Le Stelle Collana a cura di Corrado Lamberti
Superstelle in esplosione Fare cosmologia con le supernovae e i gamma-ray burst Alain Mazure e Stéphane Basa
Tradotto dall’edizione inglese: Exploding superstars Understanding Supernovae and Gamma-Ray Bursts di Alain Mazure e Stéphane Basa Copyright © Praxis Publishing Ltd. 2009 All Rights Reserved Traduzione di: Corrado Lamberti ISBN 978-88-470-1624-8 DOI 10.1007/978-88-470-1625-5
e-ISBN 978-88-470-1625-5
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Sommario
Prefazione
VII
1 Aperitivo Super novae Dalla Terra o dallo spazio? Enigmi da risolvere, strumenti da maneggiare
1 9 13
2 L’Universo in espansione Un Universo caldissimo L’Universo oscuro
15 23
3 Dall’Universo alle stelle Dalle fluttuazioni quantistiche alla prima luce Le masse stellari
33 39
4 Supernova L’esplosione di stelle (troppo) massicce Piccole guerre stellari Questioni di famiglia
47 54 55
5 Super stelle: i gamma-ray burst Un avvincente serraglio Un triste destino Vita di coppia travagliata Una stella troppo grossa: i lampi lunghi Alle porte dell’inferno
65 69 73 75 77
6 Pietre miliari nell’esplorazione del Cosmo Dal sogno di Hubble e Sandage all’energia oscura Una geometria curva Una storia di standard Cosmologia di precisione Dalle supernovae ai gamma-ray burst
81 83 86 93 98
V
VI
7 Fari nel Cosmo Prestigiosi precursori Gamma-ray burst di salvataggio
103 106
8 Un brillante, oscuro futuro Un futuro brillante per gli osservatori Un futuro oscuro per i teorici Nero è nero Da falso a vero…
113 119 125 127
Appendici 1. L’equilibrio idrostatico 2. La materia in tutti i suoi stati 3. Il profilo di una stella 4. L’effetto tunnel quantistico 5. Fusione, fissione e durata della vita stellare 6. Doni dalle stelle 7. Il lobo di Roche 8. Una radiazione rivelatrice 9. Onde e urti 10. Misure e distanze 11. Il diagramma di Hubble Tabella delle costanti fisiche (MKSA)
129 131 134 136 139 141 142 143 145 147 149 151
Biblio-web
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Indice
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Prefazione
Se, come in un film di fantascienza, il suono potesse sfidare le leggi della fisica e propagarsi nel vuoto, il nostro Universo rimbomberebbe in continuazione per il frastuono di esplosioni titaniche provenienti dai suoi estremi confini. La gran parte di queste esplosioni riguarda l’atto finale dell’evoluzione di stelle massicce, che si accompagna con il rilascio di una così imponente quantità di energia da farne gli eventi più energetici occorsi dalla formazione dell’Universo. Queste supernovae possono liberare in meno di un secondo tanta energia quanta la totalità dei 200 miliardi di stelle che popolano una media galassia. Oltre a ciò, i satelliti spia operativi nell’epoca della Guerra Fredda furono protagonisti di osservazioni sbalorditive e decisamente inaspettate relative a eventi straordinari come sono i gamma-ray burst. Diversamente dalle supernovae, che possono risplendere luminose in cielo per giorni, settimane o anche mesi, questi burst (termine inglese che sta per “esplosione”; in italiano, gamma-ray burst viene spesso tradotto con “lampo gamma”) si rivelano come intensi flash di fotoni d’altissima energia, talvolta della durata di solo una frazione di secondo. Siamo ancora in attesa di una spiegazione completa da parte degli astrofisici del meccanismo che innesca i lampi gamma; sembrerebbe comunque che essi abbiano a che fare con fenomeni d’estrema violenza riguardanti il collasso e la successiva esplosione di una stella almeno venti volte più massiccia del Sole, ciò che condurrebbe alla formazione di un buco nero. Le supernovae, che osserviamo dall’alba dell’umanità, e i gamma-ray burst, che abbiamo imparato a conoscere solo negli ultimi quarant’anni, rappresentano i campi più dinamici della moderna ricerca astronomica. In effetti, al di là degli sforzi per comprendere i meccanismi sottostanti questi fenomeni, possiamo dire che recentemente i due tipi di eventi sono diventati strumenti molto efficaci per i cosmologi che vogliono approfondire con studi di dettaglio temi come l’origine, l’evoluzione e la composizione dell’Universo nel quale viviamo. Questi “fari” cosmici vengono sfruttati come “candele-standard” che ci permettono di compiere misure nell’Universo lontano. Grazie ad essi, siamo in grado di risalire il tempo cosmico per più del 90% dell’età dell’Universo.
VII
Prefazione Così, per esempio, l’osservazione di certe supernovae ci ha di recente rivelato che circa il 70% del contenuto di energia-materia dell’Universo è costituito da un’energia oscura la cui natura ci è ancora completamente ignota. Queste remote sorgenti sono diventate importanti anche nel ruolo di riflettori che illuminano i loro immediati dintorni e che ci consentono di studiare le distese cosmiche che si estendono tra loro e noi, luci potenti che rischiarano la materia cosmica. Il libro cercherà di gettare un po’ di luce su questo insieme di fatti, ipotesi e conclusioni cosmologiche che ci aiutano a capire i curiosi destini delle superstelle in esplosione passate e presenti.
“Di tutte le cose che ci stanno attorno, la più bella è l’Universo.” “L’armonia invisibile è meglio dell’ovvio.” “La Natura ama nascondersi.” Eraclito di Efeso
VIII
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Aperitivo
“La scoperta di un nuovo piatto contribuisce all’umana felicità più della scoperta di una nuova stella.”*1 A. Brillat-Savarin
Nel Cosmo avvengono eventi titanici su scale che sono inimmaginabili per la mente umana. In alcuni di questi il rilascio di energia è paragonabile solo con quello che si ebbe nei primissimi istanti della formazione dell’Universo, nel Big Bang, equivalente all’energia totale emessa da una stella come il nostro Sole nel corso della sua intera esistenza, di 10 miliardi di anni. Oltre all’interesse che di per sé sollevano questi eventi esplosivi – in particolare gli enigmi riguardo alla loro origine – le loro storie sono eccezionali sotto diversi aspetti. Da un lato, essi rappresentano l’ultimo stadio dell’evoluzione stellare. Dall’altro, recentemente sono diventati strumenti decisivi che gli astronomi usano per scandagliare le più remote profondità dell’Universo e per fornire risposte agli interrogativi relativi alla sua formazione, alla sua evoluzione e alla sua composizione. Anche se questi fenomeni sono connessi a singole stelle, i cosmologi, che studiano l’Universo nel suo complesso, non possono tralasciare di interessarsene. Tali oggetti eccezionali, che esploreremo in dettaglio nei capitoli successivi, sono le supernovae e i loro fratelli maggiori, ben più energetici, i gamma-ray burst (lampi gamma, in sigla GRB). Super novae Il termine nova, che in latino significa “nuova”, introdotto dal grande astronomo danese dell’era pre-telescopica Tycho Brahe, è tuttora usato in astrofisica per designare una categoria di oggetti la cui luminosità cresce di molto e repentinamente. Poiché queste stelle appaiono all’improvviso in regioni del cielo in cui non comparivano precedentemente, vengono dette novae per il fatto che sembrano essere “stelle nuove”. Come diremo più avanti, fu l’astronomo Fritz Zwicky, nella prima metà del XX secolo, ad aggiungere il prefisso “super” per indicare una tipologia di stelle che esibisce un ancor più spettacolare aumento di luminosità. Nacque così il termine “supernova”, ad indicare un fenomeno che tuttavia non era nuovo, essendo già stato rilevato molti secoli prima. *1 Pur non condividendo questa massima, anche gli astronomi non disprezzano la buona tavola.
Superstelle in esplosione
Figura 1.1 Il guscio in espansione dei detriti della supernova che fu vista esplodere nel 1006. L’immagine è una composizione di dati ottici, radio e X del resto di supernova. (NASA, ESA, STScI, Z. Levay)
Rare e vistose Non sono molte le supernovae comparse in tempi storici. La tabella 1.1 riporta le più brillanti osservate negli ultimi due millenni. La supernova del 1006 fu probabilmente la più vistosa in assoluto. Osservata dagli astronomi del Sud Europa, del Nord Africa, del Medio Oriente, della Cina e del Giappone, venne descritta come rivaleggiante in luminosità con la Luna al Primo Quarto (magnitudine –9): per un certo tempo, fu così brillante che di notte gli oggetti esposti alla sua luce gettavano un’ombra. La nube di detriti in espansione creata da quella violenta esplosione si trova nella costellazione del Lupo ed è stata osservata nei raggi X, in ottico e nelle onde radio (Figura 1.1).
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1 Aperitivo Tabella 1.1 - Le supernovae storiche brillanti 185 d.C. – Si pensa che questa sia la prima registrazione di una supernova storica. Astronomi cinesi notarono la comparsa di una stella nuova nell’asterismo Nanmen, identificato dagli astronomi moderni con la regione celeste in cui si trovano alfa e beta Centauri. La nuova stella raggiunse al picco la magnitudine –2 e si indebolì nei successivi otto mesi. I dati del satellite XMM-Newton e del Chandra, due telescopi orbitali per raggi X, indicano nel resto di supernova RCW 86 i residui dell’esplosione stellare del 185 d.C. 1006 – È la supernova storica più brillante, osservata dal Sud Europa, dal Nord Africa, dal Medio Oriente, dalla Cina e dal Giappone. Raggiunse il picco nei primi giorni del maggio 1006 alla magnitudine –9, nella costellazione del Lupo, e tornò invisibile probabilmente dopo oltre due anni. 1054 – Osservata dal Medio Oriente, dalla Cina, dal Giappone e forse dal Nord America, fu la seconda supernova storica in ordine di brillantezza, toccando la magnitudine –6 nel luglio 1054, nella costellazione del Toro. Fu osservabile di giorno per tre settimane e di notte per 21 mesi. La supernova è all’origine della Nebulosa Granchio. 1181 – Vista da astronomi cinesi e giapponesi nella costellazione di Cassiopea, raggiunse la magnitudine –1 nell’agosto 1181 e fu visibile di notte per circa sei mesi. L’esplosione è stata associata con una pulsar emittente nelle onde radio e nei raggi X, nonché con il resto di supernova 3C 58. 1572 – Tycho Brahe descrisse le sue osservazioni di questa supernova in Cassiopea (Figura 1.3) nell’opera De Nova Stella. Si dice che fu questo evento ad appassionarlo all’astronomia. Al picco, nel novembre 1572, la stella raggiunse la magnitudine –4; impiegò circa 15 mesi per indebolirsi fino a sparire dalla vista. 1604 – La comparsa di questa supernova nell’Ofiuco fu osservata e registrata da Giovanni Keplero, che tuttavia non ne fu lo scopritore. È stata l’ultima supernova ad essere osservata nella Via Lattea. Nell’ottobre 1604 toccò al picco la magnitudine –3; si indebolì nel corso di 18 mesi. La sua comparsa fu usata come argomento a favore della rivoluzione copernicana, poiché smentiva l’idea aristotelica di un Cosmo immutabile. 1987 – Supernova osservata nella Grande Nube di Magellano, conosciuta come SN 1987A. La stella progenitrice, una supergigante blu conosciuta in sigla come Sanduleak –69° 202, è stata identificata su lastre d’archivio. Si tratta della supernova più brillante che sia stata osservata da quando si utilizzano i telescopi in astronomia. Nota. Conosciamo altri resti di supernova nella nostra Galassia relativamente giovani, con un’età minore di duemila anni, per i quali non fu mai osservata la corrispondente stella in esplosione. Un esempio è Cas A (Figura 1.5), un resto luminoso vecchio di circa 340 anni. Il resto della più recente supernova della nostra Galassia, d’età non superiore a 150 anni, è stato identificato di recente grazie a osservazioni radio e X.
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Superstelle in esplosione
Figura 1.2 L’immagine composita della Nebulosa Granchio combina dati del Chandra X-ray Observatory e dei Telescopi Spaziali “Hubble” e “Spitzer”. Il puntino bianco brillante al centro dell’immagine è una stella di neutroni, il resto della stella che fu vista esplodere nel 1054. (NASA, ESA, CXC, JPL-Caltech, Arizona State Univ., J. Hester e A. Loll, Univ. Minn., R. Gehrz, STScI)
Il resto nebuloso della supernova del 1006 misura circa sessanta anni luce ed è tutto ciò che rimane di una nana bianca distrutta a seguito di un’esplosione termonucleare. Anche la supernova del 1054 fu molto brillante. Fu osservata dal Medio Oriente, dalla Cina e dal Giappone; alcuni pittogrammi incisi su rocce da tribù indiane nel New Mexico sono stati interpretati come indicativi di ciò che potrebbe essere stato osservato di quell’evento dal Nord America. È però abbastanza sorprendente che non esistano registrazioni della sua comparsa da parte di astronomi europei*2. La supernova giunse al picco di luce nei primi giorni del luglio 1054, attorno alla magnitudine –6 (fu perciò più brillante di quanto sia Venere nelle migliori condizioni di visibilità), e comparve nella costellazione del Toro. Si rese visibile in pieno giorno per oltre tre settimane e di notte per oltre ventun mesi dopo la sua scoperta. La nube di detriti in espansione risul-
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*2 La stella apparve proprio negli anni del grande scisma tra la Chiesa d’Occidente (Cattolica) e la Chiesa d’Oriente (Ortodossa). Questa coincidenza temporale potrebbe essere stata interpretata dalle autorità religiose del tempo come un cattivo presagio e forse perciò l’evento venne depennato dai resoconti ufficiali.
1 Aperitivo
Figura 1.3 Tornando a casa l’11 novembre 1572, il grande astronomo danese Tycho Brahe notò una “nuova” stella brillante nella costellazione di Cassiopea. La mappa, ripresa dall’opera di Tycho De Nova Stella, mostra la posizione della stella tra quelle che disegnano la familiare forma a “W” di Cassiopea. (Danish National Library of Science and Medicine)
tante da questa supernova costituisce quella che è detta Crab Nebula, o Nebulosa Granchio (Figura 1.2). Giusto al centro della nebulosa è presente una stella di neutroni rapidamente rotante – una pulsar – che è il resto superdenso della stella massiccia esplosa. Le supernovae viste nel 1572 e nel 1604, benché meno brillanti di quelle del 1006 e del 1054, sono entrambe ben documentate grazie alle osservazioni rispettivamente di Tycho Brahe e di Giovanni Keplero (Figure 1.3 e 1.4): le loro variazioni di luminosità furono registrate per diversi mesi dopo l’esplosione iniziale, mano a mano che la stella si indeboliva (il grafico che descrive l’andamento della luminosità in funzione del tempo si chiama curva di luce). È una vera disdetta che entrambi questi eventi abbiano avuto luogo solo pochi anni prima dell’invenzione del telescopio! I loro resti gassosi sono stati studiati nei raggi X,
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Superstelle in esplosione
Figura 1.4 Ritratto di Giovanni Keplero, con accanto la sua opera De Stella Nova, nella quale egli descrive le osservazioni riguardanti la supernova del 1604. Nel libro è presente una mappa che indica la posizione della stella “nuova”. (Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics)
nel visuale e nelle onde radio, e in entrambi i casi si pensa siano il risultato della distruzione di nane bianche a seguito di esplosioni termonucleari. Nel caso della SN 1572, gli astronomi potrebbero aver identificato la stella che era compagna, in un sistema binario, della nana bianca andata distrutta. Nel febbraio 1987 una supernova è esplosa nella Grande Nube di Magellano
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1 Aperitivo
Figura 1.5 Cas A, qui in un’immagine del Chandra X-ray Observatory, è uno dei resti di supernova più giovani della Galassia. La sorgente puntiforme molto intensa al centro della nebulosa molto probabilmente la stella di neutroni formatasi a seguito dell’esplosione. (NASA/CXC/MIT/UMass Amherst/M.D. Stage et al.)
(Figura 1.6), che è una galassia nana irregolare vicina alla Via Lattea. Conosciuta in sigla come SN 1987A, questa è la prima, e finora la sola, supernova brillante comparsa in tempi moderni che sia stato possibile osservare con grandi telescopi. In aggiunta, su fotografie della stessa regione celeste ottenute negli anni precedenti, gli astronomi sono stati in grado di identificare in una massiccia supergigante blu la stella progenitrice di questo cataclisma. Era la prima volta che ciò avveniva e questa fortunata circostanza portò a un considerevole progresso nella comprensione di questi oggetti. Curiosamente, ci si rese subito conto che la supernova era piuttosto atipica, nel senso che non aveva le caratteristiche previste dalla teoria (la luminosità restò sotto le attese e inusuale fu anche l’evoluzione nel tempo della curva di luce). Purtroppo, questo capita
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Superstelle in esplosione abbastanza spesso in astronomia: si dispone di un modello generale, ma ci si imbatte anche in molti casi speciali! Dalle stelle alla cosmologia Anche se non conosciamo completamente il dettaglio dei meccanismi che innescano questi eventi cataclismici, c’è una particolare classe di supernovae, la Tipo Ia, che ha focalizzato l’attenzione degli astronomi. Dopo l’esplosione iniziale, le SN Ia seguono una curva di luce dall’andamento caratteristico; inoltre, la luminosità al picco sembrava essere la stessa per tutte. Le SN Ia rappresentavano dunque l’anelato Santo Graal degli astronomi: potevano infatti essere usate come “candele standard” (si veda il capitolo 6) per misurare le distanze delle loro galassie-ospiti e per compiere indagini sulla dinamica dell’espansione dell’Universo negli ultimi otto miliardi di anni, utilizzando poi le informazioni che ne derivano per stabilire quale sarà il destino finale del Cosmo. Purtroppo, recenti scoperte hanno rivelato che la situazione è più complicata di quanto sembrasse. Tuttavia, come vedremo, studi dettagliati del modo in cui avvengono le variazioni di luminosità, ossia l’analisi delle loro curve di luce e
Figura 1.6 La supernova scoperta nel febbraio 1987 (SN 1987A). Esplodendo, la stella eietta gran parte della materia che la costituisce. I resti si espandono in modo più o meno isotropo, si raffreddano e formano una nebulosa. (Anglo-Australian Observatory)
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1 Aperitivo
Figura 1.7 Tipica forma della curva di luce delle supernovae Tipo Ia appartenenti a una delle due principali famiglie di supernovae. La curva è stata ottenuta sovrapponendo le curve di differenti supernovae dopo una ricalibrazione che dimostra la possibilità di una loro “standardizzazione”. La luminosità al picco sembra essere la stessa per tutte e perciò le SN Ia costituiscono una “candela standard”.
del picco di luminosità (Figura 1.7), indicano che, se anche non sono proprio identiche, le SN Ia sono quantomeno suscettibili di standardizzazione. In tal modo, è stato possibile determinare una procedura comune per tutti questi oggetti che rende comparabili le loro curve di luce. Dalla Terra o dallo spazio? Lampi celesti Può sembrare paradossale, ma la competizione tra gli americani e i sovietici nel corso della Guerra Fredda ha condotto a un gran numero di progressi in campo tecnico e scientifico, il più importante dei quali fu, naturalmente, la conquista della Luna. Ma da questa fiera rivalità scaturì anche un’altra scoperta, benché molto meno conosciuta. La storia comincia nel 1963, quando fu siglato un trattato per la messa al bando dei test nucleari, in particolare dei test condotti nell’atmosfera terrestre. Al fine di monitorare il rispetto del trattato, gli USA lanciarono alcuni satelliti militari – i satelliti Vela – in grado di rivelare emissioni impulsive nel dominio dei raggi gamma, che avrebbero palesato l’occorrenza di eventuali esplosioni nucleari segrete.
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Figura 1.8 La prima pagina di un articolo pubblicato nel 1973 da una rivista tecnico-scientifica che annuncia la scoperta che i gamma-ray burst non hanno origine né dalla Terra né dal Sole.
Figura 1.9 A sinistra, un satellite spia americano della famiglia Vela. Questi satelliti erano usati soprattutto per rivelare l’emissione gamma prodotta in violazione del trattato di messa al bando dei test nucleari in atmosfera. A destra, il segnale del primo gamma-ray burst osservato da un satellite Vela. Il fenomeno si caratterizza per un’emissione di breve durata di fotoni gamma.
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1 Aperitivo
Figura 1.10 La mappa mostra le posizioni di 2704 lampi gamma osservati dallo strumento BATSE a bordo del Compton Gamma-Ray Observatory. L’intera volta celeste è rappresentata in coordinate galattiche (il centro della Galassia si trova alle coordinate 0°/0°). Ciascun cerchietto rappresenta un’areola di pochi gradi, corrispondente all’incertezza nella posizione della sorgente. La distribuzione sembra sostanzialmente isotropa.
A partire dal 1967, questi satelliti iniziarono a rilevare misteriosi flash di raggi gamma, potenti e di breve durata, che però non provenivano né dalla Terra né dal Sole. La scoperta era importante, ma non fu resa nota alla comunità scientifica prima del 1973 (Figura 1.8): i militari sono sempre restii a rivelare i loro segreti. Come mostra la Figura 1.9, la prima curva di luce ottenuta suggeriva che si trattasse di un’emissione impulsiva di breve durata di fotoni di altissima energia, nel dominio spettrale dei raggi gamma. Ad oggi, a quarant’anni dalla scoperta, sono state registrate diverse migliaia di questi gamma-ray burst, la gran parte grazie al satellite della NASA Compton Gamma-Ray Observatory (CGRO) e al suo strumento BATSE (Burst And Transient Source Experiment), i cui risultati vediamo nella Figura 1.10. Un altro importante contributo è venuto dal satellite italo-olandese BeppoSAX e, più recentemente, dalla navicella americana Swift. Strumenti di nuova generazione, introdotti nell’ultimo decennio del secolo scorso, hanno consentito progressi decisivi negli studi di questi oggetti celesti peculiari. Oggi le caratteristiche generali dei gamma-ray burst sono ben conosciute e le descriveremo in dettaglio nei prossimi capitoli. Per il momento ci basti sapere che la durata dei burst va da una frazione di secondo fino a qualche minuto e che la distribuzione delle durate mostra due picchi, probabilmente corrispondenti a due tipi diversi di famiglie e origini.
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Superstelle in esplosione Il grande dibattito Una controversia analoga a quella che nei primi decenni del XX secolo vide contrapposti Heber B. Curtis e Harlow Shapley sulla natura extragalattica delle nebulose, ha avuto di recente per tema la questione se i gamma-ray burst fossero “locali” o di natura cosmologica. Anche in questo caso si è parlato, come allora, di un Grande Dibattito. La comunità scientifica ha proposto ipotesi assai diverse. Alcuni astronomi pensavano che i GRB fossero il prodotto di oggetti del Sistema Solare, quindi eventi di natura locale, mentre altri suggerivano che trovassero origine nella nostra Galassia, nel suo piano o all’interno dell’alone che la avvolge, quindi con una distribuzione più isotropa. C’era anche chi sosteneva che l’origine fosse extragalattica. Le conseguenze erano rilevanti: infatti, quanto più questi oggetti sono lontani, tanto maggiori devono essere le energie rilasciate nelle esplosioni. I sostenitori dell’origine cosmologica erano in minoranza poiché, se questi eventi davvero occorressero alle distanze enormi da essi suggerite, i gamma-ray burst avrebbero rappresentato le sorgenti più energetiche osservate dal tempo della formazione del nostro Universo. La risposta definitiva venne quando, nel 1997, BeppoSAX osservò un GRB anche a lunghezze d’onda al di fuori del dominio gamma, nella regione dei raggi X: una serie di osservazioni coordinate portò a una misura precisa della distanza a cui si era prodotto questo evento. Il risultato fu chiaro: lo spostamento spettrale misurato nella luce di questo burst confermava che l’evento si era prodotto a distanze cosmologiche, a circa 8 miliardi di anni luce. Da allora, centinaia di misure hanno confermato il risultato. L’attuale record di distanza è appannaggio di un burst rivelato dal satellite Swift della NASA il 23 aprile 2009 (Figura 1.11). L’oggetto in questione è uno dei più remoti mai osservati: quando il burst si verificò, l’Universo aveva un’età di soli 630 milioni di anni. La luce ha dunque impiegato poco più di 13 miliardi di anni per raggiungerci. Tutti uguali e tutti differenti Come nota finale, dobbiamo sottolineare che le curve di luce dei lampi gamma mostrano tassi di evoluzione e durate molto differenti. Sono state osservate variazioni rapide dell’ordine del millesimo di secondo, ciò che impone limiti stretti alle dimensioni fisiche della sorgente (la distanza percorsa dalla luce in quel tempo è dell’ordine delle centinaia di chilometri). Dobbiamo perciò concludere che gli oggetti responsabili delle emissioni devono essere estremamente compatti. Quanto agli spettri, la forma è decisamente simile, in particolare alle energie più elevate, il che suggerisce che il meccanismo fisico di base sia lo stesso. Riusciremo dunque a stabilire un giorno una sorta di “standardizzazione” anche per i GRB?
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1 Aperitivo Enigmi da risolvere, strumenti da maneggiare Le supernovae e i gamma-ray burst, qui descritti sommariamente, sembrano essere legati da una certa affinità. Entrambi rappresentano lo stadio finale nella vita di una stella. Anche se l’energia emessa da un lampo gamma è tipicamente centinaia di volte maggiore di quella di una supernova, questi due “cugini celesti”, insieme con i nuclei galattici attivi e con i loro buchi neri supermassicci, sono le sorgenti più energetiche finora scoperte nell’Universo. In entrambi i casi, il fatto che una quantità di energia così imponente possa essere prodotta ed emessa in tempi così brevi crea non poche difficoltà ai teorici che si sforzano di trovare qualche ipotesi fisica ragionevole per spiegarli.
Figura 1.11 Il GRB 090423 è il gamma-ray burst più distante che sia stato finora rivelato. L’immagine è la composizione di due riprese degli strumenti del satellite Swift: l’UltraViolet and Optical Telescope, che mostra le stelle brillanti, e l’X-Ray Telescope, che ha catturato il burst visibile al centro dell’immagine. (NASA/Swift/Stefan Immler)
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Superstelle in esplosione Queste enormi quantità di energia sono comunque un bel regalo per gli astrofisici che si sforzano di esplorare il Cosmo su distese spaziotemporali sempre più grandi, allo scopo di decodificare la storia e la composizione dell’Universo. In ogni caso, i risultati suggeriscono che in queste sorgenti siano all’opera meccanismi universali, il che alimenta la speranza che tali eventi, così potenti da poter essere rivelati fino ai confini dell’Universo, possano forse essere sfruttati come “candele standard”. I cosmologi avrebbero in tal caso a portata di mano i mezzi per delucidare sia la storia dell’Universo dei primordi sia il suo destino finale.
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L’Universo in espansione
“L’innovazione non è frutto del pensiero logico.” Albert Einstein
Un Universo caldissimo Hubble, Einstein e altri... Fu Edwin Hubble, con Vesto Slipher e Milton Humason, a scoprire la recessione delle galassie. Egli si accorse che, con l’eccezione dei sistemi più vicini, come la galassia spirale in Andromeda, tutte le galassie si stanno allontanando dalla Via Lattea con velocità che crescono proporzionalmente con la loro distanza. La conclusione può essere espressa attraverso la famosa “legge di Hubble” che lega la velocità v con la distanza d: v = H0 · d dove H0 è la costante di Hubble, che esprime il tasso di recessione delle galassie (come si spiega in Figura 2.1). In realtà, questa costante varia nel tempo cosmico e ciò spiega perché si usa lo “0” a deponente: esso sta a significare che ci si riferisce al tempo presente. Dunque, H0 indica il valore che la costante ha nell’epoca cosmica che stiamo vivendo. Questa scoperta rappresentò qualcosa di assolutamente straordinario; bisognava trovarne una spiegazione. La recessione poteva essere interpretata assumendo che la Via Lattea si trovasse al centro di un qualche fenomeno che riguardava non essa, ma tutte le altre galassie. Ciò, tuttavia, avrebbe comportato l’adozione di una visione antropocentrica, che conferiva all’umanità una posizione del tutto speciale nell’Universo, quando invece la cosmologia moderna si basa sul presupposto del Principio Cosmologico, estensione del Principio Copernicano, che rigetta l’idea per cui un qualsiasi osservatore abbia a trovarsi in una posizione comunque privilegiata. In accordo con questo principio, l’Universo dovrebbe mostrare lo stesso aspetto in tutte le direzioni e qualunque sia la posizione dell’osservatore. Di conseguenza, se non possono esistere “posizioni privilegiate”, la recessione osservata deve riguardare tutte le galassie: anche la Via Lattea, vista da un’altra galassia, dovrebbe allontanarsi da tutte le altre, e tale osservazione dovrebbe valere qualunque sia la galassia in cui si
Superstelle in esplosione
(a)
(b)
(c)
(d)
Figura 2.1 (a) Comparate con le loro posizioni a riposo, quali si misurano in laboratorio, le righe spettrali, in emissione o in assorbimento, qui misurate in nanometri, di una galassia che sta allontanandosi dall’osservatore risultano tutte spostate verso il rosso (redshift), ossia verso lunghezze d’onda maggiori. Se interpretiamo il redshift come un effetto Doppler, possiamo calcolare le velocità di recessione delle galassie in questione. (b) Lo spettrografo VIMOS, installato sul Very Large Telescope (VLT) dell’ESO in Cile, può misurare nel corso di una sola esposizione le velocità di un migliaio di galassie. Lo strumento, frutto di una collaborazione fra la Francia e l’Italia sotto l’egida dell’ESO, ha la forma di un cubo di 2,5 metri di lato che pesa circa 4 tonnellate. (c) Il grafico originale con il quale Edwin Hubble mostrò la relazione lineare tra le velocità delle galassie e le loro distanze, qui misurate in parsec (1 parsec = 3,26 anni luce). (d) Un grafico analogo moderno copre distanze 400 volte maggiori di quelle accessibili ai tempi di Hubble. Il risultato è inequivocabile: quanto più una galassia è lontana, tanto più velocemente si allontana da noi. Il valore originariamente adottato da Hubble per la costante di proporzionalità H0 della sua relazione era di 500 km s–1 Mpc–1 (500 chilometri al secondo per ogni milione di parsec di distanza). Le misure più recenti suggeriscono che il valore sia sette volte minore, 72 km s–1 Mpc–1. La determinazione della costante H0 è stata oggetto per decenni di molte controversie che hanno comportato numerose revisioni. Le contrapposizioni tra scienziati sorgevano dalla difficoltà intrinseca ai metodi di stima delle distanze.
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2 L’Universo in espansione sceglie di stare. Nessuna galassia si trova al “centro” di questa espansione generale. Per spiegare il fenomeno, dobbiamo perciò supporre che non sono le galassie a muoversi, ma è piuttosto lo spazio in cui si trovano che si dilata e si espande*1. Possiamo superare questa visione intuitiva, al fine di costruire un quadro teorico coerente che ci consenta di inquadrare questo fenomeno e di comprenderne le conseguenze? I tre pilastri del Big Bang Ritorniamo al postulato del Principio Cosmologico, ossia all’ipotesi l’Universo sia omogeneo e isotropo. Cosa osserviamo nella realtà? Noi vediamo che questo principio è sostanzialmente valido in via generale, a patto che si considerino porzioni sufficientemente grandi del Cosmo, aree parecchio più estese di quelle occupate dalle singole galassie e delle aggregazioni in cui esse si organizzano. In effetti, su scale più estese di 100 Megaparsec (Mpc) la distribuzione in senso statistico delle galassie è sostanzialmente la stessa, indipendentemente dalla posizione spaziale e dalla direzione in cui si guarda. Ce lo confermano le rassegne su larga scala più recenti e complete (Figura 2.2) e, soprattutto, come vedremo più avanti, le osservazioni relative alla radiazione cosmica di fondo. È perciò giustificato fondare un modello teorico su questo postulato. Per costruire il modello nelle sue linee generali, immaginiamo per un momento che la recessione delle galassie sia una sorta di film che, nella nostra mente, può anche essere fatto scorrere all’indietro. Risalendo nel tempo, osserveremo l’inesorabile contrazione delle distanze e dei volumi, con l’implicazione che, quanto più ci spingiamo nel passato, tanto più le densità e le temperature cresceranno, fino a valori tendenzialmente infiniti. Questa immagine identifica il modello del Big Bang: un Universo in origine molto caldo e denso che sembra scaturire da una “esplosione primordiale”, o anche da una “singolarità iniziale”. Curiosamente, il termine “Big Bang” fu coniato per dileggio da Fred Hoyle, che si opponeva fieramente a questo modello, contrapponendogli quello dello Stato Stazionario, che discendeva dal Principio Cosmologico Perfetto, e che però in seguito verrà invalidato dalle osservazioni. Il quadro teorico all’interno del quale prese forma il modello cosmologico del Big Bang è quello della Relatività Generale di Einstein. Nella Relatività Generale il tempo e lo spazio, che nella fisica classica sono concetti fra loro indipendenti, risultano essere parti di un continuo quadridimensionale definito da una sua propria geometria. Le ipotesi dell’omogeneità e dell’isotropia semplificano considerevolmente le equazioni della Relatività Generale quando *1 È l’espansione in sé dello spazio (tridimensionale) che dobbiamo considerare, piuttosto che quella del “contenuto” di tale spazio. L’espansione non può essere riguardata come il risultato di un’esplosione da un centro che è possibile osservare dall’esterno: non c’è sulla volta celeste un luogo in cui si sia verificato il Big Bang, né una direzione che punti ad esso. Il Big Bang è occorso dappertutto e allo stesso tempo.
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Superstelle in esplosione vengono applicate in campo cosmologico. In particolare, si può definire un tempo universale che fissa una cronologia cosmica. Einstein dimostrò che la particolare geometria dello spaziotempo viene ad essere definita dal suo contenuto di materia-energia. Il passato, il presente e il futuro dell’espansione cosmica sono perciò determinati dall’evoluzione temporale del contenuto di materia-energia, ossia dei “fluidi” cosmici presenti nell’Universo. L’identificazione in ogni specifico istante dell’interazione di
Figura 2.2 Posizione di diverse centinaia di migliaia di galassie osservate nel corso di vaste rassegne celesti, come la Sloan Digital Sky Survey (SDSS) e il Progetto 2dFGRS. In questo modo viene rivelata la struttura a grande scala dell’Universo (in alto, a sinistra e a destra): si noti la presenza di vuoti e di filamenti, insieme a “muraglie” (wall) di galassie, come la Great Wall (Grande Muraglia), che si estende per decine di Mpc. Su scale spaziali superiori ai 100 Mpc, la distribuzione è simile in tutte le regioni, ossia abbiamo un Universo statisticamente omogeneo e isotropo. I due diagrammi in basso sono il risultato delle più recenti e complete simulazioni al computer (Millenium Simulation): l’accordo tra le simulazioni e l’Universo reale è più che soddisfacente.
questi fluidi cosmici, caratterizzati dalle loro equazioni di stato, e la comprensione della loro evoluzione sono la chiave per delineare la storia termica dell’Universo. Gli attuali modelli ci consentono di ricostruire questa storia a partire dal tempo di Planck*2 per giungere fino ai giorni nostri, circa 14 miliardi di anni dopo. *2
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Il tempo di Planck (tPlanck~ 10–43 s) segna il confine attuale alla nostra comprensione dell’inizio dell’Universo. A questa epoca cosmica, l’Universo deve essere riguardato come un sistema quantistico, nel quale cioè la meccanica quantistica gioca un ruolo altrettanto fondamentale di quello della Relatività Generale. Ma i fisici ancora non padroneggiano una teoria capace di fondere questi due aspetti della realtà.
2 L’Universo in espansione Come si sa, tali modelli si basano su tre fondamentali pilastri: – l’espansione dell’Universo; – la formazione degli elementi leggeri nel corso della nucleosintesi primordiale; – la radiazione cosmica di fondo. Hubble contro Einstein Per elaborare un modello cosmologico bisogna risolvere le equazioni della Relatività Generale, assumendo che valga il Principio Cosmologico. A partire da ciò, possiamo determinare il comportamento di un parametro conosciuto come “fattore di scala” e indicato con R(t), che descrive come si sviluppa nel tempo la recessione delle galassie, che si allontanano tra loro trascinate dall’espansione dell’Universo. In pratica, il suo valore viene misurato attraverso il redshift (simbolo z) che si misura nello spettro delle galassie. Dalle equazioni relativistiche risulta che un Universo dominato dalla radiazione o dalla materia è destinato a espandersi. Einstein, convinto che l’Universo dovesse essere un’entità statica, per contrastare questa conclusione introdusse nelle sue equazioni una costante cosmologica che nel seguito ebbe varie fortune, e che incontreremo più avanti, trattandola in maggior dettaglio. Basti per ora sapere che Hubble e i suoi colleghi dimostrarono che Einstein aveva torto, inducendolo a riconoscere l’errore: in tal modo la recessione delle galassie si impose come il primo pilastro della teoria del Big Bang. Gli altri due pilastri del modello li ritroviamo nell’evoluzione dell’energia cosmica, che qui considereremo in modo sommario. Due elementi essenziali di questa evoluzione sono condensati nelle seguenti assunzioni: – materia ed energia sono grandezze equivalenti, come stabilito dalla famosa equazione di Einstein E = mc2; – densità e temperatura di ogni fluido cosmico diminuiscono mentre l’Universo si espande. Se l’Universo inizialmente era molto caldo e denso, come abbiamo visto più sopra, nei primi fotogrammi del nostro film immaginario, allora le corrispondenti energie dovevano essere molto elevate e il fluido cosmico primordiale doveva essere composto da particelle relativistiche, come sono, per antonomasia, i fotoni. Questo periodo della storia cosmica è perciò noto come Era della Radiazione. La temperatura andò gradualmente scendendo e quando, in un dato momento, il suo valore era tale da corrispondere, in termini energetici, alla
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Superstelle in esplosione massa a riposo di una data particella, tale particella poteva essere creata. (Si noti che, poiché la temperatura sta continuamente scendendo, per ogni particella l’opportunità dell’equivalenza massa-energia si presenta una volta sola.) Possiamo perciò renderci conto che nei primissimi istanti di questo scenario, in una manciata di minuti, si formarono i componenti elementari delle particelle (i quark), seguiti dai neutroni, dai protoni, dagli elettroni ecc., che venivano a far compagnia ai fotoni e ai neutrini già presenti. Lo scontro iniziale Soffermiamoci ora un momento sui primi tre minuti della nostra cronaca. In questa fase, le particelle che costituiscono il fluido cosmico partecipano senza tregua a interazioni reciproche. Le particelle cariche (protoni ed elettroni) interagiscono elettromagneticamente con i fotoni, mentre gli adroni (protoni e neutroni) interagiscono tra loro (per interazione forte). Tutte queste particelle, e la radiazione ad esse associata, partecipano al processo inesorabile della diluizione cosmica. Come vedremo più avanti, quando tratteremo dell’origine dell’energia delle stelle, tra le particelle possono aver luogo processi di fusione nucleare a patto che sussistano favorevoli condizioni fisiche di temperatura e densità. Tali condizioni erano certamente presenti nei primi minuti di vita dell’Universo, e ne risultò una vera alchimia. I protoni e i neutroni primordiali tendevano ad unirsi per formare i nuclei più semplici presenti nella tabella periodica di Mendeleev: l’idrogeno, il deuterio, l’elio, il litio e il berillio… Tuttavia, non senza qualche fatica, per via delle forze repulsive coulombiane che si instaurano tra le particelle dotate di carica elettrica, forze che devono essere vinte affinché possano innescarsi le interazioni nucleari forti che operano solo a distanze piccolissime. Si deve anche contrastare l’espansione cosmica, poiché le particelle tendono ad allontanarsi, ostacolando le interazioni nucleari. Infine – non c’è tempo da perdere – i neutroni possono esistere isolati soltanto per circa un quarto d’ora, prima di decadere trasformandosi in protoni. In questo trambusto, gli elementi più leggeri della tabella di Mendeleev vengono creati in meno di cinque minuti. Ed è un bene, poiché, lo ripetiamo, tale occasione si presenta solo una volta nella storia dell’Universo. In questa competizione cosmica per venire al mondo, secondo il modello cosmologico standard, i vincitori sono l’idrogeno (circa il 75% della massa prodotta), l’elio-4 (circa il 25%) e solo tracce di deuterio, elio-3, litio e berillio; in tale fase non vengono generati elementi di massa atomica maggiore di questi. Per calcolare in dettaglio la lista degli elementi che emergono da questo processo dobbiamo conoscere la fisica nucleare: i calcoli sono complessi, ma riguardano una disciplina ormai ben collaudata e, soprattutto, non ammettono parametri liberi.
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2 L’Universo in espansione Le previsioni teoriche sulle abbondanze che emergono da questa fase sono così precise da costituire un test fondamentale per il modello dell’“Universo caldo” e per la sua cronologia. Compiere il test significa confrontare le previsioni (i valori presenti nell’Universo primordiale vecchio solo di una decina di minuti) con le abbondanze che osserviamo nell’epoca attuale, circa 14 miliardi di anni dopo. Naturalmente, non è un compito facile poiché le abbondanze che oggi osserviamo sono anche il frutto dei vari processi fisici che hanno avuto luogo nel corso dell’evoluzione cosmica. L’idea di fondo è di misurarle in certi ambienti in cui si può supporre che non siano intervenute variazioni di tali abbondanze, oppure in cui sia possibile esprimere un buon modello che tenga conto di queste variazioni. Non è facile ottenere queste misure e spesso i risultati vengono rivisti e criticati. In ogni caso, bisogna dire che tra le previsioni e le osservazioni si registra un accordo globale straordinariamente buono e su queste solide basi si fonda, come secondo pilastro del modello cosmologico standard, la teoria della nucleosintesi primordiale degli elementi leggeri. Concludiamo rimarcando tre punti importanti. In primo luogo, questo test conferma il fatto che le leggi della fisica, così come le conosciamo, erano già operative un secondo dopo la formazione dell’Universo. Ciò giustifica l’ipotesi implicita di un Universo che è conoscibile, nel quale le leggi della fisica sono valide in ogni momento. In secondo luogo, è da notare che la nucleosintesi primordiale si concluse prima che si potessero produrre elementi più pesanti del litio e del berillio. (Ma allora cosa possiamo dire sul resto della tabella di Mendeleev?) Infine, le abbondanze previste riguardano solo l’ordinaria materia barionica, che da quel momento in poi si instaurerà nell’Universo per tutto il tempo a venire. Perciò noi conosciamo precisamente, e per ogni momento, la quantità di barioni nell’Universo, fatto che, come vedremo, non è irrilevante e senza conseguenze. Fossile cosmico Dopo l’episodio della nucleosintesi primordiale, la storia del Cosmo continuò a svilupparsi secondo le tre direttrici dell’espansione, della diluizione e del raffreddamento. Per un lungo periodo, la temperatura del plasma cosmico (e la sua energia corrispondente) fu così elevata che i nuclei e gli elettroni non erano in grado di associarsi per dar vita ad atomi neutri. Tuttavia, circa 380mila anni dopo il Big Bang, la temperatura era scesa ormai a circa 3000 K e a questa temperatura finalmente gli ioni e gli elettroni possono combinarsi. Si tratta di un evento storico ed essenziale sotto diversi aspetti. Da un lato, esso rappresentò in un certo senso l’atto di nascita degli atomi (per lo meno dei più leggeri), che costituiscono l’ambiente che ci circonda, e
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Superstelle in esplosione
Figura 2.3 I Premi Nobel Arno Penzias (a sinistra) e Robert Wilson, scopritori del fondo cosmico a microonde nella metà degli anni Sessanta del secolo scorso, fotografati sull’antenna per microonde a Holmdel, nel New Jersey, con la quale compirono la loro scoperta accidentalmente, mentre erano intenti a rilevare le deboli onde radio riflesse da palloni sonda e da satelliti. (AIP Emilio Segre Visual Archives, Physics Today Collection)
quindi anche della vita; dall’altro, la transizione da materia ionizzata a materia neutra lasciò un’indelebile “firma fossile” che gli astronomi possono rivelare e studiare. Quale ne è la natura? Per tutto il tempo in cui si trovarono a coabitare, le particelle cariche (ioni ed elettroni) interagirono incessantemente con la radiazione elettromagnetica (fotoni), e il risultato di queste interazioni fu un generale equilibrio termodinamico, con la distribuzione dell’energia dei fotoni, anch’essi in equilibrio, dipendente solo dalla temperatura: in altri termini, si era in presenza di un “corpo nero”. Quando avvenne la (ri)combinazione, la materia divenne neutra e cessarono quasi istantaneamente le interazioni con i fotoni. Si dice che la materia e la radiazione si disaccoppiarono. I fotoni, le cui traiettorie in precedenza venivano costantemente deflesse dalla presenza di particelle cariche, di colpo si ritrovarono liberi di propagarsi attraverso l’Universo in tutte le direzioni. L’Universo si trovò inondato di fotoni che conservavano memoria della temperatura (circa 3000 K) presente al momento del disaccoppiamento. I fotoni hanno riempito l’Universo e sono
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2 L’Universo in espansione ancora presenti, obbedendo nella loro distribuzione d’energia a una legge di corpo nero alla temperatura di circa 3 K (la temperatura al disaccoppiamento, scesa di un fattore mille a seguito della successiva espansione). Attualmente ci sono circa 400 di tali fotoni in ciascun centimetro cubo di Universo. È curioso sapere che parte della “neve” che si vede sul nostro schermo televisivo è dovuta proprio a questi fotoni. Il “bagno di fotoni” è una delle previsioni del modello del Big Bang: è la sua eco fossile, indelebile. Questo fondo cosmico a microonde (CMB, da Cosmic Microwave Background) venne casualmente scoperto verso la metà degli anni Sessanta del secolo scorso da Arno Penzias e Robert Wilson (Figura 2.3), che per questo vinsero il Premio Nobel nel 1978. Il satellite COBE della NASA rivelò definitivamente negli anni Novanta che la CMB è effettivamente un’emissione di corpo nero alla temperatura di 2,726 K (Figura 2.4). La misura di questo preciso valore valse un altro Premio Nobel nel 2006 a George Smoot e a John Mather. Con questo, il modello del Big Bang poggiava ora anche su un terzo e ben solido pilastro. L’Universo oscuro Proseguiamo nella nostra “anatomia del Cosmo”, guardando all’Universo dei nostri giorni, vecchio di quasi 14 miliardi di anni, analizzandone il contenuto di energia-materia. Per quanto riguarda la radiazione, grazie a molti strumenti al suolo e spaziali, siamo in grado ora di apprezzare i vari contributi allo spettro elettromagnetico, che è largamente dominato dalla CMB, l’eco fossile dell’Universo primordiale, caldo e denso. Se poi consideriamo la materia, non dobbiamo far altro che alzare gli occhi al cielo, sotto un cielo buio in una serena notte estiva, armati di binocoli o di un piccolo telescopio, per scoprire le miriadi di stelle che si affollano in quella immensa banda perlacea che è la Via Lattea (Figura 2.5). La Via Lattea non è altro che una media e irrilevante galassia tra miliardi d’altre che popolano l’Universo, come ci risulta chiaro analizzando qualcuna delle riprese profonde dell’HST, il Telescopio Spaziale “Hubble” (Figura 2.6). Queste galassie, spiraliformi, ellittiche o irregolari, sono i mattoni che costituiscono il Cosmo in espansione. Come si “pesa” l’Universo Se la totalità di questi “mattoni” rappresentasse tutta la materia presente nell’Universo, potremmo determinare la massa del Cosmo a partire dalla stima della massa di una tipica galassia. A prima vista, non sembrerebbe
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Superstelle in esplosione un compito difficile, se la massa di ciascuna galassia fosse semplicemente la somma delle masse di tutte le sue stelle, alla quale dovremmo poi aggiungere quella dei gas e delle polveri interstellari. Questo metodo ci rivelerà quale sia la “massa luminosa” delle galassie, ossia della materia che vediamo, quella che emette luce. Allo stesso modo, dovremmo essere in grado di misurare le masse dei giganteschi ammassi di galassie (Figura 2.7), con le loro decine o centinaia di membri: basterebbe sommare le masse delle singole galassie che li costituiscono. La scoperta all’interno di questi ammassi di un plasma caldo a temperature dell’ordine di 100 milioni di gradi, che emette abbondante radiazione X, ci consiglia di aggiungere anche il contributo di questo gas, che in realtà è di gran lunga la componente dominante della massa luminosa di questi sistemi. Ci sono però anche altre tecniche che possiamo usare per determinare le masse delle galassie e degli ammassi. Una di queste si basa sullo studio della dinamica di questi sistemi, che si pensa siano in equilibrio. Il metodo richiede che si studino la rotazione delle galassie spirali attorno ai loro assi e i moti delle galassie all’interno degli ammassi. La velocità di rotazione delle spirali e quella delle galassie negli ammassi dipendono dalla massa totale dei sistemi di appartenenza. Partendo dalla misura delle velocità, l’applicazione delle leggi fondamentali della meccanica (si veda l’Appendice 1) ci mette in grado di calcolare abbastanza facilmente la massa totale, che chiameremo massa dinamica, volendo significare che questa è la massa determinata dalle caratteristiche del moto degli oggetti considerati. Con grande sorpresa degli astronomi, la massa dinamica generalmente risulta essere molto maggiore della massa luminosa: la prima supera la seconda di un fattore compreso tra 5 e 10. Tale eccesso ha portato alla nozione di materia oscura*3. Il deficit di materia luminosa viene confermato da osservazioni degli archi giganteschi che si scorgono nelle immagini degli ammassi di galassie (Figura 2.8), disegnati dalla luce di oggetti di fondo che viene deflessa e distorta dal campo gravitazionale di questi sistemi: nella Relatività Generale, la nozione di forza gravitazionale viene sostituita da quella di curvatura locale dello spazio in presenza di materia-energia; la massa di un ammasso di galassie conferisce una curvatura locale allo spazio, e ciò fa sì che i fotoni seguano linee geodetiche non rettilinee. La curvatura dei raggi luminosi produce effetti di lente gravitazionale, del tutto simili a quelli di una lente ottica. Dalle deflessioni osservate è possibile risalire alla massa totale del sistema in questione. *3 Ci sarebbe anche un’alternativa, che è quella di modificare le leggi newtoniane della gravità, come nella pro-
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posta Dinamica Newtoniana Modificata, in sigla MOND: finora, tuttavia, non sono state ottenute prove osservative che la avvalorino.
2 L’Universo in espansione (a)
Evoluzione primordiale dell’Universo (b)
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Superstelle in esplosione Spettro daldal COBE Spettrodel delfondo fondocosmico cosmicoa amicroonde microondemisurato misurato COBE
(c)
intensità (10–4 erg cm–2 sr–1 s–1 cm–1)
1,2 1,0
c’è accordo tra teoria e osservazioni
0,8 0,6
0,4
0,2 0,0 0
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numero d’onda (cm–1) Figura 2.4 (a) Rappresentazione artistica del satellite COBE (Cosmic Background Explorer) in orbita attorno alla Terra. (b) La storia del Cosmo a partire dal Big Bang. Non sappiamo cosa avvenne prima del tempo di Planck (circa 10–43 s), poiché manca una soddisfacente teoria che unifichi la gravità e la meccanica quantistica; in seguito, ci fu la fase inflazionaria, durante la quale l’Universo si espanse esponenzialmente. Le fluttuazioni primordiali che diedero origine alle galassie si generarono in quest’epoca. Dopo 380mila anni, i fotoni si disaccoppiarono dalla materia e si diffusero liberamente nell’Universo; ora costituiscono un’emissione di un perfetto corpo nero, rivelata dal satellite COBE a una temperatura di circa 2,73 K. (c) L’intensità della radiazione di fondo misurata dal COBE in funzione del numero d’onda s’accorda perfettamente con le previsioni di un’emissione di corpo nero alla temperatura di 2,73 K. (NASA Goddard Space Flight Center)
Poiché la quantità di materia “ordinaria” è insufficiente per spiegare tali distorsioni, anche questo metodo, così come quelli menzionati in precedenza riguardanti la dinamica delle galassie e degli ammassi, chiama in causa la presenza di materia oscura, di natura differente da quella dell’ordinaria materia barionica: la materia oscura è fatta di particelle neutre e massicce che hanno una scarsissima propensione a interagire con la materia ordinaria. Nel modello standard della fisica delle particelle, il neutrino*4 sembrerebbe possedere le caratteristiche per render conto della materia oscura; nel corso degli anni Ottanta del secolo scorso, sembrava infatti essere il candidato ideale, ma il fatto che la sua massa sia piccolissima l’ha ormai posto
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*4 Il neutrino è una particella che fu prevista da W. Pauli nel 1931 e scoperta nel 1956 da F. Reines e C. Cowan, che per questo vinsero il Premio Nobel nel 1995. Esperimenti recenti gli assegnano una massa molto piccola, benché non nulla.
2 L’Universo in espansione
Figura 2.5 La Galassia ci appare come una grande banda lattiginosa che attraversa il cielo. Nell’emisfero meridionale si possono vedere due piccole galassie vicine: la Grande e la Piccola Nube di Magellano. (Cerro Tololo Interamerican Observatory)
in secondo piano. Il neutrino non poteva fornire risposta alle questioni sollevate dalla dinamica nelle galassie e negli ammassi, né poteva spiegare gli scenari di formazione delle maggiori strutture nell’Universo. Fortunatamente per i cosmologi, gli sviluppi moderni della fisica delle particelle suggeriscono vari altri possibili candidati. Tra questi, il favorito è il neutralino, previsto da certe teorie fisiche “supersimmetriche”. Il neutralino possiede la singolare caratteristica di essere stabile ed elettricamente neutro (da qui il nome). Le ricerche in questo campo sono intense, poiché le particelle supersimmetriche potrebbero essere la chiave di lettura idonea a farci comprendere non solo il mondo delle particelle elementari, ma anche la struttura dell’Universo. Decelerato o accelerato? Il moto recessivo delle galassie è la prova più lampante di un Universo in espansione ed è il contesto entro cui si situa il modello del Big Bang.
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Superstelle in esplosione
Figura 2.6 Questa esposizione della durata di 1 milione di secondi, la Hubble Ultra Deep Field (HUDF), rivela le prime galassie emerse da quella che viene definita “Era Oscura”, la fase successiva al Big Bang al termine della quale le prime stelle cominciarono a riscaldare l’Universo freddo e oscuro. La ripresa è la somma di due immagini distinte prese dalla camera ACS e dallo spettrometro NICMOS. Le immagini rivelano galassie troppo deboli per essere viste da telescopi al suolo, e perfino dalle precedenti riprese profonde dell’HST, note come Hubble Deep Field e realizzate nel 1995 e nel 1998. (NASA, ESA, STScI, HUDF Team, S. Beckwith)
Nella sua versione standard, la storia termica dell’Universo dal tempo di Planck in avanti è caratterizzata essenzialmente da due grandi ere: nella prima, il contenuto di energia-materia dell’Universo è dominato dalla radiazione, mentre nella successiva, è il contenuto materiale a prevalere (Figura 2.9). In teoria, si potrebbe perciò facilmente predire il futuro dell’espansione cosmica; essendo attualmente l’Universo dominato dalla materia, possiamo aspettarci che l’espansione abbia a rallentare a causa degli effetti gravitazionali della materia stessa, una situazione simile a quella di un proiettile lanciato in alto che gradualmente rallenta la sua
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2 L’Universo in espansione
Figura 2.7 Il Telescopio Spaziale “Hubble” della NASA ha ripreso l’ammasso di galassie della Chioma di Berenice, uno degli ammassi più densi che si conoscano. La camera ACS ha inquadrato una larga frazione dell’ammasso, che si estende per diversi milioni di anni luce. L’intero ammasso contiene migliaia di galassie in un volume sferico del diametro di oltre 20 milioni di anni luce. (NASA, ESA, HHT, STScI, AURA)
Figura 2.8 L’ammasso di galassie Abell 2218, ripreso dall’HST, mostra un esempio spettacolare dell’effetto di lente gravitazionale. Le strutture arcuate che si notano nell’immagine sono una sorta di “miraggio” causato dal campo gravitazionale dell’ammasso. L’ammasso di galassie è così massiccio e compatto da deflettere i raggi luminosi che transitano dentro il suo straordinario campo gravitazionale, in modo analogo a come un obiettivo fotografico deflette la luce per formare un’immagine. Questo fenomeno ingrandisce, potenzia e distorce le immagini di sorgenti di fondo. (Andrew Fruchter et al., STScI, WFTC2, HST, NASA)
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Superstelle in esplosione
Figura 2.9 La storia termica dell’Universo. L’Universo iniziò con il Big Bang circa 14 miliardi di anni fa e, dal tempo di Planck in avanti, si caratterizza per due grandi ere. Prima, ci fu una fase in cui il contenuto di energia-materia era dominato dalla radiazione (Era Dominata dalla Radiazione); in seguito ci fu l’Era Dominata dalla Materia, in cui prevalse il contenuto materiale. Alla fine, circa 380mila anni dopo il Big Bang, i nuclei atomici e gli elettroni si combinarono per produrre atomi di gas neutro. Il bagliore di questa Era della 0 viene attualmente osservato come radiazione del fondo cosmico a microonde. L’Universo entrò poi nella sua Era Oscura, che durò circa mezzo miliardo di anni e si concluse con la formazione delle prime galassie e dei quasar. La luce emessa da questi nuovi oggetti ionizzò il gas che riempiva l’Universo, ossia separò gli atomi di idrogeno in elettroni e protoni, rendendolo, da opaco qual era, trasparente. A questo “Rinascimento Cosmico” i cosmologi danno il nome di Era della Reionizzazione: è l’era che segna la nascita delle prime galassie nell’Universo. (S.G. Djorgovski, et al., Caltech)
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2 L’Universo in espansione
74% energia oscura
22% materia oscura
4% materia ordinaria Figura 2.10 Il “bilancio patrimoniale” dell’Universo. L’Universo è dominato da componenti che non si vedono: materia oscura ed energia oscura. La materia barionica ordinaria e la radiazione costituiscono soltanto il 4% del totale. (NASA/WMAP Science Team)
corsa frenato dell’attrazione gravitazionale terrestre. Una grande quantità di materia ci aspettiamo che abbia un effetto frenante su tutto ciò che si trova nei dintorni, animato da un moto in allontanamento. Così, v’è da immaginare quale sia stata la sorpresa degli scienziati quando, nel 1998, due gruppi di ricercatori che utilizzavano le supernovae di Tipo Ia come “candele standard” (si veda il Capitolo 6) fornirono le prove del fatto che l’espansione cosmica in realtà sta accelerando, l’esatto contrario di quanto ci si aspettasse. Al fine di spiegare questo fenomeno, bisogna accettare l’idea che l’evoluzione dell’Universo negli ultimi 5 miliardi di anni sia stata dominata non dalla materia, ma da un non meglio precisato “fluido cosmico” che possiede la strana proprietà di esercitare una sorta di “effetto gravitazionale repulsivo”*5. Questo terzo periodo della storia dell’Universo viene chiamato Era Dominata dall’Energia Oscura. *5 Ai soli fini di semplificazione, qui parliamo ancora di forze gravitazionali anche se la Relatività Generale ha definitivamente abbandonato questo concetto in favore dell’idea della curvatura dello spazio.
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Superstelle in esplosione Per quanto possa sembrare strano, un “fluido” di quel tipo viene previsto anche dalla fisica fondamentale. Diversamente dai fluidi tradizionali, la sua equazione di stato (si veda l’Appendice 2) contempla una pressione negativa e la cosiddetta energia del vuoto proposta dai fisici delle particelle possiede proprio questa singolare proprietà. Ai cosmologi si chiede invece di proporre qualche idea relativa a un nuovo tipo di energia che sia stata creata in epoca primordiale, che non abbia avuto un ruolo preminente nei primi 9 miliardi di anni, ma che da quel momento rappresenti il fattore dominante nel destino dell’Universo. Dopo questo giro d’orizzonte cosmico e dopo aver passato in rassegna le diverse componenti di materia ed energia, possiamo elaborare una sorta di bilancio patrimoniale (Figura 2.10) di tutto ciò che esiste nel nostro Universo. La conclusione inaspettata è che l’Universo “visibile”, che emette radiazione in ogni dominio dello spettro elettromagnetico, costituito di pianeti, stelle, galassie, essere viventi ecc., rappresenta solo una frazione minima (meno del 5%) della massa totale. L’Universo è perlopiù oscuro, avendo come componente dominante l’energia oscura, che si pensa rappresenti circa il 74% del totale. Il resto è materia, ma anche questa in larga misura oscura.
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Dall’Universo alle stelle
“Ascenderò allo spazio infinito, attraverserò lo spirito della Terra, viaggerò nella luce e raggiungerò le stelle.” Da un poema databile al Regno Medio d’Egitto Dalle fluttuazioni quantistiche alla prima luce Se l’Universo si è espanso per circa 14 miliardi di anni, se è dominato essenzialmente da costituenti non-barionici e se oltretutto è omogeneo e isotropo, come vuole il Principio Cosmologico, allora quando e in che modo sono venute a instaurarsi le disomogeneità che vediamo attorno a noi, come le stelle, le galassie e le strutture a grande scala? Comprendere le instabilità La domanda che ci siamo posti è tra le più cruciali della moderna astrofisica. Negli ultimi due decenni, i passi in avanti compiuti sono stati importanti e si ritiene che, almeno in linea generale, sia già stata fornita la risposta, benché alcuni punti restino ancora da definire con maggior chiarezza. Il fenomeno che dobbiamo prendere in considerazione è conosciuto tra gli astrofisici come “instabilità gravitazionale”. Si ritiene che tutte le maggiori strutture dell’Universo (stelle, galassie e ammassi di galassie) siano il frutto di eccessi locali di materia che andarono soggetti a una crescita inarrestabile sotto l’influenza della gravità fino a diventare i corpi celesti che osserviamo nell’era presente. Come vedremo, il meccanismo esige diversi pre-requisiti. Il primo è che si instaurino piccole fluttuazioni di densità nel “fluido” della materia primordiale, capaci di agire come “germi” attorno ai quali si sono poi sviluppate le grandi strutture cosmiche. V’è da dire che il modello standard del Big Bang non contempla fluttuazioni primordiali nella densità della materia e dunque dovremo postulare la loro esistenza, interrogandoci sull’origine delle disomogeneità in questo particolare contesto. Una delle idee più importanti in campo cosmologico proposte negli anni Ottanta del secolo scorso è stata l’introduzione nel modello standard di quella che viene chiamata la “fase inflazionaria”. Secondo i fisici Alan Guth e Andrei Linde, poco dopo il tempo di Planck il Cosmo conobbe un periodo di espansione esponenziale (Figura 3.1) per l’influsso di un tipo di energia simile all’energia oscura di cui si è parlato nel capitolo precedente. Questa super-espansione
Superstelle in esplosione
Figura 3.1 Schema dell’evoluzione dell’Universo negli ultimi 13,7 miliardi di anni. A sinistra, sono rappresentati i primissimi istanti, quando l’inflazione produsse una crescita esponenziale dell’Universo per un brevissimo intervallo temporale. Il bagliore osservato dal satellite WMAP fu emesso circa 380mila anni dopo l’inflazione e da allora ha liberamente attraversato l’Universo. Le condizioni presenti in epoche primordiali sono rimaste impresse nelle caratteristiche di questo bagliore, che gli astronomi sfruttano anche come luce di fondo per illuminare gli sviluppi successivi dell’Universo. (NASA/WMAP Science Team)
ebbe tra le sue conseguenze più importanti il fatto che l’Universo ne emerse con una geometria piana, come è confermato dagli studi sul fondo cosmico a microonde. Altro aspetto positivo del modello inflazionario è che esso prevede l’esistenza (e anche l’intensità) di fluttuazioni iniziali di densità d’origine quantistica. Tali previsioni, così come la natura piatta dello spazio, sono state recentemente confermate dalle misure del satellite WMAP (Wilkinson Microwave Anisotropy Probe; Figura 3.2a)*1. Il satellite ha di nuovo verificato che la temperatura del corpo nero cosmologico è straordinariamente uniforme (Figura 3.2b), con un valore medio di 2,725 K (2,725 °C sopra lo zero assoluto, corrispondenti a –270 °C), ma ha pure messo in luce minuscole variazioni da un punto all’altro, dell’ordine dei decimillesimi di grado (Figura 3.3). Si può dimostrare che queste fluttuazioni di temperatura riflettono le fluttuazioni iniziali nel campo di densità della materia. Così, grazie al modello inflazionario, ora abbiamo le fluttuazioni che cercavamo e ne conosciamo l’ampiezza. Il secondo pre-requisito è il meccanismo attraverso il quale queste minuscole
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*1 Osservando il fondo a microonde, la WMAP guarda indietro nel tempo, quando nell’Universo c’erano elettroni liberi in numero così elevato da diffondere in continuazione i fotoni della radiazione cosmica di fondo. Questa “superficie” del fondo cosmico viene detta “superficie dell’ultima diffusione”. Le fluttuazioni di densità presenti in essa (segnalate da regioni un poco più calde o più fredde della media) restano marchiate ancora ai nostri giorni, perché da allora la radiazione si propaga liberamente nell’Universo.
3 Dall’Universo alle stelle
Figura 3.2(a) Il Wilkinson Microwave Anisotropy Probe (WMAP) ha sfruttato il campo gravitazionale lunare per guadagnare velocità e raggiungere il punto lagrangiano L2. Dopo alcune rivoluzioni attorno alla Terra, tre settimane dopo il lancio la WMAP è volata oltre l’orbita della Luna e nel corso del passaggio ravvicinato si può dire che abbia “rubato” una quantità infinitesima dell’energia gravitazionale lunare per compiere la manovra che l’ha portata in L2, a 1,5 milioni di chilometri dalla Terra, nel punto da cui ha effettuato le sue osservazioni. (NASA/WMAP Science Team)
disomogeneità crescono fino a diventare le più grandi strutture dell’Universo. Il meccanismo non è altro che la gravità: se esistono piccole “super-densità” locali in una distribuzione di materia di densità mediamente uniforme, queste sono destinate a crescere semplicemente perché la loro gravità attrae la materia circostante. In linea teorica, il processo potrebbe proseguire indefinitamente, a meno che non intervenga qualcosa capace di interromperlo a un certo punto: il qualcosa è il meccanismo della “instabilità gravitazionale”, originariamente proposto dal fisico e astronomo britannico James Jeans. La materia che collassa su se stessa trasforma l’energia potenziale gravitazionale in energia cinetica, cosicché si scalda e si assiste a un aumento progressivo della pressione interna, con lo sviluppo di forze dirette verso l’esterno che possono contrapporsi agli effetti della gravità fino a controbilanciarla. È possibile dimostrare che, come risultato di tutto ciò, esiste una massa limite, conosciuta come massa di Jeans, che determina una situazione d’equilibrio tra le due forze, ciò che rende possibile l’esistenza stabile di oggetti come le stelle.
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Figura 3.2(b) Confronto tra la previsione della teoria del Big Bang per lo spettro energetico della radiazione cosmica di fondo e lo spettro effettivamente osservato. L’esperimento IRAS a bordo della WMAP ha misurato lo spettro in diverse decine di punti lungo la curva di corpo nero. Le barre d’errore delle misure (che qui sono state ingrandite) sono così piccole che non si riesce a vederle al di sotto della curva prevista! Non c’è finora una teoria alternativa che sappia predire con altrettanta precisione lo spettro d’energia e dunque la misura accurata della sua forma ha rappresentato un test importante della teoria del Big Bang. (NASA/WMAP Science Team)
Stelle nel buio Lo scenario che abbiamo appena descritto vale per un ambiente statico. Nel caso dell’Universo in espansione, la crescita delle perturbazioni iniziali di densità è molto più lenta che nel caso di un Universo statico: questo perché l’espansione, che tende a diluire il “fluido” di materia, contrasta la tendenza a collassare dell’oggetto che si sta formando. Ma allora, nell’Universo in espansione è possibile che si formino le grandi strutture che osserviamo? La risposta è sorprendente e paradossale: non c’è abbastanza materia barionica ordinaria per giustificare la formazione dei corpi celesti! Eppure, vediamo attorno a noi le galassie e gli ammassi. Come ce lo spieghiamo? Agli inizi della storia termica dell’Universo, la crescita della materia barionica, composta di protoni e neutroni, fu frenata e come “congelata” dalle interazioni dei protoni e degli elettroni con i fotoni del fondo cosmico, col risultato che la materia rimase ionizzata. I fotoni erano molto
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3 Dall’Universo alle stelle
Figura 3.3 Mappa dell’intera volta celeste dell’Universo primordiale raccolta in tre anni di osservazioni dalla WMAP. L’immagine rivela fluttuazioni di temperatura vecchie di 13,7 miliardi di anni (mostrate come differenze di tonalità di grigio) che corrispondono ai “semi” attorno ai quali si formarono le galassie. L’emissione proveniente dalla nostra Galassia è stata sottratta. L’intervallo delle temperature presenti in quest’immagine è di ± 200 microKelvin. (NASA/WMAP Science Team)
più numerosi dei barioni e dominavano la scena, negando ai barioni ogni indipendenza d’azione. Inoltre, non c’era abbastanza materia barionica da rallentare l’espansione e favorire l’innesco di azioni gravitazionali locali che portassero all’instabilità gravitazionale di Jeans. La crescita di “grumi” barionici fu perciò pesantemente ostacolata. Ma non esiste solo la materia barionica. La materia oscura, che è elettricamente neutra ed era presente in quantità molto maggiore, non era soggetta all’azione dei fotoni, poiché non interagisce con essi. Oltretutto, poteva efficacemente contrastare l’espansione (i suoi effetti gravitazionali si fanno sentire). Così, chiamando in causa la materia non-barionica, viene naturale immaginare che si formino “aloni” di materia oscura all’interno dei quali si condensa la materia ordinaria, ora allo stato neutro. In tal modo, miliardi di anni fa, si formarono le galassie e il mezzo intergalattico primordiale, destinato a diventare il luogo di nascita delle prime generazioni di stelle. In questa epoca cosmica, il mezzo intergalattico era costituito solamente dal gas generato nella nucleosintesi primordiale, e dunque dai primi elementi della tabella di Mendeleev. Approssimativamente consisteva di idrogeno al 75% e di elio al 25%, con frazioni percentuali di elementi più pesanti. Questo mezzo non era perfettamente omogeneo, e le fluttuazioni di densità che vi erano presenti consentirono al meccanismo di Jeans di operare anche su piccola scala. Così condensarono nubi di materia, richiamando altra materia dai dintorni, e al centro di queste prime aggregazioni la pres-
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Figura 3.4 L’immagine del Sole in raggi X presa dal satellite SOHO mostra numerose regioni attive nell’atmosfera della nostra stella. Le regioni più calde e più attive ci appaiono in bianco, mentre le aree scure indicano temperature più basse. La struttura che emerge dal disco nella parte bassa a sinistra è una protuberanza solare, ossia un’enorme nube di plasma relativamente fredda che si solleva nella corona sottile e calda del Sole. (SOHO; ESA, NASA)
sione e la temperatura andarono crescendo fino a instaurare una situazione d’equilibrio dopo solo poche centinaia di migliaia di anni. Ora la materia, riscaldata ad altissime temperature, era in grado di irraggiare e così nacquero le primissime stelle, grazie alla materia oscura. Stelle nucleari Una domanda che sfidò le menti dei fisici per molti decenni è questa: dove trovano le stelle l’energia che consente loro di brillare anche per miliardi di anni? Per esempio, il nostro Sole emette stabilmente radiazione con una potenza di 1027 watt, equivalente a quella prodotta da un miliardo di miliardi di centrali nucleari. E lo sta facendo da 5 miliardi di anni (Figura 3.4). I fisici del XIX secolo cercarono di spiegare l’energia stellare come il frutto di qualche processo classico di combustione chimica, oppure come trasforma-
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3 Dall’Universo alle stelle zione di energia potenziale in energia cinetica mentre la stella lentamente, ma inesorabilmente, si contrae collassando su se stessa (si veda l’Appendice 5). In entrambi i casi, risultava però che la vita della stella sarebbe durata al più pochi milioni o poche decine di milioni di anni, un valore che entrava in contrasto con l’età stimata del nostro pianeta, decisamente maggiore. Furono infine due fisici, Hans Bethe e Arthur Eddington, a fornire la risposta corretta, basando la loro teoria sulla relatività, che stabilisce l’equivalenza di massa e di energia, e sui progressi che si stavano compiendo in quegli anni nel campo della fisica nucleare. Nelle condizioni fisiche estreme che sono presenti nei nuclei delle stelle*2 come il nostro Sole, i protoni possono fondere*3 così da formare elementi più pesanti e più complessi. Se la massa del nucleo risultante è minore della somma delle masse delle particelle interagenti, la differenza viene trasformata in energia, in omaggio alle leggi di conservazione e alla ben nota relazione E = mc2. Dunque, all’origine dell’energia delle stelle ci sono le reazioni di fusione nucleare e, fra tutte le possibili reazioni, quella predominante in stelle simili al Sole è il cosiddetto ciclo protone-protone (Figura 3.5) in cui quattro protoni formano un nucleo di elio e liberano energia sotto forma di fotoni e neutrini. Ora siamo finalmente in grado di rispondere alla domanda: cos’è una stella? È un corpo celeste soggetto alla sua propria gravità (un sistema “auto-gravitante”) e di massa sufficientemente elevata da innescare e mantenere reazioni di fusione nucleare nel suo nocciolo. Le masse stellari All’interno delle stelle si devono verificare certe condizioni minime di temperatura e pressione affinché l’energia irraggiata sia il frutto di reazioni termonucleari e l’auto-gravità può garantire che tali condizioni si verifichino. Tutto dipende dalla massa, che nelle stelle è alquanto elevata. Infatti, non tutti i corpi auto-gravitanti sono sede di tali reazioni: basti pensare ai pianeti. L’evoluzione di una stella è totalmente regolata da un solo parametro: la sua massa*4 (Figura 3.6). Fotoni sotto pressione I fotoni, come le particelle ordinarie, esercitano una pressione, nota come pressione di radiazione. Questa, affiancandosi alla pressione “termica” (dovuta cioè all’agitazione termica delle particelle), contrasta la gravità, che altrimenti porterebbe al collasso della stella. Può capitare che la pressione di radiazione divenga il fattore dominante, non solo nei confronti della pressione termica, ma in assoluto, anche fino al punto di sovrastare la spinta della gravità e determinare una vera e propria evaporazione della *2 Le temperature nel nocciolo stellare superano i 10 milioni di gradi e le densità sono 100 volte maggiori di quelle dell’acqua. *3 Nelle reazioni di fusione abbiamo due nuclei (o più) che si combinano per costituire un nucleo più massiccio; invece, nelle reazioni di fissione il nucleo massiccio si scinde in nuclei più leggeri. *4 Questo “regime della massa” si instaura però entro certi limiti, determinati da semplici considerazioni di fisica fondamentale (si veda l’Appendice 3).
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υ
υ
deuterio
deuterio
γ
γ
elio - 3
γ raggio gamma υ neutrino
elio - 3
elio - 4
protone neutrone positrone
Figura 3.5 Nel ciclo protone-protone, due coppie di nuclei di idrogeno vanno soggetti a una fusione e a un decadimento beta che produce un positrone, un neutrino e l’idrogeno-2 (deuterio). Il deuterio reagisce con un nucleo di idrogeno producendo un nucleo di elio-3 e un raggio gamma. Due nuclei di elio-3, frutto delle precedenti reazioni, fondono e formano un nucleo di elio-4 più due protoni. Il risultato finale è la conversione di idrogeno in elio, mentre l’energia è stata rilasciata sotto forma di particelle e raggi gamma prodotti nei vari stadi della sequenza. (Williams College, USA)
stella. La potenza emissiva a cui ciò si verifica è detta limite di Eddington: tale valore fissa anche un limite superiore per la massa di una stella, dell’ordine di 120 volte la massa del Sole*5. Al di sopra di quel limite, le stelle si disintegrerebbero sotto la spinta della loro stessa pressione di radiazione. Al di sotto di esso, la pressione di radiazione e quella termica bilanciano la
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*5 La massa solare è l’unità che convenzionalmente si usa per misurare la massa delle stelle e di altri oggetti massicci. La massa del Sole è all’incirca pari a 2 × 1030 kg. La indicheremo con il simbolo M.
3 Dall’Universo alle stelle formazione stellare dentro una nube interstellare che sta collassando stella di 15 M
stella di 1 M
7 . 106 km 106 anni
1H
30 . 106 anni
4He
107 anni
4He
iniziano le reazioni nucleari 400 . 106 km
10 . 109 anni 1H
4He
12C
1,2 . 107 anni
oggetto di massa minore di 0,1 M
4He
combustibile esaurito, collasso del nucleo, esplode l’inviluppo:
supernova!
12C
12 . 106 anni nana bruna
buco nero ~ 3 km
stella di neutroni nana bianca ~ 10mila km ~ 3 km
Figura 3.6 Cammini evolutivi differenti di stelle in funzione della massa, a partire dalla loro formazione da una nube di materia interstellare all’interno della quale si sviluppa il meccanismo di Jeans fino al termine delle loro esistenze come buchi neri, nane bianche o stelle di neutroni.
forza di gravità che tende a far collassare la stella: in tal modo, viene garantito l’equilibrio idrostatico nei vari strati del plasma stellare, specialmente nelle regioni centrali. Se, per fare un esempio, nel nocciolo di una stella dovesse esaurirsi l’idrogeno, le reazioni di fusione cesserebbero, la pressione di radiazione e quella termica diminuirebbero e il collasso gravitazionale riprenderebbe il sopravvento. Accendere il fuoco nucleare Definiamo stella un oggetto celeste auto-gravitante nel quale si verificano certe condizioni che portano all’innesco di reazioni nucleari. Quali sono queste condizioni? Affinché il processo possa avere inizio, le distanze tra i nuclei, che hanno carica elettrica positiva e perciò si respingono, devono tipicamente ridursi fino alle dimensioni dei nuclei stessi (dell’ordine di 1 fermi = 10–15 m), contrastando le forze repulsive elettriche. Le particelle devono avere altissime energie affinché questo succeda; si può dimostrare che la temperatura richiesta è così elevata*6 che le stelle di tipo solare non avrebbero abbastanza massa per *6 È circa 100 volte la temperatura del nocciolo del Sole, che è dell’ordine di 107
K.
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Superstelle in esplosione svilupparla al loro interno. Per superare questa difficoltà e consentire alle stelle di tipo solare di brillare di luce propria, dobbiamo appellarci alla fisica quantistica, in particolare a un meccanismo, detto effetto tunnel quantistico, non previsto nella fisica classica. Questo effetto, che viene descritto in maggior dettaglio nell’Appendice 4, consente alle particelle di attraversare la barriera di potenziale elettrico come se passassero attraverso un “tunnel”: ciò rende possibili le interazioni, e le reazioni di fusione nucleare possono innescarsi a temperature da 10 a 100 volte più basse di quanto la fisica classica suggerirebbe. In questo modo, nei noccioli di stelle sufficientemente massicce per realizzare tali condizioni di densità e di temperatura, i nuclei di idrogeno possono fondersi producendo elio. Con l’energia liberata dalla reazione la stella può irraggiare, mantenendo al contempo il proprio equilibrio. Questa fase, nel corso della quale le stelle si trovano in una configurazione stabile, può durare miliardi di anni e viene detta Sequenza Principale. La stabilità delle stelle in Sequenza Principale è garantita sul lungo periodo perché gli effetti che scaturiscono dalla temperatura e dalla pressione si bilanciano costantemente. Le reazioni che sviluppano l’energia della stella tendono ad aumentarne la temperatura e questo dovrebbe accelerare il tasso delle fusioni; ma, con la temperatura, aumenta anche la pressione interna, di modo che la stella si espande e riduce la sua densità, il che fa di nuovo scendere la temperatura. Attraverso questo meccanismo si mantiene costante il tasso di produzione dell’energia nucleare, e con esso tutto il sistema è in equilibrio. Nei corpi celesti meno massicci la fusione dell’idrogeno non può essere innescata, di modo che, invece di diventare stelle, questi oggetti restano nane brune (la loro esistenza è stata confermata nel 1995 da osservazioni sulla Gliese 229b). Le masse stellari più piccole in assoluto misurano all’incirca un decimo di quella del Sole (Figura 3.7). Al di sotto di questo limite, la contrazione viene ostacolata da effetti quantistici (si veda la pressione di Fermi nella Appendice 2) e la temperatura del nocciolo non raggiunge mai il punto nel quale prenderebbero il via le fusioni nucleari. In definitiva, una stella è un corpo auto-gravitante di massa sufficientemente elevata perché possano procedere le reazioni nucleari e tutta la sua esistenza si riduce ad essere un incessante conflitto contro la forza di gravità. Quando una stella vede rosso Naturalmente, le stelle non vivono in eterno: la loro riserva di combustibile nucleare è grande, ma non infinita. L’instabilità è in agguato e a un certo punto la stella abbandona la Sequenza Principale. Quando il nucleo della stella, che rappresenta all’incirca il 10% della sua massa totale, è completamente costituito da elio-4, cessano le reazioni di
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3 Dall’Universo alle stelle
Figura 3.7 Dimensione approssimativa di una nana bruna confrontata con il Sole e con Giove. Benché le dimensioni siano simili a quelle di Giove, le nane brune sono molto più dense ed emettono luce propria, mentre Giove si limita a riflettere la luce del Sole. (NASA/CXC/M. Weiss)
fusione dell’idrogeno. Il nucleo dell’elio ha una doppia carica positiva, il che significa che la forza di repulsione tra i nuclei ora è ben maggiore di quella che si verificava tra i nuclei dell’idrogeno. I nuclei di elio non possono fondere alla temperatura attualmente presente nel centro della stella (diverse decine di milioni di gradi) e il nocciolo di elio totalmente inerte si contrae, non essendo in grado di sopportare il proprio peso. Allora la temperatura sale. L’energia gravitazionale che si libera riscalda gli strati (composti di idrogeno) che circondano il nucleo e, non appena la temperatura raggiunge il valore critico, in essi hanno inizio nuove reazioni nucleari. Questo “bruciamento nel guscio” implica che ora la stella ha una sorgente di energia periferica rispetto al nocciolo. Ciò modifica considerevolmente l’aspetto esteriore della stella. L’energia liberata in questo strato più esterno non deve sostenere l’intera massa stellare, ma solo quella dell’inviluppo esterno, il quale perciò inizia a gonfiarsi notevolmente. Dopo pochi milioni di anni, il diametro stellare sarà aumentato diverse decine di volte, mentre la temperatura superficiale sarà calata a circa 3000 gradi: la stella è diventata una gigante rossa (Figura 3.8).
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Figura 3.8 Un’eco luminosa illumina le polveri attorno alla stella V838 Monocerotis, una supergigante rossa ai confini della nostra Galassia. L’immagine è stata ripresa nell’ottobre 2004 dal Telescopio Spaziale “Hubble”. Dopo aver rivelato un improvviso outburst nel 2002, gli astronomi hanno seguito l’impulso luminoso che attraversava, via via illuminandole, le varie nubi polverose che circondano la stella variabile. (NASA, ESA, HHT, AURA/STScI, H.E. Bond)
Il nucleo di elio continua a contrarsi, e la sua massa cresce per l’apporto delle “ceneri” della combustione dell’idrogeno nel guscio circostante. Quando la temperatura raggiunge circa 100 milioni di gradi, può innescarsi un’altra reazione, la fusione di tre nuclei di elio-4 che dà luogo a un nucleo di carbonio-12, ciò che conferisce di nuovo stabilità al nocciolo stellare. Nel corso della fase di gigante rossa, l’aspetto della stella è cambiato enormemente: il diametro è cresciuto a dismisura e la stella ha una colorazione rossastra. La gran parte del suo volume è costituita da spazio vuoto, tanto che nel 90% di questo volume la densità è minore di quella del miglior vuoto che possiamo creare nei laboratori terrestri.
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3 Dall’Universo alle stelle
Figura 3.9 Immagine HST della Nebulosa Anello. Il debole puntino al centro era un tempo una stella più massiccia del Sole. Ora, al termine della sua vita, la stella ha espulso i suoi strati esterni nello spazio e quel che resta è una piccola nana bianca, di dimensioni comparabili con quelle della Terra. L’immagine è un poco fuorviante. Quello che sembra un anello ellittico, pare invece che sia una struttura elongata a forma di botte che circonda la stellina centrale. L’anello sembra rotondo solo perché stiamo guardando nella direzione dell’asse della “botte”. (HHT/AURA/STScI/NASA)
Invecchiare con grazia Alla fine, la stella esaurisce ancora una volta il combustibile e va incontro ad eventi che dipendono dalla massa delle sue regioni centrali. Il collasso riprende, ma se la massa è al di sotto di 1,4 masse solari, valore che è conosciuto come limite di Chandrasekhar*7, il collasso viene bloccato dalla pressione di degenerazione (o pressione quantistica di Fermi) creata dagli elettroni (si veda l’Appendice 2). Quando una stella raggiunge questo stadio, viene detta nana bianca*8 *7 Questo valore limite prende il nome dall’astrofisico indiano Subrahmanyan Chandrasekhar, che lo calcolò nel 1930. Chandrasekhar vinse il Premio Nobel per la Fisica nel 1983. *8 La prima nana bianca ad essere scoperta fu, nel 1862, la compagna di Sirio.
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Superstelle in esplosione (essenzialmente è costituita di carbonio). Essa consegue la stabilità grazie al fatto che la pressione di degenerazione elettronica è indipendente dalla temperatura (Figura 3.9). Con il passare del tempo, la stella si raffredda gradualmente e diventa sempre meno luminosa, fino a diventare una nana nera, un oggetto estremamente piccolo e denso, con una massa comparabile con quella del Sole, ma con un diametro simile a quello della Terra. Gli ultimi anni della sua esistenza trascorrono del tutto tranquilli. Invece, come vedremo più avanti, le stelle che hanno noccioli più massicci del limite di Chandrasekhar sono destinate a concludere la loro vita in un modo assai più spettacolare.
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Supernova
“Se la luminosità delle stelle dovesse raddoppiare, l’Universo sarebbe scuro per sempre.” J.W. von Goethe
L’esplosione di stelle (troppo) massicce Una cipolla dal cuore d’acciaio Proseguiamo nell’esplorazione dei noccioli delle stelle massicce, quelle di massa superiore a 6-7 volte la massa solare. Nelle stelle meno massicce, l’evoluzione delle regioni centrali si arresta quando il nocciolo di elio è stato completamente trasformato in carbonio e ossigeno; la massa risulta insufficiente perché la contrazione possa procedere oltre, con il conseguente aumento della temperatura che agevolerebbe le fusioni, e allora queste stelle rimangono nane bianche inerti, nelle quali l’equilibrio è garantito solo dalla pressione di degenerazione. La situazione è del tutto diversa nelle stelle più massicce. Il nocciolo può continuare a contrarsi e la temperatura interna può elevarsi a diverse centinaia di milioni di gradi: ora i nuclei di carbonio possono fondere per creare il magnesio. Di nuovo, si instaura l’equilibrio e cessa la contrazione del nocciolo. La stella, che è una gigante rossa, mantiene il suo aspetto esteriore, ma nel suo interno stanno avvenendo trasformazioni di grande portata. Ciò che ora andremo a descrivere riguarderà solo il nocciolo stellare, poiché le regioni esterne non giocano alcun ruolo nell’evoluzione finale dell’astro. L’equilibrio nel cuore della stella è solo transitorio. Infatti, il problema si ripropone non appena la combustione di un elemento viene a cessare per l’esaurimento di quel particolare “combustibile”. Il rimedio che la stella propone è sempre lo stesso: la compressione del nocciolo al fine di aumentarne la temperatura e favorire la fusione degli elementi creati nelle fasi evolutive precedenti. La stella massiccia ha ora assunto la caratteristica configurazione di una “cipolla” (Figura 4.1), con una sequenza di strati concentrici dentro ai quali avvengono reazioni nucleari di diversa natura. Lo strato esterno è fatto di idrogeno (H); vengono poi, nell’ordine, scendendo verso il centro, gli strati di elio (He), carbonio (C), ossigeno (O), neon (Ne), sodio (Na), magnesio (Mg), silicio (Si), zolfo (S) e, per ultimo, ferro (Fe).
Superstelle in esplosione
Figura 4.1 La struttura tipica di una stella massiccia, con una massa pari a 6-7 volte quella del Sole, è quella a “cipolla”, in cui i vari strati testimoniano le differenti fasi di contrazione e di innesco delle reazioni di fusione nucleare. La densità e la temperatura dei vari strati va aumentando nel tempo.
La stella sta cercando di rimandare l’inevitabile destino che l’attende: la temperatura centrale cresce sempre più per favorire l’incontro tra nuclei con carica positiva sempre più elevata e perciò soggetti a forze elettriche repulsive di sempre maggiore intensità. Le reazioni che creano via via nuovi elementi avvengono in tempi sempre più ridotti, poiché i tassi a cui si producono dipendono strettamente dalla temperatura*1. In una stella di 25 masse solari, per esempio, le reazioni procedono secondo una sequenza che si fa sempre più serrata, di questo tipo: – la combustione dell’idrogeno per formare elio e azoto, alla temperatura di 30 milioni di gradi, dura 8 milioni di anni; – la combustione dell’elio per formare carbonio, ossigeno e neon, alla temperatura di 150 milioni di gradi, dura 500mila anni; – la combustione del carbonio per formare neon, magnesio e sodio, alla temperatura di 800 milioni di gradi, dura 200 anni; *1 Per esempio, il tasso delle reazioni di fusione dell’idrogeno cresce con la quarta potenza della temperatura.
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4 Supernova – la combustione dell’ossigeno per formare silicio e zolfo, alla temperatura di 2 miliardi di gradi, dura pochi mesi; – infine, la combustione del silicio per formare il ferro, alla temperatura di 3,5 miliardi di gradi, dura un solo giorno. È un volo a capofitto che non può concludersi se non disastrosamente, poiché l’ultimo elemento creato, il ferro, è il nucleo più stabile che esista in natura (si veda l’Appendice 5). Portati ad alte temperature, non solo i nuclei di ferro non vanno soggetti alla fusione nucleare, con liberazione d’energia ma, al contrario, assorbono calore dall’ambiente. Nel dramma che si sta compiendo, il ferro è il furfante che si apposta nel cuore della stella per orchestrare il cataclisma che la distruggerà. La rapida evoluzione finale non concede tempo all’enorme inviluppo stellare per reagire in qualche modo, riaggiustando la struttura. Espanso com’è fino a un diametro dell’ordine di 700 milioni di chilometri, l’inviluppo esterno non avverte gli spasmi disperati che emergono dalle regioni interne. Per dare un’idea della scala spaziale, se il nocciolo di ferro misurasse 1 cm, il guscio che brucia l’idrogeno occuperebbe i 30 cm centrali, mentre il diametro dell’inviluppo arriverebbe a 700 m. Da ora in poi, ci occupiamo solo del nocciolo di ferro, visto che il resto della stella non sembra neppure accorgersi che presto ciò su cui si appoggia verrà espulso violentemente e la travolgerà. Un cuore di ferro Quando la fusione del silicio in ferro viene a cessare per mancanza di combustibile, la gravità prende ancora una volta il sopravvento e il nocciolo si contrae. La regione più interna del nucleo stellare (circa 0,8 masse solari) raggiunge la temperatura di 6 miliardi di gradi. I nuclei di ferro, invece di fondere, vengono fotodisintegrati*2 dai fotoni: ciascun nucleo viene scisso in 13 nuclei di elio, con emissione di 4 neutroni, e simultaneamente viene assorbita parte dell’energia dei fotoni. Naturalmente, questi eventi si riveleranno fatali per la stella; la fusione nucleare, che finora le ha permesso di resistere alla gravità, viene a mancare di colpo e allora non c’è più nulla che possa impedire alle forze gravitazionali di condurre a termine il lavoro. In circa un decimo di secondo, le zone più interne subiscono il collasso, con il diametro del nocciolo che si comprime da 4000 a 60 km, mentre la temperatura schizza a 50 miliardi di gradi, migliaia di volte superiore a quella che si misura nelle esplosioni di una bomba atomica. Le condizioni fisiche di temperatura e pressione sono così estreme che non sopravvive neppure un nucleo atomico nel cuore della stella morente: ora, vi si pos*2 La fotodisintegrazione è il processo fisico che determina il decadimento di un nucleo atomico in due o più nuclei figli, attraverso l’assorbimento di un fotone gamma di altissima energia. È il processo inverso della fusione, nella quale due nuclei leggeri fondono per dar vita a un nucleo pesante, con rilascio di energia.
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Superstelle in esplosione sono trovare solo particelle elementari, come protoni, neutroni, elettroni, fotoni e neutrini. Queste condizioni fisiche eccezionali, che non hanno eguali se non negli istanti iniziali dell’Universo, determinano la neutronizzazione nel centro della stella morente, con gli elettroni che si congiungono ai protoni per formare neutroni. Ora, la pressione di degenerazione dei neutroni opera efficientemente per creare una stella di neutroni, nella quale la materia è compressa a un punto tale che la densità è un milione di miliardi di volte maggiore di quella dell’acqua. Il diametro misura tra 20 e 70 km e l’accelerazione di gravità superficiale è circa 100 miliardi di volte la nostra, qui sulla della Terra. Caduta e rimbalzo Il collasso del nocciolo si interrompe di colpo dopo questa fase di neutronizzazione: ora il gas di neutroni degenere è in grado di sostenere il proprio peso. Solo una piccola frazione della stella, quello che era il suo “cuore di ferro”, è interessata a questi processi, mentre il resto della materia prosegue la sua caduta libera verso il centro e alla fine rimbalzerà sulla stella di neutroni. Il fenomeno produce una poderosa onda d’urto, che si propaga verso l’esterno. L’onda d’urto non passa facilmente attraverso gli strati periferici di ferro che si sono sottratti alla neutronizzazione e che, a loro volta, stanno crollando verso il basso, toccando ormai velocità dell’ordine di 70mila chilometri al secondo. L’incontro è così violento da fotodisintegrare i nuclei di ferro che erano rimasti intatti finora, sottraendo gran parte dell’energia all’onda d’urto. In questo processo, i primi cento chilometri sono quelli cruciali. Se l’onda d’urto riesce ad attraversare quella regione che Hans Bethe chiamava “campo minato”, allora avrà conservato un’energia sufficiente per propagarsi attraverso il resto dell’inviluppo e per causare l’esplosione finale della stella. Tutto dipende dalla quantità di ferro che l’onda incontra in questi primi cento chilometri: in altre parole, tutto dipende dalla massa iniziale della stella. Quanto più la stella è massiccia, tanto più esteso sarà il nocciolo di ferro e tanto più difficile per l’onda d’urto sarà attraversare il “campo minato”. Per lungo tempo, questo fenomeno ha rappresentato uno dei problemi più ardui per i teorici costruttori di modelli relativi alle esplosioni di stelle massicce. I modelli, infatti, suggerivano che l’esplosione non sarebbe potuta avvenire. In effetti, non si teneva conto di un protagonista decisivo: il neutrino. Nel corso della neutronizzazione vengono prodotti circa 1058 neutrini, che si portano via il 99% dell’energia emessa nell’esplosione della stella. I neutrini quasi non interagiscono con la materia e, nel caso di stelle con un massa iniziale sotto le 20 masse solari, non vengono coinvolti nel fenomeno. Invece, nelle stelle
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4 Supernova
Figura 4.2 Gli stadi principali attraverso cui passa una supernova a collasso del nucleo: l’implosione del nocciolo, che ne determina la neutronizzazione; la propagazione di un’onda d’urto negli strati esterni; l’esplosione della stella (la supernova) che produce un resto compatto (una stella di neutroni o un buco nero) e un inviluppo in rapida espansione.
più massicce, caratterizzate da una densità interna più grande, i neutrini possono trasferire una piccola frazione (meno dell’1%) della loro elevatissima riserva d’energia agli strati esterni della stella e tanto basta per rianimare l’onda d’urto. Così l’onda porterà a termine la sua missione, superando la zona pericolosa, e adesso nulla sarà più in grado di fermarla (Figura 4.2). Calor bianco L’impatto tra l’onda d’urto e gli strati in caduta libera è così violento da provocarvi una combustione nucleare esplosiva, nella quale vengono sintetizzati gli elementi pesanti che ritroveremo in seguito nel mezzo interstellare, depositati dai gas emessi dall’esplosione. Poche ore dopo il collasso del nocciolo, l’onda d’urto raggiunge la superficie della gigante rossa, avendo percorso diverse centinaia di milioni di chilometri. La temperatura negli strati superficiali sale da 3mila a 200mila gradi e la stella diventa brillante come miliardi di stelle normali, tanto luminosa da eguagliare la potenza emissiva della galassia che la ospita. Questo titanico evento, che segna la fine delle stelle più massicce, si rende visibile all’occhio umano anche se avviene in galassie lontane: quello che vediamo è una supernova. I fenomeni drammatici che finora si sono sviluppati nel profondo della
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Superstelle in esplosione Tabella 4.1 Distribuzione dell’energia emessa dai diversi tipi di supernova
neutrini energia cinetica luce
supernova gravitazionale 99% 1% 0,01%
supernova termonucleare 0% 99% 1%
˘ Figura 4.3 La “piscina a luce Cerenkov” del rivelatore giapponese per neutrini Super-Kamiokande. Il dispositivo rappresenta l’evoluzione del Kamiokande, che rivelò i neutrini prodotti dalla SN ˘ 1987A. Le particelle vengono rivelate osservando la luce Cerenkov che esse emettono passando attraverso l’acqua pura del contenitore. Il gommone sulla destra con a bordo due tecnici dà un’idea delle dimensioni dell’esperimento giapponese.
stella e al riparo dallo sguardo degli astronomi poiché la luce non è in grado di farsi strada nell’inviluppo, che è opaco, ora si palesano chiaramente: il 99% dell’energia liberata nell’esplosione si disperde nello spazio sotto forma di un flusso di neutrini. Queste particelle offrono un’opportunità davvero unica di raccogliere informazioni sul collasso e sull’evoluzione del nocciolo stellare. Sfortunatamente, occorrono strumenti di grandi dimensioni per riuscire a “catturarne” almeno qualcuna, trattandosi di particelle che interagiscono solo debolmente con la materia e perciò di diffi-
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4 Supernova
Figura 4.4 La danza fatale di una gigante rossa (B) attorno alla nana bianca (A) sua compagna. La materia viene trasferita dall’una all’altra fino a che il processo innesca il cataclisma cosmico di una supernova termonucleare.
cile rivelazione. Finora, si è riusciti a rivelare solo una manciata di queste preziose particelle: quelle associate alla supernova del 1987 (SN 1987A), che era relativamente vicina a noi, essendosi prodotta nella Grande Nube di Magellano. La gran parte dello sciame di neutrini rilasciato nel corso di questo evento è passato attraverso la Terra senza interagire con la materia (tanto meno con il rivelatore); solo poche dozzine hanno lasciato un segno del loro passaggio sotto forma di un anello luminoso di luce Cherenkov dentro un particolare rivelatore simile a quello mostrato nella Figura 4.3. La quantità di energia cinetica liberata dal nucleo stellare equivale a quella di un miliardo di galassie come la Via Lattea: circa 1046 joule. Quasi tutta questa energia è trasportata dai neutrini. Solo una parte su diecimila diventa energia luminosa (si veda la Tabella 4.1). Benché le supernovae si offrano ai nostri occhi inscenando uno spettacolo grandioso, la luce che ci inviano rappresenta solo una minuscola frazione del totale dell’energia liberata, gran parte della quale viene rilasciata dalla stella in pochi secondi sotto forma di neutrini. L’implosione del nucleo stellare non comporta la sua scomparsa. Il denso nucleo centrale sopravvive infatti sotto forma di una stella di neutroni o di un buco nero, a seconda della massa originaria della stella progenitrice. Quanto alla materia espulsa nello spazio, la ritroveremo in un bel ^
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Superstelle in esplosione resto di supernova, come la famosa Nebulosa Granchio, uno degli oggetti più ammirati e fotografati dagli amanti del cielo (Figura 1.2). Piccole guerre stellari È ancora la massa che conta Come abbiamo visto nei precedenti capitoli, il destino ultimo delle stelle dipende dalle masse iniziali dei loro noccioli. Se la massa è minore del limite di Chandrasekhar (circa 1,4 volte la massa del Sole), la fusione si interrompe dopo che è stato prodotto l’elio e la stella completa la sua evoluzione diventando una nana bianca che andrà via via raffreddandosi nel corso di diversi miliardi di anni. Se la massa del nocciolo supera il limite di Chandrasekhar, i meccanismi della fusione nucleare potranno proseguire fino a quando la stella andrà soggetta al cataclisma finale di una supernova. In ogni caso, anche queste stelline potranno avere il loro momento di gloria se, per qualche causa esterna, la loro massa cresce fino a raggiungere il limite di Chandrasekhar. Una situazione del genere è possibile nei sistemi binari stretti, quelle situazioni in cui due stelle orbitano l’una attorno all’altra quasi sfiorandosi (Figura 4.4). Se le stelle hanno masse differenti (come è spesso il caso), evolvono in tempi diversi e quando la meno massiccia giunge allo stadio di gigante rossa, l’altra è ormai già una nana bianca. L’atmosfera rigonfia e diffusa della gigante rossa, che riempie il suo “lobo di Roche”, viene allora risucchiata dalla gravità della vicina compagna. Esploderà o no? Attraverso questo meccanismo, la nana bianca diventa via via sempre più massiccia. Rimane stabile fin tanto che la massa si mantiene al di sotto della massa critica di Chandrasekhar, ma non appena quel limite viene raggiunto il gas degenere di elettroni non è più in grado di sostenere il peso del corpo stellare. Ora la densità della nana bianca è maggiore di 2 milioni di kg/m3, un valore mille volte maggiore della massima densità che una stella massiccia sperimenta nel corso della sua evoluzione. Come abbiamo visto nei capitoli precedenti, un nana bianca è un oggetto atipico, composto da gas degenere. È importante ricordare una proprietà fondamentale delle nane bianche: la pressione interna non dipende dalla temperatura, ma piuttosto dalla densità. Questa particolare proprietà determina il destino ultimo della stella. Quando la temperatura è sufficiente a consentire la fusione del carbonio, comincia a liberarsi una grande quantità
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4 Supernova di energia. In una stella normale, per la quale la pressione dipende dalla temperatura, questo extra di energia viene compensato dalla dilatazione dell’inviluppo esterno, ma in una nana bianca il meccanismo non può operare a causa della natura degenere del gas. Così, inizia un processo a catena: il tasso delle fusioni aumenta con la temperatura, la crescita di temperatura accelera il tasso delle fusioni e così via in un inarrestabile crescendo. Il sistema va letteralmente fuori controllo mentre si moltiplicano le combustioni termonucleari, e in pochi centesimi di secondo la temperatura al centro della stella balza da poche centinaia di milioni a diversi miliardi di gradi, dando così luogo a una supernova. Come già si è detto per le consorelle di massa maggiore, neanche questa stellina esplode subito. In verità, non conosciamo in ogni particolare il meccanismo che innesca l’esplosione, e nemmeno i dettagli della sua evoluzione. In particolare, la combustione dell’oggetto compatto può essere assimilata a una fiammata (si parla allora di deflagrazione), oppure a un’esplosione (detonazione), oppure ancora a una “esplosione ritardata” che comprende una fase di deflagrazione seguita da una detonazione. Attualmente, non c’è consenso fra i teorici riguardo alla natura dell’effettivo meccanismo. In ogni caso, la combustione del carbonio e dell’ossigeno nel nocciolo della nana bianca avrà convertito i nuclei in elementi più pesanti, in particolar modo in nichel-56, che gioca un ruolo importante nella spettacolare luminosità delle supernovae. Dopo aver trasformato la regione centrale della nana bianca, la “fiammata” si propaga attraverso il resto del corpo stellare. Come nelle stelle più massicce, la propagazione avviene con qualche difficoltà e la vampa rallenta mentre produce elementi relativamente leggeri, come il silicio, il calcio, lo zolfo e altri ancora. Dopo l’esplosione, della stella non resta nulla, né una stella di neutroni né un buco nero. Tutta la materia viene dispersa nello spazio a una velocità che supera i 15mila chilometri al secondo. Nel corso dell’esplosione termonucleare vengono rilasciati 1044 joule di energia, circa 100 volte meno che nel caso di una supernova gravitazionale, o a collasso del nocciolo, l’evento che segna la tragica fine di una stella massiccia. Questo meccanismo però non produce neutrini e gran parte dell’energia liberata viene dissipata sotto forma di energia cinetica (si veda la Tabella 4.1). Questioni di famiglia Numeri e lettere La distinzione che noi facciamo fra supernovae gravitazionali, che riguardano le stelle massicce, e supernovae termonucleari, connesse con l’evolu-
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Superstelle in esplosione zione di una nana bianca, risale a tempi relativamente recenti. Benché questi termini si adattino bene a descrivere i meccanismi osservati, gli astronomi continuano ad utilizzare le sigle e le nomenclature tradizionali, evolutesi nel corso dei decenni parallelamente agli studi sulle supernovae. Nel 1940, Rudolph Minkowski scoprì una supernova che era molto diversa dalla ventina di casi già noti. In particolare, era inusuale la sua curva di luce (il grafico che rappresenta l’evoluzione della luminosità in funzione del tempo) e nello spettro*3 comparivano ben evidenti le righe dell’idrogeno. Quest’ultima osservazione di per sé non avrebbe dovuto destare sorpresa, poiché l’idrogeno è l’elemento più abbondante dell’Universo e il componente principale di tutte le stelle. Semmai, gli astronomi erano rimasti meravigliati di non averne mai trovato traccia negli spettri delle supernovae precedenti. L’osservazione di Minkowski rivelava che le supernovae non costituivano una famiglia omogenea. Si rese perciò necessario ordinarle in due classi: SN Tipo I: senza righe dell’idrogeno; SN Tipo II: con righe dell’idrogeno. Progetti di ricerca sollecitati soprattutto da Fritz Zwicky portarono alla scoperta di vari altri tipi di supernova e, inevitabilmente, non appena emersero le differenze, alla definizione di sottoclassi (nelle Figure 4.5 e 4.6 riportiamo esempi dei loro spettri): SN Tipo Ia: nessuna riga dell’idrogeno, presenza del silicio; SN Tipo Ib: nessuna riga dell’idrogeno, forte presenza dell’elio; SN Tipo Ic: nessuna riga dell’idrogeno e nemmeno dell’elio, deboli righe del silicio. Un’altra importante osservazione ci aiuta a comprendere l’origine delle supernovae: quelle di Tipo II, Ib e Ic non sono mai state osservate in galassie ellittiche o lenticolari, mentre sono comuni nelle galassie spirali. Al contrario, le supernovae Tipo Ia compaiono sia nelle spirali che nelle ellittiche. Ciò è di primaria importanza perché ci conduce a concludere che: – le supernovae di Tipo II, Ib e Ic sono associate a galassie con popolazioni stellari relativamente giovani; – le supernovae di Tipo Ia sono associate a popolazioni stellari relativamente vecchie. *3 Lo spettro è la distribuzione dell’energia in funzione della frequenza della luce o, più in generale, dell’onda elettromagnetica rilevata.
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4 Supernova
silicio
zolfo
silicio
ferro
supernova termonucleare
Tipo Ia idrogeno assente silicio presente
silicio
Tipo Ic idrogeno assente elio assente silicio presente
elio
elio
elio
ferro
elio
flusso
ferro
ferro
supernova gravitazionale (a collasso del nucleo)
idrogeno
idrogeno
ferro
Tipo Ib idrogeno assente elio presente
Tipo Ib idrogeno presente
4000
5000
6000 7000 lunghezza d’onda (Å)
8000
9000
Figura 4.5 Le principali differenze tra gli spettri delle supernovae. Benché anche all’interno delle varie tipologie differiscano nei dettagli e nell’evoluzione temporale, gli spettri possono essere suddivisi in due classi fondamentali a seconda che presentino o meno le righe dell’idrogeno. Purtroppo, la tradizionale classificazione non esprime direttamente la realtà fisica del fenomeno, cosicché sono accomunate nel Tipo I sia le supernovae termonucleari, sia quelle a collasso del nucleo. Per la precisione, solo le Tipo Ia sono supernovae termonucleari; le Tipo Ib, Ic e le Tipo II sono supernovae gravitazionali.
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Superstelle in esplosione
Figura 4.6 Lo spettro di una supernova termonucleare di Tipo Ia monitorato dal Supernova Legacy Survey Program. Con un redshift pari a solo 0,3, questa supernova è esplosa relativamente vicino a noi: 3,4 miliardi di anni luce. L’osservazione è stata condotta presso il VLT (Very Large Telescope) dell’Osservatorio Europeo Meridionale sul Cerro Paranal (Cile).
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4 Supernova
magnitudine
Ia
II Ib
0
50
100
150
200
250
300
350
400
tempo (giorni dopo il massimo) Figura 4.7 L’evoluzione temporale attesa della luminosità per diversi tipi di supernovae. La luminosità cresce rapidamente, toccando il massimo entro 3-4 settimane dall’esplosione, poi cala nel corso di molti mesi. La forma della curva è caratteristica per ogni tipo di supernova.
Figura 4.8 La curva di luce di una supernova Tipo Ia monitorata dal Supernova Legacy Survey Program. L’osservazione è stata condotta presso il Canada-France-Hawaii Telescope (CFHT) sulla cima del Mauna Kea, nelle Hawaii. Curva ottenuta con la MegaCam, usando diversi filtri, dal blu (curva in basso), fino al rosso (curva più in alto).
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Superstelle in esplosione Queste osservazioni, insieme con i progressi nelle teorie dell’evoluzione stellare, aprono ora la strada a una classificazione più fisica e coerente. Le supernovae di Tipo Ia sono il risultato delle esplosioni termonucleari di nane bianche. Questo meccanismo spiega l’assenza di righe dell’idrogeno nello spettro, visto che una nana bianca è composta essenzialmente di carbonio e di ossigeno. Le nane bianche sono il frutto dell’evoluzione di stelle di piccola massa, come il nostro Sole, e perciò sono relativamente abbondanti in galassie di ogni tipo. Ecco perché troviamo le supernovae di Tipo Ia un po’ dovunque. Le supernovae di Tipo II, Ib e Ic sono invece il risultato del collasso gravitazionale di stelle massicce. L’assenza di idrogeno o di elio nello spettro è dovuta alla pressione di radiazione, che può essere particolarmente importante nelle stelle di massa più elevata (si veda l’Appendice 3). La pressione di radiazione può soffiar via il guscio esterno di idrogeno, conservando quello di elio (Tipo Ib), oppure può soffiar via entrambi (Tipo Ic). Poiché la vita media di una stella di grande massa è relativamente breve (pochi milioni di anni), ci aspettiamo di osservare queste supernovae solo nelle galassie in cui sta ancora procedendo la formazione stellare. Curve di luce La luminosità di tutti i tipi di supernova va aumentando per qualche settimana dopo l’esplosione, poi scende gradualmente nel corso di diversi mesi. In ogni caso, l’evoluzione della luminosità procede diversamente a seconda che le supernovae siano gravitazionali o termonucleari (Figure 4.7 e 4.8). Nelle supernovae a collasso del nucleo, l’emissione di luce è dovuta al riscaldamento degli strati esterni da parte dell’onda d’urto generata dal collasso del nocciolo di ferro. In una prima fase, tali strati si dilatano e la loro area superficiale aumenta rapidamente. La luminosità della supernova, che è proporzionale alla superficie emittente, comincia a crescere e raggiungerà il massimo valore tre o quattro settimane più tardi, quando l’espansione dell’inviluppo comincerà ad essere controbilanciata dal raffreddamento dei gas. Quando la temperatura degli strati più esterni tocca i 5-6000 gradi, interviene un fenomeno importante: gli elettroni e i protoni, che fino ad allora erano rimasti separati, possono ricombinarsi per formare atomi neutri, mentre nel profondo dell’inviluppo la materia calda e ionizzata permane allo stato di plasma. Poiché gli atomi neutri non si oppongono alla trasmissione della luce, gli strati esterni diventano trasparenti, mentre quelli interni restano completamente opachi. La zona di transizione tra questi due domini, caratterizzati ciascuno da proprietà particolari, è detta fotosfera. Questa “superficie” ideale, la cui temperatura è ben nota, per un certo tempo si mantiene sempre alla stessa distanza dal centro dell’esplosione, cosicché la luminosità della supernova
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4 Supernova
Figura 4.9 NGC 6946 è una galassia spirale vista di fronte relativamente vicina – solo 10 milioni di anni luce di distanza – nella costellazione del Cefeo. La luce che riceviamo ci dice che verso il centro abbondano le stelle vecchie, mentre lungo i bracci a spirale la popolazione dominante è quella delle stelle più giovani, presenti numerose nelle regioni di formazione stellare. NGC 6946 è ricca di gas e polveri, con elevati tassi di formazione, ma anche di scomparsa di stelle: negli ultimi settant’anni vi sono state osservate nove supernovae, di sette delle quali viene indicata la posizione.
resta pressoché costante per pochi mesi, dando luogo al plateau nella curva di luce che è caratteristico delle supernovae di Tipo II. Conseguenza curiosa e interessante di questo fenomeno è che noi riusciamo a “vedere” via via strati sempre più profondi della supernova che, trasportati verso l’esterno dall’onda d’urto, divengono direttamente osservabili non appena raggiungono il livello della fotosfera. In tal modo, studiando l’evoluzione temporale degli spettri possiamo esaminare in dettaglio le caratteristiche dei diversi strati. Si tratta di un’opportunità unica per realizzare una specie di “tomografia”, guardando nel profondo dentro queste stelle per osservare la loro tipica struttura a cipolla. Entra in campo la radioattività Come nel caso delle supernovae gravitazionali, la luminosità delle supernovae termonucleari inizialmente aumenta a causa della rapida espansione dell’inviluppo, che tuttavia è molto più piccolo di quello espulso da una stella
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Superstelle in esplosione massiccia, cosicché viene da pensare che la luminosità di una supernova termonucleare debba essere inferiore a quella di una supernova a collasso del nucleo. In realtà, le supernovae termonucleari nascondono un’“arma segreta”: la radioattività. Mentre la nana bianca brucia, una frazione considerevole della sua massa viene trasformata in nuclei radioattivi instabili di nichel-56, che decade in cobalto-56 emettendo raggi gamma. Questi interagiscono con gli elettroni liberi, trasferendo loro parte della propria energia. Ciò è causa dell’eccitazione di nuclei di massa intermedia, come l’ossigeno, il silicio, lo zolfo e il calcio. La diseccitazione di questi nuclei si affianca all’emissione luminosa della supernova e incrementa notevolmente la luminosità totale. Il picco di luce si avrà circa due o tre settimane dopo l’esplosione e, alla massima luminosità, una supernova termonucleare risulta essere addirittura fra 3 e 6 volte più brillante della sua controparte gravitazionale. In seguito, la luminosità diminuisce a ritmo regolare e la quantità di nichel-56 cala progressivamente. Circa due mesi dopo il massimo, il nichel è praticamente esaurito; ora tocca al cobalto-56 prendere il bastone del comando. Anche questo elemento decade in ferro-56 e raggi gamma, e poiché il cobalto-56 ha una vita media dieci volte più lunga di quella del nichel-56, il calo di luce risulterà rallentato. Fuochi d’artificio celesti Benché i meccanismi che alimentano i due tipi di supernovae, quelle a collasso del nucleo e quelle termonucleari, siano così diversi, la frequenza di comparsa degli eventi dei due tipi non è troppo diversa*4. La sola differenza apprezzabile è che le supernovae gravitazionali, generate da stelle massicce, compaiono esclusivamente nelle “giovani” galassie spirali. Nella nostra Galassia si stima che avvengano da 1 a 3 esplosioni di supernova al secolo. Un fenomeno così vistoso difficilmente passa inosservato, e nelle cronache antiche e moderne dovremmo trovarne traccia. Tuttavia, il disco polveroso della nostra Galassia assorbe efficacemente la luce di gran parte di questi eventi e perciò ce li nasconde. Non a caso, le sei supernovae storiche note (Tabella 1.1) si trovano tutte nei nostri dintorni galattici, in regioni che rappresentano circa solo un quinto del volume totale della Via Lattea. La frequenza di comparsa di supernovae può apparire piuttosto bassa se la confrontiamo con la scala temporale della vita umana; eppure, esistono in cielo vere e proprie “fabbriche” di supernovae, come la galassia della Figura 4.9. Se teniamo conto del fatto che nel nostro Universo esistono miliardi di galassie, dobbiamo concludere che ogni secondo il Cosmo è teatro dell’esplosione di 5 supernovae. Uno spettacolo pirotecnico non indifferente! *4 Misurare i tassi di comparsa di supernovae è un esercizio tutt’altro che agevole. Si ritiene che il rapporto sia di circa due supernovae gravitazionali per ogni supernova termonucleare.
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4 Supernova Che cosa ha a che fare la cosmologia con tutto questo? Le supernovae sono oggetti davvero affascinanti. Rappresentano i fenomeni più violenti dal tempo della formazione dell’Universo. Ma l’aspetto più straordinario è che questi oggetti, come diremo nei prossimi capitoli, sono diventati i segnali luminosi preferiti dagli astronomi per studiare l’evoluzione cosmica. Ciò dipende dal fatto che le supernovae sono sorgenti intrinsecamente assai brillanti, il che significa che possiamo osservarle anche quando si producono a grande distanza. In aggiunta, da una ventina d’anni abbiamo capito che le supernovae termonucleari Tipo Ia possono essere utilizzate come “candele-standard”. Questa proprietà, benché non del tutto ancora ben compresa, è soprattutto dovuta al fatto che l’esplosione si innesca sempre nelle medesime condizioni, nel momento in cui una nana bianca in accrescimento raggiunge il limite di Chandrasekhar. Prima di affrontare l’argomento delle applicazioni cosmologiche delle supernovae, rivolgeremo la nostra attenzione a un altro fenomeno estremo dell’evoluzione stellare: i gamma-ray burst.
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Superstelle: i gamma-ray burst
“Nel loro corso, le stelle segnano la morte del giorno, come torce funerarie.” Jean Racine
Un avvincente serraglio Dal tempo della loro scoperta, nei primi anni Settanta del secolo scorso, e fino alla parziale spiegazione della loro natura, nel 1997, l’origine dei gamma-ray burst (lampi gamma, GRB) è rimasta avvolta nel mistero. Per molti anni il fenomeno ha rappresentato un arduo problema per gli astrofisici e sono state numerosissime le teorie, diverse e spesso contrapposte, avanzate per spiegarlo. Alcune di queste suggerivano per i GRB un’origine interna al nostro Sistema Solare; altre li collocavano piuttosto dentro la nostra Galassia; altre ancora si spingevano parecchio più lontano. Era essenzialmente una questione di ordini di grandezza, stante l’entità della potenza energetica che si osservava: se davvero il fenomeno si produceva a distanze cosmologiche, all’origine doveva esserci un evento tra i più violenti conosciuti nell’Universo, in grado di surclassare persino le supernovae. Il velo fu parzialmente sollevato dal satellite Compton Gamma-Ray Observatory (CGRO) lanciato dalla NASA nel 1991 (Figura 5.1). Uno dei suoi strumenti, il BATSE (Burst And Transient Source Experiment), costituito da 8 rivelatori per raggi gamma, osservò più di 2700 lampi gamma (Figura 1.10), fornendo informazioni dettagliate su queste sorgenti: in particolare, le curve di luce (l’andamento del flusso in funzione del tempo), gli spettri (la distribuzione dell’energia in funzione della frequenza) e la posizione di comparsa, precisa a meno di pochi gradi. Corti, lunghi, ma tutti differenti Un primo risultato interessante scaturì dallo studio delle curve di luce (Figura 5.2), che esibivano comportamenti assai diversi. In primo luogo, variava la durata dell’emissione, da una frazione di secondo fino a diverse decine di secondi e talvolta a diversi minuti; in secondo luogo, si osservavano sensibili variazioni di intensità su scale temporali molto corte, fino a pochi millisecondi. Queste variazioni fornivano una prima indicazione del fatto che gli oggetti entro i quali si originano i lampi di raggi gamma devono essere estremamente compatti, meno estesi della distanza che la luce percorre nei tempi tipici delle
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Superstelle in esplosione
Figura 5.1 Il satellite Compton Gamma-Ray Observatory (CGRO), con i pannelli solari dispiegati, è qui ripreso poco prima del suo rilascio in orbita, con il braccio meccanico che lo solleva dalla stiva dello Shuttle. Agli angoli della struttura rettangolare del satellite si vedono quattro degli otto rivelatori dello strumento BATSE (Burst And Transient Source Experiment). (NASA)
Figura 5.2 Esempi di curve di luce ottenute dal BATSE a bordo del CGRO. Sull’asse orizzontale è riportato il tempo in secondi, a partire dall’istante di comparsa, mentre sull’asse verticale i numeri danno i conteggi dello strumento, proporzionali al numero dei fotoni rivelati. Nell’astronomia gamma i fotoni sono molto energetici, ma anche molto rari: lo strumento li rivela uno ad uno.
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5 Superstelle: i gamma-ray burst
Figura 5.3 Distribuzione della durata dei lampi gamma, definita come l’intervallo temporale entro cui il BATSE rivelava il 90% dei fotoni emessi da ciascun burst. Risulta evidente l’esistenza di due famiglie distinte: i burst corti (grigio chiaro) e i burst lunghi (grigio scuro).
variazioni. In un primo tempo, la grande varietà delle durate dell’emissione confuse gli astronomi, ritardando la loro classificazione. Alla fine, si convenne di considerare, per la totalità dei GRB registrati, come misura della loro durata l’intervallo temporale entro il quale veniva rivelato il 90% dei fotoni in arrivo e a quel punto fu chiaro che la distribuzione delle durate degli eventi esibiva una netta separazione in due famiglie distinte (Figura 5.3). Questa prima intrigante scoperta condusse alla classificazione dei lampi in due categorie: – i GRB lunghi, per i quali l’emissione dura più di 2 secondi e che rappresentano circa i tre quarti dei GRB rivelati; – i GRB corti, le cui emissioni durano meno di 2 secondi. Queste prime scoperte basate sulle osservazioni del BATSE crearono perplessità nella comunità scientifica poiché non sarebbe stato facile tro-
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Superstelle in esplosione vare un singolo meccanismo che fosse in grado di spiegare quella singolare distribuzione bimodale. E se fossero all’opera due meccanismi differenti? Prima di affrontare la questione delle origini dei lampi gamma, analizziamo più approfonditamente le loro caratteristiche, per raccogliere altri indizi che ci aiutino a far luce sulla loro natura. Un’energia eccezionale Il modo in cui si distribuisce l’energia del segnale proveniente dai GRB contiene informazioni importanti sulla natura fisica del fenomeno. Anzitutto, la distribuzione suggerisce che essi emettono praticamente tutta la loro energia nel dominio dei raggi gamma*1. Tale proprietà emerge con chiarezza quando calcoliamo il numero di fotoni N(E) ricevuti da ciascun GRB in funzione dell’energia, ricavandolo dal grafico che esprime la quantità N(E)×E2. In una rappresentazione di questo tipo ci accorgiamo che lo spettro di tutti i lampi gamma presenta un massimo, normalmente indicato con Epicco, che segnala qual è la banda spettrale entro cui cade il picco d’energia della sorgente. Il profilo di questi spettri può essere facilmente descritto da due funzioni che si raccordano all’energia di picco (un esempio è mostrato nella Figura 5.4). La forma degli spettri suggerisce con forza che il meccanismo responsabile dell’emissione sia di tipo “non-termico”, ossia indipendente dalla temperatura, contrariamente a quanto si osserva nelle stelle o nelle supernovae. Più precisamente, ne viene l’indicazione di processi che hanno a che fare con la radiazione di sincrotrone.
Figura 5.4 Lo spettro del GRB 990123, rappresentato in un tipico grafico N(E)×E2 in funzione dell’energia dei fotoni, compresa fra E e E+dE. Evidente il massimo (Epicco), qui posto a circa 720 keV. Questo è un burst estremamente energetico, soprattutto nella banda fra 150 e 230 keV. *1 In questo contesto assumiamo che la loro emissione nel dominio ottico o radio (che non era stata ancora rivelata al tempo delle osservazioni BATSE) risulti marginale rispetto a con quella nei raggi gamma.
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5 Superstelle: i gamma-ray burst Il lettore avrà notato che non abbiamo fatto alcuna distinzione tra lampi lunghi e corti. Questo perché gli spettri energetici sono molto simili, con la sola differenza che il valore dell’energia di picco è minore nel caso dei lampi lunghi: per questi, si aggira intorno ai 150 keV, mentre per i lampi corti è di circa 230 keV. Dunque, i GRB corti sono un poco più energetici di quelli lunghi. Lampi da tutte le direzioni Un altro risultato scaturito dalle osservazioni del BATSE, particolarmente evidente e significativo, è la distribuzione dei lampi gamma sulla volta celeste, che mostra una chiara proprietà di isotropia: ciò significa che non risultano direzioni favorite di comparsa, né alcuna tendenza per i lampi gamma ad affollarsi in talune regioni piuttosto che in altre, sia su piccola che su grande scala. Generalmente, si utilizzano ben precisi criteri statistici al fine di verificare in modo quantitativo che non vi siano correlazioni tra le posizioni di comparsa dei GRB, o di altre sorgenti, e la nostra Via Lattea. Il primo criterio considera la distanza angolare tra il GRB e il centro galattico e risponde alla domanda se i lampi gamma tendano a concentrarsi attorno al centro, oppure no. Il secondo criterio prende in considerazione la latitudine galattica della direzione di comparsa: i lampi gamma sono più numerosi nei dintorni del piano della Galassia, oppure no? Quando applichiamo questi criteri alle osservazioni del BATSE, la risposta non consente ambiguità di sorta: le direzioni di comparsa si accordano perfettamente, in senso statistico, con l’ipotesi di una distribuzione assolutamente isotropica. Ciò significa che possiamo eliminare ogni scenario che suggerisca come origine di questi eventi fenomeni connessi a sorgenti galattiche, a meno che tali sorgenti non siano vicinissime a noi, ai confini del Sistema Solare (un’ipotesi che, in effetti, venne avanzata, ma che in seguito si rivelò falsa). Questi risultati, a prima vista sconcertanti, costituirono un notevole progresso nella caratterizzazione dei fenomeni all’origine dei lampi gamma. Un triste destino Dai confini estremi del Cosmo Una delle questioni chiave riguardanti il fenomeno GRB è la distanza. Se l’origine dei lampi gamma è davvero cosmologica, essi rappresentano uno dei fenomeni più violenti nell’Universo, superiore per potenza emissiva persino alle supernovae. Ogni incertezza a questo riguardo venne spazzata via nel 1997 grazie al contributo, notevole sotto il profilo tecnico e scien-
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Superstelle in esplosione tifico, del satellite italo-olandese BeppoSAX. A bordo del satellite, un telescopio dotato di rivelatori per raggi X poteva essere manovrato in modo che puntasse la direzione di un GRB meno di qualche ora dopo che il satellite ne avesse rivelato la comparsa nei raggi gamma. La prima volta che tale impresa riuscì, BeppoSAX fu in grado di associare un lampo lungo, il GRB 970228*2, a un oggetto che, poche ore dopo la comparsa del GRB, era presente nella sua stessa posizione, ma emetteva in un dominio dello spettro elettromagnetico diverso da quello dei raggi gamma. L’osservazione dimostrava che i GRB emettono segnali su un intervallo spettrale piuttosto ampio e dunque che il loro posizionamento poteva essere determinato con maggior precisione, tipicamente con un’incertezza di pochi primi d’arco. È ben noto, infatti, che i rivelatori gamma difettano di precisione quando si tratta di posizionare una sorgente in cielo. Nel caso del lampo del febbraio 1997, puntando telescopi ottici nella direzione della sorgente gamma fu possibile evidenziare la presenza di una sorgente luminosa che andava indebolendosi velocemente, fino a scomparire del tutto nel giro di pochi giorni. La nuova sorgente, che è detta afterglow del lampo gamma (potremmo tradurlo “bagliore residuo”), si rendeva visibile a frequenze che andavano dalla banda visuale fino ai raggi X. Questo importante successo tecnico aprì la strada alla misura precisa della distanza degli eventi. Passarono solo pochi mesi e, ancora grazie a BeppoSAX, venne scoperto un altro afterglow, quello relativo al GRB 970508, nel cui spettro fu possibile distinguere chiaramente alcune righe d’assorbimento dovute alla presenza di materia interposta tra il GRB e l’osservatore terrestre. Come è ovvio, il GRB doveva essere lontano almeno quanto il materiale assorbente: da qui la certezza che si trovasse indubitabilmente a distanze cosmologiche. Queste scoperte posero termine a una diatriba che era durata quasi trent’anni: i GRB lunghi avevano sicuramente un’origine cosmologica. Al contempo, ora si poneva un nuovo problema: spiegare la luminosità intrinseca di queste sorgenti, che era assolutamente esagerata, tanto da detronizzare le supernovae, i quasar e ogni altro mostro di natura. I lampi gamma erano certamente gli eventi più energetici dal tempo della formazione dell’Universo. Ad oggi, sono ormai numerose le osservazioni che hanno consentito di misurare la distanza dei GRB. Al tempo della redazione dell’edizione italiana di questo libro, il detentore del record di distanza è il GRB 090423, scoperto il 23 aprile 2009 dal satellite Swift, frutto di una collaborazione tra centri di ricerca americani, italiani e inglesi. Il suo redshift (z = 8,3) ci dice che esso si produsse quando l’Universo aveva solo 630 milioni di anni, in un’epoca in cui la nostra Galassia non si era ancora formata.
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*2 Per i GRB si usa una sigla che fa riferimento alla data di scoperta. Il GRB 970228 fu rilevato il 28 febbraio 1997. Questo sistema di identificazione è abbastanza simile a quello che si usa per le supernovae. Talvolta gli astronomi difettano di fantasia…
5 Superstelle: i gamma-ray burst
Figura 5.5 Spettro del GRB 050904, uno dei lampi gamma più distanti mai osservati. Il suo redshift è pari a 6,29, ciò che lo colloca in un’epoca databile a 800 milioni di anni dopo il Big Bang. Lo spettro è stato raccolto dal telescopio giapponese Subaru, sul Mauna Kea, Hawaii.
L’osservazione è di grande importanza, in quanto ci rivela uno degli oggetti più remoti che siano mai stati osservati*3. La sua controparte nei raggi X (l’afterglow) è mostrata nella Figura 1.11. Per confronto, la supernova più distante finora rivelata ha un redshift di 1,7: significa che esplose circa 3 miliardi di anni dopo il GRB 090423. GRB e supernovae: un’inaspettata parentela Nel 2003, un nuovo decisivo progresso venne a seguito dell’osservazione di un altro GRB lungo, il GRB 030329. Si tratta di uno degli eventi più vicini a noi finora osservati: il redshift pari a 0,168 ci dice che si produsse solo due miliardi di anni fa. Con grande sorpresa degli astronomi, una decina di giorni dopo la sua scoperta, esattamente nella stessa posizione del lampo gamma, apparve una supernova, suggerendo per la prima volta che dovesse sussistere un legame stretto tra lampi gamma e supernovae. Da allora sono stati osservati altri eventi di questo tipo e risulta che le supernovae connesse con i GRB sono sempre del tipo gravitazionale, il risultato del collasso del nucleo di una stella massiccia che ha esaurito l’idrogeno (Tipo Ib) e l’elio (Tipo Ic). È perciò evidente che i GRB lunghi hanno qualche legame con la morte delle stelle massicce. L’ipotesi di questa curiosa connessione viene rafforzata dagli studi sulle *3 Il satellite Swift, espressamente realizzato per studiare i GRB, è in grado di osservare eventi con redshift anche maggiori di 10, ossia che ebbero luogo quando l’Universo aveva meno di 500 milioni di anni.
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Superstelle in esplosione
Figura 5.6 Osservazione del GRB 050904 nel dominio ottico effettuata con il telescopio robotizzato francese TAROT: si tratta di una vera e propria impresa osservativa, avendo il telescopio un diametro di soli 25 cm. L’estrema luminosità del GRB ne ha reso possibile l’osservazione per circa 10 minuti, prima che l’intensità della sorgente calasse troppo, fino a richiedere l’intervento di telescopi professionali di grande apertura.
proprietà delle galassie ospiti di questi eventi. Sembra infatti che tali galassie stiano vivendo una fase particolarmente attiva di formazione stellare, con tassi di produzione annua compresa tra 1 e 10 stelle della stessa massa del Sole. In ambienti cosmici di questo tipo viene favorita la formazione di stelle molto massicce che, dopo solo pochi milioni di anni, possono finire i loro giorni come supernovae gravitazionali. GRB corti C’è voluto più tempo per spiegare l’origine dei lampi gamma di breve durata, perché di questi non era mai stato rivelato il bagliore residuo, né nei raggi X, né nel dominio visuale. Perciò non era stato possibile determinare con precisione la loro distanza. Solo otto anni dopo la prima stima di distanza di un GRB lungo, un po’ di luce venne gettata anche sull’origine dei lampi brevi: nel 2005 quando venne finalmente osservato un loro afterglow, dapprima nel dominio dei raggi X e poi anche nel dominio visuale. Le osservazioni resero possibile l’identificazione della galassia ospite e perciò una precisa misura della sua distanza. Anche i lampi brevi risultarono aver luogo a distanze cosmologiche, benché apparve da subito chiaro che le distanze in campo erano minori di quelle dei GRB lunghi. Attualmente, il redshift medio dei lampi brevi è di
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5 Superstelle: i gamma-ray burst circa 0,3, con l’evento più distante a z = 0,7, mentre il lampo lungo più distante, come abbiamo visto, ha un redshift superiore a 8. La conclusione è che i lampi brevi sono fenomeni relativamente recenti nella storia dell’Universo, essendosi verificati negli ultimi 7 miliardi di anni. Poiché le osservazioni avevano stabilito l’esistenza di un legame tra lampi lunghi e supernovae, fu naturale investigare se tale associazione valesse anche nel caso dei lampi di breve durata. Sebbene siano state condotte numerose ricerche in questo campo, finora nessuna ha dato qualche frutto: non è possibile stabilire una connessione certa tra i lampi brevi e la morte di stelle massicce. La conclusione è stata corroborata anche dall’analisi delle proprietà delle galassie ospiti dei GRB brevi. Questi eventi si verificano tutti in galassie che non sono sede di formazione stellare, dalle quali le stelle massicce sono sparite ormai da lungo tempo, da diversi miliardi di anni. Sembra perciò assodato che i lampi brevi non hanno niente a che vedere con le supernovae gravitazionali, che sono il frutto dell’evoluzione finale di stelle di grande massa al termine della loro breve esistenza. A ciascuno il proprio destino I GRB sono lampi di raggi gamma molti intensi e di breve durata. Nel corso del tempo, varie osservazioni ci hanno portati a pensare che i corpi celesti nei quali essi si producono, i progenitori, abbiano nature differenti a seconda che i lampi siano corti o lunghi, benché per entrambi i tipi il fenomeno conosca un’evoluzione di una certa durata (l’afterglow) dopo la comparsa. Il compito che ora ci si dà è quello di identificare l’esatta natura del progenitore. Un elemento per la risposta viene fornito dall’energetica dell’evento, che è superiore a 1043 joule, equivalente all’energia dissipata da una stella come il Sole in oltre un miliardo di anni. Oltretutto, sappiamo che la sede di un’attività così energetica è straordinariamente compatta, come dimostra la notevole variabilità del flusso su tempi scala dell’ordine dei millisecondi. Il solo corpo celeste che sia compatto e capace di convertire in radiazione l’enorme quantità di materia richiesta è un buco nero. È pero diverso il modo in cui i lampi lunghi e corti si rapportano al buco nero. Vita di coppia travagliata La danza macabra dei lampi corti L’ipotesi che riscuote i maggiori consensi relativamente alla formazione dei burst di corta durata prevede la fusione di due oggetti compatti appartenenti a un sistema binario: nane bianche, stelle di neutroni o buchi neri. Abbiamo già incontrato tali sistemi nel capitolo precedente, parlando della
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Superstelle in esplosione genesi delle supernovae termonucleari. Più della metà delle stelle della Galassia non sono singole, come il Sole, ma fanno parte di sistemi binari. L’esistenza di una coppia stellare, tranquilla o burrascosa che sia, è governata da due soli parametri: le masse delle componenti e la distanza che le separa. La massa controlla l’evoluzione delle singole stelle. Essa determina quale combustibile nucleare la stella sarà in grado di innescare, quanto durerà in vita e, infine, il modo in cui porrà termine ai propri giorni. I sistemi binari che inizialmente sono costituiti da due stelle massicce, in un lasso di tempo che può durare da pochi milioni fino ad alcuni miliardi di anni, evolveranno in una coppia di oggetti collassati che possono essere nane bianche, stelle di neutroni o buchi neri, a seconda della massa di partenza delle due componenti. Il secondo parametro è la reciproca distanza. Nel caso di un sistema binario stretto, le caratteristiche orbitali potranno andare soggette a modifica a seguito dell’emissione di onde gravitazionali: in particolare, la distanza potrebbe diminuire progressivamente su tempi che vanno da decine di milioni di anni a un miliardo di anni. Partecipando a un moto a spirale che tende vieppiù a restringersi verso il centro, alla fine i due oggetti si incontreranno e si fonderanno in un corpo solo la cui massa potrebbe essere sufficiente a creare un buco nero. Quando ciò avviene, si libera un’enorme quantità di energia in un tempo molto breve, che darà luogo a un flusso intenso e di corta durata di emissione gamma, per l’appunto un gamma-ray burst. Il meccanismo che da questo momento agisce è molto simile a quello che interessa i lampi di lunga durata. Lo descriviamo più avanti. Questo scenario, con due oggetti compatti che si fondono in uno – si parla di “coalescenza” – ha il merito di spiegare almeno a grandi linee qualche particolarità dei lampi brevi. In particolare, poiché la formazione di un sistema binario compatto, il decadimento orbitale del sistema e la fusione finale delle due componenti possono richiedere tempi lunghi diversi miliardi di anni, è naturale attendersi che questi eventi si producano tardi nella storia dell’Universo, all’interno di galassie evolute nelle quali è già cessata da tempo la formazione stellare. È proprio ciò che si osserva. Poiché questo meccanismo inevitabilmente produce onde gravitazionali, la conferma della validità dello scenario proposto potrebbe venire dalla rivelazione di onde gravitazionali da parte degli strumenti attualmente operativi, come VIRGO, in Italia, e LIGO, negli Stati Uniti, o da progetti spaziali futuri come LISA (Figura 5.7). È una prospettiva eccitante per l’astronomia del XXI secolo.
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5 Superstelle: i gamma-ray burst Una stella troppo grossa: i lampi lunghi Poiché le osservazioni ci dicono che i lampi di lunga durata sono associati alle supernovae gravitazionali, è naturale collegare questi eventi con gli stadi finali dell’evoluzione di stelle massicce. Parliamo di stelle con masse che superano di 20-30 volte quella del Sole e che alla fine diventano buchi neri. Il buco nero cresce rapidamente, attraendo a sé la materia che si trova nei suoi dintorni, e al contempo può emettere due getti collimati, diretti in versi opposti, che hanno la forma di coni con un angolo al vertice di solo pochi gradi. I getti incontrano qualche difficoltà mentre cercano di fuoriuscire dall’inviluppo estremamente massiccio della supernova. Perché ciò avvenga, bisogna che qualche meccanismo li alimenti con una quantità considerevole di energia, più di 1043 joule, liberata in una dozzina di secondi. Ciò equivale all’energia emessa dal Sole in tutta la sua vita: l’emissione qui però è compressa in una manciata di secondi. Se i getti non hanno forza penetrativa sufficiente, il burst abortirà e il risultato sarà una supernova gravitazionale classica. Sembra che, mentre non tutte le stelle massicce producono un burst, tutti i burst si accompagnano a una supernova. Le ragioni che portano una stella massiccia a dar vita a un burst non sono ancora del tutto chiare e gli specialisti in questo campo continuano a confrontarsi in un vivace e appassionato dibattito. Gli studi più recenti indicano che la storia passata di queste stelle giocherebbe un ruolo decisivo, tenendo conto del fatto che, essendo massicce, sono sede di un’intensa pressione di radiazione. Una delle conseguenze è l’espulsione dell’inviluppo d’idrogeno poco tempo prima che la stella muoia. A questo punto, a un osservatore esterno appare il sottostante inviluppo di elio, che è caldissimo, e la stella si presenta come una gigante blu, precisamente come una stella di Wolf-Rayet (dal nome dei due astronomi che per primi osservarono oggetti di questo tipo). L’aspetto esterno è perciò molto diverso da quello di una supernova gravitazionale classica che, come si è già detto, negli ultimi stadi si presenta come una gigante rossa. Attualmente si stima che meno dell’1% delle supernovae gravitazionali produca un lampo gamma. Benché attorno a questi numeri ci sia molta incertezza, è oltremodo affascinante considerare il fatto che nel nostro Universo mediamente esplode un GRB ogni minuto. Per rendersi visibile, occorre però che uno dei due getti emessi dal buco nero punti esattamente nella nostra direzione. Ciò spiega perché il numero dei lampi gamma effettivamente rivelati sia così relativamente piccolo.
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Superstelle in esplosione
Figura 5.7 L’esperimento LISA (Laser Interferometer Space Antenna) è stato concepito per la rivelazione di quelle “increspature” nello spaziotempo che sono dette onde gravitazionali. Eventi che potrebbero generare onde gravitazionali sono le collisioni e le fusioni tra oggetti collassati, come buchi neri e stelle di neutroni. LISA sarà la prima missione spaziale lanciata a questo scopo. Sarà costituita da tre satelliti disposti ai vertici di un triangolo equilatero, con lati di 5 milioni di chilometri. Ciascuna navicella viene mantenuta centrata attorno a due cubi fatti di una lega di oro e platino. I cubi fluttuano liberamente nello spazio e la navicella li protegge dai rischi dello spazio interplanetario. La distanza tra i cubi nelle diverse navicelle è monitorata usando tecniche d’altissima precisione che fanno uso di raggi laser, in modo che sia possibile rilevare anche le minime variazioni dovute al passaggio di onde gravitazionali. (ESA)
Una volta che il getto si è creato e che si è lasciato alle spalle l’inviluppo della supernova, si innescano meccanismi estremamente violenti che danno origine al fenomeno proprio del lampo gamma. Da quel momento in poi, i lampi lunghi e quelli corti hanno storie simili.
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5 Superstelle: i gamma-ray burst Alle porte dell’inferno Come abbiamo visto, progenitore dei lampi di qualunque tipo sembra essere un buco nero nato da poco, circondato da nubi di detriti che sono i resti di una stella massiccia in rapida rotazione che è collassata (lampi lunghi) o ciò che rimane dopo la fusione di due oggetti compatti (lampi brevi). Da questo istante in poi, le due classi di eventi hanno percorsi simili, il che fa ipotizzare che sia all’opera un medesimo fenomeno fisico (Figura 5.8).
Figura 5.8 Lo schema illustra il meccanismo di produzione di lampi gamma lunghi e corti. L’oggetto progenitore è sempre un buco nero, formatosi dal collasso di una stella massiccia o dalla fusione di due oggetti collassati.
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Superstelle in esplosione
Figura 5.9 Lo schema illustra il modello fireball. Le scale temporali e spaziali sono espresse nel sistema di riferimento del GRB. Il mezzo circostante può essere il mezzo interstellare o la materia espulsa in precedenza dalla stella progenitrice.
Dettagli di questo fenomeno sono oggetto di un dibattito particolarmente acceso all’interno della comunità scientifica. In ogni caso, il cosiddetto modello fireball (“palla di fuoco”) sembra descrivere ragionevolmente bene ciò che avviene, almeno nelle sue linee generali. Parte della materia, essenzialmente composta da elettroni, riesce a sfuggire dal campo gravitazionale del neonato buco nero, venendo scagliata a velocità ultrarelativistica in due coni opposti. L’angolo di apertura di questi coni misura solo pochi gradi, e sarà un caso fortunato se l’osservatore si troverà nella direzione giusta lungo la quale essi si propagano. Solo così potrà assistere all’evento. Un firma peculiare La “palla di fuoco” non è per nulla omogenea e gli elettroni vengono accelerati in modo estremamente caotico. Fasci di elettroni si muovono verso l’esterno a velocità diverse e quando una nube ne sorpassa un’altra si instaura un’onda d’urto interna, più o meno relativistica, che ha l’effetto di accelerare ancor di più gli elettroni. Queste particelle cariche, interagendo con i campi magnetici dell’ambiente, rilasciano onde elettromagnetiche per meccanismo di sincrotrone e l’emissione che ne risulta interesserà una porzione molto ampia dello spettro elettromagnetico: dai raggi gamma, ai raggi X al dominio visuale. Le onde d’urto interne possono essere più d’una, e quindi le curve di
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5 Superstelle: i gamma-ray burst
Figura 5.10 Circa 170 anni fa, la stella eta Carinae, visibile dall’emisfero meridionale, all’improvviso divenne la seconda stella più brillante della volta celeste. Dopo aver emesso più di una massa solare di materia, nei successivi vent’anni inaspettatamente si indebolì. Questa “esplosione” ha creato la nebulosa che è detta Omuncolo, qui ripresa dal Telescopio Spaziale “Hubble”. La stella continua ad andare soggetta a inaspettati outburst, e la sua grande massa e variabilità la rendono la candidata ideale a esplodere come supernova entro qualche milione di anni. (N. Smith, J.A. Morse et al., Un. Colorado, NASA)
luce dei GRB si presenteranno assai complesse. Questo tipo di emissione è detto emissione immediata. Mentre si espande, il fireball sospinge via il gas che circonda il progenitore. Può essere materiale preesistente, del mezzo interstellare, oppure materia emessa in precedenza dalla stella, per esempio i suoi strati più superficiali. Questo ambiente ha un effetto frenante nei confronti della “palla di fuoco” e anche i suoi elettroni emetteranno radiazione su un ampio dominio spettrale. Questa radiazione è detta emissione dell’afterglow.
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Superstelle in esplosione Naturalmente, la descrizione che abbiamo dato del possibile meccanismo è molto semplificata; sono infatti presenti anche altre fenomenologie, in particolare riguardanti la dinamica dei fluidi. In alcuni casi, ci sono onde d’urto di ritorno che si propagano nelle regioni interne del fireball, dopo aver interagito con l’ambiente esterno, e comunque sono numerose le collisioni che avvengono tra i diversi strati di materia; tutto ciò è causa di una notevole variabilità nella tempistica di questi fenomeni. Ogni burst è differente da ciascun altro. Lo scenario è rappresentato nella Figura 5.9, ove sono indicati tempi e distanze nel sistema di riferimento del progenitore. Catturare le stelle una ad una I GRB e le supernovae sono fenomeni assolutamente straordinari. In qualche modo sono imparentati tra loro e, come avviene nelle famiglie umane, mostrano aspetti simili accanto a differenze. Entrambi surclassano ogni altro fenomeno cosmico per quel che riguarda la produzione di energia. Ma l’aspetto più affascinante è che ci offrono una visione di ciò che è avvenuto nel corso della storia dell’Universo, su una scala temporale molto ampia, che va indietro per circa il 95% della sua esistenza. Intrinsecamente luminosi come sono, essendo in qualche modo legati alla fine delle stelle più massicce, offrono agli astronomi un’opportunità davvero unica di osservare singole stelle fino agli estremi confini del Cosmo. Concludiamo questo capitolo con una nota che, benché apparentemente tetra, non deve farci perdere il sonno. C’è da sperare che non si abbiano a produrre gamma-ray burst all’interno della nostra Galassia e soprattutto che gli eventuali getti non puntino esattamente nella nostra direzione. Se ciò dovesse succedere, il flusso di raggi X e di raggi gamma sarebbe così intenso da distruggere lo strato di ozono che circonda il nostro pianeta e che fa da scudo nei confronti delle emissioni più nocive che il Sole ci invia. La vita sulla Terra sarebbe in pericolo. Per fortuna, le stelle candidate a terminare la loro vita con un burst sono davvero poche. La più vicina è eta Carinae, a circa 8 mila anni luce dal Sole, e il giorno in cui questa stella esploderà dobbiamo solo augurarci che la Terra non si trovi proprio sulla “linea di tiro” dei suoi getti (Figura 5.10). C’è anche da dire che la Galassia è enorme, e che conosciamo abbastanza bene soltanto le stelle nei nostri dintorni. Quindi, eta Carinae potrebbe non essere la sola indiziata. Insomma, la citazione di Racine con la quale abbiamo iniziato questo capitolo potrebbe assumere un significato più fosco per noi umani, ma la speranza è l’ultima a morire…
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Pietre miliari nell’esplorazione del Cosmo
“Niente è più facile che imparare la geometria; nel caso che se ne abbia bisogno.” Sacha Guitry Dal sogno di Hubble e Sandage all’energia oscura La “saga” cosmologica delle supernovae prese slancio verso la fine degli anni Novanta del secolo scorso quando due gruppi di ricerca, lavorando indipendentemente su un campione di una quarantina di supernovae termonucleari Tipo Ia, annunciarono che, contrariamente ad ogni aspettativa, l’espansione dell’Universo risulta accelerata*1. Questa scoperta ha conseguenze molto importanti per la cosmologia moderna, con implicazioni per la stessa fisica di base che non sono state ancora esplorate fino in fondo. Essa offre un quadro coerente del nostro Universo, quello che è conosciuto come Modello di Concordanza, che ci dà l’opportunità di collocare al loro posto i vari tasselli del puzzle cosmico che generazioni di astronomi si sono adoperati a raccogliere, mettendoceli confusamente a disposizione. Le osservazioni del fondo cosmico a microonde compiute negli ultimi anni da esperimenti e missioni come (per nominarne solo alcuni) Boomerang, Archeops, COBE e WMAP ci hanno fornito una stima sempre più precisa della quantità totale dell’energia nell’Universo, generalmente espressa attraverso il parametro Ωtot, che quegli esperimenti indicano essere uguale a 1 (la densità è pari a quella che è detta densità critica, circa 10-26 kg/m3). Studiando gli ammassi di galassie si è giunti a stimare la quantità totale di materia nell’Universo Ωm = 0,3. Ora, osservazioni di supernovae lontane hanno rivelato che c’è un nuovo contributo (ΩΛ) all’energia totale, il cui valore sarebbe prossimo a 0,7. Possiamo così vedere come questi tre tasselli si compongono armoniosamente tra loro (Figura 6.1). La conclusione sconcertante che discende da queste osservazioni è che ora è necessario accettare l’esistenza di una misteriosa energia oscura che sarebbe la componente dominante nell’Universo e che agisce con un’azione gravitazionale “repulsiva” (l’esatto opposto della forza gravitazionale attrattiva che tutti i corpi materiali esercitano). Si tratta certamente di un’idea stupefacente: se fosse vera, saremmo di fronte a una nuova rivoluzione copernicana. Come ovvio, molti sforzi sono *1 Si veda però anche l’articolo An Accelerating Universe, di J.E. Gunn e B.M. Tinsley, pubblicato su Nature, vol. 257, 9 ottobre 1975, pagg. 454–457, in cui l’idea era già stata proposta e discussa.
Superstelle in esplosione 0,0 Modello ΛCDM Ωk = 0 ΩΛ = 0,7 Ωm = 0,3
1,0 cu
0,5
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m)
(Ω ria
0,0
CMB
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0,5 1,0
0,5 SN Ia
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ammassi di galassie
1,5
energia oscura (ΩΛ) Figura 6.1 Il “triangolo cosmico” è una costruzione grafica che mette in relazione tre parametri cosmici fondamentali: Ωm, Ωk, ΩΛ. Per ogni punto interno al triangolo, il valore dei tre parametri dev’essere letto sui rispettivi assi là dove giungono i segmenti che escono dal punto paralleli ai tre lati. Si vede bene che per ciascun punto interno vale la: Ωm + Ωk + ΩΛ = 1. Le ellissi, con i margini d’incertezza associati, rappresentano i vincoli osservativi fissati dalle osservazioni del fondo cosmico a microonde (CMB), degli ammassi di galassie e delle supernovae Tipo Ia. I parametri convergono verso il Modello di Concordanza (ΛCDM). Le misure del CMB indicano che lo spazio è piatto, con parametro di curvatura pari a zero (Ωk = 0); quelle sugli ammassi di galassie che la densità di materia è bassa (Ωm ~ 0,3); quelle sulle supernovae Tipo Ia che l’espansione è accele-rata e che c’è un nuovo contributo di energia di cui si deve tener conto (ΩΛ ~ 0,7).
stati fatti per confermare le misure che suggeriscono l’accelerazione dell’espansione e per cercare di identificarne la causa fisica. Per capire meglio gli aspetti della questione e il suo sviluppo storico, facciamo un passo indietro. Passare in rassegna il Cosmo A partire dal 1912, l’astronomo americano Vesto Slipher, osservando diverse dozzine di galassie con uno spettrografo, compì una scoperta sbalorditiva: gli spettri di gran parte di questi oggetti mostravano righe spostate verso il rosso (redshift). A quel tempo sembrava naturale assumere che ciò fosse dovuto a un normale effetto Doppler, come se tutte quelle galassie stessero allontanandosi dall’osservatore e se la Via Lattea si trovasse al centro dell’Universo. Ma questo era contrario a quanto assume il Principio Copernicano, secondo il quale nell’Universo non esistono luoghi o direzioni privilegiate.
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6 Pietre miliari nell’esplorazione del Cosmo Come abbiamo detto nel primo capitolo, nel 1929 Edwin Hubble*2 mise in relazione le distanze delle varie galassie con il loro redshift, ricavando da queste misure la sua famosa legge che stabilisce che l’Universo si trova in una fase espansiva. Per giungere a questo risultato, Hubble si avvalse dei lavori di Henrietta Leavitt, che nel 1908 aveva studiato una particolare classe di stelle variabili, le Cefeidi, che prendono il nome dalla costellazione del Cefeo alla quale appartiene il prototipo di questa classe. La luminosità delle Cefeidi varia a causa di fasi regolari di espansione e di contrazione che interessano il corpo stellare. La Leavitt dimostrò che il periodo di variabilità delle Cefeidi è legato alla loro magnitudine assoluta attraverso quella che è detta relazione periodoluminosità, che perciò può essere sfruttata per stimare la loro distanza. Misurando infatti la magnitudine apparente (la luminosità percepita dall’osservatore) di una Cefeide e comparandola con la sua magnitudine assoluta, quale deriva dalla misura del periodo, diventava possibile stabilire la distanza delle galassie ospiti*3 (Figure 6.2). Una geometria curva Si può dire che l’enunciazione della legge di Hubble e la sua interpretazione come prova di un Universo in espansione segnano l’atto di nascita della moderna cosmologia osservativa. Il Cosmo non era più una realtà immutabile, come gli uomini avevano immaginato per millenni: ora aveva una sua storia. Iniziava una nuova era, che sarebbe stata caratterizzata da molte controversie e spesso anche da clamorosi ribaltamenti d’opinione. Uno di questi si ebbe proprio con la scoperta di Hubble (in collaborazione con Milton Humason e Vesto Slipher) dell’espansione dell’Universo, che veniva a confermare le teorie elaborate da Alexander Friedmann e Georges Lemaître, in opposizione ad Albert Einstein che riteneva che l’Universo fosse statico. Einstein dovette poi “ritrattare” l’idea della costante cosmologica che egli aveva introdotto nelle sue equazioni per ottenere un modello di Universo statico. Questo nuovo termine (che Einstein ammise essere stato “il più grande errore della mia vita”) era destinato a riapparire clamorosamente sulla scena dopo gli anni Settanta, nel contesto delle idee sull’espansione accelerata dell’Universo. Era l’ennesimo ribaltamento d’opinione. La struttura concettuale e matematica della cosmologia moderna si basa essenzialmente sul lavoro di Einstein, in particolare sulla sua teoria della Relatività Generale, che tiene conto degli effetti della gravità su grande scala. La teoria di Einstein, però, di per sé non basta: la cosmologia deve anche assumere alcuni postulati, il più importante dei quali è il Principio Cosmologico (lo spazio è omogeneo e isotropo) che, tra l’altro, ci consente di definire un tempo *2 Utilizzando il telescopio di 100 pollici (2,5 metri) di Monte Wilson che, a quel tempo, era il più potente al mondo. *3
Nello spazio euclideo “ordinario”, la magnitudine apparente cresce (la brillantezza diminuisce) come l’inverso del quadrato della distanza (ossia come 1/r2).
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Superstelle in esplosione
Figura 6.2 (a) L’immagine del Telescopio Spaziale “Hubble” ritrae una stella pulsante, una variabile Cefeide, in una regione della galassia spirale M100. Le Cefeidi sono abbastanza rare e sono validi indicatori di distanza. L’HST ha rivelato la Cefeide in una regione di formazione stellare in un braccio a spirale. Le tre piccole foto in alto, riprese a settimane di distanza, testimoniano la variazione ritmica della luminosità della stella. La durata del periodo di una Cefeide fornisce un’indicazione diretta della luminosità intrinseca della stella: più il periodo è lungo, più luminosa è la stella. Dopo aver rilevato la durata del periodo e la magnitudine apparente, è immediato ricavare la distanza della Cefeide e quindi anche della galassia ospite: nel caso di M100, la distanza risulta essere di 56 milioni di anni luce. Per calcolare il tasso d’espansione dell’Universo occorre effettuare misure di distanza precise come questa. (NASA, HST, W. Freedman, R. Kennicutt, J. Mould)
cosmico universale. Questo principio permette di ricostruire una cronologia degli eventi, ossia di delineare la storia del Cosmo. Nei modelli che ne derivano, l’Universo è un continuo spaziotemporale, generalmente curvo (ossia non-euclideo), caratterizzato dalle sue dimensioni e dalla sua curvatura (Figura 6.3). Le proprietà del continuo spaziotemporale sono determinate dal suo contenuto di energia-materia, che evolve nel tempo cosmico. I due aspetti, la curvatura e il contenuto, sono connessi tra loro dalle equazioni di Einstein, che determinano il comportamento del fattore di scala
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Figura 6.2 (b) La sequenza di sei riprese dell’HST testimonia la variazione ritmica di luminosità di una Cefeide di M100. La Cefeide di queste immagini raddoppia la luminosità (passando dalla magnitudine apparente 24,5 alla 25,3) in 51,3 giorni. (NASA, HST, W. Freedman, R. Kennicutt, J. Mould)
R(t), il parametro caratterizzante l’espansione. Non solo la distanza tra le galassie varia nel tempo proporzionalmente a R(t), ma anche la lunghezza d’onda delle radiazioni. In un Universo in espansione, la distanza media tra le galassie andrà crescendo e l’espansione in linea di principio potrà accelerare, decelerare o addirittura invertirsi in una contrazione in funzione del contenuto di energia-materia (Figura 6.4 e Appendice 10). Lo scopo della cosmologia osservativa è stabilire quale sia la geometria dell’Universo e caratterizzare l’espansione misurando i parametri cosmologici fondamentali. Avendo questo in mente, dobbiamo sforzarci di prendere in considerazione corpi celesti il più lontani possibile, misurandone la distanza, poiché il loro comportamento alle diverse distanze varierà in dipendenza di come variano la curvatura dell’Universo e l’accelerazione, o la decelerazione, dell’espansione cosmica in funzione del tempo. Possiamo poi utilizzare ciò che troveremo per discriminare tra modelli cosmologici diversi e scegliere quello che meglio si adatta alle osservazioni, scartando gli altri. Da notare che nello spazio
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Superstelle in esplosione
Figura 6.3 L’Universo è un continuo spaziotemporale a quattro dimensioni (le tre spaziali e quella temporale). La sua geometria si caratterizza per una specifica curvatura, qui illustrata su superfici bidimensionali. La curvatura è determinata dal contenuto totale di energia-materia dell’Universo, misurato dal parametro Ω0. A seconda del valore di questo parametro, abbiamo tre tipi di geometrie: sferica (Ω0 > 1), iperbolica (Ω0 < 1) e piatta (Ω0 = 1).
curvo il concetto di distanza non è univoco. Quando concentriamo la nostra attenzione sulla luminosità delle sorgenti lontane, il parametro corretto da utilizzare è la distanza di luminosità, tradizionalmente indicata con DL (si veda l’Appendice 10). Se siamo in grado di misurare questo tipo di distanza, diventa tecnicamente possibile comparare le previsioni dei vari modelli con le osservazioni, rilevando in tal modo il “peso” delle diverse componenti dell’Universo. Una storia di standard Come si è detto, Hubble usò una proprietà delle Cefeidi, la relazione tra i periodi di variabilità e le magnitudini assolute, per determinare le distanze delle galas-
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Figura 6.4 La storia dell’espansione cosmica. Le curve rappresentano l’evoluzione della distanza media tra le galassie, espressa dal parametro R(t), il cosiddetto fattore di scala. A seconda del contenuto di materia-energia dell’Universo, l’espansione può essere sempre decelerata oppure prima decelerata e poi accelerata. Le misure di distanza delle supernovae termonucleari (punti) dimostrano che ci fu una fase di espansione decelerata seguita da una fase recente di accelerazione.
sie da lui osservate. Misurando i periodi e le magnitudini apparenti delle Cefeidi era immediato calcolarne la distanza. Questo principio può essere esteso a tutte le categorie di oggetti celesti di cui si conosca la magnitudine assoluta: in tal modo, essi possono essere sfruttati come indicatori di distanza. L’ipotesi implicita che qui si fa è che questi oggetti posseggano tale proprietà ovunque si trovino nell’Universo e a qualunque epoca cosmica li si osservi: essi vengono perciò assunti come candele standard. Per prendere le misure dell’Universo vicino e lontano abbiamo bisogno di usare un’ampia gamma di famiglie di candele standard, curando che siano intrinsecamente sempre più luminose quanto più vogliamo sfruttarle sull’Universo lontano. Per esempio, le Cefeidi possono essere utilizzate solo fino a distanze di circa 20 Mpc, perché al di là non sono rivelabili dai telescopi esistenti. Ecco perché sono state proposte anche altre candele standard, come i membri più brillanti degli ammassi di galassie, che si assume siano all’incirca
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Superstelle in esplosione della stessa luminosità in tutto l’Universo. A dire il vero, uno standard di questo tipo potrebbe essere non del tutto affidabile, poiché la luminosità delle galassie potrebbe modificarsi nel corso delle ere cosmiche, per esempio a seguito di fusioni con altre galassie. Quello delle fusioni è un fenomeno a cui si assiste in ogni tempo cosmico, e che risulta essere più o meno frequente da un ammasso all’altro. Fra i vari candidati a candele standard perfette, le supernovae sembrano essere assai promettenti poiché emettono tanta energia quanta un’intera galassia e perciò possono essere viste anche quando sono parecchio lontane. Il loro uso in cosmologia risale al 1960-1970, ad opera di alcuni pionieri, tra cui Colgate, Wagoner, Kowal, Branch, Patchett e Kirshner, i cui lavori anticiparono lo sviluppo di uno strumento come il Telescopio Spaziale “Hubble” (Figura 6.5). In quegli anni, tuttavia, i risultati si rivelarono deludenti, e spesso anche contradditori sulle varie scale di distanza, da un lato per la difficoltà di individuare supernovae che fossero candele standard davvero affidabili, dall’altro per la disomogeneità delle misure, spesso ottenute con strumenti e telescopi troppo diversi tra loro perché le si potesse comparare. Questo fu uno degli elementi che caratterizzarono l’annoso dibattito sulla determinazione della costante di Hubble H0: alcuni trovavano una scala di distanza corta, altri una scala che era lunga giusto il doppio. Le supernovae Tipo Ia sono candele standard affidabili? Negli anni Novanta del secolo scorso, un gruppo di ricercatori che lavorava all’Osservatorio del Cerro Tololo, in Cile, realizzò un passo decisivo verso la definizione di un indicatore di distanza cosmologico realmente affidabile, prendendo in considerazione un certo numero di supernovae di Tipo Ia relativamente vicine. Disponendo di un insieme omogeneo, gli astronomi si trovarono facilitati nello studio delle proprietà di queste supernovae e subito si resero conto delle loro potenzialità in campo cosmologico. Alle distanze relativamente piccole a cui venivano osservate, gli effetti della curvatura dello spazio erano praticamente trascurabili e in un diagramma di Hubble (il grafico magnitudineredshift) ci si aspettava di trovare una semplice relazione lineare. In realtà, ci si rese conto che c’era una notevole dispersione*4 nei valori della luminosità di picco di queste supernovae (Figura 6.6), ciò che introduceva una considerevole incertezza nel diagramma di Hubble. Purtroppo, le curve di luce di queste sorgenti, benché molto simili tra loro, non sono del tutto identiche. La scoperta decisiva del gruppo del Cerro Tololo fu che l’altezza del picco delle supernovae Tipo Ia dipende criticamente dal modo in cui, dopo l’esplosione, la luminosità decresce in funzione del tempo, ossia dalla velocità di discesa della curva di luce. Era un risultato importante, poiché, osservata siste*4 Se
le candele standard fossero assolutamente tali, la dispersione sarebbe zero, ma purtroppo viviamo in un Universo imperfetto.
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6 Pietre miliari nell’esplorazione del Cosmo (a)
(b)
Figura 6.5 (a) Verso la fine degli anni Settanta del secolo scorso ci si rese conto che le osservazioni di supernovae, compiute con strumenti a bordo di satelliti, come l’HST, avrebbero offerto opportunità eccezionali negli studi cosmologici. (The Astrophysical Journal) (b) Al Telescopio Spaziale lanciato nell’aprile 1990 è stato dato il nome di Edwin Hubble: il contributo di questo strumento era destinato a rivoluzionare tutti i campi dell’astrofisica. (NASA)
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Superstelle in esplosione (a)
(b)
Figura 6.6 (a) Le curve di luce delle supernovae di Tipo Ia non sono tutte identiche, ma diventano sovrapponibili applicando il metodo dello “stiramento”, come si vede in (b).
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6 Pietre miliari nell’esplorazione del Cosmo maticamente la supernova per qualche settimana e rilevato l’andamento della sua curva di luce, diventava possibile applicare una correzione che riduceva di molto la dispersione dei valori della luminosità al picco. In tal modo, se anche non erano candele standard perfette, le supernovae Tipo Ia potevano diventarlo dopo che fosse stata applicata la correzione. Erano quantomeno candele “standardizzabili”. Da allora in poi, altri tipi di correzione sono stati proposti per ridurre ulteriormente la dispersione della luminosità intrinseca e per migliorare la standardizzazione, sfruttando altre proprietà delle supernovae. Per esempio, c’è una tecnica di “stiramento”, basata sul fatto che le curve di luce non sono tutte esattamente sovrapponibili (Figura 6.6 a), nel senso che quelle degli oggetti più luminosi hanno una scala temporale un poco più lunga delle altre. Si usa perciò definire un “parametro di stiramento” che caratterizza la durata del declino di una supernova e che viene utilizzato per normalizzare tutte le curve di luce*5 (Figura 6.6 b). A caccia di supernovae Tipo Ia In ogni galassia, le supernovae sono eventi rari, effimeri, che compaiono senza preavviso. Per sfruttarle in campo cosmologico al fine di discriminare tra i vari modelli di Universo, si deve studiare un campione sufficientemente numeroso che copra una notevole varietà di distanze. In aggiunta, le si deve osservare nel corso di molti mesi se si vogliono studiare accuratamente le caratteristiche delle curve di luce, anche per operare le correzioni dette. Rivelare una supernova può non essere un compito difficile, a patto che si abbia molta pazienza. Le supernovae si verificano abbastanza di frequente se si considera la totalità dell’Universo, con i suoi miliardi di galassie; se però ci limitiamo a considerare una piccola area della volta celeste, allora occorre molta perseveranza. In ogni caso, prima o poi una supernova vi comparirà. La strategia che adotteremo è abbastanza semplice: anzitutto, bisogna prendere un’immagine profonda di quell’areola di cielo, che ci servirà come riferimento. Qualche giorno dopo, prenderemo una seconda immagine della stessa zona e faremo il confronto. Tra i molti oggetti variabili che vi scopriremo, una certa frazione*6 sarà certamente rappresentata da supernovae (Figura 6.7). L’altro dato necessario per compiere studi cosmologici è la misura precisa del redshift z della supernova, o della galassia ospite, che può essere ottenuta applicando lo spettrometro al fuoco di un grosso telescopio, con diametro di 8 o 10 metri, come il VLT (Very Large Telescope), in Cile, i Gemini, in Cile e nelle Hawaii, e i telescopi Keck nelle Hawaii (Figure 6.8 a-f). È tutto abbastanza facile in linea di principio, un po’ meno nella pratica. Per le supernovae più lontane abbiamo bisogno non solo di un telescopio di grande diametro, in grado di *5 C’è un’altra correlazione, nota come “più brillante, più blu”, che è stata evidenziata e che consente una riduzione ancora migliore della dispersione delle luminosità. Essa stabilisce una relazione tra la luminosità al massimo e il colore della supernova. *6
Ci sono altri oggetti variabili nell’Universo, per esempio le novae e i quasar.
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Superstelle in esplosione
Figura 6.7 Scoperta, monitoraggio fotometrico e curve di luce delle supernovae. Un’immagine di ricerca viene confrontata con un’immagine di riferimento, presa in precedenza. La differenza delle immagini, realizzata con metodi digitali, rivelerà un certo numero di sorgenti variabili, tra le quali molte supernovae. Il monitoraggio delle stelle sospettate d’essere supernovae viene effettuato attraverso l’uso di filtri con banda passante a differenti lunghezze d’onda (indicati dalle sigle r' e i'), per mettere in luce le proprietà di questi oggetti.
rivelare oggetti deboli raccogliendo quanti più fotoni possibile, ma anche di un rivelatore capace di abbracciare un campo molto ampio*7 al fine di massimizzare la probabilità di scoprire una supernova. Purtroppo, gli strumenti con queste caratteristiche sono pochi e questo è il motivo per cui alcuni programmi di ricerca sono stati avviati con telescopi della classe dei 4 m, come il Canada-France-Hawaii, nelle Hawaii (Figura 6.8 a), e il Blanco, della Calan-Tololo Survey (Cile). Questi telescopi, con gli strumenti accessori di alta qualità di cui sono dotati, offrono opportunità uniche di coprire *7 Affinché la ricerca di supernovae abbia qualche probabilità di riuscita, il rivelatore deve coprire un’area larga almeno mezzo grado, grosso modo equivalente al disco della Luna Piena.
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6 Pietre miliari nell’esplorazione del Cosmo aree celesti relativamente estese (anche fino a 1°) con una sola esposizione: sono ideali per analizzare ampi volumi di Universo attraverso ricerche sistematiche. Cosmologia di precisione Convergenza verso la Concordanza? I progetti attuali mirano non solo a verificare l’espansione e la sua accelerazione, ma cercano anche di identificarne le cause. Questi obiettivi, particolarmente il secondo, richiedono misure di altissima precisione. In primo luogo, si richiede che la valutazione dei tre parametri cosmologici basilari (Ωtot, Ωm, ΩΛ) sia precisa al 99% o anche più; inoltre, si spera di riuscire a capire se sia all’opera una “vera costante cosmologica” oppure un’“energia oscura variabile nel tempo”. Un ottimo esempio dei progressi fatti in anni recenti è costituito dai risultati della Supernovae Legacy Survey (SNLS). Attualmente, questo è il programma che ha preso in considerazione il più vasto insieme omogeneo di supernovae di Tipo Ia. Utilizzando risultati relativi a più di cento supernovae distanti e mettendoli a confronto con i dati ottenuti in altro modo per le supernovae vicine, una prima analisi (Figura 6.9) dimostra che è da escludere qualsiasi modello cosmologico che non tenga conto di un contributo dovuto a una costante cosmologica o a un’energia oscura. Il modello di un Universo che contenga soltanto materia cade sistematicamente all’esterno dei margini d’errore delle misure, e quindi è da scartare. Altri programmi, come quello che utilizza il Telescopio Spaziale “Hubble” per rivelare le supernovae di Tipo Ia più distanti in assoluto, ci confortano con risultati analoghi. Cionondimeno, le conclusioni non possono dirsi ancora definitive. Quello che si osserva, e che ci convince del fatto che l’espansione cosmica stia accelerando, è che le supernovae lontane sono sistematicamente più deboli di quanto ci si attende in un Universo a geometria piatta e senza costante cosmologica. Ora però bisogna dimostrare senza ombra di dubbio che l’effetto che si osserva (la minore luminosità) è reale e che non è dovuto a qualche altro fenomeno capace di “mimare” l’espansione accelerata dell’Universo. La sfida è tutta qui. Il Cosmo è sottile…*8 In realtà, potrebbero essere all’opera meccanismi e condizioni che determinano il sistematico calo osservato della luminosità delle supernovae più lontane, senza che ciò implichi necessariamente l’accelerazione dell’espansione. Uno di questi è il fatto che le proprietà delle supernovae potrebbero essersi modificate nel corso della storia dell’Universo. I casi che osserviamo a maggiore distanza *8 …ma
non malizioso, per parafrasare Einstein.
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Superstelle in esplosione Figura 6.8 (a) Per osservare supernovae lontane, sia per scoprirle che per ricavare le curve di luce, dobbiamo utilizzare telescopi di almeno 4 m di diametro, come il CFHT (Canada-France-Hawaii Telescope), qui fotografato di notte, con le stelle “strisciate” sullo sfondo. (Jean-Charles Cuillandre, CFHT)
(b) A questi telescopi vengono applicate camere a grande campo come la MegaCam, che copre aree di un grado quadrato e che è al momento una delle migliori al mondo (Paris Supernova Cosmology Group). L’identificazione e la misura della distanza delle supernovae viene compiuta per via spettroscopica da telescopi di grande diametro (8-10 m), come:
(c) le tre unità telescopiche del Very Large Telescope (VLT) in Cile; (ESO)
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6 Pietre miliari nell’esplorazione del Cosmo (d) i due telescopi Gemini, in Cile e nelle Hawaii; (NOAO/AURA/NSF)
(e) i due telescopi Keck, nelle Hawaii. (W.M. Keck Observatory)
(f) Lo spettro di una delle supernovae più lontane (z = 0,95) osservate nel corso del programma SNLS condotto al VLT in Cile.
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Figura 6.9 Esempio di un diagramma di Hubble ottenuto dalle osservazioni del primo anno del programma SNLS. Le supernovae di Tipo Ia sono indicate da cerchietti; le linee rappresentano le previsioni di modelli di Universo con (linea continua) e senza (linea tratteggiata) energia oscura. Si vede chiaramente che le osservazioni difficilmente possono essere spiegate senza ipotizzare la materia oscura.
si riferiscono a esplosioni stellari accadute diversi miliardi di anni fa, all’interno di galassie che in seguito hanno ospitato nuove generazioni di stelle, e pare dunque ragionevole ammettere che l’ambiente in cui le supernovae esplosero, e anche quello in cui vissero le loro stelle progenitrici, potrebbe essere significativamente diverso da un’epoca all’altra. L’anomala luminosità può essere imputata a un effetto di questo tipo? Un modo per valutare gli eventuali effetti evolutivi è quello di comparare le proprietà di supernovae verificatesi a distanze diverse, ossia in differenti ere cosmiche. Finora non sono state rivelate differenze statisticamente significative, nonostante che gli studi condotti siano stati numerosi e approfonditi. Una delle prove più convincenti viene fornita dalle analisi della rassegna SNLS, che ha messo a confronto le principali proprietà delle supernovae lontane, scoperte nel corso del programma, con quelle delle supernovae vicine. Se fosse presente qualche effetto evolutivo, i due cam-
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6 Pietre miliari nell’esplorazione del Cosmo pioni avrebbero esibito differenze statistiche, come ci si potrebbe aspettare, per esempio, se facessimo la comparazione dell’altezza di campioni di persone selezionate in funzione dell’età. Benché la questione delle caratteristiche delle supernovae alle varie epoche cosmiche sia ancora oggetto di dibattito dentro la comunità scientifica, al momento non pare siano state rilevate variazioni evolutive di qualche significato (entro gli errori delle misure). Ciò indica che, perlomeno sulla scala dei tempi cosmici considerata, l’evoluzione non sembra essere un fattore così importante da influire sulle conclusioni. Un altro effetto di disturbo che potrebbe attenuare la luminosità delle supernovae è la presenza di polveri dentro la galassia ospite, oppure sul cammino che il raggio luminoso percorre per giungere fino a noi. Negli ultimi decenni, l’estinzione della luce ad opera delle polveri è stata sistematicamente mappata sull’intera volta celeste da missioni spaziali operanti nell’infrarosso, come i satelliti ISO e COBE. Queste osservazioni possono essere utilizzate per effettuare le opportune correzioni. In ogni caso, è ragionevole immaginare che la quantità di polveri nelle galassie ospiti delle supernovae fosse maggiore nel lontano passato di quanto sia nell’Universo vicino: se l’effetto fosse importante, potrebbe giustificare l’anomalia del diagramma di Hubble, poiché opererebbe nel senso di attenuare la luminosità delle supernovae in misura sempre maggiore quanto più cresce la distanza. Per investigare quanto influiscano le polveri, vengono elaborati ragionevoli modelli della natura e della distribuzione della polvere galattica. I modelli vengono poi testati confrontando le loro previsioni con le osservazioni, in particolare verificando quale sia l’influenza sul colore osservato delle supernovae. La presenza di polvere tende infatti ad “arrossare” la radiazione che perviene fino a noi, poiché la polvere agisce assorbendo e diffondendo preferenzialmente i fotoni di lunghezza d’onda più corta, quelli che nella banda ottica costituiscono la luce blu. Entro i limiti degli errori di misura, non è mai stato rivelato alcun effetto significativo. Lo stesso vale per gli studi riguardanti altri oggetti lontani, come i quasar. Un altro effetto importante e molto frequente in astronomia, noto come bias di Malmquist, è legato al fatto che quanto più ci avviciniamo al limite di sensibilità del telescopio che stiamo usando, tanto più risultano essere favoriti nella rivelazione, per ogni data distanza, gli oggetti più brillanti. Le analisi dei dati attuali tendono anche in questo caso a escludere che ci siano influenze sistematiche*9 dovute a questo effetto. Nella pratica, gli astronomi si sforzano di stimare l’entità dell’effetto di bias e lo conteggiano nell’errore globale che viene attribuito ai parametri misurati. *9 Osserviamo anche più oggetti che sono “troppo brillanti” (come la supernova SN 1991T) in campioni dell’Universo vicino che in quelli lontani, la qualcosa va in senso opposto all’effetto atteso.
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Superstelle in esplosione Un ultimo effetto particolarmente sottile riguarda la propagazione della luce in un Universo in cui la distribuzione della materia presenti eterogeneità come le strutture a grande scala, dalle singole galassie agli ammassi, ai filamenti di galassie. Questo perché la presenza di oggetti massicci determina la deflessione dei raggi luminosi per il ben noto effetto di lente gravitazionale, che può influire sulla luminosità apparente delle sorgenti osservate. Risulta infatti che, mediamente, le supernovae lontane dovrebbero apparire indebolite, ciò che potrebbe invalidare le nostre conclusioni cosmologiche. Ancora una volta, per valutare gli effetti attesi basiamo le nostre stime (in verità molto incerte) su modelli il più possibile ragionevoli della distribuzione delle strutture su larga scala e teniamo conto di esse nella determinazione dell’errore globale. Ovviamente, tutti questi test possono sembrare tediosi, ma sono davvero necessari e sono il prezzo che dobbiamo pagare per essere certi dell’affidabilità dei risultati scientifici che otteniamo. Oltretutto, questo approccio è la base stessa del metodo scientifico, che consiste nel mettere costantemente in discussione i risultati che via via si ottengono. Per noi, è indispensabile dimostrare che se le supernovae ci appaiono più deboli delle attese, ciò avviene a causa dell’espansione accelerata dell’Universo e non della loro evoluzione nel tempo o dell’attenuazione della loro luce ad opera delle polveri. Se davvero siamo alle porte di una nuova rivoluzione copernicana, faremmo bene ad essere assolutamente sicuri delle nostre affermazioni. Dalle supernovae ai gamma-ray burst E ancora più avanti… Come si è visto, l’utilizzo di candele standard è uno strumento estremamente potente per le nostre rassegne dell’Universo. Usando le supernovae di Tipo Ia è stato possibile dimostrare per la prima volta in modo convincente che l’Universo sta accelerando la sua espansione. Questo risultato straordinario, che è stato confermato anche da misure indirette, è una delle scoperte più importanti degli ultimi decenni, anche perché ha costretto a considerare la novità dell’esistenza dell’energia oscura. Anche se la loro luminosità intrinseca è assai maggiore di quella delle Cefeidi e perciò possono darci informazioni sull’Universo lontano, le supernovae di questa classe particolare si rivelano sonde affidabili solo fino a un redshift pari a 2 (in termini temporali, solo fino a circa 8 miliardi di anni fa). Per misurare ancor più in dettaglio l’espansione del giovane Universo è necessario far uso di nuove candele standard che siano ancora più luminose. Naturalmente, non smetteremo di tener conto degli effetti di cui si è detto, come l’assorbimento delle polveri e il bias di Malmquist.
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6 Pietre miliari nell’esplorazione del Cosmo A questo punto, siamo tentati di far uso delle sorgenti più energetiche che esistono nel Cosmo: i gamma-ray burst. Essendo estremamente luminosi, essi possono essere visti fino a un redshift pari a 10-15, corrispondente a un’epoca cosmica nella quale l’Universo aveva meno di 500 milioni di anni. La domanda fondamentale che ci si deve porre è se i GRB possono essere considerati candele standard, o almeno candele standardizzabili, al pari delle supernovae di Tipo Ia. Standard da confermare Per prima cosa, è utile riepilogare alcune delle proprietà dei GRB. I burst sono, per definizione, fenomeni transitori di breve durata (da pochi secondi a pochi minuti) emittenti su un ampio dominio spettrale, dai raggi gamma alla banda visuale. In funzione della durata, vengono tradizionalmente identificate due classi: i GRB corti e i GRB lunghi. Nel secondo caso, il modello più comunemente accettato li riferisce al collasso del nocciolo di una stella estremamente massiccia (20-30 volte la massa del nostro Sole) con la formazione di un buco nero. Il processo si accompagna alla generazione di un getto collimato di materia che si muove quasi alla velocità della luce*10. Le diverse nubi di materia che costituiscono il getto non si propagano tutte esattamente alla stessa velocità, creando in tal modo onde d’urto interne. L’energia liberata da tali onde è responsabile di quella che è detta emissione immediata. Il getto continua a propagarsi e impatta dapprima con gli strati più esterni della stella e poi con il mezzo interstellare, dando vita a nuove onde d’urto e rallentando mentre perde la collimazione. L’emissione successiva (quella dell’afterglow) deriva dall’interazione del getto con l’ambiente circostante. Per definizione, in astronomia una “candela standard” è una sorgente con un’energia intrinseca di valore universale. Nel caso di un GRB lungo, la stella progenitrice è un oggetto massiccio, di cui però non si conosce la precisa massa iniziale e al cui interno avvengono fenomeni che ancora non sono del tutto compresi. In queste condizioni, possono i GRB essere candidati a divenire candele standard, oppure la causa è già persa in partenza? Talvolta madre natura è gentile con i cosmologi. A prima vista – e come se fossimo in presenza di una situazione astrofisica “classica”– potremmo essere tentati di dedurre l’energia totale del GRB dal numero dei fotoni ricevuti, ipotizzando che essi siano stati emessi in modo isotropo, ossia allo stesso modo in tutte le direzioni (è l’energia che normalmente viene indicata con Eγ,iso). Se consideriamo la distribuzione statistica di questa grandezza nei vari eventi, nella speranza di verificare la possibilità di *10 Si usa parlare di “getto relativistico” emesso in accordo con il fattore di Lorentz (vedi Appendice 8).
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Superstelle in esplosione
Figura 6.10 Distribuzione statistica delle energie “isotropiche” (Eγ,iso) di un GRB (sopra) e delle energie corrette per “effetto fascio” (Eγ, sotto). Il secondo grafico suggerisce che i GRB potrebbero essere standardizzabili come candele standard.
usarla come l’energia standard di un GRB, resteremo delusi. La dispersione di valori è molto forte. D’altra parte, procedere in questo modo vorrebbe dire ignorare il fatto che l’energia di un gamma-ray burst non viene rilasciata in modo isotropo, ma in un getto collimato, all’interno di un cono il cui angolo d’apertura non è conosciuto a priori. Un punto a nostro favore è che i meccanismi che operano nei getti sono relativistici e, tutto sommato, relativamente facili da modellizzare. In effetti, mentre si propaga nel mezzo circostante, interagendo con la materia dell’ambiente il getto rallenta la sua corsa, di modo che la sua velocità, che in origine era quasi relativistica, crolla di colpo al di sotto di un valore critico (al tempo tc) e questa decelerazione provoca un considerevole sparpagliamento. Si assiste dunque a un cambiamento improvviso nella pendenza della curva di luce (il cosiddetto jet break, “rottura del getto”) (Figure 6.10 e 6.11).
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6 Pietre miliari nell’esplorazione del Cosmo
Figura 6.11 Mentre si propaga, a seguito dell’interazione con la materia dell’ambiente circostante, al tempo tc il getto relativistico rallenta e si allarga di colpo: nella curva di luce si osserva un cambio di pendenza. È teoricamente possibile mettere in relazione il tempo tc con l’angolo d’apertura del cono.
Ora, secondo quello che ci dicono i modelli, che sono semplici ma affidabili, il tempo tc, che può essere ricavato dalle osservazioni, è in relazione con l’angolo di apertura del getto. Perciò, ora diventa possibile calcolare l’energia (Eγ) fisicamente emessa all’interno del getto, senza più ipotizzare un’irrealistica isotropia d’emissione. Contrariamente a prima, ora possiamo verificare che questa energia si raccoglie in tutti i casi attorno a un medesimo valore, dell’ordine di 1044 joule (1051 erg), con una dispersione molto contenuta, come si vede nella Figura 6.10. A questo punto, i GRB acquisiscono lo status di “possibili candele standard”. Però, come nel caso delle supernovae, la dispersione resta ancora un po’ troppo ampia per le esigenze dei cosmologi e dunque ci sforzeremo di verificare se ci sia un modo per ridurla. Di nuovo, madre natura sorride ai cosmologi. Sappiamo che la quantità Epicco, caratteristica dello spettro dei GRB, è in relazione con l’energia totale corretta per gli effetti di collimazione (Eγ). Proprio come abbiamo usato la tecnica dello “stiramento” per normalizzare le curve di luce delle supernovae, così potremo usare la relazione tra l’energia Eγ e la quantità Epicco per standardizzare i burst. Dopo tutti questi passaggi, sembra proprio che i GRB lunghi possano essere standardizzabili. Un matrimonio standard Forti di questo nuovo standard, ora siamo tentati di “sposare” le osservazioni delle supernovae di Tipo Ia con quelle dei GRB lunghi, verificando se c’è
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Superstelle in esplosione accordo alle distanze alle quali i due metodi si sovrappongono e se i dati che si ricavano dai GRB rappresentano una coerente estensione di quelli ottenuti dalle SN Tipo Ia. In effetti, c’è un buon accordo tra i due tipi di misure. Ancora una volta, il Modello di Concordanza trova le sue conferme, con un Universo attualmente in una fase di espansione accelerata, in cui il contenuto di energia-materia è costituito prevalentemente da energia oscura. Il risultato è estremamente incoraggiante e sottolinea quanto sia produttiva la combinazione di dati forniti da diverse metodologie. Oltretutto, i gamma-ray burst non sono esposti agli stessi bias delle supernovae. Per esempio, la radiazione gamma risente solo in misura minima della presenza di polveri, e dunque i GRB non sono soggetti all’estinzione ad opera delle polveri come potrebbe essere il caso delle supernovae. Cionondimeno, dobbiamo mantenere un atteggiamento di prudenza. Tra gli astronomi permangono dubbi sull’utilizzo dei GRB come candele standard, poiché si ritiene che la famiglia di tali sorgenti non sia sufficientemente omogenea. Al momento, i dati di cui si dispone sono ancora piuttosto incompleti, fatta eccezione per un numero limitato di sorgenti. Per esempio, un parametro essenziale come la distanza è noto solo per meno di un centinaio di eventi, nonostante che siano ormai diverse migliaia i GRB rivelati. Il pericolo che si corre è di utilizzare un campione di oggetti che mimano l’effetto che si sta cercando di osservare. Oltretutto, nel caso delle supernovae, pur se non conosciamo nel dettaglio il meccanismo fisico che è all’origine della loro luminosità, sappiamo tuttavia che esse hanno in comune una quantità universale: la massa limite di Chandrasekhar delle nane bianche che vanno soggette all’esplosione; nel caso dei GRB non conosciamo niente di simile. Anche se pensiamo che il meccanismo con cui questi oggetti emettono radiazione sia in qualche misura “universale”, fino a che non avremo conoscenze di dettaglio sui progenitori, all’interno della comunità scientifica resterà aperto il dibattito su quali siano le tecniche migliori da utilizzare. L’utilizzo dei gamma-ray burst per compiere rassegne nell’Universo è un’impresa ancora ai suoi primi passi, ma è estremamente promettente e molto resta da fare sia sul piano osservativo che su quello teorico. Per certi versi, la situazione è simile a quella relativa allo studio delle supernovae di Tipo Ia negli anni precedenti al 1998, prima che si scoprisse l’energia oscura. Come vedremo nel capitolo finale, l’osservazione sistematica dei GRB sarà uno degli obiettivi centrali della ricerca astronomica del prossimo decennio: per le future missioni spaziali, per l’astrofisica delle alte energie e per la cosmologia.
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“La fonte che illumina resta sempre nel buio.” Edgar Morin Prestigiosi precursori Molesti buchi neri Negli anni Cinquanta del secolo scorso, vennero scoperte in cielo e catalogate moltissime radiosorgenti puntiformi, di apparenza stellare, senza che venisse identificata una controparte ottica per ciascuna di esse. Le osservazioni telescopiche delle regioni celesti in cui comparivano non rivelavano infatti alcuna sorgente nella banda visuale. Solo negli anni Sessanta, per la prima volta ci si accorse che una di queste radiosorgenti, la 3C 48, coincideva in posizione con un oggetto ottico di colore blu e puntiforme. Ma non si trattava di una stella: il suo spettro non somigliava a nulla che fosse stato mai visto prima. Diversamente dagli spettri stellari, che esibiscono numerose righe d’assorbimento, questo presentava invece righe d’emissione molto larghe. Circa due anni dopo, un’altra sorgente simile – la 3C 273 – venne identificata con una sorgente ottica dallo spettro altrettanto strano. L’astrofisico Maarten Schmidt fu il primo a comprendere che quelle strutture spettrali apparentemente incomprensibili erano in realtà righe dell’idrogeno fortemente spostate verso il rosso, e con questo aprì una nuova finestra sul Cosmo (Figura 7.1 a). Proprio come la Stele di Rosetta aveva reso agevole la decifrazione dei geroglifici egizi, la scoperta di Schmidt suggeriva finalmente un’interpretazione per gli spettri di quelle nuove sorgenti: per esempio, alla 3C 48 venne attribuita una velocità in allontanamento di circa 100mila chilometri al secondo! A questi oggetti che somigliavano a stelle, ma che erano radiosorgenti, l’astrofisico Hong-Yee Chiu diede il nome di quasar, contrazione di quasi-stellar radio source, ossia “radiosorgenti quasi stellari”. Oggi vengono anche indicati con la sigla QSO (“oggetti quasi stellari”). Il 3C 273 è il quasar più brillante in ottico dell’intero cielo e anche uno dei più vicini, con un redshift z = 0,158 che corrisponde a una distanza di circa 600 Mpc (Figura 7.2). Queste nuove bestie dello zoo cosmico divennero ben presto oggetto di una ricerca frenetica e di discussioni accalorate. Una questione riguardava la loro vera natura, stante che l’energia emessa implicava meccanismi fisici di straordinaria potenza. Quando si cominciò a sospettare che si trovassero tutti a distanze cosmologiche, il dibattito si concentrò sull’identificazione dei meccanismi responsabili dell’emissione. Quanti più QSO si scoprivano, tanto più le idee si
Superstelle in esplosione (a)
(b)
Figura 7.1 (a) Lo spettro originale della sorgente 3C 273 mostra le righe dell’idrogeno che ne rivelarono la natura extragalattica. (b) Uno spettro recente di un quasar lontano evidenzia la riga d’emissione Lyman-α spostata verso il rosso di z 3,4. Si noti lo straordinario miglioramento della qualità degli spettri intervenuto in ˜ questi ultimi quarant’anni: il progresso realizzato nella progettazione dei telescopi e di altri strumenti astronomici è stato davvero enorme.
ingarbugliavano: la complessità delle loro caratteristiche osservative sembrava persino mettere in discussione la credibilità dei modelli cosmologici di quegli anni. Da allora, i dubbi sono ormai definitivamente svaniti e la natura cosmologica dei quasar è stata confermata con certezza. Quanto al meccanismo responsabile del formidabile rilascio d’energia, che è lo stesso di altre sorgenti simili scoperte in seguito (blazar, radiogalassie ecc.), il fattore che le differenzia sembra essere l’angolo sotto il quale osserviamo questi vari tipi di galassie attive. La nostra prospettiva d’osservatori terrestri in qualche caso ci nasconde, in altri ci svela i vari aspetti di queste sorgenti, come il disco e i getti. Ora, un modello unificante le descrive come costituite di un disco di accrescimento che orbita attorno a un buco nero supermassiccio*1 che sta emanando un getto relativistico. Responsabile dell’energia rilasciata da queste sorgenti è l’accrescimento di enormi quantità di materia da parte del buco nero. *1 Cioè tra 105 e 1010 volte la massa del Sole.
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Figura 7.2 (a sinistra) L’immagine del 3C 273 nella costellazione della Vergine, opera della Wide Field Camera 2 del Telescopio Spaziale “Hubble”, mostra il brillante quasar, il getto che ne emana (in basso), ma nient’altro. Il quasar è una sorgente estremamente luminosa e ci appare puntiforme come una stella perché il suo “motore centrale” è assai compatto; esso è alimentato da un buco nero supermassiccio di circa 1 miliardo di masse solari. (NASA, J. Bahcall, IAS) (a destra) La galassia ospite del quasar si rende visibile quando la luce accecante della sorgente centrale viene occultata dal coronografo della Advanced Camera for Surveys (ACS) dell’HST. Le macchie scure sono dovute al “dito” occultatore della ACS. (NASA, A. Martel, H. Ford, M. Clampin, G. Hartig, G. Illingworth, ACS Science Team, ESA)
Una foresta piena di tesori Oltre alle larghe righe d’emissione (come la Lyman-α, in Figura 7.1 b), che testimoniano l’azione di fenomeni assai energetici, negli spettri dei quasar è presente una serie compatta e caratteristica di righe d’assorbimento nota come foresta Lyman-α. Questo fitto insieme di righe è dovuto agli assorbimenti della luce emessa dai quasar (Figura 7.3) ad opera della materia che si trova allineata sulla linea visuale tra il quasar e noi. Come è ovvio, la radiazione verrà assorbita non solo dalla materia posta nei pressi della sorgente, ma anche da quella (prevalentemente idrogeno) che si trova nelle vaste nubi intergalattiche sopravvissute alla formazione delle galassie e degli ammassi. In questo modo, la “foresta” di righe ci consegna una quantità considerevole di informazioni riguardo alle maggiori strutture dell’Universo, fino a grandi distanze: lo studio delle caratteristiche della foresta Lyman-α costituisce un ulteriore test sugli scenari di formazione di galassie e
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Figura 7.3 Il quasar emette radiazione spostata verso il rosso di un fattore (1 + z), come si vede nel caso della riga Lyman-α che cade a circa 5500 Å nella Figura 7.1 (b). Ciascun atomo d’idrogeno (per il quale la Lyman-α è la riga più importante) situato a un redshift minore di quello del quasar considerato (e perciò di fronte ad esso per un osservatore terrestre), può assorbire i fotoni a una lunghezza d’onda più spostata verso il blu della Lyman-α redshiftata. L’insieme degli assorbimenti che si producono lungo tutta la linea visuale crea l’effetto della “foresta Lyman-α”.
ammassi (Figura 7.4). Siamo anche in grado di misurare la quantità di barioni associati con le strutture responsabili della foresta Lyman-α, per tutti i redshift (ossia, in funzione del tempo cosmico), e possiamo compararla con la quantità prevista dalle teorie della nucleosintesi primordiale. Gamma-ray burst di salvataggio Poiché i gamma-ray burst sono parecchio più luminosi anche dei quasar, sembrerebbe ragionevole pensare che possano rivelarsi altrettanto utili nelle ricerche sul Cosmo dei primordi, fornendoci informazioni su regioni che sono ancora più lontane, sia nello spazio che nel tempo. Pop cosmico Essendo i GRB di natura stellare, e potenzialmente osservabili ad altissimi redshift, sembrerebbero i candidati ideali per far progredire le ricerche
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Figura 7.4 Distribuzione spaziale dell’idrogeno neutro al redshift z da una simu˜ 2,10ottenuta lazione che rappresenta un volume di Universo cubico con un lato di circa milioni di anni luce. Da notare la presenza di molte nubi isolate che si renderanno responsabili degli assorbimenti all’origine della “foresta Lyman-α”.
sulle cosiddette stelle di Popolazione III (Pop III). Popolazione III è il termine usato dagli astronomi per riferirsi alla prima generazione di stelle nell’Universo. Anzitutto, le stelle di Popolazione III sono caratterizzate da una quasi totale assenza di metalli*2, essendo nate direttamente dai prodotti della nucleosintesi primordiale: l’idrogeno e l’elio. Queste stelle di grande massa (fino a diverse centinaia di volte la massa del Sole) hanno avuto una vita breve e sono state le prime ad arricchire di metalli il mezzo interstellare, avendo sintetizzato al loro interno gli elementi fino al ferro (Figura 7.5). Le stelle di Popolazione II, anch’esse di bassa metallicità, nacquero dalle loro ceneri. Il ciclo è proseguito per *2 Nel gergo degli astronomi, “metalli” sono gli elementi più pesanti dell’idrogeno e dell’elio. La metallicità di una stella è un parametro che misura l’abbondanza di tali elementi.
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Figura 7.5 Rappresentazione artistica di come doveva essere l’Universo primordiale (con un’età minore di 1 miliardo di anni) quando conobbe il poderoso avvio della formazione stellare che convertiva l’idrogeno primordiale in una miriade di stelle a tassi elevatissimi. Le più massicce di queste stelle di Popolazione III esplosero subito come supernovae. (Adolf Schaller, STScI)
miliardi di anni, finché le stelle di Popolazione I, tra le quali il nostro Sole, hanno iniziato a risplendere facendo tesoro della riserva di metalli lasciata in eredità dai loro antenati. La metallicità viene utilizzata per stimare l’età di ogni stella. Dove sono finite le stelle Pop III? Finora non è stata ancora scoperta alcuna stella che sia inequivocabilmente di Popolazione III. L’esistenza di questa popolazione stellare primordiale resta una pura congettura; tuttavia, dovette pur esserci una prima generazione stellare, se è vero che siamo circondati da stelle di popolazioni successive. Probabilmente, una delle ragioni di questo “buco” nell’anagrafe stellare è che abbiamo a che fare con stelle che non sono solamente molto antiche, ma che ebbero esistenze brevissime, meno di un milione di anni. Nell’Universo attuale non ve n’è traccia, e se vogliamo cercarle dobbiamo semmai farlo a grandissimi valori del redshift. I metodi possibili sono due: sviluppare nuovi strumenti di straordinaria sensibilità per condurre queste
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Figura 7.6 Il disegno ritrae il futuro Telescopio Spaziale “James Webb” (JWST), un grande telescopio infrarosso con lo specchio primario di 6,5 m, il cui lanciò è previsto per il 2013. Il JWST sarà il più importante Osservatorio del prossimo decennio e verrà utilizzato da migliaia di astronomi di tutto il mondo. Studierà ogni fase della storia dell’Universo, dai primi bagliori dopo il Big Bang alla formazione di sistemi planetari con pianeti in grado di ospitare la vita. Denominato inizialmenteI “Next Generation Space Telescope”, il JWST è stato ribattezzato nel settembre 2002 in onore di James Webb, un ex amministratore della NASA. (NASA/ESA)
ricerche, come il James Webb Space Telescope (Figura 7.6), successore dell’HST, oppure osservare nel prossimo decennio oggetti come i GRB fino a redshift tra 5 e 10, al tempo in cui il nostro Universo aveva meno di 500 milioni di anni, poiché i gamma-ray burst sembrano essere seri candidati Pop III. Non v’è dubbio che esploreremo entrambe queste strade. Il grande vantaggio con i GRB è che potremmo osservare le prime stelle una per una, nel momento in cui muoiono. Gruppo di famiglia Una delle questioni centrali in cosmologia e nello studio degli scenari di formazione delle strutture cosmiche è comprendere in dettaglio e ricostruire cronologicamente le varie tappe della formazione stellare, identifi-
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Superstelle in esplosione cando le Popolazioni III, II e I, nonché le loro relazioni. In questo campo sono stati fatti enormi progressi in anni recenti, grazie al perfezionamento tecnico della strumentazione sensibile all’infrarosso e alle onde submillimetriche: le osservazioni condotte sia dal suolo sia dallo spazio hanno rivelato l’esistenza di una vasta popolazione di oggetti che risultano invisibili nella banda ottica perché immersi nelle polveri. I gamma-ray burst, con la loro intensa emissione gamma, seguita da emissioni di più lunga durata che interessano le bande spettrali dai raggi X alle onde radio, sono meno soggetti all’azione delle polveri. Osservabili come sono a grandi distanze, ci offrono indizi sulla tragica fine di stelle massicce, cosicché il loro studio a vari redshift, con quello delle rispettive galassie ospiti, ossia a varie epoche cosmiche, ci fornisce informazioni sulla prima delle tre generazioni stellari dell’Universo. Dalla ricombinazione alla re-ionizzazione Un periodo cruciale nella storia termica del Cosmo (si veda il capitolo 2) è quello noto come “Era della Ricombinazione”, durante il quale protoni ed elettroni si combinarono per la prima volta (dunque “ricombinazione” è un termine improprio) per costituire atomi neutri. Come si è visto, la neutralizzazione del plasma cosmico consentì ai fotoni, fino ad allora frenati e intrappolati dalle interazioni con gli elettroni, di diffondersi liberamente, lontano dalle particelle cariche. Ora potevano muoversi per tutto l’Universo, andando a costituire la radiazione cosmica di fondo osservata dal COBE e, più recentemente e in maggior dettaglio, dalla missione WMAP. L’informazione extra raccolta dalla WMAP ha riguardato le fluttuazioni di temperatura di questa radiazione e ha chiarito che l’Universo si è di nuovo ionizzato (si parla di re-ionizzazione) poco tempo dopo l’era della ricombinazione*3 (Figura 7.7). La conferma di questo episodio e i suoi dettagli sono diventati un test cruciale per il modello cosmologico e vengono ormai ad assumere lo status di un nuovo “pilastro” su cui si regge la teoria del Big Bang. In verità, già le osservazioni degli spettri dei quasar avrebbero dovuto suggerire che la re-ionizzazione era avvenuta. Verso la metà degli anni Sessanta, gli astronomi James Gunn e Bruce Peterson concepirono un test per verificare la realtà del fenomeno. Subito dopo la ricombinazione, l’Universo è essenzialmente una distesa omogenea di atomi di idrogeno, che assorbono la totalità dei fotoni ultravioletti presenti: l’Universo entra così in una fase della sua storia in cui è del tutto opaco, oscuro, ai nostri telescopi (da qui il nome di Era Oscura). Dopo una fase di espansione e di raffreddamento, si vengono gradualmente *3
La datazione di questo episodio è piuttosto difficile: i redshift proposti vanno da 6 a 15, vale a dire da 900 a 300 milioni di anni dopo la formazione dell’Universo.
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Figura 7.7 La storia del plasma cosmico prima e dopo la ricombinazione indica che ci fu una fase di re-ionizzazione avvenuta qualche tempo dopo la ricombinazione e l’emissione della radiazione cosmica fossile. Un test essenziale dei modelli cosmologici è rappresentato dalla determinazione dell’era precisa in cui iniziò il periodo della re-ionizzazione.
affermando i processi che portano alla formazione delle strutture cosmiche e la materia si condensa nei primi oggetti luminosi, come abbiamo visto nel capitolo 3. La radiazione emessa da questi oggetti primordiali è abbastanza energetica da dissociare di nuovo gli atomi in protoni ed elettroni, almeno localmente*4. Il mezzo ionizzato che si viene a formare è ormai così fortemente diluito dall’espansione cosmica da risultare trasparente ai fotoni. È molto disomogeneo, consistendo di “bolle” ionizzate attorno agli oggetti da poco formatisi, e tale resta anche in seguito, perché non tutte le bolle si uniscono fra loro: qua e là si trovano nubi residue di gas neutro. A Gunn e Peterson passò per la testa l’idea che se anche un solo atomo neutro fosse sopravvissuto per ogni 100 mila atomi dissociati dalla radiazione, quell’atomo sarebbe stato un assorbitore di luce abbastanza efficiente da alterare significativamente lo spettro dei quasar. Questo spettro, che in prima approssimazione consiste di un’emissione continua sulla quale si sovrappongono righe come la Lymanα (in origine, alla lunghezza d’onda di 1216 Å), dovrebbe portare il segno di tutto ciò che ha incontrato sul suo cammino verso di noi. In assenza di un mezzo assorbente, il “continuo ultravioletto dello spettro” (la parte sul lato blu della Lyman-α, a lunghezze d’onda minori) ci arriverebbe invariato, del tutto simile al continuo sul lato rosso della Lyman-α, a lunghezze d’onda maggiori. La presenza di un assorbimento sul lato blu dello spettro indica che il mezzo attraversato è neutro e la lunghezza d’onda misurata (spostata anch’essa di un certo redshift) ci dice a che distanza si trova la nube che ne è stata responsabile. Questo effetto è stato messo in luce di recente dal gruppo SDSS che stu*4 Entro la cosiddetta “sfera di Strömgren”, il volume sferico che circonda una stella e che si dilata a mano a mano che la radiazione energetica da essa emessa ionizza il mezzo circostante.
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Superstelle in esplosione dia i quasar a redshift maggiori di 6: i quasar più vicini a noi mostrano un continuo che è simile su entrambi i lati della Lyman-α. Ciò è indicativo di un mezzo ormai completamente ionizzato, non assorbente. L’Universo attuale è perciò in una fase ionizzata. Osservando quasar sempre più lontani, risalenti ad epoche sempre più remote, prima o poi dovranno iniziare a comparire gli assorbimenti dell’idrogeno, che segnaleranno la presenza di nubi di materia allo stato neutro e ci diranno che a quell’epoca cosmica la re-ionizzazione non era stata ancora completata. Risalendo sempre più indietro nel passato, un giorno riusciremo forse a rivelare quale sia l’epoca precisa in cui ebbe luogo la re-ionizzazione e quanto durò. Il confronto dei risultati ottenuti quando esattamente iniziò questa tecnica con quelli ricavati dalle misure della WMAP sembra indicare che l’accordo è già abbastanza buono, benché non si abbiano conferme definitive. Per realizzare la datazione più accurata possibile dobbiamo osservare oggetti luminosi ancora più distanti: e allora ecco venirci in aiuto i gammaray burst, i cui spettri dovranno essere misurati da strumenti di nuova generazione che ci forniranno i dati più sensibili e decisivi.
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Un brillante, oscuro futuro
“Il tempo fa sua ogni cosa, anche la mente.” Virgilio
L’ossimoro nel titolo di questo capitolo racchiude in sé un po’ tutto il contenuto del libro. Il futuro sarà davvero brillante, poiché nei prossimi decenni verranno inaugurati strumenti molto grandi, sia al suolo che nello spazio, associati a progetti osservativi ambiziosi che ci faranno compiere decisivi passi in avanti verso la fondazione di una cosmologia di precisione. Sarà brillante anche perché questi studi si concentreranno sugli oggetti più luminosi che l’Universo abbia mai partorito nella sua storia. Brillante, infine, lo sarà anche per i progressi teorici che si profilano all’orizzonte, perché sposare – come è sperabile – la Relatività Generale con la fisica quantistica potrebbe condurre a conseguenze rivoluzionarie per la fisica fondamentale. E qual è allora il lato oscuro del futuro? A meno di rivolgimenti profondi nella visione che attualmente abbiamo dell’Universo, il futuro sarà oscuro come la materia che governa la dinamica delle galassie e degli ammassi e come l’energia che alimenta l’espansione accelerata del Cosmo. Ora ci applicheremo a un esercizio rischioso ma necessario, che è quello di cercare di guardare nel futuro per abbozzare un programma realistico che valga per i decenni a venire. Un futuro brillante per gli osservatori Caccia alle supernovae Al fine di confrontare le varie ipotesi teoriche, abbiamo continuamente la necessità di migliorare la qualità delle osservazioni e anche di incamminarci verso direzioni nuove e inesplorate. Per quel che riguarda la ricerca delle supernovae di Tipo Ia, le strade da battere sono più d’una. La prima, e la principale, è proseguire lo sforzo condotto finora con i metodi osservativi attuali. Un aspetto eccitante è la ricerca di supernovae di altissimo redshift, guardando indietro nel tempo a un’epoca in cui il nostro Universo era ancora giovanissimo. Queste osservazioni sono cruciali, poiché le possiamo utilizzare, per esempio, per stimare quanto influiscano le polveri sulla nostra interpretazione dei risultati: essendo molto
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Figura 8.1 Alcune supernovae di Tipo Ia scoperte e monitorate dal Telescopio Spaziale “Hubble”. Nelle immagini sopra, le supernovae sono indicate da una freccia, mentre in basso abbiamo le immagini di riferimento in cui sono presenti solo le galassie ospiti. Le immagini prese da un telescopio spaziale, perciò non soggette al degrado causato dall’atmosfera terrestre, ci consentono di rivelare e di monitorare supernovae anche molto deboli e perciò molto lontane. (NASA)
grandi le distanze che ci separano da quegli oggetti, l’influenza delle polveri interposte si farà sentire maggiormente. Per la stessa ragione, è imperativo che si continuino a confrontare le proprietà delle supernovae lontane con quelle vicine, al fine di accertare se queste “candele” sono realmente standardizzabili o se invece vanno soggette a un’evoluzione che ne modifica le caratteristiche. Queste osservazioni faranno sì che si possa finalmente esplorare il periodo di transizione tra le fasi della decelerazione e dell’accelerazione dell’espansione cosmica, fornendoci un’immagine più chiara degli scenari cosmologici. Il Telescopio Spaziale “Hubble” (HST), per esempio, ha reso possibile lo studio delle supernovae che esplosero fra 3 e 10 miliardi di anni dopo la formazione dell’Universo (Figura 8.1). Al momento, l’HST, poiché vola ben al di sopra dell’atmosfera terrestre e perciò ne evita le interferenze, è il solo strumento ottico in grado di fare osservazioni così profonde. Quegli oggetti sono infatti troppo deboli perché possano essere rivelati anche dai più grandi telescopi al suolo. Tuttavia, a differenza della MegaCam del Telescopio Canada-France-Hawaii (CFHT), gli strumenti dell’HST hanno un campo di vista troppo limitato*1 perché poter efficacemente condurre programmi di ricerca sistematica. Un altro campo estremamente promettente è lo studio delle supernovae nell’infrarosso; abbiamo un numero limitato di osservazioni in questo dominio spettrale, eppure già si hanno indicazioni del fatto che le supernovae di Tipo Ia sono “candele standard” molto migliori nell’infrarosso che nella parte visibile *1
Per esempio, l’Advanced Camera for Surveys (ACS) copre un’area di cielo trecento volte più piccola del campo della MegaCam/CFHT.
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8 Un brillante, oscuro futuro
Figura 8.2 Curve di luce di supernovae Tipo Ia osservate in differenti bande spettrali: nel blu (B), nel rosso (I) e nell’infrarosso (H). Si noti come la forma della curva di luce cambi in funzione della banda spettrale. In particolare, il fatto che le curve delle bande più rosse (I e H) sono più piatte implica che non abbiamo la necessità di stabilire la data del massimo con grande precisione, ciò che rende possibile una migliore standardizzazione delle supernovae.
dello spettro. Infatti, il massimo delle loro curve di luce si presenta piatto (Figura 8.2), il che facilita di molto la determinazione precisa del valore della luminosità di picco. Nei prossimi anni, verranno intrapresi ulteriori programmi di monitoraggio nell’infrarosso attraverso camere a grande campo su telescopi di grosso diametro, con i quali si spera di raggiungere risultati interessanti. Un’altra strada da battere è quella dello sviluppo di nuovi metodi osservativi. Ci troviamo infatti nella classica situazione nella quale le scoperte scientifiche che si intravedono all’orizzonte stimolano e accelerano l’introduzione di nuovi strumenti.
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Superstelle in esplosione
Figura 8.3 Rappresentazione artistica del satellite SNAP (SuperNova Acceleration Probe), che sarà in grado di rivelare e osservare diverse migliaia di supernovae fino a redshift z ~ 1,7. Sarà anche in grado di misurare gli effetti di lente gravitazionale dovuti alla distribuzione della materia oscura nell’Universo. Queste misure saranno utilizzate per delineare la storia dell’espansione cosmica negli ultimi 10 miliardi di anni e, insieme con le misure della radiazione cosmica di fondo effettuate dal satellite europeo Planck, per determinare la natura dell’energia oscura e la sua possibile evoluzione. (SNAP/LBL)
Nella caccia alle supernovae di Tipo Ia, per esempio, si è tentati di scommettere sulle osservazioni fatte dallo spazio*2, organizzando programmi di ricerca sistematica e sviluppando satelliti ad hoc. È il caso del proposto satellite SNAP (Figura 8.3), il cui obiettivo è campionare diverse migliaia di supernovae fino a un redshift pari a circa 1,7 (corrispondente a un’era cosmica di 4 miliardi di anni) e mettere a confronto queste osservazioni con ciò che si ricava da altre indagini cosmologiche, come quelle sulle “lenti gravitazionali”. Immagini prese dallo spazio a intervalli regolari della stessa zona del cielo assicureranno la rivelazione delle supernovae e il monitoraggio del loro spettro su un’ampia banda, estesa dal visibile fino all’infrarosso vicino.
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*2 L’assenza dell’atmosfera assicura: 1) un’immagine di qualità (~ 0,1 secondi d’arco) molto migliore di quella ottenuta da strumenti al suolo (~ 0,9 secondi d’arco); 2) una drastica (~ 1/20) riduzione del “fondo cielo”; 3) l’indipendenza dagli effetti meteorologici dell’atmosfera.
8 Un brillante, oscuro futuro Certamente, un progetto come quello dello SNAP, o qualcosa di equivalente, garantirà un progresso decisivo se verrà affiancato dalle osservazioni del satellite europeo Planck, che ci si attende raccolga misure molto precise sulla radiazione cosmica di fondo, o del Telescopio Spaziale “James Webb”, successore dell’HST. Purtroppo, i progetti spaziali sono sempre tecnicamente impegnativi e parecchio costosi. Occorrerà molto tempo per il loro sviluppo: probabilmente, un progetto come lo SNAP non vedrà la luce prima del 2015. La scienza e la pazienza procedono sempre mano nella mano. Cercando disperatamente un burst… L’atmosfera terrestre assorbe efficacemente i raggi gamma, proteggendo dai loro effetti dannosi la vita sul nostro pianeta. E di ciò la ringraziamo. Però, impedisce agli astronomi di scoprire dal suolo i gamma-ray burst. Per osservare questi eventi siamo perciò obbligati a lanciare satelliti nello spazio. La missione più importante attualmente operativa è il satellite Swift, lanciato nel novembre 2004 dalla NASA. Poiché i GRB possono comparire in ogni parte della volta celeste, il telescopio sensibile ai raggi gamma deve coprire un’area piuttosto ampia*3. Una caratteristica specifica di questo satellite è che, una volta rivelato un burst, automaticamente è in grado di puntarlo nel giro di pochi minuti, quando inizia ad operare il suo telescopio per raggi X che può migliorare di molto la misura della posizione dell’oggetto (si ricordi che, per i raggi gamma, è difficile localizzare il punto preciso di comparsa). Lo Swift può fissare la posizione di un GRB con notevole precisione, entro pochi centesimi di grado. Sotto questo profilo, il satellite prosegue lungo la direttrice strategica tracciata dal BeppoSAX, che volò tra 1996 e il 2002. Lo Swift ha operato con notevole efficienza fin dal momento del lancio. Ogni anno rivela e osserva quasi una novantina di burst e grazie ad esso abbiamo avuto la definitiva dimostrazione della notevole distanza a cui si producono i gamma-ray burst: il record attuale è al redshift 8,3, corrispondente a un tempo in cui il nostro Universo aveva circa 600 milioni di anni, come abbiamo già detto nel capitolo 5. Un altro risultato particolarmente importante riguarda la comprensione della natura dei GRB corti. Sembra molto probabile che questi eventi siano associabili alla fusione di oggetti compatti, come buchi neri e stelle di neutroni. In progetti complessi come questi non si può mai fare scommesse ma, a meno di gravi incidenti, lo Swift dovrebbe continuare a funzionare per molti anni ancora, fino a che non lascerà spazio a qualche altra missione con analoghi obiettivi. *3
Se si vuole scoprire almeno un burst alla settimana bisogna monitorare almeno 5000 gradi quadrati, ossia circa un ottavo dell’intera volta celeste.
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Superstelle in esplosione Proprio come nel caso della caccia alle supernovae, è necessario continuare a operare con gli strumenti esistenti nel mentre già si pensa e si lavora a nuovi progetti che includano i più recenti progressi tecnologici. I passi in avanti più significativi compiuti in anni recenti sono stati il frutto della stretta collaborazione tra gli strumenti spaziali (che dovevano rivelare e localizzare i burst) e gli strumenti al suolo (che dovevano misurare il redshift e identificare la galassia ospite); con questo in mente, la Francia e la Cina stanno progettando un satellite ambizioso, SVOM, che promette di fare piena luce sulla fenomenologia dei burst, anche allo scopo di sfruttarli per studi cosmologici. La collaborazione stretta fra strumenti spaziali e telescopi al suolo consentirà a questo programma di studiare i GRB su un intervallo spettrale molto ampio, dai raggi gamma al vicino infrarosso, passando per la banda visuale; in linea di principio, si dovrebbe riuscire a osservare le primissime stelle che si formarono nell’Universo, la famosa Popolazione III, a un tempo in cui l’Universo aveva meno di 500 milioni di anni (redshift ∼ 10). Anche qui, bisognerà aver pazienza: il satellite SVOM non sarà probabilmente lanciato prima del 2014. E ancora più ambizioso… I ricercatori avanzano sempre nuove idee, cosicché potremmo continuare raccontando di molti altri progetti; tuttavia, non vorremmo limitarci a fare la “lista dei desideri”; ci sembra invece più interessante concludere il nostro veloce giro d’orizzonte parlando di quella che è avvertita dagli astronomi come la massima priorità: la necessità di disporre di telescopi di grande diametro. Se vogliamo osservare oggetti sempre più remoti (e sempre più deboli) dobbiamo raccogliere quanta più luce possibile. I più grandi telescopi attuali hanno diametri di 8-10 m. Nel prossimo futuro, si aprirà l’era di strumenti di nuova generazione con diametri persino oltre i 30 m. Si tratta di un passo tutto sommato “normale” lungo il tragitto osservativo che ci ha portato dal cannocchiale di Galileo fino al Keck: la Figura 8.4 mostra la crescita esponenziale del diametro dei telescopi al suolo con l’avanzamento delle tecniche costruttive. Al momento, si lavora attorno a diversi progetti. C’è il Thirty Meter Telescope (TMT), frutto di una collaborazione tra gli USA e il Canada (Figura 8.5), e l’European Extremely Large Telescope (E-ELT) di 42 m di diametro, progetto indubbiamente assai ambizioso (Figura 8.6). Destinato a vedere la sua prima luce alla fine del decennio, l’E-ELT sarà particolarmente utile nelle osservazioni delle supernovae associate con le prime stelle di Popolazione III.
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8 Un brillante, oscuro futuro
Figura 8.4 La progressione storica dei diametri dei telescopi al suolo, cresciuti esponenzialmente grazie al progresso tecnologico. Ogni mezzo secolo, i diametri aumentano più di dieci volte! (ESO)
Nei prossimi vent’anni assisteremo all’avvento di strumenti di grandi dimensioni sia al suolo che nello spazio. Essi raccoglieranno una quantità imponente di dati che consentiranno di fondare una vera “cosmologia di precisione” e contribuiranno a delineare un quadro più preciso delle proprietà del nostro Universo. In questo senso, si attende un brillante futuro per gli osservatori. Ma saremo in grado di interpretare correttamente questo profluvio di dati? È l’interrogativo che assillerà i teorici nei prossimi anni. Un futuro oscuro per i teorici Costante cosmologica o energia oscura? Per la maggioranza dei cosmologi e dei fisici, l’accelerazione dell’espansione dell’Universo è ormai un fenomeno indubitabilmente assodato (benché ogni tanto da qualcuno venga espressa ancora qualche riserva). L’argomento più convincente probabilmente è quello che abbiamo visto nel “triangolo cosmico” di cui abbiamo già parlato. Le misure della radiazione cosmica di fondo hanno stabilito con certezza che la quantità totale
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Superstelle in esplosione
Figura 8.5 L’illustrazione generata al computer mostra il Thirty Meter Telescope (TMT). Lo specchio primario consiste di 492 singoli specchi esagonali, ciascuno dei quali è controllato dai suoi attuatori. Il progetto mira ad estendere il disegno dei telescopi Keck di 10 m. Uno specchio terziario posizionato al centro indirizza la luce al fuoco Nasmyth, posto sull’asse orizzontale della montatura. (TMT)
di energia-materia Ωtot è uguale a 1 (con un’incertezza del 2% nelle misure della WMAP). Inoltre, stime del contenuto di materia (barionica e oscura) danno un valore di circa 0,3 per il parametro di densità della materia Ωm. Diventa così necessario introdurre una nuova componente che soddisfi la relazione del triangolo cosmico: il suo contributo sarà all’incirca 0,7. In base a ciò che sappiamo, l’ipotesi più semplice consiste nell’identificare questa componente con la costante cosmologica Λ che Einstein introdusse nelle sue equazioni. La presenza di questo nuovo costituente del Cosmo nelle equazioni di campo, che governano la dinamica dell’Universo, implica che ci sia un’ac-
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8 Un brillante, oscuro futuro
Figura 8.6 Rappresentazione artistica dell’European Extremely Large Telescope (E-ELT) ora allo studio da parte dell’Osservatorio Europeo Meridionale (ESO). Avrà uno specchio primario di 42 m di diametro e la massa rotante sarà di 5500 tonnellate. Per apprezzare la scala di questo strumento si consideri l’altezza delle due persone in basso a sinistra. Le due piattaforme ai lati della struttura sorreggono gli strumenti di piano focale. Il telescopio si caratterizza come un progetto innovativo basato su cinque specchi. Il primario di 42 m è composto di 906 segmenti, ciascuno di 1,45 m, mentre il secondario ha un diametro di 6 m. Uno specchio terziario, di 4,2 m, incanala la luce verso il sistema di ottica adattiva composto a sua volta da due specchi: uno di 2,5 m, sostenuto da oltre 5000 attuatori in grado di modificarne la forma un migliaio di volte al secondo, e uno di 2,7 m, responsabile della correzione finale dell’immagine. Questo approccio basato su cinque specchi dovrebbe garantire una qualità d’immagine eccezionale senza aberrazioni significative nel campo di vista. A causa delle difficoltà tecniche e dei costi del progetto, il telescopio non sarà probabilmente completato prima della fine del decennio. (ESO)
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Superstelle in esplosione celerazione dell’espansione, indipendentemente da ogni candela standard o da ogni scala. In tal modo, oggi abbiamo un nuovo paradigma cosmologico, in base al quale l’Universo fu dapprima dominato dalla materia (soprattutto oscura) e poi, da circa 5 miliardi d’anni a questa parte, dall’energia oscura o da una delle sue manifestazioni. A seconda di quali di queste componenti è dominante, nel corso dell’espansione si determina una fase provvisoria di decelerazione o d’accelerazione. Una volta che si instaura la fase dell’accelerazione, vorremmo comprenderne le radici ed è qui che sorgono i veri problemi. Attualmente, si lavora intorno a due ipotesi principali: quella della costante cosmologica postulata da Einstein e quella dell’energia oscura, probabilmente associata all’energia del vuoto quantistico. Un modo per scegliere tra le due consiste nel determinare l’equazione di stato caratteristica di questi due tipi di “fluidi” cosmologici*4. In pratica, si è compreso che utilizzando una sola tipologia di dati osservativi non sarebbe possibile definire questa equazione con la necessaria precisione. Allora si è fatto ricorso ad analisi incrociate, ciascuna delle quali si focalizza su un “obiettivo” che dipende, con modalità diverse, dal parametro che cerchiamo di stimare. Tra questi obiettivi ci sono: le supernovae Tipo Ia; i gamma-ray burst; le fluttuazioni di temperatura della radiazione cosmica di fondo osservate dalla WMAP; gli effetti cumulativi delle deflessioni gravitazionali originate dalla distribuzione della materia oscura; la distribuzione delle galassie nell’Universo. In un secondo tempo, si assembleranno i diversi tasselli del puzzle (ossia le misure indipendenti), tenendo conto dei loro livelli di incertezza*5. L’intersezione dei risultati ci fornirà il valore più probabile di quello specifico parametro cosmologico. Anche se non c’è un consenso ancora definitivo, i risultati ottenuti attraverso questo tipo di studi sembrano puntare coerentemente verso un’equazione di stato che è tipica di una costante cosmologica*6. Se crediamo che questo risultato sia definitivo, i fisici devono provare a spiegarlo e le possibilità sono due. La prima è di considerare, come fece inizialmente Einstein, che abbiamo a che fare con una “costante cosmologica” nel senso stretto del termine, ossia con un termine costante che entra in modo naturale nelle equazioni della Relatività Generale. Perciò, dobbiamo interpretarlo come una nuova costante fisica fondamentale, associata con la “parte geometrica” delle equazioni di campo. Essa avrebbe uno status equivalente a quello di altre costanti fondamentali (per esempio, la costante gravitazionale G) e il suo
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*4 L’equazione di stato di un fluido lega la pressione p alla densità ρ: p = ωρc2, dove ω può essere funzione del redshift z. La costante cosmologica, o energia del vuoto, corrisponde al caso ω = –1. Altri tipi di energia oscura corrispondono a ω ≠ –1, con ω che potrebbe dipendere dal tempo cosmico.
8 Un brillante, oscuro futuro valore può essere determinato solo attraverso le osservazioni: come per le altri costanti di natura, non lo si può dedurre per via teorica. La seconda possibilità consiste nell’attribuirle una natura fisica diversa da quella che le viene assegnata dall’interpretazione “geometrica”. Potremmo dunque considerare che questo termine si riferisca non alla parte geometrica, ma a quella dell’“energia-materia” all’interno delle stesse equazioni relativistiche, e allora rappresenterebbe un “fluido cosmologico”, non diversamente dalla materia e dalla radiazione. Le proprietà di questo fluido devono essere certamente molto strane: infatti, la sua densità resta costante nonostante l’espansione e la sua azione gravitazionale è di tipo repulsivo, rendendosi responsabile dell’accelerazione dell’espansione. Per quanto possa sembrare paradossale, un fluido di questo tipo risulta compatibile con le leggi della fisica fondamentale. È un fatto che l’Universo primordiale, attorno al tempo di Planck, deve essere considerato un sistema governato dalla meccanica quantistica, la quale stabilisce che tale sistema deve necessariamente possedere un livello fondamentale (il livello di più bassa energia) che è diverso da 0, mentre presenta tutti gli attributi di una costante cosmologica: è il vuoto quantistico. Ora, poiché la densità di energia di questo “vuoto” resta costante, diversamente da quelle della radiazione e della materia che si diluiscono con l’espansione e i cui contributi vanno perciò inesorabilmente decrescendo, è possibile immaginare che essa possa aver riguadagnato il predominio nell’Universo da alcuni miliardi di anni in qua, e che ora sia responsabile dell’accelerazione che si osserva. Possiamo dunque concludere che la questione è da ritenersi chiusa e che il problema ha trovato una soluzione? Non proprio. Benché sia decisamente allettante, l’ipotesi si scontra con una seria difficoltà. La misura dell’accelerazione dell’espansione che si ottiene attraverso il diagramma di Hubble di fatto ci dà la misura della quantità di energia oscura responsabile di quella accelerazione, vale a dire ci dà il valore della sua densità, del parametro cosmologico ΩΛ. D’altra parte, anche in assenza di una teoria capace di unificare la Relatività Generale con la meccanica quantistica, i fisici possono stimare quanto valga l’energia del vuoto quantistico in un altro modo, attraverso considerazioni relativamente semplici. Vengono chiamate in causa simultaneamente le costanti fondamentali della Relatività (G, la costante di gravitazione universale, e c, la velocità della luce) e la costante tipicamente quantistica h (la costante di Planck): combinando opportunamente queste costanti, si giunge a definire un tempo (tPlanck) e anche una densità (ρPlanck) che possiamo identificare come la densità del vuoto quantistico. Purtroppo, il valore teorico dedotto in questo modo e quello misurato dai cosmologi differiscono di circa 120 ordini di grandezza*7! *5 Ciascuna misura è affetta da incertezze che possono essere di natura statistica o sistematica (per esempio, la calibrazione del flusso da un corpo celeste). Sono concetti non troppo diversi da quelli che vengono utilizzati dagli analisti per prevedere gli esiti delle elezioni politiche. *6 Vuol dire che nella più generale equazione di stato p = ωρc2 il parametro ω è uguale a –1.
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Superstelle in esplosione Il divario tra la previsione teorica e l’osservazione è abissale e se procediamo lungo la stessa linea di ragionamento, anche nel caso di un tempo diverso da quello di Planck, ci imbattiamo in analoghe enormi disparità. Di fronte a queste difficoltà possiamo, e anzi dobbiamo, come ci richiede il metodo scientifico, andare alla ricerca di altre possibili ipotesi, verificando di volta in volta se l’accordo risulta migliore. Dalla “quintessenza” alla materia oscura-energia Un modo elegante di risolvere il divario tra il valore della densità dell’energia del vuoto dell’Universo primordiale e quello dell’energia oscura attualmente presente nell’Universo è quello di immaginare che essa possa diminuire nel tempo, allo stesso modo in cui diminuisce la densità dell’energia ordinaria. Per certi versi, ciò equivale a ipotizzare una costante cosmologica variabile. Ciò che può sembrare un semplice artificio, è in realtà legittimato dalla fisica ed è alla base dei cosiddetti modelli di quintessenza, che si fondano su concetti totalmente nuovi e introducono ulteriori campi fisici che vanno a sovrapporsi ai campi tradizionali, come quelli elettromagnetico, gravitazionale ecc. Per definizione, e senza entrare nei dettagli, un fluido cosmologico di questo tipo ha un’equazione di stato che dipende dal tempo e possiamo capire quanto sia importante per i fisici determinare il valore del parametro ω che caratterizza tale equazione. Da esso potrebbe dipendere la nascita di un nuovo tipo di fisica. Un’altra idea è quella di cercare di risolvere in un colpo solo le due principali questioni aperte nella cosmologia moderna: quelle della materia oscura e dell’energia oscura. Non solo queste due componenti sono di gran lunga dominanti nell’Universo, ma è anche abbastanza strano che i loro contributi siano più o meno gli stessi (rispettivamente un terzo e due terzi del totale dell’energia dell’Universo). Quindi, abbiamo da considerare anche il “problema della coincidenza”, come viene chiamato. Come mai queste due quantità hanno valori comparabili se non sono fra loro correlate in alcun modo? Così, è forte la tentazione di pensare che ci troviamo di fronte in realtà a un unico fluido la cui natura potrebbe cambiare nel corso della storia del Cosmo. Diverse ipotesi sono state avanzate dai teorici; una di queste è l’idea di una nuova famiglia di neutrini la cui massa dipenderebbe dalla loro densità nell’Universo. Questi MaVaNs (Mass Varying Neutrinos, neutrini di massa variabile) da un lato potrebbero comportarsi proprio come un fluido a pressione negativa, vale a dire potrebbero essere in grado di provocare l’accelerazione cosmica, dall’altro darebbero un loro specifico contributo alla materia oscura. *7 Quindi di un fattore pari a un 1 seguito da 120 zeri…
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8 Un brillante, oscuro futuro Costanti in evoluzione? Fra gli altri approcci, menzioneremo infine la possibilità di qualche variazione nelle costanti fondamentali della fisica: G, h e c*8. Se la velocità della luce fosse stata più grande nel passato, potrebbero essere derivati effetti che simulano l’accelerazione cosmica. Poiché la velocità della luce interviene in altri campi della fisica, soprattutto attraverso la costante di struttura fine*9, abbiamo bisogno di condurre osservazioni a differenti epoche cosmiche (ossia a differenti redshift) nelle quali la costante di struttura fine giochi un ruolo importante in ciò che si osserva. In questo modo, potremmo valutare per via diretta le eventuali variazioni di questa costante. Senza dubbio tutto ciò richiede misure estremamente delicate e, anche se le osservazioni danno una possibile indicazione di qualche variazione nella costante di struttura fine (su questo si dibatte moltissimo), la conseguente variazione di c risulta essere comunque troppo piccola per simulare l’accelerazione cosmica osservata, a meno che non si modifichi anche la teoria della gravitazione. Come si vede, le problematiche scientifiche descritte in questo capitolo rappresentano una formidabile sfida sia a livello osservativo, sia a livello teorico. Le misure devono essere ulteriormente migliorate e le teorie devono svilupparsi in maggiore profondità. È un’impresa colossale, ma il piatto è ghiotto e notevole è l’entusiasmo dei cosmologi, comunque oggi la pensino al riguardo. La questione che qui si sta affrontando è né più né meno quella del destino ultimo dell’Universo. Nero è nero Mentre ci avviciniamo alla fine della nostra storia, poniamoci un’ultima domanda (magari qualche lettore se l’è già posta): “Qual è lo scopo di tutti questi sforzi?” Le risposte che si possono dare sono molteplici. A parte lo scopo più che ovvio di voler spingere sempre più in là il confine della conoscenza umana, in generale, e quello delle leggi fisiche fondamentali, in particolare il senso di questi sforzi sta nell’anelito a scoprire tutto ciò che possiamo riguardo all’origine dell’Universo per essere in grado di prevederne il futuro, anche se ciò comporta ragionare su scale temporali incommensurabilmente più lunghe della durata della storia umana. Il parametro decisivo con il quale concludiamo la nostra storia è quello che esprime il contenuto totale di energia-materia, Ωtot. Se questo parametro fosse maggiore di 1, l’Universo finirebbe contraendosi verso il Big Crunch, una sorta di Big Bang al contrario. Tuttavia, il verdetto delle misure *8
Si veda Jean-Philippe Uzan, Bénédicte Leclercq, The Natural Laws of the Universe: Understanding Fundamental Constants, Springer-Praxis, 2008.
*9 In fisica atomica, la costante di struttura fine α è così definita: α = e2/(2ε hc) = 0,0073, dove ε è la costante 0 0
dielettrica del vuoto e le altre costanti sono già state definite nel testo.
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Superstelle in esplosione fin qui fatte, come abbiamo visto, è incontrovertibile: Ωtot sembra essere proprio esattamente uguale a 1 e quindi l’espansione dell’Universo dovrebbe continuare in eterno, addirittura accelerando. Come finirà, allora? Gli astrofisici ci dicono che la vita del nostro Sole non durerà più di 5 miliardi di anni. La prima fase significativa che l’Universo incontrerà nel suo futuro sarà la fine dell’epoca stellare. Come si è visto, una stella è un corpo celeste autogravitante con una massa sufficiente a dare avvio alle reazioni di fusione nucleare. Nel corso della sua esistenza, parte della materia viene iniettata nel mezzo circostante, specialmente durante gli ultimi stadi evolutivi. Le stelle di piccola massa daranno vita a nebulose planetarie, quelle di grande masse diventeranno supernovae. Altra materia prenderà la forma di resti compatti come nane bianche, stelle di neutroni o buchi neri. Col passare del tempo, la composizione del gas dentro le galassie evolverà, e l’idrogeno scomparirà per essere rimpiazzato da elementi sempre più complessi, sintetizzati dalle stelle nel corso della loro esistenza. Quando l’idrogeno sarà praticamente sparito del tutto, le stelle dovranno sostituire il combustibile nucleare e inizieranno a utilizzare l’elio. Ma la fusione dell’elio è un processo meno efficiente di quella dell’idrogeno, cosicché le stelle di elio avranno una vita breve. E così via, con la comparsa di altre stelle costituite da elementi via via più complessi, stelle che saranno sempre meno efficienti nella produzione di energia e che vivranno sempre meno. Alla fine, non sarà più possibile garantire la formazione di nuove generazioni stellari e le stelle scompariranno una dopo l’altra senza più alcun rimpiazzo. Fra alcune centinaia di miliardi di anni, anche le stelline meno massicce saranno svanite e la fase stellare dell’Universo sarà giunta alla fine. Le galassie non conterranno più oggetti luminosi, ma solo resti stellari come nane nere, stelle di neutroni o buchi neri, eventualmente accompagnati dai loro pianeti. Svuotato di ogni sorgente di luce visibile, l’Universo apparirà buio agli occhi dei nostri lontani discendenti. Lo stadio successivo vedrà l’evaporazione delle galassie, un processo che durerà forse un miliardo di miliardi di anni. A quel tempo, come risultato di complessi meccanismi di interazione, ogni galassia avrà già gradualmente perduto il 99% dei suoi resti stellari. Al contempo, la densità centrale delle galassie sarà cresciuta fino a raggiungere un valore critico al di là del quale il nucleo galattico si sarà trasformato in un buco nero. Lo stesso processo di evaporazione e di trasformazione in un buco nero investirà in seguito gli ammassi di galassie, nel corso di un periodo di tempo ancora più lungo. Quando il processo sarà concluso, galassie e ammassi saranno solo un lontanissimo ricordo. Il nostro Universo si sarà convertito
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8 Un brillante, oscuro futuro in una moltitudine di buchi neri con masse differenti, mischiati con stelle di neutroni, nane bianche che, ormai raffreddate, saranno diventate nane nere, e pianeti dispersi. Ma, in uno scenario ancora più radicale, potremmo aspettarci anche di peggio. Alcuni teorici pensano che l’azione antigravitazionale dell’energia oscura potrebbe diventare preponderante anche su scala locale, addirittura fino alla scala subatomica e nucleare. In tal caso tutti gli oggetti, a partire dal Cosmo stesso giù giù fino ai nuclei degli atomi, letteralmente si disgregheranno e non ci sarà alcuna forza di legame in grado di resistere a questa generale distruzione. Qualcuno ha anche stilato un calendario (benché parecchio incerto) di questo inesorabile conteggio alla rovescia. L’apocalisse, la “fine delle fini”, dovrebbe verificarsi fra non più di 20 miliardi di anni. In circa 19 miliardi di anni l’espansione dell’Universo avrà fatto sì che ogni altra galassia sarà uscita dall’orizzonte osservativo della nostra e non sarà più visibile. Il cielo sarà una distesa desolata. Circa 60 milioni di anni prima della fine del tutto, la Via Lattea incomincerà a perdere pezzi e subito dopo inizierà a disintegrarsi anche il nostro Sistema Solare. Qualunque sia il vero futuro dell’Universo, certamente sarà freddo e buio. Da falso a vero... Come in tutti i buoni scenari, c’è forse un modo per uscirne. Se l’energia oscura responsabile di questo triste destino è davvero ciò che resta dell’energia del vuoto quantistico dell’Universo primordiale, non c’è nulla che provi che quel vuoto fosse un “vero vuoto”. In altre parole, forse l’Universo non si trovava a quel tempo nel suo stato più fondamentale. Sappiamo che è possibile tenere in equilibrio una matita sulla sua punta, ma siamo ben consci che questa è una configurazione instabile. Proprio come la matita, forse l’Universo si trova in uno stato di “falso vuoto” e potrebbe in ogni momento precipitare in un altro stato. Allora, tutto andrebbe riscritto, e anche la fisica (quanto meno le costanti fondamentali) sarebbe diversa da quella che conosciamo. Ma questa è un’altra storia…
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Appendici
Queste appendici sono rivolte al lettore che desidera approfondire alcuni aspetti del libro. 1. L’equilibrio idrostatico Un sistema auto-gravitante può essere in equilibrio se agisce una forza compensativa nei confronti della gravità. In tal caso, è possibile scrivere quella che è nota come equazione dell’equilibrio idrostatico, che esprime l’uguaglianza tra le due forze. Galassie spirali Per una stella di massa m*, in moto circolare uniforme con velocità v* attorno al centro di una galassia spirale, si deve considerare la forza centrifuga. All’equilibrio sarà: GMm* m v*2 = * r r2 Se supponiamo che la massa totale M sia concentrata nella parte centrale della galassia, nel suo bulge, si ricava che la velocità decresce all’aumentare della distanza, secondo la legge di Keplero: GM* r ciò, in contrasto con le curve di rotazione che si osservano, che sono praticamente piatte. Se dunque supponiamo che esista, oltre al rigonfiamento centrale stellare, anche un alone oscuro sferico, la cui densità ρ vada diminuendo come l’inverso del quadrato della distanza dal centro (ρ ~ r–2), è facile dimostrare che il contributo alla velocità totale da parte dell’alone, la cui massa Malone contenuta all’interno del raggio r è Malone ~ 4πr / 3, sarà costante a una distanza dal centro sufficientemente grande: v* =
valone =
GMalone = r
4π G 3
Superstelle in esplosione
Figura A1 La curva (1) è quella che raccorda le osservazioni, rappresentate dalle velocità misurate con i loro errori. La curva (2) corrisponde al contributo del disco galattico e la curva (3) a quello “kepleriano” delle stelle del rigonfiamento centrale. La curva (4) fornisce il contributo dell’alone sferico di materia oscura.
La Figura A1 illustra l’applicazione di questo principio a una galassia reale e gli effettivi contributi delle varie componenti della materia ordinaria della galassia (le stelle del disco e del bulge, oltre che il gas interstellare), ai quali si aggiunge il contributo dell’alone di materia oscura. Si vede che in questo modo è possibile dare conto delle misure. Ammassi di galassie L’equazione dell’equilibrio idrostatico riguarda alcune quantità locali, come il gradiente della pressione e la forza gravitazionale. È spesso molto utile avere a disposizione l’espressione che descrive questa condizione d’equilibrio, ma che faccia uso piuttosto di quantità globali. Introduciamo perciò due quantità fisiche essenziali: l’energia cinetica totale (Ec) del sistema e l’energia potenziale gravitazionale (Ug), legate dal cosiddetto teorema del viriale: 2Ec + Ug = 0
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Appendici Il teorema del viriale può essere applicato a sistemi gravitazionali, come sono gli ammassi di galassie, e implica una relazione tra le varie quantità osservabili presenti: le posizioni e le velocità degli oggetti in questione. Tenendo conto degli effetti di proiezione sulla volta celeste, si può dimostrare che: Mviriale =
2
3π 2 V R 2G
1/2
dove V è la dispersione di velocità delle galassie negli ammassi (ossia la misura delle velocità casuali delle singole galassie e quindi delle loro energie cinetiche) e R è una “dimensione” caratteristica del sistema, una misura del suo raggio, ottenuta per esempio facendo la media delle posizioni delle galassie registrate da una camera digitale o dalla pellicola fotografica. Inserendo nella formula 1000 km/s come valore tipico della dispersione di velocità e 1 Mpc per le dimensioni dell’ammasso, si ottiene una massa dinamica dell’ammasso dell’ordine di 1015 masse solari, che è tra 5 e 10 volte maggiore della massa luminosa (quella che si ricava da stime di luminosità delle singole galassie del sistema). 2. La materia in tutti i suoi stati I quattro possibili stati della materia sono: solido, liquido, gassoso e plasma. Nello stato di plasma, la materia è ionizzata, ossia gli elettroni e i nuclei degli atomi non sono più legati fra loro, benché globalmente la materia rimanga neutra. Qui discuteremo principalmente degli stati gassoso e di plasma. La perfezione nei gas Un corpo solido non esercita alcuna pressione perché le molecole sono tenute insieme dalle cosiddette forze (di coesione) di Van der Waals. Il gas, invece, esercita una pressione che viene espressa dalla ben nota equazione dei gas perfetti: PV = NkT, che mette in relazione la pressione P, il volume V e la temperatura T di un gas; k è la costante di Boltzmann (k = 1,38 · 10–23 J K–1) e N è il numero totale di particelle contenute nel volume V. Torniamo per il momento a considerare il modo in cui viene ricavata questa equazione di stato. La pressione di un gas è la manifestazione del moto delle particelle di cui è composto, che trasferiscono la loro quantità
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Superstelle in esplosione di moto (il prodotto della massa per la velocità) alle pareti del recipiente in cui sono contenute. La pressione, per definizione, è la forza esercitata sull’unità di superficie e, quanto a dimensioni, corrisponde a una densità di energia ε; d’ora in avanti utilizzeremo proprio questa grandezza. L’energia cinetica (il semiprodotto della massa per il quadrato della velocità) da considerare per il calcolo della quantità totale di energia del gas si ottiene moltiplicando per N l’energia di una singola particella; dal che deduciamo, tenuto conto che tutte le direzioni sono equivalenti, che: Pter =
2ε 3
2 2 2 dove ε = N mv = nm v = ρ v è la densità dell’energia cinetica del V 2 2 2 gas, n è la densità in numero delle particelle e ρ è la densità in kg/m3. Secondo la termodinamica, questa energia può anche essere espressa attraverso la temperatura T, il che porta alla pressione (termica) di un gas ideale:
Pter = nkT e Pter = 2kTρ / mp per un plasma di idrogeno in cui il numero di protoni, di massa mp, è pari al numero degli elettroni. Un “gas” di fotoni Chiunque abbia osservato i carboni ardenti in una fucina, o il colore di una barra di ferro incandescente, avrà notato che la luce emessa è tanto più “bianca” quanto più alta è la temperatura T (da qui l’espressione “calor bianco”). Può sembrare un compito agevole spiegare, con la fisica classica, in che modo l’intensità della radiazione emessa da un tale sistema dipenda dalla temperatura. In realtà, quando si provò a farlo si giunse a una delle più importanti rivoluzioni scientifiche dei tempi moderni: la meccanica quantistica. Secondo questa nuova fisica, la radiazione elettromagnetica presenta una duplice natura: è allo stesso tempo un’onda e un corpuscolo. In quanto corpuscolo, la luce consiste di quanti di energia hυ (fotoni), essendo υ la frequenza della radiazione e h la costante di Planck (h = 6,63 · 10–34 J s).
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Appendici Si può dimostrare che la densità di energia di un tale “gas di fotoni”, detto anche “radiazione di corpo nero”, dipende dalla quarta potenza della temperatura! Così, possiamo scrivere: ε = aT4 con a = 7,55 · 10–16 J m–3 K–4 I fotoni esercitano perciò una pressione (la pressione di radiazione) che ha la stessa espressione e dipende fortemente dalla temperatura: Prad =
aT4 3
Materia degenere La meccanica quantistica non solo sancisce la natura discreta dell’energia e dell’interscambio di energia, ma, sulla base del principio di indeterminazione di Heisenberg, afferma anche che il moto di una particella confinata in un certo spazio, o durante un certo intervallo di tempo, è soggetto a un’irriducibile incertezza. Così, se lo spazio disponibile è limitato, in una certa direzione, a Δx, la quantità di moto q = mv sarà definita con un’incertezza Δq tale che: Δq Δx
h dove h = h/2π
Le conseguenze di questa relazione sono fondamentali. Significa tra l’altro che una particella quantistica confinata in una “scatola” non avrà mai energia nulla perché ci sarà sempre un cosiddetto contributo di Fermi (ΔEF), così espresso: 2
ΔEF ~ (Δq) /2m con Δq ~ h /Δx C’è un’altra conseguenza essenziale per un plasma, ossia per un insieme di nuclei e di elettroni che, nella fisica quantistica, appartengono alla categoria dei fermioni. I fermioni devono sottostare a una regola quantistica che stabilisce che due fermioni identici non possono comparire nello stesso stato quantico: regola nota come principio d’esclusione di Pauli. La posizione spaziale è un elemento di questa nozione di “stato quantistico”. Di conseguenza, se tutti gli altri parametri fisici sono identici, due fermioni non possono occupare lo stesso volume spaziale.
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Superstelle in esplosione In prima approssimazione, deduciamo perciò che ciascuno degli N fermioni di massa mF contenuti in un volume V avrà accesso a un volume ΔV ~ V/N, da cui, attraverso la densità di energia di Fermi di questi N fermioni: ε~
5/3
2
2
( ( ( 2mh ( ~ (n) ( 2mh (
1 N NΔE ~ V V
F
5/3
F
Con un calcolo più preciso, si deduce l’espressione della pressione di Fermi o pressione quantistica per gli elettroni: PF = cost. (ne)5/3 che, come si vede, non dipende dalla temperatura; ne è la densità in numero degli elettroni; la costante di proporzionalità è inversamente proporzionale alla massa del fermione in questione e per gli elettroni vale all’incirca 10–37 kg m4 s–2. 3. Il profilo di una stella Carta d’identità Una stella è caratterizzata da sei parametri: – la massa M*; – la luminosità L*, corrispondente all’energia emessa ogni secondo; – il raggio R*; – la temperatura efficace Te, definita come la temperatura di un corpo nero che emette la stessa quantità di energia per unità di superficie. Tra luminosità, raggio e temperatura efficace sussiste la relazione: L* = 4πR*2 σ Te4; σ è la costante di Stefan-Boltzmann (v. più avanti). – la durata in vita t*; – la composizione chimica (X, Y, Z), dove X, Y e Z sono le frazioni in massa dell’idrogeno, dell’elio e dei metalli. Nel caso del Sole: M = 1,99 · 1030 kg; L = 3,86 · 1026 W; R = 6,96 · 108 m; Te = 5780 K; t ~ 1010 anni; X ~ 0,73; Y ~ 0,25; Z ~ 0,02.
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Appendici Questi parametri non sono tutti indipendenti fra loro. Esiste, oltre alla relazione che abbiamo già visto tra la luminosità, il raggio e la temperatura efficace, quella tra la luminosità e la massa (L ÷ Mα) con α = 3,5-4 per masse non troppo diverse da quelle del Sole. La prima relazione trova una rappresentazione grafica nel diagramma H-R (detto anche diagramma di Hertzsprung-Russell o colore-magnitudine), sul quale la maggioranza delle stelle si presenta suddivisa in tre gruppi. Al gruppo più numeroso appartiene il 90% delle stelle: esso corrisponde alla Sequenza Principale, la banda che attraversa diagonalmente il diagramma, sulla quale le stelle trascorrono gran parte della loro esistenza bruciando idrogeno. Gli altri gruppi sono quelli delle giganti e delle supergiganti, nella parte superiore destra del diagramma H-R, e quello delle nane bianche, nella parte inferiore sinistra. Questioni di gradienti Abbiamo già esaminato il problema dell’equilibrio di sistemi di “particelle”, nella più ampia accezione del termine: le galassie, che sono sistemi le cui particelle sono le stelle, e gli ammassi, nei quali le particelle sono le galassie. Nel caso del plasma che si trova nell’interno delle stelle è possibile descrivere l’equilibrio tra la gravità e la pressione in due modi. Il primo, in un contesto globale, chiama in causa il teorema del viriale che lega l’energia interna E all’energia gravitazionale Ug. Nel contesto locale, la pressione e la forza di gravità devono equilibrarsi in tutti i punti e in qualunque direzione, assumendo che la struttura abbia simmetria sferica. In precedenza, abbiamo visto che la pressione può assumere forme differenti (termica, di radiazione, di Fermi), ciascuna caratterizzata da un’equazione di stato specifica. La pressione totale si esprime perciò come: P = Pter + Prad + PF Dalle condizioni di equilibrio idrostatico è possibile dedurre un’espressione per il valor medio della pressione di una stella: P ~ 0,3Gρ4/3M2/3
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Superstelle in esplosione Nel caso in cui la pressione termica dia il contributo dominante, otteniamo una stima per la densità media ρ = 3M 3 e per la temperatura media 4π R Gm p M ~ 0,1 . T~ k R Per quanto riguarda il Sole, le stime sono le seguenti:
ρ ~ 1,4 103 kg m-3 e T ~ 2,4 106 K In aggiunta, i modelli solari mostrano che la densità centrale ρc è circa 100 volte la densità media e la temperatura centrale Tc è circa 4 volte la temperatura media. Possiamo confrontare la pressione di radiazione con la pressione termica media: Prad ~ aT 4 / 3 Pter ~ 2kTρ / m p Sostituendo i valori tipici di una stella come il Sole, il valore di questo rapporto è circa 10–4, che ci dice come la pressione di radiazione sia trascurabile nelle stelle di tipo solare. Poiché, tuttavia, questo valore cresce come il quadrato della massa: Prad Pter
T3 ρ
M3 / R3 M / R3
M2
la pressione di radiazione diverrà importante nelle stelle di massa elevata e sarà dominante per masse dell’ordine di 100 e più masse solari. Per quanto riguarda la pressione di Fermi per gli elettroni, calcolandone il rapporto rispetto alla pressione termica centrale nelle stelle di tipo solare si ottiene un valore dell’ordine di 0,1, il che conferma che la pressione di degenerazione è trascurabile nelle condizioni normali del Sole. Se poi si utilizzano le equazioni relativistiche per la pressione di Fermi, si può verificare che in effetti la pressione di degenerazione degli elettroni finisce col prevalere quando la massa del nocciolo della stella si avvicina al valore “canonico” della massa limite di Chandrasekhar (1,44 masse solari). 4. L’effetto tunnel quantistico Una barriera da attraversare Due nuclei con una carica elettrica positiva devono superare la barriera di Coulomb, che varia come 1/r2 (Figura A2), per avvicinarsi fino alla
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Appendici
Figura A2 Nella fisica classica, due particelle con carica elettrica dello stesso segno, nelle condizioni energetiche esistenti nei noccioli stellari, non sono in grado di superare la barriera di potenziale di Coulomb, e quindi di cadere nel potenziale nucleare. L’“effetto tunnel quantistico”, previsto dalla meccanica quantistica, consente la penetrazione della barriera anche ad energie minori, rendendo in tal modo possibili le reazioni di fusione.
distanza minima (circa 10–15 m = 1 fermi) entro la quale possono farsi sentire le interazioni forti che governano le reazioni di fusione nucleare. Per il superamento della barriera repulsiva, la meccanica classica insegna che si richiede un’energia cinetica tanto più elevata quanto più si riduce la distanza tra le particelle, ciò che rende l’interazione assai improbabile. Infatti, l’altezza Ec di questa barriera, per nuclei separati da una distanza r che abbiano cariche elettriche rispettivamente Z1 e Z2, vale: 2 Ec = Z1Z 2e = α Z1Z 2 hc r 4πε 0r
(dove α ~ 1/137 è la cosiddetta costante di struttura fine). Scritta nelle unità di misura che si è soliti utilizzare in fisica atomica e nucleare, la relazione diventa: Ec (MeV) ~ Z1 Z2 / r, con r espresso in fermi. Per esempio, nel caso di due protoni, l’energia richiesta perché essi si avvicinino fino a 1 fermi è di circa 1 MeV, mentre l’energia disponibile in una stella che abbia il suo interno a una temperatura di 10 milioni di gradi è un migliaio di volte inferiore, dell’ordine di 1 keV. In un plasma, le particelle non hanno tutte la stessa velocità, di modo che qualcuna potrebbe raggiungere valori dell’energia superiori a questo valor medio, ma si tratterebbe comunque di una frazione irrisoria del totale, dell’ordine di 10–430,
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Superstelle in esplosione
Figura A3 Per riuscire a interagire, i nuclei alla temperatura T, obbedendo alla legge della distribuzione maxwelliana delle velocità, devono superare la barriera di Coulomb che li separa. Ciò è reso possibile, con una certa probabilità di penetrazione, dall’effetto tunnel quantistico. Il picco di Gamow risulta dal prodotto della distribuzione maxwelliana delle velocità per la probabilità di penetrazione e corrisponde all’energia alla quale la reazione avrà luogo.
mentre il numero di atomi di idrogeno nel Sole è solamente di 1057! Quindi le reazioni di fusione sembrerebbero inibite in una stella di questo tipo, stando alla fisica classica. Al contrario, nella meccanica quantistica il principio di indeterminazione di Heisenberg, che qui esprimeremo in termini di energia e di tempo: ΔE Δt > h , prevede che possa apparire una fluttuazione d’energia ΔE per un tempo Δt, capace di fornire l’extra di energia necessario per superare la barriera coulombiana. Questa possibilità si realizza con l’effetto tunnel, scoperto dal fisico russo George Gamow lavorando sulla radioattività. Nel contesto di questo effetto quantistico, una particella è caratterizzata da una probabilità di penetrazione: 1/2 1/2 P~e –(EG / E) e –(Eq / E) nella quale interviene l’energia di Gamow EG, che nel caso di due protoni vale all’incirca EG = 500 keV.
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Appendici Da ciò consegue che, contrariamente a quanto previsto dalla fisica classica, è diversa da zero la probabilità che un protone possa superare la barriera di Coulomb per interagire con un altro protone attraverso le interazioni forti e fondersi con esso. Tale probabilità viene calcolata moltiplicando fra loro la probabilità di penetrazione e la legge statistica di distribuzione delle energie: la rappresentazione grafica di questo prodotto (Figura A3) è una curva che presenta un massimo in corrispondenza del picco di Gamow, di energia EPG ~ ~ [EG(kT)2 1/3 / 4] , largo ΔEPG. Nel caso di due protoni e di un’energia tipica kT ~ ~ 1 keV, ricordando ~ 500 keV, il picco di Gamow cade a E 5 keV e risulta ampio che EG ~ ~ PG ~ ~ ΔEPG ~ 5 keV, ciò che ora rende la reazione probabile. Il superamento della barriera diventa tanto più improbabile quanto più si scende in temperatura (nelle stelle di piccola massa), fino a stabilire un limite inferiore per la massa di una stella, intorno a 0,1-0,2 masse solari, sotto il quale le fusioni sono praticamente inibite. 5. Fusione, fissione e durata della vita stellare
E = mc2! I nuclei atomici consistono di protoni (particelle a carica positiva) e neutroni (particelle neutre) legati fra loro dalle interazioni forti. La massa di un nucleo non è pari alla somma delle masse dei suoi nucleoni costituenti, ma è minore di questa. È perciò possibile, in linea teorica, sfruttare il processo di formazione di un nuovo nucleo per “ricavare” la differenza di massa tra i costituenti e il prodotto finale, o meglio la corrispondente energia (calcolabile dalla relazione E = mc2). La differenza di massa rappresenta l’energia di legame del nucleo considerato. Di conseguenza, un nucleo di massa m(Z,N), composto da Z protoni di massa mp e N neutroni di massa mn, avrà un’energia di legame: EL(Z,N) = [Zmp + Nmn – m(Z,N)] c2 Nella Figura A4 possiamo vedere che l’energia di legame di un nucleone, definita come EL(Z,N) / A, aumenta con la massa atomica A fino al ferro (A = 56), ma in seguito diminuisce lentamente. L’aumento è veramente notevole dall’idrogeno (precisamente dal deuterio, che è l’isotopo dell’idrogeno con A = 2) all’elio-4. Di conseguenza, la fusione dell’idrogeno per formare l’elio libererà molta più energia per unità di massa che non, per esempio, la fusione dell’elio per formare il carbonio.
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Superstelle in esplosione
Figura A4 Energia di legame per nucleone in funzione della massa atomica.
L’energia viene rilasciata se elementi leggeri fondono per formare elementi più pesanti, fino al ferro incluso. Più oltre, saranno i processi di fissione a liberare energia, quando gli elementi più pesanti si scinderanno in elementi leggeri. Un Sole longevo Chiarito questo punto, siamo ora in grado di stimare quanto durerà la vita del Sole. Sappiamo che quattro atomi di idrogeno possono fondere per produrre l’elio. La massa dell’elio è dello 0,7% minore della somma delle masse dei singoli nucleoni che lo compongono (la massa dell’elio-4 è 3,9726 volte quella dell’idrogeno, mp). Questa differenza di massa andrà a costituire l’energia radiativa E del Sole. Se ipotizziamo che solo il 10% (il nocciolo) della massa totale del Sole sia interessata da questo processo, otteniamo: E = 0,007 × 0,1 × M c2 ~ 1044 J
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Appendici Sapendo che il Sole irraggia con una luminosità L = 4 × 1026 W, la nostra stella esisterà per almeno: tnuc = E / L = 1044 / 4 · 1026 = 2,5 · 1017 s ~ 10 miliardi di anni Questo tempo nucleare è molto maggiore del tempo di KelvinHelmholtz (tKH), calcolato dalla trasformazione in radiazione dell’energia potenziale gravitazionale Ug ~ G(M2 / R): tKH = Ug / L = 1041 / 4 · 1026 ~ 10 milioni di anni 6. Doni dalle stelle Qual è l’origine degli elementi che stanno intorno a noi? Essi sono il prodotto della nucleosintesi, cioè dell’insieme dei processi nucleari che creano i diversi elementi chimici classificati nella tabella periodica di Mendeleev. Nel contesto dello studio del Cosmo, possiamo identificare quattro tipi di reazioni e quattro fasi, corrispondenti a regioni astrofisiche diverse e a periodi differenti della storia cosmica. La prima fase è quella della nucleosintesi primordiale che si produsse nei primi tre minuti di esistenza dell’Universo, durante i quali avvennero le fusioni termonucleari. Gli elementi formati furono l’idrogeno, il deuterio e i due isotopi stabili dell’elio (He-3 e He-4), insieme con tracce di litio e berillio. (II) La seconda fase ebbe luogo nel cuore delle stelle (nucleosintesi stellare), dove, in modo analogo, avvenivano reazioni di fusione mentre la stella restava in equilibrio per milioni o anche miliardi di anni. Gli elementi così formati sono quelli della tabella periodica di Mendeleev, fino al ferro incluso. (III) Come abbiamo visto, le stelle di massa sufficientemente elevata terminano la loro esistenza in una fase esplosiva (supernovae) durante la quale si formano nuovi elementi come la cattura neutronica e la fotodisintegrazione. I neutroni liberi hanno una vita media di circa 15 minuti (poi decadono in protoni), durante la quale essi possono essere catturati dai nuclei per formare isotopi più pesanti. Inoltre, la temperatura può essere così elevata che i fotoni hanno energia sufficiente per distruggere i nuclei pesanti, (I)
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Superstelle in esplosione producendone di più leggeri. Gli elementi formati sono quelli al di là del picco del ferro, oltre a qualche elemento più leggero. (IV) Si susseguono diverse generazioni stellari, che gradualmente arricchiscono il mezzo interstellare di elementi pesanti. Tali elementi vengono continuamente bombardati dai nuclei energetici accelerati dalle esplosioni di altre stelle e formano quelli che sono noti come raggi cosmici. Avvengono così le reazioni dette di spallazione, grazie alle quali i raggi cosmici possono scindere nuclei pesanti del mezzo interstellare per dare origine al litio, al berillio e al boro. Dopo molti miliardi di anni, il ciclo è completo, e sono stati creati tutti gli elementi necessari per la chimica della vita. 7. Il lobo di Roche Il concetto di lobo di Roche emerge dal lavoro di Edouard Albert Roche, in gran parte basato sui risultati di Joseph-Louis Lagrange. Nel corso delle ricerche di meccanica celeste, Lagrange aveva posto l’attenzione su certi luoghi particolari, ora conosciuti come “punti lagrangiani”, in cui le forze di gravità di due corpi si equilibrano e un terzo corpo può restare in uno stato di perenne equilibrio. La situazione è del tutto indipendente dalla natura dei corpi, che possono essere stelle, pianeti o anche satelliti artificiali. Contano solamente le masse e le distanze. Edouard Roche completò il lavoro di Lagrange calcolando la forma delle superfici equipotenziali attorno a ciascuno dei corpi celesti. Attorno a un corpo massiccio singolo, queste superfici sono sferiche. In un sistema binario, vengono ad assumere una caratteristica forma elongata che ricorda quella di una goccia. Il lobo di Roche è la regione spaziale in cui le particelle sono in equilibrio gravitazionale tra i due corpi generatori del campo. Esso passa attraverso il ben noto primo punto lagrangiano L1 (Figura A5). Così, nel caso dei sistemi binari, in cui uno dei corpi è una gigante rossa e l’altro è una nana bianca, quando l’atmosfera della gigante rossa si espande al di là del proprio lobo di Roche, passando attraverso il punto L1 può essere catturata gravitazionalmente dalla stella compagna. Ciò può portare alla completa spogliazione della prima stella, con la compagna che agisce come un “aspirapolvere”. La materia che cade sulla stella compagna la alimenta e induce su di essa i fenomeni tipici delle “variabili cataclismiche”.
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Appendici
Figura A5 Il lobo di Roche è quella regione spaziale in cui le particelle sono in equilibrio gravitazionale nei campi generati dalle due stelle di un sistema binario. Attraverso il punto lagrangiano L1 si rende possibile il trasferimento di massa dalla stella compagna (per esempio, una gigante rossa) verso la nana bianca che le orbita attorno. La materia viene accresciuta dall’oggetto compatto, che aumenta la propria massa (il che può causarne l’esplosione).
8. Una radiazione rivelatrice Qualunque sia la vera natura del “motore centrale” di un gamma-ray burst, il contesto fisico è decisamente estremo. Dobbiamo infatti pensare a un plasma molto caldo, molto denso, soggetto a moti caotici, dentro il quale si sviluppa un forte campo magnetico. Particelle cariche, soprattutto elettroni, acquistano velocità in questo campo, e vanno soggette a moti circolari attorno alle linee magnetiche. La frequenza delle rotazioni di un elettrone, nel caso relativistico e per un campo magnetico di intensità B, è: υc = ϖc/2π = eB/(2πγme) Queste particelle sono accelerate (cioè soggette all’accelerazione centripeta, visto che si muovono in cerchio) e perciò, in base alle leggi di Maxwell sull’elettromagnetismo, emetteranno radiazione, che sarà di sin-
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Superstelle in esplosione crotrone o di ciclotrone, a seconda che le loro velocità v siano relativistiche, oppure no. Il criterio per distinguere tra i due casi si basa sul valore del fattore di Lorentz Γ: Γ=
1 1 - v2 / c2
Se Γ non si discosta troppo da 1 (quando la velocità v dell’elettrone è molto minore di c), la radiazione sarà di ciclotrone. Se sarà molto maggiore di 1, sarà di sincrotrone. La radiazione di sincrotrone, tipica delle particelle relativistiche, ha due caratteristiche. La prima è che viene emessa solo all’interno di un cono d’apertura θ (fascio collimato), tale che: θ ~ 1/Γ Ciò significa che il cono è tanto più stretto quanto maggiore è la velocità della particella (Figura A6). Per rilevare la radiazione, l’osservatore deve dunque trovarsi proprio nella direzione dell’asse del cono. L’altra caratteristica è che lo spettro – l’intensità del flusso in funzione della frequenza, F(υ) – può essere descritto matematicamente da una legge di potenza. Un singolo elettrone in moto elicoidale dentro un campo magnetico emetterà radiazione di una tipica frequenza υc. Noi però dobbiamo tener conto dell’intera popolazione delle particelle e della distribuzione d’energia. Nel caso di particelle accelerate dal continuo passaggio di onde d’urto (si veda più avanti), la distribuzione non è più maxwelliana, ma segue una legge di potenza: N(E)dE ~ E–p dE Anche lo spettro sarà dunque una legge di potenza, avente per esponente s = (p – 1)/2, dove p è l’indice di distribuzione dell’energia degli elettroni. Infine, processi diversi come il riassorbimento della radiazione di sincrotrone, o anche il fatto che gli elettroni perdono rapidamente energia a causa della loro stessa emissione, fanno sì che lo spettro di sincrotrone mostri un taglio al di sopra di una certa energia. Anche gli spettri dei GRB mostrano un taglio simile, che diventa un massimo, noto come Epicco, quando mettiamo in grafico la grandezza E2 N(E).
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Appendici
Figura A6 La radiazione di sincrotrone viene emessa entro un cono il cui angolo d’apertura dipende dal fattore di Lorentz.
9. Onde e urti Onde sonore Quando è in volo nell’atmosfera, un aereo sposta continuamente le molecole dell’aria, creando onde sonore. I suoni corrispondono a compressioni e rarefazioni della materia in cui si propagano, che si succedono in rapida successione: i suoni si propagano in tutti i mezzi materiali. Attorno all’aereo si diffondono simmetricamente, come le onde circolari sulla superficie di uno stagno quando vi si getta un sasso (Figura A7). La velocità cs delle onde è determinata dalla natura e dalle condizioni fisiche del mezzo attraverso cui si propagano. La velocità di propagazione in un solido o in un liquido è certamente maggiore che nell’aria. Nel caso dell’aereo, il velivolo si apre un varco lungo tutto il suo tragitto e, dopo un tempo t, tutte le molecole che stanno all’interno di una sfera di raggio cst, centrata sull’aereo, vengono “informate” del suo passaggio. Nel frattempo, l’aereo procede nel suo volo e le sfere che vengono via via interessate dal suono restano confinate l’una dentro l’altra, per tutto il tempo in cui l’aereo si muove più lentamente delle onde sonore. Quando l’aereo raggiunge la velocità del suono nell’aria, la sua velocità, per definizione, è Mach 1. L’onda d’urto L’aereo può anche muoversi a una velocità maggiore di quella del suono, continuando ad emettere onde in direzione del suo moto: queste onde seguiteranno a propagarsi alla stessa velocità di prima, che è fissata solo dalle condizioni fisi-
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Superstelle in esplosione
Figura A7 (a) Onde sonore emesse da una sorgente S ferma. (b) Onde da una sorgente S in moto a una velocità minore di quella del suono. (c) Onde emesse da una sorgente S che si muove alla stessa velocità del suono. (d) Onde da una sorgente S che si sposta con velocità superiore a quella del suono.
che del mezzo. A un certo punto, l’aereo può superare le onde che esso stesso ha appena creato. Ora le sfere si intersecano, determinando una sovrapposizione degli effetti fisici (compresa la pressione). Poiché l’emissione ondosa e la creazione delle sfere costituiscono un processo continuo, i punti di sovrapposizione formano una superficie continua (una “caustica”, o “inviluppo”) che ha la forma del caratteristico “cono di Mach” con l’aereo al vertice. Davanti alla caustica, il mezzo non è ancora “informato” dell’arrivo dell’onda, mentre sulla sua superficie vengono amplificate le variazioni di pressione. Si crea così una discontinuità, che può essere schematicamente rappresentata come il gradino di una scala: ecco l’onda d’urto. In un fluido, l’onda d’urto è il luogo dove si verificano profonde e repentine modificazioni di proprietà fisiche come la pressione e la temperatura. Ciò può condurre a fenomeni particolarmente violenti, come il “boom” supersonico (Figura A8). Potrebbe anche verificarsi un importante guadagno d’energia per le particelle presenti nell’onda d’urto: una sorta di effetto ping-pong quando le particelle colpiscono il fronte dell’onda e la loro energia aumenta per il processo Fermi. Nelle situazioni astrofisiche, le particelle possono poi riemettere l’energia sotto forma di fotoni estremamente energetici. Un fenomeno di questo tipo si verifica nelle regioni dei getti espulsi dai corpi celesti più attivi. Onda di luce Nulla viaggia più veloce della luce nel vuoto. Sappiamo però che in un mezzo materiale la sua velocità si riduce di un fattore che è noto come indice di rifrazione. Se indichiamo con n l’indice di rifrazione di un mezzo, la velocità della luce in quel mezzo sarà c’ = c/n. Per esempio, nell’acqua la luce si propaga alla velocità di 0,75 c. Se una particella elettricamente carica si muove in un dato mezzo, e se per interazione elettromagnetica si ha l’emissione di fotoni, questi
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Appendici
Figura A8 Un caccia della Marina americana rompe la barriera del suono sopra il Pacifico. (US Navy)
si muoveranno alla velocità c’. Immaginiamo che la particella si muova a una velocità v, maggiore di c’: allora si assisterà a un effetto analogo a quello che abbiamo appena discusso. La radiazione (nota come radiazione Cherenkov) verrà emessa all’interno di un cono simile al cono di Mach. 10. Misure e distanze Eventi e misure Nella fisica classica, lo spazio è illimitato, assoluto, rigido ed esiste in sé, indipendentemente dai fenomeni fisici che vi hanno luogo. Possiamo concepirlo come un palcoscenico sul quale ogni fenomeno viene localizzato dalle sue coordinate, per esempio le usuali x, y e z, nello spazio tridimensionale. Usando le coordinate, possiamo definire una distanza (una metrica spaziale, dr) tra due punti: dr2 = dx2 + dy2 + dz2, dove dx, dy e dz rappresentano le differenze tra le coordinate dei due punti. Nella fisica classica, anche il tempo è assoluto. Ed è qualcosa di separato dallo spazio. Esso “fluisce” uniformemente e sembra essere un parametro utile solo per studiare l’evoluzione dei fenomeni. Nella relatività, invece, spazio e tempo sono inscindibili, e non è sufficiente parlare solo della posizione spaziale.
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Superstelle in esplosione Introduciamo perciò il concetto di evento, generalizzando la nozione di punto e di distanza. La Relatività Speciale, che può essere considerata come un caso particolare della Relatività Generale, nella situazione in cui la gravità è assente e lo spazio è piatto, sancisce che la velocità della luce c è costante, indipendentemente da quali siano la velocità della sorgente e quella dell’osservatore. La distanza ds tra due eventi ora è data da: ds2 = c2 dt2 – dr2 dove dr è la distanza spaziale e dt è lo scarto temporale tra i due eventi. Vediamo dunque che (a parte il segno) il tempo (moltiplicato per c in modo da avere dimensionalmente una lunghezza) ha un ruolo analogo a quello delle coordinate spaziali e diventa una quarta dimensione. Così, abbiamo la definizione di una metrica spaziotemporale. La nozione relativa di distanze Nella Relatività Generale, lo spazio viene “curvato” dal suo contenuto di energia-materia e la formulazione matematica della metrica viene ad assumere una forma piuttosto complessa. Fortunatamente, nel contesto della cosmologia, il Principio Cosmologico porta una notevole semplificazione, specialmente riguardo alla questione dell’esistenza di un tempo cosmico. La metrica di un Universo omogeneo e isotropo ora prende la forma: ds2 = c2 dt2 – R(t)2 dr2 dove R(t) è funzione del tempo. In un dato istante (dt = 0) la metrica si riduce a R(t)2 dr2 e fornisce una misura delle distanze. Con l’andare del tempo, tutte le distanze tra i punti spaziali vengono modificate dalla funzione R(t), che perciò ha il ruolo di un fattore di scala. Le distanze vengono moltiplicate per R(t) e i volumi per R(t)3. È il fattore di scala che tiene conto dell’espansione dell’Universo e della dilatazione delle distanze. Se R(t) va aumentando nel tempo, lo spazio si “dilata” e le galassie si allontanano reciprocamente, non in virtù di una propria velocità, ma perché lo spazio è in uno “stato di espansione”. Una questione essenziale in cosmologia è perciò la determinazione del comportamento del fattore di scala R(t), che può essere ottenuta risolvendo le equazioni della Relatività Generale, che mettono in relazione questo parametro con il contenuto di energia-materia dell’Universo. Sul piano osservativo, il modo per testare la curvatura e l’espansione dell’Universo è misurare le distanze di oggetti sempre più lontani. In uno
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Appendici spazio curvo, si possono dare diverse definizioni di distanza. Se siamo interessati alla misura della luminosità delle sorgenti, allora è importante il concetto di distanza di luminosità DL. Nello spazio euclideo “ordinario”, la brillanza l di un oggetto di luminosità L varia come l’inverso del quadrato della distanza: l = L / 4πDL2 La stessa definizione vale in cosmologia. Nello spazio curvo, nell’Universo che contiene vari fluidi cosmologici, la grandezza DL diventa una funzione estremamente complessa del redshift z, del fattore di scala R(t), della costante di Hubble H0, del parametro di curvatura k e dei parametri di densità Ωm e ΩΛ, corrispondenti ai diversi contributi dei fluidi cosmologici (la materia e l’energia oscura). La densità della radiazione non vi compare perché, a seguito dell’espansione, è trascurabile a partire da un tempo prossimo all’era della ricombinazione. 11. Il diagramma di Hubble In astrofisica si usano i concetti di magnitudine apparente m e di magnitudine assoluta M, in relazione con la distanza DL (in Mpc) di un oggetto, attraverso il redshift z: m = 5 log DL (z, H0, Ωm, ΩΛ) + M + 25 Per ogni data famiglia di candele standard risulta nota la magnitudine assoluta M, ricavata per esempio da misure che interessano solo l’Universo locale, che è “indipendente” dalla cosmologia. Misurando m come funzione di z (con il diagramma di Hubble) siamo nelle condizioni di porre vincoli ai valori di Ωm e ΩΛ, per determinare quale sia il più corretto modello di Universo (Figura A9).
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Superstelle in esplosione
Figura A9 Sopra, il classico diagramma di Hubble (magnitudine-redshift) mostra l’evoluzione attesa nelle magnitudini delle supernovae (distanze di luminosità) per differenti modelli di Universo (aperto, piatto, chiuso). Le supernovae di Tipo Ia sono state misurate dalla Calan-Tololo Survey (z < 0,1). Sotto, la differenza tra i modelli diventa ancora più evidente quando si introduce la quantità Δmag che fornisce lo scarto di magnitudine rispetto al valore previsto dal modello di Universo vuoto di materia (Ωtot = 0), assunto come riferimento. Le misure, con le relative barre d’errore, nell’intervallo 0,3 ≤ z ≤ 0,8, sono del Supernova Cosmology Project (SCP): sono le osservazioni che hanno evidenziato l’accelerazione dell’espansione.
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Appendici Tabella delle costanti fisiche (MKSA) 2,99792458 × 108
m s–1
6,67 × 10–11 N
m2 kg–2
h
6,62 × 10–34
Js
costante di Boltzmann
k
1,38 ×
J K–1
massa dell’elettrone
me
9,11 × 10–31
kg
mp
1,67 ×
10–27
kg
numero di Avogadro
NA
6,02 ×
10–23
mol–1
carica dell’elettrone
e
1,60 × 10–19
C
costante dielettrica del vuoto
ε0
8,854187 ×
C2 s2 kg–1 m–3
costante di struttura fine
α
1/137 = 7,2974 × 10–3 adimensionale
costante di Stefan-Boltzmann
σ
5,67 × 10–8
velocità della luce
c
costante di gravitazione universale G costante di Planck
massa del protone
10–23
10–12
W m–2 K–4
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Biblio-web
Capitolo 1 Tycho Brahe: http://csepl0.phys.utk.edu/astr161/lect/history/brahe.html Catalogo del satellite “Chandra” di resti di supernova: http://hea-www.harvard.edu/ChandraSNR/gallery_gal.html Trattato di messa al bando dei test nucleari: http://www.ctbto.org/ Ulteriori informazioni sulla natura “remota” o “locale” dei GRB: http://antwrp.gsfc.nasa.gov/diamond_jubilee/debate_1995.htm1 Capitolo 2 Ulteriori informazioni sul dibattito riguardante la determinazione di H0: http://antwrp.gsfc.nasa.gov/diamond_jubilee/debate_1996.html Rassegne celesti. Sito web della Sloan Digital Sky Survey: http://www.sdss.org/ Rassegne celesti. Sito web della The 2dF Galaxy Redshift Survey: http://www.mso.anu.edu.au/2dFGRS Spazio-tempo e l’espansione dell’Universo: http://rst.gsfc.nasa.gov/Sect20/A8.htm1 Utili riferimenti per la storia dell’Universo: http://astro.berkeley.edu/~ jcohn/chaut/history_refs.html Capitolo 3 sito web della missione WMAP: http://map.gsfc.nasa.gov/ Lezioni di cosmologia di Ned Wright: http://www.astro.ucla.edu/~wright/cosmo_0l.htm Nel sito del “Chandra”. La storia dell’evoluzione stellare: http://chandra.harvard.edu/edu/formal/stellar_ev/story/ Capitolo 4 Spiegare le supernovae: http://imagine.gsfc.nasa.gov/docs/science/know_12/supernovae.html Classificazione delle supernovae: http://www.jca.umbc.edu/~george/html/courses/2002_phys316/lect12/ lect12_sn_basics.html
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Capitolo 5 Un introduzione ai gamma-ray burst: http://imagine.gsfc.nasa.gov/docs/science/know_l1/bursts.html Utili link a cataloghi di GRB e pagine che trattano di afterglow di GRB: http://www.mpe.mpg.de/~jcg/grblink.html Sito web del satellite Swift: http://heasarc.gsfc.nasa.gov/docs/swift/swiftsc.html Gamma-ray burst registrati dal satellite Swift: http://heasarc.gsfc.nasa.gov/docs/swift/bursts/index.html Sistemi binari di due oggetti compatti: http://wwwlapp.in2p3.fr/virgo/gwf.html Capitolo 6 Scoperta delle Cefeidi e relazione periodo-luminosità: http://www.astro.livjm.ac.uk/courses/one/NOTES/Garry%20Pilkington/ce pinp1.htm La costante di Hubble: la controversia sulla scala “corta” e “lunga”: http://cfa-www.harvard.edu/~huchra/hubble/ Sito web del CFHT: http://www.cfht.hawaii.edu/SNLS/ Capitolo 7 Introduzione alle galassie attive e ai quasar: http://imagine.gsfc.nasa.gov/docs/science/know~l1/active~galaxies.html Studi su quasar lontani: http://www.journals.uchicago.edu/ApJ/journal/issues/ApJL/v627n2/1956 9/19569.web.pdf Introduzione alla foresta Lyman-alfa: http://www.astro.ucla.edu/~wright/Lyman-alpha-forest.html Sito web del Telescopio Spaziale “James Webb”: http://www.jwst.nasa.gov/about.html
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Capitolo 8 Ricerche della NASA sull’energia oscura: http://universe.nasa.gov/science/QuestForDarkEnergy.pdf Cos’è la costante cosmologica: http://map.gsfc.nasa.gov/universe/uni_accel.html Sito web del satellite europeo Planck: http://www.esa.int/esaSC/120398_index_0_m.html Sito web del satellite SNAP: http://snap.lbl.gov/ Sito web del Thirty-Meter Telescope: http://www.tmt.org/ Extremely Large Telescope: http://www.oamp.fr/elt-insu/autres_liens.htm Modelli di “Quintessenza”: http://media4.obspm.fr/public/AMC/bb/big-bang/energie-noire/bb¬-quintessence/index.html
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Indice 3C 48, 103 3C 58, 103-105 3C 273, 103-105 abbondanze cosmiche, 21 Abell 2218, 29 adroni, 20 afterglow, emissione di, 79 ammassi di galassie, masse, 24 Andromeda, galassia di, 15 barioni, 21, 37, 106 barionica, materia, 21, 26, 31, 36-37 nell’Universo, 24 quantità totale, 30-31, 81 oscura, 23, 26, 31, 37-38, 122, 124-125, 130 BATSE, v. Burst And Transient Source Experiment BeppoSAX, satellite, 11, 12, 70, 119 berillio, 20-21 Bethe, Hans, 39, 50 Big Bang, 1, 17, 19, 21. 23, 27, 33, 110, 126 tre pilastri del, 17 Big Crunch, 126 binario sistema, evoluzione di un, 74 scambio di massa, 54 di due oggetti compatti, 73 Blanco, telescopio, 92 blazar, 104 Brahe, Tycho, 1, 3, 5 bruciamento nel guscio, 43 buco nero, 53, 55, 73-77, 99, 104, 126 getto sottile del, 75 supermassiccio, 104 Burst And Transient Source Experiment, 11, 65-66 Calan-Tololo Survey, 92, 150 campo di densità materiale, fluttuazioni, 34 Canada-France-Hawaii, telescopio, 92, 94, 114 candele standard, 8, 9, 14, 31, 65, 87, 98-99 carbonio-12, 44 Cas A, 37 Cefeidi, stelle variabili, 83. 86-87, 98 come candele standard, 8, 14, 31, 87 relazione periodo-luminosità, 83 variazioni di luminosità, 83 Cerro Tololo, Osservatorio, 88 CFHT, v. Canada-France-Hawaii telescopio, CGRO, v. Compton Gamma-Ray Observatory Chandrasekhar, massa limite di, 45-46, 54, 63, 99, 136 Chandrasekhar, Subrahmanyan, 45 Cherenkov, radiazione, 147 Chiu, Hong-Yee, 103 CMB, v. fondo cosmico a microonde, cobalto-56, nelle supernovae di Tipo Ia, 62 COBE, v. COsmic Background Explorer,
collasso del nocciolo, nelle stelle massicce, 50-51 colore-magnitudine, diagramma, v. HertzsprungRussell, diagramma, Coma, ammasso di galassie, 29 Compton Gamma-Ray Observatory, 11, 65-66 concordanza, modello di,81-82, 102 corpo nero, 22-23, 34, 133 COsmic Background Explorer, satellite, 26, 81, 97, 110 costante cosmologica, 19, 83, 93, 119-120, 122-124 costante di struttura fine, 125, 137, 151 costanti fondamentali, variazione delle, 125 Coulomb, forza di, 20 Crab Nebula, 5 Curtis, Heber D., 12 curve di luce di supernovae, 8-9, 60. 88. 91 deflagrazione, 55 degenere, gas, 54 degenere, gas di neutroni, 50 degenerazione, pressione, 45, 47, 136 degenere, materia, 133 densità, fluttuazioni di, 33, 37 detonazione, nelle supernovae termonucleari, 55 deuterio, 20, 40, 139, 141 disaccoppiamento, di materia e radiazione, 22 Eddington, Arthur, 39 Eddington, limite di, 40 E-ELT, v. European Extremely Large Telescope effetto tunnel quantistico, 42, 136-138 Einstein, Albert, 15, 17-19, 83-84, 120, 122 elementi pesanti, sintesi degli, 51 elettromagnetica, interazione, 20, 147 elettroni, 20-21, 36 elio, 20, 37 elio-3, 20, 40 elio-4,20, 42, 44, 139-140 elio, fusione, 44 energia del vuoto, 32, 122 energia oscura, 31-33, 81, 93, 98, 102, 119, 122-124 nell’Universo, 31, 81, 113 del vuoto, 32 equazione di stato, 32, 120, 124, 131, 135 equivalenza massa-energia, 20, 39, 140 Era della Reionizzazione, 30 Era della Ricombinazione, 30, 110 Era Dominata dall’Energia Oscura, 31 Era Dominata dalla Materia, 30 Era Dominata dalla Radiazione, 19, 27, 30 Era Oscura, 28, 30, 110 espansione, esponenziale, 33 dell’Universo, 15, 27-28, 31, 36, 81, 83, 85, 87, 92, 97-98, 101, 114, 119, 120, 123, 125-126 accelerata, 30, 81, 83, 85, 87, 92, 97-98,
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100-101, 114, 119-120, 123, 125-126 decelerata, 28, 31, 83, 114 storia, 84, 86 esplosione di una stella massiccia, 3 esplosione ritardata, 55 esplosione termonucleare, 4, 53 estinzione, dovuta alle polveri, 97, 102 Eta Carinae, 79-80 European Extremely Large Telescope, 118, 121 evoluzione delle stelle massicce, 47 fattore di scala, 19, 85, 87 Fermi, pressione, 44, 134 ferro, formazione nel nocciolo stellare, 49 ferro-56, nelle supernovae Tipo Ia, 62 fondo cosmico a microonde, 22-23, 30, 34, 36, 81-82 spettro energetico, 36 fluttuazioni di temperatura, 34, 37, 110, 112 fotodisintegrazione, 49, 141 fotoni, 19, 36 Friedmann, Alexander, 83 fusione nucleare, 39, 42, 49, 137 del carbonio, 48 dell’elio, 48 dell’ossigeno, 48 del silicio, 48 fusione nucleare, nelle stelle, 39-42 fusione, reazioni nelle stelle massicce, 47-48 galassie, 24 masse, 24 gamma, raggi nelle supernovae Tipo Ia, 62 gamma-ray bursts, GRB 970228, 70 del 23 aprile 2009, 12, 70 GRB 970508,70 GRB 990123, 68 GRB 030329, 71 GRB050904, 71-72 GRB 090423, 13, 70, 71 nella nostra galassia, 30 pericoli per la Terra, 80 gamma-ray burst, 1, 11-13, 63, 65-80, 98-100, 102, 106, 109-110, 112, 117, 132, 143 afterglow, 70 afterglow emissione, 79, 99 afterglow spettro, 70 apertura del getto, 101 come candele standard. 14, 87, 98-99 corti, 67-68, 71-74, 98 formazione, 71-74, 77, 98 curve di luce, 12, 65-66 distanze, 12-13, 70, 72 distribuzione isotropica, 69 durate, 12, 65-67 emissione immediata, 77, 98 energia di picco, 68 energia emessa, 12, 68, 73-74 energia nei getti, 98-100 fireball, modello, 78-80
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fusione di oggetti compatti,73-74 galassie ospiti, 78-80 limiti sulle dimensioni della sorgente, 12, 65, 73 localizzazione, 69-70, 117-118 lunghi, 67-71, 74, 75, 77, 98 formazione, 70-71, 74-75, 98 meccanismi non termici, 68 osservati dal BATSE, 11, 65, 67, 69 origine,11, 65 più lontani, 71 più vicini, 71 posizioni in cielo, 11, 69 scoperta, 9, 11, 65 spettri, 68 supernovae a collasso del nocciolo, 70-71, 74 variabilità, 12 Gamow, George, 138 Gemini, telescopi, 91, 95 geometria dell’Universo, 85 getti, nelle supernovae a collasso del nucleo, 75-76 gigante blu, stella, 75 gigante rossa, 43 Gliese 229b, 42 Grande Muraglia, di galassie, 18 Grande Nube di Magellano, 3, 6, 53 gravitazione, azione repulsiva, 81, 123, 125 “grumi” barionici, 37 Guerra Fredda, 9 Gunn, James, 110-111 Guth, Alan, 33 Hertzsprung-Russell diagramma, 135 Hoyle, Fred, 17 HST, v. Telescopio Spaziale “Hubble” Hubble, costante di, 15, 88, 149 Hubble, diagramma, 149 supernovae Tipo Ia, 88, 91, 98 Hubble, Edwin, 15, 19, 81 Hubble, legge di, 15 Hubble Ultra Deep Field, 28 HUDF, v. Hubble Ultra Deep Field Humason, Milton, 15, 83 idrogeno, 20, 37, 41-42 idrostatico, equilibrio, 129 implosione del nocciolo stellare, 51, 55 inflazione, 34 instabilità gravitazionale, 33 interazione forte, 20 isotropia dell’Universo, 17, 33, 83 Jeans, James, 35, 37 Jeans, massa di, 35 JWST, v. Telescopio Spaziale “James Webb” Keck, telescopi, 91, 95 Kepler, Johannes, 3, 5, 6 Lagrange, Joseph-Louis, 142 Lagrangiani, punti, 142 Laser Interferometer Gravitational-wave Observatory, 76 Laser Interferometer Space Antenna, 76
Leavitt, Henrietta, 83 Lemaître, Georges, 83 lenti gravitazionali, 24, 116 LIGO, v. Laser Interferometer Gravitational-wave Observatory Linde, Andrei, 33 LISA, v. Laser Interferometer Space Antenna litio, 20-21 Lyman-alfa, foresta, 105-106 Lyman-alfa, riga, 105, 111 Mach, cono di, 146 Malmquist, bias, 97-98 Mass Varying Neutrinos, 124 massa dinamica, 24 massa luminosa, 24 materia luminosa, deficit, 24 materia oscura, 24, 26, 37-38, 122, 124-125, 130 materia oscura, aloni di, 37 Mather, John, 23 Maxwell-Boltzmann, legge, 135 MegaCam, 114 Mendeleev, tabella, 20-21, 37 Minkowski, Rudolph, 36 modello cosmologico standard, 20 nana bianca, esplosione di una, 54 termonucleare, 4, 55, 62 nana bruna, 43 nana nera (stella), 46 neutralino, 27 neutrini, 20, 26 dalla SN 1987A, 52 ruolo nelle supernovae a collasso del nocciolo, 50-51 neutrino, sciami, neutroni, 19-20, 36 neutroni, cattura di, 141 neutroni, stella di, 4, 50-51 densità, 49 formazione, 49 neutronizzazione, 50-51 NGC 6946, 61 nichel, nelle supernovae, 55 nichel-56, nelle supernovae Tipo Ia, 62 nova, definizione, 1 nucleosintesi, primordiale, 19, 21, 37, 106-107, 141 stellare, 39-42 omogeneità dell’Universo, 17-18, 33, 83 onde d’urto nelle supernovae, 50 propagazione, 50-51 onde gravitazionali, 74, 76 onde sonore, 145-146 Penzias, Arno, 22-23 Peterson, Bruce, 110-111 Piccola Nube di Magellano, 27 Planck, costante di, 123, 132, 151 Planck, satellite, 117 Planck, tempo di, 18, 26, 28, 30, 33, 123 polvere, nelle galassie ospiti, 97
Popolazione I, stelle di, 108, 110 Popolazione II, stelle di, 107 Popolazione III, stelle di, 107-108, 118 Premio Nobel, 23, 26, 45 pressione di radiazione, 39, 40, 60 pressione negativa, 32 pressione termica, 39, 136 Principio Copernicano, 15, 82 Principio Cosmologico, 15, 17, 19, 33, 83, 148 Perfetto, 17 protone-protone, ciclo, 39-40 protoni, 19-20, 36 pulsar, 3, 5 QSO, v. quasar, quark, 19 quasar, 103-105, 111-112 meccanismo, 103-105 spettro, 104 quasar, 3C 48, 103 3C 273, 103-105 quintessenza, 124 radiazione cosmica di fondo, v. fondo cosmico a microonde, radioattivo decadimento, nelle supernovae Tipo Ia, 61 radiogalassie, 109 RCW 86, 15, 16, 82 recessione delle galassie, 15-16, 82 redshift, 16, 19, 82 Relatività Generale, 17, 19, 24, 83, 113, 122123, 148 149 ricombinazione, 30, 110 Ring Nebula, 45 Roche, Edouard Albert, 142 Roche, lobo di, 54, 142-143 Sanduleak -69° 202, 3 Schmidt, Maarten, 103 SDSS, v. Sloan Digital Sky Survey Sequenza Principale, 42, 135 Shapley, Harlow, 12 sincrotrone, radiazione di, 68, 78, 144, 148 Sirio, compagna di, 45 Slipher, Vesto, 15, 82-83 Sloan Digital Sky Survey, 18 Smoot, George, 23 SN 1987A, 3, 7-8, 52-53 SNAP, v. SuperNova Acceleration Probe SOHO, satellite, 38 Sole, 38, 126 radiazione emessa, 38 spallazione, 142 spazio piatto, 34 spaziotempo, 17 spettri di supernovae, 56-60 Stato Stazionario, Modello, 17 stelle massicce, collasso del nucleo di, 49-50 contrazione del nocciolo, 47, 49 equilibrio, 47 fusione, reazioni, 47
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struttura a cipolla,48, 61 struttura interna, 47 tasso delle reazioni, 48 temperatura del nocciolo, 47, 49 stelle, nascita delle prime, 37 collasso gravitazionale, 39, 41 contrazione del nocciolo, 42-43 di neutroni, 4, 41, 49, 73 di più piccola massa, 42 durata della vita, 38 evoluzione, 39, 45 massa, 42 parametri, 134, 135 sorgente dell’energia, 38, 42, 139 temperatura del nocciolo, 39, 42-43 temperatura superficiale, 43 Strömgren, sfera di, 111 superficie dell’ultima diffusione, 34 supergigante rossa, 44 super-nova, 1 SuperNova Acceleration Probe, 116 supernova di Keplero, 3, 5, 6 del 185, 3 del 1006, 2-3 del 1054, 4-5 del 1181, 3 del 1572, 3, 5 del 1604, 3,5,6 del 1987, 3, 6, 8, 53 di Tycho, 3, 5 Supernova Legacy Survey Program, 58-59, 93 supernova, esplosione, 50-51 supernova, resti, 2, 3, 4, 7, 54 supernova, resto, 3C 58, 3 Cas A, 3, 7 Crab Nebula, 3, 4, 54 RCW 86, 3 SN 1006, 2 supernovae, 1-9, 12. 47-63, 71-72, 88-98, 101 associazione con i tipi di galassie, 56, 62 caratteristiche spettrali, 56-60 classificazione, 56 come candele standard, 8-9, 31, 63, 88-91, 114 curve di luce, 7, 9, 60-61, 88, 90, 92, 115 differenze spettrali, 56-57, 60 distribuzione dell’energia emessa, 52 energia emessa, 13, 51-52, 54 frequenza nella nostra Galassia, 62 gravitazionali, (a collasso del nocciolo), 50-51, 56-57, 59, 61, 70-71, 75 emissione luminosa, 60-61 spettri, 56-57 stadi di formazione, 50-51 luminosità di picco, 62 proprietà a varie distanze, 93, 96 sotto-classi, 56 studi in infrarosso, 114-115 termonucleari, 54-57, 60-61
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emissione luminosa, 60-61 ruolo della radioattività, 62 Tipo Ia, 8, 31, 56-60, 63, 81- 82, 88-97, 113-116, 122 come candele standard, 8, 9, 31, 63, 88-91, 98, 114-115 come candele standardizzabili, 8, 9, 88 curve di luce, 7, 9, 60-61, 88, 90, 115 dispersione nella luminosità di picco, 88 ricerca, 91-95, 113,115 spettri, 58, 60 tecnica dello stiramento, 88, 91, 101 Tipo Ib, spettri, 56 Tipo Ie, spettri, 57 Tipo II, 57-61 curve di luce, 60 evoluzione dopo l’outburst, 60-61 plateau nella curva di luce, 59 spettri, 56-59 supersimmetria, modelli, 27 Swift, satellite, 11-13, 71, 117 tabella periodica, 20, 37 telescopi, i più grandi, 118-119 Telescopio Spaziale “Hubble”, 23, 29, 93, 114 Telescopio Spaziale “James Webb”, 108, 117 Thirty Meter Telescope, 118, 120 tomografia stellare, 61 triangolo cosmico, 82, 119-120 Universo, futuro dell’, 31 contenuto energia-materia, 31-32, 81, 85, 102, 119, 123 evoluzione futura, 125-126 geometria, 83, 85-86 piattezza spaziale, 34 primi sviluppi, 24 primordiale, 20, 23 storia termica, 28, 30, 110 struttura a larga scala, 18, 33, 98, 105, 107, 110 V838 Monocerotis, 44 Vela, satellite, 10 Very Large Telescope, 16, 58, 91, 94 Via Lattea, 15, 23 VIMOS, spettrografo, 16 VIRGO (interferometro per onde gravitazionali), 74 Viriale, teorema, 130-131, 135 VLT, v. Very Large Telescope vuoto quantistico, 122-123, 127 Wilkinson Microwave Anisotropy Probe, 34-35, 37, 81, 110,112, 150, 152 Wilson, Robert, 22-23 WMAP, v. Wilkinson Microwave Anisotropy Probe Wolf-Rayet, stelle di, 75 Zwicky, Fritz, 1, 56
Collana Le Stelle Titoli pubblicati: Martin Mobberley L’astrofilo moderno Patrick Moore Un anno intero sotto il cielo Guida a 366 notti d’osservazioni Amedeo Balbi La musica del Big Bang Come la radiazione cosmica di fondo ci ha svelato i segreti dell’Universo Martin Mobberley Imaging planetario: Guida all'uso della webcam Gerry A.Good L’osservazione delle stelle variabili Mike Inglis L’astrofisica è facile! Michael Gainer Fare astronomia con piccoli telescopi George V. Coyne, Michael Heller Un Universo comprensibile Interazione tra Scienza e Teologia Alessandro Boselli Alla scoperta delle galassie Alain Mazure, Stéphane Basa Superstelle in esplosione