Karen van der Zee
Svolta Cruciale A Love Untamed © 1994 Prima Edizione Collezione Harmony - N° 1050 - 21/3/1995
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Karen van der Zee
Svolta Cruciale A Love Untamed © 1994 Prima Edizione Collezione Harmony - N° 1050 - 21/3/1995
1 Nel silenzio della notte a Livia giunse il borbottio sordo di un'auto che si avvicinava lungo la strada di campagna. Da quelle parti il traffico era scarso, soprattutto alle undici di sera, e quindi il passaggio di una macchina era cosa che si notava. Dalla finestra spalancata del soggiorno entrava una fresca brezza profumata di lillà: lei andò a chiudere i vetri e le tende. In camicia da notte di cotone bianco riprese ad aggirarsi per la casa esaminando per l'ennesima volta i mobili vecchiotti, la grande pendola, la mescolanza di oggetti polverosi sui ripiani, chiedendosi se non fosse stato un errore decidere di venire a dormire in quella villa attraversata da strani scricchiolii, che pareva abitata dalle ombre del passato, soprattutto adesso che l'oscurità era calata sulla campagna deserta. Be', proprio deserta non era. Nei pascoli c'erano mucche, pecore, cavalli e probabilmente conigli selvatici, e rane negli stagni, ma nel raggio di diversi chilometri non c'erano abitazioni che ospitassero esseri umani. Comunque, si rammentò, doveva essercene almeno un esemplare nell'auto che stava percorrendo la strada. Ma non sapeva se questo fosse un pensiero rassicurante. La vecchia villa sorgeva solitaria su un'altura che offriva la vista delle Blue Ridge Mountains, e adesso era sua. Livia sorrise, pervasa da un'indescrivibile euforia. Davvero bellissima quella costruzione coloniale, anche se un po' cadente. Ma una volta che l'avesse sistemata... Non vedeva l'ora di mettersi all'opera. L'atto di vendita era stato firmato quella mattina e da allora non aveva fatto che passare in rassegna libri e oggetti vari, mettendoli in scatoloni destinati alla casa delle aste. Si era sentita molto indiscreta rovistando in cassetti, armadi e ripostigli che contenevano cose appartenute all'anziana signora deceduta poco tempo prima e che lei non aveva mai conosciuto. Karen van der Zee
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Aveva acquistato la casa e tutto ciò che conteneva perché non c'erano eredi. Alcuni pezzi erano belli e di un certo valore, ma perlopiù si trattava di mobili un po' malconci, semplicemente vecchi e non antichi. Quella mattina aveva depositato il suo sacco a pelo, il cuscino e una valigia con lo stretto necessario in una delle camere al piano superiore. Salì e srotolò il sacco a pelo stendendolo sulla vecchia trapunta del letto. L'indomani Jack sarebbe arrivato e insieme avrebbero studiato il progetto di ristrutturazione, per poi cominciare a sgomberare i locali. Si sentiva carica di entusiasmo, come sempre quando iniziava un nuovo lavoro. Svuotate le stanze, avrebbe cominciato a far abbattere alcune pareti creando spazio e luce. L'auto si avvicinava. Livia scostò le sbiadite tende a fiorami e vide i fari che superavano la curva illuminando gli alti sempreverdi e gli arbusti di sanguinelle in piena fioritura. La macchina cominciò a rallentare imboccando il lungo viale d'accesso che risaliva fino alla casa. Ebbe un tuffo al cuore. Nessuna persona perbene si sarebbe presentata lì nel cuor della notte senza invito. Be', forse non si trattava esattamente di una persona perbene. Oh, finiscila, si disse. Magari c'era una ragione perfettamente innocente e semplice per quella visita inattesa. Forse il guidatore si era perso e aveva visto le luci della casa, le uniche in quella vasta zona della Virginia, a ore di viaggio da Washington. Lì non accadevano mai fattacci di cronaca nera. Così le aveva assicurato la grassoccia, simpatica agente immobiliare, nata e cresciuta da quelle parti, che conosceva tutti gli abitanti nel raggio di quindici chilometri. Sentì sbattere una portiera. Inchiodata dov'era, attese lo squillo del campanello. Che non ci fu. Sentì invece la porta d'ingresso che si apriva scricchiolando e poi si richiudeva. Lei l'aveva chiusa a chiave non più di dieci minuti prima. Avrebbe dovuto nascondersi nell'armadio, o scappar via mettendosi in salvo: invece restò lì col cuore in gola. Dei passi pesanti avanzarono nell'anticamera e poi nel soggiorno facendo cigolare sinistramente l'assito. Sapeva cosa bisognava fare in simili situazioni. Primo: non farsi prendere dal panico. Secondo: filarsela. Ma come? Buttandosi dalla finestra? Be', non per niente aveva cominciato a prendere lezioni di karaté: se doveva viaggiare per il mondo, era opportuno conoscere qualche tecnica di Karen van der Zee
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autodifesa. Forse era giunto il momento di verificarne l'efficacia. Se le fosse andata male, avrebbe chiesto il rimborso dei soldi spesi. Trattenne una risatina isterica. «C'è qualcuno?» Una profonda voce maschile risuonò nell'aria. Livia, paralizzata, quasi non riusciva a respirare. Colse la propria immagine nello specchio: gli occhi apparivano scuri ed enormi nel volto bianco come il classico lenzuolo, in netto contrasto con i capelli nerissimi. Di solito la sua carnagione aveva una calda tonalità dorata, estate e inverno, grazie ai suoi geni mediterranei. Quei passi risalirono le scale e infine l'uomo comparve. Pareva il diavolo in persona.
2 Scarmigliati capelli neri, occhi neri, cespugliosa barba nera. Alto e massiccio, torreggiava su di lei riempiendo la stanza di un'atmosfera di fosca minaccia. Indossava dei jeans sbiaditi, logore scarpe da corsa e uno spiegazzato camiciotto di tela con le maniche arrotolate a rivelare le braccia muscolose e abbronzate. Tutto in lui emanava una forza e una virilità primitive. Però non si scorgevano corna, o piedi caprini o altre caratteristiche demoniache. E neppure coltelli o armi da fuoco. L'uomo si limitava a fissarla con i suoi neri occhi diabolici. Non fu un momento piacevole. Scalza, con addosso solo una lunga camicia da notte bianca con gli orli di pizzo, i capelli sciolti, lei non era certo una figura con un'aura di potere e controllo, di questo era convinta. Somigliava piuttosto all'atterrita eroina di un romanzo gotico. «Chi è lei?» domandò l'uomo. Fu il tono di quella voce profonda a rimetterle in funzione i polmoni. Nessuna minaccia, solo sbalordimento. E questo fu quanto mai rassicurante. Deglutì, raddrizzò la schiena ergendosi in tutto il suo metro e sessantadue, e si mise le mani sui fianchi. «Chi diavolo è lei, piuttosto?» Le folte sopracciglia si sollevarono. «Mi pare di essere stato io a chiederlo per primo, angelo.» Karen van der Zee
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Angelo. Detto dal diavolo. Oh, Buon Dio. Le gambe cominciarono a tremarle. «Questa casa è mia e pretendo che lei se ne vada.» Il cuore batteva all'impazzata ma la voce era ferma: praticamente un miracolo. Ma lui non parve impressionato. Le sopracciglia si inarcarono ancora di più. «Questa casa sarebbe sua? Ma che razza di idea. Questa casa appartiene a me.» Tolse di tasca una chiave: «Vede questa? È mia e si adatta perfettamente alla serratura della porta d'ingresso». Le mani erano grandi, abbronzate, robuste. Mani che conoscevano un duro lavoro. «Lei può avere una chiave, ma io ho l'atto di proprietà. Ho firmato il rogito stamattina. Questa casa è mia a tutti gli effetti legali. Ho firmato carte su carte, il notaio pure, poi ho compilato dei sostanziosi assegni e alla fine ci siamo stretti la mano con molti sorrisi. Così si fa quando si acquista un immobile.» Oh, chiudi il becco, si ordinò. Le succedeva sempre di parlare troppo, ma quando era nervosa le parole uscivano incontrollate, a fiumi. «Deve aver sbagliato casa.» «Non dica sciocchezze! È questa la villa che ho appena acquistato.» Lui aggrottò la fronte, poi alzò le spalle passandosi le dita tra i capelli. «Non intendo star qui a discutere a vuoto con una donna in camicia da notte. Domani troverò il modo di toglierle certe illusioni, ma adesso ho bisogno di dormire.» Tanta arroganza l'esasperò facendole serrare i denti. Ma stava anche notando che, nonostante l'aspetto molto discutibile, l'uomo si esprimeva in modo corretto e con un accento colto. Significava qualcosa? Probabilmente no. Impose alle proprie gambe di smettere di tremare. «Di certo non dormirà qui» affermò con una sicurezza che non provava. «Si trovi un albergo. Ce n'è uno a sette chilometri da qui. Molto simpatico, tutto bianco con le imposte rosse, stanze accoglienti... Ci si troverà benissimo e...» si interruppe. Daccapo a cicalare. Lui si sfregò la barba. «A quanto pare non mi sono spiegato» disse in tono paziente, come se si rivolgesse a una bambinetta tonta. «Cercherò di essere più chiaro: io non vado da nessuna parte. Questa è casa mia e dovrebbe essere lei ad andare a cercarsi una stanza in albergo. Comunque non intendo mettere sulla strada una signora in camicia nel cuor della notte, quindi resti pure qui a dormire.» Karen van der Zee
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Ma che sfrontatezza! «Chiamo la polizia» lo avvertì. Un piccolo sorriso divertito gli incurvò le labbra. «Oh, già, il caro vecchio Chuckie... Certo, faccia pure. E già che gli parla, gli dica che ho vinto la scommessa e che mi deve cento verdoni.» Livia si sentì mancare il cuore. Poi le venne un'idea: forse quel tipo e Chuckie, lo sceriffo, erano complici in qualche attività illegale. Cose che succedevano: lo si sentiva continuamente alla TV. Telefonare a Chuckie non sarebbe servito a nulla, evidentemente. E allora? Non vedeva soluzioni. L'uomo le volse le spalle. «Io vado a letto. Buonanotte, angelo.» Non lo sentì scendere le scale e dopo qualche minuto radunò il coraggio e andò a vedere dove si era sistemato. Lo trovò in una delle altre camere, abbandonato sul grande letto matrimoniale, immerso nel sonno e completamente vestito: si era tolto solo le scarpe e i calzini. Chiaro che né un terremoto né un uragano l'avrebbero svegliato: il che significava che per il momento non aveva da temere. Osservando quella figura immobile provò un brivido. Da dove veniva? Forse aveva viaggiato per ore. Magari era evaso da una prigione, aveva rubato l'auto... Meglio dare un'occhiata alla macchina e alla targa. Scese in punta di piedi. Nell'ingresso vide una grossa sacca da viaggio con i cartellini della United Airlines. Era atterrato al Dulles di Washington, ma chissà da dove era partito: le indicazioni in codice avrebbero rivelato i loro segreti solo attraverso un computer. Poi notò il carnet che spuntava da una tasca esterna: le copie del biglietto? Le avrebbero fornito i dati che cercava. Esitò. Perché il buon Dio le aveva inculcato tanti scrupoli? Lei non ficcava il naso nei cassetti altrui, non evadeva le tasse, non si portava via i portacenere degli alberghi. E non diceva mai bugie. Be', quasi mai. E neppure frugava tra i documenti altrui. Ma in questo caso ne aveva tutti i diritti, no? Doveva pur conoscere l'identità dello sconosciuto che si era introdotto in casa sua e si rifiutava di andarsene. Certo che sì. Si chinò a sfilare il carnet e ne sfogliò le veline cercando di decifrare le scritte sbiadite. Clint Bracamonte. Un nome che gli si adattava. Le ci vollero un paio di minuti per ricostruire il suo itinerario, ma quando ebbe terminato il cuore le batteva forte: non di paura questa volta, Karen van der Zee
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ma di emozione. Balikpapan-Jakarta-Hong Kong-San Francisco-Washington. Balikpapan! Una città della regione indonesiana di Kalimantan, nel Borneo. Una zona selvaggia: giungla, fiumi dal corso arduo, piccoli villaggi abitati da tribù che vivevano secondo le usanze tradizionali. Conosceva bene la geografia e non c'era da stupirsene: aveva visitato i paesi più disparati, in quanto suo padre era un diplomatico. Avevano abitato a Jakarta, in Indonesia; a Kuala Lumpur, in Malaysia; a Dar es Salaam, in Tanzania; a Ginevra, in Svizzera, e in altri posti che non rammentava perché allora era troppo piccola. Rimise i biglietti nella tasca della sacca, aprì la cigolante porta d'ingresso e dal portico scrutò l'auto: una Ford Taunus grigia con il cartellino dell'agenzia di noleggio. Rientrò, salì in camera sua e sedette sulla sponda del letto a riflettere. Il signor Bracamonte era arrivato a Washington direttamente da Balikpapan: due giorni di viaggio attraversando la linea di data e parecchi fusi orari. Il suo orologio fisiologico doveva essere impazzito. Avrebbe dormito per un pezzo. Ma perché era convinto che la casa fosse sua? Assurdo, impossibile. Adesso però anche lei era esausta. Si infilò nel sacco a pelo, chiuse gli occhi e immediatamente scivolò in un sonno profondo. Si destò con gli uccellini che cantavano tra gli alberi. Dalla finestra aperta si riversavano la luce di quel mattino d'aprile e l'aria frizzante come champagne. Per un momento si godette un profondo senso di benessere, ma fu un momento molto breve: di colpo le tornò l'immagine dello sconosciuto giunto quella notte. Occhi neri, capelli neri, barba nera. Oddio. Be', era viva e vegeta e non era neppure dovuta ricorrere alle sue scarse cognizioni di karaté. Dopo una rapida doccia indossò dei jeans e una maglietta rossa. Sperava ardentemente che Jack arrivasse prima del risveglio di Clint Bracamonte. Si truccò, dopo essersi legati i capelli a coda di cavallo: non era un caso che avesse lisci capelli corvini e occhi scuri. Tra i suoi ascendenti c'erano greci, italiani, ungheresi e perfino una zingara che aveva avuto l'ardire di innamorarsi di un gorgjo. Sua madre aveva indagato con passione sull'albero genealogico di famiglia, viaggiando per l'Europa e scoprendo lontani parenti: un dentista, un pastore, un macellaio, una casalinga e addirittura una bis-bisnonna greca di centosette anni, tutta vestita di nero, Karen van der Zee
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perfettamente lucida e in ottima forma, che beveva due bicchierini di ouzo al giorno. L'albero di famiglia spiegava molte cose. Non era tanto strano, a esempio, che Livia amasse soprattutto i viaggi: i geni zingari. Quando arrivò in cucina scoprì di aver fatto male i calcoli: Clint Bracamonte, in piedi davanti al lavello, stava riempiendo il bollitore. Era lo stesso della notte prima: occhi neri, capelli neri, ma la barba cespugliosa era scomparsa. Il cuore le diede un balzo. Era un uomo fantastico. Cancellato ogni tratto diabolico, restava un intenso fascino mascolino piuttosto inquietante. Lui mise il bollitore sul fornello e accese la fiamma. «Oh, buongiorno» disse notando Livia sulla soglia. «Buongiorno» rispose lei. E d'un tratto l'aria vibrò di tensione. Lui indossava dei pantaloni di cotone e una maglietta azzurra, i capelli un po' troppo lunghi erano umidi, e la parte del volto prima nascosta dalla barba adesso mostrava una mascella forte e decisa. Tutti i lineamenti erano ben definiti. Ora le diede una squadrata. «È la stessa donna che ho visto ieri sera, con una lunga camicia tutta pizzi, o quella è stata solo un'immagine onirica?» «No, sono sempre io.» Non riuscì a trovare una risposta più brillante. Certo, era una camicia da notte molto carina, ma adesso rimpiangeva di non avere avuto addosso un pigiama. Solo che ne era sprovvista. Le piaceva la biancheria raffinata, forse perché era gradevole mettersi qualcosa di leggiadro e femminile dopo una faticosa giornata di lavoro in jeans e maglietta, impolverata, sporca di vernice e di colla per tappezzeria. Lui prese due tazze da un armadietto. «Caffè?» domandò cortesemente. «Sì, grazie» fu la risposta di lei, altrettanto cortese. Solo dopo aver pronunciato quelle parole si rese conto dell'assurdità della situazione. Quell'uomo si era intromesso in casa sua e adesso faceva la parte dell'anfitrione. Le provviste che aveva acquistato il giorno prima erano state tolte dai sacchetti e allineate sul tavolo: caffè istantaneo, tavolette di cioccolato, pane, burro di arachidi, marmellata d'arance, senape francese. Lui si comportava come se avesse tutti i diritti di trovarsi lì. Da un altro armadietto prese due piatti che posò sul tavolo, aprì un cassetto e ne trasse coltelli e forchette: Livia notò che non aveva bisogno di cercare i vari oggetti, sapeva esattamente dove si trovavano. Non era un buon segno. Provò un guizzo di apprensione che subito soffocò. Forse si Karen van der Zee
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era già guardato attorno. «Faccia pure come se fosse a casa sua» suggerì, fredda. «È così, infatti» la rimbeccò lui. «Vuole dirmi chi è lei e cosa ci fa qui?» «E lei, piuttosto?» «Posso farle notare che non si risponde a una domanda con un'altra domanda?» «Può farmi notare tutto quel che vuole. Come si chiama?» Lui abbozzò un sorrisetto. «Clint Bracamonte. E lei?» «Olivia Jordan.» «Olivia» ripeté. «Bel nome, mi piace. Allora, Olivia, tutto qui quel che c'è da mangiare?» Lei andò ad aprire il freezer e tirò fuori un paio di tortillas farcite, surgelate nella loro confezione di carta. Le posò sul ripiano e accese il fornetto elettrico. «Tortillas surgelate per la prima colazione?» mormorò lui leggendo la scritta. «Buon Dio, cos'altro inventeranno?» «Sono ottime» dichiarò Livia. «Ripiene di uova, formaggio, prosciutto. Tutte le proteine che servono. E facilissime da preparare: basta scaldarle. Non ne ha mai viste? Dov'è stato finora?» «Ben lontano da quello che si definisce il mondo civile» fu la pronta risposta. Già, lo sapeva, ma non avrebbe certo ammesso di essere andata a curiosare tra le sue carte. «Ossia?» domandò in tono disinvolto. «Un posto di cui certo lei non ha mai sentito parlare.» Lo guardò dritto in faccia. «Mi metta alla prova.» Ma lui non raccolse la sfida. Si limitò a versare acqua bollente nelle tazze e a tendergliene una. Be', quanti, nelle campagne della Virginia, avevano sentito parlare di Balikpapan? Non molti. Ma l'atteggiamento condiscendente di lui era irritante e offensivo. «Non mi guardi in quel modo. Sta forse lanciandomi il malocchio?» «È il mio sangue zingaro» rispose lei, spigliata, e prese un sorso di caffè. «Senti senti. Sangue zingaro. Molto interessante. È quello a cui deve il fuoco che ha negli occhi?» Le diede un colpetto alla coda di cavallo. «E questi capelli neri?» Istintivamente lei fece un passo indietro. Era stato un gesto casuale, ma Karen van der Zee
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le aveva fatto un effetto molto strano. «Attento» lo ammonì, «faccio anche incantesimi.» Varcò la porta uscendo nella luminosa mattinata primaverile, sempre reggendo la sua tazza. La presenza di lui era oscura e conturbante, quei misteriosi occhi neri e l'alto corpo muscoloso, intensamente virile, la mettevano a disagio. Non lo voleva vicino. Non che temesse per la sua incolumità: avvertiva in lui forza, energia, dinamismo, ma non violenza. C'era qualcos'altro che la disturbava, le accelerava i battiti del cuore, affinava tutti i suoi sensi. Qualcosa che innescava strane vibrazioni e tremori. Il portico posteriore era ampio e dava su un giardino esuberante di sanguinelli bianchi e rosa e colmo di azalee dalle più diverse sfumature. Un giardino da favola. Appoggiata alla ringhiera di legno osservò gli scoiattoli che guizzavano su e giù per le grandi querce. Adorava quel posto. Avrebbe ristrutturato la casa rendendola adatta a una famiglia numerosa, ma sarebbe potuta venirne fuori una piccola romantica locanda. Sì, senz'altro romantica, pensò con un sospiro. Anche a lei sarebbe piaciuto un incontro romantico. Per la verità avrebbe desiderato qualcosa di più. A ventotto anni voleva trovare l'uomo definitivo, che le restasse accanto per il resto della vita, diciamo una cinquantina d'anni. Mezzo secolo. Mica facile. La porta a rete della cucina si aprì cigolando e Clint la raggiunse appoggiando sulla ringhiera le braccia abbronzate. «Dobbiamo parlare» esordì. «Ieri sera non ero nelle mie condizioni mentali più brillanti e mi è sfuggito il motivo della sua presenza in casa mia.» Lei serrò le mani attorno alla tazza. «Questa casa è mia. L'ho comperata, pagata, e perciò ne sono la proprietaria. È chiaro adesso?» Lui scrollò il capo. «No, purtroppo. Se non sono stato io a vendergliela, lei non può averla acquistata.» «Questa casa apparteneva a un'anziana signora che è deceduta. E io l'ho comperata.» «Quell'anziana signora era mia nonna e ha lasciato la casa a me. Ho il suo testamento a dimostrarlo.» Per un attimo Livia si sentì invadere dal panico. Era rimasta vittima di una truffa? Certo, l'aveva avuta a buon prezzo, ma non tanto basso da rendere sospetta la transazione. Rivide mentalmente il volto rotondo e Karen van der Zee
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cordiale dell'agente immobiliare, la signora che le aveva detto che in quella zona non succedevano mai fattacci, che le aveva mostrato la foto della nipotina. No, non poteva trattarsi di un imbroglio. Si rifiutava di crederci. Se si fosse trattato di una vendita fraudolenta, lei avrebbe perso tutto. Niente più quattrini, niente viaggio nella foresta amazzonica. Anzi, avrebbe avuto solo debiti da assolvere. Un pensiero da far venire i sudori freddi, ma lei lo respinse. I documenti erano in ordine. Tutta la compravendita si era svolta nel modo più regolare e lei non era una stupida. Non era la prima volta che acquistava una casa. Negli ultimi cinque anni aveva comperato, ristrutturato e rivenduto ben cinque abitazioni. «Le consiglio di consultare il suo avvocato in merito a quel testamento» disse con tutta la freddezza professionale che riuscì a radunare. «E lo studio Boswell e Armis di Charlottesville. Sono stati loro a trattare la proprietà.» «Lo farò senz'altro.» E l'avrò vinta io, sottintendeva il tono. Prese un sorso di caffè e osservò il giardino con affetto. Non disse parola, ma lei glielo lesse in faccia. Una faccia notevole. Forte, decisa, ma con una certa indefinibile sensualità... Buon Dio, ma che pensieri le venivano? Lui si volse a guardarla. «Ci sono altre persone implicate in questa piccola trama? Un marito?» «Nessuna trama. E non ho un marito.» Terminò il caffè e rientrò in cucina dove aprì una confezione di succo d'arancia, riempì due bicchieri e li mise sul tavolo. Non era una bella situazione. Che cos'avrebbe fatto adesso? Come riuscire a liberarsi di quell'uomo? Ed eccola lì, pronta a far colazione con l'intruso. Del tutto assurdo. Lui rientrò, aggiunse acqua al bollitore e lo mise nuovamente sul fuoco. Livia fissò quell'ampia schiena. «La signora Coddlemore è deceduta da due mesi. Se era sua nonna, come mai lei non è arrivato prima a rivendicare la proprietà?» «Ho saputo della sua morte solo dieci giorni fa» rispose lui sedendosi. «Come mai? Nessuno l'ha informato?» «Sì, mi hanno informato, ma la notizia mi è giunta solo dieci giorni fa.» «E dove si trovava? In Antartide? Nella giungla?» «Nella giungla, per l'appunto. Solo che adesso la chiamano foresta Karen van der Zee
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pluviale.» «Sì, lo so. Quale foresta pluviale?» «Nel Kalimantan.» Lei annuì. «Borneo, la parte indonesiana.» Lo vide socchiudere gli occhi e provò una sensazione di trionfo. «Nutro una vera passione per la geografia» raccontò con un sorriso luminoso. «Tutti quei posti esotici! Quelle isole affascinanti e misteriose!» Emise un sospiro. Le tortillas erano ormai pronte, caldissime. Livia le passò sui piatti e lui affondò coltello e forchetta nella sua: ne uscì un rivolo di formaggio fuso. Cominciò a masticare senza far commenti. «Che cosa si mangia per prima colazione nel Kalimantan?» domandò Livia. Quel silenzio tra loro l'innervosiva. Clint alzò le spalle. «Riso, cinghiale, pesce, quel che capita.» Preparò dell'altro caffè istantaneo per entrambi, mandò giù due fette di pane tostato, poi si alzò e raggiunse la porta. «Ci vediamo stasera» le disse voltandosi. Non appena l'auto si fu allontanata, Livia si precipitò al telefono, ma allo studio legale non c'era ancora nessuno, e neppure all'agenzia immobiliare. Be', non se ne sarebbe rimasta con le mani in mano. Il piccolo cassone rimorchio era stato portato lì il giorno prima e lei cominciò allegramente a stivarci la paccottiglia. Poi staccò i vecchi tendaggi polverosi e inutilizzabili. Di lì a poco sarebbe arrivato il camion della casa delle aste a portar via il primo carico di materiale di cui voleva disfarsi: libri, oggetti, mobili. Poi squillò il telefono. Era Jack, il fratello architetto, e il suono di quella voce ben nota la confortò subito. Meno confortante fu la notizia che l'auto di lui si era bloccata proprio quella mattina. «È un guaio grosso se non ce la faccio a venir lì oggi? Me l'aggiustano entro stasera e posso arrivare domani.» Livia considerò la possibilità di raccontargli quel che era successo, poi respinse l'idea: i suoi quattro fratelli si sarebbero precipitati lì in massa compatta nel giro di poche ore a proteggerla e aiutarla. Il che era simpatico, certo, ma forse non avrebbe risolto molto. Prima voleva sapere come stavano esattamente le cose. E l'avvocato, a cui telefonò poco dopo, glielo spiegò: l'anziana signora aveva steso un nuovo testamento solo pochi giorni prima di morire. In quest'ultimo stabiliva che la casa doveva essere venduta e il ricavato Karen van der Zee
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depositato in banca a nome di suo nipote che si trovava nella giungla del Borneo, in località imprecisata, ma che prima o poi si sarebbe fatto vivo. Esecutore testamentario era l'avvocato stesso e lei poteva stare tranquilla: niente di losco. «Come si chiama il nipote?» domandò lei trattenendo il fiato. «Mi faccia vedere... oh, sì, ecco qui. Clinton Bracamonte. Perché me lo chiede?» «È appena riemerso dalla giungla e avanza dei diritti sulla casa.» Dalla finestra della sala da pranzo Livia vide comparire la Ford grigia e subito il cuore cominciò a martellarle. Il camion della casa delle aste era posteggiato sul viale d'accesso, carico di sedie, tavoli, scatoloni contenenti stoviglie assortite: tutte cose di scarso valore. Lei aveva trascorso tutta la giornata a esaminare il contenuto di armadi e ripostigli decidendo cosa tenere e cosa vendere. Era stanca e impolverata. La sala da pranzo era vuota e lei aveva quasi terminato di strapparne via la vecchia moquette. Clint scese dall'auto, si avvicinò al camion, diede un'occhiata, disse qualcosa all'autista, poi raggiunse a gran passi il portico anteriore e spalancò la porta. «Olivia!» «Sono nella sala da pranzo» gridò in risposta. In ginocchio, cominciò ad arrotolare l'ultima striscia di moquette. Sotto c'era un bellissimo parquet. Un attimo dopo Clint comparve sulla soglia, si guardò attorno e quel che vide non gli piacque affatto, lo si capiva benissimo. Naturalmente Livia non si aspettava che lui ne fosse felice, per questo aveva il cuore in gola. Clint avanzò di qualche passo. «Cosa diavolo sta combinando?» La voce era bassa e furente. «Sto svuotando la casa» spiegò lei con tutta la calma possibile. «Mi faciliterà molto il lavoro di ristrutturazione.» Tende, quadri e mobili erano scomparsi. «Erano le cose di mia nonna!» «Adesso sono mie e posso farne quel che voglio. Se le vuole, potrà ricomperarle dalla casa delle aste. Sono sicura che il signor Rommel le farà un buon prezzo.» Seguì un silenzio greve. Lei sentì un brivido serpeggiarle lungo la schiena e alzò lo sguardo verso il volto duro e gli occhi penetranti di lui. «E va bene» mormorò Clint lentamente, «discutiamone.» Karen van der Zee
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3 «Non c'è niente da discutere. Questa è casa mia e desidero che lei se ne vada.» Continuò ad arrotolare la pesante moquette. Nei raggi di sole che entravano dalla finestra danzavano minuscoli frammenti di polvere. Glint Bracamonte l'agguantò per le braccia tirandola su in piedi. «Discutiamone, ho detto.» La reazione di lei fu automatica. Con un paio di rapide mosse si liberò dalla stretta. «Non mi metta le mani addosso» ordinò freddamente. Lui scoppiò a ridere. «Notevole, devo riconoscerlo.» Lei era seccatissima. «La prossima volta non ci troverà nulla di comico: le farà un male cane.» Lui annuì gravemente, ma nei suoi occhi si scorgeva una scintilla divertita. «Lo terrò presente. Karaté e incantesimi di zingara. Donna pericolosa.» Lei gli lanciò un'occhiata da incenerire, che però non parve fargli grande effetto. Non che lei ci sperasse: non era tipo da farsi intimorire, soprattutto da un peso piuma di sesso femminile. Clint si cacciò le mani in tasca. «Avrei una proposta da farle» riprese. «Le sue proposte non mi interessano.» «Sono andato a informarmi» continuò lui imperturbato. «Ha ragione: questa casa lei l'ha comperata ed è sua.» Livia lo guardò inclinando la testa di lato. «Tante grazie. Se non erro, lei è il destinatario del ricavato della vendita.» «Esatto. Non sapevo che mia nonna avesse modificato le sue disposizioni testamentarie. A quanto pare, ha ritenuto che avrei preferito un lascito in denaro, piuttosto che la responsabilità e l'impegno della villa.» «Bene. Allora è tutto chiarito.» «No, non va bene. Mia nonna si sbagliava. Io tengo molto a questa casa. Quindi facciamo così: io gliela ricompero, dandole il cinque per cento in più di quanto ha speso.» Livia si mise a ridere: l'audacia di quell'uomo era davvero incredibile. Credeva di poterle imporre la sua volontà? Credeva di poter indurla a rinunciare a una simile occasione? «Nossignore, non ci sto. Ho acquistato Karen van der Zee
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la villa perché mi piaceva.» «Le do il dieci per cento in più.» «No.» «Quanto vuole?» «Semplicemente la casa. È una magnifica costruzione e intendo ristrutturarla. Ne verrà una meraviglia» dichiarò. «Poi la rivenderò al prezzo che merita a qualcuno che saprà capirne il valore. È il mio lavoro, è così che mi guadagno da vivere.» Ed era anche molto brava. Vedeva subito gli interventi da fare e aveva un fratello architetto. Restaurare case non era esattamente quel che aveva sempre sognato: un tempo voleva diventare ballerina classica. Aveva iniziato quella professione per caso, aiutando un'amica di sua madre a sistemare una casa in pessimo stato a Georgetown, un sobborgo residenziale di Washington. Sarebbe potuta essere una strada, si era detta, e l'aveva imboccata chiedendo un prestito a suo padre. Dal primo lavoro aveva ricavato un grosso profitto, aveva restituito il prestito e acquistato un'altra casa. Adesso, a sei anni di distanza, guadagnava molto bene e poteva permettersi di fare tutti i viaggi che voleva tra un progetto e l'altro. La sua attività le piaceva molto e si rendeva conto di essere davvero fortunata. Clint con fu contento della sua risposta. «Non voglio che venga modificata.» «Mi spiace, ma non sta a lei decidere.» Non poté impedirsi di provare un senso di soddisfazione. Intrecciò le braccia. «E poi sarebbe una sciocchezza non sistemare questa casa. Ha visto l'impianto elettrico? È vecchissimo, addirittura pericoloso. E quello idraulico è medievale!» Lui la fissava con un'aria tra il divertito e l'esasperato. «Lei è diversa da quel che sembra a prima vista, eh?» «Non saprei» ribatté lei seccamente. «Non ho mai avuto una prima impressione di me stessa.» Clint ebbe un mezzo sorriso e per un lungo, interminabile momento si fissarono in silenzio, valutandosi, intuendosi. Uno strano calore si diffuse nel corpo di Livia mentre il cuore accelerava i battiti. Faceva fatica a respirare. E lui non l'aveva neppure toccata. Distolse lo sguardo: avrebbe voluto fuggire da quella stanza, da quelle pericolose vibrazioni, ma trattenne l'impulso. «Se vuole scusarmi, ho parecchio da fare.» Sentì il tremito nervoso nella propria voce e sperò che lui non se ne accorgesse. Karen van der Zee
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Prima che potesse inginocchiarsi nuovamente lui si chinò e senza dir parola finì di arrotolare l'ultima striscia di moquette caricandosela poi su una spalla come se fosse niente più di un asciugamano bagnato. «Nel cassone?» domandò. «Sì.» Lo seguì con lo sguardo sentendosi parecchio sbalestrata. Ed era una cosa che non le piaceva affatto. Un attimo prima era insopportabilmente dispotico, un attimo dopo l'aiutava, e a fare proprio quello che disapprovava. Dalla finestra lo vide gettare nel cassone il pesante rotolo. Aveva abbandonato il discorso dell'acquisto della villa, non aveva insistito né minacciato. Ma lei non s'illudeva che l'argomento fosse chiuso. Clint Bracamonte non era uomo da rinunciare facilmente. Lui andò alla sua auto, aprì il portabagagli e ne tirò fuori due grossi sacchetti del supermercato che depositò in cucina e poi si lavò le mani prima di estrarne il contenuto. Fragole, asparagi, bistecche, pane francese, panna, burro, funghi, cipolle, due o tre tipi di verdure per insalata, una piccola schiera di formaggi francesi. E infine una bottiglia di vino rosso dall'etichetta molto importante. «Cos'avrebbe in mente?» si informò lei. Clint sorrise: un autentico sorriso che la sbalestrò ancora di più. «La invito a cena per ripagarla dell'ospitalità.» Livia restò senza parole. Che cosa avrebbe potuto dire? Se ne vada da casa mia e si porti appresso le sue fragole e le sue bistecche? Mica era pazza. Aveva lavorato come un mulo per tutta la giornata sulla scorta di una tortilla, un sandwich di burro di arachidi e due piccole tavolette di cioccolato: adesso era famelica. Guardò bramosamente quanto era disposto sul tavolo. Perché accontentarsi di crema di pollo in scatola e cracker, quando poteva cenare con bistecca, asparagi e fragole con panna? E vino, inoltre. Lui l'osservava in attesa di una risposta. «Allora? A guardarla direi che ha bisogno di un pasto come si deve.» Il tono era tranquillo. «Ci ha dato dentro parecchio, quest'oggi.» «Ne sarei felice.» Era vero. Inoltre era difficile resistergli, doveva ammetterlo. E poi non c'era nulla di male nel cenare insieme, no? «Ottimo.» Prese un cavatappi da un cassetto e aprì la bottiglia. «Ci facciamo un aperitivo? O lei è una purista e vuole dar tempo al vino di respirare?» Karen van der Zee
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«Sono una purista solo quando mi fa comodo. Al momento non ho voglia di aspettare.» Se ne andò col suo bicchiere lasciando Clint libero di trafficare ai fornelli. Come cuoca lei non valeva molto, però apprezzava la buona cucina e risolveva la cosa frequentando ristoranti di un certo livello o andando a casa dei suoi. A sua madre piaceva far da mangiare. Solo che al momento sua madre e suo padre non si trovavano nei paraggi. Il governo li aveva mandati a Stoccolma. Livia passò nel soggiorno e cominciò a vuotare cassetti riempiendo altri scatoloni e prendendo ogni tanto un sorso di vino. Un vago senso di disagio si agitava in lei. Lo respinse. Sciocchezze. Non ce n'era motivo. Non aveva obblighi o doveri: la casa apparteneva a lei, con tutto ciò che vi si trovava. L'aveva comperata regolarmente con i suoi quattrini. Eppure la fatina dentro di lei non era contenta. Sua madre le aveva spiegato, quando era piccola, cos'era la vocina interiore che a volte la disturbava quando aveva fatto qualcosa di male. Era quella della sua personale fatina della virtù, che abitava nel suo cuore. La fatina le diceva cosa era giusto e cosa sbagliato. Da bambina immaginava quella piccola fata con delle alucce trasparenti e una candelina tra le mani per farle luce sulla retta via. E adesso, mentre lei riempiva gli scatoloni, la fatina si agitava nervosamente. Livia le disse di andare a farsi una bella passeggiata. La fatina non ubbidì. Livia continuò nella sua opera. Posacenere, centrini, vasi sbeccati, un copri teiera macchiato, uno scatolino pieno di bottoni, uno Scarabeo con le pedine delle lettere molto sbiadite, una piccola palla di stoffa dai colori vivaci, da bambino piccolo. Chissà chi l'aveva lasciata lì. La buttò nello scatolone. Clint la chiamò dopo meno di un'ora. A quel punto lei quasi sveniva dalla fame. La tavola era apparecchiata: lui aveva persino trovato una tovaglia bianca e delle candele: azzurre e infilate in candelieri di cristallo che le piacquero molto. Quelli li avrebbe tenuti. «Mia nonna era molto affezionata a questi candelieri» raccontò Clint. «Li aveva portati con sé dalla Polonia quando lei e il nonno sono emigrati negli Stati Uniti. Erano un regalo di nozze.» Oh, magnifico. Adesso si sarebbe sentita in colpa. No, già ci si sentiva. La fatina dentro di lei stava praticamente ululando. «Tienili tu, allora» sentì dire dalla propria voce. Detestava il senso di colpa. Quasi non si accorse di avergli dato del tu. Karen van der Zee
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«Te li compero.» I loro sguardi si incrociarono. «Non me la sento proprio di venderti i candelieri preferiti di tua nonna. Prendili e basta.» «Tutta questa facciata risoluta e pratica cela un cuore tenero, eh?» commentò lui con un mezzo sorriso. «Oh, ti prego, risparmiami» tagliò corto lei, e si concentrò sulla cena che era deliziosa. Avrebbe voluto chiedergli chi era, cosa faceva, ma qualcosa le impediva di far domande. Meno ne avesse saputo, meglio sarebbe stato. Voleva che lui se ne andasse. Se gli seccava che lei si liberasse di tutti quei vecchi mobili, come avrebbe reagito quando fossero arrivati i muratori ad abbattere certe pareti? «Cosa facevi nella foresta pluviale?» Non era riuscita a trattenersi. «Catturavi uccelli tropicali per contrabbandarli all'estero? Abbattevi alberi per le fabbriche di stuzzicadenti?» Lui inarcò le sopracciglia. «Pensi sempre così di tutti, o io sono un caso speciale?» «Erano solo ipotesi.» Sorrise. «Posso dare per scontato che fossi impegnato in qualcosa di più rispettabile?» «Una ricerca sull'interazione tra gli indigeni e il loro ambiente naturale.» «Oh, uno scienziato.» «Un antropologo ecologo.» Lei rimase molto colpita. «E stavi presso le tribù di cui studiavi le usanze?» Clint annuì. «Sì, vivo in una delle loro tradizionali abitazioni comuni.» «Vivi? Hai intenzione di tornare laggiù?» «Sì.» Era tornato per due mesi, spiegò, e aveva un contratto con l'università della Virginia. Avrebbe tenuto conferenze e partecipato a convegni in varie località. Poi sarebbe tornato nel Kalimantan. «Ma perché vuoi questa villa, allora? Comunque non ci abiteresti.» Clint le rivolse un'occhiata indecifrabile. «Per dirne una, contavo di stare qui nei prossimi due mesi. E inoltre, quel che più conta, era la villa di mia nonna... quella che ho sempre considerato la mia casa.» Non aveva una famiglia, allora? Né genitori né altri parenti? «Capisco» mormorò Livia. «Tua nonna evidentemente non l'ha tenuto in considerazione.» Lui serrò la mascella e non disse nulla. Per un poco mangiarono in silenzio. Karen van der Zee
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«E quali sarebbero i tuoi progetti?» domandò lui dopo un poco. Il tono era freddo. «Te l'ho detto. Intendo restaurarla e poi venderla.» «Che tipo di interventi hai in mente?» Non aveva voglia di discuterne, ma era una domanda ragionevole: chiunque sarebbe stato curioso di sapere come intendeva trasformarla. «Voglio aggiungere un'altra stanza da bagno al piano di sopra, con una vasca per l'idromassaggio, e ammodernare le due già esistenti. La cucina verrà completamente rifatta.» C'era dell'altro: alcuni muri andavano abbattuti per creare un'ampia veranda a vetri. Non ne fece cenno. «Sei un architetto?» «No. Me la cavo bene con sega, martello e vernici.» Lui la scrutò in volto. «Direi che occorre molto di più.» Infatti. «Ho una buona esperienza. L'ho fatto diverse altre volte.» «Ah, una donna dalle mani d'oro.» Se non si fosse sentita così sbilanciata, sarebbe stato molto piacevole trovarsi a tavola di fronte a una cena squisita preparata da lui. L'uomo che avrebbe sposato doveva essere disposto a cucinare. Era uno dei requisiti richiesti, anche se non il principale che, naturalmente, era un'eterna devozione. «E farai intervenire muratori, idraulici, elettricisti e così via?» «Sì, l'impianto elettrico è da rifare di sana pianta e in buona parte anche le tubature.» «E tratterai tu con loro?» Lo guardò con aria interrogativa. «Sì, certo.» E sapeva benissimo come cavarsela. «Ci vedi qualche problema?» «Potrebbero essercene diversi. Agli uomini non piace prendere ordini da una donna, soprattutto se questa interviene nel loro campo.» Livia annuì. «Gli uomini insicuri, sì. Bisogna saperli prendere.» «E tu sai come fare?» «Sono un'esperta.» Negli occhi di lui si accese una scintilla divertita. «Non ti lasci mettere i piedi sul collo, eh?» «Sono cresciuta con quattro fratelli e ho imparato a farmi valere.» Purtroppo non era certa di riuscirci anche con quell'uomo. Clint socchiuse gli occhi, scrutandola, e lei di nuovo ebbe quella curiosa reazione: l'ipnotica sensazione di non aver più controllo su di sé. Lo Karen van der Zee
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sguardo di lui pareva leggerle nell'anima. Non ci teneva affatto a farsi leggere nell'anima da qualcuno senza specifico invito, e men che meno da quell'uomo. Si alzò. «Grazie della cena deliziosa» disse con garbo. «Adesso devo rimettermi al lavoro.» Sperava che a quel punto lui si congedasse, caricasse la sua roba sull'auto e sparisse. Poco dopo udì degli strani rumori provenienti dall'esterno, si affaccio alla finestra e vide Clint inerpicato su una scala a pioli, intento a segare un ramo morto da una delle vecchie querce. Rimase a osservarlo: ogni suo movimento era agile e sicuro. Braccia forti, dorso poderoso. Lo schianto del ramo che cadeva a terra la riscosse da quella specie di trance. Per un attimo chiuse gli occhi respirando a fondo. Per il resto della serata si tenne alla larga da lui, sapendo che non se ne sarebbe andato e senza saper che fare. Consapevole della presenza di lui a pochi metri di distanza e invasa da una strana apprensione, dormì un sonno agitato. Quando scese dabbasso, la mattina seguente, Clint era già uscito ma, dando un'occhiata nella sua stanza, vide che i bagagli erano ancora lì. Non si era arreso. Be', se l'era aspettato, no? Era al tempo stesso in collera e sollevata. «Ho pensato di venire anch'io, nel caso avessi bisogno di una mano» annunciò Sara. «Ho affidato le piccole a mia madre.» Sara aveva corti capelli rossi, molte lentiggini e una bella bocca sempre sorridente. Era la moglie di Jack, e Livia le era molto affezionata. I due erano arrivati verso le dieci e Jack aveva portato i disegni del progetto. Prima che la vendita venisse perfezionata, Livia e suo fratello avevano studiato più volte la casa prendendone tutte le misure. Jack si allontanò per un altro giro di controllo, mentre Livia e Sara preparavano il caffè in cucina. «Avrò senz'altro bisogno di aiuto» dichiarò Livia. «Ho già fatto tutta la cernita, qui al pianterreno, ma restano ancora le stanze di sopra. Tutti quegli armadi... mai più comprerò una casa arredata!» «Avevi accennato al solaio e io me lo sono addirittura sognato, ci credi?» Livia tirò fuori tre tazze e lo zucchero. «Da te mi aspetto di tutto. Che cosa hai sognato?» Karen van der Zee
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«Che trovavamo uno scrigno pieno di gioielli antichi.» «Le cose più personali, i documenti e i preziosi sono già stati portati via» rise Livia. «Forse non hanno guardato in solaio. Non vedo l'ora di andare a vedere se ci sono tesori nascosti.» «Hai letto troppe storie di tesori di pirati alle tue bambine. Ti hanno dato alla testa.» «Be', non si sa mai. Sono cose che succedono, a volte. Questo caffè fa schifo. È istantaneo?» «Eri qui mentre lo preparavo. Naturale che è istantaneo.» «Allora, dimmi di questo tipo.» Livia le raccontò di Clint Bracamonte. Era un sollievo poterne parlare con qualcuno. «Accidenti» commentò Sara. «E dove andrà ad abitare per i prossimi due mesi?» «Non lo so e non mi interessa.» Sara aggrottò la fronte. «Non si trova niente in affitto per un periodo così breve.» «La cosa non mi riguarda.» «Sì, lo so. Sto solo riflettendo. Si trova in un bel guaio.» «Non è responsabilità mia!» sbottò Livia. Sara inarcò le sopracciglia. «Non ho detto questo, ma dev'essere stato un bel colpo per lui arrivare qui dall'altro capo del mondo e scoprire che la sua casa è stata venduta e che non ha un posto dove andare né un letto dove dormire.» «Per piacere, non essere melodrammatica.» Sara ebbe un sogghigno. «Ma se mi riesce così bene! Che cosa si prova a sapere di aver contribuito ad aumentare il numero dei senzatetto?» Livia le fece gli occhiacci. «Quell'uomo ha in banca un mare di quattrini, e versati da me, tanto per la precisione. Non pretendere che singhiozzi sulla sua sorte.» Giocattoli. Una scatola di automobiline, un cumulo di blocchetti di Lego, libri d'avventure. «Dovevano essere di Clint» osservò Sara frugando ancora nel baule. «Probabile.» Livia sentiva un nodo allo stomaco. Non voleva immaginare Clint da ragazzino. Un ragazzino che giocava con il Lego, che Karen van der Zee
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andava a trovare la nonna in quella villa. Il solaio, fiocamente illuminato da una lampadina appesa a un filo elettrico, era invaso da polvere e ragnatele. Diversi pezzi di mobilio erano accatastati nella penombra, insieme a casse e scatoloni pieni di abiti vecchi e cianfrusaglie. Adesso avevano aperto quel baule pieno di giocattoli. Sara continuava a tirarne fuori oggetti. «Guarda, Liv! Un trenino e la sua pista con le gallerie, i ponti e tutto quanto! Questo vale parecchio, cosa conti di farne?» «Non lo so» rispose lei con voce atona. «Non puoi venderlo. Devi restituirlo a Clint.» «Già.» A ogni passo trovava elementi a ricordarle quanto quella casa appartenesse a lui. Lì c'era il suo passato. I suoi ricordi. I suoi maledetti giocattoli! La signora Fletcher, l'agente immobiliare, arrivò con la sua grossa auto lucente nel tardo pomeriggio, mentre Jack e Sara stavano andandosene. Il solaio era stato svuotato. Livia e Sara avevano liberato i muri della sala da pranzo da cinque strati di carta da parati. Tutti insieme avevano trasportato nel seminterrato i mobili che lei intendeva tenere. Adesso Livia era sfinita. «Ho una notizia interessante per lei» annunciò la signora Fletcher con un gran sorriso. «C'è una persona interessata alla villa e che vorrebbe stipulare un accordo.» Un campanello d'allarme risuonò nella sua mente. «Mi lasci indovinare. Si tratta di Clint Bracamonte.» L'altra annuì. «Sì. Ha detto che lei non intende rivendergli la casa nelle condizioni attuali.» «Infatti.» Si chiese se l'agente immobiliare la disapprovasse, ma dal tono non pareva. Immaginò che Clint si fosse rivolto al suo legale per trovare il modo di riavere la villa. Chissà che cosa aveva detto di lei. Tirò un sospiro. «Entri, preparo un caffè.» La signora Fletcher la seguì. «Gli ho spiegato che era una follia volerla riacquistare così com'è, visto che ha bisogno di parecchi lavori che vanno seguiti di persona, e lui non potrebbe farlo, dal momento che presto ripartirà.» Sedettero sotto il portico posteriore immerso nel profumo dei lillà. «Il signor Bracamonte vorrebbe un'opzione sulla vendita» spiegò, la signora Fletcher sorseggiando il caffè. «È disposto a versare diecimila Karen van der Zee
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dollari. Mi sono detta che la cosa probabilmente non l'avrebbe interessata, anche se avere a disposizione diecimila dollari, viste le spese che deve affrontare, potrebbe farle comodo.» Livia assentì. «Sì, certo, ma non intendo concedere un'opzione. Significherebbe dover stabilire adesso un prezzo di vendita, e ora come ora non sono in grado di farlo. Tutto dipende da come andranno i vari lavori e dal risultato finale. Non posso fare previsioni certe.» «È quel che ho pensato anch'io. Inoltre, con un'opzione in mano lui vorrebbe aver voce in capitolo pretendendo che le cose vengano fatte a modo suo. Discussioni a non finire sulla tinteggiatura, la qualità delle piastrelle in bagno, il tipo di maniglie e così via. Non credo che le piacerebbe lavorare in simili condizioni.» No di certo, avrebbe perso subito ogni interesse. Infatti, voglio fare a modo mio.» Il suo lavoro le piaceva, era una sfida interessante ottenere il meglio da una casa. E questa era speciale. Livia non desiderava interferenze. «Così gli ho suggerito di chiederle un diritto di prelazione» riprese la signora Fletcher. «La cifra standard è mille dollari.» Un diritto di prelazione. Significava che prima di mettere la casa in vendita avrebbe dovuto offrirla a Clint. Perché no, dopotutto? «Mille dollari sono sempre mille dollari» aggiunse la signora in tono pratico. «Lei potrà stabilire il prezzo una volta ultimati i lavori e non avrà da sostenere discussioni circa le sue scelte. Sarà libera di agire come preferisce.» «Va bene, prepari pure una bozza d'accordo.» Ripartita la signora Fletcher, Livia mangiò un boccone e si rimise al lavoro. Depositò il trenino e gli altri giocattoli nella camera di Clint e per qualche istante fissò la sua sacca da viaggio. Voleva che se ne andasse. Forse, una volta firmato quell'accordo, lui si sarebbe trasferito altrove. Quella che ho sempre considerato la mia casa... Dev'essere stato un bel colpo per lui arrivare qui e scoprire che la sua casa è stata venduta... Maledizione! Come se la colpa fosse stata sua. Quella sera, a letto, rimase sveglia a lungo aspettando di sentirlo rientrare. Alla fine, spossata, scivolò nel sonno. Il giorno seguente sgomberò un'altra camera da letto ed eliminò la Karen van der Zee
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moquette, sempre con l'orecchio teso, nervosa e agitata. Clint tornò poco dopo le otto di sera. Dalla finestra del soggiorno lo vide scendere dall'auto e il cuore le diede un balzo. Sembrava un altro. Vestiti nuovi: pantaloni grigi, giacca blu, camicia e cravatta, scarpe di cuoio. I capelli erano più corti. E aveva con sé una valigetta: tutto molto professionale e autorevole. Lei, al contrario, era in jeans e maglietta. Così va il mondo. Tornò in cucina con un senso di trepidazione. Come avrebbe reagito vedendo la casa ormai quasi vuota? «Ciao, Livia.» «Ciao.» Clint posò la valigetta sul tavolo di cucina e l'aprì tirandone fuori alcuni fogli. «Guarda un po' qui.» Lei vide subito di cosa si trattava: un contratto per un diritto di prelazione. «Se non erro, la signora Fletcher è venuta a parlartene, ieri pomeriggio.» «Sì.» Scorse rapidamente lo scritto, poi il suo sguardo si arrestò: Clint si offriva di versarle duemila dollari a fondo perduto. Il doppio della cifra abituale. Si sentì prendere da una strana agitazione. Non c'era un motivo ragionevole per rifiutare quella proposta. Era molto conveniente e inoltre la lasciava libera di intervenire sulla casa come meglio riteneva. Ma era davvero così? Si mordicchiò un labbro. «Qualcosa che non ti convince?» «No.» Deglutì. «È un'offerta generosa.» «Volevo assicurarmi che non avessi motivo di rifiutare.» E infatti non ne aveva. O almeno, non motivi concreti. Solo vaghi timori inspiegabili, e quell'accidenti di farina che si agitava. Ma che assurdità. Si trattava di un normalissimo accordo commerciale e lei non ci avrebbe perso nulla, anzi, ci avrebbe guadagnato. Si sedette e finì di leggere: era tutto in ordine. «Affare fatto?» Clint, ancora in piedi, torreggiava su di lei in attesa di una sua decisione. Livia alzò lo sguardo. «Sarebbe irragionevole rifiutare, non credi?» Lui ebbe un mezzo sorriso. «Sì, certamente» rispose tranquillo. Ma c'era qualcos'altro nella sua voce, qualcosa di indefinibile ma che ridestò le sue apprensioni. Karen van der Zee
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«E se volessi essere irragionevole?» Lui si chinò verso di lei appoggiando le mani sul tavolo. «In tal caso lo sarei anch'io.» C'era una luce maliziosa nei suoi occhi. «Non ti darò pace, Olivia. In un modo o nell'altro riavrò questa casa, puoi starne certa.» Ne era certissima. Una volta che l'avesse messa in vendita, chiunque avrebbe potuto acquistarla. Si strinse nelle spalle. «Non ho dubbi in proposito.» Quella vicinanza cominciava ad avere un effetto strano sul suo battito cardiaco. Clint si raddrizzò e batté un dito sul foglio. «Tu firma e io levo le tende.» Si cacciò le mani in tasca e la osservò aspettando la risposta. «Dove andrai?» domandò lei, e subito se ne pentì: non gliene importava nulla, non voleva sapere dove sarebbe andato. Nella mente le riecheggiò la frase di lui: Quella che ho sempre considerato la mia casa. Clint alzò le spalle. «In albergo, in un motel, non ha importanza. Preferisci firmarlo davanti a dei testimoni o possiamo sbrigarcela noi due soli?» Noi due soli. Un'idea che la metteva sulle spine. Comunque l'accordo sarebbe stato vincolante anche se firmato senza testimoni. «Tira fuori i quattrini e io firmo.» Lui si mise a ridere. Una risata spontanea, piacevole, che le entrò nel sangue. Poi prese dalla valigetta un libretto d'assegni, ne compilò uno e glielo consegnò. «Grazie.» Lei prese la penna, firmò le due copie del documento e gliele passò perché firmasse a sua volta. «Ecco fatto» commentò poi lui, e le tese la mano fissandola negli occhi. La sua stretta decisa fece scaturire in lei delle scintille. «Grazie» concluse. Livia ritrasse in fretta la mano, quasi col timore che si potesse innescare un incendio. «Non c'è di che» rispose con disinvoltura. Clint prese la valigetta e andò di sopra, ma ricomparve dopo pochi minuti. «Ho visto i giocattoli e il trenino che hai messo in camera mia. Posso acquistarli, se credi.» «Oh, per amor del cielo, tienteli e basta. Sono tuoi, dopotutto, no?» «Erano miei» precisò lui. «E il trenino vale parecchio. Apparteneva a mio padre, ma adesso è tutta roba tua, Olivia, come mi hai già fatto notare.» Karen van der Zee
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La tormentava di proposito? Per dimostrarle quanto era ingiusto che lei gli avesse strappato la casa, i suoi giocattoli, i suoi ricordi? «D'accordo, è roba mia. Quindi posso farne quel che voglio; e io voglio regalarteli, va bene?» «Sei molto generosa.» «Oh, finiscila!» sbottò, e gli volse la schiena. La generosità non c'entrava affatto, no? Sentì la mano di lui su una spalla. «Che cosa succede, Olivia? Sei in collera?» Lei si scostò. Era stato solo un lieve contatto, ma le aveva dato una scossa elettrica. «No, non sono in collera.» Il volto di lui era vicinissimo, gli occhi la fissavano. Livia non riusciva a respirare. Quel silenzio era assordante. Ma che mi piglia?, si chiese. Che cosa stava succedendo? Nessun uomo le aveva mai fatto un simile effetto, ed era sconvolgente. Fece un passo indietro sforzandosi di riprendere fiato, senza riuscire a distogliere lo sguardo da Clint. Qualcosa guizzò in quegli occhi neri, poi lui si passò una mano tra i capelli. «D'accordo» disse bruscamente. «Vado a caricare i miei bagagli in macchina.» Livia si precipitò nel soggiorno e cominciò a raschiare la vernice dal telaio della finestra. Lo sentì salire e scendere le scale, lo vide portar fuori lo scatolone dei giocattoli. Ebbe una fitta al cuore. Fissava il davanzale senza vedere nulla, risentendo la voce di Sara. Dev'essere stato un duro colpo per lui arrivare qui e scoprire che la sua casa è stata venduta. Lui rientrò, andò di sopra e tornò giù. Livia raggiunse lentamente, quasi a fatica, l'ingresso. Clint, con la sacca da viaggio in mano, si fermò di fronte a lei. Si fissarono senza dir nulla. Livia deglutì a fatica. Le pareva di sprofondare in quegli occhi neri; era come cadere in un pozzo, continuare a cadere senza mai toccare il fondo. «Olivia?» mormorò lui. Lei si passò la lingua sulle labbra aride. «Visto che intendi comperare questa casa» sentì dire dalla propria voce, «tanto vale che resti qui.»
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Il silenzio che vibrava tra loro fu spezzato dall'improvviso cigolio dell'assito sotto i piedi di Clint. «Ne sei sicura?» domandò lui a bassa voce. «È casa tua. Hai bisogno di un posto dove stare.» «Non sei in debito con me, Olivia.» No, non era in debito. Ma allora perché aveva la sensazione di esserlo? Per questo l'aveva invitato a trattenersi? O c'era di mezzo qualcos'altro? L'attrazione che provava per lui? L'irresistibile magnetismo di quell'uomo? «Lo trovi saggio?» riprese lui. «Noi due, da soli, in questa casa?» Di colpo l'aria fu satura di elettricità. «Non lo so» rispose debolmente. «Tu che ne dici?» Quell'interrogativo rimase sospeso tra loro per un lunghissimo momento. «Tra due mesi io riparto» riprese lui in tono sommesso. Era più di una semplice affermazione: era un ammonimento. Tra due mesi io riparto. Da solo. «Lo so.» Era divisa tra la paura e la temerarietà. Si sentiva preda di una follia pericolosa che non riusciva a controllare. Che non voleva controllare. Lui le prese una mano ed ebbe un piccolo sorriso. «Allora non desidero di meglio.» Livia si era insediata nello studiolo vicino alla porta d'ingresso. Un'asse di compensato poggiata su due Cavalletti fungeva da tavolo da lavoro. C'erano il telefono e un paio di sedie. Pile di cataloghi, di campionari di colori, di vernici, di tessuto e quant'altro le serviva erano ordinatamente disposti su una scaffalatura. Seduta al tavolo, con una tazza di caffè a portata di mano, studiava i disegni stesi davanti a lei. Erano le sei di mattina e non aveva chiuso occhio per tutta la notte. Be', non proprio. Aveva dormito un poco, e sognato. Un sogno così vivido, così meraviglioso e, alla fine, così triste, che si era ridestata in lacrime. E non era più riuscita a prender sonno. L'oscurità della sua camera da letto era permeata da un senso di sventura incombente e lo strido di un gufo le aveva dato i brividi. Alla fine, con il primo cinguettio di uccelli, era sgusciata dal sacco a Karen van der Zee
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pelo, aveva indossato qualcosa ed era andata a preparare il caffè. E adesso si trovava lì, ad aspettare che la luce del giorno cancellasse le ombre dalla villa e dal suo cuore. Ma la prima parte del sogno era stata bellissima. Tanto che il solo ricordarlo le dava un diffuso senso di calore. O forse il merito era del caffè bollente: l'aria era ancora freddina a quell'ora. Prese un'altra sorsata e si concentrò sui disegni. L'indomani gli uomini dell'impresa edile sarebbero arrivati per la prima fase dei lavori: la demolizione. Macerie, travi spezzate, calcinacci, detriti, polvere a non finire. Tutto all'aria. Ma era anche la parte più emozionante dell'opera di rinnovamento. Allora perché se ne stava lì così depressa? Alle sei e mezzo lui scese, in calzoncini da corsa e a torso nudo, e uscì. Lo seguì con lo sguardo, al di là della finestra, sentendosi il cuore in gola. Quel corpo muscoloso si muoveva con l'agile grazia di un felino. E dopo il sogno di quella notte era l'ultima cosa che le ci volesse. Girò il capo, seccata con se stessa per l'effetto che quell'uomo le faceva. Tre quarti d'ora più tardi stava svuotando gli armadietti della cucina ed era alle prese con piatti, pentole e padelle quando Clint rientrò. «Buongiorno» disse lui vagando con lo sguardo su quella baraonda, però non fece commenti. Prese un bicchiere e lo riempì d'acqua al rubinetto. Era lucido di sudore, un concentrato di forza e bellezza virile: Livia l'osservò mentre beveva rovesciando il capo, e tutti i suoi sensi furono subito all'erta. Vuotato il bicchiere, Clint stava per riaccostarlo al rubinetto, ma il gesto rallentò per poi interrompersi. Lui restò immobile, gli occhi fissi sull'ammasso di oggetti che ingombrava il ripiano e per diversi secondi rimase così, con un'espressione indecifrabile. Il cuore di Livia ebbe un piccolo sobbalzo nervoso. «Clint? Qualcosa non va?» Lui si volse a guardarla ma pareva non vederla, gli occhi erano lontani. Poi scosse il capo come per scacciare un pensiero. «No, tutto bene.» Ma la voce era sorda. Riempì il bicchiere e lo portò con sé uscendo sul portico. Livia lo guardò allontanarsi, poi si avvicinò al lavello a esaminare il cumulo di piatti, piattini e tazze più o meno scompagnati accatastati sul ripiano. Cosa diavolo aveva notato, Clint? Lei non individuava niente di Karen van der Zee
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speciale. Si rimise al lavoro ma continuava a pensare a quel piccolo episodio. Prese un sacco di plastica già pieno di oggetti scartati e lo portò al cassone. Clint, appoggiato alla ringhiera del portico, guardava il giardino. «Preparo la colazione?» gli chiese. «Vorrei fare una doccia, prima» rispose lui con un mezzo sorriso. «Va bene, d'accordo.» Livia rientrò e diede un'altra occhiata ai vari oggetti ammonticchiati. Si riaffacciò alla porta. «Clint?» «Sì?» «Sto facendo la cernita delle cose di cucina. Elimino quelle che non possono più servire. Ma prima di continuare vorrei sapere se c'è qualcosa di particolare che desideri tenere.» «No» rispose lui senza voltarsi. «Ma stavi guardando qualcosa, poco fa.» Clint volse il capo. «Ti ho detto di no» replicò in tono secco. «Liberati pure di tutto quanto. Non c'è niente che mi interessi.» Ma Livia non buttò via tutto: tenne alcune cose semplicemente perché comode e necessarie finché avessero abitato lì, e il resto venne stivato in scatoloni che lei depositò nel seminterrato. Se Clint avesse riacquistato la casa, probabilmente gli avrebbe fatto comodo avere l'attrezzatura di base. Si lasciò sfuggire un sospiro esasperato. Perché continuava a pensare a lui? Perché Clint era sempre presente in tutto ciò che faceva? «Hai i disegni del progetto di ristrutturazione, vero?» le chiese quella sera, durante la cena. La mattina era uscito subito dopo una rapida colazione ed era rimasto fuori tutto il giorno. «Sì, naturale.» «Mi piacerebbe vederli.» Ah, davvero? A Livia saltò la mosca al naso: non era una richiesta, ma una pretesa. Lo si capiva dalla voce, dal modo in cui Clint la guardava. Lui si passò il tovagliolo sulla bocca e prese un sorso di vino. «Gradirei sapere come intendi intervenire sulla villa. È chiedere troppo?» No, probabilmente no, ma la irritava quel tono da padrone. Lui non aveva proprio nessun diritto e lei nessun dovere di spiegare o difendere le proprie posizioni. Però se avesse respinto la richiesta avrebbe fatto una figura meschina, e Karen van der Zee
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lui comunque avrebbe potuto esaminare i progetti: gli sarebbe bastato entrare nello studiolo quando lei non era nei paraggi. Così salvaguardò orgoglio e dignità. «Si trovano nel mio ufficio. Te li mostro dopo cena.» Calma e sicurezza perfette. Ottimo. E se non gli fosse piaciuta l'idea della grande veranda piena di sole attigua al soggiorno? Se non avesse voluto una cucina più ampia e il bagno con la vasca per l'idromassaggio al piano di sopra? Semplice, si rispose. Se non fosse stata di suo gusto avrebbe fatto a meno di comperare la villa. Ma non era così semplice, e lo sapeva. La situazione era mutata; lei era sulla difensiva, scontenta. Quel lavoro che aveva pregustato con tanto entusiasmo adesso quasi non l'attirava più. Lui era sempre lì, presente: nei suoi pensieri, nelle sue considerazioni, negli oggetti della casa. Perfino nei suoi sogni, maledizione! Dopo cena passarono nello studiolo dove Livia srotolò i disegni allargandoli sul tavolo. Clint le stava accanto, le mani in tasca. «Ecco come risulterà» cominciò, e proseguì dando tutte le spiegazioni. La cucina sarebbe stata ampliata eliminando la parete che la separava dal piccolo tinello adiacente. Un muro del soggiorno andava abbattuto in modo che il locale desse direttamente sulla grande veranda che sarebbe stata aggiunta. Via via che raccontava e rispondeva alle domande di Clint lei si infervorò: era un progetto davvero affascinante e più impegnativo di tutti quelli che aveva realizzato fino ad allora, ma lei si sentiva perfettamente in grado di affrontarlo ed era certa che il risultato sarebbe stato bellissimo. Stava indicando le varie modifiche sul disegno e a un certo punto la mano di lui fu accanto alla sua, e di nuovo sentì come una scossa. Per un attimo si interruppe, poi con uno sforzo continuò: «Come vedi, non intendo alterare io stile e il carattere della casa, non lo farei mai». Sentì il tono della propria voce e capì che sotto sotto stava chiedendo la sua approvazione. Le dita di Clint si chiusero sulle sue, dolcemente. Avrebbe potuto ritrarre la mano, sottrarsi a quella lieve stretta, ma non ne ebbe la forza. Era paralizzata. Smise di parlare e il silenzio fu subito carico di elettricità. Fissava le loro dita intrecciate sentendosi addosso lo sguardo di lui. Alzò lentamente il viso incontrando i suoi occhi e il cuore diede un balzo. Karen van der Zee
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Quel che leggeva in quelle iridi scure era chiarissimo e rifletteva i suoi stessi sentimenti: la medesima febbre, il medesimo desiderio. Sentì le mani di Clint che le risalivano lungo le braccia in una carezza sensuale, e poi sulle spalle fino al volto. «Penso che sarà tutto perfetto» mormorò lui. E la sua bocca era vicina, così vicina. Ne sentiva il tepore sul suo fiato. Chiuse gli occhi mentre le loro labbra si sfioravano, poi la bocca di lui si chiuse sulla sua e sbocciò un momento magico: forza e dolcezza, mentre le loro lingue si incontravano in una morbida danza erotica. Livia ebbe un piccolo gemito mentre il bacio si faceva sempre più appassionato, fino a stordirla. Le gambe le tremavano e dovette aggrapparsi a Clint. Il dorso di lui era solido e forte, il calore che avvertiva attraverso la camicia pareva defluire in lei. Quando si separarono, le mani di Clint le lasciarono il viso percorrendole ancora le spalle e le braccia. Poi lui fece un passo indietro, e un accenno di sorriso gli ammorbidì le linee decise del volto. «È un gioco pericoloso, questo» mormorò. Adesso nell'atmosfera tra loro qualcosa era cambiato, c'era un senso di attesa, di nervosa apprensione. In genere lui rimaneva fuori tutto il giorno, a tenere conferenze o a partecipare a incontri, ma come metteva piede in casa tornava la tensione. L'episodio non si ripeté, ma il ricordo di quel bacio aleggiava tra loro e Livia era acutamente consapevole dello sguardo di lui che seguiva ogni sua mossa come se cercasse di scoprire qualcosa. Ma lei non aveva segreti che meritassero una così stretta sorveglianza. Quando si ritrovavano a tavola lei regolarmente parlava troppo, per puro nervosismo. Il silenzio la spaventava e così, per colmare quegli spazi vuoti, gli raccontava molte cose di sé. Lui non pareva infastidito dal suo chiacchierare, anzi a volte pareva divertirsi. «Hai una voce molto sexy» commentò un giorno, provocandole un tuffo al cuore. Ma questo non le impedì di continuare a parlare. Gli faceva molte domande, fin troppe. Lui non rispondeva a tutte, ma ad alcune sì. Era cresciuto a Richmond; i suoi genitori erano morti in un incidente, quando lui frequentava il primo anno d'università. Così da allora aveva sempre trascorso le vacanze presso la nonna. Non aveva altri parenti stretti. Karen van der Zee
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Per Livia era una cosa inimmaginabile. Lei aveva decine di parenti: zie, zii, cugini. Essere soli al mondo le pareva una cosa spaventosa. Ma di certo lui non cercava la sua compassione, e non era tipo da gradirla. Il suo lavoro era molto importante per lui, e lei ascoltò affascinata quando Clint le raccontò della sua vita nella giungla, e di come le usanze tradizionali degli indigeni si alterassero via via che tratti sempre più ampi di foresta venivano abbattuti per conto delle ditte che trattavano legname. Lui studiava le comunità tribali e i loro legami con l'ambiente naturale: le piante, i funghi, gli insetti, il legno che usavano per ricavarne cibo, medicamenti, utensili. Non era solo, come lei aveva pensato inizialmente: lavorava insieme a un botanico americano, David Holloway. Il villaggio era piccolo, nel cuore della foresta e raggiungibile solo a piedi. Un'enorme abitazione comune accoglieva tutti i centotré componenti del gruppo; si trattava, come lei già sapeva, di una grossa struttura eretta su pali. Le porte dei locali delle varie famiglie si aprivano sulla grande veranda che correva lungo tutta la lunghezza della costruzione. Clint le parlò di quegli indigeni con sincera simpatia e rispetto. A poco a poco lei scoprì cosa si celava dietro quegli occhi cupi: un'indole ricca di calore umano e comprensione. E le piacque molto. Quando ascoltava i suoi racconti dimenticava tutto ciò che le stava attorno, ma poi accadeva qualcosa: un'occhiata, un contatto casuale, e di nuovo esisteva solo lui. Lo sconosciuto che aveva invaso la sua casa, aveva invaso anche il suo cuore. Sapeva di esserne innamorata. Di giorno, mentre lavorava, continuava a pensare a Clint. Di notte i sogni le portavano immagini cariche di passione. Clint era partito. Sarebbe rimasto via per alcuni giorni: doveva tenere delle conferenze a New York e a Filadelfia e avrebbe trascorso il weekend presso degli amici. Non sarebbe tornato prima di lunedì. Mentre gli operai lavoravano di piccone, Livia stava togliendo le tende ed esaminando il contenuto dell'armadio e del cassettone in una piccola stanza da letto al secondo piano. C'era poca roba: una macchina per cucire, modelli di carta, dei tagli di stoffa. Poi in fondo a un cassetto trovò il vestito. Un minuscolo, delizioso abitino per una bambina molto piccola: giallo con delle margherite ricamate a mano sul corpetto, il colletto Karen van der Zee
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bordato di trina. Restava solo l'orlo da fare. L'anziana signora non aveva fatto a tempo a finirlo? E chi era la bambina a cui era destinato? Però era sepolto in fondo a quel cassetto, come nascosto. E doveva trovarsi lì da parecchio, a giudicare dal lieve odore di muffa. Lo esaminò sorridendo. Avrebbe potuto lavarlo e fare l'orlo. Poi avrebbe trovato qualcuno a cui regalarlo. Lo mise da parte. Era lieta che Clint restasse via per altri tre giorni. Ogni volta che lo guardava, tremava. Possibile che un uomo le facesse un simile effetto? In che situazione stava andando a cacciarsi? Sarebbe riuscita a condurla da persona adulta, matura e razionale? Non si sentiva affatto adulta e matura. Non era in grado di controllare niente, era divorata dalla passione. Voleva ballare a piedi nudi sull'erba. Voleva ridere e lo fece. Ma subito si interruppe. Una persona che ride da sola in una casa vuota può essere sospettata di turbe mentali. Forse era così. Forse l'amore era una turba mentale, si disse. Era domenica pomeriggio e regnava un silenzio meraviglioso. Niente operai, niente martelli, seghe, voci, mangiacassette che trasmettevano musica country. Era sola e voleva godersi quella pace finché durava. L'indomani Clint sarebbe tornato. Era una perfetta giornata di primavera con un sole splendente: la temperatura mite, una leggera brezza a smuovere le foglie e l'aria profumata di rose. Livia prese un grande telo di spugna e uscì per stendersi sull'erba e crogiolarsi al sole. L'erba era fresca sotto i suoi piedi nudi. Aveva trascorso tanto tempo in casa che trovarsi all'aperto le sembrava un vero paradiso. Trovò il posto ideale e stese la spugna. Si udivano solo il cinguettio degli uccelli e il ronzio delle api. D'impulso si sfilò i calzoncini, la maglietta e la sua frivola biancheria. Si stiracchiò tendendo le braccia verso il cielo: era fantastico! Si allungò sull'asciugamano e chiuse gli occhi. Forse in un'esistenza precedente aveva vissuto su un'isola tropicale dove la gente non usava indumenti. L'aria era come velluto sulla sua pelle. Aspirò a fondo il profumo dell'erba e della terra tiepida. Qualcosa la svegliò. Una leggera sensazione di solletico sul braccio. Una formica, probabilmente. Sollevò una mano per allontanarla e le parve di essere senza peso. Poi avvertì un movimento nelle vicinanze e aprì di Karen van der Zee
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colpo gli occhi. Clint. Seduto sull'erba accanto a lei. Indossava solo dei calzoncini color kaki. Livia restò immobile, paralizzata. «Clint.» Fu appena un lieve sussurro. Il breve spavento si era dileguato, sostituito da un'altra emozione: un desiderio rovente. «Sì» mormorò lui. «Sei così bella. Ti dispiace che ti guardi?» «No» bisbigliò. Sembrava una cosa così naturale, con lui, lì in quel giardino. Clint le appoggiò una mano sulla guancia. «Sei calda.» Quel contatto le arroventò il sangue e avrebbe voluto abbandonarsi alla sensazione deliziosa che la pervadeva, ma intervenne la ragione. «Non possiamo. Noi...» «Possiamo invece. L'ho capito.» Respirare era difficoltoso. «Che cosa hai capito?» «Ti ho vista dalla finestra della mia stanza. Ho capito che ti volevo.» Fece scivolare una mano lungo la gola di lei con tormentosa sensualità. «Non sarei venuto qui da te senza prima riflettere.» Fece un lieve sorriso. «È tanto che ti desidero, Livia.» «Sì» bisbigliò lei, stordita dallo sguardo, dalla voce di Clint. Era inevitabile che accadesse. L'aveva saputo fin dal primo istante che l'aveva visto. Era rimasto sospeso nell'aria tra loro, caricandola di vibrazioni, inseguendola nei suoi sogni. Lui sorrise e negli occhi neri covava un fuoco pronto a divampare. Le sfiorò le labbra con un dito. «Mi vuoi, zingara?» domandò a mezza voce.
5 Una ciocca di capelli bruni gli era ricaduta sulla fronte e gli occhi neri le rivolgevano un invito. Il sorriso addolciva i suoi lineamenti angolosi e i denti spiccavano candidi nel volto abbronzato. Livia desiderava solo toccarlo, far scorrere le dita lungo il contorno di quella bella bocca, sentire le labbra di Clint contro le proprie e su tutto il resto del corpo. E lo voleva da tanto tempo. «Sì» bisbigliò prendendogli la mano per posarsela sul seno e avvertì il Karen van der Zee
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tremito di lui. «Ogni volta che ti guardo mi sembra di perdere il controllo.» Il respiro era breve, affrettato. «Nei tuoi occhi c'è una luce generosa e tenera che mi scende fino al cuore.» «Allora perché hai aspettato tanto?» «So dominarmi molto bene» rispose lui con una sfumatura di autoironia. Le accarezzava dolcemente il seno. «E tu perché non hai fatto opera di seduzione?» volle sapere. «So dominarmi molto bene» rispose di rimando. «E adesso, per piacere, vuoi baciarmi?» Certo che lo voleva. Quel bacio le fece pulsare il sangue e formicolare la pelle. Clint si spogliò, si allungò su un fianco accanto a lei e cominciò a operare magie con le mani e la bocca. «Sei così bella» mormorò con voce roca. «Così morbida e calda e sexy.» Lei bevve estatica quelle parole e le sue mani si mossero, smaniose di toccare quel forte corpo muscoloso. Attorno a loro si diffondeva il profumo dell'erba e del trifoglio. Livia chiuse gli occhi e si girò su un fianco per premersi febbrilmente contro di lui. Ora Clint era tra le sue braccia: quell'alto sconosciuto bruno di cui si era innamorata e che adesso la voleva. Oh, quanto la voleva! Glielo dicevano la bocca, le mani e tutto il corpo di lui. E lei a sua volta lo desiderava profondamente perché nelle ultime settimane si era insinuato nel suo cuore e, Livia lo sapeva, vi sarebbe rimasto per sempre. Lui cominciò ad amarla con lenta sensualità, facendola pulsare e vibrare e gemere contro la sua bocca, poi il ritmo mutò e lui fu tutto fuoco e passione. Lei corrispose in ugual misura. Adesso non c'erano più inibizioni, pensieri, interrogativi. Era molto meglio che nei sogni, meglio delle sue più sfrenate fantasie. Perché era reale. Bisbigliò il suo nome e in risposta il corpo di Clint ebbe un sussulto e subito la tensione accumulata si dissolse in ondate di puro piacere. Sempre allacciati, si abbandonarono al languore che ora li pervadeva. Lui le baciò il collo. «Sei meravigliosa» sussurrò. «È stato... incredibile.» Gli posò le mani sulla nuca insinuando le dita tra i capelli umidi. Karen van der Zee
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Clint ebbe una risatina. «Un'autentica zingara, selvaggia e appassionata. Spero che la cosa non ti turbi.» ' «No, no... solo non sapevo di poter essere così priva di inibizioni.» «E ti è piaciuto esserlo?» «Sì» confessò. Era stato meraviglioso lasciarsi andare completamente. «Per essere un uomo che sa dominarsi tanto bene, direi che anche tu sei parecchio scatenato.» Lui ebbe un'altra risata sommessa. «Quando rinuncio al controllo, non si sa quel che può succedere.» La baciò dolcemente e le allontanò i capelli dal viso. «È stato stupendo, qui, nel sole.» «Davvero. Come un sogno. Non ti aspettavo per oggi. Poi mi sono svegliata ed eri qui.» Sorrise. «Mi ero fatta delle fantasie su di te.» «E io su di te.» «Davvero?» «Non dirmi che non lo sapevi. È impossibile.» «Lo speravo» ammise Livia chiudendo gli occhi. «Mi sento... non trovo le parole. Appagata. Esausta. Credo che per ore non riuscirò a muovermi.» «Possiamo restare qui. Ci organizziamo un picnic a base di vino, formaggi e frutta, e dormiremo sotto le stelle.» Lei spalancò gli occhi. «Oh, sarebbe magnifico.» E così fecero. Mangiarono, gustarono il vino mentre le lucciole danzavano attorno a loro. Fecero ancora l'amore e dormirono sotto le stelle. La mattina furono destati dal canto di un uccellino, colmo di gioia e più bello di qualsiasi musica. «Dev'essere un richiamo d'amore» bisbigliò Clint, e di nuovo si unirono. Le settimane che seguirono furono la perfetta beatitudine. Livia non era mai stata così felice. Clint era un amante tenero e appassionato che apprezzava le sue iniziative, quando lei ne prendeva. A poco a poco Livia lo fece partecipe del proprio lavoro sulla casa, chiedendogli le sue preferenze per quanto riguardava i colori e la disposizione dei mobili. Scoprì con gioia che i loro gusti erano molto simili, ma era abbastanza chiaro che la decorazione d'interni non era la sua bruciante passione e pareva perfettamente soddisfatto di lasciar fare a lei senza interferire o proporre idee sue. Lei cominciò a fantasticare sull'idea di abitare con lui in quella grande Karen van der Zee
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villa, fare insieme viaggi in posti esotici. L'avrebbe aiutato nelle sue ricerche o magari si sarebbe inventata un'attività sua. Era una discreta fotografa: forse sarebbe potuta diventare davvero in gamba. Fare foto eccezionali, vederle pubblicate, vincere premi, diventare famosa. Già che sognava, tanto valeva sognare in grande. E sorrideva tra sé mentre inseriva altri scaffali in un ripostiglio o verniciava finestre. «Come mai non ti sei sposata?» domandò Clint una sera, il volto appoggiato sul suo seno. Ottima domanda. «Gli uomini hanno paura di me.» Lui si mise a ridere e rialzò la testa per guardarla. «Che altro vuoi aspettarti? Li batti ai loro giochi. Guidi un furgoncino. Sai usare attrezzi da uomo. Ti arrampichi sui tetti per sistemare le infiltrazioni d'acqua. Inoltre, sei affermata nella tua attività e se ti toccano ricorri al karaté. Naturale che abbiano paura.» Ma lui no. Lui si divertiva. «E allora cosa dovrei fare? Fingere di essere una fragile donna tutta smorfiette, in modo che loro possano sentirsi virili e indispensabili?» «Con me non ne hai bisogno.» «Infatti a te non faccio paura» replicò Livia affondando le dita nei folti capelli neri di lui. «Giusto. Sono affascinato.» «Oh. Davvero?» «Sì. Trovo straordinario vederti andare attorno in jeans con martello e sega, e poi ritrovarti la sera con i capelli sciolti, una camicia da notte spumeggiante e profumata di gelsomino. Così sexy e tentatrice.» «Sono lieta che mi consideri tale, perché anch'io ti trovo molto seducente.» «Una felice coincidenza.» «Coincidenza? Come puoi definirla una coincidenza?» Gli mordicchiò il lobo dell'orecchio. «Il destino, piuttosto: il fato, la sorte.» Clint le chiuse le labbra con un bacio. Il pomeriggio successivo le venne recapitata una grande composizione floreale. Per il falegname più sexy del mondo, diceva il biglietto. Lei depose il cesto su uno sgabello al centro del soggiorno vuoto e lasciò la porta aperta in modo da poterlo vedere ogni volta che passava. Il lavoro procedeva bene. La veranda era ultimata, così come la stanza Karen van der Zee
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da bagno nuova con la vasca per l'idromassaggio; l'impianto per il condizionamento d'aria era installato. La cucina era quasi finita. Elettricisti, idraulici e muratori avevano portato a termine i loro compiti e la casa era di nuovo silenziosa. Adesso si trattava di tinteggiare, lavare il pavimento e mettere a punto un'infinità di altri particolari. Un giorno, mentre stava imbiancando uno sgabuzzino, e faceva contorsioni acrobatiche per raggiungere gli angoli, comparve Clint. «Guarda cosa ho trovato di fuori.» Livia emerse, si accosciò allontanandosi i capelli dal volto e tenendo il pennello sopra il barattolo della vernice. Guardò la mano di lui. Reggeva un uccellino implume che si agitava pigolando. «Oddio, povero piccolo.» Sussurrava come se perfino il suono della voce potesse far del male a quella delicata, vulnerabile creaturina. Le dita di Clint si piegarono un poco a proteggerlo. «Era ai piedi del grande noce americano, sul retro. Dev'essere caduto dal nido, anche se non ne ho visti.» «Deve avere pochi giorni, ha solo qualche piumetta. Non ce la farà.» Clint si strinse nelle spalle. «Non potevo lasciarlo lì, abbandonato al suo destino. Hai un contagocce?» Lei lo fissò. «Vuoi cercare di salvarlo?» «Quale altra scelta abbiamo?» Be', nessuna. Così ci si misero d'impegno. In una scatola da scarpe Clint allestì un nido impiegando erba e fazzoletti di carta. Comperò un libro che spiegava come trattare e alimentare i vari tipi di uccelli. Esaminarono il povero pulcino cercando di stabilire cosa fosse. «Un cardinale, forse» opinò Clint. «O un pettirosso, o un passero.» Gli davano da mangiare ogni due ore: qualche goccia di latte, bocconcini di carne macinata, tuorlo d'uovo sodo ben schiacciati. La mattina i suoi pigolii frenetici arrivavano fino alla camera da letto. Sopravvisse. Cresceva e cominciò a metter su le penne. Non era un cardinale né un pettirosso. Era proprio un passero, bruno e grigio. Stava aggrappato all'indice di Clint, agitando le ali, smanioso di volare. «È la vita» mormorò Clint sorridendo alla minuscola creatura. Livia guardò quell'uomo nerboruto e l'uccellino, e si sentì invadere da un fiotto d'amore. Karen van der Zee
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Discorrevano molto. A Livia piaceva parlare, così come le piaceva cercare d'intuire come erano fatte le persone, i loro interessi, i motivi che le avevano indotte a scegliere la loro attività. E tanto più, comprensibilmente, era curiosa nei confronti di Clint, ma lui parlava poco di sé, salvo quando si trattava del suo lavoro. Era affascinato dalle ricerche che stava svolgendo nel Kalimantan e si capiva benissimo che non vedeva l'ora di tornarci. Quello studio l'avrebbe impegnato per altri due anni, poi sarebbe tornato per riprendere la sua attività di docente, prima di ripartire per un nuovo incarico. Livia cercava di non pensare al momento della separazione, ma a poco a poco la paura si insinuò in lei. Perché aveva lasciato che quella storia andasse tanto in là? Nella stupida speranza che lui potesse cambiare idea? Clint non accennò mai alla possibilità che lei lo seguisse. Era chiaro che Livia non aveva una parte nel suo futuro. Tra due mesi io riparto, aveva detto. La grande vasca da idromassaggio poteva accogliere due persone. Quando aveva deciso di installarla non si era immaginata minimamente di immergervisi con un uomo. Allora non c'era nessun uomo nella sua vita. Adesso c'era Clint e godersi insieme l'acqua turbinante era un modo delizioso di concludere la giornata di lavoro e rilassare i muscoli. Era stato lui a suggerirlo. «Voglio vedere se funziona.» E le aveva lanciato un'occhiata maliziosa. Funzionava. Era meraviglioso, distensivo, eccitante. In seguito fecero l'amore a lungo, con lenta passione, e poi lei si rannicchiò tra le sue braccia, il dorso contro il torace di lui, chiedendosi come fosse possibile che tutto finisse. Erano in perfetto unisono, appartenevano l'uno all'altro. Per sempre. Clint sarebbe partito tra due settimane. Quando la casa fosse stata ultimata lei avrebbe potuto raggiungerlo, vivere con lui nel villaggio nascosto nella foresta, o dovunque Clint volesse. Era una zingara, aveva uno spirito avventuroso. Sarebbe stato così semplice. «Ti rendi conto che tra un mese e mezzo i lavori qui saranno conclusi?» mormorò. «Sono andati avanti più in fretta di quanto tu avessi calcolato all'inizio?» Karen van der Zee
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«Sì. La tua vicinanza mi ha caricata di energie.» Lui fece una risatina. «L'ho notato.» Le sfregò il mento contro la nuca. «Che cosa farai quando avrai finito qui?» chiese pigramente. Una pura domanda, e il tono indicava che non si sentiva coinvolto. A quel punto lui sarebbe stato lontano. Ma forse interpretava male. Forse Clint voleva sapere se lei aveva già progetti precisi o era disponibile. Forse non sapeva quel che lei provava. «Vagabonderò per il mondo alla ricerca di avventure» raccontò briosamente. «Il mio sangue di zingara si sta risvegliando, come sempre nell'intervallo tra una casa e l'altra.» Negli ultimi anni aveva girato l'Europa in bici, compiuto un safari fotografico in Kenya, percorso i Caraibi in barca a vela. Questa volta si riprometteva di esplorare la foresta amazzonica, o quantomeno una parte. Ma d'un tratto aveva scoperto che la foresta del Borneo l'affascinava di più, e aveva trascurato i necessari preparativi per il viaggio in Brasile. Clint stava rigirandosi attorno a un dito una ciocca dei capelli di lei. «E dove andrai?» «Scalerò montagne e attraverserò deserti» rispose, sempre con fare spigliato, anche se il cuore le batteva forte. «Poi verrò nel Kalimantan a vedere come te la cavi tutto solo nel cuore della foresta.» Cielo, che cosa stava dicendo? «Che idea infame» commentò lui. «Ti perderesti prima di trovarmi. Verresti succhiata dalle sanguisughe, punta dai ragni, saresti costretta a mangiare carne affumicata di cinghiale e zuppa di larve di api.» «Stai cercando di mettermi paura, ma sono molto resistente e in gamba. So perfino parlare il bahasa indonesiano, ricordi che te l'ho raccontato? Mi troverei delle guide e affitterei una barca. Prima o poi ti raggiungerei.» «Arrivata al punto in cui il fiume non è più navigabile, dovresti fare una marcia di due giorni.» La voce era tranquilla, ma Livia avvertì la tensione nel corpo di lui. Non giocherellava più con i suoi capelli. «Sono una buona camminatrice e amo la vita avventurosa.» «Ma non ti piacerebbe sentirti strisciare addosso le sanguisughe.» L'indusse a stendersi sulla schiena e si chinò su di lei guardandola negli occhi. «Fa' pure il viaggio, va' a rivedere Giava e goditi la spiaggia di Bali, ma lascia perdere la foresta del Kalimantan. Troppo pericolosa.» Avrebbe dovuto fermarsi lì, lasciar perdere. Ma arrendersi non era il suo forte, e inoltre possedeva una buona dose di cocciutaggine. Karen van der Zee
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«Sono una dura. E ho una gran voglia di visitare un'abitazione comune e vedere come vivi. Sarebbe molto interessante.» Ebbe un sorriso luminoso. «Potrei imparare a intrecciare stuoie o a preparare i medicamenti locali, o portare con me un registratore e raccogliere i racconti e i miti popolari narrati dagli indigeni. Poi li farei tradurre e pubblicare diventando ricca e famosa. Che ne pensi?» Lui la fissò in silenzio per un lungo momento prima di rispondere. «Penso che non sia una buona trovata, Livia.» Si staccò da lei e scese dal letto dirigendosi verso la stanza da bagno. Livia ascoltò lo scroscio della doccia provando un senso di gelo al cuore. Clint l'aveva messa in guardia. Lei sapeva cosa doveva aspettarsi, ma ugualmente si era lasciata catturare da sogni sciocchi, con la speranza che il suo sentimento potesse vincere le riserve di lui. Alla sua età non avrebbe dovuto essere così ingenua. Il rumore dell'acqua cessò e poco dopo Clint emerse dal bagno con un asciugamano avvolto attorno ai fianchi, i capelli umidi. Sedette sulla sponda del letto e le prese una mano. «Non avevo intenzione di farti nascere illusioni, Livia» disse a mezza voce. Lei si impose la calma. Lo guardò in volto e trasse un lungo respiro. «Lo so. Sono stata io a crearmele.» Lui fissò le loro mani unite. «Non sono fatto per le unioni definitive. La vita che conduco non vi si presta.» «Lo capisco» fu d'accordo lei. Dopotutto era una persona ragionevole. «Mi spiace se ci sei rimasta male.» «Lo supererò.» Era una menzogna: non l'avrebbe mai superato, ma aveva il suo orgoglio e la sua dignità, non sarebbe mai crollata di fronte a Clint. E lui l'aveva avvertita. Tra due mesi io parto. E lei non aveva voluto ascoltarlo, convinta che, se lui si fosse innamorato, non sarebbe più potuto uscire dalla sua esistenza. Ma si era sbagliata. Ne era nata solo una breve relazione, meravigliosa ma priva di sostanza. Adesso ne avrebbe pagato le conseguenze. «Tu meriti di essere felice, Livia. Sei una persona ricca di calore umano, interessante e intelligente: meriti un uomo che sappia darti ciò di cui hai Karen van der Zee
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bisogno, ma non sono io, quello.» Non era innamorato, non aveva mai voluto esserlo. Intendeva ripartire e gliel'aveva detto. Ritrasse la mano e si sollevò a sedere coprendosi con il lenzuolo. Lui notò il gesto. «Non volevo farti soffrire, Livia. Pensavo che sapessi come stavano le cose.» «Infatti, ma ho creduto di sapermi destreggiare. Mi sono sbagliata. La responsabilità è tutta mia.» Già, parole da persona matura ed equilibrata, ma lei non si sentiva affatto tale. Aveva voglia di gridare, di scoppiare in lacrime. Riuscì a sorridere. «Non preoccuparti, non farò tragedie.» Lui cambiò faccia, gli occhi si incupirono. Si alzò imprecando tra i denti e le volse la schiena, i muscoli tesi e rigidi. «Non c'è motivo di arrabbiarsi» osservò Livia con voce un po' tremula. «Sì, invece, maledizione!» esplose lui. «Ci sono tutti i motivi. Io non volevo farti del male, non avrei dovuto permettere che le cose andassero come sono andate.» «Non si trattava di permettere o no, direi. È successo e basta.» Una breve pausa, e poi: «E non si trattava solo di te: c'ero anch'io. Tu non eri responsabile delle mie azioni o dei miei sentimenti, quindi finiscila di comportarti come se tutte le decisioni spettassero a te». Clint si voltò. «Avrei dovuto prevederlo. C'erano tutti i segni.» I segni di che? Del fatto che lei lo amasse? Be', non era molto brava a tenere i segreti. Scivolò giù dal letto e infilò la vestaglia, poi si diresse all'uscio aprendolo. «Domani porterò via tutta la mia roba.» «Livia...» la voce di lui era stranamente soffocata. «Ti prego, non farlo.» Lei strinse convulsamente la maniglia voltandosi a guardarlo. «Non posso fare altrimenti. Non sono abbastanza donna di mondo per reggere a una relazione distaccata.» Si voltò e uscì. Clint era già uscito quando lei si alzò, la mattina dopo. Avrebbe dovuto mettersi a verniciare, ma era svuotata di energie. Così prese un libro sulla coltivazione delle rose, che aveva trovato e messo da parte, e andò a sedersi sotto il portico insieme alla terza tazza di caffè. L'anziana signora era stata evidentemente un'appassionata di rose: ce n'erano molte nel giardino, in piena fioritura. Sfogliò il volume, leggendo le annotazioni scritte a margine con grafia d'altri tempi. Karen van der Zee
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A metà libro trovò un'istantanea inserita tra le pagine. Fissò la foto e provò un nodo allo stomaco. C'era Clint che teneva in grembo una bambinetta, e accanto a lui una donna sorridente che appoggiava la guancia contro la sua spalla. Erano seduti sulla panchina del giardino, incorniciati da una profusione di rose rosse.
6 Livia guardava quell'immagine come ipnotizzata, con la mente in tumulto. Chi erano quella donna e la bambina? Lui non aveva mai accennato a una moglie o a una figlia. Sembravano così felici. Lui sorrideva reggendo la piccola con un braccio protettore. La donna era bionda, con occhi azzurri, chiaramente innamorata. I lunghi capelli lucenti le ricadevano in morbide onde attorno al viso e sulle spalle; indossava una camicetta celeste e dei calzoncini bianchi che rivelavano lunghe gambe affusolate. Si appoggiava a Clint con disinvolta tenerezza. Appartenevano l'uno all'altro. Sua moglie, la sua bambina. Strane, dolorose emozioni le serravano il cuore. Dov'erano adesso? Che cos'era accaduto? Doveva dargli quella foto, oppure gettarla via senza farne parola? No, non poteva farla sparire, non le apparteneva. Era nello studiolo a occuparsi di varie carte quando lui rientrò. Era in giacca e cravatta. «Ciao» lo salutò lei con la gola stretta. Era a disagio e incerta per via di quanto era successo il giorno prima, per via della foto che adesso era posata sul piano della scrivania, visibilissima. Clint la notò subito e si immobilizzò. Fissava la foto e sul suo volto si susseguirono emozioni diverse, prima che la maschera di impassibile distacco calasse nuovamente. Non fece alcun gesto, non disse parola. Il cuore le batteva forte. «Sono tua moglie e tua figlia?» chiese a voce bassa. «Non mi avevi detto di avere una famiglia.» «Non l'ho, infatti.» La risposta fu breve e secca. «Dove l'hai trovata?» Non la guardava, e i suoi lineamenti erano rigidi. «In un libro sulla coltivazione delle rose. Era qui in casa e l'ho tenuto, pensando che potesse...» Si interruppe chiudendo gli occhi per un attimo. Karen van der Zee
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«Non me ne hai mai parlato.» «No.» Le volse le spalle dirigendosi alla porta. «Clint!» La disperazione le fece abbandonare ogni cautela. «C'è un nesso con il fatto che tu non voglia nulla di... definitivo con me?» Lui si girò a guardarla, il volto di pietra. «Per piacere, lascia perdere la psicologia» replicò freddamente. «È cosa che appartiene al passato. Non ha nulla a che vedere con il presente.» «Clint, non puoi...» «Lascia perdere, Livia.» Gli occhi avevano una luce pericolosa. «Non è cosa che ti riguardi e non intendo parlarne.» Uscì a lunghi passi. Fu come se l'avesse schiaffeggiata. Guardò la foto ma vide solo una macchia di colore. Per un poco erano stati tanto felici. Era andato tutto benissimo fino a quando lei non aveva frugato nella sua vita privata. Fatto domande personali. Chiesto un impegno. Cercato di scoprire la parte più segreta di lui. Clint voleva tenerla a distanza: c'era un limite preciso che lei non doveva oltrepassare. Vietato l'accesso era come se fosse scritto su una grande insegna al neon. Cosa si celava dietro quell'espressione remota, dietro quegli occhi cupi? Tutto in lui le diceva: Tienti lontana da me. Non venire nel Kalimantan. Sta' alla larga. Si alzò e raggiunse la finestra. Aveva gli occhi offuscati dalle lacrime: i prati, i campi e le montagne erano una massa indistinta nella luce ambrata del crepuscolo. Impossibile dire per quanto tempo rimase là, ma alla fine andò in cucina e trovò Clint seduto al tavolo con un bicchiere in mano. Accanto a lui c'era una bottiglia di whisky. La giacca era appesa alla spalliera. Si era allentato la cravatta. Non alzò lo sguardo quando lei entrò: continuò a fissare il liquido dorato nel bicchiere. Livia provò un brivido di paura lungo la spina dorsale, un senso di oscura premonizione. Poi i loro sguardi si incontrarono: gli occhi di lui erano vacui, spenti. Livia andò al frigorifero, estrasse una lattina di Coca-Cola e salì di sopra dove sedette sul suo sacco a pelo e accese il piccolo televisore sistemato sul cassettone. Voleva guardare qualcosa di divertente. Ma non riuscì a ridere. Continuava a trovarsi davanti gli occhi di Clint. E si chiedeva quali fantasmi lo perseguitassero. Non mi avevi detto di avere una famiglia. Non Karen van der Zee
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l'ho, infatti. Forse erano morte tragicamente. Forse aveva perso moglie e figlia in un incidente d'auto, in un incendio. Forse erano state colpite da un virus sconosciuto. Erano tante le cose che ignorava di lui. Tante le cose che non le aveva detto. Chiuse gli occhi cercando di cancellare l'immagine del suo viso ma fu inutile. Scivolò giù dal letto e scese le scale in punta di piedi. Perché in punta di piedi? Non lo sapeva. Lui era ancora là, seduto nella cucina dove andava raccogliendosi la penombra. «Clint?» Mosse il volto verso di lei ma non rispose. Livia si fermò dietro la sua sedia e lo cinse con le braccia in un gesto istintivo, senza dir nulla. Non trovava le parole opportune, desiderava solo scacciare quei fantasmi dagli occhi di lui. Clint non la respinse: rimase perfettamente immobile e lei continuò a tenerlo stretto, la guancia contro i suoi capelli. Dopo alcuni eterni minuti lui si sciolse dall'abbraccio e l'attirò sulle sue ginocchia, abbassò il capo e la baciò con disperata passione, serrandola come temendo che lei potesse fuggir via. Non c'era alcuna dolcezza in quel bacio, nulla di tenero o sensuale. Era brutale e famelico, e accese in Livia una tempesta di desiderio che rispecchiava l'ardore divorante di quel bacio. Per scacciare i fantasmi: il pensiero emerse improvviso. Ebbe un gemito soffocato e la stretta di lui si allentò un poco. Dopo qualche istante la portava di sopra reggendola tra le braccia. La depose sul letto e cominciò a liberarsi in fretta di cravatta e camicia. Livia chiuse gli occhi tremando d'emozione, mentre sentiva sgorgare le lacrime. Poco dopo Clint era disteso al suo fianco e la spogliava con gesti rapidi, baciandola ancora. Poi le posò le labbra su una guancia. «Stai piangendo» mormorò rauco. «Oddio, Livia, mi dispiace, scusami.» «No, non è niente...» «Non è vero» la interruppe con forza. «Sono un maledetto egoista.» Lei lo serrò tra le braccia. «Non andartene» sussurrò. «Ti prego, non andartene.» Piangeva senza sapere perché. «Fa' l'amore con me, ti prego.» Clint si riaccostò. «Ti voglio» bisbigliò contro le sue labbra. «Cielo, Livia, è una pazzia.» «No, no. Ho bisogno di te.» Lui ebbe un gemito e la baciò febbrilmente. Livia, ardente di desiderio, presa dalla smania divorante di appartenergli ancora una volta, rispose al Karen van der Zee
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bacio con tutta la passione del suo sentimento. Si amarono a lungo, convulsamente, e poi si addormentarono ancora allacciati. Quando si svegliò, Livia aveva il volto umido di lacrime e Clint non era più lì accanto a lei. Non si sarebbe mostrata depressa. Era ben decisa a non far trasparire il suo stato d'animo. Quella notte appassionata non aveva mutato nulla e le sue tensioni si erano aggravate. Doveva comportarsi da donna matura e adulta. Non sarebbe crollata. Almeno, non in presenza di Clint. Così si sforzò di mostrarsi allegra e briosa. Ma lui non le si accostò più e il giorno della sua partenza si faceva sempre più vicino. Non avevano dimenticato il suo compleanno, naturalmente. L'intera banda si presentò alla villa la domenica alle nove di mattina: i quattro fratelli, le due cognate e i tre nipotini. Portarono palloncini, canzoni, allegria e una montagna di regali. L'abbracciarono e la baciarono, strinsero la mano a Clint e poi sciamarono per tutta la casa con molte esclamazioni di stupore davanti alle meraviglie che lei aveva saputo compiere. Tutti avevano suggerimenti e osservazioni da fare, si criticavano a vicenda, ridevano, lanciavano battute e di sottecchi osservavano Clint. Dopodiché le donne cominciarono a decorare il portico con festoni e palloncini, e aprirono i vari pacchetti di leccornie tra cui un'enorme torta di compleanno. Poi squillò il telefono, ed era la madre di Livia dalla Svezia. Così chiacchierò con lei, e quindi con suo padre, e poi anche i nipotini vollero parlare con i nonni e divenne una telefonata lunghissima e quanto mai costosa, ma ai compleanni era sempre così. Livia si sentiva molto sollevata. Era proprio ciò di cui aveva bisogno: allegria, risate e la vicinanza dei suoi cari. Era davvero fortunata: aveva una famiglia che le voleva bene, degli amici deliziosi, una grande casa di cui era soddisfatta. Cos'altro poteva volere? Sapeva molto bene cosa, e si trattava di Clint. Questi al momento era impegnato in un'animata conversazione con la nipotina di quattro anni sul perché gli scoiattoli hanno una lunga coda folta. L'indomani mattina sarebbe partito. Un pensiero che le toglieva il respiro. Ma non doveva pensarci. Quella era una giornata di festeggiamenti. Karen van der Zee
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Poco dopo giunsero altre auto che portavano una dozzina di amici, tutti smaniosi di farle gli auguri e prender parte alla baldoria. Il barbecue venne acceso, le gigantesche bistecche furono cucinate e suo fratello Mac cantò accompagnandosi con la chitarra. Una festa magnifica, con sole splendente, cinguettio di uccelli e aria carica di profumi estivi. Era sera inoltrata, e tutto era stato rimesso in ordine quando gli ospiti ripartirono. D'un tratto la casa fu terribilmente silenziosa. Livia sentiva il proprio respiro. E i propri pensieri. L'indomani Clint sarebbe andato via. Uscì in giardino e fu assalita dalla desolazione. Si sentiva sola come mai le era accaduto prima di allora. Quel giorno aveva compiuto ventinove anni e tra poche ore l'uomo che amava se ne sarebbe andato. Dei passi sul prato. «Notevole la tua famiglia» osservò Clint fermandosi accanto a lei. «Sì, straordinaria.» «Tengono molto a festeggiare le ricorrenze, direi.» C'era un sorriso nella sua voce. «Sì, da sempre. Ci spostavamo così spesso, ed era importante tenerci uniti. Arrivando in un posto nuovo spesso non avevamo amici o conoscenze, ma c'era il legame tra noi.» Guardò Clint nella penombra. «Qualsiasi cosa succedesse, c'era il legame tra noi.» Il silenzio era assordante. Lui restò immobile a fissarla. Ti prego, lo implorò mentalmente, lasciami far parte della tua vita. Allungò una mano verso di lui con gesto istintivo, e Clint la prese. Poi l'attirò a sé per baciarla intensamente e Livia si strinse a lui mentre gli occhi le si colmavano di lacrime. D'un tratto Clint la respinse. «Devo fare i bagagli.» La sua voce era roca. Girò sui tacchi e tornò verso la casa. La sua sacca era presso la porta. Livia la guardò cercando con tutte le sue forze di controllarsi. Viaggiava leggero: era rimasto via due anni e aveva solo quella sacca con sé. I vestiti cittadini erano rimasti appesi in un armadio al piano di sopra. Indossava pantaloni leggeri, una polo e una giacca sportiva: pronto a partire. Erano le sei di mattina, gli uccellini cinguettavano felicemente, ignari. Karen van der Zee
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«Ti chiamerò appena possibile per sapere della casa» disse lui. L'aveva già detto. Le aveva dato il numero di telefono del suo legale, che aveva una procura, e avrebbe definito l'acquisto della casa quando Livia gli avesse comunicato che era ultimata. Dopodiché lei se ne sarebbe andata cedendo il posto a una certa Suzanna Stern. Si trattava di una collega, aveva spiegato Clint. Insegnava economia all'università e avrebbe preso la casa in affitto fino a quando lui non fosse tornato. Tutto molto ben organizzato. Livia adesso avrebbe voluto non aver mai comperato quella villa, non aver mai conosciuto Clint Bracamonte, non aver mai... «Addio, Livia.» La prese tra le braccia e la baciò con forza, poi la lasciò, raccolse la borsa da viaggio e uscì diretto all'auto. Come in trance lei lo seguì con lo sguardo mentre apriva la portiera, saliva, richiudeva. Il suo volto apparve di profilo attraverso il finestrino. Accese il motore e l'auto si allontanò. Clint non le rivolse un ultimo sguardo. Non le fece neppure un cenno di saluto. Raschiò, scartavetrò, verniciò e pianse. Installò una nuova porta posteriore, sostituì il vetro di una finestra e continuò a piangere. Mise in opera le piastrelle messicane nella veranda e pianse. Prese in affitto una levigatrice e lavò tutti i pavimenti di legno spargendo lacrime ovunque. Ogni muscolo le doleva. Il cuore le doleva. Non riusciva a smettere di piangere. Era un disastro. Riusciva a pensare solo a Clint. Clint che faceva l'amore con lei. Clint con un minuscolo uccellino tra le mani. Clint con una bimbetta in grembo. Lo amava. Lo voleva. Lo detestava per quello che le stava facendo. Avrebbe dovuto tinteggiare le pareti in viola; mettere nei bagni delle piastrelle a fiori tropicali; seminare ortica in giardino... Tre settimane passarono e la situazione non migliorò. Mai, mai l'avrebbe dimenticato. Non avrebbe mai amato un altro. Si sarebbe annientata nell'infelicità. Un giorno una polverosa giardinetta che aveva visto tempi migliori risalì il viale d'accesso. La targa era della Pennsylvania. Ne scese una donna, seguita da una ragazzina che si trascinava appresso una valigetta malconcia. Le due arrivarono sul portico. Karen van der Zee
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La donna indossava una gonna e una camicetta spiegazzate e aveva l'aria esausta: ombre scure sotto gli occhi e capelli flosci, volto pallido e teso, senza trucco. Livia andò ad aprire e si sentì investire dalla calura di luglio. «C'è il signor Bracamonte?» chiese la donna senza neppure dire il suo nome. Livia scosse il capo. «No. Non sta qui, al momento. È all'estero.» La ragazzina aveva enormi occhi grigi in una faccetta smunta. I calzoncini corti erano logori e la T-shirt macchiata. «È ancora a lavorare nella giungla?» domandò, e sul musetto lentigginoso si era dipinta una profonda delusione. «Sì, appunto.» Livia l'osservò, afferrata da un'ansia improvvisa. Aspirò a fondo e si rivolse alla donna. «Sono Olivia Jordan. Sto ristrutturando la villa. Posso fare qualcosa per lei?» «Mi chiamo Janet, e questa è Tammy. L'ho portata qui perché è venuto il momento che suo padre si assuma le sue responsabilità e si occupi di lei, adesso.» Nel tono si coglieva una malcelata dose di riprovazione. Livia si raggelò. Era come se la terra le si fosse aperta sotto i piedi. Scrutò la donna, poi di nuovo Tammy, e rivide mentalmente la fotografia. Difficile stabilire se la bambina fosse la stessa che aveva di fronte. Quanto alla donna, non c'era la minima somiglianza con la bellissima ragazza bionda della foto. «La mia mamma è morta» spiegò Tammy. «E adesso starò con papà. Andrò a vivere nella giungla.» Lo disse con perfetta convinzione. Non era la voce di una ragazzina, ma di una persona adulta che sa come stanno le cose, e Livia si sentì toccata. «Non c'è nessun altro che possa prendersi cura di lei» aggiunse la donna. «Potrebbe darmi un bicchier d'acqua?» chiese la ragazzina. «Ho una gran sete.» Livia si passò una mano tra i capelli. «Sì, sì, certo. Prego, entrate.» Le condusse in cucina e con gesti automatici versò della limonata nei bicchieri. La sua mente era nel caos. «Non posso trattenermi» annunciò nervosamente la donna mentre si sedeva sul bordo della sedia. Pareva che desiderasse solo andarsene. «Domani devo riprendere il lavoro.» «In Pennsylvania?» chiese Livia rammentando la targa. «Venite da là?» «Sì» annuì l'altra prendendo un lungo sorso. «Abbiamo fatto il viaggio senza mai fermarci» raccontò Tammy. «Non ero mai stata in auto per tante Karen van der Zee
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ore. Non sapevo che fosse così lontano.» Livia si mise a sedere. «Per favore, mi spieghi come stanno le cose. Il signor Bracamonte e all'estero e non sarà facile mettersi in contatto con lui.» «Io non posso tenerla con me» dichiarò la donna con voce tesa. «Adesso tocca a lui.» «Lei non è la madre di Tammy?» «Sua madre è morta. Io ho fatto quel che ho potuto, ma sono solo una vicina di casa e non mi risulta che ci siano altri parenti. Janine, almeno, non ne ha mai fatto parola.» Livia, col cuore stretto, lanciò un'occhiata alla ragazzina accasciata sulla sedia, evidentemente sfinita. Aveva viaggiato tutto il giorno per vedersi recapitare come un pacco in una casa sconosciuta. Madre deceduta. Nessun parente. Nessuno che la volesse. E anche suo padre era assente. Le sorrise. «Avrai fame, vuoi qualcosa da mangiare? Posso prepararti un sandwich.» La donna schizzò in piedi. «Devo andare.» Si allontanò i capelli dal viso con gesto nervoso. «Dica al padre che adesso deve pensarci lui.» Si chinò a baciare Tammy sulla guancia. «Fa' la brava, tesoro. Tutto si sistemerà, vedrai.» E senza aggiungere altro tornò indietro infilando la porta d'ingresso. Livia la seguì e rimase a guardarla mentre risaliva sulla giardinetta e partiva. Tornò lentamente in cucina. Tammy era rimasta sulla sua sedia, le mani intrecciate in grembo, le gambette ciondoloni. Attorno alle caviglie si notavano segni di punture d'insetti. Alzò lo sguardo incontrando gli occhi di Livia. La faccina era adulta e saggia. «Mi aiuti a ritrovare il mio papà?» domandò in tono grave. Livia provò una stretta al cuore e reagì nell'unico modo possibile. «Sicuro» promise sorridendo. Tammy fece sparire un sandwich, un bicchiere di latte e un grappolo d'uva. «Questa è la casa del mio papà?» chiese quando ebbe terminato. «Sì.» «È grandissima.» «Hai ragione.» «Io sto in una roulotte. Be', ora non più. Era vecchia e molto piccola. Quando pioveva entrava l'acqua. E non c'era un giardino, solo uno spiazzo di terriccio. Anche il giardino, qui, è grandissimo.» Livia annuì. Karen van der Zee
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«La mamma diceva che il mio papà è ricco. Deve esserlo, per avere una casa così.» Scolò le ultime gocce di latte rimasto nel bicchiere. «Ne vuoi dell'altro?» Livia si chiedeva disperatamente che cosa doveva fare. «Sì, grazie.» Mentre riempiva il bicchiere si accorse che fremeva di rabbia: avrebbe voluto poter agguantare il telefono e dire a Clint quel che pensava di lui. Con che coraggio se ne andava all'altro capo del mondo avendo una figlia piccola che viveva in una roulotte cadente? Ripensò a quella foto di lui con la bambina sulle ginocchia, accanto alla giovane donna bionda sorridente. No. C'era qualcosa che assolutamente non quadrava. «Sara? Ho bisogno del tuo aiuto.» Livia cercò di allentare la stretta delle dita attorno al ricevitore. «È una storia incredibile...» La casa era immersa nel silenzio. Tammy dormiva nella camera da letto di Clint, con addosso una T-shirt di Livia, abbracciata a uno spelacchiato orsacchiotto. Anche nel sonno la sua espressione era adulta e appesantita da un'ombra di preoccupazione. Dopo aver bevuto il secondo bicchiere di latte, Tammy era andata all'acquaio per lavarlo insieme ai due piatti. «So come si fa» aveva assicurato quando Livia le aveva detto che non era necessario. «Lavo sempre io i piatti.» «C'è una lavastoviglie» aveva spiegato lei. «Guarda, ti mostro come funziona.» Riordinata la cucina, Tammy aveva chiesto educatamente dove poteva dormire e si era portata di sopra la sua valigetta. Il materasso era nudo e lei aveva voluto stendere per conto suo le lenzuola: altra cosa che faceva sempre. Livia aveva bisogno di parlare con qualcuno, così aveva telefonato a Sara. «Che cosa succede?» si informò la cognata. Livia fece un profondo respiro e raccontò. «Clint ha una figlia? E quanti anni ha?» «Sei, dice. Oh, Sara, è così sparuta, vestita praticamente di stracci, e con un'espressione talmente adulta. E quella tale, la vicina, l'ha mollata qui come fosse un oggetto.» Karen van der Zee
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«E la madre?» «È morta. Tammy l'ha detto con un tono così privo d'emozione, che mi è venuta la pelle d'oca.» «Hai idea di cosa sia accaduto?» «Neanche l'ombra. Non so niente e non me la sento di far domande. Ma ha vissuto in una roulotte. Me l'ha detto la bambina dopo aver osservato che questa è una gran bella casa.» «Domattina sul presto sono da te» promise Sara, «e porterò qualche indumento di Mandy.» Dopo avere riagganciato Livia rimase seduta dov'era a fissare la parete. La figlia di Clint. Una ragazzina pelle e ossa, cenciosa, che aveva vissuto in una roulotte. Ripensò alla foto di Clint con sua moglie e la bambina. Dunque non erano morte. Ma il matrimonio a un certo punto doveva essere andato a monte. «È cosa che appartiene al passato» aveva dichiarato lui. «Non ha nulla a che vedere con il presente.» Da ore Livia cercava di non pensarci, di non lasciare affiorare la collera. Ma adesso non ce la faceva più. Con che coraggio aveva abbandonato la sua creatura? Come aveva potuto lasciare che la piccola vivesse in povertà? E lei, come aveva fatto a sbagliarsi fino a quel punto sul conto di Clint? Lei, che credeva di conoscere gli uomini, di saperne valutare l'onestà, la lealtà, la rettitudine. Come aveva potuto prendere un simile abbaglio? Tanti interrogativi a cui le lunghe ore insonni della notte non seppero trovare risposta. L'indomani Sara arrivò alle dieci. Tammy si era svegliata un'ora prima. Si era rifatta il letto. Dopo colazione aveva sistemato piatti e tazze nella lavastoviglie, ripulito il tavolo e il piano di lavoro, poi aveva cominciato a spazzare il portico. La scopa risultava enorme tra le sue piccole mani: Livia la lasciò fare, osservandola con un nodo alla gola. Fu un sollievo quando l'auto della cognata risalì il vialetto. Sara aveva con sé una borsa piena di vestiti e un sacchetto di ciambelle ancora calde. Insieme uscirono sul portico posteriore che Tammy aveva finito di spazzare. Livia fece le presentazioni. «C'è altro che posso fare?» chiese Tammy gravemente. «Sì» rispose Livia. «Puoi sederti qui con noi e mangiarti una ciambella. Karen van der Zee
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Vuoi del succo di frutta?» «Oh, sì, grazie. Vado a prenderlo.» «Tu resta qui. Ci penso io.» E così a poco a poco si avviò la conversazione. «Vedo che sei abituata a darti parecchio da fare» osservò Livia. «Oh, penso sempre io alle pulizie» spiegò Tammy passandosi il tovagliolo sulla bocca. «Dovevo aiutare la mamma. Lei non... ecco, lei...» Fece un sospiro e abbassò lo sguardo sulle proprie mani. «A volte non stava bene.» Livia provò una stretta al cuore. «Mi dispiace. Dev'essere stato difficile per te.» Non trovò altro da dire. Tammy rialzò gli occhi. «È in cielo, adesso.» La voce era calma. «Piango spesso, ma so che lei ora è felice e quindi non dovrei essere triste, non ti pare?» Livia lanciò un'occhiata a Sara che si rivolse a Tammy: «È giusto sentirsi tristi, ed è giusto anche piangere». Tammy prese un sorso di succo reggendo il bicchiere con entrambe le mani. «Vorrei che il mio papà fosse qui» disse con voce sottile. «Lui non sapeva che saresti arrivata» mormorò Livia. Non lo sapeva con certezza ma ne era abbastanza convinta. «Quand'è stata l'ultima volta che l'hai visto?» Tammy spalancò gli occhi. «Oh, non lo so. Ero piccola.» Scivolò giù dalla sedia. «Ho una foto, te la faccio vedere.» Corse dentro. Livia guardò la cognata. «Non è neppure andato a trovarla nei due mesi che è stato qui» commentò con voce atona. «Come è possibile?» La ragazzina ricomparve stringendo in mano una foto molto sgualcita: una Tammy di un anno circa, che cercava di camminare da sola, e Clint accosciato che le tendeva le braccia, pronto a sostenerla. «Ecco il mio papà» annunciò Tammy, orgogliosa. «La mamma diceva che è un uomo molto intelligente. È uno scienziato e sta nella giungla a svolgere un lavoro di grande importanza. Ma è dall'altra parte del mondo e per questo non può venire a trovarci. Pensi che tornerà presto?» Livia deglutì. «Non saprei, Tammy, ma farò il possibile per informarmi, d'accordo?» Cosa le prendeva? Stava facendo una promessa impegnandosi a intervenire in fatti che non la riguardavano. Ma il giorno prima Tammy era stata scaricata davanti alla sua porta, e da quel momento la cosa la riguardava eccome. «Senti» continuò, «che ne diresti di andare a raccogliere dei lamponi per Karen van der Zee
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il pranzo? In fondo al giardino c'è tutta una fila di piante.» «Davvero posso?» domandò Tammy estatica. «Sicuro, ma prendi solo quelli maturi. E mangiane pure, già che ci sei.» Tammy partì in missione armata di un cestino. Le gambe erano esili; le scarpe di tela mostravano alcuni buchi. Sara e Livia la seguirono con lo sguardo. «Buon Dio» mormorò Sara. «Povera piccola.» «Non riesco a capire come Clint se ne sia completamente disinteressato.» «Be', succede spesso, Liv» osservò con dolcezza la cognata. «Sono molti i padri che non versano gli alimenti, dopo il divorzio.» «Ma non è da Clint. Assolutamente no.» «E allora che spiegazione dai?» «Non ne ho» ammise Livia con un sospiro. «Che cosa faccio, adesso?» «Dovrai avvertirlo.» «E come? Ci sono voluti due mesi prima che gli arrivasse la notizia del decesso di sua nonna.» «Inutile mandare un telegramma, allora?» «Già.» Si portò le mani alle tempie. «Forse non vuole saperne della piccola, altrimenti Tammy non sarebbe in queste condizioni, non ti pare? L'ha abbandonata al suo destino!» Discussero la situazione, analizzarono, fecero ipotesi, cercarono di arrivare a una decisione. La soluzione era una sola e alla fine dovettero affrontarla e passare alla fase organizzativa. Tammy sarebbe rimasta presso Sara e Jack, mentre Livia affrontava il lungo viaggio che l'avrebbe portata nel cuore del Kalimantan alla ricerca di Clint. Sotto di lei c'era solo la distesa interminabile della foresta pluviale attraversata dal sinuoso nastro argenteo di un fiume. Laggiù, nell'interno, sotto quella volta di verde, c'era il villaggio dove Clint abitava e lavorava, a diversi giorni di viaggio dalla base commerciale dove il minuscolo aereo addetto ai rifornimenti l'avrebbe depositata entro pochi minuti. Livia era preparata ad affrontare quell'avventura, o almeno lo sperava. Per fortuna, grazie alla sua curiosità, aveva raccolto parecchie informazioni dai racconti che le aveva fatto Clint. Nel suo zaino c'erano, Karen van der Zee
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tra l'altro, una torcia elettrica, un coltello multilame, un lenzuolo di cotone e una leggera coperta. Di notte, nelle regioni montagnose dell'interno, la temperatura calava parecchio. Nel piccolo centro dove era giunta in aereo da Balikpapan aveva comperato una stuoia, una zanzariera, un paio di sarong, un piatto e una tazza di metallo smaltato. Era munita di lozioni per tenere lontani gli insetti, di crema antiprurito e di alcune altre cose di prima necessità. Nonostante la sua missione poco gradevole, la prospettiva di quell'esperienza nella giungla l'attirava molto. Per prima cosa si sarebbe presentata al capo della base a chiedergli consiglio: avrebbe dovuto affittare una barca e ingaggiare delle guide per raggiungere il villaggio dove viveva Clint. L'aereo atterrò sobbalzando su una pista erbosa. Tutt'attorno c'erano frotte di ragazzini curiosi, dagli occhi scuri, a osservare le operazioni di scarico delle merci che poi vennero sistemate su un carro trainato da un bufalo indiano. Un ragazzo si avvicinò e le prese lo zaino. «L'accompagno dal capo» • disse nel suo idioma. Seguita da uno sciame di bambini si lasciò condurre alla grande abitazione comune. Pur conoscendoli attraverso le fotografie, non aveva mai visto di persona un kampong, la tipica costruzione a palafitta studiata per proteggere gli abitanti dagli animali e dai voraci insetti che popolano il terreno della giungla. Si inerpicò sul palo a grosse tacche per raggiungere la veranda che correva per tutta la lunghezza della casa e il ragazzo la guidò fino all'alloggio del capo, ma questi era assente. «Aspetti qui» disse il ragazzo accennando a una sedia davanti alla porta, e depose lo zaino di Livia. «Terimah kasih» annuì lei sorridendo. «Aspetterò.» E altrettanto fecero i bambini che si sistemarono di fronte a lei osservandola con molte risatine. Una ragazza scalza, in blusa azzurra e sarong, venne a portarle un bicchiere di tè bollente. Era la figlia del capo, spiegò; lui sarebbe arrivato di lì a poco. Dal fondo della veranda giunse di corsa un altro gruppo di bambini ridenti e schiamazzanti. La ragazza ebbe un ampio sorriso. «Pak Clint ada!» esclamò. Le ci volle qualche istante per afferrare la situazione, poi si sentì raggelare riconoscendo l'alta figura attorniata dai bambini. Era l'ultima cosa che si sarebbe aspettata. Clint non avrebbe dovuto trovarsi lì, ma al suo piccolo villaggio nel cuore della foresta. Non era Karen van der Zee
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preparata a quell'incontro. Lui indossava dei calzoncini color kaki e una maglietta azzurra, braccia e gambe erano abbronzatissime e mentre avanzava lungo la veranda i forti muscoli guizzavano. Livia aspirò a fondo senza riuscire a distogliere lo sguardo. Con un sogghigno allegro Clint afferrò per la vita un bambinetto e se lo strinse contro il fianco mentre quello si dibatteva ridendo. Tutti gli altri lanciarono strilli deliziati. Poi lui la scorse. Si fermò di botto e il sorriso scomparve. Il bambino fu lasciato libero di guizzar giù e di allontanarsi. Il cuore le martellava in petto e tutto il suo corpo era percorso da un tremito. I ragazzini si affollarono attorno a Clint che abbassò lo sguardo, disse qualcosa, e loro corsero via ridendo. Lui la raggiunse e si fermò torreggiante sopra di lei. La figlia del capo gli sorrise. «Ti porto del tè» disse, e scomparve nell'alloggio. Si fissarono, avvolti da un silenzio soprannaturale. «Buon Dio» la voce di Clint era bassa e incredula. «Che cosa diavolo ci fai, qui?»
7 Livia lo guardava, ammutolita dalla sorpresa. Ed ecco di nuovo quel desiderio struggente, il bisogno di lui. Impossibile cancellarlo, ma lei si detestava per quel sentimento. Non voleva un uomo capace di abbandonare la propria figlia. Un uomo che rifiutava qualsiasi legame. Si alzò con le gambe malferme. «Volevo raggiungere il tuo villaggio. Ho bisogno di parlarti. Non mi aspettavo di trovarti qui.» «Sono venuto a fare provviste.» Il volto di lui era rigido. «Maledizione, Livia! Sapevi benissimo che non ti voglio qui» sbottò con furia. Oh, certo che lo sapeva. Lo aveva messo bene in chiaro in precedenza e a quanto pareva non aveva cambiato idea. Evidentemente non aveva rimpianti e non gli importava nulla di lei. Be', non era arrivata fin lì per motivi personali. D'un tratto si sentì svuotata di ogni forza. Non riuscì a dir nulla. «Livia, questo non era nei progetti» continuò Clint con voce dura. «Credevo l'avessi capito.» Lo fissò con sguardo altrettanto duro. «Infatti» replicò freddamente. «Tu Karen van der Zee
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volevi una semplice avventuretta passeggera. Io ero lì, disponibile e abbastanza stupida da accettare la cosa, e...» «Tu ora risali immediatamente su quell'aereo» l'interruppe lui bruscamente. Si chinò a raccogliere lo zaino. Lei si rimise seduta. «Neanche per sogno! Tranquillizzati, non sono venuta a raccontarti che non posso vivere senza di te, perché ce la faccio benissimo!» Aveva il suo orgoglio. E poi, dopo quel che aveva saputo, non l'avrebbe voluto neppure se gliel'avessero presentato su un vassoio d'argento. Clint fece un sorrisetto ironico che contribuì ad aumentare la sua collera. «Sei un gran presuntuoso, sai? Non ti passa per la mente che potrei essere venuta fin qui per ragioni che non hanno nulla a che vedere con la mia presunta insanabile passione per te?» Lui inarcò un sopracciglio. «La tua passione per i viaggi, allora? Mi pareva che prima volessi ultimare la casa.» «Infatti, ma ho cambiato idea. C'è una faccenda che...» Il rombo assordante di un aereo le troncò la frase. Clint imprecò tra i denti e lasciò cadere lo zaino sull'assito della veranda. «Lo sai che cosa significa?» Sì, naturalmente. «Che l'aereo è decollato e io non sono a bordo. E tornerà solo tra due settimane, quindi sono bloccata nella giungla, in una casa senza servizi all'occidentale, e forse sarò costretta a mangiare zuppa di larve di api.» Oddio, sperava di no. Quella sarebbe stata un'ardua prova malgrado la sua disponibilità a godersi l'avventura. Clint si passò una mano sulle guance ispide. «In questo, almeno, ti dimostri realistica.» Che insopportabile, arrogante compiacimento. Che ne sapeva lui del realismo standosene lì nella foresta a migliaia di chilometri da una bambina che sognava di raggiungerlo? Una ragazzina che non lo vedeva da quando era poco più di una neonata, che pensava a lui come a una specie di semidio, un padre inventato per supplire alla sua assenza. Povera Tammy. E si sentì invadere dall'incertezza. Stava agendo nel modo più opportuno? Quali sarebbero state le mosse di Clint? Interrogativi che l'avevano assillata da quando aveva deciso di recarsi nel Borneo e che di certo avevano privato di ogni allegria un viaggio che sarebbe dovuto essere un'esperienza eccezionale. E adesso eccola lì, in un kampong, i cui abitanti più anziani quasi certamente erano stati un tempo cacciatori di Karen van der Zee
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teste, a litigare con Clint. Un improvviso trambusto in fondo alla veranda li interruppe bruscamente. «Ecco il capo del villaggio» disse Clint. «Qui siamo ospiti e se gli piacerai ti inviterà a restare. Altrimenti sarai nei guai. Da queste parti non ci sono altre possibili sistemazioni.» Lei abbozzò un sorriso amabile. «Allora dovrò far di tutto per piacergli, non ti sembra?» Diverse persone stavano avvicinandosi: le donne in blusa e sarong, gli uomini in calzoncini e maglietta. Pareva che avessero trascorso la giornata a lavorare nei campi, e probabilmente era così. Il capo si chiamava Pak Ubang. Era un tipo basso, muscoloso, con le braccia coperte di tatuaggi. Le strinse la mano augurandole selamat datang, e accettò con estremo piacere le T-shirt su cui erano riprodotti vari elementi caratteristici del paesaggio americano che Livia gli offrì in dono. «Viaggia da sola?» le chiese in indonesiano scrutandola con occhi penetranti. «Sì, infatti» annuì Livia. «Non ho mai visto nessuna come lei arrivare fin qui da sola.» Lei sorrise timidamente. «Ho sentito parlare tanto bene di questi luoghi e dei loro abitanti, che desideravo conoscerli di persona.» Era vero, anche se non si trattava della ragione per cui si trovava lì. E l'infastidiva la presenza di Clint, seduto ad ascoltare, che mostrava la sua disapprovazione. «Parla bene l'indonesiano» osservò il capo. «Da bambina ho vissuto a Giava con i miei, e anche in Malaysia.» L'indonesiano era una variante locale del malese. «I bambini imparano in fretta.» Pak Ubang assentì. «Ha intenzione di scrivere di noi e prendere foto?» «Mi piacerebbe fare delle foto, se posso, ma non scrivo. Viaggio perché mi piace conoscere gente diversa e imparare cose nuove.» Lui parve divertito. «Pak Clint studia la gente del suo villaggio: cosa coltivano, gli animali che cacciano, i prodotti che raccolgono nella foresta. E adesso c'è anche lei. Che cosa vorrebbe imparare da noi?» Livia sorrise. «La gioia, la felicità.» Il capo inarcò le sopracciglia. «Lei non ha gioia e felicità?» «Ne voglio di più. Non ce n'è mai abbastanza, non trova?» Pak Ubang scoppiò in una risata insieme agli altri che stavano ad Karen van der Zee
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ascoltare. «Stasera sarà mia ospite» dichiarò poi, «e le mostreremo cosa sono gioia e felicità. Mangeremo, berremo e danzeremo. Le piace?» «Sì.» Clint non aveva aperto bocca, ma per tutta la durata del colloquio Livia si era sentita il suo sguardo addosso. Si chiedeva che cosa stesse pensando. La veranda cominciò ad affollarsi di persone che venivano a vederla e a darle il benvenuto. Poi tutti si diressero al fiume per il bagno serale e la figlia di Pak Ubang la prese sotto la sua protezione includendola in un gruppo di donne e bambini. Da secoli, le pareva, non faceva una doccia e fu una delizia immergersi nell'acqua, anche se era avvolta in un sarong e lavarsi avendo addosso quell'indumento bagnato non era facile. E non lo fu neppure asciugarsi e indossare una maglietta e un sarong asciutto, con tutti quei bambini che la guardavano per vedere come se la sarebbe cavata. A un certo punto le venne la tentazione di liberarsi, semplicemente, di quel dannato indumento fradicio e lasciare che si godessero lo spettacolo. Sarebbe stato un arricchimento culturale per loro. Vedete? sono fatta esattamente come voi, solo un po' più alta e di pelle più chiara. La cena venne servita dalla moglie di Pak Ubang, una donna dal sorriso timido e coi lobi delle orecchie allungati dal peso dei grossi orecchini di ottone. Seduti sulle stuoie, mangiarono riso cotto al vapore e pezzi di cinghiale alla brace, entrambi deliziosi. Clint l'osservava di continuo con occhi cupi e insondabili. Livia cercò di non badarci, ma inutilmente. Non si poteva ignorare un uomo del genere. La sua presenza faceva vibrare l'aria tutt'intorno. Dopo il pasto tutti continuarono a bere e a chiacchierare e poi iniziarono le danze accompagnate dalla musica di strumenti a corde suonati da due giovani. Le ragazze, nei costumi tradizionali, si muovevano con la grazia di uccelli in volo. Poi l'atmosfera cominciò a riscaldarsi. Alcuni uomini, coperti da pelli di leopardo, armati di scudi decorati e con in capo delle acconciature di perline e penne si esibirono in Una danza di guerra brandendo minacciosi coltelli. «Si chiamano mandati» le mormorò Clint all'orecchio. «Un tempo venivano usati dai cacciatori di teste.» «Già» annuì lei. Aveva visto delle vecchie foto dei Dayaki: usi che Karen van der Zee
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appartenevano al passato, anche se un passato non molto lontano. «Immagino che i loro nonni potrebbero raccontarne delle belle.» «È un argomento che non gradiscono, meglio non fare accenni in proposito.» Livia non ci pensava nemmeno. L'arak contribuì a tirarla su: dopo un bicchiere di quel forte liquore locale si sentì allegra e un po' stordita. Pareva che tutti si divertissero molto, ma poi Livia cominciò a risentire della stanchezza e forse anche dello choc culturale. Solo pochi giorni prima si trovava in una modernissima cucina con aria condizionata a progettare quel viaggio, e adesso era seduta su una stuoia, circondata dalla foresta pluviale, a guardare dei tizi che spiccavano grandi balzi coperti da pelli di leopardo. La mattina seguente si svegliò in una stanza gremita di donne e bambini. Era stesa sulla sua stuoia, sotto il lenzuolo e la coperta che aveva portato con sé. Qualcuno aveva montato la zanzariera. Aveva solo vaghi ricordi della conclusione della sera prima: Clint che la sosteneva, srotolava la stuoia, l'aiutava a mettersi giù. Fuori la festa continuava animata. Adesso attorno a lei tutti dormivano ancora beatamente. Lei si sentiva un po' dolorante e informicolita: il pavimento di legno non era certo morbido, e aveva dormito senza guanciale. Indossava ancora la maglietta e il sarong della sera precedente. Dalla finestra aperta arrivavano i suoni della giungla: uccelli, insetti e strida acute che non riuscì a identificare. Sentì anche dei passi e delle voci. Aveva bisogno di sciogliere i muscoli. Si sollevò a sedere, pescò dalla sacca una spazzola e se la passò rapidamente tra i capelli, poi cautamente si mise in piedi e si riannodò il sarong. Raggiunse in punta di piedi l'entrata cercando di non fare rumore. Il pavimento scricchiolò, la porta cigolò, ma nessuno si mosse. Uscì sulla veranda nell'aria frizzante del mattino. Un fitto velo di bruma aleggiava tra gli alberi. Guardò le numerose porte a destra e a sinistra chiedendosi quale fosse l'alloggio di Clint. Pochi minuti dopo un uscio si aprì e ne uscirono alcuni uomini, tra cui Clint. «Selamat pagi» augurarono quasi all'unisono. Livia ricambiò il saluto sorridendo. Clint le rivolse un'occhiata scrutatrice. «Come va?» domandò a bassa voce, in inglese. Karen van der Zee
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«Benone.» «Ho dell'aspirina, se ti serve.» Non ne aveva bisogno e comunque ne aveva anche lei. «Niente postumi di sbornia» rispose. «Mai presa una in vita mia.» «L'arak è roba forte.» «L'ho notato, ma non ne ho bevuto molto. Ero semplicemente sfinita. È stata una gran serata.» «Spero che ti abbia dato gioia e felicità» commentò lui in tono asciutto. «Oh, sicuro. Adoro simili esperienze. Per questo mi piace viaggiare.» Clint annuì. «Per conoscere gente diversa e imparare cose nuove.» «Oh, finiscila.» Lui ebbe un mezzo sorriso. «Ci hai saputo fare davvero, sai? Così serena, così sincera. Quasi ci credevo anch'io.» Già, lui era convinto che fosse arrivata fin lì per raggiungerlo. Degli strani richiami provennero dalla foresta. «Cosa sono?» «I gibboni.» Diede un'occhiata al fuoco che alcuni uomini avevano acceso. «Sarà meglio che li raggiungiamo, se non vogliamo essere giudicati scortesi.» Altre persone arrivarono e fu preparata la colazione: riso con carne di cervo affumicata, e papaie appena colte. La veranda si affacciava sul fiume e dopo aver mangiato Livia si appoggiò al parapetto osservando due uomini che caricavano su una lunga barca diverse casse e sacchi. Clint si materializzò al suo fianco. «Partiamo tra mezz'ora» annunciò. «Sono costretto a portarti con me: non puoi restare qui per due settimane abusando della loro ospitalità, in attesa dell'aereo.» Di colpo si arrabbiò: non era sotto la tutela di Clint. «Non avevo alcuna intenzione di restarmene qui per due settimane» replicò cercando di controllarsi. C'erano troppe persone nelle vicinanze e in oriente non è educato manifestare la collera, lo sapeva. «Raduna la tua roba, in modo che possano sistemarla sulla barca» ordinò lui, e si allontanò. Non aveva scelta. Mezz'ora più tardi avanzavano sul fiume brumoso, salutati dagli abitanti del villaggio. Oltre a loro due c'erano quattro uomini a bordo: il padrone della barca, suo figlio, e due portatori del villaggio di Clint. La barca, con gran dispiacere di Livia, era munita di un rumoroso Karen van der Zee
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motore fuoribordo. Sarebbe stato molto più piacevole procedere a remi lungo il fiume ascoltando le voci della foresta. Sarebbe stato molto più piacevole se fosse giunta lì in missione di pace. Così invece si sentiva il cuore greve e un gran peso sullo stomaco. Continuava a sbirciare di sottecchi Clint, seduto davanti a lei, e provava un senso di disperazione. Silenzioso e distaccato, le pareva un estraneo. Com'era possibile quel baratro tra loro quando un tempo erano stati così uniti? Come aveva potuto ingannarla? Si sforzò di allontanare quei pensieri amari concentrandosi su quanto la circondava: gli argini rocciosi e la fitta foresta verde, un mondo intatto che pulsava di una vita invisibile. Nonostante tutto sentì tornare l'emozione, l'innato entusiasmo per le cose nuove e sconosciute. Il sole si fece più caldo e sciolse la foschia. Livia si passò la crema antisolare su tutte le parti scoperte. Fecero sosta per il pranzo in una spiaggetta rocciosa: l'ombra degli alberi era fresca e umida, in contrasto con il riverbero ardente dell'acqua. Livia osservò le grandi piante con i loro festoni di delicate orchidee rampicanti, le felci gigantesche. La moglie di Pak Ubang aveva preparato del cibo per loro: riso, carne di cervo e verdure racchiusi in foglie di banano. Gli uomini accesero il fuoco per preparare l'inevitabile tè. Mangiarono e chiacchierarono, ma Livia si limitò perlopiù ad ascoltare. Clint si mostrava cortese ma distaccato e quell'atteggiamento le dava ai nervi: appena terminato il pasto si alzò avviandosi lungo uno stretto sentiero. Aveva bisogno di muoversi. Clint la raggiunse subito. «Non allontanarti mai da sola, è pericoloso.» «Non avevo intenzione di allontanarmi» replicò irritata, «volevo solo sgranchirmi le gambe; sono rimasta seduta per ore.» Lanciò un'occhiata agli altri, seduti presso il fuoco. Sentiva il bisogno impellente di dirgli di Tammy, ma non trovava mai il momento opportuno. Non era una notizia da buttar lì come se niente fosse. Aspirò a fondo e fissò Clint negli occhi. «Ho bisogno di parlarti, è importante.» «Non adesso» ribatté lui seccamente. «Ne avrai tutto il tempo quando saremo arrivati al villaggio.» La guardò truce. «Ma convinciti che non riuscirai a farmi cambiare idea, Livia. Non puoi restare qui con me.» «L'hai già messo perfettamente in chiaro e io non ho la minima intenzione di trattenermi più dello stretto necessario. Prenderò il primo Karen van der Zee
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aereo.» «Bene. Ora andiamo.» Risalirono tutti a bordo, incoraggiati dalla voce roca di un grosso uccello dalla lunga coda nera e bianca, appollaiato su un ramo proteso sull'acqua. Il fiume andava restringendosi e le rapide rendevano difficoltoso il passaggio. Il padrone della barca staccò il motore per evitare che si danneggiasse, e gli uomini cominciarono a servirsi di pagaie e pertiche per avanzare nell'acqua bassa e più volte dovettero scendere per manovrare la barca tra i massi. I rami dei grandi alberi si richiudevano sopra di loro formando una galleria verde che lasciava filtrare a malapena la luce. Un mondo rimasto inalterato per millenni, mai toccato dalla civiltà, che seguiva i suoi ritmi. Nel tardo pomeriggio tirarono l'imbarcazione in secca e subito si accinsero ad accendere un fuoco per tener lontani gli insetti. Clint le raccomandò di non muoversi e gli uomini andarono a raccogliere rami e foglie per costruire un riparo. Livia li osservò affascinata mentre preparavano un pondok: una piattaforma rialzata di rami intrecciati con giunchi e riparata da un tetto spiovente fatto di tre strati di enormi foglie. Lì avrebbero dormito tutti e sei, al sicuro dagli insetti e dagli altri animaletti che abitavano il terreno umido della foresta. Clint partecipava all'opera, agile e chiaramente esperto: quello era il suo ambiente. Difficile adesso immaginarlo in giacca e cravatta. Terminato il pondok, venne il momento del bagno. Livia intendeva appartarsi, ma Clint la seguì fino al gruppo di rocce che formavano una specie di pozza. «Gradirei starmene per conto mio» gli fece notare, ma lui alzò le spalle. «Abituati all'idea che in queste zone è assolutamente sconsigliabile. Resto a far la guardia. Questa non è una piscina rionale. Io so da che cosa bisogna guardarsi, e tu no.» Be', non poteva ribattere. Livia diede un'occhiata attorno. «Da che cosa bisogna guardarsi?» «Serpenti, insetti.» Si spogliò ed entrò nudo in acqua. Livia lo guardò sentendo il cuore che accelerava i battiti, poi, avvolta in un sarong, lo seguì. «Stai bene?» domandò lui. «Sì, sono solo un po' stanca.» Gli volse le spalle e cominciò a insaponarsi. Avrebbe voluto liberarsi del Karen van der Zee
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sarong, ma gli altri uomini erano a poca distanza, così si lavò in fretta, uscì dall'acqua e si asciugò per poi indossare una maglietta pulita e un sarong asciutto. Distese al sole l'asciugamano e il sarong bagnato poi sedette su una roccia e cominciò a passarsi la spazzola tra i capelli. Scorse il guizzo azzurro vivido di un uccello che passava di ramo in ramo. Nascosti nel verde altri uccelli gorgheggiavano. «È bellissimo, qui» osservò. «Così... intatto.» «Sì» convenne lui. I loro occhi si incontrarono e per un istante le parve di cogliere una strana luce nelle iridi scure di Clint. Poi lui si volse e stese l'asciugamano su uno scoglio caldo di sole. Cenarono mentre il buio calava rapidamente, e in seguito gli uomini rimasero a chiacchierare attorno al fuoco, ma lei era stanca: si alzò spiegando che aveva bisogno di dormire, raggiunse il pondok e srotolò la sua stuoia. Clint la raggiunse e montò le loro due zanzariere senza dire una parola. Livia si allungò sotto il lenzuolo e la coperta. Non era una sistemazione da albergo a quattro stelle, ma almeno poteva stare sdraiata. Clint tornò dagli altri e lei rimase ad ascoltare le loro voci e i suoni della foresta: ronzii, richiami, fruscii. Non riusciva a prender sonno. Quando Clint andò a stendersi accanto a lei finse di dormire, ma quella vicinanza la turbava. Non stimava quell'uomo, lo disprezzava per il suo comportamento, non meritava il suo amore. E perché allora quel desiderio doloroso che l'invadeva? Perché desiderava toccarlo, sentirsi tra le sue braccia? Rivide la faccina di Tammy e sperò che quell'incubo potesse svanire. «Domani sarà una giornata faticosa» mormorò Clint. «Ci aspetta una dura marcia.» Non era riuscita a trarlo in inganno: lui sapeva che non stava dormendo. «Non ti preoccupare per me» rispose a mezza voce. «Me l'hai detto: sanguisughe, zanzare, fango, serpenti. Buonanotte.» La mattina seguente, dopo la colazione, il padrone della barca e suo figlio tornarono indietro e loro quattro si avviarono lungo il sentiero attraverso la giungla. I tre uomini si erano divisi il carico delle provviste e reggevano sulle spalle grossi fardelli. Uno dei portatori apriva la fila seguito da Clint, poi veniva Livia e infine il secondo portatore. A volte perdevano di vista il fiume e il cielo era cancellato da alte pareti di fitto fogliame; l'aria calda e umida rendeva difficoltosa la respirazione. Karen van der Zee
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Avanzavano a fatica tra i rami spezzati, i rampicanti spinosi e le foglie marce. Inoltre, come previsto, c'erano le sanguisughe, viscide e disgustose, che bisognava togliersi di dosso prima che si attaccassero. Era un'esperienza nuova, ma Livia ne avrebbe fatto volentieri a meno. A metà mattina fecero una sosta e i due portatori andarono a pescare lasciando Clint e Livia seduti vicino al fuoco. Erano soli. Lui fissava le braci, assorto. Lei riempì la sua tazza di tè e ne bevve alcuni sorsi. «Ho una cosa da chiederti» cominciò, e vide che Clint si irrigidiva. Si allontanò dal volto una ciocca di capelli. «Ricordi la foto che ho trovato... quella di te con tua moglie e la bambina?» Lui alzò gli occhi. «Sì.» Livia aspirò a fondo. «Avete divorziato?» «No. Di cosa diavolo si tratta?» Fece a pezzetti un ramo morto e lo gettò nel fuoco. No. Aveva detto di no: non avevano divorziato. Quindi era ancora sposato quando aveva alloggiato presso di lei. Era sposato e sua moglie e sua figlia vivevano in una squallida roulotte. Le aveva mentito. Posò la tazza a terra e si alzò a fatica. Clint l'imitò. «Cos'è questa storia, Livia? Che cosa ti prende?» Lei serrò le mani a pugno. «Non mi prende proprio niente! Cosa prende a te, piuttosto!» Lui emise un lungo sospiro. «Illuminami, ti prego.» Che razza di mascalzone. «Eri sposato e non me l'hai detto!» sbottò lei. «Per questo non... non volevi...» Si accorse con orrore di essere prossima alle lacrime. «Quando ho trovato quella foto ho pensato... ho pensato che le avessi perse! Che fosse successa una qualche terribile disgrazia. Ma non è così, vero?» Il volto di Clint si fece di pietra. «Non vedo perché dovrei discutere i miei fatti personali con te, Livia. E che importanza ha adesso?» Le lacrime le inondarono il viso. «Ha importanza perché non mi piace essere ingannata, sentirmi raccontare delle menzogne!» Respirò a fondo. «Subito prima che venissi qui ho saputo che tua moglie è morta» riprese con voce tremula, sempre continuando fissarlo. Nessuna reazione. Né sorpresa, né dolore. «Sì, è così, infatti.» Livia era esterrefatta. «Lo sai già?» «Naturale che lo so! Come potrei ignorare che mia moglie è morta? È Karen van der Zee
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accaduto cinque anni fa.» Lo fissava senza capire. Forse aveva udito male. Forse era impazzita. «Cinque anni fa?» sussurrò. «Certo.» Sua moglie era deceduta cinque anni prima. La madre di Tammy era morta da poco. C'era qualcosa che proprio non quadrava. Era completamente confusa. «Non... non capisco» balbettò. «E la bambina? La bambina della fotografia?» Il volto di Glint si contrasse e negli occhi apparve un lampo di pena. Lui afferrò un rametto e lo scagliò lontano, con rabbia. «La bambina non era nostra.»
8 Livia restò senza fiato e la bocca le si inaridì. Clint tornò a sedersi accanto al fuoco. Se Tammy non era sua figlia, di chi era? Perché la bambina era convinta che lui fosse suo padre? Era tutto un malinteso e lei aveva affrontato quel viaggio senza motivo? E perché Clint era così restio a rispondere alle sue domande? Adesso le voltava la schiena: non chiedermi altro, lasciami in pace, sembrava voler dire. Dopo due faticose ore di marcia si fermarono per il pasto: pesce fresco, riso e germogli di bambù arrostiti. Livia avrebbe voluto sdraiarsi e riposare per il resto della giornata ma, stoica, si alzò e si mise in spalla lo zaino: pareva riempito di sassi. Serrò i denti. Era giunta lì di sua volontà e non si sarebbe lasciato sfuggire un lamento. Per tutto il pomeriggio avanzarono lungo il sentiero viscido, pieno di sanguisughe, e infine si arrestarono in un punto che le due guide ritenevano adatto a trascorrervi la notte. Erano assaliti da eserciti di zanzare e lei non faceva che darsi pacche sulle gambe per liberarsene. Gli uomini prepararono il fuoco e andarono in cerca di rami per costruire un altro pondok. L'aria vibrava del frinire assordante delle cicale e Livia sedette accanto al fuoco, intorpidita, sfinita al punto da non riuscire a muovere neppure un muscolo. I portatori presero una rete e avanzarono lungo l'argine per procurarsi Karen van der Zee
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del pesce per la cena. «Ora ci vuole un bel bagno» decise Clint. «Andiamo.» L'acqua era fredda e limpidissima: Livia vi tuffò più volte anche la testa per rinfrescarsi completamente. Si sforzava di non osservare Clint che si stagliava, solido e muscoloso, contro la macchia cupa della foresta. Cercò di lavarsi alla svelta per non protrarre quella vicinanza, e inveì contro il sarong zuppo che l'impacciava. «Toglitelo» consigliò lui. «Nessuno ti vede.» «No.» Lui inarcò le sopracciglia. «Che cosa temi che io possa fare?» «Nulla. Semplicemente non me la sento di sguazzare nuda in tua presenza.» Lui alzò le spalle. «Come vuoi.» Già, a lui non avrebbe fatto né caldo né freddo: l'aveva già vista senza niente addosso e la cosa non gli interessava più, e dunque perché far tante storie? Si sciolse il sarong e lo gettò sulla grossa roccia dove aveva lasciato indumenti e asciugamano. Fu un vero sollievo. Immersa fino alla vita, voltandogli le spalle, si insaponò lavandosi anche i capelli, poi si cacciò completamente sott'acqua. Era meraviglioso. Riemerse per respirare gettando all'indietro i capelli e incontrò lo sguardo di Clint. Per un momento si fissarono e il fiato le si mozzò in gola. Poi anche lui andò sotto per sciacquarsi. Era stato solo un attimo, ma l'espressione dei suoi occhi l'aveva tradito. Magari non la voleva con sé, magari era irritato per la sua presenza, ma lei gli faceva ancora un certo effetto. Puro desiderio fisico, certo. Non c'era mai stato nulla di più. Livia strinse i denti e raggiunse la roccia dove si asciugò rapidamente avvolgendosi poi in un sarong asciutto e sedette per districare i capelli. Dopo il freddo dell'acqua era piacevole sentire il sole sulla pelle. Anche Clint era uscito dal fiume e sedeva su un masso vicino, con un asciugamano avvolto attorno ai fianchi. Stava guardandole le gambe segnate da scorticature e lividi. «Bisognerà che ti metta qualcosa su quei graffi» osservò. «Lo so. Ho quel che occorre.» Nel suo zaino c'era una crema disinfettante. Clint si allungò sul dorso intrecciando le mani dietro la nuca, offrendo il Karen van der Zee
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viso al sole. Livia ne osservò di sottecchi i bicipiti, il collo forte, e una volta di più si sentì pervadere da quello strano formicolio. Allora volse bruscamente il capo. Una nube di farfalle multicolori danzava sull'acqua: rimase a guardarle, ipnotizzata, fino a che si allontanarono sparendo. Non ne aveva mai viste tante tutte insieme. Tutto ciò che la circondava era di una bellezza spettacolare: le orchidee che ricadevano dagli alberi altissimi, i funghi di un vivido arancione che crescevano su un tronco morto, il canto degli uccelli. Diede un'occhiata a Clint, sempre disteso, le palpebre abbassate. Erano soli. Gli altri due uomini non erano ancora ricomparsi. Per tutto il pomeriggio era stata assillata da un interrogativo: chi era Tammy? Aveva bisogno di saperlo. Si fece forza. «Clint?» Lui aprì gli occhi e la guardò. «Sì?» «So che non vuoi parlare dei fatti tuoi, ma mi diresti una cosa? Quella bambina della foto...» Lui si raddrizzò con un sospiro esasperato. «Livia...» «Se non era tua figlia, chi era?» Clint appoggiò le braccia sulle ginocchia piegate. Per un lungo momento fissò il rigoglio verde della foresta. «Era la nipote di mia moglie, la bambina illegittima di sua sorella» spiegò con voce tesa. «Mia moglie e io l'abbiamo tenuta per un anno. E prima che tu mi chieda come mai, aggiungo che la madre non poteva occuparsene in quanto aveva parecchi problemi, legati al fatto che beveva.» Combaciava perfettamente con quel poco che le aveva detto Tammy. «E cos'è successo dopo quell'anno?» «La madre se l'è ripresa.» Tono incolore, privo di emozioni. Continuava a fissare gli alberi. «Così, semplicemente?» Allora la guardò. «No, maledizione!» Si passò irosamente le dita tra i capelli bagnati. «Credi che abbia rinunciato alla piccola senza muovere un dito? Che dopo averla amata e avuta con me per un anno me la sia lasciata portar via come se niente fosse? Ma che razza d'uomo credi che sia?» Pareva che una scintilla avesse innescato un gran fuoco. «Mi sono rivolto a tutti i tribunali possibili, mi sono battuto con le unghie e con i denti, ma non c'è stato niente da fare. Non avevo alcun diritto da accampare. Non ero il padre. Non ero neppure un parente, e mia moglie era morta poco tempo Karen van der Zee
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prima. La madre ha dichiarato di essere uscita dall'alcolismo, e di rivolerla. Così l'hanno affidata a lei. E da quel momento non ho più avuto una famiglia.» Scese dal masso e raggiunse la riva. Livia non lo imitò subito: l'osservò mentre si rivestiva, con gesti rigidi. Nella mente le echeggiavano quelle ultime parole. E da quel momento non ho più avuto una famiglia. La famiglia che lei aveva visto in fotografia: una moglie innamorata, una bimba felice. Scomparse. Tutto finito. Deglutì a fatica. Tornati accanto al fuoco, Clint preparò il tè e gliene offrì una tazza, apparentemente calmo, ma Livia avvertiva la tensione tra loro. Lui non avrebbe voluto parlare del passato, ma l'aveva fatto e adesso quei ricordi indesiderati erano tornati ancor più vividi. Livia si sentiva in colpa e non aveva più il coraggio di toccare quell'argomento. Sorseggiò il tè bollente sospirando una limonata con ghiaccio, ma quello era un desiderio irrealizzabile. Prese dallo zaino la crema disinfettante e ne svitò il tappo. «Fammi vedere» disse Clint allungando una mano. Livia gli consegnò il tubetto che lui esaminò. «Bah, in mancanza di meglio... Voglio dare un'occhiata alla gamba; appoggia il piede sul mio ginocchio.» «Posso fare da sola.» «Lo so, ma intendo controllare che non ci sia bisogno di qualcos'altro, invece.» Le esaminò tutt'e due le gambe. «Sei un po' malconcia» commentò. «Ti fanno male?» «Non tanto» mentì lei, decisa a non lagnarsi. I tagli bruciavano e pulsavano. «Niente di grave, comunque.» Cominciò a spalmare la crema, massaggiando con inattesa delicatezza. D'un tratto lei si sentì stremata, fisicamente ed emotivamente: era doloroso averlo così vicino e sapere che erano lontanissimi. Ricordare i momenti condivisi. Avrebbe voluto chiedergli scusa per tutte le cose orribili che aveva pensato di lui. Lo amava. Gli occhi le si riempirono di lacrime e dovette mordersi il labbro inferiore. Lui alzò lo sguardo. «Livia?» Il volto di Clint le appariva offuscato. Lei si guardò le mani che teneva intrecciate in grembo. «Scusami se ti ho fatto male» mormorò lui. Karen van der Zee
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Per un attimo si chiese se si riferiva alle gambe e se aveva intuito che quelle lacrime non avevano nulla a che vedere con il dolore fisico. «Non è nulla; sopravvivrò.» Ma non ne era del tutto convinta. Non riusciva a prender sonno. La base del pondok era dura e irregolare. Continuava a rivedere la faccia di Tammy, i suoi occhi speranzosi. E ne risentiva la voce: Mi aiuti a trovare il mio papà? E lui, l'avrebbe rivoluta, adesso? Ma come avrebbe fatto? Difficile inserire una ragazzina nella sua esistenza. Che ne sarebbe stato di Tammy? Come avrebbe reagito scoprendo che Clint non era suo padre? C'era un'altra possibile sistemazione per lei? Non ne vedeva. Clint era disteso accanto a lei, solo la sottile zanzariera li separava. Clint, che non aveva abbandonato la moglie e la figlia. Clint, che aveva amato una bambina non sua, che aveva fatto tutto il possibile per ottenerne la custodia dopo che sua moglie era deceduta. Era giunta a conclusioni erronee, emettendo giudizi prematuri sulla scorta di dati manchevoli: tutto ciò che una persona intelligente non avrebbe dovuto fare. L'emotività aveva preso il sopravvento e il raziocinio si era annullato. Non si era neppure fidata della sua valutazione di Clint: persona onesta, responsabile, con saldi principi. Si rigirò e la piattaforma scricchiolò. «Non stai dormendo?» bisbigliò Clint. «No.» E neppure lui, evidentemente. A giudicare dal ritmo del respiro le due guide invece erano immerse nel sonno. Lui imprecò tra i denti. «Livia, cerca di capire. Io non posso offrirti quello che cerchi. Tu non puoi restare qui e io non posso tornare indietro. Non posso prendere alcun impegno né con te né con altre donne.» «Perché no?» chiese in un sussurro sentendosi attanagliare il cuore da una morsa di disperazione. «Perché niente è duraturo. Perché io non sono capace di vivere pensando al futuro. La stabilità non fa parte della mia vita.» No, se non lo vuoi, replicò mentalmente Livia. Clint credeva che avesse affrontato quel viaggio per stare con lui. Be', perché avrebbe dovuto pensare altrimenti? Non gli aveva ancora spiegato il vero motivo. Poteva dirglielo adesso: Sono venuta a dirti che una ragazzina ti cerca. Una ragazzina convinta che tu sia suo padre. Vuole vivere con te nella foresta Karen van der Zee
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pluviale. Ma non riuscì a trovare la voce. «Dormi adesso, Livia.» Come se fosse tanto semplice. Ma alla fine scivolò in un sonno esausto, senza sogni, fino a quando i richiami striduli dei gibboni non la destarono. Clint si mosse al suo fianco. I due portatori avevano già lasciato il pondok e lei ne udiva le voci attutite. Un sottile raggio di sole dorato si insinuava attraverso il tetto di frasche. Clint si drizzò a sedere passandosi le dita tra i capelli. «Buongiorno» augurò. «Buongiorno.» «Come hai dormito?» «Bene.» Per quanto era possibile su un letto di rami. Era tutta indolenzita. «Come vanno le gambe?» «Funzionano. Ci spalmerò altra crema prima che ci rimettiamo in marcia.» Tutto molto cortese e civile. Lei aveva lo stomaco contratto, ma non per la fame: ricordava altre mattine in cui si era destata al fianco di Clint e si era sentita attirare contro il suo corpo. Lui la fissava con occhi imperscrutabili, ma Livia intuì che anche lui rammentava. Abbassò le palpebre per escludere il suo volto, sforzandosi di cancellare quei ricordi. Pochi momenti più tardi sentì che lui scendeva dalla piattaforma. Procedettero per tutto il giorno lungo un sentiero che seguiva il fiume, ormai ridotto a un torrente tumultuoso. Una marcia così spossante che lei non aveva la forza di parlare, e neppure la voglia. Avrebbe dovuto aspettare fino a quando fossero arrivati al villaggio, e poi trovare il momento adatto. Era accaldata, appiccicosa. La giungla le si chiudeva attorno soffocante: difficile respirare quell'aria pesante, satura di umidità. Sapeva che le guide si adattavano al suo passo lento, inesperto, ed era irritata dalla propria scarsa agilità. Eppure era circondata da tanta bellezza che a volte dimenticava i suoi crucci e si lasciava incantare dalle felci giganti, dalle fitte liane che si intrecciavano tra gli alberi, dalla miriade di funghi. Su in alto un baldacchino di fogliame impediva al sole di filtrare. I gibboni si lanciavano Karen van der Zee
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da un ramo all'altro imitati da una miriade di uccelli dai colori smaglianti. Giunsero al villaggio nel tardo pomeriggio e furono accolti con entusiasmo dagli abitanti che tornavano proprio allora dalle varie occupazioni. Fu una gioia vedere finalmente altre persone e il cielo azzurro sopra la radura dove sorgeva l'abitazione comune. Clint le mormorò: «Ti presenterò come mia moglie, per rispettare le convenienze». «Le convenienze? E perché mai?» «Dovrai alloggiare da me. Non ci sono altri posti, a meno che tu non voglia dormire con sei o sette ragazzini stipati in una stanza. A loro non darebbe il minimo fastidio ma forse a te sì, ho pensato.» Livia deglutì. «Grazie.» Clint la presentò a Pak Lampung, il capo, un uomo anziano, dignitoso, che le rivolse un'occhiata acuta, intelligente, e un sorriso cordiale. Livia ebbe il sospetto che non credesse affatto alla faccenda della moglie. Una frotta di bambini si accalcò attorno a loro e Clint prese dal suo zaino un sacchetto di caramelle e le distribuì ridendo e accosciandosi per chiacchierare con loro. Quando arrivarono sulla veranda, un uomo alto e biondo andò loro incontro con un ampio sorriso: quando posò lo sguardo su Livia si premette una mano contro il petto. «Ah! Una visione!» Un incubo, piuttosto, pensò lei: sporca, sudata, scarmigliata, un vero disastro. Ma accettò con una risata quell'accoglienza. «E dove hai trovato questa creatura celestiale?» chiese il biondo a Clint. «Non sapevo che l'avessi inserita nella lista delle provviste.» «Sai, le piccole sorprese della vita» replicò lui. «Livia, ti presento David Holloway, mio collega. David, questa è Livia Jordan. È qui di passaggio.» La mano che afferrò la sua era ruvida e decisa, gli occhi azzurri sorridevano. «Molto lieto di conoscerti, Livia.» Poi si voltò verso Clint. «Me ne avevi parlato, se non sbaglio. Non è la ragazza eclettica che sta ristrutturando la villa di tua nonna?» «Sì. E ufficialmente, qui, è mia moglie.» «Fortunato te.» David lasciò la mano di Livia. «Per quanto ti tratterrai?» «Fino all'arrivo del prossimo aereo dei rifornimenti» rispose lei, e David inarcò le sopracciglia, sorpreso. Poi Livia seguì Clint fino a una porta in fondo all'ampia veranda. Karen van der Zee
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Entrarono in un locale buio e lui andò subito a sollevare le stuoie che oscuravano le finestre. Livia si guardò attorno. Cumuli di libri e carte, un tavolo con una macchina per scrivere, ganci a cui erano appesi indumenti, ripiani carichi di scatole, barattoli, lattine e alcune bottiglie di whisky. Il pavimento era un semplice assito. Qualcuno arrivò a depositare il suo zaino e gli scatoloni delle provviste. Clint diede un'occhiata in giro. «Più tardi sposteremo qualcosa per far posto alla tua stuoia. Stasera siamo invitati dal capo. Qui c'è il bagno, se vuoi rinfrescarti. Prima di cena andremo al fiume.» Le mostrò lo stanzino isolato da una stuoia: un paio di assi mobili a celare un'apertura nel pavimento; un secchio d'acqua con un mestolo di plastica; una mensola che ospitava alcuni oggetti da toeletta e, appeso, un piccolo specchio. La serata fu una replica di quella trascorsa da Pak Ubang. La grande veranda era affollata, tutti chiacchieravano e ridevano. Venne servito il cibo insieme ad arak in abbondanza, poi la musica e le danze. Livia, intorpidita dalla stanchezza, si rifugiò nella stanza di Clint, fece spazio per la stuoia, montò la zanzariera e dopo essersi lavati i denti, si distese. Non desiderava altro. E dormì come un sasso. Quando si destò era infreddolita. Clint era già in piedi e aveva acceso il fuoco sul focolare. Dal bollitore si alzava un pennacchio di vapore. Livia non lo aveva sentito rientrare, quella notte. Si mise a sedere allontanandosi i capelli dal viso. «Buongiorno» disse lui. «Il caffè sarà pronto tra un minuto.» «Grazie.» Scostò la zanzariera. «Fa freddo... non l'immaginavo.» «Per via dell'altitudine, e poi stanotte ha piovuto. Non te ne sei accorta?» «No, ero stanchissima. Non ho sentito niente.» Riannodò il sarong e si accostò al fuoco. Clint mise del caffè liofilizzato nelle tazze e aggiunse l'acqua bollente. «Tra poco facciamo colazione con David.» Lei si limitò ad annuire e sorseggiò il caffè ascoltando gli svariati suoni della foresta che andava risvegliandosi. Fu un sollievo quando li raggiunse David, che alleggerì l'atmosfera con il suo sorriso spigliato. La colazione venne servita da una donna che si era assunta l'incarico di cucinare per i due ospiti occidentali. In seguito David tornò a lavorare nella sua stanza e Clint si preparò a Karen van der Zee
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uscire. «Rimarrò fuori tutto il giorno» annunciò senza dare altre spiegazioni. «Resta nei paraggi, non allontanarti per conto tuo, mi raccomando. Basta spingersi per pochi metri fuori dal sentiero e si rischia di perdersi.» Livia fu ben lieta di poter riposare. Quei tre giorni con la continua vicinanza di lui erano stati stressanti. La grande abitazione era silenziosa: quasi tutti gli uomini erano andati a occuparsi dei loro ladang, piccoli appezzamenti coltivati. Livia osservò una vecchia che pilava il riso servendosi di un lungo bastone, e giocò allegramente con i bambini. Si rese conto che era la prima volta che rideva, dopo giorni. Non era un pensiero piacevole: quando non si ride più vuol dire che le cose vanno male. Pranzò in compagnia di David: riso, pesce appena pescato, e verdure saltate. Lui le spiegò che stava studiando la medicina tribale. Aveva catalogato un numero enorme di piante le cui radici, foglie, infiorescenze e corteccia erano impiegate per la preparazione di farmaci, raccogliendone campioni e documentandone la preparazione e l'uso. Poco dopo pranzo arrivarono diversi uomini trasportando un cinghiale che avevano abbattuto. Livia si costrinse ad assistere alla macellazione, dicendosi che faceva parte della realtà del villaggio, ma non fu uno spettacolo piacevole. Poi i pezzi di carne vennero allineati su un graticcio posto su un gran fuoco fumoso, dove sarebbero rimasti fino al giorno dopo. Un ottimo sistema di conservazione. Nel tardo pomeriggio tutti rientrarono e si recarono al fiume per lavarsi. Verso il tramonto anche Clint arrivò e si recò subito a fare il bagno. Poi tutti e tre cenarono nell'alloggio di David e i due uomini parlarono del loro lavoro. David si sforzò di farla partecipare alla conversazione, ma Clint si limitava a essere educato e Livia provò un misto di risentimento e di disperazione. In seguito si unirono agli altri sulla veranda, dove i racconti di avventure erano la principale forma di intrattenimento. Quando poi tutti cominciarono a ritirarsi, Clint si alzò e Livia lo seguì nel suo alloggio. Lui accese una candela e una spirale verde antizanzare da cui si alzò una sottile voluta di fumo aromatico. Adesso erano soli e lei non poteva più rimandare. Sedette sulla sua stuoia, le mani in grembo. «C'è una cosa che devo dirti» cominciò a mezza voce. «Ho cercato di Karen van der Zee
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aspettare il momento adatto, ma non vedo come possa presentarsi, e quindi tanto vale che parli adesso.» «Di che cosa si tratta?» Lo fissò. «Tu sei convinto che io sia venuta qui per stare con te» proseguì in tono fermo. «È comprensibile.» «Non è così?» «No. Non mi sarei mai abbassata a tanto, Clint.» Lui l'osservò per qualche istante. «Qual è il motivo, allora?» Avrebbe preferito che lui si sedesse. «Si è presentato un probi... una situazione di cui dovevi essere informato e non si potevano lasciar trascorrere i due mesi necessari prima che ti arrivasse un telegramma. Così ho preso un aereo. Era l'unico modo per raggiungerti in breve tempo.» Lui si immobilizzò, e il suo volto perse ogni espressione. «Stai dicendomi che sei incinta?» le domandò impallidendo, con voce incolore. Livia lo guardò sbigottita. Non le era neppure passato per la mente che lui potesse pensare una cosa del genere. Scosse il capo. «No. Oh, no. Siamo stati attenti. Non abbiamo mai corso rischi.» «I rischi ci sono sempre» replicò lui. «Niente è mai del tutto sicuro.» Vero. Di colpo nella mente le si affollò una ridda di interrogativi. E se fosse stata incinta? Come avrebbe reagito Clint? «Se fossi in stato interessante, che cosa faresti?» Clint si passò una mano tra i capelli con gesto impaziente. «Non lo so, Livia. È una domanda ipotetica, a questo punto, e non ho voglia di pensarci. Qual è lo scopo di questa conversazione? Cosa c'era di tanto importante da costringerti ad affrontare questo viaggio?» Prese posto su una sedia accanto al tavolo. Lei ancora non sapeva bene come dirglielo, ma prese il coraggio a due mani. «Una tale si è presentata a casa tua, e con lei c'era Tammy. Ha detto che era ora che tu, in quanto suo padre, ti assumessi le tue responsabilità. La madre era deceduta poco tempo prima.» Lui sbiancò sotto l'abbronzatura. «Tammy?» ripeté con voce roca. Livia annuì. «È la bambina della foto, vero? Solo che adesso ha sei anni.» Per un attimo lui chiuse gli occhi. «Oh, mio Dio» sussurrò. Poi si controllò con uno sforzo. «Sua madre è morta?» Karen van der Zee
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«Sì. E una vicina di casa mi ha portato Tammy.» «Da dove venivano?» «Dalla Pennsylvania.» «Non sono riuscito a rintracciarle. Dov'è Tammy adesso? Dove l'hai lasciata?» «Presso Jack e Sara. Li hai conosciuti al mio compleanno. Hanno due bambine. Si troverà benissimo con loro. Avevano in programma di andare in campeggio e lei era entusiasta all'idea e...» si interruppe. «La donna che l'ha accompagnata ti ha detto che il padre ero io?» «Sì.» Clint ebbe una risata amara. «Dio, l'ironia del destino. Chissà come si è fatta quest'idea.» La madre di Tammy doveva averle detto che lui era il padre. E la medesima cosa aveva detto a Tammy, evidentemente. Come faceva altrimenti la ragazzina a sapere certe cose? «Perché la madre di Tammy avrebbe mentito?» «Perché non sapeva chi fosse il padre di Tammy, e probabilmente aveva bisogno di inventarsene uno. Io andavo a pennello: lontano e irraggiungibile. E Tammy? Cosa pensa?» «Che tu sia suo padre. E vuole abitare con te nella giungla. Sono parole sue.» Clint si passò una mano sul volto. «Ecco perché mi facevi tutte quelle domande» mormorò. «Già. E tu hai pensato che volessi frugare nel tuo passato per scoprire il recondito motivo per cui non mi volevi.» Lui trasalì. «Non è che non ti voglia, Livia. Per amor del cielo, dovresti saperlo.» Provò un tuffo al cuore. La voleva, ma non come intendeva lei. Non disse nulla. «E anche tu eri convinta che io fossi il padre di Tammy, immagino.» Livia si strinse nelle spalle. «Non avevo ragione di pensare altrimenti. Sono venuta qui decisa a dirti che razza di essere spregevole fossi, dato che eri capace di abbandonare tua figlia. Era un bel discorso, me l'ero preparato tutto.» Sulle labbra di Clint comparve l'ombra di un sorriso. «Dolente di averti delusa.» Si alzò sfregandosi il collo. «Com'è Tammy?» «È magrolina» cominciò dopo una breve esitazione. «Capelli biondi, Karen van der Zee
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piuttosto lunghi. Grandi occhi grigi.» Occhi consapevoli. Non gli occhi di una ragazzina. Clint le rivolse un'occhiata penetrante. Aveva notato quell'attimo di incertezza. «Cos'ha che non va?» Livia emise un sospiro. «Non è... non ha l'aria di una bambina trattata bene. Credo che abbia avuto una vita difficile.» Scorse un lampo di collera negli occhi di lui. Le mani si serrarono a pugno. Lui si volse e senza aggiungere altro uscì sulla veranda. Livia si preparò a coricarsi, poi si allungò sulla stuoia fissando il tetto di paglia e chiedendosi cosa stava pensando, provando, lui. Nei giorni immediatamente successivi lui rimase seduto davanti alla macchina per scrivere, a pestare per ore sui tasti della vecchia portatile. Quasi non si mosse dal suo alloggio; quasi non rivolse la parola a Livia. La sera si ritirava tardi, quando immaginava che lei dormisse. Gualche volta era così, altre, no. «Posso fare qualcosa per te?» gli aveva chiesto, ma lui aveva risposto di no. Ebbe maggior successo con David, ben lieto che lei riguardasse certi suoi scritti o ricopiasse a macchina i fogli corretti. Oltre al materiale concernente la flora locale, aveva raccolto numerose leggende, credenze e superstizioni riguardanti le malattie. Livia le leggeva, affascinata, e poi ne discuteva con lui a pranzo. Clint diceva ben poco: mangiava rapidamente e poi tornava subito nel suo alloggio. «Non è di umore lieto» commentò David un pomeriggio. «Pensavo che sarebbe stato felice di averti qui.» «No, per niente.» «La maggior parte delle ragazze che conosco mi prenderebbe per matto se le invitassi a raggiungermi qui. Tu hai un bel fegato, Livia.» «Più fegato che buonsenso, probabilmente» osservò lei con un sorrisetto storto. Quella sera, dopo cena, Clint la seguì nell'alloggio. «Ho bisogno di chiederti alcune cose» esordì cacciandosi le mani in tasca. «Quella tale che ti ha consegnato Tammy... cos'ha detto precisamente?» La domanda la colse di sorpresa: Clint non aveva più parlato di Tammy dalla sera in cui lei lo aveva messo al corrente. La donna aveva detto ben poco, non le ci volle molto a riferire. «Ha spiegato di che cosa è morta la madre di Tammy?» Karen van der Zee
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«No. Tammy ha accennato al fatto che doveva occuparsi delle pulizie di casa perché sua madre spesso non stava bene.» «Facile capire perché. Immagino che si sia riattaccata alla bottiglia.» La voce era dura e gli occhi lontani. «Tammy ha un orsacchiotto» sussurrò Livia. «Ha detto che è un regalo del suo papà.» C'era qualcosa di terribile nello sguardo di lui, un misto di dolore e collera. «Cos'altro aveva con sé?» «Poca roba. Qualche indumento, un'istantanea tua insieme a lei, quando cominciava appena a camminare.» «Cos'altro ha detto di me? Cosa sa? Era troppo piccola perché possa ricordare.» «L'ho sentita parlare al suo orsacchiotto, prima di addormentarsi. Diceva che tu sei un famoso scienziato che fa un lavoro molto importante e che un giorno saresti tornato.» Deglutì per sciogliere il nodo che le si era formato in gola. «Credo che abbia intessuto un'infinità di fantasie attorno a te.» Clint picchiò un pugno contro la parete, poi vi appoggiò la fronte. «Devo tornare per sistemare le cose. Sei sicura che si trovi bene con tuo fratello e tua cognata, per ora?» «Non potrebbe essere in mani migliori. La terranno per tutto il tempo necessario e le offriranno tutto l'affetto possibile.» Clint la fissò negli occhi. «Grazie per esserti data tutta questa pena, Livia. Te ne sono molto grato.» Lei rivide la faccetta seria di Tammy, i gravi occhi grigi, e ne risentì la voce ansiosa: Mi aiuti a ritrovare il mio papà? «Non avrei potuto fare altrimenti.» «Oh, sì invece. Avresti potuto affidarla all'assistenza sociale e lasciare che pensassero loro a rintracciarmi. E, sapendo che non sono il padre, quelli magari non si sarebbero messi in contatto.» «Che cosa intendi fare?» «Torno indietro a definire la situazione. Prenderò il primo aereo. Puoi partire con me.» Il giorno seguente David le chiese se voleva andare con lui a raccogliere certi rari esemplari che aveva individuato nella volta formata dai rami più alti. Livia accettò volentieri: aveva voglia di fare un po' di moto. Quella marcia di due ore non era certo una fatica, e farsi sollevare su in alto da un Karen van der Zee
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sistema di funi e carrucole fu un'esperienza entusiasmante, anche se un po' pericolosa: si trovò in un mondo tutto diverso, tra piante e animali che non toccavano mai terra. David era un compagno piacevole, pronto a rispondere a tutte le sue domande. Tornarono all'abitazione comune a metà pomeriggio e lei andò subito a nuotare con alcuni ragazzini, poi tornò, rinfrescata, all'alloggio. Stava asciugandosi i capelli quando arrivò Clint che non era affatto di buonumore, anzi: sembrava decisamente furibondo. «Ti avevo detto di restare al villaggio, di non allontanarti!» sbottò. «E tu che cosa fai? Te ne vai a zonzo nella foresta per tutta una giornata!» Livia non riusciva a credere alle proprie orecchie. «Non sono andata a zonzo. C'era David con me.» «Io sono responsabile della tua sicurezza e non voglio che ti allontani!» Si sfilò bruscamente la maglietta. «Non sono affidata a te, sono venuta qui per conto mio. E non sono un'idiota.» Lui buttò la maglietta sulla sedia. «Sei salita fino alla volta della foresta! Come la chiami una simile impresa?» «Avventura» replicò lei cercando di mantenere la calma. «Ed è stata un'esperienza straordinaria.» Clint la fissò con occhi di fuoco. «Rischiosa e scriteriata, dico io! E un'altra cosa: hai già fatto perdere abbastanza tempo a David. Ti sarò grato se d'ora in poi lo lascerai in pace, in modo che possa andare avanti con il suo lavoro.» Lo fissò sbalordita, sentendo montare la collera. «Vorresti dire che gli impedisco di fare quel che deve?» «Meglio che non lo disturbi, ecco.» «Secondo me David è perfettamente in grado di gestirsi autonomamente. E se trascorro del tempo con lui, è perché lui gradisce la mia presenza. Il che è più di quanto si possa dire di te!» Adesso tremava di rabbia. Gli volse le spalle, decisa ad andarsene, ma Clint l'afferrò per un braccio e la costrinse a girarsi nuovamente. Per un lungo momento vibrante si fissarono in silenzio, furiosi. Poi lui allentò la stretta e la tensione mutò impercettibilmente, la collera si trasformò in qualcosa di più pericoloso, più subdolo. Livia cominciò a tremare, incapace di muoversi, di pronunciare parola. L'assito cigolò. Dall'esterno giunse il canto acuto di un uccello. Tutt'attorno a loro aleggiava il profumo intenso della giungla: primitivo, pulsante di vita. Karen van der Zee
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9 La mano di Clint si sollevò a sfiorarle la guancia. «Livia?» Un sussurro rauco. Il fuoco nero che ardeva nei suoi occhi la fece fremere di una smania dolorosa e di spavento di fronte al cupo desiderio che si destava in lei. Lo fissava negli occhi come ipnotizzata. «Sì» bisbigliò. Le dita di lui si mossero a sciogliere il sarong. Lei ebbe un brivido mentre il morbido tessuto scivolava via accarezzandole il corpo prima di afflosciarsi sul pavimento. Rimase ferma, nuda di fronte a Clint, e poi si sentì attirare contro di lui mentre le loro bocche si incontravano con una passione tanto intensa da cancellare ogni volontà. Clint si liberò degli short senza staccare le labbra dalle sue, e insieme si allungarono sulla stuoia. Il respiro di Livia era breve e rapido, tutto il suo corpo pulsava di un ritmo antico, mentre Clint le baciava il seno e le sue mani la percorrevano. Si sentiva catturata da una forza primitiva e selvaggia. Non c'era possibilità di tornare indietro. Ogni pensiero, ogni senso del tempo era stato annullato. Lui si allontanò e si sollevò a sedere, addossato alla parete. Anche Livia si tirò su allacciando le braccia attorno alle ginocchia ripiegate e posandovi la fronte. Era invasa da una terribile desolazione. Lo amava. Sarebbe dovuta essere la cosa più bella del mondo e invece provava una disperazione impotente, un desiderio doloroso di piangere. Clint non la ricambiava. Fece un lungo sospiro tremulo. No, nessuna lacrima. Data la fortissima tensione tra loro, era inevitabile che accadesse quanto era accaduto. E lei l'aveva desiderato. Sentì la mano di Clint che si posava brevemente sul suo capo, poi lui si alzò. L'assito ebbe un cigolio e pochi istanti più tardi lui era uscito. «Vado a dormire nella stanza di David» le comunicò quella sera. «Avrei dovuto farlo prima.» Livia si limitò a fissarlo in silenzio. «Non guardarmi così, per favore.» Il volto gli si contrasse. «Non Karen van der Zee
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possiamo lasciare che accada di nuovo. E per diverse ragioni: tanto per dirne una, non c'è una farmacia girato l'angolo e io non voglio giocare d'azzardo con il destino. Non me la sento di correre certi rischi.» «Ma cosa credi?» reagì lei. «Che non mi ponga certi problemi, che sia un'incosciente?» «Allora puoi capire perché preferisco andare a dormire altrove» replicò Clint calmissimo. Raccolse la sua roba e varcò la soglia. Livia si coprì il volto con le mani. Altre due notti e poi avrebbero iniziato la marcia di ritorno. Due giorni attraverso la giungla e un altro in barca lungo il fiume. Poi il piccolo velivolo dei rifornimenti li avrebbe portati via. Le pareva di vivere un incubo. La sera prima della loro partenza ci fu una festa d'addio con musica, danze e arak in abbondanza. Livia ne prese solo pochi sorsi: avrebbe avuto bisogno di tutte le sue energie per quel che l'attendeva. All'alba del giorno seguente si misero in cammino accompagnati da due uomini che reggevano un carico di merci da vendere o scambiare: nidi di uccelli, essenze aromatiche ed erbe medicinali che in seguito sarebbero giunte sui vari mercati dell'Oriente. Clint era più distante che mai: parlava pochissimo ed era assorto in pensieri che, a giudicare dalla sua espressione, non dovevano essere lieti. Livia si sentiva sola ed esclusa. Una miriade di luci colorate brillava giù in basso, nella notte: il miracolo dell'elettricità in tutto il suo splendore, Hong Kong. Livia contemplava quella vista dal finestrino del jet, in attesa che l'apparecchio atterrasse all'aeroporto Kai Tak. I grattacieli si fecero vicinissimi, mentre l'aereo puntava verso la pista toccando poi il suolo quasi senza sobbalzi. Un'elegante berlina li depositò all'albergo extralusso dove ricevettero un'accoglienza principesca. Ma lei non si sentiva esattamente una principessa, in pantaloni e camicetta di cotone alquanto spiegazzati. L'atrio, tutto a vetrate enormi, alte tre piani che si affacciavano sul porto, era una visione mozzafiato. Aveva protestato quando Clint aveva prenotato al Regent telefonando dalla casa di un amico, a Balikpapan, dove avevano fatto tappa per una Karen van der Zee
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notte. «Ci sono alberghi meno costosi ma, nonostante ciò, dotati di ogni comodità.» «Non preoccuparti, offro io» aveva replicato lui. «Ma non è il caso! È eccessivo.» «Ma quanto mai piacevole. Dove hai dormito nelle ultime settimane?» «Su una stuoia.» «Appunto. E domani sera ti troverai su un fantastico letto in una stanza sibaritica con annesso bagno in marmo, munito d'impianto per idromassaggio e con una bottiglia di champagne a portata di mano.» Di fronte a tale vivida descrizione aveva ceduto, ma rifiutando di trattenersi per due notti: dovevano rientrare. Una notte sarebbe bastata. «Hai bisogno di riposare, Livia» era stata la risposta. «Sei sfinita. Per favore, non è il caso che tu ti metta a discutere.» Si era arresa, anche perché probabilmente lui aveva ragione. Trascinarsi attraverso la foresta pluviale per due giorni non era una passeggiatina nel parco, e un intero giorno in barca sul fiume non era quel che si dice rilassante. Così adesso erano lì, circondati da un lusso sfrenato. Come cadere in una breccia spazio-temporale, come svegliarsi su un altro pianeta. Vennero accompagnati in una suite con due camere da letto, e anche questo le parve incredibile: tutta una stanza per lei sola. All'abitazione comune avevano dormito nello stesso alloggio, e poi fianco a fianco sui pondok in mezzo alla giungla, e adesso avevano un loro spazio personale con un ampio letto e una porta che poteva escludere il mondo esterno. Per certi versi era un gran sollievo. Poco dopo arrivò un carrello: tè, dolci e frutta, presentati con grande eleganza. Prese un cioccolatino: paradisiaco. Ma adesso ciò che desiderava di più era un lungo bagno nell'enorme vasca con idromassaggio, con la vista del porto offerta dalle finestre panoramiche del bagno. Prima che potesse ritirarsi in camera sua, però, ci fu un colpetto all'uscio. Clint andò ad aprire e si illuminò in volto. Comparve una donna: alta, affascinante, con un bellissimo volto incorniciato da una folta massa di capelli castani. Indossava un abito da sera lungo, nero e bronzo. Il sorriso rivelò denti perfetti mentre lei gettava le braccia al collo di Clint che ricambiò l'abbraccio baciandola sulla guancia. Karen van der Zee
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«Non ce l'hai fatta a resistere, vero?» chiese lui con un sogghigno. «Proprio no! È una gioia rivederti.» Aveva una voce morbida, melodiosa. Si rivolse a Livia tendendole una mano elegante dalle unghie smaltate. Gli occhi verdi erano apertamente curiosi. Clint la presentò come Aurora Dunbar e Livia sorrise educatamente sentendosi molto incolore e sciatta di fronte a quella creatura profumata e prestigiosa. Il che era comprensibile, dopo due settimane trascorse nella giungla. Stava andando a un party, spiegò Aurora, ma le era venuta l'idea di passare a salutare. L'indomani sera avrebbe dato un ricevimento e loro dovevano partecipare. Clint annuì. «D'accordo, non accamperò scuse.» «Ho fatto recapitare i tuoi vestiti» aggiunse Aurora. «Li hai trovati?» Sì, certo. Livia si domandò quante serie di abiti avesse appesi in vari armadi in giro per il mondo. Anche nella casa del suo amico di Balikpapan, Clint aveva lasciato una scorta di indumenti: un completo leggero, un paio di calzoni, una giacca sportiva, alcune camicie e due paia di scarpe. Nella giungla tutto ciò che non veniva usato e lavato regolarmente diventava verde di muffa o veniva corroso dai numerosi insetti e dai microrganismi. «Bene, adesso vi lascio» concluse Aurora. «Riposatevi, fatevi fare un massaggio e domani sarete come nuovi.» Sorrise a Livia. «Muoio dalla voglia di sentire le descrizioni del nascondiglio di Clint nella foresta.» E con un ultimo cenno di saluto scomparve oltre la porta lasciando dietro di sé una lieve scia di profumo. Livia desiderava solo togliersi quegli abiti di dosso e immergersi nell'acqua. Aspirazione che venne soddisfatta pochi minuti più tardi. La stanza da bagno era rivestita di marmo rosato e una parete era quasi interamente a vetri. Lei sedeva nell'enorme vasca, accarezzata dall'acqua spumeggiante, e si godeva il panorama del porto con tutte le luci delle varie imbarcazioni e lo sfondo degli edifici altissimi. Tre quarti d'ora più tardi, avvolta nel morbido accappatoio messo a disposizione dall'albergo, comparve nel soggiorno. Clint era intento a scrivere e non alzò neppure lo sguardo. Lei ne osservò la testa china domandandosi su che cosa fosse tanto concentrato. «Avrei bisogno di sapere a che tipo di ricevimento siamo invitati. Come devo vestirmi?» Lui le rivolse un'occhiata aggrottando la fronte. «Abito da sera. Karen van der Zee
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Elegante.» «Magnifico. Proprio quel che mi sono messa nello zaino per scapicollarmi nella giungla del Borneo.» «Comprati qualcosa domani. Ti darò del denaro.» Lo guardò a bocca aperta. Quell'atteggiamento paternalistico era quasi comico. «Siamo negli anni Novanta. Dispongo di soldi e mi pago i vestiti per conto mio.» «Ma ti ho messo io in questa situazione» osservò Clint. «Mi ci sono messa da sola. E non sono tenuta a partecipare a questo ricevimento, se non ne ho voglia. Neanche so chi sia quella tale, e quindi non ho obblighi.» «No, ma dovrebbe farti piacere. Non sono molti quelli che ricevono un invito dai Dunbar.» Il tono era chiaramente divertito. «Molto interessante. Chi è quella tale?» «Una vecchia amica. Fa la psicologa e suo padre è un potente uomo d'affari con pulsioni filantropiche.» Le venne da dire: Farò il possibile per non causarti imbarazzo, ma si trattenne. Non era il caso di avere reazioni puerili. Clint accennò al carrello. «Ho ordinato qualche altra cosa. Serviti, se hai fame.» Tornò a occuparsi di quanto stava scrivendo. C'erano dei panini, formaggi assortiti, salmone affumicato e pàté francese. Livia diede un'altra occhiata a Clint: non si era cambiato né aveva fatto la doccia. In che cosa era tanto assorto? Di sicuro non intendeva mangiare con lei: troppo occupato. Ogni voglia di cibo scomparve. «Grazie, non ho appetito.» Clint rialzò il capo. «Vorrei telefonare a tuo fratello e a tua cognata» riprese, come se non l'avesse sentita. «Ti spiace darmi il loro numero?» Non spiegò perché voleva chiamarli, ma Livia immaginò che intendesse annunciare il suo ritorno negli Stati Uniti. «Posso farlo io, se vuoi.» «Grazie, non è il caso.» Perché era cosa che riguardava lui, era il sottinteso. Gli fornì il numero e Clint allungò una mano verso l'apparecchio. Livia tornò nella sua camera, ma anche attraverso la porta chiusa le giungeva la sua voce indistinta. Poco dopo Clint la chiamò. «Sara desidera parlarti.» «Ciao» disse nel ricevitore. Karen van der Zee
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«Finalmente ti sento! Mi chiedevo se non ti fossi persa nella giungla finendo divorata dalle tigri.» Lei si mise a ridere. Poi chiese: «Come sta Tammy?». «Ottimamente. Ma morde il freno e non vede l'ora che il suo papà arrivi. Adesso mi sento molto più sollevata; continuavo a chiedermi che cosa le avrei detto se lui avesse deciso di non rientrare.» Livia provò una specie di brivido. Dunque Clint non aveva accennato al fatto che Tammy non era sua figlia. Forse non aveva voglia di parlarne: dopotutto conosceva appena Sara. «Saremo lì entro un paio di giorni.» «Come ha preso la notizia?» «Non so.» Non poteva parlare liberamente, con Clint nella stanza accanto e col pensiero che se lui avesse voluto informare Sara l'avrebbe fatto personalmente. Sua cognata intuì. «Bene, speriamo che tutto si risolva per il meglio. Adesso dimmi di Hong Kong. Dove siete?» Dopo alcuni minuti Livia riagganciò e poco dopo Clint ricomparve nel soggiorno. «Che cosa intendi fare?» gli chiese. «A che proposito?» «A proposito di Tammy.» Lui si accigliò, spazientito. «Livia, non posso decidere niente finché mi trovo all'altro capo del mondo. Non so quale sia la situazione legale. Ho bisogno di parlare con un avvocato.» Sì, naturale. Livia serrò i denti. Tutto così razionale, così logico, come se si trattasse di una questione di affari e non del destino di una ragazzina di sei anni piena di sogni. Detestò Clint per tutto quel suo freddo controllo. Si volse. «Vado a dormire. Buonanotte.» «Buonanotte, Livia.» Si svegliò alcune ore più tardi sentendo delle voci nel soggiorno, poi silenzio. Guardò la sveglia sul comodino: quasi le quattro. Indossò una vestaglia e aprì la porta: Clint era seduto in poltrona con una tazza di caffè in mano. Era ancora vestito, le maniche della camicia arrotolate, spettinato e con l'aria stanca. «Non sei andato a letto?» gli domandò sconcertata. «Ti ho svegliata? Scusa.» Depose la tazza e si passò una mano sul volto. «Dovevo fare delle telefonate.» Karen van der Zee
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Negli Stati Uniti, probabilmente, dove era pomeriggio. E con chi aveva parlato? Con l'assistenza sociale? Con un avvocato? Avrebbe voluto chiederglielo ma non osò. Non erano affari suoi e lui aveva messo bene in chiaro che lei non doveva ficcare il naso nelle sue questioni personali. «No, non ti ho sentito» mormorò allontanandosi i capelli dalla faccia. Clint accennò alla sua camera da letto. «Ero di là. Ho ordinato del caffè e sono venuti a portarmelo.» Si alzò avvicinandosi al carrello e riempì di nuovo la tazza. «Torna a dormire, Livia.» Torna a dormire. Lasciami in pace. Non disturbarmi. Non ti voglio. Fece uno sforzo per evitare di dire cose di cui avrebbe potuto pentirsi. Si ritirò nella sua stanza e per fortuna scivolò di nuovo nel sonno, per ridestarsi la mattina seguente alle otto passate. Avrebbe dovuto riposare, ricuperare le energie in vista del lungo volo fino a Washington, ma naturalmente non era pensabile restarsene in camera sua tutto il giorno mentre si trovava a Hong Kong! Si stiracchiò voluttuosamente nel grande letto esaminando le possibilità che le offriva la giornata. Quella sera ci sarebbe stato il ricevimento della prestigiosa Aurora, dunque per prima cosa aveva bisogno di un abito da lasciar tutti di sasso. E per l'appunto si trovava nel paradiso degli acquisti! L'albergo disponeva di molte boutique di lusso per la comodità degli illustri clienti. E proprio accanto c'era il World Trading Center, con centinaia di negozi. A semplificare ulteriormente le cose, lei aveva con sé un magico tesserino di plastica che le permetteva di realizzare ogni sogno... almeno così affermavano gli spot televisivi. Ma non si faceva mai cenno agli incubi che potevano arrivare quando si trattava di pagarli, quei sogni. Comunque lei aveva una chiara idea della sua situazione finanziaria e concluse che poteva permettersi qualche follia. Saltò giù dal letto. «Hong Kong, arrivo!» Indossò una camicetta senza maniche e dei leggeri pantaloni di cotone. Niente di straordinario, ma adatti a celare i graffi e i segni di punture sulle gambe. Ricordando il consiglio di Aurora, fissò per telefono un appuntamento per un massaggio, nel pomeriggio, e un altro presso l'istituto di bellezza: parrucchiere, estetista, manicure. Quell'albergo aveva su di lei un effetto depravante, si disse con un sorrisetto. Clint non si trovava nel soggiorno. La porta della sua camera era socchiusa e Livia diede una rapida sbirciata: era abbandonato sul letto, coperto fino alla vita dal lenzuolo. Chiuse l'uscio senza far rumore. Karen van der Zee
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Prima di mezzogiorno aveva trovato l'abito che voleva. Si guardò nello specchio e sorrise. Perfetto! Era lungo e aderente, di un tessuto di seta a disegni orientali che risplendevano di vividi colori: ametista, zaffiro, acquamarina, turchese e smeraldo. Le lasciava le spalle nude e lei era incerta sull'opportunità di collana e orecchini. «No, non occorre nulla» dichiarò l'esperta commessa. «Un vestito come questo non richiede altro.» Livia sorrise e accettò il consiglio che, tra l'altro, le avrebbe evitato incubi finanziari. Poi fu la volta di un paio di sandali da sera, biancheria di pizzo, vergognosamente frivola, e un flacone di profumo da vertigine peccaminosa. Uno scialo incredibile, e non era da lei, ma perché non lasciarsi andare una volta tanto, avendone il motivo? Il motivo. Ma quale? Perché quegli acquisti? Per suo piacere? Per competere con l'affascinante Aurora? Per far colpo su Clint? Gli acquisti sarebbero stati recapitati all'albergo e adesso, con alcune ore a disposizione prima degli appuntamenti fissati, decise di andarsene un po' a zonzo. Avrebbe dovuto fare un sonnellino, ma scartò l'idea. Avrebbe dormito l'indomani, sull'aereo. Ah, le strade di Hong Kong! La gente, i rumori, gli odori! Le insegne variopinte con le scritte in cantonese e in inglese; un brulicare di persone che parlavano, ridevano, comperavano, vendevano, mangiavano, bevevano tè, giocavano a mahjong, predicevano il futuro. Erano passati cinque anni da quando era venuta a Hong Kong in compagnia di Lars: un biondo gigante norvegese che aveva conosciuto a casa dei suoi, a Kuala Lumpur, dove trascorreva le vacanze durante l'università. Ah, Lars! Sorrise al ricordo. Era così innamorata, e quei giorni vissuti con lui a Hong Kong, prima di tornare al college negli Stati Uniti, erano stati indimenticabili. Avevano fatto tutti i debiti giri turistici: escursione in cima al Victoria Peak, giro del porto in battello, visita ai templi e al mercato delle giade. Avevano assaggiato cibi esotici ai banchetti per strada e, naturalmente, si erano fatti predire il futuro. Si sarebbero sposati, avrebbero avuto quattro bambini, sarebbero diventati molto ricchi e avrebbero vissuto felici per sempre. A volte anche i cinesi si sbagliano. La loro relazione era stata eccitante, romantica, ma priva di radici profonde, come era risultato chiaro quando Karen van der Zee
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avevano seguito le loro diverse strade: il tempo e la distanza avevano presto annullato il sentimento e non si erano più rivisti nonostante tutte le loro sincere intenzioni. A volte andava così. Le si ripresentò il volto di Clint. Dopo che era partito per tornare nel Kalimantan, non era passato un giorno senza che pensasse a lui con dolorosa nostalgia; senza la speranza che lui cambiasse idea e le dicesse che l'amava, che non poteva vivere lontano da lei. Tempo e distanza non avrebbero mai cancellato quel che provava. E chi era quell'Aurora? La donna presso cui Clint aveva lasciato degli abiti? Un'amica, aveva detto. Un'amica che li aveva invitati a un party. Una donna non trovava posto nel suo tipo di vita, aveva dichiarato Clint. A maggior ragione una creatura mondana come Aurora. Perché allora il suo istinto era in allarme? Forse era la sua amante di Hong Kong. Forse Aurora non pretendeva un rapporto definitivo. Forse avevano un rapporto libero che andava bene a entrambi. Come quello che aveva avuto con lei: niente legami, niente impegni. Ricacciò quei pensieri molesti in un angolo della mente, da dove senza dubbio sarebbero riemersi ad agitarla in futuro. Ma non adesso, non lì. Mentre percorreva le strade affollate sentì a poco a poco tornare l'entusiasmo. Tutto così insolito, pittoresco: botteghe dove si vendevano serpenti, frutta, cesti, erbe e radici essiccate, spezie, medicine, cosmetici, anatre affumicate... un continuo alternarsi di colori e profumi tra l'andirivieni e il chiacchiericcio continuo. Era tutto molto affascinante e divertente ma a un certo punto cominciò a sentirsi stanca. Mangiò qualcosa a una bancarella e prese la strada del ritorno. «... Senz'altro, puoi contare su di me» stava dicendo una voce femminile mentre Livia apriva la porta della suite. Clint sedeva sul divano e accanto a lui c'era Aurora, sempre splendida, con una corta gonna bianca e una camicetta di seta blu pavone. I capelli castani le ricadevano sulle spalle in morbide onde curatissime. Maledizione, che cosa ci faceva lì? Sul carrello notò i resti di un lauto pasto e una bottiglia di vino rimasta a metà. Be', salvo che non ce ne fossero altre, ormai vuote, non poteva Karen van der Zee
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accusarli di bere smodatamente. «Salve» l'accolse Aurora sorridendo. Livia ricambiò briosamente saluto e sorriso. Clint osservò in tono vagamente divertito che immaginava fosse andata a far spese, visto che poco prima avevano consegnato diversi pacchi. Accennò alla camera di Livia. «Sono là dentro.» «Grazie.» Passò nella sua stanza richiudendo la porta e si buttò sul letto. Era sfinita. Ma anche invasa da una rabbia impotente. Che ci faceva lì quella donna? Era gelosa. Naturale che lo era. Non le piaceva affatto che Clint fosse in compagnia di un'altra, che avessero pranzato insieme... una donna che aveva incredibili occhi verdi e una bocca voluttuosa. E, a peggiorare le cose, una donna che si mostrava perfettamente amichevole e cordiale: non poteva neppure prendersi la soddisfazione di odiarla. Avrebbe voluto urlare. Invece si mise sotto la doccia e pianse. Poi si infilò l'unico abito che aveva portato con sé preparandosi ad andare ai diversi appuntamenti presso l'istituto di bellezza. Quella sera voleva far faville. Difatti. Si esaminò allo specchio un'ultima volta, prima di passare nel soggiorno dove Clint l'aspettava. Il massaggio l'aveva rimessa in sesto, fisicamente e moralmente. Aveva il volto disteso, la pelle levigata, i capelli morbidi e lucenti come seta. E il vestito era a dir poco eccezionale. Lungo fino alle caviglie, metteva in giusto risalto tutte le curve. Non si era mai sentita così chic e sexy. Qualche goccia di profumo in punti strategici e un lungo respiro per distendere i nervi. Aprì la porta. Clint era davanti alla grande finestra panoramica, a contemplare la vista sul porto. Indossava pantaloni neri e una giacca bianca da smoking di taglio impeccabile. Si volse sentendola entrare e la osservò in silenzio. Lei trattenne il respiro. «Santo cielo, Livia» mormorò lui dopo un breve silenzio. «Sei... sei splendida.» Per un attimo nei suoi occhi comparve una luce ben nota, poi svanì. «Grazie.» Anche la sua voce era diversa. «Una donna dai molti aspetti» continuò Clint. «Jeans, sarong, e adesso quest'abito incredibile.» Ebbe un lieve sorriso. «La prima volta che ti ho Karen van der Zee
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vista eri in camicia da notte, a piedi nudi, e sembravi un angelo.» «Tu sembravi il diavolo.» «Forse è quel che sono» replicò lui. Ma adesso non aveva nulla di demoniaco. Era di straordinaria bellezza in quella perfetta tenuta formale, coi capelli accorciati, il volto ben rasato, e quella scintilla di desiderio negli occhi scuri. Allungò una mano come per toccarla, ma interruppe il gesto. «Sei pronta?» Di nuovo perfettamente controllato, distante, freddamente cortese. Livia deglutì. «Sì.» Il party era organizzato in un albergo sull'isola di Hong Kong ed era davvero un ricevimento in grande stile. «Non credevo che ti interessassero simili riunioni mondane» commentò lei. «Pensavo che nella sostanza fossi un uomo della giungla.» «Infatti» confermò Clint, divertito. «Ma Aurora mi ha supplicato, e come potevo dir di no?» «Non mi sembra tipo da trovarsi mai nella necessità di supplicare. Come mai sei venuto qui?» «Aurora ha degli amici che tengono molto a conoscere un uomo della giungla. Intendono produrre una serie di documentari per la TV sulla vita delle tribù indigene che vivono in simbiosi con il loro ambiente naturale.» «E tu naturalmente sarai ben felice di parlare con loro» concluse Livia. Lui ebbe un mezzo sorriso. «Naturalmente.» Il ricevimento, come Livia scoprì poi, non era solo una brillante occasione in cui le persone più facoltose e importanti di Hong Kong si ritrovavano per mangiare, bere e parlare d'affari. La finalità era la raccolta di fondi per un'iniziativa di pubblico interesse promossa dal padre di Aurora: la ristrutturazione di un intero quartiere in degrado. Livia, data la sua attività, conosceva bene tutti i problemi connessi a simili imprese e fu in grado di parlarne da professionista. Aurora, luminosamente vestita di bianco, era un'ospite perfetta. Li presentò a diverse persone e chiacchierò molto con Clint. Era chiaro che le piaceva la sua compagnia, e lo stesso valeva per lui. Ridevano spesso insieme. Livia era quanto mai depressa. Non avrebbe dovuto partecipare a quel party. Non era all'altezza. Un tempo lei e Clint avevano riso spesso. Avevano chiacchierato, si erano trovati bene insieme. Pareva che non Karen van der Zee
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restasse più nulla di quel periodo felice. Lui non la voleva con sé. Doveva rassegnarsi. Si allontanò da Clint circolando per conto suo tra gli altri invitati. Sorrise, chiacchierò, rise e bevve champagne. Era ancora presto quando Clint venne a cercarla. «Meglio che ci congediamo. Dobbiamo alzarci di buonora, domani.» A Livia non dispiacque andarsene. Aurora la salutò affettuosamente e poi abbracciò Clint. «Ci vediamo presto» gli disse con un sorriso.
10 Era quasi mezzanotte quando, la domenica, risalirono il viale d'accesso a bordo dell'auto che Clint aveva noleggiato all'aeroporto Dulles di Washington. Livia era stanca, stordita, e si sentiva svuotata. Per tutta la durata del lungo volo si era sforzata di non pensare, di non risentire quelle ultime parole di Aurora, di non sentirsi ferita dall'atteggiamento riservato di Clint che si mostrava cortese ed educato ma nulla di più. Un estraneo. Quando avevano parlato lui aveva toccato solo argomenti impersonali. Neppure una volta aveva pronunciato il nome di Tammy. Quando Livia pensava a Tammy i suoi problemi sentimentali venivano subito relegati in secondo piano: quelli della ragazzina erano molto più gravi. Ritrovarsi soli al mondo a sei anni era un destino crudele. Se solo avesse potuto far qualcosa... Ma Clint non le aveva detto nulla delle sue intenzioni, non aveva chiesto la sua partecipazione. A San Francisco avevano dovuto aspettare per alcune ore e Clint l'aveva guidata nella sala d'attesa dei VIP, dove era rimasto sempre attaccato al telefono mentre lei sfogliava giornali o guardava la TV. Adesso finalmente erano a casa. La luce del portico era accesa, come pure la piccola lampada nell'ingresso: venivano comandate dall'interruttore a tempo installato da Livia. Anche lì, in quella zona rurale, non era opportuno che una casa risultasse ovviamente disabitata. All'interno si avvertiva l'odore impersonale della vernice fresca. Clint accese altre luci guardandosi attorno con interesse. «Sei andata parecchio avanti coi lavori. È molto bello.» «Grazie.» Si diresse verso le scale trascinandosi appresso lo zaino. «Vado a dormire. Buonanotte.» Karen van der Zee
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«Buonanotte, Livia.» L'indomani mattina non lo vide. Aveva lasciato un biglietto sul tavolo della cucina: non sapeva quando sarebbe rientrato ma che non lo aspettasse per cena. Livia scaldò una tortilla surgelata, poi dedicò un paio d'ore al lavoro burocratico facendo anche alcune telefonate ai fornitori. Poi chiamò Sara. «Sono arrivata» annunciò. «Tutto bene?» «Sì, certo» rispose la cognata, ma aveva uno strano tono. «Che cosa succede?» «Clint ha telefonato poco fa. Gli ho detto che ero disposta ad accompagnare Tammy lì a casa, ma lui mi ha chiesto se potevamo tenerla ancora un paio di giorni e che poi mi avrebbe fatto sapere. È stato molto gentile e mi ha ringraziato per averla ospitata e così via, ma... non sembrava un padre ansioso di rivedere la figlioletta smarrita da anni.» Non è sua figlia, osservò tra sé Livia, ma qualcosa le impedì di dirlo ad alta voce. Se Clint non aveva spiegato a Sara come stavano le cose, in realtà non stava a lei farlo. «È una situazione complessa» mormorò, «e lui è molto stanco.» «Anche tu devi essere esausta.» «Non tanto. Sono pronta a riprendere il lavoro.» Non c'era altro da fare. Ultimare la casa. Acquistarne un'altra ricominciando daccapo e far progetti per un altro viaggio in posti interessanti. Ma dove facesse freddo: l'Alaska, l'Antartide. Basta con le foreste tropicali. Sara si mise a ridere. «Perché non te la prendi comoda, per oggi?» No. Voleva terminare la casa al più presto. Voleva tenersi occupata. Voleva dimenticare tutto. Ma non ci sarebbe assolutamente riuscita, e quest'idea l'atterriva. Lavorò tutto il giorno ed era già a letto quando sentì arrivare l'auto di Clint, poi i suoi passi su per le scale, fino alla sua stanza. Per l'ennesima volta si chiese che cosa avesse fatto, dove fosse andato. Lo immaginò disteso sul letto, sveglio. Raggiungerlo, infilarsi sotto le lenzuola accanto a lui, abbracciarlo e chiedergli di non escluderla da sé. L'avrebbe respinta? Le avrebbe detto di andarsene? Sarebbe stata una mossa assurda, lo sapeva bene. Così rimase dov'era, col cuore in pezzi. Quella sera ci mise parecchio a prendere sonno. «Senti» le disse Sara al telefono, «questa tensione è insopportabile. Se ti Karen van der Zee
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va bene noi partiamo subito.» Erano passati tre giorni. Livia aveva visto ben poco Clint, ma il giorno prima le aveva telefonato dall'ufficio di qualcuno per avvertirla che Sara avrebbe portato Tammy a casa l'indomani. In sottofondo si sentivano squilli di telefono e ticchettii vari. Avrebbe avuto cento cose da chiedergli, ma lui aveva concluso in fretta la comunicazione, dopo aver aggiunto che sarebbe rientrato tardi. Livia diede un'occhiata all'orologio. «Clint è andato in città, ma dovrebbe essere di ritorno per quando arriverete.» E invece no. Il fuoristrada di Sara comparve poco prima delle undici e le bambine si precipitarono giù ancor prima che il veicolo fosse completamente fermo. Ci furono molti baci e abbracci, mentre Tammy si teneva un po' in disparte. Indossava degli allegri calzoncini a fiori e una maglietta celeste. Gli occhi grigi erano luminosi, il viso dorato dal sole, i capelli accorciati da un ottimo taglio che le donava. Era ancora magrolina, ma non c'era paragone rispetto a tre settimane prima. Livia sentì un nodo in gola. «Vogliamo abbracciarci?» propose, e Tammy si illuminò gettandole le braccia al collo. «La zia Sara ha detto che hai ritrovato il mio papà.» La voce tremava d'emozione. Livia le sorrise. «Infatti. Dovrebbe arrivare da un momento all'altro. Ti è piaciuto il campeggio?» «È stato magnifico! Abbiamo dormito in tenda, e preparato il fuoco e abbiamo cucinato le salsicce sulla brace. E poi siamo andati in barca sul fiume e lo zio Jack mi ha insegnato a pescare e io ho preso un pesce grossissimo! E l'abbiamo mangiato a cena!» «Fantastico!» Livia non si capacitava di quella trasformazione: l'entusiasmo infantile, l'esuberanza. Sorrise alla cognata. «E li posso chiamare zia Sara e zio Jack» aggiunse Tammy con tono d'importanza.'«Non avevo mai avuto degli zii.» Poi aggrottò la fronte. «Ma quando arriva papà?» «Credo che questa sia la sua auto» rispose Livia guardando oltre la finestra. «Sì, eccolo qui.» Pochi istanti più tardi Clint varcava la soglia. Sara sparì in cucina portando le figlie con sé. Livia guardò Tammy che, immobile, fissava con occhi enormi quell'alta figura. «Ciao, Tammy» disse lui a mezza voce scrutandone l'espressione. Karen van der Zee
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Tammy si precipitò verso di lui che si accosciò e tese le braccia, pronto ad accoglierla.
11 Con le lacrime agli occhi Livia li lasciò soli e si diresse in cucina. «Che cosa succede?» domandò Sara preoccupata. «Perché piangi?» Stava versando della limonata nei bicchieri. Le due piccole erano fuori a giocare. Livia si lasciò cadere su una sedia. «Tammy crede che Clint sia suo padre.» Sara depose la brocca corrugando la fronte. «Sì, certo. Cosa vorresti dire?» «Che non è vero.» Sara era sbigottita. «Stai affermando che Clint non è il padre di Tammy?» Livia scosse il capo. «No.» E riferì ciò che aveva detto Clint. «È uno zio acquisito» concluse, «ma non un parente di sangue.» «Santo cielo» bisbigliò la cognata sedendosi a sua volta. «E adesso come intende comportarsi?» Livia si passò una mano sugli occhi. «Non lo so. Non mi ha detto niente, ma credo che in questi giorni si sia dato da fare per lei, per questo non ha potuto incontrarla prima.» «Se la piccola viene a sapere che non è suo padre, le si spezzerà il cuore» osservò Sara. «Non ha fatto altro che parlare di lui. Ha condotto una gran brutta vita con sua madre; non che l'abbia detto, ma non era difficile intuirlo.» «La madre era un'alcolista.» «Mi era parso infatti, da certi particolari.» Si accigliò di nuovo. «Sai, Liv, trovavo un po' strano il modo in cui Tammy parlava di Clint, come se fosse una specie di dio. La madre le aveva raccontato cose grandiose. E non è quel che succede di solito quando una madre divorziata vive in povertà, mentre l'ex marito se la passa benone.» «La madre non sapeva neppure chi fosse il padre biologico di Tammy.» Livia fissava il bicchiere. «Anch'io ci ho riflettuto. Forse si sentiva in colpa. Forse attraverso la fantasia cercava di offrire a Tammy quel che non Karen van der Zee
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le poteva dare nella realtà: un padre eroe.» «E Clint era il modello ideale.» Dall'altra stanza giungeva la voce eccitata di Tammy e quella più bassa e calma di Clint, ma non si potevano distinguere le parole. Livia allacciò le braccia attorno a sé provando uno strano miscuglio di emozioni: timore, impotenza, solitudine. Poi si sentì solo la voce di Clint, mentre Tammy taceva. Stava dicendole come stavano le cose? Che lui non era suo padre e non poteva prendersi cura di lei perché viveva in un villaggio nella giungla? Che le avrebbe trovato un posto dove stare? «Non so cosa intenda fare» mormorò con voce atona. «Il contratto lo impegna ancora per due anni e inoltre... Chi lo sa se il tribunale gli concederà la custodia visto che non è un consanguineo?» «Non ti ha accennato nulla?» «Ha solo osservato che doveva accertare la situazione legale prima di prendere una decisione. Nient'altro. Come se deliberatamente volesse tenermi al di fuori.» «Non ha detto neppure se voleva tenerla, posto che il tribunale glielo permettesse?» «No. Ma perché dovrebbe? Non vuole neppure una moglie; che cosa se ne fa di una bambina?» «Noi la terremo fino a quando sarà necessario» dichiarò Sara con forza. «Faremo tutto il possibile; ha assolutamente bisogno di una famiglia.» Sara si versò dell'altra limonata. «Mi par di capire che la situazione tra voi due non sia idilliaca» proseguì cambiando argomento. Livia fece una smorfia. «Era furibondo quando mi ha vista. Credeva che stessi correndogli appresso. Non vuole niente di definitivo. Non mi può offrire nulla, dice.» «Be', almeno è onesto.» Livia si mordicchiò un labbro. Sì, era vero. Non aveva mai fatto mistero delle sue intenzioni, o dell'assenza delle medesime. Ma questo non le risparmiava dolore. «E tu sei ancora innamorata di lui» osservò Sara. Livia nascose il viso tra le mani con un gemito. «Sarei dovuta essere più saggia. Come l'ho visto ho capito che dovevo stare in guardia.» «Non credo che la logica abbia molto a che fare con l'amore, Liv. Che razza di situazione. E tutto per via di una casa.» Karen van der Zee
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«Vorrei non averla mai comperata.» Sua cognata ebbe un mezzo sorriso. «Dovresti caricare sul prezzo un extra come risarcimento per danni emotivi, quando la venderai a Clint.» Nonostante tutto, Livia non poté trattenere un sorriso. «Avevo pensato di tinteggiare le pareti in viola e di seminare ortiche in giardino.» «Questa sì che è perfidia» rise Sara. «Brava, Liv.» Le bambine rientrarono a chiedere da bere e poco dopo anche Clint e Tammy comparvero. «Sapete? Stasera andremo all'aeroporto!» La ragazzina era giubilante. «Andremo a vedere gli aerei che atterrano. Non sono mai stata in un aeroporto.» Sara le offrì un bicchiere di limonata. «Magnifico! Vedrai come sono grandi gli aerei, visti da vicino. Ti piacerà.» «Andiamo a prendere un'amica di papà» proseguì Tammy dopo una lunga sorsata. «Viene a darci una mano. Dobbiamo trovare una casa dove stare fino a quando questa non sarà pronta. Papà dice che poi abiteremo qui.» Per Livia fu come un pugno allo stomaco. Era senza fiato. Tammy rivolse un'occhiata adorante a Clint. «Io volevo andare a stare con lui nella giungla, ma là non ci sono scuole, e neanche la televisione, ma ci andremo durante le vacanze, magari l'anno prossimo. So parecchie cose della giungla, vero, zia Sara? Abbiamo trovato tanti libri in biblioteca.» Livia fissava le proprie mani sforzandosi di respirare normalmente. Poi alzò lo sguardo su Clint: in piedi, le mani in tasca, con un sorrisetto sulle labbra, osservava Tammy che cicalava a ruota libera. Infine Tammy vuotò il bicchiere e lo depose con un gran sospiro, soddisfatta di essere riuscita a dare tutte quelle notizie. «Posso andar fuori a giocare, adesso?» «Sì, certo» annuì Clint. Lei fece un gran sorriso e si precipitò a gettargli le braccia attorno alla vita. «Oh, papà, sono così felice!» Poi corse fuori a ruota seguita dalle altre due ragazzine. Nella cucina aleggiava un silenzio imbarazzato. Fu Sara a spezzarlo. «Della limonata, Clint?» Gli tese un bicchiere. «A quanto pare, hai deciso di prenderti cura di Tammy. Volevo dirti che Jack e io saremmo ben lieti di tenerla con noi ancora per qualche tempo, se la cosa può Karen van der Zee
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facilitarti mentre ti organizzi.» «Grazie.» Le sorrise con calore. «Avete fatto moltissimo e ve ne sono grato. Ma adesso tocca a me.» Livia provò una stretta al cuore: da quanto tempo Clint non le sorrideva in quel modo? «Allora non torni nel Kalimantan?» domandò Sara. «No. Mi hanno offerto una docenza, a partire da settembre, e ieri ho saputo che mi hanno concesso la custodia temporanea fino a quando non si definiranno le pratiche per quella definitiva. E non dovrebbero sorgere difficoltà. Poi avvierò la richiesta di adozione.» Custodia definitiva. Adozione. Livia si sentì invadere da un'ondata di sollievo e di gioia che cancellò ogni ansia. Tammy avrebbe avuto una famiglia. E improvvisamente capì perché Clint aveva rimandato l'incontro con Tammy: voleva essere sicuro di quel che poteva dirle. Aveva voluto proteggerla, evitare di darle false speranze e causarle ulteriori traumi. E aveva chiesto la custodia senza neppure averla rivista. «Oh, Clint, avevo paura che non la volessi» mormorò. Per la prima volta lui la fissò. «Non si trattava di volerla o no, Livia, ma della possibilità concreta di tenerla con me.» «Perché non me l'hai detto?» Perché non mi hai messa a parte delle tue intenzioni?, si chiese mentalmente. Il volto di lui assunse un'espressione chiusa, come se Clint avesse letto nei suoi pensieri. Poi abbassò gli occhi sul bicchiere e lo vuotò senza darle risposta. «Incredibile che tu sia riuscito a definire le cose tanto alla svelta» osservò Sara, ammirata. Clint mise il bicchiere sul tavolo. «Per mia fortuna ho dei buoni amici che occupano posizioni strategiche.» Si appoggiò al piano di lavoro incrociando le caviglie. Di sicuro non aveva posto tempo in mezzo. Livia ripensò a quella notte a Hong Kong, quando era rimasto sveglio a fare telefonate su telefonate, e poi di nuovo nella sala d'attesa dell'aeroporto, a San Francisco. «E la tua ricerca nel Kalimantan?» domandò. Lui si strinse nelle spalle. «David è in grado di continuare per conto suo fino a quando non manderanno qualcun altro. Ci sono già due candidati entusiasti. Mai pensare di essere indispensabili» commentò ironicamente. Livia non scorse traccia di rimpianto o di irritazione in quel volto Karen van der Zee
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scabro. Semplice e lineare, no? Aveva rinunciato a uno studio che l'appassionava, era tornato negli Stati Uniti e si era trovato un altro lavoro. E tutto per occuparsi di una bambina che non era sua figlia, una bambina che non vedeva da anni. Le venne da piangere. Avrebbe voluto abbracciarlo, dirgli che l'amava, che l'avrebbe amato sempre. Dirgli che era l'uomo più meraviglioso che avesse mai conosciuto. Invece rimase immobile, sapendo che lui non l'avrebbe gradito. Sapendo che anche adesso la teneva a distanza. Risentì la voce di Tammy: Andiamo a prendere un'amica di papà. Viene a darci una mano. Aurora. Doveva trattarsi di Aurora. Ci vediamo presto, aveva detto salutandolo. Non sarebbe stato più logico chiedere una mano a lei, Livia? Clint e Tammy sarebbero potuti restare lì fino a che lei non avesse ultimato la villa. Il grosso del lavoro era ormai fatto. Lei avrebbe potuto occuparsi di Tammy quando Clint era all'università. Insieme avrebbero arredato la sua cameretta. E invece arrivava Aurora. Non si era mai sentita così rifiutata. Avvertiva dentro un dolore quasi fisico. Era un agosto caldo e umido, non pioveva da settimane. Una foschia opaca nascondeva le Blue Ridge Mountains. Ogni giorno Livia metteva in funzione l'impianto innaffiatore per evitare che l'erba e le piante da fiore morissero. La casa era pronta. La veranda era riuscita splendidamente. I pavimenti in legno scintillavano, tutti gli infissi erano verniciati, la cucina era dotata di tutte le apparecchiature più moderne, ma al tempo stesso conservava un'atmosfera accogliente e invitante, in carattere con il resto della casa. La parte del corredo di cucina che Livia aveva conservato aveva ripreso posto negli armadietti. Vuotando gli scatoloni aveva trovato un piatto di plastica, da bambini, a cui in precedenza non aveva fatto caso. Mentre lo rigirava tra le mani le si era ripresentata un'immagine di Clint: lui che fissava con espressione indecifrabile l'ammasso di piatti, tazze e vassoi sul ripiano. Aveva visto quel piatto e stava pensando a Tammy. L'aveva lavato e riposto in un armadietto dove prima o poi lui l'avrebbe Karen van der Zee
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trovato. I mobili depositati nel seminterrato avevano trovato l'opportuna collocazione: appartenevano alla casa e lì dovevano restare. Quando se ne fosse andata non voleva portare con sé nulla che le ricordasse la grande villa e il suo proprietario. Amava moltissimo quella casa e aveva impiegato tutto il suo talento, la sua creatività, per darle l'aspetto attuale, e il risultato superava le sue previsioni. Era ferma sulla soglia di una camera da letto, quella che aveva ritenuto ideale per Tammy, e l'osservò con un brivido di soddisfazione. Forse non avrebbe dovuto prendere quell'iniziativa: non rientrava nell'accordo. L'aveva decorata e arredata. Era una stanza deliziosa, allegra, tutta in bianco e giallo. Tende e copriletto con il medesimo disegno di margherite. Un poster che riproduceva una foto di bambine in lunghi abiti bianchi che correvano attraverso un campo di margherite. Sul letto c'era una grande bambola che indossava il vestitino trovato nel cassettone della stanza da cucito. Erano state le margherite ricamate sul corpetto di quel minuscolo indumento a darle l'ispirazione. Lasciò la porta socchiusa e passò in rassegna tutti i locali cercando imperfezioni, particolari trascurati. No, nessuno. La casa era pronta per la vendita. Pronta a essere abitata e vissuta. Già la vedeva completamente arredata: tavoli e sedie, tende e tappeti, ampi divani comodi, grandi piante in vaso, quadri e oggetti appesi, tutta una parete occupata da scaffali per i libri. E con la fantasia si era vista abitare in quella casa. Non da sola, certo: con Clint e Tammy. E poi si era infuriata con se stessa per quei voli dell'immaginazione, perché non sapeva accettare la realtà, perché continuava a sperare. Per consolarsi avrebbe aumentato il prezzo di mille dollari. A titolo di risarcimento. L'idea non la consolò affatto. Aveva richiesto tre valutazioni e stabilito il prezzo. Una cifra equa, che però non avrebbe mai coperto il suo investimento emotivo. Nessuna somma di denaro sarebbe bastata. Mentre afferrava il ricevitore le tremava la mano. Sapeva a memoria il numero di Clint, anche se non l'aveva mai formato. Non aveva più sentito la sua voce da quando se n'era andato con Tammy, tre settimane prima. Karen van der Zee
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Lui le aveva inviato per posta il nuovo indirizzo, corrispondente a un appartamento di Charlottesville, poco distante dall'università. Quando udì il segnale di libero si appoggiò alla parete radunando le forze, col cuore in gola. «Pronto» disse una voce profonda. «Clint? Sono Livia. Volevo annunciarti che la casa è pronta.» Si era preparata e pronunciò quelle parole in tono calmo, distaccato. Seguì una brevissima pausa. «Livia» disse poi Clint. Pareva un'affermazione, o una risposta a un interrogativo. «Mi fa piacere. Quando posso venire a vederla?» «Quando vuoi, basta che tu mi avverta.» «Ottimo. Domattina verso le dieci ti andrebbe bene?» «Sì, benissimo.» Serrava convulsamente il ricevitore. «Come sta Tammy?» «Bene.» Altra pausa. «E tu?» «Bene.» Il tono era calmo e distaccato. Non sto affatto bene, avrebbe voluto dire. Mi manchi. Ti amo. Ma non poteva permetterselo. «Ci vediamo domani, allora. Porterò anche Tammy.» «Sì, mi farà piacere. Arrivederci, Clint.» Riappese e le gambe le tremavano al punto che dovette appoggiarsi alla parete. Alle dieci in punto l'auto arrivò. Era un fuoristrada Cherokee rosso fiamma. Livia non credeva ai propri occhi. Doveva essere stata Tammy a scegliere il colore, intuì poi, e non poté trattenere un sogghigno, pur sentendo il cuore in gola mentre Clint scendeva dall'auto. Era sempre lui: alto, sicuro di sé. Guardarlo era doloroso. Tammy l'aveva raggiunto e gli si era aggrappata alla mano. Insieme si avviarono verso la casa. Livia spalancò di colpo la porta costringendosi a sorridere. Non fu poi tanto difficile: osservando Tammy il sorriso diventava spontaneo. Aveva un'aria molto felice, piena di vita, gli occhi animati, il passo allegro. Indossava una corta gonnellina di tessuto jeans e una camicetta a fiori: stava benissimo. Era stata Aurora ad accompagnarla a far compere? Respinse quel pensiero. «Buongiorno, Clint. Ciao, Tammy. Entrate. C'è il caffè pronto.» Era Karen van der Zee
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fiera dei suoi modi disinvolti. O almeno le pareva di essere disinvolta. La porta venne richiusa escludendo la calura. All'interno l'aria era fresca. «Com'è tutto nuovo e pulito!» esclamò Tammy mentre passavano davanti al soggiorno, diretti in cucina. «Ma, e i mobili, papà? Tornerà la zia Aurora ad aiutarci a comperarli?» «No, ha da fare. Questa volta dovremo cavarcela da soli.» «Ma verrà a trovarci, vero? Ha detto che voleva vedere la casa; magari potrebbe venire a Natale.» Clint annuì. «Sì, possiamo invitarla per Natale.» Livia evitò di guardarlo. Se avesse sentito nominare Aurora ancora una volta si sarebbe messa a urlare. Si rivolse a Tammy. «Del succo di frutta? O preferisci un'aranciata?» La voce era malferma, se ne accorgeva anche lei. «Mi va bene tutto» assicurò Tammy, poi sorrise. «Del succo di mela, se c'è.» Livia aprì il frigorifero mentre i due si sedevano al tavolo, riempì un bicchiere e lo mise davanti a Tammy. Poi guardò Clint. «Caffè?» «Sì, grazie.» La stava osservando. «Hai l'aria stanca.» «Ci ho dato dentro parecchio. Volevo portare a termine la casa prima dell'inizio della scuole. Mi è parso più opportuno per Tammy.» Era vero, almeno in parte. «Già. Ti ringrazio.» Lei riempì due tazze, ne passò una a Clint e si sedette. «Non sei tenuto ad acquistarla, sai.» «Sì, lo so.» Livia assentì evitando di guardarlo. Ogni fibra del suo corpo pareva consapevole della sua presenza. Aveva lo stomaco annodato, non riusciva a mandar giù il caffè. Tammy aveva vuotato il bicchiere e adesso scivolò giù dalla sedia. «Posso andare a guardare attorno, papà?» domandò impaziente. «Andiamoci tutti insieme» rispose lui alzandosi e prendendo con sé la tazza. Fecero il giro del piano terra. «È grandissima!» strillò Tammy. «Ma dov'è la mia stanza, papà? Posso vederla?» Clint sorrise. «È al piano di sopra. Puoi scegliere tra le tre a sinistra delle scale.» Karen van der Zee
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La ragazzina corse su per i gradini e Livia la seguì con lo sguardo, il cuore martellante, in attesa. Trascorse meno di un minuto. «Papà! Papà, vieni a vedere!» «Che cosa c'è?» «Vieni a vedere!» gridò di nuovo Tammy. Livia seguì Clint e raggiunsero la piccola. «Oh, papà, non ho mai visto una stanza così bella!» Clint era molto stupito, ma dopo un attimo sorrise. «È davvero bellissima.» Rivolse un'occhiata interrogativa a Livia. Tammy prese la bambola dal letto. «Guarda il vestito, papà! Con le margherite, come il copriletto e le tende e le pareti.» Lui guardò l'abitino. «Sì» disse poi. «È vero. Quel vestito era per te, quando eri piccola.» Tammy spalancò ancor più gli occhi. «Sul serio?» «L'aveva fatto la tua bisnonna, e ha anche ricamato le margherite» confermò Clint. Con la gola chiusa Livia si volse, scese di corsa le scale e uscì nel giardino sul retro. Aspirò convulsamente l'aria calda e umida imponendosi di non piangere. Dei passi si avvicinarono. «Livia?» Clint prese posto accanto a lei sulla vecchia panchina di legno. «Che cosa succede?» Lei fece uno sforzo per non perdere il controllo. «Ho pensato che forse avreste preferito fare il giro della casa per conto vostro.» «Hai fatto meraviglie. Grazie.» «È il mio lavoro.» «Hai fatto qualcosa di più, Livia. Ci hai messo l'anima» osservò lui. Non sapeva come rispondere. Guardava le proprie mani intrecciate in grembo. «E la stanza di Tammy... non eri tenuta ad arredarla» proseguì Clint. «Ci tenevo. È stato divertente. Speravo solo che non ti sarebbe dispiaciuto.» «No, certo.» La voce era malferma. «L'hai fatto con amore, perché avrei dovuto dispiacermi? E Tammy è entusiasta.» «È così facile renderla felice. Ogni cosa le sembra così straordinaria e magica.» «Sì... magica.» Le prese una mano e quel contatto la fece trasalire Karen van der Zee
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costringendola a guardarlo in volto. «Ti ho fatto molto male, lo so.» Livia ritrasse la mano. Aveva paura di crollare. «Ti prego, no. È un capitolo chiuso. Non parliamone più.» Si alzò. «Torniamo dentro a firmare il compromesso, poi fisseremo la data del rogito.» Voleva definire tutto al più presto. Andarsene. Clint si alzò a sua volta. «Non è un capitolo chiuso.» «Lo sarà, con il rogito.» «Intendo porre una condizione per l'acquisto della casa.» «Una condizione? E quale?» «Che ci sia compresa tu.» Il cuore le mancò un colpo. «Compresa... io?» «Non potrebbe mai essere una vera casa senza di te.» Lei deglutì. «Non posso restare, Clint. È stato un errore suggerirti di alloggiare qui, a suo tempo, e sarebbe sbagliato se io rimanessi ora. Non è possibile.» «Ricordi? Una volta ho detto che non sapevo vivere guardando al futuro.» «Sì.» Rammentava benissimo ogni parola che lui aveva pronunciato in quella circostanza. «Per questo non me la sentivo di legarmi. L'avevo fatto una volta, e tutto era franato. La donna che amavo era morta. La bambina che amavo mi era stata portata via. Non volevo ripetere l'esperienza. Ma poi il destino mi ha teso un trabocchetto.» «Tammy» mormorò lei. «Già. E d'un tratto non ho avuto scelta. Dovevo impegnarmi. Dovevo vivere per il futuro.» Livia lo guardò negli occhi. «Avevi una scelta. Non eri obbligato a occuparti di Tammy. Non è tua figlia.» «Oh, sì che lo è. Non biologicamente, certo, ma a tutti gli effetti più sostanziali sì.» Verissimo. C'era un forte legame tra loro. Lo si capiva da come si guardavano: affetto e orgoglio negli occhi di lui; adorante fiducia in quelli di Tammy. «E poi c'eri tu» riprese Clint. «Mi spaventava l'idea di lasciarti entrare nella mia vita e poi doverne soffrire. Ti ho respinta rifiutandomi di ammettere quanto avevo bisogno di amarti e di essere amato da te.» Una breve pausa, poi: «Aurora doveva venire in autunno per seguire un corso Karen van der Zee
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di specializzazione a Harvard e quando si è offerta di anticipare il viaggio per darmi una mano ho accettato al volo la proposta. Era un modo per non coinvolgerti ulteriormente, per tenerti a distanza. Dovevo stare lontano da te, per proteggermi. Almeno così vedevo le cose, prima». «E adesso?» Un bisbiglio. Clint ebbe un sorrisetto obliquo. «Ho smesso di chiudere gli occhi di fronte alla realtà quando Aurora mi ha dato del vigliacco.» Livia restò a bocca aperta. «Aurora ti ha chiamato vigliacco?» ripeté. «È una donna molto in gamba. Dal primo istante che ti ha vista ha capito come stavano le cose. Ha detto che Gwen si sarebbe sdegnata se mi avesse visto respingere questa possibilità di essere felice.» «Gwen... tua moglie?» Lui annuì. «Gwen e Aurora erano grandi amiche fin dai tempi dell'università.» «Papà! Livia! Dove siete?» La voce di Tammy, dal portico sul retro. «Qui!» gridò Clint, e Tammy arrivò di corsa. «Oh, un'altalena!» esclamò inerpicandosi sull'asse di legno appesa a un vecchio albero contorto. Alcuni mesi prima Jack aveva cambiato le vecchie funi logore, in modo che le sue bambine non corressero rischi quando arrivavano lì. «Ci giocavo anch'io, da ragazzino» mormorò Clint osservando Tammy con un sorriso. «Ora ho un futuro per cui vivere, lì su quell'altalena. Vuoi sposarmi, Livia, e farne parte anche tu?» Per qualche istante le parve di essere sospesa a mezz'aria. Poi sentì il braccio di lui attorno alle spalle, e la sua voce vicinissima. «Ti amo, Livia. Perdona il mio atteggiamento assurdo.» Le pareva di soffocare. «Anch'io ti amo. Per favore, dimmi che non è un sogno.» «Non è un sogno. Ti amo. Vuoi diventare mia moglie?» Si strinse a lui, stordita dalla felicità. «Sì» rispose con voce soffocata. «Sì, certamente sì.» Lo baciò, inebriata, poi sorrise tra le lacrime. «Ma ricorda che non potrai più lasciarmi; ti seguirò in capo al mondo.» «Lo hai già dimostrato» replicò Clint prima di baciarla a lungo, con foga. Quando rialzò il capo sorrideva. «Quando ti ho vista seduta davanti all'alloggio di Pak Ubong non riuscivo a credere ai miei occhi. E ti sei adattata a quella lunga marcia senza mai lamentarti, protestare.» Le accarezzò i capelli. «Sei una donna forte, Livia. Hai coraggio, calore Karen van der Zee
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umano. E io, da vero sciocco, non mi rendevo conto di ciò che stavo rifiutando.» «Dovrò ringraziare Aurora» osservò lei con un mezzo sorriso. «E pensare che ero così gelosa.» «Gelosa? E di che?» «Pensavo che ci fosse qualcosa tra voi. Sembravate così contenti di ritrovarvi...» «Sì, infatti. Siamo molto amici. Ma che cosa ti è venuto in mente?» «Be', avevi lasciato i tuoi vestiti a casa sua.» Clint la strinse tra le braccia ridendo. «Che razza di immaginazione. No, non c'è e non c'è mai stata nessuna relazione tra noi. E comunque prenderei la fuga nel giro di ventiquattr'ore. Lei non sopporta gli insetti di nessun genere. Va in crisi davanti a una mosca in cucina.» «Non è il tuo tipo, allora» commentò Livia con un sospiro di sollievo. «Proprio no. Ma come amica è straordinaria.» Le prese il volto tra le mani fissandola negli occhi. «Tu invece sei senz'altro il mio tipo» mormorò con voce carezzevole. Di nuovo le loro bocche si incontrarono cancellando tutte le angosce e i tormenti delle ultime settimane con un bacio carico di passione. Fu uno strano suono soffocato a separarli. Tammy, accanto a loro, li fissava con occhi allegrissimi, tenendosi una mano sulla bocca. Poi diede libero sfogo a una cascatella di risatine. «Oh, papà! La stavi baciando!» FINE
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