' trascurata, le ragazze tendevano a isolarsi. Doveva essere la signora Gray a occuparsi di loro, ma all'ultimo momento si è sentita male. Io non volevo deluderle... e poi avrebbero perso la caparra...» scosse il capo. «I ragazzi erano dei diavoli. Dovevo tenerli a bada.» «E Jenny e Lacey cosa facevano?» «Be'...» Brad si accigliò. «Non molto, tanto per cominciare. Il resto del gruppo sciava e si divertiva. Loro due si tenevano in disparte. Avevano la loro stanza, in pratica io le vedevo solo all'ora di cena.» «E come si comportavano?» «Come se parlassero un'altra lingua. Mi guardavano e ridacchiavano, sai come fanno le ragazze.» Spostò il peso prima su una gamba e poi sull'altra, impacciato, e Lena non stentò a immaginare perché le ragazze ridessero. Brad non aveva idea di cosa fossero delle adolescenti. «Non si comportavano in modo strano?» «Più strano che ridacchiare senza motivo?» «Brad...» Lena si trattene. Decise di non dirgli che forse le ragazzine ridevano perché lo consideravano un fesso. Ci sarebbe rimasto troppo male e lei non aveva intenzione di tirarselo dietro tutto il giorno con una faccia da funerale. Lui la fissò fiducioso, in attesa che continuasse. «Secondo me...» ma si interruppe di nuovo e cambiò discorso. «Hai avuto l'impressione che Jenny non si sentisse bene?» «Me lo ha domandato anche il capo» le fece notare, come se volesse complimentarsi con lei. «Mi ha fatto un sacco di domande su Jenny, voleva sapere di che umore era, cosa faceva e con chi stava.» Lena chiuse l'armadietto e gli fece segno che potevano proseguire. «Al-
lora?» «A me non è sembrato che stesse male» disse. «Voglio dire, come ti ho detto, se ne stavano per i fatti loro. Non legavano con gli altri. A dire la verità, non so perché avessero deciso di venire. Loro non fanno parte di quel gruppo.» «In che senso?» Alzò le spalle. «Non sono molto apprezzate, credo. Lacey magari sì, è molto carina e tutto quanto.» Scosse la testa, come se ancora non riuscisse a capire. «Jenny no, non era benaccetta, per niente. Per quel che ne so, nessuno le ha fatto delle cattiverie - in quel caso sarei intervenuto - ma nemmeno si sono sprecati per essere carini con lei.» «Non stava a te tenerli insieme?» Lui lo prese come un rimprovero e si mise subito sulla difensiva. «Gli stavo dietro come meglio potevo, ma ero solo, e i ragazzi erano molto più turbolenti delle ragazze.» Lena frenò la lingua. Non riusciva a capacitarsi che un tipo così ottuso fosse entrato nella polizia. «Siamo arrivati» disse lui fermandosi di fronte alla biblioteca. Aprì la porta e cedette il passo a Lena come gli aveva insegnato sua madre fin da quando era bambino. Lena non dette segno di notare la galanteria perché sia Frank che Jeffrey lo facevano d'abitudine e quindi dava la cosa per scontata. La biblioteca era austera ma accogliente. Sulle pareti erano esposti i progetti degli studenti e le scaffalature traboccavano di libri. Una ventina di computer - altra iniziativa educativa sponsorizzata dalla lotteria della Georgia - erano schierati inutilizzati e con i monitor spenti perché l'impianto elettrico della scuola non reggeva il carico aggiuntivo. Il soppalco con la scala e la ringhiera, che sovrastava la parete di fondo, fece balenare a Lena l'idea che un ragazzo potesse rifugiarsi lassù e aprire il fuoco sui compagni di sotto. Brad la guardò in attesa di istruzioni. «Sono loro» disse, indicando tre ragazze e tre ragazzi seduti vicino al tavolo della bibliotecaria. Lena li guardò. Erano gli allievi più popolari della scuola, parlavano e ridevano tra loro con indolenza, erano vestiti all'ultima moda e ostentavano la sicurezza di chi si sente oggetto dell'ammirazione altrui. «Vediamo di sbrigarcela in fretta» disse Lena. Si diresse con piglio deciso verso il gruppetto seguita da Brad. Rimase per qualche secondo in piedi di fronte ai ragazzi, ma nessuno diede segno di aver notato il suo arrivo. Si
schiarì la voce e, dato che continuavano a ignorarla, batté con le nocche sul tavolo. Il gruppo cominciò a zittirsi, ma due ragazze terminarono comodamente di parlare prima di concederle la loro attenzione. «Sono il detective Adams, questo è l'agente Stephens.» Due ragazze ridacchiarono e si guardarono come se spartissero chissà quale segreto, un atteggiamento che risvegliò in Lena i ricordi di scuola e la sua profonda insofferenza per gli adolescenti, soprattutto se femmine. I maschi se non altro erano più diretti, anche se tendevano a sistemare le questioni a forza di pugni. Le femmine invece si nascondevano dietro piccole complicità e avevano una struttura mentale a dir poco tortuosa. Una della due fece schioccare la gomma che stava masticando e l'altra annunciò: «Brad lo conosciamo già». Lena cercò di mascherare la sua avversione quando Brad passò alle presentazioni: «Heather, Brittany e Shanna» disse indicandole. Poi sorrise ai ragazzi che se ne stavano allungati sulle sedie col sedere quasi a terra. «Carson, Rory e Cooper.» Lena si domandò da quando i genitori avevano smesso di dare ai figli dei nomi normali. Probabilmente da quando avevano rinunciato a insegnare loro le buone maniere. «Bene» cominciò Lena sedendosi di fronte a loro. «Non vi tratterrò a lungo, non voglio farvi perdere le lezioni.» «Perché siete qui?» domandò Brittany con un tono ostile e senza cambiare posizione. «Siete andati in vacanza in montagna con l'agente Stephens» disse Lena. «C'era anche Jenny Weaver. Lo sapete cosa le è successo sabato?» «Certo che lo sappiamo. L'avete ammazzata» disse Shanna facendo schioccare la gomma. Lena inspirò ed espirò lentamente. Anche lei faceva la sfrontata alla loro età, ma mai si sarebbe permessa di rispondere così a un poliziotto. «Dobbiamo farvi delle semplici domande di routine, per cercare di capire che tipo era Jenny e perché ha fatto quello che ha fatto.» Intervenne uno dei ragazzi. Lena si era già dimenticata il nome, ma non lo ritenne importante, le sembravano tutti uguali. «Mio padre è stato informato che ci state interrogando?» «Tu come ti chiami?» gli domandò Lena. «Carson.» «Carson» ripeté lei restituendogli l'occhiata malevola. Aveva gli occhi arrossati e le pupille dilatate. «Allora?» disse Carson. Smise finalmente di fissarla, incrociò le braccia
e si guardò in giro con un'aria annoiata. «È morta una tua compagna» gli ricordò Lena. «Non vuoi darci una mano a capire perché?» «Perché voi le avete sparato addosso» rispose Carson. Raccolse lo zaino da terra. «Adesso posso andare?» «Certamente» disse Lena. «Ma prima chiediamo al preside Clay di dare un'occhiata nel tuo zaino.» Carson fece una smorfia. «Non avete un motivo plausibile.» «No» ammise Lena. «Ma il preside non ne ha bisogno.» Carson lo sapeva e lasciò ricadere lo zaino, rassegnato. «Cosa vuole sapere?» «Parlami di Jenny Weaver» disse Lena con un sospiro. Fece un gesto con la mano. «Io non la conoscevo, d'accordo? Era in montagna con noi, ma lei e Lacey non socializzavano.» Gli altri ragazzi annuirono. Uno aggiunse: «A loro non piaceva far festa». Lena ne dedusse che per «fare festa» intendeva sballarsi. Per quel poco che ne sapeva di Jenny Weaver, la cosa non la sorprese. «Era più giovane di noi» disse Carson. «E noi non frequentiamo i poppanti.» Lena si rivolse alle ragazze: «E voi?». Cominciò Brittany, continuando a rimanere scomposta. Sembrava un pupazzo con la schiena snodabile. «Jenny era un tipo strano» disse col tono che Lena si aspettava. Lagnoso e sprezzante. «Pensavo che foste tutti amici» cercò di riscuoterli Lena. «Io di sicuro no» intervenne Shanna. «Anzi, non la sopportavo proprio.» Lo disse come se ne andasse fiera. «Come mai?» Shanna capì che Lena non stava scherzando e lasciò perdere l'impudenza. «Non ero sua amica» si limitò a rispondere. «Nessuna di noi lo era, in realtà» disse Heather. Sembrava la più ragionevole e l'unica del gruppo sinceramente dispiaciuta. Lena pensò che somigliasse un po' a lei a quell'età. Una che si teneva ai margini, più interessata allo sport che ai pettegolezzi. «Jenny stava sempre zitta» continuò Heather. «Era così anche alle medie.» «Eravate insieme anche alle medie?» Tutti annuirono. Heather indicò le altre ragazze. «Abitiamo vicino a lei. Prendevamo l'au-
tobus insieme.» «Ma non eravate amiche?» «Lei non aveva molti amici» rispose Heather. Fece una pausa, poi aggiunse: «Quando è venuta ad abitare qui, ho cercato di fare amicizia, ma lei preferiva stare a casa a leggere. L'ho invitata un paio di volte a uscire con me, ma non ha voluto venire e così ho lasciato perdere». «Non stava simpatica a nessuno» precisò Brittany. «Era un tipo... come si dice... introverso.» Shanna ridacchiò coprendosi la bocca con la mano. «È vero. Proprio così.» «Però con Lacey Patterson aveva fatto amicizia» obiettò Lena. Le ragazze si scambiarono un'occhiata. «Cosa c'è?» domandò. Si limitarono ad alzare le spalle. I ragazzi erano in stato comatoso o persi in altri pensieri. Lena sospirò e si appoggiò allo schienale della sedia. «Non mi muovo da qui se non mi dite quel che voglio sapere. A costo di tenervi in questa stanza tutta la notte.» La presero sul serio, anche se in realtà lei non desiderava altro che andarsene al più presto da quella scuola. Fu Brittany a parlare: «Lacey era sua amica solo per via di Mark». «Mark Patterson? Il fratello di Lacey?» «La vuole sapere una cosa?» intervenne Shanna alzando la mano, quasi eccitata. Sembrava che la durezza di Lena l'avesse risvegliata e morisse dalla voglia di parlare. «Jenny era una troia.» «Shanna!» la redarguì Heather. «Lo sai anche tu che è la verità» disse Shanna. «Andava a letto con tutti, mica solo con Mark.» Brad si agitò sulla sedia, imbarazzato. «E con chi andava a letto?» domandò Lena guardando i ragazzi. Tutti e tre evitarono il suo sguardo. «Non lo so con precisione, a parte Mark» continuò Shanna, come se stesse chiacchierando con le amiche al tavolo della mensa. «Ma tutti dicevano che lo succhiava ai ragazzi...» «Oh, mio Dio» la interruppe Heather. «Non so se te ne sei resa conto, ma è morta. Perché devi dire queste cose?» «Perché è la verità» rispose Shanna senza lasciarsi intimidire. Heather si stava arrabbiando. «Erano solo pettegolezzi. Nessuno può di-
re se era la verità.» «Che tipo di pettegolezzi?» domandò Lena. Shanna non si fece pregare: «Faceva sesso con dei ragazzi dietro la palestra dopo la quinta ora». «Rapporti completi o pompini?» domandò Lena senza scomporsi e continuando a guardare i ragazzi. Shanna alzò le spalle e guardò Heather di traverso. «Io non c'ero.» «Heather invece c'era?» «A Heather non piacciono i ragazzi» disse Shanna. «Taci!» la aggredì Heather, agitata. Lena guardò Brad e si domandò se anche lei aveva la sua faccia allibita. Sembrava di assistere a un reality show. «Fatemi capire» disse alzando le mani per riprendere il controllo della situazione. «Che prove avete per dire che Jenny andava a letto con tanti ragazzi?» Le ragazze tacquero e si scambiarono un'occhiata. «Nessuna, vero?» domandò Lena. «Non potete dirmi il nome di qualche ragazzo con cui stava?» Carson cambiò posizione ma non disse nulla. «Mark» disse Shanna alzando le spalle. «Ma Mark stava un po' con tutte.» «Questo è vero» borbottò Brittany quasi con rammarico. Lena sospirò e si massaggiò la fronte. Aveva in arrivo un mal di testa che minacciava di durare per il resto della giornata. «E va bene. Ma allora chi ha cominciato a mettere in giro i pettegolezzi?» Alzarono tutti le spalle, come se fosse diventata la risposta universale per qualsiasi domanda. «A me l'ha detto Pansy Davis» disse Shanna. «A me ha detto che giovedì sera è andata a letto con Ron Wilson» intervenne Brittany «e tu sai che Ron quella sera era da Frank.» «Frank però mi ha detto che a un certo punto è uscito!» obiettò Shanna. «Basta, basta» disse Lena alzando di nuovo le mani. Sembravano oche che si beccavano. «Nessuno si ricorda chi ha cominciato a mettere in giro la voce?» «Era una cosa che si sapeva» spiegò Heather. «Voglio dire, non mi ricordo da chi l'ho saputo, però Jenny si comportava in modo strano, questo è certo. Andava con ragazzi che non conosceva. Tipo quelli dell'ultimo anno.»
«E tu non sai come si chiamano?» Heather scosse la testa. «Sono più grandi.» «Ragazzi che sono popolari nella scuola?» domandò Lena. «Certi erano proprio orribili» sentenziò Brittany. «Gente che a me non andrebbe di conoscere. Tutt'altro che di successo. Più o meno come Jenny.» «Tornava a casa con loro con lo scuolabus?» «Loro avevano la macchina» disse Heather. «A quelli dell'ultimo anno è permesso venire in macchina.» «Te ne ricordi qualcuna?» Heather scosse la testa, ma Brittany fece schioccare le dita. «Una me la ricordo.» Guardò Shanna: «Te la ricordi quella bella Thunderbird nera?». «Vecchia o nuova?» domandò Lena. «Il modello vecchio, con la parte posteriore molto alta» disse Shanna. «Faceva un rumore del diavolo, come se avesse il motore fuori posto.» «Era di uno che frequentava la scuola?» Si guardarono di nuovo. «Può darsi» disse Brittany. «Io non credo» disse Shanna. Heather alzò le spalle. «Non faccio mai attenzione alle macchine, ma non mi sembra di averla vista a scuola.» Lena si rivolse ai ragazzi: «Qualcuno di voi conosce quella macchina?». Scossero la testa. Lena tentò un altro approccio: «Qualcuno di voi sa perché Jenny voleva uccidere Mark?». Le ragazze rimasero zitte per un po', poi Brittany disse: «Noi tutte l'abbiamo desiderato almeno una volta». Lena incrociò le braccia e guardò i ragazzi. Non capiva perché stessero zitti. «E va bene» disse. Tutti cominciarono ad alzarsi ma lei li bloccò. «Carson, Cory, Roper...» «Rory e Cooper» la corresse Brad. «D'accordo. Comunque sia, voi ragazzi rimanete. Le ragazze possono andare.» Poi rivolta a Brad: «Accompagnale e prendi i loro indirizzi e i numeri di telefono». Brad annuì. Capì che voleva sbarazzarsi anche di lui, ma non sembrava affatto dispiaciuto. Lei andò a sedersi di fronte ai ragazzi e rimase a guardarli senza dire una parola, finché loro non cominciarono ad agitarsi sulle sedie. «Allora?» disse. Carson fu il primo a parlare. «E va bene, lo abbiamo fatto.»
Gli altri due annuirono. «Siete tutti stati a letto con lei?» Nessuno rispose. «Lavori di bocca? Di mani?» domandò Lena. «Sesso» precisò Carson. Lena si sentì avvampare, ma non di imbarazzo. «E quando è successo?» «Una volta Mark l'ha portata a casa mia. Ci stavamo sballando». «Ma non avevi detto che Jenny non prendeva mai niente?» «Infatti è così» disse Carson. «Ma Mark le ha detto di bere qualcosa, tanto per rompere il ghiaccio.» Ridacchiò. «Faceva tutto quello che le diceva Mark.» «Quindi eravate voi tre, Mark e Jenny?» Annuirono. Carson disse: «Si è ubriacata e ha cominciato a fare delle avances». Lena si morse il labbro per impedirsi di parlare. «Mark ha detto che avrebbe fatto tutto quello che volevamo.» Uno sorrise. «E come ha ubbidito.» «Avete tutti fatto sesso con lei?» domandò Lena. «Era sbronza» disse Carson alzando le spalle. Lena fissò il tavolo per non perdere la concentrazione. «Era ubriaca e voi ve la siete scopata? Mark compreso?» «Mark guardava e basta» disse uno dei due. «Lei ci ha lasciato fare tutto quello che volevamo.» All'improvviso diventò rabbioso: «Era una troia! Perché se la prende tanto calda?». Trasudava odio, come se quello che avevano fatto fosse colpa di Jenny. «Come hai detto che ti chiami?» gli domandò Lena. Lui abbassò gli occhi e farfugliò: «Rory». «Dimmi, Rory. In montagna è stata con qualcuno di voi?» «No, cazzo» sbottò Carson imbronciato. «Questo è il punto. Perché crede che avessimo deciso di andare in montagna?» «Per scopare con lei?» «Esatto» disse furioso. «Ma lei si teneva alla larga. L'altra volta non aveva fatto storie, anzi, di questo non ne aveva mai abbastanza.» Si afferrò l'inguine, nel caso a Lena servisse un supporto visivo. «Ma in montagna sembrava diventata di marmo. Non ci rivolgeva neppure la parola. La stronza.» Lena strinse le labbra. Carson continuò: «Prima ce la sventolava sotto il naso, e poi niente. Avrebbe scopato con un mostro, se Mark glielo avesse
chiesto, ma in montagna faceva la sostenuta, come se con noi non valesse la pena». «Secondo te come mai era cambiata?» «E io che cazzo ne so?» «Avete provato a farvi avanti, o semplicemente lei vi ha ignorato?» Si incupì. «È andata così: noi le abbiamo offerto un po' di roba per aiutarla a rilassarsi e lei ci ha snobbato.» «Esatto» disse Rory. «All'improvviso non eravamo più all'altezza.» «Proprio così» confermò Carson. «Come se non fosse mai successo niente, allora le ho detto: "Te lo sei scordato, quello che hai fatto? Puttana che non sei altro".» «Dovevamo offrirle dei soldi» suggerì Rory. «Dovevamo offrire dei soldi a Mark.» «Capisco» farfugliò Lena cercando di ricordarsi il nome del terzo ragazzo. Non aveva ancora detto nulla, non sembrava incattivito come gli altri due. «Cooper?» azzardò. Lui alzò gli occhi. «Ti sei mai chiesto come mai una ragazzina di tredici anni faceva quelle cose?» «Le piaceva» disse con l'inevitabile alzata di spalle. «Voglio dire... altrimenti perché lo faceva?» Guardò i suoi amici e cambiò completamente espressione. Diventò sprezzante e pieno di rancore come loro: «Era una troia, era una troia e le piaceva». «È così» insistette Rory. «Si vedeva lontano un miglio che le piaceva.» «Anche se era ubriaca?» domandò Lena. Non risposero. «Come fate a dire che le piaceva?» «Che cazzo ne sappiamo?» disse Rory. «Aveva la faccia sepolta nel divano.» Carson scoppiò a ridere, allungò la mano e diede una pacca sulla spalla a Rory: «Sei forte, amico». Lena gli afferrò il polso e lo strinse fino a fargli storcere la bocca dal dolore. Era furiosa. «Voi dite che le piaceva, eh?» «Ehi!» gridò Carson guardandola senza capire. «Che le prende? Noi volevamo solo divertirci.» «Divertirvi?» ripeté Lena senza mollare il polso. Gli torse il braccio come se volesse spezzarlo. «A casa mia si chiama stupro, pezzi di merda.» Lo lasciò andare perché non poteva fare altro, a meno di estrarre la pistola e massacrarlo di botte col calcio. E quando lo vide sorridere con una smor-
fia beffarda si trattenne a fatica. Era così tesa che quando trillò la campana per annunciare la fine dell'ora dovette farsi violenza per non balzare in piedi. I ragazzi ebbero una reazione pavloviana e cominciarono a raccogliere gli zaini senza che lei li avesse congedati. Lena si mise sulla porta e li costrinse a guardarla. «Date i vostri indirizzi e numeri di telefono all'agente Stephens, nel caso dovessimo risentirvi. E badate bene, passerò i vostri nomi a tutti gli agenti della centrale.» «Oh» fece Rory. «Sai che paura.» Uscirono trascinando i piedi, tranne Carson, che le domandò: «Dirà al preside di perquisirmi?». «Farò tutto il possibile perché ti sbattano dentro prima ancora che diventi maggiorenne.» «Merda» borbottò voltandole le spalle. Lena non voleva tornare al tavolo dove aveva sentito quei discorsi ignobili. Si avvicinò ai computer e posò la mano su un monitor mentre un sudore freddo le gelava il corpo. La inorridiva l'idea che dei ragazzi così giovani concepissero solo violenza nei confronti delle donne. Immaginò che anche lui avesse provato le stesse cose a quell'età, come se le ragazze fossero oggetti di consumo. Tutte disponibili. Tutte puttane. «Lena?» la riscosse Brad. Lei si voltò e vide due donne e un uomo che stavano prendendo posto al tavolo. «Gli insegnanti di Jenny» spiegò Brad. Lena si portò una mano al petto con una sensazione di soffocamento. Brad le era venuto troppo vicino e le sembrava che la stanza si stesse rimpicciolendo. «Comincia tu» gli disse. Voleva uscire a prendere un po' d'aria. Si mosse verso la porta ma lui la fermò. «Da solo?» domandò, standole di nuovo addosso. Lei sentì l'odore del suo dopobarba e un profumo di caramella alla menta. Non poteva permettersi di perdere il controllo lì dentro. Se avesse vomitato di fronte a Brad non avrebbe più avuto il coraggio di presentarsi al lavoro. Indicò il cellulare e fece un passo indietro. «Voglio chiamare la centrale per vedere se ci sono novità e se riescono a rintracciare il proprietario di una Thunderbird.» «Possiamo chiedere al preside» suggerì Brad facendo un passo avanti. «Hanno l'elenco degli autorizzati. Nessuno può parcheggiare nella scuola senza permesso.» «Buona idea» disse Lena. Si tirò indietro e cercò di controllare il respiro. «Vado a vedere cosa si può fare, intanto tu inizia il colloquio. Ricordati di
domandare se Jenny aveva lasciato trapelare qualcosa.» Brad la guardò perplesso. «Ti senti bene?» «Certo» rispose Lena, ma all'improvviso sentì un caldo insopportabile e la camicia che si appiccicava alla schiena. «Comincia con i soliti preliminari, le loro impressioni eccetera. Io faccio qualche telefonata e torno subito qui.» Lui annuì e contrasse la mascella. «D'accordo» disse, benché fosse tentato di chiederle un'altra volta se si sentiva bene. Lei sgattaiolò in corridoio e fece un respiro profondo per calmarsi. Stava ancora sudando e si levò il giubbotto. Le passò accanto un ragazzo che rallentò il passo come vide la pistola nella fondina ascellare. Lena tornò a infilarsi il giubbotto e appoggiò la testa contro la parete. Chiuse gli occhi e aspettò che la nausea passasse. Dopo qualche respiro cominciò a sentirsi meglio. Aprì il cellulare tanto per tenersi occupata. Chiamò la centrale e riferì a Maria della macchina ringraziando il cielo che Frank non fosse in ufficio. Le riusciva ancora difficile parlare con lui, come se intuisse che in qualche modo la riteneva responsabile di quello che le era successo. Il guaio era che anche una parte di lei si riteneva responsabile. Era stata una stupida. Benché si trovasse a meno di cento metri dalla direzione, chiamò il preside al telefono e gli chiese notizie della macchina nera. Lui controllò l'elenco e fornì la risposta che lei si aspettava: non c'era nessuna macchina corrispondente alla descrizione tra quelle registrate. Lo ringraziò e chiuse la comunicazione, soddisfatta di aver fatto almeno qualcosa. L'indagine si complicava invece di fornire nuove piste. Doveva parlare di nuovo con Mark, raccontargli quello che aveva appena saputo e vedere come reagiva. Ma probabilmente, dopo quello che era successo, Jeffrey non le avrebbe permesso di avvicinarlo un'altra volta. Riapri il telefono e chiamò la sua segreteria telefonica. Il primo messaggio era del negozio di video che sollecitava la restituzione delle cassette affittate. Il secondo era di Nan Thomas, la fidanzata di Sibyl. «Lena» diceva Nan, con la voce bassa e un po' irritata. «Ho sempre quella roba, la roba di Sibby. Fammi sapere se la vuoi. Io non...» Si era interrotta, poi la voce riprese: «È che io...». Lena guardò l'orologio, i balbettii di Nan le stavano costando troppo. «Questa sera, verso le otto, sarò al Suddy» proseguì la voce. «Metterò gli scatoloni in macchina. Se li vuoi... Possiamo vederci lì se tu... Altrimenti...» si interruppe di nuovo,
Lena ignorò il resto. Il Suddy era un locale gay alla periferia di Heartsdale. Non aveva nessuna intenzione di incontrare la fidanzata di sua sorella in un covo di lesbiche. Il messaggio successivo le procurò un tonfo al cuore. Era di Hank. «Lena? Barry è malato, dovrò stare io al bar questa sera, forse anche domani.» Chiuse gli occhi e si appoggiò alla parete mentre la voce di Hank spiegava che il giorno dopo doveva fermarsi a Reece per ricevere una consegna di birra. Fu presa del panico, poi si infuriò per la vigliaccheria dello zio che non aveva osato chiamarla sul cellulare e se l'era cavata con un messaggio sulla segreteria. Attraversò il corridoio e si avvicinò alla finestra: nell'altro braccio dell'edificio il personale della mensa stava sistemando i tavoli. Si concentrò talmente sui loro movimenti che si perse una parte dell'ultimo messaggio. Lo riascoltò dall'inizio. «Ciao Lena, sono il pastore Fine. Mi dispiace, ma devo annullare il nostro appuntamento. Uno dei nostri parrocchiani è gravemente ammalato. Devo subito andare a casa sua.» Chiuse il telefono mentre lui la pregava di richiamarlo per fissare un altro appuntamento. Poteva occuparsene Jeffrey. Intanto lei doveva trovarsi qualcosa da fare per la serata. Si vide rientrare da sola nella casa vuota e fu presa dal panico. Mise la mano sul petto e sentì il cuore martellare contro la gabbia toracica. Stava sudando e si sentiva le gambe bollenti e appiccicose. Voleva risentire il messaggio di Hank, forse le era sfuggita una sfumatura nella voce. Forse aveva lasciato aperto uno spiraglio. Forse voleva solo farsi pregare, costringerla a dire che aveva bisogno di lui. Il trillo stridulo della campana le vibrò nelle orecchie. Si guardò in giro nel corridoio vuoto e per un attimo non riuscì a ricordare dove fosse. Vedeva come in sogno una donna che le veniva incontro, ma l'immagine era sfuocata. Poi all'improvviso ritrovò la lucidità: si trovava nella scuola di Jenny Weaver e c'era Dottie Weaver che stava venendo verso di lei. «Merda» borbottò. Guardò il cellulare sperando che squillasse, lo aprì per fingere di telefonare, ma era troppo tardi. Dottie Weaver era a pochi passi da lei, teneva un grosso libro di testo stretto al petto. Come la riconobbe, la signora Weaver si bloccò. Aveva gli occhi arrossati dal pianto e la faccia chiazzata. «Signora Weaver» disse Lena chiudendo il telefono. Dottie scrollò il capo, troppo alterata per parlare.
«Siamo venuti a parlare con i compagni di classe e con gli insegnanti, forse potranno darci qualche...» «Perché non la lasciate in pace?» implorò Dottie. «Perché non la lasciate riposare in pace?» «Mi dispiace» disse Lena con sincerità. «È la mia bambina.» «Lo so» rispose Lena. Abbassò gli occhi sul telefono. «Siete venuti a rovistare nella sua vita per dimostrare che era cattiva.» «Non è questa, la mia intenzione.» «Bugiarda!» gridò Dottie. Le scagliò il libro addosso. Lena lasciò cadere il telefono per afferrarlo, ma le sfuggì e se lo prese sullo stomaco. «Signora Weaver, mio Dio.» Si chinò a raccogliere il libro. «La scuola vuole che lo restituisca» disse Dottie fremente di rabbia. «Lo consegni lei. Lo consegni e riferisca da parte mia che possono andare tutti quanti all'inferno.» Lena cercò di chiudere il libro senza spiegazzare le pagine. Raccolse anche il telefono, che non sembrava danneggiato. Dottie si asciugò gli occhi e si soffiò il naso con un fazzolettino. «Jenny adorava questa scuola» disse. Si strinse lo stomaco tra le braccia come se il solo parlare le procurasse dolore. «Le piaceva tanto venire qui.» Lena decise di approfittare del momento per affrontare il discorso. «Jenny vedeva qualcuno, signora Weaver?» Dottie scrollò la testa. «Chi? Uno psichiatra?» «Un ragazzo. Frequentava qualche ragazzo?» «No» rispose Dottie con decisione. «Certo che no. Era ancora una bambina.» Lena annuì e si sentì stringere il cuore. «Alcune compagne sostengono il contrario.» «Quali compagne?» Si guardò intorno come se fossero lì. «Delle compagne» rispose Lena. «Amiche di scuola.» «Lei non aveva amiche» disse Dottie. Socchiuse gli occhi come se sospettasse un tranello. «Che cosa dicono di mia figlia?» Lena non sapeva come dirlo. «Che lei...» «Che lei cosa?» la incalzò Dottie. «Che frequentava un sacco di ragazzi. Insomma, che stava un po' con tutti.» Lo schiaffo arrivò improvviso e così violento che per qualche secondo metà della faccia di Lena rimase come anestetizzata. E prima che lei potes-
se pensare a una risposta o a una reazione, Dottie le aveva mostrato la schiena e se n'era andata. La porta della biblioteca si spalancò e comparve Brad che si fermò sulla soglia per cedere il passo agli insegnanti che aveva appena interrogato. Avevano un'aria stanca e un po' irritata, ma era abbastanza normale, per quel che ricordava Lena dei suoi insegnanti verso l'ora di pranzo. Una la fissò come se intuisse che era successo qualcosa. Sollevò un sopracciglio per incoraggiarla a parlare, ma Lena era troppo sconcertata per dire qualcosa. «Lena?» la chiamò Brad. Lei annuì per rassicurarlo, domandandosi se la guancia si fosse già arrossata. Brad le presentò tutti gli insegnanti, di cui Lena scordò prontamente i nomi, poi disse: «Sapevano di quelle voci». Lena sbatté gli occhi senza capire. «I pettegolezzi su Jenny» le ricordò Brad. «Li avevano sentiti anche loro.» «Nessuno di noi ci aveva creduto» disse una delle insegnanti. Il tono lasciava intendere che si era rassegnata da tempo all'idea che gli insegnanti restassero all'oscuro di molte cose. «Era una brava allieva» disse un'altra. «Molto tranquilla, puntuale nei compiti. Sua madre la seguiva molto.» Gli altri annuirono e Lena fece lo stesso, ancora troppo frastornata per riuscire a dire qualcosa di sensato. «Grazie per il tempo che ci avete concesso» disse Brad per accelerare le cose. Strinse la mano a tutti e ricevette occhiate di incoraggiamento. «Mi dispiace di non essere stato di grande aiuto» disse l'unico maschio. «Se dovesse venirci in mente qualcosa, vi contatteremo senz'altro» aggiunse la collega. Quella che aveva guardato Lena disse a Brad: «Hai fatto un ottimo lavoro. Mi congratulo con te». Brad sorrise trionfante. «Grazie signora» disse chinando la testa come un cucciolo felice. Aspettò che il gruppetto si allontanasse, poi chiese a Lena: «Di chi è quel libro?». «Di Jenny Weaver.» Agitò le pagine per vedere se conteneva qualche foglietto. Non c'era nulla, come negli altri. «E dove l'hai preso?» Lena non se la sentì di raccontare tutto. «Qui» disse e glielo passò. «Consegnalo in segreteria, ci vediamo alla macchina.»
Il parcheggio del Suddy era quasi vuoto nonostante fossero già le otto. Se Sibyl e Nan facevano testo, le lesbiche della città erano già a casa a guardarsi un telefilm. Non che Sibyl potesse guardare, era cieca, ma ogni tanto le piaceva ascoltare, e Nan le raccontava quello che succedeva sullo schermo. Lena incrociò le braccia e pensò a Sibyl, a come l'aveva vista l'ultima volta. Non all'obitorio, ma il giorno prima che morisse. Come sempre, anche quella volta Sibyl era piena di energie e rideva di qualcosa che era successo a lezione. Le piaceva insegnare, le dava una gran gioia avere di fronte una classe. Forse anche per questo quel giorno Lena aveva avuto una reazione così negativa all'ambiente scolastico. Quasi suo malgrado, scese dalla macchina. Il Suddy era un bar gradevole rispetto agli standard cittadini, e in confronto al bar di Hank a Reece era una reggia. All'esterno era piuttosto spoglio, forse per non attirare troppo l'attenzione. A parte l'insegna al neon della Budweiser con la bandiera arcobaleno incorporata nel logo, l'entrata non aveva nulla di speciale. L'interno era più allegro, ma le luci soffuse creavano un'atmosfera troppo intima per i gusti di Lena. Il jukebox suonava una musica dolce e sopra quella che doveva essere la pista da ballo ruotava lentamente un pallone a specchi. Lena non aveva mai accettato fino in fondo l'omosessualità di Sibyl, non capiva come una donna così bella, così estroversa e vitale, potesse scegliere una vita simile. Sua sorella aveva sempre desiderato dei figli e qualcuno che si prendesse cura di lei e Lena non avrebbe mai immaginato che finisse per scegliere quell'esistenza. Quando Sibyl si era finalmente confidata con lei, la reazione di Lena era stata categorica: «Non è possibile, ti sbagli». E anche quando lei era andata a vivere con Nan, Lena aveva continuato a dirsi che sua sorella non era gay, che si trattava di una fase transitoria e che un giorno Sibyl avrebbe riso del suo sbaglio, si sarebbe trovata un compagno e avrebbe avuto dei bambini. Il fatto che fossero gemelle complicava ancor di più le cose, perché Lena si viveva come una parte di Sibyl e percepiva Sibyl come una parte di sé. La inquietava pensare che qualche recesso del suo inconscio potesse condividere le tendenze sessuali di Sibyl. Allontanò quei pensieri e avanzò di qualche passo dentro il locale. Le due donne che vide al primo tavolino la ignorarono, sembravano troppo occupate a infilare la lingua l'una nella gola dell'altra per interessarsi alla nuova arrivata. La ragazza al banco stava leggendo il giornale e quando
Lena si avvicinò alzò gli occhi e la guardò stupita. «Tu devi essere la sorella» disse. Lena prese posto a un paio di sgabelli da lei. «Aspetto qualcuno» si limitò a dire. La ragazza ripiegò il giornale, la raggiunse e le porse la mano: «Mi chiamo Judy». Lena guardò la mano per un istante, poi con qualche riluttanza la strinse. Era una ragazza alta, con lunghi capelli scuri e un viso a forma di cuore. Gli occhi castano intenso non smettevano di fissarla. «Una birra, per favore» disse Lena, poi cambiò idea. «Anzi, dammi un Jim Beam.» Judy si voltò e alzò il braccio verso il ripiano dei superalcolici. «Sibyl non beveva mai» disse, come se desse per scontato che Lena, in quanto gemella, non dovesse bere. «E non scopava con gli uomini, se è per questo» la rintuzzò lei. Judy accusò il colpo. «Jim Beam allora?» «Sì, grazie» rispose con un'aria annoiata cercando i soldi nella tasca. Era passata da casa a cambiarsi prima di venire lì. Si era messa un paio di jeans e una maglietta e adesso era pentita, perché secondo lei la facevano sembrare gay. «A lei piaceva il succo di mirtilli rossi, però» disse Judy. «Fammelo doppio» disse Lena. Posò una banconota da venti dollari sul banco. Judy la servì e la guardò. «Ci manca tanto.» «Lo immagino» disse Lena laconica. Fissò il liquido scuro dentro il bicchiere e si ricordò che l'ultima volta che aveva bevuto alcol era stata la notte in cui Sibyl era morta. Non le piaceva bere, non sopportava la sensazione di perdere il controllo sulla realtà. Non che ultimamente riuscisse ad avere il controllo su qualcosa, in ogni modo. Guardò l'orologio sopra il banco, erano le otto meno cinque. «L'appuntamento è qui?» domandò Judy. Lena ingollò il doppio whisky in un sorso. «Jim Beam» disse tamburellando il bicchiere col dito. Judy la guardò perplessa, ma tornò a prendere la bottiglia dal ripiano. Per scoraggiare la conversazione, Lena ruotò lo sgabello in direzione della pista da ballo. C'era solo una donna che si dondolava a occhi chiusi al ritmo della musica. Aveva qualcosa di familiare, ma l'illuminazione era scarsa e la memoria di Lena non voleva lavorare. Eppure era come affasci-
nata da quella donna, dal modo in cui riusciva a concentrarsi su se stessa, come se il locale fosse vuoto. Come se null'altro le importasse. Partì un'altra canzone che Lena riconobbe ai primi accordi. Le balenò nella mente Mark Patterson. La sensualità provocante della donna che danzava le ricordava il ragazzo. Continuò a guardarla chiedendosi che diavolo fosse successo con Jenny Weaver. Che tipo di potere aveva Mark su di lei? Cosa aveva spinto una ragazzina di tredici anni a prostituirsi? Non aveva senso. Cercò di figurarsi Mark che ballava così, benché fosse improbabile che uno come lui si azzardasse a stare solo su un pista da ballo vuota. Quel pensiero la stupì, era assurdo che si mettesse a fare ipotesi sulla personalità di Mark. Non sapeva quasi nulla di lui, ma in qualche modo il suo inconscio ne intuiva dei tratti. Si girò di scatto verso il banco per rompere l'incantesimo. Judy stava leggendo il giornale, aveva lasciato il resto accanto al bicchiere ancora intatto. Lena stava decidendo quanto lasciare di mancia, quando vide la sua immagine riflessa nello specchio dietro il banco. Notò l'espressione allarmata, identica a quella di Judy quando aveva alzato gli occhi a guardarla. Per una frazione di secondo nello specchio era comparsa Sibyl, e Lena si era sentita balzare il cuore in gola. Si udì un vocio all'esterno e poco dopo un gruppo di persone entrò nel locale. Ridevano e si scambiavano battute e indossavano tutte la stessa tenuta da baseball: pantaloni neri con due righe bianche sui fianchi e magliette bianche col nome della squadra sul petto. «Gesù» mormorò Lena quando riconobbe Nan Thomas tra le altre. La bibliotecaria col muso da topo aveva gli occhiali trattenuti da un elastico rosa fosforescente e la maglietta macchiata di terra, come se fosse scivolata a faccia in giù sulla casa base. A differenza del resto del gruppo, Nan non reagì come se avesse visto Sibyl, anzi, si accigliò. Qualcuno diede una pacca sulla spalla a Lena. Era Hare Earnshaw, l'ultima persona che lei avrebbe immaginato di trovare lì. Era in jeans, ma con la maglietta e il berretto della squadra. «Lena, come va?» disse. Forse anche per colpa dell'alcol, Lena non riuscì a nascondere la sua sorpresa: «Non mi dirai che sei gay anche tu!» si lasciò sfuggire. Hare era medico e un paio di anni prima aveva curato Lena per una brutta bronchite. Hare rise. «Sono nella squadra» disse indicando la maglietta. Poi si chi-
nò su di lei con un'occhiata maliziosa e le sussurrò: «Mieto successi». Lena si alzò e si guardò intorno. Il gruppo aveva affollato il locale, tutti gesticolavano e discutevano animatamente della partita che avevano appena giocato e lei sentì arrivare la claustrofobia. Si diresse verso l'uscita schivando i corpi. «Lee?» la chiamò Nan, poi, prima che lo facesse Lena, si corresse e disse: «Lena». «Quante volte di ho detto di non chiamarmi Lee?» la redarguì Lena incrociando le braccia. «Lo so, lo so.» Alzò le mani in segno di resa. «Ti chiedo scusa. Solo che Sibyl ti chiamava sempre così.» Lena tagliò corto. «Vogliamo andare a prendere quella roba? Devo tornare a casa.» La voce si affievolì sulla parola casa. L'idea di trovarla vuota le metteva ancora paura e Hank non aveva risposto al telefono quando aveva cercato di rintracciarlo. Il bastardo aveva deciso di ignorarla, sembrava ci provasse gusto a sparire proprio quando aveva più bisogno di lui. «È in macchina» disse Nan aprendo la porta e trattenendola per lei. Lena si bloccò e aspettò che lei si decidesse a passare. Che fosse Brad a cederle il passo, era un conto, ma trovava intollerabile che lo facesse un'altra donna. Nan ricominciò a parlare mentre si dirigevano al parcheggio. «Ho cercato di lasciare tutto come lo teneva lei. Sibyl ci teneva tanto che tutto fosse in ordine.» «Non poteva fare altrimenti» ribatté Lena. In effetti era abbastanza ovvio che una persona cieca avesse bisogno di assegnare un posto preciso a ogni cosa. Se Nan colse il tono acido non lo diede a vedere. «Eccoci arrivate» disse fermandosi di fronte a una Toyota bianca. Il finestrino di guida era abbassato e ci infilò la mano per schiacciare il pulsante che apriva il baule. «Non dovresti lasciare la macchina aperta» le disse Lena. «E perché?» Sembrava sinceramente stupita. «È parcheggiata di fronte a un locale gay. Dovresti essere più prudente.» Nan mise le mani sui fianchi. «Sibyl è stata uccisa in una tavola calda in pieno giorno. Credi che chiudere la macchina basti a proteggermi?» Aveva ragione, ma Lena non si dette per vinta. «Non stavo dicendo che potrebbero ucciderti. Potrebbero vandalizzare l'auto o qualcosa del genere.»
«Bah!» fece Nan, proprio come avrebbe fatto Sibyl. Avevano lo stesso atteggiamento nei confronti della vita, un po' fatalista, genere "Succeda quel che succeda", che faceva imbestialire Lena. «Queste sono le cassette» disse porgendole una scatola. «Sibyl ci ha appiccicato i titoli in braille, ma sotto c'è l'etichetta originale.» Lena prese la scatola, sorpresa che pesasse tanto. «Qui ci sono delle fotografie.» Posò la scatola sopra la prima. «Non so come mai le avesse lei.» «Le avevo chiesto io di conservarle per me» spiegò Lena. Un giorno le aveva portato tutte le fotografie in cui compariva il suo ultimo ragazzo, Greg Mitchell, che l'aveva appena lasciata. Non le voleva più vedere in casa. «Questa te la porto io» si offrì Nan prendendo l'ultima scatola. Era più grande delle altre due e l'appoggiò sul ginocchio per chiudere il baule. «Contiene varie cianfrusaglie che teneva nell'armadio, i premi che ha preso alle superiori, una coppa di atletica che credo sia tua.» Lena annuì e si avviò verso la sua macchina. «Ho trovato una foto di voi due sulla spiaggia» disse Nan ridendo. «Sibyl si era presa una scottatura. Ha una faccia terribile.» Dato che camminava di fronte a Nan, Lena si concesse un sorriso. Si ricordava di quel giorno. Sibyl aveva voluto rimanere al sole anche se Hank continuava a dirle di non esagerare. L'unica protezione erano gli occhiali scuri e, quando se li era levati, aveva due cerchi bianchi attorno agli occhi su una faccia rossa come un peperone. Sembrava un orsetto lavatore. «...passare da me sabato mattina» stava dicendo Nan. «Come hai detto?» «Ho detto che puoi passare sabato mattina a dare un'occhiata all'altra roba. Il computer lo regalo alla scuola per ciechi di Augusta.» «Quale altra roba?» domandò Lena. Aveva paura che Nan volesse buttare via le cose di Sibyl. «Sono solo carte» spiegò. Posò per terra la scatola. «Materiale di studio, più che altro. La sua tesi, delle relazioni. Roba del genere.» «E hai intenzione di buttarle via?» «Non sono cose preziose» disse Nan, come se parlasse a una bambina. «Per Sibyl erano preziose» protestò Lena, quasi strillando. Nan guardò per terra e poi di nuovo Lena. Continuò col tono materno di prima: «Ti ho già detto che le puoi tenere, se vuoi. Sono tutte in braille. Non le puoi leggere».
Lei posò le scatole e la guardò con una smorfia di disprezzo. «Bella fidanzata che eri.» «Che cavolo stai dicendo?» «Sto dicendo che per lei significavano qualcosa, altrimenti non le avrebbe conservate. Comunque, fai come vuoi, buttale via.» «Un momento. Quante volte ho dovuto telefonarti per pregarti di venire a prendere questa roba?» Indicò le scatole. «Non è la stessa cosa» disse Lena frugandosi nelle tasche in cerca delle chiavi. «E perché non è la stessa cosa? Perché tu sei finita all'ospedale?» «Abbassa la voce» disse lanciando un'occhiata all'entrata del locale. «Non dirmi quello che devo fare» strillò Nan. «Non sarai tu a stabilire se amavo o non amavo tua sorella. Chiaro?» «Io non voglio stabilire un bel niente» disse Lena per allentare la tensione. Non capiva come fossero arrivate a quel punto. Non sapeva neppure perché aveva cercato lo scontro, ma era evidente che adesso Nan era furiosa. «Ah, no?» ringhiò. «Credi di essere l'unica che ha voluto bene a Sibyl? Io ho condiviso la mia vita, con lei.» Abbassò la voce. «Ho condiviso il letto, con lei.» Lena trasalì. «Questo lo so.» «Lo sai? Allora ascoltami bene, Lena, sono stufa marcia del modo in cui mi tratti, neanche fossi un paria.» «Ehi» la fermò Lena. «Non sono io quella che gioca a baseball per Suddy.» «Non so come facesse a sopportarlo» borbottò, quasi a se stessa. «Sopportare cosa?» «La tua stronzaggme misogina da sbirro, per cominciare.» «Misogina?» ripeté Lena. «A me, dai della misogina?» «E omofobica» aggiunse Nan. «Omofobica?» «Sei diventata un pappagallo?» Lena si sentì fremere le narici. «Non provocarmi, Nan. Potresti pentirtene.» Nan ignorò l'avvertimento. «Perché non torni là dentro, dalle amiche di tua sorella? Perché non vai a parlare con le persone che la conoscevano davvero e le volevano bene?» «Parli come Hank» disse Lena. «Ah. Adesso capisco. Hai parlato di me
con Hank.» Nan si morse le labbra. «Siamo preoccupati per te.» «Oh, davvero?» rise Lena. «Magnifico. Lo zio tossico e la fidanzata lesbica della mia sorellina morta sono preoccupati per me.» «Certo che lo siamo.» «Dio, che idiozia» disse cercando di ridere. Infilò la chiave e aprì il baule. «Lo vuoi sapere qual è la vera idiozia? È un'idiozia che a me freghi qualcosa di quello che fai. È un'idiozia che io mi dispiaccia di vederti buttare via la vita.» «Nessuno ti ha chiesto di badare a me, Nan.» «No» ammise Nan. «Ma è quello che avrebbe voluto Sibyl.» Adesso il tono era più pacato. «Se Sibyl fosse qui, in questo preciso istante, ti direbbe le stesse cose.» Lena deglutì e cercò di non lasciarsi ferire dalle parole di Nan, soprattutto perché dicevano la verità. Sibyl era l'unica persona che riuscisse a toccarla nel profondo. Nan continuò: «Ti direbbe che devi fare i conti con quello che ti è successo. Sarebbe preoccupata per te». Lena fissò il cric, in cerca di una cosa qualsiasi su cui concentrarsi. «Sei piena di rabbia» continuò Nan. Lena sbottò in una risata che suonò falsa perfino a lei. «Credo di avere ottimi motivi per esserlo.» «Perché? Perché hanno ucciso tua sorella? Perché ti hanno stuprata?» Lena si appoggiò con la mano al baule per tenersi dritta. Fosse così semplice, pensò. Non piangeva soltanto la morte di sua sorella, piangeva la morte di se stessa. Non sapeva più chi fosse veramente e perché si alzasse ogni mattina. Le avevano portato via tutto quello che era stata prima. Non si riconosceva più. Nan ricominciò a parlare e parlando pronunciò il nome di lui. Lena guardò le sue labbra che articolavano quel nome, poi vide il nome sospeso nello spazio che le separava, come un veleno gassoso. «Lee» la implorò Nan. «Non permettere che lui ti rovini la vita.» Lei si aggrappò alla macchina, le gambe stavano per cedere. Nan pronunciò di nuovo quel nome, poi concluse: «Devi fare i conti con quello che è successo, Lena. Devi farlo ora, altrimenti non riuscirai ad andare avanti». «Vai a farti fottere» rispose Lena in un sibilo.
Nan fece un passo avanti per posarle una mano sulla spalla. «Stai lontana da me» la minacciò Lena. Nan sospirò e si arrese. Si voltò e camminò verso il bar senza aggiungere altro. Lena era in macchina nel parcheggio vuoto del supermercato, a bere whisky dozzinale dal collo della bottiglia. Non sentiva più il sapore cattivo e aveva la gola a tal punto anestetizzata dall'alcol, che quasi non lo sentiva scendere giù. C'era un'altra bottiglia sul sedile accanto e probabilmente avrebbe scolato anche quella prima che la notte finisse. Non desiderava altro che rimanere in macchina in quel parcheggio vuoto e cercare di capire cosa stava succedendo alla sua vita. Nan dopotutto aveva ragione. Doveva affrontare la situazione, ma questo non significava andare a parlare con un idiota come Dave Fine. Doveva semplicemente darsi una mossa e smetterla di lasciarsi ossessionare da ogni piccola cosa. Doveva ricominciare a vivere. E quello di cui aveva bisogno, era una notte di autocommiserazione per ripercorrere tutte le sue sofferenze e liberarsene una volta per tutte. Ascoltò dei brani dalle cassette di Sibyl inserendole una dopo l'altra nel mangianastri per capire che cosa contenevano. Avrebbe voluto scriverci sopra i titoli, ma non riuscì a trovare una penna. E poi non le andava di scarabocchiare sulle cose di Sibyl, anche se a lei non sarebbe importato. Alcune cassette avevano l'etichetta, erano quasi tutte di cantanti di Atlanta: Melanie Hammett, le Indigo Girls e altri che lei non conosceva. Estrasse l'ultima, che conteneva su un lato una specie di compilation di musica classica e i Pretenders sull'altro, e la buttò nella scatola insieme alle altre. Poi prese l'ultima scatola, quella più pesante, che trasportò sul sedile del passeggero. C'erano soprattutto fotografie di Greg Mitchell insieme a lei, in varie fasi della loro storia. Qualcuna scattata sulla spiaggia, naturalmente, e altre della volta in cui erano andati insieme a Chattanooga, a visitare l'acquario. Scacciò le lacrime sbattendo le palpebre e cercò di ricordare quel giorno, quando avevano aspettato in coda di fronte all'entrata, e il vento che arrivava dal fiume Tennessee soffiava così forte che Greg si era messo alle sue spalle per non farla infreddolire. Aveva provato una sensazione bellissima quando lui, da dietro, l'aveva stretta fra le braccia e le aveva posato il mento sulla spalla. Era stata l'unica volta in vita sua in cui si era sentita veramente felice. Poi la coda era avanzata, Greg si era staccato da lei e aveva detto qualcosa sul tempo o su un fatto di cronaca, e lei aveva cominciato di proposito un battibecco senza che ce ne fosse motivo.
Diede una scorsa a un altro plico di fotografie sorseggiando l'alcol a piccoli sorsi. Ormai era ubriaca, ma ancora lucida. Le pareva quasi impossibile che nella sua vita ci fosse stato un momento in cui aveva cercato la compagnia di un uomo, desiderato di rimanere sola con lui, rincorso momenti di intimità. Nonostante tutto quello che gli aveva detto quando lui l'aveva lasciata, lo rimpiangeva. Trovò anche la fotografia di cui le aveva parlato Nan. Sibyl aveva davvero un aspetto orribile, ma sorrideva ugualmente all'obiettivo. A quell'età erano quasi identiche, anche se a Sibyl mancava un incisivo che aveva perso cadendo dai gradini del portico. Poi era cresciuto un nuovo dente, un po' storto, che però dava un carattere particolare al suo sorriso. Così almeno sosteneva Hank. Quando trovò un pacchetto legato con un elastico, non poté fare a meno di sorridere. Erano le foto scattate con la Polaroid che Hank le aveva regalato il giorno in cui aveva compiuto quindici anni. Presa dell'entusiasmo, aveva scattato due interi rullini inquadrando tutto quello che le capitava a tiro. Poi si era divertita a farne una serie di collage. Ne ricordava uno in particolare, che riuscì a ritrovare nel mazzo. Con una lametta da rasoio aveva inciso i contorni della faccia di Hank e l'aveva staccata sollevando la superficie senza bucare la foto. Al suo posto aveva incollato la testa di Bonnie, il cane labrador della loro infanzia. «Bonnie» sospirò. Sentì le lacrime calde che le rigavano le guance. Perciò non voleva bere. Il cane era morto da più di dieci anni e lei piangeva come se fosse morto il giorno prima. Scese dalla macchina con le bottiglie. Non le voleva più in macchina, non voleva lasciarsi tentare a scolarle fino all'ultimo sorso, rischiando di perdere i sensi. Dopo pochi passi si rese conto che era già sul punto di crollare, si sentiva i piedi come se non fossero i suoi e incespicò varie volte su ostacoli inesistenti, Il supermercato era chiuso da ore, ma andò lo stesso a sbirciare dalle vetrate per sincerarsi che nessuno l'avesse vista barcollare nel parcheggio deserto. Camminò intorno all'edificio appoggiandosi con una mano al muro e reggendo con l'altra le bottiglie. Quando arrivò sul retro e abbandonò l'appoggio, le gambe non la reggevano più. Riuscì in qualche modo ad aggrapparsi a qualcosa e a evitare di finire lunga distesa sull'asfalto. «Merda» farfugliò. Si era ferita la mano, ma non sentiva il dolore. Si tenne in piedi, decisa più che mai a buttare le bottiglie. Poi avrebbe smaltito la sbronza dormendo un paio d'ore in macchina prima di tornare a casa.
Riuscì a raggiungere il cassone dell'immondizia e ci buttò la bottìglia quasi vuota. Sentì il rumore rassicurante del vetro che si frantumava contro la parete metallica. Buttò anche la seconda, che produsse due tonfi sordi senza rompersi. Fu tentata di infilarsi dentro e recuperarla, ma riuscì a imporsi di non farlo. C'era un filare di alberi che delimitava la proprietà e lo raggiunse arrancando con i piedi ancora intorpiditi. Si piegò in due e vomitò l'alcol che aveva un sapore amaro insopportabile, e le procurò altri conati violenti. Alla fine si ritrovò sulle ginocchia, con le mani a terra, squassata dai conati che producevano solo bava, come era successo in macchina con Hank. Hank, pensò tirandosi in piedi. Era talmente arrabbiata con lui che per un momento accarezzò l'idea di guidare fino al bar di Reece e dirgli quello che pensava di lui. Quattro mesi prima le aveva detto che sarebbe rimasto con lei tutto il tempo necessario. Dove diavolo era adesso? Probabilmente a qualche stupida riunione dell'Anonima Alcolisti, a raccontare che era preoccupato per sua nipote e la voleva aiutare, invece di essere lì ad aiutarla davvero. Il motore della Celica si accese con un brontolio prepotente e Lena diede gas abbandonandosi alla fantasia di ingranare la marcia, mollare il freno e lanciarsi contro la vetrata del supermercato. Fu un impulso improvviso, ma non del tutto inaspettato. Dentro di lei stava dilagando una sensazione di inutilità che non riusciva a respingere. Anche dopo aver rigettato l'alcol, la mente rimaneva annebbiata, come scontornata, e i pensieri vagavano e affioravano alla coscienza senza controllo. Si rese conto di pensare a lui. Percorse il tragitto fino a casa sbandando e superando spesso la linea gialla. All'arrivo andò quasi a sbattere contro il capanno in fondo al vialetto. Solo all'ultimo momento, con un soprassalto di lucidità, riuscì a inchiodare i freni. Rimase seduta in macchina, frastornata, a guardare la casa buia. Hank non si era neppure preso la briga di accendere la luce sotto il portico. Aprì lo scomparto del cruscotto, tirò fuori la pistola d'ordinanza e inserì un colpo. Sentì chiaro nelle orecchie il clic e dentro di lei scattò qualcosa che le fece vedere l'arma sotto una luce diversa. Fissò il metallo nero, fiutò addirittura il calcio. Prima che arrivasse a rendersene conto, aveva infilato la canna in bocca e messo il dito sul grilletto. Lena lo aveva già visto fare a una ragazza. Si era infilata la pistola in bocca e quasi senza esitare aveva premuto il grilletto, convinta che fosse
l'unica soluzione per cancellare i ricordi dalla mente. Il rumore di quell'unico colpo le risuonava ancora nella mente, ma quello che le era rimasto più impresso di quel giorno erano i frammenti di materia cerebrale e ossa craniche che erano andati a conficcarsi nell'intonaco della parete. Rimase immobile. Respirava lentamente e sentiva il metallo freddo sulle labbra. Pigiò la lingua contro la canna e cercò di valutare la situazione. Chi l'avrebbe trovata? Hank sarebbe tornato a casa? Brad, pensò, perché al mattino Brad doveva passare a prenderla. Cosa avrebbe pensato vedendola così? Come avrebbe reagito alla vista di lei, in macchina, col cranio spappolato? Era abbastanza forte per reggere a quello spettacolo? Ce l'avrebbe fatta ad andare avanti con la sua vita, col lavoro, dopo averla trovata in quello stato? «No» si disse. Estrasse il caricatore, fece scivolare fuori dalla camera il proiettile già inserito e ripose il tutto nello scomparto del cruscotto. Si precipitò fuori dalla macchina e salì di corsa i gradini del portico sul retro. Le mani erano salde quando infilò la chiave nella porta e accese la luce in cucina. Passò in tutte le stanze e accese le altre luci. Salì al piano di sopra prendendo i gradini a due a due e continuò ad accendere luci fino a che la casa non fu tutta illuminata. Naturalmente, con le luci accese, chiunque poteva curiosare dalle finestre e vederla. Rifece il percorso all'inverso, spense tutto e corse da basso. Avrebbe potuto chiudere le imposte e tirare le tende, ma aveva bisogno di muoversi e di far pompare il cuore. Da mesi non andava in palestra, ma i muscoli rispondevano agli ordini. Quando era uscita dall'ospedale, i medici le avevano prescritto dosi da cavallo di analgesici, convinti che le convenisse intontirsi con i farmaci piuttosto che pensare a quello che le era capitato. Lo psichiatra con cui l'avevano fatta parlare le aveva perfino proposto di prendere dello Xanax. Tornò di corsa di sopra, andò in bagno e aprì l'armadietto delle medicine. Trovò una mezza confezione di Darvocet e un intero flacone di Flexeril. Il Darvocet era un analgesico, ma il Flexeril era un potente miorilassante che aveva quasi steso Lena l'ultima volta che l'aveva provato. Da allora ci aveva rinunciato, perché per lei era più importante essere lucida che non sentire il dolore. Lesse le etichette trascurando le raccomandazioni a non assumere i farmaci a stomaco vuoto e a non utilizzare macchinari pesanti. C'erano almeno venti Darvocet e una quarantina di Flexeril. Aprì il rubinetto e lasciò scorrere l'acqua. La mano era perfettamente ferma, prese il bicchiere e lo
riempì fino all'orlo. «Eccoci qui» mormorò guardando l'acqua trasparente. Pensava di dover dire qualcosa di importante e significativo sulla sua vita, ma non c'era nessuno ad ascoltarla e a quel punto le pareva sciocco mettersi a parlare da sola. Non aveva mai veramente creduto in Dio, quindi non si aspettava di rivedere Sibyl nell'aldilà. Non avrebbe trovato strade dorate su cui camminare. Non che di dottrina cristiana ne sapesse molto, ma era quasi certa che chi si ammazzava, di qualunque fede fosse, si giocava il paradiso. Sedette sul water e cominciò a riflettere. Per un po' si domandò se non fosse ancora ubriaca. Certamente, da sobria, non avrebbe pensato al suicidio. Guardò il bagno, che non era mai stato la sua stanza preferita. Le piastrelle erano arancione a contorni bianchi, colore in voga negli anni Settanta, ma ormai pacchiano. Aveva cercato di neutralizzare quella tinta aggiungendo altri colori: un tappetino blu scuro per la vasca da bagno e una copertura verde scuro per la scatola dei Kleenex. Gli asciugamani richiamavano i tre colori, ma senza migliorare l'effetto complessivo. Non c'era nulla che si potesse fare per rendere gradevole quel bagno. Quindi era il posto appropriato per morire. Aprì i flaconi e sparse le pillole sulla mensola dello specchio. Quelle di Darvocet erano grosse, quelle di Flexeril, invece, erano piccole come mentine. Le mischiò spostandole col dito, poi tornò a separarle. Bevve un sorso d'acqua e capì che stava giocando. «Bene» disse. «Questa è per Sibyl.» Aprì la bocca e ci infilò una pillola di Darvocet. «Per Hank» e ne aggiunse una di Flexeril. Poi, dato che erano piccole, ne aggiunse altre due, seguite da due di Darvocet. Ma non deglutì. Voleva ingoiarle tutte insieme e c'era ancora una persona da nominare. Quando pronunciò il suo nome la bocca era già piena e il suono uscì soffocato. «Queste sono per te» farfugliò, facendo scivolare nel palmo della mano tutte quelle che rimanevano. «Per te, bastardo.» Mise in bocca la manciata di pillole buttando indietro la testa, poi restò come paralizzata, a occhi sgranati: sulla porta del bagno era apparso Hank. Rimasero entrambi zitti, guardandosi negli occhi. Hank a braccia conserte e labbra serrate. «Continua» disse alla fine. Lena rimase immobile, seduta sul water, con la bocca piena di pillole.
Alcune cominciavano a sciogliersi e le impastavano il palato di una poltiglia agra. «Non chiamerò l'ambulanza, se è quello che stai pensando.» Scrollò le spalle con insofferenza. «Fai pure, se è quello che vuoi.» Lena sentiva la lingua intorpidirsi. «Hai paura?» domandò Hank. «Troppa paura per premere il grilletto, troppa paura per mandar giù le pillole?» Il sapore in bocca le faceva lacrimare gli occhi, ma non deglutì. Era sconcertata. Da quanto tempo Hank la stava osservando? Era una specie di prova, che lei non aveva superato? «Avanti!» gridò Hank e la voce rimbombò sulle piastrelle. Lena aprì la bocca e avvicinò la mano per sputare le pillole, ma Hank glielo proibì. Attraversò il piccolo bagno in due passi e le mise una mano sulla bocca e l'altra dietro la testa, in modo che lei non potesse muoversi. Lena gli afferrò il polso e affondò le unghie cercando di strappare via la mano, ma non aveva abbastanza forza. Si buttò in avanti e cadde in ginocchio, ma lui si chinò con lei senza mollare la presa. «Mandale giù. È quello che vuoi, mandale giù!» Lei provò a scuotere la testa per dire che no, non voleva farlo, non poteva farlo. Qualche pillola cominciò a scivolare in gola e strinse i muscoli del collo per bloccarle. Il cuore le batteva così forte che se lo sentiva scoppiare. «No?» domandò Hank. «No?» Lena continuava a scuotere la testa e a tirargli il polso per liberarsi. Finalmente Hank la lasciò andare e lei si sbilanciò in avanti andando a picchiare la testa contro il bordo della vasca. Hank sollevò con un colpo il coperchio del water, l'afferrò per le spalle e la trascinò davanti alla tazza. Le cacciò giù la testa e finalmente lei aprì la bocca e sputò fuori le pillole. Ebbe qualche conato che le torse lo stomaco e finalmente si liberò. Si passò le dita sulle gengive e si raschiò la lingua con le unghie per eliminare il sapore. Hank non smetteva di guardarla e quando lei alzò gli occhi capì che era furioso. «Bastardo che non sei altro» disse in un sibilo pulendosi la bocca col dorso della mano. Lui mosse un piede e Lena immaginò che stesse per darle un calcio. Si raggomitolò per prepararsi al colpo, ma non accadde nulla. «Pulisciti» le ordinò. Passò la mano sulla mensola e fece cadere a terra
le pillole rimaste. «Raccogli questa merda.» Lena ubbidì e si mise carponi a raccogliere le pillole di Darvocet. Hank si appoggiò alla parete a braccia conserte. Quando lei lo sentì parlare con una voce più dolce, alzò gli occhi stupita e vide che aveva le lacrime agli occhi. «Se ti azzardi a farlo ancora...» cominciò, poi distolse lo sguardo e si portò la mano alla bocca come se volesse frenare le parole. «Sei tutto quello che ho, bambina mia.» Anche Lena adesso piangeva. «Lo so, Hank» singhiozzò. «Non...» «Cosa?» Hank si lasciò scivolare contro le piastrelle e si accucciò a terra con le braccia abbandonate lungo i fianchi. «Non mi abbandonare» mormorò, e le parole rimasero sospese nell'aria come una nuvola scura. La distanza che li separava era poco più di un metro, ma a Lena pareva insuperabile. Avrebbe potuto toccarlo alzando semplicemente la mano. Avrebbe potuto ringraziarlo. Avrebbe potuto promettergli che non ci avrebbe mai più provato. Avrebbe potuto fare una o tutte queste cose, ma l'unica che le riuscì di fare fu raccogliere le pillole ad una ad una e buttarle nel gabinetto. MARTEDÌ 10 «Devi stare fermo, Sam» disse Sara. Stava cercando di persuadere il bambino riottoso che teneva sulle ginocchia a farsi auscultare i polmoni. «Fai il bravo con la dottoressa Linton, Sammy» lo incoraggiò la madre cantilenando le parole. «Sara?» Elliott Felteau, il suo collaboratore al centro pediatrico, aveva fatto capolino dalla porta. Sara lo aveva assunto fresco di tirocinio per farsi aiutare, ma stava scoprendo di essere lei a doverlo condurre per mano. Del resto, un medico più anziano avrebbe preteso un ruolo alla pari e Sara non aveva nessuna intenzione di rinunciare al posto di comando. Aveva lavorato sodo per arrivare dov'era arrivata e ci teneva a difendere la sua autonomia. «Chiedo scusa» disse Elliott rivolto alla madre. Poi rivolto a Sara: «Hai per caso detto a Tara Collins che Pat poteva giocare nella squadra di football questo weekend? Vuole il certificato medico da presentare all'allena-
tore». Sara si alzò in piedi con il bambino in braccio. Sam le allacciò le gambe attorno alla vita e lei lo spostò sul fianco per sostenerlo meglio. «Come mai lo ha chiesto a te?» «Ha detto che non ti voleva disturbare.» «No, non può giocare questo weekend» disse a bassa voce, mentre cercava di aprire il pugno di Sam che le tirava i capelli. «Glielo avevo già detto venerdì.» «È solo una partita amichevole.» «Ha avuto un trauma cranico» obiettò, con un tono che non lasciava spazio a discussioni. «Capisco» disse Elliott tirandosi indietro. «Evidentemente ha pensato che io fossi più facile da lavorare.» Sara tornò a sedersi di fronte alla madre. «Mi dispiace.» Per fortuna Sam si era calmato e riuscì ad auscultargli i polmoni. «Pat Collins è la star della squadra» osservò la madre. «Vuole impedirgli di giocare?» Sara ignorò la domanda. «I polmoni sono puliti, ma deve finire il ciclo di antibiotici.» Stava per passare il bambino alla madre, ma si fermò. Gli sollevò la maglietta e controllò petto e schiena. «Qualcosa che non va?» Sara scosse la testa. «È tutto a posto» disse. Non c'era motivo di sospettare maltrattamenti, ma aveva pensato la stessa cosa anche con Jenny Weaver. Si diresse alla porta e l'aprì. Molly Stoddard, la sua infermiera, era alla sua postazione e stava compilando una richiesta di analisi. Sara aspettò che avesse terminato e le dettò le indicazioni per Sam. «Fissagli un appuntamento per la visita di controllo.» Molly annuì continuando a scrivere. «Va tutto bene oggi?» Sara ci pensò e decise che no, non andava bene. Era in uno stato di tensione che si trascinava dal giorno prima, quando si era scontrata con Lena. Si sentiva in colpa e in collera con se stessa per essersi lasciata trascinare. Lena aveva fatto il suo lavoro e non stava a lei giudicarla. Aveva mancato di rigore professionale interferendo con la giovane detective, tanto più in presenza di Jeffrey e quello che le aveva detto era imperdonabile, una pura cattiveria. Non le capitava mai di essere malevola di proposito, non era nella sua indole aggredire, ma più ci pensava e più si convinceva di a-
vere letteralmente aggredito Lena, che davvero non ne aveva bisogno. «Pronto?» la risvegliò Molly. «Sara, ci sei?» «Come? Oh, scusami. Stavo...» Alzò il mento e indicò il suo ufficio, non le andava di parlare in corridoio. Molly lasciò entrare prima Sara e poi si chiuse la porta alle spalle. Molly Stoddard era una donna imponente, con quello che comunemente si definisce un bel viso. Al contrario di Sara, era sempre inappuntabile, con l'uniforme immacolata e inamidata alla perfezione. Portava sempre un unico gioiello, una sottile catena d'argento che spuntava dal colletto del camice. Sara era entusiasta di lei, anche se certe volte le veniva voglia di strapparle la cuffietta e scompigliarle i capelli, o di macchiare d'inchiostro la sua uniforme impeccabile. «Hai ancora cinque minuti prima del prossimo appuntamento» disse Molly. «Qualcosa non va?» Sara si appoggiò alla parete e infilò le mani nelle tasche del camice. «Abbiamo trascurato qualcosa?» domandò. Poi si corresse: «Ho trascurato qualcosa?». «La Weaver?» domandò Molly. «Me lo sono domandato anch'io e non so darmi una risposta.» «Chi può essere stato?» Si rese conto che l'infermiera non poteva capire a cosa alludeva. I risultati dell'autopsia erano riservati e, anche se si fidava di Molly, non se la sentiva di rivelarle tutti i particolari. Erano troppo raccapriccianti. «Non è facile capire i ragazzi di quell'età» disse Molly. «Mi sento responsabile. Avrei dovuto aiutarla, o per lo meno osservarla meglio.» «Vediamo fra i trenta e i quaranta bambini al giorno, per sei giorni alla settimana.» «Detto così sembra una catena di montaggio.» Molly alzò le spalle. «Può darsi che lo sia. Facciamo quello che possiamo. Li visitiamo, gli prescriviamo le medicine e cerchiamo di capire i loro problemi. Che altro dovremmo fare?» «Fuori uno, avanti l'altro» borbottò Sara. Quando lavorava al pronto soccorso quella frase era diventata quasi un motto. «È il nostro lavoro» disse Molly. «Non ero tornata a Grant per lavorare così» disse Sara. «Speravo di costruire un rapporto diverso coi pazienti.» «Ma è quello che hai fatto» la rassicurò Molly. Si avvicinò e le mise una
mano sul braccio. «Ascoltami, tesoro, so quello che stai passando, ma io vedo come lavori, lo vedo tutti i giorni, e ti posso assicurare che ci metti anima e corpo.» Lasciò passare qualche secondo. «Ti sei scordata com'era il dottor Barney? Quella sì, era una catena di montaggio.» «Con me era sempre stato premuroso» obiettò Sara. «Perché tu gli piacevi. Ma per ogni bambino che gli stava simpatico ce n'erano dieci che non sopportava, e quando sei arrivata tu, ti ha subito rifilato quelli che a lui non andavano.» Sara scosse la testa, poco convinta. «Non è vero.» «Domandalo a Nelly» insistette Molly. «Lei è qui da più tempo di me.» «Insomma, il mio pregio è di essere un tantino meglio del dottor Barney?» «Il tuo pregio è che tratti tutti i bambini allo stesso modo. Non fai favoritismi.» Molly indicò le fotografie sulla parete. «Quante foto aveva sulla parete il dottor Barney?» Sara alzò le spalle, ma sapeva che la risposta era "Nessuna". «Dai retta a me, tu sei troppo severa con te stessa. E questo non ti porterà da nessuna parte.» «D'ora in avanti voglio essere più scrupolosa» disse Sara. «Forse potremmo diradare gli appuntamenti, così avrei più tempo da dedicare a ciascun paziente.» Molly rise. «Riusciamo a malapena a soddisfare le richieste, come facciamo a ridurre gli appuntamenti? Fra la clinica e l'obitorio...» «Forse dovrei rinunciare alle autopsie» la interruppe Sara. «O assumere un altro medico» suggerì Molly. «Non saprei» disse Sara dubbiosa. Bussarono alla porta. «Se è Elliott...» cominciò Sara, ma non era lui. Nelly, la direttrice amministrativa del centro da prima ancora che Sara nascesse, aprì la porta. «C'è Nick Shelton al telefono» disse. «Vuoi che gli dica di lasciare un messaggio?» Sara fece segno di no. «Passamelo». Aspettò che Molly uscisse e sollevò il ricevitore. «Buon giorno bellezza» disse Nick, con l'accento dolce del Sud. Sara sorrise. «Ciao, Nick.» «Peccato che non ho tempo di farti la corte» disse. «Ho una riunione fra dieci secondi. Sarò telegrafico.» Sara lo udì sfogliare delle pagine. «Non ho trovato casi di castrazione femminile, per lo meno negli Stati Uniti.
Immagino che la cosa non ti sorprenda.» «No» ammise Sara. Una cosa così raccapricciante sarebbe sicuramente finita sui giornali. «Qualche anno fa, in Francia, una donna è finita in tribunale per aver praticato una cinquantina di interventi. Credo che fosse di origine africana.» Sara si domandò come una donna potesse infierire a quel modo su delle bambine. «Dimmi cosa ne sai tu» disse Nick. «L'infibulazione rientra nella categoria delle mutilazioni genitali femminili. È praticata nell'Africa sahariana e in parte del Medio Oriente. È legata alla religione?» «Ormai con la religione si giustifica tutto, anche le missioni suicide» disse Nick con amarezza. Sara si limitò a un mugolio di consenso. «Direi che è un retaggio di antiche pratiche tribali, tramandate di generazione in generazione. Più isolato è il gruppo di appartenenza, più la pratica è diffusa. Non c'è un nesso diretto con la religione, ma evidentemente ai maschi di quelle parti piace l'idea che le donne non si travino.» «O l'idea che non possano godere. Bel modo che avete di ragionare. Se lo facessero anche a voi, quei territori sarebbero lande desolate». Nick rimase zitto e Sara si sentì in colpa per averlo compreso nel mazzo. «Scusami Nick. Volevo dire...» «Non lo devi spiegare a me, Sara» disse sottovoce. Lei lasciò passare qualche secondo poi domandò: «Che altro?». Lo sentì armeggiare con i fogli. «Dopo l'intervento, di solito le fasciano a gambe unite per facilitare la cicatrizzazione.» Fece una pausa e sospirò. «In alcuni casi le cuciono e lasciano solo una fessura per il flusso mestruale, come hanno fatto alla tua ragazzina.» «Ho letto degli articoli» disse Sara. Sapeva anche che le donne del villaggio che non venivano sottoposte alla mutilazione non erano considerate maritabili. «Il campione di filo che hai prelevato dalla salma è comunissimo. L'ho mandato al laboratorio, hanno detto che si può trovare da qualsiasi ferramenta.» Prese tempo per riflettere. «Secondo te, la persona che ha praticato la mutilazione ha qualche esperienza in campo medico?» «Stai guardando le fotografie?» «Sì» rispose. «È un intervento rudimentale, ma non del tutto improvvisa-
to.» «Sono d'accordo con te.» Chiunque avesse cucito la ragazza doveva avere una certa familiarità con le suture. «Sto guardando le statistiche» continuò Nick. «Alcune ragazze muoiono in seguito alla shock. Il tutto avviene senza anestesia, non so se mi spiego. Spesso lo strumento utilizzato è un coccio di vetro.» Sara rabbrividì. «Cosa può aver spinto qualcuno a praticarla qui da noi?» «Vuoi dire qualcuno che non appartiene a un gruppo di immigrazione?» Non le lasciò il tempo di rispondere. «Là lo fanno per avere la certezza che la donna si mantenga pura. Di solito il marito la apre la prima notte di nozze.» «Pura» ripeté Sara. Jenny Weaver aveva usato quella parola con sua madre. Nick domandò: «Era vergine?». «No» rispose Sara. «A giudicare dal confronto tra orifizio vaginale e meandro urinario, si direbbe che fosse sessualmente attiva parecchio tempo prima della mutilazione. E probabilmente con partner diversi.» «Malattie veneree?» «No. Le analisi erano tutte negative.» «Era solo un'ipotesi.» «C'è altro?» Nick rimase zitto per qualche secondo poi disse: «Pensi di vedere Jeffrey in settimana?». «Sì» rispose Sara con qualche imbarazzo. «Digli che quel disegno che mi ha mandato non compare nei nostri computer. Lo abbiamo faxato all'FBI per una ricerca più ampia, ma lo sai anche tu che non sono dei lampi.» «Quale disegno?» domandò Sara. «Un tatuaggio. Non saprei. Mi ha detto che si fa sulla membrana tra il pollice e l'indice.» «Glielo dirò.» «A cena?» Sara rise. «Dove vuoi andare a parare, Nick?» «Se non sei troppo occupata, il prossimo weekend sarò dalle vostre parti.» Sara sorrise. Nick l'aveva invitata già altre volte, ma più che altro per galanteria. Era quasi quindici centimetri più basso di lei e andava in giro ricoperto d'oro, peggio di un magnaccia. Non poteva pensare di avere qual-
che chance, ma era il tipo che non lasciava mai niente di intentato. «Credo di aver ricominciato a vedermi con Jeffrey.» «Credi?» «Voglio dire...» Si trattenne. «Sì. Abbiamo ricominciato a vederci.» Come sempre, accolse di buon grado il rifiuto: «Io ci ho provato» disse. Si salutarono e Sara rimase seduta a riflettere su quello che le aveva detto. Doveva esserci qualche relazione tra il desiderio di purezza di Jenny e la mutilazione. Le sfuggiva qualcosa, forse qualcosa che era evidente. Si chiedeva cosa potesse far sentire sudicia una ragazza. Ma l'unica cosa che le veniva in mente era il sesso. Jenny Weaver aveva avuto parecchie esperienze sessuali. Forse i sensi di colpa per l'eccessiva promiscuità a un certo punto erano diventati insopportabili. Altro interrogativo irrisolto: chi aveva praticato la mutilazione? Non era possibile che Jenny avesse fatto tutto da sola. Sarebbe svenuta dal dolore prima di arrivare alla fine. Doveva esserci qualcun altro coinvolto in quella storia, qualcuno in grado di eseguire l'escissione e la sutura. Forse Jenny si era ubriacata fino a perdere conoscenza, forse aveva comperato da qualcuno degli analgesici o dei miorilassanti. A scuola si trovava di tutto. Chiunque avesse un po' di soldi poteva portarsi a casa un'intera farmacia. Nelly socchiuse la porta e infilò dentro la testa. «Patterson» annunciò. «Senza la mamma» aggiunse a bassa voce. Sara guardò l'orologio. Mark sarebbe dovuto venire il giorno prima. Il suo arrivo imprevisto rischiava di scombussolare tutti gli appuntamenti. «Fallo accomodare nella numero sei» disse. «Avvisalo che dovrà aspettare.» «Avvisalo?» ripeté Nelly stupita. «È Lacey, la ragazza.» Sara si drizzò sulla sedia. «Ti ha detto perché è venuta?» «Dice che non si sente bene» rispose Nelly. Poi di nuovo a bassa voce: «E se vuoi sapere il mio parere, ha una faccia da far paura». «Perché bisbigli?» domandò Sara bisbigliando a sua volta. Nelly abbozzò un sorriso, entrò dentro e chiuse la porta. «Si comporta in modo strano. È venuta senza la madre.» Sara cominciò a inquietarsi. «Quando è arrivata?» «Poco fa. Nella sei allora?» Annuì e si sentì chiudere lo stomaco. Prese il telefono per chiamare Jeffrey, ma cambiò idea. Lacey era venuta lì perché si fidava di lei e non poteva tradire la sua fiducia. Sicuramente aveva bisogno di aiuto. Forse ave-
va fatto qualcosa di illegale, ma la priorità era capire come stava. La saletta numero sei si trovava alla fine del corridoio a forma di L. Di solito veniva riservata ai casi gravi, o utilizzata come sala d'aspetto per i genitori, nei casi in cui Sara doveva parlare di sesso, controllo delle nascite o qualsiasi altra cosa che esigeva un colloquio privato con i suoi ragazzi. Immaginò che Molly avesse scelto la sei per conquistarsi la fiducia della ragazza. Di norma tutti venivano accompagnati da un genitore, anche quelli che avevano già la patente. Quando Sara svoltò l'angolo del corridoio, trovò Molly che l'aspettava di fronte alla porta chiusa. Le passò la cartella di Lacey Patterson dicendo: «Se hai bisogno di me sono nella due». Sara controllò sulla cartella le annotazioni relative all'ultima visita benché le avesse già lette domenica. Due mesi prima Lacey era venuta per una tonsillite e Sara le aveva prescritto degli antibiotici in attesa degli esami di laboratorio, ma il foglietto rosa che mandavano di solito con i risultati non c'era. Stava per andare in cerca di Molly, quando udì un lamento dietro la porta. «Lacey?» domandò aprendo. «Come ti...» lasciò la frase a metà. Solo all'obitorio aveva visto un viso tanto pallido. La ragazza era seduta sulla sedia vicino al lettino e si stringeva lo stomaco. Nonostante il caldo aveva addosso un impermeabile giallo. Stava piegata e dondolava la testa avanti e indietro. Sara le mise una mano sulla spalla. Lacey batteva i denti, ma riuscì a dire: «Le devo parlare». «Vieni» disse Sara aiutandola ad alzarsi. «Mettiti sul lettino.» Poiché esitava, Sara l'aiutò a salire. «Io non...» cominciò, ma tremava troppo per riuscire a parlare. Sara le mise una mano sulla fronte per capire se i tremiti erano dovuti alla paura o alla febbre, ma col caldo che faceva fuori non era facile stabilirlo. «Leviamo l'impermeabile» le suggerì, ma Lacey continuava a stringersi la pancia fra le braccia. «Cos'è successo?» domandò, cercando di non farsi prendere dall'ansia. Avvertì una strana tensione, come se presagisse qualcosa di terribile. Lacey si piegò in avanti e Sara dovette sorreggerla perché non cadesse dal lettino. «Ho sonno» disse. «Tieniti su, solo per un momento.» Chiamò ad alta voce verso il corri-
doio: «Molly?». «Non mi sento bene» disse la ragazza. Sara la sostenne per le spalle. «Dove ti fa male?» Lei aprì la bocca per parlare e le vomitò addosso imbrattandole il camice. Come i conati cessarono disse: «Chiedo scusa». «Non è niente, tesoro» la consolò Sara. «Mi fa male la pancia.» «Non ti preoccupare.» Continuò a sostenerla con una mano e con l'altra strappò una salvietta di carta dal rotolo appeso al muro. «Ho la nausea.» Questa volta Sara chiamò con tutta la voce che aveva in corpo: «Molly?». Era inutile, perché la stanza due era all'estremo opposto del corridoio. «Sdraiati» disse a Lacey. «Se ti viene da vomitare mettiti su un fianco.» «Non mi lasci sola!» la implorò la ragazza. «La prego, dottoressa Linton, le devo parlare. Le devo raccontare cos'è successo.» Sara immaginò cosa fosse successo, bisognava intervenire subito, non c'era tempo per le confessioni. «Devo dirle una cosa» insistette Lacey. «Riguarda il bambino?» azzardò Sara. Dall'espressione di Lacey capì di avere indovinato. Si sentì una stupida per non averci pensato prima. Disse: «Lo so, tesoro. Lo so. Adesso sdraiati, torno subito da te». La ragazza si allarmò. «Come fa a saperlo?» «Sdraiati» ripeté. Poi, pensando che servisse a calmarla, aggiunse: «Vado a telefonare a tua madre». Lacey si tirò su di scatto. «Non lo deve dire alla mamma.» «Non ti devi preoccupare.» «Non glielo può dire» singhiozzò tra le lacrime. «È malata. È molto malata.» Sara non capì cosa intendesse dire, ma cercò ugualmente di consolarla. «Vedrai che tutto si sistemerà.» «Mi prometta che non glielo dirà.» «A questo penseremo dopo, tesoro.» «No!» gridò afferrandole il braccio. «Alla mamma non lo deve dire. La prego. La prego, non glielo dica.» «Rimani qui» le ordinò Sara. «Io torno subito.» Senza aspettare la risposta uscì in corridoio e levandosi il camice sporco si diresse alla postazione
delle infermiere. «Che succede?» domandò Nelly. «Chiama un'ambulanza.» Buttò il camice nel bidone della biancheria sporca e si protese a guardare in fondo al corridoio per sincerarsi che Lacey non fosse uscita dalla stanza. «Di' a Molly di andare subito alla sei, poi chiama Frank alla centrale di polizia.» «Oh, mio Dio» mormorò Nelly prendendo il telefono. Da uno degli ambulatori uscì Elliott. «Sara? Ho un bambino di sei anni con...» «Non ora» lo bloccò Sara alzando la mano. Lanciò un'altra occhiata al corridoio, poi andò nel suo ufficio e chiamò il cellulare di Jeffrey. Al quarto squillo a vuoto riagganciò. Chiamò la centrale. Rispose Maria: «Centrale di polizia della contea di Grant. Posso esserle utile?». «Maria» disse Sara. «Trova Jeffrey, mandalo subito qui, sono al centro pediatrico.» In corridoio risuonò un colpo e Sara borbottò un'imprecazione: qualcuno aveva sbattuto la porta dell'uscita secondaria. Maria chiamò: «Sara?». Sara posò il ricevitore e si precipitò in corridoio convinta di rincorrere Lacey, ma trovò Mark, teso e fremente come una corda violino. Era ferito, sull'addome la maglietta blu stava diventando viola e i jeans erano strappati sul ginocchio, come se fosse caduto sull'asfalto. «Lacey!» urlò Mark spalancando la prima porta che si trovò davanti. All'interno una madre lanciò un piccolo grido soffocato e subito dopo un bambino cominciò a piangere. «Sara?» chiamò Nelly. Era alla postazione delle infermiere col telefono in mano. Sara le lanciò un'occhiata. «Chiama la centrale. Fai venire subito qualcuno», «Lacey?» gridò ancora Mark e la voce risuonò nel corridoio. Per fortuna non aveva notato che il corridoio svoltava nelle ultime due stanze. Si avvicinò e Sara vide che aveva gli abiti macchiati. C'erano piccoli schizzi di bianco un po' dappertutto e aveva i capelli sporchi e arruffati, come se da un po' non si facesse la doccia. Sara non lo aveva mai visto ridotto così. «Maledizione!» strillò Mark agitando le braccia. «Dove cazzo è finita mia sorella?»
Si aprirono un paio di porte e Sara fece subito segno ai genitori affacciati di non uscire. Molly era ferma accanto a lei con la cartella stretta al petto. Era la prima volta che Sara la vedeva così spaventata. «Mark» disse Sara cercando un tono autorevole. «Che ci fai qui?» «Dov'è Lacey?» gridò lui picchiando sulla porta successiva. All'interno un bambino cominciò a strillare. Nelly stava parlando al telefono. Teneva la voce bassa e Sara non riusciva a sentire quel che stava dicendo, ma sperò con tutto il cuore che riuscisse a far venire subito qualcuno. «Mark» ripeté Sara. «Smettila. Non è qui.» «Certo che è qui» ribatté lui. Fece un passo verso di lei. «Dov'è quella puttana?» Picchiò di nuovo sulla porta facendola tremare. Nelly strillò e scomparve sotto il bancone. «Dov'è?» Sara lanciò un'occhiata nervosa verso il suo ufficio per depistarlo. Mark abboccò. «Ah» disse. «È là dentro?» «No.» Lui fece un sorriso beffardo e mosse un altro passo verso di lei. Sara gli vide le pupille, piccole come capocchie di spillo, e capì che aveva preso qualcosa. Emanava anche un odore particolare che non riuscì a riconoscere ma che le fece pensare a sostanze chimiche. «Che cosa vuoi, Mark?» «Voglio la mia fottuta sorella, la faccio a pezzi se non tiene la bocca chiusa.» «Non è qui» ripeté Sara. «Lacey?» strillò Mark infilando la testa nell'ufficio. «Esci subito di lì, dai retta a me, ti conviene.» Sara catturò con la coda dell'occhio un movimento e uno sprazzo di giallo in fondo al corridoio: Lacey stava cercando di raggiungere la porta secondaria. Si sentì gelare, cercò di calcolare quanto ci avrebbe messo a raggiungere l'uscita e continuò a fissare Mark nella speranza che la sorella sgattaiolasse fuori. Ma lei non si muoveva, stava immobile, sembrava inchiodata alla parete. «È lì dentro?» domandò Mark. «No» rispose Sara guardando oltre la sua spalla. «È dietro di te.» Lacey si tappò la bocca con la mano per impedirsi di urlare.
«E io ci credo» disse Mark senza voltarsi. «Vattene subito di qui, Mark. Questa è violazione di domicilio.» Lui la ignorò ed entrò nell'ufficio. Sara lo seguì a distanza e pregò che Maria avesse mandato qualcuno, fosse pure Brad Stephens. «Lacey?» chiamò Mark a voce più bassa. Girò intorno alla scrivania. «Sarà peggio per te, se non vieni subito fuori.» Sara rimase sulla porta a braccia conserte. «Che cos'è la purezza, Mark?» Mark guardò sotto la scrivania e lanciò una bestemmia. Sferrò un calcio contro il mobile, furibondo. «Sei stato tu a far sentire sporca Jenny? È per questo che voleva diventare pura?» «Si tolga di mezzo» disse. Lei mise la mano sullo stipite per bloccargli l'uscita. «Le ho detto di togliersi di mezzo.» «Che cos'è la purezza?» Parve sul punto di rispondere, ma era solo una scappatoia per distrarla. Le andò vicino e la buttò indietro. Lei cadde riversa sul corridoio battendo la testa. «Sara!» gridò Molly correndo in soccorso. «Va tutto bene» la tranquillizzò lei. Si tirò su, girò con fatica la testa, e vide che Lacey era ancora li. Adesso l'aveva vista anche Mark. «Scappa» le gridò Sara. Lacey esitò, si guardò attorno smarrita, poi finalmente corse verso la porta e la spalancò. «Puttana!» gridò Mark correndole dietro. Sara allungò il braccio d'impulso e gli afferrò un piede. Lui cercò di liberarsi con uno strattone, ma lei si aggrappò alla gamba del pantalone. «Fermati» gridò cercando di trattenerlo. Mark si chinò e le sferrò un pugno sulla mano. Quando vide che non funzionava, la colpì in faccia. Lei ebbe appena il tempo di vedere il luccichio della pietra rossa sull'anello, poi il pugno si abbatté sulla fronte. Frastornata, mollò la presa. «Oh, mio Dio» mormorò Molly portandosi la mano alla bocca. «Merda» ringhiò Sara. Si toccò la fronte. L'anello l'aveva colpita sulla tempia. Guardò il sangue sulle dita, poi pensò a Lacey e si costrinse ad alzarsi. Molly cercò di trattenerla, ma lei si lanciò dietro a Mark e Lacey. «Dove diavolo è finito Jeffrey?» le gridò da sopra la spalla.
All'uscita si fermò per guardarsi attorno. Si schermò gli occhi dal sole e cercò di individuare Lacey tra gli alberi. «Non saranno tornati sulla strada?» disse Molly. Si lanciò sul lato della clinica, Sara la seguì di corsa e svoltando l'angolo le finì addosso. Molly stava indicando la strada. «Eccola là.» Ricominciarono a correre insieme, ma Sara aveva il passo più lungo e se la lasciò subito alle spalle. La strada di fronte al centro pediatrico non era mai trafficata, ma all'ora di pranzo studenti e professori uscivano dal campus per andare in città. Vide Lacey correre in mezzo alla strada, inseguita dal fratello urlante. Passarono indenni sull'altro lato e Lacey prese in direzione del lago. In quel momento qualcuno che Sara non riuscì a riconoscere si avventò su Mark e lo trascinò a terra. Quando anche Sara e Molly arrivarono al di là della carreggiata, Lena Adams era già a cavalcioni di Mark e lo stava ammanettando. «Oh, merda» disse Lena guardando in fondo alla strada. Lacey era già lontana, ma riconoscibile dall'impermeabile giallo. Sara non ebbe il tempo di fare un passo che una macchina nera accostò la ragazza, la portiera del passeggero si spalancò, un braccio afferrò Lacey per la vita e la trascinò dentro. Sara si toccò il cerotto sulla fronte e scese dalla macchina. Molly le aveva dato due punti e cancellato il resto degli appuntamenti per concederle il tempo di riprendersi. Le doleva la testa e si sentiva tesa e irritabile. Avrebbe potuto rimanere alla clinica e riprendere il lavoro, ma Molly era stata categorica. Forse aveva fatto bene. Se ripensava a quello che era successo, un nodo le serrava la gola. Le veniva voglia di piangere all'idea che un'altra delle sue pazienti fosse in pericolo e che lei non potesse fare assolutamente nulla. «Mamma?» chiamò scalciando via le scarpe. Richiuse la porta, ma nessuno rispose. Andò in cucina e chiamò di nuovo. «Mamma?» Ancora nessuna risposta. Si sentì mancare. Riempì un bicchiere d'acqua, lo bevve a piccoli sorsi e si asciugò la bocca col dorso della mano. Si lasciò cadere sullo sgabello, prese il telefono e chiamò Jeffrey. Quando Lena era partita per la centrale con Mark non aveva pensato a chiederle dov'era. «Tolliver» rispose Jeffrey e dal rimbombo Sara capì che era in macchina. «Dove sei?» gli domandò. «Ho avuto un piccolo imprevisto in Alabama» disse. «Ho appena parlato
con Lena. Mi ha detto di Lacey. Non sei riuscita a vedere chi c'era sulla macchina?» «No» disse Sara. «Hai parlato con i genitori?» «C'è Frank da loro. Non conoscono nessuno con quella macchina.» «Cosa ha detto Mark?» «Non vuole parlare con nessuno. Neppure con Lena.» «Chi può averla rapita?» «Non ne ho idea» disse Jeffrey. «Abbiamo diffuso un comunicato in tutto lo stato. Voglio parlare con Mark e vedere se riesco a cavarne qualcosa.» «Ho la sensazione che ci sfugga qualcosa di importante. Qualcosa che abbiamo davanti al naso.» «Hai ragione.» Rimase zitto e Sara lo sentì accelerare. Poi disse: «Raccontami cos'è successo. Dall'inizio alla fine». Sara prese fiato e gli raccontò tutto. Jeffrey sembrava interessato soprattutto ai particolari della sua aggressione, forse perché era l'unica cosa su cui poteva intervenire. «Con che cosa ti ha colpito?» domandò con la voce tesa. «Con l'anello. Mi ha dato un pugno, in realtà, ma mi ha fatto male solo perché aveva l'anello. Il pugno era abbastanza leggero, voleva solo liberarsi.» Si toccò il cerotto. «Non è niente di grave.» «Lena lo ha denunciato per aggressione?» «Presumo» rispose laconica, per convincerlo a lasciar perdere. Jeffrey capì e passò ad altro. «Hai avuto l'impressione che Lacey conoscesse quelli che erano sulla macchina?» «Era troppo lontana, Jeffrey, non ne ho idea. Non fosse stato per l'impermeabile, non avrei riconosciuto neanche Lacey.» «Lena ha riconosciuto quella macchina. È la Thunderbird nera che le hanno descritto i compagni di Jenny Weaver. Ogni tanto qualcuno veniva a prenderla a scuola con quella macchina.» Sara ascoltò giocherellando col filo del telefono il racconto di quello che Lena aveva scoperto a scuola. Quando Jeffrey finì di parlare si limitò a dire: «Quella non è la Jenny che ho conosciuto io». «Comincio a credere che nessuno la conoscesse veramente.» Sara si decise a dire quello che da un po' le ronzava nella mente. «Credi che Mark e Lacey siano i genitori? Voglio dire, so che volevi un campione di sangue di Mark, ma non avevo pensato che...» «Lo so» la interruppe Jeffrey. Il tono deciso lasciava intendere che anche
lui ci aveva pensato. «È solo un'ipotesi.» «E Teddy Patterson?» «Neppure lui è da escludere.» «Dubito che si lascerà fare il prelievo senza un mandato.» «Ci puoi scommettere.» Sara sospirò, non riusciva a trovare un nesso tra i vari episodi. «Forse Jenny l'aveva saputo e si era ingelosita?» «Potrebbe essere» rispose, ma si capiva che pensava ad altro. «Jeff...» Non sapeva come affrontare l'argomento, temeva una reazione di rabbia. «Mark aveva un taglio sull'addome. Non era profondo, ma evidentemente qualcuno ha cercato di ferirlo.» «Gli sta bene.» «Non dire così. È un ragazzino. Non lo dimenticare.» «Un ragazzino che forse ha stuprato sua sorella e che faceva prostituire la sua amica» disse. «Un ragazzino che ti ha preso a pugni in faccia.» «Lascia perdere me» si indispettì Sara. «Dico sul serio Jeffrey, lascia stare, non ha alcuna importanza.» Jeffrey borbottò qualcosa sottovoce. «Jeff?» «Quando Lacey è arrivata da te ha lasciato trapelare qualcosa?» «Era disorientata. E terrorizzata.» «Ti è sembrata in condizioni gravi?» «Non ho capito se fosse la paura, lo shock, o il fatto che aveva appena partorito. Non sono stata molto con lei. Io...» si trattenne. «Cosa?» «Mi sento responsabile di non averla protetta. Era venuta per chiedere aiuto. Se fossi riuscita a trattenerla...» «È scappata, Sara. Tu hai fatto quello che potevi.» Si morse il labbro. «Vorrei che servisse a farmi sentire meglio.» «Lo vorrei anch'io. Vorrei poterti dire come si fa a liberarsi dei sensi di colpa, ma non so nemmeno io da che parte cominciare.» Lei si sentì montare le lacrime agli occhi. Mise la mano sulla bocca per non far capire a Jeffrey che stava piangendo. «Sara?» Si schiarì la voce, si asciugò gli occhi e tirò su col naso. «Sì?» «C'è qualcos'altro che Lacey ti ha detto? Magari di Mark. Ti ha detto perché la inseguiva?» Ebbe un moto di insofferenza. Continuare a ripetere le stesse domande
non serviva certo a ritrovare Lacey Patterson. «Smettila di chiedermi sempre le stesse cose. Ho passato una giornata orribile, risparmiami almeno il terzo grado.» Jeffrey si zittì e lei sentì di nuovo il motore che accelerava. Chiuse gli occhi e si appoggiò alla parete, in attesa che fosse lui a parlare. «Io non...» si interruppe. «Insomma, l'idea che qualcuno possa farti del male mi manda in bestia.» Lei rise. «Anche me, se è per questo.» «Ti senti bene?» domandò di nuovo. «Ma certo.» In realtà era ancora scombussolata. La clinica era sempre stato un posto sicuro e non le piaceva l'idea che il lavoro all'obitorio avesse in qualche modo invaso i suoi spazi privati. Si sentiva vulnerabile e non le andava. Cambiò discorso. «Ha chiamato Nick.» Gli raccontò quello che le aveva detto. «Purezza?» ripeté Jeffrey. «È quello che diceva Jenny.» «Esatto. E io credo che abbia a che fare col sesso. Voleva tornare ad essere pulita. È così?» «Credo.» «E che cosa l'ha fatta sentire sporca?» «Il fatto di essere stata con tutti quei ragazzi?» «Ma era ubriaca» gli ricordò Sara. «Loro sostengono che non era ubriaca al punto di non sapere cosa stava facendo.» «Questo è ovvio. Cosa volevi che dicessero, che l'hanno stuprata?» Jeffrey si raschiò la gola. «Hai ragione.» «Perché altrimenti lo avrebbe fatto? Jenny non era il tipo. Cristo santo, era solo una ragazzina.» «Noi non sappiamo come sono andate le cose, Sara. E probabilmente non lo sapremo mai.» Sara cambiò argomento. Mancavano troppi elementi per trovare una logica in quella storia. «Nick ha trasmesso il tatuaggio all'FBI. Dai loro database non è uscito nulla.» «Per questo ho fatto tardi» disse Jeffrey. «Ti racconto tutto stasera.» «No, caro. Me lo racconti domani.» «Non dovevamo vederci stasera?» «Certo» lo rassicurò. «Ma non per parlare di lavoro.» Aspettò qualche secondo poi aggiunse: «Stasera non voglio pensare a questa storia. D'ac-
cordo?». «D'accordo. A me basta vederti.» «Non sarà un bello spettacolo» disse cercando un tono allegro. «Ho un bel cerotto verde sulla fronte.» «Ti fa male?» «Mhm...» mormorò. Aveva visto dalla finestra sua madre che stava salendo all'appartamento di Tessa. «Sara?» «Conto su di te per levarmi questa storia dalla mente.» Lui rise. Sembrava sollevato. «Devo parlare con Mark e dare istruzioni per la ricerca di Lacey alle pattuglie in servizio questa sera, anche se per ora non c'è molto che possiamo fare. Arrivo il più presto possibile, d'accordo?» «Farai molto tardi?» «È probabile. Vuoi che ti lasci dormire?» «No. Svegliami.» Quasi lo sentì sorridere. «A presto, allora.» «A presto.» Bevve un altro bicchiere d'acqua e uscì. Il selciato scottava come carboni ardenti sui piedi nudi e fece gli ultimi metri fino alle scale in punta di piedi. L'appartamento di Tessa era spazioso, con due camere da letto e due bagni. Aveva dipinto le pareti a tinte chiare rilassanti e accentuato l'effetto con due belle poltrone e un divano enorme, invitante. Sara ci aveva dormito spesso, specialmente subito dopo il divorzio, perché si sentiva più al sicuro lì che a casa sua. «Tessie?» chiamò trattenendo la porta a zanzariera per non farla sbattere. Cathy aveva lasciato la porta di legno spalancata nonostante ci fosse il condizionatore acceso. «Un momento» rispose Tessa con voce trascinata. Sara si diresse alla camera da letto. «Tess?» ripeté, e si fermò sulla soglia. Tessa aveva il naso affondato nel fazzoletto e non alzò gli occhi. Cathy era seduta accanto a lei a braccia conserte. «Cosa è successo?» disse Sara in concomitanza con la madre. Si guardarono. «Cosa?» dissero insieme. Sara indicò la sorella. «Che le succede? Perché piange?» Cathy si alzò, si avvicinò e le mise una mano sulla testa. «Ti sei fatta
male?» «È una storia lunga» disse lei scostandole la mano. «Tessie, cosa c'è che non va?» Tessa scrollò il capo sconsolata e Sara si spaventò. Andò a sedersi sul letto. «Papà?» domandò titubante. Cathy aggrottò la fronte. «Non dire sciocchezze. Papà sta benone.» «E allora cosa c'è?» Tessa andò al comò e prese in mano un bastoncino di plastica bianca. Sara riconobbe subito la barretta per il test di gravidanza. Non sapendo che dire, osservò con piglio professionale: «Questo va fatto la mattina al risveglio». «Ci sono arrivata anche da sola. Poi l'ho rifatto all'ora di pranzo e di nuovo qualche minuto fa.» «Tutti positivi» annunciò Cathy. «Il prossimo weekend l'accompagno ad Atlanta.» «Come?» Sara non riusciva a capire cosa c'entrasse Atlanta, poi arrivò l'illuminazione e cominciò a scuotere la testa. «Vuoi abortire?» Tessa fissò la barretta. «Non credo di avere alternative.» «Ma non è vero» si accalorò subito Sara. «L'alternativa ce l'hai eccome.» «Sara» la ammonì Cathy. «Mamma...» cominciò lei. Poi rivolta a Tessa: «Gesù Cristo, Tess, hai trentatré anni, un buon reddito, Devon che ti ama alla follia». «E questo cosa c'entra?» «Come sarebbe, cosa c'entra?» «Non sono pronta.» Sara rimase sconcertata, non sapeva cosa dire. Alla fine si lanciò: «Lo sai che cosa fanno, Tessa? Lo sai cosa prevede la procedura? Lo sai che...». Tessa la fermò. «So cos'è un aborto.» «Ma come puoi pensare...» «Pensare cosa? Penso di non essere pronta per mettere al mondo un bambino. Che altro dovrei pensare? Non mi sento pronta e basta.» «Nessuna è mai pronta» obiettò Sara. «Come fai a essere così egoista?» «Egoista?» fece Tessa incredula. «Pensi solo a te stessa.» «Non è vero.» Sara si coprì gli occhi con la mano, come se non volesse vedere la realtà. La abbassò e ricominciò: «Lo sai cosa ti fanno? Lo sai cosa faranno al
bambino?». Tessa si voltò dall'altra parte. «Non è un bambino.» Sara la prese per il braccio e la costrinse a voltarsi. «Guardami negli occhi.» «E perché? Per lasciarmi convincere? La decisione spetta solo a me, Sara.» «E Devon? Lui cosa dice?» Tessa imbronciò le labbra. «Non sta a lui decidere.» Sarà capì cosa intendeva dire, ma: «Come no? Non sei sicura che il padre sia lui?». «Sara» la redarguì Cathy. Lei la ignorò. «È lui o no?» «Ma certo che è lui. Per chi mi hai preso?» Sara rimase a fissarla imbambolata. Voleva trovare qualcosa di convincente da dire. Quando aprì la bocca per parlare, quello che uscì lasciò di stucco tutte e tre. «Lo alleverò io.» Tessa scosse la testa. «Non potrei mai fare una cosa simile.» «Perché?» «Perché non posso affidare a te un figlio mio» disse col tono di una bambina ottusa. Sara si piantò la mani sui fianchi, inviperita. «Questa sì, che è una bella dimostrazione di immaturità. Se tu non lo vuoi, perché non lo può tenere qualcun altro?» Tessa aprì la bocca e la richiuse, poi sbottò: «Da quando sei diventata un'ipocrita? Se non ricordo male, una volta eri più che favorevole all'aborto». Sara si sentì avvampare. La presenza della madre la imbarazzava. «Smettila» disse alla sorella. «Oh, non lo vuoi dire alla mamma di quella volta, quando pensavi che Steve Mann ti avesse impollinato?» Cathy non disse nulla, ma Sara capì che era dispiaciuta. Aveva sempre incoraggiato le figlie a parlare apertamente di tutto. Sara cercò di giustificarsi. «Era un falso allarme. Ero sotto esami, ero stressata. Avevo un ritardo.» Cathy alzò la mano per farla tacere. «Ero un'adolescente» continuò Sara con la voce flebile. «Avevo tutta la vita davanti.» Tessa non si arrese. «E la prima cosa che hai fatto è stata quella di chia-
mare l'associazione delle donne di Atlanta per sbarazzartene al più presto.» Sara scosse la testa perché non era la verità. La prima cosa che aveva fatto era stata quella di scoppiare a piangere e stracciare la lettera di ammissione all'università. «Non è andata così.» Ma Tessa non aveva ancora finito e l'ultima frecciata colpì al cuore. «Per te è facile, perché sai che non rimarrai mai incinta.» «Tessa!» esclamò Cathy allibita. Ma era troppo tardi. Il danno era fatto. Sara fece per dire qualcosa, ma non aveva parole. Era come se l'avessero schiaffeggiata. «Adesso non posso parlare» disse alla fine. Era troppo amareggiata. Non ricordava che Tessa l'avesse mai ferita tanto, per lei era come aver perso la migliore amica. Se ne andò senza dire altro, lasciando sbattere la zanzariera. 11 Senza dare a Jeffrey il tempo di togliersi la giacca, Maria gli passò il mazzo di foglietti con i messaggi. Neanche fosse stato via tre mesi e non ventiquattro ore. «Questo è importante» cominciò la segretaria sfilandone uno. «E anche questo. E questo pure.» Andò avanti così fino a che di poco importante ne rimase solo uno. Era un nome che a Jeffrey non diceva nulla, con il prefisso telefonico di un altro stato. «E questo chi è?» domandò. Maria aggrottò la fronte cercando di ricordare. «Rivestimenti in vinile o distributori di caffè. Non mi ricordo quale dei due.» Si strinse nelle spalle. «Ha detto che richiamerà.» Lui appallottolò il messaggio e lo buttò nel cestino. «Lena è qui?» «La vado a chiamare» disse Maria sollecita e uscì dall'ufficio. Jeffrey sedette alla scrivania e la prima cosa che vide fu il volantino segnaletico che annunciava la scomparsa di Lacey. Era una ragazza magra un po' androgina, con i capelli biondi come la madre, ritratta in una fotografia scolastica. Sullo sfondo la bandiera americana e accanto, posato sul banco, il mappamondo. Sotto erano indicati peso e altezza, il luogo in cui era stata vista l'ultima volta e il numero di telefono a cui rivolgersi per eventuali segnalazioni. Il volantino era stato faxato a tutte le stazioni di polizia della zona e inserito nel database dei minori scomparsi. L'ufficio investigativo dello stato della Georgia aveva il compito di inviarlo a tutte le
forze di polizia del sudest, ma ci avrebbe messo del tempo. Se quello era un giorno come tutti gli altri negli Stati Uniti, Lacey Patterson era solo una fra il centinaio di minori scomparsi o rapiti nelle ultime ore. Jeffrey prese il telefono e chiamò Nick Shelton. Quando rispose ne fu quasi meravigliato, perché Nick era quasi sempre in giro. «Nick? Jeffrey Tolliver.» «Salve capo» disse Nick con quell'accento un po' nasale da bravo ragazzo che alle orecchie di Jeffrey suonò stridulo. Era l'effetto di un giorno passato in Alabama, tra gente dalla parlata dolce e smussata. «Come mai alla scrivania?» «Bisogna pure occuparsi delle scartoffie, ogni tanto» disse Nick. «Notizie della ragazza scomparsa?» «Nessuna. Novità dall'ufficio investigativo?» «Silenzio assoluto. Sarebbe più semplice se avessimo il numero di targa.» «L'automobile era già troppo lontana.» Nick sospirò. «Be', ho inviato al centro informatico i dati disponibili, ma chissà quanto ci vorrà prima che qualcuno se ne occupi. Se non interviene uno sviluppo significativo, non otterrete la procedura d'urgenza.» «Lo so» disse Jeffrey. Ci voleva una svolta nelle indagini, una pista da seguire o qualche nuovo indizio per convincere i pezzi grossi a darsi da fare. Per il momento non si poteva fare altro che aspettare con le mani in mano. Fece un tentativo: «Nick, possibile che tu non riesca a farla passare avanti? Santo cielo Nick, l'hanno rapita, Lena e Sara hanno visto tutto». «Sai quanti minori sono scomparsi nelle ultime dodici ore?» «Sì, ma...» «Ascoltami» lo interruppe Nick. «Ho parlato con un tipo che prima si occupava di crimini contro l'infanzia. L'ho convinto a fare un paio di telefonate per vedere se si può accelerare la cosa.» «Ti ringrazio, Nick.» «Nel frattempo non guasterebbe che qualcuno dei tuoi ragazzi verificasse se i fax che avete mandato in giro hanno avuto riscontro.» Jeffrey si scrisse un promemoria. Nick aveva ragione, arrivava tanta di quella roba via fax, che a volte ci volevano ore solo per smistarla. Nick domandò: «Non sarà stato qualcuno animato da buone intenzioni, a farla montare in macchina?». «Cristo, Nick, non lo so.» «Nessuno della sua cerchia ha una Thunderbird?»
«No» disse Jeffrey. Avevano controllato le auto di tutti quelli coinvolti anche lontanamente nell'indagine, e poi di tutti i cittadini di Grant. Nella contea nessuno risultava proprietario di una Ford Thunderbird. «Nel frattempo cosa posso fare per te?» domandò Nick. «Purezza» disse Jeffrey. «Dimmi cosa significa nel mondo dei pedofili.» «Non ne ho idea. Posso inserirlo nel computer, se esce fuori qualcosa te lo farò sapere.» «Ti ringrazio.» «Poco fa ero al telefono con la tua signora, anche lei voleva sapere della purezza» spiegò Nick. «Per via di quella mutilazione, vero?» «Esatto» confermò Jeffrey. «Bene, ti dirò una cosa. Questa specie di castrazione ha spesso un risvolto religioso. Viene praticata per avere la certezza che la ragazza si mantenga vergine.» «Ma la nostra Jenny non lo era.» «Già. Mi è sembrato di capire che si dava parecchio da fare.» Jeffrey non fece commenti, anche se parlare così di una ragazzina gli sembrava davvero troppo. Purtroppo, nelle forze dell'ordine non si andava per il sottile quando c'era di mezzo il sesso e lui stesso non faceva eccezione. Ma Jenny era morta perché lui l'aveva uccisa, e non gli sembrava il caso di scherzare. Cambiò argomento. «Ho un nominativo per te, da inserire nel computer.» «Dimmi.» «Arthur Prynne» disse, e scandì lettera per lettera il nome dell'uomo che aveva picchiato dietro l'emporio di Possum. Nick borbottò qualcosa mentre prendeva nota. «Che nome è, polacco?» «Non ne ho idea. Ha un tatuaggio identico a quello che ti ho mandato.» «E cosa devo cercare?» «L'ho beccato che sbirciava dentro un giardino d'infanzia.» «Non pretenderai che lo arresti per questo.» «A casa ha un computer. Probabilmente si tiene in contatto con altri pedofili. Si è definito amante delle bambine.» «Accidenti» sospirò Nick. «Che espressione odiosa.» «Abbiamo un computer anche qui alla centrale ma, se devo dirti la verità, qui nessuno saprebbe da che parte cominciare.» «I federali hanno un'intera squadra di informatici. Con un nome a disposizione, scatta la priorità. Vuoi che lo torchino e lo facciano cantare?» «Potrebbe essere un'idea» disse Jeffrey. «Si è dimostrato uno smidollato,
quando l'ho interrogato. Denuncerà i suoi amici pur di pararsi il culo.» «Interrogato?» ridacchiò Nick. «Sapeva che eri un poliziotto?» Jeffrey sorrise. Si poteva dire tutto di Nick, ma non che era uno stupido. «Diciamo che abbiamo avuto uno scambio di opinioni.» Nick rise di nuovo. «Quando devo entrare in azione?» «Il più presto possibile». Prynne poteva anche rivelarsi meno innocuo di quel che sembrava. «Lo passerò subito ai ragazzi dell'Alabama» disse Nick. «A proposito. Abbiamo appena scoperto una cosuccia ad Augusta che forse ti può interessare.» «Di che si tratta?» «La polizia di Augusta ha beccato in un albergo un tipo che spacciava coca. E quasi per caso sono incappati in un mucchio di riviste che non definirei legali.» «Pornografia?» «Pornografia infantile» confermò Nick. «Roba da schifo.» «Ad Augusta?» Nessuno si era preso la briga di informarlo. Augusta non era lontano da Grant e d'abitudine le varie centrali si scambiavano tutte le informazioni di una certa rilevanza. «Per ora la notizia è riservata» spiegò Nick. «Vogliamo arrivare ai pezzi grossi.» «L'arrestato collabora?» «Canta come un usignolo» disse Nick. «E prima che me lo domandi, non sa nulla della Thunderbird nera e della ragazzina scomparsa.» «È sicuro?» «Sicuro come l'oro.» Jeffrey non era molto convinto, ma non aveva elementi per sollevare obiezioni. Nick proseguì: «Senza offesa, capo, ma ti conviene sperare che questa Lacey non sia finita con uno di loro. Quelli si scambiano i bambini come noi ci scambiavano le figurine del baseball». «Mi immagino» disse. All'idea che Lacey Patterson fosse nelle mani di gente come Prynne si senti gelare. «In ogni modo» sospirò Nick, «dovrebbero ricevere una consegna questa sera o domani. A quanto pare Augusta è il centro di distribuzione per tutto il sud-est.» «Non riesco a credere che stampino ancora quella merda, visto che si può trovare gratis su internet.»
«Internet è per chi lo sa usare» gli ricordò Nick. «Vuoi che ti faccia sapere quando sarà la retata?» «Hai il mio numero di cellulare, vero?» «Certo. Credi che quel Prynne sia attivo?» «No» disse Jeffrey. Aveva avuto l'impressione che Arthur Prynne fosse il tipo di pedofilo che si accontenta di guardare, senza mettere in atto le sue fantasie. «Ma potrebbe anche cambiare abitudini.» «Secondo te si aspetta una visita della polizia?» «Credo che se l'aspetti da una vita.» Alzò gli occhi, c'era Lena sulla porta. «Ti devo lasciare, Nick. Chiamami quando sai qualcosa della retata, d'accordo?» «Stai tranquillo, capo.» Riagganciò e fece segno a Lena di entrare, sorpreso di vederla in quello stato. Aveva gli occhi e il naso arrossati, come se avesse pianto a lungo, e le occhiaie livide. «Ne vuoi parlare?» disse Jeffrey indicandole la sedia di fronte alla sua scrivania. Lei lo guardò stranita, come se non capisse. Domandò: «Notizie di Lacey?». «Nessuna. Hai fissato quell'appuntamento?» Si mordicchiò il labbro. «Non ne ho avuto il tempo.» «Trovalo.» «Sissignore.» Si appoggiò allo schienale e la osservò per qualche secondo. «Dimmi cosa è successo quando hai acciuffato Mark. Ha detto qualcosa?» «Ha le labbra sigillate. Non ha detto una parola.» «Ha preso un avvocato?» «Buddy Conford» disse Lena. «Non crea un conflitto d'interessi?» Jeffrey ci pensò. Buddy avrebbe rappresentato la contea, nel caso in cui Dottie Weaver facesse causa a Jeffrey. «Buddy sa che c'è una relazione tra Mark e quello che è successo a Jenny Weaver?» domandò. «Sa che Mark era quello che Jenny voleva uccidere. Lo sanno tutti.» «Voglio dire, Buddy sa che noi sospettiamo che Mark sia il padre della bambina?» Lena inarcò le sopracciglia. «Lo sospettiamo?» «Spiegami perché non dovremmo.» «Potrebbe essere un altro.» «Con la madre presente?»
«È stata molto malata» rispose Lena con un'alzata di spalle. «Ho delle sensazioni riguardo al padre. È uno che ci prova gusto a maltrattare la gente.» «Questo te lo concedo.» Patterson non si era risparmiato scortesie con Lena quando erano andati alla roulotte e Jeffrey era stato in dubbio se intervenire o lasciare che lei se la cavasse da sola. Lena disse: «Forse ha molestato Mark e per tutta risposta lui ha molestato la sorella. Una specie di rapporto causa effetto». «I pedofili non si comportano così» obiettò Jeffrey. «Non ti seguo.» «Non tutti i pedofili hanno subito molestie da bambini. Non lo puoi dare per scontato.» «Stiamo facendo delle ipotesi. Io dicevo che potrebbe anche essere andata così. Per quanto Patterson non mi sembri il tipo interessato ai maschi.» «Di nuovo una sensazione?» «Sì» annuì Lena. «Non mi dà quell'impressione.» «E Mark?» domandò Jeffrey. Sicuramente lo aveva colpito il comportamento di Lena durante l'interrogatorio del ragazzo. «Che sensazioni ti suggerisce?» Lena abbassò gli occhi. «Be'» cominciò, «è di una sensualità spudorata.» «Vai avanti.» «Sembra che faccia di tutto per metterla in mostra.» Tornò a guardare Jeffrey. «Credo che non sappia in che altro modo comunicare.» «E il tatuaggio? In Alabama ho incontrato un tizio che ce l'aveva identico.» «I due cuori?» «Guardava i bambini di un giardino d'infanzia» disse con una smorfia di disgusto. «Bambini piccoli?» domandò Lena. «Era un molestatore?» «Un pedofilo, direi.» Sara gli aveva spiegato la differenza tempo prima, in occasione di un'indagine simile. «Quelli che molestano i bambini, di solito li odiano, li cercano solamente per abusarne. I pedofili sono convinti di fare del bene ai bambini. Pensano di amarli.» «Ah» fece Lena, piuttosto scettica. «La pedofilia è considerata un disturbo mentale.» «Lo era anche l'omosessualità, fino ai primi anni Sessanta. Io non vedo la differenza.» Jeffrey sapeva che la sorella di Lena era gay e il commento lo colse alla
sprovvista. «Credo che la grossa differenza stia nel fatto che il rapporto sessuale tra due adulti non è morboso. I bambini invece non sono preparati ad affrontare certe esperienze.» Lena non disse nulla e Jeffrey proseguì. «Nella relazione bambino-adulto chi esercita il potere è sempre l'adulto. Non c'è parità. L'adulto manipola il bambino.» Lena lo guardò poco convinta. «Sembra che tu lo giustifichi.» «Niente affatto» si difese lui. «Sto solo cercando di spiegarti qual è l'atteggiamento mentale.» «L'atteggiamento mentale è decisamente perverso.» «Sono d'accordo con te, ma non può essere il disgusto che provi a dettare il tuo comportamento. Se Mark ha quel tatuaggio perché è un pedofilo o un molestatore, tu non devi lasciargli capire che lo disapprovi, altrimenti non si aprirà mai con te.» Glielo aveva spiegato altre volte, perciò aggiunse: «Lo sai anche tu». «Bene» concluse Lena. «Secondo te lui cos'è? Non è molto più vecchio di Lacey.» «Ha almeno tre anni di più.» «Non fa una grande differenza.» «Non fa una grande differenza se parliamo, diciamo, di trenta e trentatré anni. Ma nell'età della crescita è diverso. È la differenza che passa fra un bambino e un giovane adulto.» Lena rimase pensierosa. Jeffrey aggiunse: «Mettiamola così: un pedofilo si trova più a suo agio con i bambini perché il rapporto con gli adulti lo spaventa. Gli adulti gli fanno paura». «E Jenny? Chi l'ha cucita in quel modo orribile? Che significa?» «Questo non lo so. Forse Mark ci dirà qualcosa.» «Non parla» disse Lena. «Frank ci ha provato, ma lui sta zitto e guarda fisso nel vuoto.» «È fatto?» Scosse la testa. «Lo era, ma ormai l'effetto è svanito.» «Ha bisogno di una dose?» «Mi sembra che stia bene. Non dà in smanie, se è questo che vuoi sapere.» «E le condizioni fisiche? Sara mi ha detto che era ferito.» «È vero.» Tirò fuori delle Polaroid dal taschino. «Gli abbiamo fatto delle foto per la documentazione. La dottoressa Linton ha detto che il taglio all'addome sembra inferto da un coltello affilato. Però non era profondo, non
ci sono voluti dei punti. Gli sta anche uscendo un livido sull'occhio.» Jeffrey guardò le fotografie. Mark fissava apatico l'obiettivo. In una era senza maglietta e si vedevano delle macchie d'erba sulla cintura dei jeans e delle escoriazioni sul basso ventre. «Non è opera nostra, spero.» «Assolutamente no» disse Lena quasi offesa. E come se dovesse giustificarsi, aggiunse: «Chiedilo alla tua ragazza, se vuoi. L'ha visto prima di me». Jeffrey lasciò correre. «Qualcuno l'ha inseguito?» domandò. «Oppure era lui a inseguire qualcuno?» «Una delle due» disse Lena. «Ha delle escoriazioni anche sulle braccia. Si è difeso.» Jeffrey pensò ad Arthur Prynne. Si era protetto con le braccia per non farsi colpire sulla faccia. «Gli abbiamo requisito i vestiti per farli analizzare. Credo che la dottoressa Linton analizzerà il sangue sulla maglietta per verificare se è suo.» «Cosa dice di sua sorella?» «Se gliene importa qualcosa, non l'ha dato a vedere. E poi te l'ho già detto, non vuole parlare.» Il telefono sulla scrivania ronzò e Jeffrey schiacciò il pulsante delle comunicazioni interne. Maria disse: «C'è il pastore Fine, vuole vedere Mark». Jeffrey e Lena si scambiarono un'occhiata. «In che veste?» «Dice che i genitori lo hanno delegato ad assistere all'interrogatorio.» Maria abbassò la voce. «È venuto con Buddy Conford.» «Ti ringrazio» disse e chiuse la comunicazione. Si abbandonò contro lo schienale e fissò Lena. «Cosa c'è?» disse lei. «Mark ha dimostrato un certo interesse per te. Non so, ma devi fare attenzione.» «Non c'è nessun feeling» disse lei con un filo di imbarazzo. «Forse trasferisce i suoi sentimenti su di te, perché ha la madre malata.» Lena si strinse nelle spalle. «Se lo dici tu. Vogliamo procedere?» Buddy Conford aveva avuto una vita a dir poco difficile. A diciassette anni aveva perso la gamba destra in un incidente d'auto. Poi un occhio, portato via dal cancro, e un rene, sforacchiato dalla pistola di un cliente insoddisfatto. Eppure sembrava che le menomazioni, invece che indebolirlo,
lo avessero reso più forte. Lottava come un mastino quando si accaniva su una causa, ma aveva anche il senso della misura e, a differenza di tanti avvocati, sapeva distinguere i torti dalle ragioni. Aveva aiutato Jeffrey in più di un'occasione e lui si augurò che fosse intenzionato a farlo anche per l'interrogatorio di Mark Patterson. «Buongiorno capo» esordì il pastore Fine. «Voglio ringraziarla per avermi concesso di assistere all'interrogatorio. La madre di Mark è ulteriormente peggiorata e mi ha chiesto di sostituirla.» Jeffrey annuì ed evitò di fargli notare che non aveva alternative. Qualunque reato avesse commesso Mark, dal punto di vista procedurale era ancora un bambino. Se poi si arrivava a un processo, sarebbe toccato alla corte decidere come considerarlo. «Avete notizie della sorella?» domandò Fine. «No» rispose Jeffrey. Fissò Mark per cercare di capire cosa gli passasse per la testa. Aveva un aspetto orribile e il livido sull'occhio si stava scurendo. Il labbro inferiore era spaccato e gli occhi erano rossi come quelli di Lena. La tuta arancione che gli avevano fatto indossare lo faceva sembrare ancora più pallido. Sembrava anche più piccolo, come se si fosse rattrappito. Teneva le spalle incurvate e, anche accanto a Buddy Conford che non era certo un colosso, sembrava fatto di niente. «Mark?» lo riscosse Jeffrey. Mark mosse le labbra in silenzio e tenne gli occhi fissi sul tavolo, come se non volesse riconoscere in che situazione si trovava. Jeffrey provò quasi compassione per lui e pensò che Sara aveva ragione. Qualunque cosa avesse fatto, era pur sempre un ragazzo. Buddy sfogliò il suo fascicolo: «Di che cosa lo accusate, capo?». «Aggressione» disse Jeffrey continuando a fissare Mark. «Ha colpito Sara in viso.» Buddy si accigliò e guardò il suo cliente. «Sara Linton?» domandò sorpreso. Buddy era cresciuto a Grant e, come tutta la gente del posto, provava nei confronti di Sara un rispetto quasi reverenziale, data la sua dedizione ai piccoli della comunità. Da sotto il tavolo salì un rumore di ferraglia. Mark era ammanettato e Jeffrey immaginò che stesse picchiando le manette contro le gambe. Un modo di sfogare la tensione abbastanza comune tra gli individui sotto interrogatorio. «Ha aggredito Sara Linton di fronte a una decina di testimoni» precisò
Jeffrey ignorando il rumore. «Stava anche minacciando la sorella.» «Oh, oh» fece Buddy chiudendo il fascicolo. «E quei lividi se li è fatti prima o dopo l'arresto?» «Prima» rispose Lena categorica, e a bassa voce farfugliò: «...idiota». Buddy le lanciò un'occhiata di riprovazione. «Abbiamo testimoni che lo confermano?» «Abbiamo delle fotografie» intervenne Jeffrey. Prese le fotografie che gli aveva consegnato Lena e le passò a Buddy allungando il braccio sopra il tavolo. Bastò quel gesto a far trasalire Mark e Jeffrey fu di nuovo colpito dalla sua fragilità. Buddy diede una scorsa alle foto senza guardare il ragazzo. «E allora chi lo ha ridotto così?» domandò a Jeffrey. «Questo devi dircelo tu» rispose Jeffrey. Mark era sempre a testa bassa e faceva sferragliare le manette scandendo i colpi come un metronomo. Buddy restituì le fotografie. «Non mi pare che abbia voglia di parlare» disse. Lena fece un tentativo: «Che ti succede Mark?». Mark alzò gli occhi, quasi stupito che Lena gli rivolgesse la parola. Smise di agitare le manette e rimase immobile, in attesa che lei continuasse. Con un tono dolce che Jeffrey non le aveva mai sentito, e come se fossero loro due soli nella stanza, Lena disse: «Mark. Cosa c'è che non va?». Lui continuò a fissarla. Adesso il respiro era affannato. «Chi ti ha colpito?» domandò lei con lo stesso tono accorato. Avvicinò la mano e Mark sollevò le sue in modo che lei potesse toccarle. Quando Lena le strinse nella sua gli sfuggì un singhiozzo. Buddy lanciò un'occhiata perplessa a Jeffrey e lui scosse la testa per convincerlo a non intervenire. Dave Fine era ammutolito, teneva gli occhi inchiodati sulle mani di Lena e Mark. Lena accarezzò col pollice il tatuaggio e Jeffrey non ebbe bisogno di guardare gli altri per sapere che erano sconcertati. La tensione si percepiva nell'aria. Lena non si lasciò intimidire. «Che ti succede Mark? Dimmelo.» Gli affiorarono le lacrime agli occhi. «Dovete trovare Lacey.» «La troveremo» lo rassicurò. «Dovete trovarla prima che le capiti qualcosa di brutto.» «Cosa le può capitare, Mark?» Scrollò il capo e ruppe in singhiozzi. «È troppo tardi. Adesso nessuno la può aiutare.»
«Sai chi può averla portata via? Hai riconosciuto la macchina?» Scosse di nuovo la testa. «Voglio vedere mia madre.» Lena deglutì con fatica e Jeffrey si rese conto che la fragilità di Mark la stava contagiando. «Voglio solo rivedere mia madre» ripeté Mark sotto voce. Dave Fine allungò la mano per accarezzarlo, ma Mark si buttò indietro di scatto, tanto che Buddy dovette trattenergli la sedia perché non si ribaltasse. «Tu non mi toccare!» gridò scattando in piedi. Lena si alzò con lui e gli andò vicino. Cercò di prenderlo per il braccio ma lui balzò indietro, andò a sbattere contro la parete e si rintanò nell'angolo. Lena gli posò una mano sulla spalla e gli sussurrò qualcosa. «Mark» disse Dave Fine con le mani alzate. «Calmati, figliolo.» «Perché non sei da mia madre?» strillò Mark. «Dov'è il tuo Dio, quando mia madre sta morendo?» «Andrò da lei stasera stessa» disse Fine con la voce tremante. «Mi ha chiesto lei di venire qui.» «E perché non c'era nessuno a proteggere Lacey?» lo aggredì Mark. «Dove eravate, quando se la sono portata via?» Fine abbassò gli occhi e Jeffrey immaginò che anche lui si sentisse in colpa per Lacey. «Io non ho bisogno di te» continuò Mark con la voce rotta. «È la mamma che ha bisogno di te. Che ci fai qui? Tanto non puoi fare niente,» «Mark...» «Vai ad aiutare mia madre!» Fine aprì la bocca per dire qualcosa, poi parve cambiare idea. Mark scrollò il capo e si guardò in giro, Lena gli posò la mano sulla spalla e lo ricondusse alla sedia. Buddy batté le nocche sul tavolo per richiamare l'attenzione di Jeffrey, poi indicò la porta. Jeffrey si alzò e fece segno a Fine di fare lo stesso. Il pastore esitò, poi ubbidì e seguì i due in corridoio. «Maledizione!» sbottò Buddy, poi si ricordò di Fine. «Mi perdoni, pastore.» Fine annuì e affondò le mani nelle tasche. Sbirciò dal vetro della porta e guardò Lena che parlava con Mark. «Pregherò per la sua anima» borbottò. Buddy si appoggiò di peso alla stampella. «Che diavolo sta succedendo là dentro, capo?»
Jeffrey non sapeva cosa rispondere. Domandò: «Pastore Fine, lei ci capisce qualcosa?». «Io?» disse Fine allibito. «Io non ne ho idea. L'ultima volta che ho visto Mark mi sembrava a posto. Era distrutto per sua madre, ma non si comportava così.» «Quando è stato?» domandò Jeffrey. «Ieri sera all'ospedale. Stavo pregando con Grace.» «E cosa sa dirmi di Jenny Weaver?» «Jenny Weaver?» domandò Fine sinceramente stupito. «Lei ha detto di essere andato a casa sua un paio di volte intorno a Natale.» «Oh, certamente» confermò Fine. «Brad mi aveva chiesto di passare a trovarla. Aveva smesso di frequentare la chiesa e lui era preoccupato che qualcosa non andasse.» «E aveva indovinato?» «Eh? Sì... Credo di sì.» Si accigliò. «Con me non voleva parlare. Nessuno di loro voleva parlare con me.» «Loro chi?» domandò Jeffrey. Fine indicò la porta. «Mark e Lacey. Ne ho discusso con Grace, ma lei non poteva farci nulla. Ribellioni adolescenziali, presumo.» Scosse il capo, incupito. «Molti ragazzi lasciano la chiesa a quell'età, ma di solito ritornano qualche anno dopo. Grace era preoccupata, così ho cercato di parlare con lui.» «E lui cosa ha detto?» Fine arrossì. «Diciamo che ha usato delle parole che sua madre non dovrebbe mai sentire. Non aggiungo altro.» Jeffrey annuì e decise di non insistere. Aveva sperimento il linguaggio di Mark a sufficienza per sapere di cosa era capace. Passò oltre. «Mi dica di Grace. Come sta?» «Molto male. Non credo che arriverà alla fine della settimana.» Jeffrey pensò a Mark che aveva chiesto di vedere la madre. «Fino a questo punto?» «Sì» rispose Fine. «Ormai non possono fare nulla per lei, a parte risparmiarle il dolore.» Tornò a guardare la porta. «Non so come faranno senza la loro mamma. Sono distrutti.» «A Natale lei non è andato in montagna con i ragazzi, dico bene?» Fine scosse la testa. «Sono rimasto qui. Non mi occupo quasi mai delle gite. Abbiamo un ministro che segue i giovani. Brad Stephens.»
«Ho già parlato con lui.» «È un ottimo ragazzo» disse Fine. «Speravo che servisse da esempio agli altri.» «Lei ha fatto anche consulenza psicologica a Mark.» «Per poco tempo» rispose. «Non si apriva molto. Potrei riguardare gli appunti e vedere se c'è qualcosa che le può interessare.» «Gliene sarei grato. Dove sarà domani mattina?» «All'ospedale, presumo.» Guardò l'orologio. «Ci vorrei tornare anche stasera, a meno che lei non abbia altre domande.» «No. Vada pure» disse Jeffrey. «Domani verrò all'ospedale verso le dieci. Porti gli appunti.» «Mi dispiace di non essere stato di grande aiuto» si scusò. Strinse la mano a Jeffrey e a Buddy e se ne andò. Buddy lo guardò uscire poi disse a Jeffrey: «Non mi piace come si stanno mettendo le cose tra la tua detective e il mio cliente». Lui finse di non capire e spostò l'argomento. «Questa notte lo metterò sotto stretta sorveglianza, non vorrei che tentasse il suicidio.» Buddy non abboccò. «Non mi hai risposto.» Jeffrey diede un'occhiata dentro la stanza. Lena era riuscita a far sedere Mark, gli accarezzava la schiena e lui stava piangendo. «Questo episodio è in qualche modo collegato alla morte di Jenny Weaver.» «Oh, merda» sbraitò Buddy. Picchiò per terra con la stampella. «Grazie tante per l'informazione riservata, capo.» «Credevo non sapessi che il ragazzo è lo stesso che la Weaver voleva uccidere.» «Sì, ma è imputato solo di aggressione.» «Questo è ovvio» disse Jeffrey. «Cioè. Non è ovvio affatto.» «Ti dispiacerebbe essere un po' più chiaro?» Jeffrey sbirciò di nuovo nella stanza. Lena teneva ancora la mano sulla spalla di Mark e lo consolava. «Sinceramente, Buddy, non ho idea di cosa stia succedendo.» «Cominciamo dall'inizio.» Jeffrey infilò le mani in tasca. «La neonata che abbiamo trovato alla pista di pattinaggio» disse, e Buddy annuì per farlo continuare. «Pensiamo che il padre sia Mark.» Buddy continuò ad annuire. «Ha una sua logica.» «E pensiamo che la madre possa essere sua sorella.»
«Quella che si sono portati via?» «Esatto». Si sentì stringere lo stomaco al pensiero di quello che poteva succedere a Lacey Patterson. «Avevo immaginato che la madre fosse Jenny Weaver» disse Buddy. «No. Sara ha fatto l'autopsia. Jenny non era la madre.» Glissò sugli altri particolari scoperti da Sara. «Dottie Weaver non si è ancora fatta viva con me» disse Buddy. «Il sindaco ha i sudori freddi.» «Avrà rimandato a dopo il funerale.» Gli venne in mente che non sapeva per quando era stato fissato. Probabilmente Sara non era stata invitata, dato che non gliene aveva parlato. «Funerale o no, voglio la tua deposizione entro domani. Metti tutto per iscritto, adesso che hai la memoria fresca.» «Non credo che me lo dimenticherò tanto facilmente, Buddy.» Sapeva che la morte di Jenny lo avrebbe accompagnato per il resto della vita. «Che altro hai scoperto?» continuò Buddy. «Smettila di fare il prezioso.» Jeffrey affondò le mani nelle tasche. «Mark ha un tatuaggio sulla mano.» «Quel cuore?» «Sì. È il simbolo di qualcosa.» «Pornografia infantile» lo anticipò Buddy. «Come lo sai?» «Ho un altro cliente che ce l'ha identico» disse. «L'hanno beccato un paio di settimane fa ad Augusta. Ho accettato di difenderlo perché dovevo un favore a un amico.» «Di che cosa è accusato?» Buddy si guardò in giro, in dubbio se rispondere o no. «Io non mi sono tirato indietro, Buddy» gli fece notare Jeffrey. «E va bene, d'accordo. Una storia di coca. Non molta roba, ma quanto basta perché passi per spaccio. Ha fornito delle informazioni per levarsi dai guai.» «Ne ho sentito parlare. Distribuzione di materiale pornografico, non è vero?» Buddy annuì. «E ha spifferato tutto per scampare la galera» concluse Jeffrey. «Tombola! Come l'hai saputo?» «Nel solito modo» disse Jeffrey, che non voleva rivelare la sua fonte. Cercò di cambiare discorso. «Che fine ha fatto la tua gamba?» Indicò il
pantalone floscio sotto il ginocchio. «Merda» sospirò Buddy. «Se l'è fregata la mia ragazza. Non me la vuole restituire.» «E tu cosa avevi combinato?» «E bravo il mio poliziotto.» Si appoggiò alla stampella con un sorriso ironico. «Sempre pronto ad accusare la vittima.» Jeffrey rise. «Vuoi che ci metta una buona parola?» Buddy lo guardò sospettoso. «Lascia stare, me la cavo da solo» disse. «Mi racconti o no come l'hai saputo?» «No» rispose Jeffrey. Guardò di nuovo dentro la stanza. Mark stava con la testa sul tavolo e Lena gli era seduta accanto e gli teneva la mano. Jeffrey aprì la porta. «Lena.» Indicò il corridoio per invitarla a uscire. Lena stava per chiedergli che la lasciasse rimanere, ma cambiò idea. Si alzò e, senza guardare o toccare Mark, uscì. «Cosa ti ha detto?» le domandò Jeffrey. «Niente» rispose. «Vuole andare a trovare sua madre all'ospedale.» «Tu vai pure a casa» disse Jeffrey e senza darle il tempo di obiettare entrò nella stanza seguito da Buddy. «Mark» cominciò Jeffrey sedendo sulla sedia lasciata vuota da Lena. «Sappiamo del tatuaggio.» Mark non alzò neppure la testa. «Sappiamo cosa significa.» Buddy si mise sull'altro lato del tavolo e si appoggiò contro il bordo. «Ragazzo, è nel tuo interesse che ci racconti come stanno le cose.» «Mark, hai idea di chi si è preso tua sorella?» domandò Jeffrey. Nessuna risposta. «Mark, noi pensiamo che sia in mano a gente malvagia. Gente che può farle del male. Tu ci devi aiutare.» Silenzio. Jeffrey non si dette per vinto. «Mark, la dottoressa Linton ci ha detto che Lacey stava male quando è arrivata alla clinica.» Finalmente Mark tirò su la testa e si stropicciò gli occhi. Prese a fissare la parete di fronte dondolandosi avanti e indietro. «Lacey era incinta? Della neonata trovata al pattinaggio?» azzardò Jeffrey. Lui continuò a dondolarsi come se fosse ipnotizzato dalla parete. «Sei tu il padre del bambino?» Mark continuò a fissare il muro. Jeffrey gli passò una mano davanti agli occhi, ma senza risultato.
«Mark?» cercò di riscuoterlo. Poi a voce più alta: «Mark?». Mark non mosse ciglio. «Mark?» ripeté facendo schioccare le dita. Buddy gli posò una mano sulla spalla, ma il ragazzo non reagì. Rassegnato, disse: «Credo che dovremmo chiamare un medico». «Sara può...» «No» lo fermò Buddy. «Per oggi basta con Sara.» Erano le dieci quando Jeffrey lasciò la centrale. Aveva passato quasi due ore a chiamare tutti i distretti di polizia dello stato per sincerarsi che avessero ricevuto il volantino segnaletico di Lacey e l'avviso relativo alla Thunderbird nera. Molti degli agenti con cui aveva parlato ne avevano approfittato per fornirgli dettagli sui casi che avevano sotto mano. Lui aveva fatto del suo meglio per non deluderli, aveva risposto alle domande e fatto i commenti del caso benché fosse convinto di non poterli aiutare. Era più probabile che una macchina di pattuglia di Griffin incappasse nella Thunderbird nera, piuttosto che Jeffrey scovasse un televisore megaschermo rubato in casa della madre di un sergente di polizia. Ciò nonostante si era appuntato diligentemente il numero di serie e lo aveva ripetuto. A dispetto di quello che aveva confessato a Nick, aveva anche tentato una ricerca autonoma su internet. Con l'aiuto di Brad aveva trovato centinaia di siti frequentati dai pedofili. Al terzo sito Brad era già bianco come un cencio, così l'aveva congedato e aveva continuato a navigare da solo. Nonostante la sua scarsa competenza, era riuscito a individuare i link tra un sito e l'altro e aveva scoperto una quantità di immagini di bambini in posizioni oscene. Quando si era deciso a uscire dal sistema sentiva il bisogno di farsi una doccia per ripulirsi la mente. Sara aveva ragione. Forse uno stacco dall'indagine poteva fargli vedere le cose con più chiarezza. Per il momento brancolava nel buio. Nel tragitto fino alla casa di Sara cercò di non pensare a quello che aveva visto sul computer. Prima di andarsene dalla centrale le aveva telefonato per informarla che non c'erano novità su Lacey e per sapere se aveva ancora voglia di vederlo. Per sua fortuna non aveva cambiato idea. Imboccò il vialetto e notò che Sara aveva lasciato accese le luci per lui. Quando scese dalla macchina lo accolse il suono morbido di una musica jazz che proveniva dalla casa. Sara doveva averlo visto arrivare, perché aprì la porta prima che lui avesse il tempo di suonare e quando se la vide davanti tutto quello che gli aveva affollato la mente negli ultimi giorni svanì come per
incanto. «Ciao» disse Sara con un lieve sorriso sulle labbra. Jeffrey ammutolì, incapace di fare altro che guardarla. Sara aveva sciolto i capelli sulle spalle, in onde più morbide e lucide del solito. Indossava un abito nero di seta che le fasciava il corpo a meraviglia ed evidenziava le sue curve perfette. Un lungo spacco laterale lasciava intravedere la gamba nuda. I tacchi alti le inarcavano dolcemente il piede che sembrava chiedere un bacio. Lei lo prese per mano e lo condusse dentro. Lui la fermò nell'atrio e l'attirò a sé. I tacchi la alzavano di almeno otto centimetri e Sara si appoggiò alla sua spalla e si sfilò le scarpe per ritornare all'altezza dei suoi occhi. «Così va meglio?» domandò. Dato che lui non rispondeva si abbandonò contro di lui e lo baciò sulle labbra. Jeffrey tenne gli occhi aperti finche poté, poi assaporò con voluttà la sua bocca dolce che sapeva di vino e cioccolata e chiuse la porta senza smettere di guardarla. Non ricordava di averla mai vista così bella, nonostante il cerotto sulla fronte. «Non si parla di quello che abbiamo fatto oggi, né di quello che dovremo fare domani» disse lei. Jeffrey riuscì solo a muovere la testa in segno di assenso. Sara si scostò per guardarlo negli occhi: «Hai perso la lingua?». Lui si portò una mano sul petto e a provò a dar voce a quello che stava provando. «A volte» cominciò, «dimentico quanto sei bella... e quando ti rivedo...» Lasciò la frase a metà, in cerca delle parole giuste. «Mi fai mancare il respiro.» Sara lo guardò, divertita dal tono appassionato. «Ti amo Sara» disse Jeffrey. «Ti amo da morire.» Lei si sforzò di trattenere un sorriso e Jeffrey la amò ancora di più per questo. Da quando la conosceva non era mai stata capace di accettare un complimento. «Ne deduco che il mio vestito ti piace.» «Mi piacerebbe di più sul pavimento.» Sara fece un passo indietro, portò le mani dietro la schiena e cominciò ad armeggiare. Il vestito scivolò a terra lasciandola completamente nuda di fronte a lui. Jeffrey la guardò stranito, quasi spaventato dalla violenza del suo desiderio. Si mise in ginocchio e la baciò fino a che lei non fu più in grado di reggersi in piedi.
MERCOLEDÌ 12 Lena stava sognando, sentiva il rumore di un martello che batteva un chiodo. Quando si rigirò nel letto e aprì gli occhi, quasi si aspettava di vedere la sua mano inchiodata al pavimento, invece vide Hank che stava scardinando la porta della sua camera da letto. Balzò a sedere e strillò: «Che cazzo stai facendo?». «Ti ho detto che le cose devono cambiare» rispose continuando a battere per liberare il cardine. «Gesù Cristo» esclamò Lena. Si portò le mani alle orecchie per proteggersi dal rumore. Guardò la sveglia sul comodino. «Non sono neanche le sei» strillò. «Oggi non devo andare al lavoro prima delle nove.» «Così avremo più tempo» disse lui sollevando il chiodo che tratteneva il cardine. «Ti stai portando via la porta?» Si protesse col lenzuolo nonostante avesse addosso una tuta pesante. «Chi ti credi di essere?» Hank la ignorò e passò al cardine superiore. «Smettila» ordinò Lena. Balzò giù dal letto tirandosi dietro il lenzuolo. Hank continuò a lavorare. «Da oggi si cambia» annunciò. «Cambia cosa?» Infilò la mano nella tasca dei pantaloni, tirò fuori un foglio ripiegato e glielo passò. «Tieni.» Lena spiegò il foglio ma era troppo furiosa per riuscire a leggere. Si ricordò di quando era adolescente e Hank non voleva che frequentasse un certo ragazzo. Per impedirle di sgattaiolare fuori di notte, le aveva inchiodato le finestre della camera da letto. E quando lei gli aveva fatto notare che così le impediva una via di fuga in caso di incendio, lui aveva risposto che preferiva vederla bruciare viva, piuttosto che rovinata da quel poco di buono. Provò a strappargli di mano il martello, ma inutilmente. «Non sono una bambina, maledizione» protestò. «Tu sei la mia bambina» disse Hank. Eliminò l'ultimo chiodo e la porta cadde a terra. «Ti ho tenuta tra queste braccia» disse posando il martello e mostrando le mani. «Ti ho cullato di notte quando piangevi come un'ossessa. Ti ho preparato la colazione da portare a scuola e ti ho prestato i soldi per l'anticipo su questa casa.»
«Te li ho restituiti fino all'ultimo centesimo.» «E questi sono gli interessi.» Afferrò la porta, la sollevò con un grugnito e andò a posarla in corridoio. Lena lo guardava senza capire. «Perché lo fai?» frignò. «Hank, ti prego, smettila.» «Niente più segreti in questa casa» brontolò appoggiando la porta alla parete. «Quello è il nuovo regolamento, leggi, piccola.» «Te lo puoi scordare. Non farò nulla di nulla.» Lanciò in aria il foglio. «Questo lo vedremo.» Acciuffò il foglio prima che arrivasse a terra. «Tu farai tutto quello che c'è scritto qui, tutti i giorni che Dio manda in terra. Altrimenti vado a parlare col tuo capo. Che ne dici?» «È una minaccia?» «Considerala una minaccia, se vuoi.» Entrò nella stanza, aprì di furia un cassetto del comò, frugò tra la biancheria, lo richiuse con un colpo e passò al successivo. «Cosa stai facendo?» «Ecco qui.» Tirò fuori un paio di pantaloncini da corsa e una maglietta. «Infilati questa roba e fatti trovare da basso fra cinque minuti.» Lena lo guardò e solo allora notò che non aveva i soliti jeans con una delle sue camicie hawaiane. Si era messo una maglietta bianca con la scritta pubblicitaria di una birra e un paio di pantaloncini che sembravano nuovi di zecca, con le pieghe della confezione ancora evidenti. Ai piedi aveva delle scarpe da ginnastica altrettanto nuove, infilate sopra calzettoni bianchi che gli arrivavano al ginocchio e facevano sembrare le gambe ancora più pallide. «Da basso a fare che?» domandò lei incrociando le braccia. «Si va a correre.» «Tu vuoi venire a correre con me?» Non riusciva a credere che un pigro come Hank, con i muscoli di un vecchio in sedia a rotelle, volesse all'improvviso mettersi a fare del moto. Per lui era già tanto andare a piedi fino alla cassetta delle lettere. «Fra cinque minuti» tagliò corto e se ne andò. «Bastardo» ringhiò Lena tra i denti, incerta se seguirlo o no. Era così furiosa che faticava a coordinare i movimenti, ma in qualche modo si levò i pantaloni della tuta e si infilò i pantaloncini. «Testa di cazzo» borbottò infilando la testa nella maglietta. Non aveva scelta, e proprio questo la mandava in bestia. Se Hank riferiva a Jeffrey anche solo la metà delle fesserie che aveva combinato la sera prima, tempo
un'ora si sarebbe ritrovata senza lavoro. Si decise a dare una scorsa al "nuovo regolamento" di Hank. Cominciava con «Esercizio fisico quotidiano» e finiva con «Pasti regolari a colazione, pranzo e cena». Lanciò allo zio tutte le maledizioni e gli improperi che aveva imparato in dieci anni di servizio nella polizia. Terminò con un «...lurido figlio di puttana», poi agguantò le scarpe e scese di sotto. Lena sedeva nell'ufficio di Jeffrey con lo sguardo fisso all'orologio sulla parete. Il capo era in ritardo di dieci minuti, cosa mai successa, per quel che lei riusciva a ricordare. Dopo tutto era contenta che non fosse ancora arrivato perché aveva bisogno di riprendersi dalla corsa con Hank. Il vecchio aveva tirato fuori energie insospettabili e dal primo passo fuori di casa era passato avanti e non si era più fatto raggiungere. Doveva riconoscere che parte della sua cocciutaggine le veniva da Hank. Era come lei: se si metteva in testa di fare qualcosa, nessuno lo fermava più. Anche quando Lena si era fermata, con i polmoni in fiamme e lo stomaco in subbuglio per tutti gli aminoacidi che i muscoli stavano rilasciando, lui non si era dato per vinto e aveva continuato a correre sul posto a denti stretti, in attesa che lei lo raggiungesse. «Salve» disse Jeffrey precipitandosi dentro l'ufficio. Aveva la cravatta sciolta sotto il colletto aperto e la giacca sul braccio. «Salve» disse Lena alzandosi in piedi. Le fece segno di accomodarsi. «Scusa il ritardo» disse. «Il traffico.» «Dove?» domandò Lena stupita, dato che in città capitava di trovare traffico solo intorno alla scuola e solo a certe ore. Jeffrey non rispose. Sedette alla scrivania e si abbottonò il colletto con una mano. Lena non ci avrebbe giurato, ma le parve di vedere una chiazza rossa sul collo. Domandò: «Nessuna notizia di Lacey?». «No» rispose annodando la cravatta. «In macchina ho telefonato a Dave Fine. Ha gli appunti delle sedute che ha tenuto con Mark.» «E li rende pubblici con tanta facilità?» Si congratulò con se stessa per non aver parlato al pastore dei suoi problemi. «Già» fece Jeffrey lisciandosi la cravatta. «Mi sono stupito anch'io.» Lena si mise a braccia conserte e fissò il suo capo. Aveva qualcosa di diverso dal solito, ma non riusciva a capire cosa. «Lo devo incontrare all'ospedale alle dieci» continuò Jeffrey. Guardò l'o-
rologio. «Sono già in ritardo.» «Non avevi detto che dovevo venire con te?» «No. Tu e Brad accompagnate Mark a casa. Trovagli dei vestiti puliti, dagli il tempo di fare una doccia, poi portalo in ospedale.» «Perché?» «Ieri sera sua madre è molto peggiorata» spiegò. «Fine dice che probabilmente se ne andrà in mattinata.» Tamburellò le dita sulla scrivania. «Qualunque cosa abbia fatto quel ragazzo, non sarò io a impedirgli di rivedere sua madre per l'ultima volta.» Lena si intenerì ma cercò di non darlo a vedere. «Bada di non andare senza Brad» la avvertì Jeffrey puntandole l'indice addosso. «Non voglio che tu rimanga sola con Mark. Sono stato chiaro?» Fu tentata di protestare, ma capì che il capo aveva ragione. Neppure a lei andava di rimanere sola con Mark. Era troppo selvatico. E forse era vero che lei si identificava troppo con quel ragazzo. «Lena?» la richiamò Jeffrey. Lena si raschiò la gola e rispose: «Sì, signore». Come al solito, Brad attraversò la città nel più rigoroso rispetto dei limiti di velocità. Lena cercò di mascherare l'insofferenza e nello stesso tempo di ignorare la presenza di Mark sul sedile posteriore. Anche senza guardarlo, percepiva il suo sguardo fisso su di lei. Jeffrey aveva stabilito che doveva essere il padre ad annunciare al ragazzo la morte imminente della madre, ma stare seduta in macchina, a un metro di distanza da lui, senza dirgli nulla, la faceva sentire in colpa. Nonostante la grata di sicurezza che separava i sedili, si sentiva esposta, come se da un momento all'altro Mark potesse afferrarla di forza e pretendere che gli spiegasse cosa stava succedendo. A quanto pareva, i farmaci che il medico gli aveva somministrato la sera prima avevano sortito qualche effetto, perché Mark aveva recuperato tutto il suo spirito provocatorio: quando Lena gli aveva messo le manette, aveva cercato di strusciarsi addosso a lei, e quando lo aveva sospinto verso la macchina si era messo a mugolare con intenzione. L'atteggiamento catatonico del giorno prima era scomparso. «Fa un caldo insopportabile» disse Brad. Svoltò a sinistra lasciandosi alle spalle Main Street. «Hai ragione» disse Lena, che sentiva il bisogno di intavolare una conversazione. «Fa più caldo dell'anno scorso.» «È vero» continuò Brad. «Io mi ricordo che quand'ero piccolo non face-
va mai così caldo.» «Anch'io me lo ricordo.» «Il condizionatore è arrivato che avevo già dodici anni.» «Noi l'abbiamo messo quando ne avevo quindici» disse Lena lasciandosi sfuggire un sorriso. Le tornò in mente quel giorno, lei e Sibyl si erano inchiodate davanti al piccolo apparecchio fino a farsi gelare la faccia. «Al massimo chiedevamo a mio padre di annaffiarci con la pompa del giardino» disse Brad con un risolino. «Mi ricordo che una volta... c'era anche mia cugina Bennie...» A quel punto Mark tirò un pugno alla grata di separazione e gridò: «Basta con queste stronzate». Brad frenò e si voltò a guardarlo: «Provati a rifarlo e vedrai» disse quasi minaccioso. Lena non lo aveva mai visto così aggressivo, fino a quel momento non si era resa conto che Brad non riusciva a sopportare Mark Patterson. «Datti una calmata, sbirro» lo rintuzzò Mark. Lena si girò quel tanto necessario per lanciargli un'occhiata e per tutta risposta Mark si leccò le labbra con voluttà. Lei tornò subito a guardare avanti, per non tradirsi con lo sguardo, ma nel profondo si sentì toccata. Per il resto del tragitto Brad rimase zitto e Lena gli indicò la strada puntando il dito per evitare di parlare. Cercava di dimenticarsi che dietro c'era Mark ma era una presenza incombente, a tratti le sembrava di sentire il suo fiato sul collo. «È quella» disse alla fine indicando la roulotte. Balzò giù dalla macchina prima che Brad si fermasse del tutto. I muscoli indolenziti protestarono e per l'ennesima volta maledì Hank che l'aveva costretta a correre. Brad aprì la portiera del sedile posteriore: «Hai intenzione di comportarti bene?» disse al ragazzo. Mark scese di malavoglia, con molta lentezza, e tirandosi in piedi si accostò a Brad e gli sussurrò qualcosa che Lena non riuscì a sentire. Qualunque cosa fosse, fece arrossire Brad fino alle orecchie. «Attento a come parli» lo avvertì, ma era così sconcertato che non riuscì a suonare minaccioso. Non sapendo che altro dire lo afferrò per le manette e lo trascinò verso la roulotte. Di fronte alla porta, Lena tirò fuori il mazzo di chiavi che avevano requisito a Mark al momento dell'arresto. Le aveva portate immaginando che ci fosse anche quella di casa. «È la terza» disse Mark. «Quella col bordo verde.» Poi sussurrò a Brad
con un sorriso sornione: «Ti inculerei tutto, bel biondino». Brad contrasse la mascella e fissò la porta come se volesse perforarla con lo sguardo. Lena trovò la chiave e la infilò nella serratura. Quando la porta si aprì li accolse l'aria fresca del condizionatore. Mark si fermò sulla soglia e chiuse gli occhi per godersi il profumo di lillà sprigionato dai filtri. «Muoviti» disse Brad spingendolo dentro. Lena lo guardò allibita, non riusciva a capire cosa gli avesse preso. Di solito era la persona più mite del mondo. «Levagli le manette» disse. Brad scrollò il capo. «È meglio di no.» Lena incrociò le braccia. «Come fa a lavarsi e a vestirsi, con le manette ai polsi?» Mark strizzò l'occhio a Brad. «Venga con me, agente. Così mi strofina la schiena.» Senza stare a pensarci Lena gli mollò uno scappellotto. «Finiscila» disse esasperata. Poi rivolta a Brad: «Perché non vai a tenere d'occhio la porta sul retro, nel caso gli venga l'idea di squagliarsela?». Brad parve sollevato dalla proposta e filò via senza dire una parola. «Che cosa gli hai detto prima?» domandò Lena a Mark. «Gli ho solo detto che potevo dargli una mano a liberarsi dallo stress che lo affligge.» «Gesù» sospirò Lena, «Perché lo tormenti?» «Perché no?» disse con un'alzata di spalle. Lena prese la chiave delle manette e gli fece segno di avvicinarsi. Mark tenne i polsi contro l'inguine in modo che lei fosse costretta a toccarlo per manovrare la chiave. «Tira su le mani» gli ordinò. Lui sospirò in modo teatrale, ma ubbidì. «A lei piace essere incatenata?» domandò. «Ti do dieci minuti per la doccia» disse Lena levandogli le manette. «Non costringermi a venirti a cercare perché potresti pentirtene.» «Mhm...» fece lui. «Sembra promettente.» Lena agganciò le manette alla cintura. «Dieci minuti» ripeté. Si domandò se qualche ora prima Hank avesse provato la stessa soddisfazione impartendole i suoi ordini. Andò al divano, prese una rivista e si mise seduta. Mark rimase a guardarla dalla cucina per un tempo che a lei parve intermi-
nabile, ma alla fine si decise ad andare in camera sua. Qualche minuto dopo Lena udì scorrere l'acqua nella doccia. Chiuse la rivista con una piacevole sensazione di sollievo. Si alzò dal divano e appoggiò le mani alla mensola del caminetto per stirare i muscoli. La infastidiva l'idea che le gambe le facessero tanto male dopo una corsa che solo un anno prima l'avrebbe lasciata indifferente. Non poteva essere così debole. Doveva assolutamente rimettersi in forma. Prese dalla mensola una delle fotografie incorniciate. Ritraeva Mark e Lacey al parco dei divertimenti. Sorridevano entrambi, Mark teneva il braccio sulla spalla della sorella e lei gli cingeva la vita. Doveva essere stata fatta almeno tre anni prima. Sembravano felici. «Lì eravamo a Six Flags» disse Mark. Lena non gli lasciò capire che l'aveva spaventata. Mark era a poco più di un metro da lei e aveva addosso solo l'asciugamano, stretto attorno alla vita. «Vai a vestirti» gli ordinò. Lui rilassò le labbra in un sorriso indolente che la fece sentire un'idiota. Avrebbe dovuto controllare cosa faceva in camera. «Che ti prende?» gli domandò. «Sto da dio.» Ridacchiò e si lasciò cadere sul divano. «Mark. Alzati. Vai a vestirti.» Lui la fissò a labbra socchiuse. «Cosa c'è?» Continuò a fissarla. «Cosa si prova?» «Cosa si prova? Che vuoi dire?» Le guardò le mani e Lena incrociò le braccia perché non vedesse le cicatrici. «No» disse scuotendo la testa. «Mio padre mi ha raccontato tutto.» «E di sicuro ci ha provato gusto.» Mark corrugò la fronte. «Non credo proprio. Teddy non è il tipo che si eccita con queste cose.» Notò la sua faccia stupita e aggiunse: «Il vecchio Ted è a posto. Niente fantasie». Lena tornò a guardare la fotografia. «Vestiti, Mark. Non abbiamo tempo per queste cose.» «Lei mi dice il suo segreto e io le dico il mio.» Lena rise. «Hai visto troppi film.» «Dico sul serio.» «Non credo, Mark.»
Udì il clic di un accendino e si voltò a guardarlo. Si stava accendendo uno spinello. «Spegni quella roba.» Lui aspirò a fondo senza obbedire. Disse: «Non vuole sapere come stanno le cose?». «Voglio che ti vesti subito, dobbiamo andare da tua madre.» Mark si abbandonò sul divano e sorrise. «Ero convinto che avrebbe premuto il grilletto, ieri sera.» Lena andò a sedersi all'altra estremità del divano. «Mi stavi guardando?» domandò. Si sentì colta in fallo, più che oltraggiata. Mark annuì e prese una lunga boccata dallo spinello. «Dov eri?» «Vicino al capanno. Quando è arrivata, ho pensato che ci finisse addosso.» Lei arrossì di vergogna. «Quell'uomo era accanto alla casa. Temevo che mi vedesse, ma stava guardando lei.» Soffiò sulla punta dello spinello. «E suo padre?» «Zio» precisò lei. Mark prese un altro tiro e trattenne il fumo per qualche secondo. Espirò lentamente, poi domandò: «Che effetto fa tenere in bocca la canna di una pistola?». «Che non ne vale la pena» disse, cercando di controllare la voce. «Per questo non l'ho fatto.» «E che effetto fa essere violentata?» Lena si guardò intorno confusa, non si spiegava perché accettasse di parlare di quelle cose con un ragazzino. «Brutto.» Scrollò le spalle. «Orribile.» Lui rise. «Immagino.» «No, non te lo immagini» disse Lena. Poi, per riprendere il controllo sulla conversazione: «Mark, perché non mi racconti che cosa è successo?». «Ha già ricominciato a fare sesso?» Non le andò quel «già», come se fare sesso fosse inevitabile. «Non sono fatti che ti riguardano» rispose, stupita di riuscire a parlarne senza imbarazzo. Per la prima volta dopo tanto tempo, aveva la sensazione di esercitare un controllo pieno su se stessa e sulle proprie emozioni. Si sentiva forte e capace di gestire quel ragazzo. Le sembrava incredibile che solo il giorno prima avesse cercato di uccidersi. «Spiegami che cosa sta succedendo» disse.
«Mia madre sta per morire» rispose lui. «Questo lo sa, no?» «Sì.» Abbassò lo sguardo sulle mani perché lui non le leggesse negli occhi la verità. «È di questo che vuoi parlare? Di tua madre?» Mark non rispose. «Tu sai dove si trova tua sorella?» La guardò con gli occhi umidi, occhi ritornati all'improvviso infantili, che sorpresero Lena. «Noi siamo molto simili, lo sa?» disse. «In che senso?» «Qui.» Si portò una mano sul petto. «Cosa si prova a essere stuprate?» Lena scosse la testa, decisa a non farsi depistare. «In che cosa siamo uguali Mark? Qualcuno ti ha fatto del male?» Gli balenò qualcosa negli occhi e per un istante lei intravide tutto il dolore che lo opprimeva. Provò compassione, qualcosa di simile a un impulso materno, un sincero desiderio di proteggerlo, benché non fosse in grado di proteggere neppure se stessa. «Chi ti ha fatto del male, Mark?» lo incalzò. Mark allungò un piede sul tavolino. «Perché fa il poliziotto?» «Perché voglio aiutare gli altri» rispose, anche se non era più del tutto vero. «Lascia che ti aiuti. Dimmi che cos'è successo.» Scosse il capo. «Cosa si prova?» domandò di nuovo. «Quando la stupravano. Che cosa provava?» «Dimmi perché lo vuoi sapere e te lo dirò.» Aspirò un'altra boccata dallo spinello e lo terminò. Si guardò intorno in cerca di qualcosa in cui buttare il mozzicone e Lena fece scivolare fino a lui il portacenere che era sul tavolino. Mark si scostò dallo schienale e posò i gomiti sulle ginocchia. «A volte mi domando perché si fanno certe cose.» «Anch'io» disse lei. «Per esempio, perché Jenny voleva ucciderti?» Agitò la mano. «Non mi avrebbe ucciso.» «E allora perché ti sei pisciato addosso?» Rise. «Perché voleva ucciderti, Mark?» «Per impedirlo.» «Impedire cosa?» «Impedire a me?» domandò, come se Lena potesse avere una risposta. «Impedire a te di fare cosa?» Aspettò che parlasse, ma il ragazzo taceva. Provò un'altra strada. «Raccontami di quella sera con Carson e gli altri ra-
gazzi.» Si rabbuiò. «Carson è uno stronzo.» «Perché hai costretto Jenny ad andare a letto con loro?» «Mica l'ho costretta io. Era lei che voleva. Cercava di farmi ingelosire, di dimostrare che non significavo nulla.» «Però l'hai fatta ubriacare.» «Ma sì...» disse con un'aria annoiata. «Che cosa voleva impedire Jenny?» insistette Lena. «L'altra sera al pattinaggio. Che cosa voleva impedire?» Mark storse le labbra, era sul punto di dire qualcosa, ma si trattenne. Domandò: «Crede che riuscirete a trovare mia sorella?». «Tu sai dove si trova?» Abbassò gli occhi e Lena non riuscì a capire se sapeva qualcosa o se semplicemente si sentiva in colpa di non poter aiutare la sorella. Si mise comoda, incrociò le braccia e aspettò che fosse lui a parlare. «A volte ho l'impressione di non essere vero» cominciò Mark. «Per esempio, che sono in una stanza, respiro l'aria, ma nessuno mi vede veramente.» Si strofinò gli occhi. «Allora penso che forse non sono davvero lì, che devo essere da qualche altra parte. Come, non so, che dovrei decidermi a premere il grilletto, capisce?» Lena annuì, conosceva quella sensazione. «Perché lei non l'ha fatto?» le domandò. «Perché non ha premuto il grilletto?» Lena disse la verità per quel che riguardava la pistola, ma non parlò delle pillole. «Ho pensato al mio collega, a come mi avrebbe trovato la mattina dopo, e non me la sono sentita di fargli un torto simile.» «Lei crede in Dio?» «Non ne sono sicura» rispose. «E tu?» Scosse la testa. «Per questo hai smesso di frequentare la chiesa?» La guardò con diffidenza. «Non faccia il poliziotto con me.» «Ma io sono un poliziotto, Mark» disse con una voce pacata, per essere persuasiva. Allungò il braccio e gli posò la mano sulla spalla. «Voglio sapere che cosa è successo. Perché Jenny voleva ucciderti?» Mark sospirò e si abbandonò contro i cuscini. «Era una ragazza così dolce. Le volevo bene davvero.» «Lo so.» «Veramente?» domandò. «Voglio dire, lei sa davvero cosa significa vo-
ler bene a qualcuno?» Lena pensò a Sibyl e disse: «Sì, lo so». «Io no» disse Mark. «Cioè, prima di Jenny. Prima non sapevo cosa voleva dire voler bene.» «Tu vuoi bene a tua madre.» Rise. Un suono cupo che gli vibrò in gola. «Sta per morire, non è vero?» Lena serrò le labbra. «Io lo sento.» Posò la mano sul cuore. «L'ho sentito questa mattina, non so come, ma ho capito che le mancava poco, che aveva deciso di arrendersi.» Cominciò a piangere. «Siamo in comunicazione, capisce? Io sento quello che sente lei.» Girò la testa per guardarla. «Lei lo sapeva che sua sorella sarebbe morta?» C'era una vena di disperazione nella sua voce. «Sì» mentì Lena. In realtà, al momento della tragedia lei stava tornando da Macon, ignara di quello che stava per succedere. «L'ho sentito qui» disse portandosi una mano sul cuore. «Allora lo sa. L'ha provata anche lei quella sensazione di vuoto.» Lei annuì senza aggiungere altro. Mark guardò il soffitto e chiuse gli occhi. Lena osservò il suo profilo, il naso affilato e la mascella ben disegnata. Le lacrime gli rigavano le guance e gocciolavano sul petto. «La prima volta» disse a bassa voce. «Credo che sia stato al Ringraziamento.» Lena rimase zitta per dargli tempo. «Lacey era in camera sua con Jenny e io volevo in prestito uno dei suoi CD.» Sospirò e il petto si sollevò e si abbassò con un piccolo gemito. «Lei ha cominciato a urlarmi addosso, come se le avessi chiesto chissà cosa. Non so. Forse la mamma l'ha sentita strillare ed è venuta a dirci di smetterla.» Lena si sentì battere il cuore e pregò che Brad non scegliesse proprio quel momento per rientrare nella roulotte. Cercò di calcolare quanto tempo era passato, ma non osò guadare l'orologio e rimase nell'incertezza. «Lacey aveva la radio a tutto volume» disse. «La mamma non disse nulla. Come al solito. Perché era la sua preferita.» Scrollò il capo. «Lacey in realtà è buona, sa? Sarà anche viziata, ma sotto sotto è buona. È di buon cuore, come la mamma.» Lena attese. Contò fino a venticinque prima che Mark ricominciasse. «Dopo un po' è venuta in camera mia» disse. «Forse aveva capito che mi ero offeso. Voleva appianare le cose. Faceva sempre così, voleva mettere
pace. Forse è per questo che piaceva tanto a tutti, perché era buona.» Gli affiorò sulle labbra un sorriso, ma continuò a tenere gli occhi chiusi. «Mi ha messo una mano sulla nuca e poi ha cominciato a baciarmi, non so perché. Voglio dire, un bacio vero, lungo e profondo.» Lena cercò di ricordare quello che le aveva detto Jeffrey, doveva impedire che le sue reazioni compromettessero il risultato della confessione, ma il pensiero di Mark Patterson che baciava la sorellina le rivoltava lo stomaco. Voleva dire qualcosa, farlo smettere, non voleva portarsi dietro per la vita il ricordo di quella storia, ma si impose di lasciarlo continuare. «Non so come è successo il resto» disse Mark. «Insomma, ci stavamo baciando, poi lei ha cominciato a strofinarmi, ed era così bello.» La guardò in cerca di approvazione. «So che è sbagliato, lo so. Ma era troppo bello. Non volevo smettere.» Lena annuì e cercò di controllare l'espressione. Aveva seri dubbi che Lacey Patterson avesse sedotto suo fratello. Dire che la vittima "se l'era cercata" era un luogo comune tra i violentatori. «Vedo che non mi capisce» continuò Mark. «Ma lei non può sapere com'è. Mio padre è così duro con me.» Si picchiò la coscia col pugno. «Non me ne passa mai una. Mai.» «Lo so» disse Lena. Si costrinse a toccargli il braccio. «Questo lo posso capire, Mark. Te l'assicuro.» Il viso si rilassò. «Non sono stato io a costringerla» disse. «Ti credo.» «È stata lei a venire da me» continuò. «È stata lei a venire in camera mia. È stata lei che ha cominciato a baciarmi, che ha cominciato a toccarmi.» Non sapendo cosa dire Lena annuì. «Si era tutta bagnata per me. Io...» agitò la testa e serrò gli occhi, come se volesse far rivivere il ricordo. «Mi sembrava una cosa bella essere dentro di lei. E lei mi voleva. Si capiva che mi voleva. Mi accarezzava la testa e mi stingeva per farmi entrare di più.» Lena deglutì e tese i muscoli del collo. «Toccarla, essere con lei e dentro di lei. Mi sentivo completo, sa? Come se tutto si fosse sistemato.» Si coprì gli occhi con la mano. «Era così brava. Dove aveva imparato a farlo così bene?» Sembrava che aspettasse una risposta, ma Lena non poteva dire nulla. «Voglio dire. Guardi mio padre» disse scrollando il capo. «Lui non ne capisce niente.»
Senza pensarci Lena domandò: «Anche tuo padre andava a letto con lei?». «Be', ovvio» rispose, come se Lena fosse un'idiota. Lei si sentì stringere lo stomaco al pensiero di quello che aveva passato la povera Lacey. «Dimmi di Jenny.» Rise con amarezza. «Ah. Jenny. Ero già stato con lei un paio di volte, come le ho detto.» Fece una pausa. «Era tanto dolce. Era tutto quello che le ho già detto.» «Ti era amica.» «Sì, amica» disse con un accento di scherno nella voce. «Mi era amica fino a quando non ci ha beccati.» «Per questo ti ha minacciato con la pistola?» «Forse anche per questo» disse. «E poi, sa, voleva impedirlo. Lo diceva in continuazione, che lei non voleva che andasse avanti.» «Era gelosa?» Mosse lentamente la testa. «Ci soffriva.» «Vi aveva visto insieme?» Annuì di nuovo, lentamente. «Eravamo nel mio letto, e lei e Lacey sono rientrate dalla scuola.» Lena provò un tuffo al cuore. Aprì la bocca per chiedere spiegazioni ma la richiuse. Non voleva sapere. Fosse stata in grado di muoversi, sarebbe scappata via tappandosi le orecchie per non sentire altro. Ma era come paralizzata e rimase seduta, a guardare Mark come avrebbe guardato un incidente stradale. «Eravamo insieme. Credo che fosse intorno a Natale, poco prima che loro andassero via per quella stupida vacanza.» Agitò in aria la mano. «La mamma mi aveva permesso di rimanere a casa da scuola. Avevamo tutto il giorno per noi soli.» Sorrise. «Lei aveva acceso le candele, poi abbiamo fatto un lungo bagno, e poi l'amore.» Lena si sentì mancare il fiato. «Credo che abbiamo perso la dimensione del tempo» disse con una risata di sconforto. «Lacey e Jenny sono entrate in camera mia e ci hanno trovato lì.» Lena si tappò la bocca con la mano per non parlare. «Jenny voleva bene alla mia mamma. Insomma, è complicato. Forse è meglio che Jenny non sia qui a vedere la mamma che muore. Non avrebbe retto.»
«Capisco» balbettò Lena. «So cosa pensa, ma lei mi amava, tanto. Mi faceva sentire così bene, sapere che lei mi amava. Perché vede, Lacey era sempre stata la preferita, ma poi lei è venuta da me, e allora ero io. Ero io quello che lei amava di più.» Scoppiò in lacrime e prima che Lena avesse il tempo di reagire affondò il viso sul suo petto. «Mark...» disse con la voce rotta cercando si sollevargli la testa. «No» bisbigliò lui. Le sfiorò il collo con le labbra umide e Lena trasalì, sopraffatta da un senso di nausea. «Mark, no!» implorò, ma il ragazzo non si muoveva e allora lo spinse via a forza. «Stai lontano da me!» gridò. Dal modo in cui la guardò capì che le leggeva in faccia tutto il disgusto che stava provando. «Mark...» Mark scattò in piedi. «Puttana! Maledetta puttana!» «Mark...» La porta si spalancò e sulla soglia apparve Brad, la mano sul calcio della pistola. Lena gli fece segno di tornare indietro. «Pensavo che almeno lei potesse capire» disse Mark andandole vicino. «Io ti capisco» disse Lena in preda al panico. «Io ti capisco, Mark.» «Fottuta puttana» ringhiò lui. «Lei non capisce un cazzo.» «Mark...» Le arrivò quasi addosso, le afferrò la mano e gliela tenne alzata. «Pensavo che potesse capire» ripeté e Lena indovinò che alludeva alle cicatrici. «Pensavo che lo sapesse, perché ci è passata anche lei. Lei sa cosa si prova. Sono sicuro che lo sa. Solo che non vuole ammetterlo perché è una vigliacca.» Lena aprì la bocca ma non riuscì a parlare. «Ehi, tu» intervenne Brad prendendolo per il braccio. «Stammi lontano, finocchio» strillò Mark. Si liberò con uno strattone e puntò il dito contro Lena. «Lei mi ha ingannato» sibilò a denti stretti. «Siete tutti uguali, maledetti. Aveva ragione lei. Siete dei deboli. Non fate mai la cosa giusta.» Lena deglutì e tentò di nuovo: «Mark...». Mark scappò via facendo fremere la roulotte sotto i suoi passi furiosi. «Che diavolo voleva dire?» domandò Brad con la mano ancora sulla pistola. Lena scrollò la testa, incapace di parlare.
«Ti senti bene?» domandò Brad avvicinandosi al divano. Le posò una mano sul braccio e questa volta lei non reagì. «Non ci posso credere...» cominciò, ma non sapeva come andare avanti. Brad le sedette accanto e le prese la mano. «Lena?» disse accarezzandola. «Lena parlami.» «È solo un ragazzo...» riuscì a dire. «Un ragazzo terribile» concluse Brad. «Mi domando come facciano a diventare così. Quando avevo la sua età non sapevo neppure cos'era, il sesso. Ai miei tempi al massimo ci davamo il bacio della buonanotte.» Lena si limitò ad annuire senza badare alla sua lagna sulla adolescenza idilliaca. «Non riesco a capire cosa sia successo. Cos'è cambiato?» continuò lui. «I genitori» rispose Lena senza convinzione. Si sistemò i capelli dietro l'orecchio e si fece forza. Guardò l'orologio, indecisa se andare a cercare Mark. Era via già da un po'. «Che cosa voleva dire?» domandò Brad. «Non è la stessa cosa che aveva detto Jenny?» Finalmente Lena riuscì a concentrarsi sulla conversazione. «Quale cosa?» domandò. «Ti ricordi al parcheggio? Anche Jenny ha detto che gli adulti non fanno mai la cosa giusta.» «Oh Gesù.» Balzò in piedi e si precipitò in corridoio con Brad alle calcagna. «Mark?» chiamò. Andò a bussare all'unica porta chiusa. Provò ad aprirla, ma era chiusa a chiave. «Dannazione» disse rabbrividendo. Diede una spallata alla porta, ma inutilmente. Guardò Brad: «Sfonda» gli ordinò. Lui si appoggiò alla parete del corridoio, prese lo slancio e sferrò un calcio contro la porta. Il piede sfondò il pannello e rimase incastrato nel legno scheggiato. Brad lo liberò tenendosi aggrappato a Lena e lei si chinò a guardare dall'apertura per cercare di vedere Mark. «Oh, mio Dio» mormorò. Fece un passo indietro e tirò un altro calcio per allargare il buco. Insieme, riuscirono a renderlo abbastanza grande perché Lena ci si potesse infilare. Il legno scheggiato le graffiò le braccia e il viso, ma l'ansia di arrivare dentro la stanza era tale che neppure se ne accorse. «Mark» strillò con la voce stridula di panico. «Aspetta Mark, aspetta.» Brad la spinse da dietro e Lena ruzzolò dentro la stanza. Mark si era im-
piccato all'asta della cabina armadio. Il soffitto della roulotte non era alto e i piedi toccavano il pavimento, ma la cintura che gli stringeva il collo sembrava aver fatto il suo lavoro. Il viso era cianotico e dalla bocca aperta compariva la lingua. Lena lo abbracciò per le gambe e lo sollevò per allentare la pressione sul collo. «Maledizione Brad, sbrigati. Vieni qui.» A forza di calci Brad riuscì ad allargare l'apertura e a sgusciare dall'altra parte. Tirò fuori il coltello e si buttò a tagliare la cintura mentre Lena continuava a sorreggere Mark per le gambe. Le tremavano le braccia per lo sforzo e il tempo che la lama impiegò per tagliare il cuoio spesso le parve un'eternità. «No, no, no!» gridò quando Mark rovinò a terra. Appoggiò l'orecchio contro il suo petto in cerca del battito cardiaco. Passarono alcuni secondi e finalmente udì il tonfo rivelatore, seguito da un altro più forte. «È vivo?» domandò Brad. Lena annuì. Strappò dal letto la coperta e la avvolse attorno al corpo di Mark. «Chiama un'ambulanza» disse. 13 «Sara?» la riscosse Molly. «Sara?» «Eh?» Molly, la signora Nelson e i suoi tre figli la stavano fissando. Scosse lievemente il capo. «Chiedo scusa» disse e tornò a concentrarsi sulla visita. Si era distratta pensando a Lacey Patterson e a quello che poteva succederle. «Respira profondamente» disse a Danny Nelson. «Sono dieci minuti che respiro profondamente» si lamentò Danny. «Stai zitto» lo rimproverò la madre. Sara si sentiva addosso lo sguardo di Molly, ma continuò a concentrarsi sul bambino. «Molto bene» disse. «Adesso rimettiti la maglietta, io devo parlare con tua madre.» La signora Nelson la seguì in corridoio. «Voglio che lo veda uno specialista» disse Sara. La madre si portò una mano al cuore, come se Sara le avesse detto che a Danny rimanevano pochi mesi di vita. «Non c'è nulla di cui preoccuparsi» la rassicurò. «Voglio solo che gli faccia controllare le orecchie da uno che ne sa più di me.»
«È sicura che non ci sia qualcosa di grave?» «Sicurissima.» Poi rivolta a Molly: «Per favore, prepara l'impegnativa per il dottor DeAndrea di Avondale». Molly annuì e Sara andò nel suo ufficio. Buttò lo stetoscopio sulla scrivania e si lasciò cadere sulla sedia cercando di non sospirare. Si ritrovò a pensare a Jeffrey. Ogni parte del suo corpo pulsava di vita anche se si sentiva un po' ammaccata. La schiena, in particolare, era dolorante, ma non c'era da stupirsi, considerato che si erano alzati dal corridoio solo verso le tre del mattino. «Allora» disse Molly interrompendo i suoi pensieri. «Ne devo dedurre che d'ora in poi prenderai le telefonate di Jeffrey?» Sara arrossì. «Si vede?» «Diciamo che un annuncio sul giornale sarebbe meno appariscente.» Guardò l'infermiera socchiudendo gli occhi. «Quella era l'ultima visita» la informò Molly con un sorriso benevolo. «Adesso vai all'obitorio?» Sara stava per rispondere quando nel corridoio risuonò un colpo secco seguito da un'imprecazione. Alzò gli occhi al cielo e si diresse verso il bagno a passo deciso. Grazie a un paziente di sei anni che si era fatto venire l'idea di buttare nel water la sua collezione di macchinine in miniatura, lo scarico si era intasato. Lei era stata in dubbio se chiamare o no suo padre perché non voleva rischiare di rivedere Tessa, che quel giorno era di turno con lui. Avrebbe potuto cavarsela da sola, ma le mancavano gli attrezzi. Inoltre si era già presa mezzo pomeriggio di libertà il giorno prima e non poteva perdere altro tempo. Senza contare che suo padre si sarebbe offeso, se non l'avesse chiamato in soccorso. «Papà» disse a bassa voce chiudendosi alle spalle la porta del bagno. «Questo è un centro pediatrico, ci vengono i bambini. Non puoi imprecare a quel modo.» Lui le lanciò un'occhiata da sopra la spalla. «Bestemmiavo anche quando voi eravate piccole e siete cresciute benissimo.» «Papà...» «Attenta a te, sono tuo padre.» Sara si arrese e sedette sul bordo della vasca. Da bambina le piaceva guardarlo lavorare, e lui si divertiva a dare spettacolo di fronte alle figlie, picchiava sui tubi e saltellava qua e là con la chiave inglese in una mano e lo sturalavandini nell'altra. Voleva che le sue figlie imparassero a usare le mani e acquistassero confidenza con gli attrezzi. Sara aveva il sospetto di
averlo in qualche modo deluso, quando aveva deciso di non entrare nella ditta di famiglia per tentare la carriera medica. Eddie l'aveva aiutata con le spese che la borsa di studio non riusciva a coprire e non le aveva mai fatto mancare i soldi per i piccoli extra, ma lei era convinta che in fondo avrebbe preferito averla a casa a lavorare con lui. Di sicuro, facendo l'idraulico avrebbe lavorato di meno. Eddie sogghignò divertito e cominciò: «Siamo nel cuore del deserto...». Lei capì che era in arrivo una delle sue terribili barzellette. «E va bene, papà.» «Non si vede anima viva, non si sente un rumore. Sotto il sole cocente, solo un'immensa distesa di dune. A un certo punto una duna dice all'altra duna: Dio mio, che solitudine, non ne posso più, speriamo che passi qualcheduno.» Sara non poté fare a meno di ridere. Eddie riprese il suo lavoro e infilò la sonda idraulica nella tazza. Prese a girare lentamente la manovella e il serpente di metallo flessibile con la punta acuminata cominciò a scendere giù per aggredire l'ingorgo. «Cos'ha buttato il ragazzino?» «Macchinine. Almeno credo.» «Piccolo bastardo» borbottò Eddie. Lei si limitò a scuotere la testa senza ulteriori commenti sul suo linguaggio. Aveva imparato la lezione circa trent'anni prima, durante un incontro tra genitori e insegnanti che si era rivelato piuttosto imbarazzante. Appoggiò i gomiti sulle ginocchia e restò a guardarlo. Eddie Linton non era quel che si dice un elegantone neppure quando ci si metteva d'impegno, figuriamoci sul lavoro. Quel giorno aveva addosso la maglietta che si era comperato a una fiera quando le figlie erano ancora alle superiori, e un paio di bermuda verdi con l'orlo sfilacciato. Sara si chinò e gli strappò un filo che pendeva sulla gamba. «Ehi» fece lui. «Posso prendere un paio di forbici, se vuoi.» «Non dovresti occuparti dei tuoi pazienti?» «Oggi è il giorno dell'obitorio.» Le rimaneva un mucchio di pratiche da sbrigare, ma non aveva voglia di andarsene. Fosse stato per lei, sarebbe rimasta lì tutto il giorno a guardare suo padre. Per lo meno, fino a quando Jeffrey smontava dal lavoro. Eddie la guardò di sottecchi. «Come mai sei così pimpante?» «Perché mi piace stare qui con te.» Gli accarezzò la schiena. «Ah, è per questo» borbottò continuando a lavorare. «Ha fatto proprio
un bel lavoro, il tuo caro bambino. Dovresti fargli pagare la mia uscita.» «Vedrò cosa diranno quelli dell'assicurazione.» Eddie si accovacciò sui talloni. «Tua sorella è fuori nel furgone.» Sara non rispose. Lui la guardò pensoso. «Quando ero in guerra ho visto uomini morire.» Sara scoppiò a ridere. «Tu riparavi i bagni di Fort Gillen, papà. Non sei mai uscito dai confini della Georgia.» «Be'...» Fece un gesto evasivo con la mano. «C'era quel caporale del Connecticut, non faceva che vomitare.» Si rimise in piedi. «Ma lasciamo perdere. Quello che volevo dire è che la vita è troppo breve.» «Questo è vero.» Ne aveva la prova quasi ogni settimana all'obitorio. «Troppo corta per serbare rancore a una sorella.» «Ah.» Finalmente capì dove voleva andare a parare. «Ti ha detto perché abbiamo litigato?» «Mi avete mai detto qualcosa?» «È complicato.» «Scommetto che non lo è.» Ritirò il serpente dalla tazza e corrugò la fronte. «Scommetto che è semplicissimo.» Lo avvolse attorno al rocchetto. «Vai a prendermi la sonda elettrica.» «Devo andare a lavorare.» «Dopo che mi hai portato la sonda.» Le passò il serpente arrotolato. Sara esitò poi lo prese. «Lo faccio, ma non perché me lo hai detto tu.» Eddie alzò le mani. «È dal 1979 che non fai quello che dico io.» Lei gli mostrò la lingua come quando era bambina e se ne andò. Uscì dalla porta posteriore e girò attorno all'edificio per non farsi vedere dai pazienti in sala d'attesa. Non era in servizio, ma c'era sempre qualcuno che la conosceva e cercava di attaccare bottone. Il furgone di Eddie era parcheggiato vicino alla sua macchina. Sulla fiancata spiccava la scritta Linton e figlia. Il logo era costituito da un water con accanto un rotolo di carta igienica rosa. Vide la sorella seduta dietro il volante. I finestrini erano chiusi e il motore acceso. Probabilmente aspettava lì da più di mezz'ora. Sara spalancò la portiera del passeggero, ma Tessa non si mosse. Evidentemente l'aveva vista arrivare. «Ciao» esclamò Sara sopra il ronzio del condizionatore. Buttò la sonda dietro, montò e richiuse la portiera con un colpo. Tessa ricambiò il saluto senza entusiasmo e domandò: «Notizie della ragazzina?».
«Non ancora.» Si sistemò con la schiena contro la portiera per vedere in faccia la sorella. Sfilò gli zoccoli e appoggiò i piedi sul bordo del sedile di Tessa. «Quello è il mio posto» disse Tessa. Era la frase ricorrente quando viaggiavano in macchina da bambine. «Allora?» disse Sara. Le solleticò la coscia con le dita dei piedi. «Che cosa pensi di fare?» «Lasciami perdere. Sono arrabbiata con te.» «Anch'io sono arrabbiata con te.» Tessa si guardò in giro stringendo le mani sul volante. «Mi dispiace per quello che ho detto.» Face una pausa. «Sul fatto di non avere bambini.» Sara lasciò passare qualche secondo. «A me dispiace di averti chiesto se il padre era Devon.» «Lo è. Ammesso che tu avessi dei dubbi.» «No, non ne avevo» disse, anche se non era del tutto vero. Tessa si girò sul sedile, si appoggiò anche lei contro la portiera e rannicchiò le gambe. Adesso potevano guardarsi in faccia e rimasero così, senza parlare. Fu Sara a rompere il silenzio. «Se lo vuoi fare... Se davvero credi di doverlo fare... io ti aiuterò. Questo lo sai.» «Come mai te l'eri presa tanto?» «Perché...» si trattenne per trovare il modo di spiegarsi. «Ho visto così tanti bambini sofferenti questa settimana, che non...» lasciò morire la voce. «Ma quel che provo io non ha importanza, Tessie. È una decisione tua.» «Lo so.» «È una tua scelta» ripeté. «So che non lo fai con leggerezza...» «Non si tratta di questo.» «Di cosa allora?» Tessa fissò il parcheggio semivuoto. «Ho paura. Molta paura.» «Tessa.» Le prese la mano. «E di che cosa hai paura?» «È per via di mamma e papà.» Cominciò a piangere. «Ho paura di non essere brava come loro. Ho paura di diventare una pessima madre.» «Che stupidaggine.» L'accarezzò sui capelli. «Avevi ragione tu. Sono un'egoista. Penso solo a me stessa.» «Ma io non intendevo questo.» «Sì invece. Lo so, perché è la verità.» Si asciugò gli occhi col dorso della mano. «So di essere egoista, Sara. Sono un'immatura.» Fece un risolino sarcastico. «Ho trentatré anni e vivo ancora con i genitori.»
«Non nella stessa casa.» «Oh, mio Dio, ti prego, non è il caso che mi difendi.» Piangeva e rideva nello stesso tempo. Anche Sara rise. «Tessa, tu sei un'ottima persona. Adori i bambini.» «Sì, lo so. Ma è diverso pensare di averli intorno ventiquattro ore su ventiquattro.» Scosse il capo. «Se combino delle cose terribili? Se lo lascio cadere? E se è una bambina e la tiro su come un'oca?» «In tal caso ti faremo internare.» «Dico sul serio» disse frignando e ridendo. «Se non riesco a fare le cose per bene?» «La mamma e il papà ti aiuteranno. Anch'io ti aiuterò» disse Sara di slancio. Poi si corresse: «Voglio dire, sempre che tu decida in questo senso. Nel caso tu lo voglia tenere». «Tu sì, saresti un'ottima madre, Sara.» Lei serrò le labbra per trattenere le lacrime. «Non so proprio cosa fare.» Sara trattenne il fiato ed espirò lentamente. «Non devi decidere adesso» disse. «Puoi aspettare ancora un paio di giorni: una volta passato lo shock, vedrai tutto più chiaro.» «Sì.» «Credo che dovresti dirlo a Devon. Ha il diritto di saperlo.» Tessa annuì muovendo lentamente la testa. «Lo so. Forse non glielo volevo dire perché so cosa dirà.» Fece una smorfia indispettita. «Otterrà esattamente quello che vuole.» «Non sei obbligata a sposarlo.» «Per far venire un infarto a papà? Con una figlia che vive nel peccato?» «Dubito che gli verrà un infarto» sorrise Sara. «Ti prenderà sulle sue ginocchia...» «Oh.» Prese un fazzolettino dalla scatola sul cruscotto e si soffiò il naso in tre riprese, come faceva da quando era bambina. «Vorrei tanto che qualcuno mi prendesse sulle sue ginocchia.» Sara le strinse la mano. «Decidi con calma, Tessa. Qualunque sarà la tua decisione, io ti starò vicina.» «Ti ringrazio» farfugliò. Si asciugò il naso con un altro fazzoletto, si abbandonò contro la portiera e guardò a lungo la sorella. Dopo un po' sorrise, quasi rapita. «Cosa c'è?» domandò Sara. «Ti si legge in faccia.»
«Cosa?» Continuò a sorridere. «Che hai scopato.» Sara scoppiò a ridere. «È andata bene?» la stuzzicò Tessa. Lei guardò fuori e decise di fare la maliziosa. «A quale ti riferisci?» «Brutta sgualdrina!» strillò Tessa lanciandole il fazzolettino usato. Sara lo intercettò con la mano. «Ehi!» «Non giocare alla sorella maggiore con me» la redarguì Tessa. «Dimmi cos'è successo.» Sara si sentì arrossire. «Te lo puoi scordare.» «Come mai hai cambiato idea? Io ero rimasta che non lo volevi più vedere.» «La mamma» rispose Sara. «Mi ha detto che dovevo decidermi.» «Vale a dire?» «Abbiamo fatto tira e molla per troppo tempo. Voglio fare un ultimo tentativo. O me lo tolgo definitivamente dalla testa, o lo tengo una volta per tutte.» «È stato bello?» «È stato bello provare delle sensazioni nuove.» Ripensò alla notte passata. «È stato bello non sentirmi in colpa almeno per qualche ora. In colpa e impaurita.» «Per la ragazzina scomparsa?» «Un po' per tutto.» Evitò di entrare nei particolari. Si era imposta di non parlare del suo lavoro all'obitorio con la famiglia. Era un modo per proteggersi e per proteggere loro. Le era indispensabile poter vivere una fetta della sua vita al riparo dalla morte e dalla violenza. «È stato bello avere...» «Un orgasmo da urlo?» Sara schioccò la lingua e sorrise. «È stato abbastanza spettacolare» disse, poi scrollò il capo perché non era così. «È stato sorprendente. Del tutto...» «Oh, merda.» Tessa si mise seduta e si asciugò gli occhi. «Sta arrivando papà.» Anche Sara tirò giù le gambe, benché non sapesse perché. Suo padre non poteva certo spedirla in camera sua perché si era attardata nel parcheggio. «Dov'è la sonda?» domandò Eddie spalancando la portiera di Sara. «Di che diavolo state parlando?» Non ci fu risposta. «Avete idea di quanta benzina sprecate a stare qui col motore acceso?» Sara rise e lui la pizzicò sulla coscia. «Cosa direbbe tua madre se ti ve-
desse con quella faccia?»: Rispose Tessa. «Credo che direbbe: "Era ora".» Cominciarono a ridacchiare. Eddie lanciò loro un'occhiata di traverso, richiuse la portiera con un colpo e se ne andò. L'obitorio si trovava nell'interrato del Grant Medical Center e anche nei giorni più caldi dell'anno le stanze piastrellate e senza finestre rimanevano fredde, tanto che a Sara venne la pelle d'oca quando entrò. «Buongiorno, dottoressa Linton» disse Carlos col suo forte accento. Indossava il solito camice verde e teneva appoggiata alla pancia la tavoletta degli appunti. Sara lo aveva assunto sei anni prima, appena uscito dalle superiori. Non dimostrava la sua età e il taglio scalato dei capelli non contribuiva a correggere la faccia tonda. Era un ragazzo efficiente, e non si lamentava mai, anche se gli toccava il lavoro sporco, nel senso letterale e metaforico. Sara ne aveva piena fiducia perché era scrupoloso e sapeva tenere la bocca chiusa. «Salve Carlos, novità?» Lui le passò la tavoletta. «La salma della piccola è ancora qui. Cosa devo fare?» Sara ebbe un tuffo al cuore al pensiero del corpicino. Dottie Weaver non aveva motivo di reclamarlo, dato che le era stato detto che la neonata non era di Jenny. Immaginò quell'esserino fragile, rattrappito dentro il freezer, e si sentì stringere lo stomaco. «Dottoressa Linton?» domandò Carlos. «Perdonami. Cosa stavi dicendo?» «Le ho domandato cosa devo fare con le salme.» Sara scrollò la testa all'uso del plurale, ma pensò di non aver capito bene. Controllò la scheda e vide in cima alla pagina il nome di Jenny Weaver. Passò alla pagina successiva e come ricordava constatò che la salma era stata rilasciata dall'obitorio già da domenica. Mancava il solito modulo che le pompe funebri consegnavano al momento del prelevamento. «È ancora qui?» domandò stupita. Carlos annuì e appoggiò una mano sul fianco. «Brock non si è fatto sentire?» Brock era l'impresario di pompe funebri. «No signora.» Tornò a guardare la scheda come se potesse trovarci la spiegazione. «La madre non si è fatta viva?» «Non si è fatto vivo nessuno.» «Do io un colpo di telefono.» Andò nell'ufficio e fece a memoria il nu-
mero di Brock continuando a guardare Carlos dalla finestra della parete separatoria. Stava passando lo straccio sul pavimento con gesti lenti e regolari e le voltava le spalle. Brock rispose al primo squillo. «Pompe funebri Brock, desidera?» «Brock.» Sara aveva subito riconosciuto la voce. Dan Brock aveva la sua stessa età, erano stati compagni di classe dalla scuola materna. «Sara Linton. Che piacere, come va?» «Io bene, grazie. Scusami se vengo subito al dunque. Ti ha chiamato nessuno per Jenny Weaver?» «La ragazzina morta sabato scorso?» domandò. «No, nessuno. Ma se devo dire la verità, mi aspettavo una telefonata.» «Come mai?» «Be', Dottie frequenta la mia chiesa» disse. «Avevo immaginato che si rivolgesse a me.» «La conosci bene?» «No, direi di no. Ci salutiamo. Ma Jenny. Jenny era un tesoro. È stata nel coro dei bambini per qualche tempo. Cantava come un angelo.» Sara si ricordò che nel tempo libero Brock dirigeva il coro dei bambini. «Sara?» la sollecitò Brock. «Scusami.» Pensò che negli ultimi tempi non faceva che distrarsi. «Grazie per l'informazione.» «Non è uscito neppure sul giornale.» «Cosa?» «Il necrologio.» Si schiarì la voce, come per scusarsi. «Strumenti del mestiere, sai. Andiamo sempre a controllare a chi affidano il lavoro, tanto per tener d'occhio la concorrenza.» «E non c'era niente?» «Neanche una parola. Forse l'hanno rimandata su al Nord. Credo che il padre abiti ancora là.» «Ma il necrologio sul giornale l'avrebbero messo comunque. Di solito non è così?» domandò facendo la finta tonta. Brock era una persona discreta, ma Sara non voleva che cominciassero a girare pettegolezzi. «Di solito. Almeno sul bollettino della chiesa. Ma non c'era neppure lì.» Fece una pausa, poi aggiunse: «Non lo so, Sara. C'è gente che ha reazioni strane di fronte alla morte. Non riesce ad accettarla, tanto più quando si tratta di bambini. Forse la madre ha deciso di tenere la cosa sotto silenzio, chi può dire». «Forse hai ragione. In ogni modo, grazie ancora per le informazioni.»
«Ho sentito che a Grace Patterson non rimane molto da vivere.» Sara immaginò che il lavoro languisse, visto che era tanto ciarliero. «Che storia triste.» «Conosci anche lei?» «Mi dava una mano col coro, prima che si ammalasse gravemente. Una donna meravigliosa.» «Sì, me l'hanno detto.» «A quel che si dice, il cancro l'ha letteralmente divorata» continuò. «Sono i casi più penosi.» Aveva abbassato la voce e sembrava sinceramente addolorato. «Tu sai cosa voglio dire, Sara.» Sara lo sapeva e comprese il suo abbattimento. Non avrebbe mai potuto fare il lavoro di Dan Brock, ma forse lui pensava lo stesso del suo. «Ancora nessuna notizia della figlia?» domandò Brock. «No. Non che io sappia, almeno.» «Jeffrey è in gamba. Se c'è qualcuno che la può trovare è lui.» Sara avrebbe voluto crederci, ma dopo tutto quello che era successo ultimamente non ne era più tanto sicura. Brock cambiò tono. «Basta con le cose tristi, mia cara. Riguardati e stai allegra. E salutami tanto i tuoi.» Sara ricambiò i saluti e riagganciò. Lasciò passare qualche secondo e chiamò Jeffrey. 14 Lena cercò di non dare a vedere che stava ascoltando la conversazione telefonica fra Jeffrey e Sara Linton. Non era affatto semplice, perché era in macchina con lui, seduta al suo fianco. Guardò fuori dal finestrino fingendo di pensare ad altro. Era ancora sconvolta da quello che era capitato a Mark qualche ora prima. Non si sapeva ancora se ce l'avrebbe fatta a riprendersi, il suo cervello era rimasto senza ossigeno per un certo tempo e fino a che non si risvegliava dal coma non c'era modo di stabilire l'entità del danno subito. Guardò Jeffrey che stava riferendo a Sara il racconto di Mark sui suoi rapporti con la madre. Non poteva ovviamente sentire i commenti della dottoressa, ma dovevano essere concisi e pertinenti, perché Jeffrey si dichiarò subito d'accordo con lei. «Ci vediamo stasera» disse e chiuse la comunicazione. Si girò a guardare Lena. «Ti avevo detto di non rimanere sola con Mark.»
«Lo so» rispose e ricominciò a spiegargli perché aveva mandato Brad ad aspettare fuori dalla roulotte. Lui la interruppe alzando la mano. «Te lo dico per l'ultima volta, Lena» disse spazientito. «Non sei tu il capo.» «Lo so.» «Non interrompermi.» Le lanciò un'occhiata di rimprovero. «Faccio questo lavoro da molto più tempo di te, e se ti dico di fare una cosa è perché so per esperienza come bisogna comportarsi.» Lei stava per ribattere ma cambiò idea. «Il fatto che tu sia detective ti garantisce una certa autonomia, ma alla fine è da me che prendi gli ordini. Se non mi dai la certezza che farai come ti dico, perché dovrei tenerti a lavorare con me?» Lena non sapeva cosa rispondere. «Pensaci, Lena. So che il lavoro ti piace e so che lo sai fare bene quando ti ci metti, ma dopo quello che è successo...» Scosse la testa. «Anche prima, in realtà. Sei refrattaria agli ordini, e questo ti rende più pericolosa per me che per i malviventi.» Quelle parole la ferirono e si precipitò a giustificarsi. «Se ci fosse stato anche Brad, Mark non si sarebbe confidato con me.» «E non avrebbe tentato il suicidio» aggiunse lui con cattiveria. Rimase zitto con gli occhi fissi alla strada, poi con un sospiro aggiunse: «Scusami, sono stato ingiusto». Lei non aprì bocca. «Prima o poi Mark ci avrebbe provato comunque. È un ragazzo tormentato. Non è stata colpa tua.» Lena annuì, ma non era sicura che lui ne fosse convinto. Se non altro, stava cercando di sostenerla, cosa che lei non aveva fatto quando Jeffrey, dopo aver sparato a Jenny Weaver, era dilaniato dal dubbio. «Ma non si tratta solo di Mark. Hai fissato quel benedetto appuntamento con un terapeuta?» Scosse la testa. «Lena, mi dispiace di dovertelo dire, ma ho l'impressione che tu stia rimandando all'infinito.» Fece una pausa per trovare le parole. «Devi decidere se vuoi continuare a fare il poliziotto.» Lena si morse la lingua per frenare le lacrime. Non poteva rinunciare a fare il poliziotto. Se non era un detective della polizia, cos'era? Di certo non una sorella, a malapena una donna. A volte non era neppure certa di essere un essere umano.
«Tu sei un bravo poliziotto» disse Jeffrey. Lei annuì, appoggiò la testa contro la mano e guardò dal finestrino perché lui non la vedesse in viso. Si sentì serrare la gola e lottò per non piangere. Non sopportava di mostrarsi fragile, ma bastò il pensiero di scoppiare in lacrime di fronte al capo a impedirle di singhiozzare come una ragazzina. «Ne riparleremo quando avremo chiuso il caso.» Il tono era rassicurante ma non servì a incoraggiarla. «Io ti voglio aiutare, Lena, ma non lo posso fare se tu non vuoi farti aiutare.» Le parve di risentire i discorsetti stile Anonima Alcolisti che le propinava Hank. Si schiarì la voce e disse: «Hai ragione», senza staccare gli occhi dal finestrino. Jeffrey continuò a guidare in silenzio e lei riaprì bocca solo quando si rese conto che non aveva deviato in direzione della città e della centrale. «Dove stiamo andando?» «A casa di Dottie Weaver. Non è venuta e ritirare la salma di Jenny all'obitorio.» «Sono già alcuni giorni ormai.» Si asciugò di nascosto gli occhi con un gesto rapido della mano. «Credi che le sia capitato qualcosa?» «Non lo so» rispose Jeffrey muovendo nervosamente la mascella. «Credi che abbia fatto qualche sciocchezza? Come Mark?» Lui fece solo un cenno col capo e lei non insistette. Puntò il dito in fondo alla strada. «Randolph Street è laggiù, vero?» «Sì» confermò Lena e Jeffrey imboccò la strada. Le case non erano molte, quasi tutte arretrate dalla strada e separate l'una dall'altra da un buon tratto di terreno. Era una delle zone più vecchie di Grant, edificata prima che gli speculatori cominciassero ad ammucchiare le case una sull'altra. Jeffrey si fermò di fronte a una cassetta delle lettere aperta e intasata di posta. «Ci siamo» disse. Imboccò il viale alberato. Probabilmente notò per terra le quattro copie del «Grant Observer» ancora avvolte nel cellophane, ma non disse nulla. Dalla strada, casa Weaver rimaneva quasi nascosta tra gli alberi e solo dopo qualche secondo apparve per intero la costruzione in stile ranch. Saltava all'occhio che il secondo piano era stato aggiunto in seguito perché non armonizzava col piano terra. «Vedi una macchina?» domandò Jeffrey fermandosi di fronte al garage aperto.
Lena si guardò in giro chiedendosi perché lo domandasse a lei quando la risposta era ovvia. «No.» Smontarono e lei fece un giro intorno alla casa per controllare tutte le finestre del piano terra. Alcune avevano le imposte chiuse, altre le tende tirate, e non riuscì a vedere nulla dell'interno. C'era una porta che probabilmente portava in cantina, ma era chiusa con il lucchetto. Le finestrelle attorno alle fondamenta erano state verniciate di nero dall'interno. Quando ritornò sul fronte della casa Jeffrey stava bussando alla porta. «Signora Weaver?» Lena si fermò sui gradini del portico e si asciugò col braccio la fronte sudata. «Non sono riuscita a vedere niente. Tutte le tende erano tirate.» Gli riferì della porta della cantina e delle finestrelle oscurate. Jeffrey passò lo sguardo sul giardino e lei capì che era inquieto. Da qualche giorno Dottie Weaver non ritirava i giornali e la posta. Era divorziata e sua figlia era appena stata uccisa. Forse era arrivata alla conclusione che non valesse più la pena di vivere. «Hai controllato le finestre?» domandò Jeffrey. «Sono tutte bloccate con la sicura.» «Anche quella con i vetri rotti?» Lena capì all'istante. In qualità di tutori della legge avevano bisogno di un motivo valido per entrare in casa senza un mandato. Un cattivo presentimento non era sufficiente. Ma un vetro rotto sì. «Intendi dire quella del seminterrato?» Jeffrey annuì alzando il mento. «E se parte l'allarme?» «Chiamiamo la polizia.» Ridiscese i gradini e scomparve verso il retro. Lena apprezzò il gesto. In questo modo Jeffrey si assumeva tutta la responsabilità dell'effrazione. Si appoggiò alla ringhiera del portico e aspettò di sentire il rumore dei vetri rotti. Arrivò dopo circa un minuto e altri ne passarono senza che Jeffrey si facesse vivo. Stava per andare a controllare quando udì i suoi passi all'interno. Comparve sulla soglia, con un mano sulla maniglia e l'altra che stringeva un impermeabile giallo. «È quello di Lacey?» domandò Lena prendendolo. La taglia corrispondeva, ma l'etichetta all'interno fugò ogni dubbio. Qualcuno aveva ricamato il nome della bambina, nel caso l'impermeabile andasse perduto. «Gesù» mormorò e guardò Jeffrey negli occhi. Lui fece segno che no, in casa non aveva trovato la bambina.
Jeffrey si fece da parte per farla entrare. Fu investita da una ondata di calore. Inaspettatamente, la temperatura all'interno era più alta che fuori. La prima stanza era spaziosa, probabilmente adibita a soggiorno, anche se non era facile stabilirlo data l'assenza totale di mobili. Perfino la moquette era stata strappata dal pavimento e lungo il perimetro le viti di fissaggio spuntavano come denti. «Che diavolo...?» disse Lena avanzando nella stanza. Notò che Jeffrey aveva estratto la pistola e la teneva puntata a terra. Lo imitò subito, dandosi della stupida per non averlo fatto prima. Era rimasta così sorpresa di vedere l'impermeabile di Lacey e la stanza spoglia, che non aveva pensato alla possibilità che qualcuno si trovasse ancora in casa. Con tutto il rumore che avevano fatto, se qualcuno si trovava ancora lì, non poteva non averli sentiti. Jeffrey le fece cenno di seguirlo nella cucina, che trovarono nelle stesse condizioni del soggiorno. Tutti gli sportelli erano aperti e mostravano i ripiani vuoti. Lena passò in sala da pranzo, nel tinello e nel piccolo office. Erano tutti vuoti, tutti privi di moquette. Regnava dappertutto un'atmosfera sinistra e lei cercò di immaginare cosa aveva pensato Jeffrey trovando l'impermeabile giallo. Lacey era stata lì. Forse era ancora lì. Forse solamente il suo corpo. «Cos'è questo odore?» bisbigliò Jeffrey. Lena annusò l'aria e riconobbe un odore di vernice insieme a qualcosa di più forte. «Vernice» rispose in un sussurro. «E qualcosa che non riesco a individuare.» «Le foto che hai scattato a Mark al momento dell'arresto. Aveva i vestiti macchiati di vernice, vero?» Lena annuì, si guardò intorno e uscì sul corridoio. «Sei già stato di sopra?» domandò e in quel momento udì battere in cima alle scale. Alzarono le pistole simultaneamente e Lena cominciò a salire, addossata alla parete e con la pistola puntata al soffitto. Notò che anche dalle scale era stata eliminata la moquette. Aveva tutti i muscoli in tensione e il corpo caldo di adrenalina. Arrivata in cima si fermò e sbirciò in fondo al corridoio. Alla sua sinistra c'era la parete, con un piccola finestra in alto che aveva notato anche da fuori. Era socchiusa e a terra si erano radunate delle foglie ingiallite. Dall'asta pendevano delle tende nere e sul bordo inferiore erano cuciti dei pesi. L'intonaco era segnato nei punti in cui battevano i pesi e l'orlo delle tende era schizzato di vernice bianca. Lena le indicò a Jeffrey pensando che il
rumore che avevano sentito potesse provenire da lì. Lui alzò le spalle come a dire "può darsi, non ne sono sicuro". Lena cominciò a percorrere il corridoio, ma Jeffrey passò avanti soffermandosi a guardare in tutte le porte aperte. Il bagno e due camere da letto avevano subito lo stesso trattamento del piano inferiore. Lena gli stava dietro domandandosi se di fronte a ogni stanza vuota lui non sentisse una morsa allo stomaco all'idea di trovarci Lacey. Quando lo vide fermarsi in fondo, di fronte all'unica porta chiusa, fu assalita dalla sensazione sinistra che aveva provato di fronte alla porta chiusa di Mark. Jeffrey aveva impugnato la pistola con entrambe le mani e non si muoveva. Lena fu sul punto di prendere l'iniziativa, ma qualcosa nell'espressione che gli lesse in viso la fermò. Era intimorito da quello che avrebbe potuto trovare? Lei lo era. Lo osservò accostare l'orecchio alla porta, come se avesse sentito qualcosa. «Che cosa?» gli domandò sillabando le parole a labbra mute. Lui scosse la testa, come per dire che ci stava pensando. Lena si avvicinò, tenne la spalla contro lo stipite e aspettò che prendesse una decisione. Era tutta sudata e pregò che si sbrigasse perché l'incertezza le stava togliendo le forze. Finalmente Jeffrey le fece segno di tirarsi un po' indietro, poi ancora di più. Continuò a farle cenno con la mano per allontanarla, fino a che lei non raggiunse le scale. Quando lei si rifugiò sul penultimo gradino e allungò il collo per poterlo vedere, parve soddisfatto. Alzò il piede per dare un calcio alla porta e Lena si tese, pronta a intervenire. Una frazione di secondo dopo un lampo di luce abbagliante la paralizzò, la porta si catapultò all'indietro come un proiettile e scaraventò Jeffrey nel corridoio. Seguì un boato, Lena si rannicchiò d'istinto sulle scale e una palla di fuoco attraversò il corridoio. «Gesù» mormorò, coprendosi con le braccia. Aspettò che il calore l'avvolgesse, immaginò le fiamme che la divoravano viva, ma non accadde nulla. Si tirò su e sbirciò nel corridoio. Jeffrey era intrappolato sotto la porta, ma si muoveva. La parte superiore della porta era bruciacchiata, con la vernice ridotta a bolle nere. Le pareti si erano annerite, ma non c'era traccia di fuoco. Il calore doveva essere stato così intenso da produrre una sorta di autocombustione. Udì un crepitio alla sua sinistra e si voltò si scatto. Le tende nere erano in fiamme. Si levò il giubbotto e le colpì con quello fino che non caddero
dall'asta, poi le pestò con i piedi fino a soffocare l'ultima fiammella. Intanto Jeffrey si era liberato della porta. «Che diavolo è successo?» domandò toccandosi la faccia e il corpo per capire se si era ustionato. Era miracolosamente illeso. La porta aveva fatto da scudo contro l'esplosione. «Non ne ho idea» rispose Lena. Buttò via il giubbotto e lo raggiunse per aiutarlo a rialzarsi. «Avevo sentito uno strano odore fuori dalla porta.» Si rimise in piedi appoggiandosi di peso alla sua spalla. «Odore di che?» «Benzina, credo, ma non ne sono sicuro. Era confuso con quello di vernice.» Si ripulì i pantaloni con le mani in un gesto automatico, poi entrambi si guardarono le scarpe. Il calore aveva deformato le suole. «Maledizione» borbottò Jeffrey. «Le avevo solo da una settimana.» Lena lo guardò stupefatta. Aveva battuto la testa? «Ti senti bene?» le domandò lui levandosi qualcosa dalla spalla. «Io sì.» Era la verità e il merito era di Jeffrey che l'aveva mandata sulle scale. «È spento?» Indicò quel che rimaneva delle tende. La violenza dell'esplosione aveva mandato i vetri in frantumi e spaccato il telaio della finestra. Sul muro c'erano sbaffi neri lasciati dalle tende in fiamme. «Credo di sì» disse Lena. Buttò indietro i capelli e le punte incenerite si sollevarono come polvere. Jeffrey tornò in fondo al corridoio e si fermò all'entrata della stanza, dubbioso, in cerca di un secondo congegno. Alla fine entrò e si guardò in giro. «C'era un comando sopra la porta.» Lena trovò invidiabile la sua capacità di ragionare a mente fredda. Solo un minuto prima aveva rischiato di morire. Indicò sopra lo stipite: «C'è un cavo che corre...» seguì il percorso con lo sguardo girandosi lentamente «...fino a là». In un angolo erano allineate tre taniche di benzina. Sopra c'era un asciugamano da bagno bruciacchiato e qualcosa che doveva essere stata una radio sveglia. La plastica era esplosa ed era ridotta a un groviglio di fili elettrici. Le pareti e il soffitto erano anneriti e le stecche di plastica delle tapparelle si erano fuse, ma stranamente nulla si era incendiato. Lena osservò il congegno molto rudimentale. Le taniche di zinco erano sigillate e non sembravano collegate con la radio sveglia. Toccò l'asciugamano, poi l'annusò. Chiunque avesse predisposto la bomba non aveva nep-
pure inzuppato il tessuto di benzina per farlo incendiare. «Che idea assurda» disse. «Già. Ma allora che cosa è esploso?» domandò Jeffrey. «Non ne ho idea» disse guardandosi in giro. Solo allora notò che quella era l'unica stanza della casa ancora arredata. C'era la moquette e alle pareti erano appesi manifesti di cantanti rock. L'arredo era quello tipico di una camera da bambina, con mobili bianchi in midollino, scaffali pieni di animali di peluche e pareti dipinte di rosa. Contro la parete di fronte alla porta era sistemato un letto con un copriletto rosa. La stoffa sembrava rigida, come se si fosse inzuppata e poi asciugata al calore. Lena la toccò e si annusò le dita. «Benzina.» Anche Jeffrey stava ispezionando la stanza. «Devono avere inzuppato tutto quanto di benzina. Le finestre erano ben chiuse. Forse la benzina era evaporata e, quando il congegno sulla porta ha fatto scattare la radio sveglia, il vapore ha preso fuoco.» Andò a guardare in corridoio. «Il fuoco ha bisogno di ossigeno per bruciare. Forse la finestra aperta laggiù l'ha aspirato fuori.» «È l'impressione che ho avuto guardando dalle scale» disse Lena. «Gli artificieri ci daranno una risposta.» «Giusto.» Jeffrey tirò fuori il cellulare e fece due telefonate. La prima a Frank, alla centrale, perché mandasse gli artificieri, la seconda a Nick Shelton, al centro investigativo della Georgia. Gli chiese l'invio di una squadra della scientifica perché passasse al setaccio l'intero edificio. «Ci rimane del tempo prima che arrivino» disse chiudendo il telefono. «Che bellezza» borbottò Lena. Fra il caldo e i vapori che ristagnavano nella casa, potevano asfissiare con comodo prima che qualcuno si facesse vivo. «Come mai non ha svuotato anche questa stanza?» domandò Jeffrey. Lena alzò le spalle. «Forse non se la sentiva, dopo la morte di Jenny.» «Può darsi.» Si stropicciò gli occhi. «Ma perché prendersi la briga di svuotare la casa, se pensava di farla saltare in aria?» «Gli artificieri hanno una risposta per tutto» disse Lena. «Si vede che non guardi mai Educational Channel.» «Si direbbe che la odiasse» insistette Jeffrey. «Posso capire che non abbia svuotato la stanza, ma queste...» Indicò le taniche. «Non ha senso.» Lena pensò a Mark, forse era stato lui a fare in modo che la bomba non esplodesse.
«Chi sarà stato?» continuò Jeffrey senza darsi per vinto. «Grace? Dottie? Mark? Questa storia non sta in piedi.» Per tenersi occupata Lena ricominciò a guardarsi in giro. Sulla cassettiera erano sparpagliate delle figurine, accanto a un astuccio da trucco che poteva appartenere solo a una bambina. «Forse voleva eliminare ogni ricordo di Jenny» suggerì. Le salì in gola un sapore amaro. «La bomba si sarebbe portata via tutto.» «Forse Dottie è stata rapita» azzardò Jeffrey. «E da chi?» obiettò Lena. «Non toma. E se l'hanno rapita, come mai l'impermeabile di Lacey è finito qui? Stai dicendo che chi ha rapito Lacey si è portato via anche Dottie? E poi ha sprecato tempo a svuotare la casa?» «Tu pensi che sia stata Dottie a piazzare la bomba?» Lena rispose con un'alzata di spalle, ma in cuor suo era convinta che fosse stato Mark. La vernice sui vestiti, l'odore di sostanze chimiche che aveva addosso, tutto induceva a pensare che negli ultimi giorni fosse per lo meno stato in quella casa. A fare che, non si poteva indovinare. Jeffrey stava pensando più o meno le stesse cose. «Mark aveva gli indumenti macchiati di vernice. Possiamo chiedere al laboratorio un confronto con quella alle pareti.» «Sembra fresca» aggiunse Lena senza partecipazione. «Cosa può aver spinto Dottie Weaver a ripulire tutta la casa? Perché è scomparsa senza neppure seppellire sua figlia?» Lena pensò di nuovo che avesse battuto la testa. Continuava a ripetere le stesse domande, come se lei potesse fornire una risposta. Stava per chiedergli se voleva sedersi, quando lui si voltò e prese a fissare il letto come se il mobile potesse parlare. Dopo qualche secondo sollevò il materasso col piede. «Cos'hai trovato?» domandò Lena incuriosita. Sollevando il materasso Jeffrey aveva messo in mostra una ventina di riviste sparpagliate sulla rete. Tutte avevano in copertina dei bambini in posizioni che un bambino non dovrebbe neppure immaginare. Tutte avevano lo stesso titolo, Amore per i piccoli, con le due O a forma di cuore, identiche a quelle disegnate sui tatuaggi. Lena si appoggiò alla parete per non perdere l'equilibrio. «Ti senti bene?» domandò Jeffrey. L'afferrò per il braccio per paura che svenisse. «I cuori.» «Sono come quello che Mark ha sulla mano.» Rovistò fra le riviste e
borbottò: «Io sotto il materasso ci nascondevo le belle donne». «Perché Mark se l'è fatto fare? Perché proprio quel disegno sulla mano?» domandò Lena. Sembrava che parlasse da sola. «Forse è un modo per far sapere che gli piacciono le bambine piccole. Forse è così che quei tipi si riconoscono tra loro» ipotizzò Jeffrey. Prese in mano una rivista, la sfogliò in fretta e passò a un'altra. Si fermò su una pagina. La mascella si era contratta. «Cosa c'è?» domandò Lena sbirciando da sopra la sua spalla. C'era una fotografia di Mark, probabilmente scattata qualche anno prima. Occupava le due pagine centrali. Lena scelse a caso un'altra rivista e continuò a sfogliare fino a che non trovò un'altra foto di Mark. Questa volta era con Jenny e facevano cose che lei non avrebbe saputo neppure descrivere. E come se non bastasse, più avanti ne trovò altre con Mark in compagnia di donne e uomini adulti. I volti degli adulti non erano inquadrati, ma Mark compariva dalla testa ai piedi. Aveva un'espressione così smarrita che Lena si sentì salire le lacrime agli occhi. L'evidenza di quello che aveva fatto Mark, o meglio, di quello che gli avevano fatto fare, la ferì più di quanto potesse ammettere. Finalmente capì perché il ragazzo voleva sapere cosa si provava ad essere violentate. Voleva confrontare le sensazioni. Jeffrey cominciò a raccogliere le riviste. «La stampa non è sofisticata. È un lavoro che si può realizzare con una comune stampatrice» disse in tono apatico. «È probabile» disse Lena. «Cristo!» Qualcosa sulla copertina della rivista che teneva in mano aveva attirato la sua attenzione. «Questo stronzo ha al dito la fede nuziale.» Poi con la voce incrinata dalla rabbia: «E questa è Jenny». Lena volle vedere. Un uomo teneva saldamente la mano sulla nuca di Jenny Waeaver nell'atto di guidarle la testa verso il basso. L'anello d'oro che aveva al dito aveva catturato il baluginio del flash. Forse era stato fatto ad arte, per solleticare la fantasia dei lettori con l'idea di un padre di famiglia che faceva sesso con delle bambine. «È disgustoso» disse. «Qui compare lo stesso anello» Jeffrey si era messo a sfogliare le pagine interne, ma senza mostrarle a Lena. «E anche qui.» «Sei sicuro che sia sempre lo stesso...» «Lurido bastardo!» Arrotolò la rivista e la scagliò contro il muro. «Che cazzo sta succedendo?» gridò. Lena gli vide pulsare la vena sul collo.
«Quanti bambini avranno coinvolto in questa storia?» Poi a voce più bassa, ma ancora incrinata dalla rabbia aggiunse: «Riesci a riconoscere qualcun altro di questi bambini?». Lena prese una rivista, ma lui gliela strappò di mano. «No, non voglio che guardi questa merda. Ci penseranno i ragazzi di Nick.» Si premette la mano sulla fronte: sentiva il mal di testa arrivare. «Quanti bambini avranno coinvolto?» ripeté. «Quanti bambini?» Prese di nuovo il telefono. «Voglio che Nick venga qui a vedere questa roba. Voglio che tu vada all'ospedale, cerca di tirar fuori qualcosa da Grace Patterson.» Lena lo guardò senza capire. «È legata a Mark, e anche a Jenny. Deve per forza sapere qualcosa» spiegò. «Lo farei io stesso, ma rischierei di strangolarla.» Serrò d'impulso le dita sul telefono, tanto che le nocche sbiancarono. Compose il numero. «C'è la segreteria» aspettò qualche secondo. «Nick, sono Jeff Tolliver. Chiamami non appena possibile. Abbiamo delle novità sul caso Lacey Patterson.» Chiuse la comunicazione. «Adesso voglio vedere se non ci danno la priorità.» Lena annuì. Non l'aveva mai visto così furioso, neppure con lei. Jeffrey fece un altro numero. Mentre aspettava che qualcuno prendesse la linea diede istruzioni a Lena: «Voglio che sbatti in faccia a Grace tutto quello che sai. Voglio che le racconti tutto quello che ti ha detto Mark e voglio che scopri che cazzo di storia è questa». «Credi che dirà qualcosa?» «Le hanno rapito la figlia» le ricordò Jeffrey. «E abbiamo trovato qui il suo impermeabile.» Lei si guardò le mani. «Visto quello che ha fatto a Mark, credi che gliene importi qualcosa?» Jeffrey chiuse il telefono e la guardò negli occhi. «Se devo dirti la verità, Lena, non so più che cosa pensare di chiunque abbia a che fare con questa storia.» Stava per riaprire il telefono quando squillò. Prima di rispondere passò a Lena le chiavi della macchina, indicò la porta e le disse: «Vai». GIOVEDÌ 15
Jeffrey si sentiva come si può sentire qualcuno scaraventato lungo un corridoio sotto il peso di una porta di legno. Aveva le braccia doloranti e faticava a piegare le gambe. Il lavoro a casa Weaver si era portato via tutta la giornata e la sera. All'una di notte aveva azzardato una telefonata a Sara e lei lo aveva subito invitato a casa. Il fatto che fossero ritornati insieme con tanta facilità, da un lato lo intimoriva, temeva che da un momento all'altro arrivasse il colpo fatidico, che Sara gli annunciasse che si era sbagliata e non se la sentiva più di continuare. Dall'altro, era così felice di essere rientrato nella sua vita, che non voleva più rinunciare a un solo minuto con lei. E adesso era lì, insieme a lei nella vasca da bagno, a parlare di quello che era forse il caso più orribile che gli fosse capitato, e si sentiva finalmente a casa. Guardò Sara che sorseggiava il suo vino riflettendo su quello che le aveva appena raccontato. Jeffrey aveva quasi scordato che paradiso fosse quella vasca con i piedi di leone. Lunga un metro e ottanta e con i rubinetti al centro, sembrava fatta apposta per due. Ci avevano passato metà del loro matrimonio. Sara appoggiò il bicchiere sul ginocchio. «Dov'è Lena adesso?» «All'ospedale. Dalla Patterson. È ancora viva.» «Dice qualcosa?» «No. È ancora abbastanza lucida, ma la tengono sotto morfina per alleviarle il dolore.» «Il cancro al seno è una delle morti più dolorose.» «Meglio.» Allungò il braccio e prese il suo bicchiere. Dato il fulgido esempio dei suoi genitori, Jeffrey era praticamente astemio, ma dopo una giornata come quella sentiva il bisogno di allentare in qualche modo la tensione. Prima di cominciare a parlare con Sara era frastornato, incapace di concentrarsi su una cosa alla volta come avrebbe dovuto fare. L'indagine si riduceva a spezzoni separati, con troppi interrogativi ancora irrisolti ma, stranamente, l'alcol lo stava aiutando a metterli a fuoco. «Credi davvero che Grace Patterson rilascerà una confessione sul letto di morte?» domandò Sara. «Non proprio, ma non si sa mai...» si interruppe per calibrare le parole. «Lena si è fatta una certa idea su Mark.» «Che idea?» «Continua a insistere che è stato violentato.» «È infatti è così» disse lei quasi stupita. «Tu cosa credi, che abbia posato
di sua spontanea volontà per quelle foto? Che abbia sedotto sua madre?» «Certo che no» si difese. «Quella che davvero mi preoccupa, a questo punto è Lena.» «Sta facendo del suo meglio» gli fece notare Sara. «Dalle solo un po' di tempo.» «Con lei non posso rischiare, Sara.» Si stropicciò gli occhi e annusò la mano che puzzava ancora di benzina nonostante l'avesse abbondantemente strofinata col sapone. «È sull'orlo del precipizio. E io non voglio fare le parte di quello che sta a guardare mentre lei precipita. Non me lo perdonerei per il resto della vita.» «Ha bisogno di tempo per superare quello che ha passato. Ammesso che riesca a superarlo del tutto.» «Non vuole parlarne con nessuno.» «E tu non puoi costringerla a farlo. Ne parlerà quando si sentirà pronta.» Jeffrey guardò dentro il bicchiere senza rispondere. Sara capì che voleva passare ad altro. «Perché non cambiamo argomento?» «D'accordo.» Lei fece il riassunto di tutto quello che sapevano, spuntando sulle dita ogni punto assodato. «Mark e Jenny posavano per la rivista in casa di Dottie. Grace Patterson aveva rapporti con suo figlio.» «Esatto.» «Cosa sai di Teddy Patterson?» «Potrebbe essere un anello di congiunzione. Fa il camionista, forse distribuisce in giro le riviste.» «Adesso dove si trova?» «All'ospedale o nella roulotte. Frank lo pedina.» Prese un sorso salutare dal suo bicchiere. «Non sembra particolarmente preoccupato che suo figlio possa ridursi a un vegetale e sua figlia sia stata rapita.» «Che cosa fa?» «Più che altro sta con sua moglie.» «Forse ha deciso di affrontare una cosa alla volta» suggerì Sara. «Sua moglie sta morendo e lui le sta vicino. Lì almeno può sentirsi utile, sempre meglio che stare ad aspettare e farsi rodere dal senso di impotenza.» «Quello non sa neppure cosa sia il senso di impotenza, te l'assicuro.» «Pensi che farà qualcosa?»
«Penso che appena muore sua moglie lascerà la città. Ho parlato con Nick Shelton. Ci siamo fatti l'idea che Teddy possa essere il contatto col suo uomo di Augusta.» «L'uomo che Nick ha arrestato e che aveva il materiale pornografico?» Rispose con un cenno di assenso, in dubbio se raccontare a Sara anche il resto. Decise di essere franco con lei. «L'incontro è fissato per domani a mezzogiorno.» «Quale incontro?» Jeffrey capì che si stava preoccupando. «L'uomo di Nick, il distributore di pornografia, ha ricevuto una telefonata da un telefono pubblico. All'altro capo del filo parlava una voce maschile.» Si interruppe per valutare la reazione di Sara. «Non ho riconosciuto la voce, ma l'incontro è fissato all'albergo di Augusta per il passaggio del materiale.» «Mi stai dicendo che ci sarai anche tu?» «Per forza. Mi stai dicendo che la cosa ti preoccupa?» Sara sospirò. «Mi ricordo quando eravamo sposati. Provavo un tuffo al cuore ogni volta che squillava il telefono, se non sapevo con precisione dov'eri.» Lui bevve dell'altro vino, impensierito. «Non me lo avevi mai detto.» «È vero, non te l'avevo mai detto.» Decise anche questa volta di cambiare argomento. «Dunque, ricapitoliamo. Dottie e Grace fanno le riviste, Teddy Patterson si occupa delle consegne e l'uomo di Nick della distribuzione?» «Più o meno» confermò Jeffrey. «Probabilmente Patterson ha dei punti di consegna in tutto il territorio del sud-est. Come lo arrestiamo, Nick chiederà la sua scheda al ministero dei trasporti.» «Perché non prima?» «Qualcuno potrebbe avvisarlo. E poi, Frank gli sta alle calcagna. Per adesso non può fare nulla.» «Perché arrestarlo subito? Non sarebbe meglio seguirlo tappa dopo tappa e beccare anche i distributori?» «Nick dice che hanno una rete telefonica. Se uno di loro non dà l'okay al successivo, interrompono la catena. Ingegnoso.» «E secondo te nessuno di loro sa dove si trova Lacey?» «È presto per dirlo.» «Da quanto tempo il centro investigativo di Nick lavora su questa rete?» «Anni. Non riuscivano a scoprire chi organizzava la stampa.» «Ed è qui che interviene Dottie?»
Jeffrey alzò le spalle, perché a quel punto non c'era nulla di certo. «Possiamo solo augurarci che quella donna non faccia parte di una rete organizzata. Significherebbe che ha un posto sicuro in cui nascondersi, che ha contatti con un sacco di gente sparsa in tutto il mondo e pronta ad aiutarla, perché è lei la loro fonte d'alimentazione.» Sentì di nuovo montare dentro la rabbia e trasse un respiro profondo per calmarsi. Visto che non funzionava, decise per un altro sorso di vino. «Tu sai che si scambiano i bambini» disse Sara cercando di non accalorarsi. «Lacey potrebbe già essere in Germania o in Canada.» Si fermò, presa da un'altra idea, e a questo punto l'ansia alterò la voce. «Forse, invece, Dottie sta abusando di lei. Potrebbe tenerla nascosta da qualche parte, per fare Dio sa che cosa.» Lui si stropicciò gli occhi come per allontanare l'idea. «Com'è possibile che una donna, una madre, arrivi a fare certe cose a un bambino?» «In base alla mia esperienza» cominciò Sara, «posso dirti che le donne che abusano dei bambini sono molto più sadiche degli uomini. Credo dipenda dal fatto che si sentono più al sicuro. Sanno che nessuno oserebbe immaginare che possano far del male a dei piccoli.» Poi aggiunse: «Ed è ancora peggio quando l'oggetto dei loro abusi è un maschio. Lasciamo perdere l'incesto, per il momento. Un ragazzino che fa sesso con una donna che ha il doppio della sua età riceve una pacca sulla spalla. Una bambina che fa la stessa cosa è considerata una vittima. C'è una grande disparità». «Io non sospettavo neanche lontanamente della madre» confessò Jeffrey. «E perché avresti dovuto? Non ne avevi motivo.» «Ma di Teddy Patterson ho sospettato subito.» Sara si tirò su per appoggiarsi meglio e lo lasciò parlare. «La scientifica è ancora a casa Weaver» spiegò Jeffrey «ma ha già rilevato dell'inchiostro da stampa nel seminterrato.» «Per le riviste?» lo interruppe lei. «Pensavo ci volessero macchinari sofisticati.» «Diciamo che la qualità non è l'obiettivo prioritario.» Bevve dell'altro vino. «Ogni articolo spiega come trovare il bambino più adatto.» Sara strinse le labbra. «Ti assicuro, Sara, vorrei non aver mai visto quella roba.» Lei gli accarezzò la coscia col piede. «Avete scoperto dove hanno buttato la moquette?» «All'alba Brad e Frank andranno alla discarica. Da quello che hanno potuto rilevare sui pavimenti, la moquette dovrebbe essere impregnata di
fluidi.» «Fluidi organici?» domandò allibita. «Sono passati attraverso?» Jeffrey si limitò ad annuire per evitare i particolari. «Nel seminterrato c'è anche un locale che probabilmente serviva come camera oscura.» Posò il bicchiere sul bordo della vasca. «La casa veniva utilizzata sia per scattare le foto, sia per stampare le riviste.» «L'esplosione avrebbe distrutto ogni prova.» «Proprio così. Continuo a non capire come mai non ha svuotato anche la stanza di Jenny.» «Della stanza di Jenny non le serviva nulla, probabilmente.» «Potrebbe essere.» «Hai trovato delle prove anche lì?» «Nulla. Forse la benzina ha cancellato le tracce di sperma. Non so come funzioni.» «Ma non c'era altro.» «No. Nessuna delle foto è stata scattata lì dentro. Può darsi che fosse l'unica stanza della casa rimasta indenne.» Si stropicciò gli occhi. Era stanchissimo. «Non riesco a credere che sia potuto succedere in città, senza che nessuno si accorgesse di nulla.» Sara prese la bottiglia di vino e gli riempì il bicchiere. «Ti ricordi cosa mi ha detto Dottie? Mi ha domandato se avevo "aperto" Jenny. Credi che alludesse alla castrazione?» Jeffrey ci pensò per un attimo. «Forse.» «Continuo a ripassarmi nella mente quell'interrogatorio e, ogni volta che arrivo a quel punto, rivedo Dottie che cambia espressione. Capisci cosa voglio dire? Come se fosse sollevata.» «Capisco» disse. Ma Jeffrey non riusciva a ricordare, l'interrogatorio gli sembrava lontano una vita. Sara disse: «Ho chiamato l'ospedale. Mark non ha ancora ripreso conoscenza». «Hanno fatto una prognosi?» «Non è facile, quando si tratta di lesioni cerebrali. Il cervello ha degli edemi. Fino a che non si riassorbono, non possono stabilire l'entità delle lesioni. Più tempo ci vuole e peggio sarà.» «Ha qualche possibilità di ritornare normale?» Lei scosse la testa. «No...» Si trattenne, pensando alle possibili conseguenze. «Non sarà più come prima. Sempre che si risvegli.» «Una vita rubata.»
Sara terminò di bere il suo vino e posò il bicchiere sul pavimento. «Secondo te Teddy Patterson l'aveva picchiato, prima che arrivasse da me alla clinica?» Jeffrey aveva scordato quel dettaglio. «È possibile. Ma come la metti con Lacey? Perché la inseguiva?» «Forse aveva minacciato di dire tutto.» «Non abbiamo trovato neanche una fotografia di Lacey. In ogni modo, non credi che Teddy Patterson sarebbe intervenuto?» «Non lo escludo» disse Sara. «Forse c'era lui nella Thunderbird nera.» «Credo che in quel momento fosse all'ospedale» si ricordò Jeffrey. «Chiederò conferma a Frank, ma sono quasi sicuro.» «Se Lacey è la madre del bambino, chi è il padre secondo te?» «Non lo so» disse quasi annoiato. Gli sembrava che in quella storia nulla avesse senso. Si coprì gli occhi con la mano. Pensò che da qualche tempo tutti i casi che gli capitavano addosso avevano dei risvolti oscuri di cui non riusciva a darsi ragione. Rimpianse i banali ricatti per questioni di soldi e i delitti passionali. Avrebbe accettato di buon grado qualsiasi cosa, pur di non avere a che fare con dei bambini in pericolo. Sara dovette intuire la sua angoscia perché scivolò sull'altro lato della vasca e posò la testa sul suo petto. «Puzzi ancora di bruciato.» «A volte capita, con un'esplosione.» Gli passò le dita sul petto, ma più per ricordargli che era lì con lei, che per eccitarlo. Si arrotolò intorno al dito un ricciolo dei suoi peli e disse: «Promettimi che domani sarai prudente». «Io sono sempre prudente.» Si sollevò per guardarlo negli occhi. «Più prudente del solito» disse. «Fallo per me, d'accordo?» «D'accordo.» Le spostò i capelli dietro l'orecchio. «Che cosa ci succede, Sara?» «Non lo so.» «Di qualunque cosa si tratti, è molto gradevole.» Lei sorrise e gli passò un dito sulle labbra. «Hai ragione.» Jeffrey stava per dire qualcosa, ma il suo cellulare squillò e ruppe l'incantesimo. «Sono le due del mattino» ringhiò, come se facesse qualche differenza. Il telefono era appoggiato sopra il coperchio del water, lo prese Sara e glielo passò. «Che sia Nick?»
Lui controllò sul visore. «È la centrale.» Paul Jennings era un uomo alto e abbastanza massiccio, con una barba nera che accentuava la faccia tonda. La camicia bianca a maniche lunghe che aveva addosso era sgualcita, come lo erano i pantaloni in tessuto sintetico. Jeffrey lo guardò e pensò che aveva l'aria di un insegnante di matematica del liceo, forse per l'espressione ansiosa che gli si leggeva in viso. «Grazie per essere venuto» disse. «Non avrei dovuto chiamarla a quest'ora, ma non riuscivo a dormire. Avevo un presentimento.» «Si accomodi» disse Jeffrey aprendo la porta del suo ufficio. «Sto facendo un tentativo alla cieca. Ma ho avuto questo presentimento» ripeté. «Ho preso il primo volo disponibile.» «Mi deve scusare se non l'ho richiamata» disse Jeffrey. «La mia segretaria aveva capito che voleva venderci qualcosa.» «Lavoro per una ditta di materiali in vinile, su a Newark» spiegò Paul. «Forse non mi sono spiegato bene, quando ho chiamato.» Si interruppe. «Sono ormai molti anni che cerco mia figlia e sono andato incontro a tante delusioni.» Agitò la mano. «Quasi non riuscivo a credere che fosse qui, dopo tutto questo tempo.» «Capisco» disse Jeffrey, anche se non poteva neppure immaginare quanto aveva sofferto quell'uomo negli ultimi dieci anni. «Gradisce del caffè?» «No, no. La ringrazio.» Si mise seduto. Jeffrey prese posto dall'altra parte della scrivania. Sapeva chi era quell'uomo e che cosa doveva dirgli, e sentiva il bisogno di mantenere una certa distanza, come se gli servisse più aria. «Questa è una fotografia di Wendy a tre anni.» Paul gli mostrò la fotografia di una bambina sorridente. Era evidente che si trattava di Jenny Weaver da piccola. «È stata fatta poco prima che sparisse?» domandò Jeffrey restituendola. L'uomo annuì e gliene porse un'altra. «Poco tempo dopo, Wanda me la portò via.» A Jeffrey bastò un'occhiata per riconoscere in Wanda Jennings la persona che lui aveva conosciuto come Dottie Weaver. Gli restituì anche quella e vide che Paul la infilava sotto la prima per non avere sotto gli occhi l'immagine della moglie. Jeffrey domandò: «Mi può dire quando sua moglie e sua figlia sono scomparse?». Paul si agitò sulla sedia. «Vivevamo in Canada, io frequentavo la scuola
di specializzazione. Allora avevo altri progetti, non immaginavo di finire a vendere rivestimenti in vinile. Ma quando mi hanno portato via Wendy...» Si interruppe e sorrise tristemente. «Wanda lavorava come infermiera all'ospedale. Era stata assunta da circa cinque mesi, quando cominciarono a circolare delle voci.» «Quali voci?» «Lavorava nel reparto maternità e cominciò a circolare la voce che qualcosa non andava. Che succedevano delle cose.» Sospirò. «Io naturalmente non ci credevo. Eravamo sposati da tre anni. Amavo mia moglie. Non avrei mai immaginato che la mia compagna potesse... E poi di solito le donne non fanno quelle cose, non è vero?» Jeffrey rimase zitto. Sapevano entrambi qual era la risposta. «A un certo punto» continuò Paul «l'hanno messa in congedo temporaneo e hanno incominciato a indagare. I neonati ovviamente non potevano dire nulla, ma si diceva che ci fossero evidenze di maltrattamenti. Io continuai a non credere a quello che diceva la gente, finché un giorno due poliziotti bussarono alla mia porta. Mi volevano parlare.» «Sua moglie era in casa?» «Era andata al supermercato. Credo che sorvegliassero la casa, perché si presentarono dieci minuti dopo che lei era uscita.» Jeffrey annuì per incoraggiarlo a continuare. «Mi raccontarono di quello che avevano scoperto sui corpi dei bambini. Avevano le fotografie e...» Esitò. «Non lasciavano dubbi.» «Non è necessario che mi racconti i particolari» si affrettò a dire Jeffrey per non metterlo in imbarazzo. «Volevano esaminare Wendy per vedere se era stata...» Non riuscì a completare la frase. «Io continuavo a rifiutarmi di credere che mia moglie avesse fatto quelle cose, e a maggior ragione che potesse far del male a nostra figlia. Wanda è molto brava a farsi passare per una persona degna di fiducia.» «Questo lo so, purtroppo.» «Quando Wanda ritornò dal supermercato, le raccontai quello mi avevano riferito. Ne venne fuori una discussione violenta, ma alla fine, non so come, riuscì a convincermi che la polizia si sbagliava, che la colpa era di un'altra dipendente dell'ospedale, un'infermiera che avevo incontrato un paio di volte e che, sinceramente, non mi era piaciuta.» «Le persone come sua moglie sanno essere molto persuasive.» «Sì» ammise Paul. «Passò una settimana e la notizia era ancora sui gior-
nali. La polizia investigò anche sull'altra donna.» Gli salirono le lacrime agli occhi. «Crediamo sempre a quello che vogliamo credere. Non è così?» Jeffrey annuì. «Circa tre settimane dopo, la polizia tornò a casa nostra. Questa volta avevano un mandato e volevano perquisire la casa.» Guardò la fotografia della sua bambina e vi posò accanto la mano. «Il giorno prima avevano parlato con mia moglie. Un interrogatorio ufficiale. Credo che avessero raccolto abbastanza prove per intervenire.» Guardò Jeffrey. «Erano venuti molto presto, alle sei del mattino. Io dormivo ancora.» Fece una risata amara. «Ero rimasto alzato fino a tardi a studiare per gli esami finali. Credevo ancora che fosse la cosa più importante...» «Troviamo tutti delle scappatoie.» «Non saprei» disse, vagamente irritato. «Insomma, se n'erano andate» proseguì. «Durante la notte Wanda si era portata via Wendy. Da allora non l'ho più vista e non ho più avuto notizie.» «Che cosa l'ha condotta qui?» «Mi ha telefonato un amico» spiegò. «È un collega che si occupa degli accrediti, e qualche tempo prima gli avevo chiesto di tenere d'occhio i numeri di codice della previdenza sociale, sia di Wendy che di Wanda. Una settimana fa è apparso quello di Wendy su una richiesta di carta di credito. L'indirizzo era quello di un ufficio postale della vostra città.» Jeffrey immaginò che Dottie Weaver, o come diavolo si chiamava, si fosse convinta che dopo tanto tempo non era più rischioso utilizzare il numero di codice della figlia. E ce l'avrebbe fatta, se Paul Jennings non fosse stato in allerta. «Ha l'indirizzo?» domandò, e per la prima volta si concesse un filo di speranza. Era evidente che Dottie voleva quella carta di credito. Sarebbe tornata per ritirarla. Paul Jennings gli passò un foglietto e a Jeffrey parve di riconoscere l'indirizzo di un ufficio postale di Madison. Lo copiò e restituì il foglio augurandosi che potesse servire a rintracciare Dottie, e magari anche a ritrovare Lacey Patterson. «Ho voluto venire di persona» disse Paul infilandosi in tasca il foglietto, «nella speranza che si trovi qui.» Si aspettava che Jeffrey dicesse qualcosa, ma Jeffrey non riusciva a trovare le parole per comunicargli quello che era successo a sua figlia. Peggio ancora, non sapeva come dire a quell'uomo che la persona che aveva ucciso Wendy Jennings era seduta di fronte a lui.
«È qui?» ripeté Paul con un tono pieno di speranza che spezzò il cuore a Jeffrey. «Non so come dirglielo, Paul, ma Wanda è scomparsa e sua figlia è morta.» Jeffrey non sapeva che reazione si aspettasse, ma lo sconcertò il modo in cui Paul lo guardò. Per una frazione di secondo parve quasi sollevato di sapere finalmente dove si trovava sua figlia, poi fu come folgorato dall'idea che dopo tutto quel tempo, dopo anni di ricerche, ritrovava sua figlia morta. Sbiancò in viso, nascose la faccia fra le mani e scoppiò in lacrime. «Sono desolato» disse Jeffrey. «Quando?» domandò Paul con un filo di voce. «Sabato scorso.» Gli spiegò nei dettagli cos'era accaduto, tralasciando solamente i particolari emersi dall'autopsia. Per tutto il tempo Paul scrollò il capo, come se non riuscisse ad accettare quello che sentiva. Quando poi Jeffrey gli rivelò che il responsabile della morte di Jenny era lui, rimase a bocca aperta. «Io non...» cominciò Jeffrey, poi si interruppe. Stava per dire che non aveva avuto scelta, ma non ne era sicuro. Forse un'altra scelta c'era. Forse Jenny Weaver non avrebbe mai premuto il grilletto. Forse Jenny Weaver avrebbe potuto essere ancora viva. I due uomini si fissarono sopra la scrivania, nessuno dei due sapeva più cosa dire. «Con una madre come Wanda» disse Paul alla fine «mi aspettavo il peggio.» Indicò la fotografia. «Io la voglio ricordare così, signor Tolliver. La mia piccolina. Non voglio pensare a quello che le ha fatto Wanda, alla vita orribile che le ha fatto vivere.» Si interruppe, trattenuto dai singhiozzi. «Io ricorderò la mia bambina felice e sorridente, come l'ho sempre vista quando l'avevo ancora con me.» «È la cosa migliore» disse Jeffrey con le lacrime agli occhi, e quando Paul alzò lo sguardo e vide le sue lacrime parve perdere ogni riserva. «Oh, mio Dio» esclamò portandosi la mano alla bocca, scosso dai singhiozzi. «La mia povera bambina. La mia piccola. La mia adorata piccolina.» Si dondolava avanti e indietro, incapace di smettere. «Paul» disse Jeffrey con la voce rotta. Allungò una mano per toccarlo sul braccio, ma Paul la strinse nella sua. Jeffrey non aveva mai stretto in quel modo la mano a un altro uomo e ne fu quasi imbarazzato, ma era il minimo che potesse fare, se serviva a sostenere Paul Jennings. Paul strinse ancora di più la mano. «Era una bambina così dolce.»
«Lo so» disse Jeffrey ricambiando la stretta. «Mia moglie Sara la conosceva. Voglio dire, la mia ex moglie. Fa la pediatra. Sara.» Paul alzò gli occhi e lo guardò speranzoso. «La conosceva?» «Sì. Ha detto che era una ragazza molto intelligente, molto buona. Capace di grande affetto.» «Era in buona salute?» Questa volta Jeffrey decise di mentire. Non c'era motivo di rivelare al padre quello che aveva passato sua figlia. «Sì» disse. «In buona salute.» Paul gli lasciò la mano e prese la fotografia. «È sempre stata buona. Anche da piccola. A volte si capisce subito, come sono fatti i bambini. Era tanto affettuosa.» Jeffrey tirò fuori il fazzoletto e si soffiò il naso. Gli venne in mente troppo tardi che avrebbe dovuto offrirlo a Paul. «Sono desolato» disse di nuovo. «Lei non ha colpa. La colpa è solo di mia moglie. È lei che accuso. Wanda. Mi ha portato via mia figlia. Le ha fatto quelle cose orribili.» Si raschiò la gola e si asciugò il naso con la mano. «È lei la responsabile di questa tragedia.» Lo fissò negli occhi. «Lei, signor Tolliver, non ha colpa» ripeté. «Si liberi dai sensi di colpa. Io ho vissuto tutta una vita nel rimorso. Se non l'avessi sposata. Se avessi prestato ascolto alle dicerie. Se avessi permesso alla polizia di sottoporre mia figlia a una visita...» Si portò la mano alla bocca, sussultò e ricominciò a piangere. Jeffrey era sul punto di commuoversi di nuovo e cercò di controllarsi. La prima cosa che gli venne in mente fu la fotografia di Lacey Patterson stampata sul volantino che teneva nel cassetto. Poi pensò a quello che aveva subito Jenny e a quello che aspettava Mark, se mai fosse uscito dal coma. Pensò anche a Sara, a tutto quello che aveva passato, ai sensi di colpa che la tormentavano, perché quelli erano i suoi ragazzi. Ma erano anche ragazzi miei, si disse. Forse perché non avevano figli loro, si sentivano responsabili per l'intera città. E cosa aveva lasciato succedere! Quanti bambini avevano sofferto, solo perché lui non aveva riconosciuto il male annidato nelle case della città. «Lei ha fatto solo il suo lavoro» disse Paul come se gli leggesse nella mente. «Ha fatto quello che doveva fare per proteggere il ragazzo.» Ma Jeffrey non aveva protetto la ragazza che conosceva come Jenny Weaver. Non aveva messo in salvo Mark e neppure Lacey Patterson. Paradossalmente, aveva protetto Dottie Weaver, che era venuta alla centrale a ingozzarlo delle sue bugie.
Paul disse: «Quando Wanda lasciò la città venne a galla tutto». Si guardò le mani. «Nel fine settimana faceva la babysitter. Aveva abusato anche di quei bambini.» Jeffrey fece un sforzo per non lasciarsi di nuovo travolgere dall'amarezza. Domandò: «Non è mai stato emesso un mandato di cattura?». «No» rispose con un sorriso sarcastico. «Un paio di giorni dopo la sua partenza emisero un mandato di arresto per l'altra donna, ma anche lei aveva lasciato la città.» Jeffrey si sentì rizzare i capelli sulla nuca. «Come si chiamava?» «Markson» disse Paul asciugandosi di nuovo il naso con la mano. «Grace Markson.» 16 Lena sedeva di fianco al letto di Grace Patterson e ascoltava il ticchettio rallentato del monitor cardiaco. La tapparella della finestra che si affacciava sul parcheggio dell'ospedale era abbassata, ma non c'era molto da vedere, a quell'ora. Teddy Patterson era abbandonato sulla poltrona reclinabile all'altro lato del letto e russava serafico con la bocca aperta, come se fosse l'uomo più appagato di questo mondo. Quando Lena gli aveva fatto capire che Grace poteva essere la responsabile di quello che era accaduto ai suoi figli, le aveva riso in faccia. Patterson era un ex carcerato e nutriva una sfiducia innata per i poliziotti, ma non era da escludere che fosse lui stesso impelagato fino al collo in quella storia. In tal caso era ovvio che non sarebbe andato a raccontare a Lena dove si trovava sua figlia. Quando era arrivata, aveva cercato di mandarla via, ma per qualche ragione Grace aveva insistito per farla rimanere, Teddy aveva brontolato qualcosa, poi si era adeguato al desiderio della moglie. Grace lo teneva al guinzaglio come un cagnolino e lui non muoveva un dito senza il suo permesso. Al centro della sua vita c'era lei, ne dipendeva in tutto e per tutto, e da quando Lena era entrata in quella stanza aveva avuto la conferma che a lui dei figli non importava nulla. Lena guardò Grace, la osservò mentre dormiva e si domandò come riuscisse a esercitare tanto potere sulla famiglia. Aveva rifiutato il ventilatore, ma aveva la maschera a ossigeno che l'aiutava a respirare. Le avevano sistemato dei cuscini sotto la testa e le spalle perché il corpo fosse più rilassato, ma era evidente che stava morendo di una morte terribilmente dolorosa. In pochi giorni il declino era stato rapidissimo. Forse anche il ricove-
ro aveva in qualche modo contribuito a piegarla, come se avesse scelto quel letto di ospedale come suo letto di morte. La pelle era giallastra, le guance scavate. Gli occhi catarrosi e perennemente umidi, come se piangesse. Lena si spostò sulla sedia in cerca di una posizione più comoda. Si sentiva la schiena come se l'avessero presa a legnate, e le mani e i piedi le dolevano come dopo l'aggressione. Colpa di quell'abitudine a stringere i pugni e contrarre le dita dei piedi da cui non riusciva a liberarsi. Tutto il corpo era irrigidito dalla tensione e la presenza dei Patterson le annodava lo stomaco. Avrebbe voluto strozzarli tutti e due, gridargli nelle orecchie che ogni secondo che passava poteva rivelarsi fatale per Lacey. Forse la sua presenza li aveva indotti a non parlare. Teddy non dava certo l'idea del marito affranto. Dopo che la moglie si era appisolata, si era guardato un film alla televisione, ridendo di gusto a ogni battuta e commentando le scene d'azione: «Adesso vedrai come ti sistema», oppure: «Forza, su, fagli vedere chi sei». All'inizio del telegiornale era scivolato in un sonno profondo. Non si era mosso neppure quando era arrivata l'infermiera a controllare le condizioni della moribonda. Il silenzio protratto diede il tempo a Lena di osservare Grace e riflettere sugli eventi degli ultimi giorni. Mark era ricoverato in un altro ospedale perché l'ambulanza lo aveva portato al pronto soccorso più vicino. Non si potevano ancora prevedere gli sviluppi, ma i medici sembravano concordi nel ritenere che non avrebbe recuperato tutte le funzioni. Mark, un ragazzo come tanti, che desiderava solo amore, che desiderava l'attenzione di sua madre, e se l'era procurata come aveva potuto. Lena ripensò a com'era lei a quell'età, allo stato di confusione in cui si era trovata a vivere. Era continuamente dominata dall'emotività e dal desiderio spasmodico di ricevere l'approvazione degli altri, fatta eccezione per Hank. Si era costruita un'identità fittizia per essere accettata dal gruppo degli emarginati della scuola, e sfruttava quell'immagine per attirare l'attenzione su di sé. Aveva quindici anni quando cominciò ad andare a letto con Russ Fleming, un rapporto che si reggeva solo sull'attrazione fisica e che dal punto di vista affettivo era stato disastroso. Russ aveva ventidue anni, cosa che Hank non vedeva di buon occhio, ma Lena si era convinta di amarlo nonostante lui la trattasse come una sgualdrina. Qualsiasi cosa volesse, lei glielo concedeva. Era un prepotente, e Lena reagiva alle sue bizze come un
termometro, alternando le blandizie alla sottomissione. Le sue giornate si riducevano a continui alti e bassi, a seconda di come la trattava Russ: quando non era in camera sua a piangere, stava seduta sui gradini del portico con le mani tra le ginocchia ad aspettare che lui si facesse vivo. Era giovane e sola, e si illudeva che quello che le dava Russ fosse amore. Ripensandoci ora, era pronta a riconoscere che Russ era solo uno spaccone paranoide che approfittava di una quindicenne ingenua, ma allora si era convinta che lui fosse la cosa più bella che la vita le potesse riservare. È incredibile quanto possano essere sciocchi gli adolescenti e cosa siano disposti a fare per un po' d'amore e di attenzione, pensò. Per questo Mark era stato un bersaglio facile per sua madre. Soffriva della ferita che si portava nel cuore e si era convinto che solo sua madre potesse rimarginarla. E tutto quello che ne aveva ricavato era il desiderio di togliersi la vita. Una dicotomia che Lena conosceva fin troppo bene. Grace ebbe un lieve sussulto e si svegliò. Aprì gli occhi lentamente e fissò per qualche istante il soffitto, come per darsi tempo di capire dove si trovava e cosa stava succedendo. Lena fu tentata di ricordarle che stava morendo, ma capì che Grace ne era pienamente consapevole. Girò la testa verso di lei facendo scricchiolare il cuscino apprettato. Passò lo sguardo dal monitor che registrava la pressione sanguigna all'ago che aveva nel braccio, collegato alla pompa con cui poteva somministrarsi la morfina. Il piccolo apparecchio era congegnato per permettere al paziente una certa autonomia nel controllo del dolore, ma senza concedergli di somministrarsi dosi letali. Quando Grace allungò la mano per schiacciare il pulsante e ricevere un po' di narcotico in vena, Lena spostò l'apparecchio fuori dalla sua portata. Da quando era arrivata non era riuscita a rimanere sola con Grace, ma adesso che Teddy era immerso nel mondo dei sogni decise di cogliere l'occasione. «Era questo che volevi?» le sussurrò sollevando l'apparecchio. Grace ebbe un lampo negli occhi, poi il suo sguardo corse a Teddy. «Se vuoi lo sveglio, così sentirà anche lui quello che ho da dirti» disse Lena sempre a bassa voce. «Ho parlato con Mark, Grace. Vuoi che Teddy scopra quanto amavi il tuo bambino?» Grace deglutì senza articolare parola. «Puoi parlare» disse Lena. Un paio d'ore prima l'aveva sentita chiedere delle scaglie di ghiaccio all'infermiera. «Lo so che puoi parlare.» Lei mosse con lentezza il braccio e scostò la mascherina che le copriva
naso e bocca. Ansimò per lo sforzo. «Dammi... la pompa.» Lena soppesò l'apparecchio che teneva ancora in mano. Le era sembrato molto più pesante quando lo utilizzava su se stessa. «Fa male, vero?» disse. Grace annuì con una smorfia di dolore. «Facciamo un cambio?» Le dondolò l'apparecchio di fronte al viso come fosse una caramella. Grace ebbe la sfrontatezza di sorridere e la guardò quasi ammirata, come se volesse dirle che l'aveva sottovalutata. «Sì?» la incalzò Lena. «Dimmi dov'è Lacey e ti potrai drogare quanto vuoi.» Grace continuò a sorridere, ma lo sguardo era diventato di ghiaccio. Girò la testa e tornò a fissare il soffitto. Trascinò con fatica la mano sul petto e Lena vide che era scossa da un tremito. Il medico aveva previsto anche dei narcotici più forti, ma Grace, stranamente, non li aveva richiesti. Eppure sapeva che non sarebbe uscita viva da quel letto. «So che la vuoi, Grace. So che ne hai bisogno.» Lei la guardò, inspirò con fatica ed espirò un debole «No». Lena si alzò con l'apparecchio in pugno. Sempre a voce bassa, per non svegliare Teddy, disse: «So che hai violentato Mark». La bocca si distese in un sorriso, come se il ricordo le procurasse piacere. Chiuse gli occhi e Lena ebbe l'impressione che richiamasse alla mente i momenti passati col figlio. «Raccontami di Jenny Weaver» sibilò Lena. «Che cosa le hai fatto?» «Lei era...» cominciò Grace continuando a guardare il soffitto, mentre dagli occhi le scendevano le lacrime. Un pianto che era frutto della sofferenza fisica a cui era sottoposta e non del dolore che provava per Jenny. «Tanto... brava... con...» A questo punto riportò la mascherina sul naso e la voce le morì in gola. Lena rimase in piedi, in attesa delle parole successive che non vennero. «Cos'hai detto?» la incalzò. Sotto la mascherina comparve un sorriso quasi angelico. «Figlia di puttana» le bisbigliò Lena. Afferrò il cuscino che aveva accanto, levò la maschera a ossigeno e glielo schiacciò sul viso. Grace non tentò di lottare. Quando le gambe sussultarono, Lena ritirò il cuscino e le rimise in fretta la maschera, sincerandosi che arrivasse l'ossigeno. Passarono alcuni secondi interminabili, poi Grace riaprì gli occhi. Prima parve sorpresa, poi furibonda. Lena aveva deciso che ucciderla sa-
rebbe stato un atto di compassione, a Grace Patterson rimanevano solo poche ore di vita in questo mondo e non meritava che la sua fine venisse accelerata. Prese ad ansimare fissando furiosa Lena. Schiuse le labbra e riuscì a mormorare: «Vigliacca». Anche Mark l'aveva chiamata così e forse era la verità, ma non per la ragione che pensava Grace. «Non così vigliacca da violentare un bambino» disse. Grace scossa la testa, forse per negare che Mark fosse un bambino, forse per negare di avergli fatto violenza. «Ha cercato di uccidersi. Lo sapevi?» Capì dallo sguardo che non l'aveva saputo. «Si è impiccato nel suo armadio dopo avermi raccontato che te lo portavi a letto. Dopo quello che gli hai fatto, ha perduto la voglia di vivere.» Grace fissava il soffitto. Gli occhi lacrimavano, ma Lena non poteva sapere se per i dolori o per il rimorso. «Adesso è in coma. Forse non si risveglierà.» Grace farfugliò qualcosa di incomprensibile. Lena si chinò e accostò l'orecchio alla sua bocca posando la mano sulla sponda del letto, e all'improvviso la moribonda gliela afferrò e le passò il pollice sulla ferita con una tenerezza carica di sensualità. Lena ritrasse la mano, inorridita, e le vide sulle labbra una smorfia di piacere. «Puttana schifosa» esclamò, strofinandosi la mano per cancellare la sensazione del contatto. «Marcirai all'inferno.» Chiamando a raccolta tutte le energie che le rimanevano, Grace mormorò d'un fiato: «Ci rivedremo là». Lena arretrò fino a che non sentì alle spalle la parete. Era sconvolta. Mark e Jenny si erano scambiati quelle identiche battute la sera in cui Jenny era morta. Rimase immobile a guardare Grace ansimante e Teddy Patterson che continuava tranquillamente a dormire. Controllò l'ora. Mancavano ancora tre ore all'alba e all'arrivo dell'infermiera di turno per l'ultimo controllo. Lasciò la pompa che iniettava la morfina sul comodino, fuori dalla portata di Grace. Si mise seduta, finse di non vedere che anche le sue mani tremavano e attese che Grace Patterson morisse. 17 Sotto il giubbotto antiproiettile Jeffrey era in un bagno di sudore. Il cal-
do di agosto combinato col peso del giubbotto avrebbe fatto stramazzare anche un elefante. Aveva perso tanta di quell'acqua che si sentiva la bocca come carta vetrata. «Che bella giornata» disse Nick asciugandosi il collo con il fazzoletto. Jeffrey non apprezzò l'ironia. «Che ore sono?» Nick guardò l'orologio. «Le dieci» disse. «Tieni duro, capo. I criminali hanno un rapporto particolare col tempo.» «Vero» disse Joe Stewart. Era l'informatore e, da come si stava comportando, Jeffrey immaginò che Nick gli avesse concesso una dose per evitare che desse i numeri. Sprigionava più tensione di una centralina elettrica. «Sei sicuro di non sapere niente di una certa ragazzina?» gli domandò Jeffrey «Quanti anni ha?» Si passò la lingua sulle labbra. «Hai una fotografia?» «Siediti» gli ordinò Nick tirandogli un calcio negli stinchi con la punta degli stivaletti da cow-boy. Nick si era agghindato nel ruolo del pedofilo, con una camicia nera inamidata e un paio di jeans che lo fasciavano come una seconda pelle. Per l'occasione aveva perfino rinunciato alla sua catena d'oro e si era spuntato la barba. Era il tipo che andava matto per quel genere di missioni. Tutti i poliziotti in realtà ne andavano matti, pensò Jeffrey, lui compreso, in altre occasioni. «Ti ho detto di metterti seduto» ripeté Nick. Joe si lasciò cadere sul letto e borbottò qualcosa grattandosi le braccia. Era un ragazzo magro, di circa vent'anni, con una quantità di brufoli che gli chiazzava la pelle come le macchie nere sul mantello di un dalmata. Alcuni se li era grattati e stillavano sangue. Jeffrey guardò Nick. «Era proprio necessario che si facesse come una scimmia?» «Preferivi che si pisciasse nelle braghe?» ribatté Nick. «Non farebbe una grande differenza» osservò Jeffrey. Joe puzzava ancora di più della stanza ammuffita da trenta dollari a notte in cui si trovavano. «Sei sicuro che il condizionatore non funzioni?» domandò. «Se lo accendiamo ci copre gli altri rumori» gli ricordò Nick. «Tranquillo capo, ce la sbrigheremo in fretta.» «E Atlanta?» Nick lanciò un'occhiata a Joe. La casella postale di Grant che Dottie aveva indicato per l'invio della carta di credito si era rivelata una manovra
diversiva. L'ufficio postale aveva ricevuto la richiesta di inoltrare la posta in arrivo presso un'altra sede di Atlanta. Jeffrey aveva chiesto a Nick di metterla sotto sorveglianza nella speranza che Dottie si facesse viva lì. «È tutto sistemato» disse Nick. «Come vengo a sapere qualcosa, lo verrai a sapere anche tu.» Il telefono di Jeffrey vibrò e lo sganciò dalla cintura. «Sì?» «Salve» disse Frank. «Patterson è tornato alla roulotte questa mattina, subito dopo la morte di sua moglie, non si è mosso da lì.» «Sei sicuro?» Forse aveva annullato la consegna. «Certo che sono sicuro. Non è neppure andato all'ospedale a trovare suo figlio.» «Va bene.» Chiuse il telefono e riferì la notizia a Nick. «E se avesse mandato Dottie?» suggerì Nick. «Patterson non è un idiota. Sa di essere pedinato.» Si udirono due colpi alla porta e dopo una breve pausa se ne aggiunse un terzo. Jeffrey andò a nascondersi nel bagno lasciando la porta socchiusa per non destare sospetti. Dentro lo accolse un odore nauseante che gli fece torcere la bocca. Udì la voce di Joe - «Oh, eccoti qui» - e la porta che si apriva con un cigolio. «E quello chi è?» domandò una voce maschile. Non gli parve del tutto estranea, ma non era di certo quella di Dottie Weaver. «Un amico» disse Joe. «Ha la passione delle bambine.» «Le bambine piccole piccole» precisò Nick. «Capisci cosa voglio dire?» «Vediamo di sbrigarci» tagliò corto l'uomo, con la voce tesa. «Ho il furgone parcheggiato di fianco all'albergo. Andiamo.» Jeffrey aspettò che se ne andassero e uscì dal bagno. Si sforzò di capire se aveva già sentito quella voce, ma dalla memoria non arrivò nulla. Quel che arrivò fu un altro bagno di sudore che gli fece allentare la cintura del giubbotto e pentirsi di averlo indossato. Se l'era messo solo perché glielo aveva chiesto Sara e non aveva saputo dire di no. Evidentemente lei non aveva previsto che conciato a quel modo rischiava un collasso. La porta giù all'entrata era troppo sporca per appoggiarsi. Si rassegnò a rimanere in ammollo, in attesa che Nick gli desse il via libera. Per riuscire a incastrarli dovevano mettere le mani sulla consegna, dovevano quindi avere la certezza che il furgone parcheggiato fuori fosse effettivamente pieno di riviste.
Per far passare il tempo decise di contare a mente fino a cento. Era arrivato a sessantacinque quando udì Nick gridare: «Mettiti giù! Giù, ti ho detto!». Jeffrey spalancò la porta ed estrasse la pistola. Nick aveva già neutralizzato il sospetto, un uomo alto e dinoccolato in abito nero, che stava a terra a faccia in giù, con le mani sulla testa. «Non ti muovere, bastardo» gli intimò Nick frugandolo in cerca di armi. «Hai addosso roba che taglia?» L'uomo farfugliò qualcosa e Nick gli tirò un calcio. «Hai coltelli?» Questa volta rispose con un netto «No». C'erano altri tre agenti del centro investigativo a coprire l'informatore, perciò Jeffrey mise via la pistola e si avvicinò. Nick, pieno com'era di adrenalina, si rivolse anche a Jeffrey urlando: «È questo il tuo uomo? È questo il fottuto figlio di puttana?». Jeffrey capì dalla schiena che non poteva essere Teddy Patterson, a parte il fatto che avrebbe dovuto essere Superman per arrivare così in fretta da Grant ad Augusta. «Giralo» disse, con la mano sul calcio della pistola. Nick afferrò l'uomo per le mani ammanettate e lo girò senza tante cerimonie. «Aspettate» gridò l'uomo. Lanciò a Nick un'occhiata torva poi guardò Jeffrey e lo riconobbe. Diventò pallido come uno straccio e rimase a bocca aperta, sbigottito. Jeffrey non era meno sconcertato di lui. «Lo conosci o no?» domandò Nick. Jeffrey era ammutolito. Si raschiò la gola un paio di volte prima di riuscire a dire: «Si chiama Dave Fine». 18 L'impresa di pompe funebri Brock aveva sede in una delle case più antiche di Grant. Era stata costruita nello stile di un maniero vittoriano, con tanto di torrette e abbaini, dal responsabile del deposito materiali delle ferrovie. Per sua sfortuna però, la residenza tanto prestigiosa incuriosì i suoi capi di Atlanta, che decisero di verificare dove avesse trovato tutti quei soldi. Finì che John Brock se la comperò all'asta per un prezzo ridicolo e avviò al primo piano e nel seminterrato un'impresa di pompe funebri. Ai piani superiori installò la famiglia e da quel momento il figlio Dan subì
tutte le angherie immaginabili dai suoi compagni di scuola. Lo tormentavano dall'istante in cui lo scuolabus lo caricava di fronte al portone, fino al rientro a casa a pomeriggio inoltrato. Dan Brock aveva imparato presto a difendersi in vari modi, soprattutto minacciando i suoi compagni di toccarli con le sue «mani da morto» se non lo lasciavano in pace. Tutti, tranne Sara. Lei si era sempre tenuta alla larga dal gruppo dei prepotenti e di solito sul bus ripassava le lezioni, così Dan andava sempre a sedersi accanto a lei sapendo che gli altri non lo volevano vicino. Il piano terreno della casa era addobbato con lunghe tende di velluto e una pesante moquette verde. Il corridoio centrale aveva due grandi lampadari di inizio secolo e lungo le pareti erano allineati divanetti alternati a tavolini che ospitavano scatole di fazzoletti e vassoi con una brocca d'acqua e i bicchieri. Sul fronte erano allestite le due grandi camere ardenti, sul retro un'altra più piccola, e la sala d'esposizione delle bare. L'ufficio era sistemato dove in origine c'era la cucina. Sara si fermò davanti alla pesante porta di quercia e bussò con due colpi leggeri. Quando nessuno rispose aprì e sbirciò dentro. Audra Brock, la madre di Dan, russava in sordina con la testa posata sul tavolo. Di fianco al braccio era abbandonato un panino non finito. L'anziana signora era impegnata nel pisolino pomeridiano. Sara conosceva bene la casa e trovò da sola le scale per il seminterrato, dove si trovava la sala di imbalsamazione. Discese gli stretti gradini di legno reggendosi saldamente alla ringhiera perché ricordava ancora la volta in cui era volata giù lussandosi l'osso sacro. In fondo alle scale prese a sinistra, superò il magazzino delle bare e raggiunse la sala di imbalsamazione. La pompa aspirante era in funzione e faceva vibrare il pavimento. Dan Brock era seduto accanto alla salma di Grace Patterson e leggeva il giornale aspettando che la macchina finisse di aspirare il sangue e lo sostituisse con sostanze chimiche. Sara lo chiamò per attirare la sua attenzione. «Dan?» Lui sobbalzò e il giornale cadde a terra. «Oh, mio Dio» rise. «Ho pensato che fosse lei.» «Conosco la sensazione» lo consolò Sara. Nonostante facesse il medico legale da più di dieci anni, anche a lei capitava di spaventarsi quando doveva lavorare da sola di notte all'obitorio. Dan si alzò e le porse la mano. «A cosa devo il piacere, dottoressa Linton?» Sara gli strinse la mano fra le sue. «Ho una richiesta alquanto bizzarra. Puoi anche cacciarmi via, se la trovi eccessiva.»
Lui piegò la testa di lato e le lanciò un'occhiata interrogativa. «Non riesco a immaginare nulla che possa indurmi a cacciarti via, Sara.» «Bene» disse continuando a stringergli la mano. «Quando l'avrai sentita deciderai.» Il centro medico pediatrico ferveva di attività quando Sara entrò dalla porta posteriore. Andò subito alla postazione delle infermiere e senza neppure dire buongiorno domandò a Nelly: «Jeffrey ha chiamato?». Nelly fece un sorrisino. «Come è andato il pranzo, dottoressa Linton?» «Ho dovuto posticiparlo» rispose senza aggiungere spiegazioni. Nelly non aveva mai fatto mistero di non gradire l'impegno di Sara all'obitorio. «Ha chiamato?» ripeté. Nelly scosse la testa. «Però ho saputo qualcosa di Dottie Weaver.» Sara sollevò un sopracciglio. «Cosa, esattamente?» L'infermiera abbassò la voce. «Deanie Phillips è sua vicina di casa» disse. «Ieri ha sentito un boato ed è andata a vedere cosa era successo.» «E cosa era successo?» «Be'...» Appoggiò i gomiti sul bancone. «Deanie sostiene di aver sentito da un poliziotto che Dottie è coinvolta in qualcosa che ha a che fare con la scomparsa di Lacey Patterson.» Sara aveva passato quasi tutta la sua vita a Grant, eppure continuava a stupirsi della velocità con cui correvano le voci. «Non devi credere a tutto quello che senti dire in giro» le disse, benché il pettegolezzo non fosse così lontano dalla verità. Non si poteva prevedere come avrebbe reagito la piccola città alla scoperta che Dottie Weaver era in realtà Wanda Jennings. Riusciva difficile anche a lei accettare la nuova realtà, ma soprattutto le pesava quello che aveva scoperto nella sala di imbalsamazione, e cioè che Grace Patterson aveva di recente partorito un bambino. «Sì signora» rispose Nelly con un sorriso. Ormai riusciva a leggere nella mente di Sara quasi come una madre. «Ha chiamato qualcun altro?» «Ha tre casi di mal di pancia.» Le passò i messaggi. Sara li scorse. «Quando ho la prossima visita?» «Fra cinque minuti. I Jordan. L'appuntamento è per l'una e mezza, ma Gillian è sempre in ritardo.» Sara guardò l'orologio, preoccupata che Jeffrey non l'avesse ancora chiamata. Non poteva impiegare più di un'ora a interrogare Teddy Patterson, soprattutto considerato che tecnicamente il caso toccava a Nick. Pensò di chiamarlo, ma cambiò idea. Non voleva essere invadente, Jeffrey non lo
sopportava. «Vado a prendermi una Coca» disse a Nelly. «Torno subito.» Guardò di nuovo l'orologio e si avviò lungo il corridoio. Calcolò ancora una volta i tempi. Jeffrey non poteva impiegare più di un'ora per ritornare a Grant. Entrò nella stanza numero sette e accese le luci. Da dieci anni la stanza era adibita a sgabuzzino e ne aveva tutta l'aria. Era foderata di scaffali come una biblioteca, ma nessuno sapeva più cosa contenessero esattamente. Aprì il frigorifero e imprecò quando vide che tutte le Coca dietetiche erano scomparse. «Elliott» borbottò inferocita. Elliott si rubava sempre tutto. Aprì il freezer e come aveva previsto non trovò neanche le barrette di cioccolato. Erano scomparsi anche i due pasti precotti. "Scomparsi" non era la parola esatta, perché Elliott, da persona sensibile qual era, si premurava sempre di lasciare nel freezer i cartoni vuoti. «Un giorno o l'altro lo ammazzo» disse tra i denti chiudendo la porta con un colpo. Tornò in corridoio e sentì montare dentro tutta la rabbia impotente che aveva accumulato negli ultimi giorni. Si fermò di fronte al suo ufficio dicendosi che non era leale scaricare tutto sul povero Elliott, anche se era un ladro patentato di cioccolato. «Dammi solo un minuto» disse a Nelly che le veniva incontro con le cartelle. Entrò nell'ufficio e si chiuse la porta alle spalle. Si guardò intorno lasciando correre lo sguardo sulle fotografie che occupavano tutta la parete finché trovò quella di Lacey. Era di qualche anno prima, quando Lacey aveva i capelli più corti. Rispetto a quella scattata a scuola utilizzata per i volantini segnaletici, sembrava la foto di un'altra persona. Era sempre così con i bambini di quell'età: in un paio d'anni cambiavano fisionomia. Aumentavano o diminuivano di peso, i capelli si scurivano o si schiarivano, gli zigomi potevano diventare più pronunciati, la mascella più sfilata. Dottie Weaver, o chiunque essa fosse, aveva questo grande vantaggio dalla sua parte: Lacey sarebbe cresciuta e cambiata, rendendo sempre più ardue le ricerche. Naturalmente, dopo qualche tempo, per Dottie che sfruttava i bambini, la cosa poteva tradursi in un inconveniente. Che fine avrebbe fatto Lacey, una volta che fosse cresciuta troppo per soddisfare la domanda? Sarebbe diventata come sua madre? Avrebbe trovato un modo per sfuggire alle grinfie di Dottie? «Dottoressa Linton?» Era Nelly che bussava alla porta. «C'è il capo sulla linea quattro.»
Sara si chinò sulla scrivania e acciuffò il telefono. «Jeff?» domandò speranzosa. «Non l'abbiamo trovata.» Lei cercò di mascherare la delusione. Più tempo passava e più si riducevano le probabilità di ritrovare Lacey. «Mi basta sapere che tu stai bene. Teddy ha opposto resistenza all'arresto?» «Non era Teddy.» Le raccontò chi si era trovato davanti. Sara pensò di aver capito male. «Il pastore?» «Ti chiamo più tardi.» «D'accordo» disse e posò il telefono. Tornò a guardare la parete. Trovò le fotografie dei due figli di Fine a sinistra di quella di Lacey, poi lasciò vagare lo sguardo sulle altre: c'erano bambine che erano state nel coro di cui si occupava anche Dave, o che erano nella squadra di softball che lui allenava. Chissà quante di loro avevano fatto affidamento su di lui, chissà di quante aveva tradito la fiducia. 19 Dave Fine aveva chiesto una Bibbia. Teneva la mano destra posata sul libro e fissava con uno sguardo vuoto Nick Shelton. Sembrava che non riuscisse a spiegarsi perché si trovava lì. «Io adoro i bambini» disse. «Li ho sempre adorati.» Nick si appoggiò alla spalliera e si dondolò sulle gambe della sedia. «Questo lo abbiamo capito, pastore.» Jeffrey teneva la bocca chiusa perché Dave Fine era di competenza di Nick. Gli prudevano le mani dalla voglia di prenderlo a pugni al pensiero di Dottie Weaver ancora in libertà, a fare Dio sa cosa a Lacey Patterson. Il bastardo che aveva di fronte era uno di quelli che l'avevano aiutata a scappare. «Bene» disse Nick allargando le braccia. «Ci racconti la sua storia.» Fine fissò la Bibbia come se cercasse un incoraggiamento. Gli sudavano le mani e la copertina nera aveva assorbito l'impronta del suo palmo. «Lavoro alla chiesa da quasi quindici anni» cominciò. «Sono cresciuto a Grant. Sono stato battezzato in quella stessa chiesa.» Nick continuò a dondolarsi sulla sedia e attese. «Mi sono sposato lì e lì ho battezzato i miei due figli.» Cadde il silenzio e Jeffrey gli lanciò un'occhiata. Era l'esempio vivente dell'espressione "pilastro della comunità". Nei fine settimana faceva il ser-
vizio domiciliare agli anziani, i suoi figli erano nella squadra di softball dei pulcini e lui allenava quella femminile. Jeffrey si slacciò il colletto della camicia pensando alla quantità di bambine con cui Fine veniva in contatto quotidianamente. Serrò i pugni un'altra volta. «Non li ho mai toccati» disse Fine come se gli avesse letto nella mente. «So che è sbagliato. Questo lo so.» Passò il dito sul dorso della Bibbia. «Ho pregato Dio che me ne desse la forza e Lui me l'ha concessa.» Nick incrociò le braccia. Non era mai stato un campione di devozione, ma andava a messa tutte le domeniche. Uno dei ciondoli d'oro che aveva al collo era una croce con un diamante incastonato al centro. «Non ho mai toccato i miei figli» insistette Fine. «Non ho mai fatto del male ai miei ragazzi.» «Deve capire che non possiamo prenderla in parola» disse Nick. Fine parve stupito che qualcuno potesse non credergli. «Non toccherei mai i miei figli, per nessuna ragione al mondo.» «Lo sappiamo che le sue preferenze non vanno ai maschi» disse Nick sprezzante. «Ma deve capire, pastore, che dovremo verificare.» Fine guardò la Bibbia. «Non avrei mai assecondato i miei istinti, se non fosse stata lei ad avvicinarmi.» «Dottie Weaver?» domandò Nick. «Jenny era una bambina tanto buona. In lei c'era una luce. Una luce pura messa lì da Dio.» Rilassò le labbra in un sorriso. «Cantava come un angelo. Un vero angelo. Nella sua voce si riusciva a sentire Dio.» «Oh, non dubito che lei ci riuscisse» disse Nick. Fine gli lanciò un'occhiata malevola, come se si aspettasse un po' più di rispetto. Sembrava che non si rendesse conto di essere in una centrale di polizia, in procinto di finire in galera per un bel po'. «E come l'ha avvicinata Dottie?» domandò Jeffrey. Fine parve sollevato che la mano passasse a lui. «Diciamo pure che mi ha adescato» disse. «Adamo non aveva mai pensato di mangiare la mela, prima che Eva lo tentasse.» «Mi pare che c'entrasse qualcosa anche il serpente di Adamo» ironizzò Nick. Fine si accigliò. «Non si tratta di questo. Il sesso a me non interessava.» «Eppure ha fatto sesso con lei» obiettò Nick. Fine si morse il labbro. «All'inizio no» disse. «Volevo solo la sua compagnia.» Si interruppe e prese fiato. «Dottie mi concedeva di portarla al ci-
nema, a volte andavamo fino a Macon a comperare dei vestiti.» Guardò i suoi interlocutori in cerca di approvazione. «Suo padre l'aveva abbandonata» disse. «Io cercavo solo di compensare quel vuoto. Di farla sentire amata e voluta.» Nick non disse nulla, ma Jeffrey gli vide i muscoli del braccio tendersi. «Io volevo solo educarla, farle da guida.» «Oh, ma non mi dica» ironizzò Nick, sempre più ostile. «So che cosa pensa, ma non era così, non era affatto come crede lei.» «E allora come'era?» intervenne Jeffrey cercando di non perdere la calma. «Io...» Fece un gesto ampio con la mano. «Ha a che fare con l'amore. Con la capacità di ascoltare i bambini, di capire i loro bisogni e i loro desideri.» «E Jenny desiderava fare sesso con un adulto?» domandò Nick. Fine lasciò cadere le mani. «Non l'avrei mai toccata a quel modo. A me bastava avere la sua compagnia.» «E cosa le ha fatto cambiare idea?» domandò Jeffrey. «Dottie.» Sputò la parola di bocca come se fosse veleno. «L'avevo sempre avuto in mente, sempre. Non con Jenny, ma con altre bambine. Bambine che vedevo in giro per la città.» Sbatté più volte le palpebre, con gli occhi lucidi di lacrime, e Jeffrey si ricordò che gli uomini di quella risma tendevano a piangersi addosso con estrema facilità. Mai che piangessero per i bambini che avevano fatto soffrire. «Però mi ero sempre accontentato di fantasie. Mi bastava quello.» Alzò la voce. «Sono un uomo felicemente sposato. Amo mia moglie e i miei figli.» «Come no» disse Nick sarcastico. Fine scosse la testa. «Lei non vuole capire.» Jeffrey si sporse sul tavolo. «Lo spieghi a me, Dave. Io voglio capire.» «Era una bambina molto intelligente, che si esprimeva con grande proprietà di linguaggio.» Prese in mano la Bibbia. «Leggeva la Bibbia con me. Pregavamo insieme. Ci capivamo.» Jeffrey guardò la Bibbia. Anche se aveva sempre creduto all'esistenza del bene e del male, non gli aveva mai attribuito un significato biblico. Ma vedere le mani di Dave Fine su quel libro e sentirlo raccontare come aveva sedotto Jenny con la preghiera, gli parve la cosa più blasfema che si potesse immaginare. «D'accordo, pregavate insieme» disse Nick. «Come mai poi la cosa ha
preso un'altra piega?» Fine posò il libro sul tavolo. «È stata Dottie. Mi ha chiamato nel cuore della notte.» «Quando?» «Durante le feste del Ringraziamento. Quello passato.» «E allora?» domandò Jeffrey pensando che il bastardo mentisse. «Sono andato a casa sua perché mi aveva detto che Jenny non stava bene, Mi aveva detto che era agitata e che voleva parlare con me.» Aveva di nuovo gli occhi pieni di lacrime. «Io ero suo amico. Non potevo ignorare una richiesta di aiuto.» Jeffrey gli fece cenno di continuare e cercò di allontanare dalla mente l'immagine di Sara che gli indicava la frattura pelvica sulla radiografia di Jenny. Era stata brutalmente stuprata e il responsabile poteva essere Dave Fine. Fine si schiarì la voce. «Non ero mai entrato in casa loro. Jenny mi aspettava sempre davanti alla porta.» Si asciugò gli occhi col dorso della mano. «Quando arrivai, Dottie mi condusse di sopra. Di sopra in camera di Jenny.» Tacque. Né Jeffrey né Nick lo esortarono a continuare. Dopo qualche secondo che parve un'eternità, riprese il racconto da dove l'aveva lasciato. «Abbiamo fatto certe cose» disse a voce bassa. «Mi vergogno di ammettere che abbiamo fatto certe cose.» «Lei ha fatto certe cose» lo corresse Jeffrey. «Sì» convenne Fine. «Io ho fatto certe cose.» «Gli atti hanno avuto luogo unicamente in camera di Jenny?» domandò Jeffrey. Questo poteva spiegare come mai Dottie non aveva svuotato anche la stanza della figlia. Lì dentro le uniche prove rintracciabili avrebbero portato a Dave Fine. «Sì.» Deglutì con fatica. «Solo nella sua stanza.» Cadde di nuovo il silenzio mentre Fine riordinava le idee. Era piuttosto bravo a dipingersi come una vittima impotente. Più accampava scuse e più a Jeffrey veniva voglia di strozzarlo. Alla fine disse: «Dottie fece delle fotografie. Io l'ho saputo solo in seguito». Rise con amarezza. «Me le mostrò in chiesa il giorno dopo e minacciò di renderle pubbliche se non facevo quello che diceva lei.» «E cosa voleva che facesse?» «Le consegne» disse. «Utilizzavo il furgone della chiesa.» Si coprì la bocca con la mano. «Dio mi perdoni, ho usato il furgone della chiesa.»
Jeffrey incrociò le braccia per tenersi calmo. Nick ribolliva di rabbia. Trovava inammissibile che quel codardo arrivasse a compiangersi. Si dispiaceva per se stesso, invece che per la bambina che aveva violentato. Jeffrey domandò: «Dove si trova adesso Dottie?». «Non ne ho idea» rispose Fine toccando la Bibbia. «Dio mi è testimone, è la verità.» «Quando l'ha vista l'ultima volta?» «Lunedì. C'era Mark a casa sua. Avevano levato tutto, ridipinto le pareti, fatto scomparire la stampatrice.» «E dove l'hanno portata?» «Non lo so.» Sembrava sincero. «Hanno caricato tutto su un camion. Un camion senza contrassegni.» «E poi?» «Mi ha detto che dovevo fare quest'ultima consegna, altrimenti mandava le fotografie alla centrale di polizia.» «E Lacey Patterson?» A Jeffrey parve di cogliere un'incertezza nel suo sguardo, ma poi rispose: «Non ne ho idea. Dottie non l'avrebbe certo detto a me. Io non c'entravo fino a quel punto con loro. Io mi limitavo a fare quello che mi diceva per proteggere la mia famiglia. Le nostre vite». «Quando ha ritirato le riviste?» «Quella sera stessa. Le ho tenute nello scantinato della chiesa fino a questa mattina.» «Sapeva già dell'incontro ad Augusta?» «No» scosse il capo con decisione. «Mi ha telefonato ieri sera. Mi è sembrato che parlasse da un cellulare.» «Ci ha appena detto che l'ultima volta che l'ha vista è stato lunedì» gli ricordò Jeffrey. «Infatti è così. Lei mi ha domandato quando l'ho vista, non quando ho parlato con lei.» Jeffrey lasciò correre. «Cosa le ha detto?» «Mi ha spiegato dov'era l'albergo, quando dovevo incontrarmi con Joe e qual era la parola d'ordine per la tappa successiva.» Fece una pausa. «Mi ha detto che era ancora da queste parti e che mi sorvegliava.» «E lei ci crede?» domandò Nick. «Crede che sia ancora in città?» Fine alzò le spalle. «Quella è capace di tutto.» «Capace di cosa, per esempio?» domandò Jeffrey. «Me lo dica lei, cosa farà a Lacey Patterson?»
Fine guardò la finestra. «Io non lo so cosa fa. Io ero coinvolto solo con Jenny.» Jeffrey lo squadrò per cercare di capirlo. Fine era così bravo a giustificarsi di tutto, che probabilmente avrebbe superato il test della verità. Sembrava quasi convinto che quello che aveva fatto a Jenny Weaver non fosse grave. «So che Dottie ha bisogno di soldi» aggiunse. «Mi ha detto che doveva aspettare un pagamento.» Alzò la voce per suonare convincente. «Io ero ricattato. Non avevo scelta.» Jeffrey ignorò la scusa, stava pensando alla casella postale di Atlanta. Dottie non aveva modo di sapere che loro ne erano a conoscenza. Era convinta di essere al sicuro. Forse riuscivano a catturarla prima che mettesse le mani su altri bambini o vendesse Lacey. «Dunque» intervenne Nick. «Questa mattina lei ha stipato le riviste nel furgone della chiesa e se n'è andato ad Augusta?» «Avevo un cattivo presentimento» disse sfogliando le pagine della Bibbia. «Forse volevo farmi prendere. Non potevo andare avanti così.» «Neppure Mark ne poteva più» disse Jeffrey. Fine grugnì. «Mark» esclamò, come se stessero parlando del diavolo in persona. Nick guardò Jeffrey. «Sapete perché Jenny voleva ucciderlo?» disse Fine con una smorfia. «Perché lui sarebbe finito a fare le stesse cose.» «Quali cose?» «A lui piaceva» disse Fine. «Non si faceva degli scrupoli.» «Lei invece sì?» lo provocò Nick. Fine non rispose. «Sta dicendo che a Mark piaceva posare per le fotografie?» domandò Jeffrey, ricordando l'espressione angosciata del ragazzo sulle riviste che avevano trovato. Non era la faccia di un ragazzo che si stava divertendo. «Non solo gli piaceva. Lo voleva fare.» Tamburellò il dito sul tavolo. «Se lo vuol sapere, era solo questione di tempo e poi avrebbe cominciato con la sorella. Jenny lo sapeva. Sapeva quanto era crudele quella famiglia, e sapeva che cos'era diventato Mark. Sapeva che prima o poi avrebbe abusato di Lacey.» Tirò su col naso nel tentativo di frenare le lacrime. «Jenny stava cercando di proteggere Lacey da quell'animale.» «Ha le prove?» domandò Jeffrey. «Grace lo aveva attirato nella rete fin da quando aveva sei anni. Era solo
questione di tempo, e Jenny lo sapeva.» «Lei non ha modo di sapere cosa avrebbe fatto Mark» disse Jeffrey. «Se tutti i bambini che vengono violentati da mascalzoni come lei diventassero a loro volta dei molestatori...» Fine lo interruppe. «Lei non conosce Mark, signor Tolliver. Mi creda, avrebbe violentato i bambini, esattamente come sua madre.» Scosse il capo e sospirò. «Ha imparato bene la lezione.» «Era lui stesso un bambino.» Fine alzò un dito come se stesse tenendo una lezione. «Era un uomo adulto. Avrebbe potuto smettere.» «Come ha fatto lei, signor Fine?» ringhiò Nick. La battuta colpì nel segno. Fine abbassò gli occhi sulla Bibbia, con la faccia imbronciata, come se l'avessero accusato ingiustamente. Nella stanza cadde il silenzio, sembrava che tutti volessero prendere tempo. Poi Jeffrey domandò: «Aveva raccontato a Jenny la sua teoria su Mark? Per questo lei voleva ucciderlo?». Fine fissò la Bibbia. Jeffrey prese il suo mutismo come una conferma. «Che altro le faceva fare Dottie?» «Solo le consegne.» «No, prima.» «Mi faceva andare a casa sua quando doveva fare le fotografie» ammise. «Io non volevo, ma lei mi teneva in pugno. Se quelle foto finivano in mano a qualcuno ero rovinato. Mia moglie, i miei figli...» Gli occhi si riempirono di lacrime. «Ho delle responsabilità.» «Ha posato per altre fotografie?» Tanta stupidità sembrava incredibile. Ma forse il pastore non era una stupido, forse ci provava semplicemente gusto. Annuì. «Io non volevo. Lei...» cercò la parola giusta. «Lei si divertiva a umiliare la gente.» «E come la umiliava?» «Sapeva che a me non piacevano i maschi, mi faceva fare quelle cose.» «Con Mark Patterson?» Annuì con un cenno deciso e per la prima volta parve vergognarsi. «Quello che facevamo io e Jenny era... speciale. So che voi non potete capire, ma c'era qualcosa fra noi. Qualcosa che ci legava.» Si coprì gli occhi con la mano. «Era la mia prediletta. Le volevo tanto bene.» «La smetta con queste stronzate Dave, altrimenti giuro su Dio che la
faccio pentire a suon di pugni.» Lui alzò gli occhi, quasi offeso che nessuno lo capisse. Jeffrey proseguì: «Perché ha smesso? Con Jenny, voglio dire. Come mai ha sospeso i rapporti sessuali?». «È stata lei a rifiutarmi» disse con le lacrime agli occhi. «Diceva che non voleva più avere niente a che fare con me.» Tirò su col naso rumorosamente. «Dopo le fotografie... Non lo so. Come se Dottie volesse dimostrare qualcosa a Jenny, il fatto che quella notte sono andato da loro.» «Dimostrare che eravate tutti uguali» suggerì Jeffrey. Era un comportamento che calzava a Dottie alla perfezione. «Ma non era vero» insistette Fine. «Io amavo Jenny. Provavo per lei un profondo affetto.» «Per questo è andato a trovarla dopo le vacanze in montagna?» «Aveva un'aria malata» disse Jeffrey. «Non sapevo cosa le fosse capitato e Dottie non me la lasciava vedere. Ho persino posato per altre fotografie pur di entrare in quella casa, pur di vedere come stava Jenny, ma quando sono arrivato, Grace se l'era portata alla roulotte.» Jeffrey strinse i denti. Sapeva che Fine era ritornato da Dottie solo per avere modo di molestare altri bambini. Che poi fosse convinto di amare sinceramente Jenny Weaver, era solo la prova tangibile del suo squilibrio mentale. Nick domandò: «E Grace Patterson? Che ruolo aveva in questa storia?». A sentirla nominare Fine si incupì. «Era peggio di Dottie. Era disgustosa.» «In che senso?» «Le cose che si inventava. Le auguro di bruciare tra le fiamme dell'inferno per i peccati che ha commesso.» Jeffrey rinunciò a fare commenti. «Dottie e Grace erano socie in affari?» Annuì. «Le fotografie erano appannaggio quasi esclusivo di Grace. Dottie si occupava delle fasi successive.» Fece una pausa. «Tutte le pose erano idee di Grace. Le piaceva anche farsi fotografare, toccare i bambini. Più le pose erano sadiche e meglio era.» «E Dottie non partecipava mai?» «Lei faceva quelle più realistiche. Quelle a sfondo romantico. Dottie trattava il materiale più delicato, Grace quello più scabroso.» Si leccò nervosamente le labbra con un'espressione di rancore nello sguardo, come se le sole colpevoli fossero le due donne. «Si conoscevano da un sacco di tempo.»
«Glielo hanno detto loro?» «No» disse. «È stata Jenny. Mi ha detto che lei e sua madre cambiavano spesso residenza. Ovunque andassero, Grace le veniva a trovare almeno una volta al mese.» «E Teddy Patterson?» Fine scosse il capo. «Ci ammazzava, se lo veniva a sapere.» «Non ne sapeva nulla?» domandò Nick incredulo. «Certo che no. Agivamo solo quando lui era fuori città per lavoro. Fa il camionista.» Nick era scettico. «Vuole dire che non ha mai fatto una consegna di riviste?» «Grace lo teneva fuori» confermò Fine. «Non era quel genere di persona.» «Quale genere di persona?» Fissò la Bibbia. «Uno come me, immagino. Un uomo a cui piacciono i bambini.» «Un uomo che fa del male ai bambini» lo corresse Nick. «A Jenny non facevo del male.» «Ah no?» lo incalzò Jeffrey sporgendosi sul tavolo. «Mi vuole spiegare come fa una ragazzina di tredici anni a procurarsi una frattura del bacino?» «Lei andava anche con altri uomini» si difese Fine, ma non sembrava sorpreso dalla notizia. «Altri uomini che non erano gentili come lei?» «Non è come pensa lei.» «Davvero? Lei è un uomo pesante, Dave. Vuole che controlli sul referto dell'autopsia il peso e le dimensioni di Jenny?» Fine si schiarì la voce ma non disse nulla. Prese la Bibbia dal tavolo e se la strinse al petto. Jeffrey lo osservò, c'era qualcosa che lo disturbava. Poi arrivò la folgorazione: l'anello nuziale sulla mano sinistra di Dave. Riandò con la mente all'immagine che aveva visto sulla rivista: la mano salda sulla nuca, che sospingeva la testa di Jenny verso il basso. «Figlio di puttana» gridò. Si avventò su di lui picchiando il ginocchio contro il tavolo e afferrò la Bibbia con le due mani. La fitta alla rotula lo fece ancor più inferocire. «Jeffrey» gridò Nick cercando di trattenerlo. «Figlio di puttana di un pervertito.» Strappò con furia il libro dalle mani del pastore. Fine lo teneva così stretto che quando mollò la presa ricadde con un tonfo sulla sedia. «Ho visto le fotografie, idiota. Ho visto cosa le
facevi. Ho visto come la violentavi.» Rimase in piedi e lo guardò pieno di odio. «Questa non la meriti» disse indicando la Bibbia. «Quello che hai fatto a quei bambini... quello che hai fatto a lei...» «Solo con Jenny» insistette Fine. Jeffrey stava per mettergli le mani addosso, ma decise che per Fine non ne valeva la pena. «Solo con Jenny» ripeté il pastore. «Ti sei dimenticato di toglierti la fede, in quelle foto.» Buttò la Bibbia sul tavolo. «Ti ho visto in almeno dieci fotografie con dieci bambini diversi.» Girò intorno al tavolo. «Fottuto idiota.» «Lei non ha il diritto di parlarmi così» lo redarguì Fine. Jeffrey lo afferrò per il braccio e lo sollevò di peso. «Ringrazia il cielo che sto qui a parlare invece di conciarti per le feste.» «Questa è brutalità delle forze dell'ordine» frignò Fine spazzolandosi i pantaloni con la mano. «Voglio un avvocato.» «Buddy Conford rifiuterebbe anche solo di avvicinarsi, a uno come te.» «Ho qualcun altro.» Si sistemò la camicia dentro i pantaloni. «Qualcuno di Atlanta.» «Qualcuno che difende i maniaci tuoi pari. Probabilmente si fa pagare con le fotografie» fu il commento di Nick. «O con le bambine» sorrise Fine e per la prima volta si rivelò per quello che era. Jeffrey riuscì a frenare l'impulso di prenderlo per il collo solo perché intuì che ne sapeva più di quello che diceva. «Tu te ne vai in galera» gli annunciò. «Lo sai cosa fanno alla gente come te in galera?» «Ma certo signor Tolliver. Guardo anch'io la televisione. Sono solo balle.» «Balle?» intervenne Nick. «Vuoi verificare di persona?» «Non credo proprio che andrò in prigione» disse quasi compiaciuto. «Cosa te lo fa pensare?» «Ho la mia carta da giocare.» «Quale carta?» domandò Jeffrey cercando di non mostrarsi troppo ansioso. Se Fine si convinceva di avere qualche potere su di loro, non avrebbe mai parlato. «Aspettiamo che arrivi il mio avvocato.» Offrì i polsi per farsi ammanettare. «Senza il mio avvocato non dico nulla.»
«La cella porta consiglio» disse Jeffrey tirando fuori le manette. «Oh, oh. La camera di sicurezza» fece Nick. «Che vuol dire?» domandò Fine preoccupato. Jeffrey fece scattare le manette intorno ai polsi. «È solo una cella.» «Che strana coincidenza» fece Nick sarcastico. «Un sacco di gente che finisce dentro ha incontrato dei tipi come lei durante l'infanzia.» Fine si voltò a guardarlo. «Che significa?» Jeffrey sorrise e lo spinse verso la porta. «Significa che mentre aspetti il tuo principe del foro - ci metterà un po', ad arrivare da Atlanta - tu avrai tutto il tempo di spiegare ai tuoi compagni di cella cos'è il vero amore.» «Un momento.» Piantò i piedi, deciso a opporre resistenza. «Io devo avere una cella separata.» «Te la puoi scordare.» Lo buttò avanti con una spinta facendolo incespicare, tanto che Nick dovette sorreggerlo. «È la legge» insistette Fine. «Non potete mettermi con gli altri.» «Io posso fare quello che voglio» disse Jeffrey. «Un momento» ripeté Fine impaurito. «Non potete farlo.» «E perché no?» Lo afferrò per il colletto della camicia e lo trascinò fuori dalla stanza. «No» gridò Fine. Cercò di aggrapparsi allo stipite, ma inutilmente. «Hai qualcosa da dirmi, Fine?» lo provocò Jeffrey spingendolo lungo il corridoio. «Aiutatemi» gridò Fine. Protese le braccia verso un agente che usciva in quel momento dal bagno. L'agente lo guardò perplesso, poi guardò Jeffrey e proseguì per la sua strada come se non avesse visto niente. «Avanti» ordinò Jeffrey continuando a tenerlo per il colletto. «Qualcuno mi aiuti!» Si buttò in ginocchio, ma Jeffrey continuò a trascinarlo. «Aiutatemi!» «Come tu hai aiutato Jenny?» gli domandò Nick camminandogli al fianco. «Come stai aiutando Lacey?» «Io non so dove si trova!» gridò. Buttò le mani a terra per opporre più resistenza. Dall'angolo del corridoio fece capolino Maria, lanciò un'occhiata a Fine, scrollò la testa e scomparve. «Aiutatemi» implorò Fine con la voce roca per lo sforzo. «Oh, Signore, ti prego, aiutami.» Jeffrey lo mollò e lui stramazzò a terra singhiozzante. «Oh, Signore, ti
prego, liberami da questi uomini.» Nick si chinò di fronte a lui. «Il Signore aiuta quelli che si sanno aiutare.» «Continua pure a pregare, pastore» lo schernì Jeffrey. «Prega che i giornali non rivelino che sei morto violentato dai tuoi compagni di cella.» Nick gli posò una mano sulla spalla. «Immagina quando tua moglie e i tuoi figli lo verranno a sapere. Non è un bel modo di andarsene.» Fine lo guardò sconvolto, con le lacrime che gli rigavano le guance. «E va bene» disse. «Va bene.» «Va bene cosa?» «Va bene» ripeté. «Forse so dove si trova.» Jeffrey era alla guida e Nick sedeva sul sedile posteriore accanto a Fine. Dietro di loro viaggiava a distanza di sicurezza un'auto senza contrassegni con quattro agenti del centro investigativo della Georgia. «Ci stai prendendo per il culo, Fine?» disse Jeffrey svoltando di nuovo a destra. Era la terza volta che facevano il giro dell'isolato. «Vi ho detto che l'indirizzo preciso non lo so» si giustificò. «Dottie mi ha portato qui solo una volta.» «Per fare che?» domandò Nick. «Niente» borbottò e continuò a guardare dal finestrino. Jeffrey lo guardò dallo specchietto retrovisore. «Mi auguro che non sia solo un trucco cretino per prendere tempo.» «Vi ho detto di no» si accalorò Fine. «Vi ho detto che veniva qui a sbrigare certe faccende.» «Quali faccende?» domandò Jeffrey. Fine tergiversò, sembrava che non volesse rispondere, ma poi si decise. Jeffrey avrebbe voluto credere che lo faceva spinto dai sensi di colpa, ma era poliziotto da troppo tempo per non sapere che si trattava di pura e semplice stupidità. «Ci abita un tipo che qualche volta tiene lì i bambini.» «Sei sicuro che ci sia solo lui?» «Sì. La casa viene usata come posto sicuro.» «Sicuro per chi?» domandò Nick. «Secondo lei per chi?» lo rintuzzò Fine. «Ci tiene le fotografie, più che altro, ma un paio di volte ho visto dei bambini e delle macchine fotografiche.» «E dato il tuo spiccato senso della giustizia, ti sei premurato di avvisare
subito la polizia» ironizzò Nick. Fine continuò a guardare fuori dal finestrino, probabilmente compatendosi per la sua triste sorte. Avevano impiegato un'ora per raggiungere Macon e da due perlustravano la zona in cerca della casa che Fine sosteneva di poter riconoscere solo alla vista. Jeffrey guardò innervosito nello specchietto retrovisore, temeva che prima o poi qualcuno chiamasse la polizia di Macon per segnalare la presenza di due macchine sospette nel vicinato. Si stavano muovendo su un terreno minato. Formalmente, il centro investigativo della Georgia aveva giurisdizione su tutto il territorio dello stato ma, per correttezza, avrebbero dovuto segnalare al dipartimento di polizia del posto che stavano cercando di rintracciare dei sospetti. Dato però che Nick e Jeffrey non avevano neppure la certezza che Dave Fine fosse mai stato lì, e tanto meno che Lacey Patterson si trovasse a Macon, non avevano granché di cui informare il dipartimento. Non potevano chiedere un mandato di perquisizione senza un indirizzo preciso, così Nick, per tacitare la burocrazia, aveva deciso di giustificare l'intervento con l'estrema urgenza. A cose fatte potevano sempre sostenere di aver notato qualcosa di sospetto nella casa. E poiché c'era di mezzo un minore, e il fattore tempo era cruciale, era improbabile che qualcuno sollevasse obiezioni. «Svolti qui» disse Fine. «Laggiù a sinistra. Mi sembra di riconoscere la strada.» Jeffrey seguì le indicazioni senza troppa convinzione. Anche da lì erano già passati. «Ecco. La prossima a destra» continuò Fine eccitato. Jeffrey svoltò a destra su una strada che non avevano ancora percorso. Scambiò un'occhiata con Nick attraverso lo specchietto. «Eccola» annunciò Fine. «La casa sulla destra con il cancello.» Jeffrey non rallentò, ma fece in tempo a notare che aveva tutte le imposte chiuse. Fuori erano accese le luci di sicurezza, nonostante fosse mattino inoltrato. Sul cancello c'era un grosso lucchetto, bisognava solo verificare se serviva a impedire l'entrata o l'uscita. Fermò la macchina in fondo alla strada e aspettò che anche l'altra lo raggiungesse. A una decina di metri da loro scorreva la statale, trafficata e molto rumorosa. Probabilmente i residenti si erano assuefatti, ma il passaggio di ogni macchina era come un'unghia sulla lavagna. L'agente Wallace smontò dalla seconda auto lasciando a bordo altri due uomini e un donna. Si sistemò la cintura, nonostante portasse la fondina a spalla. Era un ragazzone corpulento, i bicipiti gonfi di palestra gli tendeva-
no le maniche corte della camicia e aveva le guance arrossate da una rasatura troppo solerte. «La casa col cancello?» domandò levandosi gli occhiali da sole. «È quello che sostiene il nostro amico» rispose Jeffrey. Lui guardò Nick per avere conferma, poi tornò a guardare la casa, sputò per terra e si mise a braccia conserte. «Figlio di puttana» bofonchiò. Nick intanto aveva chiamato il dipartimento di polizia di Macon. «Non mi sono sembrati entusiasti» disse chiudendo il telefono. «C'era da immaginarselo» disse Jeffrey. Se lo avessero chiamato a Grant per annunciargli un'operazione di cui era stato tenuto all'oscuro, neppure lui l'avrebbe presa bene. «Ci vorrà un po' prima che muovano il culo per venire fin qui» disse Nick. «Gli hai spiegato qual è la casa?» Nick sorrise. «Non mi ricordavo neanche il nome della strada.» Jeffrey rise. Non invidiava i poveretti di turno al dipartimento. Nick aprì la portiera posteriore, afferrò le mani di Dave Fine e prima che il pastore avesse il tempo di protestare gli legò le manette alla maniglia interna sopra la portiera. «Questo ti terrà tranquillo.» «Non potete lasciarmi qui» protestò Fine. «Fossi in te mi godrei questo momento di solitudine.» Fine avvampò. «Che significa? Mi avete promesso che avrò la mia cella alla centrale.» «È vero» disse Jeffrey. «Alla centrale, però. Io non metto becco su quello che decidono alla prigione di stato.» Nick ridacchiò e bussò sul tettuccio della macchina. «Niente paura Dave. Sono sicuro che in prigione incontrerai persone di pregio.» «Non potete farlo.» Nick sorrise. «Non ti preoccupare, pastore. Hanno quasi tutti ritrovato Dio, là dentro. Potrete pregare insieme.» Fine lo guardò in preda al panico. «Avevate promesso!» «Io ho promesso per quel che riguarda la mia centrale» gli ricordò Jeffrey. «Quello che fanno alla prigione di stato non mi compete. Te la dovrai sbrigare con loro.» «Ha detto che avremmo patteggiato.» «Patteggiato una riduzione di pena, ma la galera è garantita.» Fine stava per obiettare qualcosa, ma Nick gli sbatté in faccia la portiera. Jeffrey abbassò le sicure col telecomando e Nick controllò la sua pistola.
«Due volte in un giorno comincia a essere troppo.» «Portiamoci il ragazzo» propose Jeffrey indicando Wallace che sembrava non aspettasse altro. Anche Jeffrey sembrava smanioso, con tanta adrenalina in corpo da non riuscire a stare fermo. Nick andò all'altra macchina e ordinò ai tre agenti di occuparsi del retro della casa. «Diamogli due o tre minuti» disse. Controllò l'orologio - sapeva per esperienza che in situazioni come quella il tempo poteva volare o fermarsi poi guardò verso la macchina dove era rinchiuso Dave. «Non ci lascerei neanche un cane, con questo caldo.» «Neppure io» disse Jeffrey, ma si guardò bene dall'abbassare i finestrini. Rimasero zitti a guardare il traffico che scorreva sulla statale, in attesa che Nick desse il segnale. Finalmente, dopo aver guardato l'orologio, diede il via all'azione. Jeffrey spostò la pistola nella fondina ascellare. Ne aveva una terza alla caviglia. Era raro che si bardasse così, ma voleva essere pronto a qualsiasi evenienza, non poteva sapere cosa gli riservava quella casa. Gli alberi e le siepi troppo cresciute la tenevano seminascosta dalla strada, ma avvicinandosi vide che si trattava di una costruzione in mattoni con le grondaie e gli infissi dipinti di bianco, piuttosto piccola, probabilmente composta di due camere da letto, un bagno e un soggiorno con angolo cucina. Ce n'erano di simili anche a Grant, costruite in economia dopo la guerra per garantire un primo alloggio ai veterani di ritorno dal fronte. Grossi blocchi di cemento, con prese d'aria per l'umidità, fungevano da fondamenta. «Niente scantinato» disse Nick. Jeffrey annuì e indicò il tetto. Non c'era un piano superiore, ma poteva esserci qualcuno nascosto nel solaio. Andò avanti Wallace, che scavalcò senza difficoltà lo steccato laterale, quasi completamente nascosto dai cespugli. Lo seguì Nick che, un po' meno agile, atterrò sul sedere. Ultimo venne Jeffrey. Quando furono tutti e tre nel giardino Nick prese il walkie talkie e annunciò agli altri agenti: «Siamo dentro la proprietà». Si udì un flebile «Ricevuto», segno che anche gli altri si erano messi in posizione. Jeffrey estrasse la pistola e fece cenno di procedere verso la porta principale. Quando furono vicini udirono della musica che proveniva dall'interno. Jeffrey riconobbe il complesso che cantava, ma non ricordava il nome.
Wallace si fermò davanti alla porta con la pistola in pugno sollevata sopra la testa. Contò fino a tre e sferrò un calcio. Non accadde nulla. «Merda» imprecò, scuotendo la gamba. Per un attimo Jeffrey temette che fosse la casa sbagliata. Poi immaginò che qualcuno li aspettasse oltre la porta con un fucile a canna doppia, pronto a far saltare le cervella a tutti e tre. Pensò a Sara, che gli aveva chiesto di essere prudente, poi pensò a Lacey Patterson e scacciò ogni altro pensiero dalla mente. Fece segno a Wallace che questa volta avrebbero colpito insieme. Contò fino a tre e questa volta la porta cedette. «Polizia!» gridò Nick lanciandosi dentro dietro a loro. Non c'era nessuno col fucile puntato. C'era invece una ragazzina in maglietta e mutandine rosa. Sembrava che si fosse appena svegliata. Jeffrey puntò la pistola al soffitto. Stava per chiederle qualcosa quando lei indicò verso il corridoio senza dire una parola. Mentre Nick e Wallace andavano a controllare la stanza a fianco, lui si levò il giubbotto e glielo mise attorno alla spalle, la condusse sul portico e le disse di andare ad aspettare di fronte al cancello. Avrebbe voluto rassicurarla, dirle che non era più in pericolo, ma il vuoto che le lesse nello sguardo glielo impedì. Era oltre ogni possibilità di conforto. Tornarono Nick e Wallace scuotendo la testa. Non avevano trovato nulla. Con un cenno del mento Nick fece capire che sarebbe andato avanti per primo. Jeffrey si ricordò della sensazione sinistra che aveva provato entrando nella casa di Dottie. L'atmosfera era la stessa, ma l'ambiente diverso. Una vecchia moquette a pelo lungo neutralizzava il rumore dei loro passi sul pavimento di legno. Alle pareti erano appesi disegni incorniciati, probabilmente opera di bambini. Nick, che precedeva gli altri, si appiattì di fianco a una porta chiusa. La musica proveniva da lì e Jeffrey riconobbe la canzone. I love you, love you, my sweet baby. Nick abbassò la maniglia, aprì la porta, aspettò qualche secondo ed entrò, seguito da Jeffrey. Al centro della stanza c'era una letto enorme circondato da specchi. Le lenzuola erano in disordine, come se qualcuno se ne fosse appena andato, e nell'aria ristagnava un odore che Jeffrey preferì ignorare. L'impianto stereo era appoggiato sulla scatola di imballaggio e continuava a trasmettere la canzone sdolcinata. Due videocamere sui treppiedi erano puntate sul letto e gli specchi intorno restituivano l'immagine moltiplicata. Jeffrey restò come interdetto, anche se il primo impulso fu
quello di andarsene subito da lì. Nick guardò sotto il letto poi andò ad aprire la cabina armadio. Wallace tossicchiò per attirare la loro attenzione e indicò il corridoio. Quando Jeffrey lo raggiunse gli sussurrò nell'orecchio, indicando un'altra porta chiusa: «Ho visto un bambino entrare lì dentro». Li raggiunse Nick che non aveva trovato nulla nell'armadio. Si guardò in giro e indicò sul soffitto la corda che serviva ad abbassare le scala pieghevole che dava accesso al solaio. La corda era immobile, ma questo non garantiva che di sopra non ci fosse qualcuno. Jeffrey controllò il bagno, che era piccolo e sporco. Il ripiano accanto al lavabo era pieno di giocattoli e altri ce n'erano ammucchiati nella vasca. La doccia era priva di tenda. Controllò gli armadietti a muro, ma contenevano solamente asciugamani, prodotti per la pulizia e qualche pannolino. La presenza dei pannolini lo inquietò e sentì svanire anche la timida speranza di ritrovare Lacey Patterson viva. Quando Nick gli posò una mano sulla spalla ebbe la sensazione che stesse pensando la stessa cosa. Rimaneva un'ultima stanza da controllare e questa volta fu lui ad appiattirsi contro il muro. Spalancò la porta e si lanciò dentro con la pistola puntata, ma non trovò nessuno. C'erano tre materassi allineati contro la parete, anche questi con le lenzuola arruffate. Agli infissi delle finestre erano inchiodati dei riquadri di stoffa perfettamente tesi, come le tele di un quadro. Andò alla cabina armadio aspettandosi il peggio. La aprì lentamente, ma non trovò altro che una serie di ripiani stipati di scatole. Ciascuna era contrassegnata da numeri in rosso, ne aprì una a caso e com'era prevedibile era piena di fotografie. Studiò per un attimo le altre e ne dedusse che i numeri indicavano la fascia d'età dei bambini ritratti. Sulle prime del ripiano in alto era scritto 0 -1. Si ricordò del bambino che Wallace aveva visto entrare e notò che due degli scatoloni più grandi posati a terra non erano allineati. Li tirò fuori e si trovò davanti un bambino di non più di sei anni, accovacciato con la testa fra le ginocchia. Come vide Jeffrey, il bambino cercò di trascinarsi addosso uno degli scatoloni per tornare a nascondersi, ma era così spaventato che le braccia non avevano più forza. Jeffrey si chinò e incrociò il suo sguardo pieno di paura, uno sguardo che non avrebbe facilmente dimenticato. Cercò di sorridergli con l'intenzione di convincerlo a uscire, di dirgli che era tutto finito e non doveva più avere paura, ma poi pensò che forse non era la cosa più saggia da fare. L'adulto o gli adulti che lo avevano ter-
rorizzato erano ancora nella casa. Per il momento era meglio lasciarlo nel suo nascondiglio e non esporlo ad altri rischi. Si voltò e vide che Nick era tornato in corridoio e stava abbassando la scala che portava al solaio. Le molle entrarono in tensione con un cigolio e il primo gradino colpì il pavimento con un tonfo. Nick tirò fuori la torcia elettrica tascabile, se la mise fra i denti e cominciò a salire reggendosi alla scala con una mano e stringendo nell'altra la pistola. Quando infilò la testa nell'apertura Jeffrey trattenne il fiato. Dopo qualche secondo Nick guardò giù scuotendo la testa e si levò la pila dalla bocca. «Vuoto» disse e scese giù. Prese dalla tasca il walkie talkie e chiamò i suoi uomini. «Qualcuno è uscito dal retro?» Si udirono delle scariche poi una voce femminile rispose: «Negativo, signore. Controlliamo il retro e i lati della casa». Nick sospirò, decisamente deluso. «Lasciate fuori Robbins. Tu e Peters venite dentro, ho bisogno di voi per un altro controllo.» «Ci siamo lasciati sfuggire qualcosa?» domandò Wallace. «Non lo so, dannazione.» Sollevò la scala per farla risalire, ma gli sfuggì di mano e ricadde a terra con un tonfo sordo. Stava per riprovarci, quando Jeffrey lo fermò e gli indicò il pavimento. Nick scosse la testa perplesso, poi capì. La scala, toccando terra, aveva fatto un rumore strano. Annuì, si chinò a guardare e indicò la linea di polvere lasciata dalla moquette quando era stata sollevata e poi lasciata ricadere. Jeffrey spinse in alto la scala, infilò la pistola nella fondina e sollevò la moquette. Nascondeva una botola con una piccola maniglia al centro. Fece segno a Wallace di mettersi sull'altro lato e sollevarla, e si tenne pronto insieme a Nick, armi alla mano. Il tempo sembrava rallentato, alla canzoncina che li aveva accolti se ne sostituì un'altra, altrettanto banale. Wallace tirò a sé la botola, che cominciò a sollevarsi con uno scricchiolio. Jeffrey sentì il sudore colare sulla faccia, si morse il labbro e il sapore del sangue gli serrò la gola. Abbassò la testa per guardare giù, oltre l'apertura, e a poco più di un metro dai suoi piedi vide Lacey Patterson, rannicchiata sul pavimento, tremante di paura. Era tutta sporca, con la testa rasata e un livido sulla fronte. Teneva a malapena gli occhi aperti. Forse l'avevano drogata, forse picchiata, forse entrambe le cose. «Gesù Cristo» mormorò Wallace. Jeffrey si stese sulla pancia per vedere meglio. «Lacey?»
La ragazzina non rispose. Aveva della bava bianca agli angoli della bocca. «Lacey?» Posò la pistola e allungò la mano per toccarle la fronte. Era madida e la pelle sembrava impiastrata di sabbia. «Tienimi per i piedi» disse a Wallace. Si infilò dentro con la testa e le braccia, afferrò Lacey sotto le ascelle e cercò di sollevarla. Era piccola, ma era come un peso morto. Si fece aiutare da Nick e in due riuscirono a tirarla fuori. «Va tutto bene» disse Nick. La condusse nella stanza e la fece sedere per terra. Jeffrey si tirò su e si ripulì la fronte. Nello sotterraneo basso e soffocante il caldo aveva polverizzato come farina la terra rossa della Georgia. D'un tratto si udì un fruscio, come se qualcosa si muovesse sotto i loro piedi. Senza pensarci due volte Jeffrey balzò dentro il buco e atterrò con le mani avanti. Si ritrovò al buio, sotto un labirinto di tubature. Sbatté gli occhi per familiarizzarsi con la penombra densa che lo circondava e intravide in fondo una lama di luce. «Nick!» chiamò, poi cominciò a strisciare verso la luce reggendosi sui gomiti e puntando i piedi. Da sopra lo raggiunse un rumore di passi precipitosi e pregò che l'uomo di Nick di guardia sul retro entrasse subito in azione. Guardò in fondo e intravide un paio di piedi scomparire dall'apertura di una presa d'aria. Si trascinò avanti più in fretta che poteva; picchiando la testa contro la conduttura del gas. Quando arrivò alla bocca di luce si mise a gambe avanti, sferrò un calcio violento a piedi uniti e la malta corrosa dal tempo si sbriciolò lasciando cadere qualche mattone. Si girò di nuovo e si trascinò fuori a braccia, incurante del dolore quando un mattone acuminato gli lacerò i pantaloni. «Ferma!» gridò Robbins. Era un agente giovane e stava facendo quello che gli avevano insegnato: era a gambe divaricate, con le braccia tese e le mani strette attorno alla pistola, che teneva puntata contro la figura che gli veniva incontro. Come lo vide, Jeffrey immaginò come sarebbe andata a finire e purtroppo indovinò. La figura in corsa si buttò contro Robbins facendogli perdere la pistola. Jeffrey riuscì a tirarsi in piedi appena in tempo per riconoscere chi stava correndo. «Dottie!» gridò. Dottie si fermò, si voltò e lo guardò negli occhi. Alzò le mani come se volesse arrendersi, poi con uno scatto ricominciò a correre verso lo stecca-
to. Jeffrey estrasse la pistola che teneva al polpaccio e prese la mira, ma Dottie era già saltata nel giardino dei vicini, tra un gruppo di bambini che giocavano intorno all'altalena. Le corse dietro, scavalcò lo steccato senza rallentare e, continuò l'inseguimento schivando i piccoli come in un percorso a ostacoli. Dottie si precipitò dentro la casa facendo sbattere la porta alle sue spalle. Jeffrey salì i gradini a due a due, spalancò la porta con una spallata e si lanciò nell'atrio evitando per un pelo di travolgere una fila di bambini. Quello in testa gli arrivava a malapena alla vita e per evitarlo Jeffrey crollò di peso contro la parete opposta. Sentì una fitta al braccio e la pistola gli scivolò di mano. «Signore...» Gli si parò davanti una ragazza sui vent'anni, con i capelli raccolti in una coda di cavallo. Era terrorizzata. Jeffrey si mise seduto e strinse forte le dita intorno al braccio per capire se c'era qualcosa di rotto. Ansimava per la corsa e almeno una decina di bambini lo stavano fissando impietriti dalla paura. Come si rese contro di trovarsi in un giardino d'infanzia il cuore gli balzò in gola. Dottie aveva libero accesso in quei locali? «Signore...» ripeté la ragazza. Si teneva stretta ai bambini più vicini. Jeffrey gli mostrò il distintivo, prese fiato, deglutì e finalmente riuscì a dire: «Dove? Quella donna». «Wendy?» domandò la ragazza. «Wendy James?» Jeffrey scrollò il capo pensando che non avesse capito. «Se n'è andata» rispose la ragazza. «Ha attraversato la casa e...» Lui recuperò la pistola, balzò in piedi, volò fuori dalla porta, attraversò il giardino e si lanciò in strada, in tempo per vedere una macchina che svoltava a destra e andava a immettersi sulla statale piena di traffico. Poteva essere bianca, marrone o grigia. A quattro porte, coupè o station wagon. Non ne aveva idea. Sapeva solo che era scomparsa. 20 Jeffrey andò verso il pontile dietro la casa di Sara. La luna era alta sopra gli alberi e dal lago arrivava una piacevole brezza. Si fermò a guardare Sara e sentì allentarsi la tensione che aveva in corpo. Lei era seduta con le gambe allungate su una delle due chaise-longue e guardava gli scogli che affioravano dall'acqua illuminati dalla luna. Aveva con sé i levrieri e teneva una mano sulla testa di Bob. Indossava un paio di pantaloncini e una vecchia camicia, ma a Jeffrey parve ancora più bella della sera prima.
Quando udì i suoi passi sul pontile Sara si voltò a guardarlo. Billy e Bob non si mossero e continuarono a fissare l'acqua. «Non aver paura, vieni» scherzò lei. «Sono troppo feroci per i miei gusti» disse lui con un sorriso. Si chinò su un ginocchio e accarezzò Bob sulla testa. Il cane si rovesciò subito sulla schiena scalciando l'aria con la zampa sinistra e Jeffrey gli accarezzò la pancia. Sara gli posò una mano sulla spalla: «Come sta Lacey?». Sospirò. «Un po' meglio. Comincia a smaltire i sonniferi, ma è ancora intontita.» «Hanno trovato nulla?» «Non c'è evidenza di abusi recenti.» «Recenti?» Jeffrey annuì. «Segni di qualcosa che è successo prima.» Sara intuì che non aveva voglia di entrare nei particolari. «Cos'ha detto il padre?» domandò. Lui continuò ad accarezzare la pancia di Bob godendosi quel piccolo piacere. «Ha detto che è contento di averla ritrovata.» «Ha obiettato qualcosa, quando gli hai detto che domani le voglio parlare?» «Non mi sembra. Continua a credere che l'unica responsabile sia Dottie.» Sara si portò i capelli dietro l'orecchio. «Hanno identificato gli altri bambini?» «Stanno facendo i riscontri delle impronte digitali. Non ho idea di cosa ne uscirà. Uno ha uno spiccato accento canadese. Il bambino che...» si trattenne, incerto se raccontare a Sara cosa avevano trovato in quella casa. Quei pensieri stavano diventando come un cancro che gli rodeva il cervello. «E il giardino d'infanzia accanto?» «Aveva appena iniziato a lavorare lì» disse Jeffrey. «Poco più di una settimana. Hanno esaminato tutti i bambini e per fortuna pare che non abbia avuto abbastanza tempo.» Inevitabilmente, Sara pronunciò la domanda che lo teneva sveglio la notte: «Credi che riuscirai a trovare Dottie?». «Non dovrebbe sapere che l'abbiamo rintracciata attraverso il codice di previdenza sociale di Jenny.» Grattò Billy dietro l'orecchio. «Un impiegato ci ha detto che ha già ritirato altra posta da quella casella. La utilizza da quasi un anno. Viene inoltrata lì anche la posta di altre due caselle.»
Sara strinse le labbra. «A quanto pare sa come muoversi.» «Stiamo coordinando l'azione con l'istituto di credito che ha emesso la carta. La spediranno domani. Arriverà in casella fra un paio di giorni.» Alzò le spalle. «Non ci resta che aspettare, ma non credo che sarà per molto. Dottie ha bisogno di quei soldi per rimettere in piedi l'attività, ovunque sarà.» «Tu credi?» Sorrise amareggiato. «L'impiegato dell'ufficio postale ha detto che nella casella c'è già un'altra carta emessa da un altro istituto.» «Come mai tanto zelo nel collaborare?» Di solito erano tutti riluttanti a dare una mano alla polizia. «Senza neppure una citazione?» «Senza citazione. Quando si tratta di bambini tutti cambiano atteggiamento.» «Questo almeno è consolante. Altre novità?» «Siamo in contatto anche con la scuola, per cercare di capire quanti ragazzi sono stati coinvolti in questa storia.» «Io controllerò tutte le mie cartelle.» «Molly ti darà una mano?» Sara annuì. «Ho già parlato con lei, ma dobbiamo muoverci con cautela. Qualcuno avrà reazioni isteriche, anche se i loro figli non hanno mai visto in faccia né Dave Fine, né Dottie, né Grace.» «Sei sicura?» «Lo vedrai da te. Non si può fargliene una colpa, ma dovremo trovare un modo di distinguere i casi reali dai fantasmi. In un certo senso è una fortuna che abbiamo a che fare con ragazzini abbastanza grandi, in grado di esprimersi personalmente.» «Non mi sembravano molto grandi, nelle fotografie.» «L'FBI penserà a stabilire le età. Utilizzano dei parametri che permettono ottimi livelli di approssimazione.» «Che tristezza pensare che abbiamo bisogno di queste cose.» «Vuoi che venga con te alla scuola?» Jeffrey sospirò pensando alle giornate difficili che lo aspettavano. Non toccava a Sara neppure il colloquio con Lacey, anche se lo aveva accettato di buon grado. «Non fa parte dei tuoi compiti» disse. «Ma se vieni mi fai un grosso favore.» «D'accordo allora. Verrò.» «Quello che non riesco a capire è come mai i bambini proteggono questa gente. Perché Lacey o Jenny non si sono rivolte ai loro insegnanti o a te?»
«Non è semplice per loro» spiegò Sara. «I genitori sono tutto per loro. Non possono semplicemente andarsene e trovarsi un lavoro per vivere. E poi certe volte i genitori riescono a convincerli che è normale, o che non hanno alternative.» «Come la sindrome di Stoccolma» osservò lui. «Quando la vittima si innamora del suo rapitore.» «È una buona analogia» riconobbe Sara. «I genitori hanno i loro metodi. Abusano di loro e poi li premiano con qualcosa. Oppure li fanno sentire in colpa, come se fossero stati loro a decidere di fare certe cose, o li ingannano. I bambini non si rendono conto di essere delle vittime.» Sospirò. «E poi, nonostante tutto, amano i loro genitori. Vogliono compiacerli. Non vogliono metterli nei guai. Anche se soffrono per quello che subiscono, la paura di perdere il loro amore è troppo forte.» Si prese una pausa per riflettere. «Si crea un meccanismo di dipendenza assoluta. I genitori sono la causa delle loro sofferenze, ma anche gli unici in grado di alleviarle. Ho ripensato anche al parto di Grace.» «E cosa hai pensato?» domandò Jeffrey senza guardarla. «Grace aveva partorito una femmina e forse per questo Jenny l'ha aiutata a sbarazzarsene, era un suo modo di proteggere la piccola.» Jeffrey ci pensò. Jenny era talmente spaventata da Grace che avrebbe fatto qualsiasi cosa pur di compiacerla. «È possibile» disse. «Io credo che sia andata proprio così. Jenny ha aiutato Grace ma ne è uscita sconvolta e ha scatenato il suo odio su Mark, che era il padre.» Sara era così concentrata, che Jeffrey la guardò incuriosito. Neppure lei riusciva a liberarsi dall'orrore di quella storia. Jeffrey si alzò e stirò le braccia verso il cielo. Non voleva più pensare a quelle cose. Non voleva pensare che c'erano altri ragazzi come Jenny e Mark, costretti a subire gli abusi dei genitori. Non voleva pensare a Dottie Weaver e al potere sadico che aveva esercitato su Lacey Patterson. Qualcosa doveva succedere. Non poteva accettare l'idea che Dottie fosse ancora libera di nuocere ad altri bambini. Che ricominciasse a tendere le sue reti in qualche altra cittadina. «È quasi fresco, stasera» disse. «Non è gradevole questa brezza? Mi ero quasi dimenticata che esistesse.» «Non ti dispiace rimanere al buio?» «E perché?» Jeffrey la guardò. «A volte penso che sei la persona più forte che cono-
sco,» Sara sorrise e gli fece cenno di venire a sedersi accanto a lei. Jeffrey si abbandonò sulla chaise-longue con un sospiro. Non si era reso conto di essere tanto stanco. Reclinò indietro la testa e guardò il cielo. Qualche nuvola oscurava le stelle, forse l'agosto stava finalmente mollando la sua presa sul termometro. Presto sarebbe arrivato l'autunno, le foglie sarebbero cadute dagli alberi con i primi freddi e Jenny Weaver avrebbe continuato ad essere morta. «Hai dato l'autorizzazione al ritiro della salma?» domandò. «Sì» «E la neonata?» «Ho parlato con Brock. Farà tutto gratuitamente. C'è un lotto libero al cimitero di Roanoke.» «Lo pago io.» «Ho già provveduto» disse Sara. «Mi accompagnerai alla funzione?» «Certo.» Era il meno che potesse fare. «Paul Jennings mi ha pregato di ricordarti quello che ti ha detto.» Jeffrey rimase zitto. «Cosa ti ha detto?» «Che non devo ritenermi colpevole di quello che è successo. Che non devo tormentarmi la vita con i sensi di colpa.» Sara gli strinse il braccio. «Ha ragione.» «Ha detto che devo dare la colpa a Dottie.» «Credo che dovresti farlo.» «Anche Dave Fine dà a Dottie la colpa di tutto.» «Non è la stessa cosa» disse Sara, «Jeffrey, guardami...» Aspettò di poterlo vedere negli occhi. «Tu hai fatto quello che dovevi fare.» «Ho impedito a Jenny di uccidere Mark, così che lui potesse impiccarsi» disse Jeffrey. «Non ha ancora ripreso conoscenza. Forse non succederà mai.» «E tu credi che sia colpa tua? Non pensavo che avessi tanto potere, Jeffrey.» Cominciò a elencare sulle dita: «Hai indotto Jenny Weaver a puntare una pistola contro Mark. Hai fatto in modo che lui si impiccasse. Hai anche fatto venire Dottie nella nostra città? Sei stato tu a farle rapire Lacey? Sei stato tu a farla lavorare con Grace Patterson nello stesso ospedale? Sei stato tu a farle fare quelle cose orribili ai bambini?» «Non sto dicendo questo.» «A me sembra di sì. Se vuoi accusare qualcuno, accusa me.»
Jeffrey scosse la testa con decisione. «No.» «Io li conoscevo tutti. Visitavo Mark e Lacey da quando erano nati. Jenny era una mia paziente. E colpa mia?» «Certo che no.» «E allora perché dovrebbe essere tua?» Jeffrey appoggiò la testa sulla mano perché lei non vedesse quanto era turbato. «Tu non hai premuto il grilletto» disse. «Tu non l'hai uccisa.» Sara si alzò e si mise in ginocchio di fronte a lui. Gli prese le mani tra le sue. «Ricordi quando ti ho detto che mi viene il batticuore quando non so dove sei e squilla il telefono?» Jeffrey annuì. «È perché ti conosco.» Gli strinse forte le mani. «Perché so che poliziotto sei e che uomo sei.» «Che uomo sono?» «Sei l'uomo che non ha esitato a buttar giù quella porta al posto di Lena. L'uomo che rischia la vita ogni giorno per garantire agli altri la sicurezza. Questo mi piace di te. Mi piace la tua forza, la tua capacità di riflettere sulle cose, senza farti trascinare.» Gli accarezzò la guancia. «Mi piace che tu sia sensibile, che ti preoccupi per Lena e che ti senta responsabile di tutto quello che succede in città.» Jeffrey provò a dire qualcosa, ma lei gli schiacciò un dito sulle labbra per non lasciarsi interrompere. «Io ti amo perché sai confortarmi, perché sai farmi impazzire e perché mandi in bestia mio padre.» Abbassò la voce. «Adoro il modo in cui mi accarezzi e mi fai sentire al sicuro quando sono con te.» Gli baciò le mani. «Tu sei una brava persona, Jeffrey. Dai retta a Paul Jennings. Dai retta a me. Hai fatto la cosa giusta.» Gli baciò le dita e aggiunse: «Non serve che ti tormenti, Jeffrey. Lo hai fatto, e adesso devi andare avanti». Jeffrey guardò le rocce che affioravano dal lago e si domandò se avrebbe mai passato un giorno della sua vita futura senza pensare a Jenny Weaver. «Tu sei una brava persona, Jeffrey» ripeté Sara. Lui non le credette. Forse, se il male al ginocchio non fosse stato lì a ricordargli come si era avventato su Dave Fine, se avesse scordato con che gusto aveva preso a calci nello stomaco Arthur Prynne, sarebbe stato più facile. Forse. Se non avesse continuato a vedere quel paio d'occhi terrorizzati in fondo all'armadio della casa di Macon. «Jeffrey. Tu sei una brava persona» insistette Sara. «Lo so» mentì.
«Lo sento qui» disse lei premendosi una mano sul petto. Lui le passò le dita fra i capelli e glieli sistemò dietro l'orecchio. «Sei così bella.» Sara alzò gli occhi al cielo. «È tutto quello che sai dirmi?» «Rientriamo e ti spiegherò tutto nei dettagli.» Lei rimase seduta sull'erba e si appoggiò sulle mani. «È necessario rientrare?» disse con un sorriso malizioso. VENERDÌ 21 Lena strinse i denti e andò avanti sentendo i piedi sempre più pesanti. Udiva i passi di Hank alle sue spalle, le scarpe economiche che si era comperato per l'occasione schioccavano sul terreno come bacchette su un tamburo. «Già stanca?» le domandò superandola. Lei lo lasciò in testa per un po' e lo osservò da dietro. Il sole non lo aveva in simpatia e invece di abbronzargli la pelle bianchiccia gliela arrossava sempre di più. Le cicatrici che aveva sulle braccia spiccavano in piccoli rilievi violacei e la nuca era già rosso fuoco. Aveva il respiro affannato, ma non si dette per vinto quando lei accelerò e lo affiancò. Il sudore gli incollava sulla testa i capelli grigi e la pappagorgia da tacchino che aveva sotto il mento sobbalzava a ogni passo. Ciò nonostante, Lena fu costretta a riconoscere che per la sua età era abbastanza in forma. Aveva visto di peggio. «Da quella parte» disse indicando una svolta. Abbandonò la strada e Lena lo seguì lungo il sentiero che tagliava tra gli alberi. Il terreno morbido alleviò il dolore alle ginocchia e il bruciore ai muscoli delle gambe. Un tempo adorava quelle sensazioni forti. Le piaceva provare un dolore intenso e riuscire a vincerlo, superare i limiti fisici con la forza di volontà, costringersi a completare il percorso. Cominciò a sentirsi di nuovo forte ed energica, come se potesse fare tutto quello che voleva. Come se fosse di nuovo la vecchia Lena di un tempo. Sapeva dove erano diretti, ma si stupì ugualmente quando raggiunsero il cimitero. Continuarono a correre tra le lapidi allineate guardando avanti, e si fermarono solo quando arrivarono alla tomba di Sibyl. Lena si appoggiò con la mano per stirare le gambe. Il marmo nero era
piacevolmente fresco. Le parve di toccare una parte di Sibyl. Hank sollevò la maglietta per asciugarsi il sudore sugli occhi. «Gesù, Hank» disse Lena schermandosi gli occhi per non vedere la pancia bianca. Aveva delle cicatrici anche lì, ma lei non fece commenti. «Fa caldo» disse Hank, «ma credo che ormai siamo agli sgoccioli.» Lena ci mise qualche secondo a capire che stava parlando a lei e non a Sibyl. «Sì» rispose. Lui andò avanti a parlare del tempo e Lena lo lasciò fare, cercando di mascherare l'imbarazzo. Guardò la tomba di Sibyl. Alla sistemazione aveva pensato Hank, aveva scelto lui le parole e il tipo di pietra. Sopra le date aveva fatto incidere: SIBYL MARIE ADAMS, NIPOTE, SORELLA, AMICA. La sorprese che non avesse scritto «amante» a beneficio di Nan. Da uno come lui se lo sarebbe aspettato. «Guarda.» Hank si chinò sulla tomba. Qualcuno aveva sistemato un piccolo vaso con un'unica rosa bianca che nella calura del mattino cominciava ad avvizzire. «Non è carina?» «Sì» borbottò Lena, ma dall'occhiata sorpresa che le lanciò Hank capì che stava parlando con Sibyl. «Scommetto che l'ha portata Nan. A Sibby sono sempre piaciute le rose» disse Hank. Lena tacque. Probabilmente Nan veniva lì di primo mattino, perché non l'aveva mai incontrata. Non che Lena andasse spesso alla tomba di Sibyl. Quando era appena uscita dall'ospedale, il tratto a piedi era ancora troppo difficoltoso per lei. Poi i piedi erano del tutto guariti, ma il pensiero che Sibyl sapesse che cosa le era successo, che la trovasse cambiata e in qualche modo compromessa, la faceva vergognare. Col passare del tempo le era sembrato assurdo andare a trovare una sorella morta. Hank le parlava come se fosse ancora viva, ma per lei questo era impossibile. «Il bianco fa un bel contrasto col nero, non credi?» disse Hank. «Sì.» Rimasero zitti a contemplare la tomba, lei a braccia conserte, Hank con le mani in tasca. La rosa bianca stava davvero bene, sullo sfondo nero del marmo. Lena non aveva mai capito che senso avesse mandare fiori a un funerale, ma in quel momento si rese conto che servivano ai vivi, perché ricordassero che c'era ancora vita nel mondo e bisognava andare avanti. «Credo che tornerò a Reece» disse Hank. «Domani, probabilmente.» Lena annuì e deglutì per sciogliere il nodo che aveva in gola. «Sì» disse.
«Credo che sia una buona idea.» Non gli aveva detto che Jeffrey le aveva dato un ultimatum: o si decideva a cercare l'aiuto di un terapeuta o rinunciava al lavoro. Non gliene aveva parlato, anche perché temeva che Hank finisse col prendere una decisione per lei. Se la sarebbe riportata a Reece e le avrebbe offerto di lavorare nel bar per averla vicina, ma questo non avrebbe risolto nulla. Un giorno anche lui se ne sarebbe andato. Era vecchio, non poteva vivere in eterno, e allora lei cosa avrebbe fatto? L'idea che Hank potesse morire le fece venire le lacrime agli occhi. Guardò lontano sforzandosi di non piangere. Senza dire nulla, lui prese dalla tasca il fazzoletto e glielo passò. La stoffa era umida di sudore e calda, ma Lena si soffiò ugualmente il naso. «Posso rimandare, se vuoi.» «No» disse lei. «Forse è meglio così.» «Venderò il bar. Posso trovarmi un lavoro qui.» Lasciò passare qualche secondo poi aggiunse: «Oppure potresti venire con me». Lei scosse il capo e sentì arrivare altre lacrime. Non poteva dirgli che non era la sua partenza a inquietarla, ma il pensiero che un giorno sarebbe morto. Era un'idea malsana, ma non riusciva a immaginare di non poterlo chiamare in qualsiasi momento per chiedergli una mano. Non voleva altro da lui. Era l'unica cosa che le aveva sempre garantito. Hank si schiarì la voce e disse: «Tu sei sempre stata la più forte, Lee». Lei rise perché non si era mai sentita tanto fragile e disarmata in vita sua. «Con Sibby sapevo di non poter mancare. Dovevo condurla per mano a ogni passo.» Si interruppe e guardò le corone ancora fresche su una tomba vicina. «Con te era più difficile. Non mi volevi. Non avevi bisogno di me.» «Non so se sia vero.» «Certo che è vero. Hai sempre fatto tutto da sola. Non mi hai detto nulla quando ti sei iscritta al college, quando sei entrata all'accademia di polizia, quando ti sei trasferita qui. Mi informavi solo a cose fatte.» Lei avrebbe voluto dire qualcosa, ma non trovava le parole. «In ogni modo» proseguì Hank riprendendosi il fazzoletto e ripiegandolo. «Credo che me ne andrò domani.» «D'accordo» disse Lena con gli occhi fissi sulla tomba di Sibyl. «Credo che per un po' avranno bisogno di te, anche adesso che hanno ritrovato la ragazzina. Chissà quanti altri bambini di qui sono stati coinvolti. Quella gente è meno isolata di quello che sembra.» «È vero» ammise Lena. «È già una fortuna che lei sia di nuovo a casa. Che il tuo capo l'abbia
trovata.» «Sì» disse, benché non ne fosse tanto sicura. Cosa avevano fatto a Lacey Patterson in quella casa? Che ricordi si sarebbe portata dietro per il resto della vita? Sarebbe stata in grado di sopportarli o avrebbe cercato la via d'uscita più semplice, come aveva fatto suo fratello? Lena sapeva per esperienza che la prospettiva di liberarsi per sempre del peso del passato era seducente. Nonostante tutto quello che aveva superato, non poteva escludere che un giorno avrebbe deciso di rinunciare a lottare. Hank disse: «Mi devi perdonare, se ho tanto insistito per Fine, ma non è facile capire come è fatta una persona». «Brad fa il poliziotto e neanche lui ha mai sospettato qualcosa» gli fece notare Lena. Per fortuna Hank non conosceva bene Brad e non poteva sapere che il paragone era tutt'altro che consolante. Hank mise in tasca il fazzoletto e lasciò ricadere le mani lungo i fianchi sfiorando involontariamente il braccio di Lena. Era ancora sudato e lei avvertì il calore umido della sua pelle. Dopo un po' disse: «Sai che mi puoi chiamare in qualsiasi momento, se hai bisogno di me. Sai che per te ci sarò sempre». Lei sorrise, per la prima volta sinceramente grata. «Si, Hank. Lo so.» Lena attraversò il padiglione cercando di respirare con la bocca per non farsi sopraffare dall'odore. Era uno strano odore che le ricordava l'urina e l'alcol. Forse anche il bar di Hank. Schiacciò il pulsante dell'ascensore e cominciò lentamente a salire verso il terzo piano in preda a una sensazione di claustrofobia. Si asciugò con la mano il collo sudato. Quando la porta si aprì e la puzza di urina non le assalì le narici, tirò un sospiro di sollievo. I pazienti del piano di Mark erano per la maggior parte cateterizzati, quasi sterili rispetto a quelli più attivi dei piani inferiori, e questo riduceva gli odori sgradevoli. Si fermò nel piccolo atrio e guardò dalla finestra. Il cielo era coperto di nuvole scure e gonfie che annunciavano la pioggia. Si ricordò della mattina in cui era morta Grace Patterson e lei era rimasta a guardare l'alba vicino a Teddy Patterson che dormiva. Aveva pensato con amara soddisfazione che il mostro adagiato in quel letto non avrebbe mai più sentito il tepore del sole sulle guance. Non si era mai rimproverata di averle negato una morte meno angosciosa. Era convinta di avere fatto la cosa giusta, non aveva dubbi in proposito.
«Posso aiutarla?» le domandò un'infermiera quando arrivò di fronte alla postazione. «Cerco la stanza di Mark Patterson.» «Ah.» La guardò incuriosita. «Non ha mai avuto visite.» Lena aveva immaginato che Teddy Patterson non volesse vedere il figlio, ma trovò penoso che non fosse neppure venuto a chiedere come stava. «Ha ripreso conoscenza?» domandò, anche se conosceva la risposta. L'infermiera scrollò il capo. «No.» Indicò in fondo al corridoio. «La trecentodieci. A destra, poi a sinistra, di fronte allo stanzino della biancheria.» Lena la ringraziò e seguì le indicazioni. Percorse il corridoio lasciando correre il dito lungo il corrimano, come se volesse prendere tempo. Non aveva motivo di venire a trovare Mark. Non stava lavorando al suo caso, anzi, non sapeva neppure se poteva ancora considerarsi un poliziotto. Nonostante Mark non potesse rispondere, bussò alla porta. Attese un po', poi l'aprì. Le luci erano spente e nessuno aveva pensato di sollevare le tapparelle per fare entrare il sole. Mark era disteso nel letto, pieno di tubi che entravano e uscivano, pallido come non lo aveva mai visto. Si sentiva in sottofondo il rumore ovattato delle macchine in attività, alla ringhiera del letto era appesa una sacca piena di urina. La stanza era austera e anonima. Non c'erano fiori sul comodino e l'unica sedia era stata spinta contro la parete, inutilizzata. Il televisore era spento, lo schermo nero e lucido quasi minaccioso. «Facciamo entrare un po' di luce» disse, non sapendo che altro fare. Ruotò la manovella, la tapparella si sollevò e la luce inondò la stanza. Guardò Mark e regolò l'altezza della tapparella per evitargli la luce diretta sugli occhi. Aveva in bocca un tubo che lo aiutava a respirare, imbrattato di saliva rappresa. Lena andò in bagno e inumidì una salvietta con l'acqua calda, tornò accanto al letto e gli ripulì la bocca. Poi, dato che anche a lei aveva dato sollievo quando era ricoverata, ripiegò la salvietta e gliela passò sul viso, sul collo e sulle braccia, prese la lozione fornita dall'ospedale, la riscaldò fra le mani, gli massaggiò braccia e collo e gli tamponò il viso. Forse fu solo un'impressione, ma quando terminò le parve che Mark avesse riacquistato un po' di colore. «Mi sembra che ti stiano curando proprio bene» disse, benché non avesse idea di quello che gli stavano facendo. «Io, eh...» cominciò, poi si trat-
tenne. Corse con lo sguardo alla porta e si vergognò di aver parlato a Mark, che ovviamente non poteva sentire. Aveva sempre trovato stupido che Hank discorresse con la tomba di Sibyl. Tuttavia gli strinse la mano fra le sue. «Lacey sta bene» lo rassicurò. «Insomma, è tornata a casa. L'hanno trovata a Macon...» Si guardò attorno, incerta se proseguire. «Tengono sotto controllo l'ufficio postale» disse. «Il capo è convinto che prima o poi Dottie si farà viva.» Prese fiato e trattenne l'aria prima di espirare. «La prenderemo, vedrai. Non la passerà liscia, questa volta.» Tacque e rimase ad ascoltare il respiro artificioso di Mark, indotto dalla macchina che gli inviava l'aria nei polmoni. Naturalmente lui non rispose e di nuovo si sentì una stupida. Perché Hank parlava con Sibyl? Cosa ci guadagnava a raccontarle le sue storie? Era come parlare al vento. Era come parlare con se stessi. Rise, e finalmente capì che proprio per questo Hank lo faceva. Parlare con qualcuno che non poteva rispondere, che non poteva esprimere curiosità, disapprovazione, collera od odio, era l'estrema libertà. Si poteva dire tutto quello che si voleva, senza temere le conseguenze. «Non so se continuerò a fare il poliziotto» proseguì. Sentire quelle parole pronunciate a voce alta la fece rabbrividire. Aveva lasciato vagare nella mente il pensiero, come fosse una biglia che non trova l'uscita dal labirinto di un gioco, ma fino a quel momento non l'aveva preso seriamente in considerazione. «Fra un paio di giorni parlerò col mio capo.» Si interruppe e guardò il tatuaggio sulla mano di Mark. Le balenò l'idea di farglielo cancellare. Era possibile. Aveva visto la pubblicità in televisione. «Non so cosa dirò a Jeffrey. Ho parlato con Hank, potrei tornare a vivere con lui a Reece. Ma non credo che lo farò, non mi pare una buona soluzione.» Notò che il lenzuolo stava scivolando giù e passò sull'altro lato del letto per rimboccarlo. Lo lisciò con la mano e disse: «Non voglio lasciare sola Sibyl. So che Nan si occuperà di lei, però...». Fece il giro della stanza e cercò qualcos'altro da dire. Il suono della propria voce la imbarazzava, ma le faceva bene parlare, dare forma al groviglio di pensieri che aveva nella testa. Trascinò la sedia vicino al letto, si mise seduta e prese la mano di Mark fra le sue. «Ti volevo dire...» Si trattenne, intimorita, poi si costrinse a continuare. «Volevo dirti che mi dispiace di aver reagito a quel modo quando
mi hai raccontato quello che era successo.» Fece una pausa, come se si aspettasse un incoraggiamento. «Tra te e tua madre» precisò. Lo guardò in viso e si domandò se davvero non sentisse nulla. «Volevo dirti che capisco. Per quello che posso, almeno.» Scrollò il capo. «So quanto ti è costato, Mark. So quanto ti è costato rivelarmi il tuo segreto.» Si fermò per riprendere fiato. «Avevi ragione, quando dicevi che ho vissuto la stessa esperienza, che sapevo di cosa parlavi.» Lo guardò di nuovo. L'unico segno di vita era il torace che si sollevava e si abbassava al ritmo della pompa che lo costringeva a respirare. I bip del monitor registravano i battiti del cuore. «Non pensavo che fosse così difficile» sussurrò. «Pensavo di essere più forte... Ma avevi ragione tu. Sono stata una vigliacca. Sono una vigliacca.» Trasse un respiro profondo e trattenne il fiato fino a che si sentì scoppiare i polmoni. All'improvviso la stanza rimpicciolì e si trovò in quell'ambiente buio, inchiodata al pavimento, con lui in casa che non si faceva vivo. Il momento peggiore arrivava quando l'effetto delle droghe si affievoliva e lei si ricordava dov'era e cosa le stavano facendo e si sentiva del tutto impotente. Allora sentiva un peso sul petto, come se qualcuno l'avesse svuotata e poi riempita di una solitudine vischiosa e nera. Quando era là, in quella stanza nuda, la luce che filtrava da sotto la porta diventava la sua ancora di salvezza e si ritrovava a desiderare di vederlo, di sentire la sua voce, a qualunque prezzo. «Ero così spaventata» disse a Mark. «Non sapevo dove mi trovavo, quanto tempo era passato e che cosa stava succedendo.» Si sentì serrare la gola e fu sopraffatta dai ricordi. «Mi aveva inchiodato al pavimento» disse, anche se Mark lo sapeva già. «Ero immobilizzata. Non avevo scelta. Non potevo fare altro che aspettare e lasciargli fare quello che voleva.» Cominciò ad ansimare e ripiombò con tutta se stessa in quella stanza, intrappolata, inerme. «Le droghe...» Si trattenne. Anche Mark, probabilmente, aveva usato le droghe per alleviare il suo dolore. Con la differenza che Lena non poteva decidere quali prendere e quando. «Mi dava quelle droghe» ricominciò, «...che mi facevano sentire...» Cercò le parole. «Libera. Come se fossi sospesa nell'aria, sopra ogni cosa. E Greg, il mio ragazzo - il mio ex ragazzo - era lì.» Si fermò e pensò a com'era Greg nei suoi sogni narcotizzati, così diverso da quello che aveva conosciuto nella realtà. Nei sogni era molto più sicuro di sé, più smaliziato nel fare l'amore. Nei sogni la trascinava fino al limite, fino a non distinguere più la differenza fra dolore e piacere, fino a farle desiderare di non di-
stinguerla. Tutto quello che voleva, quando si trovava in quello stato, era averlo dentro di sé, farsi toccare, farsi accarezzare, farsi riempire, farlo entrare sempre più dentro, fino a sentirsi esplodere. Poi, quando la portava a quel punto, la liberazione era sublime. Il piacere che provava quando il suo corpo si apriva completamente a lui era qualcosa che non aveva mai sperimentato in vita sua. Disse a Mark: «Il vero Greg non era così. Io lo sapevo. Nel profondo della mente lo sapevo». Gli strinse la mano. «Lo sapevo, ma non mi importava. A me bastava stare con lui. Sentirlo.» Si tappò la bocca con la mano, ma non poteva rimangiarsi le parole. «Poi l'effetto delle droghe svaniva» continuò. Sembrava che descrivesse qualcosa che era accaduto a qualcun altro. «E io recuperavo la percezione della realtà. Capivo cosa stava succedendo e chi ero veramente..» Deglutì con fatica. «Cosa avevo fatto con lui.» Il disgusto le rivoltò lo stomaco. «Cosa avevo mormorato.» Si ricordava di avergli parlato, di averlo implorato come si può implorare un amante sincero. La mano andò al petto e sentì martellare il cuore. «Allora piangevo» disse, con le lacrime che le rigavano le guance. «Piangevo perché provavo disgusto di me stessa e piangevo perché mi sentivo disperatamente sola.» Si asciugò gli occhi col dorso della mano. «Piangevo perché non volevo rimanere sola, non volevo sapere cosa c'era stato.» «E quando lui ritornava...» bisbigliò. «Quando ritornava nella stanza, non mi sentivo più sola...» Fu costretta a fermarsi perché l'affanno le impediva di parlare. Guardò la mano di Mark e accarezzò il tatuaggio. Allora le parole della sua confessione le arrivarono alla mente come un'onda di piena, e questa volta ascoltò quello che si era impedita di ascoltare nella roulotte. Mark le aveva raccontato il crimine di cui era stato vittima, come un amante che ricorda dolci momenti appassionati. E finalmente capì perché si era marchiato con il tatuaggio. Trascinava con sé la sua colpa come fosse una pietra che si era legata al cuore. Una parte di lui sarebbe sempre rimasta il figlio di sua madre. Una parte di lui sarebbe sempre ritornata in quella roulotte, ad ascoltare un CD mentre sua madre lo raggiungeva in camera per violentarlo. Una parte di lui avrebbe sempre ricordato com'era stato bello, anche se solo in quel momento, stare dentro di lei, fare l'amore con lei. Ovunque andasse e qualsiasi cosa facesse, Mark si sarebbe portato dentro quel marchio. Il tatuaggio era solo un modo per mostrarlo agli altri. Il tatuaggio era un modo per annunciare agli altri che non
apparteneva a loro, che lui sarebbe sempre appartenuto a sua madre. Quello che lei gli aveva fatto lo aveva marchiato dentro, come nessun ago o inchiostro poteva marchiare la sua pelle. Per il resto della vita, e forse anche in quel momento, imprigionato com'era in quel corpo esanime, Mark doveva portarsi dentro la consapevolezza di aver provato piacere. Per una sola volta, quella volta, era stato il prediletto di sua madre e, forse per la prima volta in vita sua, aveva sperimentato quello che lui credeva fosse amore. Nel suo modo malato e perverso, Grace Patterson aveva fatto sentire suo figlio desiderato, e lui l'aveva amata per questo, anche se l'aveva odiata per il male irreparabile che gli aveva inflitto. La stanza era come sospesa nel silenzio, Lena sentiva il lavorio ovattato delle macchine e il sangue che le martellava nelle orecchie. Udì un lamento stridulo, ma si rese conto che era solo frutto della sua fantasia. Voleva alzarsi, lasciare andare Mark, lasciarlo in quel letto a morire, perché sarebbe morto, con o senza di lei. Ma ormai si era spinta lontano. Non c'era nessuno a fermarla, nessuno ad arginare le sue folli rivelazioni. C'era solo lei nella stanza, e se c'era anche Mark, se era davvero lì, ad ascoltare quello che lei diceva, era forse l'unica persona al mondo in grado di capirla. «Ero disperatamente sola, quando lui se ne andava» ricominciò, la voce un sussurro roco, mentre la mente la riportava in quel posto orribile. Strinse i denti, incerta se proseguire. Era a quel punto che ogni volta si sentiva morire, quello il motivo per cui non sarebbe mai andata in terapia né avrebbe confessato a qualcuno cos'era veramente accaduto in quella stanza, quattro mesi prima. «Quando ritornava, quando ritornava in quella stanza e io non ero più sola...» Si interruppe e soffocò un singhiozzo. Non lo poteva dire. Non poteva costringersi ad ammetterlo di fronte a qualcuno, neppure di fronte a Mark, neppure di fronte a quell'involucro senza vita che non era più Mark. Non ne aveva la forza. Era una prova insuperabile. «Merda» gridò, sul punto di scoppiare in lacrime. Fu scossa da un tremito e fu sopraffatta dai singhiozzi. Se a Mark fosse rimasta qualche traccia di sensibilità, avrebbe percepito il tremito della mano e la paura che le attanagliava il corpo. E come nessun altro avrebbe compreso il suo dolore disperato. Non c'erano pillole capaci di neutralizzarlo. Neppure una pallottola in testa poteva più liberare Lena. Anche se fosse riuscita a premere il grilletto o a prendere quelle pillole, il suo ultimo pensiero sarebbe corso a
lui. «No» disse scuotendo con violenza la testa. «No, no, no.» Pensò a quello che le aveva detto Nan e pensò che se Sibyl fosse stata lì le avrebbe detto le stesse cose. «Devi essere forte» disse parlando invece di Sibyl. «Più forte di così.» Pensò anche a Hank. Lo rivide seduto sul pavimento del bagno che piangeva, come stava piangendo lei in quel momento. «Quando ritornava da me in quella stanza» ricominciò, e questa volta si costrinse a pronunciare il suo nome. «Quando ritornava da me» ripeté, «una parte di me si rincuorava.» Si fermò, perché non stava dicendo tutta la verità. Ma a Mark poteva dirla, perché Mark poteva capire. Lui sapeva cosa voleva dire sentirsi vuoti, al punto da elemosinare qualsiasi cosa l'altro fosse disposto a darti. E lei aveva sperimentato la solitudine disperante della prigionia in una stanza buia, dove l'unica cosa che poteva fare era aspettare. Arrivava sempre il momento in cui la mente riusciva a dirle che doveva opporre resistenza, ma poi il corpo la tradiva, e si offriva a qualsiasi consolazione gli venisse offerta. Deglutì, chiuse gli occhi e tentò un'ultima volta. «Quando lui ritornava in quella stanza, una parte di me era... felice.» 22 Sara era seduta per terra di fronte a Lacey Patterson in una saletta appartata del centro pediatrico. Pochi giorni prima Lacey era venuta lì in cerca d'aiuto. Ora era tornata, dopo aver subito sofferenze indicibili, e Sara non poteva fare altro che aspettare e sperare che parlasse. «Dottie ti ha lasciato sola in casa Wayne?» le domandò. «Sì» rispose Lacey guardandosi le scarpe. Aveva chiesto di sedersi per terra e Sara l'aveva accontenta perché fosse il più possibile a suo agio. Non aveva voluto che Sara le stesse accanto, così lei si era seduta contro la porta chiusa, con Lacey di fronte. «Le pillole mi facevano venire sonno.» «E non ricordi nulla di quello che è successo, prima che ti portassero all'ospedale?» Scosse il capo e cominciò a mangiarsi le unghie. Sara la lasciò fare, ma quando prese a lacerarsi la pelle intorno al pollice la fermò. «Così ti fai male» disse, ma dall'espressione della bambina si rese conto di aver detto una sciocchezza.
Lacey continuò a mordicchiarsi il dito. «Mark guarirà?» «Non lo so, tesoro.» Gli occhi le si riempirono di lacrime, ma Lacey si impedì di piangere. «Non volevo fargli del male» disse. «Come mai l'hai ferito?» «Mi voleva prendere e io mi sono difesa col coltello.» «Quei tagli glieli hai fatti tu?» Annuì e passò a un'altra unghia. «Era a casa di Dottie, l'aveva aiutata a svuotare i locali e a imbiancare le pareti. Io mi ero nascosta, ma lui mi ha trovata. Gli ho tirato un calcio sulla testa.» Allontanò il dito dalla bocca. «Mark non voleva che venissi qui. Io la volevo salutare, ma poi ero così spaventata che mi è venuto da vomitare. Le chiedo scusa.» «Non ha importanza» la rassicurò Sara. «Così, tu sei venuta qui e Mark ti ha raggiunto? Poi sei scappata via e Dottie ti ha preso sulla macchina nera?» Lacey annuì ma non disse chi si trovava alla guida. «Lei crede che abbia cercato di uccidersi perché io gli ho fatto male?» «No. Sono altri i motivi che l'hanno spinto.» «Lo posso vedere?» domandò con un filo di voce. «Se vuoi.» «Sì, lo voglio vedere.» Sara si appoggiò alla porta e la osservò rosicchiarsi le unghie. Le avevano tagliato i capelli quasi a zero. Probabilmente Dottie aveva in mente di travestirla da ragazzo, in attesa di venderla al migliore offerente. «Quando viene il mio papà?» «Lo vuoi vedere?» «Lui non lo sapeva» disse, come se le avesse letto nella mente. «Io sapevo di Mark e la mamma, ma papà no.» «Sei sicura?» «Se lo veniva a sapere, ammazzava Mark.» «E tu? Mark ti ha mai toccato?» Guardò altrove. «Lacey?» Scosse la testa con decisione, ma Sara non le credette. Non sapeva ancora come considerare Mark Patterson. Aveva nello stesso tempo subito e commesso abusi sessuali. «Mark era buono con me» disse Lacey. Sara lasciò correre. «Dottie ti ha mai fatto posare per delle fotografie?»
«No. Mark e Jenny però lo facevano. Facevano le foto e a volte anche i filmini. Io li ho visti.» «Ma tu non l'hai mai fatto?» Ricominciò a mangiarsi le unghie. «Mark diceva che se ci provavo lo raccontava a papà.» «Non voleva che ti facessi fotografare?» «Io avrei voluto. Jenny lo faceva spesso, e poi a una festa era andata a letto con un sacco di ragazzi.» Aveva assunto un tono infantile. «Ma tu credi che a Jenny piacesse?» «Una volta ci ho provato anch'io, ma Mark l'ha scoperto.» Lasciò cadere la mano in grembo. «Quella volta mi ha picchiata.» Sara non avrebbe mai immaginato che Mark cercasse di proteggere la sorella. «È stato quando l'hanno arrestato?» Parve stupita che Sara lo sapesse. «Sì.» «E non l'ha detto a tuo padre?» «No, perché gli ho detto che altrimenti io gli raccontavo di lui e la mamma.» Lo disse quasi cantilenando, come se avesse imparato la frase a memoria. Sara immaginò che l'avesse sfruttata come minaccia in varie occasioni, era una tattica tipica dei bambini. «In ogni modo a me non era piaciuto» aggiunse. «Gli ho detto che non l'avrei più fatto.» Aggrottò la fronte. «Dottie diventava cattiva, quando faceva quelle cose. Non come quando ci faceva giocare.» «Giocavate con lei?» «Delle volte ci faceva da baby-sitter.» Sorrise. «Giocavamo a vestirci eleganti e poi ci portava al cinema, tutte agghindate.» «Carino.» «Non era sempre così, però.» Si grattò una crosta sulla gamba. «Certe volte diventava cattiva. Non mi piaceva.» «Ti capisco. È stata lei a fare i discorsi sulla purezza?» Lacey alzò la testa, sorpresa. «Chi glielo ha detto?» Sara decise di mentire. «Me lo ha detto Mark.» «No, non può averglielo detto Mark.» «Tu credi?» Lacey alzò le spalle, come se non le importasse. «Dottie si arrabbiava con Jenny, diceva che era ossessionata.» «Ossessionata da cosa?»
«Da quello che fanno alle bambine in quei paesi» borbottò. «L'anno scorso Jenny aveva preparato una relazione su certi paesi dell'Africa. Diceva che là le donne erano fortunate perché erano considerate proprietà del padre o del marito e, se si comportavano bene, erano protette e al sicuro.» «E tu ci credi?» Lacey ignorò la domanda. «Dottie si infuriava, ma Jenny non si dava per vinta. Anche la mamma ha cercato di convincerla a lasciar perdere.» Voltò la testa di lato. «La mamma era brava a convincere. Riusciva a farti fare anche quello che non volevi.» Sara sospirò e cercò di non pensare a quello che le stava rivelando la bambina. Domandò: «E così tua madre e Dottie hanno detto a Jenny di non parlare più della mutilazione?». «Avevano paura che a scuola si mettesse nei guai. Avevano già dovuto trasferirsi una volta, per quello che diceva in giro. Il tutor era andato a casa loro. Dottie diceva che, per colpa sua, quello voleva chiamare la polizia.» «Perché raccontava delle mutilazioni?» «Jenny diceva che in quei paesi le ragazze non dovevano preoccuparsi di quelle cose...» Si interruppe. «Tipo il sesso. E tipo quello che faceva Dottie. Là non esiste, perché i bambini sono sacri. E le femmine sono protette.» «Ma allora perché Dottie l'ha mutilata?» «Non è stata lei. Dopo le vacanze di Natale, Jenny ha deciso di farselo da sola.» Sara scosse la tessa. «Non è possibile che se lo sia fatto da sola, tesoro.» «Invece sì» si impermalì Lacey. «Ha usato il rasoio. Solo che poi si è messa a gridare. Dottie è corsa di sopra e ha cominciato a gridare anche lei.» «Eravate a casa loro?» «Io ero da basso con la mamma, perché era giorno di paga.» Sara non trovò sorprendente che quelle donne avessero anche un regolare giorno di paga, era abbastanza ovvio che gestissero la loro triste rivista come una normale attività imprenditoriale. Erano in affari da almeno tredici anni e sapevano quel che facevano. «Jenny urlava come una pazza, sembrava che stesse morendo» continuò Lacey. «Poi la mamma è scesa da basso e mi ha spiegato cosa si era fatta.» Sara si limitò ad annuire. Non aveva parole. «Non potevano portarla all'ospedale, così la mamma ha detto che l'unica cosa che potevano fare era finire quello che lei aveva cominciato...» Si in-
terruppe. «E l'hanno fatto.» «L'hanno anestetizzata?» domandò Sara inorridita. «La mamma le fatto prendere delle pillole perché non le venisse un'infezione.» «Non era questo che intendevo. L'hanno addormentata, prima di intervenire?» «Credo che si sia addormentata da sola quando hanno cominciato. Infatti dopo un po' ha smesso di urlare.» Sara si morse il labbro in cerca di qualcosa da dire. «Secondo te perché Jenny l'ha fatto?» «Quando siamo andate a sciare, Carson e Rory continuavano a tormentarla. Pensavano di stare con lei, ma lei non voleva.» «Vuoi dire che volevano fare sesso con lei?» Annuì. «Lei diceva che non voleva più, che non erano puliti. Allora loro si sono arrabbiati e la chiamavano puttana. Lei non sapeva perché, ma Cooper le ha detto che lo aveva già fatto, la volta che era andata a casa sua con Mark.» Alzò le spalle. «Mark le aveva messo qualcosa nel bicchiere per farle fare quelle cose senza ricordarsi.» «Tu sai cos'era?» «Una cosa che il giorno dopo ti fa stare male da cani. A lei era venuto il mal di pancia e per due giorni non è venuta a scuola. Dottie diceva che aveva l'influenza.» Rohypnol, pensò Sara. La droga degli stupri. «Insomma, aveva fatto quello che aveva fatto. Mark dice che le droghe ti fanno fare solo quello che in realtà desideri.» «Non è affatto vero. Specialmente se le ha dato quello che penso io.» Lacey alzò le spalle, come se la cosa non la riguardasse. «Comunque Cooper Barret a lei piaceva.» «C'era anche lui in montagna?» «Lui, Rory e Carson. Le infilavano i bigliettini sotto la porta della stanza e una mattina, quando ci siamo alzate, abbiamo trovato un cartello sulla porta pieno di brutte parole.» Guardò Sara. «Credo che fossero loro a rubarle le cose dall'armadietto della scuola.» «Quali cose?» «Le foto che appiccicava, cose cosi. Gliele strappavano, e così ha dovuto rassegnarsi a tenerci solo i libri.» «Perché Mark l'ha trattata a quel modo? Glielo aveva chiesto Dottie di portarla dai ragazzi?»
Lacey annuì e Sara si sentì stringere lo stomaco all'idea che Mark avesse accettato di fare il ruffiano per reclutare altri ragazzi per Dottie. «Jenny era stata male per quello che le avevano fatto» disse Lacey. «Dottie le aveva chiesto di starci solo un'altra volta e poi li avrebbe fatti smettere, ma lei non voleva. Diceva che voleva essere pura.» «Quindi è per questo che si è mutilata.» «Aveva cominciato, ma poi ha dovuto finire Dottie.» Ricominciò a tormentarsi la crosta fino a che non uscì il sangue. Sara prese il fazzoletto di tasca e le tamponò la gamba. «Tu hai mai visto cosa le aveva fatto?» Scrollò il capo di nuovo. «Da quel momento mi hanno proibito di frequentarla.» «Perché?» «È stata la mamma.» Si guardò la ferita e ricominciò a toccarla. «La mamma mi ha detto che se cercavo di parlarle chiedeva a Dottie di farmi la stessa cosa.» Indicò l'inguine. «Lì sotto.» «Anche tua madre era arrabbiata con Jenny?» Rispose senza alzare la testa, con un filo di voce. «Mi ha detto che Mark era stato con Jenny e che non andava bene. Per questo Jenny era ammattita e si era tagliata col rasoio.» Fece una pausa. «I bambini devono andare solo con gli adulti, perché gli adulti sanno quello che fanno, i bambini no.» «Sei sicura che tuo padre non ne sapesse niente?» Strinse le labbra. «Se veniva a saperlo ammazzava Mark.» «Non credi che avrebbe dovuto arrabbiarsi anche con tua madre?» domandò Sara sconcertata. Decise si spingersi oltre. «Non si arrabbiava con lei, se scopriva che era incinta?» Lacey alzò la testa di scatto. «Lei come lo sa?» «Io so molte cose.» «È colpa di Mark se è rimasta incinta» disse col solito tono cantilenato, come se ripetesse a memoria. «Quando si è ammalata di nuovo, la mamma ha detto a papà che non voleva più andare a letto con lui. Quindi era sicura che era stato Mark.» «Cos'è successo sabato scorso?» «La mamma è venuta alla pista di pattinaggio a cercare Mark e si è sentita male.» «Che cosa ha avuto?» Tornò a guardarsi la gamba. «Era venuta in macchina, per cercare Mark, ha cominciato a stare male ed è corsa in bagno.»
Sara cercò di ricordarsi quanto era alta Grace Patterson. Era una donna minuta e Tessa poteva averla scambiata per un'adolescente. «Sei andata con lei in bagno?» domandò. Lacey annuì. «E poi è arrivata Jenny?» «Ci aveva visto entrare.» «E poi cos'è successo?» «La bambina è venuta fuori, in mezzo alle gambe, c'era un sacco di sangue...» sospirò ed evitò lo sguardo di Sara. «La mamma ha detto che era malata, che le medicine per il cancro l'avevano avvelenata e che bisognava eliminarla.» Sara riuscì a malapena a deglutire. «Mi ha detto di andare ad aspettarla in macchina, che ci pensavano lei e Jenny.» «Perché ha fatto rimanere Jenny?» «Per castigarla. Era tutta colpa sua. Se lei non andava a letto con Mark, la mamma non avrebbe dovuto fare quello che aveva fatto.» Sara abbandonò la testa contro la porta cercando di pensare qualcosa da dire. Non riusciva a credere che Grace Patterson e Dottie Weaver avessero tanto potere sui ragazzi. Non si sarebbe mai perdonata di non aver capito nulla di loro. Lacey aggiunse: «La mamma ha detto a Jenny che se non l'aiutava, veniva a raccontare a lei tutto quello che aveva fatto». «A me?» domandò Sara allibita. «Jenny voleva diventare pediatra come lei, ma era sicura che lei non l'avrebbe aiutata, se scopriva che era andata a letto con tutta quella gente.» Ritornò il tono da bambina ammaestrata: «Se non mi aiuti, vado a raccontare alla dottoressa Linton che razza di puttana sei». Era semplicemente raccapricciante che il suo nome fosse stato usato per ricattare una bambina. «Ma è assurdo. Sono solo bugie colossali» disse. Lacey alzò le spalle, come se la cosa non avesse importanza. Sara cercò di riscuoterla. «Io avrei fatto tutto il possibile per aiutarla, Lacey. Come farò tutto il possibile per aiutare te.» «Adesso non ho più bisogno di aiuto» le fece notare Lacey. Sara era così furiosa che le vennero le lacrime agli occhi. Aveva eseguito l'autopsia sulla neonata e sapeva esattamente cosa le avevano fatto Grace e Jenny. L'idea che Jenny si fosse mutilata per paura di perdere la sua stima la faceva impazzire.
«Mamma glielo ripeteva in continuazione» disse Lacey. «E Jenny non voleva che lei la credesse cattiva.» Sara si portò la mano alla gola. «Ma Jenny non era cattiva. Era una bambina molto buona.» Lacey fissò il pavimento. «Comunque sia.» «Quello che hanno fatto a Jenny è orribile. Lei non aveva alcuna colpa.» Lacey rispose con un'alzata di spalle. «Tesoro» disse Sara, cercando di essere rassicurante. Allungò la mano per stingere la sua, ma lei l'allontanò. Sara aspettò qualche secondo poi domandò: «Secondo te perché Jenny voleva uccidere Mark?». Lacey non rispose, ma Sara capì che sapeva la risposta. «Credi che l'abbia fatto per mettere fine a questa storia terribile?» Alzò le spalle. «Pensava che fosse l'unico modo per impedire che andasse avanti? Per questo ha puntato una pistola contro Mark? Per andare a finire su...» Si trattenne, incapace di accettare la verità. Sì, Jenny sapeva che sarebbe finita sul tavolo anatomico dell'obitorio. Aveva spinto Jeffrey a premere il grilletto per costringere Sara a vedere cosa le avevano fatto. Lacey alzò gli occhi. Il viso era senza espressione. «Jenny non era un'illusa» disse. «Sapeva di non poterlo impedire.» Sara non sapeva cosa dire, spaventata dall'idea che quello che aveva detto la bambina fosse vero. «Troveremo Dottie, le impediremo di ricominciare, Lacey. Ti prometto che faremo tutto il possibile per fermarla.» «Sì» disse, ma alzò le spalle, come se Sara parlasse di prospettive fantasiose. Domandò: «Quando arriva il mio papà? Voglio andare a casa». «Lacey...» Lei la guardò con le lacrime agli occhi. Gli ultimi giorni l'avevano invecchiata. Non aveva più l'aspetto della ragazzina, il cui unico cruccio è quello di diventare una ragazza pompon. Gli adulti che avevano abusato di lei erano scomparsi, ma lei si sarebbe sempre portata sul cuore il peso di quello che le avevano fatto. Sara non si era mai sentita tanto avvilita in vita sua. Voleva fare qualcosa per aiutarla, ma sapeva che ormai era troppo tardi. E sapeva che là fuori c'erano altri bambini come Lacey, bambini che erano stati vittime di Dottie Weaver, e altri ancora che lo potevano diventare. Lacey tirò su col naso e se lo asciugò col dorso della mano. Sorrise per compiacere Sara. «Quando arriva il mio papà? Voglio andare a casa.»
DOMENICA Una settimana dopo 23 Tessa si appoggiò con le mani al tavolo da pranzo e si lasciò cadere sulla sedia di fronte a Sara. «Continuerò a vomitare per il resto dei miei giorni?» «Spero di no» borbottò Sara distrattamente. Stava leggendo una cartella clinica e non riusciva a decifrare la propria scrittura. «Cosa c'è scritto qui?» Tessa studiò lo scarabocchio. «Appendere indennità?» «È quello che sembra anche a me» disse Sara perplessa, riprendendosi la cartella. Fissò le parole in cerca di un significato coerente. Tessa pescò nella borsa della sorella e tirò fuori una rivista. «È una pubblicazione scientifica» la avvisò Sara. «Non sarò un dottore, ma so leggere» obiettò indispettita. Cominciò a sfogliare, ma dopo un paio di pagine lasciò perdere. «Non ci sono le figure.» «Ce n'è qualcuna in fondo.» Le mostrò l'ingrandimento di un'appendice rosso fuoco. Tessa passò alla pagina successiva, che però offriva lo stesso soggetto, sezionato e sanguinolento. «Gesù.» Si portò la mano alla bocca, si alzò e corse via evitando per un pelo di investire Cathy che arrivava in quel momento. «Che le prende?» domandò la madre. Posò sul tavolo il piatto con le uova. «Non lo so» disse Sara continuando a scrutare la cartella clinica. «Oh, adesso ho capito. È appendice infiammata» annunciò soddisfatta. Cathy si accigliò. «Non potresti evitare di farlo a tavola?» Sara radunò in fretta le sue carte. «Ho finito. Era l'ultima.» Cathy prese posto di fronte a lei e le rubò un sorso di tè freddo. «Come sta andando?» domandò indicando le cartelle. «Ci vuole tempo, ma va meglio di quel che temevo. Per Grant, voglio dire. Qui Dottie non si è esposta troppo.» «Come dice tuo padre, non si sputa nel piatto in cui si mangia.» «Esatto» disse Sara con un sorriso stentato. «A proposito» disse Cathy. «Ho sentito che Dave Fine andrà sotto processo.»
«Sì. E si illude ancora di evitare la prigione.» «Invece credo che gli convenga, almeno lì sarà al sicuro» osservò Cathy. Prese un altro sorso di tè. «Hai già detto al padre di Lacey che dopo la scuola può venire al centro a darti una mano?» Sara annuì e infilò le cartelle nella borsa. «Ci deve pensare.» «Secondo me finirà per andarsene da qui. Può dire quello che vuole, ma in città sono convinti che sapesse tutto.» Sara alzò le spalle, non aveva voglia di affrontare l'argomento con sua madre. «Mi hanno detto che l'altro giorno gli hanno tagliato le gomme di fronte al supermercato.» Sara la guardò incuriosita. Non capiva dove volesse arrivare. «Non voglio che tu ti esponga troppo» disse Cathy alla fine. «Non voglio che ti affezioni alla bambina, per poi vedertela portare via dal padre.» Sara finse di sistemare le cose nella borsa. La sera prima Jeffrey le aveva fatto lo stesso discorso. «Puoi sempre adottare un bambino» azzardò Cathy. Sara si irrigidì. Si levò gli occhiali e li posò sul tavolo. «Io...» Si trattenne e fece un risolino amaro. Non era così semplice. Cathy aspettò che dicesse qualcosa. «Non mi va di parlarne adesso, mamma.» Lei le prese la mano. «Io sono sempre qui, cara, puoi contare su di me.» «Lo so.» Arrivò Tessa. Si avvicinò a Sara e le mollò uno scappellotto. «Cattiva» disse, facendo la faccia imbronciata. Sara rise e Tessa le mostrò la lingua. Cathy le guardò perplessa ma non disse nulla. «Ti senti meglio bambina mia?» domandò. «Sì mamma» la rassicurò Tessa, ma non aveva una bella faccia. Sara si pentì di averle mostrato le foto. «Sei sicura Tessa?» «Oh, sto una meraviglia. Ho i capelli unti, la pelle secca e i pantaloncini che mi stanno stretti.» Cercò di abbassarli sulle cosce. «Si arrampicano sul cavallo.» «La natura non sopporta i vuoti» ridacchiò Sara. «Sara!» la ammonì Cathy, ma si vedeva che era anche lei divertita. Tessa sedette di nuovo al tavolo e si servì un uovo. «Dov'è Jeffrey? È già in ritardo di mezz'ora.»
«Non lo so» disse Sara. Guardò la sorella che trangugiava l'uovo con voracità. «Pensavo che avessi la nausea.» «Ce l'avevo.» Prese un secondo uovo. «Adesso... va un po' meglio.» Sara stava per dire qualcosa, ma il rumore di una macchina che entrava sul vialetto la distrasse. «È Jeffrey.» Balzò in piedi buttando indietro la sedia, ma riuscì ad afferrarla prima che rovinasse a terra e lanciò un'occhiataccia a Tessa per impedirle di fare commenti. Si sforzò di camminare con calma fino alla porta d'entrata. Jeffrey era sul punto di bussare quando lei l'aprì. Si protese per baciarlo, ma si fermò come lo vide in faccia. «Che ti succede?» Invece di rispondere lui le mostrò una videocassetta. Sara scosse la testa. «Che cos'è?» «Andiamo in salotto» disse precedendola in corridoio. Lei capì da come teneva le spalle che era teso. Sara prese posto sul divano e Jeffrey andò a infilare la cassetta nel videoregistratore. Poi venne a sedersi accanto a lei, azionò il telecomando e comparve l'immagine. Il filmato era in bianco e nero e Sara ne dedusse che erano le riprese di una telecamera di sorveglianza. «L'ufficio postale di Atlanta» indovinò. Jeffrey si abbandonò contro lo schienale e Sara si strinse a lui. All'inizio la scena non suggeriva nulla di speciale, si vedeva una stanza piena di caselle postali, con un tavolo al centro. Jeffrey fece correre avanti il nastro fino a che non comparve un ragazzo alto e magro. «Sembra Mark Patterson» mormorò Sara. Il ragazzo attraversò la stanza e quando fu più vicino alla telecamera la somiglianza risultò sconcertante. Aveva la stessa andatura dinoccolata e la stessa espressione sfrontata di Mark, e i vestiti larghi ricadevano sul corpo sottolineando quella particolare sensualità androgina. «È identico» disse Jeffrey. Il ragazzo si guardò attorno con circospezione, si avvicinò a una cassetta e l'aprì. Adesso volgeva le spalle all'obiettivo e non si poteva vedere cosa prelevava. Quando si voltò si stava infilando delle buste nella cintura dei pantaloni, poi si sistemò la camicia e si avviò all'uscita passando davanti alla telecamera. Jeffrey fermò il nastro e bloccò l'immagine sullo schermo. «Dottie non si è fatta fregare, ha mandato un sostituto» disse Sara. «Ha raggiunto il parcheggio, è salito su una Thunderbird nera ed è andato al centro commerciale» spiegò Jeffrey. «Non l'ha raggiunto nessuno. Ha
aspettato un paio d'ore, poi ha fatto una telefonata dal telefono pubblico.» «A chi?» «Nick ha rintracciato il numero, era di un telefono cellulare. Non ha risposto nessuno.» «E il ragazzo chi è?» «David Ross, alias Ross David. Nick ha fatto il riscontro delle impronte digitali. Era stato rapito da casa in pieno giorno, dieci anni fa. Dichiarato scomparso, presunto morto.» Sara si sentì gelare. «Dieci anni?» «Sì» disse Jeffrey. «Stava giocando di fronte a casa col fratello maggiore. È arrivata Dottie in macchina. Si presume che fosse Dottie. O Wanda, o come diavolo si chiama. Era una donna. Ross Davis è andato via con lei e non è più tornato.» «Mio Dio, immagina i genitori.» «Non è più il loro bambino, Sara. Si comporta proprio come Mark. Nick l'ha torchiato per sei ore ma non ha detto una parola. Non ha neppure ammesso di conoscere Dottie. Si è limitato a dire che era andato a ritirare della posta personale.» «Ha il tatuaggio di Mark?» Jeffrey fece segno di no. «Quanti anni ha?» «Diciassette.» «Quindi aveva sette anni quando l'hanno rapito.» «Adesso, legalmente, è un adulto» disse Jeffrey. Era così sconfortato che Sara gli prese la mano. «Hai avvisato i genitori?» «Lo ha fatto Nick. Non ha potuto arrestarlo, però. Non è illegale prelevare la posta da una casella postale, e l'automobile è regolarmente registrata a suo nome.» «Nick lo ha fatto pedinare, spero. Almeno potrà dire ai genitori dove si trova.» Jeffrey annuì senza levare lo sguardo dall'immagine del ragazzo bloccata sullo schermo. «Guarda» disse. Azionò di nuovo il telecomando, il filmato ripartì e il ragazzo scomparve. Per qualche secondo si vide soltanto la stanza vuota. Sara gli stava per domandare che senso avesse continuare a guardare, quando sullo schermo comparve un'altra persona. Una donna con un berretto da baseball e gli occhiali da sole entrò nel campo visivo della telecamera e andò ad aprire la
stessa cassetta che il ragazzo aveva appena controllato. Ritirò un paio di buste e le infilò nella borsetta. Quando si voltò, Sara rimase senza fiato. «Quella è Dottie Weaver?» domandò, nonostante l'avesse subito riconosciuta. Non poteva essere altri che lei. A quel punto, come se sapesse che un giorno avrebbero guardato quel filmato, Dottie sollevò gli occhiali scuri, fissò l'obiettivo e mostrò il dito indice alzato. Jeffrey fermò il nastro. «E dov'era finita la polizia? Dov'erano quelli che dovevano seguirla?» domandò Sara indispettita. «Avevano seguito il ragazzo. Nick gli ha trovato addosso solo della posta pubblicitaria. Le buste con le carte di credito le aveva lasciate per Dottie.» «Comunque non le potrà utilizzare» obiettò Sara ancora incredula. «Come il computer leggerà i numeri, scopriranno dove si trova.» «Questo lo sa anche lei» disse Jeffrey scoraggiato. «Lo fa apposta. Non ti ricordi che quando tu e Lena l'avete interrogata vi ha perfino fornito degli indizi? Si diverte a prenderci in giro. Ci provoca.» «E perché?» «Perché se lo può permettere, dannazione a lei.» Era furioso. «Dave Fine non uscirà mai di prigione. Lacey è a casa e al sicuro. Grace è morta» gli ricordò Sara per rincuorarlo. «Non cercare di consolarmi, Sara, per favore.» Appoggiò i gomiti sulle ginocchia e si prese la testa tra le mani. «Dottie è libera, Sara. È là fuori che riorganizza i suoi traffici.» «Prima o poi riusciranno a prenderla» insistette Sara, benché neppure lei ne fosse troppo sicura. Jeffrey alzò la testa e la guardò con un'espressione così piena di rammarico che lei non riuscì a reggere il suo sguardo. Guardò il televisore, guardò l'immagine ferma di Dottie Weaver che annunciava senza mezzi termini il suo trionfo: non solo era sfuggita alla legge, ma poteva fare quel voleva ad altri bambini come Mark e Lacey Patterson. Forse lo stava già facendo. «Com'è potuto succedere?» si domandò ad alta voce. Pensò a Lacey, a quello che aveva passato, alle esperienze terrificanti che aveva vissuto e di cui non riusciva neppure a parlare. Sembrava incredibile che a tredici anni fosse riuscita a sopportare tanta sofferenza. Eppure ogni mattina si alzava per andare a scuola e la domenica andava in chiesa con suo padre come se fosse ancora una bambina, come se quelle esperienze non l'avessero irrimediabilmente invecchiata.
Jeffrey si abbandonò contro i cuscini, prese la mano a Sara e gliela strinse forte. Restarono così, senza parlare, incapaci di esprimere quello che stavano provando, finché Cathy si affacciò alla porta per annunciare che il pranzo era in tavola. FINE